For fear, for love.

di martaparrilla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Emma ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Regina ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Emma ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Regina ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Emma ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Regina ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Emma ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Regina ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Emma ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Regina ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Emma ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Regina ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Emma ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Regina ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Emma ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Regina ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Emma ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Regina ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Emma ***


1. EMMA

Per la milionesima volta lei, Regina Mills, aveva indetto una riunione per futili motivi. L'ultima volta ha avuto il coraggio di mobilitare mezzo palazzo solo perchè un nuovo inquilino aveva lasciato sbadatamente la finestra del suo pianerottolo aperta. Lei aveva detto: "ho sentito una folata di aria gelida mentre uscivo da casa, bisogna rispettare gli altri, e le finestre vanno lasciate chiuse nel periodo invernale”.

Mi sedevo sempre in prima fila, ero una delle ultime arrivate e volevo capire un po' com'era il palazzo in cui mi ero trasferita, la gente che ci viveva, le persone che potevo salutare e quelle da cui dovevo star alla larga. Regina apparteneva decisamente a quest'ultimo gruppo. Ogni volta era una sciocchezza diversa, sempre più assurda. Ma ero l'unica lì ad aver il coraggio di rispondere alle sue lamentele. L'unica ad alzarsi e affrontare i suoi occhi neri come la notte. Gli altri sembravano terrorizzati, e tutti rispettavano alla lettera le sue richieste, come se fosse la sovrana di un regno.

La Regina cattiva. Uhm. Si, credo di riuscire a immaginarmela stretta da un corsetto di velluto nero e una corona. L'ultima volta, al suono delle sua voce, mi ero limitata a sbuffare. Di rimando lei aveva piantato gli occhi dentro ai miei, incrociando le braccia, e avvicinandosi al mio viso, pronta a controbattere. La sua vicinanza mi aveva fatto arrabbiare in modo indicibile. Il suo atteggiamento di sfida era insopportabile.

Era la prima volta che si avvicinava così a me. Mi ricordo ancora la sensazione che avevo provato: una vampata di calore che dai piedi arrivò fino al viso. Era come se i suoi occhi, così vicini a me, mi avessero spogliata. Ma non le avevo dato il tempo di dire nulla. Mi ero alzata e, pronunciando soltanto le parole “lei è ridicola" avevo girato i tacchi ed ero andata via, ignara dei mormorii della gente dietro di me.

Stavolta non volevo farmi la sfilata tra la gente, paonazza in viso, solo per sentirle dire che un ragnetto era entrato in casa sua senza bussare. Tutti stavano prendendo il loro posto. Io me ne sto in piedi, spalle al muro, vicino alla porta della stanza adibita alle riunioni. Non voglio di nuovo affrontare quello sguardo, non così vicina almeno. Allungo un braccio come per stiracchiarmi e qualcosa, anzi qualcuno, ci sbatte contro.

Mi volto. Il suo gelido sguardo circondato dal trucco nero la fa sembrare ancora più cattiva. «Oh, la Regina degli inferi si è degnata di presentarsi».

Devo stare a distanza di sicurezza. Sfrontata, mi sistemo la camicia dentro i pantaloni. La vedo alzare il sopracciglio e incrociare le braccia al petto così per la prima volta la squadro. 165 cm di malvagità. Arriva a 175 con i tacchi e a lei quelli non mancano mai. Gonna inevitabilmente stretta, anzi, non era il solito tailleur, ma un tubino nero a maniche corte che lascia intravedere del pizzo nella scollatura. Caschetto nero, occhi scuri, labbra rosso fuoco. Continua a fissarmi senza dire una parola, sembra voglia mangiarmi.

«Ha perso la parola? Il gatto le ha mangiato la lingua?».

Il suo sguardo imperturbabile, al suono delle mie parole, crolla.

Le pupille, dapprima piccole come capocchie di spillo, improvvisamente assumono una dimensione più umana, come se si siano rilassate, assieme a tutto il corpo di Regina. L'intreccio delle braccia attorno al petto si scioglie, le spalle ricadono un po' in avanti, come se avessero perso rigidità. Tenta di dirmi qualcosa ma le parole le si fermano in gola. Sembra voglia piangere! Regina che piange? No, c'è qualcosa che non quadra. Mi avvicino piano ma lei fa un passo indietro, per poi voltarsi e andar via.

Ma che diavolo è successo? Le ho detto di peggio altre volte. E' crollata com'è successo a me l'ultima volta? Mi affaccio e la guardo andare via di gran passo.

La gente aspetta, così, cercando di farmi sentire da tutti urlo: «Credo che la riunione sia stata rimandata».

Mi infilo le mani nelle tasche e inizio a camminare velocemente, dietro la corsa di Regina.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Regina ***


2. REGINA

So di essere considerata una donna fredda, cinica e senza cuore, lo so perfettamente. E il mio più divertente passatempo, oltre a rendere la vita impossibile agli altri inquilini del palazzo è cercare di attirare l'attenzione di Emma, l'unica che riesce a tenermi testa in quel posto. L'unica con un po' di spina dorsale che mi venga a dire che le mie lamentele sono pressochè esagerate la maggior parte delle volte. Ma adoro quando si arrabbia.

E' arrivata nel palazzo solo cinque mesi prima, con un grosso zaino e un giubbino in pelle rosso. Occhi blu, capelli dorati. Una visione celestiale. Io so da tempo ormai che le donne non mi sono indifferenti ma lei...lei riesce a farmi sussultare solo fissandomi o insultandomi.

Ma ho un'arma in mano: non lo do a vedere. Sono in grado di sostenere il più feroce dei confronti perché mai avrei detto o fatto notare che avessi un debole per la biondina. Tanto che lei sembra non ricambiare, né per me né per le altre donne. Un punto a suo sfavore.

Mi guardo un'ultima volta allo specchio prima di spruzzare due gocce di profumo e uscire di casa. Sbatto rumorosamente la porta e scendo i tre piani di scale che mi separano dall'atrio a piedi, con la borsa sulla spalla, nella quale avevo infilato le chiavi. Percorro il lungo corridoio che costeggia l'ascensore e sento già la gente mormorare in lontananza. Ho il mio discorso pronto e sto varcando la soglia, pronta a cercarla con lo sguardo, quando trovo un ostacolo al mio passaggio. Abbasso il viso: un braccio aveva toccato il mio addome e...riconosco al volo quella camicia.

E' lei. Abbassa il braccio prima di guardarmi. Io incrocio le mie al petto.

«La regina degli inferi si è degnata di presentarsi».

Odio quando mi chiamano così! Lo odio profondamente. Ci sono una miriade di modi con cui possono definirmi: vecchia strega, Mortisia Addams, o anche Mercoledì, Malefica in nero, Voldemort, anche Jane (amatissimi Volturi, creaturine adorabili i vampiri). Ma odio che il mio nome venga usato per quella stupida frase.

Prendo a respirare più rapidamente quando mi accorgo che si è fermata a fissarmi. E' partita dai piedi per poi arrivare alla mia scollatura. Perché mi guarda? Da quando quella donna ha interesse a guardarmi in quel modo?

«Ha perso la parola? Il gatto le ha mangiato la lingua?».

La sua voce, oltremodo affascinante, mi da il colpo di grazia sentita a quella distanza troppo ravvicinata, senza orecchie e occhi estranei che ci guardano, come siamo solito fare alle riunioni settimanali.

Sento le orecchie fischiare.

Non riesco più a restare ferma. La rigidità con cui tenevo le braccia al petto scompare, e gli occhi iniziano a bruciare: lacrime. Non li stacco dai suoi, occhi che mi ricordavano qualcuno. E lei sembra non volere cedere con lo sguardo. Fa un passo verso di me. Voglio rimanere ferma ma il mio corpo no. Torno indietro e prima che lei possa dire altro, mi volto velocemente, facendo ticchettare le scarpe sul pavimento. Porto le mani tra i capelli, cercando di ripetermi di stare calma. Faccio le scale a una velocità che non credevo di potere raggiungere e con le mani ancora tremanti raggiungo il mio piano, la mia porta, la mia casa.

La porta sbatte di nuovo. Quello sguardo, il tono della voce mentre si prendeva gioco di me. Gli occhi erano uguali ai suoi.

Che diavolo mi è successo? Perché il cuore aveva fatto un tonfo per poi cominciare a battere all'impazzata? Mi sfilo le scarpe all'ingresso e cammino sul pavimento gelido di marmo fino ad arrivare alla cucina. Prendo il boccale dell'acqua e ne verso un bicchiere.

Le mani continuano a tremare e i brividi si sono spostati a tutto il corpo. Una lacrima scende sulla guancia. La asciugo.

Campanello.

Qualcuno ha suonato il campanello.

Non mi muovo nemmeno di mezzo centimetro. Aspetto in religioso silenzio che l'intruso se ne vada.

Nessuno può vedermi in quello stato. Il campanello continua a suonare e una voce inizia a pronunciare alcune parole.

«Regina sono Emma, so che è in casa, ho sentito la sua porta sbattere, volevo sapere se si sentiva bene, mi sembrava sconvolta poco fa, non volevo offenderla».

Altro squillo di campanello. Mi ha seguita? Perché? Quando mai qualcuno mi ha seguita per assicurarsi che stessi bene? E la sua voce? Può essere così bella da farmi rimanere ferma quasi in apnea solo per ascoltarla?

«Regina?» ha parlato di nuovo «sarò costretta a chiamare il portiere e farmi dare le chiavi per aprire».

E' pazza? Non voglio che mi vedano così.

«Voglio solo sapere se va tutto bene».

Se avessi aperto a quella donna mi avrebbe vista pallida, col trucco sbavato e in preda a un attacco di panico. Decisamente impensabile.

Così, preso coraggio, mi dirigo a passi lenti verso la porta. Noto le mie scarpe. Giusto, sono anche senza scarpe. Prendo fiato.

«Sto bene, stia tranquilla. Era solo» devo inventarmi qualcosa «solo...avevo dimenticato il fornello acceso e credevo che fosse andata a fuoco la casa. Sa che incredibile riunione avrebbero indetto contro di me?» ho fatto una battuta? Mi avvicino allo spioncino e guardo dentro. Sembra voglia trattenere una risata mettendosi una mano alla bocca.

«Sicura che stia bene?» dice di nuovo, prendendomi alla sprovvista. Mi sposto come se me l'avesse urlato in faccia, come se quella frase avesse un'onda d'urto e mi accascio con la schiena contro il portoncino.

«Si sto benissimo. Grazie per aver disdetto la riunione comunque» grazie per esserti preoccupata per me, avrei voluto aggiungere.

«Può andare ora, sto bene, devo.... solo ripulire tutto».

Che scusa idiota che avevo scelto, non mi avrebbe mai creduto. Nessuna risposta. Deve essere andata via.

Aspetto li ferma qualche minuto.

Accasciata sul pavimento, inizio a pensare. Mi stringo le ginocchia al petto, cercando di limitare i brividi di freddo. Nessuno mai ha avuto questo effetto su di me.

Mai. Ho sempre sostenuto i loro sguardi, le loro richieste, i loro schiaffi morali. Ma soprattutto per tutte provavo sempre e solo un'enorme attrazione fisica, non mi importava quello che pensavano di me, a me importava il sesso e basta. Chi è lei per farmi una cosa simile? Sospiro poggiando la fronte sulle ginocchia.

Qualche minuto dopo, qualcuno bussa alla mia porta. Di nuovo.

«Chi è» urlo spaventata! Interrompono bruscamente il mio flusso di pensieri. La sua voce torna ad allietare i miei timpani.

«Regina, mi scusi, sono di nuovo io. Le sto lasciando una cosa qui di fronte alla porta, immagino non voglia vedere nessuno ma ecco la appoggio qui».

Ma che diavolo vuole?

«Ora vado via. Arrivederci».

Sento dei passi che veloci salgono le scale. Forse è andata via davvero. Mi alzo lenta e guardo nello spioncino della porta.

Non posso vedere quello che mi ha lasciato, è troppo vicino alla porta. Oppure non mi ha lasciato nulla. Può anche avermi ingannata, in tante e tanti l'avevano fatto con me.

Metto la mano sulla maniglia e la abbasso piano, sbirciando e assicurandomi che non ci sia nessuno. Scruto le scale che scendono e che salgono prima di fermarmi sul dono che mi ha fatto Emma.

Mi chino a raccoglierlo.

E' un barattolo di nutella.

Le mie labbra, involontariamente, si incurvano in un sorriso. Prendo il barattolo e il biglietto che c'è sopra. Lo apro.

-Di solito le lacrime passano con questa. Oppure aiutano a trovare le forze per pulire una cucina disastrata-.

Chiudo la porta rileggendo il bigliettino, senza guardare dove metto i piedi...e infatti mi ritrovo le scarpe che ho lasciato li qualche momento prima e per poco non cado a terra come un salame. Fortunatamente la maniglia della porta mi aiuta a evitare la tragedia, aggrappandomi ad essa.

Mi sta comprando con della nutella? Mi sento troppo triste e combattuta per cercare doppi sensi nel suo gesto. Raggiungo la cucina e, seduta al tavolo e armata di cucchiaino, decido di seguire diligente il consiglio del bigliettino.

Quel pianto improvviso, quel muro che sembra sia crollato mi hanno terrorizzata, mi sento senza difese con lei di fronte. E sono certa che se l'avessi rivista avrei avuto la stessa reazione.

Le settimane successive ho evitato di trovare scuse banali per organizzare la riunione e vederla. Non voglio vederla, non ancora. Non voglio crollare di nuovo. Non so nemmeno chi sia.

Eppure...so che la mattina, quasi tutte le mattine, esce alle 8 di casa, portandosi dietro la sua macchina fotografica appesa al collo.

La osservavo, quando potevo, dalla finestra. Il giubbino in pelle rossa non mancava mai. I capelli li portava sciolti la maggior parte delle volte, ma saltuariamente li legava con la coda. I jeans erano immancabili, così come il cornetto nel bar di fronte al palazzo. Lo metteva nella bustina e lo porta via. Non sorrideva spesso... e non portava mai il rossetto, o almeno non si vedeva dalla finestra di casa mia. A volte rientrava per pranzo, altre, non prima delle 6 del pomeriggio. Non sapevo dove andasse, ma quando rientrava era più allegra. Magari faceva foto a dei bambini, o...non saprei. Non mi aveva dato nessun indizio. Ah si, non si portava mai l'ombrello, nemmeno quando pioveva. E una volta era completamente fradicia, con i capelli gocciolanti, preoccupata solo che la sua reflex non avesse danni.

Passano i giorni. La mia casa in campagna è diventata una fabbrica di marmellata di mele. Devo cercare un modo per distrarmi e quello è l'unico.

Il fine settimana non usciva al mattino e io rimanevo a guardare dallo spioncino della porta sperando di vederla passare. Un giorno, mentre ritoccavo per l'ultima volta il rossetto di fronte allo specchio all'ingresso, sentii la sua voce fuori dalla mia porta. Suonò al campanello nella casa di fronte. Aveva una busta in ogni mano, come di generi alimentari. Una canotta nera addosso. Solo quella. E i jeans ovviamente. Non poteva andare in giro in mutande, anche se....vista la perfezione delle sue braccia (muscolose, ma non troppo, sufficienti per far attirare l'attenzione), potevo solo immaginare cosa celasse sotto i jeans. Smisi di spiarla. Per tre secondi. Il tempo di vederla passare le due buste all'inquilina di fronte, avvolta da una coperta e sicuramente raffreddata. Era anche gentile. Cosa le mancava? A parte la simpatia nei miei confronti, ovvio.

Quello della nutella è stato un gesto istintivo, che ha fatto solo perché mi aveva vista quasi in lacrime (Dio solo sa quanta vergogna ho provato). Salutata la mia vicina di pianerottolo rimane un attimo ferma e si volta verso la mia porta. Il mio respiro si blocca. Fa un passo nella mia direzione, solo uno.

Nulla.

Si ferma.

Scuote la testa, e sale correndo per le scale.

Ok Regina, rilassati. La donna che ti sta togliendo il sonno ha quasi bussato a casa tua. Per fare che cosa? Per chiedermi che cosa? Se sono viva? Se sto bene? E se avessi aperto la porta in quell'istante mi avrebbe parlato?

Dannazione Regina! Dovevi aver più prontezza di spirito, iniziativa! Non posso continuare così, devo per forza andare da lei. Devo ringraziarla. Devo...tentare un approccio, di qualunque genere, anche per chiederle un po' di zucchero (ok no, forse questo era esagerato).

Il giorno dopo, armata della mia migliore marmellata di mele, percorro le due rampe di scale che mi separano dal suo appartamento. Cinque minuti di fronte alla porta, poi mi faccio coraggio e suono.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Emma ***


Erano passate cinque settimane da quando avevo portato il barattolo di nutella a Regina e da quel giorno non l'avevo più vista. Non so perchè l'avessi inseguita ma nei suoi occhi avevo visto una sorta di rottura. Si era rotto qualcosa in lei, qualche certezza, qualche muro, non so. E' vero era una donna cinica e rompiscatole la maggior parte delle volte, ma non aveva fatto del male a nessuno, non fisicamente almeno.

La sua voce era rauca di pianto dietro la porta quando mi aveva risposto. Inizialmente avevo temuto il peggio, che fosse svenuta o che non riuscisse a muoversi. Sentire la sua voce da dietro la porta mi aveva tranquillizzata ma vista la sua pessima dote d'attrice e avendo capito che non avrebbe mai aperto, mi venne un'idea. Non so nemmeno se lasciò il barattolo fuori o lo prese con sé. Ma da quel giorno, l'appuntamento settimanale delle sue riunioni immotivate era sparito.

Devo dire che mi mancano i nostri battibecchi.

Avvolta nel mio prezioso e vecchissimo plaid, sorseggio un po' di cioccolata mentre guardo uno speciale su come riconoscere i sintomi dell'ictus. Può sempre servirmi.

Mi interrompe il campanello. Sarà la mia amica Isabella, deve passare a darmi le foto che ho fatto nell'ultimo mese. Avrei speso un patrimonio anche stavolta. Sospiro e tenendomi la coperta sulle spalle apro senza preoccuparmi di chi ci sia dietro.

«Isab...»

O. My. God. Regina è di fronte a me con un pacchetto in mano (ha anche il fiocco) e un'espressione nel viso che sembra solo imbarazzo. Chiudo subito la porta. Mi precipito in camera dove lancio la coperta sul letto e metto addosso i primi leggins che trovo. In meno di un minuto (visibilmente affaticata), torno ad aprire la porta. Lei è ancora li che aspetta con un sorriso stampato sul volto.

«Salve Emma» dice poco dopo.

«Mi dispiace averle chiuso la porta in faccia, io ero....» mi volto per giustificare in qualche modo il mio pessimo abbigliamento ma lei mi interrompe.

«Non si preoccupi, avrei dovuto avvisarla che sarei passata, volevo portarle questo» mi porge il pacchetto «per sdebitarmi del regalo di quel giorno». Allungo le mani senza smettere di fissarla. Perchè è sempre perfettamente vestita e truccata? Ma lei se lo mette il pigiama? E le pantofole? Interrompo i miei pensieri scuotendo la testa. Il suo modo di guardarmi quasi volesse mangiarmi però non è sparito.

«Grazie ma, non era necessario, spero che ora stia meglio» dico portandomi una ciocca di capelli dietro le orecchie. Mi guarda sorridendo, e per un attimo il suo sguardo va oltre, come a sbirciare dentro casa mia. Non vuole per caso entrare??? Perchè vuole entrare? Si che vuole entrare, glielo leggo negli occhi. Imbarazzata, lei spezza il silenzio.

«Be, io vado» fa un passo indietro «sono riuscita a sistemarla la cucina comunque quel giorno» la sua voce cambia di tono. E' calma, seria. Sta per voltarsi quando il mio cervello si scollega dalla bocca, anzi, la bocca si scollega dal cervello e pronuncia delle strane parole:

«Vuole entrare? Stavo bevendo della cioccolata, ma posso fare un tè, se lo gradisce, o un bicchiere d'acqua..insomma» inizio a gesticolare «quello che vuole» faccio spallucce. L'espressione sul suo viso mi fa capire che non aspettava altro.

«Volentieri, grazie». Sposto leggermente il mio corpo verso destra, per lasciarle lo spazio per passare. Impeccabile sul suo tacco dodici color perla, varca la soglia di casa mia. Chiudo lentamente la porta mentre la regina degli inferi si ferma ad aspettarmi.

«Certo che in quanto ad abbigliamento abbiamo stili completamente diversi» dico per smorzare la tensione prendendo la manica dell' enorme maglione beige che mi lasciaa scoperta la spalla. Si mette a ridere prima di dire:

«Dovrei copiare io il suo stile...almeno per stare dentro casa». Inclino la testa un po' di lato, come per darle ragione, prima di invitarla sul divano. Poggio il pacchettino sul tavolino di fronte alla tv.

«Prego» la invito sul divano e prendo la tazza che avevo lasciato sul tavolino «questa la porto via. Vado a metter sul fuoco l' acqua per il tè». Distolgo con una certa difficoltà i miei occhi dai suoi. Sono talmente scuri da sembrare neri e sembra voglia leggermi dentro.

Mi sposto velocemente nell'altra stanza. Quella donna ha lo sguardo più magnetico che abbia mai visto, come ho fatto a non accorgermene prima? Riprendo fiato. Poggio la tazza sul lavello e prendo un pentolino su cui verso dell'acqua. Poi mi dirigo a passo svelto in salotto.

Mi stupisco di trovarla in piedi a osservare la mia collezione di palle con la neve. In effetti vederne un centinaio faceva un certo effetto. E' talmente incantata da non accorgersi nemmeno del mio arrivo. Ha una gonna grigio scuro oggi. Semplice, taglio netto. La sagoma alla perfezione. La giacca va a coprire una maglia del colore delle scarpe. Orecchini e orologio impeccabilmente abbinati.

Poi guardo me stessa: maglione più grande di almeno tre volte la mia taglia, leggins un po' sbiaditi e calze con i gommini antiscivolo. Il giorno e la notte.

E' leggermente piegata in avanti e sfiora gli oggettini posti sul mobile. Mi avvicino lentamente per non spaventarla e assumo la sua posizione. Ha un profumo buonissimo. E io? Annuso il maglione che ho addosso. Meno male. Profuma di ammorbidente.

Prendo coraggio e parlo.

«Le piacciono?» dico a bassa voce. Continua a fissarli.

«Molto» si volta verso di me e rimango incollata ai suoi occhi con lei che mi fissa la labbra.

«Hanno un qualcosa di magico, non trova?» ne prende uno in mano e lo scuote davanti a me, così da far muovere la neve. Mi metto in piedi e cerco di abbozzare un sorriso ma sono decisamente in imbarazzo. E lei lo capisce ma non si allontana. Drizza la schiena dopo di me e il suo sguardo passa dalle labbra alla spalla, nuda.

«Non ha aperto il pacchetto» il suo sguardo sembra volermi mangiare (tanto per cambiare) ma nella sua voce sento una nota di incertezza, come se volesse schiarirla. Scopro una mano dalla manica del maglione, che ovviamente è più lungo del mio braccio. Lo prendo e inizio a scartarlo. Una scatolina rossa. Ansia. La apro spostando lo sguardo alternativamente da lei al pacchetto e viceversa e dato che i suoi occhi mi mettono ansia mi siedo sul divano. Almeno non rischio di cadere. Dentro la scatola c'è un barattolo. Sembra qualcosa di artigianale, non ci sono le solite etichette da supermercato. -confettura di mele- . Preso il barattolo in mano, tento di aprirlo.

«La faccio io» alzo lo sguardo, stupita.

«Non ci credo» dico io di rimando.

«Invece è vero» dice divertita, andando a sedersi accanto a me sul divano.

«Ho una casa in campagna con degli alberi di mele rosse e quando voglio rilassarmi le raccolgo e faccio la marmellata. In queste settimane ne ho fatta parecchia» si sistema la gonna con le mani, leggermente in imbarazzo.

«Le mele non erano avvelenate vero? E' un tentativo per farmi fuori?». Strizzo gli occhi guardinga e lei si mette a ridere. Quando ride la tensione nella stanza si dissipa.

«Se vuole ne assaggio un po' io prima di lasciargliela, se mi da un cucchiaino».

La parola 'cucchiaino' mi ricorda che avevo dell'acqua sul fuoco, e mi alzo di scatto.

«Il tè»'. Esclamo.

Corro verso la cucina. L'acqua è un insieme di enormi bolle e spengo veloce il fornello. Cerco le due tazze più carine che ho, sperando ci siano i piattini...no, niente piattini. Pazienza. Prendo le bustine del tè e le metto in una teiera che mi hanno regalato per un compleanno. Poi verso l'acqua. La porto in salotto per poi tornare indietro per prendere tazze, cucchiaini e zucchero, su un piccolo vassoio.

«Eccomi qui» dico prima di sedermi. Verso il tè nelle tazzine.

«Mi spiace per i piattini, ma ho rotto l'ultimo qualche giorno fa e non ho un vero e proprio servizio» la manica del maglione continua a disturbarmi e rischio di bruciarmi col tè caldo nel tentativo di spostarla.

«Vuole una mano?» Mi chiede gentilmente, seguendo tutti i miei movimenti.

«No grazie, ho fatto, ecco qui» prendo la sua tazza «quanto zucchero?». Mi fa segno “due” con l'indice e medio della mano destra e realizzo il suo desiderio.

Le porgo la tazza e un cucchiaino che lei afferra lentamente dalla mia mano. Ritrae le dita al tocco della tazza bollente.

«E' calda, le conviene lasciarla freddare un pochino>> mi accovaccio sul divano, riprendendo il barattolo di confettura in mano. Cerco di aprirlo ma senza risultato.

«Ci ha fatto sopra un incantesimo o è un semplice soprammobile»? chiedo tentando inutilmente di svitare il tappo.

«Posso provare io?» allungo la mano e solo allora noto il suo smalto. Rosso.

Poso il barattolo sulle sue mani e come se stesse svitando il tappo di una penna, me lo restituisce, aperto.

«Fantastico» dico. «Penso che non chiuderò più il tappo se ogni volta devo chiamare lei per aprirlo». Oppure posso chiuderlo ogni volta. Ma che sto pensando? Mi schiarisco la voce, prendo il cucchiaino e lo affondo nella polpa gialla del barattolo. Lo annuso prima di assaggiarne un pochino. Deliziosa. Mangio anche la restante marmellata sul cucchiaino prima di dire, estasiata:

«E' la marmellata più buona che abbia mai mangiato».

«E' la prima volta che la faccio assaggiare a qualcuno» risponde con un debole sorriso.

Il secondo cucchiaino di marmellata rimane a metà tra la faringe e l'esofago, incerta se rimanere li a soffocarmi o se scendere per liberarmi le vie aeree. La fisso incredula mentre riprendo a respirare e osservo quello che è diventato un preziosissimo barattolo.

«Lo dicevo io che voleva avvelenarmi» dico cercando di cambiare discorso.

Arriccia il naso, incerta se ridere ancora o rimanere seria. Prende la tazza di tè e ne manda giù un sorso. Sembra triste. Di nuovo. Non mi piace l'espressione triste sul suo volto (non ricordo quando ho iniziato a pensare queste cose). Si guarda intorno come una bambina. Seguo il suo sguardo cercando di capire se ho lasciato qualcosa fuori posto nei punti raggiunti dai suoi occhi. Ma il salotto è impeccabile, decisamente diversa è la mia camera da letto (che c'entra ora la mia camera da letto???).

«Mi piacciono i colori di questa stanza, si intonano con i suoi di colori» dice mentre prende un altro sorso di tè.

«In che senso?»

«Nel senso che è tutto molto chiaro e un po' retrò...i mobili sono di legno opaco, non lucido, quasi grezzo...è...calda, una stanza calda, come lei» continua a sorridere e ogni volta che allontana la tazza dalla sua bocca, asciuga il labbro inferiore con la lingua. Delicata.

«Grazie» è l'unica parola con cui posso rispondere. Non ho mai visto la mia nuova casa in questi termini. E'...una casa...i mobili della vecchia casa li ho trasferiti qui e stop. Non ho mai riflettuto su questo.

«Sono mobili che avevo preso a una fiera dopo la laurea» aggiunsi per rompere il silenzio.

«Volevo qualcosa di mio...e questi costavano poco, per cui...» mi giro a osservarli per la prima volta.

«Bene, credo sia ora di andare, sono contenta che le sia piaciuta la mia marmellata» dice alzandosi impaziente e prendendo la borsa di fianco a lei.

Non posso non notarlo. Le tremano le mani. Non so se dirglielo, non voglio metterla a disagio o in imbarazzo. Cerco così di dire di nuovo qualcosa per farla sorridere.

«Magari la posso usare per fare una crostata e sarò costretta a venire da lei a chiederle un altro barattolo di marmellata...sa, per mangiarla col cucchiaino di fronte alla tv» mi guarda un po' stupita.

«Si lo so, non dovrei mangiar tutti questi dolci, ma ne vado matta, è il mio punto debole» mi tocco la spalla nuda con la mano prima di far spallucce e sorridere. Le sue mani si stringono forte sulla borsa e poi si fermano, rilassate. Allunga la sua mano destra verso di me.

«Sarò felice di dargliene un altro barattolo allora, grazie per il tè». Faccio per allungare la mano e stringergliela e appena sfioro le sue dita...

«Ahi» dico scuotendo la mia mano mentre osservavo lei far lo stesso con una smorfia sul viso. Rimiamo qualche secondo serie e poi scoppiamo a ridere. Finalmente sorride. Intorno a noi c'è un'aria strana. Passiamo dall'imbarazzo alla complicità più profonda nel giro di qualche secondo e questo mi fa pensare.

«Siamo due donne elettriche» dice massaggiandosi le dita «avrei dovuto capirlo durante le riunioni».

«Si credo che lei abbia ragione» aggiungo spostandomi dal divano e precedendola verso l'uscita. Apro la porta. Voglio stringerle di nuovo la mano ma la sua battuta mi blocca.

«Meglio evitare altre scosse, almeno per oggi» si sposta poco oltre la porta.

«Grazie di nuovo, arrivederci».

«Arrivederci» rispondo mentre era già nelle scale. Chiudo la porta.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Regina ***


Quella notte non avevo dormito. Mi giravo e rigiravo tra le lenzuola candide, cercando un valido motivo per cui ero entrata in casa sua. Continuava a non aver senso. Nè la timidezza verso di lei (non ero mai timida), nè il non riuscire a dormire. Si, volevo far qualcosa di carino per lei vista la sua gentilezza quel giorno, ma la mia marmellata! Non la conosceva nessuno, non l'avevo mai fatta assaggiare a nessun amante, uomo o donna che fosse, perchè sapevo che sarebbero stati passeggeri nella mia vita.

No. Una persona l'aveva assaggiata.

Henry.

E' mio figlio però.

O meglio lo era stato quegli anni che lo avevo avuto in affidamento. Poi. La vera madre era tornato a riprenderselo. E le mie marmellate sono tornate al loro posto. Nella credenza, in cucina.

Quei pensieri mi fannoo male. Ma non riesco a togliermi dalla testa quegli occhi verdi come il mare che mi guardano con tanta innocenza. Non riesco a far sparire dalle mie narici l'odore del suo maglione. Mi aveva fatta entrare subito in casa.

Era così palese il mio desiderio di veder dove viveva? Non ero la donna più enigmatica del pianeta? (definizione di un mediocre essere di sesso maschile con cui non ho trovato opportuno dividere il mio letto nemmeno una volta).

Quel maglione, troppo grande per lei...la illuminava. Sembrava una bambina. I suoi capelli dorati le ricadevano sulle spalle...e le mani. Lunghe, sottili, affusolate. Bellissime. Le avevo potute osservare meglio mentre tentava di aprire il barattolo di marmellata. Cercavo di guardare altrove ma più mi imponevo di non guardarla con sguardo insistente, più non ci riuscivo.

Potevo controllare l'espressione del viso (forse), ma non volevo smettere di guardarla. Poteva essere l'ultima volta che avevamo un incontro e..quegli orrendi calzini rossi di spugna. Solo la loro orrendità potevano distrarmi dalle sue gambe. Avrebbe fatto meglio a lasciarsi quel pantalone larghissimo e di colori improbabili con cui mi aveva aperto la porta la prima volta per poi sbattermela in faccia. In effetti c'ero rimasta male ma i passi veloci che avevo sentito dopo mi avevano aiutata a capire che sarebbe tornata ad aprire.

I pantaloni larghi, mi avrebbe reso meno difficile smettere di guardarle quelle gambe. Invece le aveva avvolte da dei leggins aderenti e....mica ero cieca. Si vedeva il ginocchio. Le ossa del ginocchio. Potevo essere attratta dal suo ginocchio?

Solo il tè, peraltro pessimo, mi distoglieva l'attenzione.

Ma poi lei si toccava i capelli e dovevo riniziare da capo. Parliamo del suo collo. Della sua spalla. La pelle candida (non c'era bretellina del reggiseno e questo mi portava a far pensieri tutt'altro che casti), sembrava da mangiare.

Forse aveva capito che mi balenava questa idea in testa: mangiarla.

Dritta, seduta sul suo divano, eravamo imbarazzate. Lei era imbarazzata. Oh si vedeva. Si toccava i capelli e quando aveva assaggiato la marmellata sembrava davvero spaventata che non l'avessi avvelenata.

Non so perchè l'avevo fatta assaggiare a lei.

Non so perchè le avevo permesso di sapere questa cosa di me. Avevo la strana sensazione che in un modo o nell'altro non se ne sarebbe andata.

Cosa che invece avevo fatto io. Tutto in quella casa mi piaceva, oltre lei ovviamente, e non volevo in nessun modo diventarne dipendente, così, all'ennesima folata di shampoo proveniente dai suoi capelli, decisi di andarmene, certa che le mie mani non avrebbero più potuto fare a meno di sfiorarla, anche solo per sentire il calore della sua pelle.

E ancor una volta mi stupì. Allungò la sua mano destra per salutarmi e...che sciocca. Stringere la mano era un gesto di cortesia, avrei potuto pensarci prima. Ma questo desiderio venne interrotto da una scossa che arrivò al nostro contatto. Aveva fatto molto male...e ci aveva fatto ridere di gusto. Lei rideva con ogni parte del corpo. Si era piegata un po' indietro col busto per poi mettersi una mano di fronte alla bocca. Non la doveva nascondere quella bocca.

Aveva anche tentato un secondo modo per stringermi la mano ma avevo gentilmente declinato. Per quel giorno non ci saremo riuscite.

La mattina dopo sono stanca come dopo la mia lezione di kik boxing. Distrutta, pronta a crollare. Mi trascino fuori dal letto e mi affaccio alla finestra. Bene, penso, è sabato e sta per piovere, ma che giornata fantastica.

Mi infilo sotto la doccia cercando di scacciare via quegli occhi dalla mia testa. Mezz'ora dopo sono fuori casa, in macchina, per riempire il mio frigo che ormai è praticamente vuoto.

Sono una donna pragmatica. Veloce. Senza dubbi. Non devo pensare se prendere questo o quello. Ho la mia lista, prendo e metto sul carrello. E così riesco a riempirlo quasi sempre in poco più di mezz'ora. Sarei stata a posto per almeno due settimane.

Sul tragitto di casa gocce grandi come palline da tennis iniziano a cadere copiose, rendendomi difficoltoso perfino camminare a 20km/h. Parcheggio vicina al palazzo (in divieto di sosta), giusto il tempo di portare la spesa in casa e non trovarmi bagnata fino al midollo.

Ma questo mio desiderio è ampiamente messo da parte visto che nel momento esatto in cui metto piede fuori dalla macchina, le gocce non sembrano semplici gocce, ma vagonate d'acqua, secchi d'acqua.

Addosso.

Schiaffeggianti.

L'ombrello è inutile, rientrare in macchina non se ne parla. Avrei dovuto ripulire pure quella. Così apro il cofano e prendo le tre buste (di carta) piene di cibarie.

Buste di carta.

Regina, la tua furbizia non ha limiti alcuni. Credo che anche le buste di plastica con quella pioggia non avrebbero avuto un destino tanto diverso. Infatti, di fronte all'ingresso di casa, una busta cede e mi ritrovo quattro arance che rotolano sul marciapiede. Insieme a tre yogurt, burro, busta del pane e la mia preziosissima scatola di cereali.

«Maledizione» dico a voce alta. Poggio velocemente le due buste dentro il portoncino, che non so come è aperto e quando mi volto per andare a raccogliere il resto, la trovo li. Capelli bagnati incollati al viso, stivali neri, jeans e giubbino rosso, il solito insomma. Sta raccogliendo il pane e le arance quando la raggiungo.

«Emma» mi inchino a prender gli yogurt.

«Regina» mi risponde lei sorridendo. Devo avere un aspetto orribile, lei invece brilla anche così.

«I capelli stile Morticia Addams, anche se corti, le stanno bene» dice spostandosi dentro il portoncino.

Rimango ferma a riflettere su quelle parole. La pioggia ormai fa parte di me. Anche delle mie mutande, per essere precisi. Mi volto a guardarla.

«Vuole prendersi il raffreddore?» mi chiede facendomi segno di entrare. Seguo il suo consiglio. Ho le mani occupate dal burro e dagli yogurt, non posso sistemarmi i capelli. Diamine.

«Grazie per avermi aiutata, non l'avevo vista arrivare».

«Vuole una mano a portare sopra le buste?» chiede senza aspettare «ovviamente useremo l'ascensore. Di solito faccio le scale ma prima ci togliamo via questi vestiti bagnati, meglio sarà per noi. Forza, mi segua».

Ha preso con se una delle mie buste mentre chiama l'ascensore. Io sono completamente assente. Innanzitutto mi sent ridicola con quei vestiti e capelli gocciolanti e poi il suo tono sembra voglia prendermi in giro e questo mi imbarazza.

Arrivo accanto a lei mentre le porte dell'ascensore si aprono. Mi fa cenno di andare prima di me e non replico. C'è solo un problema: le dimensioni dell'ascensore. Forse è 1 m x 1 m. E' piccolo. E noi siamo bagnate. E infreddolite. Premuto il punsante col numero tre, mi rendo conto che le nostre spalle si sfiorano e che lei non ha accennato a volersi spostare. Espiro rumorosamente.

«Si sente male?» mi chiede voltandosi a guardarmi.

«In effetti è pallida».

Le porta si aprono. Sono salva.

«No, sto bene. Non mi era mai capitato di bagnarmi così tanto per colpa della pioggia» mi sposto con una busta di fronte al portoncino e prendo a cercare le chiavi nella borsa. Lei è sempre li, sorridente, e io non trovo le chiavi. Merda.

«Dove diavolo...o eccole». Le sfilo soddisfatta e le infilo nella toppa. Con un po' di fatica faccio scattare la serratura. Ok ora devo decidere se farla entrare o meno. Vacillo un po' prima di voltarmi. E se avesse detto no? Poi è bagnata, magari si sente a disagio. Troppi pensieri, troppi dubbi. Basta Regina, non sembri nemmeno tu!

«Vuole entrare?» O mio dio l'ho detto davvero. La mia bocca ha pronunciato quelle parole. Mi volto lentamente, Il suo viso è indecifrabile. Poi spunta un sorriso e si guarda i vestiti gocciolanti.

«Magari vado a mettermi qualcosa di asciutto prima».

«In effetti» alzo le sopracciglia.

«Tra mezz'ora?» mi chiede timidamente.

«Così avrò tempo di cambiarmi anche io» dico riprendendo fiato.

«Allora vado» indietreggia e si precipita nelle scale.

Non riesco a dire altro. La forma di quei pantaloni (bagnati) sul suo sedere, mi ha completamente rapita. Mi sveglia una busta che si è rumorosamente accasciata per terra, come se fosse sull'orlo dello svenimento anche lei.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Emma ***


Che pessimo sabato.

Il cielo plumbeo, pronto a vendicarsi su noi mortali, se ne sta lì, sopra la mia testa, quasi a volermi schiacciare. Non ho nulla in programma, almeno non fino al tardo pomeriggio ma senza il sole è inutile anche andare a fare qualche foto, così decido di uscire a fare una passeggiata, non troppo lontana da casa, perchè, con quel cielo, e visto la mia cattiva abitudine a non portarmi l'ombrello, mi sarei sicuramente bagnata dalla testa ai piedi.

Mi siedo su una panchina. La notte era stata particolarmente tormentata. Appena ho chiuso gli occhi un'immagine si è presentata davanti a me: la bocca di Regina.

Le.

Sue.

Labbra.

Rosso.

Fuoco.

Erano li, piantate nella zona più improbabile del cervello. E non sapevo come diavolo fare a farle sparire. Per questo mi ero svegliata col malumore. Avevo dormito poco e male, mi sembrava di aver qualcosa di irrisolto e quando succedeva, il sonno spariva.

Ancora seduta sulla panchina a fissare due cani che giocano, le prime gocce iniziano a cadere.

«Perfetto» dico a voce alta. Faccio un profondo respiro e inizio a correre, con la consapevolezza che sarei arrivata a casa bagnata e stanca. Pessima giornata proprio. Faccio l'ultimo angolo tra le vie con uno scatto degno del miglior velocista e di fronte a me vedo Regina.

Mi fermo. Piantata nella mia posizione. Sta praticamente imprecando perché le si era rotta una busta e la spesa è caduta sul marciapiede. Anche quando piove si mette i tacchi? Ma perché? Be, almeno non ha la gonna ma dei pantaloni.

Neri.

Molto aderenti.

Emma smettila.

E' visibilmente in difficoltà così allungo il passo per raccogliere alcune cose (vedo delle arance rotolare), mentre lei poggia le buste dentro il palazzo, accanto alla porta. Prendo il pane e le arance che stanno per finire sotto una macchina quando sento la sua voce pronunciare il mio nome, quasi tremante. Ricambio il saluto e la osservo. Ha i capelli totalmente sfatti, schiacciati sulle guance, con un ciuffo che le copre un occhio.

«I capelli stile Morticia Addams, anche se corti, le stanno bene».

Perché le ho fatto un complimento? Devo spostarmi da quella posizione. Inginocchiata, sotto la pioggia, con quella donna a venti centimetri dal mio naso. Mi alzo e raggiungo rapidamente l'ingresso, così da evitarmi, per lo meno, altra pioggia. Poggio tutto quello che ho in mano su una delle due buste e qualcosa non quadra: lei è ancora fuori.

«Vuole prendersi il raffreddore?». Le mie parole la fanno quasi svegliare dallo stato di trans nella quale sembra essere entrata.

Mi ringrazia gentilmente per averla aiutata e raggiungiamo l'ascensore, sempre lenta e in ritardo rispetto al mio passo. L'ascensore è decisamente piccolo. E tra la sua e la mia borsa e le buste in bilico l'unica soluzione è stare con le gambe divaricate per non perdere l'equilibrio con le nostre spalle che si sfiorano.

Un leggero tremolio al petto. Ho sicuramente freddo.

Ma averla incontrata ha cambiato la mia giornata. Non so perché. Non so spiegarmi questa sensazione ma averla vista di nuovo mi ha fatto...piacere. Mi stringo la giacca addosso, confusa da quei pensieri e finalmente dopo tre piani arriviamo a destinazione.

Avvicinatasi alla porta, inizia a cercare le sue chiavi, che chiaramente non trova subito. Riesce a essere perfetta e goffa allo stesso tempo. Mi da le spalle, come se non volesse farsi vedere in difficoltà. Faccio un passo indietro per lasciarle spazio e trionfante sfila le chiavi dalla borsa, apre la porta e esita prima di voltarsi. E quando lo fa, mi lascia a bocca aperta.

Mi ha chiesto di entrare. Il mio cuore comincia a muoversi in modo esagitato e non so né cosa dire né cosa fare. Però la sua presenza mi ha migliorato la giornata e l'unica cosa che non voglio è tornare a casa con la stessa sensazione del giorno prima.

Per non riuscir a dormire come il giorno prima.

«Magari vado a mettermi qualcosa di asciutto prima» mi guardo e guardo lei, senza sapere che fare.

Ok Emma, dovresti andare a cambiarti. Mi viene voglia di toglierle quella ciocca di capelli bagnati sul labbro. Ma forse è più saggio girarsi e andare a cambiarsi.

E così faccio.

Percorro le scale praticamente a quattro a quattro (negli ultimi due giorni non ho fatto altro che correre) e una volta in casa faccio volare tutti i vestiti di qua e là per poi infilarmi nella doccia. Ho mani e piedi completamente congelati.

Cinque minuti di doccia contati. In quei minuti penso solo a una cosa: come vestirmi per entrare a casa della Regina degli inferi alle...che ore erano? 11:30 del mattino? Ok Emma calmati. Fino a cinque settimane fa la odiavi e ora ti interessa non sfigurare di fronte a lei? Perché?

