Until

di aniasolary
(/viewuser.php?uid=109910)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Soggetto pericoloso ***
Capitolo 3: *** 2. La ragazza fantasma ***
Capitolo 4: *** 3. Tracce ***
Capitolo 5: *** 4. Paura ***
Capitolo 6: *** 5. I giorni ***
Capitolo 7: *** 6. L'aspetto del fiore innocente, ma il serpente sotto di esso. ***
Capitolo 8: *** 7. Le ali della speranza ***
Capitolo 9: *** 8. Soggetto individuato ***
Capitolo 10: *** 9. Avvertimenti ***
Capitolo 11: *** 10. Julia Moore ***
Capitolo 12: *** 11. Onda anomala ***
Capitolo 13: *** 12. Pesi e ricordi ***
Capitolo 14: *** 13. Angeli e Giudici ***
Capitolo 15: *** 14. Grigio e Ombre ***
Capitolo 16: *** 15. Di ghiaccio ***
Capitolo 17: *** 16. Il ragazzo coraggioso ***
Capitolo 18: *** 17. Spilli ***
Capitolo 19: *** 18. Segreti nel cassetto ***
Capitolo 20: *** 19. Acqua sporca, acqua pura ***
Capitolo 21: *** 20. Sangue gelido ***
Capitolo 22: *** 21. Sbarre bianche ***
Capitolo 23: *** 22. Doreen Gates. Parte I. ***
Capitolo 24: *** 23. Doreen Gates. Parte II. ***
Capitolo 25: *** 24. Fantasmi argentei ***
Capitolo 26: *** 25. Sogni bruciati ***
Capitolo 27: *** 26. Ritorni ***
Capitolo 28: *** 27. Le ali dei sogni ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***
Capitolo 30: *** Capitolo extra. La ragazza spezzata. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Until
 
 

Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

Prologo
 
Inattivo.
La bambina colora di rosso tutto il foglio bianco, con tratti pesanti, come se stesse cercando di bucare la carta. Alza il viso e la luce che filtra dalla finestra le colpisce gli occhi, azzurri, trasparenti come vetro. Continua a  colorare, concentrata.
Un’altra bambina le si avvicina, i capelli rossi, fiammate senza fumo sul suo grembiule bianco, così chiaro  da riflettere il bagliore di luce che attraversa il vetro della finestra.
«Hai finito il tuo disegno, Sarah?» le chiede.
«Non ancora,» dice Sarah, ha una voce chiara, piccola come lei. Soffia sul foglio e la polvere di mina vola via, a lasciare una nuvoletta rossa in aria che si dissolve.
«Ma cos’è?»
L’altra bambina le toglie il foglio dalle mani e prende ad osservarlo. La sua bocca si muove in una smorfia che presto si trasforma in una risata, e guasta completamente il sorriso di Sarah.
«Perché fai così?»
«È orribile,» dice la bambina. «Non sai proprio disegnare, Sarah.»
Per attivare, premere sul tasto rosso.
«Ridammelo.»
L’altra ride.
«Ridammelo, Julia!»
L’altra smette di ridere.
Gli occhi scuri della bambina con i capelli rossi si fanno due fori da cui sembra passare fumo, mentre solleva il foglio – foglio colorato di rosso per creare il tramonto, una mamma, un papà e una bambina che lo guardano abbracciati, il mare blu ai loro piedi – e lo tiene fermo con due dita.
L’altra bambina apre leggermente la bocca, come se stesse per dire qualcosa. E Sarah ha un’espressione di aspettativa che sfocia nel nervosismo.
Attenda che sia effettuata l’attivazione, per favore.
Ma l’unico suono che riecheggia sul chiasso degli altri bambini è il foglio che si strappa in due.
Stran.
E poi in quattro.
Stran.
«No!»
Stran.
I pezzetti strappati finiscono a terra, lentamente, come se un filo li guidasse sul pavimento, marionette inermi di un gioco che non possono conoscere. Sarah si alza dalla sedia e ne prende qualcuno.
Le lacrime intorno ai suoi occhi luccicano.
«Grazie per avermelo fatto vedere,» dice Julia.
Sarah la guarda, immobile, mentre le lacrime scendono. I pezzi di carta giacciono a terra, rovinati.
Julia si gira, ride, chiama altre bambine. «Venite a vedere che cosa ha fatto Sarah!»
Ma Sarah resta ferma, con le mani a terra, mani piccole e chiare, piccole e morbide sul freddo del pavimento…
E poi Julia bambina non parla.
Smette di ridere.
Cade a terra.
Attivazione in corso.
La maestra si alza dalla cattedra e raggiunge la bambina. «Oddio, Julia! Che cosa succede, sei caduta…?» Stesa sul pavimento, la bambina trema con gli occhi spalancati, i capelli rossi ritti in testa e la pelle tirata, come se avesse preso una scossa. «Julia, Julia, Julia!» La maestra la scuote, ma ora la bambina batte anche i denti, le palpebre, agita le braccia, le gambe… il suo viso non è più roseo, ma ha quella sfumatura grigia di chi è malato e non mangia da giorni.
Tutti gli altri bambini cominciano a piangere.
«Johanna, chiama l’infermiera!» urla la maestra.
Una bambina corre fuori dalla classe, mentre Sarah si stringe la testa fra le mani e piange, continua a piangere.
«Smettila, per favore! Basta, per favore! non voglio farle male, basta, basta, basta! Non voglio farle male, non voglio!»
Tutti si girano verso di lei.
«Basta, basta, basta!» urla Sarah. Povera, povera piccola. Julia smette di tremare e Sarah non urla più. Ci sono solo occhi inorriditi puntati su di lei, smorfie di disgusto, un silenzio che la fa singhiozzare, ancora di più. Povera, povera piccola.
Attivazione in corso.
Julia si muove appena, sul pavimento.
Glu, è il suono che esce dalla sua gola.
Glu, è il suo stomaco che si appiattisce.
«Non volevo…» sussurra Sarah. Ma quando si volta verso gli altri bambini, nessuno sostiene il suo sguardo. «Non volevo!» ripete, ripete ancora, piange tanto, la maestra ora sarà fuori con Julia per vedere chissà quali danni avrà fatto al suo cervello.
Dalla mia finestra, con un cannocchiale e le cimici che ho instaurato nella classe dell’edificio della Starbright, posso vedere e sentire tutto quello che succede.
Prendo in mano il congegno che ho costruito, quello che ho appena sperimentato, quello che sarà legato a lei per sempre e che la renderà, insieme a tutto il resto, la mia arma più forte.
Sarah piange in un angolo della classe.
Attivazione completata.
Lascio acceso il congegno e lo poggio sul tavolo accanto a me.
Sorrido.
Con successo.
*
*
*
*

Ciao a tutti voi <3 Non immaginate quanto sono emozionata nel pubblicare questa storia. Until è la mia prima Originale, e spero di trovare qualche anima buona che mi segua in questo pazzo viaggio :D Wow, che emozione! l'ho già detto? xD
Spero che, se la storia vi ha incuriositi, mi lascerete due paroline, così posso sapere se vale la pena andare avanti <3
Grazie a te che hai letto fino a qui <3
Un bacio
Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. Soggetto pericoloso ***


Until capitolo 1

1.

Soggetto pericoloso

 

La luce rossa lampeggia.

«Ma l’hai acceso?»

«Ci sto ancora provando.»

Nero, rosso. Nero, rosso. Nero, rosso.

«Dai, faccio io.»

«Ci riesco da solo.»

Nero, rosso. Nero, nero, nero, nero…

Verde.

«Che cosa faresti senza di me?» mi dice Cameron, alzando le braccia verso il soffitto come Jim Carrey quando apre le acque  il brodo  della zuppa al pomodoro in “Una Settimana da Dio”.

Si lascia cadere sul letto, con la faccia soddisfatta e il joystick fra le mani.

«Penso che potrei morire.» Mi siedo accanto a lui. 

Quando si volta verso di me, vedo una smorfia guastargli completamente il viso. «Questa cosa l’hai detto all’ultima con cui sei stato?»

«No, no.» Mi volto e prendo il joystick dietro di me. «Le ho detto grazie.» Mi viene fuori una risata.

«Bastardo.» Mi dà una gomitata, ed io distolgo lo sguardo. Sul suo vecchio televisore, Goku crea l’onda energetica nel caricamento del gioco.

Faccio spallucce, ma non riesco a trattenere il sorriso, mentre la sua risata cancella il resto come con un colpo di spugna.

«Comunque, io prendo Goku.» gli dico.

«No, dai, lo prendi sempre tu, Martin.»

«E allora, una volta in più.»

«No.»

«Dai, Cameron…»

«Ti ho detto che questa volta… »

«Ehi.» La porta si è aperta, e al posto del poster di Scarlett Johanson travestita da Vedova Nera, vedo la sorella di Cameron che ci sorride. «Vi va un panino?»

«No.»

«Sì.» dico io, e posso sentire che Cameron sta trattenendo il respiro, almeno per un secondo.

Devo sorriderle e poi tutto il resto verrà naturale. Qui mi ci vuole dello sforzo in più, devo ammetterlo. 

«Martin, Goku puoi prenderlo tu.» mi dice Cameron.

Lascio che quel pensiero mi sfugga via.

Scuoto la testa. «Non importa, Holly, ho cambiato idea.»

Holly mi guarda strano, gli stessi occhi neri del fratello, lo stesso modo di storcere la bocca quando non capisce qualcosa… non credo di poter mai farlo con Cameron a sesso inverso.

Holly si alza nelle spalle e chiude la porta.

«Non pensarci nemmeno.» fiata Cameron.

«Ehi, l'ho fatto apposta, sapevo che solo così mi avresti fatto prendere Goku.»

«È sempre una ragazza, la sai la regola.»

«Sì, me l’hai imposta quando avevamo quattordici anni.»

«Da quando hai cominciato ad avere ragazze.»

«Sì, mi ricordo…»

«Sicuro?»

«Sì.» Prendo un respiro, roteo gli occhi e mi massaggio il mento. «Tutte le femmine dell’Universo, tranne lei.»

«Ecco.» Mi dà una pacca sulla spalla.

Non mi ricordo esattamente di come io e Cameron siamo diventati amici, amici sul serio: di quelli che aiutano l’altro a rialzarsi in una partita a calcio e che si dividono il sandwich a  scuola quando l’altro si è dimenticato i soldi per il pranzo. Tutto è sfocato, confuso, con risate chiare e voci che imitano il rombo dei motori in sottofondo.

«Scommetto che ti batto.» La voce di Cameron mi riporta a galla nella sua stanza disordinata. Io e lui, seduti sul suo letto, la playstation e i libri di Chimica aperti per terra, reduci di un inutile tentativo di studio che non è riuscito.

Un angolo della bocca mi si alza verso l’altro, mentre clicco su play.

«Provaci.»

***

Esco dal portone di casa di Cameron. Sotto il braccio ho un contenitore di plastica con alcuni pezzi di crostata al cioccolato che mi ha dato sua madre, e questi, sorella o non sorella, Goku o Vegeta, non potevo proprio rifiutarli. 

Entro in casa, la porta in mogano si apre silenziosa.

«Papà?»

Lo chiamo.

Non risponde.

«Sei nel tuo studio?» dico. Mi avvicino alla porta in cui di solito passa il tempo quando si porta il lavoro dell’azienda a casa. Busso, ma non sento nient’altro che silenzio.

Scrollo le spalle e vado in cucina. Apro il contenitore, addento un pezzo di torta e il sapore del cioccolato mi si scioglie sulla lingua, dolce.

Mi appoggio al ripiano in marmo, di schiena. 

Si mangia seduto al tavolo, Martin. Dio santo, sento i suoi rimproveri anche quando Doreen ha il giorno libero.

A volte ho l’impressione di perdermi: anche quando ero piccolo, la mia casa mi sembrava incredibilmente grande. L’ho sempre vista con un occhio un po’ analitico, come se non fosse mai stata davvero mia. Con gli anni, però, ho imparato a raggiungere la mia stanza e la sala da pranzo anche al buio, come adesso.

Anche se, nel tempo di raggiungere una stanza dall’altra, ho finito il pezzo di torta.

Sbuffo.

La sala da pranzo è ordinatissima, brilla quasi fosse appena comprata, come tutte le volte in cui Doreen pulisce tutta la casa.

Il tavolo, però, è pieno di fogli.

Mi avvicino e ne prendo in mano qualcuno. Numeri e documenti, e dichiarazioni, e certificazioni e…

Soggetto pericoloso.

I miei occhi si fermano su queste due parole, uno più uno fa due, due parole, sì, proprio queste, mentre cerco di capire come mai una cosa del genere dovrebbe importare al direttore di un'azienda commerciale. Mentre cerco di capire che cosa c’entri l’Archie High School con tutto questo, la mia scuola. Abbonamento al pullman.

I miei occhi afferrano qualche segnale tutto insieme. Pericolo. La mia scuola. Una persona.

La sua foto è grande quanto una fototessera.

La ragazza che il foglio chiama Sarah Pierce non sorride: la sua bocca è ferma in un’espressione che non dice niente, un niente forte e vibrante. Sembra sul punto di aprire la bocca e gridare, o, al contrario, di restare per sempre in silenzio. 

Stringo di più il foglio fra le mani. Ha gli occhi spenti. Sono lampadine trasparenti, fulminate. Celeste chiaro. 

Capelli lunghi, castani, e un po’ di lentiggini sul naso.

«Martin, sei lì?» La voce di mio padre mi raggiunge le orecchie. Dura solo un secondo, quello di rimettere il foglio al suo posto e sommergerlo con altri pieni di numeri e parole strane. 

Mi sento la gola secca, il respiro accelerato. «Sì.»

Entra nella stanza.

O forse no, prima entrano i suoi occhi, e non fissano me. Semplicemente, si fermano sui fogli sul tavolo, davanti a me, davanti a lui. Temo che abbia chiamato “Martin” qualche suo documento importante.

«Tutto bene?» Fa qualche passo verso di me, ancora con giacca e cravatta dell’ufficio, lo sguardo duro di quando lavora fino a tardi, il suo sguardo di sempre da quando ho ricordo.

«Mhm-mhm.» Annuisco.

«Hai studiato da Cameron?»

«Ehm...» Che cosa c’entra un soggetto pericoloso fra le tue carte? Non riesco bene a mettere insieme le parole. «Sì... però ti volevo chiedere…»

Mentre mio padre assottiglia gli occhi, prende tutti i fogli con un movimento delle  braccia che si chiudono sul tavolo in un finto abbraccio.

Fa per uscire, veloce.

«Papà…»

«Martin, ascolta. C’è un cliente che sta aspettando delle carte proprio qui giù, ora dovremmo tornare in ufficio. Non mi aspettare alzato.»

«Sì… ok… ma mi potresti dirmi che cosa…»

«Martin, tutto quello che hai da dirmi, me lo dici domani.» Mio padre si volta verso di me e ho l’impressione di guardare un estraneo. Una persona qualunque in metropolitana, di quelle che non fissi mai per più di un secondo perhé è così che ti hanno insegnato.

Sono perso in una grande casa con un estraneo.

«Ma…»

«Spegni tutto, prima di andare a letto.»

Esce dalla stanza, non riesco a muovermi. Sento i suoi passi allontanarsi, il rumore della serratura, il tintinnio delle chiavi, il legno che sbatte.

La puzza della sua assenza si fa strada in casa, raggiunge le mie narici e mi entra nei polmoni.

Ogni casa ha il suo odore, e questo è il suo.

Mi passo una mano fra i capelli. Sento pulsare la vena sul collo e non so se è per rabbia o per delusione.

Ma una cosa è certa, adesso.

Scoprirò tutto da solo.

***

«Ingoia, prima di bere.» Doreen mi toglie il piatto davanti, mentre io mando giù l’ultimo boccone di pancetta insieme al sapore aspro del succo all’ananas. La guardo di traverso, e non posso che notare che mi sta guardando allo stesso modo. I suoi capelli sono sottili anche se scuri, sembrano trasparenti, mi lasciano vedere il suo viso e tutte le sue smorfie.

«Scusa.» biascico, mentre mi metto in piedi. Doreen si alza le maniche della maglietta, a lasciare vedere le braccia magre, e passa il panno sulla tovaglietta per lavare via le briciole. Tutto questo, senza togliermi di dosso i suoi occhi scuri.

«Hai studiato, ieri?»

«Che cosa?»

«Chimica, no? Non era quella la materia in cui hai preso una F?»

Intendi dire una delle tante?

Mi avvicino all’uscio della porta, una mano sulla nuca a grattarmi il collo. «Ah… ah, già.» 

«Martin, per favore, impegnati, tuo padre non sarà contento di questi tuoi risultati. Renditi conto di quello che fai, non pensare sempre e solo a giocare, sei grande, ho già tanto da fare, non posso controllare che tu faccia i compiti come quando eri piccolo. Stai diventando un uomo, insomma, vedi come sei diventato alto, quasi lo superi, sarai più di un metro e ottanta? Con quella F che figura ci fai? E…» Bla, bla,bla… Dei voti che prendo a scuola importa più a Doreen che a mio padre. La sento anche dal bagno, mentre mi lavo i denti.

«Capisco che è una materia difficile. E poi se una persona è portata è portata, è vero, non sto dicendo che devi diventare il nuovo Einstein, Martin. Ma dimostra almeno un po’ di impegno, non voglio che porti a casa una A+, ma almeno una sufficienza…»

«’Apito. » Sputo nel lavandino. Mi pulisco la bocca, esco dal bagno e mi metto lo zaino in spalle.

Doreen spazza sul pavimento. «E poi non c’è niente di male a chiedere un po’ di aiuto, se hai bisogno di lezioni private... tuo padre non si arrabbierà, vedrai.»

Raggiungo la porta. «Doreen, di’ a papà che non c’è bisogno che mi venga a prendere, oggi.»

Doreen alza lo sguardo, due ciuffi di capelli scuri le sfiorano le guance. «Perché?»

«Ciao, Reen. »

Mi chiudo la porta alle spalle.

***

A fine giornata, Cameron mi è accanto sul suo skate, con le braccia distese in una specie di mossa di karate. Anche se ci sono almeno dieci centimetri a sollevarlo da terra, è sempre più basso di me.

«Come mai ti mischi alla plebe?»

«Non mi mischio alla plebe, ho detto solo che oggi prendo il pullman.»

«Cioè, ti mischi alla plebe.»

Cameron si ferma all’improvviso e si fa volare lo skate in mano, se lo sistema sotto il braccio e mi guarda con gli occhi assottigliati, come se avesse visto qualcosa di schifoso, tipo il pasticcio di carne della mensa.

«Lo dici sempre prima di salire sulla tua splendida Ferrari.» aggiunge.

«Non è mia, è di mio padre.»

«Capirai la differenza.»

Scuoto la testa, mentre una sonora risata attira la mia attenzione. Mi volto, una ragazza mi sbatte contro la spalla per passarmi accanto. Si gira verso di me, con le labbra lucide di rossetto e i capelli biondi lunghissimi.

«Scusa.» mi fa, e le sue amiche la raggiungono.

Le sorrido di rimando. «È tutto ok.»

Continua a sorridere, allontanandosi, mentre anche le sue amiche mi fissano per quel secondo in più che non guasta mai.

«L’hai vista?» mi chiede Cameron.

«I miei occhi funzionano.»

«Forse i suoi ne hanno diverse, di funzioni.»

«Perché?» chiedo, anche se quella bionda ora è solo una macchiolina in mezzo alla folla e non ho più nemmeno presente di che colore siano i suoi occhi.

«Era pareeeecchio interessata.» Cameron mi dà una gomitata.

Mi metto a ridere. «Se vuole, io sono qua.»

Cammino ancora verso il pullman. Il cielo è grigio, almeno per quel poco che posso vedere dalle nuvole che lo ricoprono. Nuvole nere, enormi.

La porta del bus si apre.

«Ci vediamo domani.» gli dico, mentre mi allontano. Volto leggermente la testa verso di lui, e così posso vederlo mentre alza la mano, piega il braccio e lo mette vicino alla tempia.

«Sissignore.»

Cameron. 

Scuoto la testa, senza trattenere una risata.

«E ricordati della rivincita alla Play.» mi grida.

«Goku o Vegeta, il migliore sono sempre io.»

«Convinto.» biascica. Lo saluto con la mano e salgo sul bus. All’interno, tutto è grigio come i contenitori che usa sempre Doreen per conservare i pezzi di pizza avanzati. Poggio la mano su un sedile, grigio un po’ più grigio del resto, lo stesso colore dei topi di fogna che sono stati l’ultima cosa che sono riuscito a vedere del documentario prima di addormentarmi durante l’ora di Biologia. Infilo una mano in tasca.

«Hai l’abbonamento?» mi chiede l’autista. Baffetti, occhiali grandi e rotondi.

«No, compro il biglietto.» Prendo una banconota da cinque, lui la afferra e la sostituisce con il biglietto, veloce. 

Cerco un posto degno di me fra la plebe.

Pff, mi sembra di sentire Cameron. Ok, cerco un posto fra i tanti puliti e comodissimi che ci possono essere. Lei hai capelli ricci, crespi, e allora passo direttamente all’altra, perché se è così non può essere lei

E scoprirò chi è.

Lei è rossa, e il suo sguardo incrocia il mio proprio quando mi soffermo a guardarla. Occhi verdi.

Non è lei.

Capelli neri. Biondi. Castani con ciocche blu in mezzo. Occhi azzurri, troppo grandi però. Occhi marroni.

Lei non c’è.

Raggiungo uno dei pochi posti ancora disponibili. Butto lo zaino a terra e mi siedo al posto che si affaccia al finestrino. Metto gli auricolari e la voce di Kurt Cobain mezzo fatto mi entra nelle orecchie, scazzata dal mondo e delusa, come me in questo momento.

Volto la testa.

La voce di Kurt Cobain continua a cantare ma io smetto di respirare, perché lei si sta passando una ciocca dietro l’orecchio. Capelli umidi, castani, qualche ciocca più scura per la pioggia che è appena cominciata a cadere. La porta dell’autobus che si chiude scandisce un battito che mi inciampa nel petto, mentre io deglutisco e lei si lascia andare sul sedile.

«Com’è andata oggi, Sarah?»

Sarah viene fuori dalla voce strascicata dai baffi dell’autista. Posso vedere il suo viso riflesso nel vetro, riflesso guastato dalle gocce che scendono fuori, gocce che prendono il posto dei suoi occhi, delle sue labbra, diventano le vene del suo collo. 

Pelle chiara. 

La linea del naso che le fa ombra sul viso.

«Al… solito.» risponde, dice, sussurra piano con una voce limpida. Si stringe le mani in grembo, come se avesse freddo, e allora mi costringo a respirare, a togliere una cuffietta dall’orecchio per ascoltarla.

«Non mi piace questa risposta, Sarah.»

Vedo le sue spalle alzarsi leggermente. «Non… può cambiare.»

«Tutto può cambiare, lo sai.»

Si volta. Il suo profilo sembra rischiarato da una luce, sullo sfondo della pioggia che cade, acquazzone, acqua che scende e bagna i vetri, fa un rumore che sembra imitare la batteria della canzone che sto ascoltando.

Abbassa lo sguardo sulla sua borsa e ne estrae un taccuino. Non riesco a vedere che cosa scrive: la vedo fermare la matita sulla carta, alzare lo sguardo di fronte a lei e poi tracciare qualcosa.

Soggetto pericoloso – Sarah sta sfogliando il suo taccuino.

Soggetto pericoloso – Sarah – dà uno sguardo al cellulare, la luce del display le illumina gli occhi, colore del cielo.

Soggetto pericoloso – Sarah – sussulta, quando il pullman si ferma all’ennesima fermata.

«Ultima fermata.» dice l’autista, ed io mi sto già alzando dal mio posto, anche se sarei dovuto scendere molto tempo fa.

Mi alzo la cerniera delle felpa.

Pioggia, fango, almeno due chilometri a piedi.

Non me ne importa più di tanto.

Mi importa di sapere chi è lei.

Scendo dalle scale del bus, veloce, giusto il tempo di voltarmi di nuovo e guardarla più da vicino.

Ehi, ciao. Ho trovato la tua foto fra la roba di mio padre. 

Sei un soggetto pericoloso.

Scende di qualche scalino, piano piano, e alza il viso.

Ti va di parlare un po’? Forse se so qualcosa di te saprò qualcosa anche su chi è mio padre, sai.

Forse saprò qualcosa su chi sono io.

Mi guarda.

Il vento le muove i capelli, le sfiorano il seno, sento il rumore del suo respiro e non riesco a muovermi, la sto guardando.

Camminava piano per paura di inciampare, ma forse è qualcosa di più serio.

Ce l’ha spiaccicata in faccia, la paura.

Come se avessero fatto un incidente: Sarah aveva la precedenza e la paura bastarda le ha tagliato la strada e le è andata addosso.

E poi non l’ha lasciata mai più.

Le si aggrotta la fronte, i suoi occhi sembrano più grandi, si sistema lo zaino su una spalla e trema, temperatura gelida di un pomeriggio d'Inverno.

Sbatte le ciglia e svolta verso destra.

È tardi.

È buio.

È freddo.

Sento il rombo del motore del bus che percorre la strada, mentre la guardo andare via. Si dissolve fra i bagliori che alleggiano in quei vetri che fanno i lampioni della strada.

Mi incammino verso casa.

Cerco di immaginare il motivo per cui dovrei stare lontano da lei.

*

*

*

*

Ciao a tutti! *.* Prima di tutto, ringrazio le splendide persone che mi hanno lasciato una recensione per il prologo... ben undici! <3 Grazie anche a chi ha inserito la storia fra le seguite, le ricordate e le preferite <3 Non me lo aspettavo, e sono davvero felicissima che abbiate accolto questa mia storia in modo così caloroso <3

In questo capitolo avete conosciuto un nuovo personaggio. Non vi parlo di lui, spero che più o meno vi siate fatti un'idea di com'è :) Accetto critiche e suggerimenti, naturalmente. Cerco sempre di fare meglio ed io spero di non deludervi <3

Grazie infinite, a tutti voi.

Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. La ragazza fantasma ***


until 2

 

2.

La ragazza fantasma

 

C’è solo nero, qui.

Solo buio.

Scendo qualche scalino del pullman, per raggiungere la strada. Un passo, due passi, silenzio, immobile.

Sento che c’è qualcosa di diverso.

Il rumore di uno sciacquone mi immobilizza, seduta con le gambe a penzoloni, semplicemente ad aspettare che il tempo passi. Così, i ricordi vagano.

Alzo lo sguardo e ogni nervo, ogni cellula, ogni organello che forma il mio corpo si tende verso quel mondo opposto al mio che mi è di fronte. Alto, spalle larghe – tiene la mano stretta sul suo zaino –, felpa blu, capelli biondo scuro – il vento glieli fa muovere sulla fronte –, occhi verdi ombrati dal cappuccio, un filo di barba sul mento.

Mi sta guardando.

Il mio pranzo giace per terra nel pacchetto di carta in cui lo mette sempre mia nonna, ancora intatto, e il bagno è l’unico posto in cui posso stare da sola senza che nessuno mi noti. Me ne sto con gli occhi chiusi, a sentire il plin delle goccioline che cadono dalle tubature, il panno che striscia a terra trascinato da qualche bidello, i passi veloci di qualche ritardatario dalla palestra, lo schiocco di un bacio.

Mi irrigidisco. La mia paura di sempre ha le tenaglie, mi afferra gambe, braccia, e occhi e mi dice solo una cosa.

Non guardare.

Non parlare.

Non sentire.

Perché solo se non vivo non posso ferire.

Quando l’ultima ragazza lascia il bagno, apro la porta ed esco fuori. Il corridoio è ora pieno, ma nessuno bada a me. Abbasso il capo, metto le mani nelle tasche della felpa e cammino veloce.

Non era niente. Scuoto la testa.

Era solo un ragazzo sul bus.

Solo una persona.

«Ci vieni alla festa, stasera?»

«Non lo so, Yvonne…»

«E dai… non fare l’asociale.»

Risate. Sbuffi. 

Spinte. Sorrisi. 

Vorrei anche provare invidia ma non ci riesco, penso che quel sentimento si trovi su una piattaforma completamente opposta alla mia.

«Non sono asociale!»

Credo sia meglio. Credo che mi aiuti, a poco a poco, a non percepire davvero me stessa.

Sfioro il muro con il palmo delle mani, solo per rendermi conto di non essere davvero un fantasma che vaga nel mondo. Ho ancora  carne ed ossa a darmi una forma, non posso passare attraverso il cemento o il legno.

Quando apro la porta, l’odore acre della pittura e della creta bagnata mi arrivano alle narici. Respiro, mi riempio la pancia di fiato, lo faccio una, due volte.

Mi metto il grembiule bianco e comincio a giocare con tutto quello che trovo. La classe di Artigianato è facoltativa, ma è un’ora che aspetto con fervore per tutta la settimana. Da quando ho scoperto che il professor Morgan non chiude a chiave la porta, non c’è stata una volta in cui io abbia passato tutta la pausa pranzo chiusa qui.

Prendo un po’ di creta e la stendo sul tavolo da lavoro, ne faccio tante piccole palline. Prendo, schiaccio, arrotolo, lascio scivolare sui palmi...

È l’unico momento in cui posso permettermi di sentirmi.

***

«Biglietto o abbonamento?»

Sono arrivata presto, oggi. La ragazza davanti a me mostra il tesserino, Patrick annuisce.

Mi guarda. Sembra Mangiafuoco dei film Disney, ma ha i capelli corti e una camicia a quadri rossa che lo fa somigliare più che altro a uno zio un po’ in sovrappeso.

«Ciao, Patrick.» dico, e tossisco subito dopo. Stare zitta tutto il giorno mi fa la voce graffiata, come se fossi raffreddata.

«Buongiorno, Sarah.» Mi sorride.

Io no.

Non ne sono capace.

Rumore di passi.

Qualcosa sbatte sul vetro.

Il ragazzo del bus si sistema lo zaino su una spalla. Piove ancora, fuori, e qualche goccia gli ha lasciato il ricordo di se stessa sulla felpa, sulla pelle su cui scivola fino a bagnargli la maglietta.

Mi guarda.

Accade in un millesimo di secondo in un mondo fatto da migliaia di secondi e minuti e ore e giorni, anni. Non conta questo. Gli zigomi alti, la bocca ferma in un’espressione che non conosco. Occhi verdi. Pagliuzze grigie.

Fisso lo sguardo fuori dal finestrino.

Troppo tardi.

Ho incontrato i suoi occhi.

Si siede nella mia direzione, nella fila opposta. Chiudo gli occhi. Non riesco nemmeno a prendere il taccuino, ho messo la borsa dal suo lato. 

Non lo guarderò.

Poggio la fronte sul finestrino e sento il sapore del sangue, mi sto mordendo la guancia dall’interno.

Mi sta guardando. 

Lo so che mi sta guardando.

Smettila.

Mi sta guardando. 

Alzo lo sguardo sul finestrino, lo vedo. Ci è appoggiato di schiena, il suo profilo diritto crea un’ ombra sul grigio del sedile. Respira, le sue spalle larghe si alzano ogni pochi secondi, i suoi occhi sono una macchia di verde che si riflette nel vetro.

Mi guarda.

Smettila.

Mi alzo all’improvviso, proprio quando il bus si ferma per quella che deve essere la seconda fermata.

Scendo dal pullman e non guardo più indietro.

Se mi guarda c’è solo un motivo.

Trattengo a stento le lacrime.

Sa che sono un mostro.

***

Martin

Google.

La risposta ai quesiti più difficili di Fisica, alla ricerca di gnocche su cui sbavare e video delle canzoni dei Nirvana. 

Google.

Lampeggia nella sua scritta blu e verde.

Sarah.

Oggi è scesa alla seconda fermata, come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa. Come se si fosse accorta di me.

Il suo nome è una luce fissa, mi brucia gli occhi.

Sarah.

Non riesco a scrivere. Mi sembra squallido, da stalker e maniaci. Non posso scendere tanto in basso con una ragazza. Ma ehi, non è che lei sia una ragazza qualunque… è la ragazza per cui…

«Martin? » È una delle poche volte in cui mio padre entra in camera mia. Sussulto, il portatile quasi mi salta da sopra le gambe, non è cosa da tutti i giorni sentire la sua voce. Mi sento leggero di un’emozione che è la stessa di quando ti rivolge la parola una persona importante, forse perché non succede quasi mai. «Stai facendo i compiti?»

«Mhm. Sì… una ricerca.»

«Va bene.» Si sistema la cravatta della giacca, nera opaca, come i suoi capelli e la barba. «E a scuola… tutto ok?»

«Faccio quello che posso.»

«Certo.»

«Sì.»

Mi dondolo sul letto. Una volta, due volte. Mio padre si passa una mano fra i capelli, guarda un po’ dappertutto, sedia sommersa di magliette, scrivania con i libri aperti, l’armadio aperto con il poster di Miranda Kerr. «Dovresti mettere un po’ più in ordine.»

«Ok.»

Spengo il computer e lo guardo. «Papà… va tutto bene a lavoro? »

Gli si inarcano le sopracciglia. «Sì… perché?»

«Niente, così.» Alzo le spalle. So che non me lo dirai mai. Apro il quaderno di Biologia e prendo un foglio con delle scritte stampate. Glielo porgo. «Ah, papà… devi firmarmi questa autorizzazione. Il Cinema per la scuola.»

Mio padre tira fuori dal taschino la sua penna con la sigla JS, Joseph Scott, se non lo conoscessi potrei pensare che sia il nome di un nuovo cantante rapper. Jey ass… sì.

Cantante di una canzone stonata che è la mia vita. Si mette la penna nel taschino e si avvicina alla porta. «Tra mezz’ora parto, Martin. Torno fra una settimana, ricordati…»

«Di spegnere tutte le luci. »

Sorrido e sento il rumore del mio fiato. 

Ma qui non c'è nessuna felicità.

 

È notte. La strada è illuminata solo dai lampioni, la loro luce cade in trasversale sull'asfalto nero, lucido. Una bambina piccola, con un grembiulino bianco, ci cammina al centro, dondolando.

È pericoloso. Mi avvicino a lei, Ehi, attenta, perché sei qui sola? Lei continua a camminare, senza voltarsi, mentre io la seguo, cammino, comincio a correre, non riesco a raggiungerla.

È sempre più lontana.

Ho l’affanno, mi fermo sul marciapiede e mi appoggio ad un lampione. Un ronzio mi trafigge i timpani nel momento esatto in cui poso la mano sulla plastica nera. La ritiro subito, e mi viene fuori un gemito. Credo di aver preso una scossa. Respiro, respiro, respiro, la luce del lampione a cui mi sono appoggiato si spegne, poi si accende di nuovo e così via, mentre io vago lo sguardo sulla strada e la vedo. Si è fermata.

Sbatto gli occhi.

La ragazza che mi sta guardando ha i capelli lunghi, si muovono allo stesso vento gelido che mi spinge verso di lei. Mi muovo. Ha gli occhi dello stesso colore del cielo d’inverno, un sottile strato di nuvole intorno alla pupilla. Le sue ciglia sono lunghe e dorate, sembrano i fili delle spighe di grano. Resta ferma, delle lacrime le nascono dagli occhi e sono gocce grandi come quando piove forte. 

Sarah.

Sento un rombo. Una macchina si sta avvicinando, e noi siamo in mezzo alla strada. Vieni, sei in pericolo. La mia voce sembra un’eco lontano, le prendo la mano, la stringo. Lei si scosta.

Sarai tu, ad essere in pericolo.

 

La chitarra elettrica che fa da suoneria al cellulare mi fa aprire gli occhi. La canzone continua, ma io resto immobile, ancora a letto, con l’ultima immagine ancora incastrata nella mente.

Sarah che incrocia i miei occhi. Spenti. Una luce ci passa attraverso.

Sarah che si alza all’improvviso e scende dal pullman.

Sarah che cammina in una strada buia.

«Pronto?» rispondo, e la mia voce è impastata di sonno.

«Mi stavi sognando, ammettilo.»

Mi rigiro fra le coperte e scalcio via il lenzuolo. «Mi hai svegliato.»

«Sono le sei del pomeriggio, nullafacente.» Mi passo una mano fra i capelli, poi sulla fronte e sul resto del viso. Sono sudato. «Comunque, stasera alle dieci c'è una festa, me l'ha detto quella ragazza bionda che ti ha scartato come un chupa-chupa con gli occhi, ci stai?»

Deglutisco.

Posso ancora sentire la pelle liscia di Sarah come se l’avessi toccata veramente.

***

Chiudo la portiera della Ferrari e mi aggiusto il colletto della camicia. Cameron fa il giro dell’auto e ci si ferma davanti.

«Quando vorrei che fossi mia.» dice alla mia auto.

Non ho nemmeno la forza di ridere.

La accarezza con la mano, si china e la camicia gli esce dai pantaloni. «Ferrie, amore mio.»

«Sono belle parole, Cam. Scrivitele.» Mi sistemo anche i polsini. Lui prende il cellulare e digita qualcosa… non ci posso credere, le sta scrivendo davvero.

Sono circondato da ragazze. Certe non riesco nemmeno a guardarle in faccia, ma hanno gonne e vestiti corti, e scollature senza senso perché potevano anche non esserci, si muovono morbide e a scatti e io mi perdo a guardarle.

Sarah

Luccichii, liquori, risate, corpi sudati e Sarah si muove piano, forse nemmeno l’aria percepisce la sua presenza. 

Mi passo una mano fra i capelli. 

La percepisco io.

Sospiro. Devo smettere di pensare a lei. Sul tavolino davanti a me c’è una bottiglia di Vodka, farà compagnia alla birra che ho appena ingurgitato. Sarah ha gli occhi di acqua, acqua agitata, tempesta, acqua chiara, le onde si schiantano. Mando giù l’alcol, mi passa attraverso la gola e brucia, scoppia qualcosa. Ha le mani piccole. Sfogliano il taccuino, tengono la matita con due dita, si fermano sulla sue labbra in un sospiro che fa un po’ rumore, la stessa voce del vento.

Mi viene fuori un respiro soffocato, apro gli occhi e stringo la bottiglia fra le mani. Cerco un altro sorso. Ha un giubbino nero, di quelli imbottiti, forse di piuma d’oca, forse di qualcos’altro per tenersi al caldo. Si volta verso il vetro, è bella. Lei... 

Un altro sorso.

«Non ti sembra da egoisti tenertela tutta per te?» Qualcuno mi toglie la bottiglia dalle mani. Non riesco a vedere bene: nel buio della casa, vanno e vengono le luci a intermittenza del salotto dove tutti ballano su una musica che non ha parole.

Sbatto gli occhi. Due labbra carnose e rosse baciano l’orlo della bottiglia, i miei occhi continuano a vagare e trovano il suo collo inarcato, una goccia le scende dal mento e carezza la sua pelle, le raggiunge qualcosa che non posso vedere.

«Mhm. Buono.» Poggia la bottiglia sul tavolino e si scrolla i capelli lunghissimi e biondi in una specie di onda.

Mi sorride. «Io sono Yvonne.» Mi porge la mano… no, si appoggia a me e scoppia in una risata tiratissima, le viene fuori un singhiozzo.

È ubriaca.

«Martin.» Mi si stringe contro e cerco di levarmela di dosso, la testa mi pulsa, il sangue mi pulsa, la gola mi pulsa.

«Ti ho già visto... veeero?»

«Non mi ricordo.» biascico.

«Io mi ricordo sempre dei ragazzi sexy.» Mi mette le braccia intorno al collo, sento il respiro affannoso, un rivolo di sudore mi scivola sulla schiena, lo sento.

«Ehi!» Riesco a staccarmela di dosso. Prendo dell’altra Vodka e la scolo, la sua voce è un’eco lontanissimo, dice cazzate, cazzate, cazzate, e la gola mi brucia, e Sarah va via, è una nuvola, diventa tutta bianca, non riesco a immaginarla. Anche i suoi occhi scompaiono.

«Sei un ingordo.» Di nuovo la voce della ragazza.

E poi più niente. Anzi, qualcosa c’è, rosso, giallo, blu, nero, verde… tutti i colori, proprio tutti… la testa fa un male cane, adesso tutto si oscura, tutto si annebbia. Non ho il controllo dei miei occhi quando li apro, non ho il controllo del braccio che Ivy... Ivy?… non mi ricordo il nome tira per farmi spostare. È ancora più buio qui, sento un formicolio che mi prude le gambe, le braccia, il viso. Mi sta baciando e le mani che si posano sulle sue spalle per mandarla via scendono sulla sua schiena, non so perché. Smette di baciarmi. Non ho il controllo delle labbra umide che si posano sulle sue, delle lingua che le entra dentro la bocca. Non ho il controllo della mano che lei guida sotto la gonna… sembra molto più lucida ora. Le piace, stronza. Mi sta chiedendo qualcosa. No. Sta chiamando qualcuno che deve essere Martin ma Martin è a casa a dormire, davanti a un libro di Chimica che non capirà mai, a ignorare il mondo. Martin è qui, fra le gambe di questa tizia che non guarda nemmeno in faccia mentre spinge. Non capisco. Geme. Non capisco. Questi capelli, queste braccia, questa bocca, tutto è estraneo. Urla un’ultima volta. Ogni rifugio è estraneo e freddo, questo è il primo che ho trovato. Mi accascio su di lei, mi morde le labbra. Sarah si morde le labbra e guarda fuori dal finestrino. «Fanculo.»

Mi alzo i pantaloni, trovo la cinta, mi abituo alla luce e vedo una camera da letto rosa e squallida, una ragazza qualunque… Ivy… non lo so e mi dispiace. Vaffanculo. Recupera le mutandine, ride, è ubriaca. Io no, non così tanto. Perché se così fosse starei bene. Invece vado via e mi viene solo da vomitare. Vomitare, vomitare, vomitare… che c’è che non va, ho soldi, una bella macchina, una bella casa… ho tutto quello che voglio, me la cavo sempre …

È un freddo che punge, quello che sento. Mi entra dentro come tanti piccoli stuzzicadenti di legno, mi affonda nella carne e mi lacera da dentro. Vomito. Forse così se ne va il marcio di me stesso.

La puzza è il mio buongiorno, quello che mi fa aprire gli occhi un po’ più consapevole. È la mia macchina, quella a cui sono appoggiato? Qualcosa mi impedisce di cadere.

«Ehi, hai fatto una bella sbronza, eh?» Mi aiuta a rimettermi in piedi, sono peggio di un neonato, ci manca solo Doreen con il passeggino come quando avevo tre anni. «Stasera guido io, no problem.»

«Cazzo.»

«È tutto ok.» Non ho nemmeno la forza di lanciargli le chiavi. Mi apro la giacca e lascio che intuisca lui… mi sento più leggero, le ha prese. «Fortuna che tuo padre è fuori città.»

«Mhm.» Mi viene fuori.

Sento la sua pacca sulla spalla e mi sembra una pugnalata. Quando riesco a distinguere più o meno i contorni di tutto questo, il suo viso familiare riesce a farmi deglutire senza rimettere un’altra volta. Mi trascino in auto. Cameron mette in moto, accende la radio e prende a canticchiare una canzone. Niente domande, niente risposte.

Solo io ci sono e tu ci sei.

Scuoto la testa e abbasso il finestrino. Lo stomaco mi si contrae e non è per quello che è appena successo. È una sensazione simile a quando il professore ti interroga e non c’è il tuo amico di sempre a suggerirti, e sai che così ti verranno tagliate le gambe.

Sarai tu, ad essere in pericolo

Mi passo una mano fra i capelli.

Forse lo sono già.

*

*

*

*

Ciao a tutti <3 Eccomi qua con un aggiornamento, scusatemi per il ritardo, purtroppo lo studio mi toglie tantissimo tempo. Io cercherò comunque di essere puntuale, perché la storia di Martin e Sarah si sta evolvendo, nella mia testa, ed io non vedo l'ora di raccontarvela :))) In questo capitolo abbiamo avuto due diversi POV, in particolare sappiamo più cose su Martin, e su Sarah forse dovreste avere ancora più domande :p Spero tanto che vi piaccia e che vi stia incuriosendo! 

Spero tanto che mi lascerete un parere <3 Sono così emozionata!

Grazie davvero, a tutti voi <3

Un bacio

Ania <3
p.s ci sono due nuove storie nel fandom di Twilight che consiglio assolutamente! Si tratta di questa e questa <3

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. Tracce ***


until 3

3. Tracce

Oggi dovrebbe essere una bella giornata. Niente lezioni e i professori ci portano al cinema: cazzeggio totale.

Sospiro.

Sono stato fra i primi a salire, qui sul pullman. 

«Martin, ehi! Spostati!» Cameron mi viene incontro. Io mi alzo, per farlo sedere dal lato del finestrino, ma non distolgo lo sguardo nemmeno per un secondo dalle porte del bus.

So che sei qui.

«Ah… fantastico, non sei stato egoista come tutte le altre volte.» mi dice.

So che sei qui.

«Quindi, che cosa si vede al cinema, lo sai?» mi chiede.

«Pearl Harbor.» rispondo, senza cambiare un attimo la direzione che hanno preso i miei occhi.

«Oddio, quel film mi fa diventare le palle tante…»

Sale sul bus e mi sento bruciare la gola, nello stesso modo in cui, ieri sera, abbiamo bevuto la Vodka dalla stessa bottiglia. Come si chiama? Ivy riecheggia nella mia testa e allo stesso tempo so che è un nome sbagliato. Muove i fianchi, mentre cammina, con quei capelli lunghi e il sorriso che sembra intagliato su quel viso coperto da fondotinta. 

«Martin… che stai guardando? »

Ivy, ormai la chiamo così, mi passa accanto e mi sfiora con lo sguardo, come la prima volta in cui mi è andata a sbattere contro. Sì, era lei. Lo so.

Sembra che non ci sia niente di strano... Forse non ricorda. Forse il mio mondo di merda non ha lasciato nessuna traccia nel suo.

«Niente.» Mi passo una mano fra i capelli. «Hai portato le patatine?» gli chiedo.

«Ovvio.»

Ma il mio sguardo resta fermo e attento. 

La vedo salire le scale un secondo prima che le porte si chiudano. I capelli castani chiari arruffati sulle spalle, il naso sottile punteggiato da qualche lentiggine, il cappuccio alzato, gli occhi trasparenti come l’acqua.

Un formicolio mi prende lo stomaco,  mentre si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Tutto il mio stomaco è un formicolio, credo che i miei anticorpi si siano messi a sparare contro la parete del mio corpo.

«Prendi.» Cameron mi porge le patatine. Oggi si è messo il cappello da baseball al contrario, come Ash dei Pokèmon. Mi basta guardarlo in faccia per dirmi che in fondo non va tutto proprio male. 

Che quello che sento è solo un comune mal di pancia da dopo sbronza.

Che Sarah non è niente per me oltre a quello che può riguardare mio padre.

Che io non provo niente per questa sconosciuta che mi invade i sogni.

***

Entriamo nel Cinema. Mi siedo accanto a Cameron, dall’altro lato c’è una ragazzina del primo, posso quasi vedere le sue guance che si colorano di rosso, mentre ride con la ragazza accanto a lei. 

Volto la testa. 

Sarah si è seduta da sola, in fondo.

«Chi hai visto? Una ragazza sexy?» La voce di Cameron è acuta. Gli abbasso la testa con una manata.

«Nessuna ragazza sexy, bassotto. Dai.» Le luci si spengono all’improvviso e tutti urlano. «Stai attento, che dopo mi devi dire come finisce.»

«Ma io già lo so… alla fine…»

«Silenzio!» La voce delle professoressa ci sovrasta, rigida e fredda. Mi metto a braccia conserte e guardo il logo della Twenty Century Fox occupare tutto lo schermo.

Passano i minuti. I due tizi si baciano, «Passami una patatina, Cam.» Mando uno sguardo qua e là, la vicina mi fissa, guardo dall’altro lato, guardo indietro.

Sarah è bellissima.

Deglutisco. 

Eh? Cosa? Che cosa dici? Che cosa pensi?

«Martin, ti stai fermo? Sembri un castoro in calore.»

«Dove l’hai visto un castoro in calore?»

«Un castoro l’ho visto in “Narnia”, in calore no perché era un film Disney e certi spettacoli i bambini non possono vederli. Ma ti vuoi stare fermo? Sembra che trattieni la pipì.»

«No, mi sto annoiando.»

«Shhh!» La solita professoressa ci richiama all’ordine. Dio, se potessi mi metterei a dormire ma la ragazza del film se la sta facendo con il migliore amico del suo ragazzo perché pensa che quello sia morto.

Ah, scoppia la guerra! Bene, un po’ di movimento… il ragazzo dato disperso torna… ora sono cazzi… bene, un po’ di sparatorie, urla, pianti, tutto fantastico.

Un rumore sfalda completamente la mia attenzione. Volto la testa. Cameron è troppo preso dalla scena per notarmi. Sarah è in piedi, nel secondo stesso in cui sbatto le palpebre recupera lo zaino che deve esserle caduto a terra. Sola nell’ultima fila, fa qualche passo verso il corridoio. Si avvicina alla porta con la scritta exit, correndo.

Di nuovo quel formicolio allo stomaco, mentre guardo le sue gambe fasciate dai jeans, e le mani bianche che stringono il suo zaino, e le labbra carnose che le si arricciano, mentre evita di inciampare nei fili della luce.

Apre la porta d’emergenza, la sbatte ed io resto al buio.

Così. 

Fin quando non decido di andare dove va lei, anche se non so dove mi porterà.



La vedo di profilo: si appoggia ad un muro in mattoni rossi, in questa strada stretta piena di sacchi per l'immondizia. Odore acre, di pioggia, di plastica: un alone di periferia, così lontano da quello che vedo, sento, e odoro ogni giorno. Eppure i miei passi sembrano silenziosi, in questo ambiente estraneo, come se facessero parte del tutto. Come se i suoi respiri affannati, gli stessi di quando si ha corso troppo, fossero anche i miei. Mi avvicino, il suo petto si alza e si abbassa ed io sono qui. Sono dove sei tu. Gira la testa e la guardo negli occhi: sono chiari, azzurri, e dispersivi; trattengo il respiro a guardarli, come quando fissi il cielo dal finestrino di un aereo. So solo che mi tremano le gambe, e che le sue ciglia sono lunghe, e lei...

Lo zaino le scivola dalle mani, per poco le cade nella pozzanghera vicino ai suoi piedi ma qualcosa impedisce la caduta. Sono io.

Mi sono sporto e l’ho preso al volo.

L’unica cosa che riesco a fare, in questo strano istante in cui i miei occhi si posano sul suo zaino, è sorridere fra me e me.

«Stai bene?» le chiedo. Mi sembra la cosa più opportuna da dire, in questo momento.

Annuisce, frenetica, i capelli le sfiorano la fronte una, due volte, e lei abbassa il capo una, due volte. 

«Sì. S-Solo... avevo bisogno d'aria.» Riconosco la sua voce anche se viene sovrastata dal suono di un clacson. Mi avvicino ancora, è solo un altro passo, quello che faccio verso di lei. Ed è abbastanza per farle ombra con il mio corpo, abbastanza da poter guardare meglio le linea del naso, la sfumatura chiara delle lentiggini, gli zigomi alti, le sue mani che si allungano verso di me.

«Grazie.» dice, poi mi prende lo zaino dalle mani.

Faccio spallucce. Ci provo, almeno, perché così mi rendo conto di quanto mi sento teso. Di quanto sarebbe naturale se i miei muscoli si strappino per un movimento veloce.

«Di niente.» le dico, provo a sorriderle, non so se ci riesco ma so che lei mi guarda per un secondo e poi i suoi occhi finiscono altrove: sulla strada, sulla pozzanghera, sul bidone dell’immondizia accanto a noi. Ho la sensazione che lei eviti di guardarmi.

«Sei sicura di stare bene?» le chiedo ancora. Quando mi guarda mi sento inchiodare al muro in una muta sensazione di dolore.

«Pierce? Il professor Morgan vuole che rientri, altrimenti… oh.» Seguo la voce. Ivy se ne sta davanti alla porta d'uscita, e i suoi occhi color nocciola si posano su di me, accigliati. Allunga il collo, per guardare Sarah. «Ti sei appartata. Chi l'avrebbe mai detto.»

«No... No, vengo subito, stavo solo...» La voce di Sarah si fa più alta, assomiglia a un ammasso di vetri rotti calpestati.

«Non imbarazzarti.» fa Ivy, mentre si guarda le unghie. Nemmeno il fondotinta riesce a nascondere le occhiaie di ieri sera, l’alcool però ha cancellato bene me, ed è la cosa migliore che poteva capitare.

«No. No, no, non…»

«Non ci siamo appartati.» riesco a dire. Volto la testa e Sarah è accanto a me, un piccolo movimento e le tocco il braccio, la pelle morbida sotto il giubbino, il polso sottile. Mi sorpassa in uno sguardo che trapassa, affonda, taglia, come un’arma.

Sarah tossisce.

«Dai, Pierce, vieni dentro.» dice ancora Ivy.

Sarah annuisce e fa qualche passo verso di lei.

«Ehi, tu, belloccio, te ne resti qui?»

Le guardo. È un secondo, giusto il tempo di capire perché, mezzo incosciente, sono andato a letto con quella bionda costruita mentre i miei pensieri erano per... Sarah. Non lo so, non so niente della mia vita.

Ma forse se conosco Sarah, saprò anche chi sono io.

***

Assurdo.

«Cioè! È stato incredibile, piangevano tutti, che palle… ma sai cosa? Hai presente quella figa della classe di Spagnolo approfondita? Forse no… no in effetti tu non fai niente di approfondito, Martin. Comunque, quella, proprio quella, è venuta da me e mi ha chiesto un fazzoletto e allora io…» Cameron parla senza fermarsi.

Assurdo io. Assurdo il modo in cui le sono andato dietro. Assurde quelle poche parole. Assurdo tutto. Ma è sempre qualcosa. 

Professor Morgan. Il professor Morgan vuole che rientri. Prendo l’i-phone per andare sul sito della scuola.

«E allora io mi sono trovato davanti lei. Se prima ero mezzo addormentato mi sono svegliato all’improvviso, ecco. E lei era sexy come sempre ma con le lacrime agli occhi. Le ho detto che i fazzoletti non ce li avevo ma ho fatto la voce rotta e…» continua.

Il professor Morgan tiene il corso di artigianato facoltativo riservato sia alle quarte che alle quinte classi.

Dai, cazzo.

«E allora ho detto “Puoi piangere sulla mia spalla, se vuoi.” Fatto sta che mi ha guardato malissimo ma si è seduta al tuo posto, Martin! Ti prego, lasciami solo anche la prossima volta!»

«Cameron!»

«Sì, sì, anche io ti amo ma evita le effusioni in pubblico, per favore!» Scoppia a ridere.

Non riesco a fare altro che sorridere, e so benissimo che sembro solo un emerito idiota.

Non che sia tanto diverso dalla realtà.

*

*

*

*

Spero che abbiate passato un Buon Natale e vi auguro buon anno nuovo <3

Nel frattempo, vediamo che Martin e Sarah hanno parlato. Non che si siano detti chissà che cosa, ecco, ma è già qualcosa, e dal prossimo vedrete che si conosceranno meglio :)) Ma come mai Sarah è uscita dal cinema così all'improvviso? Stava male sul serio? Magari le parole che per Martin erano niente per Sarah erano molto, visto che rivolge la parola pressocché a nessuno :))

Definirei questo capitolo di passaggio, ma comunque necessario... spero che mi lascerete un parere, per me è davvero importante e mi rendereste felicissima <3

Ringrazio tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo, mi avete reso davvero felicissima, grazie <3

Grazie mille per leggere

Un bacione

Ania

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. Paura ***


until 4

 

4. Paura

Una settimana dopo.

 

 

Sarah è il nome che ho scritto all’interno della mano, con la penna rossa. Ci passo il dito sopra, e adesso sembra sangue, una bella ferita, anche profonda. La campanella suona ma io sono già in classe, come sempre. Quarto banco, né troppo avanti né troppo dietro. Dal lato interno, in modo che nessuno si rivolga a me per aprire o chiudere la finestra. Con lo zaino fra le gambe, per non impedire il passaggio a nessuno. Testa bassa, mani in grembo, occhi fissi a leggere il quaderno aperto davanti a me. Nemmeno una parola. Il suono della mia voce inquina l’aria, ne basta l’indispensabile.

La porta si apre. «Buongiorno.»

«Buongiorno,» rispondo. Il professor Morgan, i capelli brizzolati e l'espressione gentile, poggia la borsa sulla cattedra, mentre altri studenti si affrettano ad entrare. L’unica cosa che mi dà sollievo, adesso, è che presto nessuno penserà a me. Il vocio dei ragazzi mi mantiene ben ferma, qui sulla Terra. Ho la mente leggera, spesso la sento volare via dal corpo… forse sono più di là che di qua. Anche da piccola ero così… anche prima… prima…

«Ragazzi, silenzio… per favore,» dice il professore. Solo adesso mi guardo un po’ intorno. Nessuno lo ascolta, non prima che lui «Ma avete intenzione di continuare così per tutta la lezione? No, perché mi piacerebbe molto riempire il registro con una bella nota.»

Silenzio.

Il professor Morgan fa un colpetto di tosse. «Oggi continueremo con la realizzazione dei vostri elaborati, li valuterò alla fine del quadrimestre, come ho già detto. E controllerò che stiate lavorando diligentemente. Prima di continuare, vi informo che si è iscritto al corso di artigianato anche Martin Scott dell’ultimo anno, fra i pochi studenti che si apprestano a questa disciplina. Bene, dividetevi in gruppi. Martin, oggi puoi guardati un po’ intorno, vedere come lavorano gli altri…»

Tutti cominciano ad alzarsi, lo faccio anch'io solo quando la maggior parte si è allontanata. Mi avvicino all’armadietto, prendo il grembiule bianco, lo infilo. Mentre cammino verso il mio tavolo da lavoro, mi sistemo i capelli che sono finiti dentro il grembiule. 

Vado a sbattere contro qualcosa.

Qualcuno.

«Ciao.»

Alzo lo sguardo e perdo il respiro. Occhi verdi, capelli leggermente lunghi che gli sfiorano le guance, alto.

Stai bene? Sento ancora la sua voce rimbombarmi nella testa.

La luce del sole che filtra dalla finestra gli illumina i capelli biondi.

Riprendo a respirare. «Ciao.» La mia voce è appena accennata.

Si stringe nelle spalle, inclina la testa e riesco a scorgere quello che deve essere un sorriso sulla sua mascella pronunciata.

È il ragazzo del bus.

Quello che era anche al Cinema.

Lo sorpasso e raggiungo il mio tavolo. Mi abbasso, sotto c’è la scatola con le cose da finire, quelle per la lezione, insieme alla spago e agli strumenti di plastica e ferro. Metto la scatola sul tavolo.

«Tu sei Sarah, non è così?» È ancora lui.

Alzo lo sguardo, ora è accanto a me, con i gomiti poggiati sul bancone come a guardarmi dal basso verso l’alto.

Smettila.

«Non sei Sarah?» continua.

Annuisco, veloce. Non lo guardo. I capelli mi finiscono sugli occhi, li scosto, mi sento sudare. Sta parlando con me. Tiro fuori la creta e la carta del giornale.

Sta parlando con me.

Infilo i guanti, mentre la ragione comincia ad andare in circolo.

Bene, ora che hai visto meglio il mostro da vicino puoi andare via.

«Io sono Martin, comunque.» Mi porge la mano ed io alzo gli occhi verso di lui. 

Cosa vuoi da me? Le sue sopracciglia si inarcano, come se avesse percepito la mia domanda. Abbassa lo sguardo per un secondo, vuoi che ti faccia male, è così?

O forse no.

Forse è semplicemente un ragazzo normale. Forse non ha letto nessun articolo di giornale su di me. Forse non ha cercato il mio nome su internet. Forse le persone non sono tutte dei robot programmati a ferire e ad andare in contro circuito a causa mia.

Forse lui è solo carne e cuore e sentimenti.

Respiro. Cerco di articolare qualche parola. Sì, no, ciao... 

«Scott di cognome,» aggiunge. Mi stringe la mano. Mano aperta, poi chiusa, stretta sulle mie dita. Mi sfiora il polso con il pollice, ha le dita ruvide e fredde. Tremo, forse trema anche lui.

Ho paura. 

Ma lui sorride.

Cerco di lasciare la sua mano. Cerchiamo di farlo entrambi ma...

«Oddio… scusa.» Non so come, ma della colla liquida è sul mio guanto e ora fila fra il tessuto di plastica e le dita di Martin. Accade così, e poi mi rendo conto di aver parlato. La mia voce è venuta fuori graffiata, come se fossi un involucro di metallo. 

Ride. «No, non è niente. Ora ce la faccio, aspetta.»

La colla è densa e appiccicosa, quando butto un occhio alla scatola capisco come faccia ad essere finita qui. Il barattolo della colla si è rovesciato nella scatola, ed io mi sono infilata i guanti così velocemente, da ignorare che un po’ di liquido me li avesse sporcati. 

Sta ridendo.

Ha una risata simile ad una folata di vento calda, di quelle che non ti aspetti, che ti fanno anche sentire il ruvido dei granelli di sabbia della spiaggia.

«Sicuro che…»

«Credo che il tuo guanto si sia preso una cotta per la mia mano.» Sento ancora le sue dita. Con l’altra mano mi sfiora la pelle fra il guanto e il maglioncino. Tira il guanto e la colla si sfalda, una parte gli rimane attaccata al palmo, l’altra resta sul mio guanto di gomma. «Hai un guanto molto disinibito. Gli si è appiccicato al primo sguardo.» Sorride.

Campanelli di cristallo.

Li ho visti sul mobile del soggiorno, basta un piccolo sfioro per farli suonare insieme alle palline d’ottone.

È questo, il suono che sento.

E viene da me.

Martin si stacca la colla dal palmo, anche se avrà le mani sporche e appiccicose fin quando non se le laverà con il sapone.

Nel mio silenzio c’è qualcosa di diverso.

Ho sorriso e il mio fiato ha fatto rumore.

Mi porto le mani al viso. Non posso credere che sia successo. È una specie di modo per nascondermi, per toccarmi, per sentire, palpare le labbra e i denti.

Sto sorridendo.

«Dai, non importa, tanto adesso ti sporchi di nuovo,» riesco a dire. Faccio un respiro profondo e lui si sfrega le mani, la felpa blu gli fa sembrare gli fa gli occhi ancora più chiari.

«Giusto,» dice. Prende una palla di creta e se la rigira fra le mani. «Allora, che facciamo?»

Posso parlare. Posso farcela. «Io continuo la mia rappresentazione di frutta, tu... non lo so.»

«Non mi va di stare con le mani in mano.»

«Allora devi metterti il grembiule.»

Martin aggrotta la fronte e si guarda intorno, seguo il suo sguardo. Tutti stanno facendo qualcosa: modellano, disegnano, tagliano, incollano… tutti indossano un grembiule.

«Ma è obbligatorio?» chiede ancora.

«Direi di sì.»

Martin fa una smorfia. Fa per passarsi una mano fra i capelli e poi sembra che ci ripensi – per la colla –, abbassa il braccio e si incammina verso l’armadietto. Lo guardo. Apre le ante.

«Qualche problema, Scott? » Sento la voce del professor Morgan.

«Prof… questo grembiule è troppo piccolo, posso non metterlo?»

Sento lo sbuffo del professore. «No, Scott, mi dispiace. »

«Non è la mia taglia.»

«Ma le regole sono regole.» Martin sbuffa. Prende il grembiule dall’armadietto, lo chiude, ed io mi affretto a guardare fisso sul tavolo, mentre lui si avvicina.

«Non ridere,» mi dice, mentre si infila una manica.

«Non rido.»

Non lo so fare.

«Ti aiuto?» Incurva le labbra in quello che sembra un sorriso timido, anche se presto si trasforma in un’espressione interrogativa. «Sono una frana in tutto però...»

«E' facile, vedrai.»

Martin comincia a mettere le mani in quella pasta dura e bagnata. Io stendo la creta, prendo uno stuzzicadenti e comincio ritagliarne delle forme. Ogni tanto alzo il viso e Martin si lecca le labbra, mentre stende la creta con il palmo. Sembra concentrato. Ha gli occhi socchiusi, respira piano, e a un centimetro da lui posso sentire un odore fresco di aghi di pino, succo aspro e caffè.

Quando il professor Morgan esce dalla classe, Martin alza lo sguardo e si toglie il grembiule. Non gli dico niente. Sono troppo persa a sentirmi.

«Sarah… che ti è successo al Cinema l’altra volta? Stavi male… hai…»

Mi fermo.

Sbaglio a tagliare la forma di un ricciolo che avrebbe fatto da cestino alla mia natura morta. Lascio cadere lo stuzzicadente.

«Non mi piaceva quella scena del film.»

«Era solo una sparatoria.»

«Non sopporto il dolore.»

Non riesco a fermare le parole che mi scivolano sulla lingua e vengono fuori dalla mia bocca. Martin mi guarda. Martin, Martin che fa un passo avanti e io uno indietro, verso l’armadietto. Martin che socchiude le labbra e sospira, io tengo chiusi i polmoni.

E poi sorride.

«Sai una cosa? Io non sopporto i piselli.»

Mi sento stordita. Forse perché è tutto assurdo, forse perché sono assurda io perché… perché forse è solo un secondo ma lo sto facendo. Avevo paura di te, sai?

«Che cosa ridi?»

Avevo paura del mondo, sai? Di non riuscire a nascondere la rabbia, la tristezza, la delusione. Di mandarla fuori facendo del male alle persone, perché è questo che so fare. Io sono un mostro. Era scritto ovunque. Mostro.

Forse mi hanno dato dei sedativi o del veleno per farmi spegnere a poco a poco.

«Niente.» Ma ora è diverso. Ora sto ridendo.

Lo so perché mi avvicino di nuovo al tavolo e riprendo a ritagliare ma Martin mi spintona leggermente, con la spalla. Puoi farlo ancora. Sorride. Puoi farlo ancora. «Scusa, non volevo.» Puoi farlo ancora. Mi tocca e uno strano stridore mi si annida dove mi batte il cuore, perché la mano mi trema e so che non riuscirò a far nulla, nemmeno a respirare o a far funzionare il cervello. Si è spento improvvisamente, mentre tutto il resto è acceso.

Quando suona la campanella non riesco a muovermi. Posso sentire i passi di tutti, le scarpe da ginnastica che picchiettano sul pavimento, le ante dell’armadietto che sbattono. Martin mi guarda ed io guardo lui.

So solo una cosa.

Per un istante, la paura non c’è più.

*

*

*

*

Lettori carissimi <3 Mi scuso per l'immenso ritardo, ma davvero non ho potuto postare prima. Lo studio ultimamente sta prendendo il tempo di tutte le mie giornate, mi scuso con tutti voi. Non potete immaginare quanto mi dispiace. Non ho ancora risposto alle recensioni, spero di farlo presto ma vi dico già da qua QUANTO SIETE FANTASTICI E MERAVIGLIOSI *-* Grazie per il vostro sostegno, non saprei come fare senza di voi, grazie, grazie, grazie *-*

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, nel frattempo spero di poter aggiornare presto, farò il possibile <3 <3 <3


Un bacio

Ania

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. I giorni ***


until 5

5. 

I giorni

Sono passati un po’ di giorni. 

O forse no, sono passati i giorni

I giorni in cui mi sono guardata allo specchio e non ho distolto lo sguardo, perché guardarmi non faceva più così male. I giorni in cui ho risposto, domandato, parlato. I giorni in cui ho sorriso, almeno un po’… quel movimento fatto di labbra e guance che si stirano. I giorni in cui ho riempito il mio taccuino delle cose più disparate, forse senza senso. I giorni in cui ho chiesto in prestito una penna alla lezione di Francese. I giorni in cui ho aiutato un ragazzo a fare un esercizio di matematica. I giorni in cui ho esalato qualche nota, per cantare una canzone alla radio.

I giorni.

«Pierce?»

Mi fermo. Seguo la voce e vedo una ragazza bionda, giubbotto aderente e jeans attillati,  stringe fra le mani una catenella per tenere a guinzaglio il cane che è vicino a lei.

È Yvonne Stewart.

Faccio un piccolo respiro e mi stringo lo zaino in spalle. «Ciao.» le dico, e comincio a camminare verso di lei. Sono veloce, non me ne ero mai accorta prima.

Il suo cane sembra avere il pelo morbidissimo, respira con la lingua da fuori e i suoi occhi marroni sono lucidi. È tutto da abbracciare. Corre via prima che mi ci avvicini.

«Anche tu arrivi presto a scuola?» le chiedo.

Yvonne mi lancia un’occhiata, gli occhi nocciola socchiusi. «Sono solo andata a compare il cibo per il mio cane.»

«È bellissimo…»

«Sì… l’ho salvato dal canile della quarantunesima strada.»

«Come si chiama?»

«Bob, ma…»

«Abbiamo altri corsi in comune, oltre a Artigianato?»

«Che ci vede in te, Martin Scott?»

Martin ha gli occhi verdi, sfumano nel grigio sotto le ciglia lunghe. La mascella squadrata gli si contrae, quando si concentra. Gli si alza prima l’angolo destro della bocca, quando sorride. Ha una risata gutturale, calda, sembra provenire dalle spiagge calde tanto lontane da qui.

La mia domanda resta ferma a mezz’aria, mentre le sue parole volano, una alla volta, fino a me. Mi sento la gola secca e, davvero, non so cosa dire. Martin Scott è il ragazzo del bus. È quello che mi ha chiesto come stai? con la voce preoccupata. È quello che mi ha tolto via le parole con le pinze quasi fossero denti, ma senza dolore.

Che ci vede in te, Martin Scott?

Riprende a parlare. «Ti consiglio di aprire gli occhi. Ti ha abbordato da sobrio, e o ha una libidine incontenibile o vuole provare esperienze nuove… sai com’è… a non tutti capita di incontrare Sarah il mostro.»

Parole in caratteri cubitali. 

Giornali, prime pagine. 

Il mio nome. 

Sarah Pierce.

Cinque anni.

Mostro.

Una sua amichetta l’ha chiamata per giocare e lei le ha fatto bruciare il cervello.

«Per favore, non…»

Niente parole, solo mormorii. Niente sorrisi, solo smorfie di disgusto. Risate di scherno, fughe.

La mia vita come titoli di giornali nella mia testa.

Sarah, sola. Sarah, sola. Sarah, sola.

E poi Martin mi ha guardata.

«Chissà… magari vuole vedere di cosa sei capace.» continua. 

Mi irrigidisco. Sento ogni mio tendine drizzarsi, brividi sulla nuca, una lieve pizzicore allo stomaco che aumenta, aumenta, aumenta, mentre il calore diventa freddo, acqua gelida, ghiaccio.

Come quel giorno.

Dico qualcosa, non sento nemmeno cosa. E poi scappo, prima di farle del male.

 ***

Sono passati un po’ di giorni. I giorni. 

I giorni in cui ho aperto gli occhi e le orecchie, e mi sono guardato dall’alto, come se quel ragazzo un po’ più alto della norma fra tanti non fossi io. 

Ecco, quel ragazzo fra tanti aveva lezione di Storia, dopo quella di Artigianato, e Sarah era dappertutto. 

Sarah è dappertutto in questi libri, nelle parole, nelle voci degli altri, nell’aria fredda, nell’acqua calda, nelle matite mordicchiate, negli spintoni, nei quiz alla televisione. Il segnale non prende bene. C’è la sua sagoma ovunque. 

Ovunque la senta, la ascolto. 

«Ehi, Martin, Venerdì sera a casa mia.» mi soffia Cameron due banchi più in là. 

Annuisco. «Ok.»

Ovunque sia, la guardo.

«… procura una sindrome di irradiazione acuta causando vomito nelle prime ore; altri sintomi dopo qualche giorno di latenza sono: febbre, emorragie, infezioni… tutto ciò produce una massiva distruzione delle cellule dell’organismo. L’apparato digestivo e il midollo osseo (quella parte che produce le cellule del sangue: globuli rossi, globuli bianchi, piastrine) sono i più sensibili alle radiazioni. Dolore in ogni parte del corpo.»

Non sopporto il dolore.

L'inchiostro della penna mi colora il dorso della mano, mentre prendo appunti. Forse dovrei chiederle che cosa intende, esattamente. Dolore fisico o psicologico? Cose d’amore o robe così? Le ragazze sono sensibili… a queste cose. Forse dovrei chiederglielo? Ormai mio padre lo sa, prendo ogni giorno il pullman.

E lei è bella.

Bellissima.

«Che cosa fa, Scott?» Alzo gli occhi dal foglio e incontro quelli della professoressa Denver, già pronti a sparare nocive radiazioni gamma.

Ah, allora ho capito sul serio!

«Prendo appunti.» dico. Mi prende il foglio dalle mani, si mette gli occhiali che teneva appesi alla camicia e tossisce un po’. Sospiro e mi distendo sulla sedia, domani c’è la seconda lezione di Artigianato, e devo ancora vedere che cosa combinare. Non so fare niente, ho le mani grandi, non riesco a… fare un cazzo. Ah, ma forse sì, un cazzo! Cameron sarebbe felice di me. Ma accanto a Sarah? No, non importa… 

Dio, ma che cazzo. È solo una ragazza.

Pericolosa? Puah.

Le prese della corrente per i bambini piccoli sono pericolose. Le buche in strada per chi va a trecento all’ora. Le nocciole tritate per chi è allergico.

Sarah mi fa un altro effetto.

Che effetto, eh?

«Bene, Scott… sembra che si stia impegnando, questa volta.»

Torno al mio mondo, seduto ad una sedia con la professoressa che mi osserva. Tutti mi fissano.

«Ehm… sì.»

Suona la campanella.

 

***

Mi metto a correre, nel corridoio. È la prima volta che lo faccio. Chi se ne importa di arrivare in ritardo? Tanto ai consigli di classe leggono il mio cognome e tutto il resto scompare, passo l’anno come passa l’acqua in un canale. Anche se lo ammetto, agli ultimi test dell’anno studio un casino perché ho paura di essere bocciato. Alla fine.

Eppure ora corro.

C’è una folla, vicino alla porta che apre sull’aula del professor Morgan. Rallento, mi avvicino, Sarah, Sarah, Sarah è fra gli ultimi della fila, si stringe i libri al petto.

«Ciao.» le dico.

Lei mi sorride, sembra che l’abbia fatto d’istinto. I capelli castani lisci sulle spalle, gli occhi azzurri che sono come l'acqua profonda e le guance più colorate.

Colpito.

«Ciao.» risponde, la voce limpida, tremula un po'. 

Ok, ci sono. Sei bella. Sì, ok, ora che lo abbiamo ulteriolmente costatato mi guardo un po' intorno. La porta dell'aula è chiusa e tutti gli altri ragazzi sono fuori con noi.

«Che succede?» le chiedo.

«Ragazzi.» La professoressa Strause si avvicina a noi, composta come sempre. «Oggi il professor Morgan è assente, quindi avete un’ora di buco. »

Bello!

Mi volto verso Sarah. Si morde le labbra, guarda per terra. 

«Va tutto bene? » le chiedo.

«Sì.» Si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Sì, tutto bene.»

Mi mordo la guancia dall’interno. «Non vedevi l’ora di vedermi indossare quel grembiule bianco, non è così?»

Le strappo una risata. «In realtà, a me piace proprio la lezione… la aspetto per tutta la settimana.»

«Davvero? »

Per me?

Aspetto la sua risposta. Cerco di tenere a bada la voce che mi parla nella testa.

«Sì, è così.» Gli altri ragazzi si disperdono, c’è chi prende il corridoio verso l’uscita e il cortile, chi va dalla parte opposta per raggiungere la biblioteca. Ci passano vicino, mi sfiorano. Sarah si stringe nelle spalle, a farsi ancora più piccola ed esile di quanto non lo sia già. Sembra che qualcuno che odia la stia costringendo a stare ferma, abbracciandola da dietro. 

Quando tutti sono andati via, torna a respirare normalmente.

Sorride con gli occhi.

«Allora, io ho fame.» dico.

«Abbiamo già pranzato.»

«Ah.» Credo di avere una faccia sconvolta. «Per il mio stomaco non conta. Vado a… prendere qualcosa, vieni anche tu? »

Mi sento mancare l’aria per un istante. L’ossigeno che viene risucchiato da un qualche aspirapolvere gigante che annulla tutto quello che ho intorno, tranne me e lei. Deglutisco.

«No… non importa. Vado casa.»

Sbam. Il rumore che fanno le auto quando si scontrano con un palo della luce. C’è un rumore simile, dentro me stesso. E non so bene perché.

«Ti accompagno?»

«No… meglio di no.»

«Perché?»

«Non avevi fame?»

«Vado a mangiare e poi ti accompagno, ok?»

Certo che so proprio essere rompicoglioni, eh?

«O-Ok.»

Ok.

«Ok.»

Ok.

Credo che sia la mia parola preferita.

***

Il McDonald c’è sempre quando lo stomaco brontola, credo che se fosse una persona, sarebbe Doreen.

«Allora, un cheeseburger, patatine con solo ketchap, Una porzione di crocchette…»

La cameriera scrive su un foglio di carta la mia ordinazione, illusa che io non dica altro. «Mcnuggets e una bir… anzi, una cocacola. Con due cannucce.»

La cameriera se ne va, sembra shoccata.

«Da quanto tempo non mangi? » mi chiede Sarah.

«Sono un maschio adolescente.»

«Non mi hai risposto.»

«Sì che ti ho risposto.»

Ride, solo un po’. In questo modo timido che ho capito essere solo suo, uno degli elementi della tavola che la compone.

«Quindi, Artigianato è la tua materia preferita.» butto lì.

Lei giocherella con il polsino della felpa. «Mi piace tanto. In generale… mi piace tutto.»

«Ti… piace studiare?»

«In genere sì.»

«Non ci credo.» Stendo un braccio lungo il tavolo e quasi la sfioro, riesco a toccare il bordo di un libro che ha poggiato. Lo prendo e lo sfoglio. «Come può piacerti?»

«Credo che studiare migliori le persone.» Poggia il mento sulla mano. «Quando conosco qualcosa in più, sto meglio con me stessa.»

«Ma tu non devi migliorare niente.» Non riesco a guardarla negli occhi. Ok, devo darmi una calmata altrimenti sembro proprio sfigato.

«Non è vero.» Scuote la testa. «Io ho tante cose che non vanno.»

«Tipo?»

Socchiude la bocca, fa per dire qualcosa, ma la voce le si smorza in gola ed io immagino le mie labbra che sfiorano le sue e poi premono, piano, pianissimo, lente, lentissime, le mie mani sul suo collo.

Non risponde. 

«Ecco, niente.» dico io.

Ho vinto.

«Quindi a te non piace.» Si passa una ciocca dietro l'orecchio.

«Non è che non mi piace, è che il mio cervello rifiuta le informazioni nocive.» Chiudo il libro fra due mani e passo le dita sopra il titolo, Grammatica Francese per quarto anno.

«Magari potrei aiutarti.»

Un rumore metallico.

La cameriera ha portato la mia ordinazione, e adesso si allontana con fare non curante. Magari potrei aiutarti.

Aiutarmi. 

Stare insieme.

«Sono senza speranze.» la avviso.

«Anch’io.»

Apro la lattina di cocacola, prendo le due cannucce e le infilo dentro. Mi alzo, faccio il giro del tavolo e ignoro quella strana sensazione alla pancia che assomiglia a un lieve solletico. Possiamo cercarla insieme, una speranza.

Mi siedo accanto a lei e reprimo quella strana voglia di spostarle quella ciocca che le è caduta di nuovo sull'occhio sinistro. Lascio che lei beva per prima la cocacola e non so come, mi sembra di aver dimenticato qualcosa, il motivo per cui sono qui, il motivo per cui mi sono iscritto a quel corso, il motivo per cui l’ho guardata per la prima volta. Non lo so. 

Così, scambio con lei tutto il cibo che ho preso e mi sento felice, sì. Felice. Mi dice che mi darà i soldi di metà di questa roba ma se si permette potrei anche fargliela pagare in un altro modo, scema. Glielo dico proprio, sei una scema, e le guance le si colorano di rosso. Sei bellissima, vorrei dirle. Lo sai che sei bellissima? Ma lei mi mette sul palmo quelli che devono essere settanta cents, è tutto quello che ho, ma poi ti darò il resto. Ti odio, Sarah, sul serio. Non andare mai via. 

Ha un orologio in plastica rosa, sul polso. Che ore sono? La uso come scusa per toccarla, e mi accorgo che la sua pelle è proprio come la immaginavo, liscia, morbida, fresca d’inverno.

È tardissimo, usciamo dal locale correndo come se potesse davvero cambiare qualcosa.

Ma io sento che qualcosa è cambiato.

In me, almeno, sì. Come se fossi io stesso un orologio, con gli ingranaggi un po’ arrugginiti. Adesso vanno tutti veloci, come l'organo che mi pulsa in mezzo alle costole.

***

«Martin! Martin, aspetta! » gli grido, mentre corre verso l’altro isolato. Sono cinque minuti che non facciamo altro, ininterrottamente, ed io avrei tanto voluto fermarlo ma la sua risata è liquida, porta in superficie tutto quello che incontra.

Al suono della mia voce si ferma, le sue spalle ampie si irrigidiscono sotto il giubbino scuro, e allora lui si volta verso di me. Ogni cosa si riflette sul suo viso, il nero del giubbino nel verde dei suoi occhi. Sta ancora sorridendo.

«Che c’è?»

«Non arriveremo mai in tempo.»

«Mi stai chiedendo di marinare la scuola, eh?» La sua bocca si muove in una specie di ghigno, quello che farebbe un bambino che ha appena rubato un giocattolo. «Non eri tu quella a cui piaceva studiare?»

Sbuffo, il soffio che mi nasce dalla bocca mi alza i capelli. Sbuffare? Ne sono capace? Forse perché ho visto tante volte lui, fare così.

«Arrivare in ritardo mi piace meno.» Al solo pensiero mi vengono i brividi. Tante piccole siringhe per ogni vena delle mie braccia.

Dieci anni. Sarah Pierce. Il mostro colpisce ancora. Solo per uno sgambetto, sono caduta, ho sentito un bruciore al ginocchio e poi… e poi è successo di nuovo.

«D’accordo. Non ci andremo.» dice Martin, e mi riporta qui, in questa strada grigia con la neve sciolta sui lati, i palazzi alti che graffiano il cielo e le nuvole spumose.

Annuisco, mi sento sollevata. Lo guardo, indugio sulle labbra, sui capelli biondi che si arricciano sulle orecchie, ciocche che si schiariscono sulla fronte, le ciglia lunghe e dello stesso colore.

«Ok.» dico.

«Ok.» 

Siamo in un centro commerciale. Le cassieri ci ignorano, sento Martin che mi tocca la spalla – ha le mani salde, grandi, tengono forte – è una sensazione che mi fa sentire i rumori nello stomaco.

«I biscotti Oreo.» dice, poi prende in mano una scatola di biscotti.

Guardo un po’ in giro per gli scaffali. «Questi sono scontati.»

«Ma sono sottomarca.»

«Il gusto è uguale.»

«Nah, non è per niente vero.» Si passa una mano fra i capelli e non dà per niente segno di voler lasciare la scatola di biscotti. «Io sono di marca. Mi paragoneresti mai a un ragazzo sottomarca? »
Mi mordo la guancia dall’interno. Riesco a riconoscere quando sto per ridere, ne sento il sapore, metà amaro e metà dolce, che parte dalla gola e poi scoppia dalle labbra in quello che è un piccolo pezzo di felicità.

Così, succede ora. Ma che domande fa? Come fa il suo cervello… a fare paragoni con se stesso e i biscotti? Scuoto la testa… per un maschio adolescente deve essere normale, anche se quando ha lo sguardo concentrato, con quelle spalle larghe e i muscoli delle braccia, il filo di barba che aveva l’altro giorno, sembra tutt’altro che un adolescente.

«Be’, quindi?» fa ancora. Vuole proprio che gli dica qualcosa.

Lascia che la mia lingua scorra da sola. «Mhm… tu sei scontato?»

«Io sono gratis, oggi, ma non dirlo in giro.»

«Sono stata fortunata.»

«Non puoi nemmeno immaginare quanto. Anzi, dovresti saperlo. Tutte lo sanno.»

«Tutte chi?» 

No,no,no,no. Dov’è un telecomando? Rewind sulla mia faccia bianco latte. Ho bisogno di cancellare questa cosa e sostituirla con un’altra.

«Molte ragazze. Sì. Davvero Molte.» 

Imbocco un altro corridoio, non mi va gi guardarlo in faccia. Mi supera, si ferma, mi accanto. Quella faccia. Non mi piace, è… strafottente.

«Ho fatto qualcosa di male? »

«Di male? Niente.»

Mi calmo. Sì, certo che mi calmo. Lo guardo. Ha gli occhi luminosi e il sorriso bianco, da vicino sento il profumo della cocacola e di fresco, non so da dove provenga. Lui starà bene, non gli farò mai del male.

Continuiamo a camminare.

Sorride al punto da farmi venire il nervoso. Mi trovo davanti al reparto dei materassi. Ci sono poltrone e letti e panche e…

Martin si stende su un letto a due piazze.

«Ah… sì. Questo è comodo.» Si mette le mani dietro la nuca, incrociate. Mi avvicino a lui, la maglietta verde militare gli si è alzata, a mostrare la pelle scoperta. Guardo altrove, delle signore ci fissano.

«Martin, dovresti alzarti.»

«Perché?»

«La gente ci fissa.»

«Nah. » Si mette di lato, una mano a sostenersi la testa. Potrebbe essere uno di quei ragazzi che si vedono nei cartelloni pubblicitari. «Scommetto che la mia presenza aumenta le vendite. »

Mi stringo nelle braccia. «Io penso che ci cacceranno.»

«Venderei di più se fossi nudo, è vero.»

Mi mordo le labbra e guardo oltre il letto su cui è steso, c’è una poltrona bianca con un ricamo a fiori, sì, a fiori… non capisco perché… Martin nudo… dio, perché spara simili scemenze? Mhm… quella poltrona piacerebbe a mia nonna.

«Ehm… tutto ok?» mi chiede Martin, e la sua voce suona incerta, quasi tremola.

«Sì.» Vorrei sedermi vicino a lui. Poi mi ricordo che questo è un letto e ci ripenso. Non so bene perché, anche se Martin non sembra reale, steso in questo modo, a guardarmi con quell’espressione.

«Dai, vieni, ti lascio il posto. Io vado alla cassa a pagare i biscotti e poi torno.» Si mette in piedi, veloce.

«Tu… vuoi ancora mangiare? »

«Sono…»

«Un maschio adolescente, lo so. Ma non una discarica.»

Si avvicina a me con fare inquisitorio. «Questi biscotti Oreo sono originali.» mi soffia contro.

Trattento una risata. «Ok.»

«Ok. »

Mi siedo sul letto, mentre lui fa qualche passo in direzione della scala mobile. Si gira leggermente.

«E non scappare, eh! »

«Sono qui.»

Sono dove sei tu.

***

«Sei tornato tardi.»

«C’era la fila. »

Martin si stende vicino a me, in uno dei letti che ho provato mentre lui era via. A separarci, una tenda trasparente che dovrebbe nascondere meglio quello di cui sono sicura: il mio rossore sulle guance, ora che lui è così vicino a me.

Alza la tenda trasparente.

«Biscotti?»

«Grazie.» Ne prendo uno e comincio a mordicchiarlo. Il cioccolato mi si scioglie sulla lingua, pastoso. È vero, questi biscotti sono diversi dagli altri.

 «Una volta, Doreen prese un’altra marca di biscotti ed io mi rifiutai di fare colazione. Ci tenevo troppo.»

Viziato. 

Cerco di prendere un altro biscotto, non ci riesco, sento le dita di Martin sfiorarmi il polso.

«Chi è Doreen? » Alzo il capo dal cuscino e incontro i suoi occhi. Colore di foglie, verde luminoso e pagliuzze grigie dai contorni irregolari. Onde nelle sue iridi.

«La donna della mia vita.» La sua voce è seria. Poi scuote la testa e si mette a ridere, mentre io non so come ma smetto di inalare aria nei polmoni. «Va be’, meglio non parlarne.»

Deglutisco a fatica. «Perché? »

«No… così. »

«Così come? »
«Niente. »

«Ha qualcosa a che fare con la tua ragazza?»

Si mette siede all’improvviso, le sue spalle si alzano e si abbassano al ritmo del suo respiro. «Chi ti ha detto che ho la ragazza?»

Mi metto seduta anch’io, lui mi fissa attraverso il velo della terra. Avvicino le dita alla stoffa e lo guardo meglio. «Non mi sembri un ragazzo che se ne sta da solo. »

«In che senso? »
«In ogni senso.»

Riesco solo a sospirare.

Non sembri uno che se ne sta da solo eppure sei qui con me.  Martin digita qualcosa sul suo cellulare, d’istinto prendo il mio e vorrei non averci pensato, visto che al confronto quello che ho in mano sembra una pietra dell’età preistorica.

«…No, non ho credito. E ho finito i soldi. Grande.» sbuffa.

Guardo il mio cellulare. Blu, enorme, che si piega in due. «Forse il mio… » Alza gli occhi verso di me e me lo prende dalle mani. Sta trattenendo una risata, si vede.

«Ma dove l’hai preso? »

«Mi è stato regalato.»

«Quante vite fa?» Mi mordo le labbra. Mi dà fastidio, perché non la smette? «È un pezzo da restaurare, sai?» Voglio fargli male. No, non troppo male, ma abbastanza. Basterà qualche pugno?

«Dai, ridammelo.» gli dico.

Spinge i tasti. «Ma è morto? »

«No. » riesco a prenderlo. «È scarico.»

«Doreen penserà che sono stato rapito da una compagnia sfruttatrice di modelli e che non tornerò mai più a casa.»

Giro la testa e rimetto il cellulare nello zaino. Non può guardarmi.

«E invece?» gli chiedo.

«E invece sto con te.»

Sento che lui riesce a vedermi lo stesso, anche se sono voltata.

Sorrido.

 

***

Nell’atrio del portone non ci sono i riscaldamenti, eppure ho quel genere di caldo che si sente solo in caso di febbre.  Pigio sul tasto per chiamare l’ascensore e aspetto. Aspetto.

