Swan's flight

di TheHeartIsALonelyHunter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***
Capitolo 5: *** Chapter 5 ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


Emma Swan imprecò contro tutti i Santi, tutti i Patroni e tutti i Martiri che le suore le avevano nominato in undici anni di dolorosa convivenza.
“Che diamine!” sbottò, mentre la centesima bacchetta (o almeno così parve a lei) le passò tra le mani senza produrle altro che irritazione.
Olivander, col suo sorriso di convenienza e gli occhi ormai spenti di chi vuole solo levarsi un cliente dalle scatole, sospirò condiscendente e disse quasi meccanicamente “Non preoccuparti, cara, troveremo qualcosa per te”.
Emma si chiedeva perché diamine qualsiasi cosa venisse a contatto con lei facesse sempre fatica a sceglierla: i suoi genitori si erano rifiutati di tenerla, preferendo al crescerla abbandonarla malamente sul ciglio di una strada, almeno tre famiglie se l’erano già passata come fosse stata una palla con cui giocare e ora perfino una dannatissima bacchetta non voleva unirsi a lei. Non riusciva proprio a capire cosa ci fosse di sbagliato in lei.
In fondo, non era poi così orrenda alla vista: una ragazzina minuta dallo sguardo perso, i capelli biondi che le ricadevano morbidi sulle spalle e il nasino all’insù a completare un quadretto di bambina perfetta alla Shirley Temple, tanto graziosa che qualunque adulto dotato di un cuore avrebbe dovuto, teoricamente, sciogliersi al solo vederla.
Teoricamente.
Praticamente Emma aveva già fatto innervosire tre famiglie col suo temperamento “assurdamente freddo” e “pretenzioso”, che ben poco si addicevano a un viso tanto amorevole.
All’orfanotrofio la chiamavano “l’inafferrabile Emma”: secondo quell’idiota di Wanner era lo “scarto” che nessuno avrebbe mai voluto, la bambina che, qualsiasi cosa fosse accaduta, sarebbe stata rifiutata per sempre e lasciata a marcire in un angoletto. E sebbene Emma si costringesse, con incredibile forza d’animo, a non ascoltarlo e ad ignorarlo, non poteva scacciare dalla sua mente l’idea che gli anni stessero passando. Che ormai ne aveva già undici. E che nessuno avrebbe mai voluto adottare una ragazzina così grande. E che più passava il tempo più le probabilità di rimanere in orfanotrofio fino ai diciotto anni diventavano orrida realtà.
Wanner se n’era andato via due settimane prima, con una signora con la puzza sotto il naso, vestita di una pelliccia d’ermellino e con al guinzaglio un cane basso e straordinariamente brutto. Chissà perché, Emma aveva avuto l’impressione che ci sarebbe stato benissimo, Wanner, con quella lì.
“Proviamo con questa!” esclamò Olivander eccitato, neppure Emma sapeva per cosa: appena le infilò la bacchetta tra le mani le venne voglia di infilargliela in un occhio, tanto provava repulsione verso quello stecchetto di legno.
“Non è lei” sentenziò senza neppure provare un incantesimo e porgendola con la massima delicatezza al negoziante.
“Oh, ma come fai a dirlo, cara?” chiese lui, gentilmente, con il tono di chi parla a un bambino di tre anni. Le fece salire una rabbia assurda. “Non hai neppure provato…”
Emma gliela porse tendendo la minuscola mano di bambina e tremando tutta nel tentativo di non ficcargliela nel naso o in qualche altro posto. L’orfanotrofio e la sua atmosfera carica di malignità non le aveva certo giovato. Come anche tutte le sconcezze che risuonavano per quei corridoi.
“Non la sento mia” spiegò semplicemente, senza aggiungere altro.
Il fabbricante si limitò ad alzare le spalle, vagamente rassegnato, e borbottò un “Come vuoi”.
Non ne era certa, ma le parve di udire una lieve punta di rabbia nella sua voce. Probabilmente era solo la sua mente che le faceva brutti scherzi: aveva imparato a non fidarsi di nessuno, Emma, perché nessuno si era mai dimostrato degno di fiducia.
Certo, alla prima famiglia si era affidata con tutta l’anima e il cuore, innocente bambina col cuore ancora integro sebbene sgualcito.
Poi era arrivata la seconda. E Emma aveva lo sguardo vitreo e sospetto di chi non sa cosa aspettarsi dagli altri. Ma alla fine anche a loro, sebbene più titubante, si era affidata, speranzosa, piena di fede.
Infine la terza. Emma aveva il cuore a pezzi e lo sguardo vuoto e privo di vita. Non aveva neppure provato dolore quando l’avevano rispedita in orfanotrofio. Non aveva provato niente.
“Coraggio, Em!” si affrettò a esclamare quella specie di gigante tentando di tirarla su di morale. “Vedrai che la troviamo una bacchetta adatta a una piccolina come te!”
La bambina si girò con uno scatto  e lo fulminò con uno sguardo, sussurrando a denti stretti:
“Non… Chiamarmi… Em”.
Hagrid parve recepire il messaggio, perché abbassò diventando di un rosso paonazzo lo sguardo sotto i suoi occhi di ghiaccio.
“Scusa…” le parve di sentirlo borbottare, mentre Olivander le porgeva l’ennesima bacchetta.
In fondo, si disse, il gigante era a posto: l’aveva portata fuori da quel postaccio, e già questo sarebbe potuto essere abbastanza per portarla a fidarsi. Ma Emma aveva imparato che era meglio non abbassare la guardia fino alla fine, fino a quando non fosse stata certa che fosse una persona a cui potesse davvero aggrapparsi.
“Che cosa stupida” sussurrò stringendo i denti, agitando a vuoto la bacchetta con tanta foga che per un istante quasi la ficcò davvero nell’occhio del fabbricante.
Hagrid sbuffò mesto.
“Beh, con cosa credi di fare incantesimi a scuola, allora?”
Emma alzò gli occhi al cielo, seccata.