Forse è meglio non chiederselo.

Fuori dal bagno.

Camera da letto.

Jeans. Neri...bianchi. Grigi? Si. Jeans grigi. Intanto magari le mutande. Le infilo velocemente e subito dopo i jeans. Ok, sotto ero a posto.

Sopra. Lei è sobria.

Molto, troppo. Non posso mettere una maglia rosso fuoco.....oppure si. Un'idea mi è balenata in testa. Mi ricordo di avere da qualche parte una maglia rossa e grigia. Carina, non appariscente, non scollata. E un paio di stivali grigi.

«Eccoti qui» la prendo tra le mani, la annuso. Ok, non puzza di chiuso. La infilo e poi mi guardo allo specchio.

«Cos'è questa merda?».

I capelli sono già gonfi. Troppo gonfi. E sono passati solo venticinque minuti. Mi fiondo in bagno e cerco di dare loro una forma umana.

Sembro Simba dopo il parrucchiere. Prendo il primo elastico che trovo sul mobiletto accanto al lavandino e provo a farmi una coda. Mi guardo allo specchio. Ok, va meglio, almeno non sembro pazza.

Cerco una borsa (indifferente quale fosse il colore), passo di fronte allo specchio.

«AHH!» urlo. Troppo bianca.

Torno indietro in camera, in cerca di un po' di fard. Eyeliner negli occhi. Mascara. Ok, decisamente meglio. Mi infilo una giacchina, il giubbino in pelle e esco di casa.

Faccio lentamente le scale. Non ho nemmeno preso nulla con me.

Merda. Mi sarei sdebitata in un altro momento.

Gli stivali di cuoio sulle scale riempiono il vuoto, facendo eco. Arrivo al terzo piano e suono alla porta.

Quindici secondi di attesa. Perché mi batte il cuore? Cioè ovvio, il cuore batte, ma perché così veloce? Alzo lo sguardo al soffitto cercando di scacciare via certi pensieri quando la porta si apre.

«Sono un po' in ritardo» dico abbozzando un sorriso.

«Non importa, tanto non ci rincorre nessuno, prego, entri» si sposta per farmi entrare.

Quello che trovo di fronte a me non è esattamente come me l'aspettavo. Appartamento impeccabile. I mobili non sono di certo bianco grezzo come lei aveva definito i miei. Tutto ciò che mi viene in mente di dire è: WOW.

«Il bianco e il nero non li ho mai visti in una casa. O meglio non li ho mai visti così perfettamente disposti» mi giro a guardarla. Porta un pantalone nero largo, con la caviglia stretta e una maglia bianca e nera sopra.

Potreste pensare che sembri vecchia o stracciata. No. Sembra appena uscita da una boutique di moda anche così. Ah e ovviamente i capelli e il trucco sono già perfettamente in ordine. Come me insomma.

«Grazie» mi risponde dopo qualche secondo di incertezza. Inizia a sfregare le mani.

«Credo che la pioggia l'abbia infreddolita più di quanto non abbia fatto con me» aggiungo per riempire il silenzio.

«Si ma ho acceso un attimo i riscaldamenti, tempo di scaldarci e...» inizia a ridere, un sorriso malizioso. Non possoo non chiedere a che pensa.

«Che c'è da ridere?» intanto si sposta verso il salotto. Tutto perfettamente bianco e nero, lucido, senza l'ombra di un'impronta. L'unica nota di colore è un cesto di mele rosse al centro del tavolo.

«Niente, mi scusi...si sieda prego» si accomoda su una sedia che sembra un trono, in pelle nera, posizionata accanto al divano. Accavalla le gambe. Ha un paio di decoltè nere, senza calze, che le lasciano scoperta la caviglia sottilissima.

«In effetti inizia a far caldo» tolgo il giubbino e lo appoggio accanto a me, sul divano.

«Ha sistemato la roba in frigo?... Mi spiega perché continua a sorridere?».

«Mi scusi» scuote la testa in segno di scuse. «Pensavo a quando litigavamo per le riunioni e ora in due giorni siamo l'una a casa dell'altra. Non è strano?».

Non l'ho notato solo io allora. Questo è rincuorante.

«Si in effetti è abbastanza strano ma ... insomma....bella casa» cambiamo discorso che è meglio.

«Non la trova un po' fredda?» sembra quasi interessata al mio parere.

«Non saprei» non voglio offenderla «non è il mio genere ma è impeccabile e poi insomma, sembra rispecchiarla in tutto e per tutto» le guardo le scarpe e le indico. «Vede? lei usa i tacchi anche in casa, per me sarebbe impossibile. E' intonata col suo stile» anche le mele sul tavolo. Come il rossetto, l'unico tocco di rosso addosso a lei.

Sorride e si alza. Si sposta in un'altra stanza, forse la cucina. La sento maneggiare qualcosa di metallico (un coltello?), per poi rientrare con un vassoio, due bicchieri e qualche bottiglietta di vetro. Credo fossero vini diversi. E una ciotolina con degli arachidi.

«Appunto» dico io «esattamente come il mio servizio da tè di ieri».

La sua risata echeggiò nella stanza. E non potevo non imitarla.

«Mi scusi, ma devo dire che mi sta più simpatica da quando abbiamo smesso di darci addosso alle riunioni» dice «quale sceglie?».

In piedi di fronte a me, mi indica con la mano la vasta scelta di aperitivi. Ne prendo uno a caso, quello che aveva il colore più tenue. Lo prende e lo versa su un bicchiere. Lei prende una bottiglietta il cui contenuto è di colore arancione tenue, tendente all'ambrato.

Si siede di nuovo sul suo trono.

«Grazie per prima, salute» dice alzando il bicchiere verso di me.

«Mi piace il volontariato, salute» rispondo io prima di assaggiare quello che mi sembra vino. Fruttato, leggero, frizzantino.

«Ehi, è proprio buono» dico annusando il bicchiere.

«Me li faccio mandare confezionati in questo modo, sono più comodi per gli ospiti. Posso dargliene qualcuno se vuole, ne ho tanti in dispensa, ho sempre una buona scorta e no, non sono alcolizzata» dice bevendo un altro sorso. Stavolta sono io che scoppio a ridere.

«Non l'avrei mai pensato».

«Ne ho tante perché ultimamente non ho spesso ospiti e si accumulano».

Irrigidisce le labbra con una nota di sofferenza. Passa il labbro superiore sopra quello inferiore, come per volere sistemare il rossetto. Tintinna le unghie sul bicchiere mentre mi guarda con occhi malinconici. Credo di avere toccato un tasto dolente per lei.

«Fantastico, allora diventerò io un'alcolista! Lei dovrà diventare il mio referente però, dopo avermi portata sulla brutta strada credo sia doveroso ascoltare le mie lamentele» il suo viso si spegne in un sorriso assolutamente finto. Volta lo sguardo in una foto appesa al muro di fianco a lei. Non l'ho notata. E' un bambino di 5 anni più o meno, che tiene un enorme gelato in mano.

«Chi è quel bambino?» chiedo senza pensare.

Quelle parole trasformano il suo viso. Gli occhi perdono ogni luce. Inizia a mordersi il labbro inferiore e a fare degli enormi respiri prima di dire.

«Nessuno».

Aria di ghiaccio.

«Mi scusi» dice prima di fuggire nell'altra stanza.

Che diavolo ho detto? Può essere il figlio? Non mi sembra che in quella casa ci siano bambini. Magari è morto, o è il fratellino. Come posso saperlo? Mi alzo. Sono nervosa, non so che fare. Poi decido di dirigermi lentamente dove lei è entrata. E' in cucina. Seduta su una sedia accanto alla finestra, stringe un fazzoletto in mano, gli occhi lucidi.

«Regina» dico piano prima di entrare «io....mi dispiace, posso fare qualcosa?».

Aspetto qualche minuto una sua risposta. La sua testa rimane con gli occhi fissi verso il basso. Ora devo solo decidere se invadere il suo spazio -e il suo dolore- o farmi gli affari miei. Decido per la prima idea.

Mi avvicino piano, sperando vivamente che la mia vicinanza non la faccia scappare. Mi inginocchio di fronte a lei e delicatamente col dito le afferro il mento e la costringo a guardarmi. Nei suoi occhi leggo un dolore e una delusione indescrivibile.

«Posso fare qualcosa?» dico quasi in un sussurro. Poggio la mia mano destra sul suo ginocchio. Avrei voluto abbracciarla, ma non mi sembra opportuno. Per cui aspetto una risposta, una parola che possa uscire dalla sua bocca.

Invano.

Mi alzo, con le ginocchia indolenzite per la posizione.

«Forse è meglio se la lascio da sola, non ha senso la mia presenza qui, non vuole nemmeno parlare...io...» sospiro e faccio per andarmene e la sua mano afferra la mia. Rimango immobile a guardare prima la sua mano -molto calda- che stringe la mia, poi i suoi occhi impauriti.

«Non se ne vada. Per... favore» singhiozza.

La sua voce è implorante.

Stringo la sua mano, non gliel'avrei lasciata. Prendo una sedia dal tavolo li accanto e mi siedo di fronte a lei, con le nostre mani strette, mentre lei continua a piangere.

Passano i minuti. Non so cosa pensare, cosa dire, cosa fare.

Accarezzo il dorso della sua mano col pollice, contando i minuti. Ha la pelle liscia. Nessuna vena visibile, nessuna imperfezione.

Con la mano che lei Ha libera inizia a giocare con le mie dita. La lascio fare, ma ogni tocco è un sussulto per me. La voglia di stringerla sta diventando quasi insopportabile.

Immersa in questi pensieri non mi sono nemmeno accorta che ha smesso di piangere. E che ha il suo sguardo su di me. Infatti, alzo la testa e... mi sta guardando.

«Va meglio ora?» dico nel modo più dolce possibile mentre copro la sua mano con la mia. Non parla ma fa su e giù con la testa, come per dirmi si.

«Bene....senta» cambio il mio tono di voce per renderlo più squillante.

«Facciamo così, un giorno, quando avrà voglia di uscire, la porto in un posto bellissimo, una sorta di luogo segreto» corruccio la fronte sperando di aver una faccia abbastanza divertente da farla sorridere. E con sorpresa noto un sorriso spuntare tra le sue labbra.

«Ok» dice. E' già qualcosa. I suoi occhi non si staccano dai miei e sento la stretta sulla mia mano diventare più forte.

Ci si può perdere in quegli occhi scuri, profondi come la notte.

Sono caldi e ci sarei volentieri caduta in quello sguardo. Sto cadendo, me lo sento. Solo che quella vicinanza mi fa mancare l'aria. Sento il suo respiro sulle mie labbra.

«Forse ora è meglio che vada» si è pericolosamente avvicinata al mio viso. Ha pensato di baciarmi? E io ho pensato di rimanere li? No.

Devo andare via. Mi alzo dalla sedia di scatto e lei non sembra voglia lasciare la mia mano. Le sue dita scivolano via dalle mie. Quel distacco è necessario. Eppure mi ha fatto male.

«La accompagno» mi dice con tono piatto e occhi gelidi.

Emma pensa qualcosa o non accetterà. Mi da le spalle mentre cammina verso la porta.

«Non volevo offenderla mi scusi. Io....la mia offerta è ancora valida» ho preso coraggio, non voglio andarmene senza risolvere il malinteso.

«Mi piacerebbe che accettasse, io....insomma tra noi sta diventando tutto molto...strano» non so in che altro modo definirlo «Ma rinnovo il mio invito: vorrei portarla nel posto che le ho nominato prima» non mi sono esposta più di tanto. E' rimasta ferma verso la porta, poi si è girata, mi ha guardata e ha abbassato il capo per guardarsi in piedi.

«Ok».

«Perfetto» dico io tirando un sospiro di sollievo.

Si volta e raggiunge la porta, aprendola. Mi avvicino a lei.

«Le consiglio di vestirsi sportiva. Per lo meno eviti i tacchi, poi il resto sarà accettabile. Lo dico per lei ovviamente, per stare più comoda» ho superato la soglia di casa sua, sono fuori dal suo territorio.

«Farò in modo di essere sportiva allora» sorride a malapena.

«Va bene domenica alle dieci? Non domani, domenica prossima? Così ha tutto il tempo per dirmi che non ne vuole più sapere delle mie parole, non si sa mai» sparlo ormai.

«Domenica alle 10 andrà benissimo» momento di imbarazzo.

«Arrivederci» dice subito dopo.

«Arrivederci» rispondo io, mentre lei chiude la porta.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Regina ***


Domenica.

E' domenica mattina. Tutta la settimana è stato un continuo ripensare alla sua mano sulla mia, al mio tentativo, fallito, di sentire il sapore delle sue labbra. Forse mi ha ferita, vero. Ma quando è entrata in cucina, sono stata felice. Quando le ho chiesto di rimanere, io, per un attimo, ho sentito riempire quel vuoto che la perdita di Henry mi aveva lasciato. E per tre anni mai nessuno mi aveva dato quelle sensazioni.

Poi com'era bella? Quella maglietta grigia e rossa era un'offesa alla mia volontà. Era una tentazione continua: gli occhi, come si leccava le labbra quando era imbarazzata, il suo modo di tenere il bicchiere, con entrambe le mani, come una bambina.

Mi era sfuggito una risata che non riuscivo a fermare quando mi aveva detto che ci saremmo scaldate presto. Mi era improvvisamente apparsa l'immagine di lei nuda. Non che fosse divertente vederla nuda, era una cosa...una meraviglia insomma. Era divertente il suo viso paragonato al mio pensiero.

Mi ero scapicollata per essere pronta e perfetta, volevo stupirla anche con un paio di pantaloni. Ma lei aveva stupito me. In tanti modi. I complimenti per la casa, le battute che mi facevano ridere e mi facevano tremare il cuore...il suo aspettarmi in silenzio stringendomi la mano. Il pollice faceva dei piccoli cerchi sul mio dorso...le sue dita erano lunghe, non portava lo smalto, ma sembravano laccate di rosa lo stesso.

Aveva sollevato il mio viso tirandomi per il mento. Non me lo sarei mai aspettata. Non sapevo come fare o cosa dire, ero totalmente indifesa. Lei, la sua goffaggine, il suo essere quasi infantile, mi ricordavano Henry, e aveva riportato tutto a galla.

Le lacrime erano uscite e io non potevo fermarle. Faceva ancora troppo male.

L'atmosfera con lei era un continuo ricordare mio figlio.

Ma oggi è domenica. Ho avuto tutta la settimana per prepararmi. Durante il mio viaggio ho comprato un nuovo paio di jeans, semplici, con la caviglia stretta. Scarpe senza tacco color cammello e maglia dello stesso colore. Mi sento assolutamente inadeguata in quell'abbigliamento, a disagio. Ma aveva detto che dovevo esser sportiva e avevo fatto del mio meglio.

Il cielo promette bene. L'azzurro tenue del mattino è intervallato da poche nuvole, siamo salve.

Il piumino beige sarebbe andato bene, non devo mettere uno di quegli enormi giubbotti neri senza forma. Il mio nome è pur sempre Regina! Aggiusto il mascara in bagno quando il campanello suona.

Afferro i bordi del lavandino con forza e guardando il mio riflesso allo specchio dico: «Non piangere anche oggi però».

Non sono convincente, per niente. Con uno scatto mi sposto dal bagno. Prendo una borsa capiente che ho precedentemente riempito del necessario e apro la porta.

Una dea. Una dea con le scarpe da tennis e il giubbino di pelle rossa. Ma che importa? Quei capelli che le ricadono sulle spalle...i boccoli perfetti, le gote leggermente rosate. Si imporporano di più appena la saluto.

«Salve Emma» abbasso lo sguardo sul mio abbigliamento.

«Può andare come sono vestita?».

«Direi che è perfetto» sorride, inclinando un po' la testa da un lato.

«Buongiorno a lei Regina, vogliamo andare?».

«Certo» afferro il giubbotto nell'appendiabiti vicino alla porta e la seguo.

L'ultima volta che sono salita in quell'ascensore ero bagnata, in disordine e desiderosa di terminare al più presto quella situazione imbarazzante. Ora sono elettrizzata e non voglio andare via. Sono imbarazzata, e anche lei, ma come al solito non mi da il tempo di fare il primo passo.

«Com'è andata la settimana? E' riuscita a dormire? Volevo chiamarla ma...insomma non ho il suo numero e poi non mi sembrava opportuno» mi volto verso di lei, limitandomi a osservarla, stupita.

«Oh, l'ascensore» ci infiliamo dentro, veloci.

Sistemo i capelli dietro l'orecchio.

«Si diciamo che ho smesso di frignare, mi dispiace che abbia dovuto assistere a una scena così patetica» è vero, è così che mi sono sentita, patetica.

«Però grazie per non aver fatto domande».

«Non sono una che si impiccia degli affari degli altri se gli altri non me ne vogliono parlare» le porte dell'ascensore si aprono e noi decidiamo contemporaneamente di uscire, con poco successo. Rimaniamo incastrate spalla contro spalla. Un po' dei suoi capelli finiscono sopra il mio giubbino e...fragola, profumano di fragola. Chiudo gli occhi per assaporarne meglio l'essenza. E senza volerlo mi ritrovo a allungare il collo verso di lei.

No.

Apro gli occhi e il suo sguardo è alquanto interrogativo.

«Forse è meglio se passa lei» dico rimettendo la mia testa dove deve stare. Ovvero sul mio collo e non sul suo. Torno indietro di un passo, permettendole così di passare.

«Forse è meglio se ci diamo del tu, se per lei non è un problema» si infila le mani nel giubbotto e se lo stringe addosso. Mi ha decisamente preso alla sprovvista.

«Be..» tentenno un po' «forse hai ragione. Vada per il tu».

Sorride. E la imito.

«Andiamo allora, altrimenti facciamo tardi. Dobbiamo approfittarne finchè c'è il sole...non vorrei piovesse anche oggi» apre velocemente la porta che da ai parcheggi interni del palazzo. Eccolo li il suo maggiolino giallo assolutamente inguardabile ma perfetto per lei.

«Scusa, ma ora che ci diamo del tu posso permettermi di dirlo: il colore di questa macchina è I N G U A R D A B I L E» scandisco bene le lettere così che lei possa capire che sono seria ma non la voglio offendere.

«Oh, almeno non sembra una macchina mortuaria come la tua» mi risponde salendo in macchina.

«Ok, colpita e affondata» dico a voce alta. Mi siedo. L'abitacolo è decisamente più allegro del mio. Peluches attaccati ai finestrini, adesivi sul cruscotto, e addirittura quattro coccinelle che circondano la bocchetta dell'aria.

Io avevo tolto tutto dalla mia da quando mi avevano portato via Henry.

«Non ti piacciono le mie coccinelle?» per fortuna mi ha interrotto.

«No sono carine, erano vere una volta? Credo che tutto questo giallo le abbia attirate».

«Aaaahhh sei proprio cattiva quando ti ci metti eh» mi dice uscendo dal parcheggio e immettendosi sulla strada. Non c'è traffico e fuori c'è un'aria afosa, che sento dal finestrino aperto. Slaccio un attimo la cintura per togliermi il giubbotto che sistemo sulle gambe, sopra la borsa.

«Non noti il caldo afoso? Secondo me piove anche oggi» mi giro a guardare la sua espressione. Rughe sulla fronte, scherzosamente infastidita dalle mie parole.

«Hai intenzione di portarci sfortuna?» Siamo fuori città ormai.

«E io pensavo che la Regina che ideava quelle stupide riunioni fosse sparita...credo ci sia ancora invece».

«Non mi lascerà mai quella parte di me» non posso mica dirle che lo facevo soprattutto per vederla.

«Ma dove stiamo andando?» i palazzi hannoo lasciato il posto alle case sparse e ora è solo campagna. Ci dirigiamo verso una catena piccola montuosa che non ho mai avuto l'occasione di visitare.

«Stiamo andando alla Cascata del Sole per caso?».

«Noooo, la conosci?» dice lei dispiaciuta.

«Ne ho sentito parlare, ma non ci sono mai stata».

«Mi hai rovinato la sorpresa».

«Mi dispiace» allungo un po' la mano per toccarle un braccio. Questione di attimi. Poi mi ricordo che non è opportuno mostrarsi scoperte, mostrare interesse. Così la ritraggo per poggiarla sulla borsa che ho sulle gambe. Picchietto le unghie su di essa mentre guardo fuori dal finestrino il paesaggio che cambia. Dalle case all'erba, dall'erba agli alberi...Dapprima radi, poi sempre più fitti. La strada si fa tortuosa e Emma rallenta un po'. Sono totalmente rilassata. Poggio la testa sul sedile e sospiro profondamente.

«Siamo quasi arrivate...ancora pochi chilometri» mi dice lei con tono dolce. Non c'è bisogno di riempire i vuoti, mi sento a mio agio anche così, in silenzio. E per lei sembra lo stesso visto che non dice frasi sconnesse e prive di alcuna importanza come fanno di solito le persone con cui uscivo.

A un certo punto, subito dopo una curva a gomito, mi ritrovo uno spettacolo mozzafiato: da una parete di roccia, di un grigio tanto chiaro da sembrare bianco, scende una cascata.

Il sole fa sull'acqua e sulla roccia dei giochi di luce incredibili e quella distesa di verde, l'erba che circonda il posto, è difficile da guardare. Il tutto risulta essere troppo luminoso. Come una bambina, mi avvicino al finestrino per osservare meglio i dettagli. Da un lato della scogliera c'è un precipizio, dall'altro una piccola locanda, con dei tavoli fuori e un sentiero che sembra andare dietro la roccia su cui l'acqua scorreva.

Si ferma accanto alla locanda. Scendo dalla macchina e senza riuscire a dire nulla, inizio a camminare verso la cascata. L'acqua sbatteva contro le pietre tanto da sembrar arrabbiata. Mi accovaccio di fronte ad essa, un po' lontana per evitar gli schizzi. Chiudo gli occhi e ascolto il rumore dell'acqua.

Credo che Emma sia una persona speciale. Molto più di me. Io non amo quei posti di solito, non sono una che va a cercare il verde solo per trovar tranquillità. La mia unica tranquillità sono i miei meli, ma stanno in pochi metri quadri e la casa è mia. Questo è un luogo sconosciuto, con persone sconosciute, dove fuggire quando si è disperati. O solo molto soli. Forse anche lei è sola. Come me.

Accanto, quasi impercettibile, arriva anche Emma. Riconosco il profumo dei suoi capelli. Si siede di fianco a me, senza dire nulla.

«E' un posto incantato...sembra magico...».

«Si, lo so» mi risponde piano.

«E' davvero magico. A me piace venirci per pensare. Ma c'è un posto più bello che ti farò vedere dopo. Ho pensato che» attimo di incertezza nella sua voce. Mi giro a guardarla e sembra indecisa se volere dire o meno quella frase «potesse farti bene questo posto. Che potesse farti lo stesso effetto che fa a me. Vieni, alzati» si alza e mi porge la mano, per aiutarmi. La afferro per poi stringerla forte.

Ci sono altre macchine, altre persone, ma le ho notate solo in quel momento. Stanno iniziando a preparare i tavoli, devono esser quasi le 12 e....

«Ci abbiamo messo due ore ad arrivar qui?» chiedo mentre camminiamo in un sentiero che va dietro la cascata.

«Si più o meno».

«Non me n'ero accorta, mi è sembrato veloce il viaggio».

«Perché non eri tu a guidare» risponde lei prontamente.

«Non sei meno pungente di me nelle risposte sai?» le dico fermandomi e abbassando un po' la testa.

Che stava facendo? Oddio. Oddio.Oddio. Si era avvicinata pericolosamente al mio viso.

«Lo so». Dice “lo so” e poi si sposta quasi con un saltello per continuare a camminare

«Ah.. io...» comincia seriamente a stupirmi.

Gli alberi intorno sono mossi da un flebile venticello. E' la giornata perfetta. Lei lo è. E' lei a rendere tutto così.

«Ok ora chiudi gli occhi» mi dice all'improvviso.

«Ehm, no».

«E dai, per favore».

«Non mi piace chiudere gli occhi».

«Ne deduco che dormi con gli occhi aperti?».

Usa lo sguardo più tenero e opportunista di questo mondo. Quegli occhi splendidi mi avrebbero fatto fare qualunque cosa. Qualunque.

«Ok, ok!».

Sbatto le mani contro le mie gambe, in segno di resa. Chiudo gli occhi. Lei mi cinge le spalle con un braccio. E' divertita, continua a ridacchiare.

«La smetti di ridere? E' già abbastanza imbarazzante così».

«Shhh, zitta. Oh, attenta, una pietra, piede destro».

Alzo il piede destro per paura di cadere. Probabilmente mi avrebbe sorretta lei. Tocco all'improvviso qualcosa di fronte a me. Un pezzo di legno, deve essere una sorta di staccionata. Non sento puzza di animali però.

«Apri gli occhi» mi volto verso il suono della sua voce e apro un occhio, per vedere se mi prende in giro. Ma lei è li, con i gomiti poggiati sulla staccionata che mi invita a voltare lo sguardo. Mi giro.

Sotto di me si estende una infinita valle di alberi e fiumiciattoli. E' come...si, sembra di essere dentro "Il re leone", che ho visto tante volte con Henry.

«Sai, un paio di anni fa aspettavo un bambino» ha iniziato a parlare e non si è girata a guardarmi.

«Il mio fidanzato di allora aveva detto che lo voleva, poi l'avevo beccato a letto con una e me ne sono andata, senza dire niente» la ascolto, stupita.

Mi sta raccontando forse la cosa più importante della sua vita e io non so cosa dire.

«Quando ho visto quella foto a casa tua, di quel bambino, e poi le lacrime..non so chi sia ma sicuramente per un motivo o per un altro ora non c'è più» inizia a farmi male la bocca dello stomaco.

«Qualche settimana dopo aver cambiato casa ho avuto aborto e ho perso il bambino. Un feto a dir la verità» i suoi occhi si stanno spegnendo. Sono totalmente pietrificata. Non so se farla continuare a parlare o no. La guardo giocare con i suoi capelli e mi chiedo cosa l'abbia portata a confidarmi quella cosa.

«Ho cambiato città per quattro volte. Poi sono arrivata qui. Tu mi stavi dando un buon motivo per andarmene di nuovo sai? Poi ho scoperto questo posto..e ho ritrovato pace».

Non mi sono sbagliata. E' speciale. E io non sarei mai stata speciale quanto lei.

E' riuscita a rialzarsi da sola e io? L'avrei riportata con me negli abissi, nella tristezza più nera, nella solitudine più profonda. Non gliel'avrei mai permesso. Avrei distrutto perfino la luce che emanano i suoi capelli. Il brillare dei suoi occhi, il leggero tremolio delle sue labbra. Avrei distrutto tutto. Perché tutto quello che si avvicina a me viene distrutto. E non l'avrei permesso.

«Sei una brava persona sai? E anche bella. E forte» un tuono interrompe il nostro silenzio e veloce, il sole scompare.

Mi allontano da lei.

Sembra che il cielo si fosse adattato ai nostri umori. Che i tuoni seguano il galoppare del mio cuore. Dei nostri probabilmente. Che i lampi si alternino al nostro aprirsi e chiudersi delle palpebre.

«Io non riuscirò mai a esser come te. Non sono riuscita a rialzarmi e non ci riuscirò mai» il mio tono aumenta di volume, sono arrabbiata. E' iniziato a piovere. E le mie lacrime cominciano a scendere copiose, fortunatamente nascoste dalla pioggia scrosciante. Mi giro di scatto, voglio andare via.

Non è stata una buona idea venire qui con lei. Pochi secondi dopo un braccio blocca il mio cammino, e mi tira.

«Fermati» la pioggia fa molto rumore e ha praticamente urlato per farsi sentire. Mi costringe a girarmi verso di lei. Obbedisco alla sua presa. Il suo viso è un misto tra stupore e rabbia.

«Perché non mi dici che è successo?» urla di nuovo.

«Non permetterò che diventi come me» le rispondo arrabbiata, tra un singhiozzo e l'altro, voglio tornare a casa.

«No!» dice lei insistente, avvicinandosi ancora di più a me.

Alzo il viso verso il cielo. Non riesco a calmarmi, non riesco. Sento la sua mano sul mio viso.

«Guardami».

«Perché insisti tanto con me. Lasciami in pace!».

Mi dimeno per sfuggire alla sua presa ma lei afferra prontamente anche l'altro braccio. E senza nemmeno accorgermene, con uno scatto felino, mi bacia. Si, mi bacia, mi sta baciando. Preme con forza il suo viso contro il mio, mentre tengo gli occhi spalancati.

Mi sta baciando. Ho immaginato quel momento per settimane, e sta accadendo proprio quando ormai avevo capito che non si sarebbe mai verificato.

Si stacca da me, col respiro ansimante e mi urla addosso.

«Ecco perchè non ti lascio andare, per questo!» torna indietro in mezzo alla pioggia e inizia ad andare avanti e indietro, senza sapere cosa dire.

«Non lo so cos'è successo, cosa mi è successo» un tuono sovrasta la sua voce e lei si ferma per lasciarlo passare.

«So solo che questo posto mi ha dato la pace ma tu» preme il suo dito contro il mio petto, con espressione accusatoria.

«Tu mi hai dato un motivo per sorridere! Quei tuoi maledetti occhi neri, me li ritrovo tutti i giorni di fronte al viso e non faccio altro che pensarti e pensarti senza capirne il motivo. E quel giorno, quando ti sei messa a piangere, avrei voluto stringerti, ma non come fa un'amica».

Ha iniziato a piangere anche lei, gli occhi verdi sono circondati da un alone rosso: iniettati di sangue.

«E a me non è mai successo niente del genere. Io ero tranquilla, le litigate con te mi divertivano ma vivevo la mia vita tranquilla. Tu hai stravolto gli equilibri, tu...» prende un respiro. In quel momento mi accorgo che ho smesso di respirare perché il mio cuore sembra abbia assunto dimensioni troppo grandi da permettere ai polmoni di fare il proprio lavoro.

«..tu mi hai completamente stregato. Mi alzo sperando di incontrarti e sperando che quell'incontro possa regalarmi il tuo sorriso. Che possa sentire la tua voce. Che possa guardare le tue labbra muoversi. Mi. Stai. Facendo. Diventare. Pazza!» ad ogni parola ha fatto un passo verso di me e ha premuto il suo tono sulla prima lettera di ognuna.

«E il tuo non volermi dire niente mi fa male, mi fa sentire inutile e non mi fa dormire la notte. Sei entrata dentro di me, sei come un virus, uno di quei virus che non ti lasciano speranza. Mangio un cucchiaino della tua marmellata tutti i giorni prima di dormire. Non ho lavato la tua tazza! Odio tutto questo!».

Abbassa la testa per poi rialzarla portandosi dietro ciocche di capelli bagnati e gocciolanti.

«E ora vai se vuoi andare!».

Mi sta dicendo che io sono diventato un suo pensiero fisso. Ho sentito bene? Io non voglio rovinarla e lei mi sta dicendo che è troppo tardi per tornare indietro. Non voglio tornare indietro, non voglio andare via, non volevo andare via nemmeno quando gliel'ho urlato contro.

I suoi occhi continuano a fissarmi e sono come una calamita per me. Muovo i piedi senza nemmeno accorgermene. Mi ritrovo a un palmo di naso da lei, a fissarla. Le prendo il viso con le mani, mentre lei stringe gli occhi per far scendere le lacrime.

«Shhhhh» dico io poggiando la sua fronte sulla mia. Le sue mani si poggiano sulle mie, le stringono, con rabbia. Poi decido di parlare.

«Non voglio più che mi odi per quello che stai provando. Non voglio più che guardi i miei occhi senza sapere che mi sveglio presto solo per guardarti uscire di casa e prender il tuo cornetto al bar. Che mi piace l'odore dei tuoi capelli. Mi piace il calore della tua mano. E se devi impazzire, voglio che impazzisca con me, non per me».

I nostri nasi si sfiorano, come a volersi accarezzare. Lei chiude gli occhi e io faccio lo stesso. Mi faccio guidare da lei, dalle mani che accarezzano le mie braccia e che ora cingono i miei fianchi.

Così, mentre la pioggia si fa meno fitta, la mia bocca incontra la sua.

Il mio cuore è andato completamente in frantumi con la perdita di Henry. Con lei, in quel momento, mentre assaporo ogni centimetro delle sue labbra, riprovo la sensazione di un cuore intero che batte nel mio petto.


 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Emma ***


Non so perchè ci ho messo un po' più di impegno nel trucco. Non so perchè spero che sia contenta di rivedermi. O forse lo so. O forse lo ignoro volutamente.

Si è sforzata di mettere un paio di jeans per me. Perché ha paura che le avrei distrutto un paio delle sue costose scarpe? Non so. Ma mi piace quell'accorgimento che ha avuto.

E tutto è stato bello, tutto è stato piacevole, caldo, familiare, diverso.

Diverso da tutte le amiche che avevo avuto.

Diverso da tutti gli amori che avevo avuto, e che non erano poi tanti.

Era...agio mentre si stava in silenzio. Era attesa per le risposte che ci davamo, erano battute che arrivavano come frecce sul fianco. E ogni volta alzava le sopracciglia per confermare che aveva vinto.

Era stato tutto perfetto. Era rimasta estasiata del posto, si era incantata e aveva giocato con me quando le avevo detto di chiudere gli occhi. Sentivo un senso di pace che non provavo da anni. Fino a che decido di raccontarle la cosa che mi aveva spezzato.

«Sai, un paio di anni fa aspettavo un bambino».

Emma forza, lentamente, ce la puoi fare. Probabilmente sapere che anche io ho passato una cosa simile la aiuterà a aprirsi con me.

«Il mio fidanzato di allora aveva detto che lo voleva, poi l'avevo beccato a letto con una e me ne sono andata, senza dire niente».

Non dice nulla, si limita a guardarmi voltando un po' il busto, allontanandosi dal sostegno che la staccionata rappresenta in quel momento.

«Quando ho visto quella foto a casa tua, di quel bambino, e poi le lacrime...non so chi sia ma sicuramente per un motivo o per un altro ora non c'è più. Qualche settimana dopo aver cambiato casa ho avuto un aborto e ho perso il bambino. Un feto a dir la verità» torturo i miei capelli, senza riuscire nemmeno per un attimo ad alzare il mio viso per guardarla negli occhi. Sento una specie di tensione che proviene dalla sua parte.

«Ho cambiato città per quattro volte. Poi sono arrivata qui. Tu mi stavi dando un buon motivo per andarmene di nuovo sai? Poi ho scoperto questo posto..e ho ritrovato pace».

E' il momento di affrontare il suo sguardo. Lei rimane seria fissando i miei occhi, poi si volta di nuovo puntando lo sguardo oltre lo strapiombo.

«Sei una brava persona, e bella, e forte, e io non riuscirò mai a essere come te» il suo sguardo è di nuovo contratto dal dolore.

No, no, no! Ho sbagliato di nuovo!

Sbaglio tutto con lei! Ogni passo che faccio per avvicinarmi, la ferisco, ogni idea è un fallimento.

Un tuono si presenta all'improvviso, così come le nubi cariche di pioggia sopra di noi.

Se ne sta andando. Lei se ne sta andando. No, non l'avrei permesso. Mi metto a correre per raggiungerla e le afferro il braccio intimandole di fermarsi. Non si è ancora voltata ma sento che sta piangendo.

«Perché non mi dici che è successo?» piange ma le sue lacrime si nascondono in mezzo alle gocce di pioggia e mi sputa un NON PERMETTERO' CHE DIVENTI COME ME addosso con una tale rabbia che lo percepisco come un pugno nello stomaco.

La tiro per un braccio con forza quando lei tenta di divincolarsi. La afferro anche con l'altro braccio e la tengo dritta di fronte a me.

«Perchè insisti tanto con me. Lasciami in pace».

Un attimo. Perché faccio questo con lei? Perchè mi spingo così oltre da andare contro il suo volere di andarsene? Sono cinque secondi di confusione totale. Lei piange per colpa mia, e questo non posso sopportarlo. Vedo solo i suoi occhi tristi e le sue labbra...le sue labbra li che tremano e io voglio baciarle. Mi chino leggermente su di lei e con rabbia la bacio. Le afferro il labbro inferiore con passione, e tristezza e....rimango senza fiato.

Ho baciato una donna. Sto baciando una donna.

Ma questa è l'unica risposta che posso darle. L'unico modo per spiegarle.

«Ecco perchè non ti lascio andare, per questo! Non lo so cos'è successo, cosa mi è successo, so solo che questo posto mi ha dato la pace ma tu...tu mi hai dato un motivo per sorridere!» muovo le braccia in modo disordinato mentre vado avanti e indietro di fronte a lei, sotto la pioggia.

«Quei tuoi maledetti occhi neri, me li ritrovo tutti i giorni di fronte al viso e non faccio altro che pensarti e pensarti senza capirne il motivo. E quel giorno, quando ti sei messa a piangere, avrei voluto stringerti, ma non come fa un'amica» mi bruciano gli occhi. Perdo le energie. Il mio cuore sta battendo a velocità vertiginosa e sembra che tutto l'ossigeno si stia concentrando sul mio petto, per sostenere il cuore, lasciando il resto del corpo completamente inerte.

Non riesco a decifrare il suo sguardo ma ormai ho iniziato a parlare e quando succedeva difficilmente riuscivo a fermarmi. Sono come un fiasco a testa in giù. Fuoriusce tutto in modo rumoroso. Parole e lacrime.

«E a me non era mai successo niente del genere. Io ero tranquilla, le litigate con te mi divertivano ma vivevo la mia vita tranquilla. Tu hai stravolto gli equilibri, tu..» mi manca l'aria. «..tu mi hai completamente stregato. Mi alzo sperando di incontrarti e sperando che quell'incontro possa regalarmi il tuo sorriso. Che possa sentire la tua voce. Che possa guardare le tue labbra muoversi. Mi. Stai. Facendo. Diventare. Pazza.».

Ha smesso di piangere e camminava verso di me, lentamente. Di rimando io torno quasi indietro. Terrore assoluto di affrontarla.

«E il tuo non volermi dire niente mi fa male, mi fa sentire inutile e non mi fa dormire la notte. Sei entrata dentro di me, sei come un virus, uno di quei virus che non ti lasciano speranza. Mangio un cucchiaino della tua marmellata tutti i giorni prima di dormire. Non ho lavato la tua tazza! Odio tutto questo!» cercavo di riprendere fiato.

«E ora vai se vuoi andare!».

Ce l'ho fatta. Le ho detto tutto quello che dovevo e non è stato nemmeno tanto difficile.

Un lampo illumina i nostri visi proprio quando lei è a pochi passi da me. E in quel momento mi prende il viso tra le mani. Chiudo gli occhi, stanca, sfinita, svuotata dai pensieri che quelle settimane mi hanno praticamente tormentata.

Poggia la sua fronte sulla mia e un singhiozzo esce dal mio corpo, mentre afferro le sue mani con forza, come per sostenermi. Dalla sua bocca esce un flebile -shhh-, forse per farmi smettere di piangere. Ma in quel momento, fissare i suoi occhi mi fa piangere ancora di più.

La pioggia ci ha completamente bagnate, ma sento il calore delle sue mani, del suo corpo. Sento tutto così chiaramente che per un attimo mi sembra di esser nuda di fronte a lei. E in un certo senso lo sono. Mi sono totalmente spogliata, scoperta, confessata, di fronte a lei.

«Non voglio più che mi odi per quello che stai provando. Non voglio più che guardi i miei occhi senza sapere che mi sveglio presto solo per guardarti uscire di casa e prender il tuo cornetto al bar. Che mi piace l'odore dei tuoi capelli. Mi piace il calore della tua mano. E se devi impazzire, voglio che impazzisca con me, non per me».

Dopo queste parole, ogni domanda che potevo avere, irrisolta, trova una risposta. Perché sta accadendo qualcosa di assolutamente nuovo e assolutamente inspiegabile a cui nessuna delle due vuole rinunciare.

Allungo di poco il collo fino a che non sfioro le sue labbra, di nuovo. Lo desidero talmente tanto che sposto le braccia sui suoi fianchi, avvicinando ancora i nostri corpi. Il suo bacio è totalmente diverso dagli altri. Io che bacio lei sono totalmente diversa. Non mi sento obbligata o frenata o in soggezione o imbarazzata. Siamo l'anodo e il catodo di una batteria. Opposti che non possono stare separate.

Eppure mi sembra sempre poco. Prendo un respiro tra un bacio e l'altro e quando lei sembra volersi allontanare, afferro il labbro inferiore con forza, facendola riavvicinare. Possoo provare queste cose per una donna?

Non lo so.

L'unica cosa certa è che è bellissimo.

Non so quanto tempo siamo state in quello stato di trance con le nostre labbra che, come affamate, cercano quelle dell'altra.

Ma improvvisamente smettiamo. Insieme. Senza dire nulla.

Ci guardiamo e basta. Ma non riesco a distogliere lo sguardo dalle sue labbra...così sposto la mano dai suoi fianchi e inizio a sfiorarle. Sono carnose, e ancora rosse. Poi alzo lo sguardo sul suo e le stampo un altro bacio, veloce. Sorridiamo insieme.

«Ha smesso di piovere» dice accarezzandomi capelli e allontanandoli dal mio viso.

Mi riporta alla realtà.

Io, lei, un bacio.

Il mio cuore impazzito.

Lei troppo vicina a me.

Mi allontano, lentamente. La paura mi assale. Le ho aperto il mio cuore e ora sto tornando indietro. Come posso pretendere che poi mi avrebbe creduto di nuovo?

Ma il panico quando si insinua nelle tue vene non lo puoi fermare.

«Ho paura» dico con tono deciso «Che...cos'è questo?».

«Non so» sui suoi occhi leggo terrore. Puro terrore.

Sono tornata tristemente alla realtà. Io e una donna. Non può essere. Tutto quello che provo è vero, ma non posso, non ora, non così velocemente.

«Io...E' meglio tornare a casa» abbasso lo sguardo e mi dirigo verso il sentiero.

Mi accorgo di averla dietro di me. Mi accorgo di averla ferita. Sento l'aria intorno a noi farsi pesante. Apro la macchina e salgo senza riuscire a guardarla negli occhi.

Quelle due ore del viaggio di ritorno sono state disastrose. Due ore di silenzio tombale. E' fastidioso quel silenzio. L'unico rumore è quello della ventola del riscaldamento, accesa per evitare il congelamento per l'acqua che abbiamo preso.

Le lacrime hanno ripreso a scendere ed è difficile vedere bene la strada.

«Non piangere per favore» il suo tono è un misto di rabbia e delusione.

«Non importa..io...farò finta che tutto questo non sia mai successo. Tu dimentichi quello che ho detto io e io...dimentico quello che hai detto tu».

Il suo sorriso è triste. Vuole consolarmi ma le sue parole mi fanno ancora più male. Quel suo arrendersi mi fa capire che tutto ciò che le ho detto, per lei sono solo bugie. E forse lei è coraggiosa, ma io no.

«Non dire questo per consolarmi, non ce n'è bisogno».

«D'accordo. Ma non disperarti per me. Io non mi abbatterò per questo. E non perché non mi faccia male. Ma perché è la milionesima volta che mi capita. E' la milionesima volta che mi capita».

Ripete l'ultima frase due volte, come a volere convincere se stessa.

Ormai è tornato il sole. Solo nel cielo però. Tra me e lei c'era il temporale più violento.

«Grazie per avermi riaccompagnata a casa» dice con voce piatta aprendo la portiera della macchina.

«Aspetta Regina per...».

«Ti prego almeno non sparare una scusa banale, risparmiatela. Addio, Signorina Swan».

Mi da di nuovo del lei. Come biasimarla.

Come posso essere stata così stupida? Come?

«Stupida, stupida, stupida».

Scendo dalla macchina sbattendo rumorosamente la portiera. Mi sono comportata come una bambina. Passo settimane a chiedermi il motivo della mia confusione, della mia insonnia, dei suoi sogni con lei dentro. E ora che confesso tutto ho paura.

Posso essere attratta da una donna? Non lo so. Non lo sapevo, non mi sono mai posta il problema perché sono sempre stata solo con uomini. Ma quegli occhi....i suoi occhi, mi hanno trasmesso più di quanto non abbiano mai fatto quelli di un uomo.

Sono innamorata di lei? No, forse innamorata è una parola troppo grande. Però mi piace. E sono totalmente fuori controllo.

Mi infilo nell'ascensore. Il freddo inizia a entrarmi nelle ossa e tremo come una foglia. Ma la cosa più grave è che non riesco a smettere di piangere. Piango da più di due ore e la testa mi sta scoppiando.