Arrivo al mio piano e suono il campanello. Quando sento la luce colpirmi il viso alzo lo sguardo e vedo che la porta si è aperta, il mio stomaco è tutto un formicolio.

«… Sarah, mi hai fatto preoccupare. » Mia nonna mi guarda. I capelli grigi raccolti e il viso rugoso come le foglie che cadono in autunno. Non ascolto niente a parte l’euforia che mi scorre dentro, il cuore che mi affoga le parole, la pancia che mi si contorce. La abbraccio.

«Ciao, nonna.»

Entro in casa e chiudo la porta per lei. Devo fare almeno tre tentativi: dobbiamo aggiustarla ma la pensione del nonno questo mese non è bastata per chiamare un falegname. Ma poi riusciremo a fare anche questo, alla fine.

«Stai bene, tesoro?» mi chiede.

«Sì.» E mi accorgo per la prima volta di dire la verità. Deglutisco. «Sì. »

I suoi occhi marroni dicono che mi crede. Lascio cadere lo zaino, vado in soggiorno, «Ciao, nonno.» gli schiocco un bacio sulla guancia come faccio solo ai compleanni e accendo la televisione. È vecchia e ci mette almeno cinque minuti per caricarsi e fare vedere l’immagine.

Mi chiudo nella stanzetta, prendo il taccuino dal cassetto e comincio a scrivere.

Ogni giorno mi costringo a imparare qualcosa di quello che mi sta intorno, anche se tutto quello che posso capire vive solo nella mia immaginazione.

Fuori sta piovendo.

Sospiro, mentre i tratti della penna si fanno pesanti.

Un pensiero si fa strada nella mia mente, mentre prende forma su carta.

Vivere.

*

*

*

*

Eccomi qua <3 La scuola non mi dà tregua, ma spero comunque di continuare ad aggiornare una volta ogni due settimane perché questa storia deve proseguire ** Allora, vi piace? Vi dico che la svolta si avvicina e che questo cpaitolo serviva per tastare il terreno, diciamo. Di Sarah si sa qualcosa in più o aumentano i misteri? Come ragiona Martin? Succederà qualcosa fra i due? Spero davvero che continuerete a leggere per scoprirlo e spero che mi lascerete un parere <3 <3 <3

Grazie mille a tutti voi <3 <3 <3 E a chi mi sostiene e mi sprona a fare sempre meglio. Grazie <3

Un bacione

Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6. L'aspetto del fiore innocente, ma il serpente sotto di esso. ***


until 6

6.

L'aspetto del fiore innocente, ma il serpente sotto di esso.

«EHI!»

Colpo alla nuca.

Mi volto e vedo Cameron: giacchetta scura, il cappello con la visiera stretto in mano e il sorriso che gli fa vedere tutti i denti che ha. 

«Ah, sei tu,» gli dico.

Cameron si sistema la giacca, i capelli scuri e quasi rasati. «Non sono io.» Si schiarisce la voce. «Sono… io.»

Mi viene fuori un mugolio, mentre ingoio un altro cucchiaino del budino alla vaniglia che oggi offre la mensa.  Si siede accanto a me.

«Che è successo, ieri?» mi chiede.

Mi irrigidisco, deglutisco, rido e non so perché. «Che doveva succedere? »

«Ah… non saprei, a parte il fatto che sei… sparito nel nulla.»

Schiocco le dita. «Mi ha risucchiato un buco nero!»

«Senti, che oggi, per la seconda volta, ti interessava la spiegazione di Chimica è stato un miracolo, è vero. Però…»

«Niente… è che…» Mi guardo intorno, ragazze e ragazzi che ridono: lei non c'è. Se Cameron sapesse... si metterebbe a ridere e basta. «Non mi sentivo bene.»

«Diarrea?»

«Allergia.»

«A cosa?»

«Ai cani.»

«Mhm.»

«E quindi anche a te, bassotto.»  Un pugno contro la spalla. Incontro l’espressione ferita di Cameron, e l’unica cosa che riesco a fare è ridergli in faccia.

«Non sono basso…»

«Seh, seh…»

«Sei tu che sei troppo alto.» Sì, ha ragione. Ma è troppo bello sfotterlo.

«Le mie misure sono perfette in ogni campo. »

«Non provocarmi, ok? Lo so che mi ami e non vedi l'ora.»

Mi passo una mano fra i capelli e finisco il budino. Cameron apre il libro di francese, cerca di fare la erre moscia per l’interrogazione, gli viene fin troppo bene. Sono verbi di cui ho un vago ricordo… ma quel corso non lo seguo più da anni. Forse potrei anche ricominciare, tanto non è male. Voglio dire, può sempre essere utile e…

«Venerdì i miei non ci sono a casa!» dice Cameron, poi chiude il libro e se lo mette in cartella, la camicia a quadri bianca e nera che gli penzola dai jeans. «Sicuro di voler venire? Sempre che l’allergia ti porti a stare sofferentemente lontano da me... anche se so che mi ami e mi staresti vicino comunque. Potremmo invitare delle tipe.»

«Ehi, smettila. Lo sai che cosa mi piace... Delle tipe?»

«Oh, non lo so, ci inventeremo qualcosa.»

Facciamo scontrare le nostre mani chiuse a pugno, come quando avevamo dieci anni e per sbaglio gli feci un occhio nero. Doreen medicò la sua ferita, fece la torta alla nutella e gliela fece portare a casa, come se fosse stata lei a fargli del male.

«Andata.»

***

«Prendi l'aspetto del fiore innocente, ma sii il serpente sotto di esso.» La professoressa Simons alza gli occhi da una copia malridotta del MacBeth di William Shakespeare, si sistema gli occhiali e si stringe il libro al petto, come se fosse qualcosa che ama davvero. Ha lo sguardo tremolante, come tutte le volte in cui ci guarda in silenzio. Sarà al massimo dieci anni più grande di me, e sprigiona amore per ogni parola che spiega. «Qualcuno vuole dirmi che cosa trasmette questa frase?» chiede.

Tutti restano in silenzio. È l’ultima ora della giornata, Paul lancia aereoplanini di carta, la metà della classe sonnecchia, l’altra metà annuisce. Sono simpatici, per le poche parole che sono riuscita a scambiare con loro in questi giorni.

Lo sguardo della professoressa si posa su di me.

«Dimmi, Pierce… aspetta, non ricordo il tuo nome, solo un attimo.» Posa il libro sulla cattedra e prende il registro, fa per dire qualcosa, quando le mie labbra si muovono a formare, nell'euforia di questo momento: «Sarah».

La professoressa posa il registro. Sento un rumore di matite sbattute contro il legno dei banchi, delle sedie che stridono, qualcuno che tossisce.

«Bene, Sarah. Che cosa ne pensi di questa frase?»

So che tutti mi osservano.

Ma io devo farcela.

Io posso.

Io posso provarci.

Prendo un respiro profondo e lascio che le parole scorrano. Andrà tutto bene. «Chi ha un aspetto innocente a volte... nasconde una cattiveria velenosa come quella di un serpente. E chi vuole fare qualcosa di malvagio, per riuscire nei suoi intenti… si maschera, si mostra diverso, si mostra buono,» dico. Non è più tanto difficile parlare, anche perché mi sembra di parlare di me. Mi sono guardata allo specchio per anni con la consapevolezza di essere un mostro, di non meritare i baci e le rassicurazioni di nonna, di desiderare solo di farla finita presto anche se ne ho sempre avuto paura. Da qualche giorno mi guardo allo specchio e mi sento… innocua. Come posso fare del male con queste mani sempre sporche di inchiostro? Con quello sguardo da chi non ha mai visto niente nel mondo? Non voglio più credere al mio passato, anche se è già tutto scritto.

«E questa è una cosa negativa, secondo te?» mi chiede la professoressa. «Usare una maschera per nascondere quello che si è veramente?»

Mi mordo la guancia dall’interno. «Solo chi ha qualcosa da nascondere usa questi mezzi. Chi è buono non nasconde quello che è, quindi è qualcosa che è a che fare solo con la malvagità.»

La professoressa annuisce. «Giusta osservazione.»

E tu cosa nascondi?

Suona la campanella. Mi precipito fuori a prendere l’autobus, vado veloce, vado a sbattere contro un ragazzo e biascico un scusa. Poi rallento.

Vado piano.

Come può essere cambiato tutto in questi pochi giorni? Io sono sempre quel mostro di cui hanno parlato tutti.

Sono diversa, adesso?

Non lo so, non lo saprò mai.

«Sarah?» Mi irrigidisco, perché la voce che pronuncia il mio nome mi striscia sulla schiena come con una carezza. Mi volto e lo vedo, è sempre lui. Mi viene fuori un sospiro, non so se per il sollievo o altro perché è Martin, il ragazzo del bus, dei biscotti, dei sorrisi magici.

«Ehi. » riesco a dire.

Mi sorride, si passa una mano fra i capelli biondo scuro e si sistema lo zaino sulle spalle. Gli si forma una fossetta sulla guancia e sembra… davvero più grande della sua età.

«Prendi il bus come sempre, no? » mi chiede, e cominciamo a camminare verso l’uscita.

Annuisco. «Sì, come sempre.»

«Comunque… tu mi avresti promesso una cosa.»

Scendiamo le scale del porticato. Io mi mordo le labbra mentre cerco di pensare a che cosa intenda Martin, lo guardo.

«Cosa?»

Sbatto gli occhi, perdo il respiro, non sento più la terra sotto i piedi ma solo la sua mano sul mio braccio. Vado a sbattere contro di lui, il giubbino verde chiaro, una sfumatura più chiara dei suoi occhi. C’è profumo di alberi e inchiostro e vaniglia.

Scuto la testa, cerco di tornare in me. «Sono… scivolata.»

«Menomale che c’ero io. »

Sorrido, sei troppo vicino, sorride, perché sei così vicino? Sento il cuore graffiarmi il petto mentre batte, mentre va avanti e dietro fra le mie costole. Mi allontano e ho paura di avere le guance troppo rosse, non so nemmeno perché.

«Comunque… mi avevi detto di studiare insieme un giorno, ti ricordi?»

Nascondo il viso nella sciarpa di lana bianca. «Oh… sì, mi ricordo. » Sento un calore nuovo invadermi la pancia.

«Non che io ti stia pregando, eh.»

«No, no,» dico io. Sento la mia voce farsi più sottile. «Certo che… »

«Insomma… studiare? Io farei altro.»

Si ferma, io rallento, mi sistemo il cappello di lana. Io farei altro. Il calore che mi sta nella pancia cresce.

Si passa una mano dietro la nuca. «Sì… insomma, voglio dire… sarebbe meglio uscire, prima. Prima di studiare. Uscire. »

Saliamo sul bus, io mi siedo al solito posto e Martin prende quello accanto a me. Fa cadere lo zaino, si volta e le nostre ginocchia si sfiorano.

«U-Uscire?» gli chiedo.

«Sì… sai, cazzate varie, passeggiare, andare a mangiare, come l’altra volta solo… “pianificato”.»

«Quando?»

Sembra che mi succeda sempre più spesso, ultimamente. Parlare e accorgermene soltanto dopo. Sento il cuore che mi batte forte, deglutisco, mi calmo e so che sto sorridendo perché lo sta facendo anche lui.

«Quando vuoi tu,» dice.

«Sì?»

Non credo di aver mai davvero deciso per me stessa qualcosa che andasse oltre il colore di uno zaino o di una felpa. Quando? Oh, anche adesso. No, questa cosa non dovrei dirla ad alta voce, che fretta ho? Quando… quando… quando… non deve essere un fastidio per lui, quindi…

 «Sì.»

«Nel week-end?» gli chiedo.

«Cioè? »

Mi mordo l’interno della guancia. «Ve… Venerdì?»

Martin si passa una mano fra i capelli e volta la testa, la fossetta sulla guancia come segnale che sta sorridendo, il suo profilo contro il grigio del bus. Poi si gira di nuovo e mi guarda, la luce che filtra dai finestrini gli sfiora il volto, le basette bionde, le ciglia lunghe.

«Venerdì.»

 ***

Passo il pettine fra i miei capelli, fino alle punte, mentre mi guardo allo specchio del bagno, la luce accesa che sembra azzurra come le pietrelle che colpisce. Più chiara dei miei occhi. Sospiro. Mi tocco gli zigomi, qualche lentiggine come chicchi di riso sulla pelle. Ho le labbra screpolate, metto il burro cacao. Mi liscio la maglietta, rossa e nera, con lo scollo rotondo.

Vorrei essere bella. Vorrei che Martin mi guardi e pensi che sono bella. Vorrei esserlo per me e per lui e… per il semplice desiderio di esserlo. Allora oso, anche se non dovrei. Metto il lucidalabbra che ho comprato ieri, il profumo al melograno e ciliegie.

Il cellulare vibra, lo prendo e il suo nome lampeggia.

Sono giù.

Esco dal bagno, metto il giubbino e vado in cucina, la nonna si è addormentata sul divano. Comincio a scendere le scale.

Esco dal portone, lui è lì, appoggiato al muro, i capelli che gli cadono ondulati sulle orecchie, il capo abbassato sul cellulare. Cammino. Calma. Martin. È lui.

Non gli farai del male.

Alza il viso e incontro il suo sorriso. 

Parlo io. «Ciao.» Mi alzo nelle spalle.

Mi guarda, si avvicina, sul suo viso c’è l’inizio di un sorriso, le labbra incurvate all’insù, le labbra rosse e carnose. Mi sento rabbrividire.

«Ciao.» mi dice.

Si allontana, adesso, ed io sospiro, non so bene perché, e adesso Martin sorride proprio. Calma. Calma. Perché sono così nervosa? Mi passo una mano fra i capelli. Non gli farò del male.

«Allora, pronta a sopportarmi per una serata intera?» Martin cammina con le mani in tasca, i jeans chiari, un giubbino che non gli ho mai visto addosso, una catennela maschile a scintillare nell’incavo del suo collo.

Tentenno a rispondere. Dovrei dirgli grazie, anche se non mi ha “portato” ancora da nessuna parte? Avremmo anche potuto restare vicino al portone del mio palazzo, credo che… mi sarebbe andato bene lo stesso.

Martin aspetta, un’espressione di incertezza sul suo viso. Resto zitta… l’incertazza sembra trasformarsi in paura. Addirittura! No, non è per il mio silenzio, forse odia chi non gli dà subito soddisfazione. Se è così, si stancherà presto di me.

Io non credo di stancarmi, però.

«Sopravviverò.» dico infine.

E allora Martin torna a sorridere e per la prima volta sento di potercela fare. Non farò del male a nessuno.

Quello che mi trovo davanti è un enorme campo sportivo, ci sono sempre passata davanti con il sogno che dentro, in realtà, fosse un circo. Poi però, il nonno mi ha spiegato che in realtà è sempre e solo una sede di partite di Hockey. Continuo a camminare.

«Ehi, dove vai?»

Mi volto verso Martin. «Io… cammino?»  gli dico.

«Verso la direzione sbagliata.»

«Perché?»

Martin indica l’entrata del palazzetto con la mano ed io mi mordo le labbra. No, no, no, no, non può chiedermi questo. Troppe persone, troppo chiasso, troppi corpi che si scontrano, troppo vicini… E poi le bibite scivolano a terra e urlano e i miei timpani vibrano e si scuotono e sibilano…

«Ehi, tutto bene?»

Sono ancora qui.

Faccio un respiro profondo, Martin è davanti a me e le sue mani sono sulle mie spalle. Mi abituo al suo tocco, mi stringo nelle braccia, annuisco.

«Sì… solo che, cioè, la partita.»

«Partita? »

«Sì, insomma…»

«Ehi, ma tu davvero credi che ti porterei a vedere una partita la prima volta che usciamo insieme sul serio?»

Uscire insieme e uscire insieme sul serio. C’è differenza? 

Sposta le sue mani dalle mie spalle alle braccia, le stringe. «Senti, Sarah… fidati, ok?» Mi guarda, così. Con la mascella serrata e gli occhi verdi impazienti.

Distolgo lo sguardo ma lui resta sempre nella mia testa.

Fidati.

«Mi fido.»

Sorride e, inconsapevolmente, mi viene da pensare che lo fa solo per me.

 ***

«Ci sei?»

«Credo di sì.»

«Non è difficile, devi solo...»

«Faccio da sola.»

«Sicura?»

«Sicura.»

Martin si allontana, con una naturalezza che non so davvero da dove gli venga fuori. Si fa strada sulla pista veloce, attento a non andare a sbattere contro nessuno, con la schiena tesa e il profilo scolpito, i capelli biondi a sfiorargli le guance. La maglietta bianca prende tutta la luce artificiale del palazzetto. Sembra il principe di un mondo di ghiaccio.

Torna indietro, il rumore di una scia. «Sei sicura di esserci?» mi chiede.

Annuisco, appoggiata alla ringhiera con entrambe le mani. «Sìsì, certo.»

«Io non credo di esserne sicuro

Prendo un respiro profondo.

Si avvicina.

Perché sono qui? 

«Tranquilla. Non ti lascio, non sbatterai la testa contro il ghiaccio e non sarai spettacolo macrabro per tutti i presenti,» dice, a voce bassa. Mi prende la mani ed io muovo le spalle leggermente, un brivido sulla schiena, Martin che mi guarda. Che mi tocca. 

«Questo era un modo per rassicurarmi?» La mia voce tremula.

Le sue mani sono calde, leggermente più ruvide sui polpastrelli, muove il pollice su entrambi i miei palmi ed io credo di non sapere più dove mi trovo.

«Una specie. Perché?»

Deglutisco. «Perché non ha funzionato.»

Si mette a ridere, mi stringe ancora di più le mani, le sue dita fra le mie dita, io che mi aggrappo alla ringhiera fin troppo attenta a cogliere il modo in cui la sua risata si sprigiona nel chiasso e nelle risa degli altri, lui che manda indietro la testa, la bocca che si apre e si stira, la fossetta sulla guancia destra e mi tremano le gambe.

Rido anch’io.

«Oddio, oddio, attento.» Martin mi tira verso di sé ed io gli vado a sbattere contro, le mie ginocchia che vibrano sul ghiaccio, le gambe che mi sembrano sul punto di sciogliersi da un momento all’altro. Serro gli occhi.

«Ti tengo io.» Non voglio, non voglio, non voglio aprire gli occhi. 

«Mhm-Mhm.»

«Molte ragazze pagherebbero per starmi così vicino, sai? »

Apro gli occhi e li punto su di lui. In mezzo alla pista, è come se un leggero venticello gli scostasse via i capelli dal viso, quando invece siamo noi, noi siamo il vento. Mi stringo alle sue braccia, mentre lui sorride in un modo tagliente, che mi fa male e mi fa mordere la guancia dall’interno. Aspetta una risposta, lo sta facendo apposta. Come se fosse la prima volta.

Non gli farò del male.

Stringo le nocche sulla sua maglietta.

«Io non faccio parte di quelle “molte”.»

Martin mi spinge ancora verso di lui, vado a sbattere contro il suo petto e poi lo sento fermarsi, deve aver incontrato la parte opposta della ringhiera. Mi tiene ferma con uno sguardo che non ha dolcezza né tenerezza. C’è curiosità, una specie di smania, voglia insana di entrare dove non sono mai andata nemmeno io.

«Come se non lo sapessi.»

Sorrido, lo so, lo sento. Martin no, mi passa una mano intorno alle spalle, la ferma sulla schiena, poi risale e mi sfiora la nuca. Lo guardo, socchiude le labbra, avvicina il viso al mio.

Uno scossone.

Ghiaccio contro le ossa, capelli nella bocca, il respiro di Martin addosso come se fosse ancora qui.

«Ma che cazzo fai, idiota!» Sento la voce di Martin farsi più alta, mentre mi scosto i capelli dal viso e stendo la gamba. Sono caduta. «Non puoi GUARDARE dove cammini?» grida.

Martin sta parlando con un ragazzo alto quanto lui, bruno e con un sorriso storto che sembra far parte di tutto il suo aspetto. Dei ragazzi gli ridono dietro.

«Veramente qua si pattina.» risponde quello. I suoi amici ridono. Martin sembra proprio arrabbiato. E a me viene da ridere e per la prima volta, dopo tutto questo tempo, mi trovo a trattenere la risata, a non sentire nessun dolore.

«Che scassacoglioni.» Martin si passa una mano fra i capelli e si avvicina a me. Mi sto raffreddando il sedere e l’unica cosa che riesco a fare è contare i respiri, bere tutte le risate che sento, sorridere mentre Martin si china su di me.

«Scusa,» biascica.

Scuoto la testa, mentre mi aiuta a rimettermi su.

«Non ti preoccupare, sto bene.» E mi sorprendo io stessa del modo in cui lo dico.

Sembra vero.

«Pattiniamo ancora?»

Il viso di Martin, la mascella squadrata, i lineamenti duri come se sfumati, è attraversato da un broncio, come se qualcosa non gli andasse bene. «Martin…» lo richiamo.

«Odio gli idioti.»

«Tu come sei? »

Volta la testa verso di me e sembra sconvolto. Poi la sua espressione si alleggerisce e si trasforma in un sorriso che mi impiastriccia tutti i pensieri.

«Da quando hai la lingua così lunga?»

Abbasso la testa, mi sento le guance più calde, sospiro. «Da quando ti conosco.»

«Ah-ah? »

Mi mette la mano sotto il mento e mi alza il viso. Evito i suoi occhi così verdi e circondati da una linea di grigio che si disperde in ombre. Ma lui non molla, trova il modo perché io lo guardi.

Rido. «Ah-ah.»

Rido ancora quando imparo anche a fare qualche metro da sola su questa pista di ghiaccio, e mi accorgo che le ragazze ci guardano, lo guardano e non mi importa niente. Perché sono con lui e non c’è rabbia, tristezza, dolore.

Non faccio del male a nessuno.

Il mostro non esiste più.

***

«Dove hai imparato a farlo?»

Martin mi guarda di traverso, le mani in tasca al giubbotto e il viso colorato sulle guance per il sudore. «A fare cosa? »

Mi passo una mano fra i capelli e mi stringo di nuovo nelle spalle. Martin cammina, disinvolto e al mio passo, con le mani nelle tasche dei jeans, il suo respiro che si condensa nell’aria fredda e bacia le sue labbra. A fare cosa? Non voglio, non voglio, non voglio arrossire. Si alza il colletto del giubbotto per il freddo, il tessuto gli sfiora il collo, il mento. Mi guarda e vedo i suoi occhi sorridere insieme a tutto il viso.

«Ho fatto calcio, football, rugby, nuoto, basket. Li ho mollati per varie cose. E anche Hockey.» Storce le labbra e gli si stila la guancia in una smorfia divertita. Oh. «Lo so, sono notevole.»

Trattengo l’esclamazione di sorpresa che si è liberata nella mia mente. «Perché hai mollato?» gli chiedo.

«Hockey? Ho colpito un ragazzo con il dischetto in pieno viso.»

«Ah…»

«Sì, lo so… ma lui era un cazzone.»

«Gli hai chiesto scusa?»

«Gli pagato il piglietto per affanculo. Sarah, sei troppo buona tu.»

Scuoto la testa. Dolore, persone, umiliazione. Le sento così vicine a me che potrebbero essere parte dell’anatomia del mio corpo. Martin ci ride, Martin non dice mi dispiace, Martin fa andare tutto verso la direzione giusta per lui.

Distolgo i pensieri. Non ho mai conosciuto qualcuno oltre la mia famiglia, conosciuto qualcuno oltre vuoi una caramella? Sì, ma non al limone, alla fragola è meglio. Sorride, Martin. Cammina, si accorge che una ragazza lo guarda e distoglie lo sguardo, prende quello che gli va e mi fa sentire parte di questo suo mondo così strano. Non so come ho fatto a sopportare che pagasse per me quella volta al Mcdonald. Forse per il sorriso?

«Ti sei dimenticato di una cosa,» gli dico, e lui alza le mani, come in segno di resa. Il giubbotto gli si alza leggermente a far vedere la pelle lasciata scoperta dalla maglietta.

«Cosa?»

Apro la cerniera della mia borsa e prendo il portafoglio. Quando alzo il viso, lui ha di nuovo entrambe le mani nelle tasche dei jeans, gli occhi fatti a due fessure da cui passa una luce del colore verde striato dei suoi occhi. Mi sento tremare la mani, mi avvicino a lui. So che ha capito, so anche che vuole mettermi in difficoltà e non mi piace e mi rendi felice, felice, felice, non so perché. Devo farlo per forza? Sembra l’unico modo. Faccio un respiro che mi sembra far troppo rumore, avvicino la mano al suo polso e sento il peso della sua mano, ci poso dentro le banconote e alzo gli occhi. Mi guarda e mi sento io stessa tutta una fiamma, perché mi stringe la mano in quel modo in cui le dita si incastrano.

«E questi?» Me lo chiede con la voce bassa. «Chi ci guarda penserebbe che mi paghi per fare certi giochetti.»

Volto la testa e spero che non noti quanto le sue idiozie possano farmi fluire il sangue al viso. «Non è vero e lo sai.»

«Che ne sai di quello che so?»

Scuoto la testa mentre lui ancora si avvicina. Mi allontano all’improvviso e mi viene fuori una risata, la mia, riesco a riconoscerla.

«È per il McDonald!» Mi stringo meglio la sciarpa al collo.

«Ah! Si dice così al giorno d’oggi?»

È di nuovo vicino, troppo. Mi permetto di dargli una gomitata e mi sorprendo nello scoprire che la sua pancia è dura e non la scalfisce niente. Sospiro. «Scemo.»

Ma sento che mi abbraccia da dietro e il suo respiro fa lo stesso rumore della pioggia che picchietta sui vetri. I vetri sono io. E lui sta respirando su di me. Piove acqua su questa terra bianca, si forma il fango, affondano le foglie e forse qualcosa nascerà. Non è falso il riso che mi strappa dalla gola, come se lui, Martin, mi infilasse una mano dentro e prendesse con le dita le note della mia voce. Come se, quando sorrido, abbia detto qualche parola magica, una filastrocca, un incantesimo, un segreto.

«Sì, lo so, lo so che sono scemo.» Sento che mi sfiora il collo con il naso, rabbrividisco. Le sue mani sulla mia vita. «Va bene uguale.»

Devo scappare. Perché il cuore mi batte troppo forte ed ho paura di morire. La paura ritorna, sempre, anche se oggi ha un vestito diverso e sembra essere dalla mia parte. Martin mi fa battere troppo il cuore, ed io non posso restare sotto le sue mani, non ancora, non per sempre. Così cerco di lasciare indietro quello che sta accadendo, la sua mano che sale e si ferma sotto il mio mento, e poi, così, all’improvviso, mi volta e mi inchioda ai suoi occhi.

«Sarah.»

Tremo.

«Cosa?» chiedo. Respiro profondamente, mi allontano un po' e lui mi lascia fare. Non può starmi troppo vicino, non può. Dio, perché lo dimentico? Potrei fargli del male. Respiro ancora.

«Hai un ragazzo, tu?»

Sembra scendere dalle nuvole, con quel suo viso che sembra scolpito nel legno chiaro e i capelli che sembrano oro alla luce dei lampioni.

«No, perché? »

«Per sapere.» Chiude la bocca, il suo fiato mi raggiunge, profumo di menta impastata. «Anche se quello che voglio fare lo faccio comunque.»

Si avvicina, ancora. Non so riconoscere se questo è un abbraccio, di quelle braccia e mani che si incastrano in posa per una foto di compleanno. Non so riconoscere che cosa sono in questo ammucchio di battiti e non so nemmenodove sono finita.

«Fare cosa?» sussurro.

Il telefono squilla e l’abbraccio si spezza. Vedo solo Martin, adesso, mentre prende il telefono e guarda il display. Ho ancora i brividi, che cosa sono? Non lo so, non lo so, non lo so. Che cosa volevi fare, Martin? Torna da me. Mi guarda e io mi vergogno di quello che penso. A cosa penso? A niente. A me. A lui. Al niente che siamo anche se mi eri così vicino, così vicino come non mi è stato nessuno in tutta la mia vita. Vicino abbastanza per tenermi

per sempre

con te.

E baciarmi.

Scuote la testa, la vena sul collo gli pulsa mentre mette di nuovo il telefono in tasca, senza rispondere.

«È un guastafeste, ecco cos’è. » biascica.

Ed io non lo so. So solo che è sera, è buio e Martin è bello. Bellissimo. Dio, lo è davvero mentre si arrabbia e lo è quando sorride e di sicuro il mio cervello non funziona.

«È-È successo qualcosa?» gli chiedo, e riprendo a camminare.

«Ho un problema.»

Mi sento sudare le mani, camminiamo un po’ distanti, adesso. Come se non fosse successo niente… perché alla fine è quello che è successo. Un problema. I problemi sono gli unici amici di Sarah. «Devi vederti con qualcun altro?»

Ok, va tutto bene, va tutto come sempre, come prima. Non ci sarà mai niente di diverso ed io tornerò a casa. Passerò il venerdì sera sotto le coperte, a guardare l’effetto della luce sui cristalli colorati che erano appesi alla mia vecchia culla. Leggerò qualche poesia di Emily Dickinson, quelle con la speranza della primavera in questo inverno freddo.

«No, ma che dici… »

«Non c'è problema, posso andare a casa.»

Comincio a camminare più in là, cercando di guardare tutto tranne lui. Un bambino con un leccalecca, una ragazza con i tacchi alti, un uomo con i baffi e c’è un tabacchino.

Mi volto verso Martin e cerco un modo per dirgli che ci vedremo Lunedì a scuola. Forse non succederà, perché si è stancato di me. «Nono, aspetta. Vado un attimo al tabacchino a prendere le gomme… non scappare, ok? » E forse è meglio così. Non mi darà il tempo di rendermi conto di essermi, forse, presa una cotta per lui.

Non posso lasciare che succeda.

 

***

 

Esco dal tabacchino e mi avvicino a Sarah, i capelli castani che scendono lisci sul giubbotto bianco, una cinta più scura sotto il suo seno.

«È meglio che vada, adesso,» dice.

Come faccio a baciarti?

Ci vuole un qualcosa. Un qualcosa per allungare il tempo, qualcosa di cui parlare, qualcosa da vedere… destra, sinistra… centro. Che palle, che palle…

Guardo da un’altra parte giusto così per immaginarla, per pensare Dio, che cazzo succede. Ecco quanto sei pericolosa, mi stai facendo perdere quel cazzo di cervello piccolo che già ho. Come faccio a baciarti? Voglio farlo adesso. Voglio aprirti la cerniera del giubbino e toccarti, voglio far passare i palmi aperti sulla tua schiena, sotto la tua maglietta, voglio sentirti sulle labbra, sulla lingua, sulla pelle.

«Ti accompagno a casa.»

«No, vado da sola.»

«Sarah… è buio, è periferia, pensi che ti faccia andare a casa da sola?»

Si alza nelle spalle. «Sì?»

«No.» Mi metto a braccia conserte. «Tu vuoi che io ti accompagni.»

«Ho detto di no.»

«Sì ma no significa sì.»

«Mhm?»

«Non mi farò pregare, andiamo.»

Aggrotta le sopraciglia, si sistema la frangia castana chiara che le sfiorava gli occhi azzurri e grandi e limpidi e sorride piano. «Sei incredibile, sul serio.» Scuote la testa, come se avesse pensato a qualcosa e ora avesse cambiato pensiero.

«Ecco, l’hai ammesso.» La guardo e lei arrossisce.

Sì, la bacio sotto il portone, - adesso adesso adesso - come nei film. Sì, dai, Martin ci sei.

«Non l’ho ammesso. » dice.

«Eh lo so, dire: “Voglio assolutamente che Martin mi accompagni a casa perché è incredibile sul serio” rivelerebbe secondi fini.» Secondi fini? Mah, qual erano i primi? Non lo so ma lei ride e va bene. Va benissimo così.

«Sei un montato, sai?»

«Forse.»

«Lo sei.»

«Se lo dici tu.»

Si passa una ciocca dietro l’orecchio, la borsa le sfiora le gambe fasciate dai jeans ad ogni passo… le gambe lunghe. Chissà come se ne sta a casa. Forse dorme in mutandine. Forse…

«Martin… grazie.»

Dorme in reggiseno… «Mhm?» dico, e mi accorgo del fottuto errore che ho fatto mettendomi la gomma in bocca proprio in questo momento.

«Grazie… per la pattinata. E…»

«È una cavolata. »

«Non è una cavolata, Martin. È che…»

«Che…»

«Niente… non importa.»

«No, ora me lo dici.»

«Non voglio dirtelo.»

«No, tu desideri ardentemente dirmelo ma…»

«Sono stata bene, ok?» Mi si ferma di fronte ed io le poso le mani sulle braccia quasi per istinto, a stringerla. Sorride, sorrido.

Mi mordo la guancia. «Sono una garanzia, sempre.»

Sento un rumore. In realtà, sembra un cane che abbaia forte. Camminiamo per qualche metro e, dal cancello di questa villa di periferia, un rotwailler ci ringhia contro. Alzo gli occhi, Canile Dowson, quarantunesima strada. Metto le mani sul cancello, a sentirne il freddo e Sarah mi è accanto, ci sfioriamo. Quando tocco il cancello, il cane salta e fa tirare la catena, abbaiando ancora di più. 

«Martin…» mi chiama Sarah. Il cancello cigola.

«Non preoccuparti, è legato.» Spingo un po' il cancello e mi rendo conto che non è chiuso.

Il canile sembra deserto, non ci sono controllori, le finestre sono buie.

«Sì, lo so, ma andiamo.» La sua voce sembra allarmata, la guardo. Vorrei prenderla per mano. Sento un rumore di metallo. Vorrei portarla al garage e vederla al buio, quel buio con la luce del cellulare che fa somigliare ai fantasmi, in quei posti dove devi sussurrare tutto e ogni cosa sembra una specie di segreto.

E poi sento un dolore al polpaccio. Istintivamente lo muovo, come se avessi sentito la puntura di un ape e la volessi scacciare. Ma poi il ringhio colpisce le mie orecchie, il dolore si fa più acuto. Il cane mi strattona la gamba e cado a terra, batto la testa. Vedo sfocato, fa male. Cazzo… cazzo… merda…

Sarah urla.

Mi morde il braccio, la mano, non riesco a muovermi, non riesco a fare niente…

E poi il cane si ferma.

Mi porto una mano alla testa, non riesco ad alzarmi, fa male… no, ce la faccio, mi tengo al cancello, ok. Sarah… 

«Oddio, ma che cazzo…» Sbatto le palpebre e riconosco il grigio della città alla luce dei lampioni della periferia. E Sarah? Sarah… volto la testa, giubbotto, capelli, occhi, è lei. Adesso la vedo.

Ha gli occhi lucidi, azzurri, che tremano. La bocca semichiusa.

Un espressione di terrore le attraversa il viso.

«Sarah… ehi, sto bene…»

Riesco a vedere meglio. La gamba, il braccio fanno male… volto la testa.

Il cane.

È a terra, con la bocca aperta, trema. Il suo corpo è attraversato da spasmi. Mi viene da vomitare. 

«Sarah,» dico, e la vedo piangere. Piange come se stesse provando dolore e Sarah, che succede, dimmi che succede, e il corpo del cane è ancora attraversato da spasmi.

«Smettila, » dice, e non so a chi, non so a cosa. Piange. Lei con i capelli che si appiccicano al viso per le lacrime, lei con quelle mani piccole e bianche fra i suoi capelli, quelle stesse mani con cui modella la creta e tiene i libri stretti al petto. «No! No! No! Basta, ti prego, smettila! » muove la testa, la scuote, fa proprio “no no no” come i bambini, un capriccio, qualcosa che non può accettare. «No! Non di nuovo… » Voglio solo capire il perché di tutto questo. Voglio solo che non pianga più.

E poi il cane smette di tremare e sbatte a terra con un guaito.

Cammino, fa male. Sarah è immobile, le lacrime le bagnano ancora le guance. Fa male anche questo.

Avvicino una mano al suo braccio e lei si scosta. «Sarah… stai bene?»

«Vattene. » Parla veloce.

Mi sento la nausea. Il dolore punge. Lei mi trapassa con i suoi occhi di acqua gelida.

«Ehi…»

«Vai via… chiama un taxi, vai a casa… io...»

«Sarah…»

«VAI VIA!»

La prendo per il braccio lo stesso, il tessuto del giubbotto sotto le mie unghie. È come se soffocassi, perché lei mi guarda così e non posso andarmene, non posso lasciarla andare. Si muove, a scatti, per sfuggire alla mia presa. Ma quando poso la mano sulla sua spalla, respira solo profondamente.

Lo dice di nuovo, fra i sospiri. «Vai via. Per favore... per favore...»

Ma io la abbraccio. Lei è inerme ed esile, qui, mi bagna la maglietta per il giubbino leggermente aperto, ed io le accarezzo i capelli, la tocco in qualche spece di carezza che mi fa tremare. Profuma di fiori e giorni di solitudine.

Che cosa ti hanno fatto, Sarah?

Soggetto pericoloso.

Il pericolo non sei tu, non sei tu, non sei tu. Non ci credo.

«Ehi, » le accarezzo il viso. «Avevi ragione, dovevamo andarce… dio, che idiota…»

«È colpa mia. Martin, vattene, lasciami.»

«Eh? Ma che dici…»

«Martin…» Il suo sguardo è fermo fra le lacrime. Deglutisce. Deglutisco. «Sono stata io.»
*
*
*
*
Ciao a tutti <3 <3 <3 Finalmente sono riuscita ad aggiornare, spero il capitolo vi sia piaciuto :)) Alla fine è successa una cosa molto importante, non so se la definirei la "svolta" della storia, ma di sicuro da questo momento in poi cambieranno un po' di cose, altre verranno approfondite e con il tempo vedremo più chiarezza nella vita di Sarah :))
Spero davvero che vi sia piaciuto, se volete lasciatemi il vostro parere, mi aiuta a migliorare <3
Un grazie speciale a chi segue, ricorda e preferisce la storia *.* grazie mille!
E grazie infinite a tutte le mie amiche che mi sostengono sempre <3 Noemi, J, Eryca, Maria, ed anche Vi, che so che mi legge sempre <3 e Carmen che mi sollecita sempre nella scrittura e mi dimostra tutto il suo entusiasmo **
Grazie molte :)
Un bacione
Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7. Le ali della speranza ***


until cap 7

until

7.

Le ali della speranza

La speranza è qualcosa con le ali,
che dimora nell'anima e canta la melodia senza parole,
e non si ferma mai.
Emily Dickinson

 

Sei un mostro.

Ho avuto paura, il mio cuore si è fermato. Brividi glaciali hanno percosso le mie ossa, il freddo mi si è cristallizzato nel sangue, il respiro mi ha soffocato. 

Sei un mostro.

La catena si è staccata dal muro, il cane ha attaccato Martin. 

Ho urlato.

Sei un mostro.

Il cane si è accasciato a terra. Come Julia, come Hans, come qualunque altra cosa che io abbia visto cadere da quel giorno di primavera all'asilo. Il cane ha cominciato a tremare. Il cane ha guaito. Sento il dolore alla testa, la forza, il potere, la consapevolezza di controllare tutto e allo stesso tempo di non poter evitare nulla. Perché io voglio che succeda. No, no, no...

Sei un mostro.

Martin continua a seguirmi, anche se gliel'ho urlato mille volteche deve lasciarmi da sola, anche se gli fa male la gamba e si tiene un fazzoletto sul polpaccio, i jeans sporchi di sangue. Sospiro, sto piangendo.  È colpa mia, è colpa mia, è colpa mia. E lui appartiene al mondo in cui tutti i giorni sono sorrisi, e i problemi sono i compiti in classe, e le gioie sono le feste, e le sicurezze i genitori e gli amici. 

Perché è qui con me?

Inciampo, cado sulle ginocchia nell'angolo del marciapiede. 

Al buio. 

Sola. 

È questo il mio posto.

***

Una parte del mio cervello si ostina a non capire. Resta buia in questo strano dolore che è suo e che ora appartiene anche a me. 

Non so quanto tempo è passato. Non so da quanto tempo piange. Non so da quanto tempo ha smesso di urlarmi contro vai via. Non so da quanto tempo le mie gambe, – zoppico, fa male, aspettami – si sono fermate. Non so da quanto tempo sono qui, per lei.

Accovacciata sul lato più buio del marciapiede, come una ragazza di strada.

Si asciuga le lacrime con la manica del giubbino. 

«Che cosa vuoi, ancora?» La sua voce mi corrode come un acido. Viene interrotta da un singhiozzo. «Perché non vai via?»

Ma mi avvicino, un po’ lento, un po’ scaltro, un po’ come non sono mai stato. La aiuto a rimettersi su e i suoi occhi si fanno più grandi. Ha paura di me, di questo, di tutto.

«Mar…» singhiozza. «Martin… smettila di toccarmi… smettila di…»

«Abbracciarti?» Le prendo il viso fra le mani e la sento vibrare sotto le mie mani, gli occhi dello stesso colore dell’acqua, riflesso grigio, azzurro.

 «Per favore.» La sua voce è chiara, ancora trema. «Io... non posso, io... Io… cambierò scuola. Di nuovo.» La sua voce si spezza. «Ma ti prego, non raccontarlo a nessuno altrimenti… altrimenti questi anni verranno buttati e la mia famiglia… la mia famiglia…» Un'altra lacrima scende sul suo viso e lei subito la raccoglie con la mano. Forte, forte come non l’ho mai vista. Quante volte le è successo? L’ho guardata, sola, in quel bus, con le ginocchia al petto, la borsa di stoffa che penzolava dal sedile, i suoi capelli a sfiorarle il viso ad ogni soffio di vento. Ora si fa forza da sola, si raccoglie le lacrime come se fossero pezzi di vetro, appuntiti, che possono far male a chi le sta intorno.

«Sarah…»

«Sono stata io, Martin! L'ho ucciso, io lo so, so che l'ho ucciso... l'ho ucciso...»

«No, Sar...»

«L'ho ucciso... io l'ho ucciso...» 

«Non piangere, basta. Non piangere, Sarah, cazzo... ehi, io sto bene, se tu non avessi...»

«L'ho ucciso.»Mi viene fuori un gemito, singhiozza ancora, la stringo forte, le sue lacrime mi bagnano la pelle del collo. Uccide me vederti così. Lo so. So che quest’ombra scura che è caduta su di lei appartiene solo a questo istante, a questa paura, a quello che è appena successo. Io so che non dipende da te. Non so come, ma lo so. «Io... potrei... tu potresti...»

«Non mi importa.»

«Hai visto... che cosa ho fatto.»

Scuoto la testa e aspetto che mi guardi, aspetto che mi cerchi, aspetto che mi trovi.

Lo fa.

«Io non credo a tutto quello che vedo.»

Intreccio la mia mano alla sua e non si stacca, non mi caccia.

Ha bisogno di me.

 

***

Un corridoio lungo, dorato; mobili scuri, lucidi; tende verdi, di seta; una finestra alta quanto il soffitto, come in un castello di fiabe.

Faccio un respiro profondo e ancora mi aspetto di risvegliarmi. Non so se questo è un sogno o un incubo, troppo reale, troppo vivo, troppo sentito. Io che non sento mai. Io che riconosco gli echi da lontano e mai le voci.

Tutto luccica, qui, nella casa di Martin. Ci sono dentro ma tutto mi sembra lontano, impossibile, splendido per un set di film. Ho paura a toccare tutto questo per paura che scompaia.

Un po’ come lui.

Lui che mi afferra con gli occhi ogni volta che sto per volare via.

Mi sciacquo un’ultima volta il viso ed esco dal bagno. Seconda porta a sinistra. La mia stanza. Seguo le sue indicazioni, attraverso il lungo corridoio e mi fermo davanti alla stanza con la porta aperta. È chino su quella che deve essere la sua scrivania, in canottiera, le spalle ampie e la linea scolpita della braccia, mentre si passa dell’ovatta imbevuta di alcol sui buchi che il cane gli ha fatto nella pelle.

Martin butta l’ovatta nel cestino in plastica accanto a lui. Mentre si volta i capelli gli sfiorano il viso in una specie di carezza, la luce artificiale della lampada sul comodino a creare delle ombre altissime. Socchiude gli occhi e si appoggia alla scrivania, di schiena. È bello. È bello mentre prende un maglione di lana, di quelli un po’ larghi e sciupati, lo indossa e mi sembra ancora e sempre più bello. Mi guarda. Non vedo il mostro riflesso nelle sue iridi. Non vedo l’odio, non vedo il disgusto. Vedo qualcuno che ha bisogno di non essere abbandonato ancora una volta.

«Va meglio?»

«Fa ancora male?»

Sorride. 

Mi sento morire.

«Rispondi prima tu.» Sento le sue dita sotto il mio mento, i suoi occhi che non si staccano dal mio viso, dai miei occhi, sempre più vicino, dalle mie labbra.

Deglutisco. «Sì, va meglio. A te fa ancora male?»

«Brucia meno.»

E pensare che io l’avrei sempre voluto, un cane. Qualcuno che mi stesse vicino indipendentemente da tutto. E invece sembra che io possa colpire anche gli animali, oltre alle persone.

Annuisce ed io mi allontano da lui. Meglio stare lontana, così, distanza di sicurezza. Anche se l’unica cosa che vorrei è cadergli addosso per sbaglio – perché lo voglio – per stargli vicino e avere la sensazione, almeno per un secondo, di non essere diversa da tutte le altre persone del mondo. «Magari quando torna Doreen mi faccio dare un'occhiata, sempre che non muoia prima.» aggiunge.

Mi passo una ciocca di capelli dietro l'orecchio e faccio vagare lo sguardo per la stanza. Copriletto della formula 1, poster di giocatori di basket appesi al muro giallo chiaro, qualche modellino sugli scaffali più alti della libreria. 

Un comodino. 

Una foto.  

«Comunque, Doreen è...  insomma, senza di lei la mia vita sarebbe una bella spazzatura.» Una foto. 

Una donna bionda, con i capelli corti fin sopra le spalle, il sorriso delicato, tiene in braccio un bambino piccolissimo, abbracciata ad un uomo con la pelle chiara, i capelli neri. La foto è a colori ma mi ricorda quelle in bianco e nero che raffiguravano le attrici dei film.Prendo in mano la cornice. 

«È lei?» Mi volto verso Martin. 

Il suo viso si incupisce per la prima volta da quando l'ho conosciuto. È un istante di buio. 

Poi torna una tenue luce di pomeriggio. 

«No... lei è mia madre. Era mia madre. È morta.»

Mi mordo la lingua, il sapore del sangue mi invade la bocca mentre sento e ricordo quello che sono io. L'amore dei miei nonni, i loro sacrifici, il doppio della forza a prendermi in braccio. Gli unici ad amarmi per quello che sono. 

«Ma è ok...» Lo sento dire. 

«Non è ok. » Sospiro. «Anche i miei sono morti. Entrambi. In un incidente d'auto. Ero appena nata. »

«Non mi ricordo di lei.» Si passa una mano fra i capelli e guarda la foto con me, sento il suo respiroaddosso. Mi stringo nelle spalle. Martin non ha avuto una madre, ed io so com'è. So com'è quando ti dicono la tua mamma non c'è, adesso, ma ti guarda dal cielo insieme a tanti angeli, e con lei c'è anche papà. Ti senti fortunato per quello che hai ma sai che non è abbastanza. Sai che, nel profondo di te stesso, vorrai sempre avere quello che non hai. 

Martin si volta, fa girare la sua sedia con le ruote e si siede, mi fa segno di sistemarmi sulla panca vicino alla porta. Mi siedo, cerco di non guardare lui anche se non potrò sfuggire al suo sguardo, ai suoi pensieri.

Mi lascia tranquilla nel mio silenzio. Niente domande. Niente. Va tutto bene.

Eppure sento che devo dirglielo.

«Martin. »

Devo fargli questa domanda, anche se la risposta potrebbe fare male.

«Hai paura di me?»

Trovo il coraggio di guardarlo. Lo guardo proprio nel momento in cui ride, e il rumore che fa assomiglia ai cereali al miele che si mettono nella ciotola con il latte freddo. Mi torturo le gambe e mi liscio il tessuto dei jeans, mentre lui manda indietro la testa. Mi accorgo di sorridere quando è troppo tardi.

«Io non ho paura di niente, Sarah. » Nei suoi occhi c’è una luce calda che mi fa salire il sangue alla testa.

Forse di questo sì, ho così tanta paura perché non so da dove venga. Il maglione è largo, gli si abbassa sul petto ed io riesco a vedere il morso che il cane gli ha fatto sulla clavicola. La serenità va di nuovo via e l’unica cosa che riesco a fare è non sorridere più, non guardare più, appoggiarmi al muro e desiderare di non essere mai e mai e mai nata.

Ma Martin sbuffa e sorride e io desidero di essere nata altre mille volte.

***

Masticare è strano, a volte. Ti può fare  perdere il controllo del respiro, e sentire la mascella che fa tah, tah, tah. Sono i biscotti che ha comprato quando siamo andati insieme al centro commerciale, qui, seduti al tavolo della cucina.

Siamo riusciti a non parlarne. A guardare America'sgot talent  e a ridere. 

E ora che c'è silenzio cerco di controllare il respiro.

«Volevo... chiederti scusa.» La voce di Sarah è a malapena un sussurro, ma sembra che le mie orecchie riescano ad afferrare tutto.

«Scusa?» Mi passo una mano fra i capelli. Scusa? Lei? Cazzo, le femmine non le capirò mai, e con lei è anche peggio. «Non lo ripetere mai più.»

Si mette a braccia conserte, in una specie di sfida e… sì, forse adesso mi fa un po’ paura.

«Mi dispiace.» ripete. Ecco, solo questa ci mancava. Smettila di essere così bella. Continua a guardarmi.

«Ti dispiace che il cane non abbia sbranato la mia… splendida faccia? » La imito, braccia conserte ed espressione offesa.

Emana luce. Eccola lì, che parte da una piccola alzata di spalle mentre mi guarda e la bocca le si muove in un sorriso un po’ timido, un po’ storto, bocca secca per quelle fottute lacrime.

«Ripeto,» Il sorriso le si modella sul viso come uno stuzzicadenti nella creta. «Mi dispiace.»

«Che io sono così splendido da metterti in imbarazzo oppure…»

Mi picchia. Oddio, mi sta picchiando, pugni contro la pancia ,leggeri, ma almeno ci prova. Cerco di fermarla mandando a puttane il dolore per la ferita. Non esiste più.

«Be’? » Le chiedo fermandole i polsi. «Che cosa ti dispiace? »

«Di non averti fatto sbranare la faccia. »

«Manca qualcosa. »

«La tua splendida faccia! Contento? » mi chiede, e i suoi occhi azzurri sono umidi di quella che sembra una sensazione che può esistere solo qui.

Avvicino il mio viso al suo. Pericolo. Lucette che lampeggiano. Il cuore può finire graffiato, qui. «Mai abbastanza.»

Lei si guarda le scarpe e passa una ciocca di capelli dietro le orecchie.

Le parlo all’orecchio. «Secondo te, per questo infortunio posso non fare qualcosa che non sia educazione fisica? »

Ride piano, fa segno di sì, e poi parla, un po’ sottovoce.

«Davvero non sapevi niente?»

Carte di papà. Lui che le porta via, lui che non mi guarda. La foto di Sarah. Soggetto pericoloso.

«No, niente,» mento. Mi sembra necessario, mi sembra l’unico modo per non andare a sporcare con il fango della mia vita quel poco che l’ha portata a fidarsi di me. E so che è sbagliato, so che così non faccio altro che farle credere qualcosa che non è. Non sono un bravo ragazzo.

«Su internet trovi di tutto,» sussurra.

Non mi interessa di quello che dice internet.

«A me interessa quello che mi dici tu.»

Sospira. Scuote la testa, i suoi capelli mi sfiorano, mi fanno il solletico, voglio soltanto farti stendere su questo divano e toglierti i capelli dagli occhi con i baci, stringerli fra le mani così.

«Ti… è successo prima?» le chiedo. Mi lecco le labbra, piano, aspetto, devo ascoltarla. Che cosa mi succede? Perché non riesco a controllare nemmeno quel mezzo fottuto neurone che mi sta in testa? Quel mezzo fottuto neurone è programmato solo per pensare a lei.

Inclina la testa, posa il mento sulla mano, si accoccola su se stessa.

«Ma se non vuoi dirmelo…» continuo.

«Non mi piace fare pena alle persone… preferisco essere invisibile.»

Sento il mio viso muoversi in un sorriso leggermente accennato.

Io ti vedrò sempre.  

La circondo con le braccia e so che può andare bene anche così. Può andare bene senza un bacio. Senza le luci spente. Senza la musica alta per non far sentire che cosa succede. Va bene in questo strano silenzio che c’è quando sono solo. Ma ora non sono solo.

I suoi occhi sembrano più grandi, mentre si stringe la mani in grembo e le sue labbra si socchiudono, piano, a raccontarmi questa storia. «Avevo cinque anni...»

Sei la bambina piccola del sogno. Quella della strada pericolosa e che cresce lì, su quell’asfalto, con il rumore di un camion che può investirti da un momento all’altro. 

I tuoi occhi sono gli stessi di quel giorno? Sono gli stessi che vedo adesso? 

Vita stretta, maglietta un po' scollata, capelli lisci, disordinati. 

Diciassette anni, Sarah, luce, paura. Le tue lacrime. Le tue urla. Il tuo dolore. Mani fra i capelli, occhi rossi, labbra bagnate.

«Tu non sai se è morta, vero? Nessuno te l'ha mai detto.» Glielo dico dopo che ho tremato insieme a lei.

«Non lo so.» Non piange, anche se trema come se avesse freddo. «Non mi hanno detto niente ed io non ho mai chiesto. Mi hanno solo fatto fare tantissimi controlli… dottori e dottori e dottori e analisi e… poi ho cambiato scuola e non l’ho più vista.»

Mi passo una mano fra i capelli. Devo fare qualcosa. Devo capire. Non è possibile che sia finito tutto quel giorno.

«Quella bambina, quella che ti ha strappato il disegno, si chiamava…»

«Julia,» finisce lei per me.

Mi alzo dal divano e prendo il cellulare dalla tasca. «Ricordi il suo cognome?»

«Perché?»

«Per cercarla.»

***

Sospiro. Seduta su questo divano in pelle troppo lussuoso, per me, per un giorno come tanti. Anche se da quando ho conosciuto Martin nessun giorno è come gli altri. Julia. Capelli rossi e ricci. Julia. Matite e caramelle.

L’ho uccisa?

Martin dice che devo essere io dargli il via per fare qualcosa. La verità è che devo sentirmi pronta per saperlo. Tutte le volte in cui ho fatto del male a qualcuno mi hanno allontanato, e io ho sempre avuto paura di sapere. Eppure, il fatto di sperare che Julia stia bene, mi fa sentire meglio.

La speranza.

«Davvero mi aiuterai?» Martin si siede accanto a me e abbassa il volume della televisione. Mi ha fatto vedere tutta la casa: i due bagni, le stanze degli ospiti, la palestra personale, la sala giochi. Non capisco tutto questo benessere, lui ci butta un occhio scocciato. Io sono solo e sempre più sorpresa.

«Ti ho mai detto cazzate? »

«Tante.» Ride, manda indietro la testa e mi sento tremare, ancora una volta.

«Sei impossibile, Sar.»

Sento che il suo sguardo mi fa male, spinge a fondo in ogni cosa che trova, pelle e questo cuore che mi batte all’impazzata nel petto. Perché è la persona più vicina a me che io abbia mai incontrato. Perché mi era vicino ancora prima di chiedermi stai bene. Perché il suo parlarmi sembrava una conseguenza al fatto che esistesse ed esistessi io. Io che esisto.

«E sei diventata tutta rossa.»

«Non riesco a evitarlo.»

«Vediamo.»Un sorriso gli attraversa il viso ed io mi aggrappo alla speranza che quello che è successo non influenzi quello che si sta costruendo – tasselli, colla e mani che premono – fra di noi. Si avvicina ancora di più. «Mi piace quando fai così. »

«Così come?»

Spalanca gli occhi e si porta le mani alla bocca, e solo così capisco che quella sono io sulla sua splendida faccia.

«Mi stai imitando!»

«Ci sono riuscito? Ecco, questa è la tua faccia sorpresa. »

«Martin…» Rido, e quando mi avvolge con le sue braccia, le gambe che tremano e il cuore che si scioglie in tanti piccoli battiti non riescono a fermare questa travolgente ondata che assomiglia alla felicità.

E un po’ alla paura.

«Rischio qualcosa se ti sono così vicino?» Mi sfiora la guancia con il naso e sento come se improvvisamente avessi a pieno la coscienza delle mie sensazioni, il freddo del muro contro la mia nuca, le mani calde e ruvide di Martin, il suo respiro che mi scivola addosso quasi fosse acqua.

«Non so fino a che punto.»

«Sono curioso.»

Me lo soffia sul viso come una ventata calda.

E poi chiudo gli occhi.

Sento lo stomaco contrarsi, mentre socchiudo le labbra – le sue labbra, le sue labbra, le sue labbra –, mi preme le mani sulla schiena, mi sfiora la pelle. La sua lingua tocca la mia e sospiro, mi aggrappo ai suoi capelli. Non posso crederci. Mi aggrappo alle sue spalle. Non posso crederci. Apro di più la bocca, le sue dita sulla mia guancia, il suo respiro nella mia gola, a darmi aria e a togliermela nello stesso momento. E poi si stacca da me, mi accorgo di aver intrecciato le mie mani alle sue e lo guardo.

Ha la bocca rossa e morbida e gli occhi umidi.

Ed io mi accorgo di volerne ancora.

*

*

*

*

Innanzitutto grazie a Noemi che mi ha betato il capitolo. Passate a leggere le sue storie, sono bellissime <3 . <3 Qui trovate il suo profilo <3 In particolare date un'occhiata a tutte le sue storie su Embry e Klaus e... insomma, ne troverete per tutti i gusti! <3

Per il resto... nell'ultima parte ho pensato "Martin! Metti la bocca a posto! No, non è quello il posto! Metti le mani a posto! Non è quello il posto!" Secondo voi mi ha ascoltato? Certo che no... e alla fine l'ha baciata contro la mia volontà XDXD

Comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto e spero che la storia riesca a coinvolgervi. Tra l'altro, mi scuso con tutta me stessa per non aver risposto alle vostre splendide recensioni *______* siete meravigliosi, non saprei che fare senza di voi... però ho pensato che, visto il tempo che scarseggia, l'alternativa era aggiornare o rispondere alle recensioni. Visto che sono passate due settimane (spero che vi abbia fatto piacere) ho deciso di aggiornare.

Grazie per aver letto e spero che mi facciate sapere il vostro importante parere!

Grazie mille <3 Grazie anche a chi segue, preferisce e ricorda la storia <3

Un bacione

Vostra Ania <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8. Soggetto individuato ***


until 7

8. 

Soggetto individuato

26 marzo del 2000

Capelli lunghi, trecce. 

Occhi azzurri, il colore dei giorni freddi, la mattina presto, quando ancora dormi. Le mani piccole, quelle con i buchini quando si stendono. Le lentiggini sul naso, il dente davanti che è caduto a pranzo, lo metterà sotto il cuscino per aspettare la sua fatina.

Soggetto individuato.

È un giorno di sole. Strepiti. Risolini. Rumore di passi. Il sole picchia sulle pietre e si riflette nell’acqua del laghetto e si scioglie, a poco a poco, sul sudore dei bambini. La maestra sfoglia una rivista, seduta alla panchina, ma in realtà non legge niente. È troppo impegnata a guardarli tutti, un secondo per uno, immobile, e sull’attenti.

Potrebbero farsi male in ogni momento.

 La donna sussulta, il grembiule bianco a coprire il seno abbondante, un viso giovane e chiaro accarezzato da riccioli neri.

Ha funzionato. Una trappola per topi vicino all’altalena, sotto la sabbia. Ci vorrà almeno un quarto d'ora per aiutura tutti quei bambini che si sono fatti male in mezzo alla sabbia.
«Bambini, vi avevo detto di stare attenti…»

La maestra continua a correre e si avvicina al punto in cui un bimbo biondo se ne sta seduto con una gamba stesa ed una piegata, le lacrime intorno agli occhi.

Mi avvicino.

La guardo. 

Sorride, con quegli occhi grandi e acquosi, con il dente davanti che non c’è, e le trecce e il grembiulino. Si mette a correre in direzione dello scivolo, chiama qualcuno, qualcosa, è felice felice felice.

Ti vedo.

«Julia, vieni! Lo scivolo è libero!» La piccola corre, corre veloce, arriva alla scaletta. «Era sempre occupato, che pizza, finalmente!»

«Sì!» L’altra bambina si toglie i capelli dal viso.  Julia. «Faccio un giro qua e…»

Nessuno scappa da me.

«Ciao.» Mi tolgo il cappello e faccio un sorriso. La bambina alza lo sguardo dal cavalluccio a dondolo su cui stava per salire, i ricci rossi ad accarezzarle le guance rosee, gli occhi scuri, grandi e luminosi. Non sa che l’ho scelta. Non sa che penso a questo giorno da ogni istante in cui ho capito cosa fare della mia vita. «Non riesci a salire?»

«Ciao.»La bambina alza di poco lo sguardo, le ciglia lunghe che sembrano unite da uno strato trasparente di luce, come le gambe delle rane. «Però… mhm… non si parla con gli estranei.» Ridacchia. «Io non dovrei parlare! »

Julia. Cinque anni e mezzo. Vivace. Diabetica.

«Ovviamente,» Faccio qualche passo verso di lei, la prendo da sotto le ascelle – braccia magre, il peso dell’aria, un respiro trattenuto – e la metto sul cavalluccio. La lascio dondolare. «Ma io non sono un estraneo come gli altri. »

Torno davanti a lei.

«Perché non sei come gli altri?» Aggrotta le sopraciglia, e ha quella luce di curiosità che vedo in tutti quelli che incontro.

«Non posso dirtelo, angioletto.» Piego il ginocchio per arrivare alla sua altezza, guardarla dritta in quei pozzi di innocenza che sono i suoi occhi. «Sai... io ho inventato le caramelle più buone del mondo.»

«Sei Willy Wonka, allora! Il più grande cioccolatiere del mondo!» Ride, e sul cavalluccio va sempre più veloce, il suo viso si avvicina e si allontana, i suoi capelli volano, profumo di borotalco, colori a tempera e yogurt bianco.

«Puoi anche pensarla così.» Metto di nuovo il cappello, prendo la caramella e la stringo fra due dita. Il suo cavalluccio si ferma, il viso di Julia si distende nell’incanto. Caramella, dolce. Non li sente sulla lingua da una vita. Cinque anni e mezzo. Ci muore, dentro questo zucchero. «Se la vuoi, però, devi fare una cosa per me.»

Scende dal cavalluccio, piano, e il grembiule si alza a far vedere dei piccoli jeans. Mi guarda, gli occhi lucidi e impazienti. «Cosa? Cosa devo fare?»

Mi alzo in piedi, e la vedo in tutto quello che è. Una vittima. Una delle tante. Un pedina in questo gioco di scacchi in cui lo scacco matto non basta per vincere. Ci vogliono tanti, tanti scacchi matti.

«Girati,» le dico. Mi ascolta. «La vedi quella bambina con le trecce?» Sento il sangue salirmi al cervello. Sarah. La regina della mia scacchiera.

«Sì, Sarah! È mia amica! Le piace tanto, tanto tanto disegnare. E anche dire le filastrocche, però si dimentica sempre l’ultima frase! "... Piccole stelle nel cielo dormienti, piccoli bimbi lì sorridenti, balli, canti, disegni e monete..." e poi boh! Ah, ah, ah! Ed è tanto brava a fare le capriole e…»

«Devi farla arrabbiare tanto, Julia.» 

La bambina perde il respiro, diventa ancora più piccola di quello che è. La paura rimpicciolisce l’umanità, ed è per questo che è debole di fronte a quello che teme di più. «Devi farla tanto, tanto arrabbiare. E quando l'avrai fatto, io ci sarò all'uscita di scuola per darti la caramella.»

Se sopravviverai.

Il sole è forte, l’aria tiepida colpisce il viso della piccola, sento addirittura il sangue, il suo rumore, il cuore che pompa.

Julia mi guarda. Piccola, magra, indecisa. È un attimo. E poi tutto funziona nel modo in cui deve funzionare. Tutti noi siamo fatti da impulsi e reazioni. Reazioni e impulsi. Tutto è sotto controllo, tutto è un sistema.

«Posso anche darti la mia… penna porta fortuna.» Prendo la penna dal taschino e accarezzo la Je la S dorate. Giusto per aspettare, per non restare fermo. Perché io so che lei…

«Lo faccio.» Annuisce. «E poi… poi faremo pace. Io e Sarah faremo pace. »

«Io saprò se lo farai, angioletto.»  Le accarezzo il viso. «E se non lo fai potranno succedere cose davvero brutte. »

«Quanto brutte? »

«Una bambina non può sapere certe cose. » Le do la penna, e lei la prende con la punta delle dita e la mette in tasca, silenziosa.

 

Mi allontano.

Devi farla tanto, tanto arrabbiare.

Sento i passi della piccola Julia, sento il rumore dei sassolini che vengono lanciati nell’acqua del lago, le ruote delle auto sull’asfalto.

Distinguo la risata di Sarah.

Non riderà mai più così.

***

Oggi.

 

Dove potrebbe essere?

Mi lascio cadere sul divano, la stoffa a fiori che nonna ha cucito per proteggere la pelle del divano mi accarezza. Si sente il rumore dei suoi passi lenti, strisciati sul marmo del pavimento, con la scopa. 

Julia dove potrebbe essere? Sento un brivido che mi colpisce lo stomaco con una lama.

Sotto terra.

A k ora c vedm?

Mi mordo la guancia dall’interno. Non posso credere che lui scriva davvero i messaggi in questo modo, è inammissibile, inaccettabile, io non posso essermi presa una cot…

«Perché sorridi, tesoro?»

Perché quando si fa sentire scompare tutto quello che invece c’è.

Alzo lo sguardo. Mia nonna, con lo straccio in una mano e una scopa nell’altra, mi guarda con quel suo sorriso dolce che è sempre stato costante.

Io sorrido adesso.

«Niente… nonna, hai visto? Oggi c’è un bel sole.»

Mat, o il tuo i phone è dislessico o tu sei truzzo. Decidi.

Invio. Che faccia potrebbe fare? Potrebbe ridere. Potrebbe pensare a cosa farebbe se fossimo uno di fronte all’altra. Ed io sarei felice. Sarei felice di vederlo e ancora non gli ho detto a che ora ci vediamo. Julia. Julia. Dov’è? Io… io non posso saperlo.

Noi non sappiamo niente, no?

Giro intorno al mio passato senza raggiungere il centro, per non prendere questo momento di gioia estrema che non è mia, non lo è mai stata.

«Ma quanto sorridi! »

Mi alzo dal divano, poggio il cellulare sul tavolo e mi metto a guardare le bollette. Il cellulare non vibra. Bolletta dell’acqua, 45 dollari. Ok, questi ce li abbiamo, l’altro giorno il nonno ha ritirato la pensione. Il cellulare non vibra. L’affitto. È aumentato, ancora, di nuovo. Sempre. Sento un dolore allo stomaco, mi passo una mano fra i capelli, sospiro. Come facciamo? Nel mio salvadanaio devono esserci…

«Lascia. Assolutamente. Queste cose! » Mia nonna mi toglie le carte dalle mani e il foglio della bolletta dell’acqua si strappa leggermente nel mezzo.

«Nonna! »

«Non lo vedi il sole? » Sorride ancora di più. «Perché non vai a fare una passeggiata? »

«Ma… »

«È sabato mattina! » La nonna posa la scopa, mi prende il viso fra le mani e mi lascia un bacio sulla fronte. «Esci, dai! Ci penso io… con chi sei uscita ieri sera? »

Le mie guance si accendono.

Il cellulare vibra.

Non sono dislessico. E il mio i phone non è truzzo.

Sbuffo. Sorrido. Sfuggo dallo sguardo di nonna e mi chiudo nella stanzetta, mi lascio andare sul letto e guardo il soffitto. Riesco a vedere il cielo azzurro con il sole che brilla anche se c'è il soffitto con le macchie di muffa a separarmi da tutto quello che c'è sopra di me.

Ci vediamo ora?

***

Oh, merda. Allora non sei ancora a letto a guardare l’orso della casa blu sulla tv satellitare. 

Tipo me.

Oh, merda, sono in mutande!

Sì, cazzo!  No. Non possono inviare questo messaggio. Ne devo scrivere un altro. Ok. Ok? No, ok con una faccina. Ok, : )

«Reen?» Mi alzo dal letto, accendo la luce ed esco dalla stanza. «Doreen?»

«Di buon ora, Martin Scott… sono le undici. » Sento la sua voce provenire dalla cucina. Attraverso il corridoio e la raggiungo, Doreen sta sistemando le presine nel cassetto con indosso quel suo strano grembiule bianco. «Ora ti faccio la colazione…»

«Non è già pronta?»

Si volta verso di me e si mette a braccia conserte. Un ricciolo scuro le sfiora la guancia, stira la bocca in una smorfia e le rughe sottili vicino agli occhi si fanno un po’ più profonde. 

«Se avessi una bacchetta magica lo sarebbe, Martin.»

«Non mangio… devo uscire.»

Esco di nuovo dalla cucina e prendo il corridoio verso il bagno grande. Sto attento a non far cadere nessun soprammobile mentre corro, se succede qualcosa sono cazzi, come quella volta in cui si ruppe quel vaso tutto dorato e brillanti nato con le rose dentro. Sembrava che Doreen avesse ricevuto un colpo al cuore, mentre io me ne stavo sul pavimento con le gambe spalancate per la scivolata da mission impossibile.

«Non mangio… devo uscire? Certo che sei tremendo, che cosa devi fare? Chi devi incontrare? Non mangio, esco… toh, deve essere miss Universo per non farti mangiare per uscire, non è vero? »

Mi metto lo spazzolino in bocca: il riflesso nello specchio riflette un ragazzo assonnato, con il ciuffo dei capelli tutto schiacciato a destra, gli occhi accesi.

«Fefo vedr Camrn.»

«Non mangio, devo uscire? Non provare a nominare Cameron, lo conosco dall’asilo e non hai mai, dico mai rinunciato a colazione, cena e merenda per andare a casa sua.»

Sputo l’acqua nel lavandino e mi asciugo la bocca con l’asciugamano. Miss Universo? Sento qualcosa solleticarmi lo stomaco. I capelli lunghi che ho accarezzato, gli occhi azzurri che ho guardato, la vita sottile che ho stretto, il seno che mi ho sfiorato quando l’ho baciata sul divano.

Doreen mi si mette davanti.

«Come si chiama?»

«Pfffprrrr.»

«Pfff… Penelope?» Stringe lo straccio fra due mani, vicino al viso, ha un sorriso che le fa più rosse le labbra e le fa sembrare gli occhi più grandi: ogni cosa in lei dilatata, ogni cosa piena di luce nel bianco del grembiule un po’ macchiato, nel colore roseo della pelle, nelle mani un po’ ruvide che ora stringo per distrarla da quello che sta sognando.

«Doreen,» sospiro. Lei apre la bocca, aspetta, non si sposta, è più bassa e sembra raggiungermi e superarmi con questo suono di gola che fa “ah… ah?”. Scuoto la testa. «Se non mi fai passare arrivo in ritardo.»

Riesco a superarla.

«Allora si chiama Penelope?»

Entro in camera, metto la maglietta e mi metto a cercare i jeans. Quelli chiari, quelli… come si chiama quello, Rufus Lauren? Non mi ricordo.  «Reen, dove sono i jeans? Quelli più chiari… del resto.»

«Si chiama Penelope? »

«I jeans! »

«Sono qui, aspetta…» Entra nella stanza e prende i pantaloni che cercavo. Come ha fatto a trovarli così velocemente? Forse anche questo è un sesto senso femminile e mi fa capire sempre di più quanto questa Dea natura sia ingiusta. «Se magari mettessi in ordine li troveresti subito, ma aspetta, hai lasciato qualcosa nei jeans…» 

Doreen sbianca.

Cos’altro c’è?

Guardo l’orologio sul comodino, quello accanto alla foto di mamma e papà. Le undici e mezza. Devo fare presto, devo… 

«Grazie.» Prendo i jeans dalle mani di Doreen e un rumore di plastica attira la mia attenzione. Comincio a mettermi i jeans, devo vedere Sarah, devo baciarla baciarla baciarla, devo…

«Martin Scott.» Alzo lo sguardo e alzo la zip. Doreen mi guarda con quei suoi occhi dello stesso colore della torta al castagnaccio che fa sempre l’inverno. «Adesso tu mi spieghi cosa ci fa un preservativo nei tuoi pantaloni.» Lo dice con una lentezza esasperante.

Mi gratto la testa. Dio, non mi dire che vuoi che te lo spieghi davvero. Il suo sguardo resta fisso su di me, freddo, le labbra le tremano fin quando non le serra e incrocia le braccia al petto. E lascio cadere la mano e sento l’etichetta della maglietta graffiarmi sotto il collo, l’ho messa male e non riesco a muovermi, per niente, perché Doreen aspetta, immobile, ed io non voglio spiegarle perché quel preservativo è lì. Mi viene da ridere e da scavare un buco e metterci la testa dentro, ma la verità è che la guardo e questo momento mi entra dentro per sempre, per tutta la vita.

«Non… lo so.»

È lì da quella festa in cui io e Ivy… sì. Avrei dovuto toglierlo e metterlo di nuovo nello zaino, dove lei non controlla mai. E invece ho avuto così tanto a cui pensare… ho pensato a Sarah. Non faccio altro che pensare a lei da quando, un mese? Non è abbastanza, è troppo, è troppo poco. Abbastanza da farmi sentire diverso.

Abbastanza da volermi dimenticare di tutto il resto.

«Martin!» La voce di Doreen mi riporta qui, nella mia stanza disordinata. I poster dei giocatori, l’armadio aperto – Miranda Kerr in costume – le calze per terra e Doreen. Doreen che stringe quella cartina, stringe quella cartina ed è strano perché fa lo stesso rumore della busta delle patatine al ketchap che mi comprava al bar vicino alla scuola quando facevo le elementari. Ed io la guardavo, seduta al tavolino, mentre lei bella e veloce apriva la busta, aveva gli orecchini di perle, i riccioli ordinati, la bocca che mi lasciava sporco per il rossetto rosa. «Tu… da quanto tempo lo fai? »

Mi passo una mano sulla faccia e chiudo gli occhi, respiro forte, sento caldo, non so più cosa voglio dirle, non so più se vergognarmi, non so più se avere paura o ridere. 

«Eh dai…» Mi siedo sul letto.

«Eh dai? Ma cosa e dai? Ti rendi conto che… tu… tu… hai diciassette anni, porca miseria, Martin, Martin…»

«Ne ho diciotto…»

«Tu non sai quello che fai! »

«Mamma…»

Smetto di respirare.

Mamma.

Doreen resta ferma ed io tremo dentro.

«Doreen, scusa.» 

Deglutisco.

Doreen volta la testa ma riesco a vederle gli occhi lucidi e allora, cazzo, Martin sei un idiota, sbagli sempre. Doreen. La mia tata. La domestica. Da sempre.

L’unica persona a cui è sempre importato di me.

«Non… non fa niente.»

Quella che mi ha medicato il ginocchio quando sono caduto alla corsa ad ostacoli. Quella che mi comprava il gelato solo una volta alla settimana perché se no fa male alla pancia, Martin. Quella che si ricordava di lasciare il lume acceso quando avevo sei anni. Quella che mi accompagnava fino alla porta della classe. Quella che mi chiede dei voti a scuola e mi fa trovare la torta con le candeline il giorno del mio compleanno.

«Martin.» Si avvicina, mi bacia la fronte, ed io sento qualcosa che mi allevia il dolore anche se il dolore non c’è. Non so cosa sia. So solo che le mani di Doreen sono ruvide a furia di pulire, lavare, pensare a questo pezzo di adolescente mai felice. Pigro perché la vita fa schifo. Mia madre è morta perché l’istruttore le aveva legato male il paracadute: lei era una paracadutista e mi avrebbe partorito anche in cielo. Lei era pazza, viva e folle. E Doreen mi insegna da sempre che bisogna essere vivi sempre, qualunque cosa si faccia. 

«Be’…» La sua voce è un po’ più bassa, meno squillante, un po’ più pacata. Tremolante. «Sono felice che sei… almeno sei responsabile, ecco.»

Doreen si allontana. È stata lei a spiegarmi chi fosse, è stata lei a spiegarmi perché non avevo una madre. Non mi ha detto bugie. Non mi ha parlato di viaggi o di nuvole. Mi ha detto la verità, ed io mi ricordo solo che non lo  avevo capito subito. Perché per persona morta io intendevo gli zombie che uccidevo con il videogioco che avevo avuto in regalo all’ottavo compleanno. Ma Doreen mi ha detto che cosa è successo, che la tua mamma ti ha dato un bacio prima di salire sull’aereo e ha detto guardami dal cielo, Martin. Io torno presto.

Mia madre non sapeva che, se la dovessi ascoltare alla lettera, passerei tutta la vita così. Con il viso alzato verso il soffitto, a guardare quel pezzo azzurro senza sapere dove soffermarmi davvero. 

Marlene Scott.

O forse qualcosa la sapeva.

Sei qui?

Sapeva che la ragazza che è costantemente presente nel mio mezzo fottuto neurone ha gli occhi proprio di quel colore. E mi fa saltare lo stomaco e il cuore così, come se fosse lei a controllare tutto.

E forse lo fa.

Scendo di casa veloce, senza prendere l’ascensore. Mentre corro mi passo una mano fra i capelli, per aggiustarmi questi cazzo di capelli. Corro. Lei è qui. Corro. Lei è qui.

Esco dal portone e trattengo il respiro. Lascio vagare il mio sguardo lungo tutta la strada e la vedo. Come non vederla? Passa una macchina, il vento si alza, lei è appoggiata ad un’auto, la borsa di stoffa fra le gambe, il cellulare fra le mani. Si è messa la gonna... bene. Ha le labbra serrate, carnose, è così quando pensa a qualcosa intensamente. Ha gli occhi blu mare, oggi, o forse sono sempre stati così o forse cambiano. Non lo so.

«Buh!»

La sento irrigirsi sotto le mie mani, le sue spalle esili, la pelle liscia del collo. 

Si volta, la bocca spalancata.

«Idiota!» La sua voce si fa acuta.

«Ti ho spaventata? »

Resta con la bocca spalancata, mi scosta, le guance le diventano rosse, le labbra le tremano. 

«No… no che non mi hai spaventato.»

«Oh… sì, invece.»

«No.»

«Sì.»

«No.»

«Sì.»

«No.»

«Sì.»

«Oh, Dio, stai zitto.»

Mi metto a braccia conserte e mi appoggio all’auto, le sorrido, lei si passa una mano fra i capelli ma resta inquieta, come se stesse per saltare, o ballare.

«Zitto?» Sbatte il piede, abbassa lo sguardo, vedo il sorriso nascerle sulle labbra e le tue labbra. Quelle labbra rosse e piene e morbide. E le mani che si stringe al petto, lei che continua a sorridere mentre io mi avvicino.

«Vuoi che stia zitto, mh?»

Le alzo il viso, due dita sotto il suo mento. Mi guarda negli occhi e il sorriso la tiene accesa, me la fa sentire bollente, non posso toccarla tanto a lungo, non voglio smettere.

Non la lascio rispondere. Avvicino il viso al suo e respiro sulla sua bocca, la apre, ci sfioriamo.

La bacio. È qualcosa di caldo e fresco, di dolce e frenetico e breve e lungo, lungo, ancora ancora e ancora. Sempre. Mi sembra di non sapere più niente, adesso. La bacio. Le stringo il viso, il fiato mi graffia la gola, la sento aggrapparsi a me. Apro di più la bocca, il fiato si fa sentire nella sua assenza ma io sono pieno di euforia, questa voglia incontrollata di aggrapparmi alla vita per non morire su queste labbra.

«Ehi…» Sento un brivido contro di lei. Apro gli occhi. «Così mi consumi.»

Ridacchia sulla mia pelle, i suoi capelli mi fanno il solletico, mi guarda. «Scusa.» Ha lo sguardo lucido.

«Scema.»

La abbraccio, le do un pizzico al fianco, continua a ridere. È un suono che conosco e che eppure è sempre diverso ogni volta. Perché sembra crescere. Cresce la sua risata che sa di dolce, e cresce la luce in quegli occhi azzurri, cresce la fermezza in quelle mani che mi toccano, e cresce il tono di quella voce che mi parla… prima era sottile sottile. Era Sarah ad essere sottile sottile, una linea, un foglio attaccato al muro, quella che preferisce essere invisibile piuttosto che far pena alle persone. Ma lei non sa che io lo vedo. La vedo sempre. Sottile sottile o con quegli occhi e quelle gambe e quel viso che mi tiene fermo qua, ad abbracciarla, a riconoscere il profumo di camomilla fra i suoi capelli.

Si allontana leggermente ed io sento di nuovo le sue labbra sulle mie. Leggere. Sorridono mentre baciano.

Quanto tempo devo aspettare per...

«Che ti va di fare?» le chiedo. Ma non riguarda quello, no… non glielo chiederei mai… così. Merda, non dovrei nemmeno pensarci. Non dovrebbe succedere e basta? Sì, ok, ma quando? Ora? Stasera? Domani? 

«Aspetta.» La sua voce è chiara, un cucchiano contro delle campane di vetro. Le prendo la mano, così, e cominciamo a camminare e fa caldo, cazzo. Sarah, non dovevi metterti quella gonna… quella gonna corta. «Ti fanno ancora male le ferite? No, perché… perché ci ho pensato e…»

«Sar, sto benissimo.»

Sarah sospira, mi guarda incerta, sorride appena.

Si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Martin… è che…»

Scuoto la testa. La guardo, camminiamo, lei è… bellissima. E wow, che culo a piacerle. Cioè, non credo sia culo: io non potevo non piacerle.

«Che c’è?»

Si stringe nelle spalle, i capelli lisci e castani che le sfiorano il viso. «Vorrei… essere normale. Non credo che altri ragazzi si chiedano spesso “come vanno le ferite che ti sei fatto a causa mia?” »

Rido. Ed è una risata che sento risuonare fra i clacson, i rumori della gente che cammina, i cellulari che squillano, il rumore della città. La prendo per la vita e le viene fuori un urlo, rido di più perché lei torna rossa e mi accorgo che sì, non le avevo sognate, ci sono delle lentiggini sul naso che sfioro col mio. E la gonna le si alza un po’… merda. Io ho un solo neurone e se mi fotto anche quello è finita.

«Essere normali non è figo.» La metto giù, traballa un po’, la afferro.

«Fi… Figo? »

«Be’, sì. » Mi alzo nelle spalle. «Cercalo sul vocabolario. Un sinonimo è Martin Scott. »

Sarah alza gli occhi al cielo. Cielo, lo stesso da cui ha preso il colore degli occhi, lo stesso che guardo e ed è quello che non è stato abbastanza per salvare mia madre. Cielo. Roba così.

«Narcisista.»

«Non dimenticarti di figo.»

Scuote la testa e continua a camminare senza di me. Sa che adesso la raggiungo. Però da questa angolazione…

«Martin?» Si volta a sorridermi.

Poi scoppia a ridere.

Devo avere proprio una faccia da idiota.

 

***

La verità è che ho dimenticato.

Sono un meccanismo strano, un carillon, ho bisogno di lui per funzionare bene, per fare suoni forti, decisi, per farmi sentire. Prima ero solo flebile, come se fossi una voce lontana e invece ero tanto vicina. Ora sono vicina. E lui può sentirmi. Io posso.

E credo… credo di sentirmi felice.

«Possiamo anche aspettare un po’.» Martin camminava disinvolto  sulla strada, le mani nelle tasche dei jeans, i capelli mossi e biondi. Poi ha cercato la mia mano e l’ha intrecciata alla sua. «Possiamo… far calmenre le acque, visto che… è passato poco tempo.»

Si sono agitate altre acque. Hanno tremato, si sono scosse, le onde non si fermano mai.

Sono io quando sto con lui.

Non so se voglio vederlo, oggi. Non sono sicura di niente a parte di questo strano e continuo dolore allo stomaco che non capisco, non ho mai capito e non se ne va mai. E'… estenuante. Anche mentre studio Letterattura e faccio il compito di Matematica. Un continuo, bellissimo dolore qui nello stomaco. Voglio vederlo. Non voglio vederlo. 

Lo vedo. Mi saluta, bello e alto fra tutti gli altri ragazzi nel cortile della scuola, quegli occhi un po’ verdi e un po’ grigi così pieni di luce. Lo vedo. Non volevo. Ancora quella sensazione allo stomaco. Si avvicina. Un bacio. Due.

«Tutto bene?» mi chiede.

«Ah.» Non riesco mai a capirlo in tempo. Non riesco mai ad afferrare le parole, sono intontita, come se avessi sbattuto la testa da qualche parte. Qeugli occhi verdi e quel sorriso. Io… «Sto bene… tu?»

Mi bacia ancora la guancia. Martin, Martin, Martin, questa cosa non è normale. Che mi succede?

«Bene.» Si mette la cartellina sotto il braccio. Comincia a fare un po’ caldo, lui se ne sta con una maglia rossa a tre quarti, un filo di barba sulla mascella, il sorriso a ispezionare tutto, a ispezionarmi. Sorride ancora di più. «Indovina grazie a chi ho preso B a Chimica?»

Mi sistemo il fermaglio che mi sono messa fra i capelli. «Grazie a… me e alla mia spiegazione sui raggi?»

Martin scuote la testa, mi lascia appoggiare ad un armadietto nel traffico alla fine dell’ultima ora. Le persone sono sbiadite dietro il suo viso, sembra un treno in corsa in una stazione in cui io e lui non andiamo da nessuna parte. Restiamo così. Insieme.

«Se avessi pensato a te durante il compito avrei risposto a una sola domanda.» La sua voce è calda, si interrompe in una risata che mi scuote il petto come se fosse mia.

«E cioè, sapientone?»

«Perché gli atomi si eccittano? Con tanto di esempio sull'effetto che ti faccio.»

Gli sbatto i miei libri sul petto, rido e ancora quel dolore, e lui che mi guarda. E dov’è finito il mostro? Come può il mostro semplicemente non esistere in un momento del genere?

Può, un mostro, provare questo?

«Ehi, comunque ho risposto anche a quella. Senza parlare di te, non volevo... metterti in imbarazzo.» Come se già non lo facessi in continuazione. Mi dà un buffetto sulla guancia ed io mi sento bambina, buffa, non voglio farlo ridere e non so come ma… amo che lui sia felice. Amo essere felice insieme a lui. Amo questo dolore allo stomaco. Amo queste acque calme che si agitano all’improvviso. Sto dimenticando chi sono. Sto diventando un’altra persona e non devo. So che non devo.

Julia può essere viva. Julia può essere qualcosa di diverso da una speranza, può essere una certezza. Può essere la prova che io, qualunque cosa sia – chi, Sarah, chi! Non sei un oggetto, non sei una macchina. Sei una persona – non sono così spietata.

Martin si passa una mano fra i capelli. Ora c’è solo qualche bidello che spazza le carte dal cortile. 

«Ho ascoltato quel gruppo che mi avevi detto, Sar. E' fortissimo… cioè, davvero, ascolti musica buona.»

«I Depeche mode sono sempre stata musica buona.»

Lui aggrotta le sopraciglia e socchiude la bocca in un verso di superiorità.

Fa una specie di sbadiglio e poi poggia la mano sul muretto dietro di me, vicino alla mia testa. Avvicina il suo viso al mio e fa un sorriso che mi fa quasi cadere i libri sui piedi.

«Oggi mi aiuti a finire quella cosa con la creta? No perché tu sei brava e…»

«Sì.»

Poso la mano sulla sua, quella poggiata al muretto. Mi travolge un raggio di sole e, mentre Martin mi avvolge le spalle con un braccio, sento di potercela fare per davvero.

*

*

*

*

*puff! pant* E' incredibile, è Domenica e mi sento più sfinita di un giorno della settimana xD Nonostante ciò, spero che questo capitolo di passaggio vi sia piaciuto anche se è molto importante: vi ho dato degli indizi importanti nella prima parte... Sarah si sta lasciando sconvolgere da questi nuovi sentimenti, e questo le fa sperare di non essere, o essere stata, così spietata da annullare la vita di qualcun altro. Andrà tutto bene fra i due? E questa Julia? Comeron avrà un qualche ruolo? Fatemi sapere cosa ne pensate ed io PROMETTO che non aggiorno fin quando non rispondo a voi tutti lettori meravigliosi <3 <3 <3 Grazie di tutto. Grazie a chi recensisce e mi lascia i propri pensieri. Grazie a chi ricorda, segue e preferisce la storia <3 <3 <3

Buona settimana

Con affetto

Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9. Avvertimenti ***


until 9

9. 

Avvertimenti

Appartamento sulla quarantaduesima strada

Oggi.

 

Yvonne Stewart si attorciglia una ciocca di capelli biondi ossigenati intorno al dito. Lo smalto viola rovinato; le ciglia ancora attaccate per il troppo mascara che non è riuscita bene a togliersi; la maglietta larga a nasconderle le forme. Aggrotta le sopraciglia, mordicchia la matita, cerca di studiare. Ma poi si passa una mano fra i capelli ed io capisco che è stanca, stanca morta. Capisco che domani mattina la vedrò di nuovo così, con il nero intorno alle palpebre ad infossarle gli occhi, e lei cercherà di toglierlo via con un qualche prodotto per apparire sempre bella e desiderabile. Poggia la fronte sul libro e sospira.

Si vede bene, dalla fessura della porta lasciata socchiusa.

La apro, la porta sbatte.

«Buonasera, Yvonne.» Sussulta, alza il viso, si porta una mano ai capelli un po’ disordinati, come per istinto. «Che facevi?»

Deglutisce, abbassa lo sguardo e le si vedono ancora di più le occhiaie. «Studiavo.»

«Dormivi, piuttosto. Chi non ha cervello non ottiene niente anche se si impegna, Yvonne. Non è cosa per te.»

Fa una smorfia, le labbra rosee e sottili si stirano. «Quindi dici che io non ho cervello?» I suoi occhi nocciola si accendono.

«Perspicace.»

E si spengono.

Chiude il libro di scatto e si alza, io mi tolgo il cappotto e lo poggio sulla sedia.

