Until di aniasolary (/viewuser.php?uid=109910)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Soggetto pericoloso ***
Capitolo 3: *** 2. La ragazza fantasma ***
Capitolo 4: *** 3. Tracce ***
Capitolo 5: *** 4. Paura ***
Capitolo 6: *** 5. I giorni ***
Capitolo 7: *** 6. L'aspetto del fiore innocente, ma il serpente sotto di esso. ***
Capitolo 8: *** 7. Le ali della speranza ***
Capitolo 9: *** 8. Soggetto individuato ***
Capitolo 10: *** 9. Avvertimenti ***
Capitolo 11: *** 10. Julia Moore ***
Capitolo 12: *** 11. Onda anomala ***
Capitolo 13: *** 12. Pesi e ricordi ***
Capitolo 14: *** 13. Angeli e Giudici ***
Capitolo 15: *** 14. Grigio e Ombre ***
Capitolo 16: *** 15. Di ghiaccio ***
Capitolo 17: *** 16. Il ragazzo coraggioso ***
Capitolo 18: *** 17. Spilli ***
Capitolo 19: *** 18. Segreti nel cassetto ***
Capitolo 20: *** 19. Acqua sporca, acqua pura ***
Capitolo 21: *** 20. Sangue gelido ***
Capitolo 22: *** 21. Sbarre bianche ***
Capitolo 23: *** 22. Doreen Gates. Parte I. ***
Capitolo 24: *** 23. Doreen Gates. Parte II. ***
Capitolo 25: *** 24. Fantasmi argentei ***
Capitolo 26: *** 25. Sogni bruciati ***
Capitolo 27: *** 26. Ritorni ***
Capitolo 28: *** 27. Le ali dei sogni ***
Capitolo 29: *** Epilogo ***
Capitolo 30: *** Capitolo extra. La ragazza spezzata. ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Until
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
Prologo
Inattivo.
La bambina colora di rosso tutto il foglio bianco, con tratti pesanti, come se stesse cercando di bucare la carta. Alza il viso e la luce che filtra dalla finestra le colpisce gli occhi, azzurri, trasparenti come vetro. Continua a colorare, concentrata.
Un’altra bambina le si avvicina, i capelli rossi, fiammate senza fumo sul suo grembiule bianco, così chiaro da riflettere il bagliore di luce che attraversa il vetro della finestra.
«Hai finito il tuo disegno, Sarah?» le chiede.
«Non ancora,» dice Sarah, ha una voce chiara, piccola come lei. Soffia sul foglio e la polvere di mina vola via, a lasciare una nuvoletta rossa in aria che si dissolve.
«Ma cos’è?»
L’altra bambina le toglie il foglio dalle mani e prende ad osservarlo. La sua bocca si muove in una smorfia che presto si trasforma in una risata, e guasta completamente il sorriso di Sarah.
«Perché fai così?»
«È orribile,» dice la bambina. «Non sai proprio disegnare, Sarah.»
Per attivare, premere sul tasto rosso.
«Ridammelo.»
L’altra ride.
«Ridammelo, Julia!»
L’altra smette di ridere.
Gli occhi scuri della bambina con i capelli rossi si fanno due fori da cui sembra passare fumo, mentre solleva il foglio – foglio colorato di rosso per creare il tramonto, una mamma, un papà e una bambina che lo guardano abbracciati, il mare blu ai loro piedi – e lo tiene fermo con due dita.
L’altra bambina apre leggermente la bocca, come se stesse per dire qualcosa. E Sarah ha un’espressione di aspettativa che sfocia nel nervosismo.
Attenda che sia effettuata l’attivazione, per favore.
Ma l’unico suono che riecheggia sul chiasso degli altri bambini è il foglio che si strappa in due.
Stran.
E poi in quattro.
Stran.
«No!»
Stran.
I pezzetti strappati finiscono a terra, lentamente, come se un filo li guidasse sul pavimento, marionette inermi di un gioco che non possono conoscere. Sarah si alza dalla sedia e ne prende qualcuno.
Le lacrime intorno ai suoi occhi luccicano.
«Grazie per avermelo fatto vedere,» dice Julia.
Sarah la guarda, immobile, mentre le lacrime scendono. I pezzi di carta giacciono a terra, rovinati.
Julia si gira, ride, chiama altre bambine. «Venite a vedere che cosa ha fatto Sarah!»
Ma Sarah resta ferma, con le mani a terra, mani piccole e chiare, piccole e morbide sul freddo del pavimento…
E poi Julia bambina non parla.
Smette di ridere.
Cade a terra.
Attivazione in corso.
La maestra si alza dalla cattedra e raggiunge la bambina. «Oddio, Julia! Che cosa succede, sei caduta…?» Stesa sul pavimento, la bambina trema con gli occhi spalancati, i capelli rossi ritti in testa e la pelle tirata, come se avesse preso una scossa. «Julia, Julia, Julia!» La maestra la scuote, ma ora la bambina batte anche i denti, le palpebre, agita le braccia, le gambe… il suo viso non è più roseo, ma ha quella sfumatura grigia di chi è malato e non mangia da giorni.
Tutti gli altri bambini cominciano a piangere.
«Johanna, chiama l’infermiera!» urla la maestra.
Una bambina corre fuori dalla classe, mentre Sarah si stringe la testa fra le mani e piange, continua a piangere.
«Smettila, per favore! Basta, per favore! non voglio farle male, basta, basta, basta! Non voglio farle male, non voglio!»
Tutti si girano verso di lei.
«Basta, basta, basta!» urla Sarah. Povera, povera piccola. Julia smette di tremare e Sarah non urla più. Ci sono solo occhi inorriditi puntati su di lei, smorfie di disgusto, un silenzio che la fa singhiozzare, ancora di più. Povera, povera piccola.
Attivazione in corso.
Julia si muove appena, sul pavimento.
Glu, è il suono che esce dalla sua gola.
Glu, è il suo stomaco che si appiattisce.
«Non volevo…» sussurra Sarah. Ma quando si volta verso gli altri bambini, nessuno sostiene il suo sguardo. «Non volevo!» ripete, ripete ancora, piange tanto, la maestra ora sarà fuori con Julia per vedere chissà quali danni avrà fatto al suo cervello.
Dalla mia finestra, con un cannocchiale e le cimici che ho instaurato nella classe dell’edificio della Starbright, posso vedere e sentire tutto quello che succede.
Prendo in mano il congegno che ho costruito, quello che ho appena sperimentato, quello che sarà legato a lei per sempre e che la renderà, insieme a tutto il resto, la mia arma più forte.
Sarah piange in un angolo della classe.
Attivazione completata.
Lascio acceso il congegno e lo poggio sul tavolo accanto a me.
Sorrido.
Con successo.
*
*
*
*
Ciao a tutti voi <3 Non immaginate quanto sono emozionata nel pubblicare questa storia. Until è la mia prima Originale, e spero di trovare qualche anima buona che mi segua in questo pazzo viaggio :D Wow, che emozione! l'ho già detto? xD
Spero che, se la storia vi ha incuriositi, mi lascerete due paroline, così posso sapere se vale la pena andare avanti <3
Grazie a te che hai letto fino a qui <3
Un bacio
Ania <3
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Capitolo 2 *** 1. Soggetto pericoloso ***
Until capitolo 1
1.
Soggetto
pericoloso
La luce rossa lampeggia.
«Ma l’hai acceso?»
«Ci sto ancora provando.»
Nero, rosso. Nero, rosso. Nero, rosso.
«Dai, faccio io.»
«Ci riesco da solo.»
Nero, rosso. Nero, nero, nero, nero…
Verde.
«Che cosa faresti senza di me?» mi dice Cameron, alzando le
braccia verso il soffitto come Jim Carrey quando apre le acque – il brodo – della zuppa
al pomodoro in “Una Settimana da Dio”.
Si lascia cadere sul letto, con la faccia soddisfatta e
il joystick fra le mani.
«Penso che potrei morire.» Mi siedo accanto a lui.
Quando si
volta verso di me, vedo una smorfia guastargli completamente il viso.
«Questa cosa l’hai detto all’ultima con cui sei
stato?»
«No, no.» Mi volto e prendo il joystick dietro di
me. «Le ho detto grazie.» Mi viene fuori una risata.
«Bastardo.» Mi dà una gomitata, ed io distolgo lo sguardo.
Sul suo vecchio televisore, Goku crea l’onda energetica nel caricamento del
gioco.
Faccio spallucce, ma non riesco a trattenere il sorriso, mentre la sua risata cancella il resto come
con un colpo di spugna.
«Comunque, io prendo Goku.» gli dico.
«No, dai, lo prendi sempre tu, Martin.»
«E allora, una volta in più.»
«No.»
«Dai, Cameron…»
«Ti ho detto che questa volta… »
«Ehi.» La porta si è aperta, e al posto del poster di
Scarlett Johanson travestita da Vedova Nera, vedo la sorella di Cameron che ci
sorride. «Vi va un panino?»
«No.»
«Sì.» dico io, e posso sentire che Cameron sta trattenendo il respiro, almeno per un secondo.
Devo sorriderle e poi tutto il
resto verrà naturale. Qui mi ci vuole dello sforzo in
più, devo ammetterlo.
«Martin, Goku puoi prenderlo tu.» mi dice Cameron.
Lascio che quel pensiero mi sfugga via.
Scuoto la testa. «Non importa, Holly, ho cambiato idea.»
Holly mi
guarda strano, gli stessi occhi neri del fratello,
lo stesso modo di storcere la bocca quando non capisce qualcosa…
non credo di poter mai farlo con Cameron a sesso inverso.
Holly si alza nelle spalle e chiude la porta.
«Non pensarci nemmeno.» fiata Cameron.
«Ehi, l'ho fatto apposta, sapevo che solo così mi avresti fatto prendere Goku.»
«È sempre una ragazza, la sai la regola.»
«Sì, me l’hai imposta quando avevamo quattordici anni.»
«Da quando hai cominciato ad avere ragazze.»
«Sì, mi ricordo…»
«Sicuro?»
«Sì.» Prendo un respiro, roteo gli occhi e mi massaggio il
mento. «Tutte le femmine dell’Universo, tranne lei.»
«Ecco.» Mi dà una pacca sulla spalla.
Non mi ricordo esattamente di come io e Cameron
siamo diventati amici, amici sul serio:
di quelli che aiutano l’altro a rialzarsi in una partita a calcio e che si
dividono il sandwich a scuola
quando
l’altro si è dimenticato i soldi per il pranzo. Tutto
è sfocato, confuso, con risate chiare e voci che imitano il
rombo dei motori in sottofondo.
«Scommetto che ti batto.» La voce di Cameron mi riporta a
galla nella sua stanza disordinata. Io e lui, seduti sul suo letto, la
playstation e i libri di Chimica aperti per terra, reduci di un inutile
tentativo di studio che non è riuscito.
Un angolo della bocca mi si alza verso l’altro, mentre
clicco su play.
«Provaci.»
***
Esco dal portone di casa di Cameron. Sotto il braccio
ho un contenitore di plastica con alcuni pezzi di crostata al cioccolato che mi ha dato sua
madre, e questi, sorella o non sorella, Goku o Vegeta, non potevo proprio
rifiutarli.
Entro in casa, la porta in mogano si apre silenziosa.
«Papà?»
Lo chiamo.
Non risponde.
«Sei
nel tuo studio?» dico. Mi avvicino alla porta
in cui di solito passa il tempo quando si porta il lavoro
dell’azienda a casa. Busso, ma non sento nient’altro che
silenzio.
Scrollo le spalle e vado in cucina. Apro il contenitore, addento un pezzo di torta e il sapore del cioccolato mi si
scioglie sulla lingua, dolce.
Mi appoggio al ripiano in marmo, di schiena.
Si mangia seduto al tavolo, Martin. Dio santo, sento i suoi
rimproveri anche quando Doreen ha il giorno libero.
A volte ho l’impressione di perdermi: anche quando ero
piccolo, la mia casa mi sembrava incredibilmente grande. L’ho sempre vista con
un occhio un po’ analitico, come se non fosse mai stata davvero mia. Con
gli anni, però, ho imparato a raggiungere la mia stanza e la sala
da pranzo anche al buio, come adesso.
Anche se, nel tempo di raggiungere una stanza dall’altra, ho
finito il pezzo di torta.
Sbuffo.
La sala da pranzo è ordinatissima, brilla
quasi fosse appena comprata, come tutte le volte in cui Doreen pulisce tutta la
casa.
Il tavolo, però, è pieno di fogli.
Mi avvicino e ne prendo in mano qualcuno. Numeri e documenti, e dichiarazioni, e certificazioni e…
Soggetto pericoloso.
I miei occhi si fermano su queste due parole, uno più uno fa
due, due parole, sì, proprio queste, mentre cerco di capire come mai una cosa
del genere dovrebbe importare al direttore di un'azienda commerciale. Mentre cerco di capire che cosa
c’entri l’Archie High School con tutto questo, la mia scuola. Abbonamento al
pullman.
I miei occhi afferrano qualche segnale tutto insieme.
Pericolo. La mia scuola. Una persona.
La sua foto è grande quanto una fototessera.
La ragazza
che il foglio chiama Sarah Pierce non sorride: la
sua bocca è ferma in un’espressione che non dice niente,
un niente forte e vibrante. Sembra sul punto di aprire la bocca e
gridare, o, al contrario, di restare per sempre in silenzio.
Stringo di
più il foglio fra
le mani. Ha gli occhi spenti. Sono lampadine trasparenti, fulminate.
Celeste chiaro.
Capelli lunghi, castani, e un po’ di lentiggini sul naso.
«Martin, sei lì?» La voce di mio padre mi raggiunge le
orecchie. Dura solo un secondo, quello di rimettere il foglio al suo posto e
sommergerlo con altri pieni di numeri e parole strane.
Mi sento la gola secca, il respiro accelerato. «Sì.»
Entra nella stanza.
O forse
no, prima entrano i suoi occhi, e non fissano me.
Semplicemente, si fermano sui fogli sul tavolo, davanti a me, davanti a
lui. Temo che abbia chiamato “Martin” qualche suo documento
importante.
«Tutto bene?» Fa qualche passo verso di me, ancora con giacca e cravatta
dell’ufficio, lo sguardo duro di quando lavora fino a tardi, il suo sguardo di
sempre da quando ho ricordo.
«Mhm-mhm.» Annuisco.
«Hai studiato da Cameron?»
«Ehm...» Che cosa c’entra un soggetto pericoloso
fra le tue carte? Non riesco bene a mettere insieme le parole. «Sì... però ti volevo
chiedere…»
Mentre mio padre assottiglia gli occhi,
prende tutti i fogli con un movimento delle braccia che si chiudono sul
tavolo in un finto abbraccio.
Fa
per uscire, veloce.
«Papà…»
«Martin, ascolta. C’è un cliente che
sta aspettando delle carte proprio qui giù, ora dovremmo tornare in ufficio. Non mi aspettare alzato.»
«Sì… ok… ma mi potresti dirmi che cosa…»
«Martin, tutto quello che hai da
dirmi, me lo dici domani.» Mio padre si volta verso di me e ho l’impressione
di guardare un estraneo. Una persona qualunque in metropolitana, di quelle che non fissi
mai per più di un secondo perhé è così che ti hanno insegnato.
Sono perso in una grande casa
con un estraneo.
«Ma…»
«Spegni tutto, prima di andare a
letto.»
Esce dalla stanza, non riesco a
muovermi. Sento i suoi passi allontanarsi, il rumore della serratura,
il tintinnio delle chiavi, il legno che sbatte.
La puzza della sua assenza si fa
strada in casa, raggiunge le mie narici e mi entra nei polmoni.
Ogni casa ha il suo odore, e questo è
il suo.
Mi passo una mano fra i capelli. Sento pulsare la vena sul collo e non so se è per
rabbia o per delusione.
Ma una cosa è certa, adesso.
Scoprirò tutto da solo.
***
«Ingoia, prima di bere.» Doreen mi
toglie il piatto davanti, mentre io mando giù l’ultimo boccone di pancetta
insieme al sapore aspro del succo all’ananas. La guardo di traverso, e non
posso che notare che mi sta guardando allo stesso modo. I suoi capelli sono
sottili anche se scuri, sembrano trasparenti, mi lasciano vedere il suo viso e
tutte le sue smorfie.
«Scusa.» biascico, mentre mi metto in piedi. Doreen si alza le maniche della maglietta, a lasciare vedere le
braccia magre, e passa il panno sulla tovaglietta per lavare via le briciole.
Tutto questo, senza togliermi di dosso i suoi occhi scuri.
«Hai studiato, ieri?»
«Che cosa?»
«Chimica, no? Non era quella la
materia in cui hai preso una F?»
Intendi
dire una delle tante?
Mi avvicino all’uscio della porta, una
mano sulla nuca a grattarmi il collo. «Ah… ah, già.»
«Martin, per favore, impegnati, tuo
padre non sarà contento di questi tuoi risultati. Renditi conto di quello che
fai, non pensare sempre e solo a giocare, sei grande, ho già tanto da fare, non
posso controllare che tu faccia i compiti come quando eri piccolo. Stai
diventando un uomo, insomma, vedi come sei diventato alto, quasi lo superi,
sarai più di un metro e ottanta? Con quella F che figura ci fai? E…» Bla,
bla,bla… Dei voti che prendo a scuola importa più a Doreen che a mio padre. La
sento anche dal bagno, mentre mi lavo i denti.
«Capisco che è una materia difficile.
E poi se una persona è portata è portata, è vero, non sto dicendo che devi
diventare il nuovo Einstein, Martin. Ma dimostra almeno un po’ di impegno, non
voglio che porti a casa una A+, ma almeno una sufficienza…»
«’Apito. » Sputo nel lavandino. Mi pulisco la
bocca, esco dal bagno e mi metto lo zaino in spalle.
Doreen
spazza sul pavimento. «E poi
non c’è niente di male a chiedere un po’ di aiuto,
se hai bisogno di lezioni private... tuo padre non si
arrabbierà,
vedrai.»
Raggiungo la porta. «Doreen, di’ a
papà che non c’è bisogno che mi venga a prendere, oggi.»
Doreen alza lo sguardo, due ciuffi di
capelli scuri le sfiorano le guance. «Perché?»
«Ciao, Reen. »
Mi chiudo la porta alle spalle.
***
A fine giornata, Cameron mi è accanto
sul suo skate, con le braccia distese in una specie di mossa di karate. Anche
se ci sono almeno dieci centimetri a sollevarlo da terra, è sempre più basso di
me.
«Come mai ti mischi alla plebe?»
«Non mi mischio alla plebe, ho detto
solo che oggi prendo il pullman.»
«Cioè, ti mischi alla plebe.»
Cameron si ferma all’improvviso e si
fa volare lo skate in mano, se lo sistema sotto il braccio e mi guarda con gli
occhi assottigliati, come se avesse visto qualcosa di schifoso, tipo il
pasticcio di carne della mensa.
«Lo dici sempre prima di salire
sulla tua splendida Ferrari.» aggiunge.
«Non è mia, è di mio padre.»
«Capirai la differenza.»
Scuoto la testa, mentre una sonora
risata attira la mia attenzione. Mi volto, una ragazza mi sbatte contro la
spalla per passarmi accanto. Si gira verso di me, con le labbra lucide di
rossetto e i capelli biondi lunghissimi.
«Scusa.» mi fa, e le sue amiche la
raggiungono.
Le sorrido di rimando. «È tutto ok.»
Continua a sorridere, allontanandosi,
mentre anche le sue amiche mi fissano per quel secondo in più che non guasta mai.
«L’hai vista?» mi chiede Cameron.
«I miei occhi funzionano.»
«Forse i suoi ne hanno diverse, di
funzioni.»
«Perché?» chiedo, anche se quella
bionda ora è solo una macchiolina in mezzo alla folla e non ho più nemmeno
presente di che colore siano i suoi occhi.
«Era pareeeecchio interessata.» Cameron mi dà una gomitata.
Mi metto a ridere. «Se vuole, io sono
qua.»
Cammino ancora verso il pullman. Il
cielo è grigio, almeno per quel poco che posso vedere dalle nuvole che lo
ricoprono. Nuvole nere, enormi.
La porta del bus si apre.
«Ci vediamo domani.» gli dico, mentre
mi allontano. Volto leggermente la testa verso di lui, e così posso vederlo
mentre alza la mano, piega il braccio e lo mette vicino alla tempia.
«Sissignore.»
Cameron.
Scuoto la testa, senza
trattenere una risata.
«E ricordati della rivincita alla
Play.» mi grida.
«Goku o Vegeta, il migliore sono
sempre io.»
«Convinto.»
biascica. Lo saluto con
la mano e salgo sul bus. All’interno, tutto è grigio come
i contenitori che usa
sempre Doreen per conservare i pezzi di pizza avanzati. Poggio la mano
su un
sedile, grigio un po’ più grigio del resto, lo stesso
colore dei topi di fogna
che sono stati l’ultima cosa che sono riuscito a vedere del
documentario prima di addormentarmi durante l’ora di Biologia.
Infilo una
mano in tasca.
«Hai l’abbonamento?» mi chiede
l’autista. Baffetti, occhiali grandi e rotondi.
«No, compro il biglietto.» Prendo una
banconota da cinque, lui la afferra e la sostituisce con il biglietto, veloce.
Cerco un posto degno di me fra la
plebe.
Pff, mi
sembra di sentire Cameron. Ok, cerco un posto fra i tanti puliti e comodissimi
che ci possono essere. Lei hai capelli ricci, crespi, e
allora passo direttamente all’altra, perché se è così non può essere lei.
E scoprirò chi è.
Lei è rossa, e il suo sguardo incrocia il
mio proprio quando mi soffermo a guardarla. Occhi verdi.
Non è lei.
Capelli neri. Biondi. Castani con
ciocche blu in mezzo. Occhi azzurri, troppo grandi però. Occhi marroni.
Lei non c’è.
Raggiungo uno dei pochi posti ancora
disponibili. Butto lo zaino a terra
e mi siedo al posto che si affaccia al finestrino.
Metto gli auricolari e la voce di Kurt Cobain mezzo fatto mi entra nelle
orecchie, scazzata dal mondo e delusa, come me in questo momento.
Volto la testa.
La voce di Kurt Cobain continua a
cantare ma io smetto di respirare, perché lei si sta passando una ciocca dietro
l’orecchio. Capelli umidi, castani, qualche ciocca più scura per la pioggia che
è appena cominciata a cadere. La porta dell’autobus che si chiude scandisce un
battito che mi inciampa nel petto, mentre io deglutisco e lei si lascia andare
sul sedile.
«Com’è andata oggi, Sarah?»
Sarah viene
fuori dalla voce strascicata dai baffi dell’autista. Posso vedere il suo viso
riflesso nel vetro, riflesso guastato dalle gocce che scendono fuori, gocce che
prendono il posto dei suoi occhi, delle sue labbra, diventano le vene del suo
collo.
Pelle chiara.
La linea del naso che le fa ombra sul viso.
«Al… solito.» risponde, dice,
sussurra piano con una voce limpida. Si stringe le mani
in grembo, come se avesse freddo, e allora mi costringo a respirare, a togliere
una cuffietta dall’orecchio per ascoltarla.
«Non mi piace questa risposta, Sarah.»
Vedo le sue spalle alzarsi
leggermente. «Non… può cambiare.»
«Tutto può cambiare, lo sai.»
Si volta. Il suo profilo sembra rischiarato da una luce, sullo sfondo della pioggia che cade,
acquazzone, acqua che scende e bagna i vetri, fa un rumore che sembra imitare
la batteria della canzone che sto ascoltando.
Abbassa lo sguardo sulla
sua borsa e ne estrae un taccuino. Non riesco a vedere che cosa scrive: la vedo
fermare la matita sulla carta, alzare lo sguardo di fronte a lei e poi
tracciare qualcosa.
Soggetto
pericoloso – Sarah – sta sfogliando
il suo taccuino.
Soggetto
pericoloso – Sarah – dà uno sguardo al cellulare, la luce del display le
illumina gli occhi, colore del cielo.
Soggetto
pericoloso – Sarah – sussulta, quando il pullman si ferma all’ennesima
fermata.
«Ultima fermata.» dice l’autista, ed
io mi sto già alzando dal mio posto, anche se sarei dovuto scendere molto tempo fa.
Mi alzo la cerniera delle felpa.
Pioggia, fango,
almeno due chilometri a piedi.
Non me ne importa più di tanto.
Mi
importa di sapere chi è lei.
Scendo dalle scale del bus, veloce,
giusto il tempo di voltarmi di nuovo e guardarla più da vicino.
Ehi,
ciao. Ho trovato la tua foto fra la roba di mio padre.
Sei un soggetto pericoloso.
Scende di qualche scalino, piano
piano, e alza il viso.
Ti
va di parlare un po’? Forse se so qualcosa di te saprò qualcosa anche su
chi è mio padre, sai.
Forse
saprò qualcosa su chi sono io.
Mi guarda.
Il vento le muove i capelli, le
sfiorano il seno, sento il rumore del suo respiro e non riesco a muovermi, la
sto guardando.
Camminava piano per paura di inciampare, ma forse è
qualcosa di più serio.
Ce l’ha spiaccicata in faccia, la
paura.
Come se avessero fatto un incidente: Sarah
aveva la precedenza e la paura bastarda le ha tagliato la strada e le è andata
addosso.
E poi non l’ha lasciata mai più.
Le si aggrotta la fronte, i suoi occhi
sembrano più grandi, si sistema lo zaino su una spalla e trema, temperatura gelida di un pomeriggio d'Inverno.
Sbatte le ciglia e svolta verso destra.
È tardi.
È buio.
È freddo.
Sento il rombo del motore del bus che
percorre la strada, mentre la guardo andare via. Si dissolve fra i bagliori che
alleggiano in quei vetri che fanno i lampioni della strada.
Mi incammino verso casa.
Cerco
di immaginare il motivo per cui dovrei stare lontano da lei.
*
*
*
*
Ciao
a tutti! *.* Prima di tutto, ringrazio le splendide persone che mi
hanno lasciato una recensione per il prologo... ben undici! <3 Grazie
anche a chi ha inserito la storia fra le seguite, le ricordate e le
preferite <3 Non me lo aspettavo, e sono davvero felicissima che
abbiate accolto questa mia storia in modo così caloroso <3
In
questo capitolo avete conosciuto un nuovo personaggio. Non vi parlo di
lui, spero che più o meno vi siate fatti un'idea di com'è
:) Accetto critiche e suggerimenti, naturalmente. Cerco sempre di fare
meglio ed io spero di non deludervi <3
Grazie infinite, a tutti voi.
Ania <3
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Capitolo 3 *** 2. La ragazza fantasma ***
until 2
2.
La ragazza
fantasma
C’è solo nero,
qui.
Solo buio.
Scendo qualche
scalino del pullman, per raggiungere la strada. Un passo, due passi, silenzio,
immobile.
Sento che c’è
qualcosa di diverso.
Il rumore di
uno sciacquone mi immobilizza, seduta con le gambe a penzoloni, semplicemente
ad aspettare che il tempo passi. Così, i ricordi vagano.
Alzo lo sguardo
e ogni nervo, ogni cellula, ogni organello che forma il mio corpo si tende
verso quel mondo opposto al mio che mi è di fronte. Alto, spalle larghe – tiene
la mano stretta sul suo zaino –, felpa blu, capelli biondo scuro – il vento
glieli fa muovere sulla fronte –, occhi verdi ombrati dal cappuccio, un filo di
barba sul mento.
Mi sta
guardando.
Il mio pranzo
giace per terra nel pacchetto di carta in cui lo mette sempre mia nonna, ancora
intatto, e il bagno è l’unico posto in cui posso stare da sola senza che
nessuno mi noti. Me ne sto con gli occhi chiusi, a sentire il plin delle
goccioline che cadono dalle tubature, il panno che striscia a terra trascinato
da qualche bidello, i passi veloci di qualche ritardatario dalla palestra, lo
schiocco di un bacio.
Mi irrigidisco.
La mia paura di sempre ha le tenaglie, mi afferra gambe, braccia, e occhi e mi
dice solo una cosa.
Non guardare.
Non parlare.
Non sentire.
Perché solo se
non vivo non posso ferire.
Quando l’ultima
ragazza lascia il bagno, apro la porta ed esco fuori. Il corridoio è ora pieno,
ma nessuno bada a me. Abbasso il capo, metto le mani nelle tasche della felpa e
cammino veloce.
Non era niente.
Scuoto la testa.
Era solo un
ragazzo sul bus.
Solo una
persona.
«Ci vieni alla festa, stasera?»
«Non lo so, Yvonne…»
«E dai… non fare l’asociale.»
Risate. Sbuffi.
Spinte. Sorrisi.
Vorrei anche provare invidia ma non ci riesco, penso
che quel sentimento si trovi su una piattaforma completamente opposta alla mia.
«Non sono asociale!»
Credo sia meglio. Credo che mi aiuti, a poco a poco, a
non percepire davvero me stessa.
Sfioro il muro
con il palmo delle mani, solo per rendermi conto di non essere davvero un
fantasma che vaga nel mondo. Ho ancora carne ed ossa a darmi una forma,
non posso passare attraverso il cemento o il legno.
Quando apro la
porta, l’odore acre della pittura e della creta bagnata mi arrivano alle
narici. Respiro, mi riempio la pancia di fiato, lo faccio una, due volte.
Mi metto il
grembiule bianco e comincio a giocare con tutto quello che trovo. La classe di
Artigianato è facoltativa, ma è un’ora che aspetto con fervore per tutta la
settimana. Da quando ho scoperto che il professor Morgan non chiude a chiave la
porta, non c’è stata una volta in cui io abbia passato tutta la pausa pranzo
chiusa qui.
Prendo un po’
di creta e la stendo sul tavolo da lavoro, ne faccio tante piccole palline.
Prendo, schiaccio, arrotolo, lascio scivolare sui palmi...
È l’unico
momento in cui posso permettermi di sentirmi.
***
«Biglietto o
abbonamento?»
Sono arrivata
presto, oggi. La ragazza davanti a me mostra il tesserino, Patrick annuisce.
Mi guarda. Sembra
Mangiafuoco dei film Disney, ma ha i capelli corti e una camicia a quadri rossa
che lo fa somigliare più che altro a uno zio un po’ in sovrappeso.
«Ciao,
Patrick.» dico, e tossisco subito dopo. Stare zitta tutto il giorno mi fa la
voce graffiata, come se fossi raffreddata.
«Buongiorno,
Sarah.» Mi sorride.
Io no.
Non ne sono
capace.
Rumore di
passi.
Qualcosa sbatte
sul vetro.
Il ragazzo del
bus si sistema lo zaino su una spalla. Piove ancora,
fuori, e qualche goccia gli ha lasciato il ricordo di se stessa sulla felpa,
sulla pelle su cui scivola fino a bagnargli la maglietta.
Mi guarda.
Accade in un
millesimo di secondo in un mondo fatto da migliaia di secondi e minuti e ore e
giorni, anni. Non conta questo. Gli zigomi alti, la bocca ferma in
un’espressione che non conosco. Occhi verdi. Pagliuzze grigie.
Fisso lo
sguardo fuori dal finestrino.
Troppo tardi.
Ho incontrato i
suoi occhi.
Si siede nella
mia direzione, nella fila opposta. Chiudo gli occhi. Non riesco nemmeno a
prendere il taccuino, ho messo la borsa dal suo lato.
Non lo
guarderò.
Poggio la
fronte sul finestrino e sento il sapore del sangue, mi sto mordendo la guancia
dall’interno.
Mi sta
guardando.
Lo so che mi
sta guardando.
Smettila.
Mi sta
guardando.
Alzo lo sguardo
sul finestrino, lo vedo. Ci è appoggiato di schiena, il suo profilo diritto
crea un’ ombra sul grigio del sedile. Respira, le sue spalle larghe si alzano
ogni pochi secondi, i suoi occhi sono una macchia di verde che si riflette nel
vetro.
Mi guarda.
Smettila.
Mi alzo
all’improvviso, proprio quando il bus si ferma per quella che deve essere la
seconda fermata.
Scendo dal
pullman e non guardo più indietro.
Se mi guarda
c’è solo un motivo.
Trattengo a
stento le lacrime.
Sa che sono un
mostro.
***
Martin
Google.
La risposta ai quesiti più difficili di Fisica, alla
ricerca di gnocche su cui sbavare e video delle canzoni dei Nirvana.
Google.
Lampeggia nella sua scritta blu e verde.
Sarah.
Oggi è scesa alla seconda fermata, come se si fosse
ricordata improvvisamente di qualcosa. Come se si fosse accorta di me.
Il suo nome è una luce fissa, mi brucia gli occhi.
Sarah.
Non riesco a scrivere. Mi sembra squallido, da stalker
e maniaci. Non posso scendere tanto in basso con una ragazza. Ma ehi, non è che
lei sia una ragazza qualunque… è la ragazza per cui…
«Martin? » È una delle poche volte in cui mio padre
entra in camera mia. Sussulto, il portatile quasi mi salta da sopra le gambe,
non è cosa da tutti i giorni sentire la sua voce. Mi sento leggero di un’emozione
che è la stessa di quando ti rivolge la parola una persona importante, forse
perché non succede quasi mai. «Stai facendo i compiti?»
«Mhm. Sì… una ricerca.»
«Va bene.» Si sistema la cravatta della giacca, nera
opaca, come i suoi capelli e la barba. «E a scuola… tutto ok?»
«Faccio quello che posso.»
«Certo.»
«Sì.»
Mi dondolo sul letto. Una volta, due volte. Mio padre
si passa una mano fra i capelli, guarda un po’ dappertutto, sedia sommersa di
magliette, scrivania con i libri aperti, l’armadio aperto con il poster di
Miranda Kerr. «Dovresti mettere un po’ più in ordine.»
«Ok.»
Spengo il computer e lo guardo. «Papà… va tutto bene a
lavoro? »
Gli si inarcano le sopracciglia. «Sì… perché?»
«Niente, così.» Alzo le spalle. So che non me lo
dirai mai. Apro il quaderno di Biologia e prendo un foglio con delle
scritte stampate. Glielo porgo. «Ah, papà… devi firmarmi questa autorizzazione.
Il Cinema per la scuola.»
Mio padre tira fuori dal taschino la sua penna con la
sigla JS, Joseph Scott, se non lo conoscessi potrei pensare che sia il
nome di un nuovo cantante rapper. Jey ass… sì.
Cantante di una canzone stonata che è la mia vita. Si
mette la penna nel taschino e si avvicina alla porta. «Tra mezz’ora parto,
Martin. Torno fra una settimana, ricordati…»
«Di spegnere tutte le luci. »
Sorrido e sento il rumore del mio fiato.
Ma qui non c'è nessuna felicità.
È notte. La
strada è illuminata solo dai lampioni, la loro luce cade in trasversale
sull'asfalto nero, lucido. Una bambina piccola, con un grembiulino bianco, ci
cammina al centro, dondolando.
È pericoloso. Mi avvicino a lei, Ehi, attenta, perché sei qui sola? Lei continua
a camminare, senza voltarsi, mentre io la seguo, cammino, comincio a correre,
non riesco a raggiungerla.
È sempre più
lontana.
Ho l’affanno,
mi fermo sul marciapiede e mi appoggio ad un lampione. Un ronzio mi trafigge i
timpani nel momento esatto in cui poso la mano sulla plastica nera. La ritiro
subito, e mi viene fuori un gemito. Credo di aver preso una scossa. Respiro,
respiro, respiro, la luce del lampione a cui mi sono appoggiato si spegne, poi
si accende di nuovo e così via, mentre io vago lo sguardo sulla strada e la
vedo. Si è fermata.
Sbatto gli
occhi.
La ragazza che
mi sta guardando ha i capelli lunghi, si muovono allo stesso vento gelido che
mi spinge verso di lei. Mi muovo. Ha gli occhi dello stesso colore del cielo
d’inverno, un sottile strato di nuvole intorno alla pupilla. Le sue ciglia sono
lunghe e dorate, sembrano i fili delle spighe di grano. Resta ferma, delle
lacrime le nascono dagli occhi e sono gocce grandi come quando piove
forte.
Sarah.
Sento un rombo.
Una macchina si sta avvicinando, e noi siamo in mezzo alla strada. Vieni,
sei in pericolo. La mia voce sembra un’eco lontano, le prendo la mano, la
stringo. Lei si scosta.
Sarai tu, ad
essere in pericolo.
La chitarra
elettrica che fa da suoneria al cellulare mi fa aprire gli occhi. La canzone
continua, ma io resto immobile, ancora a letto, con l’ultima immagine ancora
incastrata nella mente.
Sarah che
incrocia i miei occhi. Spenti. Una luce ci passa attraverso.
Sarah che si
alza all’improvviso e scende dal pullman.
Sarah che
cammina in una strada buia.
«Pronto?»
rispondo, e la mia voce è impastata di sonno.
«Mi stavi
sognando, ammettilo.»
Mi rigiro fra
le coperte e scalcio via il lenzuolo. «Mi hai svegliato.»
«Sono le sei
del pomeriggio, nullafacente.» Mi passo una mano fra i capelli, poi sulla
fronte e sul resto del viso. Sono sudato. «Comunque, stasera alle dieci c'è una
festa, me l'ha detto quella ragazza bionda che ti ha scartato come un
chupa-chupa con gli occhi, ci stai?»
Deglutisco.
Posso ancora
sentire la pelle liscia di Sarah come se l’avessi toccata veramente.
***
Chiudo la
portiera della Ferrari e mi aggiusto il colletto della camicia. Cameron fa il
giro dell’auto e ci si ferma davanti.
«Quando vorrei
che fossi mia.» dice alla mia auto.
Non ho nemmeno
la forza di ridere.
La accarezza
con la mano, si china e la camicia gli esce dai pantaloni. «Ferrie, amore mio.»
«Sono belle
parole, Cam. Scrivitele.» Mi sistemo anche i polsini. Lui prende il cellulare e
digita qualcosa… non ci posso credere, le sta scrivendo davvero.
Sono circondato
da ragazze. Certe non riesco nemmeno a guardarle in faccia, ma hanno gonne e
vestiti corti, e scollature senza senso perché potevano anche non esserci, si
muovono morbide e a scatti e io mi perdo a guardarle.
Sarah.
Luccichii,
liquori, risate, corpi sudati e Sarah si muove piano, forse nemmeno
l’aria percepisce la sua presenza.
Mi passo una
mano fra i capelli.
La percepisco
io.
Sospiro. Devo
smettere di pensare a lei. Sul tavolino davanti a me c’è una bottiglia di
Vodka, farà compagnia alla birra che ho appena ingurgitato. Sarah ha gli
occhi di acqua, acqua agitata, tempesta, acqua chiara, le onde si schiantano.
Mando giù l’alcol, mi passa attraverso la gola e brucia, scoppia
qualcosa. Ha le mani piccole. Sfogliano il taccuino, tengono la matita con
due dita, si fermano sulla sue labbra in un sospiro che fa un po’ rumore, la
stessa voce del vento.
Mi viene fuori
un respiro soffocato, apro gli occhi e stringo la bottiglia fra le mani. Cerco
un altro sorso. Ha un giubbino nero, di quelli imbottiti, forse di piuma
d’oca, forse di qualcos’altro per tenersi al caldo. Si volta verso il vetro, è
bella. Lei...
Un altro sorso.
«Non ti sembra
da egoisti tenertela tutta per te?» Qualcuno mi toglie la bottiglia dalle mani.
Non riesco a vedere bene: nel buio della casa, vanno e vengono le luci a
intermittenza del salotto dove tutti ballano su una musica che non ha parole.
Sbatto gli
occhi. Due labbra carnose e rosse baciano l’orlo della bottiglia, i miei occhi
continuano a vagare e trovano il suo collo inarcato, una goccia le scende dal
mento e carezza la sua pelle, le raggiunge qualcosa che non posso vedere.
«Mhm. Buono.»
Poggia la bottiglia sul tavolino e si scrolla i capelli lunghissimi e biondi in
una specie di onda.
Mi sorride. «Io
sono Yvonne.» Mi porge la mano… no, si appoggia a me e scoppia in una risata tiratissima,
le viene fuori un singhiozzo.
È ubriaca.
«Martin.» Mi si
stringe contro e cerco di levarmela di dosso, la testa mi pulsa, il sangue mi
pulsa, la gola mi pulsa.
«Ti ho già
visto... veeero?»
«Non mi
ricordo.» biascico.
«Io mi ricordo
sempre dei ragazzi sexy.» Mi mette le braccia intorno al collo, sento il
respiro affannoso, un rivolo di sudore mi scivola sulla schiena, lo sento.
«Ehi!» Riesco a
staccarmela di dosso. Prendo dell’altra Vodka e la scolo, la sua voce è un’eco lontanissimo,
dice cazzate, cazzate, cazzate, e la gola mi brucia, e Sarah va via, è una
nuvola, diventa tutta bianca, non riesco a immaginarla. Anche i suoi
occhi scompaiono.
«Sei un
ingordo.» Di nuovo la voce della ragazza.
E poi più
niente. Anzi, qualcosa c’è, rosso, giallo, blu, nero, verde… tutti i colori,
proprio tutti… la testa fa un male cane, adesso tutto si oscura, tutto si
annebbia. Non ho il controllo dei miei occhi quando li apro, non ho il
controllo del braccio che Ivy... Ivy?… non mi ricordo il nome tira per
farmi spostare. È ancora più buio qui, sento un formicolio che mi prude le
gambe, le braccia, il viso. Mi sta baciando e le mani che si posano sulle sue
spalle per mandarla via scendono sulla sua schiena, non so perché. Smette di
baciarmi. Non ho il controllo delle labbra umide che si posano sulle sue, delle
lingua che le entra dentro la bocca. Non ho il controllo della mano che lei
guida sotto la gonna… sembra molto più lucida ora. Le piace, stronza. Mi
sta chiedendo qualcosa. No. Sta chiamando qualcuno che deve essere Martin ma
Martin è a casa a dormire, davanti a un libro di Chimica che non capirà mai, a
ignorare il mondo. Martin è qui, fra le gambe di questa tizia che non guarda
nemmeno in faccia mentre spinge. Non capisco. Geme. Non capisco. Questi
capelli, queste braccia, questa bocca, tutto è estraneo. Urla un’ultima volta.
Ogni rifugio è estraneo e freddo, questo è il primo che ho trovato. Mi accascio
su di lei, mi morde le labbra. Sarah si morde le labbra e guarda fuori dal
finestrino. «Fanculo.»
Mi alzo i
pantaloni, trovo la cinta, mi abituo alla luce e vedo una camera da letto rosa
e squallida, una ragazza qualunque… Ivy… non lo so e mi dispiace. Vaffanculo.
Recupera le mutandine, ride, è ubriaca. Io no, non così tanto. Perché se così
fosse starei bene. Invece vado via e mi viene solo da vomitare. Vomitare,
vomitare, vomitare… che c’è che non va, ho soldi, una bella macchina, una bella
casa… ho tutto quello che voglio, me la cavo sempre …
È un freddo che
punge, quello che sento. Mi entra dentro come tanti piccoli stuzzicadenti di
legno, mi affonda nella carne e mi lacera da dentro. Vomito. Forse così se ne
va il marcio di me stesso.
La puzza è il
mio buongiorno, quello che mi fa aprire gli occhi un po’ più consapevole. È la
mia macchina, quella a cui sono appoggiato? Qualcosa mi impedisce di cadere.
«Ehi, hai fatto
una bella sbronza, eh?» Mi aiuta a rimettermi in piedi, sono peggio di un
neonato, ci manca solo Doreen con il passeggino come quando avevo tre anni.
«Stasera guido io, no problem.»
«Cazzo.»
«È tutto ok.»
Non ho nemmeno la forza di lanciargli le chiavi. Mi apro la giacca e lascio che
intuisca lui… mi sento più leggero, le ha prese. «Fortuna che tuo padre è fuori
città.»
«Mhm.» Mi viene
fuori.
Sento la sua
pacca sulla spalla e mi sembra una pugnalata. Quando riesco a distinguere più o
meno i contorni di tutto questo, il suo viso familiare riesce a farmi deglutire
senza rimettere un’altra volta. Mi trascino in auto. Cameron mette in moto,
accende la radio e prende a canticchiare una canzone. Niente domande, niente
risposte.
Solo io ci
sono e tu ci sei.
Scuoto la testa
e abbasso il finestrino. Lo stomaco mi si contrae e non è per quello che è
appena successo. È una sensazione simile a quando il professore ti interroga e
non c’è il tuo amico di sempre a suggerirti, e sai che così ti verranno
tagliate le gambe.
Sarai tu, ad
essere in pericolo
Mi passo una
mano fra i capelli.
Forse lo sono già.
*
*
*
*
Ciao a tutti <3
Eccomi qua con un aggiornamento, scusatemi per il ritardo, purtroppo lo
studio mi toglie tantissimo tempo. Io cercherò comunque di
essere puntuale, perché la storia di Martin e Sarah si sta
evolvendo, nella mia testa, ed io non vedo l'ora di raccontarvela :)))
In questo capitolo abbiamo avuto due diversi POV, in particolare
sappiamo più cose su Martin, e su Sarah forse dovreste avere
ancora più domande :p Spero tanto che vi piaccia e che vi stia
incuriosendo!
Spero tanto che mi lascerete un parere <3 Sono così emozionata!
Grazie davvero, a tutti voi <3
Un bacio
Ania <3
p.s ci sono due nuove storie nel fandom di Twilight che consiglio assolutamente! Si tratta di questa e questa <3
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Capitolo 4 *** 3. Tracce ***
until 3
3. Tracce
Oggi dovrebbe essere una bella giornata. Niente lezioni e i professori ci portano al cinema: cazzeggio totale.
Sospiro.
Sono stato fra i primi a salire, qui sul pullman.
«Martin,
ehi! Spostati!» Cameron mi viene incontro. Io mi alzo, per farlo
sedere dal lato del finestrino, ma non distolgo
lo sguardo nemmeno per un secondo dalle porte del bus.
So
che sei qui.
«Ah… fantastico, non sei stato egoista come tutte le
altre volte.» mi dice.
So
che sei qui.
«Quindi, che cosa si vede al cinema, lo sai?» mi
chiede.
«Pearl Harbor.» rispondo, senza cambiare un
attimo la direzione che hanno preso i miei occhi.
«Oddio, quel film mi fa diventare le palle tante…»
Sale
sul bus e mi sento bruciare la gola, nello stesso modo in cui, ieri
sera, abbiamo bevuto la Vodka dalla stessa bottiglia. Come si
chiama? Ivy riecheggia nella mia
testa e allo stesso tempo so che è un nome sbagliato. Muove i fianchi,
mentre cammina, con quei capelli lunghi e il sorriso che sembra intagliato su
quel viso coperto da fondotinta.
«Martin… che stai guardando? »
Ivy, ormai la chiamo così, mi passa accanto e mi
sfiora con lo sguardo, come la prima volta in cui mi è andata a sbattere
contro. Sì, era lei. Lo so.
Sembra che non ci sia niente di strano... Forse non
ricorda. Forse il mio mondo di merda non ha lasciato nessuna traccia nel suo.
«Niente.» Mi passo una mano fra i capelli. «Hai portato
le patatine?» gli chiedo.
«Ovvio.»
Ma il mio sguardo resta fermo e attento.
La
vedo salire le scale un secondo prima che le
porte si chiudano. I capelli castani chiari arruffati sulle spalle, il
naso sottile punteggiato da qualche lentiggine, il cappuccio alzato,
gli occhi trasparenti come l’acqua.
Un formicolio mi prende lo stomaco, mentre si passa una
ciocca di capelli dietro l’orecchio. Tutto il mio
stomaco è un formicolio, credo che i miei anticorpi si siano messi a
sparare contro la parete del mio corpo.
«Prendi.» Cameron mi porge le patatine. Oggi si è
messo il cappello da baseball al contrario, come Ash dei Pokèmon. Mi basta
guardarlo in faccia per dirmi che in fondo non va tutto proprio male.
Che
quello che sento è solo un comune mal di pancia da dopo sbronza.
Che Sarah non è niente per me oltre a quello che può
riguardare mio padre.
Che io non provo niente per questa sconosciuta che
mi invade i sogni.
***
Entriamo nel Cinema. Mi siedo accanto a Cameron,
dall’altro lato c’è una ragazzina del primo, posso quasi vedere le sue guance
che si colorano di rosso, mentre ride con la ragazza accanto a lei.
Volto la
testa.
Sarah si è seduta da sola, in fondo.
«Chi hai visto? Una ragazza sexy?» La voce di Cameron è
acuta. Gli abbasso la testa con una manata.
«Nessuna ragazza sexy, bassotto. Dai.» Le luci si
spengono all’improvviso e tutti urlano. «Stai attento, che dopo mi devi dire
come finisce.»
«Ma io già lo so… alla fine…»
«Silenzio!» La voce delle professoressa ci
sovrasta, rigida e fredda. Mi metto a braccia conserte e guardo il logo della Twenty Century Fox occupare tutto lo schermo.
Passano i minuti. I due tizi si baciano, «Passami
una patatina, Cam.» Mando uno sguardo qua e là, la vicina mi fissa, guardo
dall’altro lato, guardo indietro.
Sarah
è bellissima.
Deglutisco.
Eh? Cosa? Che cosa dici? Che cosa pensi?
«Martin, ti stai fermo? Sembri un castoro in
calore.»
«Dove l’hai visto un castoro in calore?»
«Un
castoro l’ho visto in “Narnia”, in calore no
perché era un film Disney e certi spettacoli i bambini non
possono vederli. Ma ti vuoi stare fermo? Sembra che trattieni la
pipì.»
«No, mi sto annoiando.»
«Shhh!» La solita professoressa ci richiama all’ordine.
Dio, se potessi mi metterei a dormire ma la ragazza del film se la sta facendo
con il migliore amico del suo ragazzo perché pensa che quello sia morto.
Ah, scoppia la guerra! Bene, un po’ di movimento… il
ragazzo dato disperso torna… ora sono cazzi… bene, un po’ di sparatorie, urla,
pianti, tutto fantastico.
Un
rumore sfalda completamente la mia attenzione.
Volto la testa. Cameron è troppo preso dalla scena per notarmi.
Sarah è in piedi, nel secondo stesso in cui sbatto le palpebre
recupera lo zaino che deve esserle caduto a terra. Sola
nell’ultima fila, fa
qualche passo verso il corridoio. Si avvicina alla porta con la scritta
exit, correndo.
Di nuovo quel formicolio allo stomaco, mentre guardo
le sue gambe fasciate dai jeans, e le mani bianche che stringono il suo zaino, e le labbra
carnose che le si arricciano, mentre evita di inciampare nei fili della luce.
Apre la porta d’emergenza, la sbatte ed io resto al buio.
Così.
Fin quando non decido di andare dove va lei, anche se non so dove mi porterà.
La vedo di profilo: si appoggia ad un muro in mattoni rossi, in questa strada stretta piena di sacchi per l'immondizia.
Odore acre, di pioggia, di plastica: un alone di periferia, così
lontano da quello che vedo, sento, e odoro ogni giorno. Eppure i miei passi
sembrano silenziosi, in questo ambiente estraneo, come se facessero
parte del tutto. Come se i suoi respiri affannati, gli stessi di quando
si ha corso troppo, fossero anche i miei. Mi avvicino, il
suo petto si alza e si abbassa ed io sono qui. Sono dove sei tu.
Gira la testa e la guardo negli occhi: sono chiari, azzurri, e
dispersivi; trattengo il respiro a guardarli, come quando fissi il
cielo dal finestrino di un aereo. So solo che mi tremano le
gambe, e che le sue ciglia sono lunghe, e lei...
Lo zaino le scivola dalle mani, per poco le cade
nella pozzanghera vicino ai suoi piedi ma qualcosa impedisce la caduta. Sono
io.
Mi sono sporto e l’ho preso al volo.
L’unica cosa che riesco a fare, in questo strano
istante in cui i miei occhi si posano sul suo zaino, è sorridere fra me e me.
«Stai
bene?» le chiedo. Mi sembra la cosa più opportuna da dire,
in questo momento.
Annuisce, frenetica, i capelli le sfiorano la fronte
una, due volte, e lei abbassa il capo una, due volte.
«Sì. S-Solo... avevo bisogno d'aria.» Riconosco la sua voce anche se viene sovrastata dal suono di un clacson. Mi avvicino ancora, è solo un
altro passo, quello che faccio verso di lei. Ed è abbastanza per farle ombra
con il mio corpo, abbastanza da poter guardare meglio le linea del naso, la
sfumatura chiara delle lentiggini, gli zigomi alti, le sue mani che si
allungano verso di me.
«Grazie.» dice, poi mi prende lo zaino dalle
mani.
Faccio spallucce. Ci provo, almeno, perché così mi
rendo conto di quanto mi sento teso. Di quanto sarebbe naturale se i miei
muscoli si strappino per un movimento veloce.
«Di niente.» le dico, provo a sorriderle, non so se
ci riesco ma so che lei mi guarda per un secondo e poi i suoi occhi
finiscono altrove: sulla strada, sulla pozzanghera, sul bidone dell’immondizia accanto a
noi. Ho la sensazione che lei eviti di guardarmi.
«Sei
sicura di stare bene?» le chiedo ancora. Quando mi guarda mi sento inchiodare al muro in
una muta sensazione di dolore.
«Pierce? Il professor Morgan vuole che rientri,
altrimenti… oh.» Seguo la voce. Ivy se ne sta davanti alla porta d'uscita, e i suoi occhi color nocciola si
posano su di me, accigliati. Allunga il collo, per guardare Sarah. «Ti sei appartata. Chi l'avrebbe mai detto.»
«No...
No, vengo subito, stavo solo...» La voce di Sarah si fa
più alta, assomiglia a un ammasso di vetri rotti calpestati.
«Non imbarazzarti.» fa Ivy, mentre si guarda le
unghie. Nemmeno il fondotinta riesce a nascondere le occhiaie di ieri sera,
l’alcool però ha cancellato bene me, ed è la cosa migliore che poteva capitare.
«No. No, no, non…»
«Non ci siamo appartati.» riesco a dire. Volto la
testa e Sarah è accanto a me, un piccolo movimento e le tocco il braccio, la
pelle morbida sotto il giubbino, il polso sottile. Mi sorpassa in uno sguardo
che trapassa, affonda, taglia, come
un’arma.
Sarah tossisce.
«Dai, Pierce, vieni dentro.» dice ancora Ivy.
Sarah annuisce e fa qualche passo verso di lei.
«Ehi, tu, belloccio, te ne resti qui?»
Le
guardo. È un secondo, giusto il tempo di capire
perché, mezzo incosciente, sono andato a letto con quella bionda
costruita mentre i miei pensieri erano per... Sarah. Non lo so, non so
niente della mia vita.
Ma forse se conosco Sarah, saprò anche chi sono io.
***
Assurdo.
«Cioè! È stato incredibile, piangevano tutti, che
palle… ma sai cosa? Hai presente quella figa della classe di Spagnolo
approfondita? Forse no… no in effetti tu non fai niente di approfondito,
Martin. Comunque, quella, proprio quella, è venuta da me e mi ha chiesto un
fazzoletto e allora io…» Cameron parla senza fermarsi.
Assurdo io. Assurdo il modo in cui le sono andato dietro.
Assurde quelle poche parole. Assurdo tutto. Ma è sempre
qualcosa.
Professor Morgan. Il professor Morgan vuole che rientri. Prendo
l’i-phone per andare sul sito della scuola.
«E allora io mi sono trovato davanti lei. Se prima
ero mezzo addormentato mi sono svegliato all’improvviso, ecco. E lei era sexy
come sempre ma con le lacrime agli occhi. Le ho detto che i fazzoletti non ce li avevo ma ho fatto la voce rotta
e…» continua.
Il professor Morgan tiene il corso di artigianato
facoltativo riservato sia alle quarte che alle quinte classi.
Dai, cazzo.
«E allora ho detto “Puoi piangere sulla mia spalla,
se vuoi.” Fatto sta che mi ha guardato malissimo ma si è seduta al tuo posto,
Martin! Ti prego, lasciami solo anche la prossima volta!»
«Cameron!»
«Sì, sì, anche io ti amo ma evita le effusioni in
pubblico, per favore!» Scoppia a ridere.
Non riesco a fare altro che sorridere, e so
benissimo che sembro solo un emerito idiota.
Non che sia tanto diverso dalla realtà.
*
*
*
*
Spero che abbiate passato un Buon Natale e vi auguro buon anno nuovo <3
Nel
frattempo, vediamo che Martin e Sarah hanno parlato. Non che si siano
detti chissà che cosa, ecco, ma è già qualcosa, e
dal prossimo vedrete che si conosceranno meglio :)) Ma come mai Sarah
è uscita dal cinema così all'improvviso? Stava male sul
serio? Magari le parole che per Martin erano niente per Sarah erano
molto, visto che rivolge la parola pressocché a nessuno :))
Definirei
questo capitolo di passaggio, ma comunque necessario... spero che mi
lascerete un parere, per me è davvero importante e mi rendereste
felicissima <3
Ringrazio tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo, mi avete reso davvero felicissima, grazie <3
Grazie mille per leggere
Un bacione
Ania
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Capitolo 5 *** 4. Paura ***
until 4
4.
Paura
Una
settimana dopo.
Sarah è il nome che ho scritto all’interno della mano, con la penna rossa. Ci
passo il dito sopra, e adesso sembra sangue, una bella ferita, anche profonda.
La campanella suona ma io sono già in classe, come sempre. Quarto banco, né
troppo avanti né troppo dietro. Dal lato interno, in modo che nessuno si
rivolga a me per aprire o chiudere la finestra. Con lo zaino fra le gambe, per
non impedire il passaggio a nessuno. Testa bassa, mani in grembo, occhi fissi a
leggere il quaderno aperto davanti a me. Nemmeno una parola. Il suono della mia
voce inquina l’aria, ne basta l’indispensabile.
La porta si apre.
«Buongiorno.»
«Buongiorno,» rispondo.
Il professor Morgan, i capelli brizzolati e l'espressione gentile, poggia la borsa sulla cattedra, mentre altri studenti si
affrettano ad entrare. L’unica cosa che mi dà sollievo, adesso, è che presto
nessuno penserà a me. Il vocio dei ragazzi mi mantiene ben ferma, qui sulla
Terra. Ho la mente leggera, spesso la sento volare via dal corpo… forse sono
più di là che di qua. Anche da piccola ero così… anche prima… prima…
«Ragazzi, silenzio… per
favore,» dice il professore. Solo adesso mi guardo un po’ intorno. Nessuno lo
ascolta, non prima che lui «Ma avete intenzione di continuare così per tutta la
lezione? No, perché mi piacerebbe molto riempire il registro con una bella nota.»
Silenzio.
Il professor Morgan fa un colpetto di tosse. «Oggi continueremo con la
realizzazione dei vostri elaborati, li valuterò alla fine del quadrimestre,
come ho già detto. E controllerò che stiate lavorando diligentemente. Prima di
continuare, vi informo che si è iscritto al corso di artigianato anche Martin
Scott dell’ultimo anno, fra i pochi studenti che si apprestano a questa
disciplina. Bene, dividetevi in gruppi. Martin, oggi puoi guardati un po’
intorno, vedere come lavorano gli altri…»
Tutti cominciano ad alzarsi, lo faccio anch'io solo quando la maggior parte si è allontanata. Mi avvicino
all’armadietto, prendo il grembiule bianco, lo infilo. Mentre
cammino verso il mio tavolo da lavoro, mi sistemo i capelli che sono finiti
dentro il grembiule.
Vado a sbattere contro qualcosa.
Qualcuno.
«Ciao.»
Alzo lo sguardo e perdo
il respiro. Occhi verdi, capelli leggermente lunghi che gli sfiorano le guance, alto.
Stai bene? Sento ancora la sua voce rimbombarmi nella testa.
La luce del sole che
filtra dalla finestra gli illumina i capelli biondi.
Riprendo a respirare. «Ciao.»
La mia voce è appena accennata.
Si stringe nelle spalle,
inclina la testa e riesco a scorgere quello che deve essere un sorriso sulla
sua mascella pronunciata.
È il ragazzo del bus.
Quello che era anche al Cinema.
Lo sorpasso e raggiungo
il mio tavolo. Mi abbasso, sotto c’è la scatola con le cose da finire, quelle
per la lezione, insieme alla spago e agli strumenti di plastica e ferro. Metto
la scatola sul tavolo.
«Tu sei Sarah, non è
così?» È ancora lui.
Alzo lo sguardo, ora è accanto a me, con i gomiti poggiati sul bancone come a
guardarmi dal basso verso l’alto.
Smettila.
«Non sei Sarah?»
continua.
Annuisco, veloce. Non lo guardo. I
capelli mi finiscono sugli occhi, li scosto, mi sento sudare. Sta parlando con me. Tiro fuori la creta
e la carta del giornale.
Sta parlando con me.
Infilo i guanti, mentre
la ragione comincia ad andare in circolo.
Bene, ora che hai visto meglio il mostro da vicino
puoi andare via.
«Io sono Martin,
comunque.» Mi porge la mano ed io alzo gli occhi verso di lui.
Cosa vuoi da me? Le sue sopracciglia si inarcano, come se avesse percepito la mia
domanda. Abbassa lo sguardo per un secondo, vuoi
che ti faccia male, è così?
O forse no.
Forse è semplicemente un
ragazzo normale. Forse non ha letto nessun articolo di giornale su di me. Forse
non ha cercato il mio nome su internet. Forse le persone non sono tutte dei
robot programmati a ferire e ad andare in contro circuito a causa mia.
Forse lui è solo carne e
cuore e sentimenti.
Respiro. Cerco di articolare
qualche parola. Sì, no, ciao...
«Scott
di cognome,» aggiunge. Mi stringe la mano. Mano aperta, poi
chiusa, stretta sulle mie dita. Mi sfiora il polso con il pollice, ha
le dita
ruvide e fredde. Tremo, forse trema anche lui.
Ho paura.
Ma lui sorride.
Cerco di lasciare la sua mano. Cerchiamo di farlo entrambi ma...
«Oddio… scusa.» Non so come, ma della colla liquida
è sul mio guanto e ora fila fra il tessuto di plastica e le dita di
Martin.
Accade così, e poi mi rendo conto di aver parlato. La mia voce
è venuta fuori graffiata, come se fossi un involucro di
metallo.
Ride. «No, non è niente. Ora ce la faccio, aspetta.»
La colla è densa e
appiccicosa, quando butto un occhio alla scatola capisco come faccia ad essere finita qui. Il barattolo
della colla si è rovesciato nella scatola, ed io mi sono infilata i guanti così velocemente, da
ignorare che un po’ di liquido me li avesse sporcati.
Sta ridendo.
Ha una risata simile ad
una folata di vento calda, di quelle che non ti aspetti, che ti fanno anche
sentire il ruvido dei granelli di sabbia della spiaggia.
«Sicuro che…»
«Credo che il tuo guanto
si sia preso una cotta per la mia mano.» Sento ancora le sue dita. Con l’altra
mano mi sfiora la pelle fra il guanto e il maglioncino. Tira il guanto e la colla si sfalda, una parte gli
rimane attaccata al palmo, l’altra resta sul mio guanto di gomma. «Hai un
guanto molto disinibito. Gli si è appiccicato al primo sguardo.» Sorride.
Campanelli di cristallo.
Li ho visti sul mobile
del soggiorno, basta un piccolo sfioro per farli suonare insieme alle palline
d’ottone.
È questo, il suono che
sento.
E viene da me.
Martin si stacca la colla
dal palmo, anche se avrà le mani sporche e appiccicose fin quando non se le
laverà con il sapone.
Nel mio silenzio c’è
qualcosa di diverso.
Ho sorriso e il mio fiato ha fatto rumore.
Mi porto le mani al viso.
Non posso credere che sia successo. È una specie di modo per nascondermi, per
toccarmi, per sentire, palpare le labbra e i denti.
Sto sorridendo.
«Dai, non importa, tanto
adesso ti sporchi di nuovo,» riesco a dire. Faccio un respiro profondo e lui
si sfrega le mani, la felpa blu gli fa sembrare gli fa gli occhi ancora più chiari.
«Giusto,» dice. Prende
una palla di creta e se la rigira fra le mani. «Allora, che facciamo?»
Posso parlare. Posso farcela. «Io continuo la mia
rappresentazione di frutta, tu... non lo so.»
«Non mi va di stare con le
mani in mano.»
«Allora devi metterti il
grembiule.»
Martin aggrotta la fronte
e si guarda intorno, seguo il suo sguardo. Tutti stanno facendo qualcosa:
modellano, disegnano, tagliano, incollano… tutti indossano un grembiule.
«Ma è obbligatorio?» chiede ancora.
«Direi di sì.»
Martin fa una smorfia. Fa
per passarsi una mano fra i capelli e poi sembra che ci ripensi – per la colla
–, abbassa il braccio e si incammina verso l’armadietto. Lo guardo. Apre le
ante.
«Qualche problema, Scott?
» Sento la voce del professor Morgan.
«Prof… questo grembiule è
troppo piccolo, posso non metterlo?»
Sento lo sbuffo del
professore. «No, Scott, mi dispiace. »
«Non è la mia taglia.»
«Ma le regole sono regole.»
Martin sbuffa. Prende il grembiule dall’armadietto, lo chiude, ed io mi
affretto a guardare fisso sul tavolo, mentre lui si avvicina.
«Non ridere,» mi dice,
mentre si infila una manica.
«Non rido.»
Non lo so fare.
«Ti aiuto?» Incurva le labbra in
quello che sembra un sorriso timido, anche se presto si trasforma in
un’espressione interrogativa. «Sono una frana in tutto però...»
«E' facile, vedrai.»
Martin comincia a mettere
le mani in quella pasta dura e bagnata. Io stendo la creta, prendo uno stuzzicadenti
e comincio ritagliarne delle forme. Ogni tanto alzo il viso e Martin si lecca
le labbra, mentre stende la creta con il
palmo. Sembra concentrato. Ha gli occhi socchiusi, respira piano, e a un
centimetro da lui posso sentire un odore fresco di aghi di pino, succo aspro e
caffè.
Quando il professor
Morgan esce dalla classe, Martin alza lo sguardo e si toglie il grembiule. Non
gli dico niente. Sono troppo persa a sentirmi.
«Sarah… che ti è successo
al Cinema l’altra volta? Stavi male… hai…»
Mi fermo.
Sbaglio a tagliare la
forma di un ricciolo che avrebbe fatto da cestino alla mia natura morta. Lascio
cadere lo stuzzicadente.
«Non mi piaceva quella
scena del film.»
«Era solo una sparatoria.»
«Non sopporto il dolore.»
Non riesco a fermare le
parole che mi scivolano sulla lingua e vengono fuori dalla mia bocca. Martin mi
guarda. Martin, Martin che fa un passo avanti e io uno indietro, verso
l’armadietto. Martin che socchiude le labbra e sospira, io tengo chiusi i
polmoni.
E poi sorride.
«Sai una cosa? Io non
sopporto i piselli.»
Mi sento stordita. Forse
perché è tutto assurdo, forse perché sono assurda io perché… perché forse è
solo un secondo ma lo sto facendo. Avevo
paura di te, sai?
«Che cosa ridi?»
Avevo paura del mondo, sai? Di non riuscire a
nascondere la rabbia, la tristezza, la delusione. Di mandarla fuori facendo del
male alle persone, perché è questo che so fare. Io sono un mostro. Era scritto
ovunque. Mostro.
Forse mi hanno dato dei sedativi o del veleno per
farmi spegnere a poco a poco.
«Niente.» Ma ora è diverso. Ora sto ridendo.
Lo so perché mi avvicino di nuovo al tavolo e riprendo a ritagliare ma
Martin mi spintona leggermente, con la spalla. Puoi farlo ancora. Sorride. Puoi
farlo ancora. «Scusa, non volevo.» Puoi
farlo ancora. Mi tocca e uno strano stridore mi si annida dove mi batte il
cuore, perché la mano mi trema e so che non riuscirò a far nulla, nemmeno a
respirare o a far funzionare il cervello. Si è spento improvvisamente, mentre
tutto il resto è acceso.
Quando suona la
campanella non riesco a muovermi. Posso sentire i passi di tutti, le scarpe da
ginnastica che picchiettano sul pavimento, le ante dell’armadietto che sbattono.
Martin mi guarda ed io guardo lui.
So solo una cosa.
Per un istante, la paura non c’è più.
*
*
*
*
Lettori
carissimi <3 Mi scuso per l'immenso ritardo, ma davvero non ho
potuto postare prima. Lo studio ultimamente sta prendendo il tempo di
tutte le mie giornate, mi scuso con tutti voi. Non potete immaginare
quanto mi dispiace. Non ho ancora risposto alle recensioni, spero di
farlo presto ma vi dico già da qua QUANTO SIETE FANTASTICI E
MERAVIGLIOSI *-* Grazie per il vostro sostegno, non saprei come fare
senza di voi, grazie, grazie, grazie *-*
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, nel frattempo spero di poter
aggiornare presto, farò il possibile <3 <3 <3
Un bacio
Ania
|
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Capitolo 6 *** 5. I giorni ***
until 5
5.
I giorni
Sono passati un po’ di
giorni.
O forse no, sono passati i giorni.
I giorni in cui mi sono guardata allo specchio e non ho distolto lo sguardo,
perché guardarmi non faceva più così male. I giorni in cui ho risposto,
domandato, parlato. I giorni in cui ho sorriso, almeno un po’… quel movimento
fatto di labbra e guance che si stirano. I giorni in cui ho riempito il mio
taccuino delle cose più disparate, forse senza senso. I giorni in cui ho
chiesto in prestito una penna alla lezione di Francese. I giorni in cui ho
aiutato un ragazzo a fare un esercizio di matematica. I giorni in cui ho esalato
qualche nota, per cantare una canzone alla radio.
I giorni.
«Pierce?»
Mi fermo. Seguo la voce e
vedo una ragazza bionda, giubbotto aderente e jeans attillati, stringe fra
le mani una catenella per tenere a guinzaglio il cane che è vicino a lei.
È Yvonne Stewart.
Faccio
un piccolo respiro
e mi stringo lo zaino in spalle. «Ciao.» le dico, e
comincio a camminare verso di lei. Sono veloce, non me ne ero mai
accorta prima.
Il suo cane sembra avere
il pelo morbidissimo, respira con la lingua da fuori e i suoi occhi marroni
sono lucidi. È tutto da abbracciare. Corre via prima che mi ci avvicini.
«Anche tu arrivi presto a
scuola?» le chiedo.
Yvonne mi lancia
un’occhiata, gli occhi nocciola socchiusi. «Sono solo andata a compare il cibo per il mio cane.»
«È bellissimo…»
«Sì… l’ho salvato dal
canile della quarantunesima strada.»
«Come si chiama?»
«Bob, ma…»
«Abbiamo altri corsi in comune, oltre a Artigianato?»
«Che ci vede in te,
Martin Scott?»
Martin ha gli occhi verdi, sfumano nel grigio sotto
le ciglia lunghe. La mascella squadrata gli si contrae, quando si concentra.
Gli si alza prima l’angolo destro della bocca, quando sorride. Ha una risata
gutturale, calda, sembra provenire dalle spiagge calde tanto lontane da qui.
La mia domanda resta
ferma a mezz’aria, mentre le sue parole volano, una alla volta, fino a me. Mi
sento la gola secca e, davvero, non so cosa dire. Martin Scott è il ragazzo del bus. È quello che mi ha
chiesto come stai? con la voce
preoccupata. È quello che mi ha tolto via le parole con le pinze quasi fossero
denti, ma senza dolore.
Che ci vede in te, Martin Scott?
Riprende a parlare. «Ti
consiglio di aprire gli occhi. Ti ha abbordato da sobrio, e o ha una libidine
incontenibile o vuole provare esperienze nuove… sai com’è… a non tutti capita
di incontrare Sarah il mostro.»
Parole in caratteri cubitali.
Giornali, prime pagine.
Il mio nome.
Sarah Pierce.
Cinque
anni.
Mostro.
Una sua amichetta l’ha
chiamata per giocare e lei le ha fatto bruciare il cervello.
«Per favore, non…»
Niente parole, solo mormorii. Niente sorrisi, solo
smorfie di disgusto. Risate di scherno, fughe.
La mia vita come titoli di giornali nella mia testa.
Sarah, sola. Sarah, sola. Sarah, sola.
E poi Martin mi ha guardata.
«Chissà… magari vuole
vedere di cosa sei capace.» continua.
Mi irrigidisco. Sento ogni mio tendine
drizzarsi, brividi sulla nuca, una lieve pizzicore allo stomaco che
aumenta, aumenta, aumenta, mentre il calore diventa freddo, acqua gelida,
ghiaccio.
Come quel giorno.
Dico qualcosa, non sento nemmeno cosa. E poi scappo, prima di farle
del male.
***
Sono passati un po’ di
giorni. I giorni.
I giorni in cui ho aperto gli occhi e le orecchie, e mi sono guardato dall’alto, come se quel ragazzo un
po’ più alto della norma fra tanti non fossi io.
Ecco, quel ragazzo fra
tanti aveva lezione di Storia, dopo quella di Artigianato, e Sarah era
dappertutto.
Sarah è dappertutto in questi libri, nelle parole, nelle voci
degli altri, nell’aria fredda, nell’acqua calda, nelle matite mordicchiate,
negli spintoni, nei quiz alla televisione. Il segnale non prende bene. C’è la
sua sagoma ovunque.
Ovunque la senta, la ascolto.
«Ehi, Martin, Venerdì sera a casa mia.» mi soffia Cameron due banchi più in là.
Annuisco. «Ok.»
Ovunque sia, la guardo.
«…
procura una sindrome di irradiazione acuta causando vomito nelle prime ore;
altri sintomi dopo qualche giorno di latenza sono: febbre, emorragie,
infezioni… tutto ciò produce una massiva distruzione delle cellule
dell’organismo. L’apparato digestivo e il midollo osseo (quella parte che
produce le cellule del sangue: globuli rossi, globuli bianchi, piastrine) sono
i più sensibili alle radiazioni. Dolore in ogni parte del corpo.»
Non
sopporto il dolore.
L'inchiostro della penna mi colora il dorso
della mano, mentre prendo appunti. Forse dovrei chiederle che cosa intende,
esattamente. Dolore fisico o psicologico? Cose d’amore o robe così? Le ragazze
sono sensibili… a queste cose. Forse dovrei chiederglielo?
Ormai mio padre lo sa, prendo ogni giorno il pullman.
E lei è bella.
Bellissima.
«Che cosa fa, Scott?» Alzo gli occhi dal foglio e
incontro quelli della professoressa Denver, già pronti a sparare nocive
radiazioni gamma.
Ah,
allora ho capito sul serio!
«Prendo appunti.» dico. Mi prende il foglio dalle
mani, si mette gli occhiali che teneva appesi alla camicia e tossisce un po’.
Sospiro e mi distendo sulla sedia, domani c’è la seconda lezione di Artigianato,
e devo ancora vedere che cosa combinare. Non so fare niente, ho le mani grandi,
non riesco a… fare un cazzo. Ah, ma forse sì, un cazzo! Cameron sarebbe felice
di me. Ma accanto a Sarah? No, non importa…
Dio, ma che cazzo. È solo una ragazza.
Pericolosa? Puah.
Le prese della corrente per i bambini piccoli sono
pericolose. Le buche in strada per chi va a trecento all’ora. Le nocciole
tritate per chi è allergico.
Sarah mi fa un altro effetto.
Che
effetto, eh?
«Bene, Scott… sembra che si stia impegnando, questa
volta.»
Torno al mio mondo, seduto ad una sedia con la
professoressa che mi osserva. Tutti mi fissano.
«Ehm… sì.»
Suona la campanella.
***
Mi metto a correre, nel corridoio. È la prima volta
che lo faccio. Chi se ne importa di arrivare in ritardo? Tanto ai consigli di
classe leggono il mio cognome e tutto il resto scompare, passo l’anno come
passa l’acqua in un canale. Anche se lo ammetto, agli ultimi test dell’anno
studio un casino perché ho paura di essere bocciato. Alla fine.
Eppure ora corro.
C’è
una folla, vicino alla porta che apre sull’aula
del professor Morgan. Rallento, mi avvicino, Sarah, Sarah, Sarah è fra gli ultimi della fila,
si stringe i libri al petto.
«Ciao.» le dico.
Lei
mi sorride, sembra che l’abbia fatto d’istinto. I capelli
castani lisci sulle spalle, gli occhi azzurri che sono come l'acqua
profonda e le guance più colorate.
Colpito.
«Ciao.» risponde, la voce limpida, tremula un po'.
Ok, ci sono. Sei bella.
Sì, ok, ora che lo abbiamo ulteriolmente costatato mi guardo un
po' intorno. La porta dell'aula è chiusa e tutti gli altri
ragazzi sono fuori con noi.
«Che succede?» le chiedo.
«Ragazzi.» La professoressa Strause si avvicina a
noi, composta come sempre. «Oggi il professor Morgan è assente, quindi avete
un’ora di buco. »
Bello!
Mi volto verso Sarah. Si morde le labbra, guarda per terra.
«Va tutto bene? » le chiedo.
«Sì.» Si passa una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «Sì, tutto bene.»
Mi mordo la guancia dall’interno. «Non vedevi l’ora
di vedermi indossare quel grembiule bianco, non è così?»
Le strappo una risata. «In realtà, a me piace
proprio la lezione… la aspetto per tutta la settimana.»
«Davvero? »
Per me?
Aspetto la sua risposta. Cerco di tenere a bada la
voce che mi parla nella testa.
«Sì,
è così.» Gli altri ragazzi si disperdono,
c’è
chi prende il corridoio verso l’uscita e il cortile, chi va dalla
parte opposta
per raggiungere la biblioteca. Ci passano vicino, mi sfiorano. Sarah si
stringe nelle spalle, a farsi ancora più piccola ed esile di
quanto
non lo sia già. Sembra che qualcuno che odia la stia
costringendo a stare
ferma, abbracciandola da dietro.
Quando tutti sono andati via, torna a
respirare normalmente.
Sorride con gli occhi.
«Allora, io ho fame.» dico.
«Abbiamo già pranzato.»
«Ah.» Credo di avere una faccia sconvolta. «Per il
mio stomaco non conta. Vado a… prendere qualcosa, vieni anche tu? »
Mi sento mancare l’aria per un istante. L’ossigeno
che viene risucchiato da un qualche aspirapolvere gigante che annulla tutto
quello che ho intorno, tranne me e lei. Deglutisco.
«No… non importa. Vado casa.»
Sbam. Il rumore che fanno le auto quando si
scontrano con un palo della luce. C’è un rumore simile, dentro me stesso. E non
so bene perché.
«Ti accompagno?»
«No… meglio di no.»
«Perché?»
«Non avevi fame?»
«Vado a mangiare e poi ti accompagno, ok?»
Certo che so proprio essere rompicoglioni, eh?
«O-Ok.»
Ok.
«Ok.»
Ok.
Credo che sia la mia parola preferita.
***
Il McDonald c’è sempre quando lo stomaco brontola,
credo che se fosse una persona, sarebbe Doreen.
«Allora, un cheeseburger, patatine con solo ketchap,
Una porzione di crocchette…»
La cameriera scrive su un foglio di carta la mia
ordinazione, illusa che io non dica altro. «Mcnuggets e una bir… anzi, una cocacola.
Con due cannucce.»
La cameriera se ne va, sembra shoccata.
«Da quanto tempo non mangi? » mi chiede Sarah.
«Sono un maschio adolescente.»
«Non mi hai risposto.»
«Sì che ti ho risposto.»
Ride, solo un po’. In questo modo timido che ho
capito essere solo suo, uno degli elementi della tavola che la compone.
«Quindi, Artigianato è la tua materia preferita.»
butto lì.
Lei giocherella con il polsino della felpa. «Mi
piace tanto. In generale… mi piace tutto.»
«Ti… piace studiare?»
«In genere sì.»
«Non ci credo.» Stendo un braccio lungo il tavolo e
quasi la sfioro, riesco a toccare il bordo di un libro che ha poggiato. Lo
prendo e lo sfoglio. «Come può piacerti?»
«Credo che studiare migliori le persone.» Poggia il
mento sulla mano. «Quando conosco qualcosa in più, sto meglio con me stessa.»
«Ma tu non devi migliorare niente.» Non
riesco a guardarla negli occhi. Ok, devo darmi una calmata altrimenti sembro proprio sfigato.
«Non è vero.» Scuote la testa. «Io ho tante cose
che non vanno.»
«Tipo?»
Socchiude la bocca, fa per dire qualcosa, ma la voce
le si smorza in gola ed io immagino le mie labbra che sfiorano le sue e poi
premono, piano, pianissimo, lente, lentissime, le mie mani sul suo collo.
Non risponde.
«Ecco, niente.» dico io.
Ho vinto.
«Quindi a te non piace.» Si passa una ciocca dietro l'orecchio.
«Non è che non mi piace, è che il mio cervello rifiuta
le informazioni nocive.» Chiudo il libro fra due mani e passo le dita sopra il
titolo, Grammatica Francese per quarto anno.
«Magari potrei aiutarti.»
Un rumore metallico.
La cameriera ha portato la mia ordinazione, e adesso
si allontana con fare non curante. Magari
potrei aiutarti.
Aiutarmi.
Stare insieme.
«Sono senza speranze.» la avviso.
«Anch’io.»
Apro
la lattina di cocacola, prendo le due cannucce
e le infilo dentro. Mi alzo, faccio il giro del tavolo e ignoro quella
strana
sensazione alla pancia che assomiglia a un lieve solletico. Possiamo
cercarla insieme, una speranza.
Mi siedo
accanto a
lei e reprimo quella strana voglia di spostarle quella ciocca che le
è caduta di nuovo sull'occhio sinistro. Lascio che lei beva per
prima la cocacola e non so come, mi
sembra di aver dimenticato qualcosa, il motivo per cui sono qui, il
motivo per
cui mi sono iscritto a quel corso, il motivo per cui l’ho
guardata per la prima
volta. Non lo so.
Così, scambio con lei tutto il cibo che ho preso e
mi sento felice, sì. Felice. Mi dice che mi darà i soldi di metà di questa roba
ma se si permette potrei anche fargliela pagare in un altro modo, scema. Glielo
dico proprio, sei una scema, e le guance
le si colorano di rosso. Sei bellissima,
vorrei dirle. Lo sai che sei bellissima?
Ma lei mi mette sul palmo quelli che devono essere settanta cents, è tutto quello che ho, ma poi ti darò il
resto. Ti odio, Sarah, sul serio. Non
andare mai via.
Ha un orologio in plastica rosa, sul polso. Che ore sono? La uso come
scusa per toccarla, e mi accorgo che la sua pelle è proprio come la immaginavo,
liscia, morbida, fresca d’inverno.
È tardissimo, usciamo dal locale correndo come se
potesse davvero cambiare qualcosa.
Ma io sento che qualcosa è cambiato.
In me, almeno, sì. Come se fossi io stesso un
orologio, con gli ingranaggi un po’ arrugginiti. Adesso vanno tutti veloci,
come l'organo che mi pulsa in mezzo alle costole.
***
«Martin! Martin, aspetta! » gli grido, mentre corre
verso l’altro isolato. Sono cinque minuti che non facciamo altro,
ininterrottamente, ed io avrei tanto voluto fermarlo ma la sua risata è
liquida, porta in superficie tutto quello che incontra.
Al suono della mia voce si ferma, le sue spalle
ampie si irrigidiscono sotto il giubbino scuro, e allora lui si volta verso di
me. Ogni cosa si riflette sul suo viso, il nero del giubbino nel verde dei suoi
occhi. Sta ancora sorridendo.
«Che c’è?»
«Non arriveremo mai in
tempo.»
«Mi stai chiedendo di marinare la scuola, eh?» La
sua bocca si muove in una specie di ghigno, quello che farebbe un bambino che
ha appena rubato un giocattolo. «Non eri tu quella a cui piaceva studiare?»
Sbuffo, il soffio che mi nasce dalla bocca mi alza i
capelli. Sbuffare? Ne sono capace? Forse perché ho visto tante volte lui, fare
così.
«Arrivare in ritardo mi piace meno.» Al solo
pensiero mi vengono i brividi. Tante piccole siringhe per ogni vena delle mie
braccia.
Dieci anni. Sarah Pierce. Il mostro colpisce ancora.
Solo per uno sgambetto, sono caduta,
ho sentito un bruciore al ginocchio e poi… e poi è successo di nuovo.
«D’accordo. Non ci andremo.» dice Martin, e mi riporta
qui, in questa strada grigia con la neve sciolta sui lati, i palazzi alti che
graffiano il cielo e le nuvole spumose.
Annuisco,
mi sento sollevata. Lo guardo, indugio
sulle labbra, sui capelli biondi che si arricciano sulle orecchie,
ciocche che si schiariscono sulla fronte, le ciglia lunghe e dello
stesso
colore.
«Ok.» dico.
«Ok.»
Siamo in un centro commerciale. Le cassieri ci
ignorano, sento Martin che mi tocca la spalla – ha le mani salde, grandi,
tengono forte – è una sensazione che mi fa sentire i rumori nello stomaco.
«I biscotti Oreo.» dice, poi prende in mano una
scatola di biscotti.
Guardo un po’ in giro per gli scaffali. «Questi sono
scontati.»
«Ma sono sottomarca.»
«Il gusto è uguale.»
«Nah, non è per niente vero.» Si passa una mano fra
i capelli e non dà per niente segno di voler lasciare la scatola di biscotti.
«Io sono di marca. Mi paragoneresti mai a un ragazzo sottomarca? »
Mi mordo la guancia dall’interno. Riesco a riconoscere quando sto per ridere,
ne sento il sapore, metà amaro e metà dolce, che parte dalla gola e poi scoppia
dalle labbra in quello che è un piccolo pezzo di felicità.
Così, succede ora. Ma che domande fa? Come fa il suo
cervello… a fare paragoni con se stesso e i biscotti? Scuoto la testa… per un
maschio adolescente deve essere normale, anche se quando ha lo sguardo
concentrato, con quelle spalle larghe e i muscoli delle braccia, il filo di
barba che aveva l’altro giorno, sembra tutt’altro che un adolescente.
«Be’, quindi?» fa ancora. Vuole proprio che gli
dica qualcosa.
Lascia che la mia lingua scorra da sola. «Mhm… tu
sei scontato?»
«Io sono gratis, oggi, ma non dirlo in giro.»
«Sono stata fortunata.»
«Non puoi nemmeno immaginare quanto. Anzi, dovresti
saperlo. Tutte lo sanno.»
«Tutte chi?»
No,no,no,no. Dov’è un telecomando? Rewind sulla mia
faccia bianco latte. Ho bisogno di cancellare questa cosa e sostituirla con
un’altra.
«Molte ragazze. Sì. Davvero Molte.»
Imbocco un
altro corridoio, non mi va gi guardarlo in faccia. Mi supera, si ferma, mi
accanto. Quella faccia. Non mi piace, è… strafottente.
«Ho fatto qualcosa di male? »
«Di male? Niente.»
Mi calmo. Sì, certo che mi calmo. Lo guardo. Ha gli
occhi luminosi e il sorriso bianco, da vicino sento il profumo della cocacola e
di fresco, non so da dove provenga. Lui starà bene, non gli farò mai del male.
Continuiamo a camminare.
Sorride al punto da farmi venire il nervoso. Mi
trovo davanti al reparto dei materassi. Ci sono poltrone e letti e panche e…
Martin si stende su un letto a due piazze.
«Ah… sì. Questo è comodo.» Si mette le mani dietro
la nuca, incrociate. Mi avvicino a lui, la maglietta verde militare gli si è
alzata, a mostrare la pelle scoperta. Guardo altrove, delle signore ci fissano.
«Martin, dovresti alzarti.»
«Perché?»
«La gente ci fissa.»
«Nah. » Si mette di lato, una mano a sostenersi la
testa. Potrebbe essere uno di quei ragazzi che si vedono nei cartelloni
pubblicitari. «Scommetto che la mia presenza aumenta le vendite. »
Mi stringo nelle braccia. «Io penso che ci
cacceranno.»
«Venderei di più se fossi nudo, è vero.»
Mi mordo le labbra e guardo oltre il letto su cui è
steso, c’è una poltrona bianca con un ricamo a fiori, sì, a fiori… non capisco
perché… Martin nudo… dio, perché
spara simili scemenze? Mhm… quella poltrona piacerebbe a mia nonna.
«Ehm… tutto ok?» mi chiede Martin, e la sua voce
suona incerta, quasi tremola.
«Sì.» Vorrei sedermi vicino a lui. Poi mi ricordo
che questo è un letto e ci ripenso. Non so bene perché, anche se Martin non
sembra reale, steso in questo modo, a guardarmi con quell’espressione.
«Dai, vieni, ti lascio il posto. Io vado alla cassa
a pagare i biscotti e poi torno.» Si mette in piedi, veloce.
«Tu… vuoi ancora mangiare? »
«Sono…»
«Un maschio adolescente, lo so. Ma non una
discarica.»
Si avvicina a me con fare inquisitorio. «Questi biscotti
Oreo sono originali.» mi soffia contro.
Trattento una risata. «Ok.»
«Ok. »
Mi siedo sul letto, mentre lui fa qualche passo in
direzione della scala mobile. Si gira leggermente.
«E non scappare, eh! »
«Sono qui.»
Sono
dove sei tu.
***
«Sei tornato tardi.»
«C’era la fila. »
Martin si stende vicino a me, in uno dei letti che ho provato mentre lui era via. A separarci, una tenda trasparente che
dovrebbe nascondere meglio quello di cui sono sicura: il mio rossore sulle
guance, ora che lui è così vicino a me.
Alza la tenda trasparente.
«Biscotti?»
«Grazie.» Ne prendo uno e comincio a mordicchiarlo.
Il cioccolato mi si scioglie sulla lingua, pastoso. È vero, questi biscotti
sono diversi dagli altri.
«Una volta,
Doreen prese un’altra marca di biscotti ed io mi rifiutai di fare colazione. Ci
tenevo troppo.»
Viziato.
Cerco di prendere un altro biscotto, non ci riesco, sento le dita
di Martin sfiorarmi il polso.
«Chi è Doreen? » Alzo il capo dal cuscino e incontro
i suoi occhi. Colore di foglie, verde luminoso e pagliuzze grigie dai contorni
irregolari. Onde nelle sue iridi.
«La donna della mia vita.» La sua voce è seria. Poi scuote la testa e si mette a ridere, mentre io
non so come ma smetto di inalare aria nei polmoni. «Va be’, meglio non
parlarne.»
Deglutisco a fatica. «Perché? »
«No… così. »
«Così come? »
«Niente. »
«Ha qualcosa a che fare con la tua ragazza?»
Si mette siede all’improvviso, le sue spalle si
alzano e si abbassano al ritmo del suo respiro. «Chi ti ha detto che ho la
ragazza?»
Mi metto seduta anch’io, lui mi fissa attraverso il
velo della terra. Avvicino le dita alla stoffa e lo guardo meglio. «Non mi
sembri un ragazzo che se ne sta da solo. »
«In che senso? »
«In ogni senso.»
Riesco solo a sospirare.
Non sembri uno che se ne sta da solo eppure sei qui con me. Martin digita qualcosa sul suo cellulare,
d’istinto prendo il mio e vorrei non averci pensato, visto che al confronto
quello che ho in mano sembra una pietra dell’età preistorica.
«…No, non ho credito. E ho finito i soldi. Grande.»
sbuffa.
Guardo il mio cellulare. Blu, enorme, che si piega
in due. «Forse il mio… » Alza gli occhi verso di me e me lo prende dalle mani.
Sta trattenendo una risata, si vede.
«Ma dove l’hai preso? »
«Mi è stato regalato.»
«Quante vite fa?» Mi mordo le labbra. Mi dà
fastidio, perché non la smette? «È un pezzo da restaurare, sai?» Voglio fargli
male. No, non troppo male, ma abbastanza. Basterà qualche pugno?
«Dai, ridammelo.» gli dico.
Spinge i tasti. «Ma è morto? »
«No. » riesco a prenderlo. «È scarico.»
«Doreen penserà che sono stato rapito da una
compagnia sfruttatrice di modelli e che non tornerò mai più a casa.»
Giro la testa e rimetto il cellulare nello zaino.
Non può guardarmi.
«E invece?» gli chiedo.
«E invece sto con te.»
Sento che lui riesce a vedermi lo stesso, anche se
sono voltata.
Sorrido.
***
Nell’atrio del portone non ci sono i riscaldamenti, eppure ho quel
genere di caldo che si sente solo in caso di febbre. Pigio sul tasto per chiamare l’ascensore e
aspetto. Aspetto.
Arrivo al mio piano e suono il campanello. Quando sento la luce
colpirmi il viso alzo lo sguardo e vedo che la porta si è aperta, il mio
stomaco è tutto un formicolio.
«… Sarah, mi hai fatto preoccupare. » Mia nonna mi guarda. I
capelli grigi raccolti e il viso rugoso come le foglie che cadono in autunno.
Non ascolto niente a parte l’euforia che mi scorre dentro, il cuore che mi affoga
le parole, la pancia che mi si contorce. La abbraccio.
