LA SCALA DEL DOLORE

di controcorrente
(/viewuser.php?uid=56655)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO-EPILOGO ***
Capitolo 2: *** IL SIGNIFICATO DEL MIO NOME ***
Capitolo 3: *** risata ***
Capitolo 4: *** Torre De La Malmuerta ***
Capitolo 5: *** DONO ***
Capitolo 6: *** Scivolando nel buio ***
Capitolo 7: *** fado ***
Capitolo 8: *** L'ambasciatore francese ***
Capitolo 9: *** DONI ***
Capitolo 10: *** ABISSO ***
Capitolo 11: *** LE HAVRE ***
Capitolo 12: *** TOPI ***
Capitolo 13: *** LA LENTA DISCESA ***
Capitolo 14: *** QUELLO CHE PIU'CONTA ***



Capitolo 1
*** PROLOGO-EPILOGO ***


Benvenuti a questa storia. Altro non è che il prequel di LEGAMI ma sarà un po'diverso, se non altro per la divisione della storia. Qui ci sarà un modo di narrare che uso raramente.
Spero che la storia piaccia ma vi dico subito che non è un racconto leggero.
 
LA SCALA DEL DOLORE
 
EPILOGO 1
 
 
Scozia, Anni 70 del 1800
 
Vuota.
Ero lì, in quello studio eppure, per qualche strana ragione, sentivo che c'era solo il mio corpo. L'anima, infatti, non voleva saperne di rimanere, avvolta in una nebbia fatta di rifiuto e negazione.
-Lady Mc Stone...-diceva la voce.
Un suono vicino, eppure lontano, dalla mente e dal cuore.
 Il sangue sgorgava copioso dalla  ferita, un fiume vermiglio che scivolava a fiotti. Lo vedevo bagnare la stoffa della camicia, contaminando quel candore come un fiore.
Un fiore mortifero. Tenevo le mani appoggiate sul suo petto al suo petto, tentando di comprimere quel liquido, per impedire che la vita scivolasse via.
Non volevo.
Lui non doveva morire.
-Lady Mc Stone...mi dispiace, il signor duca è...-continuò.
Una, due, tre volte...non avrei saputo dirlo.
Il corpo di mio marito diventava sempre più freddo...eppure non mi fermavo. Continuavo a premere sul torace, tentando di arginare l'emorragia, tentando di bloccare tutto, anche l'anima che stava scivolando via. Non pensavo a niente, solo a quel tipo di pressione che proprio quella persona che stavo tentando di salvare, mi aveva insegnato, tempo addietro.
-Signora, vi prego...-mi diceva il medico con pietosa costernazione.
Io però continuavo nella mia opera, nella disperata corsa contro il destino.
Lui era lì.
Aveva bisogno di me...ed io ero la sola che poteva fare qualcosa.
Non mi importava di nulla.
Né della presenza della servitù.
Né dell'imbarazzo del medico che tentava di dichiarare il decesso.
Non mi importava niente di tutto ciò...poi due mani si posarono sulle mie spalle. Mi girai e vidi Rashid e Sarasa guardarmi, con quell'espressione di desolata compostezza che caratterizzava il loro popolo.
A quella vista, qualcosa calò pesante dentro di me, come un'ancora...e mi fermai, quasi senza rendermene conto.
Stranita, abbassai lo sguardo.
Mio marito giaceva davanti, il corpo ancora tiepido.
Il petto non si muoveva più.
Il pallore era ormai evidente, contrastando il sangue vermiglio che fioriva sulla stoffa di seta.
Solo allora realizzai l'accaduto...e alla testarda opposizione, fece posto l'amarezza. Il sangue sulle mie mani era ancora caldo, ingannevole come l' ostinata illusione di volere quell'uomo vivo.
La speranza morì, di nuovo...ed il sale cominciò a sciogliersi in lacrime.
Non era servito a niente.
Per quanto ci avessi provato, per quanto lo avessi desiderato, avevo perso.
Di nuovo.
Non ero riuscita a proteggerlo.
Non ero riuscita a salvarlo.
Il baratro si aprì, tirandomi giù.
Alistair non c'era più ed io non ero riuscita a esprimergli quanto fosse stato importante per me.
 
Allora, questo è il prequel di LEGAMI, che verrà aggiustato. Il tono è drammatico e spero di scrivere qualcosa di buono. Sarà in prima persona, per cui non so se riuscirò a esprimere degnamente le emozioni. Ci saranno delle scene scomode ma spero che verrà bene lo stesso. E'una prova, comunque.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** IL SIGNIFICATO DEL MIO NOME ***


Benvenuti a questa nuova avventura. Onestamente non so quanto possa essere piacevole questa storia ma spero che sia interessante. Non è adatta a persone dal cuore tenero. Qui ci saranno dei passaggi poco piacevoli...ma spero che piaccia.
 
 
IL SIGNIFICATO DEL MIO NOME
 
 
 
Cordoba, 18 anni prima.
 
 
Da quanto tempo, le mie gambe erano in quel modo?
Da quanto tempo, ero rimasta in quel letto?
Non lo sapevo.
Erano passati giorni, da quando me ne stavo lì, inchiodata nella camera eppure, malgrado l'isolamento, continuavo a sentire quelle grida. Mi misi allora le mani sulle orecchie. Non mi piaceva quel suono, così colmo di rabbia e cattiveria.
-VOI, PADRE, SAPEVATE BENISSIMO CHE SAREBBE ANDATA A FINIRE COSI'!- stava urlando zio Ignatio Rossignol- Dare il consenso a quell'unione...inammissibile, INAMMISSIBILE!-
-Adesso smettetela subito, fratello!-ribatté suo fratello Beltran- La questione è stata giustamente spiegata. Nostro cognato ha agito secondo coscienza...-
-NON FATEMI RIDERE!-ruggì Ignatio- Non crederete spero a tutta questa storia? E'tutto un imbroglio di quel maledetto arricchito...-
-ADESSO BASTA!- fece una voce femminile. La riconobbi subito. Era quella di nonna Pilar, densa e carica di dolore- Non è questo il momento di pensare ad una cosa del genere. Vostra sorella è morta e suo marito intende andare via dalla Spagna, lasciandosi tutto indietro.-
A quelle parole, calò il silenzio.
Nessuno parlò più eppure, malgrado ciò, quelle voci rimbombavano nella mia testa, simili ad una stanza vuota, soggetta all'eco.
Il dolore alla gamba si era leggermente attenuato, grazie alle tisane che il dottore mi aveva prescritto...ed ora la sonnolenza cominciava a farsi largo. Eppure il mio animo si rifiutava di cedere al sonno. Non volevo chiudere gli occhi. Sentivo che se avessi ceduto a quella stanchezza avrei finito con il rivedere quanto era accaduto il giorno prima...e rivivere l'episodio era l'ultimo dei miei desideri.
-Intendete davvero lasciare che le cose accadano? Intendete permettere che un simile oltraggio rimanga impunito?-domandò con veemenza mia nonna.
A quel punto, i miei zii cominciarono a urlarsi frasi di vario genere. Non ricordo le loro parole. Erano suoni aspri e duri, come dei colpi di grandine al suolo. Socchiusi gli occhi, chiedendomi come mai fossi lì.
Fu in quel preciso istante che le immagini si fecero largo.
La mia corsa disperata.
Il mio opporsi.
E, infine, quel volo nel vuoto. Basta! Non voglio più!cominciai a ripetermi, scuotendo il capo con veemenza.
-Adesso basta, moglie!-esclamò una voce. Quel suono mi distolse dal mio pericoloso scivolare nei ricordi. Era calmo e autorevole...la voce di mio nonno. Sentii il mio corpicino di bambina tremare a quel tono. Il padre di mia madre aveva lasciato che tutti parlassero, incombendo muto dall'alto, come un rapace. Non sapevo per quale ragione, ma avevo sempre avuto paura del padre di mia madre. Le rare volte che Honor andava a far loro visita, Justinià era solito rivolgere sguardi gelidi alla figlia e a me, che ero loro nipote. Tutte le volte che ciò accadeva, mi ritrovavo a fissare con vergogna il pavimento.
-Honor, il nostro angelo, era troppo puro per questo mondo difficile. Noi dobbiamo preservare nel ricordo la sua memoria...e, comunque, sapevamo bene che una conseguenza simile non poteva non avvenire. Un'unione frettolosa e frutto dei sentimenti, non può che portare a simili esiti.-sentenziò lapidario.
A quelle parole, pronunciate senza alcuna inclinazione, prive di tono, seguì il silenzio...un silenzio pregno di rumore.
Continuai a fissare laconica il soffitto a grottesche, i giochi di luce che si creavano con i bracci del lampadario e che sembravano creare esseri mostruosi e fantastici. Le mie gambe non si muovevano, malgrado il dolore stesse scemando lentamente, per merito delle medicine prese...e, con l'assenza di quel tormento, mille pensieri cominciarono a vorticarmi nella testa.
Perché non riuscivo a sentire le gambe?
Per quale ragione ero nella casa dei nonni?
Per quale motivo mia madre non era con me?
A quella domanda, un brivido gelido mi scese dentro.
Io sapevo.
Io sapevo perché la mamma non era lì, nella casa dei Rossignol.
Io sapevo che lei non era più in quel luogo, né altrove.
Honor Blanca Rossignol non era più...e questa era l'unica certezza che avevo e che mai avrei voluto avere.
-E per le vostre nipoti, marito?-domandò improvvisamente mia nonna.
-Don Escobar verrà a prenderla tra un paio di giorni.-rispose monocorde l'uomo-e dobbiamo assicurarci che sia in buone condizioni di salute.-
Nonna Pilar rise. -Mi sorprende che vi preoccupiate di vostra nipote. Intendete rimandarla nelle mani di...di quell'assassino?-disse, con voce intrisa d'odio. -Dopo che ci ha svergognato in tutte le maniere possibili, voi volete pure permettergli di andarsene così, impunemente?-
Ricordo bene quelle parole.
Furono solo il primo dei chiodi che si conficcarono nel mio piccolo corpo di bambina. Ormai era impossibile tentare di arginare quello che era accaduto...e nel buio della camera piansi lacrime amare. No, non voglio...basta così...Madre de Dios, basta cosìpensai, mentre l'anima si graffiava per quei suoni privi di misericordia e clemenza.
-E'suo padre-disse gelido mio nonno.
-Un padre che ha ammazzato sua madre di fronte ai suoi occhi...e magari ha pure picchiato quella bambina.-fece Pilar.
Nel silenzio della camera, sentii un suono strozzato.
Era il mio respiro che si faceva irregolare, come se volesse riprodurre i singhiozzi che non riuscivo a emettere a voce. Mia nonna parlava con il cuore di una madre che ha visto la propria figlia sposare un uomo indegno delle sue virtù e che aveva pagato con la vita per quella scelta, scriteriata agli occhi dei Rossignol.
Sentivo la voce furibonda di nonna Pilar fin dentro la camera in cui mi trovavo. Era il grido di una donna che aveva perso la sua unica figlia...ma tutto ciò sembrava non toccare il suo sposo. In quel momento, odiai mio nonno. Come poteva ragionare tanto freddamente, sapendo che mia madre era morta? E come potevano, tutti quanti, ignorare la mia presenza a quel modo?-Eppure dovreste saperlo-rispose Justinià- un figlio appartiene al padre...e, comunque vadano le cose, quella bambina è figlia di un uomo che non avrebbe mai dovuto mettersi in affari con noi. Quello che più mi preme è che Honor si è fatta disonorare da un uomo che era indegno del nostro lignaggio e che ha sposato, ignorando il nostro diniego. Honor ha disobbedito, rinnegando l'obbedienza che mi deve...ED ORA E'MORTA, PER QUELLE SCIOCCHE FANTASIE SENTIMENTALI CHE HANNO TRAVIATO LA SUA GIOVANE MENTE!-
A quelle parole, mi turai le orecchie. L'urlo di mio nonno era l'essenza stessa del dolore. -Avrei preferito uccidere quel cane già in passato, prima che mettesse gli occhi su mia figlia...ma quando ce ne siamo accorti, ella era già compromessa. Ormai era tardi...E TUTTI VOI SAPETE CHE HO RAGIONE!CHE MATRIMONIO POTEVO GARANTIRE A HONOR, QUANDO ORMAI LA SUA VIRTU' ERA STATA PORTATA VIA ED IL SUO VENTRE ERA ORMAI GONFIO PER MERITO DI QUEL CANE!-disse, con voce rotta- Potevo pure tentare di uccidere quell'uomo che aveva infangato il mio onore...ma era troppo tardi. Ho perso mia figlia allora...e questa è la verità.-
Sentivo i singhiozzi di nonna Pilar, in un sottofondo cupo e mesto.
-Quanto alle mie nipoti-continuò-la mia primogenita è ormai una monaca onorata e serena nella sua vocazione, mentre Maria si è recentemente sposata con l'uomo che è stato scelto per lei.-
-E Soledad?-chiese allora zio Beltran.
Un silenzio pesante scese nell'aria e, senza quasi rendermene conto, provai a muovere gli arti inferiori, come a voler allontanare da me la trepidazione per quell'attesa lunga e difficile. Le mie gambe però non si mossero. Da quando avevo ripreso i sensi, erano come dei tronchi inerti, lasciati lì per motivi oscuri e incomprensibili. Eppure, sentivo il bisogno di alzarmi, di andare via, di uscire da quella stanza da cui sentivo parole tristi e spiacevoli.
Uno sforzo inutile, come la flebile speranza che tutto fosse un incubo, frutto di una notte insonne. -Lei seguirà la decisione di mio cognato.-fu la sentenza di mio nonno- Una figlia deve andare con il padre. E'sotto la sua tutela.-
 
 
 
 
Avrei fatto ritorno presso mio padre? Avrei rimesso piede nella dimora di Don Escobar?Mio nonno era convinto della veridicità di quelle parole. Io non sapevo cosa pensare. In quel momento, non riuscivo a formulare alcun concetto.
Ero come incapace di capire cosa fosse successo, prima del mio risveglio in quel letto, nella dimora dei Rossignol.
Mia nonna aveva preso l'abitudine di venirmi a fare visita.
La vedevo spesso, malgrado il letto fosse spaventosamente grande, se confrontato con il mio corpo di bambina. Aveva un abito perennemente scuro, sul quale teneva appoggiato uno scialle d'uncinetto nero. -Piccola, come somigli a tua madre- era solita dire, con il viso scavato dalle lacrime.
Io non rispondevo mai.
Quegli occhi mi scrutavano mesta, senza guardarmi davvero...eppure, malgrado questo, non riuscivo a smettere di fissarla. Nonna Pilar aveva quasi cinquant'anni ma era ancora una donna piacevole a vedersi. La bellezza, in effetti, era stato ciò che aveva attirato mio padre verso Honor. In quel momento, tuttavia, non riuscivo a godere appieno di quei tratti regolari. Erano infatti distorti, come se il pensiero della perdita tracimasse fuori dai confini dell'animo che quel corpo imprigionava.
Mia nonna, mormorava sempre le stesse parole, la mia somiglianza con la mamma, con la figlia perduta, senza aggiungere altro. Non riuscivo a dire nulla, annichilita da quei discorsi.
Non volevo credere a quanto era successo...ma nemmeno le illusioni vennero in mio aiuto.
Le gambe, con cui pochi giorni prima correvo, erano morte.
 
 
 
 
 
Il giorno dell'arrivo di mio padre era ormai prossimo e, con l'andar del tempo, finii con l'attenderlo con impazienza e timore insieme. Le gambe continuavano a non accennare ad alcuna reazione ma, con l'aiuto di mia nonna e delle zie, riuscii almeno a mettermi a sedere. Non ero infatti capace di muovermi come volevo, paralizzata dalla vita in giu. Ugualmente, malgrado questi accorgimenti, le mie condizioni di salute non mutavano molto. Nessuno sapeva bene cosa fosse accaduto.
Io non avevo detto una sola parola.
Non riuscivo ad emettere un suono. Era come se non sentissi il desiderio di parlare, come se fosse qualcosa di inutile e dannoso. A otto anni, nella mia limitata capacità di conoscere, compresi che esistevano momenti in cui la parola era vana. Mia nonna, quando veniva a farmi visita, parlava della mamma, con quel tono dolce e carezzevole, proprio di chi aveva cullato una vita tra le mani.
Io mi limitavo ad osservare le foglie dell'albero di limone che si trovava nel cortile interno della casa dei Rossignol. Aveva un colore bellissimo, un verde brillante che sembrava splendere tra quelle mura color del tufo.
La mamma, quando faceva visita a mio nonno e ai suoi fratelli, mi lasciava sempre sotto quell'albero, per poter andare a conversare con la sua famiglia. Mi piaceva quel posto, forse per quel profumo che il limone mi lasciava dentro, un odore unico, dolce e acidulo insieme. Lì mi mettevo a fissare quelle fronde, tenendomi  le ginocchia strette al petto, come a volermi proteggere da qualcosa.
Anche allora, mentre la nonna parlava, senza che io le prestassi il minimo ascolto, avrei voluto raggruppare il corpo, in modo da creare un guscio protettivo.
Le gambe però non collaboravano. Era sorde e cieche ai miei bisogni, come gli occhi e le orecchie dei Rossignol, troppo presi dal piangere la morte di Honor per curarsi della loro nipote più piccola.
Non ho mai saputo la ragione della mia presenza in quel luogo.
In tutti quei giorni, infatti, non ricevetti visita di nessuno dei parenti di mia madre, se non per lo stretto necessario.
Era più che evidente che la colpa di Honor ricadeva sulla mia persona.
Io non ero una Rossignol, come mia madre.
Ero un'Escobar, del tutto indegna di attenzioni particolari.
Per la prima volta, compresi il profondo significato del mio nome.
 
Non so quanto questa storia possa essere piacevole. Ho reso questo prequel nella sezione ROMANTICO ma non posso fare diversamente. Qui si parlerà di amore, malgrado la storia sia venata da un dramma non di poco conto.
Soledad Blanca Escobar ha una vita molto dura e difficile ed è uno dei personaggi principali della storia di LEGAMI. Confesso che l'ambientazione storica mi piace non poco e non sono solita usare spesso la prima persona. Sarò franca. La storia è drammatica, per cui se non riuscite a digerire il genere, scegliete altre storie che vi si addicono maggiormente. Soledad vuol dire "desolata", per chi volesse saperlo.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** risata ***


 RISATA


I miei giorni presso la casa dei Rossignol non cambiavano mai. La perdita di mia madre era stata un duro colpo per tutti… ma il dovere di recarle le giuste esequie aveva avuto la meglio su tutto. La volontà dei morti recitava uno dei motti della famiglia ed era un monito che influiva sulla vita di tutti i suoi componenti. Era consuetudine che, in caso di lutto, tutte le attività, tranne le più importanti, fossero poste in secondo piano rispetto alla cura del defunto…e, malgrado la disobbedienza, Honor era pur sempre una Rossignol ed andava rispettata come tale.
Mio nonno impedì a chiunque di dedicarsi alle mansioni consuete, per poter salutare al meglio la sua unica figlia femmina e, nel frattempo, chiamò un suo amico. Ero immobilizzata al letto, eppure potei vedere quel tale, un uomo piccolo e smilzo, dai lineamenti fini e gli occhi di volpe entrare nell’antica dimora dei Rossignol. Facendo leva sui bracci mi levai a sedere e lo fissai apatica. Non sapevo chi fosse…ma, nella desolazione del mio animo, accolsi quell’arrivo nella più profonda e inerte indifferenza.
La luce di quella mattina era leggermente annacquata, tanto che non riuscivo a capire che ore fossero. Mezquita non aveva ancora diffuso il suono della campana. Malgrado non riuscissi a vedere la chiesa, riuscivo comunque a sentire il rintocco del suo canto…e il fantasma della mamma si faceva nuovamente avanti. Lei era solita portarmi spesso alla Mezquita, quando aveva intenzione di pregare e confessarsi.
Soledad, guarda che bella, questa schiera di colonne e capitelli…non ti sembra una foresta di pietra? mi diceva, con quel sorriso di bambina e quegli occhi grandi e fiduciosi. Io, allora, alzavo gli occhi, fissando quegli archi e quella pietra bicolore che giocava a rincorrersi con la luce che entrava al suo interno.
Quel ricordo cominciò a pungolarmi e, per allontanarlo da me, cominciai a sfregarmi con violenza gli occhi. Il volto di mia madre Honor era così bello e radioso da farmi male per la dolcezza che quell’immagine lontana mi scatenava dentro. La mamma era allora felice come mai l’avevo vista…pochi mesi prima di morire, davanti a me.
La pelle, sotto lo sfregamento violento che io stessa mi procuravo, cominciò ad arrossarsi…eppure, tutto quello che mi chiedevo era: perché?
Perché era successo tutto ciò?
Perché?
Perché?
Fuori dalla camera, intanto, i preparativi delle esequie procedevano…insieme ai muti singhiozzi che vibravano dentro, insieme alla risata di Honor che rimbombava nella mia anima facendola a pezzi, in un buffo e sadico gioco d’eco che solo io potevo sentire.
Intorno, la camera di pizzi e bambole di porcellana.
Dentro, invece, l’inferno, nella più pura e semplice definizione del termine.
Nonna Pilar e le sue cognate giungevano di rado a farmi visita, limitandosi a farmi qualche blanda carezza e a riservarmi sguardi strani. Io le lasciavo fare, per nulla propensa ad avere una vera e propria conversazione con loro. Non avevo voglia di parlare con nessuno in realtà. Non c’era nulla da dire, in fondo e, per evitare di dar loro motivo di farlo, fingevo di dormire, tutte le volte che sentivo la maniglia della porta muoversi.
Così feci quel giorno, non appena sentii lo scatto della serratura.
Mi misi supina e tenni gli occhi chiusi.
Un fruscio di gonne, accompagnato da un profumo di lavanda, fu una delle cose che percepii distintamente. –Sta dormendo-disse una voce. Aveva uno spiccato accento basco ed era stranamente musicale.
-Dunque non verrà al funerale?-chiese un’altra.
-Temo di no-rispose mia nonna-non può camminare…la caduta.-Poi sospirò.
-Madre, vi prego-rispose la prima- non dovete abbattervi così. Avrei voluto giungere presso di voi prima…ma le strade erano malmesse e non sono nelle condizioni di fare viaggi rischiosi, stando a quanto sostiene il medico.-
-Non temete. Il vostro stato è una valida spiegazione. Il Signore toglie, il signore dà...è così, che lo si voglia o meno-rispose Pilar.
-Come è giunta in questa casa?-chiese.
-E’stato la cameriera personale della casa degli Escobar a dare l’allarme. Si è precipitata nella nostra dimora in piena notte, dicendo…dicendo che lei era morta.-riferì mia nonna- Mio marito si è allora recato nella dimora e ha trovato quel…Don Escobar in cima alle scale. Lo ha accolto malamente, con una freddezza mai vista. E’stata tutta colpa sua, che ha messo gli occhi addosso a mia figlia, ingannandola e rovinandola. Non avrebbe mai dovuto sposarla…io mi sono opposta più di una volta…io avrei…avrei…-
Nonna non riuscì a finire la frase, scossa com’era dai singhiozzi. –Non doveva sposarla. Se mia figlia mi avesse ascoltato, quando era il momento, avrebbe preso per marito un suo pari, non un volgare arricchito che mirava solamente alla sua dote.-diceva tra le lacrime.
Non riuscii a muovermi, a quelle parole. Il giudizio dei Rossignol era implacabile e privo di qualsiasi possibilità di scampo. Mia madre, malgrado avesse contratto nozze sgradite e fosse stata per questo silenziosamente ostracizzata dai suoi stessi consanguinei, conservava sempre una buona opinione di loro. –Avrei di gran lunga preferito che sposasse un collaboratore di mio marito, con alto lignaggio e numerose ricchezze-mormorò –Sia maledetto il giorno in cui ha sposato Ignatio Escobar!-
Non so cosa mi impedì di rimanere nella placida posizione in cui mi trovavo. Il cuore batteva furiosamente, pompando in preda ad un sentimento che non sapevo descrivere. Le parole cattive della nonna e del resto della famiglia di mia madre sembravano lacerare la mia carne, tanto erano crudeli. –Ugualmente- mormorò una delle donne presenti- cosa ne sarà di questa bambina? Honor ha provveduto a sistemare le maggiori…ma lei non ha la medesima fortuna. Come se non bastasse, quell’uomo non ha minimamente rispetto della dote della sua defunta moglie. Ha fatto ampio scempio della sua fortuna e si è fortemente indebitato.-
Il rumore delle lancette batteva il tempo. Tic, tac…tic, tac.
Mi concentrai su quel suono.
Tutto sparì. Rimasero solo due cose. Lo sconforto ed il dolore, nulla più.

 


Un canto soffuso.
Una musica calda e roca.
Aprii gli occhi. Non sentivo dolore, non sentivo un peso nel petto. –Ti sei svegliata?-domandò una voce gentile.
Mi girai, incontrando il dolcissimo volto di Honor Blanca Rossignol Escobar. Indossava uno splendido abito avorio in pizzo. I lunghi capelli color dell’autunno erano acconciati in un complicato gioco di riccioli. Era bellissima, come mai l’avevo vista fino a quel momento. Era l’abito da sposa con cui si era presentata in chiesa, per sposare Don Ignatio.
-Cosa c’è, amore mio?-chiese la donna.
C’era tanta luce e calore. Mi trovavo in uno splendido giardino all’italiana, per quel poco che potevo vedere. Istintivamente appoggiai la testa sulle sue ginocchia, chiudendo per un momento gli occhi. Quando li riaprii, il panorama era cambiato.
Un rumore secco, come di un ramo spezzato, mi spinse ad alzare la testa.
Mia madre era improvvisamente pallida. Gli occhi verdi erano vitrei e fissavano il vuoto, la splendida pettinatura improvvisamente sfatta. Non indossava più l’abito nuziale ma una semplice veste da camera sgualcita…ma non fu quello a farmi tremare.
Il collo della mamma era piegato in un modo innaturale…come se fosse stato spezzato, di netto.

