The sun hasn't died

di Rota
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** *Prologo* – I'm waking up to ash and dust ***
Capitolo 2: *** *Capitolo uno* – I wipe my brow and I sweat my rust ***
Capitolo 3: *** *Capitolo due* – I'm breathing in the chemicals ***
Capitolo 4: *** *Capitolo tre* – I'm breaking in, shaping up ***
Capitolo 5: *** *Capitolo quattro* – I'm waking up, I feel it in my bones ***
Capitolo 6: *** *Capitolo cinque* – Enough to make my systems blow ***
Capitolo 7: *** *Epilogo* – It's a revolution, I suppose ***



Capitolo 1
*** *Prologo* – I'm waking up to ash and dust ***


*Autore: Rota
*Titolo: The sun hasn't died
*Fandom: Shingeki no Kyojin
*Personaggi: Reiner Braun, Bertholt Hubert, Un po' tutti
*Genere: Introspettivo, Angst, Sentimentale
*Rating: Arancione
*Avvertimenti: AU, (sparuto) Shonen ai, Non per stomaci delicati, Death Character
*Prompt: Coltello – Forte perdita di sangue
*Credits: Lyrics del titolo e dei capitoli prese da “Radioactive”, de Imagine Dragons
*Note: Au che ha come base di idealizzazione e realizzazione il video e la canzone “Radioactive”. Questo per dire che c'è un ring, c'è un mostro che combatte e c'è un aguzzino – ovviamente condito con altri elementi che lo adattano a mie esigenze di trama, tra cui ovviamente un'introspezione psicologica notevole.
Questa volta ho preso in esame il personaggio di Reiner, e sono consapevole della difficoltà che la mia scelta implica. Lo reputo però un personaggio davvero interessante, che merita amore e attenzione. Molto del mio ragionamento verte sulla dicotomia guerriero/soldato che divide la stessa psicologia di lui. Qui, ovviamente, Reiner viene rappresentato come il soldato, che combatte per un'ordine. Bertholt, come sempre, sarà il legame tra lui e la sua parte del “guerriero”.
Spero di aver fatto comunque un buon lavoro, con questo ragazzone che mi piace tanto.
Niente, buona lettura (L)





Quarta classificata al contest "Angst a tutto spiano", indetto sul forum di EFP da AoKise 92 e valutato da AmahyP
Seconda classificata al contest "Cerco un centro di gravità permanente", indetto sul forum di EFP da darllenwr e valutato da Reine_De Poiters




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*Prologo*

I'm waking up to ash and dust

 

 

 

Bertholt tossisce, nel tentativo di liberare i polmoni almeno un poco della polvere che ha aderito alle loro pareti molli e fredde. Si sente stringere il petto e per qualche secondo la gola è ostruita da una spessa cappa che gli blocca il respiro all'inizio della trachea e lo rimanda indietro, a intossicare i bronchi già provati.
Solo una ferma volontà gli impedisce di cadere preda di una crisi di panico – sarebbe la terza in poche ore, e non vuole ritrovarsi ancora a terra a graffiare il pavimento con le proprie unghie sporche, rotte e nere. Ha già scavato abbastanza nel cemento freddo, strisciando i propri polpastrelli sui suoi grumi deformi e lasciando tracce irregolari del proprio sangue rosso senza ottenere soddisfazione alcuna, ma solo un dolore più acre, fatto di carne corrosa.
Fissa il vuoto e cerca un ordine, un qualsiasi ordine, nella propria testa, che possa dargli quel minimo appiglio a cui aggrapparsi, nei secondi necessari perché volontà e organismo ritrovino il giusto equilibrio.
Non funziona con la conta dei teschi che lo circondano, non funziona il ricordo dei loro nomi e delle loro voci. Non funziona neanche il rumore di un gocciolare lontano, persistente e regolare, di una qualche perdita che dal soffitto si riversa sul pavimento, come un metronomo che non ha mai abbandonato lo trascorrere dei suoi giorni, da quando la sua memoria lo ha posto in quel luogo.
Bertholt allunga il braccio, verso quell'aria lurida di marcio e di grigio stantio, e distende le dita della mano tra qualche spasmo e una vecchia ferita che si apre, tra l'indice e il medio e percorrendo tutto il dorso. La poca luce dell'atmosfera si raccoglie tutta nel lucido perlaceo delle cicatrici che percorrono la superficie della sue pelle: le guarda a partire dal polso, lungo una linea ben dritta che gli arriva ingrossandosi fino al gomito per poi diramarsi e salire, salire fino alla spalla, dove va a nascondersi sotto quel che rimane dei cenci di abiti che furono. Ricordarsi le ragioni di quella come delle cento altre cicatrici che gli deformano la linea dei muscoli sodi e compatti e delle dita forti – una alla volta, una dopo l'altra – gli impreziosisce lo sguardo di una sfumatura tipica della risolutezza e placa l'ansia del suo petto, che torna a gonfiarsi con regolarità e a catturare e rilasciare il poco ossigeno necessario per poter respirare. La cappa che gli blocca i polmoni si dissolve in un'altra, scura, nuvola di polvere, che viene sputata dal naso e dalle labbra come vomito inconsistente.
Lui chiude la mano a pugno e fa emergere dalla pelle i tendini tesi, che rivelano così di più i segni di lotte non tanto lontane e ne danno una consistenza ancora più deformata. Lì c'è la ragione della sua libertà morale, lì c'è la ragione della sua prigionia fisica.
Riesce, alla fine, nel proprio intento di rimettersi in piedi, e la posizione retta gli dona una visione più completa del luogo che ormai conosce bene e che lo circonda tutto.
Quelle segrete hanno assunto l'aspetto di un labirinto nei giorni in cui la pazzi ha privato della giusta ragione i suoi occhi, così che il buio, il disorientamento e l'abbandono più crudele partorissero immagini tutte mentali di mostri terrificanti e colpe materiali senza nome. Poi, quando si è ripreso, ha visto cadaveri dall'aspetto ben peggiore dei propri più cupi terrori, ma non ha saputo rinunciare alla propria ragionevolezza per qualche ora di sonno in più, nel freddo di una dimora che riusciva a offrire come unica coperta polvere smossa e sporco ormai putrido.
Bertholt fa qualche passo in avanti e il sangue torna a scorrergli in modo regolare nelle vene – pulsa qui e là, dove ferite fresche gli aprono un poco la pelle e lo sporcano di nero. Non vede chiaramente dove si sta dirigendo, ma ha il passo sicuro e nella memoria la giusta direzione da prendere.
Non guarda troppo le ossa allungate sul pavimento e i resti raggomitolati negli angoli di stracci e carne, non vuole donare altra pietà al proprio cuore né altra angoscia alla propria mente.
Si è ricordato, quella mattina, di un particolare a cui non ha mai dato attenzione prima, e ora che ha la coscienza al posto giusto vuole solo porre rimedio a un errore già troppo protratto nel tempo.
Arriva nell'ala sud delle segrete, lì dove un muro forma un angolo cieco che finisce contro una parete spessa, e aguzza la vista nel buio, alla ricerca del suo tesoro. Non senza un certo timore, allunga nell'ombra la mano, e prima che fantasmi e parassiti lo agguantino e lo trascinino con sé riesce a afferrare quanto desiderato e a ritirarsi in fretta.
Bertholt ha una nuova luce negli occhi quando sul suo palmo vede, finalmente, un battente con una sola estremità ancora tonda. Lo stringe di nuovo, portandosi anche la mano al petto, con il cuore che riconosce dopo tanto tempo la sensazione dell'aspettativa.
Cammina verso l'altrove, allontanandosi da tutto quel buio.
Trova, sempre nel medesimo posto, quella grancassa abbandonata sul pavimento, distesa per lungo e con il ventre di pelle esposto. La alza e la sorregge, con un piede e un braccio, e i suoi polpastrelli la accarezzano abbastanza da sentire la perfezione di una superficie ancora liscia e levigata.
Non sa perché si trovi in quel luogo, abbandonata come tutti i combattenti troppo anziani come lui, né come mai sia stata lasciata proprio lì, a loro disposizione. Forse nessuno ha mai pensato che il silenzio della morte potesse essere spezzato dal suono grave e forte della più imponente delle percussioni, con quel suono che emerge dalle viscere di un interno troppo intimo e profondo per non scuotere animo, corpo e tutto l'universo.
Lo tocca la prima volta con reverenza e timore, e si sente vibrare assieme alla pelle del tamburo. Il secondo colpo è più forte e deciso, e viene seguito dal suo urlo: c'è vita, ancora.
Il sole non è ancora morto.

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Capitolo 2
*** *Capitolo uno* – I wipe my brow and I sweat my rust ***


*Capitolo uno*

I wipe my brow and I sweat my rust

 

 

 

