Just the right bullets

di Alkimia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First bullet: Overture ***
Capitolo 2: *** Second bullet - RoE ***
Capitolo 3: *** Third bullet - Philadelphia ***
Capitolo 4: *** Fourth bullet - Christine Pierce ***
Capitolo 5: *** Fifth bullet - Lost ***
Capitolo 6: *** Sixth bullet - Randez vous - parte prima ***
Capitolo 7: *** Seventh bullet - Randez vous - parte seconda ***
Capitolo 8: *** Eighth bullet - Il contrario di uno ***
Capitolo 9: *** Tenth bullet - Natalia ***
Capitolo 10: *** Ninth bullet - Agguato ***
Capitolo 11: *** Eleventh bullet - la casa delle illusioni - parte prima ***
Capitolo 12: *** Twelfth bullet - la casa delle illusioni - parte seconda ***
Capitolo 13: *** Thirteenth bullet - Stark ***
Capitolo 14: *** Fourteenth bullet - Al suo fianco ***
Capitolo 15: *** Fourteenth bullet - La torre ***
Capitolo 16: *** Sixteenth bullet: quel che resta dell'inverno - parte prima ***
Capitolo 17: *** Seventeenth bullet - Quel che resta dell'inverno - parte seconda ***
Capitolo 18: *** Eighteenth bullet - Apnea ***
Capitolo 19: *** Nineteenth bullet - Bella Addormentata ***



Capitolo 1
*** First bullet: Overture ***


(Contro)Indicazioni:
Per la fanfiction ho preso qualche riferimento dai numeri di Captain America del 2005 a cui è in parte ispirato il film, ma per il resto sono quasi a digiuno di fumetti e il mio headCanon si basa interamente sul movieVerse. 
Sono previste piccole “intrusioni” da parte dei personaggi di altri film e quindi riferimenti a The Avengers, Iron Man 3 e Thor - The dark World.
Il titolo della storia e le citazioni presenti in questo primo capitolo appartengono a una canzone di Tom Waits. 
Pareri, osservazioni e critiche sono sempre ben accetti. 
Per curiosità sulla fanfiction, o domande su la vita, l’universo e tutto quanto: ASK.  

*

 

Overture

LONDRA

Why be a fool when you can chase away
your blind and your gloom,
I have blessed each one of these bullets
and they shine just like a spoon.

Le avventure stancano, ecco un’altra cosa che non ricordava. 
Certo, avventura è un termine troppo romantico per lui, la parola che userebbe al momento è casino. Uno sfiancante casino del cazzo.
Prende un grande respiro e sente il bisogno impellente di accendersi un sigaro.

«Dopo questo disastro non vedrai sigari per un bel po’, al tuo polmone collassato non piacerebbe, Nick»
«Se lo dici tu, dottore».

In effetti non ha più fumato da quando è partito da Washington. Nella tasca tiene un cubano e un taccuino con degli indirizzi, nei file mentali del suo piano non esattamente brillante entrambi sono catalogati come “da usare solo in caso di emergenza”. 
Quella è un’emergenza, questo lo ha già stabilito, adesso resta da capire se può rivelarsi più utile il sigaro o il taccuino.
Se fosse un romantico come quelli che usano la parola “avventura”, ora sentirebbe una vocina nella sua testa dire qualcosa del tipo: «Come ai vecchi tempi, eh!». Ma Nick Fury è un uomo pragmatico, i vecchi tempi non gli instillano alcun palpito di nostalgia e in quanto alle vocine nella testa c’è un posto adatto per chi le trova davvero gradevoli, si chiama Centro di Igiene Mentale.
Borbotta qualcosa contro l’aria umida di Londra che trasforma il suo respiro e le sue parole in fumo. Con una mano si fruga nella tasca ed estrae il taccuino, con l’altra fa un cenno per chiamare un taxi. 
Dannazione, aveva scordato quanto fossero placidi i tassisti nel caro Vecchio Continente. E no, la nebbia che sta cominciando a calare non è un’attenuante per l’andatura da funerale del guidatore. 
«Non c’è bisogno di gettare l’ancora per fare la curva» mormora in un ringhio basso. L’imprecazione si perde nell’abitacolo odoroso di benzina e patchouli. Poi finalmente il taxi si ferma accanto al marciapiede, di fronte a una palazzina dal portone di alluminio che qualcuno ha lasciato aperto.
Fury non ha bisogno di leggere le targhette sul citofono per sapere a che piano si trova la casa in cui abita la dottoressa Foster insieme al suo fidanzato piovuto dal cielo.
Bussa con insistenza e alla fine qualcuno si degna di aprire. La ragazza mora, che non è la dottoressa Foster, ha un iPod in una mano e un sacchetto di cibo da asporto nell’altra - evidentemente ha aperto la porta con i piedi. Lei lo guarda per un secondo e poi fa una faccia intenerita.
«Mi spiace, amico, sono solo una stagista e questo vuol dire che non ho un centesimo da darti. Ma puoi avere il mio cheesburgher, non l’ho ancora toccato. Ecco, tieni».
Ma è scema? 
Fury sposta lo sguardo tra il sacchetto macchiato di unto e la faccia amichevole della ragazza. Poi sospira, molto lentamente. 
«La ringrazio, signorina Lewis, ma ho già cenato. Se mi lascia entrare senza essere molesta, non dirò ad anima viva che ha truccato i risultati del suo esame di Economia Politica».
Non sembra impressionata: il viso della ragazza si illumina e nel suo sguardo si accende una scintilla di furbizia. 
«Thor! Vieni qui un attimo, c’è il tuo amico spione» esclama, scansandosi per lasciar passare l’uomo. 
Thor, dio del tuono, figlio di Odino, erede al trono di Asgard, ha i capelli tenuti raccolti sulla nuca da un elastico e degli abiti da terrestre - un terrestre daltonico a giudicare da come ha messo insieme i vestiti. La vita di coppia gli giova, sembra sereno come qualsiasi giovane uomo innamorato. Evidentemente a casa sua le faccende famigliari vanno meglio dell’ultima volta; Fury non vuole indugiare nel chiedersi cosa ne è stato di Loki, il solo ricordo di quel bastardello megalomane basta a fargli venire la pelle d’oca.
Il viso disteso e sorridente del dio si incupisce appena quando riconosce Nick Fury nell’uomo dagli abiti smessi in piedi sulla soglia di casa. 
«Non credevo fossi tu» dice, la sua voce suona sospettosa ma non aspra. Evidentemente il ragazzone ha un altro amico spione da qualche parte. 
È comunque un benvenuto migliore di quanto l’uomo avesse previsto.
«Darcy, chi era alla porta?». Questa è la dottoressa Foster, la giovane donna minuta in accappatoio e ciabatte, con un telo di ciniglia raccolto a turbante in cima alla testa, dal quale sfugge qualche ciocca di capelli bagnati.
Fury sospira di nuovo, inalando una boccata d’aria che in quella casa ha odore di caffè e pareti tinteggiate di fresco. È questo il profumo che hanno le vite normali? 
Non sa perché se lo stia chiedendo ma sa che è una domanda pericolosa da farsi, soprattutto adesso che sulle sue spalle sente il peso delle macerie di tutto ciò per cui si è sacrificato. 
Anche questa gli sembra una riflessione troppo romantica e inopportuna. Le sue dita tastano il sigaro scivolato in fondo alla tasca del pesante cappotto scuro velato da una patina sbiadita. 
«Oh, lei è un altro degli amici che Erik ha conosciuto in manic… in ospedale?» chiede la scienziata, stringendo meglio la cintura dell’accappatoio.
No, decisamente la normalità non è una cosa che Nick Fury è in grado di affrontare.
«Jane, lui è il comandante dello SHIELD» spiega Thor.
La stagista fa uno strano sbuffo, poi si siede in cucina e comincia a mangiare il suo cheesburgher mormorando qualcosa a proposito del suo vecchio iPod. Il viso della dottoressa Foster perde qualsiasi traccia di cordialità. 
«Se è venuto qui per un’altra delle vostre confische, voglio che lei sappia…». 
La scienziata spara parole come proiettili di un kalashnikov. Fury smette di ascoltarla quasi subito, attraversa l’ingresso del piccolo appartamento e va a sedersi sul divano,
«Non sono più il comandante dello SHIELD» dice. 
La frase si confonde in mezzo alla sfuriata della padrona di casa, ma Thor sembra averlo udito. Cosa diavolo è, pena quella nel suo sguardo? Ah, certo, chi meglio di lui sa come ci sente ad essere destituiti.
«Sei stato congedato? Mi dispiace»  mormora il dio del tuono, sembra sincero. 
Fury fa un sorriso tirato. «Non voglio il tuo dispiacere, quello che voglio è che il mondo continui a credermi morto quando sarò andato via da qui, e voglio chiedere alla dottoressa Foster di poter usufruire per qualche minuto della sua strumentazione, devo poter fare una telefonata ed essere sicuro che non venga rintracciata. E, se è possibile, non mi dispiacerebbe un caffè». 
Thor e Jane Foster si scambiano una lunga occhiata, poi lui annuisce e le lancia uno sguardo rassicurante. 
Il dio è in debito con lui per avergli consegnato il Tesseract e Loki dopo il disastro di New York. Fury ha parecchi favori da riscuotere in giro per il mondo e, se non altro, il figlio di Odino è uno dei pochi creditori di cui si può ancora fidare. 
La dottoressa Foster si veste in fretta e torna dopo qualche minuto con i capelli ancora bagnati, cominciando a disporre sul tavolo computer, trasmittenti satellitari e valigette piene di cavi e attrezzi.
«Se tu non sei più al comando dello SHIELD, allora…». Thor ha sempre avuto quella loquacità un po’ sfrontata, quella per cui Nick Fury non ha mai avuto pazienza. 
«Lo SHIELD è andato a puttane, non esiste più. A dirla tutta, è come se non fosse mai esistito». 
Il dio del tuono è un guerriero, sa fiutare il furore e la voglia di rivalsa anche quando è celato sotto un volto impenetrabile. Forse sa fiutare anche il sangue delle ferite, anche quelle dell’orgoglio. 
«Contro chi stai andando a combattere, comandante?».
L’uomo pensa un attimo prima di rispondere. «Topi. Topi che non sono affondati con la nave» 
«Posso darti una mano?». 
Sì, sarebbe utile
Fury guarda gli occhi di Thor, limpidi e azzurri come il cielo sotto cui è nato, poi sposta lo sguardo su Jane Foster che sta armeggiando con un interruttore. 
Sarebbe utile, ma anche profondamente ingiusto e lui ha altre soldati da poter richiamare alle armi.
«Non è la tua guerra, non stavolta, amico mio».

***

 

NEW YORK

It takes much more than wild courage
or you'll hit the tattered clouds,
you must have just the right bullets
and the first one's always free

 

New York è diventata una bolla di luce e rumore, ecco un’altra cosa che non ricordava. 
La sera è una cappa violetta che incombe sul caos ordinato di una città in cui Steve cerca di sentirsi a casa, ma finisce quasi sempre per sentirsi solo a disagio. Si è risvegliato in quella città, sopravvissuto alla guerra, e ci è tornato per combattere un’altra guerra che pioveva dal cielo attraverso uno squarcio aperto sull’altro capo dell’universo.
Ora che ci pensa, andare via da lì dopo la battaglia contro i chitauri è stata una vera e propria fuga. Bisogna essere molto disperati o molto coraggiosi per tornare in un posto dal quale si è fuggiti. 
Steve preferisce definirsi speranzoso, ma non sa fino a che punto sia una bugia. 
Sam tamburella le dita sul ginocchio tradendo un’euforia che tenta inutilmente di dissimulare. Ha quasi spiccato il volo quando il Capitano gli ha detto dove erano diretti, e non ha più le sue ali. Le sue ali sono uno dei motivi per cui si trovano lì, ma il dispositivo di Falcon non è l’unica cosa per la quale Steve sa di aver bisogno di aiuto, dell’aiuto di qualcuno in particolare.
Hanno preso una macchina a noleggio; nelle tre ore di viaggio da Washington Steve ha parlato quasi ininterrottamente, parlato di cose comuni, di quelle cose che gli danno l’illusione di essere ancora una persona come tutte le altre, e Sam ha ascoltato, cambiando di tanto in tanto la stazione radio. Non gli capitava da moltissimo tempo, non parlava così con qualcuno da quando… 
«No, dai… davvero, figo!». Sam si sporge in avanti, come se i suoi occhi fossero affamati dello spettacolo che si riflette sul vetro scuro dell’auto. 
Per Steve si tratta solo di una improponibile quantità di cemento. E di una discreta quantità di ricordi. 
La Stark Tower illumina a giorno tutto l’isolato.
C’è una colonnina per il riconoscimento facciale all’entrata dei parcheggi. Il Capitano non fa in tempo ad abbassare il finestrino e a sporgersi all’esterno che la voce di Jarvis sta già trillando un saluto. Il padrone di casa saprà del suo arrivo ancora prima che lui abbia tempo di dire «Shawarma».
Il parcheggio sotterraneo è quasi vuoto, illuminato dalla luce azzurrina e fredda di lunghe file di neon che formano una grande S contro il soffitto. Come se la megalomania di chi ha progettato quel posto avesse bisogno di essere ribadita ancora una volta, come se i visitatori potessero mai dimenticare a chi appartiene l’edificio più alto e antiestetico della città.
La borsa nel bagagliaio è pesante ma Steve la solleva senza nessuno sforzo. Lui e Sam imboccano l’ascensore; appena le porte scorrevoli si chiudono dagli altoparlanti parte la musica di “You are my sunshine” di Jimmie Davis. 
Steve si preme una mano sugli occhi. 
«È il suo modo di darti il benvenuto?» commenta Sam, la risata trattenuta che gli arriccia le labbra. 
«Mi sembra più un modo per farmi pentire di essere venuto». 
Le porte dell’ascensore si aprono sull’ultimo piano dell’edificio, direttamente sul grande attico in penombra.
Le tracce della guerra non ci sono più, se non nella mente di Steve e sicuramente in quella dei suoi compagni.
«You are my sunshine, my only sunshine… Capitano, vedo che hai svecchiato il guardaroba…» . Tony Stark è in piedi sul divano davanti alla televisione accesa, si dondola di lato al ritmo della canzone. « You make me happy when sky is grey…».
Steve lascia cadere il borsone sul pavimento con deliberata malagrazia; una mano misericordiosa stoppa la musica. 
«Ciao, Steve. È un piacere rivederti». Bruce Banner sembra voglia trincearsi dietro il piano del bar. 
«E invece no, stavamo facendo la maratona di Breaking Bad».
Il Capitano annuisce enfatizzando un’aria convinta, come se capisse l’importanza vitale della cosa, poi si guarda attorno.
«E dov’è Pepper?» 
«In viaggio, a Portland. E prima è stata a Miami»
«Ah, ecco, ora capisco molte cose». Steve si sente in dovere di lanciare un’occhiata solidale alla volta di Bruce. «Sì, lo so, avrei dovuto telefonare». 
Tony Stark scavalca lo schienale del divano e balza a terra, avanzando scalzo verso i suoi ospiti. 
«Non mi dire, Batman ha trovato il suo Robin» mormora, notando Sam rimasto ancora sull’uscio. 
L’ex soldato si decide a farsi avanti e tende la mano al padrone di casa. «Signor Stark, lei non sa che onore sia conoscerla. Oh, wow, questo è davvero dove… è proprio il posto in cui avete abbattuto L-»
«No!» Steve sussulta.
«Non dire quel nome! Banner si innervosisce. Io mi innervosisco. Tutti ci innervosiamo a sentir parlare di Bambi, ok?» Stark solleva le mani come per proteggersi da un crollo improvviso, poi ricambia la stretta del suo ospite. «Piuttosto, tu un nome ce l’hai?»
«Sam. Sam Wilson».
Bruce decide di uscire dall’angolino in cui si è rintanato e di avvicinarsi per socializzare. Steve lo guarda sorridere cordiale a Sam e si chiede se la permanenza alla Stark Tower sia più benefica o nociva, ma non si hanno più avuto notizie di Hulk dopo la battaglia di New York, è più di quanto potessero sperare e la compagnia di Stark è sempre meglio della solitudine più totale, forse.
«Vi fermate a cena?» chiede lo scienziato.
«Ordino lo shawarma. E guardiamo qualcuno dei film che hai scritto su quel tuo quadernino».
Steve alza l’indice con fare ammonitore. La maniacalità di Stark aumenta quando la signorina Pots passa troppo tempo lontano da casa. 
«Siete molto gentili, ma siamo qui perché ho bisogno del tuo aiuto» dice, prima che Tony si faccia venire qualche idea che abbia a che fare con bottiglie di champagne e spogliarelliste con cui chiuderlo in una stanza. 
«Questo lo avevo capito, Frozen». 
Steve sente Sam cercare di soffocare un’altra risata. 
«Non abbiamo molto tempo, Tony, speravo di poter ripartire domani, non vorrei sembrarti scortese ma ho da fare» mormora.
«So già tutto. La Hill ci teneva così tanto a farsi assumere… comunque sia, cosa posso fare per te, mio vetusto amico?»
«Spero che tu sia in grado di riparare una cosa», dice Steve. E ora viene la parte peggiore, la parte in cui Tony Stark darà fondo a tutta la sua verve e forse a qualcosa di peggio. Ma se sa già tutto, saprà anche che le ali di Falcon non sono l’unica cosa importante che lui ha con sé in quel viaggio.
Il Capitano si china, apre il borsone e tira fuori il fascicolo che gli ha lasciato Natasha. Gli occhi di Stark si illuminano di un lampo di curiosità e lui è costretto a perdonarglielo: non sarebbe il genio che è se non fosse curioso in modo così molesto e a volte indelicato. 
«E spero che Jarvis sappia tradurre il cirillico» conclude, porgendogli la cartellina di cartoncino liso. 
«Cos’è?» 
«Puoi guardare da te»
«Potrei, ma odio che mi si porgano le cose». 

***

 

PHILADELPHIA

There is a light in the forest
there's a face in the tree,
I'll pull you out of the chorus
And the first one's always ree

I fari delle auto gettano fasci di luce attraverso le finestre, lampi che durano una manciata di secondi e poi spariscono. Lasciano appena il tempo di indovinare la sagoma di un pilastro, il profilo di un tavolo e poi di nuovo il buio fatto di nulla. 
Proprio come nella sua testa, dove la memoria è un gorgo di imbuto. La luce sembra arrivare se si sforza molto, ma non fa in tempo a mettere a fuoco le immagini che i colori si mischiano e restituiscono nient’altro che il nero muto e indistinto. 
Quando gli occhi si abituano alla penombra, il Soldato trova una sedia, l’imbottitura che cade da uno strappo sullo schienale simile a una ferita, simile a tutte le ferite che la sua mente piagata dall’oblio riesce a contare. 
Si siede e sospira. I pensieri stancano, ecco un’altra cosa che non ricordava.
La parola “eroe” rimbalzava da una didascalia all’altra nella sala dello Smithsonian Museum e il Soldato quasi non riesce a darle un senso forse perché ci vuole troppa saggezza o troppa ingenuità per credere agli eroi e lui le ha smarrite entrambe nel vortice di ghiaccio che ha ridotto in polvere la sua coscienza. Quelle foto raccontavano la guerra come una favola, il Soldato non ha memoria di favole, ma rammenta molte guerre, rammenta odore di fumo, polvere e sudore lì dove la sua mente si è assottigliata fino a quando il mondo è diventato una linea diritta che va dal ricevere un ordine all’eseguirlo, una linea affilata come una lama dove i nomi si sfaldano e le persone diventano Obiettivi, Nemici… Missioni.
E lui che cos’è? 
La domanda è una scheggia incandescente che si pianta sotto la carne abituata a non riconoscere altro che la morsa del gelo e la frusta dell’elettricità. 
Lui chi è
Il Soldato di Inverno. Parole che valgono tanto quanto la scritta “eroe” sotto le foto dell’uomo con lo scudo. 

«Bucky!» 
«Chi diavolo è Bucky?» 

La memoria non trova subito una risposta, deve mordere e graffiare una corazza di metallo e di tempo e alla fine, la risposta che intravede è sfocata, lontana, una fiammella flebile assediata da ombre indecifrabili.
Eppure la voce dell’uomo con lo scudo sembra abbattere muri dentro di lui. Dietro quei muri i ricordi sono fantasmi che non sanno darsi tregua, il loro lamento fa male fin dentro le ossa. 
Nelle foto in bianco e nero alle pareti del museo anche tutti gli altri sembravano fantasmi, carne e sangue sbiaditi all’ombra di una leggenda. 
Eroi, la storia fa in fretta a macinarne.
Il Soldato si volta di colpo, messo in guardia da un fascio di luce troppo forte che spezza pensieri e penombra, ma è solo un’altra auto che passa e va via.
La voce dell’uomo con lo scudo grida di nuovo quel nome. Dentro a un ricordo che sa di neve e paura, il Soldato sente lo sferragliare di un treno coprire le parole del suo amico, un addio che è la somma di tanti inverni.
Amico, il suo migliore amico, è questo che ha detto di essere. Se fosse vero, quello che al Soldato resta da provare è un sentimento che impiega qualche minuto a definire: vergogna. 
Si alza di scatto, gettando via la sedia e poi voltandosi ad afferrarla al volo con un movimento rapido, prima che cada a terra e faccia rumore nei grandi stanzoni vuoti di quell’edificio che tutti credono fatiscente e abbandonato, uno degli archivi dell’HYDRA.
Per il momento può zittire i ricordi insieme alla vergogna; ciò che gli urla nella testa ora ha la voce della vendetta. 

 

 

 

Credits

Soundtrack: 
“Just the right bullets” 
“You are my sunshine”

Un grazie di cuore, una fetta di casatiello e la ricetta della pasiera di mia madre va a EvilCassy per aver letto in anteprima il capitolo. 
Grazie a Alley che mi ha raccontato per ben due volte la seconda scena dopo i titoli di coda che i bastardi del cinema dove sono stata non hanno dato. 
Un abbraccio a tutti quelli che nella settimana post-visione del film hanno sopportato e supportato i miei vaneggiamenti sulla pellicola e sulla nascita di questa storia dopo tanti mesi di assenza dal fandom. 
E grazie a voi, che avete avuto la pazienza di arrivare in fondo a questo primo capitolo, spero di avervi incuriosita abbastanza e di ritrovarvi al prossimo aggiornamento, venerdì prossimo :)

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Capitolo 2
*** Second bullet - RoE ***


Second bullet -  RoE
 
IBIZA
 
You must be careful in the forest,
broken glass and rusty nails,
if you're to bring back something for us
I have bullets for sale
 
Sotto il sole pallido, il mare sembra un foglio di carta stagnola. La donna lo guarda dal parapetto di poppa del grande yacht, ne inspira l’odore salmastro, assapora la calma di quella mattina fresca e carica di promesse di pioggia. 
«Niente golf, oggi. Guarda che tempo, accidenti». Il proprietario dello yacht si ferma accanto a lei, appoggia i gomiti sulla ringhiera di acciaio cromato poi stende il braccio e le posa una mano sul fianco in una carezza distratta.
La donna non risponde, non ha voglia di mettersi a parlare e spezzare l’incanto di quella quiete.
L’uomo la guarda per qualche secondo, poi estrae dalla tasca uno smartphone e comincia a picchiettare sul display, in una manciata di pixel scorrono gli ultimi aggiornamenti sui titoli di borsa. Lui ne viene assorbito per un tempo incalcolabile, a lei sta bene così, lei lì è solo di passaggio.
La mattina rotola pigra verso il pomeriggio. La pioggia picchia forte in coperta, l’uomo, la donna e il capitano dello yacht si mettono a giocare a poker per ingannare il tempo, e lei inganno loro perdendo quasi ad ogni mano, fingendo di non saperle leggere dal luccichio dei loro occhi se hanno le carte buone oppure no.
Prima regola: tenere un basso profilo. Che è un po’ come giocare al gioco del silenzio con sé stessi.
La pioggia si trasforma in temporale. L’imbarcazione dondola ritmicamente, ai passeggeri viene mal di testa e passa l’appetito, il pranzo è uno sbocconcellare di tartine e frutta.
L’uomo si incolla di nuovo al cellulare per una mezz’ora buona, dalla minuscola finestra luminosa dello schermo muove cifre da capogiro, controlla le sue aziende con filiali sparse in tutto il mondo.
Pioggia o non pioggia, quella è l’ora del giorno in cui la donna comincia ad avvertire la noia, e lentamente la calma smette di sembrarle appetibile in un’escalation di nervosismo frustrato che cresce fino a sera, quando l’uomo la porta in giro per l’isola, e nel fracasso di turisti e locali e drink, la donna riesce a spegnare i pensieri e l’attesa non le sembra più tanto pesante.
Ma quella è l’ora in cui la conta dei giorni trascorsi dall’ultima volta che ha fatto qualcosa di costruttivo comincia a sembrarle vertiginosamente alta. Ed è lì da meno di una settimana.
Nasconde uno sbuffo impaziente chinando il capo, poi si alza dalla poltrona e si avvicina all’uomo, gli passa una mano attorno al collo, inclina il bacino fino a sfiorargli la spalla con un fianco.
«Non ti sembra che questa pioggia stia rendendo il pomeriggio troppo noioso?». Il tono suadente trabocca di promesse che non hanno bisogno di parole più maliziose o esplicite per essere colte.
L’uomo le circonda la vita con un braccio, la fa inclinare verso di sé e la bacia. È un bacio lungo, soddisfacente, ma che non ha niente dell’azzardo e della pressione della conquista.
Un uomo con una barca e un conto in banca come il suo non ha più niente da conquistare, meno che mai sulla pelle di una donna. 
Arrivano nella camera da letto che i respiri e i gesti sono già più precipitosi, la stoffa dei vestiti sembra già più arrendevole.
La donna sorride tra un bacio e l’altro, tra un bottone e l’altro. Nasconde la noia.
E poi lui si ferma di colpo, strabuzza gli occhi e cade all’indietro. Il tonfo del suo corpo che crolla sul pavimento viene coperto dal rombo di un tuono.
Lei inarca le sopracciglia e nel rapido scintillio di un lampo vede l’ombra accovacciata nella cornice della finestra con una posa da rapace.
La donna pungola con il piede la spalla dell’uomo, vicino a dove la piccola freccia si è conficcata, al centro esatto del muscolo deltoide. «Lo hai ucciso?» chiede calma.
«Avrei dovuto?»
«Come mi hai trovata?».
«Da quando fai domande così stupide, agente Romanoff?»
«Non credo che agente sia più la mia carica».
Le punte degli scarponcini del tiratore gocciolano pioggia sulla parete di radica. Lui muove la mano come se volesse tenderla verso la non-più-agente Romanoff, poi la ritrae. Aveva dimenticato quanto lei fosse inafferrabile, persino per lui. «Vieni con me o cominci a elaborare una scusa per quando il tuo amico si sveglierà?»
«Una telefonata sarebbe stata sufficiente, Clint»
«A proposito di telefonate, Fury è a Londra, lo sapevi?». C’è una nota di rimprovero in quelle parole o si sbaglia? Ma a Natasha Romanoff non è mai capitato di sbagliarsi su Barton.
La donna si umetta le labbra, prende tempo, una manciata di secondi per decidere se ne ha davvero abbastanza di quel nascondiglio o se la noia le sembra ancora un prezzo equo da pagare per stare al sicuro. Come ha detto Steve Rogers, ci vuole tempo per crearsi una copertura decente e una volta Natalia era una persona assai più paziente.
«Sto aspettando» borbotta Clint. Adesso il tono impaziente tradisce una richiesta precisa: vieni con me.
«È una bella tentazione, sai»
«Speravo fosse qualcosa di più. Ti muovi, sì o no?».
Sì.
Un attimo dopo sono in coperta, a farsi bagnare dalla pioggia. Nessuno sente i loro passi concitati sul ponte, nessuno li vede, sono tutti di sotto, al riparo. Saltano sul ponte della barca attraccata vicino allo yacht, raggiungono la passerella del molo tra schizzi di spuma.
Sono già fradici quando si mettono al riparo sotto la tettoia di un capanno della guarda portuale. Il Mediterraneo brontola e scalpita a pochi metri da loro.
Sul pavimento di legno verniciato, i sandali di cuoio rendono i passi della donna scivolosi, Clint le cinge le spalle per aiutarla a stare in piedi, in quella stretta lei sente la traccia di un’intimità e di un senso di appartenenza di una storia messa in un angolo e lasciata in sospeso.
«È stato molto romantico, devo ammetterlo». Natasha sorride divertita e il cipiglio serioso del suo compagno si scioglie.
«Mi dispiace non esserci stato, con il casino di Washington e tutto il resto». Il viso di Barton torna a incupirsi e Natasha si accorge che c’è una parte di lei, sciocca e irrazionale, che non è disposta a perdonargli quell’assenza, la stessa parte sciocca e irrazionale che ora vorrebbe abbracciarlo.
«È stato Fury a dirti di venire a cercarmi?»
«Fury mi ha detto un po’ di cose, niente che riguardasse te, sono io che mi sono preso la libertà di venire ad avvisarti, pensavo che volessi dare una mano piuttosto che restare nascosta a fare la donna oggetto di qualche riccone» 
«Nick ha detto che se ne sarebbe occupato lui. Non ha chiesto il mio aiuto»
«Immagino che abbia sottovalutato la situazione. Stava indagando sulla frangia Europea dell’HYDRA, mi ha mandato un file con tutti gli indizi e i dati raccolti, a quanto pare l’Europa non è piccola come sembra vista dalle pagine di un atlante».
Due ex-agenti e un ex-direttore soli contro il mondo: quando si preoccupava che le sue giornate stessero diventando noiose, Natasha non aveva in mente un così drastico cambio di scenario.
China il capo, quasi mortificata. «Sai cosa è successo quando ho sbloccato i livelli di sicurezza dello SHIELD»
«Che l’HYDRA si è presa un bel calcio nei denti»
«Anche io, in un certo qual modo».
Clint le prende la mano. A lui non è mai importato chi fosse la Vedova Nera, lui ha sempre visto qualcosa di più oltre la spia e l’assassina, all’arma forgiata nel gelo e nel sangue. E, comunque sia, l’agente Barton ha un’assenza da farsi perdonare.
«Non insisterò, posso riportarti su quella barca anche subito»
«Clint, quale dovrebbe essere lo scopo di tutto questo?»
«Quello di sempre: proteggere».
Perché è questo che fanno, quelli come loro, anche quando uccidono. Lo ha detto lei stessa al processo, a quei signori con le loro divise ordinate e con le loro mani che non si sono mai dovuti sporcare.
Clint stringe un po’ più forte le dita alle sue poi le lascia andare la mano. «Te lo chiedo un’ultima volta: sì o no?».
Sì.
 
***
 
NEW YORK
 
Se di solito il suo letto gli sembra una distesa di marmellata, quello che gli ha offerto Stark gli è parso una nuvola di vapore. Ma dare la colpa di quella notte insonne al materasso non gli renderà il cuore più leggero.
Sono le sei del mattino quando Steve decide di arrendersi al mancato appuntamento con la sana dormita in cui sperava.
A piedi nudi per mantenere intatto il silenzio della casa, raggiunge l’atrio e si ferma a guardare la città attraverso la vetrata. Vista da lì gli sembra ancora più estranea, ma il cielo ha l’azzurro terso delle belle giornate e il frastuono del ventunesimo secolo non fa breccia attraverso quelle finestre.
Sul piano del grande mobile bar c’è una pila di fogli con sopra una tazza per bambini con lo scudo di Captain America. Perché per Tony Stark i post-it sono troppo mainstream.
Sopra il vecchio fascicolo del KGB c’è una cartellina nuova con le pagine identiche a quelle originali, ancora calde di stampa, una copia perfetta dei documenti di Kiev ma con i testi in inglese. 
Steve scosta la tazza e appoggia il palmo della mano sulla pila di fogli, come se il battito del suo cuore passasse da quelle pagine.
Il mattino stiracchiato disegna rettangoli di luce sul pavimento e lui non ha più scuse per non sfogliare quel fascicolo.
Sente freddo, un freddo che pizzica i muscoli sotto la pelle e non viene dall’esterno, ma quando mai il Capitano Rogers è stato uomo da sottrarsi al proprio dovere?
Si mette seduto su uno sgabello, prende tra le dita la prima pagina - il documento originale ha l’odore dolciastro della carta vecchia e un sentore di muffa. Il prezzo della libertà è un prezzo molto alto, lo ha detto lui. Vale anche per la libertà del suo amico… «o quello che ne resta»  sussurra una vocina venefica in fondo alla sua testa, parole che gli provocano un brivido. Steve ora guarda le pagine con aria di sfida: quello che cerca in quel fascicolo non è la verità sul Soldato di Inverno, è la strada per ritrovare Bucky Barnes. Ma come per ogni caccia al tesoro, la pista parte da molto lontano ed è piena di zone buie, e forse dentro a quel buio ci sono i mostri.
 
Appunti del medico.
7 maggio 1945
Tentata rianimazione del Soggetto al quale sono stati somministrati farmaci cardiopolmonari, adrenalina direttamente nel cuore ed elettricità. E sebbene stento ancora a crederlo, il Soggetto si è risvegliato.
Il Soggetto non ha memoria della sua vita precedente, possiede solo memorie riflesse delle sue abilità acquisite relative all’addestramento militare e la conoscenza di quattro lingue diverse.

 

Di seguito sono riportate analisi cliniche che Steve non sa leggere, ma ha una vaga idea di cosa possano significare quelle colonne di numeri e diciture: il frutto degli esperimenti fatti su di lui durante la prigionia nella base del Teschio Rosso.
Conserva un ricordo indelebile di quella notte, della prima vera impresa di Captain America. Non c’è alcuna vanità in quelle memorie, anzi mentre i ricordi scorrono così potenti da riportargli alle narici l’odore della ruggine e della pietra flagellata dalla neve, lui pensa a quella notte come al momento in cui ha cessato di essere il ragazzo che era.
C’è sempre un uomo che soccombe, quando nasce un eroe. Su questo è inutile farsi illusioni.
Il documento che segue ha il timbro “Riservato” in inchiostro rosso e sbiadito.
 
Progetto: Soldato di Inverno
Giugno 1945
Il nostro infiltrato nell’MI-6 ci ha consegnato i documenti sugli strumenti e le appendici robotiche. La ricerca condotta dagli studiosi britannici si è rivelata assolutamente innovativa.
Il nostro reparto scientifico ha elaborato il prototipo del braccio meccanico che è stato poi impiantato al Soggetto senza incidenti.
Il Dipartimento X ci ha autorizzati a procedere  con i lavori sul progetto Soldato di Inverno.
Ma a dare la svolta definitiva sono stati i nostri esperimenti di Impiantologia Mentale durante la Deprivazione sensoriale. La perdita di memoria del Soggetto ha facilitato il lavoro con cui siamo stati in grado di riprogrammargli la mente.
Successivamente, il nostro compito si è limitato ad addestralo e a prepararlo per la dimostrazione sul campo.

 
Progetto Soldato di Inverno - 1° test sul campo
Rapporto Missione.
Data: 5 novembre 1954
Luogo: Berlino Ovest
In questo primo test sul campo, il Soldato ha svolto senza alcun intralcio il compito che gli era stato assegnato. La missione non era di natura troppo delicata, prevedeva solo che si infiltrasse in una pattuglia di soldati e manomettesse la jeep su cui viaggiavano.
Il Soldato ha eseguito gli ordini ricevuti senza alcuna reticenza e ha portato a compimento la missione dimostrando qualità militari impeccabili.
Le speranze che sia un agente di successo sono alte.

 
Il freddo che sentiva prima si è trasformato in calore, nel calore di una rabbia nauseata, come il bruciore di un’infezione.
Steve guarda le pagine impilate sul piano del mobile, sono ancora tante. Sarà una lunga discesa nell’inferno, e l’idea che per lui quell’inferno è fatto solo di carta e inchiostro non gli è di alcuna consolazione.
Aspetta qualche minuto e poi decide di non fermarsi più fino a quando non sarà giunto alla fine.
Le pagine che seguono sono una sequela di rapporti di missioni succedutesi negli anni e portate a termine senza alcun intoppo, omicidi a volte camuffati da incidenti, a volte orchestrati in modo che la colpa ricadesse su qualcun altro.
 
Cairo, 11 gennaio 1955. Obiettivo: Squadra di negoziazione dell’ONU…
Berlino Ovest, 14 maggio 1955. Obiettivo: Generale NATO James Keller…
Madripoor, 1 gennaio 1956. Obiettivo: Ambasciatore Britannico Dalton Graines…
Algeria, 1 aprile 1956. Obiettivo: Ministro della Difesa francese Jaques Dupy…
Città del Messico, 17 febbraio 1957. Obiettivo: Colonnello USA Jefferson Hart…
 

Steve lascia cadere i fogli. Vorrebbe fossero i pezzi di qualcosa da distruggere, i frammenti di uno specchio preso a pugni con le sue mani, vorrebbe sentire le schegge di vetro piantate nelle nocche a bruciargli. Non pensava che la rabbia potesse fargli venire un così grande bisogno di dolore fisico.
Al margine del suo campo visivo una mano afferra la tazza.
«Sembra che sia la Disney a produrre questa roba. Da non crederci». La voce di Tony Stark è un ronzio molesto.
Lui ha certamente letto il fascicolo, Steve è pronto a scommetterci lo scudo, e non si sarà fatto sfuggire la pagina riguardante l’omicidio di Howard e Mary Stark, passato agli annali come l’ennesimo tragico incidente che ha portato via uno dei grandi geni del secolo.
Tony prende una bottiglia di liquore dalla mensola alle sue spalle, senza neppure guardare quale; gesti automatici che sanno di una tristezza vecchia, assopita, che ogni tanto torna a galla. Versa una generosa sorsata nella tazza giocattolo e ci lancia dentro un cubetto di ghiaccio. 
«Non ti fa male bere a quest’ora del mattino?»
«No, se Pepper non viene a saperlo. Vuoi?»
Se servisse a qualcosa, Steve potrebbe anche essere tentato di accettare l’offerta, ma quella è una delle tante consolazioni che gli sono negate. 
Tony sorseggia il suo liquore, guardandolo di tanto in tanto da sopra il bordo della tazza; negli occhi ha parole con le quali lo aspetta al varco, ma per il momento il Capitano preferisce affrontare il nemico, piuttosto che discutere con un amico.
 
Progetto Soldato di Inverno - Analisi scientifica
Data: 7 giugno 1957
Dopo vari test, possiamo dichiarare che lo stato mentale del Soldato è instabile. Certamente dev’essere dovuto al fatto che la sua mente cerca di riempire i vuoti. Il Soggetto comincia a mostrare curiosità fino al punto da discutere gli ordini dei suoi superiori e attaccare i propri colleghi.
La teoria è che egli possiede un grande senso di ciò che era.
Suggeriamo di tenerlo in stasi tra una missione e l’altra, fino a quando non sarà trovata una soluzione efficace per correggere gli episodi di instabilità in modo che torni a essere d’aiuto al Dipartimento X.

 
Gli occhi di Steve si spalancano. La rabbia gli monta nelle vene ma appena allenta il su morso bruciante, lui scorge la scintilla di speranza per la quale aveva pregato.
Il documento successivo è ancora più incoraggiante.
 
Progetto Soldato di Inverno - Rapporto incidente.
Data: 17 marzo 1973
Dopo anni di eccellente servizio ci duole riferire che la recente missione negli Stati Uniti è andata incontro a un imprevisto che ha creato numerose difficoltà al nostro reparto.
Il bersaglio, il Senatore Harry Baxtor, è stato eliminato e la sua morte è stata resa come accidentale. Ma successivamente al termine dell’operazione il Soldato non si è presentato al luogo di recupero previsto. 
Seguendo il protocollo, i nostri agenti in territorio americano hanno iniziato una ricerca su larga scala, mettendo a rischio le loro identità di copertura.
Con grande sforzo siamo riusciti a ricostruire alcuni dei movimenti del Soldato, dopo la sua sparizione. Indossando abiti civili si è recato alla stazione di Dallas dove è salito sul treno per Chicago. Giunto a destinazione ha viaggiato su un autobus diretto a New York. Lì i suoi movimenti restano ignoti, per due settimane è rimasto al riparo da occhi indiscreti ed è sfuggito alle ricerche dei nostri agenti. È stato successivamente recuperato in un dormitorio del Lower East Side.
Anche dopo condizionamento mentale il Soldato non è stato in grado di riferire risposte sulla sua condotta o ricordi del suo periodo da clandestino.

 

«Ha sempre voluto tornare a casa…». Steve si accorge di averlo detto ad alta voce solo quando incontra lo sguardo di Tony e i suoi occhi arrossati dall’insonnia e dall’alcol. Vorrebbe tanto sapere cosa gli passa per la testa, e in genere il signor Stark non è il tipo d’uomo che si fa pregare per dar voce ai propri pensieri, ma stavolta stringe le labbra e gonfia le guance a trattener parole. È una dimostrazione d’affetto insperata, e tra sé e sé il Capitano sorride, anche se il sorriso non gli arriva alle labbra.
«Mi dispiace di averti coinvolto in questa cosa»
«Oh, non vedo proprio come avresti potuto fare altrimenti. Illuminami: quali sono le prossime mosse in programma?».
Steve non ne ha la più pallida idea. Lo realizza con una chiarezza allarmante.
«Se quando è scappato dall’HYDRA la prima volta è tornato a casa, potrebbe averlo fatto. Forse non è lontano». Più che un’ipotesi è una speranza.
«Quella prima volta non era del tutto cosciente»
«Non lo è mai stato, in tutti quegli anni». Steve spera che la precisazione sia chiara e che si estenda fin dove lui vuole farla arrivare. Non lo è mai stato, nemmeno quando ha ucciso Howard e Mary Stark.
Tony sbuffa. «Mi domando, Capitano: se il sergente Barnes che conoscevi prima della guerra si rendesse conto di tutto quello che ha fatto, cosa vorrebbe tu facessi? Tu, o chi per te».
Stark sta ancora trattenendo più parole di quante ne pronuncia, ed è inquietante. Quando una persona come lui non dà voce a tutto quello che ha nella testa, restano sottintesi carichi come bombe ad orologeria.
«Non è il tipo di domande che mi pongo di solito. Le domande che mi pongo io riguardano più che altro ciò che è giusto»
«E io devo farmelo bastare?»
«L’uomo che si è gettato in una varco spaziale con un missile nucleare sulle spalle se lo farebbe bastare»
«Cristo santo, sapevo che l’avresti tirato in ballo da qui all’eternità!».
C’è una nota di ironia ad ammorbidire la voce e lo sguardo del figlio di Howard.
Sì, Iron Man può farselo bastare.
 
«Sei forte con larmatura, tolta quella che cosa sei?»
Un uomo, solo un uomo.
 
Quello che Tony Stark può fare, invece, è concedergli la possibilità di rimandare quel discorso a data da destinarsi e per adesso - solo per adesso - va bene così. Steve fa un respiro più rilassato.
«Comunque» prosegue Stark. «Se avessi bisogno dell’uomo che si è gettato in un varco spaziale con un missile nucleare sulle spalle…»
«Non provarci nemmeno»
«Pepper starà via ancora per una decina di giorni e…»
«Stark, piantala»
«Sicuro? È la mia ultima offerta».
Steve sorride adesso, un po’ sente di doverglielo. Gli deve molto, in realtà, e da qualche parte deve pur cominciare. «Io sto cercando il mio amico Bucky, ma non so cosa troverò. Già mi sento responsabile per Sam»
«Andiamo, Capitano, sei un soldato, lo sai bene che le guerre non le vincono i singoli ma gli eserciti interi».
E questa da dove gli è uscita? Da quando Tony Stark crede nel valore del lavoro di squadra? Forse la battaglia di New York è stata un trauma più grande di quanto tutti siano disposti a credere, e anche dopo non è che lui se la sia passata proprio bene.
«Ma questa non è una guerra. La definirei più un’operazione di salvataggio, e nella mia prima operazione di salvataggio ci sono andato da solo»
«Sì, mio padre me l’ha raccontato solo due o trecento volte. Comunque sia, tieni».
Tony estrae dalla tasca un foglietto spiegazzato e glielo sventola sotto il naso prima di posarlo sul bancone. Steve lo apre, sopra è segnato un indirizzo di Philadelphia.
«Eh!». Il padrone di casa lo guarda con un sorriso da pagliaccio, come se si aspettasse che lui avesse una qualche illuminazione e capisse al volo cosa significa quall’indirizzo.
«Almeno mimalo. Quante parole?»
«È faticoso parlare con te. Già tollero a stento una conversazione con uno che crede che Star Wars sia il sequel di Star Trek»
«Perché dovrei andare a Philadelphia?» 
«Perché facendo un controllo incrociato dei dati degli ultimi mesi presi dai documenti SHIELD e dai dati contenuti in questo fascicolo ho scoperto che c’è un laboratorio a Philadelphia dove il nostro Jon Snow ha passato un bel po’ di tempo prima di essere portato a Washington per fare fuori Fury…»
Chi o che cos’è Jon Snow?
«… controllando gli edifici vuoti o presunti tali nella città, ne ho trovato uno particolarmente sospetto. Ritengo che sia un laboratorio segreto dell’HYDRA. Io non sono uno psicologo, Rogers, ma se fossi nel tuo amico, non avrei voglia di tornare a casa anche perché sarei lucido quel tanto che basta a capire che una casa non ce l’ho più. Se fossi in lui, avrei voglia di fare il culo a quelli che mi hanno trasformato nella versione cattiva di Robocop, e comincerei dal posto più a portata di mano. Se può servire ad avvalorare la mia tesi, sappi che Banner è d’accordo con me»
«Sono colpito»
«Non ringraziarmi».
Steve scuote la testa, poi spalanca gli occhi e si sporge a guardare meglio il suo interlocutore,
«Ma almeno, hai dormito stanotte?» gli domanda.
«Mi hai chiesto tu di aggiustare le ali del tuo amico, hai detto che avevi fretta. A proposito, deve proprio riprendersele, non è che posso tenerle?».

 
 
 
 
 
Note:
- RoE sta per Rules of Engagment, nella terminologia militare è la sigla con cui si definiscono le modalità di entrata in campo delle varie forze a disposizione nella pianificazione di una strategia militare.
- La citazione in apertura del primo paragrafo viene sempre da Just the right bullets di Tom Wais.
- Il contenuto dei documenti e la lista delle missioni del Soldato di Inverno che Steve legge nel fascicolo sono prese dai volumi di Captain America del 2005 di cui ho parlato nelle note di apertura. L’unico che il fumetto non menzionava era l’omicidio dei genitori di Tony, che invece viene menzionato nel film. Nel frattempo mi sono procurata anche i fumetti della serie dedicata al Soldato di Inverno e alla Vedova Nera e sono pieni di cose belle e spunti *_*
- «…Già tollero a stento una conversazione con uno che crede che Star Wars sia il sequel di Star Trek» viene da questa vignetta. LOL!
 
Per curiosità sulla fanfiction e domande su la vita l’universo e tutto quanto: ASK

Pubblicherò un capitolo a settimana, ogni venerdì, quindi, per chi vorrà, ci leggiamo tra sette giorni esatti. Intanto grazie a tutti voi che avete letto, commentato, preferiteggiato e iniziato a seguire, siete incredibilmente tanti anche se la sezione è ancora piccina rispetto a quella degli altri Avengers, e vorrei abbracciarvi uno ad uno *w*
Alla prossima.

 

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Capitolo 3
*** Third bullet - Philadelphia ***


Third bullet: Philadelphia
 
PHILADELPHIA
 
The color of my name is getting caught up between myself
but it's destroying me into the color that you're making me
 
Lo scudo lo ha trovato sul sedile del guidatore, insieme a un biglietto.
“L’ho fatto recuperare dalla baia dopo il disastro con gli Helicarrier, aspettavo di potertelo riconsegnare. Buona fortuna.”
Maria Hill è stata di poche parole, per mantenersi nel solco della tradizione. Non importa se il mondo attorno a te crolla, non si smette mai di essere un agente dello SHIELD.
Il pensiero lo porta dritto a Natasha e a una nostalgia sottile. Steve si pente di non averle chiesto come fare se avesse voluto contattarla - probabilmente lei avrebbe risposto con un’alzata di sopracciglio e gli avrebbe fatto notare quanto sciocca sarebbe stata una domanda del genere, e poi avrebbe aggiunto: «Pensa a contattare Sharon, me lo hai promesso».
Sono ancora troppo occupato per queste cose, Nat.
«E così Stark ha accettato di restarne fuori, senza storie» dice Sam, frenando davanti a un semaforo rosso.
«Così pare». Steve non ne è del tutto convinto, con Tony non si può mai dire, ma la sua mente contorta potrebbe anche ritenere di aver fatto abbastanza riparando le ali di Falcon, facendo tradurre il fascicolo e estrapolando l’indirizzo del laboratorio segreto di Philadelphia. O forse è solo quello che al Capitano piace pensare.
Un problema alla volta, Rogers
Quando scatta il verde, Sam indugia qualche istante prima di ripartire, con lo sguardo fisso sullo specchietto.
«Cosa c’è?» chiede Steve.
Il suo amico aggrotta la fronte. «Niente, mi era sembrato… niente».
L’autista fermo dietro di loro dà una bussata di clacson e fa un gesto impaziente e stizzito.
Steve è contento che Sam abbia deciso di seguirlo, è una contentezza che lo fa sentire in colpa, egoista. Certo, aveva capito che niente lo avrebbe fatto desistere da imbarcarsi insieme a lui in quella ricerca, e Wilson non è un ingenuo, come tutti i soldati deve avere un’attitudine particolare al calcolo del rischio, ma Steve lo ha già detto anche a Tony Stark: è partito per cercare Bucky, non ha idea di quello che troverà, né riesce ad avere la giusta lucidità per fare una stima realistica dei pericoli. Ma questa è un’altra ragione per essere contento della presenza di Sam, sentirsi responsabile per qualcun altro lo aiuta a essere prudente laddove il suo grado di coinvolgimento lo renderebbe sconsiderato.
Quando Steve riemerge dai suoi pensieri si accorge che stanno accostando.
«L’indirizzo è a un isolato da qui. Penso sia meglio fare qualche metro a piedi» dice Sam.
«Credi che qualcuno ci stia seguendo?»
«Per un attimo mi è sembrato, ma sono quasi del tutto certo di essermi sbagliato».
Steve annuisce, scendono dall’auto e lui sente il nervosismo cominciare a serpeggiargli tra i muscoli e lo stomaco. Si chiede perché mai qualcuno dovrebbe seguirli e  realizza di avere un sacco di ipotesi, una peggiore dell’altra, ma cerca di tranquillizzarsi: nessuno sa di loro e della loro ricerca.
Ma lHYDRA rivorrà indietro il suo soldato perfetto, no? L’intuizione è raggelante. L’HYDRA è un mostro sopravvissuto agli anni più tremendi del secolo, cresciuto all’ombra dei suoi stessi nemici, e lui è solo un soldato imbarcato nella più improbabile missione di recupero della sua carriera. È ancora solo quel ragazzo di Brooklyn che deve riportare a casa un amico che si è perso.
LHYDRA a questora dovrebbe crederlo morto. È un’ipotesi assolutamente valida, eppure non abbastanza da  tranquillizzare il Capitano, perché un buon soldato non solo riesce a calcolare i pericoli, ma riesce soprattutto a fiutarli.
Eppure attorno a loro Philadelphia è una città di facce estranee e sguardi distanti, del grigio uguale a quello di tutte le altre città e con poche ombre dove i mostri possano stare in agguato. I passanti che sfilano accanto a loro sembrano non avere altro interesse che la propria vita, le proprie faccende.
«Philadelphia, il film, lo hai visto?» chiede Sam, per spezzare la tensione.
«Quello di… uhm… Woody Allen?»
«Quello era Manhattan» 
«Ho sbagliato il regista e pure la contea».
L’indirizzo recuperato da Stark appartiene a uno stabile basso, con il tetto di lamiera. I vetri delle finestre sono tutti rotti e il portone ossidato è chiuso da una catena dalla quale pende un cartello che avvisa che l’edificio è pericolante e impone di non entrare.
«Un po’ scontato per un laboratorio segreto, no?». Sam saggia la resistenza della catena.
«Talmente scontato da essere efficace». Steve non vuole prendere in considerazione l’eventualità che Tony si sia sbagliato. «Troviamo il modo di entrare».
Alle spalle dell’edificio c’è una palazzina bassa con una scala antincendio che sale come un rampicante di ruggine e bulloni sul muro di mattoni. A metà dell’altezza, i gradini della scala si trovano proprio in direzione di una delle finestre del secondo piano del casolare abbandonato, si tratta di un piccolo salto di un metro.
Sam non può usare le ali che tiene ben allacciate in spalla, non passerebbe nel rettangolo della finestra; valuta la distanza e guarda di sotto. «Se cadiamo finiamo diritti in quel cassonetto. Non sono sicuro che sia divertente come nei film»
«Ti prendo io». Steve è già in piedi sulla ringhiera cigolante della scala antincendio. Si assicura che nessuno entri nel vicolo, che nessuno veda, tira fuori lo scudo dallo zaino in cui tiene le poche cose che ha portato con sé assicurandolo all’avambraccio e tenendolo sollevato in avanti. Salta, la ringhiera arrugginita vibra come una molla.
Prende in pieno la finestra, riuscendo a passare per un soffio, una lingua di vetro rotto gli taglia un lembo della giacca: un piccolo tentativo della fortuna di opporre resistenza. Atterra sul pavimento polveroso, tra schegge e lanugine.
«Tutto ok, amico? Qualcosa di interessante?». Sam si sporge per vedere meglio, e assicurarsi che lui sia tornato in piedi tutto intero.
«Non direi…». In quella stanza c’è solo muffa e una catasta di vecchi mobili ammucchiati contro il muro, l’odore appiccicoso delle cose abbandonate.
Steve si avvicina al davanzale e stacca dal telaio della finestra gli ultimi pezzi di vetro, afferra lo scudo per una delle due maniche interne e sporge di fuori il braccio, il più possibile. «Ce la fai a lanciarti e attaccarsi all’altra manica?».
Sam, in bilico sulla ringhiera, ha l’aria titubante. «Oh, beh… non è la cosa più cretina che ho fatto».
Si lancia, afferra la manica; Steve si china e con la mano libera afferra il braccio del compagno e lo tira su con un unico strattone. Sam si aggrappa al davanzale e si dà una spinta con le mani, scavalca l’ultima lingua di muro e raggiunge il pavimento un piede alla volta.
«Niente male, eh?» scherza Steve.
«Visto che io mi sono ritirato e tu sei tecnicamente senza lavoro, potremmo farci assumere in un circo».
C’è spazio per una risata e una pacca sulla spalla. E in quello stesso spazio, i ricordi si insinuano di soppiatto e poi esplodono.
 
Confine tedesco, da qualche parte in mezzo allinverno.
La base dellHYDRA è in fiamme alle loro spalle e i frammenti di cenere si mischiano ai fiocchi di neve.
Il freddo sembra bucare più dei proiettili.
Steve e Bucky sono rimasti qualche metro più indietro ad accertarsi che non ci fossero cecchini acquattati tra le sterpaglie, gli altri hanno già passato il ponte; di sotto il fiume scorre violento, lacqua forma dei mulinelli dove ballano pezzi di crosta di ghiaccio. Da qualche parte, a nord, linverno comincia ad arrendersi ma la guerra è ancora ben lontana dal finire.
Loro due salgono sul ponte, di corsa. Bucky mette un piede in fallo, si sbilancia in avanti e il casco gli cade dalla testa, rotolando allindietro lungo la pendenza; Steve non se ne accorge, è già più avanti, il suo amico fa un passo indietro per cercare di recuperare il casco.
I metri di ponte che li separano si sgretolano e cadono nel fiume in una pioggia di calcinacci che solleva schizzi di acqua gelata.
Bucky guarda attonito la voragine davanti a sé, a pochi centimetri della punta dei suoi stivali.
«Gesù, ve lavevo detto che dovreste mangiare di meno!» esclama.
«Riesci a saltare?»
«Devo proprio?».
Il Capitano si sporge a guardare di sotto; il fiume è nero come la pece, potrebbe trascinare via anche una montagna. E loro non possono restare lì, presto le squadre tedesche accorreranno sul posto, richiamate dallesplosione della base che gli Howling Commandos hanno distrutto.
E linverno reclama il suo tributo, un fiocco di neve alla volta, una stilettata di gelo dopo laltra.
«Ce la fai a lanciarti e ad attaccarti allaltra manica?» Steve allunga il braccio, reggendo lo scudo da una parte. 
Bucky scrolla le spalle: non lo sa e non se lo chiede, salta e basta. Si tratta solo di pragmatica da militare e di fiducia. Soprattutto di fiducia.
Steve lo afferra, lo strattona con così tanta forza da lanciarlo alle sue spalle, cadono entrambi allindietro. 
«Niente male, eh?» dice il Capitano, a metà tra il sollievo e il tono di scusa.
«No, se pensi di voler andare a lavorare in un circo, dopo la guerra»
«Certo. Perché, tu cosa pensi di fare?».
Il viso di Bucky assume unespressione seria che Steve non gli ha mai visto prima, la gravità di una speranza troppo fragile per essere niente di più che una preghiera sussurrata alla flebile luce di una lampada da campo.
«Se mai tornassi. Beh immagino trovare una brava ragazza e sposarmi».
È una risposta per cui Steve non ha parole.
«Coraggio signorine, datevi una mossa! Non è mica laccidenti di circolo del cucito!».
Meno male che c’è il colonnello Phillips a fare la parte di quello sano di mente
 
«Steve? C’è qualcosa di affascinante nella muffa sul muro?». La voce di Sam fa dissolvere il ricordo che si lascia dietro una scia bruciante, come uno schiaffo.
«Sì… no, scusa. Andiamo».
Andare dove? Quel posto sembra un gigantesco buco nell’acqua. Ci sono due piani di scale che finiscono nell’atrio buio e polveroso, ragnatele, mobili lasciati a marcire e forse un intero esercito di topi.
Eppure Steve ha paura di ammetterlo, soprattutto perché poi sarebbe costretto a chiedersi cosa fare dopo ed è una domanda che gli sembra insormontabile. Quindi non dice e non chiede niente, serra le labbra e scende le scale, controllando una stanza alla volta, come se tanta meticolosità servisse a rendere quel viaggio meno inutile.
Il loro giro di avanscoperta termina nell’atrio del pianterreno, un ventre di buio dove le ragnatele sembrano ricami di organza e polvere.
«Mi dispiace, Cap» mormora Sam, battendogli una mano sulla spalla.
No, amico, è a me che dispiace.
Il silenzio sembra farsi di piombo. Steve indugia con un piede sul primo gradino.
In mezzo al vuoto, lo squittio di un paio di topi che attraversano l’atrio fa quasi eco e il rumore attira lo sguardo dei due intrusi.
I topi sgambettano sul pavimento polveroso frustandolo con le codine sottili e poi camminano rasente al muro, andando a scomparire nel cono d’ombra proiettato dalle scale. Ed è allora che Steve lo vede, in corrispondenza della parete centrale c’è una linea di pavimento pulita, una sottile striscia senza polvere, come se qualcosa ci fosse strisciato sopra, diritto come su di un binario.
«Guarda, Sam. Coperto di ragnatele e fuliggine non l’avrei mai notato» esclama il Capitano.
La parete di fondo dell’atrio ha pannelli di carta da parati scura, talmente sporca di polvere e sudiciume da confondersi con tutto il resto, ma quei pannelli sono porte scorrevoli e qualcuno li ha smossi di recente. Molto di recente, se sono fortunati - o se non lo sono, a seconda dei punti di vista.
«Saranno bloccati» ipotizza Sam, picchiando la mano contro il pannello centrale. «Oh, come non detto».
Il pannello si sposta di lato con un fruscio arrendevole, rivelando il rettangolo di una spessa porta blindata lasciata aperta. «Ma dovrebbe essere chiuso, sigillato. Che razza di laboratorio segreto è?» esclama.
Steve apre la porta che dà su una scala di alluminio e verso un corridoio illuminato a malapena da una lampada alogena.
«Chi è stato qui non pensava di dover più proteggere alcun segreto, per questo è stato lasciato tutto aperto e la luce è rimasta accesa» dichiara, e sa di aver ragione. Chi è stato in quel posto non ha avuto alcuna cura, forse perché non gli importava di averne.
Bucky
Steve impugna lo scudo, rammenta a Sam di fare attenzione, poi scendono nel corridoio.
Incontrano altre porte, tutte lasciate aperte, l’ultima staccata dai cardini, gettata in terra mezza distrutta, in un caos di schegge e pezzi di metallo. Ed è solo la prima avvisaglia di un lavoro di distruzione assai più meticoloso.
Oltre la porta divelta, c’è una stanza quadrata piena di cassettiere di documenti rovesciate, fogli strappati e oggetti rotti; un mosaico fatto di pezzi di ricordi fuori posto, di atrocità immeritate. Un armadietto di alluminio è stato lanciato contro la parete, dove ha lasciato una grossa crepa, come se i muri di quella cantina avessero a stento potuto contenere la rabbia di chi ha fatto quel disastro.   
E Steve sa esattamente chi è stato. Quello che non sa è se quello spettacolo di distruzione sia da interpretare come un buon segno oppure no. Le cose che non sa gli sembrano muri, e creano un labirinto al centro esatto della sua mente. Chissà se un supersoldato può avere mal di testa, non se lo era mai chiesto prima.
«Non ci serve comunque a niente» sospira. «Lui non c’è».
«Pazienza, Capitano, pazienza. Guarda qui».
Sam è al margine di quel caos, dove si interrompe la distesa di fogli gettati in aria e pezzi di mobilio. Ai suoi piedi c’è una sedia rovesciata, accanto alla sedia una cartellina lasciata aperta, con i fogli ancora tutti in ordine al suo interno.
Il soldato si china a raccoglierla e la mostra a Steve. I documenti riguardano una donna, il suo nome è Christine Pierce.
«La figlia di Alexandre Pierce?» Steve legge con più attenzione.
Sì, è assolutamente plausibile. Il consigliere Pierce è stato devoto all’HYDRA fino alla fine, fino al peggiore dei tradimenti, non deve stupire il fatto che abbia trasmesso le sue idee alla figlia e che anche lei serva quella causa scellerata.
«Se il Soldato di Inverno è stato qui, mi chiedo se non abbia lasciato questo fascicolo come indizio, perché sa che sei sulle sue tracce» mormora Sam.
Steve si massaggia la tempia; vorrebbe saperlo davvero. Ma se Bucky vuole essere trovato, perché non lo ha aspettato?
«Credi che sia andato dalla figlia di Pierce? Perché?». Il Capitano si rigira i fogli del fascicolo tra le mani, come se quei pezzi di carta potessero dargli tutte le risposte.
«Se fossi in lui, perché andresti a cercare quei bastardi?» borbotta Sam con ovvietà.
A Steve fa male il solo immaginare la risposta, e Sam non è neppure il primo che gli ci fa pensare. «Sì, ma perché proprio lei?». La domanda è del tutto retorica, forse davvero basta leggere quei documenti per capire.
Il Capitano si avvicina alla bolla di luce biancastra di una lampada, e comincia a leggere il fascicolo.
«Qui c’è scritto che è un medico, ha una clinica di chirurgia estetica. Lo SHIELD, e quindi anche l’HYDRA, se ne serviva per operazioni di trapianto facciale, quando voleva che qualcuno dei suoi agenti sparisse e cambiasse identità»
«Perversi figli di puttana…»
«Sì, si erano organizzati alla grande. Ovviamente l’attività della figlia di Pierce figura come una clinica estetica qualunque e serviva da copertura per un laboratorio di esperimenti»
«E dove si trova la clinica?»
«Tieniti forte, perché non so quanto ti piacerà. È in Svizzera».
Sam fa una smorfia. «Ah, a un tiro di schioppo, praticamente».
«La fortuna è che qui sopra ci sono tutti i recapiti di Christine Pierce»
«Oh, mi sento molto più fortunato allora».
Steve fa un sorriso mesto, piega le pagine del fascicolo e se le infila nella tasca posteriore dei jeans, poi pensa a cosa potrà mai fare per sdebitarsi con Tony Stark quando tutto quel casino sarà finito.
Almeno ora hanno una pista, anche se sembra portare dall’altra parte del mondo.
«Diamo un’altra occhiata, vediamo se c’è qualcos’altro di utile, poi andiamo. Dobbiamo trovare un aereo per l’Europa».
 
