Songs of Ice and Snow di thefireplanet (/viewuser.php?uid=657659)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Note
della
traduttrice:
Salve a tutti.
Vi presento fanfiction di thefireplanet, postata
sul sito fanfiction.net
(se volete potete trovarla in lingua originale QUI
(https://www.fanfiction.net/s/9870780/1/Songs-of-Ice-and-Snow).
E’ ambientata
una settimana dopo la fine del film. Per chi di voi è
familiare con Tumblr, il
nickname dell’autrice è dreamsalittlebigger, nel
caso vogliate esprimerle
personalmente i vostri commenti. La fanfiction è conclusa.
Buona lettura, rossanasmith.
Capitolo
1.
"La
porto solo a fare
un giretto di prova."
"Beh, perché non posso portarcela anche io? Non
c’è un motivo per cui non
possa!"
"Ti ricordi cos’è successo l’ultima
volta che sei salita sulla mia
slitta?"
"Io—Io—eravamo inseguiti dai lupi, non
l’ho fatta finire contro un albero!
E comunque, non è che non possiamo sostituirla o altro."
"Non—non c’è bisogno che la sostituisci
ogni volta che la rompo—"
"Che stai dicendo? Hai intenzione di romperla un sacco di volte, o cose
del genere?"
"No, sto solo dicendo che so badare a me stesso—"
"Non ho mai detto che non puoi, ma come ti è
persino—"
"Anna."
"Bene. Non ci volevo andare comunque."
"Beh, e dai non—camminare—ok, perfetto, se ne
è andata. Che hai da
guardare? Dacci un taglio, Sven." Kristoff si guarda i piedi di
malumore,
strascicando gli stivali sull’acciottolato del porto. Una
settimana fa, lo
stesso porto era stato racchiuso dal ghiaccio; adesso l’acqua
scintillava sotto
un sole estivo crescente. Guarda le montagne, gli alti picchi impervi
al
calore, e la meravigliosa neve che le incorona. Non vede
l’ora di essere lì.
Sven gli mordicchia la manica. "Non è che non voglio stare
con lei,"
scatta, scuotendo l’amico via di dosso. "E’ che lo
voglio."
E con questo si avvia alle stalle, a prendere puntelli e corda. Doveva
schiarirsi le idee. E la strada più rapida per avere una
mente sgombra era andare
dieci metri più in alto.
________________________________________
Elsa guarda la sorella attaccare il proprio pranzo, e osserva, gelida,
"C’è qualcosa che non va?"
"No," Anna scatta, a metà tra lo strappare grossi pezzi di
pane coi
denti e il risucchiare la zuppa di piselli posata vicino al suo gomito
sinistro. "Non c’è niente che non va,
perché dovrebbe esserci qualcosa che
non va, è tutto perfetto."
Elsa posa il cucchiaio. Le piace la sensazione del metallo freddo
contro i
polpastrelli nudi. C’è un cameriere accanto alla
porta che dà in cucina—Elsa,
imbarazzata, non riesce a ricordarsi il suo nome, poiché era
parte del gran
numero di persone assunte al palazzo dopo l’apertura dei
cancelli—e osserva
Anna con un misto di orrore e fascino. "Anna," sospira.
"Non mi dire Anna," Anna borbotta, ma, come al solito, la rabbia
ormai si è calmata, consumata in fretta, come un fiammifero
acceso. Posa il
pane, stende una mano sul tavolo—"Non è
stato—" Elsa inizia—e beve un
lungo, lungo sorso del vino color mogano di Elsa.
E lo sputa nella zuppa di piselli.
"—allungato," Elsa conclude, debolmente e ormai tardi.
Anna adesso inizia a strofinarsi il pane sulla lingua; Elsa toglie il
bicchiere
alla sorella e quasi sorride. Le labbra si sollevano agli angoli. Ma
è una cosa
strana, sorridere, e non riesce a farlo ancora bene—non
completamente, almeno;
non ancora. Una settimana, e le cose erano ancora strane,
nuove—sentimenti.
Traballava inesperta come un neonato.
"Come fai a—bere quella roba?"
Elsa dice, secca, "Ingoio."
Anna le lancia un’occhiata fulminante, poi risprofonda nella
sedia. Gli occhi
si spostano veloci lungo il tavolo; è un tavolo lungo,
coperto da una tovaglia
rosso ciliegia, e a capotavola un’unica sedia vuota, e anche
un’altra, accanto
ad essa; e poi, forse a cinque piedi di distanza, eccole appollaiate
lì, due
sorelle; e tutto il resto vuoto. Anna dice, "Solo—Scusa. Ho
litigato con
Kristoff. Prima."
A Elsa piaceva Kristoff infinitamente più di quanto le era
piaciuto—lui. Ma
questo non significava che Anna non si fosse buttata a capofitto; forse
non era
stato progettato un matrimonio, ma non era passato comunque abbastanza
tempo.
"Sono sicura—"
"Voglio dire, non è stato proprio un litigio. Più
me che mi arrabbiavo, e
non lo so, volevo solo passare un po’ di tempo assieme a lui,
ed era come se
stesse scappando via, il che è ridicolo, perché
chi scapperebbe mai via?"
Anna si blocca, fa in fretta un profondo respiro. Elsa sbatte le
palpebre,
senza parole. "Scusa."
Elsa scuote la testa. "No, Anna, non scusarti; Voglio che tu condivida
le
tue cose con me senza problemi," finisce piano, come se avesse paura di
dirlo. "E so che le cose sono state—frenetiche, questa
settimana."
Forse frenetiche non era la parola adatta; più
“impossibili”, sarebbe stata una
descrizione migliore. Elsa aveva dovuto mandare delle scuse ad almeno
quindici
dignitari stranieri, organizzare un incontro in piazza con tutta la
gente del
regno per affrontare il problema della sua maledizione, e scegliere
nuovi
servitori—un compito che aveva affidato ad Anna.
"Ho paura che non sia amore," Anna fa all’improvviso.
"Non—" gli occhi guizzano a capotavola. Le sedie vuote. "Non
ho
proprio grandissime capacità di giudizio quando si tratta di
queste cose."
Ride piano, un po’ prendendosi in giro da sola.
"Vorrei poterti aiutare," Elsa stringe la mano sul tavolo; la pelle
quasi traslucida contro la tovaglia rosso ciliegia, "ma ho paura di non
saperne molto nemmeno io."
"Beh," Anna fa, tirando su col naso, e pulendosi la bocca col dorso
della mano in una maniera non molto principesca, "almeno abbiamo
l’un
l’altra."
Elsa sorride, e da qualche parte dentro di lei, il ghiaccio si rompe un
po’ di
più.
________________________________________
Anna a malapena registra il fatto che la porta si stia
aprendo—cioè, da qualche
parte nel suo sogno di troll e abiti da sposa, c’è
uno scricchiolio. Poi una
dei troll apre la bocca pietrosa e piena di muschio, e la voce di Olaf
parla:
"Ah—nna, Ah—nna—"
"Olaf," Anna geme, ormai sveglia ma rifiutandosi di aprire gli occhi,
"Pensavo che ne avessimo già parlato." Una brezza gelata, e
sa che la
nuvoletta tempestosa personale di Olaf deve essere da qualche parte
sospesa sul
suo braccio sinistro. Si rintana di più sotto le coperte.
"Il cielo si è svegliato," Olaf dice allegro, "e quindi
anche
io!"
Anna non può fare a meno di ridere a quelle parole,
sorridendo nel cuscino,
l’eco di un ricordo che appare dietro gli occhi chiusi. Ne
apre uno. Le porte a
vetri che danno sul balcone rivelano un cielo che inizia a colorarsi di
viola.
"Non si è svegliato ancora."
"Ma lo sarà presto! Alzati, alzati!"
"Okay, cavolo," Anna sbadiglia, tirandosi su a sedere. Olaf balla
sulle coperte, spargendo fiocchi di neve ovunque. "Andiamo."
Arranca fuori dal letto, sobbalzando quando i piedi toccano il
pavimento freddo
di marmo. Rabbrividisce, e i brividi la fanno star male, da qualche
parte
dentro; era più sensibile al freddo, da quando era successo
quello che era
successo. Avrebbe potuto sotterrarsi in un centinaio di coperte e non
stare mai
al caldo—come se una scheggia le fosse rimasta infilzata nel
cuore, e riusciva
a immaginarla, sempre lì.
Era così che ci si sentiva, ad essere Elsa?
Anna apre le porte della balconata, ed è accolta
dall’aria che piano piano si
fa meno gelida, nella fredda notte estiva. Lontano, sulle cime, riesce
a vedere
i primi raggi di sole. Olaf praticamente danza di gioia accanto a lei.
"Hai mai visto niente di così bello?"
"Beh, anche ieri è stato abbastanza bello," Anna sbadiglia,
appoggiandosi alla balaustra di pietra, "e anche l’altro
ieri; e anche
l’altro-l’altroieri."
"Sì," Olaf sospira sognante. Non arriva al bordo della
balaustra,
tranne che con la punta del naso. Il sole si vede appena. Anna ride.
"Olaf, sei—Olaf!" Si raddrizza di scatto. "Kristoff
sarà
tornato!"
"Sven è partito?"
"Già—devo andare, scusa, è
che—"
"Ma il sole non è nemmeno sorto tutto!"
"Lo so!" Anna urla, fiondandosi nella stanza, infilandosi due scarpe
diverse e mischiando corsetti e gonne. "Ma devo chiedergli scusa!"
________________________________________
Elsa apre gli occhi, e il sole è color albicocca, e si
accorge di aver dormito
troppo. Si siede, e la lista dei suoi doveri le occupa la
mente—per cominciare,
quella lettera arrivata proprio il giorno prima dalle Isole del Sud,
ancora
sigillata. Sospira.
E poi la porta si spalanca di scatto.
"Elsa!" Anna si affretta dentro. Indossa un berretto pesante rosa,
una gonna gialla, un corpetto celeste, e due scarpette di colore
diverso. Elsa
sbatte le palpebre. "Che stai—"
"Non è ancora tornato," Anna dice. Inizia a marciare ai
piedi del
letto, avanti e indietro. "E’ passata tutta la
notte—praticamente
un’eternità, e non è ancora tonato, la
slitta non c’è più—"
"Chi—Kristoff?"
"Sììì! Pensavo che ormai fosse tornato
e sai che insiste per dormire nelle
stalle con Sven? Beh, lo fa, gli ho detto che poteva dormire nella
stanza degli
ospiti, ma comunque non è questo il—il punto
è che non c’era. Voglio dire, non
so, credi che sia scappato?" Anna si ferma per respirare.
"…no?" Elsa ha voglia di ridere, che probabilmente
è la reazione
sbagliata. "Sono sicura che stia bene, Anna. I venditori di ghiaccio?
Passano settimane da soli tra le montagne."
"Settimane? Troppo tempo." Pausa. Poi: "Quindi credi che non gli
sia successo niente?"
"No," il lato destro della bocca di Elsa si solleva. "Adesso
vatti a cambiare. Sei ridicola."
Anna si guarda velocemente, e spalanca gli occhi, come se si fosse resa
conto
solo allora di come era vestita. "Oh, cielo, sono andata in
giro—oh. Ok,
ci vado subito. Buona idea."
Elsa la guarda andar via, tirando un filo della coperta.
________________________________________
Anna guarda le montagne lontane, come se potessero dirle qualcosa. La
Vetta
Nord sembra piccola e insignificante da lì. Sopra di lei il
cielo brilla, un
migliaio di stelle che la illumina, e sta congelando.
Non fa particolarmente freddo, e lo sa, ma non riesce a smettere di
tremare,
anche con le braccia allacciate e le dita dei piedi premute assieme.
Nella
stanza dietro di lei scoppietta il fuoco, ma a parte questo il palazzo
è
silenzioso, le luci spente.
Non è che—lo vuole soffocare, né
niente, ma se ne era andato così e lei sentiva
il bisogno di scusarsi. Si fissa le dita, premute ai lati del torace, e
il
volto di Hans guizza tra i suoi ricordi come un’alga. Fa una
smorfia, tirando
fuori la lingua. Più che altro provava vergogna, e imbarazzo.
Più che altro aveva paura accadesse di nuovo.
Più che altro temeva di non sapere cosa fosse
davvero il vero amore.
Sospira, e si rannicchia, e poi sente, "Hai freddo?"
Sì gira, a metà; Elsa è lì,
delineata sulla soglia. Si ricorda dei tempi in cui
condividevano la stanza. Un’infanzia intera, sprecata. Dice,
"No, sto
perfettamente—"
Elsa agita la mano, e un venticello gelato raccoglie una coperta dal
letto
nella sua stretta di ghiaccio, la trascina fuori, e con uno svolazzo la
deposita ordinatamente sulla sua testa. Anna ride. Non riesce a vedere
nient’altro che diamanti che si intrecciano. "Stai
migliorando!" alza
la voce per farsi sentire da sotto la stoffa. "Credi di potermi far
volare
oltre il muro?"
Elsa non risponde. A volte—cioè,
sempre—Anna è convinta che lo scherzo non
faccia parte del suo vocabolario; del resto, Anna scherza solo in
parte. Se
potesse volare oltre il muro, ora, sarebbe capace di trovare Kristoff.
Sente il
rumore dei passi, e poi le braccia di Elsa le si stringono attorno,
insieme
alla coperta.
"Ciao," Anna sorride. Scrolla le spalle e le avvolge nella coperta,
lasciando la testa fuori. Elsa è lì in piedi, con
l’aria un po’ preoccupata e
persa alla luce della luna. Anna le prende la mano. "Ancora alzata?"
"Come te," Elsa controbatte. "Avevo degli affari di cui
occuparmi. La tua scusa qual è?"
"Nessuna. Voglio dire, niente. Nessuna scusa. Non riuscivo a dormire."
"Kristoff sta bene, Anna."
"Lo so! Sto solo—ammirando le stelle!"
Elsa le lancia un’occhiata. Il tipo di occhiata fraterna che
smaschera le sue
bugie. Sorride sfacciata. Poi Elsa fa quello che Anna non voleva
facesse, e
nota la pelle d’oca sulle braccia mentre si aggiusta la
coperta. "Hai
freddo?" sua sorella si acciglia.
"Un pochino. Non è niente. Forse mi sto ammalando, credo."
Non aveva
detto a Elsa di come non riusciva più a riscaldarsi, non
davvero. Sua sorella
non aveva bisogno di un altro peso sulle spalle. Cambia
l’argomento.
"Allora, domani posso aiutarti con qualcosa?"
Elsa stringe le labbra. Dopo un momento, comunque, risponde secca. "Ci
sono alcune cose, sì. Devo chiamare il pittore reale per i
nostri ritratti e
rispondere a un paio di lettere. Forse puoi controllare che le merci
arrivino
nel porto come devono?"
Anna annuisce, sorridendo. "Ma certo."
Si fissano per un minuto. Ad Anna tutto questo piace. Le piace avere
qualcuno a
cui parlare, anche se si stanno sondando piano di nuovo, dopo tutti
questi
anni. Il suo sorriso si fa più largo, e si piega in avanti
per un abbraccio
veloce. La pelle di Elsa non è di ghiaccio—e un
po’ più calda di com’era
prima—ma quasi, e non aiuta la temperatura di Anna. Dice,
"Buonanotte."
Elsa sorride, una cosa piccola, fragile. "Vai a letto."
"Sissignora!" Anna unisce i tacchi, osservando la sorella che se ne
va, e poi si volta di nuovo verso i muri massicci del cortile, e oltre,
i
fiordi. E’ pace. E’ silenzio. Voleva solo dire mi
dispiace, tutto qui. Sospira,
appoggiando la guancia nel palmo con forza. La coperta le scivola dalle
spalle.
I cancelli sono ancora aperti, anche di notte, ora; qualcosa che Elsa
aveva
detto sul farli rimanere così. Ad Anna non importava. Erano
aperti, e sarebbe
potuta andar via, se voleva, e—
Dove sarebbe andata?
"Ugh, Kristoff," Anna sospira, guardando le due guardie appoggiate
ognuna a un lato dei cancelli. Traballano alla luce del braciere.
"Stupido, presuntuoso, non ci posso credere che è—"
C’è un suono di zoccoli. Debole,
all’inizio, e poi che si precipita in avanti,
oltre i due uomini spaventati e nel cortile. Anna rabbrividisce da capo
a
piedi, perché Sven è lì, e molto privo
di Kristoff.
"Lo sapevo!" sibila, alzandosi all’indietro e lanciando la
coperta
sul pavimento della stanza. Si infila gli stivali (appaiati, questa
volta) e il
mantello rosa e si mette anche il cappello per essere sicuri, e se ne
va, di
corsa per i corridoi, senza fermarsi, anche se parecchie delle Guardie
di Notte
gridano al suo passaggio. Scivola nel cortile,
l’abbigliamento invernale
proprio perfetto per l’aria fredda della notte, anche se non
dovrebbe essere
così, anche se avrebbe dovuto sentirsi soffocata—e
c’è Sven,
Sven—"Sven!" urla, inciampa, e riesce appena a mantenersi
sulle sue
corna per non cadere. Sembra preoccupato. "Sven,
dov’è- cos’è—"
Sven muove la bocca.
"Non so parlare il rennese, Sven, solo Kristoff ci riesce."
Sven ripete il movimento, e poi le morde la manica. Lei si solleva e
gli si
siede in groppa.
"Okay, amico, se qualcosa non va—devi portarmi da lui."
Balzano oltre
le guardie ai cancelli. "Dite a mia sorella che sto cercando di trovare
quello stupido del mio fidanzato!" urla loro, ma non sa se
l’hanno sentita
o no, perché ormai erano puntini ai limiti del suo campo
visivo, e lei e Sven si
precipitano alla Vetta Nord.
________________________________________
"Kristoff?"
Anna si chiede perché bisbiglia; non
c’è bisogno di bisbigliare.
C’è un
silenzio di tomba, e la neve è vecchia, e densa, ma non
può fare a meno di
ricordarsi dei lupi. Sussurra di nuovo, un po’ più
forte, "Kristoff?"
Sven la porta fuori dagli abeti, e alla luce splendente della luna, che
si
riflette sul suolo candido, a sufficienza da farle distinguere
facilmente la
slitta. E’ a posto, non un graffio. C’è
una torcia, mezza spenta e praticamente
un tizzone morente, a terra accanto a essa. Il cuore le batte in modo
orribilmente frenetico. Smonta da Sven, senza grazia, cadendo
violentemente
sulla schiena; la renna si muove in avanti impaziente.
"D’accordo, ok,
arrivo, lasciami solo—" si alza in piedi. Non vuole vedere
cosa è
successo. Lo farà in fretta, come strapparsi un cerotto.
Corre in avanti.
Sven, con una specie di nitrito, le afferra il mantello coi denti e la
strattona all’indietro proprio prima del margine irregolare
di un crepaccio
stretto e profondo che non aveva visto. Corre di nuovo
all’indietro, col cuore
che batte.
"Grazie, Sven," sussurra. Gattona in avanti.
Lo spazio tra il limite vicino a lei e l’altro non
è molto—è davvero stretto,
in realtà, e potrebbe superarlo con un balzo Ci sono dei
segni sull’altro lato,
come se qualcuno l’avesse fatto. Le rocce scure, nere,
tagliano la terra, e lei
spia il margine della roccia; le pareti strette scendono per altri sei
piedi,
forse, e poi non riesce a vedere più. Nero.
"Sven, dove sta?"
La renna sposta la torcia verso di lei, dandole dei colpetti. La
prende,
soffiando sui tizzoni per farla riaccendere un po’. Sfarfalla
smorta tra le sue
mani. LA infila nel crepaccio stretto e urla, "KRISTOFF! SEI
LAGGIU’?"
Battito. Due. Poi, un gemito. "…Anna?"
"Kristoff!" urla, e il suo corpo si rilassa, e si sente sollevata.
"Dove sei? Vengo a prenderti!"
"No, torna indietro, Anna, non puoi farlo da sola—"
"Va bene—ecco, ho trovato la corda." Se la infila in spalla.
"Dove sei? Che stavi facendo, comunque, quanto lontano —"
"Anna, non ci sono sostegni, devi—"
Fa scendere la torcia più a fondo nella crepa, cercando di
vedere al buio, e
coglie un barlume di luce, un mormorio di qualcosa di viola, e si piega
un po’
di più. "Faccio cadere la torcia, è sopra di te?"
"No, ma Anna, solamente—"
La lascia andare. La torcia precipita per circa sei metri, e poi
atterra, con
un sibilo che si fa via via più debole, su qualcosa di
freddo. Illumina
vagamente l’interno di qualunque cosa ci sia sotto, e riesce
a vedere il corpo
disteso di Kristoff. "Perché non stai in piedi? Hai rotto
qualcosa? Ti sei
rotto tu?"
"Anna, ti prego, non voglio che tu—"
"Ecco, faccio un’ancora di neve!" Si volta indietro, e Sven
piega la
testa, ed è grata perché ha qualcosa da fare,
qualcosa che le fa continuare a
scorrere il sangue e le tiene la testa lontana dalle cose. Inizia a
scavare una
piccola curva spostando la neve, infilando un capo della corda sul
mucchietto
che ha fatto. "Che ci facevi laggiù, comunque? Non importa.
Lo sapevo che
qualcosa non andava. Ecco."
Finisce, testa la corda, e poi si lega l’altro capo attorno
alla vita. Si alza,
si stiracchia un poco, e poi barcolla fino al margine della spaccatura
profonda. C’è un altro pezzo di corda nella
slitta, e la afferra. "Okay,
adesso scendo fin dove posso e ti passo la corda, e poi—poi
Sven può tirarci
su, o roba così. Sai, quello che è, decidiamo
quella parte quando ci
arriviamo."
"Anna, si scivola," Kristoff la avverte. "Vai a chiamare un paio
di guardie e basta—"
"No, stai scherzando? Possiamo farcela. Sarà," grugnisce,
sporgendosi
in avanti, "un’esperienza che ci legherà," si
sporge un poco di più,
e poi, col rumore di un cuscino che cade a terra, e l’ancora
di neve cede. Sven
fa un grugnito. Anna non ha nemmeno il tempo di urlare prima di
cominciare a
cadere. Sbatte la testa sull’entrata stretta di qualcosa
prima che si allarghi
e continua a cadere, solo che adesso è sottoterra, e
poi—
"Oof," emette un rantolo, senza respiro, le scintille davanti agli
occhi. E’ stesa su qualcosa di bitorzoluto.
"Credo che tu mi abbia appena spappolato la milza," Kristoff riesce a
dire, ansimando.
"Kristoff!" E poi si accorge di quello che è appena
successo. La
torcia si sta spegnendo, a un metro o poco più di distanza,
i tizzoni che
brillano debolmente, e la luce della luna non basta. Sono in una
caverna, ma è
tutto quello che riesce a distinguere. Kristoff si muove sotto di lei;
sente le
mani poggiarsi sulle sue braccia.
"Beh," Anna dice, "Potrebbe andare un po’ meglio."
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo
2.
La piccola candela balugina triste, proiettando ombre sui muri. Fuori
il cielo
estivo è del colore delle prugne, e sarebbe riuscita a
distinguere le stelle,
se non fosse stato per la luce della luna che entrava dalle finestre.
Elsa si
ferma davanti a una di esse; c’è il lago, e ci
sono i boschi, e oltre, le
montagne, ancora baciate dalla neve. La mano che non tiene stretto il
candeliere di metallo ha uno spasmo involontario. Aveva avuto tanto a
che fare
con il freddo da bastarle una vita, ma stare lassù, non
l’aveva fatta sentire—
Confinata.
Elsa fa un passo indietro. Volta le spalle alle montagne, e al freddo.
Oltrepassa
la porta della propria stanza da letto. E’ chiusa, serrata.
Guarda dritto
avanti, e non può fare a meno di pensare che una camera da
letto non dovrebbe sembrare
una prigione nemmeno la metà di quanto lo sembra la sua.
Attraversa un’altra porta, e arriva in un altro corridoio,
quello che dà a
destra, e verso l’interno del palazzo; quello che contiene
file di volti. Non
ci sono finestre, lì, solo oscurità; il tappeto
di moquette rossa, pannelli ai
muri, carta da parati blu; ritratti incorniciati d’oro, che
la fissano con aria
accusatoria. Elsa si ferma, la schiena rivolta alla luce della luna. La
candela
trema per la brezza gelida; il respiro forma una nuvoletta di vapore.
Scuote la testa, in fretta, e arriva in fondo al corridoio, ma, come
ogni
volta—quella sera, e quella mattina, e ieri, e ieri
l’altro, e tutti i giorni
da quando era stata incoronata—deve fermarsi. Voltarsi.
Alzare gli occhi.
Quel ritratto, nel corridoio dei precedenti re e regine, non era
così enorme
come quello appeso a parecchie stanze di distanza; era una copia
perfetta,
comunque, dal pervinca del vestito della regina alla
lunghezza dei capelli del re. Sta ancora
imparando a provare sentimenti, e questo sa di—vuoto. Sposta
la candela, verso
lo spazio vuoto che un giorno avrebbe ospitato il suo ritratto. In quel
momento,
non era altro che un muro spoglio.
Elsa fa un respiro profondo, sentendo il ghiaccio insinuarsi nelle
vene. Si
volta. Respira. Conta. Ecco, vedi. Respira. Conta. Ecco. Si concentra
sulla
calda luce arancione della sua piccola candela e volta le spalle.
Dovrebbe
seguire il proprio consiglio- addormentata. Da qualche parte, se non in
camera
sua, invece di vagare—
Spera che Anna sia andata a letto.
Il dipinto che si trova direttamente di fronte è scolorito,
e vecchio,
nonostante l’assenza di luce diretta. Elsa riesce a guardarlo
con occhio
critico, perché non conosce i volti di persona, non li ha
visti piegati sopra
di lei, a sussurrarle ninnenanne spaventate all’orecchio.
Sono piuttosto
scoloriti; e lo stile dell’epoca aveva dettato
l’uso di ampie, grasse
pennellate. C’è un sentore di viola e bianchi,
eleganza—un uomo dal naso a
punta e sua moglie, più delicata. La regina Hanna e il re
Rolf, i primi sovrani
di Arendelle. Elsa ricorda la piccola figura nel libro di storia, gli
alberi
geneaologici—e lui sposò lei, e lei
generò lui, e—
La pittura ha una crepa nell’angolo sinistro, in basso;
c’è qualcosa di bianco
che splende da sotto lo sfondo blu scuro. Elsa si avvicina, la candela
che
oscilla pericolosamente, ma almeno non lo sente
più—il ghiaccio, che minaccia
di consumarla. Avvicina un’unghia alla superficie, e,
piuttosto furtiva,
controlla il corridoio. È sola, e non sa perché
si sia presa la briga di farlo,
perché se lo aspettava, eppure, mentre avvicina
l’unghia alla vernice, le
sembra quasi di commettere un sacrilegio. (La stessa sensazione che le
aveva
dato giocare a fare le tempeste di neve con la sua sorellina alle due
del
mattino.) Gratta una volta, due—una scorticatura breve,
piccola, non se ne
sarebbero accorti—
In effetti c’era qualcosa; solo che Elsa non
riusciva a capire bene cosa.
La candela si avvicina alla base di metallo, la cera
si accumula sul fondo; aveva delle cose di
cui occuparsi. Avrebbe dovuto tornarci al mattino.
"Che razza di sorella sarei," sbadiglia, con un passo indietro,
"se non seguissi i miei consigli?"
Anna era a letto, addormentata; avrebbe dovuto esserlo anche lei.
________________________________________
Anna per sbaglio gli pianta un gomito nel fianco mentre lotta per
tirarsi su a
sedere.
"Woah, woah, woah, furia scatenata," rantola, cercando di recuperare
il fiato; aumenta la presa sulle sue braccia, "devi rimanere
immobile."
C’è una pausa. Il piccolo raggio di luce che
filtra da sopra, attraverso
l’apertura del crepaccio, non basta nemmeno lontanamente per
vederci, e tutto
quello che riesce a distinguere è il bagliore rossastro dei
suoi capelli. La
tiene del tutto ferma; sono praticamente petto contro petto, gambe
contro
gambe; lui manda giù un groppo alla gola. Lei dice, "Ti
rendi conto che
per me è quasi fisicamente impossibile farlo?"
"Hai messo assieme una frase, positivo."
"Perché? Perché positivo?"
"Hai battuto la testa mentre cadevi."
Anna lo guarda in modo malizioso, coprendo la distanza in una maniera
che lo fa
sentire incredibilmente a disagio e incredibilmente—beh, a
suo agio—allo stesso
tempo. Riesce a distinguere la curva netta del naso. "Come fai a sapere
che ho battuto la testa?"
"L’ho sentita."
Mette il broncio.
"No, sul serio, sembrava una roccia che colpisce una—beh,
roccia più
piccola."
"Stai paragonando la mia testa a una grossa roccia?"
"…forse?"
Lo colpisce sul petto, ma senza molta forza, e Kristoff pensa che forse
stia
sorridendo; gli piacerebbe vedere. Anna prova a muoversi di nuovo.
"No," dice, e giura a sé stesso che è per il bene di lei, e non
perché vuole chiederle di
nuovo se può baciarla, "potresti avere una commozione."
"Una checcos’è?"
"Ma ti hanno insegnato qualcosa in quel palazzo?"
"Francese."
Alza gli occhi al cielo, anche se lei non può vederlo. Apre
la bocca per dire
qualcosa, ma lei lo fa prima. "Sto bene Kristopher," e ha iniziato a
chiamarlo così, quando vuole attirare la sua attenzione, o
dargli fastidio, o
qualunque cosa, sul serio. Il suo volto è vicino.
Così vicino. Sussurra,
"Bene."
"Bene," fa eco lei; e poi piuttosto all’improvviso rimbalza
all’indietro, piantandogli un altro gomito nello stomaco.
"Voglio dire,
sarei io a doverti chiedere come stai! Stai bene? Da
quant’è che sei quaggiù?
Perché sei venuto quaggiù? Vediamo se riusciamo a
trovare la torcia, hai
qualcosa di rotto—"
Non avrebbe dovuto muoversi; una volta, Kristoff era scivolato e caduto
sul
ghiaccio, spaccandosi la testa, e si era sentito bene per
un’ora o giù di lì,
finchè erano arrivati i capogiri e il vomito- e Papi aveva
dovuto dargli un
qualche antidoto puzzolente per fargli diminuire il gonfiore alla
testa—ma,
certo, Anna aveva fatto già metà della strada per
dove credeva fosse la torcia.
Non era altro che un’ombra più scura
nell’oscurità. Esclama, "Ho visto del
ghiaccio."
"Sei caduto quaggiù per del ghiaccio? Kristoff,
c’è una montagna intera
lassù."
"No, questo era diverso," sospira, osservando la feritoia in alto.
"Vorrei—vorrei che lo avessi visto,
come—era—beh, la cosa che ci si
avvicinava di più," si ferma, "era al castello di tua
sorella."
Anna rimane in silenzio per un battito, due. Poi: "Ma quello era
ghiaccio
magico; non avrebbe potuto essercene qua sotto."
"So cosa ho visto," semplicemente dice. Ha imparato a fidarsi dei
suoi sensi, anni di arrampicate in ambienti selvaggi, e cene di
famiglia coi
troll. C’era una caverna, e le pareti erano di ghiaccio
perfetto—adesso non
riusciva nemmeno a distinguerle. La sente sospirare a due, tre metri di
distanza. "Non riesco a trovarla."
Si tira su a sedere, Prova a stare in piedi sulla gamba, e
all’improvviso si
ricorda perché non si era mosso. Sibila di dolore.
"Kristoff?" Sente Anna andare a tastoni al buio. "Che
c’è?"
Sospira, afflosciandosi all’indietro. "Niente."
"E’ ovvio che non è niente."
Non ci è abituato. Aiuto. Si sfrega gli occhi col dorso
delle mani coperte dai
guanti. Della neve gli si accumula sul naso. "La gamba. Ha preso il
peggio
della caduta." La sente incespicare in avanti al buio, solo che lei non
riesce a vedere e—"Ahi. Quella gamba, sì."
"Oops."
Sente le sue mani che gli scorrono piano su per la coscia.
"Che—che stai
facendo, perché lo stai facendo, ch—"
Si bloccano sul suo viso. "Eccoti qui." Si sistema vicino a lui.
C’è
un lungo silenzio. Poi, "Mi dispiace. Per prima. Non voglio mica,
soffocarti, o così, non è
che—è solo che mi piace passare tempo con te.
Tutto
qui. Voglio dire solo questo, intendo, hai un bel naso. Aspetta, che?"
Non sa come sentirsi. Problemino da sistemare era la definizione giusta. Allunga le
mani verso
dove crede sia la sua faccia, e i guanti le strofinano la guancia. Dice
molto
in fretta, "Anche a me piace passare tempo con te." Le parole avevano
un sapore strano. Poi lascia cadere la mano. Sobbalza quando lei parla
di
nuovo, lentamente. Riesce a sentire la pressione delle dita attraverso
i
guanti.
"Solo che, sai," sta sorridendo, lo sa, "non sul fondo di
un burrone pieno di ghiaccio perfetto."
"Non sono pazzo."
"Ceeeeeeeeeerto." Tossisce. "Dio, che mal di testa."
Una stretta allo stomaco. "Anna?"
"Che c’è?"
Non sa cosa fare. Sa che Sven sicuramente è andato a cercare
aiuto, ma nel
frattempo erano soli, e lui con una gamba fuori gioco. La mente corre,
ma la
bocca è aperta, e non fuoriescono suoni.
"Oh," Anna fa all’improvviso. La sente allontanarsi
frettolosa di un
paio di metri, e poi eccola in preda ai conati, nella neve. Si siede.
"Anna!"
"A cena, ho bevuto—il vino. Un paio di giorni fa. Tutto qui.
Sto bene, sto
bene. Almeno non ti ho vomitato addosso."
"Torna qui," fa lui, la voce tesa. La riesce a sentire che si muove a
fatica nella neve fresca, che è intatta, e piuttosto spessa.
Lei
risponde, "Voglio solo stendermi."
"Non credo sia una buona—idea, ok, certo, stenditi
lì, va bene."
Si è accoccolata contro di lui, con la faccia nella neve.
Non sa, al buio, se
ha gli occhi chiusi. La stringe più dolcemente che
può; la gamba inizia a
pulsargli. La neve riusciva ad alleviare il dolore solo pochissimo. La
sistema
contro il suo petto. "Sei—è—stai comoda?"
Non risponde.
"Anna, stai comoda?"
"Mmm."
"Sven tornerà presto, porterà delle guardie,
forse, o gli altri venditori
di ghiaccio—" Kristoff inizia a parlare, perché
non sa che altro fare, e
questa era davvero, sul serio, tutta colpa sua, perché
voleva vedere quel
ghiaccio, e perché se ne voleva andare, e prendere la
slitta, ma lei era una
principessa, la ragazza che tremava tra le sue braccia era una
principessa e
lui era—era—
Beh. Era Kristoff.
E non era molto.
________________________________________
"Aprila e basta," intima a sé stessa. "Veloce.
Dai—spezza il
sigillo. Poi puoi andare a letto. Aprila e basta."
Elsa continua a fissare quella cosa davanti a lei. L’unica
sulla scrivania, e
non era stata spostata fin da quando l’attendente
l’aveva portata. La
sorprendeva il fatto che ancora non avesse lasciato un buco sul tavolo.
Il
fuoco, che ondeggia dietro di lei, scoppietta e scrocchia nel focolare;
è
ancora estate, e le serve tanto per la luce quanto per il calore. Non
ha mai
troppo caldo, o troppo freddo. È difficile sentire.
Sente qualcosa per questa lettera, comunque—odio. E non
brucia potente, caldo e
rosso come aveva letto nei libri—no, è
freddo, e lento, il morso del gelo
che sorprende i mercanti in inverno e porta con sé arti
interi.
Il sigillo è rosso sangue, con l’emblema della
famiglia reale e dietro di esso
una fenice che si alza in volo. Il simbolo delle Isole del Sud.
Doveva aprirla.
Doveva aprirla ora.
Doveva—
La porta della libreria viene spalancata di botto, e si spaventa. Un
fiotto di
ghiaccio esce fuori dalla mano tesa, e copre il soffitto di una piccola
tempesta.
"Vostra Altezza!"
"Sì, mi dispiace, stavo solo—" ha le vertigini, si
chiede cosa dire,
se la guardia le sarà ostile—è un altro
nuovo del gruppo che è arrivato, col
naso a punta e capelli biondi e occhi neri come il carbone, ma no,
benedetto
lui, rimane in silenzio—
"C’è una—renna, nel cortile. La
bardatura—sembra quella dell’… amico
della
Principessa Anna," termina, come se non fosse sicuro di come definire
Kristoff, ed Elsa, ancora cercando di recuperare il respiro, non
può fare a
meno di pensare che è proprio quello il nocciolo di tutta la
questione—
"Una renna?"
"Sola, sì."
Si acciglia. "Mostratemela."
________________________________________
"Hai freddo?"
Kristoff aveva appena finito di raccontare una lunga, complicata storia
sulla
volta in cui i troll avevano provato a insegnargli a ballare, e come
aveva
finito, invece, col dare fuoco a mezza foresta. Anna pensa che le
sarebbe
piaciuta di più, se non le avesse fatto tanto male la testa,
o se non le fosse
venuto da vomitare. Non voleva vomitare addosso a Kristoff. Sarebbe
stato
scortese. Qual era la domanda?
"Hai freddo?" Kristoff ripete. Lo sente scuoterla, solo un pochino.
Il suo viso è accoccolato tra il collo e la spalla di lui.
Il suo braccio, che
la avvolgeva protettivo, e la stringeva a lui, doveva aver perso la
sensibilità. Come è romantico, pensa, piuttosto
sfocatamente, sarebbe stato
tutto così romantico, se non avesse avuto la nausea.
"No," fa piano. È come parlare con la bocca piena di miele.
Deve
faticare per raggiungere i pensieri, e tutto sembra come, cioè, scivolare
fuori.
"No, mi sento—al caldo. Non—non stavo al caldo da
un po’."
"Quanto tempo è un po’?"
"Oh," sbadiglia, "almeno una settimana."
"Resta sveglia, Anna."
"Sono sveglia."
"Settimana?"
"Sì, la sento la mano."
"No, che vuoi dire, che è una settimana che non stai al
caldo?"
Sente il bisogno di sussurrare, così lo fa, vicino al suo
orecchio, e lo guarda
tremare, "Non devi dirlo a Elsa."
"Non lo farò."
"Fin da quando mi ha congelata, ho avuto—freddo." Sbadiglia
di nuovo.
"Ma adesso no."
"Ridicolo. Siamo sottoterra, coperti di neve, come fai a—"
"Shh, stupido," sospira, e le si chiudono gli occhi. "Sto al
caldo."
"Anna?"
Nessuna risposta.
"Anna?"
Nessuna risposta.
"Anna?"
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
capitolo
3
Elsa
vede la renna e lo
capisce.
Sven nitrisce rabbioso, forte, grugnisce, si dimena, puntando le corna
contro
chiunque gli si avvicini. Le guardie lo stanno circondando, in mano una
corda e
una rete, ma li evita tutti con destrezza, correndo da una parte,
dall’altra.
"Legatelo!"
"Prendetelo—prendetelo—"
"Qua!"
Elsa osserva. Ha addosso i finimenti, ma si trascina dietro i capi
della
bardatura, sfilacciati, forse strappati. Strappati, come se Sven li
avesse
staccati a morsi. Stringe i pugni. "Basta!"
Le guardie si fermano immediatamente. "Vostra Altezza!" borbottano,
tutti e cinque in coro, e poi si inchinano profondamente, con
l’aria ridicola—cappelli
fuori posto, corde intorno ai piedi. Sven corre verso di lei,
all’entrata del
palazzo dov’è in piedi. Si impenna, puntando la
testa verso le montagne oltre
le mura. Lo fa di nuovo. Elsa lo raggiunge in fretta, le mani avanti a
sé—uno
strato di ghiaccio attorno alle unghie. "Piano, piano, piano," lo
calma. Sven si zittisce, ma ha il respiro accelerato. "Sven,
dov’è
Kristoff?"
Sven ripete il gesto verso le montagne.
Doveva svegliare Anna? Elsa si stringe le mani, lo sguardo fisso,
poi—"Preparate una slitta!" ordina, cercando di rimanere
calma, fredda,
ma c’è del gelo nelle vene
ed è
spaventata, ha paura che sua sorella avesse ragione ad essere
preoccupata ed ecco
lei invece, a sminuire. "Preparate un battaglione. Sette guardie, a
cavallo e attrezzate per l’inverno. In fretta!"
"Sì, Vostra Altezza!"
"Sven, torno subito," dice, appoggiando la mano sul naso della renna.
"Ho bisogno che tu rimanga calmo, ok?"
Sven grugnisce dal naso. Elsa si solleva la gonna, liberando le gambe,
e torna
indietro di corsa al castello, ignorando, per il momento, i manierismi
da
regina. Percorre le scale a chiocciola quasi con un solo scatto, arriva
fino al
corridoio con le grandi finestre; la luce della luna si fa
più sbiadita. Si
arresta all’improvviso davanti alla porta di Anna, col petto
che si abbassa e
si solleva in fretta, alza la mano per bussare—
Si ferma, fissando la porta di legno bianco.
Cosa avrebbe detto?
Cosa
avrebbe potuto dire?
Si morde il labbro. In fretta, doveva farlo in fretta—
Bussa pianissimo. Aspetta il tempo di un battito cardiaco, riprova un
po’ più
forte. "Anna?" Afferra la maniglia, la gira. "Anna, io—"
Lascia andare la porta, che si apre. C’è la
coperta, sul pavimento; e le porte
del balcone aperte; e il letto, vuoto. Il pavimento turbina in un
vortice di
ghiaccio affilato, che strappa il copriletto in due pezzi, ma Elsa non
lo vede—
Corre.
________________________________________
"Aiuto!" La sua voce è ruvida, roca. Il respiro forma una
nuvoletta e
i polmoni gli fanno male e ha dolore alla caviglia. Si era spinto in
su,
tenendo lei in grembo, una gamba inutile stesa all’infuori, e
sedevano lì, al
buio. Prova ancora, "Qualcuno, per favore!"
Presto avrebbe perso la voce. Se ne stava già andando,
strozzata verso la fine,
debole e silenziosa, al freddo. La sue grida d’aiuto non
arrivano lontano.
L’aria della mezzanotte li sta uccidendo.
Non si muove. Respira—piano, a fatica, in maniera
orribilmente
irregolare—ma lei non si muove.
"Aiuto!"
________________________________________
C’è una scia di ghiaccio che la segue per tutta la
città, su nelle montagne, ma
le guardie non dicono una sola parola. Abbastanza in alto,
nell’aria fredda,
rarefatta, comincia a pensare con più lucidità, e
ascolta il vento che le porta,
fischiando, canzoni di ghiaccio e neve—si guarda indietro e
Arendelle è un
borgo tranquillo, addormentato, accoccolato nell’abbraccio
delle montagne. Il
cielo si fa più chiaro, colorato di violetto
all’orizzonte.
Il suolo inizia a diventare più duro, e poi intravede la
prima neve. Dovrebbero
essere in alto abbastanza da usare la slitta, che avevano caricato su
un carro.
Sven è lì affianco affaticato, grugnisce e
colpisce la terra con lo zoccolo.
"Scaricate qui, e veloci," Elsa esclama, smontando. Afferra i capi
del mantello e dice a se stessa che non sarebbero stati più
capaci di
distinguere il ghiaccio provocato da lei e quello normale, non
più. È un
piccolo, piccolissimo conforto.
"Vostra maestà," fa una delle guardie, e dietro di lui Sven
ansioso, impaziente,
si sistema davanti alla slitta. Iniziano a imbardarlo. "Sarebbe
pericoloso
per voi proseguire oltre—"
Elsa lo guarda fredda. Se fosse stata Anna, avrebbe detto, E
per te sarebbe
pericoloso finire quella frase. Ma non lo fa. Dice, "Apprezzo
la tua
preoccupazione. Grazie. Salirò sulla slitta."
Si infila dietro la parte ricurva, afferra le redini, e prima che
chiunque
altro possa protestare, esclama, "Vai, Sven."
________________________________________
Lo sente—il picchiettare familiare di una slitta sulla neve
fresca, il rumore
degli zoccoli di Sven, il nitrito di molti cavalli—e urla,
"Qui!" Si
spezza. Prova ancora. "Qui!"
Il rumore di sopra, accanto alla crepa irregolare nel soffitto di
qualunque
cosa fosse quella in cui erano, si spegne lentamente. Le persone
smontano da
cavallo.
Non è mai stato, in tutta la sua vita, così
contento di vedere delle persone—
"Lei è là sotto?"
—ok, forse no.
"Già—uh, sì!" risponde alla regina. "Ha
battuto la testa mentre
cadeva, abbastanza forte!"
"Preparate delle corde, svelti!" ordina. Non c’è
esitazione. Quando
Anna ordinava qualcosa, lo chiedeva ed era carina—per favore
potete e grazie—ma
anche da laggiù Kristoff sa che la donna di sopra
è la regina, e le si deve
obbedire. E lo spaventa. Ma non a causa della sua magia—la
sua magia era la
cosa più bella che avesse mai visto.
No, lo spaventa perché è la sorella di Anna.
Una lunga corda viene fatta cadere da su; riesce a intravederla solo
quando è
proprio in alto, nella caverna, prima che venga inghiottita dal buio.
"Non
riesco a vedere!" urla di rimando. Così vicini, e ci stavano
mettendo
troppo.
Dei mormorii di sopra, della neve viene spostata—abbastanza
da far cadere dei
grossi mucchi dal bordo, che atterrano con un tonfo silenzioso nel
buio, fuori
portata. Poi viene calata una guardia del palazzo, con stretta in mano
una
lanterna tremolante. La fiamma basta a malapena per vederci, e di certo
non
abbastanza da illuminare l’intera caverna, ma per gli occhi
di Kristoff è il
sole. "Quaggiù!" Agita la mano.
La guardia atterra al suolo, afferra la corda srotolata che era stata
lanciata
troppo oltre, e cammina verso di loro. Di nuovo, Kristoff riesce a
intravedere
il bagliore che lo aveva portato laggiù
dall’inizio—bellissimo, dei viola e dei
blu vorticanti, qualcosa di chiaro, e perfetto, ma poi non
c’è più. La guardia
li raggiunge. "Ce la fai a portarla?"
Gli fanno male le braccia ed è stanco. Così
stanco. "Sì."
La guardia gli allaccia attorno una corda, legandola stretta. "E ad
alzarti in piedi?"
"No."
"Allora reggiti."
Kristoff stringe Anna, e la guardia grida a quelli di sopra,
"Tirate!"
C’è un grugnito collettivo, e poi Kristoff viene
sollevato di parecchi pollici
al di sopra del suolo. La corda si tende. Anna è immobile
nella sua stretta. La
gamba debole si stacca da terra come l’arto di una bambola di
porcellana rotta,
e sente una fitta di dolore su per la coscia. Dondolano avanti e
indietro al
buio, penzolando al di sopra di qualsiasi cosa ci fosse in quella
caverna, come
su un’altalena.
"Tira!"
Arrivano un po’ più in alto.
"Tira!"
E ancora.
"Tira!"
E ancora. È tanto vicino da toccare l’apertura
irregolare della crepa nel
soffitto, ma non vuole rischiare di far cadere Anna. Lentamente,
lentamente,
attraversano piano la crepa, all’aria aperta, corroborante,
gelata. Inizia ad
alzarsi il vento, l’inizio di una tempesta di neve. Toccano
terra. Le guardie
annaspano; Una si piega e comincia a sciogliere i nodi
dell’imbracatura sua e
di Anna. Elsa si inginocchia accanto a loro; il vento è
più forte dove c’è lei,
Kristoff nota inespressivo. Tocca il viso di Anna.
"Quanto è stata brutta la caduta?"
"Ha battuto la testa," ripete. "Credo che possa avere una
commozione cerebrale—si sta gonfiando, ma se riusciamo a portarla dai
troll—"
Elsa annuisce brusca. "Sì. Ma certo." Si gira verso la
slitta. Quando
si accorge che Kristoff non la segue, si volta impaziente.
"Io—ho una gamba rotta."
"Aiutatelo ad alzarsi," ordina. Il vento aumenta
all’improvviso. Due
guardie prendono Anna e la stendono dietro, mentre altre due lo
afferrano senza
grazia sotto le braccia e lo depositano accanto alla regina. "Ci
vediamo
al castello. Lasciate qui il carro."
"Vostra maestà—"
"E’ un ordine."
Ha la gamba a fuoco. La sistema attentamente di lato, e trova Sven che
si è
voltato indietro a guardarlo con un’aria preoccupata.
"Grazie,
amico."
Sbuffa dal naso.
"Sven, portaci dai troll," Elsa ordina.
Kristoff non le fa notare che non ha il diritto di dire alla sua renna
quello
che deve fare, perché è la regina, e non si
discute con lei. Perché è la
regina, e hanno pochissimo tempo. La slitta sbanda in avanti nella
notte
tempestosa. Ha la bocca impastata.
"E’ stata colpa mia," fa all’improvviso.
È la regina. Non può
parlarle così, vero? Ma Anna era una principessa, e con lei
parlava così,
quindi voleva dire che—e come doveva comportarsi,
e—era così confuso.
"Se Anna guardasse prima di saltare e camminasse invece di correre,
comunque, immagino che non saremmo in questo pasticcio," la voce di
Elsa è
tesa.
"Ma, poi, uh—lei, uhm, non sarebbe Anna." Si strofina la
nuca.
"No?"
Elsa sbatte le palpebre. Le sue nocche sono spiacevolmente bianche.
Troppo
bianche. Bianche quanto la neve posata ai loro lati.
C’è sorpresa, nei suoi
occhi. Un po’ di sofferenza. Dice, "Ventuno anni, e ancora
non conosco mia
sorella."
Kristoff non sa come chiederle di spiegare cosa vuole dire. I cancelli
erano
stati sbarrati per così tanto tempo—che era
successo, dietro quelle porte
chiuse? E cosa poteva dire, lui? Persone. Non sapeva.
Quindi
siede accanto alla regina e rimane in silenzio, cercando di ignorare la
gamba
che pulsa, e che va a fuoco a ogni piccolo fosso e sobbalzo del terreno.
Vanno con la slitta più avanti che possono, prima che il
terreno diventi troppo
verde, e poi devono fermarsi. Kristoff si sporge in avanti, trasalendo,
e
sgancia Sven. Elsa, mordendosi il labbro mentre si concentra, evoca una
leggerissima brezza nevosa, per aiutare a reggere la sorella sul dorso
della
renna.
"Sempre dritto," Kristoff dice. "Sven conosce la strada."
Quasi riluttante, Elsa chiede, "E tu starai bene?"
Kristoff annuisce. Le sorelle proseguono.
Lo lasciano indietro.
________________________________________
La piccola valle è calma, e calda, ma l’erba
intorno a lei sta diventando
bianca. Sven gratta con la zampa il terreno attorno a lui. Mantiene una
mano
posata su Anna.
L’ultima volta che era stata lì, era stato
l’inizio della fine—i suoi genitori
in piedi accanto a lei come sentinelle silenziose, la visione
terrificante
della sua magia che si trasformava in qualcosa di spaventoso. E Anna,
immobile
e silenziosa, com’era adesso. Stranamente, Elsa pensa che
anche questa sia
colpa sua. In maniera contorta, strana, indiretta. Colpa sua, nondimeno.
Quello che aveva detto a Kristoff, nella slitta, ritorna fluttuando.
Sembrava
che anche lui conoscesse sua sorella meglio di lei. Lei e
Anna—erano su un
terreno irregolare, il loro rapporto andava a tentoni.
"C’è qualcuno?" chiama piano. "Per favore,
Io—io non so se vi
ricordate di me, ma—"
Un suono di valanga, e almeno trenta massi rotolano verso di lei. Elsa
lotta
coi ricordi, ma tornano veloci, forti.
Nascondi. Non sentire. Non lasciare che si veda1
—
"Regina Elsa!" Un troll con un naso bitorzoluto e una criniera di
erba morente, marrone, si inchina davanti a lei. E’ in piedi
dove c’era un
masso, alcuni momenti prima, e adesso che guarda, tutte le rocce sono
troll.
"Certo che ci ricordiamo di te." I suoi occhi acuti si spostano su
Sven. "E’ la Principessa Anna?" Si acciglia, facendo un passo
avanti.
"Credevo che non avesse più—"
"No! No, non è questo," Elsa interrompe, con la paura di
parlarne.
"No, è—caduta. Kristoff ha detto che è
stato un trauma cranico, e che voi
potreste guarirla—"
"Dov’è Kristoff? Dov’è il mio
dolce bambino?" Chiede un altro troll,
facendosi spazio tra la folla.
"E’ rimasto indietro alla slitta—si è
rotto la gamba—ma per favore,
potreste guarirla—"
"Bulda," il troll più anziano si rivolge alla seconda che
aveva
parlato, "occupati di Kristoff. In quanto alla principessa, poggiatela
qui." Fa cenno al suolo. Elsa fa alzare un venticello per aiutarla a
far
scendere sua sorella dal dorso di Sven. "Con la testa si può
ragionare," l’anziano troll spiega, premendo due dita tozze
da ogni lato
del cranio della sorella. "Un bozzo, sembra." C’è
uno scintillio
rosso, giallo, scintille blu, e il troll anziano sorride. "Ma niente
che
un po’ di magia non possa sistemare."
Bagna le tempie di Anna, prima di svanire fino a diventare il sussurro
di un
pensiero, e fluttua via tra il vento. Le dita di Elsa le pizzicano
dall’impazienza. "Sta—?"
L’anziano chiude gli occhi, respira, e poi li apre con un
sorriso. "Tutto
quello che le serve è un po’ di sonno."
Elsa esala un respiro che non sapeva di star trattenendo. Il vento si
calma. Si
appoggia sui talloni, sentendosi di nuovo una bambina.
"Signore—"
"Per favore, chiamami Papi."
"Papi." Elsa testa il nome. "Da dove—da dove viene la
magia?"
"La tua magia, o la mia?"
È consapevole della presenza di altri veti troll che la
guardano, che sbattono
le ciglia, mormorano, sussurrano. Esclama, "Tutta la magia."
"Ognuna ha una fonte diversa," Papi dice. Con un cenno della mano le
scintille ritornano, galleggiando attorno a loro in una spirale
delicata.
Sfiorano la sua guancia come un bacio tiepido. "La mia viene dalla
terra."
"Sai—sai da dove viene la mia? La mia maledizione?"
Papi la guarda un po’ triste. Le scintille scivolano sopra
l’erba ghiacciata
sotto i suoi piedi, e si scioglie. "Lo consideri una maledizione? Sei
nata
con questo dono."
Elsa si guarda le mani. Anna è stesa tranquilla a terra. La
respirazione si è
regolarizzata, ma riesce ancora a vederla, piccola e ferita dopo quella
fatidica notte, riesce ancora a vederla, ghiaccio solido su quel mare.
"Lo
so. Ma non sempre—mi sembra così."
"Hai imparato qual è il segreto per controllarla," Papi fa
lentamente.
"L’amore scioglie," Elsa sorride teneramente ad Anna, ma
presto il
sorriso si scioglie e va via. "Sì. Ma voglio
sapere—voglio sapere perché.
Perché io."
Papi si sporge in avanti. Dice, "Hai imparato a controllarla, ma il tuo
cuore è ancora indeciso." Le preme uno delle sue grosse,
ruvide dita sul
petto. "Apprendi il segreto dell’origine della tua
magia—accettalo—e
diventerai di gran lunga più forte."
________________________________________
"Bambino mio!"
"C—cosa, ehi, ahi, ahi, Ma—"
Bulda attacca un lato della sua faccia, atterrandogli sulla spalla, e
Kristoff
cade pesantemente di lato atterrato dalla sua mole. La gamba gli fa
male.
"Sei ferito? Dove ti fa male? Cosa ti fa male?" Inizia a tastargli
pantaloni e camicia. La scuote via.
"Ma, ti prego, sto bene."
"Non dirmi bugie," Bulda esclama severa, afferrandogli il mento tra
le mani rocciose. "Sul serio, Kristoff, e che cosa hai fatto ad
Anna?"
"N-Niente! Perché dovrei—"
"Vi siete già sposati?"
"No, Ma, non siamo—ahi!" Kristoff ulula indignato. "Avresti
almeno potuto avvertirmi prima di—"
Bulda gli passa uno dei suoi cristalli rosa sulla gamba. Scintilla,
calda, e il
dolore si allevia. "Non fare il bambino. E voglio che non ci appoggi su
peso almeno per le prossime dodici ore."
Siede in una posizione scomoda, mezzo rovesciato nella parte anteriore
della
slitta, ed ecco il troll che l’ha cresciuto, in piedi sul
bordo, con le mani
sui fianchi. Kristoff pensa alla sua vita ogni tanto. Voleva solo che
fosse
semplice, senza problemi contorti.
"E perché," sua madre gli chiede, "non le hai fatto ancora
la
proposta di matrimonio?"
"Beh—lei—si è appena s-fidanzata con
quel—Hans delle Isole del Sud, e sto
cercando solo di capire come sistemare—"
"Sistemare cosa! Kristoff, bambino, non ti ho mai visto guardare
nessuno
così. Tranne Sven."
"Fidati, non guardo Sven così."
Bulda si piega in avanti. "Uh-huh. È un rapporto strano,
tesoro, forse è
questo che la spaventa—"
"Ma, ti prego—"
"Senti, Kristoff. La ami! Che c’è più
da capire?"
"Tutto?" Sospira, strofinandosi il viso. "C’è Papi
con
lei?"
"Starà bene, adesso." Bulda si siede, dondolando le gambe
corte,
tarchiate. "Piccolo, parlane con me."
"Io—solo che. Io non—"
"Dillo a parole tue, Kristoff," Bulda dice.
"Mi fa paura quanto la amo," Kristoff geme in fretta, perché
sua
madre gli avrebbe fatto pressione finchè non
l’avesse detto comunque, quindi
tanto meglio farla finita. "Non ho mai avuto bisogno di altri, tranne
voi."
Bulda lo esamina attentamente. "E?"
Kristoff si stropiccia gli occhi. "Ed è una principessa."
"Che, chi pensa che il mio bambino non sia abbastanza per una
principessa,
huh? Gli faccio vedere io, gli faccio—"
"Io, io lo faccio!"
"Oh, Kristoff," Bulda balza avanti e lo abbraccia stretto. "Sei
abbastanza, per chiunque!"
Sospira. "Se solo le cose fossero così semplici."
________________________________________
Galleggia. Stava sognando di essere stata baciata da un troll, ma poi
il troll
si era trasformato in Kristoff, e da qualche parte Elsa urlava il suo
nome.
Apre gli occhi. Il cielo è rosa pallido, il colore del
mattino. È stesa su
qualcosa di piatto, e le cime appuntite degli alberi scorrono via
lentamente.
Riesce appena a distinguere una testa color platino, e una testa
bionda. C’è
silenzio.
Sospira, soddisfatta, e chiude gli occhi.
________________________________________
Ormai il sole è sorto del tutto, quando caricano
la seconda slitta sul
carro, e si incamminano verso Arendelle. Kristoff osserva la slitta
nuova farsi
più piccola e lontana, sospirando. Elsa dice, "Torneremo a
prenderla
domani." Guarda il montanaro annuire triste. Poi vede il suo sguardo
spostarsi su Anna, dove è stesa, dietro, e la tristezza se
ne va. Il suo
sorriso è piccolo. Apre la bocca, poi la chiude. Invece,
passa le redini a
Kristoff, e in silenzio, proseguono per strada.
Un grido riecheggia, mentre si avvicinano al palazzo. "La regina! La
regina è tornata! E la principessa!"
Parecchi servi escono ad accoglierli, mentre fermano il carro nel
cortile. C’è
già un caldo insopportabile—l’estate che
cercava di resistere, con la sua
ultima stretta d’addio. Elsa si alza in piedi. È
esausta. Kristoff sembra sul
punto di svenire. Gli dice, "Sei più che benvenuto, se vuoi
restare in una
delle stanze degli ospiti."
"Oh, no, va bene così. Voglio solo—assicurarmi che
stia a posto,"
dice, muovendo il mento verso Anna. Girando intorno al carro,
dà dei colpetti
al collo di Sven, grato. Quando raggiunge Anna, la prende in braccio
come se
non pesasse niente. È accoccolata lì, al sicuro
tra le sue braccia, ed Elsa
scuote la testa, lottando contro il bisogno di strofinarsi gli occhi.
Si rivolge
a uno dei servi. "Conducete Kristoff nelle stanze di Anna."
"Sì, Vostra Maestà."
"E poi preparate la mia—"
"Vostra Altezza!" Un ciambellano grida. Si volta.
"Sì?"
"Un ospite è arrivato durante la vostra, ah, assenza.
Qualcuno è venuto
per vedervi. L’ho condotto in biblioteca
nell’attesa di Vostra Altezza."
Elsa si acciglia. Non aspettava visitatori. "Chi?"
"Un principe delle Isole del Sud."
1
La versione originale è Conceal, don’t
feel, don’t
let it show, che in italiano è stato reso, per
mantenere il ritmo della
canzone, Celare, domare. Qui si è preferito mantenere il
significato originale
del mantra di Elsa.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo
4
Presto,
presto, Elsa si
dice, eppure, le mani si fermano prima di poggiarsi sulle maniglie.
Dietro di
lei i ritratti di re e regine la fissano con occhi accusatori, occhi
che sono
infilzati come pugnali nella sua schiena. Cristalli di ghiaccio blu
scuro,
rabbioso, si alzano lentamente dai suoi piedi. Guarda le porte; non le
aveva
mai osservate sul serio, mai. Bianche, fiori verdi
e viola, diamanti,
vortici. Le maniglie sono d’oro.
Elsa
fa un respiro profondo.
Dietro quelle bellissime porte c’era qualcuno che non voleva
vedere. Chiunque
sia dalle Isole del Sud—dopo Hans—è
tutto quello che sente è tua sorella è
morta, e tutto quello che riesce a vedere è la
spada che si spezza,
frammenta, in un milione di pezzi.
Non
essere il
mostro che vogliono tu sia, che pensano tu sia, non essere,
mostro—
Come
poteva qualcuno
desiderare il potere a tal punto?
Elsa
fa un respiro profondo,
ma uno diventa due, e tre, e poi si ritrova ad avere
l’affanno. Dà le spalle
alla porta. Il ghiaccio scricchiola sulle pareti, crescendo come muffa
negli
angoli del soffitto. Nata e cresciuta ed educata per questo, pensa,
guardando
il ritratto che era sempre stata costretta a guardare, vicino allo
spazio vuoto
dove sarebbe stato appeso il suo, un giorno; ma non pronta. Come
avrebbe
potuto, chiunque, essere stato pronto, per quello che era successo?
Forse
insegnandole prima di
tutto come si ama, Elsa pensa con amarezza, voltandosi di scatto verso
il
ritratto, gli occhi del re, la preoccupazione passiva della regina, ed
ecco i
primi sovrani di Arendelle di fronte a lei ancora una volta, e la
pittura
scorticata, spellata, nell’angolo. Elsa fissa la pittura.
È quasi color crema,
aria fresca sotto il blu scuro. Inspira. Espira. Il ghiaccio recede.
Con
un movimento veloce, si
volta verso la porta, e la apre.
"No,
non le serve
adesso, le serve solo un po’ di riposo—"
"E
in base a quali
conoscenze fai questa prognosi? Forse il Venditore di
Ghiaccio Reale ne
sa più del Medico Reale su questioni del genere?"
"Uh,
no, credo, ma
so—uh, la mia famiglia, che—"
"Devo
bendarle la
testa. Portami dell’acqua calda."
"Che—io?
No! Le serve
solo un po’ di riposo."
"Le
servono
bende."
"Riposo."
"Bende!"
"Riposo,"
Anna
geme. Le voci pulsavano bianche e arrabbiate dietro i suoi occhi. Sente
il
proprio letto sotto di sé, coperte familiari, cuscino
piatto. "Riposo.
Come credete che possa riposare, se urlate?"
"Le
mie scusa, vostra
Altezza." Questo doveva essere il medico. Non le era mai piaciuto; non
da
quando si era rotta il braccio arrampicandosi sul tetto del palazzo, e
lui
aveva dovuto per forza ri -romperlo,
già, no grazie. Continua,
"Dovrei solo fare un piccolo—"
"Vada
via. Per
favore," sbadiglia, rintanandosi più a fondo nelle coperte,
fredda fino al
midollo e con la sensazione di aver ingoiato un intero secchio di
feltro.
"La chiamerò…dopo…" sente
l'oscurità che la trascina di nuovo dentro
di sé. Sonno. Sonno è bello—
"Vostra
maestà."
Voce tesa, non è d'accordo, non fa niente—sonno,
sonno—
Sente
lo scatto della porta
e apre un occhio, cisposo. Tutto è troppo luminoso. Vuole
sibilare, e battere
in ritirata. Dice, "Non tu."
Kristoff
si ferma, proprio
sulla porta. Riesce a vedere la tensione nelle sue spalle, riesce a
sentire i
secchi passi arrabbiati del medico che se ne va, nel corridoio.
Continua,
"Voglio dire, se ti va. Puoi rimanere qui," sbadiglia di nuovo, e oh,
perché mai è così stanca, "se vuoi. O
puoi dormire nelle stalle," la
voce si fa più gentile, "Perché fai
così, eh? Ma tutto ok. Non giudico.
Beh, un poco giudico…" si strofina l'occhio. Kristoff sembra
avere una
disputa interna, senza dubbio con Sven. E’ in piedi sulla
soglia della porta.
In piedi. In piedi—
Si
alza all'improvviso,
troppo veloce, e il mondo vortica. "Woah."
"Ehi,
furia
scatenata," fa, lasciando che la porta si chiuda, e si avvicina al lato
del letto. La spinge di nuovo giù sui cuscini.
"Rilassiamoci, ok?"
"No,"
lotta,
spinge via il braccio, ma è come lottare contro un carro
spazzaneve, "la
tua gamba, come—non era rotta?"