La camera del campione ha una sola finestrella, posta in alto verso il soffitto, da cui ogni mattina può filtrare la giusta luce perché ci si accorga che un nuovo giorno è arrivato – i due portoni di metallo, ad ante larghe quasi quattro metri, sono ingressi e uscite da cui non scappa neanche un filo di coscienza. La finestrella non ha altro scopo che quello, perché per la sua altezza e la sua modesta grandezza non permette ad alcuno di affacciarsi e di ammirare quanto propone: la visione di un campo di grano e una collina erbosa, sul cui dolce fianco si alzano tranquilli alberi con una chioma ormai verdastra, data la stagione, e quelle radici emergenti protette, riparate e nascoste da piccoli arbusti e cespugli verdi pieni di rovi, casa di qualche roditore e fringuello poco chiacchierone.
Di uomini, esseri umani propriamente detti, se ne vedono sempre pochi in giro, e tutti seguono quel viale in terra battuta che una volta aveva anche dei ciottoli bianchi, da qualche parte, dispersi però nel tempo dall'usura di gomme di qualche fuoristrada particolarmente vanagloriosa e sparpagliati dalla noncuranza di chi possiede occhi solo per egoistici sentimenti gretti come l'aspettativa di una facile vittoria. Tutti, nessuno escluso, arrivavano alla modesta costruzione in legno immersa nel nulla attraverso quel singolo viale, come se dovessero per forza seguire norme relative a un qualche rito divinatorio e propiziatorio, una sfilata di maschere uguali che non cambiano espressione e non hanno particolare affinità di sentimento.
C'è un pollaio affiancato alla cella della sola mucca presente, pochi metri oltre l'ingresso del capanno, per dare l'aspetto innocuo di una modesta attività campagnola; di certo uova di galline così sane non se ne trovano in altri posti, e il padrone di tutti quegli animali conserva il sentimento di astio e di sospettosa ambivalenza per quanto vive e si erige al di fuori del proprio orto, a cominciare dai supermercati e dal latte di mucche che non ha allevato egli stesso.
Quell'uomo può vantare la soddisfazione e la sicurezza di riuscire a contare esclusivamente su se stesso e la propria indipendenza, senza dover favori o debiti a nessuno al di fuori della propria egocentrica, squilibrata persona.
La camera del campione è inoltre dotata di quattro pareti lisce, bianchissime e senza la minima incisione o il più misero dipinto, che riflettono, in certi giorni di estate, una luce artificiale accecante – ma l'occupante attuale è abbastanza giovane e presente in quei luoghi da troppo poco tempo per definirsi qualcosa di diverso che inesperto, e in quella che è una giornata del primo autunno può svegliarsi senza l'occorrenza di doversi riparare da alcun altro tipo di fastidio esterno.
L'odore pungente della paglia non gli fa più arricciare il naso, così come l'odore dell'umidità tipica degli ambienti vicino alle stalle: la memoria artificiale che gli è stata preservata lo conserva in uno stato che arriva a rassomigliare la beatitudine temporanea anche in stretto contatto con questi elementi, ritenuti abbastanza superflui da risultare perlopiù superficiali e non importanti.
Non apre gli occhi ancora, il campione, e si allunga sotto la coperta sottile che gli è stata concessa, assieme a quell'angolo di vita. Ha dormito stretto nella propria persona per tutta la notte, nel tentativo istintivo e del tutto privo di razionalità di conservare per sé il calore corporeo e di combattere a questo modo il primo arrivo del freddo stagionale, penetrato attraverso gli spifferi del luogo e arrivato fino alle sue carni. Sente i muscoli tirare, i tendini dolere, e si augura che sia solo una sensazione passeggera, che accompagni la dormiveglia e l'ultimo minuto del suo riposo. Apre gli occhi e vede una spiga di grano sbucare al di fuori del mucchio che gli fa da giaciglio, con la corolla appena schiusa a una fioritura ormai morta e diventata del colore dell'oro; sorride, d'istinto, perché gli è naturale farlo e non viene accompagnato da alcun pensiero di punizione. Sa che entro pochi minuti accorrerà il suo padrone, a dargli la colazione di ogni mattina e a liberarlo dalle catene che gli costringono i polsi e le caviglie; eppure, con ancora la guancia sprofondata nel guanciale umido e poco pieno, rimane immobile con le palpebre appena aperte, persino respirando piano. Nessuno gli ha ricordato, negli ultimi tempi, come il sentimento che provi si chiami realmente; lui lo ha dimenticato insieme a tantissime altre parole, e la curiosità che sente e ben riconosce si mischia a qualcosa di caldo che non gli fa affatto paura.
Il padrone è arrivato e lo sta chiamando: è lo stesso piede del campione, pochi minuti dopo, a schiacciare quello stelo di paglia.

 

La chiave gira nella serratura e l'ultima delle catene viene sfilata dalle manette di metallo, scivolando fino a terra a raggomitolandosi in un piccolo mucchio scomposto. Il campione alza prima un piede e poi l'altro, per tendere e scaldare le proprie articolazioni e scaricare il dolore del torpore il più in fretta possibile. Piega le ginocchia e le alza fino a sopra il livello del bacino, fa roteare le braccia e avvicina mani e polsi al proprio busto.
C'è il padrone lì presente, appoggiato contro la staccionata di legno, che lo guarda con una certa soddisfazione nella piega del sorriso. C'è qualcosa di più che il semplice e genuino sentimento paterno: è il compiacimento dello scienziato che ammira il proprio esperimento perfetto. Sui muscoli formati della schiena e sulla testa bionda dai capelli corti e appena ispidi, così come sul contenuto di quella stessa mente perfettamente e finemente lavorata.
-Lo sai, Reiner, cosa ci definisce?
Il campione si blocca, con quei due occhi chiari che si fissano sull'uomo, attento e un poco incuriosito allo stesso tempo. È sincero da subito, perché l'utilità della menzogna è stata sradicata dal suo cervello e lui non ne conserva neppure in minima traccia.
-No, non lo so.
La bocca del padrone si riempie di parole, che non graffiano e non urtano, non stridono all'udito e non fanno particolarmente pressione, ma sono l'espressione atona di chi espone la propria relazione a una commissione di giudicanti passivi e poco partecipi.
-Al mondo esistono ingenui che credono siano le discendenze, o le cose materiali, o ancora le conoscenze che si accumulano in anni di studio isolato. Pensano che l'essere in potenza basti per modellare su ogni persona una precisa conformazione individuale, senza rendersi conto che basta un singolo aggettivo per collocarci in un insieme indefinito di maschere senza espressione.
Il campione non capisce subito, rimane perplesso da tutta quella quantità di parole e dalla retorica fine di chi sa destreggiarsi su più piani logici. Il concetto di base è avvicinabile, lo percepisce nella propria ombra, ma non ne afferra la precisa definizione e questo lo frena appena dal fare qualsiasi osservazione inutile.
Non comprende come la colpa risieda nella malizia altrui.
-Anche lei è una persona istruita.
-Ho attinto quello che mi serviva da tutte le fonti possibili, che fosse la mia esperienza passata o un testo per la formazione medica, e ho composto pezzo dopo pezzo con le mie stesse mani quello che sono.
L'uomo si separa dalla staccionata di legno, con un colpo secco dell'anca, e si avvicina di pochi passi al suo protetto. La vicinanza ricercata potrebbe dare l'impressione di un tentativo di contatto più profondo con il proprio interlocutore – come se riponesse fiducia in quel dialogo e non fosse solo un vanaglorioso panegirico alla propria persona.
-Tutti hanno un passato, è facile averlo: basta respirare e continuare a sopravvivere, ogni singolo giorno. Ma non tutti hanno quella che si può definire esperienza, perché è il risultato di un processo cognitivo che non tutti, soggetti o oggetti, riescono a fare.
Gli sorride di nuovo, indicando in alto con un cenno del capo, lungo il muro alle loro spalle.
-Hai mai guardato il cielo, Reiner? Cosa ti dice quando diventa grigio?
-Probabilmente pioverà.
Altra soddisfazione nell'angolo della bocca, quello che si solleva in alto proprio in quel momento.
-Perché hai fatto un collegamento tra causa ed effetto e hai tratto delle conclusioni che ti hanno fornito una particolare esperienza. Non ti sei limitato a guardare il cielo diventare grigio e a prendere dopo la pioggia.
Reiner ha la fronte piena di rughe, durante il processo cognitivo e di ragionamento. Si distendono poco a poco, senza fretta, tornando nella conformazione severa di sempre. Nell'espressione solita che trasmette austerità e fermezza, pare che si possa cogliere un barlume di consapevolezza e comprensione.
-L'esperienza ci definisce?
L'uomo fa un altro cenno del capo, accondiscendente e accomodante.
-L'uso che facciamo della nostra esperienza riesce a farlo. Un uso che sia consapevole, ovviamente.
Solleva la mano davanti al suo viso, perché il campione si focalizzi su un punto soltanto e gli dia tutta l'attenzione che può dargli.
-Le azioni, Reiner. Non i pensieri, non le intenzioni, non i sentimenti. Si processano le azioni e i fatti, niente di diverso.
C'è il vuoto nei suoi occhi, quando dice le ultime parole di quel breve dialogo – parla a se stesso, in una conferma di teorie maturate in anni e anni di esperienza, esperimenti e delusioni.
-E niente di diverso ci può definire in quello che siamo.

 

Niente divide la pianta dei piedi dal suolo granuloso di cemento – c'è un callo duro, verso le dita grosse e dalla pelle secca, che si allunga per quanto può, ma nulla di più.
Reiner saltella sul posto per scaldare, ancora una volta, i muscoli delle proprie gambe, e muove le spalle avanti e indietro, così come i muscoli alti della sua schiena, perché lo sostengano fino alla fine. Sa cosa deve fare, in quei ultimi minuti prima dell'inizio, e non c'è bisogno della presenza del padrone e dei suoi ordini perché lui esegua tutto ciò che deve con dovizia e zelo. Gli è stato detto che è per il suo bene, e lui non ha trovato il motivo di credere il contrario. Anche il collo viene teso, a destra e a sinistra, avanti e indietro, e quando una delle vertebre della nuca scrocca in un suono grave, il campione sorride appena.
C'è attorno gente, che strilla e fa rumore, gli rivolge una limitata sequenza di espressioni emotive umane che lui conosce già perfettamente. C'è chi ripone speranza e aspettativa, chi palesa più fiducia del dovuto, chi ingiuria e scongiura, chi semplicemente insulta.
Poi c'è il padrone, abbastanza in alto da sembrare seduto su un trono, che lo guarda muto e comunica la sua presenza con lo sguardo. La sua guida e mano è invisibile, non ha bisogno di catene tangibili in quella situazione per trattenere Reiner incatenato alla propria volontà, e con quella falsa libertà di espressione il campione si esalta completamente.
La recinzione del ring disegna sul pavimento della stalla un cerchio imperfetto dal diametro che si aggira attorno ai sette metri, ed è alta abbastanza da superare le spalle del campione di un altro metro e mezzo abbondante – tutto perché il movimento sia enfatizzato ma non eccessivo e, specialmente, visibile nel dettaglio da qualsiasi postazione.
La botola è fuori, vicino al palco del padrone.
C'è un ragazzetto piuttosto minuto, dall'altra parte della circonferenza del ring, che ha passato gli ultimi cinque minuti a guardarsi attorno piuttosto spaesato. È probabile che non sia abituato a tutto quel rumore e sia rimasto impressionato dalla brutta faccia dell'uomo che gli ha appena sputato addosso la propria eccessiva cattiveria. È probabile, anche, che sia solo uno di quei tanti capi sacrificabili che il padrone gli ha avvicinato per accrescere il suo valore visibile anche agli occhi degli altri, un'altra inutile tacca nella fila che segnala le vittorie in confronto alle sconfitte: ventiquattro a tre.
Ha i capelli corti e un viso dai tratti dolci, che riesce persino ad accennare un sorriso con le labbra sottili quando i loro sguardi si incrociano a mezz'aria, poco prima che il giudice di gara li faccia avvicinare con un suono acuto del proprio fischietto. Marco Bodt non è un nome che ricorderà l'indomani se non per il profumo così particolare della sua pelle, che ha un vago sapore di arancia – un vago sapore di vita e libertà, nel paradosso che l'ha portato fino a quel luogo.
Il campione non comunica nulla al proprio avversario, perché l'empatia non è di alcuna utilità quando ciò che si prova e si sente rientra tutto nella gamma terribile del dolore. E il primo punto è così improvviso e forte che ha l'intrinseca capacità di eliminare ogni traccia di dubbio nel cuore del lottatore più inesperto.
Marco finisce a terra subito e viene stordito dal colpo alla testa con il quale picchia la nuca al suolo, che lo priva della cognizione di quei due secondi che Reiner impiega per raggiungerlo e prenderlo, e sollevarlo in alto sopra la propria testa.
Nei minuti che seguono, l'incrementare dei colpi dati da uno e ricevuti dall'altro suscitano un incremento considerevole delle grida degli animali lì presenti, che sghignazzando come scimmie eccitate dal sangue deridono il declino di una vita giovane e l'affannarsi al disastro dell'altra, senza porsi e porre alcun freno volontariamente. Lo spettacolo gonfia di pugni e diventa rosso di lividi e fluido, spacca qualche osso e tramortisce fino alla perdita della ragione.
C'è un istante in cui il campione alza lo sguardo – sullo zigomo destro c'è una macchia rossa con cui l'altro, sputando involontariamente, lo ha sporcato, e dona al suo sguardo una nota più fiera e maligna di quanto in realtà non sia. Chiede, con quegli occhi, l'esito di cui non sa prendersi la responsabilità, e non tanto al pubblico dal carattere capriccioso e deleterio, ma all'unico che lo guarda fisso senza provare un mortale timore. Tutta una vita sta, a quel punto, nel singolo pollice di una mano.
Reiner però si distrae, solo per un secondo, quando sente il suono ovattato e poco distinto di una sorta di tamburo, in lontananza, che picchia e insiste in un ritmo ben preciso. Si guarda attorno, alla ricerca della sua fonte, ma non trova niente di diverso dal solito, e il dubbio e il sospetto lo immobilizzano sul posto.
Occorre che qualcuno lo chiami perché lui si desti di nuovo – e possa porre fine al proprio avversario e così anche all'incontro.