Di utile non c’è nient’altro. Molti dei documenti sono strappati o così buttati all’aria che non si riesce a capire a che fascicolo appartengano, in che ordine vadano lette le pagine, e loro non hanno il tempo di mettersi lì e sistemare quel marasma di fogli. E poi Steve si sta davvero convincendo che la cartellina con le informazioni su Christine Pierce sia stata messa lì per uno scopo; vorrebbe pensare che se Bucky sta lentamente ricordando chi è e cosa gli è successo, allora si sta anche ricordando che può fidarsi di lui.
«Andiamo?».
Sam fa un cenno affermativo. «E qui lasciamo tutto com’è?»
«Questo posto non serve più a nessuno. Se anche qualcuno lo trovasse, l’HYDRA è già stata portata allo scoperto quando Natasha ha messo on-line gli archivi».
Sam sembra voglia dire molte altre cose, ma sa che la speranza a cui il suo compagno di avventura si sta aggrappando è un filo sottile, e forse pensa che se lo recidesse lui potrebbe crollare, e no, non sarà Sam Wilson ad abbattere Captain America.
Si lasciano il laboratorio alle spalle. Se sono fortunati, forse riusciranno a uscire da una delle finestre del primo piano senza troppi problemi e senza farsi vedere.
Fuori comincia a far sera, le ombre all’interno del palazzo si sono inspessite.
Il Capitano ha il passo reso spedito dall’entusiasmo di avere qualcosa tra le mani, un indizio, una direzione da prendere.
Sono sul ballatoio del primo piano quando sentono rumori di passi venire dabbasso. Steve si volta di colpo e si sporge dalla balconata delle scale.
Una pessima mossa, soldato, se ci fosse un cecchino gli offriresti un bersaglio fin troppo facile
«Cosa diavolo…» Sam si sporge con più cautela.
Dalla penombra dell’atrio, sotto di loro, sentono il tintinnio di qualcosa di metallico rimbalzare sul pavimento.
Steve guarda il buio e il riflesso argentato di un braccio meccanico che scintilla per un istante tra le ombre. Guarda il braccio e non guarda la granata che ha lasciato cadere, non subito almeno.
La figura si mescola alla penombra e sparisce dietro la porta blindata, mettendosi al sicuro dall’esplosione.
Sam afferra Steve per un braccio, serrando la presa così tanto forte da lasciare il livido.
«Maledizione, Capitano!».
Si lanciano di sotto, dalla prima finestra. Il tempo condensa nell’istante di silenzio perfetto prima della detonazione.
Stretti e appiattiti sotto lo scudo, Steve e Sam guardano la nuvola di polvere alzarsi e inghiottirli, scatenare una pioggia di detriti. Il boato è rimasto a vibrare nelle loro orecchie, cancellando qualsiasi altro suono.
«Stai bene? Sam, stai bene?!». Steve non si rende conto di star urlando.
Le auto si fermano di colpo dall’altro lato della strada, dove l’edificio continua a sgretolarsi mattone dopo mattone. L’isolato diventa una cacofonia di sirene, allarmi di auto, grida di passanti.
«Era lui, vero?». Sam impasta la bocca e sputa per terra; entrambi hanno la gola secca per tutta la polvere inalata, l’odore di bruciato che dalle narici sembra salire fino al cervello e offuscarlo.
No, non era lui. Steve non sa perché ne sia così sicuro, forse solo perché le sue speranze stanno prendendo il sopravvento sulla razionalità. Quello che vuole non è mai stato più forte di quello che deve, ma persino gli “eroi” hanno un punto debole.
«Dobbiamo andarcene da qui» si limita a rispondere.
Sam lo guarda con un’espressione che lui non sa definire, di durezza o di preoccupazione, ma lo segue come ha promesso di fare. Corrono via, dal lato opposto della strada, le facce e i vestiti bianchi di polvere.
Steve sente ancora l’esplosione schiantargli le ossa e il cervello. E si sente incredibilmente solo.
Quando tornano alla macchina, c’è una folla raccolta in fondo all’isolato, attorno all’edificio fatto saltare in aria, ci sono camion di pompieri e ambulanze; il blu elettrico delle sirene si riflette in lampi a intermittenza nelle vetrine dei negozi, Steve ne segue il luccichio ipnotico con lo sguardo e neppure ci prova a mettere in fila i pensieri, prova solo a zittire tutto, le orecchie che fischiano, la folla che grida, l’urlo che gli si aggrappa alla gola.
«Steve…»
«Mi dispiace, Sam».
Il suo compagno gli stringe la manica della giacca e gli dà una scossa. «No, senti, Steve, c’è davvero qualcuno che ci segue».
Certo che c’è, li ha seguiti fin dentro l’edificio e ha cercato di ucciderli. Il pensiero basta a fare a brandelli tutta la speranza cresciuta dentro di lui.
Non ha nessun senso
«Non ha nessun senso, Sam». Guarda diritto davanti a sé e poi guarda l’amico negli occhi. Dio, deve sembrare proprio un pazzo. «Perché mi avrebbe salvato dopo l’esplosione dell’Elicarrier, per poi venirmi a uccidere qui?»
«Ascolta, non sei sicuro che sia stato proprio lui a ripescarti dalle acque della baia, no? Eri mezzo tramortito e mezzo annegato».
Era più di così, era sopraffatto e con una manciata di parole inchiodate nel cervello e nel cuore…
Sei. La. Mia. Missione.
Steve Rogers è sempre stato un uomo di fede; vorrebbe dire che ci sono cose di cui si è assolutamente sicuri, anche senza averne prove, cose che si conoscono senza averle mai davvero viste o toccate, ma rischierebbe di sembrare ancora di più uno che ci ha rimesso il cervello.
«Forse dobbiamo andarcene da qui» mormora.
«Non riusciremo mai a passare con la macchina in mezzo a tutto questo macello»
«Togliamoci di qui, torneremo dopo a prendere la macchina».
Ai margini della strada una fila di lampioni si accende e poi si spegne ogni cinque o sei secondi, forse qualche tratto di rete elettrica è rimasto danneggiato dall’esplosione. Steve e Sam cercano di confondersi nella folla che si allontana dal luogo del disastro, nella speranza di seminare chi li sta pedinando.
Attraversano quattro isolati, la folla ormai si è diradata attorno a loro, le uniche tracce dell’esplosione sono le ambulanze e i camion dei pompieri che continuano il loro viavai, procedendo a velocità sempre più spedita man mano che i gruppi di persone si fanno meno fitti.
Steve sente la stanchezza artigliargli le gambe, ma è solo all’inizio, dovrebbe vergognarsi di tanto scoramento.
Si fermano in una piazzetta con le giostrine, nel mezzo di un quartiere residenziale. Il Capitano si lascia cadere seduto su una panchina, tenta di rimettere in ordine le idee ma non sa da dove cominciare.
La sera è umida, scalfita appena dalle bolle di luce giallognola di lampioni a forma di sfera allineati ai margini di un viaggetto di ghiaia.
Sam resta in piedi a guardarsi attorno, sospettoso e all’erta, come se si aspettasse di veder sbucare la canna di un fucile dalla siepe perfetta attorno alla recinzione di una villetta lì vicino. Poi Steve lo vede estrarre una pistola da dietro la schiena, con un movimento fluido e perfetto, come il meccanismo di un’abitudine mai smessa.
«Chi sei?» domanda. È la prima volta che Steve gli sente un tono così minaccioso e brusco.
«Metti giù la pistola e te lo dico». Una voce di donna, suona familiare.
Sam non abbassa la guardia. «Perché ci stai seguendo?»
Steve scatta in piedi, si volta. È troppo intontito dagli ultimi eventi per farsi davvero sorprendere, ma qualcosa nella sua testa registra quella presenza inaspettata come una nota positiva.
«Sharon?»
«Capitano»
«Abbassa la pistola, Sam». Sharon, l’agente dello SHIELD che si era finta la sua vicina di casa, accenna un sorriso, ma il viso del Capitano non si apre a nessuna espressione conciliante. «Abbassa la pistola, ma stai in guardia».
La giovane donna alza le mani in segno di resa. «Cosa credi, che sia stata io quella che ha appena tentato di uccidervi, dentro quel palazzo?»
«Sappiamo chi ha tentato di ucciderci» ribatte Sam.
«No, non lo sapete»
«Da quanto tempo ci stai seguendo?» Steve non ha voglia di perdere altro tempo.
«Da quando avete lasciato Washington. Devo dire che la tappa alla Stark Tower è stata una mossa piuttosto scontata, ma da lì ho arrancato a starvi dietro, non avevo idea di dove foste diretti».
Sharon continua ad avanzare verso di loro. Ha una cartella a tracolla con la bandiera inglese sul davanti, i capelli raccolti in una coda, jeans larghi. Assomiglia molto di più alla sua vicina di casa che non all’agente dello SHIELD. 
«Perché ci segui?»
«È l’ultimo ordine che ho ricevuto. È il mio lavoro, non c’è nient’altro che io sappia fare».
Il tono arrendevole di questa risposta fa ammorbidire il cipiglio del Capitano e l’aria tesa di Sam.
«Che facciamo, Cap?»
Natasha gli ha parlato di Sharon come di una brava persona.
«Ci fidiamo?» chiede Steve al suo compagno.
«Per il momento». Sam rimette la pistola al suo posto, nella cintura dietro la schiena.
Sharon sospira, come a chiamare a raccolta tutta la sua calma. «Non sparare, soldato, devo solo prendere una cosa dalla borsa». Apre la cartella e ne estrae un computer portatile grande come un quaderno, picchietta sulla tastiera e poi volta lo schermo verso i due uomini.
«State cercando lui, non è vero?».
Steve e Sam si scambiano uno sguardo stranito, poi tornano a guardare l’immagine sul monitor del computer: il Soldato di Inverno - Bucky - all’imbarco di un aeroporto. Nel laboratorio esploso dovevano esserci documenti falsi, tutte le risorse per sparire. Non è propriamente incoraggiante.
«Dove e quando?» chiede Steve.
«Tre ore fa, qui, al PHL»
«Come l’hai avuta?»
«Lo SHIELD è andato, ma nessuno è venuto a chiedere a noi agenti di restituire i gadget aziendali».
Se tre ore prima Bucky era all’aeroporto, non può essere stato lui a gettare la bomba nell’edificio. E allora che cos’è che Steve ha visto?
Forse non tutto è perduto, forse quel viaggio lo ha portato molti passi più avanti, proprio quando lui credeva di essere precipitato giù, ben al di sotto del punto di partenza.
«Sai se qualcun altro lo sta cercando?» chiede il Capitano.
Sharon scuote la testa. «Non posso saperlo con certezza, ma mi sembra ragionevole pensare che l’HYDRA lo creda morto nell’esplosione degli Elicarrier. So che si è imbarcato, ma non ho la più pallida  idea di dove sia diretto»
«Noi forse lo sappiamo». Steve estrae i fascicoli dalla tasca posteriore, ma non aggiunge particolari né lascia che la ragazza li legga. «Ci serve un volo per l’Europa… e ammetto che quel tuo computer pieno di gadget aziendali ci farebbe comodo».
«Per il volo mi è venuta un’idea» esclama Sam, «ma dovremmo allungarci fino a Chester. È a meno di un’ora di macchina da qui, ma il nostro obiettivo è comunque in vantaggio di tre ore»
«In quanto al computer, dove va lui vado anche io» gli fa eco Sharon.
Steve non ha voglia di mettersi a discutere, la ragazza sarà comunque di aiuto e se Fury si fidava di lei al punto da darle il compito di sorvegliarlo e proteggerlo, chi è lui per mettere limiti alla provvidenza? E poi sente di avere disperato bisogno di alleati, anche se oltre che egoista comincia a sentirsi sconsiderato.
«Qual è la tua idea sul volo per l’Europa?» domanda a Sam.
«Un commilitone. Ora fa il pilota di aerei privati, gli ho salvato la pelle in una missione… ci troverà senz’altro un passaggio per la Svizzera prima di quanto riusciremo a fare da soli con i voli negli aeroporti e senza bisogno di documenti».
«Beh, quando non mi esplodono palazzi sopra la testa, mi capita anche di essere fortunato» conclude Steve. Quello che pensa in realtà è che le cose si stiano mettendo troppo bene e troppo all’improvviso, e allora gli viene da pensare a dove possa essere la fregatura. Ma per il momento non gli sembra abbastanza prioritario cercare di trovare una risposta.
 
***
 
Quell’area di servizio potrebbe vincere un premio come la più squallida di tutta la Pennsylvania. Sharon quasi si meraviglia che non ci sia una targa ad attestare un riconoscimento del genere, solo una foto sbiadita del proprietario con in mano una coppa e cartoline ormai ingiallite a far da cornice a uno specchio chiazzato.
Dietro al bancone rigato da una patina lucida non meglio identificata, una barista alta e magra come un giunco sta preparando i tre caffè che la ragazza le ha chiesto.
Il Capitano e il suo amico sono andati in bagno a darsi una sistemata. Quando li ha avvicinati in quel parco sembrava che qualcuno li avesse passati nella farina prima di metterli a friggere.
La barista impila i bicchieri di caffè in un vassoio di cartone da asporto. «Sono quattro dollari e trentasei centesimi».
Sharon le allunga una banconota da cinque, le dice di tenere il resto. La barista non si dà pena di articolare un ringraziamento, dondola il capo sul collo sottile, sembra uno di quegli alieni con la testa allungata e gli occhi grandi e obliqui. Ma l’agente Sharon Carter ha passato abbastanza tempo nello SHIELD da sapere che gli alieni sono più che altro biondi, muscolosi e armati di martello, insomma non proprio tipi da cui non ti dispiacerebbe essere rapita.
Sorride del suo stesso pensiero sciocco. I pensieri che non fanno sorridere è meglio tenerli da parte ancora per un po’, che tra le altre cose fanno anche venire le rughe e ti rendo esposta, fragile.
Il piccolo parcheggio dell’area di servizio è mezzo vuoto. Sharon si guarda attorno, automaticamente registra le possibili vie di fuga e i possibili ripari nel caso di uno scontro a fuoco, con la meticolosità della scolaretta zelante: è ancora solo un agente di livello 1 - era un agente di livello 1 - non ne sa abbastanza per capire che la teoria è meno utile di quanto le faccia piacere credere, ma per la pratica ancora non ha avuto tempo né occasione.
Però registra il rumore di passi alle sue spalle, ne riconosce il ritmo e passa in un rapido istante dall’allerta alla calma.
«Caffè?». Porge al soldato uno dei bicchieri. «È ancora caldo».
Wilson esita un secondo prima di prenderlo, quel gesto tradisce tutta la diffidenza di una persona preoccupata.
«Steve ha troppo a cuore la situazione per essere lucido, ma io riesco ancora a fare due più due, sai. Chi ti ha detto dove trovarci e cosa stavamo cercando?»
«Vi ho seguiti per chilometri senza ve ne accorgeste, se avessi voluto farvi del male o mettere l’HYDRA sulle vostre tracce lo avrei fatto prima ancora che riusciste ad arrivare a Philadelphia»
«Non è quello che ti ho chiesto».
Sharon si stringe nelle spalle. Per la prima volta la teoria appresa durante l’addestramento non le viene in soccorso: non importa quanto bene le abbiano insegnato a mentire, ci sono situazioni in cui per guadagnare la fiducia di qualcuno ci vuole tempo e fatica, e ingegno. La corazza di diffidenza di un soldato speciale che cerca di proteggere un compagno è inespugnabile.
Anche io voglio proteggere, cosa credi?
Non è una bugia, è un’omissione.
«Quanti altri nemici pensate di avere, oltre all’HYDRA?» domanda la ragazza, semplicemente.
«Non lo so, dimmelo tu»
«Non sono una nemica»
«Perché dovrei crederti?».
Perché cerco quello che state cercando anche voi.
Perché ho cose in sospeso da sistemare.
Perché sono stata la vicina di casa di Steve Rogers e non ho mai dovuto mentire per sorridergli.
Tutte cose che Sharon non può dire.
«Perché io vi servo. Compromesso o no, lo SHIELD ha ancora degli agganci, qualche chiave che potrebbe aprire una porta o due strada facendo» risponde.
Sam Wilson è un soldato, ma è di quelli che le porte preferisce ancora aprirle senza troppa confusione piuttosto che farle saltare in aria.  
«Andiamo?». Il Capitano arriva alle loro spalle, si è ripulito dalla caligine e si è disinfettato un graffio che aveva sulla tempia, ma ha comunque un’aria stropicciata.
Sharon si accorge di non averne sentito i passi mentre lui si avvicinava.
Mai abbassare la guardia, agente. Se lo ricorderà, d’ora in avanti.
 
 




Note

Il PHL è l’Aeroporto Internazionale di Philadelphia. 
La citazione in testa al capitolo è del brano Biggy, dei Warpaint.
 
Per questa puntata abbiamo anche gli special features: la LOCANDINA e il TRAILER (ho imparato a usare iMovie da poco e si vede)
 
Per curiosità sulla fanfiction o domande su la vita, luniverso e tutto quanto: ASK!
L’aggiornamento è previsto per venerdì prossimo, come promesso. Ma per domenica ho una oneShot-sorpresa-di-Pasqua nel cassetto.
Alla prossima.

 
 
 

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Capitolo 4
*** Fourth bullet - Christine Pierce ***


Fourth bullet - Christine Pierce
 
Careful, be careful,
you breathe in and you breathe out
for it ain't so weird how it makes you a weapon
 
GRENCHEN
 
Il ticchettio dell’orologio si insinua lentamente tra i suoi sogni.
Christine Pierce apre gli occhi di colpo e sussulta, gettandosi all’indietro contro lo schienale della sedia, realizza di essersi addormentata con il capo sulla scrivania, con il telefono ancora tra le dita.
Sono crollata, pensa stropicciandosi il viso con le mani, doveva succedere.
Sente i capelli appiccicati al volto, sono come piccole crepe sulla superficie della sua maschera ora in bilico tra il senso del dovere e il gelo della paura. Suo padre le ha insegnato tutto a proposito delle maschere: non si tratta di ipocrisia o vigliaccheria, si tratta di tenere al sicuro tutto ciò che gli altri non sono pronti a vedere.
Sarebbe venuto il giorno in cui le loro maschere sarebbero cadute, insieme ai loro nemici.
Ma ora suo padre è morto e i loro nemici sono ancora al sicuro. E ce ne sono di nuovi, è per questo che ha fatto quella telefonata.
Il vento fa cigolare le imposte della finestra alle sue spalle, soffiando nella stanza l’aria fredda della montagna. Da lì si vede la stradina che attraversa il centro del paese, la distesa di tetti di tegole rosse ludici per la pioggia appena caduta, la notte puntellata di lampioni.
Aveva lasciato la finestra aperta? Non lo ricorda. Guarda l’anta dello scuro cigolare e sbattere tra il muro esterno e il davanzale, e la paura le gela il sangue, di nuovo.
Respira, riflette: non ha importanza, i nemici sono passati e sono andati via. Nessun altro sa di lei, nessun altro sa cosa ha fatto.
Ma io lo so. È quello che le dice il suo riflesso allo specchio ogni mattina, è solo un attimo prima che il senso del dovere zittisca la coscienza. Un altro degli insegnamenti di suo padre.
Christine allunga una mano ad afferrare la fotografia incorniciata accanto al portapenne. La bambina che stringe la mano dell’uomo ancora le assomiglia: era obbediente, furba, meticolosa, avrebbe fatto di tutto per compiacerlo. Non è cambiato poi molto da allora, e il fatto che suo padre sia stato ucciso non può che rendere la sua missione più importante e lei  ancora più devota.
Sì, passerà tutto, anche la paura.
Ma la paura è un riflesso argentato contro il vetro della cornice, il lampo di un braccio meccanico. Non le dà il tempo di voltarsi, non le dà il tempo di urlare.
Pensava che fosse già andato via, che fosse sparito ore prima. Che avesse deciso di risparmiarla, alla fine.
Il metallo della mano è gelido mentre si preme sulle sue labbra. I bordi delle placche che compongono l’arto robotico sono taglienti, come ha sempre pensato fin da quando lo ha visto per la prima volta da bambina.
Cosa vuoi ancora? Ti ho detto tutto quello che sapevo!
Ma come è evidente, quel tutto non era abbastanza.
C’è una crudeltà ingiusta nella lentezza con cui la mano le torce il collo e le lascia capire che la fine sta arrivando, una cattiveria lucida come quella di un rimprovero non meritato. Non è il gesto deciso del boia che taglia la testa al condannato, è il dolore inflitto dal torturatore che vuole che tu ti abitui all’idea dell’inferno.
Christine scalcia e si aggrappa all’ultimo scampolo di respiro, agitando le mani e buttando in terra la foto incorniciata e il telefono.

Hail Hydra…

Le ossa stridono come legna secca prima di spezzarsi, come il ciocco che crepita nel fuoco.
L’inferno è fatto tutto di suoni come quello.
 
***
 
Due ore prima
 
L’aria di montagna è come l’ossigeno sulla fiamma, quel sentore di inverno in arrivo porta a galla immagini frammentate ma nitide di un passato che lui non sa da che parte della sua vita collocare, da quale lato del muro innalzato dal ghiaccio deve guardarlo.
Il Soldato si passa le dita sulla fronte.
I ricordi sono un nastro sfilacciato che si srotola con troppa lentezza dal compartimento stagno in cui loro credevano di essere riusciti a relegarli per sempre.
Quello è stato il loro primo errore: pensavano di aver eliminato la sua memoria, in realtà erano solo riusciti ad assopirla e avevano dato per scontato che niente sarebbe mai stato in grado di risvegliarla, niente sarebbe mai stato più forte delle loro macchinazioni.
Ora il Soldato ricorda un nome, il suo nome. Lo ricorda davvero, non solo perché glielo ha detto l’uomo con lo scudo o perché lo ha letto accanto alla foto nel museo. Ma quello del sergente Barnes è un nome che non si sente ancora in diritto di riprendere, e forse è un nome perduto per sempre.
Le immagini della Guerra che ha fatto bruciare il mondo e piagato l’Europa per anni si confondo a immagini di una storia più recente, scritta con il sangue e con il tradimento, intessuta di ombre che il mondo non ha mai saputo vedere; i volti dei nemici si mischiano e le loro grida si confondo a quelle del sergente Barnes che cade da un treno in corsa nel crepaccio tra le montagne.
Il volto dell’uomo con lo scudo invece è fermo al centro di quella nebbia, l’ago della bussola attorno al quale lui cerca di disporre i ricordi che compaiono all’improvviso su quella mappa senza strade.
L’uomo con lo scudo si chiama Steve. Anche questa è una cosa che il Soldato è riuscito a ricordare più che ad apprendere.
È più di quanto avesse dopo l’esplosione degli Elicarrier nella baia di Washington, eppure la sua mente non lavora alla velocità che lui vorrebbe, è lenta ed inciampa in pozze di oblio nere e spaventose, frammenti di specchio dove il volto del Soldato non assomiglia a quello di Bucky Barnes ma a quello di un mostro.
Troverà il coraggio di guardare in viso i suoi demoni, prima o poi, riuscirà a trovare per ognuno di loro una collocazione e un motivo. Adesso i demoni di cui si deve preoccupare sono quelli che vivono al di fuori della sua testa, tutti quelli a cui è sopravvissuto.
Anche così, con la mente martoriata e la paura di rammentare che rumore fa un cuore mentre batte, il Soldato è riuscito a elaborare una strategia.
Philadelphia era la tappa più comoda e quella più utile. Il ricordo di quel laboratorio era un’immagine perfetta nella sua mente, un passato abbastanza prossimo da poter essere disseppellito senza troppa fatica.
Ricorda di aver trascorso molti mesi in quel posto prima di essere mandato a Washington. Ricorda e il bianco delle luci si confonde al bianco smagliante dei camici di medici e infermieri, allo scintillio dei sorrisi che si scambiavano tra di loro quando dicevano che stava andando tutto bene e lo contemplavano come se fosse una loro creazione, la loro bellissima arma, la loro cura perfetta per quel mondo malato.
Mentre il vento freddo gli asciuga le labbra, il Soldato sorride, di un sorriso ferino e crudele. Non ci si può fidare di un cane dopo averlo addestrato a mordere.
La sortita nel laboratorio ormai abbandonato ha ridestato i ricordi del suo passato più recente, inanellandoli come perle di una collana.
La divisione dell’HYDRA che si è occupata del Soldato d’Inverno in tutti quegli anni, che ha ucciso l’uomo e costruito l’arma dalle sue spoglie, è un reparto scientifico con un nome preciso, un nome che ora la memoria gli ha restituito.
Curioso, pensa il Soldato: prima d’ora non ha mai avuto bisogno di conoscere il nome di un nemico per annientarlo.
Consulta un’ultima volta la cartina della città di Grenchen presa in aeroporto, gli indirizzi che ha letto nel fascicolo del laboratorio li ricorda tutti, si è accorto di avere una memoria efficientissima per le informazioni acquisite nel presente, quasi una memoria eidetica. Osservando gli schermi accesi in aeroporto, ha rammentato anche di avere qualche buona conoscenza di informatica anche se non ricorda quando l’ha appresa.
I documenti su Christine Pierce, solo ora realizza di averli lasciati accanto alla sedia, intatti in mezzo al caos di roba distrutta. È stato un gesto automatico, non calcolato per uno scopo, non consapevolmente almeno. Ma se Steve fosse sulle sue tracce e trovasse quei documenti?
Il Soldato si concede un istante per pensarci, poi torna a pensare a ciò che deve fare, al fatto che Steve Rogers, l’uomo con lo scudo, gli sarebbe solo di intralcio.
Tutto il resto, tutto quello che c’era nel laboratorio lo ha distrutto, ha portato solo una cosa con sé, ed è il motivo per cui ora si trova in quella cittadina nel nord della Svizzera.
Si ferma al centro della strada lastricata di mattoncini bianchi, si guarda alle spalle come se si aspettasse di essere seguito. Come se volesse essere seguito, da amici o nemici non importa, in ogni caso gli andrebbe bene, ma preferirebbe che fossero nemici. È incredibilmente più facile avere nemici, è più semplice sostenere il loro sguardo e fare ciò che si deve; gli amici lui ha dimenticato come trattarli e non ha tempo adesso di imparare d’accapo né di darsene pensiero.
Attorno a lui la gente parla tedesco, come i fantasmi che si agitano nei suoi ricordi successivi alla caduta dal treno.
Il Soldato solleva la sciarpa fin sopra al naso, per proteggersi dal vento che spinge nuvole dense e grigie ad ammantare il campanile della chiesa, e perché non è più abituato ad andare in giro a viso scoperto, spinge le mani nelle tasche della felpa e continua a camminare.
La casa è una palazzina a due piani, incastonata in una fila di edifici tutti uguali, tutti con lo stesso tetto spiovente, la facciata intonacata di bianco, le finestre di legno scuro e la porta dipinta di rosso incorniciata in un arco di mattoni, con il civico indicato da cifre dorate su uno steccato. Una maschera di normalità, impenetrabile e perfetta.
Il Soldato guarda le finestre chiuse come occhi sbarrati. La donna vive sola, lo sa per certo: non puoi condividere la tua vita con nessun altro quando sotto la tua maschera hai gli occhi e il cuore di un mostro.
Sul retro della casa c’è una botola che scende nella cantina, è chiusa con un lucchetto che il braccio di metallo spezza senza alcuna fatica.
La cantina è mezza vuota, non ci sono scatoloni di ricordi da conservare. Certa gente i ricordi preferisce lasciarli marcire oppure strapparli ad altri. 
Il Soldato sale i pochi gradini che si fermano accanto a una porta di vetro e alluminio, resta in ascolto e sente il silenzio più completo. Lei non è in casa.
Sguscia dentro e fa un giro delle stanze, camere ordinate con tappezzeria dai colori pastello, una grande libreria e una bacheca piena di souvenir raccolti in una vita di viaggi. Il Soldato si sente quasi nauseato da quella normalità posticcia, da quella facciata perfetta che nasconde così bene il putrido di una vita trascorsa a servire l’HYDRA con i suoi esperimenti. A confronto, persino il suo operato di assassinio sembra più misericordioso. Eppure, si riserva di non pensare a tutto quello che ha fatto e che sta lentamente rammentando: gli fa male come ne avrebbe fatto a Bucky Burnes.
Steve sarebbe contento di quella scintilla di umanità…
Quando il pensiero dell’uomo con lo scudo gli attraversa di nuovo la mente, il Soldato sente il dolore aumentare invece che affievolirsi. Si blocca, in mezzo al corridoio con le pareti piene di quadri, chiude gli occhi e scuote la testa poi apre la porta dell’ultima stanza, un piccolo studiolo quadrato con una scrivania di ciliegio che sembra un altare.
Non c’è niente di utile tra i documenti ordinatamente impilati sulla scrivania. C’è il cavo di alimentazione di un computer portatile, ma la padrona di casa probabilmente lo tiene sempre con sé, c’è un telefono e ci sono delle foto incorniciate che il Soldato guarda con un certo disgusto e forse anche con una certa invidia. Apre i cassetti e gli basta un’occhiata per capire che non c’è niente di utile nemmeno lì, tranne che in quello centrale, lì quasi riesce a fiutare la pistola nascosta in un doppio fondo, sotto una pila di fogli. È una Glock automatica di calibro 9, con un caricatore già inserito e un altro pieno, sembra leggerissima nelle sue mani abituate ad armi più grandi e più micidiali.
Qualsiasi arma è micidiale, se sai come usarla, pensa mentre infila il caricatore in una tasca e la pistola nell’altra.
Nella camera da letto c’è una cabina armadio, il Soldato si chiude dentro, appiattito tra vestiti appesi ordinatamente, che odorano di bucato pulito e di profumo da donna costoso. L’attesa è pesante, come non lo era mai stata in nessun’altra missione prima di quel momento.
La luce che filtra in una lama sottile sotto la porta della cabina armadio ha cominciato già ad affievolirsi quando dabbasso arriva il rumore della porta che viene chiusa. Il Soldato sente quel senso di eccitazione per la caccia pulsargli nelle vene, è qualcosa che ha sempre conservato in tutti quegli anni, un istinto che appartiene all’uomo nascosto dentro di lui e non alla macchina da guerra costruita dall’HYDRA.
Si china piano, senza smuovere neppure un lembo di stoffa, e guarda dal foro della serratura.
Christine Pierce è la donna che ricordava, di media statura, con quel portamento rigido, quasi marziale, con i capelli biondo scuro e gli occhi uguali a quelli di suo padre.
Il Soldato rammenta i giorni passati nella sua clinica, meno di un anno prima. Ricorda che la donna aveva un tocco gentile quando infilava l’ago per prelevare campioni di sangue, non sembrava essere il genere di mostro che fa spreco di crudeltà.
Christine Pierce si toglie gli abiti da lavoro e indossa una tuta da ginnastica che teneva piegata sulla poltrona ai piedi del letto, si scioglie la coda di capelli e si massaggia la testa, poi si lascia cadere sul materasso con un sospiro stanco. Gesti abitudinari e meccanici, che non tradiscono nessun allarmismo, nemmeno ora che suo padre è morto e lo SHIELD è affondato portando con sé buona parte dell’HYDRA.
Il Soldato serra i denti quando il ricordo lo colpisce alla testa come il rimbombo di uno sparo.
 
Lorizzonte tremola nellaria torrida. Il furgone che si avvicina sollevando una scia di sabbia e polvere sembra quasi un miraggio.
Il Soldato è fermo come una colonna di granito su quella terrazza spazzata dallo scirocco.
Tutto è immobile attorno a lui, tranne il veicolo in arrivo e la goccia di sudore che lui sente colare sulla tempia.
Le nappe della tenda schioccano nel vento, disegnano unombra frastagliata con i contorni che si agitano come tentacoli. Dentro al rettangolo dombra Alexander Pierce è in piedi a guardare anche lui il furgone che si avvicina, ha gli occhi nascosti dietro lenti scure, ma la piega serrata delle labbra tradisce una certa impazienza.
«Riceveremo i nostri ospiti di sotto. Sai che devi fare» dice luomo, lapidario.
Il Soldato annuisce.
Pierce lancia unultima occhiata al furgone ormai quasi prossimo al cancello di quella piccola villa nella periferia afghana, poi si volta per tornare dentro. Alle sue spalle si sente rumore di passi.
«Christine, ti avevo detto di restare in camera tua» borbotta.
Ha dovuto portare con sé sua figlia: per i vertici del governo americano quella è una vacanza; per lo SHIELD è una missione segreta per negoziati con i servizi di intelligence mediorientali; per lHYDRA è quello che si potrebbe definire un viaggio di lavoro.
Le cellule terroristiche stanno progettando attentati e viaggi di armi verso lEuropa. LHYDRA deve conoscere i loro piani per potersene servire, e Pierce deve consegnare al direttore dello SHIELD delle informazioni sul traffico di armi, per non destare sospetti.
Non è stato facile trovare qualcuno disposto a tradire lo sceicco a capo dei terroristi, ma non c’è niente che non si possa ottenere una volta scoperta la leva su cui esercitare pressione.
Non importa, ad ogni modo: gli uomini del furgone sono già morti. Il Soldato ha ordine di aspettare che consegnino i documenti, Pierce dirà loro che il suo team deve controllarne la validità, una volta che questa sarà accertata gli uomini del furgone potranno essere eliminati.
«Christine, ti voglio lontana da qui prima di subito» ripete Pierce, la voce tradisce unapprensione sincera.
«Non ho paura» esclama la ragazzina con un tono così deciso e così beffardo che il Soldato non può fare a meno di voltarsi verso di lei: non è abituato a sentire qualcuno disobbedire agli ordini.
Christine Pierce dovrebbe avere tra i dodici e i quattordici anni, è bassa per la sua età e ha il viso pallido di chi non passa abbastanza tempo allaria aperta.
La gonna del suo vestito di lino bianco si gonfia nel vento mentre si avvicina al Soldato con un bicchiere dacqua dentro al quale tintinnano cubetti di ghiaccio e una fettina di limone.
«Non sono certa che tu possa collassare» gli dice, guardandolo con la punta di curiosità e interesse con il quale lo ha sempre guardato da quando hanno cominciato quel viaggio. «Ma nel dubbio prevenire è meglio che curare».
Il Soldato fa un impercettibile cenno con il capo, vuota il bicchiere a piccoli sorsi.
Qualche minuto dopo sentono il rumore del furgone che si ferma davanti al cancello.
La ragazzina fa qualche passo in avanti e si avvicina alla balconata. Il Soldato scatta ad afferrarla per la spalla e la trascina indietro: non è bene che i terroristi sappiano che c’è una bambina nella casa.
«Sparisci» sibila.
Christine lo guarda, non sembra particolarmente impressionata.
«Mio padre dice che non vuole che guardi, ma che differenza fa? Tanto so già cosa succederà di sotto».
Il Soldato si avvicina al tavolo sopra al quale è appoggiata una valigetta con un fucile e un caricatore. Non sa da che parte della sua mente provenga la risposta che prende forma sulle sue labbra.
«C’è sempre tempo per imparare lorrore, ragazzina» mormora.
 
Quando il Soldato apre la porta della cabina armadio dentro cui è nascosto, la donna sul letto non dà segno di essersi accorta di niente, rimane stesa con l’avambraccio premuto sugli occhi, mezza addormentata.
Si riprende solo quando sente lo scricchiolio metallico della pistola a un passo dal suo orecchio e l’estremità gelida della canna che le preme sulla tempia.
Apre gli occhi e il sangue le fugge via dal volto. «Tu?…».
Il Soldato non ha bisogno di proferire alcuna minaccia, la paura viaggia più veloce delle parole e Christine Pierce è intelligente, tanto da sapere che urlare non le servirebbe a niente, tanto da capire che è già perduta.
«Credevo fissi morto» dice con la voce che trema.
Era proprio quello che lui si aspettava. Resta fermo a guardare negli occhi la donna, a vederla bruciare nel fuoco gelido del terrore che condensa in una patina di sudore freddo sulla sua fronte.
«Ascolta… io posso aiutarti» dice lei dopo lunghi secondi.
Il Soldato resta in silenzio ancora un po’, poi scosta appena la canna della pistola dalla tempia della figlia di Pierce. «Sicuro che puoi».
Christine accenna un sorriso che vorrebbe essere amichevole, ma è solo una smorfia grottesca.
«Posso aiutarti a crearti una nuova identità, darti una nuova vita, una vita normale. Nessuno saprà che sei vivo, potrai essere libero, dovunque sceglierai di andare»
«Non mi serve un’identità nuova, e la mia vita ve la siete già presa. Restituirmela vi costerà tutto il vostro sangue».
Click. Il Soldato arma la pistola; Christine Pierce serra gli occhi e due grosse lacrime le sfuggono dalle ciglia: nessuno si abitua alla morte, nemmeno i mostri.
Lui le preme la canna al centro esatto della fronte.
«Ti prego… ti prego, no…» mormora la donna in un rantolo, le parole inciampano tra i singhiozzi, quando sente l’urto capisce che non è un proiettile, è qualcosa di innocuo che lui le ha lanciato in faccia.
Apre gli occhi e si trova in grembo uno dei pen-drive che lo SHIELD usava per trasportare dati.
Il Soldato le fa cenno di prenderlo e mettersi in piedi, lei esegue meccanicamente e il tremore quasi la fa cadere quando si alza dal materasso.
«Il tuo computer può leggerlo» asserisce lui, asciutto.
La donna si passa una mano sul viso e sembra voglia scuotere la testa, ma non ne ha il coraggio. Il Soldato ha messo in conto che i dati potrebbero essere criptati e che la donna non possa accedervi, ma di sicuro lei avrà informazioni importanti, ed era una dei pochi agenti  dell’HYDRA da avere una copertura così infallibile da non avere attorno a sé un servizio di sicurezza. Christine Pierce è solo la punta dell’iceberg, solo il primo passo su una strada assai più lunga.
Il Soldato l’afferra per la spalla, il braccio sinistro le stringe la scapola tra le dita di metallo e lei si contrae dal dolore, soffocando un singulto mentre viene spinta  fuori dalla camera da letto, fino al piano di sotto, in cucina, dove ha lasciato la valigetta con il computer.
Appoggia il portatile sul piano del tavolo, lui le lascia la spalla e lei sembra ritrovare un po’ di coraggio; attraverso la nebbia dello shock la sua mente deve aver ripreso a funzionare secondo i meccanismi ai quali è stata abituata per tutta la vita, ammaestrata quasi come lo è stato lui.
«A che mi serve eseguire i tuoi ordini? Mi ucciderai lo stesso, lo sai che non puoi lasciarmi in vita». La voce è ancora tremante, ma c’è una sfumatura di rassegnazione in quelle parole.
Certo che ti ucciderò, pensa il Soldato. Vi ucciderò tutti.
Il braccio di metallo colpisce la donna in pieno viso, lei cade sul pavimento con un verso simile a un latrato.
Quando Christine solleva il capo ha un rivolo di sangue che le cola dal labbro e gli occhi pieni di lacrime di umiliazione più che di dolore.
Al Soldato viene in mente un altro ricordo, quello della donna rossa dello SHIELD a cui aveva sparato tanto tempo prima e che ha rivisto a Washington: ha incrociato la sua strada due volte e due volte ne è uscita viva. Ci pensa un istante, poi scaccia via l’immagine, infastidito.
«Seguire i miei ordini ti servirà a evitare sofferenze che non sei in grado di sopportare» dichiara lui, afferrando Christine per il colletto della giacca e spingendola a sedersi davanti al computer.
È il dolore, no, quello di cui la gente comune ha paura?
Lei inserisce il pen-drive nell’alloggio, in un attimo compare la schermata nera con le scritte chiare, una finestra per l’inserimento di password e credenziali. Christine inserisce i propri codici e compare una barra di caricamento.
Il primo livello di protezione viene sbloccato. Sulla home che si riesce a visualizzare ora compare un logo rettangolare con la scritta “Dipartimento X”.
È il nome che il Soldato ricordava.
Sullo sfondo compaiono tre righe di cartelle di documenti, ognuna rinominata con un codice alfanumerico assolutamente privo di senso per chi non conosca già cosa contengano.
Il Soldato vede il viso della donna riflesso sullo schermo, ne coglie la perplessità e lo sgomento. Lei prova ad aprire una di quelle cartelle, ma tutto ciò che ottiene è una finestra con la richiesta di ben due codici di accesso e lì lei ha un fremito di paura: è evidente che non sia in grado di andare più avanti di così.
«Chi sa come aprirle?» domanda lui, gelido.
Christine si preme le mani sulle tempie, cercando di riflette e di scegliere con cura le parole da mettere insieme per rispondergli.
«Non conosco i loro nomi, ho solo un recapito per le comunicazioni urgenti. Il Dipartimento X è la sezione dell’HYDRA che si occupa dei progetti più importanti. Tu sei stato il loro primo progetto, quando il dotto Zola ti ritrovò tra le Alpi». C’è della cattiveria voluta in quell’ultima affermazione: ricorda che sei solo una macchina da guerra, lo sei sempre stato, questo e nientaltro; se così non fosse stato, ti avrebbero lasciato a morire nella neve.
Il Soldato prende un foglio di carta da un blocco per gli appunti appoggiato accanto al telefono, le fa cenno di segnare il recapito a cui ha fatto riferimento.
«Continua».
La figlia di Pierce fa un lungo respiro e si alza dal tavolo; il Soldato la lascia fare.
«L’ultimo progetto di cui sono a conoscenza sono i chip che dovevano essere inseriti negli Elicarrier di Washington, i server di targeting basati sull’algoritmo di Zola, quella doveva essere l’arma definitiva dell’HYDRA». La donna si versa un bicchiere d’acqua dal lavello.  «Quando Fury ha chiesto a mio padre di rimandare il progetto Insight, lui ti ha dato ordine di farlo fuori, ma dopo il disastro di New York, sapevamo che non tutte le pedine che Fury aveva messo sulla scacchiera erano manovrabili… i suoi adorati Avengers, i suoi agenti preferiti come la Vedova Nera».
Il Soldato aggrotta le sopracciglia, poi annuisce. Christine Pierce fa una smorfia prima di proseguire,
«Ah, sono certa che incontrandola tu abbia avuto modo di apprezzare le sue infinite qualità, tutte le sue qualità» dichiara.
«Questo cosa ha a che fare con il Dipartimento X?»
«Prima del progetto Insight, so che il Dipartimento X stava lavorando a qualcos’altro che poi è stato accantonato perché richiedeva più tempo ed era più rischioso. Non so cosa fosse, credo che neppure mio padre fosse stato a conoscenza dei dettagli, ma sono sicura che con la sua morte e con la distruzione degli Elicarrier, il Dipartimento X abbia ripreso in mano quel progetto»
«Dici di non saperlo, e io perché mai dovrei crederti?».
Christine Pierce fa appello a tutto il suo coraggio, a tutta la folle e cieca fierezza che suo padre le ha trasmesso e sorride beffarda, come la ragazzina che diceva di non avere paura quando sapeva che a un passo da lei sarebbero morti uomini traditi dalla fazione che avevano scelto di aiutare. «Perché è la verità e non c’è niente che tu possa fare per farmi dire cose che non so. E non importa, sai perché? Perché non riuscirai a fermarli». 
La rabbia è un’altra cosa di cui il Soldato credeva di non avere memoria, rabbia immediata, feroce, accecante.
Serra la mascella, lascia cadere la pistola e si avventa sulla donna. Christine Pierce stringe i denti, le labbra ridotte a una fessura: stavolta trattiene la paura e il dolore in fondo alla gola, e le dita del Soldato le si chiudono attorno al collo come se volesse spremerle fuori tutto quello che lei sta cercando di nascondere.
«Farò molto di più che fermarli» ringhia lui. Ha bisogno di crederlo, anche se la pista che stava seguendo sembra diventata esigua, niente di più che un filo di fumo.
Il respiro della donna è un gorgoglio roco, i suoi occhi iniettati di sangue si fanno opachi e poi spenti, il suo corpo smette di opporre resistenza.
Il Soldato può ancora sentire il battito della giugulare tra le dita arpionate alla gola, la vita di Christine Pierce è una manciata di respiri nel palmo della sua mano, basterebbe solo stringere appena un altro poco. Lui lo sa, ha stretto quel pugno già tante volte obbedendo sempre allo stesso ordine come un buon soldato.
La rabbia è come un fuoco d’artificio che esplode con scie di colore e pezzi di memoria tra le sue tempie pulsanti.
 
Bianco
«Sergente Barnes tu sarai la nuova mano dellHYDRA».
Bianco come il vuoto, freddo come la neve in fondo al crepaccio.
 
Rosso
«Il tuo nome è James Buchanan Barnes io sarò con te fino alla fine» 
Rosso di sangue, come quello che benedice le promesse e i giuramenti.
 
Il disgusto che prova per quella donna e per tutti quelli come lei si mischia al disgusto che prova per se stesso e quasi gli dà il capogiro. Il Soldato apre le dita, lascia che lei scivoli sul pavimento, svenuta ma viva.
È un errore non eliminarla, lo sa. È anche una ribellione e questo gli sembra assai più eloquente.
Prende il computer e il foglio con il numero di telefono e recupera la pistola.
Sa anche che dovrà essere molto lontano da lì quando lei si riprenderà e avvertirà i suoi complici.

 
 
 
 

 
 
 

Note
- Grenchen è una cittadina del nord della Svizzera, a poche decine di chilometri dal confine con la Germania, nel Canton Soletta, e di fatto ha un suo proprio aeroporto.
- Nei fumetti, il Dipartimento X è davvero il nome del reparto scientifico (del KGB, non dell’HYDRA, ma nel film sembra che quest'ultima rivesta il ruolo che il KGB riveste nei fumetti) che si è occupato del progetto del Soldato di Inverno e di altre cose poco simpatiche. 
- Citazione iniziale dal brano “Weapon” dei Matthew Good Band.
 

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A venerdì prossimo.

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Capitolo 5
*** Fifth bullet - Lost ***


Fifth bullet - Lost
 
Now you're moving on and you say you're alone,
suspicious that this string is moving your bones
we are the fire, we see how they run
 
IN VOLO
 
La cosa fa un rumore simile alla carta stagnola quando viene appallottolata, un frusciare sottile e continuo,  ma i passeggeri hanno smesso di farci caso dopo le prime cinque o sei ore di volo. Perché contro ogni previsione, la cosa, quella specie di tacchino di metallo, sta volando. Sopra l’Atlantico. Alla velocità di un volo di linea.
I passeggeri sono solo tre, ognuno di loro si porta addosso un bel po’ di stanchezza, ognuno di loro ha un motivo che lo lascia sveglio e ognuno di loro se lo tiene per sé.
Sam guarda fuori dell’oblò ma non vede altro che nuvole; da qualche parte là in fondo la notte rende l’Oceano simile a un’immensa distesa di inchiostro.
Non ci sono né orizzonti né stelle. Per quel che ne sa, la destinazione del loro viaggio potrebbe anche essere l’inferno.
Aveva detto che avrebbe rimediato un passaggio per la Svizzera e così è stato. Quando sono arrivati a Chester è bastata una telefonata a Leonard, suo ex-compagno della Cinquantottesima, e nel giro di mezz’ora avevano giù un aereo - roba che nemmeno Tony Stark, si è detto lui, ma magari si è sbagliato.
L’aereo in questione sembra un rottame sgangherato, uno di quelli uscito fuori da un film in cui i protagonisti si schiantano su un’isola deserta e finiscono a nutrirsi di noci di cocco fino a morire di dissenteria. E a pilotare quella specie di gigantesco piccione monco non c’è il suo ex-commilitone Leonard ma una coppia di tizi che sembrano essere stati reclutati tra le fila della pirateria somala. Beh, la loro spedizione ha un che di criminale e piratesco, quindi forse è appropriato, e Leonard gli ha assicurato che sono i migliori e che ci si può fidare.
Ok. Ma anche no.
Ad ogni modo, non avevano molte alternative. E soprattutto non avevano tempo da perdere, ogni ora che passa è una traccia in più che sparisce e una speranza in meno a cui aggrapparsi.
L’interno dell’aereo ha quell’odore pastoso di plastica vecchia e similpelle, a Sam ricorda l’autobus su cui viaggiava da bambino insieme a sua madre, quella scatola lenta e cigolante che portava dalle strade di di Harlem fino a Central Park, un qualcosa di vecchio e cadente che va avanti per inerzia - un po’ come la sua infanzia dopo la morte di suo padre.
Meno male che Steve Rogers è un uomo di fede e la ragazza, Sharon, si è accollata l’onere di mostrare di avere fegato con la buona lena dell’ultimo arrivato.
Steve tira fuori dalla tasca il suo taccuino con la lista di cose perse da recuperare e se lo rigira tra le mani, è sorprendente che lo abbia ancora con sé. Lo guarda come si guarderebbe una bussola in mezzo a un deserto.
«Lost. Lo hai segnato Lost? Parla di un gruppo di persone che precipitano su un’isola con l’aereo, è uno dei capisaldi televisivi dell’ultimo decennio» dice Sharon tanto per spezzare la monotonia e dar voce a un’inquietudine che dev’essere comune, lì a bordo.
«Sì, ma vale la pena solo fino alla terza stagione. Da lì sembra che gli sceneggiatori abbiano cominciato a farsi di roba pesante» interloquisce Sam.
«Io l’ho visto tutto, la ABC dava le repliche i mesi scorsi. Ho visto un sacco di telefilm quando dovevo rimanere in casa a, beh sai, a tenere d’occhio il Capitano».  
Sam ha qualche problema con la ragazza. Qualcosa in lei non lo convince del tutto, le ha creduto quando ha detto di non essere una nemica solo non capisce che motivo abbia di essere lì; perché un motivo deve averlo, di sicuro, ed è il fatto che non lo abbia ammesso a rendere lui sospettoso. Potrebbe anche concederle il diritto alla segretezza - era dello SHIELD, deve essere una deformazione professionale - se riuscisse a farsi venire in mente una ragione valida per cui una semi sconosciuta possa decidere di mettersi sulle tracce di due tizi alla ricerca di una specie di carro armato vivente con problemi di amnesia, ma dato che non riesce a trovare una sola motivazione valida per spiegarsi la presenza della ragazza, Sam preferisce seguitare sulla via della diffidenza.
Ha una mezza cotta per Steve. Questo è abbastanza evidente, ma in tutti gli Stati Uniti è forse rimasto un esemplare di sesso femminile che non abbia una cotta per Captain America? Solo Natasha Romanoff, ma lei è russa e non è lì.
L’aereo ha un piccolo sussulto, il rumore di carta stagnola si fa più graffiante. I tre passeggeri affondano le unghie nei braccioli dei sedili e restano tesi e in allerta ad ascoltare le vibrazioni farsi meno forti, cuore e stomaco sembrano sussultare come un trampolino dopo il tuffo di un nuotatore. Il loro respiro torna lentamente a farsi regolare via via che il rumore si attutisce.
«Secondo me non ci stanno portando in Svizzera, secondo me ci stanno portando in qualche posto in cui si trafficano organi» dice Sharon, ostentando più sangue freddo di quanto non ne abbia in quel momento.
Sam annuisce. «Sì, comincio a crederlo anche io. Quanto può valere un polmone dei tuoi, Cap?»
«Non ne sono sicuro: ho respirato parecchio fumo durante la guerra».
Finalmente una risatina, leggera, come un nodo che comincia ad allentarsi.
Hanno parlato tutti molto poco da quando sono partiti; le parole non potrebbero che dar forma a pensieri poco incoraggianti, ma quella storia non deve per forza essere più tremenda di quanto già non sia; non ci si può imbarcare in imprese come quella e comportarsi da estranei. Sam lo sa bene, se ci pensa quella non è neppure l’impresa più difficile alla quale abbia partecipato, solo che le altre volte i suoi target volevano essere recuperati.
Ma quel volo su quell’aereo e tutta quella cappa di tensione è già abbastanza per non mettersi a pensare anche alla reticenza del loro obiettivo - la reticenza, la forza, la pericolosità…
«Mi togli una curiosità, Steve? Com’è che ti hanno scelto per fare il supersoldato?» domanda Sam per scacciare dalla mente il pessimismo che lo assale se si mette a pensare al Soldato di Inverno. «Non fraintendermi, è chiaro che hai tutte le carte in regola, amico, volevo solo sapere come ti hanno scovato. Sai, da bambini ci raccontavano la tua storia, ma ho il sospetto che fosse parecchio romanzata».
Steve non ha ancora imparato a fare i conti con quel suo essere storia, si è ambientato bene in quella nuova epoca fatta di luci incessanti e di orologi frettolosi, ma certi vuoti non si possono colmare, la distanza tra l’uomo e la leggenda è un abisso insuperabile.
Il Capitano china il capo, insegue i ricordi con uno sguardo quasi sognante; nonostante la guerra, nonostante i pericoli, le perdite, i lutti, deve esserci stato qualcosa di molto bello in quei giorni di fumo al fronte, quel qualcosa di indefinibile eppure enorme che fa sentire gli uomini realizzati.
«Lo scienziato al capo del progetto, il dottor Erskine, riteneva che fossi quello giusto, immagino per qualcosa che ho fatto durante le settimane di addestramento a Camp Leigh» dice alla fine, tentennando, con una modestia da ragazzino.
«È stato per la granata» interviene Sharon. Steve sembra stupito. «Cioè, credo che fosse già deciso ma quando ti sei gettato sulla granata inesplosa… che cosa c’è?».
«Come fai a saperlo?».
«Mi è stato raccontato tante volte. La mia prozia, lei… Steve? La mia prozia. Lo sai che il mio cognome è Carter, no?».
No, non lo sapeva, è evidente. E ora sembra realizzare qualcosa di grosso che gli vela lo sguardo di una luce che è assai più eloquente di un ricordo, che viene da molto più in fondo.
«Sei la nipote di Peggy? È per questo che sei voluta venire con noi?».
Sharon si aggiusta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, come per prendere tempo. Per un attimo, contro ogni deformazione professionale, sembra persino sul punto di arrossire. E Steve ha l’aria di uno che potrebbe sciogliersi sul sedile.
Andiamo bene
Sam capisce che sta succedendo qualcosa che non è del tutto in grado di decifrare, sposta lo sguardo tra i due e si sente improvvisamente di troppo. «E questo è il momento in cui io accampo una scusa per defilarmi, suppongo. Ci sono: andrò in cabina a parlare con i piloti - anche se non sono sicuro che parlino la mia lingua».
Ma l’idea che Sharon sia lì come per una sorta di eredità sembra dare un senso a molte cose, per lo meno, un senso che non abbia il sapore di un qualche subdolo doppio gioco.
 
TRIESTE
 
In posti come quello, la gente che passa guarda sempre il mare.
L’Adriatico manda riflessi argentati che feriscono la vista ma Clint Barton sta guardando altrove. Cerca gli occhi di Natasha che si fissano sul portone spalancato di una chiesa ortodossa che lascia intravedere uno squarcio di pareti dorate e cariche di immagini religiose.
Forse le ricorda la Russia. Natasha pensa spesso alla Russia: basta un fiocco di neve e i ricordi salgono a galla in tutta la loro incurante freddezza. Non lo dice ma non è così vigliacca da scappare da se stessa.
A Clint piacerebbe avere metà della sua perseveranza.
«Non mi dirai che anche questo ti ricorda Budapest» dice lui, distrattamente, sperando che il mezzo sorriso si estenda anche alle labbra di lei.
«Eravamo messi un po’ peggio di così, o sbaglio?»
«Eravamo senza appoggio dall’esterno, tagliati fuori dai canali di comunicazione, Coulson ci aveva dati per dispersi, la Hill stava già cercando un ghost writer per i nostri necrologi»
«Visto? Eravamo messi peggio allora: adesso i necrologi non sono previsti»
«Ecco un’altra inadempienza al contratto di cui dovrò lamentarmi, insieme al mancato preavviso di licenziamento».
Parole sbagliate al momento sbagliato. Natasha gli sorride, ma è un sorriso senza indulgenza.
Clint trattiene un sospiro. «Per quanto tempo ce l’avrai con me?»
«Non ce l’ho con te».
Lei serra impercettibilmente le labbra e forse crede che lui sia come gli altri, incapace di decifrare la forma che dà alle sue bugie.
Natasha smette di camminare. «Quello che è successo non è colpa tua, e se tu ci fossi stato non sarebbe cambiato niente, credi che non lo sappia?».
Ma non si tratta di questo.
L’agente Barton, uno dei fiori all’occhiello della - mai abbastanza compianta - amministrazione Fury si è perso la grande festa, o meglio il funerale megagalattico. Mentre a Washington l’HYDRA stringeva definitivamente lo SHIELD nei suoi tentacoli e poi affondava con lui, Clint era in missione dall’altro capo del mondo, i suoi unici contatti con l’organizzazione erano una squadra di agenti di istanza in uno sperduto villaggio della Corea del Nord e lui ha cominciato a capire che qualcosa non andava solo quando i contatti si sono volatilizzati nel nulla. Ci ha quasi rimesso le penne quando è rimasto senza nessuno che gli guardasse le spalle e la sua copertura è andata a farsi benedire.
Ma non si tratta neppure di questo.
Si tratta di aver commesso l’errore di credere per un breve momento che Natasha Romanoff fosse il genere di persona capace di appartenere a qualcuno. Non c’ha visto tanto lontano per uno che si è guadagnato il nome di Occhio di Falco.
Un’altra cosa che Clint invidia a Natasha è quella di saper fare i conti con ognuna delle sue debolezze. Lui non ha mai imparato a farlo.
Quello che lei non gli perdona, quello che lui non perdonerà mai a se stesso, è di essere scappato offrendosi volontario per quel lavoro in Corea. Una come la Vedova Nera non perdona chi fugge, può essere indulgente con l’ingenuità, non con la vigliaccheria.
«Se io ci fossi stato, sarebbero cambiate almeno una o due cose» risponde lui. Sfiora il dorso della mano di Natasha, sapendo che non ha più alcun diritto di stringerla alla sua.
L’unica consolazione che gli resta è sapere che il suo genere di errore lo hanno già fatto molti altri.
«Perché sei venuto a prendermi a Ibiza?» chiede lei.
«Non per qualche inopportuno rigurgito di romanticheria, non ti preoccupare. Sapevo solo che ti saresti pentita di non esserci, tutto qui». Perché io me ne sono pentito.
Lei ricambia per un istante la carezza, lo guarda negli occhi e poi distoglie lo sguardo, come in un tacito accordo di chiuderla lì, chiuderla definitivamente.
Caso archiviato. Alla fine non importa, tutte le cose finiscono sempre con il silenzio.
Clint torna ad essere l’ineccepibile agente, Occhio di Falco, l’uomo di Fury. Guarda l’ombra che si disegna dietro la tenda di una delle finestre del palazzo della Prefettura, sa che è l’uomo che stanno cercando e quello dal quale sapranno qual è la prossima tappa.
«Ne uscirà vivo?» domanda, spingendo le mani nelle tasche della giacca.
«Non sono sicura che possiamo permettercelo».
 