“Ma per favore…”, Olivander gli strappò il bastoncino tra le mani prima che combinasse guai. “Vuoi dirmi che esiste DAVVERO una scuola di magia?”
Il gigante sussultò e rispose, punto sul vivo:
“Ma certo che esiste!”
Emma sbuffò scettica.
“E ti dirò anche di più!” esclamò, alzando un pollice grosso quanto una salsiccia. “È in assoluto la miglior scuola di magia a cui tu potessi essere iscritta, ragazzina!”
Emma si girò verso di lui, lo sguardo incendiato di furore e chiese, con tono sarcastico:
“Ah, davvero? E dimmi, se la magia esiste, esiste anche il Coniglio di Pasqua?”
Hagrid divenne pallido per un istante, poi tentò di ridarsi un contegno e tossì malamente.
“Io… Io credo che quando arriviamo a scuola… Poi vediamo… Se non mi credi… Quando arriviamo a scuola”, balbettò, sembrando sul punto di mettersi a piangere. Farfugliava in un modo così confuso e turbato che per un istante a Emma scappò un sorriso divertito.
Solo per un istante.
“Forse… Questa?” tentò Olivander con cautela.
Emma però non mosse nemmeno il polso: aveva lo sguardo rivolto verso una minuscola scatolina nei ripiani più bassi di uno scaffale. Una scatolina all’apparenza comune, di un nero sbiadito triste e avvilito. Sembrava essere lì da molto tempo. Orfana come lei di un padrone.
Il fabbricante rimase per alcuni istanti interdetto dal suo sguardo vuoto, poi intercettò la direzione dei suoi occhi e notò la scatola che aveva attirato magneticamente la sua attenzione.
“Oh” esclamò, avvicinandosi ad essa con passo svelto. “Mi chiedo come abbia fatto a non pensarci prima” disse, come in tono riparatorio.
Emma però neppure lo sentì: fissò le sue mani armeggiare nervose sulla scatola ed estrarre, con movimento elegante, la bacchetta che vi era all’interno.
Nell’istante in cui la vide, ancora prima che Olivander gliela mettesse in mano, capì che quella era sua.
Strinse automaticamente le mani intorno al ruvido legno, con una tale delicatezza che si sorprese lei stessa, e il contatto le causò quasi un brivido freddo lungo tutta la spina dorsale. Emma richiuse gli occhi, appagata: era la sua bacchetta.
“Ah, bene!” esclamò il fabbricante, facendola risvegliare con un sussulto dallo stato catatonico in cui era caduta. Prima che se ne accorgesse, le fu strappata di mano la bacchetta, e Hagrid esclamò, felice:
“Congratulazioni, Emma!”
“Otto pollici, abete, nucleo di piume di fenice, mediamente flessibile! Mi chiedo davvero perché non ci abbia pensato!” declamava intanto Olivander, il cui viso era aperto in un sorriso così sincero e gioioso che Emma non se la sentì di guastargli l’umore con qualche battutaccia.
“Abete, eh, Emma?” commentò Hagrid, nel tono di chi cerca di fare colpo fingendosi esperto di qualcosa di cui è invece completamente ignaro.
“Le chiamano ‘bacchette del sopravvissuto’” spiegò Olivander, riponendola con cura nella scatola e dirigendosi al bancone.
Un “Wow” sincero le scappò dalle labbra, e Hagrid parve gongolare lievemente: era la prima volta che la bambina si mostrava sinceramente stupita per qualcosa che avesse visto da quando aveva lasciato lo spoglio edificio in via Kensington Garden numero 15 a Londra.
“È una bacchetta decisamente importante” commentò, tentando magari di stupirla ancora di più, passandole la scatoletta da dietro il bancone. Ma Emma non accennò ad alzare le sopracciglia o qualsiasi cosa quello psuedo fabbricante e quel cipresso si aspettassero: afferrò con uno scatto ciò che Olivander le porgeva e lo strinse con uno scatto possessivo, senza rivolgergli un sorriso.
“Grazie” borbottò solo, guardandolo negli occhi spazientita. Aveva sprecato almeno un secolo in quella bettola per qualcosa che non le sarebbe mai servito, e non intendeva rimanere lì un altro istante.
Senza dire una parola, si voltò e uscì dal negozio, sbattendo con quanta forza aveva la porta.
Diagon Alley era particolarmente gremita quel giorno, e lo spettacolo che le si parava davanti era tanto astratto quanto attraente: vesti dei colori più fantasiosi le si presentavano davanti, e cappelli a punta si stagliavano fieri sulla testa dei proprietari. Emma pensò con un sbuffo che nel mondo normale, il mondo in cui non esisteva la magia, il mondo in cui la gente non se ne andava in giro con civette appollaiate sulle spalle, il mondo in cui non esistevano negozi assurdi come quello da cui era appena uscita, tutto questo non sarebbe mai stato accettato.
Forse doveva rassegnarsi al fatto che ormai quello fosse il suo mondo “normale”.
“Ehi… Ehi, aspetta!”
La voce di Hagrid le arrivò all’orecchio, lievemente soffocata, come se avesse fatto una gran corsa per raggiungerla all’ingresso.
Emma puntò lo sguardo a terra, sperando che la sua indifferenza lo desistesse dal proposito di far conversazione. All’orfanotrofio funzionava sempre.
“Perché te ne sei andata in quel modo, dico?” chiese il gigante che l’aveva raggiunta. Doveva essere più o meno alla sua destra, perché il lato di strada alla sua sinistra, quello che stava fissando, si era improvvisamente oscurato.
Emma intrecciò lievemente le mani, continuando a stringere la scatoletta con fare quasi affettuoso.
“Non sei stata molto cortese, sai?” continuò lui, come se stesse parlando con una bambina di tre anni. ODIAVA gli adulti che le si rivolgevano come se non riuscisse a capire la loro lingua.