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Capitolo 3
*** *Capitolo due* – I'm breathing in the chemicals ***


*Capitolo due*

I'm breathing in the chemicals

 

 

 

Il mondo del campione è fatto di lunghi e profondi silenzi, tra la notte che concede nel buio senza contorni e senza definizioni un riposo forzato e duro alle tempie e le costringe in una morsa assoluta che non dà scampo, come una tenaglia dai denti aguzzi alla quale non può opporre resistenza; e il giorno che si accompagna ai versi annoiati degli animali da stalla e qualche flebile fischio del vento, così privo di stimoli che persino i pensieri sono sordi e muti, e quando vengono pronunciati si disperdono in rimbombi solo fastidiosi, solo tediosi.
Il padrone gli rivolge ordini, il più delle volte, secchi e pieni di decisione, e il campione non riconosce altro che quel preciso tono e quella precisa imposizione, ai quali ha sempre saputo come rispondere nella maniera adeguata e con quei precisi tempi. Non ci sono i segni, sulla pelle e sulla carne della sua schiena o delle sue braccia, di un insegnamento cruento e sofferto lungamente, ma bastano certi ricordi e una certa memoria perché lui raccolga nella propria testa le informazioni giuste all'usufrutto istantaneo.
Le macchine degli altri uomini sono quei dettagli poco rilevanti e non troppo straordinari da riscuotere la giusta curiosità che li farebbe diventare interessanti, e dopo la definizione della loro natura e il riconoscimento di quanto recano con sé, svanisce ogni possibile infatuazione nel palesarsi della solita mediocrità priva di attrattiva. Il passo pesante di uomini caricati di basse speranze e ancora più bassi desideri scava nella terra, quasi, e non è per nulla aggraziato.
Attorno a sé, il campione non riconoscerebbe altri suoni. Ha riconosciuto, però, lo stesso suono altre volte, oltre che la prima, e via via si è fatto più distinto nella sua mente e ha preso forma e corpo come un elemento a sé stante, dalla natura precisamente definita.
Sa per istinto che è un tamburo, quello che viene percosso a ritmo, perché nessun altro strumento riproduce con quella precisione il battito del cuore e lo segue, colpo dopo colpo, nella cassa di risonanza che è il busto e tutto ciò che esso contiene. Deriva da qualcosa di ancestrale, diretto dalle viscere della coscienza di ogni persona, e il campione ne è attratto in quanto tale, senza neanche dover addurre una ragione razionale al proprio sentire.
Non si è neanche stupito di essere stato l'unico ad averlo sentito, per quanto di certo all'inizio l'incredulità lo ha colto alla sprovvista. I suoi sensi sono stati raffinati da anni di duro lavoro, da esperimenti molteplici e da rimedi con evidente efficacia, e il suo cuore è stato l'unico ad avere la medesima frequenza di quel suono perfetto e armonico. Dentro di sé, ancora prima che con l'orecchio, Reiner lo ha percepito.
È arrivato a domandarsi il perché di quell'esistenza, sia del tamburo che del suono da esso prodotto. La provenienza è poco importante e diventa una quisquilia in confronto al significato che può portare alla sua coscienza – e troppi problemi non fanno assolutamente bene al suo cervello.
Ha potuto notare che viene eseguito solo in determinati momenti della giornata e ci sono anche periodi, più o meno lunghi, in cui non si può sentire un singolo colpo. Se la stalla è vuota, il silenzio rimane tale e non c'è niente che lo smuova dalla propria condizione di assolutismo imperante, lasciandolo spargere ovunque e conquistare altrettanto con perfidia ineluttabile. Se la stalla è piena, il chiasso già alto e le presenze notevoli, quell'angolino di spazio lasciato vuoto da una discrezione indignata viene occupata dal primo, dal secondo e dal terzo battito, che a raccolta chiamano gli altri, e allora si delinea non un semplice susseguirsi di colpi ma persino una melodia precisa. Il tamburo è legato intrinsecamente ai suoi incontri di lotta e a quell'universo che riempie davvero l'esistenza di Reiner.
Se inizialmente il ragazzo ha pensato, per qualche secondo, di attribuire la denotazione di semplice spettatore anche a quella presenza, lo deve alla sua fretta di trovare una comoda soluzione a un problema che gli ha occupato troppo la mente. Ma, successivamente, una seconda ipotesi ha preso la sua mente e l'ha gonfiato di vanità e gloria preconfezionata, trovandolo più accondiscendente con sé stesso di quanto non si aspettava egli stesso. La base della sua sicurezza non ha vacillato neanche un secondo e niente ha potuto mettere in dubbio la validità del suo mondo e di tutto ciò su cui quello si erge.
D'altronde per Reiner quel suono è atto alla sua massima glorificazione.

 

Il primo accumularsi di gente si raggruppa all'ingresso ovest della stalla, lì dove il portone di metallo è aperto ed è permesso alle persone di confluire dall'esterno all'interno. Qualcuno calpesta e scalcia la paglia, qualcuno fuma l'ultimo sigaro prima dell'incontro, ma per quel poco che è la maggior parte, per il momento, parlano principalmente di scommesse e affari, come sono soliti dire loro. A Reiner poco importano le loro parole, sia perché non le capisce distintamente sia perché per lui sono ininfluenti: sa che a breve si svolgerà un altro dei suoi incontri e che dovrà sconfiggere un altro avversario, come tutti si aspettano da lui.
Comincia a tirare i muscoli del braccio sinistro, cercando di scaldarlo al meglio e ridargli la flessibilità di sempre, quando un piccolo uomo lo avvicina, tranquillo. Ha l'aria diversa dai soliti spettatori a cui è abituato, di sicuro non ne ha la stazza né la portanza, e gli rivolge uno sguardo incuriosito che non conserva troppa malizia.
Lo ammira, prima di parlargli.
-Di' un po', ti alleni molto per essere così forte, non è vero?
Reiner si guarda attorno, alla ricerca del padrone – è solo un attimo, per avere la conferma di non star facendo niente di proibito – e senza trovarlo torna al proprio interlocutore. Non mente perché non ha niente da nascondere, neanche a un possibile rivale. La sua forza, così come ogni altra cosa, è palese e innegabile.
-Ogni giorno da quando il sole sorge a quando il mio padrone mi dice di smettere.
-Non ti fermi mai?
-Se il mio padrone me lo ordina, mi fermo.
Lo vede fare una smorfia strana, che non riesce a decifrare con chiarezza.
-Hai un senso del dovere piuttosto spiccato, per essere un mostro.
Il campione sa distinguere piuttosto bene le tipologie di persona che tentano di avvicinarlo, prima di un incontro. Certo non è nuovo a quel genere di esperienza e quel briciolo di malizia che possiede, in una ingenuità mantenuta forzatamente tale, gli colora le guance di stizza e di un poco di ritrosia per contatti che la sua mente definisce con naturalezza indesiderati.
-Eseguo gli ordini che mi vengono dati, perché è giusto così.
-Questo è chiaro...
Il piccolo uomo si sistema meglio sui propri piedi, cambiando appena inclinazione del capo. Lo mira mentre continua nel proprio riscaldamento, dalle cosce per poi passare ai polpacci.
-Quanti anni hai?
Reiner lo guarda di nuovo, per la prima volta sorpreso.
-Cosa sono gli anni?
Rivaille comprende di più di quello che deve e allora formula una domanda diversa, per arrivare comunque al punto che lui desidera.
-Da quando sei con il tuo padrone?
-Da che ne ho memoria, quello che arriva dovrebbe essere il secondo inverno.
-È un bel po' di tempo, dopotutto.
-Lei dice?
Reiner ha un'espressione corrucciata e la fronte piena di rughe: la sicurezza di sempre è appena ottenebrata dal principio del dubbio che è stato generato dall'incomprensione e dalla curiosità tipica di chi si può definire davvero vivo. Solo per quello il piccolo uomo continua a parlargli.
-Non sembri molto ferrato, in questo genere di cose.
-Non è mai stato un mio problema definire il tempo e il suo utilizzo.
-Però con le parole sei piuttosto bravo, quando ti ci metti.
-Ho imparato ripetendo le parole del padrone.
Rivaille si avvicina di un passo, senza cambiare espressione – il campione non sembra turbato da questo e lo lascia fare.
-Il tuo padrone ti ha insegnato qualcos'altro?
-Mi ha insegnato a combattere.
-Solo questo?
-Mi ha dato la morale giusta per farlo.
-Altro?
Ancora, Reiner è confuso e per la prima volta abbassa lo sguardo, forse colto da un leggero imbarazzo imprevisto. Gli occhi del piccolo uomo registrano ogni movimento ma non offrono alcun tipo di giudizio o pregiudizio, stabili in un'immobilità che non arreca disagio.
-Non c'è altro.
-Non c'è altro in te o non c'è altro che il tuo padrone ti abbia insegnato?
Reiner si lecca le labbra e si avvicina alla recinzione che li divide, uno da una parte e uno dall'altra. Cerca di trovare un senso, una logica anche nel suo schema mentale, nella domanda che il piccolo uomo gli ha rivolto, smosso in qualcosa che ha sopito per troppo e lungo tempo. Quelle parole dal tono piatto, senza accusa o insinuazione, hanno riempito di significato un qualcosa che aveva una forma artificiale, completamente pre-costruita.
Il campione non se ne rende ancora conto e rimane, per lo stordimento, in uno stato confusionale.
-Non comprendo.

