Aleestrya

di Cygnus_X1
(/viewuser.php?uid=658626)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. La bambina dagli occhi di foschia ***
Capitolo 2: *** Mya ***
Capitolo 3: *** Cavalieri ***
Capitolo 4: *** Torce, incubi, ombre ***
Capitolo 5: *** La Città di Confine ***
Capitolo 6: *** Il guerriero nero ***
Capitolo 7: *** Qualcosa di impossibile ***
Capitolo 8: *** La battaglia di Thora ***
Capitolo 9: *** Leggende ***
Capitolo 10: *** La Foresta Dorata ***
Capitolo 11: *** Keeryahel ***
Capitolo 12: *** La fine e l'inizio ***
Capitolo 13: *** Mano d'Ombra ***
Capitolo 14: *** Cenere e scintille ***
Capitolo 15: *** Addestramento ***
Capitolo 16: *** Ritorno in superficie ***
Capitolo 17: *** Duello ***
Capitolo 18: *** Incontri ***
Capitolo 19: *** Torg ***
Capitolo 20: *** Caos ***
Capitolo 21: *** Tessere piani ***
Capitolo 22: *** Oscurità, fiamme e discorsi ***
Capitolo 23: *** Attesa ***
Capitolo 24: *** Consiglio di guerra ***
Capitolo 25: *** Malinconia e speranza ***
Capitolo 26: *** Fratello e sorella ***
Capitolo 27: *** Il Demone ***
Capitolo 28: *** Epilogo. Un mattino di primavera ***



Capitolo 1
*** Prologo. La bambina dagli occhi di foschia ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Prologo

La bambina dagli occhi di foschia


 

L



a guerra era arrivata anche tra quelle regioni del pacifico regno di Thral, fin sotto quelle mura. Si sentiva nell’odore di fumo e acciaio di cui era impregnata l’aria, si vedeva nella desolazione vuota delle strade di quella città, Antya, che portava il pesante epiteto di Inespugnabile. E inespugnabile lo era stata davvero, ai tempi delle Fate e degli Elfi, quando sulle sue mura bianche erano incisi misteriosi e potenti incantesimi, e quando gli eroi delle leggende combattevano per la libertà delle genti. Ma ora quei tempi erano andati per sempre, e le Fate e gli Elfi erano scomparsi, gli incantesimi se n’erano svaniti con loro, gli eroi non esistevano più e quella era solo una città con una reputazione troppo pesante da difendere.
Tutto questo passava per la testa di Jahrien, distraendolo dal suo compito di pattuglia delle strade. Si intuiva che quella città era stata bellissima, si intravedeva negli spiragli che restavano dello splendore perduto per sempre, si avvertiva l’aura di epica grandezza ormai sbiadita negli angoli di edifici maestosi, nella pietra chiara delle strade, nelle decorazioni leggiadre che sbucavano qua e là dal nulla come una sorpresa.
Ora tutto era illuminato dalla gloriosa e bronzea luce del tramonto, che faceva spiccare ancora di più la decadenza di una città che un tempo era stata una delle leggendarie città delle storie antiche, ma che adesso era il fantasma pallido e grigio di quella passata grandezza. Il cuore del ragazzo straripava di tristezza al pensiero di quello che attendeva quella città, quelle genti. La sua attenzione tornò alle strade. Cercava chiunque fosse ancora lì, fantasmi di una città fantasma. Presto l’esercito dell’Usurpatore sarebbe stato là, e per quel momento tutti gli abitanti dovevano essere portati in salvo.
Erano ormai due mesi che lui e il suo maestro erano lì a combattere per quel piccolo regno. Loro erano Cavalieri Erranti, era loro compito difendere la pace. O meglio, questo era stato prima dell’ascesa dell’Usurpatore: ora il loro compito era diventato combattere per i piccoli regni minacciati dalla sua tirannia.
A dire il vero Jahrien non era ancora propriamente un Cavaliere Errante: aveva quindici anni, ne mancava ancora uno all’investitura. Era apprendista da quando aveva sei anni, e un po’ non vedeva l’ora di essere un Cavaliere a tutti gli effetti, un po’ ne aveva paura. Ma il suo maestro aveva fiducia in lui.
Era così perso nei pensieri che quasi non si accorse del lieve rumore che proveniva da uno stretto vicolo alla sua sinistra. Jahrien si bloccò nel mezzo della strada, credendo di averlo immaginato, ma subito dopo lo sentì ancora. Era il pianto di un bambino.
Il ragazzo si mosse sicuro verso il rumore. Il vicolo era così stretto che la luce del sole già non ne raggiungeva il fondo, rendendolo inaspettatamente buio. C’era un mucchio di stracci laceri in un angolo: il pianto veniva da lì. Jahrien si avvicinò piano, con cautela, per non spaventare ancora di più il bambino nascosto, poi scostò lentamente una logora coperta.
Non era un bambino, era una ragazzina. Doveva avere undici o dodici anni ed era minuta e sporca, avvolta in un vecchio vestito con la gonna strappata che sembrava troppo grande di svariate taglie. I suoi capelli erano un groviglio nero come la notte, che le ricadeva sul volto coperto dalle mani.
Quando si accorse di lui, la ragazzina strillò e si ritrasse di scatto, piangendo ancora più forte, terrorizzata. Jahrien cercò di calmarla.
«Stai tranquilla, non voglio farti niente di male. Voglio aiutarti.»
Le tese una mano, ma lei indietreggiò ancora con un urlo.
«Non voglio farti del male...»
Lei lo guardò, e il ragazzo si accorse che aveva due occhi enormi, grigi come la nebbia di novembre, che straripavano disperazione pura.
«No... non ho paura di te» disse la ragazzina con voce sottile. «Lo so che non vuoi farmi del male. Ti ho visto che aiutavi i feriti, dopo la battaglia di ieri... ma... io ti farò male. Ti prego, vai via...»
Jahrien non capiva cosa volesse dire, ma non l’avrebbe lasciata in balia dell’Usurpatore.
«Sono certo che non mi farai del male. Vieni con me. Ci sarà la guerra, ti uccideranno se resti qui.»
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Lasciami qui, ti prego... non voglio che tu muoia...»
Scostò un poco il vestito, e il ragazzo notò un disegno nero che spiccava quasi con violenza sulla sua pelle pallida, all’altezza dello sterno: un ragno e un teschio. La stoffa tornò a coprire il marchio, ma Jahrien aveva capito subito. Guardò la ragazza mentre una strana sensazione cresceva dentro di lui.
«Hai capito, vero? Sono maledetta...» sussurrò lei. «Uccido tutti quelli che tocco...»
Beh, lui non l’avrebbe lasciata lì, maledizione o no.
«Riesci a camminare?»
Gli occhi le saettarono a una brutta ferita che le deturpava una gamba, e scosse la testa. Jahrien allora corse fuori dal vicolo, fischiò e si fece lanciare una coperta da uno dei collaboratori del suo maestro. La porse alla ragazzina, che se la avvolse strettamente intorno, sbucando solo con il viso. Allora il ragazzo la prese in braccio, stupendosi di quanto fosse leggera. Era davvero magrissima.
«Ti cureremo la ferita, vedrai. La tua famiglia dov’è?»
Ma lei scosse la testa.
«Loro... mi hanno abbandonata. Quando ho scoperto la maledizione.»
«Mi dispiace...»
Lei scrollò le spalle, come per dire che non le importava.
«È stato tanto tempo fa.»
«Ti troverò una famiglia. Qualcuno che ti voglia adottare. Va bene?»
La ragazzina lo guardò con gli occhi spalancati dallo stupore.
«Davvero lo faresti?»
«Certo. Perché non dovrei?»
«Sei davvero buono.»
Jahrien le sorrise.
«Mi dici come ti chiami?»
Lei esitò un attimo, e lo sbirciò da sotto la cortina di capelli aggrovigliati con quei suoi occhi grigi.
«Myrindar» sussurrò, infine.










 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Buonasera, viandanti di EFP, e benvenuti in questa storia :3
Si tratta di una storia che vagava non scritta nella mia testa già da quando ero bambina, ora ho trovato il coraggio di risistemarla e pubblicarla.
Spero che vi piaccia! ^^
Vi lascio con un'immagine che ho trovato errando raminga per Google Immagini e che trovo si addica molto a Myrindar.
Alla prossima!

Vy

 
Image and video hosting by TinyPic
 
 
[EDIT 16/08/15]
*Dlin-dlon* Comunicazione di servizio.
Questa storia l'ho iniziata più di un anno fa, sulla base di un'idea che avevo già da quand'ero bambina. I capitoli fino al 14 ("Scintille") sono stati scritti con uno stile ancora incerto e piuttosto approssimativo e necessiterebbero di una revisione - prometto che la faccio, davvero, la sto rimandando da secoli :/ - mentre dal 15 in poi, essendo più recenti, sono si spera migliori (o almeno, a me sembra di notare uno scarto abbastanza evidente).
Una volta finito di scrivere, quindi, passerò alla revisione.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Mya ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

*** Parte Prima ***
Marchiati


C
apitolo 1

Mya



 

U



na variazione nel buio profondo. Un respiro appena percepibile. Era un respiro nel buio, così lieve che nessuno l’avrebbe udito, nessuno oltre a lei.
Mya sentì chiaramente il sottilissimo cigolio della porta che si apriva, seguito da passi cauti e leggeri. L’oscurità era totale nella piccola camera.
I passi si avvicinarono a lei, lenti, tesi. Erano i passi di piedi scalzi sul pavimento di legno, passi di qualcuno che tentava in tutti i modi di non farsi individuare. Ma lei era Mya. Lei avrebbe udito anche il più sottile fruscio. Il più piccolo movimento.
Protetta dalla morbida nera oscurità della sua camera, Mya si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. Non avrebbe mai imparato.
Il buio era suo alleato tanto quanto era nemico di quella persona che aveva mosso un ultimo, cauto passo verso il suo letto ed era saltato sul mucchio di coperte gridando. Ma Mya non era più lì. Nell’attimo di spaesata incredulità in cui il grido si spense, la ragazza aprì con un unico, deciso gesto le imposte, inondando la piccola stanza con la luce dell’alba.
I raggi del sole nascente abbagliarono un ragazzino piuttosto contrariato mentre tentava di riemergere dalla montagna di coperte dove si era tuffato.
«Uffa, Mya. Puoi anche lasciarmi vincere, per una volta.»
La ragazza davanti alla finestra sorrise.
«Certo che no. Se ti lascio vincere è un po’ come se tu avessi perso, no? Perché in realtà ti ho aiutato.»
La faccia imbronciata del ragazzino mostrava chiaramente la sua opinione a riguardo.
«Te l’ho detto, Cody, non mi batterai mai.»
Il bambino sollevò il mento con fare sdegnoso.
«Non è vero! Riuscirò a farti uno scherzo, sarò così bravo che prenderai uno spavento grandissimo!»
La ragazza scoppiò a ridere. Controllò che i lunghi guanti le coprissero interamente le braccia, e corse ad abbracciare il fratellino scompigliandogli i capelli già arruffati dalla notte. Cody si divincolò.
«Dai, Mya, piantala, mi stai stritolando...»
Mya rise ancora, e lo lasciò andare. Lui corse fuori dalla camera, ma appena sulla porta si bloccò, tornò indietro con un sorriso a trentadue denti e gridò: «Buon compleanno, Mya!»
Poi corse di nuovo via, e la ragazza scosse la testa, sorridendo.
 
***
 
Mya si spogliò con calma, mentre il vapore saliva dalla tinozza piena di acqua calda e cominciava a formare un’evanescente foschia bianca. Fuori dalla finestra, le campane del villaggio suonavano a festa, attutite dalla distanza. La ragazza sorrise. Aveva la fortuna di festeggiare il suo compleanno il giorno della festa di primavera. Sua madre le preparava sempre una tinozza d’acqua calda per fare il bagno, poi avrebbe indossato il suo vestito più bello e sarebbero andati tutti al mercato del paese. E la sera avrebbero festeggiato con tutti i cibi buoni comprati là.
Ovviamente non era il suo vero compleanno. Quello era il giorno in cui, cinque anni prima, aveva incontrato la sua nuova famiglia. Non sapeva quand’era davvero il suo compleanno.
Cinque anni. Era davvero tanto tempo.
Lo sguardo le cadde sullo specchio già appannato lievemente dal vapore. Tese un dito e scrisse il suo nome sul vetro. I suoi genitori adottivi le avevano insegnato a leggere e scrivere, ma aveva imparato tropo tardi, e ora aveva ancora una grafia esitante, da bambina. Passò rabbiosa la mano sullo specchio, cancellando la scritta.
Guardò il riflesso con curiosità. Non le capitava spesso di specchiarsi, visto che di solito usciva di casa solo per andare a caccia nel bosco poco distante con suo padre, oppure per lavorare al piccolo orto dietro casa, e per quelle cose certo non doveva prestare attenzione al suo aspetto. L’ultima volta che si era guardata era stato l’anno prima, che era stata anche l’ultima volta che era andata al villaggio.
La ragazza che la fissava dallo specchio era alta e pallida, magra come uno spettro, con due enormi occhi grigi da bambina, seminascosti da un ciuffo di capelli ribelli. Aveva diciassette anni, ma la ragazza nello specchio non ne dimostrava più di quindici, così magra, e con quegli occhi che spiccavano sul viso bianco incorniciato da selvaggi capelli corvini.
Il suo sguardo scese giù, sul petto, e si impigliò sul marchio nero. Era proprio al centro, sullo sterno, e risaltava nerissimo sulla sua pelle così pallida. Non era mai sbiadito, in tutti quegli anni. Era rimasto sempre lì, come in agguato, aspettando di rubare un’altra vita. L’enorme ragno le ammiccava attraverso lo specchio, accarezzando il teschio su cui era adagiato, che sembrava schernirla con il suo ghigno e le sue orbite vuote.
La ragazza distolse lo sguardo, e si immerse nell’acqua calda.

***
 
«Mya, vieni qui un attimo.»
La sua madre adottiva era sulla porta della camera che la aspettava. La ragazza la seguì infreddolita, avvolgendosi un drappo intorno ai capelli gocciolanti. Steso sul letto c’era un vestito blu notte, semplice ma davvero bello, con il corsetto allacciato dietro e la gonna di stoffa lucida.
«Vorrei che tu oggi mettessi questo vestito.»
Mya guardò la donna con occhi sgranati.
«Ma mamma, non posso. È il tuo vestito più bello...»
Il sorriso della donna sembrò illuminarle il volto e i caldi occhi marroni. Era sempre così: quando sua madre sorrideva, riusciva a far apparire un raggio di sole anche nel bel mezzo di una tempesta. Mya avrebbe tanto voluto essere come lei.
«Certo. È la tua festa, oggi.»
Mya allora sorrise. Lasciò che la madre adottiva la aiutasse ad indossare l’abito. Notò l’amore con cui compiva ogni singolo gesto, la cura con cui le stringeva i lacci del corsetto e le lisciava la gonna. Non contenta, le pettinò i lunghi capelli e li asciugò con un drappo di stoffa.
Alla fine la portò davanti allo specchio. Mya quasi non si riconobbe. Aveva i capelli intrecciati per lasciare scoperto il volto, invece di legati a casaccio con un nastro come faceva di solito, e quel vestito era troppo scollato e la faceva sentire leggermente a disagio. Ma sua madre era raggiante quando la guardava, e Mya decise che doveva farlo per lei che l’aveva presa in casa sua cinque anni prima, una bambina con una strana maledizione e un passato oscuro. Le era infinitamente grata perché le aveva dato qualcosa che non aveva mai avuto: una famiglia, e un po’ di amore.
Di colpo la sua mente si riempì di immagini.
Il rosso fuoco di un tramonto.
L’odore di fumo in lontananza.
Le persone che gridavano e correvano da tutte le parti.
E poi il silenzio. E un viso gentile che strappava la solitudine del piccolo vicolo buio.
Capitava spesso che Mya si domandasse che fine avesse fatto Jahrien. Aveva fatto il conto che doveva avere vent’anni ormai. La ragazza aveva stampata indissolubilmente dentro di sé l’immagine del ragazzo che scompariva all’orizzonte seguendo un uomo enorme con un mantello nero svolazzante, l’immagine dell’ultima volta che l’aveva visto. Chissà cosa stava facendo in quel momento... sicuramente qualcosa che aveva a che fare con azioni eroiche e battaglie grandiose. Chissà se pensava ancora a lei, la bambina con la strana maledizione... sicuramente no, era solo una tra le tante persone che aveva salvato in quella città, per lui, lei era insignificante.
Per lei, invece, lui era vita. L’aveva salvata.
Si riscosse. Cody la stava chiamando. Era tempo di andare.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Cavalieri ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 2

Cavalieri



 

S



i sentiva echeggiare la musica tra le stradine strette e contorte di Tadun. Le vie si rincorrevano e si intersecavano in angoli strani, correvano su e poi giù tra scale, vicoli bui e portici troppo bassi. Le case di pietra rosata erano alte non più di due piani, ma incombevano sulle strette strade lastricate e oscuravano la luce di un pallido sole nebbioso. Il paesino abbarbicato sui pendii di quella stretta e verde vallata era in festa, e si sentiva nell’aria vibrante di melodie allegre e nel profumo aleggiante di cose buone. La piazza tonda, cuore del piccolo borgo, era tutto un mescolarsi di voci, melodie, colori; c’erano risate di bambini, profumo di pane appena sfornato e rintocchi di campane, c’erano i mercanti che venivano da ovest con i loro carri pieni di stranezze, c’era ovunque un’allegra confusione che permeava l’aria ancora fredda e dava alla testa.
Mya si guardava intorno, metà spaesata e metà euforica, mentre un sorriso appena accennato colorava le sue labbra sottili. In cinque anni che era lì non aveva mai visto una festa così gioiosa e spensierata. Doveva essere un buon segno. Certo, la guerra dell’Usurpatore non aveva ancora raggiunto il regno di Amikar, ma se il suo regno gemello Thral era in difficoltà, ne risentiva. La guerra quindi sembrava procedere bene.
Si perse tra le bancarelle e le risate che risuonavano intorno a lei, lasciò volare lo sguardo tra i festoni colorati appesi alle finestre e i bambini che si rincorrevano nelle strette strade di Tadun. La festa di primavera riusciva sempre a rasserenarla, le faceva dimenticare tutto, la maledizione, il suo passato, il futuro incerto... era uno dei pochi momenti in cui si sentiva di aver trovato un posto a cui apparteneva.
«Myaaaa!»
La ragazza sussultò, tornando improvvisamente alla realtà. Cody comparve dal nulla dietro di lei, le afferrò un braccio e cominciò a strattonarla da qualche parte.
«Mya, mi compri i dolcetti? Per favore! Ti prego ti prego ti prego!»
Lei scoppiò in una lieve risata e accelerò appena il passo per seguire la corsa del fratellino. Lui la trascinò fino a davanti un banchetto minuscolo dove un’anziana signora dai capelli completamente grigi e il volto rugoso consegnò loro, con un sorriso stentato ma gentile, un sacchettino di biscotti tiepidi in cambio di qualche moneta.
Cody abbracciò Mya e corse via ridendo. Sicuramente stava tornando dai suoi amici a condividere i biscotti. La ragazza lo seguì con lo sguardo, un mezzo sorriso sulle labbra, finché non lo vide girare un angolo troppo in fretta e sbattere contro qualcuno. Con un sospiro si avvicinò al fratellino irrequieto e allo sconosciuto per scusarsi.
La vittima di suo fratello era un ragazzo sui vent’anni che sorrideva divertito.
«Per favore, scusalo» sospirò Mya sfiorando con una mano guantata la spalla di Cody.
«Non sta mai fermo, è un vero incubo.»
Lo sconosciuto però rise.
«Oh, non ti preoccupare, nessun problema. È comunque più simpatico di mio fratello. Sei sua sorella, vero? Molto piacere, sono Dane.»
Mya esitò un istante, dubbiosa. Non le era mai capitato di avere a che fare con ragazzi della sua età. A parte ovviamente Jahrien.
Ma poi si decise e strinse la mano che Dane le porgeva ricambiando il sorriso.
«Io sono Mya.»
«Non ti ho mai visto al villaggio... non sapevo neanche che Cody aveva una sorella, e lui e mio fratello sono migliori amici. Non vieni spesso fuori?»
Il sorriso di Mya si congelò all’istante. D’istinto tirò su appena il vestito, anche se il marchio era ben nascosto. Dannazione. Era riuscita per un attimo a dimenticarsi quasi della maledizione, era serena... ma era durato pochissimo. Non poteva sfuggire a lungo.
«Ehm... io, diciamo che sono malata. Cioè, mi ammalo molto spesso. E quindi non posso uscire molto.»
Dane sembrò non essersi accorto del profondo turbamento della sua interlocutrice. Continuò a parlare e parlare, e ogni tanto scoppiava in una risata, e Mya lentamente si tranquillizzò di nuovo, e anche lei cominciò a raccontare cose, e a parlare del più e del meno; e si trovò che improvvisamente era buio, e avevano passato insieme tutto il pomeriggio.
Sette rintocchi di campane.
«Oh, sono già le sette?» La ragazza cadde dalle nuvole. Non si era accorta che era passato così tanto tempo. Si diede mentalmente della stupida.
«Così pare» disse Dane, e sorrise. Sorrideva molto spesso, Mya l’aveva notato.
Per qualche secondo restarono in silenzio. Mya sorrise appena, imbarazzata. Poi salutò Dane con un cenno e si avviò verso casa. Ma all’ultimo secondo lui le afferrò la mano guantata. La ragazza sussultò a quel contatto: era la prima volta che qualcuno oltre ai suoi familiari la toccava, dopo Jahrien.
«Mya... se uno di questi giorni vieni in paese, magari potremmo passare un po’ di tempo insieme, se ti va.»
Un allarme gridava qualcosa nel suo cervello. Non doveva accettare.
«Oh... io di solito devo aiutare mio papà al lavoro, però... se capita...»
Dane sorrise. Qualcosa dentro di lei esplose.

 
***

«Non credere di ingannarmi, signorina» fece suo padre la sera a cena, con un mezzo sorriso sulle labbra e un tono fintamente di rimprovero.
«Ho certi informatori, qui... – Cody ridacchiò con aria colpevole – ...che mi dicono che hai passato tutto il pomeriggio con un certo Dane...»
Mya scoccò un’occhiata di fuoco a suo fratello, ma sorrideva.
«Io non ho fatto niente. È stato lui che ha deciso di sopportarmi tutto il pomeriggio...»
Risero.
«Al di là di questi scherzi» intervenne sua mamma con il solito sorriso caldo, «siamo davvero felici che hai qualche amico. Sono cinque anni che sei qui, e non hai mai voluto frequentare la gente del paese... siamo molto contenti se fai amicizia con qualcuno.»
Mya non rispose. Ma era serena. Anche se non l’aveva chiaramente capito nemmeno lei stessa, si era riaccesa dentro di lei una piccola scintilla di speranza. Speranza di vivere normalmente nonostante la sua maledizione.

 
***
 
«Non dovresti incoraggiarla così.»
Un sospiro.
«Forse hai ragione. Ma voglio che sia felice.»
«Non potrà mai essere felice. Non in questa maniera.»
«Ne sembri così sicuro... come fai a sapere che andrà male?»
«Vuoi scherzare, Alya? Nessuno la vorrebbe accanto, non quando potrebbe uccidere una persona solo toccandola!»
«Noi no, noi l’abbiamo accettata.»
«Ma questo è diverso.»

***
 
Era in un luogo buio. Era notte? Non ne era sicura. Tutto era nero intorno a lei.
C’erano rumori. Lontani, si avvicinavano. Mya ci mise qualche secondo per individuarli. Erano cavalli al galoppo.
 
***
 
«Non è diverso, maledizione! Appena quel ragazzo scoprirà il suo segreto, non la vorrà più vedere. Sai che è così!»
Stavano entrambi alzando la voce.
«E allora cosa dovrei fare, tenerla relegata in casa? Non permetterle di vedere nessuno?»
«Non lo so, so solo che così si farà del male.»
 

***
 
Myrindar.
Qualcuno la chiamava?
Myrindar.
Di chi era quella voce? Bucava la nebbia dei suoi ricordi come una freccia e le pungeva la mente. Doveva assolutamente ricordarselo, c’era un’urgenza dentro di lei che le gridava di farlo. Era importante.

 
***
 
«Deve poter vivere anche lei, Mearth. Maledizione o no.»
«Alya... la farai soffrire, così, non capisci?»
«Troverà prima o poi qualcuno che le vorrà bene. Ha trovato noi, può incontrare anche altri che non si fermeranno davanti a una stupida maledizione.»
«Lo spero tanto anch’io. Lo so che è stupido tenerla in gabbia, ma non voglio che le facciano del male. È troppo buona, non lo reggerebbe.»
«Dobbiamo provare. Diamole una possibilità, per favore.»
«Va bene. E spero davvero che vada tutto bene.»
 
***
 
Myrindar, devi andartene.
La ragazza scosse la testa. Non poteva farlo ora. Non capiva perché quella strana voce le dicesse di abbandonare la casa che finalmente aveva trovato dopo così tanto tempo. Non voleva.
Devi andare via, perché dalla tua scelta potrebbero dipendere le vite di tutti.
Aveva finalmente trovato la serenità che non aveva mai avuto, non poteva andare via. Non poteva ricominciare tutto da capo. Non per uno stupido sogno.
Scappa, Myrindar. Ti stanno cercando.
E la voce, il rombo di cavalli al galoppo e il nero della notte sparirono, e la ragazza si sentì precipitare nel vuoto.
Urlò.

***
 
Aveva il respiro accelerato e il cuore batteva a mille. Impiegò qualche secondo per calmarsi. Fece due respiri profondi. Chiuse gli occhi e aspettò che il mondo smettesse di vorticare.
Stava tremando.
Erano almeno due anni che non faceva incubi così vividi. Ma soprattutto, era da quando la sua nuova famiglia l’aveva accolta che non si sentiva chiamare con il suo vero nome. Le avevano dato il soprannome Mya quasi subito quando era arrivata, e da allora si era sempre chiamata così. Era stato un modo per dire che era cambiato qualcosa, che aveva ricominciato da capo.
Era diventata Mya, non più Myrindar.
Ma quel sogno le aveva lasciato dentro un’inquietudine strisciante. Era come se quella sottile e fragile magia che aveva permeato la sua nuova vita si fosse strappata. Come se fosse stato tutto un bel sogno finito troppo presto.
La ragazza scosse la testa. Che stupida che era. Non doveva preoccuparsi, dovevano essere strascichi di paura lasciati dal sogno, sarebbero presto svaniti come neve al sole. Non aveva senso, la sua vita lì non era finita, era appena cominciata.
Si stese di nuovo a letto, cercando di ignorare quella cupa inquietudine. Presto si addormentò di nuovo.
 
***
 
Quella maledetta erba continuava a ricrescere. L’aveva strappata del tutto poco tempo prima, e ora aveva circondato completamente gli ortaggi, di nuovo. La ragazza sospirò e si rialzò, concedendosi qualche secondo di pausa. Poi legò di nuovo i capelli e riprese, terminando in mezz’ora il lavoro.
Tornò a casa abbastanza stanca, e tutta sudata e sporca di terra. Riempì un secchio nel pozzo dietro casa, e lo stava faticosamente trasportando nella minuscola stanza da bagno quando qualcuno bussò. La ragazza posò il secchio e corse ad aprire sibilando un’imprecazione; non c’era nessuno in casa in quel momento quindi le toccava fronteggiare chiunque ci fosse dietro la porta, inoltre aveva un aspetto terrificante, così scarmigliata, rossa in viso e vestita a casaccio, e con la terra sparsa ovunque e i capelli devastati e...
«Dane?!»
La ragazza restò sbigottita. Cosa diamine ci faceva lui lì?
«Beh, pensavo fossi un po’ più felice di vedermi» la prese in giro lui con un sorriso.
«Cioè, si che lo sono, però, voglio dire, ho appena finito di lavorare, ho un aspetto orribile, sembro appena uscita da una battaglia e...»
«Oh, ma piantala! Ti andrebbe di fare un giro?»
Un grido nella sua testa le urlava disperatamente qualcosa.
«Dammi dieci minuti e arrivo.»
 
***
 
Non abitavano propriamente a Tadun. La loro casetta distava una quindicina di minuti a piedi dal centro del paesino, seguendo la tortuosa strada lastricata che arrivava da ovest, dalla pianura.
I due ragazzi passarono quei minuti ridendo e parlando del più e del meno. Mya si era lavata in fretta e aveva indossato gli abiti con cui era solita andare a caccia con suo padre: pantaloni di pelle, camicia larga, stivali morbidi e ovviamente i guanti. Si sentiva a suo agio in quei vestiti, e li trovava comunque più comodi di qualsiasi gonna o corsetto.
Dane aveva sbarrato gli occhi quando l’aveva vista uscire da casa vestita così. A quanto pareva, non era abituato a vedere ragazze vestite da uomini. Mya ne era rimasta un po’ sorpresa. Forse non era normale che le ragazze si vestissero così. Non lo sapeva. Lei non conosceva altre ragazze.
Ora erano seduti sull’ultimo gradino di una delle tante scalette di Tadun, e Dane le stava raccontando episodi della sua infanzia, e Mya cominciava a sentirsi un po’ a disagio. Lei non aveva ricordi del genere da raccontare, e non voleva che lui sapesse la sua vera origine più di quanto non voleva che lui sapesse della maledizione.
Buttò l’occhio in fondo alla via e notò una ragazza che veniva verso di loro. Indossava un abito elaborato e i suoi capelli ramati erano perfettamente intrecciati in un’acconciatura contorta che faceva risaltare il viso pallido e aggraziato. Mya la riconobbe, l’aveva vista un paio di volte. Era la figlia del capo del villaggio. Alla ragazza venne istintivo abbassare lo sguardo mentre l’altra si avvicinava. Notò che Dane sorrideva, e lei si trovò a confrontare quella bellissima ragazza a lei, scheletrica, infagottata in vestiti informi e con i capelli scompigliati.
«Dane» salutò la nuova arrivata, ovviamente degnando Mya di una sola occhiata di disapprovazione.
«Jodie» rispose lui, sorridendo.
«Come mai qui?»
«Nessun motivo particolare, in realtà. Io e Mya facevamo un giro. È la figlia di Mearth e Alya. Mya, lei invece è Jodie, una mia cara amica.»
«Molto piacere» le strinse appena la mano Jodie, con evidente disprezzo, prima di riportare la sua attenzione su Dane.
«Sai la novità? Nei villaggi della valle sono arrivati degli strani cavalieri. Me l’ha detto mio cugino che vive lì. Pare stiano cercando un ragazzo, un certo Myranar, o qualcosa del genere.»
Mya sussultò. Le immagini del sogno le invasero la mente. La voce, i cavalli al galoppo nella notte. E quella terrificante paura con cui si era svegliata.
«Scusate» disse improvvisamente, interrompendo le parole di Jodie. «Mi sono ricordata che ho una faccenda urgente da sbrigare, devo tornare subito a casa. È stato un piacere parlare con voi, alla prossima.»
Non si allontanò abbastanza in fretta per non sentire Jodie che esclamava: «Ma dove l’hai trovata quella, in mezzo alla foresta? Sembra una selvaggia!»
Girato l’angolo, Mya si mise a correre.
 
***
 
Entrò in casa come un tornado. Corse in camera a prendere la sua bisaccia, ci ficcò dentro alla svelta un pugnale e il mantello con il cappuccio.
La sua famiglia era in cucina, seduta al tavolo per pranzare.
«Mya, cosa sta succedendo?»
«Devo andarmene, mamma. Mi stanno cercando.»
«Cosa vuoi dire? Chi ti cerca?»
La ragazza si fermò due secondi a riflettere.
«Non lo so. Ma so che se sto qui metterò tutti in pericolo. Devo nascondermi per un po’. Andrò nel bosco.»
Sembravano tutti sconvolti da quella notizia. Sua madre si alzò, radunò qualche provvista e le porse un involto con dentro pane, formaggio e una manciata di bacche. Suo padre invece la abbracciò in silenzio. Cody si asciugò una lacrima.
«Stai attenta, sorellona. Promettimelo.»
«Certo, Cody. Starò attenta. Te lo prometto.»
Nella via verso la porta prese il suo arco e la faretra carica. Si sarebbe nascosta per un po’ nel bosco. Tutto sarebbe andato bene. Non c’era niente di cui preoccuparsi.
Continuò a ripeterselo nella mente per cercare di convincersi.
Non poteva ammetterlo, ma dentro di sé sapeva benissimo che erano menzogne.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Torce, incubi, ombre ***




 

Capitolo 3

Torce, incubi, ombre



 

I



l fuocherello ardeva dorato e guizzante in un cerchio di pietre, e il suo suono leggero e crepitante copriva gli altri rumori del bosco notturno. Era ormai il quarto giorno che Mya era nascosta lì, nel punto più fitto della foresta che circondava Tadun. Non si era potuta muovere da lì, non aveva potuto avvicinarsi al villaggio nemmeno per far sapere alla sua famiglia che stava bene. I cavalieri si erano accampati a una cinquantina di metri da Tadun e non si erano mossi.
Mya non sapeva perché, e forse nemmeno voleva saperlo.
Molto probabilmente non avrebbe dovuto accendere un fuoco. Gli alberi non erano così fitti da celarne la luce; dal villaggio non l’avrebbero individuata, ma sarebbe bastato che uno di loro si inoltrasse nella foresta per un quarto d’ora per notare la sua posizione.
Era stata costretta ad accendere quel fuoco per un motivo molto semplice: aveva finito le provviste che si era portata e aveva dovuto cacciare.
Quella situazione la rendeva nervosa. Non sapere cosa stava accadendo le metteva un’ansia costante e fastidiosa. Già un paio di volte aveva rischiato e si era spostata sulla sommità della collina dietro cui era nascosta per sbirciare cautamente Tadun, ed entrambe le volte non era riuscita a ottenere informazioni. Voleva dannatamente sapere cosa volessero i cavalieri, perché fossero ancora lì e che cosa diamine c’entrasse lei in tutta quella faccenda.
Quando aveva sentito Jodie parlare dell’arrivo dei cavalieri, la paura buia e infuocata che l’aveva svegliata dal sogno era esplosa dentro di lei. Aveva sentito che doveva andarsene e che doveva farlo subito. Le dispiaceva davvero tanto per Dane, che aveva voluto essere suo amico. Era andata via in quella maniera, senza guardarlo negli occhi, inventando una scusa... si sentiva tremendamente in colpa. Però insomma, sembrava più che felice di poter restare da solo con Jodie. Mya era stanca di ingannare se stessa, aveva notato benissimo come si era illuminato quando l’aveva vista. E non sapeva il perché di tanta amarezza quando ripensava a quel pomeriggio. Jodie era bellissima, non era strana come lei e soprattutto non era maledetta: era giusto che i ragazzi preferissero lei.
Ma che cosa stava pensando?
Era una stupida.
Quando il sole tramontò del tutto, Mya, anche se malvolentieri, spense il fuoco. La notte faceva ancora freddo, e lei aveva solo la coperta che aveva preso al volo da casa prima di andarsene, ma non poteva permettersi di lasciare acceso un fuoco con il buio. Si rassegnò a un’altra scomoda notte di freddi incubi. Si strinse nella coperta e chiuse gli occhi, costringendo i pensieri al silenzio.
Ma, nonostante tutta la sua buona volontà, restò sveglia ancora a lungo a rimuginare, prima di riuscire ad addormentarsi.
 
***
 
Rumore di passi. Lievi, si interrompevano spesso. Una persona sola, che non voleva essere scoperta.
Mya era già sveglia e vigile. Si era alzata, aveva ficcato la coperta nella bisaccia in fretta ed era pronta per scappare. Aveva cancellato le tracce del focolare la sera prima. Solo una persona molto esperta avrebbe notato che lì era passato qualcuno.
Aspettò che la persona riprendesse a camminare per muoversi al ritmo dei suoi passi. Certo, lei era capace di essere silenziosa come un’ombra, ma così era sicura che chiunque si stesse avvicinando non avrebbe sentito i suoi passi, coperti dal rumore dei propri.
La ragazza si allontanò cauta. Non era ancora sorto il sole, ma già c’era un chiarore diffuso nel cielo. Mya si chiese chi mai stesse attraversando il bosco prima dell’alba e soprattutto da solo. La ragazza raggiunse un gruppo di massi e si nascose dietro il più grande.
E aspettò.
I passi si avvicinarono sempre di più. Mya sguainò silenziosamente il pugnale. Dal suo aspetto non sembrava, ma era molto abile a combattere.
I passi si avvicinarono. Ormai dovevano essere arrivati al punto dove lei aveva acceso il fuoco e dormito. Per evitare tracce troppo evidenti, ogni giorno si era spostata più all’interno nel bosco seguendo percorsi casuali. Non capiva come qualcuno potesse aver indovinato il suo nascondiglio al primo colpo.
Per qualche secondo, silenzio assoluto. Mya aveva il respiro leggermente accelerato, era pronta per scattare.
Un passo, due passi. Nella sua direzione.
La ragazza spostò appena il peso all’indietro, caricando un colpo.
Stava arrivando. Appena qualche attimo e l’avrebbe vista.
Poteva sentire il suo respiro.
Era tesissima.
E infine l’inseguitore si mostrò. Mya aveva già iniziato il movimento quando si rese conto di chi aveva davanti. Deviò all’ultimo momento il colpo, ma gli avrebbe lo stesso aperto uno squarcio sul braccio se quello prontamente non si fosse spostato.
La ragazza lasciò cadere il pugnale con aria sconvolta.
«Papà?! Come sapevi che ero qui?»
Mearth sorrise appena. Era un uomo alto e robusto, rafforzato da anni di lavoro nei campi, aveva le mani piene di cicatrici, una barba scura, ormai striata di grigio, e la fronte sempre corrucciata, che gli davano un’aria cupa, come se fosse sempre pensieroso.
«Conoscendoti, mi sembrava il posto migliore dove cercare.»
Mya fissò il padre adottivo con un’espressione interrogativa.
«I due Cavalieri Erranti che ti hanno portato da noi sono andati via in questa direzione. Proprio attraverso questo bosco. Forse tu non te lo ricordi, ma visto che dovevi scegliere un posto dove rifugiarti, d’istinto sei venuta qui.»
La ragazza abbassò gli occhi. A volte ancora si stupiva di quanto Mearth e Alya la conoscessero bene. Non era loro figlia, era soltanto una ragazza che era stata affidata alle loro cure, eppure le avevano sempre voluto tutto il bene possibile. Mya si ripeteva sempre quanto fortunata fosse stata a trovare un uomo e una donna straordinari come loro. Dovevano essere davvero poche le persone veramente buone, nel mondo, e lei aveva avuto la fortuna di incontrarne tre.
«Perché sei venuto a cercarmi?»
«I cavalieri che dicevi. Sono arrivati il giorno dopo che sei andata via, immagino tu l’abbia visto. Hanno girato tutto il paese e le case intorno, chiedevano di un ragazzo di nome Myrindar, capelli neri, un tatuaggio sul petto.»
La ragazza trasalì. Il sogno era vero, allora. La stavano cercando.
«Chi sono? Cosa vogliono da me?»
«Non lo so, Mya. Alcuni in villaggio dicono che siano soldati dell’Usurpatore... l’unica cosa che so è che se ne sono appena andati. Questa notte hanno improvvisamente tirato su il campo e sono partiti verso ovest, fuori dalla valle.»
Lei sbarrò gli occhi.
«E... non è successo niente? Se ne sono semplicemente andati, così, all’improvviso?»
«Sembra di sì. Sono venuto a cercarti per questo. Puoi tornare.»
Mya abbassò gli occhi, guardandosi i piedi che disegnavano scie sul terreno coperto di aghi e foglie di querce. Non le piaceva proprio quella situazione. Sentiva dentro che c’era qualcosa di sbagliato.
Non doveva tornare. C’era qualcosa dentro di lei che lo stava gridando con tutta la sua voce.
«Tutto bene, Mya?»
«Certo, papà. Sono felice di poter finalmente tornare.»
 
***
 
Sanno dove sei. Sanno chi sei. Ti verranno a prendere.
Mya si accorse di essere nella piazza centrale di Tadun. Era notte, il paese era deserto. Le stelle brillavano in cielo.
Ma c’era un vago chiarore. Doveva essere quasi l’alba. Sembrava quasi che stesse per sorgere il sole.
Tutto normale.
Eppure c’era qualcosa di terribilmente sbagliato. Qualcosa non andava.
Mya lo sentiva dentro come un dolore profondo.
Myrindar.
La ragazza si rese conto di due cose in un istante, e gridò terrorizzata.
Il chiarore non veniva da est. E il silenzio non era così assoluto come sembrava.
Era costellato di grida. E di rumore di fiamme.
Myrindar, te ne devi andare.
Un improvviso suono di zoccoli scoppiò dietro di lei. Si voltò di scatto. C’era il volto vuoto di un cavaliere incappucciato di fronte a lei.
Non riuscì a muoversi, correre, pensare. Il cavaliere la colpì con una mazza.
Lei urlò con tutta se stessa mentre cadeva nel vuoto e il buio si chiudeva su di lei.
 
***
 
Si svegliò con un grido strozzato.
Si guardò intorno freneticamente, cercando fiamme, armature luccicanti e grida.
Ma nella sua piccola stanza il buio era totale e assoluto, e l’unico suono che sentiva era il rombo del sangue dentro di lei e il suo respiro affannoso che non voleva saperne di rallentare.
Prese due respiri profondi.
La paura non accennò a diminuire. Doveva muoversi, o sarebbe impazzita.
Si vestì in fretta. Pantaloni scuri, corsetto di pelle, mantello nero dall’ampio cappuccio.
Uscì dalla finestra, cercando di non far rumore.
Una volta fuori, corse.
 
***
 
Corse fino a essere stanca morta, senza una direzione, nella foresta. Corse finché non le mancò il fiato, i muscoli le dolevano tutti, dal primo all’ultimo, quasi non aveva energie per restare in piedi. Solo quando si fermò e si buttò sull’erba si rese conto di dove si trovava.
Era da qualche parte sul versante nord, appena sopra alle ultime case del villaggio. Da quell’altezza il panorama era spettacolare. Sul fondo della valle la strada bianca serpeggiava tra i campi bui, seguendo il corso tortuoso del fiume che rifletteva qua e là la luce della luna, alta in cielo, piena, candida. Mya sollevò lo sguardo ad ammirare i suoi crateri e i suoi mari argentei. La sua luce copriva le stelle più deboli e smorzava le restanti, appannate anche da nuvole sparse. Gli occhi della ragazza si impigliarono sul profilo nero e incombente delle montagne davanti a lei, che si distinguevano appena dal nero circostante del cielo, e scesero sempre più giù, sul villaggio addormentato e sulle casette di legno e pietra rosata, e sulle torce che illuminavano le strade. Mya scorse con lo sguardo verso ovest, dove la valle si apriva nelle colline e poi nella grande pianura di Amikar.
L’inquietudine che era svanita con la corsa e la vista del paesaggio tornò a pungere dolorosamente dentro di lei, all’improvviso, dal nulla. C’era un dettaglio, una nota stonata che le strideva nella mente.
Tornò indietro, cercando qualcosa che non avrebbe voluto vedere.
E lo trovò.
Per qualche secondo restò pietrificata a guardare quelle torce muoversi lente ma troppo veloci lungo la strada. Poi il suo corpo prese il controllo, mentre la sua mente era ancora atterrita. Le sue gambe presero a correre, consumando la poca energia rimasta, e Mya si mosse in una direzione ben precisa, richiamando alla memoria la strada che aveva percorso un paio di volte soltanto quando aveva accompagnato Cody a casa del suo migliore amico.
Era una casa a due piani, con un piccolo giardinetto curato sul retro. La ragazza saltò il muretto e usò la rete su cui crescevano i rampicanti per salire fino alla finestra del piano superiore. Sperò di ricordare giusto e bussò con le nocche sul vetro.
Non venne nessuno.
Bussò ancora, e ancora, sempre più disperata.
Alla terza volta finalmente la finestra si aprì e un viso assonnato e sbalordito le si presentò davanti.
«Mya? Cosa diamine ci fai qui adesso?»
«Non c’è tempo, Dane» tagliò corto lei. «I cavalieri saranno presto qui, e non avranno pietà. Dovete andarvene subito.»
Lui spalancò gli occhi. «Ma tu cosa ne sai?»
«Nel villaggio si nascondeva la persona che loro cercavano. L’hanno scoperto, e verranno a prenderla... a costo di radere al suolo Tadun. Ma non la troveranno... è per questo che ve ne dovete andare.»
«Mya, tu sei pazza!»
«Purtroppo no. Io so queste cose perché volevano me... Myrindar è il mio vero nome. Sono maledetta. Mi dispiace averti ingannato, ma se avessi saputo non mi avresti più rivolto la parola.»
Lui non disse niente, e la ragazza abbassò gli occhi per non permettergli di notare che erano lucidi.
«Me ne vado per sempre. Addio, Dane. Grazie.»
Fece per andarsene, ma all’ultimo momento chiuse gli occhi.
«Ricordati di me» disse, così piano che probabilmente lui nemmeno l’aveva sentito.
Poi scese e corse via senza mai guardarsi indietro.
 
***
 
La ragazza entrò in camera dei genitori adottivi con le lacrime che scendevano lungo le guance e il respiro concitato per la corsa forsennata.
«Mamma, papà» li scosse per le spalle, agitata, per svegliarli. «Stanno arrivando. I cavalieri sono qui. E sanno che abito in questo villaggio. Dovete scappare, vi uccideranno!»
Mearth la prese per le spalle e la guardò negli occhi.
«Mya. Myrindar.» lei trasalì. «Vai via. Scappa. Non ti devi preoccupare per noi, va bene? Pensa solo ad andare via. E non tornare mai indietro.»
Alya la abbracciò piangendo. Cody si affacciò alla porta della camera, con i capelli scompigliati e i grandi occhi da bambino confusi e annebbiati dal sonno.
«Mya... cosa succede?»
La ragazza corse ad abbracciarlo.
«Cody, mi raccomando, devi essere forte. Promettimelo.»
«Ma cosa sta succedendo? Vai via?»
Gli occhi del bambino si riempirono di lacrime.
«Non ti devi preoccupare per me. Resta con la mamma e il papà e proteggili come farei io, va bene?»
«Va bene.»
Si vedeva che cercava di non piangere. Mya sorrise, asciugandosi gli occhi.
Corse a prendere i suoi due pugnali e l’arco e la faretra, mise a tracolla la borsa e uscì.
«Ehi, tu!»
Mya sussultò. Un cavaliere a meno di tre metri da lei le intimò di fermarsi.
La ragazza indietreggiò. E ora che cosa doveva fare?
Il cavaliere le si avvicinò brandendo uno spadone.
«Dove scappi, bambina?»
Lei fece un altro passo indietro. Ma non sarebbe riuscita a scappare.
Qualcosa fischiò attraverso l’aria. Il cavaliere gridò di dolore e sorpresa.
Mya si voltò, ancora paralizzata, e vide suo padre in piedi sulla porta di casa con in mano la sua enorme balestra.
«Vattene, Mya! Sapremo cavarcela!»
Lei annuì. Ancora in trance fissò la piccola casetta di legno rosso dove aveva passato i migliori cinque anni di tutta la sua vita. Un tempo bellissimo e ormai finito.
Con le lacrime che scorrevano sul suo viso, la ragazza corse nel bosco. Corse, di nuovo, fino a non avere più respiro né energia, mentre le lacrime continuavano a disegnare scie salate e amare lungo la sua pelle bianca.
 
 
 

 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Ciao a tutti!! Complimenti, se state leggendo questo significa che avete sopportato ben 4 capitoli della mia storia!
Vorrei ringraziare quelli che seguono la storia o l’hanno recensita, in particolare ringrazio the_Matrix e The Sorrow perché hanno recensito ogni volta ;)
Scusate se finora la storia è stata lenta, ma adesso dovrebbe accelerare e succedono cose più interessanti, quindi spero di riuscire a farmi perdonare ;) e se riesco la prossima volta metto anche il disegno della mappa del mondo, così si capisce di più...
E se trovate errori/schifezze/cose che non vanno non esitate a commentare, non mi danno fastidio le recensioni “cattive”, in fondo sono qui per migliorare!
Avviso che sarà una storia lunga perché ho il vizio di allungare e aggiungere dettagli, però prima o poi arrivo alla fine.
Alla prossma!

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** La Città di Confine ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 4

La Città di Confine



 

M



ya continuò a correre, nel buio, senza fermarsi. Se si fosse fermata, i pensieri che la inseguivano l’avrebbero travolta, trascinata così in basso che non sarebbe più riuscita a risalire. Si concentrava solo sul dolore che le trafiggeva i muscoli a ogni movimento, sul suono cupo e smorzato dei suoi passi frenetici sul suolo del bosco, sui rami degli alberi che comparivano qua e là e la frustavano.
L’aria le strappava le lacrime dalle guance, il cuore le esplodeva nel petto mentre cercava di mettere più distanza possibile tra lei e quella che era stata la sua casa.
Si fermò solo quando era ormai l’alba, stremata dalla lunga fuga. Si lasciò cadere a terra, tremando e respirando disperatamente. Si addormentò all’istante, raggomitolata come quando era bambina, con le lacrime che continuano a scendere e rigarle il viso stanco.
 
***
 
Ti stanno cercando.
La voce era tornata. Mya sussultò. Era sicura di conoscerla. Doveva assolutamente ricordare chi era.
È l’Usurpatore. Ti vuole. Non ti deve trovare.
La ragazza faticava a distinguere il luogo in cui si trovava. Sembrava una strada stretta e sporca, circondata da edifici alti e squallidi. Il cielo era coperto da nuvole pesanti, e la luna non c’era. Tutto era buio.
Torna ad Antya. Cerca Zakhar, nella zona ovest del quartiere dei vicoli.
Mya si vide bussare a una porta. Si sentì un movimento dall’interno.
Lui ti aiuterà. Ma devi sbrigarti, o ti prenderanno.
La porta si aprì su un’oscurità totale e impenetrabile. La ragazza fece un passo indietro, terrorizzata. Ma quello strano buio, denso, appiccicoso la afferrò e la trascinò con se.
 
***
 
Erano ormai quattro giorni che Mya scappava. Era andata in direzione sud ovest, uscendo dalla valle, ma ora avrebbe deviato verso sud. Aveva imparato a sue spese che doveva fidarsi di quella voce. A causa sua probabilmente la sua famiglia era morta. Il suo villaggio raso al suolo o bruciato. E tutto perché non aveva voluto andarsene.
Era un disastro.
Mearth e Alya erano stati così buoni ad accoglierla nonostante tutto... e lei per ringraziarli era stata così egoista da non voler andare via, e aveva messo in pericolo la loro vita. Si odiava per questo.
A volte si chiedeva cosa sarebbe successo se Jahrien non l’avesse salvata da Antya. Probabilmente sarebbe morta durante l’assedio che aveva condotto l’esercito dell’Usurpatore dentro le mura della città.
Jahrien. Chissà dov’era, cosa stava facendo.
Lo sapeva che era una stupida, ma non poteva fare a meno di pensare a lui. Chissà se l’avrebbe mai incontrato di nuovo, chissà se le loro strade si sarebbero incrociate. Erano pensieri infantili, ne era consapevole. Però non poteva impedire loro di entrarle con prepotenza  nella mente e perseguitarla mentre camminava attraverso le colline di Amikar, diretta verso Antya.
 
***
 
Con mezzo esercito imperiale che le stava dando la caccia, supponeva che entrare innocentemente dalla porta principale non fosse una grande idea.
Aveva visto per la prima volta una prova dei suoi sospetti pochi giorni dopo essere scappata da Tadun, quando si era imbattuta in un villaggio ed era stata costretta a deviare dal suo percorso.
Al bivio per arrivare al piccolo paese incuneato tra due colline aveva notato una tavola di legno appesa sbilenca al ramo più basso di un grande albero ancora spoglio. Si era avvicinata, incuriosita, per sbirciare le pergamene rovinate che c’erano inchiodate.
E lì, in bella vista, appena sbiadito dal sole ma lo stesso troppo maledettamene riconoscibile c’era un disegno di un ragazzo giovane, sui sedici anni, che spiava il mondo da sotto i suoi capelli disordinati. Ma la cosa che Mya aveva trovato terrorizzante e che l’aveva confusa non poco era che quello disegnato lì, se non fosse stato un ragazzo, sarebbe stato praticamente identico a lei: stessi capelli scompigliati, stessi occhi troppo grandi, stessi lineamenti sottili.
“Myrindar, diciassette anni. Consegnare vivo alle truppe grigie. Taglia: 50 corone d’oro.”
Così diceva la scritta sotto il disegno.
Mya era scappata via, inorridita. Non sapeva perché la cercassero... e sapeva ancora meno perché pensassero che era un ragazzo. Ma non aveva nessuna intenzione di correggerli sulla sua identità; le parole della voce misteriosa che entrava nei suoi sogni rimbombavano continuamente nella sua testa.
Aveva evitato di pensare alla taglia sulla sua testa – cinquanta corone d’oro?! Era un’assurdità – ed era semplicemente andata avanti, sempre verso sud, verso Antya, sperando che nessuno la vedesse e la riconoscesse. Si era tenuta lontana dalle strade, tagliando per le colline. Aveva superato il fiume Shaali una settimana dopo essere partita, ed era entrata nel regno di Thral, anche se ci era mancato poco che una pattuglia di soldati la catturasse al confine. Ma in fondo Mya aveva vissuto per dodici anni tra i vicoli di Antya, tra ladri, tagliagole e loschi figuri di tutti i generi, sapeva badare a se stessa.
Infatti era andato tutto per il meglio, e ora che era arrivata ad Antya, due settimane da quando era scappata da casa, doveva affrontare un problema ben peggiore della pioggia incessante o delle pattuglie sparse per la campagna.
La Città di Confine era completamente racchiusa in una cinta di mura alte quattro metri, interrotte da quattro grosse torri quadrate in corrispondenza dei punti cardinali.
E lei non poteva certo entrare sotto lo sguardo dei soldati imperiali di guardia alle porte.
 
***
 
Era quasi mezzanotte. Doveva andare.
Mya raccolse le sue poche cose, si preparò con l’arco a tracolla e la faretra carica allacciata alla cintura. Spostò il pugnale in una posizione da cui sarebbe riuscita a estrarlo più in fretta, e si allacciò il mantello nero con l’ampio cappuccio.
Si strinse il corsetto, per tentare di evidenziare seno e fianchi che praticamente non aveva. Le guardie cercavano un ragazzo: per l’ennesima volta, Mya maledisse quel suo corpo così dannatamente sottile che la faceva passare per una bambina. Avrebbe tanto voluto essere un po’ più femminile, come le ragazze che aveva visto a Tadun.
Stava per avviarsi quando improvvisamente le venne un’idea.
Sciolse la lunghissima treccia di capelli neri e li pettinò con le mani. Le arrivavano oltre i fianchi, in morbide onde corvine che riflettevano debolmente la luce della luna. Erano bellissimi. Prima di pentirsene, estrasse il pugnale.
Cinque minuti dopo, la ragazza si avviava furtiva ma decisa verso Antya, con i capelli che le scendevano disordinati appena sopra le spalle, e insieme alle ciocche tagliate, lasciava dietro di sé, e per sempre, la sua vita normale.
Mya era morta, così come era morta la sua illusione dorata di poter vivere come una ragazza qualsiasi in un paese tra le montagne.
Era tornata la ragazza delle strade, l’ombra tra le ombre.
Era tornata Myrindar.
 
***
 
Il passaggio era stretto e opprimente, doveva procedere su mani e ginocchia e lo stesso la schiena grattava dolorosamente sul soffitto irregolare, nei punti dove il cunicolo si stringeva.
Crescere nel quartiere dei vicoli le era stato utile. Conosceva quel passaggio sotterraneo da tantissimo tempo, gliel’aveva mostrato un vecchio che viveva nella zona sud, e le era venuto in mente subito quando aveva visto le guardie alla porta. Ci aveva messo una ventina di minuti per ritrovarlo, ma era certa che sarebbe uscita da una botola tra due catapecchie al limite della zona sud. Dentro le mura di Antya.
La Città di Confine era antichissima, e questo comportava più segreti di quanti si potessero immaginare. Solo chi era vissuto tra le sue ombre e i suoi sotterranei poteva sperare di conoscerne almeno un po’.
La ragazza emerse come previsto in un vicolo sporco e deserto. L’odore di terra e rifiuti vari la riportò a cinque anni prima, e le girò la testa. Si sedette a terra, ammirando le incisioni devastate sul muro ormai grigio della casa che aveva di fronte e le pietre sbeccate del selciato. Era a casa.
Non doveva sforzarsi per camminare silenziosa e furtiva. Era tesa a cogliere ogni singolo dettaglio, ogni rumore oltre al mantello che frusciava dietro di lei mentre si dirigeva verso la sua destinazione, la zona ovest dei bassifondi.
Per questo non si stupì affatto quando il losco tizio che le veniva incontro dall’altra parte del vicolo le bloccò la strada e quasi contemporaneamente qualcuno fece per afferrarla da dietro.
Myrindar si abbassò di scatto, affondò un gomito nello stomaco di quello dietro di lei, ruotò in fretta su se stessa e fece perdere l’equilibrio all’uomo davanti a lei con un calcio basso sulle caviglie.
Si rialzò e sguainò il pugnale, schivò un coltello lanciato da un terzo uomo da qualche parte dietro di lei e si infilò in un vicolo, seguita da un’altra lama che si conficcò nella parete a pochi centimetri dal suo braccio. Divelse il pugnale con la mano libera e lo lanciò fulminea mentre riemergeva dall’ombra, vide il bagliore del metallo volare in aria e colpire quello che l’aveva lanciato, che era uscito allo scoperto. L’uomo cadde all’indietro con un grido.
Il primo che aveva colpito le si scaraventò addosso urlando. Myrindar non fece in tempo a sollevare il pugnale per difendersi. L’uomo fece per afferrarle il collo, ma bastò che le sfiorasse la pelle con le mani nude e la maledizione lo colpì. La ragazza sentì il marchio sul suo petto bruciare dolorosamente, e gridò. Quello che l’aveva assalita si afflosciò al suolo senza un rumore, e Myrindar arretrò, terrorizzata.
La maledizione aveva rubato un’altra vita. Anche se era la vita di un maledetto ladro dei vicoli, si sentiva morta lo stesso.
Represse le lacrime. Non era il momento.
Rincorse l’ultimo assalitore, che stava scappando di corsa. Lo afferrò per il mantello e lo strattonò. Lo sbatté contro un muro, puntandogli il coltello alla gola.
«Ma guarda un po’» la derise quello, «Adesso posso dire di averle viste tutte. Una bambina che fa a pezzi i miei uomini! Non sono cose che capitano tutti i giorni.»
Il cappuccio le era sceso sulle spalle, e se n’era accorta solo ora. Dannazione.
«Chiudi il becco, verme. Dimmi dove trovo Zakhar, e potrei anche pensare di salvarti.»
Perché doveva avere quella stramaledetta vocina sottile? Non sarebbe mai riuscita a minacciare decentemente qualcuno. Infatti il ladro non la prese sul serio, e cominciò a sghignazzare.
«Oh, che paura. Sto tremando! Se fossi un po’ più grande potrei anche dirtelo, in cambio di qualcosa, ovviamente... ma così, a portarti a letto non mi divertirei neanche. Torna tra le sottane della mamma, bimba, e smettila di giocare nei vicoli, che sono pericolosi!» aggiunse, scoppiando a ridere.
La rabbia le esplose dentro. Aveva una voglia assurda di ucciderlo, lì, in quel momento. Sarebbe stato facile, bastava spingere un po’ più in là la lama del pugnale.
«Non so se hai visto» la voce le tremava dalla furia repressa «come ho ucciso il tuo compare, prima. Mi è bastato toccarlo. Pensi che avrei problemi a dissanguare un verme come te?»
Fingeva una sicurezza che non provava, ma questo lui non lo sapeva.
«La casa con la striscia di decorazioni azzurre di fronte al pozzo, davanti alla piazza a due isolati da qui» capitolò infine.
Myrindar allontanò il pugnale dalla sua gola, e il ladro si rilassò appena. Poi la ragazza rigirò l’arma in mano e lo colpì forte in testa con il pomolo dell’elsa. L’uomo svenne. Myrindar si immerse nelle ombre.
 
