Happy Easter, Nico Di Angelo.

di Efthalia
(/viewuser.php?uid=193364)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Parte 3 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


 

Detestavo le festività di tutte le religioni, ormai. Esse non facevano altro che sottolineare quanto fossi solo e indesiderato e okay, non che durante il resto dell’anno mi illudessi del contrario, ma... ma durante quelle feste sentivo l’estremo bisogno di compagnia, di qualcuno di vivo accanto a me. 
Passeggiavo lentamente tra i negozi le cui vetrine erano decorate da uova di Pasqua, pulcini, conigli, agnellini e idiozie varie e cercavo di non farmi investire dall’orda di gente di tutte le età che correva a fare acquisti. Registravo le facce di ognuno di loro: chi era felice, chi era nervoso, chi aveva premura. I bambini sembravano nati per fare capricci e piangere fino a farsi sentire dall’Olimpo e per un istante fui felice di non far parte di nessuna vera famiglia. Una piccola parte di me, però, sapeva perché avevo deciso di andare in quel posto caotico: mi piaceva vedere la gente felice. Cercavo di imitarli, di risucchiare un briciolo della loro gioia per aver ancora voglia di vivere. Desideravo ardentemente avere una vita come qualsiasi mio coetaneo: tenere per mano la persona che si ama, farle regali, litigare per poi dimenticare tutto con un bacio, pranzare insieme alla famiglia nella domenica di Pasqua e in qualsiasi altra domenica. In qualsiasi altro giorno. 
Cercai di non pensarci, di far finta di essere come qualsiasi altro ragazzo. Cancellai dalla mente il fatto di essere un semidio figlio di Ade, di essere disprezzato dalla mia “famiglia” e persino da quelli come me, di essere innamorato di...
NO.
NON. DOVEVO. NEMMENO. PENSARE. A. UNA. COSA. DEL. GENERE.
Ero così preso dal convincere me stesso che andai a sbattere contro un uomo di mezza età, facendogli cadere l’enorme coniglio di cioccolato che portava in mano. 
– M-mi scusi. Io... mi scusi – dissi frettolosamente. 
L’uomo barbuto mi fissò male e ringhiò. – Si è rotto, razza di idiota! 
Non sapevo cosa dire. La gente iniziava a fissarci e captai numerosi mormorii che non mi trasmettevano nulla di buono. Probabilmente mi etichettarono come il tipico ragazzino combina guai. E cavolo, se lo ero.
– Dovrei chiederti di pagarmelo! – disse duramente, attirando ancora di più l’attenzione.
Mi venne da piangere, ma cercai di non darlo a vedere. Per un attimo ebbi l’idea di scappare, ma c’erano troppe persone che mi avrebbero solo rallentato e giudicato come un delinquente. 
– Non ho soldi – ammisi con voce acuta, poi iniziai a vedere offuscato a causa delle lacrime. 
Il signore parve addolcirsi quando capì che dicevo la verità. – Va bene, ragazzino. Lascio perdere solo perché è Pasqua.
Mi diede una forte pacca sulla spalla e, sorprendendomi, mi porse il coniglio di cioccolato. 
– Hai bisogno di mangiare, teppistello. Prendilo pure, chi se ne importa – borbottò col cenno di un sorriso, poi se ne andò come se niente fosse.  
La gente continuava a circondami e alcune mamme mi fissarono disgustate. Riuscivo quasi a leggergli nei pensieri: “un ragazzino combinato in questo modo... che razza di genitori sono, i suoi? È una vergogna, un pericolo per i nostri figli viziati e capricciosi!”. 
Senza dire niente e senza attirare ulteriormente l’attenzione, mi strinsi il coniglio di cioccolato sul petto e continuai a camminare tenendo gli occhi bassi. 
Non seppi quanto camminai quando qualcosa attirò la mia attenzione. Ero davanti all’ennesima cioccolateria ed esposti nella vetrina c’erano una dozzina di statuine che raffiguravano gli dei dell’Olimpo. Zeus naturalmente stava al centro di tutti gli altri con la sua folgore in mano e accanto a lui c’era quella pazza di sua moglie Era, rappresentata con il suo potente bastone con la punta a forma di fiore di loto. Vidi anche gli altri: Poseidone, Efesto, Ares, Apollo, Artemide, Afrodite, Atena, Ermes, Dioniso, Demetra. E naturalmente mancava Ade, constatai con un sorriso amaro. Mi allontanai dalla vetrina e decisi di entrare nella cioccolateria. Volevo sapere i prezzi. 
Non lo feci mai. 
Stavo per salire due scalini dall’aria non poi tanto omicida quando una foto di loro invase il mio campo visivo insieme alla scritta I love you, Wise Girl e il naso mi si riempiva dell’odore meraviglioso del cioccolato bianco. 
Non mi sentii i piedi per terra e fu lì che capii di stare impazzendo. O magari era solo un incubo. 
Poi capii che in realtà ero caduto rovinosamente per terra e niente di meno che Percy Jackson mi sovrastava insieme a un enorme uovo di Pasqua personalizzato che sfortunatamente non si era spaccato. Fu proprio quello la prima cosa che studiai, perché era più bello persino di lui: era di cioccolato bianco e al centro era stampata una foto di Percy e Annabeth che si baciavano teneramente, incorniciata da una serie di stelle marine, alghe, piccoli cervelli e libri. Sopra la cornice di strani assortimenti c’era una scritta blu glassata che non avevo nuovamente voglia di leggere. 
Sentii un pugnale ghiacciato che penetrava dentro al cuore e quasi sussultai. Per non guardare un secondo di più quella maledetta meraviglia, alzai la testa al cielo e mi accasciai sul marciapiedi con un piccolo gemito. 
– Nico?! – esclamò Percy stupito. 
Serrai i pugni per non piangere e per non urlargli contro la prima cosa che mi passava per la testa e rimasi in silenzio, pregando mio padre Ade di uccidere o me o lui. Evidentemente Ade era troppo impegnato a occuparsi delle continue raccomandazioni di Demetra riguardo i suoi stupidissimi cereali oppure voleva semplicemente assistere alla distruzione del suo sfigatissimo figlio, perché non successe nulla. 
Sentii dei passi e poi vidi Percy inginocchiarsi vicino a me. I miei occhi non poterono fare a meno di posarsi sui suoi, verdi come il mare più intenso e puro. I suoi capelli lisci e scuri... ah, quanto avrei voluto passarci la mano e accarezzarli! I suoi lineamenti mascolini ma belli e il suo sorriso incerto e preoccupato... tutto in lui fece fare ventordici serie di flessioni al mio cuore. 
– Nico? – mi chiamò, accigliato. Probabilmente aveva notato che lo fissavo con fare sognante, così chiusi per un secondo gli occhi e mi imposi di avere un minimo di dignità.
A malincuore, mi alzai dal marciapiedi e Percy mi aiutò con il suo solito altruismo. 
– Stai bene? Non mi hai detto una parola! – esclamò. 
– Sto bene, sto bene! Tu, piuttosto... tu non stai bene di cervello! – esclamai. Ero troppo arrabbiato a causa di quell’uovo di cioccolato. Lui non doveva comprare uova di cioccolato a meno che non fossero destinate a me! – Come ti salta in mente di uscire da un negozio con una bomba nucleare come quella? – e indicai quell’ammasso di calorie. 
Lui mi fissò senza espressione, poi scoppiò a ridere. Mi imposi di non saltargli addosso quando gettò la testa indietro per ridere più forte, incurante della gente che ci fissava sinceramente turbata.  
Per un momento lo fissai nello stesso modo in cui ci fissava quella gente, poi presi il mio coniglio di cioccolato e me ne andai. Solo in quel modo Percy smise di ridere e mi inseguì e ci fermammo solamente quando fummo arrivati in un parco poco affollato. 
Mi sedetti su una panchina di pietra e aspettai che Percy dicesse qualcosa. Naturalmente, ero così estroverso da non sapere nemmeno come creare un discorso. 
– Allora, chi te l’ha regalato quel romantico coniglio di cioccolato? – chiese Percy, sorridendo maliziosamente.
Nella mia testa di affollarono una serie di efficaci scuse da poter raccontare: “oh, questo, dici? Mah, niente di che. È stata solo una modella di qualche anno in più di me che mi ama alla follia. Quaranta dollari buttati al vento, perché non me ne importa niente del genere femminile”. E naturalmente la parte finale era la pura verità, tanto che fui tentato di ammetterlo. 
– Un uomo sconosciuto e barbuto di mezz’età – dissi invece, facendo il broncio e mettendomi a braccia conserte. 
Capii che Percy si stava sforzando di non ridere e mi sentii preso in giro, ma non riuscii ad attaccarlo. 
– Che fai a Pasqua? – chiese allora, tanto per eliminare il silenzio creatosi.
Lo guardai stizzito e lui mi rivolse uno sguardo quasi impaurito che mi fece così tenerezza che decisi di dirglielo. – Avevo pensato a una festa in un parco abbandonato. Farò resuscitare qualche morto con un po’ di Happy Meal e Coca Cola. Tu?
Percy si schiarì la gola. Aveva ancora un’espressione impaurita. – Io sono a casa con mamma e lo Stoccafisso. E tu anche.
– Lo stocca... che? E perché io anche, poi? – chiesi sinceramente confuso. 
Percy ridacchiò. – Sei un po’ lento, eh? Ti ho invitato, scemo.
Mi sentii avvampare dalle punte secche dei miei capelli fino all’inutile mignolo. Perché dovevo essere così idiota? 
– Oh, sì... certo. Guarda che l’avevo capito, volevo solo esserne sicuro – mi difesi. 
Lui ridacchiò di nuovo e annuì. Giurai sullo Stige che se lo avesse fatto di nuovo lo avrei infilzato con la mia spada letale. 
Stavo per chiedere di nuovo cosa fosse lo stoccaqualcosa quando notai che stava fissando tristemente lo sdolcinato uovo. Okay, capivo che stare con una ragazza fosse qualcosa di triste, ma nel suo sguardo c’era qualcosa di strano. 
– Annabeth ci sarà? – indagai e nella mia testa pregai ogni dio di ogni religione che desse una risposta negativa. 
 – Non lo so. Cioè, no – rispose frettolosamente. 
Sentii il mio cuore ballare la hula, ma non lo diedi a vedere. Mi limitai ad annuire. Non sapevo cosa dire. Non ero molto bravo con le persone vive, ma sapevo che se avesse voluto parlarmene, lo avrebbe fatto senza che io glielo avessi chiesto. 
– Io e Annabeth abbiamo litigato – spiegò dopo un po’ di silenzio. – Non ci sentiamo da due giorni... mi manca. 
Da come lo disse fui quasi dispiaciuto per lui, poi ricordai che quello era il ragazzo che amavo. 
– Sono sicuro che farete pace. Insomma, siete Percy e Annabeth, la coppia più bella del Campo Mezzosangue – lo incoraggiai. Dicendo quelle parole mi sentii morire dentro, ma non riuscivo a sopportare la sua tristezza.
Fece una smorfia amareggiata. – Non esserne così sicuro, Nico. Io sto facendo di tutto per fare pace, ma lei non ne vuole sapere. Spero che questo uovo la addolcisca un po’. 
Cercai di trovarmi al posto di Annabeth. Per quanto potessi essere arrabbiato con lui, non sarei mai riuscito a resistere ai suoi occhioni tristi e all’uovo di cioccolato personalizzato in cui c’era scritto I love you, Ghost King. Annabeth era una ragazza senza cuore.
– Eh, lo spero anch’io. Non sopporto vederti in questo stato – dissi tra me e me.
Un secondo dopo capii che non lo dissi tra me e me. Lo avevo mormorato, e naturalmente Percy mi aveva sentito. Arrossii notevolmente e cercai di recuperare la situazione, ma non era facile con il suo sguardo incuriosito posato su di me. – Cioè, voglio dire... sei un mio amico. E non sopporto vedere tristi i miei amici. 
Percy parve crederci, infatti sorrise raggiante e mi mise un braccio attorno alle spalle. Iniziai a sudare. 
– Grazie... non ti facevo così affettuoso, Re degli Spettri – per un secondo l’immagine dell’uovo di Pasqua nato dalla mia fantasia con scritto I love you, Ghost King invase completamente la mia mente, e con uno slancio d’affetto mi avvicinai a Percy. Poi ovviamente mi maledissi. 
Restammo in quel modo per una mezz’ora piena e cercammo di allontanare Annabeth dalla conversazione. Ci concentrammo su Pasqua e sull’ipercalorico menu pasquale. Mi chiese una conferma e io gliela diedi senza esitazione. Mi disse allora di venire di mattina presto, così avremmo cucinato insieme, dato che sua mamma aveva delle cose da fare quella mattina. 
Io non avevo mai cucinato in tutta la mia misera vita, ma l’idea mi eccitava parecchio. Non vedevo l’ora di cucinare insieme a Percy. Avrei potuto buttargli la farina in faccia oppure fargli i baffi con la crema pasticcera. Avrei potuto toccarlo con la scusa di scrollargli via il cacao in polvere. 
Non vedevo l’ora, per Ade.
Finalmente mi sentivo felice come qualsiasi ragazzo della mia età: avrei passato la Pasqua insieme al ragazzo che amavo e probabilmente avremmo litigato. E chissà se avremmo dimenticato il litigio con un bacio!