 

Un altro ragazzo dai tratti non comuni gli viene messo davanti, quando i confini del ring si alzano e il suo mondo viene diviso da quello degli spettatori e da quello del suo stesso padrone. La consapevolezza che gli prende il viso ne deforma l'espressione in irriverenza dissacrante, pur di fronte a quel tipo di avversario e quel tipo di esito quasi scontato. Persino il campione è toccato da quel suo strano sentimento, piega le labbra in uno strano quanto raro sorriso e si mette con quello in istintivo contatto con lui.
Qualcuno prende la spalla di Jean Kirstchein e la tira indietro – Reiner quasi si stupisce che non sia il piccolo uomo, il padrone dell'avversario di questo giorno, ma un insolito signore pelato con delle borse scure sotto gli occhi, che suggerisce posato al ragazzo poche parole all'orecchio prima di lasciarlo andare e farlo tornare al proprio posto.
Il fischio dell'arbitro fischia, oltre la staccionata alta, e il duello può avere inizio.
Jean non sembra avere quel tipo di carattere che si lascia prendere alla sprovvista, anche di fronte a una velocità inaspettata. Al primo colpo sferrato da Reiner ha la prontezza di piegarsi sulle ginocchia e di rotolare a terra; lo colpisce alla caviglia con un calcio, facendo sbilanciare la sua postura rigida per un solo, freddissimo tremore. Il campione lo guarda pieno di vero fastidio ma prima che possa rispondergli con un calcio allo sterno, in pieno petto, l'altro è già arretrato e si è rimesso di nuovo in piedi, pronto ancora ad affrontarlo. Vuole giocare di resistenza, sperando che alla lunga la capacità offensiva dell'avversario cali poco a poco ma inesorabilmente e la sua difesa faccia altrettanto; Reiner ha già dovuto combattere contro una strategia simile e sa quanto sia difficile mantenere i nervi saldi in una situazione di continua tensione. Lui, però, è pronto a qualsiasi tipo di sfida, e possiede un autocontrollo capace di reggere mente e corpo anche per ore e ore di allenamento. Si convince quindi che quella sia una prova facilmente superabile.
Parte di nuovo all'attacco, preparando per questa volta un colpo doppio, che arriva a collidere sulle nocche contro la spalla dell'avversario – e approfittando del suo momentaneo sbilanciamento gliene rivolge un terzo e un quarto, facendogli ruotare la testa e sputare sangue. Lo lascia qualche secondo a terra, e aspettandosi un calcio o qualcosa di simile si allontana e alza gli avambracci a difesa. Jean si sorregge al recinto per riprendere la posizione dritta e lo guarda con più cattiveria di prima, sputa di nuovo a terra e gli si para davanti per una seconda volta.
Da lontano, in fondo alla stalla, si irradia come un'onda il rimbombo del primo colpo, e il cuore di Reiner risponde al battito con uno altrettanto basso e carico: gli manca il fiato e sembra andare in ipertensione, con gli occhi spenti, lo sguardo smorto e la guardia abbassata. Si riprende in tempo per parare un colpo di Jean, che gli avrebbe rivoltato la faccia.
Intanto i soliti suoni si fanno più prorompenti, diventando estremamente acuti e fastidiosi quando l'avversario relega il campione in una continua posa di difesa. Lo stanno incitando, e Reiner se ne stupisce parecchio.
Solo il tamburo suona per lui e il campione riconosce nel suo suono l'esaltazione che gli serve e gli deve servire per controbattere. Ferma la mano a pugno di Jean e la trattiene, per quanto faccia male alle ossa; gli colpisce la faccia stranita nell'espressione di meraviglia, due volte solamente, e poi lo atterra con un calcio al ventre. L'avversario si piega in due e rantola ai suoi piedi, con una chiazza rossa che si è espansa su tutta la superficie della sua guancia.
Reiner alza il mento al soffitto e respira, a occhi chiusi. Sente ancora il tamburo, lo sente dentro all'unisono con il suo cuore.
Jean ha le palpebre socchiuse, da una parte, quando torna a guardarlo pieno di ira, e gli si fa contro troppo avventatamente per risultare un vero pericolo. Reiner lo prende e sfrutta la sua spinta per sollevarlo in alto e sbatterlo a terra di schiena, con forza e violenza; il ragazzo sputa altro sangue e si sente il rumore di qualcosa che si rompe, probabilmente il gomito su cui è atterrato nel tentativo di proteggere qualcosa di più importante. Tutta la sua persona si piega all'espressione del dolore e languisce lì, tra la polvere e gli steli di paglia.
Il tamburo non smette di battere.
È nel guardare il vuoto che il dubbio torna a essere persistente nella coscienza di Reiner, quando il mondo scompare e non rimane altro che il proprio sentire e quella sincronia venuta a mancare solo per qualche millesimo di secondo – sufficiente perché lui guardi altrove e si domandi se, davvero, è ciò che ha pensato che sia. Perché dovrebbe essere perfetta l'armonia che unisce due anime in quel modo, dovrebbe essere sublime la vicinanza che lega due entità in quel modo. C'è una discrepanza che significa tutto e niente, e Reiner riesce a sentirla.
Così come percepisce, per la prima volta, l'errore morale che la sua mente frettolosa ha compiuto. E quindi l'equilibrio su cui si regge il suo mondo vacilla, si fa più sottile e fragile, sembra perdere la misticità brillante che ha sempre avuto, fino a quel momento.
Il tamburo non suona gloria, per il campione del ring, ma solo una lunga nenia tristissima.

 

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Capitolo 4
*** *Capitolo tre* – I'm breaking in, shaping up ***


*Capitolo tre*

I'm breaking in, shaping up

 



 

La stanchezza comincia a farsi sentire nello stomaco e sulle membra del ragazzo, che percepisce una nuova fatica per ogni singolo movimento che compie. Le dita, ormai, si stringono attorno al manico del battente per inerzia, come ingranaggi meccanici che si serrano saldamente ma senza vita o calore, e battono sulla superficie del tamburo per un qualcosa che assomiglia a una disperata e speranzosa abitudine – il poco cibo che viene servito, a lui e a quei carcerati abbastanza vitali da raggiungere il confine della cella e prelevare i tozzi di pane e formaggio per sé, non è sufficiente per calmare l'esigenza e men che mai per permettersi il lusso di una prospettiva futura.
Tuttavia, Bertholt resiste e non può davvero fare altro.
Anche mentre dorme, tiene per sé il proprio piccolo tesoro, avvicinato al petto in un abbraccio strano, e con la figura tutta raggomitolata a terra, sotto un misero fascio di luce che seziona l'aria colma di polvere galleggiante, riposa a pochi metri di distanza dallo strumento che gli impone quelle poche ore devastanti che lui chiama, per consuetudine e umanità residue, sonno. Viene svegliato dalla propria angoscia o dalle urla poco gentili del padrone che fa loro visita, di tanto in tanto, come la prospettiva della morte che non li abbandona mai e li perseguita con i suoi ghigni e l'allungarsi dell'ombra come bracci fortissimi, invincibili e tenaci.
Sembra che, l'uomo, conservi un poco di interesse nel tenerli in vita, o anche a misurare le capacità della loro resistenza alla tale. Probabilmente, tutti loro, tutti gli ex- campioni, forniscono un materiale organico su cui poter infierire con errori e prove di ogni tipo: non si può rischiare di deturpare la perfezione del campione in gara, e certo tutti gli esperimenti che servono a mantenerlo tale hanno bisogno di test continui e precisi, ripetuti all'infinito.
Bertholt pensa qualche secondo, obbligandosi a mantenere in funzione il proprio cervello, e si rende conto di non aver visto negli ultimi giorni il corpo smorto di Berik. Si morde le labbra, per sofferenza emotiva – quella fisica è andata svanendo nell'abitudine di ogni giorno e neanche le presta più tanta attenzione.
Alza gli occhi al soffitto nero quando comincia a sentire i primi suoni distinti e vede scendere, nell'aria già puzzolente e marcia, fili di muffa che si separano dal cemento alto, sopra la sua testa. L'ammassarsi di gente batte i piedi a terra, presa dalla propria violenta vitalità, e rende partecipi anche tutti loro del nuovo gioco appena iniziato, dando alle loro coscienze rimasugli di un passato terribile e confrontando per disperazione il presente altrettanto tetro. Qualcuno comincia già a gemere, si stringe nei propri vestiti luridi e tenta di chiudersi interamente all'esterno; il pazzo in fondo al secondo corridoio a sinistra non urla neanche più, perché ha la gola così secca e scavata che sputerebbe soltanto sangue, nel tentativo.
Bertholt si alza dal proprio giaciglio scomodo e riesce a mettersi in piedi. Si regge all'inizio al bordo sporgente dello strumento e il suo sguardo vi cade sopra per naturale e istintivo passaggio, percorrendo tutta la circonferenza di legno una volta lucido e sulla rifinitura precisa che espone. In condizioni normali, riuscirebbe a essere affascinato da una tale arte e la sentirebbe più propria, ma la bruttura del luogo e la totalità del proprio terrore lo hanno privato di sensibilità e di empatia con il resto del modo. Poco, non troppo, perché quando comincia a battere contro la pelle traslucida anche il suo cuore riesce a percepire qualcosa, ed è bello e inebriante.
Non osa esporsi in altri momenti che quello, quando sa che il campione in gara ha tutto il proprio sentire esposto e aperto, ed è l'unico con l'udito abbastanza fine da riuscire a sentirlo, discreto sotto tutto il chiasso del pubblico. Lui conosce quello stato, o quantomeno riesce a ricordarlo bene, perché l'ha vissuto diverse volte. Il padrone e il contesto esaltano la negatività di quel sentimento così forte, ma Bertholt sa che non permane solo quello, all'interno del vincitore, perché altrimenti non riuscirebbe a consegnarsi a sempre nuove sfide con un animo abbastanza sereno da essere lucido.
Lui vuole toccare l'altra parte – e spera di farlo davvero, ogni volta che si alza e suona quel maledetto tamburo. Il campione è il solo che può percepirlo e può capirlo fino in fondo, perché è a lui simile e parla la sua stessa lingua; nessun altro uomo riuscirebbe: il campione è la creatura più vicina e più lontana a lui, al medesimo tempo.
E lui lo ama e lo odia per questo. Lui lo adora e lo maledice, lui lo desidera e lo ripugna.
Il campione, nel suo mondo, è tutto ciò che è di stabile e immutabile.