***
 
Trovò la casa in questione dopo almeno mezz’ora di vagabondaggi a vuoto. Lungo la strada incrociò ladri silenziosi come fantasmi, bambini vestiti di stracci, prostitute seminude con il trucco colato... nessuno fece troppo caso a lei, che camminava furtiva avvolta nel mantello, da cui a ogni passo compariva la sagoma riconoscibile del pugnale.
Quella era la vita dei vicoli della Città di Confine. Era da lì che Myrindar proveniva, era quello il suo posto. Non le casette di legno e pietra rosa di Tadun, non le scale che continuavano a salire e scendere, ma le catapecchie bruciate e abbandonate, e i vicoli sporchi pieni dei segreti della notte. Lei apparteneva a quel luogo, a quella città.
La casa di Zakhar era nell’ombra di un altro edificio più alto, tanto che Myrindar ci passò davanti due volte prima di notare i fregi azzurri disegnati sopra le finestre. Quando infine si rese conto che era arrivata, era già quasi l’alba.
La ragazza bussò alla porta, cauta. Aspettò qualche minuto.
Nessuno rispose.
Provò a bussare un po’ più forte.
Non provennero rumori dall’interno della casa.
Zakhar doveva essersene andato. Probabilmente era scappato, aveva trovato un’altra dimora. Succedeva spesso, nei vicoli. In genere le guardie cittadine non venivano a ficcare il naso nei bassifondi... ma se quell’uomo avrebbe dovuto farla scappare dall’Usurpatore, quasi sicuramente era un fuorilegge, e non era difficile immaginare che si fosse messo nei guai.
Però era un problema: il sole era quasi del tutto sorto, e Myrindar avrebbe dovuto aspettare la notte seguente per uscire. Con la luce chiunque poteva notare chi era.
Decise in fretta. Estrasse dalla tasca un ferro ritorto che aveva preso a uno dei ladri che l’avevano assalita e cominciò a lavorare sulla serratura. In pochi minuti era dentro.
L’interno era grigio, polveroso. Zakhar doveva essere scappato da parecchio tempo. I mobili erano spaccati, come se qualcuno avesse frugato poco delicatamente l’intera casa per cercare qualcosa. Myrindar si raggomitolò dietro l’anta di un armadio distrutto, tossì polvere e si concesse finalmente di riposare.
 
***
 
Era esausta. Così stanca che, circa quattro ore dopo, era ancora immersa in un sonno profondo.
E non si accorse dei passi finché non fu troppo tardi.
Erano in quattro. Quattro soldati dell’Usurpatore che tentavano invano di essere silenziosi. Myrindar si svegliò di soprassalto solo quando uno di loro sfondò la porta.
La ragazza scattò immediatamente in piedi, correndo verso la finestra più vicina. Spalancò imposte e vetri con violenza e si tuffò fuori.
Il dolore esplose all’improvviso. La ragazza perse l’equilibrio e cadde malamente a terra.
Stelline nere danzavano davanti ai suoi occhi e la spalla gridava di un dolore infuocato.
Abbassò gli occhi, disorientata, stranamente annebbiata e incapace di pensare.
L’asta di un quadrello di balestra sporgeva dal suo braccio in una macchia di sangue scarlatto che continuava a ingrandirsi.
Improvvisamente la ragazza si trovò a pochi centimetri dal terreno, senza sapere come. La fitta alla testa venne qualche istante dopo, in ritardo. Tentò di muoversi, ma scoprì che non ci riusciva.
E poi il buio si richiuse su di lei, e tutto si spense.







 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Ciao, scusate se ci ho messo tanto per questo capitolo, succedono cose interessanti e volevo essere sicura di averlo scritto bene ;)
Come al solito, se vi va di farmi sapere cosa pensate ne sono felice!!

Vy

P.S. Alla fine non sono riuscita a mettere la mappa, devo ancora disegnarla decentemente, perdonatemi :P

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il guerriero nero ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 5

Il guerriero nero



 

S



i risvegliò con la testa ovattata e annebbiata e un dolore sordo e pulsante alla spalla sinistra. Aprì gli occhi piano.
Dove si trovava?
La ragazza era distesa sul pavimento di pietra di una stanza buia e umida. Si sentiva una goccia d’acqua cadere ritmica da qualche parte a destra. Poco distante, una linea dorata e guizzante che indicava lo spiraglio della porta di ferro.
Myrindar provò a muoversi. La spalla le mandò una fitta. Girò la testa piano, per controllare la ferita.
L’ultima immagine che era ancora stampata nella sua mente era l’asta di un quadrello sporgere dal suo braccio in una cascata di sangue scarlatto. Ora la freccia era sparita, e al suo posto c’era una benda chiara legata stretta che sapeva vagamente di erbe mediche.
Rotolò su un fianco, lentamente, cercando di trovare la forza di rialzarsi in piedi. La testa le girava mostruosamente, e senza accorgersene improvvisamente era di nuovo a terra distesa, con la spalla che gridava di dolore. Doveva esserci caduta sopra con tutto il peso.
Sospirò, mentre aspettava che i vortici scuri sparissero da davanti ai suoi occhi. Usando solo il braccio destro e appoggiandosi a un angolo umido del muro riuscì a sollevarsi seduta. Rabbrividì. L’acqua scendeva in piccoli rivoli lungo la parete, e scorreva gelida lungo la sua schiena, oltre il mantello, dentro il corsetto.
Il freddo la svegliò del tutto. Si rese improvvisamente conto della sua situazione.
Lo sconforto la invase.
Era rinchiusa in una cella minuscola e oscura, con una brutta ferita a un braccio, e la cosa peggiore era che non sapeva nemmeno il perché. Cosa volevano da lei? Era solo una ragazza, dannazione.
Cosa le avrebbero fatto?
 
***
 
Si svegliò di colpo con un rumore di passi in avvicinamento. Scosse la testa, eliminando l’ultima nebbia del sonno. Non si era accorta di essersi addormentata di nuovo. Ma era tanto stanca.
Ascoltò il suono ritmico di stivali chiodati percorrere un corridoio che non vedeva. Venivano verso di lei.
Sperò con tutta sé stessa che non fossero lì per lei.
Invano.
I passi si fermarono esattamente davanti alla sua porta. Myrindar imprecò mentalmente.
Rumore di ferraglia. La porta si spalancò in un’inondazione di luce dorata, e la ragazza dovette abbassare gli occhi abituati al buio per non esserne accecata.
Due paia di stivali entrarono nel suo campo visivo.
Una mano guantata la afferrò per il braccio sano e la tirò in piedi a forza. La ragazza non riuscì a trattenere un grido alla fitta infuocata che le mandò la ferita. La sua vista si appannò, e lei sentì le sue forze venire meno.
 
***
 
Un’ondata la riportò violentemente alla realtà. Rinvenne tossendo acqua gelida, mentre rivoli le scendevano lungo il corpo e i capelli si incollavano al viso. Rabbrividì, infreddolita.
Si rese conto solo in quel momento di dove si trovava. Sopra di lei c’era un soffitto basso e sporcato dal fumo. Era stesa su una superficie dura e ruvida, polsi e caviglie circondati da anelli metallici e incatenati da qualche parte sotto la tavola di pietra. La spalla le faceva male, tirata in quella posizione.
«Tu sei Myrindar»
La ragazza spostò la sua attenzione sui tre soldati intorno a lei. Aveva parlato quello alla sua sinistra; si distingueva dagli altri due solo per una striscia rossa su un lato della corazza sulla spalla destra.
E aveva parlato con sicurezza. Era un’affermazione, non una domanda.
«Non sono la persona giusta. Voi cercate un ragazzo. Un maschio»
Myrindar non riuscì a essere dura come avrebbe voluto. Il dolore le spezzava il fiato.
Il soldato stirò le labbra in un sogghigno inquietante.
«Certo che no. Noi cerchiamo una persona con il Kratheda. E direi che l’abbiamo trovata»
«Che cosa significa quella parola?»
Myrindar guardò il soldato, terrorizzata. Il suono di quella parola aveva fatto emergere da qualche parte dentro di lei un terrore oscuro, nero come la notte e cupo come il rimbombo dei tuoni. Lei non capiva. Non riusciva a comprendere.
«Ti spaventa, non è vero?» la ragazza imprecò mentalmente. Aveva mostrato al soldato la sua debolezza. E non avrebbe dovuto, solo che quella paura l’aveva sommersa, rubandole il controllo.
«Kratheda. Il suo suono ti terrorizza. È una parola magica, sai? Significa Marchio del Demone.»
L’uomo tese una mano guantata, tirandole giù il corsetto di appena un paio di centimetri. Il simbolo nero della maledizione occhieggiò da sotto i vestiti, e Myrindar si sentì nuda, violata. Quello era il suo segreto. Non aveva diritto quel soldato a scoprirlo.
«Sei marchiata da un Demone, bambina. E l’Usurpatore ti vuole.»
La mente della ragazza era troppo presa dal dolore crescente e ormai insopportabile alla spalla per cogliere subito il significato delle parole. Quando infine capì, il respiro le si spezzò.
Il sangue scorreva rapido dentro di lei, seguendo il ritmo forsennato del cuore. Ne sentiva il rombo nelle orecchie.
Marchio del Demone. La sua maledizione.
L’Usurpatore.
La guerra.
«Perché l’Usurpatore vuole me?» sussurrò, ormai senza fiato. E sconvolta.
«Perché sa quanto sia potente la magia che tu ti ritrovi addosso. Con un po’ di allenamento, potresti sterminare un intero esercito da sola.»
La ferita bruciava. Si sentiva una lama infuocata conficcata nel braccio. La vista cominciava ad appannarsi.
«E se io... se io non volessi collaborare?»
Non vide le espressioni dei soldati, ma sentì il ringhio del capitano accanto alle orecchie, perfettamente udibile oltre il rumore del suo stesso sangue.
«Lo farai. Prima o poi cederai, non ti preoccupare. Non resisterai alla fame e al dolore, per quanto tu sia forte. A presto, bambina.»
Il dolore esplose in un milione di aghi brucianti. Myrindar si sentì gridare per un istante.
Poi, solo il buio.
 
***
 
«Myrindar?»
Cos’era quel suono? Una voce, distorta dalla nebbia fitta in cui era inabissata.
Cosa diceva?
Ah, già. Era il suo nome.
«Myrindar.»
La ragazza cominciava a essere più lucida, ora. E quella voce... la conosceva? O era solo un’impressione?
«Ehi, Myrindar!»
La voce sembrò farsi più urgente. Però lei non voleva aprire gli occhi. Aveva troppo sonno.
«Maledizione, Myrindar! Devi svegliarti!»
Un lampo di luce percorse il suo cervello ancora parzialmente immerso nel sonno. Sì che la conosceva... era la voce dei suoi sogni.
Ma quello... era un sogno?
Una stilettata percorse il suo braccio ferito. Gridò.
No, decisamente non era un sogno.
«Oh, sei ferita! Scusa, non me n’ero accorto...»
Qualcosa di caldo si avvicinò alla ferita. Il dolore pulsante cominciò ad attenuarsi, sempre di più. Infine scomparve.
«Ora è a posto. Ma dobbiamo andare via. Svegliati, ti prego.»
La voce sembrava improvvisamente stanca. Mya, però, si sentiva meglio.
Aprì gli occhi.
Davanti al suo viso si formò un’immagine sfuocata e buia di un mantello nero e di un cappuccio buio. Chi diamine era? Non era uno dei soldati che l’avevano tormentata.
«Bene, sei sveglia! Adesso ti libero da queste catene e ce ne andiamo, tranquilla.»
Si sentirono rumori metallici, e Myrindar scoprì di potersi muovere più liberamente. Solo che non aveva abbastanza forze per alzarsi; quando ci provò, rischiò di svenire di nuovo.
Poté osservare meglio lo strano tizio che la stava salvando. Era interamente vestito di nero: camicia, guanti, corazza di cuoio, pantaloni, stivali e mantello erano tutti più neri della notte. L’unica cosa che stonava era la luccicante elsa di una spada che spuntava alla sua cintura e che rifletteva i bagliori delle torce quasi spente del corridoio.
Il guerriero nero la sollevò piano e la prese in braccio. Myrindar si sentì imbarazzata, e si diede subito dopo dell’idiota. Come diamine faceva a essere imbarazzata in un momento simile?
Uscì piano dalla stanza, muovendosi cauto.
Il corridoio era deserto, e anche i tre seguenti.
Salirono delle scale senza problemi.
La ragazza cominciava a essere in ansia. Cos’avrebbero fatto se i soldati fossero arrivati? Il guerriero la stava portando in braccio, non poteva combattere. E lei non ne aveva la forza.
Tutto proseguì tranquillamente per altri due corridoi. L’ultima rampa di scale era a solo tre corridoi di distanza.
Qualcuno gridò qualcosa dietro di loro e Myrindar imprecò.
Il guerriero cominciò a correre. Ma la ragazza lo metteva in difficoltà, e i soldati comparvero quasi subito alle loro spalle. Li rincorrevano gridando con le spade sguainate.
Il guerriero tentò di accelerare.
Un’altra svolta, le scale davanti a loro. Non ce l’avrebbero mai fatta.
In quel momento le venne un’idea.
Tirando con una mano e con i denti, riuscì a togliere il guanto della mano sinistra.
Odiava quello che stava per fare. Odiava se stessa per averlo anche solo pensato.
Si allungò all’indietro.
Il soldato più vicino rimase interdetto. Solo un attimo in cui non capì cosa lei stesse cercando di fare, e le bastò.
Sfiorò il suo viso con la punta delle dita nude.
Il soldato gridò, solo per un attimo.
L’energia esplose quasi dolorosa dentro di lei, riversandosi dal soldato che aveva appena ucciso.
Lo guardò crollare a terra davanti ai suoi compagni, senza vita, come un sacco, bloccandone l’avanzata.
Era stata lei.
Aveva distrutto un’altra vita.
In quel momento imboccarono le scale. Myrindar aveva le lacrime agli occhi, e non abbastanza forza per trattenerle. Le rigarono le guance, in linee lucide.
La porta che dava sull’esterno era chiusa, ma il guerriero la sfondò con un calcio. La grata metallica che stava subito dietro, invece, aveva la serratura devastata.
L’aria fredda della notte primaverile entrò dentro di lei facendola rabbrividire, e sorridere di felicità. Non sapeva quanti giorni era stata rinchiusa là sotto. Ma doveva essere passata almeno una settimana.
L’edificio della prigione si trovava in città, vicino alle mura. Subito fuori, il guerriero nero fischiò, e pochi attimi dopo un cavallo grigio antracite sbucò da un vicolo.
Myrindar trattenne il suo stupore. Aveva così tante cose da chiedere a quell’uomo, ma l’avrebbe fatto in un momento meno inopportuno.
Lui la issò e la legò in sella per impedirle di cadere. La avvolse con una coperta per riscaldarla, visto che rabbrividiva ancora, e saltò dietro di lei.
Partirono subito al galoppo, diretti verso la porta più vicina.
La ragazza era dubbiosa. Ma, inaspettatamente, la trovarono aperta, e una delle due guardie, l’unica sveglia, in realtà, salutò il guerriero nero con un cenno.
Altra cosa che si annotò di chiedere al tizio una volta al sicuro.
 
***
 
Cavalcarono senza fermarsi tutta la notte. Myrindar era stanchissima, e le faceva male la schiena dopo tutto quel tempo passato su un cavallo al galoppo.
Quando infine si fermarono, erano in un boschetto di giovani latifoglie da qualche parte a nord est rispetto la Città di Confine.
Myrindar stava per crollare addormentata. Il guerriero nero la fece scendere, e la distese su una coperta. Ma lei non voleva dormire. Non ancora.
Non prima di aver chiarito un dubbio che le rimbombava in testa da ore.
«Puoi dirmi chi sei, ora che siamo al sicuro?» disse la ragazza, con voce assonnata.
Il guerriero si chinò su di lei, ancora incappucciato. La luce crescente dissipava le ombre, e Myrindar notò un sorriso sul suo volto. Poi lui si tolse il cappuccio.
Era un ragazzo, non poteva avere più di vent’anni. Portava i capelli castano dorato raccolti in una treccia ormai praticamente sfatta, aveva la pelle ambrata dal sole, e un viso gentile, teso in un sorriso stanco.
E i suoi occhi, neri più della notte, Myrindar non li aveva mai dimenticati.
Perché lì, davanti a lei dopo tutti quegli anni, c’era Jahrien.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Qualcosa di impossibile ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 6

Qualcosa di impossibile



 

L



e notti cominciavano a essere calde. Solo un vento leggero rinfrescava l’aria della pianura. Myrindar sedeva accanto al fuoco, alimentandolo in attesa che Jahrien tornasse dalla caccia.
Se si fermava a pensarci, le sembrava ancora impossibile.
Erano passati più di due mesi da quella notte in cui era sprofondata nel sonno confortata da due occhi neri che aveva sempre voluto rivedere. Nel frattempo la primavera si stava trasformando in estate, ed erano successe tantissime cose. Ogni tanto la assalivano i ricordi della sua vita a Tadun. La malinconia la invadeva, ma le sembrava che fosse accaduto in un’altra epoca, le sembrava che fossero ricordi non suoi, tanto quei cinque anni le apparivano distanti, come se rivedesse gli episodi da fuori, da dietro un vetro opaco.
Ora era tutto diverso. Jahrien l’aveva salvata di nuovo. Le aveva guarito le ferite con la magia. L’aveva portata a nord, in un regno che Myrindar aveva sempre sentito solo nelle leggende: Yndira, il più forte dei reami liberi, quello che da tempo organizzava la guerra contro l’Usurpatore.
Le aveva fatto incontrare il comandante dell’Esercito Libero, un uomo sulla cinquantina dall’espressione inflessibile e gli occhi freddi che si chiamava Alshain.
Myrindar aveva appreso da lui che per suo ordine Jahrien era sempre stato in contatto con lei, fin da quando l’aveva trovata in quel vicolo di Antya, grazie a un legame magico, ed era per questo che le aveva mandato i sogni e aveva saputo dove si trovava. Il potere della ragazza avrebbe fatto molto comodo all’Usurpatore, come anche ai reami liberi, ma il maestro di Jahrien si era opposto a portarla subito a Yndira e addestrarla. Così avevano deciso di lasciarla vivere il più possibile normalmente, a Tadun, finché poi l’Usurpatore non l’aveva trovata, e Jahrien era andato a prenderla.
Aver scoperto di essere stata tutto quel tempo una pedina l’aveva fatta non poco infuriare. E quando Alshain le aveva detto che presto avrebbe iniziato a usare il suo potere per combattere l’Usurpatore era completamente uscita dai gangheri. Aveva cominciato a urlare che i reami liberi e l’Usurpatore erano uguali, che lui non aveva nessun diritto a usarla come un oggetto, e che lei non avrebbe ucciso persone innocenti.
Alshain era stato duro con lei. Le aveva spiegato molto chiaramente che lei era lì solo ed esclusivamente per il potere che aveva, e se non avesse accettato di collaborare avrebbe benissimo potuto tornare da dove era arrivata. La ragazza se n’era andata sdegnosa, rinchiudendosi nella stanza che le avevano assegnato della città-fortezza di Lesath, cuore di Yndira.
Non sapeva come le fosse venuta in mente l’idea. Era stato un lampo, un attimo di luce nella rabbia che la invadeva.
Era stato forse il bisogno di avere accanto qualcuno, dopo tutto quel caos che l’aveva mandata alla deriva. Aveva trovato un’ancora, di nuovo, in quel mare in tempesta che era la sua vita.
Così, spinta da quella idea balzana e probabilmente insensata, aveva chiesto a Jahrien se poteva diventare la sua allieva.
Lui era stato un po’ restio, a dire il vero. Secondo le regole dei Cavalieri Erranti, il maestro e l’allievo non dovevano conoscersi, il rapporto tra i due doveva costruirsi sulla base delle situazioni e delle avventure, positive o negative, affrontate insieme. Senza contare che la ragazza, a diciassette anni compiuti, era troppo vecchia.
Però alla fine aveva accettato, dopo aver sentito le ragioni di Myrindar. Lei voleva solo che il comandante non la usasse per uccidere: odiava il suo potere, e non avrebbe sopportato di doverlo usare in una guerra.
Per gli ultimi due mesi Jahrien le aveva insegnato tutto quello che poteva in così breve tempo, tenendola il più lontano possibile dalla guerra. Ma ora non c’era più tempo, il Cavaliere Errante era stato richiamato alla battaglia. E si stavano infine dirigendo verso Thora, fortezza dell’Usurpatore che i reami liberi erano in procinto di attaccare.
Ora Myrindar stava aspettando che Jahrien tornasse, raggomitolata accanto a un fuoco dorato in un punto indefinito della verdeggiante pianura erbosa di Thral.
Era maggio, ma le notti della pianura erano ancora fredde. Quando il sole era allo zenit cominciava a fare davvero quel caldo infuocato caratteristico della zona, ma l’estate non era ancora esplosa a scolorire l’erba verdissima e a sbiadire le stelle in cielo, che brillavano più di minuscoli diamanti lontani cuciti su un cielo blu.
I sottili fili d’erba ondeggiavano sotto una gentile brezza che abbracciava anche la ragazza con le sue dita evanescenti. Myrindar si strinse nel mantello leggero, lasciando i pensieri liberi di volare in alto. Quello era lo stesso cielo che ammirava con Cody nelle notti d’estate, alla ricerca delle scie luminose delle stelle cadenti che solcavano l’oscurità come lacrime. Era sotto quel cielo che aveva visto sparire nella foresta Jahrien e il suo maestro quando l’avevano portata al paesino, ed erano quelle stesse stelle che avevano illuminato la notte in cui vi era scappata.
La malinconia crebbe nel cuore della ragazza, fino a straripare in una lucente, singola lacrima.
«Mya? Tutto bene?»
La ragazza sussultò. Il suo compagno di viaggio e maestro era appena tornato, e lei non se ne era neanche accorta.
«Sì, tutto a posto. Pensieri. Però, per favore, non chiamarmi in quel modo...»
Jahrien parve interdetto. Si bloccò accanto al fuoco, la borsa con le prede in mano, e si voltò a guardarla, con aria lievemente confusa.
«È solo un soprannome...» sembrò scusarsi.
La ragazza sospirò, distogliendo lo sguardo dal cielo e fissandolo sulle proprie mani. Si maledì cento volte per quello che le aveva attraversato la mente.
«Mi chiamava così Cody» rispose semplicemente.
«Oh... mi dispiace. Ti mancano, vero? Mi dispiace davvero tanto per tutto quello che è successo...»
La ragazza si diede della stupida, mentre la sua vista si annebbiava. Perché doveva essere sempre così debole?
«Vorrei solo sapere come stanno...» sussurrò, il respiro spezzato dalle lacrime represse che premevano per uscire.
Quando sentì le mani del ragazzo sulla sua schiena minuta non poté più trattenerle, e prese a piangere come una bambina tra le braccia di Jahrien. Nascose la testa tra le mani guantate, mentre tremava dal pianto. Le mancavano tutti tantissimo. Voleva solo sapere se erano vivi. Se stavano bene.
Ma non poteva.
E quegli stupidi, dannatissimi pensieri che le si erano conficcati nella mente con tutta l’insulsa forza della speranza, mentre la ragione tentava invano di strapparli via... perché doveva illudersi, quando sapeva esattamente che non aveva senso?
Lei era soltanto una stupida ragazza maledetta. Non era una guerriera, non era una maga. Era una ragazza che aveva dovuto imparare a sopravvivere in una città crudele, e che ora era stata catapultata in un mondo troppo grande che non riusciva a capire.
Non era bella, così scheletrica, così minuta; aveva diciassette anni ma tutti gliene avrebbero dati quindici; aveva i capelli perennemente arruffati e annodati come una selvaggia delle foreste, era sempre infagottata in abiti da uomo, spesso troppo grandi, che la facevano apparire ancora più piccola e fragile.
E poi, con quel marchio addosso, chi mai si sarebbe fidato di lei, sapendo che avrebbe potuto ucciderlo in un istante?
Era una stupida.
Si costrinse a smettere di piangere, ma solo dopo una decina abbondante di minuti le lacrime smisero di scendere lungo le sue guance. Non riusciva a essere forte come avrebbe dovuto.
Jahrien la tenne stretta ancora per un po’, anche dopo che aveva smesso di piangere. La ragazza sarebbe stata così per sempre.
Perché doveva succedere tutto questo?
Aveva sofferto così tanto, finora.
E appena era riuscita di nuovo a ritrovare un equilibrio, si era innamorata di Jahrien.
Una reietta come lei non poteva avere speranza, eppure la sua mente non faceva altro che crearsi effimere illusioni di foschia.
Basta.
Si allontanò da lui asciugandosi le lacrime. Il ragazzo la guardò in modo strano, ma poi scosse la testa e cominciò ad armeggiare con il fuoco.
 
***
 
Le braci ormai erano morenti, e Myrindar era distesa sulla schiena a osservare le stelle con le lacrime agli occhi, immersa nei suoi tristi pensieri. Era così distratta che non si accorse che Jahrien le si era avvicinato finché la visuale le fu coperta da quegli occhi neri che adorava, e la treccia del ragazzo le sfiorò la spalla.
«Myrindar, stai piangendo...»
Lei fu rapida ad asciugarsi le lacrime, ma ormai il danno era fatto.
«Non è niente» sussurrò. La sua voce spezzata tradiva quanto fosse spezzata lei stessa dentro.
«No che non è niente. C’è qualcosa che non va... e voglio aiutarti.»
Non avrebbe pianto di nuovo. Non l’avrebbe permesso.
Distolse lo sguardo, per non incrociare i suoi occhi neri. Si fissò su una stella distante, rossastra, insignificante e poco luminosa.
«Non puoi aiutarmi, Jahrien» sospirò, triste.
«Mi sto solo illudendo che accada qualcosa di impossibile. È solo colpa mia»
«Myrindar... odio quando stai così male. E non posso nemmeno aiutarti.»
«Non ti preoccupare, Jahrien. Mi passerà, prima o poi.»
O almeno ci sperava.
Lui sembrò esitare, guardare lontano per un istante, per poi tornare con gli occhi sul viso della ragazza.
«Io ti voglio bene, Myrindar» sussurrò di scatto. E la ragazza non riuscì più a trattenersi.
«È proprio questo il problema, Jahrien! Io non faccio che illudermi, per queste cose, perché tu sei perfetto e io sono uno sbaglio, e come faccio a smetterla con questa speranza stupida se ti vedo sorridere in quel modo ogni volta? Sei sempre stato gentile, sei la prima persona che mi ha voluto bene... e come facevo io a non innamorarmi? Per quanto mi ripetessi che è impossibile, che tu non ameresti mai una persona come me, che sono solo una stupida che sogna come una bambina qualcosa che non avverrà mai, come facevo? Come diamine facevo?»
La voce le si ruppe del tutto, mentre si lasciava andare ancora alle lacrime.
Il ragazzo la guardava sconvolto, ma lei non lo voleva guardare.
Non voleva un’altra illusione.
«Non è impossibile, Myrindar. Non lo è per niente.»
Comprese le parole di Jahrien con qualche secondo di ritardo, e non poté non guardarlo di nuovo negli occhi, confusa.
«Perché dovrebbe essere impossibile? Sei una persona fantastica, anche se tu pensi di no. E non ho potuto fare a meno di notarlo, in tutto questo tempo che abbiamo passato insieme... ti amo, Myrindar.»
Dentro di lei era il caos.
«No. Non puoi. Non posso. Sono maledetta, dannazione! Non c’è soluzione per questo. Non possiamo.»
Ma il ragazzo era di un’altra opinione. La tirò su e la strinse forte, come per proteggerla.
Ma come faceva a proteggerla da qualcosa che faceva parte di lei?
Non c’era soluzione. Nonostante si amassero entrambi, la maledizione era un baratro nero e insormontabile.
Era impossibile.
Myrindar si sentì morire.






 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Tadaaaaan!!! Tanto lo so che ve l'aspettavate... sto andando sulle cose prevedibili per ora, prima di sconvolgere tutto. Dopo tutti questi capitoli di azione, eccone uno lento e triste per deprimervi... scherzo ovviamente :3
Alla prossima!!

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La battaglia di Thora ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 7

La battaglia di Thora



 

D



opo due mesi di solitudine, l’accampamento dell’Esercito Libero vicino a Thora fu un pugno in faccia.
La confusione degli ordini gridati, delle armi che si scontravano, dei fabbri che affilavano lame e riparavano armature colpirono Myrindar con tutta la loro violenza, mentre lei e Jahrien si facevano accompagnare da una sentinella fino dal comandante.
Passarono tra le tende impolverate dei soldati, tra i rintocchi sgraziati dei martelli dei carpentieri che riparavano le macchine d’assedio, tra il clangore di armi e armature luccicanti che echeggiava ovunque. Vedeva lampi rosso e oro delle divise dell’Esercito Libero, lampi argentei di metallo tra la polvere della pianura, scorci di torri e mura della città assediata.
Quel caos le rimbombava nella testa e la distraeva, i suoi occhi inseguivano i movimenti rapidi e sicuri delle persone intorno a lei. Guardò Jahrien. Sembrava a suo agio, per niente disorientato. Sì, in fondo doveva aver calcato così tanti campi di battaglia da esserci ormai abituato.
Il ragazzo incrociò il suo sguardo spaesato e sorrise, scuotendo la testa. Myrindar si sentì fuori luogo.
Il padiglione di Alshain era soltanto una tenda, in tutto e per tutto uguale alle altre, se non fosse stato per lo stendardo rosso e dorato appeso fuori. Si sentivano voci provenire dall’interno.
La sentinella che li aveva accompagnati fin lì fece cenno ai due ragazzi di aspettare ed entrò. Seguirono brevi frasi che i due non sentirono, poi il soldato uscì e disse loro di entrare. Myrindar seguì Jahrien all’interno.
Alshain era seduto su uno sgabello accanto a un tavolino ingombro di rapporti, documenti e mappe. Il comandante sollevò lo sguardo sui due nuovi arrivati e congedò i tre ufficiali già presenti nella tenda, che uscirono guardando la ragazza con curiosità e velato disprezzo. Myrindar abbassò gli occhi, a disagio.
Sapeva che le donne combattenti erano molto rare, nei Regni dell’Ovest. Aveva sentito leggende su guerriere micidiali provenienti dall’Est, ma sapeva che quasi sicuramente erano solo, appunto, leggende. Senza contare il fatto che lei dimostrava quindici anni scarsi.
«Apprezzo che tu abbia finalmente scelto di combattere, Myrindar» cominciò Alshain, guardandola con sufficienza.
«La mia opinione non è cambiata, comandante. Non userò il mio potere in una guerra» rispose lei, sollevando la testa. «Combatterò con una spada e un pugnale. Sarò pari a tutti gli uomini su quel campo di battaglia. Anche se sono nemici che vogliono uccidermi, non userò il potere del Kratheda.»
Alshain strinse gli occhi di ghiaccio in uno sguardo affilato e minaccioso.
«Bene. Non sprecherò altro tempo con te. È la tua vita, in fondo. A me basta che tu non faccia uccidere guerrieri più abili di te per questo tuo capriccio.»
Si rivolse a Jahrien, senza degnarla più di un’occhiata.
«Sarete sotto il comando del capitano Eghrel. Lui vi darà tutte le istruzioni per stanotte. Potete andare.»
E con questo considerò chiuso il discorso e tornò a studiare le sue mappe.
 
***
 
Il capitano in questione era un uomo sui trentacinque anni dalla pelle ambrata e i lineamenti spigolosi tipici di Amikar, che li accolse con uno sguardo stupito ma senza fare commenti, il che lo rese immediatamente simpatico a Myrindar. Assegnò loro una tenda dove dormire e li aggiornò sulla situazione.
Erano accampati sotto Thora da più di una settimana. In quel tempo avevano attaccato tre volte la città, e ogni battaglia era durata sempre di più: erano certi che Thora sarebbe presto capitolata.
L’attacco era previsto per la notte stessa, a mezzanotte: ecco il perché del viavai frenetico dell’accampamento. Il piano prevedeva tre squadre: una avrebbe attaccato le mura da est con le macchine d’assedio, tentando di superarle con le torrette, una avrebbe cercato di sfondare il portone principale mentre la terza, la squadra più piccola, sfruttando il favore del buio e la distrazione offerta dalle altre due, avrebbe dovuto oltrepassare le mura da ovest, entrare nella cittadella e imprigionare il governatore, nel frattempo che un piccolo contingente diviso da quell’ultima squadra correva ad aprire le porte in caso non fossero ancora state abbattute.
Myrindar e Jahrien facevano parte della terza squadra. E lei era l’unica ragazza dell’intero esercito.
La ragazza passò tutto il tempo che la separava dalla sua prima battaglia senza fermarsi nemmeno un secondo. Si allenò fino quasi a stancarsi. Affilò la spada e i due pugnali. Lucidò i coltelli da lancio. Legò i capelli, che in quei due mesi le erano in parte ricresciuti, in uno chignon. Passò una fascia nera tutto intorno alla testa, coprendo tutto il viso a parte gli occhi color foschia, che sembravano ancora più grandi in mezzo a tutto quel nero. Indossò i suoi abiti, anche quelli neri, il corsetto di pelle, i pantaloni, la cintura con le armi, gli stivali morbidi e i guanti lunghi fino a sopra il gomito. Infine indossò il mantello nero, tirò su il cappuccio sul volto e si presentò al capitano appena dopo il calar del sole.
Aveva cercato di distrarsi, concentrandosi sull’imminente combattimento.
Invano. Appena vide Jahrien ridere insieme al capitano e ad altri due soldati, vestito di nero come tutti, con gli occhi brillanti e la risata contagiosa, il suo cuore perse un battito. La ragazza chiuse gli occhi, cercando di cacciare a forza l’immagine del ragazzo dalla mente. Solo quando fu nuovamente, per finta, serena, si unì agli altri della sua squadra.
E si comportò come se nulla fosse quando in realtà si sentiva morire.
 
***
 
Cominciò con una campana. Cupa, ritmica, implacabile. Squarciava il nero silenzio della notte buia come la lama argentea di una spada. Incalzava con il suo suono opprimente, rubava i respiri, svegliava da sogni e incubi nel buio. Tuono di morte e guerra, preludio di sventura.
Poi, il colpo, violentissimo, spietato, alle grandi porte di Thora, che rimbombò su tutte le pareti, attraverso la terra, raggiunse gli ultimi angoli della città, grido di dolore e rabbia.
La campana continuava a suonare.
Armature argentee destate dal cupo allarme, radunate in fretta e furia di fronte alla porta violata, mentre un altro, minaccioso colpo ne scuoteva i battenti.
Iniziarono le grida. Fiamme di torce per le strade buie, paura e ordini gridati, mentre una pioggia di frecce si abbatteva dalle mura ai nemici di sotto. Qualcuno cadde privo di vita sulla terra battuta della pianura.
Un altro colpo.
E la campana continuava a suonare.
Altre grida si sommarono alle precedenti quando le sentinelle di Thora notarono approssimarsi alle mura torri d’assedio e scale a pioli. La notte si incendiò dell’oro dei fuochi dei difensori, mentre il fumo si spandeva ovunque, e il suo odore pungente si mischiava a quello rossastro e rugginoso del sangue.
Aria di guerra.
Un’aria che Myrindar conosceva fin troppo bene. Era il ricordo di un tramonto dorato in una città bianca e sporca, mentre l’aria si riempiva di fumo e l’oro del sole diventava quello del fuoco, e due occhi neri la raccoglievano dal buio dove era sempre vissuta. Era anche il ricordo di una corsa infinita e disperata, accompagnata solo dal proprio respiro e dalle proprie lacrime che continuavano a scendere.
Si chiese cosa provassero in quel momento le persone che fuggivano per le strade, intrappolate in quella che pensavano sarebbe stata la loro salvezza.
Improvvisamente non si sentì più in grado di combattere.
Ma era troppo tardi. Eghrel diede il segnale.
La sessantina scarsa di soldati vestiti di nero si infilò nel tunnel che gli assedianti avevano scavato in quei sei giorni per collegare l’accampamento ai sotterranei della città. Myrindar li seguì nel cunicolo.
Erano in pochi, certo, ma era il loro ruolo che lo imponeva. Dovevano muoversi il più velocemente e silenziosamente possibile, una volta in città.
Il sotterraneo continuava a restringersi. Myrindar era minuta e non aveva problemi con gli spazi stretti, anche perché nella sua infanzia tra i vicoli di Antya aveva spesso usato l’enorme rete di cunicoli che si stendeva sotto la città.
Infatti dieci minuti dopo si fermarono per abbattere la parete di mattoni già smossi dei sotterranei dove sarebbero usciti.
Una volta fuori dal cunicolo si divisero: quindici soldati avrebbero camuffato alla meglio l’apertura nel muro e poi sarebbero andati a manomettere la porta principale per permettere il passaggio dell’intero esercito. Myrindar e Jahrien, invece, seguirono Eghrel e i restanti verso la casa del governatore.
La notte li aiutava. Il cielo coperto impediva alla luna quasi piena di illuminare la terra e permettere alle guardie di scorgerli. L’unica luce che riusciva ad oltrepassare il velo di nuvole era un vago e debole bagliore spettrale.
Erano vicini alle mura della cittadella. Erano alte tre metri e non particolarmente sorvegliate, dato che tutti erano concentrati sulla porta principale. Thora non aveva mai subito un assedio. E questo si notava in tutti quegli errori che davano vantaggio all’Esercito Libero.
Cinque dei soldati estrassero delle balestre. Erano caricate con dei ganci legati a corde leggere. I soldati spararono, agganciando i rampini all’orlo delle mura, lasciando pendere le corde. Poi si arrampicarono in fretta, seguiti dagli altri.
Una volta tra le strade della cittadella, si divisero per raggiungere la villa del governatore da tre vie diverse, in modo che se anche un gruppo fosse stato intercettato, gli altri potevano proseguire.
La ragazza seguì il suo gruppo, girando intorno alla casa per entrare dal retro.
La battaglia sembrava non essere ancora arrivata nelle case di nobili e ricchi mercanti della cittadella. La campana era lontana, e le grida si sentivano appena, attutite. A Myrindar salì una rabbia sempre più feroce mentre percorreva le vie silenziose. Fuori dalla bambagia di quelle mura c’erano persone che morivano anche per difendere loro. E loro dormivano come se nulla fosse.
I suoi pensieri furono interrotti bruscamente da uno stridore di metallo. D’istinto sguainò spada e pugnale.
Qualcuno gridò.
Li avevano visti.
Erano in sei, guardie con lo stemma di una casata sull’armatura. I soldati dell’Esercito Libero estrassero le spade, e in pochi secondi la strada era scarlatta e il cammino era libero.
La ragazza evitò di guardare i cadaveri abbandonati sulle pietre non più candide della strada. Rinfoderò le armi, ancora inutilizzate. Non c’era stato bisogno che lei combattesse, per fortuna.
Ripresero la corsa, con più fretta, ora. La villa del governatore era a poca distanza, ma dopo la schermaglia avevano più possibilità che qualcuno desse l’allarme.
Dopo qualche secondo sentì un grido dietro di loro e capì che avevano trovato le guardie morte.
Accelerarono.
Ma la strada era bloccata.
Erano comparsi venti soldati con lo stemma imperiale, guidati da un uomo in armatura nera.
Indossavano l’armatura completa, e il viso era interamente celato dall’elmo, il che era davvero strano considerando che gli imperiali di solito usavano cotte di maglia che lasciavano in parte scoperte le braccia e elmi aperti.
Questo poteva significare solo una cosa.
Erano lì per lei.
I soldati vestiti di nero sguainarono le armi, pronti a combattere. Il comandante degli avversari fece un cenno.
E gli imperiali attaccarono.
Si scatenò la battaglia. I guerrieri dell’Esercito Libero erano in inferiorità numerica, ma sembravano in grado di tenere testa ai combattenti in armatura. Myrindar ne stava affrontando due contemporaneamente, sopperiva all’inesperienza grazie all’agilità e alla velocità, che agli avversari mancava a causa della pesante armatura.
Schivò un fendente, si avvicinò, ne schivò un secondo da parte dell’altro guerriero e riuscì a colpire forte il primo sulla tempia protetta dall’elmo con il pomolo del pugnale. L’imperiale barcollò più in là e fu trafitto tra le due piastre dell’armatura da un soldato dell’Esercito Libero. La ragazza ebbe presto ragione del secondo, e riuscì a fermarsi qualche attimo a riprendere fiato. Non aveva la forza di cercare Jahrien tra i soldati. Cos’avrebbe fatto se l’avesse visto a terra morto? Decise di guardare altrove.
Mentre si concedeva qualche respiro profondo, i suoi occhi incrociarono lo sguardo celato del comandante in armatura nera.
Per una frazione di secondo la ragazza avvertì i suoi occhi addosso a lei. Sentì una strana sensazione pervaderla, strisciare dagli occhi nascosti di quel guerriero fin dentro il suo animo, terrorizzarla. Sentì la maledizione crescere dentro di lei, come quando uccideva qualcuno con il suo potere, ma stavolta molto di più e senza motivo. Il respiro le si mozzò in gola, mentre il cuore batteva forsennato e le energie crollavano.
Poi, una frazione di secondo dopo, tutto svanì com’era venuto. Il guerriero si voltò e trafisse il soldato contro cui stava combattendo. Poi con tutta calma rinfoderò lo spadone dietro la schiena e sparì in una strada buia.
Non poteva permettergli di scappare. Myrindar si guardò rapidamente intorno, e notò che nessuno l’aveva visto. La battaglia stava volgendo a favore dei soldati dell’Esercito Libero, così la ragazza, cercando di non farsi notare, inseguì il guerriero in armatura nera nel buio.
 
***
 
Rischiò di perderlo due volte. Era maledettamente silenzioso, anche se indossava l’armatura completa. Myrindar gli stette dietro, furtiva, attenta a non farsi scorgere. In realtà dentro di sé sapeva che era inutile. Era certa che lui fosse perfettamente consapevole della sua presenza.
In realtà non sapeva chiaramente perché l’avesse seguito. Però c’era qualcosa che la spingeva, e Myrindar aveva imparato da tempo a fidarsi del suo istinto. Forse quella era l’unica nota positiva del marchio del Demone: le dava una capacità particolare di percepire la magia, e un istinto particolarmente affinato, una specie di sesto senso quasi infallibile. Era una delle cose che aveva imparato in quei due mesi come apprendista Cavaliere Errante. Non era riuscita a sviluppare poteri magici veri e propri, che invece era normale nei Cavalieri Erranti, come Jahrien.
Scosse la testa. Non doveva pensare a Jahrien proprio in quel momento. Doveva concentrarsi sul guerriero nero. Solo su di lui.
Lo seguì, sempre a debita distanza, dentro una delle torri di guardia ai lati della porta della cittadella, lasciata sguarnita per dare manforte all’esercito che combatteva nella città bassa. Salì dietro di lui le strette scale a chiocciola, fin sull’ultimo piano.
Il tetto non c’era. Tra i merli quadrati sulla torre Myrindar poteva scorgere i fuochi e le grida della battaglia ancora in corso. L’aria fredda della notte la avvolgeva, le scorreva accanto sollevandole gli orli del mantello. Avanzò cauta, spada in una mano e pugnale nell’altra.
Ma il guerriero non sembrava intenzionato a tenderle agguati. Le dava le spalle, stava dritto sul bordo accanto al parapetto merlato, a guardare i combattimenti dall’alto.
«Buonasera, Myrindar» esordì.
 E lei capì che le sue impressioni erano vere. L’aveva portata lì apposta.
«Chi sei?» sussurrò la ragazza. Non sapeva cosa aspettarsi da lui.
Il guerriero rise. Nonostante l’elmo, la ragazza colse dalla voce un dettaglio in più: doveva essere molto giovane, probabilmente non aveva più di diciotto o vent’anni. Ora che lo vedeva da vicino, notò che aveva la corporatura ancora esile tipica dei ragazzi.
«Sei sicura di volerlo sapere, Myrindar? Potrebbe non piacerti.»
«Non m’importa. Dillo e basta.»
Non voleva parlare del Kratheda, che l’aveva spinta a cercare quel ragazzo, ma lui di sicuro lo sapeva. Sembrava sapere tutto.
«Che cosa vuoi da me? Perché sei venuto a cercarmi?»
«Ah, Myrindar cara» iniziò lui, grondando sarcasmo dalla voce.
«La vedi la battaglia? State perdendo. Non c’è niente da fare, ormai. Dovete solo scegliere se ritirarvi o morire.»
Lei cominciava ad odiarlo, chiunque fosse. Chi si credeva di essere?
«Sai, Uthrag nutre grandi speranze per te. Per questo io sono qui. Oltre che per sterminarvi, ovviamente.»
«Sterminarci, come no? In fondo siamo su una torre a guardare la battaglia da lontano, come potresti non sterminarci?»
Questo era il suo turno di essere sarcastica. Davvero, quel ragazzo era pazzo. Pazzo e megalomane, binomio pericoloso.
«Non parlare di cose che non conosci, Myrindar»
La minaccia che vibrava metallica nella sua voce la inquietò, anche se cercò di non darlo a vedere. Cominciò a pensare che forse sapeva quello che stava dicendo.
«Come ti ho detto, a Uthrag stai simpatica. Anche se finora sei stata con Yndira, vuole darti una seconda possibilità. Oggi tu assisterai al mio trionfo da una posizione privilegiata. Poi ti lascerò del tempo per pensare. La prossima volta che ci incontreremo, dovrai decidere se combattere con me o contro di me.»
Detto questo, le fece cenno di avvicinarsi.
«E ora, vieni a vedere, Myrindar. Ricordati di tutto questo.»
La ragazza obbedì, terrorizzata. Non capiva, ma il Kratheda stava gridando dentro di lei e lei sapeva che stava per accadere qualcosa di brutto. Lo sentiva incombere nell’aria opprimente.
Il ragazzo tese entrambe le mani oltre il parapetto. Myrindar sentì l’energia crepitare nell’aria, come se un fulmine stesse per abbattersi su di loro. Le mani del guerriero cominciarono a brillare appena, di una luce bianca-violetta che continuava ad aumentare di intensità.
La ragazza non voleva più guardare. Voleva andarsene, ma qualcosa glielo impediva.
Fu costretta ad osservare il fallimento dell’Esercito Libero.
Dovette guardare la magia continuare ad accumularsi in una luce accecante, per poi scaricarsi in un fulmine violetto sul campo di battaglia.
Assisté impotente alla morte dei suoi alleati.
Improvvisamente, silenzio. La ragazza era ancora impietrita, si allontanò dal parapetto inorridita, mentre il ragazzo si voltava a guardarla ridendo.
«Ricordati di questa notte. Ricordati di me, Layrath. Ricordati della tua scelta.»
«Chi... chi diamine sei, tu?» disse lei, turbata.
Lui si bloccò. Portò le mani alla testa e cominciò a togliere l’elmo.
La ragazza non era più sicura di volerlo sapere.
Il ragazzo scoprì il suo viso.
Myrindar spalancò gli occhi.
Layrath era giovane, pallido alla debole luce della luna e della battaglia ormai finita. La fissava sogghignando, in un sorrisetto cattivo che alterava i suoi lineamenti sottili e delicati, quasi femminili. I suoi occhi erano pieni di scherno, e i suoi capelli scompigliati erano corti, ma se non fosse stato per quei dettagli, e per il fatto che lui era un ragazzo, avrebbero potuto essere scambiati per la stessa persona.
La ragazza lo fissò inorridita, terrorizzata e sconvolta.
I suoi occhi colsero un dettaglio mentre scorrevano su quel viso che assomigliava terribilmente al proprio.
Al centro della fronte, seminascosto dai capelli.
Nero più della notte.
Un marchio.
Fece per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma un oggetto pesante calò sulla sua testa.
Perse i sensi.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Leggende ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 8

Leggende



 

L



a consapevolezza di sé tornò un poco alla volta, accompagnata da una voce concitata e un dolore pulsante alla testa.
Anche i ricordi lentamente riemersero dalla nebbia, delineandosi lentamente uno alla volta.
La luce le trafiggeva le palpebre, qualcuno la scuoteva piano per le spalle chiamando il suo nome.
La ragazza aprì gli occhi. Vide davanti a lei il volto preoccupato di Jahrien, gli occhi neri colmi di una strana paura.
«Myrindar, sei viva!» esclamò, sospirando di sollievo, quando si accorse che si era svegliata. La abbracciò forte, e la ragazza sentì un’ondata di fuoco risalire dentro di sé. Quando infine lui si sciolse dall’abbraccio e la ragazza si guardò intorno, gli ultimi istanti prima del colpo che l’aveva fatta svenire comparvero all’improvviso nella sua mente.
Si guardò intorno e notò che si trovava distesa a letto nella sua tenda all’accampamento. E, a giudicare dalla luce che entrava da uno spiraglio, era giorno.
«Jahrien» iniziò la ragazza, con apprensione.
«Che cos’è successo?»
Il ragazzo sembrò esitare.
«In realtà non lo so bene... solo quando abbiamo sconfitto quei guerrieri in armatura ho visto che tu e il comandante eravate spariti. Il resto della squadra ha proseguito, io sono venuto a cercarvi. Ero a due strade dalla torre quando c’è stato il lampo, e ho intuito che tu fossi là, ma Alshain mi ha chiamato per aiutarlo alle porte della città a salvare i sopravvissuti. È stato Eghrel a trovarti sulla torre e a portarti qui. Io ho potuto venire solo adesso.»
La ragazza scosse la testa per cercare di sciogliere quella nebbia, con il solo risultato di acuire il dolore per il colpo infertole da Layrath.
«In quanti sono morti?»
Jahrien esitò e distolse lo sguardo. Myrindar però voleva saperlo. Voleva sapere quante persone aveva indirettamente ucciso la notte prima.
«Dimmelo.»
Lui sospirò.
«Quasi metà della seconda squadra. E praticamente tutta la prima.»
La ragazza assimilò quei dati come un pugno nello stomaco. Si coprì il viso con le mani.
«Lui... era lì, vicino al bordo della torre... e sapeva che non ce l’avrei fatta a fermarlo, sapeva della mia paura di uccidere... sapeva tutto di me.»
«Non devi fartene una colpa, Myrindar. Non ci aspettavamo certo che fossi riuscita a fermarlo... l’ho visto combattere. Era una furia. Non è colpa tua se è successo quello che è successo.»
«In quanti sono morti perché io non ho avuto abbastanza coraggio da buttarlo giù da quella maledettissima torre?» quasi gridò, con gli occhi lucidi. Era inutile che lui tentasse di convincerla. Era colpa sua.
Si vergognava tantissimo.
«Myrindar, non...»
Si interruppe quando sentì del trambusto fuori dalla tenda. C’erano voci, gente che urlava, scalpiccio di stivali chiodati. La ragazza si asciugò le lacrime qualche secondo prima che Alshain entrasse nella tenda quasi di corsa, con il volto cupo e tirato di chi non ha dormito nemmeno un minuto.
«Jahrien, Myrindar, ve ne dovete andare. Subito
Il giovane Cavaliere Errante sollevò gli occhi sul comandante, sorpreso.
«E perché ce ne dovremmo andare? Myrindar non sta ancora bene, e poi la guerra è qui, non vedo perché dovremmo...»
Alshain lo interruppe con un gesto.
«Myrindar è stata ritrovata svenuta sulla cima della torre da cui è venuto il lampo che ha sterminato il nostro esercito. Dice di aver incontrato un tizio che però solo quindici persone in tutto l’esercito hanno visto, nonché è una donna ed è maledetta. E visto quanto poco i soldati sanno del Kratheda, capite che non ci vuole molto perché diano a lei la colpa della disfatta di ieri notte.»
La ragazza spalancò gli occhi, sbalordita, mentre improvvisamente i pezzi si incastravano insieme.
«Credono che sia stata io a lanciare quella magia? Credono che io sia una traditrice?!»
Il comandante la guardò senza rispondere. E da quella espressione indefinibile in cui erano mischiati uno strano dispiacere e rabbia la ragazza capì che non scherzava.
Poi si rivolse al ragazzo.
«Siamo stati decimati nell’ultima battaglia. Non potremmo reggere un attacco in forze dell’impero. Abbiamo solo una possibilità, e ho bisogno di te.»
Fece una pausa, Jahrien annuì.
«Dovete andare a chiedere aiuto agli Elfi.»
Myrindar non poteva crederci. Guardò Alshain allucinata.
«State scherzando? Gli Elfi sono solo una leggenda.»
I due la ignorarono.
Jahrien era improvvisamente teso. Fissava il comandante con quella che sembrava rabbia a stento trattenuta. E quando parlò, la sua voce era d’acciaio. La ragazza si stupì: non l’aveva mai visto in quel modo.
«No. Io non andrò dagli Elfi.»
«Sei la persona più adatta, Jahrien.»
Rise. Una risata colma di un sarcasmo amaro che Myrindar non capì.
«Mi odiano, dannazione!»
«Odiano te meno di noi! Sei l’unico che ha qualche speranza di convincerli.»
«Ci sono persone più vicine. Ci sono i Cavalieri Erranti di Yndira. Possono andare loro. Io non ci andrò.»
«Ragiona, Jahrien! Sei comunque considerato meglio di chiunque di loro. Non voglio obbligarti, ero molto amico di Tarazed. Ma ricordati che il tuo Ordine è comunque subordinato al comandante dell’Esercito Libero, e se devo, ti tratterò come un qualunque Cavaliere Errante.»
Il ragazzo sospirò.
«E va bene, andrò. Non ti direi mai di no, lo sai. Però sai anche quanto mi costa tutto questo.»
Il comandante sembrò più rilassato, ma la ragazza non poteva giurarlo.
«Fallo per Tarazed. E per lei. Potrebbero avere la soluzione.»
Il ragazzo sospirò ancora mentre il comandante se ne andava. Myrindar non aveva capito una parola di quella conversazione, ma sapeva che dovevano scappare. Quindi si alzò dal letto, e anche se le girava ancora la testa cominciò a raccogliere le sue cose.
 