Quella sensazione di assoluta protezione che ho provato tra le sue braccia. La pelle aveva bruciato sotto il suo tocco. Io bruciavo in quel bacio. Ma era tutto troppo inspiegabile, tutto troppo complicato, strano, uguale e diverso allo stesso tempo.

Sono solo le quattro del pomeriggio. Ho distrutto la domenica più speciale del mondo. Complimenti Emma, sei stata la solita idiota.

Entro in casa, e per evitare di bagnar tutto il pavimento con l'acqua, decido di togliermi i vestiti li, all'ingresso. Li sistemo in un angolino e mi fiondo nella doccia, dove, sotto il getto dell'acqua calda, rimango a piangere per un'altra ora.

Non può essere quello che sento.

Lei è una donna.

Una bella donna.

La più bella che abbia visto. Ha tutto perfetto: dalle gambe al seno, dal sedere alle mani, dalla bocca agli occhi. E mi piace maledettamente tutto di lei. Anche del suo modo di vestire un po' troppo austero.

Ma lei è così: è la Regina degli inferi. Riesce a sbatterti addosso la verità in un modo così diretto che devi necessariamente prenderne atto. E quando incrocia le braccia diventa una strega. E' la sua posizione di attacco, di combattimento. Serviva per parar i colpi. E anche io l'avevo colpita. Ma quelle braccia non sono state sufficienti.

Avvolgo i capelli nell'asciugamano e mi infilo l'accappatoio. Poi, trascinando pesantemente i piedi, come se stessi trascinando un sacco di pietre, arrivo nella mia camera. Butto per terra i vestiti che ho ammucchiato sopra, poggio la testa sul cuscino e come ogni volta, mi addormento con i suoi occhi fissi su di me.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Regina ***


Le sensazioni che mi ha dato erano indescrivibili. Ma quando sono così forti, quando ti danno quella carica di adrenalina...be, di sicuro c'è qualcosa di negativo sotto. C'è qualcosa che poi ti frega. Perché è questo che fa l'amore, l'attrazione, la fiducia: ti fregano alla grande.

E' una questione di fortuna, e nella mia vita la fortuna non è propensa a presentarsi.

Mi aveva inseguita, si era aperta a me per cosa? Per vedere se cedevo? Per quale razza di motivo mi aveva illusa con tutte quelle belle frasi? Perché!

La odiavo. Odiavo il fatto che mi aveva baciata.

Mi ero messa a letto col cuore spezzato quel giorno, e dopo due settimane, faceva ancora male. Non riuscivo a capacitarmi della cosa. Avevo forse immaginato il suo bacio? I suoi occhi bagnati di lacrime? Il suo cuore galoppante da sotto il giubbotto? Era capace di controllare anche la velocità del suo battito come controllava me?

Ogni giorno, nelle due settimane successive, mi sono affacciata alla finestra. Non è più passata al bar a prendere il suo cornetto. Non l'ho più vista. Per quanto ne so può essersene andata. Può essere fuggita una notte portandosi dietro i suoi amati mobili e la collezione di palle di neve.

E anche i cocci del mio cuore. Della mia fiducia. Della mia rinascita.

Riprendo il mio lavoro d'ufficio ma tutte le notti le guance bruciano. Risento le sue mani sul mio viso, sui miei fianchi. Il dito che ha toccato la mia cicatrice sul labbro. Brucia come se mi toccasse in ogni istante.

Oggi la giornata in ufficio è stata devastante. Problemi su problemi, scartoffie su scartoffie da sistemare, milioni di telefonate da fare e nessuno che mi aiuti o che mi renda più semplice il lavoro. Sono tutti degli incompetenti buoni a nulla, capaci solo a parlare.

Come lei. E' stata capace solo a parlare.

Sull'ascensore, premo un pulsante a caso senza guardare. Poggio la testa sulla parete dell'ascensore che lentamente ha iniziato a muoversi. Oggi però non piangerò. No. Avrei pianto solo per una persona e di certo non è lei.

Le porte dell'ascensore si aprono, esco senza nemmeno guardarmi intorno. Prendo la borsa per cercare le chiavi e di fronte mi ritrovo una porta che non è la mia.

«Ma che diavolo...» mi guardo intorno. E' il suo pianerottolo.

Senza rendermene conto finisco al quinto piano.

«Quanto sono stupida». Rimango a fissare la sua porta. Non si sente nulla. Silenzio di tomba. Decido di prendere le scale, in fondo devo scendere solo per due piani, non sarebbe stato faticoso.

Faccio i primi tre gradini con una brutta sensazione addosso quando sento un rumore di vetri rotti. Mi volto spaventata e rimango immobile aspettando qualche altro rumore. Altro vetro in frantumi, seguito da un urlo.

Non mi posso sbagliare. E' lei. Le è successo qualcosa. Risalgo i gradini e suono il campanello.

«Emma!!!» urlo bussando con insistenza sulla porta «Sono Regina, apri per favore». Silenzio.

«Emma!! Sarò costretta a farmi dare le chiavi del portiere se...» ha aperto. E la figura che mi ritrovo davanti sembra solo qualcuno che un tempo somigliava a Emma.

I suoi occhi sono spenti e rossi di sonno. O di pianto. Il tutto è circondato da occhiaie scure, capelli arruffati e...oddio sangue. Addosso ha solo una maglia lunga e dalla mano sinistra gocciola del sangue.

Mi osserva stupita, felice e spaventata allo stesso tempo.

«Regina...» dice con un filo di voce «Sapevo che saresti venuta a salvarmi».

Chiudo la porta e le afferro il polso trascinandola per la casa alla ricerca del bagno. Di sfuggita vedo dei vetri rotti accanto alla finestra.

Che diavolo ha combinato. Perché non mi risponde? Ho paura. Ma ora perde troppo sangue e devo tenere la mia paura in un angolino, per affrontare quella piccola emergenza.

Ecco il bagno. E' completamente sfatta, poco curata e infreddolita. Trema di freddo (o di paura). Apro il rubinetto dell'acqua e infilo prontamente la mano di Emma, che non parla. Una volta pulita la mano dal sangue posso finalmente vedere come e dove si è ferita: aveva un brutto taglio sul palmo, che non smette di sanguinare. Probabilmente ci vorranno dei punti, ma decido di fare da me.

«Emma hai del cotone o delle garze?».

Non sentendo risposta mi volto a guardarla. E' totalmente assente. Il viso sporco di sangue ancora fresco, sembra sospesa in un'altra dimensione.

«Lascia la mano sotto l'acqua!» urlo quando cerca di spostarsi. Lei ha un tremito per lo spavento. «Stai ferma, cerco qualcosa qui, avrai del cotone, tutti hanno del cotone in casa!» inizio a frugare nel mobiletto sotto il lavandino. Non c'è niente di nulla. In mezzo ad assorbenti e carta igienica però trovo un po' di cotone in una bustina. Non è molto.

«Ce lo faremo bastare, ok?» la guardo negli occhi cercando un po' di complicità, un tentativo di comunicazione anche visiva ma niente. Avrei pensato dopo a quello, ora devo fermare il sangue.

Dopo aver chiuso il rubinetto, tampono la ferita con un asciugamano appeso di fianco al lavandino. Lo avrebbe lavato poi. Sfilo il cotone dalla bustina, e dopo aver tolto e lasciato cadere per terra l'asciugamano, metto il cotone nel palmo della sua mano, premendo forte.

Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa con cui fasciarla, quando noto la cinta dell'accappatoio poco fuori dal bagno. Evito di chiedermi che ci faccia la fuori.

«Emma, non fare cadere quel cotone, ok?» è come parlare da sola.

Lascio la sua mano per qualche secondo e torno giusto il tempo necessario a evitare che il cotone cada dalla sua mano. Seguè i miei movimenti come stregata, incantata, senza dire una parola. Inizio a stringere il cotone sulla mano con la cinta, cercando di tenerle libere le dita, per poterle muovere. Dopo avere fatto un orrendo nodo sul dorso della mano dico: «Ecco fatto» provo a sorridere ma il suo viso è come avvolto da una cupa nube nera.

«Emma» le accarezzo il braccio per tentare di riportarla da me.

«Emma» dico a voce più alta.

«Emma!» la mia mano si scaglia sulla sua guancia in un sonoro ceffone.

«Rispondimi!» dico ormai sull'orlo di una crisi.

Apre e chiude le palpebre e schiude un po' le labbra come a volere dire qualcosa. Sfiora la gota che ho appena colpito con la mano sana per poi avere finalmente una reazione. Gli occhi tornano a riempirsi di lacrime.

«Regina...mi..m...mi dispiace, io...» balbetta. Abbassa lo sguardo verso la mano che le avevo fasciato. Mi avvicino piano, per non spaventarla e la cingo in un abbraccio. I suoi singhiozzi riempiono il silenzio della casa. Le accarezzo la testa come facevo con Henry quando piangeva.

Non l'avrei lasciata da sola. Non ho visto mai nessuno in quello stato. A parte me stessa. E io avrei avuto bisogno di qualcuno con me...qualcuno che non c'è stato. Non le avrei fatto provare lo stesso. Mi ha ferita, è vero, ma questo è molto peggio. Questo va molto oltre ed è qualcosa che non posso ignorare solo perché sono ferita nell'orgoglio.

Prendo il suo viso tra le mani mentre lei ancora singhiozza.

«Senti, ora facciamo così: tu smetti di piangere e...»

«Ti prego non andare via...mi...mi dispiace» le parole bloccate dall'ennesimo singhiozzo. Mi sciolgo completamente. In un secondo torno ad essere debole, vulnerabile, come solo lei sapeva farmi essere.

«Non dirlo nemmeno per scherzo, non me ne vado, però smetti di piangere va bene? Ora ti pulisco la faccia poi ti metti qualcosa di caldo addosso e ti preparo una bella camomilla» cerco di rassicurarla anche con lo sguardo oltre che con le parole. Le stampo un bacio sulla fronte e cerco di sorridere.

Mi riabbasso sul mobiletto a cercare un asciugamano. Prendo il più piccolo che trovo e ne bagno un angolo con acqua calda. Così, inizio a pulire il viso di Emma che mi guarda, triste.

«Che è successo?» forse è meglio cercare di farla parlare un po'.

Un lamento esce dalle sue labbra e una lacrima riga il suo volto.

«Va bene va bene...me lo racconterai un'altra volta allora. Finalmente sei pulita. Ora andiamo in camera e prendiamo un pantalone e una maglietta ok?»

Le metto un braccio intorno alle spalle mentre la guido dentro la sua camera. Facile riconoscerla, ci sono un mare di vestiti sparsi dappertutto. La faccio sedere sul letto, consapevole che non sarebbe stata in grado nemmeno di cambiarsi. Inizio ad aprire le ante dell'armadio e i cassetti sotto di esse. C'è un disordine indicibile.

«Ecco le calze» dico a voce alta «oh, questo sembra un pantalone del pigiama» chiudo il cassetto.

«Andranno benissimo». Mi siedo vicino a lei.

«Emma...hey....ora ci vestiamo ok?».

Fa cenno di si con la testa. Sospira profondamente e mi prende le calze dalle mani. Con un po' di difficoltà, data anche dalla fasciatura, riesce a infilarle, e di seguito i pantaloni.

Non ho guardato. Nè le gambe, nè i piedi nè il sedere. Niente. Mi sono concentrata sul suo viso, che è quello che mi preoccupa di più. Si siede di nuovo accanto a me, tremante. Dietro di me scorgo una felpa bianca di pile.

«Infilati questa e sdraiati, vado a prepararti una camomilla. Hai della camomilla?» mi alzo.

«La troverò...tu non muoverti da questo letto».

Annuisce con la testa. Mi sposto per la casa...c'è un caos impressionante. Bicchieri e piatti sporchi. La busta della spazzatura aperta e piena. Mi sarei occupata dopo di quello.

Inizio ad aprire e chiudere compulsivamente gli sportelli finché trovo una scatolina verde. "Infuso di finocchio".

«Non sarà camomilla, ma almeno se lo scaldo avrà qualcosa nello stomaco» fortunatamente per me ha il microonde. Riempio una tazza di acqua e la infilo nel fornetto. Mentre quello inizia a girare mi assicuro di trovare zucchero e un cucchiaino.

E' completamente abbandonata a se stessa. Si è lasciata andare e non capisco perchè. E' triste, è distrutta, è tornata quasi una bambina. E mi ha implorato di non lasciarla sola. Non posso dire di no a quegli occhi, non ce l'avrei mai fatta.

Dinn-. Il trillo del microonde mi distoglie dai pensieri che affollano la mia mente. Dalle domande che inevitabilmente mi sto ponendo.

Presa la tazza, verso il contenuto della bustina, un cucchiaino di zucchero e torno da lei.

La ritrovo come l'avevo lasciata. Seduta sul letto a fissare un punto nel vuoto. Poggio la tazza e il cucchiaino sul comodino.

«Emma guardami» le prendo il mento, sistemandole i capelli dietro le orecchie.

Spalanca gli occhi verso di me, che diventano come due fanali che perforano i miei.

«Mi dispiace....mi dispiace così tanto...».

«Di cosa ti dispiace Emma?» Si morde il labbro inferiore e piano, fa cadere la sua testa sul mio petto, sospirando.

«Ho bisogno di sapere che ti è successo» le massaggio la schiena facendo dei piccoli cerchietti finchè lei non si decide a tornare dritta.

«Mi dispiace per quello che è successo alla cascata...mi dispiace per essere scappata» piange. Di nuovo. Mi si spezza il cuore vederla così, voglio che quegli occhi smettano di piangere. Io posso sopportare la delusione da lei...ma lei non sopporta la delusione da se stessa.

«Non importa...non importa...»..

«Certo che importa» mi urla finalmente arrabbiata! «Tu...» posa la sua mano sulla mia guancia... tu sei così...bella...e io non capisco cosa mi sta succedendo! So solo....so solo che mi sono lasciata andare e solo dopo ho elaborato che sei una donna! E a me non sono mai piaciute le donne! E questo mi confonde in modo assurdo!».

Apro la bocca tentando di parlare, ma mi interrompe.

«E sento il cuore scoppiare ora che ci sei. Ma stava scoppiando anche quando mi hai dato di nuovo del lei! E avevi maledettamente ragione» poggia le mani sulle mie ginocchia. Sono stupita, tanto per cambiare. E preoccupata.

«E' che io...non lo so come è potuto accadere, ma sono due settimane che non riesco a mangiare, a dormire! Che mi fa male il petto, lo stomaco. Perché volevo tornare indietro ma tu non ci saresti stata, non mi avresti ascoltata. E ho passato le giornate dal letto al divano, dal divano al letto. E quando riuscivo a dormire, allora mi ricordavo quello che avevo detto e piangevo...e piangevo...e piangevo e» si alza di scatto diretta verso il salotto. L'ho seguita senza aprire bocca.

«E li vedi questi cocci? C'è la tazza dove hai bevuto il tè, e la palla che hai toccato! Li metto sul tavolino e li fisso. Pensando a quanto sia stata cogliona a non ascoltare quello che provavo. E a farmi condizionare dal fatto che siamo due donne».

«Allontanati da quei vetri, ci manca solo che ti ferisca anche i piedi» la afferro per un braccio visto che gesticola e si muove in modo inconsulto.

«E ora io non so cosa fare. Tu sei qui e mi hai aiutato e io riesco solo a piangere e non riesco nemmeno a guardarti negli occhi perché mi vergogno! E perché non ha senso che tu sia qui dopo quello che ti ho fatto! Ti ho praticamente presa in giro e tu sei ancora qui».

Urla e piange.

Stavolta sono io a fare il primo passo. Mi sta nuovamente confessando quello che prova, solo che ha avuto due settimane per riflettere. Non l'avrei fatta scappare di nuovo. No. La frustrazione delle due settimane appena passate sono valse tutto questo. Sono io a doverla aiutare.

Faccio un passo verso di lei ma mi blocca urlando:

«Non ci credo che non te ne sei ancora andata! Non ci credo che dopo le mie parole, dopo essermi confessata e poi rimangiata tutto tu sia ancora qui! Cosa c'è sotto? Sei una strega che vuole farmi qualche incantesimo? Sei una ladra? Che cosa sei tu!».

E' completamente fuori controllo, ma a quel punto sono arrabbiata anche io.

«Tu mi hai portato a stare qui! Tu mi costringi a stare qui! I tuoi maledetti occhi blu! La tua bocca, le tue gambe e la tua voce! Il tuo avere bisogno di protezione! E mi dispiace tantissimo se nessuno ha mai fatto niente per dimostrarti qualcosa, sai, nemmeno con me è successo! Ma io rimarrò qui seduta su questo divano fino a che tu non capirai che non ho intenzione di lasciarti in mezzo alle tue paranoie. Io mi siedo qui e tu sarai costretta a guardarmi come SCELGO TE nonostante i pianti, i ripensamenti e tutto il resto, sono stata chiara? IO. SCELGO. TE. La notte mi sono ritrovata a scrivere per te. Non potendoti parlare, avevo bisogno di comunicare con te in un altro modo. E poi forse un giorno te le avrei fatte leggere, per vederti sorridere della mia pazzia. Ecco, credevo che tu avessi bisogno di qualcuno che ti scrivesse un sacco di stronzate alle cinque del mattino. Credevo di poterti offrire un mondo popolato da persone divertenti. E un altro, più piccolo ma più grande, abitato solo da noi due. Per potere avere un po' di felicità. Felicità, Emma. La felicità è fare l’amore a ore strane oppure normali, purché con te. La felicità è crescere insieme, litigare a chi ha la testa più dura e poi, piene di bernoccoli, salire un altro gradino del nostro percorso. La felicità è un appuntamento nel tuo posto magico dove io credo di essermi vestita in modo inadeguato. Se hai un problema che ti assilla, lo risolviamo insieme. Ti volevo soltanto dire che non mi manca una donna. Mi manchi tu. Che sei anche una donna, e che donna. Ma sei qualcosa di più: sei quella che mi toglie il fiato solo perchè piange per le parole che le dico».

Col fiato corto mi siedo sul divano, incrociando le braccia al petto. Smetto anche di guardarla in faccia. Prima scappa, poi si fa rincorrere, poi mi incolpa. Io da li non mi sarei mai mossa, MAI.

Dieci interminabili minuti. Lei ferma accanto alla finestra, io seduta sul divano. La sento muovere qualche passo. Passa dietro di me, superando il divano e sedendosi accanto. Gamba contro gamba, braccio contro braccio. Con la mano fasciata mi afferra il mento così da voltarmi verso di lei. Ancora una volta i miei occhi parlano da soli e spero tanto che veda quello che sento, quello che voglio.

Ancora lacrime dai suoi occhi.

Le afferro il viso tra le mie mani. Sussurro «Shhhh» come ho fatto alla cascata. Faccio aderire lentamente le mie labbra alle sue, che subito si schiudono calde, accoglienti, morbide. Il respiro si fa affannoso, e per riprendere fiato, sposto la mia bocca sulle sue guance, sugli occhi rossi e bagnati di lacrime, sul naso, sul mento, per poi tornare sulla sua bocca, che implora di essere baciata e continua a dire «Mi dispiace, mi dispiace»...io la zittivo attirandola a me.

Non avrei voluto smettere mai di baciarla. Perché tutto di lei mi dice che avrebbe voluto la stessa cosa. Le sue parole, le sue labbra, i suoi occhi, il suo corpo. E' tutta per me. Voglio parlarle di nuovo ma lei mi cinge in un abbraccio che non vuole saperne di lasciarmi. Non che a me dispiaccia. Ma io sono brava ad ascoltare i miei desideri fisici....solo che voglioo assecondare anche quelli del cuore. Con lei c'è tanto cuore oltre che fisico.

Mi spinge verso il bracciolo del divano e stiamo così, con lei che bacia avidamente il mio collo e Dio solo sa quanto vorrei far volare altrove quei vestiti che porta addosso.

L'aria è diventata calda. Le mie mani si sono insinuate sotto la sua maglietta e accarezzo la sua perfetta e muscolosa schiena nuda (e ancora una volta senza reggiseno).

Solo dopo avermi quasi consumato il labbro inferiore si ferma.

Il suo mento sprofonda tra la mia spalla e il mio collo, in un dolcissimo abbraccio.

Rimaniamo ancora così, ferme, a ascoltare i nostri cuori battere, a sentire i nostri respiri affannosi, le nostre labbra consumate, le nostre mani che si sono fermate troppo presto. Continuo a dare piccoli baci alla sua testa, ai suoi capelli mentre lei si scioglie di nuovo in lacrime.

«Basta piangere Emma. Basta. Andrà tutto bene. Ok?» cerco di convincere lei ma anche me stessa. Cerco di staccarla da me, ma lei emette un leggero lamento, come un cucciolo.

«Ti sei trasformata in un cagnolino»?.

«Si» dice subito.

«Mi vuoi dire che ho baciato un cane? Ma che cosa fantastica».

Ride. Sta finalmente ridendo e non posso fare altro che essere contenta di questo. Si stacca un attimo da me, giusto per avere lo spazio per guardarmi negli occhi. Scivola sul divano, dalla parte della spalliera.

«Mi dispiace per prima».

«Lo so, non importa, stai meglio ora?».

Mi da un altro piccolo bacio. «Ora si».

Il mio corpo e il mio cuore urlano solo una cosa: spogliala. La testa no. Io devo aiutarla a capire quello che ci succede, che le succede. E approfittare di un suo momento di debolezza non mi avrebbe sicuramente fatto onore e non è da me.

Ci guardiamo negli occhi. Siamo assolutamente perse l'una nell'altra, nessuno avrebbe potuto distrarmi da lei. Le sfioro i capelli e in me si fa strada la consapevolezza che non sarei mai riuscita a lasciarla andare.

Ma la posizione è scomoda.

«Che ne dici di sistemare un po' il caos che hai fatto in questo momento di pazzia?» strizzo gli occhi guardinga.

«Che ne dici se faccio tutto io?» dice lei.

«Che ne dici se ti aiuto?».

Storce il naso.

«Che ne dici se....io mi faccio una doccia, mi cambio, sistemo un po' e tu....aspetti qui?».

«Allora che ne dici se torno per l'ora di cena e tu fai tutto quello che devi?».

«Dico che non voglio che esci da quella porta perché ho paura che non tornerai» dice queste parole con una sincerità pungente.

«Giuro che tra due ore sono qui con due pizze e una bottiglia di vino rosso, che dici?».

«Promesso?».

«Solo se la smetti di guardarmi in quel modo altrimenti non riuscirò mai a allontanarmi da te» mi fa male l'idea di lasciarla li da sola per due ore.

«Vuoi che rimanga fuori dalla doccia a farti la guardia?» le mie mani scivolano sulle sue braccia fino ad arrivare all'orrenda fasciatura improvvisata. Le tiro su il braccio.

«Anzi, ti fa male?» poggio la mia mano sulla sua guancia, e lei si accoccola per qualche secondo.

«Un po'...però non ho più cotone».

«Ecco allora vado a prendere la mia cassetta del pronto soccorso».

La vedo cambiare di espressione, dal preoccupato all'interessato.

«Ti vesti da dottoressa sexy?».

«Non sono abbastanza sexy così?» le sussurro a un orecchio, sfiorandoglielo.

«Se non vai ora non ti lascio più, alzati».

Obbedisco immediatamente. Sistemata la gonna e la giacca, la aiuto ad alzarsi dal divano.

«Due ore e torno qui. E fai in modo di non aprirmi la porta sanguinante come due ore fa» mi dirigo verso la porta poi mi ricordo di una cosa.

«Magari ci scambiamo i numeri e mi chiami quando sei pronta, no?».

«Mi sembra una buona idea» si avvicina al tavolino accanto alla porta d'ingresso, e mi porge una penna.

«Scrivi».

Afferro la penna con la mano sinistra e scrivo il suo numero, che mi detta, e poi il mio. Infine divido il foglietto il due, affidandole la metà dove ho scritto il mio.

«Ricordati di tornare da me...»

«Non posso lasciare queste cose bellissime che hai proprio qui, sulla bocca, sotto il naso!» mi avvicino a lei, lasciandole un bacio leggero, quasi a metà. Quando riapro gli occhi vedo che le labbra sono ancora tese verso di me.

«Ho smesso di baciarti...vai» ridacchio. «Prima finisci prima torno qui da te».

Annuisce mentre le gote si colorano. Apro la porta ed esco.

Lei sta male per me. Lei è stata male per me per due lunghe settimane. Ha perso il sonno, la fame, il sorriso. Si è pentita delle sue parole nel momento stesso in cui le ha pronunciate.

Posso essere più lusingata? Avrei voluto che si fosse presentata da me a dirmi quelle cose. Non l'avrei lasciata da sola con i suoi dubbi e le sue paure. Anche io ero spaventata, sono spavetata...non che fosse una donna ma che mi faccia provare certe cose. Cose che non sono abituata a provare.

Vederla con quel sangue addosso mi ha terrorizzata. Non so come abbia avuto quel sangue freddo. Ho pensato si fosse fatta male volontariamente. Questo non l'avrei mai sopportato.

Sono ormai arrivata di fronte alla mia porta. Una volta dentro, visto che sono le otto di sera, decido di chiamare subito in pizzeria per ordinare le due pizze. Sono certa che in massimo un'ora lei mi avrebbe chiamata, quindi è meglio accelerare i tempi.

Devo fare una doccia rapida. Ho tante cose a cui pensare come ogni volta sotto la doccia, ma l'avrei fatto dopo...ora non ho tempo. Devo rivederla immediatamente.

Prendo il primo vestito grigio che trovo. Lo infilo assieme ai collant e le decoltè.

I capelli sono sempre il passo più delicato, ma ormai in mezz'ora riesco sempre ad asciugarli e sistemarli con le punte un po' in fuori.

Sarei stata perfetta quel giorno. Voglio esserlo, anche se devo solo mangiare una pizza. Ma lei vale tutto il trucco e i tacchi e il resto. Un ultimo ritocco al rossetto. Borsa in spalla.

Prendo una decina dei miei aperitivi, quelli che le sono piaciuti tanto e una bottiglia di vino rosso. In quel momento squilla il cellulare. Sono certa sia lei.

«Pronto?».

«Credo che farò tardi» dice con voce allegra e squillante.

«E io sto uscendo di casa. Arrivo tra un minuto».

«Non sono pronta!».

«Non importa, arrivo, Ciao».

Riattacco. La cassetta del pronto soccorso. Sto dimenticando la cosa più importante.

Raccatto anche quella dal bagno ed esco.

Percorro i due piani che mi separano da lei.

Suono il campanello. La porta si apre e......

«Ciao». Decisamente non me l'aspettavo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Emma ***


Un fastidioso formicolio al braccio mi fa aprire gli occhi. Bruciano da morire. Sposto piano il braccio da sotto il mio corpo, cercando di riattivare la circolazione e la sensibilità dopo che ci ho dormito sotto per qualche ora. Mi metto a sedere sul divano e...eccolo li.

La stretta allo stomaco e il peso sul petto. Non mi lasciano tregua da quando l'ho lasciata andare così, senza nemmeno spiegarle le mie paure, quello che mi blocca nonostante mi sia aperta con lei.

Tutti i giorni mi sono chiesta perché la sognassi, perché la volessi vedere, perché la volessi e basta, perché volessi accarezzarle la mano come quel giorno. E le risposte che mi davo non le capivo.

E tutti quei pensieri mi stavano letteralmente mangiando viva. Non riuscivo a mangiare o a dormire. Passavo le giornate al buio col mal di testa, nel divano o nel letto, senza alcun tipo di forza, fisica e mentale. Posizionavo la tazza che ha toccato e la palla con la neve sul tavolino di fronte al divano. Rimanevo ore intere a fissarle....fino a che sfinita dal pianto, non mi addormentavo.

Entravo in cucina solo per bere acqua, a volte per mangiare la sua marmellata. Non uscivo se non per necessità inderogabili. Per fare la doccia dovevo raccogliere tutte le mie forze.

Ma dopo due settimane in quello stato, ho i nervi a fior di pelle. Sono in piedi, con la tazza in mano. La fisso e la annuso, cercando il suo odore...difficile trovarlo in una tazza sporca di due settimane. La tristezza diventa rabbia, la mano mi trema mentre di nuovo, tutta la scena scorre di fronte ai miei occhi. Fino a che non lancio la tazza sul muro di fronte a me, sotto la finestra, mandandola in frantumi. Subito dopo, accompagnato da un urlo, la palla di neve fa la stessa fine.

Mi rendo conto solo in quel momento che ho mandato in frantumi l'unica cosa che mi tiene legata al suo ricordo.

Mi accascio accanto ai cocci e pezzi di vetro, mentre le lacrime tornano a bagnare i miei occhi. Ne prendo un pezzo in mano e lo stringo forte. In quel momento, mentre le prime gocce di sangue cadono sul pavimento, sento il campanello.

Una voce che mi chiama.

E' lei. Mi ha sentita.

Apro la mano facendo cadere il pezzo di ceramica. E inizio a camminare a passo svelto verso la porta, mentre lei minaccia di chiamare il portiere.

Spalanco la porta. Visibilmente spaventata, la fisso per qualche secondo.

«Sapevo che saresti venuta a salvarmi».

Da quel momento in poi è un continuo seguire i suoi movimenti e i suoi ordini. Mi prende con forza il braccio della mano che poco prima ho ferito. Il sangue mi cola sul braccio, sento qualcosa di bagnato.

E' li con me. Non riesco a crederci, non riesco a parlare.

Mi lascio tirare e pulire. Quando riesco a percepire qualche parola sposto la mano che ha infilato sotto l'acqua. Mi urla contro di non spostarla e io obbedisco.
Sento solo il cuore galoppare e la testa scoppiare. Sento il suo profumo aleggiare attorno a me. Ma non riesco a incrociare il suo sguardo. Sono troppo stanca.

Improvvisamente urla il mio nome e mi da uno schiaffo, facendomi sobbalzare. Di nuovo le lacrime. Rimango ferma nella mia posizione, sentendo per la prima volta la mano ferita pulsare e bruciare.
Mi avvolge tra le sue braccia e li ho sentito di potere crollare definitivamente.

Si sta prendendo cura di me. Mi consola, cerca di capire che cosa mi sia successo. Tremo per la paura, la stanchezza e il freddo. E lei l'ha capito. Cerca tra le mie cose un pantalone da farmi indossare.

Continua a chiedermi perché stia così e io sono totalmente priva di forze. Ce l'ho a fianco e non riesco nemmeno a toccarla senza sentirmi in colpa. Si è spostata per farmi una camomilla, o almeno questo mi sembra di aver capito. Le mie orecchie sono come fuori da quella stanza, sento tutto come ovattato, chiusa in una teca di cristallo, con il mio desiderio, irrealizzato, di sentire quello che succede fuori.

Le sue parole di consolazione, le sue braccia sulla mia schiena, la sua comprensione mi stanno però facendo impazzire, così, esplodo.

«Certo che importa. Tu...tu sei così...bella...e io non capisco cosa mi sta succedendo! So solo....so solo che mi sono lasciata andare e solo dopo ho elaborato che sei una donna! E a me non sono mai piaciute le donne! E questo mi confonde in modo assurdo!» Le ho accarezzato la guancia, per sentire sotto il mio palmo la sensazione della sua pelle liscia, perfetta.

«E sento il cuore scoppiare ora che ci sei. Ma stava scoppiando anche quando mi hai dato di nuovo del lei! E avevi maledettamente ragione. E che io...non lo so come è potuto accadere, ma sono due settimane che non riesco a mangiare, a dormire! Che mi fa male il petto, lo stomaco. Perché volevo tornare indietro ma tu non ci saresti stata, non mi avresti ascoltata. E ho passato le giornate dal letto al divano, dal divano al letto. E quando riuscivo a dormire, allora mi ricordavo quello che avevo detto e piangevo...e piangevo...e piangevo e...E li vedi questi cocci? C'è la tazza dove hai bevuto il tè, e la palla che hai toccato! Li mettevo sul tavolino e li fissavo. Pensando a quanto fossi stata cogliona a non ascoltare quello che provavo. E a farmi condizionare dal fatto che siamo due donne» mi alzodi scatto per andare a fargli vedere il motivo della mia ferita sulla mano.

«E ora io non so cosa fare. Tu sei qui e mi hai aiutato e io riesco solo a piangere e non riesco nemmeno a guardarti negli occhi perché mi vergogno! E perché non ha senso che tu sia qui dopo quello che ti ho fatto! Ti ho praticamente presa in giro e tu sei ancora qui». Prova ad avvicinarsi a me ma io la respingo, col senso di colpa che mi schiaccia.

«Non ci credo che non te ne sia ancora andata! Non ci credo che dopo le mie parole, dopo essermi confessata e poi rimangiata tutto tu sia ancora qui! Cosa c'è sotto? Sei una strega che vuole farmi qualche incantesimo? Sei una ladra? Che cosa sei tu!».

Nei suoi occhi compare una rabbia incontrollabile. Infuriata, so che nessun mio tentativo avrebbe potuto placarla. Ma quello che sento poco dopo non è ciò che pensavo vi avrebbe detto. E' lontana dalla mia più fervida immaginazione.

«Tu mi hai portato a stare qui! Tu mi costringi a stare qui! I tuoi maledetti occhi verdi! La tua bocca, le tue gambe e la tua voce! Il tuo aver bisogno di protezione! E mi dispiace tantissimo se nessuno ha mai fatto niente per dimostrarti qualcosa, sai, nemmeno con me è successo! Ma io rimarrò qui seduta su questo divano fino a che tu non capirai che non ho intenzione di lasciarti in mezzo alle tue paranoie. Io mi siedo qui e tu sarai costretta a guardarmi come SCELGO TE nonostante i pianti, i ripensamenti e tutto il resto, sono stata chiara? IO. SCELGO. TE.

La notte mi sono ritrovata a scrivere per te. Non potendoti parlare, avevo bisogno di comunicare con te in un altro modo. E poi forse un giorno te le avrei fatte leggere, per vederti sorridere della mia pazzia. Ecco, credevo che tu avessi bisogno di qualcuno che ti scrivesse un sacco di stronzate alle cinque del mattino. Credevo di poterti offrire un mondo popolato da persone divertenti. E un altro, più piccolo ma più grande, abitato solo da noi due. Per potere avere un po' di felicità. Felicità, Emma. La felicità è fare l’amore a ore strane oppure normali, purché con te. La felicità è crescere insieme, litigare a chi ha la testa più dura e poi, piene di bernoccoli, salire un altro gradino del nostro percorso. La felicità è un appuntamento nel tuo posto magico dove io credo di essermi vestita in modo inadeguato. Se hai un problema che ti assilla, lo risolviamo insieme. Ti volevo soltanto dire che non mi manca una donna. Mi manchi tu. Che sei anche una donna, e che donna. Ma sei qualcosa di più: sei quella che mi toglie il fiato solo perchè piange per le parole che le dico».

La guardo stringersi le braccia al petto, bellissima. Lei ha preso i cocci in cui ho ridotto il mio cuore e li ha rimessi insieme con le sue parole. Con la forza della sua sicurezza, con la decisione della sua rabbia. Non serve avere dubbi con lei. Lei è decisa. Al contrario di me. E mi sta dicendo che non sarebbe servito a niente disperarmi perché devo affrontare la situazione, le paure, i nostri baci, la mia attrazione verso di lei. Il mio desiderio di starle accanto, sempre.

Ho bisogno di qualche minuto per piangere senza averla accanto. Dieci minuti per capire tutto quello che ha appena detto, per ragionare sul fatto che anche lei ha passato notti in bianco a pensarmi, nonostante l'abbia ferita. Ha speso tempo per me.

Poi il desiderio di toccarla diventa doloroso. Così, passando dietro al divano, la raggiungo. Mi siedo e le prendo il mento con la mano, come ho fatto la prima volta. Nei suoi occhi forse posso trovare le risposte ai miei perché, ma in quel momento, cullata dal suo tentativo di farmi smettere di piangere, ho solo voglia di sancire quel momento con un bacio, diverso dal primo che le ho dato. Quello è stato un momento di impulsività, non volevo che andasse via ed era l'unico modo per farlo. Qui lei è rimasta a prescindere e io mi rivolgo a lei per la sicurezza delle sue parole. Voglio qualcos'altro. Il mio corpo desidera i suoi baci ma anche lei. Tutta.

La spingo sul divano spostando la mia bocca dalla sua all'incavo del mio corpo. Le sue mani sotto la mia maglia sono un tormento. Ma in qualche modo riesco a staccarmi dalla sua bocca per affondare il mio viso nella sua spalla e inebriarmi di lei. Forse non è il momento di andare oltre. Riprendo fiato e poggio il mio viso sulla sua spalla, senza forze. Mi arrendo.

Mentre le lacrime tornano a segnare il mio viso e le sue meravigliose labbra baciano la mia testa, tenta di staccarmi da lei. Guaisco come un cucciolo di cane e per una sua battuta mi scappa un sorriso. Scivolo così sul suo lato destro, per evitare di schiacciarla. Ha il viso rosso, i capelli non sono perfettamente in ordine e gli occhi..quelli brillano, come sempre. Caldi, scuri.

Rimaniamo così per un tempo indefinito. E non mi interessa se la posizione è scomoda, se ho gli occhi rossi e se sembro una zingara. I suoi occhi mi fanno capire che sono perfetta così. Mi sento perfetta, mi trasmette questo.

Alla fine ci alziamo e dopo essermi fatta promettere che sarebbe tornata da me di li a poco, inizio a sistemare l'enorme caos che in quelle settimane ho accumulato in casa. Riempio due enormi bustoni neri di spazzatura. Con la mano sana trascino la busta passando per salotto, bagno, cucina, e camera da letto. Non ho dato peso a nulla in quei giorni.

Raccolgo anche i cocci dal pavimento e passo veloce l'aspirapolvere. Non ho forze, sono stanca, ma sapere di rivederla mi ha fatto muovere velocissima: in mezz'ora ho per lo meno riordinato. Le stoviglie sporche sono finite nella lavastoviglie e ho preso tutta la biancheria sporca per accumularla nell'apposito cesto. E la lavatrice ha iniziato a girare. Mi sento rinata.

L'unica cosa che rimane da fare è togliere il sangue all'ingresso di casa! Bel dilemma. Mi devo trasformare in cenerentola. Secchio, acqua e detersivo, straccio. Pian piano tolgo tutte le gocce quasi incrostate. Ma non ho tempo di lavare i pavimenti. Per cui mi infilo una busta nella mano fasciata e tento di sigillarla con un elastico. Non voglioo bagnarla e sporcare tutto di sangue.

Lavarsi i capelli con una mano sola: cose da non rifare.

E' una cosa assolutamente impossibile. Strofino la spugna sul corpo tentando di non mettere sotto l'acqua la mano ferita. Avvolgo i capelli nell'asciugamano e mi infilo l'accappatoio. Senza la cinta. Quella è sulla mia mano.

Mi specchio. Ok, non ho il viso più riposato del mondo, ma non ho più quel triste colore grigio. Sono di nuovo bianca. Ce la potevo fare. Lei sarebbe tornata e sarebbe andato tutto bene.

Guardo l'orologio e mi accorgo di essere in tremendo ritardo così decido di avvisarla per telefono. Inutili i miei tentativi di rimandare di dieci minuti, mi liquida in tre secondi e un minuto dopo sento il campanello.

«Oddio» non può essere lei, devo ancora vestirmi! Tolgo la busta di plastica che mi sta stringendo troppo sulla mano, cerco di tenere chiuso l'accappatoio e mi avvio alla porta, scalza. Guardo dallo spioncino, è lei. Non posso farla aspettare o aprire la porta e richiuderla come ho già fatto. Per cui prendo coraggio e la apro.

«Ciao» di fronte alla perfezione che ho di fronte ai miei occhi quella è l'unica parola che riesco a pronunciare.

«Io...non ho fatto in tempo a cambiarmi, mi spiace, ma entra, mi vesto subito» mi guarda sorridente e stupita, mostrandomi le buste che ha in mano.

«Le poggio qui?» mi chiede sistemandole accanto al divano.

«No vieni, portale in cucina» mi dirigo nella cucina, con lei al mio seguito.

Sempre tenendo ben chiuso l'accappatoio mi siedo, mentre la guardo poggiare le buste sul tavolo.

«Non ho fatto in tempo a cambiarmi» dico imbarazzata, di nuovo.

La stanza ha preso un buon profumo. Lei ha un profumo buonissimo e mi arriva schiaffeggiante a ogni suo movimento. Sfila le varie bottiglie dalla busta, che piano, posa sulla cucina.

«Hai fatto una magia in questa casa in un'ora sola, come hai fatto?» la sua voce. Dio mio.

«Oh, nella magia non sono riuscita a infilarci qualcosa da mettermi addosso» faccio spallucce sorridendo.

Abbasso lo sguardo quando lei mi fissa. Mi fissa di nuovo nel suo modo, non può guardarmi di nuovo così. Inizio a sentire caldo.

La vedo avvicinarsi a me con una valigetta in mano e una croce rossa sopra. Si siede in una sedia accanto alla mia e mi tende la mano.

«Mi concede la sua mano?» alza le sopracciglia, divertita. «Quella ferita, please». Per un attimo penso di porgerle l'altra.

«Be,iniziamo» osservo mentre apre la cassettina bianca. Le sue mani, perfette, fanno scattare la chiusura. Delicatamente la apre e si infila dei guanti in lattice che stanno sopra tutto il resto.

«Tu dirai, che senso ha mettersi i guanti in lattice quando prima hai toccato direttamente il mio sangue?» la sua espressione mi dica che vuole una risposta affermativa.

«In effetti» dico io divertita.

«Al corso di pronto soccorso che ho fatto, la prima cosa che ci hanno insegnato era proteggere noi e l'assistito. Le mie mani sono pulite ma è pur sempre una ferita e non si sa mai» stende un telino bianco e inizia a togliere quello che fascia la mia mano. Busta, cinta dell'accappatoio, cotone.

«Ahi» ritraggo la mano ma lei mi stringe il polso.

«Occhi verdi, non fare la bambina, devo disinfettare» il suo sguardo mi trasmette sicurezza e rilasso il braccio.

«Che disastro ti sei fatta» la ferita è sporca di pelucchi di cotone, ma almeno h smesso di sanguinare. Con una garza pulita su cui aveva versa acqua ossigenata inizia a togliere sangue incrostato e residui di cotone.

«Brucia?».

«Un po'» in realtà non la guardo. Mi bruciano le guance a vederla così concentrata a prendersi cura della mia mano. E' così delicata, le sue mani sono leggere, forti allo stesso tempo. Nessuna esitazione. Traffica con dei cerottini che attacca sulla ferita, come per volere avvicinare i lembi. Infine, un'altra garza e il cerotto. Seguo i suoi gesti distratta dal movimento delle sue labbra. Ogni volta che finisce di fare qualcosa le schiude leggermente, come per prendere aria, per poi serrarle di nuovo.

«Ecco qui» dice togliendosi i guanti. Muovo le dita, finalmente libere mentre lei richiude il telino e lo butta nel cestino della spazzatura.

Mi alzo dalla sedia e le vado incontro. Quando si rialza me la ritrovo a due centimetri dal mio naso. Sorrido e rimango intrappolata di nuovo nei suoi occhi scuri. Prendo la sua mano, intrecciando le mie dita sulle sue. Con l'altra tengo chiuso l'accappatoio.

«Grazie» una parola sola. Non c'è altro da dire. Lei è li con me, bella come il sole. Fa un passo indietro.

«Io ti devo gentilmente chiedere di vestirti» deglutisce rumorosamente.

«Tu....ti prego vestiti» la guardo stupita. Non capisco il motivo della sua richiesta, sono vestita, cioè io non sono....oh. Sono nuda. Ho solo l'accappatoio addosso. Accorcio le distanze recuperando il passo che lei ha fatto. Non ha più spazio. E' spalle al muro.

«Vorrei fare l'amore con te in un modo che nemmeno immagini..ma io ti prego di allontanarti da me» dice seria.

Vuole.

Fare.

L'amore.

Con me.

«Non mi voglio vestire» dico quasi in un sussurro.

La sua mano mi cinge forte il fianco, facendo aderire il suo corpo al mio. Non ho più l'accappatoio a nascondermi, a coprirmi. Affonda le sue labbra sulle mie, quanto le desidero. Le sue labbra sono indescrivibili. Si sono spostate sul mio collo, facendo scivolare piano l'accappatoio e scoprendo una spalla.

Il campanello.

«La pizza» dice lei tornando sulla mia bocca.

«Dovresti andare tu, io sono ...nuda» dico mentre le mie mani scivolava sui suoi fianchi e il suo perfetto fondo schiena.

«Come pensi possa riuscirci se mi tocchi in questo modo?».