«Ciao, nonna.»
Entro in casa e chiudo la porta per lei. Devo fare almeno tre
tentativi: dobbiamo aggiustarla ma la pensione del nonno questo mese non è
bastata per chiamare un falegname. Ma poi riusciremo a fare anche questo, alla
fine.
«Stai bene, tesoro?» mi chiede.
«Sì.» E mi accorgo per la prima volta di dire la verità.
Deglutisco. «Sì. »
I suoi occhi marroni dicono che mi crede. Lascio cadere lo zaino,
vado in soggiorno, «Ciao, nonno.» gli schiocco un bacio sulla guancia come
faccio solo ai compleanni e accendo la televisione. È vecchia e ci mette almeno
cinque minuti per caricarsi e fare vedere l’immagine.
Mi chiudo nella stanzetta, prendo il taccuino dal cassetto e
comincio a scrivere.
Ogni giorno mi costringo a imparare qualcosa di quello che mi sta
intorno, anche se tutto quello che posso capire vive solo nella mia
immaginazione.
Fuori sta piovendo.
Sospiro, mentre i tratti della penna si fanno pesanti.
Un pensiero si fa strada nella mia mente, mentre prende forma su
carta.
Vivere.
*
*
*
*
Eccomi qua
<3 La scuola non mi dà tregua, ma spero comunque di
continuare ad aggiornare una volta ogni due settimane perché
questa storia deve proseguire ** Allora, vi piace? Vi dico che la
svolta si avvicina e che questo cpaitolo serviva per tastare il
terreno, diciamo. Di Sarah si sa qualcosa in più o aumentano i
misteri? Come ragiona Martin? Succederà qualcosa fra i due?
Spero davvero che continuerete a leggere per scoprirlo e spero che mi
lascerete un parere <3 <3 <3
Grazie mille a tutti voi <3 <3 <3 E a chi mi sostiene e mi sprona a fare sempre meglio. Grazie <3
Un bacione
Ania <3
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Capitolo 7 *** 6. L'aspetto del fiore innocente, ma il serpente sotto di esso. ***
until 6
6.
L'aspetto del fiore innocente, ma il serpente sotto di esso.
«EHI!»
Colpo alla nuca.
Mi
volto e vedo Cameron: giacchetta scura, il cappello con la visiera
stretto in mano e il sorriso che gli fa vedere tutti i denti che
ha.
«Ah, sei tu,» gli dico.
Cameron si sistema la giacca, i capelli scuri e quasi rasati. «Non
sono io.» Si schiarisce la voce. «Sono… io.»
Mi viene fuori un mugolio, mentre ingoio un altro cucchiaino del budino alla vaniglia
che oggi offre la mensa. Si siede
accanto a me.
«Che è successo, ieri?» mi chiede.
Mi irrigidisco, deglutisco, rido e non so perché. «Che doveva succedere? »
«Ah… non saprei, a parte il fatto che sei… sparito nel nulla.»
Schiocco le dita. «Mi ha risucchiato un buco nero!»
«Senti, che oggi, per la seconda volta, ti interessava la
spiegazione di Chimica è stato un miracolo, è vero. Però…»
«Niente…
è che…» Mi guardo intorno, ragazze e ragazzi che
ridono: lei non c'è. Se Cameron sapesse... si metterebbe a
ridere e basta. «Non mi sentivo bene.»
«Diarrea?»
«Allergia.»
«A cosa?»
«Ai cani.»
«Mhm.»
«E quindi anche a te, bassotto.» Un pugno contro la spalla. Incontro
l’espressione ferita di Cameron, e l’unica cosa che riesco a fare è ridergli in
faccia.
«Non sono basso…»
«Seh, seh…»
«Sei tu che sei troppo alto.» Sì, ha ragione. Ma è troppo bello sfotterlo.
«Le mie misure sono perfette in ogni campo. »
«Non provocarmi, ok? Lo so che mi ami e non vedi l'ora.»
Mi passo una mano fra i capelli e finisco il budino. Cameron apre
il libro di francese, cerca di fare la erre moscia per l’interrogazione, gli
viene fin troppo bene. Sono verbi di cui ho un vago ricordo… ma quel corso non
lo seguo più da anni. Forse potrei anche ricominciare, tanto non è male.
Voglio dire, può sempre essere utile e…
«Venerdì
i miei non ci sono a casa!» dice Cameron, poi chiude il
libro e se lo mette in cartella, la camicia a quadri bianca e nera che
gli
penzola dai jeans. «Sicuro di voler venire? Sempre che
l’allergia ti porti a
stare sofferentemente lontano da me... anche se so che mi ami e mi
staresti vicino comunque. Potremmo invitare delle tipe.»
«Ehi, smettila. Lo sai che cosa mi piace... Delle tipe?»
«Oh, non lo so, ci inventeremo qualcosa.»
Facciamo scontrare le nostre mani chiuse a pugno, come quando
avevamo dieci anni e per sbaglio gli feci un occhio nero. Doreen medicò la sua
ferita, fece la torta alla nutella e gliela fece portare a casa, come se
fosse stata lei a fargli del male.
«Andata.»
***
«Prendi l'aspetto del fiore innocente, ma sii il serpente sotto di esso.»
La professoressa Simons alza gli occhi da una copia malridotta del MacBeth di
William Shakespeare, si sistema gli occhiali e si stringe il libro al petto,
come se fosse qualcosa che ama davvero. Ha lo sguardo tremolante, come tutte le
volte in cui ci guarda in silenzio. Sarà al massimo dieci anni più grande di
me, e sprigiona amore per ogni parola che spiega. «Qualcuno vuole dirmi che
cosa trasmette questa frase?» chiede.
Tutti restano in silenzio. È l’ultima ora
della giornata, Paul lancia aereoplanini di carta, la metà della classe
sonnecchia, l’altra metà annuisce. Sono simpatici, per le poche parole che sono
riuscita a scambiare con loro in questi giorni.
Lo sguardo della professoressa si posa su
di me.
«Dimmi, Pierce… aspetta, non ricordo
il tuo nome, solo un attimo.» Posa il libro sulla cattedra e prende il
registro, fa per dire qualcosa, quando le mie labbra si
muovono a formare, nell'euforia di questo momento: «Sarah».
La professoressa posa il registro. Sento
un rumore di matite sbattute contro il legno dei banchi, delle sedie che
stridono, qualcuno che tossisce.
«Bene, Sarah. Che cosa ne pensi di questa frase?»
So che tutti mi osservano.
Ma io devo farcela.
Io posso.
Io posso provarci.
Prendo un respiro profondo e lascio che le parole scorrano. Andrà tutto bene. «Chi ha un
aspetto innocente a volte... nasconde una cattiveria velenosa come quella di un
serpente. E chi vuole fare qualcosa di malvagio, per riuscire nei suoi intenti…
si maschera, si mostra diverso, si mostra buono,» dico. Non è più tanto
difficile parlare, anche perché mi sembra di parlare di me. Mi sono guardata
allo specchio per anni con la consapevolezza di essere un mostro, di non
meritare i baci e le rassicurazioni di nonna, di desiderare solo di farla finita
presto anche se ne ho sempre avuto paura. Da qualche giorno mi guardo allo
specchio e mi sento… innocua. Come posso fare del male con queste mani sempre
sporche di inchiostro? Con quello sguardo da chi non ha mai visto niente nel
mondo? Non voglio più credere al mio passato, anche se è già tutto scritto.
«E
questa è una cosa negativa, secondo te?» mi chiede la
professoressa. «Usare una maschera per nascondere quello che si
è veramente?»
Mi mordo la guancia dall’interno. «Solo
chi ha qualcosa da nascondere usa questi mezzi. Chi è buono non nasconde quello
che è, quindi è qualcosa che è a che fare solo con la malvagità.»
La professoressa annuisce. «Giusta
osservazione.»
E tu cosa
nascondi?
Suona la campanella. Mi precipito fuori a
prendere l’autobus, vado veloce, vado a sbattere contro un ragazzo e biascico
un scusa. Poi rallento.
Vado piano.
Come può essere cambiato tutto in questi
pochi giorni? Io sono sempre quel mostro di cui hanno parlato tutti.
Sono diversa, adesso?
Non lo so, non lo saprò mai.
«Sarah?» Mi irrigidisco, perché la voce
che pronuncia il mio nome mi striscia sulla schiena come con una carezza. Mi
volto e lo vedo, è sempre lui. Mi viene fuori un sospiro, non so se per il
sollievo o altro perché è Martin, il ragazzo del bus, dei biscotti, dei sorrisi
magici.
«Ehi. » riesco a dire.
Mi sorride, si passa una mano fra i
capelli biondo scuro e si sistema lo zaino sulle spalle. Gli si forma una
fossetta sulla guancia e sembra… davvero più grande della sua età.
«Prendi il bus come sempre, no? » mi
chiede, e cominciamo a camminare verso l’uscita.
Annuisco. «Sì, come sempre.»
«Comunque… tu mi avresti promesso una
cosa.»
Scendiamo le scale del porticato. Io mi
mordo le labbra mentre cerco di pensare a che cosa intenda Martin, lo guardo.
«Cosa?»
Sbatto gli occhi, perdo il respiro, non
sento più la terra sotto i piedi ma solo la sua mano sul mio braccio. Vado a
sbattere contro di lui, il giubbino verde chiaro, una sfumatura più chiara dei
suoi occhi. C’è profumo di alberi e inchiostro e vaniglia.
Scuto la testa, cerco di tornare in me.
«Sono… scivolata.»
«Menomale che c’ero io. »
Sorrido, sei troppo vicino, sorride, perché sei così vicino? Sento il cuore graffiarmi il petto mentre batte,
mentre va avanti e dietro fra le mie costole. Mi allontano e ho paura di avere
le guance troppo rosse, non so nemmeno perché.
«Comunque… mi avevi detto di studiare
insieme un giorno, ti ricordi?»
Nascondo il viso nella sciarpa di lana
bianca. «Oh… sì, mi ricordo. » Sento un calore nuovo invadermi la pancia.
«Non che io ti stia pregando, eh.»
«No, no,» dico io. Sento la mia voce
farsi più sottile. «Certo che… »
«Insomma… studiare? Io farei altro.»
Si ferma, io rallento, mi sistemo il
cappello di lana. Io farei altro. Il calore che mi sta nella pancia cresce.
Si passa una mano dietro la nuca. «Sì…
insomma, voglio dire… sarebbe meglio uscire, prima. Prima di studiare. Uscire. »
Saliamo sul bus, io mi siedo al solito
posto e Martin prende quello accanto a me. Fa cadere lo zaino, si volta e le
nostre ginocchia si sfiorano.
«U-Uscire?» gli chiedo.
«Sì… sai, cazzate varie, passeggiare,
andare a mangiare, come l’altra volta solo… “pianificato”.»
«Quando?»
Sembra che mi succeda sempre più spesso,
ultimamente. Parlare e accorgermene soltanto dopo. Sento il cuore che mi batte
forte, deglutisco, mi calmo e so che sto sorridendo perché lo sta facendo anche
lui.
«Quando vuoi tu,» dice.
«Sì?»
Non credo di aver mai davvero deciso per
me stessa qualcosa che andasse oltre il colore di uno zaino o di una felpa.
Quando? Oh, anche adesso. No, questa cosa non dovrei dirla ad alta voce, che
fretta ho? Quando… quando… quando… non deve essere un fastidio per lui, quindi…
«Sì.»
«Nel week-end?» gli chiedo.
«Cioè? »
Mi mordo l’interno della guancia. «Ve…
Venerdì?»
Martin si passa una mano fra i capelli e
volta la testa, la fossetta sulla guancia come segnale che sta sorridendo, il
suo profilo contro il grigio del bus. Poi si gira di nuovo e mi guarda, la luce
che filtra dai finestrini gli sfiora il volto, le basette bionde, le ciglia
lunghe.
«Venerdì.»
***
Passo il pettine fra i miei capelli, fino
alle punte, mentre mi guardo allo specchio del bagno, la luce accesa che
sembra azzurra come le pietrelle che colpisce. Più chiara dei miei occhi.
Sospiro. Mi tocco gli zigomi, qualche lentiggine come chicchi di riso sulla
pelle. Ho le labbra screpolate, metto il burro cacao. Mi liscio la maglietta,
rossa e nera, con lo scollo rotondo.
Vorrei essere bella. Vorrei che Martin mi
guardi e pensi che sono bella. Vorrei esserlo per me e per lui e… per il
semplice desiderio di esserlo. Allora oso, anche se non dovrei. Metto il
lucidalabbra che ho comprato ieri, il profumo al melograno e ciliegie.
Il cellulare vibra, lo prendo e il suo
nome lampeggia.
Sono giù.
Esco dal bagno, metto il giubbino e vado
in cucina, la nonna si è addormentata sul divano. Comincio a scendere le scale.
Esco dal portone, lui è lì, appoggiato al
muro, i capelli che gli cadono ondulati sulle orecchie, il capo abbassato sul cellulare.
Cammino. Calma. Martin. È lui.
Non gli farai del male.
Alza il viso e incontro il suo sorriso.
Parlo io. «Ciao.» Mi alzo nelle spalle.
Mi guarda, si avvicina, sul suo viso c’è
l’inizio di un sorriso, le labbra incurvate all’insù, le labbra rosse e
carnose. Mi sento rabbrividire.
«Ciao.» mi dice.
Si allontana, adesso, ed io sospiro, non
so bene perché, e adesso Martin sorride proprio. Calma. Calma. Perché sono così
nervosa? Mi passo una mano fra i capelli. Non gli farò del male.
«Allora, pronta a sopportarmi per una
serata intera?» Martin cammina con le mani in tasca, i jeans chiari, un
giubbino che non gli ho mai visto addosso, una catennela maschile a scintillare
nell’incavo del suo collo.
Tentenno a rispondere. Dovrei dirgli
grazie, anche se non mi ha “portato” ancora da nessuna parte? Avremmo anche
potuto restare vicino al portone del mio palazzo, credo che… mi sarebbe andato
bene lo stesso.
Martin aspetta, un’espressione di
incertezza sul suo viso. Resto zitta… l’incertazza sembra trasformarsi in
paura. Addirittura! No, non è per il mio silenzio, forse odia chi non gli dà
subito soddisfazione. Se è così, si stancherà presto di me.
Io non credo di stancarmi, però.
«Sopravviverò.» dico infine.
E allora Martin torna a sorridere e per la
prima volta sento di potercela fare. Non farò del male a nessuno.
Quello che mi trovo davanti è un enorme
campo sportivo, ci sono sempre passata davanti con il sogno che dentro, in
realtà, fosse un circo. Poi però, il nonno mi ha spiegato che in realtà è
sempre e solo una sede di partite di Hockey. Continuo a camminare.
«Ehi, dove vai?»
Mi volto verso Martin. «Io… cammino?» gli dico.
«Verso la direzione sbagliata.»
«Perché?»
Martin indica l’entrata del palazzetto con
la mano ed io mi mordo le labbra. No, no, no, no, non può chiedermi questo.
Troppe persone, troppo chiasso, troppi corpi che si scontrano, troppo vicini… E
poi le bibite scivolano a terra e urlano e i miei timpani vibrano e si scuotono
e sibilano…
«Ehi, tutto bene?»
Sono ancora qui.
Faccio un respiro profondo, Martin è
davanti a me e le sue mani sono sulle mie spalle. Mi abituo al suo tocco, mi
stringo nelle braccia, annuisco.
«Sì… solo che, cioè, la partita.»
«Partita? »
«Sì, insomma…»
«Ehi, ma tu davvero credi che ti porterei
a vedere una partita la prima volta che usciamo insieme sul serio?»
Uscire insieme e uscire insieme sul serio.
C’è differenza?
Sposta le sue mani dalle mie spalle alle
braccia, le stringe. «Senti, Sarah… fidati, ok?» Mi guarda, così. Con la
mascella serrata e gli occhi verdi impazienti.
Distolgo lo sguardo ma lui resta sempre
nella mia testa.
Fidati.
«Mi fido.»
Sorride e, inconsapevolmente, mi viene da
pensare che lo fa solo per me.
***
«Ci sei?»
«Credo di sì.»
«Non è difficile, devi solo...»
«Faccio da sola.»
«Sicura?»
«Sicura.»
Martin si allontana, con una naturalezza
che non so davvero da dove gli venga fuori. Si fa strada sulla pista veloce,
attento a non andare a sbattere contro nessuno, con la schiena tesa e il
profilo scolpito, i capelli biondi a sfiorargli le guance. La maglietta bianca
prende tutta la luce artificiale del palazzetto. Sembra il principe di un mondo
di ghiaccio.
Torna indietro, il rumore di una scia. «Sei sicura di esserci?» mi chiede.
Annuisco, appoggiata alla ringhiera con
entrambe le mani. «Sìsì, certo.»
«Io non credo di esserne sicuro.»
Prendo un respiro profondo.
Si avvicina.
Perché sono qui?
«Tranquilla. Non ti
lascio, non sbatterai la testa contro il ghiaccio e non sarai spettacolo
macrabro per tutti i presenti,» dice, a voce bassa. Mi prende la mani ed io muovo le spalle
leggermente, un brivido sulla schiena, Martin che mi guarda. Che mi tocca.
«Questo era un
modo per rassicurarmi?» La mia voce tremula.
Le
sue mani sono calde, leggermente più ruvide sui polpastrelli,
muove il pollice su entrambi i miei palmi ed io credo di non sapere
più dove mi trovo.
«Una specie. Perché?»
Deglutisco. «Perché non ha funzionato.»
Si mette a ridere, mi stringe ancora di
più le mani, le sue dita fra le mie dita, io che mi aggrappo alla ringhiera fin
troppo attenta a cogliere il modo in cui la sua risata si sprigiona nel chiasso
e nelle risa degli altri, lui che manda indietro la testa, la bocca che si apre
e si stira, la fossetta sulla guancia destra e mi tremano le gambe.
Rido anch’io.
«Oddio, oddio, attento.» Martin mi tira
verso di sé ed io gli vado a sbattere contro, le mie ginocchia che vibrano sul
ghiaccio, le gambe che mi sembrano sul punto di sciogliersi da un momento
all’altro. Serro gli occhi.
«Ti tengo io.» Non voglio, non voglio, non voglio aprire gli occhi.
«Mhm-Mhm.»
«Molte ragazze pagherebbero per starmi
così vicino, sai? »
Apro gli occhi e li punto su di lui. In
mezzo alla pista, è come se un leggero venticello gli scostasse via i capelli
dal viso, quando invece siamo noi, noi siamo il vento. Mi stringo alle sue
braccia, mentre lui sorride in un modo tagliente, che mi fa male e mi fa
mordere la guancia dall’interno. Aspetta una risposta, lo sta facendo apposta.
Come se fosse la prima volta.
Non gli farò
del male.
Stringo le nocche sulla sua maglietta.
«Io non faccio parte di quelle “molte”.»
Martin mi spinge ancora verso di lui, vado
a sbattere contro il suo petto e poi lo sento fermarsi, deve aver incontrato la
parte opposta della ringhiera. Mi tiene ferma con uno sguardo che non ha
dolcezza né tenerezza. C’è curiosità, una specie di smania, voglia insana di
entrare dove non sono mai andata nemmeno io.
«Come se non lo sapessi.»
Sorrido, lo so, lo sento. Martin no, mi
passa una mano intorno alle spalle, la ferma sulla schiena, poi risale e mi
sfiora la nuca. Lo guardo, socchiude le labbra, avvicina il viso al mio.
Uno scossone.
Ghiaccio contro le ossa, capelli nella
bocca, il respiro di Martin addosso come se fosse ancora qui.
«Ma che cazzo fai, idiota!» Sento la voce
di Martin farsi più alta, mentre mi scosto i capelli dal viso e stendo la
gamba. Sono caduta. «Non puoi GUARDARE dove cammini?» grida.
Martin sta parlando con un ragazzo alto
quanto lui, bruno e con un sorriso storto che sembra far parte di tutto il suo
aspetto. Dei ragazzi gli ridono dietro.
«Veramente qua si pattina.» risponde
quello. I suoi amici ridono. Martin sembra proprio arrabbiato. E a me viene da
ridere e per la prima volta, dopo tutto questo tempo, mi trovo a trattenere la
risata, a non sentire nessun dolore.
«Che scassacoglioni.» Martin si passa
una mano fra i capelli e si avvicina a me. Mi sto raffreddando il sedere e
l’unica cosa che riesco a fare è contare i respiri, bere tutte le risate che
sento, sorridere mentre Martin si china su di me.
«Scusa,» biascica.
Scuoto la testa, mentre mi aiuta a
rimettermi su.
«Non ti preoccupare, sto bene.» E mi
sorprendo io stessa del modo in cui lo dico.
Sembra vero.
«Pattiniamo ancora?»
Il viso di Martin, la mascella squadrata,
i lineamenti duri come se sfumati, è attraversato da un broncio,
come se qualcosa non gli andasse bene. «Martin…» lo richiamo.
«Odio gli idioti.»
«Tu come sei? »
Volta la testa verso di me e sembra
sconvolto. Poi la sua espressione si alleggerisce e si trasforma in un sorriso
che mi impiastriccia tutti i pensieri.
«Da quando hai la lingua così lunga?»
Abbasso la testa, mi sento le guance più
calde, sospiro. «Da quando ti conosco.»
«Ah-ah? »
Mi mette la mano sotto il mento e mi alza
il viso. Evito i suoi occhi così verdi e circondati da una linea di grigio che
si disperde in ombre. Ma lui non molla, trova il modo perché io lo guardi.
Rido. «Ah-ah.»
Rido ancora quando imparo anche a fare
qualche metro da sola su questa pista di ghiaccio, e mi accorgo che le ragazze
ci guardano, lo guardano e non mi importa niente. Perché sono con lui e non c’è
rabbia, tristezza, dolore.
Non faccio del male a nessuno.
Il mostro non esiste più.
***
«Dove hai imparato a farlo?»
Martin mi guarda di traverso, le mani in
tasca al giubbotto e il viso colorato sulle guance per il sudore. «A fare cosa?
»
Mi passo una mano fra i capelli e mi
stringo di nuovo nelle spalle. Martin cammina, disinvolto e al mio passo, con
le mani nelle tasche dei jeans, il suo respiro che si condensa nell’aria fredda
e bacia le sue labbra. A fare cosa? Non voglio, non voglio, non voglio
arrossire. Si alza il colletto del giubbotto per il freddo, il tessuto gli
sfiora il collo, il mento. Mi guarda e vedo i suoi occhi sorridere insieme a
tutto il viso.
«Ho fatto calcio, football, rugby, nuoto,
basket. Li ho mollati per varie cose. E anche Hockey.» Storce le labbra e
gli si stila la guancia in una smorfia divertita. Oh. «Lo so, sono notevole.»
Trattengo l’esclamazione di sorpresa che
si è liberata nella mia mente. «Perché hai mollato?» gli chiedo.
«Hockey? Ho colpito un ragazzo con il
dischetto in pieno viso.»
«Ah…»
«Sì, lo so… ma lui era un cazzone.»
«Gli hai chiesto scusa?»
«Gli pagato il piglietto per affanculo.
Sarah, sei troppo buona tu.»
Scuoto la testa. Dolore, persone,
umiliazione. Le sento così vicine a me che potrebbero essere parte
dell’anatomia del mio corpo. Martin ci ride, Martin non dice mi dispiace,
Martin fa andare tutto verso la direzione giusta per lui.
Distolgo i pensieri. Non ho mai conosciuto
qualcuno oltre la mia famiglia, conosciuto qualcuno oltre vuoi una caramella? Sì, ma non al limone, alla fragola è meglio.
Sorride, Martin. Cammina, si accorge che una ragazza lo guarda e distoglie
lo sguardo, prende quello che gli va e mi fa sentire parte di questo suo mondo
così strano. Non so come ho fatto a sopportare che pagasse per me quella volta
al Mcdonald. Forse per il sorriso?
«Ti sei dimenticato di una cosa,» gli
dico, e lui alza le mani, come in segno di resa. Il giubbotto gli si alza
leggermente a far vedere la pelle lasciata scoperta dalla maglietta.
«Cosa?»
Apro la cerniera della mia borsa e prendo
il portafoglio. Quando alzo il viso, lui ha di nuovo entrambe le mani nelle
tasche dei jeans, gli occhi fatti a due fessure da cui passa una luce del
colore verde striato dei suoi occhi. Mi sento tremare la mani, mi avvicino a
lui. So che ha capito, so anche che vuole mettermi in difficoltà e non mi piace
e mi rendi felice, felice, felice, non so perché. Devo farlo per forza? Sembra
l’unico modo. Faccio un respiro che mi sembra far troppo rumore, avvicino la
mano al suo polso e sento il peso della sua mano, ci poso dentro le banconote e alzo gli occhi. Mi guarda e mi
sento io stessa tutta una fiamma, perché mi stringe la mano in quel modo in cui
le dita si incastrano.
«E questi?» Me lo chiede con la voce
bassa. «Chi ci guarda penserebbe che mi paghi per fare certi giochetti.»
Volto la testa e spero che non noti quanto
le sue idiozie possano farmi fluire il sangue al viso. «Non è vero e lo sai.»
«Che ne sai di quello che so?»
Scuoto la testa mentre lui ancora si
avvicina. Mi allontano all’improvviso e mi viene fuori una risata, la mia,
riesco a riconoscerla.
«È per il McDonald!» Mi stringo meglio la
sciarpa al collo.
«Ah! Si dice così al giorno d’oggi?»
È di nuovo vicino, troppo. Mi permetto di
dargli una gomitata e mi sorprendo nello scoprire che la sua pancia è dura e
non la scalfisce niente. Sospiro. «Scemo.»
Ma sento che mi abbraccia da dietro e il
suo respiro fa lo stesso rumore della pioggia che picchietta sui vetri. I vetri
sono io. E lui sta respirando su di me. Piove acqua su questa terra bianca, si
forma il fango, affondano le foglie e forse qualcosa nascerà. Non è falso il
riso che mi strappa dalla gola, come se lui, Martin, mi infilasse una mano
dentro e prendesse con le dita le note della mia voce. Come se, quando sorrido,
abbia detto qualche parola magica, una filastrocca, un incantesimo, un segreto.
«Sì, lo so, lo so che sono scemo.» Sento
che mi sfiora il collo con il naso, rabbrividisco. Le sue mani sulla mia vita.
«Va bene uguale.»
Devo scappare. Perché il cuore mi batte
troppo forte ed ho paura di morire. La paura ritorna, sempre, anche se oggi ha
un vestito diverso e sembra essere dalla mia parte. Martin mi fa battere troppo
il cuore, ed io non posso restare sotto le sue mani, non ancora, non per
sempre. Così cerco di lasciare indietro quello che sta accadendo, la sua mano
che sale e si ferma sotto il mio mento, e poi, così, all’improvviso, mi volta e
mi inchioda ai suoi occhi.
«Sarah.»
Tremo.
«Cosa?» chiedo. Respiro profondamente, mi
allontano un po' e lui mi lascia fare. Non può starmi troppo vicino, non
può. Dio, perché lo dimentico? Potrei fargli del male. Respiro ancora.
«Hai un ragazzo, tu?»
Sembra scendere dalle nuvole, con quel suo
viso che sembra scolpito nel legno chiaro e i capelli che sembrano oro alla
luce dei lampioni.
«No, perché? »
«Per sapere.» Chiude la bocca, il suo
fiato mi raggiunge, profumo di menta impastata. «Anche se quello che voglio
fare lo faccio comunque.»
Si avvicina, ancora. Non so riconoscere se
questo è un abbraccio, di quelle braccia e mani che si incastrano in posa per
una foto di compleanno. Non so riconoscere che cosa sono in questo ammucchio di
battiti e non so nemmenodove sono finita.
«Fare cosa?» sussurro.
Il telefono squilla e l’abbraccio si
spezza. Vedo solo Martin, adesso, mentre prende il telefono e guarda il display.
Ho ancora i brividi, che cosa sono? Non lo so, non lo so, non lo so. Che cosa
volevi fare, Martin? Torna da me. Mi guarda e io mi vergogno di quello che
penso. A cosa penso? A niente. A me. A lui. Al niente che siamo anche se mi eri così vicino, così vicino come non mi
è stato nessuno in tutta la mia vita. Vicino abbastanza per tenermi
per sempre
con te.
E baciarmi.
Scuote la testa, la vena sul collo gli
pulsa mentre mette di nuovo il telefono in tasca, senza rispondere.
«È un guastafeste, ecco cos’è. » biascica.
Ed io non lo so. So solo che è sera, è
buio e Martin è bello. Bellissimo. Dio, lo è davvero mentre si arrabbia e lo è
quando sorride e di sicuro il mio cervello non funziona.
«È-È successo qualcosa?» gli chiedo, e
riprendo a camminare.
«Ho un problema.»
Mi sento sudare le mani, camminiamo un po’
distanti, adesso. Come se non fosse successo niente… perché alla fine è quello
che è successo. Un problema. I problemi sono gli unici amici di Sarah. «Devi vederti con qualcun altro?»
Ok, va tutto
bene, va tutto come sempre, come prima. Non ci sarà mai niente di diverso ed io
tornerò a casa. Passerò il venerdì sera sotto le coperte, a guardare l’effetto
della luce sui cristalli colorati che erano appesi alla mia vecchia culla.
Leggerò qualche poesia di Emily Dickinson, quelle con la speranza della
primavera in questo inverno freddo.
«No, ma che dici… »
«Non c'è problema, posso andare a casa.»
Comincio a camminare più in là, cercando
di guardare tutto tranne lui. Un bambino con un leccalecca, una ragazza con i
tacchi alti, un uomo con i baffi e c’è un tabacchino.
Mi volto verso Martin e cerco un modo per
dirgli che ci vedremo Lunedì a scuola. Forse non succederà, perché si è
stancato di me. «Nono, aspetta. Vado un attimo al tabacchino a prendere le gomme… non
scappare, ok? » E forse è meglio così. Non mi darà il tempo di rendermi conto
di essermi, forse, presa una cotta per lui.
Non posso lasciare che succeda.
***
Esco
dal tabacchino e mi avvicino a Sarah, i capelli castani che scendono
lisci sul giubbotto bianco, una cinta più scura sotto il suo
seno.
«È meglio che vada, adesso,» dice.
Come faccio a
baciarti?
Ci vuole un qualcosa. Un qualcosa per
allungare il tempo, qualcosa di cui parlare, qualcosa da vedere… destra,
sinistra… centro. Che palle, che palle…
Guardo da un’altra parte giusto così per
immaginarla, per pensare Dio, che cazzo succede. Ecco
quanto sei pericolosa, mi stai facendo perdere quel cazzo di cervello piccolo
che già ho. Come faccio a baciarti? Voglio farlo adesso. Voglio aprirti la cerniera
del giubbino e toccarti, voglio far
passare i palmi aperti sulla tua schiena, sotto la tua maglietta, voglio
sentirti sulle labbra, sulla lingua, sulla pelle.
«Ti accompagno a casa.»
«No, vado da sola.»
«Sarah… è buio, è periferia, pensi che ti
faccia andare a casa da sola?»
Si alza nelle spalle. «Sì?»
«No.» Mi metto a braccia conserte. «Tu
vuoi che io ti accompagni.»
«Ho detto di no.»
«Sì ma no significa sì.»
«Mhm?»
«Non mi farò pregare, andiamo.»
Aggrotta
le sopraciglia, si sistema la
frangia castana chiara che le sfiorava gli occhi azzurri e grandi e
limpidi e sorride piano. «Sei incredibile, sul serio.»
Scuote la testa, come se avesse
pensato a qualcosa e ora avesse cambiato pensiero.
«Ecco, l’hai ammesso.» La guardo e lei
arrossisce.
Sì, la bacio sotto il portone, - adesso
adesso adesso - come nei film. Sì, dai, Martin ci sei.
«Non l’ho ammesso. » dice.
«Eh lo so, dire: “Voglio assolutamente che
Martin mi accompagni a casa perché è incredibile sul serio” rivelerebbe secondi
fini.» Secondi fini? Mah, qual erano i primi? Non lo so ma lei ride e va bene.
Va benissimo così.
«Sei un montato, sai?»
«Forse.»
«Lo sei.»
«Se lo dici tu.»
Si passa una ciocca dietro l’orecchio, la
borsa le sfiora le gambe fasciate dai jeans ad ogni passo… le gambe lunghe.
Chissà come se ne sta a casa. Forse dorme in mutandine. Forse…
«Martin… grazie.»
Dorme in reggiseno… «Mhm?» dico, e mi
accorgo del fottuto errore che ho fatto mettendomi la gomma in bocca proprio in
questo momento.
«Grazie… per la pattinata. E…»
«È una cavolata. »
«Non è una cavolata, Martin. È che…»
«Che…»
«Niente… non importa.»
«No, ora me lo dici.»
«Non voglio dirtelo.»
«No, tu desideri ardentemente dirmelo ma…»
«Sono stata bene, ok?» Mi si ferma di
fronte ed io le poso le mani sulle braccia quasi per istinto, a stringerla.
Sorride, sorrido.
Mi mordo la guancia. «Sono una garanzia,
sempre.»
Sento un rumore. In realtà, sembra un cane
che abbaia forte. Camminiamo per qualche metro e, dal cancello di questa villa
di periferia, un rotwailler ci ringhia contro. Alzo gli occhi, Canile Dowson, quarantunesima strada. Metto le mani sul cancello, a
sentirne il freddo e Sarah mi è accanto, ci sfioriamo. Quando tocco il
cancello, il cane salta e fa tirare la catena, abbaiando ancora di più.
«Martin…» mi chiama Sarah. Il cancello
cigola.
«Non preoccuparti, è legato.» Spingo un po' il cancello e mi rendo conto che non è chiuso.
Il canile sembra deserto, non ci sono controllori, le
finestre sono buie.
«Sì, lo so, ma andiamo.» La sua voce
sembra allarmata, la guardo. Vorrei prenderla per mano. Sento un rumore di
metallo. Vorrei portarla al garage e vederla al buio, quel buio con la luce del
cellulare che fa somigliare ai fantasmi, in
quei posti dove devi sussurrare tutto e ogni cosa sembra una specie di segreto.
E poi sento un dolore al polpaccio.
Istintivamente lo muovo, come se avessi sentito la puntura di un ape e la
volessi scacciare. Ma poi il ringhio colpisce le mie orecchie, il dolore si fa
più acuto. Il cane mi strattona la gamba e cado a terra, batto la testa. Vedo
sfocato, fa male. Cazzo… cazzo… merda…
Sarah urla.
Mi morde il braccio, la mano, non riesco a
muovermi, non riesco a fare niente…
E poi il cane si ferma.
Mi porto una mano alla testa, non riesco
ad alzarmi, fa male… no, ce la faccio, mi tengo al cancello, ok. Sarah…
«Oddio,
ma che cazzo…» Sbatto le palpebre e riconosco il grigio della città alla luce
dei lampioni della periferia. E Sarah? Sarah… volto la testa, giubbotto,
capelli, occhi, è lei. Adesso la vedo.
Ha gli occhi lucidi, azzurri, che tremano.
La bocca semichiusa.
Un espressione di terrore le attraversa il
viso.
«Sarah… ehi, sto bene…»
Riesco a vedere meglio. La gamba, il
braccio fanno male… volto la testa.
Il cane.
È a terra, con la bocca aperta, trema.
Il suo corpo è attraversato da spasmi. Mi viene da vomitare.
«Sarah,» dico, e
la vedo piangere. Piange come se stesse provando dolore e Sarah, che succede,
dimmi che succede, e il corpo del cane è ancora attraversato da spasmi.
«Smettila, » dice, e non so a chi, non so
a cosa. Piange. Lei con i capelli che si appiccicano al viso per le lacrime,
lei con quelle mani piccole e bianche fra i suoi capelli, quelle stesse mani
con cui modella la creta e tiene i libri stretti al petto. «No! No! No! Basta,
ti prego, smettila! » muove la testa, la scuote, fa proprio “no no no” come i
bambini, un capriccio, qualcosa che non può accettare. «No! Non di nuovo… »
Voglio solo capire il perché di tutto questo. Voglio solo che non pianga più.
E poi il cane smette di tremare e sbatte a
terra con un guaito.
Cammino, fa male. Sarah è
immobile, le lacrime le bagnano ancora le guance. Fa male anche questo.
Avvicino una mano al suo braccio e lei si
scosta. «Sarah… stai bene?»
«Vattene. » Parla veloce.
Mi sento la nausea. Il dolore punge. Lei
mi trapassa con i suoi occhi di acqua gelida.
«Ehi…»
«Vai via… chiama un taxi, vai a casa… io...»
«Sarah…»
«VAI VIA!»
La prendo per il braccio lo stesso, il
tessuto del giubbotto sotto le mie unghie. È come se soffocassi, perché lei mi
guarda così e non posso andarmene, non posso lasciarla andare. Si muove, a
scatti, per sfuggire alla mia presa. Ma quando poso la mano sulla sua spalla,
respira solo profondamente.
Lo dice di nuovo, fra i sospiri. «Vai via. Per favore... per favore...»
Ma io la abbraccio. Lei è inerme ed esile,
qui, mi bagna la maglietta per il giubbino leggermente aperto, ed io le
accarezzo i capelli, la tocco in qualche spece di carezza che mi fa tremare.
Profuma di fiori e giorni di solitudine.
Che cosa ti
hanno fatto, Sarah?
Soggetto
pericoloso.
Il pericolo non sei tu, non sei tu, non sei tu. Non ci credo.
«Ehi, » le accarezzo il viso. «Avevi
ragione, dovevamo andarce… dio, che idiota…»
«È colpa mia. Martin, vattene, lasciami.»
«Eh? Ma che dici…»
«Martin…» Il suo sguardo è fermo fra le
lacrime. Deglutisce. Deglutisco. «Sono stata io.»
*
*
*
*
Ciao a tutti <3 <3 <3 Finalmente sono riuscita ad aggiornare,
spero il capitolo vi sia piaciuto :)) Alla fine è successa una
cosa molto importante, non so se la definirei la "svolta" della storia,
ma di sicuro da questo momento in poi cambieranno un po' di cose, altre
verranno approfondite e con il tempo vedremo più chiarezza nella
vita di Sarah :))
Spero davvero che vi sia piaciuto, se volete lasciatemi il vostro parere, mi aiuta a migliorare <3
Un grazie speciale a chi segue, ricorda e preferisce la storia *.* grazie mille!
E grazie infinite a tutte le mie amiche che mi sostengono sempre <3
Noemi, J, Eryca, Maria, ed anche Vi, che so che mi legge sempre <3 e
Carmen che mi sollecita sempre nella scrittura e mi dimostra tutto il
suo entusiasmo **
Grazie molte :)
Un bacione
Ania <3
|
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Capitolo 8 *** 7. Le ali della speranza ***
until cap 7
7.
Le ali della speranza
La speranza è qualcosa con le ali,
che dimora nell'anima e canta la melodia senza parole,
e non si ferma mai.
Emily Dickinson
Sei
un mostro.
Ho
avuto paura, il mio cuore si è fermato. Brividi glaciali hanno percosso le mie
ossa, il freddo mi si è cristallizzato nel sangue, il respiro mi ha
soffocato.
Sei
un mostro.
La
catena si è staccata dal muro, il cane ha attaccato Martin.
Ho
urlato.
Sei
un mostro.
Il
cane si è accasciato a terra. Come Julia, come Hans, come qualunque altra
cosa che io abbia visto cadere da quel giorno di primavera all'asilo. Il
cane ha cominciato a tremare. Il cane ha guaito. Sento il dolore alla testa,
la forza, il potere, la consapevolezza di controllare tutto e allo
stesso tempo di non poter evitare nulla. Perché io voglio che succeda. No,
no, no...
Sei
un mostro.
Martin
continua a seguirmi, anche se gliel'ho urlato mille volteche deve lasciarmi da
sola, anche se gli fa male la gamba e si tiene un fazzoletto sul polpaccio, i
jeans sporchi di sangue. Sospiro, sto piangendo. È colpa mia, è
colpa mia, è colpa mia. E lui appartiene al mondo in cui tutti i giorni sono
sorrisi, e i problemi sono i compiti in classe, e le gioie sono le feste, e le
sicurezze i genitori e gli amici.
Perché
è qui con me?
Inciampo,
cado sulle ginocchia nell'angolo del marciapiede.
Al
buio.
Sola.
È questo il mio posto.
***
Una
parte del mio cervello si ostina a non capire. Resta buia in questo strano
dolore che è suo e che ora appartiene anche a me.
Non
so quanto tempo è passato. Non so da quanto tempo piange. Non so da quanto
tempo ha smesso di urlarmi contro vai via. Non so da quanto tempo le mie
gambe, – zoppico, fa male, aspettami – si sono fermate. Non so da quanto
tempo sono qui, per lei.
Accovacciata
sul lato più buio del marciapiede, come una ragazza di strada.
Si
asciuga le lacrime con la manica del giubbino.
«Che
cosa vuoi, ancora?» La sua voce mi corrode come un acido. Viene interrotta da
un singhiozzo. «Perché non vai via?»
Ma
mi avvicino, un po’ lento, un po’ scaltro, un po’ come non sono mai stato. La
aiuto a rimettersi su e i suoi occhi si fanno più grandi. Ha paura di me, di
questo, di tutto.
«Mar…»
singhiozza. «Martin… smettila di toccarmi… smettila di…»
«Abbracciarti?»
Le prendo il viso fra le mani e la sento vibrare sotto le mie mani, gli occhi
dello stesso colore dell’acqua, riflesso grigio, azzurro.
«Per
favore.» La sua voce è chiara, ancora trema. «Io... non posso, io... Io…
cambierò scuola. Di nuovo.» La sua voce si spezza. «Ma ti prego, non
raccontarlo a nessuno altrimenti… altrimenti questi anni verranno buttati e la
mia famiglia… la mia famiglia…» Un'altra lacrima scende sul suo viso e lei
subito la raccoglie con la mano. Forte, forte come non l’ho mai vista. Quante
volte le è successo? L’ho guardata, sola, in quel bus, con le ginocchia al
petto, la borsa di stoffa che penzolava dal sedile, i suoi capelli a sfiorarle
il viso ad ogni soffio di vento. Ora si fa forza da sola, si raccoglie le
lacrime come se fossero pezzi di vetro, appuntiti, che possono far male a chi
le sta intorno.
«Sarah…»
«Sono
stata io, Martin! L'ho ucciso, io lo so, so che l'ho ucciso... l'ho ucciso...»
«No,
Sar...»
«L'ho
ucciso... io l'ho ucciso...»
«Non
piangere, basta. Non piangere, Sarah, cazzo... ehi, io sto bene, se tu non
avessi...»
«L'ho
ucciso.»Mi viene fuori un gemito, singhiozza ancora, la stringo forte, le sue
lacrime mi bagnano la pelle del collo. Uccide me vederti così. Lo so. So
che quest’ombra scura che è caduta su di lei appartiene solo a questo istante,
a questa paura, a quello che è appena successo. Io so che non dipende da te.
Non so come, ma lo so. «Io... potrei... tu potresti...»
«Non
mi importa.»
«Hai
visto... che cosa ho fatto.»
Scuoto
la testa e aspetto che mi guardi, aspetto che mi cerchi, aspetto che mi trovi.
Lo
fa.
«Io
non credo a tutto quello che vedo.»
Intreccio
la mia mano alla sua e non si stacca, non mi caccia.
Ha
bisogno di me.
***
Un
corridoio lungo, dorato; mobili scuri, lucidi; tende verdi, di seta; una
finestra alta quanto il soffitto, come in un castello di fiabe.
Faccio
un respiro profondo e ancora mi aspetto di risvegliarmi. Non so se questo è un
sogno o un incubo, troppo reale, troppo vivo, troppo sentito. Io che non
sento mai. Io che riconosco gli echi da lontano e mai le voci.
Tutto
luccica, qui, nella casa di Martin. Ci sono dentro ma tutto mi sembra lontano,
impossibile, splendido per un set di film. Ho paura a toccare tutto questo per
paura che scompaia.
Un
po’ come lui.
Lui
che mi afferra con gli occhi ogni volta che sto per volare via.
Mi
sciacquo un’ultima volta il viso ed esco dal bagno. Seconda porta a sinistra. La
mia stanza. Seguo le sue indicazioni, attraverso il lungo corridoio e mi
fermo davanti alla stanza con la porta aperta. È chino su quella che deve
essere la sua scrivania, in canottiera, le spalle ampie e la linea scolpita
della braccia, mentre si passa dell’ovatta imbevuta di alcol sui buchi che il
cane gli ha fatto nella pelle.
Martin
butta l’ovatta nel cestino in plastica accanto a lui. Mentre si volta i capelli
gli sfiorano il viso in una specie di carezza, la luce artificiale della
lampada sul comodino a creare delle ombre altissime. Socchiude gli occhi e si
appoggia alla scrivania, di schiena. È bello. È bello mentre prende un maglione
di lana, di quelli un po’ larghi e sciupati, lo indossa e mi sembra ancora e
sempre più bello. Mi guarda. Non vedo il mostro riflesso nelle sue
iridi. Non vedo l’odio, non vedo il disgusto. Vedo qualcuno che ha bisogno di
non essere abbandonato ancora una volta.
«Va
meglio?»
«Fa
ancora male?»
Sorride.
Mi
sento morire.
«Rispondi
prima tu.» Sento le sue dita sotto il mio mento, i suoi occhi che non si
staccano dal mio viso, dai miei occhi, sempre più vicino, dalle mie labbra.
Deglutisco.
«Sì, va meglio. A te fa ancora male?»
«Brucia
meno.»
E
pensare che io l’avrei sempre voluto, un cane. Qualcuno che mi stesse vicino
indipendentemente da tutto. E invece sembra che io possa colpire anche gli
animali, oltre alle persone.
Annuisce
ed io mi allontano da lui. Meglio stare lontana, così, distanza di sicurezza.
Anche se l’unica cosa che vorrei è cadergli addosso per sbaglio – perché lo
voglio – per stargli vicino e avere la sensazione, almeno per un secondo, di
non essere diversa da tutte le altre persone del mondo. «Magari quando
torna Doreen mi faccio dare un'occhiata, sempre che non muoia prima.» aggiunge.
Mi
passo una ciocca di capelli dietro l'orecchio e faccio vagare lo sguardo per la
stanza. Copriletto della formula 1, poster di giocatori di basket appesi al
muro giallo chiaro, qualche modellino sugli scaffali più alti della
libreria.
Un
comodino.
Una
foto.
«Comunque,
Doreen è... insomma, senza di lei la mia vita sarebbe una bella
spazzatura.» Una foto.
Una
donna bionda, con i capelli corti fin sopra le spalle, il sorriso delicato,
tiene in braccio un bambino piccolissimo, abbracciata ad un uomo con la pelle
chiara, i capelli neri. La foto è a colori ma mi ricorda quelle in bianco e
nero che raffiguravano le attrici dei film.Prendo in mano la cornice.
«È
lei?» Mi volto verso Martin.
Il
suo viso si incupisce per la prima volta da quando l'ho conosciuto. È un
istante di buio.
Poi
torna una tenue luce di pomeriggio.
«No...
lei è mia madre. Era mia madre. È morta.»
Mi
mordo la lingua, il sapore del sangue mi invade la bocca mentre sento e ricordo
quello che sono io. L'amore dei miei nonni, i loro sacrifici, il doppio della
forza a prendermi in braccio. Gli unici ad amarmi per quello che sono.
«Ma
è ok...» Lo sento dire.
«Non
è ok. » Sospiro. «Anche i miei sono morti. Entrambi. In un incidente
d'auto. Ero appena nata. »
«Non
mi ricordo di lei.» Si passa una mano fra i capelli e guarda la foto con me,
sento il suo respiroaddosso. Mi stringo nelle spalle. Martin non ha avuto una madre,
ed io so com'è. So com'è quando ti dicono la tua mamma non c'è, adesso, ma ti
guarda dal cielo insieme a tanti angeli, e con lei c'è anche papà. Ti senti
fortunato per quello che hai ma sai che non è abbastanza. Sai che, nel profondo
di te stesso, vorrai sempre avere quello che non hai.
Martin
si volta, fa girare la sua sedia con le ruote e si siede, mi fa segno di
sistemarmi sulla panca vicino alla porta. Mi siedo, cerco di non guardare lui
anche se non potrò sfuggire al suo sguardo, ai suoi pensieri.
Mi
lascia tranquilla nel mio silenzio. Niente domande. Niente. Va tutto bene.
Eppure
sento che devo dirglielo.
«Martin.
»
Devo fargli questa domanda, anche se la risposta potrebbe fare male.
«Hai
paura di me?»
Trovo
il coraggio di guardarlo. Lo guardo proprio nel momento in cui ride, e il
rumore che fa assomiglia ai cereali al miele che si mettono nella ciotola con
il latte freddo. Mi torturo le gambe e mi liscio il tessuto dei jeans, mentre
lui manda indietro la testa. Mi accorgo di sorridere quando è troppo tardi.
«Io
non ho paura di niente, Sarah. » Nei suoi occhi c’è una luce calda che mi fa
salire il sangue alla testa.
Forse
di questo sì, ho così tanta paura perché non so da dove venga. Il maglione è
largo, gli si abbassa sul petto ed io riesco a vedere il morso che il cane gli
ha fatto sulla clavicola. La serenità va di nuovo via e l’unica cosa che riesco
a fare è non sorridere più, non guardare più, appoggiarmi al muro e desiderare
di non essere mai e mai e mai nata.
Ma
Martin sbuffa e sorride e io desidero di essere nata altre mille volte.
***
Masticare
è strano, a volte. Ti può fare perdere il controllo del respiro, e
sentire la mascella che fa tah, tah, tah. Sono i biscotti che ha
comprato quando siamo andati insieme al centro commerciale, qui, seduti al
tavolo della cucina.
Siamo
riusciti a non parlarne. A guardare America'sgot talent e a ridere.
E
ora che c'è silenzio cerco di controllare il respiro.
«Volevo...
chiederti scusa.» La voce di Sarah è a malapena un sussurro, ma sembra
che le mie orecchie riescano ad afferrare tutto.
«Scusa?»
Mi passo una mano fra i capelli. Scusa?
Lei? Cazzo, le femmine non le capirò mai, e con lei è anche peggio. «Non
lo ripetere mai più.»
Si
mette a braccia conserte, in una specie di sfida e… sì, forse adesso mi fa un
po’ paura.
«Mi
dispiace.» ripete. Ecco, solo questa ci mancava. Smettila di essere così
bella. Continua a guardarmi.
«Ti
dispiace che il cane non abbia sbranato la mia… splendida faccia? » La imito,
braccia conserte ed espressione offesa.
Emana
luce. Eccola lì, che parte da una piccola alzata di spalle mentre mi guarda e
la bocca le si muove in un sorriso un po’ timido, un po’ storto, bocca secca
per quelle fottute lacrime.
«Ripeto,»
Il sorriso le si modella sul viso come uno stuzzicadenti nella creta. «Mi
dispiace.»
«Che
io sono così splendido da metterti in imbarazzo oppure…»
Mi
picchia. Oddio, mi sta picchiando, pugni contro la pancia ,leggeri, ma almeno
ci prova. Cerco di fermarla mandando a puttane il dolore per la ferita. Non
esiste più.
«Be’?
» Le chiedo fermandole i polsi. «Che cosa ti dispiace? »
«Di
non averti fatto sbranare la faccia. »
«Manca
qualcosa. »
«La
tua splendida faccia! Contento? » mi chiede, e i suoi occhi azzurri sono
umidi di quella che sembra una sensazione che può esistere solo qui.
Avvicino
il mio viso al suo. Pericolo. Lucette che lampeggiano. Il cuore può
finire graffiato, qui. «Mai abbastanza.»
Lei
si guarda le scarpe e passa una ciocca di capelli dietro le orecchie.
Le
parlo all’orecchio. «Secondo te, per questo infortunio posso non fare qualcosa
che non sia educazione fisica? »
Ride
piano, fa segno di sì, e poi parla, un po’ sottovoce.
«Davvero
non sapevi niente?»
Carte
di papà. Lui che le porta via, lui che non mi guarda. La foto di Sarah. Soggetto
pericoloso.
«No,
niente,» mento. Mi sembra necessario, mi sembra l’unico modo per non andare a
sporcare con il fango della mia vita quel poco che l’ha portata a fidarsi di
me. E so che è sbagliato, so che così non faccio altro che farle credere
qualcosa che non è. Non sono un bravo ragazzo.
«Su
internet trovi di tutto,» sussurra.
Non mi interessa di
quello che dice internet.
«A
me interessa quello che mi dici tu.»
Sospira.
Scuote la testa, i suoi capelli mi sfiorano, mi fanno il solletico, voglio
soltanto farti stendere su questo divano e toglierti i capelli dagli occhi con
i baci, stringerli fra le mani così.
«Ti…
è successo prima?» le chiedo. Mi lecco le labbra, piano, aspetto, devo
ascoltarla. Che cosa mi succede? Perché
non riesco a controllare nemmeno quel mezzo fottuto neurone che mi sta in
testa? Quel mezzo fottuto neurone è programmato solo per pensare a lei.
Inclina
la testa, posa il mento sulla mano, si accoccola su se stessa.
«Ma
se non vuoi dirmelo…» continuo.
«Non
mi piace fare pena alle persone… preferisco essere invisibile.»
Sento
il mio viso muoversi in un sorriso leggermente accennato.
Io
ti vedrò sempre.
La
circondo con le braccia e so che può andare bene anche così. Può andare bene
senza un bacio. Senza le luci spente. Senza la musica alta per non far sentire
che cosa succede. Va bene in questo strano silenzio che c’è quando sono solo.
Ma ora non sono solo.
I
suoi occhi sembrano più grandi, mentre si stringe la mani in grembo e le sue
labbra si socchiudono, piano, a raccontarmi questa storia. «Avevo cinque
anni...»
Sei
la bambina piccola del sogno. Quella della strada pericolosa e che cresce lì,
su quell’asfalto, con il rumore di un camion che può investirti da un momento
all’altro.
I
tuoi occhi sono gli stessi di quel giorno? Sono gli stessi che vedo
adesso?
Vita
stretta, maglietta un po' scollata, capelli lisci, disordinati.
Diciassette
anni, Sarah, luce, paura. Le tue lacrime. Le tue urla. Il tuo dolore. Mani fra
i capelli, occhi rossi, labbra bagnate.
«Tu
non sai se è morta, vero? Nessuno te l'ha mai detto.» Glielo dico dopo che ho
tremato insieme a lei.
«Non
lo so.» Non piange, anche se trema come se avesse freddo. «Non mi hanno detto
niente ed io non ho mai chiesto. Mi hanno solo fatto fare tantissimi controlli…
dottori e dottori e dottori e analisi e… poi ho cambiato scuola e non l’ho più
vista.»
Mi
passo una mano fra i capelli. Devo fare qualcosa. Devo capire. Non è possibile
che sia finito tutto quel giorno.
«Quella
bambina, quella che ti ha strappato il disegno, si chiamava…»
«Julia,»
finisce lei per me.
Mi
alzo dal divano e prendo il cellulare dalla tasca. «Ricordi il suo cognome?»
«Perché?»
«Per
cercarla.»
***
Sospiro.
Seduta su questo divano in pelle troppo lussuoso, per me, per un giorno come
tanti. Anche se da quando ho conosciuto Martin nessun giorno è come gli altri.
Julia. Capelli rossi e ricci. Julia. Matite e caramelle.
L’ho
uccisa?
Martin
dice che devo essere io dargli il via per fare qualcosa. La verità è che devo
sentirmi pronta per saperlo. Tutte le volte in cui ho fatto del male a qualcuno
mi hanno allontanato, e io ho sempre avuto paura di sapere. Eppure, il fatto di sperare che Julia stia bene, mi fa
sentire meglio.
La
speranza.
«Davvero
mi aiuterai?» Martin si siede accanto a me e abbassa il volume della
televisione. Mi ha fatto vedere tutta la casa: i due bagni, le stanze degli
ospiti, la palestra personale, la sala giochi. Non capisco tutto questo
benessere, lui ci butta un occhio scocciato. Io sono solo e sempre più
sorpresa.
«Ti
ho mai detto cazzate? »
«Tante.»
Ride, manda indietro la testa e mi sento tremare, ancora una volta.
«Sei
impossibile, Sar.»
Sento
che il suo sguardo mi fa male, spinge a fondo in ogni cosa che trova, pelle e
questo cuore che mi batte all’impazzata nel petto. Perché è la persona più
vicina a me che io abbia mai incontrato. Perché mi era vicino ancora prima di
chiedermi stai bene. Perché il suo
parlarmi sembrava una conseguenza al fatto che esistesse ed esistessi io. Io
che esisto.
«E
sei diventata tutta rossa.»
«Non
riesco a evitarlo.»
«Vediamo.»Un
sorriso gli attraversa il viso ed io mi aggrappo alla speranza che quello che è
successo non influenzi quello che si sta costruendo – tasselli, colla e mani
che premono – fra di noi. Si avvicina ancora di più. «Mi piace quando fai così.
»
«Così
come?»
Spalanca
gli occhi e si porta le mani alla bocca, e solo così capisco che quella sono io
sulla sua splendida faccia.
«Mi
stai imitando!»
«Ci
sono riuscito? Ecco, questa è la tua faccia sorpresa. »
«Martin…»
Rido, e quando mi avvolge con le sue braccia, le gambe che tremano e il cuore
che si scioglie in tanti piccoli battiti non riescono a fermare questa
travolgente ondata che assomiglia alla felicità.
E
un po’ alla paura.
«Rischio
qualcosa se ti sono così vicino?» Mi sfiora la guancia con il naso e sento come
se improvvisamente avessi a pieno la coscienza delle mie sensazioni, il freddo
del muro contro la mia nuca, le mani calde e ruvide di Martin, il suo respiro
che mi scivola addosso quasi fosse acqua.
«Non
so fino a che punto.»
«Sono
curioso.»
Me
lo soffia sul viso come una ventata calda.
E
poi chiudo gli occhi.
Sento
lo stomaco contrarsi, mentre socchiudo le labbra – le sue labbra, le sue
labbra, le sue labbra –, mi preme le mani sulla schiena, mi sfiora la
pelle. La sua lingua tocca la mia e sospiro, mi aggrappo ai suoi capelli. Non
posso crederci. Mi aggrappo alle sue spalle. Non posso crederci. Apro di più la
bocca, le sue dita sulla mia guancia, il suo respiro nella mia gola, a darmi
aria e a togliermela nello stesso momento. E poi si stacca da me, mi accorgo di
aver intrecciato le mie mani alle sue e lo guardo.
Ha
la bocca rossa e morbida e gli occhi umidi.
Ed io mi accorgo di volerne ancora.
*
*
*
*
Innanzitutto grazie a Noemi che mi ha betato il capitolo. Passate a leggere le sue storie, sono bellissime <3 . <3 Qui
trovate il suo profilo <3 In particolare date un'occhiata a tutte le
sue storie su Embry e Klaus e... insomma, ne troverete per tutti i
gusti! <3
Per il resto...
nell'ultima parte ho pensato "Martin! Metti la bocca a posto! No, non
è quello il posto! Metti le mani a posto! Non è quello il
posto!" Secondo voi mi ha ascoltato? Certo che no... e alla fine l'ha
baciata contro la mia volontà XDXD
Comunque, spero
che il capitolo vi sia piaciuto e spero che la storia riesca a
coinvolgervi. Tra l'altro, mi scuso con tutta me stessa per non aver
risposto alle vostre splendide recensioni *______* siete meravigliosi,
non saprei che fare senza di voi... però ho pensato che, visto
il tempo che scarseggia, l'alternativa era aggiornare o rispondere alle
recensioni. Visto che sono passate due settimane (spero che vi abbia
fatto piacere) ho deciso di aggiornare.
Grazie per aver letto e spero che mi facciate sapere il vostro importante parere!
Grazie mille <3 Grazie anche a chi segue, preferisce e ricorda la storia <3
Un bacione
Vostra Ania <3
|
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Capitolo 9 *** 8. Soggetto individuato ***
until 7
8.
Soggetto individuato
26 marzo del 2000
Capelli lunghi, trecce.
Occhi azzurri, il colore dei
giorni freddi, la mattina presto, quando ancora dormi. Le mani piccole, quelle
con i buchini quando si stendono. Le lentiggini sul naso, il dente davanti che
è caduto a pranzo, lo metterà sotto il cuscino per aspettare la sua fatina.
Soggetto
individuato.
È un giorno di sole. Strepiti. Risolini. Rumore di
passi. Il sole picchia sulle pietre e si riflette nell’acqua del laghetto e si
scioglie, a poco a poco, sul sudore dei bambini. La maestra sfoglia una
rivista, seduta alla panchina, ma in realtà non legge niente. È troppo impegnata
a guardarli tutti, un secondo per uno, immobile, e sull’attenti.
Potrebbero farsi male in ogni momento.
La donna sussulta, il grembiule bianco a coprire il
seno abbondante, un viso giovane e chiaro accarezzato da riccioli neri.
Ha
funzionato. Una trappola per topi vicino
all’altalena, sotto la sabbia. Ci vorrà almeno un quarto
d'ora per aiutura tutti quei bambini che si sono fatti male in mezzo alla
sabbia.
«Bambini, vi avevo detto di stare attenti…»
La maestra continua a correre e si avvicina al punto
in cui un bimbo biondo se ne sta seduto con una gamba stesa ed una piegata, le
lacrime intorno agli occhi.
Mi
avvicino.
La guardo.
Sorride, con quegli occhi grandi e
acquosi, con il dente davanti che non c’è, e le trecce e il grembiulino.
Si mette a correre in direzione dello scivolo, chiama qualcuno, qualcosa, è
felice felice felice.
Ti
vedo.
«Julia, vieni! Lo scivolo è libero!» La piccola
corre, corre veloce, arriva alla scaletta. «Era sempre occupato, che pizza, finalmente!»
«Sì!» L’altra bambina si toglie i capelli dal viso.
Julia. «Faccio un giro qua e…»
Nessuno
scappa da me.
«Ciao.» Mi tolgo il cappello e faccio un sorriso. La
bambina alza lo sguardo dal cavalluccio a dondolo su cui stava per salire, i
ricci rossi ad accarezzarle le guance rosee, gli occhi scuri, grandi e luminosi. Non sa
che l’ho scelta. Non sa che penso a questo giorno da ogni istante in cui ho
capito cosa fare della mia vita. «Non riesci a salire?»
«Ciao.»La bambina alza di poco lo sguardo, le
ciglia lunghe che sembrano unite da uno strato trasparente di luce, come le
gambe delle rane. «Però… mhm… non si parla con gli estranei.» Ridacchia. «Io
non dovrei parlare! »
Julia. Cinque anni e mezzo. Vivace. Diabetica.
«Ovviamente,» Faccio qualche passo verso di lei, la
prendo da sotto le ascelle – braccia magre, il peso dell’aria, un respiro
trattenuto – e la metto sul cavalluccio. La lascio dondolare. «Ma io non sono
un estraneo come gli altri. »
Torno davanti a lei.
«Perché non sei come gli altri?» Aggrotta le
sopraciglia, e ha quella luce di curiosità che vedo in tutti quelli che
incontro.
«Non posso dirtelo, angioletto.» Piego il ginocchio
per arrivare alla sua altezza, guardarla dritta in quei pozzi di innocenza che
sono i suoi occhi. «Sai... io ho inventato le caramelle più buone del mondo.»
«Sei Willy Wonka, allora! Il più grande cioccolatiere del mondo!» Ride,
e sul cavalluccio va sempre più veloce, il suo viso si avvicina e si allontana,
i suoi capelli volano, profumo di borotalco, colori a tempera e yogurt bianco.
«Puoi anche pensarla così.» Metto di nuovo il
cappello, prendo la caramella e la stringo fra due dita. Il suo cavalluccio si
ferma, il viso di Julia si distende nell’incanto. Caramella, dolce. Non li
sente sulla lingua da una vita. Cinque anni e mezzo. Ci muore, dentro questo
zucchero. «Se la vuoi, però, devi fare una cosa per me.»
Scende dal cavalluccio, piano, e il grembiule si
alza a far vedere dei piccoli jeans. Mi guarda, gli occhi lucidi e
impazienti. «Cosa? Cosa devo fare?»
Mi alzo in piedi, e la vedo in tutto quello che è.
Una vittima. Una delle tante. Un pedina in questo gioco di scacchi in cui lo
scacco matto non basta per vincere. Ci vogliono tanti, tanti scacchi matti.
«Girati,» le dico. Mi ascolta. «La vedi quella
bambina con le trecce?» Sento il sangue salirmi al cervello. Sarah. La regina
della mia scacchiera.
«Sì,
Sarah! È mia amica! Le piace tanto, tanto tanto
disegnare. E anche dire le filastrocche, però si dimentica
sempre l’ultima
frase! "... Piccole stelle nel cielo dormienti, piccoli bimbi lì
sorridenti, balli, canti, disegni e monete..." e poi boh! Ah, ah, ah!
Ed è tanto brava a fare le capriole e…»
«Devi farla arrabbiare tanto, Julia.»
La
bambina
perde il respiro, diventa ancora più piccola di quello che
è. La paura
rimpicciolisce l’umanità, ed è per questo che
è debole di fronte a quello che
teme di più. «Devi farla tanto, tanto arrabbiare. E quando
l'avrai fatto, io ci sarò all'uscita di scuola per darti la
caramella.»
Se sopravviverai.
Il sole è forte, l’aria tiepida colpisce il viso della piccola, sento addirittura il sangue, il suo rumore, il
cuore che pompa.
Julia mi guarda. Piccola, magra, indecisa. È un attimo. E poi tutto
funziona nel modo in cui deve funzionare. Tutti noi siamo fatti da impulsi e
reazioni. Reazioni e impulsi. Tutto è sotto controllo, tutto è un sistema.
«Posso anche darti la mia… penna porta fortuna.»
Prendo la penna dal taschino e accarezzo la Je la S dorate. Giusto per
aspettare, per non restare fermo. Perché io so che lei…
«Lo faccio.» Annuisce. «E poi… poi faremo pace. Io e Sarah
faremo pace. »
«Io saprò se lo farai, angioletto.» Le accarezzo il
viso. «E se non lo fai potranno succedere cose davvero brutte. »
«Quanto brutte? »
«Una bambina non può sapere certe cose. » Le do la
penna, e lei la prende con la punta delle dita e la mette in tasca, silenziosa.
Mi allontano.
Devi
farla tanto, tanto arrabbiare.
Sento i passi della piccola Julia, sento il rumore
dei sassolini che vengono lanciati nell’acqua del lago, le ruote delle auto sull’asfalto.
Distinguo la risata di Sarah.
Non
riderà mai più così.
***
Oggi.
Dove potrebbe essere?
Mi
lascio cadere sul
divano, la stoffa a fiori che nonna ha cucito per proteggere la pelle
del divano mi accarezza. Si sente il rumore dei suoi passi lenti,
strisciati sul
marmo del pavimento, con la scopa.
Julia dove potrebbe essere? Sento un brivido
che mi colpisce lo stomaco con una lama.
Sotto terra.
A k ora c vedm?
Mi mordo la guancia
dall’interno. Non posso credere che lui scriva davvero i messaggi in questo
modo, è inammissibile, inaccettabile, io non posso essermi presa una cot…
«Perché sorridi, tesoro?»
Perché quando si fa sentire scompare tutto quello che
invece c’è.
Alzo lo sguardo.
Mia nonna, con lo straccio in una mano e una scopa nell’altra, mi guarda con quel
suo sorriso dolce che è sempre stato costante.
Io sorrido adesso.
«Niente… nonna, hai
visto? Oggi c’è un bel sole.»
Mat, o il tuo i phone è dislessico o tu sei truzzo.
Decidi.
Invio. Che faccia
potrebbe fare? Potrebbe ridere. Potrebbe pensare a cosa farebbe se fossimo uno
di fronte all’altra. Ed io sarei felice. Sarei felice di vederlo e ancora non
gli ho detto a che ora ci vediamo. Julia. Julia. Dov’è?
Io… io non posso saperlo.
Noi non sappiamo niente,
no?
Giro intorno al mio passato senza raggiungere il
centro, per non prendere questo momento di gioia estrema che non è mia, non lo
è mai stata.
«Ma quanto sorridi! »
Mi alzo dal divano,
poggio il cellulare sul tavolo e mi metto a guardare le bollette. Il cellulare
non vibra. Bolletta dell’acqua, 45 dollari. Ok, questi ce li abbiamo, l’altro
giorno il nonno ha ritirato la pensione. Il cellulare non vibra. L’affitto. È
aumentato, ancora, di nuovo. Sempre. Sento un dolore allo stomaco, mi passo
una mano fra i capelli, sospiro. Come facciamo? Nel mio salvadanaio devono
esserci…
«Lascia. Assolutamente. Queste cose! » Mia nonna mi toglie le carte dalle mani e il foglio della
bolletta dell’acqua si strappa leggermente nel mezzo.
«Nonna! »
«Non lo vedi il sole? »
Sorride ancora di più. «Perché non vai a fare una passeggiata? »
«Ma… »
«È sabato mattina! » La
nonna posa la scopa, mi prende il viso fra le mani e mi lascia un bacio sulla
fronte. «Esci, dai! Ci penso io… con chi sei uscita ieri sera? »
Le mie guance si
accendono.
Il cellulare vibra.
Non sono dislessico. E il mio i phone non è truzzo.
Sbuffo.
Sorrido. Sfuggo
dallo sguardo di nonna e mi chiudo nella stanzetta, mi lascio andare
sul letto
e guardo il soffitto. Riesco a vedere il cielo azzurro con il sole che
brilla anche se c'è il soffitto con le macchie di muffa a
separarmi da tutto quello che c'è sopra di me.
Ci vediamo ora?
***
Oh, merda. Allora non sei ancora a letto a guardare
l’orso della casa blu sulla tv satellitare.
Tipo me.
Oh, merda, sono in
mutande!
Sì, cazzo! No. Non possono inviare questo messaggio. Ne
devo scrivere un altro. Ok. Ok? No,
ok con una faccina. Ok, : )
«Reen?» Mi alzo dal
letto, accendo la luce ed esco dalla stanza. «Doreen?»
«Di buon ora, Martin
Scott… sono le undici. » Sento la sua voce provenire dalla cucina. Attraverso
il corridoio e la raggiungo, Doreen sta sistemando le presine nel cassetto con indosso quel
suo strano grembiule bianco. «Ora ti faccio la colazione…»
«Non è già pronta?»
Si volta verso di me e
si mette a braccia conserte. Un ricciolo scuro le sfiora la guancia, stira la
bocca in una smorfia e le rughe sottili vicino agli occhi si fanno un po’ più
profonde.
«Se avessi una bacchetta magica lo sarebbe, Martin.»
«Non mangio… devo
uscire.»
Esco di nuovo dalla
cucina e prendo il corridoio verso il bagno grande. Sto attento a non far
cadere nessun soprammobile mentre corro, se succede qualcosa sono cazzi, come
quella volta in cui si ruppe quel vaso tutto dorato e brillanti nato con le
rose dentro. Sembrava che Doreen avesse ricevuto un colpo al cuore, mentre io
me ne stavo sul pavimento con le gambe spalancate per la scivolata da mission
impossibile.
«Non mangio… devo
uscire? Certo che sei tremendo, che cosa devi fare? Chi devi incontrare? Non
mangio, esco… toh, deve essere miss Universo per non farti mangiare per uscire,
non è vero? »
Mi metto lo spazzolino
in bocca: il riflesso nello specchio riflette un ragazzo assonnato, con il
ciuffo dei capelli tutto schiacciato a destra, gli occhi accesi.
«Fefo vedr Camrn.»
«Non mangio, devo
uscire? Non provare a nominare Cameron, lo conosco dall’asilo e non hai mai,
dico mai rinunciato a colazione, cena e merenda per andare a casa sua.»
Sputo l’acqua nel
lavandino e mi asciugo la bocca con l’asciugamano. Miss Universo? Sento
qualcosa solleticarmi lo stomaco. I capelli lunghi che ho accarezzato, gli
occhi azzurri che ho guardato, la vita sottile che ho stretto, il seno che mi
ho sfiorato quando l’ho baciata sul divano.
Doreen mi si mette
davanti.
«Come si chiama?»
«Pfffprrrr.»
«Pfff… Penelope?» Stringe
lo straccio fra due mani, vicino al viso, ha un sorriso che le fa più rosse le
labbra e le fa sembrare gli occhi più grandi: ogni cosa in lei dilatata, ogni
cosa piena di luce nel bianco del grembiule un po’ macchiato, nel colore roseo
della pelle, nelle mani un po’ ruvide che ora stringo per distrarla da quello che sta sognando.
«Doreen,» sospiro. Lei
apre la bocca, aspetta, non si sposta, è più bassa e sembra raggiungermi e
superarmi con questo suono di gola che fa “ah… ah?”. Scuoto la testa. «Se non
mi fai passare arrivo in ritardo.»
Riesco a superarla.
«Allora si chiama
Penelope?»
Entro in camera, metto
la maglietta e mi metto a cercare i jeans. Quelli chiari, quelli… come si
chiama quello, Rufus Lauren? Non mi ricordo. «Reen, dove sono i jeans? Quelli più chiari…
del resto.»
«Si chiama Penelope? »
«I jeans! »
«Sono qui, aspetta…»
Entra nella stanza e prende i pantaloni che cercavo. Come ha fatto a trovarli
così velocemente? Forse anche questo è un sesto senso femminile e mi fa capire
sempre di più quanto questa Dea natura sia ingiusta. «Se magari mettessi in
ordine li troveresti subito, ma aspetta, hai lasciato qualcosa nei jeans…»
Doreen sbianca.
Cos’altro c’è?
Guardo l’orologio sul
comodino, quello accanto alla foto di mamma e papà. Le undici e mezza. Devo
fare presto, devo…
«Grazie.» Prendo i jeans dalle mani di Doreen e un rumore
di plastica attira la mia attenzione. Comincio a mettermi i jeans, devo vedere
Sarah, devo baciarla baciarla baciarla,
devo…
«Martin Scott.» Alzo lo
sguardo e alzo la zip. Doreen mi guarda con quei suoi occhi dello stesso colore
della torta al castagnaccio che fa sempre l’inverno. «Adesso tu mi spieghi cosa
ci fa un preservativo nei tuoi pantaloni.» Lo dice con una lentezza esasperante.
Mi gratto la testa. Dio,
non mi dire che vuoi che te lo spieghi davvero. Il suo sguardo resta fisso su
di me, freddo, le labbra le tremano fin quando non le serra e incrocia le
braccia al petto. E lascio cadere la mano e sento l’etichetta della maglietta
graffiarmi sotto il collo, l’ho messa male e non riesco a muovermi, per niente,
perché Doreen aspetta, immobile, ed io non voglio spiegarle perché quel
preservativo è lì. Mi viene da ridere e da scavare un buco e metterci la testa
dentro, ma la verità è che la guardo e questo momento mi entra dentro per
sempre, per tutta la vita.
«Non… lo so.»
È lì da quella festa in
cui io e Ivy… sì. Avrei dovuto toglierlo e metterlo di nuovo nello zaino, dove
lei non controlla mai. E invece ho avuto così tanto a cui pensare… ho pensato a
Sarah. Non faccio altro che pensare a lei da quando, un mese? Non è abbastanza,
è troppo, è troppo poco. Abbastanza da farmi sentire diverso.
Abbastanza da volermi
dimenticare di tutto il resto.
«Martin!» La voce di
Doreen mi riporta qui, nella mia stanza disordinata. I poster dei giocatori, l’armadio
aperto – Miranda Kerr in costume – le calze per terra e Doreen. Doreen che
stringe quella cartina, stringe quella cartina ed è strano perché fa lo stesso
rumore della busta delle patatine al ketchap che mi comprava al bar vicino alla
scuola quando facevo le elementari. Ed io la guardavo, seduta al tavolino,
mentre lei bella e veloce apriva la busta, aveva gli orecchini di perle, i riccioli
ordinati, la bocca che mi lasciava sporco per il rossetto rosa. «Tu… da quanto
tempo lo fai? »
Mi passo una mano sulla
faccia e chiudo gli occhi, respiro forte, sento caldo, non so più cosa voglio
dirle, non so più se vergognarmi, non so più se avere paura o ridere.
«Eh dai…» Mi siedo sul letto.
«Eh dai? Ma cosa e dai?
Ti rendi conto che… tu… tu… hai diciassette anni, porca miseria, Martin,
Martin…»
«Ne ho diciotto…»
«Tu non sai quello che
fai! »
«Mamma…»
Smetto di respirare.
Mamma.
Doreen resta ferma ed io
tremo dentro.
«Doreen, scusa.»
Deglutisco.
Doreen volta la testa ma riesco
a vederle gli occhi lucidi e allora, cazzo, Martin sei un idiota, sbagli
sempre. Doreen. La mia tata. La domestica. Da sempre.
L’unica persona a cui è
sempre importato di me.
«Non… non fa niente.»
Quella che mi ha
medicato il ginocchio quando sono caduto alla corsa ad ostacoli. Quella che mi
comprava il gelato solo una volta alla settimana perché se no fa male alla
pancia, Martin. Quella che si ricordava
di lasciare il lume acceso quando avevo sei anni. Quella che mi accompagnava
fino alla porta della classe. Quella che mi chiede dei voti a scuola e mi fa
trovare la torta con le candeline il giorno del mio compleanno.
«Martin.»
Si avvicina,
mi bacia la fronte, ed io sento qualcosa che mi allevia il dolore anche
se il
dolore non c’è. Non so cosa sia. So solo che le mani di
Doreen sono ruvide a
furia di pulire, lavare, pensare a questo pezzo di adolescente mai
felice.
Pigro perché la vita fa schifo. Mia madre è morta
perché l’istruttore le aveva legato male il
paracadute: lei era una paracadutista e mi avrebbe partorito anche in
cielo. Lei era pazza, viva e folle. E Doreen mi insegna da sempre che
bisogna essere
vivi sempre, qualunque cosa si faccia.
«Be’…» La sua voce è un po’ più bassa,
meno squillante, un po’ più pacata. Tremolante. «Sono felice che sei…
almeno sei responsabile, ecco.»
Doreen si allontana. È
stata lei a spiegarmi chi fosse, è stata lei a spiegarmi perché non avevo una
madre. Non mi ha detto bugie. Non mi ha parlato di viaggi o di nuvole. Mi ha
detto la verità, ed io mi ricordo solo che non lo avevo capito subito. Perché per persona morta
io intendevo gli zombie che uccidevo con il videogioco che avevo avuto in
regalo all’ottavo compleanno. Ma Doreen mi ha detto che cosa è successo, che la tua mamma
ti ha dato un bacio prima di salire sull’aereo e ha detto guardami dal cielo,
Martin. Io torno presto.
Mia madre non sapeva
che, se la dovessi ascoltare alla lettera, passerei tutta la vita così. Con il
viso alzato verso il soffitto, a guardare quel pezzo azzurro senza sapere dove
soffermarmi davvero.
Marlene Scott.
O forse qualcosa la
sapeva.
Sei qui?
Sapeva che la ragazza che è costantemente presente nel mio mezzo fottuto neurone ha gli occhi proprio
di quel colore. E mi fa saltare lo stomaco e il cuore così, come se fosse lei a
controllare tutto.
E forse lo fa.
Scendo di casa veloce,
senza prendere l’ascensore. Mentre corro mi passo una mano fra i capelli, per
aggiustarmi questi cazzo di capelli. Corro. Lei è qui. Corro. Lei è qui.
Esco dal portone e
trattengo il respiro. Lascio vagare il mio sguardo lungo tutta la
strada e la vedo. Come non vederla? Passa una macchina, il vento si alza, lei è
appoggiata ad un’auto, la borsa di stoffa fra le gambe, il cellulare fra le
mani. Si è messa la gonna... bene. Ha le labbra serrate, carnose, è così quando pensa a qualcosa
intensamente. Ha gli occhi blu mare, oggi, o forse sono sempre stati così o
forse cambiano. Non lo so.
«Buh!»
La sento irrigirsi sotto
le mie mani, le sue spalle esili, la pelle liscia del collo.
Si volta, la bocca
spalancata.
«Idiota!» La sua voce si fa acuta.
«Ti ho spaventata? »
Resta con la bocca
spalancata, mi scosta, le guance le diventano rosse, le labbra le tremano.
«No…
no che non mi hai spaventato.»
«Oh… sì, invece.»
«No.»
«Sì.»
«No.»
«Sì.»
«No.»
«Sì.»
«Oh, Dio, stai zitto.»
Mi metto a braccia
conserte e mi appoggio all’auto, le sorrido, lei si passa una mano fra i
capelli ma resta inquieta, come se stesse per saltare, o ballare.
«Zitto?» Sbatte il
piede, abbassa lo sguardo, vedo il sorriso nascerle sulle labbra e le tue labbra. Quelle labbra rosse e
piene e morbide. E le mani che si stringe al petto, lei che continua a
sorridere mentre io mi avvicino.
«Vuoi che stia zitto, mh?»
Le alzo il viso, due
dita sotto il suo mento. Mi guarda negli occhi e il sorriso la tiene accesa, me
la fa sentire bollente, non posso toccarla tanto a lungo, non voglio smettere.
Non la lascio
rispondere. Avvicino il viso al suo e respiro sulla sua bocca, la apre, ci
sfioriamo.
La bacio. È qualcosa di
caldo e fresco, di dolce e frenetico e breve e lungo, lungo, ancora ancora e
ancora. Sempre. Mi sembra di non sapere più niente, adesso. La bacio. Le
stringo il viso, il fiato mi graffia la gola, la sento aggrapparsi a me. Apro
di più la bocca, il fiato si fa sentire nella
sua assenza ma io sono pieno di euforia, questa voglia incontrollata di
aggrapparmi alla vita per non morire su queste labbra.
«Ehi…» Sento un brivido
contro di lei. Apro gli occhi. «Così mi consumi.»
Ridacchia sulla mia
pelle, i suoi capelli mi fanno il solletico, mi guarda. «Scusa.» Ha lo sguardo
lucido.
«Scema.»
La abbraccio, le do un
pizzico al fianco, continua a ridere. È un suono che conosco e che eppure è
sempre diverso ogni volta. Perché sembra crescere. Cresce la sua risata che sa
di dolce, e cresce la luce in quegli occhi
azzurri, cresce la fermezza in quelle mani che mi toccano, e cresce il tono di
quella voce che mi parla… prima era sottile sottile. Era Sarah ad essere
sottile sottile, una linea, un foglio attaccato al muro, quella che preferisce
essere invisibile piuttosto che far pena alle persone. Ma lei non sa che io lo
vedo. La vedo sempre. Sottile sottile o con quegli occhi e quelle gambe e quel
viso che mi tiene fermo qua, ad abbracciarla, a riconoscere il profumo di
camomilla fra i suoi capelli.
Si allontana leggermente
ed io sento di nuovo le sue labbra sulle mie. Leggere. Sorridono mentre
baciano.
Quanto tempo devo aspettare per...
«Che ti va di fare?» le chiedo. Ma
non riguarda quello, no… non glielo chiederei mai… così. Merda, non dovrei
nemmeno pensarci. Non dovrebbe succedere e basta? Sì, ok, ma quando? Ora? Stasera? Domani?
«Aspetta.» La sua voce è
chiara, un cucchiano contro delle campane di vetro. Le prendo la mano, così, e
cominciamo a camminare e fa caldo, cazzo. Sarah, non dovevi metterti quella gonna… quella gonna corta.
«Ti fanno ancora male le ferite? No, perché… perché ci ho pensato e…»
«Sar, sto benissimo.»
Sarah sospira, mi guarda
incerta, sorride appena.
Si passa una ciocca di
capelli dietro l’orecchio. «Martin… è che…»
Scuoto la testa. La
guardo, camminiamo, lei è… bellissima. E wow, che culo a piacerle. Cioè, non
credo sia culo: io non potevo non piacerle.
«Che c’è?»
Si stringe nelle
spalle, i capelli lisci e castani che le sfiorano il viso. «Vorrei… essere
normale. Non credo che altri ragazzi si chiedano spesso “come vanno le ferite
che ti sei fatto a causa mia?” »
Rido. Ed è una risata
che sento risuonare fra i clacson, i rumori della gente che cammina, i
cellulari che squillano, il rumore della città. La prendo per la vita e le
viene fuori un urlo, rido di più perché lei torna rossa e mi accorgo che sì,
non le avevo sognate, ci sono delle lentiggini sul naso che sfioro col mio. E
la gonna le si alza un po’… merda. Io ho un solo neurone e se mi fotto anche
quello è finita.
«Essere normali non è
figo.» La metto giù, traballa un po’, la afferro.
«Fi… Figo? »
«Be’, sì. » Mi alzo
nelle spalle. «Cercalo sul vocabolario. Un sinonimo è Martin Scott. »
Sarah alza gli occhi al
cielo. Cielo, lo stesso da cui ha preso il colore degli occhi, lo stesso che
guardo e ed è quello che non è stato abbastanza per salvare mia madre. Cielo.
Roba così.
«Narcisista.»
«Non dimenticarti di
figo.»
Scuote la testa e
continua a camminare senza di me. Sa che adesso la raggiungo. Però da questa
angolazione…
«Martin?» Si volta a
sorridermi.
Poi scoppia a ridere.
Devo avere proprio una
faccia da idiota.
***
La verità è che ho
dimenticato.
Sono un meccanismo
strano, un carillon, ho bisogno di lui per funzionare bene, per fare suoni
forti, decisi, per farmi sentire. Prima ero solo flebile, come se fossi una voce lontana e invece ero tanto vicina. Ora sono vicina. E lui può
sentirmi. Io posso.
E credo… credo di
sentirmi felice.
«Possiamo anche
aspettare un po’.» Martin camminava disinvolto
sulla strada, le mani nelle tasche dei jeans, i capelli mossi e biondi.
Poi ha cercato la mia mano e l’ha intrecciata alla sua. «Possiamo… far
calmenre le acque, visto che… è passato poco tempo.»
Si sono agitate altre
acque. Hanno tremato, si sono scosse, le onde non si fermano mai.
Sono io quando sto con
lui.
Non so se voglio
vederlo, oggi. Non sono sicura di niente a parte di questo strano e continuo
dolore allo stomaco che non capisco, non ho mai capito e non se ne va mai. E'…
estenuante. Anche mentre studio Letterattura e faccio il compito di Matematica.
Un continuo, bellissimo dolore qui nello stomaco. Voglio vederlo. Non voglio
vederlo.
Lo vedo. Mi saluta, bello e alto fra tutti gli altri ragazzi nel cortile della scuola, quegli
occhi un po’ verdi e un po’ grigi così pieni di luce. Lo vedo. Non volevo.
Ancora quella sensazione allo stomaco. Si avvicina. Un bacio.
Due.
«Tutto bene?» mi
chiede.
«Ah.» Non riesco mai a
capirlo in tempo. Non riesco mai ad afferrare le parole, sono intontita, come
se avessi sbattuto la testa da qualche parte. Qeugli occhi verdi e quel
sorriso. Io… «Sto bene… tu?»
Mi bacia ancora la
guancia. Martin, Martin, Martin, questa cosa non è normale. Che mi succede?
«Bene.» Si mette la
cartellina sotto il braccio. Comincia a fare un po’ caldo, lui se ne sta con
una maglia rossa a tre quarti, un filo di barba sulla mascella, il sorriso a
ispezionare tutto, a ispezionarmi. Sorride ancora di più. «Indovina grazie a
chi ho preso B a Chimica?»
Mi sistemo il fermaglio
che mi sono messa fra i capelli. «Grazie a… me e alla mia spiegazione sui
raggi?»
Martin scuote la testa,
mi lascia appoggiare ad un armadietto nel traffico alla fine dell’ultima ora.
Le persone sono sbiadite dietro il suo viso, sembra un treno in corsa in una
stazione in cui io e lui non andiamo da nessuna parte. Restiamo così. Insieme.
«Se avessi pensato a te
durante il compito avrei risposto a una sola domanda.» La sua voce è calda, si
interrompe in una risata che mi scuote il petto come se fosse mia.
«E cioè, sapientone?»
«Perché gli atomi si
eccittano? Con tanto di esempio sull'effetto che ti faccio.»
Gli sbatto i
miei libri sul petto, rido e ancora quel dolore, e lui che mi guarda. E dov’è
finito il mostro? Come può il mostro semplicemente non esistere in un momento
del genere?
Può, un mostro, provare
questo?
«Ehi, comunque ho risposto anche a quella. Senza parlare di te, non volevo... metterti in imbarazzo.» Come se già non lo facessi in continuazione. Mi dà un buffetto
sulla guancia ed io mi sento bambina, buffa, non voglio farlo ridere e non so
come ma… amo che lui sia felice. Amo essere felice insieme a lui. Amo questo dolore
allo stomaco. Amo queste acque calme che si agitano all’improvviso. Sto
dimenticando chi sono. Sto diventando un’altra persona e non devo. So che non
devo.
Julia può essere
viva. Julia può essere qualcosa di diverso da una speranza, può essere una
certezza. Può essere la prova che io, qualunque cosa sia – chi, Sarah, chi! Non
sei un oggetto, non sei una macchina. Sei una persona – non sono così spietata.
Martin si passa
una mano fra i capelli. Ora c’è solo qualche bidello che spazza le carte dal cortile.
«Ho ascoltato quel gruppo che mi avevi
detto, Sar. E' fortissimo… cioè, davvero, ascolti musica buona.»
«I Depeche mode sono
sempre stata musica buona.»
Lui aggrotta le
sopraciglia e socchiude la bocca in un verso di superiorità.
Fa una specie di
sbadiglio e poi poggia la mano sul muretto dietro di me, vicino alla mia testa. Avvicina
il suo viso al mio e fa un sorriso che mi fa quasi cadere i libri sui piedi.
«Oggi mi aiuti a finire
quella cosa con la creta? No perché tu sei brava e…»
«Sì.»
Poso la mano sulla sua,
quella poggiata al muretto. Mi travolge un raggio di sole e, mentre Martin mi avvolge le
spalle con un braccio, sento di potercela fare per davvero.
*
*
*
*
*puff!
pant* E' incredibile, è Domenica e mi sento più sfinita
di un giorno della settimana xD Nonostante ciò, spero che questo
capitolo di passaggio vi sia piaciuto anche se è molto
importante: vi ho dato degli indizi importanti nella prima parte...
Sarah si sta lasciando sconvolgere da questi nuovi sentimenti, e questo
le fa sperare di non essere, o essere stata, così spietata da
annullare la vita di qualcun altro. Andrà tutto bene fra i due?
E questa Julia? Comeron avrà un qualche ruolo? Fatemi sapere
cosa ne pensate ed io PROMETTO che non aggiorno fin quando non rispondo
a voi tutti lettori meravigliosi <3 <3 <3 Grazie di tutto.
Grazie a chi recensisce e mi lascia i propri pensieri. Grazie a chi
ricorda, segue e preferisce la storia <3 <3 <3
Buona settimana
Con affetto
Ania <3
|
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Capitolo 10 *** 9. Avvertimenti ***
until 9
9.
Avvertimenti
Appartamento sulla quarantaduesima strada
Oggi.
Yvonne
Stewart si attorciglia una ciocca di capelli biondi ossigenati intorno
al dito. Lo smalto viola rovinato; le ciglia ancora attaccate per il
troppo mascara
che non è riuscita bene a togliersi; la maglietta larga a
nasconderle le
forme. Aggrotta le
sopraciglia, mordicchia la matita, cerca di studiare. Ma poi si passa
una mano
fra i capelli ed io capisco che è stanca, stanca morta. Capisco
che domani
mattina la vedrò di nuovo così, con il nero intorno alle
palpebre ad infossarle
gli occhi, e lei cercherà di toglierlo via con un qualche
prodotto per apparire sempre bella e
desiderabile. Poggia la fronte sul libro e sospira.
Si
vede bene, dalla fessura della porta lasciata socchiusa.
La
apro, la porta sbatte.
«Buonasera,
Yvonne.» Sussulta, alza il viso, si porta una mano ai capelli un po’
disordinati, come per istinto. «Che facevi?»
Deglutisce,
abbassa lo sguardo e le si vedono ancora di più le occhiaie. «Studiavo.»
«Dormivi,
piuttosto. Chi non ha cervello non ottiene niente anche se si impegna, Yvonne. Non è cosa per te.»
Fa
una smorfia, le labbra rosee e sottili si stirano. «Quindi dici che io non ho
cervello?» I suoi occhi nocciola si accendono.
«Perspicace.»
E
si spengono.
Chiude
il libro di scatto e si alza, io mi tolgo il cappotto e lo poggio sulla sedia.
Yvonne
– capelli biondi, alta, vita sottile – fa un sospiro. Poi esce dalla stanza.
«Dove
vai?»
«Esco.
»
Si
chiude la porta della sua stanza alle spalle e sento il rumore dei cassetti che
si aprono.
«Devi
chiedermi il permesso.»
«Io
esco.» La sua voce ha un tono di sfida, quasi superiore, ma si
assottiglia così tanto da assomigliare a quella di una bambina.