“Lo so” rispose la bambina, in un tono neutro e freddo: non doveva certo spiegazioni a lui. Era stata trascinata fuori dall’orfanotrofio da una specie di gigante con la scusa che “Era iscritta a una scuola di magia”, era stata portata come un bagaglio in quel posto pieno di gente che evidentemente credeva fosse Carnevale ed era rimasta in quel dannatissimo negozio per tre quarti d’ora per comprare una cosa assolutamente stupida. Quella era decisamente la giornata più strana della sua vita.
“Allora perché te ne sei andata così, scusa?” insistette lui, senza dare cenni di cedimento.
Emma alzò gli occhi al cielo, visibilmente seccata.
“Senti, potremmo stare qui a parlare della mia maleducazione tutto il giorno, OK?” esclamò, nel tentativo di scrollarselo di dosso. “MA non abbiamo tutto il giorno!”
Sentì Hagrid ridacchiare accanto a lei e per un istante la rabbia montò prepotente. Ma Emma decise che aveva decisamente fatto abbastanza per quel giorno.
“Sei proprio una tosta, eh?” commentò il gigante, spingendola gentilmente (o quanto gentilmente poteva fare) in mezzo alla folla. Emma teneva lo sguardo basso, quasi timorosa di incontrare quello di altri. Tra tanti altri ragazzini che quel giorno affollavano le strade di Diagon Alley, lei passava quasi inosservata, ma sfortunatamente per lei Hagrid non era altrettanto invisibile: almeno cinque o sei tizi col cappello a punta guardavano il suo accompagnatore con gli occhi stralunati. Emma si trovò a chiedersi chi nella Londra “Babbana” avrebbe fatto più scalpore: quel gigante o un’intera folla di cosplayer?
“E ostinata, anche” continuava Hagrid imperterrito, ridacchiando ogni tanto tra sé e sé. Emma teneva ancora lo sguardo basso, le mani intorno alle braccia nude e le dita serrate sulla scatolina in cui giaceva la sua bacchetta.
“Ce lo dico a Silente, che quando arrivi ad Hogwarts vieni smistata in Serpeverde! Ci scommetto! Cocciuta come una Serpeverde, proprio!”.
La bambina aveva smesso di ascoltarlo ben prima, ma d’un tratto fu come riscossa dai suoi pensieri da quella parola.
“Cos’è un Serpeverde?” domandò, incuriosita. Un’anziana donna le andò a sbattere contro, e Emma fece appena in tempo a vedere che stringeva al petto un enorme rospo bitorzoluto.
“Ooh… Non ti ho detto della divisione in Case, vero?” domandò Hagrid, in un tono lievemente imbarazzato.
La bambina scosse la testa, tenendo lo sguardo costantemente basso, nel timore di calpestare qualche mantello o di vedere altri rospi o creature mostruose: ci teneva davvero poco.
“Oh… Beh…” si schiarì la voce con un colpetto di tosse. “Sono certo che la McGrannit ti spiega tutto, sai… Io non sono la… Persona più adatta”, spiegò, in tono imbarazzato e impacciato, come se stesse esponendo qualcosa di complicatissimo e intricato.
Emma alzò le spalle.
“Per me va bene” commentò, senza aggiungere altro.
Ancora una volta, strinse un pochino di più la scatoletta, con un gesto quasi automatico: poteva anche essere una cosa infantile, ma quella bacchetta era la prima cosa che fosse davvero sua.
Lunghi istanti passarono, prima che Hagrid le rivolgesse di nuovo la parola. Sembrava quasi non volerle parlare, tanto lo sentiva teso accanto a sé. Non che per lei fosse un problema.
“Tu non ci credi che Hohgwarts esiste, eh?” domandò, con un tono tra lo sconsolato e il supplice. Lo stesso che i genitori usano per convincere i figli ad andare a scuola.
O meglio, quello che lei immaginava fosse il tono usato dai genitori per far andare i figli a scuola.
“Io non credo nella magia” minimizzò Emma, sottintendendo “Passo e chiudo”: quella conversazione era decisamente imbarazzante.
“Perché no?” chiese Hagrid, deciso a non mollare. “Insomma… Non puoi sapere se una cosa che non vedi esiste o no”.
La bambina richiuse gli occhi, seccata, e disse, con il tono più calmo che poteva assumere:
“Senti, non serve che cerchi di trovare argomenti se non vuoi far andare avanti una conversazione!”
Ci fu un istante di silenzio, e Emma sperò vivamente che il gigante non avrebbe più detto una parola.
“Ma io voglio fare andare avanti la conversazione!” disse Hagrid semplicemente.
Emma alzò lievemente gli occhi e sussurrò, con un fil di voce:
“Davvero?”
Non ricordava di aver mai incontrato qualcuno che fosse ansioso di parlare con lei, né i suoi tre padri e le sue tre madri né tutti quegli scemi dell’orfanotrofio. Perfino le suore la evitavano accuratamente, come se avesse avuto la peste o qualche malattia infettiva: non riusciva a reggere una conversazione che trattasse argomenti del genere “Jenny oggi si è fatta una nuova acconciatura”, e quello era il genere di argomento da orfanotrofio. Oltre che ciò che evidentemente la gente si aspettava le interessasse.
“Sì, certo” continuò sincero Hagrid. “Sei una ragazzina che ha molto bisogno di parlare, sai?”
Emma si decise ad alzare definitivamente gli occhi, incrociandoli con quelli del gigante. Ci mise un po’ per rintracciarli nel faccione burbero, ma quando li riconobbe gli sorrisero cordiali.
In fondo, si disse non era malaccio: l’aveva portata via da Kensington Garden e ora stava anche facendo conversazione con lei.
Si lasciò scappare un sorriso anche lei.
“Beh… Grazie” disse solo, senza sapere cosa altro aggiungere: non era brava coi discorsi. Non lo era mai stata.
Hagrid sorrise divertito.
“Sei una di poche parole, eh?” commentò, continuando a farsi largo nella folla di Diagon Alley e dirigendosi deciso verso un negozio con alcuni calderoni esposti in vetrina. “Però quando parli o dici cose cattive o parli bene”.