Mi svegliai urlando.
La camera era buia, i mobili leggermente in penombra.
La nonna e le zie non c’erano più.
Ero sola, di nuovo.
Sola, in quella casa grande ed estranea.
Sola, con quel silenzio pesante e così alieno. Per anni, da quando ero venuta al mondo, avevo udito solo urla e pianti, misti a suppliche…e desideravo solo che quell’insieme di rumori odiosi cessasse, lasciandomi tregua. Lo volevo così tanto da sentire l’anima straziarsi, tutte le volte che sentivo quelle liti furiose.
Anche la notte prima di quel maledetto giorno, desiderai quel silenzio di pace…e venni esaudita. Le urla cessarono…e, con esse, volò via anche l’anima di mia madre.
E’buffo.
Prima, pregavo per  ottenere il silenzio.
Ora, invece, non desideravo altro che sentire di nuovo il suono della risata di Honor.

Allora, il capitolo pare allentare la cosa…ma, diciamo che qui si parla dell’infanzia della protagonista. Soledad ha un’esistenza molto travagliata e non so se riuscirò a raccontare degnamente quanto succede. Questa è la prima parte della vicenda…immagino che la cosa sia piuttosto strana per questa sezione. Diciamo però che anche qui avrete una spiegazione. Voglio che una cosa sia chiara. Non tutto è come sembra…quindi occhio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Torre De La Malmuerta ***


TORRE DE LA MALMUERTA

 

 

 

Il sentimento dell'odio è una pianta difficile da estirpare. In quel periodo, mentre ero ospite presso i Rossignol, la sentivo crescere dentro di me, attecchendo con incredibile forza. Non facevo altro che pensare a quanto accaduto, tentando di frenare il colpo che quelle scene imprimevano nella mia giovane mente...e così mi ritrovavo a fissare il soffitto con occhi vuoti e desolati.

La devastazione che portavo dentro era un nodo di sentimenti che non riuscivo a definire con chiarezza così, non riuscendo a trovare risposta alla natura delle emozioni che portavo con me, finii, inevitabilmente, con l'assorbire quelle dei Rossignol, chiare e cristalline nel portare ostilità imperitura agli Escobar. Eppure, malgrado tutto, anche io appartenevo a quella famiglia.

Forse era per questo che avevano deciso di lasciarmi in un convento, pietosamente assistita dalle monache.

Un tarlo cominciò a insinuarsi dentro di me, mentre riflettevo sull'isolamento in cui mi trovavo e sulla rigidità che mia nonna e le mie zie erano solite usare nei miei riguardi...e mi sentii colpevole, più di quanto già non lo fossi in precedenza. Mi sentivo responsabile dell'accaduto.

E'colpa mia perché non sono stata abbastanza forte andavo dicendomi, mentre le immagini della morte di Honor passavano ininterrottamente dentro di me, dilaniandomi sempre di più. Il funerale di mia madre era avvenuto senza troppi clamori...ma era comprensibile.

Don Escobar non partecipò alle esequie della sua sposa. I gendarmi si presentarono il giorno dopo il mio arrivo nella propria dimora, per condurlo nella questura e sentire la posizione del mio genitore. Normalmente, quella prassi non era insolita.

Si trattava spesso di un pro forma, come capita nei casi in cui è più che evidente un delitto d'onore. Quella volta, tuttavia, la situazione non sembrava volgere nella maniera consueta...e lo comprese anche il mio genitore, vedendo i volti inflessibili dei suoi visitatori. Aveva raccontato l'accaduto, descrivendolo come un incidente...ma quelli non mutarono espressione e nemmeno chiesero informazioni sulla defunta e sulla sua rispettabilità, come spesso succedeva...e don Ignatio comprese.

Per quanto ricco fosse, non possedeva un titolo aristocratico, mentre mia madre apparteneva ad una famiglia della piccola nobiltà castigliana, malgrado questa fosse ormai in declino. I Rossignol fecero pesare tutto il potere del loro nome, impegnandosi ad ottenere la massima condanna possibile per il mio genitore che venne immediatamente condotto in cella, senza alcun trattamento di favore né alcuno sconto di pena.

Quella scelta mi lasciò completamente indifferente. La stirpe di mia madre, benché vivesse nella mia stessa città, non si era mai avvicinata alla mia famiglia, tenendo sistematicamente le distanze da tutto ciò che aveva a che fare con gli Escobar. Le visite di mia madre erano poche e sporadiche, tanto che si potevano contare sulla punta delle dita...e tutte le volte, in maniera quasi maniacale, terminavano con urla e maledizioni.

Mai una sola volta si erano degnati di assumere un atteggiamento gentile o, perlomeno, una mitigazione delle ostilità, anche perché il matrimonio di Honor si era concluso con la nascita di tre figlie femmine. Per questo motivo, malgrado mia nonna non si risparmiasse nel prendersi cura della mia salute, non riuscivo a liberarmi della mia naturale diffidenza.

I Rossignol erano la famiglia di mia madre...ma, ai miei occhi, essi erano solo un gruppo di estranei ed io non avevo mai avuto modo di vederli insieme per così tanto tempo.

Il via vai di persone che entravano ed uscivano dalla dimora era più fitto del solito, tanto che non riuscivo a capacitarmi di cosa stesse succedendo.

Le mie perplessità crebbero nel momento in cui qualcuno bussò alla porta.

-Avanti-disse...prima di sgranare gli occhi, nel momento in cui vidi la figura di mio nonno.

Mi irrigidii immediatamente.

Non era mai venuto a farmi visita, nemmeno una volta.

Indossava un abito scuro e nero che ben si abbinava alla sagoma alta e snella che lo contraddistingueva.

Sgranai gli occhi a quella vista. Mia madre diceva che Don Rossignol era un uomo mite e pacato, dall'animo gentile. Mi raccontava spesso che la portava personalmente nei grandi giardini di Cordoba, camminando sotto le piante secolari che compongono quegli spazi verdi. Tutto ciò però, mal si accompagnava alle occhiate severe che era solito riservare ad Honor, quando giungeva a fargli visita.

Non dimenticavo il suo sguardo freddo. Mia madre però, con un tono amorevole, mi diceva che era una persona buona e gentile...così, fedele a quelle parole, mi ero piegata docilmente, aspettando una carezza da parte sua.

-Senorita Escobar- disse- sono venuto qui per informarvi a proposito delle disposizioni che verranno prese nei vostri confronti.-

Quelle parole mi disorientarono.

Forse era per via di quel tono tanto distaccato, del tutto inconsueto per essere usato verso una bambina. -Vi informo che domani verrete condotta nel monastero dell'Encarnation, dove si trova una mia cara sorella. Ha saputo della vostra tragica condizione di orfana e si è ben volentieri prestata a prendersi cura di voi. Inoltre si è assicurata di avere tutte le attenzioni possibili, considerando le vostre precarie condizioni di salute.- disse, fissando laconico la finestra.

Fuori sentivo gli uccellini fare il proprio nido sul ramo di limone, sentivo il suono delle risate dei passanti lungo la via che circondava la dimora dei Rossignol...e mi sembravano vuoti e distanti, specchio di quello che provavo in quel momento.

Mentirei se dicessi di non aver avuto alcuna aspettativa, nei confronti di mio nonno.

La mamma lo descriveva come un uomo buono e gentile...così diverso dalla persona che mi aveva parlato.

Allora non sapevo che esistevano vari tipi di menzogna...e quella che la mamma mi aveva lasciato era frutto di una profonda e dolorosa pietà. Forse non voleva vedermi odiare i Rossignol sulla base dei dissapori che avevano con gli Escobar...non avrei saputo dirlo.

Quello di cui ero certa, però, era il fatto che non mi volevano con loro.

 

 

 

 

Nonna Pilar venne varie volte a trovarmi, accompagnata da uno dei medici che, da qualche giorno, giungevano a farmi visita. La ragione era molto semplice. Poiché non camminavo, era del tutto impossibile per me avere un soggiorno sereno presso il monastero a cui ero destinata. Così il mio abbandono del Mondo venne ritardato di alcuni giorni, al fine di preparare più degnamente l'alloggio a me destinato.

-Dove si trova...-provai a chiedere un giorno. senza riuscire ad andare avanti. Avrei voluto pronunciare il nome del mio genitore...ma il cuore batteva impazzito e la mente si rifiutava di collaborare, generando in me angoscia e tormento. Nessuno mi aveva detto niente della sua sorte...come se non fosse mai esistito. Neppure adesso comprendo il perché della mia curiosità.

Forse era preoccupazione o, molto più probabilmente, un debole tentativo di sfuggire alla desolazione che mi gravava dentro e che, in mezzo a quell'amalgama di odio e rancori, faceva emergere il mio genitore come il minore dei mali. Donna Pilar comunque, accecata dai suoi sentimenti, non vide il mio disperato desiderio e tradusse nella sua lingua, fatta di dissapori e vendette imperiture. -Lui è in prigione-disse mia nonna, con una smorfia strana- non vi preoccupate. Non vi farà più del male.-

Io non risposi.

Non riuscii a farlo.

L'aria sembrava essere risucchiata via.

Mio padre era in carcere. Avrei dovuto aspettarmelo...del resto, era una prassi abbastanza ovvia, visto il crimine commesso. Eppure non era così. Nessuno avrebbe mai messo in prigione un uomo per una colpa del genere...ma era più che comprensibile che i Rossignol avevano mosso mari e monti pur di ottenere un simile risultato. Quello che mi sorprese fu l'assenza di opposizioni da parte del mio genitore.-Perché?-domandai, quasi scioccamente.

Nonna Pilar mi fissò. -Come potete chiedere una cosa simile?-domandò a sua volta- E'più che ovvio che tutte le persone cattive finiscono in prigione. Non rammentate cosa ha commesso per meritarlo?- Vedendo la guardavo senza capire, si affrettò ad aggiungere- Non temete, ve lo dirò quando sarete più grande ed in grado di ragionare.-

 

 

 

 

 

La mattina della mia partenza giunse in modo pressoché inaspettato.

Un servitore entrò nella camera, insieme a delle cameriere che si occuparono di prepararmi i bagagli. Non ne avevo molti con me e così la nonna ordinò di darmi quello che era appartenuto alla mamma e che ancora si trovava presso i Rossignol.

Il valletto era alto e massiccio, malgrado la livrea slanciasse il suo corpo. Aveva però degli occhi buoni e miti, tanto che non riuscii ad averne paura.

Mi prese in braccio con una delicatezza infinita, malgrado lui fosse grosso ed io minuscola.

-Gonzalo-disse Donna Rossignol- conducete la bambina al piano inferiore.-

L'uomo si levò in piedi e, tenendomi stretta, uscì dalla camera. Mentre così faceva, mi girai verso mia nonna. -Ciao-feci, timidamente. Lei mi dava le spalle eppure la sua sagoma, mentre mi allontanavo da quella che era stata la mia camera da letto in quei giorni, mi parve diversa.

Era come se tremasse, scossa da qualcosa.

In quel momento, non me ne resi conto...eppure, ora che ci penso, non poteva che essere così. Donna Pilar Rossignol stava piangendo.

Percorremmo rapidamente le scale, fino a quando non giungemmo di fronte alla carrozza. Guardai silenziosamente il mezzo. Era scuro, con uno stemma araldico inciso sopra del casato di mia madre.

Venni deposta all'interno, insieme ad una vecchia serva che non avevo mai visto.

Era grassa e con il viso butterato dal vaiolo. Mi fece impressione tanto che, per evitare di guardarla, mi girai verso il finestrino. Donna Rossignol mi aveva seguito fino alla porticina della vettura. -Mi raccomando, Soledad, comportatevi bene.- disse, tentando di dare fermezza alla voce.

-Verrete a trovarmi?-chiesi.

Il volto della nonna ebbe un sussulto, come fosse percosso da qualcosa di duro e violento. -Certo-disse dopo qualche momento...ed io smisi di respirare.

Donna Pilar non sarebbe mai venuta a farmi visita ma non aveva avuto cuore di rivelarmelo. Quello era il mio addio definitivo alla dimora della famiglia di Honor...quella medesima schiatta che aveva negato il saluto alla figlia che tanto dicevano di amare. Stavo condividendo il destino della mia sfortunata madre, in un nuovo e vecchio ciclo di sofferenze e distacchi.

Allora non ero in grado di comprendere bene la portata di queste affermazioni, dal momento che non conoscevo affatto la storia dei miei genitori.

Mio padre era sempre fuori, mentre Honor passava buona parte delle sue giornate nella cappella o nel suo studiolo. Pensavo che quella condotta fosse piuttosto naturale...e forse era così, conoscendo l'indole schiva della donna che mi mise al mondo.

La carrozza prese a muoversi e, mentre scivolavo con i pensieri dietro al ricordo di mia madre, i cancelli della dimora dei Rossignol cominciarono ad avvicinarsi...per poi sparire, insieme a quella casa a me tanto estranea.

Scivolai nel sonno senza quasi accorgermene.

 

 

Un fruscio.

Vento.

Aprii gli occhi. -Vi siete svegliata?-domandò.

Mi misi a sedere. Un mare di colonne, tutte uguali e bicrome, si succedevano di fronte ai miei occhi. -Madre?-domandai a mia volta.

-Sì, tesoro mio-rispose Honor-questo è il luogo che ti avevo promesso e che ti avrei mostrato, quando le circostanze lo avrebbero permesso.-

Non risposi. Le luci dei candelabri erano tenui e tremolanti, come se fossero sul punto di spegnersi al minimo movimento. Un gioco con il buio che sembrava protrarsi per un arco di tempo infinito. -Sai tesoro che questa chiesa era un tempio degli infedeli? Sai perché i nostri cattolicissimi re non hanno mai distrutto un simile luogo?- Honor chiuse gli occhi. -Perché la Mezquita era troppo bella per poter essere spazzata via...anche i nostri sovrani lo hanno capito.-disse, prima di sospirare- Sai, mi incontravo spesso qui, con vostro padre.-

 

 

Un rumore improvviso mi sbalzò fuori dal quel sogno.

-Ehi! Cosa state facendo?-gracchiò il cocchiere...poi udimmo un tonfo, seguito dal rumore di qualcosa che cadeva a terra. La donna che era con me strillò, facendomi sussultare. Improvvisamente la porta si aprì ed un uomo, avvolto da un mantello scuro e con il viso coperto si affacciò dentro.

-In nome di Dio, come vi permettete? Non abbiamo denaro con noi...-cominciò a dire la vecchia con me ma l'altro le puntò un coltellaccio alla gola, intimandole di tacere con gesti larghi e bruschi.

La vidi rintanarsi in un angolo, tremando come una foglia...poi la mia attenzione si posò su quella sagoma grossa e imponente. A gesti, mi intimò di seguirlo. Lo guardai impotente. Non riuscivo a muovermi, come potevo seguirlo?

Per qualche strana ragione, non riuscivo ad avere paura.

Era come se tutto fosse ovattato ed incolore, come quando qualcuno ti toglie il cappuccio dal volto e ti espone alla luce, dopo che, per giorni, ti viene negato il sole.

Così ero, cieca e instupidita dalle circostanze, troppo grandi per me.

Avevo perso mia madre e la sua famiglia aveva deciso di mettermi in un monastero. Non dubito che là si sarebbero presi cura del mio corpo martoriato ma questo non rendeva lo strappo meno doloroso. Ugualmente, la fine violenta di Honor mi aveva spezzato dentro, relegando tutto il resto in un luogo lontano e sconosciuto.

Non ebbi comunque il tempo di metabolizzare l'accaduto di quegli attimi. So solo che mi sentii sollevare dalla carrozza con una delicatezza inaspettata, prima di essere coperta con un mantello e di scivolare insieme a lui lungo i vicoli.

Poco dopo udimmo lo strillo della vecchia e dei passi raggiungere frettolosamente il mezzo...ma ormai era troppo tardi.

Quell'uomo, malgrado fosse grande e grosso, era incredibilmente veloce. In poco tempo, raggiungemmo le porte della città, nei pressi del fiume Guadalquivir. Lì  si fermò.

Incuriosita, mi guardai attorno.

Da che avevo memoria, non ero mai stata in quel luogo. Mio padre era molto impegnato e la mamma, come ogni dama di buona famiglia, usciva raramente, ad esclusione delle feste religiose della città. Il fatto poi che le nozze non avessero incontrato il benestare dei Rossignol aveva ridotto drasticamente le uscite all'aperto, rendendo mia madre malinconica e distaccata.

Quel pensiero mi intristì...così, come per evitarlo mi girai di lato.

Fu allora che la vidi, per un macabro scherzo della sorte.

Aveva una base ottagonale e si stagliava mesta in lontananza ed era collegata ad una costruzione simile ad un ponte. Era la Torre de la Malmuerta, nota per molte cose. Era stata costruita con i soldi delle multe dei giocatori d'azzardo...ma era conosciuta anche per una storia tragica, la vicenda di un cavaliere che uccise la sposa infedele. Fu quell'immagine una delle ultime cose che vidi di Cordoba...poi tutto scivolò via, insieme alla corrente del Guadalquivir.

 

Bene, questo aggiornamento del prequel verrà un po' a rilento. Non so chi segue o recensisce o legge semplicemente ma posso solo dire che gli sono riconoscente. La storia è molto drammatica...e siamo solo agli inizi. A presto.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** DONO ***


Benvenuti a questo nuovo aggiornamento. Non pensavo di riuscire a farlo proprio adesso. Quanto agli altri, non temete. Ci metterò le mani non appena possibile.

 

 

DONO (PADRONE)

 

 

Una volta giunti al Guadalquivir, l'uomo con il mantello si fermò e, con fare circospetto, prese a guardarsi intorno, fino a che non si fermò di botto. Immobile tra le sue braccia, mossi la testa, imitandone il gesto.

Fu allora che vidi una carovana di uomini dalla pelle bruna e dalle vesti colorate. -Alejandro!-esclamò uno di loro- Cosa hai portato?-

Il colosso che mi teneva non si mosse.

-E'molto piccola-osservò un altro.

-Non è per voi. Dono è qui?-chiese il gigante.

I gitani si guardarono. - Ha avuto molti problemi. I  Pessoas idosas [1]inizialmente erano restii ad ospitarlo ma hanno accettato di dargli un giaciglio. -risposero -Ora si trova presso Joaquin, per discutere delle varie operazioni per il viaggio. Ti aspetta lì.-

-Molto bene-osservò Alejandro, prima d'incamminarsi verso uno dei carri, portandomi con sé, come se fossi un sacco di patate. Non avevo mai visto una carovana gitana. Mia madre viveva isolata nella dimora che mio padre aveva comprato per lei ma era solita raccomandarmi di stare lontana da loro.

Si diceva che, oltre ad essere i migliori per addestrare cavalli, fossero soliti rapire bambini...ma non ho mai saputo dire se una simile voce fosse vera o meno.

Quando vivevo ancora a Cordoba, questo tipo di notizie era tristemente diffuso e, se mai vi fosse stato qualche zingaro che era estraneo alla pratica, non avrebbe comunque mutato il giudizio generale su quel popolo.

Così mi strinsi inevitabilmente ad Alejandro. Quel colosso dalla pelle scura, aveva un fare pratico e spiccio. I gitani sembravano tenerlo in grande considerazione tanto da rivolgergli spesso domande e varie notizie, a proposito degli argomenti più disparati.

-Quindi, avete trovato dei problemi?-domandò l'uomo che mi teneva.

Gli zingari trotterellavano al suo fianco, con una sicurezza che la diceva lunga su quanto Alejandro fosse conosciuto là. -Abbiamo visto che i gendarmi hanno fatto visita alla dimora di Dono e che hanno provato a portarlo in prigione.-rispose. ghignando- ma Dono, durante il tragitto, è riuscito a fuggire dalla carrozza, seminando le guardie.-

Il moro sorrise. -Ne sono lieto. Quel diablo mi ha promesso un bel gruzzolo.-rispose, passandosi una mano sulla fronte alta.

Gli altri sghignazzarono. -Dono ha talento-commentò uno di loro.

-Cosa sta succedendo?-domandò improvvisamente una voce che mi fece gelare sul posto.

-Dono[2], spero di non avervi offeso.-dissero gli zingari.

Io non fiatai, mentre sentivo il cuore battere impazzito.

Non poteva essere, non potevo credere ad una cosa del genere.

-Quello che pensi o speri non è affar mio. Mi auguro che questo indugio non abbia fatto tardare la missione che vi avevo chiesto-rispose questi, rivolgendosi direttamente al moro che mi teneva. Indossava abiti scuri di fustagno, simili per fattura alla moda dei gitani. Avrebbe potuto tranquillamente essere scambiato per uno di loro...e quella vista mi ghiacciò il sangue nelle vene.

Mio padre, Don Ignatio Escobar era l'uomo che tutti chiamavano Dono.

 

 

 

Non riuscivo a credere a quella vista. Non riuscivo a capire. Perché era lì? Doveva essere in prigione...immediatamente le parole degli zingari acquisirono un senso.

Mio padre era scappato.

Era sfuggito alla legge...per me.

Quel pensiero ebbe il potere di destabilizzarmi. Prima della rovina, l'uomo che Honor aveva scelto, ignorando il volere della famiglia, era un uomo taciturno e schivo. Parlava poco...e solo delle cose essenziali. Forse era il suo silenzio ad aver attratto mia madre, anche lei dotata di un animo schivo e ritroso...non avrei saputo dire.

Non lo avevo visto da giorni...ed ora era di fronte a me.

Don Escobar era un uomo alto e ben piazzato, con un corpo muscoloso e tornito, come quello di una colonna. Poco prima delle nozze con mia madre, era giunto nella città di Cordoba, come un semplice straniero, insieme ad una donna dalla carnagione cotta dal sole, con rughe che solcavano il volto, simili a dei graffi.

Il suo arrivo sarebbe rimasto nell'anonimato più assoluto, se quel giovane non fosse stato adottato dal precedente Don Miguel Escobar per designarlo come erede. Mio padre era legato a quest'ultimo da una labile parentela, dal momento che non era altro che il frutto di una delle tante scappatelle di uno dei suoi fratelli. La donna che l'accompagnava era una zia di mio padre, una gitana che aveva assistito il parto di sua sorella, accettando misericordiosamente di prendersi cura del piccolo; mia nonna naturale era infatti molto cagionevole di salute e non superò il parto. Don Miguel era piuttosto anziano e, in tutta la sua vita, non aveva mai avuto alcun erede da nessuna delle proprie mogli. I suoi fratelli, invece, non avevano brillato per lo splendore della propria prole, dal momento che nessuno dei nipoti di Don Miguel aveva brillato negli affari.

Fu quindi inevitabile per il precedente Don Escobar affidarsi a questo mezzo gitano, nella convinzione di scegliere il male minore e di avere la sicurezza che i suoi affari avrebbero potuto continuare alla sua morte.

Lo guardavo di sottecchi, studiando le sue mosse.

-Ho parlato con gli anziani. Com'è la situazione in città?-domandò, con voce piatta.

Alejandro scrollò la testa. -I Rossignol non avevano messo alcuna scorta alla carrozza ed ho impiegato un po'prima di decidermi a fermarla. Per un momento, ho creduto che avrebbero opposto maggiore resistenza.-rispose, un po'perplesso-Dono, quando siete riuscito a fuggire?-

-Abbastanza presto, grazie anche alla mia conoscenza della pianta di questa città. Quegli stolti hanno allentato la guardia ed io sono riuscito a fuggire abbastanza celermente. Ho corrotto alcuni soldati ed ho saputo quanto terminavano i loro turni.-rispose, con un gesto di noncuranza.

-Avete agito in modo encomiabile, senor.-rispose il moro- ma ora cosa farete? I gendarmi hanno confiscato tutto ed ora non avete nulla.-

Mio padre stirò le labbra. -Non è così. Ho delle sostanze con me, che non sono riusciti a sequestrarmi. Prima di sposare mia moglie, ho investito dei beni in attività sicure, che ora stanno rendendo piuttosto bene.-rispose-Ora potrebbero tornarmi utili.- Lo vidi passarsi una mano tra i capelli scuri, con fare quasi nervoso. -Passerò il confine e me ne andrò da questo dannato Paese.-concluse.

In tutto quel discorso, non mi rivolse un solo sguardo.

Come avevano fatto i nonni, le zie...anche lui, dopo un periodo di tempo immemore, non mi stava guardando. Questo atteggiamento mi infastidì.

Come poteva ignorarmi in quel modo?

Come poteva fingere di non vedermi?

Che fosse frutto del rimorso per le azioni passate? Che volesse fingere che tutto fosse perfettamente normale, che mia madre non fosse mai esistita? Quelle domande iniziarono a serpeggiarmi nella mente, avvelenandomi a poco a poco. Ancora non lo sapevo...ma quella non era altro che la scintilla del rancore che, infida, s'insinuava nella mia anima.

-Porterete anche vostra figlia?-domandò il moro.

A quella frase sussultai, quasi senza un perché.

Rigida, come uno stecco, scrutai nervosamente la sagoma del mio genitore, attendendo in silenzio la sentenza. La sua sagoma si stagliava nello spazio del cortile dell'accampamento zingaro, come una statua di bronzo di considerevoli dimensioni.