Apro
la porta, le scappa un verso di sorpresa. È senza maglia, in reggiseno, si vede
il seno gonfio, il piercing all’ombelliico. Si copre il busto con una gonna e
mi fa scappare un risata, mi fa ridere guardarla, stupida, piccola puttanella.
I miei passi fano rumore sul pavimento di legno.
«Joe.» La sua voce trema, si schiaccia la gonna sul petto, si vede ancora di più il
seno. «Mi dispiace. Mi… mi dispiace, io...»
«Tu
saresti ancora in riformatorio, se non fosse stato per me, stronzetta.»
Respiro il suo profumo. Trucco vecchio e sapone neutro. Abbassa gli occhi,
ancora, non sa cosa potrei farle. Le alzo il mento
con due mani e sento una strana vibrazione, che cos’è, paura? Mi piace, non posso farne a meno. Mi
piace da impazzire.
Incontro il suo sguardo così simile ad un altro che conosco
già.
Uno
schiaffo la fa cadere a terra. Un urlo strozzato.
«Mi
dispiace, Joe, io…»
«Sei
identica a tua madre.» Sputo sulla sua schiena e trema, continua a tremare. «Puttana.»
Piange, piange
con quel verso da gatti, quel mugolio continuo, con la pancia che si alza e si
abbassa e i capelli in bocca. «E bugiarda, tra l’altro.»
Singhiozza.
«Non è vero, io…»
«Trenta
dollari! C’erano trenta dollari sotto il tuo cazzo di materasso… che novità mi
fai avere? Il ragazzino ha finito i soldi per ricaricarsi l’i phone. Oppure il
ragazzino li ha finiti davvero e tu ti fai pagare per altri servizi?»
«Erano
di Martin! Te l’ho detto, io ho cercato nelle tasche dei suoi pantaloni, mentre lui… »
«Lui
COSA? Non sei riuscita ad avere nessuna informazione.»
Si
pulisce le lascrime con la mano, il nero le cola sulle guance, le sporca la bocca. Cerca di
rimettersi in piedi. «Io ci ho provato, io…»
«Dovevi
mostrarti disponibile per avere informazioni, non per rubargli i soldi!»
Singhiozza.
«Lui non aveva altro.»
«Allora
dovevi fartelo dire!»
«Io…
io non gli piaccio abbastanza, Joe. Dopo quella volta non mi si
è avvicinato, fa finta di non conoscermi. Non gli
piaccio…»
«Non
gli piaci? Che c’è, è frocio? Non gli va bene che apri le gambe? Oppure tu hai fatto storie? »
«No!
Non ho fatto storie, davvero, Joe. Ho fatto come mi hai detto tu, io… io faccio
sempre quello che dici tu.» Riesce a rimettersi in piedi. Sospiro. Ci mancava
solo questa. Un ragazzino viziato e viziato anche sulle ragazze.
«Perché
non gli piaci, eh?»
«Credo…
credo che a lui piaccia un’altra.» Yvonne si copre solo con le mani, adesso.
«A lui piace Sarah. Quella… quella che
mi avevi chiesto di infastidire… li ho visti baciarsi, nel cortile, l’altro
giorno.»
Sento
le mie labbra stirarsi in un sorriso. Tombola.
Sento l’eco delle voci nella mia testa, il mio pubblico costante di tutti i
miei progetti. Martin e Sarah. Insieme.
Un
attimo che lascio fare le mie cose ad altri i giochi si ribaltano.
Meglio
di uno scacco matto.
«Allora
separali. Mettiti in mezzo, Yvonne. » Mi incammino verso la porta, mi volto
verso di lei, mi guarda con paura. Non c’è spazio per l’odio, fin quando ci
sono io. «E non raccontarmi cazzate… io lo verrò a sapere.»
Yvonne
annuisce. Non può fare altro.
«Lo faccio, Joe.» Mi volto, entro nel mio
studio, sorrido. Sulla scrivania, la luce rossa del congegno scintilla sul
bianco della plastica. Mi siedo, lo prendo in mano. Attivo. Attivo da dodici
anni. Ma sono sempre io a decidere come e quando, il momento in cui farlo
sentire di più e renderlo quasi inesistente. Sono io a inviare gli impulsi.
O
gli avvertimenti.
***
A
gambe incrociate sul pavimento, riesco a sentire il freddo del marmo
anche attraverso il tessuto leggero dei pantaloni. A gambe
incrociate. Come in quei giochi che si fanno all’asilo: un
cerchio di bambini
felici per un piccolo momento di gioia condivisa.
Di fronte a me, le foto.
La foto.
Lei è accanto a me, mi stritola in un abbraccio in cui mi tiene
ferma con il braccio piegato ed io, cinque anni, trecce e denti grandi, rido
come se avessi visto tutti i momenti belli del mondo in un solo istante.
Julia mi soffoca con il suo sorriso così simile a me.
Non avrei mai
voluto.
Giro la fotografia e vedo la mia grafia. 20 marzo del 2000, solo
sei giorni prima che accadesse quello che io non avrei mai voluto che
accadesse. Se solo sapessi perché… se solo sapessi come ho fatto. Forse
riuscirei a controllarmi. Forse potrei annullare per sempre quell’impulso che
mi porta a fare del male alle persone senza muovere un dito.
Eppure
sorrido, perché ricordo bene quel giorno. La maestra Ellen
che ci aveva disponeva in file, i bambini che strepitavano,
l’abbraccio di Julia... il momento in cui ci hanno consegnato le
foto.
Il
sorriso di Julia, la sua bocca sporca del cioccolato che non avrebbe
dovuto mangiare, senza nemmeno la paura di essere scoperta dalla
maestra, aveva scritto il suo nome sotto la data.
Julia Moore.
«Questo è il mio autografo.» Aveva riso. «Come le persone famose.»
Non so che cosa le ho detto, ma ricordo una matita rossa, una
matita rossa con cui io invece ho scritto Sarah Pierce dietro la sua
fotografia, in risposta. La stessa matita rossa che avevo usato per quel
disegno…
«Sarah, che fai?» La voce di mia nonna mi arriva all'orecchie dalla cucina.
Non sono sicura di volerlo sapere.
Faccio un respiro profondo. Non so niente di quello che è
successo, non so niente delle conseguenze: mi è rimasto solo il terrore,
l’incertezza, le notti insonni.
«Niente, nonna… arrivo.»
Prendo le fotografie, le inserisco fra le pagine del taccuino ed
esco dalla mia stanza. Pulizie di primavera. La nonna ha un fazzolettino sui
capelli bianchi, la gonna marrone che quasi le arriva alle caviglie. Sembra una
di quelle vecchiette che regalano le caramelle ai bambini, ma senza cattive
intenzioni… sì, proprio così. Me l’aveva detto Julia, una volta.
«Sarah? » La nonna poggia una massa di asciugamani sul tavolo
della cucina e si volta verso di me, un sorriso le infossa le rughe vicino alla
bocca ed io, mentre guardo i suoi occhi brillare verso di me, non riesco a
pensare ad altro che le voglio bene. «Sei pensierosa.»
«Sì.»
Mi avvicino al ferro da stiro e lo accendo.
«Questa volta non sorridi, però.»
«Non riesco a sorridere. »
Alzo gli occhi, e in questo istante mi accorgo di come mia nonna
sia tanto mamma, anche a quest’età. Come se io fossi la figlia che lei ha
desiderato più di ogni altra cosa al mondo. Come posso darle questo dispiacere?
Non vedo come possa fare un effetto diverso su di lei che, da sempre, non fa
altro che proteggermi da tutto e da tutti. Mi ha strappato i sorrisi più belli,
sanguinanti, quando ero ancora piccola e piangevo senza il coraggio di chiedere
cosa fosse successo a Julia, che cosa fossi io, che cosa sono. Mia nonna che,
da sempre, non pensa che a un modo per farmi sentire parte di qualcosa che
porti amore e non dolore.
«Che è successo, stellina mia?»
«Pensavo a Julia.»
Questa
volta è lei a non sorridere e mi sembra improvvisamente
ancora più anziana, ancora più fragile di quanto ho
creduto di essere io. Si stringe le mani in grembo, rugose e secche per
i detersivi, per
le sere passate a rattoppare i vestiti fino a tardi, per il lavoro duro
che non è
altro, nella sua vita, da quando io sono entrata nella sua.
«Non pensare a cose brutte, tesoro.»
«Ci provo.» Giorni di sole e giostrine nel parco. Il purè
incommestibile alla mensa dell’asilo e i regali di Natale. Le poesie della
festa della mamma che non ho, le caramelle che lei non poteva mangiare. Le
parole, i silenzi, le mani intrecciate quando camminavamo sul ponte della
giostra più alta del parco. Un’amica, l’unica.
«Sarah…»
Mia nonna si avvicina a me. Mi tocca la testa e mi abbassa un po’,
per darmi un bacio sulla guancia. I suoi occhi sono lucidi e tremolanti, come
se avesse paura, come se stesse per piangere, la stessa sensazione di quando
vedi qualcuno sul punto di cadere da un precipizio. Negli occhi speranza e
paura, tornare indietro e cadere giù. Entrambe qui, nello stesso istante.
«Va tutto bene,» dico, e mi sorprendo della sicurezza della mia
voce. Mi avvicino alla porta dello stanzino per prendere tutto quello che serve
e cerco, almeno per adesso, di non farle vedere che cosa sento veramente.
***
Dice
che in cucina si trova meglio ed io ho deciso di credergli. Ignoro tutte le
volte in cui non mi ha guardato mentre lui ripeteva la lezione ed io me ne
stavo lì, seduta sul suo letto ma tesa, scomoda, come se mi fossi adagiata su
delle spine. E lui era lì, a pochi metri da me, e non sapevo che se il mio
disagio dipendesse da dove mi trovavo io o dal fatto che lui fosse lontano da
me. Ancora non lo so. O forse voglio solo far finta di non saperlo.
«Hai
portato…»
«Sì,
ho portato quello che ho trovato.» Prendo la borsa, la poggio sul tavolo ed
apro la cerniera. Martin accende il portatile e lo sfondo turchese e luminoso
mi colpisce gli occhi anche se sto guardando da un’altra parte. «L’unica cosa
che ho trovato.» Sfioro la foto con le dita, poi la stringo fra due mani e la
porgo a Martin. Mi sento tremare. Le dita di lui mi sfiorano. Lascio che prenda
la foto e mi rilasso a guardarlo mentre si siede, una gamba piegata sotto la
sedia e un’altra distesa, i capelli che gli sfiorano la fronte, le labbra
leggermente dischiuse che, dopo qualche secondo, si distendono in un sorriso.
«Ma
quanto eri tenera.»
Mi
mordo l’interno della guancia, mi lascio andare a uno sbuffo e sono sicura, ora
che i suoi occhi sono sulla me fuori da quella foto, che nemmeno questa volta
sono riuscita a non arrossire.
«Non
è vero… »
«Ma
sì, guardati… » Schiocca la lingua contro il palato e si china leggermente, i
gomiti poggiati sulle ginocchia. «Con queste treccine…»
«Ed
è una cosa molto utile per fare quello che dobbiamo fare.»
«Perché,
che dobbiamo fare? »
«Martin.»
«Spiegami
che cosa dobbiamo fare.»
«Dobbiamo
assolutamente cercare informazioni su Julia, dobbiamo sapere se… se ancora c’è...»
«Tutte cose proposte da me, modestamente.»
Mi
avvicino al suo computer, poggio le mani sul tavolo e batto il piede, mi passo
una mano fra i capelli e la lascio ricadere sul fianco. Mi tocca.
«Sei
sexy, te l’ha mai detto nessuno? »
Scuoto
la testa. «Potresti smetterla gentilmente.»
«Non è così che si risponde gentilmente a un complimento.»
«Ne terrò conto.»
Incrocio
le braccia al petto e faccio un respiro profondo. Martin mi imita con lo stesso
gesto, mi sforzo di non ridere e stavolta ci riesco, mi sposto leggermente e mi
avvicino un po’ di più a lui.
Prendo
una sedia e la avvicino a lui, in modo che possa scrivere sulla tastiera anche
da lì. Non so se lo sta facendo di proposito, comportarsi com’è suo solito per
impedirmi di pensare a quello che il nome di Julia scatena sempre nella mia
mente. Non lo so, eppure
quando lui mi sfiora le gambe con le mani, con il nome Julia Moore che prende
forma sullo schermo del computer, mi sembra di non far parte di questa vita, di
essere un’altra persona.
Le
mani di Martin risalgono sui fianchi.
Mi
accarezza i capelli, mi passa una ciocca dietro l’orecchio, sento lo stomaco
rivoltarsi in una sensazione simile al dolore, ma piena di qualcosa che non può
essere che gioia.
«Martin,
smettila.»
«Smettila
tu.»
«Di
far cosa?»
«Di
sedurmi.»
Rido.
«Non
ti sto seducendo. »
E
poi la pagina carica. Lo schermo diventa bianco, con le strisce azzurre e le
scritte blu, con dei nomi. E guardo attentamente, la mia risata si interrompe
all’improvviso, più per stupore che per qualunque altra cosa, e non riesco più
a ridere perché questa è la mia vita, è il mio dolore e Martin è qui, a viverlo
con me. Clicco su uno dei risultati, e la lentezza con cui questi appaiono
sembrano rodermi e bruciarmi le viscere per poi esplodere di un sentimento che
nemmeno riesco a riconoscere, quando lei si materializza sullo schermo. Mi
mordo la lingua per non urlare. Julia Moore. Non urlare. Diciassette anni. Non
urlare. Diciassette anni, non morta, non uccisa. Non urlare. Cerco di parlare,
cerco di dire qualunque cosa, ma sembra che la voce si sia incastrata proprio
sotto la gola ed è troppo grande per passarci attraverso. Julia. Julia Moore,
nata il 29 ottobre 1995, ha frequentato la Byron High school, fa parte della
squadra di atletica dall’età di sette anni ed è una fra le maggiori promesse
dell’istituto. Sospiro.
Guardo la sua foto: capelli rossi e mossi, il viso bianco e ovale, gli occhi
scuri e luminosi…
«È
viva, Sarah.» La voce di Martin diventa un brivido sulla mia pelle, vicino
all’orecchio, una lacrima riga la mia guancia ed io mi accorgo, nell’istante
stesso in cui l’acqua tocca le mie labbra e Martin mi stringe e il suo fiato è
caldo di tutto quello di cui ho bisogno, che sono felice. «Te
l’avevo detto, io te l’avevo detto.» Mi fa voltare con la forza delle sue mani
ed io non riesco a smettere di tremare. Sono i suoi occhi verdi e il suo
sorriso e la sua voce che mi accarezza. Fa un respiro profondo contro di me.
«Io ci ho sempre creduto.»
Gli
do un bacio. Così, all’improvviso. Posso sentirlo irrigidirsi, ma non importa,
non mi importa, perché passa un secondo e poi sento le sue mani fra i miei
capelli, passa un secondo e la sua bocca è morbida contro la mia e lui mi
abbraccia, mi tiene stretta, mi toglie tutto il respiro.
***
Sbatto
la gomma della matita sul tavolo, mentre sfoglio ancora una volta il
libro di Letteratura Inglese. E' così strano fare una cosa
così normale come continuare a studiare, dopo quello che ho scoperto.
Alzo un attimo gli occhi, Martin è appoggiato al muro con
le braccia conserte, una maglietta verde scura, un po’ scolorita, come se fosse
la prima cosa che ha trovato. I suoi occhi sono di un verde un po' più scuro, la luce li raggiunge
e sembrano polvere. Mi sorride.
Gli
sorrido.
«Abbiamo
finito?» chiede.
Faccio
segno di no. «Dobbiamo ancora ripetere il…»
Me
lo ritrovo di fronte, le sue mani si posano sulle mie e non riesco a parlare,
sono improvvisamente muta. Mi respira sulle labbra tutto quello che dice.
«Abbiamo finito.» Chiude il mio libro.
«Martin…
è importante, dai...»
Esce
dalla stanza con così naturalezza mentre poggia le mani sul muro, gira la testa
e sorride di nuovo, i capelli biondo scuro a sfiorargli la fronte, gli zigomi
alti, la carnagione chiara e il sorriso che gli si apre morbido.
Scompare.
Sbuffo,
mi passo una mano fra i capelli.
Lo
seguo.
Oddio,
non ci credo che sta correndo.
«La
trama del De Profundis, Martin!»
Non
ci credo che sto correndo anch’io.
Martin
si volta all’improvviso, gli sbatto contro, stringo le fotocopie così forte che
le stropiccio, non volevo, Martin mi ride sulla fronte, sento il suo fiato
caldo.
«Sì.» Lo sento deglutire. La luce della cucina arriva fioca, qui nel corridoio. Si
riflette in un vaso dorato che si proietta sui suoi capelli biondi in piccole
mezze lune, gli illumina il viso e gli occhi e la bocca sempre più vicina. «Il De Profundis… » Mi accarezza i capelli.
Mi sfiora il collo e scende sulle braccia una, due volte, gli occhi bassi, le
ciglia lunghe e chiare. «De profundis… Il De Profundis… andava molto nel
profondo. » Prende fiato, l’aria fa rumore fra le sue labbra. «Andava molto a
fondo.» Incontro i suoi occhi e mi sento la gola secca, sbatto le palpebre
perché lui non sembra reale, questo non sembra reale.
A
un soffio dalle mie labbra. «Molto a fondo.»
Non
ho più il senso del mondo quando mi sta baciando. Mi sta baciando ed io mi
stringo a lui, perché profuma di buccia d’arancia e sapone e caffè,
qualcosa di intenso. Ha le mani ruvide mentre sento il duro
della porta contro la schiena e mi solleva, perdo tutta l’aria nel momento in cui
smette di baciarmi e riprende a farlo nello stesso istante. Martin. Inciampo in
quello che deve essere un vecchio pallone da rugby, una fotocopia vicino
all’entrata della sua stanza, le altre chissà dove. Martin. Sguardi e mani che
si cercano. Martin. Le risate fuori da scuola e i sussurri sul bus. Martin.
Chimica spiegata con le mani che si stringono e messaggi abbreviati. Martin.
Nessuna paura, nessun mostro. Martin. I baci che scorticano le labbra.
«Non
sai niente del De Profundis.»
Non
so come ma lui mi bacia il collo, e sono sul suo letto e lui è sopra di me, e
forse dice qualcosa al mio orecchio e non so cosa sia perché non capisco, il
cervello si aziona in ritardo, il cuore batte ancora più forte. L’unica cosa che penso è
non andare mai via, resta sempre.
Resta sempre e lo abbraccio. Resta sempre e
sento la sua pelle sotto la maglietta. Resta sempre e trovo di nuovo le sue
labbra. Resta sempre e le sue mani sono sulle mie gambe.
Lo
guardo. Ha i capelli un po’ arruffati, la bocca socchiusa, umida, gli occhi
verdi lucidi.
«E' che... scusa.»
Sospiro,
mentre lui si alza dal letto. Non riesco a guardarlo
perché lo voglio e non so cosa mi succeda. Da quanto tempo lo conosco? Da
quanto tempo noi… penso a noi con questa parola? È strano, troppo.
Martin mi prende il viso fra le mani, sussulto. Mi sembra che in questo modo
mi tocchi ancora di più di come ha già fatto. «Io ti voglio. Troppo.» Si morde
le labbra. È la prima volta che lo fa, sembra che ce l’abbia con qualcosa, con
se stesso, trema. Torna a guardarmi. «Mi darò una calmata.»
Paura
di parlare. Forse perché non ci sono più parole, solo perché distinguo le
lettere ma il senso è scomparso. La verità è che voglio dirgli ti voglio
anch’io. Ti voglio. Con la paura che sia qualcosa di ancora e sempre più
grande. Con la paura che diventi sempre più forte, un cuore che gonfia, che
arriva in gola e soffoca.
Mentre
io ho paura di me stessa.
«Allora,
il De Profundis.» Martin si siede sulla sedia girevole e si passa una mano fra
i capelli. La mascella pronunciata si fa più tesa, prende un respiro. «Sì, l’ha
scritto Oscar Wild, e… sì, questa volta non faccio l’idiota, è un dialogo epistolare
su vari temi come la morte…»
Martin
parla, lo ascolto, mi perdo.
Mi
stringo le mani al petto e lo ricordo, e ancora sento la sua bocca e la sua
voce parla, dice quello che dice adesso e mi chiede se sto bene, mi chiede se
mi chiamo Sarah, Martin mi sorride e mi abbraccia ed è qui con me.
Posso avere così tanta paura di starti
vicina?
Posso avere così tanta paura di starti
lontana?
La
verità è che non può essere diversamente, per quello che sono io. La verità è
che adesso non posso impedirlo, cercare che sia meno intenso, più sereno.
«…
E comunque fu pubblicato postumo, agli inizi del novecento, credo… è giusto? »
Mi
sto innamorando di lui.
*
*
*
*
Grazie a Jens per aver realizzato il banner :)
Per mia mia sorpresa, sono di nuovo qui e ne sono semplicemente
felicissima. Non vi so spiegare come sia ritornata l'ispirazione per
questa storia, al punto da farmi scrivere 10 capitoli in meno di un
mese, ma è tornata. Ed io l'ho accolta con tanto affetto,
perché, evidentemente, questa storia aveva bisogno di essere
continuata : ) Ringrazio tutti coloro che mi hanno sostenuto, in
particolare coloro che mi hanno mandato un messaggio o recensito quando
ho pubblicato l'ultimo avviso. E poi tutti quelli che mi sono sempre
vicini, che credono in me. Siete speciali. Grazie davvero <3
A presto con il prossimo capitolo
Ania <3
|
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Capitolo 11 *** 10. Julia Moore ***
until 10
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
10.
Julia Moore
Non
avevo nemmeno tredici anni quando, sui gradini di legno del campo sportivo, lui si sedette per la prima volta
accanto a
me. Il resto della classe giocava a
baseball e quello che non poteva che essere il suo migliore amico, con
i
capelli cortissimi e gli occhi vispi, lo chiamava ad alta voce.
«No,» rispose lui,
scuotendo la testa, i ricci castano scuro a sfiorargli di poco la fronte.
«Resto qui.»
E
mi guardò.
Aveva
occhi così chiari da sembrare quelle pozze che si creano nei paesi lontani dopo
il disgelo e mi dicevano va tutto bene. Io stringevo fra le mani
un foglio con tanti numeri, le espressioni di matematica che avevo fatto una e
più volte quasi fino ad impararle a memoria, per non pensare, per non sentirmi.
Va
tutto bene, mi diceva lui in silenzio.
E per
un momento la mia inquietudine costante vacillò, ed io cominciai a credergli.
Cancello
il pensiero di lui, di nuovo dopo tante volte, perché è come togliere un cerotto da una ferita che non
guarirà mai.
Non voglio vedere che sanguina ancora.
Stringo
il foglio fra le dita, ci affondo con le unghie troppo corte; credevo di aver
perso il vizio di mordicchiarmele, credevo di averlo eliminato dagli appigli disperati
a cui mi aggrappavo per sentire qualcosa. Ma non è stato così. Sentire il
dolore nella carne è stato un diversivo inutile per smettere di pensare a
questo momento. È viva, è questo l’importante. Guardo di nuovo l’indirizzo:
Kennedy’s street, 53, e mi tremano le mani. È viva, è questo l’importante. Mi
tremano le mani e non ce la farò mai. È viva, è questo l’importante. Mi tremano
le mani e non riuscirò a guardarla negli occhi.
Che io le abbia fatto del male
quanto è importante?
«Sar, sta' calma.»
Quanto le ho fatto del male?
Chiudo
gli occhi, un altro respiro. Forse così va un po’ meglio.
È come se il mio
corpo lo ascoltasse ancora prima che lo ascolti io, e questa è
una delle cose
di cui non so se avere paura o meno perché sa, ancora prima di
me, che quel che fa e dice è per il mio bene. Lo guardo: guardo
la sua mano grande che
si avvicina al mio viso a scostarmi una ciocca di capelli; guardo i
suoi occhi
vividi e chiari, verdi e pieni di una luce che mi brucia gli occhi, ma
che non
è abbastanza per farmi smettere di guardarlo.
Scuoto
la testa.
«Io… Non lo so, non...»
Non so se posso farcela. Il
suo viso è attraversato da una smorfia. Come se avesse sentito quello che, se
avessi cercato di parlare, avrei detto. Sento il suo dolore, la mia incertezza,
la mia paura, la sua. Sospiro.
«Ci
sarò io con te.» Mi prende il volto fra le mani. «Non ti lascerò mai, mai, mai
un solo minuto o secondo da sola. Mai.» Mi mordo la lingua, voglio sentire il
sangue, voglio sentire qualunque cosa ma non la paura. Non la paura. «Io resto
sempre vicino a te. »
Cerco
di trovare un po’ di coraggio. Non tutti gli esseri umani ce l’hanno.
Ma
io ne ho bisogno.
Annuisco.
«Ok.»
«Qualunque
cosa accada, io sono vicino a te. » Vicino a me, come nessuno lo è mai stato
con lui.
Ieri aveva la porta di casa socchiusa, l’ho trovato seduto sul divano con la
testa fra le mani. E' solo, ho pensato, e quando mi ha guardato è
stato come se io stesse l’avessi salvato.
Mi
prende la mano ed io, in un istinto inspiegabile, gliela stringo forte;
mi
sento così al sicuro che è come se stessi comandando un
sogno. Nel sogno Julia
è viva, e frequenta la struttura sportiva imponente e grande che
ci è di fronte. Ho scelto di venire qui e non a casa sua
perché mi sembrava... più sicuro, e meno spaventoso.
Attraversiamo
il vialetto e ce ne stiamo un po’ così, sotto il portico,
davanti alla porta a vetri. All'interno si vedono sedie di plastica, un
banco alto con un telefono e una specie di registro e tante fotografie
incorniciate. Non c'è nessuno, forse siamo arrivati tardi. E se
fosse davvero tardi?
Martin aspetta con
me, aspetta che io gli dica adesso, aspetta che io gli faccia sapere che sto per
cadere. Un
respiro, un altro respiro, un altro ancora. E poi un passo, un altro
passo
ancora, e il mio braccio che si alza e la mia mano che si chiude a far
venir
fuori il dito indice che preme qui, sul campanello della palestra che mi separa e
protegge e nasconde da…
«Julia
starebbe rinchiusa qui per ore... hai ragione.» La porta si apre,
sussulto, stringo ancora di più la mano di Martin, lo
guardo solo per un attimo. E poi si affaccia il
volto di una signora dai capelli rossi e raccolti, rughe a segnarle gli
occhi e
un sorriso stanco. «Oh… scusate, sto aspettando mia
figlia, si sta allenando per la gare di atletica.»
Sua
madre.
Si sente il rumore di qualcosa che sbatte a terra ma sembra tornare subito su. Mi
si secca la gola, la lingua mi si appiccica al palato, le gambe mi tremano. Scarpe da ginnastica che saltano su un pavimento antiscivolo, ecco cos'è. Dal corridoio si vede che una porta è lasciata aperta.
«Sì,
siamo suoi amici.»
La
voce di Martin è la corda che mi stringe la vita, mi tiene qui, sostiene il mio
coraggio.
«Oh,
ma non state lì, entrate pure. Non credo che per qualche non
iscritto se ne faccia una tragedia, e comunque ora la proprietaria è impegnata.» La signora apre ancora di
più la porta, una
volta superata la soglia mi sento invadere da un freddo che sembra
congelarmi
il sangue, ma la presa salda di Martin è l’unica certezza
che mi garantisce che
non morirò nel ghiaccio del buio che c’è dentro di
me. «Torno da lei in direzione per i dettagli, il premio della settimana scorsa deve ancora arrivare dall'Alaska!»
Martin
fa un sorriso, di quelli un po' tirati che si fanno davanti ai genitori
degli altri. Non l'ho mai visto così sicuro. Non ho mai sentito
la presa delle sue mani così
salda.
I muri del corridoio si alternano al colore candido del bianco a quello scuro della plastica delle sedie, mi
siedo e Martin riprende la mia mano, si siede accanto a me, mi tocca il ginocchio, i suoi
occhi cercano il mio viso. Tàn, fanno ancora delle sparpe da ginnastica che saltano sul pavimento. Un sorriso senza pesi né dolori mi scalda, mi ripete
che lui è qui con me. Si avvicina leggermente ma non so cosa dire, non so cosa
dire se non che sono felice che lui mi abbia guardato, lì su quel bus; se non
che risponderei subito che sto bene, se lui me lo chiedesse, come quel giorno
al cinema; se non che lui con i suoi occhi e la sua risata e la sua vita ha fatto
qualcosa che ancora non riesco a spiegare.
Il
tintinnio di una campanella. «Ho finito il tempo!» Una voce raschiata mi arriva alle orecchie e rimbalza
contro i vetri della porta. Rumore di piedi che strisciano sul tappeto, una
chiave che entra nella serratura, il cigolio di una porta. «Mamma, non puoi immaginare
cosa sono riuscita a fare oggi!»
La porta del corridoio si apre. «So
che sei bravissima, tesoro.» Fruscii di vestiti, un giubbino che cade a terra.
«Sono esausta, però penso che potrei...»
«Ci
sono dei tuoi amici ad aspettarti, Ju.»
«Davvero?
» Se la felicità avesse una voce, questa sarebbe la sua.
«Naomi? Dai vieni! Finalmente ti sei decisa a venire!»
Mi
alzo in piedi, d’istinto.
Passi.
Corro verso la voce.
I
suoi passi.
La prima cosa che vedo è l'ombra di una sagoma che si espande sul muro verde
dal centro dell'enorme palestra.
E poi guardo da dove nasce l'ombra.
Ha
i capelli rossi, lunghi e ricci, come li ha sempre avuti, come quel giorno, non mi guarda e
sorride, sorride, sorride e sento la sua anima mentre alza il viso al cielo
anche se c’è il soffitto a separarla, un viso fine e sano e con gli zigomi
alti, gli occhi marroni e lucidi. Alza le braccia, un completo blu e
aderente, e poi fa un salto così alto... così alto, di quelli che devono essere capriole per poi fermarsi
su un solo piede e il respiro affannato. Julia. È viva.
Non
l’ho uccisa.
«Naomi?» Ride, i capelli le coprono il volto e non può vedermi.
Ma poi se li sposta dal viso ed ecco che lei fissa gli occhi su di me.
«Ehm…» Si alza in piedi, la tuta ginnica aderisce al suo corpo come se
fosse
bagnata, lucida. E forse ancora non credo alla persona che mi è
davanti, la
Julia acrobata che con una capriola torna la Julia piccola e con la
voce
stridula che era mia amica. «Tu non sei Naomi. O Quinn. O Pippy.
O Danielle. O
Lily.» Mi guarda, ma non smette di sorridere. Poi guarda Martin.
«Tu non sei Frank.
O Joffrey. O Paul. O Isaac.» Si dondola sui talloni. «E
Kevin, il mio ragazzo,
torna dalla Florida domani. Mia madre scambia sempre la gente dai
diciassette
anni ai venticinque come miei amici.» Parla come se
quella palestra fosse la sua casa. Come avrà fatto con il
diabete? Come avrà fatto a vincere quei premi? Come ha fatto a
vivere?
Mi
sento gelare. Mi dispiace. Ho le vene di ghiaccio. Mi dispiace. Il ghiaccio si
spezza, il ghiaccio mi buca la gola.
«Non
c’è problema,» dice Martin. Solo ora mi accorgo che
mi ha seguita. «Non c’è problema, voleva…
cioè, volevamo solo farti qualche domanda.»
«Oh
mio Dio.» Alza la voce. «Sei tu il tipo dell’intervista? »
«No.» Martin si gratta la testa, io resto immobile nella convinzione più assurda
che tutto questo non stia succedendo per davvero. Eppure deve succedere. Eppure
sono stata io a volerlo. Perché devo dirglielo, e forse così potrò porre fine
alla solitudine che mi ha oppresso per tutto questo tempo.
«Julia…» riesco a dire, piano. Posso farcela, devo solo
respirare. Devo parlare. «Tu frequentavi la Starbright. La scuola dell'infanzia...»
Si
mette a braccia conserte, sembra nervosa, come se non volesse ricordare
qualcosa, come se la mia presenza la irritasse. «Non capisco cosa c'entra.»
Respira. «Ci andavo anch’io. »
«Un
bel caso. » Lascia ricadere le braccia magre sui fianchi ed io mi sorprendo di
come un movimento del genere possa essere elegante e distaccato. «Solo che è un
po’ strano parlare di quello che facevo da piccola. »
«Sono
Sarah.» Non smettere di respirare o cadrai nel buio. «Sarah Pierce.»
Julia
diventa pietra: immobile davanti a me, i suoi occhi si spalancano e le sue spalle
si irrigidiscono. Se fosse possibile, anche i suoi capelli potrebbero diventare
tanto duri da potersi spezzare. E poi scoppia in una risata che sembra l’inizio
di un pianto.
«Molto
divertente.» Si passa una mano fra i capelli, sembra un gesto meccanico ma si
morde le labbra, mentre lo fa. La bocca le trema. «Di… vertente. Kevin quanto
vi ha pagato per fare tutto questo? Idiota, idiota che non è altro. »
«Io…
»
«Bello
scherzo, davvero. Un ragazzo... tu che parte fai? E tu… con gli occhi
azzurri e i capelli… so-sono uguali...» La sua voce si fa flebile. «Bello scherzo. E dite a Kevin
che dovrà chiedermi scusa in ginocchio… tanto lo perdono.» Il suo sguardo si
perde nel vuoto. «Alla fine lo perdono sempre. »
Non
so che cosa ha pensato Martin di me, la prima volta in cui mi ha visto. Ma
spero che non veda mai quello che io sto guardando adesso, una ragazza dalla
vita che scorre nel sangue che può spezzarsi da un momento all’altro stando
ferma. Così, mentre le sue parole si diradano in accenni normali di una vita
normale in cui lei è il ritratto di una fragile felicità.
«Non
è uno scherzo. » La mia voce è ferma, e non so come questo sia possibile. «Non
so di cosa parli.»
Julia
esce a grandi passi dalla sala in cui si stava allenando, i capelli rossi e ricci ondeggiano
sulla sua schiena, la sua mano trema quando si posa sulla maniglia della porta da cui sono entrata. La stringe
così forte che la sua mano diventa di quel bianco senza sangue che fa paura
quando si guardano i morti. «Non vi voglio qui.»
«Non
ti prendo in giro,» le dico, e questa volta la mia voce è quasi un sussurro.
«Per favore, solo… »
«Via
da qui.» Ha le lacrime agli occhi, e la mano che non è
ferma sulla maniglia continua a tremarle, lei trema tutta. «Odio le bugie, odio
le prese in giro di Kevin, odio che voi che avete fatto questo. Sarah non sei
tu. Tu non sai niente.»
Mi
spinge fuori, sul portico, e Martin mi segue. Non ti lascerò, qualunque cosa
accada, lo sento mentre mi sfiora la mano con la sua. Eppure so che non ho
bisogno di lui, per parlare. Perché Julia è ancora vulnerabile, Julia non ha
mai dimenticato quel giorno di marzo, Julia è ancora in quella stanza bianca e
piena di sole dove è cominciato il dolore. Il dolore pulsa ancora nelle ossa,
nella carne, negli occhi, sulla lingua. Nelle lacrime che
stanno per cadere sulle mie guance, perché sono ancora debole. Entrambe lo
siamo.
«Il
cielo è stellato, il gorgoglio incantato. Fiumi, acque stillanti , di
gigli canuti e respiri soffusi. Tenere luci di grande calore, danno al tuo
cuore il tuo piccolo amore. Piccole stelle nel cielo dormienti,
piccoli bimbi lì sorridenti, balli, canti, disegni e monete... » La mia memoria
non è abbastanza. Dimentico. Ancora una volta. E ora che la guardo di nuovo,
sento la lacrima che mi scende sulla guancia e parla con me. Mi dispiace.Da
piccola mi dimenticavo sempre la fine di questa filastrozza e lei la
continuava per me. Lascio che muoia lungo tutto il suo percorso, come
me, come in ogni incubo,
come in ogni giorno in cui ho visto la mia luce spegnersi.
Julia sbatte gli occhi. Sembra
essersi improvvisamente svegliata, come se fosse una sonnambula che si accorge solo adesso di chi le sta davanti. Ha
gli occhi marroni e liquidi, come l’impasto di un biscotto che ha bisogno di
più burro, qualcosa di dolce e triste, incompleto. La sua bocca si dischiude
leggermente.
«Non cercarmi più. » La sua voce
sembra provenire da lontano, lontano, lontano.
«Quanto ti ha fatto male? Cosa hai
sentito? Per favore, Julia, per favore… »
«Mai più. »
«Voglio solo che finisca, voglio solo
che non accada più, voglio solo essere normale, ma come posso… »
«Mai più, » lo ripete come se fosse
un robot.
«Per favore, aiutami.»
Ma l’unica cosa che vedo è lei che
distoglie lo sguardo e chiude la porta con un tonfo. Respira. Non cadere nel
buio. Respiro. Non cado nel buio.
Ma il buio è dentro di me.
***
Ci sono delle volte in cui devi
essere forte anche se non lo sei. Perché chi è importante per te ha bisogno
della tua forza. Ed io ho cercato di darle tutto quello che avevo. Camminiamo
per le strade senza una meta predefinita, abbiamo lasciato i quartieri
residenziali alle spalle e ci avviciniamo alla periferia, la parte della città
che collega poi all’autostrada, l’esatto opposto della mia abitazione e della
sua.
Per
favore, aiutami. Sarah ne sta in silenzio, accanto a me. Per favore, aiutami. Cerca qualcosa che io non posso darle nemmeno
se scavassi all’interno di tutto me stesso.
Perché era di quello che aveva bisogno. Perché non so come è potuto succedere
tutto quello che, effettivamente, è accaduto. Non so nemmeno come faccio a non
considerare minimamente vicina la possibilità che quello che ha pietrificato
Julia al solo ricordo possa succedere anche a me. Ma non lo trovo possibile.
«Sarah vuoi che… »
«Non… »
«Ti accompagno a casa oppure… »
Lascio che la mia mano raggiunga il suo fianco, in modo da poterla sentire
attraverso la pelle. Camminiamo lenti. Le accarezzo il viso con l’altra mano e
incontro due occhi d’acqua, lacrime intrappolate nei suoi occhi azzurri.
Deglutisco, così, nella strana sensazione di non saper più come si respira.
«Oppure possiamo… »
«Non voglio andare a casa. »
«Ok. » Le sposto una ciocca di
capelli dal viso.
«Voglio stare un altro po’ con te. »
Le sorrido. Lei guarda per terra,
come per vergogna. Ma quello che forse ancora non sa, è che oggi è stata
coraggiosa: ha ripercorso quel giorno con le sue forze, con le sue parole, ha
lasciato che Julia la guardasse incredula, poi immobile nel ricordo e in quella
che mi è sembrata paura. Ma l’ha affrontato.
Volta il viso dall’altra parte.
«Solo un altro po’? »
«Fino a quando non avrai anche tu
paura di me.»
Sento qualcosa di freddo: mi
attanaglia le viscere, è qualcosa di viscido e acido. Mi fa solo desiderare di prenderle il viso fra le mani e guardarla
ancora negli occhi e... E così lo
faccio. Poso la mano sotto il suo mento e le faccio girare la testa, piano,
perché ogni volta che la tocco è strano come riesca a percepire che sia
leggera, pronta a volarmi via dalle mani.
«Io non avrò mai paura di te, Sarah
Pierce. »
Le sue labbra carnose si muovono in
quello che sembra un sorriso pieno di colpe, pesi che le impediscono di
sorridere ora che il passato è così vicino. Ma io le tocco le labbra con le dita, lascio
che il suo viso si avvicini, lascio scorrere le mani sul suo collo e poi sulla
vita, resto a respirarla così vicino alla sua bocca, come se questo fosse il
tempo che si aspetta per morire.
Il suo sguardo mi parla, affranto. Fino a quando non farò del male anche a te.
Un sussurro contro la mia bocca.
Mi sfugge un ghigno e le prendo le mani, lascio che le posi alla
mia nuca, le sue dita mi solleticano.
Mi hai
già fatto del male. Avvicino la bocca alla sua. Mi sono innamorato di te.
E come se il tempo in cui si aspetta
la morte fosse passato, le mie labbra toccano le sue.
*
*
*
*
Ciao a tutti!
Innanzitutto
vi ringrazio per come avete accolto il mio "ritorno". Siete stati
davvero meravigliosi, ed io vi ringrazio infinitamente. Siete
fantastici <3 <3 <3
Questo
capitolo - visto da me, povera mortale che scribacchia - mi piace xD
spero che piaccia anche a voi e spero, soprattutto, che piaccia alla
mia carissima amica Noemi perché questo è il mio regalo
di compleanno! <3 Tanti auguri a te, tesoro mio <3 <3 <3 E
ti auguro con tutto il cuore dei giorni bellissimi e di trovare... il
tuo James Carstairs <3 (So che lui ti piace tanto u.u )
Se avete consigli e/o perplessità, sarebbe davvero fantastico "parlarne" con voi :)
Ci
risentiamo fra due settimane :) In particolare ringrazio Mia che ha
gentilmente realizzato il bellissimo banner che avete visto all'inizio.
Se vi va di leggere un'originale urban fantasy, passate dalla sua
Underworld :)
E' incredibile come quest'immagine sia perfetta anche per questo capitolo. Grazie a tutti voi, davvero *-*
Un bacio
Ania <3
|
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Capitolo 12 *** 11. Onda anomala ***
Until 11
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
11. Onda anomala
Corri, Sarah, corri via.
Va' a casa, lì forse sarai al sicuro.
Con te lì, forse, lo saranno tutti gli altri.
Questa
è la ninnananna che mi tiene sveglia, ragazzina di quasi tredici
anni che vorrebbe solo restare sotto le coperte per tutto il giorno
solo per non vedere nessuno. Ragazzina che ha paura, ragazzina che non
parla.
Tranne oggi.
"La
capitale della Russia, te lo chiedo per l'ennesima volta... sai
rispondere?" La professoressa ha battuto il piede impaziente. La testa
riccioluta davanti a me si è mossa a fare un cenno di negazione.
Mosca.
Una volta c'erano principi e principesse, anche se li chiamavano con un altro nome.
Mosca.
"Allora?"
"Mosca." Il mio è stato un sussurro roco. Forse era solo
un sogno, forse era solo un ricordo. Ma poi il ragazzino di fronte a me
si è irrigidito e la sua voce, sicura, ha dato vita al mio sussurro.
«Grazie. Per prima.» Di
nuovo la sua voce. Appartiene al ragazzo dagli occhi così chiari che sembrano
tempera azzurra sbiadita dal tempo. Gli occhi bellissimi di un quadro
perduto.
Lo guardo. Non c'è di che. La gola fa male. Parla,
Sarah, di' qualcosa.
E' da quando Julia è andata via qualcuno
non parla con me.
«Ho sentito qualche adulto dire cose brutte, ma so che non sei cattiva.» Un
sorriso. Il sangue che mi pulsa nelle tempie, sento un leggero mal di testa,
qualcosa che forse è gratitudine. Corro via, perché
è da una vita che lo faccio e non so fare altro. Salgo sul
pullman, prendo posto, sospiro; lo guardo da lontano, alto, magro, con quel
sorriso che gli fa arcuare le sopracciglia. Una ragazza gli dà
un pugno leggero sul braccio, ha i capelli castani dai riflessi un po'
rossi, non riesco a vederle il viso ma... con
quel modo di far ondeggiare i capelli lisci, di camminare, e vorrei
essere come lei. Ma questo è già troppo. Va bene che io
sia qui. Va bene che qualcuno, nel mondo, possa pensare che non sono un
mostro.
Oggi
Me ne sto con gli occhi fissi fuori
dal finestrino, guardo il mio riflesso imbrattato dall’impazienza, mentre l’autobus
imbocca le varie strade necessarie per portarmi a scuola. Sfoglio il mio
taccuino. Ieri non ho scritto niente che valesse la pena essere ricordato. Avevo un batticuore che mi ha fatto temere di
rimanere uccisa, mentre la mia penna segnava sul foglio poche parole.
Julia è viva, subito dopo il ragazzo del bus.
Il ragazzo del cinema.
Il ragazzo che mi parla.
Il ragazzo che mi fa sorridere.
Il ragazzo che mi fa ridere.
Il bus si ferma all’improvviso ed io
sbatto le palpebre, i ragazzi cominciano ad alzarsi dai loro posti, io li seguo
e scendo la scaletta con lo zaino in spalla e il taccuino stretto fra le mani e
ripiegato su se stesso. L’immagine della pagina, però, è come se fosse ancora
qui davanti agli occhi.
Il ragazzo che non ha paura di me.
Se ne sta da solo con le mani nelle
tasche, a guardare chissà dove, con gli occhi accesi di qualcosa che non è
luce. Quando non sa che lo sto guardando, lo trovo sempre curvato in una piccola
nebbia di... tristezza, sembra. Ma non ne sono sicura.
«Martin? »
Ora mi sorride, appoggiato al muretto.
Una giacca leggera, scura, jeans e maglietta bianca, il viso illuminato dal
sole delle otto del mattino.
Il ragazzo che amo.
Mi avvicino. Sento il cuore
accelerare, infilo il
taccuino in tasca e mi fermo sul marciapiede.
«Questa giornata è stupenda, non
pensi?» chiede.
C'è una speranza che lo sia.
Alza le mani al cielo e
all’improvviso mi sembra un bambino e un uomo insieme. Mi chiedo se anche lui
non dorme la notte per quello che sento quando sono con lui. Mi chiedo se
davvero non avrà mai paura di me.
«Stupenda, già.» Ricambio il
sorriso. Non riesco a pensare a tutte le cose per cui non dovrei sorridere, non adesso, e
poi lui fa qualche passo verso di me.
«Oggi manca il professore di Diritto, sai... alla terza ora,» butto lì.
«Meglio così.»
«Perché?»
Si
passa una mano fra i capelli e fa un sospiro. «Io oggi ho la terza ora libera.» L’ombra di un sorriso.
Mi dondolo sui talloni. Lo guardo mentre
mi sorride di nuovo ed io mi chiedo quando sia diventato così bello, più di
quanto non lo fosse già. E poi mi prende la mano e mi attrae a sé, ed io prego che
sul mio viso non legga quanto sono felice di questo.
Non dico niente. Richiudo la bocca
quando mi accorgo di tenerla leggermente aperta, forse per il
bisogno d’aria.
«Tu. Sei. Bella.»
Mi mordo il labbro, mi sento
stordita. La sua risata si sente appena
appena, si mischia al suono della campanella. «Grazie... ehm, anche tu.»
«Lo so già, grazie.» E mi
sento come se tutto il resto fosse normale, e quello che mi sta accadendo
invece la cosa più stramba di sempre. Non ci avevo nemmeno mai pensato, ad avere qualcuno. Ora invece c’è lui e
non sono sicura di poter reggere, perché non è il coraggio che mi serve, per
questo. Ma la voglia di essere chi sono senza timori.
Inclina la testa, poi avvicina il
viso al mio e sento il suo respiro sulla pelle, poi fra i miei capelli. «Non mi va proprio di andare in classe.»
Trattengo aria nei polmoni. «Nemmeno a me, però...»
«Siamo in ritardo e tu odi arrivare
in ritardo. Tranquilla, andiamo lo stesso.» Si rimette lo zaino in spalla e poi sono io
cercare la sua mano, senza parlare, senza sapere davvero cosa avrei potuto
dirgli. Ma adesso va bene così.
***
«Visto
che l’argomento del PH
dovrebbe ormai essere ben consolidato, cominciamo la lezione con delle
dimostrazioni pratiche da parte vostra. Troverete dei liquidi con i
vari dati e
voi dovrete calcolarlo... perché ormai l'argomento è
consolidato, vero?» La professoressa parla, senza interruzioni.
Sono fra i primi ad alzarmi dal mio
banco. I lavori di gruppo non mi sono mai piaciuti, ma... che potrà mai essere? Guardo i visi dei ragazzi che
si alzano dai loro posti, e quello che sento è un forte desiderio di non stare
sola, di sentire altre voci, di lasciare che loro possano sentire che non ho
paura di loro.
Un ragazzo alza gli occhi su di me;
capelli neri, un sorriso largo, sembra simpatico... chissà come sarebbe se
Martin fosse qui. Ma in fondo è solo una lezione di biologia.
«Ciao. » Una ragazza mi copre la
visuale del ragazzo dal sorriso allegro. Il mio primo istinto, quello che è
più difficile controllare perché mi urla in tutti i nervi del corpo, mi dice
di indietreggiare. Ma non lo faccio.
«Hai già trovato un compagno?» mi chiede.
Scuoto la testa nella verità. «No.»
Ma poi poso di nuovo gli occhi su di lei, biondissima e fuori luogo per il viso
e il corpo che appartengono al genere che si vede sempre solo sulle riviste, e la mia voce viene fuori
chiara. «Vado a cercarne uno. »
Non mi va di stare con lei. Il
ricordo si dirada nella mia mente, è una mattina fredda, vado a scuola a piedi
e poi c’è lei. Lei che muove le labbra formare il nome di Martin.
«Io… volevo parlarti. » Mi sorpassa,
mi guarda con i suoi occhi marrone chiaro dalle ciglia nere di mascara, i jeans
stretti e la maglietta scollata, i capelli tutti da un lato. Si
siede sullo sgabello di fronte all’occorrente per l’esperimento. «Mi dispiace
per quello che ti ho detto quel giorno.» La sua voce suona dispiaciuta, come distorta da un'interferenza.
Sospiro. Vuole chiedermi scusa, sì. Mi siedo sullo sgabello accanto a
lei, cerco di ignorare quella sensazione che è solo disagio e prendo il foglio con tutti i dati del liquido.
«Non importa,» fiato.
«Pensavo che dovessi saperlo.»
A non
tutti capita di incontrare Sarah il mostro.
«Non importa, facciamo questi calcoli.»
«Conosco Martin.» La sua voce si
abbassa nel tono di un segreto, e improvvisamente è come se non sentissi più il
cuore che mi batte nel petto, ma solo un rumore di viscere che si contorcono.
«Insomma, è venuto a letto con me. »
Perdo il respiro tutto in una volta.
Si passa una ciocca di capelli dietro
l’orecchio – non può essere – attorcigliandola, schiacciandola, - non può essere non può essere non può essere
–e il mio stomaco è attorcigliato e forse qualche organo ci è caduto dentro. Mi
viene da vomitare ed io sono attorcigliata e
schiacciato, ridotto a una liquida e viscida poltiglia.
No, no, no, respira. Non può essere possibile, ti sta prendendo in giro.
Cerco
di calmarmi. Non posso farmi prendere in giro così, Yvonne sta
solo giocando. «In realtà…» Non può essere.
Si
interrompe, fa un sorriso di quelli che possono solo prendersi gioco di
me. «Lui
è un tipo che non vuole impegni. Ed anch’io. Succede
diverse volte. E poi... che ci vede in te, Martin Scott?»
Le sue labbra con quel nome ed io chiusa nella mia
incertezza, perché non so rispondere a quella domanda.
Tu non sei invisibile. Martin che mi guarda, Martin che mi prende la
mano, Martin che mi bacia. Io ti vedo, Sar.
«Non ci credo.»
«Oh, va bene, ok.» La sua risata è una
nota di derisione. «Lo scoprirai da sola, allora.» La sua bocca si dischiude leggermente. «Martin può
avere tutto quello che vuole, e lo prende.»
Ti
sta prendendo in giro. Una voce, dentro di me, si ostanta a
ripetermelo. Ma sento quella convinzione vacillare, perché non
so cosa vede Martin in me. Io sono innamorata di lui, ma non mi ha mai
detto...
«Chiediglielo. » Lo dice in modo così
tranquillo da farmi tremare come se avesse urlato. «Chiediglielo, Sarah Pierce.»
Trattengo in gola quello che mi
sembra un gemito, un colpo di tosse, un modo per far andare via tutto questo.
«Sono sicura che userà come scusa
“non stavamo ancora insieme”. Si
annoiava, tutto qua.»
Si annoiava.
Non riesco più a parlare.
Ho conosciuto Martin quando era un annoiato ragazzo di diciotto anni che uccideva il tempo ciondolando da una parte all'altra. Voglio solo scappare e
andare via e nascondermi come Yvonne fa con la sua splendida ciocca di
capelli
biondi ma io non posso. Ciondolava da una parte all'altra della sua vita, e lì ha incontrato me. Devo restare qui, io non ho paura, io non ho
paura di
me. Si stava solo annoiando. C’è qualcosa che mi fa rivoltare ancora di più
lo stomaco, ed è Yvonne che
si avvicina a me e parla a voce bassa, bassissima, ma non abbastanza
per non
farmi sentire. «Lo so che ti dispiace... ma a lui no. A lui è piaciuto.»
Mi mordo la lingua così forte che
sento il sangue che mi sporca i denti, e poi un'ondata forte e impetuosa
che è rabbia, rabbia, rabbia.
E forza.
Rabbia,
rabbia, rabbia, e
Yvonne continua a sorridere ed io sento quest’onda che si
concentra nella mia
mente ed oscura tutto. Ed Yvonne sorride. La odio. La odio perché è
più bella, più alta, e
potrebbe tranquillamente essere un suo desiderio. E forse anch’io
per lui lo sono, un desiderio, un giocattolo,
e risuonano le parole gli è piaciuto. Ed io vedo
Martin che mi bacia, Martin che mi tocca, e poi vedo Martin che la bacia,
Martin che la tocca, Martin che la spoglia, Martin che la stringe ed io non
posso non posso non posso.
Buio.
No.
Buio.
Non di nuovo, non adesso.
L’onda nera è troppo alta.
Affogherò.
Mi sta travolgendo.
Sento
i brividi che si concentrano
sulla spina dorsale. Come se stessi per svenire, la testa fa male ed
è come se qualcuno mi stesse colpendo, ma poi mi sento...
più forte. Come con Julia. Come con Hans.
Perché tu sei un mostro.
Sbatto le palpebre.
E vuoi che succeda.
No.
Ancora una volta.
Respiro.
No.
Un altro respiro.
Non sono un mostro.
Froza, forza, forza.
L’onda è scura, l’onda è alta, l’onda
vuole uccidere.
No.
Ci sono ancora brividi, li respingo.
C’è ancora l’onda, resta in equilibrio sulla riva della mia mente.
La sento rombare e schiantare e
morire… e lo fa su se stessa.
L’onda non mi prende, e così non prende nemmeno
Yvonne.
Ho un mostro, dentro di me.
Ingoio il sangue nella bocca.
Ma posso fermarlo.
L’ora passa senza che riesca a
guardarla di nuovo. La campanella suona, lei se ne va, vedo solo l’onda dei
suoi capelli che splende alla luce del sole.
***
Corro così veloce nel corridoio da
scivolare quando arrivo vicino alla porta; prendo un respiro profondo, chiudo
gli occhi, li riapro e poi continuo di nuovo a correre. Martin aveva Spagnolo,
all’ultima ora, l’aula è dall’altra parte della scuola, posso andare a casa
senza che lui mi noti.
Non prenderò il bus.
Corri, respira, corri, respira.
Voglio andare a casa. Corri. Corri, respira, corri, respira.
«Sarah? »
Il mio nome.
Mi sembra quasi che sia una brutta
parola, adesso, perché so che non potrebbe essere
nessun altro, perché non voglio vederlo eppure mi volto.
E lui non c’è. Chi mi
sta davanti ha i capelli rossi, ricci, un vestito di jeans e il viso fine,
perplesso o forse… impaurito.
Grandi occhi marroni.
«Julia.»
«Non avvicinarti, resta lì.»
Cerco di non fare rumore, con il mio
respiro. Tutti i pensieri che sono nella mia testa vorticano nella sua
direzione, e lasciano Martin in un piccolo angolo dove picchia una luce che
acceca, ma che adesso non guardo.
«Sei venuta a... cercarmi?»
«Hai detto che volevi che… ti
aiutassi. »
Guarda in alto, in basso, a destra,
ma non guarda me e fa cenno di no; mi tratta come è normale che mi tratti, addirittura con
un’esagerata gentilezza.
«Sì. » Trattengo l’impulso di fare un
passo verso di lei, forse perché le uniche volte in cui una persona mi ha dato
aiuto ha sempre fatto un passo verso di me, mentre io restavo immobile. Martin.
«Voglio… voglio che non accada più. »
«È successo altre volte? »
«Sì. »
I suoi occhi marroni e grandi sono
lucidi di paura, ma vedo anche incertezza: Julia non sa cosa fare, cosa dire.
«Julia, ascolta, quando… quel giorno,
tu che cosa… »
Apre la borsa a tracolla e
ne tira fuori una penna, blu e lucida, con una striscia dorata. «Quello che è
successo quel giorno non è stata colpa tua. »
Non riesco a trattenere la sorpresa.
Come non può essere mia, la colpa di tutto?
«Un
uomo, nel parco, mi ha chiesto di... infastidirti.
"Farti arrabbiare" ha detto e... è assurdo, lo so. »
Ride, ma non c'è nessuna allegria in tutto questo. «Mi ha
promesso… delle caramelle. Scusami, lo so, io...» Un
uomo. I suoi occhi
diventano acqua di fango. «Mi ha detto che mi avrebbe dato quelle
caramelle se
io… ma non pensavo che sarebbe finita così.» Non sento
più il sangue scorrere. Julia fa un
respiro. «Non so da cosa dipende, ma è stata anche colpa
mia… e lui mi ha lasciato questa.»
Un altro passo verso di me. Non sento
più il sangue ma faccio un passo verso di lei. Non è paura quella sul suo volto,
non più. Ma qualcosa che non ha mai dimenticato, qualcosa che non riesco a
spiegare, qualcosa che, comunque sia, la rende vicina a me.
Prendo la penna dalle sue mani.
«Ora devo andare,»
mi dice, piano.
Sfioro con le dita la J e la S dorate sulla superfice in plastica blu.
«D’accordo. Però potremmo... parlare qualche altra volta?»
«Ok... ok, Sarah.» Sembra un sorriso, il suo.
Il ricordo di un giorno di sole di tanti anni fa. E poi fa qualche passo
indietro e va via, ed io non posso fare a meno di pensare che guardare un volto
che fa parte della tua vita senza i tratti della paura è una delle cose che
possono rendere felice una persona, anche quando tutto sta cadendo a pezzi.
Mi dirigo verso l’uscita.
«Il bus è dall’altra parte, Sar. »
Mi volto.
«Martin…»
«Sì, sono Martin. » Sorride,
bellissimo. Sorride, e mi spezza il cuore perché lui può avere tutto quello che
vuole e lo prende. Vuole parlarmi, mi parla. Ogni
cosa fa parte del ciclo perfetto della sua esistenza. «Sì, sono Martin. »
«Julia è venuta a parlarmi. »
«Julia? »
Adesso è più importante.
«Mi ha detto delle cose, c'entra un uomo... un uomo che le ha dato questa penna.» Me la prende
dalle mani, tremo. Guardo per terra.
«Sarah, io devo… andare subito.»
Alzo il viso.
Lui
si è già voltato, prende l’iphone
e se lo mette vicino all’orecchio, cammina veloce mentre i miei
occhi catturano
qualcosa che è più distante. Martin cammina, ora sta
correndo, è sempre più lontano.
Yvonne Stewart vicino all’uscita del
parcheggio che se ne sta con il cellulare in mano.
Ed io dovrei essermi
già voltata. Passano i sessanta secondi più lunghi della mia vita. Dovrei andarmene, dovrei
smettere di guardare, dovrei solo... la parola che mi viene in mente è fuggire. Fuggire
come una codarda. Fuggire
Da lui
Da lei
Loro
Che si baciano
Boccheggio.
Un bacio. Due labbra. Martin. Yvonne.
Ed io vorrei solo continuare a non credere mentre lei lo abbraccia. Vorrei solo
continuare a non credere mentre Martin posa le mani sulle sue spalle.
E adesso corro via davvero. Voglio solo scappare via e non
tornare mai più. Voglio solo stare da sola. Voglio essere forte.
L’unica persona di cui ho bisogno
sono io e smetti di piangere, l’unica cosa di cui ho bisogno è la mia forza di
volontà e smetti di piangere, corro, io lo amo, corro, mi prende in giro,
corro, come può prendermi in giro quando mi guarda, come può prendermi in giro
in ogni minuto che passo con lui? È finita. Non è mai iniziato ed è troppo
tardi perché è vero. È vero ed io sono un sogno spezzato, cenere al vento,
fuoco spento. Respiro con la bocca, mi rendo conto che non sentire è la cosa
migliore che ho imparato a fare. Arrivo a casa, corro in
camera e mi lascio cadere lungo la porta. Le luci bianche di natale
lampeggiano, non le ho ancora tolte... e comincia a lampeggiare anche un altro pensiero… stasera Julia mi
racconterà tutto quello che sa. Mi aggrappo a questa speranza, questo futuro,
per cancellare l’immagine del ragazzo che amo dalle braccia di un’altra. Un'immagine che mi ha lasciato solo l’amaro di un sogno andato in frantumi.
*
*
*
*
Ciao a tutti! :)
Questo
capitolo non è dei più felici, Yvonne è arrivata a
rovinare tutto ma io non me la prenderei con lei. C'è qualcuno,
"più in alto", che controlla le vite di questi ragazzi. Julia ci
ha ripensato e ha detto a Sarah che non è stata colpa sua...
avrà altre cose da dire? Ci racconterà che cosa
effettivamente fa il potere di Sarah, che per la prima volta è
riuscita a respingerlo?
Tutto nel prossimo capitolo <3
Grazie a tutti voi per leggere e sostenermi :)
A presto
Ania <3
|
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Capitolo 13 *** 12. Pesi e ricordi ***
until 12
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
12.
Pesi e ricordi
1995
È
una canzone dei Depeche Mode, quella che
viene fuori dal juke box del locale. Qualcuno la canticchia ma, dopo
l'ennesima giornata di studio intenso, vorrei solo che tutti se ne
stessero in silenzio.
Vorrei solo, per una volta,
dimenticare quello che con il buio del cielo affiora sempre.
Lascio del soldi sul tavolo del
locale e mi alzo. Mi dirigo verso la porta d'uscita stringendomi nel cappotto, fuori farò freddo.
«Joe, vai già via?»
Mi
fermo. Sento qualcosa salirmi lungo la schiena, come le se la sua voce
fosse una mano che mi accarezza, che mi dice di restare. Mi volto.
Mi guarda con le braccia conserte sotto il seno, i capelli castano mogano che le scendono a onde sulle spalle.
«Ciao, Candy.»
«Cassie,» mi corregge con un sorriso
che mi fa diventare la gambe molli.
«Candy.»
Io la chiamo così. Lei, dal profumo di caffè dove si sente anche il sapore del latte; i suoi
occhi color nocciola mi scrutano.
«Stasera
finisco prima, quindi alle dieci mi puoi aspettare.» Mi riserva
un sorriso. C'è il sole, qui dentro, ed io mi chiedo come faccia
ad essere così solare, così viva.
Ma io non sono abbastanza solare, non
sono abbastanza vivo.
«Stasera non posso.»
«Che cosa c’è? » La sua voce è
sottile. «C’è qualcosa che non va? »
«Lascia perdere… »
«Io… »
«Ci vediamo, Candy.»
Spingo
la porta a vetro e mi ritrovo
fuori, colpito dal freddo glaciale che fa parte della mia vita da
quando sono
qui, sconfinato, imprigionato, isolato, solo
per sempre e non perché sono lontano da quella che dovrebbe
essere la mia casa. E' così dappertutto. Nessuno mi ha mai
capito, nessuno ci riuscirà. Nessuno vorrà mai
ascoltarmi. E Cassie...
«Joe,
» mi chiama, scorgo
preoccupazione nella sua voce e anche se non voglio far altro che
andare via,
mi volto e la guardo e vorrei solo che tutto il resto scomparisse,
vorrei
scomparire io per non fare quello che faccio ogni giorno, da quando
c’è lei. Perché lei non merita quello che potrei
farle se sapesse.
Non merita quello che le sto facendo, anche se non lo sa. Non lo sa, ma
io le strappo via la felicità in quel modo che lei crede sia
l’unico per
essere
felici insieme.
I capelli castani, lunghi, gli occhi grandi, nocciola
liquida, il viso dai tratti decisi, imperlati di malinconia.
Lei è la mia Cassidy Grace.
«Joe, io ti amo.» Me lo dice con lo
straccio stretto al petto, il grembiule rosa della caffetteria addosso sporco
di salsa, il viso sciupato dalle spiegazioni che non le ho mai dato.
Prendo le sue parole nel cuore che
sento di non avere. Che non vorrei avere più.
Oggi.
Sono passati così tanti anni. Lascio
cadere la forchetta nel piatto con la salsa e mi lascio andare sulla sedia.
«Hai finito, Joe? »
«Sì, angioletto.» Mi prende il
piatto che sta davanti a me e la odio, la odio per quel tutto che ho biascicato
a Cassidy in quella sera fredda di novembre. Yvonne si volta e mette i piatti
nel lavandino, e mi chiedo perché la fortuna sta sempre dalla parte sbagliata.
Mi chiedo perché i ricordi tornano se non mi appartengono più. «Quindi hai
fatto quello che ti ho chiesto. »
«Oh
sì, Joe.» La sua voce ha quel
tono alto e raro dei suoi sorrisi. «Ho fatto del mio meglio. Sono
andata da Sarah, le ho detto tutto e poi al momento giusto mi sono
avvicinata a Martin. Lui mi ha respinto, ma Sarah aveva già visto. E
poi lei è un tipo... mhm...»
«Non ti interrompere.»
«Ehm… silenzioso, » aggiunge,
nervosa. «Silenzioso. »
«Non credi che possa fare scenate? »
«Credo che cercherà di evitarlo.»
Bevo un altro sorso di vino.
«Sempre che lui non insista,»
continua Yvonne.
Oh, lo farà. Il bicchiere mi scivola
di mano e va in frantumi sul pavimento, Yvonne sussulta e si volta di scatto,
con gli occhi gonfi di notte passate a studiare per prendere una cazzo di voto
buono e non essere rimandata. Mi alzo, lei resta immobile, ghiacciata in quello
che non so che farò.
Cammino sui vetri, sento lo
scricchiolio sotto le scarpe, la sensazione di poter nel poter fare questo a
chi dovrà pagare.
Sarah non è mai stata in pericolo.
Martin è in pericolo da quando è nato.
***
Poso le mani sulle sua spalle – pelle
e tessuto sottile, odore già conosciuto – e la spingo via, mi pulisco la bocca
e sputo per terra.
Mi ha baciato, ecco cosa ha fatto.
«Ma che cazzo?!» Mi ha baciato. Una
volta nella mia mente il suo nome era Ivy, adesso so come si chiama: Yvonne.
Deglutisco. Sarah… Sudo freddo,
Sarah, mi volto. Lei è già lontana, sta correndo via e mi sento il sangue denso
nella lenta incertezza che mi attanaglia la gola.
«Perché fai così? » La voce
di Yvonne è come la ricordavo: alta, sottile. «L’altra volta non hai reagito in questo modo.»
Alzo le braccia a toccarmi la nuca.
«Pensavi
che me ne fossi dimenticata, eh, Scott?» Batte gli stivali
sull'asfalto, scuote la testa e se ne va con quel modo di camminare in
cui i capelli le ondeggiano.
Non riesco più a pensare alla cosa senza senso che è appena successa. Stringo la penna fra le mani e il
cuore mi batte ancora più veloce.
Corro a casa. Sento lo stomaco che si
ribalta, mi fa salire il pranzo, sento l’acido nella gola, le cose in cui non
voglio credere.
JS. Non ci credo. JS. Non ci credo.
Quell’uomo ha voluto che
quel giorno Sarah facesse del male a Julia.
JS.
Mio padre.
Arrivo a casa, mi apre Doreen; so che
è lei, ma non la guardo nemmeno.
«Martin stai bene? »
No.
«Dov’è? »
«Chi? »
Quell’uomo.
Non riesco a parlare.
JS.
«Papà. » Deglutisco. «Non mi avevi
detto che tornava oggi? »
Doreen
avvicina a me, sull'uscio della porta di una casa che non ho mai
sentito mia, una cosa in cui potrei ancora perdermi fra i lunghi
corridoi, una casa in cui forse non riuscirò più nemmeno
a dormire... a meno che non ci sia Doreen a canticchiare
mentre fa le pulizie.
«Io penso che tu abbia la febbre.» Doreen posa una mano sulla mia fronte, mi accorgo di
essere sudato al suo tocco freddo di detersivi, viso
preoccupato, riccioli alzati. A meno che non ci sia Sarah. Sarah, e solo lei e la sua vita è una scartoffia
di cose non dette, non sentite, non avute per colpa sua. JS.
«Martin, che cosa…
»
«Doreen, dov’è? »
«È tornato stamani, ma adesso è in
ufficio. Ha molto lavoro arretrato… »
Perché è andato via? Per cosa?
C’entra Sarah?
Ovviamente sì.
«Martin, non ti senti bene… che cosa
ti è successo? »
Scuoto la testa.
Mio padre. Mio padre ha rovinato la vita alla ragazza che amo.
«Niente. »
Mio padre conserva dei documenti su
Sarah. Mio padre si chiama Joseph Scott. Mio padre ha una penna con la sigla del
suo nome. E non posso, non posso fidarmi di lui.
Doreen mi guarda con quegli occhi
scuri che sono la mia radiografia personale.
«Niente, sul serio. »
«Riguarda i colloqui con i
professori, per caso? »
Me ne sono anche dimenticato.
«Ehm… Ah, già. » Doreen... Vorrei tanto
che fossero i colloqui. Vorrei tanto essere preoccupato per quella F che ho
preso perché con Cameron non studio mai. «Giusto.» Vorrei
aver incontrato Sarah
a una festa di quelle che fanno d’estate, in cui non ti ricordi
che giorno è
dormi fino a tardi la mattina dopo, le ragazze ridono con le gonne
corte e un
bicchiere di coca in mano. Vorrei aver dovuto fare il deficiente per
farmi guardare, senza doverla salvare dal guscio di se stessa. «Ci vai tu, 'Reen? »
«E chi altro dovrebbe andare, sai che tuo padre è sempre impegnato e poi… »
E poi quel giorno ho visto la sua
foto e ho sentito che dovevo conoscerla. Non conosco mio padre, almeno conosco lei. E l’ho
guardata con la paura negli occhi suoi, azzurri e bellissimi, in un giorno
settimanale, grigio di scuola, noioso e nuvoloso.
«Ti do un bicchiere di spremuta,
quella fa sempre bene. »
***
Doreen ha appena chiuso la porta; si
è messa addosso dei jeans non male insieme ad un’altra maglietta non male e si
è sistemata i capelli in un modo non male.
Mi chiede sempre come sta quando deve incontrare i professori, come se
dovesse andare ad un appuntamento. L’unica cosa che vorrei
è che diano
per scontato che sia davvero mia madre. Solo che poi a un certo punto
la
chiamano “Signora Scott” e lei fa “No, non sono sua
madre. Sono…” L’unica
persona a cui importa di lui, a parte qualche altra mosca bianca. E poi finisce
che anche i professori sanno che in questa casa sono solo per la maggior parte
delle volte.
Apro il cassetto della cucina così
forte che mi cade sulle gambe; lo afferro, in modo da non far scivolare le
chiavi, lo rimetto a posto e mi metto a cercare. Questa non è, questa non è,
questa non è. Troppo,
grande, troppo piccola. Avrà messo una serratura
speciale per quella porta? Forse devo aspettarmi di tutto. Da un
estraneo, perché mio padre non è altro che questo,
è
quello che normalmente si fa. Aspettarsi qualunque cosa.
Alla fine le provo tutte.
Questa no.
Questa nemmeno.
E nemmeno questa.
E questa.
Questa.
Cazzo, dai.
E questa.
E questa.
E questa.
Non ce la faccio.
Cazzo, deve essere questa.
Questa.
La porta si apre. Le domande si
oscurano per un istante in un migliaio di lettere dell'alfabeto che si infrangono nel mio cervello,
mentre sento il legno della porta cigolare, guardo il buio della stanza e, affannato come
se non avessi più fiato, resto fermo sulla soglia.
Poi accendo la luce.
Odio tutto questo.
Faccio un passo avanti.
Non può essere la mia casa.
Un altro passo.
Non può essere il posto in cui vivo.
Mi avvicino alla scrivania in legno
scuro di questa camera ordinata in modo quasi maniacale, sposto i vari fogli
che mi trovo davanti e trovo subito il documento con la sua foto. Che altro ci
sarà, qui dentro? In questi cassetti, in questi altri fogli, fra i libri, e nel
suo ufficio… So
che è stato lui. E per questo non devo chiedergli niente, non devo farne
nemmeno una parola. Se parlassi… non voglio nemmeno immaginarlo. Chissà che cosa
potrebbe fare per mettere fuori il figlio diciottenne... Chiamare Sarah e
obbligarla a usare quello che sa fare su di me? Ne sarebbe capace, anche se lei
non lo farebbe. Lei non lo farebbe.
Faccio
qualche fotocopia, ho lo strano presentimento che possa tornare da un
momento all'altro; prendo quelli originali e li metto dove li ho
trovati, poi prendo le
fotocopie e le sistemo fra le pagine del libro di Chimica.
Respiro. Sì, devo solo respirare,
calmarmi. Non posso raccontare niente a nessuno. Niente a Cameron. Niente a
Doreen. Sarah ha fin troppi pesi.
Devo affidare tutto a me stesso.
*
*
*
*
Ciao
a tutti :) Questo è un capitolo di passaggio per la storia ma
comunque indispensabile. D'ora in poi troveremo molto più spesso
delle parti dal punto di vista di Joe, le trovo davvero indispensabili
per capire il suo personaggio come io l'ho inteso :) Prima di tutto,
ringrazio voi che recensite e mi leggete sempre, e sono davvero felice
per il fatto che continuano ad aumentare le persone che inseriscono
la storia fra le seguite e le preferite <3 Grazie mille, davvero! *-*
Al prossimo capitolo e grazie di cuore.
Un bacio
Ania :)
|
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Capitolo 14 *** 13. Angeli e Giudici ***
until 13
13.
Angeli e Giudici
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
1996
La vita si
distorce, vi accadono cose che ne cambiano la forma, il colore. Il mio è un
abisso nero, anche in questo ricordo, un abisso che può portarmi solo verso
l'alto, dove nessuno è mai arrivato. Dove potrò arrivare io. Nella mia mente
una voce grida dei nomi. Cassie...
un nome. Ma non significa niente per me. Non ricordo nemmeno più se un tempo
aveva un qualche significato. Cassie...
pensa a lei. Non mi ricordo
chi è. E non ha più importanza.
«Dovrai
uccidere me se vuoi uccidere lui. » La sua voce è polvere che scende sulla
morte.
Cadaveri
dei servizi segreti giacciono a terra inermi, circondano le uniche persone vive
rimaste, l’unica persona che resterà in vita. Sono diventato bravo anche con la
pistola, così come lo sono stato ad entrare nei computer che manovravano i loro
spostamenti, così come lo sono diventato ad intercettare le telefonate, a
mettere le telecamere. Ho orecchie ed occhi avunque. Posso sentire e posso
vedere.
Mi guarda
con quei suoi occhi azzurri del cielo quando è inverno.
Mi guarda e
trema.
«Angioletto,
spostati,» la incito.
È diversa,
non è più una bambina. Non ho mai avuto il tempo di amarla ed ora è troppo
tardi. È troppo tardi,
lasciala andare, lasciala andare…
Ma è troppo
tardi anche per questo.
«Tesoro…
ascoltalo.» Si chiama Nathan, l’uomo dietro di lei. Capelli castani chiari con
i riflessi biondi, occhi marroni, voce rassicurante. Le accarezza i capelli e
lei continua a tremare, l’uomo sta piangendo. Morirà, lo sa. «Tesoro… la
bambina… ti prego, la bambina… valla a prendere, ti prego...» Le pupille di lei
si dilatano, i suoi occhi sembrano ancora più grandi, i capelli scuri e lisci
appiccicati al viso dalle lacrime. Si allontana.
Posso
sentire e posso vedere tutto.
E ho già
visto lei che va via e si avvicina alla macchina e prende in braccio sua figlia
e la stringe al petto. Ho già visto lei che accettava di salvarsi.
L’ho visto
nella mia mente.
Ed è così
che sparo.
E lei è
voltata e sono sicura che sta correndo via, sono sicuro che ha accettato di
salvarsi ma lei no. Lei è ancora lì, di fronte a lui, fra le sue braccia, a
dirgli addio, ad abbracciarlo.
Ed io ho
già sparato.
Urlo.
Ho già
sparato e lei cade sulle sue gambe e lui grida.
«No!»
Non doveva
morire.
Ho già
sparato e lei cade sulle gambe e lui grida e lei lo guarda.
Non doveva
morire.
Lei chiude
gli occhi.
E allora
sparo ancora, sparo ancora perché l’ho persa per la seconda volta, perché
doveva essere mia, perché dovevo amarla. E quest'uomo ha la colpa di averla
avuta, di averla amata al mio posto. Sono morti tutti.
Ma poi
sento un pianto... un pianto graffiante, inumano, di dolore. La gola di un
bambino così piccolo non può sopportare così tanto... non può essere così
forte. Mi avvicino alla macchina ed apro la portiera. La bambina ha corti
capelli castani, occhi azzurri come i suoi... un paio di mesi, nulla di più.
Non c'è nessuno che può salvarla da me. E adesso lei è mia.
*
Il silenzio ha riempito la mia giornata
completamente. Il pensiero di quello che Julia può dirmi ha assorbito tutti i
pensieri, ha annebbiato perfino quelli più importanti, quelli che mi hanno
fatto male. Non ho pensato ad altro che a quel giorno di sole di tanti anni fa
in cui tutto è cominciato, ed ho bisogno di sapere come è successo, chi è stato
a volerlo. Raggiungo la via della casa di Julia, assottiglio gli occhi e la
vedo, davanti a casa sua, vicino ad una moto… i suoi capelli rossi spiccano su
qualunque cosa, come quando era piccola. Continuo a camminare e vedo che non è
sola: con lei c’è un ragazzo dai capelli così corti e castani, chiaro di pelle
e alto, da lontano sembra anche lontanamente… carino. Indossa una maglietta
grigia, grigia come le
pagliuzze nei suoi occhi nel verde delle iridi, mi mordo la lingua, perché
penso a Martin adesso? Non è il momento. Non arriverà mai più un momento per
questo.
«Ma ne sei sicura? » chiede il ragazzo.
«Sì, Kevin, ho un sacco di compiti. »
«Ma se vuoi posso aiutarti… » Le bacia il collo e
sale sull’orecchio, volto la testa.
«No, Kevin… è arrivata la mia amica. Ci vediamo domani. »
Qualcosa – una milionesima parte dei pensieri del
mio cervello – mi fa pensare che si stia riferendo a me, e allora torno a
guardarla. Dà un bacio a quel ragazzo, con gli occhi chiusi e chissà se qualcuno mi ha visto,
trattengo il respiro, chissà
se qualcuno mi ha visto baciare Martin e innamorarmi di lui.
Il ragazzo si mette il casco e mette in moto,
Julia fa qualche passo verso di me ed io, decisa a cancellare tutto quello che
possa distrarmi da quello che devo sapere, mi dirigo verso di lei.
«Ciao, » le dico, e lei resta a distanza di
sicurezza come se davvero potesse servire a qualcosa. Sotto il mento ha una
cicatrice a forma di mezza luna, non è mai andata via e se l’è fatta al parco
uno dei primi giorni d'asilo. Mi ha chiesto di tenrle la mano mentre le
disinfettavano la ferita, ora ridotta a un piccolo segno bianco, eppure dodici
anni fa …tienimi la mano, Sarah. Mi
ha guardato con i suoi occhi grandi. Così
non ho paura.
«Ciao, » mi risponde, ed è tesa come stamattina.
«Andiamo dentro, è… meglio. »
«D’accordo. »
La sua casa è un ambiente dai colori tenui, beige
e bianco, cornici argentate. Mi fa salire le scale e ci ritroviamo davanti a
una porta bianca, la apre. «Non c’è nessuno in casa. » Entra nella stanza, i
capelli lunghi e rossi dalla sfumatura più chiara sulle punte appena accende la
luce.
«Cosa hai raccontato a tua madre di… quella
volta? »
«Non si è accorta di niente. » Si volta di nuovo
e stringe nelle spalle, si liscia la gonna a pieghe azzurra. «Le ho detto che
voi due siete miei amici. »
Siete.
«Penso che… »
«Entra, » mi dice, all’improvviso i suoi occhi
sono lo sfondo scuro di una luce che potrebbe anche sembrare entusiasmo. È la
stessa luce con cui tante volte mi ha detto gioca con me. «Non stare lì. »
Ma mi spiazza con quello che dice. Mi sembra
quasi di essere invitata nella sua vita, nella sua stanza, quando quel venerdì
sera, in palestra, sono entrata nel suo spazio senza permesso. Come quando
all’asilo prendi la barbie di un’altra bambina, lei si arrabbia, e la volta
dopo ti chiede se anche tu vuoi pettinarle i capelli.
Entro. Mi aspetto che il parquet faccia rumore
quando ci poggio il piede sopra, che un allarme cominci a suonare e a mandare
luci rosse, che una voce robotica dica questo
non è il tuo posto, vattene via. Ma
non succede. Mi ritrovo a guardare la sua stanza: letto dalle coperte bianche
perlate, muri arancioni, armadio immenso con poster di vari cantanti che ho
visto in televisione… ed improvviso sento un calore al cuore. Lei ha vissuto,
lei ce l’ha fatta. Non si è nascosta, è tornata al mondo. C’è una foto, sul
comodino, con il ragazzo che ho visto poco fa… Julia è sorridente, felice. E lo
sono anch’io. Lo sono anch’io perché lei è rimasta se stessa.
«Lui è Kevin? » le chiedo. Stupida, cosa c’entra? Ma è la sua vita, è quello che io non
potrò mai avere. E poi mi tora in mente un ricordo, qualcosa di amaro, di
triste… Kevin quanto vi ha pagato per fare tutto questo? Idiota, idiota
che non è altro.
«Sì, ma…
devo dirti come sono andate le cose. »
La guardo e
sento che lo stomaco mi si attorciglia. E poi parlo io, parlo perché devo
sapere, perché non posso nascondermi, perché devo andare fino in fondo e ce la
farò da sola. Non ho bisogno di nessuno.
«Com’è
stato? » le chiedo.
E ci
guardiamo negli occhi e la vedo distogliere lo sguardo. Niente tornerà mai come
prima. Io non potrò mai dimenticare, e lei neppure perché…
«È stato
atroce.»
È un colpo,
questo: un pugno invisibile, ma d’acciaio, mi prende la bocca, mi fa sentire il
liquido del sangue che viene fuori solo dalla parte sconosciuta di me stessa, e
non importa il fatto che io non riesca a comprenderla, appartiene a me.
«Sono stata
in coma per tre giorni, » continua. Sospira. «Poi
mi sono svegliata e dopo una settimana sono finite le convulsioni. »
No. Lo
stomaco è un ammasso di oggetti appuntiti di metallo che non fanno altro che
squartare, squartare, squartare, sono mostri senza pietà, come te. Sospiro. Come te.
«Ti
ricordi... qualcos'altro? » Il mio è un filo di voce.
«Volevo
morire.» Julia stringe l'orlo del
suo vestito nella morsa bianca delle sue nocche strette. «Quando sono caduta a terra e ho perso
i sensi... Non è stato solo dolore. Io ho sentito me stessa. Ho visto me
stessa. Tutta la mia vita... tutte le cose sbagliate che avevo fatto. Le cose
sbagliate per cui io stessa, guardandole, pensavo che non meritavo di tornare
indietro. Le cose per cui mi sgridava mia madre. Le cose per cui la maestra mi
metteva in punizione. La voglia di mangiare dolci e il continuo disubbidere...
Io stavo morendo, Sarah, ma non perché lo volevi tu.» Si lecca le labbra, io temo anche solo
di respirare, temo che tutto questo possa accadere ancora. «Ero io a
volerlo.»
«Come?» le chiedo. Sei ancora qui, Julia. Sei tornata
indietro.
«Qualcosa
mi ha dato forza. Guardavo tutto come se fossi un angelo sospeso nel cielo,
dall'alto, ed ero il giudice
della mia vita. Sì, non
poteva essere altro perché, anche se soffrivo, sapevo che avrei fatto solo la
scelta giusta, anche se significava non svegliarmi più. Ma io ho sentito
qualcosa ed era... La speranza di poter essere migliore. Di chiedere scusa. Di
rimediare. E... di vivere.» Sorride
fra sé. «Sapevo che non avrei più lasciato i colori sul tavolo dopo
aver colorato e non avrei più infastidito mio fratello maggiore e non avrei più
parlato con un estraneo. E quando ho aperto gli occhi... mi hanno detto solo
che ero al sicuro. Ed ero felice, perché ce l'avevo fatta. Perché sapevo che mi
sarei comportata da brava bambina. Ma tu non c'eri più.»
Devo
respirare. Non eri tu a
volerlo, Sarah. Non devo
smettere di respirare. Ma io
ho innescato il meccanismo. Io
sono forte, io so che posso esserlo. Io ho fatto qualcosa che permettessa a
Julia di decidere se era degna della sua vita. Mi fa male la testa. Ed era solo
una bambina...
«Mi
dispiace. » Non riesco a trattenermi. Perché non so controllarlo? Perché io
sono capace di questo? Che cosa c'è nel mio sangue, nella mia testa, nel mio
cuore... che sia sbagliato? «Non ne avevo il diritto e non avrei mai voluto,
Julia. Non capisco niente, Non so come ho fatto. Non so come è successo. Sono
solo felice che… » Alzo il viso e la vedo, ma mi sembra distante di chilometri
ed è normale che lo sia, è normale. «… che tu non sia rimasta sola. »
Adesso è
lei a sospirare. I suoi occhi sono lucidi. Non voglio sapere come sono i miei.
«Non ho il
diritto di farlo e non voglio farlo.» Mi sento ronzare le orecchie. Ronzio,
ronzio, ronzio, come se ci fossero milioni di zanzare che mi pungono la pelle e
ronzano, ronzano, Sarah, Sarah, Sarah… Faccio un respiro profondo e sento il
ronzio che si ferma.
«Quell’uomo
era alto. Sembrava… sulla trentina. Capelli neri, pelle chiara, naso sottile,
occhi neri. Io… » Julia si avvicina a me e per la prima volta non prende più in
considerazione la distanza di sicurezza. «Anch’io voglio sapere. E poi… »
Pausa. «Io so che non volevi. Ho cominciato io e... non dipendeva solo da te.
Quell'uomo ha fatto qualcosa.»
Mi scappa
un sorriso e spero di non sembrare isterica. Io
so che non volevi. È la prima
volta che sento queste parole e sembrano così dolci, come quando un bambino
corre e alza le mani, è felice, e balla e per sbaglio fa cadere un vaso di
valore. Io so che non volevi. Vorrei solo sprofondare. Vorrei solo non averlo
mai fatto, anche se non volevo.
«Hai detto
che è successo altre volte» mi dice.
«Sì. » Odio
la mia risposta. «Un'altra persona e un animale. »
«Perché?
Ricordi qualcosa che… può accumunare le cose? »
La guardo
fisso, ricaccio indietro le lacrime e penso, penso, vado affondo nei ricordi,
nelle immagini, nelle sensazioni. Con Julia c’era… rabbia, delusione, e anche
la seconda volta, rabbia, delusione. E l’ultima volta c’era… la paura.
«Rabbia e
paura, » sussurro.
«Qualche
meccanismo, qualcosa che c’è… in te, deve essersi svegliato… attivato. »
«Se è
attivo, deve esserci un modo per… disattivarlo. »
«Penso che
sia così. »
Sorride.
Non ci
credo.
Non ci
credo perché mi sto avvicinando alla verità e lei mi sta sorridendo e mi
sembra, anche solo per un attimo fra tutti gli attimi di cui è composto il
tempo dell’universo, di avere qualcuno. Per un attimo fra tutti gli attimi di
cui è composto l’universo, Julia è ancora la bambina che mi è stata amica in un
giorno di sole di tanti anni fa.
*
Arrivo a
scuola che sono ancora assonnato e spero che la gente che mi guarda ogni giorno
non ci faccia caso. Non ho dormito, non ho dormito perché non sono sicuro che
nasconderle tutto a Sarah sia giusto. Per quanto tempo potrei farlo? Ieri mi
sembrava tutto più semplice... ma passare una notte insonne con la testa
immersa in questi pensieri è stato diverso.
Lo è stato
quando, al rumore delle chiavi di casa, ho trattenuto il respiro perché sapevo
che si trattava di mio padre. Joseph Scott. JS.
Io devo
dirglielo.
Non so come
potrebbe reagire, ma lei deve solo… fidarsi di me.
Fidarsi di
me, Martin Scott.
Se questa
cosa l’avessi pensata qualche mese fa mi sarei dato della testa di cazzo da
solo, ma adesso le cose sono diverse. Non sono le persone a cambiare, con il
tempo vengono fuori cose di te che nemmeno conoscevi e, strano a dirsi, diventi
grande. E forse tutto questo doveva succedere. Doveva succedere che io trovassi
quei documenti e mi accorgessi di lei, invisibile nella vita di tutti, con il
suo nome registrato sul web.
Quando la
vedo il cuore si ferma e accelera nello stesso momento. Bellissima anche con la
tuta, e i capelli alzati, e quegli occhi grandi e del colore del cielo
contornato da nuvole bianche, e dio mio sono davvero una testa di cazzo. Mi
avvicino a lei.
«Ciao, Sar.
»
Menomale
che sei qui. Sento che andrà tutto bene. Menomale
che ti ho trovata.
Mi aspetto
una sorriso, e con una lentezza esasperante alza il viso verso il mio e mi
inchioda con i suoi occhi chiari. E non smette di guardarmi e, in questo
preciso momento, non riesco a parlare perché con il sguardo fa qualcosa di
incredibile: mi trapassa e lascia una strana sensazione di dolore.
Non sorride.
«Ce l’hai
ancora la… penna che ti ho dato ieri? Mi serve. »
Mi sento
bruciare i polmoni. «Sì, certo. » E
ora diglielo. Apro lo zaino e
la trovo sotto il libro di Biologia, gliela porgo ed è come se… fosse attenta a
non toccarmi. Ora diglielo.
«Sarah… »
«Grazie per
la penna. »
Si volta e
se ne va.
E io resto
qui.
L’aria nei
polmoni continua a bruciare in un fuoco di inesattezza, incertezza, qualcosa
non quadra, i tasselli non sono al posto giusto. Io e Sarah non lo siamo. La
seguo.
«Sarah,
ehi!» La raggiungo, sono veloce, le tocco la spalla per voltarla verso di me e
e mi guarda… sento il giacchio nei suoi occhi, brina, qualcosa di
impenetrabile. «È successo qualcosa? »
Un altro
respiro. Perché mi sento così a disagio? Lei è Sarah, io sono Martin, lei mi
vuole, io la voglio. Cos’altro deve esserci a complicare le cose?
Le sue
labbra si muovono in quella che sembra un’espressione infastidita. Lei è Sarah,
io sono Martin, lei è importante per me, io sono importante per lei…
«Niente. »
Non c’è gioia, nel suo sorriso. Non c’è niente di quello che ci ho visto la
prima volta. Perché dovrebbe mentire, però? Per quale motivo dovrebbe cercare
di nascondermi qualcosa?
Le tocco il
viso, lento allungarsi di dita verso la sua pelle e la solita ciocca castana
che le sfiora lo zigomo. Sento al tatto un sussulto di calore che sembra
fermarsi nello stesso momento in cui le mia dita toccano la sua pelle. Gli
occhi scendono a guardarle le labbra. Io la voglio, merda. E voglio entrare
nella sua testa e in ogni parte di lei, oscurare e cancellare per sempre quello
che ha reso il suo sorriso un’imitazione di tanti altri. «Tu puoi dirmi
qualunque cosa, lo sai? »
Non mi
guarda.
Sbuffo.
«Che ti
passa per la testa, Sar? »
Alza gli
occhi. Fa un sospiro. Sento il filo che sembra tenere aperti gli occhi contro
la sua volontà, come se la cosa che desiderasse fare di più al mondo fosse non
guardarmi mai più. «Io ho bisogno di stare sola per un po’.» Fa per andarsene,
le nostre mani si sfiorano, sento un vibrazione così forte che mi sento
percosso.
«Da sola? »
«Sì, senza
di te. » Percosso di nuovo, anche se non capisco, anche se voglio che parli e
non parli più al tempo stesso, anche se non so cosa fare, cosa dire.
«In che
senso? »
«Oddio,
quanti sensi conosci, Martin? » La sua voce si alza, scocciata, distante come
non l’ho mai vista. La sua voce si alza e, così come si alza, si abbassa; Sarah
si guarda intorno, mi sudano le mani e continuo a non capire. «Stammi alla larga. »
Deglutisco.
«Ma Sarah….