Non se ne accorse, ma a quel affermazione a Emma scappò un altro sorriso: di sicuro era la definizione che più le si addiceva.
“Scommetto sulla barba di Silente che ti smistano in Serpeverde”, lo sentì borbottare mentre gli apriva la porta e la faceva entrare nel negozio.
 
“OK, passi attraversare un muro per arrivare a una stazione, passi prendere un treno per una scuola che non esiste, passi scoprire che quella scuola EFFETTIVAMENTE esiste, ma questo è davvero troppo!”
Emma sbuffò contrariata: quel cappello non parlava. Non poteva parlare. Era fisicamente impossibile che un cappello parlasse.
Per un istante incrociò lo sguardo di Hagrid che le sorrideva dal fondo della Sala con un gran sorriso e che, quando notò i suoi occhi posati su di lui, alzò il pollice con un sorrisone.
“Sì… Figuriamoci se riesce a farmi credere a que…”
“Arendelle, Anna!”
La ragazzina che si staccò dal gruppo aveva capelli di un arancione carota e un sorriso imbarazzato mentre percorreva la distanza che la separava dalla sedia. Nella fretta quasi inciampò nella toga che le arrivava ben oltre le caviglie, e raggiunse quella che doveva essere la McGrannit tenendosela su con le mani.
La donna posò con delicatezza il cappello sul capo della piccola, e quello quasi le cadde giù tanto era largo.
Ma dopo soli tre secondi, Emma vide, senza ombra di dubbio, una cucitura sul bordo del Cappello muoversi e decretare, con fare allegro:
“Tassorosso!”
Uno scroscio di applausi arrivò dal tavolo corrispondente, e la bambina si fiondò velocemente verso di essa, con un sorriso sgargiante e allegro.
Ma Emma non vide nulla di tutto ciò: l’unica cosa che vedeva davanti a sé era quel Cappello che apriva la bocca (se così si poteva dire) e parlava.
Parlava.
Il Cappello… Parlava.
“Richiudi la bocca, cara, o ci entreranno le mosche” le intimò un ragazzino dai capelli semi bianchi accanto a lei.
Emma si affrettò a richiuderla con uno scatto, e nella foga si morse la lingua.
“Non può essere” ripeteva la sua mente meccanicamente, una, due, tre volte. “Non esiste né in cielo né il terra che un cappello parli!”
“Corvonero!” sentì.
“No, no, no, no” continuò, stringendo gli occhi convinta.
“Quel…”
“Grifondoro!”
“… Cappello…”
“Serpeverde!”
“… Non…”
“Tassorosso!”
“… Parla!”
Il resto dello Smistamento lo passò a guardare come incantata quel Cappello che veniva posato su teste, apriva la bocca e parlava, veniva posato su teste, apriva le bocche e parlava, veniva posato sulle teste, apriva le bocche e parlava…
Fece ben poca attenzione ai volti che le sfilarono davanti, nervosi, eccitati, tranquilli, poco interessati, annoiati: vide “Fox, Eric” smistato in Grifondoro, un ragazzino tanto mingherlino che quasi le sue gambe non lo ressero in piedi mentre si avviava verso il suo tavolo; vide “French, Belle” diventare ufficialmente una Corvonero; vide“Frost, Jack” (che scoprì essere il ragazzo accanto a lei) mandato al tavolo dei Serpeverde e che, quando le passò accanto, le fece l’occhiolino con una risata; vide “Horrendous, Hiccup” (a quel nome si udì una risata generale e il diretto interessato alzò gli occhi al cielo) accolto dai Tassorosso; vide “Huber, Graham” andare al tavolo dei Grifondoro (le rivolse un sorriso timido prima di sedersi); vide “Landa, Hans” proclamato e acclamato come Grifondoro (Emma notò il bacio che lanciò in direzione di Anna, che diventò rossa come un peperone); vide tanti di quei ragazzi che non avrebbe mai potuto contarli…
Poi, fu il suo turno.
“Swan, Emma”.
La bambina divenne di un bianco cereo, ma si costrinse a trascinarsi a passi lenti verso il Cappello, deglutendo rumorosamente. Sentiva il respiro divenire via via più affannoso e il cuore scoppiarle in petto.
Quel Cappello…
Stava per venirle posato in testa…
E avrebbe parlato.
Il Cappello avrebbe parlato.
Poteva negarlo quanto voleva, ma sarebbe successo.
L’aveva visto succedere almeno un centinaio di volte.
E sarebbe successo anche ora.
Avrebbe parlato.
Quando arrivò allo sgabello, la McGrannit le fece gentilmente cenno di sedersi con un largo sorriso. Sembrava quasi essere abituata a vedere ragazzine con gli occhi sbarrati e il fiato corto. Forse, si disse Emma, un giorno era stata anche lei così.
Si sedette con delicatezza, deglutendo per l’ultima volta.
Poi, il Cappello le calò sugli occhi.
“Oh, andiamo, che sciocchezza” si disse, tentando di farsi coraggio. “Non… Non può mica parlare!”
“Oh, non faccio solo questo, signorina!”. La voce la fece sobbalzare lievemente per la sorpresa sullo sgabello, e servì l’intervento della McGrannit affinché non cadesse ciondoloni giù per terra.
“Io vedo anche nei tuoi pensieri, cara” continuò la voce, profonda e ponderata. Sembrava appartenere a una creatura vecchia di centinaia d’anni, così antica e mistica da non poter essere nemmeno immaginata, una di quelle creature di cui si sentiva solo nelle fiabe che poche volte le avevano raccontato le suore.
“E vedo una grande insicurezza, sai” continuò, imperterrita, come se nulla fosse. Emma continuava a tenere gli occhi sbarrati, mentre tutta la Sala la osservava curiosa.
Non era uno spettacolo affatto piacevole.
“Sei tagliente, certo, e cinica per certi versi…”. Emma si ritrovò a pensare che, se quella era la spiegazione più plausibile che poteva esserci, allora doveva essere proprio il Cappello che stava parlando.