Quella vista mi riempì d'inquietudine.

Se non fosse successo l'irreparabile, avrei di certo atteso la sua risposta con una qualche speranza, nascosta da qualche parte nel mio cuore. Avrei persino visto in quella figura un porto sicuro ma non mi era consentito...e non poteva essere diversamente.

Lo avevo visto litigare violentemente con mia madre, poco prima della sua caduta...istintivamente abbassai lo sguardo verso il basso.

-Sì-disse infine Don Escobar.

Con quella parola, pronunciata in un sussurro, si decretò il mio destino.

 

Scusate il ritardo ma spero che il capitolo piaccia. La storia ha dei tratti assai duri e spero di riuscire a renderla bene. Vorrei inoltre ringraziare tutti coloro che mi hanno letto. Sono piuttosto impegnata con gli esami finali della specialistica e con la tesi ma cerco di trovare un po'di tempo. Grazie a tutti.

 

 

 



[1] Portoghese. Anziani.

[2] Padrone in portoghese.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Scivolando nel buio ***


SCIVOLANDO NEL BUIO
 
 
 
Superammo Cordoba durante la notte, approfittando del calare delle tenebre. Don Escobar si era travestito da donna e si era messo al mio fianco. Quella vista mi disorientò. Rispetto alle persone che avevo visto fino a quel momento, mio padre era un uomo molto particolare.
Contrariamente a tutti i gentiluomini spagnoli che avevo visto in visita nella nostra dimora, Don Ignatio possedeva un viso liscio ed i lineamenti decisi. Malgrado fosse ormai sulla cinquantina, aveva il volto di un fanciullo e tutto questo fu assai utile per muoversi sotto mentite vesti. Conversava allegramente, nei limiti della sua indole, con Alejandro, il quale ricambiava, con tono affabile. Sembravano molto amici, benché io non avessi mai visto quel tale nella mia casa. Come Don Ignatio lo conoscesse, era un vero e proprio mistero. Per tutto il viaggio non smise di tenermi tra le braccia, come se fosse una nonna insieme alla propria nipote.
Quel contatto mi angosciò.
Quelle erano le mani che avevano accompagnato mia madre verso il sentiero delle ombre...e fu impossibile per me non ricordare le immagini di quel giorno nefasto. Si palesavano davanti ai miei occhi con crudele ferocia, togliendomi il respiro: rivedevo mia madre e mio padre urlarsi contro, la fuga di lei, l'inseguimento di lui e poi...il precipizio.
I ricordi presero a rincorrersi, percuotendomi dentro come in una cassa di risonanza.
Mi ucciderà! Mi ammazzerà come la mamma! cominciai a pensare ed il panico mi spinse a divincolarmi, a muovermi come una forsennata.
Non volevo rimanere in quell'abbraccio, tra quelle mani assassine...e questa angoscia non mi lasciava un momento, nemmeno in quel viaggio senza fine che, dietro il tono allegro del moro, stava prendendo le vesti di una scampagnata.
Don Escobar però rafforzò la presa e, dopo avermi intimato di rimanere buona, con un solo cenno della testa, prese a fissare la strada di fronte a sé.
Quel contatto mi sembrava ingiusto e bugiardo...ma avevo solo quello ormai e, nelle condizioni in cui mi trovavo, non sarei mai potuta scappare. Così me ne rimasi immobile, in attesa della sua prossima mossa. Non so come fosse possibile, ma arrivai a pensare che quell'uomo avrebbe potuto fare di me tutto quello che voleva...ed io, nel mio fragile corpo di bambina, avrei assistito impotente ai suoi voleri.
 
 
 
Il paesaggio era ampio e immenso. Non fu difficile per noi superare il confine con il Portogallo. La copertura dei gitani era stata una base incredibilmente solida, tanto che nessuno ci fermò per controllare.
Una delle ragioni di questo riserbo era dovuta al fatto che Don Escobar, fin dal suo arrivo, aveva badato bene di nascondere le sue origini, tanto che erano davvero pochi a sapere che era figlio di una zingara. I De Rossignol ne erano a conoscenza...ma era un vantaggio apparente, dal momento che la carovana da cui proveniva la mia nonna paterna era rimasta sconosciuta persino a loro. Il capofamiglia tzigano, infatti, aveva venduto la verginità di quest'ultima ad un bordello, per poter sanare i conti della famiglia e ripartire. Quando mia nonna tornò, tuttavia, il suo ventre era ormai gonfio di mio padre e ciò aveva determinato l'immediato ripudio...anche se, forse, una delle ragioni più profonde era dovuta al fatto che si trattava di viaggi duri e impervi, tanto da mettere in pericolo la vita delle persone più fragili. Voglio quindi credere, appellandomi allo scoglio della mia ignoranza, che il mio trisavolo non volesse davvero abbandonare la sua nipote ma che sperasse che quest'ultima sarebbe stata accolta dalla mano pietosa della Chiesa fino al parto e poi sarebbe tornata. Non poteva certo prevedere che mia nonna morisse nel dare alla luce mio padre...e nemmeno che sua sorella, la zia del mio genitore, decidesse di rimanere accanto a lui, rifiutandosi di tornare alla carovana.
All'epoca dei fatti, tuttavia, io non conoscevo questa vicenda.
Sapevo solo che mio padre aveva acquisito un passato nel momento in cui era divenuto erede degli Escobar...e quei fatti, uniti al suo omicidio, erano più che sufficienti per me.
Oltre a ciò, la famiglia di mia madre non ci inseguì, malgrado la fuga del mio genitore...e non perché non volessero. L'instabilità in cui era caduto il mio Paese aveva reso difficile ricostruire il nostro tragitto, complice anche il fatto che i percorsi delle carovane zingare erano ignoti a chi era estraneo alla loro schiatta.
-Siamo quasi arrivati, dono- disse il moro, rompendo il silenzio. Dopo un po'ci eravamo separati dalla carovana, preferendo proseguire in solitaria, proseguendo per strade strette e curve.
Don Escobar staccò lo sguardo dall'orizzonte. -Molto bene- fece- ora possiamo procedere da soli. Alejandro, dobbiamo separarci qui.-
Il moro si avvicinò. -Dono, è stato un vero onore poterla incontrare.-rispose, con tono ossequioso.
-Sei stato un bravo servo. Ho fatto bene a comprarti al mercato anni or sono.-disse Don Escobar, mettendo una mano dentro il mantello- E'per questo motivo che ti dò questi fogli.-
Alejandro sgranò gli occhi. -Ma questo...senor, questo è troppo per uno come me!-esclamò sgomentò.
L'altro non si lasciò incantare. -Non è un dono ma io ho bisogno tutt'ora della vostra collaborazione. I Rossignol si sono presi tutte le mie sostanze, con un cavillo legale...ma non hanno preso quello che ho all'Estero.- disse- Quello è l'atto che il precedente Don Escobar aveva firmato per affrancarvi e che poi si era giocato con le carte. Sono riuscito a recuperarle ed ora non c'è più nessuno che può risalire a voi...voi, che siete il mio solo amico.-
Il moro s'irrigidì.
-Ho preso una piccola tenuta in Corsica che vi ordino di raggiungere celermente. Da questo momento in poi è vostra.-continuò Don Escobar- Ne sarete il proprietario e potrete viverci come meglio credete.-
Vidi l'altro spalancare gli occhi. -Senor...vi prego, non potete fare questo. Io...io non merito una ricompensa del genere.- disse.
Don Ignatio stirò le labbra...e tirò fuori la pistola.  -Potrei sempre uccidervi, se quella tenuta non va a genio al tuo rozzo gusto di schiavo...oppure preferite 30 pezzi d'argento?- continuò, fissandolo con indifferenza.
L'altro si gettò a terra.
-NO! No...mio signore...no!-esclamò-Vi supplico di risparmiarmi!-
Io mi feci di pietra.
Mio padre stava puntando un'arma contro un altro uomo...istintivamente chiusi gli occhi. Ha ammazzato la mamma...ucciderà anche questa persona...mi dissi, tremando alla prospettiva di vedere una scena del genere. Non volevo assistere di nuovo ad una cosa simile. La morte di Honor aleggiava nella mia mente, tremenda e insostenibile. Nella mente, rivedevo il viso di Donna Escobar irrigidirsi con lo scorrere del tempo, pietrificarsi mentre mi scrutava in volto.
Lo sparo che ne seguì squarciò il caos confuso nella mia mente. Tentennai un po'prima di riaprire gli occhi. Non volevo che succedesse una cosa del genere a quello sconosciuto.
-Dannato negro- disse Don Escobar -farmi perdere delle pallottole in questo modo.-
Mi venne spontaneo abbassare lo sguardo.
-Mai affezionarsi a qualcuno. Potrebbe costarti molto caro.-continuò.
Io non dissi niente.
Tutto quello che riuscii a pensare si focalizzava sulla macchia di sangue che imbrattava il suolo...e sul nero che mi aveva sottratto dalla carrozza dei Rossignol.
-L'amore non porta a niente. Ti riempie la testa d'illusioni e bugie...non dimenticarlo mai.-disse, rinfoderando la pistola.
Me ne rimasi imbambolata.
Non seppi dire a chi fossero rivolte quelle parole. Sapevo solo che, mentre Don Escobar parlava, il mio sguardo era fisso sull'uomo che mi aveva sottratto al volere della famiglia dei Rossignol e che ora, rantolava di fronte a me.
-E un'altra cosa, Alejandro- continuò il mio sciagurato genitore- questa è la punizione per aver spifferato alla famiglia di mia moglie le mie origini. Per colpa tua, ho rischiato la forca...ma non succederà più.-
Alejandro mosse le labbra una, due, tre volte...poi si spense, come la fiamma sotto il soffio del vento freddo.
 
 
 
 
Il corpo del moro giaceva freddo da circa un'ora. Accovacciata a terra, fissavo le sue membra, come instupidita. Mio padre aveva sparato ad un uomo a sangue freddo, come se fosse un animale.  Mentre premeva il grilletto, il suo viso non aveva mostrato alcuna espressione. Era come se stesse facendo una cosa perfettamente naturale, come respirare.
Quella naturalezza mi spaventò.
Per otto anni, avevo visto mio padre come un essere strano e solitario...ma mai, come in quel momento, aveva dato prova di una simile assenza di emozioni. Per quanto distaccato fosse, aveva mostrato una profonda umanità...cosa che non riuscivo a scorgere in quell'istante.
Don Escobar non era più l'uomo che conoscevo e, preda della paura che mi balenava dentro, non riuscivo più a capire se ciò che mi aveva mostrato fosse vero, oppure una menzogna. Per otto anni, aveva celato questo suo lato crudele...ed istintivamente, ricordando le parole di odio della nonna, mi ritrovai a condividere il suo pensiero.
Era colpa di Don Escobar se la mamma era morta.
Era colpa dei suoi crimini se ora dovevo vivere in fuga come una criminale, colpevole solo di avere il sangue di quell'uomo immondo nelle vene. Io non centravo nulla con le sue malefatte...e trovai ingiusto dovermi piegare ad un simile supplizio.
In pochi giorni, la mia apatica tranquillità era stata completamente distrutta dal capriccio di un individuo che non riconoscevo più.
Per la prima volta, nella mia giovane vita, provai lo sgomento del precipizio, quella sensazione che ti lascia inebetita e priva di forze, anche solo per odiare. Per questo non reagii, limitandomi a fissare come instupidita quel cadavere che giaceva scomposto lungo la strada.
 
Capitolo altrettanto breve ma spero interessante. Scriverlo non è stato semplice. Questo è l'ultimo episodio che succede in Spagna, per ora. Ne succederanno comunque delle belle. Soledad ha ormai solo il padre e tutto questo non sarà facile per lei. Fino all'ultimo, ho pensato di lasciare in vita Alejandro...ma non mi sembrava adatta come scelta.
Intanto però, vorrei ringraziare tutti voi per avermi letto sino a questo momento. Nel prossimo capitolo, vedremo meglio altre cose. Chiedo scusa per il ritardo dell'aggiornamenti. Intanto, vorrei ringraziare Diana924 per aver trovato il tempo di recensirmi, a 1 - andry15 [Contatta]
2 - sarasaretta56 [Contatta] che mi hanno messo tra le preferite, a 1 - biankolina [Contatta] che mi ha messo tra le ricordate e ovviamente a tutti coloro che leggono silenziosamente.
Come saprete, io non verrò mai a chiedervi di lasciarmi una recensione perché trovo che sia un'abitudine irritante ma mi fa piacere leggere le impressioni che avete sulla storia, voglio che sia chiaro. Per il resto, grazie a tutti.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** fado ***


Benvenuti a questo nuovo aggiornamento. Come sempre vi ringrazio per avermi seguito fino a questo momento. Giugno è un mese infernale per gli esami, come lo è luglio, se frequentate l'università o vi state preparando a farlo.
Periodo altalenante, insomma, con la speranza di poter fare un giorno  il mestiere che desidero.
 
FADO
 
Qualcuno mi disse, una volta,  che, quando ci si trova davanti alla morte, la sola cosa che è possibile fare sia pregare. Posso dire, in tutta franchezza, che, mentre sentivo lo sguardo di mio padre, posarsi e schiacciarmi con tutta la forza di quel nero senza fondo, non riuscivo a formulare alcun pensiero. Mi limitavo a pensare che, almeno, avrei potuto rivedere la mamma...eppure, malgrado ciò, nemmeno l'immagine rassicurante del volto di Honor bastava a placare il mio spirito. Io non volevo morire, questa era la verità...e la stavo sperimentando proprio in quel preciso istante.
Ignacio Escobar aveva appena sparato ad un uomo con cui, pochi giorni prima, aveva conversato affabilmente...e quella verità non si poteva cancellare. Lo vedevo fissarmi, come in attesa di una mossa da parte mia. Quello sguardo mi dava i brividi e, con uno sforzo, feci leva sulle braccia, dandomi una spinta.
No, non volevo morire...e stupidamente sperai che la disperazione, frutto del mio desiderio di vivere, guarisse le mie gambe.
Con il cuore in gola, mossa dalla paura per l'uomo che, fino a qualche tempo prima, mi riservava delle schive carezze, lasciai che il mio corpo si issasse in aria, con gesto tanto repentino da farmi girare la testa.
Per un momento, non vidi niente...ma quando si esaurì la spinta iniziale, il peso del corpo si depositò interamente sulle mie gambe, schiacciandole con violenza verso il basso.
Mentre scivolavo a terra, vidi mio padre sgranare impercettibilmente gli occhi e perdere quella maschera di gelo che aveva indossato fino a quel momento. Fu solo un istante...prima di perdere i sensi per colpa della botta e del dolore, dovuto al mio immobilismo.
 
 
 
Quando riaprii gli occhi, vidi un soffitto buio e altissimo, cosparso da luci piccole e lontane.
- Ti sei svegliata- disse mio padre.
Mi alzai di scatto, trovandolo seduto su un ceppo in mezzo alla campagna andalusa. Fissava laconico il cielo, con quell'aria distaccata che avevo imparato a conoscere...ed io lo guardavo a mia volta, vibrando come una cerbiatta spaventata. Mi ucciderà pensavo, con spaventosa sicurezza. Don Ignatio mi scrutò a lungo, con quell'espressione indecifrabile che aveva cominciato a far capolino nel periodo che aveva preceduto la morte di sua moglie.
Istintivamente, chiusi gli occhi, preparandomi al peggio.
Forse avrei rivisto la mamma, lasciandomi cullare dal suo abbraccio...e, per un momento..ma non era possibile. Anche io avevo la mia colpa. Non ero riuscita a proteggerla.
Mi disposi così nella condizione d'animo di dover ricevere il colpo...che non giunse. Quando riaprii gli occhi, Don Ignatio era ancora lì, con un'espressione strana in volto. Mosse le labbra, come se volesse dire qualcosa...ma la forza venne meno e ritornò al suo consueto mutismo.
Il mattino dopo mi prese in braccio e, a passo lento e cadenzato, riprese il cammino.
 
 
 
Passammo il confine con la Spagna senza eccessivi clamori, mangiando nelle locande che trovavamo lungo la via e dormendo sotto le stelle. Don Escobar se ne stava
Inizialmente pensai che fosse dovuto al fatto che sapevo cosa fosse successo...ma il suo timore era ingiustificato. Nessuno avrebbe mai dato peso alle parole di una bambina e, con il senno di poi, questo era un bene.
Ora che i miei occhi sanno vedere più lontano, posso capire che se avessi parlato, ciò non avrebbe minimamente risolto le cose. La verità sarebbe stata usata per scopi di parte...e mia madre sarebbe morta di nuovo, insieme ai suoi sentimenti.
Ignatio conosceva le strade come le sue tasche, instancabile nella sua marcia verso una nuova vita che, sapevo, rappresentava il suo solo interesse. In tutto quel tragitto, mi domandai per quale motivo mi avesse preso con sé e perché, tra tutte le mie sorelle, avesse deciso che solo io lo avrei dovuto seguire.
Quando giungemmo al Portogallo, comunque, non ebbi modo di riflettervi troppo. Il pensiero di essere inseguiti non ci lasciava mai e mio padre limitò al massimo ogni possibile spreco di tempo.  Arrivammo a Lisbona in tarda notte.
Ricordo poco di quel momento. Le case sembravano un'accozzaglia intricata e nera, rischiarata solo da piccole lucerne che si specchiavano nel mare e che, in quella oscurità, sembravano occhi ferini e impietosi. Mi strinsi al corpo dell'uomo che aveva condotto mia madre alla morte. In cuor mio, nella devastazione che aleggiava intorno a me, sapevo che non avrei potuto fare altro che affidarmi a quell'individuo.
Per quanto potesse sembrare strano, in quel momento, non provavo odio...o, per lo meno, non come prima.
La permanenza da reietta presso i De Rossignol, mi aveva mostrato quanto quel sentimento potesse essere ingiusto. I miei nonni, per quanta pena provassero nei miei confronti, non erano venuti meno alla loro ostilità verso mio padre e l'isolamento di cui avevo goduto non era altro che una diretta conseguenza di una siffatta condotta.
Non potevo perdonare Don Escobar e, per quanto potesse sembrare strano, non ero nemmeno pronta a sostenere la mia assoluta innocenza a quei fatti.
Sarebbe stato troppo.
In fondo, era giusto che avessi perso la capacità di camminare perché anche io avevo un grado di colpevolezza, in quella notte sciagurata che aveva stroncato la vita di mia madre. Il peso della colpa non si poteva cancellare...e potevo solo attendere, rassegnata, il momento in cui mio padre si sarebbe accorto della mia incapacità...ed emettesse la sua sentenza.
Era giusto così...benchè il giusto e lo sbagliato fossero qualcosa di assai labile e incerto.
 
 
 
 
 
 
Ricordo ancora l'aria salmastra dell'oceano. Quella massa scura e liquida lambiva quella città di marinai. Mio padre mi portava sulle spalle, guardandosi attorno con aria diffidente. Passava rapido nelle viuzze intasate dalla puzza di pesce, così denso da essere pesante.
Il nostro passaggio era accompagnato da sguardi curiosi e sarcastici...ed io, ad ogni scoppio di risa, mi stringevo al corpo del mio genitore, nascondendo la testa dentro la stoffa della sua camicia. Quelle voci gracchianti mi faceva molta paura ed io sapevo che tutta la mia sicurezza dipendeva dalla stessa persona che mi aveva gettata in quel limbo di disperazione.
Giungemmo così di fronte ad una locanda, posta in una strada defilata. Nella semioscurità della viuzza, si vedevano alcune sagome avvolte da neri scialli, con i capelli scarmigliati ed i volti affamati. Erano in gruppo e si avvicinavano ad i viandanti, di tanto in tanto. Li superammo velocemente ed entrando dentro, mio padre si avvicinò ad una donna grassa e dai lineamenti marcati, appoggiata pigramente al banco.
-Una ciotola della tua zuppa di aringhe- disse mio padre, con fare spiccio.
-Mettetevi ad uno dei tavoli in fondo.-rispose questa.
Don Escobar annuì, camminando silenziosamente nell'angolo indicatogli. Mi depose su una panca e, dopo avermi aggiustato lo scialle che circondava il mio corpo, prese a guardarsi attorno, tenendo la testa bassa, in un atto di falsa pudicizia. Poi il piatto arrivò per entrambi e, in silenzio, cominciammo a mangiare.
Attorno a noi, alcuni marinai chiacchieravano sguaiatamente e, poco più in là, una donna dal viso rugoso intonava il fado, con una voce morbida e aspra insieme. Non so per quale motivo, ma quella musica attirò la mia attenzione.
Forse era la nostalgia e il distacco che portava con sé, perfettamente in accordo con il dolore che sentivo dentro. Non avrei saputo dire. Quel che è certo è che in quei mesi avevo perso molto. Era l'assenza, dura e graffiante che, mischiandosi al tocco del fado, mi trascinava nel vortice da cui, ormai sapevo, era impossibile per me liberarmi.
Quando giungemmo nella camera, mio padre mi lasciò sull'unico letto e, dopo aver sistemato il mantello, si sdraiò a terra, piombando immediatamente in un sonno senza sogni. Io, invece, rimasi seduta, guardando fisso la porta.
Se le mie gambe avessero funzionato, avrei di certo tentato la fuga...ma non mi era consentito. Sembrava che Iddio volesse punirmi di qualche crimine ed io avrei dovuto accettare tutto questo, che mi piacesse o meno...anche se quel cedere sapeva di amaro e di sale.
 
 
 
 
Quando mi svegliai, mio padre era già in piedi. -Muoviti- disse- dobbiamo andarcene.-
Nemmeno allora risposi. Lasciai che mi prendesse in braccio e, ancora addormentata, mi ritrovai al piano inferiore. La locanda era semivuota. Buona parte degli avventori erano marinai e, in quel momento, erano in mare. Mangiammo una zuppa di verdure, insieme a del pane salato poi scendemmo nuovamente in strada.
Camminammo a lungo, fino a quando non vedemmo una costruzione bianca e di pregevole fattura, decorata da stucchi che rendevano l'edificio simile ad un cespuglio di fiori. Mio padre mi strinse forte, come a farmi coraggio, prima di avvicinarsi alle guardie all'ingresso. -Sto cercando Monsieur Gerard. Dite loro che Miquelito è alla porta e che lo sta aspettando.-disse spavaldo, ignorando le occhiate strane che gli rivolgevano i soldati. Questi lo fissarono malamente ma uno di loro andò dentro.
Rimanemmo lì per qualche tempo, fino a quando non sentimmo il suono di alcuni passi, frettoloso e deciso.
Per nulla propensa a farmi domande, dopo i tragici eventi che avevano scosso la mia vita, mi rifugiai nel guscio apatico che avevo faticosamente costruito attorno a me. La mia esistenza vagava nella più profonda incertezza, cosa che mi impediva di cogliere il buono ed il cattivo della situazione.
Quello che non mi aspettavo, tuttavia, era di vedere un uomo dai lineamenti efebici venirci incontro, con una frenesia assolutamente inattesa. Indossava un abito all'ultima moda e, se possibile, aveva un volto ancora più efebico di mio padre.
-Non sapevo che tu fossi qui...-provò a dire, prima di scoppiare in una forte e vigorosa risata.
Don Ignatio sbatté le palpebre, poi guardò il riflesso della finestra. Non se ne era accorto ma aveva ancora gli abiti da donna con cui era fuggito dalla Spagna.
 
 
Bene, considerando il momento grigio, ovvero il ritorno in patria della nostra nazionale, ho deciso di rassicurarvi con questo nuovo capitolo. Essendo in prima persona, ha un certo stile. Il fado è un genere tipico del Portogallo.
Questa storia ha delle tappe molto precise...e, per chi mi ha seguito in Legami, avrà compreso quanto sia complesso il personaggio di Soledad. Se avete delle domande da farmi, non esitate a farlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** L'ambasciatore francese ***


L'AMBASCIATORE FRANCESE

 

L'uomo che si era fatto beffe di mio padre, per via del suo abbigliamento, si chiamava Louis Montreux ed era l'ambasciatore francese, all'epoca di stanza a Lisbona. Sembrava conoscere mio padre da molto, molto tempo.

-Sono molto felice di vedervi, amico mio.-disse, sorridendo affabile da sotto i baffi biondi -Cominciavo davvero a chiedermi dove foste andato.-

-Ho viaggiato molto, Louis- sospirò il mio genitore- purtroppo non in maniera agevole e non di mia volontà.-

L'altro gli offrì un bicchiere di Porto che mio padre accettò senza fiatare. Lo vidi bere in silenzio, sotto lo sguardo del proprietario del palazzo. -Ho avuto dei problemi con una nobile famiglia spagnola, tanto che sono stato costretto ad andarmene.-disse, fissando laconico il bicchiere.

-Non ho la minima idea di quello che vi è successo...e, sinceramente, credo che sia meglio per tutti, evitare di sapere la ragione.-disse, passandosi una mano sotto il mento. Con calma, bevve di nuovo. -Questa giovane è legata a voi in qualche modo?-chiese.

Io mi bloccai. Avevano parlato a lungo, senza nemmeno fare caso a me...ed ora? Gli occhi grigi di quell'uomo mi osservavano analitico, mettendomi ansia. Cosa intendeva fare?

-E'mia figlia.-rispose, senza guardarmi.

Louis si bloccò. -Perché l'avete portata con voi?-chiese di nuovo, riprendendo di nuovo la sua flemma. -I viaggi con una bambina sono pericolosi.-

-Non ha più nessuno...a parte me.-rispose mio padre.