GRECHEN
 
Oltre la porta dell’hangar il grigio delle nuvole si somma al grigio dell’asfalto della pista di atterraggio. Per fortuna non si aspettavano nessun tipo di benvenuto.
La torre di controllo dell’aeroporto sembra uno colonna che sorregge un cielo sul punto di crollare.
«Hai la nausea o stai per trasformarti nella versione femminile di Hulk?»
Sharon si china in avanti e appoggia i palmi sulle ginocchia, boccheggiando.
«Quelle non erano manovre di atterraggio, ok? Quelle erano dei tentativi di farci a pezzi. Io l’ho detto che volevano vendere i nostri organi».
Sam Wilson sorride alla sua battuta e le batte con delicatezza una mano sulla schiena. Sembra meno sospettoso di quanto appariva a Philadelphia, o forse è solo rassegnato alla sua presenza lì.
La ragazza sente lo stomaco come se si fosse improvvisamente trasformato in una palla di gomma che le rimbalza nell’addome. Non è colpa dei piloti, malgrado tutto loro sono stati impeccabili, con quel temporale qualsiasi manovra di atterraggio sarebbe stata turbolenta.
«Possiamo aspettare» dice Steve, ma è solo gentilezza. Non possono aspettare e non sarà lei la causa di altri contrattempi.
Sharon inspira con il naso una boccata di aria a cui la pioggia ha lasciato un sapore di ruggine e terra. Ora comincerà a mettere un piede avanti all’altro, che il suo stomaco lo voglia o no.
Le hanno sempre detto che essere troppo ostinati non fa bene, ma quella della stolida determinazione è l’unica strada che ti resta da percorrere quando il cognome che porti diventa il più grande ostacolo al lavoro che hai scelto, un’eredità scomoda con cui fare i conti, quasi un peccato originale per cui molti dei tuoi colleghi non sono disposti ad assolverti.
Sharon Carter non ha pagato l’ingresso nello SHIELD con il suo stato di famiglia ma con l’impegno e il sudore, come ogni bravo agente; Neal le diceva sempre di non dare troppo peso a chi sosteneva il contrario ma le loro erano voci che bisbigliavano alle sue spalle, che chiedevano più di quanto fosse lecito e non erano mai disposte a dare quanto fosse giusto. Erano voci insistenti, quelle che riuscivano a strappare sempre l’ultima parola e in genere si trattava sempre di una parola di rifiuto.
E adesso quelle voci non ci sono più, cancellate, distrutte dall’interno da un cancro che ha reso vano ogni sforzo che lei ha compiuto in tutti quegli anni. Anche Neal non c’è più.
Non le è stato permesso di lavorare con la squadra che si è occupata delle indagini sull’incidente - attentato - e quando ha detto al direttore Fury che voleva rendersi utile lui le ha detto che non era pronte e l’ha chiusa in quell’appartamento a fare il cane da guardia al Capitano Rogers. Chiunque lo avrebbe considerato un onore, Sharon si è sentita più inutile che mai: a cosa può servire fare la balia a un supersoldato sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, a oltre mezzo secolo di ibernazione, a un attacco alieno e ad altre svariate vicissitudini?
Oh, in effetti può servire eccome… riflette Sharon mentre osserva Steve combattere con le impostazioni del GPS del cellulare che lei gli ha dato per trovare l’indirizzo della donna che stanno cercando. Non che il Capitano abbia problemi con la tecnologia, ma i telefoni cellulari in dotazione agli agenti dello SHIELD richiederebbero un addestramento speciale.
In effetti non le è mai davvero dispiaciuto che sia toccato a lei fargli da guardia.
Nell’ingresso dell’aeroporto, davanti al negozio di orologi più grande che la ragazza abbia mai visto, c’è un ufficio per le informazioni turistiche. Sharon prende una cartina dall’espositore e la porge a Steve,
«Tecnologia: se non puoi combatterla, rimpiazzala» gli dice.
Lui sorride. «Ve lo insegnano i vostri supervisori?»
«Lo ha detto Stark, uno delle volte in cui è venuto a curiosare»
«Lo hai incontrato»
«Scherzi? Ho avuto l’onore di portargli un caffè!» 
«È questo che fanno fare agli agenti in gamba?». Il Capitano si ferma un attimo, arrossisce come quando le aveva proposto di barattare l’uso della sua lavatrice con un caffè.
Sharon finge di non farci caso. Sam torna verso di loro con in mano tra ombrelli pieghevoli comprati nel piccolo shop dell’aeroporto quasi del tutto deserto a quell’ora.
La pioggia disegna sentieri liquidi e contorti sui vetri, la città di Grenchen appare oltre quelle righe d’acqua, e sembra il genere di posto dove mai nessuno potrebbe venire a cercare un assassino. 
Il piano comunque è molto semplice: rintracciare Christine Pierce, dirle quello che sta succedendo e consegnarla alla CIA che, dopo la pubblicazione on-line dell’archivio da parte di Natasha Romanoff, non vede l’ora di mettere le mani su qualche ex-criminale dell’HYDRA e che forse sarà abbastanza grata dell’opportunità da non immischiarsi oltre nelle faccende di Captain America. Offriranno alla Pierce protezione in cambio del suo aiuto a fare da esca per intercettare il Soldato. Sulla faccenda del farle fare da esca Steve ha avuto le sue remore, ma erano due contro uno e nessuno ha deciso che dovesse essere lui il capo della banda. Tuttavia, si è deciso di allertare la CIA solo una volta intercettata la donna e solo dopo aver parlato con lei: dal fascicolo che hanno rinvenuto nella base di Philadelphia sembra che lei non abbia attorno alcuna rete di protezione, avrebbe rischiato di destare sospetti su una tranquilla dottoressa direttrice di una clinica privata di tutto rispetto.
Gli ombrelli possono davvero poco contro il vento che spinge la pioggia a schiaffeggiare i passanti. Sharon si sente rabbrividire nell’aria umida.
Steve fa un passo verso il bordo del marciapiede e ferma un taxi.
Strizzata tra i due soldati sul sedile posteriore, con la testa cullata dallo stridio ritmico e strascicato dei tergicristalli, Sharon realizza in un solo momento quanto sia stanca e che non riesce a ricordare l’ultima volta che ha dormito sul serio. Muove la testa di lato per guardare i suoi compagni di avventura: ognuno di loro è lì per un motivo diverso, che è un po’ come dire che sono tutti e tre da soli con se stessi.
Il taxi procede pigramente tra le strade spazzate dalla pioggia. Quello che scorre dietro i vetri appannati non è il paesaggio svizzero da cartolina, è solo un susseguirsi di spazi aperti costellati di pozzanghere e viali di villette e baite che sembrano tremare nella tempesta.
Lo spettacolo ha un che di claustrofobico: la città di Grenchen sembra qualcosa di rovesciato nel fondo di una scatola, che sta scivolando sempre più giù in quella conca strozzata  incastrata tra pareti di montagne che sembrano chiudersi sopra di loro come una trappola.
Quando il taxi li porta a destinazione, Sharon ha l’impressione che il terreno sotto di loro potrebbe crollare da un momento all’altro e trascinarli ancora più giù. Trasalisce e dentro di lei vibra il sussulto del cattivo presentimento.
Si spostano velocemente sotto la tettoia di un bar con le saracinesche abbassate, di fronte alla casa della donna che sono venuti a cercare.
«Forse dovremo separarci» dice la ragazza. «Qualcuno dovrebbe andare alla clinica dove la Pierce lavora, e qualcun altro dovrebbe restare qui».
Steve serra le labbra e annuisce con un cenno rigido. Dalla sua espressione sembra voglia avere il dono dell’ubiquità, poter essere da entrambe le parti, perché lui vuole esserci quando troveranno il Soldato di Inverno, crede che sia l’unico modo in cui le cose possano andare bene o un po meno peggio. Quello di cui Steve non sembra rendersi conto è che potrebbe non fare alcuna differenza, che il Soldato potrebbe ancora vederlo come un nemico, esattamente come vedrebbe lei o Sam o chiunque altro. E soprattutto, quello che il Capitano pare faccia fatica ad afferrare è che il Soldato é il nemico, a prescindere.
La ragazza gli posa una mano sul braccio, come avrebbe fatto la sua vicina di casa infermiera - e ci sono momenti in cui lei vorrebbe poterle assomigliare davvero.
«Steve, tu sai che anche se lo troviamo potremmo essere punto e accapo» mormora. E vorrebbe essere davvero solo un’infermiera, solo una ragazza normale, senza niente da nascondere.
Anche Sam fa una faccia tesa.
«Al minimo segno di pericolo, voglio che ve ne andiate, ok?» dice il Capitano.
Al minimo segno di pericolo, io gli sparo.
«Non voglio che corriate rischi»
«Potrei correre rischi anche stando a casa mia, magari esco a comprare il giornale e un pirata della strada mi mette sotto» borbotta Sam.
«E se io non fossi qui sarei in Siria con la CIA - li leggi i giornali, sai cosa sta succedendo lì? - quindi smettila di fare l’eroe solitario e ascoltami» continua Sharon. «Se lo trovassimo e lui non fosse felice di rivederti, dovremmo prendere dei provvedimenti, non per te, non per noi, ma per la gente che potremmo avere attorno. Voglio assicurarmi che tu lo sappia»
«Beh, se non lo avessi saputo prima lo so adesso, grazie».
Sharon sbuffa. Negli occhi del Capitano, la spavalderia stempera in un’espressione colpevole e contrita. «Scusa… scusami. Scusatemi tutti e due, è che non so proprio come gestirla questa cosa» mormora.
«Non gestirla, ci pensiamo noi. Tu promettimi solo che non farai niente di stupido» Sam gli batte una mano sulla spalla.
Come se non fosse già abbastanza stupido essere lì e aver volato per mezzo mondo su quellaereo sgangherato. 
Un camioncino bianco si mette in moto e sfila lentamente lungo la strada, libera la visuale sulla casa e Sharon registra un particolare fuori posto.
«Ehi… qualcosa non va» dice. Automaticamente fa un passo avanti, incurante della pioggia.
Il brutto presentimento ora è qualcosa di più di un brivido leggero nel petto, è una scarica di elettricità che fa accendere un allarme nella sua testa.
Steve e Sam seguono la direzione del suo sguardo e notano subito a cosa la ragazza si stava riferendo.
«La finestra è aperta. Chi lascerebbe una finestra aperta con questo tempo?»
«Qualcuno molto distratto…».
Oppure qualcuno che è scappato via. Qualcuno che non c’è più.
La donna non può essere scappata: quasi certamente non sa di essere nel mirino di un imprevedibile soldato killer. È altrettanto improbabile che sia già andata a lavoro, è ancora molto presto.
«Diamo un’occhiata» dice Steve.
«Per dare un’occhiata tu intendi intrufolarci in casa sua?» chiede Sam.
«Intendo avvicinarci a casa sua. Se poi dovessi inciampare e cadere oltre il davanzale della sua finestra, beh, gli incidenti capitano…»
Sharon finge un’aria sconvolta. «Pensavo fossi un bravo ragazzo»
«Sono pur sempre cresciuto nella Brooklyn degli anni Quaranta».
Attraversano la strada vuota che la pioggia ha reso un deserto di acqua e fanghiglia che scorre in rivoli torbidi verso un tombino. L’intero quartiere sta ancora dormendo.
Il cancello dello steccato non è chiuso, sembra essere messo lì solo per bellezza. Il piccolo giardino anteriore è un tappeto d’erba mezza annegata, con aiuole spoglie piene di terreno incolto e scuro. Il pollice verde non deve essere un’attitudine della signorina Pierce. 
«Non so se sia una buona notizia, ma anche la porta di ingresso è aperta» annuncia Sam.
Lui e Sharon si scambiano un’occhiata, entrambi mettono mano alle pistole. Il Capitano li sorpassa e si para davanti a loro reggendo lo scudo.
Con infinita cautela, Steve apre la porta e sguscia dentro.
La casa è immersa nella grigia penombra del mattino piovoso e quello della tempesta è l’unico rumore che sembra riempirla, senza smuoverne l’immobilità.
Controllano le stanze del piano di sotto: vuote, in ordine. In cucina c’è un bicchiere rovesciato accanto al lavello, una penna e dei fogli per terra; forse Christine Pierce è davvero scappata, andata via di fretta per qualche motivo che non deve avere per forza a che fare con il Soldato di Inverno, chi può sapere quali ordini abbiano ricevuto i superstiti dell’HYDRA dopo il disastro di New York.
L’ultima stanza che resta da controllare al pianterreno è uno studiolo a destra delle scale.
Il Capitano apre la porta spingendola piano con il piede. La stanza sembra vuota fino a quando non abbassano lo sguardo sul pavimento.
Il cadavere è riverso tra i piedi di una grande scrivania nel disordine di oggetti caduti e vetri rotti. Sharon sa che è un cadavere ancora prima di avvicinarsi e reprime un’imprecazione.
La luce plumbea che filtra dall’esterno fa apparire quello spettacolo ancora più macabro, il freddo che la finestra aperta lascia entrare rende quella stanza gelida come un obitorio.
Steve rimane impalato sulla porta, lo sguardo fisso sul cadavere, le spalle leggermente curvate come se qualcosa di pesante e tremendo si fosse appena scaricato sulla sua schiena, o come se qualcosa gli stesse volando via dal petto. L’ultimo scampolo di speranza forse, se non la speranza di trovare il suo amico, quanto meno la speranza di non imbattersi nelle orme di un  qualcuno che è ancora un assassino.
È giusto così, è bene che tu veda e apra gli occhi, Steve Sharon non riesce a trattenere questo pensiero il tempo necessario a diventarne consapevole. Quello che sente è la stessa pesantezza che sembra aver spezzato il respiro del Capitano.
No, non c’è proprio niente di giusto in tutto quella situazione. C’è solo qualcosa di facile, qualcosa che gioca a suo favore, ma non sono quelle le carte con cui Sharon avrebbe voluto cominciare a vincere la partita.
Si avvicina al cadavere e ne cerca il battito per puro scrupolo, ma non trova altro che il freddo immobile e un alone livido a cerchiare il collo, un diadema di chiazze violacee e piccoli tagli sottili dalla gola al mento e un segno giallognolo sul viso.
Ha già visto altri cadaveri in passato, eppure la morte ancora la turba. L’omicidio la turba ancora più assai, anche se la vittima è un membro di un’associazione criminale nazista.
Sharon alza lo sguardo e incontra gli occhi preoccupati di Sam. Sembra volerle dire: vacci piano, ma davanti al cadavere di una donna strangolata tutto sembra diventare odiosamente rocambolesco a volte.
Steve non ha ancora il coraggio di muoversi.
«È rigida, deve essere morta da più di quattro ore» dice la ragazza.
«Per forza, è il tempo che lui ha di vantaggio su di noi, più o meno». Il Capitano deglutisce e si costringe a spostare lo sguardo dal cadavere della donna.
«Non sappiamo quanto tempo ha impiegato per il viaggio» osserva Sam, ma è una rassicurazione che suona forzata anche a lui.
«Steve…»
«Non so cosa fare, e soprattutto non so dove andare» mormora lui. La sua voce ha la gravità e la durezza del lutto, è come se in quel momento avesse visto il suo amico morire di nuovo.
Era già morto, Steve. Quello a cui stiamo dando la caccia non è Bucky Barnes, non lo è mai stato.
Sharon si sente vigliacca a non avere il coraggio di dirlo, a non avere avuto il coraggio di dirlo prima ancora di quel momento.
«Quello che so è che Sam aveva ragione: va fermato». Il Capitano si volta e si dirige fuori dalla stanza, a capo chino come una statua spezzata.
«Dobbiamo trovare un indizio, Sam, qualsiasi cosa per uscire da questo pantano» esclama Sharon. E dobbiamo fermare il Soldato di Inverno.
Lui annuisce con aria preoccupata e si passa una mano sul viso, poi sposta lo sguardo tra gli oggetti sparsi attorno alla donna morta.
«Ehi, guarda, il telefono» sussurra. È un’idea appena accennata di una speranza troppo flebile perché venga detto ad alta voce. «Ce lo aveva vicino, quindi forse aveva fatto una qualche telefonata»
«Non credo che lui gliene abbia lasciato il tempo, no? Ma se riusciamo a risalire ai numeri chiamati potremmo trovare qualche indizio».
Sì, la speranza non è del tutto infondata. Se il Soldato è andato da lei, da Philadelphia fino a Grenchen, deve essere sulle tracce di qualche gruppo dell’HYDRA a cui Christine Pierce è più legata o a cui lei faceva riferimento, e in quegli ultimi giorni, dopo il casino di Washington e la morte di suo padre, lei sarà sicuramente stata in contatto con loro. Ed è altrettanto probabile che il Soldato le abbia estorto informazioni al riguardo prima di ucciderla, quindi se trovano un recapito è probabile che potrebbe coincidere con la prossima tappa del dannato killer con l’amnesia.
«Dimmi che in quel tuo computerino c’è un programma in grado di risalire ai tabulati telefonici, ti prego».
Sharon riesce a mettere insieme un sorriso.
«Stiamo riempiendo di tracce e impronte una scena del crimine» dice dopo qualche istante.
Sam lancia un’occhiata alla donna sul pavimento, fissa per un istante il suo volto livido e i suoi occhi sbarrati e spenti dove sembra rimasta un’orma di paura, poi smette di guardarla come se avesse appena deciso che non la guarderà mai più, che è abbastanza.
«Saremo già lontani quando la troveranno» mormora.
«Hai detto una cosa da vero criminale». La ragazza fa un sorriso triste, poi cerca un cavo nella sua borsa. Pensare a cose pratiche la distrae dal peso degli occhi vitrei della donna sul pavimento, da quello sguardo immobile che sembra seguirla e dal pensiero di Steve fermo fuori dalla porta a fare i conti con demoni che non ha mai meritato.
Sam le si affianca e guarda le operazioni che sfilano sullo schermo del computer per continuare a non guardare altrove. È strano con quanta insistenza la morte riesca a richiamare l’attenzione.
«L’ultima telefonata risale a quattro ore e mezza fa» dice la ragazza quando i dati che cercava compaiono impilati in colonne di numeri e caratteri sul bianco di un foglio elettronico in un geroglifico dal quale si aspetta di trovare ogni risposta sulla prossima mossa del Soldato.
«Il programma può localizzare il destinatario?».
Sia benedetta la buon’anima dello SHIELD e tutte le sue meravigliose diavolerie informatiche.
«Conosco questo posto» dice Sharon quando il foglio con i dati si trasforma in una mappa stilizzata e il campo si restringe sempre di più fino a fermarsi su un punto al centro di una ragnatela di strade.
Le coordinate e il nome della località le saltano subito alla memoria, lì dove c’è un punto debole che brucia come una cicatrice.
«È dello SHIELD, beh, lo era, ma è stato abbandonato almeno due anni fa».
Due anni prima, una delle sue primissime missioni, praticamente una specie di trasloco. Dovevano sgomberare quel laboratorio, ordini dall’alto: dicevano che era compromesso, ma a lei era sembrato che ci fosse sotto qualcosa, perché a dirigere l’operazione era stato mandato Phil Coulson, quel genere di agente al quale Fury affidava operazioni assai più delicate, ed era stato chiamato nientemeno che Clint Barton a occuparsi della sicurezza.
Era lì che Sharon aveva conosciuto Neal.  
«Fantastico. Ora dimmi che non è dall’altro lato del mondo e potrei quasi smettere di pensare che questa è una giornata di merda». Sam la guarda speranzoso.
«È una giornata di merda in ogni caso». La ragazza indica con un’occhiata l’ombra del Capitano sulla soglia. «E non possiamo nemmeno essere sicuri che il Soldato sia andato lì».
«E di cosa si può essere sicuri a questo mondo? Ad ogni modo, dov’è questo posto?»
«Oh, in un altro luogo bucolico, a Graz nella Stiria austriaca».
Sam si gratta la nuca, cercando di figurarsi il modo di raggiungere lo stato austriaco. «Beh, immagino che il nostro killer preferito abbia le nostre stesse difficoltà con gli spostamenti».
 

 
 
 
 
 
 
 
 

Citazione iniziale dal brano “Who are you really?” di Mikki Ekko.
 
Chiedo scusa se non ho ancora risposto ai vostri commenti. Ho avuto una settimana tremenda… intanto argino sfighe grosse come montagne e plotto fanfiction Stucky di cui prima o poi riparleremo.
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A venerdì prossimo con l’aggiornamento.

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Capitolo 6
*** Sixth bullet - Randez vous - parte prima ***


Sixth bullet: Randez vous
 parte prima
 
You said we were born with nothing
and we sure ad hell we have nothing now,
these are things, the things we lost
the things we lost in the fire.
 
 
GRAZ
 
La nebbia pizzica le guance con mille punte di spillo.
L’aria umida sembra ricoprire tutto di un velo viscido e oleoso, ma nel quartiere universitario la sera sembra non arrivare, tenuta lontana dalle mille luci accese dietro le vetrine dei pub.
Molta gente e molta luce: un buon posto per confondersi e fingersi parte di un mondo che sembra diventato indecifrabile.
Il Soldato ricorda una festa, forse una vigilia di Natale, in un altro tempo e in un altro luogo. Ricorda che l’odore fumoso della guerra ancora aleggiava nell’aria ma rendeva tutto più brillante, le luminarie ai lati delle strade e i sorrisi delle ragazze che si appoggiavo al braccio dei soldati americani come farfalle. Ricorda con vaghezza folte onde di biondo chiaro accanto a lui, sulla sua spalla, e mani sottili e candide avvolte attorno al suo braccio, quello che manca. 
 
«Alzate quella musica, facciamo sentire ai crucchi come balla e canta lInghilterra».
Keep calm and carry on.
 
Si chiede quali potevano essere i desideri di quella gioventù, cosa ne è rimasto quando la guerra si è ritirata come un’onda dopo la marea e i mostri hanno assunto l’aspetto delle persone normali. Cosa desiderano ora quei ragazzi dietro la vetrina che parlano forte raccolti attorno a un tavolo rotondo, la schiuma della birra è un alone attorno al vetro dei bicchieri.
Pensa che ogni mondo, ogni tempo, abbia le sue luci, le sue voci pronte a urlare che nonostante tutto si può ancora ballare e cantare. La consapevolezza di non appartenere a nessun mondo e nessun tempo è il dolore sottile che cerca di trasformare in corazza, il solco che cerca di far diventare voragine per poter mettere la giusta distanza tra l’uomo e il soldato, per trovare il coraggio nella freddezza di un’indifferenza che gli fugge via dalle dita.
Più ricorda di essere stato un uomo più gli è difficile comportarsi come un soldato.
Ha già commesso un errore nel lasciare in vita Christine Pierce, ora i suoi nemici sapranno che è vivo, non può permettersi altri passi falsi se vuole uscire vivo da quella situazione.
Uscire vivo per cosa? Vivere per andare dove, per essere chi?
No, non è uscirne vivo che gli interessa. Gli basta che siano loro a non sopravvivere.
«Hast du eine zigarette?». Hai una sigaretta?
La ragazza ha capelli lunghissimi, un cerchietto attorno al labbro inferiore e una spessa riga di nero attorno agli occhi.
Il Soldato scuote la testa. La sconosciuta continua a guardarlo.
«Hast du dich verlaufen?…» Ti sei perso? «… hai l’aria di uno che si è perso».
Lui aggrotta la fronte e le parole gli escono di bocca quasi da sole, in un tedesco perfetto e quasi privo di inflessione. «Tu non hai idea»
«Non dirmelo: sei venuto qui a metà semestre credendo che sarebbe stato facile trovare alloggio e invece sei rimasto fregato. Capitò anche a me, il primo anno».
Parlare, è questo che fanno le persone normali. Non gli serve aver ritrovato tutta la memoria per essere certo di non aver parlato molto negli ultimi settant’anni.
Mostrarsi ostile lo renderebbe sospetto, lui deve mimetizzarsi, continuare ad essere un fantasma.
«Non ho ancora deciso, in realtà» dice, alla fine. È quasi divertente testare la sua capacità di socializzare, gli dà la sensazione di riappropriarsi di un po’ di quell’umanità smarrita senza troppo sforzo. Gli dà l’illusione di poter dimenticare il sangue e il ghiaccio, di poterli nascondere a se stesso ancora prima che agli altri.
Fingere di essere un uomo per dimenticare di essere stato un fantasma.
La ragazza gli tende una mano, magra e affusolata con le unghie dipinte di smalto scuro scrostato in alcuni punti
«Mi chiamo Edith».
No, è meno facile di quanto gli era sembrato: per la gente i nomi sono importanti, per lui hanno smesso di esserlo.
Si costringe a ricambiare la stretta. Lentamente articola una parola come se le lettere fossero note suonate da un musicista principiante. «James»
«Sei americano?»
Così dicono «Sì».
Così diceva la didascalia accanto alla foto nel museo. Venire da un posto significa appartenervi, ma lui appartiene solo all’inverno, quello che copre tutto di un bianco ostile, quello dove la notte arriva troppo presto e il giorno è solo un’illusione oltre coltri di nuvole. 
«E hai fatto tanta strada senza essere certo di trovare un posto dove stare?»
Lui scrolla le spalle, poi guarda lontano, verso il fondo della strada. Oltre l’orizzonte di mura e guglie c’è qualche altra cosa che lo aspetta, il luogo che è riuscito a trovare controllando l’indirizzo che gli ha dato la Pierce con il computer che le ha rubato.
«Mi interessano molto le foreste fuori la città» dice. Qualcosa nella sua voce deve suonare freddo e tagliente, un retaggio dell’inverno a cui non smetterà mai di appartenere. Suona minaccioso forse, perché la ragazza si irrigidisce per un attimo.
«Oh, sì. C’è un sacco di gente che ci va a fare trekking»
«Ho guardato la cartina, ci sono zone chiuse dalla Guardia Forestale, no?» 
«So che ci sono aree di foresta troppo pericolose e non fanno andare lì la gente. Perché, hai intenzione di andarci?»
«No, certo che no»
«Stai mentendo…».
Lui scuote la testa. «Avrebbe importanza?».
Edith sospira. «Perché voi ragazzi carini siete sempre sciroccati?».
Sciroccato è una parola che manca al suo dizionario, ma non è così difficile dedurne il significato. E ricevere apprezzamenti sul suo aspetto era un’altra di quelle cose che forse non gli capitava da svariati decenni - non che gli sembri di qualche rilevanza, comunque, ma il viso di Edith si sovrappone a quello della ragazza inglese nel suo ricordo e in qualche modo lo fa sentire bene… meno peggio, un po’ più uomo. E proprio come in quel ricordo, la guerra è ancora là fuori, anche se è una guerra silenziosa, ma può essere dimenticata per una sera, c’è bisogno della luce del giorno per andare in contro al nemico.
«Se mi offri una birra non andrò alla polizia a dire che vuoi fare una scampagnata nella foresta chiusa ai turisti» conclude lei. «E magari, potresti anche avere un posto dove stare, stasera».
Il Soldato guarda la sua esuberante interlocutrice senza dire niente. Non c’è nessun posto in cui possa stare una macchina da guerra con un braccio di metallo e uno zaino con dentro il computer di un agente dell’HYDRA e una pistola Glock automatica, ma prolungare la conversazione con Edith ancora per un po’ non gli sembra un’idea tanto pessima.
Mimetizzati, fingiti uno di loro. Sono regole ancora valide, anche se detesta il solo pensiero della voce che gliele ha insegnate. Voce che è senza volto, solo un’ombra con troppe teste.
Dopotutto, deve aspettare che faccia mattino, prima di raggiungere la foresta.
 
 ***
 
«È notte fonda».
Il signor Böhm della Guardia Forestale sente l’evidente bisogno di rimarcare l’ovvio.
Natasha lo guarda con impazienza. Accanto a lei Clint si sta rigirando tra le mani il tesserino falso che ha mostrato all’uomo spacciandosi per un ispettore di qualcosa di abbastanza altisonante da aver lavato via dal viso del signor Böhm tutto il sonno di quel tedioso turno di notte.
Clint ha il grande pregio di aver conservato una normalità e un’umanità che molti altri agenti hanno smarrito in anni e anni di servizio, per questo è bravo a spacciarsi per un civile, a fare in modo che le persone gli credano.
«Dovrebbe cominciare a rischiarare tra un paio di ore» dice. «E io e la mia collega abbiamo ancora molte zone da controllare, domani. Abbiamo trovato un lupo morto a cinque chilometri da qui e la cosa ci ha fatto perdere un sacco di tempo. Lei capirà che senza i nostri controlli, i bracconieri rischiano di farla franca. Sa che abbiamo scoperto che ce ne sono alcuni anche tra le file della guardia forestale? Una vergogna»
«Una vergogna, assolutamente, signore»
«I controlli saranno assai più severi adesso. Lei non vuole che nel mio rapporto riferisca che non abbiamo avuto totale collaborazione da parte sua, giusto?»
«No, signore».
Silenzio. Il signor Böhm ha lo sguardo titubante e poco sveglio, sembra proprio che si siano beccati il Sergente Garcia della guardia forestale austriaca.
Natasha sposta il peso da una gamba all’altra. L’impazienza è dettata dall’istinto, dal fiuto della predatrice che sente avvicinarsi qualcosa. Dal fiuto della predatrice che ha sempre dovuto lottare per non diventare preda.
Il loro uomo a Trieste era troppo spaventato per osare mentire. C’è qualcosa in quella foresta e Natasha si aspetta di trovare molto di più di quanto le informazioni strappate al tizio italiano facciano pensare.
Clint non ha fatto obiezioni quando lei ha insistito per partire subito. Clint si è sempre fidato del suo istinto e la fiducia che le ha accordato è più di quella che la Vedova Nera meriti, è uno dei problemi che ha reso difficile la loro relazione quando hanno provato a spingersi oltre.
C’è qualcosa di troppo grande e complicato nel loro legame, quel macigno di affetto che affonda le sue radici nel sangue e nel piombo. Non puoi non amare qualcuno che ti ha salvato la vita, che conosce ogni nota di rosso sul tuo registro e non ne prova paura, non puoi non amare qualcuno che ti ha visto affondare un pugnale nella gola scoperta di un politico corrotto e ti ha lavato via il sangue dalla pelle quando eri troppo stanca per farlo da sola. Qualcuno che per te ha ripulito il sangue da ogni specchio che incontravi, per lasciarti vedere la donna che non sei potuta diventare invece del mostro che temi di essere.
Ma certi amori sono troppo grandi, troppo scoperti, sono amori di carne viva e fanno male ogni volta che il destino li sfiora e non puoi abbracciarli e rischiare di farli soffocare, puoi solo decidere di convivere con la loro presenza, senza mai toccarli.
Perché loro due ci hanno provato, e ha fatto male. E Natasha non vuole rischiare di veder soffocare quella parte di sé, di vedere rompersi quegli specchi. È egoista, lo sa, ma è l’unico modo in cui può stare al mondo una donna che ha fatto della sopravvivenza il suo scopo primario. 
Ci saranno altri amori, pensa, ammesso che una come lei sia in grado di meritarli, amori con una corazza uguale a quella che si è costruita addosso. Oppure non ce ne saranno affatto, come è logico credere. Se ci pensa, non ne ha mai fatto una questione particolarmente importante.
Clint apre la portiera del fuoristrada che il signor Böhm si è finalmente deciso a concedere, ma Natasha si intrufola tra lui e il sedile sistemandosi al posto di guida.
L’uomo alza le mani in un’enfatico gesto di resa. «Ai vostri ordini, madame».
I fari della grossa auto bucano la nebbia, nel fascio di luce bianchissima polvere e umidità disegnano spire lente che si attorcigliano e poi spariscono contro le pareti di buio.
Il terreno scricchiola sotto le grandi ruote del fuoristrada.
«Hai una faccia che mi sta facendo rimpiangere Budapest e New York messe assieme» dice Clint quando sono ormai immersi nella foresta e grossi tronchi compaiono ai lati della strada come spettri.
«In effetti, ora come allora non ho avuto tempo di incipriarmi il naso»
«Cosa ti aspetti di trovare laggiù, si può sapere?».
Natasha scrolla le spalle e guarda la cartina che tiene spiegata sul cruscotto.
«È per il Soldato di Inverno?».
La donna smette di guardare la strada e rivolge a Clint un’occhiata che è un monito a non spingersi oltre.
Barton è un uomo pratico, non ha mai creduto alle storie sul misterioso agente dal braccio di metallo nemmeno quando lei disse di averlo incontrato in Iran - all’epoca lui inseguì quelli che erano stati identificati come i responsabili di quell’attacco e li uccise, le disse scherzando che la morte era troppo poco per quelli che le avevano tolto la possibilità di indossare il bikini; fu l’unica volta in cui si concesse di scherzare su persone che aveva eliminato.
Beh, ora deve crederci per forza, come tutti.
Natasha ha i suoi motivi per credere che il Soldato sia sulle tracce degli stessi che stanno cercando anche loro. Si chiede cosa succederebbe se si incontrassero di nuovo.
Ma soprattutto, da quando lo ha visto in viso, non riesce a scacciare dalla mente una sensazione di gelo, paura e sconforto. Il gelo, la paura e lo sconforto di ricordi sepolti così a fondo da non essere altro che polvere tra i suoi pensieri.
Pensa a Steve Rogers e sente il cuore pesante. Perché non importa cosa dica il suo stato di servizio, lei un cuore lo ha sempre avuto.
«È qui vicino, forse è meglio non avvicinarci troppo con la macchina». Frena bruscamente davanti a un abete alto come la torre di Babele e smonta.
Clint fruga nel bagagliaio del fuoristrada e tira fuori due torce e un vecchio fucile che odora ancora di olio per lucidare. «Cosa ci fanno con questo, la caccia ai piccioni?» borbotta con disapprovazione, ma alla fine si getta l’arma a tracolla: hanno le sue frecce e due pistole, ma non si sa mai che serva una manciata di proiettili in più.
Oltre una muraglia di alberi che vanno diradandosi c’è uno spazio aperto, punte di roccia si alzano dal terreno, sembrano messe lì apposta per far inciampare i passanti.
Il loro uomo a Trieste non li ha ingannati, le coordinate sono giuste. Come in una strana caccia al tesoro c’è davvero una X sul terreno, la porta blindata di una botola tra i massi.
«Il nostro uomo ha detto che il laboratorio è stato abbandonato di recente, no?» dice Natasha, pestando il piede contro il metallo dell’apertura.
«Lo spero»  
«Reggi questa, fammi luce». Clint le lascia entrambe le torce, apre una delle cartucce del fucile e ne versa la polvere da sparo nel foro della serratura della porta blindata e sui bordi. Si allontana di qualche passo e lancia un fiammifero. Nel buio che sta già cominciando a cedere all’alba, la fiammella disegna una parabola perfetta prima di cadere sul bordo della serratura.
Dopo un sottile sfrigolio, il blocco della porta salta con un botto sordo.
«Roba da boy-scout» mormora Clint.
Natasha spalanca la botola con un calcio e punta il fascio della torcia verso l’apertura. Vuoto, silenzio e un odore di terra umida e chiuso, come il tanfo di una tomba.
Quando cominciano a scendere la stretta scala, sopra di loro il cielo inizia ad aprirsi. L’aria umida soffia contro le loro spalle e di istinto Clint richiude la botola.
Il silenzio che li avvolge fa quasi paura. 
 
***
 
L’alba è un qualcosa di indistinto, una lingua di cielo azzurro al di sopra delle cime degli alberi e avvolto da una foschia pesante. La foresta fa la sua musica di versi lontani e scricchiolii e gocciolare di rugiada.
In mezzo a quel verde privo di strade Steve si sente perso.
Hanno viaggiato in treno fino alla frontiera austriaca, se non fosse stato per i contatti di Sharon con la CIA sarebbe stato un problema varcare il confine portandosi dietro le pistole e nascondendo la loro identità. Steve è contento che la ragazza sia con loro, avere qualcuno in più in squadra lo aiuta a ricordare che non è tutta una follia, è come avere un punto fisso in più su quella mappa distorta.
Sharon lo guarda come se si fidasse di lui, il Capitano non sa se lo merita, ma a volte gli sembra l’unico motivo per cui la sua fede non vacilla. Come per gli occhi di Peggy, la notte dopo il disastro del treno, in cui lui cercava di annegare il rimorso in un bicchiere che sarebbe stato sempre troppo piccolo.
Anche Sam resiste al suo fianco con una tenacia che meriterebbe un monumento. Un soldato da solo è ben poca cosa senza i suoi compagni, glielo ha insegnato la guerra, glielo ha ricordato New York e adesso la vita sembra volergli scrivere di nuovo questa lezione sulla pelle, con parole del tutto nuove. Se non fosse stato per Sam, il viaggio verso Graz sarebbe stato un tunnel di silenzio e fantasmi, e invece…
 
«Oh, ecco un altro film che dovresti vedere: I soliti sospetti»
«Cosa?…»
«Sharon, quel tuo computerino lo becca lo streaming?»
 
Ora però i fantasmi aspettano dietro quella rete.
Steve si china e ne spezza le maglie per aprire un passaggio raso terra. «Ho fatto più cose criminali nelle ultime settimane che negli ultimi novant’anni» borbotta.
Ha cominciato con il rubare la macchina che ha portato lui e Natasha a Camp Leight. La nostalgia per l’agente Romanoff è ancora sospesa dentro di lui, e Steve realizza di essere troppo spaventato per sopportare anche l’idea di non sapere dove siano i suoi pochi amici rimasti - quelli sani di mente, almeno.
Sam è il primo a strisciare sotto la rete, resta dall’altro lato a tenere sollevate le maglie spezzate per rendere più facile l’accesso agli altri due. Steve passa respirando terreno e odore di erba; Sharon scivola dentro senza fatica, agile e minuta, e lui le tende la mano per aiutarla a rimettersi in piedi. La ragazza sorride quando appoggia il palmo contro il suo.
Presto arriverà lo sguardo di monito: “abbiamo a che fare con un assassino, dobbiamo essere  prudenti e pronti a tutto”, ma non è ancora il momento di rammentare questo dettaglio o di riportare alla mente l’immagine di Christine Pierce strangolata ai piedi della sua scrivania.
Steve strizza le palpebre per un istante. Se permettesse ai rimorsi di laceralo, non potrebbe muovere un solo passo di più.
La foresta oltre la rete non sembra più minacciosa o più fitta o più oscura, e la luce del giorno resta ancora sospesa sopra le loro testa, oltre il velo di nebbia che non accenna a diradarsi.
Sam lancia un’ultimo sguardo alla rete. «Credo che serva a tenere lontano gli animali» commenta. «Quante probabilità abbiamo di incontrare un orso?»
«Meno di quante ne abbiamo di incontrare qualche lupo» ribatte Sharon.
«Confortante».
Il rumore dei loro passi si confonde alla sinfonia della foresta.
Sharon controlla il percorso sul display del cellulare e indica una specie di sentiero tra tronchi di abete. Più vanno avanti più la foresta si trasforma in un labirinto di conifere e odore di resina, immobile e bellissima come una trappola escogitata dal caso.
«Dovremmo proseguire per un paio di chilometri in linea d’aria» dice la ragazza.
Lei e Sam mettono mano alle pistole quasi contemporaneamente. Al Capitano non resta che stringere più saldamente il suo scudo, perché dopotutto, lui ha imparato a difendere prima che ad attaccare. E difendere è quello che spera di poter fare, anche se tutto fa pensare che le cose andranno assai diversamente semmai riusciranno a trovare Bucky.
Steve guarda con la coda dell’occhio Sam e Sharon.
E se al suo posto troverete solo e soltanto il Soldato di Inverno, chi difenderai, Capitano?
Sarebbe più facile sopportare l’insistenza della voce della coscienza se non avesse preso a parlargli con il tono molesto e petulante di Tony Stark.
Quando gli alberi cominciano a diradarsi, a Steve sembra di essere in marcia da ore e gli sembra che il mattino sia ancora lontanissimo. Ma i loro passi li portano verso uno spiazzo vuoto di terreno roccioso dove la nebbia copre il suolo come un tappeto di fumo. All’orizzonte si vede il fianco di una collina come una gobba scura che spunta dalla terra.
Da quel mare di nebbia e freddo affiora una roccia, sopra la roccia c’è una porta di metallo obliqua, come la botola di una cantina.
Qualcuno è arrivato prima di loro, se ne sta in piedi davanti alla porta, le mani che infilano il caricatore in una pistola con gesti rapidi e automatici, precisi come quelli di un rituale.
Il Soldato di Inverno
Steve lo riconosce ancora prima di mettere a fuoco l’immagine.
Al margine del suo campo visivo Sam e Sharon prendono la mira, è una precauzione sulla quale non può recriminare. Vede lo scintillio cupo delle canne delle loro pistole, non vede che la ragazza toglie la sicura e sta già sfiorando il grilletto quando lui fa un passo avanti e il rumore di un ramo che si spezza tradisce la loro presenza.
Adesso sembra essere arrivato il turno dei fantasmi e non c’è niente che si possa fare per rimandare.
La figura si volta con uno scatto, il braccio teso in avanti con l’arma che sembra esserne una naturale continuazione.
Steve fa quello che sa fare meglio: difendere. Muove un passo in avanti, tra la traiettoria della pistola del Soldato e quella dei suoi amici alle sue spalle.
E non può vedere nemmeno che, dietro di lui, Sam afferra il polso di Sharon un attimo prima che lei faccia fuoco.
Anche la foresta sembra cessare con la sua fanfara di suoni. In quel silenzio teso e perfetto, Steve ha quasi la sensazione di sentire già il boato dello sparo, ma alla fine tutto quello che sente è la sua stessa voce.
Fa male ugualmente, come un proiettile.
«Bucky…».
 

 
 
 
 
 
Note
 
La città di Graz è la più grande città austriaca dopo Vienna, è sede di molte importanti università, è circondata da foreste e colline ed è un posto molto umido e nebbioso. Praticamente lo scenario perfetto per quello che ho in mente.
Citazione iniziale dal brano Things we lost in the fire dei Bastille.
 
Cose strane accadono nell’AlkiVerse quando fai brainstorming di gruppo e scenari Stucky lasciano il posto a sentimenti WinterWidow come se non ci fosse un domani. Qui siamo oltre l’OTP, siamo già più vicini all’ossessivo compulsivo. O al culto religioso fanatico.
 
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 A venerdì prossimo con l’aggiornamento ^^

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Capitolo 7
*** Seventh bullet - Randez vous - parte seconda ***


Questo capitolo lo dedico a _G_J_ per avermi iniziata al mondo dei fumetti.
Perché "In WinterPuccy we trust".
Ma soprattutto per gli scimmioni.



 
Seventh bullet - Rendez vous
parte seconda
 
Cover me when I run,
cover me through the fire,
something knocked me outthe trees
now Im on my knees
cover me, darling, please
 
GRAZ
 
«Se è stato abbandonato, non dev’essere da molto» mormora Natasha. È tutto troppo pulito e in ordine, senza neppure un po’ di polvere, anche se c’è un tanfo insopportabile nell’aria, quell’odore putrido di escrementi e sudiciume.
Clint si ferma sull’ultimo gradino della scala, passa il fucile alla donna e si sistema la faretra di frecce in spalla. Sceglie un dardo esplosivo e lo tiene stretto con due dita, tra il palmo della mano e l’impugnatura dell’arco. Con la mano libera tiene sollevata la torcia che disegna un ovale luminoso sul pavimento di linoleum scuro.
«Ricordo questo posto. Due anni fa Fury diede ordine di sgombrarlo, io mi occupai della sicurezza, Phil Coulson coordinava le operazioni».
Natasha inarca un sopracciglio. «Coulson coordinava un trasloco
«Devo supporre che Fury avesse fiutato qualcosa di strano, all’epoca. Ovviamente, con tutti i suoi infiltrati, l’HYDRA avrà coperto le tracce prima che venisse fuori qualche elemento davvero compromettente»
«Per la cronaca, credo di stare per vomitare. Cos’è questo odore?»
«Non ne ho idea, ma se vomiti non lo dirò a nessuno, giuro».
Natasha fa una smorfia prima di procedere lungo il corridoio. Clint si sente contagiato dalla sua agitazione, il sesto senso della Vedova Nera non si è mai sbagliato e di fatto, c’è qualcosa di molto strano in quel posto e in tutta quella faccenda.
All’ingresso di un’anticamera vuota trovano un pannello con i comandi elettrici, alzano le levette e una fila di neon si accende sopra le loro teste con uno sfarfallio di luce bianca e ronzante.
Nella prima stanza non c’è granché, file di tavoli vuoti, armadietti di alluminio con le ante socchiuse che lasciano intravedere oggetti privi di interesse, risme di fogli bianchi, scatole di plastica vuote, lattine di bibite dimenticate.
«In origine doveva essere una specie di rifugio antiatomico o qualcosa del genere, giusto?» domanda Natasha. Sembra si stia convincendo di aver esagerato con le sue paranoie, ma tutti gli indizi raccolti da Fury e le informazioni dell’uomo di Trieste portano lì, e quello non può essere un vicolo cieco.
Clint apre un armadietto e tira fuori un plico di cartelline di cartone, sono tutte vuote, ma hanno un’intestazione sul fronte. Dipartimento X.
«È quello che credo che sia?» domanda.
Natasha deglutisce; i ricordi che tiene ben confinati in un angolo della sua mente devono aver appena dato uno strattone per uscire fuori. E parte di questi ricordi le sono stati strappati via tempo prima e neppure lo SHIELD ha mai provato a riportarli a galla.
«La divisione scientifica del KGB» conferma. La voce le si smorza, suo malgrado.
Secondo le informazioni raccolte da Fury, l’HYDRA aveva collaborato con l’intelligence sovietica già a partire dalla Guerra Fredda, forse proprio da lì aveva iniziato a manovrare i fili della storia, spandendo i suoi tentacoli tra le file delle due grandi potenze mondiali schierate l’una contro l’altra. Dopotutto, stando alle scoperte dei fondatori dello SHIELD, il Teschio Rosso aveva preso le distanze dai nazisti e da Hitler già durante il conflitto mondiale. È un capitolo di storia che non insegnano nelle scuole, ma che qualsiasi agente conosce.
Durante tutti quegli anni l’HYDRA non era stata un semplice retaggio del Terzo Reich. Il male non ha bisogno di schieramenti politici; lo schierarsi prevede un fondamento di onestà che per certi mostri è solo un fardello.
«Tutto bene?» chiede Clint.
Natasha non dice nulla. Il silenzio di ghiaccio è l’unica arma che sembra avere effetto quando i fantasmi della Vedova Nera tornano a farsi sentire: se rispondi al loro richiamo sei perduto.  
La donna si dirige verso una porta sul fondo della stanza, un grosso battente di metallo con la maniglia a manovella.
Tra sé e sé Clint prega che sia solo il locale caldaia, ma ben di rado le preghiere di chi fa il suo lavoro vengono esaudite.
«Questo a Fury non piacerà». Se vivremo abbastanza da riuscire a farglielo sapere.
Per un agente scelto del suo calibro, il pericolo ha una forma e un colore, è qualcosa di consistente che puoi sentire con tutti i sensi insieme. È un sapore di sangue e polvere in fondo alla gola, un ronzio, un velo davanti agli occhi, un sentore di appiccicaticcio e un odore dolciastro di cenere. Dopo tanti anni di servizio, cominci a trovare familiare certi tipi di epifania e dai loro credito, a volte persino più di quanto ne dai a elementi concreti o a prove evidenti.
Natasha avanza all’interno della stanza come se la loro scoperta l’abbia ipnotizzata. Si ferma e il suo riflesso è una macchia allungata sulla superficie curva della capsula crionegenica. Delle capsule, ce ne sono tre in totale, sono vuote come bare di cristallo, come gusci di crisalide, e Clint non vuole immaginare cosa sia uscito dal loro interno, quali creature tremende e distorte gli scienziati del Dipartimento X abbiano portato a nuova vita.
«Sono come quella che c’era nelle foto del fascicolo del Soldato di Inverno che ho dato a Rogers» mormora Natasha. «Solo che queste sembrano più moderne».
Clint appoggia una mano sul coperchio di vetro di una delle capsule. Gli costa uno sforzo enorme: ne ha viste di cose disgustose nella sua vita, ma quello spettacolo gli fa rivoltare lo stomaco e gli rimanda alla mente New York, la voce di Loki nel suo cervello e nel suo sangue che lo consumava dall’interno come un morbo, fino a ridurlo a un essere privo di volontà, un guscio vuoto che avrebbe messo a ferro e fuoco il mondo intero solo per poter guarire dal bruciore di quell’infezione.
«Non c’è traccia di ghiaccio, nemmeno di condensa, sembrano essere state aperte da giorni» commenta, ritraendo la mano.
«Subito dopo Washington, credo. L’HYDRA doveva di certo avere un piano B»
«Stanno creando un esercito di super soldati lobotomizzati? Spero che Fury si sia rimesso abbastanza da poter reggere la bella notizia»
«Il Soldato di Inverno deve essere stato il paziente Zero. Questi tre devono essere stati la prova generale, da tenere nel cassetto nel caso in cui il progetto Insight non fosse andato a buon fine»
«Altro che Budapest…».
Sulla parete laterale c’è una specie di saracinesca, anche questa di metallo blindato, con piccole fessure rettangolari. Natasha prova a guardare dentro, ma è troppo scuro perché si riesca a vedere. E poi c’è quell’odore tremendo, ancora più forte e disgustoso.
«Credo che si apra con questa. Ma immagino che non troveremo niente» dice Clint, indicando una leva che spunta dal pavimento.
Natasha l’abbassa con un calcio. La saracinesca si solleva lentamente, con un crepitio metallico.
All’interno c’è solo buio, o almeno è quello che sembra, fino a quando due lucine di un rosso cupo non mandano un riflesso improvviso.
Occhi.
E poi i neon si accendono.
Quando Clint sente il ruggito, capisce che non serve provare a colpire quella cosa, possono solo scappare.
 
*
 
«Bucky…».
Cosa speri di ottenere chiamandolo per nome?
Steve non lo sa. Resta impietrito, lo scudo mezzo sollevato ad altezza del petto, Sam e Sharon alle sue spalle e gli occhi del Soldato di Inverno che fanno più paura di quell’arma puntata.
Ma intanto lui abbassa la pistola e fa un lungo respiro. Ha un velo di barba sfatta e i capelli spettinati raccolti in un codino dal quale sfuggono ciocche scomposte. È lontano anni luce dal suo amico di Brooklyn, eppure a Steve sembra di riconoscerne finalmente lo sguardo - anche se non è lo sguardo dei tempi migliori.
«Mi hai trovato, Steve». C’è una nota di gravità nella voce del Soldato, ma sembra non avere importanza alla luce del fatto che lo ha chiamato per nome: per la prima volta sembra riconoscerlo, non come l’uomo del ponte, non come la sua missione ma semplicemente come Steve.
Ti avevo detto che sarei stato con te fino alla fine.
«Capitano». Sharon ha la voce severa e lo sguardo che brucia, forse è solo spaventata. Forse sente il bisogno di ricordargli chi - cosa - hanno davanti, ma stringe ancora la pistola tra le dita e Sam le sta accanto con l’aria allarmata di chi vuole essere pronto a trattenerla.
Bucky si china e lascia cadere l’arma per terra, a perdersi nelle spire di nebbia - un gesto che sembra la risposta a tutte le preghiere di Steve. Muove qualche passo verso di loro ma mantiene la distanza.
«Sei venuto a uccidermi?» domanda, aprendo le braccia.
Steve non può che sorridere davanti a una frase così assurda. «Sono venuto a riportarti a casa».
Il Soldato aggrotta la fronte, perplesso. «Casa è una parola facile quando sei l’eroe del tuo Paese» mormora. «Hai fatto tanta strada per niente, Steve, non posso venire con te. E di certo non ho una casa»
«Non essere pessimista, stai migliorando: è la prima volta che metti in fila tre frasi senza sparaci addosso» commenta Sam, alzando le mani con fare conciliante, per chiarire che anche loro sono dalla sua parte - più o meno.
Lui china il capo. «Mi dispiace per quello che è successo a Washington» mormora con semplicità.
«E ti dispiace anche per quello che è successo a Christine Pierce?» sbotta Sharon. «E per quello che…».
Il Soldato china la testa di lato, ha di nuovo quell’espressione smarrita e perplessa. «Perché, cosa le è successo?»
«È morta. Strangolata».
Lui si guarda attorno, come se all’improvviso sentisse il peso di una qualche minaccia nell’aria, come se riuscisse a fiutare distintamente un pericolo imminente, una tempesta che avanza dietro il profilo della collina. Non sembra né dispiaciuto né sorpreso per la morte della donna, eppure scuote il capo. «Non sono stato io. Sì, immagino di non essere nella posizione per inspirare fiducia al prossimo».
Steve non vorrebbe dire che gli crede, non sembrerebbe lucido. Pensare che dopo Washington, libero dal giogo dell’HYDRA, lui abbia cominciato a ricordare gli sembra una speranza così grande da renderlo sciocco e ingenuo, eppure lui lo ha chiamato per nome, sembra comportarsi come se non avesse la minima intenzione di fargli del male. Per la prima volta, assolutamente cosciente e consapevole di quello che fa e dice.
Ha detto di non aver ucciso Christine Pierce e Steve gli crede, non perché vuole credergli a tutti i costi, ma perché conosce quegli occhi e non vi legge alcuna colpa, solo una vergogna che affonda molto più lontano.
«Ad ogni modo voi dovete andare via da qui» conclude il Soldato, lapidario. «Quando sono andato via dalla casa della Pierce lei respirava ancora, avrà sicuramente avvisato i suoi e loro adesso sanno che sono vivo. Mi staranno cercando e non dovete essere qui quando mi troveranno».
«Perché tu hai un piano, giusto? Intendo, a parte quello che riguarda mandare via l’unico amico che ti sia rimasto» borbotta Sam.
Il Soldato - Bucky - ora guarda Steve negli occhi. Perché non voglio che tu mi veda ancora essere lassassino che loro hanno plasmato.
Ci sono di nuovo i rumori della foresta, la luce velata di un cielo che sembra geloso del suo azzurro e uno strano odore di bruciato che ristagna nell’aria umida.
Sam e Sharon accanto a lui hanno l’espressione tesa, sembrano colonne piantate nella roccia.  Il Capitano vorrebbe convincerli che va tutto bene, così come vorrebbe convincerne il suo vecchio amico. 
«Dimentica tutta questa follia, d’accordo?» esclama. «Ora non sei più da solo e io non permetterò che ti accada niente».
Per un attimo Bucky sembra persino divertito da tanto accoramento. «Hanno spazzato via il vostro SHIELD, spazzeranno via anche voi»
«Possiamo fermarli, insieme»
«Perché? Perché sarai con me fino alla fine? No, Steve, io voglio una vendetta che la tua onestà non può aiutarmi a ottenere».
Steve sente le spalle pesanti, si sente come se non fosse più in grado di reggere nemmeno lo scudo che ha stretto nel pugno. Ha fatto tutta quella strada, lo ha raggiunto, eppure in qualche modo Bucky è ancora lontanissimo.
«Qualunque cosa tu voglia, non la otterrai da solo» replica.
«Da solo almeno posso avere ciò che non voglio: che tu o qualcun altro venga coinvolto e si faccia ancora del male a causa mia»
A Steve scappa un sorriso, contorto e quasi disperato. «Ora che cominci a parlare proprio come il mio amico Bucky, è ancora più difficile che tu mi persuada ad andarmene»
«Sono certo che né Bucky né nessun altro sia mai riuscito a persuaderti di niente». Per la prima volta anche sul viso del Soldato compare l’ombra di un sorriso, ma è un istante, come un riflesso che si spegne quasi subito. «Ti prego, Steve, lasciami andare e basta».
«L’ho già fatto una volta»
«Non è stata colpa tua».
È un’assoluzione troppo facile per soddisfare rimpianti così grandi, piantati così a fondo a spaccargli il cuore. Steve serra le labbra.
Silenzio. Anche la foresta sembra tacere, di nuovo.
Sharon inspira e getta la testa all’indietro. «Abbracciatevi, o fate a pugni, quello che vi pare. Comincio ad aver freddo».
Sì, Steve vorrebbe davvero abbracciarlo e abbracciare anche loro due, che gli hanno permesso di essere lì, che lo hanno seguito anche quando tutto sembrava una follia, anche se era pericoloso. Ma forse è ancora troppo presto per gli abbracci e per pensare che il pericolo sia cessato, si limita ad avvicinarsi a Bucky; con estrema cautela gli posa una mano sulla spalla.
«Possiamo trovare un posto per parlare come persone normali? Mi concedi almeno questo? La tua base abbandonata sarà ancora qui, dopo» gli dice, indicando con lo sguardo la botola chiusa tra i massi.
Lui arriccia le labbra, cerca una risposta o forse la forza d’animo di dirgli di no e spingerlo via. Ma non fa in tempo a parlare. Dietro di lui, oltre le porte di metallo della botola di ingresso al laboratorio si sente un rumore, un grido acuto e graffiante come il suono di unghie sulla lavagna, un verso feroce e inumano.
«Ma non doveva essere vuoto?» domanda Steve, voltandosi verso Sharon.
«Io non ho mai detto vuoto, ho solo detto che fu sgombrato due anni fa» risponde lei.
L’ululato ora è più vicino, arriva insieme a suoni sordi. Bucky si lancia a recuperare la pistola che aveva lasciato cadere, Steve serra la presa sullo scudo, Sam e Sharon hanno di nuovo le armi in pugno.
Con passi prudenti, il Capitano si avvicina alla botola. Gli salta il cuore in gola quando la porta di metallo si apre di colpo e ne esce uno sbuffo di capelli rossi.
La donna balza fuori come se avesse le ali ai piedi, come uno di quei giocattoli con un pupazzo a molla chiuso dentro una scatola, e sbatte contro il petto di Steve.
«Cos… Steve?»
«Nat
«Capitano!»
«Barton?!»
«CORRETE VIA. ORA!». Natasha, aria trafelata e viso contorto dallo spavento, afferra il lembo della manica di Steve e lo trascina con forza.
Barton dà un calcio alla porta per richiuderla ma sembra che qualsiasi cosa ci sia là sotto non abbia intenzione di restarci.
E poi la botola si apre e il mondo impazzisce.
«No, dai non può essere!…». Steve riconosce la voce di Sam, quasi stridula per lo sgomento. Con la coda dell’occhio vede le ali di Falcon aprirsi e lui spiccare il volo, dopo aver afferrato Sharon e averla spinta di lato, un attimo prima che l’essere uscito dalla botola la colpisse con un braccio - zampa.
Perché la cosa ha la forma di un gorilla, ma è alto almeno tre metri e sta eretto sulle zampe posteriori che sembrano colonne. Dove il pelo scuro e ispido si fa più rado, sul petto e sulle zampe anteriori, la pelle ha un colorito violaceo e innaturale, e muscoli gonfi percorsi da vene in rilievo e cicatrici tonde dai contorni frastagliati come di fori di proiettile.
La creatura batte un pugno contro il terreno, sollevando polvere e schegge di roccia, poi resta ferma per un istante guardandosi attorno con quegli occhi vacui e rossastri, senza fondo come quelli di uno squalo.
Loro intanto si sono già sparpagliati, correndo in ogni direzione verso gli alberi, ma non si scappa da una mostruosità del genere.
Steve si ferma dietro al tronco di un grosso abete, getta la testa all’indietro e prende fiato. Realizza che Natasha è ancora aggrappata al suo braccio.
«Lieto di rivederti» le mormora con il fiato corto. «Cos’è quella cosa? Come la fermiamo?»
«Rallenta, Cap. Ne so quanto te».
L’urlo della creatura fa tremare le fronde degli alberi e lascia un fischio nelle orecchie.
Sam atterra con un balzo brusco di fronte al Capitano.
«A meno di tre chilometri da qui c’è il confine con l’area di foresta aperta al pubblico, dobbiamo fermarlo prima che ci arrivi» dice sputando le parole così rapidamente da renderle quasi incomprensibili, poi si volta a guardare Natasha. «E tu porti una sfiga pazzesca, ragazza mia»
«Me lo hanno già detto. Dov’è Barton?»
«Dov’è Bucky? E Sharon?».
A pochi metri da loro sentono il rumore di un albero che viene sradicato. 
«Togliamoci di qui!».
Sam fa un balzo in aria, Steve e Natasha scartano verso sinistra.
Il Capitano solleva lo scudo sulla testa di entrambi per proteggersi da un’esplosione di schegge di legno e rami e terriccio. «Sam! Trova Sharon e Barton, noi ce la caveremo».
«Sempre ottimista, tu…» ansima Natasha.
Steve sente la terra mancargli sotto i piedi, prova a tenere stretta la donna, ma vengono sbalzati in aria. Non capisce se qualcosa gli è esploso dietro la schiena, se è stato colpito da un tronco o se la creatura lo ha afferrato e lanciato come una bambola di pezza. Avverte solo l’impatto doloroso contro il terreno e tutto si confonde nella nebbia dietro le palpebre che gli si chiudono.
L’ultima cosa che sente è il suono di uno sparo e la voce di Natasha che urla il suo nome. 
 
*
 
«Steve!».
Lo vede cadere e perdere i sensi battendo la testa. Anche lei cade, in avanti, con il viso nel terreno; la pistola le scivola via dalla cintura. Per un istante la foresta diventa una macchina di verde e di nero e tutti i rumori si confondono con il martellare serrato del cuore che Natasha sente pulsare fin nello stomaco.
Con un unico scatto, si volta e afferra l’arma. Il gorilla gigante incombe sopra di lei, allunga un braccio per sferrarle una zampata prima ancora che lei riesca ad appoggiare il dito sul grilletto.
I suoi muscoli si contraggono aspettando il dolore del colpo che già sembra bruciarle dentro, lacerarle la pelle e spaccarle le ossa. Un attimo prima che la grossa zampa la raggiunga, tre frecce si conficcano nel braccio peloso e la creatura si ritrae, ululando.
Clint è sul ramo di un albero, non abbastanza in alto da essere fuori dalla portata dello scimmione. La paura di Natasha diventa gelo, di quello che brucia.
La bestia solleva una grossa manciata di terra e sassi e la lancia verso l’uomo. Lui salta per schivarla e atterra dietro un masso, ma l’arco gli cade di mano e si perde nei cespugli.
È tutto veloce, tutto al ritmo serrato del battito che la donna sente esplodere nel petto.
Spara quasi senza pensare. Il rombo nelle sue orecchie è così forte da non farle sentire il boato dei colpi, quattro in tutto.
I proiettili si conficcano formando le estremità di un rombo al centro del petto dell’animale. Aprono fori dai quali gocciola sangue scuro e vischioso, ma quell’abominio ha la scorza dura. Lancia un grido, soffiando addosso a Natasha fiato putrido e bava che la costringe a chiudere gli occhi. Spara alla cieca, inutilmente: dei colpi rimasti due sfiorano appena la spalla dell’animale, l’ultimo si perde dietro di lui, tra gli alberi.
La donna fa l’unica cosa che le resta, balzare in piedi e provare a correre. Sa che non serve, sa che lo scimmione è più veloce, che le sue zampate sono più lunghe dei suoi passi.
Il respiro le brucia nei polmoni e il tempo rallenta come se l’aria si fosse congelata all’improvviso.
Sente gli artigli della creatura sfiorarle la schiena, ma non l’afferrano. Il ruggito si fa leggermente più distante come se la bestia si fosse inarcata all’indietro invece di protendersi in avanti verso di lei.
Natasha balza con una piroetta che la fa rotolare abbastanza lontano da guadagnare qualche metro e si volta a vedere come è possibile che l’abbia mancata.
«Tu…». L’esclamazione le esce in un rantolo serrato, coperta dall’ennesimo ruggito dell’animale.
Quando aveva sentito Steve pronunciare quel nome, poco prima, non ci aveva prestato attenzione. Ora lo vede: il Soldato di Inverno è a cavalcioni sul collo taurino della bestia, il viso contratto nello sforzo di mantenere la presa con le dita aggrappate a un ciuffo di peli sotto la gola, il braccio meccanico invece tasta il muso livido, a una distanza preoccupante dalle grosse zanne giallastre e dalle fauci dalle quali cola una schiuma rossa di sangue.
Per un attimo Natasha non riesce a fare altro che fissarlo, prima che la sua mente riacquisti la lucidità necessaria e cercare il modo di uscire da quell’incubo, con quanta più gente possibile ancora viva.
Se i colpi che le ha sparato addosso non hanno ucciso la bestia, l’hanno di sicuro indebolita, la perdita di sangue deve averla almeno in parte stordita.
Lo scimmione mulina le zampe, cercando di scrollarsi di dosso il parassita arpionato al suo collo ma non riesce ad afferrarlo, le ferite al petto lo rendono lento e goffo.
Il Soldato solleva il braccio di metallo. L’arto brilla con lo scintillio di una lama e affonda nella cavità oculare sinistra, spappolando la pupilla dalla quale cola sangue misto a brandelli di tessuto.
Il grido che emana la bestia si fa ancora più selvaggio, è il suono della furia più brutale e disperata. Cade a carponi sulle zampe anteriori e si dibatte, cercando ancora più ferocemente di liberarsi del Soldato.
Natasha pensa che vorrebbe solo avere una pistola e riuscire a centrare l’orbita vuota.
«Nat!». Clint compare accanto a lei, ha il viso coperto di graffi e un taglio sulla gamba, urla per farsi sentire al di sopra dei versi disperati della creatura. «Mi dispiace!»
«La pistola, Clint!».
Nemmeno lui ce l’ha, l’ha persa insieme all’arco quando è caduto dall’albero. Il fucile che avevano trovato nel bagagliaio del fuoristrada dev’essere andato perduto ancora prima, nella corsa a rotta di collo fuori dal laboratorio.
Un’ombra compare sopra le loro teste. Natasha riconosce la sagoma delle ali di Falcon.
Il Soldato ha il viso rosso e coperto di sudore. Di certo sa che se il gorilla riuscisse a disarcionarlo, per lui sarebbe finita.
Sam vola verso un albero dai rami spessi, la ragazza - Sharon Carter - è aggrappata a lui con le mani a cingergli il collo e sembra piuttosto sofferente. Sam appoggia la ragazza su un ramo, lei ha già la pistola tra le mani.
«Agente Barton!». La Carter la lancia con tutta la forza che le rimane. L’arma vola come un boomerang di metallo che riflette la poca luce plumbea del cielo coperto; Sam l’afferra a mezz’aria e la fa cadere tra le mani di Clint.
«Potresti colpire lui» gli grida, dall’alto. Com’è evidente, non lo conosce.
«Vorrei farlo, credimi» replica Clint, incapace di trattenere un sorrisetto beffardo. Poi spara.
Nello stesso istante Natasha guarda il Soldato e lui sembra leggerle nel pensiero. Quando parte il proiettile, si lancia di lato, mollando la presa sul collo dello scimmione. La sua vita è appesa a un unico rapido momento, alla frazione di secondo che il proiettile impiega a centrale la cavità oculare vuota e attraversare il cranio, uscendo dal lato opposto, portandosi dietro una scia di frammenti di osso e materia cerebrale.
La bestia si solleva, ergendosi in tutta la sua statura, poi cade in avanti. L’intera foresta sembra scuotersi quando il corpo morto impatta contro il terreno. In lontananza, uno stormo di uccelli fugge via starnazzando e poi tutto torna immobile e silenzioso.
Clint accanto a lei ha un sussulto, a Natasha resta solo un sospiro di sollievo e il battito cardiaco che riacquista una velocità più naturale.
Il Soldato, caduto a qualche metro dallo scimmione, si alza e si scrolla di dosso foglie e terreno. Sembra diventato improvvisamente incurante del gigantesco animale contro cui ha appena combattuto rischiando di rimetterci l’osso del collo. Attorno al braccio di metallo il sangue rappreso è una patina opaca e scura.
«Incontrarti è sempre un piacere» borbotta Natasha.
Lui non risponde ma indugia un’istante a guardarla in viso, poi lancia un’occhiata alla volta di Steve.
«Ha preso una brutta botta in testa» spiega la donna. «Non preoccuparti, ce l’ha più dura di quanto si possa pensare»
«Lo so» replica il Soldato in tono piatto.
«Oh, dunque sei rinsavito?»
«Non so se sia il termine giusto»
«Gli sparo adesso o più tardi?» interviene Clint, sulla difensiva.
Il Soldato non lo degna di uno sguardo, si volta e si dirige verso Steve.
Sam tiene un braccio intorno alla vita di Sharon che cammina zoppicando, con una smorfia di dolore ogni volta che la gamba destra fa qualche movimento di troppo.
Il Soldato si piega sulle ginocchia accanto a Steve, l’osserva per un istante e poi gli molla un violento manrovescio. Il Capitano apre gli occhi di colpo.
«Ci vedo doppio» si lamenta, impastando la bocca.
Il Soldato dondola sui talloni poi si lascia cadere seduto e torna a guardare Clint e Natasha. «Il laboratorio è sgombro, ora?»
«Ok, gli sparo adesso» replica Clint, stringendo il pugno attorno al calcio della pistola.
Natasha pensa che sarebbe una bella lotta tra la perfetta attitudine da cecchino di Clint e la velocità innaturale del Soldato.
«D’accordo, stiamo tutti molto calmi» Sam fa qualche passo avanti e fa un cenno con la mano. «Capitano, ce la fai ad alzarti? Ok, io resto qui con Sharon, il pistolero potrebbe recuperare le armi sparpagliate in giro per mezzo bosco. Voi altri andate pure a esplorare lo zoo là sotto e poi ce ne andiamo da qui senza che nessuno si faccia male».
 

 
 



 
Note:
Il gorillone e i tre soldati creati con la stessa procedura del Soldato di Inverno vengono dalla serie di fumetti sullo stesso. Sì, anche il gorillone (solo che nei fumetti era assai più figo). 
La citazione di apertura è ovviamente Shock the monkey di Peter Gabriel, perché io sono una persona profondamente stupida
.