 

Alle volte, è possibile che al combattimento preceda una fase strana, che Reiner ha sempre trovato curiosa ma che non si è mai dato la pena di approfondire più di tanto, né di trovare un significato per quel proprio blando interessamento.
Capita quando l'avversario e il suo padrone arrivano quando non c'è ancora pubblico, trovando la stalla vuota o quasi e solo il campione nella propria cella a prepararsi a dovere. Allora al lottatore viene permesso di muoversi, in quei pochi metri che sono l'ambiente da competizione, mentre chi possiede il libero arbitrio, non solo di rappresentanza ma anche di fatto, si riempie la bocca di parole come soldi, scommesse, debiti e crediti e non spreca un solo minuto in più della propria vita in quel luogo che della prigione conserva persino l'odore.
Questa volta, però, il lottatore è solo, senza nessuno che lo accompagni attraverso la porta. Individua subito il padrone, quando l'uomo si fa avanti per accogliere quella che riconosce come una nuova ospite, ma la giovane lo usa soltanto per chiedergli qualche informazione e nulla di più, perché una volta che ha capito chi sia il campione, ovvero la persona che dovrà affrontare sul ring, pare che non abbia altri punti di riferimento in quella grande stanza.
-Dove posso mettere la mia roba?
Ha in mano una borsa, poco piena e molto usata, probabilmente contenente pochi oggetti essenziali. Reiner guarda prima lei e poi ciò che tiene in mano, quindi di nuovo il suo viso.
-Se la consegni al padrone, dovrebbe saperti rispondere.
Ha una struttura snella, ma non filiforme. Da l'impressione di grande agilità e ha una struttura muscolare particolarmente concentrata sulle cosce e sulla zona del ventre. Reiner non può fare a meno di analizzarla con gli occhi, quando si avvicina ulteriormente a lui, preparandosi d'istinto a quello che dovrà sostenere dopo poche ore.
Ma lei sbuffa, evidentemente scocciata, e lo obbliga a guardarla di nuovo in volto.
-Non hai un posto dove possa metterla senza che nessuno la prenda?
Lui pare un po' confuso, perché si accorge di non aver inteso la domanda né di saperlo fare. Non è cosa che provveda lui, di solito, e l'inesperienza non lo aiuta.
-Dove le persone del pubblico mettono le proprie giacche.
La ragazza fa una smorfia sotto le lentiggini che occupano gran parte del suo viso. Ha un tono tagliente, quando muove la lingua alla parola.
-Sei forse stupido oltre che sordo? Ho detto che voglio un posto sicuro! Non mi fido di quella gente!
La fissa, stordito, prima di borbottare qualcosa.
-Nel posto dove dormo io non va nessuno...
Il volto di lei finalmente tralascia uno spiraglio di luce e la mano che ha tenuto tesa fino a quel momento si abbassa, in segno di consenso. Arriva persino ad accennare un mezzo sorriso, palesando così la soddisfazione a lungo cercata. Si mette la mano libera sul fianco e si accinge a seguirlo.
-La tua stanza è qui vicino?
-Ho un giaciglio dove riposare la notte.
Ci sono pochi secondi di silenzio, dove Ymir realizza quando appena sentito.
Ma è quando Reiner, senza pensare minimamente al peso delle parole da poco pronunciate, inizia a condurla verso l'angolo dove è solito riposare la notte, che lei scoppia a ridere con crudeltà e cattiveria, sincera nella propria derisione e sinceramente divertita dall'assurdità della situazione.
-Mi vuoi dire che vivi in mezzo agli animali? Come se fossi uno di loro?
L'ulteriore silenzio che segue però le calma, via via, il riso, e la ragazza comprende che non è uno scherzo, che non è una fandonia, che non può esserci scherno sincero per il campione.
-Il tuo padrone ha uno strano concetto di cosa sia un essere umano.
Fissa il giaciglio di Reiner una volta che lo raggiunge, con uno sguardo tra l'impietosito e lo schifato.
Rivolge un'occhiata davvero truce a lui e lancia, con una sola mano, la borsa nel posto più lontano e nascosto di quell'angolo, tra la paglia e il fieno.
-E anche tu, a quanto vedo.
In quel momento non c'è alcun tamburo a suonare, eppure il cuore di Reiner ha uno spasmo che non ha origine dal suo animo e riconosce che invece proviene da lei, dal suo spirito. Non ha una definizione per descrivere con proprie parole l'empatia: la capacità di sentire certi moti del sentimento è realtà assoluta che per lui non necessita di alcuna spiegazione.
Allora si disinteressa completamente della sua massa muscolare, delle sue capacità fisiche e della sua esperienza. È guardandola negli occhi che la ferma per un braccio, parlandole.
-Tu cosa vedi, invece?
Lei ride, inizialmente, ma perché lo scherno le viene a naturale difesa e per istinto lo innalza contro qualunque minaccia le si palesi di fronte.
-Me lo stai chiedendo davvero?
Lui però è serio come mai lo è stato, e altrettanto presente.
-Cosa vedi?
La ragazza si libera con uno strattone e prima di parlare si massaggia il muscolo stretto. È carico anche di fastidio il suo sguardo, quando gli risponde.
Schietta e sincera.
-Vedo uno schiavo, ecco cosa vedo.
-Cosa è uno schiavo?
Ymir alza gli occhi al cielo, senza trattenersi. Si avvicina a lui con un passo.
-Tu perché combatti?
-Combatto perché lo vuole il padrone.
-Ecco. Questo...
Lo tocca, sul petto, con il solo indice.
-... è uno schiavo.

 

Il colpo di quella ragazza non è così leggero come un'analisi superficiale può suggerire: sa dove e come colpire, sa che fare pressione nel modo giusto con un'angolazione perfetta procura ancora più male che scaricare addosso l'energia di un energumeno irritato.
Di fatto, Reiner si ritrova davanti una professionista, una di quelle rare e particolari come ne ha viste poche in vita sua. È alta e le gambe lunghe l'aiutano a muoversi bene e con l'agilità adeguata, ha delle spalle ben dritte e nervi saldi, dei riflessi incredibili.
Dall'inizio dell'incontro è riuscito a colpirla sono tre volte, di cui una di striscio. Ha cominciato a sentire molto male dopo che lei lo ha colpito al fianco inaspettatamente scoperto, con la parte bassa della gamba. Ha sentito in bocca il sapore del sangue risalito dallo stomaco e dalla milza, ma non si è permesso il privilegio di prendersi quei cinque secondi di pausa per sputare – ha ingoiato veloce e si è messo in posizione di difesa.
Ymir continua a guardarlo negli occhi e non lo lascia mai. Il campione non pensa che sia solo per tenerlo sempre a bada e non farsi cogliere di sorpresa, perché legge nel suo sguardo un senso di sfida perenne rivolto proprio a lui, come se desiderasse assaporare la vita nei suoi pugni.
Dietro di lei, non c'è nessuno che grida o ordina consigli e mosse; sono entrambi circondati dal solito pubblico pagante, ancora più concitato ed eccitato del solito per l'insolito spettacolo. Pochi hanno visto il campione in difficoltà, rigido per l'inadeguatezza, e sembra che ci si diverta alla prospettiva della disfatta di un colosso titanico simile.
Ymir tenta di atterrare l'avversario con un colpo alle caviglie, ma la resistenza di Reiner lo fa soltanto traballare per qualche istante e non soccombere alla sua strategia. In compenso, il dolore gli prende tutti i muscoli dell'arto leso e si irradia lungo i tendini. Quando la ragazza si alza, lui riesce a prenderle il braccio e immobilizzarla per quello: la colpisce al ventre e al petto per due volte di fila prima di ricevere la risposta di lei, che gli fa voltare completamente il viso e gli separa un dente dalla mascella.
Questa volta il campione è costretto a piegarsi verso terra e a lasciare fluire il sangue all'esterno, per non ritrovarsi in pericoloso di soffocare per l'ingente quantità di fluido che gli viene fuori a spruzzi.
Liberatasi dalla sua presa, Ymir gli si piega vicino e gli fa sentire chiaro e forte il suo scherno, la forza del suo sarcasmo e della sua vitalità. Si alza ben dritta, quando lui è ancora piegato, e accoglie con le braccia aperte il favore del pubblico nei propri confronti, tra incitamenti piuttosto decisi e parole altrettanto cariche di sentimento. Poi si ferma a qualche metro di distanza, di fronte a lui – lo attende.
Reiner si alza e la carica all'improvviso, con la testa bassa. La prende con la spalla e la solleva in alto, sentendo il corpo di lei impossibilitato alla risposta, e quando riesce a staccarla da terra la prende con entrambe le mani e la alza sopra la propria testa; quando la scaraventa a terra, lo fa con forza.
Ma non ha cattiveria in corpo e la sua concentrazione è disturbata da continui pensieri.
Non interrompe il suo rialzarsi in piedi, con quella fatica tipica di chi soffre per un motivo ben preciso, e prima di attaccarla di nuovo aspetta che ricambi il suo sguardo. Sa bene di agire contro gli insegnamenti e le direttive del proprio padrone, ma non può farne a meno: c'è qualcosa, nei suoi occhi, che vuole catturare e memorizzare bene, e non può che cercare le occasioni per guardarla in viso ancora e ancora.
Quello è un essere umano che vive per e solo con se stesso, non ha altri fini che la propria persona e non ha altri bisogni che le proprie necessità. La vita e tutto ciò che la sorregge hanno la forma che le sue mani hanno modellato.
E un essere umano del genere gli sta dedicando uno sguardo, ogni volta che può, carico di rispetto e aspettativa – come quello che si rivolge a un degno avversario da cui ci si aspetta una valida sfida.
Orgoglio, ammirazione, gratitudine. Reiner non conosce questi termini, ma prova il loro significato nel cuore; e il tamburo che accompagna ogni suo battito, con un colpo che risuona in ogni dove, si impreziosisce di una tonalità dolce che mai ha avuto prima.
È la vita che esalta si esalta da sola.

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Capitolo 5
*** *Capitolo quattro* – I'm waking up, I feel it in my bones ***


*Capitolo quattro*

I'm waking up, I feel it in my bones

 





 