Kristoff
abbassa lo sguardo,
sollevando una gamba come se non sapesse come usarla, e poi dice,
"Ma—voglio dire, mia madre—l’ha
aggiustata. Non è la mia vera madre.
Adottato, sono stato—adottato—comunque."
Vuole
dirgli che l'aveva
capito, dalla, sai no, cosa dei troll, mentre se ne sta lì
in piedi, sfregando
il pavimento col piede. Vuole anche chiedergli spiegazioni, ma il mondo
vortica
ancora e si rende conto che non è il momento giusto. Fa
alcuni lenti respiri
dal naso, e finalmente riesce a far funzionare la bocca. "Quindi, tutto
ok?"
"Quasi."
Le fa un
sorriso storto. "Dovresti dormire."
"Lo
so," e lo
sente arrivare di nuovo, come un lupo che si preparava a balzare o
così—ma i
lupi balzavano? Faceva schifo con le metafore—dà
dei colpetti con la mano al
letto, accanto a lei, senza arrossire perché non pensa a
niente tranne che sonnosonnosonno.
Sbadiglia. "Sembri…distrutto…" chiude gli occhi,
ascoltando il rumore
tenue degli stivali di Kristoff; sembrava come se stesse camminando
sulla neve,
e non su marmo o legno o qualunque cosa fosse il pavimento. Lo sente
tirare le
tende. La luce viene offuscata. Passo-passo-passo. " ‘ono
stanco…"
"Anche
io."
E
poi sente un bacio rapido,
timido, al lato della testa, l’unica parte di lei visibile da
sotto le coperte
visto che ha freddo. "Sono contento che stai bene.
Ma non farlo
più, ok?."
"Fare
che?"
Pausa.
Riesce a
immaginarselo guardare di lato. "Sai no. Farmi preoccupare e
così."
"Non
prometto niente,
tranne che per il così," sospira-sorride. Lo sente
rannicchiarsi accanto a
lei e riapre un occhio. "Che stai facendo?"
Kristoff
si è raggomitolato
sul pavimento, proprio sotto al suo lato del letto.
"Kristopher,"
e
non riesce a metterci abbastanza rabbia; è troppo stanca.
"C’è un’intera
metà del letto, qui. Prometto di dartene, cioè,
almeno un terzo."
L’espressione
di puro
terrore sul suo viso è ridicola, ed è troppo
stanca per sentirsi offesa.
"Beeeeeeene,
dormi sul pavimento, cavolo." Allunga il braccio alla cieca dietro di
sé,
prende il cuscino in più, e glielo lancia in testa. E poi fa
per togliersi la
coperta.
"No,"
dice,
"tienila. Sono abituato al freddo."
E
Anna, come un sogno che si
ricorda a metà, richiama alla mente quando era stretta
vicino a lui in quella
piccola fessura, che si sentiva, per la prima volta da quando tutta
quella—storia era iniziata, al caldo. Rabbrividisce sotto la
coperta. Ascolta
Kristoff sistemarsi sul pavimento. La stalla sarebbe stata
più comoda, a questo
punto. Si sente male. Si sente stanca.
Fa
cadere la mano. Kristoff
la prende.
E,
così, si addormenta.
Un
vento gelido la segue
nella stanza. Il fuoco vacilla, poi si spegne debole. Una finestra si
spalanca.
Riesce a sentire gli uccellini fuori, riesce a sentire il calore del
sole
estivo. E poi dice, "Mi perdoni, per favore, la mia—" la
mia
maledizione mi sfugge ancora di mano—ma si
interrompe bruscamente. Si
dirige al caminetto, sfregando un fiammifero sulla pietra di cornice e
lanciandolo nel legno ancora ardente. Ha deciso di lasciare la finestra
aperta,
lasciare la finestra aperta avrebbe—il sole, e—
Elsa
guarda in su, e poi
deve forzarsi a non fare un passo indietro, ad afferrarsi alla
scrivania. Sente
il ghiaccio formarsi sotto le unghie. Ogni centimetro del suo corpo
grida scappa.
"Regina
Elsa," si
inchina, e a quanto pare non si era accorto del suo passo falso.
Sono
gli occhi, pensa, dopo
che lo shock iniziale è diminuito, e il respiro si
è calmato; dopo che si è
detta calma, calma, calma.
Hanno
gli stessi occhi.
Si
concentra sulle altre
cose. Il naso storto, le evidenti
lentiggini—l’ammasso di capelli castani, che
erano sfuggiti a qualunque tentativo di tenerli in ordine. Le punte
erano
ricce. Si concentra su queste cose per evitare gli occhi.
Quando
si raddrizza, tiene
la lingua tra i denti e si guarda assorto l’avambraccio,
tenendo su la manica
della giacca bianca. Riesce a distinguere appena i bordi di una
scrittura netta
e disordinata, stampata lì sopra. Guarda prima lui e poi
lei, rapido, e poi
dice, abbastanza sconsolato, "Ho solo—ah, preparato una
cosina, ecco, mi
permetta—" Tossisce. Si inchina di nuovo. "Regina Elsa. Sono
il
Principe Albert, dodicesimo figlio della corona delle Pisole del
Sud—Isole," fa una smorfia, "ha, si è un
po’ sbiadito—e desidero
ringraziarla formalmente per—avermi ricevuto al
suo—cestello." Alza gli
occhi. Li riabbassa. Corregge, in fretta, "Castello. Il suo
castello."
Gli
occhi di Elsa schizzano
alla scrivania, e alla lettera poggiata sopra. Inizia a maledirsi, il
ghiaccio
le si forma attorno ai piedi, perché non
l’aveva letta l’avrebbe dovuta
leggere che cosa avrebbe dovuto fare ora—
"E,
uh, questo è
sbavato," borbotta sottovoce. Si morde di nuovo la lingua, e poi lascia
andare la manica con un sospiro. Quando i loro sguardi si incrociano,
il
ghiaccio sotto i suoi piedi aumenta. Spera che non se ne sia accorto.
"Volevo solo porgere le mie scuse ufficiali, per essere mancato alla
sua
incoronazione."
Elsa
batte le ciglia.
Stringe le mani. Dice, "Come, scusi?"
China
la testa, ma non
sembra essersi offeso terribilmente, per il fatto che non si fosse
nemmeno
accorta della sua assenza. "La sua incoronazione. Io e mio fratello
Hans
saremmo dovuti venire, ma ha sbagliato a darmi istruzioni nei pressi
del regno
di Corona, e poi una tempesta mi ha mandato fuori rotta—io e
miei uomini
abbiamo attraccato solo adesso."
Elsa
chiede, "Solo
adesso?"
"Sì.
Avevo altre cose
da dire—che avevo preparato—ma
io—è—" si tira su la manica, e il
braccio
non è altro che una macchia nera d’inchiostro
sbavato. Borbotta, "Per lo
più erano congratulazioni e roba del genere—si
sta, uhm, godendo—la reginità?
L’essere regina?"
Elsa
si sente galleggiare.
Dice, "Mi perdoni, Principe Albert."
Esce.
Kristoff
si rigira nel
sonno, russando piano, e usa il braccio di Anna come coperta. Lei
scivola dal
letto per metà, ma non si sveglia.
La
stanza di Elsa è una
tempesta.
Marcia,
avanti, indietro,
avanti, indietro, e il ghiaccio si insinua come edera sulle pareti,
fondendosi
sul soffitto in una moltitudine di fiocchi di neve che brillano alla
luce
estiva. Il vento vortica attorno a lei, tende, lenzuola e vestiti
completamente
coperti dal ghiaccio. Si mette le mani tra i capelli. Avanti, indietro,
avanti,
indietro. Calmati. Doveva calmarsi, tutto questo non poteva uscire da
quella
stanza—
Dannata
maledizione!
Il braccio
scatta di lato e l’armadio scoppia, colpito da un getto di
ghiaccio. Fissa per
un momento la propria mano tesa, poi i frammenti di legno spezzato, e
si chiede
come sarebbe, solo per un momento, essere normale,
essere capace di sentire,
completamente. Niente a metà. Sentire come faceva Anna. Elsa
pensa che magari
forse c’era la possibilità che stesse iniziando a
farlo, ma questo era troppo—
Si
ferma al bordo del letto.
Ha il respiro affannoso. E pensa, debolmente, come se ancora non fosse
possibile—
Posso
parlarne
con Anna.
E
poi pensa—
Anna
si sta
rimettendo.
E
poi—
Ho
bisogno di
lei adesso.
Elsa
fa un passo verso la
porta, si morde il labbro, si ferma. Aveva un principe delle Isole del
Sud in
biblioteca e una situazione delicata tra le mani e non aveva dormito
e—
Esce
dalla stanza, chiudendo
la porta sulla piccola tempesta. Tre, quattro passi, ed eccola alla
porta della
sorella. Si ferma proprio prima della maniglia; poi, sfogando la
propria
preoccupazione sul suo labbro, la apre, cercando di ignorare la traccia
del
proprio ghiaccio che si insinuava sul telaio mentre lo faceva.
Anna
è stesa sul suo letto a
metà, la fronte appoggiata alla spalla di Kristoff; il
venditore di ghiaccio è
accovacciato sul pavimento, e le stringe una mano. Elsa chiede, "Cosa
state facendo voi due?"
Kristoff
si sveglia di
soprassalto. Svegliandosi immediatamente, si tira anche
su a sedere immediatamente, e la sua
fronte sbatte contro quella di Anna. "Ohi," sibila senza energie, e
poi perde l’equilibrio e cade dal letto. È un
pasticcio, tutto, ed Elsa è
sicura che il bernoccolo extra non avrebbe fatto
bene al cervello già
ammaccato di sua sorella, ma questo—"Hai detto che ti saresti
assicurato
che era sistemata," fa, rigida.
È
troppo.
"Uhm,"
Kristoff
risponde, guardando la mano che stringe, e Anna mezzo stesa addosso a
lui.
"Gli
ho chiesto io di
restare," Anna replica, sedendosi, massaggiandosi la testa, "Era
distrutto. C’è qualcosa che non va?"
"Questo!"
Elsa
dice—c’è un principe nella sua
biblioteca e un uomo in camera di sua sorella e
questo—"Pensi che visto che sei una principessa puoi fare
quello che vuoi
senza pensare alle conseguenze?" Il vento aumenta, insinuandosi nelle
fessure.
"Perché
ti arrabbi
tanto?" Anna risponde. Stringe gli occhi. "Stava dormendo sul
pavimento!"
"Anna,"
Elsa
chiude gli occhi, pregando affinché le venga data pazienza,
e tutto quello che
riesce a vedere è mani che si stringono. "Hai
un’immagine da mantenere. La
proprietà d’immagine. Non mi interessa chi sia
lui, non può rimanere in camera
tua senza controllo, le persone inizieranno a parlare—"
"Lasciale
parlare," Anna dice, alzandosi in piedi, spazzolandosi il vestito,
massaggiandosi la testa. "Io non —che t’importa, e
ok, Elsa, scusa, non
per essere deprimente, qui, ma nessuno non
parlerà di nient’altro
che della tua crisi col ghiaccio —che, sì,
è stata colpa mia, ma—"
"Per
favore,
vattene," Elsa dice. Kristoff si alza. Il suo viso è rosso.
"Sì.
Certo."
"Elsa—"
"No,"
Elsa dice
piano. Il vento si alza, la temperatura precipita. Se Anna è
troppo agitata da
accorgersene, Kristoff no. "Sei una principessa, Anna. Ecco una
responsabilità che deriva dall’apertura dei
cancelli. Non si tratta più solo di
te."
Kristoff,
che aveva preso il
berretto per schiacciarlo tra le mani, dice ad Anna, "Ci, uh, vediamo
dopo." Ha gli occhi piantati a terra. Si ferma da Elsa.
"Io—solo
che—mi dispiace."
Elsa
annuisce prendendone
atto. Ecco l’edera di ghiaccio, sul muro. La porta si chiude.
Guarda Anna,
mezza aggrovigliata nella coperta, i capelli un pasticcio, con gli
occhi
torbidi e col bisogno di dormire ancora, e lo sa subito che non
può parlare con
sua sorella di queste cose, che era una stupida, sciocca idea, che se
non fosse
mai entrata questo litigio non sarebbe mai successo—
"Perché?"
tutto
quello che Anna chiede.
"Ti
ho detto
perché," Elsa dice, voltandosi. Testa alta, collo rigido. Il
vento cala,
il ghiaccio si ritira. "Sei una principessa, Anna. È ora che
inizi a
comportarti da tale."
"è
per questo che sei
venuta qui? Per urlarmi contro?"
Elsa
si ferma alla porta.
Mentire è semplice. "Per vedere come stavi."
Kristoff
scivola piano nelle
stalle. Fa caldo, e c’è puzza di cavalli e fieno.
È tarda mattinata, ma sembra
tarda notte, gli occhi pesanti, appiccicati, le braccia e le gambe
molli.
Crolla nel mucchio di fieno più vicino. Dopo alcuni momenti
sente un piccolo
strattone alla camicia.
"Ehi,
amico."
Sven
muove le labbra.
"No,
sì, Anna sta
bene." Prende il berretto e se lo appoggia sul volto. Sa di sudore,
sembra
oscurità. "Che c’è che non va,
allora?" Sven vuole sapere.
"Beh, non c’è niente di meglio
dell’essere ricordati della questione della
principessa. Di nuovo." Sven gli domanda, "Da chi?"
Risponde, "Dalla regina Elsa. Capisco. È una principessa. Io
no."
Sven chiede, "Quindi vuoi essere una principessa?"
Kristoff
solleva il berretto
tanto quanto basta per guardar male l’amico.
È
stanco. Era stato
indiscreto, qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, ma dopo aver
sentito
il respiro farsi sempre più debole per tutta la notte e
averla portata dai
troll e sua mamma e dopo tutto quello che era successo, tenersi un
po’ per
mano—
Ma
la proprietà di immagine.
Elsa aveva ragione.
Kristoff
chiude gli occhi.
"Perché
le cose non
possono mai essere semplici," geme.
"Suppongo
che—i litigi
arrivino con—il territorio, no?" Anna brontola, infilandosi
una scarpetta,
e poi l’altra, e poi inciampando, con un oof!
Fuori dal letto. Cade sul
pavimento e si fa male, e questa volta non c’è
nessuno ad attutire la caduta.
Rimane seduta lì per un minuto, cercando di fermare le
vertigini. La mano che
Kristoff aveva tenuto stretta è ancora calda.
Si
abbraccia le ginocchia,
appoggiandovi la fronte. Il pavimento era freddo, e anche lei. I venti
provocati da Elsa si erano scatenati, là dentro. E
lì, in un angolo del
soffitto, c’era una singola stalattite di ghiaccio, il colore
delle campanule
d’estate, ritorto e spezzato e assolutamente bello. Vorrebbe
poterlo fare. La
cosa della magia del ghiaccio. E la capisce. La questione della
principessa.
Ok, forse non è che la capisce, capisce
proprio, ma—beh, ci sta
arrivando. E forse far rimanere Kristoff in camera con lei da soli non
era
stata un’idea delle migliori—anche se non
è che stavano facendo—
Facendo—
Hnn—o—niente.
Non
che hnnare con
Kristoff fosse una cosa brutta o un’idea di cui lamentarsi,
in realtà era una
bella idea, ma pensava anche alle porte aperte e a trovare il proprio
posto e a
prendersi il proprio tempo—ma era difficile quando tutto era
nuovo e roba così
e—
Fa
un respiro profondo. Si
siede. Ok, non era questa la ragione. La ragione di tutto
ciò è che anche Elsa
aveva una ragione. Un sacco di ragioni. Troppe ragioni.
E
una parte di Anna le dice
che Elsa non era entrata solo per vedere come stava. Una parte di Anna
le dice
che Elsa l’avrebbe lasciata dormire.
Il
che significa che
qualcosa non andava.
Si
alza dal pavimento,
aiutandosi col letto. Scivola fino alla porta. È la maestra
di come si impiega
minor sforzo possibile per ottenere il massimo risultato—cade
sulla maniglia,
ed è ancora fredda. Fuori il sentiero di ghiaccio porta fino
all’atrio, fino
alla stanza di sua sorella.
Non
si ferma davanti alla
porta. Non lo fa più, non bussa nemmeno—si fionda
dentro, già parlando,
già—"Elsa? Mi dispiace. Voglio dire, per Kristoff.
Suppongo che posso
dirti che non stavamo—facendo niente,
perché di queste cose si parla tra
sorelle, no? Non lo so. È
tipo…già…" Anna smette di parlare. La
stanza è
un macello. L’armadio è ridotto in pezzi,
nell’angolo, e il legno è sparso per
il pavimento. Sembra un relitto. I muri gocciolano, il ghiaccio si sta
sciogliendo, e i vestiti di Elsa sono arrotolati a terra.
Anna
è colpita da un
improvviso attacco di vertigini. Si copre la bocca, scivolando senza
grazia
fino al letto della sorella. Le coperte erano l’unica cosa
miracolosamente
asciutta, grazie al baldacchino di sopra. Si stende per un momento,
respirando
dal naso, espirando dalla bocca, provando a sopprimere la nausea.
Il
baldacchino è un noioso
blu scuro. Quanti anni aveva passato, sua sorella, a guardarlo?
Anna
si raggomitola su un
fianco. Il letto aveva l’odore di una mattina
d’inverno.
Chiude
gli occhi.
Elsa
è di nuovo nella sala
dei ritratti, e guarda le porte bianche che danno nella libreria. Sta
dando
forma a un piano—cioè, una lista di quello che sa,
e la speranza che ne venga
fuori qualcosa.
Il
Principe Albert delle
Isole del Sud è dall’altro lato di quella porta.
Il
principe Albert delle Isole
del Sud, dirottato, non era a conoscenza del tradimento di suo
fratello, né dei
poteri di Elsa, né
dell’inverno-durante-l’estate.
Il
problema era, cosa fare
col Principe Albert.
Si
sarebbe offeso, se
gliel’avesse detto e basta? Avrebbe preso la spada
e—
Elsa
scuote la testa.
Iniziava a sembrare sua sorella. C’era una pecora nera in
ogni famiglia.
Dopo tutto, pensa piuttosto
cupa, facendo
galleggiare un fiocco di neve sulle nocche, guardate lei.
Apre
le porte. Il principe
chiude il libro che stava leggendo con un colpo secco, e
un’espressione
colpevole, ri-infilandolo a forza nello scaffale. Esclama,
"E’ Tristano
e Isotta. Lo leggo per le parti in cui combattono con la
spada." Fa un
mezzo sorriso. Quando lei non ricambia, scivola via dal suo volto.
Elsa
dice, "Principe
Albert. Forse dovrebbe sedersi. Ci sono delle…cose
di cui ho— ho bisogno
di metterla al corrente."
E
in quel momento la porta
alle sue spalle si riapre. Sente il brivido della propria magia. Olaf
chiede,
"Elsa? Pensavo solo che dovresti sapere che Anna è in camera
tua. E poi,
qualcosa ha distrutto il tuo armadio," conclude, con un sussurro.
Il
principe sposta lo
sguardo tra lei e il pupazzo di neve che batte le piccole mani, avanti
e
indietro.
Il
principe dà di matto.
"Ciao,
fratello. Cielo,
sembri così arrabbiato! Le sbarre di metallo non si addicono
a uno con la pelle
chiara e delicata come la tua."
"Sei
qui per
gongolare?"
"No.
Immagino che già
ci abbiano pensato abbastanza gli altri. Ci hai provato. Non posso
incolparti
per averlo fatto. Impariamo dai nostri errori, e tutto il resto. Forse
la
prossima volta mirerai un po’ più in basso."
"Come
hai fatto tu? Tu,
che ti accontenti di rimanere nelle ombre—"
"Ah,
fratellino. Sono
abbastanza contento della mia posizione. Forse, se lo fossi stato anche
tu,
adesso non saresti lì a mangiare senza il tuo cucchiaio
d’argento."
"Sta
zitto."
"Hans.
Pensavo di
averti insegnato qualcosa."
"Nessuno
di voi mi ha
mai insegnato niente."
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo
5
"Vuoi
un po’ di cibo?
So che lo vuoi, bello! So che lo vuoi! Qui, cagnetto, qui!"
"Oh,
sembra così
triste, bloccato dietro quelle sbarre. Sei sicuro che non vuoi questa
bella
bistecca? Cottura media, proprio come piace a te. L’ho fatta
preparare
appositamente dal cuoco—anche delle patate, come contorno, e
questa—mmm—pagnotta calda. Di certo sarebbe meglio
di quella spazzatura da
prigione che ti danno da mangiare."
Hans
si guarda le mani,
strette a pugno in grembo. C’è dello sporco
incrostato sotto le unghie. La
giacca bianca è diventata una specie di grigio polveroso. Il
pranzo è ancora a
terra, intatto, nell’angolo della sua
cella—pappetta, vecchia di tre giorni,
come minimo; i rimasugli delle cucine. È del colore e della
consistenza del
fango. Si guarda le mani, i piedi, e guarda il pranzo
stantio—ovunque tranne
che in direzione dei due uomini in piedi proprio fuori la cella.
Ma
è difficile, con l’odore
fresco del pane caldo, dorato, e delle patate in crosta di burro; con
il
profumo della carne succosa e sfrigolante che si diffonde. Non aveva
mangiato
così bene da quando aveva lasciato Arendelle.
Si
sfrega la mascella.
"E
dai,
fratellino, forza! L’abbiamo fatta fare apposta per
te."
Si
volta. Dice a se stesso
che si sta voltando perché se non fa quello che vogliono che
faccia, non staranno
zitti—lo sapeva dal momento in cui i loro passi
avevano fatto eco giù per
le scale che conducevano alla prigione. Si alza, sollevando le code
della sua
marsina dietro di sé. Mantiene la testa alta. Non serve
piangersi addosso, non
serve a niente—fa due passi, fino a premere il proprio corpo
contro le sbarre,
e poi, lentamente, allunga la mano verso il piatto di cibo.
Viene
fatto cadere sul
pavimento cupo. Il piatto di porcellana si rompe, il pane si sporca,
nero; le
patate si spiaccicano come sangue bianco e la carne si rovescia, ormai
poco
invitante.
"Oops.
Che
stupidino."
I
due uomini scoppiano in un
attacco di risate rauche. Hans mantiene la testa alta, il suo volto una
maschera,
ma lo capiscono, probabilmente, sai suoi occhi—è
furioso, violento, e se solo
fosse fuori da quella stupida cella li assassinerebbe in un istante,
tutti e
due—
"Viktor!
Tomas! Basta
così."
I
suoi fratelli, gemelli,
diventano seri immediatamente, tenendosi languidamente sottobraccio. Si
voltano
verso il corridoio, le torce traballanti che stagliano i loro volti in
bassorilievi affilati.
"Vessare
vostro
fratello non mi sembra affatto un degno passatempo, adesso che siete
cresciuti—nonostante sia una tradizione a cui fate onore da
tanto tempo."
"Vostra
maestà,"
Viktor e Tomas si inchinano all’unisono. Hanno il viso
contorto in una smorfia.
Tomas continua, "Ci stavamo solo divertendo un po’."
"Divertendo?"
Hans
ringhia. Si lancia contro le sbarre e afferra Tomas per il bavero della
giacca.
Ha l’effetto sorpresa dalla sua parte, o non sarebbe mai
riuscito a smuovere
suo fratello di un millimetro. "Come quando avete fatto finta per due
anni
che fossi invisibile? Quel tipo di divertimento?"
"Hans,
ti prego.
Calmati." Ed eccolo lì, il Re delle Isole del Sud, in tutta
la sua gloria
baffuta. Hans digrigna i denti. Viktor lo spinge all’indietro
violentemente, e
la spinta lo fa finire nel lettino della cella. Tomas si massaggia il
collo,
con l’aria omicida. Il re dice, "Prendetemi una sedia."
Viktor
corre ad
accontentarlo, sferragliando fino al posto di guardia vuoto, e ne
trascina una
di legno mentre Tomas si scrocca il collo. La sedia è
sistemata. Il re si
siede. Dice, "Lasciateci soli."
"Goditi
la cena,
fratello," Tomas afferma con un ghigno malevolo, calciando il piatto
rotto
e i pezzi di carne e pane all’interno della cella, facendo
passare i resti tra
le sbarre, dove coprono metà del pavimento. Hans ascolta i
loro passi svanire
nel corridoio, su per le scale. Appoggia testa e schiena contro il
muro, e fa
un ghigno pigro, beffardo, in direzione del re.
Quell’uomo
era solo suo fratello,
dopotutto.
"Non
pensavo saresti
venuto," Hans fa, spazzando via la polvere dalle maniche della giacca.
"Sono venuti tutti gli altri. Beh. Tutti gli altri ancora vivi."
"Hai
ucciso
Albert?"
"Uccidere
il mio stesso
fratello? Perché mai dovrei commettere un crimine tale?"
Hans si lecca le
labbra. "Oh, quasi grave quanto uccidere il proprio padre." Volta la
testa lungo il muro, fissando suo fratello con un’espressione
piatta. "Non
credi?"
Il
silenzio stava per
soffocarlo.
"Hans,"
comincia
il re alla fine, allacciando le mani avanti a sé, la bocca
una linea
sottilissima, espressione del pensiero più sottile,
"è tuo desiderio
restare in questa prigione?"
Hans
pensa al trono di
Arendelle e quasi prende a pugni il muro.
"Rispondimi."
"No,"
scatta.
"Beh,
questo è quello
che il consiglio chiede a gran voce. Tuo fratello, scomparso;
Arendelle—"
"Non
parlarmi di
Arendelle," Hans ringhia.
"Cosa,
non parlarti
dell’errore che hai commesso? Avresti potuto avere un regno,
e invece hai una
cella. Ti si dovrebbe ricordare ogni giorno del tuo
errore. Di quello
che hai fatto perdere alle Isole del Sud."
"Non
ci ho provato per
te," Hans dice, guardandolo male, e suo fratello se ne sta seduto
lì, con
un sorriso condiscendente sul viso. "Sarebbe stato il mio regno," si
posa una mano sul petto, "il mio trono!"
"Oh,
Hans," il re
gli sorride. Si stende all’indietro, nella sedia di legno.
"Ma dimmi,
dov’è Albert?"
"L’ho
mandato nella
direzione sbagliata," Hans parla alle proprie scarpe.
"All’altezza di
Corona."
"Ah.
Niente
competizione, allora, per—amore, si chiama così?"
Hans
pensa alle porte.
"Una cosa del genere."
"Beh,
fratellino. Che
pensiero curioso e pittoresco. Ma dimentichiamoci dell’amore,
e rivolgiamoci
invece a questa situazione imbarazzante a cui ci hanno condotto le tue
azioni.
Parlami," Re Alfons fa lentamente, reclinando la testa, "della Regina
Elsa."
Elsa
pensa che l’incontro
possa andare, tutto sommato, meglio di così.
Il
principe sbatte le
palpebre. Olaf anche. Eccoli lì, al centro della biblioteca,
mentre si fissano
a vicenda, ma questo solo dopo che il principe ha
staccato con un calcio
la testa del povero Olaf—
"Elsa,"
fa il
pupazzo di neve, parlando a mezza bocca, senza rompere il contato
visivo con
l’uomo piegato a osservarlo, "Te lo dico perché ti
voglio bene, credo che
faresti meglio a scappare."
Elsa
si stringe forte le
braccia al petto.
"Quindi
sei—sei un
pupazzo di neve," il Principe Albert ripete, "e tu—e tu," i
suoi
occhi continuano a spostarsi su di lei, e poi di nuovo
all’avambraccio, come se
fosse pronto a dare qualsiasi cosa per avere un appunto da leggere, "tu
sei vivo."
Olaf
allunga le dita.
"Credo si sì, sì."
"Beh,"
il principe
fa un colpo di tosse, portandosi la mano alla bocca. Si inginocchia,
così da
essere finalmente con gli occhi a livello di quelli Olaf, "Chiedo scusa
per averti preso la testa a calci. Non mi piace molto quando le persone
danno a
me i calci in testa, quindi cerco di non farla
diventare—una pratica
comune—" si schiarisce la gola. "Sì. Comunque."
Porge
la mano. Olaf batte le
proprie, eccitato. "Oh! Oh, una stretta di mano! Ecco qui," e il
pupazzo di neve si stacca un braccio, tenendolo con
quell’altro, e allunga
l’intero marchingegno in direzione del principe. Da un lato
della bocca Olaf
fa, "No, sul serio, Elsa, scappa."
"Grazie,
Olaf,"
Elsa fa con una smorfia, osservando la stretta di mano. Il pupazzo di
neve si
riattacca il braccio. "Perché non vai a controllare Anna?
Per me?"
"Te
l’ho detto, Anna è
in—"
"Puoi
ricontrollare?"
Olaf
annuisce con forza.
Trotterella via dalla stanza, ma mentre se ne va incurva due dita verso
i suoi
occhi, e poi le punta in direzione del Principe Albert. Elsa geme,
lasciandosi
cadere la fronte tra le mani.
"Sono
davvero spiacente
per il calcio che gli ho dato," Il Principe Albert dice appena la porta
si
chiude, ed Elsa non sa se abbia la testa tra le nuvole o sia solo
gentile.
"è davvero solo una specie di riflesso involontario. Mio
fratello era
solito esercitarsi coi suoi incantesimi in camera mia, e trovavo ogni
genere di
cose—sa, teste e corpi e—ma non c’era
bisogno che le dicessi questo, mi
dispiace. Ha. Questo è il motivo per cui di solito mi
preparo i discorsi."
Lo
guarda, sentendo i propri
gomiti scavarle nei fianchi, e non può fare a meno di
chiedere "Suo
fratello ha—della magia?"
"Uno
di loro. Un po’ di
magia. Non è—è come—"
contorce la faccia in una specie di smorfia, come se
qualcuno gli avesse appena sputato nella zuppa, e Elsa riesce a fare un
piccolissimo, quasi sorriso. Il principe lo ricambia timidamente.
"Comunque, se riesce a fare pupazzi di neve parlanti, la sua magia
è già
molto più utile di quella di mio fratello. È
questo quello che mi doveva dire?
Ghiaccio magico e pupazzi di neve che parlano?"
E
tutto ritorna a crollarle
addosso.
Elsa
guarda la scrivania, e
la lettera intatta sopra. Guarda gli occhi di Albert e riesce a vedere
solo gli
altri. Non sa come dire tuo fratello è
un traditore che ha tentato di
uccidermi senza risultare offensiva, ed è
esausta—stanca fino al
midollo, parecchie notti di sonno mancato e niente
riposo che si fanno sentire. Dice, "Deve essere affaticato dal viaggio.
Perché non si riposa, e si unisce a me, più
tardi, per cena?"
"Uhm,
sì, va bene—ma
le—informazioni—"
"Possono
aspettare fino
a domani, quando i nostri nervi saranno un po’ meno provati,
non crede?"
Il
Principe Albert annuisce.
Sembra così insicuro, in piedi lì, nella
biblioteca, con le spalle vagamente
incurvate. Cammina verso le porte e le apre. C’è
una guardia. "Per favore
scortate il Principe Albert fino alla sua nave," ordina a voce alta.
Poi,
sottovoce, di schiena, "E tenetelo d’occhio."
La
guardia annuisce, quasi
impercettibilmente, e sente il principe spostarsi dietro di lei. La
supera,
quasi sfiorandola, ridendo imbarazzato, e poi è fuori in
corridoio, lisciandosi
la giacca e guardandola con quegli occhi.
"Immagino che ci vedremo
a cena, allora," dice con un mezzo sorriso, ed Elsa pensa, inarcando le
sopracciglia, che forse stia cercando di essere nonchalant, di fare il
disinvolto—ma poi inciampa. Elsa si morde il labbro. Si
raddrizza in fretta, fa
un inchino impacciato, formale, e prosegue per il corridoio, la guardia
che lo
segue a ruota.
Elsa
tira un sospiro di
sollievo.
"Anna,
stai ancora
bene?" Olaf le sussurra all’orecchio.
"No,
Olaf, mi sa che
sto per morire."
"Davvero?"
"Noo,"
risponde con un sorriso, sedendosi. Sbadiglia, stiracchiandosi con aria
deliziata. "Mi sento sorprendentemente riposata. Commossione, chi lo
sapeva,
eh?"
"Non
so cosa sia."
La punta del naso-carota di Olaf spunta dal margine del letto. "Elsa
stava
parlando con un uomo strano."
"Parlava
con un uomo?
Huh. Sarebbe la prima volta."
La
porta della camera da
letto si apre. Si chiude. Ecco sua sorella, insicura, in piedi davanti
all’entrata, con l’aria di una che crede di non
trovarsi a proprio agio in
camera sua, con le braccia strette strette al corpo. Anna si appoggia
il mento
sulle mani, e chiede, maliziosa "Un uomo, eh?"
"Olaf,
che le hai
detto?" Elsa chiede in fretta, quasi seccata.
"Solo
che stavi
parlando con un estraneo," Olaf dice, girando elegantemente sul piede
rotondo e scivolando sul pavimento umidiccio, tra pozzanghere di stoffa
e pezzi
di legno. "Se ne è andato?"
"Non
ancora,
temo."
"Sai
cosa si dice sugli
estranei, eh?" Anna dice. "Perché io lo so. Sono diciamo,
così brava
a fidarmi di estranei di cui non ci si deve, è
tipo—ok, sai cosa, dimentica che
abbia mai parlato, facciamo—Olaf, perché non ci
dai due minuti?"
"Ohhh!"
Il pupazzo
di neve batte le mani, con un sorriso stupido. "Ora di legami fraterni!
Certo, certo." Supera Elsa, dandole dei colpetti sulla gonna, apre la
porta, e proprio prima di chiuderla dietro di sé si gira per
bisbigliare,
"Prendetevi tutto il tempo che vi serve."
Si
chiude. Anna non può
trattenersi dal ridere, massaggiandosi gli occhi. Elsa chiede, "Come ti
senti?"
"Molto
meglio. Se non
fossi una tale imbranata non avrei battuto la testa cadendo, ma mi
conosci—devo
sempre farla più dolorosa possibile," finisce lentamente.
"Ehi, Elsa?
Mi dispiace. Per Kristoff. Non stavamo—facendo niente,
lo giuro, voglio
dire—" la pianta di parlare, ricordandosi del sogno vago che
stava facendo
prima che Olaf la svegliasse—Kristoff, che si chinava verso
il suo viso, e poi
il suo viso si era trasformato in quello di Hans
e aveva detto tua
sorella è morta e non poteva nemmeno dormire
in pace, vero? Eddai!
"Voglio dire, non stavamo facendo niente," finisce fiacca.
"Oh,
Anna. Lo so. Devi
solo—pensare a queste cose."
"Vorrei
che non l’avessimo
fatto."
"Anche
io."
"Pensi
che la vita
sarebbe più facile se—se mamma e papà
fossero vivi?"
Anna
guada sua sorella
guardarsi le mani nude. "Non credo sarebbe meglio."
"Mi
mancano," dice
d’impulso. C’è un profondo, prolungato
silenzio, ed è irrequieta, vuole
correre, saltare, qualsiasi cosa—invece si concentra sui
frammenti sparsi per
il pavimento sella stanza. "Allora che è successo qua
dentro, eh? Sembra
un uragano! Voglio dire, gli uragani sono fantastici—non va
male, non ti sto
facendo la ramanzina. Anzi mi faccio io la ramanzina. Va benissimo,
compriamo
un armadio nuovo. Stai bene?"
Elsa
sembra in
contemplazione di qualcosa, il capo piegato, e guarda con attenzione i
propri
abiti eleganti sul pavimento. Fa, "Devo dirti una cosa. E ho bisogno
che tu
stia calma."
"Elsa,
pher-favore,"
Anna esclama, alzando gli occhi. "Sono praticamente la persona
più calma
del mondo. Ho inventato io la parola calma. Una volta, ho anche
esercitato la
mia calmezza, e sono stata brava—era tipo meditazione,
l’Attendente Reale—"
"Un
Principe delle
Isole del Sud verrà a cena stasera."
"Aspetta,
scusa, credo
di aver sentito Isole del Sud," Anna ride, inclinando la testa di lato
e
pulendosi l’orecchio. Quando Elsa non la
corregge—non nega—"Un principe
delle Isole del Sud?"
Ovvio
che non fosse Hans,
ma uno dei suoi dodici fratelli e sa che dovrebbe
comportarsi da
principessa, essere calma, essere fredda, essere,
tipo—composta, o così—ma
quello che vuole fare veramente proprio in quel secondo era scendere
dal letto,
trovare questo principe e dare anche a lui un pugno
in faccia—il che era
decisamente e completamente una reazione spropositata—ok,
forse non decisamente
e completamente, forse più—solo pochissimo
spropositata—"Elsa,
devi dirgli di andarsene!"
"Non
posso!” Elsa geme,
e non ha mai sentito sua sorella gemere. È un suono nuovo,
frustrato. "Ha
ricevuto indicazioni sbagliate. Sarebbe dovuto arrivare per la mia
incoronazione ma è finito fuori rotta—non sa
di suo fratello."
"Aspetta.
Non sa di
Hans?"
Elsa
scuote la testa.
"Ha appena fatto porto."
"Aspetta.
Non gli hai detto
di Hans?"
"Non
so come
fare!" Elsa si guarda di nuovo le mani, e Anna se ne sta seduta
lì, sul
letto, e non sa cosa provare. Se non avesse visto
qualcuno delle Isole
del Sud mai più, sarebbe stato comunque
troppo presto. Quindi forse se
si limitava a non pensarci solo per un altro paio
d’ore—
"Vieni,"
alla fine
tira su regalmente col naso, adagiandosi su metà dei cuscini
di Elsa e dando
dei colpetti allo spazio accanto a lei sul letto. "Siediti."
"Anna,
io—"
"Niente
Anna.
Puoi e devi. Ordine della sorella."
Elsa
cammina su parecchi
vestiti, i resti, e piano, attenta, si arrampica sul letto accanto a
lei. Sono
stese fianco a fianco, fissando il baldacchino blu scuro che Anna sta
lentamente iniziando a odiare, e si ricorda di un tempo in cui erano
solite
farlo molto più spesso. Chiede al baldacchino, "Quando
è stata l’ultima
volta che hai dormito, eh?"
"Sono
la regina."
"Solo
perché sei la regina
non significa che tu non abbia bisogno di una
dormita. Senti, semplicemente stenditi qui," Anna si gira su
un
fianco, e sembravano di nuovo bambine, che strano—"stenditi e
riposati un
po’, ok? E poi sarai prontissima per la cena, dove prometto
che mi comporterò
quasi bene."
"Non
puoi menzionare
niente che riguardi il fratello. Prometto che glielo dirò,
ma devo farlo
in un’atmosfera più controllata." Codice per:
senza te attorno.
"Sono
così posata.
Ok, non guardarmi così, allora ok, sono per lo
più posata. Ok, sai cosa,
bene. Ok. Assumerò il mio migliore atteggiamento da
principessa." Non dice
che l’unica cosa è che non sa esattamente quanto buono
fosse il suo
miglior atteggiamento da principessa, ma ci doveva pur essere un
inizio, no?
Ecco cos’era. "Solo, dormi un po’."
"Anna?"
Si
ferma, mentre stava
scendendo dal letto. "Sì?"
"Vuoi
solo—puoi—"
Anna
guarda dall’altra parte
del proprio naso. Ecco sua sorella. Ecco sua sorella, così
vicina, e niente le
separava, e potevano essere di nuovo bambine. Rimette i piedi sul
letto.
"Sì, sai cosa, in realtà, sono ancora super
stanca, ti dispiace se rimango
un altro po’?"
Elsa
sorride, e non è un
quasi. "Penso che non mi dispiaccia."
Il
sorriso di Anna le prende
tutta la faccia. Non dovrebbe essere permesso, essere così
felici, quando uno
di quei brutti fratelli faccia di deretano è lì.
"Bene."
Solo
un inizio.
"Ha
congelato
l’estate," il re rimugina.
Hans
flette le mani.
"Come ho detto." Pieno inverno—luce a malapena, calore a
malapena, un
intero popolo che moriva di fame e si affidava a lui ed era
stato fantastico—
"Bene,
allora. Sembra
che mi aspetti una chiacchierata con Niels."
Hans
rabbrividisce tutto.
"Perché?"
"Non
preoccuparti,
fratellino. Alcune questioni sfuggono semplicemente al tuo controllo,
nonostante i tuoi tentativi di fare altrimenti." Il re si alza, e si
volta. È una vista familiare, il retro della sua
testa—Hans fissa il rancio
nell’angolo. Si sente la puzza della carne e delle patate che
si stanno
inacidendo sul pavimento. "Dimmi, Hans." Il sovrano ha un aspetto
regale, rigido e dritto, le mani dietro la schiena, e si volta appena,
abbastanza da permettere ad Hans di distinguere il profilo affilato del
naso
alla luce della torcia. "Ho la tua completa e totale collaborazione?"
Hans
si lecca le labbra. Ha
di nuovo otto anni; c’è del sangue sul pavimento,
accanto alla mano di suo
padre. Alfons non è ancora re. Lo sta spingendo contro il
muro con l’elsa e sta
dicendo non dirlo a nessuno, sentito? Hai sentito? Ho la tua
completa e
totale collaborazione?
"Sì,
vostra
altezza," Hans dice alla schiena di suo fratello. "Ma certo."
Un
cenno secco con la testa.
"Bene. Immagino che sarai fuori dalla cella, non so quando di preciso,
domani." Passo, passo, passo, lungo il corridoio, e Hans vuole che
vada,
vuole trapassargli la schiena da parte a parte, e se solo le cose
fossero così
semplici, se solo non dovesse sopportare gli altri undici stupidi che
stavano
tra lui e il trono—"Oh, e Hans?"
Alza
gli occhi, da dietro le
sbarre dritte della sua cella. "Sì?"
"Non
deludermi di
nuovo."
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo
6
"Quindi
tu sei il
Principe Albert," Anna chiede al suo pezzo di pane. "Il Principe
Albert delle Isole del Sud. Un principe che viene da quelle isole
giù a sud.
Quel tipo di principe."
Elsa
si volta lentamente in
direzione della sorella, le narici dilatate. Anna continua a imburrarsi
pigramente il pane. Caldo, fragrante, dorato. Buon pane. Il principe in
questione sembra star provando a decidere quale forchetta debba
affondare
nell’insalata. La lotta, Anna pensa, è seria.
Posa
il coltello da burro,
posando lo sguardo sull’uomo di fronte a lei, il pane in
viaggio verso la
bocca. Eccolo seduto lì, coi capelli ricci e le lentiggini,
con l’aria di uno
che vuole sprofondare nella tappezzeria rossa. Se non fosse stato per
quegli
occhi, Anna pensa, il pane quasi alla bocca, non lo avrebbe proprio
etichettato
come principe delle Isole del Sud. Mentre lo osserva lui alza lo
sguardo, e
quegli occhi—gli stessi occhi, davvero, proprio un
potere superiore, per
forza—Anna si infila tutta la fetta di pane in
bocca e fa un sorriso
colpevole, a guance piene, in direzione della sorella
Il
Principe Albert si tira
su la manica della giacca. Anna, ingoiando senza masticare a respirando
a
malapena, nota il tratto netto della grafia scritta
lì—e un piccolo schema di
un piatto da cena formale, completo di tovagliolo, forchetta,
coltelli—prima
che il principe lasci cadere la manica, prendendo in fretta la
forchetta più
esterna.
"Allora,
si sente ben
riposato, Principe Albert?"
"Sì,
maestà,
grazie," risponde a bocca aperta, e poi diventa rosso scarlatto. La
mano
va a coprire la bocca, ingoia, and Anna lo fissa dall’altra
parte del tavolo
con un’espressione piuttosto stupida. Laddove Hans era stato
elegante,
disinvolto, aggraziato, infido e bugiardo e intrigante, quel
pezzo di idiota—
Si
lecca le labbra, calma il
respiro. Più di ogni altra cosa, pensare ad Hans la mette in
imbarazzo. Ma
questo tizio—dalla punta dei capelli alla suola delle scarpe,
non manda, in
nessun modo, segnali di regalità. Forse era stato adottato o
una cosa del
genere—ma quegli occhi—
"Ma
sei sicuro di
essere un prin—"
"Anna!"
"—vato?"
finisce,
virando a sinistra. Guarda Elsa, che sembra quasi pregarla, ma sul
serio, che
voleva, sua sorella—dodici anni a mangiare coi camerieri in
cucina e
all’improvviso ci si aspettava da lei che tenesse a freno la
lingua a cena,
eddai—"Un soldato nell’esercito privato?"
"Uh,
no, non
sono—no," fa con gli occhi rivolti al suo piatto. "Ho dei
fratelli
nell’esercito, però."
"E
Hans faceva parte
dell’esercito?"
"Anna."
"Sto
solo chiedendo.
Non è che sapesse combattere o altro, voglio dire, ho preso
a pugni—"
"Anna."
"—un
cane una volta.
Aspetta. Che?" Prende in fretta la coppa con l’acqua, ma
quando l’inclina
per bere un sorso, scopre che l’acqua è
completamente ghiacciata. Guarda male
Elsa, ma le labbra strette a filo della sorella dicono, praticamente,
tutto,
quindi alza gli occhi, posando di nuovo il bicchiere.
Tutto
questo era infinitamente
più difficile di quanto pensasse.
Specialmente
con quegli occhi—
"Perché
non ci racconta
dei suoi fratelli, Principe Albert?" chiede Elsa, educata.
No,
Anna non vuole sentir
niente su quelle persone orrende. Sospetta che la famiglia intera sia
psicopatica, sotto sotto. E poi, il tipo di fronte a lei probabilmente
sta solo
facendo finta di essere un agnellino innocente, sul serio—
"Beh,
Alfons è il più
grande. Il re. Suo fratello gemello, Lukas, è un generale
nell’esercito, come
Marcel. C’è, uhm, Stefan, che si diverte a
scrivere commedie, e Josef e
Rupert—anche loro l’esercito—" Anna lo
osserva. Dalla voce non trapela
granché. Tiene su le dita e li conta come pezzi di carne.
"Felix—beh, lui
è—Felix è—andato." Andato? "E
poi Niels—è lui lo stregone,"
rivolge l’ultima a Elsa, e lei annuisce, e Anna perde il
filo. "Tomas e
Viktor, anche loro gemelli, e poi Fredrik—è via a
combattere con Marcel, al momento,
o sarebbe qui anche lui—e poi io, e beh. E poi Hans."
"Sì,
sappiamo tutto di
Hans," Anna borbotta cupa tra i bocconi d’insalata.
"Si
è comportato bene,
spero?" Il Principe Albert guarda in su, sorridendo in fretta, ma
svanisce
altrettanto in fretta. Tossisce sulla forchetta. "Questa lattuga
è
fantastica," dice, e poi sobbalza.
Anna
pensa che, sul serio,
non era possibile che ci fossero due fratelli più diversi
sulla faccia della
terra. Poi guarda Elsa.
Beh.
Forse stava un
po’ esagerando.
Prende
un’altra fetta di
pane.
Toc,
toc, toc.
La
porta si apre con un
cigolio, e nella stanza dietro c’è puzza di marcio
e rovina. L’aria è viziata,
stucchevole. Una grande finestra panoramica, dall’altro capo
della stanza,
lascia entrare i raggi del sole morente, ma sembra smorzato, e fasullo.
Re
Alfons si blocca sulla soglia, stringendo le labbra.
"Vostra
maestà."
Una voce, dall’angolo. "A cosa devo il piacere di questa
visita?"
"Piantala
con le
formalità, Niels," replica, facendo un passo avanti nelle
tenebre e lasciando
che la porta si chiuda dietro di sé. Immediatamente si sente
soffocato,
schiacciato al suolo.
"Mi
limito a seguire il
protocollo, fratello."
"Ma
certo."
"Dimmi,
come procedono
i tuoi studi?"
"Bene."
C’è
un uccello—un
corvo—infilzato su uno dei tavoli, e si dibatte ancora, nel
bel mezzo della sua
agonia. "Eccellente. Ho una richiesta per te." Sta per venirgli una
terribile emicrania, un battito tribale nelle tempie.
"Sì?"
"Sono
in cerca del
miglior modo per eliminare una minaccia."
Intravede
il lampo bianco
dei denti di Niels nel crepuscolo morente, strozzato. "Ah,"
è tutto
quello che dice.
Alfons
serra la mascella.
Niels non era Hans, che si poteva spingere con la paura a collaborare.
Era
viscido come un’anguilla, e due volte più
intelligente. "Ovvio, Il tuo
aiuto sarà ricompensato. Oro, gioielli—"
"Un
posto nel
consiglio, magari?"
"Non
ci sono posti
vacanti."
"Beh.
Sono sicuro che
possiamo farci qualcosa, non credi?"
"Sì,"
Alfons
risponde. "Ovvio."
"Giuralo
su qualcosa a
cui tieni."
Pausa.
"Lo giuro sulla
mia sovranità."
"Bene.
Ora, che genere
di minaccia stiamo affrontando, in modo da avere qualche base?"
"Ghiaccio,"
Alfons
dice. "Ci troviamo di fronte al ghiaccio."
"Ugharhghh!"
Anna
si fionda nelle stalle
come una specie di uragano forsennato, la porta che sbatte contro il
muro e la
sua silhouette profilata dall’unica lampada che splende
accanto alla porta.
Kristoff, che ancora si sta svegliando dal suo sonnellino pomeridiano,
che
ancora cerca di capire dove si trova, si tira su a sedere
all’improvviso nella
sua pila di fieno e riesce a dire, "Cos’è che va a
fuoco?"
"Se
essere una
principessa significa presenziare a cene imbarazzanti con i fratelli
del quasi
assassino di tua sorella, allora no grazie."
"Che?"
Kristoff si
strofina un occhio. Il berretto gli scivola dalla faccia al mento al
petto.
Sven sbatte le palpebre assonnato accanto a lui, schioccando le labbra
da
renna. "La sorella assassina del fratello—"
"No,
un fratello del
quasi assassino di mia sorella, tieni il passo, Kristopher."
"Uh,
già." Ci
arriva lento, come un’onda. "Aspetta. Che?"
"Esattamente
quello che voglio dire." Si lascia cadere drammaticamente nel fieno
accanto a lui, col collo e le braccia scoperte, senza preoccuparsi del
pomposo
vestito verde che si spiegazza. Una delle maniche di seta scivola
giù fino
quasi al gomito. Ingoia, cercando di non fare caso alle lentiggini
sparse sulla
clavicola ed era davvero troppo presto per questo,
solo che non era
presto, era tardi, non è vero—allora era davvero
troppo tardi per questo—
"Rallenta,"
tossisce, anche se lei non si muove, non parla e niente. "Che
succede?"
"Il
Principe
Albert," dice, facendo una voce tutta altezzosa, "è venuto a
cena." Anna sta affondando nel fieno, ma non fa niente per evitarlo,
fissa
solamente il soffitto delle stalle e sputa fili di paglia a caso via
dalla
bocca. Una ciocca di capelli si era sciolta nel suo attacco di collera,
e
adesso è proprio nel bel mezzo della fronte. Allunga la mano
per portarla
all’indietro, e poi pensa no, non lo fare,
e poi pensa basta—no,
vai—no—così, la sua mano
barcolla incerta per tutto il tempo e alla fine
cade dietro di lui.
"Dovrei
conoscerlo?" chiede. E poi sobbalza. Quante altre prove di non
sono
nobile gli servivano?
"è
il fratello del
principe Hans."
Si
siede, totalmente e completamente
sveglio. "E tua sorella l’ha ammesso a palazzo?"
"A
quanto pare si è
perso l’incoronazione per sbaglio, ma
l’ho smascherato in meno di un
minuto Arendelliano. Fa la parte dell’ingenuo di
campagna—"
"A
palazzo?"
"Kristoff,
per
favore." Gli occhi di Anna trovano i suoi. "Tieni il passo."
"Beh,
e lo sa? Quello
che ha fatto suo fratello?" le chiede piano. La spada levata contro la
schiena della regina era stata orribile, terribile, ma non era stato
tanto
quello—non era stato tanto quello che
l’aveva tenuto sveglio di notte
nell’ultima settimana, ma immagini di Anna barcollante nella
tempesta di neve,
mani di ghiaccio, braccia di ghiaccio, cuore di ghiaccio—
"Non
ancora. Elsa dice
che gliene parlerà." Anna sospira, agitando le braccia ai
due lati, come
se stesse facendo un angelo nel fieno. Una di loro gli colpisce il
petto.
"Non lo so proprio. Mi piace avere i cancelli aperti, ma rende le cose
più—complicate. Ma ehi! Almeno ho te!"
"E
questo che
significa?"
"Sai.
Questo," si
volta sul fianco, e alza gli occhi verso di lui. Deglutisce;
l’unica cosa che
lo tiene coi piedi per terra è il masticare di Sven. Si
lecca le labbra. Vuole
dire questa cosa è tutt’altro che lungi
dall’essere complicata, ma lei è
stesa lì e lui non ce la fa, quindi non lo fa. Si limita a
stendersi accanto a
lei, le mani dietro la testa. Vuole chiederle cos’è
questo, ma non ci
riesce.
"Beh,
andrà via presto,
no?" dice invece. "Non mi piace avere qualcuno, chiunque delle Isole
del Sud che ti gira attorno. Voglio dire attorno al palazzo. Attorno ad
Arendelle."
"Oh,
Kristopher. Ma
allora ti importa."
"Stai
zitta."
Anna
sorride.
"Alle
cucine il
ghiaccio sta per finire," mormora rivolto al soffitto.
"Dovrò
partire, presto."
"Posso
venire con
te?"
"Dopo
l’ultima volta?
No."
"Psh.
Come vuoi. Ti perderai
le mie magnifiche capacità di cavare il ghiaccio. So cavarne
così tanto. Tanto
così. Stai guardando? Guardami, tanto così.
Kristoff, guarda."
Come
risposta le lancia in
faccia un po’ di fieno. Sputacchia quando le va a finire in
bocca e nei capelli
e si vendica lanciandoglisi addosso. Non sa di preciso, quando gli
crolla
distesa sul petto, cosa voglia fare, finchè lei non ne
prende una manciata
vicino alla testa e glielo lancia negli occhi. "Porca—"
Le
afferra le braccia. Un
polso sottile, in ognuna delle sue grosse mani. Dalle risate le manca
il
respiro. A lui manca solo il respiro. La lanterna brilla di luce calda,
e i
cavalli nitriscono nei recinti. Si poggia su di lui come un
colibrì, e si rende
conto che praticamente lo è, e non
atterra mai, non si ferma mai. Può
contare le lentiggini che ha sul naso.
Vuole
chiederle, posso
baciarti, ma lei si sporge all’ingiù, le
labbra che quasi sfiorano le sue.
Anna muove la testa, mordendosi il labbro. Le sistema le mani sul
proprio petto
e lascia andare quei polsi sottili e appoggia le dita ai lati del viso,
i
polpastrelli che le scivolano sulle guance, raggiungendo la massa
liscia,
rossiccia dei capelli. Dice, "Non farla complicata, huh?"
"Molto
non-complicata," risponde con un sorrisetto veloce. "Vedi, è
semplice.
Io voglio baciarti. Tu vuoi baciare me. Quindi dovremmo solo—"
Kristoff
si allunga all’insù
e le cattura le labbra con le sue. Il suono che Anna fa si trasforma da
indignato a compiaciuto, fermandosi da qualche parte nel retro della
gola. Le
mani di lei stringono la camicia tra i pugni, poi percorrono il suo
petto-è
tutto così nuovo, pensa piuttosto
lucido, la sensazione di un’altra
persona, con le labbra che si muovono contro le sue, mani e piedi
e—la cosa più
importante—batticuore—si stacca,
tracciando un percorso di baci giù per
il collo, fino alla liscia e lentigginosa distesa della spalla, e lei
sussurra,
"Kristoff."
Si
ferma. Guarda in alto.
C’è una specie di calore che aumenta nel suo
ventre. Lei è lì, sopra di lui,
delineata dalla luce delle lampade, il fieno nei capelli, e la treccia
scompigliata. C’è qualcosa intorno agli occhi di
Anna che non riesce a leggere,
e pensa, con una paura improvvisa, e un’improvvisa stretta al
petto, di aver
fatto qualcosa di male—ma le mani le aveva mantenute
all’altezza della vita, e
la bocca al di sopra del seno, e—
"Sono
stanca,"
dice in fretta, con uno sbadiglio poco convincente. "Devo proprio
ritornare a un ritmo di sonno normale, ha." Si siede. Il suo corpo lo
lascia. Cerca di ritrovare il respiro, e di ricomporsi.
"Certo.
Sì,
sicuro."
"Solo
che—"
Si
ferma. Lui fa,
"Sì?"
"Niente."
Anna
sorride. Si piega in avanti e gli dà un bacio sulla guancia.
Gli sussurra
"Buonanotte," all’orecchio. Poi scappa via dalla stalla,
lasciandosi
alle spalle la porta che sbatte.
"Cosa
ho fatto?"
Kristoff geme, guardando Sven. La renna alza le spalle. "Non ne ho
idea," risponde il suo amico. "Forse baci solo da schifo."
Kristoff
fa una specie di
suono strangolato e si lascia cadere nel fieno. "Ti ricordi quando il
ghiaccio era la mia vita?"
Sven
annuisce comprensivo.
"Ghiaccio.
La mia vita.
Perché è.." Kristoff fa un cenno alla porta,
infilandosi il cappello in
testa e considerando l’idea di farsi una doccia fredda, e
decide che deve
andarsene di nuovo.
E
presto.
"Perdoni
mia sorella,
Principe Albert," Elsa dice piano. Sono in piedi sulla balconata fuori
della sala da pranzo, nella tiepida, balsamica notte estiva, e le
stelle si
accendono, una per una. "Di recente si è ferita la testa,"
continua
in tono piatto.
Il
principe è dritto e
rigido accanto a lei, con le mani dietro la schiena. Lei mantiene le
sue di
fianco, lottando contro l’impulso di evocare il vento freddo.
Chiede,
"Parecchio grave?" Poi, "Aspetti, no, volevo dire—non
c’è niente
da perdonare." La guarda in tralice e sorride. "Davvero."
Sbatte
le ciglia e guarda
avanti, fino al fiordo, e il mare che scintilla. Riesce appena a
distinguere
gli alberi di alcune navi. Si chiede quale sia quella del principe. Si
avvicina
alla ringhiera, impaziente di richiamare il vento, e sistema le mani
sulla
superficie piatta. Le si contorce lo stomaco. La cena non stava
giù.
"Regina
Elsa? Se—se mi
è concesso," Il Principe Albert inizia, avvicinandosi a lei.
"Forse
non dovremmo aspettare fino a domani. Forse dovrebbe dirmi quello che
ha fatto mio
fratello adesso, in modo da poter porgere le mie scuse in sua vece."
"Che?"
Elsa
sobbalza. Quando lo guarda, il principe la sta fissando serio con
quegli occhi,
i suoi verde-blu in quelli di lei, color
ghiaccio—cos’erano mai? Non pensava
fossero percettivi. Non si era mai considerata così un libro
aperto. Non è
pronta. Ritorna a guardare il fiordo. "Qualunque cosa lei
possa—"
"Sa
che," il
principe inizia, imitando la sua posizione, "che una volta era convinto
che avrebbe sposato la delfina di Francia? Le mandò pegni
d’amore, doni e altre
cose. Poi un giorno ci giunse la notizia che era destinata a sposare il
principe di Albion, e lo trovai nei quartieri della servitù,
che stava rompendo
il naso a un uomo." Si afferra il pollice della mano destra con la
sinistra,
guardando dritto davanti a sé. "Quindi, per favore, me lo
dica. Non
riesco—" tenta un sorriso, ma si spegne. La mano pizzica,
scatta verso la
manica. "Non riesco a sopportare l’attesa più a
lungo."
"Sarò
franca,
allora," Elsa inizia lentamente, immaginando Hans e il rumore
dell’osso
che si spezza. "Mi perdoni, non è mia intenzione offenderla."
"La
prego,
continui."
Così
educato. Così formale.
Dice, "Hans ha tentato di promettersi in matrimonio a mia sorella. Dopo
che è tornata a casa—" Elsa si ferma, non sa come
continuare. "Era
ferita. Hans l’ha data per morta, e mi ha dichiarata
traditrice."
"Perché?"
La
posizione rigida del principe si scompone. Sbatte le palpebre, con la
bocca
aperta, dice, "Non riesco a vederla colpevole di tradimento." Poi
tossisce a disagio, distogliendo lo sguardo.
"Ho
congelato Arendelle
in un inverno perenne. È stato un incidente," si corregge in
fretta.
"Ma congelata, nondimeno. Ha tentato di uccidermi." È una
versione
così breve, semplificata, che si trova a dissentire in
fretta da essa. Sembra
irreale, come se fosse accaduto a qualcun altro, e non a lei.
"Regina
Elsa," Il
Principe Albert fa serio, voltandosi a guardarla. "Sono dispiaciuto.
Non—sembra molto, non è così? Ma lo
sono. Sinceramente."
"Adesso
dovrebbe essere
già tornato nel vostro regno."
"Sono
sicuro che il re
si sta occupando di lui. Alfons ha sempre avuto una certa influenza su
di
lui," finisce, parlando quasi a sé stesso.
Si
sente come se si fosse
tolta un peso dal cuore. Era stato breve, veloce; l’aveva
fatto, aveva detto le
fatidiche parole, e l’uomo accanto a lei non era diventato
pazzo di rabbia.
Sembrava sperduto, mentre fissava la città, le spalle
leggermente ricurve, come
se volesse essere invisibile. Dice, "Grazie per le sue scuse,"
perché
cosa rimane da fare?
Il
principe si strofina la
nuca. "Vorrei solo che ci fosse qualcosa in più da poter
fare. Poter dire.
Non—Sapevo che era grave, ma non capivo—non
capisco."
"Potere,"
risponde, premendo i polpastrelli l’uno contro
l’altro. "Cosa c’è da
capire?"
Il
principe dice, ugualmente
piano, "Andrò via da Arendelle il prima possibile. So che
se—se fosse—se i
ruoli fossero invertiti," alla fine trova le parole giuste, "Non
sopporterei la mia faccia. Mi sorprende che è riuscita a
farlo così bene così a
lungo." Il suo sorriso è auto-denigratorio.
"E
la sua nave?"
Non lo negherà, e non dirà che non è
quello che vuole.
"Problemi
con l’albero,
e lo scafo. La tempesta ci ha praticamente distrutti." I suoi
occhi—quegli
occhi—sono distanti. "Bene, Regina Elsa,
spero—solo—riposi tranquilla,
Hans verrà punito. Confermerò qualunque resoconto
raggiungerà le Isole del Sud
riguardo al suo comportamento." Fa per andarsene.
Non
può farne a meno. Gli
chiede, "Perché mi ha creduto subito?"
Si
volta, ed è nella sala da
pranzo a metà strada verso la porta, dove la guardia
aspetta, sempre all’erta.
Il suo viso è tremendamente serio, delineato dalla luce che
c’è dentro.
"Perché
si tratta di
Hans."
E
se ne va.
Ecco
come era successo.
Non
riusciva a
dormire, ed era andato in libreria. Suo padre era lì, il
fuoco vivo nel
caminetto. Ecco
come era
successo.
Suo
padre aveva
detto, forza, figliolo. Siediti. Non riesci a dormire?
No,
papino.
E
suo padre
aveva preso la scacchiera da uno degli scaffali, e aveva preparato il
gioco.
Aveva detto, questo non è un gioco di potere. O di forza.
È tutto astuzia. Il
fuoco scoppiettava nel caminetto. Controllava i pezzi bianchi, e suo
padre i
neri. Il pedone poteva avanzare di due caselle al primo turno.
Gli
piaceva
muovere i pezzi. Suo padre diceva, no, pensa prima, ma era troppo
seducente il
pensiero di prenderli, muoverli e basta. Suo padre lo teneva quasi in
scacco
matto. La porta si era aperta. La porta si era aperta, e suo fratello
era lì, e
la porta si era chiusa. Suo padre aveva detto, Alfons, che—
Alfons,
che—
Alfons,
che—
Non
era stata
una morte pulita. Non era stata una morte bella. C’era stato
del sangue, ed era
finito sulla scacchiera. Suo fratello l’aveva spintonato
contro il muro di
fronte, urlando, non avresti dovuto essere qui, non avresti
dovuto—lo stava
spingendo contro il muro con l’elsa della spada e diceva, non
dirlo a nessuno,
sentito? Sentito? Ho la tua completa e totale collaborazione?
Hans
si sveglia sudando
freddo, con lo stomaco che brucia. Vomita bile al lato della brandina.
Non faceva
quel sogno da molto, molto tempo.
Si
ristende. Chiude gli
occhi. Attende il sonno.
(E
poi Alfons aveva
rovesciato il re nero sulla scacchiera e aveva detto, è
così che prendiamo il
potere. E se poteva farlo suo fratello, poteva farlo anche lui. Andava
bene, se
poteva farlo suo fratello. Papino, papino. Andava bene.)
Attende
il sonno, nella sua
cella sudicia.
Attende.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo
7
È
una mattina da inizio
estate, e non da fine, un giorno più primaverile che
autunnale. Elsa osserva il
cielo azzurro intenso attraverso le finestre piombate, tamburellando
l’indice
contro la coscia. A malapena lo avverte, attraverso il velluto pesante
del
vestito; con ogni tap, un singolo fiocco di neve
cade ai suoi piedi.
Nell’ incubo, Hans la sovrasta, e le rompe il naso.
Elsa
scuote la testa,
permettendo alla luce tiepida del sole di inondarla, e sospira,
attraverso il
naso, riservata. Si volta via dalla finestra, la città che
si sveglia, il
fiordo che luccica, e continua giù per il corridoio. La
porta della stanza di
Anna è ancora chiusa. Si ferma, appoggiando
l’orecchio alla porta. Sente un
russare soffocato e fa un sorriso, piccolo e luminoso. Poi va avanti.
Il
corridoio dei ritratti si
allunga infinito davanti a lei. Lo percorre nervosa, ignorando gli
occhi
accusatori, le bocche sottili, quasi afflosciandosi per il sollievo
quando
raggiunge la biblioteca, la porta bianca si apre, la porta bianca si
chiude.