Yvonne – capelli biondi, alta, vita sottile – fa un sospiro. Poi esce dalla stanza.

«Dove vai?»

«Esco. »

Si chiude la porta della sua stanza alle spalle e sento il rumore dei cassetti che si aprono.

«Devi chiedermi il permesso.»

«Io esco.» La sua voce ha un tono di sfida, quasi superiore, ma si assottiglia così tanto da assomigliare a quella di una bambina.

Apro la porta, le scappa un verso di sorpresa. È senza maglia, in reggiseno, si vede il seno gonfio, il piercing all’ombelliico. Si copre il busto con una gonna e mi fa scappare un risata, mi fa ridere guardarla, stupida, piccola puttanella. I miei passi fano rumore sul pavimento di legno.

«Joe.» La sua voce trema, si schiaccia la gonna sul petto, si vede ancora di più il seno. «Mi dispiace. Mi… mi dispiace, io...»

«Tu saresti ancora in riformatorio, se non fosse stato per me, stronzetta.» Respiro il suo profumo. Trucco vecchio e sapone neutro. Abbassa gli occhi, ancora, non sa cosa potrei farle. Le alzo il mento con due mani e sento una strana vibrazione, che cos’è, paura? Mi piace, non posso farne a meno. Mi piace da impazzire. 

Incontro il suo sguardo così simile ad un altro che conosco già.

Uno schiaffo la fa cadere a terra. Un urlo strozzato.

«Mi dispiace, Joe, io…»

«Sei identica a tua madre.» Sputo sulla sua schiena e trema, continua a tremare. «Puttana.» 

Piange, piange con quel verso da gatti, quel mugolio continuo, con la pancia che si alza e si abbassa e i capelli in bocca. «E bugiarda, tra l’altro.»

Singhiozza. «Non è vero, io…»

«Trenta dollari! C’erano trenta dollari sotto il tuo cazzo di materasso… che novità mi fai avere? Il ragazzino ha finito i soldi per ricaricarsi l’i phone. Oppure il ragazzino li ha finiti davvero e tu ti fai pagare per altri servizi?»

«Erano di Martin! Te l’ho detto, io ho cercato nelle tasche dei suoi pantaloni, mentre lui… »

«Lui COSA? Non sei riuscita ad avere nessuna informazione.»

Si pulisce le lascrime con la mano, il nero le cola sulle guance, le sporca la bocca. Cerca di rimettersi in piedi. «Io ci ho provato, io…»

«Dovevi mostrarti disponibile per avere informazioni, non per rubargli i soldi!»

Singhiozza. «Lui non aveva altro.»

«Allora dovevi fartelo dire!»

«Io… io non gli piaccio abbastanza, Joe. Dopo quella volta non mi si è avvicinato, fa finta di non conoscermi. Non gli piaccio…»

«Non gli piaci? Che c’è, è frocio? Non gli va bene che apri le gambe? Oppure tu hai fatto storie? »

«No! Non ho fatto storie, davvero, Joe. Ho fatto come mi hai detto tu, io… io faccio sempre quello che dici tu.» Riesce a rimettersi in piedi. Sospiro. Ci mancava solo questa. Un ragazzino viziato e viziato anche sulle ragazze.

«Perché non gli piaci, eh?»

«Credo… credo che a lui piaccia un’altra.» Yvonne si copre solo con le mani, adesso. «A lui piace Sarah.  Quella… quella che mi avevi chiesto di infastidire… li ho visti baciarsi, nel cortile, l’altro giorno.»

Sento le mie labbra stirarsi in un sorriso. Tombola. Sento l’eco delle voci nella mia testa, il mio pubblico costante di tutti i miei progetti. Martin e Sarah. Insieme.

Un attimo che lascio fare le mie cose ad altri i giochi si ribaltano.

Meglio di uno scacco matto.

«Allora separali. Mettiti in mezzo, Yvonne. » Mi incammino verso la porta, mi volto verso di lei, mi guarda con paura. Non c’è spazio per l’odio, fin quando ci sono io. «E non raccontarmi cazzate… io lo verrò a sapere.»

Yvonne annuisce. Non può fare altro. 

«Lo faccio, Joe.» Mi volto, entro nel mio studio, sorrido. Sulla scrivania, la luce rossa del congegno scintilla sul bianco della plastica. Mi siedo, lo prendo in mano. Attivo. Attivo da dodici anni. Ma sono sempre io a decidere come e quando, il momento in cui farlo sentire di più e renderlo quasi inesistente. Sono io a inviare gli impulsi.

O gli avvertimenti.

***

A gambe incrociate sul pavimento, riesco a sentire il freddo del marmo anche attraverso il tessuto leggero dei pantaloni. A gambe incrociate. Come in quei giochi che si fanno all’asilo: un cerchio di bambini felici per un piccolo momento di gioia condivisa.

Di fronte a me, le foto.

La foto.

Lei è accanto a me, mi stritola in un abbraccio in cui mi tiene ferma con il braccio piegato ed io, cinque anni, trecce e denti grandi, rido come se avessi visto tutti i momenti belli del mondo in un solo istante.

Julia mi soffoca con il suo sorriso così simile a me.

Non avrei mai voluto.

Giro la fotografia e vedo la mia grafia. 20 marzo del 2000, solo sei giorni prima che accadesse quello che io non avrei mai voluto che accadesse. Se solo sapessi perché… se solo sapessi come ho fatto. Forse riuscirei a controllarmi. Forse potrei annullare per sempre quell’impulso che mi porta a fare del male alle persone senza muovere un dito.

Eppure sorrido, perché ricordo bene quel giorno. La maestra Ellen che ci aveva disponeva in file, i bambini che strepitavano, l’abbraccio di Julia... il momento in cui ci hanno consegnato le foto.

Il sorriso di Julia, la sua bocca sporca del cioccolato che non avrebbe dovuto mangiare, senza nemmeno la paura di essere scoperta dalla maestra, aveva scritto il suo nome sotto la data.

Julia Moore.

«Questo è il mio autografo.» Aveva riso. «Come le persone famose.»

Non so che cosa le ho detto, ma ricordo una matita rossa, una matita rossa con cui io invece ho scritto Sarah Pierce dietro la sua fotografia, in risposta. La stessa matita rossa che avevo usato per quel disegno…

«Sarah, che fai?» La voce di mia nonna mi arriva all'orecchie dalla cucina.

Non sono sicura di volerlo sapere.

Faccio un respiro profondo. Non so niente di quello che è successo, non so niente delle conseguenze: mi è rimasto solo il terrore, l’incertezza, le notti insonni.

«Niente, nonna… arrivo.»

Prendo le fotografie, le inserisco fra le pagine del taccuino ed esco dalla mia stanza. Pulizie di primavera. La nonna ha un fazzolettino sui capelli bianchi, la gonna marrone che quasi le arriva alle caviglie. Sembra una di quelle vecchiette che regalano le caramelle ai bambini, ma senza cattive intenzioni… sì, proprio così. Me l’aveva detto Julia, una volta.

«Sarah? » La nonna poggia una massa di asciugamani sul tavolo della cucina e si volta verso di me, un sorriso le infossa le rughe vicino alla bocca ed io, mentre guardo i suoi occhi brillare verso di me, non riesco a pensare ad altro che le voglio bene. «Sei pensierosa.»

«Sì.»

Mi avvicino al ferro da stiro e lo accendo.

«Questa volta non sorridi, però.»

«Non riesco a sorridere. »

Alzo gli occhi, e in questo istante mi accorgo di come mia nonna sia tanto mamma, anche a quest’età. Come se io fossi la figlia che lei ha desiderato più di ogni altra cosa al mondo. Come posso darle questo dispiacere? Non vedo come possa fare un effetto diverso su di lei che, da sempre, non fa altro che proteggermi da tutto e da tutti. Mi ha strappato i sorrisi più belli, sanguinanti, quando ero ancora piccola e piangevo senza il coraggio di chiedere cosa fosse successo a Julia, che cosa fossi io, che cosa sono. Mia nonna che, da sempre, non pensa che a un modo per farmi sentire parte di qualcosa che porti amore e non dolore.

«Che è successo, stellina mia?»

«Pensavo a Julia.»

Questa volta è lei a non sorridere e mi sembra improvvisamente ancora più anziana, ancora più fragile di quanto ho creduto di essere io. Si stringe le mani in grembo, rugose e secche per i detersivi, per le sere passate a rattoppare i vestiti fino a tardi, per il lavoro duro che non è altro, nella sua vita, da quando io sono entrata nella sua.

«Non pensare a cose brutte, tesoro.»

«Ci provo.» Giorni di sole e giostrine nel parco. Il purè incommestibile alla mensa dell’asilo e i regali di Natale. Le poesie della festa della mamma che non ho, le caramelle che lei non poteva mangiare. Le parole, i silenzi, le mani intrecciate quando camminavamo sul ponte della giostra più alta del parco. Un’amica, l’unica.

«Sarah…»

Mia nonna si avvicina a me. Mi tocca la testa e mi abbassa un po’, per darmi un bacio sulla guancia. I suoi occhi sono lucidi e tremolanti, come se avesse paura, come se stesse per piangere, la stessa sensazione di quando vedi qualcuno sul punto di cadere da un precipizio. Negli occhi speranza e paura, tornare indietro e cadere giù. Entrambe qui, nello stesso istante.

«Va tutto bene,» dico, e mi sorprendo della sicurezza della mia voce. Mi avvicino alla porta dello stanzino per prendere tutto quello che serve e cerco, almeno per adesso, di non farle vedere che cosa sento veramente.

***

Dice che in cucina si trova meglio ed io ho deciso di credergli. Ignoro tutte le volte in cui non mi ha guardato mentre lui ripeteva la lezione ed io me ne stavo lì, seduta sul suo letto ma tesa, scomoda, come se mi fossi adagiata su delle spine. E lui era lì, a pochi metri da me, e non sapevo che se il mio disagio dipendesse da dove mi trovavo io o dal fatto che lui fosse lontano da me. Ancora non lo so. O forse voglio solo far finta di non saperlo.

«Hai portato…»

«Sì, ho portato quello che ho trovato.» Prendo la borsa, la poggio sul tavolo ed apro la cerniera. Martin accende il portatile e lo sfondo turchese e luminoso mi colpisce gli occhi anche se sto guardando da un’altra parte. «L’unica cosa che ho trovato.» Sfioro la foto con le dita, poi la stringo fra due mani e la porgo a Martin. Mi sento tremare. Le dita di lui mi sfiorano. Lascio che prenda la foto e mi rilasso a guardarlo mentre si siede, una gamba piegata sotto la sedia e un’altra distesa, i capelli che gli sfiorano la fronte, le labbra leggermente dischiuse che, dopo qualche secondo, si distendono in un sorriso.

«Ma quanto eri tenera.»

Mi mordo l’interno della guancia, mi lascio andare a uno sbuffo e sono sicura, ora che i suoi occhi sono sulla me fuori da quella foto, che nemmeno questa volta sono riuscita a non arrossire.

«Non è vero… »

«Ma sì, guardati… » Schiocca la lingua contro il palato e si china leggermente, i gomiti poggiati sulle ginocchia. «Con queste treccine…»

«Ed è una cosa molto utile per fare quello che dobbiamo fare.»

«Perché, che dobbiamo fare? »

«Martin.»

«Spiegami che cosa dobbiamo fare.»

«Dobbiamo assolutamente cercare informazioni su Julia, dobbiamo sapere se… se ancora c’è...»

«Tutte cose proposte da me, modestamente.»

Mi avvicino al suo computer, poggio le mani sul tavolo e batto il piede, mi passo una mano fra i capelli e la lascio ricadere sul fianco. Mi tocca.

«Sei sexy, te l’ha mai detto nessuno? »

Scuoto la testa. «Potresti smetterla gentilmente.»

«Non è così che si risponde gentilmente a un complimento.»

«Ne terrò conto.»

Incrocio le braccia al petto e faccio un respiro profondo. Martin mi imita con lo stesso gesto, mi sforzo di non ridere e stavolta ci riesco, mi sposto leggermente e mi avvicino un po’ di più a lui.

Prendo una sedia e la avvicino a lui, in modo che possa scrivere sulla tastiera anche da lì. Non so se lo sta facendo di proposito, comportarsi com’è suo solito per impedirmi di pensare a quello che il nome di Julia scatena sempre nella mia mente. Non lo so, eppure quando lui mi sfiora le gambe con le mani, con il nome Julia Moore che prende forma sullo schermo del computer, mi sembra di non far parte di questa vita, di essere un’altra persona.

Le mani di Martin risalgono sui fianchi.

Mi accarezza i capelli, mi passa una ciocca dietro l’orecchio, sento lo stomaco rivoltarsi in una sensazione simile al dolore, ma piena di qualcosa che non può essere che gioia.

«Martin, smettila.»

«Smettila tu.»

«Di far cosa?»

«Di sedurmi.»

Rido.

«Non ti sto seducendo. »

E poi la pagina carica. Lo schermo diventa bianco, con le strisce azzurre e le scritte blu, con dei nomi. E guardo attentamente, la mia risata si interrompe all’improvviso, più per stupore che per qualunque altra cosa, e non riesco più a ridere perché questa è la mia vita, è il mio dolore e Martin è qui, a viverlo con me. Clicco su uno dei risultati, e la lentezza con cui questi appaiono sembrano rodermi e bruciarmi le viscere per poi esplodere di un sentimento che nemmeno riesco a riconoscere, quando lei si materializza sullo schermo. Mi mordo la lingua per non urlare. Julia Moore. Non urlare. Diciassette anni. Non urlare. Diciassette anni, non morta, non uccisa. Non urlare. Cerco di parlare, cerco di dire qualunque cosa, ma sembra che la voce si sia incastrata proprio sotto la gola ed è troppo grande per passarci attraverso. Julia. Julia Moore, nata il 29 ottobre 1995, ha frequentato la Byron High school, fa parte della squadra di atletica dall’età di sette anni ed è una fra le maggiori promesse dell’istituto.  Sospiro. Guardo la sua foto: capelli rossi e mossi, il viso bianco e ovale, gli occhi scuri e luminosi…

«È viva, Sarah.» La voce di Martin diventa un brivido sulla mia pelle, vicino all’orecchio, una lacrima riga la mia guancia ed io mi accorgo, nell’istante stesso in cui l’acqua tocca le mie labbra e Martin mi stringe e il suo fiato è caldo di tutto quello di cui ho bisogno, che sono felice. «Te l’avevo detto, io te l’avevo detto.» Mi fa voltare con la forza delle sue mani ed io non riesco a smettere di tremare. Sono i suoi occhi verdi e il suo sorriso e la sua voce che mi accarezza. Fa un respiro profondo contro di me. «Io ci ho sempre creduto.»

Gli do un bacio. Così, all’improvviso. Posso sentirlo irrigidirsi, ma non importa, non mi importa, perché passa un secondo e poi sento le sue mani fra i miei capelli, passa un secondo e la sua bocca è morbida contro la mia e lui mi abbraccia, mi tiene stretta, mi toglie tutto il respiro.

***

Sbatto la gomma della matita sul tavolo, mentre sfoglio ancora una volta il libro di Letteratura Inglese. E' così strano fare una cosa così normale come continuare a studiare, dopo quello che ho scoperto.

Alzo un attimo gli occhi, Martin è appoggiato al muro con le braccia conserte, una maglietta verde scura, un po’ scolorita, come se fosse la prima cosa che ha trovato. I suoi occhi sono di un verde un po' più scuro, la luce li raggiunge e sembrano polvere. Mi sorride.

Gli sorrido.

«Abbiamo finito?» chiede.

Faccio segno di no. «Dobbiamo ancora ripetere il…»

Me lo ritrovo di fronte, le sue mani si posano sulle mie e non riesco a parlare, sono improvvisamente muta. Mi respira sulle labbra tutto quello che dice. «Abbiamo finito.» Chiude il mio libro.

«Martin… è importante, dai...»

Esce dalla stanza con così naturalezza mentre poggia le mani sul muro, gira la testa e sorride di nuovo, i capelli biondo scuro a sfiorargli la fronte, gli zigomi alti, la carnagione chiara e il sorriso che gli si apre morbido.

Scompare.

Sbuffo, mi passo una mano fra i capelli.

Lo seguo.

Oddio, non ci credo che sta correndo.

«La trama del De Profundis, Martin!»

Non ci credo che sto correndo anch’io.

Martin si volta all’improvviso, gli sbatto contro, stringo le fotocopie così forte che le stropiccio, non volevo, Martin mi ride sulla fronte, sento il suo fiato caldo.

«Sì.» Lo sento deglutire. La luce della cucina arriva fioca, qui nel corridoio. Si riflette in un vaso dorato che si proietta sui suoi capelli biondi in piccole mezze lune, gli illumina il viso e gli occhi e la bocca sempre più vicina. «Il De Profundis…  » Mi accarezza i capelli. Mi sfiora il collo e scende sulle braccia una, due volte, gli occhi bassi, le ciglia lunghe e chiare. «De profundis… Il De Profundis… andava molto nel profondo. » Prende fiato, l’aria fa rumore fra le sue labbra. «Andava molto a fondo.» Incontro i suoi occhi e mi sento la gola secca, sbatto le palpebre perché lui non sembra reale, questo non sembra reale.

A un soffio dalle mie labbra. «Molto a fondo.»

Non ho più il senso del mondo quando mi sta baciando. Mi sta baciando ed io mi stringo a lui, perché profuma di buccia d’arancia e sapone e caffè, qualcosa di intenso. Ha le mani ruvide mentre sento il duro della porta contro la schiena e mi solleva, perdo tutta l’aria nel momento in cui smette di baciarmi e riprende a farlo nello stesso istante. Martin. Inciampo in quello che deve essere un vecchio pallone da rugby, una fotocopia vicino all’entrata della sua stanza, le altre chissà dove. Martin. Sguardi e mani che si cercano. Martin. Le risate fuori da scuola e i sussurri sul bus. Martin. Chimica spiegata con le mani che si stringono e messaggi abbreviati. Martin. Nessuna paura, nessun mostro. Martin. I baci che scorticano le labbra.

«Non sai niente del De Profundis.»

Non so come ma lui mi bacia il collo, e sono sul suo letto e lui è sopra di me, e forse dice qualcosa al mio orecchio e non so cosa sia perché non capisco, il cervello si aziona in ritardo, il cuore batte ancora più forte. L’unica cosa che penso è non andare mai via, resta sempre. 

Resta sempre e lo abbraccio. Resta sempre e sento la sua pelle sotto la maglietta. Resta sempre e trovo di nuovo le sue labbra. Resta sempre e le sue mani sono sulle mie gambe.

Lo guardo. Ha i capelli un po’ arruffati, la bocca socchiusa, umida, gli occhi verdi lucidi.

«E' che... scusa.»

Sospiro, mentre lui si alza dal letto.  Non riesco a guardarlo perché lo voglio e non so cosa mi succeda. Da quanto tempo lo conosco? Da quanto tempo noi… penso a noi con questa parola? È strano, troppo. 

Martin mi prende il viso fra le mani, sussulto. Mi sembra che in questo modo mi tocchi ancora di più di come ha già fatto. «Io ti voglio. Troppo.» Si morde le labbra. È la prima volta che lo fa, sembra che ce l’abbia con qualcosa, con se stesso, trema. Torna a guardarmi. «Mi darò una calmata.»

Paura di parlare. Forse perché non ci sono più parole, solo perché distinguo le lettere ma il senso è scomparso. La verità è che voglio dirgli ti voglio anch’io. Ti voglio. Con la paura che sia qualcosa di ancora e sempre più grande. Con la paura che diventi sempre più forte, un cuore che gonfia, che arriva in gola e soffoca.

Mentre io ho paura di me stessa.

«Allora, il De Profundis.» Martin si siede sulla sedia girevole e si passa una mano fra i capelli. La mascella pronunciata si fa più tesa, prende un respiro. «Sì, l’ha scritto Oscar Wild, e… sì, questa volta non faccio l’idiota, è un dialogo epistolare su vari temi come la morte…»

Martin parla, lo ascolto, mi perdo.

Mi stringo le mani al petto e lo ricordo, e ancora sento la sua bocca e la sua voce parla, dice quello che dice adesso e mi chiede se sto bene, mi chiede se mi chiamo Sarah, Martin mi sorride e mi abbraccia ed è qui con me.

Posso avere così tanta paura di starti vicina?

Posso avere così tanta paura di starti lontana?

La verità è che non può essere diversamente, per quello che sono io. La verità è che adesso non posso impedirlo, cercare che sia meno intenso, più sereno.

«… E comunque fu pubblicato postumo, agli inizi del novecento, credo… è giusto? »

Mi sto innamorando di lui.

*
*
*
*

until

Grazie a Jens
per aver realizzato il banner :)

Per mia mia sorpresa, sono di nuovo qui e ne sono semplicemente felicissima. Non vi so spiegare come sia ritornata l'ispirazione per questa storia, al punto da farmi scrivere 10 capitoli in meno di un mese, ma è tornata. Ed io l'ho accolta con tanto affetto, perché, evidentemente, questa storia aveva bisogno di essere continuata : ) Ringrazio tutti coloro che mi hanno sostenuto, in particolare coloro che mi hanno mandato un messaggio o recensito quando ho pubblicato l'ultimo avviso. E poi tutti quelli che mi sono sempre vicini, che credono in me. Siete speciali. Grazie davvero <3

A presto con il prossimo capitolo
Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 10. Julia Moore ***


until 10

Until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

10. Julia Moore 

Non avevo nemmeno tredici anni quando, sui gradini di legno del campo sportivo, lui si sedette per la prima volta accanto a me. Il resto della classe giocava a baseball e quello che non poteva che essere il suo migliore amico, con i capelli cortissimi e gli occhi vispi, lo chiamava ad alta voce. 

«No,» rispose lui, scuotendo la testa, i ricci castano scuro a sfiorargli di poco la fronte. «Resto qui.»

E mi guardò.

Aveva occhi così chiari da sembrare quelle pozze che si creano nei paesi lontani dopo il disgelo e mi dicevano va tutto bene. Io stringevo fra le mani un foglio con tanti numeri, le espressioni di matematica che avevo fatto una e più volte quasi fino ad impararle a memoria, per non pensare, per non sentirmi.

Va tutto bene, mi diceva lui in silenzio.

E per un momento la mia inquietudine costante vacillò, ed io cominciai a credergli.

 

Cancello il pensiero di lui, di nuovo dopo tante volte, perché è come togliere un cerotto da una ferita che non guarirà mai. 

Non voglio vedere che sanguina ancora.

 

 

Stringo il foglio fra le dita, ci affondo con le unghie troppo corte; credevo di aver perso il vizio di mordicchiarmele, credevo di averlo eliminato dagli appigli disperati a cui mi aggrappavo per sentire qualcosa. Ma non è stato così. Sentire il dolore nella carne è stato un diversivo inutile per smettere di pensare a questo momento. È viva, è questo l’importante. Guardo di nuovo l’indirizzo: Kennedy’s street, 53, e mi tremano le mani. È viva, è questo l’importante. Mi tremano le mani e non ce la farò mai. È viva, è questo l’importante. Mi tremano le mani e non riuscirò a guardarla negli occhi. 

Che io le abbia fatto del male quanto è importante?

«Sar, sta' calma.»

Quanto le ho fatto del male?

Chiudo gli occhi, un altro respiro. Forse così va un po’ meglio. È come se il mio corpo lo ascoltasse ancora prima che lo ascolti io, e questa è una delle cose di cui non so se avere paura o meno perché sa, ancora prima di me, che quel che fa e dice è per il mio bene. Lo guardo: guardo la sua mano grande che si avvicina al mio viso a scostarmi una ciocca di capelli; guardo i suoi occhi vividi e chiari, verdi e pieni di una luce che mi brucia gli occhi, ma che non è abbastanza per farmi smettere di guardarlo.

Scuoto la testa. 

«Io… Non lo so, non...»

Non so se posso farcela. Il suo viso è attraversato da una smorfia. Come se avesse sentito quello che, se avessi cercato di parlare, avrei detto. Sento il suo dolore, la mia incertezza, la mia paura, la sua. Sospiro.

«Ci sarò io con te.» Mi prende il volto fra le mani. «Non ti lascerò mai, mai, mai un solo minuto o secondo da sola. Mai.» Mi mordo la lingua, voglio sentire il sangue, voglio sentire qualunque cosa ma non la paura. Non la paura. «Io resto sempre vicino a te. »

Cerco di trovare un po’ di coraggio. Non tutti gli esseri umani ce l’hanno.

Ma io ne ho bisogno.

Annuisco. «Ok.»

«Qualunque cosa accada, io sono vicino a te. » Vicino a me, come nessuno lo è mai stato con lui.

Ieri aveva la porta di casa socchiusa, l’ho trovato seduto sul divano con la testa fra le mani. E' solo, ho pensato, e quando mi ha guardato è stato come se io stesse l’avessi salvato.

Mi prende la mano ed io, in un istinto inspiegabile, gliela stringo forte; mi sento così al sicuro che è come se stessi comandando un sogno. Nel sogno Julia è viva, e frequenta la struttura sportiva imponente e grande che ci è di fronte. Ho scelto di venire qui e non a casa sua perché mi sembrava... più sicuro, e meno spaventoso.

Attraversiamo il vialetto e ce ne stiamo un po’ così, sotto il portico, davanti alla porta a vetri. All'interno si vedono sedie di plastica, un banco alto con un telefono e una specie di registro e tante fotografie incorniciate. Non c'è nessuno, forse siamo arrivati tardi. E se fosse davvero tardi?

Martin aspetta con me, aspetta che io gli dica adesso, aspetta che io gli faccia sapere che sto per cadere. Un respiro, un altro respiro, un altro ancora. E poi un passo, un altro passo ancora, e il mio braccio che si alza e la mia mano che si chiude a far venir fuori il dito indice che preme qui, sul campanello della palestra che mi separa e protegge e nasconde da…

«Julia starebbe rinchiusa qui per ore... hai ragione.» La porta si apre, sussulto, stringo ancora di più la mano di Martin, lo guardo solo per un attimo. E poi si affaccia il volto di una signora dai capelli rossi e raccolti, rughe a segnarle gli occhi e un sorriso stanco. «Oh… scusate, sto aspettando mia figlia, si sta allenando per la gare di atletica.»

Sua madre.

Si sente il rumore di qualcosa che sbatte a terra ma sembra tornare subito su. Mi si secca la gola, la lingua mi si appiccica al palato, le gambe mi tremano. Scarpe da ginnastica che saltano su un pavimento antiscivolo, ecco cos'è. Dal corridoio si vede che una porta è lasciata aperta.

«Sì, siamo suoi amici.»

La voce di Martin è la corda che mi stringe la vita, mi tiene qui, sostiene il mio coraggio.

«Oh, ma non state lì, entrate pure. Non credo che per qualche non iscritto se ne faccia una tragedia, e comunque ora la proprietaria è impegnata.» La signora apre ancora di più la porta, una volta superata la soglia mi sento invadere da un freddo che sembra congelarmi il sangue, ma la presa salda di Martin è l’unica certezza che mi garantisce che non morirò nel ghiaccio del buio che c’è dentro di me. «Torno da lei in direzione per i dettagli, il premio della settimana scorsa deve ancora arrivare dall'Alaska!»

Martin fa un sorriso, di quelli un po' tirati che si fanno davanti ai genitori degli altri. Non l'ho mai visto così sicuro. Non ho mai sentito la presa delle sue mani così salda.  

I muri del corridoio si alternano al colore candido del bianco a quello scuro della plastica delle sedie, mi siedo e Martin riprende la mia mano, si siede accanto a me, mi tocca il ginocchio, i suoi occhi cercano il mio viso. Tàn, fanno ancora delle sparpe da ginnastica che saltano sul pavimento. Un sorriso senza pesi né dolori mi scalda, mi ripete che lui è qui con me. Si avvicina leggermente ma non so cosa dire, non so cosa dire se non che sono felice che lui mi abbia guardato, lì su quel bus; se non che risponderei subito che sto bene, se lui me lo chiedesse, come quel giorno al cinema; se non che lui con i suoi occhi e la sua risata e la sua vita ha fatto qualcosa che ancora non riesco a spiegare.  

Il tintinnio di una campanella. «Ho finito il tempo!» Una voce raschiata mi arriva alle orecchie e rimbalza contro i vetri della porta. Rumore di piedi che strisciano sul tappeto, una chiave che entra nella serratura, il cigolio di una porta. «Mamma, non puoi immaginare cosa sono riuscita a fare oggi!» 

La porta del corridoio si apre. «So che sei bravissima, tesoro.» Fruscii di vestiti, un giubbino che cade a terra.

«Sono esausta, però penso che potrei...»

«Ci sono dei tuoi amici ad aspettarti, Ju.»

«Davvero? » Se la felicità avesse una voce, questa sarebbe la sua. «Naomi? Dai vieni! Finalmente ti sei decisa a venire!»

Mi alzo in piedi, d’istinto.

Passi. 

Corro verso la voce.

I suoi passi.

La prima cosa che vedo è l'ombra di una sagoma che si espande sul muro verde dal centro dell'enorme palestra.

E poi guardo da dove nasce l'ombra.

Ha i capelli rossi, lunghi e ricci, come li ha sempre avuti, come quel giorno, non mi guarda e sorride, sorride, sorride e sento la sua anima mentre alza il viso al cielo anche se c’è il soffitto a separarla, un viso fine e sano e con gli zigomi alti, gli occhi marroni e lucidi. Alza le braccia, un completo blu e aderente, e poi fa un salto così alto... così alto, di quelli che devono essere capriole per poi fermarsi su un solo piede e il respiro affannato. Julia. È viva.

Non l’ho uccisa.

«Naomi?» Ride, i capelli le coprono il volto e non può vedermi.

Ma poi se li sposta dal viso ed ecco che lei fissa gli occhi su di me.

«Ehm…» Si alza in piedi, la tuta ginnica aderisce al suo corpo come se fosse bagnata, lucida. E forse ancora non credo alla persona che mi è davanti, la Julia acrobata che con una capriola torna la Julia piccola e con la voce stridula che era mia amica. «Tu non sei Naomi. O Quinn. O Pippy. O Danielle. O Lily.» Mi guarda, ma non smette di sorridere. Poi guarda Martin. «Tu non sei Frank. O Joffrey. O Paul. O Isaac.» Si dondola sui talloni. «E Kevin, il mio ragazzo, torna dalla Florida domani. Mia madre scambia sempre la gente dai diciassette anni ai venticinque come miei amici.» Parla come se quella palestra fosse la sua casa. Come avrà fatto con il diabete? Come avrà fatto a vincere quei premi? Come ha fatto a vivere?

Mi sento gelare. Mi dispiace. Ho le vene di ghiaccio. Mi dispiace. Il ghiaccio si spezza, il ghiaccio mi buca la gola.

«Non c’è problema,» dice Martin. Solo ora mi accorgo che mi ha seguita. «Non c’è problema, voleva… cioè, volevamo solo farti qualche domanda.»

«Oh mio Dio.» Alza la voce. «Sei tu il tipo dell’intervista? »

«No.» Martin si gratta la testa, io resto immobile nella convinzione più assurda che tutto questo non stia succedendo per davvero. Eppure deve succedere. Eppure sono stata io a volerlo. Perché devo dirglielo, e forse così potrò porre fine alla solitudine che mi ha oppresso per tutto questo tempo.

«Julia…» riesco a dire, piano. Posso farcela, devo solo respirare. Devo parlare. «Tu frequentavi la Starbright. La scuola dell'infanzia...»

Si mette a braccia conserte, sembra nervosa, come se non volesse ricordare qualcosa, come se la mia presenza la irritasse. «Non capisco cosa c'entra.»

Respira. «Ci andavo anch’io. »

«Un bel caso. » Lascia ricadere le braccia magre sui fianchi ed io mi sorprendo di come un movimento del genere possa essere elegante e distaccato. «Solo che è un po’ strano parlare di quello che facevo da piccola. »

«Sono Sarah.» Non smettere di respirare o cadrai nel buio. «Sarah Pierce.»

Julia diventa pietra: immobile davanti a me, i suoi occhi si spalancano e le sue spalle si irrigidiscono. Se fosse possibile, anche i suoi capelli potrebbero diventare tanto duri da potersi spezzare. E poi scoppia in una risata che sembra l’inizio di un pianto.

«Molto divertente.» Si passa una mano fra i capelli, sembra un gesto meccanico ma si morde le labbra, mentre lo fa. La bocca le trema. «Di… vertente. Kevin quanto vi ha pagato per fare tutto questo? Idiota, idiota che non è altro. »

«Io… » 

«Bello scherzo, davvero. Un ragazzo... tu che parte fai? E tu… con gli occhi azzurri e i capelli… so-sono uguali...» La sua voce si fa flebile. «Bello scherzo. E dite a Kevin che dovrà chiedermi scusa in ginocchio… tanto lo perdono.» Il suo sguardo si perde nel vuoto. «Alla fine lo perdono sempre. »

Non so che cosa ha pensato Martin di me, la prima volta in cui mi ha visto. Ma spero che non veda mai quello che io sto guardando adesso, una ragazza dalla vita che scorre nel sangue che può spezzarsi da un momento all’altro stando ferma. Così, mentre le sue parole si diradano in accenni normali di una vita normale in cui lei è il ritratto di una fragile felicità.

«Non è uno scherzo. » La mia voce è ferma, e non so come questo sia possibile. «Non so di cosa parli.»

Julia esce a grandi passi dalla sala in cui si stava allenando, i capelli rossi e ricci ondeggiano sulla sua schiena, la sua mano trema quando si posa sulla maniglia della porta da cui sono entrata. La stringe così forte che la sua mano diventa di quel bianco senza sangue che fa paura quando si guardano i morti. «Non vi voglio qui.»

«Non ti prendo in giro,» le dico, e questa volta la mia voce è quasi un sussurro. «Per favore, solo… »

«Via da qui.» Ha le lacrime agli occhi, e la mano che non è ferma sulla maniglia continua a tremarle, lei trema tutta. «Odio le bugie, odio le prese in giro di Kevin, odio che voi che avete fatto questo. Sarah non sei tu. Tu non sai niente.»

Mi spinge fuori, sul portico, e Martin mi segue. Non ti lascerò, qualunque cosa accada, lo sento mentre mi sfiora la mano con la sua. Eppure so che non ho bisogno di lui, per parlare. Perché Julia è ancora vulnerabile, Julia non ha mai dimenticato quel giorno di marzo, Julia è ancora in quella stanza bianca e piena di sole dove è cominciato il dolore. Il dolore pulsa ancora nelle ossa, nella carne, negli occhi, sulla lingua. Nelle lacrime che stanno per cadere sulle mie guance, perché sono ancora debole. Entrambe lo siamo.

«Il cielo è stellato, il gorgoglio incantato. Fiumi, acque stillanti , di gigli canuti e respiri soffusi. Tenere luci di grande calore, danno al tuo cuore il tuo piccolo amore. Piccole stelle nel cielo dormienti, piccoli bimbi lì sorridenti, balli, canti, disegni e monete... » La mia memoria non è abbastanza. Dimentico. Ancora una volta. E ora che la guardo di nuovo, sento la lacrima che mi scende sulla guancia e parla con me. Mi dispiace.Da piccola mi dimenticavo sempre la fine di questa filastrozza e lei la continuava per me. Lascio che muoia lungo tutto il suo percorso, come me, come in ogni incubo, come in ogni giorno in cui ho visto la mia luce spegnersi. 

Julia sbatte gli occhi. Sembra essersi improvvisamente svegliata, come se fosse una sonnambula che si accorge solo adesso di chi le sta davanti. Ha gli occhi marroni e liquidi, come l’impasto di un biscotto che ha bisogno di più burro, qualcosa di dolce e triste, incompleto. La sua bocca si dischiude leggermente.

«Non cercarmi più. » La sua voce sembra provenire da lontano, lontano, lontano.

«Quanto ti ha fatto male? Cosa hai sentito? Per favore, Julia, per favore… »

«Mai più. »

«Voglio solo che finisca, voglio solo che non accada più, voglio solo essere normale, ma come posso… »

«Mai più, » lo ripete come se fosse un robot.

«Per favore, aiutami.» 


Ma l’unica cosa che vedo è lei che distoglie lo sguardo e chiude la porta con un tonfo. Respira. Non cadere nel buio. Respiro. Non cado nel buio.

Ma il buio è dentro di me.

***

Ci sono delle volte in cui devi essere forte anche se non lo sei. Perché chi è importante per te ha bisogno della tua forza. Ed io ho cercato di darle tutto quello che avevo. Camminiamo per le strade senza una meta predefinita, abbiamo lasciato i quartieri residenziali alle spalle e ci avviciniamo alla periferia, la parte della città che collega poi all’autostrada, l’esatto opposto della mia abitazione e della sua.

Per favore, aiutami. Sarah ne sta in silenzio, accanto a me. Per favore, aiutami. Cerca qualcosa che io non posso darle nemmeno se scavassi all’interno di tutto me stesso. Perché era di quello che aveva bisogno. Perché non so come è potuto succedere tutto quello che, effettivamente, è accaduto. Non so nemmeno come faccio a non considerare minimamente vicina la possibilità che quello che ha pietrificato Julia al solo ricordo possa succedere anche a me. Ma non lo trovo possibile.

«Sarah vuoi che… »

«Non… »

«Ti accompagno a casa oppure… » Lascio che la mia mano raggiunga il suo fianco, in modo da poterla sentire attraverso la pelle. Camminiamo lenti. Le accarezzo il viso con l’altra mano e incontro due occhi d’acqua, lacrime intrappolate nei suoi occhi azzurri. Deglutisco, così, nella strana sensazione di non saper più come si respira. «Oppure possiamo… »

«Non voglio andare a casa. »

«Ok. » Le sposto una ciocca di capelli dal viso.

«Voglio stare un altro po’ con te. »

Le sorrido. Lei guarda per terra, come per vergogna. Ma quello che forse ancora non sa, è che oggi è stata coraggiosa: ha ripercorso quel giorno con le sue forze, con le sue parole, ha lasciato che Julia la guardasse incredula, poi immobile nel ricordo e in quella che mi è sembrata paura. Ma l’ha affrontato.

Volta il viso dall’altra parte.

«Solo un altro po’? »

«Fino a quando non avrai anche tu paura di me.»

Sento qualcosa di freddo: mi attanaglia le viscere, è qualcosa di viscido e acido. Mi fa solo desiderare di prenderle il viso fra le mani e guardarla ancora negli occhi e... E così lo faccio. Poso la mano sotto il suo mento e le faccio girare la testa, piano, perché ogni volta che la tocco è strano come riesca a percepire che sia leggera, pronta a volarmi via dalle mani.

«Io non avrò mai paura di te, Sarah Pierce. »

Le sue labbra carnose si muovono in quello che sembra un sorriso pieno di colpe, pesi che le impediscono di sorridere ora che il passato è così vicino. Ma io le tocco le labbra con le dita, lascio che il suo viso si avvicini, lascio scorrere le mani sul suo collo e poi sulla vita, resto a respirarla così vicino alla sua bocca, come se questo fosse il tempo che si aspetta per morire.

Il suo sguardo mi parla, affranto. Fino a quando non farò del male anche a te. Un sussurro contro la mia bocca.

Mi sfugge un ghigno e le prendo le mani, lascio che le posi alla mia nuca, le sue dita mi solleticano.

Mi hai già fatto del male. Avvicino la bocca alla sua. Mi sono innamorato di te.

E come se il tempo in cui si aspetta la morte fosse passato, le mie labbra toccano le sue.

*

*

*

*

Ciao a tutti!

Innanzitutto vi ringrazio per come avete accolto il mio "ritorno". Siete stati davvero meravigliosi, ed io vi ringrazio infinitamente. Siete fantastici <3 <3 <3

Questo capitolo - visto da me, povera mortale che scribacchia - mi piace xD spero che piaccia anche a voi e spero, soprattutto, che piaccia alla mia carissima amica Noemi perché questo è il mio regalo di compleanno! <3 Tanti auguri a te, tesoro mio <3 <3 <3 E ti auguro con tutto il cuore dei giorni bellissimi e di trovare... il tuo James Carstairs <3 (So che lui ti piace tanto u.u )

Se avete consigli e/o perplessità, sarebbe davvero fantastico "parlarne" con voi :) 

Ci risentiamo fra due settimane :) In particolare ringrazio Mia che ha gentilmente realizzato il bellissimo banner che avete visto all'inizio. Se vi va di leggere un'originale urban fantasy, passate dalla sua Underworld :) 

E' incredibile come quest'immagine sia perfetta anche per questo capitolo. Grazie a tutti voi, davvero *-*

Un bacio

Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 11. Onda anomala ***


Until 11

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

11. Onda anomala

 

Corri, Sarah, corri via. 

Va' a casa, lì forse sarai al sicuro. 

Con te lì, forse, lo saranno tutti gli altri.

Questa è la ninnananna che mi tiene sveglia, ragazzina di quasi tredici anni che vorrebbe solo restare sotto le coperte per tutto il giorno solo per non vedere nessuno. Ragazzina che ha paura, ragazzina che non parla. 

Tranne oggi.

"La capitale della Russia, te lo chiedo per l'ennesima volta... sai rispondere?" La professoressa ha battuto il piede impaziente. La testa riccioluta davanti a me si è mossa a fare un cenno di negazione. 

Mosca.

Una volta c'erano principi e principesse, anche se li chiamavano con un altro nome. 

Mosca. 

"Allora?" 

"Mosca." Il mio è stato un sussurro roco. Forse era solo un sogno, forse era solo un ricordo. Ma poi il ragazzino di fronte a me si è irrigidito e la sua voce, sicura, ha dato vita al mio sussurro. 

«Grazie. Per prima.» Di nuovo la sua voce. Appartiene al ragazzo dagli occhi così chiari che sembrano tempera azzurra sbiadita dal tempo. Gli occhi bellissimi di un quadro perduto. 

Lo guardo. Non c'è di che. La gola fa male. Parla, Sarah, di' qualcosa.

E' da quando Julia è andata via qualcuno non parla con me. 

«Ho sentito qualche adulto dire cose brutte, ma so che non sei cattiva.» Un sorriso. Il sangue che mi pulsa nelle tempie, sento un leggero mal di testa, qualcosa che forse è gratitudine. Corro via, perché è da una vita che lo faccio e non so fare altro. Salgo sul pullman, prendo posto, sospiro; lo guardo da lontano, alto, magro, con quel sorriso che gli fa arcuare le sopracciglia. Una ragazza gli dà un pugno leggero sul braccio, ha i capelli castani dai riflessi un po' rossi, non riesco a vederle il viso ma... con quel modo di far ondeggiare i capelli lisci, di camminare, e vorrei essere come lei. Ma questo è già troppo. Va bene che io sia qui. Va bene che qualcuno, nel mondo, possa pensare che non sono un mostro.

Oggi

Me ne sto con gli occhi fissi fuori dal finestrino, guardo il mio riflesso imbrattato dall’impazienza, mentre l’autobus imbocca le varie strade necessarie per portarmi a scuola. Sfoglio il mio taccuino. Ieri non ho scritto niente che valesse la pena essere ricordato. Avevo un batticuore che mi ha fatto temere di rimanere uccisa, mentre la mia penna segnava sul foglio poche parole.

Julia è viva, subito dopo il ragazzo del bus.

Il ragazzo del cinema.

Il ragazzo che mi parla.

Il ragazzo che mi fa sorridere.

Il ragazzo che mi fa ridere.

Il bus si ferma all’improvviso ed io sbatto le palpebre, i ragazzi cominciano ad alzarsi dai loro posti, io li seguo e scendo la scaletta con lo zaino in spalla e il taccuino stretto fra le mani e ripiegato su se stesso. L’immagine della pagina, però, è come se fosse ancora qui davanti agli occhi.

Il ragazzo che non ha paura di me.

Se ne sta da solo con le mani nelle tasche, a guardare chissà dove, con gli occhi accesi di qualcosa che non è luce. Quando non sa che lo sto guardando, lo trovo sempre curvato in una piccola nebbia di... tristezza, sembra. Ma non ne sono sicura.

«Martin? »

Ora mi sorride, appoggiato al muretto. Una giacca leggera, scura, jeans e maglietta bianca, il viso illuminato dal sole delle otto del mattino.

Il ragazzo che amo.

Mi avvicino. Sento il cuore accelerare, infilo il taccuino in tasca e mi fermo sul marciapiede.

«Questa giornata è stupenda, non pensi?» chiede.

C'è una speranza che lo sia.

Alza le mani al cielo e all’improvviso mi sembra un bambino e un uomo insieme. Mi chiedo se anche lui non dorme la notte per quello che sento quando sono con lui. Mi chiedo se davvero non avrà mai paura di me.

«Stupenda, già.» Ricambio il sorriso. Non riesco a pensare a tutte le cose per cui non dovrei sorridere, non adesso, e poi lui fa qualche passo verso di me.

«Oggi manca il professore di Diritto, sai... alla terza ora,» butto lì.

«Meglio così.»

«Perché?» 

Si passa una mano fra i capelli e fa un sospiro. «Io oggi ho la terza ora libera.» L’ombra di un sorriso.

Mi dondolo sui talloni. Lo guardo mentre mi sorride di nuovo ed io mi chiedo quando sia diventato così bello, più di quanto non lo fosse già. E poi mi prende la mano e mi attrae a sé, ed io prego che sul mio viso non legga quanto sono felice di questo.

Non dico niente. Richiudo la bocca quando mi accorgo di tenerla leggermente aperta, forse per il bisogno d’aria. 


«Tu. Sei. Bella.»

Mi mordo il labbro, mi sento stordita. La sua risata si sente appena appena, si mischia al suono della campanella. «Grazie... ehm, anche tu.»

«Lo so già, grazie.» E mi sento come se tutto il resto fosse normale, e quello che mi sta accadendo invece la cosa più stramba di sempre. Non ci avevo nemmeno mai pensato,  ad avere qualcuno. Ora invece c’è lui e non sono sicura di poter reggere, perché non è il coraggio che mi serve, per questo. Ma la voglia di essere chi sono senza timori.

Inclina la testa, poi avvicina il viso al mio e sento il suo respiro sulla pelle, poi fra i miei capelli. «Non mi va proprio di andare in classe.»

Trattengo aria nei polmoni. «Nemmeno a me, però...»

«Siamo in ritardo e tu odi arrivare in ritardo. Tranquilla, andiamo lo stesso.» Si rimette lo zaino in spalla e poi sono io cercare la sua mano, senza parlare, senza sapere davvero cosa avrei potuto dirgli. Ma adesso va bene così.

***

«Visto che l’argomento del PH dovrebbe ormai essere ben consolidato, cominciamo la lezione con delle dimostrazioni pratiche da parte vostra. Troverete dei liquidi con i vari dati e voi dovrete calcolarlo... perché ormai l'argomento è consolidato, vero?» La professoressa parla, senza interruzioni.

Sono fra i primi ad alzarmi dal mio banco. I lavori di gruppo non mi sono mai piaciuti, ma... che potrà mai essere? Guardo i visi dei ragazzi che si alzano dai loro posti, e quello che sento è un forte desiderio di non stare sola, di sentire altre voci, di lasciare che loro possano sentire che non ho paura di loro. 

Un ragazzo alza gli occhi su di me; capelli neri, un sorriso largo, sembra simpatico... chissà come sarebbe se Martin fosse qui. Ma in fondo è solo una lezione di biologia. 

«Ciao. » Una ragazza mi copre la visuale del ragazzo dal sorriso allegro. Il mio primo istinto, quello che è più difficile controllare perché mi urla in tutti i nervi del corpo, mi dice di indietreggiare. Ma non lo faccio. 

«Hai già trovato un compagno?» mi chiede.

Scuoto la testa nella verità. «No.» Ma poi poso di nuovo gli occhi su di lei, biondissima e fuori luogo per il viso e il corpo che appartengono al genere che si vede sempre solo sulle riviste, e la mia voce viene fuori chiara. «Vado a cercarne uno. »

Non mi va di stare con lei. Il ricordo si dirada nella mia mente, è una mattina fredda, vado a scuola a piedi e poi c’è lei. Lei che muove le labbra formare il nome di Martin.

«Io… volevo parlarti. » Mi sorpassa, mi guarda con i suoi occhi marrone chiaro dalle ciglia nere di mascara, i jeans stretti e la maglietta scollata, i capelli tutti da un lato. Si siede sullo sgabello di fronte all’occorrente per l’esperimento. «Mi dispiace per quello che ti ho detto quel giorno.» La sua voce suona dispiaciuta, come distorta da un'interferenza.

Sospiro. Vuole chiedermi scusa, sì. Mi siedo sullo sgabello accanto a lei, cerco di ignorare quella sensazione che è solo disagio e prendo il foglio con tutti i dati del liquido.

«Non importa,» fiato. 

«Pensavo che dovessi saperlo.»

A non tutti capita di incontrare Sarah il mostro.

«Non importa, facciamo questi calcoli.»

«Conosco Martin.» La sua voce si abbassa nel tono di un segreto, e improvvisamente è come se non sentissi più il cuore che mi batte nel petto, ma solo un rumore di viscere che si contorcono. «Insomma, è venuto a letto con me. »

Perdo il respiro tutto in una volta.

Si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio – non può essere – attorcigliandola, schiacciandola,  - non può essere non può essere non può essere –e il mio stomaco è attorcigliato e forse qualche organo ci è caduto dentro. Mi viene da vomitare ed io sono attorcigliata e schiacciato, ridotto a una liquida e viscida poltiglia.

No, no, no, respira. Non può essere possibile, ti sta prendendo in giro.

Cerco di calmarmi. Non posso farmi prendere in giro così, Yvonne sta solo giocando. «In realtà…» Non può essere. Si interrompe, fa un sorriso di quelli che possono solo prendersi gioco di me. «Lui è un tipo che non vuole impegni. Ed anch’io. Succede diverse volte. E poi... che ci vede in te, Martin Scott?»

Le sue labbra con quel nome ed io chiusa nella mia incertezza, perché non so rispondere a quella domanda.

Tu non sei invisibile. Martin che mi guarda, Martin che mi prende la mano, Martin che mi bacia. Io ti vedo, Sar.

«Non ci credo.»

«Oh, va bene, ok.» La sua risata è una nota di derisione. «Lo scoprirai da sola, allora.» La sua bocca si dischiude leggermente. «Martin può avere tutto quello che vuole, e lo prende.»

Ti sta prendendo in giro. Una voce, dentro di me, si ostanta a ripetermelo. Ma sento quella convinzione vacillare, perché non so cosa vede Martin in me. Io sono innamorata di lui, ma non mi ha mai detto...

«Chiediglielo. » Lo dice in modo così tranquillo da farmi tremare come se avesse urlato. «Chiediglielo, Sarah Pierce.»

Trattengo in gola quello che mi sembra un gemito, un colpo di tosse, un modo per far andare via tutto questo.

«Sono sicura che userà come scusa “non stavamo ancora insieme”. Si annoiava, tutto qua.» 

Si annoiava.

Non riesco più a parlare. Ho conosciuto Martin quando era un annoiato ragazzo di diciotto anni che uccideva il tempo ciondolando da una parte all'altra. Voglio solo scappare e andare via e nascondermi come Yvonne fa con la sua splendida ciocca di capelli biondi ma io non posso. Ciondolava da una parte all'altra della sua vita, e lì ha incontrato me. Devo restare qui, io non ho paura, io non ho paura di me. Si stava solo annoiando. C’è qualcosa che mi fa rivoltare ancora di più lo stomaco, ed è Yvonne che si avvicina a me e parla a voce bassa, bassissima, ma non abbastanza per non farmi sentire. «Lo so che ti dispiace... ma a lui no. A lui è piaciuto.»

Mi mordo la lingua così forte che sento il sangue che mi sporca i denti, e poi un'ondata forte e impetuosa che è rabbia, rabbia, rabbia.

E forza.

Rabbia, rabbia, rabbia, e Yvonne continua a sorridere ed io sento quest’onda che si concentra nella mia mente ed oscura tutto. Ed Yvonne sorride. La odio. La odio perché è più bella, più alta, e potrebbe tranquillamente essere un suo desiderio. E forse anch’io per lui lo sono, un desiderio, un giocattolo, e risuonano le parole gli è piaciuto. Ed io vedo Martin che mi bacia, Martin che mi tocca, e poi vedo Martin che la bacia, Martin che la tocca, Martin che la spoglia, Martin che la stringe ed io non posso non posso non posso.

Buio.

No.

Buio.

Non di nuovo, non adesso.

L’onda nera è troppo alta. 

Affogherò.

Mi sta travolgendo.

Sento i brividi che si concentrano sulla spina dorsale. Come se stessi per svenire, la testa fa male ed è come se qualcuno mi stesse colpendo, ma poi mi sento... più forte. Come con Julia. Come con Hans.

Perché tu sei un mostro.

Sbatto le palpebre.

E vuoi che succeda.

No.

Ancora una volta.

Respiro.

No.

Un altro respiro.

Non sono un mostro.

Froza, forza, forza.

L’onda è scura, l’onda è alta, l’onda vuole uccidere.

No.

Ci sono ancora brividi, li respingo.

C’è ancora l’onda, resta in equilibrio sulla riva della mia mente.

La sento rombare e schiantare e morire… e lo fa su se stessa. 

L’onda non mi prende, e così non prende nemmeno Yvonne.

Ho un mostro, dentro di me.

Ingoio il sangue nella bocca.

Ma posso fermarlo.

 

L’ora passa senza che riesca a guardarla di nuovo. La campanella suona, lei se ne va, vedo solo l’onda dei suoi capelli che splende alla luce del sole.

***

Corro così veloce nel corridoio da scivolare quando arrivo vicino alla porta; prendo un respiro profondo, chiudo gli occhi, li riapro e poi continuo di nuovo a correre. Martin aveva Spagnolo, all’ultima ora, l’aula è dall’altra parte della scuola, posso andare a casa senza che lui mi noti.

Non prenderò il bus.

Corri, respira, corri, respira. Voglio andare a casa. Corri. Corri, respira, corri, respira.

«Sarah? »

Il mio nome.

Mi sembra quasi che sia una brutta parola, adesso, perché so che non potrebbe essere nessun altro, perché non voglio vederlo eppure mi volto. 

E lui non c’è. Chi mi sta davanti ha i capelli rossi, ricci, un vestito di jeans e il viso fine, perplesso o forse… impaurito.

Grandi occhi marroni.

«Julia.»

«Non avvicinarti, resta lì.»

Cerco di non fare rumore, con il mio respiro. Tutti i pensieri che sono nella mia testa vorticano nella sua direzione, e lasciano Martin in un piccolo angolo dove picchia una luce che acceca, ma che adesso non guardo.

«Sei venuta a... cercarmi?»

«Hai detto che volevi che… ti aiutassi. »

Guarda in alto, in basso, a destra, ma non guarda me e fa cenno di no; mi tratta come è normale che mi tratti, addirittura con un’esagerata gentilezza.

«Sì. » Trattengo l’impulso di fare un passo verso di lei, forse perché le uniche volte in cui una persona mi ha dato aiuto ha sempre fatto un passo verso di me, mentre io restavo immobile. Martin. «Voglio… voglio che non accada più. »

«È successo altre volte? »

«Sì. »

I suoi occhi marroni e grandi sono lucidi di paura, ma vedo anche incertezza: Julia non sa cosa fare, cosa dire. 

«Julia, ascolta, quando… quel giorno, tu che cosa… »

Apre la borsa a tracolla e ne tira fuori una penna, blu e lucida, con una striscia dorata. «Quello che è successo quel giorno non è stata colpa tua. »

Non riesco a trattenere la sorpresa. Come non può essere mia, la colpa di tutto?

«Un uomo, nel parco, mi ha chiesto di... infastidirti. "Farti arrabbiare" ha detto e... è assurdo, lo so. » Ride, ma non c'è nessuna allegria in tutto questo. «Mi ha promesso… delle caramelle. Scusami, lo so, io...» Un uomo. I suoi occhi diventano acqua di fango. «Mi ha detto che mi avrebbe dato quelle caramelle se io… ma non pensavo che sarebbe finita così.» Non sento più il sangue scorrere. Julia fa un respiro. «Non so da cosa dipende, ma è stata anche colpa mia… e lui mi ha lasciato questa.»

Un altro passo verso di me. Non sento più il sangue ma faccio un passo verso di lei. Non è paura quella sul suo volto, non più. Ma qualcosa che non ha mai dimenticato, qualcosa che non riesco a spiegare, qualcosa che, comunque sia, la rende vicina a me.

Prendo la penna dalle sue mani.

«Ora devo andare,» mi dice, piano.

Sfioro con le dita la J e la S dorate sulla superfice in plastica blu.

«D’accordo. Però potremmo... parlare qualche altra volta?»

«Ok... ok, Sarah.» Sembra un sorriso, il suo. Il ricordo di un giorno di sole di tanti anni fa. E poi fa qualche passo indietro e va via, ed io non posso fare a meno di pensare che guardare un volto che fa parte della tua vita senza i tratti della paura è una delle cose che possono rendere felice una persona, anche quando tutto sta cadendo a pezzi.

Mi dirigo verso l’uscita.

«Il bus è dall’altra parte, Sar. »

Mi volto.

«Martin…»

«Sì, sono Martin. » Sorride, bellissimo. Sorride, e mi spezza il cuore perché lui può avere tutto quello che vuole e lo prende. Vuole parlarmi, mi parla. Ogni cosa fa parte del ciclo perfetto della sua esistenza. «Sì, sono Martin. »

 «Julia è venuta a parlarmi. »

«Julia? »

Adesso è più importante.

«Mi ha detto delle cose, c'entra un uomo... un uomo che le ha dato questa penna.» Me la prende dalle mani, tremo. Guardo per terra.

«Sarah, io devo… andare subito.»

Alzo il viso.

Lui si è già voltato, prende l’iphone e se lo mette vicino all’orecchio, cammina veloce mentre i miei occhi catturano qualcosa che è più distante. Martin cammina, ora sta correndo, è sempre più lontano. 

Yvonne Stewart vicino all’uscita del parcheggio che se ne sta con il cellulare in mano.

Ed io dovrei essermi già voltata. Passano i sessanta secondi più lunghi della mia vita. Dovrei andarmene, dovrei smettere di guardare, dovrei solo... la parola che mi viene in mente è fuggire. Fuggire come una codarda. Fuggire

Da lui

Da lei 

Loro

Che si baciano

Boccheggio.

Un bacio. Due labbra. Martin. Yvonne. Ed io vorrei solo continuare a non credere mentre lei lo abbraccia. Vorrei solo continuare a non credere mentre Martin posa le mani sulle sue spalle.

E adesso corro via davvero. Voglio solo scappare via e non tornare mai più. Voglio solo stare da sola. Voglio essere forte.

L’unica persona di cui ho bisogno sono io e smetti di piangere, l’unica cosa di cui ho bisogno è la mia forza di volontà e smetti di piangere, corro, io lo amo, corro, mi prende in giro, corro, come può prendermi in giro quando mi guarda, come può prendermi in giro in ogni minuto che passo con lui? È finita. Non è mai iniziato ed è troppo tardi perché è vero. È vero ed io sono un sogno spezzato, cenere al vento, fuoco spento. Respiro con la bocca, mi rendo conto che non sentire è la cosa migliore che ho imparato a fare. Arrivo a casa, corro in camera e mi lascio cadere lungo la porta. Le luci bianche di natale lampeggiano, non le ho ancora tolte... e comincia a lampeggiare anche un altro pensiero… stasera Julia mi racconterà tutto quello che sa. Mi aggrappo a questa speranza, questo futuro, per cancellare l’immagine del ragazzo che amo dalle braccia di un’altra. Un'immagine che mi ha lasciato solo l’amaro di un sogno andato in frantumi.

*

*

*

*

Ciao a tutti! :)

Questo capitolo non è dei più felici, Yvonne è arrivata a rovinare tutto ma io non me la prenderei con lei. C'è qualcuno, "più in alto", che controlla le vite di questi ragazzi. Julia ci ha ripensato e ha detto a Sarah che non è stata colpa sua... avrà altre cose da dire? Ci racconterà che cosa effettivamente fa il potere di Sarah, che per la prima volta è riuscita a respingerlo?

Tutto nel prossimo capitolo <3

Grazie a tutti voi per leggere e sostenermi :)

A presto

Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 12. Pesi e ricordi ***


until 12

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

12.

Pesi e ricordi

1995

È una canzone dei Depeche Mode, quella che viene fuori dal juke box del locale. Qualcuno la canticchia ma, dopo l'ennesima giornata di studio intenso, vorrei solo che tutti se ne stessero in silenzio. 

Vorrei solo, per una volta, dimenticare quello che con il buio del cielo affiora sempre.

Lascio del soldi sul tavolo del locale e mi alzo. Mi dirigo verso la porta d'uscita stringendomi nel cappotto, fuori farò freddo.

«Joe, vai già via?»

Mi fermo. Sento qualcosa salirmi lungo la schiena, come le se la sua voce fosse una mano che mi accarezza, che mi dice di restare. Mi volto.

Mi guarda con le braccia conserte sotto il seno, i capelli castano mogano che le scendono a onde sulle spalle.

«Ciao, Candy.»

«Cassie,» mi corregge con un sorriso che mi fa diventare la gambe molli.

«Candy.»

Io la chiamo così. Lei, dal profumo di caffè dove si sente anche il sapore del latte; i suoi occhi color nocciola mi scrutano. 

«Stasera finisco prima, quindi alle dieci mi puoi aspettare.» Mi riserva un sorriso. C'è il sole, qui dentro, ed io mi chiedo come faccia ad essere così solare, così viva.

Ma io non sono abbastanza solare, non sono abbastanza vivo.

«Stasera non posso.»

«Che cosa c’è? » La sua voce è sottile. «C’è qualcosa che non va? »

«Lascia perdere… »

«Io… »

«Ci vediamo, Candy.»

Spingo la porta a vetro e mi ritrovo fuori, colpito dal freddo glaciale che fa parte della mia vita da quando sono qui, sconfinato, imprigionato, isolato, solo per sempre e non perché sono lontano da quella che dovrebbe essere la mia casa. E' così dappertutto. Nessuno mi ha mai capito, nessuno ci riuscirà. Nessuno vorrà mai ascoltarmi. E Cassie...

«Joe, » mi chiama, scorgo preoccupazione nella sua voce e anche se non voglio far altro che andare via, mi volto e la guardo e vorrei solo che tutto il resto scomparisse, vorrei scomparire io per non fare quello che faccio ogni giorno, da quando c’è lei. Perché lei non merita quello che potrei farle se sapesse. Non merita quello che le sto facendo, anche se non lo sa. Non lo sa, ma io le strappo via la felicità in quel modo che lei crede sia l’unico per essere felici insieme. 

I capelli castani, lunghi, gli occhi grandi, nocciola liquida, il viso dai tratti decisi, imperlati di malinconia.

Lei è la mia Cassidy Grace.

«Joe, io ti amo.» Me lo dice con lo straccio stretto al petto, il grembiule rosa della caffetteria addosso sporco di salsa, il viso sciupato dalle spiegazioni che non le ho mai dato.

Prendo le sue parole nel cuore che sento di non avere. Che non vorrei avere più.

 

Oggi.

Sono passati così tanti anni. Lascio cadere la forchetta nel piatto con la salsa e mi lascio andare sulla sedia.

«Hai finito, Joe? »

«Sì, angioletto.» Mi prende il piatto che sta davanti a me e la odio, la odio per quel tutto che ho biascicato a Cassidy in quella sera fredda di novembre. Yvonne si volta e mette i piatti nel lavandino, e mi chiedo perché la fortuna sta sempre dalla parte sbagliata. Mi chiedo perché i ricordi tornano se non mi appartengono più. «Quindi hai fatto quello che ti ho chiesto. »

«Oh sì, Joe.» La sua voce ha quel tono alto e raro dei suoi sorrisi. «Ho fatto del mio meglio. Sono andata da Sarah, le ho detto tutto e poi al momento giusto mi sono avvicinata a Martin. Lui mi ha respinto, ma Sarah aveva già visto. E poi lei è un tipo... mhm...»

«Non ti interrompere.»

«Ehm… silenzioso, » aggiunge, nervosa. «Silenzioso. »

«Non credi che possa fare scenate? »

«Credo che cercherà di evitarlo.»

Bevo un altro sorso di vino.

«Sempre che lui non insista,» continua Yvonne.

Oh, lo farà. Il bicchiere mi scivola di mano e va in frantumi sul pavimento, Yvonne sussulta e si volta di scatto, con gli occhi gonfi di notte passate a studiare per prendere una cazzo di voto buono e non essere rimandata. Mi alzo, lei resta immobile, ghiacciata in quello che non so che farò. 

Cammino sui vetri, sento lo scricchiolio sotto le scarpe, la sensazione di poter nel poter fare questo a chi dovrà pagare.

Sarah non è mai stata in pericolo.

Martin è in pericolo da quando è nato.

***

Poso le mani sulle sua spalle – pelle e tessuto sottile, odore già conosciuto – e la spingo via, mi pulisco la bocca e sputo per terra. 

Mi ha baciato, ecco cosa ha fatto.

«Ma che cazzo?!» Mi ha baciato. Una volta nella mia mente il suo nome era Ivy, adesso so come si chiama: Yvonne.

Deglutisco. Sarah… Sudo freddo, Sarah, mi volto. Lei è già lontana, sta correndo via e mi sento il sangue denso nella lenta incertezza che mi attanaglia la gola. 

«Perché fai così? » La voce di Yvonne è come la ricordavo: alta, sottile. «L’altra volta non hai reagito in questo modo.»

Alzo le braccia a toccarmi la nuca. 

«Pensavi che me ne fossi dimenticata, eh, Scott?» Batte gli stivali sull'asfalto, scuote la testa e se ne va con quel modo di camminare in cui i capelli le ondeggiano.

Non riesco più a pensare alla cosa senza senso che è appena successa. Stringo la penna fra le mani e il cuore mi batte ancora più veloce. 

Corro a casa. Sento lo stomaco che si ribalta, mi fa salire il pranzo, sento l’acido nella gola, le cose in cui non voglio credere. 

JS. Non ci credo. JS. Non ci credo. 

Quell’uomo ha voluto che quel giorno Sarah facesse del male a Julia. 

JS.

Mio padre.

Arrivo a casa, mi apre Doreen; so che è lei, ma non la guardo nemmeno.

«Martin stai bene? »

No.

«Dov’è? »

«Chi? »

Quell’uomo.

Non riesco a parlare.

JS.

«Papà. » Deglutisco. «Non mi avevi detto che tornava oggi? »

Doreen avvicina a me, sull'uscio della porta di una casa che non ho mai sentito mia, una cosa in cui potrei ancora perdermi fra i lunghi corridoi, una casa in cui forse non riuscirò più nemmeno a dormire... a meno che non ci sia Doreen a canticchiare mentre fa le pulizie.

«Io penso che tu abbia la febbre.» Doreen posa una mano sulla mia fronte, mi accorgo di essere sudato al suo tocco freddo di detersivi, viso preoccupato, riccioli alzati. A meno che non ci sia Sarah. Sarah, e solo lei e la sua vita è una scartoffia di cose non dette, non sentite, non avute per colpa sua. JS. 

«Martin, che cosa… »

«Doreen, dov’è? »

«È tornato stamani, ma adesso è in ufficio. Ha molto lavoro arretrato… »

Perché è andato via? Per cosa? C’entra Sarah?

Ovviamente sì.

«Martin, non ti senti bene… che cosa ti è successo? »

Scuoto la testa.

Mio padre. Mio padre ha rovinato la vita alla ragazza che amo.

«Niente. »

Mio padre conserva dei documenti su Sarah. Mio padre si chiama Joseph Scott. Mio padre ha una penna con la sigla del suo nome. E non posso, non posso fidarmi di lui.

Doreen mi guarda con quegli occhi scuri che sono la mia radiografia personale.

«Niente, sul serio. »

«Riguarda i colloqui con i professori, per caso? »

Me ne sono anche dimenticato.

«Ehm… Ah, già. » Doreen... Vorrei tanto che fossero i colloqui. Vorrei tanto essere preoccupato per quella F che ho preso perché con Cameron non studio mai. «Giusto.» Vorrei aver incontrato Sarah a una festa di quelle che fanno d’estate, in cui non ti ricordi che giorno è dormi fino a tardi la mattina dopo, le ragazze ridono con le gonne corte e un bicchiere di coca in mano. Vorrei aver dovuto fare il deficiente per farmi guardare, senza doverla salvare dal guscio di se stessa. «Ci vai tu, 'Reen? »

«E chi altro dovrebbe andare, sai che tuo padre è sempre impegnato e poi… »

E poi quel giorno ho visto la sua foto e ho sentito che dovevo conoscerla. Non conosco mio padre, almeno conosco lei. E l’ho guardata con la paura negli occhi suoi, azzurri e bellissimi, in un giorno settimanale, grigio di scuola, noioso e nuvoloso.


«Ti do un bicchiere di spremuta, quella fa sempre bene. »

***

Doreen ha appena chiuso la porta; si è messa addosso dei jeans non male insieme ad un’altra maglietta non male e si è sistemata i capelli in un modo non male. Mi chiede sempre come sta quando deve incontrare i professori, come se dovesse andare ad un appuntamento. L’unica cosa che vorrei è che diano per scontato che sia davvero mia madre. Solo che poi a un certo punto la chiamano “Signora Scott” e lei fa “No, non sono sua madre. Sono…” L’unica persona a cui importa di lui, a parte qualche altra mosca bianca. E poi finisce che anche i professori sanno che in questa casa sono solo per la maggior parte delle volte.

Apro il cassetto della cucina così forte che mi cade sulle gambe; lo afferro, in modo da non far scivolare le chiavi, lo rimetto a posto e mi metto a cercare. Questa non è, questa non è, questa non è. Troppo, grande, troppo piccola. Avrà messo una serratura speciale per quella porta? Forse devo aspettarmi di tutto. Da un estraneo, perché mio padre non è altro che questo, è quello che normalmente si fa. Aspettarsi qualunque cosa.

Alla fine le provo tutte.

Questa no.

Questa nemmeno.

E nemmeno questa.

E questa.

Questa.

Cazzo, dai.

E questa.

E questa.

E questa.

Non ce la faccio.

Cazzo, deve essere questa.

Questa.

La porta si apre. Le domande si oscurano per un istante in un migliaio di lettere dell'alfabeto che si infrangono nel mio cervello, mentre sento il legno della porta cigolare, guardo il buio della stanza e, affannato come se non avessi più fiato, resto fermo sulla soglia.

Poi accendo la luce.

Odio tutto questo.

Faccio un passo avanti.

Non può essere la mia casa.

Un altro passo.

Non può essere il posto in cui vivo.

Mi avvicino alla scrivania in legno scuro di questa camera ordinata in modo quasi maniacale, sposto i vari fogli che mi trovo davanti e trovo subito il documento con la sua foto. Che altro ci sarà, qui dentro? In questi cassetti, in questi altri fogli, fra i libri, e nel suo ufficio… So che è stato lui. E per questo non devo chiedergli niente, non devo farne nemmeno una parola. Se parlassi… non voglio nemmeno immaginarlo. Chissà che cosa potrebbe fare per mettere fuori il figlio diciottenne... Chiamare Sarah e obbligarla a usare quello che sa fare su di me? Ne sarebbe capace, anche se lei non lo farebbe. Lei non lo farebbe.

Faccio qualche fotocopia, ho lo strano presentimento che possa tornare da un momento all'altro; prendo quelli originali e li metto dove li ho trovati, poi prendo le fotocopie e le sistemo fra le pagine del libro di Chimica.

Respiro. Sì, devo solo respirare, calmarmi. Non posso raccontare niente a nessuno. Niente a Cameron. Niente a Doreen. Sarah ha fin troppi pesi. 

Devo affidare tutto a me stesso.

*

*

*

*

Ciao a tutti :) Questo è un capitolo di passaggio per la storia ma comunque indispensabile. D'ora in poi troveremo molto più spesso delle parti dal punto di vista di Joe, le trovo davvero indispensabili per capire il suo personaggio come io l'ho inteso :) Prima di tutto, ringrazio voi che recensite e mi leggete sempre, e sono davvero felice per il fatto che continuano ad aumentare le persone che inseriscono la storia fra le seguite e le preferite <3 Grazie mille, davvero! *-* 

Al prossimo capitolo e grazie di cuore.

Un bacio

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 13. Angeli e Giudici ***


until 13

13. 

Angeli e Giudici

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.


1996

La vita si distorce, vi accadono cose che ne cambiano la forma, il colore. Il mio è un abisso nero, anche in questo ricordo, un abisso che può portarmi solo verso l'alto, dove nessuno è mai arrivato. Dove potrò arrivare io. Nella mia mente una voce grida dei nomi. Cassie... un nome. Ma non significa niente per me. Non ricordo nemmeno più se un tempo aveva un qualche significato. Cassie... pensa a lei. Non mi ricordo chi è. E non ha più importanza.

«Dovrai uccidere me se vuoi uccidere lui. » La sua voce è polvere che scende sulla morte.

Cadaveri dei servizi segreti giacciono a terra inermi, circondano le uniche persone vive rimaste, l’unica persona che resterà in vita. Sono diventato bravo anche con la pistola, così come lo sono stato ad entrare nei computer che manovravano i loro spostamenti, così come lo sono diventato ad intercettare le telefonate, a mettere le telecamere. Ho orecchie ed occhi avunque. Posso sentire e posso vedere.

Mi guarda con quei suoi occhi azzurri del cielo quando è inverno.

Mi guarda e trema.

«Angioletto, spostati,» la incito.

È diversa, non è più una bambina. Non ho mai avuto il tempo di amarla ed ora è troppo tardi. È troppo tardi, lasciala andare, lasciala andare…

Ma è troppo tardi anche per questo.

«Tesoro… ascoltalo.» Si chiama Nathan, l’uomo dietro di lei. Capelli castani chiari con i riflessi biondi, occhi marroni, voce rassicurante. Le accarezza i capelli e lei continua a tremare, l’uomo sta piangendo. Morirà, lo sa. «Tesoro… la bambina… ti prego, la bambina… valla a prendere, ti prego...» Le pupille di lei si dilatano, i suoi occhi sembrano ancora più grandi, i capelli scuri e lisci appiccicati al viso dalle lacrime. Si allontana.

Posso sentire e posso vedere tutto.

E ho già visto lei che va via e si avvicina alla macchina e prende in braccio sua figlia e la stringe al petto. Ho già visto lei che accettava  di salvarsi.

L’ho visto nella mia mente.

Ed è così che sparo.

E lei è voltata e sono sicura che sta correndo via, sono sicuro che ha accettato di salvarsi ma lei no. Lei è ancora lì, di fronte a lui, fra le sue braccia, a dirgli addio, ad abbracciarlo.

Ed io ho già sparato.

Urlo.

Ho già sparato e lei cade sulle sue gambe e lui grida.

«No!»

Non doveva morire.

Ho già sparato e lei cade sulle gambe e lui grida e lei lo guarda.

Non doveva morire.

Lei chiude gli occhi.

E allora sparo ancora, sparo ancora perché l’ho persa per la seconda volta, perché doveva essere mia, perché dovevo amarla. E quest'uomo ha la colpa di averla avuta, di averla amata al mio posto. Sono morti tutti. 

Ma poi sento un pianto... un pianto graffiante, inumano, di dolore. La gola di un bambino così piccolo non può sopportare così tanto... non può essere così forte. Mi avvicino alla macchina ed apro la portiera. La bambina ha corti capelli castani, occhi azzurri come i suoi... un paio di mesi, nulla di più. Non c'è nessuno che può salvarla da me. E adesso lei è mia.

*

Il silenzio ha riempito la mia giornata completamente. Il pensiero di quello che Julia può dirmi ha assorbito tutti i pensieri, ha annebbiato perfino quelli più importanti, quelli che mi hanno fatto male. Non ho pensato ad altro che a quel giorno di sole di tanti anni fa in cui tutto è cominciato, ed ho bisogno di sapere come è successo, chi è stato a volerlo. Raggiungo la via della casa di Julia, assottiglio gli occhi e la vedo, davanti a casa sua, vicino ad una moto… i suoi capelli rossi spiccano su qualunque cosa, come quando era piccola. Continuo a camminare e vedo che non è sola: con lei c’è un ragazzo dai capelli così corti e castani, chiaro di pelle e alto, da lontano sembra anche lontanamente… carino. Indossa una maglietta grigia, grigia come le pagliuzze nei suoi occhi nel verde delle iridi, mi mordo la lingua, perché penso a Martin adesso? Non è il momento. Non arriverà mai più un momento per questo.

«Ma ne sei sicura? » chiede il ragazzo.

«Sì, Kevin, ho un sacco di compiti. »

«Ma se vuoi posso aiutarti… » Le bacia il collo e sale sull’orecchio, volto la testa.

«No, Kevin… è arrivata la mia amica.  Ci vediamo domani. »

Qualcosa – una milionesima parte dei pensieri del mio cervello – mi fa pensare che si stia riferendo a me, e allora torno a guardarla. Dà un bacio a quel ragazzo, con gli occhi chiusi e chissà se qualcuno mi ha visto, trattengo il respiro, chissà se qualcuno mi ha visto baciare Martin e innamorarmi di lui.

Il ragazzo si mette il casco e mette in moto, Julia fa qualche passo verso di me ed io, decisa a cancellare tutto quello che possa distrarmi da quello che devo sapere, mi dirigo verso di lei.

«Ciao, » le dico, e lei resta a distanza di sicurezza come se davvero potesse servire a qualcosa. Sotto il mento ha una cicatrice a forma di mezza luna, non è mai andata via e se l’è fatta al parco uno dei primi giorni d'asilo. Mi ha chiesto di tenrle la mano mentre le disinfettavano la ferita, ora ridotta a un piccolo segno bianco, eppure dodici anni fa …tienimi la mano, Sarah. Mi ha guardato con i suoi occhi grandi. Così non ho paura.

«Ciao, » mi risponde, ed è tesa come stamattina. «Andiamo dentro, è… meglio. »

«D’accordo. »

La sua casa è un ambiente dai colori tenui, beige e bianco, cornici argentate. Mi fa salire le scale e ci ritroviamo davanti a una porta bianca, la apre. «Non c’è nessuno in casa. » Entra nella stanza, i capelli lunghi e rossi dalla sfumatura più chiara sulle punte appena accende la luce.

«Cosa hai raccontato a tua madre di… quella volta? »

«Non si è accorta di niente. » Si volta di nuovo e stringe nelle spalle, si liscia la gonna a pieghe azzurra. «Le ho detto che voi due siete miei amici. »

Siete.

«Penso che… »

«Entra, » mi dice, all’improvviso i suoi occhi sono lo sfondo scuro di una luce che potrebbe anche sembrare entusiasmo. È la stessa luce con cui tante volte mi ha detto gioca con me. «Non stare lì. »

Ma mi spiazza con quello che dice. Mi sembra quasi di essere invitata nella sua vita, nella sua stanza, quando quel venerdì sera, in palestra, sono entrata nel suo spazio senza permesso. Come quando all’asilo prendi la barbie di un’altra bambina, lei si arrabbia, e la volta dopo ti chiede se anche tu vuoi pettinarle i capelli.

Entro. Mi aspetto che il parquet faccia rumore quando ci poggio il piede sopra, che un allarme cominci a suonare e a mandare luci rosse, che una voce robotica dica questo non è il tuo posto, vattene via. Ma non succede. Mi ritrovo a guardare la sua stanza: letto dalle coperte bianche perlate, muri arancioni, armadio immenso con poster di vari cantanti che ho visto in televisione… ed improvviso sento un calore al cuore. Lei ha vissuto, lei ce l’ha fatta. Non si è nascosta, è tornata al mondo. C’è una foto, sul comodino, con il ragazzo che ho visto poco fa… Julia è sorridente, felice. E lo sono anch’io. Lo sono anch’io perché lei è rimasta se stessa.

«Lui è Kevin? » le chiedo. Stupida, cosa c’entra? Ma è la sua vita, è quello che io non potrò mai avere. E poi mi tora in mente un ricordo, qualcosa di amaro, di triste…  Kevin quanto vi ha pagato per fare tutto questo? Idiota, idiota che non è altro.

«Sì, ma… devo dirti come sono andate le cose. »

La guardo e sento che lo stomaco mi si attorciglia. E poi parlo io, parlo perché devo sapere, perché non posso nascondermi, perché devo andare fino in fondo e ce la farò da sola. Non ho bisogno di nessuno. 

«Com’è stato? » le chiedo.

E ci guardiamo negli occhi e la vedo distogliere lo sguardo. Niente tornerà mai come prima. Io non potrò mai dimenticare, e lei neppure perché…

«È stato atroce.»

È un colpo, questo: un pugno invisibile, ma d’acciaio, mi prende la bocca, mi fa sentire il liquido del sangue che viene fuori solo dalla parte sconosciuta di me stessa, e non importa il fatto che io non riesca a comprenderla, appartiene a me.

«Sono stata in coma per tre giorni, » continua. Sospira. «Poi mi sono svegliata e dopo una settimana sono finite le convulsioni. »

No. Lo stomaco è un ammasso di oggetti appuntiti di metallo che non fanno altro che squartare, squartare, squartare, sono mostri senza pietà, come te. Sospiro. Come te.

«Ti ricordi... qualcos'altro? » Il mio è un filo di voce.

«Volevo morire.» Julia stringe l'orlo del suo vestito nella morsa bianca delle sue nocche strette. «Quando sono caduta a terra e ho perso i sensi... Non è stato solo dolore. Io ho sentito me stessa. Ho visto me stessa. Tutta la mia vita... tutte le cose sbagliate che avevo fatto. Le cose sbagliate per cui io stessa, guardandole, pensavo che non meritavo di tornare indietro. Le cose per cui mi sgridava mia madre. Le cose per cui la maestra mi metteva in punizione. La voglia di mangiare dolci e il continuo disubbidere... Io stavo morendo, Sarah, ma non perché lo volevi tu.» Si lecca le labbra, io temo anche solo di respirare, temo che tutto questo possa accadere ancora. «Ero io a volerlo.»

«Come?» le chiedo. Sei ancora qui, Julia. Sei tornata indietro. 

«Qualcosa mi ha dato forza. Guardavo tutto come se fossi un angelo sospeso nel cielo, dall'alto, ed ero il giudice della mia vita. Sì, non poteva essere altro perché, anche se soffrivo, sapevo che avrei fatto solo la scelta giusta, anche se significava non svegliarmi più. Ma io ho sentito qualcosa ed era... La speranza di poter essere migliore. Di chiedere scusa. Di rimediare. E... di vivere.» Sorride fra sé. «Sapevo che non avrei più lasciato  i colori sul tavolo dopo aver colorato e non avrei più infastidito mio fratello maggiore e non avrei più parlato con un estraneo. E quando ho aperto gli occhi... mi hanno detto solo che ero al sicuro. Ed ero felice, perché ce l'avevo fatta. Perché sapevo che mi sarei comportata da brava bambina. Ma tu non c'eri più.»

Devo respirare. Non eri tu a volerlo, Sarah. Non devo smettere di respirare. Ma io ho innescato il meccanismo. Io sono forte, io so che posso esserlo. Io ho fatto qualcosa che permettessa a Julia di decidere se era degna della sua vita. Mi fa male la testa. Ed era solo una bambina...

«Mi dispiace. » Non riesco a trattenermi. Perché non so controllarlo? Perché io sono capace di questo? Che cosa c'è nel mio sangue, nella mia testa, nel mio cuore... che sia sbagliato? «Non ne avevo il diritto e non avrei mai voluto, Julia. Non capisco niente, Non so come ho fatto. Non so come è successo. Sono solo felice che… » Alzo il viso e la vedo, ma mi sembra distante di chilometri ed è normale che lo sia, è normale. «… che tu non sia rimasta sola. »

Adesso è lei a sospirare. I suoi occhi sono lucidi. Non voglio sapere come sono i miei.

«Non ho il diritto di farlo e non voglio farlo.» Mi sento ronzare le orecchie. Ronzio, ronzio, ronzio, come se ci fossero milioni di zanzare che mi pungono la pelle e ronzano, ronzano, Sarah, Sarah, Sarah… Faccio un respiro profondo e sento il ronzio che si ferma.

«Quell’uomo era alto. Sembrava… sulla trentina. Capelli neri, pelle chiara, naso sottile, occhi neri. Io… » Julia si avvicina a me e per la prima volta non prende più in considerazione la distanza di sicurezza. «Anch’io voglio sapere. E poi… » Pausa. «Io so che non volevi. Ho cominciato io e... non dipendeva solo da te. Quell'uomo ha fatto qualcosa.»

Mi scappa un sorriso e spero di non sembrare isterica. Io so che non volevi. È la prima volta che sento queste parole e sembrano così dolci, come quando un bambino corre e alza le mani, è felice, e balla e per sbaglio fa cadere un vaso di valore. Io so che non volevi. Vorrei solo sprofondare. Vorrei solo non averlo mai fatto, anche se non volevo.

«Hai detto che è successo altre volte» mi dice.

«Sì. » Odio la mia risposta. «Un'altra persona e un animale. »

«Perché? Ricordi qualcosa che… può accumunare le cose? »

La guardo fisso, ricaccio indietro le lacrime e penso, penso, vado affondo nei ricordi, nelle immagini, nelle sensazioni. Con Julia c’era… rabbia, delusione, e anche la seconda volta, rabbia, delusione. E l’ultima volta c’era… la paura.

«Rabbia e paura, » sussurro. 

«Qualche meccanismo, qualcosa che c’è… in te, deve essersi svegliato… attivato. »

«Se è attivo, deve esserci un modo per… disattivarlo. »

«Penso che sia così. »

Sorride.

Non ci credo.

Non ci credo perché mi sto avvicinando alla verità e lei mi sta sorridendo e mi sembra, anche solo per un attimo fra tutti gli attimi di cui è composto il tempo dell’universo, di avere qualcuno. Per un attimo fra tutti gli attimi di cui è composto l’universo, Julia è ancora la bambina che mi è stata amica in un giorno di sole di tanti anni fa.

*

Arrivo a scuola che sono ancora assonnato e spero che la gente che mi guarda ogni giorno non ci faccia caso. Non ho dormito, non ho dormito perché non sono sicuro che nasconderle tutto a Sarah sia giusto. Per quanto tempo potrei farlo? Ieri mi sembrava tutto più semplice... ma passare una notte insonne con la testa immersa in questi pensieri è stato diverso. 

Lo è stato quando, al rumore delle chiavi di casa, ho trattenuto il respiro perché sapevo che si trattava di mio padre. Joseph Scott. JS.

Io devo dirglielo. 

Non so come potrebbe reagire, ma lei deve solo… fidarsi di me.

Fidarsi di me, Martin Scott.

Se questa cosa l’avessi pensata qualche mese fa mi sarei dato della testa di cazzo da solo, ma adesso le cose sono diverse. Non sono le persone a cambiare, con il tempo vengono fuori cose di te che nemmeno conoscevi e, strano a dirsi, diventi grande. E forse tutto questo doveva succedere. Doveva succedere che io trovassi quei documenti e mi accorgessi di lei, invisibile nella vita di tutti, con il suo nome registrato sul web.

Quando la vedo il cuore si ferma e accelera nello stesso momento. Bellissima anche con la tuta, e i capelli alzati, e quegli occhi grandi e del colore del cielo contornato da nuvole bianche, e dio mio sono davvero una testa di cazzo. Mi avvicino a lei.

«Ciao, Sar. »

Menomale che sei qui. Sento che andrà tutto bene. Menomale che ti ho trovata.

Mi aspetto una sorriso, e con una lentezza esasperante alza il viso verso il mio e mi inchioda con i suoi occhi chiari. E non smette di guardarmi e, in questo preciso momento, non riesco a parlare perché con il sguardo fa qualcosa di incredibile: mi trapassa e lascia una strana sensazione di dolore.

Non sorride.

«Ce l’hai ancora la… penna che ti ho dato ieri? Mi serve. »

Mi sento bruciare i polmoni. «Sì, certo. » E ora diglielo. Apro lo zaino e la trovo sotto il libro di Biologia, gliela porgo ed è come se… fosse attenta a non toccarmi. Ora diglielo.

«Sarah… »

«Grazie per la penna. »

Si volta e se ne va.

E io resto qui.

L’aria nei polmoni continua a bruciare in un fuoco di inesattezza, incertezza, qualcosa non quadra, i tasselli non sono al posto giusto. Io e Sarah non lo siamo. La seguo.

«Sarah, ehi!» La raggiungo, sono veloce, le tocco la spalla per voltarla verso di me e e mi guarda… sento il giacchio nei suoi occhi, brina, qualcosa di impenetrabile. «È successo qualcosa? »

Un altro respiro. Perché mi sento così a disagio? Lei è Sarah, io sono Martin, lei mi vuole, io la voglio. Cos’altro deve esserci a complicare le cose?

Le sue labbra si muovono in quella che sembra un’espressione infastidita. Lei è Sarah, io sono Martin, lei è importante per me, io sono importante per lei…

«Niente. » Non c’è gioia, nel suo sorriso. Non c’è niente di quello che ci ho visto la prima volta. Perché dovrebbe mentire, però? Per quale motivo dovrebbe cercare di nascondermi qualcosa?

Le tocco il viso, lento allungarsi di dita verso la sua pelle e la solita ciocca castana che le sfiora lo zigomo. Sento al tatto un sussulto di calore che sembra fermarsi nello stesso momento in cui le mia dita toccano la sua pelle. Gli occhi scendono a guardarle le labbra. Io la voglio, merda. E voglio entrare nella sua testa e in ogni parte di lei, oscurare e cancellare per sempre quello che ha reso il suo sorriso un’imitazione di tanti altri. «Tu puoi dirmi qualunque cosa, lo sai? »

Non mi guarda.

Sbuffo.

«Che ti passa per la testa, Sar? »

Alza gli occhi. Fa un sospiro. Sento il filo che sembra tenere aperti gli occhi contro la sua volontà, come se la cosa che desiderasse fare di più al mondo fosse non guardarmi mai più. «Io ho bisogno di stare sola per un po’.» Fa per andarsene, le nostre mani si sfiorano, sento un vibrazione così forte che mi sento percosso.

«Da sola? »

«Sì, senza di te. » Percosso di nuovo, anche se non capisco, anche se voglio che parli e non parli più al tempo stesso, anche se non so cosa fare, cosa dire.