Io mi feci di pietra. Quello che diceva era la pura verità, malgrado fosse la peggiore possibile. Se infatti non avevo più nessuno, era anche merito suo. Ugualmente non fiatai.

-Sarete ospiti allora.-propose Louis -Al momento, la Spagna ha altro a cui pensare, per interessarsi alla vicenda di un uomo. Ti conviene però andare altrove...e poi, magari, potrai fare ritorno.-

-No.-rispose il mio genitore- Non tornerò mai più in Spagna.-

-Come volete-fece l'altro, accavallando le gambe.

 

 

 

 

 

 

Quella sera mangiammo nell'immenso salone dell'ambasciata.

Louis conversò amabilmente con mio padre, senza degnarmi di uno sguardo. Io mangiai in silenzio, fissando le ricche decorazioni in stucco che abbellivano gli ambienti. Era un ricco palazzo in stile rococò, con interni in bianco e oro. Affreschi bucolici si alternavano a specchi di medie dimensioni che servivano a rendere la stanza ancora più grande di quello che fosse.

In tutto quello sfarzo, tuttavia, non riuscivo a vedere nulla di bello. Uno strano vuoto, pieno di malinconia, mi avvolgeva, come una nebbia sottile, annichilendo tutto. Non sentivo niente intorno a me, né il sapore del cibo, né quello del vino. Mi pareva tutto vuoto e senza senso. Non volevo parlare con nessuno, nemmeno con quel francese...ma non fu necessario.

Loro non si degnarono di me...e, in qualche modo, essere ignorata mi indispettì. Mio padre aveva commesso quell'azione orribile e si comportava come se niente fosse, invece di mostrare perennemente pentimento per il suo gesto, anzi. Pareva quasi che fosse convinto della bontà della sua azione, che fosse giusto quanto accaduto.

Per l'ennesima volta, mi sentii ferita da quella familiarità, così appropriata e insieme fuori luogo.

 

 

 

 

 

 

Poco dopo, terminato il pranzo, i due si ritirarono nel salotto attiguo per fumare, lasciandomi sul divanetto, ferma come una bambola. Indossavo ancora i vestiti da zingara con cui ero fuggita dalla Spagna, malgrado, a lungo andare, cominciassero a sembrarmi scomodi.

Ricordo che li sentii chiacchierare delle questioni più varie ed ero così annoiata dalla mia solitudine da soffermarmi su quello che si dicevano. Le parole, però, erano poco chiare e fu spaventosamente naturale, per me, scivolare dalla noia al sonno.

 

-Maledetta! Come avete potuto!- urlò una voce.

-NO! NON E'VERO!...Non è come pensate!-esclamò un'altra, rotta dal pianto.

Un fragore di vasi rotti, accompagnato da un gemito strozzato.

-Marito, non è come pensate! E'...-disse quest'ultima. Era la voce della mamma.

L'altra rise. -Non fatemi ridere! Non può che essere così! Volevate vendicarvi di me...vi vergognate di me e delle mie origini...perché sono uno sporco zingaro, come tutta Cordoba pensa!- disse, gelido. Un nuovo rumore di cocci infranti accompagnò quella frase. -Mi avete preso in giro, pugnalandomi alle spalle. Mio zio aveva ragione a mettermi in guardia...CHE SCIOCCO CHE SONO STATO...-

-No! Non è così-rispose Honor- Io vi ho sposato, come potete anche solo pensare diversamente...-

-Voi mi avete sposato per non affrontare il disonore...dopo tutto quello che ho fatto per voi... OSATE TRATTARMI COSI! MI AVETE ROVINATO LA VITA!-urlò Ignacio, in un grido simile a quello di un animale ferito a morte.

A quelle parole, seguì il silenzio.

-Ma adesso me la pagherete cara- sibilò Ignacio...e a quelle parole, la mamma urlò.

-Lasciatemi, vi prego!- andava dicendo tra i singhiozzi- Cosa vi è accaduto?-

-Ho solo aperto gli occhi...ED ORA DITEMI QUEL NOME!-urlò mio padre.

 

 

 

A quelle voci, intrappolate nello spazio onirico del ricordo, mi svegliai urlando. Le immagini di quel giorno maledetto pungolavano la mia fragile mente, facendomi tremare, come se avessi freddo.

Un rumore di passi si avvicinò alla porta.

-Mon petit-disse una persona, affacciandosi all'uscio- avete avuto un incubo?-

Non riuscii a rispondere. Accanto al francese, vedevo la sagoma del mio genitore. Ancora ebbra della visione spaventosa che avevo avuto, la voce rimase lì, inchiodata come ad una pala di legno.

-E'un sogno, cara. Ora sei al sicuro.-continuò Louis.

A quelle parole, tragicamente ironiche in quella situazione, con me a spasso con l'assassino di mia madre, opposi un mutismo ostinato. Per quanto fossi piccola, sapevo che non avrei potuto fare molto di più. Tutto questo sfuggiva all'ambasciatore che, tuttavia, pareva avere una notizia da darmi. -Mademoiselle, vostro padre vorrebbe parlarvi.-fece- Vi lascio soli.-

Così dicendo, il mio genitore entrò.

-Avete dormito?-chiese. Mosse qualche passo e si chiuse la porta alle spalle. Nella semipenombra, lo vidi avanzare verso di me, fino a portarsi di fronte a me. -Sono venuto a dirvi che dopo verrà un dottore. Così vedremo cosa potremo fare per la vostra gamba...-

-Voglio la mamma.-dissi, interrompendo la sua frase.

Don Escobar s'interruppe. -Soledad...-mormorò.

-RIDAMMI LA MAMMA!-esclamai, girandomi verso di lui, con gli occhi umidi. Non volevo andare in quel viaggio senza meta. Volevo tornare a Cordoba e riabbracciare Honor, malgrado sapessi che era una soluzione impossibile. Non c'era più niente in quella città. Non c'era nessuno ad aspettarmi. Tutto il mio mondo era stato portato via dalla persona che avevo davanti e che mi guardava senza dire una parola...e tuttavia, continuavo a chiedere, accecata dal dolore.

-LA RIVOGLIO! RESTITUISCIMI LA MAMMA!-continuai, rifiutandomi di accettare quella realtà dei fatti.

-Adesso basta.-mi interruppe questi, afferrandomi per il collo- Le tue lamentele sono inutili. Lei non tornerà più e ti conviene accettare i fatti. Che tu lo voglia o meno, io sono l'ultima cosa che ti è rimasta.-

Quelle parole mi attraversarono come una fucilata e rompendo il momento di farneticazioni che aveva preso possesso del mio corpo. Non sarebbe stato più possibile tornare indietro ed era vero quello che diceva. I De Rossignol, la famiglia della mamma, mi aveva tenuto per salvare le apparenze e, sempre per quello, aveva accolto la prima soluzione decorosa che era loro venuta in mente, pur di liberarsi di me. Escobar avrebbe potuto tranquillamente lasciarmi a loro e prendere la strada per il Portogallo...ma non lo aveva fatto. Per un gioco beffardo della sorte, dovevo essere grata proprio a lui, se adesso vivevo, sia pure temporaneamente, in un castello fiabesco e non in un grigio Convento.

La presa di Ignacio era salda, permettendomi di respirare...eppure lo sentivo lo stesso. Anche senza fare forza, la durezza delle mani di mio padre mi mostrava come sarebbe semplice per lui spezzarmi il collo.

In quel momento, la paura aumentò.

Fino a quel momento, avevo desiderato rivedere la mia mamma e Don Escobar, con quella minaccia silenziosa, mi prometteva di realizzare quel sogno. Ora, però, mentre sentivo tutta la pericolosità di quel contatto, non volevo più quel sogno. Volevo quell'uomo lontano da me, nient'altro.

-Tu non dirai mai più una cosa del genere...ed ora, se non vuoi che ti lasci in mezzo alla strada, dovrai imparare a stare al tuo posto- sibilò, piantandomi in volto i suoi occhi scuri come un pozzo senza fondo.

A quelle parole, mi bloccai.

Sapevo che il rischio era quello...come sapevo che non avrei mai avuto possibilità di sopravvivere senza di lui, nemmeno nelle condizioni in cui mi trovavo. Non c'era modo...ed io ero in trappola.

-Avete compreso, figlia mia?-domandò, senza alcuna traccia di scherno nella voce. Sentirmi appellare come sangue del suo sangue, fece uno strano effetto su di me. Non avevo mai avuto il tempo di provare fierezza per le mie origini e sapere che mio padre era per metà un gitano, mi provocò uno strano malessere. Non avevo mai passato molto tempo con lui. Fino a quel momento, avevo vissuto insieme alla mamma, mentre Don Escobar era sempre fuori.

Per me, mio padre era un perfetto estraneo che aveva potere di vita e di morte. Una presenza che, alla luce di quanto era successo, non poteva che apparirmi odiosa. Non erano capricci i miei, eppure lo erano, dal momento che desideravo una cosa che sapevo non sarebbe mai successa.

Il dolore mi schiacciò di nuovo.

La mamma non sarebbe tornata mai più da me.

Avevo detto addio a quei giorni lontani e felici, per colpa di un uomo che aveva considerato la vita di Honor un cosa di scarsa importanza...l'odio iniziò a germogliare con sempre maggior forza.

Quella non poteva essere l'esistenza che mi attendeva...ma era così e mi ritrovai ad annuire in questo modo, senza alcuna forza.

 

 

 

 

 

 

 

Poco tempo dopo, giunse il dottore.

Come era successo, durante il soggiorno presso i Rossignol, mi lasciai toccare, inerte e priva di forze. Il confronto con mio padre mi aveva privato di ogni energia, tanto che nemmeno mi resi conto della sua presenza durante la visita.

Il dottore mi fece qualche domanda. Come vi sentite? Dove siete caduta? Ditemi se vi fa male.Curiosità di cui non ricordo la risposta. Rammento solamente che quando parlavo, il mio occhio si posava sul mio genitore.

Per tutta la durata della visita rimase zitto e immobile. Pareva una statua pensosa...ed avrei riso, se il mio animo non fosse stato pieno di dolore.

A quel punto, non mi importava più niente.

Né di quello strano francese.

Né di quel dottore che fissava indifferente la mia apatia.

Né di mio padre che, per tutta la visita non aveva smesso di studiarmi. Non seppi mai cosa stesse pensando né quali fossero i suoi sentimenti...ma, a quel punto, il mio cuore era troppo prostrato per chiedermelo. Smisi così di preoccuparmene. Non mi importava più di quell'uomo che, con leggerezza, aveva smantellato la mia esistenza pezzo a pezzo.

-Grazie, senorita.- fece il medico.

-Allora?-domandò subito Don Escobar.

L'uomo sospirò.

-Senor...possiamo parlare in un luogo appropriato?-domandò questi, fissandomi in un modo pieno di pena.

Mi girai di scatto, arrabbiata per quell'espressione.

-La senorita ha una frattura scomposta alla gamba. Avrebbe dovuto rimanere ferma, per poter essere soccorsa. Adesso, l'osso si sta saldando male e potrebbe avere delle conseguenze.-fece, prima di passarsi una mano sulla fronte- Senor, in nome della pietà propria dei cristiani, possiamo davvero uscire dalla stanza?-

-No-rispose mio padre- anche lei deve sapere.-

-Ma Ignatio!-esclamò l'ambasciatore.

-Tacete-rispose questi, con un modo quasi rabbioso- ignorare la verità non farà minimamente differenza. Non si può evitare il dolore ed è meglio che lei sappia il perché.-

Louis rimase impietrito da quel tono. -Non vi riconosco più...-mormorò, scuotendo la testa.

Ignatio non rispose.

-Come volete, senor.- fece- Questa è la vostra volontà, in fondo. La senorita non ha alcuna sensibilità alle gambe. I test che ho fatto prima aveva lo scopo di valutare il danno.-

-A cosa è dovuto?-chiese.

-Ad un trauma, senor, di natura fisica e psicologica. La caduta è stata piuttosto violenta ed il vostro viaggio ha finito con il peggiorare la posizione dell'osso. Il vero problema però è stabilire se l'immobilità è dovuta ad un danno ai tessuti nervosi o allo shock dell'impatto...e lì, senor, occorre davvero l'intervento di uno specialista.-disse, serio.

 

 

 

 

 

 

 

Quella notte non dormii affatto.

La notizia del medico era stata chiara e devastante. Non avrei camminato mai più...e questo era il destino che mi attendeva. Mio padre mi aveva messo di fronte tutta l'amarezza del mio destino...e lo odiai di nuovo per quel tono così privo di clemenza.

Col senno di poi, però, quell'assenza di gentilezza si dimostrò essere l'unica cosa di cui avevo davvero bisogno. Nella condizione in cui mi trovavo, una simile benevolenza non avrebbe fatto altro che infierire sulle ferite che portavo dentro.

Ugualmente, non riuscì a salvarmi dagli incubi, così, con uno sforzo non da poco, mi misi sulla sedia a rotelle che mi era stata portata poco dopo la visita del medico. Lentamente, mossi i miei passi con quel nuovo mezzo, scivolando silenziosamente nel mosaico del pavimento. Lentamente, dalla nuova prospettiva che la sorte aveva scelto per me, cominciai a fissare tutti quei mobili, ai miei occhi così grandi e lontani dalla mia mano.

-Ah! Oh, mon dieu!-sospirò una voce.

Mi fermai di botto. Il suono proveniva da una delle stanze che si trovavano in un angolo della casa. In quel punto, c'era un bagliore tenue, proveniente dal camino e che si rifletteva sullo specchio posto di fronte a quello. -Oh, Ignatio!- disse di nuovo.

Con la carrozzella, mi spostai in un punto cieco e fissai quella superfice riflessa. L'ambasciatore era di spalle, con il torso nudo e dava dei vigorosi colpi di reni ad una sagoma che, a quattro zampe, riceveva quei colpi. -Oh...non sapete... quanto ho atteso...questo...momento- andava dicendo, con un tono sempre più estatico, prima di concludere il discorso con un gemito.

L'altro non rispondeva, limitandosi a levare qualche lamento...poi alzò la testa ed il mio sconcerto mi gelò sul posto. Era mio padre. Mio padre giaceva con un uomo, mentre mia madre era sepolta sottoterra a migliaia di chilometri lontana da me.

La Chiesa condannava quel tipo di pratiche ma, dopo il dolore sofferto, sapere che mio padre avrebbe ricevuto la dannazione eterna per colpa della sua depravazione non mi procurava alcun conforto. Il mio Inferno era sulla Terra e sapere che ero meno colpevole dell'uomo che mi aveva rovinato era una consolazione quasi beffarda.

Non avrei camminato mai più.

Non avrei rivisto la mia mamma...e questo, per la mia sofferenza, era più che sufficiente.

All'epoca non conoscevo ancora la verità. Se l'avessi saputa, se avessi saputo dare un nome a tutto ciò, avrei smesso di vedere le cose da quella prospettiva fanciullesca, fatta di luci ed ombre...e, forse, avrei mostrato una maggiore saggezza.

 

 

Capitolo difficile ed impegnativo. Questa scena finale è stata davvero complicata e sarà così anche per i prossimi capitoli perché lo stato d'animo della protagonista è complicata.

Vorrei ricordare che la storia è drammatica, sotto ogni punto di vista. Ringrazio tutti coloro che hanno letto sinora.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** DONI ***


Benvenuti cari lettori, a questa difficilissima storia. Il precedente capitolo ha il sapore della surreale sconfitta del Brasile...e sì, l'influenza del Mondiale è piuttosto forte.

 

 

DONI

 

 

I miei giorni presso la casa dell'ambasciatore passavano lenti e fiacchi. Mi muovevo con la carrozzella nei preziosi corridoi della dimora, fissando di sottecchi il giardino interno del palazzo. Quella vista mi rendeva un po'malinconica.

Anche a Cordoba, nella mia vecchia casa, c'era un ambiente simile.

Mia madre era spesso lì, a godere della luce calda del tardo pomeriggio, insieme alle mie sorelle maggiori. Istintivamente mi domandai dove fossero e cosa avrebbero pensato, della nostra fuga...ma questa idea scivolava via, schiacciata dalla consapevolezza che quella schiatta aveva disposto la mia destinazione, esclusivamente al fine di liberarsi di ogni imbarazzo.

Con questa consapevolezza, avevo smesso di pensare a loro. Pilar era diventata una monaca nel monastero benedettino nei pressi di Madrid, mentre Bianca aveva sposato un brav'uomo che viveva a Barcellona. Le mie sorelle non avrebbero minimamente beneficiato di questo scandalo...e, se da un lato, ero felice per loro, dall'altro non potevo che invidiarle per questo.

Immagino comunque che sarebbe stato molto difficile tenermi in contatto con loro. Le mie sorelle maggiori non avevano un buon rapporto con mia madre, tanto da preferire rivolgersi a mio padre, per le cose più importanti, trattando con fredda cortesia Honor.

Stravedevano per lui, questa era la verità.

Per molti anni, mi sono domandata cosa avesse portato a quella spaccatura, fino a quando non rimisi piede nella città dove ero nata...ma questa, ahimé, era un'altra storia. Il mio tempo si divideva in queste passeggiate solitarie mentre, persa nei miei pensieri, tentavo di non guardare il mondo intorno a me.

Dopo quell'incontro violento, evitai accuratamente qualsiasi contatto con Don Escobar. Non volevo vederlo, troppo amareggiata con la sorte ed il destino per farlo...non che questo silenzio e questo isolamento offendessero mio padre.

Il mio genitore pareva infatti piuttosto felice della mia lontananza, come se non vedesse di buon occhio la mia presenza...ma la rabbia che provavo, mista al dolore, mi impediva di notare un simile particolare. Sapevo solo che passava il suo tempo insieme a Louis...di giorno e di notte.

Mi chiesi se avesse portato avanti una simile depravazione anche quando la mamma era viva e, così, presa dall'odio, non mi soffermai su quello che avevo visto. Non pensai ai particolari. Ero così arrabbiata e triste da non avere pensiero per simili dettagli.

Come aveva potuto mia madre sposare un uomo così corrotto?

Come poteva rivolgergli i suoi rari sorrisi?

Come avevo fatto a vedere in lui un sostegno?

Così, mentre ero preda di questi sentimenti, assistevo impotente a quello stato di cose. Mio padre era sempre insieme a Louis nelle sale dell'ambasciata, di giorno...e nella camera da letto del funzionario, di notte.

 

 

 

 

 

 

 

Un giorno, inspiegabilmente, mio padre venne da me.

Non lo faceva mai e questa comparsa mi sorprese. -Soledad, sono venuto qui per informarvi della mia decisione. Tra una settimana, partiremo per la Francia.-disse, fissandomi assente.

Sgranai gli occhi...poi vidi la sagoma dell'ambasciatore accanto a lui. -Ricominceremo da capo. Ho dato ordine di fare le valigie.-disse, prima di avviarsi verso la porta.

-Non sei costretto, Ignatio-disse il francese, mettendogli una mano sulla spalla- è un'alternativa ma non è detto che sia la soluzione migliore.-

Don Escobar scosse la testa. -Non mi importa che sia la migliore. Qualsiasi soluzione va bene e ti sono grato per tutto quello che hai fatto finora. Va bene qualsiasi cosa adesso.-rispose, fissando apatico il vuoto.

 

I giorni seguenti furono vuoti e privi di valore. Sapere che avrei lasciato la penisola in cui ero nata, tuttavia, mi lasciava indifferente. Più passava il tempo, più mi rendevo conto di quanto fosse inutile e deleterio illudermi.

I De Rossignol non avevano mai dimostrato alcuna emozione sulla mia sorte, troppo presi dal desiderio di vendicare la morte di mia madre.

Io ero solo una piccola comparsa sullo sfondo, pur sapendo che la decisione finale avrebbe decretato il mio destino. Mentre così pensavo, l'ambasciatore si prese il disturbo di acquistare per me degli abiti appropriati. Fu il primo di una lunga serie di doni che io accettai passivamente.

Le giudicavo il prezzo del coito animalesco che mio padre gli offriva ogni notte, giacendo al suo fianco come se fosse la peggiore prostituta di Lisbona...ma, a conti fatti, non dovevo nemmeno diritto di lamentarmi di tutto ciò. Anche se strano e inaccettabile, le azioni di mio padre erano state il massimo segno d'interesse che il sangue del mio sangue aveva dimostrato per me, quando il mio Mondo finì in pezzi.

 

Finito anche questo capitolo, decisamente complicato da scrivere. La vicenda di Soledad non è ancora finita e, ad essere onesti, il suo viaggio non è ancora alla fine. Probabilmente la storia si dividerà in alcune parti. Ringrazio chi recensisce e buone vacanze.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** ABISSO ***


Benvenuti a questo racconto. Per chi non lo sapesse, questa storia è il prequel di LEGAMI, una storia che verrà revisionata non appena avrò il tempo di farlo. Qui verranno fuori tante cose.

 

 

ABISSO

Più il tempo passava, più l'impazienza di mio padre cresceva. Lo vedevo aggirarsi nell'ambasciata come un animale in gabbia, occupando spesso la sala del tabacco per farsi delle lunghe e stizzite fumate.

Anche l'ambasciatore se ne avvide. -Calmatevi, amico mio, non vi fa bene tutto questo.-disse, con la sua consueta pacatezza.

Ignacio si girò.

-Dite? Io devo lasciare questo Paese, NE HO BISOGNO!-fece, alzando la voce.

-E sarà così, se lo vorrete. Il problema è che il mare ha altri desideri. Non è possibile andare contro quello che pensa Nettuno. Aspetteremo.- rispose, calmo.

Don Escobar scosse la testa. -Io non posso stare più in questo posto, voi non capite...-provò a dire.

-Invece comprendo bene. Vi siete esposto in modo sciocco all'invidia dei nobili di Cordoba, facendo quel passo falso che tutti aspettavano.-riferì- Ora dovete calmarvi e ragionare.-

Mio padre si fermò. -Avete ragione-fece, improvvisamente lucido.

Louis annuì. -Non potete continuare in questo modo. I disordini in Spagna hanno fatto passare in secondo piano il vostro problema. Ho saputo che qualcuno ha assaltato il Palazzo di Giustizia e, bruciando l'archivio dove erano contenute le delazioni.-fece- Possiamo augurarci che anche quella denuncia sia scomparsa ma non mi azzarderei mai a correre il rischio di andare a controllare di persona.-

-Ugualmente non posso esserne felice. I Rossignol hanno guadagnato molto dalla mia rovina, soprattutto nel periodo precedente alla mia denuncia.-disse, massaggiandosi la testa- Iddio mi sia testimone ma sono stato ingannato.-

Louis lo guardò con dispiacere. -Ve lo avevo detto. Non dovevate fidarvi.-disse, aggrottando la fronte -Come mai non vedo Alejandro?-

A quella domanda, rabbrividii.

-Me ne sono liberato.-rispose monocorde -Ha pagato per la sua infedeltà.-

Louis non parve molto sorpreso. -Ve lo avevo detto. Siete troppo buono. Non dovevate tenere quel moro con voi. E'troppo venale...che ha fatto?-chiese, con un piglio curioso.

-Mi ha venduto ai miei nemici.-rispose Don Escobar- A quanto pare, nemmeno la mia adozione è servita a cancellare la mia origine non nobile. Quel maledetto ha fornito gli estremi ai De Rossignol per farmi arrestare.-

Quelle parole caddero nel vuoto. Louis rimase immobile e silenzioso, con un'espressione cupa e pensierosa. -Ecco perché hanno potuto mettervi in carcere.- osservò- Non potete tornare in Spagna, allora.-

Ignatio annuì.

-Quindi rinnovo il mio suggerimento. Andate in Francia e prendete quella decisione.-disse.

Don Escobar chiuse gli occhi. -Va bene. Ugualmente non sono sicuro. I Rossignol mi hanno promesso vendetta.-lo informò -Dovrò averli perennemente attaccati al culo fino alla morte.-

Louis inclinò la testa. -Sono degli hildalgos. Hanno la testa dura. Non molleranno tanto facilmente.-fece- Hanno degli scheletri nell'armadio?-

Il silenzio di Don Escobar pareva pesante come un macigno, come se lo trascinasse in un baratro senza fine.

-Farò delle indagini approfondite, in modo da poter avere un quadro della situazione chiaro e cristallino.-spiegò.

Ignatio non rispose. Il suo sguardo si volse verso di me, scrutandomi profondamente. I suoi occhi erano scuri, neri come l'inchiostro. Quel buio mi terrorizzò, congelandomi sul posto.

-Mi auguro che troviate quanto occorre. Quei maledetti non devono più essere un mio problema.- mormorò rabbioso, volgendo lo sguardo verso il francese.

 

 

 

 

Muovermi su una carrozzella continuava ad essere strano e insolito.

Non avevo più niente e, ormai, chiusa nell'ambasciata, cominciavo a non sentire più nemmeno la nostalgia.Non mi chiedevo più nemmeno quale sarebbe stato il mio futuro.

Non avevo più desideri e nemmeno il coraggio di sognare qualcosa, tanta era la paura di vedere quel sogno frantumarsi nelle mie mani. Tutto mi sembrava così fragile da schiacciarmi a terra, stroncando quello stimolo che conduce al desiderio.

-Mademoiselle-disse una voce.

Mi girai e vidi l'ambasciatore. Mi fermai di colpo, rimanendo in attesa. Monsieur Louis era di fronte a me, avvolto nei suoi vestiti più belli. -Ho visto che state passeggiando molto. Vi annoiate?-disse, inclinando la testa.