Era presto, e i servitori non avevano ancora iniziato le proprie
faccende. La
finestra chiusa, il fuoco spento. Agita la mano, e un venticello gelido
apre
piano la finestra. Il tenue scampanare e le urla dei mercanti arrivano
fino a
lei.
Elsa
si avvia alla
scrivania. Ecco la missiva. Sembra stupido, non aprirla adesso, dopo
quello che
era riuscito a fare la scorsa notte. Si sistema sulla sedia a schienale
alto,
contro l’imbottitura sontuosa color porpora, e riesce a
immaginare suo padre,
seduto nella stessa posizione, che la guardava placido quando apriva la
porta,
e quando si aggiustava i guanti.
Elsa
prende la lettera a mani
nude, e spezza il sigillo.
A
Sua Altezza
Reale, Regina Elsa di Arendelle,
Non
esistono
precedenti di perdono per eventi gravi quanto le azioni di mio
fratello, ma
posso solo sperare che possiamo—e che lo faremo,
davvero—andare avanti. La
prego di accettare le mie più sentite scuse, e la prego di
accettare le gentili
richieste dei miei ambasciatori, Viktor e Tomas, due dei miei fratelli,
che
invio in mia vece per aiutarci a stabilire la pace dopo questo
terribile
evento. Sappia che è tutto quello che desidero.
Una
grossa firma, piena di
svolazzi, poi: Re Alfons delle Isole del Sud.
La
carta si ghiaccia attorno
ai polpastrelli. Elsa riesce solo a pensare no. Non
vuole intrattenere
altri fratelli. È contenta di continuare a vivere come se le
Isole del Sud non
esistessero, ed è abbastanza sicura che sua sorella sia
dello stesso parere.
Guarda fuori dalla finestra, il porto.
La
porta bianca si apre. La
porta bianca si chiude.
Si
sveglia congelata,
raggomitolata su un lato del letto. C’è una specie
di dolore persistente che le
parte dal petto e arriva alle spalle, un pulsare soffocato che inizia
più o
meno dalle parti del cuore. Geme. Ha la bocca che sa di fieno.
Urgh.
Schiocca
le labbra,
sedendosi e sbadigliando. Ha la pelle d’oca sulle braccia, e
controlla—però no,
la finestra è chiusa, e non c’è
ghiaccio sul pavimento, e non sta guardando
quel baldacchino di un blu orribile. Tutto è leggermente
disordinato e molto
molto suo. Il cuscino che Kristoff aveva usato giace ancora sul
pavimento.
Non
sa. Non sa un sacco
di cose e parte di lei dice, sicuro, vai avanti, prosegui, e parte di
lei dice,
wooooh, ricordi quello che è successo l’ultima
volta, vero, con la porta e
l’idiota e il Non vedi? L’ho
già fatto, te lo ricordi, vero? Potrebbe
succedere di nuovo! E le due parti di lei se la risolvono a pugni, ma
sono
tutte e due, cioè, davvero brave a lottare, quindi
non—non è che—
E
metti anche il fatto che a
lei, beh, piace stargli attorno—un
sacco—
Anna
dondola i piedi da un
lato del letto e li pianta a terra, rabbrividendo tutta. Il dolore
è diminuito,
ora; abbastanza da mantenersi al margine e permetterle di ignorarlo
quasi
completamente. Va verso l’armadio e indossa maniche lunghe, e
gonna pesante,
domando i capelli in qualcosa di quasi accettabile. Fuori il corridoio
è vuoto,
il sole che lo inonda e il cielo azzurro del mattino oltre le finestre
piombate. Anna pattina coi calzini, scivolando nel corridoio dei
dipinti, corre
fino alle porte della biblioteca. Le apre, aspettandosi di trovare sua
sorella
appollaiata dietro la grande scrivania di mogano con
un’espressione fredda,
come quello che suo padre aveva sempre, ma invece è vuota.
Aggrotta le
sopracciglia.
Kristoff
non era Hans,
e non sarebbe mai stato Hans, e la più grossa parte del suo
cervello che lo
sapeva, lo sapeva davvero, ma c’era
anche quella parte di lei che non
voleva essere messa in imbarazzo, o presa in giro; che
all’improvviso non aveva
idea, di cosa fosse l’amore, nonostante l’avesse
visto tutti quegli anni—beh,
almeno nei dipinti, no?
Scivola
via da dove è
venuta, lasciando le porte bianche che oscillano aperte-chiuse dietro
di sé,
fiondandosi nel corridoio dei ritratti. Perde l’equilibrio e
inciampa perché va
di fretta, spiaccicandosi con un oof e un ohi
sul pavimento duro.
Si alza, massaggiandosi la testa con un sussulto, ed eccolo
lì.
I
suoi genitori sembrano
sereni.
Si
erano amati, vero?
All’improvviso
era davvero
incredibilmente importantissimo che lo sapesse—
Si
lancia nel corridoio
esterno, spalancando la porta della stanza di Elsa appena è
lì, ma è vuota,
l’armadio ancora spezzato e smantellato. Passa oltre,
giù per le scale, ed
ecco—"Gerda! Gerda, hai visto Elsa?"
"No,
io—"
"
'kay, grazie,
ciao!" si catapulta oltre, saltando sul corrimano della scala curva
come
aveva fatto altre cento volte prima. Giù, scivola. Era
importante che lo sapesse.
"Kai!"
"Vostra
altezza?"
l’uomo sobbalza, stropicciando la pergamena che ha tra le
mani e mandando via
alcuni dei servi riunitisi, mentre si preparavano per i compiti della
giornata.
Anna veleggia giù per le scale finendo dritta dritta
nell’armatura più vicina.
Si ridà un contegno. "Hai visto Elsa?"
Si
acciglia, allacciando le
mani dietro la schiena. "Ora che ci penso, no."
Anna
geme frustrata, perché
doveva saperlo e basta, e forse
voleva anche qualche consiglio su
Kristoff, su come si doveva sentire, perché come
faceva lei a—
"La
regina?" C’è
una guardia accanto alla porta. Non lo riconosce. Probabilmente uno del
nuovo
gruppo, cortesia dei cancelli aperti. "Si è diretta al porto
con un
piccolo contingente."
"Il
porto?" Anna
aggrotta le ciglia. "Huh. Che strano."
"è
urgente, Principessa?"
Kai domanda, arrotolando la pergamena. "Posso dare ordini
affinché la
accompagnino—"
"No.
Grazie,
comunque," sorride, afferrandosi la mano sinistra con la destra. "No,
allora—vado—le stalle."
E
questa volta, non corre.
"Regina
Elsa!"
qualcuno grida.
"Vostra
maestà,"
un uomo con spesse sopracciglia e l’aria da fabbro si inchina
al suo passaggio.
Fa un sorriso riservato. Un cenno col capo a qualcun altro. Un piccolo,
quasi-saluto con la mano.
"E’
la Regina!" le
arriva un’altra voce, da dietro, forse—non
può esserne sicura. La lettera sta
scavando una buca nella sua tasca, e le mani nude muoiono dalla voglia
di
essere coperte. Ci sono troppi occhi, troppe cose che potrebbero andare
storte.
Un venticello gelido agita la gonna, all’altezza dei piedi,
ma sembra che le
due guardie—una per ogni lato, e dietro a breve
distanza—non l’abbiano notato.
C’era
una libertà
inebriante, qui; una che le ricordava la cima delle montagne.
Attraversano
la piazzetta
fino al porto con le banchine di legno, dove le enormi navi dondolano
placidamente cullate dal vento sulle acque al largo, calme. Non una
nuvola in
vista. Osserva di sottecchi alcune bandiere—un sole, fregiato
su uno sfondo
viola; una croce allungata, tricolore; il bianco di un mercante
neutrale—ma
nessuna con il simbolo della famiglia reale delle Isole del Sud.
"Vostra
maestà!"
proclama una voce roca, segnata dalle intemperie. "Quale sorpresa!"
Si
volta. In cammino verso
di lei c’è un uomo magro come un palo, pelle scura
e bruciata dal sole, occhi
vividi e acuti, che indossa un cappotto lungo fregiato di oro e blu e
un
cappello a tricorno con una piuma elegante. Si ferma, rispettoso, a
parecchi
passi di distanza, questo capitano che aveva sorvegliato e gestito il
porto fin
da quando regnava suo padre. È consapevole della folla che
si riunisce nella
piazza alle sue spalle, che indicano, che fissano—la
regina, la regina—
Il
vento si alza.
"Mastro
Olin,"
dice, consapevole di avere sul volto l’onnipresente sorriso,
piccolo ed
educato. "Mi spiace per la visita inaspettata—"
"Vostra
maestà è sempre
la benvenuta al porto," urla allargando le braccia, indicando le navi.
"Ora, in cosa posso servirvi?"
"Sto
cercando la nave
del Principe Albert."
"Ah,
le Isole del Sud,
sì." Olin fa un passo avanti, poi due. Le guardie si
irrigidiscono. Il
capitano di porto abbassa la voce e dice, quasi in tono cospiratorio,
"Abbiamo messo la nave sotto stretta sorveglianza, dopo…gli
eventi
precedenti. Sta subendo grosse riparazioni." Indica una nave
più lontana,
ancorata al molo, dove degli uomini sciamano sul ponte e sulle funi.
Uno degli
alberi è crollato di lato. Le si stringe lo stomaco.
"Quanto
tempo ci vuole,
perché possa mettersi in mare?" chiede.
"Una
settimana, magari?"
Il capitano di porto sospira, grattandosi il mento.
Elsa
fa cenno di sì col
capo, la stima le fa precipitare lo stomaco nelle budella. Non ce
l’aveva, una
settimana, non se voleva intercettare la visita di questi—ambasciatori.
Cosa che voleva fare, con tutto il cuore. "Grazie, Mastro Olin." Sta
quasi per continuare lungo il molo, verso la nave in questione, ma si
ferma,
proprio prima di fare il primo passo. "E tutto il resto come
procede?" chiede lentamente.
"Bene,
vostra
maestà," Olin risponde con un sorriso deciso. "Grazie per
averlo
chiesto."
Annuisce,
come fa sempre, le
labbra increspate da un quasi-sorrisetto, prima di stringere le mani
avanti a
sé e a proseguire sul molo. Tiene la schiena completamente
rigida. Ci sono
troppe persone e troppi modi in cui tutto potrebbe andare
storto—è poi è spinta
all’improvviso di nuovo nel presente, con il ricordo del
fatto che tutto quello
che poteva andare storto già l’aveva fatto, e che
tutto ciò che volevano queste
persone era solo una Regina. Alza gli occhi, alle fondamenta della
città, ed
eccoli lì riuniti—giovani, vecchi, alti, bassi.
Saluta con la mano, e fanno un
largo sorriso.
"La
regina mi ha appena
fatto ciao con la mano!" strilla uno dei ragazzi più piccoli.
Posso
farcela,
Elsa dice tra sé e sé, voltandosi di nuovo. La
nave
si avvicina. Sono la regina, pensa, anche se lo
stomaco sobbalza e le fa
male, con un’ansia tremenda. Oltre gli sguardi avidi,
bramosi, del suo popolo,
c’erano quelle navi, alte, silenziose. Non riusciva ad
affrontare le navi,
proprio come non riusciva ad affrontare il ritratto al castello, nel
corridoio
dei dipinti. Due settimane, le avevano detto.
È
abbastanza vicina da
distinguere i volti, ora, degli uomini che vanno avanti e indietro sul
ponte,
su per le funi, sull’albero. Erano impetuosi, usurati dalle
intemperie tanto
quanto Olin, con occhi acuti, scaltri. I marinai erano
un’altra razza, un tipo
di persone con cui raramente aveva avuto a che fare, un tipo di persone
che non
capiva. Il genere di persone che, sembra, non si facevano impressionare
da un
titolo nobiliare. Alza una mano. "Aspettate qui, per favore," ordina
alle guardie.
"Ma
vostra
maestà—"
"Ho
detto, aspettate
qui."
Si
fermano, ma lei non lo
fa, le scarpe che battono un ritmo nervoso, irregolare sul legno che
calpesta. La
nave è smisurata, sia per grandezza che per forma; ne
è intimidita. Due
settimane. Allunga il collo, restia a mettere piede sulla passerella.
C’è del
gelo che si fa strada dalle sue scarpette fino all’acqua che
sciaborda contro
la nave. "Mi scusi?" chiama.
L’uomo
più vicino a lei, sul
ponte, sobbalza. Guarda alla propria destra, poi a sinistra. Poi alla
fine
guarda in basso. Subito la scorge, ed Elsa se ne accorge, dal modo in
cui la
grossa bocca si piega impertinente di lato, dalle sopracciglia
incredule, dal
naso grosso—sta per dire qualcosa di cui si sarebbe pentito.
L’unica cosa che
lo salva è una fugace seconda occhiata—i capelli
quasi bianchi, pensa; forse la
corona. In ogni modo chiude subito la bocca, e si raddrizza, da che era
appoggiato alla balaustra, facendo un inchino brusco. "Vostra
maestà."
"Il
Principe Albert è a
bordo?" Non voleva salire su quella nave, non sarebbe salita su quella
nave.
"No,
vostra maestà. È
sceso in città più o meno n’ora fa."
"Grazie,"
annuisce
rigida. Clack, clack, clack, protestano le sue
scarpette, per tutta la
strada fino al molo, il ghiaccio che la segue severo, come una scia,
toccando
appena le acque vicino agli scafi delle navi, il vento vortica, la
temperatura
diminuisce.
Due
settimane.
Non
è nelle stalle. È nel
cortile, che carica la slitta su un carro, e controlla i finimenti di
Sven.
Anna si morde il labbro, afferrandosi la mano destra con la sinistra e
decidendo che no, avrebbe dovuto fare—cose da principessa,
tipo trovare sua
sorella, forse, o dare istruzioni ai paggi, o a imbandire la tavola, o
solo—qualcosa—
"Oh,
ehi, eccoti
qui."
"Eccomi
qui," ride
colpevole, fermandosi mentre si stava girando per andarsene e
ri-voltandosi
indietro. Oltre i cancelli aperti riesce a intravedere il mercato, gli
spigoli
del banco dei fiori; riesce a sentire lo sciacquio dell’acqua
sotto il ponte.
Guardare Kristoff le fa ritornare il dolore al petto in tutta la sua
forza.
Inizia a massaggiarsi la spalla tracciando cerchi lenti, masticandosi
l’interno
della guancia.
"Non
fa caldo,
qui?" le chiede, accigliato, così da sembrare un vecchio
barbone acido con
la tunica che cade a pezzi.
"Oh,
se intendi dire a
causa della mia presenza, grazie per averlo notato," ghigna, sollevando
suggestivamente un sopracciglio e ancheggiando. Il tutto finisce quando
sporge
il piede un po’ troppo e il paggio più
vicino—che porta un cesto per il
mercato, o roba del genere—cade a terra. "Oops! Mi dispiace,
ecco
qui—" lo aiuta a rialzarsi, senza sentirsi più
sofisticata. O aggraziata.
"Bello,"
Kristoff
fa in tono piatto, le palpebre mezzo abbassate e le sopracciglia
sollevate.
Tira su una sacca e la lancia nel retro del carro. "No, voglio dire,
non
hai tu caldo?"
"Stai
implicando che io
non sia attraente?"
"Non
sto—non è quello
che—hai addosso i vestiti invernali in estate."
"Prima
cosa, guardati
tu," dice, indicando la tunica, e i pantaloni pesanti, e gli stivali
ricurvi. "Seconda cosa, praticamente siamo a fine
estate."
"Non
l’ho detto a
nessuno," Kristoff dice sottovoce, ignorandola, "il fatto che hai
freddo. Ma è davvero così? Tutto il tempo?"
"Perché
dovrei
mentirti?" chiede, in tono noncurante.
"Avevi
più o meno preso
una botta in testa quando me lo hai detto—"
"Non
ho mentito,"
Anna dice, guardando di lato. Smette di premersi la spalla. "Non
è niente
comunque, ok? Non mento nemmeno se dico che distruggerò
personalmente tutto ciò
che ami se lo dici a Elsa. Ha già abbastanza cose di cui
preoccuparsi
così."
"Non
puoi distruggere
te stessa," Kristoff dice, premendo le labbra, e poi sembra rendersi
conto di quello che ha appena detto, perché
diventa rosso come un peperone.
Anna sente ancora le parole riecheggiare nel cervello. La fanno sentire
strana,
bizzarra; la spaventano. Quindi fa la cosa migliore da fare in questi
casi—l’ unica
cosa—
Allunga
il braccio per dare
una pacca amichevole, mascolina, sul braccio di Kristoff, e dice: "Stai
attento. Non farmi venire a salvarti di nuovo."
"Ti
provocherebbe più
guai di quanti ne valgo," fa lui subito dopo. Il broncio è
ancora lì, le
sopracciglia aggrottate. Si sta chiudendo in sé stesso, come
un fiore bruciato
dal gelo. Anna, mordendosi il labbro preoccupata, pensa che tutto
questo si
sarebbe potuto evitare se Elsa non avesse deciso di marinare la sala
del trono,
quel pomeriggio.
"Ehi,"
dice piano.
Kristoff si volta verso di lei, che lo bacia sulla guancia. "Dico
davvero.
Per favore."
Giura,
tracciandosi il
cuore. "Forza, Sven."
E
con questo, si incamminano
via dal cortile, lasciando Anna confusa, perché decisamente
non voleva essere
solo amica di Kristoff, ma come poteva essere
sicura—sicura dell’amore,
dopo—
Dopo
porte aperte1?
"Perché
le cose non
possono essere semplici," geme.
"Oh,
no, mi ha preso! E
con quest’ultima, io—muoio!"
Elsa
sente delle risate,
chiare e vivide alla luce del mattino, che scoppiano tra le case.
C’è un
sentiero, su cui le linee dritte delle costruzioni sui due lati
proiettano
l’ombra, ma oltre intravede un altro cortile—una
piazza interna, contornata da
case su ogni lato. Riesce appena a distinguere le estremità
scintillanti di una
fontana al centro, riesce appena a sentire lo scroscio
dell’acqua oltre le
grida deliziate dei bambini. Fa di nuovo un piccolissimo cenno con le
mani.
"Vostra
maestà,"
la guardia alla sua sinistra fa piano, "non possiamo
lasciarvi—"
"Preferirei
che
rimaneste qui, in modo da non spaventare i bambini." Non può
permettere
che le sue guardie la credano debole. Non lo è. E come per
ricordarglielo, un
vento gelido arriva dalle montagne lontane. La guardia alla sua destra
dice,
"Vostra maestà."
Annuisce
brusca.
I
passi riecheggiano sulla
strada polverosa. Non è in rovina, solo sporca, con un paio
di pozzanghere
stagnanti intorno ai canali di scolo, e un paio di casse di legno in
piccoli
gruppi. Elsa si stringe forte le mani, evitando i pericoli. Non era un
mondo a
cui era abituata, questo, e la brina che si forma sotto i suoi piedi lo
sa.
Entra
nella piazza,
stringendo gli occhi contro la luce del sole che si vede di nuovo.
Sbatte le
palpebre, cercando di riabituarsi alla luce prima di potersi guardare
attorno.
C’è
della biancheria stesa
su delle corde, in alto, alcune camicie sparse sul bordo della fontana.
Sembra
che ci siano altri accessi alla piazza, di fronte a lei, e alla sua
destra; una
taverna è all’altro capo sinistro, e riesce a
sentire le urla provenienti da
dentro, nonostante fosse presto. Due ragazzini, e una ragazzina, la
superano
correndo, i piedi che sbattono sulle pietre; la ragazza ha in mano una
spada di
legno. Un terzo bambino è appollaiato su una pila di
cassette, e urla, "Aiuto!
Salvatemi! Aiuto!"
E
poi si sentono altri
colpi—passi più grandi, più
forti—e la sagoma piuttosto ballonzolante del
Principe Albert la supera correndo a tutta velocità. La nota
all’ultimo
secondo, e tenta di voltarsi, ma inciampa sui propri piedi e cade
all’indietro
a terra, sbattendo con la testa sulle pietre e facendola sussultare. Ha
una
spada giocattolo infilata tra il braccio e la spalla.
"Sta
bene?"
rantola.
"Regina
Elsa!" il
Principe Albert si tira su a sedere immediatamente, ancora in buone
condizioni,
come se fosse solito cadere tutti i giorni e ci fosse, ormai, abituato.
"Non l’avevo—come—"
"Muori!"
la
ragazzina strilla, balzando come un lupo e atterrandogli sul petto,
schiacciandolo di nuovo a terra. Gli punta la spada alla gola.
"Mi
arrendo!"
urla, ridendo.
"Brutta
stupida!"
uno dei ragazzi che la bambina stava inseguendo urla, avvicinandosi per
scuoterle la spalla. "Non puoi continuare a giocare, non quando ci sta
la regina."
"Che
regina, non è
vero," risponde la ragazza, tenendo ferma la spada. "Solo questo
traditore che voleva rapire il principe!"
"Aiutatemi,
aiuto!" grida il ragazzo appollaiato sulle scatole.
Elsa
non riesce a
trattenersi—inizia a ridere. Si copre in fretta la bocca con
la mano.
"è
proprio lì,
guarda—Mamma sta dando di matto!"
E
come ci si poteva
aspettare, le donne che facevano il bucato alla fontana avevano
iniziato a
inchinarsi, e una stava urlando, "Petter! Mostra un
po’ di
rispetto!"
Il
ragazzo scende dalla pila
di scatole e fa un profondo inchino, impacciato. "Vostra
maestà."
"Hai
vinto questo
turno, Klara," il Principe Albert dice, tirandosi dolcemente su a
sedere,
e afferrando la bambina sotto le braccia. La rimette a terra. "Temo che
dovremo interrompere la nostra battaglia mortale per un po’."
Elsa
sente uno strattone alla
gonna. Guarda in giù, sorpresa. C’è un
altro bambino, col pollice piantato in
bocca. "Oh, salve," fa un piccolo sorriso. Ha grandi occhi blu,
proprio come li aveva Anna. "Come stai?"
"Sei
davvero la regina?"
le chiede col pollice in bocca.
Annuisce.
Si
toglie il dito dalla
bocca e le dà un altro strattone alla gonna. Elsa non ha
avuto contatti con
bambini da tanto, tanto tempo, ma adesso se lo ricorda, la
facilità con cui si
parla, la meraviglia che fa spalancare gli occhi; si inginocchia, senza
pensare
alla terra che le avrebbe sporcato le gonne. Il bambino le fa cenno di
andare
più vicino, e più vicino, e finalmente le
sussurra all’orecchio, "Fai la
magia?"
Magia.
Non maledizione. Magia.
Ma
poi pensa all’armadio
distrutto, a sua sorella trasformata in ghiaccio, a quegli anni senza
poter
abbracciare—toccare—provare—
Annuisce
lentamente. Sorride
quasi. "Sei pronto?"
Lui
fa di sì con la testa.
Si
ritrova a guardare il principe
Albert. Solo un’occhiata veloce, davvero, ma lui la sta
osservando con una
specie di sorriso sghembo, e gli occhi luminosi. Apre le mani per avere
qualcosa da fare, e sente il freddo camminarle nelle vene, fino alla
punta
delle dita. Fiocchi di neve scintillano tra esse, aggregandosi in una
palla
bianca brillante. Alza lo sguardo verso gli altri
bambini—Petter, che scende
dalla sua torre, Klara, che la osserva con aria scaltra—e la
lancia in aria.
Scoppia. Fiocchi delicati iniziano a cadere. I bambini gridano. Anche
gli adulti
rimangono a bocca aperta. Il principe Albert osserva la neve che gli si
posa
sul naso e le punte dei capelli ricci come se non avesse visto niente
di più
incredibile in vita sua. Elsa tossisce, e si alza, e guarda il
divertimento
prendere il via.
Pur
sempre una maledizione,
pensa.
"Lei
è
incredibile," il principe dice, e la sua voce si incrina. "Voglio
dire—no, non è che—" la mano scatta
verso la manica. "Come mi ha
trovato?"
"Ho
chiesto al mastro
di porto, a un uomo della sua ciurma, al fioraio, al fabbro, e al
fornaio."
"Ah.
Ho lasciato, un,
ah, sentiero di briciole, allora?"
"Più
o meno,"
sorride quasi. "Cosa sta facendo qui?"
"Un’eccitante
partita
di Salva il Principe. Credo proprio che Klara un
giorno entrerà a far
parte della sua guardia reale," sorride, e non è quasi. Gli
arriva fino
agli occhi. Gli si formano delle piccole rughe d’espressione
agli angoli.
"Arendelle è veramente bellissima, e le persone
sono—" si blocca.
Elsa si rende conto, con un sussulto, che non sa davvero come siano le
persone.
Sono, e basta. "Ma sto
farneticando—Io—Io credevo che non volesse
vedermi."
Ha
le spalle leggermente
ricurve, e il suo nervosismo è tornato. La neve continua a
cadere a ondate
leggere dal cielo azzurro. Ha una voglia matta di costruire palazzi di
ghiaccio. Si sente in colpa per il fatto che vuole che vada via, ma poi
si
ricorda.
Anna
aveva detto—le aveva
raccontato quello che lui aveva detto, mentre
spegneva il fuoco, ed era—Elsa,
come erede era preferibile, certo, ma nessuno aveva
possibilità con lei—
E
se avessero mandato questo
ragazzo alla buona per—per avere
possibilità?
Tira
fuori la missiva dal
proprio abito, il braccio teso rigidamente. "Ho ricevuto questa da Re
Alfons. Ho redatto questa," ed estrae un’altra lettera, che
tiene accanto
alla prima, "con la mia risposta, ma lo stesso, voglio che la consegni
di
persona. Re Alfons non ha bisogno di mandare ambasciatori. Desidero
tempo per
ritrovare stabilità. Questo è tutto." La sua voce
è formale, a scatti. Il
Principe Albert prende entrambe le lettere e si rivolge alla prima,
quella col
sigillo spezzato delle Isole del Sud.
"Mi
permette?"
chiede.
Annuisce.
Esamina
i contenuti con un
cipiglio crescente. "Viktor e Tomas non sarebbero buoni ambasciatori
alla
Fine del Mondo, figuriamoci Arendelle," borbotta. Ancora una volta,
Elsa
pensa che in teoria non avrebbe dovuto sentire quelle parole. "Vuol
dire
che già li ha mandati?"
"Non
lo so,"
sospira, afferrandosi i gomiti e stringendosi forte le braccia al
petto.
Parecchi dei clienti della taverna iniziavano a riversarsi in piazza,
notando
la nevicata fuori stagione. Petter e Klara ridevano felici. Il bambino
col
pollice in bocca sbatteva le palpebre pieno di stupore.
"Non
vuole che vengano
inviati," il principe Albert dice, ripiegando la lettera. "In
realtà,
io stesso non avrei voluto che fossero inviati.
Probabilmente non dovevo—avrei
dovuto dirlo."
"Le
stime sulle
riparazioni della sua nave determinano che vengano ultimate in una
settimana,
circa. Se faccio allestire una nuova nave, e lei prende la sua
ciurma—"
"Regina
Elsa, se voleva
che me ne andassi, doveva solo chiedere," sorride, ma scivola presto
dal
suo viso. "Scusi, non era div—senta, non voglio che sprechi
denaro per
allestire un’altra nave, denaro che non potrei restituirle
prima del ritorno a
casa. E per quel giorno, non è sicuro che riuscirei a
intercettare gli
ambasciatori. Penso che—con tutto il dovuto rispetto, che
adesso la cosa
migliore da fare sia aspettare. Sarò presto fuori dai piedi,
lo prometto."
"Non
la desidero fuori
dal mio—"
"Regina
Elsa," il
principe sorride. Coi capelli disordinati, e il naso storto, sembra uno
stalliere, pensa. "Non deve mentire per farmi sentire meglio.
Parlerò alla
mia ciurma, per vedere se riusciamo a velocizzare le cose." Si infila
entrambe le lettere nella giacca. "E riposi serena, il suo messaggio
arriverà
a destinazione."
"Grazie,"
annuisce. Elsa, come erede, era preferibile, certo. Non
riesce a
inquadrare il principe Albert, e non vuole, non vuole nessun tipo di
contatto
con le Isole del Sud. Gli occhi di Elsa esaminano la piazza ancora una
volta.
Aveva messo il principe sotto sorveglianza, no? Eppure era riuscito
facilmente
a sfuggire alle guardie; con la stessa facilità aveva
parlato liberamente agli
abitanti; aveva vagabondato dove voleva. Inaccettabile, pensa,
guardando quegli
occhi che si ritrova. Non stanno bene, sulla sua faccia. "Principe
Albert,
penso che sia meglio che rimanga sulla sua nave, ad interim."
Apre
la bocca. Per un
attimo, Elsa pensa che abbia intenzione di protestare. Alza gli occhi
verso i
bambini, poi guarda le donne alla fontana, e la taverna—e poi
di nuovo lei.
Quegli occhi. Annuisce rigidamente, raddrizzando la schiena, stringendo
le mani
avanti a sé. "Come desidera, sua maestà."
Lei
annuisce elegantemente.
Avrebbe mandato un contingente giù al porto, da Olin;
avrebbero avuto
l’incarico di sorvegliare la nave. Fa per andarsene.
"E
qualora—qualora
venissero davvero," la sua voce la ferma, e si volta indietro.
"Viktor e Tomas—gli
ambasciatori—solo—sarò più
che felice di occuparmi di
loro in sua vece."
Elsa
annuisce di nuovo,
meccanicamente.
In
qualche modo, il pensiero
non l’aiuta a sentirsi sollevata.
Passo.
Passo.
Passo.
Non
apre gli occhi, si
allaccia le mani sullo stomaco. È tranquillo. È
calmo.
Sta
architettando un piano.
Passo.
Passo.
Passo.
"Principe
Hans?"
"Sì?"
risponde,
senza aprire gli occhi. Ascolta. C’è il tintinnio
delle chiavi del carceriere,
il clank del metallo quando viene infilato al suo
posto nella serratura,
la girata, l’estrazione. Il cigolio della porta della cella
non appena viene
aperta.
Un
piano. Ha un piano.
"è
libero di
andare."
Il
ghigno di Hans potrebbe
tagliare il ferro, potrebbe spianare montagne. Il suo ghigno potrebbe
uccidere
padri.
Il
suo ghigno potrebbe
assassinare fratelli.
"Perfetto,"
dice.
1Note
della traduttrice:
Open doors, porte aperte, si riferisce alla
canzone che Anna canta con Hans, e che in italiano è stata
tradotta con “la
mia occasione”. In originale, si intitola
“Love is an open door” e
si riferisce ovviamente al fatto che Anna abbia sempre sofferto per i
cancelli
chiusi, come la porta di Elsa. Non ho potuto mettere il titolo o la
battuta del
film italiano, come ho fatto in altri casi, perché
l’autrice insiste molto sul
contrasto porte chiuse - aperte.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo
8
"Ah,
eccoti qui. Non startene lì impalato, a meno che tu non
voglia
diventare di pietra."
Hans
manda giù un groppo alla gola, costringendo il proprio volto
a essere
privo di ogni espressione. Fa un mezzo sorriso, freddo, composto.
"Perché,
puoi farlo?"
"Forse,"
Niels fa in tono piatto, da un angolo oscuro delle
proprie stanze. "Hai voglia di scoprirlo?"
Il
sorriso di Hans si irrigidisce agli angoli. "Non vorrei turbare la
tua delicata sensibilità."
"Nemmeno
cinque minuti che sei fuori dalla prigione," dice il re.
Non l’aveva visto lì seduto, accanto al fuoco, che
beveva il tè e stringeva le
labbra, come se in qualche modo prendere il tè in camera di
Niels fosse la cosa
più normale del mondo. E non lo era. Hans riusciva a contare
sulle dita di una
mano il numero delle volte che era riuscito a scorgere per un attimo
l’interno
della stanza; ventitré anni, e non ci era mai entrato prima.
Adesso
lo fa. Un piede prima della soglia, uno oltre. Immediatamente la sente,
quest’atmosfera, pesante e oppressiva, come un calcio nei
fianchi. Un’emicrania
è in attesa di scatenarsi al limite dei suoi pensieri; il
desiderio di tornare
nella sua piccola cella sudicia, con la poltiglia vecchia di tre giorni
e la
brandina sfondata. Niels dice, distratto, "Chiudi la porta."
Hans
la calcia chiusa con più violenza di quanto strettamente
necessario.
Si sente come se gli avessero mozzato il respiro.
C’è un corvo, inchiodato al
tavolo per le ali, e il becco è spalancato in maniera
innaturale. Metà delle
sue interiora è sparso come un acquerello sulle venature del
legno. Stringe le
labbra.
"Tè,
Hans?"
"Sì,
grazie." Arriva al caminetto, e si sistema con cautela sulla
sedia libera direttamente di fronte al re, quasi immaginando che
potesse
ingoiarlo tutto intero. Non lo fa. È una sedia perfettamente
normale. Eppure,
si appollaia proprio sul bordo, pronto a volare via; il mal di testa in
arrivo
con tutta la sua forza dietro gli occhi.
"Zucchero?"
"No,
grazie."
Hans
afferra la tazza di tè prima che suo fratello possa
passargliela e
beve un piccolo sorso. Inizia a capire perché non
c’era mai entrato prima, in
quella stanza; la bocca del re è rigida. Nemmeno lui sarebbe
stato lì, Hans
realizza, con una specie di soddisfazione perversa, se non avesse avuto
bisogno
di qualcosa di—grosso.
"Il
resto del regno non sa del tuo breve imprigionamento; questo
aspetto lo manterremo segreto," comincia il re. Hans sente un
gracchiare
morente; una specie di verso roco che sembra, sospetta, quello di un
corvo. Si
costringe a rimanere immobile, dritto, a guardare il re dritto in
faccia.
"Ho incaricato Niels di trovare una soluzione alla questione del
ghiaccio."
Hans
non riesce a trattenersi, ride. Deve posare la tazza, per evitare di
rovesciare il tè. "La questione del ghiaccio?"
"Esatto,"
il re risponde, inarcando un sopracciglio. "Lo
trovi divertente?"
"Ha
praticamente destinato alla rovina il proprio regno, e questo prima
che capisse come controllarlo. Arendelle ormai è persa per
noi—"
"Arendelle
è in una posizione ideale per gli scambi commerciali.
È
grande, il commercio di ghiaccio è fiorente, e possiede
risorse naturali senza
rivali. Davvero credi che mi arrenda senza combattere?" gli occhi del
re
scintillano, scuri. Si ferma, sistemandosi sulla sedia e rovesciando
una pila
di libri vicino ai suoi piedi, e attirando l’attenzione di
Hans; la copertina
di uno sembra fatta di carne spaccata, secca e scura. Il re continua,
dopo un
momento, "Dimmi, Hans, sei bravo a giocare a scacchi?"
Hans
lo guarda con le palpebre pesanti. Dice, "Non gioco
granché."
"Beh,"
il re replica, con un sorriso teso, "questo è
ovvio." Pausa. Un battito cardiaco. Hans desidera strangolarlo, ma non
riesce a muovere le braccia. Si sente una formica, là sulla
sedia, in attesa di
essere calpestata. Cosa era successo, cosa era cambiato? Giù
nella sua cella scusa
si era immaginato tutto chiaramente, vividamente, la sicurezza con cui
avrebbe
agito, le mani alla gola, e adesso—adesso—
Adesso
non riusciva nemmeno a muoversi.
"Il
tuo fallimento ha fatto sì che Arendelle non si
fiderà mai più di
noi. Ma non sto chiedendo fiducia," il re sorseggia il tè.
"Solo
cooperazione."
Hans
ha la bocca impastata, il mal di testa martellante, un pulsare
tribale. Sente il rantolo, ormai fantasma, del corvo. "Come hai
intenzione
di convincerla a cooperare?"
"Ah,
mio caro fratellino," il re sorride, calmo, controllato; un
sorriso che Hans mostra ogni ora di ogni giorno, un sorriso che
riconosce.
"La prima regola degli scacchi è mai rivelare la tua
strategia.
Niels," finisce, scattando secco, "come procede?"
"Come
ci si aspetterebbe," ritorna la voce di suo fratello.
"Ritornerò
prima che faccia notte per vedere come vanno le cose. Devo
occuparmi di altre questioni."
"Vostra
maestà."
"Ti
accompagno—" Hans inizia, perché non riesce a
sopportare
quella stanza.
"No,"
il re lo blocca con un aggraziato cenno di mano, alzandosi
e stiracchiandosi. "Rimarrai qui." Si avvia alla porta, ed ecco la
sua schiena, una scena così familiare. "E aiuterai tuo
fratello."
Gli
si secca la bocca.
"Ti
ho portato ciò che mi hai richiesto," il re dice, voltato di
schiena. Hans ci impiega un momento per accorgersi che si sta
rivolgendo non a
lui, ma, invece, a Niels. "Mi aspetto dei progressi in mia assenza."
"Ma
certo."
"Richiesto?"
Hans si lascia scappare. Non voleva. Si alza,
inclinando troppo la tazza. Si rovescia sul pavimento, ma non si versa
alcun
liquido. Strano. Non ricordava di aver bevuto tutto. Non gli piaceva
questa
situazione; si sentiva più intrappolato di quando era stato
rinchiuso dietro
quelle sbarre grigie, dritte, in quella cella piccola e
fatiscente, qui
nella stanza con le tende rosse e gli abiti regali e—
"Hans,"
il re si ferma alla porta, la mano sospesa sul pomello,
"cosa scioglie il ghiaccio?"
"Il
fuoco, ma non capisco cosa—"
La
porta si apre, la porta si chiude, e rimane solo con Niels.
"Il
fuoco," ridacchia suo fratello. "Hai indovinato al primo
tentativo, fratello mio. Ora, avvicinati," sente dei piccoli passi,
ansimanti, "e dammi una goccia del tuo sangue."
"Ehi,
Elsa. Psst. Ehi, sveglia."
"Anna,"
mormora nel cuscino. "Torna a dormire."
Sua
sorella le si butta addosso, cinquanta chili e più di peso
morto,
abbastanza da mozzarle il respiro. Torce le dita, e con il piccolo
aiuto di una
brezza gelida riesce a capovolgere Anna sotto sopra e a catapultarla
dall’altra
parte del letto. Lo starnazzio di protesta di sua sorella è,
forse, uno dei
suoni meno principeschi che abbia mai sentito.
"Non
è leale."
"Nemmeno
svegliarmi nel bel mezzo della notte." Anche se
l’interruzione degli incubi in cui sognava nasi rotti era la
benvenuta. Ed era
stato un giorno tranquillo, si supponeva, dopo il ritorno dalla
chiacchierata
con il Principe Albert. Un giorno tranquillo, bello, anche se non
riusciva a
togliersi di testa l’immagine della sua sagoma insicura, con
le spalle curve;
anche se aveva avuto allucinazioni di fratelli che si moltiplicavano
come
conigli e invadevano la sua privacy quando tutto quello che voleva era
solo essere
lasciata in santa pace—"Cosa
c’è che non va?"
Il
mento di Anna è appoggiato sul bordo del letto, le guance
gonfie.
"Dov’eri, prima?"
"Mi
stavo occupando di alcuni affari."
"Anche
io posso occuparmi di affari."
"Non
mi fido di te che ti occupi degli affari."
"Beh,
non ho mai—"
"Non
tutti gli affari," Elsa si scusa con un mezzo
sorriso. "Specialmente non gli affari che implicano che tu tenga la
bocca
chiusa."
Anna
ci pensa su. "Comprensibile."
Pausa.
"Cosa c’è che non va, Anna?"
"Mamma
e papà erano innamorati?"
Elsa
sbatte le palpebre. "Scusa?"
"Mamma
e papà—eddai, Elsa, mi hai sentita già
la prima—"
"Beh,
sì. Credo di sì."
"Credi?"
"Beh,
non è che per forza la nostra relazione fosse—fantastica."
Elsa pensa ai guanti. Il decoro, una necessità. "Ma suppongo
di sì, si
amavano." Si siede, abbracciando le ginocchia con le mani e guardando
scaltra in tralice la sorella, dove stava ancora seduta, col mento
appoggiato al
letto. "Riguarda te e Kristoff?"
"Ha!
Ha, e perché mai pensi che—si, ok, riguarda me e
Kristoff."
Anna si arrampica accanto a lei, non proprio aggraziatamente,
gettandosi ai
piedi del letto e aggrottando le sopracciglia verso il baldacchino blu.
"Pensavo
che aveste sistemato le cose, dopo che ti sei procurata una
concussione per andare a salvarlo", Elsa risponde, secca.
"Non
è colpa mia se quella piccola voragine
aveva pareti così
dure, ok?" Anna gonfia il petto e fa un sospiro profondo. "Vorrei
solo," solleva le mani dallo stomaco, "vorrei che tutto fosse
semplice. Vorrei solo non avere paura."
"Paura?
Perché hai paura?"
"Dopo
la porta aperta."
"Perdonami,
come?"
"Quando
sono uscita fuori, con quella bufera, l’ho fatto solo per
salvarmi. Era carina, l’idea che Kristoff potesse essere
innamorato di me,
mentre io—io non volevo morire solamente, capisci? Voglio
dire, chi vorrebbe
una cosa del genere, ho ragione?"
"Oh,
Anna—"
"No,
non lo—non lo sto dicendo per farti sentire in colpa, sto
solo
cercando di capire cosa provo, perché ecco cosa
è successo, ma poi l’ho
baciato e ho sentito qualcosa qui." Si colpisce il
petto.
"Sono stanca," finisce, lamentandosi.
Elsa
allunga la mano e sistema a sua sorella una ciocca scomposta di
capelli, infilandola dietro l’orecchio; iniziavano
già ad assomigliare a una
balla di fieno, rigidi e scompigliati. "Hai mai riflettuto sul fatto
che
forse tu ci stia pensando troppo su, un bel po’?"
"Elsa,"
Anna si volta a guardarla. "Volevo sposare un uomo
che avevo appena incontrato. E si è rivelato un totale idiota."
"Ma
Kristoff non è—lui non è—"
non riesce a pronunciare il nome,
e finisce, "un idiota."
"Pensa
di non piacerti."
Elsa
si acciglia. "E da dove gli è saltata fuori quest’
idea?"
Anna
la spia con un occhio solo. "Beh, non è che tu sia
esattamente
espansiva e coccolona. Ma è questo che fa di te un fiocco di
neve speciale,
quindi non ci pensare troppo."
Elsa
spinge le gambe di Anna giù dal letto con un calcio.
"Ehi!"
"Forse,"
Elsa comincia, guardandosi le mani, "non dovresti
farti prendere tanto dalle definizioni e le etichette. È
come," ne apre
una, in modo da tenere il palmo teso verso l’alto, illuminato
dalla luce della
luna. Uno strattone sotto lo stomaco, la neve nelle vene, e piano,
piano, il
ghiaccio affiora. Fa delle forme che sono loro familiari fin da
piccole, la
decorazione delle porte, fiori e spirali che luccicano viola alla luce.
"Ma nel preciso momento in cui cerchi di definirlo, non ci riesci."
“Mi
piacerebbe riuscirci."
"Lo
so." Osserva di nuovo la propria creazione, per un momento.
"è
bellissimo," Anna dice.
Elsa
flette le dita e l’intera forma si disintegra, cade e diventa
soffice
neve. Esclama, in fretta, "Ma promettimi una cosa."
"Sì?"
"Darai
ascolto," dice, pungolandola piano col dito sulla spalla,
"solo al tuo cuore."
Anna
torna a fissare quel baldacchino blu. Non parla, e adesso che
l’ha
detto, Elsa non è sicura della validità del
consiglio. Non era una madre; non
era nemmeno una sorella decente. Come avrebbe potuto saperlo?
Tum,
tum. Silenzio. Tum.
"Ehi,"
Anna si volta sul fianco, con un sorriso malandrino.
"Ehi, Elsa, ehi."
Elsa
solleva un sopracciglio. La sorella si avvicina, ancora più
vicina.
Sussurra—
"Facciamo
un pupazzo di neeeeeeeeeeve?"
Il
sole ha appena iniziato a delineare le cime delle montagne lontane
quando arriva ai margini della Valle delle Rocce Viventi. Ascolta i
suoni della
propria infanzia—le urla frenetiche dei troll mentre
preparano il letto di
muschio perfetto, mentre sono alla ricerca dei bambini che sono
sgattaiolati
via, mentre gareggiano a colpi di racconti. Ascolta, e fa un sorriso
sghembo.
Lui era sempre stato tanto silenzioso, che sua madre temeva avesse
subito
qualche trauma.
Scuote
la testa, con affetto, e si infila tra le grosse rocce che
delimitavano l’inizio della valle. Voleva fare toccata e
fuga, in fretta, il
che significa che doveva trovare Granpapi prima che gli altri
trovassero lui.
Il vecchio troll era solito dormire ai margini; si lamentava sempre, e
molto,
del rumore, ma Kristoff era sempre riuscito a scorgervi un
sorriso—
Inciampa
su una roccia particolarmente bitorzoluta, e a malapena mantiene
l’equilibrio. Immediatamente sente: "C’è
un motivo se io—oh, Kristoff, sei
tu."
Si
volta, e lì, che lo osserva dal basso, ecco Papi. Urla dalla
valle un
po’ più lontana gli arrivano. "Scusa, Gran Papi."
Il
troll si srotola completamente, le giunture che scricchiolano
grattando,
. Agita le dita tozze. "Non preoccuparti. Vedo che Bulda ti ha
sistemato
bene."
Kristoff
sbatte le palpebre, confuso, poi si ricorda la gamba. "Oh!
Sì, come nuova, sul serio."
"Eccellente.
E come sta la principessa?"
"Bene.
Parla di nuovo e cose così, lei sta—grazie,"
finisce,
piegandosi sulle ginocchia.
"Devo
chiamare Bulda?"
"No,
no, devo tornare indietro—devo cavare un po’ di
ghiaccio. Mi sono
solo fermato a chiederti una cosa."
Gli
occhi di Papi sono pozzi antichi, neri, profondi. I cristalli ambrati
che ha appesi al collo fanno clink appena annuisce.
"Certo. Però,
non sarà contenta quando scoprirà che sei venuto
e non sei andato a
trovarla," aggiunge, sarcastico.
Kristoff
fa una smorfia. "Lo so."
"Di
cosa hai bisogno?"
"Beh,
è che—Anna mi ha detto che si sente ancora gelata.
Tutto il
tempo. Ieri mattina è uscita vestita completamente con gli
abiti invernali. E
me lo ha accennato, quando si è fatta male.
È—è normale?" Per quanto
normali, pensa, potessero essere le cose che la riguardavano.
Papi
si acciglia. "La sua situazione è, di per sé,
unica. Si è
trasformata, da quanto ci hai detto, completamente in ghiaccio, prima
di
sciogliersi. Per alcuni secondi è diventata
tutt’uno col ghiaccio. Non c’è da
sorprendersi, quindi, che ne abbia trattenuto un po’, anche
dopo il
disgelo."
Kristoff
si lecca le labbra. A volte si chiede come faccia ad amare tanto
il ghiaccio, dopo tutto quello che gli aveva fatto passare. "Esiste un
modo, qualsiasi, di farlo—andare via?"
"Forse,
col tempo," Papi risponde, grattandosi la criniera di
erba morente. "Ci deve sempre essere speranza per
cose del genere.
Pensavo, comunque, che tra sua sorella, se stessa, e te, avesse trovato
tutto
l’amore di cui aveva bisogno per sciogliere un problema del
genere."
"Oh,
non credo che sia innamorata di me," fa in fretta,
arrossendo.
"Cosa
te lo fa dire?" Papi inclina la testa.
"C’è
qualcosa che possiamo fare per aiutarla?" Kristoff chiede; e
la differenza tra Granpapi e sua madre è che Granpapi gli
lascia cambiare argomento.
Il vecchio troll annuisce lentamente.
"Un
poco, sì." Batte una delle sue dita grigie, tozze, sul
terreno. Si sente una specie di tintinnio, e l’erba si piega;
sotto di essa, la
terra sembra una bolla, la superficie che fluttua, multicolore.
Granpapi dice,
"Dalle profondità della terra io ti invoco, o cristallo che
porti il
calore del fuoco."
Piano,
pianissimo, una punta arancione spunta fuori dal terreno. Papi
allunga la mano e la estirpa, come un fiore, un cristallo non
più grande del
suo pollice, che brilla di un arancio-rosso caldo, ambrato. Lo stringe
tra le
mani e dice, con aria cospiratoria, "Manteniamo la cosa tra me e te,
ok?
Non vogliamo di certo che i piccoli pensassero di poter evocare
cristalli di
fuoco a loro piacimento."
Kristoff
ride guardando Granpapi a bocca aperta. "Vuoi dire che in
tutto questo tempo li hai mandati a fare missioni—"
"Shhhhhh,"
l’anziano troll sorride affettuosamente. "Ecco,
prendi. Dovrebbe dare alla principessa un po’ di sollievo dal
freddo."
Kristoff
prende in mano il cristallo con attenzione. Immediatamente sente
il calore percorrergli le dita, una sensazione piacevole, un pizzicore
tiepido,
anche attraverso i guanti spessi. Lo infila nella sacca. "Grazie, Gran
Papi."
"Kristoff,"
Papi sorride, "sei di famiglia. A volte ho paura
che te lo sia dimenticato."
"Ho
sentito bene… Kristoff?"
"Oh,
no," Kristoff dice, mentre Bulda rotola verso di loro dalla
valle e salta su, le sopracciglia aggrottate per la rabbia. "Ma, non
è
quello che—"
"Quindi
adesso non ti abbassi a visitare tua madre, eh? Pensi di
andartene via di soppiatto, strisciare al margine delle
cose—vieni qui!"
Balza in avanti e lo stringe in un abbraccio che lo manda a gambe
all’aria.
"Ma!"
"Ti
avevo detto di non usarla, quella gamba! Ragazzi!" urla,
voltando la testa. Kristoff coglie lo sguardo divertito di Papi.
"No,
Ma, ti prego, devo andare, Sven mi aspetta—"
"Kristoff
è a casa!" strilla allegramente.
Papi
gli sorride mentre lo trascinano fuori dal loro piccolo nascondiglio,
fino al centro della valle. "Fattelo scivolare addosso," fa il
vecchio troll, saggio.
"è
dura," Kristoff sospira, tirando su col naso.
E
poi è travolto.
"Siete
entrambi consapevoli, presumo, di ciò che dipende dal
successo
di questo viaggio?"
"Sì,
vostra maestà," rispondono in unisono.
"Bene."
I gabbiani strillano nell’aria del primo mattino.
"Che sia un viaggio prospero, ambasciatori," proclama ad alta voce,
con un sorriso sincero, profferendo una mano. Tomas la stringe per
primo. La
fiala scivola non vista tra i loro palmi; suo fratello la intasca con
disinvoltura. La stretta di mano di Viktor è pura scena.
Alfons dice,
sottovoce, in modo da evitare che la gente riunita sul molo li senta,
"Una
goccia. Tutto quello che ci vuole."
Tomas
e Viktor fanno due ghigni identici, scaltri e bramosi. "Sì,
vostra maestà," rispondono in unisono.
Si
volta, pronto ad andare via dal pontile, il sole che gli scalda la
schiena. All’ultimo secondo, si ferma. "Oh, e ragazzi?"
"Sì?"
rispondono.
"Nel
caso incontriate Albert," il re fa un sorriso a labbra
serrate, "portategli i miei saluti."
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo
9
Bussano
alla porta della biblioteca.
A
Elsa balza il cuore in petto. Quando inizia a battere di nuovo in
maniera
normale, è un ritmo lento e irregolare. Posa la penna con
attenzione, lisciando
l'estremità storta della piuma, mezza masticata, e le ci
vogliono tre secondi
interi per far ritirare il ghiaccio che era spuntato dalle mani strette
a
pugno. Le venature del legno diventano di nuovo visibili.
"Sì?"
risponde, stringendosi le mani in grembo e volgendo lo
sguardo alle porte bianche della biblioteca.
Si
aprono lentamente, cigolando. Riesce a sentire il proprio futuro nello
scricchiolio dei cardini. Subito dopo Kai entra, con l'aria seccata, e
a corto
di parole, ed Elsa chiude gli occhi. Respira—dentro, fuori,
dentro—e quando li
apre coglie il vapore del proprio respiro fluttuare in alto in
nuvolette.
"Vostra
maestà," Kai comincia, e lei, appollaiata sul bordo della
sedia, ha paura di quello che sta per dire. "Scusate per il
disturbo."
"Kai,
nessun disturbo, affatto," risponde educata, coprendo con
una mano tremante l'angolo arricciato della pergamena su cui era
scritto il
dettaglio spese che stava esaminando, nascondendo di soppiatto la
caricatura di
un pupazzo di neve.
Kai
si guarda alle spalle, si lecca le labbra. C'è uno sciame di
farfalle che si scatenano nel suo petto, ed è certa
che uno di questi
giorni si sarebbe spezzata, e che sarebbe crollata; che uno di questi
giorni le
sue fragili vene di ghiaccio sarebbero giunte, infine, al limite di
sopportazione. "Maestà, due—"
Non
dire navi, non dire ambasciatori, non dire navi,
non dire ambasciatori—
"—bambini
sono riusciti a intrufolarsi nel cortile del palazzo."
Sbatte
le palpebre, il nodo nel petto che si scioglie come la schiuma di
un'onda sulla sabbia. Chiede, "Bambini?"
"Sì,
vostra maestà." Kai risponde di nuovo, impacciato.
"Beh,"
inizia, lentamente, chiedendosi come rendere trova i
genitori e falli andare via senza sembrare
troppo—fredda. "Beh, avete
trovato i loro genitori?"
"Sono
venuti da soli, vostra maestà"
Il
silenzio si insinua tra di loro. Elsa sbatte di nuovo le palpebre, si
lecca
le labbra, dice dopo un momento, "Kai, temo di non capire del tutto
dove
sia il problema—"
"Uno
di loro—la ragazza—è riuscita
a—ah—eludere le guardie. E'
alla ventura nel castello."
Elsa
sbatte i denti con un clack, principalmente per
tenere sotto controllo
la risata che le stava salendo alla gola. Azzarda, "Alla ventura?"
"Sì,
vostra maestà," Kai afferma, le guance che diventano
scarlatte. "Ma l'altro," risponde, in fretta, "è stato
catturato." Guarda dietro di sé, in tralice, uno sguardo
pungente, da
dietro quel naso grosso. "Vieni qui, ragazzo."
Si
sentono passi piccoli, timidi, e un viso che le richiama qualcosa alla
mente, lieve come un sussurro al margine dei pensieri, entra nella
biblioteca,
gli occhi fissi sui piedi. Kai incrocia le braccia e considera il
bambino con
uno sguardo severo. Dove l'aveva visto prima? si
chiede, battendo veloce
le ciglia. Riesce a sentire la mancanza di sonno come un dolore fisico
che le
percorre le spalle, su per il collo, che si accumula attorno agli
occhi;
insieme alla paura costante che il principe Albert non avrebbe fatto in
tempo
ad andarsene per intercettare gli ambasciatori, presente giù
nello stomaco,
nelle punte tremanti delle dita. Dove l'aveva già visto?
Oh.
"Petter?"
azzarda piano, alzandosi in piedi, e il bambino
sobbalza, colpevole. Riesce ad assorbire appieno più
particolari del viso che
aveva visto il giorno prima, appollaiato su una pila storta e
vacillante di
casse e scatole—è magro, quasi come un elfo, con
una matassa di capelli ricci e
rossastri al di sopra di un paio di occhi azzurri vividi. Il ragazzo.
Il
principe della torre. Gira intorno al tavolo, avvicinandosi lentamente,
piano,
fermamente. A un metro di distanza, più o meno, si piega, le
ginocchia sfiorano
il pavimento. Kai sussulta. "Conosce questo furfante?" le chiede; e
non c'è cattiveria, solo shock.
"E'
una mia conoscenza, sì," fa con un sorriso dolce, appena una
piega delle labbra. "Petter, sei venuto assieme a Klara?"
Risponde,
guardandosi i piedi, "Sissignora." Poi si inchina,
goffo. "Maestà."
"Petter,
alza lo sguardo."
Lo
fa, accigliato, scattando—nervoso. Prova ad allargare il
sorriso, ma i
bambini erano—erano—
Beh.
"I
tuoi genitori sanno che sei scomparso?"
"Nossignora.
Maestà. No, maestà. Colpa di Klara," mormora,
tirando su col naso e pulendosi la bocca col braccio. "Ha detto che
dovevamo venire da te."
Elsa
non riesce a immaginare proprio perché. Si raddrizza, e
guarda Kai.
"Puoi comunicare, a tutti i servitori, di cercarla?"
"Sì,
vostra maestà." Kai si inchina. "E il ragazzo?"
"Beh,"
dice, tendendo la mano, "lui e io la cerchiamo
assieme. Va bene, Petter?"
Occhieggia
la mano profferta. Un respiro, due, tre, quattro—
La
prende. Le sue dita sono piccole e appiccicaticce. "Penso che va
bene," mormora, rivolto ai propri piedi.
"Conducimi,"
gli dice, facendo cenno con l'altra mano al
corridoio dei ritratti, in ombra. Superando Kai, che ancora se ne sta
in piedi
piuttosto scioccato, sulla soglia, gli dice, con fare serio, "Devo
dirtelo,
questo non ha niente a che fare con una mia possibile fuga dalla lista
dei
conti." O con l'essere stanca di preoccuparsi di navi, ambasciatori,
principi—
Kai
risponde, accennando un sorriso incredulo, "Ma certo, vostra
maestà."
Si
sente gli occhi dei propri genitori sulla schiena mentre cammina lungo
il corridoio.
"Che
stai facendo?" Kristoff fa, inespressivo.
"Che?
Oh, ehi!"
Ha
la slitta piena di ghiaccio destinato agli ambienti refrigeratori del
castello, che già inizia a evaporare e a sfrigolare ai
bordi, anche se il sole
è quello del pomeriggio, tiepido, ma in qualche modo, pensa,
le sopracciglia
che si sollevano dall'incredulità, Anna a cavalcioni sulla
balaustra della
propria balconata trenta piedi più su è
più importante.
"Ehi,
non ti—non ti avevo nemmeno visto, laggiù. Quando
sei
tornato?" gli chiede voltando la testa, facendo conversazione. "Come
è andato il viaggio?"
Un
paio di guardie alle sue spalle lo superano, sussurrando furtive e
spiando sotto i cespugli, come se stessero cercando qualcosa. Sta
iniziando ad
avere caldo, con gli abiti invernali. Si dà uno strattone al
colletto. Ma perché
non la fermavano? Era qualcosa che faceva
spesso—penzolare dalle
finestre e saltar giù dai palazzi e cadere nei
crepacci—
"Scendi
da lì."
"Che?
No, no, no, sono totalmente al sicuro quassù, Kristopher,
l'ho
fatto un migliaio di volte—hai detto che non mi so
arrampicare sulle montagne,
ma so scalare i palazzi. E'
facile, scivoli solo fino al bordo qui
e—oops! Non così, non lo
fare—"
Kristoff
sta cercando di decidere quando sia diventata una maniaca suicida,
e poi si accorge con un sussulto che è sempre
stata una maniaca suicida,
se si pensa a portami alla Montagna del Nord e prendimi!
e ci
limiteremo soltanto a parlare con mia sorella, la pazza regina delle
nevi—si
sfila i guanti e si pianta sotto di lei, braccia protese in avanti per
parare
la sua inevitabile caduta. Una cameriera si affretta e li supera.
Sul
serio, ma era normale?
"Anna."
"Per
favore, Kristopher," agita la mano con fare drammatico,
spazzando via la sua preoccupazione. "Potrei farlo anche mentre
dormo." E con questo si alza, solleva l'altra gamba portandola via
dalla
sicurezza del balcone, scavalca la ringhiera e la poggia sul cornicione
sottile, cercando di arrivare al bordo di una finestra giusto poco
sopra di
lei.
E
scivola.
E
cade.
E
atterra su di lui col peso di una renna.
"Porca—"
rantola, cercando di riprendere fiato mentre lei
gli rotola via di dosso. Apre la bocca esasperato, gesticolando
incredulo e
indica lei, e il balcone e il tetto e che c—
"Beh,
di solito non cado," Anna tira su col naso, rigida,
inginocchiandosi e spolverandosi la gonna. Allunga il braccio e gli
dà delle
pacche sullo stomaco con cautela, che riesce appena a sentire
attraverso gli
strati spessi del giaccone. "Mi hai messo tensione. Tutto ok?"
"Sono
stato meglio."
"Ma
respiri ancora," fa notare lei.
"Uno
di questi giorni mi ucciderai."
"Ancora
non ci sono riuscita," risponde sfacciata, con un ghigno
fulmineo. Porge la mano e cerca di tirarlo su, ma dopo un po' si
arrende e
crolla accanto a lui. "Cielo, sei una montagna. Ehi, questo
cos'è?"
E
prima che possa mettere assieme abbastanza falsa rabbia per l'insulto,
lei sta già allungando la mano verso un luccichio
arancione che spunta
dalla sua sacca. Lui la scaccia con un buffetto. "Niente. Non
è niente.
Non è per te, perché mai dovresti anche pensarlo?"
Stringe
gli occhi, insospettita. "Kristoff—"
"Perché
cercavi di arrampicarti sul tetto?"
"Beh,
non sapevo quando saresti tornato," dice col viso rivolto
al cielo. Sente un altro drappello di guardie superarli affrettandosi,
e
immagina che quadretto debbano essere, principessa e venditore di
ghiaccio
reale distesi sul terreno erboso pieno di ciottoli. "E ho pensato,
perché
non godersi questa bellissima giornata?"
"Avresti
potuto godertela sul balcone."
"No,
ho un posto speciale, ma ci si può arrivare solo
arrampicandosi."
"Tu
sei pazza."
"Forse?"
"Non
hai—che ne so, roba da principessa
da fare o cose
così—"
"No.
Non—Cioè. Non lo so." La voce si affievolisce,
stringe le
labbra. "No. Non io. Sono qui e basta."
Volta
la testa per guardarla, prendendo in considerazione l'idea di scavare
più a fondo, ma lei se lo butta presto alle spalle e si
inginocchia di nuovo,
riuscendo a colpirgli la testa mentre lo fa.
"Ohi—"
"Scusa!"
"Kristopher?"
Un'altra voce. Lui si sfrega la mascella, alzandosi
in piedi e volgendo lo sguardo al sentiero che porta al cortile
centrale. Là
c'è un uomo corpulento, con il naso grosso, e una familiare
occhiata di
quasi-disgusto. Kai. Quasi-disgusto probabilmente perché lui
puzzava e Sven
stava esaurendo le loro scorte di fieno e spazio, e lui era solo un
venditore
di ghiaccio, dopo tutto, anche se un venditore reale.
"Mi
chiamo Kristoff," Kristoff dice.
"Sì,
beh, il tuo ghiaccio si sta sciogliendo. Ti dispiace rivolgere la
tua attenzione a esso, e sistemarlo nelle celle in cucina?" chiede.
"Certo."
Kristoff risponde, senza sforzarsi più di tanto a
rispondere. Invece si volta verso Anna, ancora in ginocchio a terra, e
la
afferra da sotto le braccia, alzandola in piedi.
"Oh,
grazie, grazie di tutto, non avevo—ha!" ride nervosa,
stringendosi la destra con la sinistra.
"Di
niente," dice, e questa volta si sforza più
di
tanto a rispondere—un sorriso, piccolo e nervoso.
"Devo
informarvi," Kai fa un educato colpetto di tosse, e rompono
il contatto visivo, "che c'è una ragazza scomparsa che
stiamo cercando di
trovare. Sette, forse otto anni."
"Ragazza
scomparsa? Ci penso io! Sì, sì, signore!" Anna
offre il
saluto, quando invece, Kristoff pensa, battendo velocemente le
palpebre, quello
che avrebbe dovuto fare era chiedere, no, come ci fosse arrivata
lì la ragazza,
da dove veniva, che ci faceva nel palazzo. Pensa
che quest'atteggiamento
nonchalant verso tutte le situazioni insolite debba davvero dipendere
solamente
dalla questione dei cancelli chiusi e della magia del ghiaccio.
Sì,
quello.
Kai
le fa un sorriso affettuoso, prima di rivolgere a Kristoff un'ultima
occhiata, quasi fulminante—doveva riconoscerglielo, sapeva
nascondere bene le
proprie emozioni—e torna da dove è venuto.
"Beh,
devo andare—il ghiaccio e—già." Le
dà un bacio sulla
guancia leggero, veloce, insicuro. Lei sorride.
"Ehi,
Kristoff?"
"Sì?"
si ferma, voltandosi a metà.
"Il
mio nascondiglio segreto. Più tardi te lo
mostrerò."
"E'
un appuntamento," fa senza pensare, e poi impallidisce.
"Voglio dire, potrebbe essere un appuntamento, se tu
volessi—voglio dire,
umire con sce—no, voglio dire, uscire con me—"
"Kristoff!"
Anna ride, con gli occhi che brillano. "E' un appuntamento."
Lui
annuisce, un lato della bocca che si solleva.
Kristoff
ritorna nel cortile saltellando.
"A
che gioco stavate giocando, ieri?" Elsa chiede piano. Stanno
controllando dietro tutte le tende della sala dei banchetti, attenti in
ascolto
del più piccolo passo, del più lieve respiro.
All'improvviso il palazzo sembra
come infestato—le tende che ondeggiano, il baluginio delle
candele, quel qualcosa
che guizza negli specchi quando passano—tutto potrebbe essere
una ragazzina che
si nasconde nell'ombra.
Ma
quando si avvicinano, e non trovano nessuno, Elsa riesce solo a pensare
ai fantasmi.
"Salva
il Principe," Petter risponde serio. "Qualche volta è
Salva la Principessa, ma a Klara quello non va tanto."
"Capisco."
Dietro
le tende non c'è altro che muro. Sospira.
"Beh,
Petter. Suppongo che dovemmo provare nell'atrio, adesso."
"Oh,"
Anna dice, sorridendo lentamente. "Salve."
"Salve,"
la bambina tira su col naso.