“… E non hai molta fede, vedo!”. Le parve quasi di notare una punta di diniego nel suo tono.
“Ah, bene, ora mi faccio anche rimproverare da un Cappello” commentò sottovoce.
“… Ma non sei cattiva, no…”.
Per un istante Emma provò qualcosa che somigliava a soddisfazione nel cuore.
“… E non vuoi neppure esserlo”.
“Come diavolo fa questo qui?” sussurrò tra sé e sé, tenendo gli occhi bassi per paura di vedere in viso qualcuno dei ragazzi già smistati: e se lei non fosse mai stata smistata?
E se non ci fosse stata una Casa o come si chiamavano adatta a lei?
E se nessuna Casa avesse voluto farla sua, come mai nessuno aveva voluto farla sua?
“Tranquilla, piccolina”, la rassicurò la voce con fare quasi paterno. “So già cosa fa per te…”.
Un attimo di silenzio.
Il cuore di Emma si fermò per un lungo,lunghissimo istante…
“Tassorosso!”
La bambina si concesse solo allora un sospiro di sollievo e si accasciò soddisfatta lungo lo sgabello. Beh, magari la magia non esisteva e quella scuola era totalmente inutile (di sicuro avevano usato qualche effetto da film per quel Cappello), ma in fondo al cuore sentiva l’euforia di essere stata scelta ben due volte nelle ultime ventiquattro ore: prima da una stecca di legno che ora giaceva, pronta a prendere polvere, nel suo baule, sopravvissuta come lei, e poi da una Casa in cui, a quanto pareva, avrebbe passato i successivi sette anni.

Note d'autrice:
Questa storia sarà una sfida, già lo so. Già affidare Emma alla Casa dei Tassi è stata una mossa quanto mai azzardata, direi.

Nei prossimi capitoli appariranno altri personaggi, tra cui Elsa, Peter Pan, Rumple, Hook, Neal e Meg.
Per chi non conoscesse quelli già citati, ecco una spiegazione veloce veloce:
Anna è la principessa di Frozen, e le ho dato come cognome il nome del suo regno; Eric è Ercole del cartone della Disney (ho "americanizzato" il nome); Hans è il cattivo di Frozen, il cognome gliel'ho dato per un commento su YouTube in cui un utente diceva che per lui il cognome di Hans era, appunto, "Landa", perché è un "bastardo senza gloria". A lui dunque vanno i crediti, in un certo senso. Belle è Belle di OUAT, il cognome è quello di suo padre. Graham è anche lui di OUAT (il cogome è quello vero). Jack Frost viene da "Le 5 leggende". Hiccup viene da "Dragon Trainer". Per lui e Jack ho seguito la "canon" che vuole che loro due siano, appunto, Serpeverde e Tassorosso a Hogwarts.
Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e spero che continuerete a seguire questa avventura!

 

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


I primi mesi si erano rivelati alquanto tranquilli per Emma.
Per quanto potesse essere definito tranquillo fare lezioni su come far levitare gli oggetti, tentare (inutilmente) di trasformare topi in teiere, mescolare intrugli strani in pentoloni grandi quanto il suo posto letto all’orfanotrofio e passare la serata tentando di ignorare i quotidiani che riportavano immagini in movimento.
La convinzione della neo Tassorosso che tutto quanto non fosse altro che un progetto ben architettato di qualche produttore cinematografico troppo pretenzioso non era affatto andato scemando: se possibile era andato aumentando con il passare dei giorni, con la presenza sempre più frequente di elementi estremamente stravaganti, con le mille conferme che le arrivavano che, poteva pensare ciò che voleva, ma Hogwarts era reale quanto lo era l’orfanotrofio e il suo essere scettica.
La prova più evidente era, in assoluto, il fatto che fosse stata affidata a quella specifica Casa. Sebbene non si fosse avvicinata a nessuno particolarmente, né ne avesse realmente l’intenzione, i discorsi in Sala Comune le avevano creato in testa un’idea ben precisa di ciò che avrebbe dovuto essere lei: dolce, carina, pronta a sporcarsi le mani, leale e, soprattutto, buona. Caratteristiche in cui Emma non si sentiva assolutamente. Non era dolce, non era mai stata carina, avrebbe mollato qualsiasi idiota l’avesse intralciata a morire disidratato nel deserto e non si sentiva affatto buona. Non aveva potuto essere buona. Non gliene era mai stata data l’opportunità.
Da quando era nata era stato deciso, da chissà quale forza superiore, che la sua non poteva essere la vita della classica bambolina bionda. Una serie di eventi e circostanze l’avevano portata ad essere quella che era, e Emma sapeva che non si poteva tornare indietro.
Era tutto meno che una Tassorosso, questo era chiaro a sé stessa come ai suoi compagni di Casa, che la squadravano come fosse stata una specie rara, con la curiosità morbosa degli scienziati.
L’unico che pareva non essere spaventato dal suo atteggiamento scostante e, come l’aveva definito un certo Ernie McMillan pensando che non lo sentisse, “diversamente Tassorosso”, era stranamente Hagrid. Il gigante sembrava ormai aver superato la fase in cui era quasi terrorizzato dal suo modo di fare brusco e insopportabile, e aveva iniziato ad accostarla ad ogni occasione.
Emma non sapeva dire se fosse più scocciata o deliziata da quella sua “amicizia”.
“Ce l’ho detto, io, a Silente, che finivi in Tassorosso!”, le disse un giorno l’uomo, mentre si dirigeva alla Serra. Era in ritardo di dieci minuti, ma in verità non le importava poi così tanto: la Sprite era una delle professoresse più noiose che avesse mai conosciuto (anche se nessuno batteva Suor Clarity).
“Ce l’ho detto che, dal primo istante in cui ti ho visto, ho capito che eri per la Casa di Tosca, tu!” continuò, gioviale.
“Non avevi detto che eri sicuro che mi avrebbero smistato in Serpeverde?” domandò lei, con tono ironico.