»
Le labbra
le tremano. Ci sono lacrime, sulle sue ciglia, e lei vi avvicina una mano e
nemmeno una cade sul suo volto. «Non devi più parlarmi, più toccarmi, più
baciarmi, più starmi vicino,» dice.
«Spiegami
perché! Che cosa c’è? Che cosa ho fatto? » La mia voce risuona nel
chiacchiericcio del cortile della scuola, qualcuno si volta, qualcuno mi
guarda, tutti mi guardano e guardano Sarah ed ecco di nuovo la sua protezione,
quello sguardo che si spegne a poco a poco per difendersi da questo mondo che
odio. Questo mondo è la mia casa e lei non vuole che le parli e che le stia
vicino...
«Io devo
andare… »
«No, Sarah.
Tu resti e mi spieghi che cosa ho fatto perché… » La mia voce si abbassa, è un
palazzo che crolla, una lattina che viene schiacciata in un sibilo strozzato.
«Devi parlarmi, ok? »
«Non
davanti a tutti. »
«Ora. »
«Per
favore… »
«Non ce la
fai a dirmelo in due parole? »
«Ti stanno
guardando tutti, ci stanno tutti guardando, Martin… »
Ma non
riesco a fermarmi. Non riesco a fermare l’immagine di lei che se ne va e non
guarda più indietro in una strada asfaltata che io non posso percorrere. «Parlami.»
Ed ecco di
nuovo i suoi occhi. I suoi occhi mi uccidono. Mi uccidono mentre non parla, nel
silenzio che si infittisce come nebbia, nel giorno nuvoloso che non ha nemmeno
il nostro sole, in quello che vorrei sapere per dirle che andrà tutto bene.
«So che sei
andato a letto con Yvonne.» Fa un respiro mentre io perdo il mio. «Vi ho visti
ieri mentre vi baciavate.»
«È stata
lei a baciarmi! » La verità,
Sarah, ascoltala. «E quella
volta è successo quando… nemmeno ti conoscevo! »
«Se ti ha
baciato lei perché non me l'hai detto? Non pensavi che chiunque altro avrebbe
potuto vedervi e parlarne e non pensavi che l'avrei comunque saputo? Come
faccio a crederti?»
Mi sento
sudare freddo. Distoglie lo sguardo, le metto una mano sotto il mento, guardami, guardami, Sarah. E i suoi occhi mi uccidono.
Davvero sta
finendo tutto per questo? «Non ci credo,» riesco a sospirare.
«Non ci
credevo nemmeno io. Credevo che tu ti fossi interessato a me senza sapere
niente di quello che tante persone sanno…»
«Che cosa è
cambiato? »
«Tutto! »
«Niente! »
Nella sua
voce rotta, ostenta una sicurezza che mi ferisce come un pugno dritto sul naso.
«Mi hai solo preso in giro.»
Rosso,
rabbia. Ti ho preso in giro,
eh? Nero, freddo. Sì, Sarah. Nero rosso, nero
rosso, nero rosso, come le luci intermittenti della playstation, una lotta fra
bambini, ti ho preso in giro,
uno stupido gioco. La mia stupida vita prima di incontrarla e rovinarla ancora
e sempre e di nuovo.
«Sì, Sarah,
ti ho preso in giro. Non è vero che non sapevo niente. Sapevo che eri un
mostro. Sapevo che eri un soggetto pericoloso. »
No.
È come
precipitare.
Sarah.
È come
toccare il fondo con uno schianto.
In un solo
istante la terra trema, io tremo, le vene si attorcigliano e la testa mi gira e
lei è tutto quello che non posso avere mai più. Quando la terra smette di
tremare e il mio corpo torna a sentirsi come quello di sempre, le sue lacrime
sono già scivolate sulla sua pelle. E se ne va e spero che porti via con sé la
persona che sono diventato insieme a lei.
*
*
*
*
Ciao a
tutti! :) Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Come vi avevo detto nello
scorso capitolo, anche qui abbiamo trovato un altro punto divista di Joe, Sarah
e Julia hanno parlato e anche Sarah e Martin... Mi scuso per non aver risposto
a tutte le recensioni, è stata una settimana molto piena questa ma prometto che
arriverò presto. Mi avete scritto delle cose meravigliose ed io sono
fortunatissima ad avere voi che mi leggete, siete fantastici *-*
Al prossimo
capitolo e grazie di tutto
Ania <3
|
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Capitolo 15 *** 14. Grigio e Ombre ***
until 14
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
14.
Grigio e ombre
Mi piaceva uscire di notte.
Avevo
tredici anni, all'epoca, e quell'abitudine non era mai andata via.
Tempo prima scappavo quasi sentissi, nel buio, incombere su di me le
minacce peggiori. Le minacce peggiori c'erano anche di giorno – botte, castighi, brutte parole – ma tornavo per mangiare. Il cibo era l'unica cosa che potesse darmi quell'istituto.
C'era
il silenzio dei morti; niente macchine, niente voci... vicino alla
campagna non potevo aspettarmi niente di diverso e, improvvisamente, mi
tornarono in mente le parole del vecchio. Non dovrai più fuggire, Joe, ora hai una casa.
Ma ero ancora all'inizio, e l'abitudine era qualcosa di ancora
più duro della cattiveria, per cambiare. Quando sentii un urlo,
capii che del silenzio non avrei mai dovuto avere paura. Rimasi
immobile. Qualcuno che cade, qualcuno che cammina. Due persone. L'urlo non c'era più, ma qualcosa frusciava sull'asfalto della strada. Qualcosa... era qualcuno.
Nascosto
da un albero, guardai. Un uomo si contorceva sull'asfalto: aveva gli
occhi vitrei, era pallido... gli stava succedendo qualcosa e capii – lo sapevo, lo sentivo –
che qualunque cosa gli stesse succedendo, era voluta dall'uomo che gli
era davanti. Mi dava le spalle e presto vidi che le convulsioni
dell'uomo sdraiato a terra si facevano sempre più lievi. Si
immobilizzò, chiuse gli occhi, il vento soffiava e fece aprire
l'impermeabile dell'uomo che stava lì a guardare. Aveva i
capelli biondi, ecco cosa vidi. Aveva i capelli biondi ed era alto e,
in quel preciso istante, prese una pistola. Mi misi una mano sulla
bocca, la strinsi a pugno, morsi per non urlare. Poi l'uomo
sparò ed io mi chiesi perché non avessi ordinato a me
stesso di chiudere gli occhi. Mi sfuggì un gemito. E così
l'uomo biondo si voltò verso di me. Mi si contorse lo stomaco e
mi sentii cadere in una vasca di acqua mortalmente fredda. I suoi occhi
erano chiari, assenti, vuoti... e lo riconobbi. In una mano teneva la
pistola, l'altra la teneva chiusa a pugno e subito la aprì.
Cadde qualcosa... era una pietra, ed era nera, e brillava. Deglutii.
L'uomo avvicinò il dito alla bocca e fece "shhh" e poi
rise, rise nel silenzio ed io seppi che era malvagio. Seppi che l'unica
cosa da fare era scappare.
1995
Cassie
è sdraiata accanto a me, a guardare le ombre che si creano sul muro con la luce
della lampada del comodino. Ed io guardo lei, che non si aspetta mai niente da me,
fa poche domande ma vuole sempre sapere se sto bene. La amo anch’io, anche se non
gliel’ho mai detto. Pensavo che non avrei mai amato nessuno, da quel giorno
d’inferno, perché tutti gli altri sentimenti che ho provato sono sempre stati troppo forti
per lasciare spazio a una cosa del genere. Ho troppi pesi, sul cuore. Ma lei,
magra com’è, ha trovato spazio.
«Hai
mai pensato che le ombre delle persone somigliano agli alberi? »
Le
carezzo la spalla con le dita. Mi guarda, sorrido appena, faccio segno di no con la testa.
«Pensavo
che chi andasse al college avesse la mente più aperta. » Mi sorride a quel modo
che annebbia i ricordi e li fa sembrare belli, anche se solo per un istante. Poi si alza in
piedi, si mette le mani fra i capelli e li rende più gonfi, poi alza le braccia. «Guarda la mia ombra, non sembra
un albero? »
Guardo
l’ombra sul muro.
«Candy…
hai ragione.»
«Certo
che ho ragione.» Torna a sedersi, inclina la testa e assume quell'espressione pensosa che le fa inarcare le sopracciglia, stirare le labbra. «Noi
essere umani siamo vita, e l’albero viene nominato
dappertutto. Albero della vita. Linfa vitale… solo che,
ecco… » I grandi occhi color nocciola a scrutarmi,
attenti. «Per guardare
l’ombra serve sempre un po’ di luce. Se c'è luce,
può accadere qualunque cosa.»
Vorrei
che fosse così. Vorrei che tutto fosse semplice come lo fa sembrare Cassie
dalle sue parole. Vorrei che sul mio terreno arido possa nascere qualcosa. Ma
è tutto bruciato e pesa troppo.
Martin
Voglio
solo spaccare tutto. Lezione di Biologia, Fisica, Matematica. Spaccare tutto,
alzarmi dalla sedia, spingere via il banco. Lezione di Spagnolo, Inglese, ancora
Inglese. Spaccare tutto, come Hulk nei fumetti che leggevo quando avevo quattordici anni.
«C’è qualcuno che vuole rispondere a questa domanda? » Ho già detto troppo, mi sono rovinato da solo con le mie
mani, voglio solo… Tornare
indietro. Tornare indietro a un giorno
qualsiasi e raccontarle di mio padre e di tutta la mia vita, senza dimenticare
nemmeno un secondo. La verità, solo la verità, Doreen, la mia casa, mio padre,
Cameron… Non lo vedo da troppo tempo.
La campanella suona e non so nemmeno che
cosa mi sono perso fra le parole dei professori, sono tornato quello
che
ascolta e dimentica l’istante dopo. Entro in mensa e mi aspetto
di vederla ma lei non c’è, lei è lontana, lei
è andata via e mi
sento il cuore che pesa fra gli organi come un pugno d’acciaio. Voglio solo
tornare indietro.
Guardare
Cameron ridere mi dà l'impressione che il desiderio si sia
avverato. Che sono davvero tornato indietro, in un giorno lontano in
cui ho
giocato con lui alla playstation e sua madre mi ha offerto un pezzo di
torta. E
Sarah è una persona fra tante persone nella popolazione di una
città fra
tante città ed io non so niente di lei. Ho bisogno del mio
migliore amico idiota. Ho bisogno di essere quello che ho imparato ad
essere così bene. Pigro, restio al
dovere, superficiale, indifferente al mondo.
«Ehi,
Cam.»
Ride,
Cameron. Ride adesso come quel primo giorno sul bus alle elementari, con quel modo
di coinvolgere chi gli sta intorno come se fosse un cantante su un palco. Tutti imparano
la sua strana canzone di felicità, anche se tuo padre si è dimenticato che
l’altro giorno è il tuo compleanno, anche se vorresti avere un altro cognome,
anche se proprio stamattina hai perso qualcosa di grande. Sorrido.
Aspetto.
E
poi Cameron posa gli occhi su di me e la sua risata si espande fino a perdersi
in qualche piccolo, secco colpo di tosse. I suoi occhi neri si rimpiccioliscono
con un movimento di palpebre che non gli ho mai visto fare, non a me.
«Scott
fra i comuni mortali? » dice qualcuno, ma io guardo Cameron. Non
mi importa niente degli altri, come sempre, da sempre. Cam si schiaccia
i capelli come ho visto fare
in qualche vecchio film, gli sono cresciuti, adesso una linea zigzagata
gli
cade sulla fronte; se la sistema in modo che resti alta e non gli
tocchi la
pelle.
«Cameron.» Non mi parla. Perché non mi stai parlando? Guarda in basso, gioca con il
cellulare, mi avvicino a lui. «Che succede? »
Alza
il viso, le sopraciglia, gli occhi, ogni cosa di lui si allunga verso di me e
mi sembra, per un attimo, che non sia successo niente di cui preoccuparmi. Ma il
suo sguardo ha qualcosa che non ho mai notato in lui, qualcosa di lontano…
rassegnato.
«Torno
subito,» dice, lancia loro uno sguardo, poi si allontana e lo seguo. Esce
dalla mensa e si inoltra nel corridoio, i suoi passi un po’ strascicati
con le vans che ha comprato a un mercatino dell’usato, grigie, un po’ rovinate,
ma fighe come il nuovo proprietario, vero, Mart?
C’è
anche del grigio, nel suo sguardo.
«Pensavo che fossi disperso.» La sua voce è
atona. Di nuovo nero. «Hai presente Lost? L’aereo? L’isola? Niente cellulare e
rapporti con il resto del mondo? » E la sua voce ha di nuovo volume, spessore,
mi dice solo una cosa: rabbia. «Non sono una fidanzata gelosa.» Scuote
la testa, muove le labbra in quello che sembra un riso verso solo se stesso.
«Ma pensavo fossimo amici.»
Deglutisco.
Cameron è una sagoma dai contorni sfumati nel rosso della sua camicia a
scacchi, nero di occhi e capelli, l’ambra chiara della sua carnagione e le
macchinine che abbiamo rotto da piccoli, i giochi alla play, la prima sigaretta
e la prima birra, la sua prima ragazza e tutti i primi giorni di scuola della
mia vita. «Lo siamo.»
Il
suo riso si espande anche a me, ironico, sprezzante. «Bella battuta. E pensare
che ero io quello simpatico.»
Panico.
Ci cado dentro, come se fossi salito su una delle montagne russe più spaventose
del mondo, e la discesa è ripida e la giostra va veloce e il sangue va alla
testa. Rido e mi sembra solo un grugnito. «Scherzi, vero? »
«Non
scherzo più. »
«Cam…»
«Io.» È un ghigno, il suo, di quelli che ti vengono fuori quando ti colpiscono alla
gola e non puoi parlare ma devi, devi farlo per forza. «... Non so che altro vuoi.
Puoi anche tornartene dalla gente nuova che hai trovato. In fondo mi sono
sempre chiesto perché ti mischiassi alla plebe con uno come me.»
Gente
nuova?
«Non farmi sentire certe stronzate, sul serio. »
«Tranquillo,
non le sentirai più, le mie stronzate. » Apre il suo armadietto e prende lo
zaino, ci infila dentro uno, due libri, si mette il cappello al contrario come
in quei vecchi cartoni in cui il protagonista non cresce mai.
«Scusa…
scusa, è che io… » Casini, casini dappertutto, Sarah. Da
dove comincio? Non sono mai stato bravo a iniziare qualcosa, qualunque cosa.
Torna a guardarmi, sale sullo skate e mi sento
un cretino perché ha ragione e non riesco a parlare, e vorrei solo che tutto
questo fosse uno stupido scherzo.
«Abbiamo
finito di parlare.»
***
Il
Karma è contro di me. Il mondo gira al contrario e Cameron è così incazzato che
non vuole più parlarmi.
Apro l’armadio,
mi tolgo la maglietta ne prendo un'altra. Sull’anta c’è il poster
si Miranda Kerr, ha gli occhi azzurri e
i capelli castani… no, basta, per favore, Sarah, sparisci dalla mia testa. Lei,
la prima ragazza per cui ho perso il cervello e tutto il resto. Lei, per cui
non ho risposto alle chiamate del mio migliore amico. Lei, che è stata il mio
solo pensiero. Mi ci vedo, come dall’esterno, attraverso un vetro: Martin Scott
che va dietro alla stessa ragazza per più di un mese. L’ho preso proprio bene
quel colpo in testa… sarebbe stato meglio se mi avesse fatto fuori, perché non
ne sono per niente pentito. Pentito di averla conosciuta, di averla baciata, di
sentire il cuore pesante con le lettere del suo nome sulla lingua.
Arrivo a casa
di Cameron; la strada è più breve di quanto ricordassi, i passi da fare sono
registrati nella mia memoria dal cervello difettoso come se ci fossi nato, con l’indirizzo di casa di
Cameron in testa. Sarà strano, dirglielo. Sarà strano pronunciare il nome di
Sarah di fronte a qualcuno che non è lei. Sarà strano spiegare la verità,
l’assurdità di tutte le cose che sono successe, di tutti i pensieri che ho
tenuto nascosti… ma lui è il mio migliore amico.
E
sono stato un coglione a non calcolarlo e ad escluderlo. Sono un
cretino, lui lo sa da anni… quando saprà tutto forse
sarà
peggio. Pigio il pulsante del citofono.
«Chi
è? »
«Sono
Martin, c’è Cameron?»
«No,
non c’è.» Le mie spalle si abbassano senza che me ne
renda conto. «Ma arriva presto, è uscito solo
per un attimo! Vuoi salire?»
Questa
forse è violazione di domicilio, anche se autorizzata. Salgo le scale e mi ritrovo davanti alla sua
porta di casa socchiusa, la spingo un po’ per entrare e mi ritrovo davanti lo
specchio a muro diviso in tanti rettangoli dai vari riflessi di me. Per istinto
mi tiro la maglia, la sento troppo aderente e quello che vedo è… stanco,
sconvolto. Respiro, dico: «Buonasera, signora Dixon.»
Arrivo
in salotto: il solito divano arancione, la carta da parati beige e il
televisore ancora grande, dei modelli vecchi.
«Ehi.» Una voce alta, conosciuta, familiare. Viene fuori dal cucinino insieme a lei,
con i capelli legati e una camicetta scollata, con i lineamenti simili ma più
addolciti… la sorella di Cameron. «Cam sta arrivando. Vuoi andare in camera
sua? »
«Non
importa. » Accenno un sorriso, in automatico. «Aspetto qui. »
«Ok…
ma è successo qualcosa, vero? »
Mi
lascio andare sul divano un momento prima di sentire la sua voce, sospiro, mi
passo una mano fra i capelli; lei fa il giro della stanca e si appoggia alla poltroncina di
fronte a me. «Holly, sul serio… meglio non parlarne.»
«Mio
fratello è un tantino giù. L’ho visto poche volte così, e mai per così tanto
tempo.»
E lo è per colpa mia, lo è perché mi
sono dimenticato di lui e me ne sono ricordato che era troppo tardi. Lo è
perché anche quando sai che qualcuno ci sarà sempre, non
devi mai lasciartelo alle spalle sicuro di quel sempre. Devi sostenerlo, quel
sempre. Non devi camminare avanti. Devi aspettare ed essere raggiunto. Fare
un respiro e raccontare le cose che ti hanno offuscato il cervello.
«Già…»
Con
chi gioco alla playstation? Con chi litigo per il joystick? Chi mi farà sentire
bene quando andrà tutto di merda? Chi viene alle feste con me? Chi si
addormenta sul mio letto con i piedi sul cuscino? Chi devo sfottere per
l’altezza quando sono io ad essere troppo alto? Chi riempirà il fottuto vuoto
della mia vita?
«Martin?
»
«Mhm?»
«Hai
una cosa fra i capelli…»
Chi
è che dirà “che figata” ogni volta che lo faccio entrare nella palestra di
casa? Chi mi dirà che sono un nullafacente con un sorriso che non mi fa sentire
colpe? Chi è che mi dirà “no problem” quando i problemi, invece, ci sono? Chi
potrà essere il mio migliore amico se non è lui?
Ed
è a quel punto che sento il respiro, il respiro di Holly sulla mia pelle e la
sua mano mi sfiora un orecchio, a togliermi via quella che sembra una piccola foglia
secca, con quel sorriso che mi ricorda suo fratello ma che ha quella linea ancor
più sfacciata, allo stesso tempo armoniosa…
«Che
succede qui? »
Mi
alzo in piedi, subito, mi volto. Cameron non guarda da nessuna parte in
particolare, non guarda me e sento solo il caldo eccessivo che mi travolge il
corpo quando sto per andare in bestia. Perché cazzo non mi guardi? E poi alza
il viso su di me, e mi ricordo di quanto Holly mi fosse vicina quando ho
sentito la sua voce e la rabbia si trasforma in vergogna.
Holly
rompe il silenzio. «È passato Martin.»
«Lo
vedo. »
Cameron
continua a guardarmi solo per qualche secondo, qualche secondo per dirmi non è
qui che dovresti essere, e lo fisso negli occhi, gli occhi che negli anni sono stati sempre gli stessi, quelli
che riconoscevo anche se scoperti a malapena da dei fori in una maschera di
halloween quando eravamo bambini.
Imbocca
il corridoio per raggiungere la sua stanza ed io lo seguo e mi sento un idiota,
sempre e ancora di più, sento che sta per cadere un masso enorme su tutte le
cose che credevo non sarebbero mai state cambiate.
«Non
pensare che io e Holly…»
«Non
sei più mio amico, Martin.» Mi arriva addosso con il dolore di un liquido che
scortica la pelle. «Non mi frega più.»
«Cam, piantala.»
«Sei
tu che dovresti smetterla.»
«Tutte
tranne lei, » dico. Mi passo una mano fra i capelli e sospiro,
sospiro perché
il masso deve essere caduto e, anche se non mi ha ucciso, pesa sulle
spalle. Mi
farà cadere. «E infatti Holly non c'entra niente. E non ho
cambiato "compagnia" se è quello che voi sapere. Davvero,
è una cosa complicata e sono venuto qui per...»
«Come
faccio a saperlo, Martin, eh? » Uno spintone. Il muro contro la schiena.
Cameron con gli occhi accesi, neri, senza felicità, senza più niente. «Ti
conosco da quando eravamo poppanti e che cosa hai fatto da quando hai
cominciato a darci con le ragazze? Volevi, prendevi. Chiedevi, avevi. Squadra
di football, squadra di hockey, squadra di baseball, l’ultima volta la squadra
di backet… dovevi fartela sempre con la ragazza di qualcuno della squadra,
dovevi sempre combinare un qualche casino e alla fine, non l’hai visto? Non
l’hai visto?!» Sbraita, le braccia piegate per toccarsi la nuca, i muscoli
tesi. «O te ne andavi tu, o ti cacciavano loro. Ti hanno tutti voltato le spalle! Nemmeno i tuoi cazzo di soldi li hanno
fatti restare! Niente li ha fatti restare! » Respira, respira forte.
E
invece tu sei rimasto. Sei rimasto a costo di essere lasciato indietro
solo perché stavi con me. Sei rimasto con il mio carattere da
schifo, sei rimasto
nonostante le mie abitudini, sei rimasto anche se sono una persona
orrenda. Che
cosa hai visto in me, Cam? Un amico? Forse è l’unica cosa
che sono stato
davvero, e ho fallito anche in questo.
***
Ieri
sera mi sono rinchiuso in palestra e ne sono uscito solo quando il respiro è
cominciato a pesare insieme a tutto il resto. Ancora adesso, dal terrazzo della
scuola, respirare pesa: mi richiede uno sforzo che non c’è mai stato come se
inalare l’aria non fosse più necessario. Forse non lo è più. Forse è un modo
per aiutarmi a stare male mentre vedo Sarah che se ne sta in disparte nel cortile
della scuola. Si siede su una di quelle panche vicino al
terreno e si liscia una ciocca di capelli fra le dita. Mi sento scavare dai
suoi occhi azzurri che guardano altrove, ed è così bella che sento il crack
delle ossa che si attorcigliano insieme ad ogni altra cosa che mi ritrovo nella
corazza del corpo.
Mi
chiedo quanto ancora dovrò pagare per questo. Stringo le mani sul ferro della
ringhiera fin a far diventare le nocche bianche al pensiero che non mi è
rimasta altra persona di Doreen… che viene pagata. Ma me lo merito, in fondo.
Non mi merito tutte le cose che posso ancora avere e non merito nemmeno quelle
che avevo una volta. E poi sento un rumore, un rumore proprio vicino a me: al
mio fianco c’è qualcuno, una persona qualsiasi che si sposta la visiera del
cappello della squadra di Baseball della città e poi poggia i gomiti sulla
ringhiera. Istintivamente, lo imito nello strano shock di trovarmelo davanti di
sua spontanea volontà.
«Senti.» Si passa una mano sul mento seguendo la linea della rasatura. La sua voce si
fa densa di qualcosa che sembra imbarazzo. «Quando ti ho detto “tutte tranne
lei”…» Ci risiamo.
«Cameron…»
Ma
lui mi ferma le parole con uno sguardo che sembra esasperato, stanco,
impaziente. «Tutte tranne lei. Intendevo qualunque
“lei” ci avrebbe messo i bastoni tra le
ruote.» Si passa una mano sul viso, la carnagione chiara ma
più scura della
mia. «Ho sempre
pensato che Holly sarebbe stata un guaio, per noi. Ti guarda come ti
guardano
tutte. Solo che... insomma, non fa niente se ti piace. Non voglio
sapere che cosa ci fai, ovviamente, e se le spezzi il cuore ti spezzo
io, ma tu sei il mio migliore amico e... insomma, la pianto. Hai
capito?»
Sorrido.
Sorrido senza guardarlo mentre lo vedo gesticolare e fare quell’espressione
corrugata e… sì, questo è Cameron. Questo è lui.
«Holly non c'entra. Vuoi vedere la ragazza che ci
ha messo i bastoni fra le ruote? »
«Che?!» I
suoi occhi sono attraversati da un guizzo, una piccola luce nel suo nero.
«Andata.» Il pugno che contro con la mia mano mi fa capire che possiamo essere
ancora quelli di una volta.
«Guarda
verso le panche, quella castana.»
«Non
vedo niente.»
«Apri
gli occhi.»
«Li
ho già aperti.»
«E
sforzati un po’.»
«Mhm…
» Assottiglia gli occhi, si toglie completamente il cappello e fa una smorfia.
«No, dai. »
«Cosa?
»
«Voglio
dire… guardala.» Indica con il braccio verso una certa direzione, la seguo con
lo sguardo e… quella che passa è una ragazza ma...
è quella rompipalle della classe di biologia. Se quella non è un orribile, ma proprio orribile, io
sono…
«Però posso capire, Martin. In fondo.» Si stringe nelle spalle. «In
periodo di carestia, ogni buco è galleria.» Scoppia a ridere.
No,
non possiamo tornare ad essere quelli di una volta.
Lo
siamo ancora.
Rido
anch’io, gli do una pacca sulla spalla. «Hai sbagliato, genio.» Cameron
aggrotta le sopraciglia. «È la ragazza seduta.»
Ha
la stessa espressione di quando risolve un’espressione
matematica,
assomiglierebbe a un finanziere se non fosse vestito come il
protagonista di un
qualche cartone animato. Poi si volta e mi ride in faccia.
«Carina... abbiamo lastessa classe di biologia! Niente male,
certo. Sicuro che non mi stai raccontando una scemenza?»
«Lo
vorrei proprio. »
«No…
ti sei… ehm… hai battuto la testa, sei caduto…» Ti sei innamorato?
Non
riesco adire altro che non sia: «Una bella merda». Perché lo è davvero, lo è in
ogni momento, lo è perché so che non esiste nessun’altra Sarah Pierce al mondo,
non esiste nessuna che arrossisce in quel modo, non esiste nessuna che resiste
nel modo in cui lo fa lei, non esiste nessuna che mi fa svegliare dal sonno del
mio mondo come lei ha fatto.
«Be’,
dovrai farmela conoscere. »
Sbuffo.
«Non
mi parla nemmeno più. »
«NO.»
«Sono
un coglione.»
«Non
dicevo “no” a quello.»
Lo
guardo di traverso, e lui si mette in una di quelle posizioni che prevedono
l’appoggiarsi a una qualche superfice liscia, quella posizione che dice “sono
fantastico, ammiratemi. Niente bava grazie”.
Gli ho fatto una cattiva influenza, assolutamente.
Fatto
sta che adesso devo raccontargli tutto, proprio tutto. Così quando dirò di
nuovo “bella merda” saprà a cosa mi riferisco per intero.
Quando
finisco di parlare lui sembra impassibile, incredulo. Sono certo che adesso dirà qualcosa di intelligente.
«... E non avete nemmeno fatto sesso.» Scuote la testa. «Be’, sei messo proprio
male, amico.»
*
*
*
*
Ciao
a tutti! In questo capitolo troviamo solo Joe e Martin. In particolare
vorrei dire qualcosa sulla parte di Martin e la sua discussione con
Cameron. Ho sempre trovato l'amicizia fra ragazzi qualcosa di davvero
spontaneo, privo di invidia. Ho pensato allora che dopo il periodo di
"latitanza" di Martin Cameron se la potesse prendere molto all'inizio,
soprattutto dopo la "presunta" cosa di Holly, anche se alla fine si
sono chiariti. Spero di essere risultata realistica.
E
nulla, nell'ultima parte c'è la battuta sulle gallerie e ci
tengo a precisare che non è di mia completa invenzione ma l'ho
sentita da un mio amico, con tanto di mia faccia shockata/rassegnata
LOL... lo ammetto, prendo ispirazione dalla realtà :)
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto :) Grazie mille a tutti coloro che
recensiscono, ai nuovi arrivati, a chi c'è da tanto... vi adoro
*-*
Un bacio e al prossimo
Vostra Ania <3
|
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Capitolo 16 *** 15. Di ghiaccio ***
until 15
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
15.
Di ghiaccio
1995
È
freddo, nero, ghiaccio.
Affondo la daga nel terreno con forza. Devo farlo, senza scuse. Devo
farlo perché
l’incendio dilaga ancora, in ogni notte, in ogni sogno, in ogni
incubo. Le
sento urlare, sento i rantoli del vecchio ed io fuori, a guardare. Ma
questa
volta non resterò a guardare. La terra del cimitero è
dura, ha
preso il freddo dei morti, le lapidi ne sono custodi, sento le forze
della natura che cercano, con fatica, di controllare tutto. Forza
immense... so che
esistono, me l’ha detto lui. Ed io gli ho creduto, perché
il vecchio diceva
sempre la verità e lo faceva per il mio bene. Sapevo che erano
qui, lo sapevo
anche se non ho mai avuto il coraggio di andare a vedere. Le
nascondeva, il
vecchio, come un segreto. Le nascondeva, come se non potessi vederle
nemmeno
io. Le nascondeva, come se avessero potuto farmi del male. Fin quando sarò con
te, Joe, ti proteggerò. Sembra così vicina la sua voce, sembra che non sia mai
morto. La daga tocca una superfice dura, sembra di ferro, è bianca... riesco a sollevarla.
Ed
eccole.
Dovranno uccidermi, per riuscire anche solo ad avere la speranza di trovarle.
Le
pietre sono tonde,sembrano sassi, piccoli, immobili, innocui…
incastonati in quella superficie bianca accanto alla sua lapide. Gli
smeraldi neri, così le
chiamava lui. Le prendo in mano, sono lisce sotto le dita, e mi rivedo
bambino,
davanti a una grande libro, una luce flebile e il vecchio, con il viso
rugoso e
gli occhi verdognoli. Vexania, è il suo vero nome. Quando
le forze della natura si scontrarono tra loro, le loro lacrime erano di
rabbia, di delusione, di compassione per se stesse, perché,
guardando gli umani, si erano comportate proprio come loro. Le lacrime
erano nere, e si trasformarono in pietra... e contengono un potere
immenso.Un potere che può portare alla pazzia. Ma le forze della
natura, anche negli errori, trovano un equilibrio. Un modo per limitare
quel potere. Perché una pietra può essere usata una sola
volta e da una sola anima, per poi diventare un'inseignificante goccia
scura.
«Un
anima e una sola volta?» chiese un io bambino di anni fa.
«Sì, caro Joe.» Il vecchio annuì a se stesso e poi stirò le labbra,
con stanchezza. «Un anima innocente, invece, può farlo per sempre.
E può fare qualcosa
che le permetterà di dare al mondo qualcosa che non abbiamo,
qualcosa che ci manca da troppo e che gli uomini non riescono ancora a
seguire.»
Un
io bambino rifletté un istante, pensò ai suoi dolori infantili, al suo amore.
«La giustizia?»
Il
vecchio sorrise. «Così intelligente… sì, Joe, proprio lei.»
Cassidy
Grace è la ragazza più bella che esista al mondo, io lo vedo, io lo so. E
guarda verso di me. Aspetta me. Ha già dimenticato i segreti che non le ho
detto, gli sguardi che non sono riuscito a trattenere, l’amarezza che viene
fuori ad ogni mio gesto.
Cassidy
Grace lascia lo straccio sul bancone, mima una parola, mima quello che è solo
il mio nome. E mi dispiace, perché la amo, la amo più di qualsiasi altra cosa
al mondo e lei non deve saperlo.
«JS!
Ecco dove vai quando ti alzi così presto.» Sento una pacca sulla spalla, mi
giro e incontro il viso bonario, dalla pelle color avorio, i capelli e gli
occhi neri e grandi. Mi sorride.
«Mi
alzo presto ogni giorno.»
Lascio
che Cassidy scompaia dal mio sguardo. Ci sediamo a un bancone e una cameriera
viene a prendere le ordinazioni.
Mi
sento strano. Come se i macigni sul mio petto pesassero ancora di più, come se
mi facessero ancora più male, tutto da quando ho recuperato le pietre.
«Non ti sei solo alzato presto. Hai fatto le ore piccole... giusto? Ma non capisco questa faccia affranta.» Lui non sa.
Il
mio amico si passa una mano fra i capelli, sospira, qualche ragazza
passa e lo
guarda. «Alla laurea manca pochissimo, ci sono passato anch'io.
Pensa a te stesso. Dimentica le cose che ti fanno inquietare.»
L’ultima parola che dice pare sottolineata con il sangue, anche
se non posso
vederla scritta.
«Io non posso dimenticare. » Volto di
poco il viso e vedo Cassidy che ride con un’altra cameriera. Come non posso
dimenticare lei. «Ci sono cose che non si possono dimenticare. »
Prima
di andare a lezione, passo sempre da lì, dove nessuno sa. Davanti a quella casa
bruciata, quella casa in cui sono morti tutti. La vendetta ha un sapore,
piccolo, mi disse il vecchio di quella casa. Quando l’avrai assaggiata, sei
sicuro che ti aggraderà?
Do
un calcio a un sasso che mi trovo davanti. Una volta avrei detto che
non lo so,
non so se mi aggraderà. Potrei buttare via questa pietra e dire
addio a tutti, tentare almeno di vivere la mia vita... ma sento che non posso farlo. Non ti importa del sapore, perché adesso hai quello
che ti serve. Contro i vivi, contro i morti.
La prendo dalla tasca e la guardo, la leggera pietra fra le mie
mani… potrebbe essere una perla. Lo smeraldo nero. Uno degli ultimi due
esistenti. Li ho presi io.
Saranno
la mia arma più forte, lo so.
Non
lo sai, invece.
Mi
volto. Sento freddo.
Non
sai niente, Joe.
Stringo
ancora di più la pietra nel palmo. Nessuno la vedrà, mentre vado via.
Il
nero non emana nessuna luce.
***
Sarah
Sapevo
che eri un mostro. Sapevo che eri un soggetto pericoloso.
Nella
biblioteca della città, guardo la cronologia dei giornali per trovare quello
che mi riguarda. Martin deve averlo visto su dei giornali perché su internet –
io e Julia abbiamo controllato – le pagine sono state tutte eliminate.
«…
Non c'è niente, » sussurro, e mi sento così affranta.
Julia
mi guarda, i capelli raccolti in uno chignon, qualche ciocca rossa che le
accarezza il viso, gli occhi marrone scuro come inariditi dalle ore che abbiamo
passato qui.
«Forse…
dovresti chiedere a Martin. Lui ha visto i giornali, quindi deve averli a casa…
»
«Ce
la farò da sola. » Piego il libro con tutte le date e i codici da richiedere.
«Non ho bisogno di lui.» Ed è vero. Me la sono cavata da sola per anni. Anche
se in questa ricerca le cose sono più difficili.
«Ma
Sarah...» Julia mordicchia la gomma della matita. «Chi altro potrebbe averli?
Davvero, non so chi altro potrebbe darci una mano ed è importante… »
Ma
non gli chiederò aiuto, non tornerò da lui. Lui che sa e
ha sempre saputo, lui che voleva solo divertirsi, lui era a conoscenza
del fatto che la ragazza che sono è il mostro. La ragazza che
sono è il
soggetto pericoloso. Io sono il soggetto pericoloso.
«Non
lui.»
«E
allora… che si fa? »
Respiro. Rifletto. Non
posso aspettare. Non voglio farlo e, soprattutto, l’unica persona di cui ho
bisogno sono io, i miei ricordi, le mie percezioni, il mio istinto. Io posso
controllare quello che mi sta succedendo, conoscendo quello che è accaduto non
solo dai miei occhi ma da quelli degli altri.
«Julia,
tu non sei stato l’unica.» Fa sempre male dirla, questa frase. Deglutisco.
«Dobbiamo cercare un’altra persona.»
«Una
persona? »
«Un
ragazzo.»
La
mia guida è la mia memoria. Immagini di fotografie che si trasformano solo in
ricordi, sensazioni, sapori, odori, ogni cosa è marchiata a fuoco nella mia
mente. Lui è marchiato a fuoco. Ed è per questo che non ci penso mai… perché mi
sale la bile e lo rivedo a terra ed io urlo ed io non so cosa fare se non
continuare, perché non sono riuscita a fermarmi. Mi sento i muscoli indolenziti
come se qualcuno mi avesse percossa, tutto di quel giorno è chiaro come se fosse
illuminato da un raggio di sole. So dov’è lui, adesso, eppure la prospettiva di
andarci a parlare fa ancora più paura di quella di incontrare Julia. Julia era
la mia migliore amica.
Lui
per me era qualcosa che non so ancora spiegare e mi ha ferita.
E poi
io ho ferito lui.
Ricordo,
e ho di nuovo tredici anni. Ho di nuovo tredici anni e la biblioteca con i tomi e
i giornali e le persone intorno a me si trasforma in una grande stanza bianca
con una vetrata che dà sul giardino. Scende la pioggia, schizza sui vetri
e cade sull'erba di fuori. Mi chiedo se tutta quell’acqua potrebbe farmi
sentire più pulita nella testa, se mi lasciassi travolgere. Ma la nonna e il
nonno mi hanno detto che in questo grande istituto nessuno sa niente di me e di
quello che è accaduto, nessuno penserà a te, stellina, mi ha detto il nonno.
Starai bene, potrai fare amicizia.
Ma
io non voglio fare amicizia. I giorni passano eppure quel giorno all’asilo
sembra il più vicino di tutti, l’unico momento che accade e accade sempre e di
nuovo con i contorni decisi di un disegno a matite spesse. Prendo il pranzo
nella mensa, niente di così buono… ma alla fine c’è il budino alla vaniglia.
Tengo ferme le mani stringendo il vassoio e cerco di fare poco rumore, anche se
nessuno si accorgerà di me, anche se c’è troppo chiasso perché qualcono noti il
tintinnio delle posate del vassoio di Sarah il mostro.
E poi è come se sentissi qualcosa che dice
fermati. Deglutisco. Fermati.
Volto
di poco la testa e lui mi sta guardando.
Anche
se se ne sta seduto, si vede che è davvero molto alto per la sua età; a volte
mi perdo a immaginarlo da grande, come attore di un film, e le mani mi sudano
mentre lo guardo adesso e non so perché. Lui parla sempre poco e si accontenta
dei cenni, ed è stato l’unico a strapparmi via le
parole anche se ne ho quasi percepito il dolore, come se le parole non fossero
suoni ma cose attaccate alla pelle.
«Ciao,
Hans. » È il massimo che riesco a dirgli.
Hans
accenna un sorriso – il sorriso, la prima cosa che ho visto di
lui –, lui con la mascella un po' larga, i capelli
castano scuro e ricci, la pelle chiarissima e gli occhi grigi, con
quelle strature delle iridi che assomigliano a dei graffi sul ghiaccio.
E
lui non risponde, e quello che sembrava un sorriso si trasforma nella
linea
tremante di un espressione di fastidio. Sbatto le palpebre, mi manca il
respiro… cerco di ritrovarlo. Mi allontano.
Di
solito è felice di vedermi. Corro via. Di solito è sempre lui a dire qualcosa. Ma
niente questa volta… forse perché era con i suoi amici, e quello accanto a lui
aveva in mano il modellino di un auto rossa di quelli che lui io amo quelle
macchine, da grande ne potrò avere una, Sarah. E ti ci porterò... insieme a Phil, Lù, V... Io ho solo annuito. E lui mi ha sorriso come se gli
avessi detto non vedo l’ora. Non vedo l’ora che tu abbia tutto quello che vuoi.
Il
rumore di un piatto che va in frantumi mi sveglia dal sogno di quel ricordo, il
sugo caldo contro la camicia mi fa venire la nausea ed io non ci credo… sono
caduta e tutti mi stanno guardando. Sono caduta… sono inciampata…
Qualcosa
mi blocca, non riesco a mettermi in piedi. Respiro, respiro forte e alzo il
viso.
Hans
mi guarda con le braccia conserte, gli occhi – due gocce grigie incastonate
come pietre – mi guardano socchiusi. Non c’è nessun sorriso a illuminarlo, a
illuminarmi, mentre una risata fragorosa divampa come un incendio.
«Certo
che mi è venuto proprio bene, questo sgambetto, eh? » dice a un ragazzo accanto
a lui e mi viene da vomitare, e voglio alzarmi, e voglio correre e andare via.
È stato lui. Pensavo che fosse mio amico – il cuore batte forte quando mi
saluta, l’aria che sembra un nido accogliente ogni volta che dice qualcosa – e
invece… che cosa gli è successo?
Mi
rimetto in piedi.
«Sai…
» Mi si avvicina, lento, con quell’andatura sicura che lo fa sembrare almeno
due anni più grande. «Quella macchia rossa ti sta proprio bene, sulla camicia
bianca. »
Sento i capelli che sfiorano il viso mentre mi volto e non voglio
piangere, non piangerò, pensavo che fosse mio amico ma io non posso avere
amici, lo sapevo, ne ero sicura, non avrei mai dovuto lasciare che succedesse.
Mi
sento prendere per il braccio; il tocco è forte, addirittura prepotente, mi fa
venire la pelle d’oca – tu non eri così –, mi ritrovo a guardarlo negli occhi,
un' ombra nera nel grigio chiaro – tu non eri così.
«Perché
non resti? » Un tono di scherno.
«Smettila.
» Tu non sei così. «Lasciami, Hans. » Tu non eri così.
«Perché,
se no che mi fai? » Una risata. Secca, senza vita, quelle dei ragazzini
cattivi. Sento il cuore battermi forte, ma in modo diverso, perché il suo viso
si avvicina al mio e ho brividi. Sembra che stia per darmi un bacio e anche se
il corpo mi grida di andare andare e andare via, mi ci oppongo con tutto quello
che ho. Hans. Hans mi sta toccando con le mani ruvide per quel suo lavoro di
trasportare la legna sul furgone vicino al collegio. «Vuoi farmi male, Sarah? »
Questo non è lui. «Mi fai uscire il sangue? » Questo non è lui, lo so. «Prova,
dai. Lo so che non ci riesci. »
«Hans,
per favore. »
«Tu
non sei nemmeno capace di dire le parolacce, figuriamoci se mi puoi fare male.
»
«Smettila!
»
«Ti
fa schifo schiacciare le mosche con il picchietto, figuriamoci se ti puoi
difendere… »
«Perché
lo fai? » La mia voce è rotta.
E
all’improvviso vedo l’ombra nera sparire. Tornano i suoi occhi grigi e chiari e
splendidi con le ciglia castano scuro ed io so che è ancora lui. Perché lo fai?
La mia voce risuona nel chiasso e rimbalza sui muri della stanza. Hans mi guarda
e sembra morire di qualcosa che forse èdisperazione, tristezza, ancora
disperazione. Contro ogni desiderio e pensiero, la mia mano finisce sulla sua
guancia. È liscia, da bambino, tredici anni come me. È ancora lui ma ho ancora paura.
E il cuore continua a uccidermi dentro e voglio solo che rallenti, rallenta,
rallenta, ti prego. Rallenta… il panico sale, non farlo, non farlo, non voglio, e tremo. Tremo troppo forte e voglio solo fermarlo.
Hans non è così, Hans… Hans…
Ma
è troppo tardi. Troppo tardi.
Lo
sento.
Sono
io.
Lo
so.
Sono
io.
Non
voglio.
Sono
io.
E
Hans si accascia a terra ed io comincio a urlare. Chiude gli occhi,
cado a terra in ginocchio. Sento le lacrime tagliarmi le guance in
tanti pezzi. Il dolore è atroce, vedo un bambino che calpesta
una formica, ha i capelli ricci e gli occhi grandi e chiari, è
lui. Vedo
un ragazzino che, a letto, si copre con la coperta fino alla testa, per
non far vedere a nessuno che sta piangendo. Vedo un ragazzino che dice
brutte parole, parole orribili, a una giovane donna con i suoi stessi
occhi. Vedo quello stesso bambino correre in collegio e chiudersi la
porta alle spalle, come se avesse trovato il suo rifugio, la sua casa.
Vedo un abbraccio con una ragazza bellissima, lei ha i capelli castano
ramati. Vedo un ragazzino solo, che sorride a tutti, e pensa brutte
parole per i grandi ed è solo. Hans è solo, e non
perché non ha nessuno, ma perché qualcuno di importante
ha deciso di non amarlo. Vado modellini di macchine rosse, scritte di
nomi in un bagno, dormite all'aperto in estate, voglia di dimenticare.
Lui è Hans. La sua vita mi colpisce come una scossa, ma uccide
lui.
Fino a quando, dopo tanti anni, non trovo il coraggio di cercare il suo nome.
Fino a quando non scopro che è ancora vivo.
***
È ancora lì, in quel collegio in cui nessuno sa. La struttura era divisa in due,
forse lo è ancora… una casa-famiglia e una parte per giovani dalle condizioni
economiche non molto stabili. Non gli ho mai chiesto di che parte dell’edificio
facesse parte. Non gli ho mai fatto nessuna domanda...
Non
riesco più a pensare quando entro nel giardino. Julia mi aspetta fuori. Faccio qualche
altro passo per avvicinarmi alla grande porta che è l’entrata dell’edificio
grandissimo in giallo ocra.
«Cerchi
qualcuno? Il direttore non c’è.»
È
la voce di un ragazzo, una voce che seguo quasi senza riflettere perché mi sono
già voltata, i miei occhi si sono già posati su di lui, e un battito del mi cuore
si è dissolto in tanti frammenti d’aria nel petto. È così simile a come avevo
immaginato che diventasse. E la sua voce… così diversa, così da grande. Da
diciassettenne. Come me.
Sbatte
le palpebre una, due volte, ed è così alto. È rimasto magro, le spalle larghe
sembrano quasi sproporzionate rispetto al resto ed io non ho ancora ripreso a respirare. I capelli castani, i ricci
sottili che gli ricadono sul collo, le labbra sottili, il viso più spigoloso per la scella un po' larga, ma
come… delicato, amichevole anche se destato dalla sorpresa.
«Non
cerco il direttore.»
Si
rabbuia. Come può un ombra scura renderlo bello come il sole? L’avevo
immaginato come un principe, un tempo, e me ne vergogno. Ero ancora una bambina
e sto crescendo ancora oggi. E la gioia di vedere che è vivo proprio come Julia
mi scatena una gioia tale che potrei buttarmi fra le sue braccia non solo per
gioia, e non lo capisco. Abbasso gli occhi, spero che non legga niente di tutto
questo.
«Sarah?»
La sua voce è dura, di pietra, eppure mi lascia sulla pelle un calore simile a
quello che si sente dopo un graffio, dolore compreso.
Non
voglio ancora guardarlo negli occhi.
«Sì,
Hans. Sono io.»
*
*
*
*
Eccomi
qui! :) Spero che il capitolo vi sia piaciuto, abbiamo visto l'entrata
in scena di un nuovo personaggio di cui Sarah aveva già parlato
:) Che ne pensate di lui? ^^
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e vi ringrazio infinitamente per il
vostro sostegno, che mi motiva a scrivere, mi dà tanta forza e
mi fa camminare sempre tre metri da terra. Grazie a chi recensisce,
segue, ricorda e preferisce. Grazie davvero a tutti voi :)
Un bacio
Ania :)
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Capitolo 17 *** 16. Il ragazzo coraggioso ***
until 16
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
16.
Il ragazzo coraggioso
Il
fuoco nel camino scoppiettava in piccole, rapide scintille. Ero seduto su una
poltrona, teso, ed aspettavo, curioso come solo i ragazzini possono essere, che
lui cominciasse a raccontare.
Dal
divano, il vecchio mi lanciò un occhiata d’intesa. I suoi
occhi azzurro chiaro, così vigili, contrastavano con il viso
rugoso che si raggrinzì ancora di
più in quel momento, quando sorrise. Sorrise a mostrare i denti
giallastri, poi
si posò un dito sulle labbra che sembravano marroni e
mimò, piano, queste
parole: “non è ancora il momento”.
Ed
era vero.
Perché
lei passò dietro di lui come un fantasma, nello spazio che lasciava la porta aperta sul
corridoio, con quel vestito bianco che era una macchia candida sulla carta da
parati rosso scuro. Lei, silenziosa, con i capelli castani e quei due
grandi, azzurrissimi occhi che riuscivano, ogni volta, a farmi porre la stessa domanda… sei reale?
Dietro
di lei, la seguirono altre due bambine, una bionda e una mora che correvano con
un fragore di passi e risate. Si sentì il rumore di una porta che sbatteva.
«Adesso
continui la storia?» chiesi al signore.
«Sei
così curioso, Joe.»
«Me
lo racconta, signore?»
«Certo.» Il vecchio si alzò dal divano reggendosi su un bastone e mi guardò come se
avesse appena trovato qualcosa di importante. «Sei l’unico a cui potrei mai
raccontarla... l'unico maschio.» Lentamente, con il bastone che batte sul pavimento di legno, si
avvicinò ad un mobile intarsiato dalle sfumature d’oro. Aprì le ante a vetro e,
con una sola mano, estrasse quello che sembrava uno scrigno bianco. Alla luce del
fuoco sembrava più un cristallo, per i riflessi che andavano sul viola e l’azzurro.
«Di
che cosa è fatto? »
Il
signore si voltò e, sul suo viso anziano, apparve un sorriso soddisfatto.
«Argento di luna e platino. L’argento di luna è indispensabile.» Poggiò lo
scrigno sull’enorme tavolo al centro della stanza e posò il bastone accanto ad
una sedia. Mi avvicinai veloce, mentre il signore apriva lo scrigno con
entrambe le mani a farmi vedere quelle che erano delle pietre nere, grandi
quanto delle piccole biglie, ma dalla forma spigolosa di una pietra preziosa. Mi concentrai, per cercare di ricordare il resto.
«Ti
ho già spiegato a cosa servono queste pietre.»
Vexania,
è il suo vero nome. Così la chiamarono i primi uomini, Joe. Così la chiamarono, e
niente può controllarla se non un’anima, una sola volta. Un anima innocente, invece, per sempre. E può
fare qualcosa che la renderà padrona del mondo.
Fare
giustizia.
«Perché
le conservi lì? »
«Bravo,
Joe.» Il signore annuì diverse volte. «Molto bravo, è una domanda
importante. L’argento di luna è rarissimo, al mondo
non esiste più. Quando la natura diede agli uomini la possibilità di vederli
ne era già scomparsa la maggior parte… era già rimasto solo questo. E quindi... »
«Che
cosa succede se le pietre non le metti lì? »
«Joe.» Il signore mi carezzò la testa, mi scompigliò i capelli e il suo sorriso
cominciò a disfarsi come una coperta sgualcita. «Terribili cose. Le più
terribili. Che cosa porta gli uomini a volere queste pietre? La giustizia. La
giustizia… manca poco e si trasforma in vendetta. » La sua mano si spostò sulla
mia spalla mentre io lo ascoltavo, rapito. «Non c'è bisogno di essere in una stanza estranea per sentirsi infestati dai
fantasmi, non c'è bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi molto più
vasti di uno spazio materiale ed è assai più sicuro un incontro a mezzanotte
con un fantasma piuttosto che incontrare disarmati il proprio io in un
posto desolato. Così dice Emily Dickinson ed ha ragione. L’animo umano
è
debole, Joe. Ma il male è forte. Il male e il bene li trovi
ovunque, in parte
maggiore e in parte minore. Lo scrigno d’argento fa sì che
le forze del male e del bene restino equilibrate e restino
nelle pietre senza influenzare chi le possiede. Se non vi è la
protezione dell'argento di luna, il male non rispetta le regole e
sovrasta il bene. E allora non c’è muro che
regga, muraglia, castello che ti possa proteggere dai tuoi stessi
spettri. » Il
vecchio prese di nuovo il bastone in mano. «Se non proteggi
quelle pietre.... se non proteggi te stesso, Joe… il bene
muore, e il male vive. La giustizia si schiaccia e la vendetta emerge.
Ogni
cosa è perduta. Tu sei perduto… tu sei…
sei… » Fu preso da un forte attacco di
tosse. Sussultai, indietreggiai anche se ero lontano metri. E
d’istinto, corsi
da lui. Lo aiutai a sedersi sulla poltrona, tosse, «Tu perdi tutto te stesso.»
tosse, «Tu perderai ogni cosa. » tosse, lo aiutai a prendere il fazzoletto
ricamato dalle tasche e glielo porsi, in modo che potesse coprirsi la bocca. Lo
aiutai, perché gli volevo bene. Gli volevo bene…
«Joe…
è stato così bello, poterti avere. »
«Anche
per me, signore. »
«Tu
sei un ragazzo coraggioso. Il mio unico ragazzo coraggioso.»
Deglutii,
sorrisi. Dovevo essergli proprio sembrato stupido, in quel momento, perché
avevo tredici anni e solo lui su cui contare e non ero coraggioso e amavo le
storie. E quello che mi sembrava così impresso e vivido, la mia mente di adolescente lo rese sbiadito.
Un vago ricordo, insignificante.
Sarah
Il
silenzio che riempie questo giardino mi soffoca come una mano d’acciaio serrata
alla gola. Prendo il coraggio di alzare lo sguardo e guardarlo senza tremare,
di fare un passo verso di lui, di calmarmi, di parlare.
«Perché
sei qui?» mi chiede. L'incertezza nella sua voce.
Annulla
la distanza con un solo passo, sento il calore del suo corpo
contro il mio e l’unica cosa che percepisco è che un tempo
avrei avuto paura e allo stesso tempo avrei desiderato di averlo
così vicino. Mi sento le
guance accese.
«Devo
farti della domande.»
Mi mordo l’interno
della guancia.
«Perché
lo fai?»
Qualcosa
si spezza. È l’immagine di lui con gli occhi colmi di
grigia disperazione, un
ragazzino di tredici anni che sembrava più grande, bello, con
poche parole, quello che in una sola volta si è trasformato in
quello che mi fatto
cadere davanti a tutti per deridermi.
Ma so che non era lui.
«Hans.» Richiede sforzo, pronunciare il suo nome. «Perché tu l’hai fatto?»
I
suoi occhi grigi si incupiscono, eppure sono così vicini al
bianco; lo stesso colore delle nuvole del cielo quando sai che
pioverà. «Non ti
capisco.»
Mi
allontano di un passo, veloce, e cerco di
trattenere la rabbia perché lui non può non capire, lui sa, sa forse molte più
cose di quanto ne possa conoscere io e… «Non sopporto che tu faccia la parte di
quello che non sa niente. Tu hai attivato qualcosa. Che cosa ti è successo, che
cosa hai sentito? » Faccio
un respiro profondo. «È successo un’altra volta,
prima di te. E ho bisogno di sapere se si sono verificate le stesse
cose. Qualcuno
controlla questo. Qualcuno lo vuole. Che cosa hai sentito?»
Si
passa una mano fra i capelli e mi guarda. Sembra quasi rammaricato, rassegnato. «D'accordo.» Fa un respiro profondo. «Mi ricordo
solo che ho sentito
un dolore
atroce e poi sono caduto e tu mi stavi guardando e... è stato
come rivivere la mia vita in tutte le cose più
orribili…»
Sospiro. Cerco di calmarmi.
«Chi è stato a chiederti di farlo?»
Non
mi guarda più.
Silenzio.
Parlo per lui.
«Era un uomo. Ti
ha promesso qualcosa.»
Sbuffa, respira stanco. «Allora
lo sai già.»
«L’ha
fatto anche con Julia.» Mi passo una ciocca di capelli
dietro l’orecchio quasi come mossa istintiva, non sopporto il vento che si è
alzato, non sopporto di averlo rivisto, non sopporto il modo in cui mi ha
parlato e odio il modo in cui mi sta guardando. Ma devo farcela e devo farlo da
sola. «Bene, non mi serve sapere altro.»
Mi dirigo verso l'uscita.
«Perché adesso?»
Mi irrigidisco, come succede sempre quando penso a lui, quando penso a Martin.
«Adesso, Hans. Non c'è niente da spiegare.»
Mi
dirigo verso l’uscita a grandi passi, più veloce che posso, ormai è finita,
tutto è sempre allo stesso punto di partenza e non riesco a venirne fuori. Da
sola, devo farcela da sola ma non ho ancora trovato il modo. E mi dispiace,
perché così avrei anche una spiegazione, così avrei modo di capire che cosa
sono dentro questo chi. È stata una grande fortuna che Julia sia venuta a
cercarmi per darmi una mano. E Hans verrà mai a cercarmi?
Una
presa sul braccio.
Non
somiglia più a quando aveva tredici anni perché sulla pelle e mentre lo
guardo, sento che lui non vuole che me ne vada. Non ancora.
«Mi dispiace, Sarah.» I suoi occhi sono grigi di un cielo triste.
«A te?» sussurro.
«Sai…
cosa mi aveva promesso?» Ride, solo un poco. Ha una risata ampia, mi abbraccia
come una calda coperta d’inverno. «Quella macchina rossa che aveva anche Tom…
Tom che non faceva altro che vantarsi di quello che aveva, mentre io non avevo
niente.»
Non è vero che non avevi niente. C'era il tuo migliore amico. Quella ragazza con i capelli lunghi...
C'ero io.
«Non
me l’avevi mai detto.»
«Non
si strappano i sorrisi alla gente parlando di quello che non hai.» Sorride,
mentre lo dice, ed è un sorriso che non dice gioia ma solo resisti, continua a
resistere. «Qualche sorriso te l’ho strappato, e ancora meno parole… cosa ti ha
fatta cambiare?»
Martin.
Ma non dirò il suo nome. Fa ancora male, riporta alla luce che cose che per
Sarah il mostro avrebbero sempre dovuto essere nascoste dall’ombra. Sospiro. E
poi non sono cambiata così tanto, sono solo cresciuta. E alla mia non risposta
Hans mi sfiora la mano con la sua.
«Non
pensavo che ti avrei rivisto mai più.» Mi guarda, il tono di voce sottile, una
carezza di parole. È come se ci fosse qualcosa ancora in sospeso, fra noi, come
se non ci fosse modo lasciarci se prima non scopriamo cosa ci siamo lasciati
indietro in questi anni.
«Avevamo
gli stessi pensieri, allora.»
Che cosa sarebbe successo se non ti avessi mai
fatto del male? Che cosa sarebbe successo se avessimo passato quel tempo
insieme?
Sembra quasi che sia un ragazzo qualsiasi, mentre digita il suo numero
di telefono sulla tastiera del mio cellulare per rimanere in contatto. E mentre vado via, sento
chiudersi l’aria intorno alle mie spalle, al posto dell’abbraccio che non c’è
mai stato.
***
Martin.
«Erano
tutti nell’ufficio di tuo padre?»
Mi
passo la mano sul mento, sento i fili cortissimi della barba che mi
graffiano
leggermente la pelle, sospiro e guardo altrove. In piedi nella stanza
di Cameron, mi lascio andare ad un sospiro rumoroso. «Già.
Quello l'ho fotocopiato l'altro ieri... poi non sono più potuto andare nell'ufficio. Doreen
sembra che lo faccia apposta a non uscire dalla cucina, e la chiave
è lì. Poi questi giorni sono stati incasinati e...»
«Soggetto
pericoloso,» legge Carmeron, lo guardo e il suo viso è perplesso, le palpebre
assottigliate sugli occhi neri, i capelli un po’ scompigliati. «Pensi
di poter scoprire qualcosa?»
Scuoto
la testa, forte. Mi alzo in piedi. «Non penso, io devo scoprire qualcosa, Cam.»
«Anche
se è successo quel casino con lei?»
«Non
mi importa dei casini.» Mi appoggio al muro con una mano, il braccio teso, la
fronte contro il polso. Mi importa di lei. Mi avvicino
di nuovo al letto e prendo in mano uno dei fogli che ho fotocopiato… qui c’è
lei, deve avere sui dodici o tredici anni, qualcuno la abbraccia da dietro e la foto
sembra presa dall’alto. I suoi occhi non si vedono, ma ha il corpo teso, le
braccia all'indietro, le gambe che scalciano, i capelli sciolti e disordinati sulle
spalle… è terrore, quello che sente. Quello che ha sentito.
Sento
il campanello ma non mi muovo.
«Hai invitato qualcun'altro senza il mio permesso?» mi chiede Cameron, esitante.
«Non da sobrio.» Mi chino per prendere tutto, nel caso Holly entri e veda qualcosa; è
una cosa mia e nessuno oltre ai necessari deve esserne a conoscenza.
«Ti sei ubriacato ultimamente?»
«L'ultima volta ho fatto una cazzata talmente grande che non ci ho più provato.» Tre, quattro, cinque
fogli, libri per coprirli… meglio un casino infernale
piuttosto che qualche titolo come la bambina mostro che viene fuori per
caso.
Sarah non è un mostro. Non lo è mai stata, lo so.
«Dai, vai.»
«Ma
proprio io? »
«Cam!
»
«Uffa!
»
«Io sono ospite, quindi vai tu.»
«Ti giuro che se è una ragazza farò di tutto per uscirci insieme.»
«Magari è solo il postino.» Cameron si diledua, sento i suoi passi rieccheggiare nel corridoio e non riesco
a trattere il sorriso.
Sento
il rumore della porta che si apre… e adesso sentirò la risata di Doreen come se
mi fosse accanto, lei che si offre di prepararci qualcosa da mangiare, e poi
vedrà tutto il casino qui dentro e mi guarderà nel modo in cui si guardano gli
scarafaggi che ha paura di schiacciare perché fanno troppo schifo e scuoterà la
testa con i suoi riccioli castani scurissimi.
Ma
non sento la sua voce. Non sono a casa mia, come potrebbe mai essere...
«Sì...
so che sei un amico di Martin. Sono passata da casa sua ma non c'era,
allora la domestica mi ha dato il tuo indirizzo... è qui?»
Questa
è un’altra voce.
Esco
dalla stanza e mi inoltro nel corridoio, veloce, no, non troppo veloce, vedo un
riflesso rosso sul pavimento in legno colpito da un raggio di sole che filtra
dalla finestra. Capelli rossi. Sento il cuore accelerare. E se ci
fosse lei? Calmo, calmo, calmo…
Cameron
accenna un sorriso, entrambi gli angoli della bocca all’insù, tesi.
«Lei è
un’altra tua fan, Mat?» Cameron la guarda e il sorriso si distende in modo da
addolcirsi. Le guance di lei prendono colore.
«Julia.»
Mi
guarda, gli occhi marrone terra con le ciglia ramate a squadrarmi.
«Sarah mi ha
detto dei giornali.» Sento lo stomaco che si rivolta in una sensazione di
fastidio. «Le servono, per scoprire qualcosa, e su internet è tutto scomparso.
Non c’è niente nemmeno in biblioteca.»
«Lei?
» Il tono in cui chiedo la deride, sento qualcosa di acido, bollente, salirmi
in gola: è frustrazione, rabbia, la voglia di cercarla e aggiustare tutto con
qualcosa ancora più grande che mi grida che è impossibile. «Non poteva venire
lei a chiedermelo?»
Si
mette a braccia conserte in un movimento lento, scocciato. «Non so cosa è
successo fra di voi, ma lei non ti chiederebbe niente per nessuna cosa al
mondo.» Colpito. Non affondare, non puoi affondare, non affonderai. «Ma
riconosco che tu hai qualcosa che può essere utile.»
«Be’,
la collaborazione è tutto in questi casi.» La voce di Cameron è decisa, dice
io sono una persona matura al contrario di questo imbecille qui.
Julia
distoglie lo sguardo da Cameron, si passa un riccio di capelli fra le dita.
«Allora?»
«Ci
sto, Julia. » Ovviamente. «Quando ci vediamo? »
Aggrotta
le sopraciglia. «Ve-vediamo? »
«Con
il resto della squadra,» aggiunge Cameron.
«Un
momento… tu che cosa sai?» Julia si rivolge a lui, alzando la voce, la
camicetta viola che le si alza leggermente.
«Io?» Sul viso di Cameron prende forma l’espressione da questo videogioco è una
figata assurda. «Tutto! Tranne i particolari piccanti.»
«Ok,
questa cosa non mi riguarda.» Julia si passa una mano sulla guancia come se si
stesse togliendo qualcosa di sporco. Torna a guardarmi. «E poi, vederci in che
senso? »
«Devo
parlare con Sarah. »
«Ma
lei non vuole parlarti. »
Mi
sforzo in tutti i modi di fare il mio sorriso migliore. Ci riesco, lo so, ce la
faccio sempre. «Dovrà fare uno sforzo. »
«Ci
sono ragazze che pagherebbero per parlare con lui.» La voce di Cameron.
«Grazie,
Cam. » Metto le mani in tasca, trattengo
il nervosismo.
Julia
si morde le labbra, sembra imbarazzata. «È importante, Martin.» Il modo in cui
lo dice mi fa abbassare leggermente le spalle, sembra dire per favore in ogni
sillaba, posso percepire lo sguardo attento di Cameron su di me.
È
importante. Come se non l’avessi capito. Come se ogni cosa che riguarda Sarah
non lo fosse.
Sarah.
I
raggi del sole annegano nell’acqua del lago davanti a me, nel parco vicino
scuola. Non fa più tanto freddo, ormai. Ho messo via sciarpa e guanti, il lino
della maglietta è fresco e mi dà sollievo, mentre guardo il mio riflesso in
quest’acqua. Abbiamo deciso di incontrarci qui, tutti e tre.
Io,
Julia.
Ed
Hans.
Vedo
la superficie dell’acqua ondeggiare leggermente, come se l’aria ci stesse
vibrando sopra; alzo il viso e vedo un sasso piatto che cavalca la calma piatta
del lago e si ferma poco vicino ai miei piedi. Guardo ancora più in là. C’è un
ragazzo, e il suo sorriso che ho capito essere sempre a metà mi tiene bloccata come
se le sue stesse mani mi stessero stringendo in una morsa che toglie il fiato
dai polmoni.
«Hans.» Mi ritrovo a sussurrare il suo nome. Fa il giro del lago per raggiungermi ed
io volto la testa, Julia sta camminando verso di me.
Saluti
semplici. Julia mi riserva addirittura un sorriso. «Hans, lei è Julia. Julia,
Hans.» Si stringono la mano, si guardano, sembra tutto così naturale da
mettermi a disagio.
«Il
problema è questo,» comincio. Mi tiro la maglietta verso il basso per
sistemarla, mi siedo sulla panchina. «A parte quello che so di voi, ed io di
me… ed è decisamente poco, non so niente. Non so come andare avanti e come
cercare di arrivare una conclusione.» Faccio un respiro.
«Com'è possibile?» La voce di Hans è incerta. Riesco solo a guardarmi le scarpe.
«C’è
qualcuno che potrebbe aiutarci, in realtà.»
«No.» Lo penso e lo dico nello stesso istante. Fisso i miei occhi in quelli grandi
e marroni di Julia; il suo sguardo esita.
«Chi
è questo qualcuno?» chiede Hans.
«Nessuno,» rispondo io. Scuoto la testa, una ciocca di capelli mi finisce sul viso, la
allontano, stringo le mani sulla borsa per cercare di far andare via questa
tensione.
«Sarah,
scusa, ma se ti ostini a chiamare l’unica possibilità che hai nessuno allora
non andremo da nessuna parte.»
«Martin
non è la mia unica possibilità.»
«Ah,
allora ti ricordi il mio nome.»
Il
mio corpo diventa granito, lo sento, riesco a sentirmi perché
mi diventa la
pelle d’oca ed io riesco a sentirlo, riesco a sentirmi come tutte
le volte in
cui c’è lui. No, no, no. Martin. Martin che non aspetta
che io mi volti, mi si
siede accanto con quella strafottenza che è solo sua e mi
attanaglia lo stomaco. E poi non so perché, non so come, alzo il
viso e lo guardo
e incontro i suoi occhi. Avrei potuto passare tutto il tempo a fissare
le
scarpe e invece ho girato la testa verso di lui. Se non l’avessi
fatto sarei
morta, ecco cosa ho sentito. I suoi occhi verdi, grigi sul contorno,
accesi,
indugiano su di me e mi rendo conto di aver sbagliato. Sarebbe stato
meglio se
fossi rimasta a fissarmi le scarpe, almeno non mi avrebbe fatto male.
Anche
solo guardarlo, ora, mi fa sentire dolore. Me lo fa sentire come se da
dentro
qualcuno mi stesse picchiando contro lo sterno. Respiro, respiro forte.
E poi
sul suo viso appare una smorfia che assomiglia a un sorriso ed io non
posso
fare a meno di pensare che è bellissimo e sono stata stupida,
stupida e ancora
stupida.
«Che
ci fai qui?»
«Non
posso fare un giro al parco, Sar?» Si stiracchia le gambe, è così alto. È
così… ogni cosa che ho scoperto di lui mi rimbalza addosso come punizione per
aver finto di aver dimenticato tutto. Le mani grandi che stringono il legno
della panchina e mi hanno accarezzato il viso, le braccia, la schiena, la bocca
che si stira, mi ha baciata, e la lingua che schiocca e tutte le sue parole,
tante parole che mi hanno fatto sorridere senza sofferenza, come se per me fosse
stato un bisogno. Martin. Io ne avevo bisogno. Io…
«Ti avevo chiesto di lasciarmi in pace.» Mi metto in piedi.
Mi segue. Noto appena che dietro di lui c’è un’altra persona, una ragazzo
moro con un cappello in testa, ma Martin copre ogni cosa.
Faccio
un passo indietro e poi sono le sue mani su di me: la sua mano sulla pelle nuda
del mio braccio ed è come annegare perché lui non deve toccarmi mai più anche se mi manca da morire.
Sapevo
che eri un mostro, sapevo che eri un soggetto pericoloso.
E
non potrà succedere mai più. Avvicina la bocca al mio
orecchio ed io mi sento stordita, percossa, nel bel mezzo di un vortice
di sensazioni che non voglio più provare. «Sono qui per mantenere la promessa. Ti ho promesso che ti avrei aiutata, e lo faccio.» Il suo fiato sulla mia pelle.
«Ti
decidi a lasciarla o vuoi un incoraggiamento?»
Hans.
È
così sicura, la sua voce. Ha sempre quella tonalità un
po’ alta che è rassicurante, potrebbe dire qualunque cosa
ed io sarei tranquilla, ma non
adesso perché Martin…
«Parli con me?» La voce di Martin invece mi fa sentire la
frenesia che scorre nel sangue. Agitazione. Non riesco a respirare. Confusione.
Devo respirare.
Respira,
Sar.
Mi
divincolo dalla sua presa.
«E
tu chi sei, il ragazzo di Julia?» Martin si rivolge ad Hans.
«Sono Hans Renton e Julia l'ho appena conosciuta. Ci è successa la stessa cosa.»
Nello
sguardo di Martin vedo il fastidio, lo sento come se fosse mio. E sento i
battiti del cuore in gola a parlare per me, sento che il fastidio di Martin
diventa rassegnazione e i battiti aumentano, aumentano, mi opprimono le corde
vocali.
«Io sono Cameron, giusto per farvelo sapere. Sarà carino lavorare tutti insieme, no?»
*
*
*
*
Questa bellissima grafica è stata realizzata dalla pagina Matchless ∂eѕιgn, passate a dare un'occhiata! Grazie mille ancora *.*
Ciao a tutti!
Allora,
vi chiedo scusa per non essere ancora riuscita a rispondere alle vostre
recensioni, lo farò presto. Purtroppo in questo periodo sono
impegnatissima. Ringrazio tutti coloro che recensiscono e mi rendono
così felicissima, chi inserisce la storia fra preferite,
ricordate e seguite e in generale per leggermi. Grazie davvero di
cuore. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto <3
Grazie ancora a tutti voi.
Ania :)
|
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Capitolo 18 *** 17. Spilli ***
until 17
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
17.
Spilli
È andata. Ci sono stati complimenti per la
tesi, sorrisi e brindisi nel solito locale della città, con quello che per le
persone è il solito amico e con tanti altri studenti. Senza famiglia. Lascio la
festa appena vedo che c’è abbastanza gente ubriaca per non essere notato, la testa
mi scoppia come se avessi bevuto molto più di loro. Non so cosa mi stia
succedendo. Ho lasciato perdere le pietre per un po’; le ho conservate fra i
Sali del bagno che appartenevano all’inquilino precedente, in un cassetto del
comodino. Mi chiudo la porta alle spalle con la
speranza che il dolore – tanti piccoli colpi appuntiti sulle tempie – smetta.
Colpi appuntiti di piccoli spilli d’acciaio. Pungono, è
come se li sentissi entrare nel cervello. E quando il campanello suona, sembra che quelli spilli mi
passino completamente attraverso. Trascorrono dei minuti, prima che mi illuda che
il dolore sia un po’ meno rispetto a prima… e poi la vedo.
«Non dovresti essere qui.» La mia voce è
un rantolo.
Cassie fa un passo avanti, i capelli
castani dai riflessi ramati che le accarezzano il viso lisci, il viso ovale e roseo e tremendamente
bello con delle occhiaie che sembrano dipinte, non sue. Non sono sue. Sono io
la causa di tutti i suoi malesseri.
E per la prima volta, sento che deve
essere così.
«E invece sono qui, Joe. Che cosa ti
succede?»
«Va’ a casa, Candy.»
«Ho lasciato il lavoro per venire da te,
Rachel mi copre.»
Ogni cosa di me le porterà dolore. Ogni
cosa di me sarà un motivo per morire. Ogni cosa di me sarà la mano assassina
che la porterà a non essere più la Cassidy Grace che il mondo ha conosciuto.
«Candy… dolce Candy.» Rido. Perché rido?
Non voglio ridere. Voglio abbracciarla. Voglio...
«Cassie!»
grida. Mi arriva uno schiaffo in pieno viso. Ma
non sento niente, mi sto abituando agli spilli che affondano sempre e
ancora
dentro di me. «È Cassie il mio nome, Joe! E ti ho dato il
mio tempo, il mio silenzio, ogni cosa volessi e tu non puoi chiamarmi
con un
altro nome! Cassie… Cassidy Grace… » Tira su col
naso ed è splendida e
mi odio, e qualcosa dentro di me mi dice non esserne dispiaciuto, sii felice.
Sii felice, Joe.
Non posso.
«Cassie.» La mia voce. «Cassidy Grace.»
E la abbraccio e sento i suoi nervi
sciogliersi e, sulle mie labbra, le sue, secche dal profumo di caffè, salse
dall’aroma di rosmarino, torte ai lamponi. E inspiro l’odore dei suoi capelli,
frittura, shampoo al profumo di fiori, lavoro.
«Io ti
amo, Joe,» dice nella pausa di un respiro.
Gli spilli continuano a spingere, li
ignoro, deglutisco. Dico la verità come se questa fosse la mia ultima
possibilità. «Ti amo anch’io.»
Ti amo e perdonami. Perdonami per il segreto
che siamo diventati. Perdonami per la vergogna di dire a chiunque che tu sei
l’unica. Perdonami per averti detto poco di tutto quello che ho fatto…
l’università, la medicina, la tragedia della mia vita, le pietre.
Le pietre che non ho conservato nello scrigno, lo scrigno andato perduto... avrei dovuto rinunciare, avrei dovuto dire addio.
Perdonami,
Cassidy Grace.
Le
tolgo i vestiti, mi toglie i vestiti, annaspa con le mani fra i miei capelli,
dice il mio nome Joe… Joe, la sua
pelle sulla mia bocca e il suo sapore vero, amato. Stringe le gambe intorno al
mio bacino e vorrei essere suo per sempre, voglio che mi prenda e mi nasconda,
voglio essere invisibile, voglio amarla per tutta la vita e spingo, e sento le
sue carezze sulla schiena. Voglio che gli spilli smettano di affondare e
affondare e voglio amarla in pace e spingo, spingo ancora. Cassie… Cassie. Joe.
Cassie. I nostri nomi. Ti amo, Cassie, e c’è qualcosa di sbagliato. Ti amo,
Cassie, ma perché mi sembra di essere così lontano. Joe… Joe… sono qui. Joe…
non è vero. Joe. Non tornerai mai più. Cassie… Non c’è modo di tornare
indietro. Io ti amo, ti amo, perdonami. Un'altra spinta e qualcosa di simile a
una scossa sembra annulare sempre e per sempre questi dolori d’acciaio nella
testa. Nella testa e in tutto il corpo. «Perdonami, Cassie.» Non è colpa mia.
E lei mi guarda con i suoi occhi marrone chiaro, dolce nocciola di questi anni.
Ma ora gli spilli sono affondati ovunque
ed è troppo tardi.
***
Sarah
Il sole è tramontato – l’ho visto annegare
nell’acqua mentre il rumore dei passi di Martin che si allontanava diventava sempre più
lieve – e la strada è deserta. Per questo ci cammino in mezzo; è una cosa che
ho fatto poche volte, una delle poche cose che mi sono permessa di
sentire. La possibilità di morire, in fondo, è strettamente vicina alla
possibilità di vivere. In bilico fra le due cose, sono sempre stata ferma,
troppo spaventata per fare un passo avanti e sceglierne una. Resto allora in
questo nulla – strada asfaltata, echi lontani – immersa in me stessa.
Ma non abbastanza, perché non sono sola. Perché sono con...
«Hans,» comincio. «Alla prossima fermata passa il
bus per il tuo istituto. Non c’è bisogno che…»
«Non preoccuparti.» Cammina con le mani in tasca,
con calma, naturalezza.
Mi dispiace di non poter essere di
compagnia, per lui, ma allo stesso tempo non riesco ad insistere. Questa sua
quiete mi avvolge in un torpore simile al sonno, un sogno da cui sai che presto
ti sveglierai e che non vuoi dimenticare quando aprirai gli occhi.
«Mi
piace fare due passi.» La sua voce è chiara.
Scende liscia sulla mia pelle, come il fruscio di un lenzuolo, qualcosa
di
inaspettato e dolce. Da quando ci siamo rivisti fra noi è tutto
così, inaspettato e dolce, più bello che nei ricordi,
qualcosa che mi accarezza la pelle lasciando un lieve pizzicore, il
tremore che viene dopo il freddo, quando l'aria di primavera è
appena arrivata.
Sorrido fra me. «In realtà sono più di due passi.»
«Non sono molto preciso. »
Alzo il viso verso di lui. Sorride a quel modo un
po’ storto, asimmetrico, con un’assurda armonia che lo rende bello, con i
capelli ricci un po’ disordinati e gli occhi di quel grigio a metà fra il
bianco e l’azzurro chiaro. Hans Renton, diciassette anni. Chi sei, Hans?
«Casa mia è lontana due kilometri e mezzo, invece,»
butto lì, incapace di dire altro, di chiedere.
«Vivi con i tuoi nonni, vero?»
Sono
stati così precisi i giornali. «Sì. Sono i genitori di
papà…» E di sicuro Hans conosce il resto. «E tu, in quell’istituto? »
Non si scompone. «Vivo in quell’istituto, sì.» Si
passa una mano fra i capelli e sospira. «Mia madre mi ci ha lasciato quando non
avevo ancora imparato a parlare.»
Sento che lo stomaco mi si contorce, mentre
l’immagine di un bambino dai grandi occhi grigi e tanti capelli piange avvolto
da braccia estranee. «Mi dispiace, lei… non poteva tenerti?»
«Mi ha avuto quando aveva quindici anni, mio padre è
scomparso ed io ero il suo casino.» La sua voce è ferma. Hans parla come se
stesse analizzando un quadro, un paesaggio arido, un cielo bianco.
I miei genitori sono morti, invece.
Il cielo del paesaggio si macchia di rosso, schegge
di vetro, il pianto di un bambino.
«Tu… l’hai conosciuta?»
«Certo. Con i suoi due figli. E suo
marito una volta l’ha accompagnata, rimanendo in macchina. Ha finito la scuola
superiore, ha un lavoro…» Pausa. Respiro sospeso. Parole ferme in gola.
«Eppure mi lascia lì, in mezzo a ragazzi che hanno i genitori in prigione, o
sono orfani senza tutori, o hanno bisogno di rivedere la loro condotta.»
«Hans. » Poso una mano sul suo braccio per farlo
smettere di camminare. Lui, con lo sguardo dritto e la mascella contratta in
quella sua simmetria bizzarra, dura. Che piace a me.
«Non volevo. Scusami.»
«Un tempo non parlavi. Ora hai anche la voce per
scusarti.»
«Davvero, io…»
«C’è
chi non si scusa mai, anche quando dovrebbe. Se
qualcuno deve chiedermi scusa, non sei tu.» Si passa una mano fra
i capelli,
proprio ora che si è alzato il vento, qualche ciocca che gli
colpisce piano il
viso. Posa la sua mano sulla mia, ferma sul suo braccio. Hans urla, nei
miei ricordi, urla fra le mie braccia e io so che sono io, la causa di
tutto questo. Lo stringo a me, gridando inutili "No", mentre lui si
accascia a terra...
«C'è qualcosa per cui dovrei chiedere scusa, invece,» sussurro.
«Non è vero. Sono stato io. Sono stato stupido, e così ti ho perso.»
Ritraggo subito la mano, guardando altrove – quel
palazzo, quell’albero, quel lampione – le mani di Hans – un sospiro – Hans.
«Non mi hai perso. Io sto bene. Sto meglio. E scopriremo tutto... mi impegnerò. Lo devo fare.»
Continuo a camminare. «Mi impegnerò anch'io.»
«Hai amici, lì all'istituto?»
«Sì… ho un migliore amico, una vita
tutto sommato normale a parte qualche incidente di percorso. Ma sono cose che
succedono, un po’ tutte le persone sono incidenti di percorso sulla strada di
qualcuno. »
Deglutisco. Aumento il passo. Ricordo il momento in
cui, per la prima volta, ho alzato gli occhi verso di lui. Ferma sullo scalino
del pullman, è stata l’unica volta in cui l’ho guardato dall’alto. E così mi
sono resa conto, spaventata, che lui stava guardando me. Lui, il ragazzo del
bus. La mia spalla ha sfiorato il suo braccio, mentre scendevo e i suoi occhi
mi seguivano. Ed io ho creduto che, solo scappando, mi sarei salvata da tutto.
Come se voltarsi bastasse ad andare via, come se andare via bastasse a
dimenticare.
«Già.»
«Anche tu ne sai qualcosa, di incidenti di percorso?
»
Ne so fin troppo, forse. L’ho evitato, ma alla fine
mi ci sono imbattuta lo stesso, nel mio incidente di percorso. Doveva farmi
anche male, per farmi vivere. Doveva farlo per farmi svegliare dal mio sonno di
solitudine. Grazie, Martin, per avermi tagliato la strada.
Ma non posso dire questo.
«Anch’io sono un incidente di percorso, a modo mio.»
E mentre Hans mi sorride, mi accorgo di aver detto
la verità.
«Comunque
se vuoi, quando ti va, una sera... o
pomeriggio, non so, possiamo passare del tempo insieme.» Mi
sembra tutto così impossibile, eppure l'espressione di Hans mi
infonde così speranza che alla fine parlo. Parlo e gli dico: «Mi piacerebbe davvero molto. Quando?»
«Anche
adesso. Sempre, sono sempre libero, direi.»
«Allora
adesso.»
Mi fa segno di seguirlo. Attraversiamo il giardino –
una grande staccionata con qualche pianta qua e là e delle panchine – e saliamo
gli scalini che ci portano ad un lungo corridoio. La prima cosa che penso di
questo posto è che è vuoto; non si sente altro che il rumore dei nostri passi.
Pavimento beige, muri bianchi con scritte infantili, disegni di principesse,
supereroi che volano sulle città.
«La classe non è acqua, mhm? Oppure sarebbe meglio
dire… la classe non è l’istituto St. Vincent.»
Rido, con quello strano sussulto nella voce che
viene fuori tutte le volte in cui me ne rendo conto.
Il sorriso di Hans si fa più largo.
«Sono carine le principesse sul muro. Insomma, da un
istituto del genere mi aspettavo… »
«Scritte oscene? »
«Be’… »
«Disegni oltremodo osceni? »
«… Ecco. »
«A che ti serve disegnare certe cose se le puoi
fare. » Di nuovo quel sorriso da bambino sul volto da diciassettenne. «Ma io
sono un bravo ragazzo, ci puoi contare.»
«Non ne ho dubitato nemmeno un po’.»
Dopo qualche altro passo raggiungiamo un ampia
scalinata; saliamo e poi lascio che lui mi guidi in un altro corridoio, con
tante porte da entrambi i lati. Si ferma davanti alla penultima, ci infila una
chiave e la apre. Quella che vedo una stanza con due letti al centro, separati
da un comondino senza lampada sommerso da libri e raccoglitori. Il bianco del
muro coperto da poster di cantanti e sportivi, una scrivania disordinata.
Ed Hans che avanza in quel caos e si ferma davanti
al suo letto, si abbassa sui gomiti, trattiene il respiro prima di farlo.
Trattiene il respiro, prima di estrarre da sotto il letto una chitarra classica
in legno chiaro e poi rialzarsi in piedi.
«Questo è il mio tesoro, » dice, sicuro come non l’ho
mai visto. Sicuro a quel modo che riesce a guadagnare solo più fiducia, e non
incertezza. «Vuoi sentire una canzone? »
***
Martin
Giro la pagina del libro di biologia e comincio a
leggere il paragrafo sull’ingegneria genetica, quando: «Martin, ma che cosa
pensi di fare?»
Alzo il viso di Cameron. Seduti al tavolo della
cucina di casa mia, per la prima volta dopo mesi pensavo che sarei riuscito a
fare qualcosa di costruttivo.
«Studio.»
Cameron sbuffa e poi abbassa il capo. La sua voce
viene fuori sussurrata. «Per non pensare a Sarah? »
«Perché domani di sicuro la prof mi interroga, Cam!
Non sono mica in uno di quei telefilm americani in cui tutti hanno tempo di
rovinarsi la vita e la scuola non esiste. Io devo anche essere interrogato.»
Si passa una mano fra i capelli neri cortissimi,
assottiglia gli occhi fino a far toccare le ciglia superiori e inferiori. «Non
ti è mai importato prima. »
Adesso
mi importa di cose che un tempo non avrei nemmeno sognato.
Prendo l’evidenziatore e comincio a sottolineare,
Cameron si accascia sulla sedia e nella mia mente le parole del paragrafo si
accavallano, le lettere si intrecciano, si mischiano, A, B, C, D, l’alfabeto,
tutto quanto, per poi ritornare su un solo nome, un solo pensiero.
Sar…
«Dio, non ci capisco niente…» sbotto, senza la forza
di fermare la mia mente che scrive il suo nome, macchina da scrivere
arrugginita, scrittore sadico della mia vita che schiaccia la S, la A, la R,
torna indietro, poi va al centro e lei appare con il suo sorriso, il suo
pianto, il suo amare le poesie di Emily Dickinson, le sue paure assopite per
quei pochi momenti in cui mi sono salvato dalla mia idiozia.
«Lo so, Martin. »
Incontro il viso serio di Cameron e mi sale la
nausea del vuoto. Lo stomaco non ha niente, ma qualcosa di simile al veleno me
lo fa contorcere in un mare di melma viscida.
«Tornerà tutto a posto, no? » Chiudo il libro e mi
alzo in piedi, respiro, respiro forte, mi fa male la gola come se qualcuno mi
stesse affondando le unghie nelle corde vocali, quegli organi che faticano,
molto di più della macchina da scrivere della mia testa, a far venire fuori le
parole. «Risolveremo il problema e Sarah mi ascolterà e ed io potrò… potrò
dimostrarle che…»
«Martin…»
«Potrò dimostrarle che quando sono stato con Yvonne
non la conoscevo e…»
«Martin.»
Cameron di fronte a me. Camicia a scacci
rossa aperta sulla canotta bianca, le sopracciglia scure e folte
inarcate, gli
occhi neri e limpidi, barriera trasparente da cui posso vedere tutto.
Ma la
sua voce parla ancora prima che io legga il suo sguardo.
«Sarà difficile,»
fiata. Sospiro, faccio di sì con la testa quando quello che
vorrei fare è
gridare no, ancora no, ma poi mi siedo di nuovo e mi metto le mani fra
i
capelli poggiando i gomiti sul tavolo perché Cameron ha ragione.
Cameron è
quello dalle battute facili, i sorrisi che ti salvano, è quello
che ti dice la
verità quando capisce che ci stai dando dentro con le illusioni,
perché quando
ti riempiono è finita. Con uno spillo scoppi e resti magro di
certezze, pieno
di dolori. Meglio restare tutto intero e affrontare le cose insieme a
lui, che
è forte abbastanza da sopportare i macigni di tante vite
insieme. «Sarà difficile, Martin. Sarà difficile
perché
il tuo segreto è la tua famiglia. Sarà difficile
perché Sarah l’hai conosciuta,
e sai che puoi averla persa per sempre dopo quello che Yvonne le ha
detto. Sarà
difficile, perché non è sicuro che riuscirai ad aiutarla,
e per questo il
segreto che è ora segreto con lei non lo deve essere più.
Sarà difficile,
perché c’è quel ragazzo.»
Mi si contraggono tutti i muscoli, mi si appannano
gli occhi, vetro contro nebbia, difese contro nemici. «Quel ragazzo non è
niente per lei.»
«Quel ragazzo… Martin, qualunque cosa Sarah sappia
fare, l’ha fatta su di lui. Si sente in colpa e lui è molto gentile con lei. Va
bene, diciamolo, Sarah, quelle volte in cui non guarda per terra – e sarà
proprio per questo che non l’abbiamo mai notata prima – è un vero schianto. E
loro sono legati da qualcosa. Perciò...» Mi dà uno schiaffo sulla nuca ed io me
la tocco d’istinto. «Sbrigati a raccontarle la verità. Sono sicuro che lei
prova ancora qualcosa per te, ma il tempo allontana le persone ancora di più di
quello che accade. Con le ragazze bisogna andarci piano ma questo è il momento giusto per correre, Martin.»
Respiro.
«Devo correre.»
«Già. Bottiglia d’acqua a portata di mano.»
«Bottiglia d’acqua? In frigo c’è il succo
all’ananas.» La voce di Doreen mi fa raddrizzare sulla sedia come se qualcuno
mi avesse tirato i capelli. Lei, Doreen, posa la busta della spesa sul tavolo e
si passa un ricciolo scuro dietro l’orecchio. «Se aspettate un po’ faccio anche
una torta.»
«Sarebbe grandioso, grazie.» Cameron parla al mio
posto, mi dà il tempo di tornare me stesso, di ritrovare il solito Martin
Scott.
Doreen si volta, si muove verso la macchinetta del
caffè sul il ripiano della cucina con quella
velocità che riesce ad apparirmi calma e assolutamente spontanea, la stessa che
hanno tutte le madri che ho conosciuto. Tutte quelle donne che si occupano
della casa e di qualche adolescente con la testa da tutt’altra parte.
«Studiate?» chiede, rigirandosi verso di noi con
una caraffa in una mano e una tazza di vetro trasparente nell’altra. Ci versa
dentro il caffè nero – nero nerissimo, come dicevo io da piccolo –, posa la
caraffa e comincia a sorseggiarlo.
«Sì.» Tossisco. «Scienze.»
Ancora con la tazza in mano, Doreen svuota la busta
delle mele nel cesto di frutta di vimini. Fisso di nuovo lo sguardo sul libro
con la seria intenzione di imparare qualcosa, quando il rumore di una porta che
sbatte svia la mia attenzione.
Rumore di passi – scarpe costose, cuoio italiano –,
resto immobile come se lo stesso sangue che mi scorre nelle vene non si
muovesse più.
L’aria è immobile, mentre mio padre entra nella
stanza. Guardo Doreen. Guardo Doreen perché è la persona più simile a un
genitori in cui me la sento di credere.
«Salve, Joseph.» Sorride, Doreen.
«Buonasera, signor Scott,» dice Cameron. Ha studiato
teatro, alle scuole medie, anche se gli hanno assegnato il ruolo della carta
jolly in “Alice nel paese delle meraviglie”.
«Ciao. » Non so chi abbia salutato. «Doreen, stasera
parto, ti lascio…»
«Certo, un attimo solo.»
Doreen sistema altre due mele – superficie liscia
sulle sue dita –, posa la tazza sul lavandino, si passa le mani sui jeans e la
vedo allontanarsi, uscendo dalla mia visuale.
«Martin.» Le sue mani sulle mie spalle. Mi mordo la
lingua per non sussultare. «Come va con la scuola?» Voce apprensiva. Una voce
troppo vicina.
«Va bene, papà.»
Tremo dentro.
«Joseph?» Doreen lo chiama. Le mani di mio padre –
JS – mi lasciano le spalle.
I suoi passi si allontanano, sento il fruscio della
porta scorrevole che viene chiusa venendo fuori dallo spazio nel muro.