Era
bello il suo posto segreto, e sarebbe stata una giornata piacevole se
l'avesse passata a fissare il cielo da lì, senza dubbio, ma
qualcosa del fatto
che quella sera l'avrebbe mostrato a Kristoff le faceva venire le
farfalle allo
stomaco, e tendere i nervi come corde di violino, quindi era andata nel
suo secondo
posto segreto, che non era proprio un posto segreto, era più
la galleria
d'arte—
"Sei
tu quella che cercano tutti?" chiede, facendo un passo
avanti. Conosceva ogni centimetro di quella stanza, ogni quadro, ogni
panca,
ogni pannello dell'intricato parquet. La luce pomeridiana irrompeva dai
vetri a
piombo. C'era una ragazzina che fissava uno dei dipinti più
grossi, la testa
piegata di lato, e Olaf era in piedi accanto a lei.
"Anna,"
inizia il pupazzo di neve, "Non so se dovresti
esserne al corrente, ma ho trovato una bambina."
"Lo
vedo," Anna dice, con un passo avanti. "Hai messo in
agitazione tutto il palazzo," continua. "Voglio dire, quasi come la
volta in cui mi sono chiusa nella credenza da sola e dovettero, ecco,
tirarmi
fuori con una sega—ovvio che fu un incidente,
volevo solo un po' di
pudding al mou, voglio dire, quella roba è fantastica, l'hai
mai
mangiata?"
"No."
"Huh,
sul serio? E comunque penso proprio che fosse stantio."
Anna fa spallucce. "Cheffai?"
"Guardo
i quadri."
"Hm,"
Anna si ferma, in piedi accanto alla ragazzina e al pupazzo
di neve, e guardando in alto uno dei suoi preferiti—la
ragazza sull'altalena.
"Questo lo adoro."
"Le
stavo proprio raccontando di come tu ed Elsa li abbiate dipinti
tutti," Olaf fa, battendo le mani. "Non sono artiste
fantastiche?" sussurra a mezza bocca.
"Ma
per niente 'sti qua li hai fatti tutti te," afferma la
bambina.
"No,
io ne ho dipinti solo, tipo, sei." Anna si esamina le
unghie. Poi sorride. "Scherzavo! Li abbiamo presi tutti
da—commercianti o
cose così, non lo so. A mia mamma piacevano un sacco i
dipinti."
"Chi
è tua mamma?"
"La
Regina."
"La
Regina?"
"Beh,
la regina di prima. Adesso la regina è mia sorella. Quindi,
mia
mamma era la vecchia regina—apprezzava l'arte," Anna dice,
inclinando la
testa in alto verso la fanciulla felice, le delicate sfumature di rosa
e verde.
Era stata sul punto di dire, apprezzava la bellezza,
ma poi pensa ai
poteri di Elsa, e cambia in, apprezzava la bellezza sotto
controllo.
"Tu
non sei la principessa."
"Perché
no?" Anna chiede, imperturbata
"Perché
le principesse indossano corone e vestiti eleganti. Tu
invece hai la terra sopra la gonna."
Anna
si guarda il corsetto informale, la veste sotto di esso ancora
più
informale, e la gonna stropicciata e spiegazzata. E ti pareva, c'era
una
macchia d'erba su un fianco, e una marroncina su un ginocchio, che si
era fatta
quando era atterrata su Kristoff. Cosa che stava diventando
un'abitudine.
Probabilmente avrebbe dovuto smettere.
"Hai
ragione."
"E
quindi tu chi sei?"
"Chi
sei tu?"
"'So'
Klara."
"Io
sono Anna."
"E
io sono Olaf!"
"Che
lo so ," scatta la bambina, rivolgendosi al pupazzo di neve.
"Ti
diverti, a guardare i ritratti?" Anna chiede. La bambina la
considera, con le labbra premute, un broncio testardo.
"Sì."
Anna
sorride. "Mi piacevano un sacco perché ti potevano portare
altrove. Non sono mai stata brava con l'arte, però."
"Già."
Anna
la guarda in maniera furbetta, e dice, "Vuoi divertirti di
più?"
Klara
annuisce.
Elsa
guarda, in basso, Petter. Il bambino sembra infelice, e stanco; e i
suoi genitori, ovunque essi siano, sicuramente sono preoccupati da
morire.
"Solo
quest'ultima sala," dice, mentre voltano l'angolo ed
entrano nel corridoio con la porta che porta galleria dei ritratti.
"Sono
sicura che è qui."
"Mhm."
Si
ferma col piede a mezz'aria, perché la porta in questione
è aperta, e si
sentono riecheggiare delle risate.
Elsa
avanza in fretta.
Voleva
solo trovare la sua amica, per farlo contento, ma
beh, è che
solo—è che non—era—
Anna
rimbalza su e giù sui cuscini decorati delle panche, Klara
accanto a
lei, e ridacchiano tutte e due come matte. Olaf galleggia sul pavimento
di
legno, urlando, "Più in alto, alto! Scivola e gira, scivola
e gira!"
—era
la sorella inadatta a quel compito.
"Klara,
sei in groooooossi guai!" Petter le urla,
a
mò di saluto.
"Non
è vero!" Klara urla di rimando. "Da dove sei
spuntato?"
"Ehi,
Elsa, ho trovato la ragazza!" Anna ghigna. La panca si
sposta, scivolando via dalla loro traiettoria, e finiscono con l'essere
un
groviglio al suolo. "Cavolo, oggi sono praticamente sempre a terra da
tutte le parti, e che cos' è—"
"Vedi,
non puoi essere na principessa, vedi che continui a cadere."
"Sì,
si, infierisci, perché no—"
Elsa
allaccia le mani avanti a sé, osservando la scena. Petter
pattina in
avanti, inciampando per la fretta su Olaf cosicché
il pupazzo si rompe in
tre parti e scivola lungo il pavimento. Il bambino atterra pesantemente
sul
sedere a parecchi metri dalla sua amica, e continua, all'istante, a
urlare,
"Non ti puoi intrufolare nei posti—"
"E
invece si!"
"E
invece no! Hai costretto la
maestà-regina a cercarti
dappertutto—"
Klara
si stropiccia gli occhi, alzando il mento in direzione di Elsa. Si
alza in piedi, e ad Elsa all'improvviso tornano in mente le parole del
Principe
Albert, il giorno prima—Credo proprio che Klara un
giorno si unirà alla Sua
guardia Reale—
"Devi
far venire Albert a trovarci," fa la ragazzina.
Elsa
sbatte le palpebre, attonita. Era stato questo a
provocare
tutto il grande fiasco? Anna la guarda confusa, ancora spaparanzata a
terra
senza grazia.
"Se
ne è andato e ha detto che non poteva tornare
più,"
Klara spiega, "ma non abbiamo finito la partita. E ha perso questa."
Klara ripesca da una delle ampie tasche del vestito troppo grosso un
pezzo
ripiegato di pergamena. E' stropicciato dal correre, e dai giochi;
spiegazzato,
e sporco. Ma c'è il sigillo di Arendelle impresso
inconfondibilmente sul retro
in ceralacca viola sontuoso. "Mamma l'ha presa e ha detto che oggi
veniva
a palazzo, ma poi ho visto che la nascondeva sotto il cuscino, quindi
l'ho presa io."
Elsa
ha freddo, dalle punte delle dita alla pianta dei piedi. La
temperatura nella stanza cala vertiginosamente. Sua sorella se ne
accorge
subito, si tira su e fa un passo avanti. "Elsa?" chiede. "Cosa
c'è?"
La
lettera che aveva scritto lei. La sua
lettera. Ovvio,
il principe Albert l'avrebbe opportunamente persa, ovvio,
sperava che
sparisse—era stata una stupida a credergli sulla parola,
troppo ingenua,
troppo—troppo tutto—doveva
essere una regina forte, una regina giusta, e
questo voleva dire mandare i propri ambasciatori, risolvere la
questione, e
niente più Isole del Sud—
"Elsa!"
La voce di Anna è tagliente. C'è della brina
lungo la
cornice della porta, sui pannelli delle finestre. Il ghiaccio incede
dagli
angoli della stanza, minacciando i dipinti. Con un respiro veloce
recede.
Scompare. Alza gli occhi. Incrocia lo sguardo allarmato della sorella.
"Sì,"
fa distratta. "Sì, dovremmo andare dal principe
Albert."
Klara
batte le mani eccitata, dimenticando la lettera, che cade a terra
come una foglia morta. La ragazzina inizia a parlare con Petter, grida
di avventura
e divertimento. Elsa si avvicina alla cosa caduta a
terra come un
cadavere, chinandosi, raccogliendola in modo alquanto meccanico. La
ripiega e
la intasca.
"Stai
andando dal principe Albert?" Anna chiede.
Elsa
va verso la porta.
"Elsa!"
Sua sorella urla, abbastanza disperata. Lei si
volta, scossa dalla sua trance. "Elsa, che c'è?"
"Devo
parlare con il principe."
"Non
puoi lasciarlo perdere? Per favore?"
Elsa
tasta la lettera. "No. No, non posso."
"Beh, lascia che porti io Klara e—e—diamine,
non—beh, lascia che porti
tutti e due da lui e poi a casa propria, perché tu invece
non—"
"No.
No, devo risolvere la questione." Pensava di
aver risolto la questione.
"Elsa,
lascia che ti aiuti, ti prego!"
"Non
puoi, Anna," Elsa sospira. "Sono io la regina."
Anna
rimane a bocca aperta. Avevano davvero fatto pupazzi di neve solo la
scorsa notte? Sua sorella rimane a bocca aperta, ed Elsa sa
perché—perché Sono
io la regina era solo un modo per dire tu sei la
figlia di troppo, o
qualcosa del genere—che non era quello che—non era
quello che voleva implicare,
solo che non riusciva a organizzare i pensieri. Si sentiva
così sottile, come
un velo di burro strusciato su troppo pane—
"Terrò
la bocca chiusa davanti a lui." La voce di Anna è sottile.
"Te lo prometto."
Elsa
scuote la testa. "A breve sarò di ritorno. Petter. Klara,"
chiama, cercando di contenere il gelo che trapela dal suo tono.
Vuole
dormire.
Si
volta via, verso l'atrio. Il suo volto è teso. E'
così stanca.
"Sono
io la regina," sussurra.
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo
10
"Ho
bisogno di parlare col principe Albert."
"Beh,
scusasse tanto, maestà, ma adesso sta sottocoperta che
esamina
lo scafo—"
"Immediatamente."
"Sissignora."
Il
marinaio si affretta alla plancia. La rabbia della regina è
palpabile,
non importa quanto cerchi di controllarla—filtra attraverso
il molo e si inarca
sull'acqua, scritta nella linea sottile delle labbra, e la posizione
rigida
delle mani. Sono rimasti due bambini, nella piazza, che, controllati da
due
guardie, vogliono vedere quest'uomo. Questo sciatto, privo di fascino,
buono a
nulla—
Nemmeno
l'amabile Mastro Olin osava avvicinarsi. Riesce a sentire lo
sguardo del capitano di porto da lontano, lungo il molo, dove senza
dubbio
aspettava in attesa di intervenire qualora ce ne fosse
bisogno—
"Regina
Elsa?" La testa scompigliata del principe Albert emerge
da dietro il parapetto. Ha il respiro un po' corto, e sembra che abbia
del
catrame, o della pece, appiccicata sotto l'occhio sinistro. Appare
anche il
resto del corpo, ed è del tutto
impresentabile—una camicia bianca larga
con le maniche arrotolate fino ai gomiti, e i pantaloni strappati su un
ginocchio. Si pulisce le mani con uno straccio. Evita una grossa asse
di legno
che viene trasportata lungo il ponte passandoci sotto, e si affretta
giù per la
plancia fino al molo, quasi inciampando sui propri piedi per la fretta.
Le labbra
sono piegate in un sorriso timido. "Non credevo—voglio dire,
dopo—ciao!
Voglio dire, salve, sua maestà”. Si inchina
impacciato, una volta arrivato allo
stesso livello. "Come sta?" Tenta di appoggiarsi all'indietro contro
la nave, ma lo spazio è troppo; quasi cade.
Non
risponde, mantenendo il viso piatto, inespressivo. Uno scricchiolio, e
il ghiaccio si forma in furiose lastre rossastre sull'acqua sotto di
loro.
"C'è—c'è
qualche problema?" Chiede il principe Albert, col
sorriso che si spegne. Glielo fa fare un sacco di volte, non
è così? Elsa pensa
cupa, e poi si accorge che non importa, perché premuta
contro il suo fianco c'è
la lettera, perché era—era suo
fratello—nessuno aveva possibilità con
lei—e nessuno poteva sul serio essere
così stupido, vero?
Vero?
Quegli
occhi—i suoi occhi—sono confusi.
Elsa fa un respiro profondo.
"Questo,"
risponde, fredda. Si sfila la lettera dalla tasca,
reggendola come un soldato ferito. "Questo è il problema."
"Che
cos'è?" il Principe Albert chiede, accigliato, e poi le
sopracciglia gli arrivano fino in mezzo alla fronte, e si tasta le
tasche.
"Oh, cielo."
"Confidavo
nel fatto che l'avrebbe riportata al sicuro alle sue rive,
ma se insiste continuando a buttarla via, allora posso solo presumere
che ciò
rifletta le posizioni su cui siamo—"
"No,
non è—io non—"il principe si passa una
mano tra i capelli
che cascano sulla fronte. "Non volevo—"
"Le
ho garantito porto sicuro, ma posso ritirare—"
"No,
Regina Elsa, io non—"
"E
non desidero intrattenere ulteriori rapporti con alcun
membro delle Isole del Sud—"
"Regina
Elsa!". Le stringe le braccia tra le mani. Sono calde,
molto, e il ghiaccio attorno ai suoi piedi all'improvviso si ferma.
Sbatte le
palpebre, colpita, e poi lui sbatte le palpebre, colpito, fissandola a
bocca
aperta, e le guardie erano nella piazza che sorvegliavano Klara e
Petter,
altrimenti gli sarebbero state addosso in un attimo—
La
lascia andare immediatamente, praticamente saltando via, come se si
fosse scottato. Deglutisce dopo un respiro profondo, indicando la
lettera
ancora stretta tra le mani di lei.
"Le
giuro che non ho fatto cadere quella lettera di proposito."
E
i suoi occhi—quegli occhi—
Riesce
a leggerli come un libro aperto. C'è rabbia, ma avverte,
dall'arco
ricurvo delle spalle, che è per la maggior parte diretta a
se stesso; un po' di
incredulità; un sacco di nervosismo dovuto alla timidezza; e
qualcosa al
margine, qualcosa che trapela quando le fissa il viso; qualcosa che
sembra
meraviglia. E lui non dice niente della neve accumulata attorno ai suoi
piedi,
o del ghiaccio nel porto, o del modo in cui la temperatura cala di
dieci gradi
quando le si avvicina. Sente ancora l'impronta delle dita sulle proprie
braccia.
La
lettera sta tra di loro come polvere da sparo.
Scuote
la testa, sbatte le ciglia. Sussurra, "E' solo che non credo di
potermi fidare di lei." C'è una parte di lei che vuole
sinceramente
fidarsi di qualcuno, e una parte di lei che urla vai
via, vai via,
vai via—
"Abbiamo
questa cosa, giù a—giù, a
casa,” fa lui dopo un momento,
quando le urla lungo il molo si intrecciano tra di loro, e parla in
tono
ugualmente basso, cosicché è costretta
ad avvicinarsi per riuscire a
sentirlo al di sotto delle voci degli uomini che strillano sul ponte
sopra di
loro, "Io e i miei fratelli—"
"Non
ho alcuna voglia di sentir parlare
dei —"
"No,
non è—senta, è solo—da dove
vengo io, i giuramenti contano. Sei vincolato.
Si dice, giura su qualcosa a cui tieni. Io giuro"
inizia,
guardandola finalmente negli occhi con quegli occhi,
quelli che non
riesce a decifrare, che non stanno bene sul suo viso lentigginoso, sul
naso
storto, e per la prima volta quegli occhi non scattano verso
l'avambraccio in
cerca di aiuto. Pensa che stia per dire l'oro. Pensa che stia per dire
il suo
regno. Il suo titolo di principe. La sua vita. Invece dice, "giuro sul
per
sempre felici e contenti che non le sto mentendo".
Si
raddrizza, il pugno che involontariamente si serra attorno alla propria
scrittura ordinata, sgretolando l'emblema di Arendelle. Nella sua
incredulità,
il ghiaccio si ritira. "Per sempre felici e contenti?" Mi
stai
prendendo in giro? vuole dire, ma non
è—non riesce a essere—Anna.
Lui
arrossisce, da una parte all'altra del naso storto, e adesso si
strofina l'avambraccio quasi con violenza, come pregando che un
discorso vi
appaia per magia. "E' la cosa a cui tengo di più,
perché significa che c'è
speranza." Quasi borbotta. Praticamente si mangia le parole. "Hans
diceva sempre che i per sempre felici e contenti erano da storielle per
bambini
e per sogni da femminuccia. Diceva sempre che non—che non
avevano spazio nella
vita reale. Ma dovevo sperare. Perché se non lo avessi
fatto, non ci sarebbe
stato più niente." E poi, come ricordandosi che
c'è lei lì, si raddrizza e
ripete, "Ecco quello su cui giuro."
Momento.
Due. "Non la capisco," sospira, ed è tanto, tanto
stanca.
Fa
un mezzo sorriso. "Va tutto bene. Nemmeno io mi capisco."
"E'
una cosa orribile, non capire se stessi."
La
guarda per un lungo momento, poi tossisce a disagio. Giocherella di
nuovo con la manica. "Sono sicura di averla fatta cadere mentre me ne
andavo. Perdo sempre le cose. Felix diceva sempre che avrei perso la
testa, se
non fosse che è attaccata al collo, ma poi
lui—beh, non importa, non
è—devo averla persa vicino al—" e poi si
rende conto. "Ma come l'ha
trovata?"
"Petter
e Klara sono venuti al castello a sgridarmi, per averla
confinata alla sua nave," Elsa quasi sorride guardando la lettera,
anche
se le viene parecchio da vomitare. "Klara ce l'aveva. Aveva intenzione
di
restituirgliela."
"Sono—"
si guarda attorno, gli occhi che esaminano gli uomini che
brulicano nel porto.
"Sono
nella piazza del mercato, non volevo—che vedessero,"
finisce.
"Vedermi
impalato?" Sorride, dando un colpetto al ghiaccio
accanto al suo piede, poi—"Scusi, non è
divertente, è che. Già. Sì, voglio
dire." Si volta a guardare gli uomini che sciamano sulla sua nave.
"Posso riportarli a casa, se vuole. Può farmi sorvegliare da
una guardia e
tutto il resto."
"No,
io li—" ma mentre sta per finire si accorge con un sussulto
che non avrebbe potuto riportare i bambini a casa,
anche volendo; non
poteva trovare la piazza senza chiedere indicazioni. Stringe le mani,
sentendo
tra di esse la carta ruvida della lettera. Un saporaccio in bocca.
C'erano
state così tante porte chiuse, per così tanto
tempo, e lei fluttuava al di
fuori di esse. Anna era da qualche parte, al castello. Avrebbe dovuto
andare a
scusarsi—
Ma
Petter, e Klara—
Ma
il Principe Albert—
"Mi
permette?" chiede piano, dopo un momento. Accenna alla
lettera sgualcita. Gliela lascia prendere, e lo osserva mentre la
liscia con
attenzione appoggiandola al ginocchio. "Ecco. Praticamente nuova."
Controllati,
pensa,
guardando il porto, osservando il ghiaccio
crollare nelle tiepide acque estive, controllati.
"No,
manderò le guardie a prenderli," fa alla fine.
"D'accordo.
Beh, dite loro—dite loro che dico ciao, allora—se
non è
chiedere troppo. Voglio dire, se non è troppo disturbo."
"Ma
certo."
La
sua rabbia è quasi esausta, lasciandola ancora una volta
scarnificata.
Non aveva mai reagito così prima—con rabbia.
Non l'aveva riconosciuta,
insinuarsi su per la gola, cerchiarle i piedi di ghiaccio,
finchè non era
uscita fuori dal castello, nell'aria fresca della città, fin
quando non si era
accorta che aveva parlato troppo bruscamente ad Anna, e aveva, forse,
esagerato, e adesso era troppo tardi—
Ma
era stato così bello, pensa con un sussulto. Sentire.
"Regina
Elsa," il Principe Albert si azzarda dopo una pausa
imbarazzante. "So che non dovrei permettermi. Ma lei—lei
sembra—profondamente ferita."
"Ha
ragione," sente la rabbia dura, gelida, che ritorna.
"Non deve permettersi."
"Prima
che mio fratello Fredrik partisse per la guerra,"
comincia, lanciandole una breve occhiata, come in attesa che scattasse
con niente
più fratelli—ma lei rimane in silenzio,
odiandosi per la sua curiosità, per
la sua gentilezza, per la sua diplomazia—"beh, eravamo soliti
sgattaiolare
via dal castello per andare a dare un’occhiata in giro. Per
entrare in contatto
con il popolo. Felix ha iniziato a farlo, in realtà, ma era
solo un modo per
vedere—quello che accadeva e—più o meno
dimenticare, forse, che fossimo reali.
Per poche ore, almeno."
Il
pensiero è spaventoso. Il pensiero è nuovo. Lei
è regina. Togliendo
quello, cosa sarebbe stata?
Solo
Elsa?
Impensabile.
Vattene.
Vattene,
subito.
"Arrivederci,
Principe Albert." Si gira per andar via. Si ferma.
Volta indietro la testa. "Mi dispiace se ci sono stati
fraintendimenti."
"Lo
so che è la regina," Anna dice a Olaf,
stesa a braccia
aperte sul pavimento della galleria che osserva il pendolo
dell'orologio del
nonno. La sembra di avere di nuovo nove anni. "Questo non significa che
io
non possa, tipo, aiutare o niente—so fare
un sacco di cose,
come—come—"
"Come
scivolare giù dalle montagne!"
"Esatto!"
Anna strilla, d'accordo. Olaf si contorce accanto a
lei.
"O,
sai, trovare puzzolenti re delle renne."
Anna
sorride. "Esattamente esatto," sospira,
così
profondamente e forte che la frangetta per un attimo svolazza e
scompare.
"Voglio dire," geme, coprendosi gli occhi con un braccio con fare
drammatico. "Perché non mi permette di aiutarla?"
"Per
favore, scortereste Petter e Klara fino a casa?"
"Sì,
vostra maestà," la guardia replica.
"E
Albert?" Klara chiede testarda.
"E'
molto occupato in questo momento. Mi dispiace, Klara."
La
ragazzina mette il broncio, pestando i piedi, e andava bene, sul serio,
non doveva piacere per forza a tutti—
Petter
è in piedi davanti a lei, e tende la mano appiccicaticcia.
La
prende, e lui si inchina, un inchino piccolo e da ragazzo, in mezzo
alla
piazza. "Maestà," dice, molto formale, e sembra troppo
vecchio,
troppo piccolo, troppo tutto, "grazie."
Elsa
sorride, e non è quasi.
Il
re dice, "Stai per compiere un grande servigio alle Isole del Sud,
Hans. Una cosa che cancellerà tutti gli errori; che ti
eleverà," conclude
lentamente, "al di sopra di tutti gli altri fratelli."
Hans
si lecca le labbra, e sente, attraverso il guanto, la punta dolorante
dell'indice sinistro, che suo fratello aveva punto il giorno prima. Una
goccia
di sangue, rossa come il tramonto, in una ciotola di legno. Poi un
vago,
"Puoi andare. Sono sicuro che le tue stanze sono nello stato in cui le
hai
lasciate."
Hans
vuole chiedere, mi eleverà al rango di re,
ma non lo fa;
evidentemente non riesce a far funzionare la bocca. I suoi giorni delle
risposte sono rimasti chiusi nella cella.
Quasi
gli mancano.
Dice,
"Lieto di esserti utile, fratello."
"Tutto
questo parlare di fratelli; sembra quasi che sia morto
qualcuno!"
Re
Alfons interrompe la sua camminata lenta e sicura. Hans accanto a lui
rallenta. Appoggiato alla carta da parati rossa, mezzo nascosto dalle
armature
e delineato dalla luce del crepuscolo morente, c'è Lukas.
Hans non lo vedeva
dal giorno in cui era andato a fargli visita nella sua cella, per
ammonirlo e
sgridarlo nella sua maniera orribilmente ottusa. Sente il disgusto
posarsi ai
margini dei suoi pensieri, attorno agli angoli della bocca.
Lukas
.
In piedi in mezzo al corridoio, non poteva sembrare di meno
il suo
gemello, Hans pensa. Il re era bruno, con baffi folti, robusto e
muscoloso;
Lukas era magro come un fuscello, i capelli biondo sporco che cadevano
sui
tratti del viso puliti, ben delineati.
Combatteva
a suon di bugie e trucchi e ingegno e furbizia. Hans non
aveva mai provato alcuna forma di rispetto per quell'uomo.
"Lukas,"
Re Alfons fa in tono strascicato. "Che ci fai
qui?"
"Mi
informavo solo dello stato di salute del nostro fratellino
liberato di recente. Come te la passi all'aria estiva, Hans?"
"Sto
bene, grazie," Hans si inchina rigido.
"Eccellente,
eccellente. Proprio eccellente. Dimmi, Alfons," e
c'era solo una persona a cui era permesso chiamare il re con questo
nome,
"A quanto pare mi mancano delle mappe topografiche. Quelle che
riportano lo Stretto del Drago, l’Oceano
Nero—Arendelle. Le hai viste?"
"Certo
che no," il re scatta.
Lukas
scrolla le spalle. "Allora controllavo solo." Li supera,
scompigliando i capelli di Hans mentre passa. "Adieu, fratellino. Oh, e
Alfons?"
"Hm?"
"Notizie
di Albert?"
"Sta
bene."
"Ah.
Che deliziosa notizia."
"Proprio."
"Beh,
allora! Ciao ciao, fratello."
I
suoi passi riecheggiano lungo il corridoio. Il re esclama, senza tanta
emozione, "E' solo un peso."
E Hans
chiede, "Perché non lo uccidi e basta, allora?"
"Perché,
Hans." Il re scrocca il collo. "A ogni morte, il
suo tempo."
Dimenticare
che fossimo reali per poche ore—
Poche
ore—
Dimenticare—
Elsa
osserva le carte sparse sulla scrivania e arriccia le labbra.
Curioso, detto da qualcuno—che cos'era, pensa,
fredda, dodicesimo in
linea di successione? Ovvio che lui poteva farlo. Era un mondo diverso,
non
avere il peso di un regno. Lei avrebbe potuto volare, senza il peso di
un
regno. Librarsi, in mezzo alle stelle.
Sente
le unghie premere contro i palmi, piccole lune crescenti che scavano
nella sua carne. Parole e lettere sulla pergamena si confondono,
sciolgono,
scorrono—commercio e tasse
e mercanti e guardie.
Chiude gli occhi, poggiandosi due dita lenitive su ogni tempia e
facendo
appello alla propria maledizione. Si posa all'altezza degli
occhi—freddo,
gelato sollievo.
Avrebbe
camminato fino all'atrio e sarebbe andata
fuori nel cortile. No, scivolata—sarebbe scivolata
giù fino all'atrio e fuori nel cortile, e
gli sguardi dei regnanti precedenti le sarebbero scivolati addosso come
fa
l'olio con l'acqua, fluidi, innocui. Ci sarebbe stato il cielo,
completamente
sveglio sopra di lei, verdibluviola che pulsavano su un oceano
di stelle
che poteva afferrare e tenere chiuse tra le mani. Sarebbe uscita dai
cancelli,
attraverso il ponte, e ci sarebbe stata Arendelle, accesa e bellissima
e
meravigliosamente viva. Avrebbe ascoltato la sua
gente e avrebbe sentito
i battiti dei loro cuori, le loro speranze, i loro sogni. Avrebbe
volato su,
su, su—
Si
costringe ad aprire gli occhi. Il fuoco è quasi spento.
Fuori, il cielo
si rabbuia al crepuscolo. In un mondo perfetto, pensa, raggruppando le
carte
davanti a lei in pila e posandovi in cima la piuma, in un mondo
perfetto
avrebbe governato dal suo palazzo di ghiaccio.
Si
chiede, alzandosi con garbo dalla sedia con lo schienale rigido, se sia
ancora lì, o se abbia iniziato a sciogliersi, come un fiore
appassito, morente.
Si chiede cosa gli sarebbe successo, solo sulle montagne, e si chiede
se
sarebbe rimasto lì per sempre, o se sarebbe andato alla
deriva con la sua
morte—se si sarebbe sciolto e sarebbe slittato giù
lungo il fianco della
montagna.
Sarebbe
successo? Quando sarebbe morta, tutto sarebbe solo—scomparso?
Olaf
apre la porta. Elsa sobbalza. Stava fissando uno dei modellini delle
navi in bella mostra sugli scaffali. Detestava le navi.
"Elsa?"
"Ehi,
piccolino," sorride. Il secondo sorriso in tutto e per
tutto di quel giorno, e già presenta il conto. E'
che è tanto stanca. Profondamente
ferita. Ecco cosa aveva detto Albert. Profondamente
ferita. Non era
per niente profondamente ferita, era totalmente, terribilmente
ridicolo—
Si
volta, allungando la mano per afferrare un altro ceppo da lanciare nel
fuoco, e del ghiaccio schizza dalle punte delle sue dita in cinque
perfetti
archi congelati. Il ghiaccio sbatte contro la pietra del caminetto e si
frammenta,
facendo piovere gocce e rugiada e spegnendo il fuoco completamente.
Beh.
"Cosa
posso fare per te?" dice in fretta, cercando di nascondere
la gaffe, strizzando gli occhi in cerca dei fiammiferi al buio. Ne
sfrega uno
contro la pietra e lo lancia tra i tizzoni, e un altro ceppo su di
essi, e un
altro, finchè riesce quasi sentire il
calore. Posa le mani vicinissime
al fuoco, e poi pensa che è ora di smetterla con questi
momenti auto
indulgenti.
Si
volta.
Olaf
la guarda a occhi spalancati e sbattendo le palpebre, davanti a quelle
porte bianche della biblioteca. Dice, "Beh, niente, in
realtà. Volevo dire
ciao. Come te la passi?" La bocca infantile si apre in un sorriso
contagioso, e ondeggia fino alla finestra, per spiare fuori dai vetri
piombati.
" Hai dato a quel tizio principe una bella lavata di
quello-che-è?"
"Una
che?"
"Si,
quella. Beh, allora?" Il naso di Olaf affonda sempre più
nella sua testa man mano che preme la faccia contro il vetro.
"Suppongo
di no. Forse. Non lo so."
Non
vuole sedersi di nuovo su quella sedia. Invece raggiunge il pupazzo di
neve, raccogliendo le gonne attorno a sé e appollaiandosi
sul davanzale della
finestra, come faceva quando era piccola e imparava tutto su commercio
e
tasse e mercanti e guardie.
Fuori la città prende vita
come solo di notte può fare, luci che cominciano a splendere
alle finestre,
uomini che urlano dopo una lunga giornata di lavoro, bambini che
corrono fuori
a salutare padri, madri, sorelle, fratelli. La famiglia. Olaf dice, a
proposito
di niente, "Lo sai, Anna è brava a fare un sacco di cose.
Come trovare
uomini disgustosi e scivolare giù per le montagne."
"E'
tutto quello a cui siete riusciti a pensare?" Elsa risponde
spensierata, osservando il sole che tramonta luccicare dall'altra parte
del
fiordo. Guarda Olaf in tralice, ma lui non le presta attenzione, quindi
tira su
le ginocchia contro il petto e si abbraccia le gambe con le braccia,
poggiandoci sopra il mento.
"Fooooooorse,"
Olaf sussurra.
Elsa
ride. Ride perché ancora non si era scusata con la sorella.
Ride perché,
ovvio, avrebbero pensato solo a quello—"Anna è
brava a parlare con la
gente. E' brava a essere coraggiosa. A essere espansiva. E' brava a
prendersi
cura delle persone. E' brava in un sacco di cose."
"Huh.
Beh, sai," Olaf si risiede, cercando di afferrare il naso
grosso dietro la testa con le impacciate braccia- rametto, "anche tu
sei
brava in un sacco di cose. Voglio dire, mi hai fatto
tu."
Elsa
gli spinge il naso attraverso il cranio con delicatezza
"Mi
gira la testa!"
"Sono
stanca, Olaf," sussurra lei.
"Dormi
un po', allora," Olaf afferma con un sorriso e una pacca
amichevole sul braccio. "E' il miglior modo di destancarsi."
Elsa,
molto velocemente e prima che possa pensarci due volte, si allunga in
avanti e stringe il pupazzo di neve in un abbraccio, la
guancia premuta
contro il lato della testa; sente il solletico che gli fa la sua
nevicata, e sa
che la neve le sta cadendo sulle spalle, e sulla gonna.
"Caldi
abbracci!" Olaf strilla gioioso, ricambiandola. "Oooh,
li amo!"
Dimenticare,
Elsa prega, serrando gli occhi.
Dimenticare.
La
stanza puzza di urina; carogne e carne in putrefazione. Fuori il sole
sta calando. C’è il fuoco acceso nel caminetto e
del tè posato davanti a esso.
Sembra una presa in giro, la porcellana bianca che splende quasi d'oro
nella
penombra. Hans osserva il re camminare lentamente in quella direzione;
lo
osserva raggiungere la prima sedia e voltarla col piede,
cosicché sia rivolta
verso il centro della stanza; lo guarda iniziare a versare il
tè.
"Tè,
Hans?"
"No,
grazie," Hans risponde, proprio mentre Niels afferma,
"Non deve assumere niente, prima." Si materializza da un angolo buio.
C'è un corvo sulla sua spalla. Ma i suoi occhi hanno
qualcosa di strano. Anche
il corpo ha qualcosa di strano, ma Hans non riesce a capire cosa, data
la
scarsa luce. "Non voglio che vomiti sul pavimento".
E
di certo di cose strane ce ne sono un sacco, Hans nota, lottando per
mantenere un'espressione neutra, per controllare le capriole che fa il
suo
stomaco. I tavoli, le bottiglie di sostanze galleggianti, le pile di
libri—tutto era stato spinto ai lati della stanza per
lasciare un grosso spazio
al centro. Ci sono segni di gesso sul legno. Simboli che non capisce.
Scritte
in rune. Al centro c'è un cerchio più piccolo, e
inscritta in esso una stella.
Niels
la indica. "Sistemati lì."
Hans
osserva lo sguardo freddo, calmo del re. In attesa. Intransigente.
Dice. "Certo."
"Sto
bene?"
Sven
sbatte le palpebre.
"Hai
ragione, hai ragione—troppo. Fiori? E' una cosa che si fa,
devo
portarle i fiori?"
Sven
si piega per mangiare altro fieno.
"A
volte non sei proprio d'aiuto."
Elsa
osserva il piatto coperto davanti a sé. Prende l'acqua,
riuscendo a
bere un sorsetto prima che le si congeli in mano. Posa il bicchiere.
Accanto a
lei c'è un posto vuoto, e un altro, e ancora un altro, e
lungo tutto il tavolo.
Kai è da qualche parte in piedi dietro di lei. Tossisce.
Chiede, "Volete
che mandi qualcuno—"
"Sarà
qui tra poco," Elsa risponde, osservando il vapore alzarsi
dal cesto di panini coperto. Appena finisce di parlare la porta della
sala da
pranzo si apre, e Anna corre dentro. Non è vestita per la
cena. E' vestita come
se si stesse preparando a scalare la Montagna del Nord. Elsa sbatte le
palpebre.
"Ehi,
come stai?" Anna si fionda fermandosi dietro la sedia dove
è seduta di solito e afferra l'intera cesta di panini.
"Prendo questi
e—"
"Dove—dove
vai?"
"Fuori,
solo—niente. Voglio dire, non è niente,
è qualcosa, ma non è
niente in cui abbia intenzione di fare, tipo, una scalata in mezzo alla
natura
o cose del genere." Esamina il cesto di panini che tiene premuto contro
il
fianco. "Il burro è qui?"
"Anna—"
"Lo
so, lo so, avrei dovuto accennartelo prima." Anna crolla
sulla sedia piuttosto goffamente. "Ma non volevo irritarti."
"Non
mi irriti."
Anna
solleva le sopracciglia.
"Spesso.
Non mi irriti spesso."
Anna
fa, "Allora ti dispiace?"
"Ma
se non so nemmeno che stai facendo!"
"Forsediciamounappuntamento."
"Un
appuntamento?"
"Lo
sai! E' quella cosa, quando le persone fanno cose,
assieme—tipo,
no—tipo cavare il ghiaccio."
"Stai
andando a cavare il ghiaccio?"
"No!
No, assolutamente no, non credo—tu saresti una brava
cavatrice,
lo sai? No, sto andando a un picnic! Beh, a un picnic cena coi panini.
Conta lo
stesso? Dovrebbe contare lo stesso, no—"
"Per
quello che vale," Elsa interrompe, guardando il vassoio di
metallo che copre la sua cena, "Penso che tu sia brava in un sacco di
cose."
"—e
voglio dire, il vino, ma credo che quella sia una
porcheria—che?" Anna scuote la testa. Ha mezzo panino che le
penzola dalla
bocca.
"Mi
dispiace."
Anna
sorride. Le riesce così facilmente, Elsa è quasi
gelosa. Quasi.
"Ehi. Lo so. Capisco. Beh, voglio dire, capisco più o meno.
Immagino che
in realtà non potrò mai capire, capire,
ma—lo sai." Stende la mano
sul tavolo, rovesciando per sbaglio il bicchiere d'acqua ghiacciata con
un oops,
e afferra la mano di Elsa. "Voglio aiutarti."
Elsa
ricambia la stretta. "Lo so." Si guardano per un secondo. Un
volto che conosce meglio del proprio. Un volto
che non conosce
affatto. Anna dice, mettendo giù i panini, "Ehi, sai una
cosa, credo che
andrò a un appuntamento picnic di dolci. Allora, cosa
mangiamo a cena?"
Elsa
scuote la testa. "Tu stai andando a fare un bel
picnic." Si volta verso Kai, dietro di lei. "Possiamo preparare un
cesto per la principessa?"
"Certamente,
vostra maestà."
"Acqua,
penso,” fa, dandole una stretta finale e lasciandola andare,
"al posto del vino."
"Elsa,
non posso!"
"Puoi.
Ordine della regina. Solo—non fare cose di cui poi ti
pentiresti."
Anna
ghigna. "Lo so, lo so. Reputazione. Principessa. Afferrato."
E
quando sua sorella se ne va, carica di cibo, Elsa finalmente scopre il
proprio piatto. C'è una bistecca piatta, al sangue, rosa.
Asparagi, e patate.
Elsa afferra forchetta e coltello.
Il
cozzare delle posate. Il baluginio delle candele.
E'
sola.
Kristoff
la aspetta davanti alla porta della sua stanza. Il cesto che ha
tra le braccia è pesante. Si sente in colpa, a lasciare sua
sorella a cena da
sola, però, l'avrebbe detto in realtà se non
avesse voluto mangiare da sola,
giusto? Però, c'era anche da considerare che si trattava di
Elsa, che in realtà
non diceva mai niente di niente, e—
E'
un'idiota, non è così? Non Elsa. Lei. Anna. Era
un’idiota. Si morde il
labbro e sospira, perché, tipo, come si supponeva che sua
sorella dovesse
fidarsi, se lei—Anna, lei-Anna—non riusciva nemmeno
ad accorgersi di roba del
genere—
"Uh,
ehi."
Anna
si ferma. E' quasi arrivata al corridoio dei ritratti, e non si
è
fermata, e ha superato Kristoff. Gira i tacchi. "L'ho fatto apposta."
"Davvero?"
"Sì.
Decisamente. Come—" si ferma, accorgendosi alla fine di come
è vestito. Indossa gli abiti estivi, ed è quasi
presentabile. Stringe in mano
una margherita, e guarda nervoso di lato, e lei ride, praticamente
saltellando
in avanti. Gli dà un bacio sulla guancia. "Ciao."
"Ciao.
Ho preso il tuo fiore. No, non volevo dire—"
"E'
adorabile," ride di nuovo, sorridendo per coprire il rossore
che le era apparso sulle guance. "Ho portato la cena."
"Picnic?"
"Lo
sai. Forza." Fa scivolare il gomito dietro la maniglia della
porta e la spalanca. La stanza è leggermente in disordine.
Barcolla in avanti e
fa cadere il cesto sul letto, osservando il baldacchino rosa. Molto
meglio di
blu scuro. Tipo, molto meglio.
Kristoff
è in piedi, piuttosto incerto, sulla soglia. Sembra troppo
solido,
troppo reale, tra il rosemåling
delle coperte, del pavimento, del tavolino da belletto, con la
margheritina
stretta nella grossa mano. Qualcosa si agita nella parte bassa dello
stomaco.
Si morde il labbro.
"Cosa
c'è?" Kristoff chiede, all'improvviso esausto. Guarda i
suoi vestiti.
"Niente—non
hai niente che non va. Non c'è niente che non va. Sei
perfetto. Aspetta, che?" Scuote la testa, e sente il rossore tornare.
"No, voglio dire—è mia sorella. Solo
che—ti dispiace se mangiamo con lei?
Solo la cena. E' che è—tutta sola."
Kristoff
sembra pensieroso. Si chiede a cosa pensi. Lui fa spallucce.
"Come no."
"Mmmhkay,
sarò—torno subito, solo—non ti muovere,
non ti muovere di un
centimetro—" si lancia nel corridoio, si ferma, quasi si
fionda di
schianto nella sua schiena, "Se ti muovi lo vengo a sapere!"
"Vai,
Anna," ride.
Anna
corre fuori dalla porta e nel corridoio e salta sul corrimano. Scivola
giù, atterrando di fretta e fiondandosi nella porta della
sala da pranzo.
"Elsa, andiamo!" urla, ma poi si ferma, perché lì
non c'è nessuno
tranne alcuni camerieri, che puliscono il tavolo, e Kai.
"Principessa,"
sobbalza. "C'è qualche problema?"
"Volevo
solo invitare Elsa, perché sono una stupida, lo
sai?"
"Io—"
"Non
devi rispondere, non importa. Dov'è andata?"
"Ha
deciso di continuare a cenare in biblioteca. Ha specificatamente
chiesto di non essere disturbata."
"Oh,"
Anna annuisce lentamente. "Oh, ok. Beh, allora io —io
vado." Kristoff la aspettava. Kristoff che stringeva quel delicato
fiorellino, e sarebbero mai riusciti a mettere le cose a posto? pensa.
E
poi si chiede a chi stia pensando davvero.
Elsa
si sporge fuori dalla finestra aperta. L'aria sa di fresco, ed
è
magnifica. Il cielo sopra di lei brilla, invocando la città
sottostante, e
tutto è sveglio. Si abbassa di più il cappuccio
sugli occhi, sentendosi—
Malandrina.
Fa
un respiro profondo, guardando indietro, i recessi bui della
biblioteca—le pergamene ammassate, i libri, il fuoco nel
caminetto. E poi fuori,
Arendelle. Le stelle che trapuntano il cielo. Allarga le dita. Il
ghiaccio
copre il tetto, rendendolo scivoloso. Elsa si arrampica sul davanzale e
fuori
sul ballatoio, cosicché i piedi dondolano nel vuoto, e prima
di poter pensare
ad altro, salta giù.
Dimenticare.
Da
qualche parte, lontano, Niels afferma, "Non preoccuparti, fratello.
Non dovrebbe fare male."
Da
qualche parte, lontano, Niels ride.
Da
qualche parte, lontano, Niels corregge. "Molto."
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Capitolo
11
La
piccola margheritina bianca è in un vaso sul suo comodino.
Riesce a
vederla se preme il naso contro i pannelli della porta a vetri, come
sta
effettivamente facendo. Sembra così fragile. Come se potesse
spezzarla solo
reggendola tra il pollice e l'indice. Chiede, "Pensi mai a cosa
potrebbe
accadere se non esistessero più i fiori?" Il suo respiro
appanna il vetro.
"No."
"Voglio
dire, sul serio, Te lo immagini? Tipo, nessuno."
"Tipo,
no. Lo mangi quel panino?"
"Sì,"
sibila, sulla difensiva, torcendo il busto e rubando
l'ultimo dal cesto. Se ne infila in bocca un bel pezzo, giusto per
sottolineare
che è di sua proprietà, ed esclama, a bocca
piena, "Mangerei pane a
colazione, pranzo e cena," anche se suona più,
"'mangereipanecolanzocena."
Kristoff
annuisce. "Dieta sana. E il cioccolato?"
"Ok,"
Anna corregge, deglutendo. "Anche il cioccolato. Pane
e cioccolato." Si riappoggia al vetro. Tiene la gamba stesa di
lato
e il suo stivale quasi tocca quello di lui; ci sono gli avanzi del
cesto
accoccolato tra di loro, mezzo sparsi sul pavimento di pietra. Oltre la
ringhiera, e il muro, riesce a distinguere le stelle che brillano,
luminose
paragonate alla luce che viene dall'interno della sua stanza. E'
così contenta,
e rilassata, tranne per il fatto che continua a pensare a Elsa e a
sentirsi in
colpa, desiderando che sua sorella non fosse così
difficile tutto
il tempo—"E tu?", gli chiede, per
distrarsi dai problemi di
difficol-tezza.
"E
io cosa?"
"Lo
sai," Anna ghigna. "Qual è il tuo cibo preferito?"
"Carote."
Kristoff annuisce, saggiamente.
"Ma
non è il cibo preferito di Sven?"
Dopo
un minuto: "Non capisco cosa c’entri questo
con —"
Anna
ride grugnendo. Bisbiglia, "Relazione morbosa," a mezza
bocca. Kristoff scuote la testa, mesto; la sua risata è
breve.
"E'
che," si ferma, guardandola in tralice, e poi guardando il
cielo, "è che—c'è sempre stato per me."
Anna
sbatte le ciglia, tracciando il profilo di Kristoff alla luce
traballante. Ha gli angoli della bocca sollevati.
Rabbrividisce,
e poi si arrabbia con se stessa per essere rabbrividita,
perché
era una serata tiepida, di fine estate, piacevole, come un bagno caldo,
ma lei
è congelata. Ha la pelle d'oca su tutte
le braccia, sotto le calze, su
per la schiena. Dà un altro morso al panino per nasconderlo.
Mastica. Mastica. Mastica
più in fretta, devo chiederglielo—deglutisce.
"E i troll?"
"Eh?
Oh, sì. Anche loro, sì. Certo," finisce, vago,
massaggiandosi la nuca, a disagio. Tasta il fondo del cesto, trova un
pezzo
solitario di cioccolato, e inizia a rigirarselo tra pollice e indice.
Anna
vuole chiederglielo. Eppure, invece, allunga la mano nel cesto,
perché
se c'era un pezzo di cioccolato, significava che ce n'erano anche
altri—le loro
mani si sfiorano. Kristoff sorride, colpevole, e ritrae la mano. Anna
si chiede
se sia arrossito. Gli dà un colpetto alla spalla con la
propria, sorridendo.
"Lo mangi?" chiede, riferendosi al pezzo che ha in mano.
Se
lo lancia in bocca con noncuranza. "Lo vuoi?"
"Kristopher."
Tieni
la testa bassa, tieni la testa bassa, tieni—
"Signorina?
Posso aiutarla, sta cercando qualcosa?"
"No,
sto benissimo così, grazie—"
Lo
sanno, lo sanno, lo sanno—
Elsa
dà un altro strattone al proprio cappuccio, abbassato fino
agli occhi,
le dita che afferrano le pieghe del mantello viola scuro, il
gelo che
arriccia le cuciture. Mantiene lo sguardo fisso sui
piedi—ballerine nere,
semplici, le più semplici che è riuscita a
trovare. Una davanti all'altra. Una
davanti all'altra. Passo, Passo. Non calpestare le crepe,
pensa in
maniera piuttosto isterica. Il mondo è sveglio e rumoroso
attorno a lei, uomini
che chiamano donne, donne che chiamano uomini, bambini che spuntano e
la
superano diretti a casa. Ci sono luci alle finestre—riesce a
vedere la luce
riflessa al suolo, ma ha troppa paura di alzare lo sguardo,
troppa paura
che qualcuno la riconosca—
Lascia
che i piedi vadano di proprio accordo, e poi spia, da sotto il
cappuccio, il legno pesante, logoro, del porto, e si accorge che
cammina
mantenendosi parallela a esso, lungo il muro di pietra che recinta la
città. Si
ferma. Fa dietrofront. Inizia a tornare sui suoi passi.
Il
castello. Quanto era lontano il castello? Bastava solo tornare,
attraversare i cancelli di gran carriera e fin su in camera
sua e—
Un
giovanotto la incrocia fischiettando, il piede che calpesta l'orlo del
suo mantello. E' costretta a bloccarsi e perde l'equilibrio; lui non si
ferma e
nemmeno lei, rotolando all'indietro oltre il bordo del muro e piombando
giù sul
molo sottostante—
Atterra
in un mucchio di neve con un thud sordo. Il cuore
le
martella in petto, il cappuccio è abbassato sulle spalle.
Sente, "Stai
bene?" Passi. E poi, incerto, incredulo, "Regina Elsa?"
Chiude
gli occhi. Ma certo. Inspira, a lungo e
profondamente,
attraverso il naso. Espira con pari furia. Quando apre gli occhi il
Principe
Albert è lì in piedi, appena fuori il perimetro
della neve, e indossa un
mantello scuro, quasi nero; il cappuccio è abbassato. Il suo
abbigliamento è
molto più presentabile di quanto era stato prima, nota
vagamente, quindi può
evitare di perdere la testa. Tunica e pantaloni. Tutto in ordine.
"Sì,
salve," risponde, come se per lei fosse perfettamente
normale essere caduta in un metro di neve alle otto di sera, quando si
supponeva fosse impegnata nella lettura di rapporti sugli affari e in
riunione
coi suoi consiglieri.
"Ciao—salve.
Come st—voglio dire—ecco, mi permetta—"
si abbassa,
tendendo una mano, i capelli che gli cadono sulla fronte in riccioli
ribelli.
Ignora l'aiuto, e ruotando il polso sente la neve spingerla su, fuori
dal suo
abbraccio. Ci stava quasi comoda. Il Principe Albert si fa indietro, e
lo
guarda rendersi conto lentamente di quello di cui lei si sta
rendendo
conto, cioè—
"Pensavo
di averle ordinato di rimanere sulla sua nave," dice,
gelida.
Sbatte
le ciglia guardandola con quegli occhi e sembra
star
prendendo una qualche decisione. Raddrizza le spalle. Afferma, "E io
pensavo che lei fosse la regina."
Sente
le labbra stringersi in una linea sottile. Nella sua voce non
c'è
tanta diretta irriverenza, quanto piuttosto una durezza nuova da parte
sua. E'
confusa. "Chiedo scusa?" domanda, lasciando che la brina si insinui
su per le gambe e si fermi attorno alla gola.
Lui
spietato scrolla le spalle, abbassando lo sguardo sul naso storto,
esaminandosi
le punte degli stivali. "Mi ha sentito. Pensavo fosse la regina. Questo
non è esattamente comportamento da regine."
Stringe
le mani nascoste dalle le pieghe del mantello, sentendo il ghiaccio
strisciare sulle nocche e più su.
"Forse
dovrei informare le guardie? Sono sicuro che al popolo farebbe
piacere sapere che la loro regina se la svigna—"
Gli
dà un pugno.
E
poi guarda scioccata il proprio pugno, coperto di piccoli spilli di
ghiaccio che si ritirano nella sua pelle pallida, e il viso del
Principe
Albert. Questi si volta di nuovo verso di lei, massaggiandosi
il mento.
Sono rimasti dei piccoli lividi, per colpa del ghiaccio, ma quella non
è la
cosa più sconcertante—
Sta
sorridendo.
"Ma
per che cosa sorride?" E sibila, sibila proprio,
perché prima arriva e poi perde la lettera e poi
sgattaiola via dalla nave
e sul serio, era tutto davvero troppo, davvero—
"E'
che è la prima volta che la vedo realmente
qualcosa,"
ride. "Sa, davvero realmente—arrabbiata—"
Il sorriso
accende quegli occhi, facendoli brillare come
frammenti di giada.
"Ha un bel gancio!"
Lo
guarda truce, incredula. Sopra di loro la città è
sveglia. Alla loro
destra, il porto è addormentato. Riesce a sentire le urla
soffocate di una
partita a carte che è degenerata, provenienti dalla nave
dietro di lei, sepolte
sotto il ponte, in profondità.
Ma
l'aveva appena—
L'aveva
appena fatta scattare di proposito?
"Sta
cercando di distrarmi dal fatto che ha intenzionalmente ignorato
la mia richiesta?"
"No!
No, io solamente—io—senta, non si sente meglio?"
chiede alla
fine.
Si
raddrizza, le labbra ancora strette, e si accorge con un sussulto che
qualche parte contorta e annodata nei recessi del suo petto si
è un po'
allentata.
Ma
solo un po'.
Chiede,
glaciale, "Cosa ci fa lontano dalla sua nave?"
"Me
ne fuggo alle taverne." Alza le mani, indietreggiando di un
passo mentre lei alza di nuovo il pugno. "Sul serio! Io—Io so
benissimo
quello che ha detto, ma si sta orribilmente stretti su
quella—beh, sulla nave,
lì, ed è che io—io—" Lei lo
sta guardando male, ancora, e quando se ne
accorge lascia cadere il discorso, e sbatte le ciglia, come se le
parole
l'avessero abbandonato. "Mi dispiace."
Elsa
sente la propria rabbia svanire, come era successo quella mattina.
Intensa e tagliente e ardente, e andata. Erano anche nelle stesse
posizioni.
Ripete le parole che aveva detto prima, quel giorno. "E' solo che non
credo di potermi fidare di lei." Non è proprio sicura del
perché
l'abbia detto. Qualcuno passa di corsa sopra di loro, e si tira in
fretta il
cappuccio sulla treccia biondo platino.
"Non
le chiedo di fidarsi di me," il Principe Albert risponde.
"Solo che, adesso, le sto—sto chiedendo solo di uscire con
me."
Appena si rende conto delle proprie parole stringe gli occhi ed
esclama, troppo
in fretta, e le parole che si confondono l'una con l'altra,
"Nonperunappuntamento."
Lo
guarda sbattendo le palpebre. Vuole dire, Non lo farei mai,
ma
tiene la bocca chiusa. Lui si affretta a continuare.
"Senta,
so che sta provando quello di cui le ho parlato, solo—beh,
non
essere una reale per un po', no? Ed ecco quello—venga alla
taverna, e vedrà il
suo popolo, non è—non è quello che
voleva?" Si ferma per respirare.
"Forse?"
Non
può solo—
Per
una notte, solo—
Lasciarsi
andare?
Non
l'aveva fatto, una volta?
Scatta,
"Va bene."
"Voglio
dire, non accadrà niente a nessuno, non deve per
forza—huh?"
"Ho
detto va bene."
"Lei
è… d'accordo con—me?"
"Sarà
la prima," afferma, gelida, avvicinandosi tanto a lui da
riuscire a contare le lentiggini che gli punteggiano il naso, "e unica
volta, Principe Albert." Si alza un vento freddo, fischiando.
"Solo
Albert," dice, con un mezzo sorriso nervoso, e guardando di
lato. "Solo—solo Albert. Per ora, intendo, non
per—non sempre."
"Perché,"
Elsa fa piano, fissando lo sguardo su un punto
imprecisato oltre la sua spalla, "perché per il resto della
notte non
saremo… dei reali."
"Esatto!
Voglio dire. Sì. Certo."
Elsa
lo guarda. Poi, con cautela, tende la mano. "Solo Elsa,
allora."
"Beh,
solo Elsa," Albert sorride, prendendola. "Cosa stiamo
aspettando?"
Niels
legge da un libro, ma Hans non conosce quella lingua. E' rozza,
brutale e cruda, come se denti e artigli si stessero facendo strada su
per la
gola del fratello, squarciandola. Il corvo è appollaiato
placidamente sulla sua
spalla.
Il
gesso inizia a scintillare di luce gialla e stucchevole, qualcosa si fa
strada lungo i segni a terra come un verme luminoso. Quando raggiunge
il
cerchio più interno dove lui è in piedi, prova un
dolore acuto, come una
pugnalata, nel tallone. Cerca di sollevare un piede e scopre che non ci
riesce.
Nonostante anni passati ad esercitare la finta calma, il suo contegno
perfetto
si spacca un po' ai margini.
"Fratello?"
Hans chiede, e la voce gli trema. Non riesce a
voltarsi per guardare il re che sta seduto a sorseggiare tè.
Può solo sentirlo
alle proprie spalle. Fuori il cielo è nero.
"Pazienza."
Il
fuoco si spegne.
Si
infila un'unghia tra i due incisivi, tentando di togliere un pezzettino
di carne che vi era rimasto incastrato, e poi all'improvviso si ricorda
di dove
si trova, e si rende conto del fatto che anche se si tratta di
Anna che
gli è seduta accanto, è Anna
che gli è seduta accanto. Riesce praticamente
a sentire Sven che gli strilla di ricordarsi delle buone maniere. Si
pulisce in
fretta l'unghia offensiva sui pantaloni, lanciando un'occhiata di lato,
ma non
se ne era nemmeno accorta—
Era
troppo impegnata a fissare il cielo.
La
osserva per un momento. Non riesce a farne a meno. La curva delicata
del
naso. Le labbra sottili. Si guarda di nuovo l'unghia e fa una smorfia.
Prima
che possa crogiolarsi nell'autocommiserazione, comunque, Anna balza in
piedi,
quasi lanciando via il cesto vuoto, la tovaglia, le briciole,
spazzolandosi la
gonna pensante—e non si pensi che non si fosse accorto che
tremava, perché se
ne era accorto—e si volta verso di lui. Tende la mano,
impaziente. Esclama,
ancora di più, "Okay, okay, basta cibo,
andiamo, in piedi, in
piedi, in piedi!"
Kristoff
la guarda sbattendo le palpebre, confuso.
"Kristopher!"
lo ammonisce dopo un momento, due, in cui lui aveva
continuato a fissarla, perché, sul serio, come
faceva ad avere tanta energia,
era possibile che una persona potesse avere tutta quell' energia—"Il
cielo sta per svegliarsi," spiega con un sussurro basso, eccitato,
"quindi dobbiamo andare nel mio posto segreto, come, ieri—e dai!"
"Ok!
Ok, furia scatenata, cavolo," e il soprannome gli viene su
così facilmente. La asseconda, prendendo la mano tesa, ma
anche tirando
all'indietro con tutte le forze e piantando i piedi sul pavimento di
pietra del
balcone non riesce a fare abbastanza leva da sollevarlo. L'unica cosa
che fa è
perdere l'equilibrio. Lui ride, perché è
ridicola, e poi si alza. La raddrizza
senza sforzo. Pesa più o meno quanto un sacco di carote.
(E
mangia come una renna, come può avere senso—)
Lei
carezza la manica della sua tunica blu e sorride. "Grazie."
E' molto, molto vicina. Si lecca le labbra. Lei tossisce. "Pronto?"
"Che?
Oh, uh, già. Certo. Come sempre." Kristoff fa un passo
indietro, cercando di capire dove esattamente possa essere questo posto
segreto, facendosi domande sulla sanità mentale di Anna.
Ma,
in effetti, lo faceva sempre. Quindi.
"'Kay,"
fa lei, dandogli la schiena e camminando determinata
verso la ringhiera. "Quindi, tipo, non scoraggiarti, ma non ti
mentirò, è
un'arrampicata abbastanza difficile. Niente di troppo difficile, niente
che non
ritengo tu non possa fare—o possa fare? Niente che
io—lascia stare. Anzi,"
si ferma, e lui la fissa, perché aveva appena scavalcato la
ringhiera con una
gamba e se ne stava seduta lì comodamente come
è—normale, come può essere—"devo
essere io a seguirti? Così se cadi ti posso
prendere—"
"Non
credo proprio," fa in fretta, scuotendo la testa. "Che
ne dici se tu ti arrampichi, e io ti seguo?" Non dice: in
modo
che come le altre volte possa acchiapparti quando
inevitabilmente cadrai,
ma, ehi, l'idea c'è.
Anna
lo fissa. Poi scrolla le spalle. "Come vuoi. Non lamentarti
però
quando muori."
Alza
gli occhi con affetto e inizia ad arrampicarsi dietro di lei.
La
taverna è affollata. Appena messo un piede dentro vuole
andarsene. Il
posto sa di persone, troppe persone—sudore e alcool e l'odore
di qualsiasi
fosse il cibo che arrivava a zaffate dalle cucine sul retro. Un muro di
chiasso. Spunta del ghiaccio dai suoi piedi.
"Reg—Elsa,"
Albert le sussurra all'orecchio, attraverso la stoffa
pesante del mantello. "E' tutto ok. Solo persone."
"Devo
ricordarti," risponde a denti stretti, "che solo
persone volevano uccidermi?"
Questo
lo zittisce. Elsa riesce, comunque, dopo parecchi respiri profondi,
a sciogliere l'alone rivelatore attorno ai suoi piedi.
Dopo
una pausa imbarazzante Albert soffoca un colpo di tosse col pugno e
dice, "Di qua."
Lei
lo segue nella stanza, osando alzare pochissimo la testa, gli occhi che
luccicano nell'ombra.
E'
una sala ampia, illuminata dalla luce calda del fuoco che divampa nel
caminetto, e di molte candele, i cui steli di cera si afflosciano e
gocciolano
a cascata sul pavimento. C'erano tavoli, e sgabellini, e un grande
bancone su
uno dei muri, con grossi barili di birra e alcool situati dietro di
esso. Le
persone chiacchieravano riunite a gruppi di due, di tre, di
quattro—tutte
assieme, e ad alta voce, e ovunque. Quando scivolano accanto a un uomo
che
ha—sbatte le palpebre scioccata—un uncino
al posto di una mano lo
sente esclamare, "Non avrei mai pensato che mi sarebbe mancato
l'Anatroccolo Coccoloso, ma—"
"Eccoci
qua," Albert esclama, muovendosi verso un angolo angusto.
C'è un alto tavolo a tre gambe, e due rozzi sgabelli simili.
Siede grata in
quello più lontano, sentendo la pressione rassicurante delle
pareti contro la
sua schiena. A suo vantaggio, riesce a vedere l'intera taverna.
Affonda
ancora di più nel proprio mantello.
"Torno
su—subito, aspetta un momento—" ed è
andato, scivolando di
nuovo oltre l'uomo con la mano a uncino e un altro con un naso grosso e
sporgente. Osserva il movimento del suo cappuccio scuro, fino al
bancone. Poi
si guarda attorno.
Sorridevano.
Le persone. Significava—significava che erano felici?
Per un momento considera l'idea di abbassarsi il cappuccio, ma sa quale
sarebbe
stato il risultato—inchini. Rantoli scioccati. Attenzione non
richiesta.
Lasciati
andare, forza, ti prego, solo una notte,
lasciati andare—
Albert—con
quanta facilità il principe era scivolato via da lui, era
quasi
gelosa—è di ritorno, reggendo due boccali i cui
simili non aveva mai visto
prima. Erano d'argento, o una specie di metallo annerito che era
simile, e
sbeccati. Della schiuma bianco-giallastra ne traboccava, colando dai
lati.
Chiede, esitando, mentre li posa sul tavolo e si issa sullo sgabello
accanto a
lei, "Ma sono—puliti?"
Lui
considera il proprio con sospetto. "Sinceramente? Probabilmente
no. Ma nemmeno la birra lo è." Beve una grande sorsata, la
faccia che si
contorce in maniera comica. Elsa si morde il labbro per non sorridere.
Lui
schiocca le sue, e riesce a dire, "Gran bella roba, questa."
Afferra
il proprio boccale, e, prima di poter riconsiderare le proprie
scelte di vita, beve un sorsetto esitante. Impallidisce immediatamente,
e poi,
quasi con la stessa rapidità, si chiede cosa Anna avrebbe
detto se l'avesse
vista in quel momento—niente, probabilmente. Sua sorella
avrebbe riso. Il
liquido sembra aceto che le scorre giù per la gola, e
tossisce. "Immagino
che—non abbiano—vino?"
"In
una taverna?" Albert ridacchia grugnendo.
Elsa
tira su col naso, rigida. Sul tavolino cala un silenzio evidente anche
con tutto il rumore che avevano attorno. Alla fine chiede, "E
adesso?"
"Beh,
suppongo—Io—Io in realtà non ne ho idea."
Lo
guarda in tralice, cauta. Dopo un attimo, durante il quale i suoi occhi
tornano alla scena festosa davanti a lei, chiede, "Secondo la
tua…opinione
professionale, queste persone sembrano felici?"
"Cosa
c'è da non essere felici? Arendelle è un regno
prospero. Hanno
degli amici, e la birra. Birra orribile, ma quello a cui si
spingerebbero gli
uomini pur di—una volta, mi ricordo, Felix si è
intrufolato nelle cucine per
rubare la nostra—e poi—" Albert si chiude a riccio.
Chiude la bocca con un
clack. Beve un sorso dal boccale, a labbra strette.
"Cosa
gli è accaduto?" Elsa passa il dito sull'orlo del proprio,
tracciando pigramente il perimetro, ancora, e ancora. "Felix."
"Cosa—ti
fa pensare che gli sia successo qualcosa?" Albert
chiede.
"Hai
accennato al fatto che se ne è andato. Quando hai cenato con
noi."
Albert
si strattona una ciocca di capelli.
"Quando
aveva vent'anni, si è imbarcato. E non è tornato
più."
"Oh."
Le sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco.
"La
maggior parte di noi concorda sul fatto che siano stati i
pirati," sorride con aria di biasimo, finendo la birra. Guarda le sue
spalle—non sono più ricurve. Sta con sicurezza
appoggiato al muro, dondolando
lo sgabello su due delle tre gambe, sorvegliando la stanza coi suoi
occhi
luminosi, mica-giada-zaffiro. "Ha preso una nave che attraversava il
mar
dei Caraibi, quello stupido bastardo. Non so cosa si aspettasse."
Elsa
fa, "Mi dispiace," perché è la cosa giusta da
dire, anche se
non le dispiace. Anche se è orribilmente, segretamente
contenta del fatto che
ci fosse un fratello in meno di cui preoccuparsi. E poi—
"Non
farlo." Albert ride. "Felix lo odiava."
"Cosa?"
"Essere
reali. Non lo sopportava. Odiava il castello, e le persone. Ti
ho detto che ha fondato lui la tradizione—mescolarsi,
la chiamava."