Detestavo le festività di tutte le religioni, ormai. Esse non facevano altro che sottolineare quanto fossi solo e indesiderato e okay, non che durante il resto dell’anno mi illudessi del contrario, ma... ma durante quelle feste sentivo l’estremo bisogno di compagnia, di qualcuno di vivo accanto a me. 
Passeggiavo lentamente tra i negozi le cui vetrine erano decorate da uova di Pasqua, pulcini, conigli, agnellini e idiozie varie e cercavo di non farmi investire dall’orda di gente di tutte le età che correva a fare acquisti. Registravo le facce di ognuno di loro: chi era felice, chi era nervoso, chi aveva premura. I bambini sembravano nati per fare capricci e piangere fino a farsi sentire dall’Olimpo e per un istante fui felice di non far parte di nessuna vera famiglia. Una piccola parte di me, però, sapeva perché avevo deciso di andare in quel posto caotico: mi piaceva vedere la gente felice. Cercavo di imitarli, di risucchiare un briciolo della loro gioia per aver ancora voglia di vivere. Desideravo ardentemente avere una vita come qualsiasi mio coetaneo: tenere per mano la persona che si ama, farle regali, litigare per poi dimenticare tutto con un bacio, pranzare insieme alla famiglia nella domenica di Pasqua e in qualsiasi altra domenica. In qualsiasi altro giorno. 
Cercai di non pensarci, di far finta di essere come qualsiasi altro ragazzo. Cancellai dalla mente il fatto di essere un semidio figlio di Ade, di essere disprezzato dalla mia “famiglia” e persino da quelli come me, di essere innamorato di...
NO.
NON. DOVEVO. NEMMENO. PENSARE. A. UNA. COSA. DEL. GENERE.
Ero così preso dal convincere me stesso che andai a sbattere contro un uomo di mezza età, facendogli cadere l’enorme coniglio di cioccolato che portava in mano. 
– M-mi scusi. Io... mi scusi – dissi frettolosamente. 
L’uomo barbuto mi fissò male e ringhiò. – Si è rotto, razza di idiota! 
Non sapevo cosa dire. La gente iniziava a fissarci e captai numerosi mormorii che non mi trasmettevano nulla di buono. Probabilmente mi etichettarono come il tipico ragazzino combina guai. E cavolo, se lo ero.
– Dovrei chiederti di pagarmelo! – disse duramente, attirando ancora di più l’attenzione.
Mi venne da piangere, ma cercai di non darlo a vedere. Per un attimo ebbi l’idea di scappare, ma c’erano troppe persone che mi avrebbero solo rallentato e giudicato come un delinquente. 
– Non ho soldi – ammisi con voce acuta, poi iniziai a vedere offuscato a causa delle lacrime. 
Il signore parve addolcirsi quando capì che dicevo la verità. – Va bene, ragazzino. Lascio perdere solo perché è Pasqua.
Mi diede una forte pacca sulla spalla e, sorprendendomi, mi porse il coniglio di cioccolato. 
– Hai bisogno di mangiare, teppistello. Prendilo pure, chi se ne importa – borbottò col cenno di un sorriso, poi se ne andò come se niente fosse.  
La gente continuava a circondami e alcune mamme mi fissarono disgustate. Riuscivo quasi a leggergli nei pensieri: “un ragazzino combinato in questo modo... che razza di genitori sono, i suoi? È una vergogna, un pericolo per i nostri figli viziati e capricciosi!”. 
Senza dire niente e senza attirare ulteriormente l’attenzione, mi strinsi il coniglio di cioccolato sul petto e continuai a camminare tenendo gli occhi bassi. 
Non seppi quanto camminai quando qualcosa attirò la mia attenzione. Ero davanti all’ennesima cioccolateria ed esposti nella vetrina c’erano una dozzina di statuine che raffiguravano gli dei dell’Olimpo. Zeus naturalmente stava al centro di tutti gli altri con la sua folgore in mano e accanto a lui c’era quella pazza di sua moglie Era, rappresentata con il suo potente bastone con la punta a forma di fiore di loto. Vidi anche gli altri: Poseidone, Efesto, Ares, Apollo, Artemide, Afrodite, Atena, Ermes, Dioniso, Demetra. E naturalmente mancava Ade, constatai con un sorriso amaro. Mi allontanai dalla vetrina e decisi di entrare nella cioccolateria. Volevo sapere i prezzi. 
Non lo feci mai. 
Stavo per salire due scalini dall’aria non poi tanto omicida quando una foto di loro invase il mio campo visivo insieme alla scritta I love you, Wise Girl e il naso mi si riempiva dell’odore meraviglioso del cioccolato bianco. 
Non mi sentii i piedi per terra e fu lì che capii di stare impazzendo. O magari era solo un incubo. 
Poi capii che in realtà ero caduto rovinosamente per terra e niente di meno che Percy Jackson mi sovrastava insieme a un enorme uovo di Pasqua personalizzato che sfortunatamente non si era spaccato. Fu proprio quello la prima cosa che studiai, perché era più bello persino di lui: era di cioccolato bianco e al centro era stampata una foto di Percy e Annabeth che si baciavano teneramente, incorniciata da una serie di stelle marine, alghe, piccoli cervelli e libri. Sopra la cornice di strani assortimenti c’era una scritta blu glassata che non avevo nuovamente voglia di leggere. 
Sentii un pugnale ghiacciato che penetrava dentro al cuore e quasi sussultai. Per non guardare un secondo di più quella maledetta meraviglia, alzai la testa al cielo e mi accasciai sul marciapiedi con un piccolo gemito. 
– Nico?! – esclamò Percy stupito. 
Serrai i pugni per non piangere e per non urlargli contro la prima cosa che mi passava per la testa e rimasi in silenzio, pregando mio padre Ade di uccidere o me o lui. Evidentemente Ade era troppo impegnato a occuparsi delle continue raccomandazioni di Demetra riguardo i suoi stupidissimi cereali oppure voleva semplicemente assistere alla distruzione del suo sfigatissimo figlio, perché non successe nulla. 
Sentii dei passi e poi vidi Percy inginocchiarsi vicino a me. I miei occhi non poterono fare a meno di posarsi sui suoi, verdi come il mare più intenso e puro. I suoi capelli lisci e scuri... ah, quanto avrei voluto passarci la mano e accarezzarli! I suoi lineamenti mascolini ma belli e il suo sorriso incerto e preoccupato... tutto in lui fece fare ventordici serie di flessioni al mio cuore. 
– Nico? – mi chiamò, accigliato. Probabilmente aveva notato che lo fissavo con fare sognante, così chiusi per un secondo gli occhi e mi imposi di avere un minimo di dignità.
A malincuore, mi alzai dal marciapiedi e Percy mi aiutò con il suo solito altruismo. 
– Stai bene? Non mi hai detto una parola! – esclamò. 
– Sto bene, sto bene! Tu, piuttosto... tu non stai bene di cervello! – esclamai. Ero troppo arrabbiato a causa di quell’uovo di cioccolato. Lui non doveva comprare uova di cioccolato a meno che non fossero destinate a me! – Come ti salta in mente di uscire da un negozio con una bomba nucleare come quella? – e indicai quell’ammasso di calorie. 
Lui mi fissò senza espressione, poi scoppiò a ridere. Mi imposi di non saltargli addosso quando gettò la testa indietro per ridere più forte, incurante della gente che ci fissava sinceramente turbata.  
Per un momento lo fissai nello stesso modo in cui ci fissava quella gente, poi presi il mio coniglio di cioccolato e me ne andai. Solo in quel modo Percy smise di ridere e mi inseguì e ci fermammo solamente quando fummo arrivati in un parco poco affollato. 
Mi sedetti su una panchina di pietra e aspettai che Percy dicesse qualcosa. Naturalmente, ero così estroverso da non sapere nemmeno come creare un discorso. 
– Allora, chi te l’ha regalato quel romantico coniglio di cioccolato? – chiese Percy, sorridendo maliziosamente.
Nella mia testa di affollarono una serie di efficaci scuse da poter raccontare: “oh, questo, dici? Mah, niente di che. È stata solo una modella di qualche anno in più di me che mi ama alla follia. Quaranta dollari buttati al vento, perché non me ne importa niente del genere femminile”. E naturalmente la parte finale era la pura verità, tanto che fui tentato di ammetterlo. 
– Un uomo sconosciuto e barbuto di mezz’età – dissi invece, facendo il broncio e mettendomi a braccia conserte. 
Capii che Percy si stava sforzando di non ridere e mi sentii preso in giro, ma non riuscii ad attaccarlo. 
– Che fai a Pasqua? – chiese allora, tanto per eliminare il silenzio creatosi.
Lo guardai stizzito e lui mi rivolse uno sguardo quasi impaurito che mi fece così tenerezza che decisi di dirglielo. – Avevo pensato a una festa in un parco abbandonato. Farò resuscitare qualche morto con un po’ di Happy Meal e Coca Cola. Tu?
Percy si schiarì la gola. Aveva ancora un’espressione impaurita. – Io sono a casa con mamma e lo Stoccafisso. E tu anche.
– Lo stocca... che? E perché io anche, poi? – chiesi sinceramente confuso. 
Percy ridacchiò. – Sei un po’ lento, eh? Ti ho invitato, scemo.
Mi sentii avvampare dalle punte secche dei miei capelli fino all’inutile mignolo. Perché dovevo essere così idiota? 
– Oh, sì... certo. Guarda che l’avevo capito, volevo solo esserne sicuro – mi difesi. 
Lui ridacchiò di nuovo e annuì. Giurai sullo Stige che se lo avesse fatto di nuovo lo avrei infilzato con la mia spada letale. 
Stavo per chiedere di nuovo cosa fosse lo stoccaqualcosa quando notai che stava fissando tristemente lo sdolcinato uovo. Okay, capivo che stare con una ragazza fosse qualcosa di triste, ma nel suo sguardo c’era qualcosa di strano. 
– Annabeth ci sarà? – indagai e nella mia testa pregai ogni dio di ogni religione che desse una risposta negativa. 
 – Non lo so. Cioè, no – rispose frettolosamente. 
Sentii il mio cuore ballare la hula, ma non lo diedi a vedere. Mi limitai ad annuire. Non sapevo cosa dire. Non ero molto bravo con le persone vive, ma sapevo che se avesse voluto parlarmene, lo avrebbe fatto senza che io glielo avessi chiesto. 
– Io e Annabeth abbiamo litigato – spiegò dopo un po’ di silenzio. – Non ci sentiamo da due giorni... mi manca. 
Da come lo disse fui quasi dispiaciuto per lui, poi ricordai che quello era il ragazzo che amavo. 
– Sono sicuro che farete pace. Insomma, siete Percy e Annabeth, la coppia più bella del Campo Mezzosangue – lo incoraggiai. Dicendo quelle parole mi sentii morire dentro, ma non riuscivo a sopportare la sua tristezza.
Fece una smorfia amareggiata. – Non esserne così sicuro, Nico. Io sto facendo di tutto per fare pace, ma lei non ne vuole sapere. Spero che questo uovo la addolcisca un po’. 
Cercai di trovarmi al posto di Annabeth. Per quanto potessi essere arrabbiato con lui, non sarei mai riuscito a resistere ai suoi occhioni tristi e all’uovo di cioccolato personalizzato in cui c’era scritto I love you, Ghost King. Annabeth era una ragazza senza cuore.
– Eh, lo spero anch’io. Non sopporto vederti in questo stato – dissi tra me e me.
Un secondo dopo capii che non lo dissi tra me e me. Lo avevo mormorato, e naturalmente Percy mi aveva sentito. Arrossii notevolmente e cercai di recuperare la situazione, ma non era facile con il suo sguardo incuriosito posato su di me. – Cioè, voglio dire... sei un mio amico. E non sopporto vedere tristi i miei amici. 
Percy parve crederci, infatti sorrise raggiante e mi mise un braccio attorno alle spalle. Iniziai a sudare. 
– Grazie... non ti facevo così affettuoso, Re degli Spettri – per un secondo l’immagine dell’uovo di Pasqua nato dalla mia fantasia con scritto I love you, Ghost King invase completamente la mia mente, e con uno slancio d’affetto mi avvicinai a Percy. Poi ovviamente mi maledissi. 
Restammo in quel modo per una mezz’ora piena e cercammo di allontanare Annabeth dalla conversazione. Ci concentrammo su Pasqua e sull’ipercalorico menu pasquale. Mi chiese una conferma e io gliela diedi senza esitazione. Mi disse allora di venire di mattina presto, così avremmo cucinato insieme, dato che sua mamma aveva delle cose da fare quella mattina. 
Io non avevo mai cucinato in tutta la mia misera vita, ma l’idea mi eccitava parecchio. Non vedevo l’ora di cucinare insieme a Percy. Avrei potuto buttargli la farina in faccia oppure fargli i baffi con la crema pasticcera. Avrei potuto toccarlo con la scusa di scrollargli via il cacao in polvere. 
Non vedevo l’ora, per Ade.
Finalmente mi sentivo felice come qualsiasi ragazzo della mia età: avrei passato la Pasqua insieme al ragazzo che amavo e probabilmente avremmo litigato. E chissà se avremmo dimenticato il litigio con un bacio!

 

 

 

 

 

Noiose note d'autrice

Salve, semidei!

Ecco, finalmente sono tornata con l'ennesima Pernico. E visto che siamo ancora nel periodo di Pasqua, ho deciso di essere ancora in tempo per pubblicarla. Comunque, la ff non segue la trama della seconda serie, quindi scusate ma niente Bad Boy Supreme. :(

Prima di buttate pomodori e uova marce, calcolate che ho pubblicato la ff con li smartphone, quindi scusate se si vede male o roba simile. Il mio PC purtroppo è sprofondato negli abissi più oscuri del Tartaro. 

Un'ultima cosa! In principio, la ff è nata come OS, ma ho deciso di dividerla in tre parti perché sarebbe stata troppo lunga da leggere.

Che altro dire, spero solo che vi piaccia! :D

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte 2 ***


 

Sabato sera, il giorno prima di Pasqua, non lo passai con nessun amico. Non avevo voglia di vedere nessuno, forse solo Annabeth. Oppure Nico: lui in qualche modo mi avrebbe tirato su di morale con le sue buffe stranezze. 
Ero sdraiato sul mio letto, immobile, ad ascoltare la pioggia che picchiettava sulla strada e sulla ringhiera. Stringevo il cordless in una mano, mentre l’altra era dedicata a spettinare i miei capelli. Ero così confuso. Volevo chiamare Annabeth, ma nello stesso tempo non volevo farlo, perché sarei diventato triste. Pensavo quindi a quello che avrei fatto con Nico l’indomani, ma Annabeth tornava comunque nella mia mente. Volevo che venisse anche lei, il giorno dopo, ma era irremovibile. 
Decisi di chiamarla per l’ennesima volta.
– Pronto? – rispose Annabeth dopo pochi squilli. 
– Annabeth, sono io...
– Che cosa vuoi? – chiese lei duramente.
Il suo tono mi fece male al cuore, ma non glielo feci notare. – Voglio parlarti. Voglio stare con te domani, voglio stare con te tutti i giorni.
Ci fu un po’ di silenzio che per pochi secondi mi fece sperare di averla convinta. – Scordatelo, Testa d’Alghe. Non ricordi che domani sei insieme a quel ragazzino?
– Annabeth, per favore. Non essere così dura, non è successo niente! – la implorai. 
– Tu non capisci, Testa d’Alghe! Come ti è venuto in mente di invitarlo? Stai facendo di tutto per farti odiare! Se hai intenzione di lasciarmi, fallo pure, altrimenti lo farò io! Non inventarti queste stupide scuse – urlò lei dal telefono. 
– Ma perché dici questo? Perché ti dà fastidio il fatto che io l’abbia invitato? – mi scaldai. 
– Sei un idiota, Percy. Noi non possiamo stare insieme – disse lei con voce tremante. 
Mi sentii davvero un idiota, perché non riuscivo proprio a capire il suo problema. – Spiegati, Annabeth! Sono uno stupido, okay, lo accetto. Ma voglio sapere perché! 
– Perché, razza di deficiente, quello sciatto ha messo gli occhi su di te da quando aveva dieci anni! – esclamò lei come se stesse parlando con un ritardato.
– Sei pazza! – conclusi prima di rendermi conto di cosa avevo detto. 
– Come vuoi: io sono pazza e tu sei un idiota. Puoi capire da solo che non possiamo stare insieme. Mi hai stancata, davvero – capii che stava per mettersi a piangere. 
– Annabeth... – sussurrai cautamente. 
Sentii un singhiozzo, poi riattaccò. 
 Scagliai il cordless contro il muro e ringhiai come un animale selvatico. Iniziarono a tremarmi le braccia, le gambe, le mani. Dovevo calmarmi. Dovevo pensare che quello era solo un periodo, che sarebbe passato tutto. Sarebbe passata anche la confusione, il mio più grande segreto. 
– Tesoro, che succede? – mamma aveva aperto la porta senza bussare, naturalmente.
– Ho litigato con Annabeth – spiegai. 
– Oh, se vuoi parlarne...
– Scusa, ma non voglio – dissi, quindi lei annuì e chiuse la porta. 
Rimasi per un tempo indecifrabile a fissare la porta, poi mi riscossi e, come per abitudine, raggiunsi il collage. C’erano una miriade di foto mie e di Annabeth, la foto di gruppo dell’anno in cui vincemmo la guerra contro i Titani, varie foto con amici e poi c’era la foto. Eravamo al padiglione. In primo piano c’erano Clarisse e Katie Gardner che sorridevano, cosa piuttosto strana, e in secondo piano c’eravamo io e Annabeth che camminavano sorridenti tenendoci per mano. Non molto lontano da noi, seduto su uno scalino, c’era Nico. Nonostante fosse in dimensione ridotta, era impossibile non capire che ci stava guardando con tristezza e con gelosia. 
Erano passati tre anni da allora, e nel corso dei tre anni, Annabeth studiò nel migliore dei modi quell’espressione. Per un periodo fu convinta che a Nico piacesse lei, ma durò poco, perché si rese conto che lui era geloso di lei. Ovviamente io non le credevo, reputavo la sua convinzione folle, assurda, e ogni volta che affrontava l’argomento o litigavamo o semplicemente la evitavo. Mi faceva una testa enorme con le sue teorie e con le sue dettagliate descrizioni sui suoi comportamenti e sui suoi sguardi. Col tempo era diventata sempre più irritante, irascibile e paranoica, perché non avevo mai smesso di essere amico di Nico. Era un ragazzo così solo e sfortunato, così dolce che non riuscivo a evitarlo. E naturalmente Annabeth notava ogni singola carezza ai capelli che gli davo affettuosamente, analizzava ogni singolo movimento quando decidevamo di allenarci insieme con la spada. Insomma, era diventata pesante, litigavamo troppo spesso per motivi assolutamente assurdi, ma la amavo, la amavo comunque. Mi ripetevo di amarla anche quando iniziarono i dubbi, anche quando non sapevo spiegare certi miei comportamenti e certe mie emozioni. 
Mi ordinai di svuotare la mente. Non volevo più pensare a niente. Ero così stanco di riflettere e di mormorare tra me “e se...” che mi addormentai quasi subito.
 