A quelle parole non parlai. Non avevo niente da dire e non mi piaceva conversare. Lo trovavo fastidioso, tanto più sapendo che quell'uomo aveva un legame perverso con il mio genitore. Perché quel sodomita mi rivolgeva la parola? La sua sola presenza mi lasciava sgomenta e afflitta più del dovuto. Sapere che mio padre aveva tali peccaminosi vizi e pensare che aveva giaciuto con mia madre, malgrado tutto, mi disgustava oltre il lecito.

-Immagino di sì-continuò, del tutto ignaro della ragione del mio silenzio -desiderate passeggiare in giardino?-

Io non dissi niente ma mi limitai ad osservare la mia sedia a rotelle. Come poteva chiedermi una cosa simile? A quella domanda senza risposta, il mio cuore si lacerò. Ugualmente non proferii parola e, docilmente, lasciai che mi conducesse ovunque avesse voluto portarmi.

Louis mi portò al piano inferiore, guidandomi verso una porticina che non avevo mai notato. -Ecco, quando vi ho visto, ho pensato bene di portarvi qui.-disse, cordiale...e quando la porticina si spalancò, venni investita da un lampo di luce.

-E'un luogo che io frequento spesso, quando mi manca la Spagna.- mormorò -E'un Paese al quale devo molto della mia carriera diplomatica.-

Guardai muta quello spazio. Era un giardino fatto di piccoli spazi verdi, irrigati da corridoi d'acqua corrente. Pergolati di piante rampicanti correvano intorno, circondando il tutto in un verde abbraccio. Non avevo mai visto niente di simile.

-Ho visto Granada, sapete? La dimora di quegli infedeli è ancora magnifica ma versa in pessimo stato, se permettete.-disse, inclinando pigramente la testa.

Quella notizia mi fece tremare. Da che avevo memoria, mio padre non mi aveva mai portato fuori da Cordoba. Non avevo mai visto cosa ci fosse fuori da quel luogo e mi bastava la vita ritirata che avevo trascorso insieme a mia madre. Non avevo cercato niente di tutto questo...ed ora il Mondo aveva deciso per me.

-Io e vostro padre siamo amici. Lui mi ha aiutato molto, quando avevo bisogno di sostegno. E'una persona molto buona.-disse, tentando di attaccare discorso ma le sue parole non mi toccarono.
Non mi colpiva più nulla...così, dopo qualche momento, mi lasciò da sola, tornandosene ai suoi affari. Rimasi così in quel giardino, pregno di atmosfere conturbanti e orientali, chiedendomi cosa avrei fatto, seguendo Don Escobar.

Non ebbi modo di trovare una risposta...e c'era una ragione. Semplicemente, non avevo alcuna scelta.

-Mademoiselle-disse improvvisamente il francese, richiamando la mia attenzione. Era tornato indietro ed io non mi ero accorta di nulla. -Vorrei dirvi una cosa. Per quanto le circostanze abbiano un certo volto, non è detto che le cose siano esattamente quelle che gli occhi vi hanno mostrato.-disse, prima di andarsene, senza tornare indietro.

Quelle parole mi apparvero prive di ogni logica. Io sapevo...un vero peccato che tra quella consapevolezza e la presunzione vi fosse un confine così labile. Allora però non lo vidi. Lo smarrimento mi aveva privato di ogni appoggio, tanto che l'unica cosa su cui potevo contare era l'odio per Don Escobar.

 

 

 

 

 

 

 

Qualche giorno dopo, il mare si placò e fu possibile partire.

Si trattava di una piccola imbarcazione per passeggeri, senza immagini particolari. Mio padre aveva preso una stanza in seconda classe. Aveva una finestrella dalla quale si vedeva il ponte. Mio padre passava il tempo lì, anche di notte, rifiutandosi di dormire nella stessa stanza.

Si occupava di me, aiutandomi a mettermi nella carrozzella e lavandomi quando serviva. Il resto del tempo, invece, lo occupava nella prima classe, giocando d'azzardo e fissando l'oceano.

Lo faceva spesso.

Quella solitudine forzata, nella minuscola cuccetta, non mi piaceva. Mi chiedevo continuamente per quale motivo Don Escobar avesse voluto portarmi con sé. A cosa potevo servirgli?

Quell'assassino mi aveva trascinato nella sua fuga, senza dirmi niente ma mi chiedevo come potesse continuare a muoversi con una simile disinvoltura, quando il fardello dell'anima di Honor gli passeggiava accanto. Avrebbe dovuto mostrare eterno dolore e pentimento, tremando ad ogni sospiro, soffrendo per la crudeltà perpetrata...ma non succedeva niente. Don Escobar continuava a vivere indisturbato mentre mia madre giaceva sepolta lontano da me.

Per molto tempo, pensai che quello stato di cose fosse dovuto al fatto che mio padre non mi volesse ed io non ero altro che un testimone scomodo.

La sua freddezza mi terrorizzava, insieme ai suoi improvvisi e violenti lampi d'ira. Tendevo sempre l'orecchio, sussultando ad ogni suo respiro, come un animale selvatico preso nella rete del cacciatore: passavo i miei giorni temendo la sua mano omicida.

Non poteva essere diversamente. Anche i De Rossignol, a suo tempo, non avevano nascosto quanto fossi inutile, con la menomazione che la sorte aveva deciso per me...perché Don Escobar, l'assassino di mia madre, non avrebbe dovuto agire allo stesso modo?

Questo pensiero mi logorava, unito alla più profonda incertezza nei confronti del futuro. Con quale coraggio avrei potuto aggrapparmi a quella sagoma mortifera e scura?

Semplicemente non ci riuscivo e il graduale avvicinarsi della destinazione rendeva tutto goffo e confuso. Avrei passato buona parte dei miei giorni in compagnia di quel maledetto, soffocando la verità dentro di me ed avvelenando le poche cose buone che erano rimaste nel mio cuore.

Mentre pensavo queste cose, Don Escobar continuava a condurre la sua esistenza freddamente, conversando con gli altri passeggeri e giocando nel locale sulla nave. Spesso non tornava nella cabina, lasciandomi dentro. Non ho mai saputo dove dormisse ma, all'epoca, non me ne curavo.

Mi chiedevo quale futuro potesse profilarsi per una come me, una bambola rotta, senza possibilità alcuna di muovere le gambe. Quello che so è che mi portava la colazione nella cabina, lasciandomi poi subito dopo, non prima di essersi assicurato che avessi mangiato tutto.

Ogni volta che succedeva, mi ritrovavo sotto il suo sguardo cupo e pesante, intento a scrutare tutti i movimenti che il mio corpo era in grado di fare. Allora, la mia mano si muoveva meccanicamente, immergendo il cucchiaio nel brodo. La mia bocca si apriva, ingoiando il liquido, senza sentire il suo calore bruciante. Eseguivo tutto questo come un automa, anche se il cuore batteva impazzito, lasciando quell'uomo fuori di me.

La mia routine continuava in questo modo, con mio padre che tornava sempre dalla prima classe, alle ore più disparate, mentre io rimanevo rimanevo lì, sola con me stessa ed i miei fantasmi.

Allora mi immaginavo mia madre.

Honor mi avrebbe sicuramente rassicurato, con le sue dolci carezze, raccontandomi le storie dei paladini cristiani, di Rolando e del Cid. Mi piacevano i suoi racconti. Ogni volta li riempiva di particolari nuovi. Honor aveva l'animo dell'artista, quando dipingeva quelle novelle di colori sempre diversi.

Quei ricordi venivano perennemente a farmi visita ed ogni volta, sentivo quelle immagini graffiarmi dentro, lacerando delle ferite che non avrei mai avuto modo di rimarginare.

Mia madre non c'era più.

Quell'assenza mi lasciò nuovamente sconfitta...ed io sopportavo sempre meno quello stato di cose. Era del tutto inutile che io proseguissi quel viaggio.

Rivolevo la mamma e, se il Mondo non poteva più darmela, l'avrei riabbracciata lo stesso, in ogni modo. Così, approfittando della solitudine in cui mi trovavo, uscii dalla cabina.

 

 

 

 

C'era una passerella che conduceva sul ponte della nave. Giunta lì, mi mossi sul parquet, guardandomi attorno. C'erano molte famiglie, molti avventurieri e donne intenti a conversare. Sopra di me c'era la prima classe. Istintivamente mi girai verso quella direzione...e fu allora che vidi mio padre, mentre dava il braccio ad una donna grassa e vestita in modo dozzinale.

Don Escobar le teneva il braccio, sussurrandogli delle parole che facevano ridacchiare quella sconosciuta ingioiellata. Lui, invece, sorrideva in modo strano, come se pendesse dalle labbra di lei, malgrado la differenza d'età fra loro era piuttosto considerevole.

-Oh, la baronessa Von Thumple ha un nuovo amante?-disse un uomo poco distante da me.

Io mi girai. Erano due marinai che fissavano con sufficienza la scena, come se fossero avvezzi a questo tipo di spettacoli. -Pare di sì. Lo ha incontrato sulla nave ed è rimasta incantata dal suo aspetto esotico. Lo vuole con sé ad ogni giro e pare che non ami quando se ne va, sgattaiolando via dalla prima classe.-disse, sghignazzando un altro.

-Non è strano-disse il primo che aveva parlato- la baronessa ama la carne giovane.-

A quelle parole, arrossii di vergogna e di sdegno.

Mia madre era una delle donne più belle di Cordoba. Colta, raffinata e dal viso espressivo...come poteva mio padre tradire così la sua memoria? In quel periodo, gonfio di dolore e sofferenza, con la certezza che le mie gambe non avrebbero più sorretto il mio corpo, avevo bisogno solo di una piccola scintilla, per poter cedere completamente.

Sarebbe bastato qualcosa, qualsiasi cosa per dare un senso alla mia sofferenza.

La mamma diceva che il dolore era una conseguenza delle cattive azioni delle persone...ma in quello che mi era successo, non riuscivo a trovare una spiegazione.

Io avevo sempre obbedito.

Non avevo commesso alcun crimine.

Perché allora avevo ricevuto una simile punizione?

Quello che era successo aveva demolito anche l'immagine che avevo del mio genitore. Non avrei mai potuto sopportare anche quella scoperta, o almeno così pensavo. Ecco, questa è la ragione mi dissi, avvicinandomi al bordo della nave.

Giunta lì, mi appoggiai e, facendo forza, mi levai in piedi, fissando il mare sotto di me. Guardai la superficie liquida, socchiudendo gli occhi.

Non avevo idea di cosa mio padre volesse offrirmi...ma, in quel momento non mi interessava. Volevo tornare dalla mamma...e con quel pensiero, mi gettai giù.

 

 

 

 

 

Non so bene dire cosa pensassi, quando mi lasciai scivolare giù. Mentre cadevo insieme alla carrozzina, sentivo l'aria frustarmi il viso con violenza, rendendomi difficoltoso anche solo respirare e quando il corpo si scontrò con l'acqua salmastra, non potei non sentire dolore, un dolore così forte da farmi scappare un gemito.

Le gambe ed ogni singolo membro mi dolevano in modo insostenibile, come se mi fosse gettata da una finestra, invece che su una superficie acquosa.

Non importa. Rivedrò la mia mamma.

L'acqua cominciò a riempirmi il viso e bruciarmi gli occhi. Li chiusi di scatto, non sopportando quella sensazione. Non importa. Dopo questo, rivedrò la mia mamma.

Un'onda, più forte del previsto, fece entrare dell'acqua giù per il naso, spingendomi a tossire con forza. Solo allora, con quel sapore amaro in bocca, l'immagine rassicurante della fine delle mie pene cominciò a vacillare. Il dubbio di soffrire ancora di più per raggiungere Honor bloccò quel piacevole velo che mi aveva spinto a lanciarmi di sotto.

Alzai la testa e vidi la sagoma alta della nave stagliarsi su di me.

Immensa e scura, dalla misera posizione in cui mi trovavo, procedeva in modo impercettibile, dandomi quasi l'illusione di rimanere sempre ferma nel medesimo luogo. La guardai per un breve istante, intimorita da quella vista. Una nuova onda mi entrò nel naso, facendomi tossire con violenza.

Non importa. Rivedrò la mia mamma.

Quando però il mare si mosse ancora, entrandomi dentro con violenza, quel pensiero si fece ancora meno saldo. Honor non aveva sofferto così tanto, o almeno questo era il mio intendere ma aveva avuto paura lo stesso, se mai ne ebbe il tempo. Io non avrei avuto quella concessione...e allora ebbi la conferma di quanto la mia azione fosse insensata. Honor era morta per mano di Don Escobar, mentre io, se anche avessi fatto passare il mio trapasso per un incidente, non avrei comunque ingannato quel Dio che mia madre pregava con grande devozione.

Sgranai gli occhi.

Sarei morta come suicida...e non avrei mai più visto la mamma, dopo aver dannato la mia anima in maniera tanto insensata. Istintivamente provai a raggiungere lo scafo della nave ma qualcosa mi impedì di fare tutto questo. I pizzi del mio vestito, intrisi d'acqua, si erano impigliati alla carrozzina che, divenendo sempre più pesante, si inabbissava nei flutti, istante dopo istante...trascinandomi giù.

In preda al panico, mossi le braccia a casaccio, nel tentativo di non affondare ma il peso sotto di me era invincibile. Mi dibattei a lungo fino a quando, stremata,persi le forze e, prima di precipitare, urlai il nome di Honor, in un ultimo, disperato tentativo.

 

 

 

Allora, un chiarimento. Soledad cade con la carrozzella dalla nave. La ragione verrà detta meglio dopo. In ogni caso, è stato davvero difficile scrivere questo capitolo, come è difficile mettersi nei suoi panni. La spiegazione che dà, alla fine, è spiegabile in questo modo: suicidandosi, Soledad finirebbe all'inferno e, poiché ritiene la madre innocente, non potrebbe rivederla da morta.

Ad ogni modo, le cose si complicheranno sempre di più. Potrei dividerla in tre parti questa storia...ma vedremo.

Chiedo scusa per i ritardi negli aggiornamenti ma sono molto impegnata.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** LE HAVRE ***


LE HAVRE

Dicono che quando perdi ogni speranza, quando la consapevolezza di essere ormai finita, divora ogni illusione, sia possibile capire cosa si sia davvero importante, dopo averlo perso in modo beffardo.

All'epoca dei fatti, avevo creduto di vivere quella mancanza, convincendomi presuntuosamente di aver fatto un considerevole bagaglio di dolore, sufficiente per definirmi esperta. Non avevo più una madre ed avevo scoperto che la sua nobile schiatta era completamente disinteressata alla mia sorte, se non nella misura in cui avrei evitato ogni possibile scandalo per i De Rossignol. Quando mi gettai dalla nave, trovando una forza inaspettata in quel corpo che fino a quel momento era rimasto inerte e muto allo scorrere degli eventi, avevo creduto di porre fine a quello che era successo.

Mi sbagliavo...come sbagliavo nel credere che avrei voluto rivedere Honor, con la quale condividevo solitudine e malinconia. Quando aprii gli occhi, credetti di essere, per un momento, nella mia dimora a Cordoba, quando ancora possedevo quella casa.

Pensai di rivedere il cortile interno dell'edificio, con uno spicchio di cielo sopra la testa e l'odore di limone e gelsomino perennemente nelle narici. Invece, non accadde niente di tutto questo. Vidi il soffitto coperto di muffa della terza classe e sentii il pavimento oscillare sotto di me, ondeggiando.

Piano piano, lentamente, mi misi a sedere, con la bocca impastata di qualcosa di amaro e secco e compresi che non ero nella mia città natale.

-Ti sei svegliata-disse una voce.

Mi voltai di scatto, impallidendo di nuovo.

Don Escobar era seduto accanto al mio letto. Gli abiti erano sgualciti, come se non avesse dormito per molto tempo. Anche la chioma, solitamente ben curata, sembrava non conoscere un pettine da mesi. Fu inevitabile, per me, cogliere una simile stranezza e mi arrabbiai per questo insano interesse per quell'uomo. Non avrei dovuto badare a quelle cose. Era colpa sua se ora vivevo in quell'inferno.

Solo sua.

Lui non sembrò accorgersi dei miei pensieri ostili o, se mai ne fu al corrente, erano cose che, ai suoi occhi, non avevano alcun peso...così non mi stupii quando prese una bottiglia di liquido trasparente e me la porse. Allungò la bottiglia nella mia direzione, tenendo lo sguardo rivolto verso di me. Io protesi il braccio, quasi senza pensarci...ma l'altro si allontanò di scatto, insieme alla bottiglia, non appena fui sul punto di toccare il vetro. -No, non te la meriti. Non se fai una cosa tanto stupida.- fece -Perché devo sprecare la mia acqua in questo modo?-

Mi immobilizzai un momento. Malgrado la sete mi stesse annientando, non riuscivo comunque a smettere di provare paura nei suoi confronti. Don Escobar mi fissò un momento, poi scoppiò a ridere. -Ovviamente scherzavo-disse,buttandomi malamente quella bottiglia.

La presi al volo, con le braccia che tremavano, tentando di non guardarlo negli occhi. Farlo mi terrorizzava, fin da quando ero nata. Solo Honor non ne aveva mai avuto paura di lui ma questo non gli aveva impedito di fare quella tragica fine...e quel ricordo mise da parte la sete che mi stringeva la gola.

Alzai la testa e fissai Don Escobar. Perché dovevo bere? Per quale ragione avrei dovuto mettere da parte tutto quello che stavo passando...

-Mangia ragazzina- disse questi, avvicinandomi poi un piatto di zuppa che prima non avevo visto.

Osservai il suo viso, dai lineamenti efebici e privi d'imperfezione. Nessun sentimento li attraversava, in nessuna occasione. Anche quando la mamma era viva, conservava quell'arcaica staticità. Io avevo semplicemente paura, come sempre. Intimidita com'ero dalla sua assenza di espressioni, mi ritrovai bloccata come in uno strano e insolito intontimento.

-Immagino che tu abbia fame. Hai corso un rischio non indifferente e devi bere e nutrirti come si deve.-disse, fissandomi a lungo.

Quelle parole mi spiazzarono. Che non si fosse accorto del mio gesto? Un senso di sollievo, misto ad euforia, attraversò il mio corpo, tanto che mi ritrovai a sorridere come una sciocca. Per una volta avevo imbrogliato mio padre, facendogli credere il falso. Presi quello che mi porgeva, con aria quasi riconoscente.

Per una volta, ero riuscita a porre rimedio a quello che la mia incoscienza aveva scatenato. Toccai appena le sue mani, come per accertarmi di quello che stavo per fare... ma quello, con una mossa repentina mi prese i palmi, bloccando i miei intenti.

-Cosa volevi fare?-domandò, stringendo improvvisamente le mani attorno ai miei polsi, alla stessa maniera di una tenaglia. Ricordo bene quella morsa, il panico che lentamente si diramò dentrò, mangiandosi ogni forma di raziocinio. L'assassino di mia madre era lì ed io non potevo muovermi in alcun modo. -Io non ti permetterò di morire...e, se mai dovesse accadere, verrò all'inferno e ti ritrascinerò nel mondo dei vivi per i capelli, maledetta loca.- sibilò, con un tono privo di ogni inflessione.

A quella minaccia, alzai lo sguardo.

Con quale coraggio poteva dirmi quella parole? Lui non aveva nessun diritto di darmi alcun ordine, non dopo quello che aveva combinato. Era colpa sua se adesso conducendo quella vita raminga e senza scopo. Era colpa sua se mi trovavo in quelle condizioni. Per l'ennesima volta, un odio confuso si diramò dentro, dandomi improvvisamente quella spinta necessaria a fissarlo...ma Don Ignatio ghignò, prendendomi alla sprovvista.

Lo guardai confusa...poi uno schiaffo impietoso calò sulla mia guancia, facendomi cadere sul materasso. -Che questo ti serva da monito, se hai intenzione di prendermi in giro per l'ennesima volta. Tu non mi lascerai. Non te lo permetterò.-disse, prima di andarsene fuori.

Nel farlo, la porta si chiuse, battendo con forza...ma non me ne curai.

Non avevo nessun rimorso nell'aver scatenato la sua ira e, una volta sola, mi ritrovai a digrignare i denti, come un cane selvatico che, pur avendo di fronte un animale più grosso, continuava a sfidarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Don Escobar aveva molte qualità...ed una di queste era quella di essere di parola. Se faceva una promessa a qualcuno, questi poteva confidare nel fatto che avrebbe mantenuto quanto stabilito, per quanto impossibile fosse. Un tempo, prima della disgrazia, avrei benedetto quel modo di fare. Lo avrei ringraziato...ora, invece, non facevo altro che avere paura.

Paura ad ogni sussurro.

Paura ad ogni respiro dell'uomo che mi teneva con sé.

Terrore, per qualsiasi azione avesse deciso di compiere, nel malaugurato caso in cui avessi deciso di agire contro.

Non avevo nessuna speranza, come prima...eppure qualcosa era cambiato.

Se, in passato, avevo creduto strenuamente di riuscire a rivedere un giorno mia madre ora, con il mio folle gesto, avevo la sicurezza che quella possibilità mi era completamente preclusa. Benché fallendo, avevo tentato di uccidermi ed ora non ero più degna di ricevere l'abbraccio di Honor.

In nessuno dei mondi possibili, benché il tuffo nell'oceano avesse istillato il timore di ripetere quell'esperienza.

Sapevo perfettamente di essere un peso considerevole per l'uomo che mi teneva in catene. Nessuno sano di mente porterebbe con sé una bambina incapace di camminare perché sarebbe d'intralcio.

La consapevolezza di questo stato di cose mi confondeva. Perché stava facendo tutto questo?

Don Ignacio, comunque fosse, non si fidava di me e, per una sorta di atavica incapacità di affidarsi a qualcuno, aveva deciso di lasciarmi chiusa nella cabina fino alla fine del viaggio. Mi portava il cibo necessario a nutrirmi, controllando che mangiassi tutto, senza lasciare nulla nel piatto. Ogni tanto lo sentivo entrare nella cabina, alle ore più disparate...e tutte le volte fingevo di dormire, per non vederlo più del necessario. Lui rimaneva lì alcuni istanti e poi usciva di nuovo, senza fare rumore.

Non so cosa lo spingesse a entrare in quel modo.

Non aveva mai mostrato i suoi sentimenti e non so nemmeno cosa lo avesse spinto a uccidere Honor. Dentro di me, meschina, covavo il desiderio che il senso di colpa lo divorasse, mangiandosi tutta la cattiveria che lo aveva portato a commettere quel crimine tanto orribile.

 

 

 

-MALEDETTA!- urlò mio padre, svegliandomi di soprassalto. Istintivamente, mi rannicchiai sul letto, turandomi le orecchie con tutta la forza che avevo.

-Non è come credete! Vi supplico, Ignacio...-pregò mia madre, con voce tremante.

-Come potrei farlo? Avete deliberatamente messo in ridicolo la mia persona...ma non vi siete fermata qui. Avete rovinato la mia vita nella maniera più gretta che potesse esserci. Mi fidavo di voi, Iddio mi sia testimone!-sbottò, furibondo.

Sentii dei colpi...e istintivamente chiusi anche gli occhi.

Non era la prima volta che Ignacio picchiava la mamma. Ultimamente lo faceva molto spesso, tanto che Honor, per non spaventarmi, indossava abiti che coprivano quasi interamente il suo corpo. Io fingevo di crederle, con una menzogna a fin di bene. Honor voleva lasciarmi con la protezione dell'ignoranza...ma non aveva tenuto conto che ero spaventosamente sensibile, abituata com'ero a muovermi senza infastidire nessuno. Le lasciai comunque credere in quello che voleva mostrarmi.

Anche la mia era una bugia pietosa ma volevo che la mamma sorridesse...prima o poi.

 

A quel pensiero, chiusi gli occhi. Volevo che soffrisse. Volevo che subisse lo stesso dolore che aveva provocato a mia madre...ma i miei desideri non si avverarono. Don Escobar, malgrado tutto, continuava a frequentare le stanze della prima classe, accompagnando i passeggeri e dispensando sorrisi.

Sembrava lieto e privo di preoccupazioni, felice di poter cominciare una nuova vita...ed io lo odiavo sempre di più.

Mangiavo, forzata dal suo sguardo. Se mai avessi avuto desiderio di morire d'inedia, non avrei potuto esaudire nemmeno un simile proposito, per quanto fosse assai a portata di mano. Don Ignacio controllava ogni mio movimento, badando che mangiassi, senza lasciare niente, senza che potessi rigettarlo, se avessi voluto. Lui mi avrebbe fatto ingoiare tutto, anche se lo avessi rovesciato a terra. Questo pensiero non era una paura recondita ma una certezza.

Non mi restò altro che il sogno, unica e ingannevole valvola di fuga da quel Mondo, ai miei occhi, sempre più orribile. Vedevo mio padre andare e venire dalla prima classe, con abiti sempre nuovi e profumi sempre diversi addosso.

Non mi disse più nulla.

Né un rimprovero.

Né una minaccia.

Pareva lieto e sereno come un efebo.

Come se tutto il male arrecato non fosse mai esistito.

 

 

 

 

Il giorno dell'arrivo in quella che era la nostra destinazione, mio padre irruppe nella cuccetta all'improvviso, cogliendomi alla sprovvista. Ero così abituata a mangiare e dormire da rimanere come intorpidita da quell'ingresso tanto brusco. Una volta ricomposta, lo guardai.Indossava un completo scuro, simile a quello che aveva portato quando passeggiava nei pressi della città di Cordoba.