Elsa
osserva l'uomo con la mano a uncino chiedere un altro giro di birre.
Dice, "I miei genitori sono morti su una nave."
"Non
sembrano molto sicure, eh?" Albert medita. "Portano
cattivo tempo e le notizie peggiori."
"Portano
i principi indesiderati," fa lei, per togliersi dalla
bocca il sapore di genitori.
"Mi
ferisci," dice, ma con un gran sorriso. E' a suo agio, e i
suoi movimenti sono sciolti. Non si tocca più l'avambraccio,
in cerca degli
appunti segreti che tiene lì. Ha lasciato completamente
cadere la facciata
della regalità. Però, pensa mesta, può
anche darsi che stia solamente iniziando
a sentire gli effetti più piacevoli della birra—
"Voi,
signore!" Albert urla all'improvviso. "Volete sapere
chi beve?"
Elsa
affonda di più nel mantello mentre molti sguardi si
rivolgono dalla
loro parte.
"Già"
l'uomo con la mano a uncino risponde, gli occhi stretti a
fessura. "E tu che vuoi?"
"Voglio
entrare nel giro," Albert ghigna, impudente. "Offro
io."
Hans
si sta sciogliendo, da dentro a fuori.
Il
respiro gli graffia la gola scorticata, carboni ardenti che entrano ed
escono dai polmoni. Non riesce a riprendere fiato, con questo respiro,
sembra
che non riesca a trattenere abbastanza ossigeno—gliene serve
di più, per
alimentare il dolore nel suo ventre, il calore nel petto—le
ossa si incrinano,
si spezzano e scoppiano, e la pelle è rovente, marrone.
C'è un odore orribile,
tremendo. Carne che brucia.
Hans
urla.
"Il
tuo cognome è che?"
"Bjorgman."
"Bjorgman.
Sei sicuro?"
"Abbastanza."
"Tipo,
cento per cento?"
"Uh,
sì."
"Huh."
Anna considera la cosa, allungando le mani davanti a sé,
sentendo le tegole ruvide del tetto che le graffiano le gambe. Kristoff
è
appoggiato a uno dei comignoli che si ergono dal castello stesso; sono
seduti
nel suo posto segreto, un cornicione largo a sufficienza per
appollaiarvisi
sopra, più in alto del resto del mondo, vicina al cielo e ai
suoi bellissimi
colori ondeggianti—bluverdeviola—poi ancora verde.
Una spinta di troppo
all'indietro, e potrebbe cadere. "Anna Bjorgman. Che ne pensi?"
"E'—"
la voce si incrina. Scuote la testa, strofinandosi la nuca
"E' a posto, suppongo."
"Già.
Sarebbe molto meglio se avessi un cognome forte—tipo Odinson.
Kristoff Odinson, che dici?"
"No."
"Io
credo che sia migliore."
"No."
"Bene,
ok, come vuoi. Come dici tu." Spia le stelle sopra di sé.
Ora o mai più, pensa cupa. "Ehi, Kristoff?"
"Già—puoi
stare attenta con questo cornicione, lì dietro, finirai per
cadere—"
"Non
lo farò. Kristoff."
"Sì?"
"Che
è successo ai tuoi genitori?" Fa a bassa voce. "Quelli
veri. Non che i troll non siano genitori veri, ma a meno che tu non mi
stia
nascondendo qualcosa, non credo che—voglio dire—non
credo che tu sia un
troll," conclude, debolmente, alzando in fretta lo sguardo sull'uomo di
fronte a lei, e riabbassandolo poi sulle proprie mani.
Riesce
a sentire Arendelle, fluttuante, e piena di vita. Sopra di lei il
cielo sta cantando.
Oh,
te la sei giocata. Te la sei giocata, giocata,
giocata, come hai potuto—e poi chiedere
una cosa del genere, voglio dire—oh
mio Di—
"Non
mi piace parlarne."
"Kristoff,
mi dispiace, mi dispiace ta—solo io, che sono troppo
curiosa, voglio dire, sappiamo tutti che sono un po' troppo curiosa e
ho
pensato, ehi, perché non chiedergli dei
genitori—voglio dire, non i genitori,
non voglio riaprire vecchie—"
"No,
va—non fa niente, sul serio—"
"Voglio
dire, a chi va di parlare coi tuoi genitori, no? Devo
smettere di dirlo—"
"Anna!"
Alza
lo sguardo.
"Mi
va che tu lo sappia."
"Oh.
Oh. Davvero?"
"Beh,
voglio dire." Fa un respiro profondo. "Solo perché non
ti piace parlare di qualcosa non significa che devi ignorarla," riesce
a
dire espirando.
Anna
pensa a un tratto al ghiaccio di Elsa e ad anni di porte chiuse.
Scheggia il legno sotto di sé con l'unghia. "Già."
Kristoff
si gratta il naso. Pensa che voglia fare il nonchalant, ma tiene
le labbra troppo premute. "Mio padre—uscì a cavare
ghiaccio—era uscito il
giorno prima, e questa tempesta enorme scendeva dalle montagne. Nuvole
grosse,
nere. Per un—lunghe un chilometro. Così
mia mamma disse," si ferma,
gli occhi che diventano strani e annebbiati, fissi su un punto oltre la
sua
spalla. Continua, piano, come se stesse parlando tra
sé e sé, "Resta
qui."
Anna
si lecca le labbra.
"Fu
l'ultima cosa che mi disse. Resta qui. Poi
andò nel
granaio, mise le bardature alla nostra ultima renna, e. Ecco che se ne
andò." Si sfrega la nuca a disagio. "Rimase via per un po'.
Abbastanza a lungo che la neve iniziò a sciogliersi e venire
giù in valanghe,
col vento che peggiorava le cose. Poi la vidi, avvicinarsi dai margini
della
foresta, in groppa alla renna. Mio padre la seguiva."
C'è
una pausa di trenta secondi interi, nella quale Anna pensa che non
avrebbe chiesto mai più niente, e che diritto aveva persino
di chiedere una
cosa del genere, e che stava facendo, a chiedere una cosa del genere,
tipo, chi
era stato, chi l'aveva fatto—dov'erano le sue
facoltà di vita sociale—
"Non
fecero in tempo a scampare alla tempesta," sospira alla
fine, scuotendo la testa. "Vicini. Ma non vicini abbastanza." Tira
forte su col naso, sfregando il palmo della mano sul legno accanto a
sé.
"Provai ad aprire la porta, ma non ci riuscii. Il cumulo di neve era
troppo alto." Pausa. Respiro. Battito di ciglia. "Sven era nel
granaio. Anche lui perse i genitori."
Anna
non dice niente, allora, perché se apre la bocca
rovinerà tutto. Perché
se apre la bocca potrebbe dire, eppure sei tornato a fare il
cavatore di
ghiaccio o chiedere trovasti i corpi
oppure i troll sono stati
genitori migliori o peggiori e nessuna di queste era una
domanda fattibile,
quindi, no. Invece arranca avanti, mano davanti a piede sul piccolo
cornicione,
e gli si siede senza garbo in grembo, così da fargli sputare
i propri capelli
che gli erano finiti in bocca. Le sue braccia la circondano
automaticamente e
lei sorride, quasi compiaciuta, se non fosse per il fantasma lugubre
della
storia che ancora aleggia su di loro.
E'
caldo.
"Che
stai—"
"Shh,"
gli copre la bocca con la mano. "Il cielo si è
svegliato."
Ed
entrambi guardano in su.
Albert
sta tentando di battere a braccio di ferro un tizio chiamato
Vladimir che ha tutta l'aria di uno che potrebbe schiacciare il cranio
di una
persona tra le cosce, non che lei badi a quel genere di cose.
Accanto a
lui, il criminale con l'uncino—dal nome: Mano a
Uncino—e quello col naso
grosso—dal nome:Nasone—fanno il tifo per il loro
amico. Albert non è suo amico,
pensa con determinazione, osservando il principe che si morde il
labbro,
frustrato, il viso che diventa di una brillante sfumatura di rosso
cremisi,
quindi—
"Vai,
Albert!" strilla, sollevando il boccale—due? O tre?
Decisamente il terzo, quello—con mano alquanto tremante e
indirizzandogli un
sorriso da sotto il mantello. Lui sussulta, sorpreso dalla sua
uscita, e
Vladimir coglie quell'opportunità per sbattere, con forza,
la mano del principe
sul tavolo, tanto violentemente che Elsa giura di sentire le ossa che
si
rompono. Intanto infatti, tutti i boccali finiscono sul pavimento.
"Forse
la prossima volta, ragazzino," Mano a Uncino esclama con
una pacca sulla schiena. "'Ohi, amico, un altro giro, su!"
Albert,
massaggiandosi la mano con una smorfia, scivola tra la folla
crescente dirigendosi nel punto in cui lei è appollaiata,
come un uccellino,
sullo sgabello. Il mondo le galleggia attorno ronzando piacevolmente,
un comune
mormorio in un mucchio di strilli e volti felici. Le piace questo
posto. Lo
ama. E' un bel posto. Bello quasi quanto la Montagna del Nord.
"Il
mio piano ha funzionato," gli dice appena si avvicina.
"Huh?"
"Il
mio piano per farti perdere."
"E
credevo anche di avere alte probabilità di vittoria," Albert
tira su col naso, sedendosi di nuovo sul suo sgabello, e agitando la
mano per
salutare Ulf e Tor, altra gente in visita da rive lontane. E' una
persona totalmente
diversa, pensa, e questa volta è gelosa.
Totalmente diversa. Non è un
principe, e sorride, e piace a tutti. Così facile. Lascia
stare la regalità.
Huh.
Sono
gelosa,
pensa lentamente tra sé e sé, e poi fa un mezzo
sorriso, deliziata. Allunga la mano sul boccale davanti a lei, e butta
giù il
resto. Le brucia piacevolmente giù per la gola. Albert
sbatte le ciglia.
"Uh, quanti—quanti fanno con questo, allora?"
Scrolla
le spalle, ma le sembra che non siano più attaccate al corpo.
"Forse,"
risponde, concentrandosi sulle parole, "forse
diciamo. Due."
"Bugiarda."
"Forse
diciamo quattro."
"Facciamo
cinque —hai accettato quell'ultimo giro che Mano a Uncino ha
offerto—"
"Al
barista piaci," dice lei, indicandolo col mento, un uomo con
l'aria esperta, dal sorriso facile e gli occhi ammaliatori.
"Chi,
Bragi? E' perché gli parlo—woah, basta, per te,"
Albert
conclude, mettendo il proprio boccale fuori dalla sua portata.
Elsa
quasi ridacchia. Ma non lo fa.
"Gli
piace Arendelle?"
"Certo,
suppongo. Perché non ci par—"
"No."
"Sai,"
Albert sottolinea, passandosi una mano tra i ricci. I suoi
occhi sono proprio belli, pensa. Hanno qualcosa che la calma. "Sai,
parlare con la gente—"
"No."
Sospira,
come se avesse saputo quale sarebbe stata la risposta, e lei lo
guarda con la vista offuscata aprire la bocca per aggiungere qualcosa,
ma viene
interrotto da un ruggito generale. Le sedie vengono spinte via,
grattando sul
pavimento, e altri ceppi vengono lanciati nel fuoco. Bragi,
il barista,
sta urlando, e ci mette un minuto a distinguere le parole con il rumore
della
folla , "—suonerà la musica, tutti qui, tutti in
cerchio!"
Sente
gli accordi degli strumenti—un violino. Due. Una viola. Un
flauto.
C'è qualcosa di libero e sfrenato in quel suono, vibrante e
pulito e
bellissimo, qualcosa che non ha mai sentito prima, non tra le pareti di
una
sala da ballo. Sbatte le palpebre.
"Elsa?"
"Hm?"
Torna a guardare Albert, sobbalzando.
"Ho
detto, ti va di ballare?"
"Io—"
Oh,
no.
"Io—"
No.
No, no—
"Io
credo di star per vomitare" deglutisce, e poi, mettendosi di
corsa una mano davanti alla bocca, scappa via dalla taverna come un
fulmine.
"E
poi mi sono rotta il braccio."
"Ma—ma
sei seria?"
"Come
la peste."
"Questa
è la cosa più—ma sei sicura
di essere una
principessa?" Ride, e lei sente la vibrazione, che si propaga fin nel
proprio petto. Gli tira una gomitata.
"Kristopher."
La
sua risata svanisce. Le braccia di lui la avvolgono; è
accoccolata nello
spazio tra le sue gambe, e si sente—al sicuro, mentre osserva
le stelle che
brillano sopra di loro. E poi silenzio.
"Ehi,
che c'è? Che non va?" Cerca di voltarsi, ma lui tiene i
gomiti stretti e la mantiene ferma. Se si contorce troppo potrebbero
cadere
tutti e due. "Ti dà—voglio dire, non so
perché dovrebbe, perché sarebbe
stupido, ma—ti dà fastidio che lo sia?"
"Cosa,
goffa?"
Gomito,
fianco, grugnito. "Una principessa, testa di igloo."
Sospira,
e il suo respiro le sfiora le orecchie. "No. Perché dovrebbe
darmi fastidio?"
"Bugiardo."
Non
lo nega.
"Sai,"
continua lei, tirando un filo della tunica, "visto
che sei il Venditore di Ghiaccio Reale, in sostanza anche tu sei un
reale."
Lui
ride. "Non esiste."
"Invece
sì, ne avevamo già parlato." E poi, di punto in
bianco,
rabbrividisce. Uno di quei brividi violenti, imbarazzanti, e
praticamente
sembra quasi che le stia per venire un infarto o
simili—"Woah.
Strano."
"Ehi,"
chiede lui, la voce che diventa più dolce, "hai
freddo?"
"Beh, sarò
onesta, e non prenderla nel modo sbagliato, ma sei un
caminetto. Quindi, no. Sto bene, cavoli," svia il
discorso con una
risata, cercando di staccarsi. "Solo qualcuno che cammina sulla mia
tomba
o cose del genere—"
"Che?"
"Che?
che, che vuoi, vuoi farmi capire che non hai mai sentito—"
"No!"
"E'
un modo di dire, Kristopher, un modo di
dire—ehi,
non spingermi così, vuoi che cada? E' un piano per
prenderti il mio denaro,
non è così!."
"Ovviamente,"
risponde secco. La lascia andare, e lei si
risistema sul cornicione, voltandosi. Lui cerca qualcosa nella sacca.
"No,
mi sono appena ricordato, ho qualcosa per te—"
"Aspetta,
che? Kristoff, io non ho niente per te—"
"Non
richiesto," e arrossisce, e lei si chiede se stia pensando
alla slitta o cose così, ma davvero, era stato un regalo di
Elsa, quindi non
doveva sentirsi in debito per quello, o per la cosa della principessa,
o—o,
beh, niente, così—"Ecco."
Alza
lo sguardo, sorpresa. "Huh?"
Tiene
stretto un cristallo arancione tra indice e pollice. Pulsa come il
battito di un cuore, brilla come un tizzone. Sbatte rapidamente le
palpebre,
unoduetre—
"Kristoff,
è splendido."
E
poi pensa: aspetta, che faccio se è una proposta
di matrimonio, no
aspetta, no, non sono—
"E',
ah, un cristallo di fuoco," spiega, imbarazzato,
strofinandosi la nuca. "Dai troll."
Lascia
andare un respiro che non si era accorta di aver trattenuto.
"Un cristallo di fuoco?".
"Già,"
Kristoff sorride. "E'—fanno queste missioni, ed è
molto difficile, non so come spiegarlo, ma poi ricevono questi
cristalli, ed è
come—ecco, tendi la mano."
Lo
fa. Lui lo lascia cadere tra le sue mani tese, e c'è un
calore
improvviso, confortevole, che le percorre tutta la lunghezza del
braccio. Per
la prima volta da due settimane, le sembra di indossare troppi vestiti.
"Woah."
Il
suo sorriso di allarga. "Carino, eh?"
"Magnifico,
direi!" lo stringe al petto, e poi—"Nessuno ha
mai fatto qualcosa di simile per me," sorride quasi incredula,
osservando
il luccichio ambrato tra le proprie dita. "Voglio dire, non che non
abbia
mai ricevuto cose—voglio dire, ne ho avute troppe, ma erano
sempre tipo—ecco un
nuovo vestito, o, tipo, ecco un nuovo manuale di galateo—e
non so tu, ma non ho
bisogno di libri sulle buone maniere, ne ho da vendere, in tutto e per
tutto—"
si ferma per respirare, guardando attraverso le ciglia il suo sorriso
incerto,
compiaciuto. "Grazie!"
"Anna."
Kristoff allunga un braccio, poi ci ripensa, e
indietreggia, ma non smette di parlare. C'è una specie di
battaglia interna in
corso, pensa, i movimenti nervosi e incontrollati, la mano che
strattona il
colletto. Continua, "Anna, ti am—"
Sente
gli occhi spalancarsi. Il cuore batte più forte, e tutto
quello che
riesce a pensare è no, non ancora, non adesso,
più tempo, più—
"—miro
per il modo in cui riesci a parlare per, tipo, cinque minuti
senza nemmeno respirare, cavoli," conclude con una specie di risata
imbarazzata, guardando di lato. Sbatte le ciglia, sentendo il cristallo
sul
petto, che le riscalda il cuore.
Era—
Silenzio,
lungo e pesante.
Quindi
dice—
"Ehi,
allora tipo, hai dovuto fare qualche missione per ottenerlo, o
cosa?"
Kristoff
sorride compiaciuto, ma Anna crede di distinguere nei suoi occhi
un'espressione delusa, e non sa perché.
E
lo sa.
"Ho
delle conoscenze," fa lui.
Fianco
a fianco, osservano il cielo.
Elsa
si raddrizza, le dita sul legno ruvido della parete della taverna, e
sussulta.
"Voglio
dire, se proprio non volevi ballare con me, potevi anche
dirmelo," sente, e poi quella risata autodenigratoria, e poi, "Scusa.
Non è divertente. Stai—stai bene?"
Fa
un paio di passi a sinistra, allontanandosi da canale, e si appoggia
pesantemente contro il muro alle sue spalle. Una mano è
stretta a pugno tra le
pieghe del mantello, e l'altra posata con cautela sulla bocca. Ha il
cappuccio
abbassato; si sente scoperta, ma la piazza attorno alla taverna
è vuota.
"Sono stata meglio," risponde secca.
Albert
si ferma piano piano, con calma, e si appoggia al muro accanto a
lei. Dall'interno della taverna inizia a sentire le prime note della
canzone
che sta iniziando.
"Odi
ballare a tal punto?"
E
dice, perché aveva appena vomitato in un canale di scolo,
perché non
voleva nemmeno iniziare a pensare a regine e a regalità e
all'etichetta—"Sta
zitto."
"Sei
fredda come il ghiaccio, solo Elsa."
Gli
lancia un'occhiata che potrebbe fermare un piccolo esercito, ma lui non
smette di sorridere—alza solo le mani in segno di pace.
"Fammi
indovinare," risponde secca. "Non è divertente?"
"Come
facevi a saperlo?"
E
ripiombano nel silenzio.
Si
sfrega il gomito, guardando le strade. Il tetto a punta della taverna
le
fa ombra sul viso, e nelle case più lontane le luci iniziano
a spegnersi, una
per una. Si chiede quanto sia tardi. Dovrebbe tornare indietro.
Doveva—
Si
preme la base dei palmi sugli occhi.
"No,"
Albert afferma. "No, niente sensi di colpa fino alla
mattina dopo. Funziona così."
"Non
siamo usciti per ubriacarci," scatta, agitando le
mani avanti a sé, stringendosi tra le braccia. La neve
inizia a cadere, leggera
e lenta. "Siamo usciti per—conoscere meglio il mio popolo—"
"Elsa,"
Albert fa cauto, e quando lo guarda si sta strattonando
una manica, con l'aria di qualcuno che si sta avvicinando a un animale
selvatico, "Lo stai facendo. Lo osservi, ci parli—"
"Non
ci ho parl—"
"Non
è troppo tardi per parlare con le persone," si corregge in
fretta. Poi tossisce a disagio con la mano accanto alla bocca e si
gira,
rivolto verso la strada. "Senti, per come la vedo io, questo
è
stato—voglio dire, non ti—è
solo—"
"Tu
stavi bene là dentro," dice, troppo brusca, e lo sa. La
momentanea perdita di senno non era colpa di Albert, nonostante
le
avesse insinuato lui l'idea nel cervello. Non poteva incolpare altri
che sé
stessa.
"Io—è
diverso," ride, senza sentimento. "Questo è—quelle
sono
persone."
"E
io no?"
"Tu
sei Elsa," risponde, come se dovesse avere senso.
Ride
sbuffando dal naso. E' un suono molto da Anna. La sorprende.
"E
stanotte, era solo—non riguardava solo—voglio dire,
riguardava te
che—lasciarsi andare. Per un po'. Un momento. Un momentino."
Sobbalza
di lato, come colpita. "Come hai detto?"
"Lasciarsi
andare—era questo, penso. Penso che
fosse—già. Sì, voglio
dire."
E
per la prima volta si chiede se lo abbia giudicato male. Elsa si sfrega
le mani e si concentra per un momento, breve, doloroso, e la neve si
ferma.
No.
Non lo aveva fatto.
Emette
un lungo, profondo sospiro, e si appoggia di nuovo al muro.
L'insegna della taverna sta appesa sopra di loro, a
destra—rozzamente ricavata
da un pezzo di relitto, forse, e ridipinta di recente con colori
vivaci, e
freschi. Il Puledro Impennato. Il cavallo su di
essa ha un aspetto
totalmente assurdo.
"Ce
ne sono così tante," Albert dice, di punto in bianco. Ci
mette un momento ad accorgersi che non ha lo sguardo rivolto verso
l'insegna,
ma su, oltre il ciglio del tetto sopra di loro e
verso il cielo pieno di
puntine argentate.
"Amo
la luce delle stelle," dice lei.
"Ho
sempre pensato che fosse una—luce fredda."
"No,"
scuote la testa, tracciando i contorni, le costellazioni,
immaginando di danzare in mezzo alla loro bellezza fredda, blu,
ricordando
quando la guardavano, felici, mentre costruiva il castello sulla
Montagna del
Nord. "No, sono bellissime."
"Felix
diceva sempre che erano la luce dei desideri."
"Hm,"
mormora.
"Lassù
balleresti, allora?"
"Come?"
"Lassù
balleresti?" chiede lui, sorridendo. "Ti ci vedo. Ci
staresti bene."
"Mi
stai chiamando una palla di gas che brucia?"
"No,"
scuote la testa, e prima che Elsa possa rendersi conto di
quello che stia facendo, la mano di lui si avvicina al suo
viso, sospesa
vicino alla guancia, e le sfiora una ciocca di capelli fuori posto. Lei
tira in
dentro un respiro. Si immobilizza.
"Bellissima."
Pausa. "Lontana."
"Sei
ubriaco," sussurra.
Il
suo sorriso è tagliente. "Forse. Probabilmente." La lascia
andare, e presume che stia per allontanarsi in fretta, ma invece si
avvicina in
fretta, così vicino che riesce a distinguere le macchioline
di verde scuro, di
celeste, nei suoi occhi, e alla fine, davvero erano come quegli altri
occhi, in realtà?—
"Che
stai facendo?" domanda all'improvviso.
Con
un rapido strattone le tira il cappuccio del mantello fin sulla fronte
proprio mentre una coppia li supera, a braccetto, la donna che afferma,
ad alta
voce, "Solo un ballo, tesoro—" prima di
entrare.
"Ci
siamo andati vicino," Albert sussurra, il sorriso che scivola
via mentre ruzzola all' indietro.
Lo
stomaco di Elsa fa di nuovo le capriole.
Lasciarsi
andare, eh?
Un'altra
canzone sta iniziando; una giga animata.
Allunga
tentativamente una mano, le dita che spuntano dalla stoffa del
mantello, e pallide alla luce della luna. Si lecca le labbra. Si ferma.
Respira. E—
"Balli
con me?"
Hans
si sveglia a pezzi.
Giace
sul pavimento, il collo bloccato in una posizione scomoda, le gambe
piegate sotto di sé. Sente delle voci, aleggiargli sopra, e
ci mette un po' a
ricordare di chi sono, a ricordare dove si trova—
"—ci
ha messo?"
"—non
posso saperlo finchè non si sveglia—"
"—dalle
urla, immagino che—"
Si
sente le budella simili al ripieno di una delle torte che faceva il
cuoco, sbattuto come un uovo; la testa sta anche peggio. Dietro le
palpebre
sente qualcosa divampare. Il respiro è affannoso,
accelerato, e sembra che non
riesca a fermarlo.
Apre
gli occhi.
Niels
è in ginocchio accanto a lui, che lo considera scaltro, con
l'occhio
clinico. Il corvo è ancora sulla sua spalla. Hans vuole
aprire la bocca ma
sembra che la mascella non voglia funzionare. Suo fratello gli alza un
braccio,
floscio, si avvicina per esaminargli le pupille. Il corvo rimane
lì, artigli
saldamente piantati nella stoffa della sua tunica, e quando si avvicina
riesce
finalmente a capire cosa c'è che non va nei suoi
occhi—
Lattiginosi,
opachi, bianchi.
Morti.
"Come
stai?" Niels chiede.
"D'inferno,"
Hans replica. Ci mette un po' a far funzionare la
voce, e quando ci riesce, quasi non la riconosce.
"Bene."
Niels lo tira su in piedi spietato. Hans barcolla. Il re
è in piedi alla finestra, sorvegliando la notte scura, fuori.
"Cosa
mi hai fatto?" Hans gracchia.
"Ti
ho reso più forte," il re risponde.
Hans
sta per rispondere, ma c'è qualcosa che si muove nelle sue
vene, caldo
e orribile come piombo fuso. Si sente bruciare, bruciare, bruciare—
Con
lenta, deliberata precisione, si guarda la mano destra, e si sfila il
guanto, un dito alla volta. La stoffa bianca cade al suolo senza peso,
tra i
segni di gesso sbiaditi.
—e
il bruciore si insinua su per le punte delle dita, gli divora la mano,
mentre osserva la propria pelle che splende, che si spacca—
Che
si copre di fiamme.
Si
muovono tra le sue dita aperte, scivolano sulle nocche, che danzano e
pulsano ipnotizzanti, nella penombra delle stanze di Niels.
"Hans,"
il re inizia, voltandosi per guardarlo in tralice,
"cos' è che scioglie il ghiaccio?"
Il
ghigno di Hans si scivola lentamente via dal suo viso come carta da
parati ingiallita che si stacca dal muro. "Oh, vostra
maestà," e il
titolo è intenzionale, e la frecciatina, il piccolo lapsus,
e la fiamma non lo
brucia mentre la osserva lambire l'aria, dal proprio palmo—
"Il
fuoco, ovviamente."
Da
qualche parte, una principessa e un venditore di ghiaccio siedono sul
tetto di un castello, osservando il cielo.
Da
qualche parte, una regina danza, libera come le stelle e due volte
più
lontana.
E
da qualche parte, aprendosi un varco tra le acque nere che luccicano,
una
nave attracca nel porto, silenziosa.
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Capitolo
12
Note
della
traduttrice:
Perdonate,
voi che seguite, il ritardo negli aggiornamenti: ma studio
universitario e
lavoro mi lasciano ben poco tempo libero. In ogni modo, sarò
lieta di
rispondere a chi di voi invierà un messaggio, o una
recensione, e ci tengo a
precisare che sebbene con dei rallentamenti, la storia
verrà tradotta per
intero e non abbandonata.
n.a..
Attenzione: alcune scene di moderata violenza da
questo capitolo in poi.
La
tiene per il colletto alto del vestito nero di
velluto, sollevandola vicina al suo viso tanto che lei riesce a contare
le
singole lentiggini, piazzate in modo strategico. Il sorriso di lui
è
incostante, trema come una fiamma; la punta affilata del naso le sfiora
la
guancia mentre la attira più vicino, più vicino,
tanto vicino da sussurrarle
all'orecchio, tua
sorella
è morta. Poi lui tira indietro il pugno, che
picchia sul suo viso, tanto
violentemente da rompere la cartilagine; tanto violentemente da vedere
delle
macchie luminose davanti agli occhi. Porta di nuovo la mano
all'indietro, e
questa volta le nocche strette a pugno dure come il ferro sbattono nel
suo
volto con un toc. Di nuovo all'indietro. Toc. E
ancora.
Fa
male, ma non riesce a muovere le braccia. Le mani
sono fiacche, inerti e inutili contro i fianchi. Sembra che tutto
quello a cui
riesca a pensare, mentre alza lo sguardo sul suo viso, è che
i suoi occhi non
sono —non—
Regina
Elsa, la bocca si muove, ma il timbro di voce non
corrisponde,
tutto preoccupazione esitante. Il pugno si spinge in avanti. Toc.
Regina
Elsa? Ancora. Toc.
"Vostra
maestà?"
Si
tira su a sedere con un rantolo. Un'ondata di ghiaccio colpisce il
baldacchino blu scuro al di sopra di lei; si sfascia. La stoffa le cade
in
testa svolazzando, e i sostegni di legno si schiantano ai due lati del
letto.
"Vostra
maestà, va tutto bene?"
Le
ci vuole un momento per associare la voce. Il sogno le aleggia attorno
agli occhi e sulla lingua, un saporaccio di cui non riesce a
sbarazzarsi. Si
toglie di dosso la stoffa blu, valutando i danni; la testa le pulsa, ha
gli
occhi carichi di sonno. Tra i detriti accantonati in un angolo
dell'armadio, e
l'ormai stato rovinoso del letto, presto avrebbe dovuto decretare le
proprie
stanze una zona disastrata.
Tira
su le ginocchia al petto, appoggiandosi le dita alle tempie e
chiudendo gli occhi.
"Vostra
maestà!"
"Sì!"
fa di rimando, a volume troppo alto. Sussulta. "Sì, va
bene, sono qui."
"Mi
dispiace avervi svegliata—"
"Non
mi hai svegliata," Elsa risponde, richiamando la maledizione
alle punte delle dita, che lascia ferme sulle tempie. Sopprime uno
sbadiglio.
"Sono sveglia da ore."
"Sì,
beh—Mastro Olin mi ha informato che una nave proveniente
dalle
Isole del Sud ha fatto porto la scorsa notte—"
Questa
volta il ghiaccio, con niente che interrompa il suo corso, colpisce
il muro di fronte.
Sente
il respiro accelerare. Sente il panico formarsi dal fondo dello
stomaco, mescolarsi disgustosamente all'alcool scadente e al cibo della
taverna.
"Sì. Beh, sono sicura che sia solo una nave
mercantile—" comincia.
"—e
due ambasciatori la attendono nella sala del trono."
Chiude
gli occhi e vede le stelle, un'intera galassia, danzare, ruotare,
vivere, e poi li riapre e non c'è nient'altro che la propria
stanza disastrata
con l'armadio rotto e il letto sfasciato. "Scendo subito."
"Sì,
vostra maestà." Pausa. "Regina Elsa,
posso…portarvi—qualcosa?"
Si
lecca le labbra, premendosi i palmi sugli occhi.
"Puoi
portarmi il Principe Albert."
"È
tutto un po' troppo, no?" fa un verso altezzoso col
naso, ripugnato, alzando lo sguardo sui pannelli di legno riccamente
decorati
che profilano il soffitto sopra di lui. "Tutto l'insieme è
così…oppressivo."
Suo
fratello colpisce col piede la base di una delle colonne bianche,
dandogli un colpetto con lo stivale, e nota, passando, un occhio
rivolto alla
guardia ferma alla porta, lontana—
"Tutto
legno."
Anna
si rigira, e cade dal letto.
Cade
prima di fronte, e poi sbatte col petto a terra, e la prossima cosa
che fa è cercare di capire se quel rumore che ha appena
sentito è il polso che
si è fratturato o il pavimento che si è rotto. "Ahiiii,"
geme.
"Beh, ora sono sveglia." Sbatte le ciglia guardando
i bioccoli
di polvere che si nascondono al buio, chiedendosi vagamente se avessero
lo
stesso sapore dello zucchero filato che a volte faceva il
cuoco—ok, forse
non sono del tutto sveglia, ugh, perché ho pensato una cosa
del genere—e fa
una smorfia, schiaffando le mani sui bordi del letto e mezzo tirandosi,
mezzo
trascinandosi in alto per posare il mento tra le coperte.
"Mi
sento morire," si lamenta.
"Beh,
non credo che tu sia morta."
"Arghah—"
strilla, cadendo all'indietro, riuscendo a
malapena a distinguere gli occhietti neri acquosi e la testa annuvolata
e il
naso arancione prima di essere di nuovo a terra. "Olaf!"
"Io!"
Il pupazzo di neve strilla dall'altra parte del letto,
lottando per avvicinarsi coi piccoli piedi rotondi e cercando di
issarsi sul
copriletto, che scivola. Le braccia non sono proprio adatte
all'arrampicata.
Anna emette un oof e non si muove, lasciando
ricadere la testa sul pavimento
duro e fissando il soffitto.
"Ma
che stai facendo, Olaf?"
"Controllo
solo, controllo solo—eccoci qui." Paf, paf, paf.
Ed ecco che la guarda dall'alto, dopo aver scalato con successo il
monte
LettoeLenzuola. "Come stai?"
"Mhhhhbene,"
sbadiglia. "Che ore sono?"
"Tardi,"
Olaf si siede. I piedi arrivano appena al margine del
letto. Le sorride.
"Tardi
quanto?"
"Uh-huh."
"Olaf,
tardi quanto?"
Il
suo sorriso di allarga. "Uh, sì."
E'
il sorriso di un pupazzo di neve che si è mangiato il topo,
e Anna
stringe gli occhi, arriccia le labbra, e chiede, lentamente, "Che
succede?"
"Allora,"
Olaf batte le mani, producendo un suono secco, uno
schiocco, e sbatte le palpebre rotonde, "com'è andata la
serata con
Kristoff?"
"Olaf!"
"Così
bene, huh?" Tira un sospiro smielato. "Ma allora voi
due vi amate davvero."
"A-amate?
No, chi ha detto niente—ok, adesso stai saltando alle
conclusioni." Anna si aggrappa in cerca di un appiglio e si alza,
cercando
di strofinare via dagli occhi appiccicati la sensazione di morte. I
calzini
scivolano un po' sul pavimento liscio.
"Che
cos'è?"
"Huh?"
Olaf
tiene in mano il cristallo arancione sfaccettato, osservando
le
sue profondità, tizzoni tremolanti, con una specie di
incanto infantile.
"E' così caldo," sussurra affascinato.
"Ecco,
Olaf, non credo che ti faccia bene stringerlo in mano,"
Anna esclama, togliendoglielo—le braccia avevano iniziato a
emettere fumo—e
stringendoselo al petto. Ecco di nuovo il calore, che avvolge tutto,
che inizia
dalla punta delle dita e la percorre tutta fino alle piante dei piedi.
Sospira,
soddisfatta.
"Che
cos' è?"
"Un
cristallo di fuoco. Kristoff l'ha preso per me."
"Ma
allora ti ama davvero."
Anna
armeggia a disagio, e poi, con tutta la grazia di una gazzella che ha
solo tre zampe, balza fino al tavolo da belletto, mormorando qualcosa a
proposito di spago o nastro per fare del cristallo una collana. Trova
un
vecchio pezzo di spago spinto nei recessi di un cassetto, probabilmente
un
progetto d'arte abbandonato quando era piccola, e procede ad avvolgerne
un capo
più volte attorno alla base del cristallo. Inizia a misurare
la lunghezza.
"E' tutto quello che volevi, Olaf?" chiede, mordendosi la lingua
dalla concentrazione, allungando la mano in cerca delle forbici.
Continua,
cupa, "Interrogatori?"
"Oh,
no, non essere sciocca. Elsa ha altre visite."
"Huh?"
Scivola, e le forbici quasi le tranciano il pollice.
"Uh-huh.
Due uomini. Nella sala del trono."
Anna
si acciglia, reggendo la collana improvvisata, e scrollando le spalle.
Questo è quello che passa il convento,
pensa, e poi, "Ehi, Olaf, ti
dispiace uscire, subito? Devo vestirmi."
Elsa
osserva lo specchio, e una donna bianca come la neve le restituisce lo
sguardo, occhiaie sbiadite sotto gli occhi stanchi. Raddrizza le
spalle,
ignorando la schiena dolorante, la fatica che le rode i pensieri ai
margini. Ha
la mente piena di luce delle stelle.
"Regina
Elsa?"
"Sì,
arrivo." Si alza dal tavolino da belletto, facendosi strada
tra i detriti sparsi sul pavimento. Si ferma appena prima della porta,
quanto
basta per stringere le mani a pugno ai lati del corpo e calmare i
nervi, quanto
basta per tirarsi su il pizzo ghiacciato del vestito. Poi appoggia la
mano sul
pomello d'oro, lo gira, e si ritrova faccia a faccia con Kai, delineato
dal
sole splendente nel corridoio. Scivola fuori in fretta, e chiude la
porta
dietro di sé.
"Gli
ambasciatori—" comincia.
"Ancora
nella sala del trono. Ho mandato un messaggero a convocare il
Principe delle Isole del Sud, ma non è ancora
arrivato—"
"Non
mi aspettavo che lo facesse. Mandatelo in biblioteca non appena
arriva. E Kai?"
"Sì,
vostra maestà?"
"Fallo
con riservatezza, te ne prego."
"Si,
maestà. Certo."
Annuisce,
la treccia che le sfiora il collo nudo. Aveva messo via quel
vestito dopo quella volta in cui avevano pattinato, e non l'aveva usato
da
allora, ma se doveva accettare questa sfida, l'avrebbe fatto secondo le
proprie
regole—sta per girare l'angolo del corridoio quando sente un
piccolo colpo di
tosse. Volta la testa. "Sì?"
"Se
mi permettete, maestà," e Kai sorride cortese, il mento che
si riempie di rughe. Era stato sempre così cortese con lei,
così come tutto lo
staff—l'immagine perfetta del decoro. Sospettava che fosse
per paura. "Mi
sono preso la libertà di ritirare la corona di vostra nonna
dalla camera blindata;
So che ha—perso la sua in tutta quella confusione".
Non
vuole dirgli che "perso" non è il termine esatto; che lanciata
giù dalla montagna sarebbe stata l'espressione
più appropriata. Perché era
stata forgiata appositamente per lei da
sua madre, tutta punte
affilate e angoli rigidi. Ma si trattava di sua madre, e a Elsa non
interessava
poi un granché.
La
corda è cucita a una custodia di color viola scurissimo. Kai
tira i capi
con attenzione ed estrae una corona che brilla ipnotica ai raggi del
sole che
si rifrangono sulla sua superficie trasparente. Sembra fatta di
cristallo,
tutta composta da fiori e stalattiti di ghiaccio, con una punta a
cappio; ed
Elsa tira improvvisamente in dentro un respiro, perché
è decisamente meravigliosa.
"Era
di mia nonna?" chiede, prendendola con attenzione.
"Fu
detto al mio predecessore che è appartenuta alla prima
regina di
Arendelle. Ovviamente, la moda decretò ben presto che
smettesse di essere
indossata, ma finchè la vostra nuova corona non
sarà pronta credo che possa
assolvere bene il suo compito."
Elsa
afferra il delicato cerchio di cristallo ritorto, e nel preciso
istante in cui le sue dita toccano il vetro, questo inizia a
risplendere di
colori insoliti—blu glaciali, verdi freddi, viola intensi,
forme che vorticano
sotto la superficie in una maniera che le ricorda il suo palazzo di
ghiaccio—poi sbatte le palpebre, e la visione svanisce. Si
poggia la corona sul
capo. "Grazie, Kai," sorride. "Assolverà il suo compito
splendidamente."
"Vivo
per servirvi," Kai si inchina, e ha un aspetto
infinitamente soddisfatto. "Devo informare gli ambasciatori del vostro
arrivo?"
"Sì,
fallo, per favore. Ti ringrazio."
Kai
si affretta lungo il corridoio. Lo guarda andar via, con la borsa di
velluto, ormai vuota, che gli picchia contro il fianco. E’ da
sola, a guardare
fuori dalle finestre. Era una mattinata luminosa e splendida, ma era
già così
tardi; si chiede se la notte precedente sia stata uno sbaglio.
Ma
no.
Si
volta, allacciando le mani avanti a sé, meravigliandosi
della quasi
assenza di peso della corona, e poi sposta lo sguardo di lato,
distogliendolo
dalla città, ed ecco la porta di Anna, serrata. Si ferma
davanti a essa.
Si
morde il labbro, sollevando una mano tremante stretta a pugno.
E
se non apre?
E
poi la porta si spalanca da sola. Elsa sobbalza, stringendo il pugno
chiuso al petto, un getto di brina che parte dal passo indietro che ha
fatto e
colpisce il muro dietro di lei con un thud sordo.
Anna la guarda
sbattendo le palpebre, la mano ancora sul pomello, e poi la sua bocca
si
schiude in un sorriso tutto denti.
"Ciao!"
"Ciao,"
Elsa sorride, mentre ancora cerca di calmare il respiro.
"Mi hai spaventata."
"Mi
hai spaventata tu, di più—ma per caso stavi per bussare?"
Il
sorriso di Elsa si trasforma in una specie di smorfia.
"…forse?"
"No!
No, è fantastico, non credere che— Voglio
che bussi.
Voglio dire, puoi anche entrare e basta, ma bussare va bene. Buon
inizio. Buon
giorno, a proposito," Anna conclude, uscendo nel corridoio e chiudendo
la
porta dietro di sé. Indossa il vestito verde che aveva
all’incoronazione, Elsa
nota, la smorfia che diventa un cipiglio confuso—
Perché
non aveva visto Anna indossare altro che vestiti a maniche lunghe
da—quel periodo, e come faceva lei a
sapere—
"Olaf
mi ha detto che c’erano due tizi nella sala del trono.
Quindi,
tipo, lo sapevo che avrei dovuto fare la guardia del corpo,
perché sono così—grr,
sai." Fa una smorfia e alza i pugni. Elsa smorza la risata nella mano.
"Molto
grr."
"Esatto.
Quindi, chi hai detto che devo grrare?"
Elsa
si lecca le labbra. Non era arrivata ancora a pianificare questa
parte, la fase diglielo. Indica lo spago
sfilacciato che Anna tiene
attorcigliato al collo, e la brillante gemma arancione che vi
è appesa.
"Che cos’è?"
"Questo?
Un cristallo di fuoco, da Kristoff," sorride fiera, ma
poi le si spalancano gli occhi e continua in tono nervoso, frettoloso,
"Non che abbia freddo o niente, solo perché pensavo fosse
carino.
Sai."
"Molto
carino," Elsa concorda.
"Ok,
aspetta, mi hai appena distratta. Non farlo più. Chi devo
picchiare?"
"Non
picchierai proprio nessuno."
"Chi
devo abusare verbalmente?" corregge.
"Anna,
ascoltami. Per favore, non—dare di matto."
"Dare
di matto? E chi ha detto niente sul dare di matto?"
"Devi
essere cortese. Ricorda, sei una—"
"Una
principessa, lo so, cioè, lo so da quando
ero, alta così,
quindi, dimmi." Pausa. "Ma quella corona
è nuova?"
Elsa
inizia a camminare. "Adesso chi distrae chi?"
"Io,
mi distraggo da sola."
Elsa
sorride, stringendo le mani avanti a sé. Fa passi lenti,
perché non ha
alcuna fretta di scendere le scale a spirale, di entrare nella sala del
trono,
di presentarsi al cospetto di quei due—
Due—
"Sono
arrivati due ambasciatori dalle Isole del Sud."
"Che
cosa."
Elsa
sussulta. "Due ambasciatori," ripete. "Due fratelli del
re—"
"Altri
due dei fratelli malvagi di Hans? Intendi come quel
buono a nulla di Albert—"
"Non
è così orribile come—potrebbe essere."
"Beh,
nemmeno tu sembri troppo convinta, quindi," Anna sbuffa,
strascicando il piede al suolo. "Continuano a spuntare dalla neve! Come
margherite!"
"Ho
ricevuto una lettera, poco dopo l’—incidente," Elsa
continua,
sentendo il bisogno di spiegarsi, "in cui c’era scritto che
sarebbero
stati mandati. Speravo che il Principe Albert potesse intercettarli, ma
la sua
nave aveva bisogno di essere riparata, e io ero—pensavo che
la cosa migliore
sarebbe stata aspettare," termina, vaga, lottando contro
l’impulso di
strofinarsi gli occhi.
"Voglio
dire, ma chi è che fa tredici figli? Cioè, quale folle
nel pieno delle sue facoltà mentali decide, oh,
ehi, voglio mettere su una
squadra di cricket—"
"In
realtà," Elsa fa ai propri piedi, e non riesce a credere di
stare per dirlo ad alta voce, per ammetterlo, ma—"In
realtà, speravo che
non sarebbero mai arrivati."
Anna
fa un respiro profondo e chiude la bocca. Smette di camminare. Anche
Elsa, un momento dopo, si ferma. Guarda in tralice il viso lentigginoso
della
sorella.
"Elsa,"
Anna esclama. "Non ti sto incolpando. Sono stufa
delle Isole del Sud, e non ci sono neanche mai stata! Senti," e Anna fa
un
passo verso di lei, e le afferra la mano. "Hai fatto la cosa giusta.
L’hai
fatto. E adesso," Anna prende Elsa a braccetto, e i loro gomiti si
toccano, e poi con la mano libera fa un saluto militare, "presenteremo
un
fronte unito, e diremo a quegli ambasciatori grazie, ma non ci piace
quello che
offrite, quindi andate a fan—"
"Anna!"
Elsa la interrompe con una risata sconvolta, e non riesce
nemmeno lontanamente a dire, Principessa, ricordi?
Invece, guarda grata
sua sorella.
Fronte
unito,
Elsa pensa, un sorriso piccolo e fragile.
Avrebbe
potuto abituarcisi.
Kristoff
apre gli occhi e vede il soffitto opaco, marrone e piatto delle
stalle, e il suo mondo è pervaso dal rumore di una vanga che
gratta sul rozzo
pavimento di pietra. Qualcuno stava pulendo la stalla. Si agita un
po’ nel
mucchio di fieno, sputando fuori un paio di pagliuzze e togliendosi
dagli occhi
pelo di renna. Pelo di renna, ma come ci—
Volta
la testa, e Sven è tanto vicino da fargli respirare una
lunga, bella
zaffata del suo alito mattutino
Schifo—
"Sven,"
inizia paziente, osservando gli occhi della renna
aprirsi, offuscati. "Cosa avevamo detto a proposito dello spazio
personale?”
"Sei
tu quello che è entrato dopo che mi ero addormentato, Mister
stavo – pomiciando – con – una
-principessa.”
"Prima
cosa, non era necessario. Seconda cosa, non stavo pomiciando
con lei. Stavamo solo parlando. E roba.
"Roba
tipo pomiciare”.
"Sven,"
Kristoff geme esasperato, spingendo via il muso
dell’amico, solo per non vedere più il suo ghigno
soddisfatto. Si siede in
fretta, ravviandosi i capelli, e ciuffi di paglia ricadono nel suo
grembo.
Probabilmente
avrebbe dovuto smetterla di dormire nelle stalle.
"Ho
provato a dirle che la amo," comincia, guardandosi le mani,
aprendole e chiudendole tanto per, e di tutte le cose che erano
successe la
scorsa notte, perché pensa proprio a quello, eh?
"E?”
"E
aveva l’aria di una che sta per avere un infarto, quindi non
l’ho
fatto”.
"Ha
solo bisogno di tempo”.
"Ma
quanto tempo?" Kristoff geme, cercando di alzarsi.
Gli
serviva proprio un bagno. "Un giorno o l’altro mi
uscirà, e non potrò
evitarlo.
"La
ami così tanto?"
Pensa
al modo in cui lei sta bene tra le sue braccia; al modo in cui
parlava, parlava e parlava per ore delle sciocchezze; il modo in cui
non si
sentiva infastidito da lei, in cui non sentiva più il
bisogno di vagare tra le
montagne per stare da solo, non più—
"Sì,"
sospira, desiderando che le cose stessero diversamente.
"Si, credo di sì."
Anna
si dice di rimanere calma, si dice stai calma, ma
siamo onesti,
è completamente e totalmente prevenuta contro chiunque porti
il cognome Isole
del Sud, quindi quei due tizi erano spacciati in
partenza—
Entra
nella sala del trono subito dopo la sorella, passando da una porta
laterale. Un ciambellano esclama, "Fa il suo
ingresso, Elsa Regina
di Arendelle. Fa il suo ingresso, Anna Principessa di Arendelle," e la
sua
voce profonda risuona in tutta la stanza vuota. Anna si concentra sulla
scia
dritta e scintillante che segue il vestito di Elsa, osserva sua sorella
salire
sulla predella e sistemarsi sul trono rigido come fosse la cosa
più
confortevole del mondo. Il suo viso è
illeggibile—ma calmo, sereno. Anna
avrebbe quasi potuto credere che lo fosse, se non
fosse stato per i
piccoli vortici di ghiaccio che continuavano a spuntare dalle
punte delle
sue scarpe col tacco di cristallo.
Per
un momento dopo che Elsa si è seduta, si blocca, non essendo
sicura di
dove sistemarsi, ma erano un fronte unito, no? Quindi si regge le gonne
con una
mano e fa un passo, due, e si ferma in piedi accanto al trono rosso e a
sua
sorella su di esso. E poi alla fine, alla fine alza
lo sguardo.
"Fa
il suo ingresso, il Principe Viktor delle Isole del Sud,"
annuncia il ciambellano, e Anna non può fare a meno di
cercare le guardie con
lo sguardo, ed eccole lì, al capo opposto della sala,
accanto alle porte
principali—"Fa il suo ingresso, il Principe Tomas delle Isole
del
Sud."
"Vostra
maestà," due voci identiche fanno all'unisono, nel loro
tono una riverenza evidente, ed è in quel momento che la sua
attenzione si
concentra sulle due figure in piedi al centro della stanza, e non
è
possibile—
Gemelli,
pensa, alquanto disperata. Gemelli, sul serio—
Si
raddrizzano, due facce identiche che restituiscono il loro sguardo da
parecchi metri di distanza, resi all'apparenza più piccoli
dai lampadari
dorati sotto i quali stanno in piedi, due pesci fuor d'acqua, sul
pavimento di
legno decorato. Si costringe a rimanere immobile, anche se
all'improvviso sente
l'impulso di prenderli a pugni tutti e due,
perché hanno i capelli dello
stesso colore di quelli di Hans—quel castano ramato, quel
colore orribile, e
sicuro, è di parte, ma i loro occhi hanno un'aria—strana.
Sorridono
educatamente, guardando oltre i nasi dritti e affilati e gli zigomi
alti e
scolpiti. La loro unica vera differenza, Anna riflette, lottando contro
l'istinto di sputare (cosa che probabilmente non le avrebbe fatto
guadagnare
punti nelle grazie della sorella, e niente—) era che uno era
leggermente più
massiccio dell'altro.
Ma
gemelli, e dai—
"Principe
Viktor, Principe Tomas," Elsa comincia disinvolta,
senza scomporsi, e Anna, forse per la prima volta, ammira la
capacità di sua
sorella di stare calma, perché avrebbe voluto abbandonarsi a
una crisi isterica
in quel preciso istante e fare qualcosa di eroico,
tipo tagliare le
corde che reggevano i lampadari e oops, vi sono caduti in
testa, mi spiace
tanto—"Sono spiacente per l'attesa. Mi stavo
occupando di altre
questioni. Non mi aspettavo che arrivasse così in fretta."
"Siamo
partiti subito dopo esserci occupati del nostro—sfortunato
fratello," Gemello A inizia. "Volevamo presentarvi le nostre scuse
più sincere, di persona."
"Ma
certo," Elsa risponde, glaciale. "E magari assicurarvi
che le relazioni commerciali con le Isole del Sud sussistano ancora?"
"No,"
Gemello B scuote la testa, allacciandosi le mani dietro la
schiena, "no, davvero, Regina Elsa, siamo sul serio qui solo per
scusarci
del comportamento sconveniente di nostro fratello."
"Comportamento
sconveniente?" Anna non si trattiene. La sua voce
è aggressiva, piena di furia a malapena repressa. "Ha
tentato di
assassinare mia sorella."
"Anna,"
Elsa avverte, sottovoce.
"Non
possiamo fare altro," Gemello A comincia di nuovo, un'occhiata
tagliente diretta al fratello, "che offrire le nostre più
umili scuse, e
sperare che le nostre relazioni possano rinascere, nuove. Portiamo con
noi le
buone intenzioni di Re Alfons, e la speranza del nostro Paese."
Wow,
come se questo
non si chiamasse esagerare—
"Di
certo, compiremo dei passi," Elsa esclama. Anna le lancia
un'occhiata. Ha la schiena rigida come lo schienale del trono, come una
grossa
lastra di ghiaccio, il volto duro e freddo. E' in tutto e per tutto la
regina.
"Verso quale direzione, è ancora da vedere."
Ed
è così che facciamo le cose ad Arendelle, schifosi—
"Nel
frattempo, sono sicura che entrambe siate affaticati dal viaggio.
Posso suggerire una visita al palazzo? E la cena, dopo, certamente."
"Un'idea
deliziosa, sua maestà."
Anna
non può fare a meno di fare una smorfia al pensiero di tutti
e due che
vagavano in preda a frenesia omicida con qualche povero disgraziato
lì a
seguirli—
"Mi
perdonerete, se ho altri questioni di cui prendermi cura, ma mia
sorella sarà più che felice di farvi da guida."
Anna
ruota su sé stessa, la bocca spalancata, ma Elsa
è già in piedi,
lisciandosi la gonna, "A stasera, dunque," dice. Anna la segue,
ancora boccheggiante, ma prima che possa essere tutta un, scusami,
non mi
sono offerta volontaria per una cosa del genere, questo non
è un fronte
unito, carissima sorella, Elsa si ferma accanto a
lei e mormora,
"Ti prego, Anna. Ho bisogno che tu mi dica se assumono
comportamenti—sospetti."
Anna
prova a far funzionare la bocca, e alla fine ci riesce, con un sonoro
sospiro.
"Solo avvertimi la prossima volta."
Elsa
annuisce. Ha l'aria di qualcuno che si è piegato troppo.
Quasi
spezzato. Anna si morde il labbro, e non può farne a meno,
deve
chiederlo—"Perché non racconti loro di Albert?"
Elsa
sbatte le ciglia. "A tempo debito."
Esce
dalla sala.
Anna
sospira, prendendosi un lungo momento per calmarsi e tenere sotto
controllo la rabbia bruciante che era sul punto di
trasformarla in una
maniaca omicida—un'eroica maniaca, giustamente motivata, ma
comunque una
maniaca—prima di voltarsi, scendere i due scalini della
predella, e affrontare
gli occhi scaltri dei gemelli.
"Beh,"
esclama, senza entusiasmo. "Che il tour abbia
inizio."
"E'
in biblioteca, vostra maestà."
Elsa
apre le porte bianche e trovare Albert col naso incollato alle pagine
di uno dei libri non la sorprende. Sobbalza al suo ingresso, apparendo
subito
colpevole. Chiude il libro di scatto.
"E'—ah—scusa,” balbetta, guardando
su e giù. Spalanca gli occhi. "Sei, uhm," e gli si strozza
la voce,
diventando più acuta, e manda giù imbarazzato un
colpo di tosse. Si riconcentra
sul libro che ha in mano.
Scuote
la testa, divertita. Una perlustrazione veloce della stanza, e sono
da soli, nient'altro che un fuoco morente nel caminetto e una pila di
documenti—ignorati la notte prima—sulla scrivania.
"Che libro è?"
chiede, cercando di mantenere un tono leggero, ma è
difficile. Così difficile.
"E'—ah—Le
Morte D'Arthur. Lo leggo per i duelli di spada" mormora,
quasi a sé stesso, infilando con attenzione il pesante tomo
tra gli altri sullo
scaffale. La guarda con aria timida, alzando gli occhi da dietro ai
ricci che
gli ricadono sulla fronte. "Il vestito," dice.
Aggrotta
le ciglia, all'improvviso imbarazzata. Guarda in giù, in
fretta.
"Cos'ha che non va?"
"Non
ha niente che non va, non—è che—" si
strattona la manica
della giacca. "Sembra luce delle stelle."
E
la notte precedente ritorna, investendola, il ronzio inebriante
dell'alcool, la sensazione di libertà della danza, il volto
di lui vicino al
suo—scuote la testa. "In quel caso sarebbe un vestito poco
pratico,"
afferma, incrociando le braccia
Rimangono
così per un momento, silenziosi, immobili. Si chiede come si
suppone che debba rivolgerglisi, e ha la sensazione che la sua
scelta, quella che avrebbe fatto a momenti, avrebbe deciso
come stavano le
cose tra di loro, e si chiede perché—"Principe
Albert,"
inizia, ed è sua impressione, o le sue spalle cascano,
leggermente? Non poteva
riportare alla luce la notte precedente, non poteva più far
finta di non
essere una regina. Adesso doveva occuparsi del problema in questione.
"Principe Albert, ha visto nel porto la nave delle Isole del Sud?"
"Che,
la mia, intende?"
"No.
Un'altra."
"Io—io
no, ma tanto, non ero molto attento alle cose attorno a me la
scorsa notte o—o questa mattina," conclude, strattonandosi di
nuovo la
manica, guardando velocemente l'avambraccio. Aveva davvero
l'aria
di uno che è uscito di corsa; ma gli occhi non avevano
più un'espressione
entusiasta. Aveva forse pensato—
Pensato
che gli avrebbe detto—
Che
l'avesse chiamato per dirgli—
Scuote
la testa, facendo tre passi svelti circondati da anelli di brina, e
sistemandosi nella sedia dietro la scrivania. "Una nave che trasporta
ambasciatori. I suoi fratelli."
"Che?"
"Li
ho appena incontrati nella sala del trono. I principi Viktor e
Tomas, come promesso."
"Dannazione—voglio
dire—scusi, non volevo—" Albert emette un
suono frustrato, passandosi le mani tra i capelli. "Non mi aspettavo,
quando mi ha detto della lettera, che arrivassero così in
fretta—"
"Nemmeno
io."
"—ovviamente,
probabilmente hanno avuto l'aiuto di mio fratello—un
tocco—un pizzico di magia nera." La guarda, e i suoi occhi
sono fissi, e
dice, "Mi dispiace."
"Per
cosa?" Elsa sospira, osservando le carte sparse sulla
scrivania. "Semplicemente, sono stata troppo lenta nello stilare una
risposta. Non li ha chiamati lei. Non ho," si stringe in grembo le mani
a
pugno, "detto loro che è qui."
"Beh,
dovrò farlo. Non posso nascondermi proprio sotto il loro
naso
per sempre," afferma, voltandosi a guardare fuori, borbottando, ed Elsa
pensa che in teoria non avrebbe dovuto sentirlo, "Per quanto lo
vorrei." Alza la voce. "Hanno già annunciato il motivo del
perché
sono qui?"
"Quello
ufficiale? Solo per porgere delle scuse." Si ferma,
osservando gli angoli della bocca di Albert piegarsi verso il basso.
"Stasera ceneranno con mia sorella e me. Dovrebbe unirsi a noi."
"Sì,"
Albert fa, distratto. "Sì, d'accordo,
ma—è davvero
questa? La ragione?"
"Sì,"
Elsa si acciglia. Vuole chiedergli perché all'improvviso
sia immobile, silenzioso, tranne che per le mani che non smettono di
muoversi
veloci. Dice, "Progettavo—voglio dire, pensavo che il modo
migliore di
gestire questa situazione sia—intrattenerli per alcuni
giorni, assicurar loro,
almeno, che non porto rancore alle Isole del Sud, e poi rimandarli a
casa." L'aria è diventata pesante e insopportabile, a un
certo punto negli
ultimi minuti, ed Elsa si sforza di alleggerirla, in qualche modo.
"Immagino sia più cortese di cacciarli via a calci, e basta."
"Mhmm,"
Albert risponde, guardando ancora fuori. Il cipiglio di
Elsa si fa più marcato, lo sguardo fisso sulla schiena, e
non può farne a meno,
le sfugge dalle labbra che tiene sempre più
premute—
"Dovrebbe
saperlo, non li ritengo particolarmente affidabili."
Albert
finalmente si volta, nei suoi occhi un'espressione illeggibile.
"Non
lo sono,"risponde. "Mi creda."
"E
questa è la galleria d'arte," Anna fa in tono piatto,
esaminandosi
le unghie, tentando di mantenere il batticuore al minimo, tentando di
ignorare
la sensazione di essere da sola con due lupi famelici. "Qui troverete
l'arte."
"Affascinante,"
Tomas—il più magro dei due, ha
imparato—biascica.
"Ci dica di più, la prego."
"Sono
stati dipinti," risponde. "Con della pittura."
Era,
letteralmente, peggio che ballare col Duca di Weselton.
Il
che diceva tutto.
"Secondo
lei quanto è spesso questo vetro?" Tomas chiede,
colpendo piano la finestra accanto a lui. "Di sicuro deve avere una
resistenza notevole, per sopportare gli inverni che Arendelle deve
affrontare."
Anna
deglutisce a fatica. "I più resistenti che ci siano,"
risponde.
"E
i preparativi per la cena?"
"Procedono,
vostra maestà. Il cuoco ha preparato tre portate, e in
più
il dessert."
"Assicuratevi
che ci sia il cioccolato." Elsa non aggiunge, perché
è il preferito di Anna, e quando tornerà
sarà di cattivo umore.
Ma
lo pensa.
"I
sacrifici che faccio per te, Elsa, ti giuro, è stato brutto
quanto
quelle lezioni di geografia che prendevo da piccola—no, me lo
rimangio, è stato
peggio—" Anna si ferma sulla soglia, e
rimane a bocca aperta.
Sua
sorella era alla scrivania, ma quella sottospecie di principe Albert
se ne stava seduto sulla chaise longue, e leggeva un libro.
Da
quand'è che sua sorella permetteva agli uomini
di venire a
leggere i loro libri?
"Oh,
non tu," Anna abbaia, perché per quel
giorno ha
raggiunto la sua quota massima di sottospecie di principi. Il Principe
Albert
scatta immediatamente in piedi, e sul serio, i suoi occhi assomigliano
davvero
a quelli di Hans, davvero troppo a quelli di Hans —
"Anna!"
Elsa fa, shockata.
"Devo
parlarti. Da sola." E questa volta non avrebbe
accettato "no" come risposta.
"Allora
io—scusi, è stata—aspetterò
fuori,” il principe Albert
balbetta, lasciando cadere il libro sulla chaise e oltrepassandola di
fretta,
fuori dalla porta. Anna la chiude dietro di lui con un calcio, le mani
strette
a pugno, ed Elsa si alza in piedi, e una volta tanto c'è
qualcosa sul suo
viso—un cipiglio. Beh, bene,
qualcuno doveva iniziare a parlare
in maniera sensata, e se doveva essere Anna a farlo, così
sia—
"Quindi
può venire a palazzo, ora?" le chiede, incrociando le
braccia. "Come se nulla fosse?"
"Non
puoi trattare le persone così, Anna, e
non mi interessa
come tu ti senta nei loro confronti—"
"Ma
come—Elsa, la mia fiducia verso di loro equivale
più o meno alla
distanza a cui riuscirei a scaraventarli via, che, fidati, non
è molta."
Fa un respiro profondo, forzandosi a trattenerlo fino al tre, guardando
Elsa
appoggiare una mano sulla scrivania e pizzicarsi la sommità
del naso con
l'altra.
"Fai
così," inizia, gli occhi chiusi, "fai così
perché ti ho costretta
a fare una cosa?"
Anna
fa un verso indignato. "Non riesco a crederci, sai benissimo
che voglio aiutarti—prendi tutti i pesi sulle tue spalle, e
poi scarichi una
cosa del genere—no, Elsa, non è
perché mi hai costretta a fare
qualcosa, è perché ho appena passato
tre ore a fare la guida turistica di
quei principi, e hanno qualcosa che non mi convince."
Respira a
fatica. Non riesce a trattenersi. E' così furiosa—"E,
ok, forse
non mi sono comportata proprio benissimo, ma erano così cortesi,
anche
quando io non —"
"Non
sei stata cortese?" Elsa sembra orripilata.
"Anna!"
"—ero
particolarmente interessata, e
io—io—urgghah!"
urla, lanciandosi sulla sedia più vicina, prendendosi la
testa tra le mani. Non
è arrabbiata, non davvero. Beh, forse un pochino. Ma per lo
più ha solo paura,
perché i gemelli le ricordavano dei lupi, lupi famelici, ma
non sapeva perché,
quando o come—"Mi hanno fatto continuamente domande sulla
struttura del
palazzo. Gli ho detto che non lo sapevo." Fa un sospiro profondo.
"Non sono qui solo per scusarsi."
"Credi
che non lo sappia?" Elsa sospira, e poi si abbandona,
cadendo pesantemente sulla sedia, anche lei.
Un
momento. Un altro. Anna alla fine dice, "Scusa."
"Non
ti scusare."
"Ma
poi entro qui e ti trovo con—lui!" Anna
sussurra,
furtiva, gesticolando in direzione della porta chiusa dietro di lei.
"E legge un libro!"
"Dovevo
capire quale fosse il miglior modo di agire, per andare
avanti," Elsa sfa, evasiva, e Anna stringe gli occhi.
"Legge
un libro, Elsa."
"Anna,
ti prego." Elsa si torce le mani. Anna si guarda i
piedi, le scarpette nere, e si accorge che le dita stanno avanzando
verso il
cristallo che tiene appeso al collo. Si chiede cosa stia facendo
Kristoff in
quel momento.
Le
manca.
"Non
mi fido di nessuno di loro. Come si suppone che riusciamo a
mandarli via?"
"Gli
diamo quello che vogliono," Elsa dice, guardando fuori.
"Aggiustiamo la nave di Al—del principe Albert, e facciamo le
carine con
gli ambasciatori. Li mandiamo a casa, e diciamo loro addio per
sempre."
E
non può evitarlo, è come se scivolasse via dalle
labbra, così piano che
all'inizio pensa che Elsa non l'abbia sentita—"Vorrei tanto
che mamma e
papà fossero qui."