Torno a respirare.
Il cuore mi batte in gola, forte, opprimente, mi
stordisce; e si accende, nella mia mente, l’alternativa più giusta. Ora che
Doreen è in un’altra stanza e non è notte e nessuno si sveglierebbe per i
rumori, posso prendere la chiave dell’ufficio.
Mi alzo.
Posso prendere quella chiave e aprire l’ufficio e
prendere quei documenti.
Mi avvicino al cassetto, lo apro.
«Martin, ma cosa…»
«Cam, zitto.»
Non
c’è.
Scorro con le mani le varie chiavi che sono
sistemate qui.
Non
c’è.
«Certo, va benissimo…»
Doreen.
Chiudo il cassetto e mi ci appoggio con le braccia
conserte, sguardo dall’altra parte della stanza, respiro regolare. Regolare, Martin.
Doreen mi mette una mano sul braccio.
«Ti sposti, Martin?»
«Ehm sì, certo.»
E la vedo.
Doreen con quella chiave in mano, Doreen che la
rimette al suo posto e chiude il cassetto. Doreen che, subito dopo, chiude
quello stesso cassetto con un’altra chiave e, senza guardarmi, va a consegnarla
all’uomo che l’aspetta sulla soglia e che saluta con un cenno.
L'aveva presa lui. Devo trovare un modo per recuperare quella chiave
per aprire la porta dell’ufficio, altrimenti sono assolutamente fottuto.
Sarah
Ha una voce bassa, sabbiosa, che si unisce
alle note come se non potesse esserci alcuna alternativa, per quelle parole,
quelle che canta. E per lo stesso motivo in cui, guardando la stanza di Julia
con il poster di un cantante sull’armadio, mi senp sentita felice, mi sento felice ora – in pace –
guardando lui con la felicità nelle mani, nelle labbra che si schiudono nell’ultima
strofa. Hans tocca con il pollice, una dopo l’altra, le sei corde della chitarra
in una dolce conclusione. Esala un sospiro, di sicuro stanco perché io,
sorprendentemente, devo averlo scocciato con le mie varie richieste.
«Sei bravissimo,» sospiro. E non mento. Hans dà l’impressione
di essere diverso, obliquo, un quadro strano con una bellezza insolita,
pallida. Con quella chitarra in mano sembra completo, più di un quadro, più di
un sorriso storto, più di quegli occhi grigi in attesa, che sorridono nello
stesso momento in cui lo fanno le sue labbra. «Hai imparato da solo? »
«Internet e biblioteca, » dice, carezzando ancora le
corde, distogliendo lo sguardo dai miei occhi e continuando a strimpellare.
«Quindi da solo. »
«È stato facile. E poi per comprarla ho lavorato ogni
giorno per quasi un anno, dovevo imparare a suonarla.»
«È… stupendo.»
«Ricapitoliamo… gruppi preferiti? »
«Radioheaad, Depeche Mode, Coldplay…»
«Queen of Stone Age? »
«Sono fantastici! »
Ride. «E degli anni novanta? »
Sto per rispondere, la gioia di parlare di qualcosa che
mi piace e che mi accompagna da tanto tempo mi fa quasi venire l’istinto di
saltare. Ma qualcuno bussa alla porta e la apre.
«Hans, la cena è pron… uh.» Un ragazzo in
canottiera, una scritta cinese tatuata sul braccio destro, viso scavato e i capelli corti da militare, mi guarda.
«La cena? » gli fa eco Hans.
Il ragazzo – i suoi occhi verde chiaro si abbassano
mentre si appoggia lateralmente allo stipite – fa cenno di sì con la testa, poi
torna a guardarmi.
«Lei è Sarah,» dice Hans, posando la chitarra fra lo
spazio che c’è sul letto, fra di noi.
Il suo amico alza la mano in segno di saluto. «Phil.»
Mi alzo in piedi e prendo il telefonino dalla tasca
per guardare l’ora: sono le otto e mezza di sera. Sono passate due ore e non me
ne sono accorta. Scendiamo tutti insieme, mentre Hans e Phil parlano fra di
loro di cose di cui non so niente, di persone che non conosco.
Phil si allontana ed io mi giro verso Hans. «Devo
andare. Però… sono stata molto bene, grazie.»
«Di niente.» Di nuovo quel sorriso, quel sorriso che
mi bacia il cuore perché è andato avanti per la sua strada, anche se io sono
rimasta rannicchiata in un angolo e ho cominciato a camminare molto più tardi,
con le mie forze, i miei desideri. Lui ce l’ha fatta, e ce la sto facendo anch’io.
Per questo poso una mano sulla sua spalla e mi alzo in punta di piedi, lui si
china incerto ed io lascio che le mie labbra carezzino la sua guancia in questo
bacio di saluto.
«Ciao, Sarah.» Lo sussurra, il mio nome.
«Ciao, Hans.»
*
*
*
*
Ciao a tutti! :) Scusatemi per il ritardo, questo week end sono stata impegnata per il mio compleanno :3
Ne approfitto per augurare a tutti voi buone
feste, buon Natale e un felice anno nuovo :) Ci rivediamo con Sarah,
Martin, Hans, Cameron e tutti gli altri Sabato 4 gennaio ^_^
Ringrazio tutti coloro che mi recensiscono,
mettono la storia fra le seguite, le ricordate, le preferite e chi mi
legge sempre. Grazie, grazie infinite a tutti voi *______*
Un bacio
Ania <3
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Capitolo 19 *** 18. Segreti nel cassetto ***
until 18
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
18.
Segreti nel cassetto
Alzo il viso a guardare l’edificio che mi sta di
fronte: grigio, metallico e imponente, quelle tonde finestre gli danno un’aria viva,
stranita, come se non si aspettasse di vedermi qui.
Oh, non me lo sarei mai aspettato nemmeno io.
La scritta “Centro commerciale Coltontown”
lampeggia, rossa e grande e spigolosa, ostile.
«Bene.» Julia, accanto a me, si sistema la borsetta
sulla spalla. Mi guarda, accennando un sorriso che sembra di incoraggiamento, i
suoi capelli raccolti in una coda che scende di lato. «Hai idee?»
«Nemmeno una.»
Cominciamo a camminare, anche se io non ho alcuna
fretta, potrei semplicemente stare qui intorno a fare passeggiate guardando per
terra. È una bella abitudine, vivere silenziosi. Resti sorpreso quando qualcuno
si accorge di te e allora ti sembra di vivere tutta la vita solo in quel
momento. Al tempo di un solo battito di cuore. Mi manca, adesso, perché è da un
po’ che qualche persona in più si accorge di me anche se cammino nel silenzio
più assoluto, anche quando vorrei solo restare tranquilla nell’orizzonte limite
della mia invisibilità.
«Non fa niente, ti aiuto io.» Julia ride. Julia è a
soli una trentina di centimetri lontana da me e ride, come se fossi suo amica,
come se lo fossi ancora.
Grazie, sospiro. Ho davvero bisogno di un aiuto.
Martin
si passa una mano fra i capelli, disordinati
dopo l’ultima ora di educazione fisica, il sole di primavera su
di lui. Cameron
che palleggia con una palla da basket, Hans immobile, seduto vicino a
me.
«Il cassetto è chiuso a chiave. L'unico modo per prendere
la chiave dell'ufficio in quel cassetto sarebbe trovare un modo per
aprirlo ma ci sarebbe rumore, Doreen è sempre in casa e per
farlo ci vorrebbe…»
«Confusione,» dico fra me e me.
«Sì,» assente Martin. «Confusione.»
Ne segue un silenzio pesante.
«Sembra che tu debba fare una festa per il tuo
non-compleanno,» dice Cameron a Martin. «Qualcosa pieno di Alcool e gente che
non capisce niente.»
Martin si passa una mano fra i capelli. «Una specie.»
Chiusa nel camerino del
centro commerciale, Julia mi passa attraverso una fessura tutti i vestiti che abbiamo trovato.
Oh, specchio, mostrami bella, mostrami felice,
distendi i miei diciassette anni di solitudine e paure in qualcosa di innocuo,
normale, di questo mondo.
Ti prego.
Mi
spoglio velocemente e infilo un vestito da sopra: questo qui è blu, aderente,
mi fascia il busto e mi lascia gran parte delle gambe scoperte. È un
po’ come se fossi rimasta senza vestiti, ed ho l’istinto di stringermi nelle
braccia come se facesse ancora il freddo dell’inverno.
Tiro
la tenda del camerino e lascio che Julia mi guardi. Per un suo parere, per
sapere che non sono sola e che, forse, questo vestito è solo una distrazione.
Un modo suo per dirmi che andrà tutto bene. Che faremo dei passi avanti.
«Oh,
Sarah… è stupendo.»
Sbatto
le palpebre.
«Davvero?
»
«Oh,
sì. » Unisce le mani toccandosi il mento con i due pollici. «Sei favolosa. Con
i capelli alzati poi…»
«Non
so, mi fa sentire molto spoglia.»
Mi
passo una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Martin andrebbe fuori di testa.»
«Infatti
mi serve che lui sia in pieno delle sue facoltà mentali.»
«Mi
spieghi cos’è successo? » Si mette a gambe incrociate sulla panca dietro di lei ed io mi
spingo un po’ di più verso l’interno del camerino. Mi mordo l’interno della
guancia. Spiegare… cos’è successo? Julia mi guarda in attesa. Non posso tirarmi
indietro. Non posso perché Julia non ha paura e mi sta trattando come se fossi
normale anche se non lo sono e non lo sarò mai. Ma mi fa sentire così bene,
essere qualcuno che non sono, essere quello che vorrei essere. «Dai provane un
altro e nel frattempo ti chiedo io.»
Domande.
Risposte. Non credo che mi sarà molto utile. Entro di nuovo nel camerino e mi
alzo il vestito, lo specchio mi mostra per come sono, capelli lisci, castani,
gli occhi infossati, azzurri.
«Vi
siete baciati? »
Le
labbra di Martin. Le labbra di Martin che
accarezzano le mie, indugiano, accarezzano di nuovo fin quando non penso che
morirò, morirò se quelle labbra non sono sulle mie.
Lascio
cadere il vestito.
«Sì.»
«Siete…
andati oltre? »
Mi
gira la testa.
«Julia!»
Apro leggermente la tenda per guardarla in faccia.
«Non
abbastanza oltre?» Sta
addirittura sorridendo. Non so cose le faccia intuire la mia espressione, ma
subito dopo aggiunge: «Quasi oltre, ma non abbastanza oltre. Ok, ho capito.»
Ride.
Ed
io mi ritrovo, senza una spiegazione logica, a mischiare la sua risata
con la mia:
suoni chiari, gentili, dimenticati. Va tutto bene, va tutto bene anche
se Martin mi ha fatto male, va tutto bene anche se sono un mostro, va
tutto bene
anche se i miei genitori sono morti. Julia mi prende la mano e mi
sorride ed è
come se in tutti questi anni fosse sempre stata mia amica. Come se
l’avessi
aiutata a sistemare quel poster sulla porta della sua camera, come se
avesse
sempre fatto parte della mia vita, senza mai esserne stata catapultata
fuori.
«Se
non ti va di vederlo, deve esserci anche qualcos’altro. »
Sospiro.
Parlo e racconto come se stessi scrivendo un diario a me stessa. «Una ragazza
mi ha detto di essere andata a letto con lui.»
«Ed
è vero? »
«Sento
che… potrebbe esserlo. E poi li ho visti che si baciavano nel cortile.»
«Stronzo.
»
«No,
non lo è.» Ed è troppo tardi per mordermi la lingua e non dire quelle parole.
Sento il fiato che mi riempie la pancia ad ogni respiro, come se fossi
diventata consapevole del mio corpo all’improvviso. Martin nella mia testa,
Martin nel mio respiro. Vorrei solo scacciarlo, ma se lo facessi non potrei
nemmeno pensare. «È un po’ come me, anche se non ha mai
fatto letteralmente male a nessuno... È sempre stato solo, ma è bravo a
nasconderlo. Quando l’ho conosciuto... la sua felicità mi è sembrata così vera
che mi ha travolta come mai niente è stato riuscito a fare prima. »
«E
invece? »
«È
falsa.» Abbasso gli occhi. Tolta la corteccia dorata, c’è il mio stesso buio.
Lascio
cadere la tenda e, prima ancora di voltarmi, avvicino una mano ai vestiti,
senza guardare. Sfiorando le varie stoffe, mi fermo su quella più liscia
stringendola fra le mani. Infilo il vestito, la stoffa che scorre sul mio corpo
come acqua.
«Ed
Hans, invece? »
Lui
con la sua chitarra. Lui e la sua gentilezza, il suo silenzio, il suo andare
avanti con le forze delle sue braccia, dei suoi anni. Lui con gli occhi grigi
chiari di pioggia.
«Lui
è… lui non è cambiato.»
Mi
volto e Julia apre la tenda, la vedo sorridere nello
specchio, la vedo guardare me nel nostro riflesso. Io sono sempre la stessa,
anche se con un bel vestito addosso. Di un bianco candido, arriva fino al
ginocchio in stoffe velate leggere che sembrano petali. Sul seno una piccola
fascia e poi tutto liscio, le maniche strette.
Penso
di aver trovato il mio vestito.
***
Sono
passati solo due giorni, da quel pomeriggio. Io e Julia camminiamo
vicine sul marciapiede, la fermata non è molto lontana e...
«Allora ci vai davvero.»
Julia si volta verso il
ragazzo che ha parlato. Lisci capelli castani ed occhi piccoli, chiari, forse
verdi, e una linea storta al posto della sua bocca. Disapprovazione, fastidio,
dice il tono delle sue parole. Sì, è il suo ragazzo, se ne sta vicino alla sua moto con il casco fra le mani.
«Certo che ci vado, Kevin,» gli risponde Julia.
«Quando finirà, eh?» Il ragazzo si allontana dal
motorino a grandi falcate, avvicinandosi a noi. «Quando la smetterai di andare
dietro a questo fottuto gruppo di sfigati e tornerai da noi? »
Julia sbatte le palpebre, stira le labbra. Quando la
sua voce viene fuori, sembra solo fiato.
«Forse intendi sapere quando tornerò da te.» Il
ragazzo, Kevin, posa una mano sulla spalla di Julia, lei si scosta, posando a
sua volta una mano sulla mia, di spalla. «Se tu mi credessi, tornerei. Se tu mi
aiutassi, tornerei. Se tu non pensassi sempre e solo a te stesso… »
«Julia, no…»
«Se tu pensassi a me e non…»
«Io penso a te, Julia. » Gli occhi di Kevin si fanno
lucidi di una cosa che non è tristezza, è rabbia, rabbia e risentimento. «Io
penso a te ogni minuto, stiamo insieme dal primo superiore, Jules. »
«Tu pensi alla mia faccia, alle mie gambe. Pensi ai
miei successi, alle mie medaglie. Pensi alle persone che mi guardano e
vorrebbero essere al tuo posto. Nient’altro. »
«Che cosa stai dicendo…»
«La verità, Kevin. E mi dispiace. »
«Allora non andare.»
«Mi dispiace perché quello che ti ho detto è vero. E
anche che non tornerò da te lo è.» Julia mi stringe il braccio con una presa
malferma, tremante, anche se la sua voce è sicura. «Andiamo via.»
«Sì, andiamo via.» Ripeto.
Julia scoppia a piangere appena prende posto sull’autobus,
con il mascara che le cola sulle guance e le mani sulle labbra a coprire i
singhiozzi, a raccontare tutto quello che è stato. A parlare d’amore, di
fiducia, di baci dati sul prato d’erba di un campo da golf in estate, del bacio
dal sapore di limone e liquore, della prima volta in cui il suo segreto – il mio,
il nostro – è volato a lui, che non ha capito. Che non ci ha creduto.
La abbraccio, tiro fuori un fazzoletto dalla borsa e
glielo porgo, poi le mantengo lo specchietto mentre lei si pulisce il viso.
«Dio mio, che disastro…»
«Andrà tutto bene.»
Fra le lacrime, sorride.
Sorride.
***
Martin
Una volta Cameron mi diceva che ero il ragazzo con meno
problemi del mondo. Mio padre mi lascia sempre casa libera e non sa niente di
quello che succederà stasera, e quando ho detto a Doreen delle mie intenzioni
il suo viso ha assunto la sua solita espressione del "ci sarà molto da pulire".
Perché questa festa, Martin? Mi ha chiesto mentre lavava i piatti, lo scroscio
dell’acqua nel lavandino e la spugnetta che faceva glo glo. Glo glo.
«Per... stare un po' con qualcuno. Sto sempre e solo con Cam.» Mi è venuto
fuori così. Come uno spiffero d’aria improvviso, senza spiegazioni apparenti,
per poi renderti conto che c’è qualcosa di vuoto, sotto. Uno spazio non
riempito.
C’è stato un altro glo e poi Doreen mi ha
guardato, mi ha sorriso, ma quello che ho visto non mi è piaciuto. Perché in
qualche modo ha capito, come l’ho capito anch’io, che dicevo la verità.
Non
c'è nessuno, a parte Cameron. A parte Doreen che, per
misericordia divina, ha deciso di passare la serata da un'amica per
tornare a controllare ogni tanto.
Lo stereo enorme che Cam mi ha aiutato a
sistemare nel salotto è uno spara-canzoni commerciali; fra corpi che si strusciano
e ballano un po’ dappertutto, camminare è difficile come se fossi in un locale
importante. Tutti sono amici miei, quando organizzo queste cose, e forse è
anche per questo che dopo l’estate non ho organizzato niente. L’amaro del dopo
festa ha cominciato a prendermi un po’ in contro piede, perché se non dai loro
qualcosa da prendere, loro non verranno mai da te.
«MARTIN! » Cameron, una mano sulla spalla
di una ragazza e l’altra contro il muro, cerca di passare cercando visibilmente
di non dare nell’occhio. Ma le sue smorfie attirano comunque l’attenzione di
qualcuno. «COME PROCEDE IL PIANO?! »
Mimo con le labbra un idiota, è un
segreto.
«OPS.» Riesce ad avvicinarsi e mi parla
vicino all’orecchio. «È arrivato Hans, comunque, è all’ingresso con quel suo amico.»
«E che cosa fa di intelligente
nell’ingresso? »
«Dice che sta aspettando.»
«Sì, babbo Natale. » Mi passo una mano fra
i capelli, davvero non riesco a capire come certi concetti non possano essere
chiari. Fingere di divertirci, e non…
«Dai, vieni.» Cameron mi tira per il
braccio come se non sapessi dove si trova la porta principale della mia casa.
E non dare l’idea del tipo sono qui per
fare qualcosa di losco.
Lo
vedo appoggiato al muro, ignora
cordialmente le ragazze che gli sono vicino ma il suo amico, vestito
strano, con i capelli cortissimi, ci pensa per lui. Ed Hans indossa...
degli occhiali da sole.
Ecco, appunto.
«Togli quei cosi.» Resto a distanza di
sicurezza, le mani in tasca, la testa inclinata come se avessi sonno. Avere a
che fare con lui mi irrita, mi irrita in ogni movimento, ogni parola, persino
quando respira. Sei un bambino, dice una voce nella mia testa. Un misto fra Sarah e
Doreen che mi fa scoppiare la testa. Sei geloso. E Sarah è il motivo di tutto, perché questo
Hans sembra troppo disponibile a collaborare, troppo gentile, troppo
accondiscendente.
«Volevo solo passare inosservato.»
«Andare un po’ di là nella mischia sarebbe
stato meglio.»
Si forma una ruga nel mezzo della sua
fronte, come quando dico qualcosa che non gli piace davanti a Sarah.
«È che… non sono un tipo da feste.»
«Diventalo. »
«Voleva dire per favore,» aggiunge
Cameron.
Hans sorride leggermente, come fra sé e
sé, quasi pensasse di non poter essere visto. «Comunque lui è Phil.»
«Ah, lo scassinatore, giusto?» chiede Cameron.
Ho bisogno di bere un po’ di
birra, magari mi calma i nervi.
«Cam, puoi anche urlarlo un po' di più.» Non riesco a tollerare il
suo sguardo, così prendo a guardare Cameron senza motivo, gel fra i capelli,
maglietta nera, jeans.
«Ci sono delle cose che sono chiare anche se non vengono nemmeno dette.» Hans lo dice come se
avesse detto guarda com’è bello il tempo oggi, con una naturalezza che potrebbe
anche farmi scoppiare, prenderlo per la maglia e sfogarmi come farei con un
sacco da box. Un tempo l’avrei anche fatto… un tempo non ci avrei pensato due
volte, e si sono visti i risultati. E non importa se, fra la rabbia per la
persona in questione, sentivo riecheggiare nell’orecchio la voce di mio padre
con le sue poche parole. Vorrei tanto credere di essere diventato una persona
migliore, ma non ci riesco. E adesso, che mi sento le viscere attorcigliate
mentre sulla soglia la prima cosa che vedo sono i suoi occhi azzurri, incerti,
come se fosse la prima volta che viene qui, non posso che pensare che è meglio
così, anche se mi fa stare da schifo.
«Ciao,» dice Julia, poggiando una mano
sulla spalla di Cameron. Si guardano un attimo e lei sorride, Cameron sembra
shockato e felice allo stesso tempo, mentre Hans si gira ed io osservo il
silenzio di Sarah. Sbatto le palpebre, come per riprendermi da un sogno perché è
questo, quello che sembra. Un sogno lontano. Lei, con i capelli sciolti sulle
spalle ed un vestito bianco.
È
così bella che potrei morire.
Riesco a vedere Hans che la guarda e mi volto di scatto, come per cercare di respirare, trovare un posto
in cui l’aria non è contaminata perché quello che ho visto mi ha fatto sentire
che lì, l’aria era veleno anche se solo per me.
Ho visto me stesso, in lui. Hans, uno
sconosciuto che non posso sopportare per il solo motivo di conoscerla prima di
me e perché si prende il diritto, adesso, di guardarla come io cerco di non
guardarla più. Senza riuscirci.
«Bene… andiamo?» chiede Hans.
«Balliamo un po', poi li facciamo uscire dalla cucina e cominciamo.»
Cameron sorride, sembra così a suo agio che potrei anche partire per qualche
luogo remoto e non se ne accorgerebbe. Le ragazze fanno a entrambi un effetto
simile, noto. Ma… con Julia?
«Ehi, Cam…» Ma non faccio in tempo a
formulare la domanda che l’ultima cosa che vedo è una chioma rossa che
ondeggia, seguita da Cameron che sembra un bassotto nel vero senso del termine.
Sarah si toglie il giubbotto di jeans e lo
appende all’appendiabiti, si gira e i nostri occhi si incrociano, ma lei
abbassa subito lo sguardo. Hans le è così vicino che quasi la sfiora e l’unica
cosa che riesco a dire è: «Divertitevi» con una voce atona che potrebbe
addirittura somigliare a quella di mio padre.
Mi volto e mi dirigo in cucina, ho
assolutamente bisogno di bere qualcosa di forte e di non pensare a niente. Ma
non come l’altra volta, possibilmente… anche se è normale che tutta la
popolazione femminile si faccia i pensieri su di me. Solo che non riuscirei
nemmeno a fingere che mi piaccia e che nella mia vita tutto vada benissimo come
addirittura ero finito a credere. Vorrei solo avere la vita di qualunque altra
persona sulla Terra e non la mia. Solo per un giorno, un ora, un secondo.
Svuotare il presente di tutte quelle cose che sono troppo ingombranti per
lasciare spazio alla finzione.
***
Non ubriacarti. Un altro bicchiere. Non
ubriacarti. Ancora un altro. Non ubriacarti.
«Martin.»
Non ubriacarti.
Martin.
«Mhm…»
«È l’una.» Ha la voce più cristallina del
mondo, tante gemme preziose che cadono tutte insieme da una montagna alta per
poi raggiungere il terreno senza rompersi. «È l’una e noi dovremmo…»
«Sar.» Tengo stretto qualcosa, è lei, è
il suo polso. Non si allontana.
«Martin.» Apro gli occhi e la
guardo, i suoi capelli mi solleticano la bocca tanto è vicina,
sento il suo
profumo di fiori alla camomilla, simile a quello degli infusi che
Doreen
conserva nella dispensa. Si mordicchia le labbra, non lo fa mai, le si
arrossano e sento qualcosa di tremendamente caldo scivolarmi giù
dalla gola
fino al petto, quasi fosse una goccia di miele. Una goccia che si
dirada come
una macchia e mi ricorda solo quanto mi manca lei, mi manca tutto.
«Phil è riuscito ad aprire il cassetto... ed ora la chiave? Per favore…
avevi detto che mi avresti aiutato.»
«Io
non te l’ho detto. » Le lascio andare
il polso e lei si allontana, ma di poco, dal divano su cui mi sono
seduto con gli occhi chiusi quasi dormissi per escludermi da tutto quel
casino. Mi sento così cretino… se mi avesse trovato con
una ragazza forse
sarebbe stato meglio, ma forse non mi sarebbe mai stata così
vicina. Non avremmo
mai provato a toccarmi, a parlami come sei fossi l’unica cosa di
cui ho
bisogno. «Te l’ho promesso. » Mi rimetto in piedi, svegliati, con la mente
lucida, attento, forza. Poi mi dirigo verso il corridoio ed Hans ci viene
incontro.
«Hai trovato Julia?» gli chiede Sarah.
Hans sembra imbarazzato, si gratta il
collo leggermente e la sua voce è una specie di sussurro balbettato. «Ehm… sì,
ecco, s-sì, ma… »
Non sono mai stato bravo nel lavori di
traduzione, qualcuno mi spinge mentre passa e sfioro Sarah con la spalla, ma
lei non sembra infastidita. Sembra… che aspetti qualcosa.
«Scusa, Martin!» Una voce di fondo.
Aspetta che io le faccia vedere i
documenti, certo. Sospiro. Che altro potrebbe volere?
«Ehi, Martin! » Seguo la voce, e mi
sorprendo di non averla riconosciuta subito per quell’aurea vellutata e calda
che ha sempre avuto, con i capelli neri, il sorriso allegro, così simile a suo
fratello.
«Holly! Che ci fai qui?»
Fa qualche passo verso di me. «Alla festa
hai invitato tutti, te ne sei dimenticato? »
«Cameron lo sa?»
I suoi occhi neri si spalancano. «No!»
Ride. «E non dirglielo, grazie. Torno a ballare… bella festa! » Si allontana veloce
sui tacchi alti, appena in tempo per raggiungere la sala grande, mentre Cameron
e Julia si avvicinano a noi. Ridendo come se non ci fosse un
domani. Julia non aveva un ragazzo?
Ignoro. «Cam, dove hai messo la macchina
fotografica?»
«Puh.» Ride, mio dio ma quanto ha bevuto?
Julia lo segue nella sua risata, mentre
Cameron tossisce un po’. «Perché chiedi una fotocamera quando puoi avere una
foto-Cameron? » chiede, prendendo quello che mi serve dal suo marsupio. Certo
che…
«È davvero ubriaco,» dice Sarah, con un
mezzo sorriso sul volto.
«Già.» Smettila di guardarla, smettila.
Mi rivolgo ad Hans: «Tu fai la guardia… »
«Potrei aiutare. »
«Tieni d’occhio questi due.»
Sarah mi segue davanti alla porta
dell’ufficio di mio padre, prendo la chiave dalla tasca dei pantaloni e sento
Cameron che dice qualcosa come è un peccato che le porte di tutte le camere
siano chiuse a chiave. E lei, per fare cosa? E lui, per dormire, non ci vedo
più dal sonno… Davvero, non è mai stato così ubriaco. Dovrò ringraziarlo per la
collaborazione. Apro la porta, la lascio aperta per far entrare Sarah e la
chiudo di nuovo a chiave, le mani mi sudano, non so perché lo sto facendo, è
solo che… «C’è tanta gente ubriaca, potrebbe aprire all’improvviso. »
«Ormai ho imparato a cavarmela da sola»
Mi sfugge un sorriso. «Non ne dubito.»
Mi avvicino alla scrivania, apro i
cassetti e trovo tutto quello che ho trovato la prima volta, disordinato, cerco
di disporlo sul legno. Sarah si avvicina, il vestito bianco le aderisce sul
corpo come se fosse bagnato, e sulle gambe sembra quasi trasparente. Ed è
strano, quando mi trovo fra le mani la foto che ho visto la prima volta. Sono
attraversato da un tremito mentre mi rendo conto che gli occhi di questa foto
erano due luci spente. Ricordati di spegnare le luci, è quello che mi dice
sempre mio padre quando va via. Ma io non voglio spegnerle.
«Sarah… »
Le sta guardando insieme a me, di fronte a
me. Mi prende i fogli dalle mani e li guarda attentamente, il suo sguardo,
puro, acceso, si sofferma su ogni dettaglio. Per un momento, uno soltanto,
sembra che qualcosa stia per crollare. «Questa sono io.»
«No…»
«Non… dire niente.» È una risata, quella
che viene dalle sue labbra, la cosa più triste che io abbia mai sentito.
«Perché non mi fai mai finire di parlare?»
«Cambierebbe qualcosa?»
«Se
cambierebbe?» Sbatto le mani sul
tavolo. «Tu non sei più la ragazza di questa foto. Se
cambierebbe? Sono andato a letto con Yvonne il giorno in cui ti ho
visto per la prima volta, senza averti parlato, con il pensiero della
mia vita
da schifo in testa e te. Te. Io non ti ho tradito. Nemmeno ti conoscevo. Ma
tanto tu non mi ascolti.» E lei mi guarda con quegli occhi azzurri che dicono
non so cosa fare, mi dispiace, vorrei solo non essere quello che sono. Ed è
come se tutto questo lenisse la rabbia, come se la rabbia fosse il dolore e le
ferite tutto quello che è successo, anche se non è passato abbastanza tempo per
farle diventare cicatrici. «Perché sto facendo tutto questo, Sar? Perché?»
Scuote la testa. «L’hai promesso.»
«Perché l’ho promesso? Perché non ho
niente da fare e nessun obiettivo di vita? È vero.» Mi passo una mano fra i
capelli, metre scopro che la cosa che desidero di più è fermarmi, fermare
queste fottute parole che chissà da dove vengono, chissà perché pesano così
tanto mentre le dico, chissà perché sono così forte da poterne dire tante e
ancora fin quando non ne avrò più. «Mia madre era piena di vita, mi ha sempre detto
Doreen. Me l’ha ripetuto un sacco di volte, mentre mio padre non mi ha mai
prestato più attenzione che si potrebbe dare all’animale domestico di un
inquilino. Forse è per questo che sono diventato così apatico. Sono pigro,
svogliato, un incapace, un buono a nulla e lo so. So tutto questo ma…»
«Non è vero.»
«Che cosa? »
«Non è vero che sei così,» dice piano, e
non mi guarda e mi odio perché la tocco, le alzo il mento e la costringo a
guardarmi.
«Pigro, svogliato, incapace, buono
a nulla.»
«Non lo sei. »
«Ah no? »
«No.» Posa la mano sulla mia e la
allontana lentamente, dolcemente. «Altrimenti non mi avresti portata qui. Che
queste cose servano o no. Che io riesca a concludere qualcosa o no. Tu mi hai
aiutato, e se l’hai fatto, è perché non sei così.»
L’ho fatto perché ti amo. Stringo la mano
alla sua e vorrei baciarla, vorrei stringerla fra le braccia, vorrei
raccontarle quanto mi è servita la sua spiegazione del De Profundis, vorrei
dirle che ho cercato quelle canzoni che mi aveva detto e sono belle, che tutto
di lei è bello e ne sento la mancanza. Ma se lo faccio, poi dimenticherò tutto,
anche questo: «Io non ti ho detto una cosa, Sarah. E ascoltami.»
Mi lascia la mano. I capelli castani
chiari le sfiorano il viso, se li sposta tutti sul lato destro.
«Che cosa non mi hai detto? »
«Non
te l’ho detto perché non sono mai
riuscito a parlarti da sola.» Faccio un respiro profondo. Veloce
e indolore. «Julia ha detto che l’uomo che le ha detto di
innescare quello che hai
fatto le ha dato quella penna, quella con la J e la S. Come
questa.» Ne prendo
una dal cassetto.
Sarah mi guarda, stranita. «Come hai fatto
a prenderla?»
«È sempre stata qui... è di mio padre.» Il suo sguardo anticipa quello che sto per dire.
«Penso che con questo c’entri lui.»
«Pensi che lui sia... quell'uomo?»
«Tutti i giornali sono scomparsi e lui ce
li ha. Lui ha questi documenti. Lui ha questa penna.» La lascio cadere sulla
scrivania. «È per questo che dobbiamo fotografare i fogli per leggerli fuori di qui, lui potrebbe
accorgersi di qualcosa e…»
«Ma non è possibile... Perché li lascerebbe incustoditi?»
«Forse non sospetta minimamente che suo
figlio ci vada a curiosare. E poi la porta è sempre chiusa a chiave. E credimi, è possibile.»
Sarah fa qualche respiro, il petto si alza
e si abbassa, si alza e si abbassa, è incredula.
«Sarah, io non c’entro, io non avrei mai…»
«Lo so, Martin.» Si avvicina a me, la macchina fotografica fra le mani. «Lo so. »
***
Sarah
Fa molto freddo, questa notte, e solo ora
mi rendo conto di aver dimenticato la giacca a casa di Martin per la fretta di
uscire da lì, in modo che non potesse guardarmi negli occhi a lungo dopo il
grazie che mi è venuto
fuori dal cuore. Avrebbe visto tutto quello che ho
sentito mentre le sue parole spiegavano la verità. Non avevo mai
ammesso a me
stessa quanto facesse male che lui volesse un’altra ragazza.
Sapevo di non essere la prima, sapevo di non essere l’ultima,
eppure Yvonne che lo ha baciato davanti a tutti me l’ha buttato
in pieno viso
come acqua gelida: nonostante tutto, Martin mi aveva fatto sentire
l’unica.
«Stai tremando.» Hans mi cammina accanto,
le mani nelle tasche, un po’ teso per il freddo. Mi guarda con gli occhi
leggermente socchiusi, le ciglia lunghe e nere creano delle ombra sul suo viso.
«Non importa, è già tanto che mi
accompagni alla fermata.» Julia è andata via insieme a Cameron.
«Mi sono offerto io di accompagnarti.»
«Lo so e grazie… guarda, siamo quasi arrivati.»
«Fermati un attimo.»
Hans
si toglie la giacca scura con un
movimento veloce, allo stesso tempo aggraziato, e me la posa sulle
spalle, ma
non si allontana. Le sue mani restano lì, vicino al mio collo,
come i suoi
occhi che guardano i miei. «Così non ti ammali,»
dice, e una mano risale sul
mio viso. Sono così persa nei suoi occhi che è come se
non mi rendessi conto
del battito del mio cuore che accelera, accelera, accelera e sto per
dirgli di
no. Sto per dirgli di no mentre passa l’immagine del primo
ragazzo al mondo che
mi ha fatto battere il cuore così, anche se all’ora era
soltanto un bambino. Ed
è sempre più vicino e sto per dirgli di no, quando
ricordo che nei miei vecchi
sogni era il mio primo amore. Quello che sognavo di vivere, il primo
ragazzo
che ho immaginato di baciare come in quei film… ed io ero
così piccola. «Hans…
n… » Non riesco a dire di no a questo vecchio sogno,
perché è troppo tardi. Ho
indugiato, e quando indugi è perché hai nascosto un
desiderio per troppo tempo,
un desiderio che si fa sentire con il dubbio. Ed Hans mi bacia, con un
tocco
dolce, gentile, è sempre lui. La sua bocca è calda,
improvvisamente io lo sono. Gli sto accarezzando i capelli, il collo e
le spalle. Chissà se avrà freddo… e le spalle, le
spalle ampie come Martin. Mi
immobilizzo. Martin. Il suo nome è una freccia che mi si
è conficcata nella
gola. «No.» Annaspo.
E incontro gli occhi di Hans, occhi che
non sono più grigi ma sembrano azzurri, come i miei, i miei occhi nei suoi, i
miei occhi che dicono che è troppo tardi. È troppo tardi per questo sogno, è
troppo tardi per me e lui. Il primo amore che io abbia mai sognato. Non è il
momento, questo. Sono passati tanti momenti, tutti rovinati, distrutti da me
stessa, da quello che sono, da quello che l’uomo più vicino al ragazzo che amo
mi ha fatto.
«Non era da me che volevi questo bacio, non è vero?»
Cerco di parlare, non posso farlo andare
via così. Si volta ma io gli poso una mano sul braccio, la mia voce è roca,
come se avessi pianto. «Mi dispiace tanto, Hans.»
«È meglio che vai a prendere l’autobus,
potresti perderlo.»
Come ci siamo persi noi.
«Ci vediamo.»
«Buonanotte.»
E poi ci siamo ritrovati e non è stato più
lo stesso.
Attraverso la strada e mi metto a correre,
i lampioni fanno luce sull’asfalto nero, mentre io scappo da qualcosa che non posso vivere.
*
*
*
*
Ciao
a tutti, eccomi qui con il nuovo capitolo :D Spero che vi sia piaciuto,
presto tutti i nodi verranno al pettine, non solo per la
capacità di Sarah, ma anche dal punto di vista delle loro
problematiche :) Spero che vi sia piaciuto <3 Stavo pensando di
creare una pagine per la storia, voi che ne dite, vi piacerebbe? ^^
Ringrazio inoltre tutti quelli che mi recensiscono, siete fantastici e vi adoro *-* Grazie infinite <3
A presto
Ania :)
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Capitolo 20 *** 19. Acqua sporca, acqua pura ***
until 19
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
19.
Acqua sporca, acqua pura
Sono uscito di casa quando Cassie dormiva ancora, calda di
me, con le lacrime agli occhi. Non sa che il suo Joe non
tornerà mai più, non sa che questa è stata la sua ultima notte,
non sa che quello che una volta ero non potrà essere ritrovato.
Cammino lungo il bianco corridoio dell’ospedale.
Tutti dormono ed io corro, con il solo istinto di
urlare, perché gli spilli sono affondati nel mio cervello e mi impediscono di
vedere quello che una volta avrei visto subito. Nelle mie tasche, le due pietre
nere. Nelle mie tasche, la mia salvezza... la mia vendetta.
No, Joe…
Ricordi.
Possono accadere le cose più terribili, Joe. Le più terribili…
Ricordi spazzati via.
Apro la prima porta a sinistra, a caso, come se qualcosa mi
chiamasse. Guardo.
Nel biancore anestetizzato dell’ospedale, una ragazzina dai
capelli rosso fuoco dorme con i pugni stretti al lenzuolo, come per
proteggersi, con i segni delle flebo sul polso lasciato cadere
mollemente vicino al suo fianco.
Accanto a lei, una culla di metallo.
Un bambino.
È strano che non sia stato portato via, che sia ancora
accanto a lei, soprattutto perché è appena nato. Deve avere solo qualche
giorno.
Un bambino. È come se una luce oscurasse tutto, una luce che
diventa ombra e illumina, illumina quello che potrebbe essere la verità.
Vexania, è il suo vero nome. Così la
chiamarono i primi uomini, Joe. Così la chiamarono, e niente può controllarla
se non un’anima, una sola volta.
Un anima innocente, invece, per
sempre.
Un bambino. Quale sede più sicura di un’anima innocente?
Un dolore simile alla frattura di ossa mi colpisce la testa.
Torna, Joe, fuggi dal buio.
Torna qui, torna qui.
No.
Torna qui.
No!
Joe…
Prenderò questo bambino.
«È venuto per portarlo via, non è così? »
Mi
volto di scatto, troppo sconvolto da queste parole per proferire
parola. Come può sapere? Ora la ragazza è seduta, la
camicia bianca con
qualche punti blu, le gambe a penzoloni, gli occhi enormi e grigi.
Torna, Joe.
«Portarlo via?» La mia voce le fa eco, distorta,
lontanissima, mentre leggo il nome sul cartellino attaccato con una spilla alla
sua camicia da notte, sul lato destro del petto. Claudia Renton.
«Sì.» Annuisce con forza, e lacrime cadono sul suo viso
come se fossero state lì, appese alle sue ciglia, ad aspettare di cadere. «Per
l’adozione.»
La mia risata resta intrappolata, non raggiunge nemmeno la
gola, risuona nel mio stomaco, lottando on l’aria, lottando con quella parte di me che ancora si ostina a non
lasciarsi vincere.
Un bambino abbandonato. Deglutisco. Com’ero un tempo.
«Lo porta via?»
Come
sono ancora.
Non è vero. Non lo sei. Hai Cassie. La tua Cassidy Grace...
Io ho lei ma lei non può avermi. Non può più avere il suo Joe.
Claudia Renton non può avere più di quindici anni. Il volto
magro, le labbra piccole, gli occhi grandi di questo colore che sembra
sbiadito, animato dal dolore.
Mi mordo la lingua.
«Come si chiama? »
«Che cosa? »
«Ti ho chiesto come si chiama.»
I suoi occhi sussultano, acqua sporca dalle correnti sotterranee, ancora prima che lo faccia il corpo.
Anche lei una bambina, una bambina non più innocente, caduta
nell’abisso delle responsabilità in cui non vuole nuotare.
«Non lo so,» dice, mentre mi volto a guardare il bambino.
Un bambino che dorme, con tanti capelli castani, il volto ancora arrossato.
Rido.
Non ha nemmeno un nome.
Gli sfioro i capelli con le dita senza accorgermene. Sei tu,
Joe, è questo quello che tu sei, mi
dice una voce che adesso mi appartiene. Mi hanno sempre chiamato Joe,
da quando ho ricordo. Joe di Joseph, con tante varianti.
«Hans.»
«Che cosa?»
«Hans.» Da Johansess. Il bambino emette
un suono di pelle e lingua. Apre gli occhi. Sono grigi, coperti da una
patina che sembra nebbia. «Dono del
signore.» Forse un giorno cambieranno, forse saranno l’unica cosa che avrà
di sua madre.
Sento
i passi della ragazza che mi raggiungono, resta
accanto a me con quella sana distanza da estranei, mentre il bambino
comincia
ad agitare le piccole braccia. «Credi in Dio?» La
ragazza guarda il bambino con occhi assenti e scuote la testa in segno di dissenso. «Nemmeno io.»
Abbi pietà, parla una voce lontana che non è più mia.
Ho pietà. Ma solo perché è come me, ed ho tempo.
Martin.
È appena andata via. Come se mi avessero
tolto un gran peso dalle spalle, sento di poter respirare con maggior facilità,
sento che lei mi ha creduto. Ancora mi chiedo come abbia fatto a credere a quell'assurdità; ancora mi chiedo come ho fatto a
dirle la verità senza chiudermi nella stupidaggine esibizionista di me stesso.
Ma ho fatto uno sforzo, perché non potevo sapere di averla persa per questo.
Sono ancora nell’ingresso, un po’
allampanato, incapace di credere al modo in cui sono riuscito a dire quello che
c’era da dire. E poi mi rendo conto che all’appendi abiti è ancora appeso il suo
giubbotto di jeans. Lo sfioro con le dita e nel tempo di un secondo esco di
casa, dovrebbe essere ancora abbastanza vicina. Mi metto a correre verso la
fermata dell’autobus, e non mi importa se lei non è sola, non mi importa
se posso darle questo giubbotto domani io… voglio andare da lei e non riesco a
fermarmi.
Ma che cosa mi prende? Perché mi comporto
in questo modo? Sono ancora io? Io, che guardo
quella ragazza sul bus. Io, che vado a parlarle. Io, che penso a lei in
continuazione. Io, che sto bene se lei sta bene. Io, che dimentico quello che
odio della mia vita quando sono nella sua.
Continuo a correre.
Io,
che amo
quando ride. Io, che mi sento conficcare un coltello nel cervello
quando capisco che odia se stessa. Io, che so che non farebbe mai del
male a nessuno.
Attraverso la
strada, un’altra curva, semaforo giallo. Io, che non potrei mai tirarmi
indietro dall’aiutarla. Io, che non riesco nemmeno ad immaginare di poterla
lasciare andare senza spiegazioni. Io, che sono stato così cretino da
innamorarmi.
Qualche altro passo.
Innamorarmi.
Ancora un passo.
Innamorarmi.
Sussulto.
Fermo.
Innamorarmi
della
ragazza
a pochi metri da me.
Deglutisco, ho la gola in fiamme.
Della ragazza che sta baciando Hans.
Non me.
Hans.
Hans Hans Hans.
Sarah ed Hans.
Percorro tutti i passi necessari per
tornare a casa mia, per allontanarmi da lei, da lui, da loro. Butto la giacca
di Sarah sul divano, mi passo una mano fra i capelli, non riesco più a
toglierla, ho entrambe le mani sulla testa. Sarah ed Hans. Sono stanco. Sarah ed Hans. Scuoto
la testa, mi siedo sul divano. Sono stanco e voglio dormire per sempre. «Martin sono quasi le
cinque,» mi dice Doreen, arrivata da poco.
Che nessuno mi svegli perché potrei
ucciderlo. Respiro profondamente. Che nessuno mi svegli perché non posso
vederla insieme a lui.
«Martin?»
Perché non mi addormento? Perché non
finisce tutto? Per quale cazzo di motivo sono ancora qui? Perché ho fatto tutto
questo? Perché proprio lei? Perché io? Mi alzo in piedi e mi avvicino allo
stereo, sento una voce provenire dalla parte più lontana di me che dice: «la
festa è finita. » Niente più musica. Solo questo male alla testa martellante, e
l’immagine di lei stretta a lui, lui che stringe lei.
Perché? Cazzo, perché? Non potevo guardare
la sua foto senza svegliarmi? Non potevo continuare a vivere come facevo
sempre? Sono il contrario di mia madre per ripicca. Lei, Marlene, era piena di vita; io no, io
voglio solo che tutto questo finisca, che mio padre fosse un uomo normale, che mia
madre non fosse mai morta. Forse, se non fosse morta, mio padre non sarebbe
così. Forse… non sarebbe mai successo niente a Sarah. Starei bene.
E invece no.
Ho rovinato tutto.
La mia vita ha sempre fatto schifo, ma ora
mi pesa così tanto che non so se riuscirò a fare finta di niente.
Mi stendo sul letto ancora vestito.
Voglio dormire, non voglio svegliarmi, non
voglio vedere, non voglio sentire.
Ma sento gli occhi umidi, ancora aperti,
mi fanno male. Vorrei odiarti se non fosse che non amarmi è la cosa più giusta per te.
Non riuscirò a dormire.
***
Sarah.
Guardo le stampe di tutte le foto dei
giornali e non solo giornali; ci sono anche dei documenti con molte più
informazioni rispetto ai subdoli articoli che ci sono sui quei periodici. I
documenti parlano di me come se fossi una cosa pericolosa da maneggiare con
cura, un soggetto pericoloso, insieme ai nomi delle due vittime che ho colpito.
Ce ne sono altri con informazioni che si potrebbero ricavare da un colloquio
con la segretaria della scuola, come il fatto che ho un abbonamento al pullman
e la mia situazione familiare.
Soggetto pericoloso. Scorro le parole.
Capacità di intercettare i nervi del cervello con scariche acute senza alcun
movimento. Il fenomeno si può collegare alla volontà, alla mente del soggetto.
Io, un soggetto. Un soggetto pericoloso.
Se dipende dalla mia mente forse ho… qualcosa di diverso nella mia testa, nel
mio cervello. L’ultima volta che sono andata da un
dottore avevo cinque anni. E poi è come se avessi le percezione di non sapere.
Come se qualcosa mi fosse stata volontariamente nascosta. Per questo ho fissato una visita all'ambulatorio.
Farò quel controllo.
Prendo il cellulare e scorro gli ultimi
numeri. Julia… Hans. Mi fermo su quel nome senza il coraggio di leggere altro,
mentre il ricordo del bacio di due notti fa mi attanaglia il cuore. Una parte di
me lo voleva, lo sognava; una parte di me ancora più piccola, ancora più fragile, una
ragazzina che stava imparando a crescere. Una ragazzina spazzata via con i suoi
sogni ancora in piedi; sono stati sfiorati dopo troppo tempo, quei sogni, e
sono caduti su loro stessi.
E poi c’è Martin. Non riesco a collocarlo
prima o dopo Hans, lui… semplicemente c’è ed io, presa dalla
voglia immane di pensare solo a me stessa e non soffrire, non l’ho ascoltato. Lui ha una vita, ne ha avuta una, ma
non basta questo perché mi ha fatto capire una cosa: nella sua vita io ci sono.
Ed io voglio che lui resti nella mia.
Mando un messaggio a tutti e tre.
Mi arriva la risposta di Julia, subito dopo quella di Hans.
Ma da Martin niente. Niente per un minuto,
mezz’ora, un’ora, due ore, un’intera mattinata. Mi ripeto solo che almeno per
questa volta non può essere colpa mia.
***
«Tutto ok? » mi chiede Julia, oggi è una
moltitudine di colori che vanno dall’azzurro al viola aggiunti al rosso dei
suoi capelli. Sorride come se avesse visto qualcosa di bello… lei si è
divertita, alla festa, ha passato tutta la serata con Cameron.
Annuisco. «Non mi hai ancora raccontato come hai passato la festa.»
«Oh… non c’è niente da raccontare.»
«Ovvio che non ti credo. »
«Sarah. » Mi mette le mani sulle spalle e
assume un espressione sicura, le labbra arricciate e le guance arrossate. Poi
si avvicina all’orecchio. «Lui è così gentile.»
Sbatto le palpebre un attimo. «Gentile? »
«Già.. Forse può sembrare stupido, ma non
lo è. Può
sembrare uno che non fa altro che prendere la vita per gioco, ma… »
Fa una pausa. Sospira. «Non lo è. » Sta sorridendo. Poi riprende a parlare,
guardando altrove, e sembra che stia dicendo la più grande fesseria sulla
faccia della terra. «Non credevo che avrei mai incontrato qualcuno che mi
facesse ridere e allo stesso tempo capisse il motivo per cui non riesco sempre
a sorridere. Però lo conosco da così poco...»
Julia sembra così… imbarazzata, di questa
felicità. «Ehi, è davvero fantastico.»
Continuamo
a camminare. «No, Sarah. Non lo
è. Ho lasciato Kevin da pochi giorni, anche se le cose non
andavano bene da più di un mese… io… chi mi
conosce penserà
cose orribili.»
«Ma tu e Kevin non state più insieme.»
Julia corruga la fronte e poi guarda verso
di me come si guarderebbe una bambina che si è messa il vestito al contrario.
Non mi piace, quando fa così, allo stesso tempo però non riesco ad
impedirglielo. So così poco, di come si comportano le persone. Forse quello che
secondo me è giusto in realtà è sbagliato. Forse proprio questo mi farà
rovinare tutto.
«È vero ma… se sei un maschio, va tutto
bene. Se sei una ragazza, sei una poco di buono.»
«Ma... ma come...»
«... Può essere possibile? Lo è.» Le scarpe con il tacco di Julia
picchiettano sull’asfalto, poi alzo il viso e mi accorgo che siamo già arrivate
all’ospedale. Attraversiamo il cortile e poi saliamo le scale, ma prima di
imboccare il corridoio non riesco a trattenermi.
«Non pensare a cosa vuole la gente da te.» Lei si volta verso di me. «Pensa a quello che vuoi tu.»
Scuote i suoi riccioli rossi. «In fondo è stata solo una serata… ma ora
non parliamo di me, si tratta di te.» Qualche altro passo e ci ritroviamo in
un lungo corridoio bianco con il pavimento beige, delle sedie di plastica in
fondo e… Hans.
Lui, da solo.
Mi saluta con un cenno e nei suoi occhi
leggo tutto quello che non voglio leggere: rimpianto e dispiacere. Non sono
nessuno, io. Non sono nessuno e sono innamorata di un altro qualcuno.
Mi avvicino da sola al bancone e un
infermiera dalla carnagione scura e il sorriso affabile mi accoglie. «Hai
bisogno di qualcosa? »
Un colpo di tosse. «Sì, ho prenotato una visita per dei raggi.»
«Come ti chiami?»
«Sarah Agnes Pierce.»
La donna digita qualcosa sul suo computer e poi guarda lo schermo. Lo guarda a lungo.
«Consigliata il medico di famiglia?» chiede incerta.
«Ehm… no, ma… ho dei forti dolori alla testa ed ho pensato di venire qui.»
«Se non c’è il consenso del medico non si
può fare, mi dispiace, cara.»
«Ma… ho prenotato.» La mai voce
si alza.
«Dovresti andare dal tuo medico e ritornare con una ricetta scritta.» Non ho un medico di famiglia. Non vado dal mio medico da quando avevo cinque anni e le altre volte mi hanno trascinato a forza.
«Ne ho bisogno ora. Davvero, è che… che
io… »
L’infermiera si alza in piedi, un
grembiulino verde chiaro come divisa. «Devo chiederti di tornare in un altro momento.» Lascia
il bancone e si dirige in un'altra stanza. Lo shock per questo
inaspettato rifiuto mi secca la lingua, mi fa sentire inerme,
arrabbiata con tutto. Respiro forte e penso a qualcosa, come fare, cosa
dire, dove andare... Sarah, trova una soluzione. Trovala, Sar.
E poi: «Chi è il prossimo per le radiografie?» chiede una voce. L'ambulatorio è deserto ed io mi volto istantaneamente. «Sono io.» Quest'infermiera mi porta in una stanza con un lettino, al
cui interno c’è anche una macchina per le radiografie. Comincia a verificare i
riflessi con una piccola torcia, quando la toglie via il suo viso è offuscato
da un sole che mi si è intrappolato nella cornea. «Dolori costanti, hai detto?»
«Sì, non passano nemmeno con le medicine
per il mal di testa. »
«Allora devo assolutamente chiamare il
dottore Hawkins… cara, puoi darmi il tuo documento?»
Apro la borsa e la trovo. «Eccola.» Gliela porgo.
L’infermiera, capelli castani chiari
corti, occhi allegri e viso tondo, assume un’espressione stranita… poi
spaventata. Mi restituisce la tessera. «Il dottor Hawkins non c’è.»
«Ma come… »
«Non c’è. »
Lo sguardo della donna – due piccoli occhi
marrone chiaro – diventa cupo come se la luce del sole fosse appena stata
oscurata da una nuvola nera. «Non devi tornare.» Poi si allontana, sembra
ricomporsi. «Non… devi tornare fin quando l’assicurazione non sarà pagata. »
Rimango allibita. «L’assicurazione è stata
pagata. »
«Mi spiace ma ho controllato… »
«Come può aver controllato se non
conosceva il mio nome? Come può… »
«In quest’ospedale non ci sono le
attrezzature adeguate per il tipo di controllo che è necessario per te, e
adesso va’ per favore. »
«Ma...»
«Per. Favore, » dice a denti stretti, poi
si volta e mi lascia sola. Esco dalla stanza senza capire niente, con la
tessera di plastica stretta in una mano… senza capire niente di quello che sta
succedendo.
Fisso
il corridoio bianco, fisso il nulla. Nulla fra le mie mani, nulla ha
ripagato i miei sforzi, nulla è quello che sono capace di fare.
Nulla nel mio cuore che batte a inerzia, nella delusione. Occhi fissi
sul bianco, fino a quando non vedo lui. Nera è la meta, bianco
il tunnel, e Martin lo attraversa. Morte all'incontrario, cose
inspiegabili, ed il mio cuore che abbadona l'inerzia e batte, batte
forte verso di lui, rumore timido che si propaga nello spazio.
«Sarah, allora?» chiede Julia.
Spiego tutto senza fermarmi, incredula, e
Martin non mi guarda, ascolta seduto, bellissimo, le mani come giunte sotto il
mento.
Non capisco. Non capisco.
Non capisco.
«Non…»
«Non capisci, ho capito.» La voce di
Martin è tesa, arida. Alza il viso verso di me. «Adesso va’ a casa, ci penseremo su. Hans, tu la accompagni,
no? »
Hans si passa una mano fra i capelli,
sembra che Martin gli stia parlando in una lingua sconosciuta. «Io… non posso.»
«Ah, mi dispiace.» Martin si mette in
piedi e si sistema il colletto della camicia bianca. «Allora per mio piacere,
la accompagno io. »
***
Silenzio.
Perché mi ha mandata via? Perché mi ha
guardata in quel modo? Perché me ne sono andata senza aspettare spiegazioni?
Perché…
Silenzio.
L’infermiera legge il mio nome e mi caccia come se la stessi
spaventando. Lei era spaventata.
Silenzio.
E Martin non mi parla. Non mi parla
davvero da ieri sera, quando mi ha detto la verità, e adesso mi chiedo anche
che cosa sta succedendo a lui. Cammina in quel modo da Dio mi ha regalato tutto
la bellezza possibile al mondo con lo sguardo dritto davanti a lui ed io sono
qui… a camminargli accanto, senza nemmeno un’idea per parlare di qualcosa che
non sia la mia vita assurda.
«Martin…»
«Ah, ecco qui casa tua. È stato un peccato
che tu abbia dovuto fare tutta questa strada con me senza intrattenimenti, però
lo sai, no, che a quest’ora il pullman non passa.»
«Mat.» Mi guarda. Mi inchioda sul posto
con i suoi occhi. Mi sento la gola secca come se non bevessi acqua da giorni.
«Io… ti ho creduto.»
«Che? »
«Quando mi hai parlato di Yvonne, ti ho
creduto.»
«Oh ma certo. » Si appoggia al cancello con
una mano e avvicina al viso a me. «Perché non dovevi credermi? » La sua voce è
tagliente. «Era la verità. Non mi sono mai sognato di
prenderti in giro.»
Fa per andare via, ma gli poso una mano
sul braccio e lui si volta verso di me. Mi guarda, come infastidito. Che cosa
gli succede? Dio, perché non riesco a capire niente? Martin sbuffa. «Che cosa
c’è?»
È così vicino eppure non lo è abbastanza.
Non lo è abbastanza ed io sono stanca. Sono stanca di me. Sono stanca di lui
che è lontano.
Non mi importa di niente, né delle domande
della nonna, né di quello che pensarà l’inquilina del terzo piano che ci guarda
mentre scende le scale; apro la porta con la chiave e lascio la porta aperta,
per farlo entrare. Mi inoltro nel corridoio – mura bianche, vecchie fotografie
dei nonni da giovani, i soliti mobili in noce opacizzati dal tempo – ma non
sento alcun rumore.
Raggiungo la cucina.
«Nonna? » La chiamo.
E poi sul tavolo trovo uno dei suoi
biglietti dalla grafia traballante che mi fa stringere il cuore.
Io e il nonno siamo dalla zia Maggie. In
frigo ti ho lasciato le lasagne.
Un grande bacio.
Poggio il pezzo di carta sul tavolo e mi
volto, sento il rumore dei suoi passi che vengono verso di me, stringo le dita
sulla spalliera della sedia, deglutisco, deglutisco, di nuovo. Siamo soli.
Sono sola con lui, a casa mia. Martin
entra in cucina, si guarda intorno con quella che sembra troppa attenzione
eppure sembra che in realtà non veda niente. Come se recitasse di camminare in
una città d’arte, ha in viso un ghigno beffardo che mi fa capire che lo conosco
davvero. Martin finge, tante volte, e ora lo sta facendo davanti a me.
«Perché ti comporti così? »
«Così come? »
Decide di sedersi proprio sulla sedia su cui
stringo le mani. Mi allontano di poco e lui la gira per sedersi proprio di
fronte a me, con le gambe stirate, la destra poggiata sulla sinistra. Le
braccia conserte. Quel sorrisino da volerlo solo schiaffeggiare. Smettila,
vorrei dirgli.
Smettila!
«In questo modo… lo sai. »
«Che cosa so, Sarah, eh?»
«Be’… » Cerco di apparire sicura. Cammino
avanti e dietro. «Sei così scontroso. E finto. E così palesemente..
infastidito.»
«Mi stai chiedendo perché?»
«Sì.»
«Be’, tu hai passato settimane a evitarmi,
a non guardarmi, a fingere che fossi uno schifoso escremento lasciato sul
marciapiede che lo spazzino non ha ancora portato via. Se avessi potuto, mi
avresti letteralmente scavalcato. »
Oh, no. Devo mantenere il controllo. Sta' calma. Ho sbagliato tutto, ma credevo che fosse passata. Ho
sbagliato tutto, ma credevo che per lui adesso le cose fossero cambiate. Ho
sbagliato tutto e sbaglierò sempre e non me ne accorgerò mai perché
semplicemente non so dove sbaglio e sarà sempre colpa mia. «Mi… mi dispiace. Non... volevo.»
«Oh, lo volevi eccome.»
«Ero confusa e delusa.»
«Io ti ho aiutato. Ti sono sempre stato
vicino e… è vero, sono sempre stato un po’ coglione ma che cosa pretendevi?
Questo sono io, Sarah, e sarò sempre così. Non mi cambierai nemmeno tu. Non mi
cambierò nemmeno se lo voglio io. E poi… ah, finalmente! Mosè ha aperto le
acque!... » Schiocca le dita, si avvicina quasi lento, la sua andatura è
un’onda di mare agitato. «…finalmente mi ascolti! E poi tu… »
«Io cosa? COSA? Che cosa ho fatto per
farti comportare in questo modo con me adesso? Non mi parli e se lo fai sei un
isopportabile bambino viziato… »
«Continua.»
«Ricco e che può avere tutto. Ricco e che
non usa il cervello perché tanto non ce n’è bisogno… c’è papà che provvede!
Papà che è anche il responsabile della rovina della mia vita! Tutta la mia vita
è rovinata, distrutta, a pezzi! »
«Vai avanti, forza. »
Mi porto una mano fra i capelli e sento
che impazzirò, cadrò, morirò. Mi viene fuori un mugolio e mi pento di avergli
detto parliamo. Mi pento di aver pensato di poter risolvere tutto come fanno le
persone normali. Sono mai stata una persona normale? Mi è capitato di sentirmi
in quel modo, insieme a lui, ma adesso è impossibile. Non potrà accadere mai
più.
«Sono
rovinata, distrutta, a pezzi…»
sussurro. I miei pensieri diventano parole. I miei pensieri sono le mie
parole. «Non scoprirò niente. Non cambierà
niente…. Rovinata,
distrutta, a pezzi… e tu stai perdendo tempo, Martin. Torna nel
tuo bel mondo.
È falso ma almeno è bello.» Non vedo più
niente. Mi porto le
mani agli occhi, li stropiccio, ogni cosa è nera, ogni cosa
è nascosta
dall’oscurità.
«Non è vero… io posso ancora… »
«Aiutarmi? No, Martin, basta così. Vattene.»
«Ascolta… »
«Trovati un altro gioco.»
«Mi vuoi ascoltare?! » Sento le sue mani
sulle mie spalle, mi scuote, all’inizio forte – toccami – poi più piano – ti
prego, toccami. Ti prego, abbracciami. Ti prego…– e poi di nuovo la sua voce: «Io
ti amo. E sono qui e non me ne andrò e ti amo.»
Rovinata.
E sono qui.
Distrutta.
E non me ne andrò.
A pezzi.
E ti amo.
Sono rannicchiata contro me stessa e in me
stessa in una piccola cucina e lui mi abbraccia e non parlo. Ti amo. Non vedo
più nero. E sono qui. Metto a fuoco il suo viso spigoloso, le labbra, gli occhi
verdi che splendono e i capelli biondi disordinati. E non me ne andrò. Vedo il
ragazzo che mi ha fatto sorridere e ridere senza alcuna sofferenza, come mi
avesse anestetizzata e oh ecco ora sorridi, e dopo ecco adesso ridi. E dopo
ancora adesso vivi.
«Come pensi che mi sia sentito quando ho
visto te ed Hans… che vi baciavate? » Sbuffa, ha gli occhi lucidi, dice “cazzo”
e “merda” quasi contemporaneamente. «Forse come ti sei sentita tu quando Yvonne
mi è saltata addosso… ma non credo che lui ti sia saltato addosso, no? » Si
rimette in piedi, cammina, cammina, torna indietro. «E poi… che spiegazioni
pretendo? Semplicemente tu non mi vuoi più, ok. È così. »
«No. » È un grugnito, il mio. Vorrei tanto
che lo sentisse.
«Cosa? »
Basta silenzio, basta avere paura, basta
nascondersi. Sarah Pierce ha perso la sua vita ed ora sono senza nome,
senza nome posso avere un’altra vita.
«Hans mi ha baciato ma non è lui che
voglio.» Deglutisco. Lui si avvicina, l’incertezza nel suo sguardo, l’affanno
nel mio respiro. «È te che voglio e mi sento così male, così male e mi
dispiace…»
«Stai male?»
«Sì! » Non piangerò. Non piangerò. «Sto
così male e non so chi sono, non so cosa sono e tu sei stato… così lontano, mi
sono sentita così tradita. Ma chi mi vorrebbe? Forse dovevo solo…»
«Chi ti vorrebbe? » Si inginocchia davanti
a me, mi prende il viso fra le mani e sono così belle tiepide.
«Chi ti vorrebbe?! »
Mi accarezza i capelli e lui sembra così
disperato e felice e bello e il ragazzo del bus, il ragazzo che mi ha parlato,
il ragazzo che amo.
«Mio Dio, Sarah, sei così brava a spiegare
letteratura ma ora è meglio se non parli. »
Mi bacia. E forse ora sto piangendo perché
mi aggrappo al suo collo e forse l’ho graffiato con queste unghie e lo amo e
apro di più la bocca e lo bacio. Le labbra, le labbra, le labbra. La sua lingua
mi tocca, mi trapassa il cuore e lo so, perché lui è lì. E non so
perché e non riesco a ragionare ed è lui, Martin, qui, e si stende su di me.
Non posso respirare, non posso posso respirare mai più perché sono le sue
labbra e le sue mani e tutto quello che vedo è lui che mi prende la mano, è lui
che mi porta in una strada asfaltata ed io ho un vestito bianco, è ancora buio
ma uno spiraglio di luce mi fa distinguere bene i suoi tratti, i capelli biondi
mossi, il sorriso. Il suo sorriso che è anche il mio.
«Martin… »
Mi bacia il collo e annaspo. Come faccio a
trovare le parole se lui mette tutto così in disordine? Ed io amo questo
disordine. Amo tutto. Amo che lui…
«Cosa? »
«Ti amo anch’io.»
*
*
*
*
Eccomi
qua! Allora, prima di tutto vi dico che vi adoro, perché se
questa storia non fosse letta da voi, sarebbe inesistente. Come un
attore ha bisogno di un pubblico nel suo teatro, una storia ha bisogno
di lettori. Spero davvero che la storia vi piaccia e spero che sareta
tanto gentili da farmelo sapere :3
Spero
di riuscire a rispondere alle recensioni entro questa serata, al
massimo domani. Sono molto impegnata a causa dello studio, ma cerco di
non saltare mai un aggiornamento :) Nel caso vi interessi, ho creato
una pagina su facebook, cliccate qui e troverete tante novità ^^
Grazie mille di cuore.
Un bacio
Ania :)
|
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Capitolo 21 *** 20. Sangue gelido ***
until 20
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
20.
Sangue gelido
Vedo questi ricordi, senza capirli, senza
sentirli. Vedo questi ricordi e penso non sono io.
Sono solo fantasie,
gli effetti collaterali di aver tenuto in questo appartamento, per
anni, lei. Solo a guardarla ti fa venire voglia di uccidere.
Ed io
voglio farlo.
«Ti prego, Joe… »
Un altro schiaffo.
«Ti prego…»
Un altro schiaffo. Un altro, un altro,
nemmeno le sue lacrime fanno più rumore.
Resta con la bocca aperta, un gemito
troppo silenzioso per farsi sentire, con il volto tirato per il dolore.
E poi accade di nuovo. Sento gli spilli conficcarsi
nel mio cervello, ghiacciati; lasciano una fredda sensazione di intorpidimento
che mi porta a lasciarla andare.
Yvonne cade a terra con un tonfo, ma
riesce a non sbattere il viso reggendosi con le mani. Forse per le tante volte in cui
le ho fatto male, ha imparato a non ferirsi da sola. Mi sorprendo per il fatto
che le sto dando ancora la possibilità di respirare, di vivere, e poi mi viene
in mente che ho un altro lavoro da fare, molto più importante di fare fuori una
ragazzina che non mi serve più.
«Alzati, angioletto.» Mi sistemo il
colletto della giacca e inclino la testa. «Prepara le tue cose, te ne tornerai
al tuo posto.»
«No, no…»
«Oh sì, invece.»
«Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto…
tutto quanto.» Singhiozza, cerca di rimettersi in piedi ma cade sul polso, il
petto le si alza e le si abbassa. I suoi occhi mi illuminano, scuri, con le
lacrime che le bagnano le ciglia e una voce troppo bassa dentro di me dice che
sono bellissimi. Yvonne. «Tutto quanto… ho chiesto ad Holly Dixon, la sorella
dell’amico di Martin, di controllarli per me alla festa, perché Martin mi avrebbe
riconosciuta, mi sono fatta dire tutto quello che ha visto…»
«Non era abbastanza. E adesso muoviti.»
La aiuto a mettersi in piedi, mi cade quasi addosso, la allontano e lei mi guarda
come se l’avessi schiaffeggiata un’altra volta. Le parlo all’orecchio, la mia
voce è appena un sussurro. «Siamo quasi alla fine.»
***
Sarah
Martin mi sfiora le tempie con il pollice,
poi scende sullo zigomo, la guancia, il mento. Sta sorridendo, con le gambe
intrecciate alle mie e il respiro spezzato da qualcosa che è lo stesso motivo
per cui anch’io sorrido, anch’io respiro a malapena.
«Baciare la tua ragazza sul tappeto di
plastica della cucina: fatto.»
Scoppio a ridere, mi si schiaccia addosso
ed io gli stampo un bacio all’angolo della bocca. «Comodo?»
«Il
letto è troppo banale.» Preme le labbra sulle mie ed io gli accarezzo i
capelli, mi faccio abbracciare, faccio mia la sua felicità, perché non riesco a
capire dove inizia e finisce quella di entrambi. Poi mi stacco da lui con un
sorriso, Martin si mette in piedi ed io mi liscio la maglietta. Lui si appoggia
al lavello ed io apro il frigorifero, mentre cerco di far andare via questa
strana voglia di saltare, saltare, saltare, e dire sono felice.
«Ti piace la lasagna?» gli chiedo.
«Posso accendere la tv?»
«Sì, puoi.» Trattengo una risata.
«Allora, la lasagna?»
«Sì, mi piace.»
«C’è solo una porzione ma ce la possiamo
dividere.»
«Mi stai dicendo di mangiare metà porzione?»
«Ti sto chiedendo di dividerla con me.»
«Questo è un colpo basso, Sar.» Mi lancia
un’occhiata un po’ troppo intensa e mi fa sentire le guance calde come se lo
stessi ancora baciando. Mi volto a guardare le tendine a fiori alla finestra,
quelli sono… narcisi?
«La tv non si accende.»
«Non è che non si accende.» Quelli sono
narcisi o gigli? «È vecchia, dovremmo aggiustarla, carica l’immagine dopo
almeno cinque minuti anche se si sente il suono.»
«Ah, peccato.» La sua voce è sempre più
vicina. «Mi chiedo che cosa posso fare in questi cinque minuti…» Sento la sua
mano che mi tocca il polso, mi fa voltare e mi trovo contro il suo petto. Sento
la sua bocca sulla fronte mentre il cuore batte, batte, batte. Trovo le sue labbra,
si allontana troppo presto, sembra che mi abbia tolto il respiro con le sue
stesse mani. Lo ha fatto, perché mi solleva sul tavolo e sto impazzendo. Stringe
le mani sulla mia schiena ed io mi aggrappo al suo collo come se potessi
precipitare se lui non fosse qui.
Ma lui è qui. Sottofondo di un
telegiornale. Gli mordo il labbro, lo sento gemere, sorride contro le mie labbra e posa le mani
sulle mie gambe, mi stringe di più. Lui è qui.
«Io. Te. Tavolo,» gli sussurro.
«Come hai imparato bene.»
Ridacchio.
Le mie labbra sono di nuovo sulle sue, poi
sul mento, sul collo.
«Mi stai uccidendo.»
«Hai cominciato tu,» dico.
«Ma solo perché tu lo volevi.»
«Non l’ho detto.»
«Tu lo desideravi ardentemente.»
«Ok, ok!»
Si allontana, troppo lento, troppo veloce,
ed io mi rendo conto di avere la maggior parte dei capelli appiccicati alla
guancia sinistra.
Martin sembra sconvolto.
«Ordiniamo una pizza?»
«Ma c’è la lasagna.»
«È solo una porzione, dai… Vuoi anche le patatine?»
«Devo controllare nel portafoglio…»
«Oh, finiscila. Ora chiamo. »
«La pizzeria di sotto non fa il servizio a
domicilio.»
«Che sfiga. Vorrà dire che il genere umano
dovrà sorbirsi la mia bellezza per tutto il tempo in cui aspetto.»
«Che peccato.»
«Un peccato sì.» Scendo dal tavolo e
cerco di ordinarmi i capelli, anche se è un tentativo un po’ inutile, mentre
Martin prende la giacca dal divano e la indossa.
«Quando torno ti trovo? » mi chiede. Si
avvicina alla porta, sicuro, come se fosse casa sua, ed io mi chiedo come possa
sembrare così a suo agio in una casa così diversa da quella in cui vive.
Annuisco e sorrido, Martin mi fa
l’occhiolino e sento di aver perso tutte le facoltà mentali che mi facevano
credere di avere un minimo di normalità, anche se del tutto anomala rispetto
al resto. Torno in cucina, ancora un minuto e la televisione mostrerà anche
l’immagine, nel frattempo si sente ancora il telegiornale.
«Notizia dell’ultimo minuto,» dice la
giornalista. Ed io giro intorno al tavolo, forse sono di nuovo bambina, forse
non è mai successo niente di brutto, forse tutto questo è accaduto solo nella
mia mente ma è qui che voglio restare. Nella mia mente. «Tutte le famiglie a
lei vicine, vecchi amici di scuola…» Nella mia mente. Solo nella mia mente. «…
sono sconvolti per la sua morte.» Mi passo una mano fra i capelli e volto la
testa; pian piano, la televisione prende colore e mi mostra una donna sulla
cinquantina, la solita giornalista del tg della sera. «È stata uccisa con
cinque colpi di pistola, trovata morta proprio nella strada del suo ospedale in
cui aveva appena finito il turno come infermiera.»
L’infermiera che si è rifiutata di
visitarmi. Mi alzo in piedi, mentre sullo schermo la telecamera inquadra solo
la sua foto. Capelli castani corti, occhi marrone chiaro, sorriso gentile. È
quella che mi ha mandato via e mi ha detto di non tornare.
«Non si sa ancora nulla dell’assassino, ma
vi terremo informati con gli aggiornamenti.»
Mi alzo in piedi, prendo la borsa, cerco
il cellulare, non lo trovo. Affondo ancora di più la mano, devo trovarlo, devo
chiamare Martin, devo dirglielo, devo chiamare Julia, devo dirglielo. Devo… oh
mio Dio...
Qualcuno bussa alla
porta… deve essere Martin, sì. L’avrà visto anche lui alla televisione della
pizzeria. Corro verso il corridoio e dopo qualche secondo mi trovo davanti alla
porta, spingo la maniglia verso il basso e la apro. Sospiro di sollievo.
Poi alzo gli occhi.
«Non urlare, angioletto.»
Ma quasi come se tutto il mio corpo mi
implorasse di farlo un suono acuto esce dalla mia gola, e lui mi spinge e cado
a terra e sto per rialzarmi quando sento i polsi stertti da qualcosa, una sola
mano, e un fazzoletto sulle labbra che attutisce il mio urlo e mi rende la
testa pesante, sempre più pesante mentre mi addormento e grido a me stessa
resta sveglia! Sarah, resta sveglia!
Ma ho già chiuso gli occhi.
***
Martin
Su Mtv passa il nuovo singolo di Lady
Gaga. La zona è periferica ma qui c’è davvero tanta gente, è passato già un
quarto d’ora e ancora non arriva l’ordinazione. Trascorrono i minuti, aspetto,
e non riesco a fare a meno di pensare a quanto tutto sia fantastico. Insomma,
non che ne dubitassi.
La canzone degli One Republic è carina.
Ok, è vero, ne dubitavo.
Quando l’ho vista per la prima volta i
suoi occhi erano spenti, ma nel profondo di me stesso, mentre Kurt Cobain
cantava Something in the way, ho capito che il buio non può durare per
sempre. C’era qualcosa, sulla sua strada, a tenerla spenta.
A scuola ho studiato che nei paesi nordici
per sei mesi è sempre notte. Be’, fino a quando ci sarò io a infastidirla, i
suoi sei mesi di luce dureranno per molto tempo.
Su Mtv è appena cominciato Disater Date quando esco dalla pizzeria con una busta. Al palazzo di Sarah
arrivo nel giro di trenta secondi, salgo le scale mi ritrovo davanti alla sua
porta. Suono il campanello.
Uno due tre quattro cinque secondi.
«Sar?» la chiamo.
Uno due tre quattro cinque.
Sposto la busta all’altra mano.
Uno due tre quattro cinque.
Sento dei passi strascicati sul pavimento,
come se qualcuno stesse trascinando qualcosa, ma poi la porta si apre e una
signora anziana con una giacca pesante mi sorride incerta.
«Oh… salve.» Dico. «C’è per caso…?»
«Sei un amico di Sarah? »
Gli occhi marroni della signora luccicano,
sembra quasi che aspetti una risposta con tutto il suo cuore, e mi sembra
stranissimo quando le dico: «Sì, certo.» E mi sento anche un po’ in colpa…
anche se, in fondo, ci siamo appena chiariti, non c’è bisogno di coinvolgere
anche gli adulti. «È in casa?»
«Entra pure. »
Sarah?
«Trevor, è venuto un amico di Sarah!»
dice la signora, e si porta le mani al viso e fa qualche passo inoltrandosi nel
corridoio. La seguo, mentre dalla cucina, sul suono della tv, proviene una voce
che dice: «Chi?»
«Un amico di Sarah!» dice di nuovo la
signora, mi posa la mano sul braccio e mi guida in cucina come se non sapessi
camminare da solo. Poi si rivolge a me: «Come ti chiami? »
«Martin, ma… »
«Trevor, questo ragazzo si chiama Martin…
ed è un amico di Sarah,» sottolinea le ultime parole con una voce dolce e allo
stesso tempo decisa.
L’uomo seduto sul divano, anziano, con i
capelli brizzolati, gli occhi verde scuro e un sorriso sorpreso viene a
stringermi la mano.
Il suo sorriso si allarga sempre di più.
«Sono davvero felice che Sarah abbia un amico… e ne ha altri?» me lo chiede
con l’incanto che avrebbe uno scienziato davanti ad una delle scoperte più
incredibili del secolo.
«Eh… sì, ne ha… diversi.» Rido. Cazzo,
sono così nervoso che se bevessi del caffè mi ucciderei. «Julia, Cameron…»
inventane altri, inventane altri… «Ehm… Doreen.»
«È meraviglioso,» dice il signore.
«Noi siamo i nonni,» dice la signora, i
capelli argentati raccolti sulla nuca. «Mio figlio Nathan era il papà di Sarah.
I genitori della mamma erano morti già da tanto tempo. E allora la bambina
l’hanno data a noi… »
«Oh lascia stare, Nellie,» la interrompe
il signore.
«Stavo solo spiegando…»
«Non c’è n’è bisogno, tesoro…»
«Dov’è Sarah?»
«Non è in casa.»
Il mio cuore batte. Batte sempre, in ogni ora
del giorno, ma è quando hai paura che ti martella nelle
orecchie. È quando la tocchi e sai che la vorrai sempre, è quando è troppo
lontana e temi di averla persa. Sento il sudore freddo colarmi sulla schiena,
mentre prendo il telefono e vedo che non c’è nemmeno un messaggio.
«Prima ci ha detto che sarebbe uscita,
credo che tornerà a momenti.»
Mi viene la nausea. Devo inventare qualcosa. «Sarah mi aveva detto…
mi aveva detto che mi avrebbe... restituito un libro. Posso prenderlo? È…
importante.» Sul tavolo la sua borsa non c’è.
«Certo, ti accompagno nella sua stanza.»
E adesso che apro la porta della sua stanza…
non la vedo da nessuna parte. Un letto dalla coperta lilla, una piccola
scrivania bianca con un libreria montata sul muro. Qualche quadro con disegni
di fiori. Mi chino su
quelli che sembrano dei modellini… sono dei lavori in ceramica, tutti dipinti,
sono bellissimi… li ha fatti lei ed io ho paura.
Sul comodino è posato un libro. Poesie di
Emily Dickinson, lo apro nel mezzo, dove c’è una matita mordicchiata ed io mi
sento morire perché l'ho lasciata sola. L’ho lasciata sola e non dovevo. L’ho
lasciata sola e…
Non
c'è bisogno di essere una stanza per sentirsi infestati dai fantasmi, non c'è
bisogno di essere una casa. La mente ha corridoi molto più vasti di uno spazio
materiale ed è assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma
esterno piuttosto che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato.
Prendo il libro, anche se forse sanno
che è suo ma non importa perché devo trovarla e qualcosa, nei corridoi della
mia mente, mi dice che avere paura è un mio diritto, adesso. Ed io la troverò e
non importa quanto dovrò pagare.
Sarà abbastanza.
È stato mio padre, ne sono sicuro. È stato
lui a prenderla. È stato lui… è sempre stato lui. Non può esserci altra
spiegazione e se le ha fatto del male lo uccido. Se l’ha anche solo toccata lo
uccido. Io lo uccido, uccido il mio stesso padre e il mostro non sarà più lei,
sarò io. Sarah non è un mostro, e se lo è prenderò il suo posto. Se qualcuno
deve farsi male, sarò io. Se qualcuno deve morire, sarò io.
Ma non lei.
Se succede qualcosa a lei sarà come avere
le gambe tagliate. Qualcuno potrà anche trasportarmi, ma io non potrò mai
rialzarmi da solo.
Le
chiavi, le chiavi, le chiavi… merda! È
tardi, deve essere a casa, deve essere arrivato proprio ora. Spalanco
la porta
e trovo le luci tutte accese, arrivo in salotto e trovo Doreen con una
panno, sta pulendo il pavimento. Si toglie via un ricciolo che le cade
sugli occhi e mi
fissa.
«È successo qualcosa?»
«Dov’è?»
Sarah, mio padre che odio, basta che
rispondi.
«Tuo padre? In ufficio, doveva incontrare…»
«Quel farabutto pezzo di merda! » Il
sangue che viene fuori dal taglio sulla mia mano trasforma il mio grido di
rabbia in qualcosa di sorpreso. Che cosa ho fatto? No, non davanti a Doreen..
Martin, che cosa fai… Mi appoggio al muro, il taglio non è profondo ma mi sento
dissanguare. Il vaso che ho colpito si è rotto in mille pezzi e vorrei essere quel bambino che
correva nel corridoio con le braccia aperte per un abbraccio di quel padre che non
c’era mai, quel bambino che rompeva i vasi per sbaglio con Doreen che mi chiamava, e mi
rincorreva e si arrabbiava con me ed io che dicevo non lo faccio più. Mi
prendeva il viso fra le mani con una carezza. Promesso, non lo faccio più...
E poi sento di nuovo la sua mano sul viso.
È come guardare la scena dall’esterno.
Doreen che si avvicina a me a grandi passi e muove il braccio per darmi un forte, sconvolgente
schiaffo.
«Non parlare mai più di Joe... di tuo padre in quel
modo, Martin, hai capito?! È tuo padre e gli devi rispetto!» Ha gli occhi
lucidi, i capelli in disordine, il viso distorto da qualcosa che sembra
tristezza, delusione. «Mai più.»
Tristezza, delusione.
Tristezza, delusione.
Ma che cosa ne sa lei? Che cosa cazzo può
sapere lei?
«Tu non puoi dirmi che cosa devo fare.»
La mia voce è più rotta di quei pezzi di vetro sul pavimento. «Tu non sei mia
madre.»
Ha le rughe sulla fronte. Questa è la
prima cosa che noto mentre lei sussulta come se fossi stato io, a
schiaffeggiarla, mentre i suoi occhi increduli tornano arrabbiati e poi rassegnati,
con le lacrime che scendono. Non dice niente, Doreen, e non mi importa.
Sono troppo egoista per pensare ad
un’altra persona. È tuo padre e devi dargli rispetto. No! Lui non lo merita,
lui ha rovinato la vita di Sarah, ha rovinato la mia vita, niente potrà più
essere aggiustato. Sto correndo e per un momento un pensiero va a Cameron. Lui,
che tante volte è rimasto solo per colpa mia. Lui, che c’è sempre stato ogni
volta che ne ho avuto bisogno. Non ho né un padre né una madre, ma ho un fratello.
Ed ho Sarah.
Arrivo
davanti all’ufficio di mio padre e
suono il citofono. Il timore è passato, non posso avere paura di
lui perché quando hai paura senti il battito del tuo cuore come
se fosse il suono più
chiassoso del mondo ma io ho bisogno di sentire il suo. Ho bisogno di
sapere
dov’è Sarah.
Passano pochi secondi e sto tremando.
Passano pochi secondi e sto tremando e lo
vedo scendere dalle scale.
Passano pochi secondi e sto tremando e lo
vedo scendere dalle scale e il suo sguardo incerto è su di me.
Passano pochi secondi e sto tremando e lo
vedo scendere le scale e il suo sguardo incerto è su di me ed io non voglio
crederci.
Passano pochi secondi e sto tremando e lo
vedo scendere le scale e il suo sguardo è disperato su di me ed io non voglio
crederci e tiene le mani in tasca.
Passano pochi secondi e sto tremando e lo
vedo scendere le scale e il suo sguardo è incerto su di me ed io non voglio
crederci e tiene le mani in tasca e lo guardo negli occhi.
Lo guardo negli occhi, mentre sento il rumore di uno sparo.
E ricordo che non ho guardato che cosa
avesse preso dalla tasca per guardarlo negli occhi, gli occhi di mio padre che vedo
sbiadire mentre sento il calore del sangue che abbandona il mio corpo.
Nel freddo.
*
*
*
*
Ciao a tutti! :D
Eccomi
qui con questo nuovo capitolo, spero vi sia piaciuto anche se... vi ho
lasciato in un punto carico di tensione XD Che cosa accadrà
adesso?
Qui
trovate la pagina dedicata alla storia, con aggiornamenti e
curiosità :3 Grazie mille per leggere e seguirmi sempre, e
grazie infinite a chi trova il tempo per lasciarmi un parere sulla
storia... è qualcosa di incredibilmente bello, per me.
Grazie di cuore
Ania :)
|
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Capitolo 22 *** 21. Sbarre bianche ***
until 21
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
21.
Sbarre bianche
«Sono
venuti anche i suoi amici a casa… la ragazza con i capelli
rossi, Julia, sì. E Cameron... il suo migliore amico dalle elementari... oh, Martin...» Doreen
attorciglia una ciocca di capelli intorno al
dito come si
farebbe con il filo del telefono, ma casa Scott non ha nulla di
antiquariato e
lei può torturare solo se stessa. «Se gli succedesse
qualcosa… non dirmi che
non gli succederà, non dirmelo perché niente è
certo, niente…» Aggrotta le
sopraciglia, una goccia di sudore freddo le cola sulla guancia,
è pallida e
sembra che non dorma da giorni. «Certo che è stata fatta
la denuncia alla polizia. Non potevo impedirglielo, vogliono bene a
Martin e ne vogliono anche a Sarah.»
Chiude la telefonata e si alza dalla sedia. Dal terrazzo della casa di
fronte, in un noto quartiere residenziale, riesco a vedere tutto. Il cannocchiale
è di quelli professionali, così come le cimici negli adesivi trasparenti che
ho dato ad Yvonne, che lei ha poi dato ad Holly facendole credere che fossero solo dei disegni senza senso.
Scendo veloce dalle scale, apro il portone
con le chiavi, salgo le scale. Poi sento il rumore della porta che sbatte, il
rumore della serratura che viene chiusa, qualche passo veloce e poi eccola, la
sua ombra. Un albero magro che si distende sul muro, le foglie i suoi capelli, il
giunco il suo corpo, le mani le sue braccia. Anche le ombre mostrano chi sei, e
lei ha cresciuto quel bambino con la paura di essere sradicata dai venti più
impetuosi.
E si ferma.
Adesso è la mia ombra, che si
proietta sul muro.
Doreen stira la bocca, dalla sua gola viene fuori
un suono sorpreso che sembra un guaito, un suono che dice non era questo il
momento.
«Ciao, Doreen.»
Il momento non sarebbe mai dovuto
arrivare.
Mi guarda e i suoi occhi sono grandi,
scuri, profondi.
Un tempo era più veloce a correre, ma gli
anni passano per tutti. Un tempo era anche più forte, ma ora le sue braccia non
ce la fanno a spingermi via mentre le metto il fazzoletto sulla bocca.
«Ti prego, no.» La sua voce è attutita
dalla stoffa, rende le parole ovattate, come se avessi le orecchie chiuse. «Non
fargli del male…»
Poi i suoi occhi si chiudono.
Hans
Guardo
fuori dalla finestra, un gomito
poggiato sul davanzale, il telefono nell’altra mano, mentre
aspetto che Cameron mi mandi un messaggio. Aspetto novità da ieri pomeriggio, non riesco a
non essere inquieto per quello che mi ha scritto. Martin e Sarah sono irragiungibili.
Sarah.
La ragazza che è rimasta costantemente,
per anni, con la convinzione di avermi fatto del male irreparabilmente, quando ero un
ragazzino senza niente, troppo grande per pensare ai sogni.
«Ehi, Hans.» Una voce bassa, strascicata,
quella del mio migliore amico. Volto la testa e lo guardo, i capelli rasati a
zero e gli occhi verdognoli, la maglietta bianca sudata trasparente sul petto.
«Mi dai una mano?»
«A far cosa, Phil?»
«È arrivata una nuova.»
«Dammi un secondo.»
«Problemi?» mi chiede, e gli si alza il
sopraciglio destro, come tutte le volte in cui fa una domanda di cui gli
interessa la risposta. È rassicurante, saperlo, dopo tutte le cose che mi sono
capitate. Qui ho avuto sempre tanti amici, starci insieme e girarci intorno in
continuazione è stato naturale come venire al mondo. Quando non hai niente su
cui contare, l’unica cosa che hai sono le persone, e quando mi hanno chiesto se
volevo frequentare una scuola esterna a questa struttura e ho detto di sì e
l’ho incontrata, Sarah per me è stata la prima persona silenziosa e impaurita
che avevo mai incontrato.
Guardava la gente come se stesse sempre
sul punto di piangere, e nessuno mi spiegava il perché. È strana, mi dicevano.
Seguo Phil per il corridoio – mattonelle
nere, carta da parati azzurra dei dormitori maschili – e poi scendo le scale.
È strana, mi dicevano. Ma era bella e così
silenziosa e mi piaceva parlare
senza senso con lei che annuiva ogni tanto. Mi piaceva quando mi rispondeva
“sì”, “no” e mi guardava negli occhi, gli occhi che sono rimasti sempre gli
stessi. Mi piaceva quando riuscivo a rubarle delle smorfie che somigliavano a
sorrisi e mi sentivo male quando vedevo che la smorfia si trasformava in dolore.
«Be’, ancora non lo so,» dico a Phil,
cammino con le mani in tasca. «Quello ancora non mi risponde.»
«Martin?»
«No, Cameron.»
Phil fa spallucce. Gli ho raccontato
tutto, e per lui è stato quasi normale capirlo… è il mio migliore amico, ed è
così da sempre. Quando successe quella cosa,
lui era lì a
guardarmi, era lì a scuotermi per riportarmi indietro. Di
ragazze ce ne sono
sempre state poche, hanno perso significato quando sono andate via.
Solo una, pur essendo andata via senza più tornare, è
rimasta più di tutte le altre. Ma il tempo in cui c'era mi
sembra così lontano che ho paura di averlo solo immaginato.
«Ok.» Phil salta gli ultimi due scalini
con un salto. «Dolcezza, a portare i bagagli ti aiuta lui.»
«Che…?» Non riesco nemmeno a finire la
domanda, Phil mi mette una mano sulla spalla e mi fa: «Sei un amico».
Resto un attimo interdetto, il tempo di
vedere la sua camminata sicura, lui che saluta tutti quelli che incontra con un
“ehi” e un cenno di testa.
E poi mi volto a guardarla.
Quella nuova.
Tiene il viso basso, una ciocca di capelli biondi le sfiora il naso ed io
sento le dita dolere all’inspiegabile istinto di spostargliela e guardarla. Non
riesco a capire nemmeno me stesso, adesso.
«Tu sei…?»
«Questi sono i tuoi bagagli, è tutto
quello che ti serve sapere.» Ha una voce affilata. Arrabbiata. Distorta.
Quale sarà la sua vera voce?
«Non sono un facchino.»
«Vaffanculo.» La sua voce si fa più bassa, diventa vera, mi riporta ad un pomeriggio in giardino. Un pomeriggio in giardino... in cui l’avevo battuta
così tante volte da farla davvero stancare di provarci, lei che si passava i
capelli castani ramati dietro l’orecchio.