«In che senso? »

«Oddio, quanti sensi conosci, Martin? » La sua voce si alza, scocciata, distante come non l’ho mai vista. La sua voce si alza e, così come si alza, si abbassa; Sarah si guarda intorno, mi sudano le mani e continuo a non capire.  «Stammi alla larga. »

Deglutisco.

«Ma Sarah…. »

Le labbra le tremano. Ci sono lacrime, sulle sue ciglia, e lei vi avvicina una mano e nemmeno una cade sul suo volto. «Non devi più parlarmi, più toccarmi, più baciarmi, più starmi vicino,» dice.

«Spiegami perché! Che cosa c’è? Che cosa ho fatto? » La mia voce risuona nel chiacchiericcio del cortile della scuola, qualcuno si volta, qualcuno mi guarda, tutti mi guardano e guardano Sarah ed ecco di nuovo la sua protezione, quello sguardo che si spegne a poco a poco per difendersi da questo mondo che odio. Questo mondo è la mia casa e lei non vuole che le parli e che le stia vicino...

«Io devo andare… »

«No, Sarah. Tu resti e mi spieghi che cosa ho fatto perché… » La mia voce si abbassa, è un palazzo che crolla, una lattina che viene schiacciata in un sibilo strozzato. «Devi parlarmi, ok? »

«Non davanti a tutti. »

«Ora. »

«Per favore… »

«Non ce la fai a dirmelo in due parole? »

«Ti stanno guardando tutti, ci stanno tutti guardando, Martin… »

Ma non riesco a fermarmi. Non riesco a fermare l’immagine di lei che se ne va e non guarda più indietro in una strada asfaltata che io non posso percorrere. «Parlami.»

Ed ecco di nuovo i suoi occhi. I suoi occhi mi uccidono. Mi uccidono mentre non parla, nel silenzio che si infittisce come nebbia, nel giorno nuvoloso che non ha nemmeno il nostro sole, in quello che vorrei sapere per dirle che andrà tutto bene.

«So che sei andato a letto con Yvonne.» Fa un respiro mentre io perdo il mio. «Vi ho visti ieri mentre vi baciavate.»

«È stata lei a baciarmi! » La verità, Sarah, ascoltala. «E quella volta è successo quando… nemmeno ti conoscevo! »

«Se ti ha baciato lei perché non me l'hai detto? Non pensavi che chiunque altro avrebbe potuto vedervi e parlarne e non pensavi che l'avrei comunque saputo? Come faccio a crederti?»

Mi sento sudare freddo. Distoglie lo sguardo, le metto una mano sotto il mento, guardami, guardami, Sarah. E i suoi occhi mi uccidono.

Davvero sta finendo tutto per questo? «Non ci credo,» riesco a sospirare.

«Non ci credevo nemmeno io. Credevo che tu ti fossi interessato a me senza sapere niente di quello che tante persone sanno…»

«Che cosa è cambiato? »

«Tutto! »

«Niente! »

Nella sua voce rotta, ostenta una sicurezza che mi ferisce come un pugno dritto sul naso. «Mi hai solo preso in giro.»

Rosso, rabbia. Ti ho preso in giro, eh? Nero, freddo.  Sì, Sarah. Nero rosso, nero rosso, nero rosso, come le luci intermittenti della playstation, una lotta fra bambini, ti ho preso in giro, uno stupido gioco. La mia stupida vita prima di incontrarla e rovinarla ancora e sempre e di nuovo.

«Sì, Sarah, ti ho preso in giro. Non è vero che non sapevo niente. Sapevo che eri un mostro. Sapevo che eri un soggetto pericoloso. »

No.

È come precipitare.

Sarah.

È come toccare il fondo con uno schianto.

In un solo istante la terra trema, io tremo, le vene si attorcigliano e la testa mi gira e lei è tutto quello che non posso avere mai più. Quando la terra smette di tremare e il mio corpo torna a sentirsi come quello di sempre, le sue lacrime sono già scivolate sulla sua pelle. E se ne va e spero che porti via con sé la persona che sono diventato insieme a lei.

*

*

*

*

Ciao a tutti! :) Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Come vi avevo detto nello scorso capitolo, anche qui abbiamo trovato un altro punto divista di Joe, Sarah e Julia hanno parlato e anche Sarah e Martin... Mi scuso per non aver risposto a tutte le recensioni, è stata una settimana molto piena questa ma prometto che arriverò presto. Mi avete scritto delle cose meravigliose ed io sono fortunatissima ad avere voi che mi leggete, siete fantastici *-*

Al prossimo capitolo e grazie di tutto

Ania <3

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 14. Grigio e Ombre ***


until 14

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

14. 

Grigio e ombre

Mi piaceva uscire di notte. 

Avevo tredici anni, all'epoca, e quell'abitudine non era mai andata via. Tempo prima scappavo quasi sentissi, nel buio, incombere su di me le minacce peggiori. Le minacce peggiori c'erano anche di giorno botte, castighi, brutte parole  ma tornavo per mangiare. Il cibo era l'unica cosa che potesse darmi quell'istituto. 

C'era il silenzio dei morti; niente macchine, niente voci... vicino alla campagna non potevo aspettarmi niente di diverso e, improvvisamente, mi tornarono in mente le parole del vecchio. Non dovrai più fuggire, Joe, ora hai una casa. Ma ero ancora all'inizio, e l'abitudine era qualcosa di ancora più duro della cattiveria, per cambiare. Quando sentii un urlo, capii che del silenzio non avrei mai dovuto avere paura. Rimasi immobile. Qualcuno che cade, qualcuno che cammina. Due persone. L'urlo non c'era più, ma qualcosa frusciava sull'asfalto della strada. Qualcosa... era qualcuno. 

Nascosto da un albero, guardai. Un uomo si contorceva sull'asfalto: aveva gli occhi vitrei, era pallido... gli stava succedendo qualcosa e capii  lo sapevo, lo sentivo  che qualunque cosa gli stesse succedendo, era voluta dall'uomo che gli era davanti. Mi dava le spalle e presto vidi che le convulsioni dell'uomo sdraiato a terra si facevano sempre più lievi. Si immobilizzò, chiuse gli occhi, il vento soffiava e fece aprire l'impermeabile dell'uomo che stava lì a guardare. Aveva i capelli biondi, ecco cosa vidi. Aveva i capelli biondi ed era alto e, in quel preciso istante, prese una pistola. Mi misi una mano sulla bocca, la strinsi a pugno, morsi per non urlare. Poi l'uomo sparò ed io mi chiesi perché non avessi ordinato a me stesso di chiudere gli occhi. Mi sfuggì un gemito. E così l'uomo biondo si voltò verso di me. Mi si contorse lo stomaco e mi sentii cadere in una vasca di acqua mortalmente fredda. I suoi occhi erano chiari, assenti, vuoti... e lo riconobbi. In una mano teneva la pistola, l'altra la teneva chiusa a pugno e subito la aprì. Cadde qualcosa... era una pietra, ed era nera, e brillava. Deglutii.  L'uomo avvicinò il dito alla bocca e fece "shhh" e poi rise, rise nel silenzio ed io seppi che era malvagio. Seppi che l'unica cosa da fare era scappare.

 

1995

Cassie è sdraiata accanto a me, a guardare le ombre che si creano sul muro con la luce della lampada del comodino. Ed io guardo lei, che non si aspetta mai niente da me, fa poche domande ma vuole sempre sapere se sto bene. La amo anch’io, anche se non gliel’ho mai detto. Pensavo che non avrei mai amato nessuno, da quel giorno d’inferno, perché tutti gli altri sentimenti che ho provato sono sempre stati troppo forti per lasciare spazio a una cosa del genere. Ho troppi pesi, sul cuore. Ma lei, magra com’è, ha trovato spazio.

«Hai mai pensato che le ombre delle persone somigliano agli alberi? »

Le carezzo la spalla con le dita. Mi guarda, sorrido appena, faccio segno di no con la testa.

«Pensavo che chi andasse al college avesse la mente più aperta. » Mi sorride a quel modo che annebbia i ricordi e li fa sembrare belli, anche se solo per un istante. Poi si alza in piedi, si mette le mani fra i capelli e li rende più gonfi, poi alza le braccia. «Guarda la mia ombra, non sembra un albero? »

Guardo l’ombra sul muro.

«Candy… hai ragione.»

«Certo che ho ragione.» Torna a sedersi, inclina la testa e assume quell'espressione pensosa che le fa inarcare le sopracciglia, stirare le labbra. «Noi essere umani siamo vita, e l’albero viene nominato dappertutto. Albero della vita. Linfa vitale… solo che, ecco… » I grandi occhi color nocciola a scrutarmi, attenti. «Per guardare l’ombra serve sempre un po’ di luce. Se c'è luce, può accadere qualunque cosa.»

Vorrei che fosse così. Vorrei che tutto fosse semplice come lo fa sembrare Cassie dalle sue parole. Vorrei che sul mio terreno arido possa nascere qualcosa. Ma è tutto bruciato e pesa troppo.

 

Martin

Voglio solo spaccare tutto. Lezione di Biologia, Fisica, Matematica. Spaccare tutto, alzarmi dalla sedia, spingere via il banco. Lezione di Spagnolo, Inglese, ancora Inglese. Spaccare tutto, come Hulk nei fumetti che leggevo quando avevo quattordici anni. 

«C’è qualcuno che vuole rispondere a questa domanda? » Ho già detto troppo, mi sono rovinato da solo con le mie mani, voglio solo… Tornare indietro. Tornare indietro  a un giorno qualsiasi e raccontarle di mio padre e di tutta la mia vita, senza dimenticare nemmeno un secondo. La verità, solo la verità, Doreen, la mia casa, mio padre, Cameron… Non lo vedo da troppo tempo. La campanella suona e non so nemmeno che cosa mi sono perso fra le parole dei professori, sono tornato quello che ascolta e dimentica l’istante dopo. Entro in mensa e mi aspetto di vederla ma lei non c’è, lei è lontana, lei è andata via e mi sento il cuore che pesa fra gli organi come un pugno d’acciaio. Voglio solo tornare indietro.

Guardare Cameron ridere mi dà l'impressione che il desiderio si sia avverato. Che sono davvero tornato indietro, in un giorno lontano in cui ho giocato con lui alla playstation e sua madre mi ha offerto un pezzo di torta. E Sarah è una persona fra tante persone nella popolazione di una città fra tante città ed io non so niente di lei. Ho bisogno del mio migliore amico idiota. Ho bisogno di essere quello che ho imparato ad essere così bene. Pigro, restio al dovere, superficiale, indifferente al mondo.

«Ehi, Cam.»

Ride, Cameron. Ride adesso come quel primo giorno sul bus alle elementari, con quel modo di coinvolgere chi gli sta intorno come se fosse un cantante su un palco. Tutti imparano la sua strana canzone di felicità, anche se tuo padre si è dimenticato che l’altro giorno è il tuo compleanno, anche se vorresti avere un altro cognome, anche se proprio stamattina hai perso qualcosa di grande. Sorrido.

Aspetto.

E poi Cameron posa gli occhi su di me e la sua risata si espande fino a perdersi in qualche piccolo, secco colpo di tosse. I suoi occhi neri si rimpiccioliscono con un movimento di palpebre che non gli ho mai visto fare, non a me.

«Scott fra i comuni mortali? » dice qualcuno, ma io guardo Cameron. Non mi importa niente degli altri, come sempre, da sempre. Cam si schiaccia i capelli come ho visto fare in qualche vecchio film, gli sono cresciuti, adesso una linea zigzagata gli cade sulla fronte; se la sistema in modo che resti alta e non gli tocchi la pelle.

«Cameron.» Non mi parla. Perché non mi stai parlando? Guarda in basso, gioca con il cellulare, mi avvicino a lui. «Che succede? »

Alza il viso, le sopraciglia, gli occhi, ogni cosa di lui si allunga verso di me e mi sembra, per un attimo, che non sia successo niente di cui preoccuparmi. Ma il suo sguardo ha qualcosa che non ho mai notato in lui, qualcosa di lontano… rassegnato.

«Torno subito,» dice, lancia loro uno sguardo, poi si allontana e lo seguo. Esce dalla mensa e si inoltra nel corridoio, i suoi passi un po’ strascicati con le vans che ha comprato a un mercatino dell’usato, grigie, un po’ rovinate, ma fighe come il nuovo proprietario, vero, Mart?

C’è anche del grigio, nel suo sguardo. 

«Pensavo che fossi disperso.» La sua voce è atona. Di nuovo nero. «Hai presente Lost? L’aereo? L’isola? Niente cellulare e rapporti con il resto del mondo? » E la sua voce ha di nuovo volume, spessore, mi dice solo una cosa: rabbia. «Non sono una fidanzata gelosa.» Scuote la testa, muove le labbra in quello che sembra un riso verso solo se stesso. «Ma pensavo fossimo amici.»

Deglutisco. Cameron è una sagoma dai contorni sfumati nel rosso della sua camicia a scacchi, nero di occhi e capelli, l’ambra chiara della sua carnagione e le macchinine che abbiamo rotto da piccoli, i giochi alla play, la prima sigaretta e la prima birra, la sua prima ragazza e tutti i primi giorni di scuola della mia vita. «Lo siamo.»

Il suo riso si espande anche a me, ironico, sprezzante. «Bella battuta. E pensare che ero io quello simpatico.»

Panico. Ci cado dentro, come se fossi salito su una delle montagne russe più spaventose del mondo, e la discesa è ripida e la giostra va veloce e il sangue va alla testa. Rido e mi sembra solo un grugnito. «Scherzi, vero? »

«Non scherzo più. »

«Cam…»

«Io.» È un ghigno, il suo, di quelli che ti vengono fuori quando ti colpiscono alla gola e non puoi parlare ma devi, devi farlo per forza. «... Non so che altro vuoi. Puoi anche tornartene dalla gente nuova che hai trovato. In fondo mi sono sempre chiesto perché ti mischiassi alla plebe con uno come me.»

Gente nuova? 

«Non farmi sentire certe stronzate, sul serio. »

«Tranquillo, non le sentirai più, le mie stronzate. » Apre il suo armadietto e prende lo zaino, ci infila dentro uno, due libri, si mette il cappello al contrario come in quei vecchi cartoni in cui il protagonista non cresce mai.

«Scusa… scusa, è che io… » Casini, casini dappertutto, Sarah. Da dove comincio? Non sono mai stato bravo a iniziare qualcosa, qualunque cosa.

Torna a guardarmi, sale sullo skate e mi sento un cretino perché ha ragione e non riesco a parlare, e vorrei solo che tutto questo fosse uno stupido scherzo.

«Abbiamo finito di parlare.»

***

Il Karma è contro di me. Il mondo gira al contrario e Cameron è così incazzato che non vuole più parlarmi. 

Apro l’armadio, mi tolgo la maglietta ne prendo un'altra. Sull’anta  c’è il poster si Miranda Kerr, ha gli  occhi azzurri e i capelli castani… no, basta, per favore, Sarah, sparisci dalla mia testa. Lei, la prima ragazza per cui ho perso il cervello e tutto il resto. Lei, per cui non ho risposto alle chiamate del mio migliore amico. Lei, che è stata il mio solo pensiero. Mi ci vedo, come dall’esterno, attraverso un vetro: Martin Scott che va dietro alla stessa ragazza per più di un mese. L’ho preso proprio bene quel colpo in testa… sarebbe stato meglio se mi avesse fatto fuori, perché non ne sono per niente pentito. Pentito di averla conosciuta, di averla baciata, di sentire il cuore pesante con le lettere del suo nome sulla lingua. 

Arrivo a casa di Cameron; la strada è più breve di quanto ricordassi, i passi da fare sono registrati nella mia memoria dal cervello difettoso come se ci fossi nato, con l’indirizzo di casa di Cameron in testa. Sarà strano, dirglielo. Sarà strano pronunciare il nome di Sarah di fronte a qualcuno che non è lei. Sarà strano spiegare la verità, l’assurdità di tutte le cose che sono successe, di tutti i pensieri che ho tenuto nascosti… ma lui è il mio migliore amico.

E sono stato un coglione a non calcolarlo e ad escluderlo. Sono un cretino, lui lo sa da anni… quando saprà tutto forse sarà peggio. Pigio il pulsante del citofono.

«Chi è? »

«Sono Martin, c’è Cameron?»

«No, non c’è.» Le mie spalle si abbassano senza che me ne renda conto. «Ma arriva presto, è uscito solo per un attimo! Vuoi salire?»

Questa forse è violazione di domicilio, anche se autorizzata. Salgo le scale e mi ritrovo davanti alla sua porta di casa socchiusa, la spingo un po’ per entrare e mi ritrovo davanti lo specchio a muro diviso in tanti rettangoli dai vari riflessi di me. Per istinto mi tiro la maglia, la sento troppo aderente e quello che vedo è… stanco, sconvolto. Respiro, dico: «Buonasera, signora Dixon.»

Arrivo in salotto: il solito divano arancione, la carta da parati beige e il televisore ancora grande, dei modelli vecchi.

«Ehi.» Una voce alta, conosciuta, familiare. Viene fuori dal cucinino insieme a lei, con i capelli legati e una camicetta scollata, con i lineamenti simili ma più addolciti… la sorella di Cameron. «Cam sta arrivando. Vuoi andare in camera sua? »

«Non importa. » Accenno un sorriso, in automatico. «Aspetto qui. »

«Ok… ma è successo qualcosa, vero? »

Mi lascio andare sul divano un momento prima di sentire la sua voce, sospiro, mi passo una mano fra i capelli; lei fa il giro della stanca e si appoggia alla poltroncina di fronte a me. «Holly, sul serio… meglio non parlarne.»

«Mio fratello è un tantino giù. L’ho visto poche volte così, e mai per così tanto tempo.»

E lo è per colpa mia, lo è perché mi sono dimenticato di lui e me ne sono ricordato che era troppo tardi. Lo è perché anche quando sai che qualcuno ci sarà sempre, non devi mai lasciartelo alle spalle sicuro di quel sempre. Devi sostenerlo, quel sempre. Non devi camminare avanti. Devi aspettare ed essere raggiunto. Fare un respiro e raccontare le cose che ti hanno offuscato il cervello.

«Già…»

Con chi gioco alla playstation? Con chi litigo per il joystick? Chi mi farà sentire bene quando andrà tutto di merda? Chi viene alle feste con me? Chi si addormenta sul mio letto con i piedi sul cuscino? Chi devo sfottere per l’altezza quando sono io ad essere troppo alto? Chi riempirà il fottuto vuoto della mia vita?

«Martin? »

«Mhm?»

«Hai una cosa fra i capelli…»

Chi è che dirà “che figata” ogni volta che lo faccio entrare nella palestra di casa? Chi mi dirà che sono un nullafacente con un sorriso che non mi fa sentire colpe? Chi è che mi dirà “no problem” quando i problemi, invece, ci sono? Chi potrà essere il mio migliore amico se non è lui?

Ed è a quel punto che sento il respiro, il respiro di Holly sulla mia pelle e la sua mano mi sfiora un orecchio, a togliermi via quella che sembra una piccola foglia secca, con quel sorriso che mi ricorda suo fratello ma che ha quella linea ancor più sfacciata, allo stesso tempo armoniosa…

«Che succede qui? »

Mi alzo in piedi, subito, mi volto. Cameron non guarda da nessuna parte in particolare, non guarda me e sento solo il caldo eccessivo che mi travolge il corpo quando sto per andare in bestia. Perché cazzo non mi guardi? E poi alza il viso su di me, e mi ricordo di quanto Holly mi fosse vicina quando ho sentito la sua voce e la rabbia si trasforma in vergogna. 

Holly rompe il silenzio. «È passato Martin.»

«Lo vedo. »

Cameron continua a guardarmi solo per qualche secondo, qualche secondo per dirmi non è qui che dovresti essere, e lo fisso negli occhi, gli occhi che negli anni sono stati sempre gli stessi, quelli che riconoscevo anche se scoperti a malapena da dei fori in una maschera di halloween quando eravamo bambini.

Imbocca il corridoio per raggiungere la sua stanza ed io lo seguo e mi sento un idiota, sempre e ancora di più, sento che sta per cadere un masso enorme su tutte le cose che credevo non sarebbero mai state cambiate.

«Non pensare che io e Holly…»

«Non sei più mio amico, Martin.» Mi arriva addosso con il dolore di un liquido che scortica la pelle. «Non mi frega più.»

«Cam, piantala.»

«Sei tu che dovresti smetterla.»

«Tutte tranne lei, » dico. Mi passo una mano fra i capelli e sospiro, sospiro perché il masso deve essere caduto e, anche se non mi ha ucciso, pesa sulle spalle. Mi farà cadere. «E infatti Holly non c'entra niente. E non ho cambiato "compagnia" se è quello che voi sapere. Davvero, è una cosa complicata e sono venuto qui per...»

«Come faccio a saperlo, Martin, eh? » Uno spintone. Il muro contro la schiena. Cameron con gli occhi accesi, neri, senza felicità, senza più niente. «Ti conosco da quando eravamo poppanti e che cosa hai fatto da quando hai cominciato a darci con le ragazze? Volevi, prendevi. Chiedevi, avevi. Squadra di football, squadra di hockey, squadra di baseball, l’ultima volta la squadra di backet… dovevi fartela sempre con la ragazza di qualcuno della squadra, dovevi sempre combinare un qualche casino e alla fine, non l’hai visto? Non l’hai visto?!» Sbraita, le braccia piegate per toccarsi la nuca, i muscoli tesi. «O te ne andavi tu, o ti cacciavano loro. Ti hanno tutti voltato le spalle! Nemmeno i tuoi cazzo di soldi li hanno fatti restare! Niente li ha fatti restare! » Respira, respira forte.

E invece tu sei rimasto. Sei rimasto a costo di essere lasciato indietro solo perché stavi con me. Sei rimasto con il mio carattere da schifo, sei rimasto nonostante le mie abitudini, sei rimasto anche se sono una persona orrenda. Che cosa hai visto in me, Cam? Un amico? Forse è l’unica cosa che sono stato davvero, e ho fallito anche in questo. 

***

Ieri sera mi sono rinchiuso in palestra e ne sono uscito solo quando il respiro è cominciato a pesare insieme a tutto il resto. Ancora adesso, dal terrazzo della scuola, respirare pesa: mi richiede uno sforzo che non c’è mai stato come se inalare l’aria non fosse più necessario. Forse non lo è più. Forse è un modo per aiutarmi a stare male mentre vedo Sarah che se ne sta in disparte nel cortile della scuola. Si siede su una di quelle panche vicino al terreno e si liscia una ciocca di capelli fra le dita. Mi sento scavare dai suoi occhi azzurri che guardano altrove, ed è così bella che sento il crack delle ossa che si attorcigliano insieme ad ogni altra cosa che mi ritrovo nella corazza del corpo. 

Mi chiedo quanto ancora dovrò pagare per questo. Stringo le mani sul ferro della ringhiera fin a far diventare le nocche bianche al pensiero che non mi è rimasta altra persona di Doreen… che viene pagata. Ma me lo merito, in fondo. Non mi merito tutte le cose che posso ancora avere e non merito nemmeno quelle che avevo una volta. E poi sento un rumore, un rumore proprio vicino a me: al mio fianco c’è qualcuno, una persona qualsiasi che si sposta la visiera del cappello della squadra di Baseball della città e poi poggia i gomiti sulla ringhiera. Istintivamente, lo imito nello strano shock di trovarmelo davanti di sua spontanea volontà.

«Senti.» Si passa una mano sul mento seguendo la linea della rasatura. La sua voce si fa densa di qualcosa che sembra imbarazzo. «Quando ti ho detto “tutte tranne lei”…» Ci risiamo.

«Cameron…»

Ma lui mi ferma le parole con uno sguardo che sembra esasperato, stanco, impaziente. «Tutte tranne lei. Intendevo qualunque “lei” ci avrebbe messo i bastoni tra le ruote.» Si passa una mano sul viso, la carnagione chiara ma più scura della mia. «Ho sempre pensato che Holly sarebbe stata un guaio, per noi. Ti guarda come ti guardano tutte. Solo che... insomma, non fa niente se ti piace. Non voglio sapere che cosa ci fai, ovviamente, e se le spezzi il cuore ti spezzo io, ma tu sei il mio migliore amico e... insomma, la pianto. Hai capito?»

Sorrido. Sorrido senza guardarlo mentre lo vedo gesticolare e fare quell’espressione corrugata e… sì, questo è Cameron. Questo è lui. 

«Holly non c'entra. Vuoi vedere la ragazza che ci ha messo i bastoni fra le ruote? »

«Che?!» I suoi occhi sono attraversati da un guizzo, una piccola luce nel suo nero. «Andata.» Il pugno che contro con la mia mano mi fa capire che possiamo essere ancora quelli di una volta.

«Guarda verso le panche, quella castana.»

«Non vedo niente.»

«Apri gli occhi.»

«Li ho già aperti.»

«E sforzati un po’.»

«Mhm… » Assottiglia gli occhi, si toglie completamente il cappello e fa una smorfia. «No, dai. »

«Cosa? »

«Voglio dire… guardala.» Indica con il braccio verso una certa direzione, la seguo con lo sguardo e… quella che passa è una ragazza ma... è quella rompipalle della classe di biologia. Se quella non è un orribile, ma proprio orribile, io sono… 

«Però posso capire, Martin. In fondo.» Si stringe nelle spalle. «In periodo di carestia, ogni buco è galleria.» Scoppia a ridere.

No, non possiamo tornare ad essere quelli di una volta.

Lo siamo ancora.

Rido anch’io, gli do una pacca sulla spalla. «Hai sbagliato, genio.» Cameron aggrotta le sopraciglia. «È la ragazza seduta.»

Ha la stessa espressione di quando risolve un’espressione matematica, assomiglierebbe a un finanziere se non fosse vestito come il protagonista di un qualche cartone animato. Poi si volta e mi ride in faccia. «Carina... abbiamo lastessa classe di biologia! Niente male, certo. Sicuro che non mi stai raccontando una scemenza?»

«Lo vorrei proprio. »

«No… ti sei… ehm… hai battuto la testa, sei caduto…» Ti sei innamorato?

Non riesco adire altro che non sia: «Una bella merda». Perché lo è davvero, lo è in ogni momento, lo è perché so che non esiste nessun’altra Sarah Pierce al mondo, non esiste nessuna che arrossisce in quel modo, non esiste nessuna che resiste nel modo in cui lo fa lei, non esiste nessuna che mi fa svegliare dal sonno del mio mondo come lei ha fatto. 

«Be’, dovrai farmela conoscere. »

Sbuffo.

«Non mi parla nemmeno più. »

«NO.»

«Sono un coglione.»

«Non dicevo “no” a quello.»

Lo guardo di traverso, e lui si mette in una di quelle posizioni che prevedono l’appoggiarsi a una qualche superfice liscia, quella posizione che dice “sono fantastico, ammiratemi. Niente bava grazie”.

Gli ho fatto una cattiva influenza, assolutamente.

Fatto sta che adesso devo raccontargli tutto, proprio tutto. Così quando dirò di nuovo “bella merda” saprà a cosa mi riferisco per intero.

Quando finisco di parlare lui sembra impassibile, incredulo. Sono certo che adesso dirà qualcosa di intelligente.

«... E non avete nemmeno fatto sesso.» Scuote la testa. «Be’, sei messo proprio male, amico.»

*

*

*

*

Ciao a tutti! In questo capitolo troviamo solo Joe e Martin. In particolare vorrei dire qualcosa sulla parte di Martin e la sua discussione con Cameron. Ho sempre trovato l'amicizia fra ragazzi qualcosa di davvero spontaneo, privo di invidia. Ho pensato allora che dopo il periodo di "latitanza" di Martin Cameron se la potesse prendere molto all'inizio, soprattutto dopo la "presunta" cosa di Holly, anche se alla fine si sono chiariti. Spero di essere risultata realistica.

E nulla, nell'ultima parte c'è la battuta sulle gallerie e ci tengo a precisare che non è di mia completa invenzione ma l'ho sentita da un mio amico, con tanto di mia faccia shockata/rassegnata LOL... lo ammetto, prendo ispirazione dalla realtà :)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto :) Grazie mille a tutti coloro che recensiscono, ai nuovi arrivati, a chi c'è da tanto... vi adoro *-*

Un bacio e al prossimo

Vostra Ania <3


Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 15. Di ghiaccio ***


until 15

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

 

15. 

Di ghiaccio

1995

 

È freddo, nero, ghiaccio. Affondo la daga nel terreno con forza. Devo farlo, senza scuse. Devo farlo perché l’incendio dilaga ancora, in ogni notte, in ogni sogno, in ogni incubo. Le sento urlare, sento i rantoli del vecchio ed io fuori, a guardare. Ma questa volta non resterò a guardare. La terra del cimitero è dura, ha preso il freddo dei morti, le lapidi ne sono custodi, sento le forze della natura che cercano, con fatica, di controllare tutto. Forza immense... so che esistono, me l’ha detto lui. Ed io gli ho creduto, perché il vecchio diceva sempre la verità e lo faceva per il mio bene. Sapevo che erano qui, lo sapevo anche se non ho mai avuto il coraggio di andare a vedere. Le nascondeva, il vecchio, come un segreto. Le nascondeva, come se non potessi vederle nemmeno io. Le nascondeva, come se avessero potuto farmi del male. Fin quando sarò con te, Joe, ti proteggerò. Sembra così vicina la sua voce, sembra che non sia mai morto. La daga tocca una superfice dura, sembra di ferro, è bianca... riesco a sollevarla.

Ed eccole.

Dovranno uccidermi, per riuscire anche solo ad avere la speranza di trovarle.

Le pietre sono tonde,sembrano sassi, piccoli, immobili, innocui… incastonati in quella superficie bianca accanto alla sua lapide. Gli smeraldi neri, così le chiamava lui. Le prendo in mano, sono lisce sotto le dita, e mi rivedo bambino, davanti a una grande libro, una luce flebile e il vecchio, con il viso rugoso e gli occhi verdognoli. Vexania, è il suo vero nome. Quando le forze della natura si scontrarono tra loro, le loro lacrime erano di rabbia, di delusione, di compassione per se stesse, perché, guardando gli umani, si erano comportate proprio come loro. Le lacrime erano nere, e si trasformarono in pietra... e contengono un potere immenso.Un potere che può portare alla pazzia. Ma le forze della natura, anche negli errori, trovano un equilibrio. Un modo per limitare quel potere. Perché una pietra può essere usata una sola volta e da una sola anima, per poi diventare un'inseignificante goccia scura.

«Un anima e una sola volta?» chiese un io bambino di anni fa.

«Sì, caro Joe.» Il vecchio annuì a se stesso e poi stirò le labbra, con stanchezza. «Un anima innocente, invece, può farlo per sempre. E può fare qualcosa che le permetterà di dare al mondo qualcosa che non abbiamo, qualcosa che ci manca da troppo e che gli uomini non riescono ancora a seguire.»

Un io bambino rifletté un istante, pensò ai suoi dolori infantili, al suo amore. «La giustizia?»

Il vecchio sorrise. «Così intelligente… sì, Joe, proprio lei.»

 

Cassidy Grace è la ragazza più bella che esista al mondo, io lo vedo, io lo so. E guarda verso di me. Aspetta me. Ha già dimenticato i segreti che non le ho detto, gli sguardi che non sono riuscito a trattenere, l’amarezza che viene fuori ad ogni mio gesto.

Cassidy Grace lascia lo straccio sul bancone, mima una parola, mima quello che è solo il mio nome. E mi dispiace, perché la amo, la amo più di qualsiasi altra cosa al mondo e lei non deve saperlo.

«JS! Ecco dove vai quando ti alzi così presto.» Sento una pacca sulla spalla, mi giro e incontro il viso bonario, dalla pelle color avorio, i capelli e gli occhi neri e grandi. Mi sorride.

«Mi alzo presto ogni giorno.»

Lascio che Cassidy scompaia dal mio sguardo. Ci sediamo a un bancone e una cameriera viene a prendere le ordinazioni.

Mi sento strano. Come se i macigni sul mio petto pesassero ancora di più, come se mi facessero ancora più male, tutto da quando ho recuperato le pietre.

«Non ti sei solo alzato presto. Hai fatto le ore piccole... giusto? Ma non capisco questa faccia affranta.» Lui non sa. Il mio amico si passa una mano fra i capelli, sospira, qualche ragazza passa e lo guarda. «Alla laurea manca pochissimo, ci sono passato anch'io. Pensa a te stesso. Dimentica le cose che ti fanno inquietare.» L’ultima parola che dice pare sottolineata con il sangue, anche se non posso vederla scritta.

«Io non posso dimenticare. » Volto di poco il viso e vedo Cassidy che ride con un’altra cameriera. Come non posso dimenticare lei. «Ci sono cose che non si possono dimenticare. »

Prima di andare a lezione, passo sempre da lì, dove nessuno sa. Davanti a quella casa bruciata, quella casa in cui sono morti tutti. La vendetta ha un sapore, piccolo, mi disse il vecchio di quella casa. Quando l’avrai assaggiata, sei sicuro che ti aggraderà?

Do un calcio a un sasso che mi trovo davanti. Una volta avrei detto che non lo so, non so se mi aggraderà. Potrei buttare via questa pietra e dire addio a tutti, tentare almeno di vivere la mia vita... ma sento che non posso farlo. Non ti importa del sapore, perché adesso hai quello che ti serve. Contro i vivi, contro i morti. 

La prendo dalla tasca e la guardo, la leggera pietra fra le mie mani… potrebbe essere una perla. Lo smeraldo nero. Uno degli ultimi due esistenti. Li ho presi io.

Saranno la mia arma più forte, lo so.

Non lo sai, invece.

Mi volto. Sento freddo.

Non sai niente, Joe.

Stringo ancora di più la pietra nel palmo. Nessuno la vedrà, mentre vado via.

Il nero non emana nessuna luce.

***

Sarah

 

Sapevo che eri un mostro. Sapevo che eri un soggetto pericoloso.

Nella biblioteca della città, guardo la cronologia dei giornali per trovare quello che mi riguarda. Martin deve averlo visto su dei giornali perché su internet – io e Julia abbiamo controllato – le pagine sono state tutte eliminate.

«… Non c'è niente, » sussurro, e mi sento così affranta.

Julia mi guarda, i capelli raccolti in uno chignon, qualche ciocca rossa che le accarezza il viso, gli occhi marrone scuro come inariditi dalle ore che abbiamo passato qui. 

«Forse… dovresti chiedere a Martin. Lui ha visto i giornali, quindi deve averli a casa… »

«Ce la farò da sola. » Piego il libro con tutte le date e i codici da richiedere. «Non ho bisogno di lui.» Ed è vero. Me la sono cavata da sola per anni. Anche se in questa ricerca le cose sono più difficili.

«Ma Sarah...» Julia mordicchia la gomma della matita. «Chi altro potrebbe averli? Davvero, non so chi altro potrebbe darci una mano ed è importante… »

Ma non gli chiederò aiuto, non tornerò da lui. Lui che sa e ha sempre saputo, lui che voleva solo divertirsi, lui era a conoscenza del fatto che la ragazza che sono è il mostro. La ragazza che sono è il soggetto pericoloso. Io sono il soggetto pericoloso.

«Non lui.»

«E allora… che si fa? » 

Respiro. Rifletto. Non posso aspettare. Non voglio farlo e, soprattutto, l’unica persona di cui ho bisogno sono io, i miei ricordi, le mie percezioni, il mio istinto. Io posso controllare quello che mi sta succedendo, conoscendo quello che è accaduto non solo dai miei occhi ma da quelli degli altri.

«Julia, tu non sei stato l’unica.» Fa sempre male dirla, questa frase. Deglutisco. «Dobbiamo cercare un’altra persona.»

«Una persona? »

«Un ragazzo.»

La mia guida è la mia memoria. Immagini di fotografie che si trasformano solo in ricordi, sensazioni, sapori, odori, ogni cosa è marchiata a fuoco nella mia mente. Lui è marchiato a fuoco. Ed è per questo che non ci penso mai… perché mi sale la bile e lo rivedo a terra ed io urlo ed io non so cosa fare se non continuare, perché non sono riuscita a fermarmi. Mi sento i muscoli indolenziti come se qualcuno mi avesse percossa, tutto di quel giorno è chiaro come se fosse illuminato da un raggio di sole. So dov’è lui, adesso, eppure la prospettiva di andarci a parlare fa ancora più paura di quella di incontrare Julia. Julia era la mia migliore amica.

Lui per me era qualcosa che non so ancora spiegare e mi ha ferita.

E poi io ho ferito lui.

Ricordo, e ho di nuovo tredici anni. Ho di nuovo tredici anni e la biblioteca con i tomi e i giornali e le persone intorno a me si trasforma in una grande stanza bianca con una vetrata che dà sul giardino. Scende la pioggia, schizza sui vetri e cade sull'erba di fuori. Mi chiedo se tutta quell’acqua potrebbe farmi sentire più pulita nella testa, se mi lasciassi travolgere. Ma la nonna e il nonno mi hanno detto che in questo grande istituto nessuno sa niente di me e di quello che è accaduto, nessuno penserà a te, stellina, mi ha detto il nonno. Starai bene, potrai fare amicizia.

Ma io non voglio fare amicizia. I giorni passano eppure quel giorno all’asilo sembra il più vicino di tutti, l’unico momento che accade e accade sempre e di nuovo con i contorni decisi di un disegno a matite spesse. Prendo il pranzo nella mensa, niente di così buono… ma alla fine c’è il budino alla vaniglia. Tengo ferme le mani stringendo il vassoio e cerco di fare poco rumore, anche se nessuno si accorgerà di me, anche se c’è troppo chiasso perché qualcono noti il tintinnio delle posate del vassoio di Sarah il mostro.

E poi è come se sentissi qualcosa che dice fermati. Deglutisco. Fermati.

Volto di poco la testa e lui mi sta guardando.

Anche se se ne sta seduto, si vede che è davvero molto alto per la sua età; a volte mi perdo a immaginarlo da grande, come attore di un film, e le mani mi sudano mentre lo guardo adesso e non so perché. Lui parla sempre poco e si accontenta dei cenni, ed è stato l’unico a strapparmi via le parole anche se ne ho quasi percepito il dolore, come se le parole non fossero suoni ma cose attaccate alla pelle.

«Ciao, Hans. » È il massimo che riesco a dirgli.

Hans accenna un sorriso – il sorriso, la prima cosa che ho visto di lui –, lui con la mascella un po' larga, i capelli castano scuro e ricci, la pelle chiarissima e gli occhi grigi, con quelle strature delle iridi che assomigliano a dei graffi sul ghiaccio. E lui non risponde, e quello che sembrava un sorriso si trasforma nella linea tremante di un espressione di fastidio. Sbatto le palpebre, mi manca il respiro… cerco di ritrovarlo. Mi allontano.

Di solito è felice di vedermi. Corro via. Di solito è sempre lui a dire qualcosa. Ma niente questa volta… forse perché era con i suoi amici, e quello accanto a lui aveva in mano il modellino di un auto rossa di quelli che lui io amo quelle macchine, da grande ne potrò avere una, Sarah. E ti ci porterò... insieme a Phil, Lù, V... Io ho solo annuito. E lui mi ha sorriso come se gli avessi detto non vedo l’ora. Non vedo l’ora che tu abbia tutto quello che vuoi.

Il rumore di un piatto che va in frantumi mi sveglia dal sogno di quel ricordo, il sugo caldo contro la camicia mi fa venire la nausea ed io non ci credo… sono caduta e tutti mi stanno guardando. Sono caduta… sono inciampata…

Qualcosa mi blocca, non riesco a mettermi in piedi. Respiro, respiro forte e alzo il viso.

Hans mi guarda con le braccia conserte, gli occhi – due gocce grigie incastonate come pietre – mi guardano socchiusi. Non c’è nessun sorriso a illuminarlo, a illuminarmi, mentre una risata fragorosa divampa come un incendio. 

«Certo che mi è venuto proprio bene, questo sgambetto, eh? » dice a un ragazzo accanto a lui e mi viene da vomitare, e voglio alzarmi, e voglio correre e andare via. È stato lui. Pensavo che fosse mio amico – il cuore batte forte quando mi saluta, l’aria che sembra un nido accogliente ogni volta che dice qualcosa – e invece… che cosa gli è successo?

Mi rimetto in piedi.

«Sai… » Mi si avvicina, lento, con quell’andatura sicura che lo fa sembrare almeno due anni più grande. «Quella macchia rossa ti sta proprio bene, sulla camicia bianca. »

Sento i capelli che sfiorano il viso mentre mi volto e non voglio piangere, non piangerò, pensavo che fosse mio amico ma io non posso avere amici, lo sapevo, ne ero sicura, non avrei mai dovuto lasciare che succedesse.

Mi sento prendere per il braccio; il tocco è forte, addirittura prepotente, mi fa venire la pelle d’oca – tu non eri così –, mi ritrovo a guardarlo negli occhi, un' ombra nera nel grigio chiaro – tu non eri così.

«Perché non resti? » Un tono di scherno.

«Smettila. » Tu non sei così. «Lasciami, Hans. » Tu non eri così.

«Perché, se no che mi fai? » Una risata. Secca, senza vita, quelle dei ragazzini cattivi. Sento il cuore battermi forte, ma in modo diverso, perché il suo viso si avvicina al mio e ho brividi. Sembra che stia per darmi un bacio e anche se il corpo mi grida di andare andare e andare via, mi ci oppongo con tutto quello che ho. Hans. Hans mi sta toccando con le mani ruvide per quel suo lavoro di trasportare la legna sul furgone vicino al collegio. «Vuoi farmi male, Sarah? » Questo non è lui. «Mi fai uscire il sangue? » Questo non è lui, lo so. «Prova, dai. Lo so che non ci riesci. »

«Hans, per favore. »

«Tu non sei nemmeno capace di dire le parolacce, figuriamoci se mi puoi fare male. »

«Smettila! »

«Ti fa schifo schiacciare le mosche con il picchietto, figuriamoci se ti puoi difendere… »

«Perché lo fai? » La mia voce è rotta.

E all’improvviso vedo l’ombra nera sparire. Tornano i suoi occhi grigi e chiari e splendidi con le ciglia castano scuro ed io so che è ancora lui. Perché lo fai? La mia voce risuona nel chiasso e rimbalza sui muri della stanza. Hans mi guarda e sembra morire di qualcosa che forse èdisperazione, tristezza, ancora disperazione. Contro ogni desiderio e pensiero, la mia mano finisce sulla sua guancia. È liscia, da bambino, tredici anni come me. È ancora lui ma ho ancora paura. E il cuore continua a uccidermi dentro e voglio solo che rallenti, rallenta, rallenta, ti prego. Rallenta… il panico sale, non farlo, non farlo, non voglio, e tremo. Tremo troppo forte e voglio solo fermarlo. Hans non è così, Hans… Hans…

Ma è troppo tardi. Troppo tardi.

Lo sento.

Sono io.

Lo so.

Sono io.

Non voglio.

Sono io.

E Hans si accascia a terra ed io comincio a urlare. Chiude gli occhi, cado a terra in ginocchio. Sento le lacrime tagliarmi le guance in tanti pezzi. Il dolore è atroce, vedo un bambino che calpesta una formica, ha i capelli ricci e gli occhi grandi e chiari, è lui. Vedo un ragazzino che, a letto, si copre con la coperta fino alla testa, per non far vedere a nessuno che sta piangendo. Vedo un ragazzino che dice brutte parole, parole orribili, a una giovane donna con i suoi stessi occhi. Vedo quello stesso bambino correre in collegio e chiudersi la porta alle spalle, come se avesse trovato il suo rifugio, la sua casa. Vedo un abbraccio con una ragazza bellissima, lei ha i capelli castano ramati. Vedo un ragazzino solo, che sorride a tutti, e pensa brutte parole per i grandi ed è solo. Hans è solo, e non perché non ha nessuno, ma perché qualcuno di importante ha deciso di non amarlo. Vado modellini di macchine rosse, scritte di nomi in un bagno, dormite all'aperto in estate, voglia di dimenticare. Lui è Hans. La sua vita mi colpisce come una scossa, ma uccide lui. 

Fino a quando, dopo tanti anni, non trovo il coraggio di cercare il suo nome. 

Fino a quando non scopro che è ancora vivo.

***

È ancora lì, in quel collegio in cui nessuno sa. La struttura era divisa in due, forse lo è ancora… una casa-famiglia e una parte per giovani dalle condizioni economiche non molto stabili. Non gli ho mai chiesto di che parte dell’edificio facesse parte. Non gli ho mai fatto nessuna domanda...

Non riesco più a pensare quando entro nel giardino. Julia mi aspetta fuori. Faccio qualche altro passo per avvicinarmi alla grande porta che è l’entrata dell’edificio grandissimo in giallo ocra.

«Cerchi qualcuno? Il direttore non c’è.»

È la voce di un ragazzo, una voce che seguo quasi senza riflettere perché mi sono già voltata, i miei occhi si sono già posati su di lui, e un battito del mi cuore si è dissolto in tanti frammenti d’aria nel petto. È così simile a come avevo immaginato che diventasse. E la sua voce… così diversa, così da grande. Da diciassettenne. Come me.

Sbatte le palpebre una, due volte, ed è così alto. È rimasto magro, le spalle larghe sembrano quasi sproporzionate rispetto al resto ed io non ho ancora ripreso a respirare. I capelli castani, i ricci sottili che gli ricadono sul collo, le labbra sottili, il viso più spigoloso per la scella un po' larga, ma come… delicato, amichevole anche se destato dalla sorpresa.

«Non cerco il direttore.»

Si rabbuia. Come può un ombra scura renderlo bello come il sole? L’avevo immaginato come un principe, un tempo, e me ne vergogno. Ero ancora una bambina e sto crescendo ancora oggi. E la gioia di vedere che è vivo proprio come Julia mi scatena una gioia tale che potrei buttarmi fra le sue braccia non solo per gioia, e non lo capisco. Abbasso gli occhi, spero che non legga niente di tutto questo.

«Sarah?» La sua voce è dura, di pietra, eppure mi lascia sulla pelle un calore simile a quello che si sente dopo un graffio, dolore compreso.

Non voglio ancora guardarlo negli occhi.

«Sì, Hans. Sono io.»

*

*

*

*

Eccomi qui! :) Spero che il capitolo vi sia piaciuto, abbiamo visto l'entrata in scena di un nuovo personaggio di cui Sarah aveva già parlato :) Che ne pensate di lui? ^^

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi ringrazio infinitamente per il vostro sostegno, che mi motiva a scrivere, mi dà tanta forza e mi fa camminare sempre tre metri da terra. Grazie a chi recensisce, segue, ricorda e preferisce. Grazie davvero a tutti voi :)

Un bacio

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 16. Il ragazzo coraggioso ***


until 16

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

16. 

Il ragazzo coraggioso

 

Il fuoco nel camino scoppiettava in piccole, rapide scintille. Ero seduto su una poltrona, teso, ed aspettavo, curioso come solo i ragazzini possono essere, che lui cominciasse a raccontare.

Dal divano, il vecchio mi lanciò un occhiata d’intesa. I suoi occhi azzurro chiaro, così vigili, contrastavano con il viso rugoso che si raggrinzì ancora di più in quel momento, quando sorrise. Sorrise a mostrare i denti giallastri, poi si posò un dito sulle labbra che sembravano marroni e mimò, piano, queste parole: “non è ancora il momento”.

Ed era vero.

Perché lei passò dietro di lui come un fantasma, nello spazio che lasciava la porta aperta sul corridoio, con quel vestito bianco che era una macchia candida sulla carta da parati rosso scuro. Lei, silenziosa, con i capelli castani e quei due grandi, azzurrissimi occhi che riuscivano, ogni volta, a farmi porre la stessa domanda… sei reale?

Dietro di lei, la seguirono altre due bambine, una bionda e una mora che correvano con un fragore di passi e risate. Si sentì il rumore di una porta che sbatteva.

«Adesso continui la storia?» chiesi al signore.

«Sei così curioso, Joe.»

«Me lo racconta, signore?»

«Certo.» Il vecchio si alzò dal divano reggendosi su un bastone e mi guardò come se avesse appena trovato qualcosa di importante. «Sei l’unico a cui potrei mai raccontarla... l'unico maschio.» Lentamente, con il bastone che batte sul pavimento di legno, si avvicinò ad un mobile intarsiato dalle sfumature d’oro. Aprì le ante a vetro e, con una sola mano, estrasse quello che sembrava uno scrigno bianco. Alla luce del fuoco sembrava più un cristallo, per i riflessi che andavano sul viola e l’azzurro.

«Di che cosa è fatto? »

Il signore si voltò e, sul suo viso anziano, apparve un sorriso soddisfatto. «Argento di luna e platino. L’argento di luna è indispensabile.» Poggiò lo scrigno sull’enorme tavolo al centro della stanza e posò il bastone accanto ad una sedia. Mi avvicinai veloce, mentre il signore apriva lo scrigno con entrambe le mani a farmi vedere quelle che erano delle pietre nere, grandi quanto delle piccole biglie, ma dalla forma spigolosa di una pietra preziosa. Mi concentrai, per cercare di ricordare il resto.

«Ti ho già spiegato a cosa servono queste pietre.»

Vexania, è il suo vero nome. Così la chiamarono i primi uomini, Joe. Così la chiamarono, e niente può controllarla se non un’anima, una sola volta. Un anima innocente, invece, per sempre. E può fare qualcosa che la renderà padrona del mondo.

Fare giustizia.

«Perché le conservi lì? »

«Bravo, Joe.» Il signore annuì diverse volte. «Molto bravo, è una domanda importante. L’argento di luna è rarissimo, al mondo non esiste più. Quando la natura diede agli uomini la possibilità di vederli ne era già scomparsa la maggior parte… era già rimasto solo questo. E quindi... »

«Che cosa succede se le pietre non le metti lì? »

«Joe.» Il signore mi carezzò la testa, mi scompigliò i capelli e il suo sorriso cominciò a disfarsi come una coperta sgualcita. «Terribili cose. Le più terribili. Che cosa porta gli uomini a volere queste pietre? La giustizia. La giustizia… manca poco e si trasforma in vendetta. » La sua mano si spostò sulla mia spalla mentre io lo ascoltavo, rapito. «Non c'è bisogno di essere in una stanza estranea per sentirsi infestati dai fantasmi, non c'è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi molto più vasti di uno spazio materiale ed è assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma piuttosto che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato. Così dice Emily Dickinson ed ha ragione. L’animo umano è debole, Joe. Ma il male è forte. Il male e il bene li trovi ovunque, in parte maggiore e in parte minore. Lo scrigno d’argento fa sì che le forze del male e del bene restino equilibrate e restino nelle pietre senza influenzare chi le possiede. Se non vi è la protezione dell'argento di luna, il male non rispetta le regole e sovrasta il bene. E allora non c’è muro che regga, muraglia, castello che ti possa proteggere dai tuoi stessi spettri. » Il vecchio prese di nuovo il bastone in mano. «Se non proteggi quelle pietre.... se non proteggi te stesso, Joe… il bene muore, e il male vive. La giustizia si schiaccia e la vendetta emerge. Ogni cosa è perduta. Tu sei perduto… tu sei… sei… » Fu preso da un forte attacco di tosse. Sussultai, indietreggiai anche se ero lontano metri. E d’istinto, corsi da lui. Lo aiutai a sedersi sulla poltrona, tosse, «Tu perdi tutto te stesso.» tosse, «Tu perderai ogni cosa. » tosse, lo aiutai a prendere il fazzoletto ricamato dalle tasche e glielo porsi, in modo che potesse coprirsi la bocca. Lo aiutai, perché gli volevo bene. Gli volevo bene…

«Joe… è stato così bello, poterti avere. »

«Anche per me, signore. »

«Tu sei un ragazzo coraggioso. Il mio unico ragazzo coraggioso.»

Deglutii, sorrisi. Dovevo essergli proprio sembrato stupido, in quel momento, perché avevo tredici anni e solo lui su cui contare e non ero coraggioso e amavo le storie. E quello che mi sembrava così impresso e vivido, la mia mente di adolescente lo rese sbiadito. 

Un vago ricordo, insignificante.

 

 

 

 

Sarah

Il silenzio che riempie questo giardino mi soffoca come una mano d’acciaio serrata alla gola. Prendo il coraggio di alzare lo sguardo e guardarlo senza tremare, di fare un passo verso di lui, di calmarmi, di parlare. 

«Perché sei qui?» mi chiede. L'incertezza nella sua voce.

Annulla la distanza con un solo passo, sento il calore del suo corpo contro il mio e l’unica cosa che percepisco è che un tempo avrei avuto paura e allo stesso tempo avrei desiderato di averlo così vicino. Mi sento le guance accese.

«Devo farti della domande.» 

Mi mordo l’interno della guancia.

«Perché lo fai?» 

Qualcosa si spezza. È l’immagine di lui con gli occhi colmi di grigia disperazione, un ragazzino di tredici anni che sembrava più grande, bello, con poche parole, quello che in una sola volta si è trasformato in quello che mi fatto cadere davanti a tutti per deridermi. 

Ma so che non era lui.

«Hans.» Richiede sforzo, pronunciare il suo nome. «Perché tu l’hai fatto?»

I suoi occhi grigi si incupiscono, eppure sono così vicini al bianco; lo stesso colore delle nuvole del cielo quando sai che pioverà. «Non ti capisco.»

Mi allontano di un passo, veloce, e cerco di trattenere la rabbia perché lui non può non capire, lui sa, sa forse molte più cose di quanto ne possa conoscere io e… «Non sopporto che tu faccia la parte di quello che non sa niente. Tu hai attivato qualcosa. Che cosa ti è successo, che cosa hai sentito? » Faccio un respiro profondo. «È successo un’altra volta, prima di te. E ho bisogno di sapere se si sono verificate le stesse cose. Qualcuno controlla questo. Qualcuno lo vuole. Che cosa hai sentito?»

Si passa una mano fra i capelli e mi guarda. Sembra quasi rammaricato, rassegnato. «D'accordo.» Fa un respiro profondo. «Mi ricordo solo che ho sentito un dolore atroce e poi sono caduto e tu mi stavi guardando e... è stato come rivivere la mia vita in tutte le cose più orribili…»

Sospiro. Cerco di calmarmi.  «Chi è stato a chiederti di farlo?»

Non mi guarda più.

Silenzio.

Parlo per lui.

«Era un uomo. Ti ha promesso qualcosa.»

Sbuffa, respira stanco. «Allora lo sai già.»

«L’ha fatto anche con Julia.» Mi passo una ciocca di capelli dietro l’orecchio quasi come mossa istintiva, non sopporto il vento che si è alzato, non sopporto di averlo rivisto, non sopporto il modo in cui mi ha parlato e odio il modo in cui mi sta guardando. Ma devo farcela e devo farlo da sola. «Bene, non mi serve sapere altro.» 

Mi dirigo verso l'uscita.

«Perché adesso?»

Mi irrigidisco, come succede sempre quando penso a lui, quando penso a Martin.

«Adesso, Hans. Non c'è niente da spiegare.»

Mi dirigo verso l’uscita a grandi passi, più veloce che posso, ormai è finita, tutto è sempre allo stesso punto di partenza e non riesco a venirne fuori. Da sola, devo farcela da sola ma non ho ancora trovato il modo. E mi dispiace, perché così avrei anche una spiegazione, così avrei modo di capire che cosa sono dentro questo chi. È stata una grande fortuna che Julia sia venuta a cercarmi per darmi una mano. E Hans verrà mai a cercarmi?

Una presa sul braccio.

Non somiglia più a quando aveva tredici anni perché sulla pelle e mentre lo guardo, sento che lui non vuole che me ne vada. Non ancora.

«Mi dispiace, Sarah.» I suoi occhi sono grigi di un cielo triste. 

«A te?» sussurro.

«Sai… cosa mi aveva promesso?» Ride, solo un poco. Ha una risata ampia, mi abbraccia come una calda coperta d’inverno. «Quella macchina rossa che aveva anche Tom… Tom che non faceva altro che vantarsi di quello che aveva, mentre io non avevo niente.»

Non è vero che non avevi niente. C'era il tuo migliore amico. Quella ragazza con i capelli lunghi... 

C'ero io.

«Non me l’avevi mai detto.»

«Non si strappano i sorrisi alla gente parlando di quello che non hai.» Sorride, mentre lo dice, ed è un sorriso che non dice gioia ma solo resisti, continua a resistere. «Qualche sorriso te l’ho strappato, e ancora meno parole… cosa ti ha fatta cambiare?»

Martin. Ma non dirò il suo nome. Fa ancora male, riporta alla luce che cose che per Sarah il mostro avrebbero sempre dovuto essere nascoste dall’ombra. Sospiro. E poi non sono cambiata così tanto, sono solo cresciuta. E alla mia non risposta Hans mi sfiora la mano con la sua.

«Non pensavo che ti avrei rivisto mai più.» Mi guarda, il tono di voce sottile, una carezza di parole. È come se ci fosse qualcosa ancora in sospeso, fra noi, come se non ci fosse modo lasciarci se prima non scopriamo cosa ci siamo lasciati indietro in questi anni.

«Avevamo gli stessi pensieri, allora.»

Che cosa sarebbe successo se non ti avessi mai fatto del male? Che cosa sarebbe successo se avessimo passato quel tempo insieme? 

Sembra quasi che sia un ragazzo qualsiasi, mentre digita il suo numero di telefono sulla tastiera del mio cellulare per rimanere in contatto. E mentre vado via, sento chiudersi l’aria intorno alle mie spalle, al posto dell’abbraccio che non c’è mai stato.

***

Martin.

«Erano tutti nell’ufficio di tuo padre?»

Mi passo la mano sul mento, sento i fili cortissimi della barba che mi graffiano leggermente la pelle, sospiro e guardo altrove. In piedi nella stanza di Cameron, mi lascio andare ad un sospiro rumoroso. «Già. Quello l'ho fotocopiato l'altro ieri... poi non sono più potuto andare nell'ufficio. Doreen sembra che lo faccia apposta a non uscire dalla cucina, e la chiave è lì. Poi questi giorni sono stati incasinati e...»

«Soggetto pericoloso,» legge Carmeron, lo guardo e il suo viso è perplesso, le palpebre assottigliate sugli occhi neri, i capelli un po’ scompigliati. «Pensi di poter scoprire qualcosa?»

Scuoto la testa, forte. Mi alzo in piedi. «Non penso, io devo scoprire qualcosa, Cam.»

«Anche se è successo quel casino con lei?»

«Non mi importa dei casini.» Mi appoggio al muro con una mano, il braccio teso, la fronte contro il polso. Mi importa di lei. Mi avvicino di nuovo al letto e prendo in mano uno dei fogli che ho fotocopiato… qui c’è lei, deve avere sui dodici o tredici anni, qualcuno la abbraccia da dietro e la foto sembra presa dall’alto. I suoi occhi non si vedono, ma ha il corpo teso, le braccia all'indietro, le gambe che scalciano, i capelli sciolti e disordinati sulle spalle… è terrore, quello che sente. Quello che ha sentito.

Sento il campanello ma non mi muovo.

«Hai invitato qualcun'altro senza il mio permesso?» mi chiede Cameron, esitante.

«Non da sobrio.» Mi chino per prendere tutto, nel caso Holly entri e veda qualcosa; è una cosa mia e nessuno oltre ai necessari deve esserne a conoscenza.

«Ti sei ubriacato ultimamente?»

«L'ultima volta ho fatto una cazzata talmente grande che non ci ho più provato.» Tre, quattro, cinque fogli, libri per coprirli… meglio un casino infernale piuttosto che qualche titolo come la bambina mostro che viene fuori per caso. Sarah non è un mostro. Non lo è mai stata, lo so. 

«Dai, vai.»

«Ma proprio io? »

«Cam! »

«Uffa! »

«Io sono ospite, quindi vai tu.»

«Ti giuro che se è una ragazza farò di tutto per uscirci insieme.»

«Magari è solo il postino.» Cameron si diledua, sento i suoi passi rieccheggiare nel corridoio e non riesco a trattere il sorriso. 

Sento il rumore della porta che si apre… e adesso sentirò la risata di Doreen come se mi fosse accanto, lei che si offre di prepararci qualcosa da mangiare, e poi vedrà tutto il casino qui dentro e mi guarderà nel modo in cui si guardano gli scarafaggi che ha paura di schiacciare perché fanno troppo schifo e scuoterà la testa con i suoi riccioli castani scurissimi.

Ma non sento la sua voce. Non sono a casa mia, come potrebbe mai essere...

«Sì... so che sei un amico di Martin. Sono passata da casa sua ma non c'era, allora la domestica mi ha dato il tuo indirizzo... è qui?»

Questa è un’altra voce.

Esco dalla stanza e mi inoltro nel corridoio, veloce, no, non troppo veloce, vedo un riflesso rosso sul pavimento in legno colpito da un raggio di sole che filtra dalla finestra. Capelli rossi. Sento il cuore accelerare. E se ci fosse lei? Calmo, calmo, calmo…

Cameron accenna un sorriso, entrambi gli angoli della bocca all’insù, tesi. 

«Lei è un’altra tua fan, Mat?» Cameron la guarda e il sorriso si distende in modo da addolcirsi. Le guance di lei prendono colore.

«Julia.»

Mi guarda, gli occhi marrone terra con le ciglia ramate a squadrarmi. 

«Sarah mi ha detto dei giornali.» Sento lo stomaco che si rivolta in una sensazione di fastidio. «Le servono, per scoprire qualcosa, e su internet è tutto scomparso. Non c’è niente nemmeno in biblioteca.»

«Lei? » Il tono in cui chiedo la deride, sento qualcosa di acido, bollente, salirmi in gola: è frustrazione, rabbia, la voglia di cercarla e aggiustare tutto con qualcosa ancora più grande che mi grida che è impossibile. «Non poteva venire lei a chiedermelo?»

Si mette a braccia conserte in un movimento lento, scocciato. «Non so cosa è successo fra di voi, ma lei non ti chiederebbe niente per nessuna cosa al mondo.» Colpito. Non affondare, non puoi affondare, non affonderai. «Ma riconosco che tu hai qualcosa che può essere utile.»

«Be’, la collaborazione è tutto in questi casi.» La voce di Cameron è decisa, dice io sono una persona matura al contrario di questo imbecille qui.

Julia distoglie lo sguardo da Cameron, si passa un riccio di capelli fra le dita. «Allora?»

«Ci sto, Julia. » Ovviamente. «Quando ci vediamo? »

Aggrotta le sopraciglia. «Ve-vediamo? »

«Con il resto della squadra,» aggiunge Cameron.

«Un momento… tu che cosa sai?» Julia si rivolge a lui, alzando la voce, la camicetta viola che le si alza leggermente.

«Io?» Sul viso di Cameron prende forma l’espressione da questo videogioco è una figata assurda. «Tutto! Tranne i particolari piccanti.»

«Ok, questa cosa non mi riguarda.» Julia si passa una mano sulla guancia come se si stesse togliendo qualcosa di sporco. Torna a guardarmi. «E poi, vederci in che senso? »

«Devo parlare con Sarah. »

«Ma lei non vuole parlarti. »

Mi sforzo in tutti i modi di fare il mio sorriso migliore. Ci riesco, lo so, ce la faccio sempre. «Dovrà fare uno sforzo. »

«Ci sono ragazze che pagherebbero per parlare con lui.» La voce di Cameron.

«Grazie, Cam. » Metto le mani in tasca,  trattengo il nervosismo.

Julia si morde le labbra, sembra imbarazzata. «È importante, Martin.» Il modo in cui lo dice mi fa abbassare leggermente le spalle, sembra dire per favore in ogni sillaba, posso percepire lo sguardo attento di Cameron su di me.

È importante. Come se non l’avessi capito. Come se ogni cosa che riguarda Sarah non lo fosse.

 

Sarah.

 

I raggi del sole annegano nell’acqua del lago davanti a me, nel parco vicino scuola. Non fa più tanto freddo, ormai. Ho messo via sciarpa e guanti, il lino della maglietta è fresco e mi dà sollievo, mentre guardo il mio riflesso in quest’acqua. Abbiamo deciso di incontrarci qui, tutti e tre.

Io, Julia.

Ed Hans.

Vedo la superficie dell’acqua ondeggiare leggermente, come se l’aria ci stesse vibrando sopra; alzo il viso e vedo un sasso piatto che cavalca la calma piatta del lago e si ferma poco vicino ai miei piedi. Guardo ancora più in là. C’è un ragazzo, e il suo sorriso che ho capito essere sempre a metà mi tiene bloccata come se le sue stesse mani mi stessero stringendo in una morsa che toglie il fiato dai polmoni.

«Hans.» Mi ritrovo a sussurrare il suo nome. Fa il giro del lago per raggiungermi ed io volto la testa, Julia sta camminando verso di me.

Saluti semplici. Julia mi riserva addirittura un sorriso. «Hans, lei è Julia. Julia, Hans.» Si stringono la mano, si guardano, sembra tutto così naturale da mettermi a disagio.

«Il problema è questo,» comincio. Mi tiro la maglietta verso il basso per sistemarla, mi siedo sulla panchina. «A parte quello che so di voi, ed io di me… ed è decisamente poco, non so niente. Non so come andare avanti e come cercare di arrivare una conclusione.» Faccio un respiro.

«Com'è possibile?» La voce di Hans è incerta. Riesco solo a guardarmi le scarpe.

«C’è qualcuno che potrebbe aiutarci, in realtà.»

«No.» Lo penso e lo dico nello stesso istante. Fisso i miei occhi in quelli grandi e marroni di Julia; il suo sguardo esita.

«Chi è questo qualcuno?» chiede Hans.

«Nessuno,» rispondo io. Scuoto la testa, una ciocca di capelli mi finisce sul viso, la allontano, stringo le mani sulla borsa per cercare di far andare via questa tensione.

«Sarah, scusa, ma se ti ostini a chiamare l’unica possibilità che hai nessuno allora non andremo da nessuna parte.»

«Martin non è la mia unica possibilità.»

«Ah, allora ti ricordi il mio nome.»

Il mio corpo diventa granito, lo sento, riesco a sentirmi perché mi diventa la pelle d’oca ed io riesco a sentirlo, riesco a sentirmi come tutte le volte in cui c’è lui. No, no, no. Martin. Martin che non aspetta che io mi volti, mi si siede accanto con quella strafottenza che è solo sua e mi attanaglia lo stomaco. E poi non so perché, non so come, alzo il viso e lo guardo e incontro i suoi occhi. Avrei potuto passare tutto il tempo a fissare le scarpe e invece ho girato la testa verso di lui. Se non l’avessi fatto sarei morta, ecco cosa ho sentito. I suoi occhi verdi, grigi sul contorno, accesi, indugiano su di me e mi rendo conto di aver sbagliato. Sarebbe stato meglio se fossi rimasta a fissarmi le scarpe, almeno non mi avrebbe fatto male. Anche solo guardarlo, ora, mi fa sentire dolore. Me lo fa sentire come se da dentro qualcuno mi stesse picchiando contro lo sterno. Respiro, respiro forte. E poi sul suo viso appare una smorfia che assomiglia a un sorriso ed io non posso fare a meno di pensare che è bellissimo e sono stata stupida, stupida e ancora stupida.

«Che ci fai qui?»

«Non posso fare un giro al parco, Sar?» Si stiracchia le gambe, è così alto. È così… ogni cosa che ho scoperto di lui mi rimbalza addosso come punizione per aver finto di aver dimenticato tutto. Le mani grandi che stringono il legno della panchina e mi hanno accarezzato il viso, le braccia, la schiena, la bocca che si stira, mi ha baciata, e la lingua che schiocca e tutte le sue parole, tante parole che mi hanno fatto sorridere senza sofferenza, come se per me fosse stato un bisogno. Martin. Io ne avevo bisogno. Io…

«Ti avevo chiesto di lasciarmi in pace.» Mi metto in piedi.

Mi segue. Noto appena che dietro di lui c’è un’altra persona, una ragazzo moro con un cappello in testa, ma Martin copre ogni cosa.

Faccio un passo indietro e poi sono le sue mani su di me: la sua mano sulla pelle nuda del mio braccio ed è come annegare perché lui non deve toccarmi mai più anche se mi manca da morire.

Sapevo che eri un mostro, sapevo che eri un soggetto pericoloso.

E non potrà succedere mai più. Avvicina la bocca al mio orecchio ed io mi sento stordita, percossa, nel bel mezzo di un vortice di sensazioni che non voglio più provare. «Sono qui per mantenere la promessa. Ti ho promesso che ti avrei aiutata, e lo faccio.» Il suo fiato sulla mia pelle.

«Ti decidi a lasciarla o vuoi un incoraggiamento?»

Hans.

È così sicura, la sua voce. Ha sempre quella tonalità un po’ alta che è rassicurante, potrebbe dire qualunque cosa ed io sarei tranquilla, ma non adesso perché Martin…

«Parli con me?» La voce di Martin invece mi fa sentire la frenesia che scorre nel sangue. Agitazione. Non riesco a respirare. Confusione. Devo respirare.

Respira, Sar.

Mi divincolo dalla sua presa.

«E tu chi sei, il ragazzo di Julia?» Martin si rivolge ad Hans.

«Sono Hans Renton e Julia l'ho appena conosciuta. Ci è successa la stessa cosa.»

Nello sguardo di Martin vedo il fastidio, lo sento come se fosse mio. E sento i battiti del cuore in gola a parlare per me, sento che il fastidio di Martin diventa rassegnazione e i battiti aumentano, aumentano, mi opprimono le corde vocali.

«Io sono Cameron, giusto per farvelo sapere. Sarà carino lavorare tutti insieme, no?»


*

*

*

*

banner

Questa bellissima grafica è stata realizzata dalla pagina Matchless ∂eѕιgn, passate a dare un'occhiata!  Grazie mille ancora *.*

Ciao a tutti!

Allora, vi chiedo scusa per non essere ancora riuscita a rispondere alle vostre recensioni, lo farò presto. Purtroppo in questo periodo sono impegnatissima. Ringrazio tutti coloro che recensiscono e mi rendono così felicissima, chi inserisce la storia fra preferite, ricordate e seguite e in generale per leggermi. Grazie davvero di cuore. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto <3

Grazie ancora a tutti voi.

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 17. Spilli ***


until 17

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

17. 

Spilli

È andata. Ci sono stati complimenti per la tesi, sorrisi e brindisi nel solito locale della città, con quello che per le persone è il solito amico e con tanti altri studenti. Senza famiglia. Lascio la festa appena vedo che c’è abbastanza gente ubriaca per non essere notato, la testa mi scoppia come se avessi bevuto molto più di loro. Non so cosa mi stia succedendo. Ho lasciato perdere le pietre per un po’; le ho conservate fra i Sali del bagno che appartenevano all’inquilino precedente, in un cassetto del comodino. Mi chiudo la porta alle spalle con la speranza che il dolore – tanti piccoli colpi appuntiti sulle tempie – smetta. Colpi appuntiti di piccoli spilli d’acciaio. Pungono, è come se li sentissi entrare nel cervello. E quando il campanello suona, sembra che quelli spilli mi passino completamente attraverso. Trascorrono dei minuti, prima che mi illuda che il dolore sia un po’ meno rispetto a prima… e poi la vedo.

«Non dovresti essere qui.» La mia voce è un rantolo.

Cassie fa un passo avanti, i capelli castani dai riflessi ramati che le accarezzano il viso lisci, il viso ovale e roseo e tremendamente bello con delle occhiaie che sembrano dipinte, non sue. Non sono sue. Sono io la causa di tutti i suoi malesseri.

E per la prima volta, sento che deve essere così.

«E invece sono qui, Joe. Che cosa ti succede?»

«Va’ a casa, Candy.»

«Ho lasciato il lavoro per venire da te, Rachel mi copre.»

Ogni cosa di me le porterà dolore. Ogni cosa di me sarà un motivo per morire. Ogni cosa di me sarà la mano assassina che la porterà a non essere più la Cassidy Grace che il mondo ha conosciuto.

«Candy… dolce Candy.» Rido. Perché rido? Non voglio ridere. Voglio abbracciarla. Voglio...

«Cassie!» grida. Mi arriva uno schiaffo in pieno viso. Ma non sento niente, mi sto abituando agli spilli che affondano sempre e ancora dentro di me. «È Cassie il mio nome, Joe! E ti ho dato il mio tempo, il mio silenzio, ogni cosa volessi e tu non puoi chiamarmi con un altro nome! Cassie… Cassidy Grace… » Tira su col naso ed è splendida e mi odio, e qualcosa dentro di me mi dice non esserne dispiaciuto, sii felice. Sii felice, Joe.

Non posso.

«Cassie.» La mia voce. «Cassidy Grace.»

E la abbraccio e sento i suoi nervi sciogliersi e, sulle mie labbra, le sue, secche dal profumo di caffè, salse dall’aroma di rosmarino, torte ai lamponi. E inspiro l’odore dei suoi capelli, frittura, shampoo al profumo di fiori, lavoro.  

«Io ti  amo, Joe,» dice nella pausa di un respiro.

Gli spilli continuano a spingere, li ignoro, deglutisco. Dico la verità come se questa fosse la mia ultima possibilità. «Ti amo anch’io.»

Ti amo e perdonami. Perdonami per il segreto che siamo diventati. Perdonami per la vergogna di dire a chiunque che tu sei l’unica. Perdonami per averti detto poco di tutto quello che ho fatto… l’università, la medicina, la tragedia della mia vita, le pietre.

Le pietre che non ho conservato nello scrigno, lo scrigno andato perduto... avrei dovuto rinunciare, avrei dovuto dire addio.

Perdonami, Cassidy Grace.

Le tolgo i vestiti, mi toglie i vestiti, annaspa con le mani fra i miei capelli, dice il mio nome Joe… Joe,  la sua pelle sulla mia bocca e il suo sapore vero, amato. Stringe le gambe intorno al mio bacino e vorrei essere suo per sempre, voglio che mi prenda e mi nasconda, voglio essere invisibile, voglio amarla per tutta la vita e spingo, e sento le sue carezze sulla schiena. Voglio che gli spilli smettano di affondare e affondare e voglio amarla in pace e spingo, spingo ancora. Cassie… Cassie. Joe. Cassie. I nostri nomi. Ti amo, Cassie, e c’è qualcosa di sbagliato. Ti amo, Cassie, ma perché mi sembra di essere così lontano. Joe… Joe… sono qui. Joe… non è vero. Joe. Non tornerai mai più. Cassie… Non c’è modo di tornare indietro. Io ti amo, ti amo, perdonami. Un'altra spinta e qualcosa di simile a una scossa sembra annulare sempre e per sempre questi dolori d’acciaio nella testa. Nella testa e in tutto il corpo. «Perdonami, Cassie.» Non è colpa mia. E lei mi guarda con i suoi occhi marrone chiaro, dolce nocciola di questi anni.

Ma ora gli spilli sono affondati ovunque ed è troppo tardi.

 

***

Sarah

Il sole è tramontato – l’ho visto annegare nell’acqua mentre il rumore dei passi di Martin che si allontanava diventava sempre più lieve – e la strada è deserta. Per questo ci cammino in mezzo; è una cosa che ho fatto poche volte, una delle poche cose che mi sono permessa di sentire. La possibilità di morire, in fondo, è strettamente vicina alla possibilità di vivere. In bilico fra le due cose, sono sempre stata ferma, troppo spaventata per fare un passo avanti e sceglierne una. Resto allora in questo nulla – strada asfaltata, echi lontani – immersa in me stessa.

Ma non abbastanza, perché non sono sola. Perché sono con...

«Hans,» comincio. «Alla prossima fermata passa il bus per il tuo istituto. Non c’è bisogno che…»

«Non preoccuparti.» Cammina con le mani in tasca, con calma, naturalezza.

Mi dispiace di non poter essere di compagnia, per lui, ma allo stesso tempo non riesco ad insistere. Questa sua quiete mi avvolge in un torpore simile al sonno, un sogno da cui sai che presto ti sveglierai e che non vuoi dimenticare quando aprirai gli occhi.

«Mi piace fare due passi.» La sua voce è chiara. Scende liscia sulla mia pelle, come il fruscio di un lenzuolo, qualcosa di inaspettato e dolce. Da quando ci siamo rivisti fra noi è tutto così, inaspettato e dolce, più bello che nei ricordi, qualcosa che mi accarezza la pelle lasciando un lieve pizzicore, il tremore che viene dopo il freddo, quando l'aria di primavera è appena arrivata.

Sorrido fra me. «In realtà sono più di due passi.»

«Non sono molto preciso. »

Alzo il viso verso di lui. Sorride a quel modo un po’ storto, asimmetrico, con un’assurda armonia che lo rende bello, con i capelli ricci un po’ disordinati e gli occhi di quel grigio a metà fra il bianco e l’azzurro chiaro. Hans Renton, diciassette anni. Chi sei, Hans?

«Casa mia è lontana due kilometri e mezzo, invece,» butto lì, incapace di dire altro, di chiedere.

«Vivi con i tuoi nonni, vero?»

Sono stati così precisi i giornali. «Sì. Sono i genitori di papà…» E di sicuro Hans conosce il resto. «E tu, in quell’istituto? »

Non si scompone. «Vivo in quell’istituto, sì.» Si passa una mano fra i capelli e sospira. «Mia madre mi ci ha lasciato quando non avevo ancora imparato a parlare.»

Sento che lo stomaco mi si contorce, mentre l’immagine di un bambino dai grandi occhi grigi e tanti capelli piange avvolto da braccia estranee. «Mi dispiace, lei… non poteva tenerti?»

«Mi ha avuto quando aveva quindici anni, mio padre è scomparso ed io ero il suo casino.» La sua voce è ferma. Hans parla come se stesse analizzando un quadro, un paesaggio arido, un cielo bianco.

I miei genitori sono morti, invece.

Il cielo del paesaggio si macchia di rosso, schegge di vetro, il pianto di un bambino.

«Tu… l’hai conosciuta?»

«Certo. Con i suoi due figli. E suo marito una volta l’ha accompagnata, rimanendo in macchina. Ha finito la scuola superiore, ha un lavoro…» Pausa. Respiro sospeso. Parole ferme in gola. «Eppure mi lascia lì, in mezzo a ragazzi che hanno i genitori in prigione, o sono orfani senza tutori, o hanno bisogno di rivedere la loro condotta.»

«Hans. » Poso una mano sul suo braccio per farlo smettere di camminare. Lui, con lo sguardo dritto e la mascella contratta in quella sua simmetria bizzarra, dura. Che piace a me. «Non volevo. Scusami.»

«Un tempo non parlavi. Ora hai anche la voce per scusarti.»

«Davvero, io…»

«C’è chi non si scusa mai, anche quando dovrebbe. Se qualcuno deve chiedermi scusa, non sei tu.» Si passa una mano fra i capelli, proprio ora che si è alzato il vento, qualche ciocca che gli colpisce piano il viso. Posa la sua mano sulla mia, ferma sul suo braccio. Hans urla, nei miei ricordi, urla fra le mie braccia e io so che sono io, la causa di tutto questo. Lo stringo a me, gridando inutili "No", mentre lui si accascia a terra...

«C'è qualcosa per cui dovrei chiedere scusa, invece,» sussurro. 

«Non è vero. Sono stato io. Sono stato stupido, e così ti ho perso.» 

Ritraggo subito la mano, guardando altrove – quel palazzo, quell’albero, quel lampione – le mani di Hans – un sospiro – Hans.

«Non mi hai perso. Io sto bene. Sto meglio. E scopriremo tutto... mi impegnerò. Lo devo fare.»

Continuo a camminare. «Mi impegnerò anch'io.» 

«Hai amici, lì all'istituto?»

«Sì… ho un migliore amico, una vita tutto sommato normale a parte qualche incidente di percorso. Ma sono cose che succedono, un po’ tutte le persone sono incidenti di percorso sulla strada di qualcuno. »

Deglutisco. Aumento il passo. Ricordo il momento in cui, per la prima volta, ho alzato gli occhi verso di lui. Ferma sullo scalino del pullman, è stata l’unica volta in cui l’ho guardato dall’alto. E così mi sono resa conto, spaventata, che lui stava guardando me. Lui, il ragazzo del bus. La mia spalla ha sfiorato il suo braccio, mentre scendevo e i suoi occhi mi seguivano. Ed io ho creduto che, solo scappando, mi sarei salvata da tutto. Come se voltarsi bastasse ad andare via, come se andare via bastasse a dimenticare.

«Già.»

«Anche tu ne sai qualcosa, di incidenti di percorso? »

Ne so fin troppo, forse. L’ho evitato, ma alla fine mi ci sono imbattuta lo stesso, nel mio incidente di percorso. Doveva farmi anche male, per farmi vivere. Doveva farlo per farmi svegliare dal mio sonno di solitudine. Grazie, Martin, per avermi tagliato la strada.

Ma non posso dire questo.

«Anch’io sono un incidente di percorso, a modo mio.»

E mentre Hans mi sorride, mi accorgo di aver detto la verità.

«Comunque se vuoi, quando ti va, una sera... o pomeriggio, non so, possiamo passare del tempo insieme.» Mi sembra tutto così impossibile, eppure l'espressione di Hans mi infonde così speranza che alla fine parlo. Parlo e gli dico: «Mi piacerebbe davvero molto. Quando?» 

«Anche adesso. Sempre, sono sempre libero, direi.» 

«Allora adesso.»

Mi fa segno di seguirlo. Attraversiamo il giardino – una grande staccionata con qualche pianta qua e là e delle panchine – e saliamo gli scalini che ci portano ad un lungo corridoio. La prima cosa che penso di questo posto è che è vuoto; non si sente altro che il rumore dei nostri passi. Pavimento beige, muri bianchi con scritte infantili, disegni di principesse, supereroi che volano sulle città.

«La classe non è acqua, mhm? Oppure sarebbe meglio dire… la classe non è l’istituto St. Vincent.»

Rido, con quello strano sussulto nella voce che viene fuori tutte le volte in cui me ne rendo conto.

Il sorriso di Hans si fa più largo.

«Sono carine le principesse sul muro. Insomma, da un istituto del genere mi aspettavo… »

«Scritte oscene? »

«Be’… »

«Disegni oltremodo osceni? »

«… Ecco. »

«A che ti serve disegnare certe cose se le puoi fare. » Di nuovo quel sorriso da bambino sul volto da diciassettenne. «Ma io sono un bravo ragazzo, ci puoi contare.»

«Non ne ho dubitato nemmeno un po’.»

Dopo qualche altro passo raggiungiamo un ampia scalinata; saliamo e poi lascio che lui mi guidi in un altro corridoio, con tante porte da entrambi i lati. Si ferma davanti alla penultima, ci infila una chiave e la apre. Quella che vedo una stanza con due letti al centro, separati da un comondino senza lampada sommerso da libri e raccoglitori. Il bianco del muro coperto da poster di cantanti e sportivi, una scrivania disordinata.

Ed Hans che avanza in quel caos e si ferma davanti al suo letto, si abbassa sui gomiti, trattiene il respiro prima di farlo. Trattiene il respiro, prima di estrarre da sotto il letto una chitarra classica in legno chiaro e poi rialzarsi in piedi.

«Questo è il mio tesoro, » dice, sicuro come non l’ho mai visto. Sicuro a quel modo che riesce a guadagnare solo più fiducia, e non incertezza. «Vuoi sentire una canzone? »

***

Martin

Giro la pagina del libro di biologia e comincio a leggere il paragrafo sull’ingegneria genetica, quando: «Martin, ma che cosa pensi di fare?»

Alzo il viso di Cameron. Seduti al tavolo della cucina di casa mia, per la prima volta dopo mesi pensavo che sarei riuscito a fare qualcosa di costruttivo.

«Studio.»

Cameron sbuffa e poi abbassa il capo. La sua voce viene fuori sussurrata. «Per non pensare a Sarah? »

«Perché domani di sicuro la prof mi interroga, Cam! Non sono mica in uno di quei telefilm americani in cui tutti hanno tempo di rovinarsi la vita e la scuola non esiste. Io devo anche essere interrogato.»

Si passa una mano fra i capelli neri cortissimi, assottiglia gli occhi fino a far toccare le ciglia superiori e inferiori. «Non ti è mai importato prima. »

Adesso mi importa di cose che un tempo non avrei nemmeno sognato.

Prendo l’evidenziatore e comincio a sottolineare, Cameron si accascia sulla sedia e nella mia mente le parole del paragrafo si accavallano, le lettere si intrecciano, si mischiano, A, B, C, D, l’alfabeto, tutto quanto, per poi ritornare su un solo nome, un solo pensiero.

Sar…

«Dio, non ci capisco niente…» sbotto, senza la forza di fermare la mia mente che scrive il suo nome, macchina da scrivere arrugginita, scrittore sadico della mia vita che schiaccia la S, la A, la R, torna indietro, poi va al centro e lei appare con il suo sorriso, il suo pianto, il suo amare le poesie di Emily Dickinson, le sue paure assopite per quei pochi momenti in cui mi sono salvato dalla mia idiozia.

«Lo so, Martin. »

Incontro il viso serio di Cameron e mi sale la nausea del vuoto. Lo stomaco non ha niente, ma qualcosa di simile al veleno me lo fa contorcere in un mare di melma viscida.

«Tornerà tutto a posto, no? » Chiudo il libro e mi alzo in piedi, respiro, respiro forte, mi fa male la gola come se qualcuno mi stesse affondando le unghie nelle corde vocali, quegli organi che faticano, molto di più della macchina da scrivere della mia testa, a far venire fuori le parole. «Risolveremo il problema e Sarah mi ascolterà e ed io potrò… potrò dimostrarle che…»

«Martin…»

«Potrò dimostrarle che quando sono stato con Yvonne non la conoscevo e…»

«Martin.» Cameron di fronte a me. Camicia a scacci rossa aperta sulla canotta bianca, le sopracciglia scure e folte inarcate, gli occhi neri e limpidi, barriera trasparente da cui posso vedere tutto. Ma la sua voce parla ancora prima che io legga il suo sguardo. «Sarà difficile,» fiata. Sospiro, faccio di sì con la testa quando quello che vorrei fare è gridare no, ancora no, ma poi mi siedo di nuovo e mi metto le mani fra i capelli poggiando i gomiti sul tavolo perché Cameron ha ragione. Cameron è quello dalle battute facili, i sorrisi che ti salvano, è quello che ti dice la verità quando capisce che ci stai dando dentro con le illusioni, perché quando ti riempiono è finita. Con uno spillo scoppi e resti magro di certezze, pieno di dolori. Meglio restare tutto intero e affrontare le cose insieme a lui, che è forte abbastanza da sopportare i macigni di tante vite insieme. «Sarà difficile, Martin. Sarà difficile perché il tuo segreto è la tua famiglia. Sarà difficile perché Sarah l’hai conosciuta, e sai che puoi averla persa per sempre dopo quello che Yvonne le ha detto. Sarà difficile, perché non è sicuro che riuscirai ad aiutarla, e per questo il segreto che è ora segreto con lei non lo deve essere più. Sarà difficile, perché c’è quel ragazzo.»

Mi si contraggono tutti i muscoli, mi si appannano gli occhi, vetro contro nebbia, difese contro nemici. «Quel ragazzo non è niente per lei.»

«Quel ragazzo… Martin, qualunque cosa Sarah sappia fare, l’ha fatta su di lui. Si sente in colpa e lui è molto gentile con lei. Va bene, diciamolo, Sarah, quelle volte in cui non guarda per terra – e sarà proprio per questo che non l’abbiamo mai notata prima – è un vero schianto. E loro sono legati da qualcosa. Perciò...» Mi dà uno schiaffo sulla nuca ed io me la tocco d’istinto. «Sbrigati a raccontarle la verità. Sono sicuro che lei prova ancora qualcosa per te, ma il tempo allontana le persone ancora di più di quello che accade. Con le ragazze bisogna andarci piano ma questo è il momento giusto per correre, Martin.»

Respiro.

«Devo correre.»

«Già. Bottiglia d’acqua a portata di mano.»

«Bottiglia d’acqua? In frigo c’è il succo all’ananas.» La voce di Doreen mi fa raddrizzare sulla sedia come se qualcuno mi avesse tirato i capelli. Lei, Doreen, posa la busta della spesa sul tavolo e si passa un ricciolo scuro dietro l’orecchio. «Se aspettate un po’ faccio anche una torta.»

«Sarebbe grandioso, grazie.» Cameron parla al mio posto, mi dà il tempo di tornare me stesso, di ritrovare il solito Martin Scott.

Doreen si volta, si muove verso la macchinetta del caffè sul il ripiano della cucina con quella  velocità che riesce ad apparirmi calma e assolutamente spontanea, la stessa che hanno tutte le madri che ho conosciuto. Tutte quelle donne che si occupano della casa e di qualche adolescente con la testa da tutt’altra parte.

«Studiate?» chiede, rigirandosi verso di noi con una caraffa in una mano e una tazza di vetro trasparente nell’altra. Ci versa dentro il caffè nero – nero nerissimo, come dicevo io da piccolo –, posa la caraffa e comincia a sorseggiarlo.

«Sì.» Tossisco. «Scienze.»

Ancora con la tazza in mano, Doreen svuota la busta delle mele nel cesto di frutta di vimini. Fisso di nuovo lo sguardo sul libro con la seria intenzione di imparare qualcosa, quando il rumore di una porta che sbatte svia la mia attenzione.

Rumore di passi – scarpe costose, cuoio italiano –, resto immobile come se lo stesso sangue che mi scorre nelle vene non si muovesse più.

L’aria è immobile, mentre mio padre entra nella stanza. Guardo Doreen. Guardo Doreen perché è la persona più simile a un genitori in cui me la sento di credere.

«Salve, Joseph.» Sorride, Doreen.

«Buonasera, signor Scott,» dice Cameron. Ha studiato teatro, alle scuole medie, anche se gli hanno assegnato il ruolo della carta jolly in “Alice nel paese delle meraviglie”.

«Ciao. » Non so chi abbia salutato. «Doreen, stasera parto, ti lascio…»

«Certo, un attimo solo.»

Doreen sistema altre due mele – superficie liscia sulle sue dita –, posa la tazza sul lavandino, si passa le mani sui jeans e la vedo allontanarsi, uscendo dalla mia visuale.

«Martin.» Le sue mani sulle mie spalle. Mi mordo la lingua per non sussultare. «Come va con la scuola?» Voce apprensiva. Una voce troppo vicina.

«Va bene, papà.»

Tremo dentro.