Elsa
fa, "Ma non ci sono."
Anna
guarda sua sorella, e prova la stessa sensazione, di essere talmente
piegata da star per spezzarsi. Chiede, "Cosa vuoi che faccia?"
Elsa
chiude gli occhi ancora una volta, ed è in quel momento che
Anna nota
il gelo e il ghiaccio formatisi agli angoli della stanza, lungo i bordi
della
scrivania, ma non l'aveva sentito—non aveva sentito la
temperatura calare di
dieci gradi, nemmeno un brivido—si ritrova con le mani vicine
al cristallo. Sua
sorella finalmente riapre gli occhi e afferma, "So che vuoi essere
d'aiuto."
Anna
annuisce vigorosamente.
"Ho
bisogno che domani porti i principi a visitare le montagne. Ho
bisogno che mostri loro che sono impenetrabili."
E
lo capisce. Capisce il perché. Non mettetevi
contro Arendelle, non ci
avrete mai. Quel genere di cose.
"Porta
Kristoff con te."
"Se
verrà. Convincerlo a socializzare è come
convincerlo a farsi un
bagno."
E,
in un momento, la tensione si spezza. Anna ridacchia, ed Elsa sorride,
e
si guardano, e quest'ultima dice, perché sente che
è la cosa giusta da dire,
"Presto sarà tutto finito, e potremo ritornarcene a
progettare
balli."
"Magnifico."
Anna
si alza in piedi, lisciandosi il vestito. "Beh, vado a cercare il
mio montanaro—voglio dire, il montanaro, non
è—vado a cercare Kristoff."
Va alla porta. "Ma, Elsa?" Guarda indietro. "Non mi fido di lui.
Non Kristoff, di lui mi fido, non mi fido di—" Fa un cenno
col mento
avanti a sé.
Sua
sorella, dopo un momento, annuisce.
Anna
apre la porta. Il principe Albert sta aspettando nel corridoio dei
ritratti, strizzando gli occhi in direzione di un angolo di un quadro
appeso al
muro. Sobbalza sentendo il rumore, e poi prova a fare un veloce abbozzo
di
sorriso, che immediatamente scivola via quando lei non lo ricambia.
"Ah,
salve."
"Principe
Albert?" sua sorella chiama.
"Si,
sono—solo—mi scusi," inciampa, oltrepassando Anna,
tenendosi
a debita distanza, ed ecco che entra in biblioteca, e dice, "Sapeva che
in
uno dei suoi ritratti la pittura si sta scrostando in un angolo?"
La
porta si chiude.
Anna
aggrotta le sopracciglia, e pensa ai lupi.
"Dobbiamo
che?"
"DiciamoportarealtridueprincipidelleIsoledelSudafareuntourdellemontagne?"
"Ma
perché continuano a spuntare? Come margherite!"
"E'
esattamente quello che ho detto io!" Pausa.
"Allora, lo farai?"
"Immagino
di sì. Solo—stammi vicina, okay?"
"Pfh,
Kristoff. Credi che sia stupida?"
"No.
Solo spericolata."
"Il
suo castello è davvero incantevole, Regina Elsa."
"Vi
ringrazio," Elsa risponde, cortese, lottando contro il
ghiaccio che si forma attorno alle caviglie, e che attacca il cuscino
della
sedia. Di sicuro lo sapevano; di sicuro—lui
gliel'aveva detto. Si
concentra sui piselli. "Ma dovreste vedere le montagne—sono
ancora più
incantevoli in questa stagione."
"E'
la calura," sua sorella interrompe con un sorriso. Elsa sa
benissimo che non è un sorriso che arriva agli
occhi—ma vuole ringraziarla, per
il tentativo. "Quaggiù. Quando siete là sopra,
è tipo—wow! Neve in
estate!"
"Saremmo
lieti di godere di più dei panorami di Arendelle," il
più magro dei gemelli dice, ed Elsa pensa che sia lui, per
qualunque motivo, il
portavoce per tutti e due. "Di fatti, stavamo proprio per chiedere il
permesso di visitare le campagne circostanti."
Elsa
sente la bocca farsi secca. Mentiva? Stavano per chiederlo davvero? O
stava solo implicando che ne avessero intenzione per,
per—per—
Per
fare cosa?
"Verrà
qualcun altro?" il più massiccio dei due indaga, gli occhi
fissi sul posto vuoto di fronte a lui, il cibo disposto e coperto.
"Credo
che sia così, sì," Elsa fa, cercando di restare
calma.
"Anna sarà lieta di farvi da guida, domani."
"Considerato
il magnifico lavoro che ha fatto quando ci ha mostrato il
castello," il gemello più magro esclama, piccato, con un
sorriso teso,
"ne saremmo onorati."
Anna
risponde cortese, ma a labbra strette. Per una volta, comunque, tiene
la bocca chiusa, ed Elsa è grata—sorpresa, ma
grata. "Magnifico,"
Elsa ripete, rompendo il silenzio. "Partirete domattina presto,
allora."
In
quel momento si aprono le porte della sala da pranzo, lasciando
intravedere, oltre, l'ingresso illuminato dalle candele, ed Elsa si
tampona la
bocca col tovagliolo, gli occhi fissi sui due ambasciatori.
"Ecco
il nostro quinto ospite," afferma.
"Fa
il suo ingresso," un ciambellano annuncia, " il Principe
Albert delle Isole del Sud!"
E
così, era giunto il momento.
Si
sente il suono di argenteria che sbatte sulla porcellana, e
poi i
gemelli scattano in piedi, le bocche spalancate dalla sorpresa mentre
Albert fa
il suo ingresso alla luce della sala. Ha la schiena rigida come una
tavola, il
volto impassibile; aveva tentato di lisciarsi i capelli all'indietro,
ma già
gli ricadevano scompigliati sulla fronte.
"Albert?"
"Fratello!"
I
gemelli corrono avanti, lungo il tavolo, e Albert corre avanti,
attraversando la sala, e si incontrano a metà, una calca di
abbracci mascolini
e pacche sulla schiena e sorrisi allegri. "Abbiamo temuto il peggio,
dopo—"
"Non
abbiamo visto la tua nave, nel porto—"
"Hans
mi ha indicato direzioni sbagliate all'altezza di Corona;
l'albero della mia nave è stato abbattuto da un temporale,
il che spiega il
fatto che non abbiate visto la nostra bandiera." Elsa sbatte le ciglia.
La
voce di Albert è sicura e disinvolta—diversa. I
suoi occhi scattano verso di
lei. Abbassa in fretta il proprio sul piatto, ma può sentire
lo sguardo della
sorella che le scava un buco nel cranio, e sa che Anna muore dalla
voglia di
dire, vedi, non mi fido, non—
"Regina
Elsa," Albert afferma, e lei lo guarda di nuovo. "Mi
perdoni per il mio—ah, ritardo."
L'avevano
concordata, la sua entrata successiva. Elsa era stata a
suggerirlo, perché voleva vedere—le reazioni, ed
eccoli tutti lì, pappa e
ciccia—
Sorride.
"Non deve preoccuparsi affatto. La prego, si sieda."
"Perdoni
la nostra mancanza di decoro, Regina Elsa,” ora il gemello
più magro esclama, qualcosa che scintilla attorno agli
occhi.
"L'entusiasmo di vedere qualcuno che pensavi morto, vivo—beh,
non c'è—più
grande gioia."
Elsa
sorride pacata, osservando Albert sedersi al tavolo, e—
E'
solo che non penso di potermi fidare di lei.
Quella
notte, sogna nasi rotti.
Anna
dorme pochissimo, e pensa che sia perché sa che nel castello
ci sono i
lupi. Almeno il Principe Albert se ne era ritornato sulla sua
nave. Si
sveglia all'alba, osservando il sole coronare le montagne, rosa
incantevoli e
arancioni accesi, prima di infilarsi il vestito invernale, e gli
stivali,
infilandosi con attenzione il cristallo sotto il collo alto. Kristoff
non ne
era stato felice.
Ci
avrebbe parlato di nuovo, prima di partire. Dirgli che, cioè
no, sai,
almeno sarebbero stati assieme, e non sarebbe andata in giro per le
montagne
sola con il gemello peggiore e gemello più
peggiore. Più peggio? Oh,
chi se ne frega—
Scivola
nel corridoio.
E'
vuoto. La porta di Elsa è serrata. Oltre le finestre,
Arendelle sembra
in pace, e vorrebbe poterla solo—solo prendere e trasportare
dall'altra parte
del mondo, in modo che le stupide Isole del Sud
fossero a metà—più
via—via—
Arriva
alle scale, un po' a disagio per il caldo che sente. Fa la sua
solita cosa per arrivare giù, una veloce
scivolata sulla ringhiera, e per
almeno tre secondi vola, spinta dall'aria, aggraziata, prima di
sbattere nelle
braccia dell'armatura che l'attendono. Il colpo rimbomba e rimbomba e
rimbomba
metallicamente tra le pareti vuote, ma nessun servo arriva di corsa,
nessuna
guardia scatta sull'attenti. Era quell' ora morta stranamente
assurda, quell'ora
in cui tutti approfittano delle ultime poche ore di sonno, e cavolo, se
Anna
non avrebbe voluto essere anche lei—
Scende
dalle braccia vuote del suo salvatore, aggiustandosi la gonna, ed
è
quasi alla porta che dà sul cortile quando lo sente. Un
debole mormorio.
Aggrotta le ciglia, voltandosi leggermente, strizzando gli occhi verso
il
corridoio dietro di lei.
Preme
le labbra, agitando le mani, e poi, con una scrollata di spalle, si
dirige in quella direzione, curiosa, perché,
cioè, nessuno poteva essere volontariamente
sveglio a quell'ora—ok, era una bugia, forse Kai lo
era, e qualche guardia,
ma lei, che sia risaputo, sarebbe rimasta molto volentieri a letto, se
non
fosse stato per il fatto che era più tesa di una corda di
violino e non
riusciva a dormire—
A
causa del profondo silenzio, si ritrova a camminare con cautela, in
modo
da non fare rumore coi tacchi rosa degli stivali. Passo, tacco punta,
passo,
tacco punta, lungo tutto il corridoio, e le voci si fanno
più forti. Provengono
dalla galleria d'arte. Inizia a distinguere le parole, i toni di
voce—
"—potrebbe
essere molto conveniente."
"Sì,
voglio dire—sì. Suppongo."
Anna
si blocca. Uno dei gemelli.
E
il Principe Albert.
Scivola
più vicino al muro, il cuore che le martella nel petto.
"Su,
fratello. Devi solo dirci tutto quello che sai di lei."
Anna
spalanca gli occhi. Si mette una mano sulla bocca solo per evitare di
urlare lo sapevo o te l'avevo detto
anche se in realtà lo
vuole davvero, davvero fare—
Doveva
dirlo a Elsa. Elsa aveva permesso a quel tizio di
leggere
un libro, ed Elsa parlava con lui, ed Elsa ovviamente si
stava facendo
fregare dal trucchetto della parte dell'ingenuo di campagna—
Anna
torna di corsa alle scale.
"Hai
sentito?" Viktor chiede, aggrottando le sopracciglia.
"Controlla
il corridoio."
Lo
fa, infilando la testa fuori dalla porta, e Albert deglutisce, il petto
che gli si stringe. "Non c'è nessuno," suo fratello risponde
in un
sussurro basso. Gli stivali pesanti lo riportano al centro della
galleria
d'arte. Albert lo guarda, e guarda Tomas, ed è osservato, da
tutti gli occhi
che lo circondano in quel tribunale silenzioso—guarda in su e
vede Giovanna
d'Arco che lo fissa con aria accusatoria.
Coraggio,
ragazzo,
pensa, ma è così semplice ricadere nelle vecchie
abitudini con Viktor e Tomas che torreggiano su di lui, che lo
minacciavano,
che si prendevano gioco di lui, la felicità di facciata
della scorsa notte
scomparsa. Le dita si muovono verso l'avambraccio, ma per quella
situazione non
esiste alcun tipo di appunto. Si schiarisce la gola. Pensa alla luce
delle
stelle. Pensa a un ballo insieme.
"No."
La
parola riecheggia. Avevano detto, la scorsa notte, avevano detto,
avevano sussurrato mentre se ne andava, ti apriremo la porta,
ti
aspetteremo, la galleria d'arte, dobbiamo parlare—
"No,"
ripete, a voce più alta, più sicura.
Tomas
ride, ma è una risata crudele, rauca, e si pulisce un
orecchio con il
dito, passando un braccio sulle spalle di Viktor con nonchalance. "Ho
sentito quello che penso di aver sentito?" chiede al suo gemello.
"Credo di aver sentito un no."
"Lascia
casa per un mese, e tutto all'improvviso pensa di avere il
diritto divino di fare come vuole." Il sorriso di Viktor potrebbe
tagliare
il vetro.
"Pensavi
che stessimo chiedendo, fratello?" Tomas chiede. Albert
cerca di non richiamare alla mente il cane che aveva trovato nel bosco,
il
cervello spiaccicato sulle pietre, e quei ragazzi, davanti a esso,
ridenti. Era
stato tanto tempo prima. Invece, pensa alla luce delle stelle.
"Dico
sul serio," fa, ed è sorpreso dalla sicurezza della propria
voce. Si lecca le labbra, riuscendo a fronteggiare lo sguardo dei
fratelli''.
"Non so cosa Alfons abbia pianificato. Non so cosa voi due
abbiate
pianificato. Ma Hans ha fatto abbastanza danni, e dovete lasciare
Arendelle in
pace." Rincuorato, fa un gran passo avanti. Era alto quanto
loro. E
aggiunge, sorpreso dalla propria voce, dalla sua durezza, "Dovete
lasciare
Elsa in pace."
Anna
si fionda in camera della sorella. E' un disastro, l'armadio ancora
sfasciato, e ora anche il letto, il baldacchino blu scuro sparso sul
pavimento
come sangue. Chiude la porta dietro di sé, chiudendo gli
occhi, cercando di
calmare il respiro, e quando li riapre vede tre stalattiti di ghiaccio
irregolare—una all'altezza della guancia destra, una della
sinistra, e una tra
la piega del gomito e il fianco, tutte e tre conficcate nel muro. Ma
lei non si
era accorta nemmeno della differenza di temperatura.
Elsa
la fissa, a occhi spalancati, una mano tesa. Un momento, due, poi,
"Anna, mi—"
"No,
non dispiacerti, va bene, non sono—" non le importa, ha
notizie più importanti, e aveva spaventato
Elsa, ecco perché—"Ho
appena sentito il Principe Albert che parlava con i gemelli e hanno
detto
qualcosa a proposito di una convenienza, e volevano sapere da lui cosa
sapesse
di te—"
"Che?"
gli occhi di Elsa hanno ancora un'espressione incredula,
le mani che le tremano all'altezza dei fianchi, e sta cercando di
alzarsi dal
letto. "Anna, rallenta—"
"—mi
sono alzata presto per andare a parlare con Kristoff, ma poi li
ho sentiti, e non capisci—è
venuto qui—Albert è venuto qui prima dei
gemelli solo per scoprire i tuoi segreti! Ti sta usando!
Elsa, ti prego,
dimmi che non gli hai detto niente—"
"No,
Anna. Gli hanno dato indicazioni sbagliate—"
"Non
è vero, l'ha fatto—"
"E
qualora gli avessi detto qualcosa, sarebbe una mia
prerogativa—"
"Che,
e quindi che stai dicendo, l'hai fatto?
Come—ma per caso
ti—qual è la vostra—"
"—Perché
sono la regina!"
Silenzio.
Anna sbatte le palpebre.
Elsa
chiede, "Perché non vai a parlare con Kristoff?"
"Elsa—"
"Anna,
vai a parlare con Kristoff."
"Piantala
di lasciarmi fuori!"
"Non
lo sto facendo," Elsa scatta, la rabbia
che
trapela, e sarebbe una cosa positiva, Anna pensa, se
fosse diretta
verso qualcun altro, ma non appena la nota, già è
andata via, e sua sorella
chiude gli occhi, fa un respiro profondo, e afferma,
"Investigherò,
d'accordo? Dove hai detto che erano?"
"La
galleria," e Anna odia la propria voce, perché sembra
così
piccola.
"Ci
vado."
"E
io vado a parlare con Kristoff."
Anna
apre la porta senza un'altra parola e si stringe forte tra le proprie
braccia, incamminandosi per il corridoio a passi veloci.
"Lasciate Elsa
in pace ," Tomas mima le parole
con la bocca, ritraendo il braccio dalle spalle di Viktor. "L'hai
sentito,
fratello mio? Elsa. Il fratellino si è
ambientato bene. Vi
chiamate per nome, ora, eh? Ma credo che tu abbia commesso un
piccolo
errore," Tomas conclude, passeggiando fino a uno dei quadri del muro
vicino—una ragazza su un'altalena al culmine
dell'oscillazione, la scarpa che
vola via—"Perché la mia non era una
richiesta."
Albert
abbassa gli occhi. Li chiude, una sola volta. Poi li riapre, e alza
lo sguardo. "Andate all'inferno." Avrebbe avvertito Elsa.
"Andate all' inferno."
"Viktor,"
Tomas dice.
Succede
così in fretta.
Uno
scatto del polso di Viktor, e un pugnale sfilato dalla manica sinistra,
una lama sottile dalla crudele punta ricurva, qualcosa di cui Albert ha
a
malapena il tempo di rendersi conto prima che scivoli tra le sue
costole. La
avverte come un lampo, dietro gli occhi, come un pugno allo stomaco; la
punta
che si infila tra osso e muscolo, che gli contorce le budella, e gli si
spalanca la bocca. Il viso di Viktor è troppo vicino al suo,
e sta sorridendo,
e lui è lo stesso uomo che ha spappolato il cervello a un
cane, che ha spinto
Hans al limite, che li ha ignorati tutti—
Albert
allunga una mano. E' tutto quello che riesce a fare. Allungare una
mano. Vuole sfilarsi quella cosa dal torace, ma è come se le
mani non gli
appartengono più.
Da
qualche parte, lontano, Tomas fa, "Permettimi."
E
poi ecco Tomas, che si sfila un coltello dal fianco ; per la fretta,
qualcosa di piccolo, che sembra vetro, cade a terra. Il tintinnio
è forte, e,
irrazionalmente, Albert si aggrappa al rumore, prima che il secondo
pugnale gli
apra uno squarcio orizzontale lungo lo stomaco. Esala un rantolo
soffocato, e
sente qualcosa di vischioso e metallico che gli sale alla gola. Abbassa
lo
sguardo. E' tutto molto metodico, molto chirurgico, pensa vagamente,
tra
l'oscurità che avanza; il sangue è tutto
impregnato nei suoi vestiti.
Sul
pavimento nemmeno una goccia.
Viktor
lo lascia andare, e cade.
Albert
quasi non lo avverte. Colpisce il suolo, e sa che dovrebbe, dietro
la testa, ma non sente niente. Invece si scopre ad allungare la mano in
direzione della fialetta che luccica al sole crescente. La vuole. Tomas
la
afferra per primo, intascandola con facilità. Poi suo
fratello si abbassa,
prendendo un pugnale; prendendo anche l'altro, con la punta uncinata.
Mentre
viene estratto si impiglia e tira, portando fuori le budella, e Tomas
si china
su di lui, e gli sussurra all'orecchio, gli sussurra—
"Il
re ti porge i suoi saluti."
Giovanna
d'Arco li osserva impassibile dall'alto.
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Capitolo
13
"Era
davvero necessario? Dobbiamo ancora occuparci della principessa,
e—"
La
voce è lontana. E, dietro le palpebre chiuse, echi
di—
"E,
quando scopriranno di questo piccolo contrattempo,"
e i suoi piedi sbattono contro qualcosa, le caviglie scrocchiano,
"saremo
già via da un bel pezzo."
Echi
di—
"Lo
sai che avrebbe trovato il modo di spifferare i
nostri
piani alla regina. Non provo rimorsi per quest’idiota."
"Lo
so."
Echi
di—
"Allora
smettila di lamentarti, e aiutami a trasportarlo."
Luce
delle stelle.
"Lasciamolo
nel mucchio dei rifiuti, dove merita di stare."
Poi—
Nulla.
(nulla.)
Prova
a spalancare la porta con un
botto, ma a questo punto,
la rabbia ha avuto il tempo di smorzarsi, e non è proprio
sicura se ha sentito
o ha sentito— come in quegli strascichi
di sogno—quando sei mezza
addormentata e precipiti e poi ti svegli e ti
accorgi di essere a letto,
ma la caduta ti era sembrata—beh, reale,
per un minuto secondo—se in
sogno cadi e muori, muori anche nella vita reale?
Non
è questo il punto, attieniti al punto.
Oh,
sì—
Beh,
alla fine apre la porta, almeno. Lascia che si
chiuda alle
proprie spalle. Le stalle hanno un’aria particolarmente
allegra e luminosa
nella luce appena sorta del primo mattino, con una grossa pila di
fieno, e i
cavalli che nitriscono nei recinti. Sente, "Ma non la voglio
questa
bardatura, voglio quella vecchia!
"Spiacente,
piccolo. Dobbiamo apparire al meglio per quei due stupidi
co—"
Kristoff
esce da uno dei recinti, reggendo un finimento decorato, sul viso
uno sguardo di quasi-orrore. "—come va?" finisce, poco
convincente.
"Ciao,"
Anna lo saluta brusca, con un cenno, e poi si lancia
disperata nella pila di fieno. Basta così. Al tremila
percento. "Basta
così," lo informa.
Kristoff
si carica la bardatura su una sola spalla e si volta con
un’occhiata confusa. Le corna di Sven sono appena visibili
oltre il legno scuro
di ciliegio, e poi la testa, che fa capolino, negli occhi
un’espressione
comprensiva, pensierosa. Anna non credeva che le renne potessero
sembrare
pensierose, o comprensive—stessa differenza? Quello che
è—ma Sven ci riesce
proprio bene. Chiude gli occhi e li copre con un braccio e non voleva
fare la drammatica, ma lo è alquanto. Un pochino.
"Basta?"
Kristoff chiede. Lo sente toccarle tentativamente la
gamba con la punta dello stivale.
"Basta,"
afferma. Poi si strofina il viso. Si siede. "Ok,
basta coi basta così, adesso. Sei pronto per—"
"Woah,
woah, woah, furia scatenata, non pensare neanche di cavartela
così." Kristoff aggancia le finiture di Sven con tre
movimenti rapidi e
poi dà delle pacche sul fianco della renna. La guarda
alzando un sopracciglio.
"Che c’è che non va?"
"Se
muori in un sogno, muori anche nella realtà?"
"Cosa."
"Voglio
dire, pensaci. Sei mai morto in sogno?"
"Non
ci penso, di solito. Mai. E’ per questo che sei sconvolta?
Sei
morta in sogno?"
"No.
Ho sentito Gemello Scemo e Gemello più Scemo parlare col
principe
Albert di Elsa, ma ovviamente non mi crede,
perché di punto in bianco le
è venuto il pepe al tu-sai-cosa e ha deciso che Albert
é in realtà una brava
persona, il che, ti prego, non è assolutamente
il caso—"
"Che,
pensi che le piaccia o cose così?" Kristoff si lascia
cadere accanto a lei.
"Penso
che lo tolleri. E lei non tollera un sacco di gente. Che
cavolo, a malapena tollera te—senza
offesa," si corregge subito,
mordendosi il labbro con una smorfia. "Le piaci. Davvero. E’
solo—ok, non
importa, dimentica quello che ho detto, mi sto solo scavando la fossa."
Il
discorso cade, e ascoltano i cavalli pestare il pavimento. Alla fine
Kristoff chiede, "Parlavano di lei? Cioè?"
"Cioè—roba
di tradimento. Non lo so."
"Ma
sei sicura di non aver sentito delle voci?"
No,
pensa, perché era presto, ed era stanca, e si sarebbe alzata
allo
spuntare dell’alba solo in caso di apocalisse, ma dice,
convinta,
"Sì."
Kristoff
solleva il cappello per grattarsi la fronte, e ha l’aria
piuttosto
frustrata. Esala un respiro profondo. "Vorrei tanto
che avessi
sentito delle voci."
"Vorresti
che fossi pazza?"
"No!
No, non è quello—vorrei che avessi sentito le voci
perché così
magari potremmo sbagliarci su di loro. I Principi delle Isole del Sud.
Anna,
stiamo per andare in posti isolati e selvaggi con due
di loro—"
"Assieme
a delle guardie—"
"Non
è questo il punto," si gira un po’, e la guarda, e
lei vuole
arrampicarglisi in grembo e rimanere lì, ma non si muove "Il
punto è che,
sarete tu, e due di loro. E io—" si interrompe, arrossendo
tutto, e guarda
di lato. Anna non sa esattamente cosa dire, ha paura di dire qualsiasi
cosa,
quindi si butta sulla cosa più banale che riesca a pensare,
cioè, dopo un
momento, due—
"Quindi,
volevo solo dirti grazie, di nuovo. Perché lo stai facendo,
so che non si tratta di—di cavare ghiaccio,
o niente, e devi avere a che
fare con questi due Principi, e so che non capiresti, perché
si tratta di
politica—"
Sembra
vagamente offeso.
Anna
lo guarda alzando le sopracciglia.
Alla
fine lui annuisce, evasivamente.
"—perché
si tratta di politica," continua, "ma grazie, e
potrei—avrei potuto essere molto più tesa a
riguardo, lo sai? Ma non lo sono.
Chiedimi perché non lo sono."
Kristoff
alza gli occhi. La asseconda. "Perché non lo sei?"
"Perché,"
sussurra, dandogli di gomito, e poi non riesce a
continuare, non se lo guarda dritto in quella faccia stupidamente
attraente—deve riprendersi un
po’—"perché tu sarai lì con
me.
Quiiiiindi," conclude, lottando per tirarsi le ginocchia al petto con
tutto quel fieno, e trattenendole con le braccia quando ci riesce,
"quindi
ecco. E grazie. Come ho detto."
Non
lo stava guardando. Si era concentrata sulla spaccatura dello zoccolo
di Sven a qualche metro di distanza, cercando di dimenticare la
confusione
della mattina, il suono delle voci provenienti dalla galleria, lo
sguardo
incredulo di Elsa—e sua sorella non era mai stata il tipo che
non vuole
guardare in faccia la realtà—ma allora, e se aveva
davvero capito
male—ma allora, e se invece aveva capito
bene—
E
poi sarebbe andata in giro coi lupi.
E
sapeva che erano lupi. Lo sapeva. Glielo aveva
avvertito addosso,
dal primo momento che li aveva visti—
"Anna."
Il
mondo si ferma. Tutto. Rumori e pensieri e respiro. Avrebbe potuto
farsi
avvolgere dal suono di quella voce. Non aveva sentito mai nessuno
prima
dire il suo nome in quel tono. Sbatte le palpebre, sbatte, sbatte, lo
guarda in
tralice. Deglutisce. "Sì?"
Il
cuore le martella un ritmo irregolare contro la fragile gabbia che lo
racchiude come un uccellino.
"Ti
seguirei ovunque," Kristoff esclama, allungandosi e
prendendole le mani dalle ginocchia, coprendole completamente con le
sue,
"per far sì che tu sia al sicuro. Voglio dire,
io—Anna, io ti amo."
Parole.
Fuori, all’aperto. Aperto. Porte aperte.
Vuole
dirlo. Davvero. Ma non riesce a far funzionare la bocca. Invece si
mette
in ginocchio, piantandogli un casto, veloce bacio sulla guancia prima
di
strisciare fuori dalla pila di fieno. Le stalle sono troppo piccole. Ha
bisogno
di andarsene. "Ma la, uh," indica col pollice un punto indefinito
alle proprie spalle, "slitta è fuori?"
Kristoff
si alza in piedi. Il rossore sul volto sta sbiadendo, ma è
ancora
evidente, e ha voglia di abbracciarlo e non lasciare andare mai
più, ma poi
pensa ai lupi, e alle porte, e tutto è troppo complicato,
e le fa male
il cuore. Lui annuisce, brusco. "Già."
"Vado,
uhm—a controllarla. Vieni con…?" la voce si
affievolisce,
mentre si incammina verso la porta.
"Fra
un minuto."
"Ok.
Ok, benissimo. Sarò qui fuori. Proprio qui. Proprio fuori."
Prova
ad aprire la porta, ma le tremano le mani, e le dita scivolano.
Attacca il chiavistello. Si apre, cigolando.
Esce,
inciampando.
Elsa
indugia un momento nel corridoio.
E’
breve—uno sguardo fuori. Una mano tra i capelli.
Un’ombra di pensiero,
un pensiero pericoloso—fidati di lui,
non—Io mi fido di Anna—e poi il
mondo riprende il proprio posto. Dà le spalle alle finestre,
luminose e
accecanti, si volta verso le scale, la gonna che le sfiora le gambe e
le
scarpette nere che battono un ritmo rumoroso nel silenzio del castello.
Era
tanto presto che il mondo non si era ancora messo in moto, vorticando e
vorticando e vorticando—
"Ti
sta usando!"
E
se lo avesse ammesso con se stessa, dopotutto non era stato quello il
suo
timore, tutto quel tempo?
Fidarsi.
Fidarsi. Ecco perché era tanto più facile
chiudere tutti fuori.
Ma
no. No, quello era—il passato, e—
"Ti
sta usando!"
Elsa
raggiunge il piano terra, le armature tutte rivolte verso
l’entrata,
contro avversari invisibili. Buone ragioni. Si
aggrappa al pensiero come
a una cima di salvataggio. Ci dovevano essere delle buone ragioni se
Albert
aveva detto quello che aveva detto, nel caso l’avesse davvero
detto, buone
ragioni se era—entrato di soppiatto nel
castello per vedersi coi
gemelli—corrotto la guardia notturna esausta con del
denaro—Ne sarebbe stato
capace? E perché? Buone ragioni. O
nessuna ragione. Forse tutta questa storia
era solo dovuta ad Anna che esagerava.
Elsa
si costringe a respirare.
Anna
esagerava molte volte.
Il
corridoio è silenzioso. E’ tutto quello che nota
mentre volta rapida
ogni angolo, fermandosi bruscamente prima della galleria
d’arte. Non sa cosa si
aspettasse, ma di certo non era questo—
Vuoto.
L’orologio
a pendolo ticchetta, Giovanna d’Arco la guarda, impassibile;
si
attarda all’ingresso, controllando le panche basse e il
pavimento di legno,
immacolato, la vivida luce del sole che filtra dalle finestre.
Niente.
Fa
un paio di passi, entrando di soppiatto, lanciando occhiate veloci
sotto
il mobilio, ma non vede nessuno, a parte il tribunale silente che la
giudica
dall’alto. Davvero Anna si era immaginata le cose?
No,
qualcuno doveva essere stato lì. Qualcuno—
"Regina
Elsa, è sveglia ben presto, stamane."
Si
volta, il ghiaccio che scricchiola formandosi tra le dita tese.
C’è uno
dei gemelli in piedi sulla soglia, pronto per una giornata di
escursioni al
freddo pungente.
Apre
la bocca. La chiude, subito. Lui ride.
"Tomas,"
dice, toccandosi il petto con una mano. "Non si
preoccupi—persino i miei fratelli confondono ancora me e
Viktor."
"Principe
Tomas." Elsa recupera, in fretta. "Porgo le mie
scuse."
"Non
c’è bisogno." Sorride, disinvolto, ma gli occhi
sono
leggermente stretti a fessura, espressione che non lo abbandona.
"Qualcosa
non va?"
"Si
è—" si lecca le labbra, "—appena alzato?"
"Sì.
Sono sceso dabbasso per vedere se fosse pronto qualcosa per
colazione. Pensavo dovessimo partire presto?"
"Sì.
Infatti." Più tempo per voi all’aria
pungente e rarefatta.
Le offre il braccio e lei lo ignora visibilmente, scivolando con grazia
nella
sala. "E suo fratello?"
"Sarà
qui a breve."
"Eccellente."
Non
ha senso.
"Mi
auguro," comincia, camminando lentamente accanto a lei,
stringendo le mani dietro la schiena. Non era magro quanto Albert, la
sua
corporatura era più simile a quella di—lui.
"Mi auguro che Albert
non le abbia causato fastidi?"
Lo
guarda con malizia.
Ride.
"Era sempre il combinaguai, a casa. Sapeva che," inizia,
"una volta si convinse che avrebbe sposato la delfina di Francia? E
poi,
quando scoprì che lei avrebbe sposato il principe di Albion,
decise di sfogare
la propria rabbia sul naso di un servitore su una delle scalinate sul
retro."
Conosceva
già quella storia. Tiene le labbra serrate, ma il sorriso
cordiale. "Cielo, davvero?" E
nei suoi
incubi è su una scalinata nei quartieri della
servitù, e un sorriso appare
rapido e la sovrasta come una fiamma tremula, e il dolore dal naso
all’interno
della testa—fa male. Brucia.
"Davvero.
Svolazza continuamente dalle grazie di una donna a quelle di
un’altra," Tomas conclude con un sorrido. "Il suo amore
è sempre così
facile da ottenere—e altrettanto facile da perdere. Pensavo
dovesse
saperlo."
Elsa
si blocca. Quasi impercettibilmente. Sente il cuore che le martella
nel petto, lo stomaco si chiude—qualcosa—orribile—e
si dice, sarà
sulla sua nave. Questo è un gioco di
menzogne e finzione; sarà sulla sua
nave. "Credo proprio di essere benissimo capace di farmi da
sola delle
opinioni," inclina la testa. "Ciò nonostante, la ringrazio
per la sua
premura, Principe Tomas."
"Davvero,"
sorride, fiacco.
Crede
di essere più abile di quanto sia, a questo
gioco,
decide lei
leccandosi le labbra, tirandosi la treccia. Si afferra la destra con la
sinistra e fa cenno col capo alla sala da pranzo. E’ allora
che sente passi
frettolosi, un respiro affannoso—
"Regina
Elsa!" Kai si inchina. Sembra scomposto, i capelli
leggermente scompigliati, la cravatta infilata male. "Perdonatemi se
non
sono stato presente—"
"Bevuto
troppo, la notte scorsa?" Un’altra voce, strascicata, da
dietro. E’ Viktor, che scende le scale, e Kai gli lancia
un’occhiata
oltraggiata. I servitori hanno una riserva di vino nei loro alloggi, e
gli era
permesso di farne uso dopo che i compiti della giornata erano finiti.
Quanto
era facile, farvi scivolare poche gocce di sonnifero?
Elsa
vuole urlare. Troppi inganni, e non riesce capire più cosa
è reale e
cosa no. La temperatura cala pericolosamente, e afferma, gelida, "Di
certo
lei non può parlare, Principe Viktor." Si lancia
un’occhiata alle spalle,
il collo rigido. Viktor è in piedi, fermo sul gradino
più basso, che si
aggiusta le maniche e guarda con disprezzo l’uomo davanti a
loro. Non un
bicchiere di troppo, perché Kai non beve mai molto.
No.
Ci sto pensando troppo.
Albert
sarà sulla nave.
Si
volta. "Kai, non c’è niente da perdonare. Ti
dispiacerebbe far
preparare della carne fredda in sala da pranzo per colazione? E informa
Anna e
Kristoff."
"Sì,
vostra maestà. Certo."
Fa
un passo avanti, avvertendo dietro di sé i
fratelli—
Due
lupi, che ringhiano e mordono alle sue calcagna.
"Principessa
Anna! Buon giorno."
"Buon
giorno."
"Allora,
è entusiasta per il viaggio di oggi?"
"Carni
fredde a colazione. La mia preferita."
Anna
saltella nervosa su e giù. C’è la
slitta, che viene caricata sul
carro, e Sven, e le guardie a
cavallo—quattro—e—e—
Lancia
uno sguardo a Kristoff e non riesce a guardarlo negli occhi. La
colazione affrettata di fette di carne fredda le si rivolta
spiacevolmente
nello stomaco, e si strofina la faccia con le mani. Quando alza di
nuovo lo
sguardo Viktor e Tomas hanno montato a cavallo, due destrieri bianchi,
e
sembrano principeschi e pomposi e decisamente stupidi,
se glielo si
chiedeva—
"Anna?"
Sobbalza.
"Oh—ehi. Salve."
"Salve."
Si
strofina le braccia, facendo involontariamente un passo indietro verso
il castello, giocherellando col tacco della scarpa sulle pietre che
pavimentano
il portile. Per la prima volta da settimane ha troppo caldo, col
cristallo che
pulsa come un altro cuore sotto il collo alto del vestito che indossa.
Il sole
è troppo forte. Kristoff controlla la badatura di Sven, e
vorrebbe che
guardasse dalla sua parte, solo una volta almeno. "Quindi, allora, ah,
hai
trovato niente, huh?"
"No.
La galleria d’arte era deserta."
Anna
sbuffa dal naso. Stava diventando pazza. Ok, forse non pazza, forse,
cioè, folle—ma folle era meglio o peggio di pazza?
"Ma
stanno nascondendo qualcosa." La voce di Elsa è
così bassa
che a malapena la sente. Sua sorella mantiene ancora una specie di
espressione
serena, mentre sorveglia la crescente confusione nel cortile,
perché il
castello alla fine sta iniziando ad arrivare allo
stato in cui è Anna, e
cioè, sveglio—si lecca le
labbra.
"Sì,
come se non fosse ovvio."
"So
che non ti fidi di Albert—"
"Ma
perché, tu sì? Elsa," Anna si volta verso di lei.
"Guardami negli occhi e dimmi che ti fidi di lui."
Sua
sorella la guarda negli occhi, la bocca si apre appena, e poi scuote la
testa, mordendosi il labbro.
Anna
non dice ha. Non dice niente. Il loro mondo
barcollava
pericolosamente verso l’orlo del precipizio, in quel momento.
Quello che vuole
dire è, ehi, Kristoff mi ha detto che mi ama, e io
non sono riuscita a
dirgli che lo ricambio. Ma sarebbe stato brutto, e abbastanza
egoista,
quindi, cioè, no. Invece dice, "Voglio che se ne vadano."
"Lo
faranno. Mostra loro le montagne. Fagli sentire il freddo. Il
freddo fa soffrire le persone."
"Elsa—"
"Solo
tattica, Anna. Qualcosa che, in quanto regina, devi
conoscere." Non c’è rabbia nella sua voce, solo un
riserbo esausto che ti
riduce fino all’osso.
Anna
si afferra la mano destra con la sinistra, e i suoi occhi incrociano
quelli di Kristoff dall’altra parte del cortile. Il mondo si
ferma,
inciampando, e tutto quello che rimane è quella sua stupida
brutta enorme
faccia—
Perché
ha dovuto dire una cosa del genere, huh?
Vuole
abbracciarlo.
Si
accontenta di mordersi il labbro. Si accontenta di mimare le parole,
"Mi dispiace."
Kristoff
scuote la testa, voltandosi di nuovo verso il carro e Sven.
Complicato,
tutto, solo—argh—
"Anna?"
"Sì?"
"Fai…attenzione,
d’accordo?"
"Psh,
attenzione? Elsa, ti prego. Sono l’epitome
dell’attenzione. Ho
inventato io la parola." Anna ghigna. "Starò benone. Sai che
voglio
aiutarti, e se portarti," abbassa la voce, guardando a terra "questi
imbecilli fuori dai piedi per un paio d’ore e farli
spaventare su nelle
montagne è quello che devo fare, allora devo farlo."
"Grazie."
Elsa sorride, uno di quei sorrisi rari, che le
raggiunge gli occhi, ed è contagioso; Anna sorride di
rimando, stringendo la
sorella in un abbraccio. Elsa rimane rigida per un momento, come
ricordandosi
che può farla, adesso, questa cosa degli abbracci, e poi la
stringe a sé e
bisbiglia, "Mi raccomando."
Anna
le sussurra, di rimando, "Anche tu."
Elsa
guarda la comitiva che se ne va, sei uomini a cavallo e Sven che
trotta avanti al carro che porta la slitta, Kristoff e Anna in testa.
Sono
separati da uno spazio talmente largo che è imbarazzante. Le
spalle di lui sono
tese; quelle di lei, curve. E’ tentata, per un momento, di
richiamarli e farli
tornare nelle ali protettive del cortile, ma non lo fa. Invece li
osserva
mentre se ne vanno, attraverso i cancelli aperti, per la strada
rialzata, nella
città.
La
città.
Il
suo sospiro è più profondo del solito, ricoperto
di ghiaccio ai margini.
"Vostra
maestà?"
Sussulta,
distogliendo lo sguardo da dove l’aveva fisso, il retro della
testa della sorella; Kai è accanto al suo gomito, e ha un
aspetto molto più
composto di prima. Ha il naso rosso. Lancia un’altra occhiata
oltre i cancelli,
ma la comitiva non si vede più. "Sì?"
"Ho
messo le note spese sulla vostra scrivania, affinché siano
approvate prima da voi. Weselton ha inviato un’altra missiva
riguardo
alla—"
Prova
rancore, ma non sa perché. "Bruciala," lo interrompe. Basta
duchi. Basta accordi commerciali con gente dubbia.
“Sì,
vostra maestà," Kai esclama, con un ghigno lupesco,
scribacchiando qualcosa sulla pergamena che ha in mano. Mentre lui
scrive, lei
sorveglia il cortile; parecchi servi, uscendo dal retro delle cucine,
sbadigliano, massaggiandosi articolazioni doloranti nella schiena.
Aggrotta le
ciglia.
Albert
sarà sulla nave.
Esclama,
"Devo fare una brevissima visita al Principe Albert. Ho
bisogno che porti fuori il vino della servitù,
affinché sia controllato."
Kai
sobbalza, ma tutto quello che dice è, "Sì, vostra
maestà."
"Voi,"
attira l’attenzione di due guardie di passaggio con un
rapido cenno di mano. "Con me."
Si
inchinano, e lei si volta, e se ne va.
Segue
il percorso che ha fatto anche la carovana, fuori dai cancelli
aperti, ma invece di andare a destra, nel cuore della città,
vira a sinistra,
verso il porto. Le persone fanno cenni del capo al suo passaggio; le
persone si
inchinano. Annuisce, permettendosi un accenno di quasi sorriso. La
liberà
inebriante che aveva avvertito giorni prima sembra svanita, senza
l’anonimato
del mantello, e deve ricordarsi di mantenere il sorriso, la postura, la
grazia.
Il mercato è luminoso, movimentato, sboccia come un fiore
nell’aria del primo
mattino. Immagina, per un momento, di fermarsi ad annusare le
margherite bianche
del banchetto accanto a lei; immagina di correre alla taverna; immagina
di
ballare.
Arriva
al porto.
"Mastro
Olin," saluta, guardandolo dal muretto che sovrasta il
pontile marrone e segnato dalle intemperie.
L’uomo
sussulta, si volta; regge parecchi fogli di pergamena, stretti nelle
mani brune, e indica una delle navi. I suoi ragazzi, attorno a lui,
eseguono
gli ordini. Fa un mezzo sorriso. "Che piacere, vostra
maestà!"
Ferma
le guardie con un cenno di mano, e prosegue da sola scendendo le
scale che portano al pontile. Domanda, "Niente da riportare?"
"Quasi,
tranne per il fatto che quella nuova nave delle Isole del Sud
sta consumando la maggior parte delle nostre risorse. Pare, vostra
maestà," Olin continua, abbassando la voce mentre lei si
avvicina,
"che sia abitata da— gente riprovevole."
Guarda
in tralice l’enorme vascello, quello ancorato più
vicino, i cui
colori non riconosce. Odia le navi, e il ghiaccio che le schiocca
attorno alle
dita lo prova. Eppure, lo considera con un’occhiata scaltra,
esaminatrice. E’
più sottile degli altri, snello e allungato, il vessillo
delle Isole del Sud
sbatacchiato languidamente dalla tiepida brezza estiva. Dice, "Non
sembra
un vascello mercantile."
"Infatti,
non lo è—è un brigantino. Niente li
eguaglia per velocità, e
sicuramente ‘sti ambasciatori sono arrivati qui in tempo
record."
"Già,
infatti." Osserva uno dei tipi sul ponte, un uomo robusto
con una cicatrice seghettata su un occhio. Odia le navi. "Come
procedono
le riparazioni dell’altra?"
"Procedono.
Un altro paio di giorni, può darsi, e potrà
essere messa
in mare."
"C’è
stato qualche—movimento?"
"Non
che io sappia—e l’abbiamo tenuto costantemente
d’occhio."
"Grazie,
Mastro Olin." Elsa guarda gli uomini che brulicano
davanti a lei, come formiche sui pontili, che trasportano casse enormi
e sacchi
pesanti. Lo ripete. "Grazie."
Avanza,
a testa alta, e gli uomini si spostano di lato come un mare che si
apre, alcuni armeggiando immediatamente per togliersi il cappello,
alcuni
inchinandosi profondamente. Ascolta il picchiare sordo delle proprie
scarpette
contro il legno, osserva le navi passare, vascelli mercantili, come
quello che
se li era portati via per due settimane. Non riesce nemmeno a
immaginare di
salire su una nave. Com’è che dicevano, i marinai?
Il
mare, volubile padrona e crudele assai—
Prega
per chi, disgraziato, vi si avventura;
Perché,
altrimenti, la sua testa vedrai
Galleggiare
sull’acqua scura.
Si
ferma accanto alla nave, ma i suoi pensieri erano stati
occupati
troppo dalla luce delle stelle e dal ballare da soffermarsi sui due
ritratti
nel corridoio. Due settimane, avevano detto. Un uomo passa accanto al
ballatoio, e lo chiama, "Signore."
Il
marinaio sussulta. C’è qualcosa di familiare
nell’espressione incredula,
nel naso grosso, la pelle segnata dalle intemperie, e le rammentano un
giorno
che sembra appartenere a una vita fa, quando ha chiesto di vedere un
uomo che
non conosceva, e che ancora non conosce, non davvero.
Sarebbe
stata una brutta cosa, conoscerlo?
Esclama,
"Per favore, mi vada a chiamare il Principe Albert." Lo
stomaco le si chiude, le budella si aggrovigliano, e non per la stazza
delle
navi avanti a sé. Riesce solo a sentire Anna, echi della
mattina, la galleria
d’arte vuota. L’uomo la guarda sbattendo le ciglia.
"Mi
scusa, maestà, ma se n’è andato un poco
di tempo fa."
E
lo stomaco sprofonda.
Il
ghiaccio si cristallizza sotto i suoi piedi, ma mantiene la voce ferma.
"Il motivo?"
"Non
so di preciso. Ha detto che tornava."
"Sì,"
annuisce, brusca. "Beh, grazie."
"Quando
volete, maestà," fa il marinaio, anche se non sembra
averlo detto con convinzione, anche se ha l’aria di uno che
spera che lo lasci
tornare al proprio lavoro, e lo accontenta. Gira i tacchi, cammina
lungo il
porto, oltrepassa gli uomini che si inchinano e la salutano
meravigliati, e,
per la prima volta, è sconvolta, e non riesce a rispondere
in maniera
appropriata—i loro volti si confondono e diventano un mare di
pelle e occhi
curiosi, le navi
che li sovrastano sono
nuvole di tempesta.
Probabilmente
è andato a trovare Petter e Klara.
Si
sta arrampicando sugli specchi.
Era
sembrato così sincero, pensa, frenetica, con la voglia di
stringersi le
tempie, di richiamare alle punte delle dita la maledizione, per
posarvele e
dare sollievo al mal di testa che iniziava a pulsare lì. Era
sembrato così
sincero; ma poi l’atteggiamento coi fratelli, e—
"Dovrebbe
saperlo, non li ritengo particolarmente affidabili."
"Non
lo sono. Mi creda."
Elsa
chiude gli occhi, tentando di lasciare al rumore di sottofondo che
calmasse i suoi nervi in fiamme, ma tutto quello che fa è
renderla
improvvisamente, orribilmente consapevole del fatto che è
circondata da persone.
Cosa
non avrebbe dato per una porta chiusa.
"Che
tempo che fa, eh?"
"Già."
"Già,
voglio dire, cioè—cioè, è
super assurdo quanto faccia freddo qua
sopra, tanto da—credo che mi piacerebbe provare a cavare il
ghiaccio, mi
porteresti a cavare il ghiaccio?"
"Certo."
Si
sta spezzando. Vuole dirlo, davvero, ma non riesce ad aprire bocca.
Guarda gli alberi oltrepassarli, scuri e spogli, ritorti, rami curvi
coperti di
bianco. Si sono lasciati dietro il carro, e riesce a sentire i cavalli
affaticarsi per tenere il passo con la slitta. Sven va piuttosto
veloce. Vuole
dirlo. Si guarda indietro, ma i principi sono a quasi cinque metri di
distanza,
e le guardie ancora più lontano, quindi si rigira e stringe
le mani a pugno in
grembo e si morde il labbro e perché lui le rendeva le cose
così difficili—"Sentiscusaok?"
"Che?"
chiede.
"Scusa,"
sibila lei.
"Aspetta,
che hai detto, non ho sentito—"
"Kristopher!"
Le
lancia un’occhiata con l’ombra di un sorriso, ma
poi svanisce subito e
il momento è passato e torna a fissare il sentiero avanti a
loro. Anna non
sapeva dove stessero andando, esattamente, solo in qualche posto in alto
e molto freddo per far scappare a gambe levate un
paio di ambasciatori
cretini. Si risistema nella slitta, ed è come la prima
volta, tutti e due
fianco a fianco—
"Vuoi
dirmi che hai conosciuto un uomo e ti ci sei fidanzata nello
stesso giorno?"
"E’
vero amore!"
Si
afferra la mano destra con la sinistra. "Mi dispiace non averti
detto che ti ricambio."
"Niente
di che, lasciamo perdere, ok?"
"Aspetta,
che? No, no che non possiamo. Dobbiamo parlarne."
"No,
invece no."
"Quindi
mi—mi stai tagliando fuori?"
"Non
ti—Anna, ti prego." Kristoff chiude gli occhi. Vuole
baciarlo. Vuole urlare.
"Sì.
Sì, invece—credi che non sappia che significa
essere tagliata
fuori? Perché ti racconterò una storia, che
inizia con la p e finisce con o—"
ma prima di finire pensa a porte aperte, il che
la riporta direttamente ad Hans, il che la riporta indietro alla sua stupidità,
quindi lascia cadere il discorso. La slitta rallenta, e tagliano per un
sentiero su per la montagna. La neve si fa più alta,
nascondendo il terreno
nero e ghiacciato sotto di essa. Quest’inverno non era il
bellissimo reticolo
di ghiaccio creato da Elsa. Era sporco, intricato e pericoloso.
"Non
sono io quello che sbatte le porte in faccia alle persone,"
Kristoff borbotta di rimando.
Anna
incrocia le braccia, indignata. "Scusami? Non
escludo
nessuno—mi piacciono le porte aperte, io sposerei
le porte
aperte—"
"E
allora perché gli permetti ancora di rovinarti la vita?"
Kristoff scatta, schioccando le redini.
Le
sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco. "Che?"
"Sei
ancora—" geme, e per un momento le redini gli scivolano.
Quasi automaticamente, Anna allunga la mano per afferrarle, e si
toccano, un
calore che riesce ad avvertire anche attraverso i guanti, un calore
più forte
di quello del cristallo di fuoco posato accanto al cuore. Entrambe
ritirano la
mano con aria colpevole, in fretta. Lui si strofina la nuca, facendo
cenno a
Sven di proseguire quando la renna si volta, preoccupata. "Ma"
continua, imbarazzato, "—ma di cos’è che
hai paura?"
"No,
perché? Perché mi escludi sempre?
Perché
tagli sempre il mondo fuori? Ma di cos’è che hai
paura?!"
Oh.
Oh.
Oh,
cielo.
"Senti,"
Kristoff dice, ancora un mormorio basso, ancora lo
sguardo rivolto di lato, a disagio. "Senti, io non—io voglio
solo—vuoi
troncare?" Indica prima se stesso e poi lei, l’espressione di
chi soffre.
Si volta di nuovo verso il sentiero. "Non voglio—forzarti a
fare niente,
non è—non voglio."
E’
ancora parecchi passi indietro, al ma di
cos’è che hai paura, e
il suo cervello sta elaborando il tutto lentamente, troppo lentamente.
"Io—"
"Avete
intenzione di fermarvi presto?" uno dei principi chiede a
gran voce.
Kristoff
è in preda alla collera, e lei riesce a sentirlo, sospeso
tra di
loro, politica, cosa ne sai tu, sii diplomatica.
Risponde, scorbutico,
"Sì."
Anna
incrocia le braccia. Nonostante tutti i vestiti, e il calore del
cristallo, rabbrividisce, lungo tutta la schiena, fino alle punte delle
dita.
Non
preoccuparti,
pensa.
Solo
qualcuno che calpesta la mia tomba.
Non
ha senso.
Per
niente.
Ti
sta usando.
Elsa
è quasi, quasi grata di essere fuori dal
mare di volti e voci,
di ritorno nel cortile del castello, ma i cancelli aperti ghignano
maligni
dietro di lei. Li vuole chiusi, in tutto e per tutto sbarrati, per la
prima
volta dall’incidente. Tornare sui propri passi, pensa,
stringendosi forte tra
le braccia, sarebbe stato facile. Una sola parola.
Doveva
arrivare fino al fondo di quella situazione, e l’unico modo
per
farlo sarebbe stato trovare Albert, e chiedere spiegazioni.
Avrebbe—avrebbe
mandato dei messaggeri in giro a cercarlo—
Ti
sta usando.
No.
No, doveva solo—solo questa volta—
Fa
il primo passo all’interno del castello, anticipando la lunga
camminata
nel corridoio dei ritratti, gli occhi che la fissano calmi, accusatori,
come
hai potuto pensare a lui, lasciare che lui ti parlasse in quel modo,
permettergli di suggerire quelle cose, sei una regina, sei una regina,
sei—
Ogni
passo diventa ghiaccio, e poi neve alta. Abbassa lo sguardo,
allarmata.
Stai
calma. Stai—
Avrebbe
risolto tutto, avrebbe. Doveva.
Stai—
Qualcuno
strilla.
Agghiacciante,
riecheggia e si diffonde nell’aria mattutina, facendole male
ai timpani, spaventandola a tal punto che la neve allarga la sua morsa,
come un
ragno, su per le scale fino alla sala d’ingresso, passando
dalle porte
socchiuse. Le guardie stanno già accorrendo, e anche lei,
seguendo il suono
morente della voce, attorno alle stalle e nel retro del castello.
Arriva ai
cancelli posteriori, il cuore che martella, una scia di ghiaccio che la
segue.
C’è una servetta che regge un grosso cesto di
bucce di patate, pallidissima,
che guarda a bocca aperta il mucchio di spazzatura di fronte a
sé.
"Che
è successo?" Elsa chiede, tagliente, cercando di stare calma,
calma, calma—
"Vostra
maestà!" La serva la guarda, orripilata, e si piega in un
inchino, ma mentre lo fa riesce a far cadere il cesto.
"Che
è successo?" Elsa ripete. Le guardie
l’hanno quasi
raggiunta, le spade che sbattono contro i fianchi. "Cosa è
accaduto?"
La
ragazza si stringe il petto e indica il cumulo di spazzatura. Sembra
impaurita, ma Elsa non sa se è per la propria presenza, le
bucce rovesciate, o
per qualunque fosse stata la cosa che l’aveva spaventata in
primo
luogo—"Ecco, lì, ho trovato—proprio
lì—una mano!"
"Cosa?"
Elsa chiede, gli occhi stretti per la confusione. Fa tre
passi, spingendosi verso la montagnola. L’odore era
già pregnante e
stucchevole, nell’aria estiva, una puzza disgustosamente
dolciastra che li
copriva come velluto. Vede ogni genere di buccia scartata, ortaggi e
terra, e
poi—
C’è
una mano, tinta di rosso scarlatto.
Aggrotta
le ciglia, sbatte le palpebre, pensa che una volta riaperti gli
occhi, l’allucinazione sarebbe scomparsa, si sarebbe provata
fasulla, ma era
ancora lì—allunga tentativamente una mano, poi si
ferma; con mano tremante
sposta un po’ di spazzatura di lato, abbastanza da
intravedere dei ricci
castani—
No.
"Aiutatemi!"
rantola, lanciando via immediatamente sporco e
spazzatura, e non le importa del decoro, delle proprie mani. "Subito!"
Una
delle guardie afferra le dita che spuntano e l’altra il
braccio, e
assieme tirano. Il corpo viene via dal mucchio di spazzatura con un
risucchio,
ed eccolo steso a terra sulla pietra, bianco come un morto, il sangue
che
gocciola ancora da una ferita aperta lungo lo stomaco, incrostata di
fango e
sudiciume. I suoi occhi sono chiusi.
"Al—Albert?"
Elsa chiede, cadendo sulle ginocchia. C’è dello
sporco sul dorso delle mani pallide, come la roba che lui ha
appiccicata sulla
fronte. Lo chiede perché non riesce a crederci, eppure lo
fa, e—"Chiamatemi
il medico!" grida, e la sua voce è stridula come
mai l’aveva sentita
prima—è un’emozione nuova, questa paura
matta, più della rabbia che in
precedenza aveva provato nei confronti del principe, più
simile all’onda
dirompente di dolore di tua sorella è morta—"Albert,"
esclama,
le dita che appena toccano i suoi ricci. "Albert, devi svegliarti.
Questa
non è una richiesta, è un ordine."
Gli
occhi di lui rimangono chiusi, e il mondo si muove troppo lentamente.
Sussurra,
tra sé e sé "Ti prego."
Echi
di—
"Ti
prego."
—luce
delle stelle.
"Ti
prego."
.
.
(nulla.)
|
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Capitolo
14
Note
della traduttrice:
Vi potrà capitare, nel
capitolo seguente, di riconoscere una citazione quasi letterale di una
battuta
tratta dal film “Lo Hobbit: La desolazione di
Smaug”. E’ una specie di
“gioco”
che l’autrice fa, nei capitoli precedenti, infatti, sono
presenti allusioni a
Hercules, Mulan e il Re Leone.
Perdonatemi,
inoltre, se
non ho ancora risposto alle recensioni, ma non ho avuto proprio tempo.
Risponderò quanto prima.
"Devi
imparare a controllarti."
"Pensi
che non ci stia provando?" ruggisce,
ed ecco il dolore familiare che si liquefa lungo le braccia, si
raccoglie alle
punte delle dita. Il fuoco prorompe dalle mani guantate, consumando
tutta la
stoffa bianca, che cade al suolo, bruciata e annerita. Il quinto paio,
quel giorno,
e non era nemmeno mezzogiorno. Strizza gli occhi,
inspira-espira-inspira, ma il
battito cardiaco accelera rapidamente e il dolore intenso, che fonde,
avanza
ancora, e il fuoco colpisce il pavimento di pietra, si sposta sul
ciglio della
cella, e fa diventare le sbarre arancioni, poi rosse.
Di
nuovo in cella. Era troppo pericoloso, e quindi
l’avevano messo di nuovo in cella, dove tutto quello che
poteva bruciare erano
paia di guanti e le suole dei propri stivali—
E
poi la sua testa è scaraventata all’indietro, e
sbatte contro il muro opposto, inciampando poi sui resti abbandonati
della
propria brandina, e cade in un angolo. Il fuoco si ferma. Alza lo
sguardo, strofinandosi
la mascella, sentendo un livido bluastro-viola che inizia a formarsi.
Il re
torreggia su di lui, guardando disgustato i pezzi bruciacchiati dei propri
guanti, anneriti sulle nocche dove la sua mano aveva toccato il viso di
Hans.
Hans
ringhia, "Perché—"
"Se
non impari a controllarlo," King Alfons dice,
le ginocchia che scricchiolano mentre si piega, poggiandovi sopra le
mani, la
testa piegata di lato, "se non ci riesci, dovrò trovare
qualcuno che ci
riesca."
Hans
sputa. Furia, che ribolle sotto la superficie
della pelle, fa puzzare vagamente la cella di carne bruciata. Il re si
alza. Si
volta.
"I
tuoi fratelli saranno presto di ritorno da
Arendelle, col loro trofeo. Sospetto che tu abbia tre giorni, forse
quattro. Cinque,
se gli dei ti sorridono." Pausa. "Ti suggerisco di utilizzare bene
questo lasso di tempo, no?"
Hans
si sente come se una bomba gli fosse scoppiata
dentro le ossa, tutto è fuoco, dolore e agonia. Esclama, a
denti stretti,
"Che trofeo? Se non mi dici niente—"
"Il
trofeo che ci procurerà quello che tu non sei
riuscito a fare, fratellino," il sorriso del re è a malapena
un movimento
delle labbra. Si volta di nuovo, per andarsene.
"E
cioè?" Hans cerca di impedire alla
propria voce di avere un tono disperato, ma fallisce.
"La
completa e totale cooperazione della
regina Elsa."
"Dobbiamo
cauterizzare la ferita, e in fretta!"
Elsa
stringe i pugni così tanto che le unghie le si
conficcano nel palmo facendolo sanguinare, piccole lune rosse
crescenti. Riesce
a trovare la voce. "Mettetelo sul tavolo." Le guardie la guardano,
piuttosto
scioccate, ma la sala da pranzo era un posto come un altro—
Agita
la mano, convulsamente, e quello che era rimasto
dalla mattina—carni fredde e coppe di acqua e calici di vino
e l’onnipresente
pane—volano contro il muro opposto, trasportati da una brezza
gelida che
congela gli spigoli del ripiano del tavolo e fa traballare
pericolosamente il
fuoco nel caminetto. Il cibo si spiaccica come sangue contro il
rosemåling. Il
medico, un uomo smilzo conosciuto col nome Knut, si aggiusta teso il
monocolo e
urla, "Sul tavolo, allora!"
Le
guardie, una che regge la testa di Albert, e
l’altra le gambe, lo sistemano in fretta, poggiandolo sul
mogano scuro. Un
altro dei suoi uomini tiene già ferma una lama sul fuoco del
caminetto. Elsa osserva
il metallo diventare incandescente con lo stomaco che si contorce.
"Dovete—"
si blocca, un malfermo passo in avanti, cercando ancora di capire dove
fosse—"Dovete
proprio?"
"Se
non lo facciamo," Knut fa, facendo
scivolare un pugnale sotto la tunica di Albert e strappando via il
tessuto
marrone-rossastro, "morirà dissanguato." Si ricorda di
aggiungere,
all’ultimo secondo, "Vostra maestà."
"Veloci,
allora," una delle guardie che
aveva portato via Albert dal mucchio dei rifiuti esclama, cupo,
sfilandosi la
cinghia di cuoio della spada e infilandola tra le labbra inerti di
Albert, e
poi preme le mani sulle spalle del principe per tenerlo fermo. "E tu,
le
gambe."
Non
capisce. Perché dovevano immobilizzarlo?
Perché—fa
un passo avanti, per aiutarli, il cuore che le martella in petto un
ritmo
irregolare, e il medico dice, "Mettete il piatto della lama
direttamente
nella ferita."
Elsa
tende la mano, allunga il braccio, per aiutare,
per fare qualsiasi cosa—
"Vostra
maestà?" Knut fa una smorfia. "Vi
consiglio di distogliere lo sguardo."
Scuote
la testa, premendo le labbra, ed ecco che
l’uomo preme il piatto della lama incandescente conto lo
stomaco scoperto di
Albert—
E
Albert urla.
Svegliandosi,
all’improvviso, si dibatte, quasi
scaraventando via la guardia che gli immobilizza le spalle, la voce che
gli
graffia la gola come chiodi. Il cuore di Elsa si ferma. Si copre la
bocca con
le mani, le preme; ci mette un po’per capire perché—perché
anche lei sta
urlando, e deve soffocare le grida, subito, subito.
Il ghiaccio insinua
i propri artigli sul pavimento della sala da pranzo. La temperatura
nella
stanza cala vertiginosamente. Albert urla, in preda ai conati, e il
medico dice,
cupo, "Rigirate la lama!"
La
guardia fa come gli è ordinato.
Elsa
riesce a malapena a sopportarlo.
E
poi Knut è in piedi di fronte a lei, proprio lì,
e
per farlo ha dovuto farsi strada in un metro e mezzo di neve. Dice,
piano, con
cautela, "Regina Elsa, questo problema richiede capacità di
guarigione che
io non posseggo."
"Ma
avete cauterizzato," sussurra, da dietro
le dita.
"Per
guadagnare tempo. Non sappiamo dire che
danno ci sia, all’interno."
"Ma
ha smesso di sanguinare."
"Potremmo
aver bisogno di riaprire la ferita."
I
respiri di Albert sono più lenti, ma è bianco
come
il nevischio che Elsa ha attorno ai piedi. Guarigione. Guarigione,
guaritori, aveva
bisogno di—
Si
toglie la mano dalla bocca, echi delle urla che
ancora riecheggiano nella sala da pranzo, e chiede, "Riuscite a tenerlo
vivo fino al mio ritorno?"
Il
medico deglutisce. "Vostra maestà, non posso
promettere niente."
Guarda
l’uomo disteso e considera l’idea, per un
momento, di prendergli la mano, ma a cosa sarebbe servito? A niente.
Niente, nessuna
promessa, la realtà che si disgrega ai margini. Nessuna
promessa. "Allora
fate del vostro meglio."
"Sì,
Vostra maestà."
"Preparate
il mio cavallo," ordina.
Anna
se ne sta lì in piedi, le braccia incrociate
sotto il mantello, gli stivali che affondano nella neve fresca e
soffice, e
capisce perché Kristoff la adora.
Davanti
a lei, che si stende fino all’orizzonte, non
c’è nient’altro che aria fredda di
montagna e sole che si riflette brillando
sui picchi innevati, tanto luminoso da costringerla a strizzare gli
occhi. C’è
silenzio, ma non il tipo di silenzio inquietante—non
col vento che
soffia fischiando tra le rocce nude, cantando piano, mentre scuote gli
alberi
dietro di loro. E’ crudo, vivo. Gli abeti dietro di loro
proiettano le ombre
simili a denti storti, spezzati. Sa dove si trova; quella rupe, sotto
il
castello di Elsa, tranne per il fatto che questa volta non
c’era un mostro di
neve gigante a spaventarli e a farli precipitare.
Ed
era una bella caduta. Neve fresca o no.