Erano le otto meno un quarto del mattino. Mi ero svegliato a causa di un tuono assordante e dopo poco mi resi conto che quella era la giornata di Pasqua. Mi affacciai dalla finestra e vidi che il cielo era plumbeo, coperto da minacciose nuvole che regalavano a noi umani secchiate di pioggia. Il tempo era davvero orribile, probabilmente Zeus e la combriccola degli dèi dei venti freddi odiavano Pasqua, ma non avevo intenzione di farmi rovinare quella giornata prospettivamente spensierata da vecchi barbuti di tremila anni. Volevo trascorrere la Pasqua nel modo più sereno possibile con mamma, lo Stoccafisso e Nico. Be’, lui era entrato nel programma un po’ alla sprovvista, ma ne ero davvero felice. 
Mi imposi a non pensare Annabeth, quel giorno: la mia “testa d’alghe” aveva bisogno di ferie. 
Avevo detto a Nico di venire da me alle otto, ma non volevo che venisse a piedi con quel tempo, così mi sistemai e chiesi la macchina a Paul, dato che lui doveva uscire insieme a mamma. Mentre continuava a blaterare continue raccomandazioni, mi diedi una sistemata giusto per non essere scambiato per uno zombie, poi uscii per andare a prendere Nico dal collegio. 
Al collegio non ci arrivai nemmeno, perché lo incontrai per strada. O almeno, credevo che fosse lui. 
Aveva una camicia verde scuro e aderente per il suo genere abbinata a jeans scuri e alle Converse nere, il tutto completamente fradicio a causa della pioggia. Ma erano i capelli altrettanto bagnati che non mi convincevano: erano un po’ rasati nella parte più bassa del capo, mentre la parte più alta era meno folta del solito. Mi accostai al ragazzo per vedere se fosse davvero Nico, ma il finestrino era pieno di gocce di pioggia e non riuscii a capirlo. Il ragazzo aumentò il passo, probabilmente lo avevo innervosito.  
Mi accostai di nuovo a lui e stavolta calai il finestrino, così il ragazzo si girò verso di me e fece un’espressione tra il sollevato e l’inferocito, facendomi sorridere. 
E sì, era proprio Nico. 
– Nico – dissi senza smettere di sorridere, – cosa hai fatto alla tua zazzera di capelli?
In tutta risposta aprì lo sportello dell’auto e si sedette, bagnando immediatamente il sedile. – Erano belli prima che uscissi di casa! – esclamò furioso. 
Mi limitai a fissarlo divertito. – Mi dispiace per averti fatto uscire con questo tempo. Sono venuto apposta per venirti a prendere. Questa è la macchina dello Stoccafisso.
Lui mi rivolse un’occhiata di rimprovero: probabilmente mi stava maledicendo silenziosamente perché non ero partito qualche minuto prima. 
Stavo per svoltare l’angolo per tornare a casa quando Nico disse di dover andare in un posto.
 – Dove?
– In... in una cioccolateria. Volevo farti un regalo – ammise con una punta d’imbarazzo. 
– Ma no! Non ce n’è bisogno, Nico – dissi con un sorriso, e lui mi fissò in un modo che non seppi spiegare. 
– O mi ci porti, o mi lasci qui! – esclamò senza tanti giri di parole. 
Sbuffai spazientito, ma alla fine lo portai nell’unica cioccolateria aperta. Era la stessa in cui ci eravamo incontrati. 
– Tu non scendere – mi ordinò, poi scese dall’auto.
Quella era la cioccolateria in cui avevo comprato l’uovo per Annabeth, e ricordavo benissimo i prezzi dei prodotti. Erano costosissimi e dubitavo che Nico potesse permetterseli. Insomma, perché si preoccupava tanto per farmi un regalo?  
Una vocina terribilmente simile a quella di Annabeth mi diede la risposta, ma io la scacciai via. 
NO, è impossibile.
Si è persino sistemato, una buona volta...
Be’, ma è Pasqua.
No, idiota, è un giorno in cui starete insieme.
No. È assurdo pensare che solo perché qualcuno si sistema e mi fa un regalo io debba per forza piacergli. 
La vocina non mi rispose più, cosa che non mi rallegrò più di tanto, perché iniziai a pensare. 
Insomma, Nico era davvero carino, quel giorno. Il nuovo taglio di capelli gli dava un’aria da cattivo ragazzo, la camicia inzuppata evidenziava il suo busto stretto e magro. E quella strana occhiata che mi aveva rivolto, come se mi volesse zittire con... 
BASTA! Dovevo smetterla. 
Fortunatamente vidi Nico uscire dal negozio. Era completamente curvato su un’enorme scatola blu, probabilmente perché non voleva farla bagnare, e stava per inciampare. Scesi immediatamente dall’auto, mi avvicinai a lui e gli presi la scatola dalle mani. – Quasi quasi è più pesante di te, questa scatola – borbottai, guadagnandomi un’occhiata offesa e delusa. 
Una volta entrati in macchina, gli feci un discorso. – Non è giusto che hai speso tutti quei soldi per me, Nico. Si vede già che quel coso è costato una fortuna...
Lui mi interruppe. – Avevo voglia di farlo e l’ho fatto. Vedi di accettare i gesti degli altri e guardare la strada! – disse acidamente. 
– Ma non dovevi! Lì dentro c’erano cose di cento dollari, non posso permetterti di farti spendere i tuoi soldi per un regalo! – ribattei. 
Per quanto potessi essere compiaciuto per il regalo, non potevo accettare che qualcuno spendesse dei soldi per me, soprattutto Nico. Non avevo bisogno di nessun regalo, mi bastava solo il fatto che lui quel giorno fosse con me a farmi compagnia. Sì, quello era già un ottimo regalo.
Lui non mi rispose più e guardò dall’altra parte del finestrino. Probabilmente voleva evitare di litigare, ma io volevo solo farlo ragionare.
Gli parlai per tutto il tragitto, e più non mi rispondeva, più parlavo. Sapevo di stare esagerando, ma non riuscivo più a fermarmi. Ero proprio uguale a mia madre. 
Smisi quasi di parlare quando Nico mi rivolse di nuovo attenzione: mi fissava con distrazione, era stranamente preoccupato e si mordeva le labbra, come se stesse pensando a troppe cose contemporaneamente. 
– ...non dovevi preoccuparti. Ehm, Nico...?
Mi stavo un po’ spaventando, infatti non fissavo più nemmeno la strada. 
E poi successe: si spinse verso di me, mi prese senza nessuna delicatezza il viso tra le mani e fece scontrare le nostre labbra. Quel contatto fece avvampare tutto dentro di me, i pensieri e la vocina simile a quella di Annabeth si mescolarono insieme e non capii più niente. Sentii Nico schiudere le labbra, e fu proprio quello il momento in cui mi accorsi di non tenere più le mani sul volante, fu quello il momento in cui vidi una macchina andare verso di noi senza fermarsi. 
Mi girai di scatto, tanto che sentii una dolorosa fitta al collo, e feci una frenata da brividi, tanto che per poco Nico non sbattè la testa sul vetro, ma riuscii ad afferrarlo per la camicia. Con quel movimento, però, fui io a sbattere fortemente una guancia sul vetro.
Nella strada ci fu un attimo di panico: urla rivolte a noi, fumo delle ruote della nostra macchina e della macchina con cui stavamo per sbattere e puzza di gomma bruciata. 
– S-scusa. Non so cosa mi sia preso. Non ho pensato più a niente... – balbettò Nico, sconvolto e tremante. 
Evitai il suo sguardo, infatti ero rivolto dall’altra parte. Tenevo una mano stretta sulla guancia: mi faceva malissimo. 
Con la coda dell’occhio vidi Nico tendere le mani verso il mio viso, probabilmente per vedere se mi fossi fatto davvero male, ma in quel preciso istante decisi di uscire dalla macchina per accertarmi che stessero tutti bene. Avevo bisogno di stare lontano da Nico, anche se per pochi minuti.
Andai verso l’auto con cui stavo per sbattere e vidi che al volante c’era una donna sulla quarantina. – Signora, mi scusi se l’ho spaventata... sta bene? 
– Ah, e chi poteva essere! Un ragazzino! – urlò la donna. 
– Mi scusi davvero, signora. Stavo prendendo una moneta che era caduta e...
– Va’ via, poppante, prima che cambi idea  riguardo il farti passare i guai! – esclamò lei minacciosamente, così decisi di allontanarmi e tornare da Nico, ignorando i commenti della gente che si era radunata per assistere allo spettacolo. 
–Percy, ti prego... Non ero in me... per favore... è tutto come prima? – chiese Nico, mentre iniziava a piangere.
Io non risposi e accesi di nuovo il motore, ignorando completamente il suo pianto. 
Mi si spezzava il cuore a vederlo in quello stato, ma non sapevo come rivolgermi a lui. Non sapevo che parole usare, non sapevo se dovevo essere offeso, comprensivo o qualcos’altro. Non sapevo nemmeno cosa provavo, ero sicuro solo della mia confusione.
– Se mi odi, allora portami a casa! – urlò dopo continuati pianti e singhiozzi da me ignorati.
– Non ti odio – dissi semplicemente. Di questo ne ero assolutamente certo.
– Sì, invece! Adesso ti faccio più schifo di prima! – urlò ancora, e io feci un sorriso triste. 
Come poteva pensare quelle cose così brutte? Come poteva fare schifo, come si poteva odiare una persona come Nico? Era un combina guai, era introverso e non pensava alle conseguenze, ma era un ragazzo pieno di risorse e se si conosceva bene, ed era anche affettuoso. Nico era profondo come i suoi occhi scuri e lo si conosceva solo una volta arrivati in fondo. E io ero piuttosto in fondo. 
Arrivammo a casa, ma vidi che Nico non ne voleva sapere di scendere.
– Scendi, su – dissi con un sospiro. 
Ovviamente lui rimase immobile, così uscii dalla macchina, aprii il suo sportello e mi accovacciai in modo che avessimo il viso alla stessa altezza, incurante della pioggia che mi bagnava fino al midollo. 
– Non sono arrabbiato con te, Nico, davvero. Scendi e andiamo a cucinare. Mangeremo insieme quello che hai comprato, ci cambieremo i vestiti e festeggeremo insieme questa Pasqua. Va tutto bene – dissi con tono gentile e per un secondo credei di averlo convinto, poi la sua espressione si indurì.
– Non va tutto bene – disse con la voce spezzata dal pianto. – Io ti ho baciato e a te ha fatto schifo.
Non riuscii a non sorridergli teneramente e gli accarezzai i capelli bagnati. Poi gli diedi un delicato bacio sulla guancia che lo fece arrossire. 
– Ne parleremo dopo – promisi, quindi presi il regalo e andai  frettolosamente verso la porta di casa con Nico al seguito.
 