«Joseph?» Doreen lo chiama. Le mani di mio padre – JS – mi lasciano le spalle.

I suoi passi si allontanano, sento il fruscio della porta scorrevole che viene chiusa venendo fuori dallo spazio nel muro.

Torno a respirare.

Il cuore mi batte in gola, forte, opprimente, mi stordisce; e si accende, nella mia mente, l’alternativa più giusta. Ora che Doreen è in un’altra stanza e non è notte e nessuno si sveglierebbe per i rumori, posso prendere la chiave dell’ufficio.

Mi alzo.

Posso prendere quella chiave e aprire l’ufficio e prendere quei documenti.

Mi avvicino al cassetto, lo apro.

«Martin, ma cosa…»

«Cam, zitto.»

Non c’è.

Scorro con le mani le varie chiavi che sono sistemate qui.

Non c’è.

«Certo, va benissimo…»

Doreen.

Chiudo il cassetto e mi ci appoggio con le braccia conserte, sguardo dall’altra parte della stanza, respiro regolare. Regolare, Martin.

Doreen mi mette una mano sul braccio.

«Ti sposti, Martin?»

«Ehm sì, certo.»

E la vedo.

Doreen con quella chiave in mano, Doreen che la rimette al suo posto e chiude il cassetto. Doreen che, subito dopo, chiude quello stesso cassetto con un’altra chiave e, senza guardarmi, va a consegnarla all’uomo che l’aspetta sulla soglia e che saluta con un cenno.

L'aveva presa lui. Devo trovare un modo per recuperare quella chiave per aprire la porta dell’ufficio, altrimenti sono assolutamente fottuto.


Sarah

Ha una voce bassa, sabbiosa, che si unisce alle note come se non potesse esserci alcuna alternativa, per quelle parole, quelle che canta. E per lo stesso motivo in cui, guardando la stanza di Julia con il poster di un cantante sull’armadio, mi senp sentita felice, mi sento felice ora – in pace – guardando lui con la felicità nelle mani, nelle labbra che si schiudono nell’ultima strofa. Hans tocca con il pollice, una dopo l’altra, le sei corde della chitarra in una dolce conclusione. Esala un sospiro, di sicuro stanco perché io, sorprendentemente, devo averlo scocciato con le mie varie richieste.

«Sei bravissimo,» sospiro. E non mento. Hans dà l’impressione di essere diverso, obliquo, un quadro strano con una bellezza insolita, pallida. Con quella chitarra in mano sembra completo, più di un quadro, più di un sorriso storto, più di quegli occhi grigi in attesa, che sorridono nello stesso momento in cui lo fanno le sue labbra. «Hai imparato da solo? »

«Internet e biblioteca, » dice, carezzando ancora le corde, distogliendo lo sguardo dai miei occhi e continuando a strimpellare.

«Quindi da solo. »

«È stato facile. E poi per comprarla ho lavorato ogni giorno per quasi un anno, dovevo imparare a suonarla.»

«È… stupendo.»

«Ricapitoliamo… gruppi preferiti? »

«Radioheaad, Depeche Mode, Coldplay…»

«Queen of Stone Age? »

«Sono fantastici! »

Ride. «E degli anni novanta? »

Sto per rispondere, la gioia di parlare di qualcosa che mi piace e che mi accompagna da tanto tempo mi fa quasi venire l’istinto di saltare. Ma qualcuno bussa alla porta e la apre.

«Hans, la cena è pron… uh.» Un ragazzo in canottiera, una scritta cinese tatuata sul braccio destro, viso scavato e i capelli corti da militare, mi guarda.

«La cena? » gli fa eco Hans.

Il ragazzo – i suoi occhi verde chiaro si abbassano mentre si appoggia lateralmente allo stipite – fa cenno di sì con la testa, poi torna a guardarmi.

«Lei è Sarah,» dice Hans, posando la chitarra fra lo spazio che c’è sul letto, fra di noi.

Il suo amico alza la mano in segno di saluto. «Phil.»

Mi alzo in piedi e prendo il telefonino dalla tasca per guardare l’ora: sono le otto e mezza di sera. Sono passate due ore e non me ne sono accorta. Scendiamo tutti insieme, mentre Hans e Phil parlano fra di loro di cose di cui non so niente, di persone che non conosco. 

Phil si allontana ed io mi giro verso Hans. «Devo andare. Però… sono stata molto bene, grazie.»

«Di niente.» Di nuovo quel sorriso, quel sorriso che mi bacia il cuore perché è andato avanti per la sua strada, anche se io sono rimasta rannicchiata in un angolo e ho cominciato a camminare molto più tardi, con le mie forze, i miei desideri. Lui ce l’ha fatta, e ce la sto facendo anch’io. Per questo poso una mano sulla sua spalla e mi alzo in punta di piedi, lui si china incerto ed io lascio che le mie labbra carezzino la sua guancia in questo bacio di saluto.

«Ciao, Sarah.» Lo sussurra, il mio nome.

«Ciao, Hans.»

*

*

*

*

Ciao a tutti! :) Scusatemi per il ritardo, questo week end sono stata impegnata per il mio compleanno :3

Ne approfitto per augurare a tutti voi buone feste, buon Natale e un felice anno nuovo :) Ci rivediamo con Sarah, Martin, Hans, Cameron e tutti gli altri Sabato 4 gennaio ^_^

Ringrazio tutti coloro che mi recensiscono, mettono la storia fra le seguite, le ricordate, le preferite e chi mi legge sempre. Grazie, grazie infinite a tutti voi *______*

Un bacio

Ania <3


Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 18. Segreti nel cassetto ***


until 18

banner

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

18. 

Segreti nel cassetto

Alzo il viso a guardare l’edificio che mi sta di fronte: grigio, metallico e imponente, quelle tonde finestre gli danno un’aria viva, stranita, come se non si aspettasse di vedermi qui.

Oh, non me lo sarei mai aspettato nemmeno io.

La scritta “Centro commerciale Coltontown” lampeggia, rossa e grande e spigolosa, ostile.

«Bene.» Julia, accanto a me, si sistema la borsetta sulla spalla. Mi guarda, accennando un sorriso che sembra di incoraggiamento, i suoi capelli raccolti in una coda che scende di lato. «Hai idee?»

«Nemmeno una.»

Cominciamo a camminare, anche se io non ho alcuna fretta, potrei semplicemente stare qui intorno a fare passeggiate guardando per terra. È una bella abitudine, vivere silenziosi. Resti sorpreso quando qualcuno si accorge di te e allora ti sembra di vivere tutta la vita solo in quel momento. Al tempo di un solo battito di cuore. Mi manca, adesso, perché è da un po’ che qualche persona in più si accorge di me anche se cammino nel silenzio più assoluto, anche quando vorrei solo restare tranquilla nell’orizzonte limite della mia invisibilità.

«Non fa niente, ti aiuto io.» Julia ride. Julia è a soli una trentina di centimetri lontana da me e ride, come se fossi suo amica, come se lo fossi ancora.

Grazie, sospiro. Ho davvero bisogno di un aiuto.

 

Martin si passa una mano fra i capelli, disordinati dopo l’ultima ora di educazione fisica, il sole di primavera su di lui. Cameron che palleggia con una palla da basket, Hans immobile, seduto vicino a me. «Il cassetto è chiuso a chiave. L'unico modo per prendere la chiave dell'ufficio in quel cassetto sarebbe trovare un modo per aprirlo ma ci sarebbe rumore, Doreen è sempre in casa e per farlo ci vorrebbe…»

«Confusione,» dico fra me e me.

«Sì,» assente Martin. «Confusione.»

Ne segue un silenzio pesante.

«Sembra che tu debba fare una festa per il tuo non-compleanno,» dice Cameron a Martin. «Qualcosa pieno di Alcool e gente che non capisce niente.»

Martin si passa una mano fra i capelli. «Una specie.» 

 

Chiusa nel camerino del centro commerciale, Julia mi passa attraverso una fessura tutti i vestiti che abbiamo trovato.

Oh, specchio, mostrami bella, mostrami felice, distendi i miei diciassette anni di solitudine e paure in qualcosa di innocuo, normale, di questo mondo.

Ti prego.

Mi spoglio velocemente e infilo un vestito da sopra: questo qui è blu, aderente, mi fascia il busto e mi lascia gran parte delle gambe scoperte. È un po’ come se fossi rimasta senza vestiti, ed ho l’istinto di stringermi nelle braccia come se facesse ancora il freddo dell’inverno.

Tiro la tenda del camerino e lascio che Julia mi guardi. Per un suo parere, per sapere che non sono sola e che, forse, questo vestito è solo una distrazione. Un modo suo per dirmi che andrà tutto bene. Che faremo dei passi avanti.

«Oh, Sarah… è stupendo.»

Sbatto le palpebre.

«Davvero? »

«Oh, sì. » Unisce le mani toccandosi il mento con i due pollici. «Sei favolosa. Con i capelli alzati poi…»

«Non so, mi fa sentire molto spoglia.»

Mi passo una ciocca di capelli dietro l’orecchio. 

«Martin andrebbe fuori di testa.»

«Infatti mi serve che lui sia in pieno delle sue facoltà mentali.»

«Mi spieghi cos’è successo? » Si mette a gambe incrociate sulla panca dietro di lei ed io mi spingo un po’ di più verso l’interno del camerino. Mi mordo l’interno della guancia. Spiegare… cos’è successo? Julia mi guarda in attesa. Non posso tirarmi indietro. Non posso perché Julia non ha paura e mi sta trattando come se fossi normale anche se non lo sono e non lo sarò mai. Ma mi fa sentire così bene, essere qualcuno che non sono, essere quello che vorrei essere. «Dai provane un altro e nel frattempo ti chiedo io.»

Domande. Risposte. Non credo che mi sarà molto utile. Entro di nuovo nel camerino e mi alzo il vestito, lo specchio mi mostra per come sono, capelli lisci, castani, gli occhi infossati, azzurri.

«Vi siete baciati? »

Le labbra di Martin. Le labbra di Martin che accarezzano le mie, indugiano, accarezzano di nuovo fin quando non penso che morirò, morirò se quelle labbra non sono sulle mie.

Lascio cadere il vestito.

«Sì.»

«Siete… andati oltre? »

Mi gira la testa.

«Julia!» 

Apro leggermente la tenda per guardarla in faccia.

«Non abbastanza oltre?» Sta addirittura sorridendo. Non so cose le faccia intuire la mia espressione, ma subito dopo aggiunge: «Quasi oltre, ma non abbastanza oltre. Ok, ho capito.»

Ride.

Ed io mi ritrovo, senza una spiegazione logica, a mischiare la sua risata con la mia: suoni chiari, gentili, dimenticati. Va tutto bene, va tutto bene anche se Martin mi ha fatto male, va tutto bene anche se sono un mostro, va tutto bene anche se i miei genitori sono morti. Julia mi prende la mano e mi sorride ed è come se in tutti questi anni fosse sempre stata mia amica. Come se l’avessi aiutata a sistemare quel poster sulla porta della sua camera, come se avesse sempre fatto parte della mia vita, senza mai esserne stata catapultata fuori.

«Se non ti va di vederlo, deve esserci anche qualcos’altro. »

Sospiro. Parlo e racconto come se stessi scrivendo un diario a me stessa. «Una ragazza mi ha detto di essere andata a letto con lui.»

«Ed è vero? »

«Sento che… potrebbe esserlo. E poi li ho visti che si baciavano nel cortile.»

«Stronzo. »

«No, non lo è.» Ed è troppo tardi per mordermi la lingua e non dire quelle parole. Sento il fiato che mi riempie la pancia ad ogni respiro, come se fossi diventata consapevole del mio corpo all’improvviso. Martin nella mia testa, Martin nel mio respiro. Vorrei solo scacciarlo, ma se lo facessi non potrei nemmeno pensare. «È un po’ come me, anche se non ha mai fatto letteralmente male a nessuno... È sempre stato solo, ma è bravo a nasconderlo. Quando l’ho conosciuto... la sua felicità mi è sembrata così vera che mi ha travolta come mai niente è stato riuscito a fare prima. »

«E invece? »

«È falsa.» Abbasso gli occhi. Tolta la corteccia dorata, c’è il mio stesso buio.

Lascio cadere la tenda e, prima ancora di voltarmi, avvicino una mano ai vestiti, senza guardare. Sfiorando le varie stoffe, mi fermo su quella più liscia stringendola fra le mani. Infilo il vestito, la stoffa che scorre sul mio corpo come acqua.

«Ed Hans, invece? »

Lui con la sua chitarra. Lui e la sua gentilezza, il suo silenzio, il suo andare avanti con le forze delle sue braccia, dei suoi anni. Lui con gli occhi grigi chiari di pioggia.

«Lui è… lui non è cambiato.»

Mi volto e Julia apre la tenda, la vedo sorridere nello specchio, la vedo guardare me nel nostro riflesso. Io sono sempre la stessa, anche se con un bel vestito addosso. Di un bianco candido, arriva fino al ginocchio in stoffe velate leggere che sembrano petali. Sul seno una piccola fascia e poi tutto liscio, le maniche strette.

Penso di aver trovato il mio vestito.

***


Sono passati solo due giorni, da quel pomeriggio. Io e Julia camminiamo vicine sul marciapiede, la fermata non è molto lontana e...

«Allora ci vai davvero.» 

Julia si volta verso il ragazzo che ha parlato. Lisci capelli castani ed occhi piccoli, chiari, forse verdi, e una linea storta al posto della sua bocca. Disapprovazione, fastidio, dice il tono delle sue parole. Sì, è il suo ragazzo, se ne sta vicino alla sua moto con il casco fra le mani.

«Certo che ci vado, Kevin,» gli risponde Julia.

«Quando finirà, eh?» Il ragazzo si allontana dal motorino a grandi falcate, avvicinandosi a noi. «Quando la smetterai di andare dietro a questo fottuto gruppo di sfigati e tornerai da noi? »

Julia sbatte le palpebre, stira le labbra. Quando la sua voce viene fuori, sembra solo fiato.

«Forse intendi sapere quando tornerò da te.» Il ragazzo, Kevin, posa una mano sulla spalla di Julia, lei si scosta, posando a sua volta una mano sulla mia, di spalla. «Se tu mi credessi, tornerei. Se tu mi aiutassi, tornerei. Se tu non pensassi sempre e solo a te stesso… »

«Julia, no…»

«Se tu pensassi a me e non…»

«Io penso a te, Julia. » Gli occhi di Kevin si fanno lucidi di una cosa che non è tristezza, è rabbia, rabbia e risentimento. «Io penso a te ogni minuto, stiamo insieme dal primo superiore, Jules. »

«Tu pensi alla mia faccia, alle mie gambe. Pensi ai miei successi, alle mie medaglie. Pensi alle persone che mi guardano e vorrebbero essere al tuo posto. Nient’altro. »

«Che cosa stai dicendo…»

«La verità, Kevin. E mi dispiace. »

«Allora non andare.»

«Mi dispiace perché quello che ti ho detto è vero. E anche che non tornerò da te lo è.» Julia mi stringe il braccio con una presa malferma, tremante, anche se la sua voce è sicura. «Andiamo via.»

«Sì, andiamo via.» Ripeto.

Julia scoppia a piangere appena prende posto sull’autobus, con il mascara che le cola sulle guance e le mani sulle labbra a coprire i singhiozzi, a raccontare tutto quello che è stato. A parlare d’amore, di fiducia, di baci dati sul prato d’erba di un campo da golf in estate, del bacio dal sapore di limone e liquore, della prima volta in cui il suo segreto – il mio, il nostro – è volato a lui, che non ha capito. Che non ci ha creduto.

La abbraccio, tiro fuori un fazzoletto dalla borsa e glielo porgo, poi le mantengo lo specchietto mentre lei si pulisce il viso.

«Dio mio, che disastro…»

«Andrà tutto bene.»

Fra le lacrime, sorride.

Sorride.

 

***

Martin

Una volta Cameron mi diceva che ero il ragazzo con meno problemi del mondo. Mio padre mi lascia sempre casa libera e non sa niente di quello che succederà stasera, e quando ho detto a Doreen delle mie intenzioni il suo viso ha assunto la sua solita espressione del "ci sarà molto da pulire". 

Perché questa festa, Martin? Mi ha chiesto mentre lavava i piatti, lo scroscio dell’acqua nel lavandino e la spugnetta che faceva glo glo. Glo glo.

«Per... stare un po' con qualcuno. Sto sempre e solo con Cam.» Mi è venuto fuori così. Come uno spiffero d’aria improvviso, senza spiegazioni apparenti, per poi renderti conto che c’è qualcosa di vuoto, sotto. Uno spazio non riempito.

C’è stato un altro glo e poi Doreen mi ha guardato, mi ha sorriso, ma quello che ho visto non mi è piaciuto. Perché in qualche modo ha capito, come l’ho capito anch’io, che dicevo la verità.

Non c'è nessuno, a parte Cameron. A parte Doreen che, per misericordia divina, ha deciso di passare la serata da un'amica per tornare a controllare ogni tanto.

Lo stereo enorme che Cam mi ha aiutato a sistemare nel salotto è uno spara-canzoni commerciali; fra corpi che si strusciano e ballano un po’ dappertutto, camminare è difficile come se fossi in un locale importante. Tutti sono amici miei, quando organizzo queste cose, e forse è anche per questo che dopo l’estate non ho organizzato niente. L’amaro del dopo festa ha cominciato a prendermi un po’ in contro piede, perché se non dai loro qualcosa da prendere, loro non verranno mai da te.

«MARTIN! » Cameron, una mano sulla spalla di una ragazza e l’altra contro il muro, cerca di passare cercando visibilmente di non dare nell’occhio. Ma le sue smorfie attirano comunque l’attenzione di qualcuno. «COME PROCEDE IL PIANO?! »

Mimo con le labbra un idiota, è un segreto.

«OPS.» Riesce ad avvicinarsi e mi parla vicino all’orecchio. «È arrivato Hans, comunque, è all’ingresso con quel suo amico.»

«E che cosa fa di intelligente nell’ingresso? »

«Dice che sta aspettando.»

«Sì, babbo Natale. » Mi passo una mano fra i capelli, davvero non riesco a capire come certi concetti non possano essere chiari. Fingere di divertirci, e non…

«Dai, vieni.» Cameron mi tira per il braccio come se non sapessi dove si trova la porta principale della mia casa.

E non dare l’idea del tipo sono qui per fare qualcosa di losco.

Lo vedo appoggiato al muro, ignora cordialmente le ragazze che gli sono vicino ma il suo amico, vestito strano, con i capelli cortissimi, ci pensa per lui. Ed Hans indossa... degli occhiali da sole.

Ecco, appunto.

«Togli quei cosi.» Resto a distanza di sicurezza, le mani in tasca, la testa inclinata come se avessi sonno. Avere a che fare con lui mi irrita, mi irrita in ogni movimento, ogni parola, persino quando respira. Sei un bambino, dice una voce nella mia testa. Un misto fra Sarah e Doreen che mi fa scoppiare la testa. Sei geloso. E Sarah è il motivo di tutto, perché questo Hans sembra troppo disponibile a collaborare, troppo gentile, troppo accondiscendente.

«Volevo solo passare inosservato.»

«Andare un po’ di là nella mischia sarebbe stato meglio.»

Si forma una ruga nel mezzo della sua fronte, come quando dico qualcosa che non gli piace davanti a Sarah.

«È che… non sono un tipo da feste.»

«Diventalo. »

«Voleva dire per favore,» aggiunge Cameron.

Hans sorride leggermente, come fra sé e sé, quasi pensasse di non poter essere visto. «Comunque lui è Phil.»

«Ah, lo scassinatore, giusto?» chiede Cameron.

Ho bisogno di bere un po’ di birra, magari mi calma i nervi.

«Cam, puoi anche urlarlo un po' di più.» Non riesco a tollerare il suo sguardo, così prendo a guardare Cameron senza motivo, gel fra i capelli, maglietta nera, jeans.

«Ci sono delle cose che sono chiare anche se non vengono nemmeno dette.» Hans lo dice come se avesse detto guarda com’è bello il tempo oggi, con una naturalezza che potrebbe anche farmi scoppiare, prenderlo per la maglia e sfogarmi come farei con un sacco da box. Un tempo l’avrei anche fatto… un tempo non ci avrei pensato due volte, e si sono visti i risultati. E non importa se, fra la rabbia per la persona in questione, sentivo riecheggiare nell’orecchio la voce di mio padre con le sue poche parole. Vorrei tanto credere di essere diventato una persona migliore, ma non ci riesco. E adesso, che mi sento le viscere attorcigliate mentre sulla soglia la prima cosa che vedo sono i suoi occhi azzurri, incerti, come se fosse la prima volta che viene qui, non posso che pensare che è meglio così, anche se mi fa stare da schifo.

«Ciao,» dice Julia, poggiando una mano sulla spalla di Cameron. Si guardano un attimo e lei sorride, Cameron sembra shockato e felice allo stesso tempo, mentre Hans si gira ed io osservo il silenzio di Sarah. Sbatto le palpebre, come per riprendermi da un sogno perché è questo, quello che sembra. Un sogno lontano. Lei, con i capelli sciolti sulle spalle ed un vestito bianco.

È così bella che potrei morire.

Riesco a vedere Hans che la guarda e mi volto di scatto, come per cercare di respirare, trovare un posto in cui l’aria non è contaminata perché quello che ho visto mi ha fatto sentire che lì, l’aria era veleno anche se solo per me.

Ho visto me stesso, in lui. Hans, uno sconosciuto che non posso sopportare per il solo motivo di conoscerla prima di me e perché si prende il diritto, adesso, di guardarla come io cerco di non guardarla più. Senza riuscirci.

«Bene… andiamo?» chiede Hans.

«Balliamo un po', poi li facciamo uscire dalla cucina e cominciamo.» Cameron sorride, sembra così a suo agio che potrei anche partire per qualche luogo remoto e non se ne accorgerebbe. Le ragazze fanno a entrambi un effetto simile, noto. Ma… con Julia?

«Ehi, Cam…» Ma non faccio in tempo a formulare la domanda che l’ultima cosa che vedo è una chioma rossa che ondeggia, seguita da Cameron che sembra un bassotto nel vero senso del termine.

Sarah si toglie il giubbotto di jeans e lo appende all’appendiabiti, si gira e i nostri occhi si incrociano, ma lei abbassa subito lo sguardo. Hans le è così vicino che quasi la sfiora e l’unica cosa che riesco a dire è: «Divertitevi» con una voce atona che potrebbe addirittura somigliare a quella di mio padre.

Mi volto e mi dirigo in cucina, ho assolutamente bisogno di bere qualcosa di forte e di non pensare a niente. Ma non come l’altra volta, possibilmente… anche se è normale che tutta la popolazione femminile si faccia i pensieri su di me. Solo che non riuscirei nemmeno a fingere che mi piaccia e che nella mia vita tutto vada benissimo come addirittura ero finito a credere. Vorrei solo avere la vita di qualunque altra persona sulla Terra e non la mia. Solo per un giorno, un ora, un secondo. Svuotare il presente di tutte quelle cose che sono troppo ingombranti per lasciare spazio alla finzione.

***

Non ubriacarti. Un altro bicchiere. Non ubriacarti. Ancora un altro. Non ubriacarti.

«Martin.»

Non ubriacarti.

Martin.

«Mhm…»

«È l’una.» Ha la voce più cristallina del mondo, tante gemme preziose che cadono tutte insieme da una montagna alta per poi raggiungere il terreno senza rompersi. «È l’una e noi dovremmo…»

«Sar.» Tengo stretto qualcosa, è lei, è il suo polso. Non si allontana.

«Martin.» Apro gli occhi e la guardo, i suoi capelli mi solleticano la bocca tanto è vicina, sento il suo profumo di fiori alla camomilla, simile a quello degli infusi che Doreen conserva nella dispensa. Si mordicchia le labbra, non lo fa mai, le si arrossano e sento qualcosa di tremendamente caldo scivolarmi giù dalla gola fino al petto, quasi fosse una goccia di miele. Una goccia che si dirada come una macchia e mi ricorda solo quanto mi manca lei, mi manca tutto. «Phil è riuscito ad aprire il cassetto... ed ora la chiave? Per favore… avevi detto che mi avresti aiutato.»

«Io non te l’ho detto. » Le lascio andare il polso e lei si allontana, ma di poco, dal divano su cui mi sono seduto con gli occhi chiusi quasi dormissi per escludermi da tutto quel casino. Mi sento così cretino… se mi avesse trovato con una ragazza forse sarebbe stato meglio, ma forse non mi sarebbe mai stata così vicina. Non avremmo mai provato a toccarmi, a parlami come sei fossi l’unica cosa di cui ho bisogno. «Te l’ho promesso. » Mi rimetto in piedi, svegliati, con la mente lucida, attento, forza. Poi mi dirigo verso il corridoio ed Hans ci viene incontro.

«Hai trovato Julia?» gli chiede Sarah.

Hans sembra imbarazzato, si gratta il collo leggermente e la sua voce è una specie di sussurro balbettato. «Ehm… sì, ecco, s-sì, ma… »

Non sono mai stato bravo nel lavori di traduzione, qualcuno mi spinge mentre passa e sfioro Sarah con la spalla, ma lei non sembra infastidita. Sembra… che aspetti qualcosa.

«Scusa, Martin!» Una voce di fondo.

Aspetta che io le faccia vedere i documenti, certo. Sospiro. Che altro potrebbe volere?

«Ehi, Martin! » Seguo la voce, e mi sorprendo di non averla riconosciuta subito per quell’aurea vellutata e calda che ha sempre avuto, con i capelli neri, il sorriso allegro, così simile a suo fratello.

«Holly! Che ci fai qui?»

Fa qualche passo verso di me. «Alla festa hai invitato tutti, te ne sei dimenticato? »

«Cameron lo sa?»

I suoi occhi neri si spalancano. «No!» Ride. «E non dirglielo, grazie. Torno a ballare… bella festa! » Si allontana veloce sui tacchi alti, appena in tempo per raggiungere la sala grande, mentre Cameron e Julia si avvicinano a noi. Ridendo come se non ci fosse un domani. Julia non aveva un ragazzo?

Ignoro. «Cam, dove hai messo la macchina fotografica?»

«Puh.» Ride, mio dio ma quanto ha bevuto? Julia lo segue nella sua risata, mentre Cameron tossisce un po’. «Perché chiedi una fotocamera quando puoi avere una foto-Cameron? » chiede, prendendo quello che mi serve dal suo marsupio. Certo che…

«È davvero ubriaco,» dice Sarah, con un mezzo sorriso sul volto.

«Già.» Smettila di guardarla, smettila. Mi rivolgo ad Hans: «Tu fai la guardia… »

«Potrei aiutare. »

«Tieni d’occhio questi due.»

Sarah mi segue davanti alla porta dell’ufficio di mio padre, prendo la chiave dalla tasca dei pantaloni e sento Cameron che dice qualcosa come è un peccato che le porte di tutte le camere siano chiuse a chiave. E lei, per fare cosa? E lui, per dormire, non ci vedo più dal sonno… Davvero, non è mai stato così ubriaco. Dovrò ringraziarlo per la collaborazione. Apro la porta, la lascio aperta per far entrare Sarah e la chiudo di nuovo a chiave, le mani mi sudano, non so perché lo sto facendo, è solo che… «C’è tanta gente ubriaca, potrebbe aprire all’improvviso. »

«Ormai ho imparato a cavarmela da sola»

Mi sfugge un sorriso. «Non ne dubito.»

Mi avvicino alla scrivania, apro i cassetti e trovo tutto quello che ho trovato la prima volta, disordinato, cerco di disporlo sul legno. Sarah si avvicina, il vestito bianco le aderisce sul corpo come se fosse bagnato, e sulle gambe sembra quasi trasparente. Ed è strano, quando mi trovo fra le mani la foto che ho visto la prima volta. Sono attraversato da un tremito mentre mi rendo conto che gli occhi di questa foto erano due luci spente. Ricordati di spegnare le luci, è quello che mi dice sempre mio padre quando va via. Ma io non voglio spegnerle.

«Sarah… »

Le sta guardando insieme a me, di fronte a me. Mi prende i fogli dalle mani e li guarda attentamente, il suo sguardo, puro, acceso, si sofferma su ogni dettaglio. Per un momento, uno soltanto, sembra che qualcosa stia per crollare. «Questa sono io.»

«No…»

«Non… dire niente.» È una risata, quella che viene dalle sue labbra, la cosa più triste che io abbia mai sentito.

«Perché non mi fai mai finire di parlare?»

«Cambierebbe qualcosa?»

«Se cambierebbe?» Sbatto le mani sul tavolo. «Tu non sei più la ragazza di questa foto. Se cambierebbe? Sono andato a letto con Yvonne il giorno in cui ti ho visto per la prima volta, senza averti parlato, con il pensiero della mia vita da schifo in testa e te. Te. Io non ti ho tradito. Nemmeno ti conoscevo. Ma tanto tu non mi ascolti.» E lei mi guarda con quegli occhi azzurri che dicono non so cosa fare, mi dispiace, vorrei solo non essere quello che sono. Ed è come se tutto questo lenisse la rabbia, come se la rabbia fosse il dolore e le ferite tutto quello che è successo, anche se non è passato abbastanza tempo per farle diventare cicatrici. «Perché sto facendo tutto questo, Sar? Perché?»

Scuote la testa. «L’hai promesso.»

«Perché l’ho promesso? Perché non ho niente da fare e nessun obiettivo di vita? È vero.» Mi passo una mano fra i capelli, metre scopro che la cosa che desidero di più è fermarmi, fermare queste fottute parole che chissà da dove vengono, chissà perché pesano così tanto mentre le dico, chissà perché sono così forte da poterne dire tante e ancora fin quando non ne avrò più. «Mia madre era piena di vita, mi ha sempre detto Doreen. Me l’ha ripetuto un sacco di volte, mentre mio padre non mi ha mai prestato più attenzione che si potrebbe dare all’animale domestico di un inquilino. Forse è per questo che sono diventato così apatico. Sono pigro, svogliato, un incapace, un buono a nulla e lo so. So tutto questo ma…»

«Non è vero.»

«Che cosa? »

«Non è vero che sei così,» dice piano, e non mi guarda e mi odio perché la tocco, le alzo il mento e la costringo a guardarmi.

«Pigro, svogliato, incapace, buono a nulla.»

«Non lo sei. »

«Ah no? »

«No.» Posa la mano sulla mia e la allontana lentamente, dolcemente. «Altrimenti non mi avresti portata qui. Che queste cose servano o no. Che io riesca a concludere qualcosa o no. Tu mi hai aiutato, e se l’hai fatto, è perché non sei così.»

L’ho fatto perché ti amo. Stringo la mano alla sua e vorrei baciarla, vorrei stringerla fra le braccia, vorrei raccontarle quanto mi è servita la sua spiegazione del De Profundis, vorrei dirle che ho cercato quelle canzoni che mi aveva detto e sono belle, che tutto di lei è bello e ne sento la mancanza. Ma se lo faccio, poi dimenticherò tutto, anche questo: «Io non ti ho detto una cosa, Sarah. E ascoltami.»

Mi lascia la mano. I capelli castani chiari le sfiorano il viso, se li sposta tutti sul lato destro.

«Che cosa non mi hai detto? »

«Non te l’ho detto perché non sono mai riuscito a parlarti da sola.» Faccio un respiro profondo. Veloce e indolore. «Julia ha detto che l’uomo che le ha detto di innescare quello che hai fatto le ha dato quella penna, quella con la J e la S. Come questa.» Ne prendo una dal cassetto.

Sarah mi guarda, stranita. «Come hai fatto a prenderla?»

«È sempre stata qui... è di mio padre.» Il suo sguardo anticipa quello che sto per dire. «Penso che con questo c’entri lui.»

«Pensi che lui sia... quell'uomo?»

«Tutti i giornali sono scomparsi e lui ce li ha. Lui ha questi documenti. Lui ha questa penna.» La lascio cadere sulla scrivania. «È per questo che dobbiamo fotografare i fogli per leggerli fuori di qui, lui potrebbe accorgersi di qualcosa e…»

«Ma non è possibile... Perché li lascerebbe incustoditi?»

«Forse non sospetta minimamente che suo figlio ci vada a curiosare. E poi la porta è sempre chiusa a chiave. E credimi, è possibile.»

Sarah fa qualche respiro, il petto si alza e si abbassa, si alza e si abbassa, è incredula. 

«Sarah, io non c’entro, io non avrei mai…»

«Lo so, Martin.» Si avvicina a me, la macchina fotografica fra le mani. «Lo so. »

***

Sarah

Fa molto freddo, questa notte, e solo ora mi rendo conto di aver dimenticato la giacca a casa di Martin per la fretta di uscire da lì, in modo che non potesse guardarmi negli occhi a lungo dopo il grazie che mi è venuto fuori dal cuore. Avrebbe visto tutto quello che ho sentito mentre le sue parole spiegavano la verità. Non avevo mai ammesso a me stessa quanto facesse male che lui volesse un’altra ragazza. Sapevo di non essere la prima, sapevo di non essere l’ultima, eppure Yvonne che lo ha baciato davanti a tutti me l’ha buttato in pieno viso come acqua gelida: nonostante tutto, Martin mi aveva fatto sentire l’unica.

«Stai tremando.» Hans mi cammina accanto, le mani nelle tasche, un po’ teso per il freddo. Mi guarda con gli occhi leggermente socchiusi, le ciglia lunghe e nere creano delle ombra sul suo viso.

«Non importa, è già tanto che mi accompagni alla fermata.» Julia è andata via insieme a Cameron.

«Mi sono offerto io di accompagnarti.»

«Lo so e grazie… guarda, siamo quasi arrivati.»

«Fermati un attimo.»

Hans si toglie la giacca scura con un movimento veloce, allo stesso tempo aggraziato, e me la posa sulle spalle, ma non si allontana. Le sue mani restano lì, vicino al mio collo, come i suoi occhi che guardano i miei. «Così non ti ammali,» dice, e una mano risale sul mio viso. Sono così persa nei suoi occhi che è come se non mi rendessi conto del battito del mio cuore che accelera, accelera, accelera e sto per dirgli di no. Sto per dirgli di no mentre passa l’immagine del primo ragazzo al mondo che mi ha fatto battere il cuore così, anche se all’ora era soltanto un bambino. Ed è sempre più vicino e sto per dirgli di no, quando ricordo che nei miei vecchi sogni era il mio primo amore. Quello che sognavo di vivere, il primo ragazzo che ho immaginato di baciare come in quei film… ed io ero così piccola. «Hans… n… » Non riesco a dire di no a questo vecchio sogno, perché è troppo tardi. Ho indugiato, e quando indugi è perché hai nascosto un desiderio per troppo tempo, un desiderio che si fa sentire con il dubbio. Ed Hans mi bacia, con un tocco dolce, gentile, è sempre lui. La sua bocca è calda, improvvisamente io lo sono. Gli sto accarezzando i capelli, il collo e le spalle. Chissà se avrà freddo… e le spalle, le spalle ampie come Martin. Mi immobilizzo. Martin. Il suo nome è una freccia che mi si è conficcata nella gola. «No.» Annaspo.

E incontro gli occhi di Hans, occhi che non sono più grigi ma sembrano azzurri, come i miei, i miei occhi nei suoi, i miei occhi che dicono che è troppo tardi. È troppo tardi per questo sogno, è troppo tardi per me e lui. Il primo amore che io abbia mai sognato. Non è il momento, questo. Sono passati tanti momenti, tutti rovinati, distrutti da me stessa, da quello che sono, da quello che l’uomo più vicino al ragazzo che amo mi ha fatto.

«Non era da me che volevi questo bacio, non è vero?»

Cerco di parlare, non posso farlo andare via così. Si volta ma io gli poso una mano sul braccio, la mia voce è roca, come se avessi pianto. «Mi dispiace tanto, Hans.»

«È meglio che vai a prendere l’autobus, potresti perderlo.»

Come ci siamo persi noi.

«Ci vediamo.»

«Buonanotte.»

E poi ci siamo ritrovati e non è stato più lo stesso.

Attraverso la strada e mi metto a correre, i lampioni fanno luce sull’asfalto nero, mentre io scappo da qualcosa che non posso vivere.

*

*

*

*

Ciao a tutti, eccomi qui con il nuovo capitolo :D Spero che vi sia piaciuto, presto tutti i nodi verranno al pettine, non solo per la capacità di Sarah, ma anche dal punto di vista delle loro problematiche :) Spero che vi sia piaciuto <3 Stavo pensando di creare una pagine per la storia, voi che ne dite, vi piacerebbe? ^^

Ringrazio inoltre tutti quelli che mi recensiscono, siete fantastici e vi adoro *-* Grazie infinite <3

A presto

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 19. Acqua sporca, acqua pura ***


until 19

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.


19. 

Acqua sporca, acqua pura

Sono uscito di casa quando Cassie dormiva ancora, calda di me, con le lacrime agli occhi. Non sa che il suo Joe non tornerà mai più, non sa che questa è stata la sua ultima notte, non sa che quello che una volta ero non potrà essere ritrovato.

Cammino lungo il bianco corridoio dell’ospedale. Tutti dormono ed io corro,  con il solo istinto di urlare, perché gli spilli sono affondati nel mio cervello e mi impediscono di vedere quello che una volta avrei visto subito. Nelle mie tasche, le due pietre nere. Nelle mie tasche, la mia salvezza... la mia vendetta.

No, Joe…

Ricordi.

Possono accadere le cose più terribili, Joe. Le più terribili…

Ricordi spazzati via.

Apro la prima porta a sinistra, a caso, come se qualcosa mi chiamasse. Guardo.

Nel biancore anestetizzato dell’ospedale, una ragazzina dai capelli rosso fuoco dorme con i pugni stretti al lenzuolo, come per proteggersi, con i segni delle flebo sul polso lasciato cadere mollemente vicino al suo fianco.

Accanto a lei, una culla di metallo.

Un bambino.

È strano che non sia stato portato via, che sia ancora accanto a lei, soprattutto perché è appena nato. Deve avere solo qualche giorno.

Un bambino. È come se una luce oscurasse tutto, una luce che diventa ombra e illumina, illumina quello che potrebbe essere la verità.

Vexania, è il suo vero nome. Così la chiamarono i primi uomini, Joe. Così la chiamarono, e niente può controllarla se non un’anima, una sola volta. 

Un anima innocente, invece, per sempre.

Un bambino. Quale sede più sicura di un’anima innocente? 

Un dolore simile alla frattura di ossa mi colpisce la testa. Torna, Joe, fuggi dal buio. 

Torna qui, torna qui.

No.

Torna qui.

No!

Joe…

Prenderò questo bambino.

«È venuto per portarlo via, non è così? »

Mi volto di scatto, troppo sconvolto da queste parole per proferire parola. Come può sapere? Ora la ragazza è seduta, la camicia bianca con qualche punti blu, le gambe a penzoloni, gli occhi enormi e grigi. 

Torna, Joe.

«Portarlo via?» La mia voce le fa eco, distorta, lontanissima, mentre leggo il nome sul cartellino attaccato con una spilla alla sua camicia da notte, sul lato destro del petto. Claudia Renton.

«Sì.» Annuisce con forza, e lacrime cadono sul suo viso come se fossero state lì, appese alle sue ciglia, ad aspettare di cadere. «Per l’adozione.»

La mia risata resta intrappolata, non raggiunge nemmeno la gola, risuona nel mio stomaco, lottando  on l’aria, lottando con quella parte di me che ancora si ostina a non lasciarsi vincere.

Un bambino abbandonato. Deglutisco. Com’ero un tempo.

«Lo porta via?»

Come sono ancora.

Non è vero. Non lo sei. Hai Cassie. La tua Cassidy Grace...

Io ho lei ma lei non può avermi. Non può più avere il suo Joe.

Claudia Renton non può avere più di quindici anni. Il volto magro, le labbra piccole, gli occhi grandi di questo colore che sembra sbiadito, animato dal dolore. 

Mi mordo la lingua.

«Come si chiama? »

«Che cosa? »

«Ti ho chiesto come si chiama.»

I suoi occhi sussultano, acqua sporca dalle correnti sotterranee, ancora prima che lo faccia il corpo. Anche lei una bambina, una bambina non più innocente,  caduta nell’abisso delle responsabilità in cui non vuole nuotare.

«Non lo so,» dice, mentre mi volto a guardare il bambino. Un bambino che dorme, con tanti capelli castani, il volto ancora arrossato.

Rido.

Non ha nemmeno un nome.

Gli sfioro i capelli con le dita senza accorgermene. Sei tu, Joe, è questo quello che tu sei, mi dice una voce che adesso mi appartiene. Mi hanno sempre chiamato Joe, da quando ho ricordo. Joe di Joseph, con tante varianti.

«Hans.»

«Che cosa?»

«Hans.» Da Johansess. Il bambino emette  un suono di pelle e lingua. Apre gli occhi. Sono grigi, coperti da una patina che sembra nebbia. «Dono del signore.» Forse un giorno cambieranno, forse saranno l’unica cosa che avrà di sua madre.

Sento i passi della ragazza che mi raggiungono, resta accanto a me con quella sana distanza da estranei, mentre il bambino comincia ad agitare le piccole braccia. «Credi in Dio?» La ragazza guarda il bambino con occhi assenti e scuote la testa in segno di dissenso. «Nemmeno io.»

Abbi pietà, parla una voce lontana che non è più mia.

Ho pietà. Ma solo perché è come me, ed ho tempo.


Martin.

È appena andata via. Come se mi avessero tolto un gran peso dalle spalle, sento di poter respirare con maggior facilità, sento che lei mi ha creduto. Ancora mi chiedo come abbia fatto a credere a quell'assurdità; ancora mi chiedo come ho fatto a dirle la verità senza chiudermi nella stupidaggine esibizionista di me stesso. Ma ho fatto uno sforzo, perché non potevo sapere di averla persa per questo.

Sono ancora nell’ingresso, un po’ allampanato, incapace di credere al modo in cui sono riuscito a dire quello che c’era da dire. E poi mi rendo conto che all’appendi abiti è ancora appeso il suo giubbotto di jeans. Lo sfioro con le dita e nel tempo di un secondo esco di casa, dovrebbe essere ancora abbastanza vicina. Mi metto a correre verso la fermata dell’autobus, e non mi importa se lei non è sola, non mi importa se posso darle questo giubbotto domani io… voglio andare da lei e non riesco a fermarmi.

Ma che cosa mi prende? Perché mi comporto in questo modo? Sono ancora io? Io, che guardo quella ragazza sul bus. Io, che vado a parlarle. Io, che penso a lei in continuazione. Io, che sto bene se lei sta bene. Io, che dimentico quello che odio della mia vita quando sono nella sua. 

Continuo a correre. 

Io, che amo quando ride. Io, che mi sento conficcare un coltello nel cervello quando capisco che odia se stessa. Io, che so che non farebbe mai del male a nessuno. 

Attraverso la strada, un’altra curva, semaforo giallo. Io, che non potrei mai tirarmi indietro dall’aiutarla. Io, che non riesco nemmeno ad immaginare di poterla lasciare andare senza spiegazioni. Io, che sono stato così cretino da innamorarmi. 

Qualche altro passo.

Innamorarmi.

Ancora un passo.

Innamorarmi.

Sussulto.

Fermo.

Innamorarmi

della

ragazza

a pochi metri da me.

Deglutisco, ho la gola in fiamme.

Della ragazza che sta baciando Hans.

Non me.

Hans.

Hans Hans Hans.

Sarah ed Hans.

Percorro tutti i passi necessari per tornare a casa mia, per allontanarmi da lei, da lui, da loro. Butto la giacca di Sarah sul divano, mi passo una mano fra i capelli, non riesco più a toglierla, ho entrambe le mani sulla testa. Sarah ed Hans. Sono stanco. Sarah ed Hans. Scuoto la testa, mi siedo sul divano. Sono stanco e voglio dormire per sempre. «Martin sono quasi le cinque,» mi dice Doreen, arrivata da poco.

Che nessuno mi svegli perché potrei ucciderlo. Respiro profondamente. Che nessuno mi svegli perché non posso vederla insieme a lui.

«Martin?»

Perché non mi addormento? Perché non finisce tutto? Per quale cazzo di motivo sono ancora qui? Perché ho fatto tutto questo? Perché proprio lei? Perché io? Mi alzo in piedi e mi avvicino allo stereo, sento una voce provenire dalla parte più lontana di me che dice: «la festa è finita. » Niente più musica. Solo questo male alla testa martellante, e l’immagine di lei stretta a lui, lui che stringe lei.

Perché? Cazzo, perché? Non potevo guardare la sua foto senza svegliarmi? Non potevo continuare a vivere come facevo sempre? Sono il contrario di mia madre per ripicca. Lei, Marlene, era piena di vita; io no, io voglio solo che tutto questo finisca, che mio padre fosse un uomo normale, che mia madre non fosse mai morta. Forse, se non fosse morta, mio padre non sarebbe così. Forse… non sarebbe mai successo niente a Sarah. Starei bene.

E invece no.

Ho rovinato tutto.

La mia vita ha sempre fatto schifo, ma ora mi pesa così tanto che non so se riuscirò a fare finta di niente.

Mi stendo sul letto ancora vestito.

Voglio dormire, non voglio svegliarmi, non voglio vedere, non voglio sentire.

Ma sento gli occhi umidi, ancora aperti, mi fanno male. Vorrei odiarti se non fosse che non amarmi è la cosa più giusta per te.

Non riuscirò a dormire.

***

Sarah.

Guardo le stampe di tutte le foto dei giornali e non solo giornali; ci sono anche dei documenti con molte più informazioni rispetto ai subdoli articoli che ci sono sui quei periodici. I documenti parlano di me come se fossi una cosa pericolosa da maneggiare con cura, un soggetto pericoloso, insieme ai nomi delle due vittime che ho colpito. Ce ne sono altri con informazioni che si potrebbero ricavare da un colloquio con la segretaria della scuola, come il fatto che ho un abbonamento al pullman e la mia situazione familiare.

Soggetto pericoloso. Scorro le parole. Capacità di intercettare i nervi del cervello con scariche acute senza alcun movimento. Il fenomeno si può collegare alla volontà, alla mente del soggetto.

Io, un soggetto. Un soggetto pericoloso. Se dipende dalla mia mente forse ho… qualcosa di diverso nella mia testa, nel mio cervello. L’ultima volta che sono andata da un dottore avevo cinque anni. E poi è come se avessi le percezione di non sapere. Come se qualcosa mi fosse stata volontariamente nascosta. Per questo ho fissato una visita all'ambulatorio.

Farò quel controllo.

Prendo il cellulare e scorro gli ultimi numeri. Julia… Hans. Mi fermo su quel nome senza il coraggio di leggere altro, mentre il ricordo del bacio di due notti fa mi attanaglia il cuore. Una parte di me lo voleva, lo sognava; una parte di me ancora più piccola, ancora più fragile, una ragazzina che stava imparando a crescere. Una ragazzina spazzata via con i suoi sogni ancora in piedi; sono stati sfiorati dopo troppo tempo, quei sogni, e sono caduti su loro stessi.

E poi c’è Martin. Non riesco a collocarlo prima o dopo Hans, lui… semplicemente c’è ed io, presa dalla voglia immane di pensare solo a me stessa e non soffrire, non l’ho ascoltato. Lui ha una vita, ne ha avuta una, ma non basta questo perché mi ha fatto capire una cosa: nella sua vita io ci sono. Ed io voglio che lui resti nella mia. 

Mando un messaggio a tutti e tre.

Mi arriva la risposta di Julia, subito dopo quella di Hans.

Ma da Martin niente. Niente per un minuto, mezz’ora, un’ora, due ore, un’intera mattinata. Mi ripeto solo che almeno per questa volta non può essere colpa mia.

***

«Tutto ok? » mi chiede Julia, oggi è una moltitudine di colori che vanno dall’azzurro al viola aggiunti al rosso dei suoi capelli. Sorride come se avesse visto qualcosa di bello… lei si è divertita, alla festa, ha passato tutta la serata con Cameron.

Annuisco. «Non mi hai ancora raccontato come hai passato la festa.»

«Oh… non c’è niente da raccontare.»

«Ovvio che non ti credo. »

«Sarah. » Mi mette le mani sulle spalle e assume un espressione sicura, le labbra arricciate e le guance arrossate. Poi si avvicina all’orecchio. «Lui è così gentile.»

Sbatto le palpebre un attimo. «Gentile? »

«Già.. Forse può sembrare stupido, ma non lo è. Può sembrare uno che non fa altro che prendere la vita per gioco, ma… » Fa una pausa. Sospira. «Non lo è. » Sta sorridendo. Poi riprende a parlare, guardando altrove, e sembra che stia dicendo la più grande fesseria sulla faccia della terra. «Non credevo che avrei mai incontrato qualcuno che mi facesse ridere e allo stesso tempo capisse il motivo per cui non riesco sempre a sorridere. Però lo conosco da così poco...»

Julia sembra così… imbarazzata, di questa felicità. «Ehi, è davvero fantastico.»

Continuamo a camminare. «No, Sarah. Non lo è. Ho lasciato Kevin da pochi giorni, anche se le cose non andavano bene da più di un mese… io… chi mi conosce penserà cose orribili.»

«Ma tu e Kevin non state più insieme.»

Julia corruga la fronte e poi guarda verso di me come si guarderebbe una bambina che si è messa il vestito al contrario. Non mi piace, quando fa così, allo stesso tempo però non riesco ad impedirglielo. So così poco, di come si comportano le persone. Forse quello che secondo me è giusto in realtà è sbagliato. Forse proprio questo mi farà rovinare tutto.

«È vero ma… se sei un maschio, va tutto bene. Se sei una ragazza, sei una poco di buono.»

«Ma... ma come...»

«... Può essere possibile? Lo è.» Le scarpe con il tacco di Julia picchiettano sull’asfalto, poi alzo il viso e mi accorgo che siamo già arrivate all’ospedale. Attraversiamo il cortile e poi saliamo le scale, ma prima di imboccare il corridoio non riesco a trattenermi.

«Non pensare a cosa vuole la gente da te.» Lei si volta verso di me. «Pensa a quello che vuoi tu.»

Scuote i suoi riccioli rossi. «In fondo è stata solo una serata… ma ora non parliamo di me, si tratta di te.» Qualche altro passo e ci ritroviamo in un lungo corridoio bianco con il pavimento beige, delle sedie di plastica in fondo e… Hans.

Lui, da solo.

Mi saluta con un cenno e nei suoi occhi leggo tutto quello che non voglio leggere: rimpianto e dispiacere. Non sono nessuno, io. Non sono nessuno e sono innamorata di un altro qualcuno.

Mi avvicino da sola al bancone e un infermiera dalla carnagione scura e il sorriso affabile mi accoglie. «Hai bisogno di qualcosa? »

Un colpo di tosse. «Sì, ho prenotato una visita per dei raggi.»

«Come ti chiami?» 

«Sarah Agnes Pierce.» 

La donna digita qualcosa sul suo computer e poi guarda lo schermo. Lo guarda a lungo.

«Consigliata il medico di famiglia?» chiede incerta.

«Ehm… no, ma… ho dei forti dolori alla testa ed ho pensato di venire qui.»

«Se non c’è il consenso del medico non si può fare, mi dispiace, cara.»

«Ma… ho prenotato.» La mai voce si alza.

«Dovresti andare dal tuo medico e ritornare con una ricetta scritta.» Non ho un medico di famiglia. Non vado dal mio medico da quando avevo cinque anni e le altre volte mi hanno trascinato a forza.

«Ne ho bisogno ora. Davvero, è che… che io… »

L’infermiera si alza in piedi, un grembiulino verde chiaro come divisa. «Devo chiederti di tornare in un altro momento.» Lascia il bancone e si dirige in un'altra stanza. Lo shock per questo inaspettato rifiuto mi secca la lingua, mi fa sentire inerme, arrabbiata con tutto. Respiro forte e penso a qualcosa, come fare, cosa dire, dove andare... Sarah, trova una soluzione. Trovala, Sar. 

E poi: «Chi è il prossimo per le radiografie?» chiede una voce. L'ambulatorio è deserto ed io mi volto istantaneamente. «Sono io.» Quest'infermiera mi porta in una stanza con un lettino, al cui interno c’è anche una macchina per le radiografie. Comincia a verificare i riflessi con una piccola torcia, quando la toglie via il suo viso è offuscato da un sole che mi si è intrappolato nella cornea. «Dolori costanti, hai detto?»

«Sì, non passano nemmeno con le medicine per il mal di testa. »

«Allora devo assolutamente chiamare il dottore Hawkins… cara, puoi darmi il tuo documento?»

Apro la borsa e la trovo. «Eccola.» Gliela porgo.

L’infermiera, capelli castani chiari corti, occhi allegri e viso tondo, assume un’espressione stranita… poi spaventata. Mi restituisce la tessera. «Il dottor Hawkins non c’è.»

«Ma come… »

«Non c’è. »

Lo sguardo della donna – due piccoli occhi marrone chiaro – diventa cupo come se la luce del sole fosse appena stata oscurata da una nuvola nera. «Non devi tornare.» Poi si allontana, sembra ricomporsi. «Non… devi tornare fin quando l’assicurazione non sarà pagata. »

Rimango allibita. «L’assicurazione è stata pagata. »

«Mi spiace ma ho controllato… »

«Come può aver controllato se non conosceva il mio nome? Come può… »

«In quest’ospedale non ci sono le attrezzature adeguate per il tipo di controllo che è necessario per te, e adesso va’ per favore. »

«Ma...»

«Per. Favore, » dice a denti stretti, poi si volta e mi lascia sola. Esco dalla stanza senza capire niente, con la tessera di plastica stretta in una mano… senza capire niente di quello che sta succedendo.

Fisso il corridoio bianco, fisso il nulla. Nulla fra le mie mani, nulla ha ripagato i miei sforzi, nulla è quello che sono capace di fare. Nulla nel mio cuore che batte a inerzia, nella delusione. Occhi fissi sul bianco, fino a quando non vedo lui. Nera è la meta, bianco il tunnel, e Martin lo attraversa. Morte all'incontrario, cose inspiegabili, ed il mio cuore che abbadona l'inerzia e batte, batte forte verso di lui, rumore timido che si propaga nello spazio. 

«Sarah, allora?» chiede Julia.

Spiego tutto senza fermarmi, incredula, e Martin non mi guarda, ascolta seduto, bellissimo, le mani come giunte sotto il mento.

Non capisco. Non capisco.

Non capisco.

«Non…»

«Non capisci, ho capito.» La voce di Martin è tesa, arida. Alza il viso verso di me. «Adesso va’ a casa, ci penseremo su. Hans, tu la accompagni, no? »

Hans si passa una mano fra i capelli, sembra che Martin gli stia parlando in una lingua sconosciuta. «Io… non posso.»

«Ah, mi dispiace.» Martin si mette in piedi e si sistema il colletto della camicia bianca. «Allora per mio piacere, la accompagno io. »

***

Silenzio.

Perché mi ha mandata via? Perché mi ha guardata in quel modo? Perché me ne sono andata senza aspettare spiegazioni? Perché…

Silenzio.

L’infermiera legge il mio nome e mi caccia come se la stessi spaventando. Lei era spaventata.

Silenzio.

E Martin non mi parla. Non mi parla davvero da ieri sera, quando mi ha detto la verità, e adesso mi chiedo anche che cosa sta succedendo a lui. Cammina in quel modo da Dio mi ha regalato tutto la bellezza possibile al mondo con lo sguardo dritto davanti a lui ed io sono qui… a camminargli accanto, senza nemmeno un’idea per parlare di qualcosa che non sia la mia vita assurda.

«Martin…»

«Ah, ecco qui casa tua. È stato un peccato che tu abbia dovuto fare tutta questa strada con me senza intrattenimenti, però lo sai, no, che a quest’ora il pullman non passa.»

«Mat.» Mi guarda. Mi inchioda sul posto con i suoi occhi. Mi sento la gola secca come se non bevessi acqua da giorni. «Io… ti ho creduto.»

«Che? »

«Quando mi hai parlato di Yvonne, ti ho creduto.»

«Oh ma certo. » Si appoggia al cancello con una mano e avvicina al viso a me. «Perché non dovevi credermi? » La sua voce è tagliente. «Era la verità. Non mi sono mai sognato di prenderti in giro.»

Fa per andare via, ma gli poso una mano sul braccio e lui si volta verso di me. Mi guarda, come infastidito. Che cosa gli succede? Dio, perché non riesco a capire niente? Martin sbuffa. «Che cosa c’è?»

È così vicino eppure non lo è abbastanza. Non lo è abbastanza ed io sono stanca. Sono stanca di me. Sono stanca di lui che è lontano.

Non mi importa di niente, né delle domande della nonna, né di quello che pensarà l’inquilina del terzo piano che ci guarda mentre scende le scale; apro la porta con la chiave e lascio la porta aperta, per farlo entrare. Mi inoltro nel corridoio – mura bianche, vecchie fotografie dei nonni da giovani, i soliti mobili in noce opacizzati dal tempo – ma non sento alcun rumore.

Raggiungo la cucina.

«Nonna? » La chiamo.

E poi sul tavolo trovo uno dei suoi biglietti dalla grafia traballante che mi fa stringere il cuore.

Io e il nonno siamo dalla zia Maggie. In frigo ti ho lasciato le lasagne.

Un grande bacio.

Poggio il pezzo di carta sul tavolo e mi volto, sento il rumore dei suoi passi che vengono verso di me, stringo le dita sulla spalliera della sedia, deglutisco, deglutisco, di nuovo. Siamo soli.

Sono sola con lui, a casa mia. Martin entra in cucina, si guarda intorno con quella che sembra troppa attenzione eppure sembra che in realtà non veda niente. Come se recitasse di camminare in una città d’arte, ha in viso un ghigno beffardo che mi fa capire che lo conosco davvero. Martin finge, tante volte, e ora lo sta facendo davanti a me.

«Perché ti comporti così? »

«Così come? »

 Decide di sedersi proprio sulla sedia su cui stringo le mani. Mi allontano di poco e lui la gira per sedersi proprio di fronte a me, con le gambe stirate, la destra poggiata sulla sinistra. Le braccia conserte. Quel sorrisino da volerlo solo schiaffeggiare. Smettila, vorrei dirgli.

Smettila!

«In questo modo… lo sai. »

«Che cosa so, Sarah, eh?»

«Be’… » Cerco di apparire sicura. Cammino avanti e dietro. «Sei così scontroso. E finto. E così palesemente.. infastidito.»

«Mi stai chiedendo perché?»

«Sì.»

«Be’, tu hai passato settimane a evitarmi, a non guardarmi, a fingere che fossi uno schifoso escremento lasciato sul marciapiede che lo spazzino non ha ancora portato via. Se avessi potuto, mi avresti letteralmente scavalcato. »

Oh, no. Devo mantenere il controllo. Sta' calma. Ho sbagliato tutto, ma credevo che fosse passata. Ho sbagliato tutto, ma credevo che per lui adesso le cose fossero cambiate. Ho sbagliato tutto e sbaglierò sempre e non me ne accorgerò mai perché semplicemente non so dove sbaglio e sarà sempre colpa mia. «Mi… mi dispiace. Non... volevo.»  

«Oh, lo volevi eccome.»  

«Ero confusa e delusa.»

«Io ti ho aiutato. Ti sono sempre stato vicino e… è vero, sono sempre stato un po’ coglione ma che cosa pretendevi? Questo sono io, Sarah, e sarò sempre così. Non mi cambierai nemmeno tu. Non mi cambierò nemmeno se lo voglio io. E poi… ah, finalmente! Mosè ha aperto le acque!... » Schiocca le dita, si avvicina quasi lento, la sua andatura è un’onda di mare agitato. «…finalmente mi ascolti! E poi tu… »

«Io cosa? COSA? Che cosa ho fatto per farti comportare in questo modo con me adesso? Non mi parli e se lo fai sei un isopportabile bambino viziato… »

«Continua.»

«Ricco e che può avere tutto. Ricco e che non usa il cervello perché tanto non ce n’è bisogno… c’è papà che provvede! Papà che è anche il responsabile della rovina della mia vita! Tutta la mia vita è rovinata, distrutta, a pezzi! »

«Vai avanti, forza. »

Mi porto una mano fra i capelli e sento che impazzirò, cadrò, morirò. Mi viene fuori un mugolio e mi pento di avergli detto parliamo. Mi pento di aver pensato di poter risolvere tutto come fanno le persone normali. Sono mai stata una persona normale? Mi è capitato di sentirmi in quel modo, insieme a lui, ma adesso è impossibile. Non potrà accadere mai più.

«Sono rovinata, distrutta, a pezzi…» sussurro. I miei pensieri diventano parole. I miei pensieri sono le mie parole.  «Non scoprirò niente. Non cambierà niente…. Rovinata, distrutta, a pezzi… e tu stai perdendo tempo, Martin. Torna nel tuo bel mondo. È falso ma almeno è bello.» Non vedo più niente. Mi porto le mani agli occhi, li stropiccio, ogni cosa è nera, ogni cosa è nascosta dall’oscurità.

«Non è vero… io posso ancora… »

«Aiutarmi? No, Martin, basta così. Vattene.»

«Ascolta… »

«Trovati un altro gioco.»

«Mi vuoi ascoltare?! » Sento le sue mani sulle mie spalle, mi scuote, all’inizio forte – toccami – poi più piano – ti prego, toccami. Ti prego, abbracciami. Ti prego… e poi di nuovo la sua voce: «Io ti amo. E sono qui e non me ne andrò e ti amo.»

Rovinata.

E sono qui.

Distrutta.

E non me ne andrò.

A pezzi.

E ti amo.

Sono rannicchiata contro me stessa e in me stessa in una piccola cucina e lui mi abbraccia e non parlo. Ti amo. Non vedo più nero. E sono qui. Metto a fuoco il suo viso spigoloso, le labbra, gli occhi verdi che splendono e i capelli biondi disordinati. E non me ne andrò. Vedo il ragazzo che mi ha fatto sorridere e ridere senza alcuna sofferenza, come mi avesse anestetizzata e oh ecco ora sorridi, e dopo ecco adesso ridi. E dopo ancora adesso vivi. 

«Come pensi che mi sia sentito quando ho visto te ed Hans… che vi baciavate? » Sbuffa, ha gli occhi lucidi, dice “cazzo” e “merda” quasi contemporaneamente. «Forse come ti sei sentita tu quando Yvonne mi è saltata addosso… ma non credo che lui ti sia saltato addosso, no? » Si rimette in piedi, cammina, cammina, torna indietro. «E poi… che spiegazioni pretendo? Semplicemente tu non mi vuoi più, ok. È così. »

«No. » È un grugnito, il mio. Vorrei tanto che lo sentisse. 

«Cosa? »

Basta silenzio, basta avere paura, basta nascondersi. Sarah Pierce ha perso la sua vita ed ora sono senza nome, senza nome posso avere un’altra vita.

«Hans mi ha baciato ma non è lui che voglio.» Deglutisco. Lui si avvicina, l’incertezza nel suo sguardo, l’affanno nel mio respiro. «È te che voglio e mi sento così male, così male e mi dispiace…»

«Stai male?»

«Sì! » Non piangerò. Non piangerò. «Sto così male e non so chi sono, non so cosa sono e tu sei stato… così lontano, mi sono sentita così tradita. Ma chi mi vorrebbe? Forse dovevo solo…»

«Chi ti vorrebbe? » Si inginocchia davanti a me, mi prende il viso fra le mani e sono così belle tiepide. «Chi ti vorrebbe?! »

Mi accarezza i capelli e lui sembra così disperato e felice e bello e il ragazzo del bus, il ragazzo che mi ha parlato, il ragazzo che amo.

«Mio Dio, Sarah, sei così brava a spiegare letteratura ma ora è meglio se non parli. »

Mi bacia. E forse ora sto piangendo perché mi aggrappo al suo collo e forse l’ho graffiato con queste unghie e lo amo e apro di più la bocca e lo bacio. Le labbra, le labbra, le labbra. La sua lingua mi tocca, mi trapassa il cuore e lo so, perché lui è lì. E non so perché e non riesco a ragionare ed è lui, Martin, qui, e si stende su di me. Non posso respirare, non posso posso respirare mai più perché sono le sue labbra e le sue mani e tutto quello che vedo è lui che mi prende la mano, è lui che mi porta in una strada asfaltata ed io ho un vestito bianco, è ancora buio ma uno spiraglio di luce mi fa distinguere bene i suoi tratti, i capelli biondi mossi, il sorriso. Il suo sorriso che è anche il mio.

«Martin… »

Mi bacia il collo e annaspo. Come faccio a trovare le parole se lui mette tutto così in disordine? Ed io amo questo disordine. Amo tutto. Amo che lui…

«Cosa? »

«Ti amo anch’io.»

*

*

*

*

Eccomi qua! Allora, prima di tutto vi dico che vi adoro, perché se questa storia non fosse letta da voi, sarebbe inesistente. Come un attore ha bisogno di un pubblico nel suo teatro, una storia ha bisogno di lettori. Spero davvero che la storia vi piaccia e spero che sareta tanto gentili da farmelo sapere :3

Spero di riuscire a rispondere alle recensioni entro questa serata, al massimo domani. Sono molto impegnata a causa dello studio, ma cerco di non saltare mai un aggiornamento :) Nel caso vi interessi, ho creato una pagina su facebook, cliccate qui e troverete tante novità ^^

Grazie mille di cuore.

Un bacio

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 20. Sangue gelido ***


until 20

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

20. 

Sangue gelido

Vedo questi ricordi, senza capirli, senza sentirli. Vedo questi ricordi e penso non sono io. Sono solo fantasie, gli effetti collaterali di aver tenuto in questo appartamento, per anni, lei. Solo a guardarla ti fa venire voglia di uccidere. 

Ed io voglio farlo.

«Ti prego, Joe… »

Un altro schiaffo.

«Ti prego…»

Un altro schiaffo. Un altro, un altro, nemmeno le sue lacrime fanno più rumore. 

Resta con la bocca aperta, un gemito troppo silenzioso per farsi sentire, con il volto tirato per il dolore.

E poi accade di nuovo. Sento gli spilli conficcarsi nel mio cervello, ghiacciati; lasciano una fredda sensazione di intorpidimento che mi porta a lasciarla andare.

Yvonne cade a terra con un tonfo, ma riesce a non sbattere il viso reggendosi con le mani. Forse per le tante volte in cui le ho fatto male, ha imparato a non ferirsi da sola. Mi sorprendo per il fatto che le sto dando ancora la possibilità di respirare, di vivere, e poi mi viene in mente che ho un altro lavoro da fare, molto più importante di fare fuori una ragazzina che non mi serve più.

«Alzati, angioletto.» Mi sistemo il colletto della giacca e inclino la testa. «Prepara le tue cose, te ne tornerai al tuo posto.»

«No, no…»

«Oh sì, invece.»

«Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto… tutto quanto.» Singhiozza, cerca di rimettersi in piedi ma cade sul polso, il petto le si alza e le si abbassa. I suoi occhi mi illuminano, scuri, con le lacrime che le bagnano le ciglia e una voce troppo bassa dentro di me dice che sono bellissimi. Yvonne. «Tutto quanto… ho chiesto ad Holly Dixon, la sorella dell’amico di Martin, di controllarli per me alla festa, perché Martin mi avrebbe riconosciuta, mi sono fatta dire tutto quello che ha visto…»

«Non era abbastanza. E adesso muoviti.» La aiuto a mettersi in piedi, mi cade quasi addosso, la allontano e lei mi guarda come se l’avessi schiaffeggiata un’altra volta. Le parlo all’orecchio, la mia voce è appena un sussurro. «Siamo quasi alla fine.»

***

Sarah

Martin mi sfiora le tempie con il pollice, poi scende sullo zigomo, la guancia, il mento. Sta sorridendo, con le gambe intrecciate alle mie e il respiro spezzato da qualcosa che è lo stesso motivo per cui anch’io sorrido, anch’io respiro a malapena.

«Baciare la tua ragazza sul tappeto di plastica della cucina: fatto.»

Scoppio a ridere, mi si schiaccia addosso ed io gli stampo un bacio all’angolo della bocca. «Comodo?»

«Il letto è troppo banale.» Preme le labbra sulle mie ed io gli accarezzo i capelli, mi faccio abbracciare, faccio mia la sua felicità, perché non riesco a capire dove inizia e finisce quella di entrambi. Poi mi stacco da lui con un sorriso, Martin si mette in piedi ed io mi liscio la maglietta. Lui si appoggia al lavello ed io apro il frigorifero, mentre cerco di far andare via questa strana voglia di saltare, saltare, saltare, e dire sono felice.

«Ti piace la lasagna?» gli chiedo.

«Posso accendere la tv?»

«Sì, puoi.» Trattengo una risata. «Allora, la lasagna?»

«Sì, mi piace.»

«C’è solo una porzione ma ce la possiamo dividere.»

«Mi stai dicendo di mangiare metà porzione?»

«Ti sto chiedendo di dividerla con me.»

«Questo è un colpo basso, Sar.» Mi lancia un’occhiata un po’ troppo intensa e mi fa sentire le guance calde come se lo stessi ancora baciando. Mi volto a guardare le tendine a fiori alla finestra, quelli sono… narcisi?

«La tv non si accende.»

«Non è che non si accende.» Quelli sono narcisi o gigli? «È vecchia, dovremmo aggiustarla, carica l’immagine dopo almeno cinque minuti anche se si sente il suono.»

«Ah, peccato.» La sua voce è sempre più vicina. «Mi chiedo che cosa posso fare in questi cinque minuti…» Sento la sua mano che mi tocca il polso, mi fa voltare e mi trovo contro il suo petto. Sento la sua bocca sulla fronte mentre il cuore batte, batte, batte. Trovo le sue labbra, si allontana troppo presto, sembra che mi abbia tolto il respiro con le sue stesse mani. Lo ha fatto, perché mi solleva sul tavolo e sto impazzendo. Stringe le mani sulla mia schiena ed io mi aggrappo al suo collo come se potessi precipitare se lui non fosse qui.

Ma lui è qui. Sottofondo di un telegiornale. Gli mordo il labbro, lo sento gemere,  sorride contro le mie labbra e posa le mani sulle mie gambe, mi stringe di più. Lui è qui.

«Io. Te. Tavolo,» gli sussurro.

«Come hai imparato bene.»

Ridacchio.

Le mie labbra sono di nuovo sulle sue, poi sul mento, sul collo.

«Mi stai uccidendo.»

«Hai cominciato tu,» dico.

«Ma solo perché tu lo volevi.»

«Non l’ho detto.»

«Tu lo desideravi ardentemente.»

«Ok, ok!»

Si allontana, troppo lento, troppo veloce, ed io mi rendo conto di avere la maggior parte dei capelli appiccicati alla guancia sinistra. 

Martin sembra sconvolto.

«Ordiniamo una pizza?»

«Ma c’è la lasagna.»

«È solo una porzione, dai… Vuoi anche le patatine?»

«Devo controllare nel portafoglio…»

«Oh, finiscila. Ora chiamo. »

«La pizzeria di sotto non fa il servizio a domicilio.»

«Che sfiga. Vorrà dire che il genere umano dovrà sorbirsi la mia bellezza per tutto il tempo in cui aspetto.»

«Che peccato.»

«Un peccato sì.» Scendo dal tavolo e cerco di ordinarmi i capelli, anche se è un tentativo un po’ inutile, mentre Martin prende la giacca dal divano e la indossa.

«Quando torno ti trovo? » mi chiede. Si avvicina alla porta, sicuro, come se fosse casa sua, ed io mi chiedo come possa sembrare così a suo agio in una casa così diversa da quella in cui vive.

Annuisco e sorrido, Martin mi fa l’occhiolino e sento di aver perso tutte le facoltà mentali che mi facevano credere di avere un minimo di normalità, anche se del tutto anomala rispetto al resto. Torno in cucina, ancora un minuto e la televisione mostrerà anche l’immagine, nel frattempo si sente ancora il telegiornale.

«Notizia dell’ultimo minuto,» dice la giornalista. Ed io giro intorno al tavolo, forse sono di nuovo bambina, forse non è mai successo niente di brutto, forse tutto questo è accaduto solo nella mia mente ma è qui che voglio restare. Nella mia mente. «Tutte le famiglie a lei vicine, vecchi amici di scuola…» Nella mia mente. Solo nella mia mente. «… sono sconvolti per la sua morte.» Mi passo una mano fra i capelli e volto la testa; pian piano, la televisione prende colore e mi mostra una donna sulla cinquantina, la solita giornalista del tg della sera. «È stata uccisa con cinque colpi di pistola, trovata morta proprio nella strada del suo ospedale in cui aveva appena finito il turno come infermiera.»

L’infermiera che si è rifiutata di visitarmi. Mi alzo in piedi, mentre sullo schermo la telecamera inquadra solo la sua foto. Capelli castani corti, occhi marrone chiaro, sorriso gentile. È quella che mi ha mandato via e mi ha detto di non tornare.

«Non si sa ancora nulla dell’assassino, ma vi terremo informati con gli aggiornamenti.»

Mi alzo in piedi, prendo la borsa, cerco il cellulare, non lo trovo. Affondo ancora di più la mano, devo trovarlo, devo chiamare Martin, devo dirglielo, devo chiamare Julia, devo dirglielo. Devo… oh mio Dio...

Qualcuno bussa alla porta… deve essere Martin, sì. L’avrà visto anche lui alla televisione della pizzeria. Corro verso il corridoio e dopo qualche secondo mi trovo davanti alla porta, spingo la maniglia verso il basso e la apro. Sospiro di sollievo.

Poi alzo gli occhi.

«Non urlare, angioletto.»

Ma quasi come se tutto il mio corpo mi implorasse di farlo un suono acuto esce dalla mia gola, e lui mi spinge e cado a terra e sto per rialzarmi quando sento i polsi stertti da qualcosa, una sola mano, e un fazzoletto sulle labbra che attutisce il mio urlo e mi rende la testa pesante, sempre più pesante mentre mi addormento e grido a me stessa resta sveglia! Sarah, resta sveglia!

Ma ho già chiuso gli occhi.

***

Martin

Su Mtv passa il nuovo singolo di Lady Gaga. La zona è periferica ma qui c’è davvero tanta gente, è passato già un quarto d’ora e ancora non arriva l’ordinazione. Trascorrono i minuti, aspetto, e non riesco a fare a meno di pensare a quanto tutto sia fantastico. Insomma, non che ne dubitassi.

La canzone degli One Republic è carina.

Ok, è vero, ne dubitavo. 

Quando l’ho vista per la prima volta i suoi occhi erano spenti, ma nel profondo di me stesso, mentre Kurt Cobain cantava Something in the way, ho capito che il buio non può durare per sempre. C’era qualcosa, sulla sua strada, a tenerla spenta.

A scuola ho studiato che nei paesi nordici per sei mesi è sempre notte. Be’, fino a quando ci sarò io a infastidirla, i suoi sei mesi di luce dureranno per molto tempo.

Su Mtv è appena cominciato Disater Date quando esco dalla pizzeria con una busta. Al palazzo di Sarah arrivo nel giro di trenta secondi, salgo le scale mi ritrovo davanti alla sua porta. Suono il campanello.

Uno due tre quattro cinque secondi.

«Sar?» la chiamo.

Uno due tre quattro cinque.

Sposto la busta all’altra mano.

Uno due tre quattro cinque.

Sento dei passi strascicati sul pavimento, come se qualcuno stesse trascinando qualcosa, ma poi la porta si apre e una signora anziana con una giacca pesante mi sorride incerta.

«Oh… salve.» Dico. «C’è per caso…?»

«Sei un amico di Sarah? »

Gli occhi marroni della signora luccicano, sembra quasi che aspetti una risposta con tutto il suo cuore, e mi sembra stranissimo quando le dico: «Sì, certo.» E mi sento anche un po’ in colpa… anche se, in fondo, ci siamo appena chiariti, non c’è bisogno di coinvolgere anche gli adulti. «È in casa?»

«Entra pure. » 

Sarah?

«Trevor, è venuto un amico di Sarah!» dice la signora, e si porta le mani al viso e fa qualche passo inoltrandosi nel corridoio. La seguo, mentre dalla cucina, sul suono della tv, proviene una voce che dice: «Chi?»

«Un amico di Sarah!» dice di nuovo la signora, mi posa la mano sul braccio e mi guida in cucina come se non sapessi camminare da solo. Poi si rivolge a me: «Come ti chiami? »

«Martin, ma… »

«Trevor, questo ragazzo si chiama Martin… ed è un amico di Sarah,» sottolinea le ultime parole con una voce dolce e allo stesso tempo decisa. 

L’uomo seduto sul divano, anziano, con i capelli brizzolati, gli occhi verde scuro e un sorriso sorpreso viene a stringermi la mano.

Il suo sorriso si allarga sempre di più. «Sono davvero felice che Sarah abbia un amico… e ne ha altri?» me lo chiede con l’incanto che avrebbe uno scienziato davanti ad una delle scoperte più incredibili del secolo.

«Eh… sì, ne ha… diversi.» Rido. Cazzo, sono così nervoso che se bevessi del caffè mi ucciderei. «Julia, Cameron…» inventane altri, inventane altri… «Ehm… Doreen.»

«È meraviglioso,» dice il signore.

«Noi siamo i nonni,» dice la signora, i capelli argentati raccolti sulla nuca. «Mio figlio Nathan era il papà di Sarah. I genitori della mamma erano morti già da tanto tempo. E allora la bambina l’hanno data a noi… »

«Oh lascia stare, Nellie,» la interrompe il signore.

«Stavo solo spiegando…»

«Non c’è n’è bisogno, tesoro…»

«Dov’è Sarah?»

«Non è in casa.»

Il mio cuore batte. Batte sempre, in ogni ora del giorno, ma è quando hai paura che ti martella nelle orecchie. È quando la tocchi e sai che la vorrai sempre, è quando è troppo lontana e temi di averla persa. Sento il sudore freddo colarmi sulla schiena, mentre prendo il telefono e vedo che non c’è nemmeno un messaggio.

«Prima ci ha detto che sarebbe uscita, credo che tornerà a momenti.»

Mi viene la nausea. Devo inventare qualcosa. «Sarah mi aveva detto… mi aveva detto che mi avrebbe... restituito un libro. Posso prenderlo? È… importante.» Sul tavolo la sua borsa non c’è.

«Certo, ti accompagno nella sua stanza.»

E adesso che apro la porta della sua stanza… non la vedo da nessuna parte. Un letto dalla coperta lilla, una piccola scrivania bianca con un libreria montata sul muro. Qualche quadro con disegni di fiori. Mi chino su quelli che sembrano dei modellini… sono dei lavori in ceramica, tutti dipinti, sono bellissimi… li ha fatti lei ed io ho paura.

Sul comodino è posato un libro. Poesie di Emily Dickinson, lo apro nel mezzo, dove c’è una matita mordicchiata ed io mi sento morire perché l'ho lasciata sola. L’ho lasciata sola e non dovevo. L’ho lasciata sola e…

Non c'è bisogno di essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi, non c'è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi molto più vasti di uno spazio materiale ed è assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma esterno piuttosto che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato.

Prendo il libro, anche se forse sanno che è suo ma non importa perché devo trovarla e qualcosa, nei corridoi della mia mente, mi dice che avere paura è un mio diritto, adesso. Ed io la troverò e non importa quanto dovrò pagare.

Sarà abbastanza.


È stato mio padre, ne sono sicuro. È stato lui a prenderla. È stato lui… è sempre stato lui. Non può esserci altra spiegazione e se le ha fatto del male lo uccido. Se l’ha anche solo toccata lo uccido. Io lo uccido, uccido il mio stesso padre e il mostro non sarà più lei, sarò io. Sarah non è un mostro, e se lo è prenderò il suo posto. Se qualcuno deve farsi male, sarò io. Se qualcuno deve morire, sarò io.

Ma non lei.

Se succede qualcosa a lei sarà come avere le gambe tagliate. Qualcuno potrà anche trasportarmi, ma io non potrò mai rialzarmi da solo.

Le chiavi, le chiavi, le chiavi… merda! È tardi, deve essere a casa, deve essere arrivato proprio ora. Spalanco la porta e trovo le luci tutte accese, arrivo in salotto e trovo Doreen con una panno, sta pulendo il pavimento. Si toglie via un ricciolo che le cade sugli occhi e mi fissa.

«È successo qualcosa?»

«Dov’è?»

Sarah, mio padre che odio, basta che rispondi.

«Tuo padre? In ufficio, doveva incontrare…»

«Quel farabutto pezzo di merda! » Il sangue che viene fuori dal taglio sulla mia mano trasforma il mio grido di rabbia in qualcosa di sorpreso. Che cosa ho fatto? No, non davanti a Doreen.. Martin, che cosa fai… Mi appoggio al muro, il taglio non è profondo ma mi sento dissanguare. Il vaso che ho colpito si è rotto in mille pezzi e vorrei essere quel bambino che correva nel corridoio con le braccia aperte per un abbraccio di quel padre che non c’era mai, quel bambino che rompeva i vasi per sbaglio con Doreen che mi chiamava, e mi rincorreva e si arrabbiava con me ed io che dicevo non lo faccio più. Mi prendeva il viso fra le mani con una carezza. Promesso, non lo faccio più...

E poi sento di nuovo la sua mano sul viso.

È come guardare la scena dall’esterno. Doreen che si avvicina a me a grandi passi e muove il braccio per darmi un forte, sconvolgente schiaffo.

«Non parlare mai più di Joe... di tuo padre in quel modo, Martin, hai capito?! È tuo padre e gli devi rispetto!» Ha gli occhi lucidi, i capelli in disordine, il viso distorto da qualcosa che sembra tristezza, delusione. «Mai più.»

Tristezza, delusione.

Tristezza, delusione.

Ma che cosa ne sa lei? Che cosa cazzo può sapere lei?

«Tu non puoi dirmi che cosa devo fare.» La mia voce è più rotta di quei pezzi di vetro sul pavimento. «Tu non sei mia madre.»

Ha le rughe sulla fronte. Questa è la prima cosa che noto mentre lei sussulta come se fossi stato io, a schiaffeggiarla, mentre i suoi occhi increduli tornano arrabbiati e poi rassegnati, con le lacrime che scendono. Non dice niente, Doreen, e non mi importa.

Sono troppo egoista per pensare ad un’altra persona. È tuo padre e devi dargli rispetto. No! Lui non lo merita, lui ha rovinato la vita di Sarah, ha rovinato la mia vita, niente potrà più essere aggiustato. Sto correndo e per un momento un pensiero va a Cameron. Lui, che tante volte è rimasto solo per colpa mia. Lui, che c’è sempre stato ogni volta che ne ho avuto bisogno. Non ho né un padre né una madre, ma ho un fratello.

Ed ho Sarah.

Arrivo davanti all’ufficio di mio padre e suono il citofono. Il timore è passato, non posso avere paura di lui perché quando hai paura senti il battito del tuo cuore come se fosse il suono più chiassoso del mondo ma io ho bisogno di sentire il suo. Ho bisogno di sapere dov’è Sarah.

Passano pochi secondi e sto tremando.

Passano pochi secondi e sto tremando e lo vedo scendere dalle scale.

Passano pochi secondi e sto tremando e lo vedo scendere dalle scale e il suo sguardo incerto è su di me.

Passano pochi secondi e sto tremando e lo vedo scendere le scale e il suo sguardo incerto è su di me ed io non voglio crederci.

Passano pochi secondi e sto tremando e lo vedo scendere le scale e il suo sguardo è disperato su di me ed io non voglio crederci e tiene le mani in tasca.

Passano pochi secondi e sto tremando e lo vedo scendere le scale e il suo sguardo è incerto su di me ed io non voglio crederci e tiene le mani in tasca e lo guardo negli occhi.

Lo guardo negli occhi, mentre sento il rumore di uno sparo.

E ricordo che non ho guardato che cosa avesse preso dalla tasca per guardarlo negli occhi, gli occhi di mio padre che vedo sbiadire mentre sento il calore del sangue che abbandona il mio corpo. 

Nel freddo. 

*

*

*

*

Ciao a tutti! :D

Eccomi qui con questo nuovo capitolo, spero vi sia piaciuto anche se... vi ho lasciato in un punto carico di tensione XD Che cosa accadrà adesso? 

Qui trovate la pagina dedicata alla storia, con aggiornamenti e curiosità :3 Grazie mille per leggere e seguirmi sempre, e grazie infinite a chi trova il tempo per lasciarmi un parere sulla storia... è qualcosa di incredibilmente bello, per me.

Grazie di cuore

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 21. Sbarre bianche ***


until 21

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

21. 

Sbarre bianche

«Sono venuti anche i suoi amici a casa… la ragazza con i capelli rossi, Julia, sì. E Cameron... il suo migliore amico dalle elementari... oh, Martin...» Doreen attorciglia una ciocca di capelli intorno al dito come si farebbe con il filo del telefono, ma casa Scott non ha nulla di antiquariato e lei può torturare solo se stessa. «Se gli succedesse qualcosa… non dirmi che non gli succederà, non dirmelo perché niente è certo, niente…» Aggrotta le sopraciglia, una goccia di sudore freddo le cola sulla guancia, è pallida e sembra che non dorma da giorni. «Certo che è stata fatta la denuncia alla polizia. Non potevo impedirglielo, vogliono bene a Martin e ne vogliono anche a Sarah.»

Chiude la telefonata e si alza dalla sedia. Dal terrazzo della casa di fronte, in un noto quartiere residenziale, riesco a vedere tutto. Il cannocchiale è di quelli professionali, così come le cimici negli adesivi trasparenti che ho dato ad Yvonne, che lei ha poi dato ad Holly facendole credere che fossero solo dei disegni senza senso.

Scendo veloce dalle scale, apro il portone con le chiavi, salgo le scale. Poi sento il rumore della porta che sbatte, il rumore della serratura che viene chiusa, qualche passo veloce e poi eccola, la sua ombra. Un albero magro che si distende sul muro, le foglie i suoi capelli, il giunco il suo corpo, le mani le sue braccia. Anche le ombre mostrano chi sei, e lei ha cresciuto quel bambino con la paura di essere sradicata dai venti più impetuosi.

E si ferma. 

Adesso è la mia ombra, che si proietta sul muro.

Doreen stira la bocca, dalla sua gola viene fuori un suono sorpreso che sembra un guaito, un suono che dice non era questo il momento.

«Ciao, Doreen.»

Il momento non sarebbe mai dovuto arrivare.

Mi guarda e i suoi occhi sono grandi, scuri, profondi.

Un tempo era più veloce a correre, ma gli anni passano per tutti. Un tempo era anche più forte, ma ora le sue braccia non ce la fanno a spingermi via mentre le metto il fazzoletto sulla bocca.

«Ti prego, no.» La sua voce è attutita dalla stoffa, rende le parole ovattate, come se avessi le orecchie chiuse. «Non fargli del male…»

Poi i suoi occhi si chiudono.

Hans

 

Guardo fuori dalla finestra, un gomito poggiato sul davanzale, il telefono nell’altra mano, mentre aspetto che Cameron mi mandi un messaggio. Aspetto novità da ieri pomeriggio, non riesco a non essere inquieto per quello che mi ha scritto. Martin e Sarah sono irragiungibili.

Sarah.

La ragazza che è rimasta costantemente, per anni, con la convinzione di avermi fatto del male irreparabilmente, quando ero un ragazzino senza niente, troppo grande per pensare ai sogni. 

«Ehi, Hans.» Una voce bassa, strascicata, quella del mio migliore amico. Volto la testa e lo guardo, i capelli rasati a zero e gli occhi verdognoli, la maglietta bianca sudata trasparente sul petto. «Mi dai una mano?»

«A far cosa, Phil?»

«È arrivata una nuova.»

«Dammi un secondo.»

«Problemi?» mi chiede, e gli si alza il sopraciglio destro, come tutte le volte in cui fa una domanda di cui gli interessa la risposta. È rassicurante, saperlo, dopo tutte le cose che mi sono capitate. Qui ho avuto sempre tanti amici, starci insieme e girarci intorno in continuazione è stato naturale come venire al mondo. Quando non hai niente su cui contare, l’unica cosa che hai sono le persone, e quando mi hanno chiesto se volevo frequentare una scuola esterna a questa struttura e ho detto di sì e l’ho incontrata, Sarah per me è stata la prima persona silenziosa e impaurita che avevo mai incontrato.

Guardava la gente come se stesse sempre sul punto di piangere, e nessuno mi spiegava il perché. È strana, mi dicevano.

Seguo Phil per il corridoio – mattonelle nere, carta da parati azzurra dei dormitori maschili – e poi scendo le scale.

È strana, mi dicevano. Ma era bella e così silenziosa e mi piaceva parlare senza senso con lei che annuiva ogni tanto. Mi piaceva quando mi rispondeva “sì”, “no” e mi guardava negli occhi, gli occhi che sono rimasti sempre gli stessi. Mi piaceva quando riuscivo a rubarle delle smorfie che somigliavano a sorrisi e mi sentivo male quando vedevo che la smorfia si trasformava in dolore.

«Be’, ancora non lo so,» dico a Phil, cammino con le mani in tasca. «Quello ancora non mi risponde.»

«Martin?»

«No, Cameron.»

Phil fa spallucce. Gli ho raccontato tutto, e per lui è stato quasi normale capirlo… è il mio migliore amico, ed è così da sempre. Quando successe quella cosa,  lui era lì a guardarmi, era lì a scuotermi per riportarmi indietro. Di ragazze ce ne sono sempre state poche, hanno perso significato quando sono andate via. Solo una, pur essendo andata via senza più tornare, è rimasta più di tutte le altre. Ma il tempo in cui c'era mi sembra così lontano che ho paura di averlo solo immaginato.

«Ok.» Phil salta gli ultimi due scalini con un salto. «Dolcezza, a portare i bagagli ti aiuta lui.»

«Che…?» Non riesco nemmeno a finire la domanda, Phil mi mette una mano sulla spalla e mi fa: «Sei un amico».

Resto un attimo interdetto, il tempo di vedere la sua camminata sicura, lui che saluta tutti quelli che incontra con un “ehi” e un cenno di testa.

E poi mi volto a guardarla.

Quella nuova.

Tiene il viso basso, una ciocca di capelli biondi le sfiora il naso ed io sento le dita dolere all’inspiegabile istinto di spostargliela e guardarla. Non riesco a capire nemmeno me stesso, adesso.

«Tu sei…?»