Si
guarda alle spalle, chiedendosi se sia ancora lì, come
una cosa morta, sospeso, e in attesa, o se si sia sciolto con la
partenza di
Elsa, lasciando al suo posto un ghiacciaio che si scioglie. Anna si
guarda le
mani, mordendosi il labbro, e poi agita tentativamente le dita coperte
dai
guanti, immaginandosi del ghiaccio spuntare da esse, tipo whoom.
Ha.
Volge
di nuovo lo sguardo al paesaggio innevato. E’
abbastanza da far spalancare la bocca per la meraviglia a chiunque,
tranne
forse i due stupidi principi delle stupide
Isole del Sud, che si limitavano
a fissare, più o meno, come se stessero assistendo a una
qualche mostra d’arte
a tema neve, e che tutto quello non fosse più impressionante
di Giuditta che
regge la testa di quel generale, quindi, cioè, quello che
è.
I
cavalli nitriscono tra gli alberi dietro di loro. Non
riesce a vederli, e nemmeno le guardie, e riesce a immaginare, per un
momento,
di essere, a parte Kristoff, totalmente sola. Pensa, mentre lo guarda,
accanto
a lei, mentre lo osserva pulirsi il naso con una manica, una smorfia
che gli
prende tutta la faccia, pensa, bel lavoro, ragazza,
perché se questo
non urlava impenetrabile allora niente
poteva farlo. Lui la becca a fissarlo e la il cipiglio si fa
più marcato e Anna
schizza con lo sguardo di nuovo fisso al panorama innevato e prova a
fischiettare. Fa troppo freddo per fischiare, scopre, e quindi
ricomincia a
cercare di far riprendere sensibilità alle dite, sbattendole
assieme.
"E’
davvero impressionante," Tomas fa notare,
strusciando uno stivale nella neve fitta, osservandola separarsi
davanti a sé.
"Eri al corrente del fatto che Arendelle fosse così ben
protetta, fratello?"
"No
davvero," Viktor risponde, un po’ goffo.
Tomas
fa un passo, poi due, verso l’orlo del
precipizio. E’ un’altezza che fa venire le
vertigini; Anna ricorda, perché
essere tenuta appesa su un precipizio di sessanta metri (cento?
duecento? Più
un milione) da un mostro di neve arrabbiato di
certo tendeva a, cioè, imprimerti
a fuoco le cose nel cervello—e dice,
d’impulso, "State attenti," anche
se non c’è poi tanta intenzione
dietro. Solo due parole. State
attenti. Suonava meglio di vi prego scivolate e
cadete, sarebbe carino
da parte vostra, in realtà—
Ok,
era molte cose, ma un’assassina? Proprio
no.
"Bella
caduta, non è così?" Tomas borbotta,
come parlando a sé stesso. "Trenta metri?"
"Sessanta,"
Kristoff corregge
automaticamente, e poi ha tutta l’aria di essere infastidito,
persino
arrabbiato. Incrocia le braccia, guardando male la parte di cielo alla
propria
sinistra. Viktor fa un cenno col mento. "Fatti indietro, fratello. Non
voglio venire a raccogliere le tue budella."
"Ci
sono dieci metri di neve fresca, laggiù,"
Kristoff borbotta, ma lo sentono tutti.
"Atterraggio
morbido dunque, eh?" Tomas ridacchia,
lanciando loro un’occhiata. Anna si morde il labbro. Kristoff
si limita a
restare lì, a fissarli. Tomas continua, "Perché
non ci fermiamo a mangiare
qui? E’ un posto come un altro, e il paesaggio è
semplicemente mozzafiato."
Kristoff
scrolla le spalle. Deve comportarsi da
principessa, non è così, maledizione—fa
un sorriso tirato. "Magnifica
idea. Vado a prendere il—"
"Non
ce n’è bisogno," Tomas sorride. "Mio
fratello e io siamo vostri ospiti. Il minimo che possiamo fare
è prendere il
cesto, no?"
E
prima che possa controbattere di nuovo, si dirigono
verso il margine della radura. Anna li guarda farsi sempre
più piccoli, e alla
fine scompaiono dietro i tronchi. Senza pensarci troppo, afferra la
mano di
Kristoff, riuscendo ad afferrargli, attraverso i guanti, il mignolo e
l’anulare.
Dopo un momento, due, lui le prende la mano come si deve, coprendo
completamente il guanto blu col suo, e le chiede, "Cos’hai?"
"Ho?
Non ho niente, sto bene. Così bene. Più che
bene. Ho fame. Hai fame? Oh, pensa se Elsa ci ha
fatto preparare il cioccolato—"
"Calmati."
"Ehi,
Kristoff. Riguardo—riguardo a prima, quello
che volevo dire—"
"Non
dire niente," brontola, guardando a
disagio di lato, ma non le lascia la mano e Anna lo interpreta come un
buon
segno. "Possiamo—possiamo parlarne un volta che non dobbiamo
più occuparci
di questi perdenti."
Sbuffa
dal naso, Piegando la testa di lato, in modo da
appoggiarla sul suo braccio. La lascia lì, le piace la
sensazione. "Perdenti.
Bella parola. Che ne dici di miserabili?"
"Ma
se sono dei reali."
"Kristopher,
ti prego. Non saranno mai reali.
Non come, reali da re, comunque—"
"Cosa
te lo fa dire?"
"Giocano,"
esclama, stringendo gli occhi
contro il riverbero della neve avanti a lei, "ma non molto bene."
"Stiamo
giocando?"
"Metaforicamente.
Ma nemmeno io sono molto brava.
Elsa è la migliore." Anna sospira, facendo svolazzare la
frangetta. "Vorrei
tanto essere come te."
"Un…maschio?"
"No,
stupido. Un venditore di ghiaccio. E
poi potremmo avere il nostro club privato dei venditori di ghiaccio, e
faremmo
entrare solo persone fighe, il che non includerebbe nessuno che ha il
cognome delle
Isole del Sud."
"…tu
sei matta."
Gli
stringe di più la mano.
"Kristoff?"
"Huh?"
"Non
voglio tagliarti fuori," sussurra, e
può solo sperare che riesca a trasmettere tutto quello che
vorrebbe dire, ma
che non può, non ancora. Kristoff si irrigidisce; e Anna lo
riesce a sentire
sotto la testa, la tensione dei muscoli del braccio, il respiro tirato
in
dentro di botto. Alla fine si abbassa, un po’ goffo, e le
bacia brevemente la
fronte.
"Ti
credo," sussurra lui di rimando.
Aumenta
la stretta sulla mano di lui e non vuole
lasciarla più andare.
Esalazioni
di vapore si innalzano in aria con uno ssss,
e la scia di ghiaccio che la segue—fin dal cortile del
palazzo—si scioglie poco
dopo essersi formata, circondata dalle rocce spruzzate di muschio e dai
piccoli
geyser. Elsa tira le redini di scatto, il cavallo nitrisce impaziente.
Ha l’affanno;
l’aveva spinto al massimo, per tutta la strada fin da
Arendelle, su un sentiero
che aveva fatto solo due volte prima, tutte e due delle quali in preda
al
terrore, e anche questa volta—
La
terza volta è quella buona,
pensa. Era stato un
miracolo che si fosse ricordata la strada fino a quel punto. Lo
attribuisce
all’adrenalina, che riesce praticamente a sentire mentre
le pulsa nelle
vene come fuoco liquido, rendendo i colori più vividi, i
pensieri più veloci. Tempeste,
ghiaccio e gelo—a che serve questa maledizione se non posso
aiutarci le persone?
Smonta
da cavallo, sollevandosi gli orli delle gonne
con una mano, e usando l’altra per accarezzare il fianco del
cavallo, grata.
"Grazie," sussurra. "Aspetta qui."
Va
via di fretta.
La
vallata è invitante, e si chiede, mentre avanza
nell’erba lussureggiante, che diventa prima marrone chiaro,
poi scuro, e poi
morta, si chiede se ci sarebbe mai andata per qualche altra ragione che
non
fosse stata necessità, solo per dire ciao. Pensa ad Albert,
che sta morendo
sulla tavola da pranzo, e sa che, in qualche modo, anche questo era
colpa sua. Riesce
a sentirlo.
Come?
Perché?
Non
importa.
Si
ferma, esaminando le formazioni rocciose, disposte come
le spire di uno strano serpente marino dato alla luce sulla terra. Le
cose
sembravano diverse sotto il sole; le rocce meno invitanti, un grigio
sbiadito,
sotto quei raggi. Apre la bocca, ma non emette suono, e deve stringere
le mani
a pugno contro i fianchi. "Salve?" riesce a dire alla fine. "Papi?"
Non
c’è alcun movimento.
"Papi,
per favore, è—è il mio—il mio
amico, è—mortalmente
ferito. Non possiamo guarirlo senza magia."
Pausa.
Aspetta. Ancora, nulla, a parte l’eco della
propria voce in tutta la valle, come le urla di Albert nella sala da
pranzo. Torce
le mani, si tira la treccia. Apre la bocca per dire
qualcosa—qualsiasi cosa –in
più, solo che sente un rumore, pietra su terra, che rotola
nella sua direzione.
Si guarda attorno, nella radura vuota, e poi gli occhi mettono a fuoco
l’unico
masso che va verso di lei; alla fine spunta un troll, che sbatte
assonnato le
palpebre, una fila di cristalli rosa appesi al collo e ciuffi di erba
ingiallita che le fanno da capelli, spuntando dalla testa. Elsa
comincia, in
fretta, "Scusatemi, tanto, ma ho davvero bisogno—"
"Tesoro,"
il troll esclama, sopprimendo uno
sbadiglio, "devi chiudere il becco, altrimenti svegli i bambini."
"Mi
scusi?"
"Dormono
tutti," il troll sbadiglia, strofinandosi
i grandi occhi grigi. "E vedere persone che arrivano qui a tutte le
ore—"
Il troll si interrompe. La
guarda,
sbattendo le palpebre. Scuote la testa di acquistare
lucidità, si aggiusta il
vestito fatto di muschio. Poi, a bocca aperta, chiede incredula,
"Regina Elsa?"
"Sì,
sì, mi dispiace, è che—per favore," la
voce di Elsa è diventata un sussurro bassissimo, "per
favore, devo parlare
con Papi. E’ urgente."
"Senza
dubbio, visto che sei venuta qui a un’ora
del genere—aspetta un secondo, vado a prenderlo. Non ti
muovere," il troll
la avverte con la sua voce profonda, vellutata, prima di rotolare via,
fuori
campo visivo. Elsa sente strati di ghiaccio formarsi sulla
sommità delle
scarpette nere, lottare per attecchire al suolo della valle mite e
fertile.
Sente
rumore di ciottoli, ed ecco due rocce venire
verso di lei. Sbatte le palpebre. Il troll con i cristalli rosa appare
di nuovo,
assieme a Papi, sul viso un’espressione grave e triste al di
sotto della
criniera leonina di erba. "Regina Elsa?"
"Mi
spiace tantissimo," Elsa bisbiglia,
torcendosi le mani, "ma il mio amico, è stato ferito, e non
riusciamo a
curarlo. Sta morendo. Ti prego, Papi, abbiamo bisogno della
magia—"
"Ma
maestà," il vecchio troll brontola, avvicinandosi
a lei con espressione esausta, "anche tu hai dei poteri magici."
"No,"
sussurra lei, agitando avanti e
indietro le dita, osservando schegge di ghiaccio piantarsi al suolo.
"Ho
una maledizione. Non posso guarirlo."
Papi
apre la bocca, come se stesse per aggiungere
qualcosa, e poi la chiude piano, scuotendo leggermente la testa.
"Dov’è?"
"Al
castello."
"Verrò
con te. Bulda, ti lascio in carica, mentre
sono via."
"In
carica? Col cavolo—il mio bambino sta dalle
tue parti, non è così?" il troll chiamato Bulda
chiede, eccitata. Elsa si
risparmia l’obbligo di dover raccontare tutta la storia
grazie a Papi che dice "Bulda,
non è questo il momento."
"Beh,
se vedi Kristoff, digli di venirmi a fare
visita, okay? Digli che mi preoccupo per lui—"
"Bulda,"
Papi avverte.
L’altro
troll alza gli occhi.
Papi
posa lo sguardo arguto su di lei, ed Elsa rabbrividisce.
Dice, lentamente, "Ti seguo."
Elsa
si volta.
Corre.
Anna
osserva il panorama davanti a sé e indica vaga un
punto alla propria sinistra, un gruppetto di alberi scuri e collinette
misteriose appena visibili in lontananza, solo che forse indica con un po’ troppo entusiasmo,
perché il braccio
di Kristoff si alza di scatto e le impedisce di avanzare. Un mucchietto
di neve
scivola giù dall’orlo del precipizio. "Sei mai
stato laggiù?" chiede,
appoggiando le mani sul suo braccio e spingendo giù con
forza. Non lo muove di
un millimetro.
"Puoi
farti indietro di tipo, tre metri, per
favore?"
"Sei
maiiiiii—"
"Sì,
okay, ci sono stato. Una volta."
"E
invece la—"
"Tre
metri, furia scatenata."
"—ggiù?"
Passi,
che scricchiolano sulla neve, e si volta verso
gli abeti in tempo per vedere Viktor e Tomas venirne fuori,
trasportando un
grosso cesto di vimini intrecciato fitto fitto, profilato di stoffa
rossa.
Kristoff borbotta qualcosa a proposito dei muli e fa un passo avanti, e
si
trascina dietro Anna. E lei, cioè, ha capito,
significa: allontanati dal bordo—un
paio di passi e Kristoff si ferma, e inizia a scavare col lato dello
stivale,
sollevando un mucchietto di neve, che ammassa cercando di dargli la
forma
approssimativa di una specie di tavolino basso. Anna si accovaccia,
picchiando
i lati del mucchietto per aiutarlo.
"Non
si poteva desiderare un posto migliore per
pranzare," uno dei gemelli dice. Anna si soffia via i capelli dalla
faccia, e si alza cercando di non mostrarsi troppo infastidita, cosa
che
probabilmente fallisce miseramente, ma tanto. L’altro gemello
dice, "Le
guardie ci hanno già messo a bollire dell’acqua da
bere," e picchietta una
borraccia che tiene appesa al fianco.
"Acqua
bollita," Kristoff borbotta, "la
mia preferita."
Il
volto del gemello si irrigidisce. Anna ci mette un
momento a rendersi conto che si tratta di Tomas, il più
smilzo. "A dire il
vero, la Regina Elsa ci ha fatto preparare delle foglie da
tè. Preferiresti
qualcos’altro?"
"Acqua
bollita," Kristoff scatta.
Tomas
scrolla le spalle lentamente, con cautela, osservando
suo fratello sistemare il cesto sul tavolo provvisorio. "E’
un po’ che lo
volevo chiedere—ma esattamente, qual è la tua
relazione con la famiglia reale? Sua
maestà ci ha informato che saresti stato la nostra guida, il
che implica una
qualche forma di fiducia, ma le tue maniere da selvaggio e rozzo
—"
"E’
il Reale Venditore e Fattorino di ghiaccio,"
Anna li interrompe, stizzita, il gomito già piantato nel
fianco di Kristoff, per
dirgli calmo calmo calmo—"Che, ad
Arendelle, sarebbe, cioè, l’equivalente
di un duca. O un marchese."
"Hm,"
è tutto quello che Tomas risponde. È
uno hm che non le piace, che insinua qualcos’altro
e a questo
punto tanto vale sguainare le spade, perché tutto quel
girare in tondo attorno
alle cose era ridicolo, totalmenteorribilmenteridicolo—e non odiava
girare
in tondo, lo amava, davvero—solo che adesso lo odiava,
davvero lo odiava, perché
l’ultima volta che aveva girato in tondo era tra le braccia
di quel cretino del
loro fratello—troppi fratelli.
Disgustoso.
Anna
si stringe le mani, poi si morde il labbro per
evitare di dire qualcosa di stupido, ed esclama, "Beh, mangiamo, in
modo
da poter, sapete, no, continuare col tour di queste montagne molto
alte,
molto grandi."
Il
che, forse, era un poco esagerato, ma ormai.
Oops, e tutto il resto.
Apre
il cesto e tira fuori uno dei tramezzini incartati
per bene. Kristoff borbotta vagamente di non aver fame, e si volta, e
si
allontana di un paio di passi, le braccia incrociate e la bocca
contorta da una
smorfia decisa, cosa che lei ritiene positiva, tutto sommato,
perché, cioè, non
aveva davvero voglia che iniziassero a prendersi a pugni, e comunque,
lei li
avrebbe messi tutti a tappeto, quindi sul serio,
non sarebbe servito a
niente. Tomas si sfila la borraccia a tracolla, e poi alcune tazze
pesanti dal
cesto. "Tè, principessa?" chiede, sollevando una tazza in
sua
direzione.
Annuisce.
Tomas versa il liquido profumato di
caprifoglio, ancora fumante, dalla borraccia, e le passa la tazza. Se
non
avesse avuto tutto quel caldo, pensa, mentre lo beve, sarebbe stato
perfetto. Ne
versa nella sua, in quella del fratello, e chiede, "Ed è
sicura che il—Venditore
di Ghiaccio Reale non desideri unirsi a noi?"
Si
volta e guarda Kristoff, seduto di spalle. "Abbastanza
sicura, sì."
Tomas
scrolla le spalle. "Alle buone relazioni,"
dice, sollevando la tazza.
"Cin
cin," Anna risponde.
Bevono.
Elsa
entra come una furia in sala da pranzo, e dal
rumore sembra un uragano. Le finestre si aprono, le porte sbattono
contro il
muro, e il fuoco nel caminetto traballa una volta e poi si spegne. La
luce del
sole all’improvviso diventa troppo poca. La tensione
è forte, palpabile, e fa
un respiro profondo e brusco, pensando mantieni il controllo,
mantieni—il
vento si smorza del tutto, il ghiaccio si ritira. Esamina la
scena—Albert, estremamente
pallido, prono e senza vita sul tavolo; un grosso secchio
d’acqua calda che è
diventata nera di sangue e terra; e Knut che tenta di misurare il
battito
cardiaco, all’altezza del gomito.
"Il
paziente?" Papi domanda, srotolandosi al
suo fianco. Sobbalza, e guarda giù, perché aveva
quasi dimenticato—dimenticato
cosa? Scuote la testa. Il vecchio troll sembra fuori posto sotto il
soffitto
perfetto e vivace del castello, la natura che gli aderisce addosso come
una—beh,
pensa, prima—pelle. Le guardie sussultano. Una di loro
scivola, e il suo piede
sbatte nel secchio d’acqua, facendola traboccare sul
pavimento lucido. Il
medico inizia a tossire con violenza, guardando prima la creatura di
roccia
grigia e poi la regina, con un occhio comicamente enorme dietro la
lente del
monocolo.
"Sul
tavolo," Elsa dice, e si costringe a
tenere la schiena dritta, il tono calmo. Mantieni il controllo.
"Vostra
maestà, io—io—" Knut inizia, e lei
scuote leggermente, pianissimo, il capo in sua direzione, seguendo i
passi
calmi e tranquilli di Papi e lottando contro l’impulso di
gridare vai troppo
lento—il troll si ferma davanti a una delle sedie.
"Sono
un vecchio troll," comincia, salutando
a questo modo le guardie, e tutte e due hanno gli occhi più
grossi del sole,
"e non sarò tanto presuntuoso da non chiedere aiuto. Vi
spiace?" inclina
la testa verso il tavolo. Elsa non ha tempo per la loro
incredulità, e agita la
mano quasi spazientita. Una forte brezza glaciale crea un vortice sotto
il
troll e lo deposita, anche se non proprio con delicatezza, almeno sul
tavolo,
in modo che riesca a raggiungere Albert. Papi la osserva pensieroso, ma
non dice
niente. Dopo un momento, due, in cui si perde nei suoi pozzi di
saggezza, si
volta di nuovo verso il principe che giace sul tavolo ed esamina la
ferita
irregolare che ha lungo lo stomaco. Elsa si avvicina, solenne, e
appoggia le
mani sullo schienale alto di una delle sedie, afferrandolo stretto; il
gelo si
espande su di esso, lentamente, formando un reticolo cristallino.
Le
si secca la bocca.
La
ferita è un macello di pelle gonfia e arrossata, bruciata
e nera ai bordi e rossa e piena di pus al centro. Emana cattivo odore,
di carne
in putrefazione, ed Elsa ha paura di guardargli il petto. Ha paura di
controllare se stia respirando. Trova il suo volto, invece, e ha del
sangue che
gli cola dalla bocca, come se si fosse morso la lingua. Il medico,
dietro di
lei, tossisce di nuovo, ritrovando la voce. "Il b-battito cardiaco
è
debole, e si sta indebolendo ancora," dice.
"Già,"
Papi risponde, esaminandolo con calma
con il mento appoggiato a un pugno. Fa un piccolo passo in avanti, gli
occhi
che si chiudono, l’altra mano con le dita grigie e tozze
tese, sospese in aria
all’altezza della ferita. Una delle guardie bisbiglia, "Ma
che sta facendo?"
Sente
un oof quando qualcuno dà di gomito a
quest’ultima.
"C’è
un’infezione, qui," Papi afferma dopo
un attimo. Si acciglia, le sopracciglia cespugliose che si abbassano.
"E
un’emorragia interna. Qualunque sia la lama che
gliel’ha fatto, era uncinata."
Le
unghie di Elsa graffiano il legno.
Il
cipiglio di Papi si fa più marcato, e poi, tanto
repentinamente quanto era venuto, scompare. Piega la testa di lato, ed
Elsa
osserva l’ondeggiare della sua criniera erbosa. Nel suo tono
profondo, roco, continua:
“Siamo fortunati. C’è della terra dentro
di lui—normalmente avrebbe aggravato
l’infezione, ma," e qui apre gli occhi, volgendo la testa
verso di lei con
un sorrisetto, "siamo fortunati."
"La
tua magia," Elsa esala, ricordandosi di
quella conversazione, tanto tempo fa. "Viene dalla—"
"Dalla
terra, sì. Mi serve altra terra dalla
fonte," Papi si interrompe, ritirando la mano. "Dove l’avete
trovato?"
"La
terra del mucchio dei rifiuti—portatene un
po’ qui," Elsa ordina, alla guardia più vicina.
Annuisce, andando via dalla
sala di corsa. Elsa stacca le dita dal ghiaccio formatosi sullo
schienale della
sedia e si rivolge a Knut. "La ringrazio, grazie di tutto," dice. Stanca,
così stanca. "Perché non va a riposare,
ora?"
"Se
per voi va bene, Vostra maestà," deglutisce,
fissando ancora il troll con qualcosa che assomiglia alla meraviglia,
"Preferisco
restare."
Annuisce.
Papi si volta dalla sua parte, guardandola
fissa, e alla fine tende una mano. "Regina Elsa, mi permetti di
prendere
in prestito il tuo potere? Sono, dopo tutto, un vecchio troll."
Si
guarda la mano nuda, che trema. La porge. "Prendi
tutto quello di cui hai bisogno."
La
sua pelle è pietra sotto quella di lei.
"Sei
sicuro che non ne vuoi?"
"Sono
sicuro."
Anna
regge la tazza tra tutti e due i guanti e ci
soffia su di nascosto; lui osserva il vapore sollevarsi in piccoli
ciuffi e
scomparire, all’improvviso, spiacevolmente consapevole di
quanto fosse vicina
all’orlo della rupe. Conoscendo Anna, sarebbe scivolata.
"Molto meglio dei
tramezzini," borbotta, schioccando le labbra e bevendo
un’altra lunga
sorsata. "Il pane si è congelato quasi tutto. Ma bere due
tazze di tè è fondamentalmente
pranzare, quindi, capirai."
In
risposta, gli brontola lo stomaco, sonoramente. Anna
lo guarda in tralice con un ghigno malvagio.
"Non
ho fame," esclama testardo, in gran
parte perché si diverte più a contare picchi e
fiocchi di neve di quanto
farebbe a parlare del più e del meno con quei due pomposi coglioni
dietro
di lui. Ha. Si strofina di nuovo il naso e pianta una mano in piena
faccia ad
Anna, spingendola di lato con la forza sufficiente a farla
indietreggiare di un
passo. Lei ride, scacciando via il braccio, e le cose tra loro filano
così
lisce che riesce quasi per un momento a dimenticare lo sguardo di
orrore che
gli aveva rivolto dopo che l’aveva detto, quella mattina.
L’aveva
detto, per l’amor del cielo, perché—
Lo
sapeva. Sapeva
che sarebbe successo, se l’avesse fatto. Osserva il bosco,
piccolo e scuro, da
quella distanza, e quasi desidera essere lì.
Quasi.
"—vuoi
solo dimostrare che sei più uomo di loro,
non è vero?" Anna sta dicendo sottovoce, quando ritorna alla
realtà.
"Tipo, guardatemi, sono un montanaro, so passare attraverso i muri e
trattenere il respiro per dieci ore consecutive—"
"Questo
non c’entra niente con l’essere
un
montanaro," fa in tono piatto.
"—non
rovinare la storia, Kristopher—e so pescare
a mani nude e cavalcare orsi senza sella e —woah,"
Anna sbatte le
palpebre, all’improvviso, portando una mano alla testa.
Aggrotta le
sopracciglia. Sbatte le palpebre, due volte, tre. Kristoff le riconosce
in
volto la stessa espressione dei ragazzi, a casa, prima che vomitassero
il
muschio. Fa un passo avanti, la mano tesa per afferrarla – o
– qualcosa, non lo
sa di preciso, ma forse – le dà delle pacche
leggere sulla spalla. Poi fa una
smorfia. “Stai bene”?
"Bene,
sto bene." Anna scuote rapidamente la
testa, poi, velocemente, si piega e incastra la tazza nella neve. Porta
entrambe le mani alle tempie. "Mi sono solo venute forti vertigini
all’improvviso."
C’è
qualcosa che non va. Afferma, "Beh, ormai
avranno finito di pranzare. Torniamo alla slitta."
"Già.
Già, buona idea," annuisce lei. Spalanca
gli occhi e lo guarda e Kristoff non può fare a meno di fare
un mezzo sorriso. Aveva
il naso piccolo e troppe lentiggini e occhi che vagavano continuamente,
forse
senza prestare sempre attenzione, ma incrocia il suo sguardo e pensa sei
bellissima. E vuole baciarla. Si accontenta di tenderle una
mano. Lei alza
gli occhi, lanciando indietro una treccia, impertinente, gli stivali
che
scivolano sulla neve. "Sto bene, Kristopher. Pher-favore."
"Tre
metri, furia scatenata," le ricorda.
"Ti
seguo a ruota."
Si
volta. Ecco i principi, ancora riuniti attorno al
piccolo tavolino di neve. Hanno la stessa corporatura che aveva Hans,
solo coi
tratti più maturi, forse, ma ancora tanto affidabili
quanto—quanto—quanto
qualcosa di molto inaffidabile. Kristoff li guarda e si chiede
perché il
destino abbia concesso a loro di essere principi, e
a lui di guardare i
propri genitori morire congelati poco lontano dalla porta di casa.
Sente
la mancanza della sua “Ma’”,
all’improvviso, poi
scuote la testa con una risata. Non aveva sentito la mancanza di sua
mamma da
tanto tempo, non così tanto,
comunque—si volta per dire ad Anna che avrebbero
potuto far prendere ai principi il miglior colpo della loro vita,
ritornando ad
Arendelle per la strada che attraversava la Valle delle Rocce Viventi,
ma lei è
ancora lì in piedi, che si stringe la testa. Kristoff fa un
passo avanti pronto
a caricarsela in spalla come un sacco di patate, se non fosse per il
fatto che
lei fa un accidentale passo, cosa molto alla Anna,
all’indietro, mente tenta di
capire perché la testa le pulsi tanto, e si sente un sonoro crack,
e
conosce quella roba, ci è cresciuto sopra, l’aveva
vista portargli via tutto,
quindi si muove anche prima di rendersi conto di quello che stia
accadendo.
Lento,
tutto, tutto rallenta—
Anna
ha gli occhi spalancati dallo shock e questa
volta non ci sono né corda né niente,
solo lei, che cade, cade, e lui
urla, "ANNA!" Salta, col braccio teso, ci arriva, ci
arriva
quasi—
Qualcosa
di pesante gli blocca le gambe, e la metà
superiore del suo corpo penzola nel vuoto. Ha una vista terrificante,
del
burrone e del corpo di lei che precipita a tutta velocità
nella bassa foschia, prima
che la testa gli venga spinta di lato, e quasi colpisce le rocce.
Lotta,
aggressivo, si sente un lupo—calcia e centra, ed eccolo
arrancare, alzarsi e
voltarsi, la mano già stretta a pugno. Colpisce, dritto in
faccia al secondo
gemello, quello che non aveva ancora steso. Rimangono così,
accovacciati sulla
neve, gocce di sangue scarlatto che gocciolano da naso e bocca, e
ruggisce,
"AVREI POTUTO PRENDERLA!"
"E
rischiare di ferire anche te stesso?" il
più magro dei gemelli abbaia, con la bocca che sanguina. "Pensa,
uomo
del ghiaccio!" scatta. "A che saresti servito, da morto?"
Non
posso saltare ora, e se le cado
addosso, se le cado—
"SVEN!"
Kristoff ruggisce. E’ un incubo. Il
cuore gli martella ed è un incubo, e tutto quello che riesce
a pensare è tre
metri, tre metri, e si poteva prevenire così
facilmente, un braccio attorno
alle spalle, e l’avrebbe presa—
Sven
si precipita attraverso gli alberi, la slitta che
sbanda dietro di lui come una nave in tempesta, ma Kristoff sa che il
suo amico
ha riconosciuto il panico che gli attanaglia la voce—tira
fuori un coltello
dalla tasca e taglia la bardatura, chi se ne frega della slitta, e, con
un solo
movimento fluido e disinvolto—anni di pratica, anni di
isolamento—gli monta in
groppa.
Dieci
metri di neve fresca
è l’unico pensiero che
lo mantiene lucido, mentre urla, "Cerca di arrivare giù!"
Dieci
metri di neve fresca.
"Ho
fatto quello che potevo," Papi afferma,
alla fine. Il sole era alto nel cielo, non più visibile
dalle finestre, e Knut aveva
ormai da tempo riavviato il fuoco. Quest’ultimo, seduto
vicino a esso, sobbalza.
Elsa riesce a sentirlo, ma ha gli occhi chiusi. Sente le dita tozze e
spesse di
Papi lasciare le proprie, e poggiarle con gentilezza la mano sulla
tavola. Le
sembra di avere gli arti ridotti a poltiglia, tremanti e scorticati,
come un
cerbiatto appena nato. Papi sta dicendo qualcosa. Si concentra sulla
cadenza
lenta della sua voce. "—e tu stessa avrai bisogno di riposo,
Regina Elsa. Non
è una cosa da poco, prestare a un altro la propria magia.
Scorre e rifluisce
dentro di te; portala via, e ci metterà del tempo a
rinascere di nuovo."
Sbatte
le ciglia e apre gli occhi, quasi timorosa di
quello che avrebbe trovato—ma no, le sue mani, le sue braccia
e le sue gambe
sono ancora le stesse. Sbatte di nuovo le ciglia, e ha paura di
guardare l’uomo
steso accanto a lei. Papi ha le mani allacciate davanti a
sé. "Ho paura
che rimarrà una cicatrice."
I
suoi occhi scattano di lato.
Albert
è pallido quanto lei, le mani posate accanto ai
fianchi, non più strette a pugno. E le labbra non sono
più contorte da una
smorfia. L’orribile spettacolo rosso-nerastro e pieno di pus
che era stato
prima il suo stomaco, adesso era diventata una linea del colore
rosa-rossastro
che ha la pelle nuova, strane vene appena visibili che partivano da
essa come
rampicanti. "Ha dentro più terra, adesso," Papi ridacchia
tra sé e sé,
ma Elsa riesce a vedere, dal modo in cui le sue spalle e la criniera
d’erba
erano ricurve, che è stanco quanto lei.
Chiede,
un sussurro fioco, guardando l’azzurro
sbiadito del cielo oltre le finestre, "Quanto tempo—"
"Tre
ore," Papi sospira. "In gioventù,
avrei potuto farlo in due. Sto iniziando, pare, a perdere colpi."
"No,"
Elsa scuote la testa, guardando la
pelle nuova. "No, la tua magia è sorprendente."
"Anche
la tua, Regina Elsa," il troll
risponde, guardandola con aria scaltra. "Eppure il tuo cuore
è ancora
indeciso—hai scoperto il segreto delle origini della tua
magia?"
Elsa
sbatte le palpebre. Avrebbe sussultato, se ne
avesse avuto la forza, ma non ce l’ha—ne ha a
malapena da scuotere la testa. Aveva
del tutto dimenticato il suo consiglio. Sembrava una vita fa. Lo era
stato. Lo
era. "La mia maledizione è mia soltanto."
"La
tua magia," Papi la corregge, con
gentilezza, "è un dono, Regina Elsa. Come tutta la magia."
Rimane
in silenzio.
Papi
si guarda i piedi. "Ritorno dalla mia
famiglia, ora, per recuperare le forze dormendo." Si ferma accanto a
una
delle sedie, gli occhi puntati al pavimento. "Regina Elsa?"
"Sì?"
chiede, piano. Poi si ricorda le buone
maniere, "Oh, perdonami, Papi. Posso offrirti una camera? Del cibo?"
Osserva
il petto di Albert sollevarsi lentamente con la coda
dell’occhio; lo guarda
abbassarsi. Quasi sorride. "Non potrò mai ringraziarti
abbastanza."
"Una
sciocchezza," Papi risponde, poi
aggrotta le sopracciglia e continua, "Mi piace aiutare, in tutti i modi
possibili, ma Regina Elsa—non possiamo essere chiamati
semplicemente per
convenienza."
"Sì,"
Elsa dice, a voce bassa, stanca, e la
sua mente va a rallentatore, prosciugata di ogni forza, "sì,
lo so. Ti ho
usato, e mi dispiace."
"Non
scusarti; hai sfruttato le risorse che avevi
a disposizione. Hai pensato in fretta, sotto pressione." Passo,
passo, passo,
ed eccolo lì, in piedi davanti a lei, bloccandole la vista
di quel petto.
"Ma Regina Elsa, arriverà un giorno in cui dovrai imparare a
camminare con
le tue gambe. E so, da vecchio troll che sono," Papi fa,
l’ombra di un
sorriso sulle labbra, "che hai gambe potenti”.
Gli
occhi di Elsa vengono attratti da quelli del
troll, in cui rimangono fissi. Minacciano di inghiottirla intera.
Annuisce.
"Capisco."
Papi
la guarda dritto per un altro momento, e poi
annuisce. "Riposo, per tutti e due, ma lui—confinatelo a
letto per una
settimana, e non fatelo uscire fuori almeno per due—tranne
che, ovviamente, per
farlo andare a giocare nel mucchio della spazzatura. Gli
potrà fare solo bene."
Elsa
scuote la testa, quasi con un sorriso. "Hai
bisogno di essere accompagnato a casa?"
"Ero
qui prima che le prime persone scendessero
dal nord; prima di Arendelle, quando la terra era ombra, alberi e
oscurità; credo,
Vostra maestà," e gli occhi scintillano maliziosamente, "di
essere
capace di ritrovare la strada."
Salta
agilmente giù dal tavolo prima che lei se ne
renda anche conto, una scia di pietra che attraversa il pavimento
rotolando, e
lo guarda andare di volata dritto alla porta, e dice,
all’ultimo momento,
"Papi?"
Il
vecchio troll si riapre a metà. "Sì?"
"Grazie."
Inclina
la testa, e, col suono di una cascata di
ciottoli, oltrepassa le porte socchiuse della sala da pranzo. Sente gli
strilli
dei servi che, curiosi, si erano riuniti lì avanti, quando
passa in mezzo a
loro, e poi lo scalpiccio di questi quando si riposizionano davanti
alle porte.
Knut si avvicina a lei, espirando, imbambolato, "Non ho mai visto una
guarigione simile."
"Magia,"
sbadiglia, sentendo gli occhi
chiudersi. Quanta della propria, si chiede, ne aveva preso Papi?
"Dovremmo
portarvi tutti e due nelle camere da
letto…"
Non
riesce a sentire altro—a quel punto, è andata.
"Ma
che stai facendo? Ti stai sporcando tutto il
cappotto di sangue."
"Realismo,
fratello. Vale metà del gioco."
"Beh,
faresti meglio a muoverti. L’abbiamo
seminato scendendo dal fianco della montagna, ma non per molto, e
sospetto che
ci stia alle calcagna."
"Sì,
sì—ma ecco uno dei fatti della vita, fratello."
"Cioè?"
"Non
puoi affrettare un’opera d’arte."
"Alzati."
"Okay,
okay—dovrà bastare. Non c’è
bisogno che mi
trascini, Viktor."
"Monta
a cavallo."
"Proprio.
Beh, non puoi farti vedere da lui con
quella faccia—piega di più gli
angoli della bocca all’ingiù—di
più—come
se qualcuno di importante fosse appena morto. Ecco."
"Sta
zitto."
"Sei
sempre
stato senza speranze, in questa cosa della recitazione, non
è vero? Beh, io—aspetta.
Lo sento. Tieni la bocca chiusa, e lascia fare a me—Ohèè!
Quaggiù!
"L’abbiamo
trovata, quaggiù!"
Elsa
apre gli occhi.
Ha
il collo storto, la testa appoggiata al tavolo, e
sotto di essa un cuscino del colore dei narcisi in primavera. Gli occhi
incontrano il fuoco tremolante; è ancora in sala da pranzo.
Si tira su a sedere,
aggrotta le ciglia, e si pulisce un sottile rivolo di—di saliva?
Volta
la testa così in fretta che vede le stelle, ma no,
c’è solo Albert, sistemato
accanto a lei con due cuscini e una coperta. La porta è
socchiusa, le guardie
sono fuori, ma a parte loro, sono da soli.
La
propria coperta le scivola giù dal petto, e si
stropiccia gli occhi, e si sente in imbarazzo, e strana. Stringe le
mani a
pugno in grembo, giocando con i fili scuciti della stoffa blu scuro. La
sua
attenzione, concentrata sul fuoco, viene catturata da un movimento
accanto a
lei, e volta lentamente la testa, con cautela, con le ossa che ancora
le danno
la sensazione di essere fatte di vetro bianco, fragili quando fredde, e
liquide
col calore.
Albert
ha gli occhi mezzo aperti, il viso pallido, unto
di sudore. Muove la mano, pochissimo, sotto la coperta verde, e deve
essere
così scomodo, pensa, stare lì sul tavolo;
perché non l’avevano spostato? Improvvisamente,
e decisamente non secondo propria iniziativa, scopre una delle proprie
mani, da
che era stretta a pugno in grembo, tendersi e incontrare le punte delle
dita di
lui, che la cercavano. Sono così calde. Bruciano,
piacevolmente. Non si muove, non
gli stringe le mani, non gli afferra il braccio—lascia solo
che le loro dita
stiano lì, le une accanto alle altre. Lo guarda negli occhi,
e i suoi occhi le
ricordano solo Albert. Vuole chiedere, cosa è
successo, ma è stanca. Non
ci riesce. Non in quel momento.
Albert
inspira improvvisamente, guardandola con la
confusione chiaramente dipinta sul volto. "Tu non puoi essere lei,"
dice,
espirando, la voce debole, tremula. "No. Lei è molto, molto
lontana da me.
Lei danza tra la luce delle stelle. Credi," le chiede, gli occhi fuori
fuoco, "che avrebbe potuto amarmi?"
La
bocca di Elsa si spalanca, lentamente, ma non c’è
niente che possa rispondergli—niente che possa dire—
C’era
solo una persona a quel mondo che la amava. Non
riusciva immaginare altri—avvicinarsi, non considerata
la—non con la sua—
E’
salvata dai suoi occhi che si spalancano, la
confusione, per il momento, sparita. Lo sguardo di Albert incrocia il
suo con
lucidità allarmante, tempestivo, e cerca di tirarsi su a
sedere. "Stanno
architettando qualcosa, non so—cosa, o quando—"
smette di parlare e fa un
brusco respiro, afferrandosi lo stomaco, ed Elsa lo fa stendere di
nuovo, con
cautela.
"Andrà
tutto bene, Albert—"
"No,"
insiste, gli occhi fissi ed
enormi e incredibili, azzurro-verdi-nocciola-qualcosa, che la fissano
dalla
pelle scura per i lividi. La sua voce, quando parla di nuovo,
è più debole, ma
non meno urgente—"Sono venuti qui per te."
Elsa
sente le labbra tendersi, la schiena irrigidirsi.
Apre la bocca per rispondere, ma si ferma, perché si sente
una specie di
commozione provenire dalla sala d’ingresso. Sente le porte; e
poi delle grida; e
poi un urlo agghiacciante, ed è in quel momento che si alza
in piedi, così
veloce che il mondo vacilla pericolosamente,
l’oscurità che la minaccia, ai
margini del campo visivo. Cuscino e coperta scivolano sul pavimento.
E
tutto quello che riesce a pensare è ora
cosa
è successo, infastidita, e stanca, e
furiosa. Ora cosa è successo.
La
porta socchiusa viene spalancata di botto, e si
volta verso di essa, usando la sedia come sostegno, pronta ad
esclamare, severa,
lasciate che sia Kai a occuparsene, se non fosse per
il fatto che è
Kai, pallido come un fantasma, la bocca che si apre, si chiude, si
apre, si
chiude—
Quindi
naturalmente il battito cardiaco accelera—
Le
sue dita lasciano il calore di Albert.
"Vostra
maestà—fate in fretta, si tratta—si
tratta della Principessa Anna."
Fa
tre passi nell’ingresso e non riesce più a
proseguire. Le sue gambe stanno bene. Il suo corpo lavora come
dovrebbe—il
sangue gli pulsa nelle vene, vorticando come una specie di mulinello
attorno al
cuore. Ma tutto gli urla contro. Tre passi nell’ingresso, e
tutto urla di lei.
Quindi
cade in ginocchio e guarda la persona che tiene
stretta tra le braccia. C’è del sangue che scorre
dall’attaccatura dei capelli
al mento. Ferita alla testa, di nuovo, pensa, piuttosto istericamente.
Ferita
alla testa. C’erano incidenti e incidenti.
Due secondi, scivolata, e
andata. Tutto, andato. Tutto gli urla contro. Aggiusta il proprio
berretto
sulla testa di Anna, le era scivolato giù su un occhio. Rimani
al caldo,
pensa, ridacchiando quasi, si congela sempre da queste parti.
Ecco
perché sono migliori le renne. Questo,
proprio per questo.
Persone
urlano. Vuole dir loro di star zitte, ma si
accontenta di risistemarle il cappello, infilandole delle ciocche di
capelli
dietro le orecchie, contandole le lentiggini sul naso.
No.
No, Anna è meglio delle renne. Ti
prego svegliati, ti prego. Ti prego, Non posso più vivere da
solo. Non voglio
più vivere da solo.
Sente,
lontano, il suono di una porta che si apre. Passi
leggeri. A malapena se ne rende conto, perché è
troppo occupato a rivivere la
scena in mente—ti seguo a ruota, scivola,
cade,
salta—raggiungila—raggiungila—no—corri,
Sven—
E
i principi l’avevano trovata, cullata dalla neve
fresca, come se stesse dormendo. Dormendo. L’avevano
chiamato, e lui aveva
voluto provare a rianimarla, nel modo in cui sapeva che, a volte, si
poteva far
ripartire un cuore, perché non respirava,
ma era anche egoista, incredibilmente
egoista, e non voleva che l’ultima volta in cui avesse
toccato le sue labbra,
esse fossero state—quello—pelle
fredda, morta, non più Anna ma un corpo.
Un corpo che assomigliava ad Anna.
Ti
amo.
Passi
leggeri. Non si accorge della temperatura che
cala in picchiata nella stanza, ma lo fa, e di parecchio. Sulla soglia
del
castello riesce a sentire il calore, dietro di sé,
dell’aria estiva, e il gelo
dell’aria avanti a sé, ma registra la differenza
solo a malapena. Sta ancora
contando le lentiggini su un volto pallido.
"Cosa
è successo?"
Alza
lo sguardo. Ci mette un po’, ma ecco la regina
Elsa. Ha l’aria smunta, sotto gli occhi le ombre sbiadite
della mancanza di
sonno. Ha la schiena rigida come una tavola, pronta a spezzarsi in due.
La
guarda. Sa che deve dirlo, ma sa anche che nel momento in cui
l’avesse detto, sarebbe
diventato reale, quindi non vuole.
Ma
deve.
"Anna."
E’ tutto quello che riesce a dire. Gli
si spezza la voce, solo un po’, a dire il suo nome.
Elsa
lo guarda sbattendo le palpebre. Conta. Uno, due,
tre. Poi alza il mento definito, affilato come una lama di ghiaccio, e
guarda
dietro di lui.
Accade
così in fretta da meravigliarlo, da farlo
tremare—
Tutta
l’umidità nell’aria svanisce, lasciando
al suo
posto la sensazione della pelle scorticata, delle sue labbra; attorno a
lui,
essa si solidifica in un centinaio—no un migliaio
di piccoli cristalli
seghettati, le punte abbastanza affilate da trafiggere, e sono tutte
puntate
nella stessa direzione. Pensa, per un mezzo secondo, che siano dirette
verso di
lui, che questo attacco violento sia diretto a lui, e si lecca le
labbra e si
piega sul corpo tra le proprie braccia, come per proteggerlo, ma poi si
accorge
che sono puntate al di sopra della sua spalla. Dirette ai principi
delle Isole
del Sud.
"Datemi
un solo motivo," Elsa dice. Non l’ha
mai sentita parlare a quel modo. Gelida, rara furia. "Datemi un
solo
motivo—"
"Anna,"
Kristoff gracchia, sentendo il suo
corpo premuto contro il proprio. Immagina di sentire un lieve respiro,
lieve—ma
quando le preme l’orecchio sul petto e conta uno, due, tre,
quattro, cinque—sei,
sette—otto—
Niente.
Immagina.
Le
frecce di ghiaccio vacillano, poi si sciolgono a
mezz’aria, una pioggia d’acqua gelata che li bagna.
"E’ scivolata," riesce
a dire, asciugando una goccia sul viso di Anna, una che sembra una
lacrima.
"Colpa mia. Non sono stato attento. Mia. Colpa mia."
"Fuori,"
Elsa ordina. "Fuori tutti, immediatamente!"
Non
sa se obbediscono. Presume di sì, perché le porte
dietro di lui si richiudono. Elsa fa un passo, due, e poi eccola
inginocchiarsi
di fronte a lui, le braccia tese. Non vuole mollare la presa su Anna,
ma non è
più Anna. Non lo è. Non è
così?
Elsa
sta piangendo, ma in silenzio. Si sente appena. Tranne
per le parole—"Non colpa tua. Mia."
Guarda
sua sorella prenderla tra le braccia e cullarla
e stringere il corpo senza vita, premendo la propria fronte contro la
sua, facendo
scivolare un po’ via il cappello. E non lo sopporta. Non ci
riesce. Si alza di
scatto, automaticamente, e scappa attraversando le porte che danno sul
cortile.
Il sole è troppo luminoso, troppo accecante, anche se ormai
basso nel cielo. La
gente è silenziosa, e incerta, e ha lo sguardo fisso. Troppe
persone. Ringhia,
"Ma non ce l’avete un lavoro?" E cammina.
E continua a
camminare. Verso le stalle. Sente Sven trotterellare piano accanto a
lui. Apre
la porta. Entra.
Grida.
La
testa tra le mani.
Silenzio.
Si
sente lo scalpiccio di Olaf che scende le scale.
"C’è qualche problema?" chiede ad alta voce. "Ho
sentito un
sacco di gente—oh, ehi, Anna è tornata!" E scivola
davanti alle armature.
"Ehi, Anna, com’era—Anna?"
Elsa
stringe a sé la sorella, una mano corre frenetica
sul suo petto, e non riesce a fermare il singhiozzo continuo che esce
dal
proprio. Fronte contro fronte. Svegliati, Anna. E
sussurra, come una
preghiera, mentre Olaf si ferma accanto a lei con
un’espressione sconcertata, sussurra—
"…vogliamo
fare un pupazzo di neve?"
È
tutto quello che riesce a dire. E non è abbastanza.
|
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Capitolo
15
"Padre
nostro, che sei nei Cieli, sia
santificato il tuo nome…"
Due
grosse pietre, dal colore della mica, i bordi come
giada scheggiata, usurate dalle intemperie di tre anni e da una
tempesta di
neve fuori norma nel bel mezzo dell’estate, danno sul fiordo.
Adesso, eretta
accanto a esse—tagliata in fretta e in maniera approssimativa
da un pezzo di
marmo nero—c’è una pietra più
piccola, l’incredulità impressa in ogni linea
incisa su di essa.
Il
sole splende.
"Venga
il tuo regno, sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra."
La
regina è in piedi in mezzo alla famiglia di pietre
tombali, la testa alta, lo sguardo fisso. Sembra una banshee, uno
spettro—una
visione di bellezza e morte, vestita di nero, che stringe le mani
innanzi a sé.
Sono coperte da guanti. Accanto a lei c’è il
prete, e la sua voce si incrina. Si
ricaccia indietro gli occhiali sul naso.
"Dacci
oggi il nostro pane quotidiano. Rimetti
a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori."
Davanti
alla folla riunita ci sono due principi, i
capelli il colore castano ramato delle foglie morte. Dei fratelli
più piccoli. Del
sangue. Osservano la scena, inespressivi, dall’alto del loro
naso affilato, e
non pensano al fatto che anche loro, un giorno, sarebbero stati sotto
terra.
"E
non ci indurre in tentazione, ma liberaci
dal male."
In
fondo alla folla riunita c’è un uomo; accanto a
lui, la sua renna. Indossa abita invernali—una tunica esterna
pesante, un
cappuccio, guanti. Stringe la nuca della creatura, come se, a
lasciarla, avesse
potuto essere trascinato via dal vento. Ha gli occhi secchi e
inespressivi. Non
ha pianto.
Non
lo farà.
"Tuo
è il regno—"
La
regina riesce a sentire la pressione delle unghie
anche attraverso i guanti.
"—e
la potenza—"
I
principi si chiedono che sapore abbia il dolore.
"—e
la gloria—"
L’uomo
sogna un mondo senza ghiaccio.
"—nei
secoli dei secoli. Affidiamo ora il suo
corpo alla terra—terra alla terra; cenere alla cenere;
polvere alla polvere: e
confidiamo nella resurrezione alla vita eterna. Amen."
Le
pietre sentono—si chiedono—sognano—nulla.
Sono
solo pietre, dopotutto.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Capitolo
16
n/t:
Eccoci arrivati nel bel mezzo della
storia. Ringrazio
chi recensisce e
spende due parole anche per un appunto, o una critica. J
Vorrei chiarire qualcosa sullo stile,
visto che più persone mi hanno chiesto spiegazioni sul modo
contorto in cui a
volte sembra essere tradotta questa fanfiction: è vero, la
formattazione e lo
stile di scrittura possono risultare un po’ confusionari, nel
momento in cui vengono
tradotti. Nei punti più oscuri, infatti, ho cercato di
sciogliere i concetti
senza cambiare troppo l’originale. Ma generalmente, trovo che
una delle
particolarità di questa fanfiction sia proprio il modo in
cui è scritta: il
continuo scambio tra pensieri e descrizioni – soprattuttocosa
che si verifica,
ad esempio, con il personaggio di Anna: può risultare
confusionario- ma non è
una delle qualità principali del personaggio del film?
Comunque, la mia regola principale è: attenersi
all’originale il più possibile
per far passare la “voce dell’autore”.
Per altre domande, sono sempre qui. Adesso, scusate la digressione, e
buona
lettura.
"Qualcuno
ha visto Britta?"
"Non
da—beh, tre giorni almeno. Prima del
funerale, sicuramente."
"Mi
pare di averla sentita dire che aveva nuove
prospettive a cui guardare."
"Nuove
prospettive? Che razza di idiota—nuove
prospettive? E che prospettive migliori di quella di lavorare per la
Regina di
Arendelle ci sono, hm?"
"Parecchie,
se lo vuoi sapere. La Regina porta
sfortuna. L’inverno prima, e ora la principessa—ohi!"
"Chiudi
immediatamente la bocca, o ti colpisco
anche l’altra mano, capito? Lavora quell’impasto, e
smettila di spettegolare, a
meno che non voglia ritrovarti tu alla ricerca di
nuove prospettive. Dirò
a Kai della scomparsa di Britta. Dio solo sa quanti pesi la Regina
abbia già
sulle spalle."
"Ci
dispiace dover partire in—circostanze così poco
auspicabili, Regina Elsa." Uno dei gemelli le dice. A malapena lo
sente.
"La cerimonia è stata davvero bella, testamento adeguato
alla memoria
della principessa."
No,
pensa
lei, fiacca, gli occhi concentrati
su un filo scucito dell’orlo del guanto nero—non
indossava quel paio da tre
anni, da quando li aveva usati in una situazione simile—no,
Anna l’avrebbe
detestata. Avrebbe preferito una banda, forse; dei canti. Qualcosa di
rumoroso.
Una celebrazione, non un funerale.
Uno
dei gemelli tossisce, a disagio. L’altro gemello. Si
strattona il colletto. Qualcosa in lei urla sospetto!
Ma per la maggior
parte non le interessa per niente. Chiede lui, "E’ riuscita a
seppellire
il corpo?"
Distoglie
lo sguardo, per fissarlo sull’erba annerita
tra le pietre del cortile. Un’aspra gelata era calata,
all’ improvviso,
inaspettatamente, e le dispiaceva—ma in realtà no.
Non sul serio. E, alla fine,
non aveva impedito a Kai di dirle, con gentilezza, Abbiamo
bisogno della
cerimonia, vostra maestà. Alla gente serve un senso di
chiusura, e non si può
più aspettare.
"No,"
afferma, lentamente. Le sue parole
sono strane, e distanti, e in alcun modo collegate a lei. Pensa al
corpo, che
giace pacifico in una delle stanze del castello. Avrebbero voluto
drappeggiare
un velo nero sulla porta della stanza di Anna, e lei li aveva fermati.
"No, non l’abbiamo fatto. Ancora qualche giorno, forse."
"Beh,"
l’altro gemello, il primo gemello,
pensa, pensa, "So di parlare per mio fratello e me
quando dico che
non ci sembra—appropriato, lasciarla qui
da sola con tale responsabilità
dopo—"
"Partirete
adesso. Immediatamente," Elsa esclama,
alzando lo sguardo di botto. Li guarda negli occhi, la schiena fragile
rigida e
dritta come vecchio vetro, le vertebre che sporgono come schegge. Non
ha
nemmeno la forza di scusarsi per le proprie parole. "So che al re
premeva
promuovere la pace tra Arendelle e le Isole del Sud, ma in tali
circostanze non
farò di queste promesse. Posso solo chiedervi di rispettare
la mia volontà e di
informare il vostro re che ogni missiva verrà ignorata per
tutta la durata del
mio lutto."
E’
il discorso più lungo che fa da tre giorni, quattro,
tanto che la rende esausta, completamente. Conclude con un piccolo
cenno del
capo. Non riusciva a ricordare quanto fossero strette le relazioni
commerciali
con le Isole del Sud; non riesce a costringersi a preoccuparsene. I
fratelli la
esaminano, uno con l’aria scaltra, l’altro,
arrabbiato. Il cortile è ancora
bardato di nero.
"Beh,"
afferma uno di loro alla fine, dopo
una lunga, orribile pausa, "farebbe meglio a dire a nostro fratello di
riprendere la via di casa, allora, se non desidera ulteriori contatti
con gente
delle Isole del Sud."
Elsa
rimane inespressiva; non è difficile.
"Non
l’avete visto?"
"Nemmeno
l’ombra, da quando ci siamo ritrovati. Strano,
come sia svanito nel nulla, proprio prima del funerale."
Elsa
non lo corregge; è una strana affermazione, come
se poi Albert avesse potuto essere la causa della caduta di Anna, visto
che nello
stesso momento era stato disteso mezzo morto sul tavolo della sala da
pranzo; visto
che, da allora, a malapena era stato abbastanza lucido da pronunciare
la parola
acqua.
"Non
vi ha accennato niente riguardo all’
andarsene?"
"Per
niente. Ma alla fine, come ho detto: i
sentimenti di mio fratello sono così volubili. Forse
semplicemente—alla fine si
è annoiato."
"Forse,
infatti." Elsa picchietta una per
una tutte le dita contro il pollice. Conta fino a cinque. Non vuole che
lo
sappiano, ha mantenuto Albert un segreto per tutto quel tempo. "Se lo
vedrò, lo informerò della vostra partenza. Vi
auguro un buon ritorno a casa."
I
gemelli si inchinano, perfetti gentiluomini, ma li
vede solo con la coda dell’occhio—si è
già voltata, e sale su per le scale, di
ritorno al castello.
"Kai!"
"Sì,
che c’è, Gunda? Sono molto occupato in
questo momento—"
"Non
tanto occupato da ignorate una cosa del
genere, non lo sei eccome! E’ che parlavo con alcune delle
mi’ aiutanti in cucina,
e hanno detto che ormai Britta son tre giorni che non si vede."
"Britta?
Davvero?"
"Sì.
Ha detto che era in cerca di 'nuove prospettive.'"
"E’
molto—strano."
"Ho
sempre pensato che fosse una cosina volubile;
non mi sorprenderei se si fosse messa in testa di fuggire con uno
stalliere. Ma
dobbiamo tenere sotto controllo gli spostamenti del personale,
quindi—"
"Sì,
sì; inizierò le ricerche immediatamente. Grazie,
Gunda."
"Come
ho sempre detto—cancelli aperti uguale più
problemi—"
"Grazie,
Gunda. Ora, non hai un pranzo da
preparare?"
"E
che importa, eh? Come se qualcuno si degnasse
di mangiare, da un paio di giorni."
Kristoff
osserva ogni singola persona che se ne va e
cerca di capire che relazione aveva con lei. Alcuni, come la regina,
sono
facili; altri, come l'alta donna pelle e ossa che piange a dirotto e
tira su
col naso e si asciuga il volto e in generale si rende ridicola, erano
più
difficili. Non ne ha idea, osservandola scendere a testa china
giù per la
collina. Non ne ha proprio idea.
Sven
è premuto stretto nello spazio tra la sua ascella
e il fianco, lo sorregge, e gli mette decisamente troppo caldo. Tira su
col
naso, pulendoselo col braccio libero, e osserva il prete andarsene; il
vecchio
è l’ultimo a lasciare il posto, ridicolo con quel
cappello a punta e gli
occhialetti rotondi, mentre consegna il suo corpo alla terra—
E’
solo.
Sven
gli dà un colpetto sulla guancia. Kristoff si
acciglia di più. Non cambiava espressione da tre, quattro
giorni—forse di più,
non ricordava. Osserva la sommità arrotondata della collina,
l'erba di una
sfumatura morta di marrone che scricchiola sotto i suoi piedi. Il gelo
di Elsa.
Significava che non potevano seppellire il corpo. Pensa che l'abbia
fatto di
proposito, e si chiede se l'avrebbe fatto anche lui al suo posto.
Con
lenti passi determinati si avvicina alla famiglia
di pietre tombali. A due, tre metri di distanza, stacca il braccio
dalle corna
di Sven ed esclama, lentamente, la voce roca per la rabbia e il
silenzio
prolungato, "Tutto ok, amico."
Sven
sbruffa triste e si accoccola in attesa.
Kristoff
avanza lentamente, metodicamente, un piede
davanti all’altro. Si toglie il berretto e lo torce tra le
mani tanto per avere
qualcosa da fare. Non ci sono nient’altro che il vento e i
gabbiani a tenergli
compagnia, il sole che splende sulle acque blu del fiordo, vuoto e
tranquillo.
Riesce
a raggiungere la roccia. Si sfila il guanto
destro coi denti, esponendo le dita tozze all'aria estiva,
più fresca del pelo
che riveste i guanti, e le passa sulla pietra nera, avvertendo le linee
e le
curve delle rune che riportavano scritto il nome di lei sulla
superficie. Poi,
all'improvviso, si lascia cadere sul suolo secco, ruvido.
Più un sedersi
aggraziatamente, mente a se stesso, in fretta, sentendo una fitta su
per la
schiena; qualcosa per cui lei l'avrebbe preso in giro. Appoggia la
testa contro
la lastra di marmo e trae conforto dal fatto che il suo corpo sia
lontanissimo
da lì. Sven si avvicina e si accovaccia accanto a lui.
Kristoff si sfila
l'altro guanto, posandolo assieme all'altro—e al
cappello—nel proprio grembo,
prima di passare le dita tra il manto irsuto dell'amico. E' di
conforto, e
piacevole, ma non placa il dolore che prova in petto.
Guarda
il fiordo.
"Sì,
Ina?"
"Hm?
Oh! Padron Kai, signore, buongiorno—Non
stavo bivaccando, giuro—"
"No,
no, va bene, non ti preoccupare. Ahem. Eri—una
buona amica di Britta, non è così?"
"Britta?
Oh, sì, suppongo. Voglio dire, Ci
parlavo un po’, e veniamo dalla stessa parte della
città. Voglio dire, non ci
parlavo spesso, se è quello che volete sapere, signore."
"Beh,
sì, lo ero. L’hai vista, di recente?"
"Oh,
no. Sono tre giorni, almeno."
"Capisco.
Sai chi potrebbe averci parlato per
ultimo?"
"Probabilmente
Sander."
"Lo
stalliere?"
"Sì,
signore. Culo e camicia, quelli due là."
"Grazie,
Ina."
Elsa
è fiera di essere riuscita a salire le scale e a
raggiungere l’ingresso, acceso dal sole pomeridiano, prima di
avvertire il
vuoto schiacciante del proprio petto, che minaccia di consumarla;
è una piccola
vittoria personale, pensa, afferrandosi il colletto del vestito di
velluto e
appoggiandosi alla lastra piombata della finestra più
vicina. Il giorno prima, non
era riuscita a oltrepassare le scale, e il giorno prima ancora, la
soglia della
propria stanza. Si prende un momento per calmarsi, grata del fatto che
l’ingresso sia deserto, i servi tutti impegnati; non grata
del fatto che fosse
costretta a prendersi sempre più di questi—
Momenti.
Non
poteva permettersi dei—momenti.
La
crisi passa, e rimane a fissare la porta della
stanza della sorella. Sa che l’avrebbe trovata nello stato in
cui era stata
lasciata quel mattino; aspetta, scioccamente, per un momento, due, che
Anna ne
esca, correndo come una furia. Ma è chiusa, ed è
serrata. Elsa flette le mani, distoglie
a forza lo sguardo, osserva il paesaggio fuori, Arendelle che
lentamente prende
vita dopo le campane e la processione della cerimonia. Riluttante,
incredula, ancora,
che una cosa così sciocca—stupida—sia
potuta accadere.
Si
sfila i guanti, in fretta, all’improvviso, ricordandosi
con un respiro brusco quanto li odiasse, quanto le annebbiassero i
sensi e la
facessero sentire in trappola. Le dita, pallide come la luna, quasi
traslucide
alla luce del sole, la salutano, e divora avida la sensazione della
pelle nuda
quasi con gelosia. Poi, mordendosi un po’ il labbro, appoggia
la punta
dell’unghia contro il vetro.
Con
una violenza che quasi la travolge facendola finire
a terra la finestra si annebbia coperta da una lastra di ghiaccio, ed
Elsa
sposta gli occhi spalancati da essa alle proprie dita ai guanti, prima
di rinfilarseli,
sopprimendo una specie di singhiozzo disperato. Si costringe a restare
calma,
ma il panico le attanaglia a poco a poco la gola, mentre si
volta—oltre la
porta della stanza di Anna—oltre la propria—diretta
al corridoio dei ritratti.
I
suoi genitori la fissano accusandola con lo sguardo
mentre lo attraversa diretta alla biblioteca. Chiedono, muti, rigidi,
chiedono—
Come
hai potuto?
"Sander?"
"Sì,
arrivo, imbecilli, cosa volete adesso—Padron
Kai! Padron Kai, signore! Scusate, pensavo fosse—"
"Nessun
problema—anche se di certo non mi sarebbe
piaciuto affatto essere chi stavi aspettando."
"Nah,
non è che li avrebbe uccisi—"
“Bene.
Mi fa piacere saperlo. Ora, hai visto Britta di
recente?"
"Brit?
Non da quando abbiamo litigato, no."
"Litigato?"
"Sì,
signore. Ha detto che conosceva un tipo che
la portava lontano da questo posto, e che non avrebbe dovuto pulire
vasi da
notte mai più, e io ce l’ho detto—ho
detto, quindi preferisci ‘sto tizio a me—"
"Ti
ha detto chi era, Mastro Sander?"
"Hm?
Oh. No, non l’ha fatto. Manco un nome. State
dicendo—state dicendo che nessuno l’ha vista?"
"Non
da un po’."
"Oh."
"…Beh,
ragazzo mio, devi—su col morale. Di sicuro
la troveremo presto."
"Sì,
signore. Se posso esservi d’aiuto—"
"Ti
informerò immediatamente."
Elsa
fissa la scrivania.
Condoglianze—tante,
troppe. E ancora, negoziati che
non aveva ancora visto, lettere sigillate, note spesa—guarda
fuori dalla
finestra, e, quel giorno per la prima volta, sente davvero, e tanto, la
mancanza
dei genitori.
E
c’era anche, pensa, lentamente, battendo un ritmo
irregolare sul legno della scrivania, la questione
dell’accoltellamento di
Albert di cui occuparsi. La sua lista dei sospetti era assieme
sorprendentemente corta e incredibilmente lunga; corta,
perché conteneva due
ipotesi, fianco a fianco. La prima, Viktor e Tomas, assieme; la
seconda, qualunque
cittadino di Arendelle.
Corta,
ma lunga.
Elsa
si tormenta il labbro. Non riusciva a concepire
dei fratelli che si facessero cose del genere. Era impensabile,
inimmaginabile—chi
avrebbe fatto una cosa del genere a un familiare?
Per quanto lo si
potesse odiare—per quanto si potesse desiderare darlo in
pasto ai lupi e
lasciarlo a marcire—
Sussulta
al solo pensiero. Scuote la testa.
Ma
stiamo parlando della sua
famiglia.
Avverte
un dolore crescente all’interno della testa.