«In realtà non voglio che ti sposti da qui, ma credo che continuerà a suonare fino a che non apriamo» prima di spostarmi da lei, ha cura di chiudere l'accappatoio, per poi fuggire ad aprire la porta.

E' assolutamente irresistibile. La voglio tutta e la voglio subito. Sono in preda a un'eccitazione mai provata. E non ho nemmeno pensato a come potesse essere...fare l'amore con una donna. Io non ci ho pensato ma non mi importa in quel momento. La mancanza delle sue labbra sulle mie mi fa fisicamente male.

La raggiungo mentre chiude la porta e saluta il fattorino.

Mi siedo sul divano. L'odore della pizza si diffondeva nell'aria.

«Hai fame?» dico mentre si siede accanto a me.

«Meglio se non ti dico di cosa ho fame» mi accarezza il ginocchio scoperto. Faccio per avvicinarmi per baciarla e lei mi blocca il viso tra le sue mani.

«Ok ok, aspetta». Non vuole più? Non le piaccio, ecco.

«Tu sei....insomma guardati. Sei bellissima e io...» prende la mia mano e la poggia sul suo petto. Il suo cuore batte all'impazzata.

«Senti?».

«Si, lo sento» la imito e poggio la sua mano all'altezza del mio cuore, sulla pelle nuda.

«Tu lo senti?» batte tanto da farmi male il petto.

«Perché no se il cuore ci dice il contrario?» dico senza troppi giri di parole.

«Perché l'ultima volta che hai dato retta al cuore...o agli ormoni, sei...impazzita. E non voglio ok? Facciamo un passo alla volta?» la guardo un po' confusa ma in fondo ha ragione. Ora sono presa da lei e dalla situazione, non mi sarei fermata, ma dopo? Chi mi dice che dopo non sarei stata di nuovo male?

«Forse hai ragione...» ammetterlo non è facile.

«Mi vado a vestire e mangiamo?» tento di sorridere ma in un certo senso mi sento una sciocca, una ragazzina adolescente che viene messa in riga dal "grande" perché non sa controllarsi. Le lascio un lieve bacio sulle labbra prima di andare in camera. Come al solito lei è perfetta e io mi sarei messa una tuta da ginnastica. Mi odio profondamente per questo.
Prendo un jeans e una maglia pulita. Infilo un paio di ballerine e torno da lei, in salotto. Ha poggiato le pizze sul tavolo, aperto i cartoni e sistemati uno accanto all'altro.

«Vado a prendere dei fazzoletti e il vino».

«Ok» si volta di scatto facendo spostare i capelli davanti ai suoi occhi, che lei subito sistema dietro le orecchie. Prendo la bottiglia che ha portato, i fazzoletti e due bicchieri. Torno in salotto e poggio il tutto sul tavolo.

«Le avevo fatte tagliare a spicchi, ho pensato che preferissi mangiarla con le mani» dice lei sfiorandomi il braccio.

«Ma a te immagino piacciano metodi più, come dire...umani, sai, forchetta e coltello» scivolo sulla sedia arricciando il naso e poggiando la mia mano sul suo ginocchio.

«Oh, so mangiare anche con le mani sai? può essere divertente» prende uno spicchio di pizza e, inclinando la testa all'indietro, ne da' un piccolo morso, facendo attenzione a non sporcarsi col sugo. Mi sfugge una risatina. Nel suo tentativo di non sporcarsi, un po' di sugo è finito sul mento, e lei non se n'è nemmeno accorta.

«Abbiamo qualcosa in comune» prendo un fazzoletto e le pulisco il mento «Ci sporchiamo senza accorgercene». Le sfioro il naso e poi prendo anche io un trancio di pizza. E' buona. Ma non ho tanta fame per cui dopo due spicchi apro la bottiglia di vino, riempio i bicchieri e ne porgo uno a Regina. Lei sembra abbia fame invece.

«A cosa brindiamo?» mi dice, sorridendo.

«A te....che mi hai salvata>> d'un tratto sono diventata seria.

Con l'indice della mano sinistra fa cenno di avvicinarsi a lei. Incantata, seguo la sua mano, con cui afferra il mio mento per poi poggiare delicatamente le sue labbra sulle mie. E' il suo modo per rassicurarmi, in un certo senso l'ho capito.

«Sei la prima persona per cui sia valsa la pena rischiare» si raddrizza sulla sedia. Fa tintinnare il suo bicchiere sul mio e lo avvicina alle labbra, assaggiandone un sorso. La imito, cercando di non sembrare una goffa ragazzina anche bevendo un bicchiere di vino.

E' una serata piacevole. Diversa da tutte le altre. Lei è perfetta e h per me sempre un'attenzione particolare. Mi accarezza il viso, mi stringe la mano (quella sana), mi sorride. E' come stare su un letto pieno di cuscini: da qualunque parte mi volti, sbatto dolcemente su di lei.

Bevuto l'ultimo sorso di vino, la invito sul divano. Ci alziamo contemporaneamente e, ancora un po' impacciate, ci sediamo. siamo rigide. Spalla contro spalla.

«Posso abbracciarti?» chiedo senza esitazioni. Non voglio interrompere il contatto con lei solo per timidezza. Ma mi è venuta un'idea migliore.

«Anzi, vieni con me» mi alzo di nuovo e le prendo la mano. Con passo sicuro mi dirigo verso la mia camera da letto.

«Possiamo stare sotto una coperta a guardare la tv, che dici? Siamo vestite, faremo le brave...ok?» parlando mi avvicino al suo viso tanto da sfiorare i nostri nasi. Prende un respiro profondo e dopo aver chiuso gli occhi dice: «Ok, incantatrice di donne».

La tiro per un braccio. Sistemo i cuscini sulla spalliera del letto, aggiungendo anche quello prima adagiato sulla poltrona. Dall'armadio prendo il mio plaid rosso. Bellissimo. Mi sfilo le scarpe e mi infilo sotto la coperta, come una bambina pronta a giocare. Lei mi guarda e dopo essersi tolta le scarpe mi imita e si sdraia accanto a me. Una volta accomodata, la copro per bene e, infilando un braccio dietro al sua schiena, la stringo forte a me. La mia testa sul suo seno, sento il suo cuore palpitare. Non riesco a staccarmi da lei e mi chiedo come avrei fatto quando sarebbe rientrata a casa. Le sue braccia massaggiano dolcemente la mia schiena...la televisione è rimasta spenta ma non mi importa. Io e lei, li, sul letto, sono tranquilla e felice. La sento muoversi sul letto.

«Sei scomoda?» chiedo subito spostandomi per paura di infastidirla.

«No tranquilla, solo che...» scivola col corpo alla mia altezza, trovandoci finalmente occhi contro occhi.

«Volevo guardarti meglio....non posso perdermi i tuoi occhi» dice a voce bassa.

Mi avvicino a lei sorridendo. Mi perdo in tutto quello che mi sta dando solo stando sul letto con me. La mia mano sfiora il suo braccio, per poi scendere sui fianchi e sulla gamba. Lei mi accarezza il viso dandomi ogni tanto dei piccoli baci sul naso.

«Mi dispiace per prima. Mi dispiace per tutto» rotea gli occhi infastidita.

«Cosa devo fare per farti smettere di dire che ti dispiace? Cosa?».

«Una cosa in effetti potresti farla» le mie parole lasciano poche interpretazioni.

«Avevamo detto che era meglio...» la zittisco con un bacio. La stringo a me mentre lei intreccia le sue gambe con le mie. Con la lingua, percorro il contorno delle sue labbra tenendola lontana dal mio viso.

«Sei perfida lo sai?» mi dice sorridendo e tentando di raggiungere le mie labbra.

«A volte si» la lascio vincere. Le lingue si cercano, le mani non vogliono fermarsi, ma devono. La stringo in un abbraccio.

«Sto bene con te».

«Lo so, anche io». Poggia la testa sul mio petto. Le sfioro i capelli con le labbra. E chiudo gli occhi. I nostri respiri si fanno leggeri.

La stanchezza arriva. Troppe cose in un solo giorno...e così, esausta, mi addormento.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Regina ***


Non avrei mai pensato di riuscire a controllarmi in questo modo. Era ancora avvolta nell'accappatoio e benchè tentassi di non pensarci non riuscivo a smettere di immaginare il suo perfetto corpo nudo sotto di esso. Ho fatto di tutto per non cedere alla tentazione di farla mia: mi ero concentrata sulla sua mano, poi sul cibo, poi sull'ordine della casa, cosa che era riuscita a fare in una sola ora.

Ma quando me la sono ritrovata a dieci centimetri da me non potevo non dirle quello che mi faceva sentire.

Quello che volevo fare.

E sarebbe successo esattamente in quel punto, accanto al frigorifero, se non fosse arrivata la pizza.

La sua voce rauca, stupita, curiosa. L'ho stretta forte a me scostando l'accappatoio dal suo corpo. La sua pelle morbida e bianca mi faceva sentire totalmente imperfetta e fragile. I suoi seni, fermi e tondi sul suo petto, sembravano quasi finti e la pulsazione dell'arteria sul suo collo...quella la rendeva ancora più eccitante, se mai questo fosse stato possibile.

Con tutta la forza che ho in corpo, mi allontano da lei per aprire al fattorino della pizza. Dopo averla convinta a rivestirsi per evitare comportamenti impulsivi che avrebbero potuto spaventarla, ci sediamo a mangiare. E' perfetta anche con un pezzo di pizza tra le mani. Vedo che si sforza di mangiare, evidentemente le settimane praticamente a digiuno l'hanno disabituata a un pasto normale ma decido di non forzarla ulteriormente: per quella giornata ha fatto già troppi passi avanti.

Io invece sembra abbia un buco allo stomaco, buco troppo grande perché una sola pizza possa riempirlo. Ma tutto ciò che lei fa, dice, trasmette, mi riempiono più di quanto qualsiasi leccornia possa fare.

Dopo qualche pezzo di pizza, mangiata rigorosamente con le mani, prende i due bicchieri e li riempie di vino, porgendomene uno.

«A cosa brindiamo?» chiedo tra una risatina e l'altra.

«A te...che mi hai salvata». Può lo stomaco contorcersi dall'emozione per così poche parole? Con l'indice della mano sinistra le faccio cenno di avvicinarsi a me e così le sfioro le labbra. Spero capisca che su me non deve avere dubbi.

«Sei la prima persona per cui sia valsa la pena rischiare» dico, sincera. Faccio tintinnare il bicchiere sul suo e bevo un sorso.

Tento di non interrompere il contatto fisico con lei. Che fosse una carezza sul viso, uno stringere la sua mano, lo sfiorare le nostre ginocchia, voglio che capisca che io ci dentro totalmente e che non ho nessuna voglia di scappare.

Ci alziamo contemporaneamente e dopo un'ancora impacciato tentativo di contatto sul divano, mi trascina in camera da letto, proponendomi una serata da perfette quindicenni: letto, tv e tante coccole. Sorrido compiaciuta, di solito le altre vogliono spogliarmi dopo dieci minuti di conoscenza. Ma lei è diversa, l'ho capito subito. Accetto ben volentieri di star sul letto adagiata su mille cuscini.

Poggio la mia schiena su di essi e subito mi abbraccia, adagiando la sua folta chioma sul mio petto. I suoi profumatissimi capelli mi inebriano. La stringo forte, dandole dei baci sulla testa. Il calore del plaid fa il resto. Eppure mi manca qualcosa: il suo sguardo. Così, scivolo nel letto, fino a che non ritrovo di nuovo i suoi occhi nei miei. Con l'ennesimo tentativo di scusarsi si approfitta letteralmente di me e della mia debolezza nei suoi confronti. Mi bacia facendomi quasi perdere il respiro. La sua mano, dal braccio passava al fianco e alla coscia...desidero che sposti l'orlo della gonna su cui si è fermata. Ma rispettiamo quello che ci siamo dette. Non voglio che abbia paura. Voglio sia tranquilla e che non abbia alcun dubbio. Io non ne ho.
Tra le sue braccia sento il suo respiro farsi sempre più lento, fino a che non si addormenta. Deve essere esausta, penso. Le carezzo dolcemente la schiena, sperando che quel mio movimento la faccia sentire protetta.

Basta questo per farmi contenta? Basta questo per far contenta lei? Mi sento tanto in pace che non penso a Henry ed è veramente tanto tempo che non succede. Non voglio andare via da lì, non voglio lasciarla sola, non voglio svegliarla e farle credere che non voglia stare li con lei. Non mi sarei mossa da li...magari mi sarei appisolata un pochino. Il mio sonno è da sempre stato leggero, mi sarei svegliata di sicuro prima di lei, le avrei preparato la colazione prima di andare a lavoro. Ora voglio solo godermi tutte le sensazioni che quella donna riesce a trasmettermi dormendo come una bambina. Lei vuole me, e io non posso essere più fortunata.

 

Apro gli occhi di scatto. Sognavo di essere con Henry, di abbracciarlo perché aveva la febbre molto alta e delirava. Emma si muove accanto a me, non mi stringe più così forte, e cercando di non svegliarla, mi sposto fino a trovare una posizione più comoda. E' bellissima. Con la testa affondata tra due cuscini, e i capelli accanto al viso, respira piano. Il braccio destro poggiato sul suo ventre e la mano sinistra a sfiorare il mio ginocchio. Il viso è assolutamente rilassato, leggermente ruotato verso di me.

Rimango a osservarla per qualche minuto. Perché è arrivata nella mia vita? Merito tanta bellezza? Io non ho mai meritato niente, nessuno mi ha mai regalato niente, eppure lei è un bellissimo regalo che ho ricevuto. Guardo di sfuggita la sveglia sul comodino, mancano dieci minuti alle 6. Sono le 6 del mattino, ho dormito poco più di 6 ore ma mi sento perfettamente riposata. Poggio di nuovo la testa sul cuscino, accanto a lei. Come se abbia sentito il mio movimento, ruota verso di me e le labbra si distendono piano in un sorriso.

«Non andartene di nuovo» sussurra nel sonno. Sta parlando nel sonno. Sta forse parlando di me?

«Regina» stringe il pugno, tesa. «Non te ne andare» sospira.

Il dolore al petto è insostenibile. Dolore fisico. Lei, così indifesa, con quelle poche parole mi ha definitivamente stesa. Un dolore mai provato, una piacevole sensazione di stretta sul mio cuore. E' lei che lo tiene stretto. Lei stringe il mio cuore tra le sue labbra, tra le sue mani. Ormai è suo.

Sfioro le sue gote rosa con due dita e lei prontamente le stringe tra le sue.

«Grazie...» non riesco a capire se è sveglia. E a dire il vero non lo capisco nemmeno io. Mi sembra tutto talmente surreale e impossibile da sembrare un sogno. Può la realtà fare questo? Può farti dubitare della tua lucidità mentale? Mi abbasso sulla sua fronte, sfiorandola con le mie labbra.

Il mio cuore sta per scoppiare. E tutto il controllo mantenuto fino a quel momento viene meno. La felicità e lo stupore prendono il sopravvento. Gli occhi iniziano a bruciare e qualche lacrima segna il mio viso.

Ma che fai Regina. Piangi di felicità? Non è da te. Eppure lei fa crollare tutto quello che sono stata fino a quel momento. Una fredda e cinica donna d'affari che nonha mai investito sui sentimenti, che rappresentano la debolezza umana più grande. Fonte di imponenti fregature e perdite di tempo.

Ma lei no. Lei è tutto quello che si può descrivere dell'amore: bellezza, sorrisi, perdita di controllo, sogno, futuro, protezione, devozione. Può tutto questo essere racchiuso in una sola persona? Non lo so. Forse si. Sento che lei riempie i miei vuoti, sento di non avere bisogno di altro se non della sua presenza, fisica e mentale.
Poggio di nuovo la testa sul cuscino e mi addormento, cullata dal suo respiro.

 

Sono immersa in un altro sogno. Stavolta non c'è Henry. C'è Emma. Emma che mi accarezza il braccio, con un dito. Il suo capo poggiato sulla sua mano, col gomito sul letto, mi scruta attenta. La sua dolce voce pronuncia il mio nome.

«Regina...». Piccoli baci si posano sul mio viso.

«Regina....».

Apro gli occhi. Stavolta faccio decisamente fatica. Non è un sogno. O meglio, sognavo ciò che sta accadendo.

«Buongiorno...». la sua mano calda poggiata sul mio viso mi riporta definitivamente alla realtà.

«Ciao...» la mia voce flebile e assonnata. Mi avvicino al suo petto, cercando protezione.

«Devo essere un mostro, da quanto mi fissi?» ci abbracciamo.

«Eri una meraviglia, altro che mostro. Mi dispiace solo che abbia dormito vestita, ma ho pensato che svegliandoti saresti potuta andar a casa tua a cambiarti e poi potevamo fare colazione insieme» dopo aver detto questo affonda le sue labbra sul mio collo e inizia ad annusarlo.

«Per caso puzzo?» dico scostandomi. In realtà il suo fiato sul mio collo mi aveva fatto rabbrividire.

Inclina il viso all'indietro, ridendo.

«Assolutamente no, profumi esattamente come ieri» mi sfiora la guancia. Mi lascio accarezzare mentre sorrido quasi inebetita per la situazione. Mi raddrizzo, poggiando la schiena nella spalliera del letto.

«Ho dormito benissimo con te accanto» le prendo la mano. «Stasera vieni a cena da me?».

«Speravo me lo chiedessi» dice subito, felice.

«Potevi chiedermelo tu di nuovo».

«Non volevo pensassi che stiamo correndo troppo».

«Diciamo che facciamo quello che sentiamo, così va meglio?» le sfioro il palmo della mano con le labbra mentre la guardo e lei fa cenno di si con la testa.

«Ora è meglio che mi vada a cambiare altrimenti non possiamo fare colazione insieme, giusto?».

«Giusto>> scosta il plaid dalle nostre gambe e lentamente, un po' intontite, ci alziamo. Mi infilo le scarpe e la aspetto accanto alla porta. Arriva porgendomi la mano, pronta a stringere la mia. Così, come due adolescenti, ci dirigiamo verso l'ingresso.

«Un'oretta per rimetterci a nuovo, che dici?» le sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Direi che è il massimo che posso resistere lontana da te» mi risponde.

Come sa farmi battere lei il cuore, mai nessun'altro ci è riuscito. Arrossisce mentre pronuncia quelle parole.

«Vorrei dire qualcosa ma non trovo le parole adatte, per cui ti dico solo grazie» le sfioro le labbra con un bacio. Apre la porta e io mi dirigo verso il pianerottolo. A malincuore le lascio la mano e inizio a scendere le scale. Alla fine della prima rampa la trovo che ancora mi guarda.

«Torna dentro, se continui a guardarmi cadrò dalle scale per l'imbarazzo» le dico in tono basso, per evitare di svegliare mezzo palazzo.

Lei come unica risposta mi manda un bacio con la mano.Ha anche socchiuso gli occhi per farlo. Ho una voglia matta di tornare indietro e baciarla, ma c'è un problema: devo lavarmi i denti. Meglio controllare le mie voglie. Le rimando il bacio e non mi volto per vedere se ancora mi fissa, così poco dopo sento la porta chiudersi.

Faccio le ultime tre rampe con aria quasi sognante, ripercorrendo tutto quello che è successo. Dal suo corpo nudo, alla pizza, dalle parole agli abbracci ai baci. Dio i suoi baci. E se quelli sono i suoi baci chissà...no Regina. Smetti di pensare a queste cose. Scuoto la testa mentre cerco le chiavi e le infilo nella toppa della porta, facendo scattare la serratura. Mi sento in pace col mondo. Poggio con poca delicatezza la borsa sul tavolo mentre mi tolgo le scarpe. Le avrei rimesse dopo al loro posto.

Ho bisogno di una bella doccia. Calda. Anzi no, fredda, per cercare di bloccare quel desiderio incessante di averla. E la stretta allo stomaco al pensiero di dovere aspettare. Quanto è difficile. Come si può resistere a quel seno? A quella bocca? Come ci sono riuscita?

No, devo assolutamente fare qualcosa per interrompere quella meravigliosa tortura. Posso partire tre giorni? Devo riuscire a non cedere per un tempo diciamo opportuno. E mentre metto lo shampoo sui capelli un'idea mi balena in testa.

«Ma certo!» dico a voce alta, rischiando di soffocare per l'acqua che mi arriva direttamente in bocca. Inizio a tossire e ridere allo stesso tempo. Se qualcuno mi vedesse penserebbe che sono pazza. Superato il pericolo soffocamento, insapono tutto il corpo per poi risciacquarmi (avendo cura di chiudere la bocca stavolta).

Avvolta nell'accappatoio blu notte, mi ricordo di avere a lavare della biancheria e che forse è il caso di stenderla. Avrebbero fatto compagnia, una volta asciutti, alla montagna di vestiti che dovrei stirare.

Allora, il mio piano prevede la partenza il giorno dopo per la casa in campagna, portarmi quella montagna di roba da stirare e prepararla per quando avrei invitato Emma, diciamo quel fine settimana. Tre giorni lontane serviranno a capire la veridicità di quello che proviamo. Tutto questo mentre mi lavo con cura i denti.

Asciugo come al solito i capelli facendo una piega perfetta, per poi vestirmi e truccarmi per l'ufficio. Butto tutta la roba da stirare in una valigia rigorosamente blu notte, dove aggiungo due tute da ginnastica e una camicia da notte per dormire. Avrei portato quella valigia in campagna quella sera stessa, prima di cenare con lei. Porto il tutto in macchina, sperando che non mi veda dalla finestra, per poi risalire. Una volta aperte le porte dell'ascensore me la ritrovo di fronte. Stivali neri e jeans stretti, maglioncino verde scuro che le arrivava poco sotto la cintura e giubbino di pelle rosso, immancabile.

«Signorina Mills» dice salendo in ascensore.

Signorina Mills? Non mi ha mai chiamato così. Alzo le sopracciglia e ruoto il corpo verso di lei, guardandola. Sta trattenendo un sorriso, non riesce a nasconderlo. Mi fissa mentre le porte si chiudono.

« Da quando mi...» non riesco a terminare la frase. Le sue labbra sulle mie, il suo corpo sul mio e la mia schiena sulla parete dell'ascensore. Le sue mani aggrappate quasi alla schiena, mentre io cerco solo le sue labbra, avvicinando il viso con le mani.

«Credevi ti salutassi in quel modo freddo?» dice dandomi dei piccoli baci sul collo.

Ci risiamo. Sento che voglio ardentemente perdere il controllo. Vedo il pulsante "stop" dell'ascensore. Lo sto per premere quando le porte si aprono. Benedetto ascensore.

Cerchiamo di ricomporci, non aho idea in che condizioni abbia il rossetto o la giacca o la gonna. Le tolgo un po' del mio rossetto dal labbro inferiore prima di uscire dall'ascensore.

«Comunque avevo capito che mi stavi mentendo» mento.

«Non ci credo nemmeno morta, la tua faccia era tutta un programma, non dire bugie» pronuncia quelle parole aprendo il portoncino del palazzo e facendomi passare per prima.

Le faccio una smorfia mentre le passo davanti e ci dirigiamo verso il bar di fronte. Cappuccino e cornetto. Rigorosamente alla crema il suo. A me bastava un tè e una ciambella con granella di zucchero.

«Colazioni enormemente differenti le nostre» le faccio notare.

«Vero» manda giù un pezzo di cornetto.

«Ma a me piace anche il tè e le ciambelle con lo zucchero, è solo questione di abitudine» fa spallucce.

«Sei sporca di zucchero a velo sul naso» la pulisco con un fazzoletto. Perfetta nella sua imperfezione. Il suo sguardo non si sposta dalla mia bocca. Sento le labbra bruciare.

«Smettila di fissarmi» sussurro.

«Non ci penso nemmeno» dice lei con aria di sfida. Sorrido compiaciuta e poco dopo ci alziamo.

«Allora ci vediamo stasera? Ti scrivo appena rientro» le dico aprendo la macchina.

«Non fare troppo tardi» dice lei avvicinandosi tantissimo al mio viso. Pericolo imminente. Così, dopo un tiratissimo e misero bacio sulla guancia, mi allontano, sperando che quella giornata passasse il prima possibile.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Emma ***


La mia mente è sovrastata da una sensazione di totale pace.

Di fronte a me vedo una stanza con le pareti rosso fuoco, e ogni tanto qualche banda nera. L'ambiente è caldo e al centro c'è una forte luce che mi permette di vedere ogni particolare della stanza. Particolari inesistenti se non per l'enorme letto posto al centro. E sopra di esso, adagiata dolcemente, giace una fanciulla dai capelli corvini e le labbra color ciliegia, immersa in un sonno profondo.

Non conosco quella fanciulla, o almeno mi sembra di non conoscerla.

Sento un odore buonissimo provenire da lei. Un misto di frutta e vaniglia. Sono attratta da quel profumo e mi avvicino come attirata da una calamita. Salgo sul letto con le ginocchia e mi adagio accanto a lei. Il petto si alza e abbassa piano. Con delicatezza sfioro i contorni del suo viso, fino ad arrivare alle labbra, rosse, e alla piccola cicatrice su quello superiore. Mi abbasso a darle un bacio.

Sento un brivido nella schiena. Apro gli occhi.

Era solo un sogno.

Ma quello che vedo di fronte a me non è un sogno. Lei non è un sogno. E' ancora li. E' rimasta li per tutta la notte, non mi ha lasciata sola. Alzo la testa per osservarla meglio e decido di svegliarla. Forse ha fame, forse non si è accorta di essersi addormentata. Ma come posso svegliare una così meravigliosa creatura?

Le sfioro la pelle morbida del braccio e poi del viso. Mi abbasso verso di lei, posando dei piccoli baci sulle sue gote.

«Regina..» dico piano. Si muove appena al suono della mia voce e decido di riprovare.

«Regina..» finalmente apre gli occhi. Infinita dolcezza traspare dal suo sguardo assonnato.

«Buongiorno» poggio la mano sul suo viso e un debole ciao fuoriesce dalla sua bocca.

«Devo essere un mostro, da quanto mi fissi?» affonda il suo viso nel mio petto e non posso fare altro che abbracciarla. Come può definirsi mostro? Come può non vedere quanto sia meravigliosa in ogni centimetro del suo corpo? Non si tratta di modestia ma di obiettività. E definirsi mostro è un'assoluta eresia.

«Eri una meraviglia, altro che mostro. Mi dispiace solo che abbia dormito vestita, ma, ho pensato che svegliandoti saresti potuta andare a casa tua a cambiarti e poi potevamo fare colazione insieme».

Il suo profumo mi porta a annusarle il collo e lei scherzosa, mi chiede se puzza. Non posso non ridere.

Ci mettiamo sedute sul letto, con la schiena sui cuscini. Ho dormito divinamente con lei accanto, cosa che non succedeva da un po', e dopo avere avuto la conferma che questo vale anche per lei, mi spiazza chiedendomi di andare a cena a casa sua quella sera stessa. Non aspettavo altro, ovviamente, ma dopo tutti i discorsi fatti credevo che un invito immediato sarebbe stato troppo e non volevo che lei mi frenasse. Ma evidentemente anche lei non riusce a trattenersi.

Scosto il plaid che ci ha coperte durante la notte e ci alziamo. Possibile che non abbia un capello fuori posto? La accompagno alla porta, avendo l'accortezza di prenderla per mano. Non riesco a staccarmi dalla sua mano figuriamoci da lei. Mi saluta con un dolcissimo bacio sulle labbra e la accompagno fuori dalla porta. Non riesco a smettere di guardarla nemmeno quando finisce di percorrere la prima rampa di scale, e lei se ne accorge. Si blocca e imbarazzata mi dice di rientrare. Le mando un bacio. La bellezza.

Rientro e con un sorriso degno di una con una paralisi del faciale, mi infilo sotto la doccia, avendo cura di legarmi i capelli. Li avrei lavati nel pomeriggio.

Mi guardo allo specchio. Il viso è ancora magro ma non è segnato da rughe di dolore, di ansia e tensione. Sono di nuovo rilassata e la mano non fa più male. Avendo evitato di lavare i capelli non imbusto la mano per proteggere la medicazione fattami da Regina. Metto un jeans e gli stivali neri, prendo un maglioncino verde e faccio un'altra lavatrice. La roba stesa la sera prima è asciutta, per cui sistemo quella e svuoto la lavastoviglie. E' l'unica cosa che posso fare.

Esco di casa e chiamo l'ascensore. Le portine si aprono e non immaginavo di trovarmela di fronte, chiamasi coincidenza. Sorrido e nei suoi occhi vedo la sua stessa felicità e stupore.

«Signorina Mills» dico quasi senza pensare. Voglio giocare un po' ma le mie capacità interpretative non sono un granchè e mi scappa subito una risatina quando vedo il suo viso interrogativo. Si volta e inclina il capo cercando di chiedermi spiegazioni ma quelle labbra mi stanno chiamando. Insieme al suo profumo e a tutto il suo corpo. Le prendo il viso tra le mani e la bacio, spingendola con un po' troppa enfasi alla parete dell'ascensore. Me le sarei mangiate quelle labbra ma baciarle è decisamente più piacevole. Sposto le mie mani sulle spalle e poi sulla schiena, attirandola di più a me, per annullare l'irrisoria distanza data dai nostri vestiti.

«Credevi mi limitassi a un saluto così distaccato?» mi stacco dalla sua bocca per spostarmi sul suo collo. Pochi attimi e le porte si aprono.

Mi allontano lentamente e uscendo, mi toglie un po' di rossetto dal labbro inferiore con un dito. Arriccio il naso e ci dirigiamo verso il bar. Tra un sorso e un boccone e l'altro battibecchiamo sulle nostre diverse colazioni che io invece trovo interessanti. Amo come sorseggia il tè. Mi incanto e lei imbarazzata mi dice di smettere.

«Non ci penso nemmeno».

Ci alziamo poco dopo e lei si dirige in macchina a lavoro. A dire il vero non ho idea di cosa faccia né dove lavori. In questo momento non mi importa più di tanto sinceramente. E nelle ultime settimane non ho preso in mano la macchina fotografica nemmeno una volta. Devo assolutamente rimediare a quella mancanza!

Attraverso la strada che separa il bar da casa mia. Apro la porta e sento il telefono squillare.

«Merda» dico a voce alta. E' il liceo dove avrei dovuto scattare le foto per l'annuario, vogliono ricordarmi l'appuntamento per quella sera.

«Certo, l'appuntamento è alle 8 di questa sera, nella palestra della scuola, l'ho appuntato nella mia agenda. A stasera, arrivederci». Chiudo la cornetta.

E ora? Niente cena a casa di Regina. Non ci voleva. Non voglio rimandare ma non posso disdire il lavoro. Forse avrei potuto portarla con me. Prendo il telefono e le mando un sms.

- Credo di avere un problema per stasera, devo lavorare. Servizio in una scuola per un ballo scolastico. Mi dispiace tantissimo. Però se vuoi puoi venire con me, facciamo un tuffo nel passato :) - Invio.

Metto il telefono in tasca e decido di finire di sistemare casa, che è ancora in disordine. Chiudo le buste della spazzatura e esco di casa per buttarle via. Una volta sbarazzatamene, decido di passare la mattina a ripulirla. Mi infilo una tuta da ginnastica e inizio a spolverare in ogni dove, a partire dal salotto.

Sento ancora il suo profumo. Profumo che mi ferma quasi il cuore quando arrivo alla camera da letto. E in quel momento lo squillo del telefono lo fa ripartire. E' lei.

«Pronto?» dico con nonchalance.

«Sapevi che ero io, non fare quella vocina».

«Mi diverte prenderti in giro».

«Quindi stasera niente cena?».

«Possiamo bene drink analcolici e ricordare i tempi della scuola».

«Preferisco dimenticare il liceo....ma se è l'unico modo per vederti...».

«Vedrai che ti divertirai...».

«Si, poi mi hanno detto una cosa a lavoro, dovrò star via tre giorni, e ho una proposta per il fine settimana...».

«Cosa cosa cosa? Che significa tre giorni?».

«Ti spiego tutto stasera, ok??» mi dice lei veloce.

«D'accordo d'accordo..alle 19:30 passo da te..ciao».

«Ciao bellezza».

Chiudiamo.

Preferisco non pensare a quello che mi ha detto, o mi sarei rovinata la giornata e la serata con lei e non voglio. Solo il giorno prima ero sull'orlo della disperazione e lei ora è tornata e io sto bene.

Sarei stata ancora bene.

Dopo quattro ore passate tra polvere, pavimenti, cucina, bagno, lavatrici e ferro da stiro, posso dire che casa mia non è stata mai più pulita di così. Sono quasi le 3 del pomeriggio ed sono totalmente distrutta, per cui dopo avere divorato i resti della mia pizza del giorno precedente, mi butto sul letto, unica cosa che non ho sistemato...non voglio che vada via il profumo dalle lenzuola, dai cuscini. Prima di crollare in un sonno profondo, metto la sveglia per le cinque.

 

-Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin- .

Se non avessi spento la sveglia col palmo della mano sicuramente avrebbe fatto una brutta fine. Terrificante suono che si infila nel cervello e non ne esce più.

Mi metto a pancia all'aria e allungo braccia e gambe per stiracchiarmi un pochino. Mi avvolgo nella coperta che sapeva di lei, la annuso. Un brivido mi percorre la schiena, ho bisogno di rivederla.

Metto le gambe fuori dal letto, cercando di non perdere l'equilibrio, e vado dritta dritta dentro il bagno per una bella doccia rigenerante.

Assurdo come riesco a riempire il cesto della biancheria sporca in meno di tre ore. Vestiti, accappatoio, asciugamani. E' necessario fare un'altra lavatrice.

Mi asciugo i capelli facendo in modo stavolta che siano lisci, ho in mente di sistemarli in modo particolare per questa sera. Jeans, maglia, ballerine. Sono già le sei e voglio andare a prendere dei fiori a Regina. Voglio sorprenderla.

Arrivo in un negozietto posizionato nell'angolo tra due strade. E' una piccola costruzione praticamente fatta tutta di vetro, e dentro ci lavora una carinissima e gentilissima ragazza dai capelli rossi. Mi confeziona una rosa rossa e mi augura buona fortuna. Mi si legge in faccia in modo così eclatante?

So che Regina è già a casa, ma spero non mi veda col fiore in mano.

Una volta dentro mi siedo sulla poltrona con l'armadio aperto. Ho più o meno pensato a cosa mettermi, un po' per non sembrare troppo grande, un po' per farmi bella ai suoi occhi.

Prendo due abitini leggeri con la fantasia floreale. Uno con le maniche e uno senza, con la cinta marroncina in vita. Me li provo entrambi e mi guardo allo specchio.

«Si, così sembro proprio adolescente, è quello che ci vuole».

Alla fine opto per quello con le maniche e la spalla scoperta, con un paio di stivali corti e un po' di tacco. Poi mi sistemo i capelli con una treccia larga che faccio partire da un lato per poi terminare dal lato opposto. La fermo con un elastico nero che nascondo con un laccio beige. Mi trucco un po' e controllo l'orologio. Erano le 7:15. Sarei passata prima da lei, probabilmente si sarebbe vestita di grigio e in liceo l'avrebbero scambiata per un'insegnante e non sarebbe stato un bene. Afferro la borsa, macchina fotografica, giubbino e rosa e scendo i due piani che mi dividono da lei.

Suono il campanello e qualche istante dopo apre la porta.

Rimango senza parole, e senza fiato.

Di fronte a me ho...non sembra nemmeno lei. Mi sembra di essere tornata indietro di 30 anni e di essere dentro Greese.

Indossa un abitino color tabacco che le fascia alla perfezione il seno. Senza riuscire a dire niente le porgo la rosa, con le mani tremanti.

«Sei stupenda» riesco poi a pronunciare.

Mi invita a entrare. Prendendo, visibilmente imbarazzata, la rosa.

«Tu sei un insulto per la perfezione» mi dice lei. Poi si avvicina e mi abbraccia.

«Mi sei mancata oggi» le dico.

«Anche tu mi sei mancata» mi prende le braccia e si stacca un po' da me, fino a poggiare la sua fronte sulla mia.

Di nuovo il cuore galoppante, la stretta allo stomaco e le labbra che chiedevano di essere baciate. Avvicino la mia bocca alla sua. La sfioro piano, per poi farle diventare una sola cosa con le sue.

«Forse dovremo andare» dico continuando a darle dei piccoli baci.

«Quanto è difficile resisterti?».

«Sei tu che hai deciso che questo fosse meglio per me» dico triste.

«Lo so, e ne sono ancora convinta...grazie per questa» avvicina la rosa al naso per annusarla.

«Cos'è questa storia del viaggio e dei tre giorni?» dico incrociando le braccia al petto un po' tesa e un po' curiosa.

«Devo partire per tre giorni, ho delle riunioni importanti col consiglio della mia azienda, sarò qui venerdì mattina e pensavo che potessi raggiungermi direttamente alla mia casa in campagna, che ne dici?» inclina un po' la testa mentre parla e irrigidisce le labbra nel suo modo, quello che mi fa impazzire.

«Tre giorni tutti per noi? Io, te e basta?»

«Io, te, noi..» si avvicina e sussurra le parole «questi» mi bacia «tanti di questi..». .

«Credo che accetterò sai?» deglutisco a fatica «ora dobbiamo andare o faremo tardi» faccio un passo indietro e le apro la porta.

«Ma che gentildonna».

«Vorrei ben vedere» dico io guardandole il sedere. Si volta di scatto e mi becca.

«Cosa guardi?».

«Non posso guardare?».

«Non si vede poi molto...».

«Oh ti assicura che lascia poco spazio all'immaginazione» dico senza controllo.

«Tesoro, i miei occhi sono più in alto».

Rido spostando lo guardo dal seno al viso.

«Andiamo... Tesoro» faccio cenno delle virgolette con le dita.

 

Quanto ci divertiamo quella sera. Impossibile da descrivere. Io lavoro e lei balla...balla in modo molto provocante, tanto che devo cacciare due minorenni che si avvicinano in modo minaccioso a lei. Faccio un migliaio di foto tra scatti in posa e spontanee e riesco a farne anche qualcuna a me e a lei...le nostre prime foto, sono curiosissima di vederle.

Una volta finito, mangiamo una pizza in macchina, come due adolescenti. Amo fare qualsiasi cosa con lei e spero si fosse divertita e soprattutto che non si annoi a fare cose tanto semplici con me.

«Sono stata benissimo, erano secoli che non ballavo così» dice tra una risata e l'altra.

Almeno quel dubbio è stato svelato.

«Sono felice di questo» le accarezzo una guancia col dorso della mano.

«Dobbiamo parlare di questo fine settimana» dice lei irrigidendosi un pochino.

«Devo partire tre giorni, ti lascio l'indirizzo e mi raggiungi venerdì sera nella mia casa in campagna?? Tre giorni» avvicina la sua mano ai miei occhi facendo il numero tre con le dita.

«Di totale relax. Noi, le mele, il mangiare, le passeggiate....» si sdraia su di me, poggiando la testa sulle gambe.

«Ti và?».

«Certo che mi va....che domande fai...solo che...».

«Problemi?».

«Questi tre giorni come farò?».

Si rimette dritta, mi prende le mani e si avvicina.

«Passeranno in fretta e sarà una bella prova per vedere quanto ci manchiamo e vogliamo...» abbassa lo sguardo sulla mia gonna, che lascia scoperta praticamente tutte le gambe.

«Dici?» le sussurro sulle labbra.

Sbatte i denti come a volermi mordere.

«Che temperatura c'è in campagna?».

«Te lo dirò quando sarò lì, che ne dici?? Di solito c'è un po' di venticello, e poi le previsioni dicono che farà bello, andrà bene...poi ho coperte e vestiti se dovessi aver freddo...oppure..ci sono io»...fa spallucce.

«Accetto volentieri l'ultima offerta» la abbraccio.

«E' tardi ora, meglio andare a casa, no?».

Mi stacco da lei e la guardo storta.

«Oggi proprio non mi sopporti eh?» mi sistemo bene sul mio sedile e sto per girare la chiave ma mi blocca il polso.

«Ma che dici?» continuo a fissare il volante dell'auto.

«Emma che ti succede?». Mi prende il mento tra le mani ma mi sposto.

«Fantastico, vedo che hai la tua seconda crisi decisionale» mi lascia il polso. «Mi dici che diavolo succede?».

A quel punto sbotto.

«Succede che prima ti sei irrigidita quando ti ho abbracciata e ora non vedi l'ora di tornare a casa, se permetti mi viene da pensare che non ti stia bene. Io a te, non tu a me. Basta semplicemente dirlo, ok?».

«Ahaha...mm ahaha» si mette una mano di fronte alla bocca e ride.

«Oh si, è tutto molto divertente» sbatto le mani sul volante.

Non la smette di ridacchiare.

«Scusami» non riesce a trattenersi «solo che è tutto talmente ridicolo».

Si schiarisce la voce e torna seria. Mi volto e il suo sguardo brucia, di rabbia, frustrazione, non riesco a capirlo. Poi, poggiando la mano sinistra sul sedile su cui sono seduta, si avvicina al mio viso, occhi contro occhi. Non riesco a guardare altro che quelli.

Lenta, la sua mano destra inizia a sfiorare il mio ginocchio, andando sempre più in alto.

«Vuoi sapere perché voglio andare a casa?» dice sfiorandomi quasi le labbra.

«Si» emetto un flebile suono, totalmente rapita dai suoi occhi e dal suo tocco.

«Perché quello che sto facendo è l'unica cosa che desidero fare da quando hai aperto la porta con questo vestito» arriva allo slip e lo sfiora. Un'ondata di calore percorre il mio corpo fino ad arrivare al basso ventre.

«Perché allora non lo fai?».

«Perché sei troppo e...non voglio perderti per aver corso. Avremo il nostro tempo e spazio nel nostro fine settimana perfetto» mi prende le labbra in un unico fantastico bacio, ma si stacca troppo velocemente da me. La sua mano torna sulle sue ginocchia.

«Quindi, per quanto sia maledettamente difficile, è meglio se ce ne andiamo a casetta e aspettiamo che questi tre giorni passino in velocità».

Inclino un po' la testa.

«Ok...» Accendo la macchina e ci dirigiamo a casa.

Sto diventando romantica, dipendente e affettuosa in un modo che mi ero ripromessa di non essere più. Salutarla, anche se solo per tre giorni, mi costa parecchio, ma per fortuna avevano hanno inventato cellulari e sms.

I giorni seguenti sono strani. Ma approfitto del tempo libero per stampare e recapitare tutte le foto arretrate, per cui ricevo il mio adeguato compenso.

Tra le foto fatte la sera precedente ci sono anche le nostre. Compro una cornice e la sistemo, gliela porterò quel venerdì.

 

Non si chiude il borsone. Nel tentativo di decidere che mettere ho preso troppa roba e tra questa anche una compromettente sottoveste nera in seta. Mai indossata perché decisamente poco adatta al mio stile: quando si dice che i regali delle amiche possono risultare utili. Non so nemmeno se l'avrei messa, ma penso sia carino almeno portarla.

Sono emozionata. Ho riempito le mie giornate con lavoro, appuntamenti e shopping. Sono stata in un negozio di intimo, voglioo un nuovo completino....volere non è potere.

Ne compro tre. Ho iniziato a comportarmi come una stupida ragazzetta che compra intimo sexy per far capitolare il proprio fidanzato.

O MIO DIO.

Ho detto quella parola? FIDANZATO? Cosa siamo io e Regina? Fidanzate? Non ne ho idea. Scuoto la testa, prendo la borsa in spalla e esco di casa.

Le indicazioni di Regina sono state chiare. La casa è in campagna, ma poco lontana dalla spiaggia e di certo molto più vicina della "Cascata del Sole".

Ha detto di essere immersa nel verde, e appartiene a una sorta di borgo, dove, poco lontano ci sono altre case. Il borgo si chiama "The magic garden". Mi sembra un nome un tantino infantile, ma una volta imboccata la strada principale capisco il motivo. Ogni casa è specializzata nella cura di alberi da frutto. C'è la casa della "pesca", quella dell'albicocca, ciliegia, pere, limoni e ovviamente mele.

Rosse.

Le sue.

Il cancelletto in legno è aperto e una volta dentro parcheggio la macchina accanto a quella di Regina. Prendo regalo, torta e vino che ho portato con me e salgo i gradini che mi separano dalla porta. In legno rosso.

Sono le 8 della sera, inizia a sentirsi un venticello fresco e ormai il sole è calato.

Busso alla porta.

Sento il rumore dei tacchi avvicinarsi alla porta e...

«Ciao....».

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Regina ***


Chiudo il forno dopo averci infilato la crostata di mele rosse, la mia preferita. L'arrosto e il riso con le verdure sono pronti e al caldo.