-Figlia- disse- è il momento di scendere. Prendete uno dei vestiti che ho messo sul letto e vestitevi.-

Non feci domande. Quanto accaduto era bastato ad insegnarmi di non irritare mio padre più del dovuto e, dopo il mio tentato suicidio, avevo imparato a temere la morte quanto bastava per forzarmi a sopravvivere, al di là di ogni sofferenza.

Fissai laconica il paesaggio oltre il vetro sporco dell'oblò.

Lo trovavo scuro e sgradevole...e questa sensazione aumentò quando scesi dall'imbarcazione, spinta da mio padre. Don Escobar aveva provveduto a prendere una nuova carrozzella, in modo da potersi muovere liberamente, senza il fastidio del peso del mio corpo. Per paradosso, gli fui grata di una simile premura. I pochi contatti fisici che avevo avuto con lui mi avevano svelato quanto li odiassi.

-Siamo a Le Havre-disse, interrompendo i miei pensieri e, con quelle parole, ebbe termine qualsiasi conversazione. Tutto ciò che mi rimase fu quello spazio immenso ed estraneo, accompagnato da parole di biasimo che, sapevo, non avrei rivelato al diretto interessato.

Le Havre era grande e rumorosa, avvolta da una frenesia che mi lasciava confusa e sgomenta. Nemmeno Lisbona, intrisa dell'odore del merluzzo e del pesce dell'oceano, era riuscita a colpirmi in quel modo. Le urla ed il vociare intorno mi scuoteva, percuotendomi come un bastone che colpisce una campana di ferro, facendomi vibrare, come una cassa di risonanza. Istintivamente mi chiusi nello scialle che tenevo attorno al corpo, nel tentativo di coprirmi da quelle persone. Alcune erano semplici operai del porto, altri erano venditori ambulanti, altri ancora semplici straccioni che elemosinavano, attaccandosi ai passanti. Quella vista mi spaventava maggiormente.

Non avevo mai visto così tante persone intorno.

Non riuscivo a contarle.

Con i loro abiti pesanti e grezzi.

Con le loro mani ruvide.

Con il tanfo d'umanità che si portavano addosso.

Immersi in quella massa, mio padre ed io ci avventuravamo, scivolando sinuosi con la stessa grazia di una biscia sull'erba. Io mi coprivo più del necessario, terrorizzata da quella folla che mi sembrava così nuova e terribile. Così facendo, mi avvicinavo a lui, senza veramente volerlo. Poi mi accorgevo della distanza ridotta e mi ritraevo, riproducendo un movimento simile al mare sulla spiaggia. Non volevo toccarlo più del necessario ma era un pensiero che non potevo realizzare pienamente.

Quel viaggio sembrava non finire mai.

Percorremmo quel tragitto nel silenzio più profondo che avessi mai sentito. Un'assenza di parole che sapeva d'ineluttabilità. Ancora una volta, quel mutismo mi ribadiva che non potevo fare niente per cambiare quanto stava avvenendo. Durante quel viaggio, dopo aver fallito i miei propositi ed aver sperimentato cosa Don Escobar poteva fare, nel malaugurato caso in cui non fossi riuscita a raggiungere Honor, avevo messo da parte il mio desiderio, seppellendolo nell'apatia. Tutto passa era solita dirmi Donna Escobar, con un sorriso triste.

Tutto passa.

Le cose liete e quelle tristi.

Così mi raccontava...ma in quel momento tutto mi sembrava vuoto e spento. Non avrei mai potuto accogliere quelle parole con animo sereno. Ero insieme all'uomo che aveva rovinato tutto, come potevo accettare una simile situazione? La risposta era una ed una soltanto: dovevo, per sopravvivere, anche se il futuro mi spaventava, così tanto da togliermi il fiato.

 

 

 

 

 

 

Lentamente, in modo quasi impercettibile, il paesaggio mutò. La zona frenetica del porto lasciò il posto alla periferia della città. Le bettole e le locande, intasate di marinai, furono sostituiti da vie ampie e luminose, costellate di alberi. Anche il tanfo di umanità, che prima mi aveva disgustato, sparì di colpo, inghiottito da quegli spazi inattesi.

Mentre mio padre stringeva con una mano la mia carrozzella e con l'altra teneva stretto a sé i propri averi, io fissavo silenziosa le persone che incontravo. Indossavano abiti di fattura diversa, rispetto a quella che avevo visto fino a quel momento. C'erano donne con eleganti cappellini ed abiti abbinati che passeggiavano insieme ai loro compagni. Quel modo di fare appariva completamente estraneo ai miei occhi.

Honor non era mai uscita dalla dimora degli Escobar, se non per le feste religiose. Non aveva nemmeno rivolto dei toni così scherzosi a mio padre, anche prima che tutto declinasse fino al tragico epilogo. Le risate dei passanti colpivano i miei ricordi come aghi ghiacciati, lacerando un'anima che ormai aveva perso il conto delle ferite. Era tutto così nuovo e strano da farmi dubitare della loro veridicità.

Giungemmo infine in una piccola chiesa dalla pietra scura. Aveva una forma piccola e vagamente dimessa, dai colori grigi e foschi.

Quella vista mi lasciò completamente indifferente ma mio padre, non appena vide l'edificio, si mosse verso quella direzione. Camminammo fino all'ingresso, dove trovammo una donna vecchia e grassa. -Buongiorno, vogliamo parlare con il parroco di questa basilica.-disse, con un tono deciso e dimesso insieme.

-Chi cercate?-chiese, sospettosa, squadrando entrambi con i suoi occhi piccoli.

-Ho una lettera da parte dell'ambasciatore Louis Anjoux, di stanza a Lisbona. Mi ha detto di consegnarla al parroco Don Armand.-rispose, studiando la donna con finta indifferenza. Sentii la voce di mio padre scivolarmi accanto, come un corso di acqua invernale. Mi venne spontaneo guardare verso il cielo ma le nuvole che viaggiavano sopra la mia testa, non mi lasciavano il calore che cercavo.

La donna lo guardò. -Lo informerò subito. Aspettate nel giardino.-rispose, prima di entrare nuovamente nell'edificio.

 

 

 

 

Il giardino della chiesa era piccolo ma ben curato. Alcune piante, con dei fiori violetto, crescevano nei pressi del muro di pietra grigia, accompagnando un albero dalla corteccia nera. Un vento umido scuoteva pigramente le fronde, penetrando nella stoffa.

Mi avvolsi ancora di più nello scialle che avevo intorno al corpo, nel tentativo di ricevere un po'di calore. La luce lattiginosa che usciva dalle nuvole non riusciva a raggiungermi davvero.

-Bonjour, Monsieur Escobar- disse una voce, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Udendo il nome di mio padre, mi girai di scatto...e fu allora che vidi un uomo tarchiato e dai capelli bianchi. Indossava una tonaca nera ed una croce dorata si stagliava sul suo petto. -Ho saputo che siete un amico di Louis. Ditemi la verità: sta bene?-chiese.

Mio padre annuì. -Ha un ruolo molto importante nella città di Lisbona ed è un amico sincero e leale. Sono molto fortunato ad essere in buoni rapporti con lui.-disse.

Quella frase, unita alla vista degli incontri che avevo visto nella capitale portoghese che ricordavo, per mia sfortuna, con dovizia di particolari, era così stridente nella mia mente da sembrare quasi divertente. Fu difficile, per me, trattenere le risa...ma non avevo scelta. Non dubitavo, infatti, che mi avrebbe schiaffeggiato, se non avessi resistito.

-La lettera dice così-convenne l'uomo- e mi ha anche riferito delle vostre difficoltà. Iddio vi ha comunque assistito, dal momento che i viaggi dal vostro Paese sono estremamente ardui, in questo periodo.-

Don Escobar annuì, mantenendo l'espressione compita con cui si era presentato all'inizio. -Ebbene, è mia intenzione cominciare una nuova vita in Francia. La Spagna ha dato molto alla mia vita ma è densa di ricordi che non amo trascinarmi dietro.-fece, apatico- Immagino che saprete cosa vi è scritto nella lettera.-

Il parroco scorse rapido il foglio. -Naturalmente, monsieur. Devo comunque dirvi che non posso accettare completamente tutto...e sapete bene perché. Senza dare garanzie, solo un folle darebbe il suo consenso.- disse.

Mio padre non batté ciglio, almeno in apparenza. Non mi sfuggì però il modo in cui aveva irrigidito le gambe. Quel gesto mi fece rabbrividire. Lo faceva spesso, quando le cose non andavano come desiderava. Spesso precedevano il momento in cui la mamma otteneva un nuovo livido, quando il matrimonio dei miei genitori scivolava nella sua china finale. -Avete pienamente ragione. La mia richiesta sarebbe eccessiva...ma non ho fretta. Louis ha sempre il vizio di dare più di quanto riceve.-commentò apatico.

Il parroco annuì, consapevole della verità dietro a quelle parole. -La vostra severità nei confronti della nostra comune conoscenza mi conforta. Louis tende a circondarsi di pessime amicizie ed è raro che si circondi di gente così schietta- concesse, con indulgenza- Siete i benvenuti in questa dimora del Signore. Immagino che non abbiate un alloggio.-

-Avete perfettamente ragione. Non abbiamo avuto il tempo di preparci adeguatamente.-rispose mio padre, con un tono che non ammetteva repliche. Mi venne spontaneo guardare fisso il prete.

Pareva sorpreso, dalla prontezza di quella frase. Non si aspettava che troncasse la conversazione in quel modo. Lo vidi aggrottare la fronte, salvo poi rilassarla quasi subito, con la piega cordiale con cui ci aveva accolto. Sperai che non facesse domande. Pregai con ogni fibra del mio essere che non chiedesse spiegazioni...perché sapevo che le risposte di Don Escobar, infarcite di nuove menzogne, avrebbero aperto nuove ferite.

-Siete il benvenuto. La mia foresteria è aperta a voi e a vostra figlia per tutto il tempo che occorre. Usatela come meglio credete.-disse.

 

 

 

 

La vecchia che ci aveva aperto la porta della chiesa, era la perpetua del parroco. Si chiamava Marthe e viveva insieme al sacerdote da molti anni. Ci indicò i luoghi dove potevamo alloggiare, gli orari in cui avrebbero servito il cibo e le regole del posto.

Mentre così faceva, non smetteva di squadrarci, soffermandosi su di me con un'insistenza che mi spinse, mio malgrado a stringermi alla mano di mio padre. Fu un gesto spontaneo, dovuto alle sensazioni sgradevoli che quella sconosciuta mi procurava. Erano le stesse occhiate che rivolgevano alla mamma, nell'ultimo periodo che avevamo trascorso insieme a Cordoba.

Quando però alzavo la testa, vedendo che quei palmi appartenevano al mio genitore, mi allontanavo di scatto.

Mio padre non dette segno di accorgersene ma accolsi con diffidenza quell'ignorarmi a bella posta. Non credevo che non si fosse accorto di nulla, tanto che, memore della brutta esperienza, durante la traversata, attesi la pena che sentivo mi sarebbe spettata.

La aspettai...ma non arrivò.

Pensavo che Don Escobar mi avrebbe nuovamente colpito, una volta rimasto solo con me ma non fece nulla di tutto questo.

Quell'esito lasciò in me una strana sensazione.

Avrei dovuto essere felice per non aver subito l'ennesima percossa e invece non lo ero. Per la prima volta, venni colta dal dubbio. Non avrei dovuto pensarla così. Quella mano, che avevo imparato a odiare era la stessa che mi aveva accarezzato la testa, mesi prima. Quella voce, bassa e sotterranea, era la stessa che mi cantava la ninnananna nei giorni di afa.

Eppure era un assassino.

Io lo sapevo.

Qualcosa si spezzò di nuovo.

Non avrei mai dovuto provare emozioni del genere. Dovevo odiarlo, dovevo scaricare su di lui tutto quello che stavo passando...eppure mi ritrovai a rimpiangere quei giorni lontani, quando il sole picchiava sui mattoni di tufo e l'aria era impregnata del profumo di limone e gelsomino. Odio e nostalgia cominciarono a duellare, in una guerra che avrebbe lasciato solo macerie.

Avrei davvero voluto tornare indietro...per rivedere Honor sorridere di nuovo a suo marito e a me.

 

Capitolo di passaggio. Il viaggio di Soledad non è ancora finito. Non so se sono riuscita a trasmettere i suoi sentimenti. Vorrei ringraziare tutti coloro che leggono. Considerando che sono sotto tesi, vi dico subito che qualche svista ci sta. Non so se ci sono ma metto le mani avanti, per prudenza. Non è proprio un avviso ma è un'informazione tecnica su come funziona la mente svitata dell'autrice di questa storia. Scusate il ritardo ma ho un mattone di tesi tra le mani e questa storia non è facile. Grazie a tutti.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** TOPI ***


Altro capitolo di passaggio. Chiedo scusa per il ritardo ma ho un bell'impegno e quindi ho lasciato questo pezzo in un angolo, prima di decidermi a pubblicarlo. Spero che sia venuto bene. Il viaggio di Soledad non è finito comunque.
 
 
TOPI
 
 
La chiesa di Don Armand era di medie dimensioni. Là vivevano il parroco e la sua perpetua, unici abitanti dell'edificio, fino al nostro arrivo. Fummo i primi ospiti della foresteria della parrocchia, poiché la maggior parte dei visitatori erano concentrati nel porto e non si avventuravano quasi mai nella zona residenziale. Mio padre, dopo il primo giorno, cominciò ad entrare ed uscire da quelle mura, partendo alle luci dell'alba e tornando la sera, dopo il crepuscolo. Non lo vedevo mai.
Rimanevo spesso in compagnia della perpetua, mademoiselle Marie. Nè io né lei eravamo felici di questa situazione. La donna non aveva fatto mistero di non amare gli infanti ma non ebbe modo di lamentarsi con me.
Ero una bambina silenziosa, che non piangeva mai.
Quell'assenza di parole fu un fattore che apprezzò fin dall'inizio, anche se non mancava di dire qualche velata critica al comportamento del mio genitore...e non poteva essere diversamente. Non era sfuggito a nessuno quel colore della pelle, troppo scuro per essere semplicemente frutto del sole della Spagna ma solo Marie ebbe davvero motivi di esporre qualche lamentela. Spesso la vedevo chiudere e contracchiavare tutte le serrature e, come se non bastasse, controllava gli averi della chiesa con maggiore attenzione rispetto al solito.
Non ne capivo la ragione ma non mi piaceva.
Don Armand ci aveva ospitato nella sua parrocchia, rispettando la promessa fatta all'ambasciatore. Se fosse entusiasta del nostro arrivo o simulasse, questo non l'ho mai saputo. La sua perpetua, Marie, non aveva la stessa capacità nel dissimulare le proprie emozioni. Malgrado fossi il ritratto del silenzio, era solita seguire con lo sguardo ogni mia mossa, con un'espressione di sospetto misto a pietà. Quelle maniere divennero una triste abitudine che non aiutò a scacciare da me quell'odioso senso di oppressione che sentivo dentro e che lasciavo fluire nelle interiora, impedendogli di uscire. Ben presto, immersa in quella stasi odiosa, presi coscienza del mio nuovo stato.
Potevo vedere il cielo.
Potevo guardare la città dalle finestre della casa.
Potevo sentire il tiepido calore di quella luce lattiginosa che penetrava dalle finestre.
La diffidenza della perpetua era una fedele compagna di quelle giornate, la sua voce una melodia sgradita e inevitabile. In quel periodo, provai nostalgia per la Spagna, per i muti pomeriggi nella mia scura casa di Cordoba, quando vivevo in compagnia della mamma e di una dama di compagnia. Si chiamava Ines ed era una donna dai tratti lusitani, che non parlava mai, se non interrogata. Spesso mi chiedevo come avrebbe reagito, sapendo che ero in quella foresteria, inchiodata ad una sedia a rotelle. Avrebbe parlato? Si sarebbe arrabbiata?
Non lo avrei mai saputo.
Ines era stata congedata dal suo lavoro tre mesi prima della morte della mamma. Quel particolare mi rattristò e consolò insieme. Ricordo che, al momento della partenza, quella dama aveva pianto a lungo, mentre si avvicinava, dritta sulla schiena, alla carrozza che aveva noleggiato per tornare dalla sua famiglia.
Mentre ero in quella chiesa, la nostalgia per lei era scoppiata in modo improvviso e insopportabile. In passato, trovavo fastidiosa quella persona, per via della sua severità...ma, lì, in una terra dove sentivo una lingua molle ed estranea, quella mancanza acquistava improvvisamente un significato diverso, quasi di dolcezza, benché questa fosse una qualità assolutamente inappropriata per quella dama.
Non smettevo però di rimpiangerla, soprattutto quando sentivo addosso l'occhiata pesante, ossessivamente sospettosa della perpetua. Mi sembrava di soffocare...mentre lo stesso non poteva dirsi del mio sciagurato genitore. Non aveva mutato affatto le sue abitudini e, malgrado tutto, continuava ad uscire ed entrare dalla chiesa con la medesima sicurezza con cui era arrivato. Mi domandai come facesse.
Mi chiedevo come potesse fare una cosa simile. Aveva commesso ogni dolore possibile alle persone che gli stavano attorno...perché continuava a vivere con quell'espressione sicura stampata in volto?
Come poteva non sentire gli sguardi che scivolavano impietosi su di lui? Non lo avrei mai saputo.
Spesso sognavo Honor...ma erano visioni che non amavo ricordare. Il suo viso mi fissava vacuo, immoto nella posa della morte. Un'espressione terribile che mi lasciava addosso brividi di gelo che non riuscivo a scacciare per ore. Anche farmi toccare da Don Escobar aumentava quel freddo ma si trattava di eventi sporadici e scarni, giacché il mio genitore era restio a qualsiasi contatto fisico.
Quel pensiero era l'unica consolazione che potessi avere, malgrado la presenza costante degli incubi. Vedevo il viso di mia madre, la sua espressione immota ed il suo tentativo di ghermirmi, insieme ad una fosca risata che non aveva niente di umano.
Ogni volta che ciò accadeva, mi svegliavo di soprassalto, con un urlo stretto in gola ed il freddo fin dentro le ossa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mio padre non riposava nella mia stanza.
La perpetua non aveva gradito, sostenendo che era contrario ad ogni forma di decenza. Le fui grata di quella scelta ottusa e bigotta perché non avrei tollerato la presenza di Don Escobar ancora a lungo ma devo ammettere che mio padre non mostrò né fastidio, né interesse per questa negazione.
Le ruote della carrozzella non producevano nessun suono e quel particolare mi disorientò. Dopo aver perso il mio primo mezzo, a seguito dello sciagurato volo nelle acque marine, mio padre era riuscito a comprarne un'altra, anche se usata. La trovai poco agevole, malamente oliata, tanto da produrre un fastidioso stridio ad ogni moto...poi tutto cambiò. Una mattina smise di far rumore, senza una ragione apparente. Pensai che fosse opera del parroco, benché quella risposta rapida mi suonasse falsa e priva di fondamento.  Il prete era scarsamente interessato alle questioni pratiche, per cui una simile spiegazione finì ben presto per apparirmi insensata. Ugualmente mi rifiutai di pensare che fosse mio padre. Non riusciva a venirmi spontanea una simile relazione, anche perché Don Escobar si era sempre comportato come un perfetto gentiluogo. Immersa nel silenzio della notte, andavo lungo i corridoi della foresteria. Avevo pensato di andare nella cappella della chiesa, per trovare un po'di sollievo a quella mancanza di sonno che non se ne andava via.
-...e l'ultima volta, sapete? Ha fatto anche questo. Ha guardato nell'argenteria della sacrestia...In nome di Dio, se quella bestia prendesse i sacri oggetti...-fece una voce stridula e leggermente strisciante.
Mi fermai di botto, udendo quel tono e, nascosta in un angolo buio, mi misi in ascolto.
-Non temete. Quell'uomo è una persona per bene. Ha dato la sua parola e, finora, non ha mai avuto modo di darmi pensiero. In questi giorni, ha detto che ha preso in seria considerazione il mio suggerimento di cercare un lavoro...-disse ma la donna lo interruppe con una rozza risata.
-Ma chi sarebbe tanto folle da assumere un pezzo da forca di quella risma...un senza Dio di tal genere...-continuò,sputando veleno ad ogni sillaba.
-Vi prego di tacere. E'un uomo battezzato.-la informò il parroco.- Inoltre ha il rispetto di Louis, per cui abbiate la decenza di non proferire altre parole così ostili.-
A quelle parole, seguì un silenzio.
Io rimasi immobile, la voglia di pregare improvvisamente svanita. Quelle parole così cattive si conficcavano dentro, facendomi più male di quanto credessi. Don Escobar era pur sempre mio padre...e quella donna parlava di lui in un modo che non riuscivo a sopportare. Era strano. Avrei dovuto essere solidale nell'odio nutrito verso il mio genitore...ma non ci riuscivo.
Era una contraddizione a cui non sapevo trovare una risposta, troppo schiava dei confini netti, troppo sciocca per capire le sfumature. Sapevo solo che quella vecchia cattiva mi accusava di cose che non avevo commesso e che non conoscevo nemmeno.
Quel pensiero fu la scintilla che mi spinse a dare inizio alla mia piccola e silenziosa lotta contro quella megera...ma fu un episodio che mi fece scattare qualcosa dentro.
La vecchia non smetteva di mugugnare tutte le volte che vedeva mio padre, riservandomi sguardi colmi di pietà.
Un giorno, la vidi in cortile, intenta a tendere delle coperte.
-Oh, buongiorno, bambina.-disse, non appena mi notò.
-Buongiorno-risposi sommessamente.
La donna prese una delle stoffe. -Dove state andando?-chiese, sospettosa.
-A pregare.-feci, guardandola.
La perpetua annuì. -Una magnifica scelta cara...d'altra parte, occorre servire al meglio Nostro Signore e rendergli la giusta gratitudine.- mormorò, con un tono per nulla casuale.
-Mia madre mi ha insegnato il valore della preghiera.-risposi, studiandola.
-Allora vi ha insegnato bene.-commentò...ma la piega della bocca rimase ferma in una linea colma di disgusto e supponenza.
Quel tono non mi piacque.
-Ho pregato per lei. -aggiunsi, studiandola diffidente.
-Naturalmente, voi siete una brava bambina.-fece, mantenendo lo stesso tono di prima. -Ad ogni modo, non basta essere buoni. Purtroppo, non basta.-
Non mutai espressione ma non potei negare a me stessa quanto fossi turbata. -Perché? Padre Manuel mi ha detto che è giusto che io preghi se voglio essere una brava bambina.-risposi, irrigidendomi al ricordo del prete che era solito regalarmi biscotti di mandorle durante le feste religiose, insieme agli altri bambini che seguivano la lezione di catechesi a Cordoba, tanto tempo prima.
La vecchia rise. -La volontà non basta, bambina. I peccati sono insidiosi e non possono essere scacciati con un superficiale pentimento. L'anima sa essere molto debole.-rispose -Ci sono persone che, per quanta volontà possano avere, non riceveranno mai alcun perdono perché la loro natura è maligna.-disse, fissandomi.
Quella frase non era caduta in modo casuale ed io ero così abituata ad osservare che non fu difficile cogliervi qualcosa dietro. Le parole della vecchia mi facevano venire in mente mio padre. Mi chiesi se quello che diceva fosse vero...e le ferite sanguinarono di nuovo. Don Escobar non era un uomo affettuoso.
Non l'ho mai visto sorridere ma questo importava poco alla mamma. Mi diceva che non era nella sua natura farlo...ma non sapevo se parlasse così per rassicurarmi sull'affetto che nutriva per me, oppure per nascondermi una realtà triste e opprimente. Non l'ho mai saputo. Era un segreto che custodivano Honor e Don Ignatio...uno spazio che a me era completamente precluso.
-Voi dite?-domandò.
La perpetua annuì. -Ogni buon cristiano sa che la fede non basta per salvare la propria anima. Ci vogliono anche le opere.- continuò, con fare convinto-Ecco perché le brave persone si distinguono con azioni pie e caritatevoli. Solo un animo probo lo fa. Gli altri non sono che peccatori.- Mosse alcuni passi -Voi sapete perché gli animi corrotti alla fine vengono puniti?-
Quella domanda, posta in modo incurante, non ottenne risposta. In qualche modo, mi rifiutai di pensarlo perché temevo che potesse emergere la mia colpa. Con il mio sciocco gesto, mi ero negata la possibilità di vedere mia madre.
Avevo preso l'abitudine di frequentare assiduamente la chiesa, con la speranza di porre rimedio alla mia mancanza...ma come ero perseverante nella preghiera, altrettanto non riuscivo a trovare nei miei sogni Honor ed il suo gentile abbraccio.
A volte mi domandavo se Don Escobar vivesse nei sogni i momenti passati con lei...ma ormai è impossibile saperlo. Avevo così tanta paura da non riuscire a chiedere una cosa simile.
Così rivolsi la mia attenzione a quella vecchia dagli occhi cattivi. -Voi dite che coloro che hanno commesso una cattiva azione siano immeritevoli di perdono?-domandai, pensando alla mia condizione.
-I peccati hanno un peso enorme, specie se ripetuti con sottile compiacimento. D'altra parte, chi pecca prova un sottile piacere nel farlo.-rispose, guardandomi fisso.
Quella vista mi fece vacillare ma le gambe erano insensibili ai miei voleri e così rimasi inchiodata al mio posto. Non vi era modo di sfuggire a tutto questo.
Non c'era più un luogo per me.
La vita isolata della mia prima infanzia, ridotta al cortile del palazzo Escobar di Cordoba era diventato il mio mondo. Lo avevo trovato soffocante e tetro...ed ora mi mancava più che mai. Immediatamente il peso del mio peccato gravò di nuovo nella mia anima, tirandola giù e rendendola grave come il mio corpo.
Ero diventata anima dannata, senza possibilità di riscatto.
-E così cara- mormorò la perpetua- chi cresce nel peccato non può che commettere il peccato. Non è possibile ottenere redenzione.-
Quella verità mi colpì in pieno, facendo vacillare le poche certezze che avevo. Guardai allora gli occhi di Mademoiselle Marie e vidi un tono malevolo e pieno di supponenza. -E'così cara- disse- ma voi non avete alcuna colpa.-
La fissai a lungo.
Era molto diversa dalla Senorita Ines. La dama di mia madre era sempre silenziosa e impenetrabile ma mi trattava bene, senza eccedere con leziose parole. Mademoiselle Marie, invece, usava parole dolci e sguardi carichi di sospetto.
Non mi piaceva ma non avevo modo di andarmene. Lei mi avrebbe sempre seguita e la carrozzella rendeva i miei spostamenti piuttosto difficili, così rimanevo ad ascoltare la sua voce odiosa. -Vostro padre dove va?-chiese.
-Non lo so-risposi, guardandola fisso.
La perpetua scosse il capo. -Povera piccola.-mormorò, mentre prendeva alcuni piatti- Un padre non dovrebbe lasciare la propria figlia da sola. Io non lo farei mai.-
-Perché dite in questo modo?-chiesi, inarcando la fronte.
Il tono della donna si fece improvvisamente tagliente. -Dico semplicemente che quell'uomo ha qualcosa di losco. Dimmi, bambina, è vero quello che ha detto, ovvero che ha lasciato la Spagna perché ingiustamente accusato di un crimine non commesso?-fece, alludendo alla scusa che Don Escobar aveva raccontato al parroco.
Istintivamente mi fermai.
-Non è vero che è rimasto vedovo?-chiese di nuovo.
Nemmeno allora aprii bocca. Lasciai il cucchiaio che avevo usato per mangiare la zuppa. Era l'unico piatto che Marie ci preparava, malgrado avessi visto la dispensa piena di ogni tipo di leccornia. Mio padre non diceva nulla, del tutto ignaro o, forse, disinteressato, alle sue maniere.
Per l'ennesima volta, mi chiesi perché.
Perché aveva voluto che venissi con lui?
Non sarebbe stato meglio lasciarmi in Spagna, sola al mio destino come le mie sorelle maggiori? Forse era vero che il mio nome era carico di significati mesti, malgrado fosse legato al culto della Vergine. Mi ritrovavo completamente abbandonata ad una sorte incerta e, per quanto fosse odioso e insopportabile ammetterlo, dovevo appoggiarmi all'unico individuo che poteva permettermi di vivere con meno angosce. Provai a rispondere...ma la voce non mi arrivava alla gola e così mi limitai a muovere la testa.
-Oh-disse- che peccato. Povera piccola...lasciata da sola...in questo mondo corrotto.-
Camminò qualche istante, muovendo il corpo grasso e molle. -Pover uomo, ha dovuto sopportare molte cose...chissà quali dolori hai sofferto...-
Istintivamente, mi morsi a sangue il labbro. Non amavo quel tono insinuante, come detestavo la sua finta cortesia.
-Immagino che anche vostra madre abbia avuto molte angosce ma, dopo tutto, siete una famiglia molto sfortunata.- continuò – Iddio opera in modi strani e imperscrutabili...-
-Mia madre è morta.-feci, interrompendo quelle parole per me prive di senso.
Quella era l'unica verità a cui potevo credere. Rivedevo l'espressione di Honor irrigidita nella morsa della Morte, gli occhi rivolti verso mio padre perdere la loro luce. Non potevo dimenticare la sua colpa e la vita che aveva tolto anche a me quel giorno. Marie mi scrutò con sconcerto. Strinse le labbra in una smorfia di disgusto, salvo poi riprendere la stessa espressione accondiscendente di pochi istanti prima. -Povera piccola, mi dispiace molto che tu soffra così tanto. E'pur sempre tua madre, per quanto sventurata...ed è ovvio che la vostra condizione sia dovuta a ciò. Non può che essere così del resto.- disse, mentre mi dava le spalle.
-Mia madre non ha colpe.-replicai.
Marie si irrigidì. -Invece sì. Voi parlate con affetto ma nulla toglie che vostra madre abbia agito sconsideratamente...ed è stata punita. Altrimenti non vi avrebbe mai lasciato sola.- rispose, fissandomi.
Quelle parole mi trafissero.
Honor mi aveva lasciato.
-Nessuna madre lascerebbe la propria figlia ma posso solo immaginare la sua sofferenza...d'altra parte, sposarsi con un tipo losco porta sempre a questi risultati e quando la lussuria ha il sopravvento, è evidente che il peccato domini tutto.- disse, mentre lasciava la cucina per raggiungere la sagrestia. L'odore del cibo era denso. Tra alcune ore avremmo mangiato e Marie aveva preparato il pranzo per il parroco e per sé stessa. Guardai le pietanze. Erano diverse da quelle Don Escobar ed io mangiavamo: ricche di salse e di carni saporite, erano in dosi abbondanti...mentre a noi toccava spesso una zuppa insapore e povera, così priva di sostanza che in quel periodo sentivo i miei vestiti più larghi, tanto da farmici quasi annegare dentro. Ero dimagrita molto...e compresi ben presto perché. Anche se il parroco ci ospitava, non voleva dire che ci accogliesse con generosità.
Una delle pentole era abbassata, quel tanto che bastava per mostrare un arrosto. Mi avvicinai a quella carne.
Padre Armand e Marie mangiavano riccamente, trattandoci come ospiti sgraditi. Mio padre aveva deciso di lasciarmi da sola, in quel luogo umido e freddo, insieme alla mia ansia e alla paura di un futuro sempre meno sereno.
Mio padre, la causa delle mie disgrazie, mi aveva abbandonato.
E' evidente che il peccato domini tutto aveva detto la perpetua...un lampo d'ira mi attraversò. Come osava quella donna insinuare che mia madre fosse una persona del genere?
Fu così che sputai nella carne destinata al prete e a Marie, decretando la mia piccola guerra personale. Avevo molte colpe, lo credevo...ma, di certo, le calunnie della donna erano più di quanto potessi sopportare. Fu così che iniziò la mia piccola guerra personale contro la perpetua.
Durante tutta l'assenza di Don Escobar, mi presi l'impegno di rendere la vita di Marie il più difficile possibile. Mettevo ogni mia energia nel rovinarle il lavoro, ben sapendo che quella donna non poteva toccarmi. Ne ero convinta.
Facevo le cose più disparate.
Sputavo nei loro piatti.
Mettevo di proposito lo zucchero nelle pietanze salate, rovinando il pasto.
Aggiungevo qualche ramo verde nel focolare dove arrostivano carni e pesci, rendendo il sapore meno piacevole.
-Marie-disse un giorno Padre Armand- state bene? La vostra cucina non è più come prima.-
-Mi...mi dispiace- balbettò la donna.
-Immagino che siate stanca. Riposatevi qualche giorno.-disse.
Vidi quei rimproveri a breve distanza ma quella vista mi provocò un sottile piacere. La mia rabbia si era scagliata su quella vecchia cattiva e malevola...dandomi un sollievo momentaneo. Forse non avrei mai più rivisto Honor...ma avrei difeso il suo onore, per quanto piccole fossero le mie forze.
 