Si
strofina le tempie con le dita guantate, chiude gli
occhi. Doveva occuparsi personalmente della questione, ma con Albert
ancora
convalescente e addormentato—e lei, che non sapeva se al suo
risveglio sarebbe
stato mentalmente lucido—
Credi
che avrebbe potuto amarmi?
Stringe
i denti. Fa quasi un verso sprezzante. Amore.
Le
prudono le dita.
Il
panico la invade, di nuovo, e inghiotte un respiro
profondo, si alza dalla sedia e barcolla fino alla finestra. Armeggia
con la
chiusura, e poi la spalanca, respirando i profumi pomeridiani del
mercato e del
mare e di Arendelle.
Pensa
che tutto sia un incubo, per forza. Stringe le
mani a pugno e stringe gli occhi e pensa, forsennatamente, svegliati,
svegliati,
svegliati.
L’ultima
volta che aveva parlato con la sorella, aveva
detto mi raccomando. L’aveva spedita in
mezzo alla natura selvaggia in
base a un qualche piano per intimidire i principi delle Isole del Sud e
aveva
detto mi raccomando.
Certo,
una
parte sleale di lei pensa, Certo, ti
fidavi di Kristoff.
Sa
che è ingiusta. Quello che era successo—era stato
un incidente, e lo sa, ma il pensiero affiora comunque. Si chiede,
vagamente, osservando
le bandiere nere che profilano il ponte e ascoltando i
rumori—meno vivaci del
solito—su dal mercato—si chiede Kristoff dove sia
andato, dopo la cerimonia di
quella mattina.
Pensa
che Anna era stata la colla, e senza di lei, tutto
stava cadendo a pezzi.
Con
un improvviso movimento frenetico si volta, il
respiro affannoso, e percorre i quattro, cinque, sei passi che la
separano
dalla porta. Chiude a chiave, e poi si scaglia contro
l’impiallacciatura
verniciata di fresco, e scivola fino a terra, abbracciandosi le
ginocchia, lasciando
uscire un singhiozzo profondo. Il tessuto del guanto si soleva
leggermente, lasciando
intravedere un sottile lembo di pelle del polso.
Oh,
se solo Anna avesse potuto vederla in quel momento.
"Hai
sentito?"
"Sentito
cosa? E’ un’affermazione così vaga, non
puoi uscirtene con—attenta! Stavi per rovesciarmi
l’acqua sugli stivali!"
"Hai
sentito di Britta? Padron Kai la sta cercando
ovunque—sembra che sia scomparsa."
"Pfft.
Non mi meraviglierei se avesse alzato i
tacchi. Diceva sempre che avrebbe voluto andare a visitare i paesi
lontani, e
che avrebbe sposato un principe come nelle favole—"
"No,
ho sentito che c’era davvero qualcuno, questa
volta! Mi ha parlato di un tipo di nome Tom, che si aggirava da queste
parti, e
la stava corteggiando."
"Oh,
povero Sander. Gli si spezzerà il cuore,
quando lo verrà a sapere."
"Dovrebbe
ringraziare il cielo di essersi
liberato di lei."
"Non
dire cose del genere."
"Dico
quel che mi pare! E quindi, ringraziare il
cielo!"
Kristoff
osserva gli uomini che affollano le navi nel
porto sotto di lui; una scivola via dal molo, spiegando i propri
colori—una
specie di uccello, levato in volo dietro uno stemma
indecifrabile. Il
suo avanzare fuori dal porto è lento e ipnotico, scomparendo
brevemente dalla
vista quando passa sotto al colle su cui lui si trova, ormai in mare
aperto. Non
ha mai avvertito il canto di sirena che possiede l’oceano;
erano le montagne
che tenevano davvero stretto il suo cuore. Eppure, osserva la nave
finchè non
si vede più, e poi Sven dice, "Dovremmo tornare al
castello, e vedere
come sta la Regina Elsa."
Kristoff
risponde, senza sbattere le palpebre, "Non
torneremo, Sven.”
"Che
vuoi dire con non torneremo?
"Voglio
dire, che senso ha! Che senso ha, perché diavolo
dovrei tornare laggiù, huh? Fin da quando mi sono fatto
coinvolgere in questo
stupido casino, non ho incontrato altro che guai e adesso davvero
BASTA."
Ha l’affanno, e tira il pelo di Sven, ma la renna non emette
un lamento, si
limita a guardarlo addolorato e scuote la testa. Kristoff lo lascia
andare, in
fretta, e si scusa con una pacca, imbarazzato, mentre cerca di
calmarsi. "Era
più facile," continua, scontroso, accovacciandosi per
tirarsi su, infilandosi
i guanti, "quando eravamo solo io e te."
Vuole
toccare la pietra un’ultima volta, ma una pietra
è solo una pietra, e non lo fa. Invece arranca lentamente
sull’erba morta. Si
ferma in cima alla collina, voltandosi verso la sagoma abbandonata
della renna.
"Andiamo,
amico."
Cala
la notte.
Un
uomo cavalca una renna, sulle montagne.
Una
Regina tiene la porta serrata.
Il
sorgere del sole non cambia le cose.
Albert
si sveglia.
Per
un lungo, terrificante momento, percorre la stanza
in cui si trova con gli occhi spalancati, perché non si
ricorda minimamente come
ci sia arrivato—o dove fosse persino il
luogo in cui si trovava—o—beh, le
lenzuola erano lisce, e il letto morbido, ma non era questo il
punto—
C’è
una guardia in piedi accanto alla porta, che
sonnecchia con la testa appoggiata al muro accanto a essa.
"Salve,"
Albert gracchia, lentamente, tirandosi
di nascosto le coperte fino al mento, sia per pudore che come debole
protezione.
La guardia sobbalza, lo nota, si acciglia; la mascella si muove come
quando si
sta per sputare. Tutto sommato, tipica reazione; Albert, abituato, non
si
sconvolge.
La
guardia grugnisce. "Sera."
Albert
lo guarda, alzando un sopracciglio, dall’altra
parte del copriletto, blu scuro come il baldacchino, e ornata da grandi
strisce
di motivi intricati, rombi e fiori, la parte inferiore dei muri, nello
stile
che stava iniziando ad associare esclusivamente ad Arendelle; grazioso,
eppure—incredibilmente
soffocante a volte—
La
mente corre, un po’ fiacca, mentre cerca di riunire
le immagini sconnesse che vagano nella vastità dei suoi
pensieri incoerenti—gli
occhi di Giovanna D’Arco—la fitta acuta di una lama
che si torceva, due lame—una
fialetta—i gemelli che dicono di doversi occupare della
principessa—
I
gemelli che dicono di doversi occupare
della principessa.
Chiede,
"Quanto tempo sono stato addormentato?"
"Quasi
cinque giorni."
Dannazione,
troppo—troppo tempo—"Okay.
Va bene. E
la—la Regina Elsa per caso è passata di qui?"
Ma
la guardia si chiude a riccio, e non risponde.
Albert pensa che quell’uomo sia stato messo lì non
tanto per assicurarsi che
avesse tutto quello che gli serviva, quanto per assicurarsi che stesse lì.
Si sforza di tirarsi su a sedere, che sia dannata la copertura delle
lenzuola, e
mentre lo fa avverte una profonda, acuta fitta lungo tutto lo stomaco.
Si
ferma, sentendo il sapore di terra—ma non
spiacevolmente—in fondo alla gola. La
pressione delle mani contro il materasso gli fa tremare le braccia. "Ho
bisogno di parlare con la Regina."
La
guardia non risponde.
Albert
si tira su aiutandosi con la testata del letto e
si strofina il viso con le mani. Guarda male quelle traditrici delle
sue
braccia, e pensa che dovrebbe esserci già abituato. A non
essere tenuto tanto
in considerazione. Si soffia via una ciocca di capelli ricci che gli
scendeva
sulla fronte e pensa, che sul piatto delle minacce, le sue proverbiali
quotazioni fossero molto basse—il che andava—andava
bene, era normale, se non
che, sapeva che sarebbe successo qualcosa alla
principessa, e doveva
avvertire la Regina—doveva avvertire Elsa—
Si
lascia ricadere le mani in grembo, e si chiede
perché siano giunti a quel punto, e poi pensa che
è Alfons il perché.
Gli
occhi scattano di nuovo verso la guardia, ma
l’uomo non sonnecchia più. Albert si riguarda di
nuovo le dita, stendendole
tutte e dieci, poi stringe le mani a pugno. Di chi si poteva fidare?
Inizia a
contare, un dito per ogni nome.
Lukas.
Marcel. Stefan. Josef. Rupert. Fredrik.
Poi—
Chi
è che li avrebbe effettivamente aiutati?
Marcel,
Josef, Rupert, e Fredrik erano via a
combattere. Abbassa quattro dita. Stefan non si sarebbe sporcato le
mani. Lukas
l’avrebbe fatto solo se pensava che la cosa gli sarebbe
tornata utile, alla
lunga, quindi—forse?
Albert
rimane con un solo dito ricurvo e fa una
smorfia.
Beh,
pensa, ostinato, guardando fuori dalla
finestra, mi occuperò di quell’ostacolo
quando sarà giunta l’ora—inizia
ad architettare un piano, che implica sgattaiolare fuori dalla
finestra, arrampicarsi
sul tetto, scivolare giù nei pressi della prima finestra
aperta, rientrare nel
castello, e correre in giro finchè trovasse la Regina.
Era
un piano molto confuso, e che dipendeva da un
sacco di variabili—e cioè, la conoscenza che
possedeva della pianta del
castello (nessuna); lo stato di salute (più o meno al
settantotto percento, si
direbbe); e l’energia (correntemente a quota zero).
Tutto
considerato, un piano orribile.
Albert
guarda di lato, e afferma, disinvolto, “Mi
dispiace tanto."
La
guardia sembra confusa.
Una
vita di lezioni delle Isole del Sud lo spingono a
fare un sorriso mesto.
Bene.
"Ho
sentito che stai cercando Britta?"
"Gerda?
Dovresti essere a letto, non ti sei
ripresa abbastanza da andare in giro—"
"Il
lutto non impedisce alla terra di girare,
Kai. Lo sai bene quanto me. Hai scoperto qualcosa?"
"Ancora
no, tranne per il fatto che c’è la
possibilità che abbia detto a qualcuno di
voler lasciare l’impiego al
castello."
"Bene,
mi metterò all’opera."
"Padron
Kai!"
"Oh,
cosa c’è ora?"
"Mi
dispiace interrompervi, signore, ma il
principe—è scappato."
"Cosa?!"
La
vista di Elsa si annebbia, le lettere della pagina
avanti a lei che si sfocano in un mare vorticoso di inchiostro nero
privo di
significato. Si ferma, inspirando brusca dal naso e appoggiandosi allo
schienale duro della sedia. Si pianta un gomito nel fianco, un dolore
fiacco,
fioco, che a malapena la tiene sveglia. Vorrebbe non essere rimasta
alzata
tutta la notte a leggere Tristano e Isotta.
Chiude
gli occhi—
E
un minuto dopo viene svegliata con un sussulto da un
rapido bussare continuo contro la porta bianca, seguito, subito, da,
"Regina
Elsa? Regina Elsa, sono io—voglio dire, Albert,
sono—per favore, posso entrare?"
Sembra avere il fiato corto. Prova con la maniglia, ma lei non
l’aveva ancora
aperta.
Deve
essere un sogno, quindi ride, fragile, incredula.
Vorrebbe dire, Non faccio entrare le persone.
Pausa.
Poi, soffocato, "Okay, allora devo solo—"
Elsa
scuote la testa, pizzicandosi l’interno del
braccio per svegliarsi, solo che il sogno non
svanisce in nebbiolina; è
ancora in biblioteca, tra una pila di libri mezzi aperti e lettere
mezze lette,
la finestra aperta, i suoni della città portati dal vento
più allegri, molto
più allegri, del giorno prima, un fuoco inesistente nel
caminetto. Sbatte le
palpebre e spalanca gli occhi, osservando la porta, giusto in tempo per
vederla
tremare sotto il peso di un impatto dall’altra parte, una
volta, due—
E
poi si spalanca di botto, serratura e maniglia rotta,
e sbatte contro il muro. Una nave, in una bottiglia di vetro sulla
mensola, cade
a terra e si frantuma, spezzandosi, in una cascata di vetro. Elsa
rimane a
bocca aperta, troppo stanca per essere altro che scioccata. Albert
è in piedi
sulla soglia, ha l’aria indispettita e si massaggia la
spalla. È molto pallido,
dalla tunica larga che usava sotto la camicia si intravede
l’osso della
clavicola; un velo di sudore gli imperla la fronte. Ritorna in
sé
immediatamente. "Ma sei—ma sei pazzo?
Avresti potuto farti male!"
"La
porta era chiusa—"
"Certo
che era chiusa!" Poi scuote la testa,
aggrottando le sopracciglia. "Quando ti sei—"
"C’è
qualcosa di marcio in tutto questo," e
mentre lo osserva lui fa un respiro profondo, vacilla, e poi crolla
appoggiandosi alla cornice della porta. "I miei fratelli stanno
architettando qualcosa, e sicuramente ha a che fare con te, e tua
sorella—"
Elsa
sbatte le palpebre. Si lecca le labbra. "Mia
sorella è morta."
Albert
aggrotta immediatamente le ciglia, una smorfia
marcata. Apre la bocca, la chiude. La apre di nuovo. Elsa continua,
perché deve,
"Papi ti ha ordinato di restare a letto almeno per una settimana, e
penso
davvero che ti stia spingendo troppo oltre—"
"Hai
controllato il corpo?"
Si
interrompe, qualcosa di bollente che si muove nel
fondo dello stomaco. "Scusami?"
"Hai
controllato il corpo?"
"Smettila.
Ti prego—basta, smettila di parlare."
"Come
è morta?"
"Albert."
"Come?"
"Scivolata."
Elsa si stringe le mani in
grembo, fastidio e rabbia che iniziando a risalirle in gola. "In un
dirupo."
"E
ci hai creduto?" Albert la deride,
sbuffando. "Sembra più qualcosa di cui io
sarei capace quando sono ancora sobrio—"
"Non
sono dell’umore per le tue battute non divertenti, Albert!"
"Non
è—per una volta non era una battuta—i
miei
fratelli—"
"Se
ne sono andati. E adesso che l’hanno
fatto, vorrei lasciarmi tutto alle spalle."
"Il
che significa che non vuoi pensarci più."
"Ma
come osi."
"Come
oso io? Che, credi che chiuderti
dietro una porta risolva le cose? Cosa cerchi di concludere facendo
così?"
Elsa
si alza in piedi, così veloce che la sedia cade a
terra, ma la temperatura nella stanza rimane la stessa; ed è
soffocata, e ha
caldo, sotto alla stoffa del vestito, sotto ai guanti. Albert
è appoggiato lì, il
volto pallido e corrucciato e più serio di quanto lo abbia
mai visto, appoggiato
lì contro la porta, e sa che dovrebbe chiedergli chi
è stato a ferirti, ma
ha paura della risposta. I capelli gli ricadono flosci di lato, gli
occhi che
guardano il suo volto, i guanti, i pugni stretti, i guanti, il suo
volto—e sono
gli occhi di Albert. Gli occhi di Albert,
spalancati e stanchi.
"Hai,"
inizia di nuovo, con molta cautela, la
mano stretta contro la cornice della porta, per tenersi in piedi, e poi
si
sente, in fondo al corridoio, lo scalpiccio di passi agitati,
"controllato
il corpo?"
Scuote
la testa quasi impercettibilmente.
La
prima guardia svolta l’angolo; e riesce a
distinguerne altre due, alle spalle di Albert. Lui non si volta
nemmeno. Si
limita a guardarla e dice, cupo, "C’è la
possibilità che abbia aggredito
la sentinella assegnatami con un attizzatoio."
Si
raddrizza, debolmente, tanto pallido che le
lentiggini staccano sul volto a chiazze scure, e non oppone resistenza
quando
la prima guardia gli colpisce la spalla con violenza e gli stringe il
braccio.
Kai è lì, da qualche parte in mezzo alla ressa,
che chiede, ad alta voce,
" State bene, Vostra maestà?"
Gli
occhi di Elsa sono incollati a quelli di Albert.
"Non ti sto chiedendo di fidarti di me," esclama lui, a malapena
alzando la voce oltre il rumore della lotta, ma nella stanza
è quello che parla
a voce più alta. "Ti sto solo chiedendo di controllare il
corpo”.
C’è
qualcosa di più orribile accesa nel suo petto, adesso,
qualcosa che lui le offre, qualcosa che non vuole prendere in
considerazione
per timore che non sia vera.
"Fermi,"
esclama, stridula.
Kai,
facendosi strada a forza nella biblioteca per
assicurarsi che stia bene, con l’aria sfatta, la cravatta
fuori posto, sobbalza,
sorpreso. "Ma Vostra maestà, ha causato alla sua guardia una
commozione
cerebrale tentando di arrivare a voi—"
"Ho
ordinato a una guardia di restare nelle sue
stanze affinché fosse a sua disposizione, al suo risveglio;
non per tenerlo
imprigionato, quando l’avesse fatto."
Kai
comincia, "Vostra maestà, mi sono preso la
libertà di aggiungere alcune misure di sicurezza in
più—"
"Liberatelo."
C’è
qualcosa nella sua voce. Le guardie obbediscono.
Albert sussulta, ma cerca di nasconderlo, soffocando col gomito la
tosse forte.
Elsa gli si avvicina, quella terribile fiamma di candela accesa nel
petto, che
brucia e cancella la rabbia, il fastidio, la confusione, rimpiazza
tutto con la
speranza—
Si
ferma, abbastanza vicina da contargli le lentiggini;
da guardarlo negli occhi. Sussurra, piano, le mai strette davanti a
sé, "Ma
io lo faccio."
Lui
alza lo sguardo, da sotto i capelli ricci.
"Mi
fido di te."
"Che
cosa si suppone che debba farmene di tutti
questi pasti che nessuno mangia, hm?"
"Signora
Gunda?"
"Sì,
sì, che c’è? Non vedi che sono
impegnata a
stendere l’impasto di un pasticcio che di certo nessuno
toccherà?"
"Davvero
non avere notizie di Britta?"
"…No,
cara. Non ancora. Faremmo meglio a
occuparci della carne per la cena, eh?"
"Sì,
signora."
Le
pesanti tende oscurano le finestre, e mentre Elsa
apre la porta gli occhi ci mettono un po’ ad abituarsi.
C’è un letto, un
piccolo tavolino con lo specchio, un caminetto nero, spoglio.
Nient’altro che
una stanza per gli ospiti, in disuso dal giorno
dell’incoronazione; e solo
perché Kai sapeva che non avrebbe potuto sopportare avere il
corpo a solo una
camera di distanza—
Fa
un passo, ed entra. Albert sta in piedi, malfermo, appena
dietro, e gli offre il braccio senza dire una parola. Lui lo prende,
appoggiandosi
a lei. Fa un passo avanti, e immediatamente si sente l’odore
della morte— il
tanfo malsano, stucchevole, marcio. Tira in dentro un respiro,
improvvisamente.
Alza gli occhi.
C’è
una sagoma sul letto, avvolta stretta stretta in
lenzuolo funebre bianco. Immobile. Si ferma. Nel corridoio luminoso
dietro di
loro Kai sta in piedi, confuso, insicuro, e la mano di Albert
è calda e
umidiccia, anche attraverso il velluto del vestito.
Ti ho sepolta ieri,
Elsa dice al cadavere, silenziosamente. Ti ho sepolta,
dice a sé
stessa per soffocare la speranza, ma mentre avanza, un passo, due, tre,
Albert al
suo fianco, non riesce a trattenersi, non—
Raggiunge
il letto, e fissa il lenzuolo. Per un lungo
momento non si muove. Albert chiede, "Vuoi —vuoi che
lo—"
"No."
Elsa allunga il braccio libero e
solleva il lenzuolo dal volto del cadavere.
Quasi
cade all’indietro; non sa più chi regge
chi—se è
Albert che la tiene, o è lei che tiene lui—e che
cos’è, che le scende giù per
le guance—
Sente
il proprio petto esplodere.
Sente,
come attraverso una galleria, i passi veloci di
Kai, poi le mani dell’uomo si muovono veloci attorno al
cadavere sul letto, e
un attimo dopo la guarda con gli occhi spalancati. "Non capisco."
"La
conosci?" Elsa sussurra.
"E’
Britta," Kai risponde, sconvolto. "Ma,
allora—la principessa?"
Ed
è Albert che lo dice.
"La
principessa è ancora viva."
La
prima cosa che nota è che ha la bocca come se
avesse ingoiato un’intera secchiata di feltro misto al vino
di Elsa non
annacquato neanche un po’, e forse anche del fieno, il tipo
di fieno sporco che
a volte rimaneva incastrato tra gli zoccoli di Sven—
La
seconda cosa che nota è che, ovunque sia quel posto,
rolla piano.
Gli
occhi di Anna si spalancano.
Sta
fissando la vasta distesa di tavole di legno scuro
e grezzo, in posizione fetale. Si rimette distesa sulla schiena, piano,
e il
piccolo spostamento fa vorticare il mondo. Chiude gli occhi, si copre
la bocca
con una mano, e aspetta che passi la nausea.
Quando
riesce a guardare le cose senza aver la
sensazione di stare per vomitarsi sugli stivali, apre di nuovo gli
occhi. E’ in
una cella piccola, tre mura di legno
e
una finestra circolare che perde acqua lungo tutto il muro.
Nient’altro che due
secchi e una brandina di stoffa. Rigira la testa. Sbarre di metallo, a
distanza
regolare, sono la porta, e le guarda arrabbiata a bocca aperta,
perché non può
essere—era—
Era
in prigione?
Ma
se non aveva fatto niente!
Si
siede, e deve fare respiri profondi e regolari
attraverso le narici dilatate per tenere sotto controllo il
voltastomaco. Le braccia
sembrano essere spaghi senza vita e le gambe anche peggio e non riesce
a
sbarazzarsi di quello stupido sapore di feltro, e dovunque si trovasse,
non era
giusto—se avesse mai dovuto essere imprigionata, avrebbe
voluto che fosse per
qualcosa di figo tipo rubare ai ricchi per dare ai
poveri o cose del
genere, ma tutto quello che aveva fatto era stato—
Tutto
quello che aveva fatto era stato—
Si
ricorda il volto di Kristoff, orripilato e
spaventato e urlante al di sopra di lei, prima di essere inghiottita
dalla
nebbia e poi addormentarsi.
A
mezz’aria.
Ok,
quindi tutto quello che aveva fatto era scivolare
in un dirupo e addormentarsi a mezz’aria, quindi come ci era
finita su una—su
un—
Si
alza e barcolla, coprendosi di nuovo la bocca e
ingoiando un’altra ondata di nausea. Inciampa vicino alla
finestra. Le dita, quando
si allunga, a malapena toccano le sbarre; salta, le afferra, e poi
prova a
issarsi, per sbirciare fuori, ma le sue braccia, sottili come spaghi,
non ci
riescono molto bene, e tutto quello che ottiene in cambio dei suoi
sforzi è una
bella ondata di acqua salata dritta in faccia mentre il posto in cui si
trova,
qualunque esso sia, si inclina pericolosamente di lato—
Oh.
Resta
appesa lì, alla finestra, le dita che appena
toccano terra, e ha voglia di urlare.
Ohcieloohcieloohcielo—
"Nave,
sono su—"
"Bene
bene. Guarda un po’ chi si è svegliata."
Rantola,
si volta, cade. Viktor—no, Tomas, più minuto,
è Tomas—sta lì in piedi, proprio
davanti alle sbarre. Si alza, spolverandosi la
gonna e cercando di darsi un contegno mentre avanza a grandi passi
verso di lui.
"Come vi permettete, signore! Fate tornare indietro
questa nave, adesso!
Immediatamente!"
E
poi sente, "Ingenua come al solito, vedo."
Il
cuore le sprofonda fino ai piedi. Tomas fa, "Moriva
dalla voglia di vederti."
Si
volta lentamente, lentamente, così lentamente, ti
prego, no, ti prego, no, ti prego, no—
Hans
sorride.
"Ciao,
Anna."
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
"Ma
sei certo che sia sicuro permettergli di
andare sottocoperta?" Viktor si pulisce i denti con la punta del
proprio
pugnale, guardando in tralice il fratello.
"No,"
Niels risponde. Sembra vagamente a
disagio, come se il leggero rollare non andasse a genio al suo
stomaco; si
stringe forte al petto un pesante tomo nero. "Ma non è la
mia nave, quindi
non m’importa granché"
"Intendo,"
Viktor, accigliato, si toglie il
pugnale di bocca—un po’ di sangue secco era
incrostato in punta—"non avevi
detto che si è fatto strada nel castello bruciando i muri,
quasi?"
Niels
grugnisce, vago.
"Intendo,"
Viktor continua, strofinando
accanitamente la lama contro la manica della tunica per pulirla, e
nello stesso
tempo picchiettando il parapetto di legno con le nocche, "fuoco e legno
non vanno d’accordo, vero?"
Niels
gli lancia un’occhiata fulminante. Di norma,
Viktor era abbastanza saggio da non contrariarlo; ma qualcosa del mare
aperto
rendeva Niels meno uno stregone minaccioso e più simile a un
gatto randagio
malaticcio. "Oh cielo," suo fratello abbaia, "Ma sei proprio
intelligente! Dovremmo stare tutti in guardia quando ci sei."
Il
mare luccica sotto al sole del pomeriggio, il blu
profondo che ha quando l’autunno si avvicina; Viktor sputa
oltre il parapetto, per
buona fortuna e tanto per essere sicuri. "Beh?" scatta.
"Beh,
cosa?" Niels borbotta cupo a
denti stretti. Ha un colorito molto verde.
"Beh,
non hai intenzione di richiamarlo su?"
"Non
sono l’addestratore di Hans. Se vuoi che
risponda quando lo si chiami, faresti meglio ad andare a prendere il
suo
padrone."
Viktor
guarda alle spalle del fratello, dall’altra
parte del ponte in direzione della nave ancorata a cento metri di
distanza; un
vascello molto più grande, con la poppa più
ampia, bordato d’oro, la polena
d’oro massiccio. Quando allunga il collo oltre e attorno a
sé non c’è
nient’altro che oceano blu, a perdita d’occhio. Uno
sprazzo di nuvole
temporalesche all’orizzonte, lontano e sfocato, promette
pioggia, ma pensa che
il cattivo tempo non avrebbe colpito affatto la loro nave.
"Forse
lo farò," dice, scrocchiando il collo.
Sanno
tutti e due che è una minaccia senza sostanza.
Il
volto di Anna assume un’espressione spaventosamente assente;
sente i
nervi tendersi dalle parti degli occhi e delle labbra. Ha i denti
stretti. Ha
paura che a muoversi o ad aprir bocca
o qualsiasi cosa possa
fare un gesto completamente soddisfacente ma
completamente indiplomatico, e, considerato che
è prigioniera in una
nave straniera, presumibilmente nel bel mezzo
dell’oceano, si
accorge che deve giocarsi bene le carte, o non giocarle
affatto—
Inspira
profondamente, tremula, attraverso il naso, e trattiene; espira al
tre; ciao, Anna. Dice, "Hai un aspetto orribile."
La
parte bella è che non è una bugia detta per darsi
un po’ di coraggio—ha davvero
un aspetto orribile. Gli occhi hanno una specie di luce maniacale che
le dà i
brividi, e sembrano più pronunciati a causa delle ombre
scure sotto di essi. C’è
un livido viola, quasi nero, che va dall’angolo della bocca
alla punta dell’orecchio,
e gli contorna la mascella.
E
osa persino fare un
sorrisetto—
"Sei
per caso convinta," domanda lui, "di stare meglio di me?"
Anna
spalanca la bocca per l’indignazione; il movimento della
mascella le
fa avvertire qualcosa di secco e pastoso sul lato del viso. Si spacca e
fa
male, tirando pelle. Porta le punte delle dita a investigare, e trova
una lunga
traccia di qualcosa che va
dall’attaccatura dei capelli alla guancia. Quando
toglie la mano, essa è tutta ricoperta di una specie di
polvere di un bel rosso
ciliegia.
Sangue.
E poi, alquanto più isterica, sangue.
Sbatte
le palpebre. Una volta. Due. Tre. Ma quando si riporta le dita alla
fronte per
continuare a investigare niente fa male nel modo
in cui si aspettava che
dovesse fare, nel caso di squarci—non è
mio?
Chiude
di scatto la bocca con un clack, poi, a denti
stretti, "Per
una che è precipitata da sessanta metri, penso di avere un
aspetto bello a
sufficienza—la tua scusa qual è?"
Hans
sorride, ma è precario, e non arriva agli occhi. Il fantasma
di un
bell’uomo permane dietro il suo aspetto selvaggio e
spezzato—ma bello in un
modo clinicamente perfetto. Nel modo in cui i principi dei libri di
fiabe
sarebbero dovuti essere. Per niente uguale a come erano effettivamente,
nella
vita reale, coi nasi grossi e gli occhi espressivi e le mani piene di
calli e—
Kristoff.
E
se il sangue non era il proprio—
Il
cuore le balza in petto.
Era
caduto?
Era
caduto anche lui?
Pensa,
pensa, pensa, ma tutto quello che riesce a ricordare è il
suo viso, spaventato
e che non si vede più, sopra di lei—
Raddrizza
le spalle, stringendo i pugni contro i fianchi. Tomas è
appoggiato a una delle travi di supporto della nave, illuminato a
strisce dalla
luce che filtra da sopra, con tutta l’aria di uno che si sta
godendo lo
spettacolo. Rivolge a lui il suo sguardo arcigno, mettendoci dentro
tutta la
forza della rabbia, sentendo le labbra tendersi—"Che ne
è stato di
Kristoff?"
Il
bianco tagliente del ghigno da lupo lampeggia
nell’oscurità. Risponde,
innocente, "Chi?"
Anna
scatta. Garantito, vuole fare l’intimidatoria, ma inciampa
sui propri
piedi, e praticamente casca contro le sbarre di metallo, ma
è il pensiero che
conta, no? Le sente pressate contro il petto e le spalle e le guance ed
è così fastidioso
visto che Tomas era così vicino—allunga
la mano, il pugno stretto
come se volesse dargli un livido che poteva far coppia con quello del
fratello—
Una
mano guantata le afferra il polso.
La
rabbia di lei svanisce per un momento, per essere rimpiazzata dal
disgusto. Vuole strofinare via la sensazione di quel tocco, e i ricordi
che
vengono con esso, ma si accontenta di scostarsi un poco dalle sbarre e
voltare
la testa lentamente, lentamente, tanto lentamente. Dice, "Lasciami
andare."
Hans
la guarda quasi lascivo a occhi mezzi chiusi, la stretta tanto forte
da lasciare un livido.
E
poi lo sente.
E’
un bruciore lento e pastoso come la melassa, inizia alla base del palmo
come
una specie di calore piacevole, che cresce in temperatura, e
intensità, finchè
non si sente la pelle che va a fuoco, e tutto quello che può
fare è guardare
con orrore affascinato mentre il tessuto del guanto sfrigola, le
cuciture si
dissolvono, fumano—
Rantola,
liberando la mano con uno strattone e capitombolando
all’indietro.
Inciampa sui propri piedi e cade pesantemente sul pavimento,
dolorosamente, perché
non era normale. Oh, non era affatto
normale,
e ahi, ahi, ahi—guarda, a occhi
spalancati, prima il proprio polso,
stretto al petto, e poi la mano di Hans, piena di vesciche. "Oh, Anna,"
dice,
fissandosi la mano. Se solo qualcuno ti amasse davvero.
Si accovaccia
davanti alla sua cella, le ginocchia che scricchiolano, ed eccola che
lo guarda
di nuovo negli occhi. "Conosci la storia di Icaro?"
Il
suo avambraccio è un reticolo di dolore intenso. Voglio
Elsa,
pensa con chiarezza, fervidamente, e si sforza di trattenere la risata
che le
scaturisce in gola. Controllati, controllati—
"Volò
troppo vicino al sole," Hans dice, guardandosi la mano come
se non l’avesse mai vista prima, "e andò in
fiamme."
Britta
ha vagamente la stessa corporatura di Anna, ed Elsa sa che è
questo
ciò che l’ha condannata
dall’inizio—quasi la stessa altezza, magra,
asciutta; troppa
energia per i muri del castello. Elsa non la conosceva, e adesso non sa
che
farsene, di lei morta sul letto. Tutto quello che riesce a pensare, le
mani
allacciate avanti a sé, è che la povera ragazza
non assomigliava per niente
alla sorella, col sudario tirato giù sulle spalle. Aveva i
capelli biondo
platino; il naso grosso; una sola lentiggine sotto l’occhio
destro.
La
porta si apre, e poi passi, leggeri e incerti. Con un po’
meno forza, sente,
"Sono ven—sono qui—per
il corpo. Per quello. Devo dir loro di entrare?" Pausa. "Elsa?
Stai—stai
bene? Aspetta. È una—domanda stupida. Scusa."
Elsa
abbassa lo sguardo sulla ragazza e scuote la testa con le sopracciglia
lievemente aggrottate. "Non sono triste. So che dovrei esserlo. Tutto
quello che provo è—pietà." Adesso
è il suo turno di fermarsi. "E
gioia," aggiunge con un bisbiglio colpevole, spezzato.
"Bene,"
Albert risponde all’improvviso, distintamente. Si ferma
in piedi accanto a lei. Lei lo guarda; si concentra sulla sua spalla
destra per
qualcosa che non sia la morte. Lui osserva dall’alto del naso
storto la ragazza
con una specie di esausta rassegnazione profondamente impressa in
quegli occhi
dal colore così particolare.
Come
se ci fosse abituato.
"Bene?"
chiede stridula, serrando la bocca
contro la risata che minaccia di salirle a fior di labbra—controllati,
controllati—
"Sì,"
Albert dice serio. "Se ti
sentissi effettivamente triste, direi bene, di
nuovo. O anche se fossi
arrabbiata. O sconvolta. O qualsiasi cosa, sul serio. Anche assassina."
"Non
credo sia la reazione appropriata," fa
lei piano, rivolgendosi di nuovo alla ragazza sul letto, "quando una
persona ti dice che vuole ammazzare qualcuno."
"Lo
vuoi?"
"No."
"Sei
arrabbiata?"
Aspetta
di avvertire il sentimento bollente, giù nelle
profondità dello stomaco—ne avverte
l’inizio, l’irritazione che va e viene
contro quello che stava iniziando a riconoscere come il modo di
comportarsi di
Albert—forzare, forzare, forzare—ma
niente di troppo opprimente, come si
era sentita di recente. Solo—
"Sono
stanca," ammette, troppo tesa e
spezzata per provare vergogna; iniziano a bruciarle gli occhi. Ha caldo.
Perché ha caldo? Guarda, rapidissima, i
quattro angoli del soffitto, ma
non c’è ghiaccio appeso, lì; e non ce
n’è che si dirama dai suoi piedi. Apre e
chiude in fretta le mani.
Dov’era?
"Lo
so." Albert sembra sgonfiarsi, e si
passa le dita tra la massa di capelli. Non aveva nemmeno tentato di
darsi un
contegno, quel giorno—cascano, completamente disordinati,
sopra la fronte. Ha
un aspetto orribile, una piccola parte di lei pensa, la parte che
è ancora una regina,
la parte che non è una sorella—stanco, e debole.
Non dovrebbe essere in piedi.
Dov’era?
Sente,
poi, soffocato, dal corridoio dietro di loro—"No,
dovete permettermi di vederla. Voi dovete. State mentendo!"
Una
baruffa. Il premere piatto di stivali sul
pavimento di legno. Poi la porta viene spalancata, sbattendo contro il
muro con
tanta forza da far sussultare Elsa, che si era subito aspettata si
fosse
frantumata; si volta, velocemente, col collo che scrocchia, trovandosi
di
fronte un giovane che entra, e ha l’aria selvaggia di un
animale intrappolato
in un angolo. Kai è dietro di lui, urla fermo,
fermo, ma tutto si
confonde—tutti sembrano così tristi,
pensa debolmente. Sente Britta, morta
e pesante, fissarle la nuca.
Il
ragazzo li oltrepassa con violenza; Albert subisce
la parte peggiore dell’impatto, volando di lato come il ramo
di un salice, inciampando
col piede nella sponda del letto. Cade. Il giovane si lancia su Britta,
ed Elsa
si spinge nel baldacchino del letto, e vuole affondarci dentro.
E’ in troppi
posti nello stesso momento. È lì che sente la
colonna del letto scavarle nella
schiena. È dovunque Anna sia. È lì che
vuole andare ad aiutare Albert.
È
lì che osserva il ragazzo sul letto. Quello che sta
morendo di crepacuore.
"Sander,
datti una regolata!" Kai ruggisce,
il petto tremante. "Mostrarsi alla presenza della Regina in tale
modo—"
"Al
diavolo il decoro!" il ragazzo ulula, rivolgendosi
a loro, gesticolando verso la ragazza. "Chi è stato?"
Quando
nessuno dà una risposta dopo due, tre, quattro secondi, si
volta di nuovo in
direzione della figura silente, immobile nella morte. "Oh, Brit, non ti
volevo urlà contro. Brit, ti prego…"
"Vostra
Maestà, porgo le mie scuse per questo
giovanotto—le sue azioni sono—dettate dal
dolore—"
La
mano di Elsa le copre la bocca. Ha troppo caldo.
Il guanto è come acido sulle labbra. Scuote la testa. No,
va bene; no, non
va; no, no, no—non sa dire, cosa significhi.
Deglutisce a fatica. Ecco Kai,
che la fissa, e Albert, che si alza in piedi, e le guardie fuori,
e—
E—
Abbassa
piano la mano. "Scusatemi," esclama
debolmente, cortese.
L’aria
più fresca del corridoio la colpisce come uno
schiaffo sul viso. Stringe in mano gli orli della gonna e si affretta
quanto a
una regina sia concesso affrettarsi, e tutto quello
che riesce a pensare
è che non sta gestendo la questione come una regina dovrebbe—come
una—come
una persona dovrebbe—
Tutto
quello che riesce a pensare è, Anna è
viva.
E
nient’altro ha importanza.
"Quindi
come ci sei riuscito, eh?"
Viktor
posa il pugnale sul palmo, lo soppesa, lo
considera, e poi lo tira con forza contro l’entrata del
corridoio che porta in
coperta. Si conficca, facendo un dente nel legno. Va a riprenderlo,
continua, annoiato,
"A fare di Hans più uno spostato di quanto non sia?"
Viktor
afferra l’elsa, tira. Quando si volta,
c’è un
pezzo di legno infilato in punta. Riattraversa il ponte a grandi passi,
preparandosi
per un altro tiro. Niels lo guarda, cupo. "Ho invocato i demoni che
abitano le profondità più oscure
dell’inferno e ho offerto loro la mia anima in
cambio dei poteri del fuoco e dello zolfo."
Viktor
inizia a ridere. "E’ ridicolo, fratello."
Niels
manda giù un’altra boccata di vomito ed esclama
in tono piatto, "Hai ragione. Lo è. Ho offerto loro la mia
anima molti
anni orsono."
C’è
qualcosa nel suo tono che fa morire in gola la
risata a Viktor, e fa scivolare via il sorriso dalla sua faccia.
Grugnisce a
disagio, e lancia.
Questa
volta, non si conficca.
Viktor
sbuffa, infastidito, e va ancora una volta a
riprenderlo. Quando si volta di nuovo verso Niels, il pugnale in mano,
suo fratello
lo sta osservando a occhi stretti. Non gli piace quello sguardo. Non
gli piace
proprio. Vorrebbe poterlo tagliar via dalla faccia del
fratello—invece, si
accontenta di fare un movimento fluido, veloce, che fa volare il
pugnale—
Si
conficca, fino all’elsa, a pochi centimetri dal
naso di Tomas.
"Non
ti ho sentito salire," Viktor dice, una
specie di scusa.
Tomas
dà un colpetto alla lama, poi passa al di sotto
di essa. "Sì, beh, dubito che avresti smesso comunque. Bel
tiro, a
proposito."
Viktor
ghigna. "Sì."
"Dovresti
essere la sua scorta." La voce di
Niels sembra carta vetrata.
Tomas
guarda dietro di sé, giù dalla scalinata che si
fa sempre più buia. "Ha chiesto un po’ di tempo da
soli."
"E
pensi che sia saggio?"
"Penso
sia furbo. Paura e tutto il resto. E poi,"
Tomas continua, fermandosi al parapetto e osservando l’acqua
luccicante, "sa
cosa gli accadrà se alcun male venga fatto alla principessa
prima che sia tempo."
Niels
sbatte le palpebre, ma si calma—o, meglio, si
sente di nuovo male. Chiude gli occhi, e Viktor lo osserva contare fino
a dieci.
Alla fine riesce a dire, "Sono curioso di sapere come voi due buffoni
ci
siate riusciti. Il rapimento."
Viktor
lancia un’occhiata al gemello, con un sorriso
maligno. Tomas gli passa un braccio attorno alle spalle, languidamente,
ed
esclama, allegro—
"Ah,
che storia, ragazzi."
Elsa
siede sul balcone, il mento sulle ginocchia, i
guanti uniti, e lascia l’orrore della situazione investirla
in pieno.
Toc,
toc.
Appoggia
la fronte contro la stoffa nera della gonna.
Toc,
toc, toc.
Le
porte a vetri si aprono, con un piccolo click, e si
chiudono facendo appena rumore. Solleva la testa, stringendo le labbra.
Albert fa
quattro pasi traballanti e si sistema a mezzo metro di distanza, alla
sua
destra, la schiena contro il muro. Accavalla le gambe e alza lo sguardo
al
cielo, un azzurro luminoso, accecante; il silenzio che scende su di
loro come
una nuvola non è imbarazzante, e lo apprezza, seduta
lì. Appoggia la testa ai
vetri piombati della porta, ascoltando le grida dei gabbiani
riecheggiare nel
porto.
Alla
fine riesce a dire, "Era sulla loro nave,
allora. Quando sono partiti."
"Sì,"
afferma, semplicemente, "Direi."
Elsa
si morde l’interno del labbro, picchiettandosi
gli stinchi con i guanti. Il ritmo nervoso si interrompe; volta la
testa sul
collo rigido, osservando il profilo di Albert. "Come." Si sorprende
dalla furia oscura e tempestose che trapela dalla propria voce. Era
ingiusto da
parte sua, sfogarsi su Albert—una qualche piccola, razionale
parte di lei se ne
accorge, anche nel preciso momento in cui parla.
E’
una parte molto piccola.
Le
labbra sono tese, e secche. La guarda in tralice.
"Uccidere la ragazza, scambiare i corpi. Semplice, in teoria."
"Come
hanno inscenato la sua morte."
Albert
si strofina la faccia. "Non lo so."
"Non
lo sai," Elsa ripete. "Non lo—sono
i tuoi fratelli, Albert, di certo mi aspettavo un
po’ più di
informazioni sui loro piani, considerando che provieni dalla stessa
famiglia
depravata di—"
"Io
non sono i miei fratelli!"
Rompe
il silenzio, riecheggia, si spegne. Si strofina
la testa, questa volta, il braccio che giocherella con la manica della
tunica, mentre
si massaggia la pelle scoperta del polso.
Elsa
chiude gli occhi. "E’ questo che rende le
cose tanto difficili."
Domanda,
abbandonando le braccia sulle ginocchia,
"Preferiresti che fossi un tiranno affamato di potere?"
"Renderebbe
di certo tutto più bianco e nero."
Annuisce,
triste. "Sì."
"Chi
ti ha accoltellato?" chiede, guardando
dritto avanti.
"I
gemelli."
Chiude
gli occhi, incredula. La voce è fioca. "Perché?"
"Perché
sapevano che il mio affetto per te era
più profondo dell’affetto che ho per loro."
Lo
guarda, attonita. "Mi hai appena conosciuta."
"Non
credi nell’—affetto a prima vista?"
"Ma
non era l’amore?"
"Nonstodicendochetiamo,"
dice, all’improvviso
frustrato, il naso e le guance rosse. "Perché mai
sarebbe—è una terribile—cosa
terribile. Non che amarti fosse una cosa—non importa."
"Io
penso che amarmi sarebbe una cosa
terribile," afferma con convinzione. Credi che avrebbe potuto
amarmi?
Se lo ricorda? Non glielo chiederà. Sì; poteva
amare molte persone, ma le
persone che amava tendevano a—tendevano a —
Anna
è una statua di ghiaccio e i suoi
genitori sono morti e il suo mondo cade a pezzi.
"Perché
dici così?"
"Perché
le persone che ci tengono a me prima o
poi soffrono."
"E
tu—e tu, invece? Tu—tu non—non ami
nessuno?"
Elsa
incrocia il suo sguardo, a disagio, non è sicura
di che piega stia prendendo la conversazione. Dovrebbe essere in cerca
di
giustizia per il suo accoltellamento, per la morte di Britta, dovrebbe
essere
all’inseguimento della sorella—non a discutere di sentimenti con lui su un balcone. Amo
mia sorella e amo Gerda e
Kai e riesco a vedermi innamorata di te, col tempo, ed è
questo che mi spaventa.
"Ma perché hanno rapito Anna, allora?" cambia argomento,
senza tanta
disinvoltura. "I tuoi fratelli. Se non riusciamo a capire il come,
possiamo
almeno cercare di indovinare il perché—"
L’imbarazzo
irrequieto di lui è sparito, sostituito
dalla curvatura esausta delle spalle. Dice, senza giri di parole, "Non
è
ovvio?"
Lei
scuote la testa.
"Elsa—l’hanno—l’hanno
fatto per arrivare a te."
"Ma
guarda la tua faccia," Hans sorride, "sembrerebbe che
hai visto un fantasma. Che, Anna—per caso tua sorella
è l’unica che può essere
dotata di talenti insoliti?"
Anna
si tiene il polso saldamente stretto con l’altra mano, e ha
paura di
allentare la pressione. La pelle le pulsa, e si sente il cuore battere
nel
braccio, il che era decisamente non normale,
così—Hans usa le sbarre per
aiutarsi ad alzarsi in piedi, languidamente. Non riesce a sentire altro
che
acqua che gocciola in uno degli angoli, lo sciabordio del mare
all’esterno—quasi
desidera che Tomas ritorni, perché ha la netta sensazione
che Hans gli avrebbe—beh,
non dato ascolto, ma—beh—quasi
dato ascolto—
Lo
segue a ruota, sforzandosi di stare in piedi, perché col cavolo
che
gli avrebbe permesso di torreggiare su di lei come una
specie—una specie di torre—
Ok,
quindi non so fare metafore sotto pressione. Similitudini?
Quello che è.
Unisce
i tacchi e combatte una lunga battaglia per mantenere il volto
inespressivo, anche se ogni centimetro di lei avrebbe voluto essere in
qualsiasi altro posto, tanto da far male; anche se non sapeva ancora
niente di
Kristoff; anche se non sapeva ancora niente di niente.
Fallo
parlare,
pensa all’improvviso, seguendo i suoi movimenti
mentre inizia a percorrere tutta la larghezza, sei passi, della sua
cella, indietro,
avanti, avanti e indietro. Fallo parlare, tu parli tutte le
volte e ti fai
scappare fuori cose—"Mia sorella con la sua magia
ci è nata. Mi sembra
invece che tu sia stato maledetto di recente. Sulla strada di quale
troll sei
capitato, allora, huh? Hai provato a rubare anche il suo di regno, e
uccidere
anche i suoi, di fratelli?"
Hans
sorride, a labbra tirate. "Anna, se credi che ti rivelerò i
nostri piani, sei decisamente in errore."
"E
qual è il peggio che può accadere, huh? Lo
racconto ai miei amici, secchio
e brandina?"
"Credi
davvero di essere nella posizione di parlarmi così?" Smette
di camminare avanti e indietro, e si volta a guardarla, qualcosa dello
sguardo
da incantatore di un tempo ancora presente, in profondità,
negli occhi maniaci
e selvaggi.
"Forse
avresti dovuto uccidermi quando ne avevi l’occasione."
"Credimi,"
fa lui funereo, "Pensavo di averlo fatto. Uno
sbaglio di cui mi sono pentito ogni notte, fin da allora."
Anna
si lecca le labbra. La cella inizia a puzzare di carne umana bruciata,
e lotta contro i conati di vomito. "Non ho paura di te."
"Oh,
ma so che hai paura di me. So un sacco di cose su
di te,
Anna. So tutto di te. Una ragazza, tagliata fuori
tutta la vita. Non sei
nient’altro che una persona di troppo—non salirai
mai al trono, non sarai mai
importante per Arendelle, e non troverai mai il vero
amore."
"Quindi
sai anche che sono una persona del tutto comune," Anna
dice in fretta, osservando la mano libera fare scintille come una
pietra focaia,
lottando contro l’impulso di fare un passo indietro. "Sai che
avete rapito
la sorella sbagliata."
"Pensavi
che volessimo te?" Hans ringhia.
Anna
quindi capisce; oh, mima con le labbra.
Hans
aggrotta pesantemente le ciglia, la rabbia impressa in ogni linea di
quel volto quasi bello, e con un passo deciso manda uno scoppio di
fuoco
controllato a malapena accanto ai piedi di lei. Ne sente il calore
minacciarle
la gonna, ma l’aria lo inghiotte con la stessa
velocità, così rimane solo con
una vaga impressione e un rantolo. "Se potessi ucciderti adesso, lo
farei,"
dice cupo. Si volta, dietrofront, e se ne va via pestando i piedi,
furioso, via,
su per le scale che portano in coperta, e tutto quello che le rimane
sono un
polso dolorante, e una luce, sole, fuoco, impressa dietro le palpebre
chiuse.
Elsa,
vogliono Elsa. Serra
gli occhi, e pensa, più
intensamente possibile, ti prego non venire, Elsa, non lo
fare, no, no, no—
E
poi, poiché pensare, ripetutamente, è pesante, si
accascia vicino alla
brandina, crollandoci dentro, quasi strappando il tessuto. Le dita
scivolano
sul polso, e pensa a di troppo e inutile
e vero amore.
Lascia
andare la bruciatura giusto il tempo di passarsi le mani,
delicatamente, sulla scollatura, dove c’è il
pulsare caldo del suo cristallo.
Così,
chiude gli occhi, ma non piangerà.
Non
lo farà.
"Non
puoi farlo."
"Stammi
a guardare."
"Non
puoi farlo—" Albert si fa strada
tra i detriti nella sua stanza, evitando con molto tatto di dire
alcunché
riguardo ai pezzi sparsi che giacciono al suolo come corpi morti,
"—perché
è esattamente quello che vogliono che tu
faccia."
"Non
sanno che io so. Credono che tu sia
morto. Credono che il corpo verrà sepolto. Credono che non
scoprirò niente
finchè non manderanno una lettera che dice Posso
darti quello che più
desideri al mondo—mia sorella è
lì fuori, e io andrò a riprendermela. Ho
già giocato a questo gioco, Albert."
"Non
quanto me."
Elsa
alza gli occhi. Basta parlare, hanno parlato
abbastanza—il chi, il perché, il
come—non era importante. All’improvviso si
sente piena di energia, tesa al massimo, come una molla—si
sarebbe occupata di
Britta, e poi avrebbe fatto preparare una nave a Mastro Olin, e avrebbe
portato
un reggimento—
"Se
lasci Arendelle, la lasci vulnerabile, lo
capisci?"
Elsa
calcia un pezzo di armadio di lato, cercandone
tra la pila di vestiti uno adatto per il viaggio. Ne trova uno indaco
chiaro
che sarebbe potuto andare—
"Elsa."
"E’
mia sorella, Albert," Elsa si volta, il
vestito ormai tutto spiegazzato e stretto freneticamente tra le sue
mani.
"L’hanno presa per arrivare a me. E’ mia sorella.
E non la
abbandonerò. Mai." Sta per aggiungere, e tu
faresti lo stesso, ma
poi si ricorda dei fratelli di cui sta parlando, quindi non dice
niente. Invece
si volta, sentendosi spezzata, e perduta, in direzione della porta, con
tutta
l’intenzione di invitarlo ad uscire, ma lui, maldestro, si fa
strada verso di
lei. Riesce a sentirlo. Si volta per bloccarlo nello stesso momento in
cui le
dita di lui afferrano l’estremità del suo guanto
destro.
Si
sfila.
"Smettila!"
urla con un rantolo, nascondendo
la pelle nuda tra le pieghe della stoffa che ha in mano e fissa, a
occhi
spalancati, l’uomo davanti a lei.
Albert
non si rende conto del significato del proprio
gesto. "No, tu smettila, e solo—solo
pensa un momento, per
favore? Cosa hai intenzione di fare? Rincorrere la nave e—e
ingaggiare battaglia?"
"Ridammi
il guanto," ordina.
"E—e
se—morissi," deglutisce, stringendo
l’indumento nero in una morsa serrata; penzola senza forma,
come una cosa morta,
"allora cosa accadrebbe? Cosa ne sarà di Arendelle, senza te
o la
principessa?"
"La
vita continua. Il mio guanto. Ora."
"Sei
la Regina, hai un popolo a cui pensare—"
"Non
volevi che io pensassi al popolo
quando siamo usciti di nascosto, quindi da dove viene
l’improvvisa—"
"Rimarrai
ferita!"
"Per
dodici anni, le ho sbattuto una porta in
faccia—non le sbatterò una porta in faccia
adesso!" La mano scoperta entra
violentemente in contatto con la maniglia dietro di lei; sente un
improvviso,
inspiegabile strattone al fegato, ed ecco che il muro si ricopre di una
lastra
di ghiaccio sottile e acquoso. Alza lo sguardo e lo osserva con una
specie di
incanto strano, i cristalli che già iniziano a sciogliersi.
Fanno
plic-plic-plic gocciolandole sulla testa e il volto, come lacrime.
Cosa
le stava succedendo?
"Elsa,
manda me. La riporterò indietro."
La
rabbia è sparita. Chiude gli occhi, respirando
profondamente, immensamente, più che grata del fatto che non
dica niente—non
arretra nemmeno di un passo, nessun grido allarmato di magia,
stregoneria—"Non
sei in condizioni di muoverti. Dovresti essere a letto, adesso."
"Sarò
l’ultima persona che i miei fratelli si
aspettano! E’ un geniale—piano che penso che
dovremmo portare—portare a termine—"
"Albert."
Si
ferma, chiudendo lentamente la bocca, e poi osserva
il guanto che ha in mano, alquanto avvilito. "Non mi piace."
"Va
bene; non è una decisione che dipende da te. Anche
se, tuttavia—" lo guarda in faccia e le viene voglia di
piangere. "Grazie
per la preoccupazione."
Silenzio.
Porta in avanti la mano, per esaminarla alla
luce. Incostante. Ecco come era stato il ghiaccio, fin da quando Anna
era—incostante, dalla fuoriuscita e presa incespicante. Non
lo sopporta. L’unica
costante in assoluto della sua vita, questa maledizione che
ha—
"E
cosa si suppone che debba fare io, qui?"
"Ti
riprenderai, ovviamente. E la mia biblioteca
personale è aperta per te," gli dice, fissandosi i piedi.
"Puoi
leggere tutti i Tristano e Isotta che vuoi."
"Li
leggo solo per i duelli di spada."
"Lo
so." E alza gli occhi ad incontrare i
suoi, dall’altra parte della confusione che è la
sua stanza. Sono accesi e
febbrili; e immagina che anche i propri non siano meglio. Poi,
d’impulso, gli
sorride—non un quasi sorriso, ma uno vero, piccolo e grato.
Albert sbatte le
ciglia, ricambiandola—anche se il suo sorriso è
più ampio, e piuttosto scioccato.
Elsa
fa per andarsene.
"Elsa,
io—solo una—cosa egoista," fa, d’un
tratto.
Si
volta. "Sì?"
"Quando
mi—solo—grazie. Per avermi salvato."
Sbatte
le palpebre. "Niente, figurati."
Albert
ride, in maniera autodenigratoria. "Sono—questa
è una—è una bugia, ma, uhm,
è—c’è—Ti ho detto
niente? Quando mi stavo
svegliando?" Battito cardiaco, battito cardiaco.
Battere
di ciglia, battere di ciglia.
"Perché
ho questa sensazione stranissima di aver
detto qualcosa, e proprio non—non sapevo se—"
"Non
hai detto proprio niente, Albert," Elsa
dice, quasi credendoci lei stessa.
Credi
che avrebbe potuto amarmi?
"Mi
state dicendo che, dopo tutta quella fatica, non vi siete
assicurati che seppellissero il corpo."
Hans
sente i fratelli, che bisticciano accanto all’entrata della
cella—la
calma letale e inamovibile della voce di Niels, il blaterare dei
gemelli. Sale
le scale con una velocità furiosa, immagina di spezzare un
collo; sarebbe
immensamente gratificante, pensa—il crac di un osso, uno
spruzzo di sangue, e
quell’ oh ancora stampato sulla faccia
lentigginosa—
"Il
terreno era stato completamente congelato dalla regina del
Ghiaccio, e non avevamo un mostro come quello che hai creato
lì a sgelarlo—"
"Ed
esattamente come pensiate che possiamo giocare a fare Dio,"
Niels domanda, la furia distintamente percepibile nel tono di voce, "quando
siamo immediatamente smascherati come imbroglioni?"
Hans
arriva sul ponte, si toglie la cravatta, si sente soffocato; la tiene
stretta nella mano nuda, e invoca—pensa—il fuoco
lavico si scioglie nel suo
braccio e si manifesta nel palmo, trasformando la stoffa in cenere. Gli
ci
vuole un respiro, due, per tenerlo sotto controllo—solo
pensando di afferrare
quel piccolo bel collo che la ragazza si ritrovava, ci riesce.
Niels,
a labbra serrate, pallido di rabbia, e rivolge il suo sguardo
più
arcigno a quel po’ di pelle scoperta. "Copriti," scatta, "a
meno
che tu non voglia che tutta la nave prenda fuoco—il tuo
controllo è fiacco, nella
migliore delle ipotesi."
Viktor
e Tomas si voltano. Il secondo fa un sorriso vittorioso, da lupo.
"Com’è andato l’incontro in privato con
l’amabile bella fanciulla?"
"Voglio
ucciderla io. Quando tutta questa storia sarà finita,"
Hans ringhia, afferrando con rabbia il guanto che gli porge Niels senza
ribellarsi—uno che ha tutta l’aria di essere fatto
di carne umana, dritto
dritto dalla tasca di dietro di suo fratello, e adesso sono spaiati,
che
peccato—"quando tutta questa storia sarà finita, e
Arendelle sarà nostra, voglio
ucciderla io, per prima cosa."
"Arendelle
potrebbe non essere mai nostra, grazie alla gaffe dei tuoi
fratelli." Niels si trovava a quel livello di rabbia che lo portava a
essere letalmente calmo—il livello peggiore, quello in cui
Hans non avrebbe mai
potuto dire se era sul punto di trasformare qualcuno in un rospo o
sacrificare
il loro primogenito alla dea della discordia—
Hans
rivolge uno sguardo gelido in direzione di Viktor e Tomas, e anche a
uccidere tutti e due avrebbe provato piacere. "Che, Hans," il sorriso
di Tomas non ha abbandonato la sua faccia, "non ti piacciono focose?
Non
sai gestire una lingua?"
Hans
scatta in avanti, sentendo il guanto preso in prestito scricchiolare
rabbioso, ma Niels urla una parola dal suono tagliente, scivoloso,
roccioso, e
Hans viene scaraventato contro la parete. L’energia rende
l’aria elettrica, facendogli
rizzare tutti i peli sulla nuca. Scuote la testa, fulminando con gli
occhi le
sagome ora leggermente nebulose dei gemelli dall’altra parte
della barriera.
"Non
hai alcun diritto di parlare così," Niels dice a Tomas, e
Hans osserva suo fratello leccarsi le labbra.
"Che
gaffe?" Hans chiede. Non aveva passato i suoi giorni in
quella cella, la prospettiva di vendetta l’unica cosa che
permetteva di
mantenere una parvenza di controllo, solo perché fosse mandata
a puttane dai
suoi fratelli—
"Hanno
lasciato il corpo non ancora
sotterrato." Niels chiude un momento gli occhi al rollare della nave;
quando
li riapre, scattano minacciosi.
"Quindi
state dicendo," Hans esclama, a denti stretti, "che
è molto probabile che la regina sia già al
corrente dello scambio."
Viktor
scrolla le spalle. Tomas alla fine si stacca dal fratello e osserva
significativamente Niels. "Non capisco perché tutto questo
casino,
fratelli carissimi. Se lo scopre da noi, o lo scopre da
sola—in ogni modo, deve
per forza venire a salvare la ragazzina."
"Faremo
meno affidamento sull’effetto sorpresa, e più
sull’effetto
paura."
"Beh,
abbiamo ancora il fenomeno da baraccone," Viktor muove con
forza un gomito in direzione di Hans, ma sente il ritorno di una
barriera di
energia che vibra e ondeggia. "Di certo ispirerà effetto
sorpresa e
meraviglia—finchè tiene la bocca chiusa,
però."
"Dovremo
informare il re," Niels comincia. "Non può essere
coinvolto in questa faccenda. Non ancora."
"Tutta
questa furtività," Tomas sospira, la faccia contorta in un
cipiglio quasi comico. "Non capisco perché non possiamo
limitarci a
ucciderle tutte e due e farla finita."
"La
regina possiede qualcosa di valore."
"E
cioè?"
Hans
risponde, secco, tagliente—
"Se
stessa."
Lukas
sbuffa dalle narici.
Era
sempre stato bravo coi grimaldelli, ma qualcosa nella porta di Niels lo
rendeva nervoso. Probabilmente era il fatto che fosse di Niels.
Giocherella
per un secondo con la sottile striscia di metallo che ha in mano, altri
due
secondi, prima di emettere il sospiro dell’uomo troppo
abituato al fatto che il
destino a volte pone ostacoli non necessari, e sposta il peso sui
talloni
"Che
stai facendo?"
"Gesù—"
sobbalza, una mano sul cuore, e poi rotea gli
occhi, esasperato.
"No.
Sono solo io," Stefan tira su col naso, altero. "Anche
se mi è stato detto che le somiglianze tra noi sono
impressionanti."
Alza
gli occhi, arricciando le labbra in direzione del fratello. Stefan
passeggia
pigramente lungo il corridoio, e sembra un dandy con il bastone di
bamboo che
rotea sulle nocche. La novità del giorno, Lukas pensa, quasi
divertito, è un
monocolo; e suo fratello ne ha uno che pende inutilmente da una catena
attorno
al collo. "Spunti sempre fuori dove sei meno richiesto, lo sai?" gli
dice.
"Affatto.
È perché nessuno apprezza il mio acume e le mie
battute
piene di arguzia. Sai, non dovresti fare il tuo ingresso."
"E
perché no?"
"Perché
sono le stanze di Niels. Non dovresti voler fare
il tuo
ingresso. Ora, perché non ti unisci a me per un brandy prima
che vada a teatro?"
"Mi
serve qualcosa di più forte."
"Ho
un rum sopraffino che riservo per le occasioni speciali, ma
poiché
nessuno in questa famiglia è davvero speciale, dubito che
avrò mai l’occasione
di farne uso."
Lukas
lancia un’altra occhiata alla porta, pizzicandosi lo spazio
tra gli
occhi. "Ti rendi conto che questa è, abbastanza
possibilmente, l’unica
occasione che avremo mai per curiosare?"
"Non
vuoi curiosare," Stefan dice, fermandosi finalmente accanto
a lui. Lukas si accorge di star sussurrando, e che suo fratello sta
facendo lo
stesso—il corridoio è umido e scuro, nonostante la
luce del sole. "Nessuno
vorrebbe curiosare volontariamente nella versione personale
dell’inferno creata
da nostro fratello. No, hai ulteriori ragioni, e io non ne
prenderò parte. Ho
un dramma da scrivere. È una pièce
esistenzialista. Ne sono piuttosto
orgoglioso. No, non ti presterò il mio aiuto, Lukas, non
devi nemmeno
chiederlo. Comunque, puoi chiedermi quali sono i miei primi cento libri
preferiti."
"E
quali sono i tuoi primi cento libri preferiti, Stefan?"
"Non
lo so, perché ne ho scritti solo cinque. Oh, ha! Sono sempre
così
arguto. Non ti presterò il mio aiuto, Lukas. E sei fortunato
che io non sia uno
spione, tanto più. Ciao ciao, fratello caro. Forse ti unisci
a me per un brandy
più tardi? Ti concederò quel rum."
Lukas
osserva suo fratello tra-la-lare lungo il
corridoio, iniziando
di nuovo a roteare il bastone, picchiando contro il muro e la finestra
e il
pavimento in un ritmo senza senso. Quando abbassa lo sguardo sulla
porta, scopre
un grimaldello infilato con esperienza, la serratura scassinata con
destrezza, e
la porta quasi semichiusa.
Ghigna,
togliendosi un cappello immaginario al cospetto del fratello,
voltato di schiena.
Poi,
si infila dentro.
"Kai?"
"Vostra
Maestà!" L’uomo si sposta di lato, lasciando
alle guardie più spazio per uscire dalla camera mortuaria;
trasportano Britta, avvolta
di nuovo nel sudario, un uomo regge la testa, l’altro i
piedi. Elsa osserva il
corpo e nasconde i polpastrelli scoperti nelle pieghe del vestito. Si
volta, e
trae conforto dal suo volto familiare—naso grosso, tanti
menti, occhi gentili.
"Vi sentite bene?"
"Sì.
Mi—mi dispiace, per prima. Come sta—"il
nome, qual era, era—"Sander?"
"Così
come ci si aspetterebbe, Maestà." Kai tira
fuori un fazzoletto moscio dalla tasca e se lo passa sul viso pallido.
"Cosa
dobbiamo dire agli altri, della principessa—"
"Niente,
per ora," Elsa afferma, abbassando
la voce. "No. Devo occuparmi direttamente della questione, e io stessa."
"Maestà?"
"Kai,
devi mandare un messaggero da Kristoff; devo
parlargli urgentemente."
"Sì,
vostra Maestà."
"Dovresti
anche mandare un messaggero a Mastro
Olin."
"Mastro
Olin?"
"Sì."
Elsa fa un respiro profondo, tremulo, e
guarda il cielo azzurro intenso fuori. "Ho bisogno che mi allestisca
una
nave."
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