Una volta arrivati dentro, andai dritto verso la mia camera a cercare qualcosa per Nico, dato che era bagnato fradicio. Lui rimase in cucina ad aspettarmi con un’espressione stravolta, dato che non si era ancora ripreso dal quasi incidente (così avevo deciso di definirlo).
– Nico, vieni! Ho trovato qualcosa per te! – lo chiamai, così mi raggiunse.
Era piuttosto magro rispetto a me, e le uniche cose che potevano stargli bene erano un paio di millenari jeans e una maglietta del Campo Mezzosangue piuttosto scolorita. 
– Non ho altro – spiegai. – Abbiamo taglie diverse. 
Lui annuì, mi ringraziò con un borbottio e andò a cambiarsi in bagno per evitare ulteriori imbarazzi. 
Una volta cambiati, andammo in cucina per iniziare a preparare il pranzo. Notai che a Nico la mia roba gli andava larga, nonostante quelli fossero i vestiti più stretti e vecchi del mio guardaroba, e lo facevano apparire ancora più magro. I suoi capelli erano umidi, adesso, e finalmente il suo nuovo taglio di capelli ebbe un po’ di senso. Non era elegante e non era aggraziato, ma c’era qualcosa in lui che non mi faceva concentrare molto bene sulla cucina.
In quel momento desideravo tanto essere spigliato e amichevole, ma riuscivo solo a passare una mano sui miei capelli umidi e a fissarlo di volta in volta, cosa che evidentemente lo innervosiva. Non faceva altro che mordersi l’interno delle guance, tormentarsi una pellicina sul pollice e ignorare il mio sguardo. 
Mi schiarii la gola. – Ehm... allora, mamma mi ha detto di fare una grigliata di hamburger, wurstel e roba così, quindi questi possiamo cucinarli anche dopo... – cominciai a spiegare, ma l’espressione improvvisamente delusa di Nico mi fece fermare. – C’è qualcosa che non va?
Non appena alzò lo guardo, il telefono squillò, quindi corsi a prendere il cordless rimasto gravemente danneggiato dalla sera scorsa.
Era mamma, e mi aveva appena annunciato senza entusiasmo che lei e lo Stoccafisso erano stati invitati dai colleghi di lui, quindi sarebbero tornati solo a tarda sera. Ne rimasi deluso. Insomma, nonostante avessi diciotto anni, mi dispiaceva non trascorrere una giornata di festa con la mia famiglia. 
Diedi la notizia a Nico, la cui espressione si fece ancora più cupa. – Quindi non cuciniamo? – chiese piano. 
Oh, allora era quello il problema! Probabilmente aveva sperato di cucinare per davvero, sporcandosi di farina, impastando ingredienti grassi... voleva cucinare e divertirsi, non voleva cucinare solo per farsi puzzare i capelli. 
– Ma certo che cuciniamo! E dato che siamo noi due, lascio decidere a te cosa preparare – annunciai con un sorriso rassicurante.  
– Davvero? – chiese, e il broncio se ne andò via dal suo viso, sostituito da uno dei suoi rari sorrisi raggianti. 
– Davvero – confermai. 
Avevo sempre creduto che fosse cresciuto troppo in fretta a causa di tutto ciò che gli era successo: la sicurezza di essere orfano quando non conosceva ancora il nostro mondo,l’ avere come genitori una sola sorella di due anni più grande di lui per poi subire la sua morte... ma dopotutto restava comunque un ragazzino di quindici anni* che si entusiasmava all’idea di sporcarsi le mani cucinando, restava comunque un adolescente assolutamente pazzo che decideva di baciare un amico mentre questi guidava, provocando un quasi incidente. Sorrisi tra me e me, rassicurato dal fatto che Nico fosse umano e che non fosse del tutto spezzato a causa delle sue sofferenze. 
– Allora faremo un dolce – esclamò, mentre tamburellava nervosamente le dita sul bancone. 
Io annuii e andai a prendere dalla mensola il ricettario dei dolci. In quel librone c’erano un fantastiliardo di ricette e non sarebbe bastata una vita intera per provarle tutte. 
Passai il ricettario a Nico e mi misi accanto a lui, così da ammirare tutte le appetitose immagini dei dolci. 
Passò almeno mezz’ora prima che decidesse cosa preparare, una mezz’ora in cui provai a non fare caso al modo in cui umettava l’indice destro prima di cambiare pagina, il modo in cui si formava una ruga di concentrazione tra le sopracciglia e una serie di altri piccoli ma interessanti dettagli. 
– Ho deciso! – sentenziò alla fine, facendomi quasi sussultare da quanto ero applicato a osservare il modo in cui si mordicchiava le labbra. – Faremo le fave dei morti e il tiramisù*! 
Sgranai gli occhi e arrossii. – I... i che cosa?! 
Vidi Nico reprimere un sorriso, per niente imbarazzato. – Sono dolci tipici italiani. Di Venezia, per esattezza... sai, il mio luogo di origine. 
Mi concentrai su quello che aveva appena detto e allontanai dai miei pensieri il doppio senso che dava la parola “tiramisù”. 
– Oh... capisco. Certo che questi italiani sono proprio strambi – borbottai, facendo sorridere Nico mentre scuoteva la testa come a dire “è proprio un caso disperato”. 
Decidemmo di cucinare per prime le fave dei morti, e una volta presi gli ingredienti, ci divertimmo tantissimo a tritare mandorle, aggiungere vaniglia e, nel frattempo, bere un po’ di liquore che andava aggiunto insieme a tutto quel pasticcio. Nico inizialmente era molto sulle sue e si concentrava così tanto su quel lavoro che credevo desiderasse annegare in quella poltiglia di ingredienti, ma diventava amichevole ogni minuto di più. Non lo avevo mai visto così spensierato ed espansivo prima di allora, escludendo il giorno in cui lo conobbi. Ecco, in quel momento Nico era tornato ilare come allora, facendomi scaldare il cuore. Risi tantissimo quando fu il momento di rompere le uova: sul viso aveva disegnata un’espressione disgustata ed esitante mentre picchiettava troppo delicatamente l’uovo sul bordo della ciotola e imprecava in italiano. Provai a fare il serio quando presi in mano la situazione e nascosi un’espressione orgogliosa e compiaciuta mentre fissava con ammirazione le mie mani esperte che rompevano perfettamente in due l’uovo. Tentò di nuovo, ma i suoi sforzi furono vani. La ricetta diceva di aggiungere del cacao in alcune pagnotte, lasciarne altre del loro colore naturale e mettere del colorante rosa in quelle rimaste, ma scegliemmo il colorante azzurro sia per quelle del loro colore naturale, sia per quelle che sarebbero dovute essere rosa. Una volta messo un po’ di zucchero a velo, le avvolgemmo in una pellicola. La ricetta diceva di lasciarle in quel modo per almeno dodici ore, ma decidemmo di aspettare massimo sei ore. 
Dopotutto, eravamo americani. 
– Non voglio nemmeno immaginare cosa ne uscirà fuori – bofonchiò Nico, accasciandosi sul divano della cucina. Eravamo piuttosto stanchi, così decidemmo di riposarci per mezz’ora prima di riprendere e preparare il tiramisù. 
– Resta comunque il tiramisù – replicai con un sorriso goloso. Avevo visto l’immagine di quella strana torta italiana e non riuscivo a togliermela dalla testa. Prometteva così bene... avrei voluto mangiarne una teglia intera.
Restammo per un po’ in silenzio, ma non lo reputai imbarazzante, forse perché ero troppo impegnato a rivivere il bacio quasi fatale che Nico mi aveva dato qualche ora prima. Mi aveva scosso molto e mi aveva confuso ancora di più. Non sapevo cosa pensare dei miei sentimenti per Annabeth e non sapevo come considerare l’amicizia con Nico. 
Sapevo solo che le teorie di Annabeth non erano poi del tutto folli, e mi venne l’impulso di correre da lei e chiederle scusa.
Mi concentrai sul fatto di essere a qualche centimetro di distanza da Nico e sul fatto che noi due dovevamo parlare. Durante la preparazione delle fave dei morti avevamo tenuto il discorso alla larga e avevamo fatto finta di niente, ma quella era l’ora di fare i conti. 
– Nico – dissi con cautela, - prima... cos’è successo prima?
Vidi i suoi muscoli tendersi e la sua espressione indurirsi, e mi dispiacque per lui, ma io avevo bisogno di certezze. 
Stette per un po’ in silenzio, e quando capii che non mi avrebbe risposto, prese parola. – Dovevo per forza tapparti quella bocca che ti ritrovi – disse con una smorfia. 
Qualcosa dentro di me esultò, la parte che sperava che le azioni di Nico fossero state dettate dalla pura follia e dagli ormoni impazziti tipici dei quindicenni. L’altra parte, invece, crollò dolorosamente. Mi spaventai di me stesso. 
Stavo per replicare, quando Nico mi sfiorò la mano e mi intimò con gli occhi di tacere. – E per una volta volevo provare a vivere senza il peso di una maschera – continuò con amarezza. – Com’è che si dice? Ho preso due piccioni con una fava. 
– Nico, io... – sussurrai, ma la mia voce si spense.
Nico, io... cosa?
Nico, io sono fidanzato.
Nico, io amo la mia ragazza.
Nico, io sono un ragazzo. 
Nico, io sono confuso.
Nico, io non so cosa pensare di me stesso.
Nico, io non so come pensarti.
Nico, io...
Io...
Girai il capo in modo da incontrare il suo sguardo e dei, eravamo così vicini. – Io... – sussurrai di nuovo, ma non continuai.
In quell’istante avevano suonato il campanello di casa mia. 
Restammo per un attimo a guardarci sconsolati, poi Nico ruppe il nostro contatto visivo e si allontanò da me, mentre io andai ad aprire la porta. 
 
 
 
*So che Percy e Nico hanno quattro anni di differenza, ma sul web ho letto che il compleanno di Nico è il 28 Gennaio. Non so se sia giusto, ma comunque... se la matematica non è un’opinione, Percy, in questa ff, deve ancora compiere 19 anni. 
** Tiramisù è una parola italiana, quindi gli americani non possono capire i doppi sensi, ma vivono in un mondo fatto di dei, centauri, ippocampi, e molto altro... lasciamo correre questo piccolo cambiamento xD
 
Note noiose d’autrice
Ringrazio coloro che hanno recensito e aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite e invito tutti a lasciarmi un commentino xD
A presto,
Daughter of Athena

 

Sabato sera, il giorno prima di Pasqua, non lo passai con nessun amico. Non avevo voglia di vedere nessuno, forse solo Annabeth. Oppure Nico: lui in qualche modo mi avrebbe tirato su di morale con le sue buffe stranezze. 
Ero sdraiato sul mio letto, immobile, ad ascoltare la pioggia che picchiettava sulla strada e sulla ringhiera. Stringevo il cordless in una mano, mentre l’altra era dedicata a spettinare i miei capelli. Ero così confuso. Volevo chiamare Annabeth, ma nello stesso tempo non volevo farlo, perché sarei diventato triste. Pensavo quindi a quello che avrei fatto con Nico l’indomani, ma Annabeth tornava comunque nella mia mente. Volevo che venisse anche lei, il giorno dopo, ma era irremovibile. 
Decisi di chiamarla per l’ennesima volta.
– Pronto? – rispose Annabeth dopo pochi squilli. 
– Annabeth, sono io...
– Che cosa vuoi? – chiese lei duramente.
Il suo tono mi fece male al cuore, ma non glielo feci notare. – Voglio parlarti. Voglio stare con te domani, voglio stare con te tutti i giorni.
Ci fu un po’ di silenzio che per pochi secondi mi fece sperare di averla convinta. – Scordatelo, Testa d’Alghe. Non ricordi che domani sei insieme a quel ragazzino?
– Annabeth, per favore. Non essere così dura, non è successo niente! – la implorai. 
– Tu non capisci, Testa d’Alghe! Come ti è venuto in mente di invitarlo? Stai facendo di tutto per farti odiare! Se hai intenzione di lasciarmi, fallo pure, altrimenti lo farò io! Non inventarti queste stupide scuse – urlò lei dal telefono. 
– Ma perché dici questo? Perché ti dà fastidio il fatto che io l’abbia invitato? – mi scaldai. 
– Sei un idiota, Percy. Noi non possiamo stare insieme – disse lei con voce tremante. 
Mi sentii davvero un idiota, perché non riuscivo proprio a capire il suo problema. – Spiegati, Annabeth! Sono uno stupido, okay, lo accetto. Ma voglio sapere perché
– Perché, razza di deficiente, quello sciatto ha messo gli occhi su di te da quando aveva dieci anni! – esclamò lei come se stesse parlando con un ritardato.
– Sei pazza! – conclusi prima di rendermi conto di cosa avevo detto. 
– Come vuoi: io sono pazza e tu sei un idiota. Puoi capire da solo che non possiamo stare insieme. Mi hai stancata, davvero – capii che stava per mettersi a piangere. 
– Annabeth... – sussurrai cautamente. 
Sentii un singhiozzo, poi riattaccò. 
 Scagliai il cordless contro il muro e ringhiai come un animale selvatico. Iniziarono a tremarmi le braccia, le gambe, le mani. Dovevo calmarmi. Dovevo pensare che quello era solo un periodo, che sarebbe passato tutto. Sarebbe passata anche la confusione, il mio più grande segreto. 
– Tesoro, che succede? – mamma aveva aperto la porta senza bussare, naturalmente.
– Ho litigato con Annabeth – spiegai. 
– Oh, se vuoi parlarne...
– Scusa, ma non voglio – dissi, quindi lei annuì e chiuse la porta. 
Rimasi per un tempo indecifrabile a fissare la porta, poi mi riscossi e, come per abitudine, raggiunsi il collage. C’erano una miriade di foto mie e di Annabeth, la foto di gruppo dell’anno in cui vincemmo la guerra contro i Titani, varie foto con amici e poi c’era la foto. Eravamo al padiglione. In primo piano c’erano Clarisse e Katie Gardner che sorridevano, cosa piuttosto strana, e in secondo piano c’eravamo io e Annabeth che camminavano sorridenti tenendoci per mano. Non molto lontano da noi, seduto su uno scalino, c’era Nico. Nonostante fosse in dimensione ridotta, era impossibile non capire che ci stava guardando con tristezza e con gelosia. 
Erano passati tre anni da allora, e nel corso dei tre anni, Annabeth studiò nel migliore dei modi quell’espressione. Per un periodo fu convinta che a Nico piacesse lei, ma durò poco, perché si rese conto che lui era geloso di lei. Ovviamente io non le credevo, reputavo la sua convinzione folle, assurda, e ogni volta che affrontava l’argomento o litigavamo o semplicemente la evitavo. Mi faceva una testa enorme con le sue teorie e con le sue dettagliate descrizioni sui suoi comportamenti e sui suoi sguardi. Col tempo era diventata sempre più irritante, irascibile e paranoica, perché non avevo mai smesso di essere amico di Nico. Era un ragazzo così solo e sfortunato, così dolce che non riuscivo a evitarlo. E naturalmente Annabeth notava ogni singola carezza ai capelli che gli davo affettuosamente, analizzava ogni singolo movimento quando decidevamo di allenarci insieme con la spada. Insomma, era diventata pesante, litigavamo troppo spesso per motivi assolutamente assurdi, ma la amavo, la amavo comunque. Mi ripetevo di amarla anche quando iniziarono i dubbi, anche quando non sapevo spiegare certi miei comportamenti e certe mie emozioni. 
Mi ordinai di svuotare la mente. Non volevo più pensare a niente. Ero così stanco di riflettere e di mormorare tra me “e se...” che mi addormentai quasi subito.
 