 
 
 
Tempo dopo, con il proseguire dei dispetti, Marie iniziò a dubitare di me...ed io, infine venni scoperta. -Finalmente vi siete tradita, piccola miserabile-disse, prendendomi malamente per un braccio e tirandomi. Io mi aggrappai alle maniglie e così fui trascinata via.
-Fin da quando siete venuti qui, tu e quello zingaro di tuo padre, ho capito che siete una razza maledetta. Avete portato solo guai.- continuò rabbiosa- Ma ora vi sistemo io!-
Invano feci resistenza.
Fui trascinata fino ad una stanzetta scura. Non l'avevo mai vista prima di quel momento.
-Padre Armand mi ha detto di non farvi del male...ma questo non significa che non vi punirò ugualmente. Ve ne rimarrete qui, fino a quando imparerete il valore della riconoscenza.- disse, dandomi uno spintone e chiudendo a chiave la porta.
Nemmeno badò alla forza usata...e tutto fu normale.
Fu normale il tonfo secco dell'uscio che si serrava.
Fu normale che la carrozzella su cui stavo dondolasse pericolosamente.
Fu normale che oscillasse, fino a eccedere.
Fu normale perdere l'equilibrio.
Caddi al suolo con un tonfo sordo, attutito appena dagli abiti ormai troppo larghi per me.
Un po'stordita dal brusco movimento, percepii comunque, con estrema chiarezza il dolore partire dalle gambe e raggiungere il resto del mio corpo, diretta conseguenza dell'urto..un dolore così forte da farmi urlare.
La mia voce rimbombò nella stanzetta, ritornando indietro in un suono indistinto. Aprii gli occhi. Ero in una stanzetta in penombra, con un perenne e odioso odore di salamoia e vino, un tanfo così forte da farmi avere un capogiro.
Dove sono? Mi chiesi, guardandomi incerta.
Alcuni movimenti, provenienti dagli angoli più bui di quel posto, catturarono la mia attenzione. -Chi c'è?-chiesi, mentre fissavo ogni singolo punto, per quanto fosse impossibile vedere bene tutto...ma ricordo bene una cosa.  Vidi dei puntini luminosi, poco lontani da me. Istintivamente mi rannicchiai. Il cuore martellava fusioso, mentre mi pareva di udire un passo strisciante e infido. Lì per lì, non seppi dire cosa fosse...ma quando sentii altri suoni, piccoli e striduli, non potei fare a meno di cacciare un urlo.
Erano topi.
 
 
 
Non seppi dire quanto rimasi. Il dolore della caduta non si era affievolito e, come se non bastasse, mi era sembrato che una parte del vestito si fosse macchiata, appiccicandosi alla pelle. Non seppi dire cosa fosse di preciso. Il tempo trascorso in quella cantina appariva lungo e interminabile e, all'odore stantio del posto, si era aggiunto anche quello penetrante dell'urina. Non avevo avuto modo di farmi cambiare ma la mia immobilità mi impediva di espletare i miei bisogni in un angolo. Rimasi dove ero caduta, su quel pavimento umido, sporco per natura e per i miei escrementi.
Marie non tornò più.
Sembrava essersi dimenticata di me...e quel pensiero mi gettò nella paura più profonda.
Nessuno avrebbe mai saputo dove fossi.
Nessuno sarebbe venuto a portarmi via di lì.
Nemmeno mi accorsi che avevo cominciato a singhiozzare.
 
 
 
 
 
All'epoca dei fatti, molte cose mi erano negate. Qualcosa, forse un velo di sottile premura nei confronti della mia giovane età, rendeva gli adulti restii a rivelarmelo ma anche questa involontaria gentilezza, dovuta alla presunzione che io non comprendessi, non mi risparmiava le cose spiacevoli...e forse il risultato era ancora peggiore.
Se avessi saputo, per quanto inaccettabile, mi sarei data pace per ciò che mi accadeva. Invece vivevo nell'ignoranza più tetra. C'erano silenzi che essi mi procuravano, per difendermi e silenzi che io stessa mi creavo, per tenermi lontana da una realtà sempre più orribile ai miei occhi.
Neppure ora riesco a credere a quanto ho vissuto.
Continuo a illudermi che le cose siano frutto di una fantasia deviata e perversa...ma ho ormai imparato a non retrocedere alla verità. Per quanto brutta e terribile, ella non mente.
 
 
 
 
 
Un rumore secco mi riscosse. Aprii gli occhi...ma fui costretta a richiuderli. Una lama di luce fendette il mio sguardo. Sbattei le palpebre più volte...e quando fui in grado di vedere, la nera sagoma di Don Escobar comparve davanti a me.
Lo vidi accucciarsi di fronte, rimanendo qualche istante a fissarmi. Io ricambiai, troppo debole per poter reagire. -Siamo rimasti troppo a lungo -mormorò -ora ce ne andiamo.-
Con un gesto leggero mi prese in braccio.
-Vogliate scusarmi- fece il parroco.
-Non ve ne è ragione-rispose Don Escobar- abbiamo approfittato a sufficienza della vostra generosità. Rimanere oltre sarebbe troppo.-
A passo cadenzato, raggiunse la porta. -Siamo tutti esseri umani e peccatori-disse, non appena passò accanto al religioso- ma questo non significa che approvi questo stato di cose. Per la vostra serenità, noi lasceremo subito la chiesa.-
Padre Armand sussultò.
-Ma...così presto...se è per Marie, io...- provò a spiegare.
-Non riferirò nulla a Louis. Ha già fatto troppo.-lo interruppe mio padre- Gli farò avere mie notizie ma quanto avvenuto non giungerà alle sue orecchie. Ha un animo buono e conserva un'ottima opinione di voi. Non sarò io a distruggere tutto questo. Addio.-
Ero esausta ma udii distintamente quello scambio di frasi. Tenendomi in braccio, mi condusse fuori dall'edificio e, sotto un'umida nebbia, raggiungemmo una carrozza a noleggio che se ne stava proprio di fronte. Don Escobar mi depose al suo interno, adagiandomi in un angolo. Poi si pose accanto a me. -Cocchiere, possiamo andare, come stabilito-disse, incrociando le braccia e guardando fisso di fronte a sé.
Il mezzo partì subito e, sotto quel moto oscillatorio, scivolai piano in un sonno senza sogni.
 
Scrivere questo capitolo è stata dura e ancora sono poco soddisfatta della forma. Il nome Soledad è legato ad un culto della Vergine ed è diffuso in Spagna. Il viaggio della nostra protagonista non si è ancora concluso ma scrivere questo capitolo è stato complicato, in termini di forma. 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** LA LENTA DISCESA ***


Benvenuti a questo nuovo capitolo della storia. Io vado avanti, sperando che la storia venga bene. Probabilmente, a breve cancellerò LEGAMI, ve lo dico subito. La storia prosegue in modo abbastanza piano.

 

LA LENTA DISCESA

 

Non so quanto dormii.

L'esperienza nella cantina della chiesa mi aveva indebolito più di quanto volessi. Così quando aprii gli occhi, mi ritrovai a guardarmi attorno con sgomento. Vedevo file di alberi e terre piene di mucche al pascolo ai lati della via. Sbattei più volte le palpebre. Il mare non c'era più. Perplessa, sollevai gli occhi verso l'uomo che condivideva con me l'angusto spazio della carrozza.

-Stiamo andando a Orleans-disse, notando la mia espressione perplessa -ci stabiliremo là.-

Avevo sentito parlare di quella città ma non immaginavo che quella sarebbe stata la mia destinazione. Non sapevo cosa dire e così mi limitai a scivolare nel mio silenzio, lasciando che gli occhi bevessero quel paesaggio.

Il viaggio durò molto ma questo non sembrò preoccupare Don Escobar. All'epoca non sapevo l'entità delle sostanze che mio padre possedeva ma ero così abbattuta e rabbiosa nei suoi confronti che non volevo avere molti contatti con lui. Mi rendo adesso conto che era un atteggiamento poco saggio ma avevo solo otto anni e molte, brutte esperienze alle spalle.

-Ci fermeremo tra poco ad una locanda. Mangeremo qualcosa e poi ripartiremo.- disse, con quel tono che non ammetteva repliche e che ormai conoscevo bene. Non c'era motivo di oppormi e temevo troppo la sua forza perché mi potesse venire il desiderio di rispondergli come avrei voluto. Mani che sanno accarezzare e picchiare allo stesso tempo fu il pensiero inevitabile mentre fissavo, senza volerlo i palmi del mio genitore.

 

 

 

 

 

Non sapevo quanto fossi affamata, fino a quando non vidi lo sformato di carne nel mio piatto.

-Mangia-disse Don Escobar, prendendo il piatto che aveva ordinato per sé.

Meccanicamente, ne addentai un boccone. Mi sembrò di mangiare un mattone, tanto era pesante ma le occhiatacce del mio genitore mi forzarono a ingoiare tutto. Man mano che proseguivo, però, mi resi conto che quella dose abbondante che avevo cominciato forzatamente, entrava senza problemi nel mio stomaco, fino a riempirmi e privarmi della debolezza che sentivo addossi dall'inizio del viaggio.

Una volta finito, Ignacio pagò l'oste e, sempre tenendomi in braccio, mi portò su una panchina che stava all'esterno, sotto un albero alto e scuro. -Siamo arrivati a metà strada ma penso che sia meglio raggiungere la nostra destinazione con maggiore comodità.-la informò ma a me non interessavano le sue parole e la sua noncuranza. L'odio che provavo per lui aveva lasciato il posto al disinteresse più profondo. I Rossignol non mi avevano voluto e, dal momento che la famiglia paterna non esisteva più, sapere che dovevo affidarmi a colui che aveva rovinato la mia vita era qualcosa che, alla fine, aveva smesso d'interessarmi. Avevo ormai preso atto che a nessuno importava di una bambina incapace di muoversi. Non ero buona né per un convento né per un matrimonio...come spesso sentivo sussurrare dalle comari che vivevano nei pressi della mia dimora di Cordoba, quando spettegolavano sotto una delle finestre della casa dove vivevo.

Alzai gli occhi, guardando il cielo sgombro di nubi.

Non c'era più possibilità, per me, di rivedere la mamma nell'Aldilà, così mi ero rassegnata a vivere quell'odiosa compagnia come un anticipo delle pene che mi attendevano, per via del mio folle gesto.

-La casa dove andremo a vivere si trova un po'fuori dalla città. Non avremo molti vicini ma credo che non ci importerà molto. Dovremo comunque andare in chiesa tutte le domeniche.-disse, fissandomi. Sentivo i suoi occhi addosso ma finsi di non curarmene.

-Le cose andranno diversamente, da questo momento in poi.-disse.

Chiusi gli occhi.

-Perché avete ucciso la mamma?-chiesi in spagnolo. Non seppi nemmeno perché lo domandai né, tantomeno, perché usai la mia lingua natale.

Don Escobar non parve curarsene molto.

-Perché non avete fatto pace con la famiglia della mamma?- domandai.

Ignatio giocherellò con i bottoni della propria giacca, fissandoli apatico. Era ben vestito ma non sembrava curarsene troppo. -C'è chi vede il benessere nel nome, come i Rossignol...e c'è chi tiene maggiormente ad avere una dispensa piena. Non seguire mai la prima via, chica, perché non ti porterà a nulla.- disse, passando dallo spagnolo al francese.

Allora quelle parole mi suonarono strane, quasi sfrontate.

Non era un modo di ragionare da nobile ma Don Escobar non aveva mai seguito le regole...ma questo non era strano. Avevamo sempre condotto una vita ritirata, senza ricevere molte visite per cui quella prospettiva di solitudine mi era del tutto indifferente.

Quando giungemmo alla carrozza, pronti a ripartire, vidi l'oste avvicinarsi. -Monsieur, il mattone riscaldato e la coperta pesante, come avete richiesto. Il pranzo al sacco è nella borsa...per vostra figlia.-disse, ricevendo alcune monete d'argento.

Quella premura mi disorientò. Incerta, lasciai che mi appoggiasse i piedi sopra al mattone riscaldato. Il calore si diffuse lentamente dalle gambe verso il resto del corpo, lasciandomi un profondo benessere.

Lo sportello della carrozza si richiuse e, sazia e con il sollievo del mattone riscaldato, mi lasciai cullare da quello strano tepore, chiedendomi cosa sarebbe successo da quel momento. Qualunque cosa fosse, comunque, Don Escobar sembrava avere le risposte...ed io, nella mia debolezza, non potevo che lasciarmi portare dalla sua corrente.

 

 

 

Percorremmo molte miglia, seguendo la linea morbida dei sentieri di campagna. Don Escobar non dette segno di voler conversare ed io mi beai del silenzio che mi era concesso. Lo sguardo viaggiava distratto verso la campagna, dove facevano capolino qua e là, come funghi, pigre mucche al pascolo.

Non ne avevo mai viste così tante ma mi guardai bene dal mostrare la sorpresa per una simile abbondanza. Pensai che la Francia fosse un mondo assai strano e, come se non bastasse, aveva un clima umido e noioso. Facemmo un paio di soste, fino a quando non giungemmo nei pressi di una locanda. Ad ogni cambio, Don Escobar si premurò di cambiare il mattone riscaldato con uno nuovo, come se avesse a cuore la mia condizione fisica. Tutto ciò mi sembrò assurdo e privo di ogni logica, giacché la mia salute mi rendeva inadatta a qualsiasi ruolo. Ma allora, continuavo a chiedermi, per quale ragione Don Escobar aveva preso me, una zavorra di carne e sangue nella sua fuga dalla Spagna?

In quel viaggio, assurdo e senza meta, le domande crescevano, anziché diminuire...ma mi promisi di non chiedere altro all'uomo che mi stava di fronte. Sapevo che dovevo accontentarmi delle sue risposte sibilline, dell'osservazione spasmodica dei suoi gesti che questi concedeva. Don Escobar non mi avrebbe mai parlato, se avessi forzato la mano. Al contrario, si sarebbe chiuso nel silenzio, lasciando il Mondo fuori. Se sapevo tutto questo, ciò era dovuto alla semplice spiegazione che anche io ero solita comportarmi così.

Per questo motivo, dopo qualche ora, spossata dal viaggio, mi addormentai di nuovo.

 

 

 

 

 

 

 

-Soledad? Svegliatevi, figlia mia- disse una voce carezzevole.

Aprii gli occhi, incontrando le iridi di Honor specchiarsi nelle mie. Quella vicinanza, mi fece ritrarre di scatto, sgomenta da quella distanza tanto minima.

-Siete proprio come vostro padre.-disse questa, con un sorriso divertito.

-Davvero, madre?-chiesi, aggrottando la fronte e non sapendo se essere felice di quelle parole.

-Neanche lui ama il contatto fisico.-spiegò, carezzandosi le braccia- Non possiamo farci nulla, tesoro.- Il volto di Honor era denso di malinconia, un'ovale perfetto, incorniciato da una chioma d'autunno.Indossava un abito scuro, dallo scollo arrotondato, dal quale usciva un colletto bianco. Il cappello a capote, del medesimo colore scuro, incorniciava il viso, lasciando fuoriuscire alcuni riccioli d'autunno. -Vostro padre è un uomo molto riservato.- mormorò, allungando una mano guantata verso di me -Ancora non lo comprendete ma vi prego di credermi che è difficile capire il prossimo.-

Annuii, non molto convinta e con un filo di timore nel cuore. Honor era solita sprofondare in lunghi e inspiegabili silenzi che duravano giorni e settimane. Spesso, mio padre chiamava il medico perché la visitasse. Avevo paura di quei momenti.Temevo che uno di quei giorni, mia madre volasse via, lontano da me.

 

 

-Siamo arrivati-disse la voce di Don Escobar, riscuotendomi dal torpore in cui ero caduta.

Mi guardai attorno, fissando il paesaggio intorno a noi. La campagna aveva lasciato il posto ad una cittadina diversa. Non vi era più traccia del mare, come se tutto fosse stato inghiottito dalle colline che avevamo attraversato fino a quel momento. Ormai era calato il buio e mi era difficile distinguere con chiarezza i contorni degli edifici. Rimasi comunque colpita dalla presenza di alcuni sporadici lampioni che, a distanza regolare gli uni dagli altri. Quel luogo sembrava diverso dai villaggi che avevo visto fino a quel momento. Gli edifici mi sembravano più alti e, benché fosse buio, la pietra appariva comunque chiara.

La carrozza scivolò nelle vie, immettendosi sicura lungo una strada di medie dimensioni. Assottigliai gli occhi, chiedendomi in quale altro convento, mi avrebbe condotto. Avevo sopportato la cattiveria di quella vecchia malevola e la falsa carità che mostrava a tutti...cosa dovevo attendermi? Niente di buono ma non mi fidavo più di nessuno...soprattutto di mio padre.

Questi pensieri vennero meno nel momento in cui il mezzo si fermò di fronte ad un cancello. Pochi minuti dopo, l'ingresso si aprì e la carrozza entrò dentro.

Alcuni servitori erano all'esterno, tenendo delle lanterne. -Bene, siamo arrivati- mormorò Don Escobar, aprendo lo sportello e uscendo.

-Monsieur, siete giunto piuttosto in anticipo-fece uno di loro, dalla voce bassa e compassata.

-Le stanze e la cena saranno comunque pronte in tempi ragionevoli?-domandò, prendendo con noncuranza il mantello -Mia figlia è molto provata per il viaggio. Assicuratevi che mangi adeguatamente.-

La sua stazza mi impediva di vedere con chiarezza ciò che stava fuori dal mezzo. C'era solo la luce che tagliava la sua sagoma, rendendo tutto più grigio e plumbeo. Poco dopo uno di loro mi prese in braccio, portandomi dentro.

 

 

 

 

 

 

-Mademoiselle desidera altro?-domandò una cameriera, servendomi una fetta di carne.

-No, grazie-risposi, studiando l'uomo di fronte a me.

Don Escobar addentava tutto, guardandomi fisso. -Abiteremo qui, da oggi in poi. Orleans sarà la nostra nuova città, vivremo qui. Ti piacerà.- disse.

A quelle parole, afferrai il bicchiere. -Cosa succederà se i De Rossignol vi troveranno?-esalai.

Ignatio rise. -Pensi davvero che quella famiglia verrà ad aiutarti? Sei una povera ingenua. Le famiglie nobili si occupano di tutelare gli interessi del proprio sangue, mantenendo una reputazione immacolata agli occhi del Bel Mondo. Dimenticati di loro. Non ti salveranno.- rispose, studiando il mio viso.