***
 
Cavalcavano da un’ora. Myrindar era stanca, ma non voleva darlo a vedere. Jahrien era teso e silenzioso, fissava l’orizzonte della pianura senza dire niente, le rivolgeva solo un’occhiata ogni tanto. La ragazza non capiva quel cambiamento. Fremeva dalla curiosità, ma non si azzardava a chiedergli il perché.
L’avevano tutti stupita, quel giorno. Il comandante, che riteneva duro e insensibile, aveva mostrato di essere anche lui un essere umano con dei sentimenti, quando la facciata di durezza era caduta dopo la tragica battaglia...
E Jahrien, il suo amico, il ragazzo gentile che l’aveva salvata innumerevoli volte, che l’aveva accettata e non la disprezzava, la persona di cui era innamorata e che l’amava, era scoppiato di rabbia così, senza un motivo apparente. La ragazza non capiva.
Dopo aver rimuginato su quelle domande tutta la giornata, la sera si fermarono tra gli alberi a mangiare qualcosa, spartendosi due pagnotte, della carne secca e una manciata di bacche; in quel momento, quando era già tramontato il sole e il buio e la stanchezza calmavano gli animi, Myrindar decise di fare qualche domanda all’amico.
«Jahrien... non arrabbiarti.»
Il ragazzo la guardò e sorrise, scuotendo la testa. La treccia ormai quasi sfatta si sciolse del tutto, lasciando i lunghi capelli dorati liberi sulle sue spalle.
«Tanto lo so cosa vuoi chiedermi...» ridacchiò lui.
«Perché mi dà così tanto fastidio andare dagli Elfi, giusto?»
La ragazza annuì, un po’ sollevata. Era contenta che lui non si fosse arrabbiato per la sua curiosità. Voleva solo capire cosa diamine stava succedendo tutto intorno a lei.
«È una cosa un po’ complicata da spiegare» iniziò, con lo sguardo perso nel cielo notturno.
«Tarazed era il mio maestro, come ti ho già raccontato. Veniva da Yndira, e grazie al suo compito di Cavaliere Errante aveva avuto a che fare più volte con gli Elfi. Vivono nella Foresta Dorata, lontano dagli umani, e solo pochi non-Elfi sono ammessi nel loro regno. Lui era uno di questi.»
Si fermò per qualche attimo a fissare il cielo, le stelle, la luna piena che stava sorgendo sulla pianura, enorme e dorata.
Myrindar attese che lui riprendesse, senza fargli pressioni.
«Per questa fiducia che gli Elfi nutrivano nei suoi confronti, presto Tarazed fece amicizia con alcuni di loro, soprattutto dei villaggi più esterni, che erano abituati al contatto con gli umani. Un giorno, un’Elfa che lui conosceva, e che si fidava di lui, gli rivelò un segreto. Suo padre l’aveva promessa a un Elfo di un’altra città, ma lei si era innamorata di un altro. Ed era incinta.»
Altra pausa. La ragazza non riusciva a capire perché lui le stesse raccontando tutto quello. Però non disse niente, aspettando che fosse lui a continuare e arrivare al punto.
«Per i primi mesi era riuscita a nascondere la gravidanza illecita al padre. Ma quando i segni avevano cominciato a essere troppo evidenti, aveva chiesto aiuto a Tarazed, disperata. Lui era riuscito a organizzare tutto in modo che il padre avesse pensato che lei sarebbe stata da tutt’altra parte, e l’aveva portata con sé. Così l’Elfa avrebbe partorito il figlio illegittimo e tutto si sarebbe risolto. In quei mesi si rassegnò al destino deciso da suo padre. Si sarebbe sposata. Ma che ne sarebbe stato di suo figlio? L’amante dell’Elfa, un soldato, era morto in una schermaglia contro dei criminali; era un eroe, certo, ma aveva lasciato suo figlio appena nato da solo. Così Tarazed si offrì di occuparsi lui del bambino. Lo portò all’Ordine e lo fece allevare insieme agli altri orfani, e quando compì sei anni, premette perché fosse assegnato a lui. Lo addestrò per dieci anni, presidiò la sua investitura, sempre mantenendo segrete le sue origini. E poi, quando il ragazzo aveva diciotto anni, la sera prima di una grande battaglia, gli raccontò tutta la storia, e soprattutto gli raccontò il perché della disperazione di sua madre: suo padre avrebbe anche accettato di rompere il fidanzamento della figlia, per una ragione come un amore così profondo... se solo l’innamorato fosse stato un Elfo. Peccato che questo fosse un umano. E il giorno dopo avergli detto tutto questo, nella sanguinosa battaglia, Tarazed morì, abbandonandolo anche lui, dopo suo padre e sua madre.»
A mano a mano che raccontava, la sua voce si fece sempre più rabbiosa. Myrindar aspettò che finisse, guardandolo con stupore. Aveva abbassato la testa, e i capelli sciolti gli ricadevano ai lati del viso, nascondendolo come veli. La ragazza non disse niente. Non commentò. Gli si avvicinò e lo abbracciò stretto, affondando il viso nei suoi capelli dorati.
«Sono un mezzosangue» concluse in un sussurro.
«Tutti odiano i mezzosangue... ma se posso facilmente camuffarmi e passare per umano, tra gli Elfi sarei solo un diverso. Un errore.»
La ragazza lo guardò. Non sembrava assolutamente diverso dagli altri umani. Da quello che sapeva, dalle leggende che aveva sentito, gli Elfi erano alti e snelli, con la pelle e i capelli bianchi, e le orecchie a punta, e le ali da libellula dietro la schiena.
«Non sembri per niente un Elfo» disse.
«Non sei bianco, e non hai le ali.»
Lui, sotto la cortina di capelli, sorrise, e la ragazza si sentì meglio. Era felice di essere riuscita a farlo sorridere.
«La faccenda delle ali è solo una leggenda, Myrindar.»
Si risollevò e la guardò negli occhi. Poi senza dire niente scostò i capelli dal suo viso.
Myrindar fissò le orecchie appena appuntite, ma inequivocabilmente elfiche.
«Ecco perché tieni sempre i capelli lunghi.»
Lui annuì.
«Come ti ho detto, mi riesce facile passare per un umano. Mi basta legare i capelli troppo lisci, scurirli appena con una tinta, stare sotto il sole in modo da rendere la pelle più scura... nessuno crederebbe che io sia un mezzosangue, se nascondo le orecchie a punta.»
La ragazza lo osservò sotto una luce nuova. Capì perché non l’aveva mai disprezzata. Non solo perché era gentile, ma anche perché aveva riconosciuto in lei un altro come lui, un altro “diverso”...
«Non ti stanca essere sempre qualcosa che non sei? Nascondere sempre qualcosa di te?»
Lei la maledizione la odiava soprattutto per questo. Non poteva mai essere se stessa, doveva sempre, costantemente fingere... e tentava di resistere, ma ogni tanto non ce la faceva più, e doveva scaricare tutta la tensione.
E crollava.
Jahrien la guardò con un sorriso amaro.
«Sono un Cavaliere Errante. Non posso permettermi di mostrarmi debole. Devo sempre essere positivo, calmo. Se crolla un Cavaliere Errante, come possono resistere le persone normali? Siamo i tutori della pace. Gli eredi degli eroi delle leggende.»
La ragazza lo abbracciò di nuovo, e sentì dopo qualche istante le braccia di lui sulla schiena.
Restarono abbracciati a lungo, senza dire niente.
 
***
 
Myrindar non riusciva a dormire, quella notte, e non era per le rivelazioni del suo amico. Si sentiva strana, sentiva un senso di oppressione al petto che le impediva quasi di respirare, e uno strano freddo la stava lentamente invadendo.
Si alzò a sedere, e quell’insieme di inquietanti sensazioni scomparve com’era venuto. Corrugò la fronte, perplessa.
Ma non ritornò, quindi si tranquillizzò. Si sedette contro un albero, circondando le gambe con le braccia, come faceva sempre quando era bambina. Il cielo era limpido, le nuvole se n’erano andate. La luna piena era salita quasi allo zenit, e spuntava bianca dalle foglie degli alberi.
«Non riesci a dormire?»
Jahrien comparve al suo fianco. Era tornato quello di sempre, calmo, con gli occhi luminosi. Eppure ora Myrindar poteva distinguere una velata malinconia, che il ragazzo non si sforzava più di nascondere.
«Nemmeno tu, sembra» gli rispose la ragazza.
«Già.»
Restarono in silenzio, persi ciascuno nei propri pensieri.
«La luna piena mi fa venire in mente una strana storia che mi raccontava sempre Tarazed» ricominciò Jahrien.
«Ti va di raccontarmela?»
Lui sorrise.
«Si dice che il re di Dokhet fosse un re buono e gentile. Giusto con i propri sudditi, non assetato di potere, giovane ma saggio. Sua moglie la regina era incinta per la prima volta, e avrebbe dovuto dare al mondo l’erede del re verso la fine dell’anno, quando i giorni tornano ad allungarsi e si avvicina la primavera. Ma poi, un brutto giorno di circa diciotto o diciannove anni fa, Uthrag l’Usurpatore uccise il re buono nel sonno, imprigionò la regina e con l’aiuto di un contingente di criminali prese il potere. Quella notte è ancora chiamata dagli abitanti di Dokhet la Notte di Sangue. Così iniziò il regno di guerra e distruzione di Uthrag l’Usurpatore. Ma la regina, nel buio della sua cella, conservava ancora dentro di sé l’erede del re, il legittimo erede al trono di Dokhet. Così partorì, di nascosto dall’Usurpatore, grazie all’aiuto di due servi fedeli. Progettarono tutto perché il bambino fosse portato al sicuro da un vecchio guerriero, un amico della regina. Ma fu presto chiaro che l’erede non era uno. La regina aveva partorito due bambini, che furono soprannominati “i gemelli della Luna”, perché la notte in cui vennero al mondo la luna piena si eclissò. Questo venne considerato un segno. Ma l’Usurpatore si accorse di tutto, strappò i due bambini dalle braccia della madre e li nascose in una prigione incantata sorvegliata da un’ombra. Il vecchio guerriero tentò di salvarli, ma riuscì a portare via dalla prigione dell’ombra solo uno dei due bambini, mentre l’altro restò all’Usurpatore. I bambini crebbero quindi separati, senza conoscere dell’esistenza dell’altro. Ma un giorno si scontreranno, e da loro dipenderà la sorte di Dokhet: se vincerà il bambino addestrato dall’Usurpatore, la tirannia continuerà, mentre se vincerà il bambino salvato dal vecchio guerriero, sarà la pace a trionfare.»
La ragazza non disse niente. Non aveva mai sentito quella leggenda: doveva essere una storia che si raccontava nell’impero, una speranza vana e quasi infantile di quelle persone distrutte da un’ormai ventennale tirannia. Sembravano disposte a credere a qualunque cosa, anche a un’evanescente fiaba per bambini.
Myrindar non disse niente. Gli occhi le si stavano chiudendo, mentre la stanchezza della giornata le piombava sulle spalle. Appoggiò la testa sulla spalla di Jahrien, e in pochi secondi dormiva.
 
***
 
E infine erano arrivati alla Foresta Dorata, dopo quasi venti giorni di viaggio. Myrindar era stanchissima, mentre conduceva il cavallo color miele attraverso una verdeggiante foresta. I suoi occhi saettavano da tutte le parti, attenti a cogliere anche il minimo movimento, mentre seguiva Jahrien sotto le fronde ombrose. Le aveva detto chiaramente di stare in guardia.
Gli Elfi sarebbero presto arrivati.
Colse un movimento rapidissimo con la coda dell’occhio. Si voltò di scatto, ma probabilmente se l’era immaginato. Riprese a seguire il ragazzo, con i nervi a fior di pelle.
Successe altre tre o quattro volte, e la ragazza cominciava a essere ansiosa. Vedeva movimenti ovunque, in ogni ramo pieno di foglie, in ogni goccia di resina che cadeva. Sentiva passi in tutti gli scricchiolii. Non ce la faceva più. Erano ore che era tesa come una preda in trappola.
Quando infine successe, fu senza preavviso. Né movimenti rapidi, né fruscii.
Soltanto una lama acuminata puntata sulla schiena, e una voce sottile che le intimava di stare ferma.
Anche Jahrien si bloccò, quando di fronte a lui comparvero tre figure che gli puntavano frecce affilatissime al petto. Un Elfo incappucciato gli si avvicinò e lo minacciò con una lunga spada sottile. Ci fu un breve scambio di parole che Myrindar non sentì, poi l’Elfo cominciò a esaminare il contenuto della borsa, e a requisirgli le armi. Il ragazzo non provò nemmeno a nascondere qualcosa. Sapeva sarebbe stato inutile.
Mentre succedeva questo, la ragazza restava immobile, osservando gli abitanti della foresta. Indossavano abiti semplici, delle tinte degli alberi. Non portavano l’armatura, erano armati di lunghi archi affusolati e spade leggere e dalla lama ricurva. I mantelli lunghi che indossavano, con il cappuccio che nascondeva il loro volto, erano a macchie di colori diversi, che rappresentavano l’alternarsi di luce e ombra della foresta, e rendevano molto più facile per gli Elfi nascondersi.
Erano creature strane. Erano davvero alti e snelli, ma non per questo erano sproporzionati: anzi, sembrava quasi che fossero perfetti, mentre gli uomini, così massicci e robusti fossero disarmonici. Si muovevano come se levitassero a qualche centimetro da terra, graziosi e leggiadri.
L’Elfo dietro di lei le intimò di camminare, e lei obbedì. Si sentì goffa e maldestra, in confronto a loro. Raggiunsero Jahrien e gli altri, e lo stesso che aveva perquisito il ragazzo fece lo stesso lavoro su di lei. Una volta consegnate tutte le armi, comparve da dietro di lei un sesto Elfo armato di balestra, che tenne i due ragazzi sotto tiro. Quello che li aveva perquisiti si portò di fronte a loro. Doveva essere il capo.
Portò le mani al cappuccio, e lo scostò con un gesto, rivelando una lunghissima treccia argentea, un volto candido e sottile, orecchie molto più appuntite di quelle di Jahrien e grandi occhi a mandorla dorati. Myrindar sbarrò gli occhi. Quella ragazza Elfa era bellissima, sembrava emanare luce, bianca e altera. Sembrava una regina, anche così, vestita da uomo, nel mezzo della foresta, senza trucco né gioielli. La ragazza si sentì infima, un verme appena sbucato da una zolla di terra spaccata, una caricatura abbozzata da qualcuno che non sapeva disegnare.
Jahrien trattenne il respiro, fissandola sorpreso.
«Keeryahel» sussurrò, sbalordito.
Myrindar non fece nemmeno in tempo a stupirsi del fatto che si conoscessero, che l’Elfa ghignò in modo quasi crudele.
«Bentornato, fratellino» disse, con quella sua voce sottile e quasi sibilante.








 
******* Famigerato Angolino Buio *******
*rullo di tamburi*
Tadaaan!! Finalmente sono riuscita a mettere la mappa!!
La metto anche su Facebook, sulla mia pagina (
Di mezzelfi, muffin e fucili laser - Cygnus_X1) così se andate meglio è anche là... perché qui su EFP ci sono dei limiti alle dimensioni delle immagini e non so quanto si legga.
E poi, visto che ben due persone mi hanno chiesto un disegno di Myrindar, l'ho fatto (è colpa vostra se ci rimettete gli occhi, ricordatevelo).

 
Image and video hosting by TinyPic

Image and video hosting by TinyPic

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** La Foresta Dorata ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 9

La Foresta Dorata



 

M



yrindar scorreva sbalordita lo sguardo tra l’uno e l’altra. C’era una leggera somiglianza tra i due, ora che sapeva del loro legame, una somiglianza indefinita, che non riusciva a distinguere, come un’impressione generale, non un singolo dettaglio come il colore degli occhi o la forma del viso.
E dentro di lei, anche se non l’avrebbe mai ammesso, quando l’Elfa aveva rivelato il legame di sangue tra lei e Jahrien, la ragazza aveva esultato: aveva avuto tanta paura che il ragazzo si innamorasse di quell’Elfa così perfetta, al cui confronto lei era solo uno sgorbio deforme.
«Mi sembrava che ti fosse stato proibito tornare» disse l’Elfa a Jahrien, ignorando completamente la ragazza.
Il fratello la guardava in modo strano, Myrindar non avrebbe saputo dire se fosse ammirazione, invidia o soltanto sorpresa.
«È stato il comandante dell’Esercito Libero a mandarmi.»
L’Elfa accolse quelle parole con un gesto insofferente.
«Il comandante dell’Esercito Libero può essere la persona più importante dei Regni dell’Ovest, non importa: non ha certo il diritto di dare il permesso a chicchessia di entrare nel regno degli Elfi. Dovrei imprigionarti e farti processare. Ti era stato proibito entrare. Non importa chi è tua madre, sei un mezzosangue, e tanto basta.»
«Ti prego, Keeryahel» disse Jahrien, supplicando la sorella. «Dobbiamo assolutamente parlare con il Consiglio. Da noi dipende l’esito della guerra.»
«È la vostra guerra, Jahrien. Non la nostra.»
Il ragazzo scosse la testa, sconsolato. Myrindar sapeva che sarebbe stato difficile far ragionare gli Elfi, ma sperava almeno che potessero parlare al Consiglio. Invece erano bloccati nel bel mezzo della foresta, da sei guardie inflessibili, e non riuscivano a convincerli.
Improvvisamente Keeryahel si voltò verso Myrindar.
«Chi è la ragazza che porti con te? Un’altra mezzosangue?» chiese, rivolgendosi a Jahrien.
«No, lei è un’umana...»
«Hai portato un’umana fin qui?! Come hai osato!» lo interruppe lei, gli occhi che lampeggiavano d’ira.
«Non è una normale umana, Keeryahel! È una Marchiata!»
L’Elfa rimase in silenzio. Socchiuse gli occhi ancora furiosi, facendoli scorrere su e giù lungo il corpo di Myrindar. La ragazza si sentì terribilmente a disagio, ma cercò di non darlo a vedere.
Infine Keeryahel si allontanò di un paio di passi, con uno degli arcieri. Confabularono tra loro in Elfico per qualche secondo. Poi ritornarono, e l’Elfa dette istruzioni ai suoi compagni. Myrindar non capì, ma quando l’Elfo dietro di lei la spinse avanti, obbedì all’istante e cominciò a camminare verso il cuore della foresta, seguendo la treccia argentea di Keeryahel che oscillava sul mantello verde secondo la cadenza dei suoi passi graziosi.
«Potrò almeno vedere nostra madre?» chiese Jahrien alla sorella. Lei nemmeno si voltò, continuando imperterrita per la sua strada.
«No. Mio padre non te lo permetterà mai.»
«Ma... è anche mia madre! Nessuno di noi due può farci niente... e nemmeno lui!»
«Sei un mezzosangue, Jahrien» rispose lei, come se questo spiegasse tutto. Il ragazzo abbassò la testa e continuò a camminare in silenzio.
 
***
 
Myrindar cominciò a stancarsi molto presto. Ultimamente era spesso affaticata, stanca; anche quella volta fu la prima a mostrare segni di cedimento. Gli altri camminavano spediti intorno a lei, mentre lei cominciava ad avere il fiato affannoso. Il cuore batteva a mille.
Tentò di star loro dietro, ma presto l’Elfo che stava dietro di lei cominciò a punzecchiarla piano sulla schiena con la punta del pugnale. Lei allora accelerò il passo, ma le girò la testa e rischiò di perdere l’equilibrio. L’Elfo la prese al volo per un braccio, prima che finisse a terra, poi disse qualcosa ad alta voce nella sua strana lingua sibilante, e tutti si fermarono.
Keeryahel si voltò verso di loro, dubbiosa. Myrindar si sedette a terra, e sentì che le forze le stavano lentamente tornando. Sentì i due Elfi sussurrare qualcosa nella loro lingua, e le parve di cogliere la parola “Kratheda”, ma non ne era per niente sicura.
Infine i due si separarono, con un’espressione preoccupata. Keeryahel tornò in testa al gruppo, l’Elfo prese Myrindar tra le braccia, e ripresero la marcia.
 
***
 
Era cominciato con un cambiamento lievissimo nel verde vivido delle fronde, un riflesso indefinito tra gli alberi, una luce impercettibilmente diversa. Myrindar si era resa conto di quella sensazione solo dopo un po’, sapeva dentro di sé che qualcosa era diverso rispetto a prima, ma era un cambiamento sfuggente, indefinibile.
Myrindar osservava tutto intorno a sé, tra le braccia forti di quell’Elfo di cui non conosceva nemmeno il nome, cercando di capire, mentre la luce dolce del mattino si faceva sempre più piena e tagliente, come il sole si avvicinava allo zenit.
Ma fu solo dopo il rapido pranzo, quando si rimisero in marcia e Myrindar insistette per camminare nonostante la stanchezza, che la consapevolezza le si impose con forza, e la ragazza capì.
Strisce dorate, irregolari e spezzate comparivano sotto di loro, serpeggiavano per un po’ e poi sparivano nel nulla, oppure deviavano, risalivano i tronchi degli alberi, si infiltravano tra le crepe dei sassi e nelle venature delle foglie.
Myrindar si guardava intorno sbalordita, gli occhi seguivano i mille riflessi della Foresta Dorata, quello strano oro che sembrava comparire dal nulla e permeare tutto. Anche l’aria stessa del luogo era diversa, impregnata di polvere sottile, faceva vibrare la luce splendente e radiosa del pomeriggio d’estate in milioni di minuscole scintille.
E quando il sole scese, e sorse la luna, l’oro si spense, e tutto tornò normale, come un sogno ad occhi aperti finito troppo presto.
 
***
 
Gli Elfi li fecero camminare per quasi due settimane, inoltrandosi nella foresta. Seguirono un percorso tortuoso, probabilmente per evitare di imbattersi in città o villaggi con un mezzosangue e una Marchiata.
I due ragazzi ebbero poche occasioni di parlare. Gli Elfi non li obbligavano certo al silenzio, ma la stanchezza di una giornata intera di marcia li faceva crollare appena si stendevano, alla sera. La ragazza si chiedeva come facessero gli Elfi a essere ancora pieni di energie dopo tutto quel camminare. Soprattutto l’Elfo dagli occhi color ghiaccio (che aveva scoperto chiamarsi Eynar) che spesso la doveva portare in braccio quando le forze la abbandonavano. A quanto pareva, le leggende sulla loro straordinaria forza erano vere.
A mano a mano che si addentravano nella foresta, le venature dorate diventavano sempre più frequenti ed estese. Erano cominciate come una sorpresa, nel bel mezzo della foresta, e ora cominciavano a essere ovunque. La stessa foresta emanava un’aura particolare, Myrindar la sentiva chiaramente: tutto, lì, era impregnato di magia.
Quando infine giunsero alla capitale del regno elfico, sede del Consiglio, alla ragazza sembrò di essere in un sogno.
Tutto era luce. L’intera foresta era diventata d’oro, di tutte le sfumature e gradazioni.
Dall’oro scurissimo, quasi bruno e poco brillante, del terreno, al luminoso bianco delle foglie più nuove; dal bronzo deciso dei tronchi delle querce secolari, al gentile rosa dorato dei minuscoli fiori nei cespugli del sottobosco.
«È la magia che permea questo luogo a dare quel colore alla foresta» aveva spiegato una volta Keeryahel di fronte allo sguardo sbalordito di Myrindar e Jahrien. Il ragazzo era stato già una volta nel regno degli Elfi, ma mai così in profondità. Nemmeno lui aveva mai visto quello spettacolo.
E, nel bel mezzo di tutta quella luce, di fronte ai loro occhi sbalorditi, la mattina del tredicesimo giorno di viaggio si aprì ai loro occhi la porta di Gylne Lyset, la Città Aurea.
Apparve come un cancello bianco abbacinante nella rosea luce dell’alba, formato di candide spire intrecciate, protetto da due alte e imponenti querce color oro brunito che stavano ai lati come guardiani severi. Ai lati, una barriera traslucida luccicante alta quattro metri circondava la città come un muro invalicabile, interrotta qua e là dai tronchi degli alberi, come torri di guardia. Sulle loro chiome lucenti stavano le torrette di guardia delle sentinelle, a cui si accedeva grazie a una stretta scala a pioli.
Due Elfi in armatura leggera stavano ai lati del cancello, e li fermarono incrociando le lance. Keeryahel si fece avanti e parlò a lungo con le sentinelle, ad un tratto alzò anche la voce, in un tono più concitato; Myrindar non capiva cosa dicevano, ma capì che le sentinelle non volevano lasciarli passare, ma la ragazza stava tentando di convincerli.
Myrindar non riusciva a capire del tutto Keeryahel. Per tutto il viaggio non aveva fatto altro che trattare lei e Jahrien come esseri inferiori, come infatti si comportavano gli Elfi. Eppure, una sera che Myrindar non riusciva ad addormentarsi e lei era di guardia da sola, le si era avvicinata.
«Sai usare la magia?» le aveva chiesto.
Lei aveva scosso la testa.
«Il marchio non mi dà poteri particolari, oltre all’uccidere con il contatto, mi permette di sentire le aure della magia, e basta.»
L’Elfa aveva annuito. Aveva fatto come per andarsene, ma poi si era fermata, e senza voltarsi le aveva sussurrato: «Mi dispiace per quel marchio. Dev’essere dura.»
Poi se n’era andata come era venuta, e le due ragazze non avevano più parlato, ma Myrindar era brava a capire i sentimenti delle persone, e quello che aveva colto nella sua voce era una strana tristezza. In un certo senso, era come se l’Elfa la capisse.
Ora, alle porte della capitale del regno degli Elfi, si stava battendo perché fosse concesso loro di entrare e parlare con il Consiglio. La ragazza non riusciva a conciliare questi suoi comportamenti con la freddezza che aveva dimostrato per la maggior parte del tempo anche con il suo fratellastro. Per questo era certa che in quell’Elfa ci fosse più della guardiana rigida e superiore che aveva dimostrato di essere fino a quel momento.
 
***
 
Dopo svariati minuti di interminabili trattative, le sentinelle infine accettarono. Aprirono i cancelli, permettendo per la prima volta dopo tanto tempo a due umani inferiori di entrare nella Città Aurea.
Myrindar vagava senza fiato, guardandosi intorno estasiata. Le case erano costruite in legno chiaro, che riluceva appena, ed erano tra i rami dei grandi alberi, oppure all’interno dei loro ampi tronchi, oppure erano alla base, costruite intorno, con le fronde che uscivano dal tetto. I fregi si rincorrevano sulle facciate, decorazioni semplici, morbide, fluide; le strade lastricate di pietra rosata erano percorse da figure slanciate, dai capelli chiarissimi tirati all’indietro che scoprivano le orecchie a punta, gli occhi a mandorla e i lineamenti sottili; tutto, in quel luogo, sembrava brillare, e Myrindar si sentì estranea. Con i suoi capelli neri aggrovigliati, l’incedere stanco e non certo aggraziato e il marchio nero si sentiva sporca, come se entrare in un luogo del genere le fosse proibito.
Si era accorta che tutti quelli che li incrociavano la guardavano con disgusto o disprezzo. C’era abituata, era sempre stata guardata male ovunque fosse andata, ma mai l’odio era stato profondo come quello di quelle creature eteree e luminose, a dispetto della loro apparenza angelica e leggiadra.
Gli Elfi, nella loro perfezione dorata, si erano così convinti della propria superiorità da disprezzare chiunque fosse diverso da loro.
 
***
 
«Quello è il palazzo del Consiglio» disse Keeryahel. «Hanno accettato di darvi udienza, domani mattina alla terza ora dopo l’alba. Fino a quel momento, vi terremo nelle prigioni della Guardia cittadina. Avrete una sola possibilità per convincerli, è già un enorme privilegio per voi essere qui e poter esporre le vostre ragioni al Consiglio elfico.»
I due ragazzi non risposero, e l’Elfa li scortò fin dentro un edificio dorato, squadrato e senza troppi fronzoli che doveva essere la Guardia. Scesero nelle prigioni sotterranee, dove Keeryahel si premurò di incatenarli entrambi per un polso alla parete di una cella, e chiuse la porta a sbarre con un chiavistello incantato.
Myrindar si sedette in un angolo, guardando fuori attraverso la minuscola finestrella in alto, da cui entrava il bagliore dorato della città. Le prigioni erano polverose come se fossero usate solo raramente, e la ragazza non se ne stupiva, visto quanto gli Elfi tenessero alla perfezione. Probabilmente erano tutti saggi, misurati e devoti alle leggi.
La ragazza si voltò a sbirciare Jahrien. La ricrescita bionda cominciava a essere evidente sotto la tinta castana.
Chissà cos’avrebbe detto il Consiglio il giorno dopo... la ragazza cominciava già ad essere preoccupata, non aveva dubbi che sarebbe stato difficile difendere le loro posizioni di fronte ai rappresentanti del potere di una razza così superba. Però sperava lo stesso che sarebbero stati comprensivi. L’Usurpatore era un pericolo, e non solo per i reami liberi. Layrath aveva un potere immenso, ed era nelle sue mani.
Senza contare che in poco più di dieci anni di guerra aveva completamente conquistato il regno di Kaiylee, che comprendeva quasi tutti i territori a sud di Yndira, e ora minacciava Thral. Da cinque anni era un continuo avanzare e retrocedere tra Antya e Thora, e nessuno dei due schieramenti sembrava in grado di compiere il passo successivo e conquistare la città nemica. Dopo la disfatta di Thora, in cui erano stati spazzati via dalla magia di Layrath, il fronte era retrocesso pericolosamente, avvicinandosi ad Antya per la prima volta dall’assedio di cinque anni prima, quello in cui Jahrien l’aveva trovata, e che si era concluso dopo una settimana di combattimenti con una disfatta dell’Usurpatore. Tutti però sapevano che era stata solo la fortuna, quella volta, a salvarli, e ora l’Esercito Libero combatteva strenuamente per difendere ogni singolo metro che separava l’Usurpatore dalla Città di Confine; ma i soldati erano scoraggiati e stanchi, e i rinforzi da Yndira ci avrebbero impiegato mesi ad arrivare, visto che dovevano attraversare le montagne a nord. Per questo avevano un bisogno disperato degli Elfi. Loro potevano attraversare Ashihntra senza incorrere nell’ira dei popoli che la abitavano, e avrebbero dato all’Esercito Libero un vantaggio non irrilevante con la loro forza e la loro magia.
Dovevano solo sperare che il Consiglio acconsentisse.
 
***
 
Il palazzo del Consiglio era maestoso. Era scuro, color bronzo rosato, si innalzava tra quattro alberi secolari che stavano ai quattro angoli dell’edificio come torri; la facciata era un intrico di decorazioni più chiare che si susseguivano tra le finestre a sesto acuto e le sottili colonne dei loggiati. Keeryahel aveva detto che tutti i bassorilievi rappresentavano la storia del popolo elfico, le grandi battaglie contro i Demoni, l’alleanza con le Fate, quando ancora i Regni dell’Ovest erano sotto il loro dominio, e l’arrivo degli umani inferiori dall’est, che li aveva costretti a rifugiarsi nei recessi di quella foresta dopo una lunga guerra. Myrindar si chiese se fosse anche per quel fatto l’odio che gli Elfi nutrivano nei loro confronti era così profondo.
Keeryahel e gli altri cinque Elfi li scortarono nel grande salone ellittico che era il luogo in cui il Consiglio li attendeva. Era una sala ampia, dal soffitto alto, a sesto acuto, con tutta una serie di finestre alla base della volta che illuminavano d’oro la stanza; sul pavimento si intuiva un mosaico, ma era difficile capire cosa rappresentasse vedendolo solo dal basso.
C’erano tre porte nella sala, tutte presidiate da guardie. Due guerrieri stavano nell’ombra ai lati degli scranni dei Consiglieri. Myrindar fece un rapido calcolo: otto guardie nella sala, sei erano venute scortando loro. Quattordici soldati Elfi. Avevano paura di loro?
La ragazza rivolse lo sguardo ai Consiglieri. Sedevano su alti scranni sul lato più lungo dell’ellisse, lungo la parete. Erano nove: quattro di loro erano donne, gli altri cinque uomini. Se gli Elfi finora le erano sembrati quasi evanescenti, esseri eterei che brillavano di luce propria, quei nove sembravano essere fatti di luce.
Indossavano semplici vesti color avorio lunghe fino ai piedi, dalle maniche ampie, con sottili fregi dorati sul petto, che rappresentavano la regione del regno che i Consiglieri rappresentavano. I capelli bianchissimi ricadevano sulle loro spalle come un velo, negli occhi a mandorla contornati da un intrico di rughe sottili si vedeva la saggezza di chi ha vissuto molto, e ha visto molte cose. La loro espressione era imperturbabile.
«Siete infine al cospetto del Consiglio» iniziò l’Elfa che sedeva in centro. Doveva essere il capo: era l’unica che tra i capelli portava un semplice diadema dorato.
«Spero che siate consapevoli del privilegio che vi è stato concesso. È già molto raro che un non-Elfo entri a Gylne Lyset. Sono stati davvero pochi i non-Elfi che hanno potuto esporre le loro richieste al Consiglio.»
Myrindar cominciava a sentire una specie di paura salire lentamente. Sentiva una leggera oppressione che la faceva respirare più affannosamente.
«Mezzosangue ambasciatore dell’Esercito Libero, esponete le ragioni che vi hanno spinto fin qui.»
La ragazza notò chiaramente l’espressione che Jahrien fece a essere chiamato in quel modo, ma non disse niente, prese un respiro profondo e cominciò a parlare.
Partì raccontando in breve come l’Usurpatore avesse preso il potere e riassunse i primi anni di guerra, e dopo aver fornito una rappresentazione del contesto, cominciò a parlare degli ultimi anni di guerra, gli eventi legati a Myrindar, e infine descrisse la battaglia di Thora, e il potere immenso e distruttivo che Layrath aveva mostrato.
A mano a mano che Jahrien parlava, la sensazione negativa dentro Myrindar saliva sempre di più, e più la ragazza cercava di rallentare il respiro e riprendersi, più sentiva di caderci dentro. Vide Keeryahel scoccarle un’occhiata nervosa, ma si sforzò di riprendersi.
«Tutto questo è molto interessante, ambasciatore. Ma perché secondo voi dovremmo intervenire in una guerra che evidentemente non è nostra?»
«Consigliere, non è vostra solo per poco tempo ancora. Il potere di quel Marchiato minaccia chiunque. L’Esercito Libero non potrà contrastarlo ancora a lungo, e presto o tardi il comandante teme che possa riuscire a ottenere Myrindar. Finora gli è sempre sfuggita per miracolo. Ma cosa succederebbe se con la magia dei due Marchiati arrivasse a minacciare il vostro regno? Dokhet è sempre stato il regno più forte militarmente, non dobbiamo sottovalutarlo come il precedente comandante fece in passato. È vero, quell’errore di valutazione fu nostro, ma non possiamo permettercene un altro. Dokhet, con il potere dei Marchiati, è perfettamente in grado di sconfiggerci e attaccarvi.»
«Ambasciatore, noi Consiglieri dobbiamo pensare prima di tutto al nostro popolo. Prima di combattere le battaglie degli altri dobbiamo occuparci delle nostre.»
«Comprendo perfettamente, Consigliere, ma non ritenete che cercare di unire i nostri popoli potrebbe portare a benefici per entrambi? La divisione e l’odio non sono mai buoni.»
«Il Consiglio si riunirà per deliberare» sentenziò l’Elfa, e con questo era evidente che considerava chiusa la conversazione. Jahrien abbassò gli occhi, sconsolato. Le aveva provate tutte.
Myrindar sentì la sensazione oscura invaderla. Non riusciva più a respirare e si sentì svenire.
Una voce nota gridò qualcosa, ma lei non capì, nelle sue orecchie c’era solo il battito accelerato del suo cuore e il respiro affannoso.
Tutto intorno a lei era nero.
Si sentì gridare.
 
***
 
Jahrien guardò Myrindar, e capì subito che qualcosa non andava. Era terrorizzata da qualcosa, gli occhi grandi spalancati come quelli di una preda braccata. Il petto sottile si muoveva rapido seguendo il ritmo del suo respiro, e il suo viso era bianco, cadaverico.
Le si avvicinò di corsa, giusto in tempo per prenderla al volo prima che crollasse a terra.
Che cosa le stava succedendo?
I suoi occhi lo guardavano senza vederlo, colmi di terrore.
«Lo sapevo.»
Keeryahel era comparsa al suo fianco, con un’espressione indefinibile sul viso candido. Con decisione, l’Elfa scostò appena il corsetto della ragazza. Un lembo di marchio si vedeva, nero, enorme, pulsante di luce violacea. Strane linee nerastre si irradiavano dal marchio verso tutto il corpo della ragazza.
«Il Kratheda sta diventando sempre più potente.»
«Che cosa significa?»
«Quella è una magia troppo potente perché un umano possa sopportarla a lungo. In genere i Marchiati da questo tipo di magia non vivono più di dieci anni da quando hanno il marchio, per questo mi stupivo che lei fosse ancora in sé nonostante avesse diciassette anni...»
Myrindar gridò, un urlo colmo di terrore, paura, dolore.
«Cosa significa tutto questo?» gridò Jahrien, terrorizzato.
Keeryahel sembrò stupirsi del suo comportamento.
«Da quando una persona viene marchiata, la magia cresce dentro di lei, diventando sempre più forte. La persona guadagna poteri sempre maggiori, certo, ma il marchio si rafforza sempre di più finché non è così potente da sopraffare la persona e possederla, consumando la sua anima. Diventa schiava del marchio, un corpo vuoto manovrato dalla magia.»
«Cosa? Vuoi dire che Myrindar sta diventando questo?»
Jahrien aveva le lacrime agli occhi. Keeryahel sembrò esitare qualche secondo, poi si alzò, voltandosi verso i Consiglieri che stavano lasciando la sala.
«Consigliere Anishel!» gridò. L’Elfa che aveva parlato, quella con il diadema dorato, si voltò.
«Vi prego... il Kratheda sta per sopraffare quella ragazza. Vi prego, potete sigillarlo?»
Se Anishel si stupì all’insolita richiesta, non lo diede a vedere. Si avvicinò, e senza dire una parola allungò una mano. La tese sopra il corpo della ragazza, chiuse gli occhi.
Una debole luce candida si trasmise dalla mano dell’Elfa al petto di Myrindar, che sembrò calmarsi. Ora dormiva tranquilla.
«Non durerà a lungo. Dovete contrastare la magia demoniaca, e l’unico modo di farlo è usare la magia delle Fate. Portatela alla Sorgente degli Specchi» disse, seria, per poi lasciare la sala.
«Non è possibile» esplose il ragazzo. «La Sorgente degli Specchi è solo una leggenda.»
«No, non lo è.»
Keeryahel era decisa. Guardò il fratellastro negli occhi.
«Ti ci porterò io.»









 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Ciao gentaglia! Scusate l'ennesimo capitolo interminabile, ma se lo spezzavo ne venivano due troppo corti, quindi è andata così... devo ammettere che i livelli di luccicosità(?) qui erano alle stelle, ma prometto di rendere tutto un po' più oscuro, andando avanti u.u
Oggi ho anche scoperto che per quanti schemi faccia della trama partirò sempre un po' per la tangente, la tendenza è troppo forte. Sono riuscita a rientrare nei binari con il finale del capitolo, se c'è qualche cambiamento brusco di qualcosa è a causa di questo, sorry.
Vi avverto che ci stiamo avvicinando alla fine della prima parte della storia, e finalmente tra poco capirete il senso del titolo (che non è il nome del mondo). Contento, Matrix?!
Comunque! Devo fare un annuncio importante *si schiarisce la voce e afferra un megafono*
Vorrei ringraziare tutti quanti quelli che leggono/recensiscono/preferiscono/ricordano/seguono, state diventando tantissimi... e grazie a voi il primo capitolo di questa storia ha superato le 200 visualizzazioni, che è un numero stratosferico!! Vi adoro tutti quanti :3 *si mette a ballare per la stanza*
Sì, sono più strana del solito, ma è quasi mezzanotte ^^
Ok, chiudo questo delirio, che è meglio per tutti!
Ciau!

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Keeryahel ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 10

Keeryahel



 

I



l marchio sul suo petto era come offuscato. Sembrava sfuocato, come visto attraverso un vetro smerigliato.
Si era svegliata dopo l’udienza al Consiglio nel bel mezzo della foresta, con la soffusa luce dorata tutto intorno a lei, senza sapere cosa fosse successo. Jahrien le aveva riassunto in due parole gli avvenimenti, il sigillo di Anishel, il viaggio verso la Sorgente degli Specchi, dove risiedeva l’ultimo retaggio della magia delle Fate, la decisione di Keeryahel di accompagnarli.
La ragazza, sommersa da tutte quelle novità, aveva sentito una strana paura risalire dentro di sé.
Aveva accettato da tempo la maledizione e tutto quello che comportava. Aveva imparato a ignorare quella sensazione di malinconia che spuntava nei suoi pensieri nei momenti meno opportuni, quando era stanca e le barriere della mente meno forti. Aveva persino, alla fine, quasi fatto pace con se stessa, si era rassegnata.
E ora le dicevano che presto il marchio l’avrebbe consumata fino a renderla un corpo vuoto mosso dalla magia? Non poteva sopportarlo.
Jahrien le aveva spiegato che la magia dei Demoni era tutta così, oscura, sempre pronta a sopraffare chi la evocava, immensamente potente ma piena di tranelli. Ma lei quella magia non l’aveva scelta. Le era stata imposta così tanto tempo prima che nemmeno ricordava una vita senza il marchio nero sulla pelle.
Non era giusto. Lei non aveva cercato quella magia, né il potere che le dava. Avrebbe fatto volentieri a meno di entrambi, eppure le toccava sopportare un peso che non aveva mai voluto.
Un peso che ora rischiava di soffocarla con il suo buio.
Due settimane dopo l’udienza in consiglio, Myrindar era sveglia, con la spada a fianco, guardando verso sud, un puntino di braci ormai spente nella sterminata pianura che era l’Impero. Avevano passato il confine quella mattina, ed era stato difficile visto che era strettamente sorvegliato. Ma grazie a una magia di Keeryahel, erano riusciti a passare inosservati. L’incantesimo però costava molte energie, e l’Elfa non poteva mantenerlo a lungo, così, appena varcato il confine e fuori dalla portata dai soldati, dovettero abbandonare la protezione della magia elfica.
In realtà, la pianura era esattamente la stessa in un regno e nell’altro: l’unico cambiamento rilevante dopo aver superato il confine fu la preoccupazione costante di essere individuati. In fondo, erano in territorio nemico; due Cavalieri Erranti dell’Esercito libero e un’Elfa, che galoppavano attraverso le praterie verso sud come se fossero inseguiti dalla morte. Era ovvio che avrebbero attirato l’attenzione, lo sapevano. Ma non potevano fare altro. Non sapevano quanto a lungo sarebbe resistito il sigillo di Anishel, e per raggiungere la Sorgente degli Specchi avrebbero impiegato quasi un mese a cavallo, almeno secondo Keeryahel.
Era il turno di Myrindar di stare di guardia. Probabilmente non avrebbe dormito comunque, troppi pensieri vorticavano nella sua mente, il loro rumore e le loro grida le impedivano di addormentarsi. Cercava solo di non farsi trascinare troppo dalla loro corrente, e restare presente a sé, per cogliere eventuali segnali di pericolo.
Il cielo era coperto, quella notte. Luna e stelle erano nascoste da un sottile velo di nubi che scorreva veloce, sospinto dal respiro dei forti venti di quota. Al livello della terra, il vento era solo una indisciplinata brezza che annodava i capelli della ragazza e si ostinava a tentare di spegnere il piccolo fuoco accanto a cui si era raggomitolata. L’erba alta si piegava e risollevava seguendo la follia di quelle raffiche irragionevoli, prima in una direzione, poi nell’altra. In lontananza, le ombre e luci che disegnavano sagome di piccoli villaggi abbarbicati sull’orizzonte buio. Keeryahel e Jahrien erano due figure scure alla sua sinistra, oltre il fuocherello morente; da una delle due coperte spuntava una treccia castana praticamente sciolta, e Myrindar si sorprese a sorridere, con un lieve velo di tristezza negli occhi.
Forse, se fosse sopravvissuta a tutto quello e la magia delle fate fosse riuscita a sconfiggere davvero il Kratheda, forse, solo forse, avrebbe potuto sperare.
«Vai pure a dormire, Myrindar. Tocca a me fare la guardia.»
La ragazza si voltò verso Keeryahel, che si era alzata e le si stava sedendo accanto.
«Se vuoi posso stare sveglia ancora un po’. Non ho sonno, non dormirei comunque...»
L’Elfa non si alzò, né lo fece Myrindar. Rimasero entrambe sedute sull’erba, lo sguardo perso oltre l’orizzonte, senza dire una parola, per svariati minuti.
Infine, Myrindar ruppe il silenzio. Non aveva mai parlato granché con Keeryahel, ma era curiosa. In una qualche strana e inspiegabile maniera, sentiva che erano vicine.
«Perché?» chiese, brusca. Non aggiunse altro alla domanda, sapeva che avrebbe capito.
L’Elfa la guardò intensamente. La ragazza non riusciva a vedere le emozioni dell’altra in quello sguardo dorato, imperscrutabile, quasi duro. Per qualche secondo Keeryahel non rispose, si limitò a fissarla. La ragazza cominciò a pensare che probabilmente aveva sbagliato a farle quella domanda, in un momento come quello. Loro due non potevano certo dirsi amiche: l’unica cosa che avevano in comune era Jahrien, per il resto erano diametralmente opposte. Keeryahel era sicura di sé, splendente e graziosa quanto Myrindar era chiusa nella sua incertezza, invisibile, bruttina e abbastanza insignificante. Non dubitava che l’Elfa potesse benissimo rispondere sdegnosa che non erano affari suoi, e avrebbe anche avuto ragione. Si pentì di averglielo chiesto.
«Jahrien ti ama, vero?»
Myrindar la guardò, interdetta. Le aveva risposto con un’altra domanda, che sembrava non c’entrare niente.
«Sì» rispose in un sussurro, chiedendosi dove l’altra volesse andare a parare.
L’Elfa sospirò, distogliendo lo sguardo.
«Me ne ero accorta. Si nota molto, da come lui ti guarda. Ha sempre un’espressione triste sul viso.»
La ragazza non rispose. Si limitò a scostare un corvino ciuffo ribelle dal viso. Le veniva voglia di sbuffare: guardava Keeryahel con i suoi capelli liscissimi e sempre ordinati, che nemmeno quel vento impossibile riusciva a scombinare, anzi, le ciocche sparse intorno al viso ovale la rendevano ancora più regale. Che ingiustizia.
«Mi hai chiesto perché sono venuta con voi. Jahrien ti vuole davvero bene, e io mi fido di te. O forse, sono solo stanca.»
Keeryahel tornò a guardarla, con un sorriso amaro.
«Sai, mio padre è molto autoritario. Quando ha scoperto che mia madre era incinta per la prima volta, ha deciso che il suo primogenito dovesse essere un grande guerriero, come lui è stato. Per questo voleva che il suo primo figlio fosse un maschio. Peccato che io sono una ragazza.»
Myrindar sentì una profonda tristezza in quelle parole. Forse soltanto dall’ultima frase pensava di aver compreso l’Elfa.
«Ovviamente, a lui non importava granché il fatto che io fossi una ragazza, o che volessi un destino diverso da quello del soldato. Fin da bambina mi ha addestrato personalmente; già a quattro anni mi mise in mano un pugnale, che per me era come uno spadone a due mani. Sono entrata nella Guardia, mi sono impegnata sempre, al limite delle mie possibilità. Ero la più brava, ma non è mai bastato. A sedici anni ho finito l’accademia e mi hanno mandato al confine, e in due anni sono diventata il capitano della squadra. Ma non basta ancora. Io non sarò mai quello che lui vuole, perché non sono un maschio, sono una stupida ragazza. Non sarò mai Keerhtal, il Luminoso: così voleva chiamare il suo primo figlio, l’erede. Io sarò sempre Keeryahel, la Stella Caduta, l’errore. Sono uno sbaglio solo per il semplice fatto che esisto.»
Non c’era rabbia, in quelle parole. Solo quella profonda, amara tristezza, e la consapevolezza di non essere mai abbastanza. Keeryahel voleva bene a suo padre, nonostante tutto. Non riusciva ad odiarlo, questo era evidente, ma era altrettanto chiaro che invece lui la considerasse soltanto una macchia sull’abito più prezioso, un difetto su una gemma brillante, qualcosa che non avrebbe dovuto essere così.
«Lui è fissato con la purezza del sangue. Fosse per lui, gli umani andrebbero sterminati dal primo all’ultimo, eliminati da quella terra che secoli fa era nostra, e che dovremmo riprenderci con il sangue. È stato lui che ha fatto in modo che Jahrien non potesse più tornare nella Foresta Dorata, dopo che venne a salutare nostra madre una volta, quasi quattro anni fa, accompagnando il suo maestro. Per lui un mezzosangue è inaccettabile. Tratta mia madre con tutto il disprezzo di cui è capace, per aver osato mettere al mondo un’empietà simile. È per questo che quando sono con gli altri devo comportarmi così... io non odio Jahrien, non odio voi umani. Ma sono la figlia di mio padre, e devo esserlo fino in fondo. Io la penso come mia madre, ma non posso permettere che si sappia. Solo che sono stanca di tutto questo. Sono stanca di fare finta di essere qualcuno che non sono, e sono stanca di tentare in tutti i modi di accontentare qualcuno che non sarà mai orgoglioso di me. Così, quando è successo tutto, ho deciso che era la mia occasione. Ho disobbedito agli ordini, e me ne sono andata, con un’umana e un mezzosangue. Quando mi rifugiavo piangendo da mia madre, perché lui era stato crudele con me, lei mi diceva sempre che io ho il sangue di una ribelle, e che non avrei mai potuto restare nei ruoli che altri avevano scelto per me. Beh, è vero.»
La ragazza era sbalordita. Quell’Elfa che sembrava così rigida, così fredda e distante si rivelava invece ribelle, con una storia di oppressione alle spalle. Non aveva sbagliato a intuire. Erano davvero simili, loro due. Myrindar la ammirava, se possibile, ancora di più, ora. Era riuscita a rompere le catene che le avevano imposto, e a seguire la sua strada. Era qualcosa che lei ancora non era riuscita a fare, sempre indecisa, sempre di qua e di là senza uno scopo.
«Una volta invidiavo tantissimo Jahrien, perché lui era libero e io non lo ero. Ma l’invidia è stupida. È guardare da lontano senza avere il coraggio di fare. Così, ho deciso di diventare anche io libera.»
Myrindar la guardava con occhi diversi, ora. Aveva appena diciotto anni, eppure quello che aveva vissuto in famiglia l’avevano spinta a pensieri da adulta, a prendere in mano il suo destino quando era poco più di una ragazzina.
«Sono felice che tu me l’abbia detto» disse, dando voce ai suoi pensieri, senza ragionare su quello che diceva, esprimendo tutto quello che le passava nella testa in quel momento. «Ti credevo soltanto un’antipatica presuntuosa, anche se avevo l’impressione che fossi più profonda di quello che mostravi. È bello saperlo con sicurezza. Sono contenta di averti conosciuto, Keeryahel.»
L’Elfa le sorrise. E lei ricambiò.
Ora erano amiche? Myrindar non ne era sicura, vista la poca esperienza che aveva. Ma credeva proprio di sì.








 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Capitolo breve stavolta, ma preferivo separare la parte della Sorgente degli Specchi da questa ;)
Insomma, ormai lo sapete, i capitoli introspettivi e lenti sono sempre quelle che mi mettono più ansia, dato che non li so fare, quindi se fa schifo o è fantastico fatemelo sapere please... in caso faccia schifo (cosa molto probabile) ditemi anche perchè così il prossimo sarà più decente - si spera.
Sì, era un po' un capitolo di passaggio, però volevo farvi conoscere anche il lato oscuro di Keeryahel, che finora è stato un personaggio fin troppo luccicante... no, personaggi sani di mente io mai, mi annoiano u.u
Aggiornerò il prima possibile con qualcosa di più movimentato, intanto ciao!!

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** La fine e l'inizio ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 11

La fine e l'inizio



 

A



vevano incontrato le prime propaggini del deserto dopo più di due settimane in territorio nemico. La pianura si era fatta sempre più arida, l’aria più calda. Il vento era diventato cattivo, pungente e affilato, l’erba della pianura da verde e rigogliosa era diventata stentata, seccata dal sole, fino a sparire del tutto, trasformando la prateria in una piana arsa, tutta uguale fino all’orizzonte coperto dalla striscia nera delle montagne; la terra ondulata in colline deserte, e spaccata in ampie crepe dalla sete.
Alla vista di quel paesaggio, dall’alto di una delle colline più alte, i tre ragazzi si erano abbandonati per un istante allo sconforto. Ci avrebbero messo cinque o sei giorni, se erano veloci, ad attraversare la piana, e poi altri tre giorni tra le montagne nere fino alla Sorgente. Sempre se non avessero incontrato nemici. Era davvero tanto tempo, e nessuno era in grado di dire quanto ancora ne avevano.
Il sigillo di Anishel sembrava tenere, almeno per ora.
Erano solo due giorni da quando si erano inoltrati nel deserto vero e proprio, e già si trascinavano avanti solo con la forza di volontà. Myrindar si sentiva mortalmente stanca, a mano a mano che i giorni passavano e la magia demoniaca erodeva il sigillo del Consigliere. Le montagne erano irraggiungibili, sempre alla stessa distanza. Erano una linea nera e incombente che non si avvicinava mai, li illudeva come un miraggio, ridendo di loro. Ma loro arrancavano, sempre più stanchi, frustati dal vento che si abbatteva ininterrotto e feroce sulla piana, sollevava la polvere dalla terra riarsa e la scagliava contro di loro.
L’unico suono che sentivano, ormai, da due giorni, era l’urlo del vento, incessante e derisorio. Non avevano forza per parlare, tutte le energie che il vento non riusciva a strappare loro le mettevano in quella logorante cavalcata sotto la luce bianca e livida dell’estate ormai avanzata.
Nemmeno durante la notte Myrindar si poteva riposare. I turni di guardia erano una tortura, la stanchezza le impediva di restare vigile, e spesso la ragazza si addormentava, travolta dalle fatiche del giorno.
Quella notte le era toccato il secondo turno, ma non ce l’aveva fatta. Intorno a mezzanotte era crollata.
Si svegliò di soprassalto quasi un’ora dopo, in preda a un terrore strisciante e indefinibile che l’aveva strappata alla stanchezza. Si guardò intorno, allarmata.
Sapeva cos’era quella sensazione, le aveva salvato la vita già un paio di volte nei due mesi che aveva passato con Jahrien.
Si guardò intorno, e lo vide subito: un fuoco, dietro di loro, sull’orizzonte.
Nemici.
 
***
 
Il viaggio era ripreso la notte stessa, frenetico, acceso del fuoco della paura. Tre ragazzi in territorio nemico potevano fare gran poco contro una pattuglia di soldati imperiali. La loro unica speranza era di raggiungere le montagne e nascondersi tra valli e anfratti, e scappare una volta la minaccia fosse scemata, magari verso ovest, per raggiungere i villaggi sulla costa e rifugiarsi a Thral via mare.
I successivi quattro giorni passarono in fretta, a ritmo del terrore.
Gli imperiali incalzavano, senza dare tregua, sempre dietro di loro, una costante presenza inquietante, un’ombra nera sull’orizzonte piatto. Ormai i tre ragazzi avevano abbandonato la speranza che fossero lì per caso e non li avessero ancora individuati: procedevano nella loro stessa direzione, braccandoli. Per quanto cercassero di dormire in sella, senza fermarsi se non per lo stretto necessario, e forzando i cavalli al limite, loro c’erano sempre.
E poi, c’era il Kratheda.
Era rimasto quieto per tutto il viaggio, senza dare segni particolari. Certo, Myrindar era sempre più stanca, ma sulle prime nemmeno ci avevano fatto caso: il viaggio in sé era spossante, non avevano notato niente di strano all’inizio.
La notte del terzo giorno che erano entrati nel deserto, mentre correvano per distanziare gli imperiali, all’improvviso la ragazza aveva urlato, e si era accasciata sul cavallo. Il simbolo aveva preso a brillare violetto e inquietante nella notte.
Era durato un unico, agghiacciante attimo, e non si era più ripetuto. Myrindar era rinvenuta, riprendendo il controllo del Kratheda. Ma da quel momento avevano, se possibile, accelerato ancora di più.
E ora che erano tra le ombre nere e maestose delle montagne si sentivano di poter finalmente respirare.
Myrindar era in mezzo tra Keeryahel, l’unica che sapeva la strada, e Jahrien, che chiudeva la fila con la mano sull’elsa della spada. La ragazza riuscì a ignorare per qualche istante il peso che la opprimeva e le impediva di respirare e guardarsi intorno. Le montagne erano nere, spigolose, altissime; molto più alte di quelle a nord, intorno a Tadun. Ma se quelle montagne erano chiare ed protettive come un abbraccio, queste emanavano un’aura di potenza e grandiosità che faceva sentire minuscoli ed insignificanti. C’era una magia molto potente, celata tra quelle montagne.
L’aura di quel luogo sembrò risvegliare la magia demoniaca. La ragazza sentì il cuore accelerare.
Tutto per un attimo divenne buio. Le mancava l’aria.
Qualcuno disse qualcosa che lei non comprese.
Poi tutto passò, all’improvviso, come l’altra volta.
«Myrindar!» Jahrien era di fianco a lei e le scuoteva una spalla.
«Sto bene. Sto bene, adesso, davvero» sussurrò lei, cercando di riprendersi.
Keeryahel non nascose la preoccupazione. I suoi occhi dorati si oscurarono.
«Il Kratheda sente la magia delle Fate che la Sorgente emana, e cerca di contrastarla. Dobbiamo sbrigarci; finora il sigillo di Anishel ha retto, ma è prossimo a cadere.»
E il viaggio riprese, forsennato.
 
***
 
«Che c’è, Keeryahel?»
L’Elfa si era affacciata dalla scarpata, guardando corrucciata la valle sotto di loro. Era irrequieta, e il fratellastro se n’era accorto. Per tutta la giornata non aveva fatto altro che guardarsi intorno con una strana espressione preoccupata. E adesso che si erano fermati per dormire, a notte fonda, e Myrindar si era addormentata subito, era diventata tesa, nervosa.
Jahrien la fissava, in attesa di una risposta. Lei sembrò esitare.
«Non li vedo più» disse infine, tormentando una ciocca di capelli, e continuando a sbirciare di sotto.
«Cosa significa?» Ora anche lui aggrottò la fronte.
«Stamattina mi sono accorta che non vedevo più gli imperiali. E anche adesso, che siamo in alto e dovremmo vedere tutta la valle, beh...» Gli fece un gesto con la mano, e il ragazzo si sporse a guardare.
Non c’erano. Il buio era fitto, ininterrotto. Dei fuochi dei soldati imperiali, nessuna traccia.
«Potrebbero essere sotto l’altura.»
«No. Non possono essersi mossi così in fretta. E dubito che siano rimasti fuori dalla valle.»
Un lampo di un’idea gli attraversò la mente, e si voltò a guardare la sorella, inquieto.
«Sei sicura che questa sia la via più veloce per la Sorgente?»
L’Elfa annuì.
«Certo. Da qui, entro domani notte probabilmente ci siamo. L’unica strada più veloce è volare.»
Jahrien sospirò. Non gli piaceva. Non gli piaceva proprio per niente.
Distolse lo sguardo, fissandolo su Myrindar addormentata. Sembrava avere più incubi del solito. Non era un buon segno.
All’improvviso, la ragazza gridò.
Un suono lacerante, disperato.
Jahrien le corse accanto, gridando il suo nome. Lei non smise di urlare.
Il marchio splendeva, viola. Non sembrava accennare a diminuire, come le altre volte, anzi: era sempre più fulgente.
Le scosse una spalla, per svegliarla.
Ma quando aprì gli occhi, non era lei.
Non erano più gli occhi che amava, grandi e sempre tristi, del colore della nebbia d’autunno. Erano completamente viola, inespressivi, rilucenti.
La disperazione lo invase, lo pietrificò. Non poté fare altro che guardare, mentre quella che era stata la ragazza che amava, e che ora era solo un simulacro di magia demoniaca, sollevava una mano lentamente, verso di lui, per ucciderlo.
Un lampo argenteo passò davanti a lui e si abbatté sulla ragazza. Myrindar si accasciò al suolo, incosciente.
Jahrien si voltò, e vide Keeryahel con la mano sollevata e ancora debolmente lucente.
«Forse questo la fermerà, per un po’ di tempo, ma dobbiamo andare! Non è come il sigillo... tra poco tempo, massimo due giorni, il Kratheda la distruggerà!»
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Raccolse Myrindar, la legò al cavallo, e ripartirono.
 