La sera impregna l'aria di un odore tutto particolare, quando è piena dell'umidità di un acquazzone imminente: la appesantisce come la cappa di una serra e la avvolge in un'atmosfera densa come una coperta di lino fuori stagione, solo fastidiosa o solo troppo calda per essere sopportata.
Il campione ha un singolare pensiero, per la prima volta nella sua vita, che coglie la sua mente impreparata quando si fissa sull'ombra che il profilo dell'alta finestrella taglia, in un fascio di luce bianco, aiutata dalla luna ben tonda. Gli pare che l'ambiente rifletta lo stesso malessere che sente dentro nel tergiversare incerto sul bordo dello stato del caos totale, in punta di piedi e con il busto esposto – come un ballerino incerto.
Siede sul proprio giaciglio, con le gambe piegate e le ginocchia quasi contro il petto, mentre la schiena poggia contro il muro ormai tiepido per il suo calore. Respira piano, per non fare rumore e non distrarre i propri pensieri, con le spalle strette e i muscoli rilassati che sembrano quasi non esistere attaccati al corpo.
Se fosse rimasto sempre solo non avrebbe scoperto la forma del dubbio: questa è una delle prime certezze di cui si è impadronito da quando il sole è tramontato. Ammettere che il suo isolamento forzato sia servito proprio a quello scopo, durante tutto quel tempo, sarebbe come voler dubitare della validità del giudizio del padrone, e questo forse Reiner non è disposto ancora a farlo, perché rinunciare così all'epicentro del proprio mondo, facendolo traballare senza la rassicurazione della giusta forza per subirne poi le scosse di assestamento, non è cosa che il suo cuore riesca ad accettare troppo facilmente.
La sicurezza si spezza, benché spessa e fortissima, e a quel punto se ne si osserva il cadavere a pezzi e se ne onora la memoria, perché non si può più assemblare una perfezione simile. Il campione sa di non avere parole per alcun compianto, e l'imbarazzo sarebbe tanto forte da risultare mortale.
Istintivamente, è portato a non desiderare nulla del genere, anzi a rifiutarlo con categorica determinazione.
Si guarda attorno, prendendo un respiro più profondo degli altri, e scorre con gli occhi il perimetro di quello che ha sempre definito il proprio mondo. Non ha molti altri termini per descriverlo e mai, prima di quel momento, ha pensato di doverlo fare. L'esistenza in sé garantiva una validità e una giustizia che non dovevano essere giustificate, alla sua coscienza, e quello gli bastava per conservarsi in uno stato di calma.
Mentre il suo sguardo si perde, lontano, la mano abbandonata che ha portato al suolo raccoglie tra le dita, in un gesto senza pensiero, uno stelo secco, e ne saggia la consistenza contro i polpastrelli – solo quando questi trovano un'irregolarità sulla liscia superficie cilindrica Reiner si accorge del proprio gesto e alza tutto quanto il braccio.
Sul fiore sono rimasti ben pochi petali, e sullo stelo si allunga un'escrescenza molliccia che ricorda, di poco, la forma di una tenera foglia. È un'immagine triste, e il campione si sente inspiegabilmente toccato da una sensazione che non definisce, ma che altri saprebbero descrivere come malinconia.
Non c'è alcun tamburo a suonare, sotto terra, ma il suo cuore ha preso d'istinto quello stesso ritmo ben conosciuto, e tutta la cassa toracica gli rimbomba come in una melodia. Allora Reiner capisce di star provando un'emozione e i suoi occhi si allargano all'ennesima nuova consapevolezza di cui gli è stato fatto dono.
Abbassa la mano e con essa il fiore – non lo distrugge ma lo appoggia, per il momento, sopra la propria coscia, mentre alza il viso al soffitto e prende un altro profondo respiro.
Non c'è più la voce del padrone, nel retro della sua mente, a rassicurarlo con ordini precisi, ma un'accozzaglia di immagini che derivano dal suo intimo e si ramificano attraverso la sua immaginazione. Reiner rimembra l'ultimo sogno fatto in quei giorni, uno dei primi di cui conserva vera memoria.
Ymir si batteva ancora con lui, in uno scontro senza fine, e non c'era il solito ring o il solito pubblico, ma un campo di fieno morbidissimo e un vento dai mille colori. Non troppo distante, una grande cassa rimbombava al ritmo dei loro colpi e li accompagnava in ogni secondo, senza mai fallire. Solo in un secondo momento si formava la figura del suonatore, e se dapprima sembrava avere i connotati del padrone dopo si modellava in una maschera senza espressione, con i lineamenti di mille e più persone e gli sguardi che appartenevano al suo pubblico.
Ma un sorriso tutto suo, che aveva la stessa potenza del tamburo.
Quando, alla fine, il campione decide di provare a coricarsi, lasciando il fiore in un luogo sicuro perché non venisse da lui schiacciato durante il sonno, lo fa con la speranza di poter visitare di nuovo quel luogo e di avere ancora quella stessa compagnia, senza accorgersi di aver appena espresso il primo cosciente desiderio della sua vita.

 

La chiave gira nella serratura e l'ultima delle catene viene sfilata dalle manette di metallo, scivolando fino a terra a raggomitolandosi in un piccolo mucchio scomposto. Il campione alza prima un piede e poi l'altro, per tendere e scaldare le proprie articolazioni e scaricare il dolore del torpore il più in fretta possibile. Piega le ginocchia e le alza fin sopra il livello del bacino, fa roteare le braccia e avvicina mani e polsi al proprio busto.
C'è il padrone lì presente, appoggiato contro la staccionata di legno, che lo guarda con una certa soddisfazione nella piega del sorriso. C'è qualcosa di più che il semplice e genuino sentimento paterno: è il compiacimento dello scienziato che ammira il proprio esperimento perfetto. Sui muscoli formati della schiena e sulla testa bionda dai capelli corti e appena ispidi, così come sul contenuto di quella stessa mente perfettamente e finemente lavorata.
-Padrone, cosa ci definisce?
Lo sguardo dell'uomo si blocca, e quei due occhi chiari che si fissano sopra di lui, attenti e un poco incuriositi allo stesso tempo. Gli sorride tranquillo e sereno, senza palesare alcun turbamento interiore dell'animo – si sistema gli occhiali sul naso, ma non compie altri movimenti con il corpo, mantenendo neutra la propria posizione immobile.
-Ti ho fatto io questa domanda, qualche giorno fa.
Lo vede abbassare lo sguardo, in un imbarazzo che non gli ha mai visto dipinto nell'espressione. Lo incalza con tranquillità, senza neppure usargli la cortesia di essere discreto.
-Hai maturato un'opinione a riguardo?
Il ragazzo risponde prontamente, questa volta, ma concentra la propria attenzione più sul muscolo del braccio, che risponde a tutti i comandi che gli dà e si tende ogni volta che lui stira un dito, che sull'altro.
-No, solo qualche dubbio.
La bocca del padrone si riempie di parole, che non graffiano e non urtano, non stridono all'udito e non fanno particolarmente peso, ma sono l'espressione atona di chi espone la propria relazione a una commissione di giudicanti passivi e poco partecipi.
Questo non pare essere ancora cambiato.
-Il dubbio è un moto dell'intelletto che vaglia più di una possibilità di soluzione. Nasce da uno sforzo tutto mentale di vedere sfaccettata l'aspettativa del nostro futuro.
Il campione non capisce subito, rimane perplesso da tutta quella quantità di parole e dalla retorica fine di chi sa destreggiarsi su più piani logici. Il concetto di base è avvicinabile, lo percepisce nella propria ombra ma non ne afferra la precisa definizione, e questo lo frena appena dal fare qualsiasi osservazione inutile.
Non comprende come la colpa risieda nella malizia altrui e conserva per sé più timore del solito, che non sfugge alla vista attenta dell'altro.
-Lei non ha mai avuto dubbi, padrone?
-Certo, ne ho continuamente. Tu medesimo sei nato da un mio personale dubbio, e lo rimani tutt'ora. Ci sono certe cose che non si possono prevedere con certezza, così che il dubbio rimane l'ultima delle scelte.
Reiner finalmente alza lo sguardo a lui, e non ha la medesima espressione di sempre.
Sembra, con ogni probabilità, più consapevole delle parole che pronuncia.
-Io provo dubbi solo da qualche giorno e senza un dolore immenso, dentro.
-Perché sei un'anima sensibile, Reiner, e perché non sei abituato a gestire l'insicurezza.
L'uomo si separa dalla staccionata di legno, con un colpo secco dell'anca, e si avvicina di pochi passi al suo protetto. La vicinanza ricercata potrebbe dare l'impressione di un tentativo di contatto più profondo con il proprio interlocutore – come se riponesse fiducia in quel dialogo e non fosse solo un vanaglorioso panegirico alla propria persona.
Non c'è niente di inatteso, in tutto quello.
-Il dubbio può durare in eterno come può durare un attimo, difficilmente però non porta a una soluzione definitiva. Quando essa arriva, sta alla nostra forza reagire di conseguenza.
-E se i nostri dubbi riguardassero delle persone?
Si sorprende per la prima volta, il padrone, perché individua facilmente ogni zona d'ombra nella fiducia abbagliante del suo campione. Resta un solo attimo in silenzio, prima di tornare a sorridere con la stessa forza di prima.
Non dona risposte, perché non sente il minimo debito morale nei confronti del ragazzo, ma si insinua dentro la sua riverenza come un accusatore senza prove.
-Cosa ha maturato in te i tuoi dubbi, Reiner?
Basta il tono per domare l'altro, che si ritrova nuovamente pieno di vergogna – tuttavia è più forte la volontà di chiarificazione, in lui.
-L'esperienza, padrone.
-Come hai intenzione di usare questa esperienza, Reiner?
-Questo è il mio dubbio.
Gli occhi chiari brillano, incapaci di nascondere emozione e paura. La maturità raggiunta, che calma l'ansia o non ne fa comunque strumento d'isteria, è la sola e unica cosa che tocca davvero l'uomo: il carattere del suo campione è forte abbastanza da non implodere su se stesso e fragile tanto da tremare subito.
O forse la sua è solo paura, perché non c'è niente che spaventa più dell'ombra.
Il padrone gli tocca una spalla, in una presa piuttosto energica. Lo guarda da sopra gli occhiali, con il viso piegato e il sorriso furbo.
-Non lasciarti vincere da niente, Reiner. Tu sei il mio campione, ricordalo. L'esperimento meglio riuscito, l'unico a cui è ancora permesso di vedere il sole.
Anche adesso c'è l'insinuazione, capace di scatenare nell'immaginazione di Reiner una serie di collegamenti visivi e sensibili che prima non era mai riuscito a fare: una botola, odore di medicinale, le prime parole che il suo padrone gli ha rivolto quando ha aperto gli occhi e gli ha dimostrato di essere vivo, sopra un tavolo freddo di metallo.
Le parole dell'uomo lo riportano alla realtà di quell'istante, ed è chiaro come nei suoi lineamenti si formi un'attesa terrificata.
-Occupa il posto che ti ho assegnato in questo mondo con il solito temperamento di sempre.
C'è il vuoto nei suoi occhi, quando dice le ultime parole di quel breve dialogo – Reiner ha più che mai la certezza che ci sia dubbio anche negli occhi del suo padrone, e che sia compito proprio risolverlo il prima possibile.
-Sì, padrone.