Scuoto la testa. Non riesco nemmeno a capire perché mi sia venuta in mente adesso.
Prendo i bagagli e mi incammino verso il
dormitorio femminile. Non sento nessuna vibrazione del cellulare, Cameron sarà
riuscito a contattare Martin e Sarah? Alla fine non sono nemmeno in buoni rapporti. Mi
fermo davanti alla stanza con sopra il foglietto con la scritta “nuova
arrivata” e apro la porta; è fortunata a stare da sola, per il carattere che
ha. Forse ha rubato, si è drogata… è questo il motivo per cui spediscono i
ragazzi qui. Gli orfani se ne vanno presto, a parte quelli particolarmente
sfigati.
«Ecco, questa è la tua…» Mi oltrepassa
colpendomi la spalla con la sua. «… stanza.»
Si volta e, mentre mi prende il borsone
che ho ancora in una mano, mi sfiora le dita con le sue e alza gli occhi.
Il suo sguardo è lo stesso di quell’ultima volta.
Sbatto le
palpebre, non è possibile.
Non può essere la stessa persona.
Il suo sguardo mi fa sentire lame nello stomaco che
spingono e il suo sguardo dice mi hai fatto perdere. Mi hai fatto perdere e non
potrò ritrovarmi mai più.
«Yvonne.»
Le scivola il borsone dalle
mani. Yvonne. Nella mia mente, il suono di questo nome disegna con i
ricordi la figura esile di una ragazzina dai capelli lunghissimi che
ondeggiano mentre cammina. Una ragazzina in equilibrio fra i desideri e
le sbarre del cancello dell'orfanotrofio, con il sorriso furbo di
quando vinceva a memory, a campana.
Non posso credere a quello che vedo… che cosa è successo ai suoi capelli?
E questo viso scarno? E gli occhi? Sono gli stessi ma adesso che li guardo
senza vergogna sembrano solo due buchi scavati nella pelle. «Che cosa ti è
successo?»
«Io, io ora…»
«Yvonne…»
«Adesso, io…»
Squilla il telefono e la cosa più sensata
che riesco a dire è “scusa un attimo”.
«Pronto, Cameron?»
Mi arriva la sua voce, alterata. «Hans,
siamo nella merda.» Alza il tono di voce. «Martin e Sarah sono scomparsi. »
«Che cosa? Mar… Martin e Sarah…?»
«Sono andato a casa sua e Doreen mi ha
detto che non ha idea di dove sia finito… e Sarah con lui.»
Sarah
10 giorni
dopo
Svegliati, Sarah.
La voce di me stessa mi riporta in
superfice, come se il sonno fosse un abisso profondo ed ora, invece, mi
trovassi finalmente sulla riva. Gli occhi mi bruciano, ho
l’affanno come se avessi nuotato. Le braccia mi fanno male come se avessi
attraversato chissà quale pezzo di mare. So nuotare? Mi chiedo. Mi fa male la
pancia, la testa è pesante, mi stropiccio gli occhi. Vorrei tanto vederlo, il
mare. Immergermi, risalire…
Un sighiozzo viene fuori dalla mia gola e,
dopo qualche altro respiro, riesco a tenere gli occhi aperti senza richiuderli
per il dolore.
Metto
a fuoco la stanza intorno a me. Il
materasso su cui mi trovo è duro e scomodo e questa non è
una stanza normale,
perché a pochi metri da me ci sono delle sbarre, bianche. Sono
in un
enorme stanza quadrata che contiene, come quelle bambole russe,
un’altra stanza
di ferro? Avorio?
Sarah, non crollare, Sarah, Sarah… voglio uscire di
qui.
Tocco una sbarra e un dolore lancinante mi prende il palmo, urlo, cado
all’indietro. Il palmo della mano
sembra bruciare, del fumo ne viene fuori.
Poi dalla ferita il fumo scompare e la
pelle diventa nera sotto i miei occhi che non vogliono credere, e poi la mia
pelle torna quella di sempre. Come farò ad uscire da qui? Non crollare, Sarah,
non crollare.
Fino a quando resisterò?
«L’angioletto si è svegliato.»
La
sua voce è rauca e gelida e resto immobile. Nel tempo di un
respiro profondo
mi volto a guardarlo. Indossa un completo nero di quelli che si vedono
agli
uomini d’ufficio. La sua pelle pallida sembra fatta dello stesso
materiale
delle sbarre che mi tengono intrappolata qui; è chiarissima, ma
riflette altri
colori, come se l’azzurro delle vene fosse visibile, come se i
miei occhi
avessero disperso il loro colore su di lui. Cammina nella stanza lento,
le labbra stirate da un mezzo sorriso che mi fa affogare nella
paura. Nella
foto in cui, con sua moglie, teneva in braccio Martin appena nato
era diverso, come se un'immagine risalente a diciassette anni fa avesse
più vita di una figura umana nel presente. I suoi lineamenti affilati
sembrano distorti... evanescenti... lo vedo davvero o anche questo è un
sogno? La fotografia che ho guardato mesi fa, nascosta nei miei
ricordi, sembra non avere nulla a che fare con quest'uomo. Il padre di
Martin. Joseph Scott, JS.
«Puoi
chiamarmi Joe, se mai tu volessi chiamarmi. Le sbarre sono fatte di
platino. Ma c'è anche quel poco di argento di luna rimasto, che
ti fa male. Sembra così difficile credere…» Si
avvicina a quella che è la mia cella e si abbassa alla stessa
altezza del mio
viso. I suoi occhi sono nerissimi, come i suoi capelli che
gli scendono lisci sulla fronte.
Sospiro. Il padre di Martin... Joseph Scott, ma non lo riconosco. Un
uomo pallido, alto, dai capelli neri. Ma non basta e non ricordo bene
ed ho paura. Ho paura che, davanti a me, ci sia qualcuno che non ho mai
avuto il tempo di temere. Non ne abbiamo avuto il tempo. «... che le somigli così tanto.» Scuote la
testa. «L’uomo dà il suo seme ma quale segreto c’è nella natura del mondo da
averti fatta esattamente uguale a lei?»
La mamma.
Tremo, tremo, tremo. E resto in silenzio.
«Sì… Sarah, tua madre. Ma è passato troppo tempo.»
Che cosa c’entri con mia madre?
Mi
sento così confusa, come se stessi ponendo una domanda di cui so
che la
risposta sarà assurda e non basterà. Non l'ho nemmeno
posta, la mia lingua è paralizzata. Ogni cosa di me è
inerme.
«So
che hai tante domande.» Si mette in
piedi e si sistema la giacca, è così alto… forse
quanto Martin, sì, proprio
come lui. «Hai bisogno di certezze. Hai bisogno di capire davvero
perché puoi fare quello che fai. E la tua vita cambierà
completamente, se farai quello che ti ordino.»
Ordino. Il
suo sorriso si allarga e l’unica cosa che sento è terrore, il cuore batte,
terrore, il cuore, terrore. «Ho letto i giornali. Che nome bizzarro per connotarti... mostro.»
Sarah il mostro.
Non respiro.
«Sarah il mostro…»
Lasciami andare.
Mi metto in
piedi, traballo, cerco di non cadere perché altrimenti andrei a sbattere da
qualche parte sul ferro bianco di questa cella.
«Voglio
solo che tutto questo finisca.» Parlo per la prima volta e la mia
voce suona arrocchita, malferma, straziata.
«Devi fare solo quello che ti chiedo.»
Si avvicina alla parete, alla stessa altezza della mia cella, poi prende quello
che sembra un piccolo telecomando, di plastica nera. Deglutisco. «Che cosa?»
«Quello che hai fatto senza che te lo chiedessi.» Non sento più il cuore. «Addormentare
i corpi. Quando lo fai, Sarah, doni loro la misericordia. Addormentati, vedono la loro vita. Vedono il passato... e
vedono gli errori commessi. Diventano giudici
della loro vita come se non fossero più se stessi... rare volte,
i giudici
che sono diventate le loro coscienze permettono che ci si svegli
ancora. Ma Julia era solo una
bambina. Hans appena un adolescente. Quel cane... non ha avuto alcuna
ripercussione. Solo per questo si sono svegliati... non c'era niente di
troppo grave, nel loro passato, per non farli tornare indietro. Solo
per questo Julia
ed Hans sono ancora in vita, altrimenti il loro cuore si sarebbe
fermato. Questo è quello che devi fare, Sarah.»
Sospira. «Ci
sono dei cuori che non meritano più di battere, e tu devi
aiutarmi a fermarli. Li addormenterai, ed io li guarderò morire
grazie alla mia creazione, perché è grazie a me se tu sei
così. Grazie a me, se sei ancora in vita. Certo, se mai si
sveglieranno li ucciderò con le mie mani ma tu... tu mi aiuterai a cominciare. E non rifiuterai.» Preme
il tasto rosso su quel telecomando.
Vedo che la
parete si alza verso l’alto fino a mostrare un’altra stanza, o il resto della
stanza in cui mi trovo… una stanza in cui c’è un’altra cella.
Una cella uguale alla mia.
Una flebo e un letto bianco all’interno.
«Martin…»
È sdraiato, privo di sensi, la testa tutta
rivolta al lato sinistro, con solo i jeans e una garza sul fianco ed è così…
immobile. Respira? Ti prego, dimmi che respira.
«Gli ho sparato. Senza ucciderlo. Se mi aiuti, lui sarà l'ultimo a morire.» Lo dice rigirandosi il
telecomando dalle mani e adesso, proprio adesso, lo ucciderei con quello strano
modo incatenato alle profondità di me stessa. «Non
puoi sapere quanto desidero che muoia, quanto sia stato difficile non
ucciderlo per davvero quando potevo. Ma voglio che muoia grazie al tuo
aiuto, voglio che tu lo guardi e che lui sappia che cosa gli starai
facendo, voglio che lui sappia che è sempre stato in pericolo,
anche con te, sempre.»
Stringo i pugni. Mi accorgo che non porto
i jeans dell’ultima volta e nemmeno la maglietta; la stoffa che stringo fra le
dita è quella del vestito bianco che mi ha dato Julia il giorno della festa. «Non posso farlo.» Chiudo gli occhi. Lui ride. «Io lo amo.»
«Quest'inconveniente non era previsto. Ma dovrai dimenticartene.» Ma non si può dimenticare, l'amore. Si passa una mano sulle labbra. «Sei stata addormentata per
quasi due settimane, quando stavi per riprendere i sensi ti ho somministrato di
nuovo il sonnifero, con delle flebo ti ho tenuta in vita, e quando ho messo la
tua giacca e la tua borsa nell’armadio per non dare subito prova della tua
scomparsa a quei fottuti genitori di tuo padre, l’ho visto e l’ho preso. Sei
splendida, sai?» Faccio qualche passo, molto piano, come se stessi dondolando
sui talloni, non ho più nemmeno le scarpe. Stringo la stoffa del vestito e mi
avvicino alla cella il più possibile, poi tocco una sbarra con il tessuto a
proteggermi il palmo e, per un istante, sorrido. Non sento dolore. «Capisco che lui ami te... ma tu, lui? Che mistero è mai questo.»
Ma è solo un istante perché presto sento
la pelle bruciare anche attraverso la stoffa bianca, di nuovo ancora, mi mordo
le labbra, cado in ginocchio e odio me stessa. La stoffa è intatta ma io no. Io no perché se uccide Martin, sarò morta anch'io.
«E se non mi aiuterai ad uccidere gli altri, me la potrò cavare da solo ovviamente... e poi sparerò a Martin
direttamente nel cuore. Se non lo farai, porterò qui quella
tua nuova amichetta, anzi… vecchia, Julia. A lei sparo in bocca, per cambiare.
E chi altro, Hans? Anche lui. E l’amico di Martin. E la sorella di Cameron,
facciamo al completo… più siamo meglio è. E alla fine…»
Se uccide tutte le persone che amo, sarò morta ugualmente.
Non mi salverà. Nessuno mi salverà.
«Alla fine i tuoi nonni, anche se sarà un
favore a me stesso. Ho goduto quando Nathan è morto, anche se si è portato via
anche lei. Uccidere anche loro sarà solo finire un lavoro rimasto incompleto.»
Non mi salverà. Nessuno mi salverà.
«Hai qualche giorno per pensarci.»
Non mi salverà, nessuno mi salverà.
Devo salvarmi da sola.
E se mi salvo, potrò salvare anche loro.
Martin
Mio padre mi ha sparato.
Vuole solo
distruggerci tutti. Vuole distruggere Sarah. Vuole distruggere me.
Mio padre mi ha sparato ma io sono ancora
vivo.
Che cosa aveva in testa, mia madre, quando
l’ha sposato? Non penso mai a lei, perché è solo la foto di una bella donna in
una cornice dorata, una donna a cui trovo un colore simile dei miei capelli… A che pensavi, mamma, quando hai sposato lui?
Mio padre mi ha sparato ma io sono ancora
vivo e riesco a muovermi.
A che pensavi, mamma, quando mi hai
lasciato da solo con quell’uomo?
«Martin!»
A che pensavi?
«Martin, sono qui… sono vicino a te. Sono
Sarah. Ti prego, apri gli occhi, Martin… riesci a vedermi?»
Volto la testa e lei è sbiadita, come se
fosse un disegno non definito, con solo i contorni; un vestito bianco, i
lunghi capelli, le labbra che le tremano.
«Io riesco sempre a vederti, Sar. »
Voglio alzarmi. Che cosa sono queste
sbarre? Se solo l’ha toccata o ci prova…
«Stai bene, Sarah? »
«Sono rinchiusa qui e tu sei stato
sparato…»
«Ti ha fatto del male? Ti ha toccata?» Alzo la voce, il dolore
al fianco sembra entrarmi nella voce.
«No… no… Martin, io voglio solo solo…»
«Mi alzo. »
«No, Mat…»
«Sì, invece. Mi ha sparato al fianco, non
alle gambe. E sono ancora vivo, per tua sfortuna.»
Le sue labbra si muovono, segnano
una linea curva che sembra la nascita di un sorriso, ed è per questo che non
riesco a capire perché ha le lacrime intorno agli occhi. Le ricaccia, veloce.
«Allunga la mano, ma non ti alzare. »
«Sar… »
«Chi è che non ascolta, adesso? »
Sbuffo, poi mi mordo l’interno della
guancia perché il fianco fa un male fottuto. Stiro il braccio; il letto è così
vicino che la mia mano passa attraverso gli spazi fra una sbarra e l’altra…
Sarah mi prende la mano.
«Va meglio, ora? » mi chiede.
«No. »
Dalla sua gola viene fuori un suono acuto,
simile a una risata, come un lo sapevo che avresti risposto così.
«Mi dispiace tanto, Sar. »
«Io sarò forte, Martin.» Deglutisce. «Io
sarò forte e ti prometto che qualunque cosa succederà… »
«Non ti toccherà se prima non mi uccide…»
«No. Qualunque cosa succederà io non piangerò
e farò in modo che tu stia bene. Tutti staranno bene, te lo prometto, ed io
sarò forte. Io so che posso esserlo, ok? Lo so. »
«Sar.» La tiro verso di me come se
potesse passare davvero attraverso questo piccolo spazio. Poi le viene fuori un
urlo straziato e mi lascia la mano e cade all’indietro e mi sento bruciare dove
ora non può più toccarmi. Mi sento bruciare in tutto il corpo perché non posso
muovermi e voglio solo rompere questa barriera e abbracciarla e capire che cosa
le sta succedendo e aiutarla…
«Non so perché… di qualunque cosa siano
fatte queste sbarre, mi fanno male.» Scuote la testa. «Ma lui sa perché ed è
notte e chissà quando tornerà.»
«Lo odio… lo odio…»
«Andrà tutto bene… promesso.»
Sbuffo. «Sarah, che cosa dici?»
«Te l’ho promesso.»
«Non siamo all’asilo. All'asilo, quando dicevi
promesso era come se quello che avevi detto fosse stato supervisionato del
presidente degli Stati Uniti.»
«Io lo so, Martin. Andrà tutto bene.»
Stringe tra le mani l’orlo del vestito bianco, lo stesso del mio sogno. «Io lo so.»
Sarah.
Martin si è addormentato con la mano nella
mia; aveva i segni delle flebo ai polsi ed io mi chiedo... quale mostro vorrebbe il male del proprio figlio? Cerco di
trovare una spiegazione a tutto quello che è successo, sta succedendo e ancora
succederà, e l’unica cosa che riesco a dirmi con sicurezza è devi essere forte.
Per loro. Per lui. Per tutti.
Ma
mi ha chiesto troppo. Mi ha chiesto di
diventare il mostro che ho sempre creduto di essere. Mi ha chiesto
qualcosa che non posso dargli. Ed io devo trovare un modo per
combatterlo dentro di me.
Uno spiraglio di luce mi colpisce gli
occhi.
«Salve!» Joe entra nella stanza
spingendo una donna, dello scotch le copre la bocca. I suoi capelli ricci, lunghi e
scuri sono una massa di disordine, i suoi occhi gridano aiuto. «Bene, adesso
abbiamo la famiglia al completo.» La spinge a terra, lei cade di lato con le
mani dietro la schiena; devono essere legate.
«Sveglia!» grida l’uomo e, con una
chiave, apre la cella di Martin. «Stai ancora male, figliolo?» Gli mette le mani intorno al collo e sembra che lo stia
strangolando. Martin lo guarda con gli occhi sgranati.
«No!» È la
mia voce. E un urlo attutito da dello scotch sorregge il mio.
Martin va a sbattere contro la cella con
un rumore metallico. «Tu... tu non sei...»
«Stai ancora male, figliolo? Una bella
ferita, davvero… ma ho provveduto a tutto… in fondo come facevo a spaventare la
tua bella Sarah? Martin…» L’uomo lo trascina fuori ed estrae dalle tasche una
corda spessa, gli lega le mani.
«Tu non sei...»
Gli dà un calcio nella pancia.
Di
nuovo l’urlo attutito dallo scotch. Non ce l'ho fatta ad urlare,
sono senza fiato. Joe
si avvicina alla donna; gli occhi di lei sono il riflesso della
disperazione, della confusione; sono pieni d’orrore mentre lui
avvicina il viso al suo. «Adesso ci
facciamo una bella chiacchierata.» Le toglie lo scoth dalla bocca
con un
rumore secco, la donna sputa per terra, cade con il volto verso il
pavimento.
Joe la tira per i capelli e vorrei aiutarla, vorrei capire che cosa
c’entra,
perché… perché? Perché tutto questo?
E poi sento la voce di Martin. Martin che
dice Doreen e allora mi viene in mente un ricordo lontano, un ricordo in cui
eravamo felici.
Sarai forte, Sarah. Sarai forte.
Joe
si passa una mano fra i capelli e ride, io tremo,
Martin trema, Doreen cerca di mettersi dritta sul muro.
«Lasciali andare.» È la prima volta che
sento la sua voce.
È bella e triste e sofferente e un po’
roca.
«Oh, no… che divertimento ci sarebbe? Sai,
penso che a Martin piacerà sentire la storia.» Joe si avvicina di nuovo a lei,
le sposta un ricciolo che le sfiora la tempia e le respira addosso.
«Raccontamela, Doreen. Raccontamela. Mi piace tanto sentire raccontare il
passato, è una così bella arma.» Torna a rimettersi in piedi e fissa i suoi
occhi scuri nei miei. «Il passato ha il potere di distruggere il presente,
anche se non c’è più.»
*
*
*
*
Salve,
carissimi lettori! :D Vi ha sorpreso quest'aggiornamento anticipato?
D'ora in poi cercherò di aggiornare una volta alla settimana,
spero tanto che vi faccia piacere ^_^
In
questo capitolo ci sono mooolte novità, ma ho la bocca cucita,
perché non sarò io a spiegarvi tutto :3, ma loro,
questi personaggi le cui vicende sono legate da un passato che ancora
non conoscete a pieno e, per quelli che resteranno, da un futuro :))
Spero che la storia vi coinvolga almeno un pochino ** fatemelo sapere e
mi renderete una schibacchina felicissima, con il sorriso stampato in
volto e i piedi a qualche metro da terra, anche se ben saldati qui :)
Un bacio
Vostra Ania
|
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Capitolo 23 *** 22. Doreen Gates. Parte I. ***
until 23
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
22.
Doreen Gates.
Parte I.
Una bambina correva in un
sentiero ripido a discesa con il cestino per il pranzo in mano, un fiocco rosso
fra i capelli bruni, il respiro affannato ma gli occhi ridenti.
«Aspettami, Mar! »
Quella bambina ero io.
«Doreen, sei così lenta a correre!»
Gli alberi facevano ombra. Mi passai una
mano sulla fronte sudata e, dopo qualche passo, misi i piedi su una superficie
dritta ed esalai un respiro di sollievo. «Perché è così difficile questa
strada?»
«Perché porta in un posto magico! Mio padre ci passa ogni sera e si ferma a guardare, in silenzio. Hai mai
letto una storia in cui lungo il sentiero non c’è niente a renderlo difficile?»
Lei si chiamava Marlene Jenkins e si voltò verso di me, i
capelli biondo dorati corti fin sotto il mento, gli occhioni dello stesso colore
del cielo in estate, e mi prese la mano. Mentre correva rideva, a tratti, come
per ricordarmi che era felice, e lo era perché mi stava portando con sé.
Poi il boschetto cominciò ad aprirsi come
a clessidra, per mostrare una grande villa bianca con siepi verdeggianti a
circondarla. Era così alta… forse, dall’altra parte della città, la si riusciva
a vedere. O anche dalla parte più alta della collina, bastava sforzarsi un po’.
Trattenni il respiro.
«Marlene… » sussurrai.
«Non sembra un castello?» chiese Marlene.
Era così magra. «Vieni a vedere.»
Si mise a correre verso la siepe e
cominciò ad arrampicarsi, io la guardavo mentre saliva a grandi passi su quella
specie di montagna verde. Non aveva paura, Marlene, e nemmeno io ne avevo. Ero
quasi convinta che, se fosse caduta, si sarebbe messa a volare.
«Vieni anche tu, Dora!»
«Non so se ne sono capace…»
«Sì che lo sei! Vieni! Vieni e fa' finta di
essere in una storia!»
Sfiorai le foglie con le dita e subito
dopo mi convinsi. Se fossi tornata a casa a guardare Heidi non avrei capito
niente perché il mio pensiero sarebbe rimasto lì, fra gli spazi che c’erano fra
i rametti su cui avrei potuto arrampicarmi per guardare. Così la seguii, e
più salivo, più pensavo "chissà cosa direbbe la mamma" e… «Marlene, più lenta!»
e… "non sarà da cattivi bambini spiare?"
Poi mi ritrovai a sorreggermi sul
cornicione bianco, il mio gomito a sfiorare quello di Marlene, i miei occhi sul
giardino da sogno di quella villa simile ai castelli delle mie fiabe. Era come
guardare le vene di un uomo all’interno del suo corpo, ma senza sangue. Tutti
quei sentieri erano ricoperti di fiori lilla, azzurri, rossi, rosa, gialli;
c’era un laghetto che sembrava prendere lo stesso colore delle nuvole in cielo
e una fontana con dei bambini di pietra a far venire fuori l’acqua dalla bocca.
In mezzo a quel sogno, quella bambina sembrava un fiore insolito in un
verdeggiante paesaggio. Aveva un vestito bianco che svolazzava ad ogni passo, i
capelli neri e lunghi le volavano al vento, e quando si fermò, i suoi occhi
azzurri e belli si fermarono su di me e la mia amica.
«Abbassati!» Gridai a Marlene,
schiacciandole la testa con la mano.
«Che cosa fate? » sentii una voce che
sembrava un cinguettio. «Che cosa fate? »
Mi posai un dito sulle labbra per dirle di
stare in silenzio.
«È un po’ scomodo lì giocare! » Di nuovo
il suo cinguettio.
«Vuoi giocare con noi? » Marlene alzò la
voce.
«Shhhhhhhhh! » le intimai.
«Dai, venite a giocare! » disse ancora la
bambina.
Marlene era così felice di quel suo invito…
non aveva per niente paura?
«È una trappola,» le sibilai.
Marlene rise. «E perché?»
«Succede in tutte le storie.»
«Magari questa è una storia diversa. » Il
cancello dorato si aprì automaticamente e, per sorreggere la mia fantasia,
immaginai che fosse magico.
Marlene scese velocemente, mentre io ci misi molto
più tempo; una volta giù, Marlene mi superò correndo, poi si voltò e mi fece
una linguaccia. Io le risposi allo stesso modo, restando un po’ indietro.
Rimasi fuori dalla villa, senza mettere un
piede sul terreno ricoperto di ciottoli, ma poi mi raggiunse e mi strinse la
mano, come per farmi stare tranquilla.
Vidi la bambina che correva verso di noi
e, man mano che si avvicinava, sembrava più vera, anche se il suo volto era
simile alle statue degli angeli del giardino, ma dipinta.
«Il nonno mi manda fuori per parlare con Joe, ma qui da sola mi annoio,» disse. «Perché vi siete messe a spiare?»
La mia amica abbassò il viso, le guance
rosse per la vergogna, senza rispondere. Ma poi fece un colpetto di tosse. «Sembra
di stare in una storia, qui, » riuscì a dire, velocissima.
La bambina fece qualche passo verso di noi
e, con dolcezza, disse: «Mi chiamo Agnes.»
***
Avevo sognato, durante il viaggio. La mia infanzia, Marlene, e un mondo di immaginazione.
L’aereoporto era affollato. Dalle alte
balconate le lucette colorate mi dicevano che il motivo di tutta questa
affluenza era il Natale; trasportavo il trolley con una mano e tenevo la borsa
stretta al fianco con l’altro braccio, quasi fosse più importante. Be’, lo era,
in un certo senso: a ventidue anni mi ero laureata con il massimo in
Letteratura Francese, e avevo portato con me il libro del mio professore in cui
aveva inserito anche la mia considerazione sul…
Il telefono squillò ed io sussultai.
«Dora! Dove sei?» Dall’apparecchio che
avevo in mano venne fuori una voce cristallina stonata dall’euforia. Non
riuscii a trattenere una risata.
«Marlene, sono fuori dall’aereoporto e
credevo che mi saresti venuta a prendere.»
«Oh, scusa! Scusa, scusa, scusa! » Una
pausa. Sistemai meglio il telefono sotto l’orecchio… il suo regalo per il
compleanno, per potermi rintracciare anche quando ero irrintracciabile per il
resto del mondo. «Sto arrivando, davvero, sto arrivando… Joe? Joseph, svolta
a destra, ma dove vai? Da lì ci passiamo dopo… Doreen, scusa.»
«Non importa.» Le rotelle del trolley
scivolavano lisce sull’asfalto. «Vado alla caffetteria di fronte per prendere
un caffè, ti aspetto.»
«Certo! Joseph, non è quella la curva!»
Scossi
la testa e chiusi la telefonata
pigiando di un grande tasto verde dei vecchi cellulare degli anni
novanta. Marlene si era laureata in fretta, brillantemente, e si era
trasferità lì a Boston con Joseph, che dopo la laurea in
economia si stava specializzando, mentre io, in una piccola
città con la mia mamma anziana, terminavo la mia tesi di laurea
aspettando sue cartoline, lettere con la sua grafia tondeggiante,
fotografie in cui il suo sorriso splendeva. Con questi pensieri entrai
nella caffetteria.
Presi posto su una poltrona ed estrassi il
libro dalla borsa, poi guardai l’indice per trovare la pagina in cui il
professor Raway aveva inserito il mio commento su Flaubert…
«Salve.»
«Un caffè nero, grazie,» dissi subito.
O, ecco, ero proprio lì, a pagina cinquantasei! Io ero su un vero libro! Non un libro di
storie, non ero portata per i racconti, ma c’era il mio commento… Marlene non
avrebbe capito niente. «Senza zucchero, ma con la schiuma.»
«Qualcos’altro?»
Commento a cura di Doreen Gates. Ero
davvero io.
«No, basta così.»
«Scusi, cameriere? Un caffè nero con la
schiuma, ma senza zucchero, per la signorina. Per me la stessa cosa.»
… Come?
Alzai lo sguardo per la prima volta da
quando ero entrata in quella caffetteria e così, incapace di rendermi conto di
che cosa stessi facendo di così importante da non guardarlo prima, dimenticai
per un istante il perché del mio imbarazzo.
L’hai scambiato per un cameriere senza
nemmeno degnarlo di uno sguardo. Misi giù il libro. L’hai scambiato per un
cameriere e gli hai anche dato la tua ordinazione.
La vergogna mi avrebbe fatto diventare
verde.
«Mi… mi scusi,» dissi, esalando un
respiro, come se fossi intontita, poi abbassai di nuovo il capo, non riuscivo
proprio a guardarlo. E non riuscivo nemmeno a capire perché si stesse sedendo
di fronte a me.
Prese posto con la naturalezza che avrebbe
avuto sul suo divano di casa e il suo sorriso mi avvolse; aveva qualcosa di
ironico, provocatorio.
«Non c’è problema.» Si passò una mano fra
i capelli biondi, lisci, un po’ spettinati. Aveva un volto affilato, mai suoi
occhi verdi splendevano. «Le capita spesso di fare così?» Il suo sorriso si allargò, mentre posava i
gomiti sul tavolino; notai che aveva la spalle ampie e si vedeva moltissimo
che era molto più alto di me anche da seduto.
Pieno di sé.
«No. Ho solo chiesto un caffè alla persona
sbagliata.»
«E poi ha liquidato tutto con un “basta
così”.»
«... Perché un caffè mi basta. »
«È un modo originale per rifiutare un bel
ragazzo.» Si mise a giocherellare con i fazzolettini al centro del tavolo;
aveva le mani grandi e mi chiesi che cosa facesse nella sua vita, se parlava
con ogni ragazza che incontrava nelle caffetterie. «Mi piacciono le ragazze
originali.»
«A me non piacciono i narcisisti.»
«Oh, sono d’accordo. Per quanto io sia
affascinante non cadrei mai in un fiume per abbracciare il mio riflesso come Narciso. Prima
di arrivare a tanto bisognerebbe uscire insieme qualche volta, andare al
cinema, mangiare sushi.»
Strinsi la mano a pugno e me la portai
sotto il mento per trovare un modo per nascondermi la bocca, ma il suono della
mi risata lui lo sentì lo stesso.
«Non mi piace il sushi.»
«Messicano? »
Mi rigirai un ricciolo fra le dita.
«Italiano.»
«È andata.»
«Andata cosa? »
«Il mio appuntamento con la bella ragazza che
legge…» Si sporse leggermente verso di me per leggere il titolo del libro;
profumava di dopo barba, aria di città, l'aroma delizioso del caffè nero non zuccherato. «Commenti in
merito a Flaubert.»
Scossi la testa.
«Ma se nemmeno mi conosce…»
«Ti piace il caffè nero.»
«Ma...»
«Senza zucchero.»
«Lo so.»
«Anche
a me il caffè piace senza zucchero.» Si appoggiò
alla poltrona rosa con le braccia aperte ad accogliere chissà
che
cosa; così a suo agio, sorridente. «Nero.»
«Dora!» Marlene entrò nella caffetteria
nel fruscio di una sciarpa di lana avvolta intorno al collo e un pesante
giaccone che tolse velocissima, a mostrare la sua solita corporatura, così
magra da poter essere un’etoile di parigi. «Scusa, scusa tanto!» Mi si
avvicinò, con gli occhi azzurro chiaro sgranati, e poi mi abbracciò forte. I
suoi capelli biondi e corti mi fecero il solletico, anche se io restavo tesa.
«Joseph aveva dimenticato l’orario.» Marlene si staccò da me e mi sorrise,
poi, come se l’avessi avvisata io stessa, si voltò verso lo sconosciuto di fronte
a me. «Tu?» esclamò, e sembrava sconvolta.
«Dora… mhm.» Il ragazzo narcisista passò il pollice sulla
bocca e fissò gli occhi nei miei. «Un bel nome.»
«Doreen.» Deglutii. «È Doreen, il mio
nome.»
«Doreen,» disse allora. Do… reen.
Lentamente.
«Louis, come facevi a sapere che era lei?» gli chiese Marlene.
«Non
ricordi di avermi fatto vedere la sua foto pregandomi di accuparmi
della sua accoglienza?» chiese lui, con un’innocenza
così poco credibile. Intanto io pensavo al modo in cui diceva il
mio nome – lo
odiavo così tanto, anche se ci avevo fatto l’abitudine.
«Buonasera!» Un ragazzo di qualche anno
più grande di me entrò stringendosi nella giacca nera, i
capelli e gli occhi
scuri, la carnagione chiara e un sorriso che trovai buffo, cordiale.
Non era mai cambiato da tutti gli anni in cui lo conoscevo. Gli
sorrisi. Era bello in quel modo rassicurante che ti faceva vedere un po'
te stessa.
Ero
troppo vicina a Marlene per provare anche solo un barlume di interesse
per lui, anche se, attraverso lei, avevo saputo cose segrete, nascoste,
belle della loro tenera intimità.
«Joe!» Marlene gli corse incontro e gli
stampò un bacio sulle labbra. Tossii.
«Dio buono, fanno sempre così.» Sospirò
il ragazzo seduto di fronte a me.
Sorrisi. «Dopo tutti questi anni?»
«Sembra che lui sia appena tornato dalla
guerra in Vietnam quando invece erano insieme a malapena cinque minuti fa.»
«Se mai diventassi così qualcuno dovrebbe
spararmi.»
«Dovrai chiedere a qualcun altro, visto
che sarò impegnato a fare altro.»
«Dora,»
mi chiamò Marlene, solennemente. «La verità è che abbiamo fatto tardi perché... per organizzare la cerimonia bisogna girare molto e...»
«Oh mio Dio.» Sorrisi.
«Spero che tu mi faccia da testimone...» disse
Marlene, appoggiandosi a Joseph. «Per Joseph lo saranno Patrick e Louis... questo elemento che ti sta davanti.»
«Sono il suo migliore amico.» Louis. Aveva parlato in modo
scontroso e, non sapevo per me, era come se mi avesse fatto sentire il suo
disagio.
«Siete... piuttosto diversi.» Sorseggiai un po’ del mio
caffè.
Louis rise ed io lo guardai, lasciai
perdere la vergogna e notai il modo in cui inarcava il collo e il sorriso
sembrava trascinare ogni cosa come con una forte vibrazione. «Sì, io sono quello bello.»
Marlene scosse la testa.
«E Joe è quello buono. Oltreché bello.» Louis le lanciò
un’occhiata e Marlene gli fece una linguaccia. Sembrava proprio una bambina.
«Louis, se pensi che riuscirai a rimorchiare la mia amica ti sbagli. Lei è…»
«No, dai, non dire “diversa”, si sente in
troppi film.»
***
Marlene, chiusa nel suo cappotto bianco, sembrava venir fuori da una fiaba anche solo per il modo in
cui camminava, come se da un momento all’altro le sarebbero spuntate le ali per
raggiungere il cielo.
«Oh, Doreen, morirai solo a guardarmi!»
«Non voglio morire così giovane.»
«Giusto, non posso perdere la mia
testimone.» Mi prese a braccetto e si mise a ridere in quel modo
fragoroso che fece voltare chi camminava davanti a noi, sullo stesso
marciapiede.
Raggiungemmo un campo innevato, una
splendida valle bianca; un aereoplano e le attrezzature del paracadutismo al centro,
perché Marlene era folle e viva e impaziente e con un’immaginazione troppo grande
per farla restare con i piedi per terra.
In lontananza si vedevano tre uomini che
ci davano le spalle. Marlene si avvicinò ad uno di loro e gli strinse la mano
senza nemmeno guardarlo in volto; era sicura che fosse Joseph e infatti era
lui, con gli occhi scuri pieni d’amore.
Quando Louis si voltò a guardarmi il freddo dell'inverno scomparve.
«Allora sei pronta, Marlene?» chiese
l’altro ragazzo, i capelli castani e la barba folta, dal viso simpatico.
«Certo, Patrick. Sarà meraviglioso, il paesaggio.»
«Meraviglioso? Non te ne scorderai facilmente, Marlene.»
«Andiamo, dai.» Qualcuno mi sfiorò la mano, un
qualcuno che non avrei potuto scambiare per nessun’altro. «Non sto pensando ad altro da tutta la mattina.»
«Intendi l'articolo che devi scrivere su quel nuovo pilota?»
«Intendo te. Te e quello che ieri sera...»
Trattenni una risata. «Non dirlo ad alta voce.»
Vidi Marlene che guardava verso di me con
il sorriso, e poi la sentii dire «Vi guardo tutti dal cielo, attenti!», poi abbassò la voce. «Ma guardo soprattutto te, Joe.»
Louis fece qualche passo indietro, alzò la
voce ed accennò qualcosa riguardo al caffè nero, io dissi la stessa cosa e poi
mi ritrova i correre con lui accanto, i riccioli che mi finivano in faccia,
sempre più lontani dagli occhi che potevano conoscere quello che nascondevamo
come bambini.
«Visto che io ho il giubbotto marrone e tu la tua chioma bruna
potrebbero scambiarci per scoiattoli giganti, qui in mezzo agli alberi!»
Era così divertente che mi
ritrovavo con le
lacrime agli occhi per le risate alla fine di ogni serata;
provocatorio, con
tante cose da dire e tante altre ancora contro cui ribattere. Mille
posti da
raccontare e ancora altri mille da vedere, e il pensiero più
triste che avevo
era che per ogni posto potesse aver avuto una ragazza differente. Lui,
che sapeva elencare a memoria le poesie di Emily Dickinson. Lui, che
sapeva riparare un motore come se fosse nato con quella
capacità. Lui, che amava i film di guerra, la pioggia,
l'inverno, dormire fino a tardi, scrivere di notte gli articoli per il
giornale, abbracciarmi nel buio, sfregare la barba contro il mio collo,
Ascoltare gli Scorpions, preparare il caffè per entrambi e baciarmi a lungo sotto le
lenzuola di flanella. Baciarmi a lungo. Poggiai la mano sul primo albero che
incontrai sul sentiero, respirando forte, e poi sentii, familiare, desiderata,
la sua carezza fra i miei capelli, il respiro di lui sul mio collo.
Mi baciò e sapeva di neve, del mio caffè,
dopo barba al pino. Gli carezzai i capelli e lui sospirò. «'Reen...»
«Come mi hai chiamato?»
Sorrise sulle mie labbra. «’Reen… ti
piace?»
«No.»
«Antipatica.»
«Narcisista. Nessuno
mi ha mai chiamato così.»
«Mi ricorda la sveglia rompipalle che mi sveglia ogni mattina.»
«Louis...»
«Vi somigliate.»
«Perché ti infastidisco, eh?»
«Perché
non c'è motivo di dormire se ho te nel letto. Se ho te nella
mia vita, se ho te che ridi con quella schizzinosa di Marlene, se ho te
che leggi i tuoi libri in caffetteria...»
«Louis...»
«Io ti amo, 'Reen.»
Marlene
attraversava il cielo con le ali
enormi della sua attrezzatura, una macchia rossa e bionda nel cielo di
quel
caldo inverno; fin da bambina, avevo capito che lei non era fatta per
restare a terra. La guardai con la mano di Louis nella mia, la sua
bocca vicino al
mio orecchio, il profumo del caffè sulle sue labbra.
Marlene
era già a
terra, quando io e Louis li raggiungemmo a distanza di sicurezza.
Marlene si tolse il cappello e scosse la
testa bionda. «Potete anche smetterla con questa storia.»
«Quale storia? » Louis alzò le mani come a
proteggersi da un attacco improvviso.
«Questa…
storia.» Marlene indicò Louis e
poi me, con uno sguardo severo in viso che poi, in pochi secondi, si
trasformò
in apprensivo. «Sapevo che sarebbe successo. E siete davvero
incapaci a nascondervi, non siete nemmeno riusciti ad approfittare
della marea di impegni che ho per il matrimonio. L'ho capito da
settimane. Da quanto
tempo...?»
«Due settimane,» dissi, nascondendomi il
viso nella sciarpa.
«Un mese.» La voce di Louis si unì alla
mia.
Scoppiai a ridere, perché aveva ragione
lui, ed anche Marlene rise ed anche Joseph, fino a poco tempo prima rimasto in
silenzio, come se Marlene lo incantasse in uno stato irraggiungibile ogni volta
volta che l’attenzione girava intorno a lei.
Louis mi prese la mano e mi baciò; cercai
di allontanarlo con una spinta, mi lamentai sulle sue labbra, lui rise e mi
scosse con l’incredibile vibrazione di quella risata, e poi chiusi gli occhi.
Chiusi gli occhi e seppi di essere felice.
***
Il tavolino della caffetteria era sommerso
da giornali e foglietti, io cercavo di ordinarli e Marlene li metteva di nuovo
in disordine, io la guardavo male e lei mi rideva in faccia. Era così felice…
come potevo non volerle bene?
«Allora, che ne dici di invitare Francise
Holland? »
«Francise? » Sbuffai. «Ma non ti aveva
rubato il ragazzo al quinto anno? »
«Se vedessi com’è diventato brutto, è
giusto per farle vedere che la mia vita va alla grande.»
«Be’, se proprio vuoi. » Presi un foglio,
un altro, un altro ancora e li sistemai in una pila ordinata. «È proprio
l’ultima persona a cui hai pensato. »
«No. » La voce della mia amica perse
allegria e il suo tono divenne distaccato, secco come il ghiaccio in cui
mettono le bibite ai luna-park. «C’è… un’altra persona. Verrebbe, secondo te?»
Verrebbe? Il cuore cominciò a battermi
veloce come se mi stesse dando un avvertimento, mentre una fitta di nostalgia
mi invadeva il petto.
«Non lo so, Marlene, ma forse…» Distolsi
lo sguardo. Vidi un uomo con un lungo cappotto nero entrare in caffetteria; mi
dava le spalle, quando si tolse il cappello di lana e ne venne fuori una massa
di capelli neri. «Oh… Joe!» esclamai.
L’uomo si girò.
E non era Joseph.
Era…
Continuava a guardarsi intorno, incapace
di capire chi l’avesse chiamato; non aveva ancora guardato nella mia direzione.
Ne approfittai per abbassare il capo.
«Dora.»
Come può essere lui?
«Dora.» Marlene mi scosse il braccio.
«Che cosa succede? »
Come può vivere?
Non risposi, ma alzai il viso e lo vidi
mentre rideva con una ragazza dai capelli lunghi e castani con i riflessi ramati, grandi occhi
nocciola, grembiule da cameriera. Assottigliai gli occhi e riuscii a vedere il
nome scritto sul grembiule rosa della ragazza. Cassidy.
Non aveva senso. Niente aveva senso.
E come in quel sogno nel tragitto per
arrivare lì, cominciai a ricordare.
***
L’aria era fresca; il freddo si era allontanato
da quel luminoso giorno di aprile. Io gridavo «Prendimi!», anche se non sapevo
che un giorno l’unica cosa che avrei voluto fare sarebbe stata scappare.
«Prendimi! » Agnes mi sfiorò la mano ma io corsi più veloce. «Prendimi,
guardia! »
«Lasciati prendere, ladruncola! » disse
Agnes con voce affannata.
«Siete troppo veloci, giocare a guardia e
ladri è impossibile! »
«Forse è difficile! » disse Agnes.
«Difficile, impossibile… è uguale! »
«No, non lo è.»
Mi lasciai cadere sul prato con il respiro
grosso, Marlene mi venne accanto e cominciò a farmi il solletico, un ricciolo
mi finì in bocca. «Basta, basta! » Marlene continuava a pizzicarmi. «Basta,
basta, Marlene! Ti regalo tutte le caramele a forma di orsetti, per favore! »
Agnes era un fiore a cui mancavano dei
petali, e noi scoprimmo che il numero esatto era un due. Nonostante i colori
diversi, io e Marlene diventammo parte di quel fiore. Un fiore che inciampava,
cadeva, rideva, tratteneva le lacrime quando si sbucciava le ginocchia. Un
fiore bianco con la linfa di sangue.
«Ho davvero tanta, tanta sete! » sospirò Marlene,
lasciando perdere il suo tentativo di fare la verticale. Io riuscivo a vedere
il mondo al contrario; con quell’enorme chioma riccia ero come convinta che, se
avessi battuto la testa, non mi sarei mai fatta davvero male.
Agnes lanciò via la paletta rossa con cui
stava scavando nella terra, il vestito bianco sporco sui bordi. Sì, era proprio
vera.
«Allora andiamo dal nonno, ha anche i
bicchieri di cristallo!»
«Da… davvero?» chiesi, anche se mi
sentivo la gola chiusa. Non sapevo se era la testa a pesare sul collo o tutto
il mio corpo a pesare sulla mia testa.
«Certo! » esclamò Agnes. «Se magari Doreen
mette i piedi per terra…»
Mi misi giù e mi sentii la testa girare,
feci qualche respiro profondo. Agnes
mi si avvicinò, con il sorriso sulle labbra, gli occhi luminosi. «Com’è
guardare il mondo al contrario?»
Sorrisi anch’io. «Bellissimo,» dissi.
«Il nonno dice che tante volte le persone
vedono le cose dal lato sbagliato. Perché cercare di volare quando puoi camminare
sul cielo?»
«Oh, ma lei mica ci cammina veramente!»
esclamò Marlene.
«Magari quello che per te è veramente in
realtà non lo è. Che cosa importa se una cosa è vera o no se puoi sognarla? Mio
nonno lo dice.»
Agnes si diresse verso il viale bianco che
portava all’entrata, saltellando con quel vestito un po’ sporco sui bordi, come
una specie di angelo caduto a terra per sbaglio.
«Il signor Silvers deve essere un tipo strano,»
osservò Marlene.
Scrollai le spalle e mi inoltrai in quel
sentiero di sogni.
*
*
*
*
Ciao a tutti, miei stupendi, meravigliosi lettori.
Per quanto riguarda
Doreen e Louis, mentre scrivevo e mentre rileggevo, ero in
modalità
"Quantosietebellimiodioviamomiodiosietebellissimibellissimibellissimistomale",
ecco, vedete un po' come sto messa :'')
Ma come mai Louis non appare
nella storia del presente? Avete conosciuto Marlene, la moglie di
Joseph, quella che sarà poi la madre di Martin,
poiché ce lo dice lui stesso nei primi capitoli. Sappiamo che
è morta... ma quello che ha saputo Martin sarà la
verità?
E chi sarà quell'uomo che turba tanto Doreen in caffetteria, quello che parla con Cassidy?
Tante domande... e la maggior parte delle risposte le otterrete con il prossimo capitolo :D
Fatemi sapere se la storia vi piace, mi renderete tanto felice :)
Di solito faccio dei ringraziamenti generali, ma questa volta vorrei
ringraziare personalmente delle persone: Mia Swatt, che non manca mai
di recensire ogni capitolo e mi fa sempre sapere la sua opinione
sincera*-*, Eryca che arriva sempre con i suoi bellissimi commenti <3, Marika
che mi supporta con entusiasmo :D.
Ma ringrazio anche voi, lettori silenziosi che mettete mi piace e vi
emozionate con me. Spero che un giorno mi facciate sapere il vostro
parere :)
Un bacio,
Ania :)
P.s
A causa della gita scolastica, non so se riuscirò ad aggiornare
la prossima settimana, poiché in vista della partenza i
professori hanno già deciso di tartassarci con interrogazioni e
compiti vari. Farò del mio meglio per aggiornare <3
|
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Capitolo 24 *** 23. Doreen Gates. Parte II. ***
until 24
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
23.
Doreen Gates
Parte II
Tappezzeria rosso scuro, mobili in noce e nessuna luce;
l’interno della casa era l’esatto opposto del suo esterno ma, anche se sentivo
il solito disagio che si prova quando si è in una casa estranea, il naturale
silenzio con cui Agnes correva nel corridoio mi fece intuire che quella era
solo un’altra parte della bellezza.
Correva. Marlene mi pestò il piede,
gridai, rise. Risi anch’io.
E poi ci ritrovammo davanti a un ambiente
unico, un salotto, dalle poltrone con i fiori e il camino che scoppiettava
anche se era appena arrivata la primavera.
«Nonno, loro sono mie amiche,» disse
Agnes, andando verso il signor Silvers, l’uomo che era seduto sulla poltrona. L’uomo sorrise e mi
sembrò giovane, anche se stringeva un bastone di legno con una mano tremante,
anche se la pelle era di quel chiaro marrone legno che un tempo era rosa
pallido.
«La mia Aggie.» L’uomo le accarezzò i
capelli. «Sono contento che tu abbia trovato delle signorine con cui giocare.»
«Ciao, Agnes.»
Non l’avevo nemmeno visto. La voce alta e
infantile proveniva da un ragazzino che doveva avere più o meno la mia età;
alto, per essere un bambino, e molto magro.
«Ciao, Joshua,» Agnes rispose gentile,
guardandolo appena, e poi posò un bacio sulla guancia del nonno.
Il
ragazzino la guardava con quello sguardo che solo la maturità
avrebbe fatto sbocciare in qualcosa di devastante, bello
come solo l'amore può essere,
e doloroso. Aveva la pelle così pallida che pensai che fosse
malato, e i
capelli neri e gli occhi azzurro ghiaccio la facevano risaltare ancora di più.
Anche
lui, lontano di metri, proprio come
Agnes la prima volta in cui l’avevo vista, non sembrava vero.
Azzurro ghiaccio, erano i suoi occhi. E quando guardavano Agnes
diventavano acqua.
Agnes ci portò fuori dal salotto, dicendo
che in cucina avremmo potuto trovare anche il succo di frutta alla pesca; lei e
Marlene avrebbero corso per tutto il giorno, se avessero potuto, allora io
rallentai un po’.
Ascoltai.
Non si origlia, Doreen.
Ma ascoltai lo stesso.
«Dicevamo, Joe?» disse il nonno.
«Le pietre nere.»
«Le pietre nere, già… sai, una sola
persona con una sola pietra ha potuto fare quello per cui le pietre sono
state create.»
«Fare giustizia…»
«Sì,
fare giustizia nell'animo dell'uomo. Una persona adulta può
usufruire del potere di una pietra soltanto una volta. Un'anima
innocente, invece, per sempre.»
«Ma come?»
«Era
nel suo cuore.» Una pausa. «Nacque così... fu un
dono per il mondo. Si chiamava Alisia. La natura a volte ti sceglie, e
non sai se chiamarlo destino, non sai se averne paura o esserne
orgoglioso. Era nel
suo cuore da quando le prime luci della vita hanno toccato i suoi
occhi, nell'innocenza dell'infanzia... l'innocenza è...»
«Doreen!» mi chiamò Marlene. Ed io non
seppi mai che cos’era l’innocenza per quell’uomo, e continuai a vivere nella
mia.
***
Con
la schiena contro il muro, respiravo appena per non farmi sentire, in
modo che Marlene non mi trovasse. Mi chiesi dove si fosse nascosta
Agnes, di sicuro in un posto che conosceva solo lei, padrona e figlia
di quella vita. Dopo qualche minuto mi allontanai, per correre verso
il cancello e annunciare la mia vittoria... e allora corsi, corsi verso
quella discesa e il vento mi accarezzava i capelli e il volto ed io
pensavo questi sono i sogni.
Questo è vivere nei sogni.
«Ho vinto io!» Toccai il cancello, quella parte aperta
verso l'interno per lasciare entrare me e Marlene. «Ho vinto io!» ripetei.
Sentii una presa sulla spalla. E
così aprii gli occhi. Mi ritrovai davanti uno sguardo nero;
iridi color catrame. Quell'uomo, con
i capelli biondi come quelli di Marlene, mi strattonò e mi
spinse contro il cancello ed io mi morsi le labbra per coprire con
dolore il dolore.
«Perché sei qui?» L'uomo mi
strinse ancora di più. Volevo scappare, tornare a casa, non
tornare mai più... ma qualcosa bloccava la mia lotta. Quell'uomo
era familiare, e lo era in un modo che mi ghiacciava il sangue,
perché non riuscivo a scappare da lui. Perché una parte
di me stessa, che odiai e cercai di reprimere con tutta la forza che
poteva avere una bambina di dieci anni, mi diceva che presto quello
sguardo d'orrore sarebbe scomparso. E sarebbe tornato... «Papà!» Era la voce di Marlene, distorta.
L'uomo
mollo la prese ed io scivolai a terra. Il padre di Marlene, ecco chi
era. Il signor Jenkins.
«Che ci fai qui, carogna?» L'uomo
le strizzò l'orecchio e Marlene trattenne una smorfia di dolore.
«La bambina che vive qui è mia amica...»
«Tua amica, eh? Ah... ah...»
Il signor Jenkins
cominciò a tossire, lasciò che Marlene si allontanasse da
lui e si lasciò andare a una forte tosse. Era sempre stato
gentile con me, con sua
figlia, anche dopo aver perso il lavoro... ma da qualche mese non era
più lo stesso. Era burbero, sempre arrabbiato, nervoso. Non lo
vedevo da mesi ma in quel momento potei constatare che qualcosa di
strano era visibile. I suoi occhi. Lo vidi schiaffeggiare Marlene e sentii il dolore con lei. I suoi occhi un tempo azzurri, ora neri.
Portò
via Marlene trascinandola per il braccio. Lei non ne volle mai parlare,
il solo pensiero la faceva piangere, ed io volevo solo salvarla dalle
lacrime, dalla sofferenza, dai lividi nuovi che si vedevano sulle sue
braccia magre e che dimenticava all'istante ogni volta che giocavamo
insieme, ed Agnes era insieme a noi.
Agnes era reale, ed era mia amica. Agnes
amava le storie, e raccontarle in quel giardino pieno di fiori era
ormai
un’abitudine. Divenne marchiato al fuoco il suo rifiuto davanti
al cioccolato,
perché non le piaceva, così come il vizio di mangiarsi le
unghie. Quando
Marlene le disse che chi ha brutte mani non è una femmina non le
parlò per due
pomeriggi, ma quando le chiese scusa la abbracciò e le disse che
aveva ragione.
Quando le portai un dolce alla crema che mia madre aveva fatto per me,
disse
che per quel giorno avrei potuto essere la principessa del castello.
«La principessa Doreen.» Agnes mi posò
una coroncina di plastica dorata sulla testa. « Ti piace?» Agnes e Marlene
sorridevano così tanto che non potevo dire di no, eppure io ero una bambina
inquieta. Non avevo mai creduto a babbo Natale e alla fatina dei denti, non
c’erano principesse nel mio futuro: mia madre mi aveva insegnato bene la
differenza fra quello che verrà e quello che non potrà esserci mai.
«Sì, mi piace molto.»
«Che fortuna!» Sbuffò Marlene. «Domani te
lo porto io un dolce alla crema!»
«Domani potrai essere una principessa
anche se non lo porti, Marlene. Sei mia amica!»
«Oh, giusto.» Marlene ridacchiò, e poi
Agnes guardò in cielo; era così concentrata che finii per guardare nella sua
stessa direzione, senza trovare altro che il cielo.
«Doreen?»
«Mhm mhm?»
«Lo sai che il nome “Sarah” vuol dire
principessa?» Gli occhi azzurri di Agnes sembrarono diventare ancora più
grande. «Penso che mia figlia la chiamerò così.» Lo disse come se fosse una
cosa che sarebbe successa per forza, una bambina che crea il suo destino con
l’immaginazione.
Io ero troppo ancorata a terra anche per
pensarci. Non sapevo nemmeno se avrei mai avuto un bambino.
***
Quella sera io e Marlene prendemmo il
sentiero di ritorno prima del tramonto; faceva un po’ paura camminare nel
boschetto al buio. Sapevo che non c’erano
lupi, mostri, serpenti: mia madre mi metteva in guardia solo sulle persone
cattive.
Sentivo i muscoli vibrare mentre salivo la
collina che portava alla parte alta della piccola cittadina. Quando arrivavo in
cima, mi voltavo e guardavo sempre giù a valle, dove quella villa che sembrava
un castello brillava nel suo candore. E poi mi veniva facilissimo immaginare il
giorno dopo, con me, Marlene ed Agnes che correvamo fra i fiori; dolci alla
crema e succhi di frutta, nascondino e guardia e ladri, e la principessa di un
regno inventato.
Ma non riuscii ad immaginarlo, quella
sera.
«Dora…» Marlene mi strinse il braccio fra
due mani, il cestino del pranzo rotolò via ed lo seguii con lo sguardo, ancora,
ancora, ancora, mentre Marlene continuava a chiedere “cos’è?” e “perché?” e
“come? Come può essere successo, Dora?”
L’unica cosa che riuscii a pensare era non
riesco più ad immaginarlo. Il panico mi travolse. Non c’è più niente da
immaginare. Deglutii. Fino a qualche minuto prima ero lì, in quel luogo di
fiabe, adesso travolto dal fuoco.
La villa bruciava.
E chi era lì dentro, moriva.
***
Il ragazzo che parlava con la cameriera dai lunghi capelli castani era Joshua, ed io credevo che
fosse morto in quell’incendio. Joseph lo aveva conosciuto ad un
corso di
aggiornamento all’università. Marlene diceva che non
poteva essere davvero lui... gli occhi del ragazzino che avevamo conosciuto da piccole erano chiari,
mentre quelli di quel Joshua erano neri. Ma era lui, ne ero convinta.
Joshua. Joe.
Marlene, con il
vestito ampio e il lungo velo, rideva forte mentre Joseph la prendeva in
braccio per una foto che, diversi anni dopo, avrebbe fatto sorridere
tutti. Marlene era il ritratto di tutte le gioie del mondo, e forse ciò
accadeva perché aveva spesso la testa fra le nuvole anche se restava con i
piedi per terra. Alla prima occasione, però, anche i piedi se ne stavano in
aria, e allora tutto era perfetto, mentre tutti noi la guardavamo solcare il
cielo come un aquilone.
«Adesso
lancio il bouquet!» esclamò
Marlene, voltandosi, e tante ragazze le si accostarono vicino fra
fruscii di
seta e velluto. Io non mi mossi, immersa nei miei pensieri. Quel
ragazzino che avevo creduto morto e che, anche quando
Joseph aveva presentato Marlene e me, sembrava non ricordare. Ma il
modo in cui aveva guardato me e poi Marlene… mi strinsi nelle
stola di seta, rabbrividendo.
Lui ricordava tutto. E non sembrava più lo stesso.
Sentii il rumore di un sorriso.
«Tu non vai a prendere il bouquet? »
«Oh, no.» Scossi la testa, qualche
ricciolo venne fuori dall’acconciatura. Sfiorai l’anello della mano sinistra. E la guardai.
Ancora non credevo che fosse venuta. Lei,
Agnes, che con il tempo era rimasta l’amica con cui avevo giocato in dei
pomeriggi primaverili dall’immenso prato verde e una villa da fiaba. Lei, salva
per miracolo.
Si mise a guardare le ragazze che
schiamazzavano ed io ebbi il tempo di osservarla. Agnes era un fiore, sì, ed
era completamente sbocciato. Aveva quel tipo di bellezza che avrei desiderato
avere con tutto il cuore, e mi ero rassegnata a non averla mai. Ma non la
invidiavo; era semplicemente Agnes, il fantasmino, l’angioletto, quello che dopo aver
guardato il suo mondo di sogni bruciare dal boschetto dove stava raccogliendo
le margherite, aveva chiamato aiuto ma era troppo tardi. Troppo tardi…
«Aggie,
hai freddo? » La voce di un
ragazzo, un po’ roca, ma come avvolgente, fece voltare Agnes. In
lontananza vidi Louis e Joseph che parlavano guardando il giardino, le
loro spalle si sfioravano. Ridevano. Riuscivano a specchiari l'uno
dentro l'altro con uno sguardo.
«No, sto benissimo. Nathan, hai già conosciuto
Doreen? »
Strinsi
la mano dell’uomo dai capelli
biondo chiaro, occhi color ambra, grandi, dalle ciglia lunghissimo. Il
suo sorriso solare mi accolse. «È un piacere.
A quando…?»
«Qualche mese.»
«Auguri!»
Nathan faceva il professore di matematica, e in lui c'era tutta la
vitalità che i numeri non avrebbero mai potuto avere. Sembra animare tutto quello che incontra solo toccandolo, mi aveva scritto Agnes in un lettera.
«Grazie.»
Risi. Con la laurea e poi l'organizzazione dell'azienda, Marlene e
Joseph avevano rimandato il matrimonio di un paio d'anni. Io e Louis,
invece, avevamo afferrato il tempo come se potesse sfuggirci da un
momento all'altro. Ancora non ci credevo, anche
se letteralmente si trattava di non credere nella mia stessa vita. Mi
carezzai
la pancia, facendo scorrere la mano sul tessuto blu, sentendo quello
che nella
mia mente chiamavo il nostro cuore. Il nostro bambino.
«Dora, come lo chiamerai? Mi chiedo ancora
come ho fatto a dimenticarmi di chiedertelo.» Gli occhi di Agnes divennero
luminosi. Come se già non lo fossero, come se non lo fossero mai stati.
«Marlene, se sarà una bambina.» Sorrisi. «Se invece sarà un
machietto…»
«Marlon!» Louis mi sfiorò la spalla ed io
sussultai, poi scoppiò a ridere. «Come Marlon Brando.»
«Assolutamente no.» Lo fulminai con lo
sguardo. Quanto era bello con quell’abito da cerimonia? Il blu gli donava. Ma era assolutamente
inammissibile che ci pensassi adesso, così tornai a guardare Agnes. «Stiamo
ancora decidendo.»
Agnes
sorrise con quell’aria che poteva
avere anche Marlene, con i sogni nello sguardo. Dipingeva, adesso, e si
stava affermando molto bene in Europa. Dopo la morte del nonno
si era
trasferita in Svizzera con i genitori; tornava solo ogni tanto
l’estate, anche
se non c’era più nessuna villa in cui giocare ma
semplicemente la sua cameretta
in un appartamento in centro. Mi piaceva tanto andare a trovarla, ma
qualcosa era cambiato, fra noi. C'era quell'affetto doloroso, quei
ricordi bellissimi sciolti poi dalle fiamme dell'incendio che aveva
portato via il signor Silvers. A quindici anni, i suoi genitori si
erano separati, e lei non era più tornata, anche se ci eravamo
scritte per tutto quel tempo. Nelle lettere, non c'era più
dolore. Nelle lettere, poteva ancora esserci il nostro mondo incantato,
anche se non eravamo più bambine.
«Sì, c’è tempo.» Louis prese una sedia,
con quei suoi movimenti decisi e sicuri e si sedette vicino a me. Mi prese la mano e mi sfiorò l’anello con
le labbra. «Anche se Marlon è davvero uno spettacolo.»
«Non se ne parla.» Tossii. «Quindi, Agnes, sai… non immaginavo che
tornassi in America per sposarti.»
«I miei ci tenevano molto,» disse Nathan,
l’abito grigio sotto il sole invernale. Guardava Agnes rapito, innamorato.
«La Svizzera è bella ma… questa è la mia
casa. Voi lo sapete.» La voce di Agnes aveva mantenuto lo stesso candore di quando era
bambina, ma adesso aveva molta più sicurezza. «E poi… era proprio destino,
Nathan è americano! Se non avessi perso la valigia nell’aereoporto di Ginevra
non l’avrei mai incontrato!»
«Avevamo perso tutti e due la valigia ed
io non sapevo una parola di tedesco,» disse Nathan, ridendo.
«Allora Agnes è stata la tua salvezza.» Sorrisi.
«Già, proprio così. »
***
Quando senti per la
prima volta il pianto di tuo figlio il tempo si ferma, e ti chiedi con che
coraggio i medici e le infermiere interferiscano nella sacralità di quel
momento parlando, camminando, facendo rumore, mentre tuo figlio piange e per te
non esiste più niente.
È un bambino. La voce
dell’infermiera entra nella tua mente come se fosse la conseguenza di un
incantesimo, quando l’incantesimo più grande è, in realtà, la vita.
Ed il tempo è ancora
fermo, anche se la lancetta dell’orologio si sposta di secondo in secondo, di
minuto in minuto, e senti che qualcuno ti stringe la mano e ti volti ed è lui,
l’uomo che ami, sai che è l’uomo che ami anche se non puoi vederlo perché le
lacrime scendono.
«È bellissimo, ‘Reen. Non
puoi immaginare.»
E sei così stanca. «Lo
so che è bellissimo.»
«Perché io sono il
padre? »
Ma riesci ancora a
ridere. «Perché lui è il nostro cuore.»
Ti imponi di non
piangere quando l’infermiera entra nella stanza con un fagottino avvolto nella
coperta di lana beige che hai comprato qualche mese fa, ed alzi le braccia come
se potessi allungarle all’infinito per abbracciarlo per sempre. Si lamenta e
stringe i pugnetti ancora rossi, ed ha le guance piene ancora arrossate e poi
il suo pugnetto finisce dove ti batte il cuore e pensi non piangere, guarda
quanto è bello. Louis gli carezza il dorso della mano con l’indice, quasi
avesse paura di sbagliare qualcosa, e le prime cose a cui pensi è che ha pochi
capelli, e sono chiari, e quanto è bello.
È come lui.
«Avete scelto il nome?»
L’infermiera ti distrae
per un attimo dalla semplice gioia di tenerlo tra le braccia. E poi i tuoi
occhi incrociano quelli verdi, splendidi, di tuo marito; con un cenno ti chiede
se deve e tu annuisci e sei felice. E sai che, con il tuo piccolo fra le
braccia, lo sarai per sempre.
***
Cresceva così in fretta,
il mio bambino. E con i giorni e i mesi, mi rendevo conto di come somigliasse a
suo padre. Di me aveva preso solo la tendenza ad avere i capelli ondulati,
naturalmente biondissimi come quelli di Louis nelle foto in cui anche lui era
piccolo. E poi gli occhi, così verdi e gioiosi.
E adesso giocava su un
tappetino di gomma su cui erano sistemate tante costruzioni; Louis gli era
vicino, lo aiutava a sistemare i lego e ci sistemava vicino dei pupazzetti di
plastica.
«Il bambino si è ben
ambientato, qua in hotel, eh?» fece Louis.
«Si ambienta ovunque sia
io.»
«E anch’io.»
«Sì ma io sono la
mamma.»
Louis scosse la testa e
si mise in piedi, mio figlio alzò il visino verso di lui curioso, come in
attesa, e Louis gli diede un buffetto sulla guancia. Poi si avvicinò a me.
«Sai che se non ci fossi
stato io non sarebbe mai nato.»
«Dettagli.»
«Un giorno dovrai
spiegarglielo. »
«Fra trent’anni magari.»
Louis sbuffò ed io
provai una fitta di irritazione. C’era bisogno di parlarne proprio in quel
momento? Dopo trent’anni magari sarebbe stato opportuno, certo, ma ora era solo
un bambino. Lo sarebbe sempre stato.
«Io sono sicuro che sarà
bravissimo a rimorchiare ragazze. Magari in caffetteria.» Louis ammiccò. «Ma
anche sui mezzi pubblici, a scuola o alle feste.»
«Taci.»
Mi diede un bacio che
sapeva di champagne e fragole.
***
«Oh mio Dio, è
bellissimo, mio Dio, quanto è bello, mio Dio! Ciao, ciao, ciao! Ma com’è
cresciuto. Somiglia a Louis ma è decisamente meglio, si vede già dalla faccia
che è più intelligente. No, ma guarda come ride… ciao, ciao, ciao!»
Marlene riempiva mio
figlio di carezze e sguardi teneri alternando la voce stridula riservata al
piccolo con quella seria e decisa con cui faceva le sue considerazioni.
Mi guardai un po’intorno, giusto il tempo per sentirmi venire meno perché la
casa splendeva sotto i miei occhi, come se fosse dorata anche nel legno, nella
tovaglia color prugna del tavolo, nel divano in pelle su cui ero seduta, nelle
finestre.
«Joseph viene sempre qui
per gli affari.» Marlene venne a sedersi vicino a me con il piccolo in braccio.
«E allora abbiamo pensato, perché non comprare una casa qui? »
«È sempre un buon motivo
per stare insieme. »
«Certo. Anche se non ci
siamo ancora trasferiti definitivamente, la residenza è ancora a Boston.»
Marlene sorrise e il mio bambino scese dalle sue gambe; camminava da poco, la
sua prima parola era stata “Reen” e per questo avevo fulminato Louis con lo
sguardo per una settimana. «E poi credo che… ecco, presto noi… insomma, io e
lui…»
Sbattei le palpebre.
«Non mi dire!»
«Non è ancora niente di
certo. » Arrossì. Non era da lei, arrossire per certe cose; sin da piccole lei
era sempre stata la più curiosa, la più estroversa.
«Be’, se mai lo fosse… è
una cosa semplicemente splendida. »
«Penso che verremo a
vivere qui definitivamente. Per ora siamo in hotel come se fossimo in vacanza,
come te e Louis praticamente... A breve nascerà anche la bambina di Agnes. »
«È vero.»
«Pensa se conoscesse il
tuo…»
«Ne parliamo di nuovo
fra trent’anni.»
Marlene rise di gusto,
prese in braccio mio figlio e prese una penna dalla tasca; era fatto di
plastica blu, con una J e una S dorata sul dorso. Scrisse qualcosa su un
foglio. «Ma quella penna...?»
«Joseph ha voluto fare
le lettere di oro vero.» Marlene sorrise. «Ne abbiamo fatte fare due, una
per me e una per lui. L'ha fatta fare per l'azienda, visto che è intestata a
entrambi. J per Jenkins, il mio cognome, ed S per Sullivan, il suo.»
***
Marlene teneva la mano
di Joseph; lei aveva i guanti, ma lui no, e si vedeva la fede dorata. Tutto era
d’oro, lo era per lei, lo era per me.
Louis mi aiutò a
sistemare il passeggino sul marciapiede e sorrise, io poggiai la mano sulla sua
spalla.
«Volete salire? Ci
facciamo portare la cena in camera,» chiese a Joseph e Marlene.
«Che gentilezza,
stasera,» cantilenò Marlene.
«Io sono sempre
impeccabile.»
«Ah-ah, certo. Comunque
sì… Joe?» Marlene si voltò verso Joseph; lui armeggiava con quello che al tempo
era un cellulare molto costoso.
«Vi raggiungo dopo,»
disse lui, e la sua voce mi parve tesa.
«È successo qualcosa? »
gli chiese Marlene. Evidentemente doveva aver avuto la mia stessa impressione.
«N-no, no, davvero. Un
cliente.»
«A quest’ora? »
Joseph fece un’alzata di
spalle come per dire non è colpa mia, ma la tensione non scomparve… era
come se nascondesse qualcosa, ma poi mi chiesi, chi ero io per farmi certe
domande?
«Faccio presto.» La voce
di Joseph era calma, dolce. Forse mi ero sbagliata.
Forse. Prendemmo l’ascensore ed entrammo nella suite, mi
sentivo inquieta e, per la prima volta da quando ero lì, desiderai di tornare a
casa, nel nostro piccolo appartamento con la culla bianca vicino al lettone, i
peluches dappertutto, i miei libri di letteratura e i giornali di Louis. Forse.
Quel piccolo forse.
Mio figlio si era già
addormentato; erano passate due ore e di Joseph nessuna notizia, non rispondeva
neanche al telefono. Percepivo l’ansia di Marlene ad ogni respiro, come se
fosse mia, come se io fossi lei. Da bambine eravamo in simbiosi, due diverse
tonalità di uno stesso colore, e anche dopo anni sentivo che era ancora così.
Marlene si toccò la pancia per un secondo, poi tornò a sfregare il palmo sui
pantoloni con un sbuffo. Lo aspettava davvero, quel bambino… si chiamerà
Dora, se sarà una bambina. Spero che il destino non mi faccia lo stesso scherzo
che ha fatto a te.
Qualcuno bussò alla
porta.
In quel momento, il
telefono squillò.
«Joseph!» chiamò
Marlene, al telefono.
Mi inoltrai nella stanza
per raggiungere il corridoio.
«Come… che significa che
dobbiamo restare chiusi qui? Non… non capisco… in che senso pericolo?»
continuò.
Mi fermai. Sentii un
brivido, come se qualcuno mi stesse puntando un pugnale dietro la schiena, e
smisi di respirare. Il corridoio era buio. Marlene non parlava più.
Avevo paura e non sapevo
perché.
Sapevo solo che dovevo
averne.
Tornai subito indietro e
trovai Marlene ancora seduta, con il telefono sulle gambe, gli occhi vuoti. I
suoi occhi celesti, senza luce.
«Vado a cercarlo.»
«Che cosa succede?»
Marlene si alzò in piedi.
«Dice che se esco di qui
sarò in pericolo quando è lui ad essere in pericolo e può morire... per me. Per
me. Quel pazzo… quel pazzo…»
Louis entrò nella
stanza, le chiavi in mano, il volto confuso, i capelli biondi scompigliati.
Marlene parlava, si agitava, ed in quel momento pensai a chi poteva essere
quello che aveva bussato alla porta. «Quel pazzo furioso che ucciderebbe tutti
solo per arrivare a me… pazzo, pazzo… Doreen, non uscire di qui e proteggi il
bambino, perché prenderà lui se noi… se noi…»
«Marlene…»
«Devo andare.»
«No!»
Ma lei era più veloce,
era sempre più veloce di me, e quando io raggiunsi la metà del corridoio lei
aveva già aperto la porta. Il suo sguardo era addolorato, mi chiedeva perdono.
Io invece le chiedevo perché.
Ma lei chiuse la porta e
non ci fu nessuna risposta.
Rimasi lì, a tremare, a
guardare il legno dipinto di bianco della porta dell’hotel, incapace di capire
che cosa fosse successo, che cosa stesse succedendo, che cosa c’entrasse il mio
bambino con tutto questo.
«Amore, ehi.» Louis mi
prese il viso fra le mani; non mi ero nemmeno accorta dei suoi passi, e ne fui
grata, perché il suo tocco in qualche modo riuscì a calmarmi, quasi lui potesse
controllare la frequenza dei battiti del mio cuore. «Sta’ vicino al bambino. Io
vado a cercare Joseph…»
Mi staccai da lui. «No,
non se ne parla. Non ci sto capendo niente… sai qualcosa, Louis? Marlene sembra
completamente impazzita, tutte quelle parole non avevano senso… »
«No, non hanno senso,»
Respirò profondamente, le spalle larghe si alzavano e si abbassavano. «Non ha
senso, Doreen, ma ascoltami… non uscire da qui per nessun motivo, spegni
tutte le luci, tutte, e sta’ vicino al piccolo fino a quando io non torno.»
Ascoltami. Scossi la testa. Ascoltami, Dora.
«'Reen, ti prego.» Di
nuovo le sue mani su di me. La sua bocca sulla mia fronte, poi sulla guancia,
umida bocca sulla mia, senza più respiro.
«Tu sai. Tu sai, Louis.
Perché non me lo dici?»
«Perché è troppo tardi
adesso e… Perché ti amo e sei mia moglie e amo nostro figlio e vi proteggerò
fino a quando sarò in vita.»
Poggiai la testa sul suo
petto, inspirai il suo profumo, quel caffè, quell’amore, la nostra vita.
«Non voglio avere
paura.»
«Non ne avrai.» La sua
voce, un sussurro vicino al mio orecchio. Vento caldo d’estate. «Per nostro
figlio, non avremo paura.» Lo guardai negli occhi, così verdi, con il contorno
grigio, con un’ombra che speravo andasse via presto ma che mi ritrovai a riconoscere.
Mi prese una mano fra le sue e per un attimo quell’ombra scomparve.
«Louis.»
«Tornerò da te.»
Le nostre dita si
sfiorarono un’ultima volta ed io seppi che mi diceva la verità.
***
Mio figlio si svegliò al
primo sparo. I suoi occhioni verdi erano l’unica luce della stanza, e poi si
fecero un po’ più piccoli mentre allargava la bocca in un pianto che chiamava
me. Lo presi in braccio, il suo profumo mi avvolse in una nuvola che sapeva di
borotalco e risolini, e cominciai a cullarlo. «La mamma è qui, tesoro.»
Piangeva piano, mio figlio. Non si faceva mai sentire. «La mamma è qui.»
Un altro sparo.
«La mamma è qui.»
Non
andartene fino a quando non torno.
«La mamma è qui.»
Mio figlio si calmò,
strinse i pugnetti sulle mie spalle, alla sua manina destra si erano
attorcigliati i miei capelli, come per impedirmi di lasciarlo.
Non
avremo paura.
Lo strinsi e gli baciai
la testolina bionda.
Per
lui, non avremo paura.
E poi sentii la porta
che sbatteva forte, quasi fosse stata buttata a terra, e il gelo mi prese le ossa.
In quell’unico secondo di lucidità, capii che non poteva essere Louis ad essere
entrato. Oltre la finestra c’era una scala d’emergenza. Corsi fuori e scoprii
che potevo essere veloce, nel silenzio della calma del respiro di mio figlio.
Restai immobile, con la
schiena sul muro, fuori dall’hotel, e poi sentii il cigolio della porta.
Deglutii. Ancora dei passi. Lenti e decisi, uno due tre. Lenti e decisi, uno
due tre. Un sospiro. E poi i passi divennero veloci, sempre più lontani, e
ringraziai il mio bambino che se ne stava zitto zitto a respirare sul mio
petto. Piano, scesi dalla scala d’emergenza. Avevo il telefono in tasca e anche
qualche banconota nella giacca, non sapevo dove sarei andata, ma sapevo che io
e Louis stavamo proteggendo il bambino, ed io dovevo farlo in quel modo. Con
una mano mi alzai il cappuccio e cominciai a camminare, poi sentii una goccia
d’acqua puntellarmi il naso, e la mia testa sentì di nuovo lo sparo e mi dissi non
avere paura, per lui, per Louis, per il tuo bambino. Sistemai meglio la
coperta del piccolo in modo che non si bagnasse, e cominciai a camminare sotto
i balconi a passo veloce.
E poi alzai il viso.
Riuscivo a vedere il
terrazzo; Marlene poggiava la mano sulla ringhiera, tremava, e un uomo con i
capelli neri, Joshua, la teneva per i capelli, con in mano una pistola.
Trattenni un urlo. Il tuo bambino, devi proteggere il tuo bambino.
Indietreggiai nell’ombra, dove io potevo vedere e nessuno poteva vedere me.
Joseph aveva il volto rosso, forse piangeva, forse aveva già pianto. Lui e
Joshua potevano essere confusi... entrambi alti, entrambi con i capelli capelli
scuri e lisci, il volto pallido e i lineamenti fini. Ma erano gli occhi ad
eliminare ogni dubbio: Joshua aveva gli occhi di un nero inumano, si
vedeva anche da lontano, ed era lo stesso colore che avevano gli occhi del
signor Jenkins prima di morire; gli occhi di Joseph, invece, erano di un caldo
marrone scuro. Louis, accanto a lui, sembrava di pietra.
Riuscii a capire poche
parole.
La voce era chiara,
glaciale. «Il signor Jenkins ha ucciso mio padre, ha incendiato la sua casa e
ha distrutto la mia vita. Lui è già morto ormai... non ho fatto in tempo a
ucciderlo io stesso e con i miei mezzi... ma lei deve pagare. E per finire
tutto, ho bisogno di quel bambino.»
«Quel bambino è mio
figlio e la madre non è Marlene, ma mia moglie,» disse Louis.
«Non ti credo.»
«Marlene è incinta,» la
voce di Joseph, spezzata. «Prendi me, uccidi me. Non lei, non lei...»
«Marlene muore e prendo
il bambino.»
Sentii la voce di Louis,
sicura, che tremò sull’ultima lettera. «Mai.»
E vidi Joseph che si
buttava addosso all’uomo che teneva Marlene per i capelli, vidi Louis che
avvicinava la mano a Marlene e sentii lo sparo, di nuovo. Marlene si accasciò a
terra. No… no… Un altro sparo e Louis, il mio Louis, si toccò il cuore. Era lì
che l’aveva colpito ed anche lui cadde, cadde e non si rialzò. Non si rialzò ed
io volevo solo urlare e piangere ma non potevo. Conoscevo il volto di
quell’uomo, sapevo chi era.
Joshua.
Joe.
Sollevò la pistola e la
puntò verso Joseph, inginocchiato davanti a lui.
Ma non ci fu nessuno
sparo.
«Che fortuna.» Quella
voce era acciaio. «I proiettili sono finiti, resterai in vita.»
Joshua si allontanò e non potei più vederlo, allora
cominciai a correre più veloce che potevo. Volevo solo andare da lui, l’uomo
che amavo, l’uomo che era morto per me.
Ma dovevo salvare il mio
bambino e niente mi avrebbe fermato.
***
Mi trovarono in una
città vicina, in un centro per famiglie disagiate. Quando ci arrivai dissi solo
che avevo visto mio marito e la mia migliore amica morire davanti a me. Presto
la notizia passò ai telegiornali. I poliziotti entrarono in quella che era la
mia stanza, ed io li guardai tutti. Non riconobbi nessuno… ma poi spuntò una
giacca nera. Non avevo più forza di avere paura.
«Doreen.» Sospirò.
Era Joseph.
Scoppiai a piangere
davanti a lui, il mio bambino che faceva scontrare le macchinine sul letto, il
mio bambino che si voltò con espressione curiosa senza capire. Quante volte
aveva detto “papà” in quei giorni. C’è la mamma qui con te non gli
bastava. Non gli sarebbe bastato mai.
Joseph mi abbracciò
forte.
***
Joshua era scappato, non
si sapeva dove, e ci avrebbe cercato.
Voleva Agnes e voleva la
sua bambina, voleva amare Agnes e voleva trasformare sua figlia in un’arma.
Come Dio solo lo sapeva, io sapevo solo che era un folle. Aveva assillato
Joseph, che aveva subito dubitato di lui. E voleva uccidere il mio bambino
perché lo credeva figlio di Marlene.
E Louis mi aveva
protetta.
Louis
non c’è più.
Marlene aveva paura.
Marlene
non c’è più.
«Ho capito bene,
allora?» L’agente di fronte a me aveva il viso scavato ma gli occhi gentili.
Annuii. «Qualunque cosa
per proteggerlo.»
«Sarà dura.»
«Non ho paura.»
L’uomo fece rigirare la
penna fra le mani.
«Nemmeno io,» disse
Joseph, accanto a me. Joseph, che non aveva più niente. Joseph, che aveva perso
sua moglie. Joseph, che cambiava cognome per noi. Marlene, che avrebbe avuto un
bambino, chissà se maschio, chissà se femmina, e chissà se avremmo portato
insieme i nostri figli al mare, al parco, a scuola…
Deglutii e sentii le
parole di Louis. Tornerò da te. Guardai il poliziotto di fronte a
me.
Solo la morte non
l’avrebbe fatto tornare, eppure io sentivo, mentre ascoltavo, che lui era lì
con me.
***
La luce del mattino
filtrava dalla finestra, colpendo il letto su cui avevo passato la notte senza
mai chiudere gli occhi. Da quel giorno, sarebbe cominciata la mia nuova vita.
Da quel giorno, non sarei più potuta essere la stessa persona.
Se
tornerà indietro, Doreen, cercherà te, e cercherà tuo figlio.
Mi chiamavo Doreen Mayer
adesso. La mia laurea in Francese sarebbe stato solo un pezzo di carta
conservato in dei libri dalle copertine improbabili di romanzetti d’amore, in
modo che mio figlio non li guardasse nemmeno.
Scalciai via la coperta
e mi misi seduta; il mio bambino dormiva ancora, la culla era la stessa
dell’appartamento mio e di Louis, così come lo erano tutti i suoi giochi. La
casa, estranea. Non era quello il mio posto, era di Marlene, Marlene e Joseph e
i loro figli, e ci avrebbero offerto del caffè nero in veranda con Louis seduto
vicino a me…
Per
proteggere il bambino, i servizi segreti si occuperanno dei documenti e andrà
tutto bene. Tuo figlio sarà sempre al sicuro.
Mi alzai in piedi e mi
misi addosso la vestaglia; Joseph, nel dolore, era stato la grande persona che
Marlene aveva amato dal primo istante. Mi avrebbe pagata per tenere in ordine
la casa, anche se il vero motivo per cui ero lì era stare vicino al mio
bambino, che secondo i documenti era figlio di Joseph, Joseph Scott, perché ora
aveva il cognome di Louis.
Aprii la porta.
«Mamma.»
Una piccola voce.
«Mamma.»
Una piccola voce, acuta.
Voltai di poco la testa
e mi morsi la lingua. Fino a quando avrei resistito? Quanto sarebbe stato
difficile? Lo sentivo già adesso, con il mio bambino che si era alzato in piedi
e si teneva in equilibrio con le manine sulle sbarre della culla, i riccioli
dorati, le guanciotte, gli occhi verdi con le ciglia lunghe. Mi avvicinai alla
culla e ricacciai indietro le lacrime, gli accarezzai il viso.
«Devi chiamarmi Doreen, Martin,»
mormorai.
«Mamma.»
Mi faceva male la gola e
le lacrime pungevano come se potessero uscire dai pori della pelle.
E allora mi voltai,
camminai lontano, arrivai di nuovo vicino alla porta, e sentii il mio bambino
piangere, il mio bambino che diceva “mamma” “mamma” “mamma”. Io. Sono io.
«Mamma.»
No,
amore mio. Sarò sempre tua madre, ma tu non puoi saperlo.
Mi morsi le labbra.
Non
puoi saperlo.
Martin singhiozzò.
«’Reen,» chiamò la sua
voce.
E da quel momento, ogni
cosa fu abbastanza. Fu abbastanza sapere che era al sicuro ed essere sua madre,
essere sua madre sempre, in ogni momeno e in ogni attimo, il primo giorno di
scuola, la prima caduta, la prima bambina che ha fatto piangere, il primo
brutto voto, il primo pianto di rabbia per Joseph che non c’era mai, le prime
storie sulla sua mamma volata in cielo.
Ma non ho mai smesso di
essere sua madre. Quando è nato Martin, io sono nata per la seconda volta.
‘Reen, Doreen, Dora. Madre.
Per tutta la vita.
E ora lui è
tornato e mi sta guardando e mi ascolta, mentre dico con poche parole, secche,
balbettate, quello che è vero. Che lui è il mostro, e non questa povera
ragazzina che mi è davanti. E vorrei sapere come ha fatto a coinvolgerla in
tutto questo.
«Doreen, la tata. Che
bella trovata.» La voce di Joe ride per lui. Mi ha portato via me stessa, ma
non mi porterà via mio figlio. «Ripetila.»
Joseph non è suo padre.
Quest'uomo è Joshua, non Joseph come Martin aveva creduto, come i suoi indizi
gli avevano fatto capire. E...
Lo guardo.
Lui, con quell’abito
nero e la pelle così bianca da essere traslucida, gli occhi neri come carbone
bruciato. «Ripetilo!»
Sussulto.
«Ripetilo. Diglielo,
guardalo negli occhi.»
Lo sguardo di mio figlio
è vuoto, la mia gioia di vederlo in vita basta a tenere in vita me, anche se
ora è lui a distogliere lo sguardo, ora è lui a soffrire, forse a non capire.
«Ho mentito.» Sento una
lacrima tagliarmi la guancia. «Tutti noi abbiamo mentito... e tu sei mio
figlio.»
*
*
*
*
Ho
aggiornato prima del previsto, siete contenti? *-* Visto che ho avuto
un attimo libero, ne ho approfittato per rileggere il capitolo e
aggiornare :D Spero che vi abbia fatto piacere, anche perché
questo capitolo è ricchissimo di rivelazioni.
Ve lo aspettavate? :3
Vi linko qui il link della pagina in cui posto immagini e curiosità, mentre questo è il mio profilo facebook :)
Ringrazio
chi mi legge sempre e recensisce, e le persone che continuano a mettere
la storia fra seguite, ricordate e preferite, siete davvero molti! *.*
Grazie di cuore,
Ania :)
|
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Capitolo 25 *** 24. Fantasmi argentei ***
until 25
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
24.
Fantasmi argentei
La
guardavo dalla finestra. I capelli corvini e la pelle bianca come le
statue del giardino si riflettevano nel laghetto che sembrava essersi immerso nei
suoi occhi, o forse era il contrario. Forse erano i suoi occhi ad aver
preso il colore dell'acqua su cui galleggiavano gigli e ninfee. La vidi
specchiarsi, sorridere a se stessa, infilarsi una margherita fra i
capelli. Agnes. Aveva solo undici anni. Agnes.
Iniziava così,
l'amore?
La vidi tornare indietro, prendere il sentiero di sinistra
che conduceva alla porta sul retro. Sentii la porta che sbatteva. Il rumore di un
campanello mi destò dai miei pensieri.
«Joe... va' ad
aprire, per favore,» mi disse il signor Silvers, il vecchio, mio
padre. L'uomo che mi aveva adottato.
Uscii dalla stanza e percorsi a
memoria il labirinto che era quella villa, casa mia, così
immensa. Raggiunsi la porta, guardai nell'occhiolino e sussultai,
ricordandomi tutto. Con addosso un cappotto nero, l'uomo che se ne
stava dall'altra parte della porta era lo stesso che aveva picchiato
Marlene, l'amica di Agnes, alcune settimane prima.
E tante notti prima, l'avevo visto uccidere un uomo con la pietra nera.
«Apri,
Silvers. So che sei stato tu a buttarci fuori dal circolo, e l'hai
fatto quando ne avevamo bisogno di più.» Bussò di
nuovo. «Chi ti dice che non saremmo stati abbastanza nobili? I
Jenkins ne fanno parte da generazioni. Così come i Powell e gli
Hurman e i Tyger... pensi che l'essere vecchio ti permetta di decidere?
Basta
nasconderti. Dammi le tue pietre e non ti accadrà
niente.» Deglutii, sentii lo stomaco sciogliersi una
poltiglia che adorava di paura, e parlai.
«Non sono il signor
Silvers. Sono Joshua, suo figlio, e ora non è in casa.»
«Non pensare di prendermi in giro, ragazzino,»
sibilò. E gli occhi erano neri, di un
nero che in natura non esiste, che viene dal male.
«Joe.»
Sentii una mano sulla spalla. Mio padre, anziano e fiero, con i capelli
bianchi che gli scendevano lisci sulla fronte aggrottata che sembrava
la corteccia di un albero millenario e un sorriso pacifico sul volto,
se ne stava in piedi dietro di me con il bastone nell'altra mano. «Penso che dovresti uscire un po'. Nel boschetto ci sono delle
margherite meravigliose, raccoglile e portale ad Aggie. La guardi
sempre da lontano, salutandola appena... mi piacerebbe che diventaste
amici.»
Sbattei le palpebre; non potevo credere che il pensiero di Agnes avrebbe potuto permettermi
di dimenticare perché avessi avuto paura fino a un momento
prima. Misi la mano sulla maniglia per aprire la porta, quando mio
padre mi sussurrò: «Non dimenticare niente di quello che
ti ho detto, Joshua».
Annuii, ma la mia testa e il mio cuore
erano già lontani, nel bosco, a cercare i fiori preferiti di
Agnes.
Non dimenticare, Joshua.
Non dimenticare.
Hans
Il signor Scott è irrintracciabile e,
da quando siamo andati alla polizia per denunciare la scomparsa di Martin e
di Sarah, non c’è stata nessuna novità. Il
poliziotto ci ha guardato e ci ha mandati via con
qualcosa come “faremo il possibile”. Le foto di Sarah e
Martin sono ovunque, ne hanno parlato anche ai telegiornali. Cameron
sta impazzendo,
Julia con lui. Io penso a Sarah con Martin e...
Lui non mi è mai piaciuto; ha sempre avuto quell'alone di insoddisfazione che ti fa pensare che sia
un cazzone figlio di papà. E lo è… lo so che lo è, anche se accanto a Cameron
sembra sicuro di qualunque cosa. Anche se il sorriso di Sarah lo rende innocuo,
lì impalato a guardare, improvvisamente cosciente di se stesso ma non del mondo.
Chiudo
il libro di statistica, non
riuscirò mai a concentrarmi; non so come posso
starmene qui con le mani in mano. Con Yvonne che non mi parla da quando
è tornata all'istituto. Credo che sia stata la prima persona a
sorridermi in tutta la mia vita, la prima ad incoraggiarmi quando ho
deciso di suonare la chitarra e studiare. La prima ad ascoltare sempre
la stessa canzone ripetuta all'infinito fino a quando non ho imparato.
Lei è stata la prima a sentirmi cantare, la prima con cui mi
sono addormentato e risvegliato. La ragazza che sognava le stelle e
aveva la speranza sulla punta delle dita; c'era speranza in ogni gesto
che faceva, nel suo piroettare con i capelli lunghissimi, nel suo
sognare di
ballare in un teatro lontano e nel suo passare i pomeriggi sui libri di
storia
e d'avventura. Non era sola, perché c'ero io. Anche se sua madre
era malata e l'ha lasciata quando Yvonne aveva sette anni. Aveva sette
anni, quando Yvonne è venuta a stare qui; sua madre era appena
morta per un tumore al cervello e Yvonne aveva, nel tremore delle mani
che non potevano più abbracciare sua madre, nelle mani che si
aggrappavano a qualunque cosa incontrasse e negli occhi nocciola
brillanti come se piangesse in eterno, la speranza.