Manca poco più di un'ora all'arrivo di Emma e ancora non ho deciso cosa mettere addosso. Magari niente, per facilitare le cose. Mi sfugge un sorriso. Non riesco a pensare che alle sue mani sul mio corpo. E' diventata quasi un'ossessione...e questi tre giorni lontani da lei mi hanno fatto capire che non desidero altro se non averla vicina. Ma in fondo lo sapevo già. Sarebbe stato lo stesso per lei? Il cuore mi fa improvvisamente male solo al pensiero.

Cucina e salotto sono sistemate, le camere anche, devo solo farmi una doccia e...forse avrei dovuto mettere un pantalone e una maglia...ma sotto il getto della doccia calda cambio idea. Voglio essere bella, sexy, assolutamente desiderabile.

Afferro l'accappatoio rosso fuoco e lo indosso. In camera fisso i due vestiti che mi sono portata. Due tubini, uno nero e uno blu notte. Decido alla fine per il nero e indosso il completino intimo dello stesso colore. Sistemo il vestito e infilo le scarpe. Si, sono pronta.

Finisco di sistemare il trucco e spengo il forno. Sento il motore di una macchina avvicinarsi...è lei. Mi siedo e aspetto che bussi.

Tre colpi riempiono la stanza. Lentamente e col cuore in preda a una frenetica agitazione, mi dirigo verso la porta e la apro.

«Ciao» mi dice meravigliosamente calma.

Rimango incantata e abbagliata dal suo sorriso. In mano ha la confezione di quella che sembra una torta e nell'altra una busta.

«Ciao, entra» dico ricambiando il sorrido. Mi sposto sulla destra per farla passare e chiudo la porta alle mie spalle.

Ha dei pantaloni neri attillati che non lasciano spazio all'immaginazione. Fasciano perfettamente il suo sedere. Ai piedi delle decoltè verdi, abbinate alla maglia, leggermente scollata e...non mi sembra di aver visto il reggiseno. Si avvicina al tavolo e poggia la busta e la torta.

Poi si volta da me.

«Ho il borsone in macchina» dice aggrottando la fronte. In quel momento la sua voce mi fa tornare alla realtà.

«Certo...prima però...» mi avvicino a lei e le prendo le mani.

«Come puoi essere così dannatamente bella?» arrossisce prima di avvicinarsi a me e baciarmi.

Il sapore delle sue labbra.

In quasi due settimane non ho ancora trovato parole che esprimano degnamente quel sapore che solo lei ha. Accarezzo le sue braccia fino a prendere il suo viso tra le mani. Il fiato inizia a mancarmi, il suo profumo fruttato mi fa perdere il controllo. Infilo le mani sotto la sua maglia, carezzo la sua schiena perfetta e muscolosa. Mordo il suo labbro e sento la sua mano premere contro il mio seno.

«Pensi che riusciremo a mangiare quello che ho preparato?» Dico col fiatone tra un bacio e l'altro.

«Solo se non vogliamo ascoltare questo» prende la mia mano e la poggia sul suo petto. Il suo cuore sembra voglia esplodere. La sua bocca scende sul mio petto. Riprendo il suo viso tra le mani per poterlo fissare ancora.

«E' bello averti qui. Questa settimana è stata infinita».

«Non dirlo a me» mi sussurra sfiorandomi la nuca con le dita.

«Andiamo a prendere il borsone...voglio che questa serata sia perfetta e ho tante sorprese per te» le prendo la mano e la trascino verso la porta.

C'è una calma surreale oggi nel mio giardino. Non c'è nulla di diverso dal solito. A parte me. Sono io quella diversa.

Preso il suo borsone dalla macchina, torniamo dentro.

«Fai pure il giro della casa intanto io apparecchio la tavola...fai come se fossi a casa tua» dico infine, senza pensarci.

«Non vuoi una mano?».

«Sei mia ospite, non vorrai mica contraddirmi pure qui spero» faccio un passo verso di lei.

«Altrimenti che succede?».

Conosce i miei punti deboli, maledizione.

«Altrimenti...a letto senza cena» mi volto e prendo i piatti dalla credenza. A lei scappa una risatina e poi inizia a girovagare per la casa. Sistemo tovaglia, bicchieri, piatti, posate. Centrotavola: una candela. Il vino. Dopo cinque minuti torna con una foto.

Il sorriso sparisce dal mio viso.

Ha in mano la foto di Henry.

«Mi dici chi è questo bambino?».

«Non credo di volerlo fare, non ancora». Non riesco a pensare quando si tratta di lui e del dolore che ho provato quando l'ho perso.

«Perché non vuoi condividerlo con me?».

«Perché fa troppo male. Ci sediamo a mangiare?» voglio cambiare discorso.

«Perché non riesci a fidarti di me?».

Quella discussione sarebbe finita male, me lo sentivo.

«Oh per due o tre motivi, e poi è troppo presto per parlare di certe cose».

Il suo viso si contrae in una smorfia, quasi di dolore.

«Se non riesci a fidarti di me che senso ha questo invito? Non voglio essere una delle tante, io voglio qualcos'altro, voglio il tuo cuore, non il tuo corpo e» si interrompe, la voce rotta dal pianto.

«..e se non posso avere il primo...non ha senso nemmeno il resto».

Si avvicina alla porta e riprende il suo borsone.

«Quando e se sarai pronta sai dove trovarmi. Io così, non ci riesco».

Se ne sta andando. Non voglio che vada via, doveva essere il nostro fine settimana perfetto.

«Dove stai andando?» le dico avvicinandomi a lei.

«Non avvicinarti» replica in modo freddo.

«Vado a casa, non c'è un motivo che sia uno per cui debba stare qui. E non è per la foto in se, ma perché non ti fidi e io non ce la faccio così».

Si volta.

«Ma questo doveva essere il nostro fine settimana perfetto, il nostro momento» dico tra le lacrime, poggiandomi al tavolo.

«Evidentemente non lo è».

«Ma noi stiamo bene insieme, noi siamo speciali insieme».

Sembra non sentire. Si mette il borsone su una spalla e percorre gli ultimi due passi prima di arrivare alla porta.

«Per favore non andartene».

«Dammi un fottuto motivo per cui dovrei rimanere Regina, uno!» si volta e urla.

La mente inizia ad annebbiarsi, il respiro si fa corto e di fronte a me le immagini vanno come a rallentatore. Perché la voglio lì? Perché non riesco a parlarle di Henry? Non voglio che mi veda debole, non voglio che sappia quanto posso soffrire, non voglio scoprirmi così. E non mi è mai importato di questo fatto tranne che con lei. Ecco qual è il motivo.

«Perché ti amo!» urlo a mia volta.

Certo che la amo. Questa è l'unica spiegazione logica alla folle paura che ho di raccontarglielo. Non è un'amica. E' esattamente l'opposto, è totalmente diverso e scoprirsi così di fronte a qualcuno che ami come mi sono resa conto di amare lei può essere molto, molto complicato.

Quelle parole mi escono dalla bocca di slancio, con una tale facilità da rendermi ancora più spaventata. La mano che sta per aprire la porta si blocca e scivola nuovamente accanto al suo fianco. Il suo viso, rigato di lacrime, si volta lentamente verso di me e di seguito anche il resto del corpo. Lascia scivolare il borsone per terra e con due lunghi passi mi raggiunge. Affonda la sua bocca sulla mia, con rabbia, tra le lacrime di entrambe. Mi stringe con una tale forza da lasciarmi senza fiato.

Non proferiamo parola ma la passione dei nostri baci ci conducono nella camera accanto. Non servono parole, le mani, i nostri corpi parlano per noi. Sento la sua mano abbassare la zip del mio vestito.

Senza dire niente accarezza la mia pelle con le sue labbra, abbassandosi un po' per sfilare verso il basso quello che una volta copriva il mio corpo. Il letto sembra lontano.

Il desiderio di essere nude ci blocca accanto al mobile. Le stringo forte i fianchi mentre il suo collo diventa cibo per le mie labbra e le sfilo la maglietta, lanciandola la una parte.

Afferra il mio sedere con le mani e con un saltello mi siedo sul mobile.

Le mie gambe la cingono per i fianchi e mentre le nostre labbra non smettono di cercarsi, le nostre mani non smettono di muoversi. I pantaloni sulle sue gambe sono di troppo. Li sgancio nello stesso momento in cui lei fa cadere in terra il mio reggiseno.

Improvvisamente il suo sguardo si fa serio e si ferma. Mi prende le mani per stringerle forte e infilare prepotentemente il suo sguardo dentro il mio.

«Ti amo anch'io» quelle parole risuonano come campane a mezzogiorno nel silenzio della stanza.

La marea di emozioni e pensieri che invadono in quel momento la mia mente sono decisamente troppi. Troppi da decifrare, troppi da esprimere.

Mi libero dalla presa delle sue mani. I suoi capelli sono spettinati, alcune ciocche le ricadevano sul viso e aveva le gote rosse. Di sicuro anche le mie. Devo essere totalmente sconvolta, sia fisicamente che mentalmente.

Lei mi ama. Ho sentito bene le sue parole.

Tiro indietro i suoi capelli con le mani, liberandole il viso su cui è comparso un bellissimo sorriso, sorriso che riserva solo a me. Quello è il mio sorriso. Voglio piangere, sento che le lacrime arrivano agli occhi e la vista per un attimo si annebbia ma decido di fermarle baciandola.

Scendo dal mobile e cercando di non staccare le nostre labbra, la faccio sedere sul letto. La costringo a sdraiarsi spingendola piano con una mano e mi metto a cavalcioni sopra di lei.

Dalla fronte, la mia mano sfiora la sua pelle, scendendo fino ad arrivare ai pantaloni che stanno ancora dove non devono. Infilo leggermente le mani tra il pantalone e la sua schiena, che inarca per facilitarmi il lavoro. Finalmente anche quelli giacciono a terra, lontani da noi.

Con i soli slip a proteggerci dalle nostre nudità, torno su di lei, cercando di fare combaciare ogni centimetro del suo corpo col mio.

La mia bocca si posa per l'ennesima volta sul suo collo mentre incastriamo le nostre gambe. Mi stringe forte a lei mentre mi facilita il lavoro girando la testa da un lato. Le mie mani e le sue mani sembrano non essere sufficienti a essere nello stesso momento sui nostri seni, o sulla schiena, o sul collo o sulle gambe...le sue gambe, mai visto niente di più bello e perfetto.

Tra un bacio e l'altro, con lei che ormai ha capito come farmi perdere il controllo stuzzicandomi i seni con la lingua, la mano scende verso il basso, accarezzando l'interno coscia. Inarca la schiena e mi guarda negli occhi. Le parole sono superflue. Lentamente lascio che le sue mani spostino l'ultimo indumento che abbiamo addosso e io faccio lo stesso.

Le nostre mani indugiano sul basso ventre, incerte, quasi inesperte (lei di sicuro), ma desiderose più che mai.

Niente mai è stato più bello per me.

Niente è stato più eccitante o passionale o dolce, niente.

Niente è paragonabile ai nostri continui baci e al nostro guardarci negli occhi.

Niente in confronto alla perfezione dei nostri respiri, delle mani intrecciate. Nessuno mai è stato tanto intenso per me.

Nessuna bocca tanto eccitante, nessun corpo tanto bello. Ma soprattutto non sono mai stata più felice di stare abbracciata per un'ora intera a lei, quando sfinite, ci lasciamo andare sul letto.
E' questo l'amore? Non lo so. Sapevo solo che le esperienze passate improvvisamente sono diventate insignificanti rispetto a lei.

Lei che ora mi guarda con quei suoi enormi occhioni verdi, che brillano e sorridono. Mi sfiora il viso con una mano prima di toccare ancora una volta le mie labbra con le sue.

«Non so come descrivere quello che ho provato» la sua mano tocca il mio fianco.

«Non farlo. I tuoi occhi parlano da soli».

«Come siamo riuscite ad aspettare?».

«Non lo so...so solo che ne è valsa la pena».

Quella situazione assolutamente perfetta viene interrotta dal brontolio della sua pancia.

Scoppiamo a ridere.

«Amore mio hai fame??» le dico baciandola e continuando a ridere. «Si sarà freddato tutto ormai».

«Dio che vergogna» arrossisce ma ride anche lei.

«Non voglio che muoia di fame, dai alzati, andiamo a mangiare la nostra meravigliosa e freddissima cena».

Mentre mi siedo sul letto mi accorgo che sono nuda. Lo siamo entrambe.

«Ehm....magari dovremo vestirci...» la osservo, perfetta, sdraiata sul letto. Prendo una vestaglia posata sulla sedia accanto al letto e me la infilo.

«Se mi portassi il borsone troverei qualcosa da mettermi» si copre con un cuscino.

«Te la porto subito» esco a piedi nudi dalla camera e afferro il borsone accanto alla porta. E che ci ha messo dentro, quanto pesa!

«Hai messo mattoni per uccidermi? O un fucile? Pesa sei quintali!» dico poggiandola pesantemente accanto al letto.

«Non sapevo che portarmi» fa una faccina triste.

«Ti lascio vestire, vado a scaldare di nuovo tutto...fai presto...» mi abbasso per baciarla e lei rimane lì, con le labbra a coniglietto e gli occhi chiusi, incapace di staccarsi da me.

«Ma quanto puoi essere stupenda?» le prendo le guance pizzicandole «quanto?».

Mi butta le braccia al collo e mi fa cadere sul letto sopra di lei. Scoppiamo a ridere.

I suoi occhi, i suoi meravigliosi occhi sono ridotti a una piccola fessura tanto è felice.

«Non ce la faremo mai a mangiare» inverte le posizioni.

«Non mi serve mangiare oggi...mi serve recuperare il tempo perso fino ad ora» sopra di me, mi slaccia la cinta della vestaglia, scoprendomi. Mi mordo il labbro inferiore, all'improvviso avverto di nuovo molto caldo. Mi tiro su con le braccia, così da avvicinarmi al suo viso.

«Come intendi recuperarlo?» avvicino la bocca al suo collo e lo annuso. Lo piega leggermente, percorsa da un tremito. Bacio piano il suo mento e sfioro il contorno del suo viso, fino a tornare sulla bocca.

«Non credo che oggi riuscirai a alzarti da questo letto» mi dice con voce bassa e seria. Infila le mani sotto la vestaglia, circondandomi le spalle, e la lascia cadere sul letto. Sono di nuovo nuda. E anche lei.

Incantata dal suo sguardo e domata dai suoi baci, mi lascio andare, poggiando nuovamente la testa sul cuscino. La sua bocca raggiunge punti del mio corpo che non credevo volesse raggiungere, non subito almeno, ma evidentemente ho sottovalutato la voglia che aveva di me. Il mio corpo trema per il piacere e solo alla fine mi rendo conto di quanto con lei non abbia nessuna inibizione.

Mi bacia ancora per un tempo indefinito. Quanto è passato da quando giacevo sotto le sue mani, la sua bocca e i suoi baci? Ore? Minuti? Non lo so. So solo che voglio che niente di tutto quello che lei fa finisca. Niente.

«Mi piacciono gli occhi che hai ora dopo aver fatto l'amore. Brillano ancora di più».

Quanti battiti può sopportare un cuore prima di esplodere?

«Brillano perché ti ho di fronte...cercano di adattarsi alla tua bellezza» le sfioro le labbra con le dita. Ho talmente fame che le avrei morse fino a staccargliele ma non mi sembra opportuno.

«Mi sembra che abbia fame» dice trattenendo una risata.

«E da cosa lo avresti capito?» mi allontano un po' dal suo viso con aria curiosa.

«Hai di nuovo quello sguardo da "ti voglio mangiare" che avevi i primi giorni che abbiamo iniziato a parlare».

«In effetti ti voglio mangiare esattamente come in quei giorni.......» non riesco a resistere, mi avvicino e la bacio di nuovo.

«Ora voglio mangiare qualcosa» dice drizzandosi sul letto, coperta solo dai suoi capelli biondi, lasciandomi come una ebete affamata di baci.

«Allora vestiti altrimenti rimani qui per almeno un'altra mezz'ora!».

«Agli ordini signor capitano!» mi prende in giro portandosi una mano alla fronte in segno di saluto e mentre io mi infilo di nuovo la vestaglia, lei inizia a cercare qualcosa nel suo borsone. Prende una sorta di sottoveste color carne...molto corta....con tanto di vestaglia altrettanto corta e la chiude con la cinta. Si mette in piedi con un saltello, mi prende la mano e dice:

«Andiamo a mangiare» mi trascina fino alla cucina.

Fortunatamente la tavola è già apparecchiata, accendo la candela e lo stereo col cd che ho portato per il nostro sottofondo musicale.

«Prego, siediti...faccio subito» prendo il recipiente di terracotta col riso e ne verso un pochino in entrambi i piatti.

«Assaggia» prendo la forchetta e la imbocco.

«Sei geniale anche in cucina, è squisito» dice soddisfatta e sorridente. Meno male che le piace, penso. Mi siedo anche io e iniziamo a mangiare, silenziose e un po' imbarazzate.

«Mi diverte come siamo più imbarazzate a tavola che in camera da letto» le dico mentre cerco il suo piede con il mio, entrambi nudi. Lei risponde facendolo scivolare per tutta la gamba fino al ginocchio e tornando indietro. Poggia le mani sotto il mento.

«Che mi hai preparato per secondo?» abbassa il tono di voce, diventando quasi rauca. Una sensazione di calore raggiunge il mio corpo.

«C'è l'arrosto» dico cercando di mantenere un po' di dignità. Mi alzo lentamente, quasi inciampo sul piede della sedia e lei trattiene una risatina.

Servito anche l'arrosto, mangiamo in silenzio, scambiandoci sguardi più loquaci di qualunque mole di parole. Verso del vino rosso e facciamo tintinnare i bicchieri.

«Posso averne un altro pezzo?».

«Fai come se fossi a casa tua» apro il coperchio della terrina per farle scegliere il pezzo a lei più gradito. Fa il bis del bis, è alquanto affamata e io la guardo estasiata mentre beve e mangia come se non ci fosse un domani.

«Posso assumerti per cucinare questa bontà? Mai mangiato nulla di più buono» dice versandoci altro vino.

«Potrebbe essere interessante, poi decidiamo il compenso però» beviamo insieme.

«C'è la mia torta e la tua crostata...io opto per la seconda, la torta la mangiamo dopo caso mai» mi dice con tono strano.

«Ok »mi alzo e prendo la crostata che è ancora in forno, ne taglio una fetta e la metto su un piattino pulito. Prendo i piatti sporchi e li metto sul lavandino.

«Divento obesa se mangio così tanto ogni volta che ci vediamo» divora anche la crostata alle mele e poggia la schiena alla sedia, esausta. Guardo l'orologio.

«Sai che ore sono???» alzo le sopracciglia «Le 23:30...il tempo è volato....».

Si alza in piedi.

«Vai in camera, prendi il vino e due bicchieri, io porto la mia torta».

«Mi fai paura quando scatti in questo modo» ubbidisco e mentre lei prende la scatola della torta afferro due bicchieri puliti e lo spumante.

La trovo seduta sul letto, con la scatola davanti, mentre da dei colpetti al materasso incitandomi a mettermi accanto a lei. La assecondo dopo aver poggiato lo spumante e bicchieri sul comodino. Una volta sul letto la bacio.

«Allora questa torta?».

«Sei pronta? Aprila».

Afferro i manici della scatola facendo attenzione a non strapparli e delicata abbasso i quattro lati del cartoncino. Un enorme sorriso compare sul mio viso. Non è nemmeno una torta. E? una distesa di fragole con base di pan di spagna e panna e c'è una enorme scritta col cioccolato: "SEI BELLISSIMA".

«Tu sei completamente impazzita» le dico cercando di trattenere le lacrime.

«No, niente pianti» mi ferma subito. Prende una fragola e me la avvicina alla bocca. La mordo. Completamente persa nei suoi occhi, non mi accorgo che con l'altra mano prende della panna. E con quella mi accarezza.

Risultato? Panna ovunque. Si alza dal letto divertita, sembra una bambina.

«Questa me la paghi» prendo tre fragole piene di panna e lei non tenta nemmeno di scappare...si sistema in un angolo della stanza, con espressione finta impaurita.

La raggiungo. Con la prima fragola le sporco i bordi delle labbra con la panna...panna che le porto via con la mia bocca. Le sgancio la vestaglia prima di farle mordere le altre due fragole. Siamo di nuovo serie. Il desiderio prende nuovamente il sopravvento. Con le labbra incollate alle sue arriviamo al letto.

Si lascia guidare in ogni movimento. Sposto la torta, sistemandola sulla sedia accanto al letto. Mi sistemo dietro di lei. Afferro le bretelline della sottoveste con le labbra e le faccio scivolare. Lei è nuda di fronte a me. Sfioro la schiena con le labbra, arrivando fin sopra i glutei perfetti. Le mani circondano il suo bacino. Lei le afferra e intreccia le sue dita con le mie. Tenta di voltarsi ma la tengo ferma.

«Shhhh» le dico all'orecchio. Le mordo il lobo mentre le stringo un seno e lei ruota la testa a cercare le mie labbra. Stavolta le trova, gliele lascio trovare.

Mi sfilo da sola la vestaglia prima di farla mia ancora una volta.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Emma ***


Lei non si fida di me e io non riesco a sopportarlo. Io voglio che si fidi, voglio entrare nella sua anima, voglio capire i motivi del suo dolore, ma non me lo lascia fare e non ha senso entrare a casa sua se non mi fa entrare nel suo cuore.

Metto di nuovo il borsone in spalla. Allungo la mano per afferrare la maniglia.

«Perché ti amo!».

La mia mano si blocca a mezz'aria. L'aria intorno a me improvvisamente sembra venire meno. Non riesco a credere alle sue parole.

Chiudo gli occhi che già bruciano per le lacrime. Il cuore sembra un tamburo impazzito e il petto mi fa male. E' questo il motivo della sua paura? Il suo amore per me? Può essere una valida giustificazione?

Io cosa avrei fatto al suo posto?

Io la amo?

La mia mente partorisce troppe domande e ho bisogno di guardarla negli occhi. Abbasso il braccio, prendo un profondo respiro e mi volto.

Le sue labbra tremano di paura. Il suo viso è rigato dalle lacrime.

Tutto è più chiaro nel momento in cui i suoi occhi incrociano i miei. Abbasso la spalla destra, quel poco che serve a far scivolare il borsone per terra. Mi volto e dopo due passi arrivo alle sue labbra. Calde, dolci, umide. Le stringo il viso tra le mani mentre la sua bocca si apre per mordere il mio labbro inferiore.

La odio e la amo. Non fa altro che allontanarmi e mi ferisce. Ma ora non l'avrebbe più fatto. La stringo a me con forza, come per farle capire che voglio tutto di lei. Voglio che mi appartenga.

Il suo profumo è una droga. La camera da letto appare di fronte ai miei occhi senza nemmeno accorgermene, nello specchio che riflette il letto, sopra il mobile dove ho fatto sedere Regina. Il suo corpo perfetto si adagia sul mio e scopro con piacere di sapere slacciare il reggiseno con una mano sola. Le sue mani si insinuano sui miei pantaloni, sganciandoli e li i miei polmoni riprendono aria e al cervello arriva un po' di ossigeno.

E alzo le palpebre di nuovo.

I suoi occhi neri mi colpiscono come un pugnale in mezzo al petto. Le pupille quasi totalmente dilatate fanno sembrare i suoi occhi ancora più luminosi e una sensazione mai provata prima si adagia all'altezza dello stomaco. Le stringo le mani che ancora cingono i miei fianchi

«Anche io ti amo». Le sfioro la guancia con l'indice e le sorrido. Vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime ma non mi permette di consolarla. Mi bacia di nuovo spingendomi sul letto. Seduta sopra di me, mi sfila lentamente i pantaloni. E' una visione. Un corpo perfetto giace su di me e io non ho la ben che minima idea di cosa fare. Sento il calore farsi strada sul basso ventre, mentre la sua bocca si avventa sul mio collo.

Mentre mi bacia, sento il suo seno nudo sopra il mio e proprio in quell'istante perdo totalmente lucidità. La mia bocca scende sul suo collo e sui suoi seni. La sua pelle profumata è infuocata, calda sotto il mio tocco. I suoi seni sodi e perfetti....mi piace toccarli.

Non mi sentivo fuori posto. Ero assolutamente al mio posto.

Quel corpo, quelle mani, quella bocca...il suo sapore e il suo profumo. Afferro un capezzolo con i denti e lei inarca la schiena. Non so cosa possa piacere a una donna...ma la sua reazione mi suggerisce che sto andando bene. Le sue mani sui capelli mi invitano a tornare sulla sua bocca. Le cingo i fianchi col braccio e per fare aderire il suo corpo col mio e affondo le unghie sul suo sedere.

Il mio controllo è totalmente andato. Ansimo sotto ogni suo tocco che è totalmente perfetto. La sua mano sfiora il mio addome, poco sopra gli slip e mi chiedo perché esiti tanto. Forse per la mia “prima volta”? Non posso aspettare ulteriormente. Lentamente sfioro la pancia e con l'indice percorro il contorno dei suoi addominali. Scendo più in basso fino all'interno coscia e lei inarca il bacino verso di me. Non mi serve altro.

Abbasso velocemente lo slip e lei contemporaneamente fa lo stesso col mio. Mi sistemo sopra di lei, avendo cura di spostare i capelli che ha sugli occhi. Era bellissima. Accenno un sorriso prima di baciarla di nuovo.

Ma lei mi anticipa e con uno scatto mi ritrovo sotto di lei. Le cingo le spalle, così da non avere più alcuno spazio tra i nostri corpi.

Accarezza i miei seni e cauta la mano scende tra le mie gambe.

Mi sfiora con una delicatezza quasi impalpabile ma il mio corpo ha un sussulto involontario. La bacio e stringo a me mentre piccoli movimenti massaggiano il mio punto più sensibile.

Mi sembra di impazzire.

Quello che sento è fuoco puro, qualcosa di assolutamente impossibile da descrivere e controllare. Piego le gambe poco prima che le sue dita si insinuino in me.

Sussurro costantemente il suo nome, quasi a volere tenere la mente lucida almeno quel poco che basta per assicurarmi che non sia un sogno.

Quella meravigliosa donna dagli occhi profondi come la notte e dai capelli corvini mi amava e il vuoto che il mio stomaco aveva sempre provato nelle relazioni precedenti sembrava essersi colmato al primo contatto delle nostre mani.

Ma voglio di più. Voglio sentirla mia come io mi sento sua. Senza staccare gli occhi dai suoi (anche perché sarebbe stato difficile farlo) insinuo la mano sul suo basso ventre. Non ho idea di come fare ma con lei che mi morde il labbro inferiore tutto diventa più facile.

E anche più difficile.

Le prime gocce di sudore iniziano a imperlare la sua fronte. E continuo a baciare ogni centimetro del suo viso, come se risparmiarne solo un pezzetto fosse un'offesa alla sua bellezza. A cavalcioni su di me, con le nostre bocche incollate e le lingue intrecciate, sento il calore crescere e il cuore galoppare. E con essi i movimenti delle nostre mani.

Ancora colta da fremiti la stringo forte, cercando di imprimere nella mia mente quanti più particolari possibili. Le sue gote rosse, i muscoli delle braccia tesi, le pupille estremamente dilatate e brillanti, le sue labbra infuocate per i miei baci, il suo profumo che ormai è un po' anche mio, perché so che quell'immagine sarebbe stata marcata a fuoco nella memoria per il resto dei miei giorni.

 

Brivido.

Sento freddo su un lato del corpo ma gli occhi non ne voglionoo sapere di aprirsi. Cerco di stendere le braccia ma mi trovo assolutamente bloccata, per questo mi guardo intorno: la coperta avvolge solo il suo corpo mentre è adagiata praticamente sul mio lato sinistro. Quel braccio lo blocca lei col suo corpo, l'altro lo tiene stretto con la sua mano.

Sono imprigionata. Dorme beatamente. I capelli spettinati sulla mia spalla, le labbra socchiuse in un mezzo sorriso, il profumo dei suoi capelli sono l'ideale per il risveglio.

Sospiro ripensando alla notte appena passata. Non so che ore siano, dalla finestra si intravede uno spiraglio di luce, ma nulla che mi faccia capire l'orario. Accanto alla finestra noto un orologio appeso,segna le 10.

Abbiamo dormito pochissimo...quando ho smesso di baciarla? Di toccarla? Di volerla? Quando la stanchezza ha prevalso sul desiderio?

La torta con la panna era stata la ciliegina per la serata. Lei era....lei mi ama.

Ho appena realizzato quella frase.

Non so perché non mi parla di quel bambino...mi ferisce che non me ne parli ma i suoi sentimenti mi fanno capire come non voglia mostrarsi debole. E' lecito. In passato l'avrei fatto anche io.

Il suo ti amo mi ha completamente spiazzato. Non era quello che mi aspettavo, ero totalmente convinta che mi lasciasse andare per fare vincere l'orgoglio. Invece no. E spogliarla era stato liberatorio. E in quel corpo da dea non avevo trovato niente che potesse vagamente somigliare a un difetto.

Se la prima volta era stata romantica, la seconda era stata liberatoria e la terza decisamente passionale.

Sento ancora la panna addosso e ancora di più il suo sapore sulle mie labbra. E' li mentre mi sfioro la bocca.

Brivido. Prendo la coperta sistemata sul suo corpo e cercando di non svegliarla la sistemo sopra di noi.

Riprendo a guardarla. Sull'armadio si intravedono ancora le impronte delle mie mani.

E' stato un necessario punto d'appoggio quando mi ha bloccata da dietro e mi ha sfiorato la nuca con le labbra per poi scendere fin sopra il sedere. Sono rimasta pietrificata. Avrei voluto baciarla fino a farci male ma lei non me l'aveva permesso. Mi aveva spinto fino all'armadio con la mano intrecciata alla mia.

Non riesco a smettere di pensare alle sue mani, al suo tocco. Sfiorava i miei seni con una precisione quasi chirurgica. Poi entrambe le mani hammo percorso tutto il mio corpo e erano di nuovo li, tra le mie gambe. Ne avevo afferrata una con forza, schiacciandola contro di me.

«Ferma» mi aveva sussurrato mordendomi il lobo dell'orecchio.

Ripensarci è come farlo accadere di nuovo. Un'improvvisa ondata di calore percorre il mio corpo.

E' entrata dentro di me senza neanche darmi il tempo di prendere aria ed è così che sono rimasta...senza respiro. Sfioro i graffi che le ho fatto involontariamente sul braccio. I suoi seni sulla mia schiena erano stati più eccitanti del resto.

Mi aveva completamente immobilizzata. Con le gambe tremanti, cercavo la sua bocca che solo alla fine mi aveva concesso, prima di sciogliermi sotto il suo tocco. Solo allora aveva mollato la presa e aveva permesso di voltarmi e stringerla a me, sfinita, cercando sostegno nell'armadio dietro di me.

E ora non riesco a smettere di guardarla in tutta la sua perfezione e di chiedermi come solo a 28 anni mi sia resa conto di quanto una donna possa essere sexy, eccitante, bella...e quanto possa sentire la necessità di avere un contatto fisico con loro.

Ma è così, sento questa necessità con lei.

La guardo ancora una volta prima di provare a staccarmi dal suo corpo.

Voglio prepararle la colazione prima di fare una doccia insieme e uscire a fare una passeggiata. Corruga la fronte quando le sposto il braccio dal mio addome. Veloce, sistemo un cuscino al mio posto, facendo attenzione a non farla scivolare troppo.

«Emma» sussurra raggomitolandosi su se stessa. Avrei voluto sognarla anche io. Ma la realtà è decisamente migliore di qualunque altro sogno. Le sistemo la coperta sulle spalle e mi metto qualcosa addosso.

La temperatura è ancora bassa nonostante siano le 10 e decido di accendere la stufa sistemata vicino all'ingresso. C'è della legna accanto e tutto quello che serve per accenderlo. Qualche fiammifero, della carta e dei piccoli tronchetti sottili. Chiudo lo sportello prima di dirigermi in bagno a lavarmi il viso. Lo specchio riflette un'immagine di me poco curata: trucco sbavato e capelli arruffati, così decido di legarli. Mi lavo velocemente i denti, meglio tenersi pronte.

Tornata in cucina apro qualche sportello per cercare l'indispensabile: caffè, zucchero, succo. La macchinetta del caffè è sistemata accanto al microonde e dopo qualche tentativo di accensione non andata a buon fine, un dolce rumorino riempie la stanza. Ce l'ho fatta.

Distrattamente apro il frigorifero dove afferro il vassoio con la crostata fatta da lei. Ne taglio due fettine e le sistemo su un piatto preso dalla credenza. Il caffè è pronto. Ne verso due tazze e...il vassoio. Dio mio...c'è un vassoio in quella casa? Mi affaccio alla camera da letto e lei mi da la risposta, pur continuando a dormire: quella è la casa di Regina Mills. Lei ha tutto, non è mai impreparata. Per cui apro ogni mobile mi capiti sottomano fino a che non lo trovo, dietro una fila altissima di piatti in ceramica con dei bordi neri: decisamente il suo stile. Sistemo tutto la sopra, avendo cura di non fare cadere il caffè.

Serve un fiore.

Poggio di nuovo il vassoio sul tavolo e mi guardo intorno. Non voglio smontare il vasetto della sera precedente, così apro la porta di casa e mi affaccio alla ricerca di un piccolo fiorellino smarrito che cerca riparo sotto la protezione dello sguardo di Regina.

Mi ammalerò di sicuro, ci saranno si e no cinque gradi e dopo qualche passo attorno alla casa, senza calze e con le sole pantofole ai piedi, trovo un roseto.

«Amore mio» esclamo «tu si che mi rendi le cose semplici».

Ne prendo una, facendo attenzione alle spine e torno saltellando dentro casa. Tento di ripristinare la circolazione dei miei piedi accanto alla stufa, che intanto inizia a scoppiettare.

Prendo il vassoio e mi dirigo in camera. Lo sistemo sul comodino, apro le finestre così da far entrare un po' di sole che raggiunge subito la mia bella, ancora profondamente addormentata.

Mi avvicino a lei scivolando sul letto. Le sfioro la fronte con le labbra.

«Ehi bellezza...svegliati».

Arriccia il naso infastidita e si inumidisce le labbra.

«Regina...» sussurro poggiando le mie labbra sulle sue. Sposto il cuscino e riprendo il mio posto, che avevo lasciato qualche minuto prima. Il suo corpo caldo è un sollievo per il mio, decisamente più freddo. Si ritrae spaventata e mugugna quasi infastidita. Non posso far altro che sorridere divertita. Ma non riuscendo a arrivare al mio scopo decido di passare ad altri metodi: la avvolgo tra le mie braccia, incrociando le gambe tra le sue.

«Amore mio è ora di aprire gli occhi».

«No...è ora di dormire abbracciate ancora» biascica lei affondando la testa sul mio collo.

«Ma non puoi star a letto a dormire tutto il giorno» sospiro io ricambiando l'abbraccio «e poi volevo far la doccia con te dopo.....» lascio intendere che la doccia avrebbe avuto un seguito e subito la sua testa si alza per raggiunger il mio sguardo. I suoi occhi ancora non perfettamente aperti mi scrutano curiosi.

«Credo di essere interessata alla proposta».

«Non avevo dubbi mia cara» rispondo baciandole il naso «ma» mi stacco velocemente da lei per andare a prendere il vassoio e poggiarlo sul letto, mentre lei si sistema con un cuscino dietro la schiena.

Prendo la rosa e gliela porgo.

«L'ho rubata prima dal tuo giardino, perdonami, ma dovevo trovare qualcosa che fosse degno della tua bellezza. E poi avrai fame» faccio spallucce.

Prende la rosa, visibilmente imbarazzata e la annusa.

«Questa è la prima volta che mi regalano un fiore dopo una notte insieme. Ed è la prima volta che mi portano la colazione a letto. Ed è la prima volta che non voglio mandare al diavolo chi ha diviso il mio letto con me». Inclina un po' la testa prima di accarezzare la mia guancia col palmo della mano.

«Sei stupenda Emma».

Accenna un sorriso, stringendo le labbra e tirandomi il mento verso di lei. Mi bacia.

«Grazie».

Sento le guance avvampare di calore. Che strano, il suono della sua voce mi fa sentire a casa.

Prendo la tazza di caffè per passarla a lei. Beviamo un sorso.

«Come hai fatto a fare il caffè?».

«C'era la macchinetta. Ho aperto tutti gli sportelli e ho trovato il necessario. So arrangiarmi in un posto che non conosco» addento un pezzo di crostata...muoio di fame.

La fisso litigare con la crostata che si sbriciola sotto il suo tocco. E' di una perfezione estasiante. Le dita afferrano le briciole sul fazzoletto e le porta alle sue labbra, dove spariscono e la punta della lingua bagna le labbra. Sarei rimasta ore a guardarla ma è il nostro fine settimana e non voglio sprecarlo.

«Allora, che c'è qui in giro da vedere?» tengo la tazza su entrambe le mani per scaldarle.

Mi fissa un attimo prima di alzarsi e fuggire.

«Dammi due minuti» avvolta dalla coperta, esce dalla stanza e si chiude nel bagno.

«Ti senti male?» urlo prendendo il vassoio e riportandolo in cucina. Avrei dovuto di certo sistemare. Lei è così ordinata, e io ho lasciato un macello di proporzioni megagalattiche. Svuoto il vassoio e poggio le tazze nel lavello insieme ai piatti della notte precedente. Apro l'acqua ma il rumore della porta che si apre mi interrompe. Mi volto.

Lei stava lì ferma, con i capelli arruffati, i piedi nudi e la coperta a nasconderla. Si avvicina a me prima che potessi anche solo bagnarmi le mani dentro il lavandino.

«Che cosa stai facendo?».

«Sistemo un po', ieri non abbiamo sistemato nulla».

Mi guarda storta.

«Vieni con me» dice tirandomi per un braccio.

«Ehi» quasi inciampo sul tappeto. La meta è la camera da letto. Mi lascia la mano e si dirige dalla sua parte e con enorme stupore noto come il letto avesse lenzuolo e piumone. Solo che la sera prima non abbiamo fatto in tempo nemmeno ad aprirlo.

«Ma ci abbiamo dormito sopra?».

«Già».

Fa scivolare la coperta per terra. Io rimango pietrificata di fronte al suo corpo nudo. Ancora non sono abituata. Inarca un sopracciglio prima di infilarsi e sparire sotto di esse. Fa capolino poco dopo, mettendosi lateralmente col il braccio sul cuscino a sostegno della testa. Da quella nuvola blu che è il piumone, spunta anche l'altra mano che sposta l'altra parte del letto e mi invita a seguirla.

«Non ho intenzione di muovermi da qui sopra almeno per oggi» dice con voce roca.

Non è solo una voce la sua...è musica.

«Ok..ok» mi siedo sul letto.

«Che fai?».

«Seguo i tuoi ordini?».

«Nei miei ordini la vestaglia non è prevista. Toglila».

Bella da mozzare il fiato. Come sotto qualche incantesimo apro quel corto indumento che indosso prima di raggiungere quella dea che per qualche strano motivo mi ama e che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia strada.

Copro il mio corpo nudo e infreddolito e mi volto verso di lei.

«Hai avuto una buona idea sai?».

«Mi hanno sempre detto che sono un genio».

«Un genio del male...».

«Sai quando mi hai chiesto cosa ci fosse da vedere qui intorno?».

Annuisco con la testa mentre scioglievo i capelli.

«Io tutto quello che voglio vedere ce l'ho di fronte agli occhi».

Si avvicina a me. La sua mano calda trova la mia sotto le coperte ma la supera, per andare direttamente sulla mia schiena e mi tira con forza verso di lei.

«..cosa sarei io?» dice sulle mie labbra.

«...un..un...genio» quasi balbettante, mi manca il respiro all'idea della sua mano che si muove lentamente e pericolosamente sulle cosce. Infila una sua gamba tra le mie, così da essere perfettamente incastrate e si sposta sopra di me.

«Mi farai...» non mi lascia finire. Affonda le sue labbra tra le mie in un bacio il cui significato sarebbe stato chiaro a chiunque dopo mezzo secondo. Affonda le mani sui miei capelli prima di spostare la sua bocca sul mio collo. Mi lascio andare totalmente ai suoi baci, e senza nemmeno rendermene conto la sua bocca è già sulla pancia, dove la lingua tracciava dei piccoli cerchietti attorno all'ombelico. Incrocia il suo sguardo famelico col mio.

Si siede tra le mie gambe che sono necessariamente divaricate per lasciare posto a lei. Rimane a fissarmi e guardarla in quella posizione è non poco eccitante. Accarezza l'interno coscia arrivando quasi a sfiorare la mia intimità, ma si sposta di nuovo. Sembra quasi voglia giocare.

Non riesco a stare ferma senza toccarla. Mi alzo così da poterla almeno baciare ma lei mi spinge sul letto quasi minacciosa. Si riavvicina alla mia bocca, sfuggente...scende così tra le mie gambe.

Quella bocca non riesce solo a dire cose magiche, riesce anche a farle le magie.

La mia esplosione mi lascia senza fiato quasi da temere di perdere i sensi.

«Sei ancora viva?» dice mettendosi di fianco a me, poggiando la testa sul cuscino con un'espressione orgogliosa e soddisfatta.

Mi scappa una risata.

«Togliti quel sorrisetto dalla bocca» dico tra un respiro affannato e l'altro.

«Giammai».

«E' imbarazzante».

«Imbarazzanti sono altre cose...questo è solo perfetto».

La bacio. Continua a dire a me che sono perfetta quando è esattamente il contrario. E non se ne rende conto.

«Continuo a pensare che sia imbarazzante».

«Smetti di pensarlo allora e baciami, vedrai che l'imbarazzo passerà».

E questo è quello che continuiamo a fare durante tutto il giorno. Quel letto è diventato praticamente parte di noi. Non ci siamo spostate nemmeno per il pranzo, come se fare qualsiasi altra cosa fosse una perdita di tempo.

Ma una cosa è necessaria per concludere perfettamente quella giornata: una doccia insieme.

Il getto caldo bagna i suoi capelli e le prime goccioline scendono sul suo corpo. Chiudo il vetro trasparente dietro di me.

«Abbiamo bruciato le tappe con oggi no?».

«Non importa. E' stata una giornata fantastica...in tutti i sensi».

«E domani si torna alla realtà» sospiro tristemente.

«Ora siamo qui. A domani ci pensiamo domani».

Solleva il viso sotto il getto dell'acqua. La normalità sarebbe stata devastante. Il mio lavoro, il suo lavoro...lei che non vuole raccontarmi di quel bambino. Poi quegli occhi neri mi guardano e le gambe sembrano cedere. Ogni volta che mi guarda in quel modo mi sembra di sprofondare in lei, e non c'è modo di rallentare quella caduta, è sempre troppo frenetica e inarrestabile. Così come la voglia di baciarla che ne consegue.

 

La domenica arriva troppo presto. La passeggiata tra le case con i nomi “fruttati” ci butta addosso la consapevolezza che il nostro fine settimana perfetto è finito.

Passeggiando mano nella mano con lei, che non ha alcun problema a farsi vedere in teneri atteggiamenti con una donna, mi rendo conto di quanto tutto quello possa diventare indispensabile per me. Sono sempre stata una ragazzina che saltava da un ragazzo all'altro e per la prima volta con lei non sento la necessità di scappare a gambe levate. L'idea di condividere il quotidiano non solo mi piace ma mi incuriosisce.

Ovviamente questi tre giorni non sono quotidiano, è stata...pura follia. Passione, desiderio, esplorazione. Conoscenza. Insomma conoscenza non proprio. Avrei voluto saperne di più, ma sono certa che prima o poi anche la impenetrabile Regina si sarebbe lasciata andare.

Sono le 15 pm. Di li a un'ora ognuna di noi deve salire nella propria macchina e tornare alla realtà. La magia sarebbe finita? Come saremo state noi? Ci saremo viste tutti i giorni? Sono talmente tante le domande che mi sto facendo che...

«Emma» la sua voce.

Mi volto. Mani sui fianchi, sguardo preoccupato.

«Ti senti bene? Ti ho chiamata tre volte ma hai lo sguardo perso nel vuoto».

Accenno un sorriso mentre mi stringo le braccia al petto, sfregando le mani sul giubbino.

«No solo che...ora rientriamo a casa. Difficile pensare di non svegliarmi accanto a te...di non vedere queste» mi avvicino e le sfioro le labbra. Mi accascio sull'erba del giardino di Regina, poggiando la schiena su uno dei suoi meli.

«E' bello tutto questo. Ma nel quotidiano? Lo so sono patetica...».

«Shhh...» dice. Si inginocchia accanto a me.