 

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Capitolo 8
*** Eighth bullet - Il contrario di uno ***


Eighth bullet: il contrario di uno
 
It's nothing but time and a face that you lose 
I chose to feel it and you couldn't choose 
 
GRAZ
 
«Stai bene?».
Steve la guarda come se non potesse sopportare una riposta che non sia affermativa. Sharon accenna un sorriso, annuisce. «E tu?».
Lui assottiglia le labbra. «Ci sto lavorando» mormora e sposta lo sguardo sul Soldato di Inverno, già con un piede oltre la soglia della botola, già con gli occhi tornati distanti.
A volte inseguire fantasmi è più facile che trovarne. 
La ragazza sente il disagio e il peso delle cose non dette quasi pungere. Le hanno insegnato a essere lucida e razionale, soprattutto nelle situazioni critiche, a pensare senza avere sbandamenti, ma da quando è partita da Washington i suoi pensieri hanno cominciato ad avere una pessima tenuta di strada. Si umetta le labbra e sospira. «Fate attenzione lì dentro, ok?».
Redarguire Captain America come se fosse un ragazzino dovrebbe essere il sintomo di una qualche malattia.
«Beh, le brutte sorprese dorrebbero essere finite».
Certo, dopo il gorilla gigante idrofobo dovrebbe essere tutto in discesa. Ma le brutte sorprese potrebbero essere appena cominciate.
Sta iniziando a soffiare un vento di montagna, freddo e secco che asciuga le labbra e inumidisce gli occhi. La foresta vibra nella brezza che spinge a valle promesse di neve dalle cime delle Alpi. 
Sharon guarda Steve sparire oltre la porta di metallo insieme al Soldato e all’agente Romanoff e sente il cuore pesante. Dietro di lei, Clint Barton è scomparso tra i cespugli per recuperare il suo arco e le armi che hanno perso quando lo scimmione li ha fatti fuggire.
Il sole sembra avere la meglio sulla coltre di nebbia ora e Sharon si sente smarrita, come se fosse riemersa a fatica da uno di quei sogni strani e terribili che ti restano incollati alle palpebre anche dopo il risveglio. Man mano che l’effetto dell’adrenalina si dissolve, il pulsare alla caviglia diventa un martellare sordo e sempre più doloroso.
Non è abituata alla paura. All’Accademia le hanno insegnato ad avere sangue freddo, ma sta imparando che molte delle lezioni del suo agente supervisore sono solo parole, e ricordarle a memoria non serve a salvarti la pelle, non fa di te l’agente che speravi di essere.
Fury aveva ragione: non è pronta. E forse non avrà mai occasione di esserlo.
Sam si ferma davanti a lei, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo duro. Sharon prova a reggere il peso dei suoi occhi ma dopo qualche istante si arrende, china il capo e indica con un cenno la caviglia destra. «Credo sia slogata» asserisce.
Sam si mette seduto e scosta con cautela la piega del jeans. Senza dire una parola le sfila la scarpa, le circonda il piede con una mano e con l’altra le tiene ferma la gamba. Fa un unico movimento, rapido e deciso. Lei non ha tempo di prepararsi alla fitta di dolore, è come una fiammata, la sente ardere fibra dopo fibra per un unico intenso secondo e strapparle un gemito. Poi il dolore bruciante si ritrae come un’onda e lei resta con il labbro tra i denti ad aspettare che arrivi un altro colpo. E nemmeno a questo è del tutto preparata.
«Cosa diavolo credevi di fare?». Gli occhi di Sam sembrano fucili puntati. «Non raccontarmi balle, ti ho vista prima quando abbiamo trovato il Soldato, so riconoscere una persona che ha già deciso di premere il grilletto».
La ragazza si costringe a sollevare lo sguardo e a reggere quello dell’ex-soldato. Deve a lui e a se stessa almeno questo minimo tributo di dignità.
«Non lo so cosa credevo di fare. Ho avuto paura» mormora. Ed è vero: è un’omissione, non una menzogna.
«Potrei anche capirlo, se non fossi sicuro che c’è dell’altro sotto»
«Lo hai sempre saputo, no?»
«Speravo di sbagliarmi. Non sei una cattiva persona, Sharon, di certo non il tipo di persona che spara senza pensare».
A volte non c’è bisogno di pensare. A volte, semplicemente, ci hai già pensato abbastanza.
E lei aveva atteso quel momento per tanto tempo, alimentando un singolo rancore con mille amarezze, dando a una sola cicatrice la forma di tutte le sue ferite.
La ragazza si sente ridicola quando avverte il pizzicare delle lacrime. Stringe i denti, le ricaccia indietro e annuisce.
«Avevo i miei motivi per aiutarvi a trovare il Soldato di Inverno. Se volevo sparargli? Sì, volevo, e lo voglio ancora, ma non lo farò. Quando ho deciso di seguirvi dopo il casino di Washington non avevo messo in conto che…».
Si interrompe, tenta di riportare i pensieri in carreggiata. Inutilmente.
«Cosa?».
Sharon fa un sorriso tirato. «Steve. E anche che quel tipo sarebbe stato così ragionevole. Mi aspettavo che avremmo avuto di fronte un pericolo pubblico, non mister “non voglio che qualcuno si faccia male a causa mia” o qualsiasi altra frase da buon Samaritano si sia fatto uscire di bocca».
Sam si passa una mano sul viso, prende un lungo respiro e controlla che l’agente Barton sia ancora abbastanza lontano, almeno sembra sperare che non abbia l’udito lungo come la vista.
«Anche io avevo detto a Steve che il Soldato andava fermato, ma credo che se c’è una sola possibilità di recuperarlo senza che nessuno si faccia male è giusto tentare, non per lui, ma per il Capitano che ha già perso fin troppo». Lo dice con la gravità di chi ha in mente un brutto ricordo. Certo, è stato un soldato anche lui, avrà perso qualcuno come Steve ha perso il suo amico Bucky.
«Ho perso qualcuno anche io, Sam» dichiara la ragazza.
«Mi dispiace. Ma questo non significa…»
«Lo dirai a Steve?».
Sam resta con le labbra schiuse, con una parola in sospeso, forse di rimprovero, forse di avvertimento. Parlare a Steve di quello che è successo e di quello che si sono appena detti significherebbe creargli altri problemi, mettergli in testa altri dubbi, innalzare altri muri dentro quel labirinto in cui il Capitano si è già perso e ha appena cominciato a intravedere la strada per uscirne - o per smarrirsi ancora di più.
Alla fine l’ex soldato si arrende.
«Niente più cazzate?»
«Niente più cazzate»
«Sarà meglio per te, perché invece di parlare con Steve parlerò direttamente con la Romanoff».
 
***
 
Il Soldato sente la testa in fiamme, come quando la morsa di elettricità gli si chiudeva sulle tempie e strappava via i ricordi. Ma adesso si tratta di un supplizio diverso, si tratta delle troppe informazioni che la sua mente si è trovata a elaborare di colpo.
Emozioni, è così che le chiama la gente, giusto?
È successo tutto troppo rapidamente: Steve e i suoi amici, la donna rossa e il suo compagno, quell’animale vomitato dalle ombre di quella base dimenticata. Troppe strade, facce, sensazioni che si incrociano, formano nodi e si impigliano tra loro, creando una ragnatela dentro la quale lui si sente in trappola; o forse è la rete che lo trattiene dal precipitare una volta per tutte. Dal precipitare di nuovo.
È evidente che la donna dai capelli rossi e il suo compagno stanno inseguendo gli stessi fantasmi che cerca lui. Steve invece sta inseguendo fantasmi tutti propri.
In ognuno dei casi, non c’è modo di spazzare via quelle persone dalla sua strada. Vorrebbe davvero non esporli ad altri pericoli, non ha né tempo né voglia di sentirsi responsabile per loro, ma non può fare niente per farli desistere, niente che l’uomo che si agita dentro di lui approverebbe. Sono fin troppe le mostruosità con cui deve convivere.
«Natasha, poi mi spiegherai cosa ci facevate qui tu e Barton?» domanda Steve.
Natasha, è quello il vero nome della Vedova Nera. Curiosamente, non è il nome che il Soldato credeva di ricordare.
Lei dondola il capo. «Ci ha mandato Fury. Sai come si dice: il lupo perde il pelo ma non il vizio».
«Lo stai dicendo del direttore o di te stessa?».
Natasha si stringe nelle spalle, indica con un’occhiata lo stanzone vuoto pieno di tavoli buttati all’aria, probabilmente da quel gorilla gigante. Il puzzo di animale in cattività ancora ristagna negli ambienti vuoti.
«Siamo arrivati qui un paio di ore fa, poco prima che cominciasse a fare giorno. Pensavamo che fosse tutto abbandonato, poi ho abbassato una leva ed è venuto fuori quel coso. E temo non sia  nemmeno l’elemento più interessante» spiega, poi si volta a guardare il Soldato. «Conosci questo posto?».
Lo guarda senza alcuna emozione, non sembra diffidente come gli altri, oppure sta solo facendo finta di non esserlo e ci sta riuscendo bene considerato che lui le ha sparato, due volte.
«No. Almeno non che io ricordi».
La donna lo sorpassa e fa cenno di seguirla attraverso una porta rimasta aperta e mezza sradicata dai cardini.
«A proposito dei ricordi, come va?» domanda Steve, affiancandolo.
«Stanno tornando, a poco a poco»
«È un bene».
L’espressione del Soldato si incupisce. «Non ne sono sicuro».
Steve si ferma per un istante, mortificato. Vorrebbe chiedere molte più cose, forse sente il bisogno di sapere come ha fatto a ricordare chi è davvero, quanto ricorda di Bucky Barnes ma non ha il coraggio di domandare.
«Poco dopo la distruzione degli Helicarrier, sono andato allo Smithsonian» taglia corto lui.
A Steve sembra bastare, forse la loro amicizia era davvero così grande se il solo rivederlo è stato in grado di rimettere sui binari giusti una mente deviata da decenni di ghiaccio e manipolazioni. Ma la strada tracciata da quei binari è ancora lunga, e piena di tunnel e gallerie di cui non conosce l’uscita.
Anche la stanza oltre la porta mostra i segni del passaggio dello scimmione. Una fila di neon è stata strappata dal soffitto, al suo posto penzolano ora cavi elettrici rotti dai quali zampillano scintille.
«Speravo che potessi dirmi qualcosa di più su queste» si intromette Natasha, indicando con la mano tre capsule di spesso vetro lucido, contenitori per la stasi criogenica.
Il Soldato sente un peso al centro del petto; il dolore del cuore che si contrae appartiene tutto a Bucky Barnes. Nel respiro che gli si spezza riconosce un’altra sensazione che non credeva di ricordare: la paura.
Ce ne sono altri tre non pensava di ricordarlo così di colpo e invece lo ha sempre saputo. Non potrebbe non saperlo.
«Li ho addestrati io» mormora e chiude gli occhi per un istante. I fantasmi ora danzano dietro le sue palpebre. «Non ricordo quando, credo molto tempo fa».
I fantasmi non sono fatti di fumo e nebbia, sono rostri di metallo e schegge di ghiaccio nella sua mente.
Resta immobile a guardare il suo riflesso distorto sul vetro di una delle capsule. Per un attimo riesce a rivedersi steso all’interno di uno di quei sarcofagi, la pelle pallida e velata di brina, un cadavere in una sala mortuaria, un pezzo di carne. L’arma tenuta nella fondina.
Il dolore alla testa aumenta, i ricordi sembrano premere sulle tempie e stringere e stringere ancora: non sarà mai libero dal giogo dell’HYDRA, non sarà mai libero dal suo passato. Le immagini che gli tornano in mente sono come sferzate, squarci sulla tela del tempo che si aprono come ferite e lasciano intravedere scene di cortili sotto una nevicata o campi base in mezzo a deserti polverosi. Il freddo della neve e il caldo del sole scottano allo stesso modo in quei frammenti di memoria, scottano e lacerano; e tutte le voci si sovrappongono e si confondono fino a sommarsi nell’eco del grido del ragazzo che precipita dal treno.
Il Soldato ha un sussulto, strizza le palpebre e torna a guardare le capsule. Si schiarisce la voce.
«Questo doveva essere uno degli avamposti del…»
«… del Dipartimento X» continua Natasha per lui. È per questo che sembra quella meno maldisposta nei suoi confronti? Perché lei conosce, lei sa? «Quindi questi tre soggetti sono addestrati e attivi?»
«Credo lo siano» interloquisce Steve. «A Philadelphia qualcuno ha fatto saltare in aria un vecchio archivio segreto. Io e Sam eravamo lì, non lo abbiamo visto in faccia ma era veloce e aveva un braccio di metallo».
«Lo stilista di Tony Stark vorrà i diritti di copyright» borbotta Natasha, aggrottando la fronte.  Una battuta da poco per allontanare altri fantasmi. «A proposito di somiglianze inquietanti, Steve, quel gorilla non ti ha ricordato qualcosa?»
«Tipo?»
«Grosso, arrabbiato, pellaccia dura, colorito strano?»
«Hulk? Credi che abbiano fatto esperimenti per ricreare il procedimento a raggi gamma di Banner?».
Natasha scuote il capo e assottigli le labbra con aria pensosa. «Era solo un’idea. Credo che i nostri amici si siano sbizzarriti parecchio».
Restano in silenzio per un istante. Il Soldato fa un altro passo avanti verso le capsule e dal riflesso vede la donna rossa chinarsi e raccogliere una spranga di ferro dal pavimento.
«Serve una mano?» gli chiede lei.
Lui solleva l’angolo della bocca in una bozza di sorriso. Alla sua destra, Steve prende lo scudo per il bordo.
Ha sentito le pareti della sua gabbia invisibile stringersi attorno a lui un attimo prima, ora può pensare che siano solo muri di vetro, può immaginare se stesso romperli e vederli cadere come croste di ghiaccio quando il primo sole comincia a rompere la corazza dell’inverno.
Stringe le dita del braccio meccanico, guarda un’ultima volta il suo riflesso sulla superficie curva della capsula al centro e poi sferra un pugno. Quasi nello stesso momento, Natasha e Steve colpiscono quelle ai lati.
Al primo colpo il vetro si crepa e stride, una ragnatela di solchi bianchi si stende su tutta la superficie. Al secondo colpo va in frantumi, piccole schegge scintillano alla luce dei neon; quando loro si voltano per andarsene i pezzi di vetro scricchiolano sotto i piedi come la neve quando comincia ad arrendersi al mutare del tempo.  
Uscire da lì è quasi come tornare a respirare, un risalire a galla repentino. Il Soldato realizza di colpo di essere circondato da persone con il suo stesso obiettivo, persone che possono essere alleati, non una squadra di supporto che esegue ordini dall’alto. È una situazione nuova, o meglio, è una situazione che non ha avuto ancora il tempo di rammentare.
Io voglio vendetta, loro giustizia ricorda, lo ha detto anche a Steve. Respira una boccata di aria fresca, pensa che le due cose troveranno il modo di coincidere, più avanti. Pensa che da solo potrebbe lasciarsi vincere dalla disperazione e dalla vergogna e allora loro, i suoi fantasmi avrebbero vinto comunque.
La ragazza che era con Steve - ha sentito che la chiamano Sharon - è seduta su una grossa radice che sporge dal terreno, ha un piccolo computer sulle ginocchia. Il ragazzo di colore si chiama Sam, il Soldato lo ricorda dall’attacco di Washington. E poi c’è l’uomo che è insieme a Natasha, Steve lo ha chiamato Barton.
«Quindi?» domanda Sam.
«Non c’è niente di utile in questo laboratorio» spiega Natasha brevemente. «Niente che possiamo usare. L’unico indizio sono quelle tre capsule criogeniche ma non ci dicono qual è il prossimo passo»
«Tre capsule criogeniche, hai detto?»
«Un bel po’ di lavoro per ex agenti senza stipendio» borbotta l’uomo che è con la Vedova Nera. «A proposito, se lui è il nostro nuovo stagista credo che il suo curriculum abbia qualcosa che non mi convince».
Il Soldato impiega qualche istante a realizzare che l’uomo si sta rivolgendo a lui e a dispetto del tono ironico delle sue parole, il suo sguardo non sembra amichevole né accomodante.
«Capisco che non vi fidiate di me» gli dice, in tono asciutto. Ma se avessi voluto uccidervi, Natasha e Steve non sarebbero usciti vivi da quella botola, tanto per cominciare. «Ma io ho qualcosa che potrebbe servirvi e da cui non ho intenzione di separarmi»
«Posso separare una mosca dalle sue ali a metri di distanza»
«Barton…». Steve fa un passo avanti.
«Riposo, soldato, non ti agitare, era solo un promemoria» risponde l’uomo, posandogli una mano sulla spalla. «Se Nat non gli ha staccato l’altro braccio lì di sotto pare che possiamo tenerlo in squadra. Mi pare di capire che cerchiamo tutti la stessa cosa e finiremmo comunque per incrociare le nostre strade, preferisco averlo dove posso tenerlo d’occhio»
«Posso separare una testa dai suoi occhi senza sporcarmi le scarpe» sussurra il Soldato tra i denti, lanciando un’occhiata al grosso gorilla morto tra gli alberi. Si allontana di qualche metro per andare a cercare la sacca da viaggio che ha nascosto dietro un masso e una catasta di rami secchi, dentro ha il computer della Pierce e il pen-drive recuperato a Philadelphia.
«Mentre eravate di sotto, ho fatto una veloce ricerca» dice Sharon. «A meno di tre chilometri da qui c’è un grosso rifugio di caccia, considerando che la stagione non è ancora aperta dovrebbe essere vuoto. Possiamo usarlo per un giorno o due, riposarci e organizzare la prossima mossa»
«Intrufolarci in case non nostre ormai sta diventando un hobby» commenta Sam.
Natasha inclina la testa, con la coda dell’occhio il Soldato la vede sorridere. «Quando ero un agente di quinto livello, facevamo a gara a chi aveva il più alto numero di violazioni di domicilio» conclude con un tono che sembra soffiare una ventata di leggerezza sui visi tesi e stanchi di tutti gli altri.
 
***
 
Il rifugio è una scatola di legno dove ogni passo riecheggia in una serie di scricchiolii. È isolato e tranquillo, tanto che tra le sue stanze straripanti di mobili di abete e tendine ricamate Steve può concedersi l’illusione che tutto stia andando per il meglio.
La verità non dovrebbe apparire così frustrante per uno come lui, abituato a pronunciare solo parole di cui è certo, a dire solo cose in cui crede davvero. La verità è quella che aveva ripetuto a se stesso e agli altri in più di un’occasione affermando che non sapeva cosa avrebbe trovato alla fine di quella ricerca.
Ora la ricerca sembra essersi conclusa e Steve ancora non sa con cosa si trova a fare i conti.
L’uomo che hanno trovato nel bosco non è il Soldato di Inverno, la macchina da guerra senza coscienza che macina vite come se nemmeno le considerasse tali. Non è il mostro da fermare, come aveva detto Sam. Ma non è neppure il suo amico, il ragazzo caduto da un treno in corsa durante quell’unica guerra che entrambi avevano scelto anche se nessuno l’aveva voluta.
Lo aveva messo in conto ma non aveva mai pensato a come avrebbe reagito trovandosi davanti a una persona così spezzata, sospesa tra l’uomo che era e la macchina da guerra in cui lo hanno trasformato, che non vuole e non può più essere nessuna delle due cose.
Pensa che quasi era più facile quando hanno combattuto e lui non era in grado di riconoscerlo, lì Steve era legittimato a disperarsi, a gridargli in faccia una verità che attutiva il dolore per il solo fatto di poter essere detta. È un pensiero che gli rivolta lo stomaco; adesso il grido deve tenerlo confinato in gola, ed è un peso che gli toglie il respiro.
 
«E tu invece, tu sei pronto a seguire  Captain America nelle fauci della morte?»
«No. Il piccoletto di Brooklyn che era tanto scemo, sempre a caccia di risse, io seguirò lui»
 
L’unica persona per cui Steve non ha mai avuto bisogno di essere l’eroe che tutti volevano ora è qualcuno per cui lui non può non esserlo. Deve essere Captain America, ancora una volta, deve portare a termine quella missione alla quale aveva rinunciato per partire alla ricerca del suo amico Bucky, perché la promessa di restare con lui fino alla fine è un’altra delle verità che Steve Rogers non può ignorare.
Ci sarà tempo per piangere ciò che è andato definitivamente perduto, ci sarà tempo per imparare a conoscere ciò che è rimasto dietro gli occhi grigi di Bucky che in passato sorridevano anche in mezzo alla guerra e adesso non sorridono più.
Alla fine saprà almeno di aver fatto ciò che è giusto, anche se adesso sente questi pensieri gettargli addosso altra solitudine, di quella dentro la quale si inciampa.
La casa è in silenzio. Sam dorme sul divano, Clint è sul tetto ad assicurarsi che nessuno li abbia seguiti, Natasha sta armeggiando con i computer - quello di Sharon e quello che il Soldato ha preso dalla casa di Christine Pierce - per tentare di decriptare i dati del Dipartimento X sul pen-drive. Bucky è fuori, seduto sul patio a guardare il bosco e forse a scavare nella sua memoria martoriata alla ricerca di qualche informazione che possa tirarli fuori dal pantano in cui sono finiti. Cerca informazioni, non ricordi.
Steve lo guarda attraverso le tende della finestra. Si accorge di non avere alcuna parola per lui eppure non vorrebbe fare altro che sommergerlo di parole, edificare ponti di frasi che lo aiutino a tornare indietro, ma si rende conto che sarebbe una forzatura alla quale non può costringere né il Soldato né se stesso.
Nella piccola cucina hanno trovato buste di latte a lunga conservazione, biscotti e scatolame. Steve riempie un bicchiere di latte e lo appoggia su un piatto insieme a qualche biscotto, con gesti automatici, come quelli di chi sta cercando una scusa.
La scusa gli serve per bussare alla camera in cima alle scale, dove Sharon si è stesa a far riposare la caviglia.
Aspetta che dall’interno arrivi il permesso di entrare, apre piano la porta e la richiude con cautela alle sue spalle, per fare il meno rumore possibile ed evitare tutto quello scricchiolare che sembra martellargli le tempie.
Sta diventando insofferente e lagnoso, proprio come un vecchio.
Sharon è seduta sul letto, con la schiena contro una pila di cuscini.
«Hai il viso stanco per una che è stata messa al riposo» le dice lui.
«Ti ringrazio per il complimento, Capitano».
Steve si blocca a qualche passo dal letto, tenta di sorridere per non rimanere impantanato. Quella gli ricorda terribilmente situazioni già vissute: svariate battaglie e uno scongelamento più tardi, non ha ancora imparato a parlare con una ragazza.
«Pensavo che, magari, potevi avere fame» mormora, appoggiando il piatto sul comodino accanto a un tubetto di lozione antinfiammatoria. «Come va la caviglia?»
«Benone. L’agente Romanoff mi ha rimediato la crema e mi ha fatto una fasciatura, per domani sarà tornata come nuova».
Domani sembra un luogo dall’altra parte del mondo.
Si fissano un istante, in silenzio. Sharon si accomoda, puntellandosi sui palmi delle mani e gli fa cenno di sedere accanto a lei.
«Cosa pensi di fare?» domanda la ragazza. Steve non ha bisogno di chiedere a cosa lei si riferisca.
«Aspettare. Non resta altro, direi. Mi sento egoista ad essere così turbato»
«Steve, lo hai salvato, in ogni caso. Lo hai salvato gridandogli in faccia la verità quando vi siete rivisti e hai continuato a farlo correndogli dietro per mezzo mondo. Se fosse rimasto da solo sarebbe stato in pericolo, con noi ha qualche speranza».
È pur sempre un modo di vederla. Il Capitano non vuole ammettere che si sente sciocco e impotente nel desiderare di trovare un posto nel mondo per il suo amico quando egli stesso non ha mai davvero fatto parte di quel mondo. Credeva che ritrovare Bucky avrebbe reso le cose più semplici, avrebbe dato un senso a tutto, e forse il senso c’è solo che non è quello che Steve si aspettava.
«Però ha ragione, se davvero Chirstine Pierce ha dato l’allarme prima di venire uccisa, lo stanno cercando e con lui siamo tutti in pericolo» osserva, lanciando alla ragazza uno sguardo eloquente.
«Risparmiami i discorsi sul farmi da parte perché è pericoloso e su sensi di colpa che non hanno ragion d’essere. Non sminuire la mia scelta, per me ne vale la pena».
Steve sorride senza accorgersene. «Peggy mi disse la stessa cosa di Bucky, dopo l’incidente del treno, quando mi ero rintanato a cercare di ubriacarmi per smaltire il senso di colpa».
Lo sguardo di Sharon si indurisce appena. «Io non sono lei, Steve».
Lui posa una mano sulla sua. «Lo so. La mia recente esperienza mi ha insegnato che è un errore rincorrere i fantasmi, perché molto spesso sono solo riflessi di luce. E in ogni caso, essere scambiata per un fantasma non è qualcosa che tu meriti».
Non sono altri fantasmi che Steve è venuto a cercare bussando alla porta di quella stanza, non sono fantasmi che vede, quando la guarda.
La ragazza contrae le dita sotto il palmo del Capitano, distoglie lo sguardo dal suo e ritrae la mano. Lui ha la strana sensazione di aver scorto un’ombra di pianto trattenuto negli occhi scuri che ora si fissano sulla sponda del letto.
«Beh, sui miei meriti potremmo discutere a lungo». Sharon sembra aver messo il punto di conclusione al discorso, si getta all’indietro e appoggia la testa sui cuscini.
Con la stessa goffa perplessità di quando era ragazzo, Steve si chiede dove abbia sbagliato, cosa abbia detto che non va, ma quando fa per alzarsi lei lo trattiene.
«Resta… non ho intenzione di mangiare i biscotti da sola».
 
***
 
Natasha sente gli occhi bruciare.
Abbassa il coperchio del laptop con un gesto frustrato: il sistema di criptaggio dei file su quel pen-drive è ben al di là della sua portata, non è nemmeno simile a quello usato dallo SHIELD o a quello del dispositivo che lei e Steve avevano portato a Camp Leight.
Dopo tutta quella strada sono a un vicolo cieco e lei ha esaurito tutte le sue risorse per provare a trovare risposte in quella situazione in cui non sanno neppure se si stanno ponendo le domande giuste.
Tutti gli indizi raccolti da Fury portavano in quel luogo. Stando a quello che sono riusciti a capire, la figlia di Pierce ha dato l’allarme e il laboratorio è stato sgombrato nel tempo che il Soldato di Inverno ha impiegato ad arrivare lì dalla Svizzera - il gorilla era evidentemente troppo ingombrante da trasportare.
Getta la testa all’indietro e si passa una mano sulla fronte. La sedia ha una di quelle scomode sedute di paglia intrecciata e stride contro il pavimento che scricchiola a sua volta come se quella casa avesse un brivido ogni volta che qualcosa si muove al suo interno. Quando rimane il silenzio, Natasha pensa che ci sia qualcosa di fastidioso in quella calma, come il torpore che preannuncia la febbre.
Clint è sparito con la scusa solita, quella di far da vedetta e rendersi utile, ma lei lo conosce fin troppo bene da non capire che voleva stare da solo a pensare. Lui è così, ha bisogno di guardare le cose dalla giusta distanza ed è un uomo troppo preciso e meticoloso per trovarsi a suo agio in una situazione come quella: totalmente allo sbaraglio, a dividere la strada con un tizio di cui non sente di non potersi fidare - o di cui non vuole fidarsi.
Ma quella non è la squadra peggiore con la quale sono scesi in campo. Il pensiero la fa sorridere di riflesso: lei non è mai stata una grande amante del lavoro di gruppo, ma quando il pensiero dei tuoi compagni ti rende caro il ricordo di una battaglia impari a rivalutare le tue preferenze, arrivi forse a riconoscere che la solitudine ti spaventa, che spesso l’hai cercata perché volevi fartela amica, ma in fondo non ci sei mai riuscita.
Dietro le finestre incorniciate da quelle orribili tendine ricamate, la nebbia rimescola i colori della foresta. Dev’essere pomeriggio, ormai, e Natasha sente il bisogno di una boccata d’aria, di alzarsi da quella sedia e far riposare gli occhi e i pensieri.
Si getta sulle spalle uno dei plaid trovati negli armadi del pianterreno ed esce sul patio. L’aria umida e l’odore del bosco le ricordano un passato che sembra lontanissimo e che a lei piace credere irraggiungibile. Le ricordano la parte migliore dei suoi anni più terribili, di un’infanzia che aveva odore di neve e polvere da sparo.
Chiude gli occhi, la nebbia pizzica leggermente e sembra attutire i rumori, levigarli.
Natasha percepisce un movimento dietro di sé e si volta di colpo, con uno scatto fluido.
«Non volevo prenderti alle spalle»
«No?».
Il Soldato scuote la testa. Forse era lì da quando lei è uscita; pensandoci, deve essere rimasto lì tutto il tempo, a distanza, con la diffidenza di un felino. Ai suoi occhi devono essere loro le schegge impazzite, l’imprevisto.
Almeno le persone di quella improbabile comitiva hanno in comune il fatto di essere tutte perse in qualche modo.
Il Soldato si avvicina e si ferma accanto alla donna.
Se si escludono un semidio machiavellico e stronzo e pochi altri individui, l’agente Romanoff non è il tipo di persona da provare rancore per i suoi nemici: in battaglia si fa ciò che si deve, da entrambi i lati delle barricate. Quando torna il silenzio e la polvere e il fumo si dissolvono, si è solo esseri umani con i propri demoni al guinzaglio. Il sangue ha sempre lo stesso colore, a prescindere da quali mani vada a lordare.
Natasha si concede un istante per osservarlo, non ne aveva mai avuta occasione ed è strano per lei, che è abituata a conoscere bene quelli che ha affrontato, prendersi del tempo per studiare il Soldato di Inverno ora che sono alleati, o qualcosa del genere.
Quello che ha davanti non è nemmeno il nemico che ha incontrato in Iran e sul ponte di Washington.
Lo sguardo le cade sulle dita della mano di metallo che lui tiene appoggiate al parapetto di legno, nascoste da un guanto scuro.
«Interesse per le ferite di guerra?» dice lui. Natasha realizza che è rimasta a fissare la mano robotica qualche istante di troppo.
«Sono sempre un buon promemoria» gli risponde. «Che siano le mie o quelle di altri»
«Le tue?».
La donna non può trattenersi dal lanciargli un’occhiata di sarcasmo burbero e sfiorarsi l’addome, come se la cicatrice fosse tornata a bruciare. «La migliore me l’hai lasciata tu».
Il Soldato schiude le labbra, quasi stupito, poi corruga la fronte. «Sì… è vero» sussurra.  «Dov’è successo? Pakistan?»
«Iran».
Lui annuisce distrattamente, non lo ricorda ma le crede sulla parola. «Immagino che Bucky Barnes ti chiederebbe scusa»
«E il Soldato di Inverno?»
«Per lui le scuse non esistono» 
«E adesso chi sei dei due?»
«Non lo so. Probabilmente nessuno».
Natasha gli concede uno sguardo indulgente. Lo so come ci si sente, vorrebbe dirgli. Alla fine la scelta è solo tua, lo pensa ma sa che sarebbe superfluo ricordarglielo e forse lui ha già deciso cosa scegliere, è solo che non sa come realizzarlo ma non c’è nessuno che può dargli indicazioni al riguardo.
«Steve ne sarà deluso» aggiunge il Soldato. «Lui rivuole indietro il suo vecchio amico».
«Steve ha dimostrato di avere una tolleranza e una capacità di adattamento fuori misura, fidati»
«Come posso pensare che accetti quello che sono quando nemmeno io ci riesco?». Lo dice e poi stringe le labbra, come se volesse rimangiarsi quelle parole: non sono discorsi da fare con un’estranea…
 
Ma non hai nessun altro
 
… non sono risposte da poter chiedere a qualcun altro, da poter cercare altrove.
 
Ma io non sono così diversa da te, lo hai capito già.
 
Ma forse per persone come loro non valgono le regole che valgono per tutti gli altri.
Natasha fa un mezzo sorriso malinconico, quello che si rivolge al pezzo di specchio nel quale ci si vede spezzati ma ci si riconosce anche quando non lo si vorrebbe.
«Gli altri sanno trovare modi di guardarti che stupirebbero persino te stesso. Sono cresciuta come un lupo famelico, qualcuno in me ha visto qualcosa di diverso. Non serve a far pace con quello che hai alle spalle, ma aiuta a tenerlo a distanza e ad andare avanti»
«Ti è di consolazione?».
La donna riflette un attimo prima di rispondere. Il Soldato ha occhi color piombo, sembrano contenere un mucchio di preghiere sospese, impronunciabili. 
«Non è una consolazione, accidenti, è un diritto».
Lui la guarda, tirando indietro il capo come per mettere meglio a fuoco.
«Cos’è, lo slogan degli ex assassini anonimi?»
«Era senso dell’umorismo quello? Ora sì che Steve sarà contento».
Il Soldato accenna un sorriso vago. «Nei filmati dell’esposizione allo Smithsonian ridevo» dice. «Mi piacerebbe ricordarlo davvero»
Natasha insegue lo sguardo che lui tenta di nascondere nel seguire spire di nebbia. «Bucky»
«Cosa?».
La donna scuote piano la testa. «Niente. Pensavo che è un nome che dovremmo riabituarci tutti ad usare»
«Sì?»
«Sì. Anche se ammetto che James mi suona meglio».
 
 
 
  
 
 

 
Note
Il titolo del capitolo è in realtà il titolo di un libro di Erri De Luca (e mi vergogno di aver scomodato uno dei miei miti letterari per una ficcyna, ma calzava a pennello).
Citazione iniziale dal brano “Your ex lover is dead” degli Stars.

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Capitolo 9
*** Tenth bullet - Natalia ***


Tenth bullet: Natalia
 
I don't mind if I get broken I don't mind if I get fixed
I don't mind if I'm not spoken I don't mind if I get kicks
If I wake up dead I'll wake up just like any other day
And the photographs of god I bought have almost fade away
Everything just passes by I thought it always would but then I kissed her
 
IN VIAGGIO
 
Hanno impiegato due giorni per essere lì, su quel treno che viaggia per decine di chilometri sotto il Canale della Manica.
Il treno era l’unica opzione praticabile. Gli aeroporti sono fuori discussione, troppi controlli anche con tutti gli agganci di Sharon e le deformazioni professionali di Natasha e Barton.
Nello scompartimento a sei posti il riscaldamento è troppo alto e il poco spazio costringe tutti loro a una vicinanza scomoda, forzata; a sguardi dai quali non ci si può mettere al riparo.
Quella vicinanza sembra la resa dei conti tra persone costrette a stare assieme da un destino con un pessimo senso dell’umorismo.
Nessuno parla. Curioso come i momenti in cui ci sarebbe finalmente occasione di usare parole sono poi quelli in cui la gente sceglie il silenzio.
Al Soldato non importa, il silenzio è stato la sua compagnia costante in tutti quegli anni. A Bucky Barnes invece importerebbe: Bucky Barnes è la ferita mai rimarginata e il Soldato non sa cosa fare per smettere di farla sanguinare. Soprattutto ora che gli occhi di Steve sono le lame che scavano più a fondo nella carne viva.
Se Bucky Barnes è la ferita, il Soldato di Inverno è l’infezione purulenta che la fa bruciare. Tutto il resto è dolore attutito dalla febbre.
Potesse scegliere di esserne consumato fino a spegnersi, lo farebbe. Ma pensa che ha ancora la sua vendetta, dopo penserà al nulla che il gelo gli ha scavato attorno.
Il dondolio del vagone, il vociare sommesso degli altri passeggeri proveniente dallo stretto corridoio, fanno salire a galla un torpore che è metà stanchezza e metà bisogno di fingersi altrove.
Il Soldato getta la testa all’indietro contro la spalliera del sedile, socchiude gli occhi. L’unica cosa che resta visibile oltre il suo sguardo appannato è il rosso dei capelli di Natasha seduta accanto al finestrino, dall’altro lato dello scompartimento.
Quello stesso rosso si accende come la fiamma di una fiaccola su un sentiero buio in mezzo al bosco.
Un bosco di notte, è questo che sembrano essere i suoi ricordi a volte.
Non capisce se è un sogno, le immagini sconnesse scivolate tradimento nella quiete del dormiveglia sono immagini di un cortile dalle mura altissime, coronate da una selva di filo spinato, fiocchi di neve sopra la sua testa a fare da coperchio a quella scatola di cemento, neve caduta e ghiacciata a farvi da fondo. Tutto attorno il bianco muto e crudele di inverni profondi come abissi.
Il rosso in mezzo al bianco spunta come le prime gocce di sangue sulla pelle toccata dalla lama.
Natasha è un volto di ragazza, è un corpo di donna sotto di lui. 
La lama è quella che lui ha tra le mani e che le punge la pelle nivea del collo, che gli hanno detto di non rovinarle la faccia.
Natasha è respiro affannoso e sguardo furente a un palmo dal suo viso. L’allieva sconfitta da un maestro integerrimo. 
Natasha non è il nome con cui la chiamavi.
Come la chiamava? Perché?
Natalia.
«Non sei abbastanza veloce, Natalia…».
Perché?
Perché era la Russia, era un’altra vita. Era quel cortile, prigione al centro dell’inverno. E loro erano ostaggi legati alla stessa catena.
Lui era il maestro e lei l’allieva.
«Ce lhai un nome, Soldato?»
Ricordo che punge come lo schiaffo della neve che il vento gli getta addosso. Ricordo, non sogno. Memoria, non illusione. Consapevolezza fatta di sangue e cemento e tempo cristallizzato nei fogli di calendario strappati da mani feroci.
«Ce lhai un nome, Soldato?».
Non lo aveva, lo aveva perduto, ma ne ricordava un frammento e a quegli occhi da gatto e a quelle labbra avrebbe regalato ogni briciola di sé che era riuscito a preservare.
«Chiamami James».
 
Il Soldato apre gli occhi di colpo.
Il cemento e la neve ora sono spariti. Il ricordo no, è rimasto, portato a galla da chissà quale corrente, affiorato in superficie per aggiungere sale alle ferite.
Gli altri lo guardano, perplessi. Anche Natasha lo guarda e lui non ha il coraggio di voltarsi verso di lei, perché i suoi occhi le chiederebbero con troppa insistenza come è potuto accadere. Cosa è successo perché entrambi dimenticassero?
Oh, lui lo sa cosa gli è successo. Ma lei, perché non ricorda?
Non può restare lì, non può offrire a quegli sguardi uno sconvolgimento di cui non ha il diritto di parlare. Si alza, cercando di ostentare una calma che non ha e lascia lo scompartimento.
Dopo qualche secondo sente i passi di Steve inseguirlo. Il Capitano blocca tra la porta dello scompartimento e il finestrino del corridoio.
«Tutto bene?».
Il Soldato gli afferra un lembo della camicia e serra il pugno, come a intimargli di non fare altro, di non provare a trattenerlo.
Perché cazzo non mi lasci in pace. No, non è quello che vorrebbe dire davvero, non lo pensa.
«Bucky?».
Il Soldato si arrende al Sergente Barnes che ha troppo bisogno di un paio di occhi amici ora che il dolore di quel ricordo lo sta spaccando dentro. Lascia andare la camicia di Steve, gli posa una mano sul petto come in una sorta di gesto di scusa.
«Non qui» mormora in un soffio. Sfila tra le braccia del Capitano e il corridoio, verso le porte scorrevoli  che dai vagoni della seconda classe portano alla carrozza ristorante.
Non c’è quasi nessuno tra i tavolini coperti da tovaglie gialle. Una famiglia con dei bambini che mangiano della torta, un vecchio con il viso sepolto dentro un quotidiano tedesco e un paio di coppie che bevono tè o caffè. Il fumo sottile che si alza dai bordi delle tazze è come il respiro in quei giorni di inverno e sangue, sepolti in un passato che lacera come il filo spinato in cima alle mura.
Il Soldato si lascia cadere dietro a un tavolino nell’angolo più scuro del vagone ma abbastanza vicino all’uscita, come da abitudine di persona abituata alla fuga.
Steve lo imita, incapace di smettere di guardarlo. Forse una volta i suoi occhi potevano guarire Bucky da ogni male, fargli dimenticare ogni incubo.
Ma quello non era un incubo.
La cameriera, una ragazza minuta con il logo della compagnia ferroviaria ricamato su una giubba rosso scuro, chiede cosa vogliono ordinare. Steve chiede del tè, la prima cosa che gli viene in mente; è gentile anche mentre interrompe la cameriera che comincia a elencare le torte e la manda via.
«Ho ricordato qualcosa che…».
Il Soldato non sa da che parte cominciare. Steve può ascoltarlo e chiamarlo amico ma non può capire davvero.
«Riguarda Natasha» aggiunge lui.
Il Capitano spalanca gli occhi. Le vuole bene, è evidente, la considera un’amica e Steve Rogers si butterebbe nel fuoco per un amico. L’affetto che lo lega a Natasha è forse il vero motivo per cui è giusto che ora lui gli racconti la verità.
«Lo so, vi eravate incontrati anni fa in Iran. Ho visto la cicatrice»
«La cicatrice? L’hai vista?».
Steve annuisce, con estrema tranquillità. Impiega qualche secondo a cogliere la nota perplessa e vagamente interdetta nello sguardo del suo interlocutore. «Non l’ho vista perché… cioè, me l’ha fatta vedere lei quando… ho visto solo la cicatrice, ok?»
«Non c’è bisogno di arrossire»
«Non sto arrossendo»
«Sto diventando daltonico allora».
Steve scuote la testa, ride piano. Quello è il loro primo vero dialogo da quando si sono ritrovati, è un guardarsi negli occhi da persone normali, senza ombre ingombranti di eroi o mostri a intromettersi tra loro. Senza l’inverno a raggelare un affetto che ora, per la prima volta, torna a sembrare reale.
Il Soldato sente il peso sul petto diventare più leggero, ma è solo un istante.
«Ci eravamo già incontrati, molto prima dell’Iran» dice poi, tornando serio.
«Non me lo ha detto, questo»
«Non lo ricorda, temo».
Il Capitano aggrotta le sopracciglia, si sporge un po’ di più verso l’amico. «Com può essere? Di cosa stai parlando?».
 
***
 
 
NEW YORK
 
«Cosa ha detto Fury?».
Bruce Banner versa l’acqua calda per la tisana in una tazza. Non ha neppure provato a chiedere a Tony se ne voleva, conosce già la risposta, qualcosa tipo “non bevo niente che all’occorrenza non si possa correggere con un po’ di gin”.
«Che non ne sapeva niente» risponde il padrone di casa.
«E tu gli credi?»
«Beh, non ha più molta ragione di mentire su certe cose ormai, no?».
Bruce scrolla le spalle. «Sarebbe irrilevante, in ogni caso».
Tony annuisce. Infatti non è della buona fede di Fury che gli importa e non lo ha reso partecipe delle sue scoperte per fargli un piacere, non è di lui che si sta preoccupando, voleva solo chiedere un consiglio in merito a cosa farsene delle informazioni ricavate dalle pagine del fascicolo che ha decodificato.
Perché a volte anche i geni, miliardari e tutto il resto rimangono spiazzati dalle sorprese della vita. Se così si può chiamare quel casino.
«Fury è in contatto con Barton e la Romanoff, così mi ha detto. Sono contatti assai sporadici perché non si fida della sicurezza delle linee, ma da quello che mi è dato sapere ora la famigliola si è riunita».
Il fumo della tisana appanna i vetri degli occhiali. Bruce se li sfila, infastidito.
«Cioè? Steve ha ritrovato il suo amico e si è incontrato anche con Clint e Natasha?»
«E sono sopravvissuti a qualche brutta avventura, ora sono tutti in viaggio verso la gloriosa Scozia. Non hai la sensazione che ci stiamo perdendo qualcosa di molto interessante standocene qui?»
«Non ci provare».
Tony sbuffa e si mette a sedere sul bordo del tavolo da lavoro di Bruce, mandandogli all’aria le carte e rovesciandogli un portapenne.
Per fortuna Hulk non si dà pensiero dell’ordine cosmico che la sua controparte mette in ogni cosa che fa e in ogni spazio che occupa.
«Avrò pure il diritto di conoscere il Soldatino di Piombo. Lo hai visto anche tu dai filmati quanto è figo quel braccio artificiale!»
«Riformulo: non ci provare» sospira Bruce. «Dimmi qualcosa di più su quel file in codice»
«È un pessimo tentativo di cambiare argomento»
«Mi interessa davvero. Per Natasha».
Tony fa un mezzo sorriso privo di allegria. Anche a lui interessa di Natasha, quella maledetta, bellissima stronza di una doppiogiochista che si è quasi fatta ammazzare per salvare il culo a Rogers prima e a Fury poi. Non si può dire che la ragazza non abbia fegato, è stata lei a pubblicare on-line gli archivi dello SHIELD, sapendo cosa quei documenti dicessero della sua vita e del suo stato di servizio.
«Il file riassume una buona parte della carriera della giovane Natasha, o dovrei dire Natalia - si faceva chiamare così anche quando venne a lavorare da me, sai - Natalia non fa un po’ pornoattrice?» 
«Come dici tu…»
«Quando prestava servizio per il KGB usavano ancora il suo vero nome» dice Tony.
«Quella volta a Calcutta, mi disse che aveva cominciato da bambina»
«Credo che la parte peggiore non sia neppure quello che ha fatto, ma quello che le hanno fatto. E poi c’è la parte spinosa, che riguarda il motivo per cui queste pagine erano in quel fascicolo».
Bruce posa la tazza con un movimento più violento di quanto aveva previsto. «Il Soldato di Inverno?»
«Lui la ha addestrata. L’Hydra aveva venduto armi al KGB in quegli anni e gli aveva anche dato in affitto l’arma per eccellenza per crearne un’altra altrettanto micidiale. O forse per testare le possibilità di un essere umano di sviluppare in modo naturale le abilità che il Soldato ha sviluppato con chissà che esperimenti».
Il dottor Banner dondola sulla sedia, a disagio. «Direi che questo Soldato di Inverno è stato un bravo maestro, allora. Definire Natasha micidiale è dire poco».
Tony si alza dalla scrivania e misura con passo strascicato l’ufficio del suo amico. Banner ha voluto uno stanzino piccolo, lontano dal viavai di ricercatori e scienziati che affollano i piani della Stark Tower adibiti a laboratori.
Il padrone di casa si sente soffocare lì dentro. Le matite perfettamente temperate sembrano  fissarlo dal portapenne, e giudicarlo.
Sospira con un moto di malinconia. Gli manca Pepper, e gli mancano altre cose, un senso di sicurezza che sembra essersi dissolto quando lo SHIELD è caduto. Dalle macerie del Triskelion si alza ancora fumo, dicono, ed è un fumo di diffidenza e smarrimento. Tutta quella storia e le recenti scoperte sul passato di Natasha Romanoff gli stanno facendo pensare che non importa quanto siano forti i buoni, i cattivi sono sempre più numerosi, dormono meno, pensano di più.
Più dei geni miliardari, dei killer provetti, più dei supersoldati, dei semidei, dei portatori sani di Hulk.
«E poi, cosa è successo?» domanda Banner, più per distrarlo dai suoi pensieri cupi che non per sapere.
Il padrone di casa fa un sorriso cupo, pieno di amarezza.
«E poi è andata come nel più scontato dei film: la ragazza e il Soldato si sono innamorati. Quando i loro capi lo hanno scoperto, li hanno separati e hanno fatto un po’ di pulizia mentale ai cervelli di entrambi».
Bruce ha un brivido. «Lo SHIELD non provò a risistemare la mente di Natasha, quando lei andò a lavorare per loro?»
«Lo SHIELD non provò a risistemare un bel niente, cercò solo di farle ricordare cose che potevano tornare utili a loro. Tutto il resto è rimasto sepolto».
«E adesso? Natasha dovrebbe saperlo…»
«Hai tirato in ballo un bel dilemma, dottore. Tu al suo posto, vorresti sapere?».
 
***
 
IN VIAGGIO
 
Quando il Soldato finisce il suo racconto, né lui né Steve hanno toccato il tè che gli hanno servito.
«Tu sei assolutamente sicuro che sia andata così?» chiede il Capitano. «Non può essere una specie di sogno o qualcosa…»
«Rincontrarti è stato come aprire una gabbia con tutti i miei ricordi dentro, all’inizio mi sembravano solo sogni, ma dopo la visita allo Smithsonian ho capito che era tutto vero e da allora sono assolutamente sicuro di ogni cosa che mi torna alla mente. E credimi se ti dico che la maggior parte di queste cose vorrei fossero solo incubi».
Steve annuisce con aria grave.
«E così… tu e Nat. Cosa pensi di fare?».
La domanda sembra difficile, ma per lui non lo è.
Quello che vorrebbe fare è raccontare a Natasha tutta la verità, ma conosce il dolore dei ricordi sopiti che tornano a galla, quel bruciore del sangue che torna a circolare in un arto tenuto legato. È un dolore che non è disposto a infliggere a lei che ha avuto la fortuna di essere portata via da quell’inferno molto tempo prima.
Nessuno ha bisogno dell’inferno e nessuno ha bisogno dei demoni che lo popolano.
Per Natalia il Soldato di Inverno non sarebbe altro che un demone. E non sarà lui ad aprire porte che sono rimaste chiuse per tutto quel tempo.
«Non farò niente, Steve. Non sarebbe giusto»
«Se io fossi al suo posto, vorrei sapere».
L’uomo che era stato Bucky Barnes sorride tristemente. «Ma tu non sai com’è essere al suo posto. Io sì»
«È come dire che avresti voluto non ricordare la nostra amicizia»
«La nostra amicizia non ha mai fatto male a nessuno. Era qualcosa di legittimo, quello che c’è stato tra me e Natasha no»
«Era? Smetterai mai di parlare al passato?».
Il Soldato tende la mano verso il braccio di Steve appoggiato sul tavolo. Si accorge che è la mano artificiale e la ritrae. «Sai cosa voglio dire».
Gli occhi del Capitano si riempiono di malinconia, cerca di nascondergli lo sguardo, ma il Soldato riesce a indovinarlo anche senza vederlo.
I loro visi si riflettono sulla superficie liquida del tè ormai freddo dentro le tazze, sono ombre incerte e tremule.
«A proposito di cose che non so» dice poi Steve dopo qualche istante. «Aiutami a capire: ora che ti sei ricordato di averla amata tanto da venire meno agli ordini, cosa assai rara per quello che eri all’epoca, che cosa provi?».
«Questa sì che è una domanda difficile, Rogers!»
«No, perché in caso è giusto che tu sappia che non ho solo visto la cicatrice. Ci siamo baciati… ma era solo per copertura».
Il Soldato arriccia le labbra. «Proprio non ce la fai a filtrare le cose da dire e quelle da non dire. Sei sempre stato così?»
«Già»
«Io ricordo un sacco di ragazze a Brooklyn. Mi sbaglio?».
Steve inclina la testa e gli lancia un’occhiata teatrale di sopportazione. «Cerano un sacco di ragazze. Uscivamo in quattro, ma le signorine finivano sempre a ballare con te - tutte e due»
«Oh. Beh, se considerassi Natasha la mia ragazza, non è te che prenderei a pugni per averla importunata»
«Se ti riferisci a lei e Barton, credo sia iniziata e finita già da un po’».
Iniziata e finita come una storia normale, se non altro. La normalità è tutto quello che Natasha meriterebbe ora che non c’è più lo SHIELD e lei può crearsi una vita al di fuori di quel mondo - quando quella spedizione disperata sarà finita, almeno.
Di colpo tutto quel discorso non gli sembra più sopportabile. Vorrebbe solo fingersi capace di essere di nuovo quel ragazzo di Brooklyn, senza nessuna guerra da ricordare, senza nessun inverno alle spalle e dentro il cuore.
«E di te e Sharon cosa mi dici? Non credo che lei ballerebbe con me… né con nessun altro».
Il modo in cui Steve deglutisce e sposta lo sguardo lo tradisce, tanto che il Soldato non ha bisogno di ascoltare la risposta alla sua domanda.
«Se quello voleva essere un doppio senso…»
«Certo che voleva esserlo. Si sa che i soldati sono prosaici»
«… giuro che ti prendo a pugni»
«Non hai risposto alla mia domanda».
Steve si concede qualche secondo per mettere insieme le parole. Alla fine, scrolla le spalle.
«Non lo so. Questa non mi sembra la situazione adatta per pensare a certe cose. Lei si è finta la mia vicina di casa per tenermi d’occhio per conto dello SHIELD, una parte di me non è ancora del tutto a suo agio con l’idea che abbia mentito, anche se lo ha fatto per eseguire gli ordini».
Il Soldato ricorda che Steve, il suo amico, il piccoletto di Brooklyn, in fin dei conti non è mai stato un ingenuo. Può non saper parlare di ragazze e di tutto quello che vi è connesso, ma ha intuito e il suo intuito gli sta dicendo che non può fidarsi del tutto di quella giovane agente.
E lui vorrebbe dirgli che qualsiasi cosa lei nasconda, non potrebbe mai fare del male al Capitano, che è evidente che ci tiene troppo. Ma Sharon odia il Soldato di Inverno - per qualche ragione sconosciuta ma sicuramente valida - e il Soldato di Inverno è tutto quello che resta del migliore amico di Steve Rogers. 
«Dopo tutto quello che mi è successo, dopo tutto quello che ho fatto» conclude lui, «mi piace pensare che non ci sia niente di imperdonabile»
«E con questo cosa vorresti dire?»
«Che non devi avercela con Sharon se ha o ha avuto qualche segreto. Io penso che per lei valga la pena. Di certo tu per lei la vali, altrimenti non sarebbe qui».
Steve china il capo, insegue i pensieri che le parole del suo amico hanno portato a galla. Quando sta per rispondere vengono interrotti.
Sam compare accanto al tavolo.
«Tutto bene? Non avete fatto a pezzi qualche vagone facendo a botte?» domanda.
«Era solo un sogno che mi aveva… turbato» dice il Soldato. Prova a sorridere, gli piace quel ragazzo, gli è grato per la lealtà che dimostra a Steve e alla causa, per aver accettato la sua presenza lì senza fare discussioni, per aver provato a fidarsi.
«Gli altri mi hanno mandato a cercarvi. Siamo quasi arrivati. Cioè, quasi arrivati è un eufemismo, naturalmente c’è ancora da prendere la coincidenza per Glasgow».
Steve si stropiccia il viso con una mano. «Quando tutto questo sarà finito, non prenderò mai più un treno in vita mia»
«Io una volta avevo una macchina. Indovina chi me l’ha sfasciata?».
 
***
 
GLASGOW
 
Le luci del porto sembrano ricamare imitazioni di stelle sull’orlo di un mare color inchiostro.
Il cielo di Glasgow fagocita il fumo delle fabbriche e fa da sfondo ai voli precisi dei gabbiani. Di sera però, quando il trambusto si spegne, resta solo il rumore delle onde.
Dal piccolo balcone, Natasha osserva le grosse navi attraccate e le pile di container che aspettano di venire imbarcate. Quello sembra un posto in cui non ci si può fermare, ne hai visti tanti di posti così nella sua vita.
Hanno scelto un albergo accanto al porto, uno di quelli dove vanno ad alloggiare marinai stranieri quando il maltempo o qualche altro imprevisto li trattiene lì, con una coppia di portinai che sembrano più vecchi della loro età e non si formalizzano troppo a controllare i documenti. Si sono separati e sono entrati a orari diversi, divisi in coppie. Lei e Sam come compagni, Steve e Sharon come fratello e sorella, Clint e Bucky assieme, cercando di darsi l’aria da manovali in attesa di ingaggio - e che Dio ce la mandi buona.
Sia Sharon che Clint le hanno mandato un sms per farle sapere in quale stanza si trovano, insieme alle rispettive controparti. L’indomani si dedicheranno a cercare il posto di cui il Soldato dice di ricordare, per ora sperano solo che il lungo viaggio in treno e quella sosta siano sufficienti a far perdere le loro tracce a chiunque li stia inseguendo.
Sam sistema una pila di coperte sul pavimento di moquette scolorita, con la risolutezza del gentiluomo.
Natasha vorrebbe dirgli che non è così schizzinosa, che lui non potrebbe neppure immaginare con chi lei abbia dormito in quegli anni o in che condizioni poco agevoli e poco decorose, ma non dice niente, non è nemmeno sicura che riusciranno a dormire, tutti loro: dopo l’attacco al rifugio di Graz, è evidente che il gioco ha cominciato a farsi serio.
Così, si limita a lanciare a Sam un sorriso di ringraziamento, mormora qualcosa a proposito dell’andare a controllare che gli altri stiano bene e lascia la stanza.
La targhetta con il numero 7 è caduta dalla porta un po’ di tempo fa, al suo posto sono rimasti i fori dei chiodi e l’ovale più chiaro sul legno verniciato. Natasha bussa ed entra prima di ricevere risposta.
Il Soldato è accanto alla finestra, muove la mano artificiale come se avesse i crampi al braccio. Solo dopo qualche secondo si volta a guardarla.
«Qualcosa non va?» chiede lei.
Lui sembra voglia nasconderle uno sguardo preoccupato, smette di muovere la mano e la lascia ricadere lungo il fianco. «Immagino che ogni tanto serva un po’ di manutenzione»
«Forse nel posto in cui stiamo andando troveremo una soluzione».
Il Soldato annuisce. Di nuovo, smette di guardarla come se non potesse sopportare il suo sguardo. Dev’essere successo qualcosa sul treno, quando si è alzato ed è andato via, deve avere ricordato qualcosa di tremendo. Natasha vorrebbe dirgli che non c’è niente di così tremendo che lei non possa arrivare a capire, a volte pensa che potrebbe aiutarlo persino meglio di quanto potrebbe Steve.
Non che la cosa sia al centro dei suoi interessi, al momento, ma forse un domani, quando tutta quella storia sarà finita.
Certe storie non ce lhanno una fine, lo sai 
«Dov’è Clint?»
«Clint. L’ho fatto a pezzi e nascosto nell’armadio, non mi piaceva il modo in cui mi guardava».
Natasha sorride, con l’angolo destro della bocca a disegnare una virgola di ironia. «Clint ha i suoi tempi per imparare a fidarsi delle persone. Non ce l’ha con te, ma lui non c’era a Washington, non ha avuto modo di digerire quello che è successo allo SHIELD».
Il Soldato torna a guardarla e sembra gli costi uno sforzo immane sollevare la testa e puntare su di lei i suoi occhi colore del piombo.
«Posso farti una domanda?»
«Solo se posso riservarmi il diritto di non rispondere».
Il Soldato fa un mezzo sorriso, uno dei suoi, di quelli che compaiono e spariscono senza darti il tempo di capire se sono esistiti davvero. «Non immagino proprio come potrei fare per costringerti» dice, sarcastico. «Tu non sei stata diffidente con me, non come gli altri, anche se ne avevi maggior motivo».
La domanda sottintesa ha una risposta che Natasha fa fatica a mettere subito a fuoco.
Lei distingue le azioni dalle motivazioni, ciò che è una colpa da ciò che non lo è, ciò che è volontà da ciò che è obbligo.
Rubare per fame non è la stessa cosa che rubare per avidità.
Dovrebbe dirgli che qualsiasi cosa lui abbia fatto, non è stata colpa sua. Ma sarebbe un concetto superfluo, e forse non servirebbe a far sentire Bucky Barnes assolto dalle azioni del Soldato di Inverno. Ma c’è qualcosa di più, c’è l’istinto, quell’istinto di ragno che vede trame e connessioni dove gli altri non ne vedono. C’è un legame sottile e lontanissimo che lei percepisce quando pensa al Soldato.
Forse è per il sangue, perché sono stati nemici in passato. Forse è perché lei più di altri può comprendere quello che lui ha passato. Forse a volte l’istinto non ha bisogno di spiegare.
«Lo hanno fatto anche a me» dice, alla fine. E sembra che al suo interlocutore non servano ulteriori specificazioni per capire a cosa si riferisca. «Il lavaggio del cervello, la cancellazione dei ricordi…».
Lui non sembra stupito e le risparmia occhiate pietose e frasi dispiaciute.
Cala un silenzio dentro cui si insinua il rumore delle onde, poi il Soldato è il primo a riscuotersi.
«Pensi di andare a controllare anche Steve e Sharon?» domanda.
«No. A loro dobbiamo proprio lasciare un po’ di privacy» risponde Natasha, sorridendo. «Hai idea di quanto mi ci sia voluto per trovargli la ragazza giusta?».
 
 
 
 
 

 
 
 
Note
Il mio (personalissimo e opinabilissimo) headCanon su Natasha e il Soldato di Inverno e sulla loro “accoppiata” l’ho spiegato nelle note a QUESTA one-shot. La one-soth e questa long non hanno niente a che vedere l’una con l’altra, ma il background dei due personaggi è lo stesso ed è quello a cui intendo fare riferimento, in generale, quando tratto (tratterò) di loro. 
Citazione iniziale dal brano  Snakedriver dei The Jesus and Mary Chain (che sono di Glasgow pure loro XD)
 
Per tutto il resto, citofonare Alki: Ask | Facebook | Twitter
 
A venerdì prossimo con l’aggiornamento ^_^

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Capitolo 10
*** Ninth bullet - Agguato ***


Ninth bullet : Agguato
 
Every time we lie awake
after every hit we take
every feeling that I get
but I haven't missed you yet
 
NEW YORK

 
«Quello che stai facendo è sbagliato» dice Bruce.
Tony continua a masticare rumorosamente la manciata di orsetti gommosi alla frutta, alza la confezione davanti agli occhi e scuote la testa. «Lo so, non è un cibo molto salutare. Ma quando tornerà Pepper ritorneranno anche i menù macrobiotici e…»
«Non parlavo di questo»
«Oh»
«E comunque anche le caramelle sono una pessima idea. Sai con che cosa le fanno quelle robe?»
«Avevo tolto tutti gli orsetti verdi dal sacchetto, per delicatezza…»
«Gelatina di manzo, sono iperproteiche, fanno male ai ren… perché stiamo parlando degli orsetti di gomma?»
«Hai cominciato tu».
Bruce sospira, si toglie gli occhiali e si pinza la radice del naso tra l’indice e il pollice. Tony gli dà il tempo di contare fino a dieci: che non si dica che non è prudente, conosce bene la differenza tra il punzecchiare qualcuno e il farlo arrabbiare, o quanto meno l’ha imparata dal momento che il dottor Banner è diventato un inquilino della Stark Tower, il genere di inquilino che si rivela assai utile quando alla tua donna è stato iniettato un siero mortale che la fa assomigliare a un petardo inesploso in perenne sindrome premestruale.
Senza Bruce Banner lui non sarebbe mai riuscito ad aggiustare Pepper.
Senza Bruce Banner, inoltre, adesso lui non sarebbe sull’orlo di una conversazione noiosa che rischia di fargli perdere almeno venti minuti del suo preziosissimo tempo. Perché il caro dottore sa essere deliziosamente tedioso quando ci si mette e quando comincia a intavolare discussioni su cosa è giusto e cosa non lo è; persino più pedante del Capitano e ancora più sfiancante di Nick Fury.
«Orbene, dimmi, mio saggio amico, cosa turba la quiete dei tuoi pensieri? Esponi pure le tue argomentazioni»
«Dovrei avere una presentazione in power point da qualche parte».
Fuori, al di là delle finestre sbarrate, deve essere giorno; Tony non ricorda quando Jarvis gli ha fornito l’ultimo segnale orario, ma nel suo ufficio tiene le tende chiuse e le lampade sempre accese. La luce naturale del sole è mutevole, lo distrae e ultimamente ha molto a cui pensare e poca voglia di concentrarsi su quello che sta succedendo di fuori.
Bruce si rimette gli occhiali, poi li toglie di nuovo e li ripone nella tasca della camicia. Si crede più serio, convincente e minaccioso senza occhiali. Tony non ha cuore di dirgli che al momento è della stazza e del colore sbagliato per essere davvero convincente e minaccioso.
«No, seriamente, Tony. Non capisco cosa tu stia facendo e dove tu voglia arrivare, ma non mi piace»
«Ok, forse mettere un minuscolo rilevatore GPS nel manico dello scudo del nostro eroico Capitano è stato un po’ maniacale, te lo concedo».
Bruce fa un’espressione truce. Stazza e colorito sono comunque troppo poco allarmanti.
«Stai facendo l’accondiscendente? E comunque, non parlo solo di quello»
«Senti, sono un genio annoiato e lo hai visto anche tu in che stato era Captain-la-verità-rende-liberi. Ero preoccupato per lui. Non vi mai bene niente»
«E i documenti cifrati che hai tolto dal fascicolo e che Jarvis sta ancora decriptando… hai presente, quelli di cui non hai detto niente a nessuno?»
Tony fa una smorfia, con i denti stacca la testa a un orsetto alla fragola.
«Jarvis? Quale parte del questi mettili da parte non ti era chiara?».
La voce robotica vibra nella stanza. «Ogni cosa della sua enunciazione mi era chiara, signore. Ma l’account del dottor Banner ha un livello di accesso abbastanza alto da poter aprire i file che mi fa mettere da parte»
«E questo quando è stato deciso?»
«Quando il dottor Banner doveva avere accesso alle analisi della signorina Potts».
Touché. Tony alza le mani e mima un gesto di resa. Sposta la testa a destra e a sinistra per sgranchirsi il collo, affonda la mano nella bustina di caramelle.
«Se ti può consolare, Doc, quei file volevo farli leggere a Fury per primo»
Bruce scrolla le spalle. «Credo che Fury gradisca essere lasciato in pace a godersi la sua finta morte»   
Il padrone di casa fa un sorrisetto da satiro. Avere la possibilità di contraddire qualcuno è sempre soddisfacente, anche se si è dei geni e la altrui contraddizione fa parte del pacchetto.
«Jarvis, mostra al dottor Banner i documenti che hai decriptato».
Sul grande schermo a parete compaiono lunghe righe di caratteri che ruotano fino a comporre parole e frasi in inglese. E infine una foto.
Bruce si infila di nuovo gli occhiali, con gesti resi goffi dallo stupore. «Ma è…»
«Già» gongola Tony, dandosi una spinta e ruotando sulla sedia girevole.
E poi al placido e misurato dottor Banner scappa persino l’imprecazione. «Oh, cazzo».
Forse la Stark-influence lo ha contagiato più di quanto sia disposto ad ammettere.
 