Erano le otto meno un quarto del mattino. Mi ero svegliato a causa di un tuono assordante e dopo poco mi resi conto che quella era la giornata di Pasqua. Mi affacciai dalla finestra e vidi che il cielo era plumbeo, coperto da minacciose nuvole che regalavano a noi umani secchiate di pioggia. Il tempo era davvero orribile, probabilmente Zeus e la combriccola degli dèi dei venti freddi odiavano Pasqua, ma non avevo intenzione di farmi rovinare quella giornata prospettivamente spensierata da vecchi barbuti di tremila anni. Volevo trascorrere la Pasqua nel modo più sereno possibile con mamma, lo Stoccafisso e Nico. Be’, lui era entrato nel programma un po’ alla sprovvista, ma ne ero davvero felice. 
Mi imposi a non pensare Annabeth, quel giorno: la mia “testa d’alghe” aveva bisogno di ferie. 
Avevo detto a Nico di venire da me alle otto, ma non volevo che venisse a piedi con quel tempo, così mi sistemai e chiesi la macchina a Paul, dato che lui doveva uscire insieme a mamma. Mentre continuava a blaterare continue raccomandazioni, mi diedi una sistemata giusto per non essere scambiato per uno zombie, poi uscii per andare a prendere Nico dal collegio. 
Al collegio non ci arrivai nemmeno, perché lo incontrai per strada. O almeno, credevo che fosse lui. 
Aveva una camicia verde scuro e aderente per il suo genere abbinata a jeans scuri e alle Converse nere, il tutto completamente fradicio a causa della pioggia. Ma erano i capelli altrettanto bagnati che non mi convincevano: erano un po’ rasati nella parte più bassa del capo, mentre la parte più alta era meno folta del solito. Mi accostai al ragazzo per vedere se fosse davvero Nico, ma il finestrino era pieno di gocce di pioggia e non riuscii a capirlo. Il ragazzo aumentò il passo, probabilmente lo avevo innervosito.  
Mi accostai di nuovo a lui e stavolta calai il finestrino, così il ragazzo si girò verso di me e fece un’espressione tra il sollevato e l’inferocito, facendomi sorridere. 
E sì, era proprio Nico. 
– Nico – dissi senza smettere di sorridere, – cosa hai fatto alla tua zazzera di capelli?
In tutta risposta aprì lo sportello dell’auto e si sedette, bagnando immediatamente il sedile. – Erano belli prima che uscissi di casa! – esclamò furioso. 
Mi limitai a fissarlo divertito. – Mi dispiace per averti fatto uscire con questo tempo. Sono venuto apposta per venirti a prendere. Questa è la macchina dello Stoccafisso.
Lui mi rivolse un’occhiata di rimprovero: probabilmente mi stava maledicendo silenziosamente perché non ero partito qualche minuto prima. 
Stavo per svoltare l’angolo per tornare a casa quando Nico disse di dover andare in un posto.
 – Dove?
– In... in una cioccolateria. Volevo farti un regalo – ammise con una punta d’imbarazzo. 
– Ma no! Non ce n’è bisogno, Nico – dissi con un sorriso, e lui mi fissò in un modo che non seppi spiegare. 
– O mi ci porti, o mi lasci qui! – esclamò senza tanti giri di parole. 
Sbuffai spazientito, ma alla fine lo portai nell’unica cioccolateria aperta. Era la stessa in cui ci eravamo incontrati. 
– Tu non scendere – mi ordinò, poi scese dall’auto.
Quella era la cioccolateria in cui avevo comprato l’uovo per Annabeth, e ricordavo benissimo i prezzi dei prodotti. Erano costosissimi e dubitavo che Nico potesse permetterseli. Insomma, perché si preoccupava tanto per farmi un regalo?  
Una vocina terribilmente simile a quella di Annabeth mi diede la risposta, ma io la scacciai via. 
NO, è impossibile.
Si è persino sistemato, una buona volta...
Be’, ma è Pasqua.
No, idiota, è un giorno in cui starete insieme.
No. È assurdo pensare che solo perché qualcuno si sistema e mi fa un regalo io debba per forza piacergli. 
La vocina non mi rispose più, cosa che non mi rallegrò più di tanto, perché iniziai a pensare. 
Insomma, Nico era davvero carino, quel giorno. Il nuovo taglio di capelli gli dava un’aria da cattivo ragazzo, la camicia inzuppata evidenziava il suo busto stretto e magro. E quella strana occhiata che mi aveva rivolto, come se mi volesse zittire con... 
BASTA! Dovevo smetterla. 
Fortunatamente vidi Nico uscire dal negozio. Era completamente curvato su un’enorme scatola blu, probabilmente perché non voleva farla bagnare, e stava per inciampare. Scesi immediatamente dall’auto, mi avvicinai a lui e gli presi la scatola dalle mani. – Quasi quasi è più pesante di te, questa scatola – borbottai, guadagnandomi un’occhiata offesa e delusa. 
Una volta entrati in macchina, gli feci un discorso. – Non è giusto che hai speso tutti quei soldi per me, Nico. Si vede già che quel coso è costato una fortuna...
Lui mi interruppe. – Avevo voglia di farlo e l’ho fatto. Vedi di accettare i gesti degli altri e guardare la strada! – disse acidamente. 
– Ma non dovevi! Lì dentro c’erano cose di cento dollari, non posso permetterti di farti spendere i tuoi soldi per un regalo! – ribattei. 
Per quanto potessi essere compiaciuto per il regalo, non potevo accettare che qualcuno spendesse dei soldi per me, soprattutto Nico. Non avevo bisogno di nessun regalo, mi bastava solo il fatto che lui quel giorno fosse con me a farmi compagnia. Sì, quello era già un ottimo regalo.
Lui non mi rispose più e guardò dall’altra parte del finestrino. Probabilmente voleva evitare di litigare, ma io volevo solo farlo ragionare.
Gli parlai per tutto il tragitto, e più non mi rispondeva, più parlavo. Sapevo di stare esagerando, ma non riuscivo più a fermarmi. Ero proprio uguale a mia madre. 
Smisi quasi di parlare quando Nico mi rivolse di nuovo attenzione: mi fissava con distrazione, era stranamente preoccupato e si mordeva le labbra, come se stesse pensando a troppe cose contemporaneamente. 
– ...non dovevi preoccuparti. Ehm, Nico...?
Mi stavo un po’ spaventando, infatti non fissavo più nemmeno la strada. 
E poi successe: si spinse verso di me, mi prese senza nessuna delicatezza il viso tra le mani e fece scontrare le nostre labbra. Quel contatto fece avvampare tutto dentro di me, i pensieri e la vocina simile a quella di Annabeth si mescolarono insieme e non capii più niente. Sentii Nico schiudere le labbra, e fu proprio quello il momento in cui mi accorsi di non tenere più le mani sul volante, fu quello il momento in cui vidi una macchina andare verso di noi senza fermarsi. 
Mi girai di scatto, tanto che sentii una dolorosa fitta al collo, e feci una frenata da brividi, tanto che per poco Nico non sbattè la testa sul vetro, ma riuscii ad afferrarlo per la camicia. Con quel movimento, però, fui io a sbattere fortemente una guancia sul vetro.
Nella strada ci fu un attimo di panico: urla rivolte a noi, fumo delle ruote della nostra macchina e della macchina con cui stavamo per sbattere e puzza di gomma bruciata. 
– S-scusa. Non so cosa mi sia preso. Non ho pensato più a niente... – balbettò Nico, sconvolto e tremante. 
Evitai il suo sguardo, infatti ero rivolto dall’altra parte. Tenevo una mano stretta sulla guancia: mi faceva malissimo. 
Con la coda dell’occhio vidi Nico tendere le mani verso il mio viso, probabilmente per vedere se mi fossi fatto davvero male, ma in quel preciso istante decisi di uscire dalla macchina per accertarmi che stessero tutti bene. Avevo bisogno di stare lontano da Nico, anche se per pochi minuti.
Andai verso l’auto con cui stavo per sbattere e vidi che al volante c’era una donna sulla quarantina. – Signora, mi scusi se l’ho spaventata... sta bene? 
– Ah, e chi poteva essere! Un ragazzino! – urlò la donna. 
– Mi scusi davvero, signora. Stavo prendendo una moneta che era caduta e...
– Va’ via, poppante, prima che cambi idea  riguardo il farti passare i guai! – esclamò lei minacciosamente, così decisi di allontanarmi e tornare da Nico, ignorando i commenti della gente che si era radunata per assistere allo spettacolo. 
–Percy, ti prego... Non ero in me... per favore... è tutto come prima? – chiese Nico, mentre iniziava a piangere.
Io non risposi e accesi di nuovo il motore, ignorando completamente il suo pianto. 
Mi si spezzava il cuore a vederlo in quello stato, ma non sapevo come rivolgermi a lui. Non sapevo che parole usare, non sapevo se dovevo essere offeso, comprensivo o qualcos’altro. Non sapevo nemmeno cosa provavo, ero sicuro solo della mia confusione.
– Se mi odi, allora portami a casa! – urlò dopo continuati pianti e singhiozzi da me ignorati.
– Non ti odio – dissi semplicemente. Di questo ne ero assolutamente certo.
– Sì, invece! Adesso ti faccio più schifo di prima! – urlò ancora, e io feci un sorriso triste. 
Come poteva pensare quelle cose così brutte? Come poteva fare schifo, come si poteva odiare una persona come Nico? Era un combina guai, era introverso e non pensava alle conseguenze, ma era un ragazzo pieno di risorse e se si conosceva bene, ed era anche affettuoso. Nico era profondo come i suoi occhi scuri e lo si conosceva solo una volta arrivati in fondo. E io ero piuttosto in fondo. 
Arrivammo a casa, ma vidi che Nico non ne voleva sapere di scendere.
– Scendi, su – dissi con un sospiro. 
Ovviamente lui rimase immobile, così uscii dalla macchina, aprii il suo sportello e mi accovacciai in modo che avessimo il viso alla stessa altezza, incurante della pioggia che mi bagnava fino al midollo. 
– Non sono arrabbiato con te, Nico, davvero. Scendi e andiamo a cucinare. Mangeremo insieme quello che hai comprato, ci cambieremo i vestiti e festeggeremo insieme questa Pasqua. Va tutto bene – dissi con tono gentile e per un secondo credei di averlo convinto, poi la sua espressione si indurì.
– Non va tutto bene – disse con la voce spezzata dal pianto. – Io ti ho baciato e a te ha fatto schifo.
Non riuscii a non sorridergli teneramente e gli accarezzai i capelli bagnati. Poi gli diedi un delicato bacio sulla guancia che lo fece arrossire. 
– Ne parleremo dopo – promisi, quindi presi il regalo e andai  frettolosamente verso la porta di casa con Nico al seguito.
 
Una volta arrivati dentro, andai dritto verso la mia camera a cercare qualcosa per Nico, dato che era bagnato fradicio. Lui rimase in cucina ad aspettarmi con un’espressione stravolta, dato che non si era ancora ripreso dal quasi incidente (così avevo deciso di definirlo).
– Nico, vieni! Ho trovato qualcosa per te! – lo chiamai, così mi raggiunse.
Era piuttosto magro rispetto a me, e le uniche cose che potevano stargli bene erano un paio di millenari jeans e una maglietta del Campo Mezzosangue piuttosto scolorita. 
– Non ho altro – spiegai. – Abbiamo taglie diverse. 
Lui annuì, mi ringraziò con un borbottio e andò a cambiarsi in bagno per evitare ulteriori imbarazzi. 
Una volta cambiati, andammo in cucina per iniziare a preparare il pranzo. Notai che a Nico la mia roba gli andava larga, nonostante quelli fossero i vestiti più stretti e vecchi del mio guardaroba, e lo facevano apparire ancora più magro. I suoi capelli erano umidi, adesso, e finalmente il suo nuovo taglio di capelli ebbe un po’ di senso. Non era elegante e non era aggraziato, ma c’era qualcosa in lui che non mi faceva concentrare molto bene sulla cucina.
In quel momento desideravo tanto essere spigliato e amichevole, ma riuscivo solo a passare una mano sui miei capelli umidi e a fissarlo di volta in volta, cosa che evidentemente lo innervosiva. Non faceva altro che mordersi l’interno delle guance, tormentarsi una pellicina sul pollice e ignorare il mio sguardo. 
Mi schiarii la gola. – Ehm... allora, mamma mi ha detto di fare una grigliata di hamburger, wurstel e roba così, quindi questi possiamo cucinarli anche dopo... – cominciai a spiegare, ma l’espressione improvvisamente delusa di Nico mi fece fermare. – C’è qualcosa che non va?
Non appena alzò lo guardo, il telefono squillò, quindi corsi a prendere il cordless rimasto gravemente danneggiato dalla sera scorsa.
Era mamma, e mi aveva appena annunciato senza entusiasmo che lei e lo Stoccafisso erano stati invitati dai colleghi di lui, quindi sarebbero tornati solo a tarda sera. Ne rimasi deluso. Insomma, nonostante avessi diciotto anni, mi dispiaceva non trascorrere una giornata di festa con la mia famiglia. 
Diedi la notizia a Nico, la cui espressione si fece ancora più cupa. – Quindi non cuciniamo? – chiese piano. 
Oh, allora era quello il problema! Probabilmente aveva sperato di cucinare per davvero, sporcandosi di farina, impastando ingredienti grassi... voleva cucinare e divertirsi, non voleva cucinare solo per farsi puzzare i capelli. 
– Ma certo che cuciniamo! E dato che siamo noi due, lascio decidere a te cosa preparare – annunciai con un sorriso rassicurante.  
– Davvero? – chiese, e il broncio se ne andò via dal suo viso, sostituito da uno dei suoi rari sorrisi raggianti. 
– Davvero – confermai. 
Avevo sempre creduto che fosse cresciuto troppo in fretta a causa di tutto ciò che gli era successo: la sicurezza di essere orfano quando non conosceva ancora il nostro mondo, l’avere come genitori una sola sorella di due anni più grande di lui per poi subire la sua morte... ma dopotutto restava comunque un ragazzino di quindici anni* che si entusiasmava all’idea di sporcarsi le mani cucinando, restava comunque un adolescente assolutamente pazzo che decideva di baciare un amico mentre questi guidava, provocando un quasi incidente. Sorrisi tra me e me, rassicurato dal fatto che Nico fosse umano e che non fosse del tutto spezzato a causa delle sue sofferenze. 
– Allora faremo un dolce – esclamò, mentre tamburellava nervosamente le dita sul bancone. 
Io annuii e andai a prendere dalla mensola il ricettario dei dolci. In quel librone c’erano un fantastiliardo di ricette e non sarebbe bastata una vita intera per provarle tutte. 
Passai il ricettario a Nico e mi misi accanto a lui, così da ammirare tutte le appetitose immagini dei dolci. 
Passò almeno mezz’ora prima che decidesse cosa preparare, una mezz’ora in cui provai a non fare caso al modo in cui umettava l’indice destro prima di cambiare pagina, il modo in cui si formava una ruga di concentrazione tra le sopracciglia e una serie di altri piccoli ma interessanti dettagli. 
– Ho deciso! – sentenziò alla fine, facendomi quasi sussultare da quanto ero applicato a osservare il modo in cui si mordicchiava le labbra. – Faremo le fave dei morti e il tiramisù*! 
Sgranai gli occhi e arrossii. – I... i che cosa?! 
Vidi Nico reprimere un sorriso, per niente imbarazzato. – Sono dolci tipici italiani. Di Venezia, per esattezza... sai, il mio luogo di origine. 
Mi concentrai su quello che aveva appena detto e allontanai dai miei pensieri il doppio senso che dava la parola “tiramisù”. 
– Oh... capisco. Certo che questi italiani sono proprio strambi – borbottai, facendo sorridere Nico mentre scuoteva la testa come a dire “è proprio un caso disperato”. 
Decidemmo di cucinare per prime le fave dei morti, e una volta presi gli ingredienti, ci divertimmo tantissimo a tritare mandorle, aggiungere vaniglia e, nel frattempo, bere un po’ di liquore che andava aggiunto insieme a tutto quel pasticcio. Nico inizialmente era molto sulle sue e si concentrava così tanto su quel lavoro che credevo desiderasse annegare in quella poltiglia di ingredienti, ma diventava amichevole ogni minuto di più. Non lo avevo mai visto così spensierato ed espansivo prima di allora, escludendo il giorno in cui lo conobbi. Ecco, in quel momento Nico era tornato ilare come allora, facendomi scaldare il cuore. Risi tantissimo quando fu il momento di rompere le uova: sul viso aveva disegnata un’espressione disgustata ed esitante mentre picchiettava troppo delicatamente l’uovo sul bordo della ciotola e imprecava in italiano. Provai a fare il serio quando presi in mano la situazione e nascosi un’espressione orgogliosa e compiaciuta mentre fissava con ammirazione le mie mani esperte che rompevano perfettamente in due l’uovo. Tentò di nuovo, ma i suoi sforzi furono vani. La ricetta diceva di aggiungere del cacao in alcune pagnotte, lasciarne altre del loro colore naturale e mettere del colorante rosa in quelle rimaste, ma scegliemmo il colorante azzurro sia per quelle del loro colore naturale, sia per quelle che sarebbero dovute essere rosa. Una volta messo un po’ di zucchero a velo, le avvolgemmo in una pellicola. La ricetta diceva di lasciarle in quel modo per almeno dodici ore, ma decidemmo di aspettare massimo sei ore. 
Dopotutto, eravamo americani. 
– Non voglio nemmeno immaginare cosa ne uscirà fuori – bofonchiò Nico, accasciandosi sul divano della cucina. Eravamo piuttosto stanchi, così decidemmo di riposarci per mezz’ora prima di riprendere e preparare il tiramisù. 
– Resta comunque il tiramisù – replicai con un sorriso goloso. Avevo visto l’immagine di quella strana torta italiana e non riuscivo a togliermela dalla testa. Prometteva così bene... avrei voluto mangiarne una teglia intera.
Restammo per un po’ in silenzio, ma non lo reputai imbarazzante, forse perché ero troppo impegnato a rivivere il bacio quasi fatale che Nico mi aveva dato qualche ora prima. Mi aveva scosso molto e mi aveva confuso ancora di più. Non sapevo cosa pensare dei miei sentimenti per Annabeth e non sapevo come considerare l’amicizia con Nico. 
Sapevo solo che le teorie di Annabeth non erano poi del tutto folli, e mi venne l’impulso di correre da lei e chiederle scusa.
Mi concentrai sul fatto di essere a qualche centimetro di distanza da Nico e sul fatto che noi due dovevamo parlare. Durante la preparazione delle fave dei morti avevamo tenuto il discorso alla larga e avevamo fatto finta di niente, ma quella era l’ora di fare i conti. 
– Nico – dissi con cautela, - prima... cos’è successo prima?
Vidi i suoi muscoli tendersi e la sua espressione indurirsi, e mi dispiacque per lui, ma io avevo bisogno di certezze. 
Stette per un po’ in silenzio, e quando capii che non mi avrebbe risposto, prese parola. – Dovevo per forza tapparti quella bocca che ti ritrovi – disse con una smorfia. 
Qualcosa dentro di me esultò, la parte che sperava che le azioni di Nico fossero state dettate dalla pura follia e dagli ormoni impazziti tipici dei quindicenni. L’altra parte, invece, crollò dolorosamente. Mi spaventai di me stesso. 
Stavo per replicare, quando Nico mi sfiorò la mano e mi intimò con gli occhi di tacere. – E per una volta volevo provare a vivere senza il peso di una maschera – continuò con amarezza. – Com’è che si dice? Ho preso due piccioni con una fava. 
– Nico, io... – sussurrai, ma la mia voce si spense.
Nico, io... cosa?
Nico, io sono fidanzato.
Nico, io amo la mia ragazza.
Nico, io sono un ragazzo. 
Nico, io sono confuso.
Nico, io non so cosa pensare di me stesso.
Nico, io non so come pensarti.
Nico, io...
Io...
Girai il capo in modo da incontrare il suo sguardo e dei, eravamo così vicini. – Io... – sussurrai di nuovo, ma non continuai.
In quell’istante avevano suonato il campanello di casa mia. 
Restammo per un attimo a guardarci sconsolati, poi Nico ruppe il nostro contatto visivo e si allontanò da me, mentre io andai ad aprire la porta. 
 