«Questi sono i tuoi bagagli, è tutto quello che ti serve sapere.» Ha una voce affilata. Arrabbiata. Distorta.

Quale sarà la sua vera voce?

«Non sono un facchino.»

«Vaffanculo.» La sua voce si fa più bassa, diventa vera, mi riporta ad un pomeriggio in giardino. Un pomeriggio in giardino... in cui l’avevo battuta così tante volte da farla davvero stancare di provarci, lei che si passava i capelli castani ramati dietro l’orecchio.

Scuoto la testa. Non riesco nemmeno a capire perché mi sia venuta in mente adesso. 

Prendo i bagagli e mi incammino verso il dormitorio femminile. Non sento nessuna vibrazione del cellulare, Cameron sarà riuscito a contattare Martin e Sarah? Alla fine non sono nemmeno in buoni rapporti. Mi fermo davanti alla stanza con sopra il foglietto con la scritta “nuova arrivata” e apro la porta; è fortunata a stare da sola, per il carattere che ha. Forse ha rubato, si è drogata… è questo il motivo per cui spediscono i ragazzi qui. Gli orfani se ne vanno presto, a parte quelli particolarmente sfigati.

«Ecco, questa è la tua…» Mi oltrepassa colpendomi la spalla con la sua. «… stanza.»

Si volta e, mentre mi prende il borsone che ho ancora in una mano, mi sfiora le dita con le sue e alza gli occhi. 

Il suo sguardo è lo stesso di quell’ultima volta. 

Sbatto le palpebre, non è possibile.

Non può essere la stessa persona. 

Il suo sguardo mi fa sentire lame nello stomaco che spingono e il suo sguardo dice mi hai fatto perdere. Mi hai fatto perdere e non potrò ritrovarmi mai più.

«Yvonne.» Le scivola il borsone dalle mani. Yvonne. Nella mia mente, il suono di questo nome disegna con i ricordi la figura esile di una ragazzina dai capelli lunghissimi che ondeggiano mentre cammina. Una ragazzina in equilibrio fra i desideri e le sbarre del cancello dell'orfanotrofio, con il sorriso furbo di quando vinceva a memory, a campana.
Non posso credere a quello che vedo… che cosa è successo ai suoi capelli? E questo viso scarno? E gli occhi? Sono gli stessi ma adesso che li guardo senza vergogna sembrano solo due buchi scavati nella pelle. «Che cosa ti è successo?»

«Io, io ora…»

«Yvonne…»

«Adesso, io…»

Squilla il telefono e la cosa più sensata che riesco a dire è “scusa un attimo”.

«Pronto, Cameron?»

Mi arriva la sua voce, alterata. «Hans, siamo nella merda.» Alza il tono di voce. «Martin e Sarah sono scomparsi. »

«Che cosa? Mar… Martin e Sarah…?»

«Sono andato a casa sua e Doreen mi ha detto che non ha idea di dove sia finito… e Sarah con lui.»

 


 
Sarah

10 giorni dopo

Svegliati, Sarah.

La voce di me stessa mi riporta in superfice, come se il sonno fosse un abisso profondo ed ora, invece, mi trovassi finalmente sulla riva. Gli occhi mi bruciano, ho l’affanno come se avessi nuotato. Le braccia mi fanno male come se avessi attraversato chissà quale pezzo di mare. So nuotare? Mi chiedo. Mi fa male la pancia, la testa è pesante, mi stropiccio gli occhi. Vorrei tanto vederlo, il mare. Immergermi, risalire… 

Un sighiozzo viene fuori dalla mia gola e, dopo qualche altro respiro, riesco a tenere gli occhi aperti senza richiuderli per il dolore.

Metto a fuoco la stanza intorno a me. Il materasso su cui mi trovo è duro e scomodo e questa non è una stanza normale, perché a pochi metri da me ci sono delle sbarre, bianche. Sono in un enorme stanza quadrata che contiene, come quelle bambole russe, un’altra stanza di ferro? Avorio?
Sarah, non crollare, Sarah, Sarah… voglio uscire di qui.
Tocco una sbarra e un dolore lancinante mi prende il palmo, urlo, cado all’indietro. Il palmo della mano sembra bruciare, del fumo ne viene fuori.

Poi dalla ferita il fumo scompare e la pelle diventa nera sotto i miei occhi che non vogliono credere, e poi la mia pelle torna quella di sempre. Come farò ad uscire da qui? Non crollare, Sarah, non crollare.

Fino a quando resisterò?

«L’angioletto si è svegliato.»

La sua voce è rauca e gelida e resto immobile. Nel tempo di un respiro profondo mi volto a guardarlo. Indossa un completo nero di quelli che si vedono agli uomini d’ufficio. La sua pelle pallida sembra fatta dello stesso materiale delle sbarre che mi tengono intrappolata qui; è chiarissima, ma riflette altri colori, come se l’azzurro delle vene fosse visibile, come se i miei occhi avessero disperso il loro colore su di lui. Cammina nella stanza lento, le labbra stirate da un mezzo sorriso che mi fa affogare nella paura. Nella foto in cui, con sua moglie, teneva in braccio Martin appena nato era diverso, come se un'immagine risalente a diciassette anni fa avesse più vita di una figura umana nel presente. I suoi lineamenti affilati sembrano distorti... evanescenti... lo vedo davvero o anche questo è un sogno? La fotografia che ho guardato mesi fa, nascosta nei miei ricordi, sembra non avere nulla a che fare con quest'uomo. Il padre di Martin. Joseph Scott, JS.

«Puoi chiamarmi Joe, se mai tu volessi chiamarmi. Le sbarre sono fatte di platino. Ma c'è anche quel poco di argento di luna rimasto, che ti fa male. Sembra così difficile credere…» Si avvicina a quella che è la mia cella e si abbassa alla stessa altezza del mio viso. I suoi occhi sono nerissimi, come i suoi capelli che gli scendono lisci sulla fronte. Sospiro. Il padre di Martin... Joseph Scott, ma non lo riconosco. Un uomo pallido, alto, dai capelli neri. Ma non basta e non ricordo bene ed ho paura. Ho paura che, davanti a me, ci sia qualcuno che non ho mai avuto il tempo di temere. Non ne abbiamo avuto il tempo. «... che le somigli così tanto.» Scuote la testa. «L’uomo dà il suo seme ma quale segreto c’è nella natura del mondo da averti fatta esattamente uguale a lei?»

La mamma. 

Tremo, tremo, tremo. E resto in silenzio.

«Sì… Sarah, tua madre. Ma è passato troppo tempo.»

Che cosa c’entri con mia madre? Mi sento così confusa, come se stessi ponendo una domanda di cui so che la risposta sarà assurda e non basterà. Non l'ho nemmeno posta, la mia lingua è paralizzata. Ogni cosa di me è inerme. 

«So che hai tante domande.» Si mette in piedi e si sistema la giacca, è così alto… forse quanto Martin, sì, proprio come lui. «Hai bisogno di certezze. Hai bisogno di capire davvero perché puoi fare quello che fai. E la tua vita cambierà completamente, se farai quello che ti ordino.»

Ordino. Il suo sorriso si allarga e l’unica cosa che sento è terrore, il cuore batte, terrore, il cuore, terrore. «Ho letto i giornali. Che nome bizzarro per connotarti... mostro

Sarah il mostro.

Non respiro.

«Sarah il mostro…»

Lasciami andare.

Mi metto in piedi, traballo, cerco di non cadere perché altrimenti andrei a sbattere da qualche parte sul ferro bianco di questa cella. 

«Voglio solo che tutto questo finisca.» Parlo per la prima volta e la mia voce suona arrocchita, malferma, straziata.

«Devi fare solo quello che ti chiedo.» Si avvicina alla parete, alla stessa altezza della mia cella, poi prende quello che sembra un piccolo telecomando, di plastica nera. Deglutisco. «Che cosa?»
«Quello che hai fatto senza che te lo chiedessi.» Non sento più il cuore. «Addormentare i corpi. Quando lo fai, Sarah, doni loro la misericordia. Addormentati, vedono la loro vita. Vedono il passato... e vedono gli errori commessi. Diventano giudici della loro vita come se non fossero più se stessi... rare volte, i giudici che sono diventate le loro coscienze permettono che ci si svegli ancora. Ma Julia era solo una bambina. Hans appena un adolescente. Quel cane... non ha avuto alcuna ripercussione. Solo per questo si sono svegliati... non c'era niente di troppo grave, nel loro passato, per non farli tornare indietro. Solo per questo Julia ed Hans sono ancora in vita, altrimenti il loro cuore si sarebbe fermato. Questo è quello che devi fare, Sarah.» Sospira. «Ci sono dei cuori che non meritano più di battere, e tu devi aiutarmi a fermarli. Li addormenterai, ed io li guarderò morire grazie alla mia creazione, perché è grazie a me se tu sei così. Grazie a me, se sei ancora in vita. Certo, se mai si sveglieranno li ucciderò con le mie mani ma tu... tu mi aiuterai a cominciare. E non rifiuterai.» Preme il tasto rosso su quel telecomando.

Vedo che la parete si alza verso l’alto fino a mostrare un’altra stanza, o il resto della stanza in cui mi trovo… una stanza in cui c’è un’altra cella.

Una cella uguale alla mia.

Una flebo e un letto bianco all’interno.

«Martin…»

È sdraiato, privo di sensi, la testa tutta rivolta al lato sinistro, con solo i jeans e una garza sul fianco ed è così… immobile. Respira? Ti prego, dimmi che respira.

«Gli ho sparato. Senza ucciderlo. Se mi aiuti, lui sarà l'ultimo a morire.» Lo dice rigirandosi il telecomando dalle mani e adesso, proprio adesso, lo ucciderei con quello strano modo incatenato alle profondità di me stessa. «Non puoi sapere quanto desidero che muoia, quanto sia stato difficile non ucciderlo per davvero quando potevo. Ma voglio che muoia grazie al tuo aiuto, voglio che tu lo guardi e che lui sappia che cosa gli starai facendo, voglio che lui sappia che è sempre stato in pericolo, anche con te, sempre.»

Stringo i pugni. Mi accorgo che non porto i jeans dell’ultima volta e nemmeno la maglietta; la stoffa che stringo fra le dita è quella del vestito bianco che mi ha dato Julia il giorno della festa. «Non posso farlo.» Chiudo gli occhi. Lui ride. «Io lo amo.»

«Quest'inconveniente non era previsto. Ma dovrai dimenticartene.» Ma non si può dimenticare, l'amore. Si passa una mano sulle labbra. «Sei stata addormentata per quasi due settimane, quando stavi per riprendere i sensi ti ho somministrato di nuovo il sonnifero, con delle flebo ti ho tenuta in vita, e quando ho messo la tua giacca e la tua borsa nell’armadio per non dare subito prova della tua scomparsa a quei fottuti genitori di tuo padre, l’ho visto e l’ho preso. Sei splendida, sai?» Faccio qualche passo, molto piano, come se stessi dondolando sui talloni, non ho più nemmeno le scarpe. Stringo la stoffa del vestito e mi avvicino alla cella il più possibile, poi tocco una sbarra con il tessuto a proteggermi il palmo e, per un istante, sorrido. Non sento dolore. «Capisco che lui ami te... ma tu, lui? Che mistero è mai questo.»

Ma è solo un istante perché presto sento la pelle bruciare anche attraverso la stoffa bianca, di nuovo ancora, mi mordo le labbra, cado in ginocchio e odio me stessa. La stoffa è intatta ma io no. Io no perché se uccide Martin, sarò morta anch'io.

«E se non mi aiuterai ad uccidere gli altri, me la potrò cavare da solo ovviamente... e poi sparerò a Martin direttamente nel cuore. Se non lo farai, porterò qui quella tua nuova amichetta, anzi… vecchia, Julia. A lei sparo in bocca, per cambiare. E chi altro, Hans? Anche lui. E l’amico di Martin. E la sorella di Cameron, facciamo al completo… più siamo meglio è. E alla fine…»

Se uccide tutte le persone che amo, sarò morta ugualmente. 

Non mi salverà. Nessuno mi salverà.

«Alla fine i tuoi nonni, anche se sarà un favore a me stesso. Ho goduto quando Nathan è morto, anche se si è portato via anche lei. Uccidere anche loro sarà solo finire un lavoro rimasto incompleto.»

Non mi salverà. Nessuno mi salverà.

«Hai qualche giorno per pensarci.»

Non mi salverà, nessuno mi salverà.

Devo salvarmi da sola. 

E se mi salvo, potrò salvare anche loro.

Martin

Mio padre mi ha sparato.

Vuole solo distruggerci tutti. Vuole distruggere Sarah. Vuole distruggere me.

Mio padre mi ha sparato ma io sono ancora vivo.

Che cosa aveva in testa, mia madre, quando l’ha sposato? Non penso mai a lei, perché è solo la foto di una bella donna in una cornice dorata, una donna a cui trovo un colore simile dei miei capelli…  A che pensavi, mamma, quando hai sposato lui?

Mio padre mi ha sparato ma io sono ancora vivo e riesco a muovermi.

A che pensavi, mamma, quando mi hai lasciato da solo con quell’uomo?

«Martin!»

A che pensavi?

«Martin, sono qui… sono vicino a te. Sono Sarah. Ti prego, apri gli occhi, Martin… riesci a vedermi?»

Volto la testa e lei è sbiadita, come se fosse un disegno non definito, con solo i contorni; un vestito bianco, i lunghi capelli, le labbra che le tremano. 

«Io riesco sempre a vederti, Sar. »

Voglio alzarmi. Che cosa sono queste sbarre? Se solo l’ha toccata o ci prova… «Stai bene, Sarah? »

«Sono rinchiusa qui e tu sei stato sparato…»

«Ti ha fatto del male? Ti ha toccata?» Alzo la voce, il dolore al fianco sembra entrarmi nella voce.

«No… no… Martin, io voglio solo solo…»

«Mi alzo. »

«No, Mat…»

«Sì, invece. Mi ha sparato al fianco, non alle gambe. E sono ancora vivo, per tua sfortuna.»

Le sue labbra si muovono, segnano una linea curva che sembra la nascita di un sorriso, ed è per questo che non riesco a capire perché ha le lacrime intorno agli occhi. Le ricaccia, veloce. «Allunga la mano, ma non ti alzare. »

«Sar… »

«Chi è che non ascolta, adesso? »

Sbuffo, poi mi mordo l’interno della guancia perché il fianco fa un male fottuto. Stiro il braccio; il letto è così vicino che la mia mano passa attraverso gli spazi fra una sbarra e l’altra… Sarah mi prende la mano.

«Va meglio, ora? » mi chiede.

«No. »

Dalla sua gola viene fuori un suono acuto, simile a una risata, come un lo sapevo che avresti risposto così. 

«Mi dispiace tanto, Sar. »

«Io sarò forte, Martin.» Deglutisce. «Io sarò forte e ti prometto che qualunque cosa succederà… »

«Non ti toccherà se prima non mi uccide…»

«No. Qualunque cosa succederà io non piangerò e farò in modo che tu stia bene. Tutti staranno bene, te lo prometto, ed io sarò forte. Io so che posso esserlo, ok? Lo so. »

«Sar.» La tiro verso di me come se potesse passare davvero attraverso questo piccolo spazio. Poi le viene fuori un urlo straziato e mi lascia la mano e cade all’indietro e mi sento bruciare dove ora non può più toccarmi. Mi sento bruciare in tutto il corpo perché non posso muovermi e voglio solo rompere questa barriera e abbracciarla e capire che cosa le sta succedendo e aiutarla…

«Non so perché… di qualunque cosa siano fatte queste sbarre, mi fanno male.» Scuote la testa. «Ma lui sa perché ed è notte e chissà quando tornerà.»

«Lo odio… lo odio…»

«Andrà tutto bene… promesso.»

Sbuffo. «Sarah, che cosa dici?»

«Te l’ho promesso.»

«Non siamo all’asilo. All'asilo, quando dicevi promesso era come se quello che avevi detto fosse stato supervisionato del presidente degli Stati Uniti.»

«Io lo so, Martin. Andrà tutto bene.» Stringe tra le mani l’orlo del vestito bianco, lo stesso del mio sogno. «Io lo so.»

Sarah.

Martin si è addormentato con la mano nella mia; aveva i segni delle flebo ai polsi ed io mi chiedo... quale mostro vorrebbe il male del proprio figlio? Cerco di trovare una spiegazione a tutto quello che è successo, sta succedendo e ancora succederà, e l’unica cosa che riesco a dirmi con sicurezza è devi essere forte. Per loro. Per lui. Per tutti.

Ma mi ha chiesto troppo. Mi ha chiesto di diventare il mostro che ho sempre creduto di essere. Mi ha chiesto qualcosa che non posso dargli. Ed io devo trovare un modo per combatterlo dentro di me.

Uno spiraglio di luce mi colpisce gli occhi.

«Salve!» Joe entra nella stanza spingendo una donna, dello scotch le copre la bocca. I suoi capelli ricci, lunghi e scuri sono una massa di disordine, i suoi occhi gridano aiuto. «Bene, adesso abbiamo la famiglia al completo.» La spinge a terra, lei cade di lato con le mani dietro la schiena; devono essere legate.

«Sveglia!» grida l’uomo e, con una chiave, apre la cella di Martin. «Stai ancora male, figliolo?» Gli mette le mani intorno al collo e sembra che lo stia strangolando.  Martin lo guarda con gli occhi sgranati. 

«No!» È la mia voce. E un urlo attutito da dello scotch sorregge il mio.

Martin va a sbattere contro la cella con un rumore metallico. «Tu... tu non sei...»

«Stai ancora male, figliolo? Una bella ferita, davvero… ma ho provveduto a tutto… in fondo come facevo a spaventare la tua bella Sarah? Martin…» L’uomo lo trascina fuori ed estrae dalle tasche una corda spessa, gli lega le mani. 

«Tu non sei...»

Gli dà un calcio nella pancia.

Di nuovo l’urlo attutito dallo scotch. Non ce l'ho fatta ad urlare, sono senza fiato. Joe si avvicina alla donna; gli occhi di lei sono il riflesso della disperazione, della confusione; sono pieni d’orrore mentre lui avvicina il viso al suo. «Adesso ci facciamo una bella chiacchierata.» Le toglie lo scoth dalla bocca con un rumore secco, la donna sputa per terra, cade con il volto verso il pavimento. Joe la tira per i capelli e vorrei aiutarla, vorrei capire che cosa c’entra, perché… perché? Perché tutto questo?

E poi sento la voce di Martin. Martin che dice Doreen e allora mi viene in mente un ricordo lontano, un ricordo in cui eravamo felici.

Sarai forte, Sarah. Sarai forte.

Joe si passa una mano fra i capelli e ride, io tremo, Martin trema, Doreen cerca di mettersi dritta sul muro.

«Lasciali andare.» È la prima volta che sento la sua voce.

È bella e triste e sofferente e un po’ roca.

«Oh, no… che divertimento ci sarebbe? Sai, penso che a Martin piacerà sentire la storia.» Joe si avvicina di nuovo a lei, le sposta un ricciolo che le sfiora la tempia e le respira addosso. «Raccontamela, Doreen. Raccontamela. Mi piace tanto sentire raccontare il passato, è una così bella arma.» Torna a rimettersi in piedi e fissa i suoi occhi scuri nei miei. «Il passato ha il potere di distruggere il presente, anche se non c’è più.»

*
*
*
*

Salve, carissimi lettori! :D Vi ha sorpreso quest'aggiornamento anticipato? D'ora in poi cercherò di aggiornare una volta alla settimana, spero tanto che vi faccia piacere ^_^ 

In questo capitolo ci sono mooolte novità, ma ho la bocca cucita, perché non sarò io a spiegarvi tutto :3, ma loro, questi personaggi le cui vicende sono legate da un passato che ancora non conoscete a pieno e, per quelli che resteranno, da un futuro :)) Spero che la storia vi coinvolga almeno un pochino ** fatemelo sapere e mi renderete una schibacchina felicissima, con il sorriso stampato in volto e i piedi a qualche metro da terra, anche se ben saldati qui :)

Un bacio

Vostra Ania

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** 22. Doreen Gates. Parte I. ***


until 23

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

22.  

Doreen Gates.

Parte I. 

Una bambina correva in un sentiero ripido a discesa con il cestino per il pranzo in mano, un fiocco rosso fra i capelli bruni, il respiro affannato ma gli occhi ridenti.

«Aspettami, Mar! »

Quella bambina ero io.

«Doreen, sei così lenta a correre!»

Gli alberi facevano ombra. Mi passai una mano sulla fronte sudata e, dopo qualche passo, misi i piedi su una superficie dritta ed esalai un respiro di sollievo. «Perché è così difficile questa strada?»

«Perché porta in un posto magico! Mio padre ci passa ogni sera e si ferma a guardare, in silenzio. Hai mai letto una storia in cui lungo il sentiero non c’è niente a renderlo difficile?»

Lei si chiamava Marlene Jenkins e si voltò verso di me, i capelli biondo dorati corti fin sotto il mento, gli occhioni dello stesso colore del cielo in estate, e mi prese la mano. Mentre correva rideva, a tratti, come per ricordarmi che era felice, e lo era perché mi stava portando con sé.

Poi il boschetto cominciò ad aprirsi come a clessidra, per mostrare una grande villa bianca con siepi verdeggianti a circondarla. Era così alta… forse, dall’altra parte della città, la si riusciva a vedere. O anche dalla parte più alta della collina, bastava sforzarsi un po’.

Trattenni il respiro. 

«Marlene… » sussurrai.

«Non sembra un castello?» chiese Marlene. Era così magra. «Vieni a vedere.»

Si mise a correre verso la siepe e cominciò ad arrampicarsi, io la guardavo mentre saliva a grandi passi su quella specie di montagna verde. Non aveva paura, Marlene, e nemmeno io ne avevo. Ero quasi convinta che, se fosse caduta, si sarebbe messa a volare.

«Vieni anche tu, Dora!»

«Non so se ne sono capace…»

«Sì che lo sei! Vieni! Vieni e fa' finta di essere in una storia!»

Sfiorai le foglie con le dita e subito dopo mi convinsi. Se fossi tornata a casa a guardare Heidi non avrei capito niente perché il mio pensiero sarebbe rimasto lì, fra gli spazi che c’erano fra i rametti su cui avrei potuto arrampicarmi per guardare. Così la seguii, e più salivo, più pensavo "chissà cosa direbbe la mamma" e… «Marlene, più lenta!» e… "non sarà da cattivi bambini spiare?"

Poi mi ritrovai a sorreggermi sul cornicione bianco, il mio gomito a sfiorare quello di Marlene, i miei occhi sul giardino da sogno di quella villa simile ai castelli delle mie fiabe. Era come guardare le vene di un uomo all’interno del suo corpo, ma senza sangue. Tutti quei sentieri erano ricoperti di fiori lilla, azzurri, rossi, rosa, gialli; c’era un laghetto che sembrava prendere lo stesso colore delle nuvole in cielo e una fontana con dei bambini di pietra a far venire fuori l’acqua dalla bocca. In mezzo a quel sogno, quella bambina sembrava un fiore insolito in un verdeggiante paesaggio. Aveva un vestito bianco che svolazzava ad ogni passo, i capelli neri e lunghi le volavano al vento, e quando si fermò, i suoi occhi azzurri e belli si fermarono su di me e la mia amica.

«Abbassati!» Gridai a Marlene, schiacciandole la testa con la mano.

«Che cosa fate? » sentii una voce che sembrava un cinguettio. «Che cosa fate? »

Mi posai un dito sulle labbra per dirle di stare in silenzio.

«È un po’ scomodo lì giocare! » Di nuovo il suo cinguettio.

«Vuoi giocare con noi? » Marlene alzò la voce.

«Shhhhhhhhh! » le intimai.

«Dai, venite a giocare! » disse ancora la bambina.

Marlene era così felice di quel suo invito… non aveva per niente paura?

«È una trappola,» le sibilai.

Marlene rise. «E perché?»

«Succede in tutte le storie.»

«Magari questa è una storia diversa. » Il cancello dorato si aprì automaticamente e, per sorreggere la mia fantasia, immaginai che fosse magico.

Marlene scese velocemente, mentre io ci misi molto più tempo; una volta giù, Marlene mi superò correndo, poi si voltò e mi fece una linguaccia. Io le risposi allo stesso modo, restando un po’ indietro.

Rimasi fuori dalla villa, senza mettere un piede sul terreno ricoperto di ciottoli, ma poi mi raggiunse e mi strinse la mano, come per farmi stare tranquilla.

Vidi la bambina che correva verso di noi e, man mano che si avvicinava, sembrava più vera, anche se il suo volto era simile alle statue degli angeli del giardino, ma dipinta.

«Il nonno mi manda fuori per parlare con Joe, ma qui da sola mi annoio,» disse. «Perché vi siete messe a spiare?»

La mia amica abbassò il viso, le guance rosse per la vergogna, senza rispondere. Ma poi fece un colpetto di tosse. «Sembra di stare in una storia, qui, » riuscì a dire, velocissima.

La bambina fece qualche passo verso di noi e, con dolcezza, disse: «Mi chiamo Agnes.»

***

Avevo sognato, durante il viaggio. La mia infanzia, Marlene, e un mondo di immaginazione.

L’aereoporto era affollato. Dalle alte balconate le lucette colorate mi dicevano che il motivo di tutta questa affluenza era il Natale; trasportavo il trolley con una mano e tenevo la borsa stretta al fianco con l’altro braccio, quasi fosse più importante. Be’, lo era, in un certo senso: a ventidue anni mi ero laureata con il massimo in Letteratura Francese, e avevo portato con me il libro del mio professore in cui aveva inserito anche la mia considerazione sul…

Il telefono squillò ed io sussultai.

«Dora! Dove sei?» Dall’apparecchio che avevo in mano venne fuori una voce cristallina stonata dall’euforia. Non riuscii a trattenere una risata.

«Marlene, sono fuori dall’aereoporto e credevo che mi saresti venuta a prendere.»

«Oh, scusa! Scusa, scusa, scusa! » Una pausa. Sistemai meglio il telefono sotto l’orecchio… il suo regalo per il compleanno, per potermi rintracciare anche quando ero irrintracciabile per il resto del mondo. «Sto arrivando, davvero, sto arrivando… Joe? Joseph, svolta a destra, ma dove vai? Da lì ci passiamo dopo… Doreen, scusa.»

«Non importa.» Le rotelle del trolley scivolavano lisce sull’asfalto. «Vado alla caffetteria di fronte per prendere un caffè, ti aspetto.»

«Certo! Joseph, non è quella la curva!»

Scossi la testa e chiusi la telefonata pigiando di un grande tasto verde dei vecchi cellulare degli anni novanta. Marlene si era laureata in fretta, brillantemente, e si era trasferità lì a Boston con Joseph, che dopo la laurea in economia si stava specializzando, mentre io, in una piccola città con la mia mamma anziana, terminavo la mia tesi di laurea aspettando sue cartoline, lettere con la sua grafia tondeggiante, fotografie in cui il suo sorriso splendeva. Con questi pensieri entrai nella caffetteria. 

Presi posto su una poltrona ed estrassi il libro dalla borsa, poi guardai l’indice per trovare la pagina in cui il professor Raway aveva inserito il mio commento su Flaubert…

«Salve.»

«Un caffè nero, grazie,» dissi subito. O, ecco, ero proprio lì, a pagina cinquantasei! Io ero su un vero libro! Non un libro di storie, non ero portata per i racconti, ma c’era il mio commento… Marlene non avrebbe capito niente. «Senza zucchero, ma con la schiuma.»

«Qualcos’altro?» 

Commento a cura di Doreen Gates. Ero davvero io.

«No, basta così.»

«Scusi, cameriere? Un caffè nero con la schiuma, ma senza zucchero, per la signorina. Per me la stessa cosa.»

… Come?

Alzai lo sguardo per la prima volta da quando ero entrata in quella caffetteria e così, incapace di rendermi conto di che cosa stessi facendo di così importante da non guardarlo prima, dimenticai per un istante il perché del mio imbarazzo.

L’hai scambiato per un cameriere senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Misi giù il libro. L’hai scambiato per un cameriere e gli hai anche dato la tua ordinazione.

La vergogna mi avrebbe fatto diventare verde.

«Mi… mi scusi,» dissi, esalando un respiro, come se fossi intontita, poi abbassai di nuovo il capo, non riuscivo proprio a guardarlo. E non riuscivo nemmeno a capire perché si stesse sedendo di fronte a me.

Prese posto con la naturalezza che avrebbe avuto sul suo divano di casa e il suo sorriso mi avvolse; aveva qualcosa di ironico, provocatorio.

«Non c’è problema.» Si passò una mano fra i capelli biondi, lisci, un po’ spettinati. Aveva un volto affilato, mai suoi occhi verdi splendevano. «Le capita spesso di fare così?» Il suo sorriso si allargò, mentre posava i gomiti sul tavolino; notai che aveva la spalle ampie e si vedeva moltissimo che era molto più alto di me anche da seduto.

Pieno di sé.

«No. Ho solo chiesto un caffè alla persona sbagliata.»

«E poi ha liquidato tutto con un “basta così”.»

«... Perché un caffè mi basta. »

«È un modo originale per rifiutare un bel ragazzo.» Si mise a giocherellare con i fazzolettini al centro del tavolo; aveva le mani grandi e mi chiesi che cosa facesse nella sua vita, se parlava con ogni ragazza che incontrava nelle caffetterie. «Mi piacciono le ragazze originali.»

«A me non piacciono i narcisisti.»

«Oh, sono d’accordo. Per quanto io sia affascinante non cadrei mai in un fiume per abbracciare il mio riflesso come Narciso. Prima di arrivare a tanto bisognerebbe uscire insieme qualche volta, andare al cinema, mangiare sushi.»

Strinsi la mano a pugno e me la portai sotto il mento per trovare un modo per nascondermi la bocca, ma il suono della mi risata lui lo sentì lo stesso.

«Non mi piace il sushi.»

«Messicano? »

Mi rigirai un ricciolo fra le dita. «Italiano.»

«È andata.»

«Andata cosa? »

«Il mio appuntamento con la bella ragazza che legge…» Si sporse leggermente verso di me per leggere il titolo del libro; profumava di dopo barba, aria di città, l'aroma delizioso del caffè nero non zuccherato. «Commenti in merito a Flaubert.»

Scossi la testa.

«Ma se nemmeno mi conosce…»

«Ti piace il caffè nero.»

«Ma...»

«Senza zucchero.»

«Lo so.»

«Anche a me il caffè piace senza zucchero.» Si appoggiò alla poltrona rosa con le braccia aperte ad accogliere chissà che cosa; così a suo agio, sorridente. «Nero.»

«Dora!» Marlene entrò nella caffetteria nel fruscio di una sciarpa di lana avvolta intorno al collo e un pesante giaccone che tolse velocissima, a mostrare la sua solita corporatura, così magra da poter essere un’etoile di parigi. «Scusa, scusa tanto!» Mi si avvicinò, con gli occhi azzurro chiaro sgranati, e poi mi abbracciò forte. I suoi capelli biondi e corti mi fecero il solletico, anche se io restavo tesa. «Joseph aveva dimenticato l’orario.» Marlene si staccò da me e mi sorrise, poi, come se l’avessi avvisata io stessa, si voltò verso lo sconosciuto di fronte a me. «Tu?» esclamò, e sembrava sconvolta.

«Dora… mhm.» Il ragazzo narcisista passò il pollice sulla bocca e fissò gli occhi nei miei. «Un bel nome.»

«Doreen.» Deglutii. «È Doreen, il mio nome.»

«Doreen,» disse allora. Do… reen. Lentamente.

«Louis, come facevi a sapere che era lei?» gli chiese Marlene.

«Non ricordi di avermi fatto vedere la sua foto pregandomi di accuparmi della sua accoglienza?» chiese lui, con un’innocenza così poco credibile. Intanto io pensavo al modo in cui diceva il mio nome – lo odiavo così tanto, anche se ci avevo fatto l’abitudine.

«Buonasera!» Un ragazzo di qualche anno più grande di me entrò stringendosi nella giacca nera, i capelli e gli occhi scuri, la carnagione chiara e un sorriso che trovai buffo, cordiale. Non era mai cambiato da tutti gli anni in cui lo conoscevo. Gli sorrisi. Era bello in quel modo rassicurante che ti faceva vedere un po' te stessa. 

Ero troppo vicina a Marlene per provare anche solo un barlume di interesse per lui, anche se, attraverso lei, avevo saputo cose segrete, nascoste, belle della loro tenera intimità.

«Joe!» Marlene gli corse incontro e gli stampò un bacio sulle labbra. Tossii. 

«Dio buono, fanno sempre così.» Sospirò il ragazzo seduto di fronte a me. 

Sorrisi. «Dopo tutti questi anni?»

«Sembra che lui sia appena tornato dalla guerra in Vietnam quando invece erano insieme a malapena cinque minuti fa.»

«Se mai diventassi così qualcuno dovrebbe spararmi.»

«Dovrai chiedere a qualcun altro, visto che sarò impegnato a fare altro.»

«Dora,» mi chiamò Marlene, solennemente. «La verità è che abbiamo fatto tardi perché... per organizzare la cerimonia bisogna girare molto e...»

«Oh mio Dio.» Sorrisi.

«Spero che tu mi faccia da testimone...» disse Marlene, appoggiandosi a Joseph. «Per Joseph lo saranno Patrick e Louis... questo elemento che ti sta davanti.»

«Sono il suo migliore amico.» Louis. Aveva parlato in modo scontroso e, non sapevo per me, era come se mi avesse fatto sentire il suo disagio.

«Siete... piuttosto diversi.» Sorseggiai un po’ del mio caffè. 

Louis rise ed io lo guardai, lasciai perdere la vergogna e notai il modo in cui inarcava il collo e il sorriso sembrava trascinare ogni cosa come con una forte vibrazione. «Sì, io sono quello bello.» 

Marlene scosse la testa.

«E Joe è quello buono. Oltreché bello.» Louis le lanciò un’occhiata e Marlene gli fece una linguaccia. Sembrava proprio una bambina. «Louis, se pensi che riuscirai a rimorchiare la mia amica ti sbagli. Lei è…»

«No, dai, non dire “diversa”, si sente in troppi film.»

***

Marlene, chiusa nel suo cappotto bianco, sembrava venir fuori da una fiaba anche solo per il modo in cui camminava, come se da un momento all’altro le sarebbero spuntate le ali per raggiungere il cielo.

«Oh, Doreen, morirai solo a guardarmi!»

«Non voglio morire così giovane.»

«Giusto, non posso perdere la mia testimone.» Mi prese a braccetto e si mise a ridere in quel modo fragoroso che fece voltare chi camminava davanti a noi, sullo stesso marciapiede.

Raggiungemmo un campo innevato, una splendida valle bianca; un aereoplano e le attrezzature del paracadutismo al centro, perché Marlene era folle e viva e impaziente e con un’immaginazione troppo grande per farla restare con i piedi per terra.

In lontananza si vedevano tre uomini che ci davano le spalle. Marlene si avvicinò ad uno di loro e gli strinse la mano senza nemmeno guardarlo in volto; era sicura che fosse Joseph e infatti era lui, con gli occhi scuri pieni d’amore.

Quando Louis si voltò a guardarmi il freddo dell'inverno scomparve.

«Allora sei pronta, Marlene?» chiese l’altro ragazzo, i capelli castani e la barba folta, dal viso simpatico.

«Certo, Patrick. Sarà meraviglioso, il paesaggio.»

«Meraviglioso? Non te ne scorderai facilmente, Marlene.»

«Andiamo, dai.» Qualcuno mi sfiorò la mano, un qualcuno che non avrei potuto scambiare per nessun’altro. «Non sto pensando ad altro da tutta la mattina.»

«Intendi l'articolo che devi scrivere su quel nuovo pilota?»

«Intendo te. Te e quello che ieri sera...»

Trattenni una risata. «Non dirlo ad alta voce.»

Vidi Marlene che guardava verso di me con il sorriso, e poi la sentii dire «Vi guardo tutti dal cielo, attenti!», poi abbassò la voce. «Ma guardo soprattutto te, Joe.»

Louis fece qualche passo indietro, alzò la voce ed accennò qualcosa riguardo al caffè nero, io dissi la stessa cosa e poi mi ritrova i correre con lui accanto, i riccioli che mi finivano in faccia, sempre più lontani dagli occhi che potevano conoscere quello che nascondevamo come bambini.

«Visto che io ho il giubbotto marrone e tu la tua chioma bruna potrebbero scambiarci per scoiattoli giganti, qui in mezzo agli alberi!» Era così divertente che mi ritrovavo con le lacrime agli occhi per le risate alla fine di ogni serata; provocatorio, con tante cose da dire e tante altre ancora contro cui ribattere. Mille posti da raccontare e ancora altri mille da vedere, e il pensiero più triste che avevo era che per ogni posto potesse aver avuto una ragazza differente. Lui, che sapeva elencare a memoria le poesie di Emily Dickinson. Lui, che sapeva riparare un motore come se fosse nato con quella capacità. Lui, che amava i film di guerra, la pioggia, l'inverno, dormire fino a tardi, scrivere di notte gli articoli per il giornale, abbracciarmi nel buio, sfregare la barba contro il mio collo, Ascoltare gli Scorpions, preparare il caffè per entrambi e baciarmi a lungo sotto le lenzuola di flanella. Baciarmi a lungo. Poggiai la mano sul primo albero che incontrai sul sentiero, respirando forte, e poi sentii, familiare, desiderata, la sua carezza fra i miei capelli, il respiro di lui sul mio collo. 

Mi baciò e sapeva di neve, del mio caffè, dopo barba al pino. Gli carezzai i capelli e lui sospirò. «'Reen...»

«Come mi hai chiamato?»

Sorrise sulle mie labbra. «’Reen… ti piace?»

«No.»

«Antipatica.»

«Narcisista. Nessuno mi ha mai chiamato così.»

«Mi ricorda la sveglia rompipalle che mi sveglia ogni mattina.»

«Louis...»

«Vi somigliate.»

«Perché ti infastidisco, eh?»

«Perché non c'è motivo di dormire se ho te nel letto. Se ho te nella mia vita, se ho te che ridi con quella schizzinosa di Marlene, se ho te che leggi i tuoi libri in caffetteria...»

«Louis...»

«Io ti amo, 'Reen.»

Marlene attraversava il cielo con le ali enormi della sua attrezzatura, una macchia rossa e bionda nel cielo di quel caldo inverno; fin da bambina, avevo capito che lei non era fatta per restare a terra. La guardai con la mano di Louis nella mia, la sua bocca vicino al mio orecchio, il profumo del caffè sulle sue labbra. 

Marlene era già a terra, quando io e Louis li raggiungemmo a distanza di sicurezza.

Marlene si tolse il cappello e scosse la testa bionda. «Potete anche smetterla con questa storia.»

«Quale storia? » Louis alzò le mani come a proteggersi da un attacco improvviso.

«Questa… storia.» Marlene indicò Louis e poi me, con uno sguardo severo in viso che poi, in pochi secondi, si trasformò in apprensivo. «Sapevo che sarebbe successo. E siete davvero incapaci a nascondervi, non siete nemmeno riusciti ad approfittare della marea di impegni che ho per il matrimonio. L'ho capito da settimane. Da quanto tempo...?»

«Due settimane,» dissi, nascondendomi il viso nella sciarpa.

«Un mese.» La voce di Louis si unì alla mia.

Scoppiai a ridere, perché aveva ragione lui, ed anche Marlene rise ed anche Joseph, fino a poco tempo prima rimasto in silenzio, come se Marlene lo incantasse in uno stato irraggiungibile ogni volta volta che l’attenzione girava intorno a lei.

Louis mi prese la mano e mi baciò; cercai di allontanarlo con una spinta, mi lamentai sulle sue labbra, lui rise e mi scosse con l’incredibile vibrazione di quella risata, e poi chiusi gli occhi. Chiusi gli occhi e seppi di essere felice.

***

Il tavolino della caffetteria era sommerso da giornali e foglietti, io cercavo di ordinarli e Marlene li metteva di nuovo in disordine, io la guardavo male e lei mi rideva in faccia. Era così felice… come potevo non volerle bene?

«Allora, che ne dici di invitare Francise Holland? »

«Francise? » Sbuffai. «Ma non ti aveva rubato il ragazzo al quinto anno? »

«Se vedessi com’è diventato brutto, è giusto per farle vedere che la mia vita va alla grande.»

«Be’, se proprio vuoi. » Presi un foglio, un altro, un altro ancora e li sistemai in una pila ordinata. «È proprio l’ultima persona a cui hai pensato. »

«No. » La voce della mia amica perse allegria e il suo tono divenne distaccato, secco come il ghiaccio in cui mettono le bibite ai luna-park. «C’è… un’altra persona. Verrebbe, secondo te?»

Verrebbe? Il cuore cominciò a battermi veloce come se mi stesse dando un avvertimento, mentre una fitta di nostalgia mi invadeva il petto.

«Non lo so, Marlene, ma forse…» Distolsi lo sguardo. Vidi un uomo con un lungo cappotto nero entrare in caffetteria; mi dava le spalle, quando si tolse il cappello di lana e ne venne fuori una massa di capelli neri. «Oh… Joe!» esclamai. 

L’uomo si girò.

E non era Joseph.

Era…

Continuava a guardarsi intorno, incapace di capire chi l’avesse chiamato; non aveva ancora guardato nella mia direzione. Ne approfittai per abbassare il capo.

«Dora.»

Come può essere lui?

«Dora.» Marlene mi scosse il braccio. «Che cosa succede? »

Come può vivere? 

Non risposi, ma alzai il viso e lo vidi mentre rideva con una ragazza dai capelli lunghi e castani con i riflessi ramati, grandi occhi nocciola, grembiule da cameriera. Assottigliai gli occhi e riuscii a vedere il nome scritto sul grembiule rosa della ragazza. Cassidy.

Non aveva senso. Niente aveva senso.

E come in quel sogno nel tragitto per arrivare lì, cominciai a ricordare.

***

L’aria era fresca; il freddo si era allontanato da quel luminoso giorno di aprile. Io gridavo «Prendimi!», anche se non sapevo che un giorno l’unica cosa che avrei voluto fare sarebbe stata scappare. «Prendimi! » Agnes mi sfiorò la mano ma io corsi più veloce. «Prendimi, guardia! »

«Lasciati prendere, ladruncola! » disse Agnes con voce affannata.

«Siete troppo veloci, giocare a guardia e ladri è impossibile! »

«Forse è difficile! » disse Agnes.

«Difficile, impossibile… è uguale! »

«No, non lo è.»

Mi lasciai cadere sul prato con il respiro grosso, Marlene mi venne accanto e cominciò a farmi il solletico, un ricciolo mi finì in bocca. «Basta, basta! » Marlene continuava a pizzicarmi. «Basta, basta, Marlene! Ti regalo tutte le caramele a forma di orsetti, per favore! »

Agnes era un fiore a cui mancavano dei petali, e noi scoprimmo che il numero esatto era un due. Nonostante i colori diversi, io e Marlene diventammo parte di quel fiore. Un fiore che inciampava, cadeva, rideva, tratteneva le lacrime quando si sbucciava le ginocchia. Un fiore bianco con la linfa di sangue.

«Ho davvero tanta, tanta sete! » sospirò Marlene, lasciando perdere il suo tentativo di fare la verticale. Io riuscivo a vedere il mondo al contrario; con quell’enorme chioma riccia ero come convinta che, se avessi battuto la testa, non mi sarei mai fatta davvero male.

Agnes lanciò via la paletta rossa con cui stava scavando nella terra, il vestito bianco sporco sui bordi. Sì, era proprio vera.

«Allora andiamo dal nonno, ha anche i bicchieri di cristallo!»

«Da… davvero?» chiesi, anche se mi sentivo la gola chiusa. Non sapevo se era la testa a pesare sul collo o tutto il mio corpo a pesare sulla mia testa.

«Certo! » esclamò Agnes. «Se magari Doreen mette i piedi per terra…»

Mi misi giù e mi sentii la testa girare, feci qualche respiro profondo. Agnes mi si avvicinò, con il sorriso sulle labbra, gli occhi luminosi. «Com’è guardare il mondo al contrario?»

Sorrisi anch’io. «Bellissimo,» dissi.

«Il nonno dice che tante volte le persone vedono le cose dal lato sbagliato. Perché cercare di volare quando puoi camminare sul cielo?»

«Oh, ma lei mica ci cammina veramente!» esclamò Marlene.

«Magari quello che per te è veramente in realtà non lo è. Che cosa importa se una cosa è vera o no se puoi sognarla? Mio nonno lo dice.»

Agnes si diresse verso il viale bianco che portava all’entrata, saltellando con quel vestito un po’ sporco sui bordi, come una specie di angelo caduto a terra per sbaglio.

«Il signor Silvers deve essere un tipo strano,» osservò Marlene.

Scrollai le spalle e mi inoltrai in quel sentiero di sogni.
*
*
*
*
Ciao a tutti, miei stupendi, meravigliosi lettori.
Per quanto riguarda Doreen e Louis, mentre scrivevo e mentre rileggevo, ero in modalità "Quantosietebellimiodioviamomiodiosietebellissimibellissimibellissimistomale", ecco, vedete un po' come sto messa :'')
Ma come mai Louis non appare nella storia del presente? Avete conosciuto Marlene, la moglie di Joseph, quella che sarà poi la madre di Martin, poiché ce lo dice lui stesso nei primi capitoli. Sappiamo che è morta... ma quello che ha saputo Martin sarà la verità?
E chi sarà quell'uomo che turba tanto Doreen in caffetteria, quello che parla con Cassidy?
Tante domande... e la maggior parte delle risposte le otterrete con il prossimo capitolo :D
Fatemi sapere se la storia vi piace, mi renderete tanto felice :)
Di solito faccio dei ringraziamenti generali, ma questa volta vorrei ringraziare personalmente delle persone: Mia Swatt, che non manca mai di recensire ogni capitolo e mi fa sempre sapere la sua opinione sincera*-*, Eryca che arriva sempre con i suoi bellissimi commenti <3, Marika che mi supporta con entusiasmo :D.
Ma ringrazio anche voi, lettori silenziosi che mettete mi piace e vi emozionate con me. Spero che un giorno mi facciate sapere il vostro parere :)
Un bacio,
Ania :)
P.s
A causa della gita scolastica, non so se riuscirò ad aggiornare la prossima settimana, poiché in vista della partenza i professori hanno già deciso di tartassarci con interrogazioni e compiti vari. Farò del mio meglio per aggiornare <3


Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** 23. Doreen Gates. Parte II. ***


until 24

g


Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

23. 

Doreen Gates 

Parte II

Tappezzeria  rosso scuro, mobili in noce e nessuna luce; l’interno della casa era l’esatto opposto del suo esterno ma, anche se sentivo il solito disagio che si prova quando si è in una casa estranea, il naturale silenzio con cui Agnes correva nel corridoio mi fece intuire che quella era solo un’altra parte della bellezza.

Correva. Marlene mi pestò il piede, gridai, rise. Risi anch’io.

E poi ci ritrovammo davanti a un ambiente unico, un salotto, dalle poltrone con i fiori e il camino che scoppiettava anche se era appena arrivata la primavera.

«Nonno, loro sono mie amiche,» disse Agnes, andando verso il signor Silvers, l’uomo che era seduto sulla poltrona. L’uomo sorrise e mi sembrò giovane, anche se stringeva un bastone di legno con una mano tremante, anche se la pelle era di quel chiaro marrone legno che un tempo era rosa pallido.

«La mia Aggie.» L’uomo le accarezzò i capelli. «Sono contento che tu abbia trovato delle signorine con cui giocare.»

«Ciao, Agnes.»

Non l’avevo nemmeno visto. La voce alta e infantile proveniva da un ragazzino che doveva avere più o meno la mia età; alto, per essere un bambino, e molto magro.

«Ciao, Joshua,» Agnes rispose gentile, guardandolo appena, e poi posò un bacio sulla guancia del nonno.

Il ragazzino la guardava con quello sguardo che solo la maturità avrebbe fatto sbocciare in qualcosa di devastante, bello come solo l'amore può essere, e doloroso. Aveva la pelle così pallida che pensai che fosse malato, e i capelli neri e gli occhi azzurro ghiaccio la facevano risaltare ancora di più.

Anche lui, lontano di metri, proprio come Agnes la prima volta in cui l’avevo vista, non sembrava vero. Azzurro ghiaccio, erano i suoi occhi. E quando guardavano Agnes diventavano acqua.

Agnes ci portò fuori dal salotto, dicendo che in cucina avremmo potuto trovare anche il succo di frutta alla pesca; lei e Marlene avrebbero corso per tutto il giorno, se avessero potuto, allora io rallentai un po’.

Ascoltai.

Non si origlia, Doreen.

Ma ascoltai lo stesso.

«Dicevamo, Joe?» disse il nonno.

«Le pietre nere.»

«Le pietre nere, già… sai, una sola persona con una sola pietra ha potuto fare quello per cui le pietre sono state create.»

«Fare giustizia…»

«Sì, fare giustizia nell'animo dell'uomo. Una persona adulta può usufruire del potere di una pietra soltanto una volta. Un'anima innocente, invece, per sempre.»

«Ma come?»

«Era nel suo cuore.» Una pausa. «Nacque così... fu un dono per il mondo. Si chiamava Alisia. La natura a volte ti sceglie, e non sai se chiamarlo destino, non sai se averne paura o esserne orgoglioso. Era nel suo cuore da quando le prime luci della vita hanno toccato i suoi occhi, nell'innocenza dell'infanzia... l'innocenza è...»

«Doreen!» mi chiamò Marlene. Ed io non seppi mai che cos’era l’innocenza per quell’uomo, e continuai a vivere nella mia.

***

Con la schiena contro il muro, respiravo appena per non farmi sentire, in modo che Marlene non mi trovasse. Mi chiesi dove si fosse nascosta Agnes, di sicuro in un posto che conosceva solo lei, padrona e figlia di quella vita. Dopo qualche minuto mi allontanai, per correre verso il cancello e annunciare la mia vittoria... e allora corsi, corsi verso quella discesa e il vento mi accarezzava i capelli e il volto ed io pensavo questi sono i sogni.

Questo è vivere nei sogni. 

«Ho vinto io!» Toccai il cancello, quella parte aperta verso l'interno per lasciare entrare me e Marlene. «Ho vinto io!» ripetei. 

Sentii una presa sulla spalla. E così aprii gli occhi. Mi ritrovai davanti uno sguardo nero; iridi color catrame. Quell'uomo, con i capelli biondi come quelli di Marlene, mi strattonò e mi spinse contro il cancello ed io mi morsi le labbra per coprire con dolore il dolore. 

«Perché sei qui?» L'uomo mi strinse ancora di più. Volevo scappare, tornare a casa, non tornare mai più... ma qualcosa bloccava la mia lotta. Quell'uomo era familiare, e lo era in un modo che mi ghiacciava il sangue, perché non riuscivo a scappare da lui. Perché una parte di me stessa, che odiai e cercai di reprimere con tutta la forza che poteva avere una bambina di dieci anni, mi diceva che presto quello sguardo d'orrore sarebbe scomparso. E sarebbe tornato... «Papà!» Era la voce di Marlene, distorta. 

L'uomo mollo la prese ed io scivolai a terra. Il padre di Marlene, ecco chi era. Il signor Jenkins. 

«Che ci fai qui, carogna?» L'uomo le strizzò l'orecchio e Marlene trattenne una smorfia di dolore. 

«La bambina che vive qui è mia amica...» 

«Tua amica, eh? Ah... ah...» Il signor Jenkins cominciò a tossire, lasciò che Marlene si allontanasse da lui e si lasciò andare a una forte tosse. Era sempre stato gentile con me, con sua figlia, anche dopo aver perso il lavoro... ma da qualche mese non era più lo stesso. Era burbero, sempre arrabbiato, nervoso. Non lo vedevo da mesi ma in quel momento potei constatare che qualcosa di strano era visibile. I suoi occhi. Lo vidi schiaffeggiare Marlene e sentii il dolore con lei. I suoi occhi un tempo azzurri, ora neri. 

Portò via Marlene trascinandola per il braccio. Lei non ne volle mai parlare, il solo pensiero la faceva piangere, ed io volevo solo salvarla dalle lacrime, dalla sofferenza, dai lividi nuovi che si vedevano sulle sue braccia magre e che dimenticava all'istante ogni volta che giocavamo insieme, ed Agnes era insieme a noi.

Agnes era reale, ed era mia amica. Agnes amava le storie, e raccontarle in quel giardino pieno di fiori era ormai un’abitudine. Divenne marchiato al fuoco il suo rifiuto davanti al cioccolato, perché non le piaceva, così come il vizio di mangiarsi le unghie. Quando Marlene le disse che chi ha brutte mani non è una femmina non le parlò per due pomeriggi, ma quando le chiese scusa la abbracciò e le disse che aveva ragione. Quando le portai un dolce alla crema che mia madre aveva fatto per me, disse che per quel giorno avrei potuto essere la principessa del castello.

«La principessa Doreen.» Agnes mi posò una coroncina di plastica dorata sulla testa. « Ti piace?» Agnes e Marlene sorridevano così tanto che non potevo dire di no, eppure io ero una bambina inquieta. Non avevo mai creduto a babbo Natale e alla fatina dei denti, non c’erano principesse nel mio futuro: mia madre mi aveva insegnato bene la differenza fra quello che verrà e quello che non potrà esserci mai.

«Sì, mi piace molto.»

«Che fortuna!» Sbuffò Marlene. «Domani te lo porto io un dolce alla crema!»

«Domani potrai essere una principessa anche se non lo porti, Marlene. Sei mia amica!»

«Oh, giusto.» Marlene ridacchiò, e poi Agnes guardò in cielo; era così concentrata che finii per guardare nella sua stessa direzione, senza trovare altro che il cielo.

«Doreen?»

«Mhm mhm?»

«Lo sai che il nome “Sarah” vuol dire principessa?» Gli occhi azzurri di Agnes sembrarono diventare ancora più grande. «Penso che mia figlia la chiamerò così.» Lo disse come se fosse una cosa che sarebbe successa per forza, una bambina che crea il suo destino con l’immaginazione.

Io ero troppo ancorata a terra anche per pensarci. Non sapevo nemmeno se avrei mai avuto un bambino.

***

Quella sera io e Marlene prendemmo il sentiero di ritorno prima del tramonto; faceva un po’ paura camminare nel boschetto al buio. Sapevo che non c’erano lupi, mostri, serpenti: mia madre mi metteva in guardia solo sulle persone cattive.

Sentivo i muscoli vibrare mentre salivo la collina che portava alla parte alta della piccola cittadina. Quando arrivavo in cima, mi voltavo e guardavo sempre giù a valle, dove quella villa che sembrava un castello brillava nel suo candore. E poi mi veniva facilissimo immaginare il giorno dopo, con me, Marlene ed Agnes che correvamo fra i fiori; dolci alla crema e succhi di frutta, nascondino e guardia e ladri, e la principessa di un regno inventato.

Ma non riuscii ad immaginarlo, quella sera.

«Dora…» Marlene mi strinse il braccio fra due mani, il cestino del pranzo rotolò via ed lo seguii con lo sguardo, ancora, ancora, ancora, mentre Marlene continuava a chiedere “cos’è?” e “perché?” e “come? Come può essere successo, Dora?”

L’unica cosa che riuscii a pensare era non riesco più ad immaginarlo. Il panico mi travolse. Non c’è più niente da immaginare. Deglutii. Fino a qualche minuto prima ero lì, in quel luogo di fiabe, adesso travolto dal fuoco.

La villa bruciava.

E chi era lì dentro, moriva.

 ***

Il ragazzo che parlava con la cameriera dai lunghi capelli castani era Joshua, ed io credevo che fosse morto in quell’incendio. Joseph lo aveva conosciuto ad un corso di aggiornamento all’università. Marlene diceva che non poteva essere davvero lui... gli occhi del ragazzino che avevamo conosciuto da piccole erano chiari, mentre quelli di quel Joshua erano neri. Ma era lui, ne ero convinta. Joshua. Joe.

Marlene, con il vestito ampio e il lungo velo, rideva forte mentre Joseph la prendeva in braccio per una foto che, diversi anni dopo, avrebbe fatto sorridere tutti. Marlene era il ritratto di tutte le gioie del mondo, e forse ciò accadeva perché aveva spesso la testa fra le nuvole anche se restava con i piedi per terra. Alla prima occasione, però, anche i piedi se ne stavano in aria, e allora tutto era perfetto, mentre tutti noi la guardavamo solcare il cielo come un aquilone. 

«Adesso lancio il bouquet!» esclamò Marlene, voltandosi, e tante ragazze le si accostarono vicino fra fruscii di seta e velluto. Io non mi mossi, immersa nei miei pensieri. Quel ragazzino che avevo creduto morto e che, anche quando Joseph aveva presentato Marlene e me, sembrava non ricordare. Ma il modo in cui aveva guardato me e poi Marlene… mi strinsi nelle stola di seta, rabbrividendo. Lui ricordava tutto. E non sembrava più lo stesso.

Sentii il rumore di un sorriso.

«Tu non vai a prendere il bouquet? »

«Oh, no.» Scossi la testa, qualche ricciolo venne fuori dall’acconciatura. Sfiorai l’anello della mano sinistra. E la guardai.

Ancora non credevo che fosse venuta. Lei, Agnes, che con il tempo era rimasta l’amica con cui avevo giocato in dei pomeriggi primaverili dall’immenso prato verde e una villa da fiaba. Lei, salva per miracolo.

Si mise a guardare le ragazze che schiamazzavano ed io ebbi il tempo di osservarla. Agnes era un fiore, sì, ed era completamente sbocciato. Aveva quel tipo di bellezza che avrei desiderato avere con tutto il cuore, e mi ero rassegnata a non averla mai. Ma non la invidiavo; era semplicemente Agnes, il fantasmino, l’angioletto, quello che dopo aver guardato il suo mondo di sogni bruciare dal boschetto dove stava raccogliendo le margherite, aveva chiamato aiuto ma era troppo tardi. Troppo tardi…

«Aggie, hai freddo? » La voce di un ragazzo, un po’ roca, ma come avvolgente, fece voltare Agnes. In lontananza vidi Louis e Joseph che parlavano guardando il giardino, le loro spalle si sfioravano. Ridevano. Riuscivano a specchiari l'uno dentro l'altro con uno sguardo.

«No, sto benissimo. Nathan, hai già conosciuto Doreen? »

Strinsi la mano dell’uomo dai capelli biondo chiaro, occhi color ambra, grandi, dalle ciglia lunghissimo. Il suo sorriso solare mi accolse. «È un piacere. A quando…?»

«Qualche mese.»

«Auguri!» Nathan faceva il professore di matematica, e in lui c'era tutta la vitalità che i numeri non avrebbero mai potuto avere. Sembra animare tutto quello che incontra solo toccandolo, mi aveva scritto Agnes in un lettera.

«Grazie.» Risi. Con la laurea e poi l'organizzazione dell'azienda, Marlene e Joseph avevano rimandato il matrimonio di un paio d'anni. Io e Louis, invece, avevamo afferrato il tempo come se potesse sfuggirci da un momento all'altro. Ancora non ci credevo, anche se letteralmente si trattava di non credere nella mia stessa vita. Mi carezzai la pancia, facendo scorrere la mano sul tessuto blu, sentendo quello che nella mia mente chiamavo il nostro cuore. Il nostro bambino.

«Dora, come lo chiamerai? Mi chiedo ancora come ho fatto a dimenticarmi di chiedertelo.» Gli occhi di Agnes divennero luminosi. Come se già non lo fossero, come se non lo fossero mai stati.

«Marlene, se sarà una bambina.» Sorrisi. «Se invece sarà un machietto…»

«Marlon!» Louis mi sfiorò la spalla ed io sussultai, poi scoppiò a ridere. «Come Marlon Brando.»

«Assolutamente no.» Lo fulminai con lo sguardo. Quanto era bello con quell’abito da cerimonia? Il blu gli donava. Ma era assolutamente inammissibile che ci pensassi adesso, così tornai a guardare Agnes. «Stiamo ancora decidendo.»

Agnes sorrise con quell’aria che poteva avere anche Marlene, con i sogni nello sguardo. Dipingeva, adesso, e si stava affermando molto bene in Europa. Dopo la morte del nonno si era trasferita in Svizzera con i genitori; tornava solo ogni tanto l’estate, anche se non c’era più nessuna villa in cui giocare ma semplicemente la sua cameretta in un appartamento in centro. Mi piaceva tanto andare a trovarla, ma qualcosa era cambiato, fra noi. C'era quell'affetto doloroso, quei ricordi bellissimi sciolti poi dalle fiamme dell'incendio che aveva portato via il signor Silvers. A quindici anni, i suoi genitori si erano separati, e lei non era più tornata, anche se ci eravamo scritte per tutto quel tempo. Nelle lettere, non c'era più dolore. Nelle lettere, poteva ancora esserci il nostro mondo incantato, anche se non eravamo più bambine.

«Sì, c’è tempo.» Louis prese una sedia, con quei suoi movimenti decisi e sicuri e si sedette vicino a me. Mi prese la mano e mi sfiorò l’anello con le labbra. «Anche se Marlon è davvero uno spettacolo.»

«Non se ne parla.» Tossii. «Quindi, Agnes, sai… non immaginavo che tornassi in America per sposarti.»

«I miei ci tenevano molto,» disse Nathan, l’abito grigio sotto il sole invernale. Guardava Agnes rapito, innamorato.

«La Svizzera è bella ma… questa è la mia casa. Voi lo sapete.» La voce di Agnes aveva mantenuto lo stesso candore di quando era bambina, ma adesso aveva molta più sicurezza. «E poi… era proprio destino, Nathan è americano! Se non avessi perso la valigia nell’aereoporto di Ginevra non l’avrei mai incontrato!»

«Avevamo perso tutti e due la valigia ed io non sapevo una parola di tedesco,» disse Nathan, ridendo.

«Allora Agnes è stata la tua salvezza.» Sorrisi.

«Già, proprio così. »

***

Quando senti per la prima volta il pianto di tuo figlio il tempo si ferma, e ti chiedi con che coraggio i medici e le infermiere interferiscano nella sacralità di quel momento parlando, camminando, facendo rumore, mentre tuo figlio piange e per te non esiste più niente.

È un bambino. La voce dell’infermiera entra nella tua mente come se fosse la conseguenza di un incantesimo, quando l’incantesimo più grande è, in realtà, la vita. 

Ed il tempo è ancora fermo, anche se la lancetta dell’orologio si sposta di secondo in secondo, di minuto in minuto, e senti che qualcuno ti stringe la mano e ti volti ed è lui, l’uomo che ami, sai che è l’uomo che ami anche se non puoi vederlo perché le lacrime scendono.

«È bellissimo, ‘Reen. Non puoi immaginare.»

E sei così stanca. «Lo so che è bellissimo.»

«Perché io sono il padre? »

Ma riesci ancora a ridere. «Perché lui è il nostro cuore.»

Ti imponi di non piangere quando l’infermiera entra nella stanza con un fagottino avvolto nella coperta di lana beige che hai comprato qualche mese fa, ed alzi le braccia come se potessi allungarle all’infinito per abbracciarlo per sempre. Si lamenta e stringe i pugnetti ancora rossi, ed ha le guance piene ancora arrossate e poi il suo pugnetto finisce dove ti batte il cuore e pensi non piangere, guarda quanto è bello. Louis gli carezza il dorso della mano con l’indice, quasi avesse paura di sbagliare qualcosa, e le prime cose a cui pensi è che ha pochi capelli, e sono chiari, e quanto è bello.

È come lui.

«Avete scelto il nome?»

L’infermiera ti distrae per un attimo dalla semplice gioia di tenerlo tra le braccia. E poi i tuoi occhi incrociano quelli verdi, splendidi, di tuo marito; con un cenno ti chiede se deve e tu annuisci e sei felice. E sai che, con il tuo piccolo fra le braccia, lo sarai per sempre.

***

Cresceva così in fretta, il mio bambino. E con i giorni e i mesi, mi rendevo conto di come somigliasse a suo padre. Di me aveva preso solo la tendenza ad avere i capelli ondulati, naturalmente biondissimi come quelli di Louis nelle foto in cui anche lui era piccolo. E poi gli occhi, così verdi e gioiosi. 

E adesso giocava su un tappetino di gomma su cui erano sistemate tante costruzioni; Louis gli era vicino, lo aiutava a sistemare i lego e ci sistemava vicino dei pupazzetti di plastica.

«Il bambino si è ben ambientato, qua in hotel, eh?» fece Louis.

«Si ambienta ovunque sia io.»

«E anch’io.»

«Sì ma io sono la mamma.»

Louis scosse la testa e si mise in piedi, mio figlio alzò il visino verso di lui curioso, come in attesa, e Louis gli diede un buffetto sulla guancia. Poi si avvicinò a me.

«Sai che se non ci fossi stato io non sarebbe mai nato.»

«Dettagli.»

«Un giorno dovrai spiegarglielo. »

«Fra trent’anni magari.»

Louis sbuffò ed io provai una fitta di irritazione. C’era bisogno di parlarne proprio in quel momento? Dopo trent’anni magari sarebbe stato opportuno, certo, ma ora era solo un bambino. Lo sarebbe sempre stato.

«Io sono sicuro che sarà bravissimo a rimorchiare ragazze. Magari in caffetteria.» Louis ammiccò. «Ma anche sui mezzi pubblici, a scuola o alle feste.»

«Taci.»

Mi diede un bacio che sapeva di champagne e fragole.

***

«Oh mio Dio, è bellissimo, mio Dio, quanto è bello, mio Dio! Ciao, ciao, ciao! Ma com’è cresciuto. Somiglia a Louis ma è decisamente meglio, si vede già dalla faccia che è più intelligente. No, ma guarda come ride… ciao, ciao, ciao!»

Marlene riempiva mio figlio di carezze e sguardi teneri alternando la voce stridula riservata al piccolo con quella seria e decisa con cui faceva le sue considerazioni.  Mi guardai un po’intorno, giusto il tempo per sentirmi venire meno perché la casa splendeva sotto i miei occhi, come se fosse dorata anche nel legno, nella tovaglia color prugna del tavolo, nel divano in pelle su cui ero seduta, nelle finestre.

«Joseph viene sempre qui per gli affari.» Marlene venne a sedersi vicino a me con il piccolo in braccio. «E allora abbiamo pensato, perché non comprare una casa qui? »

«È sempre un buon motivo per stare insieme. »

«Certo. Anche se non ci siamo ancora trasferiti definitivamente, la residenza è ancora a Boston.» Marlene sorrise e il mio bambino scese dalle sue gambe; camminava da poco, la sua prima parola era stata “Reen” e per questo avevo fulminato Louis con lo sguardo per una settimana. «E poi credo che… ecco, presto noi… insomma, io e lui…»

Sbattei le palpebre. «Non mi dire!»

«Non è ancora niente di certo. » Arrossì. Non era da lei, arrossire per certe cose; sin da piccole lei era sempre stata la più curiosa, la più estroversa.

«Be’, se mai lo fosse… è una cosa semplicemente splendida. »

«Penso che verremo a vivere qui definitivamente. Per ora siamo in hotel come se fossimo in vacanza, come te e Louis praticamente... A breve nascerà anche la bambina di Agnes. »

«È vero.»

«Pensa se conoscesse il tuo…»

«Ne parliamo di nuovo fra trent’anni.» 

Marlene rise di gusto, prese in braccio mio figlio e prese una penna dalla tasca; era fatto di plastica blu, con una J e una S dorata sul dorso.  Scrisse qualcosa su un foglio. «Ma quella penna...?»

«Joseph ha voluto fare le lettere di oro vero.» Marlene sorrise. «Ne abbiamo fatte fare due, una per me e una per lui. L'ha fatta fare per l'azienda, visto che è intestata a entrambi. J per Jenkins, il mio cognome, ed S per Sullivan, il suo.»

***

Marlene teneva la mano di Joseph; lei aveva i guanti, ma lui no, e si vedeva la fede dorata. Tutto era d’oro, lo era per lei, lo era per me. 

Louis mi aiutò a sistemare il passeggino sul marciapiede e sorrise, io poggiai la mano sulla sua spalla.

«Volete salire? Ci facciamo portare la cena in camera,» chiese a Joseph e Marlene.

«Che gentilezza, stasera,» cantilenò Marlene.

«Io sono sempre impeccabile.»

«Ah-ah, certo. Comunque sì… Joe?» Marlene si voltò verso Joseph; lui armeggiava con quello che al tempo era un cellulare molto costoso.

«Vi raggiungo dopo,» disse lui, e la sua voce mi parve tesa.

«È successo qualcosa? » gli chiese Marlene. Evidentemente doveva aver avuto la mia stessa impressione.

«N-no, no, davvero. Un cliente.»

«A quest’ora? »

Joseph fece un’alzata di spalle come per dire non è colpa mia, ma la tensione non scomparve… era come se nascondesse qualcosa, ma poi mi chiesi, chi ero io per farmi certe domande?

«Faccio presto.» La voce di Joseph era calma, dolce. Forse mi ero sbagliata.

Forse. Prendemmo l’ascensore ed entrammo nella suite, mi sentivo inquieta e, per la prima volta da quando ero lì, desiderai di tornare a casa, nel nostro piccolo appartamento con la culla bianca vicino al lettone, i peluches dappertutto, i miei libri di letteratura e i giornali di Louis. Forse.

Quel piccolo forse.

Mio figlio si era già addormentato; erano passate due ore e di Joseph nessuna notizia, non rispondeva neanche al telefono. Percepivo l’ansia di Marlene ad ogni respiro, come se fosse mia, come se io fossi lei. Da bambine eravamo in simbiosi, due diverse tonalità di uno stesso colore, e anche dopo anni sentivo che era ancora così. Marlene si toccò la pancia per un secondo, poi tornò a sfregare il palmo sui pantoloni con un sbuffo. Lo aspettava davvero, quel bambino… si chiamerà Dora, se sarà una bambina. Spero che il destino non mi faccia lo stesso scherzo che ha fatto a te.

Qualcuno bussò alla porta.

In quel momento, il telefono squillò.

«Joseph!» chiamò Marlene, al telefono.

Mi inoltrai nella stanza per raggiungere il corridoio.

«Come… che significa che dobbiamo restare chiusi qui? Non… non capisco… in che senso pericolo?» continuò.

Mi fermai. Sentii un brivido, come se qualcuno mi stesse puntando un pugnale dietro la schiena, e smisi di respirare. Il corridoio era buio. Marlene non parlava più.

Avevo paura e non sapevo perché. 

Sapevo solo che dovevo averne.

Tornai subito indietro e trovai Marlene ancora seduta, con il telefono sulle gambe, gli occhi vuoti. I suoi occhi celesti, senza luce.

«Vado a cercarlo.»

«Che cosa succede?» Marlene si alzò in piedi. 

«Dice che se esco di qui sarò in pericolo quando è lui ad essere in pericolo e può morire... per me. Per me. Quel pazzo… quel pazzo…» 

Louis entrò nella stanza, le chiavi in mano, il volto confuso, i capelli biondi scompigliati. Marlene parlava, si agitava, ed in quel momento pensai a chi poteva essere quello che aveva bussato alla porta. «Quel pazzo furioso che ucciderebbe tutti solo per arrivare a me… pazzo, pazzo… Doreen, non uscire di qui e proteggi il bambino, perché prenderà lui se noi… se noi…»

«Marlene…»

«Devo andare.»

«No!»

Ma lei era più veloce, era sempre più veloce di me, e quando io raggiunsi la metà del corridoio lei aveva già aperto la porta. Il suo sguardo era addolorato, mi chiedeva perdono. Io invece le chiedevo perché.

Ma lei chiuse la porta e non ci fu nessuna risposta.

Rimasi lì, a tremare, a guardare il legno dipinto di bianco della porta dell’hotel, incapace di capire che cosa fosse successo, che cosa stesse succedendo, che cosa c’entrasse il mio bambino con tutto questo.

«Amore, ehi.» Louis mi prese il viso fra le mani; non mi ero nemmeno accorta dei suoi passi, e ne fui grata, perché il suo tocco in qualche modo riuscì a calmarmi, quasi lui potesse controllare la frequenza dei battiti del mio cuore. «Sta’ vicino al bambino. Io vado a cercare Joseph…»

Mi staccai da lui. «No, non se ne parla. Non ci sto capendo niente… sai qualcosa, Louis? Marlene sembra completamente impazzita, tutte quelle parole non avevano senso… »

«No, non hanno senso,» Respirò profondamente, le spalle larghe si alzavano e si abbassavano. «Non ha senso, Doreen, ma ascoltami… non uscire da qui per nessun motivo, spegni tutte le luci, tutte, e sta’ vicino al piccolo fino a quando io non torno.» Ascoltami. Scossi la testa. Ascoltami, Dora.

«'Reen, ti prego.» Di nuovo le sue mani su di me. La sua bocca sulla mia fronte, poi sulla guancia, umida bocca sulla mia, senza più respiro.

«Tu sai. Tu sai, Louis. Perché non me lo dici?»

«Perché è troppo tardi adesso e… Perché ti amo e sei mia moglie e amo nostro figlio e vi proteggerò fino a quando sarò in vita.»

Poggiai la testa sul suo petto, inspirai il suo profumo, quel caffè, quell’amore, la nostra vita.

«Non voglio avere paura.»

«Non ne avrai.» La sua voce, un sussurro vicino al mio orecchio. Vento caldo d’estate. «Per nostro figlio, non avremo paura.» Lo guardai negli occhi, così verdi, con il contorno grigio, con un’ombra che speravo andasse via presto ma che mi ritrovai a riconoscere. Mi prese una mano fra le sue e per un attimo quell’ombra scomparve.

«Louis.»

«Tornerò da te.»

Le nostre dita si sfiorarono un’ultima volta ed io seppi che mi diceva la verità.

***

Mio figlio si svegliò al primo sparo. I suoi occhioni verdi erano l’unica luce della stanza, e poi si fecero un po’ più piccoli mentre allargava la bocca in un pianto che chiamava me. Lo presi in braccio, il suo profumo mi avvolse in una nuvola che sapeva di borotalco e risolini, e cominciai a cullarlo. «La mamma è qui, tesoro.» Piangeva piano, mio figlio. Non si faceva mai sentire. «La mamma è qui.»

Un altro sparo.

«La mamma è qui.»

Non andartene fino a quando non torno.

«La mamma è qui.»

Mio figlio si calmò, strinse i pugnetti sulle mie spalle, alla sua manina destra si erano attorcigliati i miei capelli, come per impedirmi di lasciarlo.

Non avremo paura.

Lo strinsi e gli baciai la testolina bionda.

Per lui, non avremo paura.

E poi sentii la porta che sbatteva forte, quasi fosse stata buttata a terra, e il gelo mi prese le ossa. In quell’unico secondo di lucidità, capii che non poteva essere Louis ad essere entrato. Oltre la finestra c’era una scala d’emergenza. Corsi fuori e scoprii che potevo essere veloce, nel silenzio della calma del respiro di mio figlio.

Restai immobile, con la schiena sul muro, fuori dall’hotel, e poi sentii il cigolio della porta. Deglutii. Ancora dei passi. Lenti e decisi, uno due tre. Lenti e decisi, uno due tre. Un sospiro. E poi i passi divennero veloci, sempre più lontani, e ringraziai il mio bambino che se ne stava zitto zitto a respirare sul mio petto. Piano, scesi dalla scala d’emergenza. Avevo il telefono in tasca e anche qualche banconota nella giacca, non sapevo dove sarei andata, ma sapevo che io e Louis stavamo proteggendo il bambino, ed io dovevo farlo in quel modo. Con una mano mi alzai il cappuccio e cominciai a camminare, poi sentii una goccia d’acqua puntellarmi il naso, e la mia testa sentì di nuovo lo sparo e mi dissi non avere paura, per lui, per Louis, per il tuo bambino. Sistemai meglio la coperta del piccolo in modo che non si bagnasse, e cominciai a camminare sotto i balconi a passo veloce.

E poi alzai il viso.

Riuscivo a vedere il terrazzo; Marlene poggiava la mano sulla ringhiera, tremava, e un uomo con i capelli neri, Joshua, la teneva per i capelli, con in mano una pistola. Trattenni un urlo. Il tuo bambino, devi proteggere il tuo bambino. Indietreggiai nell’ombra, dove io potevo vedere e nessuno poteva vedere me. Joseph aveva il volto rosso, forse piangeva, forse aveva già pianto. Lui e Joshua potevano essere confusi... entrambi alti, entrambi con i capelli capelli scuri e lisci, il volto pallido e i lineamenti fini. Ma erano gli occhi ad eliminare ogni dubbio: Joshua aveva gli occhi di un nero inumano, si vedeva anche da lontano, ed era lo stesso colore che avevano gli occhi del signor Jenkins prima di morire; gli occhi di Joseph, invece, erano di un caldo marrone scuro. Louis, accanto a lui, sembrava di pietra.

Riuscii a capire poche parole.

La voce era chiara, glaciale. «Il signor Jenkins ha ucciso mio padre, ha incendiato la sua casa e ha distrutto la mia vita. Lui è già morto ormai... non ho fatto in tempo a ucciderlo io stesso e con i miei mezzi... ma lei deve pagare. E per finire tutto, ho bisogno di quel bambino.» 

«Quel bambino è mio figlio e la madre non è Marlene, ma mia moglie,» disse Louis. 

«Non ti credo.»

«Marlene è incinta,» la voce di Joseph, spezzata. «Prendi me, uccidi me. Non lei, non lei...»

«Marlene muore e prendo il bambino.»

Sentii la voce di Louis, sicura, che tremò sull’ultima lettera. «Mai.»

E vidi Joseph che si buttava addosso all’uomo che teneva Marlene per i capelli, vidi Louis che avvicinava la mano a Marlene e sentii lo sparo, di nuovo. Marlene si accasciò a terra. No… no… Un altro sparo e Louis, il mio Louis, si toccò il cuore. Era lì che l’aveva colpito ed anche lui cadde, cadde e non si rialzò. Non si rialzò ed io volevo solo urlare e piangere ma non potevo. Conoscevo il volto di quell’uomo, sapevo chi era.

Joshua.

Joe.

Sollevò la pistola e la puntò verso Joseph, inginocchiato davanti a lui.

Ma non ci fu nessuno sparo.

«Che fortuna.» Quella voce era acciaio. «I proiettili sono finiti, resterai in vita.» 

Joshua si allontanò e non potei più vederlo, allora cominciai a correre più veloce che potevo. Volevo solo andare da lui, l’uomo che amavo, l’uomo che era morto per me.

Ma dovevo salvare il mio bambino e niente mi avrebbe fermato.

***

Mi trovarono in una città vicina, in un centro per famiglie disagiate. Quando ci arrivai dissi solo che avevo visto mio marito e la mia migliore amica morire davanti a me. Presto la notizia passò ai telegiornali. I poliziotti entrarono in quella che era la mia stanza, ed io li guardai tutti. Non riconobbi nessuno… ma poi spuntò una giacca nera. Non avevo più forza di avere paura.

«Doreen.» Sospirò.

Era Joseph.

Scoppiai a piangere davanti a lui, il mio bambino che faceva scontrare le macchinine sul letto, il mio bambino che si voltò con espressione curiosa senza capire. Quante volte aveva detto “papà” in quei giorni. C’è la mamma qui con te non gli bastava. Non gli sarebbe bastato mai.

Joseph mi abbracciò forte.

***

Joshua era scappato, non si sapeva dove, e ci avrebbe cercato.

Voleva Agnes e voleva la sua bambina, voleva amare Agnes e voleva trasformare sua figlia in un’arma. Come Dio solo lo sapeva, io sapevo solo che era un folle. Aveva assillato Joseph, che aveva subito dubitato di lui. E voleva uccidere il mio bambino perché lo credeva figlio di Marlene. 

E Louis mi aveva protetta.

Louis non c’è più.

Marlene aveva paura.

Marlene non c’è più.

«Ho capito bene, allora?» L’agente di fronte a me aveva il viso scavato ma gli occhi gentili.

Annuii. «Qualunque cosa per proteggerlo.»

«Sarà dura.»

«Non ho paura.»

L’uomo fece rigirare la penna fra le mani.

«Nemmeno io,» disse Joseph, accanto a me. Joseph, che non aveva più niente. Joseph, che aveva perso sua moglie. Joseph, che cambiava cognome per noi. Marlene, che avrebbe avuto un bambino, chissà se maschio, chissà se femmina, e chissà se avremmo portato insieme i nostri figli al mare, al parco, a scuola…

Deglutii e sentii le parole di Louis. Tornerò da te. Guardai il poliziotto di fronte a me. 

Solo la morte non l’avrebbe fatto tornare, eppure io sentivo, mentre ascoltavo, che lui era lì con me.

***

La luce del mattino filtrava dalla finestra, colpendo il letto su cui avevo passato la notte senza mai chiudere gli occhi. Da quel giorno, sarebbe cominciata la mia nuova vita. Da quel giorno, non sarei più potuta essere la stessa persona.

Se tornerà indietro, Doreen, cercherà te, e cercherà tuo figlio.

Mi chiamavo Doreen Mayer adesso. La mia laurea in Francese sarebbe stato solo un pezzo di carta conservato in dei libri dalle copertine improbabili di romanzetti d’amore, in modo che mio figlio non li guardasse nemmeno.

Scalciai via la coperta e mi misi seduta; il mio bambino dormiva ancora, la culla era la stessa dell’appartamento mio e di Louis, così come lo erano tutti i suoi giochi. La casa, estranea. Non era quello il mio posto, era di Marlene, Marlene e Joseph e i loro figli, e ci avrebbero offerto del caffè nero in veranda con Louis seduto vicino a me…

Per proteggere il bambino, i servizi segreti si occuperanno dei documenti e andrà tutto bene. Tuo figlio sarà sempre al sicuro.

Mi alzai in piedi e mi misi addosso la vestaglia; Joseph, nel dolore, era stato la grande persona che Marlene aveva amato dal primo istante. Mi avrebbe pagata per tenere in ordine la casa, anche se il vero motivo per cui ero lì era stare vicino al mio bambino, che secondo i documenti era figlio di Joseph, Joseph Scott, perché ora aveva il cognome di Louis.

Aprii la porta.

«Mamma.»

Una piccola voce.

«Mamma.» 

Una piccola voce, acuta.

Voltai di poco la testa e mi morsi la lingua. Fino a quando avrei resistito? Quanto sarebbe stato difficile? Lo sentivo già adesso, con il mio bambino che si era alzato in piedi e si teneva in equilibrio con le manine sulle sbarre della culla, i riccioli dorati, le guanciotte, gli occhi verdi con le ciglia lunghe. Mi avvicinai alla culla e ricacciai indietro le lacrime, gli accarezzai il viso.

«Devi chiamarmi Doreen, Martin,» mormorai.

«Mamma.»

Mi faceva male la gola e le lacrime pungevano come se potessero uscire dai pori della pelle.

E allora mi voltai, camminai lontano, arrivai di nuovo vicino alla porta, e sentii il mio bambino piangere, il mio bambino che diceva “mamma” “mamma” “mamma”. Io. Sono io. 

«Mamma.»

No, amore mio. Sarò sempre tua madre, ma tu non puoi saperlo.

Mi morsi le labbra.

Non puoi saperlo.

Martin singhiozzò.

«’Reen,» chiamò la sua voce.

E da quel momento, ogni cosa fu abbastanza. Fu abbastanza sapere che era al sicuro ed essere sua madre, essere sua madre sempre, in ogni momeno e in ogni attimo, il primo giorno di scuola, la prima caduta, la prima bambina che ha fatto piangere, il primo brutto voto, il primo pianto di rabbia per Joseph che non c’era mai, le prime storie sulla sua mamma volata in cielo.

Ma non ho mai smesso di essere sua madre. Quando è nato Martin, io sono nata per la seconda volta. ‘Reen, Doreen, Dora. Madre.

Per tutta la vita.

E ora lui è tornato e mi sta guardando e mi ascolta, mentre dico con poche parole, secche, balbettate, quello che è vero. Che lui è il mostro, e non questa povera ragazzina che mi è davanti. E vorrei sapere come ha fatto a coinvolgerla in tutto questo.

«Doreen, la tata. Che bella trovata.» La voce di Joe ride per lui. Mi ha portato via me stessa, ma non mi porterà via mio figlio. «Ripetila.»

Joseph non è suo padre. Quest'uomo è Joshua, non Joseph come Martin aveva creduto, come i suoi indizi gli avevano fatto capire. E...

Lo guardo. 

Lui, con quell’abito nero e la pelle così bianca da essere traslucida, gli occhi neri come carbone bruciato. «Ripetilo!»

Sussulto.

«Ripetilo. Diglielo, guardalo negli occhi.»

Lo sguardo di mio figlio è vuoto, la mia gioia di vederlo in vita basta a tenere in vita me, anche se ora è lui a distogliere lo sguardo, ora è lui a soffrire, forse a non capire.

«Ho mentito.» Sento una lacrima tagliarmi la guancia. «Tutti noi abbiamo mentito... e tu sei mio figlio.»

*

*

*

*

Ho aggiornato prima del previsto, siete contenti? *-* Visto che ho avuto un attimo libero, ne ho approfittato per rileggere il capitolo e aggiornare :D Spero che vi abbia fatto piacere, anche perché questo capitolo è ricchissimo di rivelazioni. 

Ve lo aspettavate? :3

Vi linko qui il link della pagina in cui posto immagini e curiosità, mentre questo è il mio profilo facebook :)

Ringrazio chi mi legge sempre e recensisce, e le persone che continuano a mettere la storia fra seguite, ricordate e preferite, siete davvero molti! *.*

Grazie di cuore,

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** 24. Fantasmi argentei ***


until 25

d

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

24. 

Fantasmi argentei

La guardavo dalla finestra. I capelli corvini e la pelle bianca come le statue del giardino si riflettevano nel laghetto che sembrava essersi immerso nei suoi occhi, o forse era il contrario. Forse erano i suoi occhi ad aver preso il colore dell'acqua su cui galleggiavano gigli e ninfee. La vidi specchiarsi, sorridere a se stessa, infilarsi una margherita fra i capelli. Agnes. Aveva solo undici anni. Agnes.

Iniziava così, l'amore? 

La vidi tornare indietro, prendere il sentiero di sinistra che conduceva alla porta sul retro. Sentii la porta che sbatteva. Il rumore di un campanello mi destò dai miei pensieri. 

«Joe... va' ad aprire, per favore,» mi disse il signor Silvers, il vecchio, mio padre. L'uomo che mi aveva adottato. 

Uscii dalla stanza e percorsi a memoria il labirinto che era quella villa, casa mia, così immensa. Raggiunsi la porta, guardai nell'occhiolino e sussultai, ricordandomi tutto. Con addosso un cappotto nero, l'uomo che se ne stava dall'altra parte della porta era lo stesso che aveva picchiato Marlene, l'amica di Agnes, alcune settimane prima. 

E tante notti prima, l'avevo visto uccidere un uomo con la pietra nera. 

«Apri, Silvers. So che sei stato tu a buttarci fuori dal circolo, e l'hai fatto quando ne avevamo bisogno di più.» Bussò di nuovo. «Chi ti dice che non saremmo stati abbastanza nobili? I Jenkins ne fanno parte da generazioni. Così come i Powell e gli Hurman e i Tyger... pensi che l'essere vecchio ti permetta di decidere? Basta nasconderti. Dammi le tue pietre e non ti accadrà niente.» Deglutii, sentii lo stomaco sciogliersi una poltiglia che adorava di paura, e parlai. 

«Non sono il signor Silvers. Sono Joshua, suo figlio, e ora non è in casa.» 

«Non pensare di prendermi in giro, ragazzino,» sibilò. E gli occhi erano neri, di un nero che in natura non esiste, che viene dal male. 

«Joe.» Sentii una mano sulla spalla. Mio padre, anziano e fiero, con i capelli bianchi che gli scendevano lisci sulla fronte aggrottata che sembrava la corteccia di un albero millenario e un sorriso pacifico sul volto, se ne stava in piedi dietro di me con il bastone nell'altra mano. «Penso che dovresti uscire un po'. Nel boschetto ci sono delle margherite meravigliose, raccoglile e portale ad Aggie. La guardi sempre da lontano, salutandola appena... mi piacerebbe che diventaste amici.» 

Sbattei le palpebre; non potevo credere che il pensiero di Agnes avrebbe potuto permettermi di dimenticare perché avessi avuto paura fino a un momento prima. Misi la mano sulla maniglia per aprire la porta, quando mio padre mi sussurrò: «Non dimenticare niente di quello che ti ho detto, Joshua»

Annuii, ma la mia testa e il mio cuore erano già lontani, nel bosco, a cercare i fiori preferiti di Agnes. 

Non dimenticare, Joshua.

Non dimenticare.

Hans

 

Il signor Scott è irrintracciabile e, da quando siamo andati alla polizia per denunciare la scomparsa di Martin e di Sarah, non c’è stata nessuna novità. Il poliziotto ci ha guardato e ci ha mandati via con qualcosa come “faremo il possibile”. Le foto di Sarah e Martin sono ovunque, ne hanno parlato anche ai telegiornali. Cameron sta impazzendo, Julia con lui. Io penso a Sarah con Martin e...

Lui non mi è mai piaciuto; ha sempre avuto quell'alone di insoddisfazione che ti fa pensare che sia un cazzone figlio di papà. E lo è… lo so che lo è, anche se accanto a Cameron sembra sicuro di qualunque cosa. Anche se il sorriso di Sarah lo rende innocuo, lì impalato a guardare, improvvisamente cosciente di se stesso ma non del mondo. 

Chiudo il libro di statistica, non riuscirò mai a concentrarmi; non so come posso starmene qui con le mani in mano. Con Yvonne che non mi parla da quando è tornata all'istituto. Credo che sia stata la prima persona a sorridermi in tutta la mia vita, la prima ad incoraggiarmi quando ho deciso di suonare la chitarra e studiare. La prima ad ascoltare sempre la stessa canzone ripetuta all'infinito fino a quando non ho imparato. Lei è stata la prima a sentirmi cantare, la prima con cui mi sono addormentato e risvegliato. La ragazza che sognava le stelle e aveva la speranza sulla punta delle dita; c'era speranza in ogni gesto che faceva, nel suo piroettare con i capelli lunghissimi, nel suo sognare di ballare in un teatro lontano e nel suo passare i pomeriggi sui libri di storia e d'avventura. Non era sola, perché c'ero io. Anche se sua madre era malata e l'ha lasciata quando Yvonne aveva sette anni. Aveva sette anni, quando Yvonne è venuta a stare qui; sua madre era appena morta per un tumore al cervello e Yvonne aveva, nel tremore delle mani che non potevano più abbracciare sua madre, nelle mani che si aggrappavano a qualunque cosa incontrasse e negli occhi nocciola brillanti come se piangesse in eterno, la speranza.