Hagrid rimase zitto per un istante, con il viso lievemente sconcertato. A Emma scappò un sorriso: era divertente prenderlo in giro. Anche perché era facile come rubare le caramelle a un bambino: Hagrid non cercava pretesti per farsi ‘sfottere’, non aveva motivi per farsi ‘sfottere’, eppure alla fine le loro conversazioni finivano sempre, in un modo o nell’altro, con lei che lo ‘sfotteva’.
“Beh…”. Il gigante parve riflettere un istante. “Ma… Ma io scherzavo!” esclamò con voce acuta, spalancando le braccia con un sorriso tirato.
Emma alzò un sopracciglio, scettica.
“Davvero?” domandò, nel tono più ironico che poteva prendere.
“Ma certo!” continuò Hagrid, evidentemente non accortosi del suo scherzo. La bambina alzò gli occhi al cielo: tipico.
“Insomma, si vede subito che tu sei la Tassorosso perfetta!”
La cosa che più la shoccava, di tutta quella situazione, era che Hagrid sembrava essere l’unico essere umano, in tutta la scuola, a credere e a continuare a ripeterle, non per farle piacere ma perché ci credeva, che lei fosse semplicemente nata per la Casa di Tosca. Il che era a dir poco sconvolgente anche per un bambinone come Hagrid.
“Mi spieghi cosa ci trovi in me di tanto Tassorosso?” chiese, continuando a procedere a passi lenti.
Il gigante parve fortemente sorpreso dalla domanda, tanto che la risposta che seguì fu:
“Sei assolutamente Tassorosso! Non capisco proprio come tu non lo capisci!”
La bambina sospirò spazientita: era veramente andato per definirla “assolutamente Tassorosso”.
“Certo, non sarai gentile come altri…” commentò Hagrid, abbassando lo sguardo. “… Né… Paziente come altri… né laboriosa come altri… né…”
“GRAZIE MILLE per il riassunto, ho capito” lo zittì Emma, lievemente infastidita. Non le serviva che gli ripetesse anche lui ciò che si diceva ogni giorno nella sua testa.
“Ma il Cappello Parlante considera la parte più profonda del nostro essere!” spiegò Hagrid, una sorta di convinzione profonda nella voce. “E se ti ha smistato in Tassorosso, beh…” borbottò, con tono solenne e guardandola quasi fiero. “… Allora vuol dire che c’è del Tassorosso in te”.
Emma rimase un istante zitta, riflettendo su quelle parole. Possibile che fosse davvero così? Possibile che, in fondo in fondo, fosse ancora capace di mostrarsi buona?
“Lo pensi davvero?” domandò, con voce tremante. Si rese conto solo in quell’istante che desiderava il suo “sì” più di qualunque altra cosa.
Hagrid annuì convinto, con quel sorriso tirato quasi agghiacciante.
“Certo,” sospirò, come un manager che svela all’ultimo istante una clausola dagli effetti devastanti. “toccherà a te decidere se farla uscire o… Insomma… Lasciarla lì”, spiegò incerto, tentando di trovare parole adatte.
Emma sbuffò contrariata, pensando un fugace “e ti pareva” mentre la Serra le appariva all’improvviso davanti, senza che quasi se ne fosse accorta.
“Beh,” esclamò Hagrid allegro, ancora sorridente. “è stato un piacere parlare con te, Em!”
Si voltò con un cenno della mano, allegro e gioioso. Per un istante la bambina sentì l’impulso di gridargli dietro “Non chiamarmi Em!”, ma poi decise di lasciar perdere.
Spalancò la porta della serra con le parole di Hagrid che le rimbombavano ancora nelle orecchie, come un monito continuo.
Però…
Non doveva essere così male essere una Tassorosso, in fondo.
“In ritardo!”.
La voce la fece sobbalzare sul posto, tanto era immersa nelle sue riflessioni. Fu come una secchiata d’acqua in faccia, come una mano che all’improvviso ti trascina via dall’oblio in cui sei caduto, come uno schiaffo improvviso in faccia.
D’improvviso non era più Emma la perfetta Tassorosso, ma era Emma la Tassorosso fottuta: davanti a lei, lo sguardo severo puntato sul suo viso rosso d’imbarazzo, c’erano due tavoli interi di studenti, uno di suoi compagni e l’altro di Corvonero.
“Io…” bisbigliò, tentando di trovare una scusa. Si sentiva la gola incredibilmente secca e le gambe le tremavano. Certo, era brava a rispondere a tono, ma un pubblico vasto come quello la metteva decisamente in soggezione. Anzi, era meglio dire che la terrorizzava.
A completare il quadro, la Sprite, imponente (per quanto poteva essere imponente con quei rotoli di ciccia che le spuntavano dappertutto) dietro un tavolo coperto di piantine a lei sconosciute, che la fissava come se avesse voluto trafiggerla.
Emma spalancò bocca per dire qualcosa, ma subito la richiuse. Lo sguardo di Anna, dal suo posto, era quanto di più innocentemente curioso avesse mai visto.
“In… Ritardo” constatò con tono perentorio l’insegnante. Però, poteva essere noiosa quanto voleva mai era terrificante quando era arrabbiata…
La bambina tossicchiò nervosamente, divenendo se possibile ancora più rossa di quanto già non fosse.
“Mi…” provò, ma anche stavolta la voce non volle saperne di uscire.
E anche se fosse uscita, cosa avrebbe mai detto?
Che non aveva voglia di andare a lezione e aveva allegramente deciso di fregarsene? Che si era persa (per l’ennesima volta) tra i corridoi? Che, per colpa delle scale, si era ritrovata al terzo piano ed era dovuta fuggire a quel gatto odioso del sorvegliante di cui non ricordava il nome? No, decisamente quella era un’idea alquanto bislacca.
“E con la premura che mi ero fatto chiedendovi di venire puntuali, signorina Swan” continuò imperterrita Madama Sprite, lo sguardo che pareva di fuoco. E poi dicevano che i Tassorosso erano docili…
Emma deglutì nervosamente. Il suo sguardo andò disperato al tavolo dei suoi compagni, implorando un aiuto che, però, non arrivò: nessuno pareva avere idee per salvarla dal disastro, e forse neppure volevano salvarla. E in fondo, come poteva biasimarli?