 
 

*So che Percy e Nico hanno quattro anni di differenza, ma sul web ho letto che il compleanno di Nico è il 28 Gennaio. Non so se sia giusto, ma comunque... se la matematica non è un’opinione, Percy, in questa ff, deve ancora compiere 19 anni.

 
** Tiramisù è una parola italiana, quindi gli americani non possono capire i doppi sensi, ma vivono in un mondo fatto di dei, centauri, ippocampi, e molto altro... lasciamo correre questo piccolo cambiamento xD
 
 

Note noiose d’autrice
Ringrazio coloro che hanno recensito e aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite e invito a coloro che ne hanno voglia a lasciarmi un commentino xD
A presto,
Daughter of Athena

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte 3 ***


 

Rimasi pietrificato quando vidi un atletico corpo femminile una volta aperta la porta. I lunghi e ondulati capelli biondi, gli occhi grigi che brillavano di intelligenza, i lineamenti delicati e l’espressione infastidita, come se lei fosse Medusa e io la sua preda e la cosa la irritava. Annabeth mi aveva sempre fatto quell’effetto quando mi sorprendeva, e si era abituata. O meglio, si era rassegnata.  
– Percy... – fece a mo’ di saluto, il tono seccato.
– A-Annabeth? – dissi incerto, sentendomi sempre più stupido. 
– Sì, Percy. Proprio Annabeth – mi schernì incrociando le braccia.
La guardai con timore: non avevo molta voglia di farla entrare perché proprio in cucina c’era Nico, ma lei sembrava stesse attendendo il peggio. 
Alla fine la feci entrare, e prima che potessi invitarla ad andare nella mia camera, con passo altero raggiunse la cucina. 
Sentii la temperatura abbassarsi di diversi gradi quando Nico e Annabeth si squadrarono ancora prima di salutarsi. Lei lo fissava come se volesse tagliargli la gola da un momento all’altro, mentre Nico aveva un’espressione indecifrabile. Io, invece, assistevo a tutto sullo stipite della porta: un punto perfetto per darsela a gambe da un momento all’altro. 
– Ciao, Annabeth – disse Nico con nervosismo. Evidentemente anche lui aveva avvertito l’improvviso calo di temperatura.
– Ehi – salutò freddamente lei. 
Nico le rivolse un sorriso che gli costò parecchio, considerato che sembrava più una smorfia. 
– Vi divertivate? – chiese Annabeth sarcasticamente, lo sguardo duro e impassibile. 
A Nico gli arrossirono le orecchie. – Be’, sì, abbiamo cucinato le... – ma si interruppe quando vide che non gli prestava attenzione. 
Lei stava guardando me. – Sono venuta qui per parlarti. 
Il mio cuore fece un salto mortale, ma non capii se fosse causato dalla speranza di chiarire tutto o dal timore di concludere la nostra storia. – Okay...
– Da soli – specificò.
Nico ci fissava con rabbia e risentimento malcelati. – Percy, io vado in camera tua. Spero di trovare dei vestiti più decenti. 
– No... – disse Annabeth, poi schioccò le dita e alzò gli occhi al cielo, come se volesse ricordare qualcosa, – mmh, Nico. Sì, Nico. Noi andiamo a fare una passeggiata.
Nico serrò la mascella e abbassò lo sguardo, e prima che potessi replicare, Annabeth mi afferrò per la manica della felpa e mi trascinò verso l’entrata. 
Ovviamente, con un diluvio universale in corso, non potevamo mica fare un’allegra passeggiata (e dubitavo anche che sarebbe stata tanto allegra), così scendemmo le scale e andammo in garage. 
– E così adesso siete diventati anche cuochi provetti? – chiese con amarezza.
Non risposi. Non avevo intenzione di replicare, di dire che tra me e Nico non c’era niente, perché non era vero. E se c’era una cosa che non mi andava di fare, quella era mentire ad Annabeth. 
– Credevo che fosse facile per me fare quello per cui sono venuta, ma... ma non lo è. Ti ho amato tanto, Percy – aveva abbandonato il tono accusatorio, amaro e disgustato. Adesso sembrava più tranquillo, ma io la conoscevo bene. Annabeth era spaventata, titubante.           
– Possiamo ricominciare – dissi, ma la realtà era che non ci credevo nemmeno io. 
– No... non servirebbe a nulla. Credevo che... credevo che noi due fossimo destinati a stare insieme, ma siamo troppo diversi. E qui Nico c’entra poco. Noi due non possiamo stare insieme, non dirmi che non l’hai capito – rispose, come se stesse riflettendo su un enorme errore fatto durante la progettazione di una sua creazione.
Sì, lo avevo capito, ormai. Non ne ero sicuro il giorno prima, ma i momenti passati con Nico quella mattina... be’, non mi sentivo leggero e contento da tanto tempo. Era la stessa sensazione che provavo con Annabeth quando avevamo iniziato a frequentarci. 
– Annabeth, mi dispiace tantissimo. Ero convinto anche io che noi due avessimo un futuro insieme, ma... no. Non voglio che tu continui a soffrire o a uscire pazza descrivendo nel minimo dettaglio lo sguardo di chiunque mi guardi – dissi, concludendo la frase con un sorriso triste. 
Mi rivolse un’occhiataccia stizzita, poi distese le labbra in un piccolo sorriso. – Mi mancherà la tua stupidità. 
– E a me mancherà la tua intelligenza. Mi mancherai tu in generale. 
Lei mi rivolse un altro sorriso, si mise in punta di piedi e mi diede un affettuoso bacio sulla fronte, tipo quelli che mi dava mia madre prima che partissi per un’impresa. – Stammi bene, Testa d’Alghe.
– Lo farò, Sapientona – riuscii a dire, poi mi voltò le spalle e uscì dal portone del garage.
Il rumore che fece il portone fu assordante, e lo associai alla conclusione della mia storia con lei. 
Mi sentivo le gambe molli e il cuore improvvisamente vuoto. Nonostante tutto, era la Sapientona a riempirlo e la sua mancanza sarebbe stata difficile da colmare.
Mi sentii improvvisamente solo, il freddo del garage penetrava sulla mia pelle e il rumore della pioggia mi spingeva ad accasciarmi per terra ed esplodere, e io non volevo. Volevo ricordare Annabeth come la prima persona che mi aveva fatto battere il cuore, la prima di cui mi ero innamorato davvero, la ragazza con cui avevo condiviso i momenti più belli e quelli più difficili; non volevo ricordarla per quello che era diventata negli ultimi due mesi, non volevo ricordarla come la ragazza acida e paranoica. 
 
 
In quell’infinita mezz’ora, non feci altro che pensare a Percy e Annabeth che facevano pace, mentre si baciavano con le mani intrecciate. Mi sentivo cattivo ogni volta che pregavo Afrodite di non farli chiarire, ma dubitavo che mi avrebbe ascoltato di nuovo: l’avevo già pregata, quel giorno, quando avevo deciso di tagliarmi da solo i capelli. 
Probabilmente, Percy aveva già dimenticato quel bacio che mi ero deciso a dare giusto per farci morire insieme e il modo in cui ci eravamo guardati un secondo prima che Annabeth fosse così tempestiva da suonare il campanello, e probabilmente lo avrei fatto anche io se fossi stato etero e avessi avuto una ragazza splendida e decisa come lei.
Non ricordavo Annabeth così acida e brusca, non mi ero proprio preparato per affrontarla con quel carattere. Non capivo che cosa le avessi fatto di male... o meglio, lo capivo, dato che ero innamorato del suo ragazzo, ma non glielo avevo mica detto. Poi ricordai che la ragazza in questione fosse una  figlia di Atena e che probabilmente aveva scoperto il mio segreto ancora prima di me. 
La cucina fino a qualche minuto fa mi sembrava un posto allegro e festoso, ma adesso quei banconi sporchi, quelle buste di ingredienti vuote e l’odore che aleggiava la facevano apparire deprimente, anche perché c’era un silenzio innaturale. 
Strinsi i pugni e mi imposi di fare qualcosa, e senza sapere perché me ne andai in camera di Percy. Era qualcosa di fantastico, sembrava di stare sott’acqua. Le pareti erano blu, così come i pavimenti, i mobili, i soprammobili, il letto e la trapunta. Non c’era niente di nauseante, però, perché Sally aveva utilizzato diverse tonalità di blu che facevano un effetto fantastico viste tutte insieme. 
Mi avvicinai al letto e vidi che sulla testiera c’era una foto con Annabeth, la stessa che Percy aveva utilizzato per l’uovo di Pasqua, che si trovava proprio accanto al letto. Sembrava fosse nascosto, perché non era facile notarlo. Immaginai che Percy non voleva regalarglielo perché non era sicuro di amarla, poi mi dissi che mi stavo solo illudendo. 
Sulla parete c’era un collage di foto del Campo Mezzosangue, così feci qualche passo e lo raggiunsi per studiarlo meglio. 
Oltre al numero incalcolabile di foto con Annabeth, c’erano anche foto con gli amici. Vidi che aveva la foto di gruppo, quella fatta dopo la guerra contro i Titani. Chirone aveva detto di farla in modo da ricordare per sempre i sopravvissuti e naturalmente io non volevo farla. Certo, ero sopravvissuto ai Titani, ma mi sentivo morto ogni volta che vedevo Percy e Annabeth che si sbaciucchiavano e tutto il campo che li adorava. Ricordai quando mi avevano raccontato del loro bacio subacqueo, ricordai che volevo sparire per sempre da quel posto gioioso che per me era un incubo. 
Mi concentrai sulla foto e studiai i nostri volti. Io ero distante da Percy di tre persone: Annabeth, Grover e Juniper, ed ero piuttosto arrabbiato per quello. Stavo per accarezzare il punto in cui c’era il viso sorridente di Percy quando notai un’altra foto. La foto rappresentava Clarisse e un’altra ragazza di cui non mi ero preso la briga di conoscere il nome, e in secondo piano c’erano Percy e Annabeth sorridenti, le mani intrecciate. Poi c’ero io, palesemente triste e geloso, che li fissava. La foto non era per niente carina e loro due erano venuti pure sfocati... ma allora perché l’aveva tenuta addirittura nel collage?
Per un istante mi venne in mente di staccarla e ridurla a brandelli, ma poi Percy se ne sarebbe accorto, così decisi di non strapparla. Cercai di dimenticarla e me ne tornai in cucina ad aspettare che Percy tornasse. 
 