Ora è qui, a qualche tavolo di distanza nella sala studio, e mi guarda senza un minimo di pudore. Sono io a vergognarmi, come se avessi fatto qualcosa per cui sarebbe legittimo farlo. Come se andando alla polizia le avessi fatto il più grande dei torti… quando gliel’hai detto ha tremato. 

Si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un tic che non le è mai passato, Yvonne che correva veloce per il corridoio senza farsi mai, mai prendere.

Cammino verso di lei.

Yvonne, Yvonne ora bionda, ora più magra. 

«Mi spieghi che ti è successo?» le chiedo, chinandomi su di lei.

Yvonne non fissava me; semplicemente il vuoto. Sussulta, al suono della mia voce, e la prima cosa su cui si posano i suoi occhi è il libro che tengo in mano.

Un silenzio infinito.

Occhi grandi, occhiaie in cui potrebbero cadere e restare; ho la gola e le labbra secche.

«Non mi hai chiesto niente,» sussurra.

«In che senso?»

«Sei scappato con quel tuo amico e sei andato alla polizia senza dirmi niente e poi sei solo venuto a raccontarmelo... Oh mio Dio, tutto questo per quella Sarah...» Si morde le labbra, scuote la testa. «Quella Sarah che non è altro che...»

«Un’amica! Un’amica, e ora potrebbe essere in pericolo.» Sembra che anche gli occhi le tremino, quasi la terra vibrasse e lei vibrasse e tutto quanto non potesse mai restare fermo. Ha gli occhi dello stesso colore della terra arida, e piangono lacrime che non posso vedere. Come posso sentirle?

Yvonne.

Ti conosco da quando tu eri più alta di me e pensavi che così sarebbe stato per sempre, poi ti ho superato e la cosa più coraggiosa che potessi farmi era un darmi un pugno sul braccio.

«Io so dove potrebbe essere,» sussurra.

«Cosa?»

Si alza.

«Io credo di saperlo.»

«E lo dici ora?»

Scuote la testa, sospira, Yvonne… Yvonne, torna qui. «Non puoi capire.» 

Prendo il telefono per chiamare Cameron e poi sento qualcosa premere sulla mia spalla, è la sua mano. «Per favore… niente polizia.»

Sbuffo. «Che problemi hai?»

Si morde le labbra e china il capo. «Ne ho davvero tanti, ormai. Ma ora andiamo.»

 

 

 

Sarah.

Questa stanza è vuota; si sente l’eco di tutti i nostri cuori. Agnes, la mamma, Nathan, papà… Doreen, la madre di Martin. Joe cammina per la stanza a passo lento, un sorriso tirato in volto, le mani dietro la schiena come un nobile di secoli fa.

Martin sta tremando.

«Sapevo dove fosse Martin, Doreen. Anche se hai fatto prendere a Joseph il posto di Louis, anche se gli hai dato un'altra vita.» Si ferma, all’improvviso, e poi guarda Martin. «Ho sempre saputo dov’era, e l’unico motivo per cui non ho preso lui era…» Silenzio. Un altro passo, lontano da Martin. I suoi occhi scuri e freddi nei miei. «Era Sarah. Dopo che sua madre è scappata ho fatto delle ricerche e ho scoperto che, in effetti, eri figlio suo e non di Marlene. La sua morte non era più necessaria... ma lo è diventata perché lui ha allontanato la mia Sarah da me e non doveva, Martin, non doveva perché lei è mia, perché anche Agnes era mia... e se tu vivi, Martin, lei penserà sempre a te, non sarà mai in pace, non imparerà mai a seguire i miei ordini perché ricorderà che cosa significa essere liberi...» Joe si gira di nuovo verso Doreen. «Avrei dovuto uccidere Joseph, quel giorno.... così nessun uomo caritatevole si sarebbe prestato a regalare la vita a tuo figlio! Ma non riuscivo a pensare ancora con la totale lucidità. Sentivo come degli spilli nel cervello che mi tagliavano la carne... E poi, Doreen, dovresti ringraziarmi per aver fatto questo a Sarah.» Joe continua a guardare me. Non avere paura. Salvati. Salvali. «Altrimenti saresti morta, Dora, perché non mi avresti mai permesso di farlo a tuo figlio.» Joe si avvicina a me, stringe le sbarre della cella con entrambe le mani, le sue palpebre si assottigliano.

«Non volevo uccidere tua madre.» La sua voce si fa più bassa, come se stesse sussurrando il più grande dei segreti. «Non volevo ucciderla, la volevo per me. Ma naturalmente Joseph li aveva avvisati e loro stavano lasciando la città insieme a te…» Resta in piedi, non cadere.

Resto in piedi, non cado.

Guardo negli occhi l’assassino dei miei genitori.

«Li ho raggiunti, e con tuo padre c’era una pattuglia. Ho usato la pietra nera e poi li ho sparati tutti. E tua madre si è messa in mezzo, è stata lei, capisci? Si è messa davanti a lui, con gli occhi azzurri uguali ai tuoi. Tuo padre l'aveva convinta a scappare e lei si è voltata… per abbracciarlo. Lui aveva già immerso le mani fra i suoi capelli… ma io avevo già premuto il grilletto.» Joe fa un sorriso storto, ride, l’unica lacrima che gli cade dagli occhi sembra un’anonima goccia di collirio, grigia, fredda, senza vita. «L’ho presa sul cuore. E poi ho ucciso lui… potevo lasciarlo in vita a distruggersi nel dolore, ma mi avrebbe dato fastidio, lo sapevo.»

«No…»

«Agnes e Nathan avrebbero lasciato la città comunque. Sei nata con un soffio al cuore, Sarah, e dovevi essere operata d'urgenza.» Sospira. «Me ne sono accorto quando ti ho visitata. Ed era tutto perfetto... ho tagliato lo smeraldo nero... l'ho immerso nel poco di argento di luna rimasto che non lascia passare il potere della pietra nera. Per questo le sbarre che sono fatte dello stesso materiale ti fanno male. Te l’ho messa nel cuore. Sì… proprio qui.» Si tocca il petto. « Nella tua anima innocente di bambina appena nata, perché un'anima innocente può usare la Vexania per sempre. Per questo mi servi e farai tutto quello che ti dico. E poi l'ho collegata al congegno che mi permette di attivarla e disattivarla… anche quando non sei tu a controllarla. Sei sempre stata un po’ simile a tua madre. Così buona, così bella… un piccolo angelo.» Si allontana dalla cella. «Ma con la giusta provocazione e l’attivazione… ha funzionato. Tu sei la mia arma. Userai quello che sai fare per me, ed io li ucciderò tutti, ucciderò tutti quelli che hanno dato fuoco alla casa del mio unico padre.» 

«Sei un folle,» gli sputa contro Doreen.

«Non so che cosa sono… ma continuerò ad esserlo. Dopo aver preso Sarah e averla caricata in macchina, ho indossato un giubbotto antiproiettile ed ho seguito Martin, che è andato all'ufficio di Joseph per affrontarlo, credendo che lui fosse al'artefice di tutto quello che, invece, ho fatto io. Mentre Martin era voltato e Joseph scendeva dalle scale, l'ho sparato. Hacreduto fino all'ultimo che a spararlo fosse stato Joseph, perché proprio Joseph aveva una pistola in mano, ma la stava puntando contro di me. Mi ha sparato, ma con il giubbotto antiproiettile non mi ha ferito di striscio, e allora io ho colpito Martin ed ho colpito lui»

No, no, no. Non posso lasciare che succeda. L’immagine di me stessa con quest’uomo che mi tiene stretto il viso da dietro, che mi sussurra all’orecchio di rendere debole quella o quell’altra persona è un abominio.

Posso usarlo contro di lui. Quello che posso fare… contro di lui e salverò tutti.

Mi guarda, sbatte le palpebre, tremo. E poi scoppia in una risata che potrebbe rompere tutte le cose belle che esistono al mondo, una risata secca, ghiaccio che mi sommerge. Rabbrividisco.

Prende il congegno dalla tasca e me lo mostra. «Tu dai la possibilità di tornare indietro o non tornare indietro. Di redimere o non redimere i peccati. Di svegliarti, riparare ai tuoi errori e vivere. O puoi morire, perché non guardi più te stesso come te stesso, ma come giudice. E se non meriti di vivere, per te non c’è altra possibilità.» Fa un altro passo nella stanza. «Accade tutto nel tuo inconscio. Perché è l’inconscio degli uomini ad essere il posto più pericoloso… me lo diceva sempre, mio padre.» Ride. «Ma ora basta parlare.»

«Joe! »

Si volta.

Guardo la persona a cui appartiene questa voce. Non mi sono nemmeno accorta che la porta veniva aperta, non ho sentito il cigolio, ero qui intrappolata in una bolla di dolore.

«Yvonne.» La voce di Joe è glaciale. «Credevo che non volessi vedermi più.»

Yvonne, di una bellezza che brucia il bianco intorno, fa un passo avanti, quasi zoppicante. Qualcuno la segue, è Hans. E poi Cameron e Julia.

No.

«Andatevene!» grido. Il panico mi attorciglia le viscere. Perché sono qui? Come hanno fatto a scoprirlo? Non potranno mai aiutarci. 

«Oh… adesso il lavoro è molto più facile.» Joe preme un altro tasto del telecomando e una grata metallica si abbassa a coprire la porta con il rumore di una serranda che cala. «Tu sei… Hans, vero? Ti sei fatto bello, in questi anni. Mi somigli molto.» Prende dalla sua tasca una pistola. Ho il cuore in gola che vuole squartarmi la pelle, uscire, farmi morire dissanguata.

«Se mi somiglia veramente adesso libera Sarah, Martin e questa donna.»

«Mi somigli perché anche tu, come me, sei rimasto stregato da lei.» Joe mi indica con un liscio movimento del braccio, come se stesse facendo la presentazione di uno spettacolo. «Ma l’incantesimo per te è finito presto… era solo il sogno di qualcosa che sarebbe successo, ma quando vi siete incontrati di nuovo era troppo tardi per far sì che accadesse. Mi è successa la stessa cosa, sai?» Joe ride. Ride, ride, ed io voglio morire. Hans lo guarda, teso, il viso serio. La sua mano cerca quella di Yvonne.«Avrei voluto morire. Ma per suicidarsi ci vuole una forza che non avevo.» Sbuffa. Fa un passo indietro. «Ma ti posso aiutare io.»

«Joe.» La voce di Yvonne è stridula. «Non so cosa hai in mente… non lo so ma per favore…»

«Non puoi saperlo, Yvonne.»

«Per favore…» Yvonne lascia la mano di Hans e fa un passo verso Joe. Debole, traballante, esausta, come se non mangiasse da giorni, come se non riuscisse più a dormire. Come se l’uomo che le sta davanti fosse il miracolo che potrà salvarla.

«No, no, Yvonne.»

«Non resterai solo, Joe. Non resterai solo, posso tornare da te.»

«Io non ti voglio!»

«Joe…»

«Sei una piccola puttanella, come tua madre. Proprio come lei…»

«No…»

«Mi hai stancato, Yvonne. Mi hai stancato. E ora spostati.»

Joe solleva la pistola, guardo il terrore sul viso di Yvonne, la bocca distorta dai suoi per favore, le palpebre appesantite ad ogni insulto, il volto scavato dal rifiuto. Un fiore secco che il vento sta cercando di stradicare via.

Il rumore dello sparo assomiglia a quello di un aereo che vola. Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto.

Ed Hans si accascia a terra con le mani sullo stomaco, mani bianche bianchissime, grandi ma troppo piccole per fermare il sangue che le bagna.

Urlo.

Hans. 

Lo so che non sei cattiva. Hans… il mio amico, il mio sogno spezzato, Hans che ciondolava nei corridoi della scuola, Hans con gli occhi grigi, luce scura, polvere che si solleva nell’aria e brilla con i raggi del sole che filtrano attraverso la finestra. Hans che non ho avuto il tempo di amare. Hans che si fa volere bene solo perché c’è. 

Hans…

Attivalo.

Julia urla, Cameron la attira a sé. Hans ha la stessa tetra espressione di Yvonne che si china su di lui, veloce come se avesse imparato a soccorrerlo da tutta la vita; gli sposta i capelli, gli tocca le mani, si sporcano di sangue. È frenetica,  respira affannosa come se lei stesse sanguinando al posto suo. 

Joe guarda Yvonne. 

Sarah, attivalo. 

Ci sto disperatamente provando. 

Joe solleva la pistola. Yvonne guarda la sua morte ed io sento le lacrime che scendono sul mio viso perché voglio salvarli. 

Poi Joe cade in ginocchio, la pistola gli cade di mano, il suo urlo squarcia l'aria, i timpani, i ricordi, mentre un rantolo viene fuori dalla sua gola. 

«Gli spilli... gli spilli nella testa...»

Lo vedo stringere le palpebre, ansimare, sbattere gli occhi, fermarsi. Quando apre gli occhi, sono dello stesso colore azzurrino del ghiaccio che riflette il colore del cielo. Quando parla di nuovo, la sua voce sembra provenire da un luogo lontanissimo, il profondo di una grotta buia dove il sole non picchia più, dove è notte per sempre. 

«Salvati, Yvonne.» Il ghiaccio è scomparso, c'è solo dolore crudo, dolore accartocciato su se stesso. Quello che sto guardando sembra un sogno, l'uomo qui davanti a me non è lo stesso che ha minacciato di ucciderci tutti. «Scappa, non so per quanto tempo riuscirò a trattenerlo... tornerà...» Le sue mani cercano di nuovo la pistola, a tentoni, come se fosse cieco. «Tornerà...»

Scuote forte la testa, respira pesante, tossisce, un sibilo viene fuori dalla sua gola come se fosse un treno, un treno che corre, che sta per esplodere. Poi chiude gli occhi. Il suo respiro si calma. Gli occhi si aprono. Prende di nuovo la pistola. Si alza, prende Julia per il braccio, le dà una botta alla testa, Cameron urla, mi sento morire e vorrei morire io davvero, vorrei essere al posto di Julia, la mia prima ed unica amica, la ragazza che mi ha aiutato e mi ha dato affetto e mi ha regalato un pezzo della sua vita di campionessa, normale, splendida ragazza di diciassette anni. Mi accascio a terra. Attivalo. Joe attraversa la stanza a grandi falcate e si avvicina a Martin, che ha il volto pallido, teso come se qualcuno gli stesse tirando i muscoli con delle cinghie. Joe gli avvicina la pistola alla tempia.

NO!

«No! NO, NO, NO! TI PREGO! Farò tutto quello che vuoi, farò tutto quello che vuoi…»

«Tutto quanto?» mi chiede.

«Qualunque cosa.»

Martin ha gli occhi verdi dalle striature grige, gli occhi che amo, occhi che all’improvviso si accendono. Prendono vita, come se prima si fosse trovato in uno stato di incoscienza. Joe ride per tutto il tempo, apre la mia cella con una chiave. Faccio qualche passo verso di lui, il tempo di guardarlo ancora per un secondo e capire che Martin mi sta urlando con tutto… sguardo, silenzio, fermezza di non farlo.

Non farlo, Sarah, non farlo.

Perché lui non ha capito.

Ascoltami, Sarah, non farlo.

Ancora un altro passo.

Joe sorride, fa per avvicinarsi, mi guarda negli occhi.

E lui capisce.

Ma è troppo tardi.

L'attivazione è in corso, e lo è perché l'ho voluta con tutto il dolore del mio mondo.

Perché chiamo l’onda, la chiamo tutta la mia forza. Non c’è nessun congegno a controllarla, ci sono solo io. C’è il battito del mio cuore, la consapevolezza di poter sentire me stessa e di poter sentire anche lui. 

Sono io a guardare l’onda anomala che si erge dalle acque della mia mente. Sono io a dirle di schiantare contro di lui, colpirlo, dare fine alla sua pace.

Joe si accascia a terra.

Ed io lo seguo nel buio.

***

Joshua Silvers

Dopo un grande dolore viene un senso solenne,
i nervi stan composti, come tombe.
Il Cuore irrigidito chiede se proprio lui
soffrì tanto? Fu ieri o qualche secolo fa?
 I piedi vanno attorno come automi
 per un'arida via
 di terra o d'aria o di qualsiasi cosa,
 indifferenti ormai;
 una pace di quarzo come un sasso.
 Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
 la ricorda come gli assiderati rammentano la neve;
 prima il freddo, poi lo stupore, infine
 l'inerzia.

Mi sento i muscoli intorpiditi, le ossa scricchiolano ad ogni passo, respiro come se fosse la cosa più difficile del mondo. Mi sono appena svegliato dopo diciassette anni e la mia mente è vuota. La mia mente segue il buio. La mia mente incontra pareti nere, una stanza scusa, quadrata, non c’è nessuno.

Ma c’è una voce.

Sei il giudice della tua vita.

La mia voce.

Guarda che cosa hai fatto.

Guardo.

Ricorda che cosa hai fatto.

Ricordo.

 

Joshua Silvers ha quattordici anni quando l’uomo in divisa davanti a lui gli dice che non firmerà nessun documento. È dispiaciuto, l’uomo. Ma quando gli occhi azzurro chiaro di Joshua Silvers diventano lucidi, quello non riesce a trattenere un sorriso che si schianta sul dolore atroce del ragazzo come lo scherno peggiore che possa esistere.

«È Silvers, il mio cognome.»

«Non può più esserlo.»

«Mi ha adottato, sono suo figlio! »

«Non sei suo figlio, ragazzo. Eri solo in affidamento... sarebbe dovuto passare un altro mese.»

Il ragazzo è magro, ma molto alto; è nella fase in cui il corpo dice fammi crescere, fammi diventare uomo. Io sarò un uomo. «È la mia famiglia.»

Era.

L’uomo in divisa posa la penna sul tavolo e si alza dalla poltrona. Si passa una mano fra i capelli brizzolati, ha un fisico imponente, la pancia larga per l’effetto che fa la birra quando la si beve ogni sera a cena. Il ragazzo si aspetta qualcosa, una salvezza, la giustizia. La giustizia è la cosa in cui crede di più al mondo. La sua famiglia – perché il signor Silvers sarà sempre la sua famiglia – ci ha sempre creduto, è custode di un segreto così oscuro che è rimasto tale per generazioni, fino a quando qualcuno del circolo non ha dimostrato di non essere abbastanza nobile da custodire il segreto, usando la Vexania che le loro famiglie conservavano da secoli per vendetta. La vendetta. Il pericolo più grande, perché la Vexania, con il rimorso, la rende pazzia.

Il signor Jenkins ha ucciso il suo datore di lavoro per il licenziamento.

E poi ha ucciso il vecchio per avere ancora quella maledizione.

«Torna di là, ragazzo. Riposati. Domani sarà una lunga giornata.»

«Andate a prendere il colpevole? »

L’uomo fa il giro del tavolo. «L’incendio è stato doloso.»

«Non è stato doloso! » Joshua scoppia. Non può credere che gli adulti possano davvero pensare che si sia trattato di una cosa del genere. Non era semplicemente possibile perché non era solo la casa a bruciare ma anche il giardino, la terra, anche i muri e il cancello sembravano incandescenti. Non è stata la fiamma a crescere in quella casa, è stata la crudeltà di qualcuno che non aveva più coscienza di se stesso. «Non è stato doloso! So chi è stato! So chi è stato, so…»

«Non fare accuse infondate, ragazzo!»

«So chi è stato!» Joshua respira, respira forte. Deve parlare, per lui. Deve parlare, per lei. Per Agnes. «Il signor Jenkins.» 

Per Agnes, che era troppo buona per capire di aver avvicinato la morte.

«Il signor Jenkins è la persona più innocua della terra…»

«No! L'ho visto io... è arrivato a casa ed io sono uscito e quando mi sono voltato dalla collina ho visto l'incendio...»

«Non ascolterò altre sciocchezze!»

«No! … Agenti, agenti! » Joshua spinge la porta ed esce nel corridoio; è vuoto, è notte, la gente dorme ma lui vede ancora le fiamme, non smetterà mai di vederle, anche se la speranza sembra che le abbia spente. Trova altri uomini in una sala con un tavolo rotondo e ripete: «Io so chi è stato ad appiccare l’incendio! Il signor Jenkins! Il signor Jenkins e tutti quelli che…»

Una risata copre la sua voce. È quella di un vecchio sdraiato su un divano con una birra in mano. Una risata che si espande, si fa più forte insieme a tante altre risate.

«È stato lui!» Il ragazzino ha una voce ancora da bambino. Una voce che dice voglio crescere, fammi diventare uomo. Ma non è ancora il momento. «Perché non mi credete? Voglio giustizia… siete voi i portatori della giustizia! »

Ma gli uomini continuano a ridere. Parlano, quando lo fanno, con la stesa voce atona e fredda con cui hanno detto è tutto bruciato. È rimasta solo cenere.

Il signor Silvers, cenere.

Agnes, cenere.

E le fiamme che danzano nei suoi occhi.

Le fiamme che lo rendono implacabile, a poco a poco. Giustizia… dov’è la giustizia? Joshua ha perso tutto. Joshua ha perso l’unica famiglia che pensava di avere. L’unico amore che pensava di provare. Joshua sospira. Pagherà, quell’uomo pagherà, al costo di morire. Pagherà ed io prenderò quelle pietre. Scoprirò dove sono. Non ce l’ha fatta a raccontarmelo ma io lo scoprirò, le prenderò.

E lo renderò orgoglioso di me.

 

 

Joshua ha venticinque anni. È stato un adolescente solitario, chiuso, ostile con il mondo. È diventato un uomo alto, ancora magro, ma la giacca del cappotto aderisce bene sulle spalle, sul fisico slanciato. È diventato bello, Joshua Silvers. Bello, intelligente, sveglio, ma sempre solitario, ostile, il mistero della famiglia addottiva che gli ha dato amore e cognome. Stewart.

Joshua è grato che sia una S, come Silvers. Così non l’hai dimenticato. È troppo testardo per farlo, lo è sempre stato.

E ora è cambiato tutto.

Ha trovato la pietra nera, anche se il signor Jenkins era già morto in un incidente d'auto; ha ricordato gli indizi, e adesso che ha il potere nelle sue mani farà pagare alla sua famiglia. A sua figlia. A suo nipote.

Non voglio, non voglio questo.

C’è qualcosa che ha dimenticato, qualcosa a cui non ha pensato. La testa gli fa male come se stesse affogando in un lago gelido, l’acqua ghiacciata gli entra nelle narici e lui si sente riempire di freddo, freddo, freddo…

«Joe.» Si volta. La ragazza che gli viene incontro indossa un cappotto pesante troppo corto per coprire il grembiule rosa da cameriera, ma lei è sempre lei. I capelli castani con i riflessi mogano, il viso allungato ma delicato, i grandi occhi color nocciola. Sofferenti.

Perché soffri? «Joe,» Sospira ancora.

La ragazza posa una mano sulla spalla di lui. «Dov’eri finito? È quasi un mese che non ti vedo, e sei irraggiungibile al telefono…»

Perché?

Joshua la spinge via. Non voglio farlo, non voglio farlo, ma c’è una forza troppo grande che lo costringe, che lo fa diventare sempre più piccolo. Perché quello che appare Joshua sembra calmo, a suo agio, con un sorriso che non si vede mai, sugli esseri umani. È quel genere di sorriso con cui si guarderebbe una casa bruciare.

È crudele e senza vita.

Che cosa succede? Perché? Basta, perché? Cassie… Cassie…

«Che cosa ti è successo? » chiede lei, stringendosi nel cappotto. Fa troppo freddo, per vivere.

Il corpo di Joshua – mentre lui urla nella sua mente con perché e Cassie – si muove lento, con un’eleganza che non si è mai vista prima. «Noti qualcosa di diverso? »

«Non sembri tu. »

Aiutami, Cassie. Scappa. Non avrei dovuto prendere la Vexania, non avrei dovuto prenderla con me...

«Sono io nella mia versione migliore. »

«Non hai mai parlato così prima. »

«Perché sei qui a rompere il cazzo, eh? Perché? » La voce di Joshua si alza. È sua, quella voce, ma qualcuno la usa al suo posto, una forza estranea. Il male che ha distrutto l'equilibrio con il bene che sostava nella pietra nera. Male e bene, insieme. E senza lo scrigno e la vendetta nel sangue, hanno dato questo.

Cassie sussulta, mentre il vero Joshua vuole solo abbracciarla perché non le avrebbe mai detto quelle cose. Joshua vuole solo darle un bacio sulle labbra e imparare a dimostrarle quell’amore che si è sempre tenuto dentro nella sua solitudine, mentre lei lo prendeva per mano e lo faceva entrare nel suo mondo.

Cassie è splendida, Joe lo sa. Joe l’ha visto ogni giorno alla caffetteria mentre gli versava il caffè. Joe l’ha visto la prima volta in cui lei gli ha chiesto che cosa studiasse, che cosa volesse fare da grande. Joe l’ha visto quando canticchiava una canzone del juke box facendo ondeggiare i capelli lisci. Joe l’ha visto quando gli ha lasciato il numero di telefono nel menu. L’ha visto in ogni sorriso e ballo senza musica, ogni pianto per un vecchio film, ogni risata mentre lei si rigirava nuda nel suo letto e adesso.

Adesso, che sta piangendo.

«Sono incinta.»

Adesso che sta piangendo, Joshua riesce a vedere quanto è splendida la ragazza di cui si è innamorato e vorrebbe solo prenderle la mano e stringerla fra le sue braccia, e darle tanti baci – fronte, guancia, collo, bocca – e sentirla ridere. Se mai avessi una figlia voglio chiamarla Yvonne, gli ha detto un giorno. Le persone assomigliano agli alberi e Yvonne vuol dire pianta, vita.

«Mi dispiace, angioletto.» Ricordo di tanti anni fa. «Ma non ne voglio sapere.»

«Joe…»

«Non voglio il figlio di una puttana. Non sarà nemmeno mio, avrai…»

«Che cosa ti prende? Che cosa dici?» La voce di Cassie si spezza. «È te che amo. Sei l’unico. E non so che cosa ti sta succedendo, non lo so… »

«Non serve saperlo…»

«Nostro figlio….»

«Tuo.»

«Joe.»

«Vattene, non voglio vederti mai più.»

È l’ultima volta che Joe può vedere i suoi occhi.

È l’ultima volta che può sognarli.

È l’ultima volta che se stesso può avere la forza di urlare, perché quella forza lo opprime.

E lo spegne.

 

 

C’è solo il corpo ormai. Joshua Silvers, Joshua Stewart… non importa, non importa più. Era la giustizia, quello che l’ha fatto andare avanti: cercare le pietre che il vecchio, dopo aver capito di essere in pericolo, aveva seppellito lontano. Poi la vendetta: usare quelle pietre. Adesso l’ombra di un ricordo, un’intenzione che la forza esterna ha amplificato, distruggendo, squarciando tutto…

La ragazza dai capelli biondi e corti e gli occhi azzurri. La figlia del signor Jenkins.

Boom! Boom, boom, boom. 

Cade a terra.

C’è solo follia. La follia è la forza, la forza è il male, il male è l'ordine che guida il corpo di Joshua, guida la sua mano ad alzare di nuovo la pistola verso un altro uomo. Potrebbe essere il fratello della ragazza che ha appena ucciso, ma questo ha gli occhi verdi. Parla con sicurezza, con coraggio, non ha paura di morire. Boom, boom, boom, ancora una volta.

E Joe guarda Joseph disperarsi, prendere Marlene fra le braccia, non può più parlare, non può più vivere; è con gli occhi che lo odia, è con gli occhi che lo implora di farlo andare via con lei. Ma lui non lo fa, perché i proiettili sono finiti.

In tasca ne ha ancora altri.

Ma è crudele abbastanza da lasciarlo in vita.

 

Hai permesso alla vendetta di squarciare tutto quello che avevi intorno.

Perché la vendetta si è prosciugata nel male senza equilibrio ed ha preso il suo posto con l’oscurità.

Hai ucciso una donna che credevi tua e non ti è mai appartenuta.

Hai ucciso l’uomo che amava.

Hai spento la vita di sua figlia quando aveva cinque anni, quattro mesi e sette giorni.

Hai preso tua figlia e l’hai umiliata, picchiata, abbandonata, dimenticata, mai riconosciuta.

Le somigliava troppo.

Nel male l’hai sempre saputo.

Nel male Joshua cercava sempre di emergere, anche se inutilmente.

Le somigliava troppo.

E allora truccati Yvonne, ai ragazzi piace. Lo devi fare per me. Tingiti i capelli, quel colore è una merda, niente più castano dai riflessi mogano, ragazzina quattordicenne che ti ha amato dal primo istante in cui ti ha guardato. 

E l’hai distrutta.

Sarah è spenta, Yvonne è distrutta.

Sono entrambe sole, Sarah si è rialzata.

Yvonne è in ginocchio ad aspettare te, te che arrivi, la schiaffeggi.

 

Buio. Ancora buio. Sono io, di nuovo. Sono Joshua Silvers, e non merito nemmeno uno stralcio di luce. Perché non sono stato io, ma la colpa è solo mia.

 

E allora eccoti.

Sono qui.

Giudice della tua vita.

Meriti di vivere? Meriti di vivere dopo aver ucciso Marlene Jenkins, innocente, Louis Scott, innocente, un'intera pattuglia, innocente, un’infermiera, innocente. Meriti di vivere dopo aver rovinato la vita a tua figlia? Meriti di vivere dopo aver abbandonato sua madre?

Meriti di vivere?

 

La stanza ha le pareti nere. Chissà per quale miracolo, riesco a vederle. La porta si apre, e davanti a me c’è un corridoio. Joshua Silvers, quello vero, è innocente.

Ma io merito la morte.

Cammino. Il buio non è più nero ma è bianco. Non c’è più oscurità. Ma sono cieco. Non merito di vedere.

E so che non posso chiedere perdono. Non posso chiederlo ad Agnes e a suo marito. Non posso chiederlo a sua figlia. Non posso chiederlo a Louis Scott e a Martin, a Doreen.

Non posso.

Percorro il corridoio, l’ultimo della mia vita, e raggiungo un’arcata. È di un bianco accecante, perché non merito più di vedere. Più di vivere.

«Joshua… Joe.»

Sussulto.

Mi chiedo come posso sentire così tanto il mio corpo, se sto morendo.

Mi chiedo come posso sentire la sua voce.

«Cassidy…»

Alzo il viso.

Lei è qui, ed è come l’ho vista per l’ultima volta. La volta in cui le ho detto di andarsene e non venirmi a cercare più. La notte in cui l’ho abbandonata, la notte in cui avrei solo voluto amarla. «Cassie…» È colpa mia, è tutta colpa mia.

I suoi occhi nocciola si fanno lucidi, come se fosse ancora qui, come se fosse ancora viva, e si passa una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio ed io la amo. La amo ancora.
«Lo so, Joe. Hai sbagliato tutto.
» dice come se avesse sentito i miei pensieri, come se li avesse sentiti davvero. «Il signor Silvers ti ha adottato, ti ha scelto perché aveva avuto solo figlie femmine, non voleva dare loro la responsabilità diquel segreto e stava invecchiando. Aveva bisogno di un ragazzo coraggioso. Aveva bisogno di te. Ma quando hai trovato le pietre la vendetta era ancora un barlume, era ancora rabbia... ma non ti sei protetto. Dovevi metterle in quello scrigno, Joe, solo così il male sarebbe rimasto equilibrato insieme al bene.» Sono un uomo e sto piangendo. Sto piangendo per morire, per sapere che, finalmente, ho pagato il prezzo di tutta l’atrocità che ho portato nel mondo.

«Perdonami.»

«Non è il mio perdono, quello di cui hai bisogno.»

«Non tornerò indietro.»

Ho il cuore che batte forte. Batte come quando lei era vicino a me, sul mio letto, e mi sono accorto che non potevo fare più niente per salvarla. Per salvarmi.

Cassie allunga la mani, mi tocca ma poi… non la sento. Non riesco a sentirla. «Sono io che non posso tornare, ma tu devi farlo.»

«Cassie.»

«Per Yvonne.»

Sospiro. Lascio che continui a lasciarmi carezze sul dorso della mano, anche se non posso sentirla, anche se un bianco bagliore separa la mia pelle dalla sua.

«C’è una cosa che ho insegnato a Yvonne, Joe.» La sua voce è ferma, chiara. Appartiene alla mia Cassidy Grace. «Le ho detto di non perdere mai la speranza.»

«Ma Cassidy...» La mia voce si spezza.

«Lei non ha mai abbandonato la speranza. E non so come ha fatto... non so come ha potuto aggrapparsi alla speranza quando dentro di te c'era quel mostro che ti impediva di essere te stesso, che le faceva del male... ma l'ultima cosa che le ho detto prima di morire è stata questa, di non perderla mai. Lei è una ragazza fragile, ma tutto quello che prova è forte. Non esiste l'indifferenza, la calma, la serenità... è tutto oltre i limiti, lo è il dolore, la felicità, l'amore. Yvonne ama come una tempesta. Il male ha preso tutto quello che poteva prendere, ma Sarah è riuscita a fermarlo quando ancora poteva salvarsi, quando ancora poteva salvarli. Devi tornare per lei. Devi tornare per me.» 

A tutti è dovuto il mattino, ad alcuni la notte. 

A solo pochi eletti la luce dell'aurora. 

Emily Dickinson

.

*

*

*

*

Ciao a tutti, miei lettori meravigliosi :3 Sono tornata dalla gita ed eccomi qui ad aggiornare, spero che il capitolo vi sia piaciuto e spero che tutti i dubbi siano stati chiariti. Spero che abbiate capito bene la natura del potere di Sarah e che cosa è successo a Joshua Silvers. La storia si avvia alla conclusione ed io ringrazio voi, tutti coloro che mi hanno accomoagnato e mi stanno accompagnando in questo stupendo viaggio.

Se mi fate sapere che cosa ne pensate mi fate un piacere enorme  *^*

Un bacione 

Ania :)

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** 25. Sogni bruciati ***


until 27

until

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

25. 

Sogni bruciati

Hans

 

Quando apro gli occhi è ancora notte. La mia mente è vuota... non ho niente, qui dentro. Niente, a parte un fastidio allo stomaco. 

Mi tocco la pancia e trovo una benda, premo, mi mordo la lingua perché fa ancora male. E mi chiedo perché sono qui.

Poi volto la testa.

Yvonne dorme; con le gambe lunghe tese, le mani unite sullo schienale ad appoggiarci il mento, i capelli biondi a sfiorarle il viso. È così buio, eppure riesco a vederla. Di sicuro per la macchina che le sta accanto, quella che prende il battito del mio cuore con flash verdi. Si vede la radice scura dei suoi capelli… avrà ancora i riflessi rossi? Un giorno la vedrò al sole, e me ne accorgerò. 

Alzo il braccio per passarmi una mano fra i capelli e mi chiedo da quanto tempo sono rimasto addormentato. Mi chiedo se ho avuto paura di morire, prima di perdere i sensi, perché non ricordo. Mi chiedo se qualcuno si è fatto male oltre a me. Mi chiedo se Sarah…

Yvonne ha le labbra piene, socchiuse.

"Come fai a dormire con la bocca aperta, eh, Hans?" Avevamo nove anni, quando mi addormentai sul tappeto della sala dei giochi con il libro della giungla sotto la testa riccia.

"E tu sei rimasta qui ad osservarmi?"

"Con quella faccia stramba."

"Ti sognavo, Vonnie."

"Hai sempre una faccia stramba."

"Ti sogno sempre, anche quando non dormo."

Fa male dappertutto, fa male tutto quello che non c’è più. Fanno male i ricordi che ritornano. Noi bambini. Noi cresciuti. Noi che camminiamo mano nella mano. Noi che capiamo che non possiamo farlo più perché tutti ridono. Lei che mi saluta con la mano, il trolley ai suoi piedi, un padre adottivo ad aspettarla. Lei che mi promette che tornerà a trovarmi. Lei che non torna più. Io che cerco di dimenticarla, ma la cosa migliore che riesco a fare è trasformarla in memoria. Ora lei con i capelli biondi, bellissima, stanca. Lei che ama con tutto il cuore un uomo che le ha sputato indietro solo veleno. Lei che ama quell’uomo perché da quel giorno è la sua famiglia, è una possibilità. Tutto vano. Forse una volta era quella la speranza, ma lei ci ha sempre creduto. 

E poi quella speranza ha cercato di uccidermi.

In cosa credi, Yvonne?

Continuo a guardarla.

Crederai ancora in qualcosa?

E poi apre gli occhi.

Lo fa in quel modo in cui lo fanno i bambini, con le ciglia castane che le sfiorano la pelle sotto gli occhi per quanto sono lunghe. Lo fa senza vedere, con quegli occhi d’ ambra liquida che sono il sole al tramonto, minerali brillanti di roccia.

Sbadiglia. Si mette la mano davanti alla bocca quando è tardi.

Da quanto tempo sei qui?

Il macchinario accanto a lei mostra il modo indecente in cui il battito del mio cuore aumenta.

«Hans.» La sua voce si espande nella stanza, con quella tonalità di sorpresa, di gioia, e il cuore mi scoppia perché lei sorride. Da quelli che sembrano milioni di anni, lei sorride. «Stai… come ti senti?» mi chiede.

«Gli altri?» riesco a chiedere io. Tuo padre mi ha sparato, gli voui ancora bene? Vorrei che fosse importante, vorrei imparare ad odiare di più... ma non posso odiare proprio te. «Gli altri sono qui? Sono…»

«La polizia è arrivata e i medici sono intervenuti appena in tempo.»

«E Sarah? »

«Dopo aver fatto quella cosa assurda con quella... roba che ha nel cuore è svenuta, deve ancora svegliarsi. Così come deve ancora svegliarsi mio pa… volevo dire, Joe.» Sospiro. E penso a Sarah e improvvisamente non riesco a non immaginarla come la prima volta in cui le mi sono avvicinato. Aveva i capelli lunghi tutti da un lato, così magra, così impaurita… ma l’ultima volta non era così. L’ultima volta era ancora magra e sembrava fragile ma ha fatto qualcosa per cui le sarebbe servita la forza di tutti noi. Yvonne si stringe nelle spalle, i suoi occhi sono ancora lucidi, è stanca morta quando io potevo essere soltanto morto. Ma lei mi ha seguito, perché ora mi appare in un’immagine sbiadita lei che si china su di me, lei che ha le mani sporche del mio sangue, lei che chiama il mio nome ed io riesco a sentirla. L’ultima cosa che faccio prima di perdere i sensi è sentirla. «Hai dormito per cinque giorni. L’operazione è andata bene ma devi stare ancora a letto per un po’.»

«Anche tu dovresti startene a letto per un po’, una notte per esempio. Perché sei rimasta qui?»

«Mica sono stata l’unica, è venuto anche Phil.» Parla veloce, come se l’avessi affrontata.

Sospiro, sorrido. Penso a come si sarà sentito Phil, a quanto mi avrà odiato per questo. 

«Ma Phil è il mio migliore amico.»

«Lo so.» Ha un tono più alto, scocciato, la sto infastidendo. Sembra la bambina che perdeva quando giocavamo a nascondino.

«Tu…»

«Stai dicendo delle cavolate, chiudi gli occhi e dormi.»

Sembra la bambina che mi guardava dormire e poi crollava vicino a me, la notte, sul tappeto dei giochi.

«Tu non te ne sei dimenticata.»

«Non capisco.»

Sento un dolore al cuore, qualcosa che non posso spiegare come la maggior parte delle cose della mia vita. «I giochi all’aperto, il memory, gli ovetti di cioccolata nascosti nella credenza che mangiavamo sotto il tavolo, la neve in giardino…» Si alza in piedi, si passa le mani sul viso e poi fra i capelli, quei capelli lunghissimi… «E i tuoi capelli castani.» 

Resta in silenzio. La sento respirare, avverto il dolore allo stomaco più profondo ma non mi lamento, sono troppo concentrato su di lei. Lei che torna a sedersi, con il capo basso, e non parla. Ma poi, dopo un attimo, dice: «Non sei cambiato per niente.»

Mi viene da ridere.

«Perché?»

«Dormi ancora con la bocca aperta.»

«Nemmeno tu sei cambiata.»

«Perché?»

«Perché continui a guardarmi.»

 

Sarah

Mi sono svegliata in ospedale dopo sei giorni dallo svenimento, stordita, ma abbastanza lucida da ricordare tutto nei dettagli come se non fosse davvero un ricordo. Ogni cosa accaduta e legata a quello che so fare, quando chiudo gli occhi mi pare succedere di nuovo in un mondo a parte, ancora nel presente.

Ma «È passato, Sarah. Finalmente è passato tutto.» della nonna mi ha rassicurato del contrario. Mi ha abbracciato, lei forte, io inferma, lei forte, poi finalmente forte anch’io, a stringere con un braccio lei e con un braccio il nonno, che piangeva per noi.

Ricorderò per sempre anche questo.

«La storia delle pietre nere è antica come il mondo, è nata con il mondo.» La voce di Joseph Scott in realtà Sullivan è tranquilla anche se grave. Martin l’ha sempre creduto suo padre, Martin l’ha creduto l’artefice di tutti i nostri problemi quando lui, ancora prima di noi, pensava a risolverli. A trovare la chiave. A disattivare il congegno. Mi mostra dei vecchi fogli ingialliti con parole dall'inchiostro sbavato e sbiadito, disegni antichi. Il volto di una donna dagli occhi azzurri e i capelli neri. «Lei, Alisia, è nata con quello che Joshua ha fatto a te, portando la giustizia e la grazia. Oltre a quella del suo cuore, è stata custode delle cento pietre nere rimaste. Diventata anziana, le ha spartite alle famiglie nobili del suo villaggio: gli Harvey, i Tyger, i Powell, i Jenkins e i Silvers, che avevano il compito di mantenere l'esistenza delle pietre assolutamente segreta. Nel corso dei secoli, le pietre sono state usate, e ogni famiglia controllava l'altra in modo che esse fossero usate per buoni scopi. In modo che le pietre fossero sempre conservate nello scrigno dell'argento di luna, per equilibrare bene e male. Ma come sai, a un certo punto qualcuno ha fatto un errore e quell'errore... Tutto questo, Sarah, deve restare segreto come lo è sempre stato. Ormai tu sei l'ultima, e l'ultima pietra nera è dentro di te.»

«Mi sta chiedendo di mantenere segreto quello che io ho sempre voluto nascondere, non cambia molto da quello che ho sempre fatto.» Joseph, i capelli cortissimi e neri, il naso sottile e gli occhi gentili, mi sorride paziente. Non gli ho fatto alcuna domanda; Martin non ha ancora avuto modo di parlare con lui, e non voglio fare domande che non sono mie. È una cosa che appartiene a Martin e non a me, anche se ci sono cose di noi che si appartengono le une con le altre.

«Senza, però, crederlo una condanna.»

Abbasso gli occhi. «Mi ha condannato…»

«La disgrazia che ci ha colpiti ti ha dato un dono e tutti i grandi doni condannano, sempre, chi li possiede. Il tuo è oltre l’umano, oltre il possibile. E per questo ti abbiamo sempre protetta.» Resto senza fiato, incapace di formulare una risposta in pochi secondi. Quando parlo, viene fuori qualcosa di balbettato, incomprensibile anche per me stessa.

«Come… come…»

«Joseph?» Qualcuno bussa alla porta.

«Entra pure, Patrick.»

La porta si apre e un uomo alto e robusto entra nella stanza. Ha una barba folta e bruna, occhiali che andavano di moda una ventina d’anni fa e un sorriso gentile. E lo conosco già.

«L’autista del bus,» sussurro incredula.

«Sì, proprio io. Sono contento che stai bene.» Mi porge la mano ed io gliela stringo, incapace di trattenere un sorriso gioioso. Il signor Patrick mi chiedeva sempre come andava la mia giornata, si accontentava dei miei mugugni, delle mie parole a metà. 

E mi ha vista sedermi vicino a Martin tanto tempo fa.

Mi ha vista ridere insieme a lui.

«Grazie,» riesco a dire.

«Guido quel bus da quando eri piccolina.» Lascia la mia mano. 

«Quindi lei…»

«Sono diventato autista per necessità, per aiutare Joseph e tutti gli agenti a tenere le cose sotto controllo. Prima mi occupavo di paracadutismo, ero anche l’istruttore di Marlene.»

Joseph annuisce, il sorriso non scompare dal suo viso. «Marlene,» dice il suo nome con lentezza, come se lo stesse accarezzando con le labbra. «Adorava volare.»

«Era nata per volare. E prima o poi tutti spiccano il volo,» dice Patrick.

Joseph si alza ed apre la porta, io lo seguo in corridoio insieme a Patrick.

«Ci vedremo fra una settimana per il processo,» continua Joseph. «Ci serve una copertura per i giornali. Hans e Cameron hanno denunciato la scomparsa tua e di Martin, i telegiornali hanno parlato di voi e…»

«Che genere di copertura?» domando. Mi si contorce lo stomaco al pensiero di altri giornalisti, altre domande, di flash che acceca gli occhi.

«Ci sarà il processo e tu dovrai testimoniare contro Joshua,» mi rivela Joseph. «Dovrai raccontare del rapimento, omettendo ovviamente le sue ragioni. Lui è accusato dell'omicidio dei poliziotti che si trovavano con i tuoi genitori, delle minacce a tutti gli ospedali della città per non farti alcuna risonanza elettromagnetica in modo da non farti scoprire che cosa ti aveva fatto. E verrà processato per omicidio, quello di Marlene…» Gli si rompe la voce, un foglio strappato in un pomeriggio di sole di tanto tempo fa. «… di Louis e dell’infermiera che stava per visitarti quel giorno.»

«Ora Joshua appartiene alla legge. E la legge lo giudicherà,» continua Patrick.

Joshua è già stato il giudice della sua vita.

«Si sarebbe consegnato lo stesso.»

«Tu dici, Sarah? »

«Ho sentito tutto.»

Mi torturo una ciocca di capelli fra le dita, mentre lascio scorrere i ricordi della vita di quell’uomo, una pedina del male. Ho visto tutto. Con Julia, la prima volta, ho sentito dolore. Con Hans, la seconda volta, ho visto un ragazzino che, rannicchiato in un angolo buio, sognava i giochi che non poteva avere. Con quel cane, la terza volta, l’agonia mi ha travolta insieme ad immagini indistinte, prive di colore. Con Joshia Silvers – è quello il nome del suo cuore – ho assistito alla distruzione della sua vita.

Alla distruzione della nostra.

Ma puoi restare vivo anche quando la tua vita è distrutta. E allora spetta a te scegliere: morire fra le tue rovine o andare via con i cocci fra le mani. Cocci che ti ricordano chi sei, chi eri una volta.

Per rinascere.

Per ricostruire.

Odiare Joshua Silvers, volere la sua morte e il suo male, mi si presenta come un diritto. L'odio mi ha travolta quando Joe mi ha tenuta rinchiusa. Mi ha travolta quando mi ha spiegato cosa intendeva fare. Mi ha travolta mentre svenivo per lo sforzo di far smettere, smettere per sempre, quel teatro di orrore. Ma ora che so che il vero Joshua ha fatto solo un errore, quello di dimenticare di proteggersi, sbaglio ad odiarlo? È una reazione naturale, come sarebbe quella di aggrapparmi al cornicione se qualcuno mi spingesse via per farmi precipitare... è uno dei tanti modi per non morire, per far vivere la mamma e il papà. 

Non mi fanno altre domande. Semplicemente, mi salutano e mi lasciano camminare per il corridoio da sola, verso l’uscita.

***

È un bel pomeriggio, questo; soleggiato, inebriato di profumi, con un venticello piacevole che accarezza la pelle, un’aria fresca che passa dai vetri aperti.

«Dai, forza,» la incito.

Julia, i capelli rossi disordinati sulla camicia da notte azzurrina, si morde le labbra in un’espressione pensierosa, che non può raggiungermi perché mi ha già superato.

«Cameron è già arrivato?»

«Ehm…» Mi alzo dalla sedia, mi avvicino a lei e metto le braccia conserte. «Sarà in strada, penso. Ci facciamo trovare nel cortile, che ne dici? Almeno prendi un po’ d’aria.»

Finalmente i suoi occhi marroni incontrano i miei. Sono dolci, vispi.

«Nah.»

Si stende sul letto e si rigira fra le coperte.

«Ju…»

«No.» 

Le poso una mano sulla spalla. E' magra, Julia, sento le ossa attraverso il tessuto in cotone del camice. Sarà bellissimo quando tornerà a fare le gare, e vincerà e a volte perderà, ma noi saremo sempre lì a tifare per lei.

«Dai, è un pomeriggio bellissimo.»

«Sarah…»

«Coraggio…»

«Mi fa ancora male.»

Lascio ricadere la mano sul fianco. Sospiro e resto in silenzio, aspetto che il vortice di emozioni che mi travolge mi ricongiunga in una leggera folata di vento, la stessa che adesso mi muove leggermente i capelli. Il senso di colpa. Julia ed Hans in un letto di ospedale. Julia ed Hans in pericolo a causa mia. Ed anche Martin, Cameron, la madre di Martin…

«Sarah…» Julia si volta di nuovo a guardarmi, il viso bianco e ovale, le labbra rosa e un po’ screpolate per le medicine distorte in una linea incerta. «A cosa pensi? »

«Mi dispiace… che ti fa ancora male la testa per...»

«Non fare quella faccia.»

«Quale faccia?»

«Quella triste. Quella che fai quando pensi che è tutta colpa tua.» Scuote la testa, i capelli rossi e ricci sul cuscino bianco. «Sei proprio una a cui bisogna mettere le cose sotto il naso, per fartele vedere.» Sorride e poi si mette seduta. «Tutto è nato da un unico, piccolo sbaglio che si è ingigantito e ha travolto i tuoi genitori e poi te e poi noi. Ma tu, nella paura, ci hai salvato. Ci hai salvato la prima volta, quando pensavi di ucciderci. Ci hai salvato per sempre quando Joshua mi ha colpito, quando Hans è stato sparato: il nostro corpo ci ha protetto perché tu, un giorno, ci hai dato la possibilità di scegliere se meritavamo di vivere, e quella possibilità è stata eterna. Lo hanno detto i dottori. Da bambina ti ho odiata, ma poi ho odiato ancora di più me. Sei un po' una frana con le relazioni sociali e le battute divertenti ma... Tu sei speciale, Sarah, e non solo per quello che Joe ti ha messo nel cuore. Perché hai salvato anche Martin senza fare niente di quello che hai fatto a me e ad Hans. Hai salvato Martin perché lui aveva bisogno di te e tu c’eri. Ti abbiamo aiutato e tu ci hai salvati per sempre

Mi mordo l’interno della guancia in quella strana abitudine di coprire con un po’ di dolore fisico l’emozione di quello che ho appena sentito, come ho sempre fatto quando mi sono trovata ad essere perplessa, interdetta, incapace di dire qualcosa che avesse un senso. Hai salvato tutti, Sarah. Sembra un sogno, un sogno appena costruito, venuto al mondo senza essere spezzato, contaminato, spazzato via. Ci hai salvato per sempre.

«Grazie. »

Un rumore. Nocche contro legno. Qualcuno bussa alla porta ed io, istintivamente, mi alzo dalla sedia, quasi mi aspettassi di dover essere pronta a scappare… come se volessi correre fra le braccia di qualcuno e nascondere il mio sorriso nel vestito di qualcun altro.

Immagino mia madre con un vestito bianco, non so perché. Un vestito bianco e un profumo di pesco, rose, e immagino le sue mani con la fede alla mano sinistra. La immagino con i miei occhi anche se è bella al limite del divino. Immagino che sia ancora qui con me per dirle che ce l’ho fatta, che sto bene.

«Si può?» Una voce amichevole cattura le mie orecchie. Ha un tono basso, familiare, allo stesso tempo dolce e appartiene al ragazzo che ha appena aperto la porta, anche se giusto il poco per basta per infilarci la testa. Da quella posizione può vedere solo me. Ha il suo solito cappellino con la visiera portato al contrario e un sorriso largo gli attraversa il volto. Ispira simpatia anche nel modo in cui respira. «Oppure stavate…»

«Entra, Cam, » gli dice Julia. Gli occhi le si illuminano. «Anzi, già che ci sei vai alla macchinetta nel reparto pediatrico e prendimi uno yogurt al cocco. »

«Ma…»

«VAI, Cameron.»

Cameron scrolla le spalle, la maglietta rossa che gli si alza un po’, e chiude la porta.

Rido. È una cosa spontanea, una cosa che adesso fa parte della mia vita. «Come lo sfrutti.»

Julia alza le braccia per stiracchiarsi. «Dovrà pur far qualcosa, no? »

«È stato qui giorno e notte ad aspettare che ti svegliassi. »

«Ed io aspettavo di svegliarmi per rivederlo quindi questo è il minimo che può fare.» Annuisce a se stessa, come se avesse detto qualcosa di grande valenza filosofica. Io scuoto la testa, aspetto che lei dica qualcos’altro quando in realtà prende il telecomando, accende la tv e cambia sul canale della musica.

«Non essere troppo dura con lui.»

«Sarah… » Si tocca il polso destro con l’indice dell’altra mano. «È ora! Non avevi un appuntamento?»

«Mi stai cacciando?»

«Sì, Sarah.»

«Ma io… tu…»

«Ti devo un intero pomeriggio di shopping.»

«Julia…»

«Ti voglio bene, Sar.»

«Ti voglio bene anch’io.»

***

Martin, Doreen e Joseph sono già entrati nella sala, i miei nonni mi aspettano. Il processo sta per cominciare ed io mi impongo di non pensare a niente, fino a quando non sarò lì dentro. Fino a quando tutto non sarà finito per davvero.

«Sarah?» Questa voce non appartiene a Joseph, non appartiene a Patrick, non appartiene a nessuna delle persone che mi aspetterei in questo momento. Alzo lo sguardo e vedo, a pochi metri da me, Yvonne. Yvonne, con un livido violaceo sullo zigomo, la bocca semiaperta in segno di aspettativa e gli occhi cerchiati di stanchezza. Eppure, bellissima. Bellissima.

«Sì,» le dico.

I suoi occhi si fanno lucidi.

Una lacrima scende sul volto di Yvonne, taglia in due il suo livido e quasi sembra guarirlo.

«Prima di tutto questo... lui amava tua madre,» sussurro. 

«Che cosa sono, queste?» I suoi occhi sono pieni di lacrime, pieni di rabbia. «Parole di compassione? Cameron mi ha già raccontato tutto ed io non voglio la tua pietà. Testimonierai contro di lui, non è vero?» mi chiede, alzando la voce. Non ce la faccio a mentire e faccio segno di sì con la testa, senza guardarla. «Lo immaginavo. L’hanno chiesto anche a me.» Ride, altre lacrime rigano il suo volto magro. «E si sono sorpresi quando ho detto che non l’avrei fatto! È mio padre, Sarah…» Le tremano le labbra. «Mentirò. Io so che non era davvero lui.» 

Come se non avessi più fiato, comincio a respirare affannosamente, incapace di capire. Quel livido sul suo volto, la sua magrezza, le ferite dentro di lei… tutte a causa di Joshua. Mi fa male lo stomaco, per quanto lo odio. Mi pulsano le ossa, per quanto vorrei che non avesse mai incontrato le nostre vite. 

«Se i tuoi genitori fossero ancora vivi, non li rivorresti indietro?» dice ancora, con la voce spezzata. «So che testimonierai, so che dirai quello che dovrai dire ma… per favore, per favore, di' la verità. Di’ che era pazzo, folle, che non sapeva quella che faceva… che non era in sé. Tu lo sai e forse… forse potrebbe salvarlo.»

Guardo Yvonne mentre mente.  Il livido come il segno di un bacio forte, il fondotinta non basta a coprirlo, i capelli biondi sciolti, la sicurezza nella sua voce.

Mente, Yvonne.

«Può andare, grazie,» le dice l'avvocato.

Ma nessuno le crede.

Ha già testimoniato Doreen, poi Joseph, l’ha seguito Martin ed ora…

«Pierce Sarah Agnes.»

Mi alzo in piedi, tremante, gli occhi di tutti sono su di te. Va’ lì e racconta la verità. Giura sulla Bibbia. Guarda Martin da lontano, cerca gli occhi dei tuoi nonni. Pensa ai tuoi genitori.

Fa’ la cosa giusta.

Sono al banco dei testimoni. Ho giurato sulla Bibbia, anche se non dirò tutto il vero. Ho guardato Martin da lontano, ho trovato lo sguardo rassicurante dei miei nonni. Ho pensato alla mamma e al papà, anche se non li ricordo.

Ed ora, i miei occhi incrociano quelli azzurro ghiaccio e provati di Joshua Silvers. L’avevo visto solo di spalle, prima; dopo quel giorno, questa è la prima volta che lo guardo.

I suoi occhi sono tornati quelli del ragazzino che credeva di amare mia madre. 

Sono tornati quelli dell'uomo innamorato di Cassidy Grace.

«Ricorda che cosa successe il cinque aprile sera, signorina Pierce?» mi chiede l’avvocato della difesa, scelto per formalità.

«Sì.» Faccio un respiro profondo. «Stavo aspettando che Martin Scott salisse a casa, e visto che tardava ad arrivare sono scesa. Ho attraversato la strada e sul marciapiede opposto c’era quell’uomo. Prima che potessi cercare di scappare, mi ha preso per il braccio e mi ha messo un fazzoletto imbevuto di narcotico sulla bocca…»

Stanza bianca.

Una cella.

Minacce.

Richieste di riscatto.

Poca verità

E bugie.

Poi il silenzio.

E il cuore che mi batte forte.

Lo sguardo di Joshua Silvers che mi accarezza affranto.

Ha ucciso i tuoi genitori.

«Grazie, può andare.»

Lo sguardo di Yvonne che graffia.

Ha distrutto la tua vita.

Resto ferma.

Gli occhi di Yvonne sono artigli; mi tengono stretta, stanno per ferirmi. Se i tuoi genitori fossero ancora vivi, non li rivorresti indietro? mi chiede il suo sguardo.

Sospiro.

Non è la vendetta, a pagare per le perdite.

Ma la giustizia, che a volte non arriva.

«Joshua Silvers non era in lui,» dico al microfono. «Ho capito subito che era folle, che una persona sana di mente non avrebbe mai agito in quel modo. Parlava, diceva cose senza senso… deve essere pazzo.» Un altro respiro. «Ne sono convinta.»

Tutta la sala sprofonda nel silenzio; passano due, quattro, dieci secondi, poi l’avvocato mi dice: «Può tornare a sedersi».

Perdoni quell’uomo che ti ha portato via tutto? 

Sono stata io a riportarlo indietro. Ora ha i suoi veri occhi, ora batte il suo vero cuore... il nero l'ha portato via per diciassette anni, ma quello che ha portato via non potrà più tornare indietro.

Cammino verso Martin.

Mi fa male lo stomaco, mi pulsano le ossa. Ma non provo più odio, perché non ha senso.

Ho pietà di Joshua Silvers e so cosa c’era nella sua mente, so cosa animava la sua vendetta, so chi era, so cosa ha fatto anche se voleva fermarsi, e l’unica persona che è riuscito a non uccidere – perché l’amore è più forte, l’amore è la colonna eterna che non fa cadere mai il cielo – è stata sua figlia. Joshua Silvers è riuscito a fermare il male, quel giorno dopo anni, davanti a noi, per non farla morire. 

Perché non per la mamma, perché non l'hai fatto per papà, Joshua? Perché non per Louis, perché non per Marlene? mi chiedo ancora. E dopo questi anni, dopo aver saputo che la colpa di tutto questo è di qualcosa al di sopra di tutti noi, della pietra nera, del male che ha vinto grazie alla dimenticanza di un ragazzo che aveva solo quattordici anni, dovrei continuare a vivere nel dolore? Ancora odio? Ancora, ancora e ancora?

L'odio non uccide chi si odia ma chi prova quel sentimento, perché porta dolore. 

Ed io ho vissuto nel dolore per troppo tempo.

Per questo, guardando al mio futuro; per questo, guardando al mio passato, io voglio perdonare quel ragazzo di quattordici anni dagli occhi azzurro ghiaccio.

Mi siedo accanto a Martin, che sa già tutto. Intreccia le sue dita alle mie e sto bene. Sto bene così, per ore, mentre aspettiamo il verdetto e Doreen viene accanto a noi ed io me ne sto così, con la testa poggiata sulla spalla di Martin, la mia mano nella sua, e lei mi accarezza il viso come se fossi figlia sua. «Non c’era bisogno che dicessi anche quello, piccola,» mi dice. Scuoto la testa. Dovevo, sentivo che dovevo e volevo farlo anche se non so se è giusto, non so cosa sia la giustizia per davvero.

Per questo, guardando al mio futuro; per questo, guardando al mio passato, io voglio perdonare Joshua Silvers.

Questa è la mia giustizia.

Ma quando rientra il giudice, le sue parole raggiungono le mie orecchie e, per un momento, restano troppo lontane dalla mia comprensione.

Trattengo il respiro. Nella sala risuona la parola, quella parola.

«Condannato.»

E respiro.

Quello che sui documenti è conosciuto come Joshua Stewart, con l’anima di Joshua Silvers, si alza dal suo posto. Tutti si alzano in piedi e presto lo vedo uscire dalla porta seguito dai poliziotti, tranquillo come se stesse per tornare finalmente a casa.

Martin viene richiamato da Doreen e lascio che vada, poi vedo Yvonne e mi si stringe il cuore come se stessi invecchiando tutto in una volta.

Mi alzo, corro. 

«Yvonne,» la chiamo. Fissa i suoi occhi nocciola nei miei, arrossati ma asciutti; non ha più lacrime. «Io ho parlato.»

«Ho sentito,» dice piano.

«Mi dispiace,» dico sinceramente, e avvicino la mano per toccarla in segno di conforto, ma lei si scosta.

«È stata fatta giustizia, lo so che questa è la giustizia. Chi ha fatto del male, paga. Anche se non era lui, non era lui, lui non l’avrebbe mai fatto...» Le si spezza la voce. «E smettila di guardarmi così...» Cerco di dire qualcosa, mentre la rabbia e la tristezza e la delusione si dipingono sul suo viso nello stesso istante, distorcendo la luce del suo volto, anche se la sua espressione resta immobile. È la sua voce, a cambiare. Se i tuoi genitori fossero ancora vivi, non li rivorresti indietro? Suo padre è in vita, ma ora che è salvo dal mostro che era in lui, lei non può averlo. «Dispiace più a me.» 

La sua voce è in frantumi, mille pezzi d’anima.

***

Martin.

Seduto in corridoio, aspetto Sarah, aspetto me. Non riesco a stare fermo. Muovo le gambe, mi passo una mano fra i capelli, guardo l’orologio, passo il cellulare da una mano all’altra. Sto tremando e non riesco a pensare.

«Ciao, Martin.» Si siede accanto a me, quest’uomo. «È finita davvero, stavolta.» Quest’uomo che, per diciassette anni, è stato mio padre. «E non abbiamo ancora parlato, dopo tutto il da fare che c’è stato…»

«Già.» Tossisco. La mia mente, prima vuota, ora si riempie dei momenti più assurdi. Lui e Doreen. Lui, composto e rigido, con il sorriso trattenuto sul volto e Doreen, invece, che gioiva guardandomi crescere.

Come ho fatto a non accorgermene?

« Sai… che non sono tuo padre.» Sospira. «Non lo sono mai stato. »

Lo guardo. Sembra così vecchio: è scomparso l’uomo d’affari sempre impegnato, quello che non aveva nemmeno il tempo di ascoltare una parola, di guardarmi. L’uomo che si è preso cura di mia madre, che si è preso cura di me. Il padre che mi stava lontano per cercare Joshua Silvers, per impedire che mi facesse del male, per impedire che ne facesse a Sarah.

«Non avevi tempo di farmi da padre.»

«No, io ho scelto di non esserlo. » Se ne sta con le spalle incurvate, le braccia fra le gambe, come se avesse ricevuto un pugno. Siamo tutti uguali, quando raccontiamo i segreti. Mia madre,  la mamma, la mamma – mentre raccontava tutto, era nella stessa posizione. «Tu sei il figlio di Louis e Doreen. Louis è morto. Eravamo come fratelli ed io… io non ce la facevo, a prendere il suo posto. Non ce la facevo ad essere lui. Anche se, senza Marlene, un posto nella mia vita non ce l’avevo più. Ed ho aiutato te e tua madre, per Marlene, per Louis, per Doreen e poi per te.» Mi guarda, e mi sento scavare dentro, perché anche se non si è mai comportato da padre, per me lo era. Era il motivo per cui non mi impegnavo a scuola, il motivo per cui non pensavo a niente, il motivo per cui fingevo che andasse tutto bene. Era mio padre, ecco quello che sapevo, ed io volevo averlo. «L’ho fatto per te.  La sera, quando tornavo, trovavo un bambino addormentato sul tappeto con Doreen in cucina e mi dicevo, non devi essere tu, tu non sei suo padre, ma poi ti prendevo in braccio e ti portavo a letto; trovavo un ragazzino che russava sul divano, e somigliavi sempre di più a Louis, Louis, il mio migliore amico, e ti coprivo con una coperta. Ti ho sempre voluto bene, Martin. È stato così difficile allontanarmi, controllarmi, non essere Louis quando potevo anche esserlo. Sono rimasto nell’ombra, come se fossi morto anch’io. Io e Doreen ti proteggevamo con una vita costruita, ma la tua vita vera ce l’avevi davanti agli occhi. Eravate tu e tua madre.» Si passa una mano sulla fronte. «Tu e tua madre, io non c’entravo niente. Io non sono nulla. Doreen non è Marlene. Tu sei il figlio di Louis, mio figlio non ha avuto nemmeno il tempo di nascere, di cominciare a vivere. Attaccato alla mia vecchia vita, ho permesso che tu mi odiassi.» Sospira forte, volta la testa. Ti ho odiato. Mi mordo la lingua. Si odiano sempre, le cose che non si riescono a capire davvero. «Non dovevo.»

Silenzio.

Pesa così tanto.

Pesa così tanto lo sguardo di quest’uomo, è mio padre, è così che mi ha voluto bene, anche se un padre non lo è stato mai, ed io non ce la faccio a guardarlo, perché so tutto e non so come fare. Come faccio a fargli capire che non posso che provare gratitudine, adesso? Che se lui non ci fosse stato, chissà quando sarei morto… chissà cosa sarebbe successo a Sarah, chissà come avrebbe fatto la mamma…

«Joseph,» riesco a dire. «Non importa che cosa hai sbagliato, perché… hai fatto delle cose giuste. Ed anche se il mio vero padre è morto, tu sarai sempre un padre per me.»

Pesa così tanto, il dolore. Ma nell’abbraccio forte in cui Joseph mi stringe – come un padre, come se fossi davvero suo figlio – sembra dissiparsi, la nebbia attraverso cui hai imparato a vedere davvero.

*

*

*

*

Ciao a tutti, Untiliani :D (Vi chiamo così, se non vi piace ditemelo xD)

Questo capitolo è importantissimo, e di sicuro capite perché. Spero che vi sia piaciuto e che sia risultato chiaro il percorso psicologico di Sarah per quanto riguarda il suo atteggiamento verso Joshua. Ci sono stati altri chiarimenti sulla pietra nera; ho preferito distribuirli in modo da non riempirvi di informazioni tutte in una volta, spero che vada bene :) Abbiamo visto Sarah e Yvonne interagire nuovamente e, casa che mi sta molto a cuore, il dialogo fra Martin e Joseph Scott in realtà Sullivan. Da un po' sto pubblicando dei capitoli che mi hanno fatta piagnucolare un po', spero davvero di avere la vostra comprensione *^* Che ne pensate di Joseph? :3 E... Hans ed Yvonne? :3

Manca poco alla fine... spero davvero che la storia vi stia piacendo. Ringrazio ancora chi preferisce, ricorda e segue la storia, aumentate sempre di più *-*

I ringraziamenti mirati li avrete alla fine di tutto, per ora sappiate che vi adoro tutti :) 

Un bacio

Vostra Ania :3

p.s se cliccate qui, potrete vedere un piccolo video che ho realizzato per la storia, fatemi sapere se vi piace *-*

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** 26. Ritorni ***


until 28

g

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

26. 

Ritorni

La porta si apre silenziosa, il cigolio esiste solo nella mia mente; è il rumore del legno che si contorce, una superficie che sta per spezzarsi e che mi farà cadere nel vuoto. Forse sto già cadendo ed è colpa mia. Chi crede in Dio pensa che lui sia sempre con noi, fuori di noi, dentro di noi. Chi crede in Dio pensa che lui guidi le nostre azioni verso il bene, il vero, la giustizia, contro il male. Ed il male è esattamente come Dio e, questa volta, ha preso il suo posto. Ha ucciso i miei genitori, ha ucciso il padre di Martin, ha ucciso la moglie di Joseph. Ha spogliato Yvonne dell’infanzia, ha spazzato via la gioia di Hans, ha fatto vivere Martin in una vita che non esisteva. Mi ha dato come speranza la solitudine.

«Sarah, perché tremi? »

«Non lo so, Martin, non lo so.»

Mi abbraccia. Io mi aggrappo alle sue spalle con gli occhi chiusi a sfregarsi contro la sua maglietta e non voglio piangere. Ho freddo e sto tremando e vorrei che ci fosse giustizia vera. Vorrei che i miei genitori non fossero mai morti. Vorrei che Julia non mi avesse mai odiata, vorrei che Martin avesse sempre vissuto la vita che doveva avere, vorrei che Yvonne fosse cresciuta con felicità, vorrei che Hans non fosse mai stato lasciato solo, vorrei che i miei genitori non fossero mai morti. E vorrei che Joe non avesse perso la sua famiglia, vorrei che nessuno prima di lui si fosse avvicinato alle tenebre… vorrei, vorrei, vorrei, ma non posso avere niente di tutto questo. Ci sono io, che non sono più sola. Yvonne, con un padre in prigione. Hans, che è rimasto ferito e Julia, che si è messa a rischio.

«Io non so niente sulla giustizia.»

«Lo sai, invece.» Non farmi cadere, non farmi cadere. Il legno cigola, il legno si piega, non resisterà. Mi stringo a lui. Litiga con la mia testa fissa sul suo petto, io come una bambina capricciosa che non vuole guardare in alto per paura di un rimprovero. Ma mio padre è morto, non posso essere piccola. Ho diciassette anni e non sono mai stata una bambina.

Martin mi respira, una sua mano sotto il mento, l’altra fra i miei capelli ad accarezzarmi la nuca. Tremo, tremo e lui mi sfiora le labbra con le sue.

La sua presa è delicata eppure so, sento, che anche se la superfice sotto di me cedesse, la forza di gravità non sarebbe abbastanza forte per farmi allontanare dalle sue braccia. «Sar, hai soffocato l'odio per quell'uomo che io continuo ad odiare, cercando di aiutare Yvonne anche se era ovvio che sarebbe stato inutile ed anche se nessuno ti obbligava a farlo. Hai visto il mostro dentro di lui... spero, un giorno, di riuscire a fare quello che hai fatto tu.»

Poggio le mani sulle sue spalle, fronte contro fronte, respiro contro respiro, i suoi capelli biondi che mi sfiorano le guance. C’è fiducia, nei suoi occhi, e speranza, e un calore immenso si propaga dentro di me perché so che non mente. 

«Joshua ha deciso di tornare. Yvonne ti ha chiesto di parlare, tu l’hai fatto. Non è bastato, ma l’hai fatto. E Joshua ha pagato... di tutti quelli rimasti, la colpa più grande era sua, anche se partita da qualcosa di più grande di tutti noi. Quello che sai fare, Sarah, quello che c’è nel tuo cuore...» La mano che mi tiene il mento scende sul collo, poi ancora più giù. «Non lascerò che ti metta in pericolo. Mio pad... volevo dire Jospeh, sì, mi ha detto che i manoscritti del circolo del nonno di tua madre sono stati bruciati, tutto quello che farò e faranno, d’ora in poi, sarà per metterti al sicuro. Io farò qualunque cosa per tenerti al sicuro, Sar.»

Al sicuro. Tremo nel mio sorriso. Al sicuro.

«… Anche se non dubito,» aggiunge. «Che in caso di pericolo, sarai tu a salvare me.»


Hans

È un po’ strano, essere di nuovo qui. Come se la pallottola mi avesse iniettato la vita e non la morte. Come se, quando ho aperto gli occhi, avessi deciso di non perdermi più niente. Sarah è venuta a vedere come stavo, ed io mi sono sentito improvvisamente congelato: c'era freddo ovunque dove prima, invece, c'era un sogno. La polvere dei sogni spezzati non se ne va mai davvero, ma poi ci sono dei sogni che devono ancora nascere, che devono ancora crescere, che potranno vivere.

Sfioro le corde della chitarra con delicatezza, poi più forte, di nuovo più piano; mi gusto la sensazione di sentire la consistenza liscia e rigida di questi fili che fanno musica.


Eppure qualcosa manca. Qualcosa manca e non è possibile, non è possibile perché sto suonando la mia chitarra ed è quando lo faccio che i pezzi si incastrano e tutto va bene, anche solo per un minuto, anche solo per un istante, il tempo di una canzone. Non riesco a stare fermo, muovere solo le mani non mi basta, devo… devo uscire, fare una passeggiata, prendere aria.

Apro la porta, la chiudo alle mie spalle e mi inoltro nel corridoio. Le finestre sono chiuse perché è notte, e l’aria fredda gela le anime, e qui ce ne sono tante che hanno bisogno solo di una coperta sulle spalle, qualcuno con cui parlare, chiudere gli occhi a sapere che domani qualcuno ti augurerà una buona giornata, anche se buona non lo sarà per niente. Perché siamo tutti sogni infranti, bambini non voluti, figli che non dovevano arrivare, fonte di delusione per ogni passo e respiro.

Mi cade di nuovo tutto addosso, come se fosse la prima notte che passo in questo istituto. Posso ancora essere il bambino di quattro anni che ha cambiato casa troppe volte. Un mare di schegge di paura cade sul mio corpo pallido come allora, anche se sto diventando uomo.

Qualcosa manca. Sospiro. Qualcosa.

Un gemito.

Volto la testa.

Qualcuno.

Sembra un miagolio, all’inizio. Un gatto che ha troppa fame e non resiste più e guarda verso l’alto, dove le finestre sono aperte e qualcuno lo sta guardando. 

Il suono mi porta a fermarmi davanti alla porta del bagno delle ragazze. Sento una morsa imprigionarmi lo stomaco.

Mi manca qualcosa.

Apro la porta.

Qualcuno.

E allora sento il mare delle schegge del dolore che mi tranciano la pelle. Una carezza di vetro, il riflesso di una lama affilata che sembra un sorriso e poi, senza lasciarmi il tempo di esalare un ultimo respiro, affonda nella carne. E rimane in gola, quest’ultimo respiro. Mi resta il rimpianto, sopravissuto a tutto e a tutti e alla morte e alla vita per tutto questo tempo, di quest’ultimo, maledetto respiro. Perché lei è qui. 

Lei è qui e se ne sta rannicchiata in un angolo e piange, piange ed è come il miagolio di un gatto ed io non posso guardarla, non posso guardarla così…

«Yvonne.»

So come sono andate le cose.

Alza gli occhi. Lucidi, rossi di sangue, grandi e dolorosi. Mi tengo in equilibrio sui talloni e la prendo per la spalle, la scuoto, guardami, lei con gli occhi lucidi, grandi, rossi, «Guardami, Yvonne.»

La finestra è aperta, il marmo del pavimento è freddo contro la pelle e lei guarda in alto, nel buio, illuminata solo dalla fioca luce dei lampioni che riesce a raggiungerla dall'esterno. E guarda in alto, batte i denti come se fosse in strada senza giacca in inverno, e piange con quel suono che mi fa sciogliere le viscere. Miagola, Yvonne, e guarda in alto; qualcuno mi guarderà, dicono i suoi occhi. Ma tutti sanno che cosa fanno le persone quando vedono un gatto che miagola fuori dalla finestra: gli buttano del cibo se sono generosi e poi tornano dentro. «Guardami, Yvonne, guardami. Guardami, Yvonne… Vonnie…»

Guardami.

Sospira. Sembra che stia facendo uscire tutta l’aria che ha nei polmoni. 

E poi ho i suoi occhi. 

I suoi occhi nocciola, ora arrossati, umidi di lacrime. Sono miei, e mi guardano. E non ti chiederò che cos’hai, non ti chiederò quello che ti strazia, non ti salverò, Vonnie, perché non so come si salvano le persone. Ma sono qui e non me ne andrò mai. Fino a quando ci sarai tu io sarò qui ed io ti guarderò. Non chiuderò la finestra, non ti lascerò fuori. Le accarezzo il viso con il palmo delle dita. Ti stringerò forte fino a quando non mi chiederai di smettere perché non riesci più a respirare, ed io sarò felice, perché in quel momento saprò che vuoi vivere. 

La abbraccio.

È uno scontro docile. Due corpi che si incontrano, si sfiorano, e poi restano vicini. Sono troppo rumorosi, questi respiri. È troppo rumoroso il suo affanno, anche se non piange più, e il mio respiro, il mio respiro sulla sua pelle che profuma di margherite, fumo, zucchero a velo.

Margherite, fumo, zucchero a velo. La sua testa contro il mio petto, lei rannicchiata tra le mie braccia, gli scossoni di un pianto senza lacrime che la fanno respirare affannata. Me la porto via in braccio, perché stanotte sono solo io quello cresciuto; Yvonne è ancora una bambina, è ancora piccola, ed è leggera e bellissima. Ha di nuovo i capelli castani dai riflessi color rame, come sua madre Cassidy Grace.

Sento ancora l’eco dei miei passi nel corridoio,  quando apro la porta della sua stanza e, piano, la adagio sul letto già in disordine. Stringe le gambe e, voltandosi, si abbraccia le ginocchia. 

Le accarezzo i capelli, la copro con la coperta, le sfioro la fronte con il naso.

«Hans.» Il mio nome viene fuori dalle sua labbra immobili. Forse sto sognando, forse mi sono addormentato accanto a lei e quando si sveglierà si arrabbierà, mi caccerà.

Ma poi apre gli occhi con quello che all’inizio sembra uno sbadiglio, un suono involontario per una fitta di dolore, la sua lingua che finisce sul palato e poi scivola contro i denti.

«Hans.»

È la prima cosa che mi dice e va bene così.

Continua a tremare e torno ad abbracciarla, corpo contro corpo, anche se c’è la coperta a separarci.

Un singhiozzo mi spinge leggermente via.

«Ora te ne vai?» mi chiede.

Le sfioro il collo con le labbra.

«Vuoi che me ne vada?»

«Rispondi e basta, idiota.»

Non rido, non rido perché non sta bene e sono davvero stupido a farle una domanda del genere. Allora mi sfugge un gemito stanco, una scusa intrappolata in gola, il desiderio di dire sempre la cosa giusta.

«Non me ne vado.»

Mi metto seduto e poi scivolo sul pavimento. Mi chino a togliermi le scarpe, le mani mi tremano e i lacci sembrano essere attorcigliati in dei nodi da marinaio, come se, legandoli, avessi voluto salvarmi da un’onda anomala. O forse dal canto di una sirena, una sirena che mi ucciderà. Ma sono abbastanza forte per liberarmene, mandare al diavolo quelle scarpe, fare un respiro profondo e guardare davanti a me. Yvonne ha sollevato la coperta e si è rannicchiata nell’angolo, i capelli lisci sparsi sul cuscino.

«È buio, mi vedi?» chiede.

Mi stendo accanto a lei, mi copro con la coperta e mi volto; mi si avvicina e posa la testa sul mio petto, è un gesto meccanico ma non c’è niente di arido in questo. È come quando il cuore batte e non puoi fermarlo, non puoi fermarlo se vuoi restare in vita.

La avvolgo con le mie braccia.

Ti vedo anche al buio, Vonnie. 

Anche al buio.

Martin

La campanella dell’ultima ora trilla; è il momento in cui tutti alzano gli occhi dai fogli, dal banco, smettono di guardare il professore che spiega e, con un respiro, si alzano dalla sedia per correre a casa.

A casa.

Sono l’ultimo, ad alzarmi, ed è strano, perché Martin Scott una volta aveva il piede pronto a scattare un secondo prima che la campanella suonasse. È come se il mondo corresse alla velocità della luce mentre io riesco a muovere i muscoli solo a rallentatore. Sono ancora stordito.

È tutto così strano, mentre cammino per il corridoio e qualcuno ride, e qualcuno grida, e qualcuno bacia una ragazza e chissà se la ama, e quel ragazzo del terzo anno si volta verso di me e distoglie lo sguardo quando si accorge che anch’io lo sto guardando. Lo sanno tutti, ormai. E pensano di poter pensare con la mia testa, di poter immaginare com’è adesso la mia vita. Pensano di sapere come mi sento, e provano pena per me.

Ma non sanno…

«Ehi.»

Non sanno che va tutto bene.

La voce di Cameron è familiare, un po’ roca, come se avesse il raffreddore. È che io sono caduto e lui mi ha seguito, come sempre da quando è nella mia vita, e quando sono riuscito ad alzarmi, io ho aiutato lui. Julia sanguinava fra le sue braccia, mentre lui premeva la stoffa della sua camicia sulla ferita alla testa di lei. Il nome di Julia mi è rimbombato in testa anche quando se la sono portata via; Cameron, con le mani ancora sporche di sangue, si è toccato la testa a pronunciare il suo nome senza sosta ed ho capito. Ho capito me stesso guardando lui. Ho capito che cosa mi è successo con Sarah: quegli strani ingranaggi della mente che scricchiolano fino a farti sentire il cambiamento senza dolore. Sei solo incredulo. E Cameron era troppo disperato per accorgersene. «Mat, e smettila con quest’aurea riflessiva. Non ti dona.»

«Tu dici?»

«Non è da te.»

«Oggi rivincita alla play? La rimandiamo da secoli.»

«Questo è il mio migliore amico.»

Gli do una gomitata, lui ride ed è come se un anno intero si dissolvesse sotto i miei occhi; il tempo si restringe, i giorni tornano indietro; la primavera non è mai iniziata ed è di nuovo inverno, torna l’autunno. Nel cortile che attraversiamo cadono ancora le foglie, sta per piovere e non ho l’ombrello, il pullman è già partito perché è tardi ma sorrido, perché va tutto bene.

Perché non è più autunno e in quest’inverno freddo ho conosciuto la ragazza che amo. Lei con i capelli lunghi, il sorriso raro, gli occhi che splendono, le parole incastrate in gola, le sue paure con le mie. E il tempo è passato e adesso, dopo tanto tempo, so chi era mio padre e so chi lo è stato.

Dopo tanto tempo, so chi sono io.

 

Salgo le scale, il telefono vibra; Cameron mi scrive passo dall’ospedale a trovare Julia, ci vediamo più tardi. Settimo scalino, ottavo scalino, nono scalino… oggi niente ascensore. E so che forse Cameron non mi chiamerà. So che forse resterà da Julia tutta la notte e lo capirò. Per batterlo alla playstation c’è sempre domani. Ci sarà sempre un domani per dimenticare i problemi mentre ridiamo davanti a una fetta di crostata al cioccolato fatta da sua madre.

Prendo la chiave e la metto nella serratura, il ciondolo con il modellino di una moto che sbatte contro il ferro.

«Martin?»

Apro la porta e mi inoltro nel corridoio. So che questa non è casa mia. Ospite da sempre, dentro di me qualcosa mi ha sempre detto che non appartenevo a questo posto. Ma qualcosa, qualcuno, mi ha sempre fatto sentire al sicuro. 

La luce del sole pomeridiano si riflette sui vasi dorati, sui mobili intarsiati, sulla parete giallo chiaro; Sarah è rimasta a bocca aperta, quando ha visto questa casa per la prima volta. E, forse, la vedo per la prima volta anch’io. Il luogo sicuro in cui mi ha protetto...

Lei, mia madre, che con la sua ombra ha più luce di tutto il color oro che brilla nel corridoio.

Esordisco con un: «Ehi».

Sorride. Quel sorriso che dice mi dispiace e sono felice nello stesso istante. Le dona, il bianco, e quella camicia non gliel’avevo mai vista addosso. Deve averla messa a qualche colloquio con i professori anni fa, e tutto, tutto quanto le dà luce. 

Non le somiglio per niente.

«Vieni.» Stringe al petto dei fogli, mi fa cenno con la testa di seguirla, un ricciolo scuro le sfiora lo zigomo. Io non ho i capelli come i suoi, i miei sono un liscio moscio. La sfiga, davvero.

Mi fa entrare in quella che è stata la sua stanza per anni. Quella che io ho guardato sempre e solo di sfuggita, bianca e con qualche libro qua e là, la coperta verde chiara. La stessa coperta che ora è sommersa da libri e fogli.

Si avvicina al letto superando la caligia aperta per quando andremo via, anche se papà... Joseph le ha detto di decidere che cosa fosse perfetto per noi due. Potete restare o andarvene, come volete, e qualunque cosa decidiate avrete sempre il mio appoggio. Mia madre prende qualche libro in mano, di quelli che si comprano in edicola e parlano di storie d’amore. Di quelli che non prenderei in mano nemmeno se mi pagassero, uno si chiama anche “incertezza d’amore”…

«Dovevo trovare un modo per non farti mai aprire questi libri.» La sento sorridere, la guardo, sorride per davvero mentre prende un altro libro in mano e il suo sguardo cade su di me. Anche gli occhi sorridono.

«Trovata ingegnosa.»

«Be’, non apri i libri di scuola, figuriamoci qualcos’altro, non contando il genere.»

«Io li apro, i libri.»

«Ma chi prendi in giro.»

«Dico veramente.»

«I fumetti di Batman non valgono.»

«Ma quelli li leggevo a dodici anni.»

«Eh appunto.»

«Dickinson.»

Mi passo una mano fra i capelli e lei si sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, incrocio le braccia al petto e lei fa un respiro profondo. Fa per parlare ma io: «Leggo anche le poesie.»

Sbatte le palpebre, il tempo di un secondo. Quel tempo che ti serve per capire qualcosa quando non ci credi ancora, come quando i tuoi amici ti organizzano una festa a sorpresa e tu non sai se arrabbiarti per tutte le bugie che ti hanno detto o abbracciarli.

Il suo sorriso diventa una smorfia, di quelle che illuminano il viso come se le labbra fossero strisce rosa di luce. Quando alza di nuovo gli occhi,  sono lucidi di quella che sembra emozione. «Devo ringraziare Sarah, allora.»

Sento il mio sorriso allargarsi, il cuore battere forte, e inclino la testa perché mi sento un po’ stordito e sì, devo dirle grazie. 

«Non mi mancano le idee.»

Sgrana gli occhi. Due grandi, belle, pozze marroni. «Martin!»

«Scherzo!»

No, non tanto.

Mi siedo sul suo letto, le molle cigolano, mi sento a casa.

«Stai attento.»

«Mhm…»

«Con gli occhi spalancati.»

«Non abbiamo fatto niente.»

«Sul serio?»

«Sì, vabbè, ma saranno fatti miei.»

«Cambiamo argomento.» Si siede accanto a me con il libro sulle gambe. Resta ferma, immobile, tanto che penso che stia trattenendo il respiro.

E poi si muove. Apre il libro alla prima pagina e toglie via la copertina; non c’è più un libro d’amore: sul libro cartonato verde scuro, in nero, risalta la scritta, “Commenti in merito a Flaubert”. E quando sfoglia le pagine, ne vengono fuori alcune foto, certe rovinate ai bordi, ma intatte.

«Pensavo che… avresti voluto vederlo.»

La guardo negli occhi, come se nel suo sguardo potessi guardare quello che possono mostrami le foto, amore e dolore, amore e dolore per qualcuno che non c’è più. 

E che è uguale a me.

Mi posa la foto sulle gambe e quello che vedo sono io. Un io più grande, più bello, più sicuro,  con un cappello grigio in testa, un sorriso bianco, gli occhi verdissimi… e potrei essere io. Ma è mio padre, e fra le sue braccia c’è mia madre con la bocca sulla guancia di lui. Ecco perché sorride, lui. Louis Scott.

«Era felice.» È bassa, la voce di mamma. Proviene dai ricordi.

E guardo la neve che cade cristallizzata in quest’immagine insieme ai miei genitori, la mano di mio padre stretta a quella di mia madre, il bacio di lei sulla barba corta di lui, e penso che tutto questo non l’avrei nemmeno guardato, se mi fosse stato davanti nella vividezza della vita che la macchina fotografica non può catturare. Sarebbe stato insopportabile, guardarli. Sarebbe stato vero, autentico, e sarebbe appartenuto solo a loro. Ora invece è anche un po’ mio.

E non so cosa dire.

Non so se mia madre sta guardando me che guardo la foto o la foto, ma mi ricordo di tutte le volte in cui, sul divano, l’ho vista con gli occhi lucidi davanti a questi libri ed io pensavo che aveva il cuore dolce di tutte le ragazze. Lei piangeva sulle foto di mio padre, sulla foto di me da piccolo in braccio a lui, quella che ora mi porge; piangeva su una foto di lei che mi fa il solletico sul letto, la mia mano piccola che le tira un ricciolo. E poi ancora mia madre e mio padre, in un giorno di festa, in un giorno in cui non c’ero ancora. Quei giorni in cui le persone applaudono e fanno brindisi, e mio padre sorride mentre mia madre gli toglie via dalle spalle i chicchi di riso che gli hanno buttato addosso. E lui la guarda come se avesse appena scoperto un altro mondo. E quando mia madre ha la pancia ampia che un tempo riempivo io, mio padre per la prima volta non la guarda negli occhi e cerca i miei, anche se non può vederli, anche se probabilmente sto dormendo e non posso sentirlo.

«Lui... Louis… cioè, papà…» dico. La mia voce suona roca, quello che non c’è ti fa un po’ ammalare, ti fa sentire freddo dove invece poteva esserci una vita diversa.

Sento le sue mani posarsi sulle mie guance, posarsi sul mio viso, gli occhi di mia madre mi scrutano attraverso una lucida copertura d’acqua che non è ancora diventata una lacrima. «Era uguale a te.»