«Emma...meraviglia vivente dai capelli dorati e dagli occhi cristallini. Io ti amo. E la vita quotidiana sarà fantastica accanto a te. Per cui pensa a questo. Io, ti, amo» si avvicinava al mio viso mentre dolcemente carezza la mia guancia.

«E io amo te» le prendo il viso per darle un bacio. E quando ancora la mia fronte è sulla sua le rifaccio la domanda.

«Mi parlerai di quel bambino?».

Difficile descrivere come si velano di tristezza i suoi occhi quando lo nomino. Le sue energie positive si dileguano per lasciarsi sopraffare dalla disperazione. E non so con quale forza riesce a dire: «Lo farò Emma. Domani notte vieni a cena da me e ti racconto tutto, d'accordo?».

Annuisco. Non sono totalmente convinta delle sue parole. C'è stato un attimo di incertezza nella sua voce prima di dirmi si.

Si siede accanto a me, intrecciando le dita con le mie e poggiando la testa sulla mia spalla.

Il sole di marzo scalda l'atmosfera e piccoli spiragli di sole filtrano dalle foglie sopra di noi. Le cingo le spalle con un braccio così che lei possa accoccolarsi come un bambino.

«Questo posto mi piace. Non so...quando pensavo alla tua casa in campagna me la immaginavo triste. Dai colori scuri come un castello dentro una maledizione. Invece...».

Si volta verso di me, col viso tra le mie braccia.

«Invece?».

Sospiro.

«Invece i muri hanno il colore della tua pelle...e i mobili praticamente il colore dei tuoi capelli. Ci sei tu, insomma la versione splendida dei miei sogni...e della mia realtà».

Sorride compiaciuta.

«Si lo so, modestamente sono una bella donna...».

«Molto modesta la signora».

Ridacchia e mi abbraccia.

«Credo che sia ora di andare, che ne dici?».

«Già».

Si allontana dal mio corpo per mettersi in piedi, e io mi alzo dopo di lei.

Una volta a casa, sistemiamo le ultime cose lasciate in disordine prima di chiudere definitivamente valigia e borsone e sistemarle nei bagagliai della nostre macchine.

In lontananza si vedono dei nuvoloni scuri.

«Ahi, credo che da noi piova».

«Motivo in più per stare sul divano a guardare la televisione con una coperta sulle gambe e la mia fidanzata accanto».

L'ho detto davvero? L'ho chiamata fidanzata? Si. Io sono stupita e lei è...

«E così sono la tua fidanzata??» mi prende le mani e si stringe a me portandole sulla mia schiena.

«Credo di si...vuoi? Oddio» abbasso lo sguardo quasi disgustata «mi sento alle elementari».

«Sei la bellezza in persona shh. E si, voglio essere la tua fidanzata».

Un sorriso liberatorio compare sul mio viso e ci scambiamo un bacio, come a sancire le parole appena pronunciate.

 

Saliamo in macchina. La sua macchina funebre viaggia a pochi metri di fronte al mio maggiolino giallo canarino. Decisamente due colori strani. Eppure siamo uscite dallo stesso vialetto.

Dopo un'ora circa di viaggio entriamo in città. Una pioggia scrosciante si sta abbattendo su di essa e il traffico è indescrivibile. I fari delle macchine riflettono sull'asfalto bagnato ed sono oltremodo fastidiosi. Dopo mezz'ora di fila ai semafori finalmente riusciamo a imboccare il parcheggio del nostro palazzo. Posteggiamo la macchina una di fianco all'altra. Ormai è quasi buio.

«Credo che ti accompagnerò fino alla porta di casa e io poi salirò a piedi» dico schiacciandola contro una parete dell'ascensore e dandole dei baci sul collo.

«Allora dovresti tipo lasciarmi scendere quando si aprono le porte no?».

«Non lo so, devo pensarci sopra».

«Quanto sei scema» ridacchia.

Le porte si aprono. Prendiamo i rispettivi bagagli. Regina mi precede ma improvvisamente si blocca. Mi affaccio fuori dall'ascensore.

Un bambino.

Inginocchiato e fradicio come un pulcino, un bambino di 8 anni circa è seduto accanto all'ingresso della porta di Regina. Al rumore dell'ascensore alza il viso, rigato di lacrime.

Conosco quel bambino. L'ho già visto in una fotografia

«Mamma» dice in tono disperato.

«Henry» esclama Regina.

Regina ha un figlio.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Regina ***


A una media di 100 km/h circa, percorro la strada del rientro, scorgendo ogni tanto quella macchia gialla che è la sua macchina, dallo specchietto retrovisore.

Siamo totalmente diverse. Io sono ordinata, lei disordinata. Lei ama i jeans e io i tailleur. Ma in fondo non dobbiamo vestirci allo stesso modo. Sa essere assolutamente sexy anche con un maglione enorme e dei calzini di lana ai piedi.

Probabilmente è molto più romantica di me. Ma so che il romanticismo è qualcosa che col tempo ci avrebbe abbandonate, almeno quella versione sdolcinata che colpisce le giovani coppie nei primi tempi della relazione.

Ok, sto pensando troppo. Regina rilassati andrà tutto bene.

Eppure non riesco a togliermi dalla testa quegli occhioni tristi e preoccupati per il rientro a casa. Per riprendere la vita quotidiana. Potevamo fare qualunque cosa in qualunque giorno. Non potevamo stare tutti i giorni sempre a letto. Non che fare sesso con lei mi dispiacesse, anzi...era brava. Molto brava. Ed ero rimasta sorpresa di quanto fosse senza inibizioni qualunque cosa facessi.

Ma di tutto il week-end il momento migliore è stata la colazione a letto. La rosa sul vassoio. La sua espressione visibilmente imbarazzata e dolcissima.

Ed è con queste immagini nella testa che le prime gocce di pioggia bagnano il vetro della macchina.

«Ci mancava solo la pioggia» sbuffo, improvvisamente consapevole della quotidianità che ci avrebbe travolto dal giorno successivo.

Ma forse con lei non sarebbe stato pesante. Le nostre giornate sarebbero volate e la sera sarebbe stato bello mangiare insieme o dormire insieme. Abbiamo due case a due piani di distanza. Non c'è da preoccuparsi.

Finalmente a casa. Mi fanno male le gambe a furia di stare seduta. Imbocco il vialetto del parcheggio del nostro palazzo. La pioggia scende ormai copiosa. Mi sarei bagnata completamente i piedi solo per fare quei tre passi e arrivare dentro.

Lei è già fuori dalla macchina che prende il suo borsone e apre il mio portabagagli per prendere la mia valigia. La gentilezza in persona.

«Niente ombrello, ce la fai a correre con quei tacchi?».

«Amore io sono nata con i tacchi, attenzione a non mangiare la mia polvere».

Mi tuffo sotto la pioggia senza darle il tempo di replicare e, nonostante la valigia al seguito, arrivo prima di lei.

«Quanto sei scorretta?» mi dice entrando in ascensore.

«Ah, non sai perdere».

Mi guarda insistente.

Una strana sensazione percorre il mio stomaco appena l'ascensore inizia a muoversi.

«Credo che ti accompagnerò fino alla porta di casa e io poi salirò a piedi» si avvicina a me, dandomi dei baci sul collo.

«Allora dovresti tipo lasciarmi scendere quando si aprono le porte no?» le mie mani sono già sotto la sua maglia.

«Non lo so, devo pensarci».

«Quanto sei scema» dico mentre le porte si spalancano di fronte a noi. Prendo la valigia dietro di me e faccio un passo oltre l'ascensore. La scena che mi si presenta davanti non è assolutamente ciò che mi aspetto.

Henry.

Rimango qualche secondo a osservarlo mentre lui alza la testa che fino a poco prima aveva poggiata sulle ginocchia. E' bagnato. I vestiti sporchi. Il viso rigato di lacrime e un livido sulla guancia.

«Mamma» la sua voce mi riporta alla realtà. Una realtà che improvvisamente mi sta stretta.

«Henry» mi precipito su di lui e dopo averlo aiutato ad alzarsi mi butta le braccia al collo e inizia a singhiozzare continuando a ripetere la parola mamma.

Lo stomaco fa male e gli occhi iniziano a bruciare.

«Sono qui Henry, sono qui, stai tranquillo».

Silenziosa, Emma apre la mia porta, senza fare nemmeno una domanda. Rimane in silenzio tanto che per un attimo penso che non ci sia più. Trascina la mia valigia in casa e io la seguo. La guardo con occhi spaventati, mentre il suo sguardo è totalmente comprensivo.

La mia attenzione torna su Henry.

Mi inginocchio poggiando i suoi piedi sul pavimento. Trema visibilmente.

Lo osservo da vicino. E' magro. Ha sul labbro il segno di un taglio non ancora ben rimarginato e sull'occhio destro un livido.

«Amore...dimmi che è successo» qualcuno l'ha picchiato. E qualcosa mi diceva che sapevo esattamente chi fosse.

Tra le lacrime che tento di asciugare con i miei palmi, lui scuote la testa in segno di negazione. Non ne vuole parlare. Non è il bambino felice che ho lasciato solo due anni prima a quella donna. Non era più lui

«D'accordo me lo dirai dopo. Ma come hai fatto ad arrivare qui? Amore ti prego smetti di piangere».

Si sfregava gli occhi con le sue manine bagnate.

«Mamma non farmi...tor..tornare in quella casa..ti prego».

Un sentimento di rabbia percorre il mio corpo mentre lo abbraccio di nuovo.

Quella donna. L'avevo capito dal primo istante che non avrebbe trattato Henry come avrebbe dovuto. Ma la genetica è ancora un valido strumento a cui aggrapparsi quando le madri si ricordavano di avere procreato.

Non glielo avrei fatto riavere.

Mai più.

Devo pensare. Lo devo portare subito alla polizia per denunciare il fatto? O posso tenermelo una notte a casa? E se poi mi avessero denunciato per sottrazione di minore? Non me l'avrebbero più restituito. No devo fare la cosa giusta.

Lo allontano di nuovo da me per guardarlo negli occhi.

«Henry senti, ora facciamo una cosa. Facciamo un bel bagno caldo e ci mettiamo dei vestiti asciutti altrimenti ti prenderai un malanno. Poi andremo dalla polizia e ti prometto che non ti lascerò andare più via da qui, mai più, chiaro?».

I suoi occhioni verdastri mi guardano smarriti e spaventati e gli stampo un bacio sulla fronte. Quanto mi è mancato quel gesto.

Sussurra un “si” quasi impercettibile. Mi alzo in piedi e stringendo la mano mi dirigo verso il bagno.

Mi blocco improvvisamente. Mi sono di nuovo dimenticata di lei. Mi sembrano talmente stupidi i problemi che mi mettevo mentre guidavo ora che ho mio figlio con me. Mi volto verso di lei, che tristemente aspetta una parola da parte mia. Forse si aspetta qualcos'altro, ma in questo momento l'unica cosa che conta è il benessere di Henry e non posso sconvolgerlo con qualsiasi altro evento o presentazione.

«Emma credo ci vorrà un po' per risolvere la questione. Ti chiamo appena posso, ok?».

Le sue spalle prendono quasi una posizione di sconfitta. Afferra il borsone accanto a lei.

«Ok».

Ancora prima che possa aprire la porta, torno su Henry e lo accompagno verso il bagno.

Apro l'acqua della vasca mentre lo aiuto a togliere quei vestiti bagnati.

Sento la porta chiudersi. Emma è andata via.

Sfilo la maglietta e quello che mi sono immaginata non è neanche a metà dell'orrendo spettacolo che mi si presenta dinanzi.

Il suo corpicino, magro come non mai, è totalmente pieno di lividi. Alcuni viola e recenti, altri meno. Lo faccio girare su se stesso. La schiena è un campo di battaglia. Ho lasciato mio figlio a una squilibrata che lo picchiava, non ci potevo credere.

Mi fissa con quei suoi occhioni, preoccupato.

«Andrà tutto bene Henry, stai tranquillo» gli sfioro il livido più grande sul torace e si ritrae.

«Ti fa male vero?» infilo distrattamente la mano dentro la vasca, per valutarne la temperatura e lui risponde di si.

Sorrido per incoraggiarlo.

«Ti ricordi come facevamo? Tu toccavi l'acqua e poi ti tuffavi dentro come un pesciolino».

«Non ne ho voglia però di tuffarmi».

Che tristezza sentirgli dire certe cose.

«Non importa. Togli i pantaloni e entra nell'acqua, vado a portarti una cosa».

Lo bacio sulla guancia. Mi alzo in piedi col cuore pesante e dopo essermi sfilata le decoltè, mi dirigo veloce nella sua cameretta. Ho comprato il suo bagnoschiuma preferito e lì era rimasto, per tutto questo tempo.

Lo trovo seduto con le gambe incrociate a fissare il vuoto.

«Henry, guarda che ti ho portato?».

Alza lo sguardo sul bagnoschiuma. Lo prende in mano e ne versa un pochino sulla spugna. Poi si insapona senza dire nulla.

«Henry, mi racconti cosa è successo? Così sapremo cosa dire alla polizia. Chi è stato a farti questo?».

«Anna. E' stata Anna».

Anna era sua madre. O meglio, quella che l'ha messo al mondo.

Alzo il suo visino per far si che mi guardi negli occhi.

«Io non volevo chiamarla mamma, e lei si arrabbiava. E poi non volevo mangiare e non volevo fare i compiti» sospira e a me manca il respiro.

«Quando venivano quelle signore a controllarla mi minacciava dicendomi che se avessi detto qualcosa mi avrebbe picchiato ancora di più. Così stavo zitto. Poi stamattina ha lasciato per sbaglio la chiave di casa sul tavolo, di solito la nascondeva sempre...e sono scappato mentre lei era in bagno. E sono venuto da te. Perché sei tu la mia mamma non lei!».

Non voglio piangere di fronte a lui. Ma le lacrime non vogliono sapere di fermarsi.

«Mamma non piangere....» la sua manina umida si posa sulla mia guancia.

«Hai ragione Henry» gli accarezzo i capelli «non piango più. E risolveremo tutto. Ora ti risciacqui e poi mangiamo qualcosa. Poi andiamo a riprenderci la nostra vita».

Affonda così la testa sotto l'acqua, tappandosi il naso, per sciacquarsi dalla schiuma. Prendo l'asciugamano più grande che trovo e lo avvolgo, facendo attenzione a non toccargli i lividi e fargli male. Mi inginocchio di nuovo di fronte a lui mentre tampono il suo viso con l'angolo dell'asciugamano.

«Hai fame?» chiedo sfoggiando il mio sorriso più incoraggiante.

«Un pochino».

«Bene, vieni in camera, vediamo se troviamo qualcosa che ti sta ancora».

Con i piedini nudi mi segue lentamente in quella che è la sua cameretta e che non ho mai avuto intenzione di smontare. Si siede sul letto e inizio a cercare qualcosa di adatto tra le sue cose.

«Ho freddo».

«Accendo il riscaldamento ora, Henry».

Afferro il telecomando sul comodino e clicco il tasto “on”. Chiudo poi la porta così che il calore si concentri su quella stanza.

«Ora si scalderà».

I cassetti sono ordinati anche con le cose che ho comprato dopo che lui se n'era andato. Mutande, calzini, magliette...compravo vestiti per lui, pur sapendo che non sarebbe tornato.

«Prova un pochino queste tesoro» gli passo un paio di slip azzurro cielo e lui lentamente, alzando una gamba per volta, li indossa.

«Sono troppo strette?».

«No» risponde rimettendosi addosso l'asciugamano.

«Ok vestiamoci in fretta fretta frettissima» trovo una maglia in cotone a maniche corte, i calzini, una felpina con spiderman e dei jeans.

Lo aiuto a vestirsi e finalmente il mio bambino assume un aspetto normale.

Mancano le scarpe. Quelle nell'armadio non gli sarebbero state di sicuro. Lo prendo per mano, diretti in cucina e faccio tappa nel bagno a controllare il numero delle vecchie scarpe da tennis con cui era arrivato. Sono numero 30. Saremo andati immediatamente a prenderle.

«Allora cosa vorresti mangiare?».

«Voglio un panino con la tua marmellata. Di mele...».

«Te la ricordi ancora?».

«Mi ricordo che era buonissima».

Quanto è dolce il mio bambino. E qualcuno l'ha ridotto in quello stato e avrebbe pagato per questo, quella donna avrebbe pagato per avere fatto sparire la luce dai suoi occhi.

Lo fisso addentare lentamente le due fette di pane con la confettura di mele. Parla poco e Henry è stato sempre uno che parla a raffica, di tutto e tutti. Sarebbe stato doloroso per lui andare a raccontare ai poliziotti l'accaduto. Ma almeno avrebbe dormito a casa con me.

«Tesoro è bene che ora andiamo a denunciare quello che è successo».

I suoi occhi si spalancano per il terrore.

«Devi stare tranquillo. Non ti riporteranno da lei. Ma se ora non ti porto alla polizia, passerò dalla parte del torto. Fidati di me...ok?».

Una parte di me vuole essere sicura di quel che dice, ma dall'altra non posso lasciarlo con quello sguardo impaurito, devo tranquillizzarlo in qualche modo, e tranquillizzare me stessa. Sono ormai le 8 di sera. I centri commerciali stanno per chiudere e devo sbrigarmi se voglio trovare un paio di scarpe nuove a Henry.

Un vecchio giubbino trovato nel suo armadio ci permette di uscire in fretta e furia di casa, con ombrello al seguito, anche se ormai la pioggia è poca e debole.

Il traffico si è diradato ma al centro commerciale sembra sia la vigilia di Natale: il parcheggio straripante di macchine ci fa perdere quarti d'ora preziosi per la ricerca delle nostre scarpe nuove.

Henry non ha voglia di fare shopping. E' stanco e assonnato, per nulla interessato alle scarpe o ad andare alla polizia. Continua a chiedermi di tornare a casa. Scelgo le prime scarpe da tennis che penso possano piacergli, la misura va bene e quasi impazziti per il traffico, alle 9 di sera, arriviamo alla polizia.

Scendo nervosamente mentre Henry se ne sta preoccupato sul sedile posteriore.

«Forza tesoro andiamo».

Allunga la mano per stringere la mia.

Mi sembra di essere sulla strada di un altissimo precipizio e a breve mi sarei buttata di mia spontanea volontà. E se mi avessero impedito di riportarlo a casa? Lui non me l'avrebbe perdonato, ne sono certa.

I miei piedi si fanno improvvisamente pesanti mentre percorro i tre gradini dell'ingresso della stazione di polizia. Al gabbiotto, una poliziotta con i capelli raccolti mi chiede di cosa avessi bisogno.

«Devo fare una denuncia» rispondo decisa.

Mi scorta fino all'ufficio denunce dove un uomo dall'aria poco affidabile se ne sta seduto a leggere un fumetto.

«Buonasera» dico cercando di attirare la sua attenzione.

«Siediti Henry».

«Buonasera» mi risponde il poliziotto quasi sbuffando. «in cosa posso esserle utile?».

«Vorrei denunciare una donna per maltrattamenti su minore».

Il suo sguardo si posa istintivamente su mio figlio.

«Il minore sarebbe lui?» chiede mettendosi composto e incrociando le braccia al petto.

«Si».

«Lei è la signora?».

«Mills, Regina Mills. Lui è mio figlio e vorrei denunciare la madre biologica. Ho delle prove che il bambino è stato picchiato. Ma sottoporrò mio figlio a tutte le domande e vi permetterò di fare le indagini solo con il mio avvocato, l'assistente sociale e un medico. Quest'ultimo sarà una figura fondamentale».

Mi avvicino a Henry che intanto aveva stretto la mia mano e guarda il poliziotto con occhi terrorizzati.

«Ciao ragazzino» dice il poliziotto.

«Ciao» risponde timido Henry.

«Ti va una cioccolata calda? Io e la mamma dobbiamo parlare».

«No..».

«Signora non possiamo parlare di certe cose con lui davanti. Chiami il suo avvocato, io farò partire la denuncia e arriverà immediatamente l'assistente sociale e il medico. Chiamo la nostra poliziotta psicologa che prenderà la testimonianza del bambino».

Da quel momento in poi è stato un viavai di persone e telefonate, e Henry che non vuole staccarsi da me nemmeno per un minuto. Cerco sempre di mettermi in una posizione consona così che lui possa sempre vedermi.

Dalla porta vedo il mio bambino parlare con la poliziotta e poi con l'assistente sociale e io cerco di raccontare nel modo più dettagliato possibile in che condizioni era quando l'hoo raccolto dal corridoio.

«C'era una persona con me, potrebbe testimoniare se dovesse servire».

Emma non si sarebbe di certo tirata indietro. Avrei bisogno di lei ora. Ma Henry ha bisogno di me e non voglio assolutamente che pensi che possa dare meno attenzioni a lui per via di Emma.

Dopo due ore di interrogatori e domande e la visita del medico effettuata in mia presenza, siamo finalmente liberi di andare. L'assistente sociale ci l'ok per far trascorrere a Henry i giorni che sarebbero seguiti a casa mia.

«Con tutta questa documentazione potrebbe riavere indietro il bambino definitivamente. Quella donna non lo vedrà mai più. Mi assicurerò che ciò avvenga».

Non riesco a crederci. Henry sarebbe tornato a casa con me.

Per sempre.

Le mie gambe cedono per l'emozione. Chiedo un bicchiere d'acqua e cerco di regolarizzare il respiro.

Non me lo avrebbero più tolto.

«Mamma» dice Henry dopo esser uscito dalla stanza a fianco, mano nella mano con la psicologa.

Corre verso di me per abbracciarmi.

«E' andato tutto bene?».

«Mi hanno fatto tante domande. Sono stanco, possiamo andare a casa?».

Alzo lo sguardo verso la psicologa per avere conferma.

«Si, possiamo andare tesoro».

 

Rimango a guardarlo per mezz'ora addormentato sul mio letto. Mi è mancato il suo respiro e il suo abbraccio. Il suo calore e il suo amore incondizionato verso di me.

Sono l'una del mattino. Chissà se Emma è ancora sveglia. Le mando un messaggio.

  • Sei sveglia? - invio.

Probabilmente dorme già da tanto.

  • Certo che sono sveglia, com'è andata? -

Le forze e il sangue freddo che ho accumulato fino a qual momento crollano.

  • Ti prego vieni a casa, subito – invio

Esco lentamente e silenziosamente dalla mia camera, avvolta nella mia vestaglia e con ai piedi solo delle pantofole poco sexy. La tensione inizia a sciogliersi in lacrime.

  • Sono fuori dalla porta, apri -

Percorro i dieci metri che separano la mia camera dalla porta d'ingresso. La spalanco e le lacrime scendono giù copiose, inarrestabili.

Chiude piano la porta e si ferma ad abbracciarmi mentre lacrime pesanti mi bagnano il viso. Non mi dice una parola: si limita ad abbracciarmi e accarezzarmi la schiena come un bambino tra le braccia della mamma. Come ho fatto io con Henry poco prima.

Il suo profumo mi tranquillizza, eppure i pensieri che avevano iniziato a farsi strada appena gli occhi di Henry hanno incrociato i miei, mi spezzano il cuore.

Lei che sa amarmi con un solo sguardo, lei che è impazzita per me...lei che mi tranquillizza prendendomi per mano.

Le prendo il viso e la bacio, cercando di trovare il coraggio per raccontarle tutto e per confessarle la decisione che ho preso.

«Andiamo a sederci» dice sussurrando.

La seguo. Ho il cuore leggero per Henry e pesante per lei.

Stupenda nel suo maglione bianco e i capelli lisci sulle spalle, prendo fiato.

«Ho adottato Henry quando aveva solo pochi mesi. La madre l'aveva lasciato in un istituto perché diceva che non poteva prendersi cura di lui» stringo le sue mani, e in cambio ricevo il più bello dei sorrisi, quello che riserva solo a me.

«Io avevo la tua età a quell'epoca, non volevo aspettare un uomo che non sarebbe arrivato mai per potere avere un figlio. E così tramite dei contatti con degli amici avvocati che si occupano di minori, riuscii a prendere Henry. Mi innamorai immediatamente di quel bambino....riusciva a tirarmi fuori il meglio. Riusciva a farmi piangere di gioia e Dio solo sa quanto ne avevo bisogno. Passarono gli anni...Henry cresceva, e un giorno mi arrivò una lettera da parte di un avvocato dicendo che la madre biologica voleva vederlo. Mi crollò il mondo addosso, lui era mio figlio e una donna che l'aveva solo messo al mondo me l'avrebbe portato via. Cerco di spiegare a Henry la situazione...lui sapeva che io l'avevo adottato ma non ne era rimasto sconvolto, anzi in qualche modo se l'aspettava. Ha un sesto senso sensazionale quel bambino» sorrido orgogliosa.

«E prima un incontro, poi due, poi uno a settimana. Vidi quella donna agli incontri e a primo impatto aveva qualcosa che non andava. Sentivo che non era una bella persona. E dopo sei mesi, con processi e appelli, riuscì a portarmelo via. Ma lui era mio!».

Mi sistema una ciocca dietro alle orecchie.

«Poi sei arrivata tu. E stavo ancora male per lui nonostante fossero passati quasi due anni. E ho ripreso a sorridere. E oggi lui è tornato e mi ha detto che la madre lo picchiava. E siamo andati a far la denuncia. Loro pensano che vincerò io e non me lo porteranno più via».

Ma il mio viso in questo momento non vuole sorridere. E lei lo capisce.

«E ora tu devi fare sorridere lui, giusto? Mi hai chiamata per questo?».

Corrugo la fronte e apro la bocca, stupita.

«Sai tu...mi hai mandata via senza nemmeno voltarti indietro» mi lascia la mano, lentamente.

«E io sarò anche romantica ma non sono stupida. E credimi, ti capisco. Un figlio è un figlio, niente e nessuno potrà mai competere. E sarai una madre eccezionale, lo sei già» inclina leggermente la testa verso sinistra, per guardarmi meglio.

«E tu ora devi pensare a riportarlo a casa da te, giustamente. E tutte le attenzioni dovranno essere per lui, e tutte le tue energie serviranno per farlo riprendere, per guarirlo» si alza in piedi, la sua voce era roca, pronta a piangere.

«Io ti amo, ma ora devo pensare a lui. Non posso...» mi manca il fiato «non posso spiegargli anche quello che siamo. Ha bisogno di tranquillità, di attenzioni. Ha bisogno di me al 100%».

«Regina lo so. Anche io ti amo ma...non chiedermi di far finta che tra noi non ci sia mai stato niente. Non farlo».

Mi alzo e le prendo le mani.

«Ti chiedo solo di aspettarmi per un po'. Ci sarà il processo, e le sedute dallo psicologo...».

Stava scuotendo la testa.

«Non dire qualcosa che non sai nemmeno tu se accadrà mai».

Mi prende il viso tra le mani e mi bacia.

«Tu saresti stata la mia forza in una situazione del genere, non un ostacolo. Ciao Regina».

Si volta e raggiunge la porta d'ingresso. La chiude alle sue spalle, senza girarsi.

La donna che mi ha fatto sorridere, che mi ha salvata e che io ho salvato a mia volta se n'è andata e non sarebbe più tornata. Henry non era previsto nella mia vita, non avevo previsto il suo ritorno ma sono sua madre e la sua felicità viene prima di qualunque cosa, di chiunque altro. Anche della mia.

La testa pulsa dolorosamente, insieme al cuore. Entro nella mia camera e la vista di mio figlio mi da la consapevolezza che forse ho fatto la cosa giusta. Mi infilo sotto le coperte con lui. Fisso i suoi occhi sognanti prima di cedere alla stanchezza e seguirlo nei suoi sogni.

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Emma ***


Regina ha un figlio. In fondo lo sapevo ma sentire quella vocina pronunciare la parola “mamma” mi ha letteralmente scioccata.

E lei non mi ha guardata.

Non ha avuto la necessità di spiegarmi.

Non mi ha ringraziata.

E' stato come se non ci fossi. Ha preso il bambino in braccio e l'ha stretto a se come un tesoro prezioso. Il bambino è visibilmente bagnato e infreddolito. E' meglio non dare spettacolo nel corridoio, la gente avrebbe sicuramente fatto domande.

Raccolgo la borsa di Regina che è caduta per terra, lei nemmeno se ne accorge. Prendo le chiavi e apro il portoncino, cercando di non spaventare il bambino e anche Regina. Trascino dentro la sua valigia e il mio borsone, così da liberare il pianerottolo. Chiudo piano la porta e mi metto in un angolino a osservarli.

Lo tiene stretto per qualche minuto, mentre lui continua a piangere e singhiozzare. Mi sento totalmente fuori luogo in quella casa. Sono un'estranea che osserva un momento troppo intimo. Mi sento in colpa.

Appoggia il bambino per terra, cercando di calmarlo e dopo alcune frasi incoraggianti, con una dolcezza degna della miglior mamma del mondo, lo convince ad andare a farsi un bel bagno prima di decidere sul da farsi. Continuo a fissarli mentre si spostano verso il bagno. E solo allora lei si ferma, quasi come se si fosse ricordata solo in quel momento della mia presenza.

«Emma credo ci vorrà un po' per risolvere la questione. Ti chiamo appena posso, ok?».

Annuisco prima di dire un “ok” striminzito. Ma lei è già dentro il bagno con Henry. Afferro il borsone, perfettamente consapevole che tutte le parole e i sentimenti espressi quel fine settimana avrebbero avuto un peso insignificante nella sua vita ora che il bambino è di nuovo con lei.

Esco da quella casa quasi in trance, incapace di controllare la sensazione di smarrimento che si fa strada in me. Salgo le scale che mi separano da casa mia trascinando il borsone che sbatteva a ogni gradino.La perfezione di un amore dura solo una settimana nella mia vita. Lei mi ha fatto cadere, rialzare e ora sono di nuovo a terra e lei non sarebbe tornata indietro a salvarmi perché un piccolo fagottino di otto anni (credo), dipende totalmente da lei. Io sono una donna adulta e come tale ci si aspetta che sopravviva da sola. Le borsa finisce accanto alla porta.

Mi siedo sulla poltrona e rimango a fissare il vuoto per quasi un'ora col telefono in mano. So che non mi avrebbe chiamata, non dopo solo un'ora almeno. Il tempo non sarebbe mai passato se fossi rimasta li impalata, così decido di svuotare il borsone e lavare tutto quello che c'è dentro.

Avvicino il borsone al bagno, apro e capovolgo il tutto sul pavimento. Divido attentamente capi delicati da quelli non delicati...in questo modo avrei perso un sacco di minuti preziosi e non sarei impazzita nell'attesa di quella chiamata che forse non sarebbe mai arrivata.

Dopo avere minuziosamente lavato a mano tutti i completini delicati, averli stesi, avere steso gli indumenti lavati nella lavatrice, avere stirato tutta la biancheria in arretrato, comprese mutande, calze, asciugamani e lenzuola, alzo lo sguardo verso l'orologio. Sono ancora le 10.

Che altro posso fare? Ma certo! Una doccia.

Mi infilo sotto il getto d'acqua calda, pensando alle parole che Regina avrebbe potuto usare per mettermi da parte, per stare dietro al suo amato figlio, perso e ritrovato. Mi metto nei suoi panni. Che avrei fatto io al suo posto? L'avrei allontanata? Porto le mani sul viso, tirando indietro i capelli.

Quando decido di chiudere l'acqua sono ormai le 11 di notte.

Un'ora sotto il getto dell'acqua e mi sento esattamente come prima.

Anzi, più passa più in me si fa strada l'idea che avrei perso la donna che amo. Non valgo lo sforzo di un tentativo?

Asciugo perfettamente i miei capelli, ho ancora del tempo da perdere. Devo accorciarli, le punte sono rovinate e il biondo è assolutamente pessimo. Non più luminoso. Magari sarei tornata al castano, il mio colore naturale, si può essere un'idea.

Mezzanotte. Mi metto di fronte alla finestra.

La macchina è di nuovo nel parcheggio: è a casa e ancora non mi ha chiamata. Meglio bere qualcosa. Prendo una tazza con mani tremanti e riscaldo dell'acqua al microonde per farmi una camomilla. Il bip del timer suona a vuoto per qualche minuto prima che trovi in me le forze per alzarmi. Il cellulare non da alcun segno di vita.

Mezzanotte e un quarto. E' una tortura. Non è mai stato così devastante aspettare qualcuno, mai.

Picchietto nervosamente le unghie sul tavolo mentre sorseggio la camomilla.

Mezzanotte e mezza. Ancora niente. Ormai senza speranza, mi trascino in camera e mi lascio cadere stanca sul mio letto, sopra le coperte. Afferro un cuscino e lo abbraccio.

Il silenzio è insopportabile. L'unico rumore che sento è quello delle lancette dell'orologio sul muro, e quello non fa altro che innervosirmi e sbattermi in faccia la realtà. Decido di alzarmi un'ultima volta prima di provare a dormire.

Mi avvio al bagno per lavarmi i denti. Dieci minuti per spazzolare le nostre dentiere è da considerarsi eccessivo? Decisamente si.

Faccio per togliermi il maglione quando un piccolo squillo fa illuminare il cellulare.

  • Sei sveglia? -

Oddio mi ha scritto. Non ci posso credere.

  • Certo che sono sveglia, com'è andata? - invio.

Digito velocemente.

  • Ti prego vieni a casa, subito –

Vuole me. Mi sta chiedendo aiuto? Forse mi sono sbagliata. Prendo le chiavi e scendo velocemente le scale, fino a trovarmi di fronte alla sua porta.

  • Sono fuori dalla porta, apri – invio.

Un minuto interminabile di fronte a quella porta. Il cuore galoppa.

Finalmente la porta si apre.

Lei di fronte a me si scioglie in lacrime.

Varco la soglia ancora una volta senza dire una parola.

La stringo subito in un abbraccio mentre sento i singhiozzi che partono dal suo petto e accosto piano la porta, fino a chiuderla. E' stata dura per lei affrontare il bambino e tutto il resto. Probabilmente non ha versato una lacrima per tutto il giorno, per non spaventare il bambino. Preferisce affrontare tutto da sola pur di non farsi vedere debole, da chiunque le passi accanto.

Le sue mani circondano i miei fianchi, per poi risalire in alto, verso il mio viso, che prende e bacia, disperata. Rispondo al bacio, grazie al quale i miei dubbi hanno conferma.

«Andiamo a sederci» dico in un sussurro.

La prendo per mano e mi dirigo verso il divano, dove mi siedo dopo di lei, prendendole le mani. E allora inizia a parlare, senza mai fermarsi.

«Ho adottato Henry quando aveva solo pochi mesi. La madre l'aveva lasciato in un istituto perchè diceva che non poteva prendersi cura di lui. Io avevo la tua età a quell'epoca, non volevo aspettare un uomo che non sarebbe arrivato mai per poter avere un figlio. E così tramite dei contatti con degli amici avvocati che si occupano di minori, riuscii a prendere Henry. Mi innamorai immediatamente di quel bambino....riusciva a tirarmi fuori il meglio. Riusciva a farmi piangere di gioia e Dio solo sa quanto ne avevo bisogno. Passarono gli anni...Henry cresceva, e un giorno mi arrivò una lettera da parte di un avvocato dicendo che la madre biologica voleva vederlo. Mi crollò il mondo addosso, lui era mio figlio e una donna che l'aveva solo messo al mondo me l'avrebbe portato via. Cerco di spiegare a Henry la situazione...lui sapeva che io l'avevo adottato ma non ne era rimasto sconvolto, anzi in qualche modo se l'aspettava. Ha un sesto senso sensazionale quel bambino» sorrido per incoraggiarla e lei si illumina ogni volta che nomina il figlio: orgogliosa, felice e ferita allo stesso tempo.

«E prima un incontro, poi due, poi uno a settimana. Vidi quella donna agli incontri e a primo impatto aveva qualcosa che non andava. Sentivo che non era una bella persona. E dopo sei mesi, di processi e appelli, riuscì a portarmelo via. Ma lui era mio! E poi sei arrivata tu» mi sistema una ciocca dietro le orecchie.

«E stavo ancora male per lui nonostante fossero passati quasi due anni. E ho ripreso a sorridere. E oggi lui è tornato e mi ha detto che la madre lo picchiava. E siamo andati a far la denuncia. Loro pensano che vincerò io e non me lo porteranno più via».

Non ci ho mai creduto, ma gli occhi di una madre che parla del proprio figlio sono i più belli del mondo. Non ci sarei mai riuscita a farle splendere gli occhi in quel modo. L'amore che posso darle non l'avrebbe mai riempita come fa lui. Per questo le parole che si formano nella mia mente sono semplici da pronunciare: non avrei mai potuto distruggere o mettermi in mezzo a tale meravigliosa fortuna le è ricapitata.

«E ora tu devi far sorridere lui, giusto? Mi hai chiamata per questo?».

Nel suo viso scende un velo di tristezza. Io parlo e lei diventa triste.

«Sai tu...mi hai mandata via senza nemmeno voltarti indietro» le lascio lentamente la mano «E io sarò anche romantica ma non sono stupida. E credimi, ti capisco. Un figlio è un figlio, niente e nessuno potrà mai competere. E sarai una madre eccezionale, lo sei già. E tu ora devi pensare a riportarlo a casa da te, giustamente. E tutte le attenzioni dovranno essere per lui, e tutte le tue energie serviranno per farlo riprendere, per guarirlo».

Le lacrime che ho ricacciato indietro per tutta la sera fanno capolino sui miei occhi e decido di mettermi in piedi, pronta ad andare.

«Io ti amo, ma ora devo pensare a lui. Non posso...non posso spiegargli anche quello che siamo. Ha bisogno di tranquillità, di attenzioni. Ha bisogno di me al 100%».

«Regina lo so. Anche io ti amo ma...non chiedermi di far finta che tra noi non ci sia mai stato niente. Non farlo» mi mordo il labbro. Posso sopportare tutto ma non di essere delle estranee. Piuttosto preferisco il niente. A volte è meglio in niente piuttosto che le briciole.

Si alza anche lei. I suoi occhi neri come la notte pugnalano i miei. Stringe di nuovo le mie mani

«Ti chiedo solo di aspettarmi per un po'. Ci sarà il processo, e le sedute dallo psicologo...».

Scuoto la testa.

«Non dire qualcosa che non sai nemmeno tu se accadrà mai».

E' così chiaro ora. La sua forza è suo figlio. Sorrido mentre una lacrima cade. D'istinto le prendo il viso tra le mani e la bacio.

«Tu saresti stata la mia forza in una situazione del genere, non un ostacolo. Ciao Regina».

Mi volto e come ha fatto lei poche ore prima, non torno indietro.

Chiudo piano la porta, certa che qual bambino fosse già in quella casa, sotto la sua protezione e improvvisamente sono gelosa di lui.

Ero certa di avere in casa dei sonniferi, delle gocce, niente di eccessivamente forte, solo quel po' che basta per dormire due giorni interi. Trovo il farmaco incriminato nella scatola dei medicinali e metto venti gocce direttamente sotto la lingua. Mi sistemo sul letto quasi in stato catatonico, non tolgo nessun indumento. Pochi minuti dopo la sonnolenza vince i pensieri...e le lacrime.

 

Una fitta lancinante alla testa interrompe il mio sonno tormentato. Completamente intontita, cerco di aprire gli occhi, inutilmente. Le palpebre sembrano pesanti come un mattone e così anche la sensazione che ho sul petto. Ma decido di non pensarci.

Con l'aiuto delle dita, cerco di aprire le palpebre. Ci riesco. Strizzo gli occhi alla ricerca di una sveglia o del telefono, o di qualunque cosa segnasse l'orario...le 5 e mezza. Del mattino? Del pomeriggio? Che giorno è?

Non c'è motivo di scaldarmi, ho tutto il tempo del mondo. Mi metto in piedi, ancora barcollante, cercando di dimenticare il motivo del mio mal di testa. Prendo il telefono, che ho lasciato sul mobile vicino alla porta della camera. Cinque messaggi e sei chiamate. Non ho intenzione di sapere di chi sono e tanto meno di leggere. Sono passati due giorni. Ho dormito 18 ore e mi sento più stanca che mai. Ma stavolta non sarei rimasta a casa a piangermi addosso.

In quella casa tutto mi ricorda lei. Devo uscire.

Chiamo la mia amica Isabella, devo necessariamente uscire, ballare, ubriacarmi fino a dimenticare il mio nome. Grazie a Dio Isabella quando si tratta di bere è sempre disponibile.

Tacchi vertiginosi, vestito attillato e corto, nero. Trucco che avrebbe fatto invidia alle migliori make up artist e si va in scena.

 

DUE MESI DOPO.

Sono ormai due settimane che mi sveglio in preda alle nausee e con dei bruciori di stomaco fastidiosissimi. Sono ingrassata di almeno tre kg (lo dimostrano i jeans troppo stretti e i reggiseni inutilizzabili), colpa delle serate a base di alcol, che ormai sono diventate il mio pasto principale. Almeno quello serale.

Insieme a un numero indefinito di ragazzi che mi sono portata a letto. A letto non è proprio la definizione più corretta: li ho portati in macchina. Ed erano oltremodo incapaci nel sesso, niente a che vedere col sesso fantastico di Regina.

E probabilmente se avessi provato con qualche altra donna avrei avuto per lo meno un tornaconto soddisfacente da quelle avventure, ma toccare una donna che non fosse lei era troppo.

Nonostante questo, non mi fa male come prima pensarla. Riesco anche a incrociarla senza dar di matto.

Qualche settimana prima, mentre rientravo da una serata in discoteca (le serate del venerdì notte erano le migliori, e solitamente si rientrava il sabato mattina. Alle 9 del mattino più o meno) avevo avuto la sfortuna (o la fortuna), di incrociare Regina e Henry che uscivano dall'ascensore.

Ricordo perfettamente il suo sguardo sconcertato. E le mie gambe improvvisamente incerte sui tacchi. Cercavo inutilmente di trovare un po' di contegno mentre mi squadrava da capo a piedi.

Lei era sempre impeccabile: tailleur nero, camicia azzurra, cappotto nero. Non le si spostava un capello. Il viso di Henry era rifiorito dall'ultima volta che l'avevo visto, e sembrava veramente più sereno.

«Ciao» aveva detto Henry senza peli sulla lingua.

«Ciao ragazzino» avevo risposto io un po' stupita.

Si erano spostati per lasciarmi libero l'ingresso dell'ascensore. Avevo abbassato lo sguardo, imbarazzata dal modo che aveva di guardarmi. Il suo modo, il nostro modo.

Le porte si erano chiuse mentre lei era ancora intenta a fissarmi. E Henry fissava lei.

Mi tolgo le scarpe mentre riprendevo a respirare in modo normale. Ero sopravvissuta a quell'evento, non dovevo per forza trasferirmi. Amavo quella casa e il mio lavoro e gli amici. Non me ne sarei andata solo perché lei viveva li.

Ma qualcosa mi fa necessariamente cambiare i piani.

Le solite compresse che prendo contro i bruciori di stomaco e le nausee non bastano più, così decido di andare al più vicino ambulatorio medico a farmi dare qualcosa di più adeguato. Prendo qualche asciugamano pulito dal mobile sotto il lavandino e erroneamente faccio cadere un pacco di assorbenti. Lo sistemo e mi lavo la faccia. Sono gonfia come poche volte lo sono stata in vita mia.

Mi infilo un paio di pantaloni della tuta, i jeans non ne vogliono sapere di entrare e vado in cucina a bere un bicchiere d'acqua.

Distrattamente controllo la data sul calendario. Siamo a fine maggio e non fa per niente caldo.

Fine maggio.

Fine maggio.

E aprile??? Quando è passato aprile?

«O merda».

Improvvisamente ricordo una cosa fondamentale che ho totalmente dimenticato negli ultimi due mesi. Corro in bagno e apro lo sportello sotto il lavandino. Il pacco di assorbenti è intatto dal giorno in cui Regina mi fasciò la mano insanguinata.

Erano intatti allora ed sono intatti anche ora.

Non è possibile.

Corro in camera e apro l'anta dell'armadio. Dentro, il mio specchio mi avrebbe detto la verità.

Alzo la felpa della tuta e poi anche la maglia a maniche corte. Il basso ventre non è piatto come al solito. Ho un piccolo rigonfiamento. I seni sono...spropositati e mi fanno maledettamente male. E i fianchi....e la faccia.

«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA» urlo.

«Oddio sono incinta».

Cado a peso morto sul bordo del letto.

Ripercorro velocemente gli ultimi due mesi. Regina, Henry, lei che mi lascia. Io che faccio sesso con qualunque essere di sesso maschile mi capiti sottomano, solo per cercare di addolcire l'amaro della decisione di Regina.

Sesso, sesso, sesso, sesso.