***
 
La mezzanotte era passata da un pezzo quando arrivarono. Avevano cavalcato a briglia sciolta per più di ventiquattro ore ininterrotte, ed erano sfiniti. A metà strada si erano imbattuti in una frana e avevano dovuto fare dietrofront, e girarle intorno, perdendo fin troppo tempo.
Durante la corsa, Keeryahel gli aveva spiegato come funzionava la magia della Sorgente, e perché fosse importante arrivarci di notte.
«La magia delle Fate è legata alla luce della luna, e così la Sorgente degli Specchi. La luce lunare deve colpire i cristalli di cui è cosparsa la montagna che nasconde la Sorgente, i cristalli rifletteranno il raggio fino allo specchio d’acqua, che si incanterà; solo quando la luce lunare colpisce l’acqua la magia si attiva. È in quel momento che dobbiamo immergere Myrindar nell’acqua, e sperare che non sia troppo tardi. Di giorno il sole copre la luce della luna, che non entra più nella caverna, e la magia non può essere attivata» aveva detto.
Per questo avevano corso così tanto.
L’ingresso era niente di più di una fenditura su una parete rocciosa quasi verticale. Solo avvicinandosi, Jahrien notò che il bordo era inciso di segni, e l’apertura ricordava un arco a sesto acuto dall’altezza vertiginosa, segno che non era una caverna naturale.
L’interno era buio pesto. E quel poco che si vedeva era un cunicolo alto e stretto, che scendeva quasi ripido nel ventre della montagna. Decisero di lasciare fuori i cavalli, presero le borse, e si immersero nell’oscurità. Jahrien teneva Myrindar tra le braccia, ancora esanime. Sembrava quasi fosse morta, tranne per quel lieve movimento del petto che segnalava il suo respiro.
Keeryahel prese un bastone e ci accese un fuoco magico, azzurro, sulla punta. Dava alla galleria un aspetto irreale, come se tutto fosse un incubo.
Ma non era un incubo.
Non lo erano stati gli occhi viola e le urla di Myrindar. Non lo era il Kratheda, di cui Jahrien sentiva l’energia crescente mentre stringeva la ragazza.
Non lo era il sole che inesorabilmente si avvicinava all’orizzonte, pronto a comparire per donare la luce alla terra, e la morte alla ragazza.
Perché non avrebbe resistito un altro giorno intero, lo sapevano entrambi, e l’alba si avvicinava sempre di più.
Implacabile e quasi malvagia come il destino di quella ragazza.
Jahrien non sapeva da quanto tempo erano là sotto. Potevano essere venti minuti come giorni interi. Il cunicolo era sempre uguale, la pendenza era la stessa. L’unica cosa che cambiava, era la disperazione che il ragazzo sentiva crescere dentro di sé.
Ad un tratto si mise a correre, mentre le lacrime riuscivano infine a sgorgare dai suoi occhi.
Quasi non si rese conto che la galleria diventava sempre più larga, le pareti più lisce, il pavimento meno pendente. Quando se ne accorse, il cuore cominciò a battere più in fretta, e le gambe accelerarono il passo.
La sala in cui si ritrovò non era particolarmente grande, ma era spettacolare. I cristalli spuntavano dappertutto, minuscoli ed enormi, bianchissimi. Tutto brillava di luce riflessa.
Jahrien si guardò intorno impaziente. Lo Specchio. Dov’era?
Poi lo vide, oltre due giganteschi cristalli che quasi sfioravano il soffitto. Era un laghetto di acqua limpida, non tanto grande e poco profondo. Al centro esatto, una sottile lama di luce fendeva la penombra e si tuffava nell’acqua.
«Portala sotto la luce!»
La voce di Keeryahel gli arrivò distante. Lui era già entrato nel lago, cercando di fare in fretta.
L’acqua era gelida. Subito cominciò a rabbrividire, ma non gli importava. Voleva solo salvarla.
La luce si stava assottigliando. Jahrien accelerò.
L’acqua ormai gli arrivava al petto, ed era ancora distante. Si diede la spinta e cominciò a nuotare, ma il peso dei vestiti e delle armi lo rallentava. L’Elfa dietro di lui gli diceva qualcosa.
Raggiunse la luce che non era che un sottile spillo. Fece in tempo a immergere Myrindar per pochi secondi, poi il raggio si ridusse fino a sparire, e la grotta piombò nel buio.

***

 
La ragazza dormiva ancora. Erano passate un paio d’ore, e ancora non dava nessun segno.
Keeryahel era dubbiosa. La magia delle Fate aveva avuto troppo poco tempo, secondo lei, per combattere la magia dei Demoni... però Myrindar dormiva tranquilla, e quella terrificante aura che avevano sentito provenire dal Kratheda era svanita. Lo consideravano un buon segno.
La luce scarsa del fuoco di Keeryahel non permetteva di distinguere se davvero il marchio se n’era andato per sempre. Avrebbero dovuto aspettare di uscire, e avevano deciso di restare un po’ nella caverna, finché i soldati avessero smesso di cercarli.
Era il turno di guardia di Jahrien. Le due ragazze dormivano. L’Elfa aveva usato una magia per asciugare più in fretta i suoi vestiti e quelli di Myrindar, per evitare che si ammalassero a causa del freddo, ma aveva consumato molte delle sue energie, ed era crollata a dormire quasi subito.
Il ragazzo ammirava i lineamenti distesi di Myrindar, appena distinguibili alla debole luce blu. Sembrava serena. Quando dormiva, la ragazza sembrava quasi una bambina, sembrava che quegli ultimi cinque anni non fossero passati e lei fosse rimasta ancora la bambina nel vicolo di Antya. Jahrien si sorprese a sorridere. Forse, finalmente, la maledizione era stata sconfitta, e lei per la prima volta sarebbe stata libera.
Probabilmente fu a causa della stanchezza causata dallo sciogliersi della tensione, o forse per la serenità che il ragazzo vedeva nel viso di Myrindar. Sulle prime pensò addirittura che fosse uno scherzo della sua mente dovuto alla mancanza di sonno.
Ma quando il silenzio fu spezzato dallo stridore di lame sguainate, non ebbe più nessuna esitazione.
Si sollevò di scatto, sguainando la spada e parando al volo l’affondo di un soldato.
Chiamò la sorella, ma lei era già in piedi, la spada in una mano e un lungo pugnale sottile nell’altra, e volteggiava nella penombra, silenziosa e letale.
Il ragazzo parò un altro attacco, e cominciò a colpire. Non lasciò che lo stupore prendesse il sopravvento, ma non poté fare a meno di chiedersi come diamine avessero fatto ad arrivare lì così in fretta. E soprattutto, come facevano a saperlo?
Un secondo imperiale comparve dall’oscurità dietro di lui. Il ragazzo sentì un fruscio e si abbassò, mentre una lama fendeva il buio dove lui era stato qualche secondo prima.
Abbatté uno dei soldati, ma rimediò un taglio al braccio. Poco profondo, ma esteso.
Un lampo di accecante luce argentea gli fece intuire che l’Elfa aveva cominciato ad attaccare con la sua magia, e questo non era un buon segno: la usava in combattimento solo quando era in difficoltà.
Presto si trovarono affiancati, davanti a Myrindar per proteggerla. Avevano entrambi svariate ferite, Keeryahel sanguinava copiosamente da un fianco e aveva perso il pugnale. Lui stava forse meglio, ma non così tanto.
Non si arresero. Non potevano permetterselo.
Ripresero a combattere, più feroci di prima, dando fondo a tutte le loro energie.
Ma i nemici erano tanti, e loro stanchi.
Non ci volle tanto perché Jahrien inciampasse su uno spuntone che nel buio non aveva visto e finisse a terra con la spada di un soldato alla gola. La penombra non bastò a coprire il movimento della spada che si alzava, pronta a dare il colpo di grazia.
Jahrien chiuse gli occhi.
Era la fine.
Qualcuno gridò.
Una strana energia lo sfiorò. Era un altro degli incantesimi elfici di Keeryahel?
Aprì gli occhi. Il soldato era a terra, morto, e ovunque era il finimondo.
La grotta era invasa di fulmini. Di un viola cupo, quasi neri, rimbalzavano sui cristalli e si abbattevano con una precisione assoluta sui soldati, lasciando lui, Keeryahel e Myrindar incolumi.
In pochi secondi era tutto finito, e la stanza era piombata di nuovo nel buio.
Poi, un fuoco azzurro si accese, illuminando una Keeryahel sconvolta.
Di fronte a lei, Myrindar.
Era sveglia, in piedi vicino all’Elfa, scossa, gli occhi grigi spalancati e sbalorditi.
«E quello che cosa diamine era?» sussurrò, turbata.







 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Bonsoir, mondo!!
Con questo capitolo si chiude ufficialmente la prima parte della storia ;) ci saranno altre due parti, quindi immaginerete che i casini sono tutt'altro che risolti... ma non vi dirò niente, vedrete *risata malefica*
Mi hanno detto che scrivo in maniera poco omogenea, saltando da descrizioni lente a parti d'azione di colpo, quindi ho cercato di scrivere questo capitolo un po' più equilibrato; mi hanno anche detto che faccio le descrizioni esageratamente ampollose e arzigogolate, e ho cercato di migliorare anche quello... ditemi se mi è riuscito, se vi va :3
Beh, questa storia è diventata davvero lunga, ho iniziato un po' allo sbaraglio così a caso, e adesso prevedo una trentina di capitoli, in tutto...! Doveva essere soltanto così, un side-project di un'altra mia storia, ed è cresciuta tantissimo... *si commuove*
Cooooomunque, voglio ringraziarvi tutti davvero un sacco, anzi due, sapere che c'è così tanta gente che crede almeno un po' in questa storia è fantastico, vi adoro!! 
Basta con le smancerie, non è da me u.u
Vi lascio con un piccolo dubbio (anzi due): secondo voi, Myrindar è riuscita a liberarsi del Kratheda? E che cosa significa Aleestrya?
Buonanotte a tutti!!

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Mano d'Ombra ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

*** Parte Seconda ***
Ricerche


C
apitolo 12

Mano d'Ombra



 

I



l sole spandeva ovunque i suoi raggi d’oro e fuoco in un glorioso tramonto. Nuvole sfilacciate ardevano nel cielo estivo ormai viola e arancione; il mare era una distesa nera e blu spezzata dai bronzei raggi del sole riflessi dalle onde.
La scogliera bianca, limite ovest dell’isola, era spazzata dal vento che veniva verso il mare. Un ragazzo era seduto sull’orlo del precipizio, i lunghi capelli all’aria; fissava il mare combattere incessante contro la roccia quasi cento metri più sotto, mentre il sole scendeva sempre più sull’orizzonte.
Amava quel luogo. Amava il vento, e i colori del cielo estivo, che al crepuscolo passava dall’azzurro al rosa dorato al viola al blu, e infine diventava nero mentre le stelle si accendevano una a una. E anche la solitudine, finalmente, dopo un’intensa giornata di lavoro.
Quel giorno gli era toccato il turno di guardia. Lui odiava fare la guardia, e naturalmente Temeh lo sapeva. Ogni volta che poteva, gli affibbiava più turni possibile. Quel giorno aveva dovuto stare per l’intero pomeriggio di vedetta sulla torre di segnalazione a est. Lui amava muoversi, correre, combattere; esplorare l’isola e cacciare. Ma Temeh lo odiava, ed era sempre così.
Veniva sempre lì, sulla scogliera, quando era nervoso. Quel panorama aveva il potere di calmarlo. Si sorprendeva a riflettere, a immaginare: chissà cosa c’era al di là del mare. Avrebbe tanto voluto andarci... avrebbe tanto voluto scappare, andarsene da quella maledetta isola, essere libero da Temeh. Anche i Regni lo incuriosivano, sapeva che era da là che veniva, e voleva vederli.
Ma non poteva andarsene. Non prima di aver compiuto la sua missione.
Non prima di aver vendicato suo padre.
«Anser! Dove diamine sei, dannato moccioso!»
La voce portata dal vento gli accese una rabbia di fuoco nell’anima. Si alzò in piedi, voltandosi verso la voce, verso il villaggio.
«Smettila di chiamarmi così, ho quasi vent’anni!»
«E sei codardo più di un bambino di dieci! Dove ti sei nascosto a piangere, stavolta?»
La risata di Temeh echeggiò maligna e crudele. Anser dovette trattenersi dal rispondere a tono, o correre da lui con la spada sguainata. Non era il momento. Doveva aspettare.
Doveva essere sicuro di avere molti degli uomini di Temeh dalla sua parte, prima di affrontarlo, o l’avrebbero ammazzato all’istante.
Così strinse i pugni e ingoiò l’orgoglio, un’altra volta.
 
***
 
«Fammi vedere il marchio.»
Keeryahel fissava Myrindar negli occhi, seria e perentoria. La ragazza però esitava. Sapeva che l’Elfa lo faceva per lei, che voleva aiutarla a capire. Ma non voleva slacciare il corsetto e vedere, al centro del petto, invece che la pelle pallida e bianca che aveva sempre sognato il ragno e il teschio, come sempre nella sua vita.
Non l’avrebbe sopportato.
Le avevano offerto la speranza, e ora lei non poteva tornare come prima, se la speranza si fosse rivelata vana.
«Myrindar, è importante.»
La ragazza infine sospirò e annuì. Abbassò il corsetto, quel poco che bastava per vedere una macchia nera sulla pelle. Poi i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Scoppiò a piangere come una bambina, le gambe strette al petto, mentre la disperazione la assaliva. Keeryahel le stava dicendo qualcosa, ma non le importava. Era stato tutto inutile.
Si era illusa, non c’era una soluzione per lei. Aveva ceduto alla speranza come una stupida.
E ora era finita, per davvero.
«Myrindar, mi dispiace così tanto...»
Non le importava. Non poteva fare più niente, solo aspettare la morte.
Si raggomitolò sulla terra fredda, dando le spalle ai due ragazzi, mentre le lacrime continuavano a scendere.
 
***
 
Dopo il combattimento nella grotta, avevano deciso di uscire, non ritenendolo più un luogo sicuro, ancora feriti e pieni di confusione. Avevano percorso la strada indietro, ed era sembrata loro molto più lunga di quando l’avevano fatta all’andata, correndo, con il terrore negli animi. Si erano accampati nel bosco, sotto un alto pino frondoso, avevano acceso un fuoco, mangiato qualcosa e fasciato le ferite di Keeryahel e Jahrien.
Myrindar era seduta con la schiena contro il tronco resinoso dell’albero, la testa abbandonata sulla corteccia dura e rugosa. Era il suo turno di guardia. Era stanca, distrutta, devastata. Aveva smesso di piangere solo perché non aveva più energie per farlo.
Ora, spada accanto e pensieri vaganti, tentava di non farsi prendere dalla disperazione. Cercava di riemergere, uscire nuovamente dalla nebbia.
Aveva vissuto diciassette anni senza speranza, poteva farlo ancora. Doveva solo riuscire ad accettare la maledizione di nuovo.
Le venne un’idea. Probabilmente, la vista del Kratheda poteva aiutarla a chiudere tutte le porte, a comprendere che era finito tutto. Così slacciò in parte il corsetto, guardando il marchio del demone alla luce scarsa del fuoco morente.
Il suo cuore perse un battito.
Quello non era il Kratheda.
Il ragno appollaiato sul teschio era sparito. La pelle non era bianca e vuota, ma il marchio era diverso. Lo studiò, tremando a causa di un’emozione che non riusciva a descrivere.
Una spada e un fulmine incrociati.
Cos’era?
Agitata, e forse nuovamente speranzosa, si avvicinò a Keeryahel per svegliarla. La scosse piano, e l’Elfa aprì subito gli occhi, fissandola confusa. Alla ragazza bastò indicare il simbolo, e Keeryahel scattò in piedi.
Prese Myrindar per un braccio e la trascinò vicino al fuoco, per vedere meglio alla luce. Esaminò il simbolo con occhi critici per diversi minuti, gli occhi dorati concentrati, la fronte aggrottata dietro le ciocche scompigliate. Quando infine incrociò lo sguardo inquieto della ragazza in attesa, non lasciò trapelare nessuna emozione.
«Sveglia Jahrien. Devo parlarvi.»
Detto questo si sedette a gambe incrociate, le dita a premere le tempie, come a cercare di ricordare.

***
 
«Credo di aver capito.»
L’Elfa ruppe il suo mutismo pensieroso una decina di minuti dopo. Per tutto quel tempo i due ragazzi avevano atteso, scambiandosi occhiate turbate. Ora era finalmente il momento della verità.
«La magia della Sorgente era debole quando ci siamo arrivati. Era quasi l’alba, e non ha fatto a tempo a eliminare del tutto la magia demoniaca da te. Inoltre credo che non fosse proprio possibile cancellare la maledizione: era troppo radicata in te. Eri al limite, la magia demoniaca era troppo potente. Quindi credo che la magia della Sorgente non abbia eliminato la magia dei Demoni, ma si sia unita a lei. Ora, la tua maledizione è cambiata, perché è composta sia da magia dei Demoni sia da magia delle Fate. Hai poteri completamente diversi da quelli di prima: hai sempre il potere distruttivo dei Demoni, ma ora è governabile.»
La ragazza non sapeva cosa pensare.
«Significa che non uccido più solo toccando le persone?»
Keeryahel esitò.
«Conosco poco del sigillo che hai ora. Però credo di no, credo che ti dia il potere di lanciare fulmini magici, come quelli nella grotta. Con un buon addestramento, la magia delle Fate ti permetterà di controllarli, e non ucciderai più contro la tua volontà.»
Myrindar restò a bocca aperta. Era stata lei, quindi? Aveva ucciso tutti i soldati nella grotta solo con la forza di volontà. Si disse che doveva assolutamente trovare il modo di imparare a dosare il suo potere, oppure avrebbe rischiato di fare del male a chi voleva bene. Finalmente non era più la magia a comandare lei, ma viceversa.
Jahrien interruppe i suoi pensieri.
«Ce l’hai quasi fatta, Myrindar. Sei libera!»
La ragazza rifletté sulle sue parole, colta da un pensiero improvviso.
«Se entro di nuovo nella Sorgente, la maledizione svanirà del tutto?»
«No. Ti ho detto, credo che la magia sia troppo radicata in te.»
Gli occhi di Keeryahel mostravano dispiacere. Myrindar annuì, cercando di non far vedere quanto era delusa. Voleva essere una persona normale, ma non era possibile.
Almeno, avrebbe avuto controllo.
«Quindi mi addestrerò. Chi mi aiuterà? Gli Elfi?»
«Ci vuole qualcuno esperto nella magia delle Fate. Dobbiamo parlarne con Alshain» rispose Jahrien. Poi si rivolse alla sorella. «Come si chiama il sigillo nuovo?»
Il lampo di preoccupazione nel viso di Keeryahel non rassicurò per niente Myrindar. Era evidente che sapeva. Cosa c’era in quella magia di così terribile da farla esitare?
«Nella vostra lingua si chiamerebbe Mano d’Ombra» sussurrò infine.
Sembrò che Jahrien avesse ricevuto un pugno in faccia. Sbiancò, gli occhi spalancati, come se avesse improvvisamente capito. Keeryahel annuì, intuendo i suoi pensieri. Myrindar continuava a spostare gli occhi dall’uno all’altra, senza capire, senza seguire i loro pensieri. Le mancava qualcosa, qualcosa di importante. Quando infine il ragazzo parlò, la sua voce era un sussurro sconvolto.
«Aleestrya...»









 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Hi guys, I'm back!! In questo periodo di vuoto cosmico(?) sono stata in Inghilterra, e non potevo scrivere granché... ma ora sono tornata a rompervi u.u
Allora, che ne dite? Sembrava tutto concluso, e invece no *risata malvagia*
Vorrei inoltre proporre una standing ovation per Python che aveva già capito tutto dall'inizio *applaude* comunque non cantare vittoria, è una delle trame più semplici che io abbia mai scritto, mi sono sforzata di non incasinare tutto u.u
Visto che io adoro scrivere ascoltando musica, ho scritto questo capitolo con in sottofondo l'album Fallen degli Evanescence, vi consiglio di leggerlo con questa colonna sonora, non per motivi particolari, ma trovo che si adatti bene :3
Sì, sto delirando (come al solito, mi gridano dalla regia). Buonanotte gentaglia :3
*Vy svanisce attraverso l'oscurità*

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Cenere e scintille ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 13

Cenere e scintille



 

«I



l generale deve assolutamente saperlo» sentenziò Jahrien. La sorellastra annuì, seria.
Myrindar li guardava, spaesata, sentendosi esclusa. Stavano parlando del marchio, ma non capiva.
«Dobbiamo andarcene. L’Usurpatore evidentemente conosce molto bene questo posto. I suoi soldati probabilmente hanno seguito un percorso più breve, se ci hanno sorpresi così presto nella grotta... non possiamo stare qui. E dobbiamo informare Alshain.»
Il ragazzo si alzò, seguito dall’Elfa.
«Aspettate» li fermò Myrindar. «Spiegatemi quello che sapete. Per favore.»
Jahrien la guardò per qualche istante. Lasciò cadere la borsa che stava riempiendo delle sue cose e si sedette a terra con un sospiro. «Va bene. Ma facciamo in fretta, o saremo nei guai.»
«Ditemi di Aleestrya. Ditemi cos’è che vi spaventa tanto.»
«Non è che ci spaventa» intervenne Keeryahel, fissandola negli occhi con il suo imperscrutabile sguardo dorato. «Non su di te, almeno. A quanto ne so, quello è il marchio grazie al quale il soldato del vostro nemico vi ha sconfitti nella battaglia di Thora.»
La ragazza impiegò qualche istante a cogliere il significato di quelle parole, ma quando infine comprese, si diede della stupida. Come aveva fatto a non capirlo prima? Il fulmine viola distruttore era lo stesso che aveva visto quella notte, dalla cima della torre. La sensazione dell’elettricità che la attraversava lasciandola terrorizzata era la stessa che aveva accompagnato, nella grotta, la consapevolezza di aver compiuto una strage.
«Che cosa significa questo?» sussurrò, guardando Keeryahel e Jahrien un po’ confusa e un po’ impaurita.
Il ragazzo sospirò di nuovo e abbassò gli occhi sulle mani che tormentavano un lembo di mantello.
«Non lo so, cosa significa. Ma so che se l’Usurpatore ti cercava doveva esserci un motivo... e questo motivo deve avere a che fare con il guerriero nero.»
 
***
 
«Aleestrya, dunque» disse Alshain, cupo in volto. «L’impossibile Aleestrya...» sussurrò tra sé.
Myrindar lo fissò senza capire.
«Quel sigillo è sempre stato ritenuto impossibile da creare. Fondere magia bianca e magia nera in modo che non si annullino a vicenda ma si potenzino... non è qualcosa di così semplice da ottenere. Molti maghi, ai tempi in cui la magia era più comune, tentarono invano. E l’Usurpatore ci è riuscito, ha evocato Aleestrya sul nostro nemico... e tu in qualche modo sei collegata a tutto questo.»
La ragazza sussultò, mentre nella sua mente tutto si faceva chiaro. Solo lei aveva visto Layrath in faccia, solo lei sapeva. Ecco perché sia Jahrien sia Alshain sembravano brancolare nel buio... con tutto quello che era successo, si era dimenticata di quel dettaglio sempre ritenuto secondario, finora.
Sollevò gli occhi luminosi sul generale, agitata.
«Aspettate, c’è dell’altro. Finora non l’ho mai considerato un dettaglio utile, ma credo davvero che lo sia.»
Prese fiato. «Quando ho affrontato il guerriero nero sulla torre, lui mi ha detto alcune cose. Mi ha proposto di combattere per l’Usurpatore, e mi ha detto il suo nome. Si chiama Layrath – a questo punto, Alshain sembrò illuminarsi – e, la cosa più importante» Myrindar deglutì «era uguale a me.»
La ragazza vide il generale e Jahrien scambiarsi uno sguardo colmo di sgomento.
«Layrath... è uno dei Gemelli della Luna» disse il ragazzo.
«È vero. Ma erano entrambi maschi. Nessuno ha mai parlato di una bambina.»
«Questo spiega perché l’Usurpatore cercasse un ragazzo di nome Myrindar» disse la ragazza cercando di ragionare con calma, ricordando i cartelli della taglia che aveva visto quando era scappata da Tadun. «Ma io sono una femmina. Cosa c’entro, quindi?»
«Sei certo che i gemelli fossero entrambi maschi?» intervenne Jahrien. Il generale annuì.
«Sì. Le fonti erano attendibili. Mi fido della persona che ho mandato a prendere i gemelli, la notte della caduta.»
«Peccato che poi sia sparita, e con lei le tracce del neonato. Ci farebbe comodo avere quella persona a disposizione, ora.»
«Già» replicò Alshain. «Ma non è un caso che l’Usurpatore cercasse Myrindar per creare Aleestrya, e che lei assomigli a uno dei gemelli. Sono sicuro che c’è un qualche motivo dietro a tutto questo... intanto, però, Myrindar deve essere addestrata, almeno finché non saprò qualcosa di più. Per cui, Jahrien, portala dagli Elythra.»
«Agli ordini, generale.»
«Vi contatterò io in caso ci fosse qualche novità su tutto questo. Nel frattempo, contatterò gli Elfi. La guerra non sta andando bene, continuiamo a retrocedere. Parlerò con Keeryahel domani.»
Il Cavaliere Errante annuì. Si alzò, sfiorò Myrindar su una spalla e la esortò a uscire.
 
***
 
«Come ci si sente a scoprire di essere la principessa ereditaria di Dokhet?» le chiese Jahrien mentre, appena usciti dall’accampamento, cavalcavano verso nord.
«Non sono la principessa ereditaria di Dokhet» rispose lei. «Hai sentito Alshain. I Gemelli della Luna erano entrambi maschi.»
«È tutto troppo assurdo. Perché sei uguale a Layrath? Come ti hanno fatto il marchio? È tutto confuso.»
La ragazza annuì. In quel momento indossava un abito verde dalla lunga gonna e uno scialle sulla testa. Spada e pugnale erano nascosti con cura sotto la gonna. Certo, erano in territorio amico. Ma già un’altra volta l’Usurpatore era riuscito a infiltrare i suoi cavalieri grigi; non potevano rischiare di nuovo, così avevano deciso che Myrindar avrebbe viaggiato vestita come una qualsiasi ragazza di Amikar.
Si stavano dirigendo verso nord. I fantomatici Elythra abitavano nel cuore delle montagne Cyrithah, e a quanto Myrindar aveva capito, erano gli ultimi discendenti delle Fate. Praticavano la magia bianca, ma non al livello delle loro antenate. Alshain pensava che potessero essere in grado di aiutare la ragazza a controllare i suoi nuovi poteri.
«Non possiamo permetterci di distrarci dal nostro compito. Alshain tenterà di sciogliere tutti questi dubbi... io devo solo pensare ad addestrarmi» concluse la ragazza, decisa.
Era incredibile quanto la scomparsa del Kratheda l’avesse cambiata. Ora si sentiva molto più sicura: i suoi poteri, per quanto non voluti, erano almeno controllabili. Poteva trasformarli in un’utile arma contro l’Usurpatore.
E soprattutto, sembravano la chiave per scoprire le sue origini.
 
***
 
«Sei sicura di volerlo fare?»
Jahrien era preoccupato. Myrindar poteva capirlo, ma non era un’ingenua, nonostante l’aspetto da ragazzina sperduta. Sapeva che quello che avrebbe trovato poteva distruggerla, strapparle il cuore e ridurlo a brandelli.
Ma era qualcosa che doveva fare.
Così, avrebbe per sempre detto addio alla sua vita precedente.
«Sì» disse, decisa. Solo un lieve, impercettibile tremore nella sua voce mostrava la paura che in realtà si stava annidando dentro di lei.
Jahrien allora annuì, e spronò il suo cavallo verso Tadun, seguendo la ragazza a un passo di distanza.
Myrindar oltrepassò l’ultima collina.
Il panorama che le si presentò le sembrò uguale a quello che aveva lasciato. Il profilo aguzzo e frastagliato, distante sul cielo del crepuscolo, delle montagne era lo stesso, come anche i richiami delle aquile, e le prime stelle che si affacciavano lucenti nella notte incalzante. Myrindar si sentì riempire di nostalgia e felicità: tutto sembrava come quell’ultima notte, niente era cambiato.
Poi abbassò lo sguardo sulla valle sottostante.
Cenere.
Fuoco e oscurità.
Del villaggio che aveva amato per quasi un terzo della sua vita non esisteva più. Al suo posto, un’oscurità opaca di cenere, rovine che erano spettri di quello che Tadun era stato.
«Myrindar...»
«Sto bene» disse lei ricacciando le lacrime. «Voglio andare a vedere.»
«Troverai solo rovine, Myrindar. Solo dolore.»
«Non m’importa» replicò lei, dura. Spronò il cavallo verso il paese, o quello che ne rimaneva.
La strada dissestata dalle piogge era circondata dagli scheletri dei campi, devastati e ormai incolti. Uno spaventapasseri spezzato ghignava ai passanti, a testa in giù. Il villaggio si intravedeva più avanti, nella luce scarsa, e la ragazza vi si diresse veloce, le lacrime che già premevano nuovamente per uscire.
Si inoltrò nei relitti delle prime case. Annerite dalla fuliggine, distrutte dalla violenza degli uomini e dalla fame del fuoco. Non restava niente di quelle costruzioni di pietra rosata incastrate le une tra le altre, di quelle stradine che si rincorrevano aggrovigliandosi e facendo perdere l’orientamento.
Non restava niente della vita semplice ma forse quasi felice degli abitanti, non echeggiavano voci e risate tra i muri.
Il paese era morto. Come morte erano quelle sagome di persone in pose contorte sul pavimento sbeccato della piazza centrale.
Si accorse che le sue guance erano rigate da lacrime solo quando una goccia tiepida cadde sulla sua mano. E a quel punto, si abbandonò definitivamente al pianto, e si lasciò condurre da Jahrien per uscire da là.
 
***
 
«Perché hai voluto farlo, Myrindar?»
Jahrien era dispiaciuto. La osservava sbocconcellare un pezzo di pane da oltre il fuoco che aveva acceso per scaldarsi. Lì tra le montagne faceva fresco, di sera, ma non era certo quello il motivo per cui Myrindar era squassata dai brividi.
«Hai guadagnato qualcosa, vedendo quelle cose? Solo dolore. Quindi, perché?»
Lei non rispose. Rabbrividì ancora, e distolse lo sguardo.
Jahrien l’abbracciò. Così, all’improvviso.
La ragazza si sentì finalmente scaldare. Rabbrividì quando il Cavaliere Errante le sfiorò il volto per asciugarle le lacrime, ma era fuoco che l’aveva attraversata, non ghiaccio.
E nemmeno morte, come era sempre stato. Ora che il Kratheda era cambiato, e non uccideva più al contatto, quel singolo, semplice gesto l’accese di felicità. Si strinse forte a lui mentre le lacrime ricominciavano a scendere, lacrime di gioia.
Caddero entrambi a terra, ridendo. Myrindar appoggiò la testa al petto di Jahrien; sentiva il suo cuore battere forte e sicuro.
Sorrise mentre il ragazzo giocava con i suoi capelli. Chiuse gli occhi, abbandonandosi a tutte quelle nuove emozioni che la pervadevano. Era così felice. Aveva sempre pensato che la maledizione li avrebbe divisi per sempre. Aveva sempre pensato che l’amore che provava per lui fosse impossibile...
Si lasciò trascinare dal fuoco che avvertiva dentro di sé; Jahrien posò le labbra sulle sue e lei sentì una fiammata.
Era tutto così nuovo per lei. Il fuoco era un’ondata che la travolgeva e la portava dove non era mai stata. Si affidò a Jahrien, adagiata sul suo petto che si alzava e abbassava a ritmo con il suo respiro.
Si addormentò tra le braccia del ragazzo che amava.





 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Uff... è stato un parto, questo capitolo!! Un po' perché sono impegnata con un'altra storia, un po' perché è un capitolo di passaggio tra due cose interessanti, ed è difficile non renderlo noioso...
Se vi ho fatti dormire/sbadigliare fino a slogarvi la mascella beh, non era mia intenzione, perdonatemi - e scusate ancora il ritardo!! Prometto che il prossimo sarà più interessante, e cercherò di aggiornare entro un tempo decente ;)
Alla prossima!

Vy

P.S. Sì, vi devo spiegare il cambio di nome. Mi sono accorta che con questa storia non riuscivo a chiudere tutto quello che ho aperto, per cui questa è diventata la prima storia di una serie... purtroppo per voi, credo!

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Addestramento ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 14

Addestramento



 

N



ero.
Buio vuoto, imperscrutabile, congelato in un silenzio di pietra.
L’abisso la attendeva, pericoloso e allettante insieme, e lei ne scrutava i recessi incuriosita e terrorizzata. Le dicevano di dominarlo, di concentrarsi, di imbrigliarne quella potenza elettrica che faceva crepitare l’aria intorno a lei; ma lei aveva questa netta impressione di non essere abbastanza, lei sentiva che al minimo errore quell’elettricità l’avrebbe sopraffatta, sconfitta, dominata senza scampo.
Un passo avanti, verso la voragine. Una ventata ribelle le scompigliò la chioma nera, e sembrò attirarla ancora di più nell’oscurità.
Devo controllarlo.
Si sforzò di respirare con un ritmo regolare, sporgendosi sempre più avanti. Se fosse caduta, sarebbe tutto finito, ma doveva dominare quel potere, per impedire che danneggiasse le persone intorno a lei.
Doveva provarci.
Un altro passo. Ora sentiva più forte quella pressione che le impediva di respirare, che la opprimeva. Era la magia che voleva uscire e prendere il controllo.
Di nuovo un passo. Era davvero difficile mantenere la concentrazione, ora. Il potere le scivolava dalle mani; per quanto tentasse di riafferrarlo, continuava a sfuggirle dividendosi in migliaia di rivoli, inafferrabile come l’acqua.
Non ce la faceva. Con tutta la forza che le era rimasta nell’anima mosse un ultimo passo avanti, e il potere si ribellò definitivamente, trascinandola con sé nel suo vortice.

 
***

Riemerse dalla visione gridando.
Il suo insegnante, un Elythra dall’età indefinibile e gli occhi bui, le stava tenendo la spalla. Doveva averla scossa, forse proprio per questo si era svegliata.
Riprese il controllo del proprio respiro ansante, cercando contemporaneamente di smettere di rabbrividire. La sensazione era stata terribile, stavolta: più si addentrava nei meandri illusori e ambigui del potere, più l’ansia cresceva. Non dormiva sonni tranquilli da quasi un mese, da quando era arrivata nella città nascosta degli Elythra, nel cuore delle invalicabili montagne Cyrithah, lassù al nord.
«Myrindar» la riprese. La ragazza spostò l’attenzione su di lui, e cercò di normalizzare il respiro. «Tu hai troppa paura. Il tuo problema è questo: temi il tuo potere, ti senti inferiore a lui. Non riuscirai mai a sovrastarlo e imbrigliarlo finché diffidi di lui.»
Lei abbassò lo sguardo. Era sempre la stessa storia. Ma Eeshiv non capiva quanto quel terrore era radicato in lei; aveva vissuto per anni sotto la sua ombra, aveva rinunciato ai suoi desideri a causa di quel potere, e anche se ora era diverso la paura restava, irrazionale e profondamente radicata.
Eeshiv si alzò dal tappeto su cui era seduto, molto lentamente, come tutti gli Elythra.
«Per oggi abbiamo finito. Non avrebbe senso proseguire, non finché la paura ti domina. Hai fatto molti progressi rispetto a un mese fa, non lo nego. Ti manca solo un gradino per raggiungere il tuo obbiettivo, ma non ti nascondo che sarà il più duro.»
Myrindar lo osservò andarsene silenziosamente. Stava per chiudere la porta quando si voltò un’ultima volta a fissarla.
«Non credere che non capisca cosa stai attraversando. Ma è un lavoro che devi fare tu. Io ora non posso più aiutarti.»

 
***

Gli ultimi discendenti delle Fate vivevano nei sotterranei delle montagne, in un dedalo di cunicoli contorti e labirintici, perennemente in penombra dato che l’unica illuminazione proveniva dai cristalli luminescenti che spuntavano qua e là nei luoghi più impensabili. Myrindar ricordava ancora l’immenso stupore che l’aveva pervasa quando Jahrien, di fronte a una spoglia parete di roccia, aveva pronunciato la parola chiave nella lingua delle Fate, la pietra si era scostata come una tenda e i due ragazzi erano scesi nel cuore delle montagne.
I primi Elythra che avevano incontrato erano state due guardie ai due lati di un altissimo arco inciso che indicava l’ingresso alla città. La ragazza sulle prime aveva pensato fossero statue scolpite in quegli strani cristalli lattiginosi: alti quasi tre metri e longilinei, dalla pelle biancastra, luminescente e quasi traslucida e i capelli liscissimi lunghi fin quasi a terra e neri. Indossavano vesti così eteree da sembrare fatte di luce e stavano perfettamente immobili. Quando li avevano apostrofati in quella loro strana lingua echeggiante e li avevano fissati con due enormi occhi a mandorla completamente neri, Myrindar ne era stata terrorizzata.
Sulle prime la giovane non riusciva a distinguerli tra di loro. Le sembravano tutti uguali: uomini e donne, vecchi e giovani, ricchi e poveri. Anche dopo aver ottenuto un’udienza dalla Regina, che abitava in una grotta più luminosa e intarsiata delle altre, la quale aveva concesso loro di restare dopo aver sentito le loro ragioni e aveva fornito loro uno dei più validi studiosi, la giovane aveva avuto serie difficoltà a capire chi avesse davanti quando le parlavano.
Ci aveva messo qualche giorno, ma poi aveva cominciato a notare dettagli. La ricchezza di dettagli delle vesti, per quanto eteree, distingueva i nobili dal popolo; le donne erano se possibile ancora più sottili ed evanescenti degli uomini, e il solo guardarle riempiva Myrindar di invidia. La Regina aveva disposto per loro una grotta, faceva portare loro tutti i giorni del cibo e aveva donato loro alcuni dei vestiti del suo popolo, visto che loro possedevano solo gli abiti che avevano indossato durante il viaggio.
Inutile dire quanto la ragazza si sentisse grottesca con quelle vesti così meravigliose indosso.
Il suo maestro era un uomo dai lineamenti affilati e il volto sfuggente, misterioso come tutti gli Elythra. Myrindar aveva impiegato qualche giorno per intuire che dovesse essere già in un’età avanzata: più gli Elythra erano giovani, più la luce che emanavano era bianca e vivida. L’aura di Eeshiv invece era azzurrina, morbida, quasi soffice.
Da quanto aveva intuito, era uno studioso che aveva dedicato l’intera vita alla conoscenza. La giovane non poteva impedirsi di chiedersi quanto a lungo vivessero gli Elythra, ma le sembrava scortese chiederlo.
Grazie a Eeshiv, Myrindar aveva finalmente imparato a manifestare il suo potere a comando, a controllarne l’intensità e a spegnerlo quando voleva, ma riusciva nell’impresa soltanto quando era tranquilla: non aveva dubbi che nella prima situazione di pericolo il potere sarebbe esploso come quella notte nella caverna. Per questo il maestro le aveva affidato il compito di dominare quell’abisso: solo quando fosse riuscita sarebbe stata pronta. E lei si sentiva ancora in alto mare.

 
***

«Com’è andata oggi?» la accolse Jahrien con un abbraccio quando rientrò nella loro grotta. Gli Elythra non usavano porte, ma tende intrecciate ricavate da quella loro strana stoffa luminescente. Myrindar si era rassegnata da tempo all’idea che una qualsiasi comprensione degli eredi delle Fate da parte delle creature della terra, Umani o Elfi che fossero, risultasse impossibile.
«Non benissimo» sospirò lei, osservandolo. Il giovane mezzelfo indossava una curiosa accozzaglia di abiti umani e fatati che lo faceva sembrare buffo; aveva smesso da tempo, su consiglio di Myrindar, di tingersi i capelli, che ora erano biondi, chiarissimi, soltanto la parte finale della treccia mostrava ancora una sfumatura dorata, residuo della tinta.
La ragazza sorrise, soltanto vederlo conciato in quel modo le aveva risollevato l’umore. «Ti rassegnerai mai ai loro abiti?»
Lui scrollò le spalle con indifferenza. «Non posso certo allenarmi con la spada vestito con tuniche lunghe fino ai piedi, non trovi?»
La ragazza scoppiò a ridere. Jahrien la strinse forte a sé, giocherellando con i suoi capelli. Lei invece in quel momento indossava una tunica fatata, che ovviamente gli Elythra avevano adattato – dubitava seriamente di poter entrare in una di quelle normali.
Lui la guardò camminare fino al minuscolo tavolo su cui erano posate due ciotole di minestra fumante, la loro cena.
«Sembri una principessa con quel vestito.»
«Intendi dire la caricatura goffa e imbranata di una principessa?» rise lei. In quel momento si sentiva improvvisamente serena.
«So quello che ho detto, Myrindar» sorrise lui. «Ora però dimmi» riprese, serio. «Cosa c’è che non va nel tuo addestramento?»
Lei sospirò. «Lo sai. Non riesco a uscire dalla paura di fare del male a qualcuno... è questo che mi frena, secondo Eeshiv. Solo che è qualcosa che non posso controllare, la paura mi assale e non riesco più a riprendermi.»
«Posso aiutarti in qualche modo?»
Myrindar abbassò gli occhi sulla minestra. Le era passata la fame. «No. È qualcosa che solo io posso fare... vorrei solo fidarmi delle mie capacità quanto fai tu...»
«Sei migliorata tantissimo ultimamente. Sono certo che ci riuscirai.»
La ragazza sorrise triste. «Vorrei esserlo anche io.»

 
***

La casa-grotta che la Regina aveva disposto per i due ragazzi si trovava a pochi cunicoli dalla zona centrale della città sotterranea ma un po’ in disparte. Era piccola, composta da una grotta più larga che era usata come sala principale in cui si aprivano le due piccole camere da letto. Le pareti erano completamente incise, e la loro luce lievissima era l’unica fonte di illuminazione che restava quando i due ragazzi buttavano delle coperte sopra ai cristalli per riuscire a dormire.
Erano proprio quelle spirali che Myrindar stava fissando, distesa sul letto fin troppo grande per lei, mentre tentava senza successo di addormentarsi. Sospirò per la terza volta in pochi minuti e si decise ad alzarsi: prese la veste fatata e fece per indossarla, poi cambiò idea e si vesti con i suoi cari, vecchi abiti umani.
Uscì di casa silenziosa come sempre per non svegliare il compagno di viaggio che dormiva nell’altra stanza. I corridoi della città erano perfettamente identici a due ore prima, con l’unica differenza che erano deserti. La ragazza cominciava a mal sopportare la monotonia di quella vita sotterranea. Come facevano gli Elythra a vivere senza aver mai visto il sole o le stelle o la pioggia? Le mancava il mondo esterno, la brezza sul viso, le tempeste e i tramonti.
Le sue gambe la portarono al fiume sotterraneo dove gli Elythra andavano a prendere l’acqua. Il cunicolo era buio, ma l’acqua limpida lasciava trasparire la luce degli onnipresenti cristalli che si trovavano sul fondale, i riflessi sulle pareti erano meravigliosi. Myrindar andava spesso là, durante la notte – o meglio, il periodo della giornata che lei credeva fosse la notte –, quando non c’era nessuno e non riusciva a dormire.
Si sedette sui gradini che dal corridoio conducevano alla piccola spiaggia, la testa appoggiata alla parete di roccia che si trovava al suo fianco.
Si sforzò di rallentare il respiro e di concentrarsi. Chiuse gli occhi e si addentrò nei meandri del suo potere, dentro Aleestrya, fino a raggiungere nuovamente il baratro senza fondo. Una sottile inquietudine cominciò a farsi strada dentro di lei, ma la ignorò, la tagliò fuori dalla sua mente e la rinchiuse in un angolo.
Evocò l’immagine del viso di Jahrien nella sua mente e cominciò ad avanzare.
Lui che le diceva che si fidava di lei, lui mentre rideva e la prendeva in giro, i suoi occhi neri.
Mosse un altro passo avanti con decisione. Il vento fischiava e la spingeva verso l’abisso.
Lui quando l’aveva salvata dalle strade di Antya, lui che la portava fuori dalle prigioni dell’Usurpatore. Il suo sorriso luminoso, la sua espressione concentrata quando combatteva con la spada.
Il terrore gridava furioso e si dibatteva tentando di sopraffarla, ma lei non glielo permise. Jahrien si fidava di lei, sapeva che ce l’avrebbe fatta.
Il vento era diventato un uragano e infuriava intorno a lei. Era vicina, molto. Il vuoto era davanti a lei ora.
Stava perdendo la concentrazione. Doveva pensare a Jahrien, doveva controllarsi, dannazione!
Bastò quell’attimo, quell’istantaneo, minuscolo sbilanciamento, e l’abisso la trascinò giù.
Rinvenne gridando.
Le sue urla ancora riecheggiavano nel corridoio. Prese due respiri profondi per calmarsi. Non ci era riuscita, ma era andata vicina, lo sentiva.




 
******* Famigerato Angolino Buio *******
OMG non ci credo nemmeno io.
L'ho aggiornata.
Non ci speravo quasi più ^^
Non so se ci sia ancora qualche buona anima che segue questa cosa... in tal caso, vi abbraccio tutti. Meritate una vagonata di muffin e un monumento, come minimo.
A presto!! (Spero)

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Ritorno in superficie ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 15

Ritorno in superficie



 

I



l fulmine violetto crepitò tra le sue mani. Le avvolgeva interamente le braccia, guizzando su e giù selvaggio e feroce. L'aveva imbrigliato, ora Aleestrya non la controllava più, non le faceva più paura.
Tese la mano: il fulmine attraversò la stanza in un lampo e si schiantò al centro del cerchio dipinto sulla parete di roccia, staccandone alcuni frammenti.
Myrindar si voltò verso Eeshiv, sapeva di avere un sorriso dipinto in volto e non si preoccupò di nasconderlo. Le potevano concedere di essere felice, ora: dopo più di due interminabili mesi di duro addestramento, il marchio, la sua più grande paura, non poteva più imporsi su di lei. Aveva superato il terrore e l’aveva dominato. Si sentiva come nuova.
«Ci sono riuscita, Eeshiv!» esultò.
Il maestro annuì appena. La giovane, in quei giorni di permanenza tra gli Elythra, aveva imparato a distinguere le emozioni sui loro volti apparentemente impassibili, e seppe che anche lui era soddisfatto.
«Devo complimentarmi con te. È raro che un’umana impari una magia avanzata come questa in un tempo così breve. Dev’essere perché hai sempre posseduto un marchio nella tua vita, ormai la magia scorre nel tuo sangue.»
«Quindi ora potrei imparare la magia?» chiese Myrindar, entusiasta. Il Kratheda non le aveva mai permesso di sviluppare i poteri che insegnavano a tutti i Cavalieri Erranti, ma forse da quel momento avrebbe potuto addentrarsi anche in quest’avventura che l’aveva sempre incuriosita.
«No. Qualunque magia che non sia quella di Aleestrya ti è preclusa. Saper imbrigliare il potere della maledizione non ti permetterà mai di sovrastarla.»
Lei abbassò la testa. Aveva sperato fino all’ultimo che non fosse così; presto però si riscosse: niente poteva scalfire la sua felicità in quel momento.
«Ora posso tornare fuori, vero?»
Eeshiv parve esitare leggermente, come se stesse per dire qualcosa ma avesse improvvisamente cambiato idea. Ma infine annuì solenne.

 
***

La ragazza raggiante entrò in casa come un lampo. Scostò la tenda chiamando Jahrien a gran voce.
Lui accorse, confuso, con un velo di preoccupazione sul viso. Non appena lo vide, la giovane gli corse incontro e gli buttò le braccia al collo ridendo e stringendolo forte a sé.
«Mir, che diamine succede?» rise lui, stupito e quasi attonito dall’improvvisa gioia della ragazza.
«Ci sono riuscita! Eeshiv ha detto che il mio addestramento è finito. Possiamo tornare!»
Anche Jahrien rise, la sollevò da terra e la fece girare in aria con una mezza piroetta.
«Ma è una notizia meravigliosa! Sapevo che ce l’avresti fatta.»
La prese tra le braccia e la sfiorò con un bacio. Myrindar sorrise ancora di più.
«Prepariamo tutte le nostre cose e chiediamo udienza alla Regina. Voglio tornare il prima possibile!»

 
***

«La Regina ha disposto di incontrarvi ora» disse un’eterea ancella dall’acconciatura fitta di trecce e perline.
Myrindar scambiò uno sguardo con Jahrien e la seguì. Il corridoio aveva un soffitto altissimo e quasi interamente buio, su cui spiccavano i disegni contorti e spiraleggianti che costellavano le pareti del palazzo reale. A intervalli regolari, cristalli luminescenti incisi nelle più disparate forme astratte erano appesi alle pareti al posto delle torce.
La porta per la sala del trono era altrettanto imponente, ma, nonostante fosse interamente di pietra e quindi pesasse uno sproposito, bastò che l’ancella posasse una mano su uno dei battenti e questa si aprì silenziosamente.
Come Myrindar ricordava, la sala era disorientante. Le ciclopiche colonne si innalzavano per metri e metri verso un soffitto vertiginosamente alto, quattro cristalli purissimi agli angoli della sala si ergevano fin quasi a sfiorare la volta e le incisioni sulle pareti si avvolgevano e attorcigliavano come serpenti, nuvole spazzate da un vento furioso, sogni sfuggenti.
Al centro di tutto questo tripudio di grandezza, la Regina sembrava minuscola. Sedeva a gambe incrociate su una lastra di ossidiana liscia, nera e lucida. Il suo corpo quasi traslucido tradiva la sua inimmaginabile età: emanava un’aura lievissima, del colore del cielo al crepuscolo e dalla sua figura quieta, pressoché immobile e solenne proveniva una tranquillità senza pari, una calma che solo una profonda saggezza può dare.
Myrindar aveva chiesto a Eeshiv perché la stanza del trono fosse così smisurata, e la Regina invece così semplice: l’unico dettaglio del suo abbigliamento che la distingueva dagli altri del suo popolo era un diadema, di ossidiana anch’esso, nero sulla fronte bianca della sovrana. Lui le aveva risposto che non era l’aspetto della Regina che l’immensa sala doveva celebrare, ma la sua saggezza.
L’ancella che li aveva accompagnati si inchinò, imitata dai due giovani, e poi scomparve oltre la porta. La sovrana posò gli occhi neri su Myrindar.
«Hai conseguito il tuo obbiettivo» disse con voce lieve ed echeggiante. «Il tuo maestro mi ha riferito oggi stesso il tuo trionfo.»
La giovane annuì. Non proferì parola: la Regina la metteva in soggezione.
«La tua permanenza in questi luoghi è dunque terminata. Nel tuo mondo ti attendono le insidie che hai abbandonato e molte altre segneranno il tuo futuro, giovane Aleestrya. Sento che ne sei consapevole tu stessa.»
Myrindar non era sicura di aver compreso il senso della frase, si limitò a inchinarsi di nuovo e ringraziare sinceramente la sovrana per tutto ciò che aveva fatto per loro.
«Non devi ringraziarmi per questo, Aleestrya. Siamo gli eredi delle Fate, è nostro compito fronteggiare chi è corrotto dai Demoni; così ci è stato ordinato dalle nostre madri e così faremo. C’è un’unica cosa che vi chiedo da parte di Eeshiv. Ha chiesto di proseguire il viaggio al vostro fianco.»
Myrindar sollevò la testa sbalordita.
«Vuole venire con noi?»
«Così ha parlato. Ha detto che per un’intera vita ha perseguito la strada della conoscenza, eppure non ha mai avuto il coraggio di salire nelle vostre Terre del Cielo. Ha detto che così la sua conoscenza è incompleta.»
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo.
«Capiamo le sue ragioni. Se così vorrà, verrà con noi» asserì la giovane.
«E così sarà» concluse la Regina. «Che le stelle vi siano favorevoli e assistano il vostro cammino.»

 
***

L’ultimo tratto del cunicolo, Myrindar lo attraversò di corsa. La luce dell’apertura che conduceva all’esterno si riversava là sotto, abbagliante, bianca, tagliente. Le feriva gli occhi con la sua irruenza ma alla giovane non importava: era fuori, era a casa.
Mosse gli ultimi passi fino a immergersi in quella luce che tanto le era mancata. Cieca, per qualche secondo stette immobile oltre lo stipite dell’ingresso al regno degli Elythra, attendendo di abituarsi nuovamente.
Prima ancora di riaprire gli occhi, sentì il vento freddo avvolgerla nel suo abbraccio gelido, autunnale. L’aria aveva un profumo diverso, in superficie. Aprì gli occhi e il mondo le parve incredibile, impregnato di sfumature: ammirò il verde puro delle conifere nel bosco circostante, i colori vibranti e pieni del cielo del primo mattino, solcato da scie e filamenti di candide nuvole sfilacciate, l’oro della resina colata sulla corteccia e il suo odore pungente, di cui l’aria era impregnata. Si scoprì a ridere, felice di essere nuovamente a casa.
Posò lo sguardo sui suoi compagni di viaggio. Jahrien, dopo tanto tempo senza la luce del sole, aveva perso la lieve abbronzatura ed era ancora più simile alla sorella, anche se non era etereo e longilineo quanto un Elfo.
Eeshiv, invece, era completamente diverso. Se nei sotterranei degli Elythra la sua pelle era lattiginosa e chiara, là fuori, alla luce del sole, era nera come la notte, e così anche le sue vesti. Solo i lunghi capelli intrecciati restavano candidi e lievemente luminescenti. Myrindar si chiese il perché di questo cambiamento, sbalordita, ma non riuscì a immaginare una risposta.
«E così, queste sono le vostre terre» disse Eeshiv, voltandosi intorno nella luce. «Sono diverse da come credevo.»
Chissà come aveva immaginato il mondo e il sole, si chiese la ragazza. Lo osservò estrarre dalla sacca che si era portato un foglio e un carboncino e annotare qualcosa nella sua strana lingua.
I tre viaggiatori si misero subito in marcia: non avevano più i cavalli, che avevano liberato nel bosco prima di addentrarsi nel cuore delle montagne, e il villaggio più vicino distava parecchi giorni di cammino da là.

 
***

Anser bussò nervosamente alla porta. Quando Temeh lo mandava a chiamare nel bel mezzo di un turno di guardia non era mai un buon segno. Deglutì e torse le ciocche selvagge che sfuggivano alla coda disordinata, attendendo che l’uomo gli desse il permesso di entrare.
«Vieni, moccioso, vieni» disse l’uomo dall’interno. Il giovane si costrinse a prendere un respiro profondo prima di obbedire all’ordine. Non voleva che la sua impulsività lo mettesse nuovamente nei guai. Temeh adorava innervosirlo e farlo arrabbiare, perché sapeva che avrebbe reagito.
Non questa volta. Questa volta lo deluderò, si disse.
Spinse il battente. La casa di Temeh si alzava su due piani, a differenza degli altri edifici della minuscola cittadina, perché lui era il Capo.
Aveva tradito suo padre e l’aveva ucciso per prenderne il posto, quel bastardo. Ma lui si sarebbe vendicato.
Oltrepassò il minuscolo ingresso e si ritrovò nel salotto della casa. La casa di suo padre.
Scorse lo sguardo sulle tre poltrone bordeaux rivolte verso il tavolo di legno scuro, il tavolo su cui suo padre gli aveva insegnato a scrivere. Le ricordava, quelle poltrone. Erano le sue preferite, quando era bambino.
L’uomo che ne occupava una in quel momento era alto quasi due metri, e muscoloso quanto una montagna. Aveva i capelli rasati e la testa completamente tatuata, con linee nere che si inseguivano dalla fronte alla nuca e agli zigomi. In quel momento indossava i soliti abiti in pelle, come se stesse per partire per la caccia, e teneva un lungo coltello dalla lama sbeccata in più punti sguainato sul tavolo, accanto a una bottiglia di vino aperta e quasi finita.
Ecco da dove proveniva il forte odore di alcol che l’aveva assalito quando era entrato. Temeh era mezzo ubriaco.
«Mi avevi chiamato?»
«Oh, eccoti, Anser. Siediti, siediti» lo esortò, indicando le due restanti. Il giovane si chiese come mai fosse solo. Era un fatto raro: di solito era circondato perennemente da una o due ragazze svestite e pronte a compiacerlo in qualunque modo lui intendesse. Soprattutto quando era sbronzo.
«Vino?» gli chiese, indicando la bottiglia. Anser fece un cenno di diniego e l’altro scosse la testa con disapprovazione. «Non imparerai mai, moccioso.»
Di nuovo, Anser non raccolse la provocazione. «Perché sono qui?» tagliò corto.
«Sai,» iniziò Temeh, piegando la testa di lato e fissandolo con una strana espressione sul viso «ho sempre pensato che fossi stupido, ma fino a questo punto...»
Respira, Anser, controllati, si disse il ragazzo per cercare di tranquillizzarsi.
«Mi sono giunte diciamo, delle voci sul tuo conto.»
Il ragazzo sentì un colpo al cuore. Come aveva fatto? Era stato attento, stavolta. Dove aveva sbagliato?
«Secondo queste voci, staresti, come si dice? Ah, già, complottando qualcosa. Qualcosa contro di me, che riguarda una certa vendetta... ti do un’informazione gratis, moccioso: sei un perdente, un debole, tanto quanto lo era tuo padre. Nessuno ti ascolterà. Nessuno si mette mai contro di me!»
«È falso.» La sua voce tradiva la tensione. Stava tremando, ma non di paura. Di rabbia.
«Sei esattamente come lui. Non sai fare altro che piagnucolare. Avresti dovuto vederlo, il tuo tanto celebrato padre, che mi implorava di risparmiargli la vita, quando ha capito che non poteva battermi...»
«Tu l’hai tradito!» Il ragazzo scattò in piedi gridando, interrompendolo. «Eri il suo compagno d’armi. Eri come un fratello per lui, e l’hai tradito!»
«Non vorrai cominciare di nuovo, moccioso, spero! Tutti questi discorsi sull’onore e la lealtà e bla bla bla... onore e lealtà sono da deboli, e lui era un debole.»
Il giovane afferrò il coltello e lo puntò alla gola di Temeh. Aveva il respiro accelerato ed era furioso come non era mai stato.
L’uomo rise sguaiatamente, come faceva sempre. «Attento con quel coltello, potresti fare del male a qualcuno!»
«Sta’ zitto. Sta’ zitto o ti uccido» gli sibilò.
«Oh, invece no. Non lo farai. E sai perché? Perché sei come lui. Debole
In quel momento Anser si rese conto di quello che stava succedendo. Temeh aveva vinto. Era riuscito a farlo arrabbiare, ancora.
Aveva ragione lui. Era un debole.
Scagliò il coltello contro il muro con un grido di frustrazione, conficcandolo nella parete di legno.
Uscì di corsa dalla casa, inseguito dalle risate di Temeh che lo perseguitavano come fantasmi.