«Non gli piaceva studiare?»

Mamma ride. «Era un fantastico giornalista.»

La lacrima cade su un sorriso che sembra fatto di speranze, desideri, sogni; nessuno è stato abbastanza forte da poterli spezzare. «Lui mi rendeva felice, mi rendeva migliore.» Sospira. «Quando ami cambi, Martin, è inevitabile. Ma se cambi restando te stesso, allora chi è accanto a te merita il tuo amore.»

Mi accarezza i capelli in quel modo strano che tasta il capo a poco a poco. Mi ordina i capelli senza un motivo, distoglie lo sguardo, la lacrima è caduta ma penso che mia madre sia davvero bella; penso che, stando vicino a lei, è un po’ come stare vicino al padre che non ha potuto vedermi crescere. Il ragazzo beffardo che l'ha importunata in una caffetteria vicino all’aereoporto.

«Quando li devi tagliare questi capelli? Stanno diventando troppo lunghi.»

«Sono fighi.»

«Sono disordinati.»

«Sono FI-GHI.»

«No.»

«E dai, mamma.»

Increspa le labbra – sorridi, sorridi, dai – e poi mi arruffa i capelli, mi dà un bacio sulla fronte e si alza dal letto. Si sistema l’elastico dei capelli, si volta verso di me e lascia ricadere le braccia sui fianchi. «Vado a preparare la cena.»

«Ok.» Poso le foto accanto a me e mi alzo anch’io. Le guardo un’altra volta, nella stupida intenzione di poter salvare tutto in un piccolo istante, anche se potrò vedere quelle foto quando voglio. Ed io le guarderò poche volte, perché fanno male. E quando avrò dubbi su chi sono io, ne prenderò una e la guarderò, e allora saprò chi è mio padre, saprò chi lo è stato al posto suo, saprò chi sono io, saprò qual è il mio posto.

E poi guarderò gli occhi di Sarah e lo saprò.

Mi guarderò allo specchio e ricorderò tutto e lo saprò davvero.

«A che ora è pronta?» chiedo a mia madre.

«Per le otto.»

«Ma no, ma’, esco con Sarah.»

Inclina la testa, sembra infastidita, poi un sorriso le attraversa il volto ed io mi sento fremere di una strana impazienza e sospiro. Aspetto.

«Facciamo alle nove, d’accordo?»

Corro in corridoio.

«Ecco perché sei la donna della mia vita.»

«E non fare tardi!»
*
*
*
*
Ciao, carissimi miei lettori untiliani. Sono così emozionata, con le lacrime agli occhi, e vorrei tanto, tanto che questa storia non sia vicina alla fine. Grazie infinite a tutti voi, perché è grazie a voi che leggete che Until può vivere davvero. Le visite sono costanti, quindi posso intuire che mi leggete con costanza e questo mi fa tantissimo piacere. Un grazie speciale a chi mi recensisce sempre :**
Non dico altro; vedrete che nei ringraziamenti scriverò davvero molto :'')
Grazie, sempre.
Un bacio
Vostra Ania

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** 27. Le ali dei sogni ***


until 30

u

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

27. 

Le ali dei sogni

Joshua

Non so quanti mesi sono passati.

Mi fanno male le ossa. Vedo male, la luce mi fa sentire un bruciare agli occhi, non posso correre perché mi stanco presto. Sono malato e la vita è la mia chemioterapia. 

La vita è la punizione giusta per me; gli sguardi degli altri detenuti sono cavi, come se un corvo gli avesse mangiato via gli occhi, lasciando dei fori neri che sono solo sangue vecchio di tanto tempo. Presto sarò come loro. Presto pagherò con quello che è rimasto e rimarrò sempre cosciente. Mi hanno messo dentro, Cassie. Deglutisco. Manette, spintoni, pugni… ma non mi hanno ucciso. Non c’è la pena di morte, qui. La vita è un prezzo molto più alto e lo sto pagando come meglio posso.

«Tu, alzati.»

La vita è un prezzo molto alto ed io ti sento vicino a me, anche se la morte ti ha portato via.

Mi metto in piedi.

«Qualcuno vuole vederti.»

Anche se il primo a farti andare via sono stato io.

Rumore di chiavi, serratura che scatta, cigolio di ferro; una mano dura che mi prende per la tuta e mi spinge fuori dalla cella isolata. E mi chiedo chi mai potrebbe volermi vedere, chi mai, dopo tutto quello che ho fatto, sprecherebbe tempo ad ascoltare il mio silenzio da morto.Vivo solo perché solo in vita posso soffrire, e la sofferenza è quello che merito davvero.

«Là. Siediti, forza.»

Sedia, un tavolo d’acciaio. Io seduto, io con i gomiti poggiati su quella che sembra una lastra da macello. Le ossa pulsano ed io non mi guardo intorno.

«Joe.»

Perché sono qui?

«Joshua Silvers. È quello il tuo nome, vero? Anche se sulla carta il tuo cognome è Stewart… ed io ho il tuo cognome.»

Alzo lo sguardo. Bruciano i miei occhi quando ti guardo, Von. Yvonne. Mia figlia… la figlia del mio amore, e ringrazio Dio che sei uguale a lei, ringrazio Dio che non sono stato io a crescerti fino a quattordici anni, ringrazio Dio che qualcun altro si sia occupato di te quando lei è andata via. Dio, che non mi ha salvato ma che, se esiste, ha salvato te da me.

«Mi dispiace di essere venuta così tardi... Ho portato Bob al canile, all'istituto non fanno tenere animali, però Hans mi accompagna per andarlo a salutare...»

Le somigli così tanto. Gli occhi mi bruciano ancora. Le somigli così tanto che potresti essere lei.

«Non ti devi preoccupare di niente, Yvonne.»

 «Io volevo…»

«Non pensare a me.» Mi si rompe la voce e quanto sono belli i tuoi occhi. Mi si rompe la voce e la guardo e penso non ti ho fatto abbastanza del male? Non ti ho fatto abbastanza del male per farti scappare e cercare la libertà dal mostro che, dentro di me, ti ha distrutta? Avevi quattordici anni quando ti ho portata con me… quattordici anni, la mia piccola Yvonne… «Non pensare a me, Yvonne. Dimenticami. Dimentica le mie botte, dimentica le parole cattive. Non ero io, ma non è abbastanza per chiederti di non abbandonarmi.»

Sgrana gli occhi. I capelli biondi lunghissimi che le ricadono sulle spalle, la sua mano che si allunga verso la mia mentre io mi ritraggo.

«Abbandonami, Yvonne. Abbandonami per tua madre. Abbandonami e salvati. Abbandonami ed io ti vorrò bene per sempre. Sei mia figlia e ti ho voluto bene da quando tua madre mi ha detto che c’eri e avrei voluto esserle accanto, avrei voluto ma… ma…»

«No, Joe. No.»

«Vattene, Yvonne.» Mi alzo in piedi senza guardarla, la sedia stride sul pavimento e il dolore è dappertutto e le ossa pulsano ed io devo solo tornare nella mia cella, devo solo porre fine a tutto questo e sarà libera. La mia bambina sarà libera e sarà felice e non importa se non siamo vicini, non importa se lei va via e non la rivedrò più.

«No.» Anche la sua voce è ancora quella di una bambina. E respingo i ricordi che mostrano qualcuno che somiglia a me stesso che la maltratta, qualcuno che somiglia a me stesso… «Tu sei mio padre.»

Quando il mostro era dentro di me, era come essere in una dormiveglia perenne. Ero steso, con gli occhi chiusi che non riuscivo più ad aprire; completamente immobilizzato, ma capace di sentire tutto. Sentivo la mia voce con parole non mie, percepivo le azioni del mostro attraverso il mio corpo e vedevo, nel buio, l'orrore che accadeva senza poterlo fermare. Senza poterlo fermare, mai. 

Solo una volta sono riuscito ad aprire gli occhi, dopo quasi diciotto anni. Per proteggere lei.

«Proprio perché sono tuo padre non posso abbandonarti. Ma puoi farlo tu.»

Yvonne mi abbraccia. Ed è come se mi stesse uccidendo perché non può accadere, perché le ho fatto del male, perché è troppo tardi. E non riesco a non abbracciarla io stesso, non riesco a non accarezzarle quei bei capelli, non riesco a non pensare che sarà sempre piccola per me. 

«Domani torno.»

«Non devi tornare. »

«Torno... mi ha accompagna Hans, mi accompagnerà lui, sempre. Ha promesso...»

«Perché lo fai? »

Mi guarda. Sono gli occhi di Cassie, sono gli occhi di mia figlia e sono arrabbiati, feriti. 

«Sai che cosa mi diceva mamma di te?» Una lacrima cade. No… non deve piangere, non deve piangere. Devo avere un fazzoletto, sì...«C’è stato il giorno in cui ho chiesto di mio padre e lei mi ha raccontato di te che studiavi Medicina, mi ha fatto vedere le vostre foto insieme.  Sapevo chi eri, sapevo com’eri. E mi ha detto che qualcosa di grande, di brutto, ti aveva portato via.» Sospira e la lacrima scivola via, riesco a prenderla poggiandole il fazzoletto sulla guancia. «E mi ha detto che saresti tornato. Mi ha detto che saresti tornato ed io non ho mai perso la speranza perché la mamma è morta. E l'unico modo per farla restare ancora con me, era non uccidere mai la sua speranza.»

Le asciugo le lacrime con il fazzoletto, mentre le parole si accumulano nella mia mente con il ritardo vergognoso di chi usa il cervello consapevolmente dopo tanto, troppo tempo. E so che lo voglio bene, so che non potrei amarla di più, e che forse saperla al sicuro, serena, è il regalo più bello che potrei mai avere adesso che non posso più vivere.

Lei è la tutto quello che ti resta

Le poso un bacio sulla fronte.

Lei è la tua famiglia.

«Sei come lei, Yvonne, come tua madre. Non avrei mai voluto perderti...»

Sorride appena, allontanandosi un po’, con quell’andatura lenta, i capelli che ondeggiano, come faceva sua madre. E poi i suoi occhi sono ancora lucidi, e sanno che non si può perdere per tutta la vita anche se lei perdeva da troppo tempo.

Mi stringe la mano; forte, decisa. Quanti momenti ho perso, quanti momenti non avrò più. Ma è salva. Lei è la bambina che Cassie ha cresciuto. Sei il motivo per cui sopportare le ossa che pulsano, gli occhi che bruciano, lo stridere dell’acciaio, la pioggia, il sole, le nuvole viste da un grigio edificio dove sconto la mia pena.

Yvonne ha la voce ferma, ruvida, bella. «Ora sei sveglio. Ora non ci perderemo più.»

Sarah

 

La sabbia scivola leggera fra le mie dita, è fresca, lascia una sensazione di asciutto. È bello perché mi fa venir voglia, qui seduta sulla sabbia, di fare qualche altro passo e toccare il mare, toccare e sfiorare e basta, perché non so nuotare.

L’umido della riva viene spazzato via dal freddo improvviso dell’acqua, ma è un freddo che mi regala quiete e che, allo stesso tempo, mi rende curiosa. Mi chino e metto le mani a coppa, le immergo nell’acqua limpida leggermente mossa, e la sensazione di asciutto scompare. Il mare fra le mie mani.

E poi seguo un sentiero che non vedo, che posso solo immaginare o sentire, e sono i miei passi che si inoltrano nell’acqua mentre  ignoro i brividi leggeri che mi portano a stringermi da sola in un abbraccio che non può che essere goffo. Ho la pelle d’oca, ma l’acqua sembra curarla, sembra accogliermi senza timori anche se non ci siamo mai conosciute. Sospiro. Poi, ancora stretta nell’incompleto abbraccio di me stessa, mi immergo. L’acqua mi arriva fino al collo, ora che ho piegato le gambe e, inspiegabilmente, mi sento leggera, come se potessi volare da un momento all’altro. Volare. Muovo le braccia a disegnare un semicerchio nell’acqua e mi spingo all’indietro. Volare, mentre stendo le gambe e dimentico, volare mentre l’acqua mi cura ed io sono qui, a mollo, e non so se sto nuotando ma è bello.  Volare. Marlene, la moglie di Joseph, aveva trovato il modo di farlo cadendo dal cielo. Marlene, che non aveva paura di niente. Marlene, la donna bellissima che teneva in braccio Martin nella foto incorniciata appoggiata al comodino. E Marlene, che non c’è più come mia madre e mio padre. Come il padre di Martin.

È limpida, l’acqua, e rende più limpidi anche i pensieri. Riesco a vederlo bene, il dolore; quella letale scheggia trasparente, cristallo conficcato nel petto. Neve ghiacciata. Forse un giorno riusciremo a scioglierlo completamente. Un giorno riusciremo a toccare le ferite e ad ignorare i rilievi della pelle nuova delle ferite guarite.

Lo so, un giorno guariranno.

«Sarah Agnes Pierce, non mi hai aspettato!»

L’acqua, ora tiepida,  così piacevole, mi colpisce il viso come la carezza avventata di un bambino piccolo che non sa cosa voglia dire dolore. Perché qui c’è gioia, impazienza, la luce delicata del sole delle otto del mattino. Martin è ora sommerso dall’acqua, con la schiuma come prova del suo tuffo velocissimo, ed ora riemerge e il suo respiro fa un suono forte, a metà fra un colpo di tosse e un sospiro.

«Scusa, è che…»

«È che sei impaziente.» Gira la testa a destra e a sinistra più volte, mi arriva di nuovo un po’ d’acqua e mi allontano un po’ e sorrido, sorriso anche se l’acqua è troppo limpida per riflettere me. «Sei impaziente e non hai bisogno di me.»

Non so esattamente che cosa sto facendo, ma lascio che l’acqua mi culli mentre muovo le braccia in avanti, dall’interno verso l’esterno, per raggiungerlo. Faccio una smorfia, e la quiete dell’acqua si trasforma in qualcosa di più deciso, che mi fa sorridere, sorridere, e sorridere.

«Tu menti, Martin.»

«Sai già nuotare a rana.»

Mi prende la mano e, con lentezza, riesco a mettere i piedi sulla sabbia e alzo gli occhi verso di lui. Ha la testa china, a guardarmi, e arrossisco nel tempo minimo di un secondo.

«Ho comprato il costume con Julia.»

«Carino.» Fissa i suoi occhi nei miei e sorride in quel modo che mi fa vedere rosso dappertutto per quanto sto arrossendo in questo momento. Lui, con quella sua sfacciataggine nello sguardo e i capelli bagnati che ora sembrano castani, le goccioline che dalla mascella squadrata gli scivolano sul collo,  sul petto; mi allontano e gli si vedono le fossette iliache, la pelle con quella sfumatura dorata. «Il blu ti sta bene. Solo che adesso dobbiamo fare i tuffi.»

Scuoto la testa. «Vuoi dire che tu farai i tuffi, non io.»

«Sei una noiosa.»

Si lascia sommergere completamente e nuota sott’acqua, io faccio qualche piccolo passo più avanti, ormai ho la metà dei capelli bagnata, a pochi metri da me una boa arancione e…

«Oddio!» Sento le sue mani ferme sulle mie cosce quando mi solleva da sotto l’acqua, ed io mi ritrovo a schiacciargli la testa per non cadere dalle sue spalle. «Martin, cosa fai? »

«Ora ti faccio fare un tuffo.»

«Ti ho detto che non ne voglio fare.»

«Che c’è, hai paura?»

«Sì!»

«Ma come? » Si mette a ridere. «Dopo tutto quello che è successo hai paura di un tuffo?»

A più di un metro e ottanta da terra – la sua altezza – mi sembra di essere capace di poter vedere tutto il mondo ed è strano, perché dovrei avere paura. Perché una volta, sarei stata terrorizzata da tutto questo, dalla persona diversa che sto diventando, dall’emozione folgorante che mi percuote completamente e mi fa scoppiare a ridere.

«Cosa ridi?»

«Fammi fare questo tuffo.»

Si inoltra più avanti per raggiungere l’acqua più alta ed io, coraggiosa, - quando sono diventata coraggiosa? – sollevo le mani quasi fossero ali, quasi stessi per spiccare il volo. Quando sono diventata coraggiosa? Hai salvato Martin. Hai salvato tutti noi.

Ma ho salvato soprattutto me.

Martin conta fino a tre, mi tappo il naso e cado all’indietro. L’acqua è dappertutto ed io sono nell’acqua, non c’è differenza perché mi sento libera, pura, coraggiosa. Ho salvato soprattutto me, perché ho trasformato il sogno in una possibilità, la possibilità nella realtà. Me stessa in quello che volevo provare ad essere. La solitudine nell’amicizia. Il dolore nell’amore. La paura nella voglia di vivere.

Perché io voglio farlo, mentre trattengo il respiro, allontano le mani e apro gli occhi. Guardo questo mare, ignoro il pizzicore agli occhi, bevo con questo sguardo mantenendo la bocca ben chiusa e mi perdo in questo mare dal colore del cielo.

Qualcosa mi tira su ed io inspiro aria come se la stessi risucchiando nei polmoni.

«Com’era?»

Mi sposto i capelli dal viso, poggio le mani sulle sue spalle, il suo corpo così vicino al mio, le gambe che si intrecciano, la pelle d’oca che viene anche se non sento più freddo.

«Bellissimo.» Fronte contro fronte. «Lo rifacciamo?»

In fondo avevo intenzione di farlo dall'inizio, anche se non così presto.

Sorride. Quel sorriso è solo mio. Siamo due individui a sé stanti e diversi ma ci sono cose, a volte, gesti, sguardi, parole, che sembrano chiamare a gran voce la persona per cui sono nati. E quel sorriso è mio.

Avvicino la bocca alla sua e questo bacio è suo, e sa di sale, labbra umide, cioccolato spalmato su una fetta biscottata, palazzi grigi in una città grigia in cui camminiamo mano nella mano, le poesie di Emily Dickinson che recito ad alta voce, la frase finale che lui, con il libro in mano, finisce per me. Noi che, insieme, finiamo con l’ultima sillaba, la luce di un sorriso intrappolato negli occhi, le labbra che si muovono all’insù, la sicurezza di non essere più soli.

***

Dopo una mattinata passata al mare – tuffi, occhi chiusi sotto il sole tiepido di primavera, “Piccole donne” letto mentre Martin dormiva – abbiamo passato il pomeriggio a guardare i negozi, il sapore del gelato alla fragola ancora sulla lingua.

La casa in cui passeremo questi giorni è di Joseph, che è stato tanto gentile da dare il permesso a Martin di portarci qui per la fine dell'estate. Doreen non mi è sembrata esattamente entusiasta, il modo in cui si è passata le mani fra i capelli e ha guardato in basso mi ha fatto intuire una preoccupazione assolutamente legittima, cosa per cui Martin le ha dato un bacio dicendo “Mamma, ti adoro”. Con Joseph c’è stata una stretta di mano ferma, proprio da uomini, mentre io sorridevo e guardavo.

Martin e sua madre si sono trasferiti in un piccolo appartamentino, ma il Venerdì sera mi capita di vedere Joseph che, alle otto in punto, suona il campanello con una bottiglia di vino mentre io aspetto che Martin vada a prendere la sua macchina, comprata usata con il risparmio di tante paghette. Perché Joseph continua a dargliela, la paghetta, anche se Doreen gli ha espressamente chiesto di non farlo più. 

Joseph ora appare sereno, come se si fosse svegliato da un lungo sonno riposante. Sembra che adesso, dopotutto, lui e Doreen siano liberi davvero.
Con noi ci sono anche Cameron e Julia; li vedo da lontano, vicino al molo. Ju indossa un vestito bianco con i fiori sulla gonna, l’abbiamo comprato insieme; Cameron la abbraccia con il braccio intorno alla vita di lei. La mia amica sta ridendo, è un suono graffiato di gola, ma allo stesso tempo dolce, calmo. L’abbraccio si fa più stretto, la risata si affievolisce e muore sulle labbra, sostituita dal silenzio inatteso di un bacio.

«Ahhh, finalmente. Cameron è sempre stato troppo lento, in questi casi. Si fa i complessi peggio delle femmine.»

Scuoto la testa e gli do una gomitata. Martin incassa il colpo con solennità, quasi gli avessi fatto davvero male, e questo diventa uno dei tanti motivi per ridere senza una vera ragione, semplicemente perché tutto sembra essere più leggero, più semplice.

«Ma fatti i fatti tuoi,» gli dico.

«Sei la dolcezza.»

«E tu anche.»

 «Grazie.»

«Scherzavo.»

«Io no.»

Mi prende la mano e mi tira in modo da farmi andare letteralmente a sbattere contro il suo petto, mi accarezza i capelli e il collo con le mani ed io chiudo gli occhi, sto bene, lo stomaco si ribalta come se fossi salita su una giostra pericolosa ed è bello. Apro di nuovo gli occhi.

«Eeeehhhiiiii!» Cameron corre verso di noi, una canotta bianca su cui porta una camicia aperta e Julia, dietro di lui, lo raggiunge accelerando il passo, i capelli rossi al vento. «Siete scomparsi per tutto il giorno!» Lo dice nel modo in cui ci si aspetterebbe di sentire sono davvero contento di vederti, ma Cameron ha un’espressione così raggiante che mi porta solo a sorridere ancora.

«Scusa eh, vedrò di starti sempre appiccicato,» ribatte Martin.

Cameron fa segno di no con la mano, come sconvolto. «Tranquillo, amico… non ce ne’è bisogno.»

«Sarah!» Julia mi raggiunge, posandomi un bacio sula guancia. Sorride come potrebbe fare il sole. «C’è una festa in spiaggia, vieni anche tu? Io e Cam ci stiamo andando.»

«Non che sia tanto brava a ballare ma più tardi ti raggiungo assolutamente.»

Abbassa di poco la voce, che si fa comunque un po’ strifula, in un modo adorabile, che mi fa tenerezza. «Devo raccontarti di Cameron…»

«Ju, sono così contenta.»

Annuisce. «Vatti a mettere il vestito che abbiamo comprato l’altro giorno.»

«Quello viola?»

«No, nero!»

«Ma è corto! Troppo, e l'ho preso solo perché lo davano scontato.»

«Mettilo lo stesso, tanto è estate e ci stai una favola!»

Sbuffo davanti ai consigli di moda assolutamente dissoluti di Julia, mentre Cameron si avvicina e le prende la mano, avvicinando la bocca all’orecchio per dirle qualcosa. Il sole sta tramontando, colora il cielo di rosa e arancione e si immerge nel mare, mentre Cameron e Julia si allontanano, due macchie sfocate nella luce che si mischia al buio.

***

Martin apre la porta – legno massiccio e liscio –, c’è silenzio. Le luci arrivano dall’esterno, cerchi di luce che toccano i muri in trasversale dai fori della tapparella. Valige aperte sul pavimento, il letto sfatto in cui mi sono risvegliata stamattina, l’armadio con l’anta aperta da cui vengono fuori delle grucce. È un disordine rassicurante, pregno degli echi delle nostre risate, Julia che si butta fra le coperte, Martin e Cameron che corrono nell’altra stanza per aggiudicarsi il letto vicino alla finestra ed io che mi guardo intorno, sorpresa, incantata. Echi appena passati che diventano sempre più lievi, sostituiti da questo silenzio che non è silenzio, perché il cuore batte forte e sento il suo respiro su di me.

«Sai, Sar,» sussurra. «Tu non sai proprio tutto di me.»

«Sì?»

«Sì. Si tratta di un segreto scottante.»

«Cioè?»

«Non so ballare.»

Sbuffo, rido, sospiro.

«Oh, come farà Martin con una simile mancanza?»

«Mi sento perso.»

Mi volto verso di lui e gli passo una mano fra i capelli, lui socchiude gli occhi ed io faccio un respiro profondo. «Se sai chi sei non ti potrai mai perdere, Martin Scott.»

«È una cosa stranissima perché il mio cervello sta andando in contro circuito.»

Sorrido. «Non ci credo.»

«Sta andando tutto in cortocircuito.»

«Be’, allora te lo ripeto: sei Martin Scott, buono e simpatico anche se molto narcisista, tua madre si preoccupa sempre per te, Cameron è il tuo migliore amico dalle elementari e lo batti sempre alla playstation, ma lui ha una media scolastica più alta della tua e quindi siete pari.» Faccio una pausa. Il viso di Martin è attraversato da una smorfia scettica. «Ho… cercato di sintetizzare.»

Sorride sulle mie labbra.

«Come hai fatto a dimenticare te stessa? »

«Non lo so, credo che sia andato tutto in cortocircuito anche a me. »

Mi bacia. Qualcosa mi esplode dentro, a tratti sembra che sia il mio cuore, poi tutti i suoi battiti, strani, tremanti, che finiscono in ogni parte del mio corpo. Finiscono dove prima c’era un vuoto, un foro che si apriva verso il buio, la tristezza, l’apatia. Un vuoto che non viene riempito, ma scompare; si comprime fino a far coincidere tutti i pezzi che si incastrano, nel meccanismo che è la vita, la mia vita. E allora Martin mi bacia ed è un bacio caldo, il fiato finisce, il cuore continua a battere e mi sento sospesa fra me stessa e il mondo, sospesa su una fune a cui sono appesa – corde invisibili allacciate alle mie spalle – senza più panico. Perché le corde invisibili non ci sono più, non c’è più niente di invisibile ed io sono già caduta. Ho ancora i lividi, i ricordi, ma Martin è con me, Martin è quello che mi ha aiutato a salvarmi e, così, ha salvato anche se stesso. Cammina all'indietro e si siede sul letto.

Su di lui, i nostri nasi che si sfiorano, l’aria che ritorna nei polmoni come risucchiata, lo guardo e mi rendo disperatamente conto di quanto sia bello. Allora lo bacio ancora. Le sue mani mi accarezzano le braccia, la schiena, scendono sui fianchi e mi portano a spostarmi, a fargli spazio, ed ora lui è sopra di me. Mi bacia gli occhi – occhi chiusi, ciglia che tremano – e poi la guancia, di nuovo le labbra, il mento, il collo, le pelle che la maglietta lascia scoperta.

Torna su, torna da me e avvicino le labbra alle sue e premo e sento il suo respiro dentro di me e so che non morirò. Ho il suo respiro e lui ha il mio, avrà tutto il mio fiato. Lo amo. Lo amo mentre mi accarezza i capelli e la sua bocca scende sul collo e mi solleva le gambe e sono leggera fra le sue braccia. Lo amo mentre sospira il mio nome a metà contro la mia bocca, lo amo nel mio silenzio perché non ho più parole. E nemmeno lui parla più. Mi lascio andare all’indietro e lui mi segue. Non ho il coraggio di guardarlo negli occhi quando stringo le dita intorno all’orlo della sua maglietta e gliela sollevo, e lui la lascia cadere via.

Ti amo sussurro sulle sue labbra. Soffio il mio ti amo nella sua bocca. Mi bacia, gli mordo le labbra, geme. Mi toglie via la maglietta come se fosse qualcosa che potrebbe solo farmi del male, tutti i vestiti sono a terra e tremo e le sue mani accarezzano. Le sue mani scendono.

Perdo il respiro.

Mi aggrappo alle sue spalle e lui mi guarda negli occhi, nello stesso modo in cui mi ha guardato ogni giorno, un giorno di cui non ricordo l’inizio, quello in cui ha cominciato ad amarmi. Il suo nome fra le mie labbra.

È un continuo cercare – la sua pelle contro la mia pelle – cercare e trovare, cercare e trovare, respiro e senza respiro, infinito.

Di nuovo la sua bocca sulla mia – delicata, leggera, il respiro pesante, il mio nome – ti amo – e il mio nome. Il fiato che si disperde, si spezza, resta immobile ora che lui è dentro di me. Stringo le gambe attorno alla sua vita, affondo le dita fra i suoi capelli, spinge. Chiudo gli occhi, un brivido mi attraversa, la sensazione di essere stretta un po’ dolorante, bella.

«Mi fermo, Sar, se... se tu…» Fermo le sue parole con le labbra. Le mie mani scivolano sulle sue spalle ampie.

«Va tutto bene.» Affanno, calore dappertutto. «Va tutto bene.»

Mi bacia sul collo, gli carezzo la schiena, spinge più forte, gemo. Lascio cadere la testa sul cuscino, la sua bocca scende a baciarmi il seno, le sue mani stringono le mie. Il respiro di Martin sulla mia pelle. Martin, che mi ha guardata in quel pomeriggio di pioggia, su un vecchio autobus. Martin che mi ha parlato. Martin che mi ha ascoltato, Martin e i suoi biscotti e le interrogazioni di Inglese e i baci che sapevano di succo all’arancia, il freddo, i piumini, il gelato al cioccolato, il telefono vecchio, le foto vicino al parco, le risate, i giorni di sole anche quando il sole non c’è.

Il mio fiato si confonde con il suo.

Il sole che splende ogni volta che mi fa capire che lui è qui con me, che non sono sola, che posso vivere.

Martin si irrigidisce, spinge ancora, si accascia su di me ed io tremo nel suo calore, mi abbraccia, abbraccio lui nel rumore del suo affanno e va tutto bene. Mi bacia, va tutto bene, si mette accanto a me ed io mi stringo a lui. Il ragazzo del bus, il ragazzo del cinema, quello che mi ha chiesto se stavo bene, quello che ora è qui.

Lui è il ragazzo che amo ed è qui con me.

Martin

Mi metto seduto, il fruscio del lenzuolo che mi cade accanto e sfiora il pavimento, mi passo una mano fra i capelli e poggio i gomiti sulle ginocchia, il marmo freddo contro la pianta del piede.

Sarah sembra più piccola, quando dorme; ha quel respiro calmo che le fa alzare il petto lentamente, con i capelli disordinati che le sfiorano le guance. Mi avvicino alla valigia per prendere i pantaloni del pigiama, me li metto. Sono nuovi, mamma me li avrà comprato proprio per il viaggio.

Ho sempre cercato di cambiare tante cose nella mia vita, ma mi sento sicuro di pensare – pensare, dire ad alta voce – che non voglio che tutto questo cambi. Non mi stancherò di svegliarmi e sapere che la incontrerò. Cammino per la stanza, sfioro la valigia di Sarah, sfioro qualcosa. Non mi stancherò di guardarla leggere mentre mi aspetta seduta su una panchina del parco. Sembra carta, mi chino, lo prendo, è… il suo taccuino. Non mi stancherò di ascoltarla mentre mi racconta della torta che ha cucinato con sua nonna, del cane che hanno deciso di adottare, del nuovo singolo di quel cantante che ora piace anche a me. Non mi stancherò di prenderla in giro, di farla arrossire, di prendere gomitate nella pancia perché la faccio arrabbiare. Non mi stancherò di passeggiare abbracciandola di tanto in tanto, di baciarla, di fare l’amore con lei.

No, di quello non credo che mi stancherò.

Sfoglio il taccuino; mi sono sempre chiesto che cosa ci scrivesse, qui dentro. Faccio passare le dita sulla copertina grigia e lo apro nuovamente, sul primo foglio a quadretti ci sono quelle che sembrano parole… e forse non dovrei leggere.

Parole non collegate fra loro.

Non dovrei proprio.

Parole sconnesse. 

Che cosa vorranno dire?

I film degli anni ’50. 

Le coperte di lana. 

La torta alla crema. 

I fiori sulla tovaglia. 

Il miele sul pane.

Sfoglio le pagine.

Il sole. 

I quadri di Monet. 

La creta. 

Le poesie di Emily Dickinson. 

Tutti i libri che sono stati scritti. 

Tutti i libri che verranno scritti ancora. 

La musica.

Non capisco, mentre lascio passare tutti questi fogli pieni di parole, cose, paesaggi, e persone. E poi i miei occhi si fermano su Julia è viva.

Deglutisco.

«Mi spieghi che cosa fai…» Il taccuino mi scivola dalle mani forzato dalla sua presa. Mi volto e me lo sventola sotto il naso, un braccio posato sul fianco e la fronte aggrottata. «Con questo?»

E adesso? 

«Ehm…»

«L’hai preso.»

«Sì, l’ho preso.»

«Perché?»

«Sporgeva dalla valigia ed è caduto…»

«… E hai pensato bene di leggerlo. »

Sospiro, mi passo una mano sulla nuca, poi sulla fronte, su tutto il viso, sospiro. È proprio da me fare figure di cacca, questa è una delle tante cose che non cambieranno mai. «Sei arrabbiata?»

«Abbastanza.»

«Scusami.» Le lascio un bacio sulla guancia, poco vicino alle labbra. «Non volevo. »

Vado a sdraiarmi sul letto, sperando che Sarah si dimentichi presto che mi impiccio delle sue cose. Affondo il viso nel cuscino.

«Martin?»

«Mhm?»

«Non sono così arrabbiata.»

Mi giro sulla schiena, lei è seduta a gambe incrociate, accanto a me, e si rigira il taccuino tra le mani. Ha acceso la lampada del comodino ed ora si vede molto meglio che i fogli sono ingialliti.

Mi si sdraia accanto, sospira, si mette una mano sulla pancia, i pantaloncini corti a lasciare scoperte le gambe chiare. Mi guarda con quei suoi occhi celesti.

E allora mi prendo il lusso di essere curioso. Un po’ geloso, forse, perché non conosco ancora questo lato di lei.

«Perché hai scritto queste cose?» Intreccio la mano alla sua. «Che vuol dire? »

Si mette su un fianco, mi si rannicchia contro, la avvolgo, la respiro. Profuma di camomilla e il cuore le batte contro il mio petto. Mi passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio, guardando fissa davanti a sé. «Mi sono sempre chiesta… fino a quando resisterò?» Si morde le labbra, esala un altro respiro. «Fino a quando resisterò a vivere così?» La sua voce si disperde nell’aria.

La stringo di più a me, e il passato ritorna. Ritorna lei, sola, chiusa in un bagno, con la paura di fare del male a qualcuno. Ritorna lei, lei che pensava di essere un errore del mondo. Lei che si chiedeva fin quando avrebbe resistito.

«No, Sar…»

«E allora… allora ho riempito il taccuino di tutte le cose – tutte – anche le cose più insignificanti, che potessero rendere le cose più sopportabili.» Si stacca leggermente da me, apre il taccuino e i suoi occhi sono lucidi. Niente lacrime, solo una sottilissima distesa d’acqua sui suoi occhi azzurri. «Ci sei anche tu.»

«Io? »

Lei sorride e mi passa il taccuino.

«Leggi l’ultima pagina.» 

Apro il taccuino alla pagina che mi ha detto, incerto.

«Ad alta voce,» aggiunge.

Comincio a leggere, piano, in modo da capire anche quello che – credo – non capirò.

È scritto grande, in corsivo, con la sua grafia tonda tremolante e proseguo in questo strano elenco che sembra farsi sempre più chiaro. «Julia è viva.»

Sarah fa un sospiro, io tengo gli occhi fissi sul foglio.

«Va’ avanti fino alla fine.»

Un respiro profondo, parlo come se fossi in apnea.

« Il ragazzo del cinema.

Il ragazzo che mi parla.

Il ragazzo che mi fa sorridere.

Il ragazzo che mi fa ridere.

Il ragazzo che non ha paura di me. »

Il cuore mi batte nel sorriso, sulle labbra, fra i denti.

Giro la pagina.

«Il ragazzo che amo.»

Silenzio, mentre mi prendo il privilegio di posare il taccuino fra di noi e prenderle il viso fra le mani e baciarla, baciarla forte e mi chiedo fino a quando resisterò senza respirare. Ma non importa fino a quando perché il confine non esiste più. Non esisterà più il giorno in cui non saprà cosa scrivere per darsi la possibilità di vivere, perché ora sta bene. La mia Sar sta bene ed è forte, anche se ha sempre creduto di essere debole. Nella debolezza ha trovato la forza. Io sono stato solo quello che l’ha aiutata ad alzarsi – mani strette, respiri soffocati – ma adesso è capace di proseguire da sola. Anche se ha scelto di proseguire insieme a me.

«Ci sei arrivato subito, eh.»

«Sì, anche se mi piacerebbe veder scritto il mio nome. Ma proprio il mio nome, quel figo di Martin...»

«Sognatelo.»

Rido, le passo una ciocca dietro l’orecchio, premo le labbra sulla sua fronte. «Continuerai a scrivere, Sar?»

La sua voce è chiara, limpida come l’acqua del mare. «Non ho più bisogno di rileggere quello che ho scritto, per ricordarlo.» Si rannicchia meglio fra le mie braccia ed io penso che amarla è una delle cose che avrei scritto io, se avessi mai avuto un taccuino con l’elenco di tutte le cose per cui vale la pena vivere. Perché Sarah mi rende felice, mi rende migliore. E così io resto sempre me stesso.

*

*

*

*

Ciao, Untiliani! :D Anche questo capitolo è importante, c'è l'incontro fra Joe e Yvonne. Joshua è consapevole di se stesso, sveglio, con la sua voce, i suoi occhi e le sue mani. Stanco e provato. Con sua figlia che gli vuole ancora bene perché sa come sono andate le cose.

E dopo tutto quello che è successo Sarah e Martin... *ammicc ammicc*... *Ania arrossisce*

Be', immagino che forse nessuno ci sperava più :'') 

A parte gli scherzi, tengo molto a questa parte della storia: mi è capitato di leggere libri in cui l'amore fisico fra due personaggi veniva buttato lì, giusto perché doveva succedere e non si sapeva proprio quando farlo succedere. Io ho ascoltato la voce di Sarah, ed ho capito che il momento giusto era proprio questo: un momento sereno dopo tutto il dolore e la paura che c'è stata, con l'amore e la consapevolezza di se stessi. Spero che vi sia piaciuto, anche perché è l'ultimo capitolo della storia, adesso manca solo l'epilogo. 

Ancora grazie a tutti voi *-*

Vostra Ania

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Epilogo ***


until 31

 y

Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

Epilogo

Un giorno di sole di tanti anni fa la mia vita si è spenta.

Dopo due anni il sole splende proprio come accadde quattordici anni fa, e le mani mi tremano e scuoto la testa perché va tutto bene, mi ripeto, andrà tutto bene, Sar.

Oltrepasso la staccionata – sassi appuntiti, quando corri non hai paura di cadere? Ricordi d’infanzia, quando le lacrime erano ancora leggere e sparivano sulla pelle – e mi ritrovo davanti alla porta. Il corridoio con i muri dipinti di verde – bambini e risate, bambini e dolci alla liquirizia, bambini e matite colorate. 

La porta della mia aula è socchiusa, come è sempre stata. Le risate dei bambini mi colpiscono le orecchie come piccoli campanelli di cristallo, sono quiete e allo stesso tempo forti, pure.

Hai finito il tuo disegno, Sarah?

Spingo la porta ed entro nella stanza. La luce che filtra dalla finestra attraversa la stanza in diagonale. I bambini, seduti per terra, colorano e giocano attorno a dei bassi, tavoli rotondi.

Non ancora.

C’ero io, una volta, seduta a quel tavolo, e con spesse matite colorate disegnavo tutto quello che non avevo e avrei voluto; quei genitori immaginari, quella vita diversa, quel tramonto sul mare. È strano come, anche se abbiamo tanto, ci ostiniamo a dare valore alle cose che non avremo mai. Alle cose che abbiamo perduto, anche se la colpa sta negli eventi, e non in noi.

Ho sempre immaginato mia madre, il suo profumo, la sfumatura chiara della sua pelle, i capelli più scuri dei miei, ferma a spazzolarmi i capelli e a cantarmi dolci canzoni, con mio padre – un uomo alto, dai miei stessi capelli, con il giornale in mano,  che ci assisteva nella stessa stanza. Li ho immaginati, i miei genitori. E il mio amore per loro è nato dalla mia perdita, dallo loro speranza. Il mio amore per loro è eterno, intangibile, lontano e allo stesso tempo dentro di me. E quello per i miei nonni, così anziani, così costanti, così instancabili nel perseverare quell’amore eterno, intangibile, lontano che hanno sempre avuto solo per me. Io, che sono stata l’unica a sopravvivere. Io che avevo bisogno di loro come loro avevano bisogno di me. Io che li ho amati anche quando odiavo tutto. 

Ricordo ancora lo sguardo della nonna – qualche ciocca grigia nella sua naturale chioma bionda – quando ha raccolto dalla scrivania di un dottore tarchiato il disegno che Julia aveva strappato. E mentre il dottore parlava con parole difficili, lunghe, incomprensibili, mia nonna mi ha guardato. «Rimetteremo tutto a posto, stellina mia.» Mi ha accarezzato i capelli ed ha sorriso, ha sorriso solo per me. «Tornerà tutto a posto.»

Il dottore è uscito dalla stanza e mia nonna, dalla sua borsa, ha estratto dello scotch e delle forbici – ha sempre portato qualunque cosa, nella sua borsa – ed ha rimesso insieme il mio disegno, anche se un po’ più storto. Io l’ho guardato attentamente, scorgendo i buchi nel foglio, dove lo scotch non era stato abbastanza. Non ho più voluto vedere quel disegno. Non volevo, io non volevo, non me ne importava più. Io non volevo, nonna.

Mi ha portato via tenendomi in braccio.

Ed ora, quello stesso disegno, è appeso proprio lì, in alto. Rimesso a posto, sopravissuto, anche se non potrà mai tornare come prima. Quel disegno strappato che mi ha strappato dai sogni dolci del mio essere bambina e che, oggi, riconosco anche se non mi appartiene più. Quel desiderare qualcosa che si è perduta, qualcosa che non si potrà mai avere.

Come Martin. Martin che ha sempre cercato, in Joseph, un padre che non c’era più. Martin che, conoscendo me, pensava di essere più vicino a quel padre. Martin, che amo. Martin che è il motivo per cui non posso desiderare qualcosa che non ho, perché ho lui. Ho il nonno, la nonna. Ho Julia e con lei Cameron. Ho il saluto di Hans che abbassa gli occhi ricordando quello che non siamo stati, il suo sorriso incantato ad una ragazza un tempo bionda, ora con i suoi naturali capelli castano ramati, sorridente a sua volta. Ho un cellulare vecchio, che funziona ancora. Ho la mia creta, che si modella piano nei miei pensieri e sui palmi delle mie mani. Ho le poesie di Emily Dickinson e tutti i libri che potrò leggere. Ho il tempo e lo spazio, ho i giorni, le notti, i ricordi, l’elenco stilato nel mio taccuino. Tutte quelle parole in fila che, a poco a poco, hanno dato vita alle mie speranze ed hanno risposto alle mie domande ed hanno fatto crescere i miei sogni.

«Signorina, è lei la tirocinante?»

Mi volto. Una donna bruna, con indosso un grembiule verde, mi si avvicina quasi correndo.

«Sì, sono io.»

Mi sorride scettica.

«Quella che ha insistito per farsi inserire proprio qui alla Bright?»

«Già, non si sbaglia.» Mi porto una mano al viso e mi accorgo che scotta, il mio arrossire mi imbarazza come ha sempre fatto, nei momenti in cui vorrei essere più sicura di me, in cui vorrei assomigliare di più a Julia. 

«È raro che una ragazza del primo anno  faccia già richiesta.» Stringe a sé una cartella con dei fogli. «Direi che puoi cominciare subito.»

La donna mi presenta ai bambini e loro mi circondano, alcuni restano a disegnare troppo concentrati per accorgersi di me, altri cercano subito un contatto, mi abbracciano le gambe ed io mi sento scossa dalla sorpresa, dalla gioia, da questo cumulo di voci bianche. Eppure è proprio una bambina rintanata in un angolo ad attirare la mia attenzione.

Mi sono iscritta ad un college vicino a casa, Julia è la mia compagna di stanza e studio per diventare maestra d'asilo. Ho pensato che, per mia inclinazione, mi sarebbe piaciuto passare il tempo con i bambini, forse perché lo sono stata per troppo poco tempo. Forse perché sono rimasta un po’ bambina anch’io, sotto certi punti di vista, anche se ho imparato a crescere. Volevo venire proprio qui, dove tutto è iniziato e finito, dove la mia vita si è spenta, dove una luce rossa si è accesa, dove nel mio cuore qualcosa è passato da inattivo ad attivo anche se era vivo da sempre.

La bambina colora il foglio con un pennarello azzurro per realizzare quello che immagino essere il cielo. È così piccola, con i capelli castani e le guance piene, rosse come mele.

«Ciao, io sono Sarah. Che cosa disegni di bello?»

Sussulta. Il pennarello le sfugge dalle mani e si stringe il foglio al petto, così forte da stropicciarlo. Ha gli occhi verdi grandi, ci brilla dentro la luce della sorpresa di essere stata scoperta.

«È un segreto segretissimo.»

«Segretissimo?»

«Segretissi-issi-issimo.»

Sospiro. Forse, come me un tempo, disegna qualcosa che ha perso, qualcosa che non potrà mai avere. Qualcosa che, nella sua assenza, fa capire davvero l’importanza di quello che ha.

«Sono sicura che è bellissimo, piccolina.»

Fino a quando resisterò, mi dicevo. Fino a quando, delle parole in cui la fine nasce nel suo inizio. Ed ora il mio fino a quando si è esteso, diramato, ingrandito; una bolla d’aria in cui respiro, vivo. In cui non ho paura di sentire né di farmi sentire dagli altri. In cui il rumore di me che vivo è un mio diritto, un dono del mondo, un dono al mio mondo in cui ho imparato che perdonare vuol dire ricordare per sempre, vuol dire imparare. Vuol dire lasciare una cicatrice sul dolore per non lasciare che quello, invece, lasci una cicatrice su di noi.

Mi allontano di qualche passo e noto un bambino che sta mangiando una merendina al cioccolato sporcandosi tutto. Metto una mano in tasca per cercare un fazzoletto e…

«Maestra Sarah?» La voce è chiara, acuta, l’ho appena conosciuta. «Vuoi vedere il mio disegno?»

I miei piedi si fermano prima che sia io a pensare di bloccarmi, fermarmi, tornare indietro.

Per fare qualcosa che, per quattordici anni prima di incontrare Martin, non ho fatto. Prima che ci salvassimo a vicenda, avevo dimenticato che potesse essere possibile.

Campanelli di cristallo.

Si trovano sul mobile del soggiorno, basta un piccolo sfioro per farli suonare insieme alle palline d’ottone.

È questo, il suono che sento.

È il rumore del mio sorriso.

*

*

*

*

RINGRAZIAMENTI

Ancora non posso credere di essere arrivata fin qui. Alla fine della mia prima Storia Originale. Una storia nata da un sogno, una storia scritta per sfida, per vedere se potevo essere capace di mantenere in piedi una storia nata dalle fondamenta della mia mente sola. Penso di avercela fatta. E so che ci sono delle ingenuità. So che, se scrivessi questa storia ora, sarebbe diversa, ma Until sono io, sono quello che sono stata dai miei sedici ai miei diciassette anni, anche se non somiglio né a Martin, né a Sarah, né ad Hans, né a Yvonne... ognuno di loro ha qualcosa di me. Spero, quindi, che questa Storia vi abbia lasciato qualcosa di bello. Ho parlato di solitudine e speranza, amore e amicizia, figli e genitori, paura e coraggio, perdono e vendetta, rabbia e pace, seguendo come unico filo conduttore quello che mi diceva il cuore. Sì, ricorderò questa storia proprio per questo. L'ho scritta in modo molto impulsivo, e a volte mi sono resa conto che, se non l'avessi fatto, sarebbe stato più semplice, perché in questo modo ho vissuto questa storia proprio come l'avete vissuta voi. E rimarrà sempre nel mio cuore, perché lo rimarrete per sempre voi, che mi avete letta. Ringrazio tutti coloro che hanno preferito, ricordato e seguito questa storia.

Ringrazio Erica, per la sua amicizia e i suoi commenti sinceri.

Ringrazio Noemi, che va sempre più in alto e se lo merita.

Ringrazio Serena, che mi pensa, mi legge quando può e c'è. I capitoli in cui Doreen è protagonista sono a lei dedicati.

Ringrazio Virginia, che solo con un messaggio in cui mi racconta la sua felicità fa felice anche me.

Ringrazio Mia Swatt, autrice della fantastica Underworld, lettrice fidata e costante, dai pareri sinceri ed entusiasti ed anche bravissima grafica, infatti mi ha realizzato il banner che vedete sempre all'inizio.

Ringrazio Binaca Lyra Petrova, una delle mie lettrici più adorabili ed entusiaste.

Ringrazio Maria, che è sempre dolcissima.

Ringrazio Aurore, che scrive sia storie che recensioni splendide.

Ringrazio Adua, che sa cosa vuol dire tutto questo.

Ringrazio Arianna C, perché è una lettrice favolosa.

Ringrazio Paola, perché so che mi legge sempre.

Ringrazio Emide, Deborah93 e Lilyachi che leggono e recensiscono, pur essendo arrivate da poco.

Ringrazio Michelle Verace, che è una lettrice stupenda.

Ringrazio Liz e Roberta, Josie5 e Carmen, per leggermi.

Ringrazio Lyset e Bruli, che mi hanno invogliata a continuare la storia.

Ringrazio fufe, Angel Shanti, Ellie, Gray e Fouis, Incenseash e Cristina che mi hanno reso tanto felice con le loro recensioni.

Ringrazio Caterina, mia prima lettrice. 

Ringrazio Alessandra, mia conterranea, fra le autrici migliori che mi sia mai capitato di leggere.

Ringrazio Loveyoualone, una lettrice meravigliosa che mi commenta sempre su Wattpad. 

Ringrazio Dheja e Marika98, arrivate da poco, mi hanno reso felicissima.

Ringrazio la mia migliore amica, Stefania, perché quando si tratta di parole, lei capisce tutto anche senza che io dica niente.

Ringrazio Alessandro, perché ogni tanto succedono delle cose veramente belle; perché riesce a vedermi davvero, nel silenzio e nelle parole, sempre. 

Ringrazio la mia famiglia perché mi lascia sognare e, al tempo stesso, mi aiuta a stare con i piedi per terra.

Ringrazio quei professori che mi hanno insegnato la vita e non solo le loro discipline.

Siete tutti meravigliosi. Ed io vi auguro di imparare a conoscervi, di amarvi, di essere voi stessi con accanto persone che meritano di starvi accanto, di avere speranza e pazienza e continuare a combattere per i vostri sogni. Lasciate che non si infragano mai. E se ci sono dei sogni infranti, fate che quei sogni siano terreno fertile per altri sogni, forti abbastanza da non spezzarsi mai.  Grazie, grazie di cuore a tutti voi.

Se vi va di parlare con me, ecco a voi il mio profilo facebook, qui trovate la pagina dedicata alla storia, poi il mio account su Wattpad, ed un video su you tube dedicato alla storia.

Oh e già vi dico, e spero che vi faccia piacere, che arriverà di sicuro un missing moment. Se l'ispirazione e il tempo sono con me, anche più d'uno! *-* Ed in particolare, uno è già stato scritto :3

A tutti voi,

grazie.

Un bacio,

vostra Aniasolary.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo extra. La ragazza spezzata. ***


capitolo extra di until
h 
Dopo un grande dolore
viene un sentimento solenne,
i nervi siedono cerimoniosi come tombe,
il cuore irrigidito si chiede
se proprio lui ha sopportato,
e se fu ieri, o secoli fa.
I piedi meccanici
  vagano su una strada arida
di terra o d'aria o di qualsiasi cosa,
indifferenti ormai: 
una pace di quarzo, come un sasso. 
Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
la ricorda come gli assiderati 
rammentano la neve: 
prima il freddo, poi lo stupore, infìne
l'abbandono.

Emily Dickinson




Anno 2005

Nell’istituto Saint Vincent, c’è la stanza del cuore di Yvonne Grace, nove anni, lunghi capelli ramati e occhi color nocciola splendenti, meteore stanche cadute sulla terra, ma con la forza di brillare ancora.

La stanza del cuore di Yvonne Grace è fredda, dai muri alti alti, con casse piene di giochi, anche se cinque su dieci sono rotti, e un camino spento con davanti un tappeto di spugna, di quelli che si mettono insieme come dei pezzi di puzzle. Nell’angolo, una busta di carta con vecchi libri illustrati. È lì che Yvonne corre, e le sue mani incontrano quello che, a scritte dorate, è chiamato “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, con tanti bei gattini ed un gabbiano…

La piccola Yvonne si volta e un urletto le scappa dalla sua gola.

«Shhh!» fa il bambino ricciolino steso sul tappeto, posando il dito indice sulle labbra. «Se urli le suore ti sentono e lo sai che alle dieci dobbiamo già essere a letto!»

«Hans. » Yvonne sbuffa. «Mi hai seguito! Di nuovo!»

Hans sbuffa allo stesso modo di Yvonne, i grandi occhi grigi dalle ciglia lunghe e nere. «Ma tutti dormono… mi sentivo escluso.»

Yvonne si sposta i capelli lisci con fare da principessa bellissima e raffinata. «Va bene, puoi restare.»

Gli occhi di Hans si fanno più grandi, luminosi, e il suo sorriso gli spacca il viso in una geometria asimmetriche, stramba, unica. «Grazie, Vonnie. Adesso continui a leggere?»

Sguardo in alto, mento sollevato, libro stretto al petto, Yvonne cammina verso il tappetino e, una volta arrivata, ci si siede a braccia conserte. «Certo. Vuoi che legga ad alta voce?»

«Potresti?» Hans sembra quasi implorarla.

«Certo, sciocchino.»

«Grazie, Vonnie.»

Yvonne stira le labbra, si sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio per stabilire la giusta concentrazione.

«"Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come  una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L'umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.» Yvonne continua a leggere. « “La pioggia. L'acqua. Mi piace!” stridette.

“Ora volerai” miagolò Zorba.

“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.

“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.

“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi.

“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena.

Fortunata scomparve alla vista, e l'umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa. “Volo! Zorba! So volare!”»

Un respiro pesante la distoglie dall’attenzione. Fa un respiro profondo, volta la testa e incontra la testa ricciuta di Hans, disteso su un fianco. Lo spintona leggermente. «Hans?» Nessuna risposta. Yvonne si morde le labbra e si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Hansie? » Un altro spintone ed Hans cade completamente disteso sulla schiena, addormentato con entrambe le mani sotto l’orecchio sinistro quasi a volersi abbracciare da solo e una buffa espressione con la bocca aperta. «Oh, Hansie,» sospira Yvonne. «Sei il solito dormiglione… La gabbianella ha appena imparato a volare! Ti sei perso una scena fantasmagorica… Dopo tutte le volte in cui ci ha provato forse nessuno ci sperava più che avrebbe volato! Ma io sì.» Chiude il libro, lo solleva e colpisce, leggermente, la testa di Hans, che mugugna un po’. 

«Ti stavo sognando,» risponde lui con la voce impastata dal sonno. Forse sta ancora sognando.

Yvonne Grace sorride, anche se adesso è solo Vonnie accanto ad Hans Renton, nove anni e mezzo, grandi occhi grigi, pelle chiara e morbida come il pane bianco la mattina a tavola, Hans che canticchia tante canzoni con in mezzo la parola “love” e “Come on”, e il sorriso asimmetrico come tante rette che convergono a  formare quello può essere solo e soltanto il suo Sorriso.

Vonnie si addormenta accanto ad Hans Renton.

Sognerà di essere una gabbianella che non sa ancora volare, ma lei sarà forte abbastanza.

Lei avrà speranza. 

Il mio nome è Joshua Silvers e sono addormentato dentro di me. Prego. Prego che mia figlia possa salvarsi.

*** 

Settembre 2014

Hans Renton

Sento un fruscio contro le gambe, e non riesco ancora a capire se sto ancora dormendo o no, se questo è uno di quei sogni che si fanno all’alba e che si dimenticano appena apri gli occhi.

Un fiato caldo contro le mie palpebre chiuse.

«Hans, oh mio Dio… » No, non sto dormendo, perché nei sogni è tutto evanescente, sbiadito, e vorresti che restasse per sempre ma poi scompare. Quando apro gli occhi, Yvonne è vera e una macchia di colore forte e accesa, marrone chiaro dei suoi occhi, il biancore della pelle, le ciocche bionde che si confondono fra i suoi capelli castano ramati.

«’Giorno.»

«Ci siamo addormentati qui sul tappeto, se le suore ci scoprono…»

«Vonnie, dai…»

«E ora? E se ci scoprono?»

«Non ci scopriranno. Non ci scoprono nemmeno quando vengo a dormire nella tua stanza. »

«E se si arrabbiassero e ti facessero andare via… »

«Von… »

«Ti farebbero andar via… »

«Ma no…» 

«Hans...» 

«Yvonne, ascoltami.»

«... Se ci perdiamo di nuovo io sono persa per sempre.»

Ho le corde del cuore attorcigliate, tese, e non riesco ad emettere alcun suono. Se ci perdiamo di nuovo io sono persa per sempre Piano piano le corde del cuore si sbrogliano, e nasce una strana melodia mai imparata, improvvisata, piena di parole assurde che vengono dalla notte, dai giorni d’infanzia passati a correre, dai libri che Yvonne mi leggeva con la sua voce di bambina

Vonnie coi capelli ramati, non ti ho mai persa. Sei il nodo che blocca le corde che ho nel cuore, lo stesso che non ho toccato per anni perché sapevo che non sarei mai riuscito a scioglierlo. Sei la mia canzone incompiuta, poesia mai finita, una risata cristallina a metà, una storia di cui non ricordo il finale. Sei un sogno spezzato, come me.

Con le mani che tremano estrae un accendino e si accende una sigaretta, frenetica, con gli occhi chiusi, soffiando il fumo verso l’alto da sdraiata.

Ma sei il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei una storia amata da uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti per non dirti addio. 

Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te.

E per questo, io le prendo la sigaretta dalle labbra e la spengo sul marmo del pavimento e la bacio.

Ha le labbra secche; profumano di bagnoschiuma al gelsomino e fumo e mi cercano ed io la abbraccio, stringo Yvonne a me come se qualcosa stesse per separarci per sempre ed io non voglio, io voglio finire la mia canzone, trovare una parola per questa poesia, continuare questa storia. Le accarezzo i capelli, la mia mano scende sulla sua schiena. Trovo l’elastico dei pantaloncini e la sua pelle, la sua pelle e…

«Perché… perché, Hans, perché? » Yvonne si stacca delle mie labbra e lascia tutto, tutto di me per mettersi in piedi. Cammina avanti e indietro per la stanza e le lacrime scendono sul suo viso e non capisco. Sono innamorato di lei e non capisco.

«Vonnie…»

«Perché devi rovinare tutto, eh, Hans? » Singhiozza.

«Yvonne.» Mi alzo dal tappeto e la raggiungo, veloce. E odio quelle lacrime e odio che siano sue e odio non capire. Ci sono poche cose capisco di quello che mi accade o ed è accaduto. Mia madre mi ha abbandonato. Il mio migliore amico mi accetta per quello che sono. La mia chitarra è la mia casa. E poi...

«Sono innamorato di te.»

«No.»

«Sono innamorato di te e dormo con te e sono il tuo amico, sono le tue spalle quando il peso è troppo, sono i tuoi occhi quando non riesci più a piangere, sono tutto quello che non si è spezzato di te e tu sei tutto quello che non si è spezzato di me ed io ti amo. »

«Smettila,» mi urla contro.

«No, Yvonne, ascolta…»

«Vattene via.»

«Vonnie.»

«Vattene via, ti prego.»

«No, no, non posso.»

«Hans, ti prego.» Cammina a grandi falcate verso la porta ed apre senza nemmeno controllare fuori. «Vattene, se non vuoi che ti vedano. Mi inventerò una scusa, dirò che ho perso la chiave della stanza e non sapevo dove andare… devo aprire la finestra se no si sentirà la puzza del fumo e oddio, perché…»

«Che cosa senti?» Non mi interessa di chi ci sentirà. «Che cosa senti, Yvonne? »

«Sento nel profondo che voglio solo e soltanto che tu vada via!» Scoppia.

Voglio odiarla. Voglio odiare mia madre, che quando avevo quindici anni mi è venuta a trovare con la sua nuova famiglia di cui non posso fare parte, perché io sono il suo errore più grande. Odio Phil che mi conosce troppo bene per lasciarmi stare ed odio lei. Voglio che l’amore sia solo una parola che fa rima nelle canzoni, niente di più. 

Chiuso nella mia stanza, con la chitarra sulla pancia, cerco un modo per salvarmi, per salvarla, per salvarci. Ma forse non esiste e questo mi dà la prova che quello che sento è disperatamente vero. La seguirei ovunque, anche nell’orrore peggiore che  potrebbe mai capitarci, per poi cercare di riportarla su. Perché è lei, è Yvonne, è Vonnie. Per un attimo, ho pensato che amarla come sogno di fare ci avrebbe salvati per sempre. Ho pensato che amarla l'avrebbe aiutata a volare via dal dolore che le si è radicato dentro, volare via per sempre, come la gabbianella di cui leggeva quando era bambina. Amarla è la forza della mia rassegnazione, amarla è l’unica costante che io abbia mai avuto, è l’unica cosa che sono sempre stato, anche quando per poco l’ho dimenticato. E mentre lo dimenticavo, si radicava sempre più in me stesso, diventava parte di ogni mio pensiero senza che io me ne accorgessi; ogni volta che suono sento lei, ogni volta che una ragazza mi sorride vedo lei.

Sono io, e c’è sempre lei, anche da solo, e non riesco a pentirmi di questo. 

***

Yvonne Stewart/Silvers

 

In questa sera calda di settembre, metto il grembiule rosa da cameriera mentre corro verso il bar dove lavoro ogni giovedì. Mi danno pochi dollari, ma è abbastanza per comprare la tinta e le sigarette che nascondo fra il materasso e la testiera del letto. È tutto quello che mi accontento di avere, è tutto quello che posso meritare.

«Yvonne.» Il proprietario del Ofeil Bar dice il mio nome appena mi vede entrare, sbatto la porta sul retro alle spalle e ne nasce un vento che mi fa muovere i capelli.

«Buonasera, signor Hayden.»

Il signor Hayden sorride con la sua abituale malizia negli occhi, quella di chi ha visto tanto, ha visto troppo; con i capelli brizzolati e i grandi e infossati occhi azzurri.

«Puntuale, eh?»

Lo disprezzo con una forza tale che mi fa tremare, come il tetto di una casa mal costruita in preda ad un uragano; è semplicemente uno dei tanti.

«Come sempre,» gli rispondo.

Tutto quello che sento è fastidiosamente forte, esige che io vi presti attenzione con tutta la degenerante cura possibile. Forse un giorno cambierò.

«Be’, meglio che tu lo sia. Da oggi abbiamo una nuova cameriera, se ti comporti male abbiamo già la tua sostituta.»

Continuerò a sperare. Mia madre è il mio più bel ricordo d’infanzia; aveva splendidi capelli lunghi, castani e dai riflessi color rame; non dimenticherò mai il giorno in cui, portandosi una mano alla testa, ho visto ampie ciocche cadere sul pavimento ed io ho temuto solo per la sua dolce bellezza, non per la sua vita. E quando è morta, con le mie mani strette alle sue, un fazzoletto giallo sulla testa e gli occhi nocciola colmi di lacrime troppo deboli per cadere, mi ha ripetuto di non avere mai paura, di non perdere mai la speranza.

Qualcuno in fondo ride: è un suono animalesco e senza contegno, di chi si crede migliore, di chi è sicuro di sapere tutto, soprattutto di me, solo per il fatto che tento ogni giorno di nascondere me stessa sotto uno spesso strato di fondotinta.

«Dici che ci mette cinque ore per venire a lavoro così sistemata senza mai fare ritardo? » dice una ragazza che sorpasso velocemente, senza guardare.

Ci metterei anche tutta la vita, se servisse a cancellare tutto.

Arrivo in cucina, dove l’odore di fritto e di dolce mi arriva alle narici intenso e familiare; un posto dove devo solo rispondere agli ordini, e quasi le persone che lavorano con me smettono di fissarmi per pensare a qualcosa di più importante. Dove nessuno, anche se volesse, potrebbe mai lamentarsi di quello che faccio.

Vedo dell’immondizia lasciata in un angolo, un sacco verde, dico che vado a buttarla via io. Lavorare mi aiuta a non pensare. Muovermi senza pause atrofizza i ricordi e riesco, per pochi attimi, a sentirmi buona a qualcosa per quello che faccio e non per quello che sono, anche se si tratta di spazzare per terra, lavare vetri della finestre, portare le ordinazioni ai tavoli; buttare via la spazzatura, come faccio adesso nella stretta strada grigia con i rumori dei clacson e le risate lontane.

«Pensi davvero che si arrabbierebbe?» È una voce maschile, quella che sento, e la conosco.

«Arrabbiarsi? Oh, impazzirebbe. E cercherebbe in ogni modo di farmi cambiare idea.» E la voce femminile, squillante e allo stesso tempo delicata, emerge dal presente e dalla memoria.

«E poi?»

«Ed io gli direi: sì, hai ragione.» Silenzio. Una risata nervosa. «E poi tornerei da te.»

Premo con il piede l’asta per alzare il coperchio della spazzatura; ne viene fuori un rumore metallico che, inevitabilmente, interrompe sul nascere il bacio dei due che sono proprio qui, stretti contro il muro in mattoni sul retro del bar, nascosti.

Mi guardano, ma io ho già visto loro. Butto la busta nel cesto apposito ed alzo di nuovo lo sguardo, mi stanno entrambi fissando.

«Va’, Holly,» le dice Phil, il migliore amico di Hans, con gli occhi verdi socchiusi e i tatuaggi su entrambe le braccia scoperte. La lascia andare sfiorandole appena i fianchi su cui ricade il suo grembiule rosa da cameriera. Lei è la ragazza nuova.

La sorella di Cameron.

«Ci vediamo domani,» continua lui.

«Non volevo interrompervi,» dico, e un grande fastidio mi travolge, un fastidio che non voglio spiegare. «Io torno dentro.»

Corro via e quando rientro il caos in cucina è tipico del fine settimana, anche se è solo giovedì. Ma l’Ofeil Bar è sempre strapieno, ed io non posso fare a meno di sentirmi sollevata per questo, per non pensare, per non pensare a…

«Yvonne, questo al tavolo nove,» mi dice la cuoca.

Meccanico. Non pensare. Respiro. Afferro il vassoio con entrambe le mani, guardando per un solo attimo il contenuto. 

«Yvonne!» Sento Holly che mi chiama. Devo lavorare, sbrigarmi, non pensare. Non pensare mai più, chiudere le porte a quel pensiero, non sentirlo. Non mi fermerò. «Yvonne!»

Trattengo il respiro.

Martin Scott e Sarah Pierce sono seduti lì, in fondo, al tavolo nove. Se ne stanno abbracciati; lei racconta qualcosa e lui la ascolta, interessato, giocherellando con una ciocca dei capelli di lei. E non c’è nulla che non dica che in tutto questo c’è amore, anche solo nel guardarsi, nell’ascoltarsi.

Qualcosa che non posso avere.

«Yvonne.» Holly mi raggiunge, con il fiatone. «Per favore, non dire niente a Cameron di me e Phil.»

Solo ora mi accorgo che quel ragazzo bruno seduto accanto a Sarah è proprio Cameron Dixon, che ride con Julia Moore, la ragazza con i folti capelli rossi.

«Non dirò niente,» dico, e Martin bacia Sarah e riesco a vederli, riesco a sentirli, insieme sono felici. Mi si contrae lo stomaco al pensiero che quel ragazzo, che ora sembra un altro, mi ha baciata e toccata, ed io ho lasciato che mi baciasse e mi toccasse per qualcosa che è troppo radicata nel passato per scomparire nel presente. Fredda sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa di vodka e le sue mani sotto la gonna. Scuoto la testa. «Porta tu l’ordinazione, così lo saluti.»

Mi somigliavi così tanto, Martin Scott. Ti fingevi felice così bene, con tutta la vita che ti scorreva davanti e i dubbi sbagliati.

Fredda sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa di vodka e le sue mani sotto la vodka. Pensa all’amore, cos’è l’amore? Devi farlo, Yvonne. Devi lasciarglielo fare. 

Darmi a un ragazzo che non ricordava nemmeno il mio nome per guardare cosa aveva nelle tasche...

Non pensare, Vonnie.

Stringo gli occhi, il ricordo sale in superficie, non sono abbastanza forte da farlo restare sommerso e mi arriva addosso in tutta la vergogna che ho per me stessa.

Hans.

È tutto spezzato: il cuore, la vita, i sogni. Non riesco a far restare in piedi niente, altrimenti crollo io.

Sono già corsa fuori, e la sigaretta sembra scivolare dalle mie dita tremanti, la mia bocca  freme mentre aspetta quel contatto che forse potrà  darmi sollievo. Come quando a quindici anni il mostro mi picchiò tanto da lasciarmi chiazze violacee sulle braccia. E quando fuori da un negozio di sapone in cui avevo cercato qualche crema per lenire il dolore uno sconosciuto mi offrì una sigaretta con lo sguardo vacante di chi non ha niente per cui star male, accettai. Il sapore era pessimo, lo odiai subito: lo odiai così tanto che per un istante dimenticai i lividi, riuscii a ricordare meglio mia madre con la speranza negli occhi. E riuscii a salvarmi.

Inspiro ed espiro il fumo, almeno riesce a rendere evanescente il volto di Hans, i suoi occhi grigi che splendono, il viso incastonato nei ricordi e al risveglio di ogni giorno della mia vita. Per un attimo, lui scompare.

«Ti dispiace se ti scrocco una sigaretta?»

È ancora Phil ed io faccio un’altra boccata, magari riesco a far scomparire anche lui.

«Scordatelo.»

«Che acida.»

«È uno dei miei appellativi migliori.»

«Si vede che non hai mai sentito Hans parlare di te.»

«Te l’ha raccontato, non è così?»

«Mi è bastato guardarlo.» Phil si avvicina e il fumo gli arriva addosso; gli occhi verdi sono intensi e scavati sul viso pallido, i capelli corti da militare e la bocca stirata in un’espressione affranta che mi trapassa, come se il mio dolore non bastasse, come se oltre il disprezzo dovessi ricevere anche questo, da chi non sa niente. Da chi crede di sapere. «Lo so, Yvonne.»

Continua a parlare. «Lo so perché Hans ha perso la testa per te. Sai, quando sei andata via, tre anni fa,  io ero arrivato da poco, ed ho visto Hans incassare il colpo. Hans incassa sempre tutti i colpi possibili, anche quando non sono solo colpi ma peggio, spade. Ogni dolore gli rimane conficcato dentro come una lama, e per questo Hans resta a distanza di sicurezza da tutti, con gentilezza, la gentilezza con cui è nato, credo, perché se fossi in lui manderei molta più gente a fanculo. Ma lui è diverso. Lui ha le lame che gli escono fuori dal corpo e non si lamenta con nessuno. Se si deve avvicinare lo fa con calma, per non ferire gli altri con le spade che hanno trafitto lui… Ma allora, Yvonne, perché è così vicino a te?» mi chiede, e nella voce ha una rabbia e una stanchezza che può avere solo chi è vicino a una persona malata, a una persona che non vuole guarire. «Perché, Yvonne? Perché sei come lui. Perché hai le lame di tutte le cose brutte che ti sono successe che ti escono dal corpo, e combaciano con quelle di Hans. Voi vi incastrate. Lui si è incastrato e ti è stato vicino come non lo è stato con nessun' altra. Ed il rifiuto che gli hai dato l'altro giorno è stata una lama in più.»

E allora io mi sono trafitta da sola. Mi giro e spengo la sigaretta contro il muro, ci appoggio la fronte anche se è sporco perché io sono sporca dentro.

«Applausi.» E applaude davvero. «Che cos’hai nella testa? Si vede da un chilometro che muori per lui, anche non potresti essere più viva.»

La lacrime coprono il sapore del fumo.

Sento il suo fiato contro il mio orecchio e la sua voce sembra un’implorazione, con tutta la dignità possibile. «Smettila di trafiggerlo.»

Rido nelle mie lacrime, perché ho pietà di me, perché la speranza che ho visto negli occhi di mia madre è rimasta, per mio padre è rimasta, l’Yvonne figlia è rimasta, ma la ragazza di diciassette anni è distrutta. 

«Ed Hans non aveva paura di trafiggere te?» gli chiedo.

Phil ride. «Io ero già ferito mortalmente.» Si allontana. Scalcia via qualcosa, forse una bottiglia di birra. «Ma al saint Vincent stiamo tutti messi molto male, giusto?»Sento il suo sospiro. «Avere un amico come Hans per un po’ te ne può fare dimenticare, però.»

Le lacrime scendono. «Lo capisco.»

«Torna all’istituto, Yv. Sei un disastro. Chiamo Holly e ti copre lei.»

***

Aspetto nascosta in giardino fino all’una di notte, mi ricordo che fra tre giorni potrò andare a trovare mio padre. Mio padre, che vive nei momenti in cui gli racconto le mie giornate, rigido nella sua compostezza sofferente. 

Apro il portone con le chiavi; chi lavora di sera può usarle, anche se solo nei giorni autorizzati. Percorro le scale correndo, e il solo ritornare qui mi riporta ad Hans in ogni sua immagine conosciuta; la sua memoria infallibile mentre giocavamo a memory, i broccoli che lasciava sempre nel piatto, il forte abbraccio che ci siamo dati quando gli ho promesso che sarei tornata a trovarlo, gli sguardi ostili quando ci siamo rivisti dopo tre anni e le notti serene in cui ha dormito con me... io che lo spingo via dopo il suo bacio.

Perché… perché devi rovinare tutto, eh, Hans?

Mi porto le mani al viso, ritrovandolo di nuovo bagnato di lacrime.

Perché è così facile parlarti come se parlassi con me stessa allo specchio? Accusarti come io accuso me?

Ancora qualche altro scalino.

Perché sono io quella che ha rovinato tutto, non tu. E così sto distruggendo te. Un singhiozzo. Non voglio distruggerti, Hans.

E lì lo vedo. 

Seduto sull’ultimo scalino, il più alto, per entrare nel dormitorio femminile. Mi si mozza il respiro come se non ci fosse più aria, perché mi sta guardando. Con i capelli morbidi di un riccio discreto, gli occhi grigi assonnati ma incredibilmente accesi sul volto di una bellezza che non tutti possono capire. Si alza dal suo posto e mi sovrasta con la sua altezza imponente. 

«Von,» mormora. «Dov’eri finita?»

Deglutisco. «Ero a lavoro.»

«E per il resto?»

«Oh… be’…» Ho semplicemente cercato di evitarti. «Ho avuto da fare.»

Il suo sguardo è attraversato da un guizzo, la pietra appuntita della mia bugia sull’acqua dei suoi occhi, perché sa che cosa nascondo, lo sa come se a pensarlo fosse lui stesso.

«Capito,» dice invece. Si passa una mano fra i capelli e vedo la sua incertezza, qualcosa di spossante che trattiene con una smorfia di fastidio, come se si sentisse responsabile. Ma responsabile di cosa? Smette di guardarmi e si mette le mani nelle tasche dei jeans, scende qualche scalino. Ha quell’espressione triste e allo stesso tempo dolce che gli sta addosso da quando era bambino, un bambino che ora non è più. È alto e ha le mani grandi dai polpastrelli duri ed ha diciassette anni. 

«Buonanotte, Yvonne.» Mi sfiora passandomi accanto.

«Hans,» lo chiamo, voltandomi verso di lui. Si gira verso di me, in attesa, con le labbra sottili e rosee leggermente dischiuse. «Quella mattina… quella mattina io…»

«Non c’è bisogno di parlarne,» dice Hans, sicuro, anche se le sue guance si colorano e pare tremare anche se resta immobile, come se fosse l’aria, invece, a tremare per lui. «Scusami. Vado a letto adesso… ma posso restare con te, se vuoi.»

È come se mi avessero buttato addosso dell’acqua ghiacciata per farmi svegliare da un sonno pericoloso, perché vorrei correre da Hans ed abbracciarlo e non so cos’altro perché mi spaventa il nome delle cose, il nome delle cose le rende di un’intensità che non riuscirei a sopportare.

 «Certo,» sospiro, come in un sogno. «Lascio socchiuso il cancelletto con la chiave, e poi…»

«… poi arrivo, chiudo a chiave, la prendo, torno indietro, busso tre volte con tre secondi di differenza. Sveglia alle cinque all’orologio.» Sorride.

Il suo sorriso diventa mio, sembra nascere da me, un albero con le radici nelle mie arterie.

***

Hans bussa tre volte.

Io sono qui ad aspettarlo come se non facessi altro da sempre, sapere che lui è dall’altra parte della soglia mi ridà la facolta di respirare normalmente. Quando lo vedo, però, il respiro va via di nuovo. Entra veloce, guardandomi appena, con le sopracciglia arcuate per la tensione, perché finora nessuno l’ha mai scoperto ma la preoccupazione c’è sempre.

Mi porge la chiave, facendola ciondolare di fronte al mio viso. 

«Fatta anche stavolta,» dico.

«Meglio di una spia.»

Rido, piano. Nella notte, nel silenzio solo nostro, nel pensiero che mi starà accanto.

Mi corico dal lato sinistro, quello dove dormo da una vita, ed Hans mi si mette accanto, supino. Alza di poco il viso per guardarmi, il suo sorriso è una linea tremula dettata dalla stanchezza, qualcosa che mi riserva ancora.

Come puoi, Hans? Come fai? Mi carezza il viso con la punta delle dita, i suoi duri polpastrelli da chitarrista, l’unico regalo che gli ha dato la vita: la sua anima pura anche nel dolore. È per questo che non mi odi, Hans. Sei troppo puro per questo. Quella sporca sono io.

«’Notte, Vonnie.»

«’Notte, Hans.»

Si volta dall’altra parte. Nel buio, mi ritrovo ad immaginarlo come l’ho appena visto. La maglia blu del pigiama che gli va lenta, i capelli scompigliati, la luce argentea che gli viene da dentro e che mi travolge ogni volta. È, forse, la polvere del suo sogno spezzato? Il pulviscolo che ci resta intorno, l’esperienza che riesce a vedere solo chi già sa? 

E vorrei tanto chiamare per nome quello che sento, quel non riuscire a respirare, il sorriso che cerco di nascondere, la sicurezza assoluta che mi salva dalla solitudine, perché Hans è questo. Hans è costante, forte, invincibile anche quando sente di morire. C’era la vita, nei suoi occhi, quando cadde a terra dopo lo sparo. Aveva quello sguardo che diceva “ho imparato resistere da quando sono nato”. Lo stesso sguardo con cui mi ha raccolto da terra tante sere fa, nel bagno delle ragazze. Ho imparato a resistere da quando sono nato ed ora lo faremo insieme. Mi sono addormentata fra le sue braccia, quella notte. Ho bisogno di te, Hans. Avrò sempre bisogno di te. 

Se dessi a tutto questo quel nome sarebbe impossibile tornare indietro. Sarebbe impossibile non spezzarmi di nuovo, e non spezzare lui.

«Ehi… ti muovi sempre, non riesci a dormire?»

Sei così bello. E così dolce, e gentile, e maturo, e incredibilmente tenace. Te l’ha fatta pagare, la vita, ma tu dai a lei guadagno, perché hai coraggio, un orgoglio sottile che non ti fa prostrare alle umiliazioni, ti fa accettare per quello che sono le cose che non possono cambiare. Come me. Come me, Hans.

Me ne sto con gli occhi chiusi.

«Vonnie… stai bene? » Sento la sua mano che mi scuote la spalla.

Bene? Mi sono persa, di nuovo. Mi salverei con una sigaretta, ma ormai ho imparato che in realtà non mi salva da niente. Mi sono persa, Hans, perché la cosa a cui non voglio dare un nome mi stordisce, mi scorre nel sangue, non mi fa dormire.

Sei tu.

Sento il suo respiro sul viso; odore di neve e muschio.

Apro gli occhi e lo scopro così vicino che se solo mi innalzassi di poco potremmo combaciare perfettamente, come due incastri di metallo, due spade che si toccano. Lo guardo, e sento gli occhi umidi, il cuore mi batte forte, e il mio respiro si trasforma in un leggero affanno e la mia pancia sfiora il suo fianco con il solo movimento di vivere, inspirare ed espirare. E lui mi guarda e aspetta. Io aspetto di calmarmi, ma non succede perché non voglio dare un nome a tutto questo, ma tutto questo un nome ce l’ha già, senza il mio battesimo.

E così, nell’onda travolgente di una consapevolezza che ho respinto con la diga della mia paura, mi sollevo leggermente e le mie labbra toccano le sue.

Nel buio tutto diventa vivido come non l’ho mai guardato alla luce del sole. Con le palpebre chiuse percepisco il suo corpo rigido, sorpreso, perché questo bacio è inaspettato, non lo aspettavo io, non lo aspettava lui. Ma nel tempo di qualche lento secondo lo sento sciogliersi contro di me in tutto il suo calore, e così lui bacia me. Sento la sua mano accarezzarmi i capelli, sorreggermi sulla nuca, baciarmi spirando tutta la forza che può avere.

Quanto vorrei essere capace di spiegargli che sto sbagliando. Che quello che Hans desidera non è quello che merita.

«Mi dispiace così tanto…»

Scuote la testa contro di me, i riccioli dei suoi capelli mi sfiorano. «Dispia... Dispiacerti?»

Gli sfioro le labbra con le dita. «Se continui così non sarai mai felice, Hans. Con me non lo sarai mai.»

«Ma Von...»

«Ho distrutto tutto.»

«Non è vero.»

«Lo è...»

«Quello che ti è successo ti rende quello che sei. Io amo quello che sei.»

«No! Non puoi!» gli sibilo contro. Chiudo di nuovo gli occhi. «Quando mi hai baciata ho ricordato gli unici baci che mi sono mai stati mai dati... avevano il sapore del liquore e nient'altro. E quando mi hai toccata… ho ricordato lo squallore di tutte le volte in cui l'ho fatto... Ho lasciato che Martin e chissà chi altro prima si sfinisse con il mio corpo mentre fingevo che andasse tutto bene ma niente andava bene, volevo solo morire... come ho fatto a resistere? Così io ho ucciso l'amore facendo l'amore, ho distrutto tutte le possibilità di amare che potevo avere perché è stato come rivivere tutto anche se ero con te, con te che non c'entri niente. Meriti questo, Hans? Lo meriti?» Mi stringe contro il suo petto, sono al sicuro, sono in un posto che non potrò mai lasciare, in cui lui mi raggiunge sempre. «Lo meriti?»

Hans che mi bacia, il fuoco che esplode dentro di me. Le sue mani sui fianchi, il fuoco che diventa cenere, nella mia mente mani estranee, bocche estranee, corpi estranei...

«Dio… la mia Yvonne…» Mi stringe ancora di più, mi bacia sui capelli, sulla fronte, tremo. «Yvonne…» 

Mi sembra di aver gettato a terra un peso che mi portavo sulle spalle da sempre, ed Hans mi sfiora e nessuno squallore riemerge dal fondo, ci siamo solo io e lui. 
Hans mi bacia sulle labbra, pianissimo, una ventata calda mi scuote in tutto il corpo, e poi la sua bocca scende sul mento, pianissimo, scivola sul collo, pianissimo, perché ha paura del passato che può portarmi via se mi stringe troppo forte. Ma io non lo fermo. Mi mordo le labbra e lui scende ancora, bacia ovunque la pelle sia scoperta, con le sue dita che sfiorano i bottoni e li fanno venir via. Scende ancora, mi mordo le labbra, stringo la sua testa contro il mio petto. Non voglio credere ai miei occhi chiusi, al fatto che lo sto permettendo, ma la camicia da notte è completamente aperta ed Hans scende ed io riesco a pensare solo ad Hans… Hans, Hans, Hans…

Muove le mani in qualcosa di meravigliosamente sconosciuto, e la lucidità scompare e conosco solo un abbandono, l’unico abbandono in un cui è possibile essere ancora più uniti a qualcuno. Respiro piano, per non far rumore, per non tradirmi, per riuscire a riafferrare i pensieri ora scomparsi con il corpo di Hans contro il mio.

«A cosa hai pensato?» mi chiede Hans, soffiando sul mio orecchio, ed io riesco a mala pena a capire il senso della sua domanda, anche se niente arriva veloce come la mia risposta.

«A te.» Il cuore palpita, il cuore mi scoppierà e morirò. Morirò in questo sogno.

«Allora non hai ucciso l'amore.» Hans mi accarezza la fronte con le labbra, mi respira.«C'è ancora qualcosa.» 

Sento una lacrima bagnarmi la guancia, arrivare fino alla mia bocca e, per la prima volta, il suo sapore non è amaro di dolore. Viene solo dal mio sollievo, dalla mia gioia, perché mi rendo conto che Hans ha ragione. Perché l’amore non l’avevo mai provato prima ed è questo,  covava dentro di me nella bambina che ero ed è esploso adesso nella ragazza spezzata di diciassette anni. Diciassette anni? Mi sembra di aver vissuto anni e anni di più per tutto il peso che entrambi ci portiamo dentro, e mi sembra di aver vissuto molto meno perché non riesco a controllare cose semplici come qualunque mio sentimento. Hans mi copre con la camicia da notte e mi abbraccia, sollevandomi contro il suo petto; le mie ciglia sfiorano il suo collo, le mie lacrime sulla sua pelle. E in un attimo in cui riesco ad aprire gli occhi, e guardarlo in questa sua bellezza che mi cura dentro, mi ribello al fatto che mi abbia coperta. 

«Baciami ancora,» gli sussurro. Il suo amore è volato a me ed ora il mio volerà a lui. Perché ha già la mia anima, ma io voglio donargliela ancora.Lascio scivolare la camicia dalle spalle con un sospiro e così anche tutti i suoi vestiti, e nel buio lo vedo – la luce dei lampioni ci raggiunge dalla tapparella abbassata solo di poco – ma io riesco a vederlo perché lui ha la sua luce, lui ha qualcosa di argento e grigio che mi riempie di meraviglia. Lui, con la pelle così chiara, la cicatrice dello sparo sull’addome teso, prova di di una delle tante cose che l'hanno segnato sul corpo perfetto. I suoi capelli che mi sfiorano la fronte e il respiro pesante per il solo sfiorarci.

Dai nostri corpi vengono fuori le lame dei nostri dolori, lame che nei loro scontri si scheggiano fino a diventare sempre più sottili, sgetolandosi all'esterno, ma rimanendoci dentro. Ed ora l’amore è nelle mie mani, sulle mie labbra, in ogni parte di me, per lui; in ogni parte di lui, per me.

E so che ricorderò questa notte come la mia prima volta, perché per me lo è davvero.

Hans mi culla, io lo cullo; i suoi capelli mi sfiorano, il fiato caldo sulla mia pelle, stringo più forte le gambe intorno al suo bacino, come se potesse mai lasciarmi adesso, adesso che l’aria non basta e sfugge dalla gola, e le labbra si toccano appena e gli sono vicina e mai abbastanza, mai abbastanza, mai abbastanza ed allaccio le mani al suo collo e siamo stretti, sempre più stretti, e lui si fa vicino e lontano, vicino e lontano, lontano. Lontano, per l’ultima volta.

Si si lascia cadere su di me ed io lo accolgo fra le braccia, in uno scontro stanco in cui sento di essere completa, di stare bene.

«Von?» mi chiama, con l’impazienza nella voce.

«Va tutto bene.»Annuisco sicura. Le sue palpebre si assottigliano, le ciglia lunghe e scure a fare ombra sul suo volto. 

«Tu volerai, Yvonne… non importa quante volte sei caduta, tu volerai, come la gabbianella…» Hans mi bacia le palpebre chiuse, mi accarezza i capelli, la guancia, le braccia, apro gli occhi, mi guarda come se non mi avesse mai vista prima… come ogni giorno in cui apre gli occhi accanto a me.

«La gabbianella?»

«Il libro che leggevi da piccola.»

L’immagine di me che leggeva sul tappeto di spugna con lui accanto mi torna alla mente. «Credevo dormissi.»

«Ma ti sognavo.» Sorride di sghembo. «Vonnie coi capelli ramati… non ti ho mai persa.  Sei il nodo che blocca le corde che ho nel cuore, il nodo che non ho toccato per anni… sapevo che non sarei mai riuscito a scioglierlo…» Mi posa un bacio sulla guancia ed io sorrido, non riesco a fare altro.

«Che cosa dici, Hans?»

«Una canzone.» I suoi occhi grigi mi scavano dentro la felicità. «Devo scriverla! Hai carta e penna?»

«Nel cassetto del comodino.» Si precipita ad aprirlo, la sua schiena bianca che riluce nell’oscurità. Accende la lampada, torna vicino a me e scrive, parlando a voce. « Sei un sogno spezzato, come me. Sei la mia canzone incompiuta… la mia poesia mai finita, una risata cristallina a metà, una storia di cui non ricordo il finale.

Ma sei il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei la storia troppo amata da uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti, per non dirti addio. Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te. Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te… »

Mi bacia, sorride sul mio sorriso. 

Gli prendo la mano e lascio che scorra sulla mia guancia, a raccogliermi le lacrime. Chiudo gli occhi ed è come se fossi solo anima e non più corpo, non più una ragazza spezzata. 

*

*

*

*

Ciao a tutti, eccomi di nuovo qui! Ecco a voi questo capitolo extra *-* All'inizio credevo che le dinamiche per la storia di Yvonne ed Hans sarebbero state più semplici, ma il passato dei personaggi, soprattutto di lei, ha condizionato moltissimo il tutto. Yvonne è rimasta segnata non solo da quello che è accaduto con le pietre nere ma anche dagli eventi da cui si è fatta travolgere, forte abbastanza per continuare a sperare ma abbastanza debole da poter sbagliare. Mentre lo scrivevo, ho pensato che potrebbe funzionare proprio come capitolo all'interno della storia, prima dell'epilogo. Voi cosa ne dite? :3 Spero che vi sia piaciuto e che vi abbia fatto piacere leggere di Yvonne ed Hans *.*

Il capitolo è introdotto da una poesia di Emily Dickinson. Se notate, tutta Until richiama quello che ha scritto la poetessa, non solo per la questione dei fantasmi di se stessi ma per diversi temi. Le sue poesie sono davvero bellissime *-*

Il libro citato all'inizio è "Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare" di Luis Sepùlveda. Un libro per bambini e ragazzi con un bellissimo significato, commuovente e dolce. 

Grazie a tutti voi che leggete *.* Ed un grazie speciale a tutti coloro che mi hanno lasciato le loro parole per l'epilogo :) 

Un bacio,

Ania :3

 


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1417810