Ho solo fatto sesso e bevuto per due mesi interi.

Non è l'alcol o il cibo spazzatura ad avermi fatto lievitare.

Sono davvero incinta? Devo capirlo, immediatamente.

Prendo al volo le chiavi, la borsa, la testa che ho buttato da due mesi.

La testa che è rimasta a quei tre giorni fantastici e irripetibili che ho passato con lei.

Ho fatto di tutto, ho allontanato con tutte le mie forze il suo ricordo, il suo odore, i suoi occhi e le sue mani. Ma è stato assolutamente inutile.

L'ascensore improvvisamente sembra troppo stretto, povero di ossigeno. Il panico rende la sua discesa lentissima.

Salgo in macchina e per la fretta mi cade la chiave sul tappetino.

«E che palle».

Colpisco il volante con le mani. Infilo la mano sotto il sedile sperando di prenderle senza dovere spostare il sedile all'indietro, dando le spalle al finestrino.

Qualcuno bussa improvvisamente al finestrino e sbatto la testa al volante.

«Chi diavolo è ora»

Massaggiando la testa, mi metto diritta per vedere. Due occhi neri come la notte mi fissano preoccupata.

E' lei.

Le labbra sono colorate col solito rossetto infuocato. Pelle liscia e perfetta. Capelli impeccabili. Bellissima.

Abbasso il finestrino con la manopola.

«Ciao» mi dice incerta.

«Ciao Regina, è successo qualcosa?».

«No io...» si tocca nervosamente il bordo della manica della giacca «volevo solo sapere come stavi».

«Oh...io... sto bene grazie» il bruciore allo stomaco ora aumenta.

«Sono contenta».

Silenzio imbarazzante. La guardo negli occhi ma lei non ne ha il coraggio.

«Henry sta bene?».

«Oh si, lui sta benissimo. E' a scuola, sono passata a casa a prendere delle carte per l'ufficio e ho visto che eri appena salita in macchina e...».

«Capisco. Sono contenta che vada tutto bene, ora avrei un po' di fretta, devo andare».

«Io...» lascia la frase a metà.

«Volevi dirmi qualcos'altro?» avanti Regina.

Dimmi che hai sbagliato e che mi ami ancora. So che è così, lo leggo nei tuoi occhi.

«No, vai pure. Ciao Emma».

Fugge via, ancora una volta senza voltarsi indietro. L'istinto mi diceva di seguirla e baciarla, ma non posso. Ho un problema ben più grave da risolvere, in fondo me l'ha insegnato lei: i figli vengono sempre al primo posto.

Compro velocemente un test di gravidanza e una bottiglietta d'acqua in un supermercato.

La scolo come se non ci fosse un domani e in pochi minuti arriva lo stimolo. Apro la confezione con i due test e facendo attenzione a non sporcarmi con la mia stessa urina, bagno gli stick, in due momenti diversi. Mi rivesto e attendo sulla sedia accanto al lavello. Per fortuna l'ambulatorio è quasi vuoto e il bagno ancora pulito e senza puzze irrespirabili.

Per ingannare l'attesa leggo le istruzioni dei test: una linetta negativo, due positivo. Non è molto complicato. E in fondo l'ho già fatto quasi due anni prima. L'idea mi fa mancare la terra sotto i piedi.

Do un'occhiata all'orologio. Sono passati due minuti, è sufficiente.

Prendo i due test e li affianco: ci sono linette.

Due in uno e due nell'altro. C'è poco da sbagliare.

Prendo un profondo respiro e esco dall'ambulatorio.

Non è quello giusto. Non mi servono visite generiche.

Il mio ginecologo, al quale mi sono rivolta dopo l'aborto solo un anno prima, è ancora al solito posto. Non mi avrebbe mai visitata subito, ma almeno potevo prendere un appuntamento.

Mi accoglie la sua segretaria che mi fa accomodare nella sala d'aspetto. Altre tre donne col pancione, decisamente in stato più avanzato rispetto al mio, siedono accanto a me. Mi sorridono felici.

Perché le mamme sorridono sempre?

Tengo nervosamente i test in mano, dando ogni tanto un'occhiata, come se il risultato potesse magicamente cambiare.

Il medico spunta dal suo studio e mi precipito da lui.

«Dott. Ross? Emma Swan, si ricorda di me?».

Mi scruta da dietro i suoi occhiali messi a metà del naso. I capelli bianchi e rughe sul viso hanno fatto si che potessi fidarmi di lui nonostante fosse un uomo.

«Signorina Swan, certo che mi ricordo di lei».

«Mi scusi se piombo così, so che non ho appuntamento, posso chiederle di parlare due minuti?».

«Certo, mi segua»

Percorro il breve corridoio che separa la sala d'aspetto dai vari studi.

«Prego».

«No non voglio sedermi»

Poggio rumorosamente i due test sulla sua scrivania.

«Sono positivi e non so che cosa fare. Ho bevuto alcol, molto alcol, per tutti questi due mesi. Potrebbe essere successo qualcosa al bambino»

Eccoli gli ormoni. Lacrime copiose riempiono i miei occhi.

«Ora si calmi. Si ricorda quando ha avuto l'ultimo ciclo?».

«Non lo so, più di due mesi fa. Io...non ricordo, non sono stata bene ultimamente, non facevo caso alle date».

Mi sorride incoraggiante. E' stato lui ad assicurarmi che avrei potuto avere altri figli.

«Faremo un'ecografia rapida e le do un appuntamento per la prossima settimana se per lei va bene».

Non riesco a muovermi. Fisso il vuoto. Posso aver ucciso il mio bambino.

«Emma» mi sfiora il braccio.

«Sdraiati sul lettino, andrà tutto bene».

Come un automa seguo i suoi ordini. Slaccio i pantaloni e li abbasso un po', giusto per scoprire il basso ventre.

«Quanti kg hai preso?»

«Non saprei, almeno cinque, i jeans non mi entrano più».

Maledetto gel per le ecografie, sempre gelato.

«Siamo pronti, stai tranquilla»

«Certo, come sono stata tranquilla l'ultima volta quando ho dovuto partorire un bambino che non ho mai stretto tra le braccia»

Ho alzato un po' la voce.

«Mi scusi...mi dica solo che va tutto bene»

La sonda tocca il mio addome e rabbrividisco. Guardo lo schermo come se dalle figure e dal rumore dipendesse la mia vita. Devo sentirlo. Il dottore osserva attentamente il monitor, cliccando qualche tasto, ingrandendo e rimpicciolendo l'immagine. Mette le mani su una manopola e il suono più bello del mondo arriva alle mie orecchie. Mi metto sui gomiti e subito ruota il monitor verso di me. Il suo battito.

«Sembra in forma il campione. Dalle misure dovrebbe essere di 9 settimane o poco più».

L'emozione di quel momento vale tutte le sofferenze passate.

E mi fa maledettamente paura. Le lacrime scendono lentamente sul mio viso e ricado sul lettino portandomi le mani sul viso.

E l'unica cosa a cui pensa è che avrei voluto dirlo a Regina o meglio avrei voluto che lei fosse li con me a stringermi la mano.

La mia vita sembrava distrutta poche ore prima. La donna che amavo mi aveva abbandonata e gli errori commessi nei mesi successivi mi avevano dato questo. Forse non è stato sbagliato, forse quello è un segno che la mia vita può avere un senso anche da sola, con mio figlio.

«Me ne può stampare una?» chiedo asciugandomi le lacrime con la manica della felpa.

«Certamente» sorride.

Afferro un pezzo di carta pretagliato poggiato sul tavolino accanto al letto, mi pulisco l'addome dal gel appiccicoso e scendo dal letto.

«Tra una settimana allora?».

«Non mancherò»

«Sta meglio ora?»

«Mai stata meglio»

«Niente alcol, dorma molto, niente farmaci e prenda acido folico e ferro, da oggi».

«Conosco le regole anche se forse sono troppo su di giri per ricordarle».

Allungo la mano per salutarlo e prendere l'appunto per la prossima visita.

 

10 settimane + 3 giorni.

Il mio piccolo aveva 10 settimane e io sto molto meglio fisicamente. Le nausee sono insopportabili ma il mio peso si è stabilizzato. Ma una cosa mi perseguita.

Nonostante tutto mi sento in colpa verso Regina. Lei mi ha lasciato e io sono andata con il primo che è capitato solo per colmare il vuoto. E' decisamente quello che avrei fatto prima di conoscerla ed è anche quello che ho ripetuto una volta che mi ha abbandonata.

Ho tradito lei e me stessa. Nessuna delle avventure avute è stata soddisfacente dal punto di vista fisico e quando li mandavo via mi sentivo più vuota di prima, ma le notti passavano più velocemente in compagnia.

Guardo continuamente l'ecografia, seguendo il profilo del mio piccolo fagiolino e tutte le volte mi immagino con lei, che felice mi abbraccia e sfoglia il libro dei nomi per sceglierlo insieme a me. E' quello che immagina....quello sarebbe stato il mio lieto fine.

Io lei e il bambino. E Henry.

Non voglio che lei mi guardi con disprezzo. Voglio che mi ricordi come la donna che l'ha amata di più, non come quella che si è fatta ingravidare (involontariamente) solo per disperazione.

Prendo l'ultimo scatolone, leggero stavolta. Guardo per l'ultima volta la casa che mi ha accolto per solo un anno, su cui sono impazzita e rinata, tutto grazie a lei. Afferro il barattolo di marmellata vuoto che mi ha regalato. Forse un giorno sarei tornata e saremo riuscite a parlare come due vecchie amiche, per ora preferisco chiudere definitivamente quella storia, insieme alla porta, dietro di me.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Regina ***


L'udienza preliminare è andata bene.

Quella donna fortunatamente non ha nemmeno obiettato di fronte alle foto dei lividi del figlio, foto che sono state scattate dai medici come prove. I giudici hanno confermato la custodia di Henry a me. Vive di nuovo da me ormai. Ha ripreso peso, l'ho iscritto in piscina e la sera fa i compiti con degli amichetti a giorni alterni.

La sera successiva al suo rientro abbiamo svaligiato il centro commerciale. Mancava tutto, dai vestiti ai giochi. Ma a lui sembra non interessare. Vuole stare abbracciato a me quasi tutto il tempo e io lo accontenta.

Non si addormenta mai da solo, io devo stare accanto a lui e stringerlo e cantargli una canzone. Quella donna l'ha completamente rovinato. In aula, alla vista della madre, ha cominciato a tremare, tremore che è passato solo quando siamo usciti e gli ho spiegato che poteva stare con me.

Rientro a casa per prendere dei documenti da portare all'avvocato. La causa di adozione deve iniziare il prima possibile.

Sono passata dal retro perché all'ingresso ho trovato la donna delle pulizie concentrata sul pavimento e mi è sembrato poco rispettoso rovinare il lavoro appena terminato. Attraverso l'ingresso del parcheggio e la vedo. Come un fulmine si fionda in macchina e senza pensarci due volte, come un fulmine anche io, la raggiungo.

Per mia fortuna non mette subito in moto e ho il tempo di prendere fiato prima di bussare al finestrino. Per lo spavento sbatte la testa e con sguardo palesemente arrabbiato si volta verso di me.

E la sua espressione cambia. Gli occhi si addolciscono, sembra quasi sorridere.

Abbassa quasi subito il finestrino.

«Ciao» Regina, prendi aria prima di parlare.

«Ciao Regina, è successo qualcosa?».

La sua voce è divina e mi manca da impazzire. Ho Henry tra le braccia ma sogno lei tutte le notti. Henry riempie le mie giornate ma la notte....la notte è lei a riempirla.

«No, non è successo nulla, volevo sapere solo come stavi».

«Oh...io sto bene grazie» si massaggia delicatamente l'addome. Le sue labbra sono rosse come se avesse il rossetto, i capelli le cadono come una cascata tutti nella parte destra del collo e gli occhi hanno una luce diversa.

«Henry sta bene?» non mi aspettavo mi chiedesse di lui.

«Oh si, lui sta benissimo. E' a scuola, sono passata a casa a prendere delle carte per l'ufficio e ho visto che è appena salita in macchina e...».

«Capisco. Sono contenta che vada tutto bene, ora avrei un po' di fretta, devo andare».

«Io...» le parole si bloccano proprio li, sulle corde vocali. Voglio urlarle ma non mi esce nulla. E lei sembra impaziente di andare via.

«Volevi dirmi qualcos'altro?».

Si Emma voglio dirti che ti amo, che vorrei che mi aspettassi, che sono sicura che arriverà un momento per noi, che vivremo felici con Henry e potremo avere altri figli. Che dovrebbero avere i tuoi occhi e i tuoi capelli, e che...

«No, vai pure. Ciao Emma» mi limito a dire.

Sorrido appena prima di girarmi e andare via. Varco la soglia posteriore e mi richiudo la porta alle spalle mentre il rumore del motore la porta via da me, di nuovo.

 

QUATTRO MESI DOPO

Apro il portoncino rosso.

Posso sentire chiaramente il suo profumo. Non ho più avuto il coraggio di andare in quella casa dopo il fine settimana con Emma, ma Henry aveva insistito tanto che non potevo più rimandare.

Lui si fionda nella sua camera e posso sentire chiaramente il suo saltellare sopra il letto.

«Spero che almeno ti sia tolto le scarpe» urlo prima di richiudere la porta.

Vedevo il letto un po' sgualcito dall'ingresso...a passi lenti raggiungo la camera.

Chiudo gli occhi. Posso sentire le sue mani sul mio corpo, come la nostra prima volta. I suoi capelli sul letto, il suo corpo nudo e perfetto che non chiedeva altro se non i miei baci. Era stato tutto perfetto. Talmente perfetto che era tutto finito. Ero stata così stupida e ingenua. Henry avrebbe capito...e con lei ci sarebbe stato tutto quello che avrei potuto desiderare dalla vita.

Ma lei se n'era andata, senza dirmi nulla, e non avevo idea di dove cercarla per riportarla da me.

Sul mobile di fronte al letto c'è la foto che mi ha regalato. L'ho dimenticata e non voglio riprendermela. Ho paura che rivedere i suoi occhi tutti i giorni faccia troppo male.

Raggiungo Henry al piano di sopra.

«Mi è mancata la mia cameretta in campagna».

E' l'ultimo fine settimana prima del rientro a scuola e nei mesi successivi ci sarebbero state le ultime due udienze per l'adozione definitiva. Lo guardo saltellare felice, distruggendo completamente l'ordine delle coperte. Non mi importa, se lui è felice lo sono anche io.

«Ok smontare le coperte ma non distruggere le assi di legno del letto. Tra poco mangiamo» sorrido e torno in cucina.

Metto le mani su pentole e fornelli così da preparare il pranzo. Proprio come ho fatto quel giorno.

Smettila Regina. Hai sbagliato e ne paghi le conseguenze.

Torno in camera. Devo rivedere quella foto, ho dimenticato dei particolari di lei che voglio ricordare. Stringo la cornice tra le mani prima di sedermi nel letto.

E' vero, Henry veniva prima di qualunque cosa e di qualunque persona.

Ma forse per lei potevo rischiare, forse con lei ne sarebbe valsa la pena. Lei era..lei. Mi aveva stupita, amata, coccolata...consolata come mai nessuno. E io le avevo palesemente sbattuto la porta in faccia.

Avrei potuto vincere la fascia di Miss Stupida del secolo.

«Mamma che fai?».

Sobbalzo sul letto. Henry piomba senza che possa sentirlo. Ai piedi porta solo i calzini.

«Non devi camminare scalzo, ti si raffreddano i piedi»

Si avvicina e poggio la foto dietro di me.

«Posso vedere quella foto?» mi chiede ingenuamente.

Faccio spallucce e la afferra da solo.

«Chi è?».

«Un'amica...o almeno, lo era».

«E' lei Emma?».

Come diavolo fa a sapere il suo nome?

«E tu come lo sai?».

«Una volta l'hai chiamata nel sonno...io dovevo andare in bagno e tu l'hai sussurrato ed eri triste».

Mi guarda preoccupato con i suoi occhietti dolcissimi.

«Davvero?».

«Si...sei sempre triste...non sei felice che siamo tornati insieme?».

No no no. Non voglio che pensi questo.

«Non devi nemmeno pensarlo! Ascolta» lo prendo per le braccia e lo posiziono di fronte a me, così che possiamo essere alla stessa altezza.

«Lei è....una persona a cui ho voluto molto bene quando non c'eri. Mi ha aiutata a sopportare la sua assenza. Poi tu sei tornato e io ero così felice» sfioro la sua guancia.

«E lei...lei mi faceva stare bene ma tu sei mio figlio e sei la cosa più importante di tutti e dovevo pensare a te, per questo ci siamo allontanate un pochino».

«Era la tua fidanzata?».

O. Mio. Dio.

E adesso? Mi gratto imbarazzata la fronte.

«Cosa te lo fa pensare?».

«La mia maestra una volta ha litigato con il suo fidanzato ed era tanto triste. Non l'ha detto a noi, io l'ho sentito mentre andavo in bagno e parlava con un'altra maestra. Poi un giorno ha ricevuto in classe un mazzo di rose rosse e si è messa a piangere e abbiamo fatto un abbraccio di gruppo per consolarla. Da quel giorno non è più stata triste. Mi sembri triste come lei...a volte».

«Si, un po' sono triste. Ma passerà e tu mi rendi la mamma più felice di questa terra e di tutte le terre del mondo e dell'universo».

«Perché non la chiami mamma? Magari ti vuole parlare e le manchi anche tu».

I bambini e la loro positività.

«Non è così semplice...».

«Perché no? Possiamo andare insieme...glielo dico io che sei triste perché non c'è lei».

«Amore no...non funziona così. Tra gli adulti è difficile e se lei è andata via vuol dire che non sopportava di stare nell'appartamento al quinto piano e incontrarmi per caso come quel giorno in ascensore».

«Ha delle gambe lunghiiiiissime» dice sottovoce con un sorrisetto furbo.

Scoppio a ridere.

«Si è vero».

«E' bella, sembra una principessa con quei capelli biondi».

I bambini potrebbero insegnare tante cose agli adulti. Quante sofferenze ci risparmieremo.

Come ogni gita in campagna, la passeggiata tra le case ci porta un bottino di frutta di ogni genere. Quanto ama rubare dagli alberi dei vicini!

Io faccio da palo (i vicini vengono poi ripagati con le migliori mele del mio albero) e lui prende uno o due frutti e li nasconde nella borsa, per poi svuotare il bottino sul tavolo della cucina. E questo lo eccitava in maniera incredibile, ripete sempre che è come Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Solo che lui poi riempie il nostro cesto di frutta e mi obbliga a fare crostate e macedonie.

 

Dopo una giornata a camminare, passeggiare e cucinare per lui, stremato crolla sul lettone (ancora non riesce a dormire da solo).

Approfitto del momento di tranquillità per sistemare la cucina invasa di crostate e dolci di ogni genere. Avrei potuto farle a pezzetti e metterle nel freezer, così non sarebbe andato tutto sprecato.

E proprio mentre assaggio un pezzetto della mia crostata di mele che decido di salutare la mia Emma a modo mio.

Non l'avrei mai più vista. Ho sprecato la mia occasione e l'avrei rimpianto per sempre. Le sue amiche sanno che esisto e mi odiano e la cosa triste è che hanno ragione.

Devo dirglielo, devo mettere per iscritto le mie scuse e il mio addio.

Prendo un foglio tra le cose di Henry. Ama disegnare.

Nel suo astuccio colorato afferro la prima penna che mi capita sotto mano. Mi metto al tavolo.

Immaginando di averla davanti ai miei occhi inizio a scrivere.

 

“Amore mio,

Scrivo su questo foglio parole che non avrò mai il coraggio e l'opportunità di pronunciare a voce guardando i tuoi occhi, toccando le tue mani, baciando le tue labbra.

Solo oggi ho rimesso piede nella mia casa in campagna. Sono passati quasi sei mesi e in questa casa sento ancora il tuo profumo.

In qualunque angolo mi volti ci sei tu. Sul letto, in cucina, in bagno, sulla porta...perfino vicino al melo. Sei una presenza costante, quasi un'ombra che segue ogni mio passo. Henry riempie costantemente le mie giornate ma bastano cinque minuti senza di lui che tu mi piombi addosso come un camion, e rialzarmi è ogni volta più difficile.

Sai che ho portato Henry alla cascata del sole? Mi sono messa a piangere. Ho dovuto fingere che avessi sbattuto il piede in una pietra per non farlo preoccupare...ma lui aveva già capito tutto.

Le udienze per l'adozione di Henry non sono finite, ma non manca molto ormai. Ogni volta che entro dentro quell'aula mi manca la terra sotto i piedi, temo di non farcela, temo che me lo portino via. Ma ti sento anche li dentro...a incoraggiarmi, come sono certa tu saresti riuscita a fare. Si perché solo ora ho capito quanto sono stata stupida a lasciarti andare così.

Ho usato Henry per allontanarti da me quando proprio lui mi ha fatto capire quanto avresti solo migliorato la mia esistenza, e anche la sua. Questa mattina avevo la nostra foto in mano e lui mi ha detto che mi vedeva spesso triste e temeva che non fossi felice con lui. Ti rendi conto? Lui pensava non fossi felice di averlo con me.

Gli ho spiegato quanto fosse la cosa più bella che mi fosse capitata, ma che tu mi mancavi. Allora mi ha chiesto se tu fossi la mia fidanzata. Quanto imbarazzo Emma...mi sono sentita una bambina alle elementari. Lui aveva capito e sai che c'è? Non ha pensato nulla di sbagliato, voleva accompagnarmi a chiederti scusa e ha detto che hai delle belle gambe. Ti sarebbe piaciuto il mio bambino...e il suo sguardo è come il tuo. Dolce, sincero.

Avevi ragione...tu non saresti stata un ostacolo. La nostra storia, il nostro amore era agli inizi, ma Henry con noi avrebbe solo rafforzato il nostro amore. Sono stata così stupida...ma avevo paura. Avevo paura che la storia con te avrebbe condizionato anche i giudici sull'affidamento di Henry, ma ho scoperto che nel nostro stato anche due donne possono adottare i bambini che vogliono. Avremo avuto la nostra famiglia. Tu mi hai salvata e io ti ho sbattuto la porta in faccia senza nemmeno chiederti scusa.

Mi dispiace averti delusa così. So che ti ho delusa, ho letto il tuo disprezzo negli occhi il giorno che ti ho vista in macchina. Sembravi parecchio sconvolta, non so se per me o per altre ragioni, ma di certo la mia presenza non ti era d'aiuto. E il fatto che ti sia ricordata di Henry mi ha solo confermato quanto potessi essere perfetta accanto a me. Tu sei stata quasi mamma, avresti fatto di tutto per salvare tuo figlio vero? Ho pensato di fare la cosa giusta per il mio.

Solo che ho sbagliato con te, la persona che amavo.

Che amo.

Si perché quel giorno avrei voluto urlarti che ti amo ancora, che riempi i miei sogni tutte le notti, che solo l'amore per Henry mi trattiene dal correre da te e abbracciarti di nuovo.

E che non ci sarà mai nessuno importante quanto Henry nella mia vita...ma di certo non posso fidarmi di nessuno nella mia vita assieme a lui che non sia tu.

Ti amo Emma Swan.

Ti amo e devo dirti addio.

Con Amore.

 

“Temevo di disturbarti e perderti.
Temevo di annoiarti e perderti.
Temevo di lasciarmi andare e perderti.
Temevo di legarti a me e perderti.
Non sono stata me stessa e ti ho perso.”

Regina”

 

Piego il foglio in quattro e solo allora mi accorgo che ho iniziato a piangere e le lacrime lo hanno bagnato. Non importa. Tanto quella lettera non sarebbe mai arrivata a destinazione.

Ci scrivo sopra “Per Emma”.

Sistemo la sedia prima di chiudere quel foglio sul cassetto del mobile all'ingresso e andare a dormire.

 

 

Finalmente Henry è mio e nessuno avrebbe più potuto portarmelo via.

Dopo 8 mesi di estenuanti battaglie, l'esito della guerra è a mio favore. Henry mi stringe felice, con gli occhi chiusi e un'aria quasi sognante.

Ha iniziato a saltare su se stesso quando la psicologa e gli assistenti sociali gli hanno comunicato che a meno che lui non lo richiedesse esplicitamente, non avrebbe più dovuto vedere la sua madre biologica. Credo che quell'abbraccio sia la prova che sono certa, assistenti sociali e psicologi volevano vedere. Lui è felice con me, e lo sarebbe stato sempre.

Rientriamo a casa cantando tutte le canzoni che sentiamo alla radio. Avrei potuto urlare al mondo la mia felicità! Avrei voluto urlarla a Emma la mia felicità, ma lei non c'è e devo imparare di nuovo a essere felice da sola, col mio Henry.

Imbocco il vialetto del parcheggio con Henry su di giri.

«Mamma oggi pizza e coca cola vero? Vero?».

«Pizza e coca – cola. Un litro e mezzo tutto per te» gli do un pizzicotto sulla guancia prima di parcheggiare.

«Voglio vedere un film di mostri» urla mentre corre verso l'ingresso posteriore, lasciandomi indietro a chiudere la macchina. Macchina che non vuole chiudersi.

«Henry aspettami». Passo i successivi cinque minuti a litigare con la serratura della macchina.

Avrei dovuto assolutamente cambiarla quella macchina. Ha gli anni di Henry e voglio qualcosa di meno triste e più confortevole. Quella macchina è troppo..fredda...come mi disse Emma qualche mese prima. Ricordo perfettamente il suo sguardo ironico mentre pronunciava quelle parole.

«Basta, mi sono seccata! Vorrà dire che rimarrai aperta!».

Sorrido alla macchina come se fosse un essere animato: Regina, stai impazzendo lo sai? A passo svelto raggiungo l'ascensore, probabilmente Henry è già di fronte alla porta di casa. Invece chiacchiera con una donna accanto all'ascensore.

Conosco quella donna, perfettamente, è Isabella, l'amica di Emma. In mano ha uno scatolone, probabilmente glielo avrebbe portato. Raggiungo Henry.

«Buongiorno».

Sguardo freddo come il ghiaccio. Con disprezzo alza le sopracciglia.

«Ciao Henry, ci vediamo».

«Ciao Bella!» fa lui serio. Poi si volta verso di me.

«Ma che fine hai fatto?»

«Non riuscivo a chiudere la macchina...ed è rimasta aperta».

«E se la rubano?».

«Non la ruberanno, tranquillo. Hai chiamato l'ascensore?».

«Si si...».

«Chi era quella donna?».

«Mamma....».

Mi guarda in modo accusatorio.

«Ok so chi è, cosa voleva?».

«Niente, mi ha chiesto se fossi Henry e come stavo, tutto qui».

Assolutamente poco credibile. Lo assecondo con un sorriso ma ero più che certa che mi nascondesse qualcosa.

«Mamma posso andare da Matthew un attimo? Devo dargli la notizia!».

«E' un'ottima idea! Però tra un'ora a casa, che ceniamo e dormi che da domattina ti rimetti in sesto con la scuola!».

«Va bene va bene» l'ascensore si ferma e lui si precipita sulle scale.

«Non farmi urlare sempre che non devi correre!» dico ormai arresa.

Ha una vitalità fuori dal comune quel bambino.

Entro finalmente in casa, consapevole che li dentro non sarei più stata sola. La casa è di nuova viva da quando era tornato...viva e disordinata.

Emma non l'avrebbe riconosciuta. Giochi di società sul tavolo in salotto, gelatiera in cucina, orari scolastici appesi al frigorifero, scarpe sporche accanto all'ingresso, ombrello di un personaggio dei cartoni animati di cui ancora non riesco a ricordare il nome e infine lo zaino sul divano. Come direbbe Emma: un campo di battaglia!

Puntuale come un orologio svizzero, Henry torna a casa per la cena. Pizza e coca cola (gliela dovevo assolutamente concedere stavolta), accompagnano la nostra serata, seguito da un film che...non definirei nemmeno film. E' un insieme di mostri che si ammazzano in modo assolutamente sovrannaturale e idiota. Quando sarebbe stato più grande glielo avrei detto.

«Mamma ti è piaciuto?». La sua voce mi distrae dal disgusto misto a nausea che quella visione mi ha provocato.

«Da morire tesoro, tanto che credo che la prima visione sia più che sufficiente nella mia vita».

Lo abbraccio trascinandolo sul divano con me e iniziando a fargli il solletico.

«No mamma... ah ah ah ah» si dimena come un'anguilla.

«Smettilaaaaa ah ah ah ah».

«Ok basta» lo bacio sulla testa.

«Oggi sei felice mamma?».

«Come mai prima d'ora Henry».

Si mette seduto sul divano, con le gambette incrociate.

«E tu?».

«Anche io sono contento e voglio dormire nella mia camera oggi...ci provo».

Il mio ometto.

«Non sei obbligato se vuoi, c'è tempo per tornare nella tua stanza».

«No mamma ora quella donna non può portarmi via, posso stare anche da solo nella mia stanza».

«Come vuoi...magari ti raggiungo io se mi sento sola».

«Da quando hai paura del buio mamma?».

«Non ho paura del buio!».

«Oh si invece....» si alza e corre nella sua stanza.

«Mi metto il pigiama mamma, sono stanchissimo!» urla.

Mi alzo per seguirlo.

«Ma perché urli sempre?».

«Non potevo nemmeno parlare in quella casa...».

«Urla quanto vuoi amore...».

Quanto odio quella donna. Avrei voluto farle fisicamente del male con le mie stesse mani.

Dopo essersi lavato i denti si mette sotto le sue coperte e abbraccia il suo pupazzo alto quanto lui.

«Ti voglio bene mamma».

«Ti voglio bene anche io Henry» lo bacio sulla fronte «Dormi bene».

Faccio per uscire dalla sua camera.

«Ti lascio la luce accesa?».

«Ok.. »dice lui sorridendo e crollando tra le braccia di Morfeo.

«A domani...».

Accosto la porta prima di tornare in camera e imitarlo.

Sfilo lentamente i collant che ho tenuto per tutta la giornata. Ho i piedi doloranti. Sistemo la giacca e gonna del completo sulla sedia accanto al letto e infilo la camicia da notte gelida.

«Ma perché ho le lenzuola di seta?» sussurro mentre scivolo sotto le coperte, rabbrividendo per alcuni istanti. Fortunatamente il calore dello scalda sonno non tarda ad arrivare. Ma niente mi avrebbe dato calore quanto il corpo nudo di Emma sul mio...allungo il braccio sull'altra parte del letto...non ha mai dormito in questo letto ma posso sentirla lo stesso accanto a me. E' palpabile la sua presenza quanto la mia felicità per Henry.

E' palpabile quanto la stretta allo stomaco mentre stringo il lenzuolo con la mano...il cuscino sgualcito, come se ci fosse la sua testa e il mare di capelli biondi appoggiati. E' li. E' sempre stata li. Non è andata via nemmeno dopo la lettera, e non credo sarebbe mai andata via.

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Emma ***


Mia Regina Swan.

Non era stato difficile scegliere il nome una volta inquadrato il suo visino. Una testolina piena di capelli neri e gli occhi chiari...anche se probabilmente era troppo piccola per definirne il colore con precisione.

La scelta del doppio nome probabilmente è quasi scontata. Ho saputo fosse una bambina alla 34° settimana, quando aveva iniziato a scalciare come una dannata e avevo seriamente pensato fosse un maschietto per questo ma una cosa era certa: nessuno me l'avrebbe mai portata via. E da qui nasce il nome Mia.

Poi Regina...i capelli neri, rivedevo Regina in quei capelli. C'era quella parte di lei che non avevo più e il destino mi aveva regalato quel piccolo particolare che mi faceva cullare sul dolce pensiero che quella bambina potesse essere di entrambe. E dovevo sigillare questo pensiero col suo nome.

Non avevo idea di chi fosse il padre e l'interesse verso questa informazione era pari a zero, ma chiunque fosse, lo ringraziavo ogni giorno per avermi regalato l'esserino più bello del mondo.

Respira beata tra le mie braccia e mi inebrio dello speciale profumo che emana. Da piccola lo chiamavo “odore di bimbo”...non sono mai riuscita a capire se sia dovuto ai detersivi usati per lavare le loro tutine o i bagnoschiuma...ora con Mia lo so. E' la loro pelle, qualunque profumo tu abbia, qualunque bagnoschiuma usi...se tieni tra le braccia un neonato quel profumo ti entra nelle ossa e non lo scordi più.

Una volta lontana da Regina e dal suo profumo (altrettanto inebriante per i miei sensi), avevo iniziato a pensare solo a me.

I miei genitori erano felici della gravidanza, nonostante non avessi un “uomo” accanto a me.

Ma ero sempre stata molto indipendente, non volevo il loro appoggio, solo renderli partecipi di qualcosa che anche loro avevano solo sfiorato quasi due anni prima. Isabella veniva almeno una volta al mese, mi accompagnava alle visite quando poteva e appena aveva saputo il sesso mi aveva fulminata dicendo: “ti prego, non chiamarla come quella decorticata che ti ha lasciata così...suo figlio è dieci volte più intelligente, si vede che non ha lo stesso DNA!”

Isabella e le sue battute pungenti che arrivano dritto dritto al bersaglio. Non avevo intenzione di chiamare mia figlia col nome di Regina...ma quei capelli mi hanno stregata.

La gravidanza non aveva avuto nessun intoppo.

Non bevevo, non fumavo, facevo lunghe passeggiate, facevo tutti i servizi fotografici che le mie gambe reggevano e avevo messo da parte abbastanza soldi per non dovermi portare Mia a spasso per le scuole a fare foto. E non paga l'affitto perché lo facevano i miei, fino a che non avrei ripreso a lavorare.

Era nata la mattina del primo dicembre, pioveva a dirotto, dopo 26 ore di travaglio e nessuna epidurale. Volevo godermi tutto il dolore, volevo sentire che lei c'era e che stava nascendo, per superare la paura del primo parto non andato a buon fine.

Avevo passeggiato per i corridoi fino a un'ora prima, quando le contrazioni non mi avevano più permesso di camminare. A ogni passo credevo che la schiena mi si spezzasse in due. E avevo osservato insistentemente i visini di tutti i neonati nella nursery, cercando di immaginare il suo nasino, le sue manine...invece era stato tutto maledettamente più bello.

Avevo sentito scivolare qualcosa fuori dal mio corpo, molto velocemente e l'enorme pancione si era sgonfiato in pochi secondi. Attendevo parole rassicuranti dall'ostetrica, ma fu il suo pianto a farmi capire che ce l'avevo fatta. L'avevano avvolta in un telino verde e posata su di me. Il battito del mio cuore l'aveva calmata immediatamente.

«Ciao meraviglia» le avevo detto.

Avevo accarezzato la sua manina e lei saldamente aveva stretto il suo pugnetto sul mio indice, come per ancorarsi alla nuova vita. In quell'istante avevo capito che era Mia e io mi sarei aggrappata a lei con tutte le forze.

Dopo tre giorni di visite e controlli eravamo finalmente tornate a casa. Non avevo comprato molte cose: la mamma mi aveva portato la mia vecchia culla e io avevo preso solo la carrozzina, rigorosamente rossa e un'infinità di tutine e vestitini e calze e canottierine ricamate e...due cassetti del mio armadio erano suoi, ed erano zeppi! Le copertine con gli orsetti, le tute da ginnastica in miniatura. Ero diventata pazza per l'abbigliamento di mia figlia.

Ha ormai 15 giorni (pare passato un secolo) ed è la bambina più buona del mondo. Si sveglia solo per mangiare e le poppate a quanto pare sono soddisfacenti visto che ha già preso mezzo chilo. Le guance tonde e paffute sono una tentazione troppo forte per me, sono una calamita per i miei “cioppi cioppi” giornalieri. La osservo stiracchiarsi dentro la carrozzina dall'altro angolo del divano dove mi sono seduta con un plaid sulle gambe, pronta per vedere un film, quando sento il campanello.

«Diamine. Arrivo!».

Devo staccarlo, è un suono insopportabile e ogni volta spaventano Mia.

Abbasso le maniche del maglione prima di aprire.

Silenzio.

Niente di tutto quello poteva essere previsto.

Nemmeno nei miei sogni (o incubi) più nascosti quella figura che è fuori dalla porta in quel momento, compare.

«Ciao Emma» la sua voce squillante mi fa tremare.

Poi sposto lo sguardo su Isabella.

«Ciao Mim!» mi dice tutta allegra! «Ci fai entrare? Si gela qua fuori e non abbiamo tanto tempo».

«Già siamo in missione» dice Henry superandomi e andando direttamente verso la carrozzina, come se lo sapesse già.

«E' questa Mia?».

Non riesco a staccarmi dalla porta. Mi aspetto che qualcun'altro la varchi, che lei compia dietro suo figlio.

«Se aspetti mamma non verrà, non sa nemmeno che sono qui e quando lo scoprirà le verrà un infarto, ma le ho detto che sarei tornato a casa per cena».

Isabella mi prende le spalle e fa ruotare il mio corpo verso Henry che sorride alla bambina nella carrozzina. Sento il tonfo della porta chiudersi dietro di noi.

Non riesco a dire una parola, sono totalmente bloccata.

«Posso lavarmi le mani?» la voce di Henry è quasi ovattata, lontana e schiacciata dal pensiero che Regina possa essere spaventata a morte per la sparizione di Henry.

«Henry il bagno è la seconda porta a sinistra» Isabella risponde al mio posto.

Improvvisamente mi volto verso di lei, furibonda.

«Che diavolo di storia è mai questa???» le urlo in faccia.

«Shh Mim, calmati e siediti, tutto sotto controllo».

«Si Emma, tutto sotto controllo».

Henry parla come se mi conosca da sempre.

Mi siedo sulla poltrona a due passi da lei, affondando con tutto il peso sul cuscino. Mi metto le mani sui capelli pensando a come Regina possa sentirsi in questo momento. Gliel'avrebbero portato via se l'avesse perso di vista, starà di certo impazzendo, avrà chiamato la polizia e darà la colpa a me di tutto questo e mi odierà di sicuro.

Aspetta...se Henry è qui e sa di Mia probabilmente lo sa anche lei....per cui probabilmente già mi odia.

Questo mi fa impazzire più di tutto il resto.

«Rivestiti, Isabella ti riaccompagnerà immediatamente a casa» dico rivolgendomi a Henry e alzandomi in piedi di scatto.

«Mim siediti per favore» Isabella non sa con cosa ha a che fare. La paura di Regina di perdere Henry è incontrollabile.

«Tu non hai idea di quello che avete fatto».

«Credo che tu dovresti sentire quello che ha da dire questo bambino che a quanto pare è l'unico dotato di cervello tra te e quella demente di sua madre» si volta verso Henry.

«Senza rancore piccolo».

Lui sorride e fa spallucce poi torna a toccare i piedini di Mia. Lei sembra a suo agio con lui, non ha ancora iniziato a piangere, a volte succede con gli estranei.

«Poggia quelle chiappe sulla poltrona e stai zitta un attimo».

Hanno vinto loro. Arresa, torno alla mia posizione e fisso Henry, aspettando dalla sua bocca uscisse qualcosa di sensato che possibilmente non contenesse le parole “Regina” e “triste” insieme.

«Ma tua madre rischia di perderti se scompari!» dico quasi disperata.

«Due settimane fa mamma ha vinto la causa di adozione. Sono suo figlio a tutti gli effetti per sempre, nessuno mi porterà via da lei. Ho aspettato che succedesse perché sapevo che avrei messo in discussione tutto, ma ora è tutto ok Emma, fidati di me».

Mi volto verso Isabella che annuisce, poi prende Mia dalla carrozzina e si siede sulla poltrona, cullandola un po'.

Henry prende una sedia e si toglie lo zainetto dalle spalle. Si siede di fronte a me, poi prende una cornice e un foglio bianco.

Oh quella cornice, la conoscevo bene. Il cuore a momenti esplode nel mio petto.

«Mamma non ti ha mai dimenticata».

Lo dice così, a bruciapelo. Come se mi stessi facendo una ceretta. Rapido e indolore.

Non è indolore.

E' dolorosissimo, allo stomaco, alla testa, alle gambe, alle mani. Le porto al viso, incredula e impaziente di sentire il resto.

«La mamma è felice quando stiamo insieme, ride sempre, e mi fa fare tutto quello che voglio...».

Non riesco a deglutire.

«...e dormivo nel lettone con lei perché avevo gli incubi. E durante una notte ho scoperto che anche lei faceva dei brutti sogni. O forse erano belli».

Mi si è fermato anche il sangue nelle vene.

«Diceva continuamente il tuo nome durante la notte...e non capivo».

Non è possibile. Lei mi aha allontanata per il figlio e ora mi sogna? Mi alzo nervosamente e inizio a camminare avanti e indietro.

«Poi ho letto il nome “Emma su uno scatolone accanto all'ascensore mentre tornavo da scuola un giorno. E ho incontrato Isabella. Le ho spiegato la situazione e le ho proposto un piano: l'abbiamo chiamata “Operazione SwanMills”. Dovevo farvi rincontrare in qualche modo, ma non prima della fine della causa. Ho organizzato tutto, le ho scritto un biglietto dove le spiegavo che sarei tornato entro il pomeriggio e che non doveva chiamare la polizia perché stavo bene e doveva fidarsi di me. E spero tanto che mi ascolti e che non si metta paura. E stamattina mi sono alzato prestissimo per non svegliarla..avevo paura di non riuscirci».

OPERAZIONE SWANMILLS. E' uno scherzo, sono certa che a momenti sarebbe comparsa una telecamera di un programma tv.

«Sai quando ho capito che io non potevo farla felice al 100%? Quando in campagna l'ho trovata stringere questa in mano ed era triste, le ho chiesto se era triste per me e ha detto di no. Ed era vero, ma poi ho chiesto di te e mi ha detto tutto ma lei non voleva tornare indietro perché credeva che tu non l'avresti mai perdonata. E poi...».

Mi si blocca il respiro. E' troppo, tutto questo è troppo. Lui si alza e prende quel foglio. Me lo porge.

«L'ha scritta due mesi fa. Poi l'ha nascosta ma io l'ho presa perché sapevo che se tu l'avessi letta sarebbe andato tutto bene. Quindi...leggila, per favore».

Alzo lo sguardo con gli occhi gonfi di lacrime. Non ci sarei riuscita a leggerla. Isabella mi raggiunge e me la prende dalle mani, mentre ancora culla Mia tra le braccia, ormai profondamente addormentata.

«Siediti Emma» mi dice.

Henry si accomoda di fianco a Isabella, in attesa di sentire di nuovo le parole che ha scritto sua madre, la donna che amo. Apre delicatamente il foglio e inizia a leggerle. La mia mente inizia a immaginare la voce di Regina che le pronuncia ad alta voce.

Mi appoggio al muro dietro di me, con le braccia incrociate, quasi in un abbraccio verso me stessa.

 

“Amore mio,

Scrivo su questo foglio parole che non avrò mai il coraggio e l'opportunità di pronunciare a voce guardando i tuoi occhi, toccando le tue mani, baciando le tue labbra.

Solo oggi ho rimesso piede nella mia casa in campagna. Sono passati quasi sei mesi e in questa casa sento ancora il tuo profumo. In qualunque angolo mi volti ci sei tu. Sul letto, in cucina, in bagno, sulla porta...perfino vicino al melo. Sei una presenza costante, quasi un'ombra che segue ogni mio passo. Henry riempie costantemente le mie giornate ma bastano cinque minuti senza di lui che tu mi piombi addosso come un camion, e rialzarmi è ogni volta più difficile.

Sai che ho portato Henry alla cascata del sole? Mi sono messa a piangere. Ho dovuto fingere che avessi sbattuto il piede in una pietra per non farlo preoccupare...ma lui aveva già capito tutto.

Le udienze per l'adozione di Henry non sono finite, ma non manca molto ormai. Ogni volta che entro dentro quell'aula mi manca la terra sotto i piedi, temo di non farcela, temo che me lo portino via. Ma ti sento anche li dentro...a incoraggiarmi, come sono certa tu saresti riuscita a fare. Si perchè solo ora ho capito quanto sono stata stupida a lasciarti andare così.

Ho usato Henry per allontanarti da me quando proprio lui mi ha fatto capire quanto avresti solo migliorato la mia esistenza, e anche la sua. Questo pomeriggio avevo la nostra foto in mano e lui mi ha detto che mi vedeva spesso triste e temeva che non fossi felice con lui. Ti rendi conto? Lui pensava non fossi felice di averlo con me.