GRAZ 

 
A volte capita che i ricordi tornino nel sonno, frammenti di incubo che sfuggono al setaccio dell’incoscienza e che rimangono impressi nella sua mente al risveglio.
È certo che gli capitasse anche quando era ancora tra le mani dell’HYDRA: nei lunghi periodi di stasi, quando il ghiaccio spegnava la sua mente e il suo corpo, schegge di memoria gli si piantavano nel cervello e poi scomparivano da sole. E se non accadeva ci avrebbero pensato loro, con il calore e l’elettricità.
A volte gli capita di sognare cose alle quali ha pensato, sulle quali ha provato a concentrarsi prima di prendere sonno, nelle poche ore in cui è riuscito a dormire da quando è cominciato il suo viaggio, e di sapere che sono vere.
Il Soldato si sveglia di colpo. Si mette a sedere in mezzo al letto, tenendo le palpebre chiuse per paura che l’immagine scivoli via, che non sia in grado di ricordarla.
È una strada, un cartello verde con le scritte bianche che indica l’ingresso in una località. In fondo alla strada c’è una palazzina con una recinzione di pali di ferro rettangolari tinteggiati di  uno smorto color ruggine. Da qualche parte, molto lontano, arriva l’odore del mare e del petrolio delle grandi città portuali.
Conosce quel posto, la via asfaltata che vi conduce, lo scenario desolante tutto attorno alla palazzina. Quello che gli sembra incredibilmente strano, che confonde l’onirico e il reale delle immagini che lo hanno sorpreso nel sonno, è una serie di scenari incoerenti e fuori posto, come interi piani del palazzo occupati da foreste o da spiagge in tempesta.
Un palazzo con dentro spazi aperti e selvaggi. Dovrebbe esserci un significato recondito o qualcosa del genere, ma il Soldato non si dà pena di cercarlo. Si scrolla di dosso le lenzuola - sui due piani del rifugio di caccia c’erano abbastanza stanze per tutti e tutti avevano bisogno di riposo - si alza in piedi e si guarda attorno, vorrebbe avere un pezzo di carta per poterci scrivere sopra, segnarsi il nome del posto sul cartello, le indicazioni per arrivarci, ha troppa paura che il sogno e il ricordo sfumino.
Esce dalla stanza che ha occupato, quella alla fine del corridoio del primo piano. In fondo alle scale c’è il bagliore di una luce accesa, dorato tra le pareti di legno. Quel posto sarà pure tranquillo e sicuro ma sembra una fottuta casetta per gli uccelli.
Scende i gradini di legno a due a due. Ha dormito vestito, senza neppure sfilarsi le scarpe, i suoi passi sono pesanti sul parquet.
La luce accesa proviene dall’ingresso che fa anche da sala da pranzo. Attorno al tavolo di legno verniciato è seduta la ragazza che era con Steve, se ne sta immobile su una sedia con una pistola appoggiata sul piano davanti a sé, gli occhi fissi sulla porta di ingresso, all’erta come se si aspettasse un’irruzione improvvisa.
Si volta quando sente i passi avvicinarsi, gli rivolge uno sguardo che è quasi di terrore. Alza il braccio e posa la mano accanto alla pistola ma non la impugna.
Il Soldato sa riconoscere cosa passa negli occhi delle persone, ne ha visti così tanti spegnersi e ha imparato a distinguere ogni tipo di emozione, perché quando le persone sono in punto di morte i loro occhi parlano, e lo fanno con un’eloquenza che è difficile da ignorare.
La ragazza lo guarda impaurita, ma non è di lui che ha paura - non solo di lui, almeno. È come se trovasse profondamente scomodo e sconcertante lo stare da sola con lui nella stessa stanza.
Sharon continua a guardarlo per qualche secondo, poi scuote piano la testa.
«Gli scuri sono chiusi» dice, butta fuori le parole di fretta, come se si stesse giustificando per qualcosa.
«Come?»
«Ho chiuso gli scuri, perché da fuori non si vedesse la luce. Ma qualcuno doveva restare alzato a fare la guardia e io ho dormito tutto il pomeriggio».
Anche tu sei un soldatino addestrato, vero? SHIELD, HYDRA, KGB, non importa, quando il potere riesce ad ammaestrarti ti comporterai sempre come se ci fosse una frusta pronta a colpirti per ogni tuo passo sbagliato.  
«Mi serve della carta, qualcosa per scrivere» dice il Soldato. 
Ora Sharon sembra solo perplessa. «Oh… c’è un block notes lì accanto al telefono, spero che la biro scriva».
Lui attraversa la stanza, trova quello che cercava e scrive tutte le indicazioni che riesce a ricordare. Alle sue spalle, sente lo sguardo della ragazza fisso su di sé.
«Forse so dove dobbiamo andare» conclude, alla fine, stringendo il foglio tra le dita.
«No, rallenta, da dove salta fuori questa? È stata un’illuminazione improvvisa o cosa?».
Lui scrolla le spalle, non gli sembra importante rispondere ma lei se lo aspetta. «Ho ricordato»
«Quindi è così che funziona? I ricordi ti compaiono all’improvviso?»
«Sì, quelli relativi ad alcuni dettagli sì»
«E quelli relativi a Steve?»
«Hanno cominciato a tornarmi in mente dopo Washington, e poi sono stato a quel museo, lo Smithsonian» borbotta il Soldato, sbrigativo. «Va’ a svegliare gli altri».
Sharon aggrotta le sopracciglia, piccata dall’aver ricevuto un ordine così secco.
«Se Barton mi trova accanto al suo letto mi spara» aggiunge lui, con un accenno di sorriso e una nota di ironia che appartengono tutti all’uomo che era, al ragazzo caduto dal treno.
La ragazza sospira. «Anche questo è vero…» mormora, voltandosi e dirigendosi verso le scale.
«Sharon». Al Soldato fa ancora uno strano effetto usare nomi, nomi propri di persone e non codici per i bersagli.
Lei si volta a guardarlo con durezza, ha già un piede sul gradino.
«Quando tutto questo sarà finito, potrai spararmi. Qualunque sia il motivo per cui ritieni di doverlo fare».
La ragazza ha un leggero sussulto, china il capo; è abbastanza intelligente da sapere che non occorre negare e neppure trovare qualche risposta. Annuisce con un cenno e sale svelta di sopra.
Il Soldato resta ad ascoltare gli scricchiolii dei passi sopra la sua testa e il rumore delle porte delle stanze che vengono aperte. E poi qualcosa, un’interferenza, altri scricchiolii ma provengono dalla parte sbagliata, dalla porta di ingresso, all’esterno sul legno del patio.
Per un attimo lui serra la mascella e resta immobile, i sensi tesi ad ascoltare a tentare di dare forma al pericolo che ha intuito.
Porca puttana.
Si riscuote e corre di sopra, è in cima alla scala quando una scarica di proiettili sfonda la porta e la riduce a una cornice di legno con al centro squarci fumanti.
Il primo a comparire in mezzo al corridoio è Steve, lo scudo già in mano, Sharon alle sue spalle. Sam si fionda fuori dalla stanza; dalla seconda porta sulla destra escono Natasha e Barton, insieme. Se non altro hanno già le armi in pugno.
Paura, adrenalina, pugni chiusi e labbra serrate. Per lui è tutto nuovo, non ha mai temuto per la sua vita, né ha avuto accanto gente che temeva per quella della persona che gli sta di fianco.
Dovrebbe temere per tutti loro, come quando era un sergente della Centosettesima e combatteva per ciò che era giusto e pregava che a fine giornata il campo di battaglia fosse asciutto del sangue dei suoi compagni?
Alza gli occhi, quelli di Steve sono puntati su di lui. Sì, se accadesse qualcosa a uno di loro né Bucky Barnes né il Soldato d’Inverno potrebbero perdonarselo.
È certo che sia un pensiero quasi blasfemo, ma per lui il sangue di quella gente vale più di tutto il sangue che ha versato e di tutto il sangue dei suoi nemici; giura con se stesso che ne usciranno tutti vivi, dovesse andare a uccidere a mani nude ognuno degli ostili che sta facendo irruzione al piano di sotto.
«Cosa cazzo è stato?» esclama Sam, togliendo la sicura alla pistola.
«Mi hanno trovato» risponde cupo il Soldato.
«Di sopra. Adesso».
È la voce di Barton, secca e decisa. Sembra sapere esattamente cosa fare. 
L’ex agente dello SHIELD afferra Natasha per una mano e con l’altra si assicura la faretra alla spalla. Dove finisce il corridoio c’è una botola che porta in soffitta.
Fanno appena in tempo a salire tutti attraverso la scala a pioli che due uomini vestiti di nero e con fucili ad alta precisione arrivano all’ingresso del corridoio.
Steve richiude la botola e infila un paletto nella maniglia, per assicurarne la chiusura.
«Ok. E adesso?» borbotta Sharon, prendendo fiato.
Non c’è tempo per pensare. Dal piano di sotto arrivano gli spari, i proiettili attraversano il pavimento di legno, portandosi dietro una scia di fumo e schegge. Il suono rimbomba contro il tetto a spiovente e dentro le loro teste.
Paura, adrenalina, pugni chiusi e labbra serrate. Ma ancora non c’è sangue, possono ancora farcela.
Si appiattiscono contro il muro mentre la pioggia di proiettili continua, senza tregua. Ora stanno sparando alla botola, per cercare di aprirla.
Steve rompe il vetro di una finestra con lo scudo e guarda di sotto. La casa sarà sicuramente circondata, i loro nemici avranno fucili con i mirini illuminati o visori a infrarossi. Artigli della Morte che si nascondono nel buio del bosco, il Soldato non pensa a tutte le volte che si è nascosto allo stesso modo, nello stesso buio: una mossa vigliacca e sleale, la strategia di chi pensa solo a raggiungere un obiettivo, di chi non ha altro di cui preoccuparsi, neppure la propria incolumità.
«Albero» dice Sam, indicando i rami spessi che sfiorano la finestra.
Sì, forse può reggere, ma se escono allo scoperto, quelli che circondano la casa li vedranno e loro saranno un bersaglio fin troppo facile in bilico sui rami.
Il Soldato valuta la distanza tra il davanzale e il suolo. Non c’è tempo di pensare.
«Copritemi» dice. Non è sicuro che lo abbiano sentito, non è sicuro che lo faranno. Non gli importa.
Salta, passando nel rettangolo della finestra sfondata con l’agilità di un tuffatore, disegnando una parabola perfetta. Tende il braccio di metallo in avanti, atterra sul palmo della mano artificiale che attutisce l’urto e poi rotola con una mezza capriola, ritrovandosi già in piedi, già con la pistola nella mano destra.
La perfezione della fiera che si avventa sulla preda, gesti puliti e precisi di chi ha fatto della caccia la sua unica ragion d’essere. Lo hanno reso così; è bene che per una volta tanto torni utile.
Paura, adrenalina, pugni chiusi e labbra serrate. E l’efficienza più totale di un’arma forgiata nel dolore e nel ghiaccio per essere nient’altro che morte.
Ma stavolta può essere qualcosa di più. Stavolta può essere salvezza, anche se dovesse significare sacrificio.
È troppo veloce perché i colpi che gli sparano addosso riescano a colpirlo. Gli uomini sul retro della casa sono in sei, una misera sfida per il Soldato d’Inverno. Escono dall’ombra, avvolti in tute di kevlar nere, credono di essere letali e inesorabili come la notte da cui sono giunti, ma non ne hanno la grazia, sono addestramento e crudeltà senza istinto. Sono carne e sangue e nervi e paura.
Il primo cade, ma non per mano del Soldato. Una freccia sibila un istante in mezzo alla cacofonia di colpi d’arma da fuoco e colpisce con precisione quasi miracolosa il lembo di pelle scoperto tra il collo e la linea della mascella, dove il tessuto della tuta rendeva l’uomo vulnerabile.
Con la prima morte, gli altri cinque si fanno meno spavaldi, meno sicuri.
Il Soldato spara in successione contro ognuno di loro, conta gli spari tra un battito e l’altro. I colpi sono più veloci del suo cuore e del pensiero delle vittime, come sempre.
Gli uomini in nero cadono gemendo.
È successo tutto in una manciata di istanti. Per lui il tempo delle battaglie non rallenta e non si ferma, per lui quei secondi scorrono con la loro naturale velocità e non c’è alcun dio a incombere su quelle vite in sospeso.
Se conosce bene la resistenza di quelle tute, sa di non averli uccisi, ma ora almeno gli altri possono uscire dalla soffitta senza che qualcuno gli spari addosso.
«Muovetevi, dannazione» urla. Sopra di lui le stelle sembrano anche loro fori di proiettile, la luna è un filo di luce ricurvo, quasi un difetto contro il nero del cielo.
Steve si lancia, atterrando sullo scudo e ruzzolando contro il terreno. Quando si rimette in piedi ha lo sguardo sgomento.
«Sarei venuto a darti una mano, se me ne avessi lasciato il tempo»
«Una mano? È forse un gioco di parole?». Gli concede la tregua di un istante di ironia, è qualcosa che ha a che fare con il loro passato, quello lontano e sepolto sotto la neve, quello che lui teme e Steve rimpiange, ma glielo deve e forse lo deve anche a se stesso.   
«Smettetela di fare i cazzoni. Sto per saltare!». Natasha si alza in piedi sul davanzale. Anche lei ha quella grazia ferina e bellissima al limite dell’umano, ma ancora più splendida perché proviene da un meraviglioso corpo di donna. Si lancia e tende le mani, il Soldato le afferra, lei le stringe per un attimo, il tempo di darsi la spinta e atterra alle sue spalle.
«Io questo non lo so fare, ok? Steve?»
Sharon è titubante, in bilico sul davanzale. Sam alle sue spalle urla qualcosa e le dà una spinta «Scusami, ma stanno per entrare dalla botola».
Steve l’afferra, indugia un attimo a stringerla prima di posarla delicatamente contro il terreno. La ragazza sembra uno scricciolo contro il petto del Capitano; ha mente affilata e mano ferma, ha lo sguardo che taglia, ma quando i suoi occhi guardano Steve sono solo gli occhi di una ragazza.
Il Soldato sente l’istinto di voltarsi a guardare Natasha, ma non lo fa.
«Ehi, io non mi faccio prendere in braccio da nessuno» borbotta Barton, in cima la davanzale, valutando la distanza per aggrapparsi ai rami dell’albero.
Dietro di loro volano i primi colpi.
«Sta’ zitto, Clint!» ringhia Sam, afferrandolo per un braccio e trascinandolo oltre la finestra.
Per un attimo l’agente Barton sembra volare nel vuoto, ma Sam salta subito dopo di lui, le ali del suo prodigioso dispositivo mandano bagliori nella notte, prende l’uomo dello SHIELD per la cintura e in un paio di secondi anche loro sono fuori.
Atterrano accanto a steve, sollevando polvere.
Gli aggressori entrati in soffitta si affacciano alla finestra e prendono la mira.
Steve è più veloce dei loro proiettili. Lancia lo scudo e questo vola preciso contro le canne dei fucili che spuntano oltre il telaio di legno. Gli spari brillano con un lampo di fuoco e i proiettili volano verso l’alto.
Loro hanno il tempo di indietreggiare, lasciare che il buio e i cespugli gli facciano da copertura. È solo un ripiego e neppure troppo efficace ma è quello che basta a riprendere fiato.
«Devono essercene almeno altri sei là dentro» dice Sam.
«Non faranno in tempo ad avvicinarsi» sussurra Natasha. Scatta tra i rami, pistola in pugno e sguardo da apocalisse, non ha alcun bisogno di chiedere agli altri di seguirla.
Sharon è la prima a lanciarsi dietro di lei.
Donne, guerriere, streghe… al Soldato viene in mente la neve e un quadrato di terra battuta tra mura altissime. Non sa neppure lui il perché.
«Le stai guardando il culo? Sei davvero prevedibile come credevo, allora». La voce di Barton lo strappa ai suoi pensieri.
Lui gli rivolge uno sguardo truce. «Grazie per avermi coperto, prima» sibila.
Fanno il giro della casa. Gli uomini in nero si stanno affrettando a uscire per inseguirli, non si aspettavano che loro gli sarebbero andati contro e il fattore sorpresa si rivela un vantaggio insperato.
Sharon e Natasha aprono il fuoco prima ancora che loro arrivino sulla soglia.
Tre dei sei uomini sono già morti quando il Soldato riesce a vedere l’interno della casa, gli altri tre si sono barricati dietro al tavolo ribaltato.
«Dodici uomini non sono pochi per darci la caccia?» chiede Sam, quando si acquattano accanto agli scalini del patio per tenersi fuori dalla linea di fuoco.
«Pensavano che sarei stato da solo» ipotizza il Soldato. E sarebbero stati pochi comunque.
«Chi diavolo li ha avvisati?»
«Christine Pierce»
«Allora è vero, non l’hai uccisa» sussurra Steve.
Il Soldato arriccia le labbra e fa un cenno negativo. Contento adesso?
«Facciamo fuori quei tre, poi diamo una svegliata a uno dei cinque che sono rimasti stesi sul retro e ci facciamo fare un quadro della situazione» dice Barton.
«Farli fuori non è difficile. Voi teneteli in casa, al resto penso io».
Di nuovo, il Soldato non aspetta risposte o cenni di assenso.
I tre uomini rimasti sono già morti, e lo sanno. Si vede da come se ne stanno nascosti dietro a quel tavolo ribaltato, nei colpi disperati che sparano alla cieca senza avere il coraggio di uscire dal loro riparo improvvisato.
Al Soldato basta tornare sul retro della casa, sfondare la finestra che dà nell’ingresso e sparare tre singoli colpi. Tutto quello che resta poi è silenzio e l’odore salato del sangue quando il fumo si disperde.
«Ricapitoliamo, abbiamo sette cadaveri e cinque tizi svenuti» borbotta Sharon, quando torna un istante di calma.
«Dai, come squadra non facciamo così schifo» le fa eco Sam, stropicciandosi il viso con le mani e guardando la casa con aria cupa. Lui è uno di quei soldati a cui non piace uccidere, proprio come Steve, il quale dal canto suo pensa di dovere alla morte dei nemici il rispetto di un silenzio composto e severo.
Per il Soldato la morte è solo morte, sono solo corpi che cadono ai suoi piedi o figure che compaiono un attimo nel cerchio del suo mirino, per sparire l’istante dopo. Ma ora che ha rammentato la differenza tra nemici e ad amici, rispetta il silenzio contrito di Steve, la mascella serrata di Sam. Si avvicina al suo amico di un tempo e vorrebbe sorridergli, come forse avrebbe fatto Bucky, ma il sorriso non gli arriva alle labbra.
«Troviamo qualcosa per legare quelli rimasti là dietro, prima che si riprendano» dice Natasha.
Diversi minuti e imprecazioni più tardi, gli uomini sono legati mani e piedi tra le radici di un grosso albero, e cominciano pian piano a rinvenire.
Il Soldato non chiede il permesso di fare a modo suo, è abituato ad agire e basta.
Sveglia uno degli aggressori a suon di spintoni, aspetta che torni lucido e poi ne sveglia un secondo. Il primo uomo impasta la bocca, forse non fa in tempo a rendersi conto di cosa è successo.
Il Soldato gli spara alla testa. Lo schizzo di sangue disegna una virgola nera e lucida nel buio, contro il tronco di un albero.
Lui sente un senso di nausea serrargli la gola. Uccidere non gli è mai piaciuto, neppure quando era sotto il controllo dell’HYDRA, solo che allora non aveva mai avuto occasione di pensarci. Nasconde il suo disagio dietro uno sguardo di acciaio.
«Questo era tanto per chiarire la misura di quanto facciamo sul serio» dice, chinandosi di fronte al secondo uomo e sollevandogli il mento con l’estremità della pistola per costringerlo a guardarlo in viso.
Il prigioniero si contrae, sbianca.
«Non sappiamo niente, io giura» bercia con voce stridula, in un inglese stentato. «Ci hanno mandati uomini contattati da Inghilterra, Glasgow».
Sembra essere la verità - anche se Glasgow non è propriamente in Inghilterra.
Dopo il disastro di Washington anche l’HYDRA avrà dovuto far disperdere i suoi uomini, con ogni probabilità quelli mandati quella notte sono solo mercenari e i mercenari si fanno pagare cari, ma non abbastanza da rischiare davvero la vita e di certo non abbastanza da essere informati su tutto.
«Glasgow è tutto quello che sai?» chiede il Soldato con una nota di pazienza nella voce, quasi di dolcezza rassicurante.
L’uomo annuisce con foga. «Glasgow. Glasgow, io giura. Io giura…».
Il suo interlocutore dondola anche lui la testa in un cenno di assenso. «Sì, ti credo». Gli batte una mano sulla spalla, poi si volta verso i suoi compagni.
«Non riusciremo a saperne di più da questi qui» dichiara Barton.
«Glasgow è giusta, come indicazione. Prima che ci aggredissero mi sono ricordato di una cosa»
«Quindi, che si fa?» domanda Steve.
Il Soldato china il capo. Si fa quello che si deve, pensa.
Non guardarmi in quel modo, ti prego.
Non guardarmi affatto. Non guardarmi come se volessi strapparmi di dosso questa maschera da assassino, perché dietro non troveresti altro che un volto uguale.
Impugna di nuovo la pistola, per un istante indugia a guardare il bagliore scuro del metallo cromato. Ma i colpi che risuonano non partono dalla sua arma.
Natasha spara ai quattro uomini rimasti. Un secondo per ogni proiettile e nessun ripensamento.
«Dobbiamo andarcene da qui. La Forestale ha appostamenti ovunque, qualcuno potrebbe aver sentito tutto questo casino» dice.
Ora il Soldato non evita di guardarla. Le lancia un’occhiata nella penombra e fa un impercettibile cenno con il capo: grazie. Lei non dà segno di averlo colto, ma lui è sicuro di sì.
 
 
 
 
 

 
 
 
Note
Nel mio headCanon, Bruce è quello che ha aiutato Tony ad “aggiustare” Pepper alla fine di Iron Man 3 ed è il motivo per cui nella scena post-titoli di coda del film lo si vede insieme a Tony.
Glasgow non è per niente in Inghilterra, è in Scozia, il mercenario avrebbe voluto dire “Regno Unito”. 
 
Citazione iniziale dal brano “I hate everything about you” dei Three Days Grace

 

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Capitolo 11
*** Eleventh bullet - la casa delle illusioni - parte prima ***


Eleventh bullet: la casa delle illusioni
parte prima
 
So lead me back,
turn south from that place
and close my eyes from my recent disgrace
cause you know my call
 
GLASGOW
 
Sono le voci del porto a svegliarli, ancora prima della luce del sole, voci ruvide che parlano un inglese reso quasi incomprensibile da un accento strano e dalla fretta che accorcia le parole e fa saltare vocali come denti da un muso preso a pugni.
Steve apre gli occhi su un soffitto tinteggiato di un grigio che una volta doveva essere stato un azzurro pastello; anche i mobili della stanza hanno certamente conosciuto giorni migliori ma le lenzuola odorano di pulito e quel vecchio albergo ha qualcosa che ricorda le case di quando era ragazzo, dall’altro lato del mondo, all’altro capo della linea del tempo.
Forse è per questo che quella notte è riuscito a dormire, contro ogni previsione.
Forse era solo molto stanco.
Sente il frusciare delle lenzuola provenire dall’altro letto, sistemato oltre due comodini di legno chiaro, come una barriera che lo fa sentire in pace con il suo orgoglio di gentiluomo. Perché Natasha, che ha avuto la brillante idea di dividere il gruppo in coppie con identità e orari di arrivo diversi, ha deciso che lui e Sharon dovessero recitare la parte dei fratelli e chiedere una stanza unica, perché non possiamo sparpagliarci troppo, se succedesse qualcosa
Gli ha risparmiato battute sul fatto che quella è, tecnicamente, la prima volta che lui dorme insieme a una ragazza dagli anni Quaranta. La verità è che lui non aveva mai dormito insieme a una ragazza neppure prima, prima della guerra, prima di Captain America, prima di tutto.
Poi c’era stato quel mondo nuovo, c’era stata New York e una barista dai capelli biondi. Non era durata, non aveva retto la distanza e la tensione, l’ombra gigantesca del nome di eroe celato dietro la sua faccia da ragazzo.
A Steve sono rimasti ricordi dolci e rimpianti facili e la sua vita è andata avanti.
Ad ogni modo, volendo essere pignoli, l’espressione “dormire con una ragazza” in realtà implica tutt’altro che il semplice dormire. Questa è una cosa che non è molto cambiata dai suoi tempi.
Steve vorrebbe dire che ha altro a cui pensare per soffermarsi a riflettere sulla situazione dettata unicamente da necessità pratiche. Si chiede se il suo cervello starebbe ancora lì a piantare grane se quella dall’altro lato della stanza non fosse Sharon.
 
«Io penso che per lei valga la pena. Di certo tu per lei la vali, altrimenti non sarebbe qui»
 
Le parole di Bucky gli risuonano ancora nella mente. Sono parole che appartengono davvero al suo amico, a quello di un tempo, a quello che per credere in lui non ha mai avuto bisogno di alcun siero del supersoldato, di nessun nome famoso o faccia da copertina.
E non era mai successo che Bucky fosse in errore, non su di lui, no di certo.
Eppure Steve deve racimolare un bel po’ di coraggio per voltarsi verso il letto alla sua sinistra. Chi lo dice che gli eroi sanno sempre dove prenderlo, il coraggio? Che sentirsi un eroe è sempre stato solo un fardello: mai come in quel momento vorrebbe essere solo un uomo.
Allora forse non si troverebbe immischiato in quell’avventura, allora forse il suo cuore non sarebbe un pezzo di carne che gocciola ancora sangue da ferite irreparabili, sarebbe ancora quel qualcosa di puro e intatto da poter essere offerto a occhi che lo guardano come lo guarda ora Sharon, oltre l’orlo del lenzuolo.
«Buongiorno» dice lei. Lui le risponde con un cenno e un sorriso. «Credo di essere crollata, ieri sera, appena messo la testa sul cuscino»
«I letti non sono male».
È tutto quello che Steve riesce ad articolare. Poi pensa che ci voglia qualcosa di più gentile e più utile e che manifesti una vaga attitudine alla socializzazione. «Vuoi usare per il prima il bagno?».
Sarebbe stato più sensato leggere la brochure con gli orari dei pasti offerti dall’albergo.
Lei non sembra aspettarsi niente, comunque. Si limita ad annuire, «Grazie, faccio presto».
Scivola fuori dalle coperte con gesti rapidi. Hanno dormito con i vestiti addosso e il calcio della pistola ora è visibile al di sotto della sagoma del cuscino della ragazza.
Steve decide di togliersi dalla testa qualsiasi strana idea, con il rigore del soldato riesce anche nell’intento. Si alza dal letto e va verso la finestra, spiando fuori e osservando con attenzione il viavai di manovali, il lavoro lento e solerte delle gru che spostano container sopra grosse navi.
Non sembrano esserci minacce all’orizzonte. All’orizzonte c’è solo l’azzurro del cielo che va rischiarandosi e una vaga promessa di pioggia che riveste il mare di una patina d’argento.
Natasha ha già individuato un’agenzia per il noleggio di auto e memorizzato il percorso che li porterà dove i ricordi del Soldato suggeriscono. Forse tra meno di un’ora saranno tutti pronti per partire. 
Dopo lunghi minuti, Steve sente il suono della porta del bagno che si apre. Sharon esce tremante, con in viso un’espressione interdetta.
«Ok, la cattiva notizia è che pare che l’acqua calda non arrivi. Non mi sembra il caso di andare a litigare con l’albergatore, ma in un altro frangente gliene direi quattro».
Steve sorride. Lei continua.
«Dai, cazzo, è da criminali… Oh, scusa»
Lui scuote la testa. «Guarda che sono stato un anno al fronte in mezzo ai soldati, non mi turbano le parolacce».
Sharon nasconde il viso nei palmi delle mani, continua a scuotere la testa.
Steve pensa che non sono mai stati davvero da soli, a parte qualche manciata di minuti nel rifugio di caccia a Graz, quando lui le aveva portato i biscotti.
«Lasciami dare un’occhiata, magari c’è qualche valvola da aprire o qualcosa del genere» le dice, dirigendosi verso il bagno.
«No, ti assicuro che non c’è niente, ci ho guardato».
Benvenuto nel ventunesimo secolo, dove le donne non hanno bisogno di un uomo per far funzionare le cose.
Restano incastrati nella cornice della porta, faccia a faccia.
«Scusami» borbotta lui.
Lei fa per scansarsi e lasciarlo passare. Poi tentenna, appoggia le spalle al telaio di legno, accanto allo stipite. Sembra voler bloccare al muro l’uomo solo con lo sguardo - che lo faccia di proposito o no, le riesce.
«Mi permetti un’altra parolaccia?»
«Eh?»
«Fanculo».
Sharon gli posa le mani sul petto, lo spinge senza neppure troppa delicatezza contro il legno. Ma il bacio non è aggressivo, è dolce, paziente. È il bacio di una ragazza che chiede senza pretendere.
Steve le circonda le spalle minute con le braccia.
A volte le cose sono più semplici di quanto si creda. A volte le si deve lasciare accadere e basta.
Allora, sei imbarazzato?
No, per niente. È solo un’emozione nuova ed è lontana anni luce dall’imbarazzo.
 
 
***
 
La strada porta fuori dalla città, verso quartieri spogli che stemperano nel grigio di una zona industriale fatta di capanni squadrati tutti uguali.
L’odore della ruggine copre l’odore del mare.
Il posto in cui sono diretti è a una trentina di chilometri dall’albergo da cui sono partiti un quarto d’ora prima.
Steve, Sharon, Sam e Bucky sono nell’auto dietro di loro.
Natasha ha studiato il percorso dalle cartine. Il Soldato di Inverno è sicuro di ricordarlo.
«Secondo te, il Capitano e l’agente Carter ce l’hanno fatta?». Clint fa un sorrisetto da satiro mentre volta verso una stretta strada asfaltata.
«Puoi provare a chiederglielo»
«Ah, siamo di cattivo umore».
Natasha si volta a guardarlo in viso, cerca di scuotere la testa. Lui non merita il suo gelo, né quello dei suoi pensieri, quello è sempre stato un problema solo suo.
«Scusa, ho dormito uno schifo» risponde. «Se non ce l’hanno fatta stavolta, mi arrendo, giuro»
«Ammetto che non sapevo nascondessi doti da paraninfo»
«Ho lavorato con Rogers un sacco di tempo. Cercavo solo il modo di renderlo meno noioso»
«Povero Capitano, non è noioso. E comunque, le ragazze sa trovarsele anche da solo»
«Come? Bacia da schifo».
Clint scuote la testa, si lascia scappare una risatina. «Beh, domandalo alla barista di New York»
«Quale barista di New York?»
«Stark non ti ha mai detto niente?»
«Stark mi odia».
Clint ride di nuovo.
«Vedo che tu almeno sei di buon umore. Devo dedurre che stanotte tu e Barnes ce lavete fatta»
«Questo senso dell’umorismo becero? Te l’ha lasciato Fury in eredità?».
Il viso di Natasha si scioglie nel suo primo sorriso della giornata.
Lo sguardo di Clint si fissa sulla strada.
«Barnes. Credevo che tu fossi quella che lo chiamava per nome» dice lui, dopo qualche istante di silenzio.
No, ti prego, risparmiamela.
Clint ha il privilegio di saperle leggere lo sguardo e l’abitudine di abusarne. Le lancia un’occhiata che è insieme una bandiera bianca e una mano tesa.
«Spero tu abbia abbastanza stima del sottoscritto da sapere che non mi metterò a fare nessuna scenata di gelosia».
No, loro sono oltre quel genere di cose. E, ad ogni modo, non c’è nulla di cui essere gelosi.
«Mi sento solidale con lui. Tutto qui» dice la donna. Solidale non è il genere di parola che compare spesso nel vocabolario della Vedova Nera. «A te cosa ti ha spinto a non ucciderlo nel sonno, stanotte?»
«Non puoi uccidere nel sonno uno che non dorme».
La donna torna a guardare la strada. Spera che quella conversazione possa dirsi conclusa.
«È spezzato, Nat. Rotto dentro…» mormora Clint, e poi la frase gli muore sulle labbra. Nasconde l’esitazione gettando uno sguardo eccessivamente interessato alla cartina.
È rotto dentro e tu non sei brava con le macerie.
No, Natasha Romanoff non è brava con le macerie, non è brava a rimettere insieme i pezzi delle vite degli altri, lei è quella che va via quando le macerie sono un mucchio fumante e polveroso alle sue spalle. Ma quando guarda il Soldato non vede cocci rotti dalle forme spezzate e dai bordi sbriciolati, vede tasselli di un mosaico che possono essere ancora risistemati. E ha la tremenda e alienante sensazione di conoscere una parte del disegno di quelle tessere.
 
***
 
L’edificio è esattamente come lo ha sognato.
Il Soldato smonta dall’auto e lo guarda da lontano. È un pezzo di incubo piantato nel terreno, se ne sta lì, stagliato contro un orizzonte spoglio come un monumento alla memoria dell’orrore.
Sono successe cose tremende lì dentro. Il Soldato non riesce nemmeno a ricordarle con esattezza, ma le sente dare forma a un brivido che gli scivola lungo la schiena.
«Era qui che li ho addestrati, i tre soldati» mormora.
«E quante probabilità ci sono che ora siano lì dentro?» chiede Sam, cercando di nascondere il nervosismo.
Steve assottiglia lo sguardo con aria pensosa. «Hanno mandato uno di loro a distruggere il laboratorio di Philadelphia» dice. «E, presumibilmente un altro a uccidere Christine Pierce. Li hanno mandati in giro per il mondo a liberarsi delle zavorre. Forse non hanno fatto tutti ritorno alla base».
Le sole ipotesi puzzano di pericolo lontano un miglio. Sono lì, ma non sanno come entrare nell’edificio e cosa rischieranno, se anche dovessero riuscirci.
«Abbiamo un vantaggio, comunque. Loro non sanno che siamo qui, tutti noi» interviene Natasha. «Ora dobbiamo solo trovare il modo di entrare lì dentro».
«E il modo di uscirne, soprattutto» le fa eco Clint Barton.
Il Soldato guarda il sole alto della prima mattina fare da cornice al profilo dell’edificio. Comincia a pensare, e pensa a cose che non gli piacciono.
L’essere spiacevoli è una caratteristica ricorrente a parecchie cose necessarie.
«Credo dovremo provare a tornare di notte, con il buio forse sarà più facile avvicinarci» suggerisce Sharon. E ha ragione, ma una volta dentro, notte o giorno non farà alcuna differenza. «Non c’è nessun addetto alla sorveglianza all’esterno, questo vuol dire che come minimo è pieno di telecamere. Per entrare…».
«Entro io. Una volta dentro farò in modo di apriti le porte». Non è una proposta, il Soldato ha già deciso.
«E cosa ti fa credere di riuscire a passare?»
«Non devo passare, mi faranno entrare loro appena mi riconosceranno».
Steve ha un sussulto. «Ti vorresti consegnare? Non se ne parla»
«Infatti non dobbiamo parlarne, si fa e basta»
«E se non riuscissimo a tirarti fuori? Se ti facessero di nuovo quello che hanno fatto in tutti questi anni, se ti…»
se ti perdessi di nuovo?
Il Soldato sente il grido del ragazzo dal fondo dei suoi pensieri, vede di nuovo il cielo allontanarsi e le pareti del crepaccio inghiottire il Sergente Barnes che precipita dal treno. Sente l’inverno entrargli dentro dalla bocca spalancata dal grido e bruciargli nei polmoni.
Esattamente come tutte le volte in cui lo chiudevano nella capsula criogenica, un replay infinito della sua mancata morte.
Sente la voce di Captain America chiamare il suo nome con tutta la forza della disperazione, la mano tesa a sfiorare la sua ma comunque troppo lontano per salvarlo: è tremendo quanto rimorso possa starci in una distanza così breve.
Riemerge da quel turbinio di pensieri sentendo il sudore freddo incollargli alla schiena il tessuto della maglietta. 
«Non succederà. So che non glielo permetterai». Posa una mano sulla spalla di Steve, cerca di mettere insieme un sorriso incoraggiante, ma ha scordato come si fa.
Non glielo permetterai. Ma soprattutto, non glielo permetterò io.
Dalla strada si alza polvere di rena sottile e bianca che lascia una patina chiara sulla punta delle scarpe. I loro passi sul sentiero di ghiaia sono scricchiolii morbidi.
Dentro al silenzio che è improvvisamente calato tra la comitiva, il Soldato percepisce la tensione. Non hanno un piano e anche se passassero giorni a pensarci, non riuscirebbero a formularne uno. Sono in sei con poche armi e poche risorse, e una bella dose di mancanza di fiducia reciproca, ma non c’è altro modo, loro lo sanno e non importa se ora Steve sta spendendo un fiume di parole per cercare di convincerli che deve esserci un’altra soluzione.
Lui ha già deciso e loro lo sanno.
I brutti presentimenti sembrano incombere come l’ombra che il palazzo proietta sullo spiazzo vuoto che lo circonda.
Il Soldato ha il cuore saldo, ma Bucky Barnes ha paura.
Si volta a guardare Steve, lo fissa un istante senza che lui se ne accorga.
La fede e la paura nascono dalla stessa parte di cuore.
«Vengo a darti una mano» interviene Sam. Si sistema meglio in spalla il dispositivo con le ali robotiche e lo guarda come se non ammettesse repliche. È la risolutezza del soldato che non ha più spazio nel cuore per contare altre perdite. «Dovrei riuscire a salire abbastanza in alto da essere fuori dal raggio delle telecamere. Una volta sopra l’edificio, atterro sul tetto e vedo se riesco a entrare… al massimo, prima di cominciare le danze, aprimi una finestra».
Il Soldato riflette un istante. «D’accordo»  dice, infine, indicando una pineta spoglia a qualche decina di metri dalla recinzione. «Potete restare appostati tra quegli alberi. Quando sarà il momento ci sarà abbastanza casino da lasciare che quelli là dentro non si accorgano di voi che entrate»
«E come sapremo quando è il momento di entrare?» chiede Natasha. Aggrotta lo sguardo ferito dal sole e cerca i suoi occhi - occhi che il Soldato le nasconde.
Lui arriccia le labbra in un sorriso, sembra uno squalo che ha fiutato il sangue. «Lo saprete, immagino».
Alla fine fa un cenno come di saluto - è tutto a posto, posso farcela - prima di incamminarsi verso la strada che porta ai cancelli.
Steve è alle sue spalle e lui riesce a immaginarne il viso contratto per la tensione e il disappunto.
«Sta’ attento». Natasha allunga una mano, come per posargliela sul braccio, poi si ritrae.
State attenti voi.
 
***
 
Sam è partito da qualche minuto.
Il Soldato è una sagoma sempre più lontana in fondo al sentiero. Dopo qualche secondo si confonde con il profilo dell’edificio in lontananza e non riescono più a vederlo.
«Se la caverà».
Sharon cerca di imprimere a quelle parole tutta la convinzione di cui è capace.
Appoggia una mano su quella di Steve e le costa un grande sforzo guardarlo come se stesse pregando con lui, pregando per il Soldato di Inverno.
Quello non è il Soldato di Inverno. È un pensiero che ha appena imparato a contemplare, è un pensiero che le strappa la pace dal cervello ma le soffia pace nel cuore anche se la fa sentire smarrita.
Il Soldato è un demone troppo grande per lei e la ragazza non sa come fronteggiarlo. I suoi rancori bruciano come fuochi e fanno luce, ma le ombre che proiettano hanno forme diverse, indecifrabili, forme che perdono senso al pensiero della labbra di Steve sulle sue.
Quello non è il Soldato di Inverno. Non è il nemico contro cui cercare vendetta, non è la minaccia da fermare.
Perdere un nemico fa male quasi quanto perdere un amico. Quando guarda quell’uomo che somiglia sempre un po’ di più al vecchio compagno di Steve, sente il rancore fuggirle dalle mani.
E i rancori sono cose grosse, ingombranti, quando vanno via lasciano un vuoto e in quel vuoto Sharon sente la vertigine, il senso di smarrimento davanti al bivio.
«Se la caverà».
Nel profondo, ne è davvero convinta, e forse lo è anche Steve ma ha sofferto troppo, ha dovuto lottare per adattare la sua anima all’idea di quanto profondamente il suo amico Bucky sia cambiato, di quanto una parte di lui sia morta per sempre in quel crepaccio tra le Alpi.
Il rischio di perderlo di nuovo dev’essere un baratro spaventoso e lei vorrebbe poter fare di più. Ma alla fine non le resta che lasciare Steve con le sue preghiere mute.
L’agente Barton, una mano sulla fronte a proteggersi dal sole, sta seguendo con lo sguardo il volo di Falcon; le ali scintillano come fuochi d’artificio ad ogni battito nella luce di quel mattino terso.
«Le vorresti anche tu, ammettilo». L’agente Romanoff gli dà un buffo sul braccio.
«Lo scriverò nella lettera a Babbo Natale. E farò in modo che venga recapitata a Tony Stark».
Lei controlla il caricatore della pistola.  «Siamo quasi a secco» dice poi con un sospiro. «Spero che lì dentro ci siano armi con cui far scorta»
«Sperare che usciremo da lì e con delle armi, per giunta! Il tuo ottimismo è contagioso»
«Ce la siamo cavata in condizioni peggiori».
Sharon si rende conto che è lì in piedi, accanto a loro, a fissarli come se fossero a teatro. Quasi arrossisce per l’imbarazzo.
Loro sono quello che lei non ha avuto il tempo di diventare. Si chiede se la cosa ha ancora importanza e non riesce a darsi una risposta.
Alla fine, Natasha Romanoff si volta a guardarla. «Secondo lui moriremo oggi» borbotta. «E io in genere sono per la riservatezza, ma non posso morire senza sapere come è andata la serata».
Sharon spalanca gli occhi e impiega qualche istante a recuperare un’espressione serena. «Non sapevo fosse un appuntamento» lo dice in tono bonario, non riuscirebbe a usare un tono alterato con la Vedova Nera neppure se volesse.
«Beh, appuntamenti normali non sono mai riuscita a combinargliene». L’agente Romanoff sorride. Sembra incredibile a dirsi, ma diventa ancora più bella quando lo fa.
«Non è andata del tutto male, se proprio vuoi saperlo».
 
 
***
 
Sharon aveva ragione, è pieno di telecamere. Sono come minuscoli rapaci appollaiati in cima alla cancellata e ai lati della costruzione.
Il Soldato le vede spostarsi tutte nella sua direzione e resiste all’impulso di alzare gli occhi al cielo per vedere se Sam sia già arrivato.
Sospira con un movimento impercettibile e prosegue a passo lento e tranquillo verso l’ingresso.
È stato una marionetta nelle loro mani così a lungo, non può non essere in grado di fingere, di comportarsi come se lo fosse ancora.
Non importa quanto lo spaventi, quello che importa è che lì, oltre quella soglia comincia la sua vendetta e lui non vede l’ora che si colori di rosso.
Alza le mani e aspetta.
Il cancello automatico si apre stridendo, accompagnato dal lampeggiare di una lampada arancione.
Lui lo attraversa e vede già uomini armati accorre ad accoglierlo. Hanno giubbotti antiproiettile e fucili e caschi, in un attimo gli sono addosso come avvoltoi, con la solerzia delle api a cui è stato distrutto l’alveare.
«Fermo, mani in alto e non ti muovere!».
Lui obbedisce, è ciò che si aspettano, ciò che lo hanno sempre visto fare.
Gli uomini armati lo perquisiscono con gesti rudi, li lascia fare, arrendevole. Quello non è il benvenuto che meriterebbe la loro arma più preziosa, il loro gioiello di morte ed efficienza, ma dopo tutto quello che è successo è naturale che non si fidino. 
Il sangue gli pulsa nelle tempie.
«È pulito, non ha armi» dice uno degli uomini nel microfono che tiene appuntato al giubotto.
Il Soldato sente una voce rispondere attraverso un auricolare.
«È calmo?»
«Sì, signore. Sembra assolutamente collaborativo»
«Portatelo dentro».
Quello che sembra essere il capo della squadra, picchietta la canna del fucile contro la spalla per fargli cenno di camminare.
Circondato da armi e facce ostili, il Soldato attraversa il cortile spoglio dell’edificio, fino al portone di ingresso.
Due ante di metallo e spesso vetro scuro si aprono al loro passaggio. Lui si lascia inghiottire dalla penombra di una grande anticamera, e spera.
 

 
 
 
 


 
Citazione iniziale dal brano “Ghost that we knew” dei Mumford and Sons. 
A venerdì prossimo con l'aggiornamento ^_^

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Capitolo 12
*** Twelfth bullet - la casa delle illusioni - parte seconda ***


Twelfth bullet: la casa delle illusioni
parte seconda
 
"So give me hope in the darkness that i will see the light
cause, oh, that gave me such a fright
but I will hold on with all of my might
just promise me that well be alright"
 
GLASGOW
 
Dentro al palazzo fa freddo, o forse è solo una sensazione.
Fare leroe non è facile come credevi, vero, Soldato?
Camminare dentro quell’edificio gli dà l’impressione di sprofondare, ma continua a mettere un piede avanti all’altro.
Sam ormai dev’essere atterrato sul tetto. Fuori di lì ci sono Steve e Natasha e lui si fida di loro.
È una fiducia che non lo scalda abbastanza da farlo sentire al sicuro e se avesse tempo di pensarci forse si sentirebbe in colpa per questo.
Nel chiuso di un grande ascensore, stretto tra gli uomini armati e le canne dei loro fucili, il Soldato si sente soffocare.
Si immagina voltarsi di colpo, afferrare le estremità delle armi da fuoco e ucciderli. Sarebbe facilissimo liberarsi di loro, potrebbe farlo nei pochi secondi che l’ascensore dovrebbe impiegare ad arrivare al piano designato. Da fuori sentirebbero le grida e gli spari ma non potrebbero fare niente, le porte automatiche si aprirebbero su uno scrigno di sangue e polvere da sparo, carne lacerata e occhi vitrei.
Ricorda la sensazione del sangue che schizza sulla pelle, è caldo, appiccicoso. Quando si asciuga diventa difficile da lavare via.
Il pensiero gli fa accelerare il battito nella spinta di una strana euforia. Essere un assassino è qualcosa che ti porti dentro, si scrive sotto la tua pelle, nei muscoli e nel cervello e non c’è modo di cancellarlo, è come il ritornello di una canzone che puoi ripetere uguale anche dopo tanto tempo che non l’ascolti. È una musica che ti dà sempre la tentazione di farsi ballare.
Si è creduto migliore di così, ma non lo è.
È quello che c’è nella sottile distanza tra la mano di Steve tesa ad afferrare la mano di Bucky, pochi centimetri di salvezza mancata diventati voragine di inferno.
Le porte dell’ascensore si aprono senza alcun rumore. Gli uomini armati lo scortano fuori.
Fuori è una grande stanza bianca e asettica, una specie di ambulatorio medico in qualche grosso ospedale cittadino. Ma quello è certamente un posto dove i medici non curano.
L’uomo che viene loro incontro ha la cima del capo calva e lucida, ad altezza delle orecchie una chierica di capelli bianchissimi scende fino quasi alle spalle. Gli occhi troppo distanti ai lati del naso aquilino sono piccoli e chiari, occhi velati da vecchio.
Il Soldato sa di conoscere quell’uomo ma non ne rammenta il nome. Stringe appena le palpebre e cerca di concentrarsi sul suo viso rugoso, ma i ricordi sono sigillati dietro una cortina di terrore che gli rimbalza nel petto nel momento in cui vede la sedia collegata al dispositivo che usavano per le sedute di elettroshock.
Cose terribili sono successe in quel posto, e forse non solo a lui.
L’uomo deve essere un medico o uno scienziato, non è tanto un ricordo quanto un’intuizione. Il Soldato vede il camice bianco ripiegato e appoggiato allo schienale della sedia.
Il dottor - qualunque - sia - il - suo - nome - gli si avvicina, gli prende il mento tra le dita e gli scruta il viso, poi sorride.
«E così, sei tornato». Il Soldato non si stupisce di sentirlo parlare in russo, con l’accento un po’ annacquato di chi ha passato troppo tempo lontano dal suo paese d’origine.
«Questo era il punto di raccolta per le emergenze» gli risponde, asciutto e con la voce spenta. Durante i suoi anni di servizio, quando l’HYDRA lo mandava in missione, c’era sempre un luogo specifico in cui avrebbe dovuto far ritorno se le cose si fossero messe male o se avesse perso la sua squadra. Punti nevralgici sparsi in tutto il mondo, lontani dagli occhi dello SHIELD, dove avrebbe trovato del personale a prendersi cura di lui.
Ha il vago ricordo di una volta in cui invece di tornare, era partito spinto da chissà quale istinto, ed era tornato a Brooklyn. Ma all’epoca non c’era niente a cui fare ritorno. E poi loro lo avevano trovato e se l’erano ripreso, ci riuscivano sempre - in un certo qual modo ci sono riusciti anche stavolta.
«Era questo?»
«Sì, signore».
Lo scienziato annuisce, poi gli batte una mano sul petto come in un gesto paterno. Si volta, attraversa la stanza e va a sedersi sulla sedia dove tiene appoggiato il suo camice.
«Cosa è successo a Washington? Ti credevamo disperso» domanda.
Il Soldato capisce che può fingere quanto vuole, ma quell’uomo sa. Sa, perché Christine Pierce li ha avvisati.
Non importa, deve guadagnare tempo.
«Gli Helicarrier sono esplosi. Ero a bordo di uno dei tre, cercavo di fermare Captain America, era la mia missione. Poi con l’esplosione siamo entrambi caduti nella baia, non so cosa ne sia stato di lui»
«Sì, sì, so quale era la tua missione. Per quello che ne sappiamo, Captain America è ancora vivo, è stato avvistato in uno dei nostri laboratori di Philadelphia. Dopo l’increscioso disastro degli Helicarrier abbiamo sgomberato molte delle nostre basi, ci stiamo preparando a sgomberare anche questa… come quella di Graz. Ci sei stato, no?»
«Cercavo risposte».
Lo scienziato lo guarda con un sorriso mellifluo: non è quello che la Pierce ci ha detto. «E le hai trovate?»
Ho trovato qualcosa di meglio delle risposte, a Graz. «No. È per questo che sono qui».
«Avevamo mandato una squadra a cercarti. Non sono ancora tornati e sono tre giorni che non abbiamo loro notizie».
Avevate mandato una squadra a uccidermi.
Lo scienziato congiunge le mani lunghe e ossute, sospira e sposta lo sguardo di lato, contro il muro bianco. Muove gli occhi e arriccia leggermente le labbra di tanto in tanto, come in un muto dialogo con se stesso.
Il Soldato sa a cosa sta pensando. Si sta chiedendo se deve uccidere la loro meravigliosa arma ormai difettosa o se deve provare ad aggiustarlo. Alla fine sembra propendere per la seconda opzione. Fa un cenno agli uomini armati rimasti alle spalle dell’intruso.
Uno di loro gli afferra con forza il polso destro, un altro gli punta la pistola alla nuca.
«Un solo sguardo che non mi piace e sei morto» dice lo scienziato. La sua voce ora suona più gelida. «In questo momento sei più pericoloso che prezioso». Indica con un cenno la sedia, sembra uno strumento di tortura antichissimo, di quello per la caccia alle streghe, ma il Soldato sente già l’elettricità sfrigolare nei cavi e sa che è molto peggio di qualsiasi altro orrore mai progettato da mente umana.
Steve mi troverà. Pensa stringendo il pugno, come se potesse arpionare quel pensiero e trattenerlo fino a farlo diventare realtà con la sola forza della speranza. Mi troverà di nuovo.
Non tenta di combattere: è veloce ma non più veloce di un proiettile sparato direttamente al centro del suo cervello. Eppure oppone resistenza, non ci salirà con le sue gambe su quella sedia.
Uno degli uomini gli picchia violentemente il calcio del fucile in mezzo alle scapole, spezzandogli il respiro. È abituato al dolore, ne può sopportare più di chiunque altro, ma quel colpo lo fa sbilanciare e lo fa cadere in avanti, in ginocchio.
È un’umiliazione che brucia più della paura.
Lo sollevano in due e lo spingono sulla sedia. Ora sa cosa succederà, sa che arriveranno artigli di metallo a bloccargli le braccia e poi l’elettricità che brucia come il ghiaccio tenuto troppo a lungo sulla pelle.
Chiude gli occhi un istante. C’è rosso dietro le sue palpebre, un rosso che si accende in mezzo al nero, come il colore dei capelli di Natasha.
I circuiti attorno alla sedia sibilano.
E poi tacciono di colpo e tutto diventa buio.
 
***
 
«Perché mi segui?».
Si sono lasciati alle spalle il cimitero, la tomba vuota di Nick Fury e gli occhi di Natasha Romanoff pieni di un senso sottile di sconfitta e impazienza.
Lestate comincia a stemperare nellautunno, c’è un tappeto rado di foglie cadute sotto i loro passi.
La domanda di Steve non può restare senza risposta.
«Quando sono tornato dalla guerra e ho cominciato ad occuparmi dei veterani mi sono reso conto quanto ci sia costato servire il nostro Paese. Ho sperato che non fosse stato per niente, tu hai reso fondate le mie speranze».
 
Sam atterra sul tetto.
Le ali si ripiegano alle sue spalle e lui resta fermo ad aspettare. Tende le orecchie e cerca di ascoltare se dal silenzio spezzato dal suono del vento arrivano segni di passi, se lo hanno visto arrivare e qualcuno sta venendo a prenderlo.
Non sente niente. Se non il battito del suo stesso cuore che gli martella nelle orecchie.
Quella non è tanto diversa da una missione di salvataggio e lui ne ha già fallita qualcuna. Qualcuna di molto importante, per giunta. 
Si chiede come se la stia cavando il Soldato al piano di sotto. Pensa che in tutto quel tempo non gli è ancora capitato di chiamarlo per nome. Bucky Barnes se lo merita, merita quel nome e tutto quello che gli è stato strappato via.
Sam ammette con se stesso di essere stato in errore. Non è il genere di persona che va fermata e forse neppure il genere di persona che va salvata, a salvarsi sembra che ci stia riuscendo da solo, percorrendo strade buie tortuose forse, ma ne uscirà vivo. Sam ci spera, e stavolta non è solo per Steve.
Per adesso, comunque sta a lui tirarlo fuori dai guai. O fare in modo che non arrivi affatto a ficcarsi nei pasticci.
Sul tetto c’è la cabina con il generatore di corrente dell’intero palazzo. Gli sembra un’ottima idea, così a naso.
Spegnere la corrente permetterà a Steve e agli altri di riuscire a entrare nel palazzo senza essere visti. Quando qualcuno salirà sul tetto a controllare il generatore, lui sarà già volato via.
Abbassare le leve del generatore e spegnere gli interruttori è facile. Sam spara un colpo di pistola in aria e spera che gli altri capiscano che è il segnale che stavano aspettando.
Il difficile viene adesso.
 
***
 
Sussultano quando sentono lo sparo.
Steve stringe più saldamente il suo scudo. «Se non è un segnale quello…»
Natasha annuisce con un cenno secco. «Muoviamoci».
Corrono verso l’edificio. Captain America è qualche metro avanti agli altri tre, come sempre.
Sente una paura tremenda agitarsi nello stomaco. Forse è perché in quella missione disperata si sta giocando tutto ciò a cui tiene, tutto ciò che gli è rimasto.
Sente i passi di Sharon alle sue spalle. Vorrebbe giurare a se stesso che non le succederà niente, che non succederà niente a nessuno di loro, ma il suo cuore gli impedisce di fare promesse che non sa se sarà in grado di mantenere.
Dentro l’ombra grande e scura proiettata dall’edificio sul terreno chiaro, Steve Rogers si sente minuscolo contro mostri giganti.
«Non c’è elettricità nel palazzo» dice Sharon indicando le telecamere inclinate verso il basso, puntate contro il terreno come uccelli dal collo spezzato.
«Wilson mi ruberà il primato di falco capo se continua così» dice Clint, scherzando.
Steve rompe la serratura del cancello con lo scudo. L’urto produce scintille e schegge di metallo.
Nell’atrio del palazzo li accolgono in quattro. Una raffica di proiettili illumina il buio ombroso.
Prima che Steve riesca a lanciare lo scudo contro gli uomini armati di fucile, Natasha e Sharon ne hanno già atterrati tre a colpi di pistola. L’ultimo viene colpito al petto dallo scudo, urta contro il muro e perde i sensi.
«Come troviamo Bucky?» chiede Steve.
«Dividiamoci in due coppie» dice Natasha. «Io e Clint sui piani più bassi, tu e Sharon su quelli di sopra».
Si lanciano di corsa sulle scale, trattenendosi alla ringhiera per non inciampare nel buio che si fa sempre più pesto man mano che salgono.
Alcuni di quei piani hanno finestre chiuse, sbarrate dall’interno e con la mancanza di elettricità non arriva un solo filtro di luce.
Natasha e Clint si fermano al primo piano. Lui butta già la porta con un calcio.
Steve e Sharon continuano a salire. Non sentono rumori provenire dabbasso, quindi forse i piani inferiori sono vuoti.
Bucky, dove sei?
 «Steve!». Natasha ha trovato una torcia da qualche parte. Si affaccia e loro la vedono avvolta da un alone di luce bianca, affacciata alla tromba delle scale un paio di piani più in basso. «Qui di sotto è tutto vuoto. Stavano sgombrando anche questo posto come hanno fatto con il laboratorio di Graz».
«Allora forse ci sarà anche poco personale armato di cui preoccuparci» riflette Sharon.
Steve annuisce. «Continuate a cercare».
 
***
 
…e tutto diventa buio.
Grazie, Sam.
Il Soldato sorride, se potessero vederlo in viso, i suoi nemici scapperebbero davanti al quel ghigno da predatore, gelido e ferino.
Il buio è esattamente ciò di cui aveva bisogno, l’attimo di sorpresa degli uomini armati gli permette di colpirli. Molla calci alla cieca e allontana due di loro.
Nel buio gli spari sono lingue di fuoco rosse che durano meno di un battito di ciglia. Sembrano fare ancora più rumore.
Non importa, non possono vederlo e il busto dei colpi gli fa percepire le loro posizioni e le loro mosse. Stanno sparando alla cieca e lui ha tutto il tempo di alzarsi da quella dannata sedia e gettarsi all’indietro, riparandosi dietro lo schienale imbottito.
Sente i passi barcollanti di un uomo. Allunga piano il braccio verso di lui e gli afferra la caviglia; l’uomo cade, il Soldato sente il fragore del suo fucile che urta sul pavimento, a tentoni riesce ad afferrarlo, mentre con la mano sinistra tiene l’uomo bloccato a terra.
Seguendo il suo respiro, il Soldato trova la testa e gli cala un pugno violentissimo in mezzo alla faccia. Sente il sangue schizzare, quasi ne sente l’odore mentre si sparge sul pavimento.
Sente il braccio di metallo muoversi in modo meno fluido, come un arto intorpidito. Lo aveva detto a Natasha, che aveva bisogno di manutenzione. Spera solo di reggere fino a quando non saranno tutti fuori da lì.
Strisciando sul terreno si allontana. Dietro la sedia c’era un armadio, lo ricorda, con l’istinto addestrato alla sopravvivenza riesce a figurarsi la stanza e le vie di fuga. Rotola dietro l’armadio e si mette al riparo.
Nel buio sente la voce dello scienziato gridare qualcosa. E poi altri spari.
Per quando sarà tornata la luce, avranno finito i colpi. Lui invece ha ancora il fucile che ha preso dall’uomo caduto.
Aspetta. Si appoggia con le spalle alla fiancata dell’armadio. Sente di essere fradicio di sudore, non se ne era reso conto fino a quel momento.
Poi torna la luce. Si riaccendono le lampade e i pensieri del Soldato si spengono: torna a essere macchina da guerra, arma, fatta di forza e istinto e mira perfetta.
Scatta in piedi, spara agli uomini rimasti.
Un paio di proiettili fanno in tempo a colpirlo di striscio al fianco e alla spalla. Qualcuno gli fora la manica sinistra della maglia e rimbalza contro il braccio di metallo.
Alla fine, si ritrova con il fiato corto a guardare i cadaveri riversi sul pavimento e gli schizzi di sangue contro il muro bianco, come papaveri e sorrisi di pagliacci disegnati da un bambino maldestro.
Lo scienziato se ne sta rannicchiato dietro una scrivania. Ora è lui ad essere impaurito, terrorizzato.
È straordinario come certi ruderi, con l’armadio sicuramente piano di scheletri che terrebbero sveglia la notte qualsiasi persona normale, abbiano un tale attaccamento alle loro vite miserabili.
Il Soldato gli si avvicina, lo afferra per il bavero e lo mette in ginocchio sul pavimento. Il vecchio si lascia sollevare come una bambola, inerme tra le mani del nemico.
«Aspetta… aspetta. Volevi risposte, hai detto, io posso darti tutte le risposte che vuoi» piagnucola.
Lui lo guarda con un sorriso colmo di disgusto. «Di’ il mio nome».
Gli occhi dello scienziato si spalancano come per un colpo improvviso. «Come?»
«Dì il mio nome».
Il vecchio si umetta le labbra rattrappite dagli anni. Esita poi scuote il capo. «Non lo conosco, non l’ho mai saputo» ammette.
Il Soldato getta il capo all’indietro, solleva l’uomo e lo mette in piedi. «È Bucky Barnes» sibila a un palmo dal suo viso. Punta il fucile verso il basso e gli spara a una gamba.
Lo scienziato crolla sul pavimento, ruggendo di dolore. Il ruggito si trasforma in grido e poi in piagnucolio.
Quando rimangono solo singhiozzi sommessi, il Soldato gli spara anche all’altra gamba.
«Risposte me ne darai comunque» gli dice.
Il sangue è un’eruzione color porpora dai crateri frastagliati aperti dai proiettili, tra la carne maciullata e le schegge di osso.
Il dolore fa sbiancare il viso del vecchio e gli fa scendere gocce di sudore dalle tempie.
«C’è un piano, ci deve essere un piano, dopo Washington» il Soldato parla lentamente, con voluta noncuranza.
Lo scienziato si contrae debolmente.
«E ora… ti aspetti che… ti dica…» ansima.
«Se mi dici quello che voglio sapere, farò in modo che tu non muoia dissanguato» mormora il suo interlocutore. «Se non me lo dici…»
Appoggia appena la punta della scarpa su una delle ferite del vecchio e spinge leggermente.
L’urlo è da spaccare i timpani.
«Stiamo sgombrando… i laboratori in Europa… sapevamo che dopo Washington… sarebbero venuti a cercarci, qualcuno sarebbe venuto»
«Sgombrando per andare dove?»
«Tornare in America. In un’altra base… credo a Boston» 
«A fare cosa?»
«C’è un progetto con dei dati che aveva sottratto allo SHIELD… ma non ne so niente… io non mi occupavo di queste cose, te lo giuro». Un rivolo di bava cola dall’angolo della bocca del vecchio, si mischia alle lacrime che gli rigano le guance magre. «Io mi occupavo di voi durante il vostro addestramento. Ti prego…».
Il Soldato percepisce un movimento al limite del suo campo visivo. Sposta la testa di scatto e si rende conto che sulla scrivania accanto alla quale è steso lo scienziato ci sono dei monitor per la sorveglianza di altre sezioni dell’edificio.
In uno dei monitor vede l’immagine di Steve e Sharon che entrano nell’unica porta del terzo piano, un paio di scalinate più in basso. Quando l’inquadratura cambia e mostra cosa c’è nella stanza, il Soldato si morde il labbro a sangue.
«Ti prego…» ripete il vecchio, richiamando la sua attenzione.
Il Soldato prende un lento respiro, cerca di calmarsi e di tornare a far funzionare il cervello. Deve andarsene da lì, deve andare ad aiutare Steve e Sharon prima che sia troppo tardi.
«Ti prego…»
«Oh, fanculo» mormora, guardando il vecchio negli occhi prima di sparargli un colpo alla testa.
 
***
 
Sono spalle al muro, in un vicolo cieco in fondo a un corridoio, dietro un angolo senza uscita che è il loro ultimo riparo.
Come ci sono finiti? È stato tutto molto confuso e veloce. E lui ha anche battuto la testa contro il muro, inciampando mentre correva.
«Questo è tutto il personale della base?» domanda Clint.
«Quello che c’è rimasto, almeno. Dev’essere successo un gran casino di sopra» risponde Natasha.
Parlano nella pausa di silenzio tra uno sparo e l’altro, schiacciati dietro una parete.
«E ce li siamo beccati tutti noi» esclama Clint, alzando gli occhi al cielo.
«Pare di sì»
«Se ci lascio le penne per salvare il culo a Barnes giuro che il mio fantasma lo perseguiterà tutta la vita. E perseguiterò anche te»
«Cosa ti fa pensare che io ti sopravviva?».
Clint la guarda senza rispondere.
Non potrebbe essere altrimenti. Non potrei mai sopportare il contrario.
Gli spari cessano. Hanno contato dieci uomini - e sì, possono ripetersi che ne hanno passate di peggiori ma sono comunque dieci contro due.
Se non altro, stanno tenendo lontani quei tizi dai piani alti, dove Rogers e la Carter stanno cercando Barnes. È già qualcosa, è quello che sono abituati a fare: quel dannato lavoro sporco che poi alla fine è sempre e comunque una questione di guardare le spalle a chi non può farlo da sé.
Clint incocca un dardo esplosivo. «Nat, dammi il mezzo secondo che mi serve a scoccare» dice.
Natasha si china piano sulle ginocchia. Rotola verso l’esterno con una mezza capriola, si tiene bassa per evitare i colpi che sicuramente i nemici spareranno ad altezza d’uomo, di istinto.
Infatti sparano ma non la colpiscono. Il secondo di sorpresa è quello che basta a Clint per scoccare la freccia.
Il dardo esplosivo disegna una curva appena accennata, salendo di un paio di metri verso il soffitto e poi atterrando ai piedi di uno degli uomini.
L’arciere si getta su Natasha, le fa da scudo e la stringe a sé.
La detonazione fa tremare le pareti e solleva un muro di fumo tra loro e i dieci uomini armati.
Clint spera che sia abbastanza da stenderli.
Quando il fumo si dissolve, gli uomini sono a terra, alcuni hanno ancora le pistole tra le mani. Forse qualcuno di loro è morto, sarebbe comunque il caso di sparare un colpo in testa a tutti, per sicurezza.
Natasha tiene gli occhi fissi sulle loro pistole. Gli servono armi e quel posto ne è pieno. Ma gli serve anche trovare Barnes e gli altri.
Si avvicinano ai corpi ammassati a bloccare la strada verso l’uscita. Li guardano con circospezione. Si chinano a raccogliere le armi, con calma, cercando di non svegliare qualcuno che non sia abbastanza tramortito.
Natasha infila due pistole nella cintura davanti e una dietro.
«Sai, non mi piacerebbe per niente morire prima di te» gli dice all’improvviso.
«Se lo SHIELD non fosse andato, penso che avremmo potuto sperare in un compromesso e magari morire assieme» replica lui, in tono sarcastico.
Ti amo. Non lo dice, non ne ha bisogno, lo ha detto una volta in passato e lei sa che era una di quelle valide per sempre. Non importa se lei gli è scivolata dalle mani e i suoi sguardi dicono che presto potrebbe appartenere a qualcun altro.
Con la coda dell’occhio, Clint vede qualcosa muoversi. Un uomo davanti a loro solleva il braccio con ancora la pistola tra le mani, punta verso Natasha.
I pensieri lo hanno reso lento e distratto.
L’istante prima dello sparo è un battito di cuore, quello che Clint sente mancare. E un attimo veloce e lui percepisce il suono dei vetri rotti come se arrivasse da un posto lontanissimo.
Lo sparo parte, ma non dalla pistola dell’uomo.
Natasha ha un sussulto e di istinto si getta di lato.
Sam entra dalla finestra, con ancora la pistola tra le mani, le ali di Falcon si ripiegano su loro stesse e spariscono.
«A quanto pare devo fare tutto io, oggi» dice.
«Cazzo…» Clint sibila, poi si passa una mano sul viso. «Sei ufficialmente il primo pennuto della squadra, io non posso che inchinarmi e lasciarti il primato»
«Grazie, fratello» replica lui con una smorfia. «Dove sono gli altri?»
«Bella domanda». 
 