“Visto che oggi ci assisteranno anche gli studenti più grandi…”. Lo sguardo di Madama Sprite cadde su un tavolo che non aveva notato, poco dietro la sua scrivania, alla quale sedevano due ragazzi.
All’apparenza, parevano avere tra i quattordici e i quindici anni: erano molto più alti di loro, i lineamenti erano più marcati e, soprattutto, avevano l’aria di chi ha perso da tempo l’uso di meravigliarsi per ogni cosa.
Uno dei due indossava al collo una sciarpa coi colori dei Tassorosso. Era alquanto carino, notò Emma: aveva capelli neri tenuti abbastanza lunghi, occhi scuri straordinariamente magnetici e un sorriso timido e schivo, tipico di chi non è abituato a passare del tempo con dei coetanei.
L’altro aveva stretta al collo, invece, una cravatta riportante i colori di Corvonero. Avrebbe potuto effettivamente dargli qualche anno in più del primo ragazzo, perché  aveva uno sguardo tanto sicuro e serio che sembrava già un adulto fatto e finito. Al contrario del primo, non era particolarmente attraente fisicamente: aveva capelli neri e occhi anch’essi neri, zigomi decisamente troppo alti e un viso aguzzo. Nel complesso, il viso sembrava disarmonioso e non attirava come quello del Tassorosso. C’era però una luce astuta, nei suoi occhi, che spingeva a guardarlo e a rimanere disarmati da quello sguardo: uno sguardo furbo, intelligente, che sa di avere la situazione in pugno, che guarda dall’alto in basso i “comuni mortali”. Era semplicemente magnetico. Emma non trovava altre parole per descriverlo.
“E lei, naturalmente, arriva tardi”. La voce della Sprite la risvegliò per la seconda volta. “Come sempre”.
Il suo tono era diventato tanto freddo e piatto che Emma sentì un brivido di paura scorrerle lungo tutta la schiena. In quell’istante la noiosa ma affabile signora Sprite era diventata assolutamente terrificante.
Un ultimo suo sguardo supplichevole al tavolo dei Corvonero. Ma neppure da loro nessuna reazione. Diamine, e se loro erano quelli intelligenti…
“È colpa mia, signora!”.
Emma rimase sorpresa quanto la Sprite all’udire quella voce, come pure tutta la classe, in fondo.
Una cinquantina di teste si voltò all’unisono verso la direzione da cui era arrivata e Emma, senza pensarci, la seguì curiosa.
Non credette ai suoi occhi: il ragazzo di Tassorosso coi capelli castani si era alzato in piedi, la sciarpa della Casa che gli scendeva lungo le spalle, e guardava con aria sicura la Sprite.
“L… Lei, signor Cassidy?”. La voce della Sprite si ruppe fatalmente sull’ultima parola. Il ragazzo annuì convinto.
Probabilmente il suo viso era la fotocopia di quello di tutti gli altri studenti lì presenti e della professoressa: confusa, attonita e sorpresa da quel gesto audace, la sua faccia non doveva essere un bello spettacolo.
L’unico a non sembrare sorpreso e che non si era neppure preso la briga di alzarsi in piedi era lo studente di Corvonero seduto accanto a Cassidy: teneva le mani giunte con le punta delle dita unite, osservando tutta la scena con sguardo indagatore. Emma convenne mentalmente che era alquanto inquietante.
“Ho chiesto a Emma di portarmi degli appunti…”. La sua voce era sicura e decisa: sembrava mentisse da tutta la vita. E forse era così. “Evidentemente ha avuto un po’ di difficoltà, visto che la mia camera è uno schifo…”. Il ragazzo alzò le spalle, come a scusarsi con la professoressa e con lei.
La Sprite aveva ancora quell’aria stupita che poco le si addiceva, come chi ha ricevuto una doccia fredda, e teneva lo sguardo fisso sul Tassorosso.
Cassidy riuscì a lanciarle di striscio un’occhiata disperata che pareva dire “Reggimi il gioco!”.
Emma tentò di escogitare qualcosa, ma la prima cosa che riuscì a dire fu un dubbioso “Non… Non li ho trovati…”.
“Oh, tranquilla!” assicurò lui, agitando la mano come fosse una cosa da nulla. “Tutto a posto!”.
Emma si concesse un sorriso e una risata imbarazzata, e il Tassorosso le rivolse un sorriso di risposta.
La Sprite tornò a posare i suoi occhi su di lei. Ora la sua espressione sembrava meno ridicola, ma rimaneva comunque fortemente attonita. Evidentemente quel Cassidy non era tipo da dimenticare appunti o cose simili.
“Lei conferma questa versione, signorina Swan?”.
Tutti i tavoli la guardavano curiosi, come chi osserva uno spettacolo circense particolarmente interessante. Ed effettivamente doveva sembrare fortemente fuori dall’ordinario, quella scenetta che avevano allestito, qualcosa di nuovo fuori dall’ordinaria e noiosa routine della scuola.
Lo sguardo le cadde sul ragazzo di Corvonero, che la osservava con un sorriso storto e quasi di pietà.
Non ci crede, constatò, mentre univa le mani con fare compiaciuto.
Non ci crede affatto.
“Confermo” scandì con voce rauca, torcendosi le dita in grembo.
La tensione era così densa che avrebbe potuto tagliarla con un coltello.
Ci fu un attimo di silenzio.
Poi la Sprite sospirò e commentò, in tono neutro, “Molto bene”.
Emma si rese conto di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo solo nel momento in cui disse quelle parole e ritornò a respirare. Cassidy alzò gli occhi al cielo soddisfatto e si concesse anche lui un sospiro di sollievo.
Emma si chiese solo in quell’istante cosa sarebbe successo che quel ragazzo non l’avesse difesa: il ritardo cronico poteva portare a espulsione? Non che le importasse granché di restare in quel set folle, ma tutto era preferibile a Kensigton Garden.