Gli ho spiegato quanto fosse la cosa più bella che mi fosse capitata, ma che tu mi mancavi. Allora mi ha chiesto se tu fossi la mia fidanzata. Quanto imbarazzo Emma...mi sono sentita una bambina alle elementari. Lui aveva capito e sai che c'è? Non ha pensato nulla di sbagliato, voleva accompagnarmi a chiederti scusa e ha detto che hai delle belle gambe. Ti sarebbe piaciuto il mio bambino...e il suo sguardo è come il tuo. Dolce, sincero.

Avevi ragione...tu non saresti stata un ostacolo. La nostra storia, il nostro amore era agli inizi, ma Henry con noi avrebbe solo rafforzato il nostro amore. Sono stata così stupida...ma avevo paura. Avevo paura che la storia con te avrebbe condizionato anche i giudici sull'affidamento di Henry, ma ho scoperto che nel nostro stato le coppie gay possono adottare i bambini che vogliono. Avremo avuto la nostra famiglia. Tu mi hai salvata e io ti ho sbattuto la porta in faccia senza nemmeno chiederti scusa.

Mi dispiace averti delusa così. So che ti ho delusa, ho letto il tuo disprezzo negli occhi il giorno che ti ho vista in macchina. Sembravi parecchio sconvolta, non so se per me o per altre ragioni, ma di certo la mia presenza non ti era d'aiuto. E il fatto che ti sia ricordata di Henry mi ha solo confermato quanto potessi essere perfetta accanto a me. Tu sei stata quasi mamma, avresti fatto di tutto per salvare tuo figlio vero? Ho pensato di fare la cosa giusta per il mio.

Solo che ho sbagliato con te, la persona che amavo.

Che amo.

Si perché quel giorno avrei voluto urlarti che ti amo ancora, che riempivi i miei sogni tutte le notti, che solo l'amore per Henry mi tratteneva dal correre da te e abbracciarti di nuovo.

E che non ci sarà mai nessuno importante quanto Henry nella mia vita...ma di certo non posso fidarmi di nessuno nella mia vita assieme a lui che non sia tu.

Ti amo Emma Swan.

Ti amo e devo dirti addio.

Con Amore.

 

“Temevo di disturbarti e perderti.
Temevo di annoiarti e perderti.
Temevo di lasciarmi andare e perderti.
Temevo di legarti a me e perderti.
Non sono stata me stessa e ti ho perso.”

Regina”

 

Chiudo gli occhi mentre me la immagino scrivere quella lettera, probabilmente tra le lacrime.

La mia mente ripercorre i nostri momenti insieme...il barattolo della nutella, la sua visita a casa mia con la marmellata, la mia visita a casa sua, il suo crollo per Henry, io che accarezzo la sua mano, la mia voglia sconosciuta di baciare quelle labbra perfette. La nostra confessione sotto il temporale, la mia fuga, la mia disperazione, il suo ritorno e la mia salvezza. Il nostro fine settimana.

Il nostro fine settimana perfetto.

Poi era tornato Henry e io avevo avuto Mia.

C'è Mia. E' lei ora la mia vita.

E Regina non l'avrebbe mai mai mai accettato. Non è una donna che accetta il sesso per dimenticare la persona che si ama, lei non è fatta così.

Mi stringo le gambe al petto ancora per un po', mentre Henry e Isabella stanno in religioso silenzio poco distanti. Inizio a muovermi avanti e indietro per terra, dove piano sono scivolata.

Non avrebbe mai perdonato la mia debolezza.

E io l'ho persa. Ora l'ho davvero persa.

Emma. Tu ora hai Mia, è lei la tua ragione di vita.

Mi ripeto questa frase in continuazione ma l'unica cosa che riesco a fare è piangere e piangere e piangere. Sento qualche passo ma non voglio alzare lo sguardo. Una mano mi tocca il braccio.

«Non voglio farti piangere».

Ma perché quel bambino si fa carico di tutto questo casino?

Gli devo una risposta.

«Non è colpa tua» tiro su col naso prima di continuare. Lui mi porge un fazzoletto. Lo afferro con mano tremante.

«Io non credevo che lei...potesse pensarmi ancora».

«Infatti sono qui per questo...».

«Sei proprio figlio di tua madre...».

«Non è difficile, se vi volete bene potete stare insieme...».

Per i bambini è tutto facile.

«Non è così semplice».

«Oh dite sempre le stesse cose, sembrate voi delle bambine qui, non io o Mia».

Si stava arrabbiando? Mi sta rimproverando un bambino di 8 anni?

«Mi associo al piccolo, anzi ci associamo» dice Isabella tirando un po' la manina di Mia, come se anche lei stesse votando.

«Henry quella lettera...sarebbe stata perfetta e risolutrice se non esistesse Mia, ma Mia esiste, e non l'ho adottata».

«E quindi?».

Che sguardo innocente.

«E quindi è un bambino che ho creato con qualcun'altro quando tu sei tornato e tua madre non ne sarebbe felice».

Si alza in piedi e mi offre la sua mano per fare altrettanto.

«Mi spiegate perché usate me e Mia per non affrontare le vostre cose? Madri biologiche, madri naturali, madri adottive, padri inesistenti, che cosa importa? Io e Mia non siamo un ostacolo per voi, voi lo siete per voi stesse. Mamma ti ha allontanato per il mio bene...ma se lei è infelice non ha senso, per cui va da lei, parlaci...sono sicuro che lei capirà, come tu hai capito lei. Vi amate troppo forse, ma non siete coraggiose. Io e Mia lo siamo di più di sicuro».

Si allontana per tornare accanto a Isabella, a cui allunga la mano per battere il cinque.

Ha ragione? Siamo codarde e ci nascondiamo dietro di loro?

Non sono codarda. Ho cambiato me stessa, ho messo in discussione tutta me stessa per lei...ma come ho detto, lei sarebbe stata una forza nella mia vita con un figlio. Il figlio c'è, Mia c'è. E anche Henry.

Forse devo fare un tentativo.

«Credo che andrò a cambiarmi...» dico con voce roca per le lacrime.

«Evvaiiii» urla Henry soddisfatto. Poi corre verso di me e mi abbraccia.

«Grazie».

Ricambio il suo abbraccio, un po' impacciata.

«Aspetta di vedere come reagisce tua madre prima di ringraziarmi».

Mi stacco da lui e mi dirigo a passo svelto in camera. Devo preparare una piccola valigia, per me e Mia, devo stare qualche giorno...dove? Mi sarei arrangiata. Oppure sarei tornata subito a casa. In ogni caso devo portare qualcosa con me. Tutine, pannolini, cremine, copertine, calze, bavaglini. Infilo tutto in una borsa di piccole dimensioni.

Infilo velocemente dei jeans e un maglione.

Dio la montata lattea...i seni iniziano a farmi male. Quei copri capezzoli sono ridicoli...ma mi salvano da situazioni imbarazzanti e Mia dorme profondamente per cui dubito che li avrei svuotati presto.

Fuori dalla camera Isabella e Henry confabulano qualcos'altro ma non voglio avere ulteriori informazioni, per ora erano sufficienti. Infilo gli stivali imbottiti ai piedi e il giubbotto e mi ripresento in salotto.

«Possiamo andare».

Non ho controllato l'orario. Sono quasi l'una del pomeriggio. Regina è di sicuro sull'orlo di un esaurimento.

«A che ora siete partiti da casa tua?» prendo Mia dalle braccia di Isabella e la sistemo sulla carrozzina. Prendo altre due copertine e le metto sopra il parasole, coprendola totalmente. E' la prima volta che la portavo fuori casa, sono terrorizzata.

«Non erano nemmeno le sette del mattino, abbiamo fatto colazione e siamo partiti, come ben sai sono tre ore di macchina»

Tappo le orecchie a Henry con le mani.

«Le mie tette scoppieranno» sussurro a Isabella.

Scoppia a ridere.

«Almeno non moriremo di fame».

«Qualcuno deve prendermi le ruote della carrozzina, non posso trasportarla per la città in spalla».

«Faccio io» si propone Henry.

«Io prendo la tua borsa» segue Isabella.

«Vado a prendere la macchina e a metterla di fronte all'ingresso, così Mia non prenderà freddo» sparisce fuori dalla porta.

Rimango con Henry, che mi fissa sorridente, quasi a volermi incoraggiare.

«Lo sai che non dovevi scappare vero?».

«Non sono scappato, ho solo fatto la cosa giusta per me e per voi, e anche per lei. Avremo due mamme contente almeno».

Il telefono squilla improvvisamente, un solo squillo. E' Isabella che ci da il via libera per uscire di casa.

«Vedi di coprirti bene tu, che fuori si gela e se ti ammali tua madre avrà un altro motivo per odiarmi».

«Lei non ti odierà mai». Si infila la cuffia e lo zainetto sulle spalle. Apre la porta d'ingresso e la richiude, permettendomi di portare via la carrozzina senza perdere tempo.

Fuori dal vialetto, la portiera della macchina è aperta e cercando di non darle troppe scosse, riesco a far sparire la carrozzina dietro il sedile posteriore. Mi siedo accanto a lei mentre Henry prende posizione accanto a Isabella, sul sedile anteriore.

«Dobbiamo fermarci a mangiare qualcosa, muoio di fame e di sete» dico appena usciti dalla città. La mia pancia inizia a brontolare, e anche Mia che si sta svegliando, finalmente.

«Si il primo autogrill che incrocio sarà nostro non temere».

Afferro Mia, cercando di tenerla ben coperta.

«Ciao principessina, ben svegliata» emette piccoli mugugni chiaramente sinonimo di fame. Sposto verso l'alto il maglione e scopro il seno destro. E' turgido e dolorante.

«Amore fai il tuo dovere, fa malissimo».

Si attacca come una piccola medusa e inizia a succhiare, avida, con gli occhietti ancora chiusi. Stringe il suo pugnetto e lo avvicina al seno, quasi per aiutarsi nel durissimo lavoro che sta compiendo.

Il viaggio fortunatamente è tranquillo, con Henry che fa milioni di domande su me e Regina, su Mia, su me e Isabella...sembra che non si renda conto della complessità della situazione.

«Oh, autogrill!» Esclama Isabella.

«Dio finalmente. Mia mi ha prosciugato tutte le energie» la tengo in piedi sulla spalla, dandole dei colpetti sulla schiena, per facilitarle la digestione.

«Non voglio uscire però, prendetemi una bottiglia d'acqua e un panino con...non mi fido di quei panini» non voglio intossicare mia figlia con qualcosa di contaminato.

«Trancio di pizza, semplice, senza aggiunte e possibilmente poco oleosa».

«Possiamo prendere diverse cose e poi quello che non va bene lo mangiamo noi!».

«Diventi obeso se mangi così tanto».

«Naa, solo per oggi, mamma mangia solo cose sane, dovresti saperlo».

Colpita e affondata.

«Andate, quando arriviamo voglio cambiarle il pannolino».

 

Mia mi ha tolto totalmente le energie ma non ho tanta fame. Nella mia mente non riesco a smettere di immaginare la faccia di Regina quando mi sarei presentata a casa sua con Henry e mia figlia.

Mi avrebbe chiuso la porta in faccia. No, non è da lei.

Mi avrebbe detto con una frase sottile e tagliente come la lama di un coltello, che io dovevo sparire in una nube di fumo, senza lasciare niente dietro.

Oppure...oppure mi avrebbe accolta e ascoltata.

L'idea mi rende felice e una dolorosa palpitazione incornicia il tutto. Mi sento di nuovo una ragazzina al primo appuntamento, solo che stavolta non me ne sarei andata da sola.

Son una donna, una madre. Qualcuno dipende totalmente da me e non posso crollare di nuovo.

Cosa le avrei detto se mi avesse permesso di spiegarle? A dire il vero non sono solo io a dover spiegare il mio comportamento e la conseguenza che aveva avuto. Tutto è partito da lei, se non mi avesse tagliata fuori non sarebbe successo niente del genere e io non avrei avuto Mia. Forse devo ringraziarla per averlo fatto. Quella meravigliosa bambina che ho accanto non ci sarebbe e probabilmente non avrei nemmeno immaginata di poterla avere.

Le massaggio il pancino mentre varchiamo il confine della città che pensavo mi appartenesse. A me e a Regina, come un regno incantato in cui noi potevamo essere quello che volevamo, purché insieme.

Il respiro comincia a farsi irregolare, faccio memoria della respirazione che ho imparato al corso pre-parto.

«Emma stai tranquilla» dice Henry voltandosi verso di me «tanto prima urlerà contro di me».

«Non mi tranquillizza questa notizia». Lui sorride e poi guarda Isabella.

L'ascensore sembra non arrivare mai. Mia sta piangendo e il tutto mi rende nervosa.

La prendo tra le braccia, sperando che il battito del mio cuore la calmi, insieme al ciuccio ovviamente. Henry spinge la carrozzina mentre Isabella sta dietro, col borsone.

«Non mi sento molto bene..» improvvisamente ho una nausea pazzesca.

«Hai Mia in braccio, se ti agiti, lei si agita».

Riprendo a respirare meccanicamente. Inspiro, espiro.

Mi posiziono accanto a Henry, Isabella e la carrozzina dietro. Mi stringe la mano e suona il campanello.

Passi veloci raggiungono la porta e la spalancano.

Regina.

Mi si annebbia la vista.

«Mi sento male, prendete la bambina».

Buio.

 

 

 

Note dell'autrice:Questo è il penultimo capitolo della storia. Lo dico per preparavi psicologicamente, soprattutto per tutti quei lettori che sono particolarmente legati a questa ff almeno quanto ci sono legata io.

BUONA PASQUA :)

 

 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Regina ***


Sono le 7 del mattino.

Non ho nemmeno avuto bisogno della sveglia per aprire gli occhi. E' stato un sonno rigenerante e senza incubi come nelle ultime due settimane. Erano mesi che non accadeva. Accoccolata sotto il piumone, mi cullo ancora nell'idea che anche quella sarebbe stata la più bella giornata di sempre.

La tranquillità di avere Henry nella mia vita era qualcosa di inspiegabile, qualcosa che a parole non sarei mai riuscita a descrivere.

Scivolo dal letto per andare a preparare la colazione. Avrei preparato il meglio del meglio per il mio bambino.

Scaldo il solito latte sul fornetto, e accendo la macchinetta del caffè per me. Inizio a tostare delle fette di pane su cui spalmo del burro, della confettura di mele e nutella. Prendo i cereali dallo sportello della credenza e li sistemo accanto alla tazza di Henry, con cucchiaino e fazzoletto.

Il latte è caldo, così, mi dirigo a passo svelto nella sua camera.

Apro lentamente la porta, non voglio si spaventi.

«Amore...»

Il letto è sfatto, il pigiama sopra il cuscino e lui non c'è.

«Henry? Sei in bagno per caso?» spalanco quella porta, in preda all'agitazione.

«Henry se questo è uno scherzo non è per niente divertente!» dico iniziando a cercarlo sotto il suo letto, nell'armadio, nello studio...dietro le tende.

Henry non c'è.

Lui non c'è.

L'hanno rapito o se n'è andato.

Torno nella sua camera alla ricerca di qualche indizio, mettendo sotto sopra qualunque cosa trovi sotto mano. Una bruttissima sensazione si fa strada nella mia mente, se avessi chiamato la polizia di certo avrebbero chiamato gli assistenti sociali...di nuovo giudici, di nuovo udienze.

Tiro le lenzuola, fino a che non toccano terra. Controllo sotto il letto, i cassetti. Dentro l'astuccio.

C'è l'astuccio ma non la borsa. Ha preso il suo zaino, ma per metterci cosa?

Sulla scrivania i suoi quaderni perfettamente allineati. Li sfoglio compulsivamente, cercando qualcosa che possa essermi d'aiuto. Lancio un urlo scaraventando tutto a terra.

La stanza è soqquadro e le prime lacrime scendono sul viso. Sono dolorose, come ustionanti.

«Henry...» continuo a ripetere il suo nome come se possa comparire dal nulla.

Mi siedo disperata sul suo letto. Con le mani tra i capelli, cerco di pensare a dove possa essere andato. Mi metto di nuovo in piedi, facendo il giro della casa e sperando che abbia lasciato qualche traccia, un biglietto, nei film succede sempre, i bambini scappano ma lasciano qualcosa per strada per cui vengono sempre rintracciati. Ah, ma quando torna lo punirò fino alla fine dei tempi. Perché lui deve tornare.

Passo a setaccio in tutte le camere, alla ricerca di qualunque cosa potesse essermi utile. Ha preso giubbino e cuffia...almeno non avrebbe preso freddo. Controllo sotto l'albero di Natale, magari ha lasciato qualche lettera che non avrei dovuto leggere. E proprio di fronte all'enorme albero che ho comprato per lui, noto qualcosa di bianco sul portoncino.

Mi avvicino. Un foglietto attaccato con lo scotch.

“Per mamma” . Lo apro nervosamente, tanto che strappo un pezzo e devo mantenere la calma e non bagnarlo con le lacrime prima di riuscire a leggerlo.

“Ciao mamma. So che ora stai piangendo e mi dispiace tanto che ti sia preoccupata così, ma se ti avessi chiesto questa cosa non mi avresti ascoltato, e ho fatto di testa mia. Voglio dirti di non preoccuparti, farò ritorno entro stasera, vai a lavoro di mattina, così il tempo passerà più velocemente...davvero io sto bene. Non chiamare la polizia, non è necessario..ho aspettato che quella donna non potesse più prendermi prima di fare questa cosa, non volevo metterti nei guai. Sono sicuro che appena torno a casa capirai perchè l'ho fatto.

Ti voglio bene, Henry.

P.S: rimetti in ordine la mia stanza, so che l'hai distrutta”.

Rileggo il biglietto un paio di volte, per essere sicura di avere capito bene. Lui scappa di casa per fare chissà cosa e io devo stare tranquilla? Tornerà entro stasera. Lo voglio ben vedere!

Ok Regina rimani calma...Henry è un bambino cresciuto troppo in fretta forse e non si metterebbe mai nei guai, ma è comunque scappato di casa o è andato a fare qualcosa che mi ha tenuto nascosto e la cosa mi fa diventare pazza.

Ok, cosa devo fare? Superare la giornata, devo riempirla, ma non sarei riuscita ad andare a lavoro. No forse ha ragione, sarei dovuta andare...Dio mio stavo impazzendo letteralmente.

Forse è meglio evitare il caffè.

E sistemo la camera di Henry. Armata di pazienza riordino il caos che avevo creato solo mezz'ora prima...sembrava fosse passato un tornado, anzi un uragano. Le coperte dismesse, i cassetti tutti da riordinare. No è meglio andare a lavoro dopo una bella doccia, a quello avrei pensato dopo.

 

Quelle sei ore in ufficio mi sono sembrate eterne. Scorgevo l'orario sul mio orologio da polso ogni minuto, sembrava fosse il mio sguardo a scandire il tempo e non le lancette. Avevo evitato il caffè che non avrebbe fatto altro che agitarmi ulteriormente.

In tutta la mattina avevo bevuto solo dell'acqua naturale. Avevo sperato di trovare Henry fuori dalla porta al mio rientro ma alle tre del pomeriggio era tutto silenzioso, e vuoto.

Sfilo le scarpe accanto al bagno prima di mettere le mani sul disastro che è la camera di Henry. Partendo dal letto, in successione ritrovano un po' di armonia i cassetti della scrivania, comodino e armadio. I quaderni sono sgualciti, ma per punizione avrei potuto fargli copiare tutto.

Annuisco alle risposte che la mia testa sforna per le mie domande.

La cucina è ancora imbandita per la colazione e forse è il caso di sistemare anche quello. Il latte sembra buono, lo stesso non si può dire delle fette di pane tostato, ormai molli e immangiabili.

DIN DON.

Oddio il campanello, oddio Henry.

Lascio lo sportello della cucina aperto e mi precipito all'ingresso, rischiando anche di scivolare sul pavimento troppo liscio. Spalanco con poca dolcezza la porta e quello che vedo è assolutamente assurdo.

Henry che tiene per mano Emma che a sua volta tiene in braccio un bambino. Dietro di loro una carrozzina e Isabella, l'amica che mi odia.

Henry stava bene, su questo non c'è ombra di dubbio. Ma con lui c' Emma. E un bambino. Emma e un bambino, Emma più paffuta e più bella che mai che apre bocca solo per dire:

«Mi sento male, prendete la bambina».

Il suo braccio attorno alla stretta del fagottino si fa morbido, le gambe si piegano. Con un passo afferro il bambino prima che possa toccare terra mentre Isabella da dietro la sostiene.

«O mio dio, Emma!».

Mi faccio spazio tra Henry e la porta. Adagio quella che a quanto pare è una bambina sulla carrozzina e mi inginocchio accanto a Emma, schiaffeggiandola.

«Emma! Emma sono io!!!»

Henry è a casa e io devo pensare a rianimarla!

«Henry porta un po' d'acqua» è visibilmente spaventato.

«Andrà tutto bene vedrai!» scavalca le mie gambe che impediscono il passaggio e supera l'ingresso.

«Falla sdraiare per bene, le sollevo le gambe» dico a Isabella. Seguendo i miei consigli, adagia lentamente quel disastro di capelli biondi sul pavimento mentre cerco di sollevarle le gambe.

«Vieni da questa parte e tienile così» che diavolo le è successo?

Mi sposto dalla parte della testa e le prendo la mano. E' calda ma sudata. Le tasto il polso: debole e veloce, ha avuto un drastico calo di pressione.

Le accarezzo il viso continuando a chiamarla per nome. Fa freddo la fuori e lei non accenna a riprendersi. Il volto è pallido, le labbra quasi viola.

«Ho portato l'acqua, si sta svegliando?» dice Henry. Io faccio segno di no con la testa.

Stringo la sua mano mentre aspetto che i suoi occhi si aprano di nuovo. Sento un po' di forza nella sua presa, forse si sta riprendendo.

«Umhhh». Un piccolo lamento fuoriesce dalla sua bocca.

«Emma?».

Sotto le palpebre vedo gli occhi muoversi in modo caotico. Le pizzico la guancia.

«Ahia»dice lei.

«Allora sei sveglia» dico tirando un sospiro di sollievo. «Forza apri gli occhi ora».

Leggeri movimenti delle palpebre si accompagnano a respiri più profondi.

Poggio il mio braccio accanto alla sua testa, per poterla vedere meglio una volta sollevate le palpebre. Ed eccole li, alzarsi e richiudersi lentamente e meccanicamente, posso vedere le sue pupille dilatate...e posso sentire anche il suo polso impazzire quasi, sotto il mio sguardo.

«Ciao....come ti senti?».

«Non lo so...la bambina?» è davvero sua allora.

«Lei dorme, l'ho presa al volo, stai tranquilla».

Stringe le labbra, mordendole, mentre gli occhi le si riempiono di lacrime.

«No, perché piangi adesso?» le sfioro il viso con il dorso della mano, per poi poggiarla sul suo petto. E' agitata e tachicardica.

«Isabella puoi lasciarle i piedi ora. Porti la carrozzina dentro e ci lasci un attimo sole, per favore?» mi volto verso di lei e anche se un po' contrariata, con l'aiuto di Henry apre l'altra parte del portoncino d'ingresso per permettere il passaggio delle ruote. Henry mi lascia il bicchiere e poi sparisce, dietro Isabella.

Torno su di lei che ancora piange.

«Ce la fai ad alzarti? A sederti anzi?».

«Credo di si» con l'aiuto delle mie braccia, lentamente la aiuto a mettersi seduta, facendole poggiare poi la schiena sul muro. Poi prendo il bicchiere.

«Tieni, bevi qualche sorso».

Lo afferra con mani tremanti e dopo essersi a mala pena inumidita le labbra lo posa di fianco a lei.

Continua a fissarmi quasi terrorizzata, con gli occhi pieni di lacrime e io non riesco a capire perché non riesca a smettere.

«Sono contenta di vederti» confessa alla fine.

Anche io sono contenta di vederla. Tanto, troppo. Le ho detto addio e ora lei è qui di fronte a me.

«Vieni qui avanti» allungo le mani verso di lei prima di stringerla in un abbraccio.

«Anche io sono contenta di vederti...non pensavo potesse accadere di nuovo» sussurro tra i suoi capelli. Quei capelli, il profumo che emanano...

Sento le sue mani stringersi forte dietro la mia schiena, ma quella posizione, inginocchiata sul freddo marmo, non è l'ideale per le mie ginocchia.

«Mi fanno male le gambe, che ne dici se andiamo dentro a parlare?».

Allenta la presa, ma non lascia il mio corpo. Stringe le mani sui fianchi.

Quella presa. So cosa significava.

«Emma....» inclino un po' la testa, quasi supplicandola, e un calore a cui non sono più abituata si insinua dentro di me. Quello sguardo è devastante per i miei sensi.

«E' sempre difficile stare a guardarti e basta» dice poi lei, con voce bassa.

Abbasso lo sguardo, imbarazzata. Facendo leva sulle mani, mi raddrizzo, con le ginocchia doloranti. Allungo il braccio verso di lei e facendo un po' di forza si mette in piedi in pochi secondi.

Ora finalmente posso notare alcuni cambiamenti. Il giubbino slacciato espone un seno molto più grande rispetto all'ultima volta...il ventre non è piatto e i fianchi sono un po' più larghi e morbidi.

H paura.

Paura di come ha avuto quella bambina, paura di sentirmi dire che è sposata o qualunque altra cosa che mi confermi che l'ho persa. Al dito non ha nessuna fede, e nessun altro anello.

«Ti gira ancora la testa?» le sistemo una ciocca di capelli dietro le orecchie.

«Non mi sembra...».

«Bene, possiamo entrare allora».

Mi volto e le lascio spazio per entrare, cosa che lei fa con due passi incerti, massaggiandosi la tempia. Chiudo poi la porta alle nostre spalle.

Di fronte a noi, un Henry e una Isabella con occhi avidi di curiosità aspettano un nostro segno.

Emma si avvicina alla carrozzina e tira un sospiro di sollievo. Io poggio il bicchiere d'acqua sul tavolo.

«Dorme ancora per fortuna....».

«Deve aver preso da te» dice Isabella che intanto si era accomodata sul divano.

Silenzio.

Io me ne sto in disparte mentre lei ammira quella creaturina dentro la carrozzina.

Henry rompe il silenzio.

«Forse voi dovreste parlare».

Emma alza lo sguardo trovando il mio, poi si siede sul divano.

«Io e Isabella andiamo in camera mia, devo fargli vedere un sacco di cose, vero?».

«Oh, sicuro, me ne stavi parlando proprio prima» si alza, prendendo per mano mio figlio, e sorridenti spariscono dietro il muro del corridoio, fino alla camera di Henry.

Di nuovo silenzio. Gli unici rumori sono quelli dei nostri respiri e del battere dei cuori. Sono certa che il mio si sente la fuori. Infila la mano nella sua tasca e estrae un foglio.

Ha un che di familiare. Poi inizia a leggere.

«“Amore mio,

Scrivo su questo foglio parole che non avrò mai il coraggio e l'opportunità di pronunciare a voce guardando i tuoi occhi, toccando le tue mani, baciando le tue labbra».

E' la mia lettera.

«Come fai ad averla tu?».

«Me l'ha portata Henry».

«Sei una presenza costante, quasi un'ombra che segue ogni mio passo. Henry riempie costantemente le mie giornate ma bastano cinque minuti senza di lui che tu mi piombi addosso come un camion, e rialzarmi è ogni volta più difficile».

«Ti prego smetti di leggere...» sta rileggendo quella lettera. Non posso riascoltare le parole che con tanta fatica ero riuscita a buttare giù, su quel foglio, senza che il cuore mi si spezzi letteralmente dentro il petto.

«Ho usato Henry per allontanarti da me quando proprio lui mi ha fatto capire quanto avresti solo migliorato la mia esistenza, e anche la sua. Questo pomeriggio avevo la nostra foto in mano e lui mi ha detto che mi vedeva spesso triste e temeva che non fossi felice con lui. Ti rendi conto? Lui pensava non fossi felice di averlo con me.

Gli ho spiegato quanto fosse la cosa più bella che mi fosse capitata, ma che tu mi mancavi. Allora mi ha chiesto se tu fossi la mia fidanzata. Quanto imbarazzo Emma...mi sono sentita una bambina alle elementari». La sua voce era dolce mentre leggeva. Tremava e prendeva respiro ogni qualvolta leggeva quanto non fosse mai finito nulla per me.

«Avevi ragione...tu non saresti stata un ostacolo. La nostra storia, il nostro amore era agli inizi, ma Henry con noi avrebbe solo rafforzato il nostro amore e il fatto che ti sia ricordata di Henry mi ha solo confermato quanto potessi essere perfetta accanto a me. Tu sei stata quasi mamma, avresti fatto di tutto per salvare tuo figlio vero? Ho pensato di fare la cosa giusta per il mio.

Solo che ho sbagliato con te, la persona che amavo.

Che amo».

Ripiega il foglio sistemandolo nella tasca del giubbotto, che poco dopo decide di togliersi e poggiare sul bracciolo del divano.

Si avvicina lentamente e sento il pavimento sotto di me tremare.

«Quelle cose che hai scritto sono vere?».

Il suo sguardo mi paralizza così come il suo odore e la sua presenza.

«Si...».

«Ok...perché devo raccontarti delle cose allora, e non so se ti piaceranno»

Oh io so ci sarebbe stato qualcosa che mi avrebbe definitivamente distrutta.

Allunga il braccio per chiamarmi. Lentamente rimetto in movimento il mio copro, afferro le sue dita e le intreccio con le sue, sedendomi sul divano accanto a lei e alla carrozzina.

Mi siedo un po' di lato, cercando di mantenere un contegno. La realtà è che sono terrorizzata.

«Allora....» sembra stia organizzando le idee «quel famoso giorno di marzo in cui tu mi dicesti che dovevi badare a Henry...ho deciso di pensare solo a me. Non mi avresti più trovata a piangere o a crearmi più o meno consapevolmente cicatrici nelle mani con frammenti di tazze su cui avevi posato le tue labbra».

Ha una sicurezza negli occhi, che prima non esisteva.

«Per cui, dopo un sonno durato quasi 24 ore grazie a qualche sonnifero, decido di sfruttare al meglio tutte le sere che avevo a disposizione perché la mia vita non doveva finire per un amore sbagliato».

Sentire la parola “sbagliato” dopo “amore” riferita a me...mi fa male.

«Quindi sono uscita per due mesi di fila praticamente tutte le sere, tornavo a casa ubriaca e soprattutto cercavo di riempire quel vuoto con qualcos'altro, con qualcun'altro»

Questo non so se posso sopportarlo.

«Tu non c'eri e le donne...pensare di toccare una donna che non fossi tu mi sembrava a dir poco utopia, per cui lasciavo che i ragazzi credessero che potessero interessarmi. Li usavo e basta...ma erano incapaci e dopo ero più vuota e triste che mai».

«Con quanti maschi hai fatto....sesso?».

Aggrotta le sopracciglia con aria confusa.

«Non credo di ricordarlo...anche perché ero quasi sempre ubriaca...».

«Bel modo per dimenticarmi...».

«Non credo che tu sia nella posizione di giudicare Regina...non puoi giudicare il modo che ho usato per rimettere a posto i pezzi di qualcosa che tu hai distrutto».

Bruciano le sue parole...ma in effetti è vero, l'ho lasciata e senza tornare indietro, mai.

«Poi per qualche tempo sono stata male e gli antiacidi che prendevo non bastavano più, e solo allora mi sono accorta che non avevo il ciclo da quando ero stata con te in campagna...e ho fatto due più due...».

«Che in questi casi fa sempre quattro, vero?».

«Senza margine di errore...e il giorno che ci siamo incontrate, che ti sei avvicinata alla macchina...stavo andando dal medico ed ero terrorizzata, avevo paura che con tutto quell'alcol avrei potuto perdere di nuovo il bambino e non l'avrei sopportato».

Accenna un sorriso, poi si alza e afferra la bambina. Scopre un po' il suo visino e le manine, che si stringono subito attorno al suo dito. E' bellissima. E quel fagottino è così perfetto tra le sue braccia che...

«Ho fatto tutti i controlli necessari, poi ho deciso di andar via da qui. Vederti mi avrebbe destabilizzata e dovevo stare tranquilla per lei...» solleva lo sguardo verso di me.

«La vuoi tenere?» mi chiede timidamente.

Rimango un attimo interdetta prima di rispondere.

«Si, certo che la voglio tenere» allunga la sua bambina tra le mie braccia. Faccio attenzione a reggere bene la testolina piena di capelli neri. Ha decisamente le sue labbra e il suo naso. La forma degli occhi però è diversa. Che piacevole sensazione tenere tra le braccia quella bambina.

«E la mattina di 15 giorni fa, è nata lei...un travaglio lunghissimo, mi facevo le vasche nei corridoi per accelerare il tutto ma non ne voleva sapere di uscire!».

Si avvicina a me, sfiorandole la fronte.

«Chi è il padre?» domando a bruciapelo.

Il sorriso che h muore improvvisamente.

«Che c'è? Posso sapere se conosce l'esistenza di questa bambina, di me, se, non so, lui è innamorato di te...» il volume della mia voce è aumentato di qualche tono. Improvvisamente l'idea che Emma possa avere un uomo/padre della bambina a girarle intorno mi ricorda quanto sia gelosa.

«Ti ho detto che non mi ricordo nemmeno un nome, come puoi pretendere che sappia chi sia il padre?».

«Tesoro una donna lo sa sempre».

«Be io non lo so e sinceramente non mi interessa saperlo. Se avessi voluto cercarlo l'avrei fatto mesi fa e soprattutto non sarei venuta fin qui con tuo figlio che pare l'unico ad aver capito le cose».

Aggrotto le sopracciglia, cercando di capire.

«Si, ha detto che usiamo lei e lui come scusa per non...affrontare...quello che proviamo».

«Con la differenza che ti sei scopata mezza città».

«Con la differenza che io non ti avrei mai lasciata».

«Dovevo pensare a Henry e tu lo sai!».

«Cazzate, io ti sarei solo stata d'aiuto e non avrei mai fatto nulla per metterti nei guai. So bene cosa significa per te!».

Perché anche se non le avevo detto nulla mi conosceva così bene?

Sono arrabbiata con lei. Ha fatto sesso con chissà quanti uomini...non so se sarei riuscita a perdonarla anche se il risultato è qualcosa di meraviglioso. Poggio il palmo della mano sul petto della bimba...lei è così tranquilla e ignara di quanto il mondo sia incasinato.

«Hai una bambina bellissima, di certo il padre non era un nano con gli occhi storti».

«Di solito li prendevo belli e scemi, così non dovevo parlare troppo...».

Erano pure belli.

«Ma non erano belli quanto te. Nessuno lo sarà mai».

«Opportunista» rispondo senza pensarci, molto imbarazzata.

«Vuoi sapere come si chiama?»

Perché mi fa questa domanda? Cosa mai ci può essere di così strano nel nome di una bambina?

«A meno che non sia un segreto...».

«No, non lo è» sorride «Si chiama Mia. Mia Regina Swan».

Mia REGINA Swan. Regina. Le ha dato il mio nome. Continuo a guardare la bambina, poi lei, poi di nuovo la bambina e l'unica cosa che riesco a fare è stare imbambolata con la bocca mezzo aperta.

«Appena me l'hanno messa addosso l'ho guardata dritta negli occhi e poi ho visto quell'ammasso di capelli scuri...mi ricordava te. E volevo che lei avesse un po' di te...ecco perché le ho dato anche il tuo nome. Ho rafforzato quanto lei fosse importante per me...».

Ha dato il mio nome a sua figlia. Non è una cosa che avrei potuto immaginare. Credevo che mi odiasse, che avrebbe cercato di allontanare il più possibile tutto ciò che potesse in qualche modo ricordarle la mia esistenza.

«E stamattina si è presentato tuo figlio e giuro stavo per riportarlo subito da te perché sapevo quanto potevi essere preoccupata, ma mi ha fatto leggere quel foglio e...valeva la pena ascoltare le sue parole...».

«E' un bravo bambino...» dico ancora incredula.

«Ha avuto, ha, una buona madre e una buona educazione...».

Troppe novità, troppe emozioni.

«Avrei voluto averti accanto quando è nata....e mi sarebbe piaciuto che ci fossi anche dopo...».

I suoi occhi brillano. E' triste e felice, bambina e adulta, spaventata e coraggiosa. E prega che la tega con me.

Basta. Non posso più aspettare. Mi alzo e poggio Mia sulla carrozzina. Prendo le mani di sua madre e la tiro verso di me.

«Stai cercando di comprarmi ma non importa...Io ti amo e non voglio che te ne vada. Non voglio che ve ne andiate..possiamo essere una famiglia, io, te, Henry e Mia...saranno i nostri figli, nella nostra casa....».

Non ho minimamente pensato alle conseguenze di quello che dico, perché la frase appena pronunciata è l'unica cosa che ho avuto in testa da quando se n'era andata.

Io lei e Henry.

Ora c'è anche la piccola Mia e non serve altro alle nostre vite se non essere felici.

Qualche minuto per assorbire l'informazione. Guarda Mia, poi guarda me. Sorride. Il sorriso che mi ha fatto innamorare di lei. Mi sfiora le labbra con le dita prima di baciarle...morde il mio labbro e affondo le mie mani nei suoi capelli, per attirarla verso di me. Quello è il mio si.

Si stacca da me, solo per un attimo..nei suoi occhi c'è di nuovo il fuoco.

«Tu non hai la minima idea di quanto ti desideri in questo momento» le sue mani sotto la mia maglia.

«Sono gli ormoni cara» dico ancora intontita dalla situazione e riprendendo a baciarla.

«No, sei tu, sei sempre e solo tu Regina. E lo leggo nei tuoi occhi che anche per te è lo stesso» le sue nuove forme sono assolutamente perfette. Così come la sua bocca sul mio collo. Il suo corpo quasi spalmato sul mio mi ha ricordato una cosa.

«A quanto sei arrivata di reggiseno?».

«Una quinta...» lo dice sulle mie labbra, con voce roca.

Infilo le mie mani nelle tasche posteriori dei suoi jeans facendo aderire il suo corpo col mio.

«Ho questa voglia malsana di spogliarti in questo punto della casa e toccare ogni centimetro del tuo corpo» l'eccitazione è arrivata al limite per me.

«Credo che qualche centimetro dovrai risparmiarlo, non posso far sesso per altri 25 giorni».

«Dimmi che è uno scherzo» dico quasi disperata.

«Mi sa di no...nel post parto funziona così...tu però non hai partorito....».

Le labbra si incurvano in un sorriso diabolico.

«Cosa vorresti fare?» faccio un passo all'indietro, senza respiro. Lei mi segue con un altro passo fino a terminare la mia corsa sul tramezzo che divide ingresso e salotto.

«Credo che tu sia in trappola ora...» inclina un pochino la schiena, insinuando la mano sotto la gonna.

«Emma....c'è la bambina qui e la tua amica con mio figlio nell'altra stanza».

«Le tue parole dicono una cosa, il tuo corpo un'altra» la biancheria...quella zona del mio corpo, in sua presenza, non posso proprio controllarla.

«Vero Regina?» sposta lateralmente lo slip, sfiorandomi.

Mi mordo il labbro tentanto di darmi un po' di contegno. Con un sorriso soddisfatto e la sua bocca sulla mia, soffoca i gemiti dati dalle sue mani tra le mie gambe.

«Mi sei mancata da morire» le dico cercando di tenermi in equilibrio sulle gambe tremanti.

«Non esiste cosa più eccitante dei tuoi occhi quando sei sotto le mie mani e nemmeno tutti gli uomini e le donne del mondo possono rendermi felice come fai tu».

I movimenti delle sue dita e le sue mani sono insieme devastanti per me: affondo le unghie sulla sua schiena alla fine, incapace di resistere un altro minuto.

Col respiro ansimante, appoggio la mia testa sulla sua spalla, su cui lascio dei piccolo baci.

«Ti amo» dice subito dopo. «E non voglio andarmene».

«Non sarà facile lo sai?» dico io circondandole le spalle con le mie braccia.

«Non mi piacciono le cose facili...e poi tra noi non è mai stato facile, ma forse ne vale la pena».

E' così. E' così palese che sia così.

«Non voglio essere da nessun'altra parte se non tra le tue braccia e soprattutto non voglio che tu sia tra le braccia di qualcun altro».

«Allora ci impegneremo affinché ciò accada».

Un lamento di Mia ci fa tornare alla realtà.

«Vado a cambiarla».

«E io vado a chiamare quei due» le lascio un bacio sulle labbra prima di sistemarmi la gonna.

Emma si dirige verso il bagno e io busso nella camera di Henry.

«Siete vivi?». Apro la porta.

«Ci stavamo chiedendo la stessa cosa...».

«Uscite dai...».

Improvvisamente mi ricordo di Henry e che fosse fuggito senza avvertirmi.

Mi sistemo di fronte a lui con aria severa. Strizza forte gli occhi, in attesa della mia sfuriata.

«Non farlo mai più» mi limito a dire abbracciandolo.

«L'ho fatto per te...».

«Non farlo comunque mai più».

«Va bene mamy...Mia è bella vero?».

«E' bellissima Henry, bellissima» mi abbraccia prima di scappare di nuovo da me per tornare da Mia e rimango sola con Isabella.

«Se la fai soffrire di nuovo ti farò passare dei guai» Dice in tono di sfida.

«Non mi conosci nemmeno...».

«Ti conosco quanto basta. Emma ti ama...non fare altri errori con lei. E' una persona fragile, ha bisogno di certezze e di persone stabili».

«Io lo sono anche troppo...».

«Allora siamo d'accordo» allunga la sua mano in segno di pace. Gliela stringo.

«Grazie per non aver ammazzato mio figlio in qualche incidente stradale».

«Emma non me l'avrebbe mai perdonato, e io le voglio bene» annuisco mentre la invito a uscire per raggiungere il salotto.

Sul salotto, Emma allatta la piccola, ed è visibilmente stanca. Ha la testa poggiata sul bordo del divano e tiene gli occhi chiusi. Henry guarda incantato la bambina.

«Credo che debba andare ora» mi dice Isabella a bassa voce.

«Ok, ti accompagno».

«Tornerò domattina per controllare la situazione...».

«Messaggio ricevuto» dico guardandola.

«Ciao Isabella, grazie» biascica Emma dal divano.

«A domani piccola» risponde lei varcando la soglia.

«Ciao Regina».

«Ciao..».

Chiudo la porta e raggiungo gli altri sul divano.

«Vuoi ripassare il post pasto di un neonato? »mi chiede divertita.

Le prendo la bambina dalle braccia mettendola in posizione verticale. Henry segue ogni minimo movimento e si posiziona dietro il divano, per guardarla meglio.

«Ciao sorellina...io sono Henry».

Sgrano gli occhi e volto la testa verso Emma che è stupita almeno quanto me. Le sorrido dolcemente, poi prendo la bambina per guardarla dritta negli occhi.

Ed è in quel momento che ho provato quell'improvviso e inspiegabile amore che si prova solo per un figlio. Amore che non dipende da chi l'ha messo al mondo, ma dalla fatica, dalla sofferenza, dal tempo speso per amarlo, o per amare chi ti lega a lui.

E io amo Emma.

Questo fa di Mia Regina anche mia figlia.

Questo fa di noi una famiglia.

 

 

Note dell'autrice:ed eccoci qui, giunti alla fine di questa avventura. Si perchè all'inizio della scorsa estate non avevo idea che sarei riuscita a finire una storia con la laurea e gli ultimi esami da affrontare. Ma scrivere su di loro mi portava in un mondo talmente bello da non poterne fare a meno: la magia che trasmettono queste donne quando si guardano negli occhi è un qualcosa che probabilmente non riuscirò mai a descrivere, forse perchè per amare come sono riuscita a far amare loro ci vuole tanto coraggio, coraggio che non sempre si ha nella vita reale. Ma visto che gli autori di OUAT non vedono in loro come coppia quello che vediamo noi SQ sfegatate, è giusto regalarci un angolino di fantasia che ci faccia sognare.

Ho terminato di scrivere questa storia un mese prima della mia laurea (avvenuta a ottobre 2013), come se mettere per iscritto la mia idea fosse necessario per avere spazio e concentrazione per il resto...è stato bello vedere come cresceva, ma ancor di più constatare come le persone che la leggevano, ancor prima di pubblicarla, la apprezzassero e la amassero. Ed è per questo che ho deciso, in un momento di pura follia, di metterla su un blog. Su questo blog.

E oggi ero davvero triste perchè sarebbe stata l'ultima volta che avrei letto le vostre appassionate recensioni che miglioravano davvero le mie giornate.
Quindi grazie per i commenti positivi, grazie per essere stati costanti nella lettura e grazie per aver sognato insieme a me.

Spero di poter tornare presto con una nuova storia che per me valga almeno la metà di questa, sarebbe già un bel traguardo.

Vi abbraccio tutti con affetto,

Marta.

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