***
 
Sharon sente i palmi delle mani sudati attorno al calcio della pistola.
Steve apre la porta con cautela. È una di quelle porte con l’apertura elettrica, l’unica su tutto il pianerottolo, oltre la soglia c’è una stanza completamente vuota, enorme, probabilmente grande come l’intero perimetro del palazzo.
La stanza ha le pareti di pannelli di strano materiale grigio e lucido, al centro c’è una grossa colonna piena di sportelli chiusi.
«Cos’è questa roba?» domanda la ragazza aggrottando le ciglia.
Steve si sporge oltre la soglia e guarda meglio all’interno. Il modo in cui sono montati i pannelli grigi alle pareti e sul pavimento crea uno strano effetto di profondità e fa sembrare quello spazio vuoto ancora più immenso. Le finestre sono coperte da teli, anche loro di un materiale strano che non avevano mai visto prima.
«Non importa. Bucky non è qui». Steve fa per uscire, ma sentono un rumore strano provenire da dietro la colonna.
Sharon alza la pistola, pronta a fare fuoco su qualsiasi cosa esca da lì dietro.
Fanno un passo verso l’interno della stanza e la porta si chiude alle loro spalle.
Steve si volta di colpo e tenta di riaprirla, inutilmente. Dentro la stanza non c’è il comando per aprire quella specie di portellone ora sigillato.
Si guardano in viso, perplessi, poi nell’aria sale uno strano odore come di plastica bruciata e polvere. Sharon sente un leggero capogiro e si porta una mano alla tempia. Strizza gli occhi.
«No, non è possibile…». Afferra il braccio di Steve che ha il volto impietrito e guarda avanti a sé come se lo stupore gli avesse tolto l’uso della parola.
Quello che ora hanno davanti non è più la grande stanza vuota, ma è una foresta. Anche il caldo torrido e appiccicoso è quello di una foresta tropicale, persino i suoni sembrano reali ma non possono esserlo.
«Ologrammi…» mormora Sharon. «Sapevo che c’erano dei progetti per creare delle camere come questa, per l’addestramento degli agenti, ma era solo un prototipo… credo fosse stato scartato perché il dispositivo emetteva radiazioni pericolose o qualcosa del genere»
«Il dispositivo, è quella colonna al centro?»
«Credo di sì».
Steve si riscuote e si avvicina a una pianta dalle grosse foglie di un verde lucido e perfetto. La tocca, prova a spezzarla. Quando la stacca dalla pianta la foglia sparisce.
«Se troviamo il dispositivo, possiamo spegnerlo» dice Sharon. «Almeno credo. Non penso sia salutare stare qui dentro»
«Deve essere qui che Bucky ha addestrato gli altri. Perché l’hanno usata se è malsana»
«Forse i supersoldati sono protetti dalle radiazioni. Spero che domattina non mi sveglierò con un cancro». Ammesso che ci arrivi, a domani mattina.
«Ti farò uscire da qui, te lo prometto. Dobbiamo solo trovare il dispositivo» risponde Steve, con una dolcezza che fa pensare a Sharon che potrebbero restare lì dentro per sempre, solo loro due, nell’illusione di quella foresta perfetta, in totale pace.
Sono unidiota!
Trovare il dispositivo non sembra così facile in mezzo a quel labirinto di alberi e piante e liane.  
Sentono un rumore all’improvviso, suono di passi.
«C’è qualcuno qui…» sibila Steve.
Fanno in tempo a percepire una figura spuntare tra gli alberi. Una figura umana, e armata.
Il Capitano afferra la ragazza, se la stringe contro, riparando entrambi con lo scudo. La figura gli svuota contro l’intero caricatore.
Sharon conta i colpi che rimbalzano contro lo scudo di vibranio. Quando sa che sono finiti si sporge oltre il braccio di Steve e lo vede.
È un uomo alto e muscoloso dai capelli biondi. Ha lo sguardo spento ed entrambe le braccia di metallo, uguale a quella del Soldato di Inverno.
«È uno dei tre che diceva Bucky» esclama, tirando Steve per una manica. Corrono dietro un albero - un’illusione di albero - dal tronco spesso e cercano di riprendere fiato e di riprendersi dallo stupore.
«E credo proprio che non sia un ologramma».
L’illusione tremola per un momento, la foresta diventa trasparente.
Sharon sente la mano di Steve cercare la sua.
«Steve!» La voce del Soldato di Inverno fa eco nella camera, al di sopra dei rumori della foresta.
Si spostano e cercano di guardare nella direzione da cui è arrivata la voce.
Il Soldato è sulla soglia della porta, un fucile nella mano e macchie di sangue sulla maglietta strappata sul braccio sinistro. Non deve aver passato dei bei quarti d’ora, ma almeno è ancora se stesso.
Con un pugno del braccio meccanico rompe il pulsante di apertura esterno alla porta, poi si fionda nella stanza e si para tra loro e l’energumeno biondo.
«Arkady!» lo chiama per nome.
Sharon guarda Steve come se volesse chiedergli se lui ha idea di cosa sta accadendo. 
«Tu? Avevano detto che eri morto». L’energumeno biondo sa parlare, anche se lo fa con una voce spenta e un po’ strascicata, quasi lagnosa.
«Mi sono salvato» continua il Soldato. «Puoi salvarti anche tu».
L’apertura forzata della porta deve aver mandato in tilt il dispositivo per gli ologrammi, la foresta oscilla e cambia. Ora sono in un paesaggio roccioso, fatto di grotte e spunzoni di pietra che si alzano dal terreno.
«Sei un traditore» insiste Arkady o come diavolo si chiama.
«No, sono loro i traditori, guarda cosa ci hanno fatto. Ci hanno reso degli schivi»
«Questo è il mio lavoro» ripete stolidamente il tizio. «Era anche il tuo. Spostati, devo uccidere quei due».
La cortesia deve fare curriculum da quelle parti, pensa la ragazza.
Sharon si rimette in piedi, alle spalle del Soldato. Punta la pistola e lui la vede con la coda dell’occhio.
«No, non farlo!» esclama, quasi implorante.
La ragazza esita e non sa nemmeno lei bene perché.
Arkady scopre una cintura dove sono infilati almeno dieci coltelli a lama lunga. Ne lancia uno oltre il Soldato, diretto a lei. Un lancio di incredibile precisione.
Barnes sembra più veloce della lama. Sharon se lo vede arrivare addosso come una frana, la circonda con le braccia e la getta in terra. L’impatto tra il pavimento e il petto del Soldato è doloroso e le dà il capogiro.
Steve lancia lo scudo verso Arkady ma lui lo afferra con entrambe le braccia di metallo. Per un attimo prova a piegarlo, non ci riesce e lo lancia via, facendolo perdere nell’illusione di quel paesaggio aspro.
Poi anche lui va a nascondersi, sperando di poterli cogliere di sorpresa in un momento successivo.
Sharon sente sangue colarle sul viso, lo riconosce dall’odore ferruginoso. Il Soldato si alza e lei riesce a vedere il pugnale che gli si è conficcato nella spalla destra. Pochi centimetri più in là e si sarebbe aperto un varco verso il cuore.
È una sensazione bruciante quella di essere stata salvata da qualcuno che si odia.
Non è davvero lui quello che odio al momento non sembra fare alcuna differenza.
Il Soldato si toglie il pugnale dalla spalla senza battere ciglio.
«Trovate il meccanismo che ferma questa roba, a lui ci penso io» dice con voce spezzata.
«Bucky…». Steve lo guarda, sconvolto.
«Andate!».
Al margine di quell’illusione perfetta c’è il rettangolo della porta rimasta aperta. Il dispositivo era diritto davanti all’ingresso, al centro della stanza, se riescono a orientarsi tenendo di vista il portellone possono trovarlo - prima che il Soldato si faccia uccidere.
Mi ha salvato la vita il pensiero rimbalza nella testa di Sharon.
Steve le prende la mano, lancia un ultimo sguardo esitante alla volta del suo amico e poi comincia a correre nella direzione in cui dovrebbe trovarsi il dispositivo.
«Certo che corri un sacco» dice lei.
«È per mantenermi in allenamento»
«Come se ne avessi bisogno»
«Stai flirtando, agente Carter?»
«Sto cercando di preservare la mia sanità mentale». E non è affatto facile, credimi.
Alle loro spalle arrivano i suoni della lotta. Il Soldato deve aver trovato il suo rivale.
Fa un freddo cane, lì dentro, e per quanto sia un’illusione è dannatamente realistica.
«Deve essere qui» dice alla fine Steve, ansimando. Sono davanti a una grande parete di roccia, sembra solida e inespugnabile ma la distanza dalla porta sembra essere quella giusta.
A Sharon fanno male le gambe, le sembra di aver corso per ore.
Steve si lancia contro la parete, la attraversa e colpisce qualcosa con una spallata. Il suono è un dong sordo.
«Dio, mi sono quasi lussato la spalla» esclama lui, riemergendo dalla roccia.
L’ologramma tremula, tutto diventa più trasparente. Attraverso la pietra e il terreno riescono a vedere le linee tra i pannelli della pavimentazione della stanza, e l’alta colonna bianca del dispositivo.
Sharon spara un colpo. Un pannello grande come un foglio di quaderno salta dal fusto della colonna, rivelando una ragnatela di fili e circuiti.
La ragazza spara di nuovo e l’illusione si dissolve.
A molti metri da lì vedono lo scudo di Steve. Dietro di loro sentono un rantolo sordo, si voltano per vedere il Soldato di Inverno alzarsi, barcollante ed esausto, coperto di sangue - e non tutto deve essere suo. Negli occhi ha la disperazione di chi ha ucciso senza volere.
Il cadavere di Arkady è una montagna riversa sul pavimento. Dalla gola tagliata il sangue continua a uscire a fiotti sempre meno abbondanti, disegnando una macchia scura contro il grigio dei pannelli.
Il Soldato guarda Steve, guarda un istante la ragazza. Lei vorrebbe essere ancora in grado di disprezzarlo, ma ora sa che non potrà mai più riuscirci.
Il pensiero è confuso e non riesce a prendere la forma più concreta di un’idea perché qualcosa esplode e fa balzare Sharon in aria.
Il dispositivo è saltato con un boato. Ha bruciato l’aria e ha disegnato una scia nera sul pavimento.
È una consapevolezza che si traduce lentamente in parole.
Mentre vola e atterra dolorosamente, la ragazza sente il suono di vetri che si rompono, di parete che cede. E la voce del Soldato urlare e gridare il nome di Steve.
Sharon atterra contro il muro, urtando con le braccia. Sente l’impatto rimbalzarle in ogni osso del corpo e diventare frustata nei muscoli.
Steve. Dov’è Steve?
Steve è stato sbalzato fuori, attraverso la voragine apertasi nel muro esterno, in direzione della finestra.
No. No, ti prego, no. Non lui. NON LUI.
Lei vorrebbe alzarsi ma non ci riesce, il dolore è un peso che la tiene incollata a terra. Il Soldato corre con la forza che gli è rimasta, si china sullo squarcio nella parete e tende il braccio a Steve, rimasto aggrappato a una sporgenza del muro distrutto, con il vuoto sotto i piedi.
«Steve!». Il Soldato si sporge il più possibile, allunga il braccio di metallo. «Steve, prendi la mia mano».
Ti prego, Steve, prendi quella mano Sharon vorrebbe gridarlo.
Ce l’hanno fatta, il Soldato lo ha afferrato. Lo tira su con cautela e la ragazza sente il sollievo salirle dal petto e dissolvere il dolore.
E poi la mano di metallo del Soldato cede, le dita si aprono come un fiore appassito all’improvviso…
«Steve, NO!»
… perde la presa e Steve precipita.
 
 

 
 
 
Note:
Arkady è preso dalla serie di fumetti sul Soldato di Inverno.
Per la base di Glasgow ho inventato di sana pianta. I piani con gli ologrammi usati per gli addestramenti sono un omaggio da scribacchina nerd a Star Trek: the next generation, dove sulla nave spaziale c’è appunto un ponte con un dispositivo a ologrammi che riproduce qualsiasi luogo e qualsiasi epoca e viene appunto usato per le esercitazioni e gli addestramenti. 
E sì, la scena finale voleva essere un parallelo con la scena del primo film su Cap, in cui Steve non riesce ad afferrare Bucky e lui precipita dal treno.
La citazione iniziale è di nuovo da “Ghosts that we knew”.
 
Chiedo scusa se non ho ancora risposto alle recensioni, l’università mi sta uccidendo. Provvederò quanto prima. 
 
A venerdì prossimo :)

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Capitolo 13
*** Thirteenth bullet - Stark ***


Thirteenth bullet: Stark
 
Town heals all of the burned out bridges
filled with nothing more than misery
I wear the mask of the unbattled son
trying to beg for something to believe
 
INGHILTERRA - 1944
 
La guerra è come una di quelle vecchie favole spaventose: quando te le raccontano da bambino non ci dormi la notte, ma alla fine non servono a insegnarti davvero qualcosa.
Dicono di conoscerla, la guerra, ma nessuno sembra averne mai tratto alcuna lezione eloquente. Altrimenti non si spiega tutto il sangue e tutto l’orrore che ha visto da quando ha lasciato Brooklyn.
Forse la guerra è la trappola perfetta dove l’umanità torna a cadere ogni volta, perché cadere è il destino di ogni uomo: non si resiste alla gravità come non si resiste alle tentazioni.
Il Sergente Barnes solleva gli occhi al cielo, aspettando che quello scampolo di nuvole color argento sfili via e lasci di nuovo il posto alle stelle. Sono stelle piccole, sembrano annegare nella notte come lui, che si sente sopraffatto dal freddo che striscia attraverso il tessuto delle tende da campo.
Si tasta la tasca interna della giubba, ne estrae un’ultima sigaretta un po’ storta, stropicciata. Le sigarette sono una delle tentazioni in cui lo guerra lo ha fatto cadere. Come i baci rubati alle labbra delle infermiere di campo, gli amplessi consumati con troppa goffaggine e troppa foga sul retro della tenda che ospita l’ospedale militare - ma questo era prima, prima dei giorni bui in quel laboratorio sotterraneo nella base dell’Hydra, prima degli incubi e prima di Captain America.
Non lo ha mai detto a Steve, ma ogni volta che lo guarda pensa che non uscirà vivo da quella guerra. Quella è una guerra per mostri ed eroi e lui è solo un uomo, e nemmeno tra i migliori in circolazione.
Bucky soffia l’ultima boccata di fumo azzurrino contro il cielo. Lo strascico di nuvole si è già spostato, ora insegue il vento che soffia dal nord.
«Ma tu lo sapevi che cosa vuol dire fondue?». Steve compare accanto a lui, ha una coperta sulle spalle, sotto la lana grigia i gradi di capitano sull’uniforme scintillano e fanno meglio delle stelle.
Bucky sorride, senza un motivo preciso, a quella bellezza di farfalla uscita fuori dalla crisalide. 
«Come dici?»
«Niente… lascia perdere».
Sentono dei passi dietro di loro, non fanno in tempo a voltarsi che braccia magre calano sulle loro spalle con un paio di pacche amichevoli.
«Rogie, senti, lo scudo te lo dipingo domani, ok?».
Howard Stark, l’ingegnere, ha occhi da bambino discolo. Bucky non ha mai avuto occasione di averci a che fare, ma sembra uno a posto - più o meno.
«Dove lo trovi il tempo per dipingere?» domanda Steve, stringendosi un po’ di più nella coperta.
«Di notte. Chi vuoi che dorma con i soldati che russano come cinghiali?».
Bucky guarda Stark con la coda dell’occhio. Non è il russare dei soldati a tenere svegli tipi come lui, il cervello di quell’uomo deve essere allergico al riposo.
«Vieni con me, Rogie, ho una cosa da darti» dice poi l’ingegnere. «Venga anche lei, Barnes, mi serve supporto per una faccenda».
Il sergente guarda perplesso l’uomo - perplesso anche dal fatto che ricordi il suo nome - che sta già trotterellando via nel buio, alcuni metri avanti a loro, poi scambia un’occhiata con Steve.
L’alloggio, se così si può chiamare, di Howard Stark è una specie di camper, sembra un carrozzone da circo, una di quelle robe che deve essersi portato da casa - Bucky immagina una specie di cantina sotto una grande villa piena di diavolerie. Di certo l’ingegnere non si sarebbe messo a dormire su una branda in una tenda che schiocca nel vento, dove il sonno ti prende per sfinimento ed è un sonno senza rilassatezza.
Passano dalla piccola porta di metallo, all’interno è come essere in un angusto negozio da rigattiere ingombro di ciarpame. Su un tavolo pensile sono ammassati pezzi di armi e granate inesplose, su quello che doveva essere un minuscolo sofà sono accatastati schizzi tecnici di mirabolante precisione - se solo si capisse cosa quei disegni intendano riprodurre.
«Oh, spostate pure la roba e sedetevi» li invita Stark, indicando con un gesto vago le sedie attorno al tavolo, piene di scatole impilate l’una sull'altra.
Bucky lo guarda per un istante, la mente di quell’uomo deve essere come un luna park che non chiude mai.
Steve lancia un’occhiata indecifrabile al suo amico di sempre. La penombra gli ricama i lati del viso, glieli assottiglia, per un attimo il sergente Barnes può immaginare di nuovo il piccoletto di Brooklyn al posto di Captain America.
Non importa. Quei due hanno lo stesso cuore, e tanto basta.
Howard Stark apre le porte di un mobiletto e tira fuori tre bicchieri - di vetro, incredibilmente brillanti e puliti. Uno gli scappa di mano, di istinto Bucky si tende in avanti e lo afferra al volo, prima che vada in pezzi sul pavimento.
Veloce, troppo veloce.
«Che riflessi!» dice l’ingegnere, guardandolo perplesso mente gli restituisce il bicchiere.
Bucky stesso ne è stupito - spaventato. Stringe e apre il pugno, come a scrollarsi dalle dita qualcosa di sgradevole, ma le cose sgradevoli lui se le porta tutte dentro, da quando è stato tirato fuori da quel laboratorio dell’Hydra sembrano inseguirlo. E nemmeno Captain America può salvarlo stavolta.
«Ecco, questa è per te, Rogie. Scolatela tutta». Howard Stark sposta con una manata pezzi metallici e bulloni e fa un po’ di spazio davanti al posto dove è seduto Steve, poi ci piazza una scatola.
Bucky guarda meglio, nella luce giallastra della lampadina che penzola dal soffitto non aveva colto subito: non è una scatola, è un cartone di latte.
«Cosa?» Steve sbatte le palpebre, senza capire.
«Volevo offrirti qualcosa da bere, ma gli alcolici non sono il tuo forte. Hai passato settimane a lamentarti del fatto che il latte in polvere ti faceva schifo» replica Stark, con un’alzata di spalle.
«Non ho detto che faceva schifo…» risponde il Capitano, con il tono di un bambino che vuole nascondere una marachella. «Comunque, grazie, Howard»
«Ma ti pare. E questa invece è il motivo per cui ho bisogno del supporto di qualcuno che sa come va il mondo». Stark fa l’occhiolino alla volta di Bucky, guardandolo con l’espressione maliziosa di quello che conosce tutti i pettegolezzi da campo - perché probabilmente è così. 
Il sergente Barnes ricambia la strizzata d’occhio e guarda con visibile apprezzamento la bottiglia di whiskey irlandese ancora sigillata che l’ingegnere sta agitando in una mano. Non il piscio di contrabbando che i soldati a volte rimediano quando vanno in città, whiskey vero, come comanda Iddio.
«E questa da dove salta fuori?» gli chiede, più divertito che stupito.
Howard sembra concedersi un attimo per pensare a una risposta, come se avesse senso trovarne una. Alla fine scrolla la testa, «Sono ricco» dice, non è un vanto è solo una constatazione. «Trovo sia profondamente triste bere da soli, lei non trova, sergente?»
«Assolutamente»
«Non avrete mica intenzione di berla tutta?» Steve si tende in avanti sul tavolo.
Gli altri due lo guardano come se si fosse messo a parlare in un’altra lingua.
«Puoi provare a fermarci…» gli dice Bucky.
 
La notte deve essere già inoltrata ma ancora lontanissima dall’alba.  
Bucky si chiede quando è successo che il soffitto del piccolo camper sia diventato così alto e, soprattutto, perché il suo sguardo punta al soffitto.
Perché sei steso sul pavimento, razza di idiota, ecco perché. La voce della sua coscienza gli trapassa il cervello ancora annebbiato dall’alcol.
Sposta piano lo sguardo. Steve si è addormentato sul minuscolo sofà dal quale straborda con braccia e gambe.
Il sergente avverte un movimento accanto a sé e vede Stark strisciare giù dalla sedia e scivolare accanto a lui per poi mettersi seduto a terra, a gambe incrociate.
«Forse abbiamo esagerato» dice Bucky con voce impastata.
«Siamo in guerra… esagerato non esiste…» replica l’ingegnere.
«No, forse hai ragione, Stark». Il soldato fa un sorriso che sembra riecheggiargli tra le tempie. «Oh, aspetta, questo è forse il momento dei pensieri profondi da sbornia? Perché io sono profondo come una tazza da tè»
«Nah, sei stato amico di quello lì per tutta la vostra vita, qualcosa nella testa e nel petto devi pure avercela… anche se le crocerossine preferiscono parlare di quello che hai nelle mutande»
Stark ride, la risata strascicata e stridula dell’ubriaco.
Bucky lo asseconda, non può fare altrimenti, anche se la risata gli fa male fin dentro la cervello.
«Speravo di essere ricordato per qualcosa di un po’ più eloquente» dice dopo qualche istante.
«Beh, se ci tieni tanto… la guerra non è ancora finita, avrai altre occasioni»
«Sì. No… non lo so»  
«Hai la scorza dura, Barnes»
«Non è questo» 
«Ehi, era il momento dei pensieri profondi, non della depressione»
«Hai ragione».
Si guardano in faccia, ridono di nuovo senza motivo. Poi il volto di Howard torna serio all’improvviso.
«Ma forse, non hai tutti i torti, amico mio» dice. «Non importa se sopravviviamo o moriamo, tanto ce lo porteremo dentro per sempre tutto questo».
Bucky contempla il concetto con una lucidità che fa male. Attraverso i fumi dell’alcol la verità è dura come ferro, gelida.
«Non dirlo, Stark, uno come te può fare tutto» mormora. Siamo noi altri ad essere perduti.
«Posso fare tutto, ma questa roba ormai mi è entrata dentro, capisci? Mi ci vedo: costruttore d’armi per tutta la vita».
Il sergente tiene lo sguardo fisso sulla lampadina e la sua aura di luce gialla, fino a quando non gli bruciano gli occhi.
«Come fai a svegliarti la mattina se non ti concedi neppure una speranza?» dice, dopo qualche istante. In qualche modo, sente che è il tipo di cosa che direbbe anche Steve.
«Me la concedo una speranza, solo che non viene da me, è qualcosa che sta nel futuro, sai, tipo… prossime generazioni… figli che avranno modo di guardare le cose dalla giusta distanza e dalla giusta prospettiva…»
«Conti di averne molti, di figli?».
Edward Stark spinge in fuori le labbra, in una smorfia da carpa. «No, non proprio».
 
***
 
GLASGOW - PRESENTE
 
Ha avuto incubi tremendamente uguali a quel momento al campo militare dopo l’incidente del treno e poi, gli incubi lo hanno inseguito anche al suo risveglio in quel presente elettrico e frettoloso.
Ha sognato quella scena con i ruoli invertiti: lui che precipita e Bucky che non riesce ad afferrarlo.
Sente la neve soffiargli in viso come uno schiaffo, anche se non c’è la neve lì, ora.
Steve sente il vuoto afferrarlo, sente nello stomaco il tonfo di chi sta precipitando con il corpo che avverte l’impatto ancora prima che si verifichi. Una vibrazione bruciante che si propaga in ogni fibra.
Grida senza nemmeno accorgersene, senza poterne fare a meno.
E poi l’impatto arriva, ma non è con il suolo polveroso del cortile della palazzina.
Fa male, ma non lo uccide.
Steve strizza le palpebre di occhi che bruciano. Il mondo vortica attorno a lui e lo stomaco si contrae.
«Non vomitarmi la colazione sull’armatura nuova, Capitano»
«S… Stark?»
«Dimmi ancora che non devo immischiarmi. Ridimmelo, se hai il coraggio».
La voce arriva ovattata e leggermente nasale da sotto l’elmo di Iron Man. Lui gli sta praticamente riverso sulla spalla, come se fosse un sacco, le braccia a penzoloni oltre la schiena, le gambe che scalciano nell’istinto che lo porta a cercare il suolo ancora troppo lontano. Sotto di loro, il terreno è un’unica macchia di bianco.
Mi ha afferrato al volo
Iron Man fa una virata, Steve si sente sballottare ma non ha il coraggio di muovere alcuna protesta, poi volano in linea diritta, nella voragine aperta dall’esplosione sulla fiancata del palazzo.
Finalmente il mondo riacquista la consistenza solida delle pareti di quella dannata camera e le braccia fasciate di metallo rosso e oro depositano il Capitano sul pavimento, lo circondano per assicurarsi che riesca a stare in piedi. Lui sente le gambe tremare e per un attimo minaccia di rovinare al suolo - tra le braccia di Iron Man, sarebbe davvero epico.
«Steve!». È un abbraccio a sorreggerlo, le braccia di Sharon, stavolta, che si chiudono attorno al suo petto e il viso di lei che gli si posa sul cuore. 
«Mio dio, ci sono un sacco di novità su cui devo essere aggiornato» esclama Tony Stark, facendo scattare verso l’alto la visiera dell’armatura e mettendo in mostra la sua faccia da schiaffi - faccia da schiaffi che Steve non è mai stato così contento di rivedere.
Dov’è Bucky? si domanda, dopo aver lasciato un bacio tra i capelli biondi di Sharon che gli solleticano il mento.
Bucky è appiattito contro il bordo del grande foro nella parete, caduto seduto, con gli avambracci a penzolare sulle ginocchia e lo sguardo vitreo che fissa la scena improbabile che ha davanti, la prospettiva ancora più improbabile che lui sia sano e salvo.
Fa fatica a rimettersi in piedi, torna ad alzarsi con una smorfia dolorante ad ogni minimo movimento.
Stark è ancora tutto preso a fissare Sharon e ad elaborare una qualche battuta di dubbio gusto per accorgersi di lui.
«Che cazzo è successo?»
«State bene?»
«Ma tu guarda che casino, per poco non inciampavo in quel tizio morto…»
La voce di Sam si accavalla a quella di Natasha seguita dall’esclamazione di Barton.
Stark li guarda avanzare trafelati nella grande stanza vuota. Solo allora sembra accorgersi che c’è qualcuno che manca all’appello - qualcuno che non avrebbe mai dovuto incontrare. Di certo non in quel frangente.
Si volta piano, vede il Soldato di Inverno avanzare barcollante e ferito.
Con un moto di panico, Steve riconosce il ronzio dei propulsori. Iron Man solleva le mani aperte in avanti, la luce azzurra brilla al centro dei palmi dorati.
Il raggio propulsore colpisce Bucky in pieno petto e lo fa schiantare contro il muro dietro di lui. Cade sul pavimento con un tonfo, privo di conoscenza, come una bambola.
«Sei impazzito?» urla Steve, furioso.
«Sei sempre il solito, Rogers, paladino di ogni diritto tranne quello dell’essere legittimamente stronzi o incazzati». 
Steve sente l’impulso irrefrenabile di scagliarsi contro di lui. Una parte sepolta e lontana della sua mente gli dice che il gesto di Stark non è del tutto ingiustificato, è la parte più bassa e istintiva di lui, quella che le sue responsabilità di Capitano e di eroe gli hanno insegnato a tenere a bada.
Capisce il gesto di Stark ma non può tollerarlo.
Il viso di Natasha compare tra loro due, guarda prima l’uno poi l’altro. «Non vi metterete a fare a pugni o niente del genere» sibila in un tono impossibile da contraddire. «Adesso ce ne andiamo da qui, possibilmente dando anche fuoco a questo posto…».
La frase resta volutamente in sospeso, il sottinteso dev’essere qualcosa del tipo: se succede qualche altra cazzata, ve la faccio rimpiangere.
 
***
 
«Sei impazzito?»
«Sei sempre il solito, Rogers, paladino di ogni diritto tranne quello dellessere legittimamente stronzi».
 
Le voci arrivano da fuori, oltre la nebbia e oltre il dolore che lo sommerge come una marea. La realtà è qualcosa che galleggia su una superficie che lui non riesce ad afferrare, e continua a sentirsi annegato, spinto verso il fondo.
Capisce di aver perso i sensi, di essere scivolato in un’incoscienza lucida dove può sentire ogni parte del suo corpo bruciare e il caldo vischioso del sangue ancora gocciolare dalle ferite aperte e indebolirlo.
Credeva che Steve fosse spacciato, poi è comparso quel razzo a forma di uomo, lo ha afferrato e lui li ha visti volare dentro, attraverso il muro crollato.
Steve è salvo. Sembra essere l’unica cosa che conta, una consapevolezza luminosa che se ne sta a galla insieme a tutto il resto che lui non riesce a raggiungere.
Poi c’è il ricordo recente. La visiera di quella portentosa armatura che scatta verso l’alto e mostra un viso che ha nei lineamenti e negli occhi qualcosa di famigliare in modo doloroso.
È un viso che fa salire alla mente il senso di colpa e lui non capisce neppure bene da dove provenga.
È un viso che somiglia a un altro viso.
 
«Sei stato amico di quello lì per tutta la vostra vita, qualcosa nella testa e nel petto devi pure avercela anche se le crocerossine preferiscono parlare di quello che hai nelle mutande»
 
Parole che restano sospese come una cornice senza quadro. E poi un nome, legato a un ricordo lontanissimo, a quel ricordo di tutto quanto era prima. Prima del precipizio, prima del Soldato di Inverno. Prima di quel ventunesimo secolo che non ha mantenuto nessuna promessa di futuro e meraviglia.
 
Howard Stark.
 
Howard Stark, l’ingegnere di guerra che aveva progettato lo scudo di Captain America, l’uomo che una sera aveva condiviso con il sergente Barnes una bottiglia di whiskey.
Ma non solo questo.
Ora la nebbia sembra uno specchio che riflette le immagini di un altro tempo. Lontano dalla guerra ma comunque dentro l’inferno.
 
È quasi Natale, il Soldato di Inverno può sentirlo nellaria. Il Natale è un ricordo rimasto impresso come una cicatrice, e come molti altri ricordi lui non sa dove collocarlo.
Deve esserci stata unesistenza, una vita, prima di tutto quel gelo. Ma non deve pensarci, non è tanto un ordine da seguire, quanto unidea piantata ben a fondo nella sua coscienza.
Non deve pensare al prima, perché fa male. Succede qualcosa nella sua testa, ogni volta che prova a pensare, le immagini si susseguono come una frana, prima che lui abbia il tempo di decifrarle, sono illusioni, non memorie. Le memorie non servono. Le illusioni lo deconcentrano, gli fanno perdere la calma necessaria a fare ciò che deve.
È quasi Natale, il mondo è uno straccio avvolto in ragnatele di luminarie, e il Soldato di Inverno ha una missione.
Gli hanno detto che luomo si chiama Howard Stark - ha avuto bisogno del nome per identificarlo e pedinarlo. Quando glielo hanno detto, si è soffermato un istante, ha guardato il suo supervisore con la fronte aggrottata dal dubbio.
«Chi è?» ha chiesto. Ha osato, cosa che di solito non accade.
Per tutta risposta, il supervisore ha fatto scattare in alto la testa e lo ha guardato a metà tra linterdetto e il preoccupato.
Il Soldato ha arricciato le labbra, come a volersi rimangiare la domanda.
«A che ti serve saperlo?»
A niente. Una risposta così ovvia che non ha necessitato di venir pronunciata. 
Le luci di Natale galleggiano nel buio, fanno da cornice alle strade e rigano il cielo della California come stelle finte e mute.
Il suo obiettivo è un uomo con gli occhi giovani e il viso già vecchio, consumato da qualcosa di più pesante del tempo. Esce da un grande edificio nel centro città e si dirige verso una macchina, dalla portiera del posto del guidatore compare una donna e gli sorride.
«Ha telefonato Tony. Forse ce la farà a tornare a casa per Natale» dice lei. È più giovane di lui, ed è ancora bella.
Luomo si ferma, la guarda. Sembra voler nascondere la felicità per la notizia ricevuta.
«E sei venuta fin qui senza autista per dirmi questo?» 
La donna gli dà un buffetto affettuoso sul braccio. Il Soldato riesce a vedere le fedi scintillare alle dita. Non gli hanno detto che Howard Stark ha una moglie, non gli hanno detto cosa fare di lei.
Il Soldato assottiglia lo sguardo. La signora Stark si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, accanto a suo marito.
«Guido io» dice la donna.
«No, guido io» risponde lui, scansandola con un gesto.
«Tu non sopporti in traffico del periodo natalizio»
«In guerra ero il miglior pilota dellesercito, posso gestirlo» ribatte lui, enfatizzando unespressione tronfia. «Quand’è che arriva Tony?».
Il Soldato li segue a cavallo di una moto. Attaccato alla sella c’è il piccolo fucile; gli hanno detto che dovrà essere fatto mentre Stark è in macchina, che dovrà sembrare un incidente: i proiettili  nel caricatore sono stati fabbricati appositamente per esplodere e confondersi con i residui metallici dellautomobile opportunamente distrutta.
Howard Stark sembra volergli rendere tutto più facile. Dopo una ventina di minuti di guida nel traffico cittadino, imbocca una strada deserta e segue le indicazioni per Malibù.
Il Soldato li segue a fari spenti. La moto non fa alcun rumore.
Stark corre alla giuda, non sa di avere la morte nella sua scia. Forse, uomini come lui sono tipi da credersi invincibili.
Il guardrail ora è solo una sottile linea di confine tra la strada a doppio senso e una parete scoscesa che scivola verso il bosco.
Davanti ai fari dellauto di Stark c’è lunica curva nel giro di chilometri.
Perfetto.
Il Soldato dà gas con una mano, con laltra estrae il fucile. Proprio quando la macchina comincia a curvare, spara ai cerchioni delle ruote.
Lauto sbanda, fa un giro su se stessa e urta contro il guardrail, lo sfonda con un clangore di metallo e stridore di gomme e poi precipita.
Il Soldato frena. Ascolta impassibile il suono della vettura che cade rimbalzando contro il fianco di quella piccola altura e infine si schianta contro un albero.
Salta oltre il margine della strada, giù lungo il terreno inclinato. Sa che deve fare presto, controllare che i due siano morti - e nel caso non lo fossero, dare fuoco allauto con loro ancora allinterno.
La macchina è un groviglio di lamiere. Il Soldato estrae una piccola torcia, la punta verso labitacolo. I volti dei coniugi Stark sono maschere di sangue con gli occhi sbarrati, il collo delluomo è piegato in modo innaturale.
Devono essere morti sul colpo.
Bene pensa. E quasi sorride.
 
Tony. L’uomo con l’armatura è il figlio di Howard Stark, non ci può essere alcun dubbio.
E ora il suo viso galleggia in cima a ogni cosa, mentre lui si sente annegare e va sempre più a fondo fino a quando il dolore smette di pulsare nelle vene, come fosse un’infezione.
Nel ricordo crudele dell’ennesimo assassinio, il Soldato di Inverno spegne la torcia. Il buio sale come le fiamme di un incendio e divora tutto.
 
 
 
 
 
 
 
 


Note:
Howard Stark e consorte sono morti a dicembre, nel periodo natalizio. Questo lo so per certo, tutto il resto è mia invenzione.
Citazione iniziale dal brano “The last fight” dei Velvet Revolver.
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A venerdì prossimo con l'aggiornamento. 
  

 

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Capitolo 14
*** Fourteenth bullet - Al suo fianco ***


Fourteenth bullet: Al suo fianco
 
Well means, it works I'm on your side.
I said that? Well so, I lied.
Remember I tried not to be wary.
This failed me once too much.
 
GLASGOW
 
Il Soldato riemerge dal torpore. È come tornare a galla e fa male, perché man mano che riacquista coscienza sente anche il corpo indolenzito da una miriade di lividi e tagli, i muscoli irrigiditi e tesi.
Gli basta un’occhiata per capire che sono tornati nell’albergo di Glasgow, quello che lo stupisce è il viso chino su di lui.
«Mi spiace deluderti, non sono ancora morto» dice con voce impastata.
Sharon lo fissa, gli occhi spalancati e la mascella contratta. Alla fine, scuote la testa e gli avvicina un bicchiere d’acqua alle labbra.
C’è una gentilezza tesa nei suoi gesti, una gentilezza dovuta e goffa, da senso di colpa.
Non hai niente da farti perdonare, ragazza.
Al Soldato non importa neppure sapere perché lei lo ha tanto odiato, è sicuro che ne abbia avuto il diritto come ce lo ha il figlio di Howard Stark. E quella giovane donna ha dato prova di un grande temperamento se è riuscita a stargli accanto tutto quel tempo senza mai far trapelare nulla, se è stata capace di rimandare il risentimento e la vendetta.
«Mi hai salvata, da quel coltello» risponde Sharon, titubante.
Il Soldato impiega qualche istante a ricordare. Sì, lo ha fatto e non gli sembra di alcuna rilevanza.
Quello che gli sembra rilevante è l’uomo che ha ucciso in quella stanza. Arkady meritava una possibilità, la stessa che Steve ha concesso a lui. Ma non c’era tempo, il Soldato ha dovuto fare una scelta e quel rimorso nuovo, recente, si somma al bruciore di quelli passati e gli fa sentire agitarsi nei pensieri una tempesta che fa piangere lacrime che lui non sa versare.
Prova ad alzarsi e mettersi seduto, il suo corpo si ribella con un’infinità di stilettate di dolore.
«Se fai saltare qualche punto ti spacco la faccia» borbotta lei. «Natasha ci ha messo un’ora per ricucirti, ha quasi dovuto sparare a Steve per levarselo dalle scatole».
«Credo di essermi perduto una scena particolarmente esilarante».
Sharon fa un’espressione interdetta, poi si concede un mezzo sorriso. Il Soldato realizza solo in quel momento perché a Steve piaccia tanto.
«E Stark?»
«Lo hai riconosciuto?»
«Ho messo insieme i pezzi».
La ragazza annuisce. «Beh, lui e Steve si sono urlati contro per un po’. Ha un che di schizofrenico tutta questa cosa, Stark gli ha salvato la vita, ma poi ti ha quasi ridotto in frittata…».
Una volta suo padre mi ha detto che ho la scorza dura.
E io lo ucciso.
Il Soldato manda giù un altro sorso di acqua, in gola sente ancora il sapore nauseante del sangue.
«Hanno fatto pace, alla fine?» domanda con una smorfia.
«Più o meno, ma non credo che Stark ti chiederà scusa»
«Sono io che dovrei chiedere scusa a lui».
Scusa gli sembra una parola così insignificante e riduttiva. E inutile.
Sharon si passa le mani tra i capelli e si porta due ciuffi biondi dietro le orecchie. China il capo inseguendo chissà quale riflessione e cercando a fondo dentro di sé le parole per esprimerla.
«Tu non sei responsabile dei crimini del Soldato di Inverno. Lo abbiamo capito tutti noi, lo capirà anche Stark, è un dannato genio dopotutto».
Lo avete capito tutti. Anche tu
Lui volta la testa sul cuscino per mettere meglio a fuoco la sua interlocutrice. Quelle parole sanno di resa, ma è un arrendersi pieno di dignità, che non merita altro che rispetto e ammirazione.
«Quindi non è stato per il coltello?» mormora, cercando di sorriderle. Ottenere la fiducia di un altro essere umano, capire di averla conquistata con le sole proprie forze gli sembra un’impresa che avrebbe detto impossibile fino a una manciata di giorni prima.
Si chiede se un assassino possa anche essere un uomo, se possa essere altro oltre le sue mani macchiate di sangue. Non trova risposte negli occhi scuri della ragazza, ma pensa a Natasha.
«Adesso non metterti a fare lo sbruffone». Sharon gli lancia un buffo sulla spalla, senza volere lo colpisce proprio in direzione della ferita. Lui ha un sussulto. «Scusa…».
Il Soldato getta la testa all’indietro e si rilassa, fa un lungo respiro e chiude gli occhi.
«Entro stasera starò bene» dice.
«Potremmo non avere alcuna fretta. Siamo di nuovo bloccati al punto di partenza».
No, non lo sono. Solo in quel momento, il Soldato rammenta le parole scambiate con lo scienziato prima di fargli saltare la testa.
L’Hydra si sta muovendo. Stanno tornando in America ora che sanno che lì nessuno verrà più a cercarli. Boston, ha detto il vecchio.
E loro devono muoversi, in fretta. Agire, colpire… vincere anche, magari. E sopravvivere.
Sono pensieri da soldato, aridi di logica e determinazione.
«E invece no. So dove dobbiamo andare… devo parlare con gli altri». Lui fa per alzarsi, di nuovo, la ragazza lo trattiene con un gesto deciso.
«Sì, ma stai calmo» esclama, contrariata. «Puoi parlare anche da steso. Così conciato non ci sei di alcuna utilità».
La porta della stanza si apre. La bella figura di Natasha compare nella cornice di legno, sull’uscio.
«Uhm, sentivo parlare, immaginavo ti fossi svegliato» dice ostentando un tono neutro.
Sharon corruga impercettibilmente le sopracciglia e sposta lo sguardo tra lei e il Soldato. Capisce in un istante che è meglio che tolga il disturbo.
«Vado a vedere se Steve… ha bisogno di me» esclama, dirigendosi fuori dalla stanza con una velocità assai poco spontanea.
Lui la guarda allontanarsi.
Ne ha bisogno, eccome. Pensa.
«Per un attimo ho creduto che Stark ti avesse dato il colpo di grazia» dice Natasha, appena restano soli, ha un’espressione strana, diversa. «Non volergliene, per essere un genio è dannatamente impulsivo»
«È strano come tutti pensiate che sia io a dovercela avere con lui. Non so se esserne stupito o confuso»
«Beh, non è stato un gesto molto sportivo, il suo»
«Ho ucciso sua madre e suo padre». Il Soldato si illude che dirlo ad alta voce, dirlo a Natasha, possa fare meno male, ma non è così.
«Lo so» replica lei, senza scomporsi. «Ma da uno con il quoziente intellettivo di Tony ci si aspetta che faccia due più due su una cosa tanto semplice: sei con noi da giorni, se fossi ancora ostile non staremmo combattendo insieme»
«Temo tu la faccia troppo facile».
Natasha inarca un sopracciglio, attraversa la stanza e va a sedersi accanto a lui, sul boro del letto. Il materasso si abbassa impercettibilmente per il suo peso. 
Il Soldato fa ancora fatica a guardarla negli occhi. Da quando ha scoperto che lei è stata l’unica cosa bella nell’inferno delle sue memorie, gli fa male sostenere il suo sguardo. Ma cedere alla tentazione di raccontarle tutto sarebbe meschino e lui ha fin troppi scheletri nell’armadio per concedersi ancore altre azioni scorrette.
Il suo sguardo scivola piano sul profilo della donna, la schiena diritta, il collo sottile, la cascata di capelli rossi. Pensa ci siano altre tentazioni a cui resistere, e forse sono peggiori e più dolorose della verità. Stringe il pugno del braccio sano sotto al lenzuolo: sa che non ha nessun diritto di pensarla sua.
«Beh, con Sharon sembra che tu abbia fatto pace» gli dice lei. E l’uomo capisce che Natasha conosce esattamente il motivo per cui Sharon Carter ce l’aveva con lui. Non crede di essersi guadagnato il diritto di domandare.
«Non so chi le ho ucciso, ma pare di sì».
Natasha, dal canto suo, ritiene che lui debba continuare a non saperlo.
«Se riescono a perdonarti gli altri, non vedo perché non possa farlo anche tu»
«Cominci a parlare come Steve, hai idea di quanto questo ti renda poco attraente?»
«Steve è molto attraente, in realtà».
Ridono piano. A lui non importa se la risata gli rimbalza nel petto e gli procura altre fitte, il sorriso si accorda a quello di Natasha e va da solo. Si chiede se era per questo che lui l’aveva amata così tanto, non può essere stata solo la sua bellezza perfetta da felino a fare breccia attraverso la corazza del mostro.
«Come va il braccio?».
Il fottuto braccio che non ha retto Steve
«Credo non funzioni più bene» ammette, sconfortato.
«Troverò qualcuno che convinca Stark a dargli un’occhiata. Se glielo chiedo io, sarebbe capace di dirmi di no per dispetto, una volta glielo fatta sotto il naso e il suo cervello di genio non me l’ha ancora perdonata».
È confortante sapere che Tony Stark non è tipo da essere incline al perdono.
Deve essere come uno di quei fantasmi che se lo nomini troppe volte poi compare sul serio, perché ora il figlio di Howard spinge la testa nella stanza e lancia un’occhiata all’interno, attraverso la porta schiusa.
«Ho interrotto qualcosa?» borbotta.
«Come se ti interessasse…» sospira Natasha in un filo di voce.
L’uomo entra senza aspettare di essere invitato e si chiude la porta alle spalle; apre e chiude più volte la bocca come a iniziare un discorso, come uno di quei monologhi provati davanti allo specchio. Il Soldato lo guarda, in attesa. 
Alla fine, Stark fa uno sbuffo, come se avesse deciso di mandare all’aria ogni tentativo di diplomazia - che non sembra essere il suo forte, in ogni caso.
«Non dirò che mi sia dispiaciuto spalmarti sul quel muro, perché francamente è stato molto divertente, e poi dovevo testare a dovere i propulsori ora che le armature funzionano con un reattore Arc esterno».
Comprensibile. La parte dell’essere spalmato sul muro almeno, la seconda parte del discorso è quasi arabo.
Al Soldato non resta che guardarlo, un po’ confuso, e lasciarlo finire.
«Comunque, giuro sul bianco dei calzini di Rogers che non ti attaccherò più senza ragione»
«Avevi tutte le ragioni, Stark»
«No, cioè non proprio, Popeye. Ho riflettuto, e sì, in genere lo faccio molto rapidamente: non è con te che devo prendermela per l’incidente, ma con l’HYDRA. E tu mi servi, ci servi, per farle il culo a strisce quindi… beh, la mia simpatia è proverbiale e…»
«Nessuno ha detto che sei in squadra» dichiara Natasha melliflua, sbattendo le ciglia. Ma si capisce che è solo un’affermazione retorica, e che Stark non è il tipo da avere bisogno di un invito né del permesso di chicchessia.
«Oh, ma per favore. Vi serve qualcuno per decripitare il pen-drive che non sei riuscita a leggere. E poi chi farà il discorsetto a Rogers ora che si è trovato la ragazza?».
Natasha scuote la testa.
«A proposito del pen-drive, agente Romanoff, se vuoi essere così gentile da andarlo a prendere, potrei cominciare a mettermi a lavoro mentre il nostro amico si riprende, così risparmiamo tempo».
Lei esita, riflette un istante se è prudente lasciare loro due soli in una stanza, ma evidente si fida abbastanza di Stark da credergli sulla parola quando ha detto che non attaccherà più il Soldato senza motivo. A pensarci, sembra una frase aperta a fin troppe interpretazioni, ma Tony Stark è evidentemente troppo intelligente per mettersi a fare casino in un albergo e rischiare di attirare l’attenzione su tutti loro.
Alla fine, Natasha esce dalla stanza e li lascia soli.
Tony si volta un istante a guardarla mentre richiude la porta dietro di sé.
«Sai, crede di non starmi simpatica. Si sbaglia» dice.
«Buon per lei, ho idea che la vita diventi molto difficile per quelli che non ti stanno simpatici» replica il Soldato con un’alzata di spalle.
In tutto quel trambusto si è dimenticato di parlare a Natasha di Boston e del fatto che devono ripartire il prima possibile per l’America. 
Stark fa dondolare la testa in un vago cenno di assenso. «So di te e lei, della Russia. Vedi di non fare casini» conclude lapidario, prima di uscire anche lui dalla camera.
 
***
 
Dentro la loro stanza, Sharon è seduta sul bordo del letto a esaminare un borsone di armi che Natasha ha portato via dal palazzo, prima di darlo alle fiamme.
Isolato com’è, quel posto sarà cenere prima che qualcuno noti l’incendio e arrivino a spegnerlo.
Steve non ha fatto domande, ma l’accanimento di Natasha contro quella base deve avere ragioni che affondano nel suo passato fatto di ombre nere e bandiere rosse.
«Come stai?» chiede invece a Sharon, andandosi a sedere accanto a lei.
La ragazza sorride. «Ripeti così spesso questa domanda che mi viene da pensare che avresti dovuto fare il medico»
«Volevo farlo, ma non c’erano abbastanza soldi per mandarmi al college».
Perché Steve Rogers è anche questo, è il suo passato, quello lontanissimo che gli urla nel petto ogni volta che si sente stanco e gli ricorda da dove viene, chi era, chi deve essere.
Quello che è Captain America è sempre stata una scelta, mai un destino. Per questo ci crede così tanto, ancora, nonostante tutto.
«Tu piuttosto, come stai? Sei quasi morto, di nuovo. Bucky è quasi morto, di nuovo». La ragazza gli posa delicatamente una mano sull’avambraccio.
«Sai com’è, dopo un po’ ci si abitua» Steve fa una mezza smorfia. «A proposito, grazie per esserti presa cura di lui mentre io e Natasha cercavamo di far ragionare Stark»
«Non è un cucciolo indifeso a cui fare da balia, lo sai vero?».
No, non lo è, lo sa. Ma ogni volta che lo guarda riesce a vedere la carne viva di tutte le sue ferite, nervi scoperti che lo rendono così fragile che lui non riesce a non avere paura. I suoi pensieri su Bucky lo fanno sentire così in bilico, sono pensieri sparsi in un campo minato.
La sortita di Tony glielo ha ricordato con una certa veemenza.
Quando lui era un ragazzino rachitico perennemente a caccia di guai, Bucky lo ha difeso ogni singola volta, lo ha salvato dalle conseguenze della sua testardaggine. Captain America non è stato in grado di proteggere il suo amico di sempre quando l’occasione lo ha richiesto.
Immagina un domani in cui ci sarà di nuovo la pace e la calma e lui potrà prendersi cura del suo amico con l’impegno e la dedizione che la questione richiede. Poi però si rende conto che non sa da che parte cominciare, che Bucky è come un vaso rotto, anche se si rimettono insieme i pezzi resteranno sempre i segni delle fratture e forse qualche frammento è andato perso per sempre.
Non è colpa tua, Steve
Sono le prime parole che ha sentito al riguardo. Glielo disse una Natasha esausta e sanguinante mentre le squadre STRIKE li portavano via da Washington ammanettati e sconfitti.
Non è colpa sua, ma Bucky è e sempre rimarrà il suo più grande rimorso. È una consapevolezza che scavalca ogni logica, contro la quale Captain America non ha scudi per difendersi.    
Poi incontra gli occhi di Sharon, fuori da quel turbinio di pensieri che fanno male. La guarda in viso, vorrebbe baciarla di nuovo, vorrebbe restare lì a non fare nient’altro che baciarla.
Avvicina il viso al suo con un lentezza che sembra chiedere il permesso, ne sente il respiro sulle guance.
«Steeeve!». Tony Stark bussa con forza alla porta ed entra senza aspettare che gli rispondano. «Oh, accidenti, oggi sembra che io non sia capace di non rovinare momenti di coppia, ma avete ancora i vesti addosso quindi non mi sento troppo in colpa».
Steve aveva quasi scordato che con lui in giro è tutto molto più complicato.
«Che cosa c’è?» gli chiede, cercando di mantenere la calma. Nota che ha uno zaino a tracolla, sembra fatto di un qualche materiale uscito fuori da un film di fantascienza, e tiene un computer portatile su un braccio - diverso da tutti quelli che Steve ha visto in giro, sullo schermo si riesce a intravedere la barra di caricamento di un programma.
«Il tuo amico Sam mi ha detto di dirti che Natasha ha detto di dirmi se do una controllata al braccio del tuo amico».
Steve inspira e conta fino a dieci. «Non pensavo fossimo all’asilo»
«Ha cominciato la Romanoff!» lo rimbecca Tony con il suo tono da bambino petulante. «Credevo volessi assistere. Prima, mentre Natasha lo ricuciva sembravi mamma chioccia… quella è una mitragliatrice?»
«È un fucile a canne mozze» risponde Sharon, abbassando lo sguardo sul borsone con le armi. «Vuoi vedere come funziona?»
Stark arriccia le labbra. «Vieni o no, Rogers? Pensavo di dare un’occhiata a quel braccio mentre il computer finisce di decriptare il pen-drive»
«Lo stai già decriptando?»
«Con chi credi avere a che fare?».
Con lessere umano più impossibile sulla faccia della terra.
Steve lancia a Sharon uno sguardo di scusa e si alza per seguire Tony fuori dalla stanza. Lo sguardo euforico che gli brilla negli occhi non gli piace nemmeno un po’.
 
***
 
Tony Stark sente l’impellente bisogno di un drink, di quelli come si deve, preparati con il meglio del meglio che tiene stipato nel mobile bar di casa sua.
Sta ponderando la possibilità di scrivere un sms a Banner per fargli sapere che finalmente metterà le mani sul braccio meccanico del Soldato di Inverno - quel braccio è stato il loro argomento di conversazione preferito, una volta terminata la maratona di Breaking Bad. Nel fascicolo che hanno letto, non c’erano molte spiegazioni tecniche al riguardo e loro hanno passato serate interminabili a cercare di indovinare quale tipo di tecnologia lo rendesse così figo.
Perché il braccio è una figata. Il tizio a cui il braccio è attaccato, beh…
Se potesse avere il suo drink forse riuscirebbe a mettere meglio a fuoco i propri pensieri al riguardo. A guardarlo, un po’ gli ricorda il caro Rogers di due anni prima: un ragazzone dall’aria sperduta, con occhi da cucciolo che stenderebbero un intero esercito di maestre di scuola - e fa ancora più tenerezza di Rogers, perché, questo bisogno dirlo, ne ha passate di peggiori. E merita di avere la sua parte nel prendere a calci in culo l’HYDRA, o quello che ne resta, o quello che è diventata adesso, e per fare questo merita di essere preservato in salute - sia fisica che psichica, possibilmente.
Ecco, è il momento in cui Tony si scopre intenerito e protettivo verso il Soldato di Inverno che prende atto di quanto grande e urgente sia il suo bisogno di avere quel drink.
Sono cose che provengono da una parte del suo cervello di cui lui non conosce i meccanismi.
L’altra parte del suo meraviglioso cervello da milioni di fatturato annuo gli ripete che, ehi, quello è pur sempre il tizio che ha provocato l’incidente in cui sua madre e suo padre hanno perso la vita. E poi, la voce della sua coscienza, che ha preso a parlare con il tono pomposo di Captain Teddy Bear, rimarca un concetto che nessuna coscienza potrebbe ignorare: non era in sé quando è successo.
Tu potresti forse incolpare te stesso di tutte le cazzate che hai fatto da ubriaco?
Non è mica la stessa cosa. Ma mi piace sentire la voce di Rogers che dice parolacce
Sei grosso con larmatura, tolta quella che cosa sei?
Eh no, caro il mio grillo parlante, questo è giocare sporco.
Che razza di coscienza di merda dev’essere una che gli riporta alla mente la domanda che più di tutte lo ha tormentato dopo la battaglia di New York?
Steve Rogers gli tiene aperta la porta per lasciarlo entrare nella stanza dove il Soldato se ne sta a riposare.
Maledetto sia Captain America e il suo cuore senza macchia e senza paura. E maledetto sia il musetto da coniglietto del suo amico smemorato.
Il Soldato socchiude gli occhi velati di stanchezza e guarda Tony mentre appoggia il laptop sulla scrivania sgangherata in un angolo della stanza. Non cerca lo sguardo di Steve per chiedergli se sia tutto a posto, sembra essere fiducioso, o forse è solo rassegnato.
«Dobbiamo tornare in America» dice, dal nulla.
«Come?». Steve si ferma ai piedi del letto.
«L’Hydra è a Boston - almeno, spero che sia proprio Boston»
«È tipo un delirio da shock post-traumatico, una visione mistica o cosa?» chiede Tony, cominciando a estrarre gli attrezzi del mestiere dal suo zaino.
«Me lo ha detto lo scienziato che ho incontrato nella palazzina»
«Quale scienziato?». Steve sembra essersi perso qualche passaggio - tipico di lui, del resto.
«È una lunga storia. Dobbiamo tornare in America»
«Mi piace l’idea, almeno giochiamo in casa» replica Tony. Estrae un palmare targato Stark e manda un messaggio a Happy, che gli faccia avere quanto prima il suo aereo. «Ma prima di una dozzina di ore non ce ne andremo da qui, anche i miei aerei hanno le loro tempistiche. Intanto, diamo un’occhiata a quel braccio».
Il Soldato volta il capo sul cuscino, nella sua direzione
Ragazzo, devi farti una doccia e mangiare qualcosa
Ragazzo un corno. Quanti anni ha, novanta, novantacinque?
«Grazie, Stark»
«Sì. Ora che abbiamo avuto un altro assaggio della buona educazione degli anni Quaranta - come se Rogers non ce ne abbia già fatto fare indigestione - dimmi una cosa, Jon Snow, come ti chiamano i tuoi amici vecchi e nuovi?»
«Pare che a Steve piaccia Bucky»
«Tutto questo è molto romantico».
Tony muove le dita come un pianista che si prepara a eseguire un assolo. Passa il palmare per tutta la lunghezza del braccio e aspetta che il dispositivo faccia i suoi rilevamenti.
«Ha pure i sensori tattili, wow, non ci siamo fatti mancare niente» esclama, senza badare a quanto la sua voce stia suonando improvvisamente stridula.
«E non suona con i meta detector. Ma non ti saprei dire come»
«È per un dispositivo che genere un campo elettrostatico che…» Tony guarda prima Bucky, poi Steve. «Non importa, tanto voi non parlate la mia lingua. Ah, dov’è Banner una volta che poteva essere utile!».
Sfiora con la punta di un sottilissimo cacciavite una placca a metà della curva del bicipite artificiale, le parti del braccio si sollevano come lo sportellino per le pile di un giocattolo a batteria. Tony guarda all’interno come se fosse la cosa più bella che abbia mai visto - è sicuramente una delle cose più belle che abbia mai visto, anche se Pepper detiene il primato assoluto. 
«Oh, alla fine è una sciocchezza» esclama, scrollando le spalle e fa cenno a Steve di avvicinarsi e guardare. Il Capitano sembra provare una sottile repulsione per quel macchinario, forse perché pensa al motivo orribile per il quale è stato costruito, ma la nasconde bene.
 «Ogni tanto, se lo si usa troppo senza manutenzione, i fili si accavallano a causa dei movimenti e creano dei falsi contatti che non fanno arrivare la giusta forza alle dita della mano e alla parte tra il gomito e il polso. Se io ora faccio così…».
Tony sposta due fili grigi proprio come vene. Si sente un leggerissimo ronzio elettrico e il Soldato si contrae e si morde le labbra per non urlare.
«Nervi ed elettricità, una pessima combinazione» conclude Tony con noncuranza. Steve sbuffa, dilatando le narici e lo guarda in cagnesco. «Un attimo di pazienza, Bucky, e sistemo tutto»
«Credo che vada disattivato il collegamento con l’innesto nella spalla, prima» dice il Soldato, ostentando tutta la calma e la pazienza di questo mondo - educazione stile anni Quaranta, neppure decenni di crioterapia possono levartela dalla testa.
Certo che va disattivato il collegamento con linnesto nella spalla, lo sa benissimo, lo aveva capito ancora prima di aprire quell'affare. Ma Tony Stark ha bisogno di mezzo minuto di vendetta, poi dopo tornerà a preoccuparsi di quanto tenero e bisognoso di protezione gli riesca a sembrare il povero caro Bucky ora che si sta dedicando ad attività più costruttive dell’omicidio seriale su commissione.
Incurante delle proteste di Steve e dei gesti di dolore del Soldato, Tony finisce di sistemare i fili e poi richiude gli sportellini.
«Non penso che gli ingegneri dell’HYDRA non si fossero accorti del problema» dice dopo qualche minuto, continuando a guardare il braccio e a leggere le informazioni ottenute dalla scansione con il suo palmare. «Credo che lo abbiano lasciato così per fare in modo che tu avessi sempre bisogno della loro manutenzione e non ti facessi venire idee da adolescente in piena fase di ribellione. Ma prometto che appena torniamo a casa, do una sistemata alla faccenda».
Il Soldato lo guarda senza dire niente, la fronte ancora velata di sudore per il male sopportato.
«Signore, il decriptaggio dei file che aveva richiesto è completo» trilla la voce di Jarvis dal laptop appoggiato alla scrivania.
«Sii gentile, Capitano, passami quell’affare».
Steve lo guarda con un’alzata di sopracciglia, ma obbedisce. Tony si appoggia il computer sulle ginocchia e apre le cartelle di dati ora finalmente accessibili.
Sente su di sé gli sguardi degli altri due nella stanza, si rende conto che la sua espressione si sta facendo sempre più preoccupata e cupa.
Porco cazzo!
Spalanca gli occhi e alza la testa di scatto.
«Chiama gli altri, Steve» esclama, atterrito. Stavolta non c’è nessuna ironia, nessuna traccia del suo tono dispettoso e petulante. Il Capitano registra subito la gravità della situazione.
«Cosa è successo?» gli chiede.
«Quei dannati figli di puttana».
 

 
 
 
 
 
La citazione iniziale è dal brano Milquetoas degli Helmet.
Dato che non lo faccio mai, oggi vorrei lasciare un doveroso grazie a tutti voi che leggete ^_^
A venerdì prossimo con l’aggiornamento. 