 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Boh. Sinceramente, tranne che per l'ultima parte, non sono molto soddisfatta del capitolo... ma a me i capitoli di passaggio non piacciono. Nel prossimo succederà di tutto per cui forse ci vuole un capitolo noioso lento, prima XD
Spero di non avervi annoiato ^^
Alla prossima

Vy
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Duello ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 16

Duello



 

L



'odore di cenere, di metallo e sangue, di guerra si estendeva per leghe e leghe sulla pianura. I tre viandanti avevano cominciato ad avvertirne il sentore fin da quando erano scesi dalle montagne, avevano oltrepassato il confine con Thral ed erano usciti dalla protezione delle serpeggianti valli ancora incontaminate.
Per giorni il sapore di morte aveva aleggiato nelle mattine nebbiose dell'autunno come una lieve traccia, un presagio. E soltanto ora, quando dalle ultime propaggini delle morbide colline di Thral i tre viaggiatori si affacciavano sulla pianura, il presagio si era trasformato in una certezza.
Jahrien scrutava il paesaggio, inorridito e spaventato.  Myrindar riusciva a cogliere sul suo volto ognuna di queste emozioni che si affastellavano una sull'altra come un castello di carte sul punto di crollare.
Quando rivolse il suo sguardo alla pianura, la disperazione la assalì. Colonne di fumo scuro sporcavano il cielo come cicatrici, alzandosi qua e là da villaggi devastati e razziati. La terra, bruciata e morta, si srotolava senza fine in tutte le direzioni. E lì, di fronte al suo sguardo costernato, dietro due accampamenti contrapposti, la sua città natale, Antya.
«Il fronte... è arretrato tantissimo» sussurrò, senza riuscire a trovare la voce.
«Soltanto una volta l'Usurpatore è riuscito a minacciare Antya, è stato cinque anni fa.»
Myrindar lo ricordava bene, quel giorno. Era stato quando Jahrien l'aveva salvata.
«Mi ricordo che l'esercito era stremato, infatti dopo una breve resistenza della città i loro comandanti hanno dovuto suonare la ritirata. Ora, invece... sembrano tutt'altro che prossimi a una disfatta» analizzò il giovane Cavaliere.
Eeshiv, silenzioso, osservava. Myrindar lo sbirciò con la coda dell'occhio. Chissà cosa il mago pensava di tutto quello. Da quel poco che aveva capito di loro, gli Elythra raramente andavano incontro a conflitti interni. Probabilmente Eeshiv, come il resto del suo popolo, considerava meschina la razza degli Uomini proprio per questo.
«Scendiamo. Abbiamo perso anche troppo tempo» scattò Jahrien, distogliendola dai suoi pensieri. Era arrabbiato per quella situazione: quasi sicuramente, se ne sentiva responsabile, sebbene non fosse così.

 
***

L'accampamento dell'esercito dei reami liberi si trovava praticamente sotto le mura più esterne di Antya. Era circondato da una lignea palizzata di protezione innalzata alla bell'e meglio, che in certi punti pareva essere sul punto di rovinare a terra da un momento all'altro. Le tende dei soldati erano erette disordinatamente intorno al padiglione di comando, e ovunque si respirava un'atmosfera di caos e continua tensione, ben diversa da quella che si era presentata davanti a Myrindar al suo primo ingresso nell'accampamento, risalente a qualche mese prima.
Quando i tre viaggiatori si erano presentati all'ingresso del campo, le due sentinelle di guardia avevano sgranato gli occhi come se avessero visto degli spettri. Era evidente che dopo essere spariti nel nulla per due mesi tutti li ritenessero morti.
Ora un soldato li stava scortando attraverso l'accampamento fin da Alshain. Chiunque incrociassero si fermava a osservarli, colmo di stupore, e poi prendeva a chiaccherare sottovoce con il vicino. Myrindar coglieva indistintamente parole come "Elfo", "strega", "spettro".
Il comandante non fece una piega mentre Jahrien descriveva i due mesi nel regno sotterraneo degli Elythra, mentre Eeshiv annotava nelle sue pergamene qualunque cosa catturasse la sua attenzione.
«Ma ora dimmi» chiese il ragazzo con apprensione «cos'è successo? Perché il fronte è arretrato cosi tanto?»
Alshain corrugò la fronte, preoccupato. Myrindar osservò che dall'ultima volta sembrava molto invecchiato: il suo volto era un intrico di linee, profonde occhiaie segnavano i suoi occhi stanchi del peso del comando, e i suoi capelli, un tempo neri, ora erano completamente ingrigiti.
«Layrath» rispose soltanto, e quel nome bastò come risposta. Myrindar aveva ancora stampata negli occhi l'immagine del giovane, identico a lei, che lanciava l'incantesimo, la fissava e rideva.
«Abbiamo combattuto tre battaglie, in questi due mesi» proseguì il comandante. «Ognuna è stata una disfatta. Layrath ha Aleestrya, e nonostante i maghi tentassero di bloccarne la magia, ci ha decimato. Sono stato costretto a suonare la ritirata fino ad Antya; stanotte, con il favore del buio, ripiegheremo dentro le mura della città, come è successo cinque anni fa. E speriamo che funzioni ancora.»

 
***

Myrindar si rigirò per l’ennesima volta nelle lenzuola e sbuffò, buttandole da parte.
Perché non riusciva a dormire? Cosa la preoccupava, ora che controllava la maledizione?
Non lo sapeva, era certa solo del fatto che qualunque cosa facesse erano ormai le due e lei era ancora perfettamente sveglia. Aveva sentito le campane della torre di Antya battere pochi minuti prima.
Si alzò in piedi insofferente. Keeryahel dormiva nell’altro letto, perciò la ragazza cercò di essere più silenziosa possibile. Si gettò il mantello a casaccio sulle spalle e uscì.
Non era mai stata nella zona più ricca di Antya, tantomeno nelle caserme delle guardie. Ma da quando l’esercito si era ritirato in città, due notti prima, avevano dovuto sistemarsi in ogni spazio disponibile, e a loro due, uniche ragazze dell’esercito, era toccato quel minuscolo sgabuzzino polveroso – non che questo fosse chissà che problema per la giovane, per lo meno aveva un tetto sopra la testa.
Uscire dal palazzo fu facile: i corridoi di solida pietra si incrociavano ad angolo retto, e risultava semplice memorizzare il percorso. Scambiò un cenno di saluto con le guardie all’ingresso.
La notte di Antya era fredda, come ricordava; un brivido corse lungo la sua schiena nonostante il mantello.
Il cielo era coperto da una trapunta di nuvole che promettevano pioggia, ma a Myrindar non importava. Si ritrovò a girovagare tra le strade rese blu dall’oscurità, ignote strade che non conosceva. Trovava sorprendentemente ironico come, nonostante tutto, si ritrovasse comunque lì. Ne era passata, di acqua sotto i ponti, dall’ultima volta che era stata ad Antya: lei era cambiata, il mondo stesso era cambiato. Chissà la prossima volta che sarebbe tornata quanti sconvolgimenti, quanto sangue e quanta morte l’incrollabile città avesse visto nel frattempo, e quanti ne avesse vissuti lei.
O forse quella era l’ultima volta, e lì sarebbe morta.
Scosse la testa. L’esercito dell’Usurpatore non aveva dato segni di voler attaccare, per ora. Alshain si stava riorganizzando con i suoi capitani per contrattaccare sfruttando la momentanea esitazione dei nemici, e presto se ne sarebbero andati da quella città.
I suoi vagabondaggi l’avevano condotta alla terrazza sulle mura interne: un piccolo giardino sopraelevato risalente ai tempi delle Fate, che al momento indossava i colori dell’autunno imminente. Appoggiato sul parapetto, Eeshiv con le sue pergamene e una lanterna.
«Come sono le Terre del cielo, allora?» chiese la ragazza, avvicinandosi.
«Sono... caotiche» rispose dopo una lieve esitazione, come per cercare la parola migliore.
Myrindar annuì.
«Credo tu abbia ragione. Dopo aver passato due mesi presso il tuo popolo, vedo tutto in modo diverso
«Suppongo che la prospettiva di chi vive per qualche centinaia dei vostri anni sia necessariamente diversa dalla vostra.»
Myrindar boccheggiò. Non aveva mai avuto prove della longevità degli Elythra, per quanto l’avesse sempre sospettata.
«La Regina ha centinaia di anni...?»
«Non so dirti da quanto la Regina sia in vita. Forse nemmeno lei stessa lo ricorda più, ormai.»
Eeshiv finì di annotare una frase nella sua esilissima grafia, poi si voltò verso di lei.
«Puoi capire da sola che cosa il mio popolo pensi delle guerre come quella che voi state combattendo da vent’anni.»
La ragazza annuì semplicemente, schiacciata dall’idea di secoli e secoli di vita.
«Eeshiv, io...»
Qualunque cosa le sue labbra stessero per pronunciare sfuggì completamente dai suoi pensieri, scacciata dall’intenso suono di un corno lontano, ripetuto dopo breve tempo poco distante da dove si trovava.
I corni da guerra delle sentinelle...
«Ci attaccano!» gridò dopo un secondo di sconcerto, quando finalmente realizzò.

 
***

Una mazza mulinò a un soffio dalla sua testa, ma Myrindar si piegò, schivandola. Recuperò l’equilibrio e vibrò un fendente con la spada, trafiggendo il soldato imperiale che l’aveva assalita. Il lampo d’argento di una delle magie di Keeryahel si abbatté dietro di lei, impedendo a un altro nemico di attaccarla alle spalle.
La ragazza roteò su se stessa per verificare rapidamente se ci fossero ancora soldati vivi. La strada era pavimentata di cadaveri e inondata di sangue ma, eccetto loro due, nessuno si muoveva. Scambiò uno sguardo con l’Elfa e si mosse verso l’incrocio con una strada principale.
All’improvviso si sentì afferrare la caviglia e strattonare verso il terreno. Senza nemmeno riflettere scagliò verso il soldato ferito una scarica viola, l’ennesima. Il nemico morì all’istante e Myrindar si liberò.
Aleestrya la stava davvero aiutando, in quella battaglia. Si stava rivelando fondamentale per la sua sopravvivenza: il potere del marchio l’aveva salvata da numerose situazioni senza uscita, era la prima volta in tutta la sua vita in cui si sentiva davvero grata a quella magia mai desiderata.
La strada principale era deserta, tranne che per i numerosi cadaveri, imperiali e non, disseminati sul lastricato. Nonostante gli sforzi degli assediati, l’esercito dell’Usurpatore era riuscito ad abbattere le porte poco dopo l’alba, e si era riversato nelle strade come un fiume in piena. Da quel momento la battaglia si era trasformata in una sorta di guerriglia senza quartiere tra le viuzze, i cunicoli e i passaggi segreti che caratterizzavano Antya. Le due ragazze avevano perso di vista Jahrien e la squadra a cui erano state assegnate quasi subito, ma finora se l’erano cavata con lievi ferite leggere. Stavano cercando di ricollegarsi al grosso dell’esercito per essere meno vulnerabili.
Myrindar cominciava a sentire il peso della stanchezza. La notte in bianco e le ore di combattimento si facevano sentire. In più, usare il potere di Aleestrya le consumava parecchie energie.
Le due ragazze percorsero la strada caute, dirigendosi verso il luogo di provenienza delle urla e dei rumori di colluttazione. Poco dopo si aprì davanti ai loro occhi una piazza con al centro una fontana insanguinata.
Una decina di soldati imperiali aveva spinto con le spalle al muro tre guerrieri. Le due giovani si buttarono nella mischia all’istante: Keeryahel scagliò uno dei suoi pugnali, Myrindar, invece, tese la mano e scagliò due fulmini, abbattendo altrettanti nemici. Il prezzo della magia si fece presto sentire, la testa le vorticò per qualche secondo prima che lei potesse recuperare fiato.
Riprese la spada con entrambe le mani e si tuffò nel combattimento, seppur con il fiato corto.
Myrindar era estremamente stupita. Dopo aver abbattuto le porte di Antya con uno dei suoi fulmini, Layrath sembrava scomparso nel nulla. La ragazza lo cercava in ogni imperiale che vedeva, era impaziente di battersi finalmente con lui ad armi pari.
Ma lui non c’era.
Impaziente, Myrindar corse lungo una via verso la cittadella. Doveva trovarlo, era pervasa da una smania inarrestabile.
Keeryahel le gridò di aspettarla ma la ragazza non obbedì. Quello che restava di un contingente smembrato tentò di fermarla, ma lei li falciò con la spada e la magia.
Si ritrovò con le ginocchia a terra ansante e si rimproverò del proprio errore.
Non poteva affrontare Layrath se sprecava le energie in quel modo. Rischiava di arrivare stremata dal suo avversario.
Dopo qualche istante le forze le erano tornate. Riprese il suo cammino cercando di recuperare fiato e di normalizzare il respiro. Di fronte a lei, le porte della cittadella erano spalancate e dall’interno si sentivano clangori e inconfondibili suoni di battaglia. Si gettò nuovamente nella mischia, senza pensare a nulla, preoccupandosi solo di uccidere quanti più nemici poteva.
Da quando massacrare mi è diventato così facile e indifferente?, si chiese con una strana amarezza nel cuore.
Parò un fendente, tese le braccia in avanti e con un movimento rapido colpì l’uomo alla base del collo. Il sangue spruzzò dalla ferita mentre il soldato stramazzava a terra e Myrindar subito si dedicava a un altro. Una freccia argentea le sibilò a fianco e colpì con precisione tra le piastre di un’armatura, segno che la ragazza Elfa l’aveva raggiunta.
Schivò l’ennesimo affondo a cui rispose con un rapido guizzo della lama. Il contraccolpo dell’impatto tra le due spade le provocò una fitta al polso teso, ma la giovane non ci fece caso. Riprese ad attaccare a ritmo serrato, procurando sottili ferite al nemico. Il contrattacco le provocò un taglio slabbrato sul braccio. Infine, una freccia di Keeryahel pose fine anche a quel duello.
Non ebbe neppure un istante di respiro: subito dopo colse un lampo con la coda dell’occhio e dovette spostarsi per schivare un colpo di mazza ferrata che le avrebbe spezzato un braccio. Nel movimento imprevisto Myrindar perse l’equilibrio, incespicò sulla pietra viscida di sangue e posando il piede destro a terra avvertì un’improvvisa scarica di dolore provenire dalla caviglia.
La ragazza imprecò, si voltò facendo perno sulla gamba sana e lanciò un fulmine contro il soldato che la stava assalendo, riprese la spada con entrambe le mani per parare un altro colpo ma, dimenticatasi della caviglia debole, caricò il peso a destra. Una fitta risalì l’intera gamba, che cedette, e con un grido Myrindar cadde a terra. Rotolò via per evitare un fendente che le avrebbe staccato la testa: la spada nemica si abbatté dove lei era stata un istante prima, sollevando schizzi di sangue da terra.
La ragazza si rialzò, si allungò in un affondo che il soldato parò con lo scudo, ma con un movimento rapido lei lo ferì al ventre. Mentre l’uomo stramazzava a terra urlando, la giovane ricorse nuovamente alla magia per salvare Keeryahel da un attacco alle spalle, e voltandosi si rese conto che un contingente piuttosto numeroso si stava avvicinando da un vicolo.
«Keeryahel, scappiamo!» gridò. Myrindar afferrò il braccio dell’amica e per quanto glielo permetteva la caviglia, cominciò a correre.
Le due ragazze corsero fino a non avere più fiato, prendendo direzioni a caso pur di distanziare i nemici. Quando Myrindar si rese conto che si erano ritrovate alla terrazza dove quella notte aveva parlato con Eeshiv, e che era vuota, decise di fermarsi. Si nascosero tra gli alberi per riprendere fiato prima di rituffarsi nella battaglia.
Accadde in un istante.
La ragazza si era distratta e quando vide l’ombra nera alle spalle dell’Elfa, era già tardi. La ragazza stramazzò a terra senza un suono.
Scattò in piedi mulinando la spada. L’ombra parò il suo fendente e rispose, Myrindar saltò all’indietro.
Il guerriero fece un passo avanti e sorrise, serafico. Riccioli neri incorniciavano un volto magro, sulla fronte troneggiava il marchio di una spada e un fulmine incrociati.
«Che cosa le hai fatto, maledetto?» gridò la ragazza, fuori di sé.
«Oh, si riprenderà. Le ho solo impedito di disturbare la nostra chiacchierata» rispose Layrath, muovendo la mano in un gesto di indifferenza.
«Se le hai fatto del male, io ti...»
«Suvvia, Mir, basta con tutta questa violenza. Non ce n’è bisogno.»
«Non hai il diritto di chiamarmi con quel soprannome» ringhiò la ragazza, fissandolo con aria truce. Sperava che ogni singolo pensiero di morte che gli stava rivolgendo nella sua mente trasparisse dai suoi occhi.
«E sia» sorrise ancora lui, deridendola. «Mi sembrava avessimo un patto. Allora, hai deciso? Vieni con me e con Uthrag, di nuovo alla tua vera casa, o resti con questi perdenti a farti ammazzare?»
«Dovrai usare argomentazioni molto persuasive per convincermi a massacrare gente senza pensarci.»
«Non mi sembra molto diverso da quello che fai ora.» Layrath fece spallucce, accennando con la testa in direzione della città.
«Con la differenza che io non uccido per il potere, ma per la libertà di interi regni!» gridò lei. Non lo fece notare, ma l’affermazione di Layrath l’aveva ferita nel profondo.
«Quanti nobili ideali!» Il ragazzo scoppiò a ridere. «Eppure sempre di uccidere si tratta, non concordi con me?»
La giovane fissò l’avversario negli occhi. Un avversario uguale a lei, eppure opposto. Un lampo di un’idea le attraversò la mente, e decise di rischiare.
«Cosa ti ha promesso Uthrag per trasformarti volontariamente nel suo carnefice personale? Sei troppo potente, potresti rovesciarlo in un attimo. So cosa gli hai chiesto, ma non può dartelo» lo provocò. «Nessuno può sciogliere Aleestrya. Nemmeno lui.»
Nonostante l’autocontrollo del ragazzo, Myrindar poté chiaramente cogliere un cambiamento. Il suo sorriso da predatore si era spento, per un istante solo, ma bastò. Ora lei sapeva.
«Ma cosa vuoi capire, tu, di me? Non mi conosci, non hai idea di chi io sia veramente, cara sorellina. Ma se questa è la tua risposta – Layrath sguainò lo spadone – allora devo proprio ucciderti.»
Attaccò come una furia. Myrindar faticò a parare tutti i colpi e si trovò a retrocedere senza scampo verso la balaustra. Spaventata, la ragazza ricorse alla magia: evocò tutto intorno a sé fulmini neri e viola come barriera, e Layrath fu costretto a indietreggiare per non essere colpito.
Sfruttando questa esitazione e raccogliendo le forze che la magia non aveva dissipato, Myrindar cominciò a sferrare fendenti, cercando di spezzare il ritmo ed entrare nella sua guardia, e alternando i colpi di spada agli attacchi magici. Layrath restò sulle difensive, limitandosi a parare e contrattaccare raramente.
Ma più il duello proseguiva, più la stanchezza prendeva il sopravvento. Un sordo dolore le attraversava tutti i muscoli, ogni singola ferita accumulata sulla sua pelle bruciava come fuoco e le rare fitte alla caviglia si erano trasformate in un ago pulsante tra le sue ossa. I colpi si fecero imprecisi, mentre il sorriso sornione sul volto di Layrath si allargava.
Con un ultimo sforzo, Myrindar saltò distante, tese la mano e scagliò un altro fulmine.
Forse accadde perché era stremata e la sua volontà debole, o forse perché aveva usato fin troppo quel giorno i poteri della maledizione.
All’improvviso, la magia crebbe dentro di lei sempre di più, come aveva fatto il Kratheda. Myrindar, colma di terrore, si ritrovò nuovamente imprigionata, si vide evocare una magia ancora più distruttiva senza poterlo impedire, senza nemmeno poter urlare.
Non l’avrebbe permesso. Tentò di concentrarsi, di imbrigliare nuovamente la maledizione come aveva fatto per due mesi sottoterra. La magia sfuggiva dalle sue dita come acqua, sempre di più.
Si concentrò con tutta se stessa. Lentamente si accorse che stava recuperando il controllo.
Il suo cuore batteva irregolare, il respiro era spezzato. Era stremata, ma aveva vinto.
Si ritrovò a terra, ansante, a guardare l’espressione glaciale di Layrath dal basso. Lui scosse la testa.
«Non ti ucciderò, per questa volta. Mi irrita combattere contro un nemico non al pieno delle proprie capacità.»
La ragazza era ancora cosciente solo grazie alla forza di volontà. Non riusciva a respirare, era come se non ci fosse abbastanza aria per saziarla.
«Vai a Nym a cercare Torg. Quando sarai al mio stesso livello, combatteremo. Che onore c’è nel piegare un nemico che è già sconfitto in partenza?»
Layrath rise ancora. Il suono del suo scherno e della sua derisione accompagnò Myrindar fino all’incoscienza.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Incontri ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 17

Incontri



 

I



l caos regnava sovrano nel locale striminzito. Il baccano imperversava feroce e amalgamato in un unico sottofondo, non rendendo più distinguibili le canzonacce stonate degli ubriachi dai racconti di romanzesche imprese, e dagli strepiti delle cameriere che dovevano destreggiarsi tra mani callose e sedie sgangherate trasportando tre boccali per braccio.
La stanza non era molto ampia ma era fin troppo affollata. Le pareti un tempo bianche ora erano ingrigite dal fumo che dilagava onnipresente, persino il basso soffitto di legno ormai era annerito, completamente impregnato di aria malsana. Le lampade rischiaravano l'ambiente con una calda luce dorata che si infiltrava nella nebbia delle pipe, insieme alle fiammelle delle candele gocciolanti posate sui tavoli.
Anser si districò tra il marasma di arti umani e gambe di tavoli fino al bancone. Una volta quel legno componeva parte della paratia di una nave; nonostante lo spessore del fumo che vi aleggiava intorno, ancora conservava un sentore di salsedine e vernice, sentore di libertà. Il ragazzo afferrò uno sgabello da poco più in là, strattonandolo da sotto il braccio abbandonato di un ubriaco stravaccato sul tavolo; ordinò all'oste della birra e si sedette cupo.
«Cos'è quest'aria di tempesta, Anser?» lo apostrofò una voce alla sua sinistra, cercando di sovrastare la confusione infuriante.
«La solita aria, Moran» rispose lui scoccando un'occhiata all'altro ragazzo. Quello sorrise, enfatizzando la cicatrice che gli attraversava il viso abbronzato, poi chiese all'oste un boccale di birra per fare compagnia all'amico.
«Temeh?»
«Temeh» confermò Anser, la voce colma d'astio.
Moran sospirò. Indefinitamente dietro di loro esplose il suono di collisioni e cocci di vetro. L'oste, un omone massiccio ma appesantito dalla cinquantina d'anni che gli pesavano sulle ampie spalle, minacciò e imprecò.
«Come ha fatto a scoprirlo, stavolta?» ringhiò Anser, sbattendo il boccale sul banco dopo aver preso un lungo sorso. «Non faccio in tempo a insultarlo che lo viene a sapere, mi manda a chiamare e si diverte a sfottermi.»
Moran allungò il braccio e strinse la spalla dell'amico. «Sono tutti con te, Anser» riprese, abbassando il tono tanto che il giovane dovette avvicinarsi per percepire le sue parole.
«Che cosa significa?» chiese all'amico, sollevando un sopracciglio.
«Oh, non posso credere che tu non l'abbia notato!» esclamò. «Non lo sopportano più nemmeno i suoi stessi uomini. Già era malvisto dopo l'uccisione di tuo padre, ora è sempre peggio... e non solo con te. Fa il bello e il cattivo tempo, pretende di essere riverito e di comandare sopra tutto e tutti. Sta perdendo l'appoggio di molti, te lo assicuro. Al porto non parlano d'altro... solo i suoi mastini gli sono ancora fedeli.»
Moran lavorava al porto, aveva molte più occasioni di lui di incontrare persone e ascoltare opinioni. E poi era il suo più caro amico, Anser si fidava di lui più che di se stesso. Nonostante questo, però, gli risultò difficile credere davvero alle parole del ragazzo. Dovette ripetersele nella mente, più e più volte, finché quasi non persero significato.
Sono tutti con te, Anser.
Moran sorrise ancora, una smorfia sghemba sul volto scuro. «Sei il figlio di Torg. Sono tutti pronti a esultare della tua vendetta.»

***
 
Avevano vinto la battaglia. Antya aveva ben svolto il suo dovere di baluardo: sfruttando il dedalo pressoché inestricabile di cunicoli sotterranei e gli stretti e tortuosi vicoli dei quartieri più poveri, i soldati dalle divise rosse e oro avevano potuto dividere, isolare e scompaginare i loro nemici abbigliati di grigio.
Non era stato facile, certo. Le strade della città ancora grondavano sangue, le sue mura piangevano, violate, le rosse lacrime dei suoi cittadini. La devastazione era padrona di quel luogo e ancora una volta vittoriosa.
Myrindar, appena sveglia nella tenda che divideva con Keeryahel, all'accampamento sotto le mura, aveva preteso un resoconto di tutto ciò che era successo. Così aveva scoperto che dopo che era svenuta erano accorsi sulla terrazza alcuni guerrieri guidati da Jahrien, che erano stati attirati là dai fulmini violetti del duello. Avevano minacciato Layrath il quale, già provato dal lungo confronto con la ragazza, dopo aver verificato che il suo esercito era allo sbando, si era visto costretto a suonare la ritirata.
«Perché l'avete lasciato andare?» aveva chiesto Myrindar a Jahrien.
«Lui ti aveva risparmiata nonostante tutto. Mi è sembrato corretto ricambiare il favore.»
A proposito di questo, la giovane provava sentimenti molto contrastanti. Da una parte, Layrath le incuteva un atavico terrore per il legame che c'era tra loro, un legame che lei non comprendeva appieno – perché erano uguali d'aspetto e perché avevano lo stesso marchio? –; contemporaneamente, però, lui era la chiave per scoprire tutti i segreti che nascondeva il suo passato. E poi, anche se non l'avrebbe mai ammesso, quello che aveva intravisto per un istante attraverso i suoi occhi le sembrava lo stesso vortice di orrore e disperazione che provava lei stessa quando pensava ad Aleestrya.
Myrindar aveva anche appreso dal Cavaliere Errante che Eeshiv aveva disobbedito agli ordini di Alshain che lo volevano chiuso al sicuro nella biblioteca del palazzo del governatore. Grazie alle sue conoscenze dell'epoca delle Fate, aveva scovato un passaggio sotterraneo che conduceva al cuore della città, e da là era riuscito a riattivare alcuni degli incantesimi che un tempo si ergevano a difesa dell'Inespugnabile Antya: la città aveva ripreso vita, antiche trappole e incantesimi di difesa avevano aiutato i soldati dei reami liberi a vincere ancora una volta.
Anche Keeryahel era sopravvissuta: Layrath le aveva dato una bella botta, ma niente di irreparabile. Il livido scuro ogni tanto faceva ancora capolino da sotto le candide ciocche, ma ormai era in via di guarigione.
E ora, a distanza di quattro giorni, Myrindar si stava avvicinando al padiglione di Alshain per chiedergli il permesso di partire alla volta di Nym.
Il comandante aggrottò la fronte. Non sembrava che la decisione presa dalla giovane gli piacesse, anzi.
«Ripeti quello che ha detto. Con le stesse parole, se le ricordi.»
Myrindar cercò di concentrarsi. Era già pressoché svenuta quando Layrath le aveva rivolto la parola, e la nebbia si teneva stretta i ricordi di quel momento.
«Ha detto che non avrebbe combattuto contro qualcuno sconfitto in partenza. Almeno credo.»
«Purtroppo quello che dice è vero. Ancora non controlli Aleestrya, non possiamo fare sempre affidamento sulla fortuna e sulla speranza che non vi scontriate. Però potrebbe essere una trappola; anzi, sono quasi sicuro che lo sia.»
La ragazza si torse le mani, agitata. Non poteva permettere che Alshain la rinchiudesse là senza nemmeno tentare. Sapeva anche lei che i rischi erano elevati, ma non poteva non provarci.
«Il fatto è che quel ragazzo, Layrath, sembra sapere molto su di me e sul – deglutì, ancora faceva fatica a pronunciare quella parola, le suonava come una condanna nella mente – Kratheda.»
«Credi che questo viaggio potrebbe aiutarti a capire?» Il comandante sollevò lo sguardo su di lei, per la prima volta durante quella conversazione. I suoi occhi del colore del ghiaccio la trafissero e lei esitò. Aveva imparato a fidarsi di lui e dei suoi giudizi, sapeva che il suo più grande desiderio era il bene di Yndira e dei reami liberi.
«Sì» disse infine. «Non so chi diamine sia questo Torg, ma Layrath... non mi sembra così tanto accecato dal suo potere da commettere un errore come lasciarmi in vita. Sa quello che sta facendo, ha uno scopo.»
Anche se non so quale, completò nella sua testa.
Alshain però era assente. La ragazza lo osservò per qualche secondo, stranita. Non era da lui distrarsi in quel modo: l'aveva sempre visto perfettamente presente e solido come una roccia.
«Hai detto Torg?»
«Esatto» rispose la ragazza con cautela. Anche la sua voce le era parsa accesa, come se Alshain conoscesse quel nome. «C'è qualche problema?»
«No» rispose tranquillamente il comandante. Era tornato freddo e controllato come sempre, ma quello sprazzo di emozione che Myrindar aveva colto l'aveva sconvolta. Che la stanchezza di quella guerra eterna stesse cominciando a logorare la sua volontà?
«Va bene» concluse infine. «Ti accordo questo permesso. Se conosco Jahrien abbastanza, non accetterà di restare qui mentre tu ti tuffi a capofitto in una trappola, per cui può considerarsi in licenza anche lui.» L'affetto con cui Alshain parlò del giovane Cavaliere le scaldò il cuore.
La ragazza lo ringraziò e stava per uscire quando la sua voce la bloccò.
«Inutile farti presente quanto sei importante per questa guerra, giusto? Senza di te saremo in balia di Layrath. Per cui fa' in fretta. E non morire.»

***
 
Avvistarono Nym dopo una settimana di viaggio a cavallo.
La strada principale costeggiava il fiume Shaali in tutte le sue anse e insenature, e loro tempo da perdere non ne avevano; così, dopo una breve consultazione, avevano preso la via più diretta possibile attraverso le campagne colorate d'autunno.
I tre viaggiatori – Keeryahel non aveva voluto sentire ragioni ed era partita con loro – provarono sulla loro pelle, ancora una volta, le conseguenze dei lunghi anni di guerra. Ovunque andassero, la diffidenza li accompagnava e li inseguiva: la ritrovavano negli sguardi della gente in ogni villaggio, compagna fedele dei mormorii maligni che si accendevano tra le persone alla vista dell'Elfa. La ragazza non fece mai nulla per nascondere il suo aspetto esotico; Myrindar sapeva quanto la giovane andasse fiera delle proprie origini, nonostante l'astio nei confronti del padre.
Fu un viaggio colmo di tensione. Ogni notte, la gelida e graffiante aria delle pianure li sferzava duramente, prosciugandoli delle poche energie che rimanevano dopo la lunga marcia del giorno. L'inquietudine sembrava non volerli mai abbandonare, e si accaniva sulla loro stanchezza: il timore di essere intercettati dai nemici era forte anche se si stavano muovendo in territorio amico.
Quando per la prima volta apparve ai loro occhi, in lontananza, la sagoma di fumo e luci della città, i tre ragazzi non poterono trattenere un sorriso colmo di sollievo. Il lieve sole di mezzogiorno scaldava l'aria e i viaggiatori d'istinto spronarono i cavalli; avevano tutta l'intenzione di arrivare prima di sera. Mano a mano che si avvicinavano alla foce del fiume Shaali, un sorriso indecifrabile comparve sulle labbra di Jahrien. La sorellastra gli chiese il motivo, ma lui si limitò a scrollare le spalle.
«Lo saprete quando arriveremo» disse soltanto, enigmatico.
Tutto ciò che conosceva di Nym, Myrindar lo doveva ai racconti che aveva ascoltato ad Antya, nei primi anni della sua vita, o a Tadun. Sapeva che era chiamata "Città Libera" a causa della scelta piuttosto singolare dei suoi cittadini i quali, durante una delle scaramucce di confine tra Amikar e Thral avvenute un paio di secoli or sono, non volendo schierarsi né con un regno né con l'altro avevano deciso di restare del tutto indipendenti. Nym si era trasformata nel tempo in una ricca città di commercio, dato che la posizione strategica, circa a metà tra le città costiere del nord e quelle del sud e alla foce del fiume Shaali, le permetteva collegamenti sia con l'entroterra che con i porti maggiori di tutti i regni. La giovane aveva ancora impressi i profumi esotici delle spezie provenienti da Nym, che durante il mercato dell'autunno si mischiavano nell'aria, portando un frammento dei Regni dell'Est anche lassù a Tadun.
Ora quella città fiabesca era a poca distanza da lei, oltre l'ultima ansa del fiume e oltre la bassa selva cespugliosa che ricopriva la zona della costa. I tre ragazzi rientrarono sulla strada per l'ultimo tratto, e dovettero rallentare e accodarsi agli altri viaggiatori. Myrindar, impaziente, mal sopportava quella lentezza: era tornata quella curiosità di esplorare e scoprire nuovi luoghi che aveva caratterizzato il suo primo periodo come apprendista Cavaliere Errante, prima che la guerra all'inizio e Aleestrya poi la costringessero a pensare ad altro.
La strada curvò verso destra, la boscaglia si diradò e Nym apparve finalmente alla loro vista. Jahrien sbirciava le reazioni delle due ragazze con il sorriso sulle labbra; ma entrambe erano troppo stupite per prestare attenzione a lui.
Il mare, di un blu puro e vibrante, abbracciava le pianure con ogni onda. L'odore di salsedine, che avevano cominciato a sentire già da un po' trasportato dal vento, improvvisamente acquisiva un senso: era il respiro di quell'enorme massa d'acqua, il respiro di una creatura viva e misteriosa. E là, nel punto in cui terra e mare sfumavano l'una nell'altro, si innalzava Nym.
La città si presentava come un agglomerato fitto di tetti a spiovente abbarbicati gli uni sugli altri in un'unica massa compatta e spiraleggiante, caotica e radiosa. Il sole del pomeriggio sfiorava e si rifletteva sulla vernice che rivestiva il legno scuro con cui gli edifici erano costruiti; pennacchi di fumo grigiastro, simboli di una città viva, si sollevavano verso il cielo. Era diversa da qualsiasi altro luogo Myrindar avesse mai visto: era all'incrocio di quattro mondi, tra l'acqua e il cielo, tra la terra e il sole.
Nym si ergeva nel mezzo della foce del fiume. La strada che stavano percorrendo, nei pressi delle rive fangose, si trasformava in una passerella rialzata che serpeggiava da un isolotto all'altro, tra canneti e paludi. La giovane non poteva fare a meno di guardare il più possibile intorno a sé con lo stupore di una bambina, e così Keeryahel che cavalcava al suo fianco.
«Le nostre città sono molto simili una all'altra» disse l'Elfa ad un tratto, gli occhi luminosi. «Ma questa è così diversa da tutte le altre in cui sono stata... non avevo mai visto niente di simile!»
Myrindar annuì. Comprendeva perfettamente.
Proseguirono lungo la passerella per qualche minuto ancora. Fu quando arrivarono proprio alla porta che la ragazza si rese conto di un dettaglio che da lontano le era sfuggito.
«Ma... si muove!» mormorò sgranando gli occhi per capire se si trattasse di un'illusione data dalla sua mente.
«Sì. Nym è completamente costruita su strutture come gli scafi delle navi. La foce del fiume continua ad avanzare, e se la città non fosse galleggiante il porto sarebbe interrato in pochi anni. Non può muoversi e navigare, certo.»
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo sbalordito.
La porta che attraversarono era sorvegliata da due guardie che non fecero loro nessuna domanda. I tre passarono sotto la grata sollevata e furono in città senza problemi. Jahrien spiegò che la legge non impediva a nessuno di entrare, nemmeno persone che in altri regni fossero per qualche motivo ricercate, purché rispettassero le regole di Nym. Myrindar la trovò una cosa molto intelligente.
L'aria della città era satura, come la città stessa. Le costruzioni si abbarbicavano le une sulle altre in una selva di strade strettissime e tortuose, come fatte apposta per perdersi. Il suolo ondeggiava impercettibilmente; il legno con cui erano pavimentate le vie era stato verniciato più volte, ma lo strato trasparente era comunque scrostato per il sole o usurato. Ovunque, uomini e donne dalle sembianze più disparate si aggiravano, parlavano, vivevano. Myrindar si stupì enormemente quando si accorse che i tetti delle case erano spesso usati come strade e piazze – notò qualche bancarella di un minuscolo mercato sopra una grande e ricca casa, probabilmente di un mercante. Una rumorosa combriccola di bambini di dieci anni o meno incrociò la loro strada correndo e mulinando sciabole di legno; una donna con i capelli cortissimi e un abito blu pieno di nastri come quelli dei Regni dell'Est chiacchierava con una vecchina sottile seduta sui minuscoli gradini di casa. Talvolta le strade si aprivano in inaspettate piazze tonde con al centro un pozzo, oppure canali attraversati da ponti ad arco. Colori e suoni e profumi provenienti da ogni angolo del mondo si mischiavano in combinazioni impreviste, creando qualcosa di nuovo. Nym era una città formata da frammenti di luoghi distantissimi, eppure aveva un'anima tutta sua.
«Che posizione ha preso Nym rispetto alla guerra?» chiese Myrindar a Jahrien. Aveva visto una quantità spropositata di armi occhieggiare da sotto drappi e mantelli, o anche semplicemente ostentate.
«Neutrale» rispose lui. «Come quasi sempre in queste situazioni. Non ama coinvolgersi in affari più grandi di lei.»
«Una posizione intelligente» approvò Keeryahel, e Myrindar si trovò ad annuire.
I tre ragazzi decisero di andare alla ricerca di Torg solo l'indomani. Erano stanchi dal viaggio, si stava approssimando la notte, inoltre in un tale labirinto trovare una persona poteva essere un lavoro lungo ed estenuante. Jahrien condusse le ragazze davanti a una locanda da cui proveniva una calda confusione. "La corona spezzata", recitava l'insegna dipinta a colori lucidi. Prima di entrare, però, le prese da parte.
«Ci tengo a precisare una cosa. Come ho detto prima, Nym è una città neutrale, in cui trovano rifugio molti che con i Regni non vogliono più avere a che fare. Questo non significa ostilità, non necessariamente, però fate attenzione a quello che dite. Le regole qui sono diverse, come avete visto. Non vorrei finire nei guai prima ancora di iniziare.»
Myrindar e Keeryahel annuirono, un po' intimorite. Jahrien però sorrise per rassicurarle, ed entrarono.
L'odore di carne speziata e verdure cotte era molto forte e Myrindar si scoprì improvvisamente affamata. Il Cavaliere Errante sorrise all'oste e lo salutò con calore, da quel gesto la giovane intuì che si conoscevano già da tempo; poco dopo infatti il ragazzo confermò che era già stato lì più volte con il suo maestro.
L'oste indicò loro un tavolo libero in un angolo e portò loro tre piatti di arrosto fumante e della birra dorata. Keeryahel sembrò dubbiosa, all'inizio, di fronte al cibo così inusuale, ma scoprì che quel sapore piccante e aromatico le piaceva.
«Ho chiesto all'oste se conosce un uomo chiamato Torg» disse Jahrien durante la cena, alzando la voce per superare il frastuono degli altri avventori. «Ha detto che il nome non gli è nuovo, ma non ricorda dove l'ha sentito, e che indagherà per noi. Domani lo cercheremo.»
«Spero di trovarlo in fretta. Siamo stati lontani anche troppo... chissà cosa è successo nel frattempo» rifletté Myrindar.
«Non preoccuparti» sorrise lievemente Keeryahel. «Alshain è molto accorto. Riuscirà a impedire a Layrath di compiere troppo danni.»
«Comunque dobbiamo essere veloci. Entro domani lo troveremo» rispose il Cavaliere, fiducioso.
Al termine della cena, i tre andarono subito al piano superiore, erano esausti e non si attardarono. Mentre Jahrien girava l'angolo sullo stretto pianerottolo, si imbatté in un altro avventore che scendeva e i due quasi si scontrarono.
«Scusami» disse lo sconosciuto. «Non ti avevo visto salire.»
Quella voce fu per Myrindar come una doccia fredda. Salì due gradini affiancandosi a Jahrien per vedere in faccia chi aveva parlato.
Era un ragazzo piuttosto alto e robusto dal viso squadrato e il sorriso gentile. Una zazzera scomposta di ricci castani gli scivolava sulla fronte, celando in parte gli occhi scuri. Quando vide apparire la ragazza impallidì come se avesse visto uno spettro e spalancò gli occhi.
«Mya...?»
La giovane era sconvolta quanto lui. Aveva riconosciuto la voce, ma aveva pensato fosse uno sbaglio.
«Dane?! Che ci fai tu qui







 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Emergono collegamenti tra Anser e Myrindar... o forse no :3
In compenso è tornato uno dei personaggi dell'inizio... ve lo aspettavate?
Nym è la mia città preferita dell'ambientazione, per quello forse ho abbondato un po' troppo con i dettagli. Sono ancora incerta sulla fisica di tutto ciò, in realtà (cervello da liceale scientifica che pretende di essere ascoltato).
Eee... un po' mi dispiace avervi lasciato con un finale così, ma il discorso "Che diamine ci fa Dane lì?" è un po' lungo e già il capitolo non finiva più :/ non prometto aggiornamenti rapidi perché si avvicina il periodo esami AAAAAAH AIUTO!! :'(
Alla prossima, vi auguro tanti muffin :3

Vy

P.S.: Stavo per dimenticarmi ^^
Metto qua sotto la mappa che avevo già inserito nel capitolo 8, magari si capiscono di più gli spostamenti!



 

Image and video hosting by TinyPic
 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Torg ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 18

Torg



 

D



ane la travolse in un abbraccio soffocante. 
«Mya! Sei tu, sei viva! Dolce fato, non posso crederci.» 
La ragazza aveva ancora gli occhi spalancati dalla sorpresa. Le sue labbra si tesero istintivamente in un sorriso a quell’accoglienza così calorosa. 
«Sono viva, e anche tu. Ti sei ricordato di me» confermò lei, ancora con quel sorriso sul volto e una calda allegria nell’anima. Si sarebbe messa a ballare lì, sul pianerottolo della scala. 
«Non potrei mai dimenticare quella notte» rispose lui. Il suo tono di voce si era fatto più cupo, nonostante sul volto rimanesse il sorriso di sempre. «Ero convinto che fossi morta. Sei sparita per più di sei mesi, e non hai dato più tue notizie...» 
Lei abbassò lo sguardo e restò in silenzio. Un sottile malessere cominciò a emergere, prendendo la forma di un’oppressione al petto che le impediva di respirare. Il suo cuore aveva accelerato i battiti. 
«Ma quindi voi due vi conoscete?» intervenne Keeryahel, salvando Myrindar, per il momento, dalle spiegazioni. 
«Certo!» rispose Dane. Il giovane scorse interamente la figura dell’Elfa con gli occhi sbarrati, ma non fece commenti. «Eravamo amici a Tadun. I nostri fratelli minori si conoscevano, e poi ci siamo incontrati una volta per caso.» 
L’oppressione aumentò. Le sembrò di essere sul punto di svenire. 
«Dopo l’attacco non l’ho più vista» continuava lui. «Molti del villaggio sono stati uccisi o catturati...» 
«Dane» lo interruppe lei, spremendo quelle poche energie che le restavano e cercando di contrastare la sensazione di terrore che la attanagliava. La sua stessa voce le risultò strana, distorta, come implorante. 
«Va tutto bene, Mya?» le chiese. La frase le giunse a sprazzi, ovattata. Vide le pareti roteare e capì che stava per svenire. Qualcuno le passò un braccio intorno ai fianchi per aiutarla a stare in piedi. 
«Mearth, Alya e Cody?» chiese, con un filo di voce. 
Dane esitò. 
«Ti prego» sussurrò Myrindar. Non aveva più forza. 
«Ho incontrato Alya e Cody durante la fuga. Abbiamo viaggiato per un po’ insieme, poi io mi sono fermato in un villaggio di confine per un paio di mesi, e loro hanno voluto proseguire il viaggio. Non li ho più visti.» 
Il suo cuore perse un battito. Sua madre era riuscita a fuggire, e anche il suo fratellino. 
«E mio padre? Cos’è successo a mio padre?» 
Il silenzio del ragazzo era già una risposta. 
«Dimmelo.» 
«Ha ucciso uno dei cavalieri e ne ha feriti altri due. È venuto a cercarci seminandoli per le strade di Tadun, ma l’hanno preso... non ho potuto fare niente. Ho dovuto trascinare Alya via da là, altrimenti si sarebbe fatta uccidere. Mi dispiace, Mya.» 
Come in un sogno, la giovane portò le mani al volto e si rese conto solo in quel momento delle lacrime che scorrevano lungo le guance. Tremava in maniera incontrollabile, le forze la stavano per abbandonare. 
Tutto si spense nel buio. 

 
***

La superficie su cui era adagiata beccheggiava in onde lente e appena percettibili. L’aria era impregnata di un intenso sentore di salsedine e vernice; le punzecchiava la mente scacciando le nebbie del sonno e svegliandola completamente. 
Aprì gli occhi. La stanza era in penombra, illuminata solamente dal bagliore strozzato di una lampada quasi esaurita, appesa alla parete alla sua sinistra. Si trovava distesa su un letto minuscolo, identico a quello che si trovava poco più in là, su cui era stesa scomposta Keeryahel, ancora vestita. In fondo, di fronte a lei, una cassapanca addossata al muro e una finestra aperta sulla notte. 
La camera era stretta e con il soffitto basso. L’odore di salsedine proveniva da fuori, dove il mare si distendeva sconfinato fino all’orizzonte. Le luci di Nym punteggiavano le sagome contorte e irregolari degli edifici. 
Myrindar si alzò a sedere sul letto. Il movimento fece svegliare l’Elfa, che si sollevò di scatto. 
«Stai bene?» 
La ragazza annuì. Si sentiva annebbiata. 
«Cos'è successo?» 
«Sei crollata nel bel mezzo del corridoio. Jahrien ti ha portata qui e poi è andato a cercare informazioni su Torg. Dane si è offerto di accompagnarlo, ha detto che conosce meglio la città, è qui da un mese e mezzo. Io avrei dovuto vegliarti, ma mi sono addormentata» rispose l'Elfa abbassando gli occhi, mentre il suo viso si dipingeva di senso di colpa. 
«Non preoccuparti. Siamo tutti stanchi...» 
Keeryahel non rispose. Le ciocche candide sfuggivano dalla fascia di cuoio inciso che le circondava la fronte e ricadevano sul suo viso. 
«Cos'è accaduto al tuo villaggio?» chiese ad un tratto. 
«I cavalieri grigi dell'Usurpatore sono venuti a cercarmi» rispose Myrindar, torcendosi le mani. «Solo che cercavano un ragazzo di nome Myrindar. Io non uscivo spesso di casa, e quando lo facevo, usavo il soprannome che mi aveva assegnato il mio fratellino. Mi conoscevano tutti come Mya, non avrebbero potuto consegnarmi neanche se avessero voluto. I cavalieri sono tornati una notte e hanno attaccato Tadun... io sono riuscita a scappare solo perché Jahrien mi aveva avvertito prima con una magia. Speravo che non trovandomi i cavalieri avrebbero lasciato il villaggio, ma non è stato così. Mio padre mi ha difeso e ha concesso il tempo a mia madre e mio fratello di fuggire insieme a Dane e quei pochi che ce l'hanno fatta, e i cavalieri l'hanno ucciso.» La voce le si spezzò. 
«Non avrei dovuto chiedertelo» sospirò Keeryahel. 
«È giusto così. Parlarne lo rende in qualche modo più sopportabile» sorrise appena Myrindar, e l'amica annuì. Comprendeva. 
«Quando tutto questo sarà finito, cercherò Alya e Cody.» 
«Andrai a stare con loro?» 
La giovane sospirò. 
«Mi piacerebbe. In fondo, non ho ancora trovato la mia vera famiglia... è vero, secondo alcuni sono una dei Gemelli della Luna, ma Alshain è certo che siano entrambi maschi. Comincio a non capire più nulla.» Myrindar stava torcendo una ciocca, un po' nervosa. 
«Probabilmente solo l'Usurpatore conosce l'intera verità.» 
«Già. Possiamo solo aspettare.» 
In quel momento, il rumore secco di nocche sul legno della parete interruppe la conversazione delle due giovani. La tenda che fungeva da porta si scostò e nella stanzetta apparvero Jahrien e Dane, quest'ultimo aveva un mezzo sorriso stampato sul volto. 
«Non si può dire che non sia stato divertente» esclamò sedendosi sul letto accanto a Myrindar. 
Anche Jahrien si sedette di fianco alla sorellastra. 
«Abbiamo percorso mezza Nym, ci siamo persi almeno tre volte e abbiamo girato in tondo, ma alla fine qualcosa di utile siamo riusciti a farlo» sorrise il Cavaliere Errante. «Torg ha una minuscola bottega di oggetti antichi e curiosità nel rione nord di Nym. Ci hanno avvertito però che è un tipo strano. Non esce mai, ed è terribilmente scontroso.» 
Myrindar riprese a torturare la ciocca corvina che teneva tra le dita. 
«Spero che accetti di aiutarci...» 
Jahrien la guardò e annuì. «Secondo alcune voci, in passato ha affrontato parecchi guai a causa dell'Usurpatore. Non dovrebbe rifiutare la richiesta di due Cavalieri Erranti.» 
La ragazza però non era così sicura. 
Speriamo, si disse. 
I ragazzi decisero che l'avrebbero affrontato l'indomani e andarono a dormire, ma Myrindar non riuscì a prendere sonno. 

***
 
Il rione nord di Nym era inaspettatamente silenzioso. Poche persone si avventuravano per le strade, e camminavano in fretta e senza guardare troppo in giro. Dane aveva detto che quella era la zona di chi aveva qualcosa da nascondere, e a Myrindar l'atmosfera che si respirava là ricordò in parte il quartiere dei vicoli ad Antya, dove aveva vissuto per dodici anni. 
La giovane non poteva non chiedersi che razza di tipo fosse questo Torg per avere una bottega da quelle parti. Quando raggiunsero il luogo, Myrindar non si stupì affatto: era minuscola e praticamente indistinguibile dal resto dell'ammasso di edifici in cui si trovava. In fondo a un vicolo strettissimo, in cui avevano dovuto passare uno per volta, si trovava una bassa porticina di legno con la vernice mezza scrostata; poco più in alto, un'insegna sbiadita dal sole recitava: "Oggetti magici e curiosità". 
I quattro ragazzi si guardarono un po' spaesati ed esitarono qualche istante. La giovane ruppe gli indugi e spinse la porticina, che scricchiolò. 
La bottega non aveva finestre sulle pareti e l'interno era quasi completamente buio; se non fosse stato per un'apertura quadrata sul soffitto. Quando la giovane entrò, un campanello appeso alla porta trillò. 
L'ambiente era minuscolo e ingombro di qualsiasi cosa. Myrindar vide una sfera di vetro verdastro appoggiata a impolverarsi su uno stretto bancone, gioielli di qualunque forma e dimensione appesi ad uno scaffale, libri rovinati dal tempo e dall'acqua, una spada dall'elsa intarsiata e tempestata di gemme blu, alambicchi tondeggianti o con il collo che spiraleggiava ritorto e mille altre cose di cui non seppe indovinare la funzione. 
Dane, guardandosi attorno, si lasciò andare a un fischio sommesso di approvazione. Keeryahel, alla sua sinistra, fissava un anello con occhi sbarrati. Quando Myrindar incrociò il suo sguardo, lei glielo porse. Era d'argento brunito, piuttosto pesante, con inciso uno stemma: un falco con una spada tra gli artigli e una corona in testa. 
«È il sigillo della famiglia di mia madre!» sussurrò l'Elfa. «Come è finito qui?» 
«Saresti curiosa di saperlo, Elfa» proruppe una voce roca dal fondo della bottega, facendo sussultare i ragazzi. 
Da dietro il bancone spuntò la sagoma di un uomo. Era alto almeno due metri, li sovrastava tutti. Indossava abiti informi, ma sotto questi si notavano muscoli evidenti; un tempo doveva essere stato un guerriero temibile. I capelli lunghi e brizzolati ricadevano sulla schiena stretti in una coda, il volto era coperto dalla barba, ma era impossibile non notare la cicatrice che ne deturpava quasi del tutto la parte destra, attraversando l'occhio chiuso. Il sinistro invece sembrava brillare. 
«Lei è Torg?» chiese Jahrien, rompendo il silenzio. Myrindar sentì lo sguardo di quella montagna d'uomo su di sé e si concentrò sull'anello che aveva in mano. Non riusciva a sostenere l'intensità di quell'unico occhio luminoso. 
«Dipende da chi mi cerca» rispose deciso l'altro. 
«Due Cavalieri Erranti, un'Elfa e un fuggitivo dell'Impero» ribatté Jahrien senza perdere tempo. 
L'uomo sollevò il sopracciglio sinistro. 
«Un notevole dispiegamento di forze» commentò. «Bene, ditemi cosa un tale assembramento di nemici dell'Usurpatore vuole da un povero commerciante.» Myrindar credette di vedere un ghigno sarcastico apparire e sparire con la rapidità di un lampo sul viso di Torg. 
Prese un respiro e cercò di affrontare lo sguardo dell'uomo. 
«So che può risultare difficile da credere, ma sono stata mandata qui da una persona. Un guerriero dell'Usurpatore.» 
Di nuovo, Torg sollevò un sopracciglio, ma non la interruppe. 
«Lui ha Aleestrya... e anche io.» Deglutì. «Ma io non riesco a controllarla, non so perché. Lui mi ha mandato qui, e non capisco. Perché un nemico dovrebbe indicarmi la strada, invece che uccidermi?» 
L'espressione di Torg non cambiò di una virgola; se era stupito, non lo diede a vedere. 
«So perché Layrath ti ha detto di cercarmi. Le Fate crearono numerosi artefatti per controllare la magia dei Demoni. Oggetti molto potenti, chiamati Craidhal, di cui si è persa la conoscenza per costruirli. Gli unici che possediamo sono quei pochi che sono sopravvissuti tutto questo tempo.» 
«E lei ha uno di questi Craidhal?» chiese Myrindar, speranzosa. Forse, per una volta, qualcosa sarebbe stato facile. 
«Sono rarissimi ed è difficile reperirli. Ne ho visti solo due in tutta la mia vita. Uno fu distrutto davanti ai miei occhi, ancora molti anni fa. L'altro mi fu rubato da un uomo che trattavo come un fratello.» 
La ragazza dovette aggrapparsi al bancone per non cadere a terra. 
Non è possibile! 





 

******* Famigerato Angolino Buio *******

Qui c'è la mia pagina di fb dove avviso quando aggiorno etc. Se vi va mipiacciatela, io sono felice :3

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Caos ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 19

Caos



 

L



'autunno si era definitivamente impossessato della terra e del cielo, constatò Anser all'ennesimo brivido. Il giovane era solo, seduto a gambe incrociate sulla nuda pietra e avvolto da un mantello e due coperte per tentare – invano – di ripararsi dal gelo.
Era una giornata uggiosa; il cielo, plumbeo e immutabile fin dal mattino, prometteva pioggia. Un vento gelido e insistente si infiltrava nell'apertura della grotta in cui si trovava, scompigliandogli i capelli mossi e pungendo quei lembi di pelle che spuntavano da sotto l'ammasso di stoffa che aveva addosso.
Il posto di guardia era, come sempre, deserto. Temeh si divertiva così, affibbiandogli il lavoro di sentinella in luoghi impervi e lontani dalla civiltà. Anser, con un sospiro, lasciò vagare lo sguardo oltre l'apertura della caverna: ormai conosceva a memoria il profilo spezzato delle montagne di Raheest, che si ergevano dal mare dritte davanti a lui, grigie come tutto il resto del panorama. Il cielo era grigio chiaro, lievemente striato di una sfumatura più scura; l'isola, sagoma offuscata dalla distanza e dall'umidità, giganteggiava scura sull'orizzonte come un frammento di roccia, e intorno a essa il mare, livido, spumeggiava ringhiando.
Pessimo tempo per navigare, si disse. Temeh e i suoi fedelissimi avrebbero dovuto partire quella mattina, però un tale tempo da lupi li aveva fatti desistere, con grande delusione di Anser. Il giovane aveva sperato di avere qualche giorno senza Temeh e i suoi cani da guardia per cominciare a organizzare l'insurrezione, ma evidentemente anche il cielo si divertiva a beffarlo.
Moran gli aveva presentato alcuni suoi amici che già da tempo pensavano di vendicare la morte di Torg ed eliminare quel despota che si stava rivelando Temeh. Molti degli abitanti delle Isole erano fuggiaschi dei Regni dell'Ovest; evadere dal giogo di Uthrag per poi essere vessati da Temeh sembrava loro un crudele scherzo, soprattutto per coloro che avevano conosciuto il comando di suo padre.
Due sere fa si erano incontrati in una taverna del porto - “il luogo preferito dai cospiratori”, l'aveva chiamata Moran. Erano solamente in quattro, per non attirare troppo l'attenzione: lui, Moran e due uomini incappucciati che si erano dichiarati timoniere e marinaio della nave Regina Asheena. Era stata una sera di conversazioni a bassa voce e occhiate discretamente furtive, proprio come Anser aveva sempre immaginato queste faccende, e il giovane era rimasto sorpreso dalla determinazione ferrea dei due marinai. Sapere di non essere l'unico a detestare Temeh abbastanza da volerlo morto, poi, scaldava il suo cuore di un impetuoso desiderio di rivalsa.
L'aveva davvero colpito una frase che aveva detto il timoniere ad un certo punto, parlando dei Regni.
«Noi siamo guerrieri, non pirati. Quando scappammo da Dokhet quello che avevamo in mente era mettere i bastoni tra le ruote all'Usurpatore dall'esterno, non assaltare ogni nave mercantile che ha la sfortuna di passare da queste parti.» Questo aveva detto, e il giovane sentiva rimbalzare quella frase nella sua testa da allora. Quando Torg era fuggito con lui in seguito alla presa del potere da parte di Uthrag era troppo piccolo per ricordare come fosse la vita quando ancora Valair e Asheena erano al potere, aveva appena quattro anni. Però ricordava bene Torg che gli narrava di come da una banda di disertori allo sbaraglio la ribellione fosse cresciuta fino a com'era ora, e il villaggio di capanne costruito alla bell'e meglio in un'insenatura di Kamehra fosse divenuto una città – e altre due ne erano state fondate in luoghi strategici dell'isola.
Appena avesse avuto un attimo di tempo libero – ossia l'indomani, se il cielo gli faceva un favore e permetteva a Temeh di andarsene – avrebbe cercato qualcuno disposto a raccontargli quanto successo nei Regni.
Con l'ennesimo sbuffo, Anser si alzò in piedi per sgranchire un po' le gambe intorpidite. Il soffitto della caverna era basso, in certi punti doveva chinarsi per non sbattere sulle protuberanze e sporgenze di pietra – altra beffa da parte di Temeh, visto che Anser era uno dei più alti. Si affacciò dalla bocca della caverna: un salto di un paio di metri, poi il sentiero scendeva lungo il versante ripido e si tuffava nella foresta contornante la baia.
Il suo sguardo corse fino al mare spumeggiante in lontananza e distinse quasi per caso una sagoma di cui prima non si era accorto – si trovava vicino alla costa, e da dov'era seduto prima risultava coperta dalla foresta. Una nave si stava avvicinando a riva, e la bandiera che il vento scuoteva da tutte le parti non sembrava dipinta di un colore noto.
Un'agitazione mista a esaltazione stava cominciando a pervaderlo. Forse sarebbe successo qualcosa, il turno di guardia non si stava rivelando del tutto inutile. Strinse gli occhi, concentrandosi sul drappo che garriva alle folate impertinenti, cercando di distinguere un'insegna.
Il suo cuore perse un battito. Conosceva quella bandiera: era composta da quattro strisce orizzontali, una nera, una blu, una bianca e una rossa. Al centro, due spade incrociate dietro uno scudo. Era la bandiera di Nym, uno stemma che lui non vedeva da tantissimo tempo.
Con il cuore in gola scattò verso la baia alla massima velocità che gli consentiva lo stretto sentiero.