Dopo un quarto d’ora, sentii la porta aprirsi. Nessuno parlava, quindi capii che Percy era da solo. 
Quando venne in cucina, notai che aveva gli occhi rossi, ma mi rivolse un sorriso forzato. 
– Scusa se ti ho lasciato qui da solo – disse con voce roca, poi si sedette accanto a me sul divano. 
– Non fa niente – risposi.  
Volevo assolutamente sapere cosa fosse successo con Annabeth, ma chiederglielo mi imbarazzava. 
– Ehm... stai bene? – chiesi dopo un po’. 
– Se per “stare bene” intendi sentirsi perso come uno straniero in auto senza il navigatore satellitare... be’, allora sto bene.
– Mi dispiace per il tuo navigatore satellitare – dissi con un piccolo sorriso, ma non perché avevo capito che lui e Annabeth non erano una più una coppia. Erano stati il paragone stupido e l’ironia a farmi sorridere.  
– Hai bisogno di stare solo – affermai quando nella stanza calò nuovamente il silenzio. – Meglio che vada.
Feci per alzarmi, ma lui mi afferrò il polso. – Resta. Ti prego. So di averti rovinato la giornata, ma da solo impazzirei – supplicò. 
In quel momento mi venne lo stesso istinto di prima, quando avevo deciso di baciarlo mentre guidava. I miei pensieri si affollarono e per una volta il mio cuore e la mia mente andavano d’accordo su qualcosa: baciarlo. Baciarlo fino a fargli dimenticare il sapore di Annabeth. Lui era lì, seduto scompostamente sul divano a pochi centimetri da me, la sua mano che stringeva il mio polso, la mia pelle che scottava proprio in quel punto. Aveva un’espressione da cucciolo ferito e l’aria di uno che aveva bisogno di essere curato. Capii che se lo avessi baciato lui non mi avrebbe respinto, e non mi avrebbe respinto nemmeno se fossi andato oltre il bacio, ma non era quello che volevo. In quel momento era triste e spezzato, e io non avevo intenzione di approfittarmi di lui, volevo solo essere me stesso e non occorreva baciarlo o altro. Mi servivano solo le parole. Riuscii a frenare i miei istinti solo grazie alla coscienza. 
– Okay. 
Mi risistemai accanto a lui e stavolta fui io ad avvolgere le sue spalle con il braccio. Non dissi niente e lui nemmeno, non sentivamo il bisogno di parlare. 
 Continuava a studiarmi con lo sguardo, come se mi stesse valutando, e il fatto che fossimo così vicini da sentire il suo respiro caldo sul mio collo non aiutava i miei bollori.
– Posso scartare il tuo regalo? 
Per poco non sobbalzai: mi ero così abituato al silenzio rotto solo dai nostri respiri corti che dimenticai l’uso della parola. 
Ed ecco, era arrivato il momento del regalo. Avevo concentrato su me stesso il coraggio di tutta una vita per acquistarlo e no, non per i duecento dollari. Quello non era uno stupido regalo senza significato. Quel regalo aveva un suo perché, era quello che mi avrebbe aiutato a sistemare la situazione o a distruggerla completamente. 
Fui tentato di dire che non doveva aprirlo, che dovevamo cucinare il tiramisù, ma mi dissi che sarebbe stato inutile. Non aveva senso rimandare, avrei solo tormentato me stesso a causa dell’ansia del momento. 
– S-sì – risposi con un filo di voce. 
Andammo quindi in camera sua, e mentre scartava velocemente il regalo, pensai di non spiegare la motivazione, di inventare una scusa. 
Percy scartò il regalo con più fretta di quanto avessi previsto, così non riuscii a inventare nulla. 
– Nico... wow! Di solito non me ne importa niente della bellezza delle cose che mangio, ma all’idea di mangiare questo mi si chiude lo stomaco, anche perché somiglia a Blackjack! – esclamò stupito. 
Sul suo letto, tra carta blu e pupazzetti blu, il pegaso al cioccolato fondente che gli avevo comprato si stagliava imponente ancora dentro la sua scatola trasparente. Nonostante lo avessi già visto, rimasi comunque colpito dai cinquanta centimetri di scultura e dai minimi particolari con cui era stato creato. Aveva le ali spiegate, gli occhi erano stati colorati di nero e non sembrava nemmeno cioccolato. A tradirlo, però, era il fantastico odore che emanava. 
Percy sembrava davvero felice, adesso, perché sorrideva con sincerità. Per un momento, lo avevo distratto da Annabeth. 
– In realtà non ho scelto il pegaso perché somiglia a Blackjack, né perché ti piacciono – ammisi, incespicando nelle parole. 
– E allora perché? – chiese, ammirando ancora l’opera d’arte. 
Non risposi, o almeno non subito, così lui posò lo sguardo accigliato su di me in attesa di una risposta. 
Ecco, era arrivato il momento di fargli il discorso, solo che avevo paura di spaventarlo. Dopo tutto quello che era successo con Annabeth avrebbe pensato che me ne stavo solo approfittando, ma non era così, perché io mi sono innamorato di lui anni fa, ancora prima di Annabeth. 
– Il pegaso... io ho scelto il pegaso perché mi ricorda te. Sai, questa creatura è conosciuta per la sua forza. È speciale... immagino che quando vola, esso si senta più maestoso di quanto non sia già, immagino che si senta libero e leggero, assume la sua vera forma che lo fa sentire se stesso, e me lo ricordi quando con un sorriso mi fai volare via dai miei problemi, mi fai sentire... vivo. Il pegaso è una creatura meravigliosa, Percy, come te, anche se ti reputo anche piuttosto ottuso. Sei libero, sei forte e sei così bello... – mi fermai. Il mio era un discorso così stupido, così degno delle melense telenovelas argentine che stavo per ordinare al pavimento di aprirsi in due e farmi cadere nel baratro.
Percy era rimasto senza parole e fissava prima me, poi il pegaso. Io mi avvicinai a lui. – Non voglio perderti, ma non ce la faccio a esserti amico. Scusa se ti sto dicendo tutto adesso, giuro che te lo avrei anche se stessi con Annabeth – sussurrai. 
Ci guardammo negli occhi, ed eravamo così vicini che potei contare le chiare lentiggini sparse sul suo naso. Buffo, non me ne ero mai accorto. 
Mise le mani sulla mia schiena e mi attirò a sé, e per un istante le nostre labbra si sfiorarono. Non mi sentii il cuore, non mi sentii più il corpo, non mi sentii più Nico Di Angelo, perché Nico Di Angelo non poteva trovarsi in un momento così bello con un ragazzo così splendido. Percy interruppe il nostro contatto visivo chiudendo gli occhi e respirò tremante. Compresi che aveva paura di fare quel passo, di baciarmi, di cambiare il nostro tipo di relazione. Dopotutto, era ancora troppo presto. 
Mi allontanai un po’ da lui. – Io ti posso aspettare. 
Aprì lentamente gli occhi. Era deluso da se stesso, era confuso. – Tu... credimi, Nico... tu sei qualcosa per me. Ma ho bisogno di tempo. Ho bisogno di capire alcune cose. 
– Va bene, Percy – sussurrai, fissando la sua espressione triste che mi faceva stare così male. – Adesso però voglio andare. È meglio se stiamo entrambi da soli.  
Nonostante l’espressione ancora più triste, Percy stavolta non obiettò. – Almeno ti do il passaggio. 
– Non serve. Amo la pioggia, e ormai non mi importa bagnarmi. I tuoi vestiti... te li do adesso?
– Tienili – disse con sicurezza.
Mi accompagnò all’entrata.
– Mi dispiace che te ne stai andando. E poi dovevamo ancora preparare il tiramisù – disse pensieroso. 
Non riuscii a non sorridergli. Naturalmente, lui in quel momento pensava al tiramisù.
– Sono sicuro che un giorno lo faremo – replicai. 
Lui annuì, e feci per girargli le spalle.
– Aspetta... 
Non mi diede nemmeno il tempo di pensare per quale motivo mi stesse ancora intrattenendo che le sue labbra salate si poggiarono sulle mie. Fu un bacio a stampo, come quello della macchina, ma il tocco fu più delicato e potei concentrarmi meglio sulla morbidezza delle sue labbra. 
Sentii il mio cuore sciogliersi. Percy non mi aveva comprato nulla, ma per quell’innocente bacio fu il miglior regalo pasquale, natalizio, di compleanno e di qualsiasi altra sciocchezza di sempre. 
– Buona Pasqua, Nico Di Angelo – sussurrò Percy sulle mie labbra, e capii che stava sorridendo. 
– Anche a te – dissi una volta fatti diversi passi indietro, poi con le gambe tremanti scesi le scale e affrontai il diluvio. 
 
Decisi di fare quattro passi sotto la pioggia nella strada sovraffollata in cui avevo incontrato Percy. Non c’era affatto confusione, solo una mezza dozzina di persone che correvano via con i cappotti alzati sulla testa e con ombrelli che si distruggevano a causa del forte vento. Mi rivolgevano occhiate stranite, molto probabilmente perché stavo passeggiando tranquillamente a maniche corte nel corso della tempesta, ma a me non importava. Probabilmente mi sarebbe venuta qualche malanno, ma non mi importava nemmeno quello. Nonostante non ci fosse nessuno, avevo deciso di andare lì per dimostrare di essere un ragazzo normale (fino a quanto possa essere normale un semidio) con problemi normali che faceva idiozie (a)normali, tipo sorridere alle nuvole scure come se fossero vecchie amiche. 
Non avevo concluso la Pasqua con un litigio dimenticato con un bacio, non c’era stata nessuna famiglia ad obbligarmi di abbuffarmi di hamburger e cose del genere, ma mi andava bene così. Per una volta nella vita ero felice, ero felice dei piccoli cambiamenti con Percy. Ero felice di essermene andato senza nemmeno aver finito di cucinare, perché era giusto così. 
Ero sicuro che ci sarebbero stati un sacco di momenti da condividere insieme a Percy, ed ero felice di attenderli. 

Rimasi pietrificato quando vidi un atletico corpo femminile una volta aperta la porta. I lunghi e ondulati capelli biondi, gli occhi grigi che brillavano di intelligenza, i lineamenti delicati e l’espressione infastidita, come se lei fosse Medusa e io la sua preda e la cosa la irritava. Annabeth mi aveva sempre fatto quell’effetto quando mi sorprendeva, e si era abituata. O meglio, si era rassegnata.  
– Percy... – fece a mo’ di saluto, il tono seccato.
– A-Annabeth? – dissi incerto, sentendomi sempre più stupido. 
– Sì, Percy. Proprio Annabeth – mi schernì incrociando le braccia.
La guardai con timore: non avevo molta voglia di farla entrare perché proprio in cucina c’era Nico, ma lei sembrava stesse attendendo il peggio. 
Alla fine la feci entrare, e prima che potessi invitarla ad andare nella mia camera, con passo altero raggiunse la cucina. 
Sentii la temperatura abbassarsi di diversi gradi quando Nico e Annabeth si squadrarono ancora prima di salutarsi. Lei lo fissava come se volesse tagliargli la gola da un momento all’altro, mentre Nico aveva un’espressione indecifrabile. Io, invece, assistevo a tutto sullo stipite della porta: un punto perfetto per darsela a gambe da un momento all’altro. 
– Ciao, Annabeth – disse Nico con nervosismo. Evidentemente anche lui aveva avvertito l’improvviso calo di temperatura.
– Ehi – salutò freddamente lei. 
Nico le rivolse un sorriso che gli costò parecchio, considerato che sembrava più una smorfia. 
– Vi divertivate? – chiese Annabeth sarcasticamente, lo sguardo duro e impassibile. 
A Nico gli arrossirono le orecchie. – Be’, sì, abbiamo cucinato le... – ma si interruppe quando vide che non gli prestava attenzione. 
Lei stava guardando me. – Sono venuta qui per parlarti. 
Il mio cuore fece un salto mortale, ma non capii se fosse causato dalla speranza di chiarire tutto o dal timore di concludere la nostra storia. – Okay...
– Da soli – specificò.
Nico ci fissava con rabbia e risentimento malcelati. – Percy, io vado in camera tua. Spero di trovare dei vestiti più decenti. 
– No... – disse Annabeth, poi schioccò le dita e alzò gli occhi al cielo, come se volesse ricordare qualcosa, – mmh, Nico. Sì, Nico. Noi andiamo a fare una passeggiata.
Nico serrò la mascella e abbassò lo sguardo, e prima che potessi replicare, Annabeth mi afferrò per la manica della felpa e mi trascinò verso l’entrata. 
Ovviamente, con un diluvio universale in corso, non potevamo mica fare un’allegra passeggiata (e dubitavo anche che sarebbe stata tanto allegra), così scendemmo le scale e andammo in garage. 
– E così adesso siete diventati anche cuochi provetti? – chiese con amarezza.
Non risposi. Non avevo intenzione di replicare, di dire che tra me e Nico non c’era niente, perché non era vero. E se c’era una cosa che non mi andava di fare, quella era mentire ad Annabeth. 
– Credevo che fosse facile per me fare quello per cui sono venuta, ma... ma non lo è. Ti ho amato tanto, Percy – aveva abbandonato il tono accusatorio, amaro e disgustato. Adesso sembrava più tranquillo, ma io la conoscevo bene. Annabeth era spaventata, titubante.           
– Possiamo ricominciare – dissi, ma la realtà era che non ci credevo nemmeno io. 
– No... non servirebbe a nulla. Credevo che... credevo che noi due fossimo destinati a stare insieme, ma siamo troppo diversi. E qui Nico c’entra poco. Noi due non possiamo stare insieme, non dirmi che non l’hai capito – rispose, come se stesse riflettendo su un enorme errore fatto durante la progettazione di una sua creazione.
Sì, lo avevo capito, ormai. Non ne ero sicuro il giorno prima, ma i momenti passati con Nico quella mattina... be’, non mi sentivo leggero e contento da tanto tempo. Era la stessa sensazione che provavo con Annabeth quando avevamo iniziato a frequentarci. 
– Annabeth, mi dispiace tantissimo. Ero convinto anche io che noi due avessimo un futuro insieme, ma... no. Non voglio che tu continui a soffrire o a uscire pazza descrivendo nel minimo dettaglio lo sguardo di chiunque mi guardi – dissi, concludendo la frase con un sorriso triste. 
Mi rivolse un’occhiataccia stizzita, poi distese le labbra in un piccolo sorriso. – Mi mancherà la tua stupidità. 
– E a me mancherà la tua intelligenza. Mi mancherai tu in generale. 
Lei mi rivolse un altro sorriso, si mise in punta di piedi e mi diede un affettuoso bacio sulla fronte, tipo quelli che mi dava mia madre prima che partissi per un’impresa. – Stammi bene, Testa d’Alghe.
– Lo farò, Sapientona – riuscii a dire, poi mi voltò le spalle e uscì dal portone del garage.
Il rumore che fece il portone fu assordante, e lo associai alla conclusione della mia storia con lei. 
Mi sentivo le gambe molli e il cuore improvvisamente vuoto. Nonostante tutto, era la Sapientona a riempirlo e la sua mancanza sarebbe stata difficile da colmare.
Mi sentii improvvisamente solo, il freddo del garage penetrava sulla mia pelle e il rumore della pioggia mi spingeva ad accasciarmi per terra ed esplodere, e io non volevo. Volevo ricordare Annabeth come la prima persona che mi aveva fatto battere il cuore, la prima di cui mi ero innamorato davvero, la ragazza con cui avevo condiviso i momenti più belli e quelli più difficili; non volevo ricordarla per quello che era diventata negli ultimi due mesi, non volevo ricordarla come la ragazza acida e paranoica. 
 