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Capitolo 15
*** Fourteenth bullet - La torre ***


Fourteenth bullet: La torre
 
I never knew daylight could be so violent
a revelation in the light of day
you cant choose what stays and what fades away
but I'd do anything to make you stay
 
IN VOLO
 
Il cielo oltre gli oblò è grigio temporale, il mondo è un ombra sotto strati di nuvole.
Natasha Romanoff vorrebbe che quell’aereo viaggiasse più veloce della sua impazienza.
Sa che leggere e rileggere i file che Stark ha decriptato non le dirà niente di più di quello che già non sanno, ma non riesce a fare altro. Forse è stata la visita a quel palazzo alla periferia di Glasgow, e l’idea che ora sia bruciato non le è di alcuna consolazione.
È stata lei stessa ad appiccare l’incendio, e sarebbe voluta restare lì a vederlo bruciare, a vedere la palazzina scomparire avvolta dalle fiamme.
Lo ha già fatto, ha lasciato bruciare una base del KGB e l’ha vista consumarsi, ardere come un gigantesco falò in una notte ad est del mondo. Era la sua prima missione come agente dello SHIELD, i fuochi di artificio non erano in programma, ma lei è sempre stata una a cui piace improvvisare e rubare a quello sporco mestiere ogni grammo di divertimento che riesce a prendersi.
Il fuoco danzava nelle sue iridi da gatta e Natasha Romanoff seppelliva nella cenere un nome e un passato che in parte le avevano già strappato via. 
Non ha mai pensato a quello che si è lasciata alle spalle, a tutto quello di cui non ha memoria, non le occorrono altri ricordi orribili in aggiunta a quelli che già possiede. Non ci ha mai voluto pensare, fino a quel momento, fino a quando non ha incontrato gli occhi del Soldato di Inverno, famelici e spietati, che la cercavano in mezzo a un caos di macchine e gente in fuga nel bel mezzo di Washington.
Ha archiviato la cosa perché non ne aveva il tempo, non ne aveva la voglia. Non ne aveva il coraggio.
Ma quelle schegge sono ancora sotto la sua pelle e fanno male. Sono schegge di neve e filo di ferro dove i ricordi si impigliano e sanguinano. Sono cicatrici tornate a bruciare all’improvviso, come quelle che pizzicano all’avvicinarsi di una tempesta.
Sono segni e tagli che si mettono in fila e convergono a formare la linea contorta della cicatrice che ha visto sulla schiena di Bucky Barnes quando lo stava medicando, dopo che erano tornati nell’albergo vicino al porto.
Conosceva quella cicatrice, sembrava parlarle di passato e futuro, come le cose scritte nelle linee delle mani.
E per quanto la sua ragione continui a ripeterle che è assurdo, lei sa che c’è una spiegazione.
Non voglio ascoltarla.
Non è pronta, per questo ha deciso di continuare a fare finta di niente e ha preferito concentrare le sue risorse e i suoi pensieri sulla lettura di quei file.
Natasha Romanoff è molto brava a mentire. Ma prima di allora si è sempre concessa la dignità di non mentire anche a se stessa.
Per molto tempo Fury aveva tenuto i dati del progetto Avengers solo in forma cartacea, in una cartellina tenuta al sicuro da qualche parte nel suo ufficio o chissà dove, poi erano arrivati gli dei dai mondi lontani e avevano portato sulla Terra le loro beghe familiari e i loro enormi automi sputafuoco, e il direttore dello SHIELD aveva dovuto mettere a parte il Consiglio della sua idea di formare una squadra per prevenire le minacce. E allora ogni cosa era stata archiviata nel sistema.
E ora l’HYDRA ha rubato anni di dati e ricerche scientifiche per farse chissà cosa. Perché è questo che i file dicono: hanno sottratto i dati sul progetto Avengers, le tecnologie di Stark, le analisi di Banner, i test su Rogers e i rilevamenti sul martello di Thor e li stanno usando, in qualche modo assurdo e scellerato. E loro non sanno dove, come, quando.
Stark e Steve erano furiosi quando lo hanno scoperto. Natasha è ben oltre la furia, è in uno stato d’animo che non provava da un sacco di tempo, prova quella sensazione rabbiosa e frustrante dell’animale in gabbia, di quello che se si aprisse anche solo un minuscolo varco tra le sbarre, farebbe tremare il mondo intero. Ma le sbarre reggono, stringono, chiudono.
E a lei viene voglia di urlare. Perché lo sa che a volte i nemici possono essere più bravi o più forti o anche solo più fortunati.
Ma lei deve restare in silenzio, la Vedova Nera non crolla, non si lascia vincere dalle emozioni, lei morde. E uccide.
 
***
 
«Non si può dire che il tuo amico sia tipo di molte parole» Tony riempie due bicchieri di Martini e ci infila dentro uno stecchino con tre olive ciascuno, poi ne passa uno al Capitano. «Lo so che l’alcol non è uno dei tuoi diletti, ma fammi compagnia».
Dopo qualche secondo di esitazione, Steve accetta il bicchiere da cocktail e lo prende con due dita attorno al sottile stelo di vetro.
Tony continua a guardare, non visto, gli altri passeggeri. Il Soldato è sprofondato in un sedile accanto a un finestrino e se la dorme alla grossa.
«Che cosa ti ha fatto cambiare idea?» gli chiede Steve. «Di certo non la nostra discussione, le nostre discussioni non ti hanno mai persuaso di niente».
Tony rimanda la risposta, vuotando in un paio di rapidi sorsi il suo bicchiere, forse perché di risposte non ne ha.
«Chi ti dice che io abbia cambiato idea?»
«Se così non fosse, Bucky non sarebbe su questo aereo»
«Mi credi sempre peggiore di quello che sono, è una cosa che fai solo con me»
«Perché sei troppo egocentrico e presuntuoso e io mi sento in diritto di bilanciare. Lo faccio per te, cosa credi?».
Tony guarda la bottiglia di Martini, come a chiedersi se sia il caso di prepararsi un altro bicchiere ma sembra resistere alla tentazione solo per non dare al Capitano l’impressione di aver ragione.
«Questa cosa va risolta, in un modo o nell’altro» si limita a dire. «E poi sei tu quello che si chiede cosa c’è sotto la mia armatura. Se non ti conoscessi, direi che ti sei preso una cotta per me»
«Sei tu quello che ha attaccato una cimice al mio scudo per seguirmi. Avrò pure più di ottant’anni ma ho imparato cosa vuol dire la aprila stalking».
Il signor Stark incassa il colpo.
«Ehi, ti sto risparmiando le battute sulla biondina, non farmi pentire».
Steve Rogers sposta lo sguardo con una velocità che lo tradisce.
Tony gongola ma per questa volta lascia correre.
A New York li aspetta un duro lavoro. A giudicare da quanto ha visto, non è solo una lavoro da eroi più forti del Pianeta, è qualcosa di più complicato, di cuori da mettere in riga: Steve e l’agente 13, Natasha e… Jon Snow, che non si capisce quanto ne sappia.
E lui pensa che sarà divertente, è un pensiero che che passa come un proiettile attraverso la coltre di sgomento e preoccupazione. I cattivi hanno di nuovo messo le loro manacce sudicie negli affari dei buoni, e non hanno pescato a caso.
Non sanno quanto è grosso il mostro che si nasconde nell’ombra e che quella squadra improbabile ha inseguito per mezzo mondo solo per scoprire - di nuovo - che si era già bello che accomodato in casa loro. Che sta giocando con i loro giocattoli.
«Ho detto che ne abbiamo viste di peggiori» dice Steve, all’improvviso. «Ma stavolta è diverso, vero?»
«Se stai cercando di contagiarmi con il tuo pessimismo, sappi che sono vaccinato».
Sì, Rogers, è diverso. Stavolta sono soli, soli davvero. Non hanno niente e nessuno a coprirgli le spalle, e non hanno un traguardo ad aspettarli da qualche parte, né colonnelli orbi a tracciare una strada per loro.
Dal momento che è un genio, Tony Stark è abituato a definire il senso delle cose in termini semplici. Le battaglie lui le comprende in termini di vittoria o sconfitta, in probabilità di successo o insuccesso. Stavolta è tutto molto più complicato di così ed è inutile starci a rimuginare fino a quando non saranno arrivati a destinazione.
Stando ai documenti che ha letto tra i file decriptati, il progetto del Dipartimento X con le tecnologie rubate dal fascicolo degli Avengers è ancora solo una bozza. Devono averlo accantonato quando hanno cominciato a ritenere assai più valido il progetto Isnight e loro hanno ancora molto tempo per riuscire a scovarli e fermarli prima che un nuovo orrore diventi reale.
Manda al diavolo quel senso amaro che gli stringe la gola e si versa un altro Martini. Poi guarda Steve che ha già messo su la sua migliore espressione da suocera.
«Allora, mi fai contento? Mi dici qualcosa sulla biondina?».     
 
NEW YORK
 
L’aereo atterra su una pista privata, fuori dal centro.
New York sta raggomitolata tra le sue luci incessanti e un cielo nero dove le stelle non riescono a far breccia.
Il Soldato di Inverno respira una boccata di aria fumosa e guarda davanti a sé i puntini luminosi che disegnano la geometria della città in lontananza.
È un ritorno che dà le vertigini, ma è qualcosa che preferisce tenere per sé. Sentirsi un po’ più vicino ad essere se stesso è una di quelle cose importanti che gli sembra possano perdere di significato se se ne parla troppo, a voce alta.
Non che abbia in mente un’idea concreta di casa, ma mentre raggiunge insieme agli altri delle macchine fatte arrivare lì da Stark, Bucky Barnes sente di poter pensare per  la prima volta a qualcosa di simile al suo posto nel mondo. Forse è la mano di Steve che cala in una pacca affettuosa sulla sua spalla, in un gesto che è un incoraggiamento e un bentornato rimasto in sospeso. Forse è il viso di Natasha che entra un istante nel suo campo visivo e poi scompare nella rapidità del passo veloce della donna.
La vede salire su una delle auto. Prima di sparire dietro la portiera metallizzata, Natasha lo guarda un istante. Ha occhi che sono lame di coltello e lui non capisce perché.
Si riscuote dal disagio provato per quella breve occhiata e segue Steve verso la seconda macchina.
Mentre sfilano attraverso le vie trafficate, si sente improvvisamente sveglio, quasi euforico. Vorrebbe fermare l’auto e mettersi a correre lungo il marciapiede, tra le vetrine scintillanti e i coni di luce proiettati dai lampioni.
Qualche meccanismo si è mosso dentro di lui e il Soldato non sa su quale parte del suo cuore stia facendo leva. Ma è una sensazione piacevole, la prima dopo tanto tempo.
«Oh Cristo, ma è…» borbotta quando il profilo della Stark Tower compare in fondo alla strada, torreggiando su tutte le altre costruzioni.
«…orribile. Sì, l’ho pensato anche io la prima volta che l’ho vista. E non ho ancora cambiato idea» dichiara Steve, annuendo. Ma i suoi occhi parlano di ricordi fumosi di piombo e macerie.
Si scambiano un’occhiata, poi il Soldato guarda di nuovo l’imponente grattacielo e scuote la testa.
Le auto si fermano al margine del marciapiede, davanti all’ingresso della torre con il suo portone di vetro e acciaio, dal quale si intravede un androne di ingresso di marmo scuro.
Stark ha un sorrisetto da bambino che è una cosa inquietante quando si ferma davanti ai suoi ospiti e ne scruta l’espressione. Il Soldato non capisce subito il motivo di quella pantomima, poi vede gli occhi di Steve, Natasha e Barton fissi sulla grande A luminosa in cima alla torre.
«Ha anche il bat-segnale sul tetto?» mormora Barton, sollevando le sopracciglia in un’espressione divertita.
«Il Capitano non l’aveva notata quando è venuto a trovarmi nei giorni scorsi» dice Stark. «Ma ho dato una rimodernata ai piani alti del palazzo. Sono molto selettivo sui miei coinquilini, ma mi era bastato già Lok… Bambi a convincermi che un Helicarrier non è una base affidabile»
«Potrei commuovermi» replica Natasha, sarcastica.
«Immagino dovreste chiamarla… Avengers Tower adesso» osserva Sam.
Stark fa una smorfia. «Ora non esageriamo. Gli operai sudaticci li ho comunque dovuti sopportare io, e poi c’è tutta una questione di percentuali con cui dovete discutere con Pepper».
Barton si avvicina a Stark e gli dà un buffo sul braccio. «Questa cosa farebbe venire l’occhio lucido anche a Fury».
Varcano il grande portone che immette nell’ingresso e si dirigono verso l’ascensore.
Nell’androne c’è un profumo per ambienti leggerissimo e gradevole che tradisce la presenza di una mente femminile dotata di buon gusto.
«È bello essere a casa, signore» trilla la voce robotica del maggiordomo di Stark di cui il Soldato ha già avuto modo di stupirsi. «Agente Romanoff, Agente Barton, Agente Carter, signor Wilson, Capitano Rogers, Sergente Barnes, benvenuti».
Sergente Barnes. Era una vita - letteralmente - che qualcuno non lo chiamava usando i suoi gradi di ufficiale. Non è sicuro che siano ancora validi, ma chi è lui per mettersi a discutere con un maggiordomo invisibile?
«Avrei un grado anche io…» borbotta Sam tra i denti.
L’ascensore è rapido e silenziosissimo mentre li porta in cima alla torre. Le porte automatiche si aprono su un grande attico che sembra sospeso in mezzo al cielo di New York, con una vetrata che offre lo spettacolo straordinario della città vista dall’alto.
Al centro del grande open space c’è un tavolino di vetro contornato da un divano di pelle bianca. Sul divano c’è un uomo con un computer portatile sulle ginocchia. L’uomo si alza quando vede entrare l’improbabile squadra tornata dall’Europa e va loro incontro.
«Non vi aspettavo così presto» dice. «Non ho finito i controlli su Boston per cercare il laboratorio. Comunque, ben tornati»
«Dottor Banner» esclama Natasha, con una nota di calore nella voce. «Davvero vivi qui? Pensavo ti piacessero i posti tranquilli»
«Ed esotici e dove ci vogliono almeno dieci vaccinazioni per viaggiarci» le fa eco Barton, sorridendo all’uomo con l’aria timida e un po’ sciatta di chi non è abituato a stare in mezzo alla gente.
Banner tiene le mani l’una nell’altra e passa tutti loro in rassegna con lo sguardo, uno sguardo in cui il Soldato legge il riflesso di una paura e di un senso di rimorso che sente stranamente uguale al suo. Il dottore ha l’aria di qualcuno che ha deciso di condannare se stesso a un’espiazione continua.
Abitare con Stark deve essere già una penitenza, in qualche modo.
«Vieni Bruce, lascia che ti presenti i nostri nuovi acquisti» dice il padrone di casa.
Sharon è la prima a farsi avanti e a presentarsi. Tende la mano all’uomo e gli sorride. «Ci siamo già incontrati, dottor Banner. Ero nella squadra che venne a prelevarla a Calcutta»
«Oh. Quindi possiamo considerare sorpassata la parte in cui le faccio prendere uno spavento per metterla alla prova».
«E qui abbiamo l’altro pezzo vintage della collezione» aggiunge Stark spingendo avanti il Soldato.
Il dottor Banner lo guarda risparmiandogli ogni tipo di espressione incuriosita o anche solo vagamente turbata, non indugia neppure un secondo a guardare in direzione del suo braccio sinistro. Fa una faccia cordiale e gli tende la mano, come se sapesse come ci si sente ad essere mostri proprio malgrado.
Il Soldato ricambia la stretta di mano e si sente persino un po’ in imbarazzo. Non era pronto a momenti come quello, a quando si sarebbe dovuto rapportare con un’altra persona semplicemente da uomo a uomo.
«Se andiamo avanti di questo passo, Pepper ci convincerà a formare una squadra di football da far giocare nelle partite di beneficenza contro la squadra dei pompieri di Manhattan» dice il dottor Banner, in tono sarcastico.
«Se volete seguirmi al piano di sotto, vi mostro le vostre stanze» dice poi Stark. «Pepper si vanterà del fatto che tutto quanto ci sia di bello è stata una sua idea: lasciamoglielo credere»
«Hai davvero costruito delle stanze appositamente per noi?» domanda Steve. «Non me ne hai parlato, l’ultima volta»
«L’ultima volta che sei stato qui non eri molto ricettivo, Capitano. Ad ogni modo, i tre nuovi acquisti saranno ubicati altrove, non hanno ancora la tessera del club»
«Dove si compilano i moduli per l’adesione?» domanda Sam, e non sembra nemmeno particolarmente scherzoso quando mettono piede nel corridoio sul quale affacciano gli alloggi che Stark ha fatto preparare per i componenti della squadra degli Avengers.
Il Soldato ha ricordi confusi al riguardo, ma l’HYDRA li ha tenuti d’occhio da quando il direttore Fury aveva condiviso con i vertici dello SHIELD l’idea di formare una squadra con persone dotate di abilità peculiari. In quegli ultimi anni ha visto più di una volta le loro foto e i loro fascicoli, anche se non ne ricorda con esattezza i dettagli.
«Però dato che Thor non c’è, la sua stanza è libera» aggiunge Sam, speranzoso.
«Non dormirai qui, Wilson. Fattene una ragione» lo rimbecca Barton. «Così impari a rubarmi il primato di pennuto della squadra»
«Ci sono altre stanze di sotto» Stark armeggia con un pannello di interruttori e delle luci bianchissime illuminano a giorno tutto il piano. Gli alloggi hanno tutti un lato che affaccia sulla grande vetrata del lato nord della torre. «Voi tre potete dormire dove volete, basta che non vi mettiate a litigare su chi deve stare in stanza con Rogers».
«Ci servirà un libretto delle istruzioni per sopravvivere dentro queste stanze?» domanda Steve, affacciandosi sulla soglia degli alloggi destinati a Captain America.
Tony Stark si stringe nelle spalle. «Per qualsiasi cosa, chiedete a Jarvis. E se sentite rumori strani di notte, non vi spaventate, è solo Banner che è nottambulo».
Sharon copre uno sbadiglio con una mano. Il viaggio è stato lungo e stancante e il Soldato non ha idea di che ore siano, ma deve essere molto tardi.
Lui, la ragazza e Sam seguono il padrone di casa al piano di sotto. Il terzultimo livello della torre non è meno lussuoso ed elegante degli altri due che ha visto.
Stark li lascia in un corridoio pieno di porte di vetro sabbiato. Nel rettangolo di parete tra una porta e l’altra ci sono delle stampe antiche - probabilmente originali - che contrastano con l’ambiente arredato in stile moderno e minimalista, creando un effetto molto bello, che qualcuno con il palato fine potrebbe definire di classe o qualcosa del genere.
Uno scampolo di ricordo scivola da quella parte del suo cervello ancora avvolta dall’oblio: Steve era un ottimo disegnatore, aveva sempre in mano carta e matita quando non era impegnato a fare altro o quando il mondo diventava troppo per lui.
Il Soldato si stupisce di come mai non gli sia venuto in mente prima.
Forse è solo il magnetismo esercitato da quel posto, un luogo vicino a dove è nato e cresciuto, dove riesce a pensare a Bucky Barnes senza avvertire la voragine che lo separa da lui.
«Poteva prestarmela la stanza di Thor» dice Sam, indugiando sulla soglia di una delle tante camere da letto.
«Non prendertela» Sharon gli strizza l’occhio. «Domani mattina puoi offrirti volontario per portare la colazione a letto ai ragazzi di sopra e visitare il covo degli Avengers»
«Sì, sarà il mio primo pensiero quando mi sveglierò, se mi sveglierò. Non so voi, ma io sono distrutto».
Il Soldato realizza di non essere davvero stanco. È ancora indolenzito per i colpi ricevuti nella brutta avventura del giorno prima - o forse erano due giorni prima - ma si sta riprendendo in fretta. Sente ancora sotto pelle il senso di euforia che lo aveva colto dopo l’atterraggio.
Sam mormora un augurio di buona notte e sparisce dietro una delle porte, sbadigliando. Nel corridoio restano solo lui e Sharon, e anche la ragazza ha il viso stanco e gli occhi leggermente velati.
«Non litigherò con te per chi deve dividere la stanza con Steve» le dice il Soldato, trovando lo spirito di accennare un sorriso.
«Buono a sapersi, perché probabilmente non ne sarei uscita viva»
«Il mio voleva essere un suggerimento».
Contro ogni previsione, Sharon Carter dimostra di essere il tipo di ragazza ancora capace di arrossire, sotto la scorza dura di agente speciale dello SHIELD.
«Un suggerimento che sarei lieta di seguire. Ma non sono certa che la circostanza sia quella giusta» ammette, con un sorriso che appare quasi intimidito.
«Stiamo parlando di Steve Rogers, non c’è una circostanza giusta»
«Sembriamo due liceali, non trovi?»
«Mi piace di più pensarmi come un vecchio saggio che dispensa consigli. Del resto, l’età è quella».
Sharon si lascia scappare una risatina, poi lo guarda con una gratitudine insperata e inattesa e anche se il cuore del Soldato non registra alcuna variazione, Bucky Barnes sente mancare un battito.
«Aspetterò una sera in cui mi sento meno stanca e più coraggiosa» conclude la ragazza, senza smettere di sorridergli.
Lui annuisce. «Non aspettare troppo», le dice prima che lei gli auguri la buona notte.
Il Soldato guarda Sharon richiudersi la porta di vetro alle spalle, poi sceglie anche lui una stanza.
La camera è ampia e quadrata con un letto enorme sistemato su un soppalco di legno chiaro, uguale a quello dei mobili eleganti che compongono l’arredamento.
Vediamo se ho capito come funziona
«Jarvis?» dice, parlando al vuoto davanti a sé.
La voce dell’intelligenza artificiale gli risponde solerte. «Sì, sergente Barnes».
Gli fa impressione sentirsi chiamare a quel modo. L’ultimo ricordo che ha di qualcuno che lo aveva chiamato così risale a quando si era risvegliato nel laboratorio dell’HYDRA dopo la caduta dal treno, con il volto dello scienziato tedesco chino su di lui a sorridergli lezioso.
Cerca di non pensarci.
«Hai della musica?»
«Immagino lei intenda se posso riprodurre della musica. In questo caso la risposta è sì. Cosa gradisce ascoltare?».
Non gli è difficile immaginare che Jarvis possa attingere in qualche modo da un repertorio infinito.
Se non fosse solo in quella stanza direbbe qualcosa che si possa ballare. Gli piaceva ballare, è un altro ricordo che compare tra i suoi pensieri senza un motivo preciso.
«Qualcosa al pianoforte. Stupiscimi»
«Molto bene, signore». 
La musica che comincia a suonare sembra riempire l’aria.
Con suo grande stupore, il Soldato la riconosce e dopo qualche secondo gli viene in mente il nome del compositore. Erik Satie, un pianista francese morto negli anni Venti.
Con le note del pianoforte che vibrano attorno a lui, provenienti da casse che non riesce a individuare a vista, il Soldato va in bagno e apre l’acqua calda nella doccia, aspetta che il vapore salga ad appannare lo specchio e comincia a sfilarsi i vestiti, sentendo a ogni movimento troppo brusco i punti che gli ha applicato Natasha tirare e i muscoli mandare nuove fitte di dolore.
Il getto bollente dell’acqua gli arrossa la pelle.
Ci sono residui di gelo dentro di lui, a volte gli piace illudersi di poterli mandare via.
Quando esce dal bagno e torna nella camera da letto, sente il rumore forte della pioggia al di sopra delle note del pianoforte. Si avvicina alla vetrata e scosta la tenda per osservare una piccola tempesta abbattersi su New York. Da quell’altezza è uno spettacolo ancora più bello.
Resta a guardare la città spazzata dalla pioggia e dal vento per qualche minuto prima di decidersi a coricarsi.
Si infila sotto le coperte lisce e profumate di pulito, sentendosi al sicuro per la prima volta da giorni.
«Devo interrompere la musica, signore?» domanda Jarvis quando lui spegne la luce.
«No. Lasciala».
Si addormenta senza accorgersene, con la mente ancora impegnata a seguire le note di pianoforte e il ritmo dolce della musica.
Non ci sono sogni ad attenderlo dietro le palpebre chiuse, e nemmeno incubi. C’è il nero di un oblio confortante e il suono della pioggia.
Non si accorge che la tempesta si è fatta più violenta, ma è il suono forte di un tuono a svegliarlo di colpo e una sensazione conosciuta che non riesce subito a richiamare alla mente: l’impressione di una presenza che i suoi sensi allenati fiutano di istinto, il rumore vago della porta che viene aperta e poi richiusa.
Apre gli occhi e la vede come un fantasma, nell’attimo di luce di un lampo.
«Cos… Natasha?».
La donna non dice niente, resta in mezzo alla stanza a guardarlo, un’ombra in mezzo al buio.
«Che ci fai qui?» insiste lui.
«Dovevo sapere»
«Di cosa stai parlando?».
Il gelo turbina un istante nei suoi pensieri, ricordo di un inverno che ha deciso di tenersi dentro perché non possa fare altro male.
Vede Natasha avvicinarsi, non sente i passi sul pavimento e quasi è disposto a credere che sia un sogno.
Più che vederla, l’avverte. Poi sente il materasso smuoversi appena quando lei si appoggia al letto e sente il suo profumo di sapone e capelli ancora umidi per un bagno appena fatto.
Sente il respiro di lei vicinissimo.
Non lo fare, ti prego. Lascia linverno lì dove deve rimanere.
Lo pensa, ma non riesce a dirlo, né a fare niente per opporsi. Quando le labbra di Natasha si posano sulle sue il freddo dell’inverno e il calore che gli si accende dentro diventano dolore per un istante rapidissimo, prima che il raziocinio ceda al ricordo che sale a galla sulla sua pelle e non gli lascia via di uscita né alcuna possibilità di resistere.
La bacia prendendole il viso tra le mani, con la stessa disperata veemenza dei baci clandestini di un amore affogato nella neve una vita fa.
«Chi sei?» mormora Natasha sulle sue labbra. «Da quando siamo stati in quel palazzo a Glasgow, è come se…».
Non lo sa dire. Non c’è una parola per descrivere quella sensazione di sogni a occhi aperti che la mente si rifiuta di chiamare ricordi. Forse il palazzo di Glasgow era troppo simile al luogo in cui è stata addestrata, forse è la foga di quella lotta disperata contro nemici sempre più sfuggenti.
Vorrebbe dirle di non pensarci, che è passato così tanto tempo e che nessuno di loro è la stessa persona che era allora. Ma i cuori hanno un modo tutto loro per conservare la memoria, come la pelle e i muscoli che ricordano ancora prima che lo faccia la mente.
Forse è per questo che Natasha è lì, ora.
«James» mormora il suo nome come se stesse guardando il suo viso in una fotografia e lo avesse riconosciuto in mezzo a tanti visi sfocati.
E la logica si sfalda, e ogni cosa perde di importanza.
La spinge di schiena sul materasso, più brusco di quanto avrebbe voluto.
Le mani si muovono alla cieca, scostano la stoffa dei vestiti quel tanto che basta. I ricordi scandiscono il ritmo di un’impazienza che lui sente bruciare in fondo allo stomaco, tanto da chiedersi come abbia fatto a non rendersene conto fino a quel momento.
Quando Natasha gli circonda i fianchi con le gambe e spinge il bacino verso di lui, il Soldato non ricorda più da che parte soffi l’inverno.
 

 
 


 
Note
Nella mia testa, a Bucky è rimasta una brutta cicatrice sulla schiena dovuta alla caduta dal treno.
Natualmente, che Sharon fosse nella squadra che era andata a recuperare Bruce a Calcutta è un’idea tutta mia.
Erik Satie. Se non lo avete mai ascoltato, fatelo!
Citazione iniziale dal brano “No light, no light” dei Florence + The Machine
 
La prossima settimana temo salterà l’aggiornamento, causa ultimo esame-eccessivamente-tosto di questa infernale sessione estiva. Mi scuso con tutti voi che leggete, odio essere in ritardo, ma odio ancora di più postare capitoli non scritti con la dovuta cura.
Ci aggiorniamo venerdì primo agosto. 

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Capitolo 16
*** Sixteenth bullet: quel che resta dell'inverno - parte prima ***


Sixteenth bullet: quel che resta dellinverno
Parte prima
 
How close am I to losing you?
Hey, are you awake?
Yeah I'm right here.
Well can I ask you about today?
 
NEW YORK
 
La sensazione lo raggiunge nel sonno, è il tocco di una carezza e un alone di profumo fruttato.
Tony Stark apre gli occhi e vede il viso di Pepper chino su di lui.
È seduta sul bordo del materasso, la schiena diritta, il completo color crema senza una piega, il trucco leggero senza una sbavatura.
È il contrappeso perfetto per l’esistenza sgangherata di un genio multimilionario che ha impiegato fin troppo tempo a capire cosa potesse renderlo davvero felice.
«Non ti aspettavo oggi» le dice. «O forse mi sono solo dimenticato di segnarlo in agenda»
«Sono tornata con un po’ di anticipo. Dato che per due giorni non ho avuto tue notizie, ho pensato che magari avevi fatto esplodere anche questa casa».
Tony arriccia le labbra. «La villa di Malibù non l’ho fatta certo esplodere io».
Pepper continua a passargli una mano tra i capelli. Il mondo riacquista ordine nella dolcezza delle sue carezze.
«Jarvis mi ha aggiornata sugli ultimi sviluppi» aggiunge lei dopo qualche istante. «Così adesso facciamo anche i pigiama party con gli Avengers»
«Ci sono stati i pigiama, ma nessun party, te lo assicuro».
Lei sospira. L’orecchio allenato di Tony registra in quel sospiro una nota di rimorso: forse Pepper si sente in colpa per essere stata via mentre lì succedevano i casini - dentro e fuori la preziosissima testa del signor Stark.
Il senso di colpa di una donna è una cosa che torna utile in molti modi, soprattutto quando c’è di mezzo del sesso o uno strappo alla ferrea regola che gli vieta di mangiare schifezze durante la settimana. Ma stavolta Tony non ha voglia di segnare il punto a suo favore.
«Non avresti dovuto fare un viaggio fino in Scozia con l’armatura nuova, non hai mai fatto sforzi così grandi da quando il Mark ha il reattore Arc esterno» dice poi lei. E l’uomo si chiede com’è che all’improvviso sia passato in svantaggio nella competizione sul senso di colpa accumulato, così, nel giro di mezzo secondo.
«Sapevo che i miei calcoli erano corretti e che Capitan Naftalina aveva bisogno di me»
«Diciamo che lo supponevi»
«La cosa dei calcoli o quella del fatto che Rogers fosse nei guai?».
Pepper inarca un sopracciglio, poi gli batte una mano sul petto e gli fa cenno di alzarsi.
Non lo sgriderà perché è andato ad aiutare un compagno di sventura.
«Ho mandato Happy a prendere dolci e ciambelle per la colazione. Tu e i tuoi amici avrete bisogno di carboidrati per giocare a qualsiasi cosa dobbiate giocare» gli dice.
«Questa cosa che ti figuri me e i miei compagni di squadra come dei bambini sono certo abbia un che di freudiano».
Saltellando su una gamba sola, Tony infila i pantaloni della tuta da ginnastica e poi si stropiccia il viso con le mani. Sente lo sguardo di Pepper ancora su di sé, è uno sguardo di attesa. La sua compagna sta aspettando parole che lui non sa bene come mettere insieme.
Alla fine, con lo spirito pragmatico che da sempre la contraddistingue, la signorina Potts decide di agire in modo più diretto.
«C’è anche lui, vero? Hai portato il Soldato di Inverno qui».
Tony spinge in fuori le labbra. «Mmh, sì. Ma non ti preoccupare, non lo avrei fatto se non fossi stato certo che è assolutamente innocuo e sotto controllo, sai l’errore di invitare pazzi assassini a casa nostra  non è il genere di cose sul quale sono recidivo»
«Non parlavo di questo. Mi chiedevo solo come stai, come stanno le cose».
Stanno che quel tizio è un fottuto cucciolo di panda con il potenziale letale di una bomba nucleare.
«Beh, il momento delle presentazioni non è stato dei più felici» ammette Tony con un sospiro, cominciando a gesticolare come se stesse esponendo una teoria di fisica quantistica. «E la sua esistenza mi trasmette un certo male di vivere latente. Tuttavia, una parte di me si chiede se sia giusto incolparlo per quello che ha fatto quando era sotto il controllo dell’HYDRA».
Pepper annuisce, con l’aria della maestrina soddisfatta. «Che altro?»
«È frustrante scoprire che i tuoi genitori sono stati assassinati e renderti conto che la vendetta non sarebbe giusta, anche se ce l’hai a portata di mano»
«La vendetta non è mai giusta. E tu sei migliore di così, per questo sono così fiera di te»
«Oh. Quindi anche se siamo pari con il senso di colpa posso sperare in una seduta di sesso come si deve?…».
Pepper gli lancia un’occhiata truce e si avvia fuori dalla stanza.
«… o almeno nella possibilità di avere dello shawardma per cena». 
Lei si ferma sulla soglia della porta, con una mano sul pomello. «Renditi presentabile per la colazione. Voglio conoscere i nuovi amichetti, altrimenti non ti mando a giocare con loro».
Tony resta a fissarla mentre esce e richiude la porta dietro di sé, il suo profumo che aleggia ancora nella stanza.
Sorride per un attimo prima di dirigersi verso il bagno a passo strascicato.
 
***
 
Quando apre gli occhi, il Soldato è quasi certo che Natasha lo abbia fatto svegliare con la sola forza dello sguardo, perché ora i suoi bellissimi occhi da gatta sono puntati sul suo viso e hanno la stessa eloquenza di armi cariche.
Ma lei è ancora raggomitolata al suo fianco, con il viso appoggiato sulla spalla, avvolta nel lenzuolo con un braccio a cingergli il petto.
Forse è ancora in tempo per uscirne vivo.
«Non sono certa di quello che ricordo» dice lei. «Ma so che hai delle risposte. È qualcosa che devi aver ricordato: da quando eravamo in viaggio verso la Scozia non riuscivi più a guardarmi in faccia».
Il Soldato si passa una mano tra i capelli, come se servisse a rimettere in riga i pensieri.
«Rispondimi» incalza lei, dandogli un calcio leggero da sotto le lenzuola.
«Sì. Sto solo cercando di capire cosa c’entrano le domande di stamattina con quello che è successo stanotte». Non trova un modo più garbato di dirlo, ma in genere il sesso e le domande esistenziali non vanno molto d’accordo, meno che mai per una donna. Non che Natasha Romanoff sia una donna comune, ma qualche parametro di normalità deve pur averlo, giusto perché la gente possa regolarsi di conseguenza.
«Dimmelo tu cosa c’entra». Lei non smette di guardarlo fisso.
«Ho qualche possibilità di uscirne incolume?»
«Non ti prometto niente».
Il Soldato le accarezza la schiena, è un gesto che gli viene automatico, non ha bisogno di pensare.
«Sono stato in Russia, ho lavorato alcuni anni per il KGB» dice. «In quello stesso periodo ti stavano addestrando. Fui io a completare il tuo addestramento».
Dice le cose essenziali. I particolari non sono necessari, i particolari sono pesanti come piombo e lei non ne ha bisogno.
Natasha serra le labbra, il suo sguardo si incupisce mentre i pensieri mettono a fuoco immagini che di certo preferisce dimenticare.
«Mi hanno… fatto qualcosa, gli ultimi anni. Hanno testato tecniche di manipolazione mentale e di manipolazione dei ricordi» mormora. «Stavo diventando indisciplinata, suppongo».
Non c’è bisogno di ricordarmi quanto io debba odiarli. Vorrebbe dirglielo, perché quelle parole gli fanno male, più male di tutto quello che l’HYDRA ha fatto a lui in tutti quegli anni.
«È stata colpa mia…» le dice.
«Cosa c’entra? Perché?»
Perché non ho mai avuto il coraggio di portarti via da lì, avrei dovuto ucciderli tutti e distruggere quella base di addestramento mattone dopo mattone.
Perché alla fine gli ordini mi sembravano sempre più importanti.
Perché tu mi amavi.
Perché non sono mai stato abbastanza.
Il Soldato respira lentamente, stringe il pugno tra le lenzuola. Sente la rabbia e la disperazione montagli dentro fino a quando Natasha non gli posa una mano sulla guancia, in una carezza che è la più dolce delle assoluzioni.
Come Stark, come lo stesso Steve, lei avrebbe il diritto di detestarlo, e forse anche il dovere di cancellarlo dalla faccia della terra. E invece, lei è dalla sua parte, nonostante tutto e lui non sa come rendere giustizia alle possibilità così grandi che tutti loro gli stanno offrendo.
«Ci eravamo innamorati. Lo tenemmo segreto finché potemmo, poi ci scoprirono e ci separarono» le dice. «Insieme  eravamo troppo pericolosi, la nostra relazione era un rischio».
Natasha si alza a sedere con uno scatto. Con una mano trattiene il lenzuolo a coprirsi il petto nudo e lo guarda in un modo che lui vorrebbe essere anche solo lontanamente capace di decifrare. 
«È stata colpa mia» continua il Soldato, sentendo l’impulso di alzarsi da quel letto e scappare e fare in modo che Natasha non debba mai più averlo attorno. 
Lei china il capo un istante, poi torna a guardarlo.
«Senti, io non sono brava con i discorsi e non so trovare parole convincenti per dirtelo» mormora. «Ma niente di quello che è successo in tutti questi anni è stata colpa tua»
«Vorrei che fosse così facile. Tutta quella gente morta… non importa se ero cosciente o no: quando affiora qualche ricordo, è sempre la mia mano quella che vedo premere il grilletto, è sempre la mia faccia che vedo riflessa nei loro sguardi»
«E allora devi solo darti il tempo di sostituire quei ricordi con altri migliori. Mi pare che al piano di sopra ce ne siano almeno un paio»
«Ce n’è uno bellissimo anche in questa stanza» si lascia scappare il Soldato, il sorriso che gli sale agli occhi prima che alle labbra.
Natasha si china su di lui per baciarlo e gli si stringe contro. 
«Solo, perché non me lo hai detto prima?» gli dice, quando si separano.
«Non volevo che fosse un peso da portare, nel caso non fossi stata pronta a farlo».
Lei annuisce, come davanti a una verità solenne, poi lo guarda negli occhi con aria quasi di sfida, si toglie il lenzuolo di dosso e si alza dal letto. Nuda e bellissima, si dirige verso il bagno. Si ferma sulla soglia e si volta a guardarlo da sopra la spalla.
«D’accordo, ma la prossima volta che ti verrà in mente di fare il cavaliere con me, non farlo. Non sono la principessina da adorare e vezzeggiare».
Mi permetto di dissentire almeno in parte. Ancora una volta, lo pensa ma non lo dice, non gli sembra il caso di mettersi a giocare con il fuoco.
Il Soldato resta disteso a guardare il soffitto. Non prova a pensare, sa che non ne sarebbe capace.
Lui che torna a casa, Natasha che torna da lui. E la guerra, che aspetta tutti loro di nuovo - perché sa che è così che andrà a finire, con il sangue e le macerie, quando troveranno la cellula dell’HYDRA ancora attiva. Sono tutte cose che la sua mente non riesce a mettere in fila.
Vorrebbe che il mondo finisse tra le pareti di quella stanza, che lui a Natasha potessero restare lì senza doversi preoccupare di nulla.
Perdere la pace è il prezzo da pagare per essere ciò che sono. È un prezzo che non hanno mai chiesto, ma né lui né lei conoscono altro modo di stare al mondo, ormai.
Natasha esce dal bagno, avvolta in un asciugamano. I pensieri del Soldato glielo hanno già sfilato di dosso, immagina di nuovo le sue mani su di lei e il suo corpo comincia a reagire a questo genere di pensieri.
«Immagino che ci aspettino a colazione» dice la donna, con noncuranza, cominciando a recuperare i vestiti dal pavimento.
«Una colazione con Stark: esattamente quello di cui avevo voglia».
Natasha si volta a guardarlo, inarca un sopracciglio con un’espressione smaliziata. «Compra sempre dei dolci buonissimi» conclude prima di tornare in bagno a rivestirsi.
 
***
 
«Dormito bene?» chiede Sam in attesa nel corridoio.
Sharon annuisce. «E tu hai dormito o hai rimuginato su quelli del piano di sopra?»
Lui le fa una smorfia.
La mattina è ancora grigia, l’aria appesantita e umida dalla notte di pioggia.
Quando imboccano l’ascensore, Sharon si guarda nello specchio incastonato nella parete di radica. Ha i capelli legati in una coda un po’ storta e gli occhi velati. Non è vero che ha dormito bene, ha dormito come qualcuno che sta steso sul bordo di un precipizio.
Era partita da Philadelphia insieme a Steve e Sam con in mente un’idea di avventura, niente che avesse a che fare con i pensieri romantici e ingenui dei suoi primi anni di addestramento, solo l’idea di una strada che, a prescindere da quanto sarebbe stata tortuosa, l’avrebbe in ogni modo condotta da qualche parte. Ora è praticamente tornata al punto di partenza e le sembra di non avere niente, niente fuori da lì, fuori da quel posto che comunque non è casa, da quei giorni che comunque non sono la sua vita. La sua vita e il suo posto nel mondo sono andati perduti tra le macerie del Triskelion, è un pensiero che solo in quel momento si manifesta in tutta la sua dolorosa eloquenza.
E poi c’è Steve.
Pensare a lui confonde solo di più le cose.
L’amore è un tiro di fionda, un sassolino scagliato lontano verso un futuro in costruzione. Non sai quale angolo di muro andrà a colpire, se centrerà una finestra e spaccherà qualche vetro oppure se colpirà qualcuno e lo farà sanguinare.
Quando la parola amore prende forma nella mente della ragazza, lei si sente mancare il terreno sotto i piedi. Il futuro le sembra solo un’ombra soffocante, e il sassolino scagliato dalla sua fionda non può fare altro che perdersi in quel buio.
«Hai intenzione di restare lì?». Sam la guarda da oltre la porta dell’ascensore, con una mano poggiata alla fotocellula per tenere aperto lo sportello automatico.
La voce di Tony Stark arriva alta e squillante dal centro dell’open space. Sta raccontando qualche aneddoto imbarazzante sul dottor Banner, approfittando del fatto che lui non sia lì ad arrabbiarsi.
Gli altri sono seduti attorno a un tavolino di vetro con sopra caraffe di caffè, latte e cartoni di ciambelle dalla glassa così perfetta da sembrare finte.
Sharon fa un rapido inventario dei presenti. Mancano Natasha e Bucky.
Steve la guarda al di sopra della spalla, le rivolge un sorriso che è il miglior buongiorno del mondo. Clint Barton, seduto vicino a lui, si alza per prendere del caffè e poi va a sedersi altrove, lasciando vuoto il posto accanto al Capitano.
Sharon si chiede se non sia questo il genere di cose che farebbe arrossire una ragazza appena un po’ meno smaliziata di lei.
«Ci sono delle tazze pulite nel mobiletto del bar, servitevi pure» dice Stark. Sembra meno esagitato del solito - dove per meno esagitato si intende vagamente meno somigliante a una scimmia sotto metadone.
La ragione di questo lieve mutamento avvenuto nel padrone di casa deve essere la donna dai capelli biondo rame che sta attraversando la stanza con una caraffa di acqua calda e un contenitore di bustine di tè. Pepper Potts non ha bisogno di presentazioni, quasi come il suo esuberante compagno, anche se Sharon e Sam elargiscono sorrisi e strette di mano d’ordinanza in risposta a i modi cordiali della donna.
La ragazza va a sedersi vicino a Steve, approfittando della gentile e arguta concessione dell’agente Barton. Lui le posa la mano sulla spalla in una carezza fugace e Sharon pensa che forse avrebbe dovuto dar retta a Bucky e intrufolarsi nella sua stanza la notte prima.
Sì, è facile essere coraggiosi quando si ragiona per ipotesi
«Oh, Bruce, grazie per esserti unito a noi!» esclama Tony, guardando in direzione della porta dell’ascensore.
Il dottor Banner fa il suo ingresso nell’attico con un paio di pantofole ai piedi. Si ferma nel mezzo della stanza guardando le teste che spuntano oltre la spalliera del divano come se nel corso della notte si fosse dimenticato della loro presenza lì, sembra persino un po’ imbarazzato per essersi presentato ancora in ciabatte, con il viso assonnato, poi però fa una specie di sorrisetto e avanza verso di loro, andandosi ad appollaiare sul bracciolo del divano accanto a Barton.
«Non ho buone notizie da darvi» annuncia, stringendo le labbra. «Non ho trovato ancora niente su Boston»
«Sono le otto del mattino, Bruce» osserva Stark, enfatico. «Cosa avevamo detto riguardo al non parlare di lavoro prima delle nove?»
«Credevo che questa fosse un’emergenza»
«Non lo è, nel senso che abbiamo altre cose di cui occuparci, prima di Boston».
Sharon sente Steve sospirare impercettibilmente accanto a lei. «Davvero? Quali?» domanda il Capitano, cercando di apparire paziente e conciliante.
«Oh, tanto per cominciare il braccino del tuo amico del cuore, Cap» bercia Stark aprendo i palmi delle mani come se stesse spiegando la cosa più ovvia del mondo - nella mente di Tony Stark deve esserci una definizione a parte di ovvietà e di altri concetti del genere. «Tu non vuoi mandarlo a fare a botte con il braccio che non si sa se funziona, o no?»
«Credevo che lo avessi aggiustato»
«Credevo di aver detto che lo avrei definitivamente sistemato una volta tornati a casa, ed è quello che ho intenzione di fare».
Steve incassa il colpo, annuendo dietro il bordo della tazza di caffè.
«Il sottinteso di tutto ciò è che siamo ben lontani dal vedere la fine di questo delirio?» domanda Clint Baroton, gettando all’indietro la testa.
«Oltre che un falco sei anche una lince, Legolas» lo rimbecca Stark.
«Non è una questione di quanto tempo ci serve, quello che mi interessa sapere è cosa fare» insiste Steve.
«A me sembra che al momento la priorità sia capire dove. Siamo certi che le informazioni su Boston siano esatte?» interloquisce Banner.
Devono esserlo. È tutto quello che hanno contro dei nemici che ancora una volta sembrano tenere il coltello dalla parte del manico.
Non è chiaro cosa l’HYDRA voglia fare con le tecnologie del progetto Avengers, ma il punto è proprio questo: con quelle potenzialità, potrebbe fare qualsiasi cosa e ora ci sono solo loro a cercare di evitarlo.
Sono tutti soldati che hanno battaglie alle spalle, ma non hanno più una bandiera sotto la quale raccogliersi se non il desiderio di rivalsa contro un nemico che ha tolto qualcosa a ognuno di loro.
Sharon spera che possa bastare.
Il trillo dell’ascensore annuncia che sta per aggiungersi almeno un altro nome all’appello in quella colazione diventata un brainstorming senza uscita.
Natasha e Bucky arrivano insieme e mentre si avvicinano al divano, un sorrisetto da stregatto arriccia le labbra di Stark. Il suo cervello deve essere come una molla carica sul punto di sparare una qualche battuta ma quando lui intercetta lo sguardo di Pepper gli occhi della donna sembrano portare scritto a caratteri luminosi e impossibili da ignorare le parole: non.osare.nemmeno.pensarci.
Stark potrà pure risparmiarsi una delle sue uscite pruriginose, ma la lampadina che gli si è accesa in testa è la stessa che si accesa anche nei pensieri di tutti loro.
A volte la vicinanza tra le persone e le sue implicazioni sono cose che si percepiscono a naso, e quei due hanno un modo di camminare vicini, alla stessa andatura, con le braccia che quasi si sfiorano, che la dice assai lunga. 
Sharon non ha bisogno di voltarsi verso Steve per indovinare il sorriso trattenuto che deve brillargli nello sguardo. E non ha nemmeno il coraggio di guardare l’agente Barton.
«Natasha, è bello rivederti». La signorina Potts si alza e va incontro all’agente Romanoff con un’aria neutrale che non si capisce se sia sincera o se sia solo la più perfetta delle maschere, ma il suo intervento solleva tutti dall’imbarazzo del momento.
Pepper posa una mano sulla spalla della Vedova Nera e le sorride. «È passato tanto tempo. Spero che non finisca come l’ultima volta» dice lei con uno dei suoi rari sorrisi davvero amichevoli.
«Beh, l’ultima volta è stato divertente. O almeno è così che mi piace ricordarlo».
Lo sguardo della signorina Potts si sposta sul Soldato, la sua espressione non muta. «Sergente Barnes, sono contenta di conoscerla».
Bucky dà sfoggio di tutta la sua cortesia d’altri tempi, di quello che c’è rimasto sotto la corazza del Soldato, e risponde al saluto di Pepper con un’espressione squisita. A riprova del fatto che riesce almeno a fingere di essere tornato parte di quel mondo. Di certo la notte appena trascorsa deve averlo messo di buon umore.
L’intervento della padrona di casa sembra aver rotto il giacchio, o almeno cominciato a scalfirne la crosta.
Quando per un assurdo caso dovuto alle precedenti disposizioni dei presenti sui divani, Natasha finisce seduta proprio in mezzo a Bucky e a Clint, Sharon pensa che non vorrebbe essere al suo posto per nessuna ragione al mondo.
«Stavamo parlando di te, poco fa» annuncia Stark, guardando Bucky in viso.
«Spero vi verrà a noia, prima o poi» borbotta lui.
«Mh, può darsi. Ma per adesso, siccome sono un uomo di parola e al momento pare non ci sia altro di costruttivo da fare, vorrei dare un’occhiata come si deve a quel braccio»
«Ti ricorderai di disattivare l’innesto nella spalla, stavolta?»
«Oh, farò molto di più. Lo stacco!».
Sharon ha la sensazione che Stark non si sia reso conto di quanto macabra debba apparire l’idea per chiunque abbia un cervello regolato sui comuni standard di normalità.
«Si stacca, vero?» incalza il padrone di casa.
Il Soldato è palesemente a disagio, ma Stark decide di ignorarlo. «Credo di sì».
La ragazza abbassa lo sguardo e vede la mano di Steve stretta in un pugno così saldo da far sbiancare le nocche.
«Sì, beh, penserai a i tuoi giocattoli un altro giorno, Tony» esclama il Capitano con un tono imperioso che sembra rendere l’aria più rarefatta. «Oggi Bucky è con me».
Il Soldato guarda Steve senza alcuna espressione particolare, ma nei suoi occhi passa una scintilla di gelo, un frammento di quell’inverno che deve essergli rimasto attaccato sotto la pelle. «Credevo che i tempi in cui qualcuno decideva per me fossero finiti» dice in tono monocorde.
Dai suoi occhi, il gelo sembra spandersi e calare su tutta la stanza. 
 

 
 
 
 
Note:
Sono viva! E quanto prima risponderò anche a tutte le recensioni che mi avete lasciato, intanto vi ringrazio.
Ho odiato questo capitolo, è venuta fuori una roba lunghissima che non sapevo come dividere, a meno di non pubblicare una cosa lunga chilometri. Perdonate se la prima parte suona un po’ “inconcludente”. 
La citazione iniziale è dal brano “About today” dei The National.
 A venerdì prossimo con l’aggiornamento. 

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Capitolo 17
*** Seventeenth bullet - Quel che resta dell'inverno - parte seconda ***


Seventeenth bullet: Quel che resta dellinverno
parte seconda
 
The flame tames honer where dancing heroes play.
The dawn delivers me life.
New skins in which to hide.
My hands reach daily,  new life in me remain.
Let me be let me be, let me be, let me be!
 
 
NEW YORK
 
«Credevo che i tempi in cui qualcuno decideva per me fossero finiti».
Nel silenzio generale, il Soldato si alza in piedi e sfila via dal nido costituito dai divani affiancati tra loro a formare un’isola dove aleggia un senso di famigliarità che lui non sente come proprio.
A passi decisi esce dall’unica porta che dà verso l’esterno. Quello che si trova davanti non è il terrazzo che chiunque si sarebbe aspettato dall’attico della Stark Tower, sembra più una pista di atterraggio, ma la piattaforma rotonda in fondo a una striscia di lastricato metallico è un cerchio troppo piccolo per elicotteri e mezzi aerei comuni.
Non ci sono ringhiere o parapetti, c’è solo il vuoto sospeso sopra la città. I suoni arrivano a un volume troppo basso da là sopra, coperti dagli schiocchi sordi del vento.
Il Soldato pensa che non servano sottili strisce di pavimento a metri e metri dal suolo per farlo sentire in bilico.
Dall’angolo remoto del suo cuore, dove lo ha lasciato a recuperare le forze, Bucky Barnes gli dice che forse l’uscita infelice di poco prima è stata esagerata e immeritata, che Steve e Stark e gli altri vogliono solo aiutarlo, che solo il giorno prima lui era quello che si era stupito della disponibilità e della comprensione di gente che avrebbe avuto ogni diritto di odiarlo, di non perdonarlo.
Il Soldato si chiede cosa sia cambiato in così poco tempo.
Si sente sciocco ad ammettere che una parte di lui ha sentito il morso pruriginoso dell’invidia nel vedere tutti loro lì riuniti e nel non riuscire a sentirsi parte di quella squadra. Mattine come quella, amici come quelli sono tutte cose che gli sono state portate via e quello scenario non ha fatto altro che ricordarglielo, pompandogli nelle vene una rabbia e un risentimento che gli hanno avvelenato i pensieri - e anche la lingua, a quanto pare.
Dentro di lui, Bucky Barnes continua a dissentire. Il Soldato lo vede scuotere la testa con la sua faccia pulita da ragazzo. Poi attorno al giovane ufficiale comincia a turbinare la neve.
Respira, combatte la vertigine, quella di dentro e quella di fuori ora che il vento sembra fatto di mille braccia che lo sfiorano con un po’ troppa veemenza.
Forse è per Natasha. Riaverla lo ha riportato troppo indietro, attraverso il sipario di un amore nato e affogato nella neve, forse ha intravisto i fantasmi di ricordi troppo orribili. Le aveva detto - o forse lo aveva solo pensato - che era meglio lasciare l’inverno lì dov’era.
Bucky Barnes, tra le ombre del suo cuore, incrocia le braccia sul petto, stira le labbra in un’espressione sdegnata.
Il Soldato sente la porta scorrevole aprirsi, alle sue spalle. Sa chi è senza bisogno di voltarsi.
Natasha avanza cauta e lui ne indovina l’espressione seria, le mani incrociate dietro la schiena.
Si ferma e gli dice la cosa più improbabile che potrebbe dirgli.
«Pepper è riuscita a rimediarmi un appuntamento con il suo parrucchiere. Devo fare qualcosa per queste doppie punte».
Il Soldato non sa da dove sia nato il sorriso che ora gli arriccia le labbra.
Da qualche parte lontana dallinverno.
Dietro di lui, Natasha gli cinge i fianchi con le braccia, gli posa la testa sulle scapole e il Soldato sente il suo sospiro solleticargli la nuca.
«Sono stato… sgradevole, prima?» chiede retorico.
«Stark ha cominciato a parlare di disturbo da stress post traumatico. Come segno di buona fede, io non mi farei vedere in giro con un’arma da fuoco, se fossi in te»
«Verrà il giorno in cui si stancheranno di trovarmi delle giustificazioni…»
«Allora spera che venga prima il giorno in cui non ne avrai bisogno».
Il Soldato fa una risata amara, sbuffando con il naso. Vorrebbe dirle grazie, ma sa che non è quello che si dice in questi casi.
Vorrebbe dirle tante cose, e tutte suonerebbero superflue alle orecchie della Vedova Nera, come suonavano superflue alle orecchie di Natalia tanto tempo fa, quando lui era un uomo che neppure sapeva pronunciare certe parole.
Che uomo è adesso? Bucky Barnes, dentro di lui, resta muto.
Ritornano dentro. Il grande open space è già sgombro, i resti della colazione sono spariti e i divani sono tornati al loro posto. Nella camera vuota non c’è rimasto nessuno. Hanno tutti qualcosa da fare lì, tranne lui. Solo dopo lunghi secondi il Soldato scorge la compagna di Stark in piedi accanto al tavolo di vetro, dietro una fila di mobili da cucina.
Pepper Potts sta controllando il contenuto della sua borsa. La coda di cavallo perfettamente diritta ondeggia appena quando muove la testa da destra a sinistra, frugando nelle tasche interne e gettando sul fondo un telefono cellulare che di certo deve essere appannaggio dei soli frequentatori assidui di Tony Stark.
«Sono pronta, Natasha. Quando vuoi».
Natasha annuisce e si volta verso il Soldato per salutarlo. Lui le prende una ciocca di capelli tra le dita, stanno tra i suoi polpastrelli come una lingua di fuoco su una candela accesa.
«Li ricordo ricci. Erano bellissimi» mormora lui. Ci sono fantasmi nella sua testa e nella sua voce.
Natasha tira il capo all’indietro, si sottrae alla sua stretta e lo guarda con una smorfia enfatica. «Se era un suggerimento, sappi che non so se ho voglia di seguirlo».
Lui non dice niente. Non era un suggerimento, era un ricordo.
Le stringe la mano un istante prima di lasciarla andare. Per un brevissimo secondo, il mondo sembra perdere il centro della realtà quando si separano.
Il Soldato diventa consapevole del sorriso appena accennato, un po’ complice un po’ materno, che la donna di Stark gli sta rivolgendo. Guarda Natasha e Pepper lasciare l’attico e sparire dietro le porte dell’ascensore.
Quando non si sentono più rumori, la solitudine in cui il Soldato resta immerso sembra portare pensieri e fare domande. E poi la risposta a tutte quelle domande arriva nel rumore appena percettibile di una porta che si apre, sulla sinistra, del suono cadenzato dei passi di Steve.
«Senti, mi dispiace se ti abbiamo messo pressione. Sì, parlo al plurale, perché tanto Stark non ti dirà mai niente del genere di persona».
Steve ha il suo sorriso pulito e il Soldato vorrebbe essere sicuro di meritarlo.
Si chiede se anche lui abbia nel cuore un suo se stesso diverso, forse il ragazzino macilento che era prima di diventare Captain America, che cerca di tenere insieme i pezzi della sua coscienza. O forse lui non ne ha bisogno, non ne ha mai avuto, nemmeno nelle notti di gelo e tempesta al campo, quando nell’umido appiccicoso delle tende, ragazzi troppo giovani cercavano risposte per sapere se quello che stavano facendo era giusto.
Steve non ne ha bisogno, perché tutto quello che ha fatto lo ha fatto per scelta. È la consapevolezza di essere responsabili del proprio destino, dell’essere rimasti fedeli a se stessi che tiene insieme una coscienza. Quando tutto questo viene a mancare, allora si cerca qualcos’altro, un fantasma che abbia la faccia dei nostri giorni migliori e che possa aiutarci a ricordare.
A volte, il riflesso di Bucky Barnes dentro di lui gli sembra solo un’ombra. Altre volte è così vivido e grande da riempire il vuoto lasciato dall’inverno.
«Non credere di poter competere con me riguardo a chi deve scusarsi con chi» dice il Soldato, abbozzando un sorriso goffo.
Con Steve non è facile come con Natasha. Lei è fatta della sua stessa pasta, Steve è uno che insegue il fantasma dentro la corazza del Soldato e si porta addosso la frustrazione di non essere ancora riuscito ad afferrarlo.
Il Capitano si porta una mano alla nuca, passando il palmo sui capelli corti. Sembra che quel gesto gli serva a trattenersi dal toccare il suo vecchio amico.
Il loro rapporto doveva essere stato molto affettuoso e molto fisico quando erano ragazzi.
«Ehi, pensavo di… sai, non l’ho mai fatto da quando mi sono svegliato dopo la Guerra». Il rossore sale sulle guance di Steve come un incendio su una superficie intrisa di benzina. Non è il rossore dell’imbarazzo, è quello della fatica di dire cose che pesano. «Pensavo di tornare nel quartiere dove sono cresciuto, ci ho pensato tante volte, ma non ho mai avuto il coraggio. Da solo non potrei farcela».
E io non potrei farcela con te accanto, pensa il Soldato, con te che mi guardi di sottecchi cercando sul mio viso tracce di un passato perduto.
Ci pensa, non lo dice, anzi, annuisce. Sono poche le cose che non farebbe per Steven Rogers, su questo lui e il fantasma di Bucky Barnes non hanno alcun problema ad andare d’accordo.
Alza una mano e la cala sulla spalla di Steve in una pacca che speri somigli al tocco di Bucky.
 
***
 
Nell’area privata del parcheggio della Stark Tower ristagna l’odore acre dell’olio per motore che pizzica la gola.
Sotto i teli cerati le preziose auto d’epoca di Tony sembrano sarcofagi nella cripta di una chiesa, ma tra le loro pieghe non c’è neppure un dito di polvere, segno che il proprietario - lui e nessun altro - frequenta quel posto con più assiduità di quanto si possa credere.
La collezione di preziosi bolidi è parecchio sfoltita, molte auto sono andate distrutte durante l’attacco alla villa di Malibù, mesi prima, altre forse sono acquisti recenti.
Quando successe, Steve era in missione con Barton dall’altro lato del mondo. Seppe dell’accaduto  solo una volta tornato, settimane dopo, e a lungo pensò di telefonare a Stark e chiedergli come stava e se la signorina Potts si era ripresa e se, per qualche ragione assurda, quel dannato pallone gonfiato avesse bisogno di qualcosa, di un amico, magari. Captain America non aveva mai fatto quella telefonata, non per indolenza, solo perché ogni volta che stava per comporre il numero, si ritrovava a chiedersi se lui fosse davvero il genere di amico con cui Stark avrebbe avuto voglia di parlare di quella brutta situazione da cui sembrava essersi salvato per miracolo insieme a Pepper.
Nello strano mondo che Steve Rogers aveva trovato ad aspettarlo al suo risveglio, sentiva di non poter capire le persone come faceva una volta, non si riteneva mai del tutto sicuro di quello che faceva e diceva. La consapevolezza che gli amici, gli amori, le guerre personali sono tutte cose che posso andare perdute gli avevano lasciato dentro una paura che, in una maniera sottile e impercettibile, lo aveva reso diverso. Il suo cuore era lo stesso, uno spazio grande e aperto ma più scomodo di come era un tempo.
Ci ripensa ora, e la sua mente va a Sharon. Sospira e la leggerezza con cui accantona il pensiero della ragazza ha una vaga sfumatura di codardia, sensazione quasi del tutto sconosciuta per Captain America.
Steve conta i numeri delle piazzole e si ferma davanti al quattordicesimo spazio occupato da una macchina coperta da un telo grigio che soleva con un energico strattone.
Bucky fa un fischio di approvazione quando la Buick color petrolio riemerge da sotto la sua copertura, lucida e scintillante sotto la luce delle lampade al neon.
«Dovrebbe essere del 42» dice Steve con l’aria di un bambino goloso.
Non ha avuto sempre la passione per i motori, è una cosa nata in guerra, quando avevano preso a mandare Captain America in giro su una moto e lui controllava ogni sera che l’arnese funzionasse a dovere, perché non gli facesse scherzi nella missione successiva. Con l’aiuto di soldati più esperti di lui, ragazzi che lavoravano in un’officina meccanica prima di arruolarsi, aveva imparato a controllare il motore e a prevenire i guasti ascoltando i rumori che la moto produceva, la facilità o la difficoltà con cui accelerava. Forse era perché quello era stato uno dei suoi pochi passatempi durante il periodo al fronte, ma alla fine ci aveva preso gusto.
«È proprio una bella ragazza» dice Bucky, girando intorno alla macchina e guardandola sinceramente colpito. «E Stark te la lascerà prendere?».
Steve si stringe nelle spalle, «Lui non lo so, ma Pepper mi ha dato queste». Tira fuori dalla tasca una chiave attaccata a una targhetta con il numero 14. Lui e Bucky si scambiano un’occhiata furba. «Guida tu» dice il Capitano lanciando la chiave al suo amico.
«Sei sicuro?»
«Mai stato più sicuro in vita mia». Tanto Tony mi ucciderà in ogni caso quando scoprirà della macchina - e lo scoprirà senzaltro.
Bucky non se lo lascia ripetere due volte, stringe forte la chiave nel pugno della mano destra e apre lo sportello. In un attimo ha già le dita chiuse attorno al pomello del cambio. La manica della felpa di cotone è calata fino al polso, l’arto metallico è fasciato da un guanto scuro e stringe il volante sottile di un bel color crema lucido. Anche gli interni dell’auto sono di pelle chiara e odorano di pulito, come una stanza dai pavimenti appena lavati.
Mettono in moto. Quando l’auto parte, il rombo del motore ha un suono morbido simile a quello di gatto che fa le fusa e né Steve né Bucky hanno animo di pensare ai fantasmi. 
La rampa automatica del garage sotterraneo si apre davanti a loro, un filo di luce entra piano poi si inspessisce, man mano che il portellone si abbassa, fino a diventare un rettangolo luminoso dove i loro occhi impiegano qualche istante a mettere a fuoco il quartiere rumoroso e trafficato ai piedi della Stark Tower.
Si immettono nel traffico con una leggera sgommata e partono. Quando imboccano la FDR Driver, il riflesso del sole sull’acqua al lato della strada colpisce la vista e smussa i profili dei grattacieli in lontananza.
Il vento ha soffiato via le nuvole che hanno fatto piovere durante la notte, il tempo è ancora incerto ma la tempesta sembra passata.
«Quanto tempo pensi che Stark impiegherà a scoprire della macchina?» domanda Bucky con gli occhi fissi sulla strada.
«Credo che lo sappia da quando siamo usciti dal parcheggio sotterraneo. Ma tu non pensi di avere qualcosa da dirmi?».
Steve lancia una lunga occhiata al compagno di viaggio, ostentando una furbizia che mal si combina con il suo viso troppo pulito.
Il suo senso del pudore e della discrezione lo avrebbe portato a evitare la questione, in qualsiasi altra circostanza. Ma si tratta di Bucky. E di Nat.
«L’unica cosa che ho da dirti è che mi dispiace che non sia tu ad avere qualcosa da dirmi sull’argomento di cui vorresti parlare»
«Non ti seguo».
Ogni traccia di furbizia e di ironia scompare dalla faccia di Captain America. Bucky fa un sorrisetto sfacciato.
«Prima di parlare di me e Natasha, credo dovremmo fare due chiacchiere su te e Sharon, se consideri che l’unico motivo per cui non ti è saltata ancora addosso è perché tu sei tu».
Steve smette di guardare il suo amico, si volta verso il finestrino alla sua destra e abbassa gli occhi sull’asfalto che scorre confondendosi in un’unica macchia scura.
Capisce quello che Bucky ha appena detto. Più che capirlo, lo sa.
«Non è il momento adatto, trovo molto corretto da parte sua rispettare quest…»
«Ma ti senti quando parli?» sbotta l’uomo alla guida, svoltando dove il cartello indica l’uscita per raggiungere il Ponte di Brooklyn. «Tutta questa storia sul momento adatto… sembrate due dannati postini!»
«No, aspetta, aspetta, mi stai dicendo che hai parlato con Sharon?»
«Qualcuno doveva farlo»
«Cosa le hai detto?»
«Solo cose buone».
Il cuore di Steve salta un battito. Bucky gli ha già dato quella risposta una volta, la sera in cui è cominciato tutto, il cielo è crollato e lui ha potuto vedere oltre le stelle un altro universo fatto di orrore e umanità mescolati assieme così a fondo da stordire anche le anime migliori.
«Cosa potrei mai offrire a una persona, adesso?» domanda il Capitano.
«Tu che lo chiedi a me, questa è bella».
Presi dal discorso, si perdono la maestosità del Ponte, la ragnatela di ombre proiettata dagli alti tiranti e le colonne di acciaio che si riflettono in linee contorte sulle acque dell’East River.
Bucky prende un respiro. «Quello che sto cercando di dirti, emerita testa di cazzo, è che non si tratta di avere cose da offrire, non è mica la questua della domenica! Si tratta di qualcosa che è già successo, che avete già deciso, dovete solo prenderne atto e agire di conseguenza. Non ci sono momenti da scegliere».
Steve resta in silenzio per alcuni secondi e si decide a godersi quel panorama di cui tanto aveva sentito la mancanza.
«Lo sai, Buck, tra noi due non sei mai stato tu quello saggio» sentenzia poi, enfatizzando un’aria grave.
L’amico gli molla un pugno sul braccio, mettendoci più forza di quanto si renda conto. Il Capitano trattiene una smorfia di dolore.
«E comunque, non sperare di evitare la tua parte di chiacchiere» aggiunge poi, con una certa insistenza.
«Non c’è niente da dire, lo sai come stavano le cose. È… difficile, ci sono i ricordi, ci sono i rimpianti, ma  per Natasha affronterei uno a uno tutti i mostri che ho qui dentro». Bucky si batte l’indice sulla tempia.
«Mio Dio, non è difficile, amico, sei… cotto»
«Chi ti ha insegnato a esprimerti così, Rogers?» il Soldato sospira, trattenendo un mezzo sorriso. «È qualcosa che mi sono portato dentro così a lungo. È quel genere di ricordo che quando sarebbe uscito dalla gabbia non avrebbe potuto essere che feroce. Credi che sia egoista?»
«Oh, sono certo che Natasha non ti avrebbe permesso di fare niente se non fosse stata assolutamente fiduciosa. E da quello che ho visto, lei mi sembra stare bene».
Bucky annuisce. «È come se tutto questo le avesse permesso di fare pace con i ricordi che aveva perduto. Quasi le invidio la rapidità con cui ci è riuscita»
«Non è rapidità, lei è solo una donna pratica e multitasking. Se c’è una cosa che dovremmo invidiarle è la capacità di gestire i ricordi e tutto il resto senza andare in tilt»
«Certo, l’unico che è in tilt qui sono io».
Per una volta Steve pensa che lui non si stia riferendo alla sua situazione da stress post traumatico, come lo ha definito Tony, e allora si concede una risata, scuotendo il capo.
Parcheggiano a ridosso di un marciapiede, lungo un viale alberato. Scendono dalla macchina e annusano l’aria che sa di foglie di tiglio e conserva ancora un po’ l’odore della pioggia.
Qualche passante rallenta il passo per ammirare la Buick.
«Non rischiamo che ce la rubino, vero?» dice il Soldato, a metà tra il serio e l’ironico. «Naturalmente non si può fare molto affidamento sulla mia memoria, ma mi sembra che questo fosse un quartiere in cui non sempre succedevano cose belle».
Lui e Steve guardano la macchina, poi contemporaneamente sollevano gli occhi e si guardano in viso. Sempre in contemporanea, spostano lo sguardo lungo il viale alberato: le facciate delle case allineate con porte di legno verniciato e fioriere alle finestre, siepi perfette e scintillanti, una piccola piazzetta con le giostre e un crocchio di bambini.
«Sembra una pubblicità» sospira Steve. «Questo posto è molto cambiato da quando ci vivevamo noi». 
«Dov’era di preciso?»
«In fondo a quella strada».
Bucky si lega i capelli in un codino - sono diventati ancora più lunghi e gli danno un aspetto selvaggio, anche se dai suoi occhi è sparita quella scintilla di furia e smarrimento da animale affamato che aveva la prima volta che si sono rivisti, sul ponte della statale di Washington. Poi il Soldato fa per alzare il cappuccio della felpa sulla testa, resta con le dita strette attorno al lembo di tessuto e esista un attimo prima di rendersi conto che non è così necessario.
Mentre attraversano il viale, arrivano alle loro orecchie le voci dei bambini, le risate sono squillanti e si trasformano in strilli acuti.
Steve e Bucky si voltano di istinto verso la piazzetta con le giostre, due di loro cominciano a litigare per l’ultima altalena rimasta libera, si spintonano per qualche istante, fino a quando le madri non intervengono a separarli.
Bucky si volta di colpo a guardare l’amico, come se fosse stato colto da una rivelazione.
«Steve? Tu… quando eri ragazzo sei stato picchiato, una volta…» mormora.
«Una sola?». Il Capitano ridacchia. Ora che quei giorni sono lontani, può guardare al se stesso ragazzo con la giusta dose di autoironia.
L’altro si ferma, quasi interdetto, scuote la testa inseguendo un ricordo che si fa sfuggente. «Succedeva spesso?»
«Credevo ricordassi quelle cose»
«No. È come un libro di cui ricordo la trama ma non riesco a mettere a fuoco i particolari» dice Bucky tra i denti. «Ma ricordo di una volta in particolare. Il naso ti sanguinava su una camicia gialla a righe, sul tessuto le macchie avevano un colore strano».
Steve annuisce. «Ah, quella volta. Sì, quella me la ricordo, credo sia stato il mio ingresso ufficiale nel mondo dei pestaggi».
 