Ora è
qui, a qualche tavolo di distanza nella sala studio, e mi
guarda senza un minimo di pudore. Sono io a vergognarmi, come se avessi
fatto
qualcosa per cui sarebbe legittimo farlo. Come se andando alla polizia
le
avessi fatto il più grande dei torti… quando gliel’hai detto ha tremato.
Si passa una ciocca di capelli dietro
l’orecchio, un tic che non le è mai passato, Yvonne che correva veloce per il corridoio senza farsi mai, mai
prendere.
Cammino verso di lei.
Yvonne, Yvonne ora bionda, ora più magra.
«Mi spieghi che ti è successo?» le chiedo, chinandomi su di lei.
Yvonne non fissava me; semplicemente il
vuoto. Sussulta, al suono della mia voce, e la prima cosa su cui si posano i
suoi occhi è il libro che tengo in mano.
Un silenzio infinito.
Occhi grandi, occhiaie in cui potrebbero
cadere e restare; ho la gola e le labbra secche.
«Non mi hai chiesto niente,» sussurra.
«In che senso?»
«Sei
scappato con quel tuo amico e sei andato alla polizia senza dirmi niente e poi sei solo venuto a raccontarmelo... Oh mio
Dio, tutto questo per quella Sarah...» Si morde le labbra, scuote
la testa. «Quella Sarah che non è altro che...»
«Un’amica! Un’amica, e ora potrebbe essere in pericolo.» Sembra che anche gli occhi le
tremino, quasi la terra vibrasse e lei vibrasse e tutto quanto non potesse mai
restare fermo. Ha gli occhi dello stesso colore della terra arida, e piangono
lacrime che non posso vedere. Come posso sentirle?
Yvonne.
Ti conosco da quando tu eri più alta di me
e pensavi che così sarebbe stato per sempre, poi ti ho superato e la cosa più
coraggiosa che potessi farmi era un darmi un pugno sul braccio.
«Io so dove potrebbe essere,» sussurra.
«Cosa?»
Si alza.
«Io credo di saperlo.»
«E lo dici ora?»
Scuote la testa, sospira, Yvonne… Yvonne,
torna qui. «Non puoi capire.»
Prendo il telefono per
chiamare Cameron e poi sento qualcosa premere sulla mia spalla, è la sua mano.
«Per favore… niente polizia.»
Sbuffo. «Che problemi hai?»
Si morde le labbra e china il capo. «Ne ho davvero tanti, ormai. Ma
ora andiamo.»
Sarah.
Questa stanza è vuota; si sente l’eco di
tutti i nostri cuori. Agnes, la mamma, Nathan, papà… Doreen, la madre di Martin.
Joe cammina per la stanza a passo lento, un sorriso tirato in volto, le mani
dietro la schiena come un nobile di secoli fa.
Martin sta tremando.
«Sapevo
dove fosse Martin, Doreen. Anche se hai fatto prendere a Joseph il
posto di Louis, anche se gli hai dato un'altra vita.» Si ferma,
all’improvviso, e poi
guarda Martin. «Ho sempre saputo dov’era, e l’unico
motivo per cui non ho preso lui era…» Silenzio. Un altro passo, lontano da Martin. I
suoi occhi scuri e
freddi nei miei. «Era Sarah. Dopo che sua madre è scappata ho fatto delle ricerche e ho scoperto che, in effetti, eri figlio suo e non di Marlene.
La sua morte non era più necessaria... ma lo è diventata perché lui ha allontanato la mia
Sarah da me e non doveva, Martin, non doveva perché lei
è mia, perché anche Agnes era mia... e se tu vivi, Martin, lei
penserà sempre a te, non sarà mai in pace, non
imparerà mai a seguire i miei ordini perché ricorderà che cosa significa essere liberi...» Joe si gira di nuovo verso Doreen. «Avrei
dovuto uccidere Joseph, quel giorno.... così nessun uomo
caritatevole si sarebbe prestato a regalare la vita a tuo figlio! Ma
non riuscivo a pensare ancora
con la totale lucidità. Sentivo come degli spilli
nel cervello che mi tagliavano la carne... E poi, Doreen, dovresti
ringraziarmi per aver fatto questo a Sarah.» Joe continua
a guardare me. Non avere paura. Salvati. Salvali. «Altrimenti saresti morta, Dora,
perché non mi avresti mai permesso di farlo a tuo figlio.» Joe si avvicina a
me, stringe le sbarre della cella con entrambe le mani, le sue palpebre si
assottigliano.
«Non volevo uccidere tua madre.» La sua
voce si fa più bassa, come se stesse sussurrando il più grande dei segreti.
«Non volevo ucciderla, la volevo per me. Ma naturalmente Joseph li aveva
avvisati e loro stavano lasciando la città insieme a te…» Resta in piedi, non
cadere.
Resto in piedi, non cado.
Guardo negli occhi l’assassino dei miei
genitori.
«Li
ho raggiunti, e con tuo padre c’era
una pattuglia. Ho usato la pietra nera e poi li ho sparati tutti. E tua
madre si è messa
in mezzo, è stata lei, capisci? Si è messa davanti a lui,
con gli occhi azzurri
uguali ai tuoi. Tuo padre l'aveva convinta a scappare e lei si è voltata… per
abbracciarlo. Lui aveva già immerso le mani fra i suoi capelli… ma io
avevo già premuto il grilletto.» Joe fa un sorriso storto, ride, l’unica
lacrima che gli cade dagli occhi sembra un’anonima goccia di collirio, grigia,
fredda, senza vita. «L’ho presa sul cuore. E poi ho ucciso lui… potevo
lasciarlo in vita a distruggersi nel dolore, ma mi avrebbe dato fastidio, lo
sapevo.»
«No…»
«Agnes e Nathan avrebbero lasciato la città comunque. Sei nata con
un soffio al cuore, Sarah, e dovevi essere operata d'urgenza.»
Sospira. «Me
ne sono accorto quando ti ho visitata. Ed era tutto
perfetto... ho tagliato lo smeraldo nero... l'ho immerso nel poco di
argento di luna rimasto che non lascia passare il potere della pietra
nera. Per questo le sbarre che sono fatte dello stesso materiale ti
fanno male. Te l’ho messa nel cuore. Sì… proprio qui.» Si tocca il petto. « Nella tua anima innocente
di bambina appena nata, perché un'anima innocente può usare la Vexania
per sempre. Per questo mi servi e farai tutto quello che ti dico. E poi l'ho collegata al congegno che mi permette di
attivarla e disattivarla… anche quando non sei tu a controllarla. Sei sempre
stata un po’ simile a tua madre. Così buona, così bella… un piccolo angelo.» Si
allontana dalla cella. «Ma con la giusta provocazione e l’attivazione… ha
funzionato. Tu sei la mia arma. Userai quello che sai fare per me,
ed io li
ucciderò tutti, ucciderò tutti quelli che hanno dato
fuoco alla casa del mio unico padre.»
«Sei un folle,» gli sputa contro Doreen.
«Non so che cosa sono… ma continuerò ad
esserlo. Dopo aver preso Sarah e
averla caricata in macchina, ho indossato un giubbotto antiproiettile
ed ho seguito Martin, che è andato all'ufficio di Joseph per
affrontarlo, credendo che lui fosse al'artefice di tutto quello che,
invece, ho fatto io. Mentre Martin era voltato e Joseph scendeva dalle
scale, l'ho sparato. Hacreduto fino all'ultimo che a spararlo fosse
stato Joseph, perché proprio Joseph aveva una pistola in mano, ma la
stava puntando contro di me. Mi ha sparato, ma con il giubbotto
antiproiettile non mi ha ferito di striscio, e allora io ho colpito
Martin ed ho colpito lui»
No, no, no. Non posso lasciare che
succeda. L’immagine di me stessa con quest’uomo che mi tiene stretto il viso da
dietro, che mi sussurra all’orecchio di rendere debole quella o quell’altra
persona è un abominio.
Posso usarlo contro di lui. Quello che
posso fare… contro di lui e salverò tutti.
Mi guarda, sbatte le palpebre, tremo. E
poi scoppia in una risata che potrebbe rompere tutte le cose belle che esistono
al mondo, una risata secca, ghiaccio che mi sommerge. Rabbrividisco.
Prende il congegno dalla tasca e me lo mostra. «Tu dai la
possibilità di tornare indietro o non
tornare indietro. Di redimere o non redimere i peccati. Di
svegliarti,
riparare ai tuoi errori e vivere. O puoi
morire, perché non guardi più te stesso come te stesso, ma come giudice. E se
non meriti di vivere, per te non c’è altra possibilità.» Fa un altro passo
nella stanza. «Accade tutto nel tuo inconscio. Perché è l’inconscio degli
uomini ad essere il posto più pericoloso… me lo diceva sempre, mio padre.»
Ride. «Ma ora basta parlare.»
«Joe! »
Si volta.
Guardo la persona a cui appartiene questa
voce. Non mi sono nemmeno accorta che la porta veniva aperta, non ho sentito il
cigolio, ero qui intrappolata in una bolla di dolore.
«Yvonne.» La voce di Joe è glaciale.
«Credevo che non volessi vedermi più.»
Yvonne, di una bellezza che brucia il
bianco intorno, fa un passo avanti, quasi zoppicante. Qualcuno la
segue, è Hans. E poi Cameron e Julia.
No.
«Andatevene!» grido. Il panico mi
attorciglia le viscere. Perché sono qui? Come hanno fatto a scoprirlo? Non
potranno mai aiutarci.
«Oh…
adesso il lavoro è molto più facile.» Joe preme un
altro tasto del telecomando e una grata metallica si abbassa a
coprire la porta con il rumore di una serranda che cala. «Tu sei… Hans, vero? Ti sei fatto bello,
in questi anni. Mi
somigli molto.» Prende dalla sua tasca una pistola. Ho il cuore
in gola che
vuole squartarmi la pelle, uscire, farmi morire dissanguata.
«Se mi somiglia veramente adesso libera
Sarah, Martin e questa donna.»
«Mi
somigli perché anche tu, come me, sei
rimasto stregato da lei.» Joe mi indica con un liscio movimento
del braccio,
come se stesse facendo la presentazione di uno spettacolo. «Ma
l’incantesimo
per te è finito presto… era solo il sogno di qualcosa che
sarebbe successo, ma
quando vi siete incontrati di nuovo era troppo tardi per far sì che accadesse. Mi è successa
la stessa cosa, sai?»
Joe ride. Ride, ride, ed io voglio morire. Hans lo guarda, teso, il
viso serio.
La sua mano cerca quella di Yvonne.«Avrei voluto morire. Ma per suicidarsi ci vuole una forza
che non avevo.» Sbuffa. Fa un passo indietro. «Ma ti posso
aiutare io.»
«Joe.» La voce di Yvonne è stridula. «Non
so cosa hai in mente… non lo so ma per favore…»
«Non puoi saperlo, Yvonne.»
«Per favore…» Yvonne lascia la mano di
Hans e fa un passo verso Joe. Debole, traballante, esausta, come se non
mangiasse da giorni, come se non riuscisse più a dormire. Come se l’uomo che le
sta davanti fosse il miracolo che potrà salvarla.
«No, no, Yvonne.»
«Non resterai solo, Joe. Non resterai
solo, posso tornare da te.»
«Io non ti voglio!»
«Joe…»
«Sei una piccola puttanella, come tua
madre. Proprio come lei…»
«No…»
«Mi hai stancato, Yvonne. Mi hai stancato.
E ora spostati.»
Joe solleva la pistola, guardo il terrore
sul viso di Yvonne, la bocca distorta dai suoi per favore, le palpebre
appesantite ad ogni insulto, il volto scavato dal rifiuto. Un fiore secco che il vento sta cercando di stradicare via.
Il rumore dello sparo assomiglia a quello
di un aereo che vola. Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto.
Ed Hans si accascia a terra con le
mani sullo stomaco, mani bianche bianchissime, grandi ma troppo piccole per
fermare il sangue che le bagna.
Urlo.
Hans.
Lo so che non sei cattiva. Hans… il
mio amico, il mio sogno spezzato, Hans che ciondolava nei corridoi della
scuola, Hans con gli occhi grigi, luce scura, polvere che si solleva nell’aria
e brilla con i raggi del sole che filtrano attraverso la finestra. Hans che non
ho avuto il tempo di amare. Hans che si fa volere bene solo perché c’è.
Hans…
Attivalo.
Julia
urla, Cameron la attira a sé. Hans
ha la stessa tetra espressione di Yvonne che si china su di lui, veloce
come se
avesse imparato a soccorrerlo da tutta la vita; gli sposta i capelli,
gli
tocca le mani, si sporcano di sangue. È frenetica, respira
affannosa come se lei stesse sanguinando al posto suo.
Joe guarda
Yvonne.
Sarah, attivalo.
Ci sto disperatamente provando.
Joe
solleva la pistola. Yvonne guarda la sua morte ed io sento le lacrime
che scendono sul mio viso perché voglio salvarli.
Poi Joe cade in
ginocchio, la pistola gli cade di mano, il suo urlo squarcia l'aria, i
timpani, i ricordi, mentre un rantolo viene fuori dalla sua gola.
«Gli spilli... gli spilli nella testa...»
Lo
vedo stringere le palpebre, ansimare, sbattere gli occhi,
fermarsi. Quando apre gli occhi, sono dello stesso colore
azzurrino del ghiaccio che riflette il colore del cielo. Quando parla
di nuovo, la sua voce sembra provenire da
un luogo
lontanissimo, il profondo di una grotta buia dove il sole non picchia
più, dove è notte per sempre.
«Salvati, Yvonne.» Il ghiaccio è scomparso, c'è solo dolore crudo, dolore accartocciato su se stesso. Quello
che sto guardando sembra un sogno, l'uomo qui davanti a me non è
lo stesso che ha minacciato di ucciderci tutti. «Scappa, non so per quanto tempo riuscirò a trattenerlo... tornerà...» Le sue mani cercano di nuovo la pistola, a tentoni, come se fosse cieco. «Tornerà...»
Scuote
forte la testa, respira pesante, tossisce, un sibilo viene fuori dalla
sua gola come se fosse un treno, un treno che corre, che sta per
esplodere. Poi chiude gli occhi. Il suo respiro si calma. Gli occhi si
aprono. Prende di nuovo la pistola. Si alza, prende Julia per il
braccio, le dà una botta alla testa, Cameron urla, mi sento
morire e vorrei
morire io davvero, vorrei essere al posto di Julia, la mia prima ed
unica amica, la ragazza che mi ha aiutato e mi ha dato affetto e mi ha
regalato un pezzo della sua vita di campionessa, normale, splendida
ragazza di diciassette anni. Mi accascio a terra. Attivalo. Joe attraversa la stanza a grandi falcate e si avvicina a Martin, che ha il
volto pallido, teso come se qualcuno gli stesse tirando i muscoli con
delle
cinghie. Joe gli avvicina la pistola alla tempia.
NO!
«No! NO, NO, NO! TI PREGO! Farò tutto quello
che vuoi, farò tutto quello che vuoi…»
«Tutto quanto?» mi chiede.
«Qualunque cosa.»
Martin
ha gli occhi verdi dalle striature
grige, gli occhi che amo, occhi che all’improvviso si accendono.
Prendono vita,
come se prima si fosse trovato in uno stato di incoscienza. Joe ride
per tutto il tempo, apre la mia cella con una chiave. Faccio qualche
passo verso di lui, il tempo di guardarlo ancora per un secondo e
capire che Martin mi
sta urlando con tutto… sguardo, silenzio, fermezza di non farlo.
Non farlo, Sarah, non farlo.
Perché lui non ha capito.
Ascoltami, Sarah, non farlo.
Ancora un altro passo.
Joe sorride, fa per avvicinarsi, mi guarda
negli occhi.
E lui capisce.
Ma è troppo tardi.
L'attivazione è in corso, e lo è perché l'ho voluta con tutto il dolore del mio mondo.
Perché chiamo l’onda, la chiamo tutta la mia
forza. Non c’è nessun congegno a controllarla, ci sono solo io. C’è il battito
del mio cuore, la consapevolezza di poter sentire me stessa e di poter sentire
anche lui.
Sono io a guardare l’onda anomala che si
erge dalle acque della mia mente. Sono io a dirle di schiantare contro di lui,
colpirlo, dare fine alla sua pace.
Joe si accascia a terra.
Ed io lo seguo nel buio.
***
Joshua Silvers
Dopo un grande dolore viene un senso solenne,
i nervi stan composti, come tombe.
Il Cuore irrigidito chiede se proprio lui
soffrì tanto? Fu ieri o qualche secolo fa?
I piedi vanno attorno come automi
per un'arida via
di terra o d'aria o di qualsiasi cosa,
indifferenti ormai;
una pace di quarzo come un sasso.
Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
la ricorda come gli assiderati rammentano la neve;
prima il freddo, poi lo stupore, infine
l'inerzia.
Mi
sento i muscoli intorpiditi, le ossa scricchiolano ad ogni passo, respiro come
se fosse la cosa più difficile del mondo. Mi sono appena svegliato dopo diciassette
anni e la mia mente è vuota. La mia mente segue il buio. La mia mente incontra
pareti nere, una stanza scusa, quadrata, non c’è nessuno.
Ma c’è una voce.
Sei
il giudice della tua vita.
La mia voce.
Guarda
che cosa hai fatto.
Guardo.
Ricorda
che cosa hai fatto.
Ricordo.
Joshua Silvers ha quattordici anni quando
l’uomo in divisa davanti a lui gli dice che non firmerà nessun documento. È
dispiaciuto, l’uomo. Ma quando gli occhi azzurro chiaro di Joshua Silvers diventano
lucidi, quello non riesce a trattenere un sorriso che si schianta sul dolore
atroce del ragazzo come lo scherno peggiore che possa esistere.
«È Silvers, il mio cognome.»
«Non può più esserlo.»
«Mi ha adottato, sono suo figlio! »
«Non sei suo figlio, ragazzo. Eri solo in affidamento... sarebbe dovuto passare un altro mese.»
Il ragazzo è magro, ma molto alto; è nella
fase in cui il corpo dice fammi crescere, fammi diventare uomo. Io sarò un
uomo. «È la mia famiglia.»
Era.
L’uomo in divisa posa la penna sul tavolo
e si alza dalla poltrona. Si passa una mano fra i capelli brizzolati, ha un
fisico imponente, la pancia larga per l’effetto che fa la birra quando la si beve
ogni sera a cena. Il ragazzo si aspetta qualcosa, una salvezza, la giustizia.
La giustizia è la cosa in cui crede di più al mondo. La
sua famiglia – perché
il signor Silvers sarà sempre la sua famiglia – ci ha
sempre creduto, è custode
di un segreto così oscuro che è rimasto tale per
generazioni, fino a quando
qualcuno del circolo non ha dimostrato di non essere abbastanza nobile
da custodire il segreto, usando la Vexania che le loro famiglie
conservavano da secoli per vendetta. La vendetta. Il pericolo
più grande, perché la Vexania, con il rimorso, la rende
pazzia.
Il signor Jenkins ha ucciso il suo datore di lavoro per il licenziamento.
E poi ha ucciso il vecchio per avere
ancora quella maledizione.
«Torna di là, ragazzo. Riposati. Domani
sarà una lunga giornata.»
«Andate a prendere il colpevole? »
L’uomo fa il giro del tavolo. «L’incendio
è stato doloso.»
«Non è stato doloso! » Joshua scoppia. Non
può credere che gli adulti possano davvero pensare che si sia trattato di una
cosa del genere. Non era semplicemente possibile perché non era solo la casa a
bruciare ma anche il giardino, la terra, anche i muri e il cancello sembravano
incandescenti. Non è stata la fiamma a crescere in quella casa, è stata la
crudeltà di qualcuno che non aveva più coscienza di se stesso. «Non è stato
doloso! So chi è stato! So chi è stato, so…»
«Non fare accuse infondate, ragazzo!»
«So
chi è stato!» Joshua respira, respira
forte. Deve parlare, per lui. Deve parlare, per lei. Per Agnes.
«Il signor Jenkins.»
Per Agnes, che era troppo buona per
capire di aver avvicinato la
morte.
«Il signor Jenkins è la persona più innocua della terra…»
«No!
L'ho visto io... è arrivato a casa ed io sono uscito e quando mi
sono voltato dalla collina ho visto l'incendio...»
«Non ascolterò altre sciocchezze!»
«No! … Agenti, agenti! » Joshua spinge la
porta ed esce nel corridoio; è vuoto, è notte, la gente dorme ma lui vede
ancora le fiamme, non smetterà mai di vederle, anche se la speranza sembra che
le abbia spente. Trova altri uomini in una sala con un tavolo rotondo e ripete:
«Io so chi è stato ad appiccare l’incendio! Il signor Jenkins! Il signor Jenkins e
tutti quelli che…»
Una risata copre la sua voce. È quella di
un vecchio sdraiato su un divano con una birra in mano. Una risata che si
espande, si fa più forte insieme a tante altre risate.
«È stato lui!» Il ragazzino ha una voce
ancora da bambino. Una voce che dice voglio crescere, fammi diventare uomo. Ma
non è ancora il momento. «Perché non mi credete? Voglio giustizia… siete voi i
portatori della giustizia! »
Ma gli uomini continuano a ridere.
Parlano, quando lo fanno, con la stesa voce atona e fredda con cui hanno detto
è tutto bruciato. È rimasta solo cenere.
Il signor Silvers, cenere.
Agnes, cenere.
E le fiamme che danzano nei suoi occhi.
Le fiamme che lo rendono implacabile, a
poco a poco. Giustizia… dov’è la giustizia? Joshua ha perso tutto. Joshua ha
perso l’unica famiglia che pensava di avere. L’unico amore che pensava di
provare. Joshua sospira. Pagherà, quell’uomo
pagherà, al costo di morire. Pagherà ed io prenderò quelle pietre. Scoprirò dove
sono. Non ce l’ha fatta a raccontarmelo ma io lo scoprirò, le prenderò.
E lo renderò orgoglioso di me.
Joshua ha venticinque anni. È stato un adolescente
solitario, chiuso, ostile con il mondo. È diventato un uomo alto, ancora magro,
ma la giacca del cappotto aderisce bene sulle spalle, sul fisico slanciato. È
diventato bello, Joshua Silvers. Bello, intelligente, sveglio, ma sempre
solitario, ostile, il mistero della famiglia addottiva che gli ha
dato amore e cognome. Stewart.
Joshua è grato che sia una S, come Silvers.
Così non l’hai dimenticato. È troppo testardo per farlo, lo è sempre stato.
E ora è cambiato tutto.
Ha trovato la pietra nera, anche se il signor Jenkins era già morto in un incidente d'auto; ha ricordato
gli indizi, e adesso che ha il potere nelle sue mani farà pagare alla sua famiglia. A sua figlia. A suo nipote.
Non voglio, non voglio questo.
C’è qualcosa che ha dimenticato,
qualcosa a cui non ha pensato. La testa gli fa male come se stesse affogando in
un lago gelido, l’acqua ghiacciata gli entra nelle narici e lui si sente
riempire di freddo, freddo, freddo…
«Joe.» Si volta. La ragazza che gli viene
incontro indossa un cappotto pesante troppo corto per coprire il grembiule rosa
da cameriera, ma lei è sempre lei. I capelli castani con i riflessi mogano, il
viso allungato ma delicato, i grandi occhi color nocciola. Sofferenti.
Perché
soffri? «Joe,» Sospira ancora.
La ragazza posa una mano sulla spalla di
lui. «Dov’eri finito? È quasi un mese che non ti vedo, e sei irraggiungibile al
telefono…»
Perché?
Joshua la spinge via. Non voglio farlo, non voglio farlo, ma c’è una forza troppo grande che lo costringe, che lo
fa diventare sempre più piccolo. Perché quello che appare Joshua sembra calmo,
a suo agio, con un sorriso che non si vede mai, sugli esseri umani. È quel
genere di sorriso con cui si guarderebbe una casa bruciare.
È crudele e senza vita.
Che
cosa succede? Perché? Basta, perché? Cassie… Cassie…
«Che cosa ti è successo? » chiede lei,
stringendosi nel cappotto. Fa troppo freddo, per vivere.
Il corpo di Joshua – mentre lui urla nella
sua mente con perché e Cassie – si muove lento, con un’eleganza che non si è
mai vista prima. «Noti qualcosa di diverso? »
«Non sembri tu. »
Aiutami, Cassie. Scappa. Non avrei dovuto prendere la Vexania, non avrei dovuto prenderla con me...
«Sono io nella mia versione migliore. »
«Non hai mai parlato così prima. »
«Perché sei qui a rompere il cazzo, eh?
Perché? » La voce di Joshua si alza. È sua, quella voce, ma qualcuno la usa al
suo posto, una forza estranea. Il
male che ha distrutto l'equilibrio con il bene che sostava nella pietra
nera. Male e bene, insieme. E senza lo scrigno e la vendetta nel
sangue, hanno dato questo.
Cassie sussulta, mentre il vero Joshua
vuole solo abbracciarla perché non le avrebbe mai detto quelle cose. Joshua
vuole solo darle un bacio sulle labbra e imparare a dimostrarle quell’amore che
si è sempre tenuto dentro nella sua solitudine, mentre lei lo prendeva per mano
e lo faceva entrare nel suo mondo.
Cassie è splendida, Joe lo sa. Joe l’ha
visto ogni giorno alla caffetteria mentre gli versava il caffè. Joe l’ha visto
la prima volta in cui lei gli ha chiesto che cosa studiasse, che cosa volesse
fare da grande. Joe l’ha visto quando canticchiava una canzone del juke box
facendo ondeggiare i capelli lisci. Joe l’ha visto quando gli ha lasciato il
numero di telefono nel menu. L’ha visto in ogni sorriso e ballo senza musica,
ogni pianto per un vecchio film, ogni risata mentre lei si rigirava nuda nel
suo letto e adesso.
Adesso, che sta piangendo.
«Sono incinta.»
Adesso che sta piangendo, Joshua riesce a
vedere quanto è splendida la ragazza di cui si è innamorato e vorrebbe solo
prenderle la mano e stringerla fra le sue braccia, e darle tanti baci – fronte,
guancia, collo, bocca – e sentirla ridere. Se mai avessi una figlia voglio
chiamarla Yvonne, gli ha detto un giorno. Le persone assomigliano agli alberi e
Yvonne vuol dire pianta, vita.
«Mi dispiace, angioletto.» Ricordo di
tanti anni fa. «Ma non ne voglio sapere.»
«Joe…»
«Non voglio il figlio di una puttana. Non
sarà nemmeno mio, avrai…»
«Che
cosa ti prende? Che cosa dici?» La voce di Cassie si spezza.
«È te che amo. Sei l’unico. E non so che
cosa ti sta succedendo, non lo so… »
«Non serve saperlo…»
«Nostro figlio….»
«Tuo.»
«Joe.»
«Vattene, non voglio vederti mai più.»
È l’ultima volta che Joe può vedere i suoi
occhi.
È l’ultima volta che può sognarli.
È l’ultima volta che se stesso può avere
la forza di urlare, perché quella forza lo opprime.
E lo spegne.
C’è
solo il corpo ormai. Joshua Silvers,
Joshua Stewart… non importa, non importa più. Era la
giustizia, quello che l’ha
fatto andare avanti: cercare le pietre che il vecchio, dopo aver capito
di essere in pericolo, aveva seppellito lontano. Poi la vendetta: usare
quelle pietre. Adesso l’ombra di un ricordo,
un’intenzione che la forza esterna ha amplificato, distruggendo,
squarciando
tutto…
La ragazza dai capelli biondi e corti e gli occhi azzurri. La figlia del signor Jenkins.
Boom! Boom, boom, boom.
Cade a terra.
C’è solo follia. La
follia è la forza, la forza è il male, il male è l'ordine che guida il corpo di Joshua,
guida la sua mano ad alzare di nuovo la pistola verso un altro uomo. Potrebbe
essere il fratello della ragazza che ha appena ucciso, ma questo ha gli occhi
verdi. Parla con sicurezza, con coraggio, non ha paura di morire. Boom, boom,
boom, ancora una volta.
E Joe guarda Joseph disperarsi, prendere
Marlene fra le braccia, non può più parlare, non può più vivere; è con gli
occhi che lo odia, è con gli occhi che lo implora di farlo andare via con lei. Ma
lui non lo fa, perché i proiettili sono finiti.
In tasca ne ha ancora altri.
Ma è crudele abbastanza da lasciarlo in vita.
Hai
permesso alla vendetta di squarciare tutto quello che avevi intorno.
Perché
la vendetta si è prosciugata nel male senza equilibrio ed ha preso il suo posto con l’oscurità.
Hai
ucciso una donna che credevi tua e non ti è mai appartenuta.
Hai
ucciso l’uomo che amava.
Hai
spento la vita di sua figlia quando aveva cinque anni, quattro mesi e sette
giorni.
Hai
preso tua figlia e l’hai umiliata, picchiata, abbandonata, dimenticata, mai
riconosciuta.
Le
somigliava troppo.
Nel male l’hai sempre saputo.
Nel male Joshua cercava sempre di emergere, anche se inutilmente.
Le
somigliava troppo.
E
allora truccati Yvonne, ai ragazzi piace. Lo devi fare per me. Tingiti i
capelli, quel colore è una merda, niente più castano dai riflessi mogano,
ragazzina quattordicenne che ti ha amato dal primo istante in cui ti ha
guardato.
E
l’hai distrutta.
Sarah
è spenta, Yvonne è distrutta.
Sono
entrambe sole, Sarah si è rialzata.
Yvonne
è in ginocchio ad aspettare te, te che arrivi, la schiaffeggi.
Buio. Ancora buio. Sono io, di nuovo. Sono
Joshua Silvers, e non merito nemmeno uno stralcio di luce. Perché non sono
stato io, ma la colpa è solo mia.
E
allora eccoti.
Sono qui.
Giudice
della tua vita.
Meriti
di vivere? Meriti di vivere dopo aver ucciso Marlene Jenkins,
innocente, Louis Scott, innocente, un'intera pattuglia, innocente,
un’infermiera, innocente. Meriti di vivere dopo aver rovinato la vita a tua
figlia? Meriti di vivere dopo aver abbandonato sua madre?
Meriti
di vivere?
La
stanza ha le pareti nere. Chissà per
quale miracolo, riesco a vederle. La porta si apre, e davanti a me
c’è un corridoio. Joshua Silvers, quello vero, è
innocente.
Ma io merito la morte.
Cammino. Il buio non è più nero ma è
bianco. Non c’è più oscurità. Ma sono cieco. Non merito di vedere.
E so che non posso chiedere perdono. Non
posso chiederlo ad Agnes e a suo marito. Non posso chiederlo a sua figlia. Non
posso chiederlo a Louis Scott e a Martin, a Doreen.
Non posso.
Percorro il corridoio, l’ultimo della mia
vita, e raggiungo un’arcata. È di un bianco accecante, perché non merito più di
vedere. Più di vivere.
«Joshua… Joe.»
Sussulto.
Mi chiedo come posso sentire così tanto il
mio corpo, se sto morendo.
Mi chiedo come posso sentire la sua voce.
«Cassidy…»
Alzo il viso.
Lei è qui, ed è come l’ho vista per
l’ultima volta. La volta in cui le ho detto di andarsene e non venirmi a cercare
più. La notte in cui l’ho abbandonata, la notte in cui avrei solo voluto
amarla. «Cassie…» È colpa mia, è tutta colpa mia.
I
suoi occhi nocciola si fanno lucidi,
come se fosse ancora qui, come se fosse ancora viva, e si passa una
ciocca di
capelli castani dietro l’orecchio ed io la amo. La amo ancora.
«Lo so, Joe. Hai sbagliato tutto.» dice come se avesse sentito i miei pensieri, come se li avesse sentiti davvero. «Il signor Silvers ti ha
adottato, ti ha scelto perché aveva avuto solo figlie femmine,
non voleva dare loro la responsabilità diquel segreto e stava invecchiando.
Aveva bisogno di un ragazzo coraggioso. Aveva bisogno di te. Ma
quando hai trovato le pietre la vendetta era ancora un barlume, era ancora rabbia... ma non ti sei protetto. Dovevi metterle in
quello scrigno, Joe, solo così il male sarebbe rimasto
equilibrato insieme al bene.» Sono un uomo e sto piangendo. Sto
piangendo per morire, per sapere che, finalmente, ho pagato il prezzo di tutta
l’atrocità che ho portato nel mondo.
«Perdonami.»
«Non è il mio perdono, quello di cui hai bisogno.»
«Non tornerò indietro.»
Ho il cuore che batte forte. Batte come
quando lei era vicino a me, sul mio letto, e mi sono accorto che non potevo
fare più niente per salvarla. Per salvarmi.
Cassie allunga la mani, mi tocca ma poi…
non la sento. Non riesco a sentirla. «Sono io che non posso tornare, ma tu
devi farlo.»
«Cassie.»
«Per Yvonne.»
Sospiro. Lascio che continui a lasciarmi
carezze sul dorso della mano, anche se non posso sentirla, anche se un bianco
bagliore separa la mia pelle dalla sua.
«C’è
una cosa che ho insegnato a Yvonne,
Joe.» La sua voce è ferma, chiara. Appartiene alla mia
Cassidy Grace. «Le ho detto di non perdere mai la speranza.»
«Ma Cassidy...» La mia voce si spezza.
«Lei
non ha mai abbandonato la speranza. E non so come ha fatto... non so
come ha potuto aggrapparsi alla speranza quando dentro di te c'era quel
mostro che ti impediva di essere te stesso, che le faceva del male...
ma l'ultima cosa che le ho detto prima di morire è stata questa,
di non perderla mai. Lei è una ragazza fragile, ma tutto quello
che prova è forte. Non esiste l'indifferenza, la calma, la
serenità... è tutto oltre i limiti, lo è il
dolore, la felicità, l'amore. Yvonne ama come una tempesta. Il
male ha preso tutto quello che poteva prendere, ma Sarah è
riuscita a fermarlo quando ancora poteva salvarsi, quando ancora poteva
salvarli. Devi
tornare per lei. Devi
tornare per me.»
A tutti è dovuto il mattino, ad alcuni la notte.
A solo pochi eletti la luce dell'aurora.
Emily Dickinson
.
*
*
*
*
Ciao
a tutti, miei lettori meravigliosi :3 Sono tornata dalla gita ed eccomi
qui ad aggiornare, spero che il capitolo vi sia piaciuto e spero che
tutti i dubbi siano stati chiariti. Spero che abbiate capito bene la
natura del potere di Sarah e che cosa è successo a Joshua
Silvers. La storia si avvia alla conclusione ed io ringrazio voi, tutti
coloro che mi hanno accomoagnato e mi stanno accompagnando in questo
stupendo viaggio.
Se mi fate sapere che cosa ne pensate mi fate un piacere enorme *^*
Un bacione
Ania :)
|
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Capitolo 26 *** 25. Sogni bruciati ***
until 27
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
25.
Sogni bruciati
Hans
Quando apro gli occhi è ancora notte. La
mia mente è vuota... non ho niente, qui dentro. Niente, a parte un fastidio allo
stomaco.
Mi tocco la pancia e trovo una benda, premo, mi mordo la lingua perché
fa ancora male. E mi chiedo perché sono qui.
Poi volto la testa.
Yvonne dorme; con le gambe lunghe tese, le mani unite sullo schienale ad appoggiarci il mento, i capelli
biondi a sfiorarle il viso. È così buio, eppure riesco a vederla. Di sicuro per la
macchina che le sta accanto, quella che prende il battito del mio cuore con
flash verdi. Si vede la radice scura dei suoi capelli… avrà ancora i riflessi
rossi? Un giorno la vedrò al sole, e me ne accorgerò.
Alzo il braccio per passarmi una mano fra
i capelli e mi chiedo da quanto tempo sono rimasto addormentato. Mi chiedo se ho avuto
paura di morire, prima di perdere i sensi, perché non ricordo. Mi chiedo se
qualcuno si è fatto male oltre a me. Mi chiedo se Sarah…
Yvonne ha le labbra piene, socchiuse.
"Come fai a dormire con la bocca aperta, eh,
Hans?" Avevamo nove anni, quando mi addormentai sul tappeto della sala dei
giochi con il libro della giungla sotto la testa riccia.
"E tu sei rimasta qui ad
osservarmi?"
"Con
quella faccia stramba."
"Ti
sognavo, Vonnie."
"Hai
sempre una faccia stramba."
"Ti
sogno sempre, anche quando non dormo."
Fa
male dappertutto, fa male tutto
quello che non c’è più. Fanno male i ricordi che
ritornano. Noi bambini.
Noi cresciuti. Noi che camminiamo mano nella mano. Noi che capiamo che
non
possiamo farlo più perché tutti ridono. Lei che mi saluta
con la mano, il
trolley ai suoi piedi, un padre adottivo ad aspettarla. Lei che mi promette che
tornerà a trovarmi. Lei che non
torna più. Io che cerco di dimenticarla, ma la cosa migliore che
riesco a fare
è trasformarla in memoria. Ora lei con i capelli biondi,
bellissima, stanca. Lei
che ama con tutto il cuore un uomo che le ha sputato indietro solo
veleno. Lei che
ama quell’uomo perché da quel giorno è la
sua famiglia, è una possibilità. Tutto vano.
Forse una volta era quella la speranza, ma lei ci ha sempre creduto.
E poi
quella speranza ha cercato di uccidermi.
In
cosa credi, Yvonne?
Continuo a guardarla.
Crederai
ancora in qualcosa?
E poi apre gli occhi.
Lo
fa in quel modo in cui lo fanno i
bambini, con le ciglia castane che le sfiorano la pelle sotto gli occhi
per
quanto sono lunghe. Lo fa senza vedere, con quegli occhi d’ ambra
liquida che sono il sole al tramonto, minerali brillanti di roccia.
Sbadiglia. Si mette la mano davanti alla bocca quando
è tardi.
Da
quanto tempo sei qui?
Il macchinario accanto a lei mostra il
modo indecente in cui il battito del mio cuore aumenta.
«Hans.» La sua voce si espande nella
stanza, con quella tonalità di sorpresa, di gioia, e il cuore mi scoppia perché
lei sorride. Da quelli che sembrano milioni di anni, lei sorride. «Stai… come
ti senti?» mi chiede.
«Gli altri?» riesco a chiedere io. Tuo
padre mi ha sparato, gli voui ancora bene? Vorrei che fosse importante,
vorrei imparare ad odiare di più... ma non posso odiare proprio
te. «Gli altri sono qui? Sono…»
«La polizia è arrivata e i medici sono intervenuti appena in
tempo.»
«E Sarah? »
«Dopo
aver fatto quella cosa assurda con quella... roba che ha nel cuore
è svenuta, deve ancora svegliarsi. Così come deve
ancora svegliarsi mio pa… volevo dire, Joe.» Sospiro. E
penso a Sarah e
improvvisamente non riesco a non immaginarla come la prima volta in cui
le mi
sono avvicinato. Aveva i capelli lunghi tutti da un lato, così
magra, così
impaurita… ma l’ultima volta non era così.
L’ultima volta era ancora magra e
sembrava fragile ma ha fatto qualcosa per cui le sarebbe servita la
forza di
tutti noi. Yvonne si stringe nelle spalle, i suoi occhi sono ancora
lucidi, è stanca morta
quando io potevo essere soltanto morto. Ma lei mi ha seguito,
perché ora mi
appare in un’immagine sbiadita lei che si china su di me, lei che
ha le mani
sporche del mio sangue, lei che chiama il mio nome ed io riesco a
sentirla.
L’ultima cosa che faccio prima di perdere i sensi è sentirla. «Hai dormito per
cinque giorni. L’operazione è andata bene ma devi stare ancora a letto per un
po’.»
«Anche tu dovresti startene a letto per un
po’, una notte per esempio. Perché sei rimasta qui?»
«Mica sono stata l’unica, è venuto anche
Phil.» Parla veloce, come se l’avessi affrontata.
Sospiro, sorrido. Penso a come si sarà
sentito Phil, a quanto mi avrà odiato per questo.
«Ma Phil è il mio migliore amico.»
«Lo so.» Ha un tono più alto, scocciato,
la sto infastidendo. Sembra la bambina che perdeva quando giocavamo a
nascondino.
«Tu…»
«Stai dicendo delle cavolate, chiudi gli
occhi e dormi.»
Sembra la bambina che mi guardava dormire
e poi crollava vicino a me, la notte, sul tappeto dei giochi.
«Tu non te ne sei dimenticata.»
«Non capisco.»
Sento un dolore al cuore, qualcosa che non
posso spiegare come la maggior parte delle cose della mia vita. «I giochi
all’aperto, il memory, gli ovetti di cioccolata nascosti nella credenza che
mangiavamo sotto il tavolo, la neve in giardino…» Si alza in piedi, si passa le mani sul
viso e poi fra i capelli, quei capelli lunghissimi… «E i tuoi capelli castani.»
Resta
in silenzio. La sento respirare,
avverto il dolore allo stomaco più profondo ma non mi lamento,
sono troppo
concentrato su di lei. Lei che torna a sedersi, con il capo basso, e
non parla. Ma poi, dopo un attimo, dice: «Non sei cambiato per
niente.»
Mi viene da ridere.
«Perché?»
«Dormi ancora con la bocca aperta.»
«Nemmeno tu sei cambiata.»
«Perché?»
«Perché continui a guardarmi.»
Sarah
Mi sono
svegliata in ospedale dopo sei giorni dallo svenimento, stordita, ma abbastanza
lucida da ricordare tutto nei dettagli come se non fosse davvero un ricordo.
Ogni cosa accaduta e legata a quello che so fare, quando chiudo gli occhi mi pare
succedere di nuovo in un mondo a parte, ancora nel presente.
Ma «È
passato, Sarah. Finalmente è passato tutto.» della nonna mi ha rassicurato del
contrario. Mi ha abbracciato, lei forte, io inferma, lei forte, poi finalmente
forte anch’io, a stringere con un braccio lei e con un braccio il nonno, che
piangeva per noi.
Ricorderò
per sempre anche questo.
«La
storia delle pietre nere è antica come il mondo, è nata
con il mondo.» La voce di Joseph Scott in realtà Sullivan
è tranquilla anche se grave.
Martin l’ha sempre creduto suo padre, Martin l’ha creduto
l’artefice di tutti i
nostri problemi quando lui, ancora prima di noi, pensava a risolverli.
A
trovare la chiave. A disattivare il congegno. Mi mostra dei vecchi
fogli ingialliti con parole dall'inchiostro sbavato e sbiadito, disegni
antichi. Il volto di una donna dagli occhi azzurri e i capelli
neri. «Lei,
Alisia, è nata con quello che Joshua ha fatto a te, portando la
giustizia e la grazia. Oltre a quella del suo cuore, è stata
custode delle cento pietre nere rimaste. Diventata anziana, le ha
spartite alle famiglie nobili del suo villaggio: gli Harvey, i Tyger, i
Powell, i Jenkins e i Silvers, che avevano il compito di mantenere
l'esistenza delle pietre assolutamente segreta. Nel corso dei secoli,
le pietre sono state usate, e ogni famiglia controllava l'altra in modo
che esse fossero usate per buoni scopi. In modo che le pietre fossero
sempre conservate nello scrigno dell'argento di luna, per equilibrare
bene e male. Ma come sai, a un certo punto qualcuno ha fatto un errore
e quell'errore... Tutto questo, Sarah, deve restare segreto come lo
è sempre stato. Ormai tu sei l'ultima, e l'ultima pietra nera
è dentro di te.»
«Mi sta
chiedendo di mantenere segreto quello che io ho sempre voluto nascondere, non
cambia molto da quello che ho sempre fatto.» Joseph, i capelli cortissimi e
neri, il naso sottile e gli occhi gentili, mi sorride paziente. Non gli ho
fatto alcuna domanda; Martin non ha ancora avuto modo di parlare con lui, e non
voglio fare domande che non sono mie. È una cosa che appartiene a Martin e non
a me, anche se ci sono cose di noi che si appartengono le une con le altre.
«Senza,
però, crederlo una condanna.»
Abbasso
gli occhi. «Mi ha condannato…»
«La disgrazia che ci ha colpiti ti ha dato un dono e
tutti i grandi doni condannano, sempre, chi li possiede. Il tuo è oltre
l’umano, oltre il possibile. E per questo ti abbiamo sempre protetta.» Resto
senza fiato, incapace di formulare una risposta in pochi secondi. Quando parlo,
viene fuori qualcosa di balbettato, incomprensibile anche per me stessa.
«Come…
come…»
«Joseph?» Qualcuno bussa alla porta.
«Entra
pure, Patrick.»
La porta
si apre e un uomo alto e robusto entra nella stanza. Ha una barba folta e
bruna, occhiali che andavano di moda una ventina d’anni fa e un sorriso
gentile. E lo conosco già.
«L’autista
del bus,» sussurro incredula.
«Sì, proprio
io. Sono contento che stai bene.» Mi porge la mano ed io gliela stringo,
incapace di trattenere un sorriso gioioso. Il signor Patrick mi chiedeva sempre
come andava la mia giornata, si accontentava dei miei mugugni, delle mie parole
a metà.
E mi ha
vista sedermi vicino a Martin tanto tempo fa.
Mi ha
vista ridere insieme a lui.
«Grazie,»
riesco a dire.
«Guido
quel bus da quando eri piccolina.» Lascia la mia mano.
«Quindi lei…»
«Sono
diventato autista per necessità, per aiutare Joseph e tutti gli
agenti a tenere le cose sotto controllo. Prima mi occupavo di
paracadutismo, ero anche
l’istruttore di Marlene.»
Joseph
annuisce, il sorriso non scompare dal suo viso. «Marlene,» dice il suo nome
con lentezza, come se lo stesse accarezzando con le labbra. «Adorava volare.»
«Era nata
per volare. E prima o poi tutti spiccano il volo,» dice Patrick.
Joseph si
alza ed apre la porta, io lo seguo in corridoio insieme a Patrick.
«Ci
vedremo fra una settimana per il processo,» continua Joseph. «Ci serve una
copertura per i giornali. Hans e Cameron hanno denunciato la
scomparsa tua e di Martin, i telegiornali hanno parlato di voi e…»
«Che
genere di copertura?» domando. Mi si contorce lo stomaco al pensiero di altri
giornalisti, altre domande, di flash che acceca gli occhi.
«Ci
sarà il processo e tu dovrai testimoniare contro Joshua,» mi rivela Joseph.
«Dovrai raccontare del rapimento, omettendo ovviamente le sue ragioni. Lui è accusato
dell'omicidio dei poliziotti che si trovavano con i tuoi genitori,
delle minacce a tutti gli ospedali della città per non farti alcuna
risonanza elettromagnetica in modo da non farti scoprire che cosa ti
aveva fatto. E
verrà processato
per omicidio, quello di Marlene…» Gli si rompe la voce, un
foglio strappato in
un pomeriggio di sole di tanto tempo fa. «… di Louis e
dell’infermiera che stava per visitarti quel giorno.»
«Ora Joshua appartiene alla
legge. E la legge lo giudicherà,» continua Patrick.
Joshua è già stato il giudice della sua
vita.
«Si
sarebbe consegnato lo stesso.»
«Tu dici,
Sarah? »
«Ho sentito tutto.»
Mi torturo
una ciocca di capelli fra le dita, mentre lascio scorrere i ricordi della vita
di quell’uomo, una pedina del male. Ho visto tutto.
Con Julia, la prima volta, ho sentito dolore. Con Hans, la seconda volta, ho
visto un ragazzino che, rannicchiato in un angolo buio, sognava i giochi che
non poteva avere. Con quel cane, la terza volta, l’agonia mi ha travolta
insieme ad immagini indistinte, prive di colore. Con Joshia Silvers – è quello
il nome del suo cuore – ho assistito alla distruzione della sua vita.
Alla
distruzione della nostra.
Ma puoi
restare vivo anche quando la tua vita è distrutta. E allora spetta a te
scegliere: morire fra le tue rovine o andare via con i cocci fra le mani. Cocci
che ti ricordano chi sei, chi eri una volta.
Per
rinascere.
Per
ricostruire.
Odiare
Joshua Silvers, volere la sua morte e il suo male, mi si presenta come
un diritto. L'odio mi ha travolta quando Joe mi ha tenuta rinchiusa. Mi
ha travolta quando mi ha spiegato cosa intendeva fare. Mi ha travolta
mentre svenivo per lo sforzo di far smettere, smettere per sempre, quel
teatro di orrore. Ma ora che so che il vero Joshua ha fatto solo un
errore, quello di dimenticare di proteggersi, sbaglio ad odiarlo? È
una reazione naturale, come sarebbe quella di aggrapparmi al cornicione
se qualcuno mi spingesse via per farmi precipitare... è uno dei
tanti modi per non morire, per far vivere la mamma e il
papà.
Non mi
fanno altre domande. Semplicemente, mi salutano e mi lasciano camminare per il
corridoio da sola, verso l’uscita.
***
È un bel pomeriggio, questo; soleggiato,
inebriato di profumi, con un venticello piacevole che accarezza la pelle,
un’aria fresca che passa dai vetri aperti.
«Dai, forza,» la incito.
Julia, i capelli rossi disordinati sulla
camicia da notte azzurrina, si morde le labbra in un’espressione pensierosa,
che non può raggiungermi perché mi ha già superato.
«Cameron è già arrivato?»
«Ehm…» Mi alzo dalla sedia, mi avvicino a
lei e metto le braccia conserte. «Sarà in strada, penso. Ci facciamo trovare
nel cortile, che ne dici? Almeno prendi un po’ d’aria.»
Finalmente i suoi occhi marroni incontrano
i miei. Sono dolci, vispi.
«Nah.»
Si stende sul letto e si rigira fra le
coperte.
«Ju…»
«No.»
Le poso una mano sulla spalla. E' magra,
Julia, sento le ossa attraverso il tessuto in cotone del camice. Sarà
bellissimo quando tornerà a fare le gare, e vincerà e a volte perderà, ma noi
saremo sempre lì a tifare per lei.
«Dai, è un pomeriggio bellissimo.»
«Sarah…»
«Coraggio…»
«Mi fa ancora male.»
Lascio ricadere la mano sul fianco.
Sospiro e resto in silenzio, aspetto che il vortice di emozioni che mi travolge
mi ricongiunga in una leggera folata di vento, la stessa che adesso mi muove
leggermente i capelli. Il senso di colpa. Julia ed Hans in un letto di
ospedale. Julia ed Hans in pericolo a causa mia. Ed anche Martin, Cameron, la
madre di Martin…
«Sarah…» Julia si volta di nuovo a
guardarmi, il viso bianco e ovale, le labbra rosa e un po’ screpolate per le
medicine distorte in una linea incerta. «A cosa pensi? »
«Mi dispiace… che ti fa ancora male la testa per...»
«Non fare quella faccia.»
«Quale faccia?»
«Quella
triste. Quella che fai quando
pensi che è tutta colpa tua.» Scuote la testa, i capelli
rossi e ricci sul
cuscino bianco. «Sei proprio una a cui bisogna mettere le cose
sotto il naso,
per fartele vedere.» Sorride e poi si mette seduta. «Tutto
è nato da un unico, piccolo sbaglio che si è ingigantito
e ha travolto i tuoi genitori e poi te e poi noi. Ma tu, nella paura,
ci hai salvato.
Ci hai salvato la prima volta, quando pensavi di ucciderci. Ci hai
salvato per
sempre quando Joshua mi ha colpito, quando Hans è stato sparato:
il nostro
corpo ci ha protetto perché tu, un giorno, ci hai dato la
possibilità di
scegliere se meritavamo di vivere, e quella possibilità è
stata eterna. Lo
hanno detto i dottori. Da bambina ti ho odiata, ma poi ho odiato ancora
di più me. Sei un po' una frana con le relazioni sociali e le
battute divertenti ma... Tu sei speciale, Sarah, e non solo per quello
che Joe ti
ha messo nel cuore. Perché hai salvato anche Martin senza fare
niente di quello
che hai fatto a me e ad Hans. Hai salvato Martin perché lui
aveva bisogno di te
e tu c’eri. Ti abbiamo aiutato e tu ci hai salvati per sempre.»
Mi mordo l’interno della guancia in quella
strana abitudine di coprire con un po’ di dolore fisico l’emozione di quello
che ho appena sentito, come ho sempre fatto quando mi sono trovata ad essere
perplessa, interdetta, incapace di dire qualcosa che avesse un senso. Hai salvato
tutti, Sarah. Sembra un sogno, un sogno appena costruito, venuto al mondo senza
essere spezzato, contaminato, spazzato via. Ci hai salvato per sempre.
«Grazie. »
Un rumore. Nocche contro legno. Qualcuno
bussa alla porta ed io, istintivamente, mi alzo dalla sedia, quasi mi
aspettassi di dover essere pronta a scappare… come se volessi correre fra le
braccia di qualcuno e nascondere il mio sorriso nel vestito di qualcun altro.
Immagino mia madre con un vestito bianco,
non so perché. Un vestito bianco e un profumo di pesco, rose, e immagino le sue
mani con la fede alla mano sinistra. La immagino con i miei occhi anche se è
bella al limite del divino. Immagino che sia ancora qui con me per dirle che ce
l’ho fatta, che sto bene.
«Si può?» Una voce amichevole cattura le
mie orecchie. Ha un tono basso, familiare, allo stesso tempo dolce e appartiene
al ragazzo che ha appena aperto la porta, anche se giusto il poco per basta per
infilarci la testa. Da quella posizione può vedere solo me. Ha il suo solito
cappellino con la visiera portato al contrario e un sorriso largo gli
attraversa il volto. Ispira simpatia anche nel modo in cui respira. «Oppure
stavate…»
«Entra, Cam, » gli dice Julia. Gli occhi
le si illuminano. «Anzi, già che ci sei vai alla macchinetta nel reparto pediatrico e prendimi uno
yogurt al cocco. »
«Ma…»
«VAI, Cameron.»
Cameron scrolla le spalle, la maglietta
rossa che gli si alza un po’, e chiude la porta.
Rido. È una cosa spontanea, una cosa che
adesso fa parte della mia vita. «Come lo sfrutti.»
Julia alza le braccia per stiracchiarsi.
«Dovrà pur far qualcosa, no? »
«È stato qui giorno e notte ad aspettare
che ti svegliassi. »
«Ed io aspettavo di svegliarmi per
rivederlo quindi questo è il minimo che può fare.» Annuisce a se stessa, come
se avesse detto qualcosa di grande valenza filosofica. Io scuoto la testa,
aspetto che lei dica qualcos’altro quando in realtà prende il telecomando,
accende la tv e cambia sul canale della musica.
«Non essere troppo dura con lui.»
«Sarah… » Si tocca il polso destro con
l’indice dell’altra mano. «È ora! Non avevi un appuntamento?»
«Mi stai cacciando?»
«Sì, Sarah.»
«Ma io… tu…»
«Ti devo un intero pomeriggio di shopping.»
«Julia…»
«Ti voglio bene, Sar.»
«Ti voglio bene anch’io.»
***
Martin,
Doreen e Joseph sono già entrati nella sala, i miei nonni mi
aspettano. Il processo sta per cominciare ed io mi impongo di non
pensare a niente, fino a quando non sarò lì dentro. Fino
a quando tutto non sarà finito per davvero.
«Sarah?»
Questa voce non appartiene a
Joseph, non appartiene a Patrick, non appartiene a nessuna delle
persone che mi aspetterei in questo momento. Alzo lo sguardo e vedo, a
pochi metri da me,
Yvonne. Yvonne, con un livido violaceo sullo zigomo, la bocca
semiaperta in
segno di aspettativa e gli occhi cerchiati di stanchezza. Eppure,
bellissima.
Bellissima.
«Sì,» le
dico.
I suoi
occhi si fanno lucidi.
Una
lacrima scende sul volto di Yvonne, taglia in due il suo livido e quasi sembra
guarirlo.
«Prima di tutto questo... lui amava tua madre,» sussurro.
«Che cosa
sono, queste?» I suoi occhi sono pieni di lacrime, pieni di rabbia. «Parole di
compassione? Cameron mi ha già raccontato tutto ed io non voglio la tua pietà. Testimonierai
contro di lui, non è vero?» mi chiede, alzando la voce. Non ce la
faccio a mentire e faccio segno di sì con la testa, senza guardarla.
«Lo
immaginavo. L’hanno chiesto anche a me.» Ride, altre
lacrime rigano il
suo volto magro. «E si sono sorpresi quando ho detto che non
l’avrei fatto! È
mio padre, Sarah…» Le tremano le labbra.
«Mentirò. Io so che non era davvero lui.»
Come se
non avessi più fiato, comincio a respirare
affannosamente, incapace di capire. Quel livido sul suo volto, la sua
magrezza,
le ferite dentro di lei… tutte a causa di Joshua. Mi fa male lo
stomaco, per quanto lo odio. Mi pulsano le ossa, per quanto vorrei che
non avesse mai incontrato le nostre vite.
«Se i
tuoi genitori fossero ancora vivi, non li rivorresti indietro?»
dice ancora,
con la voce spezzata. «So che testimonierai, so che dirai quello
che dovrai
dire ma… per favore, per favore, di' la verità. Di’ che era pazzo, folle, che non
sapeva quella che faceva… che non era in sé. Tu lo sai e forse… forse potrebbe
salvarlo.»
Guardo
Yvonne mentre mente. Il livido come il
segno di un bacio forte, il fondotinta non basta a coprirlo, i capelli biondi
sciolti, la sicurezza nella sua voce.
Mente,
Yvonne.
«Può
andare, grazie,» le dice l'avvocato.
Ma nessuno
le crede.
Ha già
testimoniato Doreen, poi Joseph, l’ha seguito Martin ed ora…
«Pierce
Sarah Agnes.»
Mi alzo in
piedi, tremante, gli occhi di tutti sono su di te. Va’ lì e racconta la verità.
Giura sulla Bibbia. Guarda Martin da lontano, cerca gli occhi dei tuoi nonni.
Pensa ai tuoi genitori.
Fa’ la
cosa giusta.
Sono al
banco dei testimoni. Ho giurato sulla Bibbia, anche se non dirò tutto il vero. Ho
guardato Martin da lontano, ho trovato lo sguardo rassicurante dei miei nonni.
Ho pensato alla mamma e al papà, anche se non li ricordo.
Ed ora, i
miei occhi incrociano quelli azzurro ghiaccio e provati di Joshua Silvers. L’avevo visto
solo di spalle, prima; dopo quel giorno, questa è la prima volta che lo
guardo.
I suoi occhi sono tornati quelli del ragazzino che credeva di amare mia madre.
Sono tornati quelli dell'uomo innamorato di Cassidy Grace.
«Ricorda
che cosa successe il cinque aprile sera, signorina Pierce?» mi chiede l’avvocato
della difesa, scelto per formalità.
«Sì.»
Faccio un respiro profondo. «Stavo aspettando che Martin Scott salisse a casa, e
visto che tardava ad arrivare sono scesa. Ho attraversato la strada e sul
marciapiede opposto c’era quell’uomo. Prima che potessi cercare di scappare, mi
ha preso per il braccio e mi ha messo un fazzoletto imbevuto di narcotico sulla
bocca…»
Stanza
bianca.
Una cella.
Minacce.
Richieste
di riscatto.
Poca
verità
E bugie.
Poi il
silenzio.
E il cuore
che mi batte forte.
Lo sguardo
di Joshua Silvers che mi accarezza affranto.
Ha ucciso
i tuoi genitori.
«Grazie,
può andare.»
Lo sguardo
di Yvonne che graffia.
Ha
distrutto la tua vita.
Resto
ferma.
Gli occhi
di Yvonne sono artigli; mi tengono stretta, stanno per ferirmi. Se i
tuoi genitori fossero ancora vivi, non li rivorresti indietro? mi chiede il suo sguardo.
Sospiro.
Non è la
vendetta, a pagare per le perdite.
Ma la
giustizia, che a volte non arriva.
«Joshua Silvers non era
in lui,» dico al microfono. «Ho capito subito che era folle, che una persona
sana di mente non avrebbe mai agito in quel modo. Parlava, diceva cose senza
senso… deve essere pazzo.» Un altro respiro. «Ne sono convinta.»
Tutta la
sala sprofonda nel silenzio; passano due, quattro, dieci secondi, poi
l’avvocato mi dice: «Può tornare a sedersi».
Perdoni quell’uomo
che ti ha portato via tutto?
Sono
stata
io a riportarlo indietro. Ora ha i suoi veri occhi, ora batte il
suo vero cuore... il nero l'ha portato via per diciassette anni, ma
quello che ha portato via non potrà più tornare indietro.
Cammino
verso Martin.
Mi fa male lo stomaco, mi pulsano le ossa. Ma non provo più odio, perché non ha senso.
Ho
pietà
di Joshua Silvers e so cosa c’era nella sua mente, so cosa
animava la sua
vendetta, so chi
era, so cosa ha fatto anche se voleva fermarsi, e l’unica persona
che è
riuscito a non uccidere – perché l’amore è
più forte, l’amore è la colonna
eterna che non fa cadere mai il cielo – è stata sua
figlia. Joshua Silvers è riuscito a fermare il male, quel giorno
dopo anni, davanti a noi, per non farla morire.
Perché non per la mamma, perché non l'hai fatto per
papà, Joshua? Perché non per Louis, perché non per
Marlene? mi chiedo ancora. E dopo questi anni, dopo aver saputo
che la colpa di tutto
questo è di qualcosa al di sopra di tutti noi, della pietra
nera, del male che ha vinto grazie alla dimenticanza di un ragazzo che
aveva solo quattordici anni, dovrei continuare
a vivere nel dolore? Ancora odio? Ancora, ancora e ancora?
L'odio non uccide
chi si odia ma chi prova quel sentimento, perché porta dolore.
Ed io ho vissuto nel dolore per troppo tempo.
Per questo, guardando al mio futuro; per
questo, guardando al mio passato, io voglio perdonare quel ragazzo di quattordici anni dagli occhi azzurro ghiaccio.
Mi siedo
accanto a Martin, che sa già tutto. Intreccia le sue dita alle
mie e sto bene. Sto
bene così, per ore, mentre aspettiamo il verdetto e Doreen viene
accanto a noi
ed io me ne sto così, con la testa poggiata sulla spalla di
Martin, la mia mano
nella sua, e lei mi accarezza il viso come se fossi figlia sua.
«Non c’era
bisogno che dicessi anche quello, piccola,» mi dice. Scuoto la
testa. Dovevo, sentivo che dovevo e volevo farlo anche se non so se
è giusto, non so cosa sia la giustizia per davvero.
Per questo, guardando al mio futuro; per
questo, guardando al mio passato, io voglio perdonare Joshua Silvers.
Questa è la mia giustizia.
Ma quando
rientra il giudice, le sue parole raggiungono le mie orecchie e, per un
momento, restano troppo lontane dalla mia comprensione.
Trattengo
il respiro. Nella sala risuona la parola, quella parola.
«Condannato.»
E respiro.
Quello che
sui documenti è conosciuto come Joshua Stewart, con l’anima di Joshua Silvers,
si alza dal suo posto. Tutti si alzano in piedi e presto lo vedo uscire dalla
porta seguito dai poliziotti, tranquillo come se stesse per tornare finalmente
a casa.
Martin
viene richiamato da Doreen e lascio che vada, poi vedo Yvonne e mi si stringe
il cuore come se stessi invecchiando tutto in una volta.
Mi alzo, corro.
«Yvonne,»
la chiamo. Fissa i suoi occhi nocciola nei miei, arrossati ma asciutti; non ha
più lacrime. «Io ho parlato.»
«Ho sentito,»
dice piano.
«Mi
dispiace,» dico sinceramente, e avvicino la mano per toccarla in segno di
conforto, ma lei si scosta.
«È
stata
fatta giustizia, lo so che questa è la giustizia. Chi ha fatto
del male, paga. Anche se
non era lui, non era lui, lui non l’avrebbe mai fatto...»
Le si spezza la voce. «E smettila di guardarmi
così...» Cerco di dire qualcosa, mentre la
rabbia e la
tristezza e la delusione si dipingono sul suo viso nello stesso
istante,
distorcendo la luce del suo volto, anche se la sua espressione resta
immobile.
È la sua voce, a cambiare. Se i
tuoi genitori fossero ancora vivi, non li rivorresti indietro? Suo padre è in vita, ma ora che è salvo dal mostro che era in lui, lei non può averlo. «Dispiace più a me.»
La sua voce è in frantumi,
mille pezzi d’anima.
***
Martin.
Seduto in
corridoio, aspetto Sarah, aspetto me. Non riesco a stare fermo. Muovo le gambe,
mi passo una mano fra i capelli, guardo l’orologio, passo il cellulare da una
mano all’altra. Sto tremando e non riesco a pensare.
«Ciao,
Martin.» Si siede accanto a me, quest’uomo. «È finita davvero, stavolta.»
Quest’uomo che, per diciassette anni, è stato mio padre. «E non abbiamo ancora
parlato, dopo tutto il da fare che c’è stato…»
«Già.»
Tossisco. La mia mente, prima vuota, ora si riempie dei momenti più assurdi.
Lui e Doreen. Lui, composto e rigido, con il sorriso trattenuto sul volto e
Doreen, invece, che gioiva guardandomi crescere.
Come ho
fatto a non accorgermene?
« Sai… che
non sono tuo padre.» Sospira. «Non lo sono mai stato. »
Lo guardo.
Sembra così vecchio: è scomparso l’uomo d’affari sempre impegnato, quello che
non aveva nemmeno il tempo di ascoltare una parola, di guardarmi. L’uomo che si
è preso cura di mia madre, che si è preso cura di me. Il padre che mi stava
lontano per cercare Joshua Silvers, per impedire che mi facesse del male, per
impedire che ne facesse a Sarah.
«Non avevi
tempo di farmi da padre.»
«No, io ho
scelto di non esserlo. » Se ne sta con le spalle incurvate, le braccia fra le
gambe, come se avesse ricevuto un pugno. Siamo tutti uguali, quando raccontiamo
i segreti. Mia madre, – la mamma, la mamma – mentre raccontava tutto, era nella
stessa posizione. «Tu sei il figlio di Louis e Doreen. Louis è morto. Eravamo
come fratelli ed io… io non ce la facevo, a prendere il suo posto. Non ce la
facevo ad essere lui. Anche se, senza Marlene, un posto nella mia vita non ce
l’avevo più. Ed ho aiutato te e tua madre, per Marlene, per Louis, per Doreen e
poi per te.» Mi guarda, e mi sento
scavare dentro, perché anche se non si è mai comportato da padre, per me lo
era. Era il motivo per cui non mi impegnavo a scuola, il motivo per cui non
pensavo a niente, il motivo per cui fingevo che andasse tutto bene. Era mio
padre, ecco quello che sapevo, ed io volevo averlo. «L’ho fatto per te. La sera, quando tornavo, trovavo un bambino
addormentato sul tappeto con Doreen in cucina e mi dicevo, non devi essere tu, tu non sei suo padre, ma poi ti prendevo in
braccio e ti portavo a letto; trovavo un ragazzino che russava sul divano, e
somigliavi sempre di più a Louis, Louis, il mio migliore amico, e ti coprivo
con una coperta. Ti ho sempre voluto bene, Martin. È stato così difficile allontanarmi,
controllarmi, non essere Louis quando potevo anche esserlo. Sono rimasto
nell’ombra, come se fossi morto anch’io. Io e Doreen ti proteggevamo con una
vita costruita, ma la tua vita vera ce l’avevi davanti agli occhi. Eravate tu e
tua madre.» Si passa una mano sulla fronte. «Tu e tua madre, io non c’entravo
niente. Io non sono nulla. Doreen non è Marlene. Tu sei il figlio di Louis, mio
figlio non ha avuto nemmeno il tempo di nascere, di cominciare a vivere. Attaccato
alla mia vecchia vita, ho permesso che tu mi odiassi.» Sospira forte, volta la
testa. Ti ho odiato. Mi mordo la lingua. Si odiano sempre, le cose che non si
riescono a capire davvero. «Non dovevo.»
Silenzio.
Pesa così
tanto.
Pesa così
tanto lo sguardo di quest’uomo, è mio padre, è così che mi ha voluto bene,
anche se un padre non lo è stato mai, ed io non ce la faccio a guardarlo,
perché so tutto e non so come fare. Come faccio a fargli capire che non posso
che provare gratitudine, adesso? Che se lui non ci fosse stato, chissà quando sarei
morto… chissà cosa sarebbe successo a Sarah, chissà come avrebbe fatto la
mamma…
«Joseph,» riesco a dire. «Non importa che cosa hai sbagliato, perché… hai fatto
delle cose giuste. Ed anche se il mio vero padre è morto, tu sarai sempre un
padre per me.»
Pesa così
tanto, il dolore. Ma nell’abbraccio forte in cui Joseph mi stringe – come un
padre, come se fossi davvero suo figlio – sembra dissiparsi, la nebbia
attraverso cui hai imparato a vedere davvero.
*
*
*
*
Ciao a tutti, Untiliani :D (Vi chiamo così, se non vi piace ditemelo xD)
Questo capitolo è importantissimo,
e di sicuro capite perché. Spero che vi sia piaciuto e che sia
risultato chiaro il percorso psicologico di Sarah per quanto riguarda
il suo atteggiamento verso Joshua. Ci sono stati altri chiarimenti
sulla pietra nera; ho preferito distribuirli in modo da non riempirvi
di informazioni tutte in una volta, spero che vada bene :) Abbiamo
visto Sarah e Yvonne interagire nuovamente e, casa che mi sta molto a
cuore, il dialogo fra Martin e Joseph Scott in realtà Sullivan.
Da un po' sto pubblicando dei capitoli che mi hanno fatta piagnucolare
un po', spero davvero di avere la vostra comprensione *^* Che ne
pensate di Joseph? :3 E... Hans ed Yvonne? :3
Manca
poco alla fine... spero davvero che la storia vi stia piacendo.
Ringrazio ancora chi preferisce, ricorda e segue la storia, aumentate
sempre di più *-*
I ringraziamenti mirati li avrete alla fine di tutto, per ora sappiate che vi adoro tutti :)
Un bacio
Vostra Ania :3
p.s se cliccate qui, potrete vedere un piccolo video che ho realizzato per la storia, fatemi sapere se vi piace *-*
|
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Capitolo 27 *** 26. Ritorni ***
until 28
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
26.
Ritorni
La porta si apre silenziosa, il cigolio
esiste solo nella mia mente; è il rumore del legno che si contorce, una
superficie che sta per spezzarsi e che mi farà cadere nel vuoto. Forse sto già
cadendo ed è colpa mia. Chi crede in Dio pensa che
lui sia sempre con noi, fuori di noi, dentro di noi. Chi crede in Dio pensa che
lui guidi le nostre azioni verso il bene, il vero, la giustizia, contro il
male. Ed il male è esattamente come Dio e, questa volta, ha preso il suo posto.
Ha ucciso i miei genitori, ha ucciso il padre di Martin, ha ucciso la moglie di
Joseph. Ha spogliato Yvonne dell’infanzia, ha
spazzato via la gioia di Hans, ha fatto vivere Martin in una vita che non
esisteva. Mi ha dato come speranza la solitudine.
«Sarah, perché tremi? »
«Non lo so, Martin, non lo so.»
Mi
abbraccia. Io mi aggrappo alle sue
spalle con gli occhi chiusi a sfregarsi contro la sua maglietta e non
voglio
piangere. Ho freddo e sto tremando e vorrei che ci fosse giustizia
vera. Vorrei che i miei genitori non fossero mai morti. Vorrei che
Julia non mi avesse mai odiata, vorrei che Martin avesse
sempre vissuto la vita che doveva avere, vorrei che Yvonne fosse
cresciuta con
felicità, vorrei che Hans non fosse mai stato lasciato solo, vorrei che i miei
genitori non fossero mai morti. E vorrei che Joe non avesse perso la sua
famiglia, vorrei che nessuno prima di lui si fosse avvicinato alle tenebre…
vorrei, vorrei, vorrei, ma non posso avere niente di tutto questo. Ci sono io,
che non sono più sola. Yvonne, con un padre in prigione. Hans, che è rimasto
ferito e Julia, che si è messa a rischio.
«Io non so niente sulla giustizia.»
«Lo sai, invece.» Non farmi
cadere, non farmi cadere. Il legno cigola, il legno si piega, non resisterà. Mi
stringo a lui. Litiga con la mia testa fissa sul suo petto, io come una bambina
capricciosa che non vuole guardare in alto per paura di un rimprovero. Ma mio
padre è morto, non posso essere piccola. Ho diciassette anni e non sono mai
stata una bambina.
Martin mi respira, una sua mano sotto il
mento, l’altra fra i miei capelli ad accarezzarmi la nuca. Tremo, tremo e lui
mi sfiora le labbra con le sue.
La sua presa è delicata eppure
so, sento, che anche se la superfice sotto di me cedesse, la forza di gravità
non sarebbe abbastanza forte per farmi allontanare dalle sue braccia. «Sar, hai soffocato l'odio per quell'uomo che io
continuo ad odiare, cercando di aiutare Yvonne anche se era ovvio che
sarebbe stato inutile ed anche se nessuno ti obbligava a farlo. Hai visto il mostro dentro di lui... spero, un
giorno, di riuscire a fare quello che hai fatto tu.»
Poggio le mani sulle sue spalle, fronte
contro fronte, respiro contro respiro, i suoi capelli biondi che mi sfiorano le
guance. C’è fiducia, nei suoi occhi, e speranza, e un calore immenso si propaga
dentro di me perché so che non mente.
«Joshua
ha deciso di tornare. Yvonne ti ha
chiesto di parlare, tu l’hai fatto. Non è bastato, ma
l’hai fatto.
E Joshua ha pagato... di tutti quelli rimasti, la colpa più
grande era sua, anche se partita da qualcosa di più grande di tutti noi. Quello
che sai fare, Sarah, quello che c’è nel tuo
cuore...» La mano che mi tiene
il mento scende sul collo, poi ancora più giù. «Non
lascerò che ti metta in
pericolo. Mio pad... volevo dire Jospeh, sì, mi ha detto che i manoscritti del circolo del nonno di tua madre sono stati
bruciati, tutto quello che farò e faranno,
d’ora in poi, sarà per metterti al sicuro. Io farò
qualunque cosa per tenerti
al sicuro, Sar.»
Al sicuro. Tremo nel mio sorriso. Al
sicuro.
«… Anche se non dubito,» aggiunge. «Che in
caso di pericolo, sarai tu a salvare me.»
Hans
È
un po’ strano, essere di nuovo qui. Come
se la pallottola mi avesse iniettato la vita e non la morte. Come se,
quando ho
aperto gli occhi, avessi deciso di non perdermi più niente.
Sarah è venuta a vedere come stavo, ed io mi sono sentito
improvvisamente congelato: c'era freddo ovunque dove prima, invece, c'era un
sogno.
La polvere dei sogni spezzati non se ne va mai davvero, ma poi ci sono
dei sogni che devono ancora nascere, che devono ancora crescere, che
potranno vivere.
Sfioro le corde della chitarra con
delicatezza, poi più forte, di nuovo più piano; mi gusto la sensazione di
sentire la consistenza liscia e rigida di questi fili che fanno musica.
Eppure qualcosa manca. Qualcosa manca e
non è possibile, non è possibile perché sto suonando la mia chitarra ed è
quando lo faccio che i pezzi si incastrano e tutto va bene, anche solo per un
minuto, anche solo per un istante, il tempo di una canzone. Non riesco a stare
fermo, muovere solo le mani non mi basta, devo… devo uscire, fare una
passeggiata, prendere aria.
Apro la porta, la chiudo alle mie spalle e
mi inoltro nel corridoio. Le finestre sono chiuse perché è notte, e l’aria
fredda gela le anime, e qui ce ne sono tante che hanno bisogno solo di una
coperta sulle spalle, qualcuno con cui parlare, chiudere gli occhi a sapere che
domani qualcuno ti augurerà una buona giornata, anche se buona non lo sarà per
niente. Perché siamo tutti sogni infranti, bambini non voluti, figli che non
dovevano arrivare, fonte di delusione per ogni passo e respiro.
Mi
cade di nuovo tutto addosso, come se
fosse la prima notte che passo in questo istituto. Posso ancora essere
il bambino di quattro anni che ha cambiato casa troppe volte. Un mare
di schegge di paura cade sul mio
corpo pallido come allora, anche se sto diventando uomo.
Qualcosa manca. Sospiro. Qualcosa.
Un gemito.
Volto la testa.
Qualcuno.
Sembra un miagolio, all’inizio. Un gatto
che ha troppa fame e non resiste più e guarda verso l’alto, dove le finestre
sono aperte e qualcuno lo sta guardando.
Il suono mi porta a fermarmi davanti
alla porta del bagno delle ragazze. Sento una morsa imprigionarmi lo stomaco.
Mi manca qualcosa.
Apro la porta.
Qualcuno.
E
allora sento il mare delle schegge del dolore che mi tranciano la pelle.
Una carezza di vetro, il riflesso di una lama affilata che sembra un
sorriso e poi, senza lasciarmi il tempo di esalare un ultimo respiro,
affonda
nella carne. E rimane in gola, quest’ultimo respiro. Mi resta il
rimpianto,
sopravissuto a tutto e a tutti e alla morte e alla vita per tutto
questo tempo,
di quest’ultimo, maledetto respiro. Perché lei è
qui.
Lei è qui e se ne sta
rannicchiata in un angolo e piange, piange ed è come il miagolio
di un gatto ed
io non posso guardarla, non posso guardarla così…
«Yvonne.»
So come sono andate le cose.
Alza gli occhi. Lucidi, rossi di sangue,
grandi e dolorosi. Mi tengo in equilibrio sui talloni e la prendo per la
spalle, la scuoto, guardami, lei con gli occhi lucidi, grandi, rossi,
«Guardami, Yvonne.»
La
finestra è aperta, il marmo del
pavimento è freddo contro la pelle e lei guarda in alto, nel
buio, illuminata
solo dalla fioca luce dei lampioni che riesce a raggiungerla dall'esterno. E guarda
in alto, batte i denti come se fosse in strada senza giacca
in inverno, e piange con quel suono che mi fa sciogliere le viscere.
Miagola,
Yvonne, e guarda in alto; qualcuno mi guarderà,
dicono i suoi occhi. Ma tutti
sanno che cosa fanno le persone quando vedono un gatto che miagola
fuori dalla
finestra: gli buttano del cibo se sono generosi e poi tornano dentro.
«Guardami, Yvonne, guardami. Guardami, Yvonne…
Vonnie…»
Guardami.
Sospira. Sembra che stia facendo uscire
tutta l’aria che ha nei polmoni.
E poi ho i suoi occhi.
I suoi occhi nocciola,
ora arrossati, umidi di lacrime. Sono miei, e mi guardano. E non ti chiederò
che cos’hai, non ti chiederò quello che ti strazia, non ti salverò, Vonnie,
perché non so come si salvano le persone. Ma sono qui e non me ne andrò mai.
Fino a quando ci sarai tu io sarò qui ed io ti guarderò. Non chiuderò la
finestra, non ti lascerò fuori. Le accarezzo il viso con il palmo delle dita.
Ti stringerò forte fino a quando non mi chiederai di smettere perché non riesci
più a respirare, ed io sarò felice, perché in quel momento saprò che vuoi vivere.
La abbraccio.
È uno scontro docile. Due corpi che si
incontrano, si sfiorano, e poi restano vicini. Sono troppo
rumorosi, questi respiri. È troppo rumoroso il suo affanno, anche se non piange
più, e il mio respiro, il mio respiro sulla sua pelle che profuma di
margherite, fumo, zucchero a velo.
Margherite, fumo, zucchero a velo. La sua
testa contro il mio petto, lei rannicchiata tra le mie braccia, gli scossoni di
un pianto senza lacrime che la fanno respirare affannata. Me la porto via in braccio, perché stanotte sono solo io quello
cresciuto; Yvonne è ancora una bambina, è ancora piccola, ed è leggera e
bellissima. Ha di nuovo i capelli castani dai riflessi color rame, come sua madre Cassidy Grace.
Sento ancora l’eco dei miei passi nel
corridoio, quando apro la porta della
sua stanza e, piano, la adagio sul letto già in disordine. Stringe le gambe e,
voltandosi, si abbraccia le ginocchia.
Le accarezzo i capelli, la copro con la
coperta, le sfioro la fronte con il naso.
«Hans.» Il mio nome viene fuori dalle sua
labbra immobili. Forse sto sognando, forse mi sono addormentato accanto a lei e
quando si sveglierà si arrabbierà, mi caccerà.
Ma poi apre gli occhi con quello che all’inizio
sembra uno sbadiglio, un suono involontario per una fitta di dolore, la sua
lingua che finisce sul palato e poi scivola contro i denti.
«Hans.»
È la prima cosa che mi dice e va bene
così.
Continua a tremare e torno ad
abbracciarla, corpo contro corpo, anche se c’è la coperta a separarci.
Un singhiozzo mi spinge leggermente via.
«Ora te ne vai?» mi chiede.
Le sfioro il collo con le labbra.
«Vuoi che me ne vada?»
«Rispondi e basta, idiota.»
Non rido, non rido perché non sta bene e
sono davvero stupido a farle una domanda del genere. Allora mi sfugge un gemito
stanco, una scusa intrappolata in gola, il desiderio di dire sempre la cosa
giusta.
«Non me ne vado.»
Mi metto seduto e poi scivolo sul
pavimento. Mi chino a togliermi le scarpe, le mani mi tremano e i lacci
sembrano essere attorcigliati in dei nodi da marinaio, come se, legandoli,
avessi voluto salvarmi da un’onda anomala. O forse dal canto di una sirena, una
sirena che mi ucciderà. Ma sono abbastanza forte per liberarmene, mandare al
diavolo quelle scarpe, fare un respiro profondo e guardare davanti a me. Yvonne
ha sollevato la coperta e si è rannicchiata nell’angolo, i capelli lisci sparsi
sul cuscino.
«È buio, mi vedi?» chiede.
Mi stendo accanto a lei, mi copro con la
coperta e mi volto; mi si avvicina e posa la testa sul mio petto, è un gesto
meccanico ma non c’è niente di arido in questo. È come quando il cuore batte e
non puoi fermarlo, non puoi fermarlo se vuoi restare in vita.
La avvolgo con le mie braccia.
Ti vedo anche al buio, Vonnie.
Anche al
buio.
Martin
La campanella dell’ultima ora trilla; è il
momento in cui tutti alzano gli occhi dai fogli, dal banco, smettono di
guardare il professore che spiega e, con un respiro, si alzano dalla sedia per
correre a casa.
A casa.
Sono l’ultimo, ad alzarmi, ed è strano,
perché Martin Scott una volta aveva il piede pronto a scattare un secondo prima
che la campanella suonasse. È come se il mondo corresse alla velocità della
luce mentre io riesco a muovere i muscoli solo a rallentatore. Sono ancora
stordito.
È tutto così strano, mentre cammino per il
corridoio e qualcuno ride, e qualcuno grida, e qualcuno bacia una ragazza e
chissà se la ama, e quel ragazzo del terzo anno si volta verso di me e
distoglie lo sguardo quando si accorge che anch’io lo sto guardando. Lo sanno
tutti, ormai. E pensano di poter pensare con la mia testa, di poter immaginare
com’è adesso la mia vita. Pensano di sapere come mi sento, e provano pena per
me.
Ma non sanno…
«Ehi.»
Non sanno che va tutto bene.
La voce di Cameron è familiare, un po’
roca, come se avesse il raffreddore. È che io sono caduto e lui mi ha seguito,
come sempre da quando è nella mia vita, e quando sono riuscito ad alzarmi, io
ho aiutato lui. Julia sanguinava fra le sue braccia, mentre lui premeva la
stoffa della sua camicia sulla ferita alla testa di lei. Il nome di Julia mi è rimbombato in
testa anche quando se la sono portata via; Cameron, con le mani ancora sporche
di sangue, si è toccato la testa a pronunciare il suo nome senza sosta ed ho
capito. Ho capito me stesso guardando lui. Ho capito che cosa mi è successo
con Sarah: quegli strani ingranaggi della mente che scricchiolano fino a farti
sentire il cambiamento senza dolore. Sei solo incredulo. E Cameron era troppo
disperato per accorgersene. «Mat, e smettila con quest’aurea riflessiva. Non ti
dona.»
«Tu dici?»
«Non è da te.»
«Oggi rivincita alla play? La rimandiamo
da secoli.»
«Questo è il mio migliore amico.»
Gli do una gomitata, lui ride ed è come se
un anno intero si dissolvesse sotto i miei occhi; il tempo si restringe, i giorni
tornano indietro; la primavera non è mai iniziata ed è di nuovo inverno, torna
l’autunno. Nel cortile che attraversiamo cadono ancora le foglie, sta per
piovere e non ho l’ombrello, il pullman è già partito perché è tardi ma
sorrido, perché va tutto bene.
Perché non è più autunno e in
quest’inverno freddo ho conosciuto la ragazza che amo. Lei con i capelli
lunghi, il sorriso raro, gli occhi che splendono, le parole incastrate in gola,
le sue paure con le mie. E il tempo è passato e adesso, dopo tanto tempo, so
chi era mio padre e so chi lo è stato.
Dopo tanto tempo, so chi sono io.
Salgo le scale, il telefono vibra; Cameron
mi scrive passo dall’ospedale a trovare Julia, ci vediamo più tardi. Settimo
scalino, ottavo scalino, nono scalino… oggi niente ascensore. E so che forse
Cameron non mi chiamerà. So che forse resterà da Julia tutta la notte e lo
capirò. Per batterlo alla playstation c’è sempre domani. Ci sarà sempre un domani per dimenticare i
problemi mentre ridiamo davanti a una fetta di crostata al cioccolato fatta da
sua madre.
Prendo la chiave e la metto nella
serratura, il ciondolo con il modellino di una moto che sbatte contro il ferro.
«Martin?»
Apro la porta e mi inoltro nel corridoio.
So che questa non è casa mia. Ospite da sempre, dentro di me qualcosa mi ha
sempre detto che non appartenevo a questo posto. Ma qualcosa, qualcuno, mi ha
sempre fatto sentire al sicuro.
La luce del sole pomeridiano si riflette
sui vasi dorati, sui mobili intarsiati, sulla parete giallo chiaro; Sarah è
rimasta a bocca aperta, quando ha visto questa casa per la prima volta. E,
forse, la vedo per la prima volta anch’io. Il luogo sicuro in cui mi ha
protetto...
Lei, mia madre, che con la sua ombra ha più luce di
tutto il color oro che brilla nel corridoio.
Esordisco con un: «Ehi».
Sorride. Quel sorriso che dice mi dispiace
e sono felice nello stesso istante. Le dona, il bianco, e quella camicia non
gliel’avevo mai vista addosso. Deve averla messa a qualche colloquio con i professori anni fa, e
tutto, tutto quanto le dà luce.
Non le somiglio per niente.
«Vieni.» Stringe al petto dei fogli, mi
fa cenno con la testa di seguirla, un ricciolo scuro le sfiora lo zigomo. Io
non ho i capelli come i suoi, i miei sono un liscio moscio. La sfiga,
davvero.
Mi fa entrare in quella che è stata la sua
stanza per anni. Quella che io ho guardato sempre e solo di sfuggita, bianca e
con qualche libro qua e là, la coperta verde chiara. La stessa coperta che ora
è sommersa da libri e fogli.
Si avvicina al letto superando la caligia aperta per quando andremo via, anche se papà... Joseph le ha detto di decidere che cosa fosse perfetto per noi due. Potete restare o andarvene, come volete, e qualunque cosa decidiate avrete sempre il mio appoggio. Mia madre prende qualche
libro in mano, di quelli che si comprano in edicola e parlano di storie
d’amore. Di quelli che non prenderei in mano nemmeno se mi pagassero, uno si
chiama anche “incertezza d’amore”…
«Dovevo trovare un modo per non farti mai
aprire questi libri.» La sento sorridere, la guardo, sorride per davvero
mentre prende un altro libro in mano e il suo sguardo cade su di me. Anche gli
occhi sorridono.
«Trovata ingegnosa.»
«Be’, non apri i libri di scuola,
figuriamoci qualcos’altro, non contando il genere.»
«Io li apro, i libri.»
«Ma chi prendi in giro.»
«Dico veramente.»
«I fumetti di Batman non valgono.»
«Ma quelli li leggevo a dodici anni.»
«Eh appunto.»
«Dickinson.»
Mi passo una mano fra i capelli e lei si
sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, incrocio le braccia al petto e
lei fa un respiro profondo. Fa per parlare ma io: «Leggo anche le poesie.»
Sbatte le palpebre, il tempo di un
secondo. Quel tempo che ti serve per capire qualcosa quando non ci credi
ancora, come quando i tuoi amici ti organizzano una festa a sorpresa e tu non
sai se arrabbiarti per tutte le bugie che ti hanno detto o abbracciarli.
Il suo sorriso diventa una smorfia, di
quelle che illuminano il viso come se le labbra fossero strisce rosa di luce.
Quando alza di nuovo gli occhi, sono lucidi di quella che sembra
emozione. «Devo ringraziare Sarah, allora.»
Sento il mio sorriso allargarsi, il cuore
battere forte, e inclino la testa perché mi sento un po’ stordito e sì, devo
dirle grazie.
«Non mi mancano le idee.»
Sgrana gli occhi. Due grandi, belle, pozze
marroni. «Martin!»
«Scherzo!»
No, non tanto.
Mi siedo sul suo letto, le molle cigolano,
mi sento a casa.
«Stai attento.»
«Mhm…»
«Con gli occhi spalancati.»
«Non abbiamo fatto niente.»
«Sul serio?»
«Sì, vabbè, ma saranno fatti miei.»
«Cambiamo argomento.» Si siede accanto a
me con il libro sulle gambe. Resta
ferma, immobile, tanto che penso che stia trattenendo il respiro.
E poi si muove. Apre il libro alla prima
pagina e toglie via la copertina; non c’è più un libro d’amore: sul libro
cartonato verde scuro, in nero, risalta la scritta, “Commenti in merito a Flaubert”. E
quando sfoglia le pagine, ne vengono fuori alcune foto, certe rovinate ai
bordi, ma intatte.
«Pensavo che… avresti voluto vederlo.»
La guardo negli occhi, come se nel suo
sguardo potessi guardare quello che possono mostrami le foto, amore e dolore,
amore e dolore per qualcuno che non c’è più.
E che è uguale a me.
Mi posa la foto sulle gambe e quello che
vedo sono io. Un io più grande, più bello, più sicuro, con un cappello
grigio in testa, un sorriso bianco, gli occhi verdissimi… e potrei essere io.
Ma è mio padre, e fra le sue braccia c’è mia madre con la bocca sulla guancia
di lui. Ecco perché sorride, lui. Louis Scott.
«Era felice.» È bassa, la voce di mamma.
Proviene dai ricordi.
E guardo la neve che cade cristallizzata
in quest’immagine insieme ai miei genitori, la mano di mio padre stretta a
quella di mia madre, il bacio di lei sulla barba corta di lui, e penso che
tutto questo non l’avrei nemmeno guardato, se mi fosse stato davanti nella vividezza
della vita che la macchina fotografica non può catturare. Sarebbe stato
insopportabile, guardarli. Sarebbe stato vero, autentico, e sarebbe appartenuto
solo a loro. Ora invece è anche un po’ mio.
E non so cosa dire.
Non so se mia madre sta guardando me che
guardo la foto o la foto, ma mi ricordo di tutte le volte in cui, sul divano,
l’ho vista con gli occhi lucidi davanti a questi libri ed io pensavo che aveva
il cuore dolce di tutte le ragazze. Lei piangeva sulle foto di mio padre, sulla
foto di me da piccolo in braccio a lui, quella che ora mi porge; piangeva su una foto di lei che
mi fa il solletico sul letto, la mia mano piccola che le tira
un ricciolo. E poi ancora mia madre e mio padre, in un giorno di festa, in un
giorno in cui non c’ero ancora. Quei giorni in cui le persone applaudono e
fanno brindisi, e mio padre sorride mentre mia madre gli toglie via dalle
spalle i chicchi di riso che gli hanno buttato addosso. E lui la guarda come
se avesse appena scoperto un altro mondo. E quando mia madre ha la pancia ampia
che un tempo riempivo io, mio padre per la prima volta non la guarda negli
occhi e cerca i miei, anche se non può vederli, anche se probabilmente sto
dormendo e non posso sentirlo.
«Lui... Louis… cioè, papà…» dico. La mia voce
suona roca, quello che non c’è ti fa un po’ ammalare, ti fa sentire freddo dove
invece poteva esserci una vita diversa.
Sento le sue mani posarsi sulle mie
guance, posarsi sul mio viso, gli occhi di mia madre mi scrutano attraverso una
lucida copertura d’acqua che non è ancora diventata una lacrima. «Era uguale a
te.»
«Non gli piaceva studiare?»
Mamma ride. «Era un fantastico giornalista.»
La lacrima cade su un sorriso che sembra
fatto di speranze, desideri, sogni; nessuno è stato abbastanza forte da poterli
spezzare. «Lui mi rendeva felice, mi rendeva migliore.» Sospira. «Quando ami
cambi, Martin, è inevitabile. Ma se cambi restando te stesso, allora chi è
accanto a te merita il tuo amore.»