 


In quell’infinita mezz’ora, non feci altro che pensare a Percy e Annabeth che facevano pace, mentre si baciavano con le mani intrecciate. Mi sentivo cattivo ogni volta che pregavo Afrodite di non farli chiarire, ma dubitavo che mi avrebbe ascoltato di nuovo: l’avevo già pregata, quel giorno, quando avevo deciso di tagliarmi da solo i capelli. 
Probabilmente, Percy aveva già dimenticato quel bacio che mi ero deciso a dare giusto per farci morire insieme e il modo in cui ci eravamo guardati un secondo prima che Annabeth fosse così tempestiva da suonare il campanello, e probabilmente lo avrei fatto anche io se fossi stato etero e avessi avuto una ragazza splendida e decisa come lei.
Non ricordavo Annabeth così acida e brusca, non mi ero proprio preparato per affrontarla con quel carattere. Non capivo che cosa le avessi fatto di male... o meglio, lo capivo, dato che ero innamorato del suo ragazzo, ma non glielo avevo mica detto. Poi ricordai che la ragazza in questione fosse una  figlia di Atena e che probabilmente aveva scoperto il mio segreto ancora prima di me. 
La cucina fino a qualche minuto fa mi sembrava un posto allegro e festoso, ma adesso quei banconi sporchi, quelle buste di ingredienti vuote e l’odore che aleggiava la facevano apparire deprimente, anche perché c’era un silenzio innaturale. 
Strinsi i pugni e mi imposi di fare qualcosa, e senza sapere perché me ne andai in camera di Percy. Era qualcosa di fantastico, sembrava di stare sott’acqua. Le pareti erano blu, così come i pavimenti, i mobili, i soprammobili, il letto e la trapunta. Non c’era niente di nauseante, però, perché Sally aveva utilizzato diverse tonalità di blu che facevano un effetto fantastico viste tutte insieme. 
Mi avvicinai al letto e vidi che sulla testiera c’era una foto con Annabeth, la stessa che Percy aveva utilizzato per l’uovo di Pasqua, che si trovava proprio accanto al letto. Sembrava fosse nascosto, perché non era facile notarlo. Immaginai che Percy non voleva regalarglielo perché non era sicuro di amarla, poi mi dissi che mi stavo solo illudendo. 
Sulla parete c’era un collage di foto del Campo Mezzosangue, così feci qualche passo e lo raggiunsi per studiarlo meglio. 
Oltre al numero incalcolabile di foto con Annabeth, c’erano anche foto con gli amici. Vidi che aveva la foto di gruppo, quella fatta dopo la guerra contro i Titani. Chirone aveva detto di farla in modo da ricordare per sempre i sopravvissuti e naturalmente io non volevo farla. Certo, ero sopravvissuto ai Titani, ma mi sentivo morto ogni volta che vedevo Percy e Annabeth che si sbaciucchiavano e tutto il campo che li adorava. Ricordai quando mi avevano raccontato del loro bacio subacqueo, ricordai che volevo sparire per sempre da quel posto gioioso che per me era un incubo. 
Mi concentrai sulla foto e studiai i nostri volti. Io ero distante da Percy di tre persone: Annabeth, Grover e Juniper, ed ero piuttosto arrabbiato per quello. Stavo per accarezzare il punto in cui c’era il viso sorridente di Percy quando notai un’altra foto. La foto rappresentava Clarisse e un’altra ragazza di cui non mi ero preso la briga di conoscere il nome, e in secondo piano c’erano Percy e Annabeth sorridenti, le mani intrecciate. Poi c’ero io, palesemente triste e geloso, che li fissava. La foto non era per niente carina e loro due erano venuti pure sfocati... ma allora perché l’aveva tenuta addirittura nel collage?
Per un istante mi venne in mente di staccarla e ridurla a brandelli, ma poi Percy se ne sarebbe accorto, così decisi di non strapparla. Cercai di dimenticarla e me ne tornai in cucina ad aspettare che Percy tornasse. 
 
Dopo un quarto d’ora, sentii la porta aprirsi. Nessuno parlava, quindi capii che Percy era da solo. 
Quando venne in cucina, notai che aveva gli occhi rossi, ma mi rivolse un sorriso forzato. 
– Scusa se ti ho lasciato qui da solo – disse con voce roca, poi si sedette accanto a me sul divano. 
– Non fa niente – risposi.  
Volevo assolutamente sapere cosa fosse successo con Annabeth, ma chiederglielo mi imbarazzava. 
– Ehm... stai bene? – chiesi dopo un po’. 
– Se per “stare bene” intendi sentirsi perso come uno straniero in auto senza il navigatore satellitare... be’, allora sto bene.
– Mi dispiace per il tuo navigatore satellitare – dissi con un piccolo sorriso, ma non perché avevo capito che lui e Annabeth non erano una più una coppia. Erano stati il paragone stupido e l’ironia a farmi sorridere.  
– Hai bisogno di stare solo – affermai quando nella stanza calò nuovamente il silenzio. – Meglio che vada.
Feci per alzarmi, ma lui mi afferrò il polso. – Resta. Ti prego. So di averti rovinato la giornata, ma da solo impazzirei – supplicò. 
In quel momento mi venne lo stesso istinto di prima, quando avevo deciso di baciarlo mentre guidava. I miei pensieri si affollarono e per una volta il mio cuore e la mia mente andavano d’accordo su qualcosa: baciarlo. Baciarlo fino a fargli dimenticare il sapore di Annabeth. Lui era lì, seduto scompostamente sul divano a pochi centimetri da me, la sua mano che stringeva il mio polso, la mia pelle che scottava proprio in quel punto. Aveva un’espressione da cucciolo ferito e l’aria di uno che aveva bisogno di essere curato. Capii che se lo avessi baciato lui non mi avrebbe respinto, e non mi avrebbe respinto nemmeno se fossi andato oltre il bacio, ma non era quello che volevo. In quel momento era triste e spezzato, e io non avevo intenzione di approfittarmi di lui, volevo solo essere me stesso e non occorreva baciarlo o altro. Mi servivano solo le parole. Riuscii a frenare i miei istinti solo grazie alla coscienza. 
– Okay. 
Mi risistemai accanto a lui e stavolta fui io ad avvolgere le sue spalle con il braccio. Non dissi niente e lui nemmeno, non sentivamo il bisogno di parlare. 
 Continuava a studiarmi con lo sguardo, come se mi stesse valutando, e il fatto che fossimo così vicini da sentire il suo respiro caldo sul mio collo non aiutava i miei bollori.
– Posso scartare il tuo regalo? 
Per poco non sobbalzai: mi ero così abituato al silenzio rotto solo dai nostri respiri corti che dimenticai l’uso della parola. 
Ed ecco, era arrivato il momento del regalo. Avevo concentrato su me stesso il coraggio di tutta una vita per acquistarlo e no, non per i duecento dollari. Quello non era uno stupido regalo senza significato. Quel regalo aveva un suo perché, era quello che mi avrebbe aiutato a sistemare la situazione o a distruggerla completamente. 
Fui tentato di dire che non doveva aprirlo, che dovevamo cucinare il tiramisù, ma mi dissi che sarebbe stato inutile. Non aveva senso rimandare, avrei solo tormentato me stesso a causa dell’ansia del momento. 
– S-sì – risposi con un filo di voce. 
Andammo quindi in camera sua, e mentre scartava velocemente il regalo, pensai di non spiegare la motivazione, di inventare una scusa. 
Percy scartò il regalo con più fretta di quanto avessi previsto, così non riuscii a inventare nulla. 
– Nico... wow! Di solito non me ne importa niente della bellezza delle cose che mangio, ma all’idea di mangiare questo mi si chiude lo stomaco, anche perché somiglia a Blackjack! – esclamò stupito. 
Sul suo letto, tra carta blu e pupazzetti blu, il pegaso al cioccolato fondente che gli avevo comprato si stagliava imponente ancora dentro la sua scatola trasparente. Nonostante lo avessi già visto, rimasi comunque colpito dai cinquanta centimetri di scultura e dai minimi particolari con cui era stato creato. Aveva le ali spiegate, gli occhi erano stati colorati di nero e non sembrava nemmeno cioccolato. A tradirlo, però, era il fantastico odore che emanava. 
Percy sembrava davvero felice, adesso, perché sorrideva con sincerità. Per un momento, lo avevo distratto da Annabeth. 
– In realtà non ho scelto il pegaso perché somiglia a Blackjack, né perché ti piacciono – ammisi, incespicando nelle parole. 
– E allora perché? – chiese, ammirando ancora l’opera d’arte. 
Non risposi, o almeno non subito, così lui posò lo sguardo accigliato su di me in attesa di una risposta. 
Ecco, era arrivato il momento di fargli il discorso, solo che avevo paura di spaventarlo. Dopo tutto quello che era successo con Annabeth avrebbe pensato che me ne stavo solo approfittando, ma non era così, perché io mi sono innamorato di lui anni fa, ancora prima di Annabeth. 
– Il pegaso... io ho scelto il pegaso perché mi ricorda te. Sai, questa creatura è conosciuta per la sua forza. È speciale... immagino che quando vola, esso si senta più maestoso di quanto non sia già, immagino che si senta libero e leggero, assume la sua vera forma che lo fa sentire se stesso, e me lo ricordi quando con un sorriso mi fai volare via dai miei problemi, mi fai sentire... vivo. Il pegaso è una creatura meravigliosa, Percy, come te, anche se ti reputo anche piuttosto ottuso. Sei libero, sei forte e sei così bello... – mi fermai. Il mio era un discorso così stupido, così degno delle melense telenovelas argentine che stavo per ordinare al pavimento di aprirsi in due e farmi cadere nel baratro.
Percy era rimasto senza parole e fissava prima me, poi il pegaso. Io mi avvicinai a lui. – Non voglio perderti, ma non ce la faccio a esserti amico. Scusa se ti sto dicendo tutto adesso, giuro che te lo avrei anche se stessi con Annabeth – sussurrai. 
Ci guardammo negli occhi, ed eravamo così vicini che potei contare le chiare lentiggini sparse sul suo naso. Buffo, non me ne ero mai accorto. 
Mise le mani sulla mia schiena e mi attirò a sé, e per un istante le nostre labbra si sfiorarono. Non mi sentii il cuore, non mi sentii più il corpo, non mi sentii più Nico Di Angelo, perché Nico Di Angelo non poteva trovarsi in un momento così bello con un ragazzo così splendido. Percy interruppe il nostro contatto visivo chiudendo gli occhi e respirò tremante. Compresi che aveva paura di fare quel passo, di baciarmi, di cambiare il nostro tipo di relazione. Dopotutto, era ancora troppo presto. 
Mi allontanai un po’ da lui. – Io ti posso aspettare. 
Aprì lentamente gli occhi. Era deluso da se stesso, era confuso. – Tu... credimi, Nico... tu sei qualcosa per me. Ma ho bisogno di tempo. Ho bisogno di capire alcune cose. 
– Va bene, Percy – sussurrai, fissando la sua espressione triste che mi faceva stare così male. – Adesso però voglio andare. È meglio se stiamo entrambi da soli.  
Nonostante l’espressione ancora più triste, Percy stavolta non obiettò. – Almeno ti do il passaggio. 
– Non serve. Amo la pioggia, e ormai non mi importa bagnarmi. I tuoi vestiti... te li do adesso?
– Tienili – disse con sicurezza.
Mi accompagnò all’entrata.
– Mi dispiace che te ne stai andando. E poi dovevamo ancora preparare il tiramisù – disse pensieroso. 
Non riuscii a non sorridergli. Naturalmente, lui in quel momento pensava al tiramisù.
– Sono sicuro che un giorno lo faremo – replicai. 
Lui annuì, e feci per girargli le spalle.
– Aspetta... 
Non mi diede nemmeno il tempo di pensare per quale motivo mi stesse ancora intrattenendo che le sue labbra salate si poggiarono sulle mie. Fu un bacio a stampo, come quello della macchina, ma il tocco fu più delicato e potei concentrarmi meglio sulla morbidezza delle sue labbra. 
Sentii il mio cuore sciogliersi. Percy non mi aveva comprato nulla, ma per quell’innocente bacio fu il miglior regalo pasquale, natalizio, di compleanno e di qualsiasi altra sciocchezza di sempre. 
– Buona Pasqua, Nico Di Angelo – sussurrò Percy sulle mie labbra, e capii che stava sorridendo. 
– Anche a te – dissi una volta fatti diversi passi indietro, poi con le gambe tremanti scesi le scale e affrontai il diluvio. 
 
Decisi di fare quattro passi sotto la pioggia nella strada sovraffollata in cui avevo incontrato Percy. Non c’era affatto confusione, solo una mezza dozzina di persone che correvano via con i cappotti alzati sulla testa e con ombrelli che si distruggevano a causa del forte vento. Mi rivolgevano occhiate stranite, molto probabilmente perché stavo passeggiando tranquillamente a maniche corte nel corso della tempesta, ma a me non importava. Probabilmente mi sarebbe venuta qualche malanno, ma non mi importava nemmeno quello. Nonostante non ci fosse nessuno, avevo deciso di andare lì per dimostrare di essere un ragazzo normale (fino a quanto possa essere normale un semidio) con problemi normali che faceva idiozie (a)normali, tipo sorridere alle nuvole scure come se fossero vecchie amiche. 
Non avevo concluso la Pasqua con un litigio dimenticato con un bacio, non c’era stata nessuna famiglia ad obbligarmi di abbuffarmi di hamburger e cose del genere, ma mi andava bene così. Per una volta nella vita ero felice, ero felice dei piccoli cambiamenti con Percy. Ero felice di essermene andato senza nemmeno aver finito di cucinare, perché era giusto così. 
Ero sicuro che ci sarebbero stati un sacco di momenti da condividere insieme a Percy, ed ero felice di attenderli. 

 

 

 

Note noiose dell'autrice

Finalmente ho aggiornato questa storia! Dei, mi sento troppo realizzata. Scusate l'attesa, ma sono stata - e sono - incasinatissima. 

Con questo capitolo concludo la storia. So che non è "del tutto" conclusa, ma ho deciso di dare spazio al lettore in modo che li possa immaginare come vuole. 

Ringrazio coloro che hanno recensito la storia e coloro che l'hanno aggiunta alle preferite/ ricordate / seguite. GRAZIE DAVVERO.


 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2578377