***
 
I ragazzi sono due, appoggiati a una motocicletta con il serbatoio chiazzato di ruggine. Deve essere una di quelle che fanno un rumore di pazzi mentre vanno e sputano fuori nuvole di fumo denso come ovatta scura.
Uno hai capelli ricci e crespi, il viso tondo puntellato di lentiggini, laltro ha capelli scuri tagliati da poco, corti sulla nuca e sistemati da una patina di brillantina il cui odore dolciastro si sente a metri di distanza.
Steve Rogers, ventanni, una giacca di tweed troppo larga su spalle troppo magre, di ritorno dalla sua lezione di disegno, non li avrebbe neppure notati se non fosse che a un certo punto i due sono scoppiati a ridere in modo ostentato e sguaiato.
Steve conosce quella risata, troppo spesso è stato lui a provocarla: la risata dello scherno, la risata che è come una pioggia di pietre che ti viene scagliata addosso. Anche il suono somiglia a quello di un mucchio di sassi che rotolano.
Non stanno ridendo di lui. Loggetto della loro ilarità è un altro ragazzo, un tipetto dallaria anonima che sta attraversando la strada, deserta a quellora. Di lui Steve nota solo che ha delle bellissime mani, molto curate, per il resto è quel tipo che non ricorderesti di aver incontrato se ti capitasse seduto accanto sullautobus. Per questo forse il giovane Rogers impiega qualche minuto a metterlo a fuoco: è il musicista che insegnava pianoforte alla figlia dei vicini.
Il musicista sembra accorgersi di essere loggetto dello scherno dei ragazzi, ma non si volta a guardarli, stringe un po più forte la cartella di cuoio consunto e affretta appena il passo. I due si staccano dalla moto e gli vanno dietro.
«Ehi, Chuck,» esclama il ragazzo rosso, «dimmi un po quanti sinonimi conosci della parola checca?»
«Frocio, finocchio, invertito, deviato, succhiacazzi». Il ragazzo di nome Chuck urla questultima parola nellorecchio del musicista che incassa la testa nelle spalle, spaventato.
Il giovane Rogers conosce quelle parole. Le ha sentite dire di tanta gente che vive nei pressi del suo quartiere. Uomini a cui piacciono altri uomini: lui non si sente così in alto da poter giudicare se sia così sbagliato.
Steve resta a guardare da lontano. C’è qualcosa che gli impedisce di ignorare la scena e tornarsene per la sua strada.
Il male va conosciuto. Aveva detto padre Ronald durante il sermone, domenica scorsa. Il male va conosciuto altrimenti non lo si può combattere. Va guardato in faccia, sfidato. Solo così saprete se siete uomini giusti e allora non avrete nulla da temere.
Chuck e il suo amico Capelli-Rossi tagliano la strada al musicista, uno gli si piazza davanti, laltro dietro lo strattona per le spalle.
«Ehi, voi due!» lesclamazione gli è uscita di bocca, senza che lui potesse frenare la lingua.
Chuck e Capelli-Rossi si voltano spaventati nella sua direzione, quando mettono a fuoco la figura esile e minuta del ragazzo, il timore sparisce dalle loro facce e viene sostituito da unilarità sprezzante.
«Chi sei, la sua fidanzata?» dice Chuck, sghignazzando.
«Sono uno a cui non piacciono i bulli, fareste meglio a togliervi dai piedi». Una vocina nella sua testa lo avverte, gli dice che la sta sparando troppo grossa, che non è in grado, ma ormai è fatta.
I due danno un ultimo spintone particolarmente violento al musicista e lui cade contro il muro, poi si avvicinano a Steve con passo lento, come a dargli la possibilità di cambiare idea.
Non sanno quanto lui possa essere testardo.
«Insomma, sei uno che non si fa gli affari suoi, eh» dice Capelli-Rossi.
Steve mette su un grugno da duro, getta a terra la cartella da disegnatore e lalbum e serra i pugni. Pensa che avrebbe dovuto prestare più attenzione alle dritte di Bucky al riguardo.
Bucky sarà così fiero di lui nel sapere di quello che ha fatto.
Prima ancora che se ne renda conto, Capelli-Rossi lo ha già affettato per lestremità della giacca, lo avvicina a sé con uno strattone e gli molla un pugno in viso, tra il mento e la mascella. Steve caracolla allindietro, boccheggiando. Sente in bocca il sapore del sangue, la rabbia si mischia alla paura e alla confusione.
Si getta contro Capelli-Rossi, Chuck lo afferra per le spalle con una mano, con laltra lo colpisce di nuovo in piena faccia.
Il dolore che si spande dalle ossa del naso sembra un fuoco dartificio che esplode su tutto il suo viso, vibrando sugli zigomi e pizzicando nelle orecchie, lasciandolo senza fiato.
Steve inciampa nei suoi stessi piedi e cade a terra, limpatto con lasfalto polveroso fa male ma non quanto i calci che gli stanno mollando quei due, ai reni e allo stomaco.
Accartocciato su se stesso come un rifiuto, il giovane Rogers si chiede che fine abbia fatto il musicista. Probabilmente se l’è data a gambe e lui non se la sente di biasimarlo.
I due bulli non infieriscono più di tanto, un paio di calci bastano ad assicurarsi che il ragazzo resti lì steso a terra per un bel po.
Dentro il suo bozzolo di dolore e umiliazione, Steve sente il rumore scoppiettante della vecchia moto che si allontana.
Impiega lunghi minuti a recuperare le forze necessarie a rimettersi in piedi. Con una pazienza rassegnata si spolvera la giacca con le mani e raccoglie le sue cose. Mettersi a tracolla la cartella gli provoca unondata di dolore che gli rimbalza nelle ossa.
Si è macchiato la camicia, quella gialla a righe, il sangue rappreso scurisce sul tessuto e sembra viola come macchie di succo di mirtillo.
Arrivato nel suo quartiere, Steve guarda da lontano la porta di casa sua. Non sa se sua madre sia già tornata dal turno in ospedale ma sa che non può rientrare in quelle condizioni.
Volta il capo, ancora indolenzito, guarda la casa con la veranda dallaltro lato della strada. Casa Barnes, zona franca.
Ci si trascina e si pulisce le suole delle scarpe sullo zerbino rosso prima di bussare il campanello.
È Bucky ad aprire - grazie al cielo, non avrebbe sopportato di dover dare spiegazioni alla madre del suo amico, che per fortuna non è quasi mai a casa a quellora; suo padre è alla base militare dove lavora e non tornerà a casa prima del weekend.
«Cosa cazzo hai combinato?» lesclamazione di Bucky gli rimbomba nella testa martoriata.
«Devi per forza parlare come uno scaricatore di porto? Fammi entrare, spostati».
Bucky gli toglie di mano la cartella e lalbum da disegno dalla copertina ormai sporca e spiegazzata. Lancia le sue cose sul divano, con noncuranza, e gli fa cenno di andare di sopra, in camera sua.
«Chi è stato? Dimmelo» domanda, precipitoso. Steve pensa di non averlo mai visto così furioso.
«Non lo so, due tipi, non è importante»
«Non è importante? Steve, ma ti sei visto?»
«Oh, immagino che il mio aspetto non possa essere troppo peggiorato»
«Piantala, raccontami cosa è successo».
Ho provato a lottare, sono stato sconfitto ma la prossima volta sarà diverso.
«La prossima volta sarà diverso» dice Steve.
«Non ci sarà nessuna prossima volta. La prossima volta, se qualcuno ti dà fastidio, tu vieni diritto da me e…»
«A dirla tutta, sono stato io a dar fastidio a loro, in un certo senso. E poi non sei la mia balia e invece di startene lì a pestare il pavimento come un toro pronto alla carica, portami del ghiaccio, non posso farmi vedere da mia madre conciato così».
 
***
 
«Sì, era esattamente il genere di particolari che non riesco a mettere a fuoco» dice Bucky quando Steve finisce di raccontargli l’episodio. «Ma non hai qualche storia più allegra. Non so, io che ti salvo da una gang o robe simili»
«Ne ho molte di storie simili. Da quel giorno diventasti piuttosto protettivo e invadente»
«Oh, e adesso tu ti senti in dovere di ricambiare il favore».
Il Soldato non sa se si tratti di una battuta, ma distoglie subito lo sguardo perché non vuole che anche Steve se lo chieda.
«Hai detto che vivevi al numero 30, giusto?» dice, guardandosi attorno, cercando le targhette dei numeri civici.
Steve lo guarda come se gli sembrasse davvero troppo strano doverglielo ripetere, ma alla fine annuisce.
In quel quartiere, immersi in un pezzo concreto del loro passato, i fantasmi tornano a urlare nella testa di entrambi.
«È quello lì?». Il Soldato indica una palazzina bassa con la facciata di un azzurro pastello chiarissimo e grosse vetrine sporgenti verso l’esterno. Sopra la porta girevole, l’insegna dice “Beverly’s jewelry”.
Persino la sua memoria martoriata gli sa dire che c’è qualcosa di enormemente diverso in quella costruzione. Lui ricorda una scala che portava a uno stretto pianerottolo e un palazzo a due piani dalla facciata scorticata. Ricorda una chiave macchiata di ruggine nascosta sotto a un mattone lasciato a terra accanto alla ringhiera dalla vernice scrostata.
E ricorda parole che gli si piantano nella mente come tanti spilli.
Io sarò con te fino alla fine.
La risata di Steve lo strappa alle sue riflessioni, il ricordo si dissolve come fumo e lui torna al presente.
«Trovo così assurdo che ci sia una gioielleria. Era un quartiere poverissimo questo» dice il Capitano.
Il Soldato non lo trova divertente, ma è quasi consolante l’idea che tutto sia diverso, così almeno non può rimpiangerlo.
«Che ne dici di andare a mangiare qualcosa? Spero che almeno qualche caffetteria e qualche diner l’abbiano lasciato» propone Steve.
Il Soldato aggrotta la fronte. «Penso che sia troppo pericoloso»
«Eh?»
«La faccia di Captain America è troppo riconoscibile, è stato già un azzardo venire qui»
«Ho girato con questa faccia per più di due anni»
«Negli ultimi due anni non c’era questa situazione di emergenza».
Steve lo guarda con poca convinzione. Forse sta pensando che il Soldato di Inverno, addestrato per le situazioni più estreme, sia eccessivamente prudente, paranoico.
«Andiamo, non vorrai costringermi a sopportare Stark anche a pranzo».
La frase si perde nel suono di uno sparo che smuove come un’onda troppo violenta la calma silenziosa e ordinata del quartiere nel cuore del DUMBO.
Gli occhi di Captain America si riempiono di terrore quando il Soldato di Inverno cade ai suoi piedi.







Note

Per la collocazione del quartiere in cui vivevano Steve e Bucky mi sono affidata a QUESTO articolo (da cui è venuta poi anche l’idea per il falshback di Steve). Si ringrazia _G_J_ per avermelo ritirato fuori ieri sera quando, in calcio d’angolo, mi erano presi i dubbi esistenziali riguardo la collocazione esatta del luogo in cui i nostri baldi (mica tanto) giovani erano nati e pasciuti e ho smantellato e riscritto mezzo capitolo all’ultimo minuto. 
DUMBO quindi sta per "Down Under the Manhattan Bridge Overpass”
La citazione iniziale viene dal brano "Slip slide melting” dei For Not Love Lisa

Per tutto il resto, citofonare Alki: Facebook | Twitter | Ask 

A venerdì prossimo con l’aggiornamento. 

 

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Capitolo 18
*** Eighteenth bullet - Apnea ***


Eighteenth bullet: Apnea
 
With dull black scissors
 and some kerosene,
you burnt the house
but you came to bid him well.
 
NEW YORK
 
Nel grande specchio davanti a lei non c’era una donna nuova.
Natasha Romanoff sapeva che non bastava cambiare qualche particolare del proprio aspetto per sentirsi diversi. Ciò che la rendeva diversa, a volte, erano le bugie che raccontava, le altre vite che diceva di vivere mentre in realtà portava scritto nel sangue un passato di fiocchi di neve e filo spinato che era possibile leggere in un unico verso, inequivocabile, ma che nessuno poteva decifrare. E se anche qualcuno avesse potuto, lei non glielo avrebbe lasciato fare.
È un buon modo per non morire, aveva detto a Steve. Era così che era andata avanti.
Alla fine ciò che serve a ogni persona è solo la facoltà di venire a patti con se stessa.
Non amava farsi toccare, in particolar modo non sopportava che le venissero toccati i capelli, e per questo l’ora intera - perché di un’ora si era trattato - passata sulla poltrona di quel parrucchiere non le era sembrata particolarmente piacevole. Ma aveva accettato l’invito di Pepper perché aveva bisogno di allontanarsi dalla Stark Tower senza che nessuno facesse domande, poter pensare senza che qualcuno le chiedesse se stava bene.
Stava bene?
Non sopporta che le vengano toccati i capelli ma, ora lo sa, c’è stata un’eccezione. Labbra che la chiamavano ancora Natalia, una voce che si arrochiva appena nel pronunciare frasi in russo senza alcuna inflessione.
Natasha ricorda cosa era stato, adesso. Non riesce a ricordare quanto fosse stato grande e se fosse stato più grande del dolore o se semplicemente si fosse mischiato ad esso come il bruciore straziante del calore sulla pelle martoriata dal freddo.
Fa un mezzo sorrisetto soddisfatto a uso e consumo del parrucchiere, un uomo giovane e alto e magro come un fuso che la guarda ansioso di sapere se il suo lavoro l’ha resa contenta.
La donna muove leggermente la testa da un lato e dall’altro, i ricci sono onde morbide che le sfiorano le spalle con leggerezza.
James sarà contento, pensa. Sono pensieri che non le assomigliano, che non assomigliano all’immagine che il mondo ha della Vedova Nera. Ma lui, il Soldato di Inverno, l’ha conosciuta quando quell’immagine ancora non esisteva, quando lei era solo carne e sangue da plasmare sul modello desiderato da una bandiera troppo rossa. L’ha conosciuta quando ancora non aveva imparato a portare maschere e si difendeva dal mondo con un pugnale e con una pistola e con una furia nervosa da cucciolo cresciuto a bastonate. L’ha conosciuta nuda nella neve, determinata ad essere più tenace dell’inverno ed è così che gli è rimasta nel cuore, attraverso il tempo, oltre i muri innalzati da anni di manipolazioni mentali, oltre le spire di elettricità.
Quando lui la guarda, la riconosce davvero e Natasha non ha ancora capito se deve farle paura o se è qualcosa che le dà pace.
Pepper insiste per pagare il conto, lei si oppone per qualche minuto, poi la lascia fare anche se vorrebbe dirle che il regalo più grande che le ha fatto è stato offrirle quello scorcio di normalità: era da tempo che l’agente Romanoff non sbirciava dalla serratura il mondo delle persone comuni e si mescolava con loro.
Natasha si guarda attorno, vede la ragazza bionda con il grembiule spazzare il pavimento dalle ciocche di capelli caduti, il parrucchiere fare una battuta, una cliente in attesa sfogliare una rivista di gossip. Sì, è proprio come sbirciare dalla serratura una stanza nella quale non sei invitata a entrare ma dura sempre troppo poco. Quella volta, non dura nemmeno il tempo necessario a tornare alla Stark Tower perché il suono di uno sparo spezza la quiete e manda in frantumi quel quadro di vita ordinaria in un ricco quartiere residenziale di Brooklyn.
Quello non è il posto in cui la gente si spara per strada. Tra quelle case perfette e le vetrine scintillanti di boutique e gioiellerie, non c’è posto per i criminali di quartiere. Deve essere successo qualcosa.
Natasha è fuori dal negozio ancora prima di avvertire l’andare in frantumi di quel quadro da spot pubblicitario dentro il quale era finita per sbaglio.
Sente il ticchettio dei passi di Pepper nella sua scia. La signorina Potts è dannatamente brava a correre sui tacchi, quasi più di lei.
Il secondo sparo arriva come un suono distorto, qualcosa che ancora una volta sembra irreale e fuori posto.
È come quando la pellicola del film comincia a bruciarsi: l’immagine si confonde e sfuma un istante prima di venire inghiottita dal nero.
E il nero che inghiotte il mondo oltre gli occhi di Natasha comincia dove il suo sguardo incontra la figura di Steve Rogers.
Il Capitano si porta una mano al fianco prima di accasciarsi accanto all’altro corpo steso sull’asfalto.
Natasha non ha bisogno di guardarlo per sapere che si tratta di James. Quello di cui ha bisogno ora è un’arma.
“Nat!”. L’arma, una pistola di piccolo calibro, si materializza nelle sue mani come per magia. Non fa domande, non si chiede da dove Pepper l’abbia tirata fuori. I suoi occhi sono già sul cecchino sopra al tetto di un basso edificio. Non ha neppure pensato a nascondersi per bene, l’idiota. Credeva che in quartiere come quello non ci sarebbe stato nessuno con abbastanza fegato da fermarlo e in effetti si è trattato solo di una fortunata coincidenza o di una sfiga pazzesca, a seconda dei punti di vista.
Natasha spara. Il proiettile entra ed esce dalla testa del cecchino, portandosi dietro una scia di sangue e  frammenti di osso, il corpo cade all’indietro oltre il parapetto e sparisce dalla visuale.
La strada è già diventata deserta.
Mentre il cuore le accelera nel petto con un ritmo che non ricordava, Natasha sente gli occhi di tutto il quartiere puntati su di lei, occhi di ratti chiusi a rintanarsi nei loro antri sicuri, dietro le vetrine dei negozi, dietro finestre dai vetri perfettamente puliti, dentro il guscio di macchine costose, con la vigliaccheria che fa parte della normalità che lei conosce così poco e che non si sente di criticare.
È stato un uragano, un turbinio di tempo e azioni. Un attimo prima era seduta sulla poltrona di un parrucchiere ora guarda il proprio riflesso cupo nella pozza di sangue che si allarga attorno al corpo di James e non ha il coraggio di chinarsi su di lui.
Respira tirando su l’aria dal naso. Sente la neve entrarle dalle narici anche se sa che la neve, quella neve, è lontanissima da lì.
Pepper ha già il telefono attaccato all’orecchio e parla concitata. Natasha sente la consistenza solida dell’impugnatura della piccola pistola nel palmo della mano.
Quando si china sui due corpi, gli occhi di Steve si spalancano di colpo, quasi spaventandola.
«Bucky…» mormora. Le lettere di quel nome inseguono gli ultimi scampoli di un respiro che si sta affievolendo. «È… è…»
Natasha punta gli occhi in quelli di Steve e riacquista lentamente la calma di chi deve pensare al fare e a nient’altro. Captain America non ha inseguito il suo miglior amico per mezzo mondo e mezzo secolo solo per vederselo morire davanti, non può essere successo.
Non farmi questo, James. Nonfarmiquesto.
La donna allunga una mano, sotto ciocche di capelli castani cerca il punto sul collo dove tastare il battito: c’è, flebile e lento, ma c’è. È un bastardo fortunato, deve essere caduto in modo che il peso del corpo faccia pressione sulla ferita provocata dal foro di uscita del proiettile. Forse l’emorragia non lo ucciderà in tempi troppo brevi.
«È vivo» dice. «I soccorsi stanno arrivando, andrà tutto bene». 
Steve stringe i denti, cerca di rimanere lucido. Al margine dei loro sguardi si vede già il lampeggiare blu delle luci di un ambulanza.
Quanto tempo è passato? Natasha non saprebbe dirlo, ma sono stati rapidi.
«Non farmi mai più certi scherzi, Capitano. No, non mi sto riferendo alla macchina» dice la voce di Stark, schizzato fuori da una delle due ambulanze ancora in moto.
Steve sembra riconoscerlo a stento. Natasha e Tony si scambiano uno sguardo teso.
«È lo shock più che la ferita. Rogers non è grave» recita lei nel miglior tono professionale.
Quando le ambulanze si fermano, dai portelloni escono due squadre di paramedici, insieme a Clint e Sam.
«Restatevene in casa, ragazzi, e che diamine! Minaccia anche di piovere» sbotta Clint.
«Chi è stato? Come stanno? Siamo in tempo per fermalo?». Sam fa troppe domande e respiri troppo brevi, sposta nervoso lo sguardo tra la donna e Steve e il Soldato riversi a terra.
«L’ho già fermato» spiega Natasha, lancia un’occhiata al tetto.
«Fermato al punto che non può essere interrogato tipo mai più?». Clint accenna un sorriso bonario, non c’è nessuna cattiveria nel modo in cui sta cercando di dirle che non è stata lucida, che non avrebbe dovuto uccidere il sicario. La sta solo mettendo in guardia, ma lei non riesce a sopportare gli occhi dell’agente Barton che dicono tutte quelle cose con un unico sguardo eloquente.
«Saliamo sul quel tetto, vediamo cosa riusciamo a scoprire, Sam» conclude Clint, indugiando a guardarla ancora per qualche secondo.
«Prima… lui…» rantola Steve, indicando con lo sguardo velato James ai paramedici che sembrano avere più premura di curare Captain America piuttosto che quello che per loro deve essere uno sconosciuto.
Poi Rogers ha la buon senso di chiudere gli occhi e lasciarsi sopraffare dall’incoscienza.
«Dov’è Sharon?» domanda Natasha, voltandosi verso Tony impegnato a verificare - probabilmente per la decima volta in pochi minuti - che Pepper sia illesa.
«È rimasta a fare compagnia a Bruce che si stava agitando per il fatto di non poter venire»
«Hai lasciato la ragazza di Captain America miracolosamente scampato a un attentato a tenere tranquillo Bruce Banner?»
«Senti, finora della logistica se n’è sempre occupata la signorina Potts, ok?».
 
***
 
L’ospedale non faceva parte del progetto iniziale della Stark Tower. C’era un laboratorio medico con attrezzature all’avanguardia, ma all’inizio doveva essere un’area adibita unicamente alla ricerca, almeno fino a quando il padrone di casa non aveva deciso che il monumento edilizio consacrato a se stesso e al suo nome non dovesse diventare una possibile base operativa per gli Avengers, il giorno in cui i cattivi sarebbero tornati, perché, questo è certo, quelli lì tornano sempre.
A questo giro, i cattivi non sono tornati, sono semplicemente rimasti dove sono sempre stati a fare quello che hanno sempre fatto: mangiare dal di dentro quel poco di buono che resta nel mondo.
A Bruce Banner sembra un modo un po’ semplicistico di vederla, ma non è di questo che si deve preoccupare. Ora si deve preoccupare di ringraziare Dio o Tony Stark - che è un po’ come dire Dio in crisi di identità durante una trasferta di lavoro - per aver preso la somma decisione di allestire un ospedale con tutti i crismi in uno dei livelli più bassi della Torre.  
Ma più di ogni altra cosa, quello di cui Bruce Banner ritiene di doversi dare pensiero è il velo di sudore freddo sulla fronte e il battito leggermente in accelerazione, sintomi che gli si sono presentati nel momento in cui si è reso conto che Captain America non può essere anestetizzato come qualsiasi altro paziente.
Ha lasciato medici più capaci e meno nervosi ad occuparsi del Sergente Barnes e di quella brutta ferita. Il proiettile gli ha  reciso un’arteria, l’emorragia lo ha quasi ucciso, anzi forse lo avrebbe ucciso di sicuro se il suo fisico da super soldato non avesse retto l’improvvisa e violenta perdita di sangue.
Per quel che riguarda Steve, è un altro discorso. Il proiettile gli è entrato nel fianco, non ha leso organi vitali, deve solo essere estratto. E il dottor Banner ha estratto proiettili e cose simili in condizioni igieniche e pratiche assai peggiori di quella durante la sua trasferta medio-orientale, ma anche nella peggiore delle situazioni davano al povero diavolo qualcosa che lo aiutasse a non sentire il dolore, fosse anche una dose di droga di dubbia qualità. Cosa si dà a Captain America?
Sharon Carter, occhi grandi come fanali, bussa sul vetro di quella che è una specie di piccola sala operatoria, simile a quelle che negli ospedali pubblici vengono utilizzate per i piccoli interventi che non prevedono il ricovero del paziente.
A certi pazienti andrebbero spezzate le gambe, comunque, così, a scopo di prevenzione.
Bruce si volta a guardare la ragazza. «Che c’è?» le dice, mimandolo con le labbra più che pronunciandolo.
«Cosa stai aspettando?».
Il dottor Banner ha un’illuminazione. Un attimo dopo si rende conto che una soluzione troppo facile e felice raramente si rivela essere quella ottimale.
Guarda Steve steso immobile sul lettino. Sul torace nudo, al centro dei suoi addominali perfetti spicca il segno biancastro di una cicatrice: altra guerra, altro proiettile. A Washington li ha salvati tutti, ha salvato lui, ha salvato Tony e tutte le persone che hanno conosciuto e a cui si sono affezionati da quando è cominciata quell’impresa due anni prima.
In quei due anni, Bruce Banner ha sempre sentito di dovere la vita a tutti loro, quella che gli Avengers gli hanno in qualche modo restituito. Ma Steve Rogers è l’unico che gliel’abbia salvata sul serio, distruggendo gli Helicarrier a costo di lottare contro il suo migliore amico - o quanto meno contro ciò che ne restava.
E anche se non fosse così, lui non vuole essere lo scienziato che ha rischiato di ammazzare Captain America.
«Ok, c’è un problema, senti…» dice uscendo dalla stanza. Sharon gli è addosso in un secondo, praticamente quasi gli salta in braccio. «Mi stai rendendo nervoso, sappilo»
«È una minaccia?»
«Almeno così non potrai dire che non te l’avevo detto. Il problema è che non so come anestetizzarlo, cioè mi è venuta in mente una soluzione, usare la tetrodotoxina B, è una formula che ho elaborato io, rallenta il cuore e induce un forte stato di catalessi, solo che non so che dosaggio usare su di lui. Se ne uso uno troppo basso e mi si sveglia sotto i ferri, dopo a quell’Altro chi glielo racconta? Se ne uso troppo ho paura di non riuscire a far ripartire il cuore. Chiedere di farlo fare a un altro medico non mi sembra comunque una soluzione»
«Se non è complicato non è divertente, eh» borbotta Sharon. «Cosa ti serve per determinare il dosaggio giusto?»
«Una cavia. Fino ad ora la tetrodotoxina l’ho usata solo su me stesso ma i miei parametri non fanno testo, poi è stata usata su Fury, da quello che mi ha detto Natasha, ma di certo non gli ho fatto le analisi del sangue dopo. Mi serve un metabolismo normale per poter confrontare l’effetto del farmaco e poi, con i dovuti calcoli, stabilire la dose adatta a Steve in base al confronto con… cosa stai facendo?».
Bruce guarda perplesso la ragazza sollevarsi le maniche della camicia.
«Ti serve una cavia? Ce l’hai».
Oh, giusto, è così che funzionano le relazioni romantiche. Forse non avrebbe dovuto coinvolgere Sharon  Carter in quella storia: tra rischiare di uccidere Captain America o la fidanzata di Captain America, Bruce non sa cosa sia peggio. 
 
***
 
«Sapevo che sei uno che si annoia facilmente, Stark, ma non pensavo che avresti mai scelto la dissezione dei cadaveri come hobby».
Tony non si lascia distrarre dalla voce di Barton, appena entrato nella stanza. La sua faccia con quelle lenti di ingrandimento calate sugli occhi sembra quella di un grosso insetto. Incide un tratto  dell’avambraccio, il bisturi traccia un sentiero rosso sulla pelle pallida del cecchino morto, proprio come la fiamma ossidrica sul metallo.
«Di solito queste cose le faccio fare a Banner» mormora il padrone di casa con il tono leggero e un po’ spento di chi sta prestando attenzione ad altro che non sia la conversazione. «Ma dato che lui sta giocando all’allegro chirurgo con Rogie mi tocca fare di necessità virtù».
Infila una piccola pinza sottile nell’incisione, la carne fredda ha già smesso di sanguinare.
«Eccolo qui» dice, estraendo un piccolo chip, della misura di una linguetta per lattine.
«Hanno dei chip di localizzazione? Da non credere» esclama Barton, strabuzzando gli occhi.
Stark si sfila la visiera con le lenti, appoggia il chip in un piccolo contenitore di vetro e lo ripulisce delicatamente dal sangue rappreso.
«Credevo che li aveste anche voi dello SHIELD» dice.
«Solo qualche volta»
«Pensavo di metterne uno anche a Pepper, da quella volta che si perse a Venezia mentre eravamo in vacanza, ma lei non ha mai voluto».
Clint Barton soffia una specie di risatina nasale e scuote la testa.
La voce di Jarvis interrompe il silenzio. «Mi aveva chiesto di essere informato sui progressi nel reparto medico, signore»
«Sicuro, Jarvis, spara pure»
«Il dottor Banner è riuscito a sedare opportunamente il Capitano. L’agente Carter non si è ancora svegliata, ma i suoi parametri sono nella norma. L’operazione del Sergente Barnes procede» dichiara l’intelligenza artificiale, lentamente. «L’agente Romanoff e il signor Wilson stanno venendo da lei, signore»
«Dai, che forse riusciamo a salvare la giornata». Tony guarda soddisfatto il chip nel contenitore, ma sta pensando al Capitano e al suo amico del cuore. Sarebbe stato davvero ironico se un cecchino sfigato fosse riuscito a far fuori in un sol colpo Capitan Leggenda e la versione cazzuta di Jon Snow, e l’unica ironia che il signor Stark è disposto a tollerare è la propria.
«Quindi se la caverà, Barnes intendo» dice Barton.
Tony si dà una spinta, facendo ruotare la seduta dello sgabello sul quale si è andato ad appollaiare, in modo da poter guardare in faccia Occhio di Falco.
«Perché, speravi il contrario?»
«Mi stai chiedendo se lo odio? La risposta è no, ho perso dei compagni in passato per colpa sua, ma non lo odio. Se poi è la tua anima da suocera pettegola a cercare soddisfazione e ti stai chiedendo se sono geloso, questa è un’altra storia e non è la parte più importante della faccenda. Natasha ha sparato a questo tizio, in un’altra situazione lo avrebbe solo ferito in modo da lasciarlo vivo per interrogarlo, immagino tu capisca da che parte provenga la mia preoccupazione e perché sono interdetto»
«Non credo sia il soldatino di piombo ad aver mandato in tilt Natasha, non solo. Ad ogni modo, con questo chip credo riusciremo a risalire a un po’ di informazioni utili. Per tutto il resto… beh, proverò a chiedere a Pepper se ha un’amica»
«Coglione»
«L’ho già sentita questa».
Stanno ancora ridacchiando quando Sam e Natasha entrano nel laboratorio. A starsene fuori dalla sala operatoria saranno morti di tensione oltre che di noia.
«Questo tizio deve essere l’ultimo degli idioti» dice la donna, guardando il cadavere. «Se fosse stato un cecchino come si deve, Steve e Bucky non sarebbero ancora vivi»
«La buona notizia è che io ho trovato questo». Tony mostra il chip. «Possiamo sapere da dove viene e forse riuscire a risalire alla base di Boston».
Sam Wilson guarda il cadavere. Il sangue si è raggrumato attorno al foro lasciato dal proiettile e l’odore comincia a ristagnare nell’aria. L’ex-marines solleva un lembo del lenzuolo e copre il corpo con un gesto fin troppo rispettoso per qualcuno che ha cercato di uccidere due suoi compagni. Tony immagina sia il genere di rispetto che i soldati imparano in guerra: quando guardi il viso di un cadavere, non importa più se sia uno dei tuoi o no. Dopo la morte, non ci sono nemici.
«Perché avrebbero mandato un cecchino incapace? E poi, come hanno fatto a trovare Steve e Bucky?» dice poi Sam, incrociando le braccia sul petto.
«Forse la base di Glasgow aveva qualche tipo di allarme che avrebbe mandato un segnale alle altre basi attive se fosse stata distrutta prima di essere sgombrata» ipotizza Clint. E probabilmente ha ragione.
«Christine Pierce ha dato l’allarme prima di venire uccisa dagli stessi alleati di suo padre. Sapevano che il Soldato era vivo, attivo e che li stava cercando, lo hanno trovato mentre eravamo in Austria»
«Non abbiamo lasciato nessuno vivo alle nostre spalle» obietta Natasha.
«No, appunto» dice Tony. «Data la devastazione che vi siete lasciati alle spalle già da prima di Glasgow, devono aver dedotto che il Soldato non agiva da solo. Se sono arrivati a pensare - e ci sarebbe arrivato facilmente anche un bambino - che Captain America era sulle tracce del Soldato e che i due amici si erano riuniti, una volta distrutto l’ultimo avamposto importante del Dipartimento X, quello in Scozia, beh, una volta capito che il Soldato era con lui sapevano che l’unico posto in America in cui sarebbe venuto Steve a cercare supporto era qui». Il padrone di casa fa ruotare gli indici a mezz’aria in un gesto che sembra indicare tutto lo spazio e l’aria contenuti nella Stark Tower. «I giornalisti mi chiedono spesso se è difficile essere famoso, sapete».
Tra i nodi che vengono al pettine, i due soldatini ancora fuori gioco e la consapevolezza del lavoro sporco che resta da fare, la sensazione che Tony prova, che certo tutti loro provano, è quella di una prolungata apnea.
«Sì, ma perché mandare un singolo uomo e neppure troppo capace?» insiste Sam.
La risposta non sembra venire facile, stavolta.
«Perché sono alle strette» dice poi Clint, colto da un’illuminazione. «Perché non vogliono scoprirsi troppo, qualcosa bolle in pentola e non vogliono sollevare il coperchio. Questo è stato solo un tentativo, se andava bene avevano tutto di guadagnato, se andava male, comunque non mi pare che ci abbiano rimesso granché. Stavano solo testando il terreno».
Tony prende un profondo respiro.
La sensazione di apnea ancora gli pesa al centro del petto.
Il cecchino era un avvertimento. Un solo uomo, e pure con una mira non particolarmente perfetta, è quasi riuscito a fare fuori Steve e Bucky in mezzo pomeriggio.
Il prossimo non sarà un tentativo. La prossima volta sarà una guerra e noi non siamo un esercito
Siamo solo una cosa: siamo sotto tiro. È questo che ci hanno voluto dire.
Tony sente l’urgente bisogno di un qualche colpo di genio, di una buona notizia - bisogno di respirare. Sì, come prima cosa deve vedere cosa riesce a scoprire dal chip di localizzazione che il sicario aveva nel braccio.
«Signore» la voce di Jarvis arriva così inattesa da far sussultare tutti quanti. «Il dottor Banner ha completato con successo la medicazione del Capitano. Il sergente Barnes è ancora sotto i ferri. L’agente Carter è addormentata ma stabile».
«Frozen è sano e salvo. Un passo alla volta…» conclude Tony, annuendo. Non lo ammetterebbe neppure sotto tortura, ma quello è il genere di momento in cui invidia a Steve Rogers la sua abilità nel fare discorsi solenni di incoraggiamento. 
Quindi è meglio che tu non te ne stia troppo a letto, Capitano.

 
 
 
 
 



 
Note:
Il riferimento a “quella volta che Pepper si perse in vacanza a Venezia” in realtà è una specie di auto-citazione della mia prima storia nel fandom sugli Avengers e che non ha niente a che vedere con questa fanfiction, ma è una battuta che è venuta fuori da sé.
 
La citazione iniziale è dal brano “Coal War” di Joshua James.
 
La prossima settimana l’aggiornamento arriva di domenica anziché di venerdì. Ma arriva, promesso :D
Intanto, grazie ancora a tutti voi lettori.
Alla prossima ^^

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Capitolo 19
*** Nineteenth bullet - Bella Addormentata ***


Nineteenth bullet: Bella Addormentata
 
 
When youre ridin sixteen hours
and theres nothin much to do
and you dont feel much like ridin,
you just wish the trip was through
 
 
Il mondo è oltre un velo di nebbia, una macchia di colori smorti dall’altro capo di una strada lunghissima.
Lo aveva già visto così, al suo risveglio tempo prima, quando aveva aperto gli occhi in quella stanza di ospedale costruita come un set cinematografico. Era scappato da quelle quattro mura di legno dipinto e la realtà lo aveva colpito in pieno viso con le tante troppe luci accese in Times Square, l’asfalto caldo sotto i piedi nudi e sulle spalle il peso di una città dall’aria inquietante, minacciosa, diversa. E se stesso, il suo tempo, il suo amore sfuggitogli dalle dita.
Steve Rogers sente di nuovo quel senso di vuoto allo stomaco, l’attimo di vertigine mentre la coscienza riemerge pian piano dal torpore e lo spinge troppo bruscamente fuori dal tunnel di nebbia, facendogli mettere a fuoco le pareti asettiche di una stanza dove tutto è bianco e azzurro con rifiniture di acciaio satinato.
Steve strizza le palpebre, il soffitto sembra ondeggiare per qualche istante fino a quando la vertigine non cessa.
L’ultima cosa che ricorda è il suono di uno sparo e l’odore del sangue, quello che i soldati imparano a fiutare anche senza bisogno di vederlo.
Di nuovo la realtà lo colpisce con troppa veemenza. Il pensiero di quello che è successo gli si pianta in testa come un palo mentre tutto attorno galleggia ancora in spire di fumo inconsistenti.
Brooklyn. Un cecchino. Bucky.
«Steve?». La voce sembra lontanissima e sconosciuta. «Ehi, Steve?».
La mano che gli si posa sulla spalla ha una presa delicata, incerta.
«Bruce…».
Il viso del dottor Banner galleggia un attimo sfocato davanti a lui, poi i contorni si definisco e Steve nota il suo sguardo sollevato.
«Il tuo amico sta bene. Hanno tamponato l’emorragia e nonostante abbia perso molto sangue il fisico ha retto bene, c’è solo da aspettare che si svegli».
Dio benedica Bruce Banner che tanto sa di nervosismo e preoccupazioni e di conseguenza è diventato bravo a non tenere gli altri sulle spine, mai.
Steve sorride, grato e sollevato. Il modo in cui il sorriso di Bruce si spegne gli fa capire che c’è un ma lasciato in sospeso dalle parole dello scienziato. Il Capitano lo vede alzare lo sguardo, puntarlo oltre il bordo del suo letto, verso un punto nella stanza, una porzione di spazio di cui lui non era consapevole.
La tenda di tessuto bianco che dovrebbe separare un letto dall’altro è spostata, ammassata contro il muro.
Sharon sembra così minuta tra le lenzuola bianche. E bella in un modo che Steve non aveva mai notato prima. Lui sente il cuore stringersi, lasciar scappare via tutto il sangue.
«Cosa le è successo?»
«Sta bene. Si sveglierà credo presto» dice Bruce.
Credo?!
«Naturalmente l’idea di lasciarvi nella stessa stanza è stata di Tony, io sapevo che se ti fossi svegliato e l’avessi vista così ti sarebbe venuto un colpo e…»
«Bruce! Ti prego»
«Sì. È successo che ho dovuto fare dei test per trovare il modo di anestetizzarti e lei si è offerta come cavia».
Bruce lo dice con la voce che si affievolisce man mano che prosegue nella spiegazione. È il senso di colpa di chi non sopporta che le cose gli sfuggano di mano, è quello che prova da sempre, almeno fin da quando l’Altro è diventato parte di lui e della sua vita e a Steve non va di rincarargli la dose.
Non ha bisogno di chiedere allo scienziato come gli sia venuto in mente di accettare che Sharon si offrisse come cavia. Conosce la risposta, è quel qualcosa di grande a cui non c’è bisogno di dare un nome. Quel qualcosa che fa sentire Captain America spaventato, inadatto, come se fosse ancora il ragazzo di Brooklyn che alle feste stava nell’angolo aspettando il coraggio mai pervenuto di parlare con una ragazza.
Se Bucky fosse lì, se potesse ascoltare quei pensieri, gli mollerebbe un pugno sul muso.
Il nuovo Bucky, almeno, lo farebbe.
«Sembra che in un modo o nell’altro, siamo caduti in piedi» dice Steve, continuando a guardare Sharon.
C’era un’innocenza che il giovane Steve Rogers portava con sé, stampata dentro di lui come un manifesto. L’ha perduta il giorno in cui ha visto Bucky venire inghiottito da quel precipizio, sprofondare in un cratere aperto in mezzo all’inverno dietro i suoi occhi velati di lacrime. È stato il momento in cui Captain America ha smesso di credere alle favole e ha capito che gli eroi falliscono, che i Paesi, le bandiere richiedono sangue e sudore. Eppure ora si chiede cosa succederebbe se si avvicinasse alla ragazza e le baciasse le labbra anche se non sa da quale parte del suo cuore provenga quella speranza in un lieto fine improbabile.
«Natasha…» dice poi. Ora la realtà è tornata viva e presente nella sua mente, gli ultimi scampoli di fumo stanno lentamente scivolando via. «Lei è arrivata subito dopo gli spari. Lo ha preso, il cecchino intendo?»
«Certo. Con una pallottola alla testa»
«Avremmo potuto interrogarlo»
«Oh, sì. La tesi generale è che l’algida Vedova Nera abbia avuto un attimo di panico o di incazzatura, a seconda di come la si voglia vedere».
Steve sorride.
Forse Natasha Romanoff ha sovrastimato la propria capacità di essere multitasking.
 
***
 
Processo incompleto.

La scritta rossa lampeggia come un’insegna al neon di Las Vegas.
Lo schermo virtuale proiettato al centro della stanza sputa in faccia ai presenti il loro insuccesso con stolida insistenza.
«Jarvis! Jarvis, cosa è questa roba?». Stark apre i palmi delle mani, le sopracciglia a forma di punto di domanda sono sollevate fin quasi all’attaccatura dei capelli.
Il prestigiatore ha fallito il trucco, la magia non è riuscita.
«Mi dispiace, signore. Credo che il chip abbia un sistema di sicurezza che oscura i dati quando si perde il battito cardiaco del soggetto che lo aveva impiantato» risponde l’intelligenza artificiale.
«Ma è una fottuta genialata, noi non ce lo avevamo» esclama Clint.
Il padrone di casa gli lancia un’occhiata truce. «Se Fury era un vecchio spilorcio io non so che farci» borbotta.
Non poteva essere tutto semplice. Salvare il culo a Rogers e Barnes, avere un chip che li avrebbe condotti a casa dei cattivi, uscirne tutti sani e salvi.
Non è mai stato semplice, la vittoria non è mai a buon mercato.
«E allora, Jarvis, vai e trova un modo per accedere ai dati nascosti di questo arnese». Tony sbuffa.
«Non mi aspetti alzato, signore»
«In quale update era compreso il pacchetto senso dellumorismo?».
Nessuna risposta. Clint non ride solo perché ha idea che Stark sarebbe capace di metterlo a dormire in un nido di paglia sulla A luminosa che campeggia sulla facciata dell’edificio.
«Non angustiarti tanto, un modo lo troveremo» non è quello che dice di solito, non è mai stato il tipo da pacche sulle spalle e luoghi comuni di incoraggiamento, pensa solo che non possono aver fatto tutta quella strada per poi trovarsi in un vicolo cieco.
In quale update era compreso il pacchetto ottimismo, agente Barton?
Lo schermo sparisce e le luci nella stanza si riaccendono automaticamente. Tony si butta seduto su una poltrona.
Hanno tutti buoni motivi per voler fare il culo a quelli del Dipartimento X e sono tutti motivi che hanno a che fare con la vendetta. Non è proprio una cosa da eroi, no?
«Cosa farai dopo questa ultima missione, ci hai pensato?». Stark si allunga verso il tavolino accanto al divano, stirandosi come un gatto, per poter raggiungere la bottiglia di liquore senza alzarsi dalla poltrona. Clint si avvicina, afferra la bottiglia e riempie due bicchieri con una dose piuttosto generosa di scotch.
Se l’è meritata, dopotutto.
«No che non ci ho pensato. Ma non è la prima volta che cambio mestiere»
«Uhm, bene. Un curriculum ricco e variegato è quello che ci vuole al giorno d’oggi. Quello e conoscere le lingue». Stark vuota mezzo bicchiere in una sorsata, poi si schiarisce la voce.
Dal modo in cui soffoca un leggero colpo di tosse, Clint capisce che il suo anfitrione non è più abituato a bevute così intense. Dopotutto sono passati due anni da New York, il trauma deve essergli passato, come è passato a lui… anche se il fottuto dio dei complessi di inferiorità gli ha lasciato in regalo mesi di incubi e nausee notturne. E vergogna, persino, per tutto quello che ha fatto quando non era lucido.
Lo capisce, l’orrore e il disgusto per se stessi quando si sono compiute azioni contro la propria volontà, per questo non può odiare Barnes. 
Non è qualcosa a cui vuole pensare adesso. E vorrebbe non doverlo fare mai, ma il caro sergente Barnes sembra tornato, ormai. Tornato per restare.
Più semplicemente, Clint Baron vorrebbe che quello fosse un viaggio già giunto a destinazione. C’è una stanchezza insidiosa che ti si appiccica addosso quando ti muovi tra le macerie, polvere negli occhi e cocci rotti su cui tagliarsi. Lui lo sa, non è nuovo al vuoto e agli abbandoni.
È sicuro che Stark non volesse girare il coltello nella piaga, ma il risultato è quello.
«Mi resta comunque un’opzione: sbaglio o hai aperto un’agenzia di collocamento per ex-agenti SHIELD?» dice con una smorfia. Il liquore brucia la gola: nemmeno lui è tanto abituato a bere. La sua ultima sbronza seria risale a una vita fa a Budapest, a quando Natasha gli aveva cacciato in gola una quantità spropositata di vodka scadente perché era l’unico antidolorifico a portata di mano dopo che lui era rimasto ferito e i soccorsi tardavano ad arrivare.
«Tu non verresti mai a lavorare per me» borbotta Stark. «E lasciatelo dire, sei troppo qualificato per questo»
«Se ti sentisse Maria, si sentirebbe offesa»
«Oh, lei. Ha tutto a che fare con il progetto di Pepper per le quote rosa. Delle quote piumate ancora non se n’è parlato».
Clint vuota il bicchiere e prende in seria considerazione la possibilità di riempirsene un altro. Si guarda attorno come ad accertarsi che non ci sia nessuno che possa vederlo.
Gli altri sono tutti di sotto, nel reparto medico a prendersi cura dei feriti o semplicemente a preoccuparsi per loro.
Stark gli versa altre due dita di scotch prima che Clint abbia il tempo di rifiutare.
 
***
 
È come un tunnel, le pareti gli si stringono addosso e la discesa verso la luce lì in fondo diventa difficoltosa. L’inverno ha dita con artigli di ghiaccio che lo spingono in quello spazio angusto, lo costringono ad andare, a proseguire la discesa.
La luce è solo un abbaglio di bianco e vuoto.
Sergente Barnes.
Chiamano il suo nome come se fosse l’ultima volta che lo sentirà mai pronunciare, la voce leziosa ha un accento straniero che lui ha imparato a riconoscere fin troppo bene.
Le pareti del tunnel si allargano, lo vomitano su un letto che è una lastra di acciaio, il tavolo di un becchino. 
Tu sarai la nuova mano dellHydra.
L’inverno gli stringe la gola, soffoca. Ora le dita di ghiaccio sono diventati tentacoli di un mostro e hanno punte di acciaio chirurgico e aghi che lasciano zampillare medicina bruciante nelle sue vene aride di vita. Gli regalano battiti prepotenti che gli esplodono nel petto e lui vorrebbe solo chiedere al suo cuore di fermarsi una volta per tutte.
Il bianco e il vuoto diventano dolore e poi ancora gelo.
Anche le mani sono bianche, fasciate da guanti di lattice, reggono una siringa e il pollice dà un leggero colpo allo stantuffo, facendo uscire qualche goccia di un liquido trasparente insieme ai rimasugli di aria.
L’unica cosa a cui riesce a pensare e che non succederà di nuovo.
Muove il braccio di metallo, la mano artificiale cala prepotente sulle mani con i guanti e la siringa cade a terra. Scatta seduto in mezzo al letto, la mano destra è già alla gola del medico.
Il dolore gli dà la sensazione che abbia gesso al posto del sangue, gesso che si sta lentamente solidificando e gli rende ogni movimento lento, una sofferenza di mille unghie che gli affondano dentro. Il male si propaga dalla spalla destra ad ogni fibra del corpo.
Eppure qualcosa non torna in quella camera sconosciuta, in quel letto troppo morbido, nello sguardo atterrito del medico…
«James!».
Natalia!
Lo sbuffo di capelli rossi si frappone tra i suoi occhi e quelli terrorizzati del dottore. Lei lo costringe ad allentare la presa e lo spinge di nuovo disteso senza alcuna delicatezza, come se si stesse sfogando per qualcosa che la turba. Poi però, quando gli posa la mano sul petto nudo, contro il cuore che gli batte fino a scoppiare, sembra toccarlo come si toccherebbe qualcosa di fragile.
Lo guarda un istante in un modo che lui non riesce a interpretare prima di rivolgersi al medico che ora si tiene a distanza di sicurezza, ancora sconvolto.
Il Soldato riacquista lentamente la calma. Ancora non ricorda cosa sia successo, ma se c’è Natasha allora va tutto bene.
«Le chiedo scusa, dottor Wills, non voleva farle del male» dice lei. È curioso il modo in cui la sua voce riesce a suonare così persuasiva e convincente. «Vada pure, penso io a lui. Lei sarebbe così gentile da andare a informare la signorina Potts che il paziente si è svegliato?».
Il medico non sembra ansioso di far valere il proprio orgoglio professionale, annuisce ben lieto di avere un compito che lo porti lontano da quella stanza.
Quando restano soli, il Soldato scava attraverso la cortina di dolore e stordimento per cercare di mettere insieme un sorriso. «Devo ammettere che queste doti di convincimento non me le hanno insegnate»
«Quando uno è bravo a menar le mani, le doti di convincimento non servono a molto»
«Beh, tu sei brava a menar le mani».
Natasha lo fissa interdetta, forse chiedendosi da dove lui trovi la presenza di spirito per scherzare. Vorrebbe dirle che Bucky Barnes sarebbe fiero di una cosa del genere.
«Cosa è successo?» le domanda.
«Ti hanno sparato»
«Sì, direi che c’ero arrivato. E per quale motivo sei interdetta?».
Lei sospira pesantemente e scuote il capo. «Perché ho fatto una cazzata. Ho ucciso il cecchino»
«Un mazzo di fiori sarebbe bastato».
Il discorso muore lì. Il Soldato capisce e non si vergogna del modo in cui si sente elettrizzato all’idea di aver spinto Natasha a commettere un gesto di puro istinto - e forse pura vendetta. Ci saranno altre occasioni per tornare a fare i soldatini perfetti.
Ora tutto quello che sente è il dolore e il velo di sudore che lo copre come una coperta bagnata per tutto il corpo.
«Non sono sicura che tu meriti la tua dose di morfina» mormora Natasha.
«Non sono sicuro di apprezzare l’idea di aghi piantati nel braccio… ma credo che dovrò farmene una ragione».
Lei gli asciuga il sudore dal viso con un fazzoletto poi si avvicina a un armadietto di medicinali e riempie una siringa nuova con il contenuto trasparente di una fiala.
Davvero l’idea di aghi e farmaci gli pare intollerabile ma se c’è Natasha va tutto bene.
Mentre la medicina attutisce il dolore, prima che una nuova ondata di stordimento gli faccia sbandare i pensieri, il ricordo dei suoi ultimi momenti da sveglio gli si proietta nella mente.
«Dov’è Steve?» domanda, la voce che si fa di colpo affannosa, gli occhi che ispezionano la stanza vuota alla ricerca del Capitano che non è lì.
«Sta bene» lo rassicura Natasha, sedendosi sul bordo del letto. Gli prende tra le dita la mano di metallo e se la porta alle labbra.
Se c’è Natasha va tutto bene.
«Hanno sparato anche a lui» aggiunge il Soldato. La sua mente trova l’idea quasi rivoltante, ed è una cosa che appartiene sia a lui che a Bucky Barnes.
Quando si trova d’accordo con l’altra parte di sé si sente meglio, anche se avrebbe preferito non dover contemplare un’opzione come quella a cui sta pensando ora.
«Sì, ma niente di grave. Solo che Banner ha avuto un po’ di problemi ad anestetizzarlo e Sharon si è offerta come cavia per testare una formula e credo che adesso Steve si sentirà in colpa fino a Natale. Tu non dovresti riposare?»
«Fa parte del pacchetto Supersoldato con marchio di fabbrica di divisione scientifica nazista, resisto meglio». Il Soldato impasta la bocca e aspetta che Natasha gli versi un po’ d’acqua. Non sopporta il silenzio che si viene a creare. «Dobbiamo fare qualcosa, per Steve e Sharon intendo».
Lei sorride, è un sorriso sincero e allegro e sembra risplendere come il sole sulla neve.
«C’è solo un problema. Neal Tapper» dice poi, tornando seria.
«Chi?»
«Era un agente, è morto in un’operazione anni fa. Lui e Sharon avevano una mezza storia, da quello che ne so».
Lo sguardo del Soldato si incupisce mentre si fissa sul soffitto. Il dolore che sta riaffiorando non ha niente a che fare con la ferita e tutto il sangue perso. La colpa è una lama rovente piantata nel suo fianco e nessuna redenzione sarà mai abbastanza forte da strappargliela via.
«Lasciami indovinare: l’ho ucciso io».
Natasha annuisce con un cenno. «Non credo che lei lo abbia detto a Steve. E se lui lo scoprisse…»
«Steve non deve venire a saperlo per forza».
Ora la donna ha di nuovo un’espressione interdetta. «Credevo lo conoscessi abbastanza bene da sapere quanta poca tolleranza lui ha per i segreti e le bugie. Se scoprisse il vero motivo per cui Sharon si è unita a lui mentre era sulle tue tracce…»
«Come ho detto,:non c’è bisogno che lo venga a sapere. E tra me e Sharon è tutto a posto, ormai» insiste lui. Sharon che ha guardato oltre, Sharon che ha trovato la forza di smettere di odiarlo… ragazze con un tale cuore sono rare e Steve non può, non deve, perderla.
«Ad ogni modo» dice Natasha, cambiando espressione e enfatizzando un tono severo, «Almeno un commento sui capelli potevi farlo».
Lui solleva un sopracciglio, prova a sorridere ma sente il viso intorpidito.
«Almeno un bacio potevi darmelo» mormora.
«Quando dovrò svegliarti, magari, come la Bella Addormentata. Ora riposa».
Riposare non è quello che serve. Ci sono nemici da scovare, c’è una vendetta che aspetta e mai come in quel momento gli sembra che abbia aspettato troppo a lungo.
Dentro ai suoi pensieri annebbiati ci sono fantasmi e ridono di lui, che si è fatto sorprendere da un cecchino nelle strade dove era cresciuto, insieme a Steve.
Ma se c’è Natasha va tutto bene.
 
 
***
 
Sharon apre gli occhi, con un singulto.
Bruce e Steve, seduto in mezzo al letto, sussultano per la sorpresa.
La ragazza si passa le mani sul viso e sbatte più volte le palpebre, scostandosi ciocche di capelli dalla fronte.
Steve cerca di intercettare il suo sguardo, ma il dottor Banner si frappone tra di loro con uno stetoscopio che gli penzola dal collo, e quando lui cerca di dire qualcosa lo scienziato lo zittisce con un cenno e posa lo stetoscopio sul petto della ragazza. Quando finisce di contare i battiti, solleva il capo con un sorriso soddisfatto e sollevato.
«Sembra che tu stia bene. Hai dolori o mal di testa?»
Sharon fa un cenno negativo. «Sono solo un po’ spossata».
«Pare che oggi non abbia ucciso nessuno. E neppure l’Altro» commenta Bruce come se fosse un pensiero ad alta voce.
Il Capitano calcia via le coperte. La ferita tira e brucia e per un attimo spera che Bucky abbia miglior fortuna con l’assimilazione degli antidolorifici.
Bruce è ancora in piedi, nello spazio tra i due letti, con lo sguardo piantato sul muro come se stesse leggendo righe di calcoli e formule da una lavagna immaginaria. Si riscuote solo quando vede Steve in piedi.
«Cosa stai facendo?» esclama, interdetto.
«Lo sai che dopo essermi svegliato quando mi hanno ritrovato ho sfasciato una parete di cartongesso e sono corso in mezzo alla strada?»
«È la vicinanza di Tony? Ti rende sbruffone?»
«La vicinanza di Tony dovrebbe essere inserita nell’enciclopedia medica, tra i fattori di rischio. Ad ogni modo, ehm, Bruce…»
«Cosa?». Banner sposta lo sguardo nella stessa direzione di quello del suo interlocutore, vede Sharon fissarli con un mezzo sorriso stanco ma divertito. «Oh, sì… però facciamo che tu te ne stai almeno seduto. Ordini del dottore».
Steve annuisce e tira accanto a sé la sedia appoggiata vicino alla cassettiera con le medicazioni.
Bruce lascia la stanza senza dire altro. 
«Ho avuto paura» dice il Capitano, avvicinando la sedia al bordo del letto di Sharon, e subito si pente del fatto che quelle siano le uniche parole che sia riuscito a mettere insieme. 
«Non dirlo a me!»
«No, intendevo quando ti ho vista in quel letto… grazie per quello che hai fatto»
«Oh. Mi serviva solo una scusa per farmi una dormita come si deve. Sai, con tutto lo stress accumulato nelle ultime settimane».
Steve vorrebbe ripeterle ringraziamenti fino a farli comparire come grandi scritte contro il soffitto, vorrebbe riuscire a rendere la misura della gratitudine che prova per quella ragazza, per il suo coraggio, per il suo esserle rimasta accanto, per avergli restituito una fiducia e una speranza che credeva di aver perso, la promessa di una pace ad attenderlo dopo il fumo delle battaglie.
Ma tutto quello che riesce a fare è prenderle la mano nelle sue, riscaldarle le dita infreddolite dalle ore di immobilità.
«Come sta Bucky?» chiede lei.
«Ci dovrebbe essere Natasha con lui, quindi sono certo che stia bene»
«Loro due…»
«Sì, è una lunga lunga storia». Ai sopravvissuti capita di averne.
Sharon chiude gli occhi, abbandona il capo sul cuscino e Steve vede una nota di tristezza aleggiare sul suo viso.
«Steve» mormora lei, il tono della voce è quello che rende le parole pesanti. «Ascolta, c’è una cosa che devo dirti».
Tutto quello che il Capitano sa è che le cose da dire possono aspettare. Si sporge verso di lei e la bacia.
E fuori da quel bacio tutto si fa muto, anche la guerra, quella che è stata e quella che verrà.






 
 
 
 
 
Note

Citazione iniziale dal brano “Turn the page” dei Metallica. 
L’episodio di Neal Tapper, agente SHIELD morto durante uno degli attentati del Soldato d’Inverno e ex di Sharon, viene dai fumetti. 
 
Chiedo scusa per il tremendo ritardo (presto arriveranno anche le risposte alle recensioni, promesso), ma visto che non manca tantissimo alla fine della storia, da oggi aggiornerò una volta ogni due settimane perché fino a novembre sono messa molto male con l’università e il lavoro. Preferisco scrivere i capitoli con più calma e tirare fuori cose decenti (si spera) piuttosto che fare tutto di fretta… anche perché sennò non sarebbe divertente per il mio cervelletto da scribacchina. 

Intanto, citofonare Alki: Facebook | Twitter | Ask

Alla prossima.

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