 
***

Myrindar cercò di mantenere la calma e pensare lucidamente, senza farsi prendere dallo sconforto. Si sarebbe appigliata a qualsiasi cosa, lei quell'artefatto lo doveva ottenere, e in fretta.
«Va bene. È sicuro che questa persona ce l'abbia ancora?»
Un sorriso sghembo inclinò il volto di Torg, devastato dalla cicatrice.
«Non se ne separerebbe mai. Per lui è un simbolo.»
«Torg, spero che capisca, io ho bisogno del Craidhal. Layrath ci ucciderà tutti. Se sa qualcosa, qualunque cosa, a proposito di questo... la prego, ce lo dica.»
L'espressione dell'uomo restò indecifrabile, fissava Myrindar con l'unico occhio rimasto, che sembrava brillare. La ragazza stavolta resse il peso di quello sguardo glaciale, anche se un brivido scorse lungo la sua schiena. Infine Torg sospirò.
«Non è così semplice. Questa persona vive nelle Isole Nebbiose. Ci vorranno almeno un paio di settimane per arrivarci, forse meno se trovate vento favorevole. I veri problemi, però, li avrete una volta arrivati.»
I quattro ragazzi si guardarono dubbiosi.
«Ma le Isole Nebbiose» lo interruppe Jahrien, la fronte aggrottata. «sono disabitate. Non vive nessuno là.»
L'uomo dietro il bancone scoppiò in una risata roca. Myrindar lo fissò stupita: non pensava che uno così sapesse ridere.
«Ah, l'arroganza degli abitanti dei Regni! Pensate che tutto ciò che credete sia verità. Mi aspettavo più apertura alle novità da parte di un Cavaliere Errante, se devo essere sincero.»
Chi era Torg? Myrindar lo osservava attentamente cercando di cogliere quanto più di lui potesse, ma l'uomo manteneva alta la guardia e non faceva trasparire nulla. Continuava a stupirla sempre di più: un discorso come quello non se lo sarebbe certo aspettato da un commerciante di stramberie, e neppure da un ex combattente. Torg era molto più di quanto chiunque di loro potesse pensare.
La giovane scoccò un'occhiata discreta a Jahrien. Il ragazzo cercava di nascondere l'ombra che gli era apparsa sul viso quando l'uomo l'aveva redarguito. Myrindar sapeva che il riferimento ai Cavalieri Erranti l'aveva ferito, Jahrien aveva consacrato la sua intera vita all'Ordine; però la ragazza non sapeva dire se fosse così dispiaciuto per il rimprovero o perché Torg aveva ragione.
«Le Isole Nebbiose sono abitate, eccome» riprese l'uomo. «Sono il rifugio dei pirati. E l'uomo che state cercando, il possessore del Craidhal, è il loro capo.»
Il lampo di un ricordo baluginò nella mente della ragazza. Apparvero alla sua memoria i discorsi che talvolta suo padre raccontava a tavola, dopo essere stato alla taverna con i suoi amici: a volte nominava le incursioni dei pirati sulla costa, o le dicerie che collegavano queste scorrerie a Nym. Il pensiero di suo padre la fece sprofondare nuovamente nello sconforto.
«Non importa chi sia questa persona. Dobbiamo avere quel Craidhal» la riscosse la voce di Jahrien. La sfumatura dura e autoritaria che aveva imposto alle sue parole la colpì; Jahrien era sempre stato pacato e diplomatico, ma sapeva imporsi. E loro avevano decisamente perso troppo tempo.
«Aspetta, Jahrien. Se non sappiamo a cosa andiamo incontro ci faremo ammazzare» intervenne Keeryahel. Si voltò verso Torg, e anche se era più bassa di parecchi centimetri e molto più minuta non era affatto intimorita. «Può portarci là?»
Torg alzò il sopracciglio – lo faceva spesso, notò Myrindar. «Ho un vecchio amico, capitano di una nave, che potrebbe portarvi là. Mi deve un favore, non rifiuterà.»
«Cosa le impedisce di accompagnarci, davvero?» indagò l'Elfa. Torg sorrise.
«Siamo a Nym, ragazza. Qui nessuno chiede a nessuno segreti che devono restare tali. Io non ho fatto a voi nessuna domanda, ma vi ho detto quello che cercavate. Ti basti sapere che ho le mie ragioni.»
«Ci sta mandando allo sbaraglio, quando quello che vogliamo è soltanto qualcuno che ci guidi in un luogo di cui non conosciamo nulla, per salvare della gente» ringhiò Jahrien.
«Queste sì che sono parole da Cavaliere Errante» ghignò l'uomo. Myrindar non riusciva a capire se li stesse prendendo in giro; Torg sembrava una maschera di pietra impenetrabile. «Spiacenti, ma la vostra ostinazione, per quanto ammirevole, non mi smuove. Trovatevi al porto tra tre giorni, all'alba, e cercate Rohaniah.»
Nemmeno aveva finito di parlare che già si era voltato come per lasciare la stanza. Si bloccò subito, e parlò senza guardarli.
«Ah, Elfa, prendi pure l'anello. Io non so cosa farmene.»

 
***

Dal mare spirava un vento infido che sembrava infiltrarsi sotto i vestiti, gravido di umidità, filtrando oltre mantelli, tuniche, corsetti e camicie. Nym a quell'ora del mattino era già sveglia: uomini e donne, nelle piazze, cominciavano ad approntare le loro bancarelle per il mercato; le massaie già si avviavano ai lavatoi per non sprecare le calde ore centrali della giornata; le guardie alle porte della città azionavano i meccanismi per sollevare le massicce grate.
Il sole ancora non si era mostrato sopra le pianure, anche se un lieve chiarore sbiadiva il blu sereno del cielo già da diversi minuti. Myrindar, avvolta strettamente nel suo mantello nero, seguiva Jahrien e Dane, pochi passi più avanti, affiancata da Keeryahel. Il giovane di Tadun non aveva voluto sentire ragioni: aveva detto che nulla lo tratteneva là; era andato a Nym a salutare un vecchio amico e sarebbe dovuto partire il giorno seguente per uno dei villaggi delle pianure, dove aveva trovato lavoro come garzone di un fabbro, ma non aveva mai sopportato quel lavoro, e ora che aveva l'occasione per vendicare ciò che era successo alla sua famiglia nessuno l'avrebbe trattenuto. A nulla erano valsi i tentativi di Jahrien di convincerlo a restare a Nym, al sicuro, così alla fine il Cavaliere Errante si era arreso.
Il porto di Nym era molto grande, rispetto alla città: vi erano attraccate navi di ogni dimensione, persino un veliero sottile dall'aria minacciosa che Myrindar era rimasta a fissare a bocca aperta. Sull'albero sventolava una bandiera azzurra su cui al centro si avvolgeva un drago nero con una spada tra le zampe. Jahrien aveva notato il suo interesse, e le aveva rivelato il significato di quello stemma: corsari. Marinai ingaggiati dai reami liberi per sabotare Dokhet. La ragazza aveva subito distolto lo sguardo, intimidita, ma non prima di aver notato il baluginare delle spade e delle asce appese alle cinture di quei marinai.
Un colpo di tosse la riportò alla realtà. Di fronte a loro stava un uomo rinsecchito, con una folta coda di capelli grigi che si adagiava sulla sua spalla, e il volto segnato dagli anni e imbrunito dal sole. Indossava una semplice giubba grigia e pantaloni larghi infilati negli stivali come gli abitanti di Nym; alla cintura faceva bella mostra di sé una spada dall'elsa disadorna e funzionale e la lama spessa appena ricurva sulla punta.
«Siete voi i ragazzi delle Isole, giusto?» esordì aspro. La sua parlata aveva una cadenza curiosa, diversa sia dall'accento leggermente strascicato di Amikar sia dalle consonanti forti di Yndira.
Myrindar non sapeva cosa Torg avesse detto di loro, così si limitò ad annuire. Jahrien tese la mano all'uomo.
«Lei deve essere Rohaniah.»
Lui la strinse senza troppe cerimonie, poi indicò una delle navi attraccate.
«Partiamo appena sorge il sole per sfruttare la marea. Voi salite e vedete di non intralciare nessuno. Sia chiaro che io non sono per niente d'accordo, per cui non fatemi cambiare idea.»
Nessuno dei ragazzi osò attardarsi o protestare. Quello che dobbiamo fare è troppo importante perché un marinaio scocciato ci fermi, pensò Myrindar. La ragazza posò lo sguardo sulla nave che le era stata indicata.
Era un piccolo veliero probabilmente impeciato di fresco – si sentiva ancora un lieve odore provenire dal suo scafo – su cui svettavano due alberi dotati di vele quadrate, al momento ammainate. La bandiera di Nym sventolava in alto, mentre sul lato si poteva leggere alla scarsa luce la scritta “Drago Bianco” dipinta sulla fiancata. Sulla prua infatti si avvinghiava la scultura lignea di un drago con le fauci spalancate in un ruggito.
Myrindar si stava avvicinando alla nave quando una voce nota interruppe le sue considerazioni. Si voltò e constatò sbalordita che non era stata un'allucinazione: Torg, una spada ricurva al fianco e una sacca sulla spalla, stava parlando con Rohaniah, e non appena finì, si diresse verso di loro.
«Vi accompagno» disse laconico.
«A cosa dobbiamo questo cambiamento di idee così repentino?» chiese Keeryahel, ironica. Torg la scrutò con quel suo unico occhio luminoso.
«Devo risolvere alcune questioni» rispose, prima di considerare chiusa la discussione e avviarsi verso la nave.

 
***

Una barca si stava approssimando a riva, sfidando il mare turbolento; su di essa, Anser poteva distinguere cinque sagome.
Il ragazzo, trafelato dalla corsa, si rese conto di essere solo sulla spiaggia. Le altre sentinelle dove diamine sono finite?, si chiese. Non sapeva cosa pensare, cosa aspettarsi. Non era mai capitato che una nave di Nym si avvicinasse così tanto alle Isole, né tantomeno che qualcuno approdasse. Per sicurezza, sguainò il falcione che teneva nel fodero alla cintura.
In pochi minuti la barca giunse sulla spiaggia. L'ansia si era impadronita del giovane, che continuava a guardarsi intorno per assicurarsi che dalle fronde della boscaglia non apparisse Temeh. Voleva essere certo delle intenzioni dei nuovi arrivati prima che l'uomo si mostrasse. Chissà cosa avrebbe fatto loro, solo per essersi presentati nel suo territorio senza permesso.
Davanti a lui apparvero due ragazze. La prima era molto giovane, minuta, infagottata in un mantello scuro. Il cappuccio le era caduto dal volto, spinto dal vento, e i capelli ricci e neri si agitavano in una matassa informe nell'aria; teneva le mani bene in vista per fargli notare che era disarmata, ma da sotto il mantello occhieggiava una spada. Non era una sprovveduta.
Dietro di lei avanzava, altera e agile, una creatura che Anser non aveva mai visto. Pallida e longilinea – il ragazzo valutò che doveva essere poco meno alta di lui – incedeva sulla sabbia a testa alta. I suoi occhi dorati, leggermente a mandorla, sembravano mandare scintille quando si posarono su di lui, come se la loro proprietaria fosse pronta a dare battaglia con tutta se stessa, se necessario; il viso imperturbabile pareva di porcellana, senza età. Il vento giocava tra le sue ciocche, scombinandole la lunghissima treccia bionda. Da sopra la sua spalla spuntava la sagoma di un arco lungo, e la ragazza sembrava non curarsi di nasconderlo. Lo fissava dritto negli occhi, come per sfidarlo, e Anser non poté fare a meno di chiedersi che cosa fosse quella persona.
La ragazza dai capelli corvini gli si avvicinò, ma si fermò a un paio di passi di distanza.
«Non siamo qui per causare guai» iniziò, quasi esitante. «Cerchiamo un oggetto, appena lo avremo trovato ce ne andremo da dove siamo venuti.»
Anser non seppe cosa rispondere. Cercò di prendere tempo.
«Che cosa cercate? Qui non c'è nulla di diverso rispetto alle vostre città.»
Le due si scambiarono un'occhiata fugace, e la ragazza riprese a parlare.
«Sappiamo per certo che ciò che cerchiamo si trova qui. È un pendente, un cristallo bianco intagliato a forma di stella.»
Il cuore di Anser parve fermarsi. Dovette impiegare uno sforzo notevole perché la sua espressione restasse impassibile.
Il talismano.
Doveva inventarsi qualcosa da rispondere alle due; il suo sguardo oltrepassò la ragazza con cui stava parlando e si fissò sulle altre tre persone che si stavano avvicinando. Un giovane robusto, un ragazzo con una lunga treccia bionda e l'elsa di uno spadone a due mani che appariva da oltre la sua spalla, e un uomo di spalle che stava finendo di assicurare la cima della barca sotto un mucchio di sassi.
«Mi dispiace, non so di cosa parli» disse distrattamente, ma era concentrato sulla figura dell'uomo. Gli ricordava qualcosa, da qualche parte sepolto nella sua memoria, e gli venne quasi da ridere.
Se non fosse impossibile, direi quasi si tratti di...
L'uomo si voltò.
Anser si sentì svenire. Restò a bocca aperta e quasi si dimenticò di respirare.
… mio padre.
Una lunga cicatrice gli deturpava la parte destra del volto, ma Anser l'avrebbe riconosciuto tra mille. Non aveva dubbi, lui era suo padre.
Mosse un passo dopo l'altro, come in trance. Torg gli si avvicinò e gli rivolse uno dei suoi soliti sorrisi a metà.
«Ehi, ragazzo. Chi non muore si rivede, sembra.»
«Tu... tu eri morto» riuscì a dire, fissando suo padre nell'unico occhio che gli restava.
«E io che ci speravo sul serio, che fossi morto!» proruppe una voce alla sua destra. Anser sussultò, come svegliato da un sogno, e quasi non la riconobbe. Poi però si voltò e impallidì: poco distante si avvicinava un gruppo di uomini e, in testa, Temeh.
«Nemmeno posso fidarmi di te come sentinella! Questi intrusi si sono permessi di invadere la mia isola e tu, invece che venirmi a chiamare, come per fortuna hanno fatto altri più svegli di te, ti metti a scambiare quattro chiacchiere.» Temeh scosse la testa fingendo delusione. «Poi deciderò come punirti, prima però c'è qualcosa di più urgente di cui occuparsi.» Indicò gli sconosciuti con un cenno e si rivolse alla ventina di persone che si era portato dietro. «Legateli e portateli alle prigioni. E fate attenzione al più vecchio, chissà cos'ha escogitato.»
«Aspetti!» gridò la ragazza eterea. La sua voce era esattamente come Anser aveva immaginato: cristallina. «Vogliamo solo parlare!»
Temeh si voltò e fissò per qualche secondo la giovane, come riflettendo.
«Uhm, ho cambiato idea. Loro alle prigioni, la bionda invece portatela a casa mia.»
Anser si sentì sprofondare nello sconforto. Tutto era crollato intorno a lui.






 

 

******* Famigerato Angolino Buio *******

Che dire, sono davvero soddisfatta da questo capitolo *-*
Spero che vi sia piaciuto anche solo la metà di quanto è piaciuto a me mentre lo scrivevo. Di solito non sono mai soddisfatta, ma stavolta sono davvero felice :3
Vi ho lasciati con un finale sospeso, quindi spero che non mi detestiate, ma già ero oltre le tremila parole, e ho dovuto spezzare. Che ne pensate?
Beh, io mi dileguo, vi lascio il link della mia pagina di fb se voleste mipiacciarla: Di mezzelfi, muffin e fucili laser - Cygnus_X1
Alla prossima!

Vy

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Tessere piani ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 20

Tessere piani



 

G



li uomini di Temeh si erano divertiti a perquisirla, dopo averle tolto arco, faretra e pugnali: si era trovata le loro rudi mani dappertutto, e non era una stupida. Sapeva che se le avevano palpato i seni e strizzato il sedere non era per controllare se avesse nascosto delle armi.
Purtroppo però erano in troppi perché potesse allontanarli con la magia senza farsi scoprire; l'unica cosa che poteva convincere otto uomini a non osare sfiorarla nemmeno era un incantesimo tutt'altro che discreto, e Keeryahel non poteva permettere che Temeh sapesse delle sue capacità magiche, erano l'unica arma che le restava. Così aveva stretto i denti e si era isolata dall'ambiente circostante scendendo in profondità dentro di sé, come le aveva insegnato sua madre per sopportare gli insulti di suo padre.
Gli uomini l'avevano poi portata, legata e bendata, dentro una casa, le avevano fatto salire delle scale e l'avevano chiusa in una stanza completamente vuota per un po'. Lei si era seduta a gambe incrociate sul pavimento di legno e aveva semplicemente aspettato, concentrandosi sulle presenze che avvertiva intorno a sé: c'erano gli uomini fuori dalla casa, che aspettavano il loro capo e che scommettevano tra di loro su quanto si sarebbe divertito con lei, e poi una donna che stava preparando qualcosa per lei.
Quest'ultima, infine, dopo aver girovagato per la casa per qualche tempo, si avvicinò alla sua porta e l'aprì. Lo stupore era palpabile in lei, ma senza fare una piega le si avvicinò e le tolse la benda.
«Dei del cielo, ragazza» le disse, gli occhi grandi dalla sorpresa. Era una donna sulla sessantina dai modi spicci, minuta e rinsecchita, abbigliata con una veste semplice color terra, i capelli ingrigiti raccolti in uno chignon. «La maggior parte della gente nella tua situazione strepita e strilla. Ma soprattutto non ho mai visto nessuno come te.»
«Mi hanno detto che sono strana» confermò lei, alzandosi in piedi e voltandosi perché le slegasse i polsi. Le stava simpatica, ma non voleva rivelare la sua identità. La donna la liberò dalle strette corde e mentre lei si  massaggiava i polsi arrossati le indicò la porta. Keeryahel si trovò in un corridoio dal pavimento di legno e il soffitto a spiovente; sulle pareti intonacate si aprivano altre porte.
«Quel maiale di Temeh meriterebbe le peggiori torture per tutto ciò. Se penso a quante ragazze mi è toccato preparare...» sputò la donna con astio. Keeryahel si sforzò di restare lucida e al contempo apparire intimorita.
«Cosa mi succederà?» L'Elfa si sentì fiera del fatto che la voce le era uscita con un lieve tremito da ragazza spaventata. La donna la spinse leggermente verso una delle porte.
«Temeh ti terrà con sé per un po', finché ti troverà interessante. Poi ti affiderà a me e io dovrò rimettere insieme quello che resta di te e trovarti un lavoro in città» sospirò. Keeryahel, in qualche modo, simulò un brivido di terrore, ma nella sua mente si era accesa una furia infuocata. Non gli permetterò di rovinare altre vite, si diceva, sperando che nulla di tutto questo trasparisse sul suo viso. «Preferisco che tu sappia a cosa vai incontro, per questo sono stata così dura» riprese la donna, aprendo la porta e facendo entrare l'Elfa, e così lei comprese che la recita le era riuscita discretamente bene.
«Ad ogni modo, io sono Ellana» si presentò, tendendo una mano con sguardo triste.
«Cailis» si inventò su due piedi Keeryahel, stringendole la mano.
La stanza era calda e colma di vapore. La maggior parte dello spazio era occupato da una tinozza riempita di acqua calda.
Keeryahel iniziò a spogliarsi, abbandonando uno dopo l'altro gli abiti da guerriera in un angolo: prima il mantello, poi il corsetto e i parabracci, i pantaloni di cuoio, la tunica e la camicia. Aveva sempre vissuto con indosso abiti da combattente, tanto che poteva considerarli alla stregua di una seconda pelle, e ora le toccava fingere di essere una ragazzina spaurita. Ma avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di impedire a quel mostro di trattare come giocattoli tutte le ragazze che attiravano la sua attenzione.
L'acqua era bollente e le scottava la pelle, ma la ragazza non emise un gemito. Uscì dalla tinozza dopo una decina di minuti con la pelle arrossata dal calore e i capelli ancora più ingarbugliati. Ellana la asciugò con un drappo e poi la condusse nella stanza accanto, un minuscolo locale in cui troneggiava un grande armadio; lì la squadrò con occhio critico prima di aprire una delle ante e tuffarsi tra gli abiti. L'Elfa nel frattempo aveva avvolto il drappo intorno alla testa per far asciugare i capelli, e quando vide gli abiti che le porgeva Ellana Keeyahel non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto.
«Non dovrò davvero mettere quelle cose, vero?»
La donna la guardò triste. «Mi dispiace, questi sono gli ordini.»
«E perché continuate tutti a obbedirgli, anche se è un tale mostro?» sbottò l'Elfa. «Uccidetelo, rinchiudetelo, mettetegli del veleno nel cibo, fate qualcosa!»
«Non possiamo» sospirò Ellana. «Ancora tempo fa si è assuefatto a tutti i veleni più noti, e ha sempre intorno a sé guerrieri fedeli che imprigionano o torturano chiunque osi ribellarsi. Io ho provato a rifiutarmi di lavorare per lui, ma ha minacciato di legarmi e costringermi a guardare mentre lui e i suoi uomini stupravano le mie figlie.»
Keeryahel dovette concentrarsi per mantenere la calma. Prese un respiro profondo prima di rispondere.
«Ma dovete fare qualcosa. I suoi crimini non possono restare impuniti.»
Ellana fissò per qualche secondo le mani che torcevano la stoffa della gonna.
«In città» sussurrò, abbassando il tono di voce fino a renderlo impercettibile da chiunque oltre a Keeryahel «dicono che Anser stia organizzando qualcosa. Era il figlio del capo che Temeh ha ucciso per prendere il potere, sai. Lui vuole vendicare suo padre, e molti altri vogliono eliminare Temeh. Se vuoi, stanotte, quando lui» Ellana deglutì «avrà finito con te, posso farti parlare con Anser.»
Keeryahel annuì. Forse si azzardava a vedere una via d'uscita. Se questo Anser avesse sollevato un'insurrezione contro Temeh, lei avrebbe potuto sfruttare il caos per liberare gli altri e insieme avrebbero cercato il Craidhal.
La giovane sospirò. Senza riuscire a cancellare l'espressione di disgusto dal volto, indossò un corsetto striminzito di cuoio bianco, pieno di nastri, che la stringeva terribilmente – e aveva l'unico scopo di spingerle i seni più in alto – e una gonna di veli pressoché trasparente.
Bene. E ora devo solo riuscire a lanciare l'incantesimo in tempo, si disse con un lieve brivido, mentre seguiva Ellana nella camera di Temeh.
 
***
 
Quando l'eco del suono del chiavistello si spense nel buio, Myrindar capì di essere perduta. La cella era un pozzo circolare, la cui unica apertura – senza considerare la spessa porta di metallo, solida e senza nemmeno una fenditura – si trovava all'altezza del suolo, ad almeno cinque metri dal pavimento delle prigioni, ed era una stretta finestrella rettangolare chiusa da solide sbarre metalliche. La fievole luce plumbea che proveniva da là illuminava le sagome di Jahrien, Dane e Torg, ma presto il sole sarebbe calato e la prigione sarebbe sprofondata nell'oscurità.
La giovane tossì, coprendosi il volto con una mano, istintivamente, per ripararsi dall'odore di putrefazione che ammorbava l'aria della cella, invano; spinse via degli oggetti spigolosi e viscidi sulla cui natura non voleva indagare e si sedette con la schiena addossata alla porta, per percepire meglio eventuali rumori dall'esterno che potevano essere un indizio sul loro destino futuro. Cercava di restare lucida e non farsi prendere dallo sconforto, ma le risultava davvero difficile non scoppiare in lacrime, e dal silenzio di tomba che gravava sulla cella sapeva che anche gli altri erano nella sua stessa situazione.
Tranne forse Torg, si disse. L'uomo sembrava imperturbabile, niente lo sconvolgeva. Myrindar si appuntò mentalmente di chiedergli, una volta usciti da là, quale fosse il rapporto tra lui e quel giovane che avevano trovato sulla spiaggia.
«Dobbiamo fare qualcosa» sussurrò Jahrien in quel momento, spezzando il silenzio carico di disperazione. La cella era così piccola che anche se parlavano a bassa voce riuscivano a comprendersi perfettamente.
«Dovevamo combattere sulla spiaggia, abbiamo sbagliato là» intervenne Dane con voce cupa. «Ora non possiamo fare niente... non senza la magia di Keeryahel o un aiuto dall'esterno.»
«Non potevamo sperare di sopravvivere contro Temeh e una ventina dei suoi uomini migliori» ribatté Torg, aspro. «L'ultima volta che ci siamo affrontati io e lui mi ha quasi ucciso, e avevo ancora entrambi gli occhi. Jahrien è un ottimo spadaccino e Keeryahel ha la magia, è vero, ma Myrindar non può usare Aleestrya senza esserne soggiogata, a  me manca un occhio e tu non sei stato addestrato. Ci avrebbero uccisi senza pensarci due volte.»
«La nostra situazione attuale non è molto migliore» replicò il ragazzo.
Myrindar chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi. Era già difficile trovare uno spiraglio di luce in quella situazione melmosa senza discussioni inutili.
«Fermi, non ha senso perdersi così. Non importa cosa sarebbe successo se avessimo combattuto, ora siamo qui e dobbiamo risolvere questo
«Esatto, Mir. Hai qualche idea?» le disse Jahrien.
La ragazza prese la testa tra le mani. Un abbozzo di qualcosa sembrava emergere dalla palude di pensieri negativi, ma ancora non riusciva a visualizzarlo.
«Ci sto arrivando» rispose. Una delle prime regole che insegnavano agli apprendisti Cavalieri Erranti era che anche nei momenti più disperati c'è una soluzione, basta pensare con lucidità.
«Anser ci aiuterà» intervenne Torg.
«Ne sei sicuro?» chiese il Cavaliere Errante.
«Sì.» Il guerriero sospirò. «È per lui che ho deciso di venire. Crede che sia suo padre... e dovrei dirgli la verità.»
Jahrien distolse lo sguardo; Torg lo osservava con incredibile intensità e nella penombra il suo occhio luccicava. Myrindar, se non sapesse con chi aveva a che fare, avrebbe detto che fosse invaso di lacrime.
«Quindi dobbiamo solo aspettare?» chiese. Aveva sempre odiato le attese snervanti.
«Esatto» rispose il guerriero, tornato l'inflessibile uomo che si era sempre dimostrato. «Non è una delle regole dei Cavalieri Erranti? “In alcuni casi non fare niente è l'unica cosa da fare”.»
 
***

Aveva annodato i capelli in un'infinità di treccine, li aveva sciolti di nuovo e li aveva intrecciati ancora, gli occhi chiusi, mentre scrutava i dintorni con i suoi poteri. Ellana se n'era andata subito dopo averla accompagnata in camera e aver chiuso la porta a chiave – “Questi sono gli ordini”, aveva detto con lo sguardo colmo di dispiacere – e nessun altro si era avvicinato alla casa.
Se Keeryahel non fosse stata nella situazione in cui si trovava, avrebbe apprezzato la camera, con il tetto a spiovente di legno chiaro, il pavimento ricoperto di folti tappeti colorati e il grande letto a baldacchino – che occupava quasi interamente lo spazio della stanza – circondato da cortine color prugna e ingombro di cuscini. Ma ora avrebbe preferito essere in qualsiasi altro posto.
Sorrise lievemente mentre il cuore accelerava i suoi battiti e le mani continuavano imperterrite a intrecciare. Temeh stava salendo le scale, e non le serviva la magia per capirlo: i suoi passi pesanti facevano tremare il pavimento su cui l'Elfa era seduta – aveva scelto l'angolo più lontano possibile dal letto, e da lì aveva una perfetta visuale della porta senza le fastidiose cortine in mezzo.
Aprì gli occhi e si alzò in piedi, lasciando perdere le ultime ciocche che le scendevano informi sulle spalle. Era arrivato il momento.
La magia ribolliva dentro di lei, pronta ad esplodere, si condensava in sporadiche scintille candide che vorticavano intorno alle sue dita. L'incantesimo era complesso e richiedeva la maggior parte delle sue forze, per cui doveva riuscirle. Non c'erano altre possibilità.
I passi rimbombarono strascicati e si fermarono dietro la porta chiusa. Keeryahel si concesse un respiro profondo – per quanto l'odioso corsetto le permetteva. L'incantesimo sembrava sul punto di prendere autonomamente vita dalle sue mani, ma mancava una componente fondamentale: il contatto visivo. E quello era il problema. Non poteva prendere il controllo dei sogni di Temeh senza aver sondato le profondità dei suoi occhi.
Lo sferragliare del chiavistello che veniva sbloccato la riportò alla realtà; per concentrarsi normalizzò il respiro cercando di scacciare l’ansia, anche se il suo cuore sembrava voler esplodere fuori dalle costole.
La porta si spalancò di colpo e andò a sbattere contro la parete opposta. La sagoma torreggiante di Temeh apparve sullo stipite, barcollando. I suoi occhi assenti la individuarono dopo qualche istante, scorsero sul suo corpo seminudo accendendo il volto di un fuoco irrazionale e quasi bestiale. Keeryahel non aveva mai rimpianto tanto il suo arco; la voce dell’istinto le perforava la mente gridando di piantargli una freccia in un occhio.
Temeh mosse un passo barcollante all’interno, e Keeryahel esultò dentro di sé: era ubriaco fradicio. Sarebbe stato ancora più facile.
Se solo mi guardasse gli occhi. Alza lo sguardo, bestia, guardami negli occhi, ringhiò mentalmente.
«Sei ancora più bella di quanto sembravi. Sei una Fata?» articolò a fatica, ingarbugliandosi nelle sue stesse parole. Senza attendere risposta, le si fiondò addosso molto più rapidamente di quanto l’Elfa potesse aspettarsi. D’istinto frappose le braccia tra se stessa e l’uomo, e si trovò schiacciata tra il muro e il suo corpo. Temeh puzzava di alcol e sudore; Keeryahel trattenne un conato di vomito quando cominciò a sentire le sue mani sulle gambe, sui fianchi e poi sempre più su, mentre la protuberanza ingombrante della sua erezione le premeva sul ventre.
L’ansia cominciava a invaderle il petto. Doveva lanciare quell’incantesimo, non si sarebbe lasciata usare, ma Temeh non sembrava voler schiodare gli occhi dai suoi seni.
Le sue mani la afferrarono sui fianchi, e all’improvviso si trovò distesa tra i cuscini, immobilizzata dal peso di Temeh. Non riusciva a respirare, soffocata dall’uomo, dall’ansia e dal corsetto troppo stretto.
L’uomo cominciò ad armeggiare con i lacci del corsetto e l’Elfa si ritrasse schifata. Non poteva aspettare ancora. In un moto d’orgoglio liberò le braccia da sotto il petto di Temeh, e prima che i suoi riflessi insonnoliti dall’alcol lo allarmassero e lui si accingesse a bloccarla, gli afferrò la testa e la sollevò, incrociando i suoi occhi annebbiati e confusi.
Senza perdere un istante, Keeryahel rilasciò la magia: un lampo di luce argentea si sprigionò dalle sue mani e circondò la testa di Temeh. I suoi occhi si spensero e si chiusero nel sonno magico, il suo corpo si afflosciò contro la ragazza con tutto il peso.
L’Elfa spinse con tutta la sua forza l’uomo da sé, facendolo rotolare scomposto tra le coperte. Respirando affannosamente, Keeryahel si alzò: tremava, dovette sorreggersi alla parete per non cadere. Restò ferma, la schiena appoggiata contro il muro e il corsetto mezzo slacciato, con i nastri che pendevano disfatti intorno alla vita.
Un po’ alla volta normalizzò il respiro, e sulle sue labbra apparve un sorriso. Aveva vinto, ce l’aveva fatta. Ora doveva parlare con Anser, ma era molto più tranquilla.
Sistemò alla bell’e meglio il corsetto, senza però stringerlo all’impossibile, in modo che la coprisse; estese le sue percezioni al circondario, avvertendo due presenze. Una era Ellana, nel piano inferiore della casa che cucinava per la cena, la mente un'unica matassa di pensieri intrecciati, tra preoccupazione, angoscia e rabbia. L’altra persona era fuori dalla casa da qualche parte, Keeryahel era sicura di averla incontrata prima ma non avrebbe saputo dire dove. Senza perdere tempo, la ragazza uscì dalla stanza, aprì la porta del corridoio che Temeh aveva lasciato semichiusa e si avventurò a passo felpato giù dalle scale. I folti tappeti, dalle fantasie geometriche e colorate, le permettevano di essere silenziosa; alla sua destra, finite le scale, si apriva una stanza annebbiata dal vapore entro cui Ellana si muoveva sicura.
Le si avvicinò da un lato ma la donna non se ne accorse finché Keeryahel non le sfiorò una spalla; a quel punto Ellana cacciò uno strillo soffocato e quasi rovesciò la pentola colma d’acqua bollente che teneva in mano.
«Cailis, sei tu!» esclamò, gli occhi grandi dallo stupore e il respiro accelerato. «Credevo fosse uno di quegli animali con chissà che richiesta… ma» si bloccò, realizzando chi aveva davanti. Buttò un’occhiata fuori dalla finestra, oltre la quale si vedeva un cielo dai colori smorzati dal quale il sole era appena tramontato «come mai sei qui… ora? Temeh non ha…»
«Era ubriaco» tagliò corto lei, evitando di sbilanciarsi. «Appena arrivato in camera è crollato addormentato. Devo parlare con Anser, ora che ne ho l’occasione.»
Ellana si guardò intorno in apprensione.
«Non posso farti uscire, per cui gli dirò di entrare da una delle finestre sul retro» sussurrò. «Torna alla stanza della tinozza e apri finestra e imposte.»
Keeryahel obbedì senza pensarci due volte. Non sapeva per quanto tempo l’incantesimo si sarebbe mantenuto: il fatto che Temeh fosse ubriaco l’aiutava, ma non poteva permettersi perdite di tempo.
Sovrappensiero, seduta sulla tinozza rovesciata in modo da avere sotto controllo sia la porta che la finestra, si accorse dell’arrivo di una persona solo quando colse un movimento all’esterno con la coda dell’occhio. Dandosi della stupida scattò in piedi ed estese le sue percezioni.
L’Elfa si rese conto che la presenza che si stava arrampicando sul davanzale era la stessa che aveva percepito dopo aver addormentato Temeh. Dunque Anser stava tenendo sotto controllo la casa già da un po’.
Bene.
La presenza si materializzò in un uomo ammantato e vestito con gli abiti scuri di chi non vuole essere individuato nell’oscurità del crepuscolo. Accucciato sul davanzale della finestra le ricordava un lupo a caccia, sul punto di balzare addosso alla preda.
Prima che Keeryahel potesse proferire parola, lo sconosciuto entrò e chiuse nuovamente le imposte e la finestra, sprofondando la stanza nelle tenebre. Se prima la tenue luce blu della sera filtrava nella stanza, ora l’oscurità era fitta. Keeryahel avvertì un brivido lungo la schiena.
Non aveva acceso la lampada perché dall’esterno non si capisse dov’era, provocando sospetti, ma ora si trovava chiusa in una stanza immersa nelle tenebre con uno sconosciuto. Allungò la mano verso la lampada e la accese con una scintillina magica, sperando che l’uomo non facesse caso al dettaglio. La luce irregolare della lampada si posò dorata sulla stanza e sulla sagoma dello sconosciuto. Era davvero alto, ma non massiccio come Temeh: aveva il fisico asciutto di un giovane, le braccia che spuntavano dalle maniche erano un fascio di muscoli nervosi.
«Sei tu Anser?» chiese la ragazza a bassa voce.
Lui annuì e tolse il cappuccio con un gesto lento, probabilmente per non allarmarla.
Keeryahel dovette  trattenere un’espressione di sorpresa. Ricordava i lineamenti spigolosi, la mascella pronunciata, gli zigomi alti di quel volto, ricordava gli occhi scuri coperti da ciuffi di selvaggi capelli corvini in parte trattenuti in una coda: quel ragazzo era la sentinella che li aveva accolti alla spiaggia, prima che arrivasse Temeh con i suoi uomini a catturarli.
Dunque era lui Anser.
«Io sono Keeryahel» gli rispose, tendendo una mano. Decise che con lui era meglio rischiare ed essere sincera. «Non credo di avere molto tempo prima che Temeh si svegli.»
Il ragazzo annuì. «Sarò breve, allora. Ellana mi ha parlato di te, ha detto che sosterresti un’insurrezione.»
La fissò di sbieco come per chiedere conferma.
«Io e i miei compagni la sosterremo» rispose, decisa. «Ma i miei compagni non potranno fare nulla finché sono in prigione. E inoltre» riprese prima che il giovane cominciasse a parlare «ricorda che abbattere Temeh non è la nostra priorità, né ciò per cui siamo qui. Quello che sta accadendo nei Regni dell'Ovest non può aspettare.»
Anser ascoltò senza battere ciglio o mostrare alcuna emozione. Non era uno sprovveduto, notò l'Elfa. Sembrava del tutto certo di quello che faceva.
«Torg è mio padre» disse, fissandola da sotto quel ciuffo di capelli mossi. «Sono certo che se ha fatto credere di essere morto a Temeh e a me per quattordici anni ci sia un motivo serio, e se ora ha deciso di sprecare tutto questo per aiutarvi a trovare il talismano dev'esserci una ragione.»
Si interruppe il tempo necessario a prendere un respiro profondo, poi si volse a fissarla negli occhi. Le sue iridi nere erano infiammate di determinazione.
«Il talismano di cui ha parlato la tua amica è uno dei tesori più preziosi di Temeh. Lo rubò a mio padre quando tentò di ucciderlo... e ora, a quanto ne so, lo tiene in un luogo segreto della sua stanza.»
Keeryahel sentì il cuore accelerare. Forse una soluzione c'era.
«A molti in città farebbe comodo che Temeh cadesse. Ho parlato con alcuni di loro, e siamo pronti. Domani, se il cielo lo permette, lui e alcuni dei suoi partiranno per una razzia; a quel punto libererò i prigionieri e prenderemo il controllo del porto. Sfruttando il caos, tu dovrai frugare la stanza per trovare il gioiello, raggiungerai i tuoi compagni sulla spiaggia e ve ne andrete pressoché inosservati.»
L'Elfa annuì e non rispose. Era un buon piano, ma lo stesso distrusse il suo entusiasmo in briciole e le causò un brivido lungo la schiena: fino all'ultimo aveva sperato che Anser le consentisse di andarsene dalle grinfie di Temeh, e invece non era stato così.
«Ce la farai a sopravvivere un altro giorno?» le chiese Anser, lo sguardo intenso puntato sui suoi occhi.
Keeryahel deglutì, ma si fece coraggio e annuì ancora. Questa volta il sogno magico avrebbe fatto credere a Temeh qualsiasi cosa avesse voluto fare di lei, ma era riuscita a lanciare l'incantesimo per miracolo. Cosa sarebbe successo se Temeh fosse stato un po' meno ubriaco e lei non fosse stata in grado di usare quella magia?
«Mi dispiace» riprese Anser, e sembrava davvero rattristato «ma credo che non ci sia altro modo.»
«Lo so» sussurrò lei mentre il giovane apriva le imposte e spariva nel buio, dopo averle gettato un'ultima occhiata. «Ce la farò» promise a se stessa.







 

******* Famigerato Angolino Buio *******

In questo capitolo avrebbero dovuto esserci anche un sacco di altre cose, ma per chissà quale motivo mi sono trovata oltre le 3.500 parole solo con questo O.O
Per cui niente da fare, tutto quello che avevo in mente finirà nel prossimo capitolo, spero questo non sia stato noioso - by the way, almeno ora si è spiegato il perché del cambio di rating XD
Come sempre, la pagina di fb: Di mezzelfi, muffin e fucili laser - Cygnus_X1
Ciau! :3

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Oscurità, fiamme e discorsi ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 21

Oscurità, fiamme e discorsi



 

«E



hi!»
Bastò un sussurro per destare Myrindar dal sonno leggero e agitato in cui era caduta. Sussultò e si guardò intorno cercando di capire da dove proveniva quella voce.
«Sopra di te.»
La ragazza sollevò lo sguardo. Appoggiato sulle grate c'era qualcuno che Myrindar, con un po' di fatica a causa della penombra del tramonto, identificò come Anser.
«Ascoltami, ho poco tempo. Sveglia tutti, tra poco una delle guardie verrà a prendervi. È uno di noi, vi porterà al sicuro, io vi raggiungerò là e vi dirò del piano.»
La giovane annuì, le sfuggì un sorriso. Non le risultava difficile credere che ci fosse lo zampino di Keeryahel in tutto quello, l'Elfa non si faceva intimorire da nulla.
Anser sparì subito, in un fruscio di abiti neri. Myrindar, senza perdere un istante, si avvicinò a Jahrien per svegliarlo, ma bastò sfiorargli la spalla perché aprisse gli occhi; e lo stesso accadde con Torg. Per svegliare Dane, invece, la ragazza dovette scuoterlo per qualche istante prima di strapparlo dal sonno. Myrindar continuava a pensare che non avrebbe dovuto essere lì. Non era un guerriero, un mago o un Cavaliere, era soltanto un suo amico che aveva troppo buon cuore per lasciarla subito dopo averla ritrovata. Se gli fosse successo qualcosa, la ragazza non se lo sarebbe mai perdonata, e vista la situazione, avrebbe potuto capitare qualsiasi cosa.
In effetti, si trovò a constatare amaramente, penso che Dane sia inadatto a tutto ciò, ma io non sono affatto meglio. Sono una ragazzina dei vicoli incastrata in cose troppo grandi.
La giovane si morse il labbro per distrarsi da pensieri inutilmente tristi.
I passi di una delle guardie sul pavimento del corridoio fuori dalla porta cominciarono a farsi sentire dopo qualche minuto di snervante attesa. Si fermarono dietro la loro porta, si sentì il suono del chiavistello che scattava e infine il cigolio della porta. Un uomo con indosso una cotta di maglia, un elmo semplice e indumenti di cuoio apparve nel quadrato illuminato dalle torce. Li fece uscire uno a uno senza proferire parola, legò strettamente le loro mani dietro la schiena e cominciò a punzecchiarli con la cuspide dell'alabarda per farli camminare. All'uscita, una delle guardie si affiancò a loro per tenerli d'occhio, e li guidò oltre la piazza, in uno dei vicoli; poi continuarono ad avanzare fuori città, lungo un sentiero stretto e appena battuto nel sottobosco, in cui dovevano camminare uno alla volta.
Il cervello della giovane lavorava frenetico. Dove li avrebbero portati, e cos'era questo piano? Quanto Keeryahel aveva detto di loro? E soprattutto, l'Elfa stava bene? Myrindar si mordicchiò un labbro, preoccupata. Avevano passato solo un giorno in prigione, eppure avrebbe potuto essere successo di tutto.
Il bosco si aprì all'improvviso, infrangendosi contro una delle pareti rocciose che caratterizzavano le montagne di Kamehra, come un'onda contro una falesia. Il sentiero continuava il suo percorso inerpicandosi su di essa, serpeggiante, e perdendosi nell'oscurità di una caverna. Era là che li stavano conducendo.
La strada si fece subito ripida e pericolosa, e Myrindar ne fu sollevata: se si doveva concentrare su dove metteva i piedi, non aveva tempo per pensare ed elucubrare inutilmente. Avrebbe saputo tutto a tempo debito.
Quando raggiunsero infine la caverna, il sole era del tutto tramontato, ma l'oscurità non era ancora scesa sulla terra. In un angolo della grotta, addossati alla parete, c'erano le loro armi e i loro oggetti che qualcuno si era premurato di recuperare e portare là. Appena una delle guardie le liberò le mani, la ragazza si riappropriò della sacca e della spada, sentendosi sollevata ora che percepiva il peso dell'acciaio pendere dal fianco.
Anser apparve all'imboccatura della caverna e si rivolse subito alle due guardie.
«Non vi ha visto nessuno venire qui?»
«Nessuno, siamo stati attenti» rispose il primo uomo.
«Perfetto. Ora potete andare, raggiungete gli altri e aspettatemi.»
I due annuirono e si congedarono. Myrindar era ammirata: la prima volta che aveva visto Anser le era sembrato un ragazzo un po' sperduto, chiuso nei propri pensieri, e invece, ora che la situazione lo richiedeva, era in grado di assumere il ruolo del comandante con naturalezza, come se fosse nato per farlo.
Il giovane si volse verso di loro e la ragazza lo osservò meglio. Nonostante sembrasse sicuro di sé, forse qualche dubbio lo attanagliava, perché aveva la fronte aggrottata da un velo di preoccupazione, e gli occhi neri erano cupi.
«Questo pomeriggio Temeh e i suoi sono partiti per una razzia. Ora che gli uomini a lui fedeli non sono presenti, prenderemo il controllo della città, e voi potrete partire. A questo punto Keeryahel dovrebbe aver ottenuto il talismano che cercate; scendete in spiaggia e aspettatela là, vi raggiungerà. Ho fatto mandare un segnale al capitano della vostra nave, che era ormeggiata a poca distanza da qui. La troverete nella baia.»
«Grazie davvero, Anser» rispose Myrindar. «Apprezzo davvero molto tutto quello che hai fatto per noi.»
«Avrei preferito che combatteste con noi, sareste stati un valido aiuto. Ma Keeryahel mi ha riferito che la vostra missione non può attendere, e così sarà. Ora devo raggiungere gli altri, vi auguro buona fortuna, che il fato sia dolce con voi.»
Senza attendere risposta, il giovane si voltò e scese nel sentiero, una sagoma nera e indistinta nella penombra.
«Aspetta.»
La ragazza si voltò: Torg si era alzato, Anser, stupito, era fermo in mezzo al sentiero e si era voltato a guardare l'uomo.
«Anser, ci sono cose che devi sapere. Sono state nascoste per troppo tempo.»
Il ragazzo tornò indietro, un po' a disagio. Myrindar lo osservò sedersi di fronte alla persona che credeva fosse suo padre senza sapere cosa aspettarsi.
«Papà» dice, esitante. «Non importa per la faccenda della scomparsa, sono certo che avessi i tuoi motivi per farti credere morto...»
«No» lo interruppe Torg. «Non sono tuo padre, Anser. Fui incaricato dai tuoi genitori di proteggerti e nasconderti la verità.»
Il ragazzo restò per qualche secondo in completo silenzio; deglutì, tentò di accennare un sorriso forzato.
«Cosa significa?»
«Ero uno dei Cavalieri Erranti più importanti, ed ero il consigliere di Valair e Asheena. Loro mi hanno ordinato tutto ciò.»
La giovane dovette controllarsi per mantenere un'espressione neutra e non lasciarsi sfuggire nemmeno un gemito. Le sembrava di non cogliere un qualche dettaglio fondamentale, qualcosa di enorme in tutto ciò. Gettò un'occhiata agli altri due ragazzi: Dane sembrava confuso e sbalordito quanto lei, Jahrien era atterrito. Cosa sapeva che lei non era riuscita a comprendere?
«Non è possibile, io non... non posso crederci» mormorò Anser, lo sguardo perso nel vuoto, i capelli che a ciocche cadevano sulla sua fronte nascondendo il volto. Quando infine sollevò gli occhi verso Torg, erano colmi di furia. E di lacrime. «Mi hai mentito per una vita intera. Sei sparito nel nulla fingendoti morto... avevo sette anni, Torg. Sette. Ma in fondo perché avrebbe dovuto importarti? Non sono tuo figlio» sputò.
«Valair mi obbligò a giurare che ti avrei tenuto all'oscuro di tutto. Sei il figlio del re di Dokhet, dannazione! Se qualcuno avesse saputo di te, ora saresti morto
«E la bella fiaba della donna che non potevi sposare» riprese il giovane, le lacrime che ora scendevano senza ritegno lungo le sue guance «della nobile promessa a un altro che, rimasta incinta, partorì e ti affidò vostro figlio? Hai mentito su qualsiasi cosa.»
«Non ho mentito. È successo davvero così... ma mio figlio non sei tu. Era un'Elfa.»
Ora Myrindar aveva capito. Fissò Jahrien che, il volto terreo e gli occhi spalancati, ascoltava senza nemmeno respirare. Il suo intero mondo era stato capovolto, aveva trovato un padre che non pensava avrebbe mai incontrato... ed era stato quasi del tutto un caso.
«C'è qualcosa di vero in quello che mi hai detto, Torg?» gridò Anser, balzando in piedi, la voce spezzata.
«Mi chiamo Tarazed» sospirò l'uomo. Il giovane di fronte a lui imprecò, tirò un calcio a un sasso e corse fuori dalla grotta. Myrindar, seguendo una sensazione, e sperando di fare la cosa giusta, si alzò in piedi e lo seguì di corsa.
 
***
 
«Anser!»
Il ragazzo era soltanto una sagoma nera sul sentiero. Camminava a passo spedito senza guardarsi indietro, e per la ragazza era difficile raggiungerlo sul ripido sentiero.
«Dannazione, Anser, aspetta!»
Lui si bloccò di colpo e Myrindar poté infine avvicinarsi a lui. Si era strappato le lacrime dalle guance, ma gli occhi ancora lucidi e il volto arrossato tradivano le sue emozioni.
«Che cosa vuoi?» sbottò senza lasciarle il tempo di parlare.
«Qualunque idiozia tu abbia in mente di fare, per gli dei, non farla» esclamò la ragazza, e poi cercò di riprendere fiato. «Torg... volevo dire, Tarazed, ha fatto quello che ha fatto per una ragione ben precisa. Non vale la pena tutto ciò, e soprattutto non vale la pena annullare il piano.»
«Oh, ma che cosa ne puoi sapere, tu» sibilò il ragazzo. «Mi hai visto per la prima volta un giorno fa, non sei altro che una ragazzina, e già vuoi dirmi cosa io devo o non devo fare? Dopo aver passato tutta la tua vita tra i merletti di una corte, magari. Suppongo che tutta questa avventura ti stia divertendo, no?»
«Ho passato dodici anni della mia vita tra i vicoli cercando di difendermi meglio che potevo. E fino a qualche mese fa non potevo toccare una persona senza ucciderla. So di cosa sto parlando quando dico di non fare idiozie, non abbandonare i tuoi uomini e combattere contro quello stronzo. Hai sempre creduto che Tarazed fosse davvero tuo padre perché si è comportato come tale. Sapere che non è vero ha cambiato sul serio qualcosa?»
Anser non rispose, ma abbassò lo sguardo. Myrindar intuì che fosse un buon segno e si azzardò a continuare, ma con meno enfasi, ora.
«Non credo importi cosa è o non è Tarazed, Torg o come accidenti si chiama» sussurrò. Sembrava quasi lo stesse implorando. «Non so nemmeno io perché ti sto dicendo tutto questo, in realtà» sospirò.
«In effetti non so cosa possa cambiare per te se spodestiamo Temeh o no. Ma hai ragione» concluse lui alla fine. «Probabilmente non ci incontreremo più, per cui addio. E grazie.» Mentre parlava sollevò lo sguardo e incrociò i suoi occhi prima di accennare un sorriso e voltarsi per scendere il sentiero.
 
***
 
Il silenzio gravava pesante sulla spiaggia buia. La città era nascosta alla vista dalla fitta foresta, e Myrindar non poteva intuire nulla su come stessero andando gli scontri. Fissava il mare senza vederlo davvero, lo sguardo perso tra le ombre di Raheest, ascoltando il suono ripetitivo della risacca che non scioglieva la tensione colma di non detti. Sapeva che Anser avrebbe fatto quello che si era promesso di fare, ma non aveva idea di cosa Jahrien pensava di tutto ciò: il giovane aveva rifuggito ogni sguardo, si era chiuso nei propri pensieri costruendosi davanti una maschera di indifferenza.
Con uno sbuffo, Myrindar ruppe gli indugi. Picchiettò con le dita sulla spalla di Dane, per attirare la sua attenzione.
«Ti va di fare quattro passi?» gli propose quando si voltò a guardarla. Lui annuì, entrambi si alzarono in piedi spazzolando i pantaloni dalla sabbia e dai sassolini.
«Non ci allontaniamo dalla spiaggia, torneremo tra non molto» annunciò Myrindar, poi lei e Dane si incamminarono verso la città, con l'intenzione di accogliere Keeryahel non appena fosse apparsa.
«Myrindar» spezzò il silenzio Dane. La ragazza notò che avevano messo abbastanza spazio dagli altri due per permettere loro di parlare tranquillamente, e si sedette. La sabbia era fredda e leggermente umida, ma soffice sotto la pelle; cominciò a tracciare dei simboli astratti con le dita, spirali e linee tondeggianti.
«Dimmi.»
«Tu e Jahrien state insieme, vero?»
Myrindar sorrise.
«Si vede molto, immagino.»
Lui per qualche secondo non rispose. Da quando era diventata così brava a capire le persone? Le sembrava di leggere nel viso di Dane ogni singolo pensiero che gli stava scorrendo nella mente. Le dispiaceva per lui, un po': per qualche tempo, a Tadun, aveva pensato di essersi presa una cotta per lui, prima che i cavalieri dell'Usurpatore rovinassero tutto, ma solo ora si era accorta di come fosse stata solamente un'illusione. Con il tempo, Dane sarebbe potuto diventare un caro amico, ma nulla di più. Lui, invece, una cotta per lei se l'era presa, e a Myrindar questo spezzava il cuore.
«Si vede da come vi guardate, da come vi comportate... non è che siete sempre incollati l'uno all'altra, ma comunque sì, si vede.»
La ragazza dovette trattenersi dall'abbracciarlo dicendogli quanto le dispiacesse.
 
***
 
«Tu sei Tarazed. E sei mio padre.»
Jahrien non era stupido: sapeva che Myrindar aveva fatto quella scena per permettere a loro di parlare e chiarirsi, e appena i ragazzi si erano allontanati abbastanza, aveva rotto quel maledetto silenzio.
«Mi sembra così assurdo» continuò poi. «Mi hai addestrato per sei anni come se non mi conoscessi, come se fossi solo il figlio di una tua cara amica... perché?»
«È proibito dall'ordine dei Cavalieri, lo sai.»
«Almeno prima di fingere di morire però avresti potuto. Avevo diciotto anni, non ero più un bambino, avrei tenuto la bocca chiusa.»
«Cambia qualcosa averlo saputo ora o due anni fa?»
Jahrien non rispose. Era la stessa domanda che Myrindar aveva fatto ad Anser prima, e in effetti aveva ragione. Non cambiava nulla.
«Ma perché fingerti il padre di Anser? E cosa c'entra lui con la famiglia reale di Dokhet? Non capisco. I Gemelli erano entrambi maschi... eppure Myrindar e Layrath sono identici, e Anser ha almeno un paio d'anni in più.»
«Ho giurato che non avrei rivelato nulla sulla famiglia reale finché non si fossero calmate le acque. Ad Anser l'ho detto perché non mi sembrava giusto tenerlo all'oscuro, e per ora, qui è al sicuro dai sicari dell'Usurpatore. E mi sono finto suo padre per distogliere l'attenzione da lui, fin da quando è nato.»
Il ragazzo si prese la testa tra le mani. C'era un collegamento, un qualcosa che gli sfuggiva e che gli avrebbe permesso di capire finalmente tutto.
«Quindi, tu sei rimasto con Anser per sette anni... poi Temeh ha tentato di ucciderti, tu sei sparito e hai fatto credere a tutti di essere morto. E a quel punto sei tornato a Yndira e hai fatto in modo che io fossi assegnato a te.»
«Esatto.»
Jahrien sollevò lo sguardo per rispondere, ma qualsiasi cosa stesse per pronunciare svanì dal suo cervello appena vide Dane e Myrindar correre verso la città.
 
***
 
«Dane, che ne è stato della tua famiglia?»
«Si sono salvati. Ho detto loro di fuggire e poi ho cercato di avvisare più persone che potevo. Li ho incontrati solo dopo, ora abitano a sud di Tadun, sulle colline.»
«Sono felice che stiano tutti bene» sospirò di sollievo lei, mentre una stilettata la trafiggeva al pensiero di suo padre.
«Mi dispiace tantissimo per Mearth» disse subito dopo Dane, come leggendo i suoi pensieri. «Però Cody e Alya sono vivi...»
Myrindar non ascoltava più, distratta da un movimento al largo, nella baia. L'oscurità della notte le impediva di vedere chiaramente di cosa si trattasse, strizzò gli occhi per concentrarsi. Un lampo attraversò la sua mente quando le riconobbe: erano barche.
E le uniche persone che in quel momento avrebbero dovuto tornare di soppiatto per tendere un'imboscata a qualcuno...
Temeh.
Volevano sorprendere gli uomini di Anser alle spalle.
La ragazza scattò in piedi.
«Mya, che succede?» le chiese Dane, confuso.
«Vado in città» rispose lei, e senza attendere risposta, cominciò a correre. Sentì dietro di lei i passi affrettati del giovane, ma non si fermò a spiegare: doveva raggiungere Anser prima che lo facesse Temeh.
 