 

Il campione non riesce a chiudere gli occhi per più di qualche istante appena.
Percepisce con difficoltà il suono oltre le grida degli spettatori, così come ogni ulteriore dettaglio oltre la realtà che sta vivendo: i sensi alterati gli comunicano informazioni confuse, veloci e contrastanti, incoerenti, che non lo aiutano a formulare un solo pensiero.
Non riconosce più un centro di ferma stabilità.
Alza gli occhi al suo avversario solo quando entro la sua visuale compaiono i piedi scattanti di quel giovane ragazzo pelato, dagli occhi vispi e la voce probabilmente più grossa del dovuto – Reiner non giudica né mai l'ha fatto, ma in quel momento gli pare insolito, per un essere così esile, un tono tanto provocatorio.
Gli chiede di avanzare, di considerare la sua presenza. Lo fa con parole ustionanti, importanti persino per l'orecchio avvezzo agli insulti del campione.
Quando arriva a guardarlo in viso, ha la sensazione di guardarsi allo specchio: Connie Springer prova una paura uguale alla sua, nella forma e nell'intensità. Eppure è lì, come lui, spinto da motivi che Reiner non comprende né potrebbe mai sapere.
Ma conosce i motivi della propria, di paura. Sono dei dubbi che ha maturato e conservato, sono gli occhi del padrone che lo guardano, è la botola nascosta da uno strato non così spesso di paglia che durante la notte rimbomba di grida di morte.
Reiner riesce a sentire di nuovo i colpi del tamburo, ma a ogni battito il suo cuore risponde con due. Balla assieme a ogni certezza, traballa senza una gravità precisa che lo fermi in un punto e arriva a non concepire più un pensiero stabile.
All'ennesima parola di Connie, Reiner parte all'attacco.
Sente contro le nocche chiuse a pugno la mascella del ragazzo che si sposta, probabilmente si rompe anche, e la resistenza dei denti che gli scava una forma non precisa contro la pelle della falange. Ferma la caduta del corpo di lui con l'altra mano: lo prende per l'avambraccio e lo trattiene fermo davanti a sé, per colpirlo ancora.
Ogni colpo del tamburo, tre pugni.
Il sangue fomenta le strilla del pubblico, così pregno di desiderio di morte e così istigato da quella macabra visione di lotta che dà sfoggio di ogni possibile istinto ferino, senza la preoccupazione tutta umana della vergogna o del pudore. Più Reiner colpisce, più le voci si alzano.
Del viso di Connie, non rimane che un insieme di chiazze scure e bubboni gonfi. Quando vede che non c'è più niente da colpire, il campione lascia l'avversario e ne vede il corpo cadere a terra, come una foglia secca. Rimane fermo, a respirare grosso, guardando soltanto il sangue che l'altro sputa a più riprese a terra: qualcuno gli ha insegnato che quello è il segnale per fermarsi o di rallentare.
Ma Connie alza il viso e si rimette in piedi, pur inciampando nel nulla. Lo sostiene un ideale forte, che gli fa scansare il dolore e lo fa ancora parlare, tra denti rotti e labbra spaccate.
Reiner non ascolta le parole che gli rivolge né il tono con cui si pronuncia, e sotto gli occhi del suo padrone e di tutto il pubblico lo prende di nuovo e lo colpisce, ancora e ancora. Il torace, il petto, il ventre e tutte le braccia – sente qualche osso spezzarsi e non rallenta.
Percepisce di nuovo il battere del tamburo, troppo lento per rappresentare il proprio cuore. Quando quello rallenta, pian piano, fino a diventare muto, comprende che in realtà non tentava una comunicazione con lui, ma l'aveva ben allacciata con Connie.
Ferma il pugno, a mezz'aria, e finalmente libera il braccio di quel cadavere che ha stretto per tutto il tempo. Arretra di un passo, per non toccarlo più né ostacolarne la discesa, ed è una fortuna che non veda il suo viso sfatto o l'espressione immobile, solo una fortuna.
Il pubblico ancora grida, ma Reiner è sicuro che il suo padrone non partecipi ad alcun tipo di gioia.
Paradossalmente, è più interessato a guardare il sangue che macchia il pavimento, e quando alza il pugno davanti al proprio viso lo nota rosso, carminio.
Chiude gli occhi, nel tentativo di sentire qualcosa di diverso da quelle grida animali. Non batte più niente, neppure lontano.
E quella è la cosa che più gli procura dolore.

 

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Capitolo 6
*** *Capitolo cinque* – Enough to make my systems blow ***


*Capitolo cinque*

Enough to make my systems blow

 


 

Eren Jaeger sospende il proprio sguardo nel vuoto e ferma il passo proprio sotto uno dei pochi ciottoli bianchi ai bordi di quel sentiero spoglio.
Il vento fa fischiare le fronde degli alberi insinuandosi in ogni anfratto libero e facendo vibrare tessuti verdi di clorofilla ed essenza come le superfici lisce di strumenti accordati perfettamente; gioca poi con le sottili e innumerevoli dita dell'erba, piegandole come un unico manto e creando sogni che ricordano lo scorrere di un fiume gentile; si insinua, infine, tra le pieghe dei suoi vestiti color paglia, per andare a carezzare la pelle sensibile e irrigidirne tutti i peli per quel fresco piacevole e, soprattutto, vivo.
Eren non sorride, perché la situazione che vive in quel momento non glielo permette, ma sente una più radicata serenità ed empatia con il mondo che lo circonda, nel preciso istante in cui si prende un profondo respiro.
Erwin Smith si accorge, pochi passi più avanti, di non essere seguito dal rumore dei suoi passi, e quando si volta per richiamarlo lo trova ancora intento a catturare i colori del vento. Gli lascia giusto il tempo per svuotarsi del fiato racchiuso, prima di pronunciare forte il suo nome – gli occhi che il ragazzo gli rivolge subito sono quelli di chi è stato sorpreso e non preso in fallo, si fanno veloci e scattanti e non conservano traccia della minima colpa. Gli sorride quando torna di nuovo al suo fianco e torna a guardare avanti, riprendendo quella sorta di marcia trionfale.
Erwin non guarda altro che la propria meta, vicino abbastanza da non essere più solo uno sfuocato punto all'orizzonte, ed Eren fa ora lo stesso. Non nota la presenza delle prime macchine ai bordi del viale, non nota neppure la prima puzza di tabacco grezzo che si accumula come in nuvole in certe specifiche zone, proprio lì dove la cenere dei sigari è finita in forma di rugiada ad appesantire gli steli verdi del prato, ma prosegue dritto mosso soltanto dalla propria decisione e dal proprio sentire.
Il suo credo gli muove il passo: dentro quel capanno, c'è l'origine di ogni male del mondo. Non può permettersi di ignorarlo così come non può permettersi di lasciarlo proliferare senza porvi qualche rimedio. La sicurezza della propria giustezza giustifica ogni movenza e ogni gesto, ogni passaggio e ogni traguardo.
Perché, così come in quel capanno si portano avanti esperimenti sulla biochimica per il potenziamento di eventuali macchine umane da guerra, quello che si porta appresso e che in quel preciso istante gli sta camminando accanto non è che il più progredito risultato della ricerca della sua collega Hanji Zoe – il prodotto finale di una macchinazione precisa, atta a soddisfare progetti dai grandi propositi. È stato un caso che proprio Eren mostrasse i sintomi giusti per diventare un soggetto da sperimentazione: partendo da una malattia terminale autoimmune di rarissima apparizione, l'ex medico militare era riuscito a sfruttarne le qualità per creare qualcosa che la tecnologia avanzata del ventitreesimo secolo non aveva ancora concepito, nonostante le macchine volanti, i robot e gli androidi di ultima concezione, gli alimenti completamente sintetici e i viaggi nello spazio. Tornare a lavorare sull'essere umano, nella sua meraviglia e nella sua complessità, era stata la soluzione e la rovina alla stessa maniera, ed Erwin è più che mai sicuro che risieda proprio lì, il limite delle facoltà prettamente umane.
E per raggiungere il proprio scopo, non ha intenzione di farsi scrupolo a usare lo stesso tipo di arma.
Sente Eren fermarsi ancora, poco prima di entrare dalla porta del capanno. Sa cosa troverà sul suo volto ancora prima di girarsi, di nuovo, a guardarlo in viso, perché quella forte decisione che fa presa sulla realtà concreta per auto-alimentarsi e giustificarsi da sé è un sentimento che il più giovane ha imparato da lui, attraverso l'emulazione passiva. Ed Eren è sincero, nel suo odio, diretto e terribile con quegli occhi verdi che ricordano l'umanità lasciata indietro da una fredda e artificiosa tecnologia egoista.
Quando il ragazzo entra, è solo un attimo: i presenti si voltano a guardarlo, fermando la scena in un solo attimo.

 

-Signore, è quello il ragazzo che definiscono “campione”?
Il pubblico è già stato richiamato dentro il capanno, le porte sono già state serrate e Reiner fatto apparire, nella divisa classica da lottatore: pantaloni stretti all'inguine e del tessuto stretto e bianco attorno alle nocche della mano destra – nell'angolo a loro più lontano, ha cominciato già a riscaldare i muscoli delle braccia e delle gambe, facendo passi lunghi che tendono tutti gli arti.
Erwin sistema uno straccio umido, tiepido, sulla parte alta della schiena del suo lottatore, spargendo un poco di calore sulla pelle nuda.
-Sì, è proprio lui.
Posizionato dietro il corpo del ragazzo, gli alza una fascia dal collo e racchiude i ciuffi della sua frangia sotto di quella, in modo che non oscurino il suo sguardo.
-Non mi sembra diverso da un ragazzo normale.
-Neppure tu lo sei, all'apparenza. Eppure sai di cosa sei capace, e non è per nulla normale.
Gli massaggia le spalle mentre il ragazzo muove le gambe sotto lo sgabello dove è seduto. All'uomo non occorre vederlo in viso per percepire l'astio che sta provando verso il biondo campione: Eren rimane sempre sincero e diretto, di così facile comprensione per chi è abituato a macchinazioni elaborate.
Si china contro di lui, verso il suo orecchio.
-Colpire lui è come colpire una pietra. Consideralo come ricoperto da una corazza, specialmente sulle spalle e sulle braccia. Evita di colpire troppo la schiena e concentrati più sul viso e sul ventre.
-Lo batterò!
-Sono felice della tua decisione, Eren, ma non dimenticare per cosa sei qui.
Il ragazzo si volta a guardarlo, mentre tutt'attorno il pubblico si fa sempre più pressante.
-Lei non odia quel ragazzo?
Illuminato dalla luce dell'unica finestra del capanno, è salito sul suo palco rialzato il padrone del luogo, che nel suo completo elegante e bianco ha preso posto sulla sedia d'onore e guarda già, squadrando, tutti loro. Ha insistito con gli occhi, per ben due volte, sulla figura del proprio protetto, ma sembra aspettarsi da lui niente di più che un bello spettacolo – lo si intuisce dalla mano che ha già pronta sulla leva della botola, indifferente a tutto e a qualsiasi risultato da raggiungere.
Erwin ha anche visto, oltre a questo, l'espressione dipinta sul viso del campione, ed è quella di chi ha capito perfettamente cosa sta per succedergli.
Per questo l'uomo non rifugge alla domanda del suo lottatore, consegnandosi all'ennesima sua curiosità con un sorriso.
-Non pensa che si debba odiare, per quello che è e quello che rappresenta?
-No, non lo odio né penso di doverlo fare. Per quanto lo si possa definire un simbolo di tutto ciò contro cui noi stiamo lottando, esso in sé, nella sua forma e nella sua essenza, non è altro che l'ennesimo strumento nelle mani di un padrone troppo esperto.
Eren non è stupido e ha capito cosa il comandante ha sottinteso. Fa un cenno del capo, totalmente istintivo e dettato dal puro rispetto che prova nei suoi confronti.
-Io sono qui perché lo desidero, comandante.
-Lo so. Questa è la differenza tra te e quel ragazzo.
Eren guarda il proprio avversario con occhi nuovi, a quel punto, per quanto non abbia dimenticato il proprio furore ma l'abbia soltanto riposto in un luogo isolato, per il momento. Le mani di Erwin, sulle sue spalle, lo aiutano a mantenersi più fermo.
Sa che la conoscenza dell'uomo deriva da un'attività non pulita di spionaggio e avvicinamento per mezzi loschi – conosce il caporale Rivaille e anche il suo ruolo. Per questo non ha problemi a fargli domande di diverso tipo, e non ha problemi a ricevere risposte del tipo medesimo.
-È un'esistenza totalmente sintetica?
-No, non lo è. Da quello che si sa, la base è umana, perché è difficile creare certi tipi di emozione.
-Quali, per esempio?
-La coscienza, ovvero la consapevolezza di sé stessi che porta a una volontà autonoma.
Lo guarda ancora, e questa volta c'è davvero troppa umanità dentro il suo sguardo.
-Lei dice che quel ragazzo ha mai provato desiderio per qualcosa?
Così Erwin gli copre gli occhi e gli sussurra piano, diretto nell'orecchio, un ordine meno gentile.
-Non pensarci troppo, Eren.