-Loro mi verranno a prendere, se sapranno dove vivo...e voi pagherete...-provai a dire, prima di sentire le parole venire meno.

L'espressione di Don Escobar era avvolta dalle tenebre, tanto da avvolgere tutto. Nessuno dei servitori si accorse di nulla. Mio padre aveva parlato in spagnolo, in modo da non essere ascoltato da nessuno. -Non credo che i vostri sogni si realizzeranno. La Spagna sta passando un brutto momento ed ora non ci sarà nessuno che avrà voglia di perdere tempo con noi, nonché risorse. Mi dispiace nina.-rispose, con un sorriso sardonico.

 

 

 

 

La casa di Don Escobar era ampia e magnifica.

Meravigliosi arabeschi in stucco decoravano gli interni, gettando una luce candida ovunque. -Vostro padre ha fatto un ottimo acquisto, se mi è consentito dirlo, mademoiselle- disse la cameriera che mi era stata assegnata, una donna dagli occhi castani ed una chioma nera. Si occupava della mia persona, mantenendo il mio aspetto in condizioni accettabili. -Il commercio nel sapone è molto popolare e suo padre è diventato un uomo molto atteso in città..- disse, mentre pettinava i miei capelli- Ha dato molti ottimi consigli ad alcuni mercanti e si sta facendo ben volere da alcuni notabili di Orleans. Qualcuno gli ha persino ventilato l'ipotesi di un soggiorno parigino ma non sembra molto interessato.-

Istintivamente, mi guardai alle spalle. L'espressione della donna era densa di sorpresa. -Mademoiselle, sono convinta che vi troverete bene in questa città. Orleans è un luogo meraviglioso, pieno di negozi e di chiese.- disse, con aria sognante poi, vedendo il mio silenzio, si riscosse -Perdonatemi, non volevo...-

-Non importa- dissi, continuando a guardare la mia immagine. Gli abiti smorti che avevo portato all'inizio, avevano lasciato il posto ad un guardaroba completamente nuovo.

-Se posso permettermi, vorrei complimentarmi per il buon gusto nella scelta degli abiti. Quelle sono le migliori stoffe della città e vi donano particolarmente.- mormorò, tentando di fare conversazione.

Guardai quella cameriera, attraverso il riflesso dello specchio. Si chiamava Charlotte ed aveva 19 anni. Non so cosa vedesse in me ma era molto gentile e, sebbene quei modi mi sembrassero strani, ignorai quel senso di fastidio per quella vicinanza.

Era un privilegio che spettava a Honor, non a quella serva...ma nessuno conosceva i fatti, a parte mio padre ed io. Non sarebbe servito a nulla spiegarle che non era nella condizione di permettersi una simile confidenza, così la lasciavo fare, riservandole indifferenza mascherata da timidezza. -E'stato mio padre a sceglierli-risposi, sia pure malvolentieri.

Charlotte si bloccò un momento, poi riprese a spazzolarmi la chioma. -Sarete comunque molto graziosa. Orleans ha dei magnifici giardini e voi fareste una bellissima figura.- disse.

 

 

 

 

In realtà, non era molto semplice per me seguire il consiglio di Charlotte. Ero una bambina e, come se non bastasse, non potevo muovermi senza la carrozzina. Era una delle tante, amare, verità che avevo digerito.

Non pensai nemmeno di chiederlo al mio genitore. Don Escobar era spesso assente ed io mi sentivo a disagio a fare simili domande. Non credevo che mi avrebbe accontentato e la rabbia era troppo forte per permettermi di spingermi in quella direzione.

Confesso che erano sentimenti del tutto inutili ma nella mancanza di scopo che sentivo dentro, non avevo altro appiglio che quell'odio. I giorni proseguivano sempre uguali, gli uni agli altri, nella più quieta e apatica noia. Per sfuggire a quell'odioso tedio, presi l'abitudine di leggere quei libri che Louis, l'ambasciatore francese, mi regalò durante il breve soggiorno portoghese.

Erano piccoli volumi di favole di La Fontaine, un autore di cui avevo sentito parlare ma che solo allora cominciavo a conoscere davvero. Non avevo ancora una piena padronanza del francese, malgrado l'essere immersa in quel mondo, mi rendesse ormai familiare l'idioma e riuscissi a capire un po'di più le conversazioni più semplici. Non era molto consolante sentirmi così isolata ma quelle novelle, dove gli animali parlavano come persone, era l'unico passatempo che avessi.

Non avevo mai letto quelle storie ma ne conoscevo altre, che mi raccontava Honor, nei nostri pomeriggi insieme. Mi parlava di Don Chishotte e, soprattutto di El Cid. Ripensare a quei racconti aveva qualcosa di amaro e dolce insieme...e più passava il tempo, più mi rendevo conto di quanto fossi sola.

La Spagna della mia vita precedente non mi apparteneva più...né sarebbe stato più possibile per me farvi ritorno. -Mademoiselle-disse Charlotte- potremo scendere al pianterreno e rimanere in giardino. Il sole di questo pomeriggio è molto piacevole.-

Mi girai un momento, vedendo l'espressione della mia cameriera personale. -Forse avete ragione- rispose, con tono sommesso. Non avevo molta voglia di farlo ma mi dispiaceva che la donna, a cui ero stata affidata, passasse il tempo in mia compagnia, annoiandosi di conseguenza.

L'espressione di Charlotte, luminosa come non mai, mi confermò quell'impressione iniziale. Occuparsi di me era oltremodo noioso. Vivevo come un automa. Mangiavo per non scatenare l'ira di Don Escobar. Mi lasciavo vestire per la medesima ragione. Dormivo sognando la mia vita passata e rivivendo l'incubo dello strappo. Un ciclo infinito e privo di scopo, nel quale languivo senza avere la voglia di pensarla diversamente.

 

 

 

 

Con l'aiuto della servitù, venni condotta all'esterno. Spalancai gli occhi, vedendo il verde intorno. La villa era circondata da un giardino all'italiana, intorno al quale erano piantati alberi da frutto che in quel momento non ero in grado di riconoscere. -Questa dimora apparteneva ad una famiglia aristocratica, molto vicina ai Principi d'Orleans ma non sufficientemente ricca per poter essere ammessa a Versailles, almeno fino a quando non sono entrati nelle grazie di Madame Lamballe e hanno avuto accesso alla reggia.-spiegò la cameriera, con fare lezioso.

Vari roseti decoravano i lati dell'edificio, creando giochi di colore strani e insoliti, alternando il tutto a statue di fanciulle e giovani, entrambi svestiti. Quella vista mi lasciò sgomenta e un po'disgustata. I francesi avevano modi ai miei occhi molto volgari ma all'epoca non ero avvezza alla conoscenza, dal momento che avevamo sempre vissuto molto ritirati a Cordoba.

Quel ricordo mi fece male. -Charlotte, è così bella Orleans?-domandai, ottenendo l'espressione stranita della cameriera.

-Certamente, mademoiselle. E'un luogo pieno di storia. Non quanto Parigi ma, di certo, non è una località spiacevole. Ci sono molte pasticcerie e molti negozi di giocattoli.- raccontò, sorridendomi gentile.

-Non ho mai visto niente di tutto questo.-mormorai, chinando la testa.

-Non ne sono sorpresa. E'ancora molto fresco e non è proprio consigliabile muoversi adesso, con questo tempo.- rispose l'altra- Anche i giardini pubblici sono piacevoli.-

Mi girai verso di lei, scorgendo una luce sognante nello sguardo. -Non potrò comunque andarmene-ribattei io, con testardaggine. Ero inchiodata alla carrozzina...e questa realtà non sarebbe mai cambiata. Ugualmente, per quanto la cosa mi affliggesse, sapevo di meritarmi tutto. Era colpa mia se ora non avevo speranza alcuna di guarigione e con questa consapevolezza avevo deciso di smettere di pregare, limitandomi a simularlo. Congiungevo le mani, pronunciavo le preghiere...ma la mia mente ed il mio cuore erano vuoti. Non meritavo alcuna clemenza, così mi crogiolavo nel ricordo, pur sapendo che era un modo di fare distruttivo e inutile. Era tutta colpa mia...e meritavo pienamente ogni scintilla di dolore.

-Mademoiselle, sono certa che vostro padre troverà una soluzione. L'aria aperta gioverà alla vostra salute e di certo vi rafforzerà.-rispose, guardandomi con fiducia.

Sapevo a cosa alludeva. Don Escobar aveva raccontato che la mia incapacità di camminare era dovuta alla poliomielite, spiegando in questo modo la presenza della carrozzina. Nessuno aveva quindi fatto domande sulla mia particolare condizione...ed io non avevo fatto niente per smentire tutto. Il mio carattere introverso e ombroso aveva trovato nella malattia, che non avevo mai avuto, la sua più alta e valida spiegazione. Chi avrebbe potuto credermi se avessi narrato la verità? Chi avrebbe potuto darmi il giusto conforto per la perdita di Honor se persino la sua famiglia non era riuscita ad ottenere giustizia? Mio padre aveva separato la mamma dalla sua stirpe, portandola nella sua dimora a condurre una vita silenziosa e isolata...ma a cosa serviva rivangare tutto?

-Grazie- dissi, forzando me stessa per impedirmi di urlare.

Ero diventata l'ombra di me stessa, un guscio vuoto privo di valore e senso...e quel pensiero mi spaventò, oltre ogni ragionevole dubbio. Avevo cessato di avere ogni diritto di poter sperare di rivedere Honor, al termine della mia esistenza terrena. -Mademoiselle, perché non provate a chiedere a vostro padre? Sono convinta che vi darà il permesso.-mi esortò Charlotte.

 

 

 

Sfortunatamente non avevo la medesima fiducia ma non avevo alcuna scelta e, con il passare dei giorni, continuavo a domandarmi quando mio padre si sarebbe liberato di me.

Era un pensiero nato casualmente, con la stessa genuinità con cui un fungo esce dalla terra, dopo un temporale...e ne temevo le conseguenze, dal momento che l'ignoranza mi aveva risparmiato molte amarezze, sebbene fosse stata inefficace per il mio dolore.

Sentii lo stomaco chiudersi, oppresso da una simile verità.

-Non avete fame, Soledad?-domandò mio padre.

A quelle parole, mi bloccai e, lentamente, alzai lo sguardo verso di lui. La zuppa era ancora nel piatto ma non riuscivo a mandarla giù. Sentivo lo stomaco chiudersi, dandomi delle fitte dolorose che mi gettavano pesanti brividi addosso.

-Dovete finire il piatto. Il cuoco potrebbe rattristarsi della cosa-proseguì.

Provai a fare come mi diceva ma il corpo rifiutava di obbedirmi. Da giorni non riuscivo a mangiare come prima e stavo perdendo nuovamente peso. Ad ogni alba, mi sentivo sempre più debole, meno desiderosa di nutrirmi, meno interessata a quanto c'era intorno a me. Tutto mi appariva insignificante e privo di valore.

Quella bella casa.

Quella servitù gentile.

Quel cibo che doveva essere squisito e che invece sentivo senza sapore. Un nodo di nausea mi investì in pieno, facendomi piegare in due.

-Signorina!-

Non potevo più continuare così, con quella vita inutile. Un nuovo spasmo mi travolse...e finii per rimettere tutto quello che avevo mangiato. Sentii uno scalpiccio diffuso intorno ma non me ne curai, come non sentii nemmeno le mani delle cameriere toccare il mio corpo. In tutto quel trambusto, mio padre fissò inerte la mia sofferenza. Voci confuse mi gravitarono attorno.

-Lasciatela stare e chiamate un medico.- disse infine Don Escobar.

Sentii la sua voce spaventosamente vicina, tanto da gettarmi addosso nuovi brividi di terrore. Sapevo cosa poteva fare e, benché fossi rassegnata, non riuscivo a non aver paura per quello che consideravo un nuovo salto nel vuoto. Istintivamente mi coprii il corpo, preda di un nuovo spasmo. Credevo di essere giunta al limite della sopportazione, vivendo con quell'uomo che non riconoscevo più e con un'esistenza che sentivo sempre più estranea.

Volevo che finisse tutto.

Rivolevo la mamma.

Rivolevo la mia vita apatica e priva di sorprese.

Era un peso troppo grande da sopportare per me...o almeno così pensavo, dall'alto dei miei otto anni. Credevo che tutto fosse finito quella notte maledetta, un tragico epilogo di una lenta decadenza.

Mi sbagliavo, naturalmente.

La rovina è una discesa inarrestabile ed ha infiniti volti...e, per quanto potesse sembrare strano, per quanti colpi potessi ricevere, c'erano parti illese che attendevano la propria percossa. Era solo l'inizio...e già volevo la fine.

 

 

 

Capitolo di passaggio, forse. Non lo so ma spero che la storia continui a piacere. Ringrazio naturalmente Diana924 e coloro che mettono il racconto tra preferiti, seguiti e ricordati. Soledad è al limite, dopo quanto successo. Ha perso la madre e deve seguire il genitore, malgrado tutto. Non so se sono riuscita a esprimere il suo stato d'animo ma spero che vi piaccia. Questi capitoli di passaggio sono importanti, per vedere la lenta trasformazione di Soledad ed il suo percorso di crescita. Quanto alle altre storie, scusate per ogni eventuale ritardo ma sono impegnata con la tesi e quindi gli aggiornamenti vanno a rilento.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** QUELLO CHE PIU'CONTA ***


Benvenuti a questo nuovo aggiornamento. La vicenda ha degli esiti drammatici, come ho già spiegato ma spero di esprimere bene le emozioni dei personaggi. Scusate per il ritardo.

 

QUELLO CHE PIU CONTA

 

Tuttora, non so cosa accadde quella sera.

Ero così provata da non avere la forza di fare alcunché, così non opposi resistenza, quando il medico, per l'ennesima volta, venne a farmi visita. Lo guardai inerte, aprendo la bocca e respirando forte ad ogni suo comando. Non faceva alcuna differenza per me.

Ero un pezzo di carne che si muoveva ad ogni ordine.

Inspira.

Espira.

Inspira.

Espira.

-Bene, mademoiselle, abbiamo finito.- disse, chiamando Charlotte perché mi ricoprisse.

Mio padre non assistette alla visita ma, una volta conclusa, il medico si recò nello studio di questi, rimanendoci per un po'di tempo. -Mademoiselle, desiderate qualcosa?-domandò la mia cameriera.

Scossi la testa.

Benché debole, non bramavo nulla. Inspiegabilmente, persino l'idea di raggiungere la mamma era una sensazione che si stava indebolendo, come se ormai avessi perso qualsiasi voglia.

Le splendide cose che vedevo attorno a me non erano in grado di provocarmi alcun sollievo. Le sentivo estranee, come prive di qualsiasi scopo, per quanto raffinate fossero.Tutto quello che avevo non mi avrebbe privato del vuoto che sentivo addosso, per quanto lo desiderassi.

Era tutto finito ed in quella desolazione mi ero come rassegnata a quel tipo di languore.

Un tocco gelido mi accarezzò, togliendomi il respiro. Lo sentii attraversarmi dentro, come la lama di una spada. Non avevo ferite addosso, eppure sentivo qualcosa pungolare le piaghe ancora fresche. Era il dolore del ricordo, unito all'impossibilità di condividere la mia sofferenza con chiunque.

Charlotte inarcò la fronte. -Volete qualcosa di caldo?-domandò, fraintendendo.

Scossi il capo.

La cameriera mi accarezzò alcune ciocche di capelli. -Non dovete preoccuparvi per quello che è accaduto in sala. Succede, quando non una persona non sta molto bene. Ora però il dottore vi darà una cura e starete meglio.- disse.

Abbassai la testa. No, non sarebbe mai accaduto. Non esisteva alcun modo per guarire dal male che affliggeva il mio cuore. Non c'era posto per nient'altro che per la sofferenza.

Così pensavo, quando la porta si aprì improvvisamente. Vidi la mia cameriera alzarsi di scatto ed eseguire un goffo inchino. Il cuore accellerò di colpo.

-Lasciateci soli, Charlotte- disse.

Con la coda dell'occhio, vidi la gonna scura della donna sollevarsi e farsi sempre più piccola, fino a quando la porta non la richiuse, nascondendome alla vista. Il muscolo cardiaco martellava dentro, battendo contro la cassa toracica. Ero sola, insieme al mio carnefice.

-Ora che siete sveglia, è ora che mi rispondiate. Per quanto ancora perseverete con questa condotta?- disse, fissandomi negli occhi..ed ogni volta che lo faceva, non riuscivo a non rabbrividire.

Le iridi di mio padre erano scure, profonde come l'abisso...e tutte le volte che mi guardava, avevo come l'impressione di sprofondarvi dentro. A fatica, deglutii, sentendomi persa sotto quello sguardo così pesante.- Perché?- chiesi infine, sputando fuori le parole. Mio padre non rispose. Ogni volta che gli facevo quella domanda, opponeva un distante silenzio. Era come se non fossi degna di alcuna parola e non riuscii ad accettare quella realtà. Senza neppure pensare, mi abbattei contro, colpendo il suo torace. -Io ti odio. TI ODIO! E'colpa tua se ora non ho più la mamma...SEI CATTIVO!- gridai, dando fondo a tutta la rabbia che tenevo dentro. Non seppi dire quanto durò. Don Escobar mi lasciò fare per un po', aspettando.

Io non me ne avvidi, troppo presa dal mio spasmodico desiderio di farla pagare a quello che consideravo un mostro. La debolezza però cominciò lentamente a fare capolino, minando i miei propositi di vendetta puerile e ben presto mi ritrovai sfinita addosso a quel corpo per me odioso.

-Tutto qui?- disse improvvisamente l'altro- E'questo l'odio che dici di nutrire per me? Patetico.- Scattai verso l'alto, fissandolo con tutta la rabbia che avevo. Gli occhi di mio padre non mi abbandonavano, schiacciandomi con il loro peso. -Adesso, ti insegnerò una cosa. Non è l'amore il fondamento del consorzio degli uomini. E'l'odio. Puoi volere bene ad un altro essere umano, amarlo oltre ogni ragione ma come puoi dire che la cosa sia reciproca? Come puoi stabilire che la certezza che esso sia ricambiato da una profonda lealtà? Come puoi dire che quella persona, per la quale saresti disposta a rinunciare a te stesso, sarà degna di un simile sacrificio? L'odio, invece, non tradisce. Non inganna. Non ti mostra qualcosa di diverso da ciò che è. Rappresenta l'essenza più vera e profonda dell'uomo...ma tu non sei ancora in grado di odiare. Non hai provato l'abisso. Ma se trovi questa realtà così terribile, rivolgi pure quell'odio contro di me, nutrilo ogni singolo giorno della tua vita...perché questo è tutto ciò che puoi avere. A nessuno importa di te, non dimenticarlo mai.-

 

Non avrei mai scordato quelle parole.

Per molto tempo, mi chiesi come mai le avesse pronunciate. Don Escobar aveva molti difetti ma aveva il pregio di non dissimulare con me...e non perché non ne fosse capace. In realtà, era un abile mentitore ma non aveva mai rivolto questa capacità contro di me. Forse non ero così importante per meritarlo, chi può dirlo?

Mi immaginai nuovamente Cordoba ed il giardino interno della mia dimora, dove vivevo felice insieme ad Honor.

Honor...

Chissà cosa avrebbe detto di me, vedendomi in quello stato miserevole e privo di orgoglio?

Mi avrebbe guardato, scuotendo il capo, con quel dolce biasimo che aveva come per natura. Non lo avrei comunque saputo, dal momento che la mia colpa era oltre qualsiasi forma di perdono. Quel pensiero mi riempì di dolore. Niente avrebbe potuto realizzare quello che ritenevo il mio unico desiderio. Honor non c'era più.

Scossi la testa.

Don Escobar si allontanò da me, tenendo gli occhi fissi sulla mia magra persona. -Credete a ciò che desiderate. Non mi aspetto che voi abbiate un giudizio diverso da quello che avete appena detto...ed è meglio così, visto che l'amore e tutte quelle diavolerie non portano da nessuna parte. Se questa vita vi appare tanto detestabile, odiatemi. Odiatemi quanto il vostro piccolo e inutile corpo è in grado di fare...e sarà la vostra salvezza. L'odio non mente, benché sia spiacevole rispetto all'amore. E'un compagno che non tradisce mai.- sussurrò, prima di storcere la bocca in un sorriso privo di espressione -Se davvero ritenete la vostra vita senza alcuno scopo, aggrappati pure a questo sentimento che dite di nutrire per me. Attaccatevici come un mollusco allo scoglio, se ci riuscite...e chissà, se mai aveste successo, forse potreste farvi una vita vostra, senza di me. Chi può dirlo, però, visto che siete debole e storpia?-

Quelle parole mi punsero nel vivo, tanto da impedirmi di rispondere, mentre questi si alzava dalla sedia, lasciandomi sola, con quei nuovi pensieri che Don Ignatio, l'uomo che aveva rovinato tutto, aveva istillato in me.

 

 

Con lo sguardo perso in quella cameretta, così bella ed estranea, scrutai il paesaggio intorno a me, con crescente sgomento. Per mesi, avevo rimpianto Cordoba, le sue pietre cotte dal sole ed i suoi angoli bui, i suoi profumi e la scia morbida del fiume poco distante. Nella mente, rivedevo gli azulejos del cortile interno della mia dimora, dove la mamma era solita passeggiare.

La loro immagine mi accompagnava, pungolando ferite che non avevano bisogno di alcun tormento ulteriore. Provai a pensare a quei colori, così diversi dal freddo ambiente di Orleans. Erano vivi nella mia memoria ma, dopo il dialogo con mio padre, avevano assunto un calore diverso, una forma più soffusa e distante. Erano sempre lì ma cominciai a chiedermi la ragione di quel calore sempre più tiepido.

Mi stavo staccando da quei ricordi, lasciandoli dove si trovavano, in un passato che non mi era più possibile toccare. Nell'immobilità in cui mi trovavo, cominciai a chiedermi se qualcuno, a Cordoba, avrebbe mai sentito la mia mancanza. Donna Ines, l'unica persona che aveva avuto accesso alla ritiratissima vita di quel periodo, certamente viveva nella residenza di campagna che aveva ricevuto in dono da mia madre.

Honor ci andava spesso, quando poteva...tornando da lì, felice e serena.

Io la attendevo sempre sulla porta, insieme a Donna Ines e all'istitutrice che avevano preso per me, tentando di sorridere, senza riuscirci davvero. Sapevo che ad ogni ritorno corrispondeva una partenza...ed io, nella mia ingenuità, avevo capito che lei amava quei luoghi, più della dimora che mio padre aveva disposto per noi.

Quando le chiesi di potermi portare con lei, scosse il capo. Un giorno rispose, con un sorriso sulle labbra piene.

Honor non ebbe mai il tempo di mantenere la promessa ed io, per molto tempo, non seppi per quale motivo fosse così felice di andare là.

 

 

Quando mio padre se ne andò, avevo ancora le sue parole pronte a bombardarmi dentro. Non seppi dire quanto tempo passò, prima di scivolare nuovamente nel sonno.

 

Correre.

Dovevo correre.

I piedi battevano con forza a terra, seguendo le pietre del corridoio. Un ticchettio secco e intermittente, simile alla pioggia.

Vedevo la sagoma di Donna Ines sulla soglia, avvolta nel suo sobrio abito ma non fu quell'elemento ad attirare la mia attenzione. I miei occhi erano piantati sulla carrozza che se ne stava di fronte.

-Allora, mi raccomando, senora. Fate avere notizie non appena siete giunta a destinazione.- disse, con il consueto tono monocorde.

-Lo farò. Ora però devo andare.-mormorò mia madre, nascosta dentro il mezzo. Ciò che riuscii a vedere, mentre cercavo di raggiungerla, era l'abito color antracite che avvolgeva il suo corpo, come una pesante coperta ed una veletta sul viso, che celava la sua espressione. Mentre si allontanava, un raggio di luce passò attraverso la veletta, mostrando lati oscuri che prima non avevo notato.

 

Mentre fissavo laconica il paesaggio di Orleans, confrontando il calore di Cordoba con il fresco acquoso di quel lembo francese, pensavo alla dinamica degli eventi, al perché di tutto quel dolore. Sapevo che Don Escobar era un uomo cattivo, mentre mia madre una donna infelice e sfortunata.

Questa era la verità che avevo scorto presso i De Rossignol e nulla mi faceva dubitare del contrario...nemmeno il destinatario di tutte quelle accuse che, indifferente al mio odio, continuava a camminare sulla terra, senza mostrare pentimento.

Quel fatto mi appariva inaccettabile. Come era possibile che proseguisse la sua vita in quel modo, con quella felicità spietata? Ogni suo sorriso calpestava la memoria di Honor.

Il suo ricordo era un martello che mi percuoteva dentro...e continuavo a chiedermi perché quell'assassino fosse in vita, mentre la mia dolce madre non era più. Quell'ingiustizia mi riempiva di rabbia, alimentando una ferita che non poteva, né volevo, sanare.

Quel dolore era tutto ciò che potevo avere.

Cosa ne sarebbe stato di me, se avessi deciso di porre fine a quel sentimento?

Nulla.

Ero solo una bambina...e mi ritrovai a dover scegliere l'unica cosa che mi era stata concessa: l'odio.

 

Capitolo molto introspettivo ma spero che vi sia piaciuto. Gli aggiornamenti vanno molto a rilento ma sono sotto tesi perciò...bhé, vi ringrazio per avermi letto.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2571978