***
 
La città era in fiamme. Quando Myrindar, con il fiato corto per la corsa, spuntò dalla foresta, si rese conto che era già tardi. Oltrepassò la barricata arrampicandosi, seguita da Dane, e cercò con gli occhi la casa di Temeh, da dove Keeryahel avrebbe dovuto essere uscita già da un po'. Era l'edificio più alto e svettava a poca distanza dal luogo in cui si trovavano i due ragazzi, ma tra le labirintiche vie avrebbero potuto facilmente perdersi. Myrindar correva tra una strada e l'altra, sperando di prendere la direzione giusta e sperando di non dover combattere – anche se era consapevole di quanto questo fosse vano. Nelle sue orecchie, il ritmo del suo cuore forsennato e dei suoi passi copriva le urla delle persone e delle fiamme.
Infine, la casa di Temeh apparve davanti ai suoi occhi. Senza perdere un istante, la giovane sguainò la spada – un sibilo dietro di lei le annunciò che Dane l'aveva imitata – e si fiondò dentro la porta spalancata.
Un grido proruppe dall'oscurità e la fece sussultare. Myrindar si bloccò e abbassò l'arma, ma non la rinfoderò, pronta a qualsiasi minaccia. Una donnina minuta, con gli abiti spiegazzati e i capelli che cadevano dallo chignon disfatto, si stringeva in un angolo, con le spalle al muro, e fissava i due giovani con occhi grandi di paura.
«Non siamo soldati di Temeh» disse la ragazza per cercare di calmarla. «Non le faremo alcun male, ma dobbiamo sapere dov'è la ragazza che Temeh tratteneva qui.»
«Lei... sono venuti a prenderla, è riuscita a fuggire, credo verso il porto» balbettò la donna, tremando. «Tu sei Myrindar?»
La ragazza annuì, sorpresa.
«Mi ha detto di darti questo...» La donnina si tolse un cordoncino da attorno al collo: appeso, un pendente di cristallo trasparente intagliato a forma di stella a cinque punte leggermente irregolare, che riluceva fievole nella penombra.
«La ringrazio infinitamente, signora» le disse Myrindar prima di uscire dalla casa, nuovamente di corsa. Finalmente aveva trovato il Craidhal, dopo tutto quello che aveva passato; lo appese al collo e lo nascose sotto la maglia.
Ora però si stavano avvicinando all'incendio, cominciavano a incontrare persone che tentavano di fuggire o altre che, armi alla mano, andavano a combattere.
«Dove stiamo andando, Mya?» urlò Dane per sovrastare il caos. «Il talismano l'hai trovato!»
«Dobbiamo trovare Keeryahel!»
Dane le afferrò un braccio, fermando la sua corsa.
«Potrebbe essere già tornata alla spiaggia. Ci stiamo ficcando in un problema per niente.»
«Hai sentito cos'ha detto quella donna, la stanno inseguendo! Io non la lascio da sola nei guai.»
«Myrindar, ragiona. Come fai a trovare una persona in una città in rivolta?»
«Che cosa dovrei fare, lasciarla in balia di quella gente?» esclamò lei, esasperata.
Dane sembrò esitare.
«Va bene, cerchiamola, ma se non la troviamo in fretta torniamo alla spiaggia. Non puoi farti ammazzare, Mya.»
La città non era vastissima, ma le sue vie si contorcevano e attorcigliavano le une sulle altre quasi senza ordine. Conoscendo Keeryahel, Myrindar avrebbe scommesso che l'Elfa avesse cercato di tenersi più lontana possibile dalle persone per evitare di coinvolgerle nello scontro, per cui cercava di seguire le vie meno battute.
Proruppe, improvviso, dalla sua destra il suono di un'esplosione, e per un istante la notte fu squarciata da una luce abbacinante. La ragazza, senza esitare, deviò dal suo percorso per raggiungere quella luce: Keeryahel non avrebbe mai usato una magia tale se non si fosse trovata in pericolo.
Svoltò in una piazza minuscola, dalla forma irregolare, e restò atterrita. L'Elfa era svenuta, tenuta stretta per le braccia da due uomini abbigliati con le corazze a piastre e le tuniche blu degli uomini fedeli a Temeh. Altri la circondavano, in tutto erano circa una decina.
«Ehi, ma voi due eravate in gattabuia! Che cosa fate qui?» ringhiò uno dei soldati, sguainando la spada. Myrindar non si fece spaventare: tese una mano e già aveva evocato Aleestrya, fulmini crepitavano violetti tra le sue dita.
«Liberatela. Subito» intimò. Qualcuno degli uomini scoppiò a ridere.
«Mya...»
La giovane, allarmata dalla paura nel sussurro di Dane, si voltò e tutta la sua determinazione svanì all'istante. Un'altra pattuglia li aveva visti e si stava dirigendo verso di loro, le armi spianate.
Dovevano combattere.
Myrindar cercò di concentrarsi e chiamare a raccolta la sua magia. Era stanca dopo tutti gli avvenimenti e la corsa forsennata, ma tese entrambe le mani per cercare di bloccare quanti più soldati potesse: i lampi esplosero dai suoi palmi, fendendo l'aria e dividendosi in una tempesta viola che si abbatté sui nemici.
La testa prese a girarle e Myrindar si trovò a terra, la spada sfuggita di mano e la vista annebbiata. Che stupida, aveva speso tutte le sue energie in quella magia, e ora doveva rialzarsi e combattere. Strinse i denti e si rialzò, andando a dare manforte a Dane che da solo la stava difendendo da quattro soldati.
Fissò la spada di uno degli avversari entrare nella guardia del ragazzo e trafiggergli il fianco come se non l'avesse vista davvero. Vide il sangue scarlatto alla luce del fuoco imbrattare in poco tempo la camicia bianca, espandersi in una macchia informe. Si sentì urlare come se la voce non fosse la sua.
La spada riluceva di bagliori pericolosi, che si intrecciavano ai lampi di Aleestrya in una danza disordinata e furiosa; non c'era nulla di aggraziato o epico nei suoi fendenti scomposti e disperati e nelle scintille di magia che schizzavano in ogni direzione. Solo la rabbia animava i suoi movimenti e le dava la forza di compiere quel massacro: rabbia pura e semplice, voglia di vendetta e ira verso se stessa che aveva permesso che tutto accadesse.
Una dozzina di cadaveri tappezzavano la strada quando Myrindar si chinò sul suo amico, negli occhi la colpa di quell'errore che aveva commesso. Il respiro di Dane era corto e spezzato, le mani si stringevano sulla ferita, cremisi. Nessun altro in quella strada se non lei, corpi mutilati e un ragazzo in un lago di sangue: Keeryahel era stata portata via.
Aveva sbagliato qualsiasi cosa.






 

******* Famigerato Angolino Buio *******

Non mi uccidete T_T
Questo capitolo non mi piace proprio. È lungo, vero, ma succedono così tante cose che credo sia risultato frettoloso e pieno di cose in sequenza sparate una dietro all'altra. L'impressione è che sia una mitragliata di cose sconclusionate, ma non avrei potuto dividerlo ancora senza allungare la minestra allo sfinimento - già da un capitolo teorico me ne sono risultati tre pratici. Che dilemma T_T
Al di là delle mie paranoie che cosa pensate di tutto quello che è successo? *-* sono certa che una buona metà di queste cose qualcuno già le aveva immaginate, ma spero vi abbiano sorpreso almeno un pochino... *cespugli che rotolano*
E ancora il rapporto tra Myrindar e Layrath è un punto di domanda e Anser non fa che aggiungere casino
Tutto a tempo debito, promesso! E in realtà non è tra molto il tempo debito, in linea teorica, e mi sforzerò di non triplicare più i capitoli d'ora in avanti.
Lascio a voi il commento - per chi vorrà commentare - sul finale, con la ferita di Dane e il rapimento di nuovo di Keeryahel. E ricordiamoci che c'è pur sempre una guerra in corso, nei Regni u.u
Inoltre - questo F.A.B. sta diventando più lungo del capitolo - annuncio che *rullo di tamburi* con questo capitolo si chiude la seconda parte della storia... la conclusione si avvicina, e spero di renderla epica almeno la metà di come l'ho immaginata *-*
La smetto! Alla prossima ^^

Vy


Pagina di fb: Di mezzelfi, muffin e fucili laser - Cygnus_X1

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Attesa ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

*** Parte Terza ***
La battaglia della Capitale


C
apitolo 22

Attesa



 

S



ciabordare d'onde che si frangevano contro la chiglia, cigolii e schiocchi dei legni e delle cime tese tra vele e alberi, le voci indistinguibili dei marinai, gli ordini gridati; e poi il vento, che impattava sulla tela sospingendo la Drago Bianco verso i Regni dell'Ovest.
Solo quei suoni giungevano a Myrindar, nel buio degli occhi chiusi, avvolta nel suo mantello pesante a gambe incrociate sul cassero. La mente vuota e proiettata fuori da sé, Myrindar percepiva con straordinaria chiarezza ogni cosa – il legno umido e screpolato su cui poggiava i palmi, i ricci che le schiaffeggiavano il viso e il collo, l'odore della salsedine; il rollare ritmico della nave sulle onde, sporadici spruzzi d'acqua che arrivavano a pungolarle la pelle, il tepore del Craidhal sul suo petto, sotto la camicia.
Non era ancora l'alba e il gelo mordeva con la furia delle bestie. Pochi della ciurma erano già fuori, e nessuno dei passeggeri oltre lei e Jahrien, i cui passi verso di lei producevano leggere vibrazioni all'impatto con il legno.
«Non è saggio fare gli esercizi di concentrazione con questo freddo» mormorò il giovane, prendendo posto accanto a lei. Prima di riemergere e accelerare il respiro, Myrindar avvertì il calore e l'energia magica che promanavano da lui, e ne fu sorpresa: non era mai sprofondata così intensamente in se stessa.
«Tanto non avevo freddo» gli rispose, squassata da improvvisi brividi.
«Ma ora sì. E dovresti riposarti e dormire, sei stata sveglia tutta la notte.»
Myrindar non rispose. La notte scorsa aveva dormito poco e male, soverchiata dal senso di colpa e dalla preoccupazione. Dane era poco distante da lei, oltre una semplice parete di legno, in pericolo di vita, assistito da Tarazed e Jahrien che, sfruttando tutti i loro poteri di Cavalieri Erranti e la magia che scorreva nel sangue misto del giovane, tentavano di trattenerlo con loro.
«Come sta?» disse invece. I suoi occhi fluttuavano sul ponte senza fermarsi su nessun dettaglio, alla deriva.
«Meglio, ora. Si riprenderà, vedrai.»
La ragazza si voltò a guardarlo. Alcune ciocche sfuggivano alla treccia, che alla luce scarsa dell'aurora pareva quasi argentea, e guizzavano come fiamme fredde all'aria scoprendo le orecchie a punta, ma lui non se ne curava. I suoi occhi fissavano senza guardarle le fasce che gli avvolgevano i polsi e le mani che ne tormentavano senza sosta un brandello sfilacciato; cupi, si perdevano nell'ombra tra la fronte aggrottata e le occhiaie livide sul suo volto disfatto. Nemmeno lui aveva avuto sonni tranquilli, da quando avevano lasciato le Isole.
E come avrebbe potuto? Sua sorella è là.
La sorella di Jahrien, la sua unica amica. E Dane, che con quella guerra non aveva a che fare, ora era disteso tra le lenzuola, pallido e svenuto. E suo padre era morto, e chissà quanti altri degli abitanti di Tadun, e chissà quanta altra gente.
Ognuno di noi avrà perso moltissimo prima che tutto questo sia finito.
E lei aveva un'enorme, colossale responsabilità in quella guerra, perché solo lei poteva fermare Layrath. Di colpo il Craidhal appeso al suo collo si fece pesante.
«Cosa succederà ora?» sussurrò.
«Ho contattato Alshain in sogno, la notte scorsa» rispose lui, passandosi le dita sugli occhi per scacciare la stanchezza, «Più o meno tre settimane fa un'avanguardia elfica si è unita all'Esercito Libero. Grazie a loro – e al fatto che Layrath non sembra più partecipare ai combattimenti – sono riusciti a prendere Thora in due giorni, e da lì l'esercito di Uthrag si è scompaginato. Tra una decina di giorni arriveranno a Sham, insieme con i due plotoni di Elfi che i Consiglieri di Gylne Lyset hanno inviato. Noi risaliremo il fiume Lokra e arriveremo direttamente là.»
Myrindar spalancò gli occhi. «Vuole attaccare direttamente la capitale?!»
«Ha deciso di sfruttare quest'occasione. Potrebbe essere quella definitiva di concludere la guerra, ora che abbiamo anche gli Elfi con noi.»
La giovane non rispose, sopraffatta dalla consapevolezza che entro due settimane, forse, tutto si sarebbe concluso. Entro due settimane affronterò mio fratello.
Sarebbe stata pronta, entro quattordici miseri giorni?
No, si rispose subito dopo. Per una cosa come quella nessuno poteva essere pronto.
 
***
 
Anser.
Non vedeva nulla attorno a sé. Tenebre liquide scorrevano in ogni dove, impedendogli di distinguere il sopra e il sotto, come se galleggiasse in un nulla indefinito. La voce gli era giunta lontana, soffocata dall'oscurità, distorta fino a diventare irriconoscibile.
Anser, mi senti?
Il lampo di un ricordo apparve a illuminare quel nero. Fiamme divampavano in ogni dove; la sua gola bruciava, irritata dal fumo che lo faceva tossire; i suoi muscoli dolevano dalla fatica di continuare a combattere malgrado la stanchezza. E poi l'angolo di una strada, il lampo di una spada, il vuoto.
L'avevano tramortito e imprigionato, concluse. Doveva sforzarsi per allineare i pensieri; scorrevano melmosi, densi, come impediti da qualcosa.
Se lui era caduto significava che l'insurrezione era fallita. Oppure i suoi avevano seguito i suoi ordini e avevano seguito il piano fino in fondo, e ora la città era divisa in due e contesa?
Maledizione, Anser, ascoltami!
Conosceva quella voce, ora che la sentiva più chiaramente. Un altro lampo attraversò il buio, un volto: una ragazza dalle curiose orecchie a punta sotto i capelli biondi e grandi occhi dorati. Keeryahel.
Che ci faceva lei lì? Ma dov'era questo ?
Keeryahel?, la chiamò. La sua voce rimbombò tra le volte delle tenebre nonostante lui non avesse fiatato.
Anser!, rispose lei. Il sollievo colorava quella semplice parola, il suo nome. Non ero certa che questa magia funzionasse, ho voluto provare.
Dove siamo?, chiese il giovane. Sondava tutto intorno con lo sguardo per vederla, ma non la trovava. La sua stessa voce sembrava provenire contemporaneamente da ogni direzione e da nessuna.
In un sogno, disse. Purtroppo non posso fare altro, mi hanno addormentata perché non usi la magia per fuggire. Ci hanno imprigionati entrambi, questo era l'unico modo che avevo per parlarti.
Anser annuì, ammirato dalla sua determinazione, prima di ricordare che lei non poteva vederlo.
Va bene. Qual è il piano? Cos'è successo finché ero svenuto?
Non lo so, si rammaricò lei. Un sospiro crepitò nell'aria nera. Non riesco a introdurmi nei sogni delle persone con cui non ho avuto un contatto visivo.
Mano a mano che il tempo passava, la nebbia che gli stritolava la mente si stava disperdendo. La scoperta di questo potere posseduto dalla ragazza aveva cambiato ogni cosa: potevano andarsene. Doveva solo elaborare un piano.
 
***
 
«Cosa pensi che succederà?»
Quella mattina, non appena era salita sul ponte, aveva visto Tarazed in piedi, da solo, i gomiti poggiati sul parapetto, a prendersi il vento. Myrindar gli si era avvicinata ed erano rimasti entrambi in silenzio per qualche istante, prima che la ragazza trovasse le parole adatte per interpellare il Cavaliere.
L'uomo indugiò, forse intento a sua volta a scegliere la frase migliore, poi sospirò.
«Sangue e morte, come in ogni guerra» disse infine.
«Pensi che vinceremo?» riprovò la giovane, per nulla scoraggiata. Dovette trattenere un sorriso: nonostante lui si ostinasse a definirsi un Cavaliere Errante non più tale, la risposta che le aveva appena fornito era proprio da Cavaliere. La stessa che avrebbe detto Jahrien, probabilmente.
«Vincere.» Sembrò far risuonare la parola nella sua testa. «Se con “vincere” intendi tirare giù Uthrag da quel maledetto trono per rimetterci il legittimo erede di Valair... non sarà affatto semplice, questo sì, ma sono consapevole delle capacità di Alshain e lui conosce Sham a memoria, in ogni suo vicolo, dato che era un generale di Dokhet prima che succedesse il disastro. L'Usurpatore non è sciocco, certo, e l'assenza dell'Aleestrya dai campi di battaglia negli ultimi tempi sembra far presagire una trappola... ma se conosco Alshain, ne starà preparando qualcuna anche lui.»
Myrindar stette per qualche secondo in silenzio a riflettere. Tarazed aveva chiamato Layrath “l'Aleestrya”, la Mano d'Ombra, ma anche lei lo era. Si sarebbero fronteggiati, come i Gemelli della leggenda, anche se molte cose di quella storia sembravano non combaciare.
«In che altro modo intendevi con “vincere”, oltre a quello di riportare l'ordine nei Regni?» disse poi.
Tarazed rise piano. «Proprio riportare l'ordine nei Regni intendevo» rispose.
Myrindar si voltò a guardarlo, dubbiosa. Lui le scoccò un'occhiata sbilenca con l'unico occhio che brillava come sempre.
«C'è molto più di quel che sembra – e quel che si sa – dietro a questa storia. Non si tratta solamente di Uthrag che ha congiurato contro Valair e Asheena per prendere il potere... c'è altro che trama nell'ombra e finché non ci sbarazzeremo di quest'altro non ci sarà ordine nei Regni.»
Ognuna di quelle parole si abbatté su di lei come un quadrello di balestra. Cosa significava tutto ciò? Aveva sempre saputo che era l'Usurpatore il nemico, colui che aveva infranto la pace dei Regni.
«Di cosa stai parlando?» mormorò. Non era certa di volerlo sapere, in realtà.
«Della persona che ti ha fatto quello» rispose il Cavaliere.
Per qualche attimo Myrindar non capì. Poi vide l'occhiata che l'uomo le aveva scoccato e comprese, e l'assalirono le vertigini.
«Cosa?!» quasi gridò, con voce strozzata, mentre la mano correva al petto dove, sotto camicia, tunica, corsetto e mantello, la sua pelle era tinta del marchio di Aleestrya.
«È il consigliere di Uthrag, l'uomo che ha ordito la congiura insieme a lui. Ed è ciò che gli Elfi chiamano Zerisha Ynahar, un Sacerdote dei Demoni.»
 
***
 
Un piano per uscire da là e vendicarsi di Temeh. Nella sua mente sembrava germogliare un abbozzo di idea.
Keeryahel, puoi controllare la mente di una persona attraverso i sogni? Fare in modo che la persona faccia quello che le ordini?
, rispose lei qualche istante dopo. Cos'hai in mente?
Un modo per fuggire dalla prigione, forse.
E poi cosa farai? Era difficile dedurre le reazioni di Keeryahel dalla sua voce, ma le sembrava triste.
Incontrerò i miei uomini. Ucciderò Temeh e mi prenderò la mia vendetta. Esitò. E troverò un modo di riportarti a casa.
Non tornerai nei Regni con me, quindi. Era un'affermazione e, ora Anser non aveva alcun dubbio, Keeryahel era dispiaciuta.
No, non tornerò, disse, deciso. Le Isole Nebbiose sono casa mia, non mi importa quello che ha detto Tarazed. Si accorse che la sua voce era apparsa più dura di quello che avrebbe voluto, e se ne dispiacque. La ragazza non aveva colpa.
Sei l'erede al trono di Dokhet...
Non posso essere re, Keeryahel, ribatté lui. Non ne sono in grado.
Non è vero, replicò la ragazza, e ad Anser sembrò che la sua voce si fosse infiammata. Se fosse di fronte a lui, ora vedrebbe i suoi occhi d'oro accendersi di determinazione. Hai guidato questi uomini in una ribellione contro il loro stesso capo, hai preso il comando di un qualcosa che esisteva già da molto tempo ma che nessuno aveva il coraggio di manifestare.
Una cosa è essere un condottiero, un'altra è essere un re.
Potresti evitare una guerra per la successione!
Non lo farò, Keeryahel. Mi dispiace deluderti.
Lei sospirò, ma non insistette. Non sarò io a importi una decisione come questa, disse invece. Ma ora pensiamo a uscire da questa maledetta prigione.
 
***
 
«Un Sacerdote dei Demoni... pensavo esistessero solo nelle leggende» disse Myrindar in un sussurro.
«E invece no, purtroppo» rispose Tarazed. «Gli Zerisha Ynahar esistono, sono sempre esistiti fin dalla Guerra dei Mille Inverni, fin da quando i Demoni sono stati esiliati. E questo Sacerdote è il consigliere di Uthrag, colui che l'ha aiutato nella sua ascesa al potere e che ha marchiato te e Layrath. Aveva intenzione di creare l'Aleestrya su di voi, per usarvi come armi. Il Kratheda vi avrebbe ucciso troppo in fretta, e sarebbe stato un potere troppo imprevedibile, ma serviva per Aleestrya.»
«Quindi... sai chi sono?» chiese la ragazza. Finalmente avrebbe ricevuto le risposte alle domande che da sempre la tormentavano.
«Sì» disse il Cavaliere dopo qualche secondo di indugio. «So chi sei. E non te lo dirò, non ora.»
«Ma... perché?» urlò Myrindar, esterrefatta. Non poteva crederci. Era stata così vicina alle risposte, tanto da poterle sfiorare, e ora le sembrava che un baratro si fosse aperto all'improvviso davanti a lei.
«Ho giurato.»
«Ad Anser hai detto la verità, anche se avevi giurato!» Gli sarebbe sembrata una bambina petulante per quella replica, ne era certa, ma non le importava. Era sconvolta.
«Lui pensava che fossi suo padre, e che fossi morto. Gli dovevo una spiegazione.»
«Ma...»
«Mi dispiace, Myrindar. È per il tuo bene, meno ne sai meglio è.»
Detto questo si allontanò senza guardarla. La ragazza restò immobile a guardarlo, come pietrificata.
Quasi non si rese conto che l'uomo di vedetta, in cima all'albero maestro, aveva gridato “Terra”.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Consiglio di guerra ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 23

Consiglio di guerra



 

«T



i sei ripreso davvero» sorrise Myrindar. Era mezzogiorno e, sotto un pallido sole che non scaldava affatto l'aria gelida dell'inverno ormai prossimo, mentre attraversava il campo dell'Esercito Libero Myrindar si era imbattuta in Dane che, spada da allenamento alla mano, stava scambiando qualche fendente con alcune reclute di Yndira. Lei l'aveva salutato, il ragazzo aveva terminato il duello e le si era avvicinato, il respiro corto e il volto imperlato di sudore nonostante la giornata non fosse affatto calda.
«Già, e devo ringraziare i Cavalieri» rispose lui, accennando un sorriso mentre riprendeva fiato. Si era tolto la camicia, accaldato dall'allenamento, e la cicatrice bianca spiccava sulla pelle scurita dal sole.
«Come mai in giro a quest'ora?» chiese il ragazzo, posando la spada per sgranchirsi le braccia.
«Alshain mi ha convocata, ma è ancora presto, così facevo un giro.»
«Evidentemente i consigli di guerra non si fermano per il pranzo» sorrise Dane e Myrindar scoppiò in una risata. Il clima non era dei migliori, con l'approssimarsi sempre di più dell'attacco da parte dell'Esercito Libero alle forze dell'Usurpatore, e la ragazza apprezzò il tentativo dell'amico di sciogliere un po' di tensione.
«Così pare! Ti lascio al tuo allenamento, ora è meglio che mi avvii. A presto!» Si allontanò salutando con la mano, un lieve sorriso ancora sulle labbra. Era davvero felice che il giovane stesse bene, anche se la preoccupava questa sua smania di combattere. Doveva riuscire a convincerlo a stare fuori da quella guerra, o si sarebbe fatto ammazzare.
Nulla era cambiato rispetto alla prima volta in cui era entrata nell'accampamento, ancora lontani mesi prima: c'erano ancora i fabbri che battevano sulle loro incudini tra i vapori delle forge e le sentinelle lungo il perimetro, c'erano ancora i cavalli nelle stalle e gli stendardi partiti di azzurro e di rosso con la punta di lancia d'oro che garrivano al vento freddo; allo stesso tempo, l'angoscia si era fatta pressante, come se appesantisse l'aria e rendesse difficile respirare.
Myrindar costeggiò la zona in cui erano accampati gli Elfi sbirciando con malcelato stupore tra le tende della tinta delle foreste. Erano pallidi ed eterei nelle loro armature di cuoio su cui spiccava lo stemma di Gylne Lyset – un falco d'argento incoronato d'oro su campo verde –, ma si comportavano esattamente come i loro commilitoni umani: sedevano intorno ai fuochi cantando canzoni di guerra nella loro lingua fluida, si allenavano, si occupavano degli armamenti.
Due di loro, che arrivavano dalla direzione opposta alla sua, si fermarono a farle un cenno con la testa, e uno di essi, a bassa voce, mormorò:
«Che il Fato ti sia favorevole, Odahir.»
Poi proseguirono la loro strada, lasciandola, sbalordita, a seguirli con gli occhi.
Scosse la testa. Sapeva cosa significava Odahir, era la parola elfica per “Marchiata”, ma non aveva idea che gli Elfi la tenessero in così gran considerazione tanto da salutarla per strada e augurarle una buona sorte – soprattutto dopo quello che era successo quando era stata a Gylne Lyset. Molte cose erano cambiate da allora, e questo sembrava essere un'ulteriore prova.
«Tu!»
La ragazza sussultò e si voltò. Dall'interno dell'accampamento elfico si stava facendo avanti di gran carriera un soldato, avvolto in un mantello color terra che svolazzava dietro di lui a ogni passo. Portava i capelli color miele tagliati a spazzola, sulla sua fronte stava il diadema di bronzo degli alti ufficiali; teneva la mano stretta sull'impugnatura della sua spada ricurva e puntava dritto verso di lei, il volto distorto in un ringhio, scostando di malagrazia chiunque gli intralciasse il cammino.
Myrindar si fermò e aspettò l'Elfo, tesa. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato: non le serviva chissà quale sforzo di fantasia per intuire chi fosse il guerriero che stava per affrontare.
«Colonnello Faruad» lo salutò, chinando la testa e portando il pugno sinistro alla spalla destra, come era usanza tra i soldati elfi.
«Niente convenevoli, Odahir» sputò lui, acido, calcando sull'ultima parola. «Dimmi dov'è mia figlia. Esigo saperlo.»
«Vostra figlia è alle Isole, signore» rispose lei, con voce atona.
«E perché mai» riprese lui, muovendo un passo avanti, «un ufficiale della Guardia Elfa, incaricato dal Consiglio di scortare un'Odahir umana alla Sorgente, ora si trova alle Isole, a chilometri di distanza da dove dovrebbe essere, ossia qui, con il suo esercito?»
Myrindar si morse le labbra per non replicare a tono. Keeryahel le aveva raccontato il modo in cui suo padre l'aveva sempre trattata, e l'istinto di manifestare all'ufficiale tutto il disprezzo che provava la stava tormentando. Lei non era un Cavaliere Errante a tutti gli effetti, poiché non aveva completato l'addestramento né affrontato l'investitura, e quindi non era davvero un capitano dell'Esercito Libero, però era l'Aleestrya, e la sua importanza strategica nell'imminente scontro le garantiva una certa libertà, pari a quella degli ufficiali; ma insultare un colonnello elfo avrebbe scatenato un putiferio. Già l'alleanza tra le due razze poggiava su colonne di vetro, pronte a spezzarsi alla minima scossa; un incidente diplomatico proprio ora, e soprattutto tra Faruad, il meno conciliante degli Elfi, e lei, l'unica donna dell'esercito umano e già oggetto di dicerie affatto lusinghiere, si sarebbe rapidamente trasformato in una catastrofe.
«È stata una libera scelta di sua figlia a portarla con me alle Isole» disse, quindi.
«Mia figlia non avrebbe mai fatto una cosa simile» ringhiò lui. Myrindar era certa che il disgusto che provava per lui trasparisse dalla sua espressione, e non fece nulla per nasconderlo.
«Mi dispiace, signore, è la verità. Potrà chiederlo personalmente a sua figlia quando tornerà. Forse non la conoscete bene quanto credete.»
La mano di Faruad scattò, qualche centimetro di lama baluginò dal fodero.
«Questa è insubordinazione!»
«Sto dicendo la verità, signore. Se non credete alle mie parole potrete sempre discorrerne con il generale Alshain. Ora, chiedo scusa, ma sono stata convocata dal generale. Nerìl Harkray, colonnello Faruad» concluse, congedandosi con la formula di rispetto elfica; e prima che lui potesse replicare, lei si era esibita nel saluto e se n'era andata per la sua strada.
 
***
 
Anser aprì gli occhi. Lo accolse il soffitto umido della sua cella, sopra di lui, e il ticchettio di una goccia d'acqua che cadeva ritmica formando una pozza in un angolo.
Respirò profondamente. La testa gli faceva male, e il dolore si concentrava in un punto a destra, poco sopra l'orecchio, dove l'avevano colpito per stordirlo.
Provò ad alzarsi a sedere, e la vista vorticò per qualche istante.
Merda, inveì il giovane. Come poteva andare a combattere contro Temeh se non riusciva nemmeno ad alzarsi in piedi?
Si sforzò di ergersi sulle gambe; sollevato, notò che più si muoveva più il dolore alla testa pareva ritirarsi. Strinse i denti: non aveva altra occasione. Quella notte si sarebbe preso la sua vendetta.
Misurò la cella a passi lenti, mentre il torpore si diradava dalla sua mente. Keeryahel avrebbe fatto in modo di liberarlo, lui doveva solo tenersi pronto.
Keeryahel. L'aveva sopravvalutato: lui non era in grado di governare un intero regno, né di pensare al bene di un popolo. Voleva solo la sua vendetta.
Non importava che Tarazed non fosse davvero suo padre, né che non fosse stato ucciso davvero da Temeh. Voleva vendetta per ogni volta che gli aveva reso la vita impossibile; la voleva per quelle persone che Temeh aveva massacrato solo perché gli si erano opposte, la voleva per quelle ragazze che aveva usato per poi gettarle via come bambole rotte una volta che non lo divertivano più. Temeh aveva privato lui e la gente delle Isole Nebbiose della libertà, e gliel'avrebbe fatta pagare.
La serratura della sua cella scattò. Con un cigolio metallico, la porta si aprì verso l'interno di uno spiraglio, una lama di luce fendette la penombra.
Anser spalancò la porta del tutto, tirandola verso di sé. Una figura capitombolò a terra, impacciata. Era una delle guardie, ma aveva gli occhi completamente bianchi, come svuotati. Keeryahel era entrata nella sua mente e l'aveva manovrato fin lì.
Il giovane spogliò il soldato, indossando in fretta i suoi abiti e le sue armi. La ragazza gli aveva detto come raggiungerla, durante il sogno; Anser si mosse cauto lungo i corridoi, nascondendosi negli anfratti poco illuminati ogniqualvolta sentiva il suono di passi in avvicinamento.
Impiegò molto tempo per raggiungere la sua cella, più di quanto avrebbe voluto, ma si assicurò che nessuno lo notasse. Una volta là, si infilò in una cella vuota.
Una guardia sorvegliava l'ingresso della cella di Keeryahel. Doveva avvicinarsi senza farsi notare, o il soldato avrebbe dato l'allarme e addio effetto sorpresa. Forse, però, vestito come uno di loro, avrebbe potuto avvicinarsi di più.
Non aveva altra scelta.
Ruppe gli indugi. Uscì dalla stanza e si diresse a passo sicuro verso l'uomo. Questo non si allarmò, e Anser esultò mentalmente.
Il giovane si avvicinò e un lampo passò negli occhi della guardia. Provò a urlare, ma Anser previde le sue intenzioni, sguainò la spada e fendette l'aria in un unico movimento. Uno squarcio cremisi si aprì sulla gola del soldato, subito sopra il margine della cotta di maglia. Cadde, lo stupore ancora nello sguardo.
Anser imprecò. Frugò tra le chiavi, inserendole una dopo l'altra nella serratura.
Dannazione!, sputò, mentre scorreva il mazzo, una chiave dopo l'altra. Infine, la serratura scattò.
Keeryahel era distesa riversa al suolo, i polsi stretti dietro la schiena da una corda. Il ragazzo la scosse per una spalla.
«Keeryahel, svegliati. Dobbiamo uscire!» sibilò tra i denti.
Nulla stava andando per il verso giusto.
Un lieve gemito proruppe dalle labbra della giovane distesa.
«Keeryahel!» la chiamò ancora Anser, rassicurato. Lei aprì gli occhi.
«Anser...» Lei si rialzò a fatica. «Ho bisogno di ritrovare le mie armi, hai idea di dove...»
«Non c'è tempo» la interruppe lui, tagliando le funi e liberandola. «Vai al porto. Se parti in fretta puoi raggiungere i tuoi compagni, i miei uomini conoscono molto bene questi mari.»
Keeryahel lo guardò negli occhi. L'intensità delle sue iridi d'oro era tale che lui d'istinto trattenne il respiro. Se fosse stato in una qualsiasi altra situazione, meno critica, si sarebbe perso in quell'oro, ma ora non poteva. Doveva adempiere alla sua vendetta.
«Non ti lascio da solo contro uno come lui. E ho un conto in sospeso con lui.»
«Ma...»
«Niente ma. Vengo con te.»
 
***
 
Alshain spuntò dall'ingresso del suo padiglione e l'accolse con un'occhiata cupa.
«Cos'è questa faccenda che devo rispondere delle tue azioni a Faruad?» chiese, fissandola in tralice mentre oltrepassava le sentinelle e lo seguiva all'interno della tenda di comando.
«La mia fama mi precede, sembra» sputò lei, ancora alterata dalla discussione.
Il generale le rivolse uno sguardo di ghiaccio. «Questa guerra è già abbastanza complicata senza che gli Elfi pretendano la tua testa.»
Myrindar sospirò. «Hai ragione, mi dispiace. È che... ho lasciato Keeryahel in balia di quelle persone e ora suo padre, che non si è mai preoccupato di lei se non per usarla come motivo di vanto tra i suoi pari, mi accusa di non essermi impegnata abbastanza per tirarla fuori da là?»
«Lo so, Myrindar, ma dobbiamo scendere a compromessi con gli Elfi, o non sconfiggeremo Uthrag.»
Lei annuì. Maledisse la tensione che la attanagliava: in un'altra occasione non si sarebbe lasciata andare in questo modo.
All'interno del padiglione del generale, quello stesso nervosismo sembrava decuplicato, la giovane poteva quasi sentirne l'odore. Al suo ingresso, le animate discussioni di cui aveva sentito stralci fin da fuori si erano spente. Sei paia d'occhi si erano fissati su di lei, mettendola a disagio.
Alshain le indicò uno sgabello accanto al grande tavolo ingombro di pergamene, appunti e dati di tutti i tipi che occupava buona parte del padiglione, e lei si sedette senza fiatare. Il generale la presentò ai presenti come l'Aleestrya, e lei sfruttò quei secondi per esaminare le persone sedute al suo stesso tavolo.
Oltre ad Alshain, conosceva solo altri due uomini: uno era Tarazed, che nonostante l'apparenza calma doveva essere furioso, a giudicare da come socchiudeva l'unico occhio; l'altro, seduto accanto a lui, era il suo secondo, Bessar, il quale era stato Maestro dell'Ordine dei Cavalieri Erranti dopo che Tarazed aveva fatto credere di essere morto e aveva nuovamente ceduto il posto a quest'ultimo quando era tornato dalle Isole; sarebbe stato Bessar a condurre i Cavalieri in battaglia, dato che Tarazed, senza un occhio, non era più in grado di combattere. Era un uomo imponente, sui trent'anni, dalla pelle color ambra, chiaro indizio della sue origini dai Regni dell'Est, e una lunga treccia di capelli ramati. Bessar, a differenza del suo superiore, non faceva il minimo tentativo di nascondere il suo disappunto, che traspariva dalle braccia incrociate e dalla mascella contratta.
Di fronte a loro stavano i due generali elfi. Myrindar li conosceva solo di nome: Jadaran, l'Elfo dai lunghi capelli rossi abbigliato con una tunica viola, la fronte ornata dal diadema al cui centro era incastonata una pietra opalescente, era a capo dei reparti di maghi; Talja, invece, era la comandante dell'esercito e Myrindar la trovava inquietante, con la testa calva e gli occhi color argento circondati da tatuaggi di guerra che scendevano in due spirali lungo gli zigomi.
Seduto accanto alla ragazza stava Nemanar, furioso come non l'aveva mai visto. Il capo dei mercenari – un giovane alto, dal fisico nervoso, i capelli acconciati in una miriade di treccine e impiastricciati di tintura violacea – sembrava sul punto di scattare in piedi e sguainare lo spadone che teneva allacciato alla cintura. I suoi occhi mandavano saette.
L'unico che non pareva essere affetto dall'aria di tempesta che permeava il consiglio era un ragazzo – o una ragazza? Myrindar non lo capiva – che doveva essere poco più grande di lei e aveva un aspetto curioso, tanto che la giovane dovette sforzarsi per non fissarlo. Era minuto, smilzo, e l'impressione era accentuata dal fatto che sedeva tra le due incombenti figure di Talja e Nemanar. Malgrado non facesse affatto caldo, indossava soltanto una tunica di lino grezzo, color panna, che lasciava scoperte le spalle e le braccia appesantite da una moltitudine di bracciali di cuoio intrecciato, pietre dure e bronzo. Aveva la pelle olivastra e il viso triangolare, sfuggente, sormontato da una massa di fitti ricci castano chiaro, a stento trattenuti da una fascia di stoffa, che si riversavano sulle sue spalle magre e gli facevano guadagnare una spanna in altezza. Appariva perfettamente rilassato, la schiena posata sullo schienale della sedia, gli occhi dall'iride color nocciola che scivolavano su ciascuno dei presenti mentre le dita sottili intrecciavano agilmente alcune striscie di cuoio tra di loro.
Doveva essere il capitano dei Selvaggi, concluse Myrindar. Aveva sentito del loro arrivo al campo pochi giorni prima. La giovane non aveva mai visto uno degli uomini di Ashihntra prima di quel giorno, ma conosceva di fama uno dei più grandi segreti del loro popolo: l'ajamala, una polvere nera che solo i migliori tra i loro alchimisti sapevano produrre, e che si raccontava potesse incendiare qualsiasi cosa.
«Ora che è qui anche l'Aleestrya possiamo continuare da dove eravamo rimasti.» La voce di Alshain la riportò alla realtà.
«Non c'è molto da dire» replicò duramente Bessar. «Non manderò i miei uomini al macello in uno scontro frontale.»
«Non vedo cos'altro potremmo fare» ringhiò Nemanar. «L'unico modo che abbiamo è entrare in città. Non possiamo reggere un assedio a lungo, tra poco sarà inverno!»
«Manteniamo la calma» intervenne in quel momento Jadaran. «Nemanar ha ragione. Un assedio è fuori discussione, dobbiamo prendere la città prima dell'inverno. Dobbiamo entrare in città.»
Tarazed scosse la testa. «Non se ne parla. Non siamo tanti più di loro, non possiamo permetterci così tante perdite per entrare; loro hanno il vantaggio di conoscere molto meglio di noi il terreno e chissà quali trappole sta piazzando l'Ynahar.»
«E cosa suggeriresti, dunque?» ribatté lo Stratega elfo. Anche lui cominciava a perdere la pazienza. «Credi forse che usciranno, ben sapendo che sarebbero in inferiorità numerica e tattica?»
«Nell'ultima battaglia la nostra cavalleria gliele ha date di santa ragione, Tarazed! Non usciranno mai da là» lo interruppe il mercenario.
«Potrebbe non essere una cattiva idea, invece.» La voce di Talja, gelida, fece voltare tutti verso di lei. Aveva un accento particolare, sibilante, notò Myrindar. «La cavalleria è la nostra risorsa migliore, e in città sarebbe sprecata. Usiamo l'ajamala per appiccare un incendio più esteso possibile, in modo che non riusciranno a spegnerlo nemmeno con l'acqua del fiume. A quel punto saranno costretti a uscire, o a morire là. E in ogni caso sarebbe un vantaggio per noi.»
«Lo sarebbe se volessimo distruggere Sham, ma non è questo il nostro obbiettivo» disse Alshain, nella voce una nota d'acciaio. La comandante elfa non gli andava molto a genio, considerò Myrindar.
«E allora hanno ragione gli altri. Dobbiamo entrare» concluse lei, con lo stesso tono affilato. La ragazza trattenne un brivido.
«Usiamo i tunnel. Sham è una città antica, possedeva numerosi sotterranei. Di uno conosco l'ubicazione, liberarlo dalla terra sarà veloce. Ne scaviamo un altro paio, li usiamo per inviare tre squadre in città e aprire le porte all'esercito.»
«Come è successo alla disfatta di Thora, Bessar?» chiese Alshain. Sembrava prendere in considerazione la proposta.
«Esatto.»
Myrindar cominciò a chiedersi come mai Alshain l'avesse voluta a partecipare. Erano tutti discorsi troppo tecnici perché potesse dire la sua.
«Non funzionerà» sentenziò Jadaran. «Se lo aspettano. E se non è servito quando avevate dalla vostra la sorpresa, come potrebbe essere efficace ora?»
«Potrebbero non aspettarselo, proprio perché l'abbiamo già fatto» disse il Cavaliere.
«È un salto nel buio.» Tarazed scosse la testa. «Abbiamo a che fare con uno Zerisha Ynahar, non possiamo rischiare così tanto.»
«Il problema è che dobbiamo essere veloci. Hanno tanti di quegli arcieri, là sopra, che prima che ce ne accorgiamo siamo già tutti dei puntaspilli. Sfruttare la cavalleria è l'unica soluzione» insisté Nemanar.
Myrindar sbirciò il Selvaggio. Sembrava concentrato sulle sue cordicine intrecciate, come se nulla di tutto quello lo toccasse.
«Dobbiamo cogliere di sorpresa gli arcieri...» Talja portò la mano al volto e cominciò a picchiettare le labbra con un dito, pensando. «Alshain, c'è una mappa di Sham?»
Il generale scostò senza troppa cura il caos di fogli spiegazzati e fece comparire una grande mappa che ritraeva la capitale e le pianure circostanti.
«Attacchiamo dalle quattro porte» disse, indicandole sulla carta. «Quattro cariche sincronizzate. Sfruttiamo il buio per posizionarci. Abbattiamo le porte. La fanteria segue la cavalleria ed entra in città subito dopo. Non se ne accorgeranno prima che sia troppo tardi.»
«Potrebbe essere la soluzione.» Nemanar si alzò in piedi per osservare meglio la mappa. «Tra quattro giorni sarà luna nuova. Ed è autunno inoltrato, avremo abbastanza ore di buio per preparare tutto.»
«Si aspetteranno un attacco la notte di novilunio, però» obiettò Tarazed. «Aspettiamo qualche giorno. Non abbastanza perché ci sia luce, ma sufficiente perché siano stressati.»
«Hai ragione» concluse Bessar. «Si chiederanno come mai non li stiamo attaccando. Temeranno qualcosa di grosso. E quando attaccheremo davvero la paura provocherà ancora più caos.»
«Ho un'idea migliore.»
Sulle prime, Myrindar non capì chi era intervenuto con quella voce sottile, da ragazzina; e, a giudicare dagli sguardi spaesati, nemmeno gli altri. Poi realizzò che il Selvaggio – anzi, ormai l'aveva capito, la Selvaggia – era in piedi, gli occhi che luccicavano di sfida.
Tese un braccio esile in un tintinnio di bracciali.
«Se non abbattete al primo colpo le porte resterete in balia di frecce, pece e chissà che altro. Qui, su questa mappa, sono disegnate delle grate, e questo basta per confermare che non riuscireste a oltrepassarle con la carica.»
La sua voce si spense nel silenzio. «Bessar» disse poi, prima che qualcuno potesse riprendere a parlare, «indicami il condotto sotterraneo di cui parlavi.»
Il Cavaliere Errante, la fronte aggrottata, sfiorò la carta seguendo una direzione precisa. «Parte da qui, non distante dalla Porta del Fiume, e prosegue verso sud-ovest per un tratto, fino a quest'altura.»
«Perfetto. Se dovessimo scavarne altri due, come avevi proposto, dove suggeriresti di farlo?»
«Uno partendo dall'accampamento, naturalmente. Non lo concluderei in linea retta, però, ma devierei leggermente verso est, qua, dove le mura sono meno spesse e sarebbe più facile attraversarle. Il terzo invece lo scaverei qui, da sud-est verso nord. Qui c'è l'ansa del fiume, e la terra è più friabile. Questo potrebbe dare problemi di stabilità al condotto, ma credo che siano facilmente risolvibili. E non abbiamo tutto il tempo del mondo, per scavare.»
«In cosa consiste la tua idea, Izlaj?» chiese Alshain, dando voce alla curiosità di tutti. La ragazza tese le labbra in un mezzo sogghigno.
«Vi propongo questo: scaviamo i cunicoli come suggeriva Bessar, ma solo fin sotto le mura. Piazziamo là l'ajamala e facciamola detonare in contemporanea con l'inizio della carica. Le mura crolleranno nei tre punti aprendo varchi per la cavalleria, che entrerà in città seguita dalla fanteria. Il caos non farà che aiutarci. Che ne dite?» concluse, sorridendo come un bambino di fronte a un vassoio di biscotti.
«Le mura sono incantate dall'Ynahar. Non so che incantesimi ci abbia intessuto, ma questi potrebbero impedire l'esplosione» obiettò Tarazed.
«Ma noi abbiamo un Elythra» ribatté lo Stratega elfo. «Eeshiv mi ha parlato degli incantesimi sulle mura. Con le sue istruzioni possiamo scioglierli.»
«Può funzionare» mormorò Alshain. «Ci sono molte incognite da sistemare, prima, e dovremo essere coordinati al secondo, ma... può funzionare.»






 

******* Famigerato Angolino Buio *******

Ebbene, questo capitolo doveva comprendere molte altre cose. Ma, come sempre, i miei capitoli hanno questo vizio di sdoppiarsi come le amebe -.-'
Per quanto riguarda la strategia, devo fare una statua al mio migliore amico e a mio fratello, che in un modo o nell'altro mi hanno impedito di scrivere cazzate troppo evidenti. Almeno, se qui ci sono cazzate, sono abbastanza stealth da essermi sfuggite :3
E boh, null'altro da dire, se non che vi aspetto tutti per la battaglia finale *-*
Alla prossima!

Vy

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Malinconia e speranza ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 24

Malinconia e speranza



 

I



l silenzio dell'accampamento non era mai stato un silenzio completo. C'erano troppe persone, presenze, anime perché la notte non ne fosse in qualche modo turbata; anche quella precisa notte, che le leggende raccontavano come il momento in cui il mondo degli spiriti sfiorava il mondo dei vivi, là, nel cuore del campo, appariva meno spettrale ai suoi occhi.
Lei non aveva mai creduto più di tanto alle dicerie sulla Notte degli Spiriti, forse perché il suo potere di percepire l'aura magica attraverso il marchio le consentiva di verificare che non c'era nulla  di diverso rispetto a qualsiasi altro momento. Però ne era comunque, in qualche modo, suggestionata.
Il primo novilunio d'inverno. La notte in cui tutto può succedere, diceva la tradizione.
Appena un anno prima, Myrindar aveva passato tutto il tempo a raccontare fiabe del terrore a Cody alla luce di candele di cera verde. Ora era seduta sulla terra battuta, in una tenda sgangherata; i soffici bagliori delle candele erano stati sostituiti dalle lingue di fuoco delle torce la cui luce filtrava oltre il tessuto, al posto delle storie c'erano i respiri di un intero esercito e i passi regolari delle sentinelle di pattuglia.
Cody... Altair, si corresse mentalmente. Era giusto che ora usasse il suo vero nome, e non il soprannome che gli aveva dato suo padre, ora che Mearth era morto. Aveva dodici anni ormai, e con tutto quello che era successo doveva essersi trovato costretto a crescere in fretta. La ragazza non se la sentiva più di riferirsi a lui con il nome della specie di scoiattoli che vedevano tutte le primavere dietro casa, e che lui adorava così tanto da meritarsi quello come soprannome.
Dodici anni... l'età che aveva lei quando Jahrien l'aveva salvata. Ma Altair non aveva incontrato nessun Cavaliere Errante, quella notte di quasi un anno prima, né l'aveva incontrato Mearth, o sarebbe ancora vivo. No, i cavalieri in cui si erano imbattuti loro erano tutt'altro.
Percepì il sapore del sale sulle labbra e solo allora si rese conto che stava piangendo, aveva le guance del tutto inondate di lacrime. Si sentiva svuotata. Le mancava la sua famiglia, le mancava Jahrien, anche se il ragazzo dormiva a qualche tenda da lei. Non voleva disturbare il suo sonno, era tornato quella sera da una ricognizione durata un'intera settimana; ogni persona in quel campo, di fronte alla battaglia imminente, provava il suo stesso sgomento, perché lei avrebbe dovuto fare pesare a Jahrien, che già aveva molto a cui pensare, la sua stupida malinconia?
Si strappò le lacrime dalle guance, si alzò in piedi di scatto gettando di lato le coperte che si era avvolta intorno e scostò il drappo che faceva da ingresso. Cominciò a camminare a caso per l'accampamento.
Non guardava dove stava andando e nemmeno le importava. Voleva solamente zittire la tempesta che le infuriava nella mente.
Superò le ultime file di tende e si trovò alle capanne dei rifornimenti. Oltre quelle, solo il perimetro sorvegliato dalle sentinelle, la barricata e poi la pianura. Lì, però c'era un po' di buio e più tranquillità. Aggirò la capanna più vicina e posò la schiena sulla parete; chiuse gli occhi e si concesse un lungo sospiro. Il legno sotto i palmi delle mani era freddo, come anche l'aria del buio, e lei era uscita solamente con addosso la tunica e il giustacuore di lana. Finché si muoveva, animata da quel sentimento cui non sapeva dare nome, a metà tra frustrazione e nostalgia, non aveva sentito il gelo, ma ora era scossa dai brividi.
Quattro giorni. Quattro giorni e potrei essere morta. Esalò un lungo respiro mentre la consapevolezza si faceva strada dentro di lei e la atterriva.
Colse un movimento alla sua sinistra, nel buio della capanna accanto. Eeshiv le stava venendo incontro con il suo incedere fluido nella sua lunga veste bianca; la chioma baluginava del suo lieve chiarore e lo faceva assomigliare agli spiriti che, secondo le leggende, quella notte facevano la loro apparizione nel mondo.
Lo salutò con un cenno della testa. Lui le si avvicinò e si posò alla parete accanto a lei, lo sguardo vago, diretto all'orizzonte.
«Come procede il piano?» mormorò la giovane.
«Come previsto» rispose. Per qualche istante, tra loro restò solo il silenzio della notte.
«Non mi aspettavo che accettassi» disse Myrindar dopo qualche istante. «Di farti coinvolgere nella nostra guerra, intendo.»
«C'è uno Ynahar dietro tutto questo. Non è solo la vostra guerra.»
«Lo sapevi? Per questo hai voluto venire con noi» chiese lei, stupita. Eeshiv annuì.
«Lo sospettavo. Solo un Sacerdote dei Demoni potrebbe tracciare un Kratheda così potente. La Regina mi consigliò di non esporre la mia ipotesi finché non ne fossi stato certo, per non diffondere il panico, e così ho fatto.»
«Dovete odiarli davvero molto, i Demoni – considerò la ragazza – per voler combattere con così tanta forza gli Zerisha Ynahar...» Il freddo le strappò un altro brivido, ma lei si strinse nelle braccia e lo ignorò.
«Non è odio» rispose lui, voltandosi a guardarla. «Né noi né le Fate conosciamo l'odio. Io stesso ho sentito questa parola la prima volta solo quando sono salito tra di voi.»
Myrindar aggrottò la fronte. Era stanca, infreddolita e i suoi pensieri sembravano scorrere viscosi come pece.
«Non capisco» disse.
«Non mi aspetto che tu lo faccia. Voi razze giovani – Uomini, Elfi, Selvaggi, Nani e tutti gli altri – non potete conoscere il bene o il male assoluti, non fa parte di voi. Ma è per questo che Fate e Demoni – e come loro noi, gli eredi – continuano quest'incessante duello: è un'inclinazione naturale, come l'acqua che scende dalle montagne al mare, o il fuoco che produce calore.»
Myrindar non parlò. Eeshiv aveva ragione, continuava a non comprendere e nemmeno riusciva a immaginare. Come doveva essere provare quell'irrefrenabile istinto a combattere?
«Non è stancante questa guerra eterna?» mormorò poi. Eeshiv la guardava e il suo viso appariva sereno, persino in un momento come quello, a un passo dalla battaglia, come se nulla potesse turbarlo. E probabilmente era davvero così, si disse la ragazza.
«Dovrei essere io a chiedertelo, non credi? Vi combattete, uomini contro uomini, e trovo che sia incomprensibile. I nostri nemici, i Demoni, sono l’opposto di ciò che noi siamo, ma voi… vi uccidete tra fratelli.»
Myrindar incassò il colpo e non rispose. Non sapeva se avesse detto la parola “fratelli” proprio in riferimento a lei e Layrath o semplicemente come metafora, ma l’avvertì come una pugnalata in profondità dentro di sé. Ancora non le era affatto chiaro cos’era successo in passato tra Tarazed, i due vecchi regnanti – i suoi genitori –, Layrath, Anser, lei stessa e l’Usurpatore. Sembrava tutto così confuso… e lo Ynahar, in questo, che ruolo aveva? Sospirò.
«Non dovresti crucciarti per i fatti passati. Verrà alla luce la verità.»
«Non ne sono così sicura, invece» disse, piano.
«E questo ti turba così profondamente?»
La giovane spostò lo sguardo in lontananza. Sull’orizzonte veleggiava una stella candida che risplendeva di una luce secca e definita, diversa dai bagliori riverberanti delle sue compagne. Vardren, il Viaggiatore, la chiamavano nel regno di Amikar. Chissà se lì aveva un altro nome.
«Vorrei solo capire chi sono» sussurrò.
«Sei giovane. Hai tempo per trovare la risposta.»
Sempre se non muoio tra quattro giorni, pensò.
«Rientra, Myrindar. Stai tremando» le disse Eeshiv, piano.
Lei annuì. Salutò il maestro con un lieve inchino e prese la strada dell’accampamento, cercando di orientarsi. Intravide gli stendardi dell’Esercito Libero e a fianco il simbolo di un orso ruggente nero su fondo rosso, il simbolo dei reparti di fanteria yndirana.
Si sentiva congelare, ma non era il freddo dell’inverno che doveva scacciare, quanto piuttosto quello della malinconia. E contro un freddo come quello, che le artigliava l’anima, poco potevano le coperte o una tisana bollente.
Procedette tra le tende addormentate e le braci ormai morenti dei fuochi da campo, sola. Oltrepassò il campo dei maghi elfi, ornato dal vessillo viola con il sole d’oro, e infine si trovò tra i levrieri neri sovrastati dalla stella cremisi in campo bianco dei Cavalieri Erranti. Il suo giaciglio era a pochi passi, la tela afflosciata da un lato.
Gettò uno sguardo alla sua sinistra dove, a una cinquantina di passi di distanza, incuneata tra i resti di un falò e il padiglione di comando di Tarazed, distinse la tenda di Jahrien. Senza esitare, si voltò e si diresse verso di essa, si accostò al lembo che chiudeva l’entrata.
«Jahrien, sei ancora sveglio?» lo chiamò in un sussurro. Dall’interno le giunse solo il silenzio.
Non avrà sentito, si disse. Oppure semplicemente sta già dormendo, cosa che in effetti dovrei star facendo anche io, invece che girovagare per l’accampamento come un’anima in pena.
«Mir?» le rispose invece la voce del ragazzo dopo qualche istante. Era così fievole che Myrindar pensò di averla immaginata.
«Posso entrare?»
«Certo.»
La giovane scostò la tela con una mano. L’interno era buio, il profilo di Jahrien si distingueva appena nella penombra. Il ragazzo era seduto sulla branda, tra le coperte, e la stava guardando.
Myrindar sospirò piano. Avanzò e gli si sedette accanto, i sostegni della branda cigolarono. Del suo volto non coglieva che il lato sinistro, la luce filtrava da uno spiraglio nella tela e percorreva il contorno della fronte, lo zigomo, il profilo della mascella.
Lo vide sorridere appena.
«Non dormi?» chiese. Sussurrava, nonostante non fosse necessario. Il suo respiro le sfiorò la pelle.
«Non riesco» rispose la ragazza. Scosse piano la testa, guardandosi le mani. «Quattro giorni e si deciderà tutto» aggiunse.
Lui non parlò. Posò la mano sulla guancia, Myrindar chiuse gli occhi. Il suo palmo era duro, ruvido, ricoperto di calli e cicatrici, ma il suo calore arrivava fino al profondo della sua anima, a quel grumo nero di paura, nostalgia e tristezza che le pesava sul cuore. Si sentì meglio.
«Cos’è che ti spaventa?» mormorò.
«Layrath.» Chiuse gli occhi e sospirò. «Non è quello che potrebbe farmi che mi spaventa. O meglio, sì, è anche quello… il fatto è che – si morse le labbra per un istante, mentre cercava le parole migliori – credo di averlo capito. Credo di sapere perché fa così e…» Le parole le morirono in gola.
«E?»
«Se fossi io, là, al suo posto, farei lo stesso» sussurrò. «Uthrag… no, lo Zerisha Ynahar l’ha convinto che può liberarlo da Aleestrya e dargli una vita normale. A patto che combatta per loro. Ne sono sicura.»
Quando le erano montate le lacrime? Si trovò a piangere, senza saperlo, all’improvviso. Le braccia di Jahrien la strinsero, lei si strinse al ragazzo come alla salvezza.
Si sentiva come se la sua anima si fosse spezzata in mille frammenti e piangeva senza ritegno. Suo fratello, la consapevolezza, il peso di dover combattere e di avere un ruolo cruciale nel futuro dei Regni; e ancora gli anni di sofferenze, l’abbandono, Altair e Mearth, Alya e Dane; la maledizione, la morte che scorreva nelle sue vene, Kratheda, Aleestrya. Le si rovesciò addosso di colpo ogni cosa, tutti i mostri che aveva sempre trattenuto nel profondo di sé.
Sollevò il viso a cercare il suo, le sue labbra. Lo baciò e si sentì di nuovo viva.
Una linea di luce delineava il suo viso, si rifletteva sull’iride nera. Il respiro, appena affrettato, le solleticava il viso; Myrindar poteva percepire il suo calore attraverso l’aria.
Jahrien. L’aveva amato fin da quel giorno, ad Antya, tra le tenebre e le fiamme. Ora erano ancora lì, sei anni dopo, tra diverse tenebre e diverse fiamme.
Lo guardò negli occhi, sorrise appena.
.
Si lasciò invadere da quelle fiamme.