Mi accarezza i capelli in quel modo strano
che tasta il capo a poco a poco. Mi ordina i capelli senza un motivo, distoglie lo
sguardo, la lacrima è caduta ma penso che mia madre sia davvero bella; penso
che, stando vicino a lei, è un po’ come stare vicino al padre che non ha potuto vedermi crescere. Il ragazzo
beffardo che l'ha importunata in una caffetteria vicino all’aereoporto.
«Quando li devi tagliare questi capelli?
Stanno diventando troppo lunghi.»
«Sono fighi.»
«Sono disordinati.»
«Sono FI-GHI.»
«No.»
«E dai, mamma.»
Increspa le labbra – sorridi, sorridi, dai
– e poi mi arruffa i capelli, mi dà un bacio sulla fronte e si alza dal letto.
Si sistema l’elastico dei capelli, si volta verso di me e lascia ricadere le
braccia sui fianchi. «Vado a preparare la cena.»
«Ok.» Poso le foto accanto a me e mi alzo
anch’io. Le guardo un’altra volta, nella stupida intenzione
di poter salvare
tutto in un piccolo istante, anche se potrò vedere quelle foto
quando voglio.
Ed io le guarderò poche volte, perché fanno male. E
quando avrò dubbi su chi
sono io, ne prenderò una e la guarderò, e allora
saprò chi è mio padre, saprò chi lo è stato al posto suo, saprò chi
sono io, saprò qual è il mio posto.
E poi guarderò gli occhi di Sarah e lo
saprò.
Mi guarderò allo specchio e ricorderò tutto e lo saprò davvero.
«A che ora è pronta?» chiedo a mia madre.
«Per le otto.»
«Ma no, ma’, esco con Sarah.»
Inclina la testa, sembra infastidita, poi
un sorriso le attraversa il volto ed io mi sento fremere di una strana
impazienza e sospiro. Aspetto.
«Facciamo alle nove, d’accordo?»
Corro in corridoio.
«Ecco perché sei la donna della mia vita.»
«E non fare tardi!»
*
*
*
*
Ciao, carissimi miei lettori untiliani. Sono così emozionata, con le lacrime agli occhi, e vorrei tanto, tanto che questa storia non sia vicina alla fine. Grazie infinite a tutti voi, perché è grazie a voi che leggete che Until
può vivere davvero. Le visite sono costanti, quindi posso
intuire che mi leggete con costanza e questo mi fa tantissimo piacere.
Un grazie speciale a chi mi recensisce sempre :**
Non dico altro; vedrete che nei ringraziamenti scriverò davvero molto :'')
Grazie, sempre.
Un bacio
Vostra Ania
|
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Capitolo 28 *** 27. Le ali dei sogni ***
until 30
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
27.
Le ali dei sogni
Joshua
Non so quanti mesi sono passati.
Mi fanno male le ossa. Vedo male, la luce
mi fa sentire un bruciare agli occhi, non posso correre perché mi stanco presto.
Sono malato e la vita è la mia chemioterapia.
La vita è la punizione giusta per
me; gli sguardi degli altri detenuti sono cavi, come se un corvo gli avesse
mangiato via gli occhi, lasciando dei fori neri che sono solo sangue vecchio di
tanto tempo. Presto sarò come loro. Presto pagherò con quello che è rimasto e
rimarrò sempre cosciente. Mi hanno messo dentro, Cassie. Deglutisco. Manette,
spintoni, pugni… ma non mi hanno ucciso. Non c’è la pena di morte, qui. La vita
è un prezzo molto più alto e lo sto pagando come meglio posso.
«Tu, alzati.»
La vita è un prezzo molto alto ed io ti
sento vicino a me, anche se la morte ti ha portato via.
Mi metto in piedi.
«Qualcuno vuole vederti.»
Anche se il primo a farti andare via sono
stato io.
Rumore di chiavi, serratura che scatta,
cigolio di ferro; una mano dura che mi prende per la tuta e mi spinge fuori
dalla cella isolata. E mi chiedo chi mai potrebbe volermi vedere, chi mai, dopo
tutto quello che ho fatto, sprecherebbe tempo ad ascoltare il mio silenzio da
morto.Vivo solo perché solo in vita posso
soffrire, e la sofferenza è quello che merito davvero.
«Là. Siediti, forza.»
Sedia, un tavolo d’acciaio. Io seduto, io
con i gomiti poggiati su quella che sembra una lastra da macello. Le ossa
pulsano ed io non mi guardo intorno.
«Joe.»
Perché sono qui?
«Joshua Silvers. È quello il tuo nome,
vero? Anche se sulla carta il tuo cognome è Stewart… ed io ho il tuo cognome.»
Alzo lo sguardo. Bruciano i miei occhi
quando ti guardo, Von. Yvonne. Mia figlia… la figlia del mio amore, e ringrazio
Dio che sei uguale a lei, ringrazio Dio che non sono stato io a crescerti fino a quattordici anni,
ringrazio Dio che qualcun altro si sia occupato di te quando lei è andata via.
Dio, che non mi ha salvato ma che, se esiste, ha salvato te da me.
«Mi
dispiace di essere venuta così tardi... Ho portato Bob al
canile, all'istituto non fanno tenere animali, però Hans mi
accompagna per andarlo a salutare...»
Le somigli così tanto. Gli occhi mi
bruciano ancora. Le somigli così tanto che potresti essere lei.
«Non ti devi preoccupare di niente, Yvonne.»
«Io volevo…»
«Non pensare a me.» Mi si rompe la voce e
quanto sono belli i tuoi occhi. Mi si rompe la voce e la guardo e penso non ti
ho fatto abbastanza del male? Non ti ho fatto abbastanza del male per farti
scappare e cercare la libertà dal mostro che, dentro di me, ti ha distrutta?
Avevi quattordici anni quando ti ho portata con me… quattordici anni, la mia
piccola Yvonne… «Non pensare a me, Yvonne. Dimenticami. Dimentica le mie botte,
dimentica le parole cattive. Non ero io, ma non è abbastanza per chiederti di non
abbandonarmi.»
Sgrana gli occhi. I capelli biondi
lunghissimi che le ricadono sulle spalle, la sua mano che si allunga verso la
mia mentre io mi ritraggo.
«Abbandonami, Yvonne. Abbandonami per tua
madre. Abbandonami e salvati. Abbandonami ed io ti vorrò bene per sempre. Sei
mia figlia e ti ho voluto bene da quando tua madre mi ha detto che c’eri e
avrei voluto esserle accanto, avrei voluto ma… ma…»
«No, Joe. No.»
«Vattene, Yvonne.» Mi alzo in piedi senza
guardarla, la sedia stride sul pavimento e il dolore è dappertutto e le ossa
pulsano ed io devo solo tornare nella mia cella, devo solo porre fine a tutto
questo e sarà libera. La mia bambina sarà libera e sarà felice e non importa se
non siamo vicini, non importa se lei va via e non la rivedrò più.
«No.» Anche la sua voce è ancora quella
di una bambina. E respingo i ricordi che mostrano qualcuno che somiglia a me
stesso che la maltratta,
qualcuno che somiglia a me stesso… «Tu sei mio padre.»
Quando
il mostro era dentro di me, era come essere in una dormiveglia perenne.
Ero steso, con gli occhi chiusi che non riuscivo più ad aprire;
completamente immobilizzato, ma capace di sentire tutto. Sentivo la mia
voce con parole non mie, percepivo le azioni del mostro attraverso il
mio corpo e vedevo, nel buio, l'orrore che accadeva senza poterlo
fermare. Senza poterlo fermare, mai.
Solo una volta sono riuscito ad aprire gli occhi, dopo quasi diciotto anni. Per proteggere lei.
«Proprio perché sono tuo padre non posso abbandonarti. Ma puoi farlo tu.»
Yvonne mi abbraccia. Ed è come se mi stesse
uccidendo perché non può accadere, perché le ho fatto del male, perché è troppo
tardi. E non riesco a non abbracciarla io stesso, non riesco a non accarezzarle
quei bei capelli, non riesco a non pensare che sarà sempre piccola per me.
«Domani torno.»
«Non devi tornare. »
«Torno... mi ha accompagna Hans, mi accompagnerà lui, sempre. Ha promesso...»
«Perché lo fai? »
Mi
guarda. Sono gli occhi di Cassie, sono
gli occhi di mia figlia e sono arrabbiati, feriti.
«Sai che cosa mi diceva mamma di te?» Una lacrima cade. No… non deve piangere,
non deve piangere. Devo avere un fazzoletto, sì...«C’è stato il giorno
in cui ho chiesto di mio padre e lei mi ha raccontato di te che studiavi Medicina, mi ha fatto vedere le vostre foto insieme. Sapevo
chi eri, sapevo com’eri. E mi ha detto
che qualcosa di grande, di brutto, ti aveva portato via.»
Sospira e la lacrima
scivola via, riesco a prenderla poggiandole il fazzoletto sulla
guancia. «E mi
ha detto che saresti tornato. Mi ha detto che saresti tornato ed io non
ho mai
perso la speranza perché la mamma è morta. E l'unico modo
per farla restare ancora con me, era non uccidere mai la
sua speranza.»
Le asciugo le lacrime con il fazzoletto,
mentre le parole si accumulano nella mia mente con il ritardo vergognoso di chi
usa il cervello consapevolmente dopo tanto, troppo tempo. E so che lo voglio
bene, so che non potrei amarla di più, e che forse saperla al sicuro, serena, è
il regalo più bello che potrei mai avere adesso che non posso più vivere.
Lei è la tutto quello che ti resta
Le poso un bacio sulla fronte.
Lei è la tua famiglia.
«Sei come lei, Yvonne, come tua madre. Non avrei mai voluto perderti...»
Sorride appena, allontanandosi un po’, con
quell’andatura lenta, i capelli che ondeggiano, come faceva sua madre. E poi i
suoi occhi sono ancora lucidi, e sanno che non si può perdere per tutta la vita anche se lei perdeva da troppo tempo.
Mi stringe la mano; forte, decisa. Quanti
momenti ho perso, quanti momenti non avrò più. Ma è salva. Lei è la
bambina che Cassie ha cresciuto. Sei il motivo per cui sopportare le ossa che
pulsano, gli occhi che bruciano, lo stridere dell’acciaio, la pioggia, il sole,
le nuvole viste da un grigio edificio dove sconto la mia pena.
Yvonne ha la voce ferma, ruvida, bella.
«Ora sei sveglio. Ora non ci perderemo più.»
Sarah
La sabbia scivola leggera fra le mie dita,
è fresca, lascia una sensazione di asciutto. È bello perché mi fa
venir voglia, qui seduta sulla sabbia, di fare qualche altro passo e toccare il
mare, toccare e sfiorare e basta, perché non so nuotare.
L’umido della riva viene spazzato via dal
freddo improvviso dell’acqua, ma è un freddo che mi regala quiete e che, allo
stesso tempo, mi rende curiosa. Mi chino e metto le mani a coppa, le immergo
nell’acqua limpida leggermente mossa, e la sensazione di asciutto scompare. Il
mare fra le mie mani.
E poi seguo un sentiero che non vedo, che
posso solo immaginare o sentire, e sono i miei passi che si inoltrano
nell’acqua mentre ignoro i brividi
leggeri che mi portano a stringermi da sola in un abbraccio che non può che
essere goffo. Ho la pelle d’oca, ma l’acqua sembra curarla, sembra accogliermi
senza timori anche se non ci siamo mai conosciute. Sospiro. Poi, ancora stretta
nell’incompleto abbraccio di me stessa, mi immergo. L’acqua mi arriva fino al
collo, ora che ho piegato le gambe e, inspiegabilmente, mi sento leggera, come
se potessi volare da un momento all’altro. Volare. Muovo le braccia a disegnare
un semicerchio nell’acqua e mi spingo all’indietro. Volare, mentre stendo le
gambe e dimentico, volare mentre l’acqua mi cura ed io sono qui, a mollo, e non
so se sto nuotando ma è bello. Volare.
Marlene, la moglie di Joseph, aveva trovato il modo di farlo cadendo dal cielo.
Marlene, che non aveva paura di niente. Marlene, la donna bellissima che teneva
in braccio Martin nella foto incorniciata appoggiata al comodino. E Marlene,
che non c’è più come mia madre e mio padre. Come il padre di Martin.
È limpida, l’acqua, e rende più limpidi
anche i pensieri. Riesco a vederlo bene, il dolore; quella letale scheggia
trasparente, cristallo conficcato nel petto. Neve ghiacciata. Forse un giorno
riusciremo a scioglierlo completamente. Un giorno riusciremo a toccare le
ferite e ad ignorare i rilievi della pelle nuova delle ferite guarite.
Lo so, un giorno guariranno.
«Sarah Agnes Pierce, non mi hai aspettato!»
L’acqua, ora tiepida, così piacevole, mi colpisce il viso come la
carezza avventata di un bambino piccolo che non sa cosa voglia dire dolore.
Perché qui c’è gioia, impazienza, la luce delicata del sole delle otto del
mattino. Martin è ora sommerso dall’acqua, con la schiuma come prova del suo
tuffo velocissimo, ed ora riemerge e il suo respiro fa un suono forte, a metà fra
un colpo di tosse e un sospiro.
«Scusa, è che…»
«È che sei impaziente.» Gira la testa a
destra e a sinistra più volte, mi arriva di nuovo un po’ d’acqua e mi allontano
un po’ e sorrido, sorriso anche se l’acqua è troppo limpida per riflettere me.
«Sei impaziente e non hai bisogno di me.»
Non so esattamente che cosa sto facendo,
ma lascio che l’acqua mi culli mentre muovo le braccia in avanti, dall’interno
verso l’esterno, per raggiungerlo. Faccio una smorfia, e la quiete dell’acqua
si trasforma in qualcosa di più deciso, che mi fa sorridere, sorridere, e
sorridere.
«Tu menti, Martin.»
«Sai già nuotare a rana.»
Mi prende la mano e, con lentezza, riesco
a mettere i piedi sulla sabbia e alzo gli occhi verso di lui. Ha la testa china,
a guardarmi, e arrossisco nel tempo minimo di un secondo.
«Ho comprato il costume con Julia.»
«Carino.» Fissa i suoi occhi nei miei e
sorride in quel modo che mi fa vedere rosso dappertutto per quanto sto
arrossendo in questo momento. Lui, con quella sua sfacciataggine nello sguardo
e i capelli bagnati che ora sembrano castani, le goccioline che dalla mascella
squadrata gli scivolano sul collo, sul
petto; mi allontano e gli si vedono le fossette iliache, la pelle con quella
sfumatura dorata. «Il blu ti sta bene. Solo che adesso dobbiamo fare i tuffi.»
Scuoto la testa. «Vuoi dire che tu farai i
tuffi, non io.»
«Sei una noiosa.»
Si lascia sommergere completamente e nuota
sott’acqua, io faccio qualche piccolo passo più avanti, ormai ho la metà dei
capelli bagnata, a pochi metri da me una boa arancione e…
«Oddio!» Sento le sue mani ferme sulle
mie cosce quando mi solleva da sotto l’acqua, ed io mi ritrovo a schiacciargli
la testa per non cadere dalle sue spalle. «Martin, cosa fai? »
«Ora ti faccio fare un tuffo.»
«Ti ho detto che non ne voglio fare.»
«Che c’è, hai paura?»
«Sì!»
«Ma come? » Si mette a ridere. «Dopo tutto
quello che è successo hai paura di un tuffo?»
A più di un metro e ottanta da terra – la
sua altezza – mi sembra di essere capace di poter vedere tutto il mondo ed è
strano, perché dovrei avere paura. Perché una volta, sarei stata terrorizzata
da tutto questo, dalla persona diversa che sto diventando, dall’emozione
folgorante che mi percuote completamente e mi fa scoppiare a ridere.
«Cosa ridi?»
«Fammi fare questo tuffo.»
Si inoltra più avanti per raggiungere
l’acqua più alta ed io, coraggiosa, - quando sono diventata coraggiosa? –
sollevo le mani quasi fossero ali, quasi stessi per spiccare il volo. Quando
sono diventata coraggiosa? Hai salvato Martin. Hai salvato tutti noi.
Ma ho salvato soprattutto me.
Martin conta fino a tre, mi tappo il naso
e cado all’indietro. L’acqua è dappertutto ed io sono nell’acqua, non c’è
differenza perché mi sento libera, pura, coraggiosa. Ho salvato soprattutto me,
perché ho trasformato il sogno in una possibilità, la possibilità nella realtà.
Me stessa in quello che volevo provare ad essere. La solitudine nell’amicizia.
Il dolore nell’amore. La paura nella voglia di vivere.
Perché io voglio farlo, mentre trattengo
il respiro, allontano le mani e apro gli occhi. Guardo questo mare, ignoro il
pizzicore agli occhi, bevo con questo sguardo mantenendo la bocca ben chiusa e
mi perdo in questo mare dal colore del cielo.
Qualcosa mi tira su ed io inspiro aria
come se la stessi risucchiando nei polmoni.
«Com’era?»
Mi sposto i capelli dal viso, poggio le
mani sulle sue spalle, il suo corpo così vicino al mio, le gambe che si
intrecciano, la pelle d’oca che viene anche se non sento più freddo.
«Bellissimo.» Fronte contro fronte. «Lo
rifacciamo?»
In fondo avevo intenzione di farlo dall'inizio, anche se non così presto.
Sorride. Quel sorriso è solo mio. Siamo
due individui a sé stanti e diversi ma ci sono cose, a volte, gesti, sguardi,
parole, che sembrano chiamare a gran voce la persona per cui sono nati. E quel
sorriso è mio.
Avvicino la bocca alla sua e questo bacio
è suo, e sa di sale, labbra umide, cioccolato spalmato su una fetta biscottata,
palazzi grigi in una città grigia in cui camminiamo mano nella mano, le poesie
di Emily Dickinson che recito ad alta voce, la frase finale che lui, con il
libro in mano, finisce per me. Noi che, insieme, finiamo con l’ultima sillaba,
la luce di un sorriso intrappolato negli occhi, le labbra che si muovono
all’insù, la sicurezza di non essere più soli.
***
Dopo una mattinata passata al mare –
tuffi, occhi chiusi sotto il sole tiepido di primavera, “Piccole donne” letto
mentre Martin dormiva – abbiamo passato il pomeriggio a guardare i negozi, il
sapore del gelato alla fragola ancora sulla lingua.
La casa in cui passeremo questi giorni è di
Joseph, che è stato tanto gentile da dare il permesso a Martin di portarci qui per la fine dell'estate.
Doreen non mi è sembrata esattamente entusiasta, il modo in cui si è passata le
mani fra i capelli e ha guardato in basso mi ha fatto intuire una
preoccupazione assolutamente legittima, cosa per cui Martin le ha dato un bacio
dicendo “Mamma, ti adoro”. Con Joseph c’è stata una stretta di mano ferma,
proprio da uomini, mentre io sorridevo e guardavo.
Martin
e sua madre si sono trasferiti in un piccolo appartamentino, ma il
Venerdì sera mi capita di vedere Joseph che, alle otto in
punto, suona il campanello con una bottiglia di
vino mentre io aspetto che Martin vada a prendere la sua macchina,
comprata usata con il risparmio di tante paghette. Perché Joseph
continua a dargliela, la paghetta, anche se Doreen gli ha espressamente
chiesto di non farlo più.
Joseph
ora appare sereno, come se si fosse svegliato da un lungo sonno
riposante. Sembra che adesso, dopotutto, lui e Doreen siano liberi
davvero.
Con noi ci sono anche
Cameron e Julia; li vedo da lontano, vicino al molo. Ju indossa un vestito
bianco con i fiori sulla gonna, l’abbiamo comprato insieme; Cameron la
abbraccia con il braccio intorno alla vita di lei. La mia amica sta ridendo, è
un suono graffiato di gola, ma allo stesso tempo dolce, calmo. L’abbraccio si
fa più stretto, la risata si affievolisce e muore sulle labbra, sostituita dal silenzio inatteso di un bacio.
«Ahhh, finalmente. Cameron è sempre stato
troppo lento, in questi casi. Si fa i complessi peggio delle femmine.»
Scuoto la testa e gli do una gomitata.
Martin incassa il colpo con solennità, quasi gli avessi fatto davvero male, e
questo diventa uno dei tanti motivi per ridere senza una vera ragione,
semplicemente perché tutto sembra essere più leggero, più semplice.
«Ma fatti i fatti tuoi,» gli dico.
«Sei la dolcezza.»
«E tu anche.»
«Grazie.»
«Scherzavo.»
«Io no.»
Mi prende la mano e mi tira in modo da
farmi andare letteralmente a sbattere contro il suo petto, mi accarezza i
capelli e il collo con le mani ed io chiudo gli occhi, sto bene, lo stomaco si
ribalta come se fossi salita su una giostra pericolosa ed è bello. Apro di
nuovo gli occhi.
«Eeeehhhiiiii!» Cameron corre verso di
noi, una canotta bianca su cui porta una camicia aperta e Julia, dietro di lui,
lo raggiunge accelerando il passo, i capelli rossi al vento. «Siete scomparsi
per tutto il giorno!» Lo dice nel modo in cui ci si aspetterebbe di sentire
sono davvero contento di vederti, ma Cameron ha un’espressione così raggiante
che mi porta solo a sorridere ancora.
«Scusa eh, vedrò di starti sempre
appiccicato,» ribatte Martin.
Cameron fa segno di no con la mano, come
sconvolto. «Tranquillo, amico… non ce ne’è bisogno.»
«Sarah!» Julia mi raggiunge, posandomi un
bacio sula guancia. Sorride come potrebbe fare il sole. «C’è una festa in
spiaggia, vieni anche tu? Io e Cam ci stiamo andando.»
«Non che sia tanto brava a ballare ma più
tardi ti raggiungo assolutamente.»
Abbassa di poco la voce, che si fa
comunque un po’ strifula, in un modo adorabile, che mi fa tenerezza. «Devo
raccontarti di Cameron…»
«Ju, sono così contenta.»
Annuisce. «Vatti a mettere il vestito che
abbiamo comprato l’altro giorno.»
«Quello viola?»
«No, nero!»
«Ma è corto! Troppo, e l'ho preso solo perché lo davano scontato.»
«Mettilo lo stesso, tanto è estate e ci stai una favola!»
Sbuffo davanti ai consigli di moda
assolutamente dissoluti di Julia, mentre Cameron si avvicina e le prende la
mano, avvicinando la bocca all’orecchio per dirle qualcosa. Il sole sta
tramontando, colora il cielo di rosa e arancione e si immerge nel mare, mentre Cameron
e Julia si allontanano, due macchie sfocate nella luce che si mischia al buio.
***
Martin apre la porta – legno massiccio e
liscio –, c’è silenzio. Le luci arrivano dall’esterno, cerchi di luce che
toccano i muri in trasversale dai fori della tapparella. Valige aperte sul pavimento,
il letto sfatto in cui mi sono risvegliata stamattina, l’armadio con l’anta
aperta da cui vengono fuori delle grucce. È un disordine rassicurante, pregno
degli echi delle nostre risate, Julia che si butta fra le coperte, Martin e
Cameron che corrono nell’altra stanza per aggiudicarsi il letto vicino alla
finestra ed io che mi guardo intorno, sorpresa, incantata. Echi
appena passati che diventano sempre più lievi, sostituiti da questo silenzio
che non è silenzio, perché il cuore batte forte e sento il suo respiro su di
me.
«Sai, Sar,» sussurra. «Tu non sai proprio tutto di me.»
«Sì?»
«Sì. Si tratta di un segreto scottante.»
«Cioè?»
«Non so ballare.»
Sbuffo, rido, sospiro.
«Oh, come farà Martin con una simile
mancanza?»
«Mi sento perso.»
Mi volto verso di lui e gli passo una mano
fra i capelli, lui socchiude gli occhi ed io faccio un respiro profondo. «Se
sai chi sei non ti potrai mai perdere, Martin Scott.»
«È una cosa stranissima perché il mio
cervello sta andando in contro circuito.»
Sorrido. «Non ci credo.»
«Sta andando tutto in cortocircuito.»
«Be’, allora te lo ripeto: sei Martin
Scott, buono e simpatico anche se molto narcisista, tua madre si preoccupa
sempre per te, Cameron è il tuo migliore amico dalle elementari e lo batti
sempre alla playstation, ma lui ha una media scolastica più alta della tua e
quindi siete pari.» Faccio una pausa. Il viso di Martin è attraversato da una
smorfia scettica. «Ho… cercato di sintetizzare.»
Sorride sulle mie labbra.
«Come hai fatto a dimenticare te stessa? »
«Non lo so, credo che sia andato tutto in
cortocircuito anche a me. »
Mi bacia. Qualcosa mi esplode dentro, a
tratti sembra che sia il mio cuore, poi tutti i suoi battiti, strani, tremanti,
che finiscono in ogni parte del mio corpo. Finiscono dove prima c’era
un vuoto, un foro che si apriva verso il buio, la tristezza, l’apatia. Un vuoto
che non viene riempito, ma scompare; si comprime fino a far coincidere tutti i
pezzi che si incastrano, nel meccanismo che è la vita, la mia vita. E allora
Martin mi bacia ed è un bacio caldo, il fiato finisce, il cuore continua a
battere e mi sento sospesa fra me stessa e il mondo, sospesa su una fune a cui
sono appesa – corde invisibili allacciate alle mie spalle – senza più panico.
Perché le corde invisibili non ci sono più, non c’è più niente di invisibile ed
io sono già caduta. Ho ancora i lividi, i ricordi,
ma Martin è con me, Martin è quello che mi ha aiutato a salvarmi e, così, ha
salvato anche se stesso. Cammina all'indietro e si siede sul letto.
Su di lui, i nostri nasi che si sfiorano,
l’aria che ritorna nei polmoni come risucchiata, lo guardo e mi rendo
disperatamente conto di quanto sia bello. Allora lo bacio ancora. Le sue mani
mi accarezzano le braccia, la schiena, scendono sui fianchi e mi portano a
spostarmi, a fargli spazio, ed ora lui è sopra di me. Mi bacia gli occhi –
occhi chiusi, ciglia che tremano – e poi la guancia, di nuovo le labbra, il
mento, il collo, le pelle che la maglietta lascia scoperta.
Torna su, torna da me e avvicino le labbra
alle sue e premo e sento il suo respiro dentro di me e so che non morirò. Ho il
suo respiro e lui ha il mio, avrà tutto il mio fiato. Lo amo. Lo amo mentre mi
accarezza i capelli e la sua bocca scende sul collo e mi solleva le gambe e
sono leggera fra le sue braccia. Lo amo mentre sospira il mio nome a metà
contro la mia bocca, lo amo nel mio silenzio perché non ho più parole. E
nemmeno lui parla più. Mi lascio andare
all’indietro e lui mi segue. Non ho il coraggio di guardarlo negli occhi quando
stringo le dita intorno all’orlo della sua maglietta e gliela sollevo, e lui la lascia
cadere via.
Ti amo sussurro sulle sue labbra. Soffio
il mio ti amo nella sua bocca. Mi bacia, gli mordo le labbra, geme. Mi toglie
via la maglietta come se fosse qualcosa che potrebbe solo farmi del male, tutti i
vestiti sono a terra e tremo e le sue mani accarezzano. Le sue mani scendono.
Perdo il respiro.
Mi aggrappo alle sue spalle e lui mi
guarda negli occhi, nello stesso modo in cui mi ha guardato ogni giorno, un
giorno di cui non ricordo l’inizio, quello in cui ha cominciato ad amarmi. Il
suo nome fra le mie labbra.
È un continuo cercare – la sua pelle
contro la mia pelle – cercare e trovare, cercare e trovare, respiro e senza
respiro, infinito.
Di nuovo la sua bocca sulla mia –
delicata, leggera, il respiro pesante, il mio nome – ti amo – e il mio nome. Il
fiato che si disperde, si spezza, resta immobile ora che lui è dentro di me.
Stringo le gambe attorno alla sua vita, affondo le dita fra i suoi capelli,
spinge. Chiudo gli occhi, un brivido mi attraversa, la sensazione di essere
stretta un po’ dolorante, bella.
«Mi fermo, Sar, se... se tu…» Fermo le sue parole con le labbra. Le mie mani scivolano sulle sue
spalle ampie.
«Va tutto bene.» Affanno, calore
dappertutto. «Va tutto bene.»
Mi bacia sul collo, gli carezzo la
schiena, spinge più forte, gemo. Lascio cadere la testa sul cuscino, la sua
bocca scende a baciarmi il seno, le sue mani stringono le mie. Il respiro di
Martin sulla mia pelle. Martin, che mi ha guardata in quel pomeriggio di
pioggia, su un vecchio autobus. Martin che mi ha parlato. Martin che mi ha
ascoltato, Martin e i suoi biscotti e le interrogazioni di Inglese e i baci che
sapevano di succo all’arancia, il freddo, i piumini, il gelato al cioccolato, il
telefono vecchio, le foto vicino al parco, le risate, i giorni di sole anche
quando il sole non c’è.
Il mio fiato si confonde con il suo.
Il sole che splende ogni volta che mi fa
capire che lui è qui con me, che non sono sola, che posso vivere.
Martin si irrigidisce, spinge ancora, si
accascia su di me ed io tremo nel suo calore, mi abbraccia, abbraccio lui nel
rumore del suo affanno e va tutto bene. Mi bacia, va tutto bene, si mette
accanto a me ed io mi stringo a lui. Il ragazzo del bus, il ragazzo del
cinema, quello che mi ha chiesto se stavo bene, quello che ora è qui.
Lui è il ragazzo che amo ed è qui con me.
Martin
Mi metto seduto, il fruscio del lenzuolo
che mi cade accanto e sfiora il pavimento, mi passo una mano fra i capelli e
poggio i gomiti sulle ginocchia, il marmo freddo contro la pianta del piede.
Sarah sembra più piccola, quando dorme; ha
quel respiro calmo che le fa alzare il petto lentamente, con i capelli
disordinati che le sfiorano le guance. Mi avvicino alla valigia per prendere i
pantaloni del pigiama, me li metto. Sono nuovi, mamma me li avrà comprato
proprio per il viaggio.
Ho sempre cercato di
cambiare tante cose nella mia vita, ma mi sento sicuro di pensare – pensare,
dire ad alta voce – che non voglio che tutto questo cambi. Non mi stancherò di
svegliarmi e sapere che la incontrerò. Cammino per la stanza, sfioro la valigia
di Sarah, sfioro qualcosa. Non mi stancherò di guardarla leggere mentre mi
aspetta seduta su una panchina del parco. Sembra carta, mi chino, lo prendo, è…
il suo taccuino. Non mi stancherò di ascoltarla mentre mi racconta della torta
che ha cucinato con sua nonna, del cane che hanno deciso di adottare, del nuovo
singolo di quel cantante che ora piace anche a me. Non mi stancherò di
prenderla in giro, di farla arrossire, di prendere gomitate nella pancia perché
la faccio arrabbiare. Non mi stancherò di passeggiare abbracciandola di tanto
in tanto, di baciarla, di fare l’amore con lei.
No, di quello non credo che mi stancherò.
Sfoglio il taccuino; mi sono sempre
chiesto che cosa ci scrivesse, qui dentro. Faccio passare le dita sulla
copertina grigia e lo apro nuovamente, sul primo foglio a quadretti ci sono
quelle che sembrano parole… e forse non dovrei leggere.
Parole non collegate fra loro.
Non dovrei proprio.
Parole sconnesse.
Che cosa vorranno dire?
I film degli anni ’50.
Le coperte di lana.
La torta alla crema.
I fiori sulla tovaglia.
Il miele sul pane.
Sfoglio le pagine.
Il sole.
I quadri di Monet.
La creta.
Le poesie di
Emily Dickinson.
Tutti i libri che sono stati scritti.
Tutti i libri che
verranno scritti ancora.
La musica.
Non capisco, mentre lascio passare tutti
questi fogli pieni di parole, cose, paesaggi, e persone. E poi i miei occhi si
fermano su Julia è viva.
Deglutisco.
«Mi
spieghi che cosa fai…» Il taccuino mi scivola dalle mani forzato dalla sua
presa. Mi volto e me lo sventola sotto il naso, un braccio posato sul fianco e
la fronte aggrottata. «Con questo?»
E
adesso?
«Ehm…»
«L’hai
preso.»
«Sì,
l’ho preso.»
«Perché?»
«Sporgeva
dalla valigia ed è caduto…»
«…
E hai pensato bene di leggerlo. »
Sospiro,
mi passo una mano sulla nuca, poi sulla fronte, su tutto il viso, sospiro. È
proprio da me fare figure di cacca, questa è una delle tante cose che non
cambieranno mai. «Sei arrabbiata?»
«Abbastanza.»
«Scusami.» Le lascio un bacio sulla guancia, poco vicino alle labbra. «Non volevo. »
Vado
a sdraiarmi sul letto, sperando che Sarah si dimentichi presto che mi impiccio
delle sue cose. Affondo il viso nel cuscino.
«Martin?»
«Mhm?»
«Non
sono così arrabbiata.»
Mi
giro sulla schiena, lei è seduta a gambe incrociate, accanto a me, e si rigira
il taccuino tra le mani. Ha acceso la lampada del comodino ed ora si vede molto
meglio che i fogli sono ingialliti.
Mi si sdraia accanto, sospira, si mette
una mano sulla pancia, i pantaloncini corti a lasciare scoperte le gambe
chiare. Mi guarda con quei suoi occhi celesti.
E
allora mi prendo il lusso di essere curioso. Un po’ geloso, forse, perché non
conosco ancora questo lato di lei.
«Perché
hai scritto queste cose?» Intreccio la mano alla sua. «Che vuol dire? »
Si
mette su un fianco, mi si rannicchia contro, la avvolgo, la respiro. Profuma di
camomilla e il cuore le batte contro il mio petto. Mi passa una ciocca di
capelli dietro l’orecchio, guardando fissa davanti a sé. «Mi sono sempre
chiesta… fino a quando resisterò?» Si morde le labbra, esala un altro respiro.
«Fino a quando resisterò a vivere così?» La sua voce si disperde nell’aria.
La
stringo di più a me, e il passato ritorna. Ritorna lei, sola, chiusa in un
bagno, con la paura di fare del male a qualcuno. Ritorna lei, lei che pensava
di essere un errore del mondo. Lei che si chiedeva fin quando avrebbe
resistito.
«No,
Sar…»
«E
allora… allora ho riempito il taccuino di tutte le cose – tutte – anche le cose
più insignificanti, che potessero rendere le cose più sopportabili.» Si stacca
leggermente da me, apre il taccuino e i suoi occhi sono lucidi. Niente lacrime,
solo una sottilissima distesa d’acqua sui suoi occhi azzurri. «Ci sei anche tu.»
«Io?
»
Lei
sorride e mi passa il taccuino.
«Leggi
l’ultima pagina.»
Apro
il taccuino alla pagina che mi ha detto, incerto.
«Ad
alta voce,» aggiunge.
Comincio
a leggere, piano, in modo da capire anche quello che – credo – non capirò.
È
scritto grande, in corsivo, con la sua grafia tonda tremolante e proseguo in questo strano elenco che sembra farsi
sempre più chiaro. «Julia è viva.»
Sarah
fa un sospiro, io tengo gli occhi fissi sul foglio.
«Va’
avanti fino alla fine.»
Un
respiro profondo, parlo come se fossi in apnea.
«
Il ragazzo del cinema.
Il ragazzo che mi parla.
Il ragazzo che mi fa sorridere.
Il ragazzo che mi fa ridere.
Il ragazzo che non ha paura di me. »
Il cuore mi batte nel sorriso, sulle labbra, fra i denti.
Giro
la pagina.
«Il ragazzo che amo.»
Silenzio,
mentre mi prendo il privilegio di posare il taccuino fra di noi e prenderle il
viso fra le mani e baciarla, baciarla forte e mi chiedo fino a quando resisterò
senza respirare. Ma non importa fino a quando perché il confine non esiste
più. Non esisterà più il giorno in cui non saprà cosa scrivere per darsi la
possibilità di vivere, perché ora sta bene. La mia Sar sta bene ed è forte,
anche se ha sempre creduto di essere debole. Nella debolezza ha trovato la
forza. Io sono stato solo quello che l’ha aiutata ad alzarsi – mani strette,
respiri soffocati – ma adesso è capace di proseguire da sola. Anche se ha
scelto di proseguire insieme a me.
«Ci
sei arrivato subito, eh.»
«Sì,
anche se mi piacerebbe veder scritto il mio nome. Ma proprio il mio nome, quel figo di Martin...»
«Sognatelo.»
Rido,
le passo una ciocca dietro l’orecchio, premo le labbra sulla sua fronte.
«Continuerai a scrivere, Sar?»
La
sua voce è chiara, limpida come l’acqua del mare.
«Non ho più bisogno di
rileggere quello che ho scritto, per ricordarlo.» Si rannicchia
meglio fra le
mie braccia ed io penso che amarla è una delle cose che avrei
scritto io, se
avessi mai avuto un taccuino con l’elenco di tutte le cose per
cui vale la pena vivere. Perché Sarah mi rende felice, mi rende migliore. E così io resto sempre me stesso.
*
*
*
*
Ciao,
Untiliani! :D Anche questo capitolo è importante, c'è
l'incontro fra Joe e Yvonne. Joshua è consapevole di se stesso,
sveglio, con la sua voce, i suoi occhi e le sue mani. Stanco e provato.
Con sua figlia che gli vuole ancora bene perché sa come sono
andate le cose.
E dopo tutto quello che è successo Sarah e Martin... *ammicc ammicc*... *Ania arrossisce*
Be',
immagino che forse nessuno ci sperava più :'')
A
parte gli
scherzi, tengo molto a questa parte della storia: mi è capitato
di leggere libri in cui l'amore fisico fra due personaggi veniva
buttato lì, giusto perché doveva succedere e non si
sapeva proprio quando
farlo succedere. Io ho ascoltato la voce di Sarah, ed ho capito che il
momento giusto era proprio questo: un momento sereno dopo tutto il
dolore e la paura che c'è stata, con l'amore e la consapevolezza
di se stessi. Spero che vi sia piaciuto, anche perché è
l'ultimo capitolo della storia, adesso manca solo l'epilogo.
Ancora grazie a tutti voi *-*
Vostra Ania
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Capitolo 29 *** Epilogo ***
until 31
Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.
Epilogo
Un giorno
di sole di tanti anni fa la mia vita si è spenta.
Dopo due anni
il sole splende proprio come accadde quattordici
anni fa, e le mani mi tremano e scuoto la testa perché va tutto bene, mi
ripeto, andrà tutto bene, Sar.
Oltrepasso
la staccionata – sassi appuntiti, quando corri non hai paura di cadere? Ricordi
d’infanzia, quando le lacrime erano ancora leggere e sparivano sulla pelle – e
mi ritrovo davanti alla porta. Il corridoio con i muri dipinti di verde –
bambini e risate, bambini e dolci alla liquirizia, bambini e matite colorate.
La porta
della mia aula è socchiusa, come è sempre stata. Le risate dei bambini mi
colpiscono le orecchie come piccoli campanelli di cristallo, sono quiete e allo
stesso tempo forti, pure.
Hai finito il tuo disegno, Sarah?
Spingo la
porta ed entro nella stanza. La luce che filtra dalla finestra attraversa la
stanza in diagonale. I bambini, seduti per terra, colorano e giocano attorno a
dei bassi, tavoli rotondi.
Non ancora.
C’ero io,
una volta, seduta a quel tavolo, e con spesse matite colorate disegnavo tutto
quello che non avevo e avrei voluto; quei genitori immaginari, quella vita
diversa, quel tramonto sul mare. È strano come, anche se abbiamo tanto, ci
ostiniamo a dare valore alle cose che non avremo mai. Alle cose che abbiamo
perduto, anche se la colpa sta negli eventi, e non in noi.
Ho sempre
immaginato mia madre, il suo profumo, la sfumatura chiara della sua pelle, i
capelli più scuri dei miei, ferma a spazzolarmi i capelli e a cantarmi dolci
canzoni, con mio padre – un uomo alto, dai miei stessi capelli, con il giornale
in mano, che ci assisteva nella stessa stanza. Li ho immaginati, i miei
genitori. E il mio amore per loro è nato dalla mia perdita, dallo loro
speranza. Il mio amore per loro è eterno, intangibile, lontano e allo stesso
tempo dentro di me. E quello per i miei nonni, così anziani, così costanti,
così instancabili nel perseverare quell’amore eterno, intangibile, lontano che
hanno sempre avuto solo per me. Io, che sono stata l’unica a sopravvivere. Io che
avevo bisogno di loro come loro avevano bisogno di me. Io che li ho amati anche
quando odiavo tutto.
Ricordo
ancora lo sguardo della nonna – qualche ciocca grigia nella sua naturale chioma
bionda – quando ha raccolto dalla scrivania di un dottore tarchiato il disegno
che Julia aveva strappato. E mentre il dottore parlava con parole difficili,
lunghe, incomprensibili, mia nonna mi ha guardato. «Rimetteremo tutto a
posto, stellina mia.» Mi ha accarezzato i capelli ed ha sorriso, ha sorriso
solo per me. «Tornerà tutto a posto.»
Il dottore
è uscito dalla stanza e mia nonna, dalla sua borsa, ha estratto dello scotch e
delle forbici – ha sempre portato qualunque cosa, nella sua borsa – ed ha
rimesso insieme il mio disegno, anche se un po’ più storto. Io l’ho guardato
attentamente, scorgendo i buchi nel foglio, dove lo scotch non era stato
abbastanza. Non ho più voluto vedere quel disegno. Non volevo, io non volevo,
non me ne importava più. Io non volevo, nonna.
Mi ha
portato via tenendomi in braccio.
Ed ora,
quello stesso disegno, è appeso proprio lì, in alto. Rimesso a posto,
sopravissuto, anche se non potrà mai tornare come prima. Quel disegno strappato
che mi ha strappato dai sogni dolci del mio essere bambina e che, oggi,
riconosco anche se non mi appartiene più. Quel desiderare qualcosa che si è
perduta, qualcosa che non si potrà mai avere.
Come Martin.
Martin che ha sempre cercato, in Joseph, un padre che non c’era più. Martin
che, conoscendo me, pensava di essere più vicino a quel padre. Martin, che amo.
Martin che è il motivo per cui non posso desiderare qualcosa che non ho, perché
ho lui. Ho il nonno, la nonna. Ho Julia e con lei Cameron. Ho il saluto di Hans
che abbassa gli occhi ricordando quello che non siamo stati, il suo sorriso
incantato ad una ragazza un tempo bionda, ora con i suoi naturali capelli castano ramati, sorridente a sua volta. Ho
un cellulare vecchio, che funziona ancora. Ho la mia creta, che si modella piano nei miei
pensieri e sui palmi delle mie mani. Ho le poesie di Emily Dickinson e tutti i
libri che potrò leggere. Ho il tempo e lo spazio, ho i giorni, le notti, i
ricordi, l’elenco stilato nel mio taccuino. Tutte quelle parole in fila che, a
poco a poco, hanno dato vita alle mie speranze ed hanno risposto alle mie
domande ed hanno fatto crescere i miei sogni.
«Signorina,
è lei la tirocinante?»
Mi volto.
Una donna bruna, con indosso un grembiule verde, mi si avvicina quasi correndo.
«Sì, sono
io.»
Mi sorride
scettica.
«Quella
che ha insistito per farsi inserire proprio qui alla Bright?»
«Già, non
si sbaglia.» Mi porto una mano al viso e mi accorgo che scotta, il mio
arrossire mi imbarazza come ha sempre fatto, nei momenti in cui vorrei essere
più sicura di me, in cui vorrei assomigliare di più a Julia.
«È raro
che una ragazza del primo anno faccia
già richiesta.» Stringe a sé una cartella con dei fogli. «Direi che puoi
cominciare subito.»
La donna
mi presenta ai bambini e loro mi circondano, alcuni restano a disegnare troppo
concentrati per accorgersi di me, altri cercano subito un contatto, mi
abbracciano le gambe ed io mi sento scossa dalla sorpresa, dalla gioia, da
questo cumulo di voci bianche. Eppure è proprio una bambina rintanata in un
angolo ad attirare la mia attenzione.
Mi
sono
iscritta ad un college vicino a casa, Julia è la mia
compagna di stanza e
studio per diventare maestra d'asilo. Ho pensato che, per mia inclinazione,
mi
sarebbe piaciuto passare il tempo con i bambini, forse perché lo
sono stata per
troppo poco tempo. Forse perché sono rimasta un po’
bambina anch’io, sotto
certi punti di vista, anche se ho imparato a crescere. Volevo venire
proprio qui, dove tutto è iniziato e finito, dove la mia
vita si è spenta, dove una luce rossa si è accesa, dove
nel mio cuore qualcosa
è passato da inattivo ad attivo anche se era vivo da sempre.
La bambina colora il
foglio con un pennarello azzurro per realizzare quello che immagino essere il
cielo. È così piccola, con i capelli castani e le guance piene, rosse come
mele.
«Ciao, io
sono Sarah. Che cosa disegni di bello?»
Sussulta.
Il pennarello le sfugge dalle mani e si stringe il foglio al petto, così forte
da stropicciarlo. Ha gli occhi verdi grandi, ci brilla dentro la luce della
sorpresa di essere stata scoperta.
«È un
segreto segretissimo.»
«Segretissimo?»
«Segretissi-issi-issimo.»
Sospiro. Forse, come me un tempo, disegna qualcosa che ha perso, qualcosa che non potrà mai avere.
Qualcosa che, nella sua assenza, fa capire davvero l’importanza di quello che ha.
«Sono
sicura che è bellissimo, piccolina.»
Fino
a quando
resisterò, mi dicevo. Fino a quando, delle parole in cui la fine nasce
nel suo
inizio. Ed ora il mio fino a quando si è esteso, diramato, ingrandito;
una
bolla d’aria in cui respiro, vivo. In cui non ho paura di sentire né di
farmi
sentire dagli altri. In cui il rumore di me che vivo è un mio diritto,
un dono
del mondo, un dono al mio mondo in cui ho imparato che perdonare vuol
dire ricordare per sempre, vuol dire imparare. Vuol dire lasciare una
cicatrice sul dolore per non lasciare che quello, invece, lasci una
cicatrice su di noi.
Mi
allontano di qualche passo e noto un bambino che sta mangiando una merendina al
cioccolato sporcandosi tutto. Metto una mano in tasca per cercare un fazzoletto
e…
«Maestra
Sarah?» La voce è chiara, acuta, l’ho appena conosciuta. «Vuoi vedere il mio
disegno?»
I miei
piedi si fermano prima che sia io a pensare di bloccarmi, fermarmi, tornare
indietro.
Per
fare qualcosa che, per quattordici anni prima di incontrare Martin, non
ho fatto. Prima che ci salvassimo a vicenda, avevo dimenticato che
potesse essere possibile.
Campanelli di cristallo.
Si trovano sul mobile del soggiorno, basta un piccolo sfioro per farli suonare insieme alle palline d’ottone.
È questo, il suono che sento.
È il rumore del mio sorriso.
*
*
*
*
RINGRAZIAMENTI
Ancora
non posso credere di essere arrivata fin qui. Alla fine della mia prima
Storia Originale. Una storia nata da un sogno, una storia scritta per
sfida, per vedere se potevo essere capace di mantenere in piedi una
storia nata dalle fondamenta della mia mente sola. Penso di avercela
fatta. E so che ci sono delle ingenuità. So che, se scrivessi
questa storia ora, sarebbe diversa, ma Until sono io, sono quello che
sono stata dai miei sedici ai miei diciassette anni, anche se non
somiglio né a Martin, né a Sarah, né ad Hans,
né a Yvonne... ognuno di loro ha qualcosa di me. Spero, quindi,
che questa Storia vi abbia lasciato qualcosa di bello. Ho parlato di
solitudine e speranza, amore e amicizia, figli e genitori, paura e
coraggio, perdono e vendetta, rabbia e pace, seguendo come unico filo
conduttore quello che mi diceva il cuore. Sì, ricorderò
questa storia proprio per questo. L'ho scritta in modo molto impulsivo,
e a volte mi sono resa conto che, se non l'avessi fatto, sarebbe stato
più semplice, perché in questo modo ho vissuto questa
storia proprio come l'avete vissuta voi. E rimarrà sempre nel
mio cuore, perché lo rimarrete per sempre voi, che mi avete
letta. Ringrazio tutti coloro che hanno preferito, ricordato e seguito questa storia.
Ringrazio Erica, per la sua amicizia e i suoi commenti sinceri.
Ringrazio Noemi, che va sempre più in alto e se lo merita.
Ringrazio
Serena, che mi pensa, mi legge quando può e c'è. I
capitoli in cui Doreen è protagonista sono a lei dedicati.
Ringrazio Virginia, che solo con un messaggio in cui mi racconta la sua felicità fa felice anche me.
Ringrazio
Mia Swatt, autrice della fantastica Underworld, lettrice fidata e
costante, dai pareri sinceri ed entusiasti ed anche bravissima grafica,
infatti mi ha realizzato il banner che vedete sempre all'inizio.
Ringrazio Binaca Lyra Petrova, una delle mie lettrici più adorabili ed entusiaste.
Ringrazio Maria, che è sempre dolcissima.
Ringrazio Aurore, che scrive sia storie che recensioni splendide.
Ringrazio Adua, che sa cosa vuol dire tutto questo.
Ringrazio Arianna C, perché è una lettrice favolosa.
Ringrazio Paola, perché so che mi legge sempre.
Ringrazio Emide, Deborah93 e Lilyachi che leggono e recensiscono, pur essendo arrivate da poco.
Ringrazio Michelle Verace, che è una lettrice stupenda.
Ringrazio Liz e Roberta, Josie5 e Carmen, per leggermi.
Ringrazio Lyset e Bruli, che mi hanno invogliata a continuare la storia.
Ringrazio fufe, Angel Shanti, Ellie, Gray e Fouis, Incenseash e Cristina che mi hanno reso tanto felice con le loro recensioni.
Ringrazio Caterina, mia prima lettrice.
Ringrazio Alessandra, mia conterranea, fra le autrici migliori che mi sia mai capitato di leggere.
Ringrazio Loveyoualone, una lettrice meravigliosa che mi commenta sempre su Wattpad.
Ringrazio Dheja e Marika98, arrivate da poco, mi hanno reso felicissima.
Ringrazio
la mia migliore amica, Stefania, perché quando si tratta di
parole, lei capisce tutto anche senza che io dica niente.
Ringrazio Alessandro, perché
ogni tanto succedono delle cose veramente belle; perché riesce a
vedermi davvero, nel silenzio e nelle parole, sempre.
Ringrazio la mia famiglia perché mi lascia sognare e, al tempo stesso, mi aiuta a stare con i piedi per terra.
Ringrazio quei professori che mi hanno insegnato la vita e non solo le loro discipline.
Siete
tutti meravigliosi. Ed io vi auguro di imparare a conoscervi, di
amarvi, di essere voi stessi con accanto persone che meritano di starvi
accanto, di avere speranza e pazienza e continuare a combattere per i vostri
sogni. Lasciate che non si infragano mai. E se ci sono dei sogni
infranti, fate che quei sogni siano terreno fertile per altri sogni,
forti abbastanza da non spezzarsi mai. Grazie, grazie di cuore a
tutti voi.
Se
vi va di parlare con me, ecco a voi il mio profilo facebook, qui
trovate la pagina dedicata alla storia, poi il mio account su Wattpad,
ed un video su you tube dedicato alla storia.
Oh
e già vi dico, e spero che vi faccia piacere, che
arriverà di sicuro un missing moment. Se l'ispirazione e il
tempo sono con me, anche più d'uno! *-* Ed in particolare, uno è già stato scritto :3
A tutti voi,
grazie.
Un bacio,
vostra Aniasolary.
|
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Capitolo 30 *** Capitolo extra. La ragazza spezzata. ***
capitolo extra di until
Dopo un grande dolore
viene un sentimento solenne,
i nervi siedono cerimoniosi come tombe,
il cuore irrigidito si chiede
se proprio lui ha sopportato,
e se fu ieri, o secoli fa.
I piedi meccanici
vagano su una strada arida
di terra o d'aria o di qualsiasi cosa,
indifferenti ormai:
una pace di quarzo, come un sasso.
Questa è l'ora di piombo, e chi le sopravvive
la ricorda come gli assiderati
rammentano la neve:
prima il freddo, poi lo stupore, infìne
l'abbandono.
Emily Dickinson
Anno 2005
Nell’istituto Saint Vincent, c’è la stanza del cuore di
Yvonne Grace, nove anni, lunghi capelli ramati e occhi color nocciola
splendenti, meteore stanche cadute sulla
terra, ma con la forza di brillare ancora.
La
stanza del cuore di Yvonne Grace è fredda, dai muri alti
alti, con casse piene di giochi, anche se cinque su dieci sono rotti, e
un
camino spento con davanti un tappeto di spugna, di quelli che si
mettono
insieme come dei pezzi di puzzle. Nell’angolo, una busta di carta
con vecchi
libri illustrati. È lì che Yvonne corre, e le sue mani
incontrano quello che, a
scritte dorate, è chiamato “Storia di una gabbianella e
del gatto che le insegnò a volare”, con tanti bei gattini
ed un gabbiano…
La piccola Yvonne si volta e un urletto le scappa dalla sua
gola.
«Shhh!» fa il bambino ricciolino steso sul tappeto, posando
il dito indice sulle labbra. «Se urli le suore ti sentono e lo sai che alle
dieci dobbiamo già essere a letto!»
«Hans. » Yvonne sbuffa. «Mi hai seguito! Di nuovo!»
Hans sbuffa allo stesso modo di Yvonne, i grandi occhi grigi
dalle ciglia lunghe e nere. «Ma tutti dormono… mi sentivo escluso.»
Yvonne si sposta i capelli lisci con fare da principessa
bellissima e raffinata. «Va bene, puoi restare.»
Gli occhi di Hans si fanno più grandi, luminosi, e il suo
sorriso gli spacca il viso in una geometria asimmetriche, stramba, unica.
«Grazie, Vonnie. Adesso continui a leggere?»
Sguardo in alto, mento sollevato, libro stretto al petto,
Yvonne cammina verso il tappetino e, una volta arrivata, ci si siede a braccia
conserte. «Certo. Vuoi che legga ad alta voce?»
«Potresti?» Hans sembra quasi implorarla.
«Certo, sciocchino.»
«Grazie, Vonnie.»
Yvonne stira le labbra, si sposta una ciocca di capelli
dietro l’orecchio per stabilire la giusta concentrazione.
«"Ora
volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai
molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si
chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la
pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori
la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L'umano e il
gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi.» Yvonne continua a leggere. « “La pioggia. L'acqua. Mi piace!” stridette.
“Ora volerai” miagolò Zorba.
“Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette
Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra.
“Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba.
“Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti”
stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come
dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli
equilibristi.
“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola
appena.
Fortunata scomparve alla vista, e l'umano e il gatto
temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si
affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando
il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della
banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata
volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con
energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito
dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della
chiesa. “Volo! Zorba! So volare!”»
Un respiro pesante la distoglie dall’attenzione. Fa un
respiro profondo, volta la testa e incontra la testa ricciuta di Hans, disteso
su un fianco. Lo spintona leggermente. «Hans?» Nessuna risposta. Yvonne si
morde le labbra e si passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Hansie? » Un altro spintone ed Hans cade
completamente disteso sulla schiena, addormentato con entrambe le mani sotto
l’orecchio sinistro quasi a volersi abbracciare da solo e una buffa espressione
con la bocca aperta. «Oh, Hansie,» sospira Yvonne. «Sei il solito dormiglione…
La gabbianella ha appena imparato a volare! Ti sei perso una scena
fantasmagorica… Dopo tutte le volte in cui ci ha provato forse nessuno ci sperava più che
avrebbe volato! Ma io sì.» Chiude il libro, lo solleva e colpisce, leggermente, la testa
di Hans, che mugugna un po’.
«Ti stavo sognando,» risponde lui con la voce impastata
dal sonno. Forse sta ancora sognando.
Yvonne Grace sorride, anche se adesso è solo Vonnie accanto
ad Hans Renton, nove anni e mezzo, grandi occhi grigi, pelle chiara e morbida
come il pane bianco la mattina a tavola, Hans che canticchia tante canzoni con
in mezzo la parola “love” e “Come on”, e il sorriso asimmetrico come tante
rette che convergono a formare quello
può essere solo e soltanto il suo Sorriso.
Vonnie si addormenta accanto ad Hans Renton.
Sognerà di essere una gabbianella che non sa ancora volare, ma lei sarà forte abbastanza.
Lei avrà speranza.
Il mio nome è Joshua Silvers e sono addormentato dentro di me. Prego. Prego che mia figlia possa salvarsi.
***
Settembre 2014
Hans
Renton
Sento un fruscio contro le gambe, e non riesco ancora a
capire se sto ancora dormendo o no, se questo è uno di quei sogni che si fanno
all’alba e che si dimenticano appena apri gli occhi.
Un fiato caldo contro le mie palpebre chiuse.
«Hans, oh mio Dio… » No, non sto dormendo, perché nei sogni
è tutto evanescente, sbiadito, e vorresti che restasse per sempre ma poi
scompare. Quando apro gli occhi, Yvonne è vera e una macchia di colore forte e
accesa, marrone chiaro dei suoi occhi, il biancore della pelle, le ciocche
bionde che si confondono fra i suoi capelli castano ramati.
«’Giorno.»
«Ci siamo addormentati qui sul tappeto, se le suore ci scoprono…»
«Vonnie, dai…»
«E ora? E se ci scoprono?»
«Non ci scopriranno. Non ci scoprono nemmeno quando vengo a
dormire nella tua stanza. »
«E se si arrabbiassero e ti facessero andare via… »
«Von… »
«Ti farebbero andar via… »
«Ma no…»
«Hans...»
«Yvonne, ascoltami.»
«... Se ci perdiamo di nuovo io sono persa per sempre.»
Ho le corde del cuore attorcigliate, tese, e non riesco ad
emettere alcun suono. Se ci perdiamo di
nuovo io sono persa per sempre Piano piano le corde del cuore si
sbrogliano, e nasce una strana melodia mai imparata, improvvisata, piena di
parole assurde che vengono dalla notte, dai giorni d’infanzia passati a
correre, dai libri che Yvonne mi leggeva con la sua voce di bambina.
Vonnie coi capelli ramati, non ti ho mai
persa. Sei il nodo che blocca le corde che ho nel cuore, lo stesso che non ho
toccato per anni perché sapevo che non sarei mai riuscito a scioglierlo. Sei la
mia canzone incompiuta, poesia mai finita, una risata cristallina a metà,
una storia di cui non ricordo il finale. Sei un sogno spezzato, come me.
Con le mani che tremano estrae un accendino e si accende una
sigaretta, frenetica, con gli occhi chiusi, soffiando il fumo verso l’alto da
sdraiata.
Ma sei
il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che
cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei
la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei una storia amata da
uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti per non dirti addio.
Sei un
sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te.
E per questo, io le prendo la sigaretta dalle labbra e la
spengo sul marmo del pavimento e la bacio.
Ha
le labbra secche; profumano di bagnoschiuma al gelsomino
e fumo e mi cercano ed io la abbraccio, stringo Yvonne a me come se
qualcosa
stesse per separarci per sempre ed io non voglio, io voglio finire la
mia
canzone, trovare una parola per questa poesia, continuare questa
storia. Le
accarezzo i capelli, la mia mano scende sulla sua schiena. Trovo
l’elastico dei pantaloncini e la sua pelle, la sua pelle e…
«Perché… perché, Hans, perché?
» Yvonne si stacca delle mie labbra e lascia tutto, tutto di me per mettersi in
piedi. Cammina avanti e indietro per la stanza e le lacrime scendono sul suo viso
e non capisco. Sono innamorato di lei e non capisco.
«Vonnie…»
«Perché devi rovinare tutto, eh, Hans? » Singhiozza.
«Yvonne.» Mi alzo dal tappeto e la raggiungo, veloce. E odio
quelle lacrime e odio che siano sue e odio non capire. Ci sono poche cose capisco
di quello che mi accade o ed è accaduto. Mia madre mi ha abbandonato. Il mio
migliore amico mi accetta per quello che sono. La mia chitarra è la mia casa.
E poi...
«Sono innamorato di te.»
«No.»
«Sono innamorato di te e dormo con te e sono il tuo amico,
sono le tue spalle quando il peso è troppo, sono i tuoi occhi quando non riesci
più a piangere, sono tutto quello che non si è spezzato di te e tu sei tutto
quello che non si è spezzato di me ed io ti amo. »
«Smettila,» mi urla contro.
«No, Yvonne, ascolta…»
«Vattene via.»
«Vonnie.»
«Vattene via, ti prego.»
«No, no, non posso.»
«Hans, ti prego.»
Cammina a grandi falcate verso la porta ed apre senza nemmeno controllare
fuori. «Vattene, se non vuoi che ti vedano. Mi inventerò una scusa, dirò che ho
perso la chiave della stanza e non sapevo dove andare… devo aprire la finestra
se no si sentirà la puzza del fumo e oddio, perché…»
«Che cosa senti?» Non mi interessa di chi ci sentirà. «Che
cosa senti, Yvonne? »
«Sento nel profondo che voglio solo e soltanto che tu vada
via!» Scoppia.
Voglio
odiarla. Voglio odiare mia madre, che quando avevo quindici anni mi
è venuta a trovare con la sua nuova famiglia di cui non posso
fare parte, perché io sono il suo errore più grande. Odio
Phil che mi conosce troppo bene per lasciarmi stare ed odio lei. Voglio
che l’amore sia solo una parola che fa rima nelle canzoni, niente
di più.
Chiuso nella mia stanza, con la chitarra sulla pancia, cerco
un modo per salvarmi, per salvarla, per salvarci. Ma forse non esiste e questo
mi dà la prova che quello che sento è disperatamente vero. La seguirei ovunque,
anche nell’orrore peggiore che potrebbe
mai capitarci, per poi cercare di riportarla su.
Perché è lei, è Yvonne, è Vonnie. Per un
attimo, ho pensato
che amarla come sogno di fare ci avrebbe salvati per sempre. Ho pensato
che amarla l'avrebbe aiutata a volare via dal dolore che le si è
radicato dentro, volare via per sempre, come la gabbianella di cui leggeva quando era bambina.
Amarla è la forza
della mia rassegnazione, amarla è l’unica costante che io
abbia mai avuto, è
l’unica cosa che sono sempre stato, anche quando per poco
l’ho dimenticato. E
mentre lo dimenticavo, si radicava sempre più in me stesso,
diventava parte di
ogni mio pensiero senza che io me ne accorgessi; ogni volta che suono
sento
lei, ogni volta che una ragazza mi sorride vedo lei.
Sono io, e c’è sempre lei, anche da solo, e non riesco a
pentirmi di questo.
***
Yvonne
Stewart/Silvers
In questa sera calda di settembre, metto il grembiule rosa
da cameriera mentre corro verso il bar dove lavoro ogni giovedì. Mi danno pochi
dollari, ma è abbastanza per comprare la tinta e le sigarette che nascondo fra
il materasso e la testiera del letto. È tutto quello che mi accontento di
avere, è tutto quello che posso meritare.
«Yvonne.» Il proprietario del Ofeil Bar dice il mio nome
appena mi vede entrare, sbatto la porta sul retro alle spalle e ne nasce un
vento che mi fa muovere i capelli.
«Buonasera, signor Hayden.»
Il signor Hayden sorride con la sua abituale malizia negli
occhi, quella di chi ha visto tanto, ha visto troppo; con i capelli brizzolati
e i grandi e infossati occhi azzurri.
«Puntuale, eh?»
Lo disprezzo con una forza tale che mi fa tremare, come il
tetto di una casa mal costruita in preda ad un uragano; è semplicemente uno dei tanti.
«Come sempre,» gli rispondo.
Tutto quello che sento è fastidiosamente forte, esige che io
vi presti attenzione con tutta la degenerante cura possibile. Forse un giorno cambierò.
«Be’, meglio che tu lo sia. Da oggi abbiamo una nuova
cameriera, se ti comporti male abbiamo già la tua sostituta.»
Continuerò
a sperare. Mia madre è il mio più bel ricordo d’infanzia; aveva
splendidi capelli lunghi, castani e dai riflessi color rame; non dimenticherò
mai il giorno in cui, portandosi una mano alla testa, ho visto ampie ciocche
cadere sul pavimento ed io ho temuto solo per la sua dolce bellezza, non per
la sua vita. E quando è morta, con le mie mani strette alle sue, un fazzoletto
giallo sulla testa e gli occhi nocciola colmi di lacrime troppo deboli per
cadere, mi ha ripetuto di non avere mai paura, di non perdere mai la speranza.
Qualcuno in fondo ride: è un suono animalesco e senza
contegno, di chi si crede migliore, di chi è sicuro di sapere tutto,
soprattutto di me, solo per il fatto che tento ogni giorno di nascondere me
stessa sotto uno spesso strato di fondotinta.
«Dici che ci mette cinque ore per venire a lavoro così sistemata
senza mai fare ritardo? » dice una ragazza che sorpasso velocemente, senza
guardare.
Ci
metterei anche tutta la vita, se servisse a cancellare tutto.
Arrivo in cucina, dove l’odore di fritto e di dolce mi
arriva alle narici intenso e familiare; un posto dove devo solo rispondere agli
ordini, e quasi le persone che lavorano con me smettono di fissarmi per pensare
a qualcosa di più importante. Dove nessuno, anche se volesse, potrebbe mai
lamentarsi di quello che faccio.
Vedo dell’immondizia lasciata in un angolo, un sacco verde,
dico che vado a buttarla via io. Lavorare mi aiuta a non pensare. Muovermi
senza pause atrofizza i ricordi e riesco, per pochi attimi, a sentirmi buona a
qualcosa per quello che faccio e non per quello che sono, anche se si tratta di
spazzare per terra, lavare vetri della
finestre, portare le ordinazioni ai tavoli; buttare via la spazzatura, come
faccio adesso nella stretta strada grigia con i rumori dei clacson e le risate
lontane.
«Pensi davvero che si arrabbierebbe?» È una voce maschile,
quella che sento, e la conosco.
«Arrabbiarsi? Oh, impazzirebbe. E cercherebbe in ogni modo
di farmi cambiare idea.» E la voce femminile, squillante e allo stesso tempo
delicata, emerge dal presente e dalla memoria.
«E poi?»
«Ed io gli direi: sì, hai ragione.» Silenzio. Una risata
nervosa. «E poi tornerei da te.»
Premo con il piede l’asta per alzare il coperchio della
spazzatura; ne viene fuori un rumore metallico che, inevitabilmente, interrompe
sul nascere il bacio dei due che sono proprio qui, stretti contro il muro in
mattoni sul retro del bar, nascosti.
Mi guardano, ma io ho già visto loro. Butto la busta nel
cesto apposito ed alzo di nuovo lo sguardo, mi stanno entrambi fissando.
«Va’, Holly,» le dice Phil, il migliore amico di Hans, con
gli occhi verdi socchiusi e i tatuaggi su entrambe le braccia scoperte. La
lascia andare sfiorandole appena i fianchi su cui ricade il suo grembiule rosa
da cameriera. Lei è la ragazza nuova.
La sorella
di Cameron.
«Ci vediamo domani,» continua lui.
«Non
volevo interrompervi,» dico, e un grande fastidio mi travolge, un
fastidio che non voglio spiegare. «Io torno dentro.»
Corro via e quando rientro il caos in cucina è tipico del
fine settimana, anche se è solo giovedì. Ma l’Ofeil Bar è sempre strapieno, ed
io non posso fare a meno di sentirmi sollevata per questo, per non pensare, per non pensare a…
«Yvonne, questo al tavolo nove,» mi dice la cuoca.
Meccanico. Non
pensare. Respiro. Afferro il vassoio con entrambe le mani, guardando per un
solo attimo il contenuto.
«Yvonne!» Sento Holly che mi chiama. Devo lavorare,
sbrigarmi, non pensare. Non pensare mai più, chiudere le porte a quel pensiero,
non sentirlo. Non mi fermerò. «Yvonne!»
Trattengo il respiro.
Martin Scott e Sarah Pierce sono seduti lì, in fondo, al
tavolo nove. Se ne stanno abbracciati; lei racconta qualcosa e lui la ascolta,
interessato, giocherellando con una ciocca dei capelli di lei. E non c’è nulla
che non dica che in tutto questo c’è amore, anche solo nel guardarsi,
nell’ascoltarsi.
Qualcosa che non posso avere.
«Yvonne.» Holly mi raggiunge, con il fiatone. «Per favore,
non dire niente a Cameron di me e Phil.»
Solo ora mi accorgo che quel ragazzo bruno seduto accanto a
Sarah è proprio Cameron Dixon, che ride con Julia Moore, la ragazza con i folti
capelli rossi.
«Non dirò niente,» dico, e Martin bacia Sarah e riesco a
vederli, riesco a sentirli, insieme sono felici. Mi si contrae lo stomaco al
pensiero che quel ragazzo, che ora sembra un altro, mi ha baciata e toccata, ed
io ho lasciato che mi baciasse e mi toccasse per qualcosa che è troppo radicata
nel passato per scomparire nel presente. Fredda
sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa di vodka e le sue mani
sotto la gonna. Scuoto la testa. «Porta tu l’ordinazione, così lo saluti.»
Mi somigliavi così tanto, Martin Scott. Ti
fingevi felice così bene, con tutta la vita che ti scorreva davanti e i dubbi
sbagliati.
Fredda sera di gennaio, con la bocca di un estraneo che sa
di vodka e le sue mani sotto la vodka. Pensa
all’amore, cos’è l’amore? Devi farlo, Yvonne. Devi lasciarglielo fare.
Darmi a un ragazzo che non ricordava nemmeno il mio nome
per guardare cosa aveva nelle tasche...
Non
pensare, Vonnie.
Stringo gli occhi, il ricordo sale in superficie, non sono abbastanza forte da
farlo restare sommerso e mi arriva addosso in tutta la vergogna che ho per me
stessa.
Hans.
È tutto spezzato: il cuore, la vita, i sogni. Non riesco a
far restare in piedi niente, altrimenti crollo io.
Sono già corsa fuori, e la sigaretta sembra scivolare dalle
mie dita tremanti, la mia bocca freme mentre aspetta quel contatto che
forse potrà darmi sollievo. Come quando
a quindici anni il mostro mi picchiò tanto da lasciarmi chiazze violacee
sulle braccia. E quando fuori da un
negozio di sapone in cui avevo cercato qualche crema per lenire il dolore uno sconosciuto mi
offrì una sigaretta con lo sguardo vacante di chi non ha niente per cui star
male, accettai. Il sapore era pessimo, lo odiai subito: lo odiai così tanto che
per un istante dimenticai i lividi, riuscii a ricordare meglio mia madre con la
speranza negli occhi. E riuscii a salvarmi.
Inspiro ed espiro il fumo, almeno riesce a rendere evanescente il volto
di Hans, i suoi occhi grigi che splendono, il viso incastonato nei ricordi e al
risveglio di ogni giorno della mia vita. Per un attimo, lui scompare.
«Ti dispiace se ti scrocco una sigaretta?»
È ancora Phil ed io faccio un’altra boccata, magari riesco a
far scomparire anche lui.
«Scordatelo.»
«Che acida.»
«È uno dei miei appellativi migliori.»
«Si vede che non hai mai sentito Hans parlare di te.»
«Te l’ha raccontato, non è così?»
«Mi è bastato guardarlo.» Phil si avvicina e il fumo gli
arriva addosso; gli occhi verdi sono intensi e scavati sul viso pallido, i
capelli corti da militare e la bocca stirata in un’espressione affranta che mi
trapassa, come se il mio dolore non bastasse, come se oltre il disprezzo
dovessi ricevere anche questo, da chi non sa niente. Da chi crede di sapere.
«Lo so, Yvonne.»
Continua a parlare. «Lo so perché Hans ha perso la testa per
te. Sai, quando sei andata via, tre anni fa, io ero arrivato da poco, ed ho visto Hans
incassare il colpo. Hans incassa sempre tutti i colpi possibili, anche quando
non sono solo colpi ma peggio, spade. Ogni dolore gli rimane conficcato dentro
come una lama, e per questo Hans resta a distanza di sicurezza da tutti, con
gentilezza, la gentilezza con cui è nato, credo, perché se fossi in lui
manderei molta più gente a fanculo. Ma lui è diverso. Lui ha le lame che gli
escono fuori dal corpo e non si lamenta con nessuno. Se si deve avvicinare lo
fa con calma, per non ferire gli altri con le spade che hanno trafitto lui… Ma allora, Yvonne, perché è
così vicino a te?» mi chiede, e nella voce ha una rabbia e una stanchezza che può avere
solo chi è vicino a una persona malata, a una persona che non vuole guarire.
«Perché, Yvonne? Perché sei come lui. Perché hai le lame di tutte le cose
brutte che ti sono successe che ti escono dal corpo, e combaciano con quelle di
Hans. Voi vi incastrate. Lui si è incastrato e ti è stato vicino come non lo è
stato con nessun' altra. Ed il rifiuto che gli hai dato l'altro giorno è stata una
lama in più.»
E
allora io mi sono trafitta da sola. Mi giro e spengo la sigaretta
contro il muro, ci appoggio la fronte anche se è sporco perché io sono sporca
dentro.
«Applausi.» E applaude davvero. «Che cos’hai nella testa?
Si vede da un chilometro che muori
per lui, anche non potresti essere più viva.»
La lacrime coprono il sapore del fumo.
Sento il suo fiato contro il mio orecchio e la sua voce
sembra un’implorazione, con tutta la dignità possibile. «Smettila di
trafiggerlo.»
Rido nelle mie lacrime, perché ho pietà di me, perché la
speranza che ho visto negli occhi di mia madre è rimasta, per mio padre è
rimasta, l’Yvonne figlia è rimasta, ma la ragazza di diciassette anni è
distrutta.
«Ed Hans non aveva paura di trafiggere te?» gli chiedo.
Phil ride. «Io ero già ferito mortalmente.» Si allontana.
Scalcia via qualcosa, forse una bottiglia di birra. «Ma al saint Vincent stiamo tutti messi molto
male, giusto?»Sento il suo sospiro. «Avere un amico come Hans per un po’ te ne può fare
dimenticare, però.»
Le lacrime scendono. «Lo capisco.»
«Torna all’istituto, Yv. Sei un disastro. Chiamo Holly e ti
copre lei.»
***
Aspetto
nascosta in giardino fino all’una di notte, mi ricordo che fra
tre giorni potrò andare a trovare mio padre. Mio padre, che vive
nei momenti in cui gli racconto le mie giornate, rigido nella sua
compostezza sofferente.
Apro
il portone con le chiavi; chi lavora di sera può usarle, anche
se solo nei
giorni autorizzati. Percorro le scale correndo, e il solo ritornare qui
mi
riporta ad Hans in ogni sua immagine conosciuta; la sua memoria
infallibile
mentre giocavamo a memory, i broccoli che lasciava sempre nel piatto,
il forte
abbraccio che ci siamo dati quando gli ho promesso che sarei tornata a
trovarlo,
gli sguardi ostili quando ci siamo rivisti dopo tre anni e le notti
serene in
cui ha dormito con me... io che lo spingo via dopo il suo bacio.
Perché…
perché devi rovinare tutto, eh, Hans?
Mi porto le mani al viso, ritrovandolo di nuovo bagnato di
lacrime.
Perché è così facile parlarti
come se parlassi con me stessa allo specchio? Accusarti come io accuso me?
Ancora
qualche altro scalino.
Perché
sono io quella che ha rovinato tutto, non tu. E così sto distruggendo te. Un
singhiozzo. Non voglio distruggerti,
Hans.
E lì lo vedo.
Seduto sull’ultimo scalino, il più alto, per
entrare nel dormitorio femminile. Mi si mozza il respiro come se non ci fosse
più aria, perché mi sta guardando. Con i capelli morbidi di un riccio discreto,
gli occhi grigi assonnati ma incredibilmente accesi sul volto di
una bellezza che non tutti possono capire. Si alza dal suo posto e mi sovrasta
con la sua altezza imponente.
«Von,» mormora. «Dov’eri finita?»
Deglutisco. «Ero a lavoro.»
«E per il resto?»
«Oh… be’…» Ho semplicemente cercato di evitarti. «Ho avuto
da fare.»
Il suo sguardo è attraversato da un guizzo, la pietra
appuntita della mia bugia sull’acqua dei suoi occhi, perché sa che cosa
nascondo, lo sa come se a pensarlo fosse lui stesso.
«Capito,» dice invece. Si passa una mano fra i capelli e
vedo la sua incertezza, qualcosa di spossante che trattiene con una smorfia di
fastidio, come se si sentisse responsabile. Ma responsabile di cosa? Smette di
guardarmi e si mette le mani nelle tasche dei jeans, scende qualche scalino. Ha
quell’espressione triste e allo stesso tempo dolce che gli sta addosso da
quando era bambino, un bambino che ora non è più. È alto e ha le mani grandi
dai polpastrelli duri ed ha diciassette anni.
«Buonanotte, Yvonne.» Mi
sfiora passandomi accanto.
«Hans,» lo chiamo, voltandomi verso di lui. Si gira verso
di me, in attesa, con le labbra sottili e rosee leggermente dischiuse.
«Quella mattina… quella mattina io…»
«Non c’è bisogno di parlarne,» dice Hans, sicuro, anche se
le sue guance si colorano e pare tremare anche se resta immobile, come se fosse
l’aria, invece, a tremare per lui. «Scusami. Vado a letto adesso… ma posso restare con
te, se vuoi.»
È come se mi avessero buttato addosso dell’acqua ghiacciata
per farmi svegliare da un sonno pericoloso, perché vorrei correre da Hans ed
abbracciarlo e non so cos’altro perché mi spaventa il nome delle cose, il nome
delle cose le rende di un’intensità che non riuscirei a sopportare.
«Certo,» sospiro,
come in un sogno. «Lascio socchiuso il cancelletto con la chiave, e poi…»
«… poi arrivo, chiudo a chiave, la prendo, torno indietro,
busso tre volte con tre secondi di differenza. Sveglia alle cinque
all’orologio.» Sorride.
Il suo sorriso diventa mio, sembra nascere da me, un albero
con le radici nelle mie arterie.
***
Hans bussa tre volte.
Io sono qui ad aspettarlo come se non facessi altro da
sempre, sapere che lui è dall’altra parte della soglia mi ridà la facolta di
respirare normalmente. Quando lo vedo, però, il respiro va via di nuovo. Entra
veloce, guardandomi appena, con le sopracciglia arcuate per la tensione, perché
finora nessuno l’ha mai scoperto ma la preoccupazione c’è sempre.
Mi porge la chiave, facendola ciondolare di fronte al mio
viso.
«Fatta anche stavolta,» dico.
«Meglio di una spia.»
Rido, piano. Nella notte, nel silenzio solo nostro, nel
pensiero che mi starà accanto.
Mi corico dal lato sinistro, quello dove dormo da una vita,
ed Hans mi si mette accanto, supino. Alza di poco il viso per guardarmi, il
suo sorriso è una linea tremula dettata dalla stanchezza, qualcosa che mi riserva
ancora.
Come puoi, Hans? Come fai? Mi carezza il viso con la punta delle dita,
i suoi duri polpastrelli da chitarrista, l’unico regalo che gli ha dato la
vita: la sua anima pura anche nel dolore. È per questo che non mi odi, Hans.
Sei troppo puro per questo. Quella sporca sono io.
«’Notte, Vonnie.»
«’Notte, Hans.»
Si volta dall’altra parte. Nel buio, mi ritrovo ad
immaginarlo come l’ho appena visto. La maglia blu del pigiama che gli va lenta,
i capelli scompigliati, la luce argentea che gli viene da dentro e che mi
travolge ogni volta. È, forse, la polvere
del suo sogno spezzato? Il pulviscolo che ci resta intorno, l’esperienza che riesce
a vedere solo chi già sa?
E
vorrei tanto chiamare per nome quello che sento, quel non
riuscire a respirare, il sorriso che cerco di nascondere, la sicurezza
assoluta
che mi salva dalla solitudine, perché Hans è questo. Hans
è costante, forte, invincibile anche quando sente di morire.
C’era la
vita, nei suoi occhi, quando cadde a terra dopo lo sparo. Aveva quello
sguardo che
diceva “ho imparato resistere da quando sono nato”. Lo
stesso sguardo con cui
mi ha raccolto da terra tante sere fa, nel bagno delle ragazze. Ho imparato a resistere da quando sono nato
ed ora lo faremo insieme. Mi sono addormentata fra le sue braccia, quella
notte. Ho bisogno di te, Hans. Avrò
sempre bisogno di te.
Se dessi a tutto questo quel nome sarebbe impossibile
tornare indietro. Sarebbe impossibile non spezzarmi di nuovo, e non spezzare
lui.
«Ehi… ti muovi sempre, non riesci a dormire?»
Sei
così bello. E così dolce, e gentile, e maturo, e incredibilmente tenace. Te
l’ha fatta pagare, la vita, ma tu dai a lei guadagno, perché hai coraggio, un
orgoglio sottile che non ti fa prostrare alle umiliazioni, ti fa accettare per
quello che sono le cose che non possono cambiare. Come me. Come me, Hans.
Me ne sto con gli occhi chiusi.
«Vonnie… stai bene? » Sento la sua mano che mi scuote la
spalla.
Bene?
Mi sono persa, di nuovo. Mi salverei con una sigaretta, ma ormai ho imparato
che in realtà non mi salva da niente. Mi sono persa, Hans, perché la cosa a cui
non voglio dare un nome mi stordisce, mi scorre nel sangue, non mi fa dormire.
Sei tu.
Sento il suo respiro sul viso; odore di neve e muschio.
Apro
gli occhi e lo scopro così vicino che se solo mi innalzassi
di poco potremmo combaciare perfettamente, come due incastri di
metallo, due
spade che si toccano. Lo guardo, e sento gli occhi umidi, il cuore mi
batte
forte, e il mio respiro si trasforma in un leggero affanno e la mia
pancia
sfiora il suo fianco con il solo movimento di vivere, inspirare ed
espirare. E
lui mi guarda e aspetta. Io aspetto di calmarmi, ma non succede
perché non voglio dare un nome a tutto questo, ma tutto questo
un nome ce
l’ha già, senza il mio battesimo.
E
così, nell’onda travolgente di una consapevolezza che ho
respinto con la diga della mia paura, mi sollevo leggermente e le mie
labbra toccano le sue.
Nel buio tutto diventa vivido come non l’ho mai guardato
alla luce del sole. Con le palpebre chiuse percepisco il suo corpo rigido,
sorpreso, perché questo bacio è inaspettato, non lo aspettavo io, non lo
aspettava lui. Ma nel tempo di
qualche lento secondo lo sento sciogliersi contro di me in tutto il suo calore,
e così lui bacia me. Sento la sua mano accarezzarmi i capelli, sorreggermi
sulla nuca, baciarmi spirando tutta la forza che può avere.
Quanto vorrei essere capace di spiegargli che sto
sbagliando. Che quello che Hans desidera non è quello che merita.
«Mi dispiace così tanto…»
Scuote la testa contro di me, i riccioli dei suoi capelli mi
sfiorano. «Dispia... Dispiacerti?»
Gli
sfioro le labbra con le dita. «Se continui così non sarai
mai felice, Hans. Con me non lo sarai mai.»
«Ma Von...»
«Ho distrutto tutto.»
«Non è vero.»
«Lo è...»
«Quello che ti è successo ti rende quello che sei. Io amo
quello che sei.»
«No!
Non puoi!» gli
sibilo contro. Chiudo di nuovo gli occhi. «Quando mi hai baciata
ho ricordato
gli unici baci che mi sono mai
stati mai dati... avevano il sapore del liquore e nient'altro. E quando
mi hai toccata…
ho ricordato lo squallore di tutte le volte in cui l'ho fatto... Ho
lasciato che Martin e chissà chi altro prima si sfinisse con il
mio corpo mentre fingevo che andasse tutto bene ma niente andava bene, volevo solo morire... come ho fatto a resistere? Così io ho ucciso l'amore facendo l'amore,
ho distrutto tutte le possibilità di amare che potevo avere
perché è stato come rivivere tutto anche se ero
con te, con te che non c'entri niente. Meriti questo, Hans?
Lo meriti?» Mi stringe contro il suo petto, sono al sicuro, sono
in un posto
che non potrò mai lasciare, in cui lui mi raggiunge sempre.
«Lo meriti?»
Hans
che mi bacia, il fuoco che esplode dentro di me. Le sue mani sui
fianchi, il fuoco che diventa cenere, nella mia mente mani estranee,
bocche estranee, corpi estranei...
«Dio…
la mia Yvonne…» Mi stringe ancora di più, mi bacia
sui capelli, sulla fronte, tremo. «Yvonne…»
Mi
sembra di aver gettato a terra un peso che mi portavo sulle spalle da
sempre, ed Hans mi sfiora e nessuno squallore riemerge dal fondo, ci
siamo solo io e lui.
Hans
mi bacia sulle labbra, pianissimo, una ventata calda mi scuote in tutto
il corpo, e poi la sua bocca scende sul mento, pianissimo, scivola sul
collo, pianissimo, perché ha paura del passato che può
portarmi via se mi stringe troppo forte. Ma io non lo fermo. Mi mordo
le labbra e lui scende ancora, bacia ovunque la pelle
sia scoperta, con le sue dita che sfiorano i bottoni e li fanno venir
via.
Scende ancora, mi mordo le labbra, stringo la sua testa contro il mio
petto.
Non voglio credere ai miei occhi chiusi, al fatto che lo sto
permettendo, ma la
camicia da notte è completamente aperta ed Hans scende ed io
riesco a pensare
solo ad Hans… Hans, Hans, Hans…
Muove le mani in qualcosa di meravigliosamente sconosciuto,
e la lucidità scompare e conosco solo un abbandono, l’unico abbandono in un cui
è possibile essere ancora più uniti a qualcuno. Respiro piano, per non far
rumore, per non tradirmi, per riuscire a riafferrare i pensieri ora scomparsi con il corpo di Hans contro il mio.
«A cosa hai pensato?» mi chiede Hans, soffiando sul mio
orecchio, ed io riesco a mala pena a capire il senso della sua domanda, anche
se niente arriva veloce come la mia risposta.
«A te.» Il cuore palpita, il cuore mi scoppierà e morirò.
Morirò in questo sogno.
«Allora non hai ucciso l'amore.» Hans mi accarezza la fronte con le labbra, mi respira.«C'è ancora qualcosa.»
Sento
una lacrima bagnarmi la guancia, arrivare fino alla
mia bocca e, per la prima volta, il suo sapore non è amaro di
dolore. Viene solo dal
mio sollievo, dalla mia gioia, perché mi rendo conto che Hans ha
ragione. Perché
l’amore non l’avevo mai provato prima ed è
questo, covava dentro di me nella bambina che ero ed è
esploso
adesso nella ragazza spezzata di diciassette anni. Diciassette anni? Mi
sembra
di aver vissuto anni e anni di più per tutto il peso che
entrambi ci portiamo
dentro, e mi sembra di aver vissuto molto meno perché non riesco
a controllare
cose semplici come qualunque mio sentimento. Hans mi copre con la
camicia da notte e mi abbraccia, sollevandomi contro il suo petto; le
mie
ciglia sfiorano il suo collo, le mie lacrime sulla sua pelle. E in un
attimo in
cui riesco ad aprire gli occhi, e guardarlo in questa sua bellezza che
mi cura
dentro, mi ribello al fatto che mi abbia coperta.
«Baciami ancora,» gli sussurro. Il suo amore è volato a me ed ora il mio volerà a lui. Perché ha già
la mia anima, ma io voglio donargliela ancora.Lascio scivolare la camicia dalle spalle con un sospiro e così anche tutti i suoi vestiti, e nel buio lo vedo – la luce dei
lampioni ci raggiunge dalla tapparella abbassata solo di poco – ma io riesco a
vederlo perché lui ha la sua luce, lui ha qualcosa di argento e grigio che mi
riempie di meraviglia. Lui, con la pelle così chiara, la cicatrice dello sparo
sull’addome teso, prova di di una delle tante cose che l'hanno segnato sul corpo perfetto. I suoi capelli
che mi sfiorano la fronte e il respiro pesante per il solo sfiorarci.
Dai nostri corpi vengono fuori le lame
dei nostri
dolori, lame che nei loro scontri si scheggiano fino a diventare sempre
più sottili, sgetolandosi all'esterno, ma rimanendoci dentro. Ed
ora l’amore è nelle mie mani, sulle mie labbra,
in ogni parte di me, per lui; in ogni parte di lui, per me.
E
so
che ricorderò questa notte come la mia prima volta,
perché per me lo è davvero.
Hans mi culla, io lo cullo; i suoi capelli mi sfiorano, il
fiato caldo sulla mia pelle, stringo più forte le gambe intorno al suo bacino, come se
potesse mai lasciarmi adesso, adesso che l’aria non basta e sfugge dalla gola,
e le labbra si toccano appena e gli sono vicina e mai abbastanza, mai
abbastanza, mai abbastanza ed allaccio le mani al suo collo e siamo stretti,
sempre più stretti, e lui si fa vicino e lontano, vicino e lontano, lontano.
Lontano, per l’ultima volta.
Si si lascia cadere su di me ed io lo accolgo fra le braccia,
in uno scontro stanco in cui sento di essere completa, di stare bene.
«Von?» mi chiama, con l’impazienza nella voce.
«Va tutto bene.»Annuisco sicura. Le sue palpebre si assottigliano, le ciglia lunghe e scure a
fare ombra sul suo volto.
«Tu volerai, Yvonne… non importa quante volte sei
caduta, tu volerai, come la gabbianella…» Hans mi bacia le palpebre chiuse, mi
accarezza i capelli, la guancia, le braccia, apro gli occhi, mi guarda come se
non mi avesse mai vista prima… come ogni giorno in cui apre gli occhi accanto a
me.
«La gabbianella?»
«Il libro che leggevi da piccola.»
L’immagine di me che leggeva sul tappeto di spugna con lui
accanto mi torna alla mente. «Credevo dormissi.»
«Ma ti sognavo.» Sorride di sghembo. «Vonnie coi capelli ramati… non ti ho mai persa. Sei il nodo che blocca le corde che ho nel
cuore, il nodo che non ho toccato per anni… sapevo che non sarei mai riuscito a
scioglierlo…» Mi posa un bacio sulla guancia ed io sorrido, non riesco a
fare altro.
«Che
cosa dici, Hans?»
«Una
canzone.» I suoi occhi grigi mi scavano dentro la felicità. «Devo scriverla!
Hai carta e penna?»
«Nel cassetto del comodino.» Si
precipita ad aprirlo, la sua schiena bianca che riluce nell’oscurità. Accende
la lampada, torna vicino a me e scrive, parlando a voce. « Sei un sogno spezzato, come
me. Sei la mia canzone incompiuta… la mia poesia mai finita, una risata
cristallina a metà, una storia di cui non ricordo il finale.
Ma sei
il nodo che non si lascia sciogliere. Sei una canzone ripetuta all’infinito che
cerca la nota giusta. Sei la poesia che aspetta la parola della sua anima. Sei
la risata che smette per sentire il resto di una frase. Sei la storia troppo
amata da uno scrittore che ti guarda e non vuole finirti, per non dirti addio.
Sei un sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te. Sei un
sogno spezzato, ma riesci a tenere insieme tutte le parti di te… »
Mi bacia, sorride sul mio sorriso.
Gli
prendo la mano e lascio che scorra sulla mia guancia, a
raccogliermi le lacrime. Chiudo gli occhi ed è come se fossi solo
anima e non più corpo, non più una ragazza spezzata.
*
*
*
*
Ciao
a tutti, eccomi di nuovo qui! Ecco a voi questo capitolo extra *-*
All'inizio credevo che le dinamiche per la storia di Yvonne ed Hans
sarebbero state più semplici, ma il passato dei personaggi,
soprattutto di lei, ha condizionato moltissimo il tutto. Yvonne
è rimasta segnata non solo da quello che è accaduto con
le pietre nere ma anche dagli eventi da cui si è fatta
travolgere, forte abbastanza per continuare a sperare ma abbastanza
debole da poter sbagliare. Mentre lo scrivevo, ho pensato che potrebbe funzionare proprio come
capitolo all'interno della storia, prima dell'epilogo. Voi cosa ne
dite? :3 Spero che vi sia piaciuto e che vi abbia fatto piacere leggere
di Yvonne ed Hans *.*
Il
capitolo è introdotto da una poesia di Emily Dickinson. Se
notate, tutta Until richiama quello che ha scritto la poetessa, non
solo per la questione dei fantasmi di se stessi ma per diversi temi. Le
sue poesie sono davvero bellissime *-*
Il
libro citato all'inizio è "Storia di una gabbianella e del gatto
che le insegnò a volare" di Luis Sepùlveda. Un libro per
bambini e ragazzi con un bellissimo significato, commuovente e
dolce.
Grazie
a tutti voi che leggete *.* Ed un grazie speciale a tutti coloro che mi
hanno lasciato le loro parole per l'epilogo :)
Un bacio,
Ania :3
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