 

Reiner prova dolore.
Non è la prima volta che gli capita, anzi: è ben abituato a ricevere colpi di ogni tipo, tra pugni calci e cose del genere, perché quello è ciò che fa oltre a esistere nella maniera più mera del termine.
Quando l'avversario di quel giorno – un giovane dagli occhi pieni d'odio e il passo lesto – lo colpisce ancora una volta alla mascella e arresta la sua avanzata per quell'istante, il campione si sente inspiegabilmente vivo e sensibile, con il suo intero corpo.
Ha dubitato di se stesso durante tutta la notte, svuotato di ogni certezza e di ogni stabilità permanente su cui poter basare il proprio pensiero. Ha strappato paglia come un disperato, ha persino urlato fino a rendere muta la voce, ma non ha trovato una risposta soddisfacente come quella che Eren gli ha appena dato, in maniera inconsapevole.
Sospettare che il significato della propria essenza fosse la mansione assegnatagli dal padrone che lo ha creato è una cosa che lo ha preso in diversi punti, quando ha cercato di guardare la luna attraverso quella finestrella alta, spaventando con i suoi balzi e i suoi movimenti inusuali gli animali con cui condivideva quelle quattro pareti.
Si è chiesto come mai il mondo, come la luna e il sole, come il vento e tutti i suoi profumi, dovesse essergli negato a quel modo, e di quale colpa la sua esistenza fosse macchiata perché lui non potesse toccare se non con calli sui polpastrelli e piedi nudi su un cemento grezzo.
Non ha trovato risposta a cui aggrapparsi.
Si piega in avanti, su se stesso, quando l'avversario lo colpisce al ventre forte. I suoi occhi si spalancano e dalla bocca gli esce un rantolo sordo, e sente chiaramente il sangue raggrupparsi alla base del suo stomaco, pronto per essere sputato.
È come se il suo corpo, in sintonia con il disastro del suo animo, non abbia neppure intenzione di reagire al danno subito. E Reiner si china a terra e sputa, più volte, e cerca di afferrare qualcosa con la mano – trova solo polvere e ghiaia poco compatta, che gli scivola tra le dita.
Continua a essere tutto vuoto, per quanto tenti di colpire Eren e per quanto Eren lo colpisca.
Riesce a vedere, in un lampo, il suo padrone sul solito trono, e riconosce quello sguardo pieno di delusione che lo accompagna da ore. Non si placa, quello che ha dentro, ma ruggisce come un animale ferito.
Si ritrova di nuovo a terra, con lo zigomo spaccato e un taglio che gli colora di rosso tutta quanta la fronte. Il suo avversario è rabbioso, ma non approfitta del suo essere inerme per finirlo: pare più interessato alla vittoria che alla sua morte.
Reiner si prende qualche istante per respirare, con i polmoni pieni di sporco. Vede al rallentatore i movimenti del pubblico e sente poco le sue parole di scherno, d'odio e di ira, come se il mondo lo avvolgesse e cercasse di isolarlo completamente. C'è solo il sangue che gli impasta la lingua e il suo rimbombo che gli occupa l'udito.
E poi, ancora, il tamburo che fa vibrare la terra.
Reiner lo riconosce subito, come subito riesce a dare un nome alla sensazione che sta provando. Gioia: c'è qualcuno che vuole ancora dar ragione al battere del suo cuore. Colpo dopo colpo, quella è davvero la sua marcia.
Gli cade una lacrima dall'occhio destro, quello che ancora è in grado di schiudere le palpebre, e quindi decide di alzarsi. Assieme al cuore di lui, anche il ritmo del tamburo aumenta di colpo, e finalmente si riconosce della vita nel suo sguardo.
Eren lo vede, lo percepisce chiaramente, ma è la titubanza di un secondo e dopo urla assieme a lui, senza retrocedere né con la foga né col corpo.
Il campione sente la vita esplodere, a ogni pugno ricevuto, e per quanto gli faccia sempre più male e per quanto le sue gambe alla fine lo sostengono con sempre più difficoltà, ha ormai capito tutto ciò che gli serve per non conservare più alcun dubbio nella propria coscienza.
Non è l'esperienza, a insegnarglielo, e non sono le parole menzognere di una falsa guida: quello che riconosce, illimitato e puro, è amore.

 

La botola si apre, all'improvviso, e come prima cosa libera un odore pestilenziale di morte.
Prima di capire cosa stia succedendo, la maggior parte dei presenti assume espressioni schifate e senza la minima comprensione – poi, quando tutti si voltano verso Erwin che ancora tiene in una mano la chiave e nell'altra l'anta di legno scuro e pieno di muffa, c'è quel momento di stasi che annulla ogni percezione.
Poi, il ruggito di Eren, che è quello di una bestia: liberatorio, possente, impetuoso.
C'è altro silenzio, subito dopo, e un susseguirsi di timide risposte. Il terreno comincia a tremare, pieno di sussulti e di morbosi desideri scatenati all'improvviso, e la prima mano che riemerge dal sottosuolo è nera come la pece e arreca sei artigli lunghi come coltelli. Uno degli ex campioni riesce a mettersi ritto, in quel che rimane di lunghi capelli biondi da donna e un naso aquilino sul viso, di nuovo alla luce, e fa fatica a riconoscere quello che ha attorno; ma una, una cosa la ricorda, ed è il viso esterrefatto del suo creatore.
Allora urla con più forza, e richiama gli altri.
Alla violenza, alla passione, alla vita e basta.

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Capitolo 7
*** *Epilogo* – It's a revolution, I suppose ***


*Epilogo*

It's a revolution, I suppose

 

 

Bertholt tiene stretto tra le dita della mano il battente consumato, anche quando sale gli ultimi scalini che lo fanno emergere dai sotterranei. Vibra di terrore, in tutto il proprio corpo, e non per il ricordo dell'ultimo colpo dato al tamburo, ma per le scosse che le grida di animali e finti umani hanno provocato sulla sua intera figura – la membrana che oscilla a creare la melodia di terrore è stata rappresentata dalla sua persona irrigidita.
I suoi occhi si abituano lentamente alla luce del giorno, così come la sua gola all'aria che non sa di marcio e di putrido, e quando finalmente riesce a vedersi le mani, si ritrova sporco di nero in ogni lembo di pelle ancora intatto e con la carne scavata in più punti da parassiti di cui non sa neppure il nome. Sputa l'aria rancida che ha nei polmoni, come vomito troppo acido, e per un attimo il battente pare separarsi dal suo corpo. Lo afferra saldamente prima che cada e lo lasci definitivamente.
La superficie è una sorpresa, ma immagina sia colpa degli ultimi avvenimenti accaduti. C'è caos e disordine, come il luogo che ha appena abbandonato. Eppure, la morte trova una diversa forma, per esprimersi: ci sono pezzi ancora sanguinanti di essere umani, cadaveri smembrati e rantolanti che muovono gli arti in cerca di aiuto, pezzi di indumenti strappati e buttati a caso tra gli steli secchi della paglia odorosa.
C'è anche un palco, ai bordi di quello che doveva essere un ring, e qualche animale libero che scalcia in mezzo agli oggetti messi alla rinfusa.
Un ex campione esce, all'improvviso, da dietro la carcassa di una mucca, e con la bocca grondante di sangue avanza verso di lui e ringhia la propria paura. Bertholt rimane tranquillo, riconoscendo in quegli occhi un viso familiare – Annie ritrova la coscienza in sé, lo riconosce e passa oltre, avvicinandosi piuttosto vogliosa al cadavere del padrone.
Non è rimasto nessuno, in quel posto, ed è l'affievolirsi sempre più preciso di un ritmo cardiaco che il ragazzo moro tanto teme.
Va avanti, inciampando in qualcosa che non guarda neppure, e quando ritira la mano da terra si ritrova a stringere uno scarpone con il piede ancora dentro; lo butta via urlando orripilato, e al suo grido qualcuno risponde.
Si ritrova davanti, mezzo nascosto dalla paglia e sotto il corpo di uno degli ex campioni, un ragazzo biondo di corporatura massiccia, che è ancora in grado di respirare e tossisce sangue. Trova la sua pelle eccessivamente chiara, e chiazze di rosso ovunque attorno a lui. Lo guarda girare il viso con fatica, nella sua direzione, e aprire il solo occhio ancora capace di vedere.
Il suo cuore si ferma.
-Tu sei... l'attuale campione?
Lo vede percepire le proprie parole, probabilmente capirle anche, e scegliere nella propria testa anche una risposta quanto più sintetica possibile per non sprecare altre energie: fa un solo cenno del capo, di assenso.
Il cuore di Bertholt si ferma di nuovo.
Si avvicina veloce, sempre tenendo il battente con una mano – usa l'altra per spostare il cadavere sopra il ragazzo e pure tutto ciò che ancora lo ricopre. Ha ferite, troppe, e sanguinanti da troppo tempo.
Lo guarda ancora in viso, e si rende conto che l'altro è abbastanza consapevole della propria condizione, senza eccessiva rassegnazione nello sguardo. Non prova neanche a parlargli, e questo è di molto sconforto per il ragazzo.
Gli mostra il battente e allora il ragazzo biondo pare illuminarsi per un istante, giusto per raccogliere le forze per dire qualcosa. Il suo nome.
-R...ein-er.
Bertholt lascia il battente per terra, sorreggendo il capo del campione sulle proprie cosce.
I loro cuori battono allo stesso ritmo pacato, trovando una sincronia perfetta senza il minimo sforzo. Il ragazzo moro lo tocca appena sulla guancia liscia, con i polpastrelli, cercando di non toccare niente che gli possa fare del male; Reiner apprezza e chiude gli occhi, rilassandosi per davvero.
Tutto, tutto quello ha senso in quell'attimo: la sicurezza di aver avuto qualcuno accanto a sé, che fosse una ragione di vita e una presenza costante, diventa realtà per entrambi. E, in ultimo, la voce di lui, altissima quanto vera.
-Io mi chiamo Bertholt, Reiner. E sono qui per portarti a nuova vita.

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