***
 
La serratura cedette di schianto, la porta finì a sbattere contro la parete opposta.
«Temeh!» ringhiò Anser. Nessuno rispose, ma l’uomo era lì. La guardia non aveva ragioni di mentire loro, soprattutto con una punta di freccia elfica incoccata e ferma a una spanna dal suo occhio.
Il giovane la precedette nel salotto sguainando la spada. Fiamme bianche danzarono intorno alla sua mano mentre preparava un incantesimo contro eventuali assalitori, ma non fu necessario. La stanza era deserta.
Keeryahel arricciò il naso. L’odore di whisky aleggiava come un fantasma nella stanza, due poltrone erano rovesciate, cocci di vetro luccicavano al sole del tramonto sparsi sul tappeto. Anser scattò avanti, furioso.
«Dove ti nascondi, bastardo?»
La ragazza lo afferrò per il polso prima che potesse avanzare ancora. Lui si voltò, piantandole addosso gli occhi neri che parevano mandare fiamme.
«Non permettergli di farti perdere lucidità» gli disse, seria. «Se ti arrabbi, ha già vinto.»
L’ira parve dissolversi dal suo volto. Per un istante le parve solo un ragazzo sperduto nella propria rabbia, ma si riscosse. Anser non era un bambino, e in ogni caso non spettava a lei giudicarlo.
Lui annuì e strinse la presa sull’impugnatura della spada. Scostò i ricci sporchi dalla fronte e mosse qualche passo nel salotto, i frammenti di vetro scricchiolarono sotto i suoi stivali. Temeh aveva festeggiato. Keeryahel dovette trattenere una smorfia di disgusto.
Incoccò una freccia e seguì Anser. Non un suono spezzava il silenzio. Il ragazzo saettava con gli occhi in ogni direzione, ma di Temeh non c’era traccia.
Eppure Keeryahel, prima, aveva percepito una presenza in quella casa che poteva essere la sua.
Le mani le sudavano, rendendole la presa sull’arco meno salda.
Anser posò il piede sul primo gradino. Il legno mandò un lieve gemito.
Una risata gorgogliò dal piano superiore.
«Hai trovato il coraggio di combattere, moccioso?»
La giovane gli afferrò il braccio e affondò le dita nel muscolo, per avvertirlo. Lui si volto, ma non furono necessarie parole, stavolta. Ricambiò il suo sguardo deciso e annuì.
Salì le scale un passo alla volta. A metà, l’Elfa si fermò, gli fece un cenno. Anser la osservò per un lungo momento, immobile sul gradino, ma poi avanzò senza dire altro.
Questa cosa di lasciarlo solo contro quell’uomo le metteva non poca preoccupazione, ma gli aveva promesso che l’avrebbe lasciato a lui.
Interverrò solo se si metterà nei guai, si disse.
Si trovò a mordicchiarsi un labbro, preoccupata.
Quali tranelli aveva in mente Temeh?
Anser percorse gli ultimi gradini di scatto e si gettò sul pavimento, lasciandosi rotolare sulla schiena. Come a confermare ogni sospetto, un quadrello di balestra si schiantò sul pavimento in una gragnola di schegge. L’Elfa, dal suo nascondiglio, sussultò.
Il ragazzo si rialzò nel mezzo del corridoio e scomparve dalla sua visuale. Keeryahel sfogò l’ansia in un respiro profondo.
Ora era tutto nelle mani di Anser. Per quanto le sarebbe piaciuto conficcare una freccia nell’occhio di Temeh, era una battaglia a cui lei era estranea.
L’uomo rise.
Keeryahel decise. Non sarebbe rimasta a nascondersi nel buio. Percorse qualche altro gradino, giusto per poter vedere la scena e sapere se intervenire. Si asciugò le mani sul mantello e riprese la sua arma.
Non era mai stata tanto preoccupata per un combattimento.
Ma non le era mai accaduto di dover stare a guardare.
«Ti sei fatto più furbo, moccioso, eh? O forse dovrei chiamarvi Vostra Altezza?»
Anser non rispose.
«Devo inchinarvi di fronte a voi?»
L’uomo sghignazzò e si profuse nell’imitazione di un inchino, senza mai abbassare lo sguardo.
Ti sta provocando. Vuole farti perdere le staffe. Ti prego, Anser, si disse la ragazza.
Il giovane puntò la spada contro di lui. Il braccio era immobile, sicuro. Prese un respiro profondo.
«Sono qui» disse, e la sua voce suonò perentoria, «per vendicare il tuo tradimento nei confronti di mio padre.»
Temeh scoppiò a ridere.
«Oh, ma Torg non te l’ha detto? Non è tuo padre.»
«Lui non è mio padre. Ma lo era l’uomo che mi affidò a lui. Hai tradito il tuo re, Temeh.»
«Ma taci!» sbottò. «Sei solo un ragazzino che si è montato la testa. Se ti fosse importato davvero qualcosa di tuo padre, ora saresti nei Regni con i tuoi amichetti.»
«Sta’ zitto tu» replicò. La voce, stavolta, suonò alterata.
No, Anser…
«Non sai nulla di me» ringhiò il ragazzo.
«Uh! Qualcuno si sta leccando le ferite nell’angolino! Che c’è, troppa paura per riprenderti il tuo posto?»
Un ghigno assassino affiorò sul volto di Temeh. Aveva vinto e lo sapeva.
«E se anche fosse? Almeno io non ho bisogno di far arrabbiare i miei avversari per vincere» sputò Anser, sprezzante.
«Dovresti provare. È un vero spasso! A proposito di spasso» l’uomo voltò la testa, fingendo di guardarsi intorno per cercare qualcosa, «non hai portato la tua puttanella magica? Peccato, mi sarebbe piaciuto farci un altro giro…»
L’urlo di Anser esplose insieme con la rabbia che le infuocò il petto. Fu sul punto di balzare in cima alle scale e scoccare quella dannata freccia.
Udì un improvviso clangore e seppe che avevano iniziato a combattere con il ferro invece che con le parole.
«Non osare» scandì il ragazzo.
«Altrimenti?»
Altro rumore d’impatto. Anser aveva risposto con la sua lama.
Keeryahel chiuse gli occhi per un istante. Lasciare Anser combattere da solo la stava lacerando più di quello che avrebbe immaginato.
Lo vide portare un affondo al fianco di Temeh, l’uomo lo intercettò con la sua lama; la sua mano scomparve dietro la schiena e ne emerse in un lampo d’acciaio.
L’Elfa, d’istinto, fece per scagliare una freccia di luce. Anser sollevò il braccio e parò al volo con il bracciale di metallo. Sollevò una gamba per tirargli un calcio al ginocchio, Temeh non schivò in tempo e fu colpito di striscio.
«Bastardo» ringhiò. Anser balzò indietro, evitando un tondo rabbioso. Doveva essere doloroso, quel colpo, se aveva fatto reagire così un combattente accorto come Temeh.
Keeryahel prese a torcersi una ciocca di capelli. Temeh ora aveva la sciabola e il pugnale, mentre Anser solo una spada. E anche se in altezza si uguagliavano, l’uomo era una montagna di muscoli.
Il ragazzo gemette. L’Elfa sussultò.
Temeh l’aveva raggiunto a una spalla, lacerandogli la corazza di cuoio con la punta del pugnale. Arretrò, ma l’avversario non sembrava intenzionato a lasciarlo riprendere; menò un fendente laterale con la sciabola e Anser incespicò per evitarlo. Con l’ennesima breve risata, Temeh lo spinse contro la porta che si trovava dietro la sua schiena.
Questa si aprì, e Anser sprofondò nel buio.
No!
Keeryahel balzò in piedi. L’occhio si allineò senza che lei nemmeno ci pensasse: le piume della freccia, la punta, la spalla di Temeh.
L’uomo gridò di stupore e dolore. L’asta gli sporgeva dalla carne in una macchia cremisi, lui si voltò e incrociò il suo sguardo.
«Ma allora ci sei! Benvenuta alla festa, stronzetta. Giusto in tempo per vedere il tuo ragazzo fatto a pezzi.» Il suo sorriso scacciò la maschera di dolore.
Keeryahel non aspettò. Balzò giù di qualche gradino e poi ancora giù, in salotto. Tese la mano, il fuoco bianco sfrecciò verso il petto del suo avversario.
Un’aura biancheggiò attorno a lui e inghiottì il suo incantesimo.
«Troppo facile, così» la derise.
Com’è possibile?!
L’Elfa arretrò, afferrò una freccia e la incoccò. Deglutì, il cuore che batteva come impazzito.
«Stupita? Non potevo rischiare che facessi uno di quei giochetti con cui hai steso tutti i miei l’ultima volta!»
Non può conoscere la magia, l’avrei percepito nella sua aura!
Si sentì improvvisamente inerme. Scoccò la freccia, ma la mano le tremava. Si conficcò alle spalle di Temeh e gli strappò la camicia procurandogli solo un graffio.
L’Elfa gettò l’arco di lato. Ora che Temeh era così vicino, era inutile. Estrasse la daga e arretrò.
Sbatté contro qualcosa con la caviglia, si trovò sbilanciata all’indietro. Il tavolino, se n’era dimenticata.
L’istante sembrò dilatarsi, vide Temeh sovrastarla con il suo solito sorriso e spada e pugnale nelle mani.
Riuscì a balzare di lato, sottraendosi all’assalto.
Come faceva a essere ancora così feroce nonostante le ferite?
Parò un fendente, percepì un lampo con la coda dell’occhio. Il pugnale.
Si piegò sulla schiena, annaspò con la mano libera e afferrò qualcosa che sembrava un frammento di vetro. Le tagliò la pelle quando lo strinse. Tese il braccio, avvertì la scheggia andare a segno, Temeh gemette. Il sangue le bagnò le mani.
Aveva trapassato la corazza di cuoio e l’aveva colpito al fianco.
«Bastarda!»
Scattò indietro. Una frustata di fuoco le attraversò la gamba destra, gridò. La spada di Temeh l’aveva colpita.
«Non la toccare mai più
Un lampo. Una spanna d’acciaio spuntava tra le costole di Temeh in un fiore di sangue. L’uomo spalancò gli occhi. Keeryahel vide la luce abbandonarlo, mentre il corpo stramazzava al suolo come un fantoccio.
Il rombo del suo cuore le riempiva il cranio. Anser, di fronte a lei, aveva gli occhi grandi dallo stupore. Abbassò lo sguardo sulle mani scorticate e sporche di sangue, sulla spada che spuntava dalla schiena del suo nemico di una vita, infine lo sollevò su di lei.
Mosse un passo, ma gemette, la gamba si piegò sotto il suo peso e crollò.
«Anser!»
La ragazza si precipitò ad aiutarlo. Aveva il volto teso, pallido.
«Sto bene, sto bene. Devo essermi… slogato una caviglia cadendo, credo. Scendere le scale è stato un incubo…» mormorò.
«Che cosa diamine…»
Keeryahel si voltò verso la porta spalancata. Tre giovani fissavano a bocca aperta la scena di distruzione che si spargeva oltre la soglia, il cadavere scomposto, loro due coperti di sangue.
Oh, maledizione!
«Moran, Kreig, Soreise!»
I tre ragazzi si volsero verso Anser, ancora a terra. Keeryahel gli tese una mano, lui vi si aggrappò e si sollevò di nuovo in piedi con un gemito.
«Cos’è questo… casino?» Quello che aveva parlato, un giovane biondo, dal volto scottato dal sole e un sorriso sghembo e sconcertato, si fece avanti.
«Siete arrivati giusto in tempo» disse Anser.
«Voci dicevano che i prigionieri si stessero ribellando; abbiamo pensato subito a te…»
«Non è importante.» Zoppicò avanti, appoggiandosi alla mobilia sfracellata, fino a raggiungere i tre. Pareva un po’ ubriaco, pensò Keeryahel. Forse uccidere la persona che si fantastica di eliminare fin dall’infanzia fa quest’effetto, si disse.«Moran, ti nomino comandante in seconda. Raduna tutti, abbiamo un Usurpatore da combattere.»
L’Elfa sbatté le palpebre. Era felice che Anser avesse deciso di tornare nei Regni, ma l’intera situazione l’aveva stordita. Scosse appena la testa. Si sentiva di colpo esausta.
«Keeryahel?»
La ragazza sollevò il viso verso il giovane. Gli si avvicinò, la mente ancora piena di quella nebbia.
«Forse non dovrei, ma non importa» le disse.
Lei lo fissò senza capire. Ma prima che potesse chiedergli cosa non avrebbe dovuto, Anser la baciò.







 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Sono certa che alla fine di questo capitolo mi inseguirete brandendo una zweihänder.
Uno, perché è davvero interminabile - 3.720 parole. Srsly, cervello?!
Due, perché di fatto la storia non va avanti, e c'è una battaglia che sta per arrivare, e questi accidenti di personaggi stanno qui ad amoreggiare(?). Però la faccenda è che decidono loro cosa fare, per quanto io stia lì a rompere che devono sbrigarsi.
Poi, ci ho messo una vita ad aggiornare. A tal proposito, devo confessare che metà capitolo l'avevo già finito un secolo fa, ma la seconda parte mi ha davvero dato filo da torcere, dunno why... e non sono del tutto soddisfatta, ma se non aggiorno ora passa un altro eone almeno, visto che gli esami incombono. Avevo iniziato a scrivere con il PoV di Anser, poi a metà ho deciso che non mi piaceva e ho riscritto tutto dal PoV di Keeryahel... e mi sembra lo stesso troppo piatto, come duello epico - Temeh per quanto sia una persona indescrivibile è pur sempre uno dei boss di fine livello(?) - però so come sono fatta. Starei a ragionare su ogni parola, e non è proprio il caso.
Nonostante ciò, spero che almeno il vostro lato fangirl sia felice di questo capitolo! ^^
Annuncio già che per il resto ci vorrà un po', ma visto quanto lungo era questo ne avrete per un paio di lustri, credo.
Ce la farò, a finire questa storia! Dopo due anni, ce la farò! *musica epica motivazionale*
Alla prossima, then!
*si smaterializza*

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Fratello e sorella ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 25

Fratello e sorella



 

U



na lama le sfiorò il braccio e Myrindar gridò. Conficcò la propria spada tra le piastre dell’armatura del soldato che le stava di fronte e si volse per affrontare la nuova minaccia.
Era circondata.
Le bianche strade della Capitale pullulavano di nemici ed erano rosse di sangue, e presto anche il suo si sarebbe aggiunto. Strinse i denti e scagliò una scarica di saette tutto intorno a lei, abbattendo gli imperiali rimasti.
Non sarebbe stato così facile ucciderla, si disse.
Se solo Jahrien fosse stato con lei… purtroppo i loro compiti li avevano divisi. Il Cavaliere guidava un’incursione verso il palazzo di Uthrag, mentre lei doveva trovare suo fratello. Era l’unica che potesse contrastarlo, aveva detto Alshain, ma lei aveva un altro piano.
«Soldati» gridò, senza fiato. «Con me!» Sollevò la spada in aria e scattò di corsa attraverso il viale ingombro di cadaveri.
Non aveva idea di dove avrebbe trovato Layrath, così, per il momento, si era unita alle squadre che battevano le strade palmo a palmo, cercando di conquistare Sham una strada alla volta.
Si inerpicò sull’ampia scalinata di marmo, aggrappandosi al corrimano. Era già stremata e la sua vera battaglia doveva ancora cominciare.
Non dovrei usare la magia così spesso, si disse.
I suoi uomini la superarono di corsa. Chissà cosa pensavano di essere comandati da una donna, che per di più aveva il fiato corto a nemmeno un’ora dall’inizio dei combattimenti. Prese un respiro profondo e li raggiunse, celando la fatica.
La piazza su cui si affacciavano era ampia e, stranamente, deserta. Al centro, una fontana schioccava piano sul sottofondo di grida e clangori proveniente dai combattimenti in tutta la Capitale. L’unica altra uscita della piazza era un’altra scalinata, nella direzione opposta a quella da cui erano arrivati, oltre la quale si vedeva, in lontananza, la cittadella, con le torce e i fuochi della pece che baluginavano tra i merli delle torri.
«Andiamo, finché la via è libera» disse Myrindar, indicando l’altro lato della piazza. Si mosse per prima e riprese a correre, malgrado l’aria le bruciasse nella gola e nei polmoni.
Oltrepassò la fontana e si rese conto che sul primo gradino della scala c’era qualcuno. Myrindar si bloccò sul posto e sollevò la mano, intimando l’alt.
Nell’oscurità vedeva solo la sagoma, ma l’avrebbe riconosciuto tra mille. Indossava l’armatura completa sul corpo esile, aveva tolto l’elmo e lo teneva in una mano, e i ricci scivolavano sulle sue spalle.
«Layrath. Ti cercavo» disse lei. Il giovane non diede segno di averla sentita.
Myrindar si fece avanti, fino ad arrivare a qualche metro da lui.
«E io cercavo te, Odahir.» La sua voce la fece sussultare.
Il guerriero si voltò e Myrindar percepì i suoi occhi scorrere su di lei, nonostante il buio li celasse. La ragazza si volse appena verso i suoi soldati, che ancora aspettavano circospetti un suo ordine.
«Lasciateci. Tornate alla battaglia; Valtan, sei tu al comando, ora.»
«Ma, capitano» protestò il suo secondo, «gli ordini del generale…»
«Mi assumerò la responsabilità. Andate dove c’è più bisogno di voi, ora.»
«Sissignore» rispose Valtan, contrariato. La giovane udì i loro passi allontanarsi e sfumare nella distanza.
«Curioso» commentò Layrath a mezza voce. Myrindar si strinse nelle spalle.
«Tu sei solo. Affrontarti insieme a loro non sarebbe stato… leale» disse.
Layrath sbuffò. «Come se potessero essere una minaccia» replicò. «Chi ti dice che non nasconda un’intera divisione nei vicoli qui intorno, pronta a balzare fuori e ucciderti?»
«Mi hai lasciata vivere ad Antya solo perché secondo te non stavamo combattendo alla pari e non hai sfruttato la mia assenza nelle settimane successive per decimare il mio esercito» disse la ragazza.
Layrath inclinò la testa di lato. «Hai ragione» capitolò. «Ma siamo pur sempre nemici. Sono qui per ucciderti, in fondo.»
«Io sono qui per parlare, invece» ribatté lei, dura. «Il generale vorrebbe che ti piantassi la spada nel cuore, a dire la verità, ma non ho intenzione di farlo.»
«Be’» il giovane scrollò le spalle, «così renderai più facile per me piantarti la spada nel cuore.»
La sua voce, ora, era un ringhio, eppure alla ragazza parve che stesse cercando di convincere se stesso, più che spaventare lei. E il suo spadone era ancora nel fodero.
«Avresti potuto farlo già diverse volte. Confido che tu abbia la pazienza di sentire almeno cos’ho da dire.»
Il guerriero rise. «Non ti conviene sfidarmi a ucciderti di continuo, Myrindar» disse, aspro, «o potrei perderla, la pazienza.»
«Perché deve andare così?» sospirò la ragazza. «Siamo fratelli, Layrath. È stato solo un caso a separarci.»
«Bah. Fratelli.» Volse il viso verso il cielo, con le labbra tese in una smorfia. «Saremo anche nati dallo stesso ventre, ma non c’è alcun legame tra noi oltre a quello che ci porta a combattere, oggi. Non può esserci null’altro.»
«Perché?» quasi gridò Myrindar. Più passava il tempo, più sentiva la speranza che l’aveva condotta lì scivolarle dalle mani. «Perché un Sacerdote dei Demoni ti ha fatto un giuramento che non potrà mai mantenere? I Demoni sono il male, per gli dei! Credi che un loro emissario si farebbe problemi a usare uno come te? Uno come noi
La risata del ragazzo, stavolta, fendette l’aria come una lama. «I Demoni sono il male? Ti svelerò un segreto, sorella. È facile scrivere la storia, quando si è i vincitori. Non mi sembra che le tue Fate siano state tanto più buone e misericordiose.»
«Tu non hai vissuto per un mese con gli Elythra!»
«E tu non hai vissuto una vita con Tyris» ribatté. «Tu non sai nulla di me. Nulla.  E ora credo proprio che abbiamo parlato abbastanza.» Senza darle il tempo di replicare, sfoderò lo spadone e si lanciò contro di lei.

***
 
Nel settore sud le cose non stavano andando affatto bene, ragionò Alshain. La carica si era arrestata quasi subito, appena oltre la prima cerchia di mura e sembrava incapace di sbloccare la situazione.
Il generale strinse i pugni. Dal padiglione di comando in cima all’altura aveva una visuale completa dello scontro, vedeva le fiamme divampare dai fuochi dei difensori e le torce dei suoi uomini riflettersi sullo specchio quieto del Lago Inferiore. E non gli piaceva quello che stava osservando.
Affatto.
Era prevedibile che le forze difensive si concentrassero verso sud, visto che la loro avanzata era giunta da nord-ovest, e Uthrag ormai conosceva fin troppo le sue strategie. Aveva avuto il presentimento che l’effetto non sarebbe stato quello che lui si aspettava, ma aveva ignorato l’intuizione e ora se ne stava pentendo.
Mugugnò un’imprecazione e spostò il cannocchiale verso i settori nord e ovest. A nord la divisione di Cavalieri Erranti, mercenari e maghi elfi era penetrata fin quasi alla cerchia della cittadella e la fanteria pesante yndirana si stava allargando a raggiera per le strade; mentre a ovest l’ultimo terzo dell’Esercito Libero, dei Cavalieri e della fanteria elfica stava guadagnando terreno, ma non velocemente come sperava.
E, soprattutto, non vedeva da nessuna parte i lampi viola di Aleestrya. Che Layrath non fosse ancora sceso in campo? Gli pareva improbabile.
L’Ynahar non gli avrebbe permesso di lasciare Myrindar viva ancora una volta.
Alshain tornò a osservare la divisione capitanata da Bessar, a sud. In quel momento un’esplosione fiammeggiò bianca e il tuono giunse ovattato al suo orecchio con un istante di ritardo. Il generale non avrebbe saputo dire se fosse stata una delle trappole di Uthrag o i marchingegni diabolici dei Selvaggi, assegnati al settore sud; ma a giudicare da come la divisione si spezzò nel caos concluse che doveva essere la prima ipotesi.
Strinse la presa sul cannocchiale, inveendo.
«Non sta andando bene» disse Tarazed alla sua destra.
Alshain gli passò il cannocchiale e si massaggiò la fronte.
«Siamo troppo pochi, ecco il problema. Li superiamo di appena un terzo e Uthrag ha avuto tutto il tempo necessario per preparare questa dannata battaglia. Ha il vantaggio del terreno. Ho sopravvalutato le mie conoscenze della città.»
Un dolore pulsante aveva cominciato a battere contro la sua scatola cranica. Erano almeno due settimane che non dormiva più di due o tre ore al giorno e non era più così giovane.
Strinse i pugni, in preda alla frustrazione.
«Non è Uthrag a tenere i fili, lo sai» ribatté l’amico di vecchia data, brusco. Alshain volse lo sguardo verso di lui, concentrato sul combattimento in corso oltre la lente.
«Non cambia. Uthrag non è uno stupido.»
Vorrei che lo fosse, pensò.
«Se fosse il settore ovest ad aver raggiunto la cittadella potremmo trasferire almeno un decimo delle forze al settore sud» rifletté Tarazed, «ma la divisione a nord è troppo lontana per essere efficace.»
Il Cavaliere aveva espresso i suoi stessi pensieri.
«Se spostiamo parte delle forze dal settore nord potrebbero non arrivare in tempo per essere d’aiuto, o essere decimate durante il tratto, e rischieremmo anche di perdere l’occasione di incunearci nella cittadella» rispose, e Tarazed annuì.
«Non eravamo pronti per questa battaglia» mormorò, rendendogli il cannocchiale. L’unico occhio luccicava. «Tyris non è sceso in campo, ancora» aggiunse.
Alshain si strinse nelle spalle. «Pare di no.»
«Te ne accorgeresti, se l’avesse fatto. Non penso manchi molto, ormai; dubito che accetterà di essere minacciato così da vicino senza fare nulla.»
«Lo conosci molto bene» commentò Alshain. Riprese a osservare il campo solo per vedere una delle unità di fanteria della divisione nord saltare in aria per una trappola.
«Se così si può dire» rispose Tarazed, tagliente. Alshain aggrottò la fronte.
«Cos’è, un altro dei tuoi dannati segreti?»
«Piuttosto una parte di passato che preferirei dimenticare» replicò con un sospiro. «Era un apprendista Cavaliere come me. Uno dei migliori, ma non gli è mai bastato. Nessuno si è mai reso conto di che cosa nascondesse finché non fu troppo tardi. La notte prima dell’investitura sparì nel nulla.»
Nel frattempo, il settore ovest aveva perso terreno. Il generale mugugnò tra sé.
«Non è tutto qui, però» rispose all’amico.
Poté percepire l’occhiataccia affilata di Tarazed anche senza voltarsi a guardarlo.
«Vuoi proprio farmi rivangare scheletri chiusi a doppia mandata?» borbottò. Alshain non rispose. Il settore ovest aveva ripreso a caricare. Era una dannata belva, quell’Elfa.
«E va bene» aggiunse l’altro. «Era come un fratello, per me. Siamo cresciuti insieme nell’Ordine e quella fatidica notte venne a cercarmi, mi chiese di fuggire con lui. Era davvero convinto che ciò che faceva fosse giusto, che potesse aiutare l’Ordine, ma sapeva che gli alti gradi non avrebbero capito. Nemmeno io capii; anzi, tentai di fermarlo. Non ho mai capito perché non mi uccise. In compenso, anni dopo si è preso il mio occhio» concluse, aspro.
«Non me l’hai mai detto.»
«Non è mai stato necessario.»
«Nemmeno ora lo sarebbe, a dire la verità» commentò il generale, passando il cannocchiale all’amico. Ora vide chiaramente l’occhiata obliqua, mentre Tarazed gli strappava dalle mani lo strumento d’ottone.
«Sii grato della cosa e chiudiamola qui, va bene?» replicò.
Alshain fece per ribattere, quando un’ombra apparve oltre il crinale della collina, venendo dal lago. Era una delle sentinelle, la riconobbe dalla divisa nera e grigia, e aveva il fiato corto per la corsa e i ricci castani incollati alla fronte dal sudore.
Il generale si fece cupo, ma aspettò che il giovane riprendesse fiato prima di chiedergli chi fosse e che ci facesse lì.
«Sono Dane di Tadun, signore» rispose il soldato, tra un ansito e l’altro. Tese il braccio, indicando verso sud. «Navi in arrivo. Le hanno avvistate le sentinelle sul fiume. Risalgono il Lago Inferiore, e portano l’insegna dell’Esercito Libero.»

***
 
Jahrien risollevò il drappo nero che dalla fronte gli era caduto di nuovo negli occhi.
La strada era libera e quella zona della città silenziosa, fin troppo. Le grandi case delle famiglie nobiliari parevano deserte, i loro occupanti dovevano essersi rintanati oltre la cinta più interna al primo suono delle campane. Meglio così, si disse. Almeno non aveva dovuto affrontare anche le guardie delle ville.
Sollevò la mano e fece cenno ai suoi uomini dell’avanguardia di avanzare e posizionarsi nella via successiva. Quelli, silenziosi come fantasmi, si spostarono tra le ombre.
Le mura della cittadella si ergevano davanti a loro. I soldati sui camminamenti e sulle torri erano occupati a tenere a bada le truppe di Nemanar che attaccavano da nord e a preoccuparsi della divisione comandata da Talja, in arrivo da ovest. Nessuno avrebbe badato al lato est, da dove si stavano avvicinando.
O almeno così sperava il giovane – e il generale. Finora, la tattica pareva aver funzionato, ma era da quel momento che ogni cosa si sarebbe complicata.
Attese il segnale dell’avanguardia, poi fece procedere il corpo principale della squadra. Tra mantelli e drappi neri, colse il luccicare delle lame, delle frecce e dei rampini.
Aspettò che anche la retroguardia prendesse posizione e poi corse avanti. Trovò nascondiglio dietro il muro ricoperto di edera di un giardino. Prese un respiro e cominciò ad arrampicarsi. Doveva essere visibile almeno dai suoi uomini.
Il cuore accelerò i battiti a mano a mano che il ragazzo saliva. Infine, appollaiato sulla sommità della cinta, si prese qualche istante per osservare.
Due soldati erano in vista, ad almeno venti metri di distanza l’uno dall’altro. Come aveva supposto Alshain, Uthrag si aspettava un qualche tranello, sfruttando la distrazione, ma non poteva rischiare di spostare uomini che servivano per reggere l’assalto solo per inseguire spettri.
Sollevò il pugno destro in aria e alzò due dita. Un istante dopo, il fischio sottile delle frecce fendette l’aria, seguito da due tonfi sordi distinti. Dalla sua posizione, Jahrien vide le due sentinelle crollare a terra, poi quattro rampini dell’avanguardia tintinnarono incastrandosi all’orlo del muro. Come ragni, i primi si arrampicarono sulle corde e raggiunsero il camminamento, subito seguiti da altri quattro soldati, e poi assicurarono nuove corde e discesero dall’altro lato. Jahrien attese che i dodici dell’avanguardia fossero saliti, poi scese dal muro e raggiunse la retroguardia, sondando con lo sguardo le tenebre verso la battaglia.
In pochi minuti, tutti i quaranta uomini avevano scavalcato la cinta della cittadella.
Il Cavaliere tirò un sospiro di sollievo. Un ostacolo era superato. Ora dovevano solo raggiungere le porte e aprirle dall’interno. Con il supporto di Nemanar e Talja, avrebbero assaltato la fortezza di Uthrag.
Fece cenno agli uomini di riprendere la formazione. In quel momento, gli parve di cogliere, con la coda dell’occhio, un movimento alla sua destra. Due dei soldati della retroguardia puntarono all’istante le frecce incoccate nella stessa direzione.
Jahrien sollevò la mano e ordinò l’alt. Eppure, nulla si muoveva. L’eco dei combattimenti era più vicino, ora.
Un lampo nero si abbatté dal cielo sui due arcieri. Jahrien evocò uno scudo magico e l’onda d’urto si infranse su una barriera di luce.
«Via!» gridò, e la squadra scattò e si disperse per le strade, verso le porte. Jahrien sguainò la spada e corse, il cuore in gola.
Non aveva mai visto una magia simile. Ne aveva sentito la forza persino attraverso lo scudo e ben sapeva che se la saetta fosse stata indirizzata a lui sarebbe morto, magia di protezione o meno.
Questo poteva significare solo una cosa. Lo Zerisha Ynahar era sceso in campo.

***
 
Myrindar parò il primo, rabbioso colpo per pura fortuna. Balzò indietro, recuperando la distanza, la spada tesa contro il fratello.
«Ascoltami, Layrath!» gridò. «Non dobbiamo combattere per forza. L’Ynahar non ti libererà di Aleestrya. Non può farlo!»
«Sta’ zitta!» Il ragazzo la caricò di nuovo. Myrindar schivò l’affondo scartando di lato. «Tu non sai nulla!»
La ragazza non ribatté, si limitò a parare un tondo che le sarebbe arrivato alla faccia. Aveva fallito. Sperava di convincerlo a venire con lei, o almeno ad arrendersi senza combattere, invece aveva avuto l’unico effetto di turbarlo.
Strinse i denti e contrattaccò, mirando alla gamba. Non appena vide che Layrath spostava lo spadone per parare, fulminea modificò la traiettoria e colpì all’altezza della spalla. L’arma slittò sulla placca di metallo dell’armatura e tracciò uno sfregio sulla guancia del giovane.
Urlò.
Myrindar, di nuovo, balzò fuori portata. Layrath era così sconvolto che non aveva nemmeno rimesso l’elmo.
Un fulmine biancastro balenò tra le dita del suo avversario e si diresse verso di lei, fulmineo. La ragazza lo schivò per miracolo e si trovò sbilanciata, impreparata a parare i colpi del fratello. La lama si abbatté all’altezza della gola, Myrindar frappose la propria arma, ma cadde a terra.
Prima che il giovane potesse calare lo spadone sulla sua testa, saette viola proruppero dalle mani della ragazza e si avvilupparono attorno a Layrath come catene. Il ragazzo gridò di dolore, ma tese le braccia e la magia si dissolse.
Myrindar deglutì. Aveva recuperato equilibrio e distanza di sicurezza, ma non poté nascondere il turbamento. Non pensava che qualcuno potesse neutralizzare i suoi attacchi.
«Ci sono molte cose che non sai» disse il giovane, indovinando la sua preoccupazione.
«Layrath, te ne prego, ascoltami» riprovò la ragazza, ora che anche l’avversario pareva più calmo. «Perché accetti di essere uno schiavo?»
«Credi di essere tanto diversa? Sono certo che Alshain e i tuoi preziosi Cavalieri Erranti avrebbero accettato un tuo rifiuto di combattere, non è vero?» Myrindar sussultò. «Oh, come non detto! Quanto mi dispiace! Vedi, Myrindar, quelli come noi non possono essere altro che schiavi.»
«Quelli come noi? Dannazione, Layrath! Tu non sei la tua maledizione! Non ci sei nato, con quel marchio, per gli dei, è stato qualcun altro a importelo. Il Sacerdote dei Demoni ti ha reso l’Aleestrya, ma puoi scegliere, puoi sempre scegliere! Puoi essere qualunque altra cosa, anche se lui ti ha convinto del contrario. Non sei uno schiavo più di quanto non lo sia ogni singolo soldato che sta combattendo e morendo in questa maledetta notte!»
Tremava. Rabbia, preoccupazione e tristezza si rimescolavano nella sua mente come un vortice.
Layrath non parlò. Aveva abbassato la spada e guardava un punto indefinito alle sue spalle, come perso. Allora Myrindar si accorse che se non voleva perderlo doveva fare l’ultimo tentativo, ora.
Gettò la spada a terra e avanzò fino a due metri da lui. Si inginocchiò a terra, lo sguardo deciso e fisso nei suoi occhi.
«Non rivolgerò più la spada contro mio fratello» disse. «Se credi in ciò che hai detto, uccidimi ora, perché io non combatterò più.»







 
******* Famigerato Angolino Buio *******
È una vita che non bazzicavo per questi lidi.
Ho postato la ff un mese fa, ma non aggiornavo una qualsiasi delle long da... troppo. Decisamente troppo. E infatti non mi ricordo più come si scrivono delle note di fine capitolo decenti.
Dunque.
Qualche parolina mi sento di doverla spendere, forse non per questo capitolo nello specifico ma per la storia in generale, perché... beh, senza girarci troppo intorno, questo è il terzultimo capitolo.
Già.
Dopo tre anni e qualche mese di pubblicazione su questo sito - e ben di più da quando questa storia ha preso vita, prima nella mia testa e poi in un file word - posso dire di aver finito la prima stesura e ammetto che la sensazione è strana. Non saprei come altro definirla.
Poi, la storia non si può dire di certo finita nel vero senso della parola, perché a essere sincera dovrò lavorarci su parecchio, eliminare tutte le schifezze, i plot hole, le insensataggini e il trashume - e costruire in maniera più razionale questi fantomatici Regni dell'Ovest - ma arrivare a mettere la parola fine è un traguardo, in un certo senso.
Per tutti i cieli, quanto sono diventata mielosa.
Ricapitolando e tornando seri - si fa per dire - la storia, nel mio pc, è finita, perciò potrò permettermi il lusso di aggiornamenti regolari. Salvo catastrofi, apocalissi zombie e/o morte del collegamento internet - cosa peraltro più frequente di quanto mi piacerebbe - ho l'idea di pubblicare il nuovo capitolo il venerdì. That means che, nel giro delle prossime due settimane, con il capitolo ventisei e l'epilogo chiuderò questa lunga, lunghissima parentesi.
E... boh, a questo punto credo di non avere altro da dire - e per fortuna.

Per cui, per chi vorrà, a venerdì prossimo!

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Il Demone ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Capitolo 26

Il Demone



 

N



on appena Jahrien mise piede nel palazzo di Uthrag, accompagnato dalla sua squadra e dal contingente di Jadaran, realizzò che era stata una pessima idea.
Lo Stratega elfo avanzò nel salone, gli stivali ticchettarono sul marmo lucido del pavimento. La stanza pareva buia e vuota.
«Zerisha Ynahar!» gridò il mago. Il giovane sussultò e deglutì mentre l’eco riverberava e si amplificava tra le pareti e la volta. «Sa mirthé lyn shaillyr thorne
Jahrien prese un respiro profondo per cercare di scacciare l’angoscia. Non capiva così bene l’elfico da sapere cosa lo Stratega avesse intimato con quella sua voce stentorea, ma era certo si trattasse di una minaccia di qualche tipo.
Come faceva Jadaran a non sentire quella soffocante puzza di trappola?
Il Cavaliere si accorse che stava giocherellando con la striscia di cuoio arrotolata attorno all’impugnatura e si costrinse a smettere.
Quando l’eco della frase si spense, tornò il silenzio. Le uniche luci provenivano dalle sfere magiche che i maghi avevano acceso, e Jahrien vide il disappunto e il disprezzo sul volto di Jadaran. Il cristallo al centro del suo diadema si era acceso e tracciava ombre affilate sul suo viso.
Il ragazzo dovette sforzarsi per non andare dall’Elfo e dirgli che dovevano andarsene subito. In fondo, lo Stratega si era offerto volontario per andare a stanare il Sacerdote dei Demoni con i suoi maghi e Jahrien non aveva potuto fare nulla per impedirglielo: era solo un ragazzo, per quanto Cavaliere Errante da quasi cinque anni, e per di più mezzosangue.
Storse appena la bocca. Dopo tutti quegli anni, ancora mal sopportava l’ostinazione degli Elfi nel credersi superiori a chiunque altro al di fuori della loro razza.
Peccato che era proprio quella presunzione ad averlo ficcato nel cuore di una trappola, e ciò che più lo infastidiva era il fatto che Jadaran non l’avrebbe minimamente ascoltato.
Strinse il pugno sull’elsa della spada.
«Mriyaldé rynna jolah!» gridò di nuovo Jadaran, infastidito. «Sa shaillyr thorne har my…»
«Arrivo, arrivo, Elfo» proruppe una voce dal fondo del salone, «smettila di blaterare! Per tutti gli dei, non ricordavo che la vostra lingua fosse così…»
«Fermo dove sei, verme» ringhiò Jadaran. Sia lui che i suoi maghi avevano evocato sfere infuocate attorno a entrambe le mani. «Mostrati!»
«Oh, io sono solo un miserabile umano, signor Elfo» echeggiò di nuovo la voce, questa volta con un tono di scherno. «Non conosco certo trucchetti come quelli
Jadaran sibilò un’imprecazione. Diede un secco ordine e ciascuno dei suoi maghi accese una sfera di luce e la fece librare nell’aria fino alla volta. La luce scivolava su una sala ornata di arazzi e stemmi dipinti a smalti vivaci e appesi alle due pareti, mentre, addossato a quella in fondo c’era un trono di marmo candido intagliato e, su di esso, sedeva un uomo vestito di nero, con un diadema luminoso sulla fronte celato sulle tempie dai lunghi capelli corvini.
«Vedete, sono qui per porgervi i saluti di…»
A un grido improvviso di Jadaran, le sfere infuocate sfrecciarono verso l’uomo seduto sul trono, solo per infrangersi contro una barriera che apparve all’improvviso e poi tornò invisibile.
«Oh, no, non si fa così» disse l’uomo, con il tono di chi rimprovera un bimbo capriccioso. Jadaran sibilò nella sua lingua in risposta. «Io vengo qui, in pace, per portarvi i saluti del mio Re, e voi cercate di uccidermi?» continuò imperterrito quello – Jahrien dedusse che si dovesse trattare di Tyris.
«Pace!» disse sprezzante lo Stratega. «Tu non sai nemmeno cosa sia la pace. Sei una creatura dell’Abisso e là ritornerai, che tu lo voglia o no!»
«Quanto melodramma, Elfo. Non trovi anche tu ironico che vengano a farmi discorsi sulla pace proprio quelli che hanno ucciso i miei uomini e violato la mia casa con la forza?»
Jahrien, d’istinto, fece un passo indietro. La voce di Tyris era cambiata, era divenuta così gelida che un brivido involontario scosse le spalle del giovane.
Il Sacerdote dei Demoni non era pazzo, si fingeva tale. Ciò lo rendeva ancora più pericoloso.
«Zitto, mostro! Non hai diritto di parlare, i tuoi crimini lo fanno già abbastanza. Arrenditi ora e ti concederò una morte rapida.»
«Non ci penso nemmeno» replicò Tyris, con lo stesso tono di ghiaccio. Scese dal trono e avanzò un passo alla volta.
«Allora, nel nome dei miei antenati e del Consiglio, io…»
Jadaran esplose. Schizzi di sangue inondarono Jahrien e chiunque fosse vicino all’Elfo, mentre al posto del suo corpo, sul pavimento, rimase un’enorme chiazza cremisi.
Qualcuno gridò. I maghi contrattaccarono, ma di nuovo i loro incantesimi si rivelarono inefficaci. Jahrien, il respiro corto, si trovò spalle al muro, mentre Tyris continuava ad avanzare.
Una foschia nera aleggiava attorno alla sua figura e vorticava, sempre più intensa. Anche i maghi elfi arretrarono.
Cosa stava facendo?
Sotto i suoi occhi esterrefatti, Tyris cominciò a mutare. Divenne più alto, più massiccio; dalla pelle, sempre più scura ogni attimo che passava, si protesero spuntoni e creste lungo la schiena e sulle braccia. Il volto divenne un ghigno scheletrico, gli occhi si illuminarono di brace.
Un Demone.
Il mostro ruggì, Jahrien seppe che erano perduti.
Esplose la parete a lato della bestia e l’onda d’urto sbalzò il giovane a terra. Quando rialzò lo sguardo, la polvere ammantava la sala e di fronte al Demone stavano due figure, in piedi. Un ragazzo in armatura e una ragazza dai lunghi capelli ricci.
Myrindar.
«No!» Jahrien si rialzò in piedi, il terrore nel cuore. Myrindar e il ragazzo tesero entrambe le mani e una pioggia di saette si abbatté su ciò che un tempo era stato Tyris e lo sbalzò dall’altra parte della sala, contro il trono.
Sconvolto, il giovane capì che il guerriero era Layrath.
«Jahrien!» Myrindar si voltò al suo grido, sfruttando l’istante di distrazione del mostro. Il Cavaliere Errante pensò che non ci fosse creatura più bella di lei, con i capelli invasi di polvere, scie di sangue sul viso e il fuoco negli occhi.
«Prendi i sopravvissuti e vai a cercare Uthrag, non farlo fuggire!» gli disse.
«Ma…»
«Non preoccuparti per noi! Vai!»
Non attese risposta, si voltò di nuovo a fronteggiare la bestia. Jahrien, ancora sconvolto, scattò in piedi.

***
 
L’istante che era trascorso tra le sue parole e il pianto liberatorio di Layrath era stato interminabile. L’aveva visto gettare la spada a terra e afflosciarsi in ginocchio, come privato di colpo delle energie.
L’aveva abbracciato, ma non c’era tempo. Così si erano entrambi alzati e avevano cominciato a correre verso le mura. Il giovane conosceva passaggi segreti che avevano fatto loro arrivare al salone appena in tempo.
Myrindar osservò Jahrien, i suoi e gli Elfi sparire attraverso una porta laterale e riportò l’attenzione sul Demone. Era quella la sua battaglia. Jahrien avrebbe trovato Uthrag e concluso quella battaglia, ma erano lei e Layrath, ora, che dovevano dare loro la possibilità di farlo.
Insieme.
Tyris rise e a Myrindar parve di udire la voce dell’Abisso stesso.
«Ma guarda» disse. «È stato così carino da parte tua portarmi qui l’altra Aleestrya. Finalmente posso sbarazzarmi di entrambi, avete causato ben più problemi di quanto non fosse previsto.»
«Quindi era questo il tuo obiettivo, fin dall’inizio» ringhiò Layrath. «Quante belle promesse che mi avevi fatto, bastardo!»
«Pensavi davvero che potessi tenere vivo uno come te? Una tale minaccia al mio potere? Come hai visto, le magie degli Elfi non possono colpirmi, eppure Aleestrya sì.»
Perché Aleestrya è magia bianca e magia nera fuse insieme.
«Non importa. Ora morirai» disse Layrath. Scagliò una nuova scarica di saette.
Myrindar si concentrò e la magia si avvolse attorno al corpo di Tyris, come aveva fatto con Layrath, poco prima. Sapeva che l’incantesimo non sarebbe durato a lungo, ma era abbastanza perché il Demone gridasse di dolore. I fulmini bianchi di Layrath si infiltrarono sotto i suoi, viola, e scorsero sulla pelle nera del mostro, bruciandolo.
Non era un Demone, capì la giovane. Tyris non aveva acquisito tutti i poteri, la sua trasformazione era incompleta: per quello in due potevano batterlo. Anche se cominciava ad accusare la stanchezza.
«Ora basta!» ruggì, sciogliendo la sua magia. «Siete solo due bambini che giocano con forze più grandi di voi. Io vi ho creati. Vi ho resi ciò che siete, e allo stesso modo posso distruggervi.»
Un’ondata di energia nera esplose da Tyris e si spanse per tutta la sala, verso di loro. Layrath gridò e si parò davanti a Myrindar, tese le mani avvolte dai fulmini e contrastò la magia nemica, dissipandola. Layrath era più forte di lei, lo sapeva.
Myrindar rispose subito con altre saette, ma il fratello non si unì all’attacco. La giovane gli scoccò un’occhiata.
Anche se non si sforzava di darlo a vedere, Layrath era stremato, più di lei. Un velo cupo offuscava i suoi occhi grigi.
«Non possiamo sconfiggerlo così» sussurrò il ragazzo. «Ci sfinirà e ci ucciderà uno alla volta, è troppo forte.»
«Cosa possiamo fare, altrimenti?»
Non rispose. Si portò le mani dietro il collo e slacciò una cordicella. Myrindar impedì al demone di rialzarsi con l’ennesima scarica di fulmini.
«Dobbiamo sovraccaricare il Craidhal» disse Layrath.
«Come… cosa vuoi dire?» chiese la ragazza, confusa.
«La gemma assorbe parte dell’energia di Aleestrya, per questo impedisce al marchio di sopraffarti. Quando è pieno dell’energia nera, devi disperderla alla Sorgente, perché altrimenti non potrà più accumularla.»
Il Demone evocò un fulmine nero, Myrindar si tuffò di lato e rotolò sul pavimento per schivarlo. Frammenti di pietra le si confissero nella pelle sotto i vestiti.
Layrath lanciò uno dei suoi fulmini bianchi.
«Oppure, puoi sovraccaricare il Craidhal e lasciare che sia lui a espellerla. In modo piuttosto violento» aggiunse, guardandola.
La ragazza gli si avvicinò. Lui tese la mano, sul cui palmo luccicava una stella asimmetrica come la sua, ma nera come ossidiana. Myrindar strinse la mano e percepì le punte del cristallo trafiggerle il palmo.
Tesero la mano libera. Una scintilla passò nello sguardo di fuoco di Tyris.
«No!» ruggì. «Non ve lo lascerò fare!»
Per un istante, alla ragazza parve che il tempo si congelasse. Il Demone allungò le mani e da ciascun artiglio apparve un sottile fulmine, del nero più assoluto. I raggi conversero al centro delle mani e poi sfrecciarono verso di loro.
Myrindar strattonò il braccio di Layrath, cercando di portarlo via dalla traiettoria dell’incantesimo, ma lui non fu abbastanza veloce. Il raggio nero attraversò la corazza, la carne e poi di nuovo il metallo come se non esistessero e trafisse il ragazzo all’altezza del cuore.
«No!» gridò lei. La mano del fratello perse forza e abbandonò la sua. Il suo corpo cadde a terra, gli occhi spalancati e stupiti, fissi sul soffitto.
Myrindar barcollò. Chiuse gli occhi per un istante, mentre montavano le lacrime, come se questo rendesse ciò che era appena successo meno reale. Era un incubo, si disse la ragazza, e presto si sarebbe svegliata.
Strinse il Craidhal di suo fratello nel pugno con tutte le sue forze, fino a tagliarsi il palmo, fino a sentire il dolore farsi pungente.
Non era un incubo e doveva combattere.
Doveva sconfiggere Tyris. Era rimasta l’unica, ora.
Sollevò lo sguardo sul Demone. Era provato, lo percepiva nelle bruciature profonde sulla sua pelle, nel suo respiro spezzato, nella foschia nera che si sollevava dal suo corpo e svaniva, come se Tyris non avesse più le energie necessarie per restare in quella forma. Myrindar si erse in tutta la sua misera altezza e fronteggiò la bestia.
Sapeva di poter vincere.
Non aspettò che attaccasse: sentiva l’energia del gioiello tra le sue mani, oscillante e sempre più instabile. Mancava poco.
Tyris trovò la forza per schernirla e rise di lei. «Stupida mocciosa» sputò, ansante.
«Io sono Myrindar» rispose lei. «Combattente dell’Esercito Libero, Aleestrya, figlia di Mearth e Alya di Tadun, e ti sconfiggerò questa notte.»
«Sei uguale a tuo padre» sputò la bestia, e la sua schiena crestata fu scossa da un attacco di tosse. «Il tuo vero padre. Tutta compresa nel tuo ruolo di eroina. E morirai come lui, come un’illusa.»
Myrindar sussultò.
«Già. Valair della dinastia Tarkas, re di Dokhet. Mio fratello.»
La ragazza spalancò gli occhi, sconvolta. Suo padre. Quindi avevano ragione Jahrien e Keeryahel: lei e Layrath erano i Gemelli della Luna.
«Tu… ci hai usati. Siamo i figli di tuo fratello, per gli dei!» Myrindar era fuori di sé.
«Valair ha avuto ciò che si meritava. E ora tocca a te, principessa Myrindar» rise Tyris.
La giovane, però, non si fece ingannare. Il Demone era stremato e stava solo tentando di impressionarla: era finita.
Scagliò le sue saette, Tyris parò con gli artigli, ma il Craidhal, all’improvviso, si fece incandescente. Myrindar gridò e lo scagliò contro il mostro.
Lo sentì urlare. Una luce esplose accecante per un unico attimo, poi scemò fino a svanire e, nel silenzio, Myrindar rimase sola.
Tyris, Sacerdote dei Demoni, fratello rinnegato di suo padre, si era dissolto come se non fosse mai esistito.







 
******* Famigerato Angolino Buio *******
Non so esattamente quando ho preso questo brutto vizio di far esplodere i personaggi, ma negli ultimi tempi sta succedendo fin troppo spesso. Dovrò prestarci più attenzione.
Allora, a parte gli inconvenienti di elfi che esplodono, devo ammettere che questo è stato il capitolo più difficile da scrivere da almeno qualche mese a questa parte. "Duello contro Tyris" è scritto, proprio così, nel mio schemino da un pezzo; nel frattempo me lo sono visualizzato in testa in un sacco di modi diversi, e lo stesso è stato faticosissimo da tradurre in parole. Dovevo far stare in un capitolo tutto, l'intera storia, in un certo senso: il cambiamento di Myrindar, che ha trovato se stessa, da ragazzina sperduta a guerriera; la lotta epica tra Bene e Male, insieme alle sfumature che non rendono i confini così netti; un cattivo che era rimasto nell'ombra per venti e passa capitoli, ora finalmente appare e gli devo rendere in qualche modo giustizia; redenzione e condanna e mille altre cose che per un motivo o per l'altro sono entrate a far parte di questi personaggi... è la prima volta che mi succede, per quanto abbia già scritto degli "ultimi capitoli" in passato.
E boh, sono di nuovo partita per la tangente con il momento sentimentalume, ma suppongo non mi si possa biasimare - spero!
Vabbè, io per ora vi saluto, ci si sente venerdì prossimo per l'epilogo! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Epilogo. Un mattino di primavera ***


 photo aleestrya banner_zpsrdx610pn.jpg


 

Epilogo

Un mattino di primavera



 

C



i fu un istante, durante il combattimento contro il Demone, che Myrindar realizzò, all’improvviso, che non le importava la verità su di sé, né dare una risposta alle mille domande sul suo passato, e quell’istante fu quando nel pugno chiuso sentì le punte aguzze del Craidhal di suo fratello inciderle il palmo. Che fosse Valair o Mearth suo padre, Anser o Altair suo fratello non le importava, perché lei era parte di entrambi i mondi.
L’aveva capito sul sangue di Layrath e per quello, quella mattina, Myrindar si allacciò il cordoncino che il suo gemello aveva portato al collo per tutti quegli anni e ripose il Craidhal che aveva preso a Temeh in un semplice scrigno di legno che nascose in un angolo dell’armadio, nella sua nuova camera. La gemma a forma di stella che luccicava, di nuovo trasparente, sul suo petto la faceva sentire più vicina a quella famiglia che non aveva mai conosciuto, come anche la cicatrice dalla vaga forma a stella che le fregiava il palmo.
Tarazed aveva confermato ogni cosa, l’alba successiva. Il suo giuramento era venuto meno l’istante in cui Tyris era scomparso e Uthrag trovato e legato con cura da Jahrien e i suoi – nel momento in cui stava per fuggire con una scialuppa nel Lago dei Draghi.
Myrindar era figlia di Asheena e Valair, sorella di Anser e gemella di Layrath e se si diceva che i Gemelli della Luna erano entrambi maschi – e gli unici eredi della famiglia reale – era solo perché lui aveva fatto di tutto per confondere le informazioni e proteggere lei e Anser, gli unici due che era riuscito a salvare da Tyris.
A proposito di come lei fosse finita tra i vicoli di Antya avevano discusso per molto tempo, e il Cavaliere Errante era giunto alla conclusione che la famiglia a cui l’aveva affidata, terrorizzata dal Kratheda, l’avesse abbandonata prima di fuggire altrove.
Se ci pensava, alla ragazza pareva ancora tutto così improbabile per essere vero; ma avrebbe avuto tempo per abituarsi all’idea, aveva detto Dane, e anche Jahrien pareva essere d’accordo. Da parte sua, avrebbe fatto volentieri a meno di molte delle implicazioni di quella storia – prima di tutto, l’abito che indossava, ma la governante aveva detto che era assolutamente necessario per la sorella del re vestirsi in quella maniera, e la ragazza non aveva osato protestare.
Myrindar si alzò dalla sedia intagliata e si allontanò dallo scrittoio, lisciando la gonna dell’abito cremisi. I capelli le tiravano ancora un po’, ma le ancelle avevano fatto un buon lavoro e le pareva quasi di non sentire le trecce che si avviluppavano su tutta la sua testa. Aggiustò il mantello sulle spalle, bianco orlato di rosso e fermato sul petto da una spilla d’argento, su cui spiccava la quercia cremisi su campo bianco, sormontata dalla corona, stemma della famiglia reale a cui lei apparteneva.
Si guardò allo specchio per l’ennesima volta, cercando in esso la ragazza che ricordava, e sorrise. L’avventura era iniziata in una mattina di festa, di fronte a uno specchio, in una casa e in abiti ben più poveri, ma a cui teneva altrettanto. Era stato solo un anno prima, eppure sembrava passata una vita intera.
Spero che tu sia fiera di me, mamma, ovunque tu sia, pensò.
Qualcuno bussò alla porta e Myrindar diede il permesso di entrare. Un viso noto, incorniciato da ciocche biondo miele e illuminato da due occhi neri e sorridenti, spuntò nello spiraglio della porta. Anche lui indossava abiti magnifici e la ragazza non poté fare a meno di chiedersi dove li avesse trovati.
«Mia signora, siete magnifica» la prese in giro Jahrien, sfiorando il pavimento in una profonda riverenza. La giovane rise e arrossì.
«Smettila, accidenti a te!» gli rispose, fingendo sdegno, ma il giovane la strinse tra le braccia e le stampò un bacio sulle labbra.
«Anser che dice? Sta ancora litigando con Tarazed per i vestiti?»
Il Cavaliere sollevò gli occhi al cielo. «Tuo fratello è peggio di una dama. Mia sorella ha fatto molte meno storie.»
«Se potesse sposarsi vestito da pirata sarebbe l’uomo più felice dei Regni dell’Ovest» replicò la ragazza.
«E anche i pettegoli di corte sarebbero i pettegoli più felici dei Regni dell’Ovest» sorrise Jahrien, poi le prese una mano. «Forza, andiamo. Non vorrai arrivare in ritardo al matrimonio del re!»
«No, certo che no!» esclamò lei. Prese la sua mano e uscì nel corridoio. Insieme, scesero le scale e attraversarono il salone principale.
Non era rimasta traccia della devastazione lasciata da lei, Layrath e Tyris mesi prima, ma nei suoi occhi, le immagini continuavano a sovrapporsi. Ci sarebbe voluto molto tempo prima che riuscisse a conviverci.
Com’era giusto che fosse, pensò. Non voleva dimenticare tutto ciò che era andato perso per costruire ciò che vedeva ora. Non voleva dimenticare di Layrath, né di Mearth, o dei vicoli di Antya. Erano frammenti di lei.
Ma non voleva nemmeno restare prigioniera del passato, non ora che stava cominciando a costruire un futuro.
Mano nella mano con il ragazzo che amava, Myrindar uscì alla luce di un mattino di primavera.






 
*** Fine ***










 
******* Famigerato Angolino Buio *******
No ma sto bene.
Giuro.
Mi è solo entrato uno Star Destroyer in un occhio.
Ehm.
Perdonate il ritardo, ieri non ho potuto aggiornare - mi pareva troppo bello riuscire a mantenere i piani - malgrado non ci sia stata nessuna catastrofe, apocalisse zombie o morte del collegamento internet; ma si fa quello che si può.
Comunque, dato che ho già sproloquiato a sufficienza altrove, non mi dilungherò di nuovo con scenate strappalacrime o simili, ma ho un paio di robe da dire, per cui nulla, vi sorbite persino le note finali.
La farò breve. Quando ho iniziato a lavorare su questa storia, come ho già detto, doveva essere un raccontino autoconclusivo di una dozzina di capitoli. Ora, la faccenda della dozzina di capitoli se n'è andata alle ortiche, ma quella dell'autoconclusivo è rimasta - l'avete visto, niente cliffhanger o roba brutta. Però nel frattempo mi sono venute altre idee per nuovi personaggi, altri luoghi da esplorare e mille altre cose; e da ciò sono giunta alla conclusione che le avventure nei Regni dell'Ovest non potessero chiudersi così. Nello specifico ho in previsione altre due storie ambientate sempre in questo mondo, ma che lasceranno spazio a protagonisti e luoghi diversi. Anticipo già che qualcuno dei personaggi ritornerà anche in futuro - ma non dico chi ^^ - però chi ha avuto un ruolo importante in Aleestrya non l'avrà anche nelle altre storie.
Per quanto riguarda la pubblicazione delle suddette storie... sinceramente, non lo so. Vorrei poter dire che sarà entro tempi brevi, ma non me la sento di prometterlo, visto che ogni volta che dico che ci metto poco poi passa l'eternità T_T farò il possibile per non aspettare eoni, quello sì.
Ora che ho detto tutto, ci terrei a ringraziare ognuno di voi che sia arrivato fin qui, ma anche che abbia solo letto il primo capitolo, o la prima frase; ringrazio tutti i recensori, i lettori silenziosi, chi ha seguito gli aggiornamenti travagliati - ops - e chi si è dimenticato di questa storia... tutti voi che avete avuto il coraggio di entrare in questo mondo. E, in particolare, Ayr, ché io non so come avrei fatto senza il tuo supporto!!

Ora che finalmente ho scritto il F.A.B. più lungo della storia di questa storia(?), posso ritirarmi nelle tenebre. Vi aspetto tutti quando inizierò a pubblicare Jynteria!
Alla prossima!

Vy

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2539050