“E ora tutti a sedere!”. All’ordine della Sprite ci fu un rumorio di seggiole veloce, e Emma si fiondò al primo posto che trovò. Accanto a lei notò Anna, che iniziò a fissarla con curiosità estrema. La bambina abbassò lo sguardo, tentando di ignorarla, ma era alquanto difficile considerando che se la stava praticamente mangiando con gli occhi.
“Dunque…” iniziò con fare pomposo e allegro la Sprite. Emma fu immensamente contenta che fosse tornata al suo vecchio stile: era decisamente meno spaventosa.
“Vorrei presentarvi due studenti che oggi mi aiuteranno nella lezione!”. Il tono entusiastico con cui ne parlò lasciò intendere a Emma che fossero pezzi grossi a Hogwarts, o che comunque avessero voti astronomici.
“Neal Cassidy…”, esclamò la Sprite, indicando il ragazzo con aria fiera. Un lieve battito di mani accompagnò l’alzata in piedi del giovane e il suo sorriso rivolto ai tavoli. Per un istante a Emma parve che i suoi occhi si fossero concentrati per più di un istante su di lei.
“… E Sherlock Holmes!”, disse, stavolta meno entusiastica, indicando l’altro ragazzo. Il sorriso che rivolse ai bambini fu decisamente più freddo, ma quel suo sguardo catalizzò l’attenzione di tutti: Sherlock aveva l’aria temibile di un avversario formidabile, ma non tanto per la propria forza. Quegli occhi parevano aver visto tante cose, aver conosciuto tanti segreti, aver intuito tanto di loro senza che aprissero bocca.
Senza sapere perché, Emma rabbrividì quando, sedendosi, il ragazzo la fissò.
“Ora, tutti attenti!”. La bambina percepì lo sguardo di Anna abbassarsi velocemente al comando della Sprite. Non c’era che dire, era veramente autoritaria se voleva.
Emma si precipitò a impugnare gli arnesi sotto gli ordini della professoressa, senza però riuscire a concentrarsi completamente. Il suo sguardo andò inevitabilmente a osservare Neal lavorare con una strana piantina dalle radici enormi e un paio di cesoie che sembravano gigantesche rispetto alle sue mani.
Il ragazzo parve accorgersi del suo interesse, e alzò lo sguardo dal piano di lavoro per rivolgerle un sorriso caloroso e timido. Emma abbassò lo sguardo, tentando di mascherare l’interesse verso il ragazzo iniziando a giocherellare con un sacchetto di semi.
Ma quando fu certa che non la stesse più osservando e che fosse ben immerso nel suo lavoro, tornò senza quasi accorgersene a rimirarlo: la incuriosiva come nulla l’aveva mai incuriosita dall’istante in cui aveva messo piede in quel covo di matti.
Come sapeva il suo nome?
E cosa l’aveva spinto ad aiutarla, quando nessuno gliel’aveva chiesto? Era così impensabile per lei che qualcuno potesse farle un favore senza volere poi nulla in cambio. All’orfanotrofio un semplice e modesto aiuto diventava vincolante quanto e più di un patto col diavolo. E ci scommetteva che quel ragazzino avrebbe voluto qualcosa in cambio per averla salvata da un ritorno a Kensington Garden…
Lo guardò per l’ultima volta con la coda nell’occhio.
Però, doveva ammetterlo, aveva l’aria da bravo ragazzo…

Emma sbuffò, portandosi i libri al petto: la giornata pareva non dover finire mai.
Alla sua entrata in ritardo alla Serra si erano aggiunte l’atteggiamento insopportabile di Piton durante Pozioni e la noia mortale durante la lezione di Ruf.
Non era riuscita a ritrovare Neal nel baccano che era seguito all’uscita delle Case dalla Serra, ma in compenso si era dovuta sorbire un discorso di Anna che, cercando di essere cortese, aveva iniziato a parlare a freno libero di quanto fosse carino Neal, di quanto fosse stato carino a difenderla a quel modo e di quanto fosse stato carino lo sguardo che si erano lanciati durante la lezione (Emma non si chiese neppure come l’avesse notato) che la bambina aveva sentito solo a metà.
“Anche se non è di certo carino come quell’Hans…” aveva aggiunto poi lei, alzando gli occhi al cielo e diventando di un rosso porpora alquanto evidente.
Emma non si era neppure fermata a chiederle come diamine facesse a piacerle un ragazzo al quale neppure aveva rivolto la parola.
Il corridoio era alquanto affollato, il che le permetteva di scivolare silenziosa senza far nascere commenti sulle labbra di qualcuno. Era quasi costantemente additata, probabilmente per il suo caratteraccio e il suo comportamento sprezzante. O almeno credeva così.
Fortunatamente quella era l’ultima ora: Emma non desiderava altro che scaraventarsi sul letto e lì rimanere per tutta la notte e il giorno seguente, dormendo calma e senza sogni.
Gli studenti camminavano svelti, i libri al petto e le bacchette strette tra le mani. Dei tanti che le passarono accanto, Emma fu inspiegabilmente attratta da due studenti in particolare, che camminavano l’uno accanto all’altro: uno aveva stretta al collo la sciarpa coi colori dei Grifondoro, e al petto, all’altezza del cuore, c’era una spilla con su scritto “prefetto”. Il modo in cui l’aveva sistemata sembrava un goffo tentativo di nasconderla mal riuscito. Aveva capelli biondi chiari e occhi scuri, un naso lievemente adunco e orecchie talmente a sventola che le scappò una risatina.
Il ragazzo accanto a lui portava anch’egli la spilla con su scritto “prefetto” appuntata alla tunica, ma al contrario dell’altro non sembrava voler farla passare inosservata.
Solo dopo un’altra occhiata Emma capì perché avevano attirato la sua attenzione: il secondo ragazzo era il Corvonero dallo sguardo penetrante che aveva visto insieme alla professoressa Sprite. Era quasi assurdo vederlo parlare affabilmente con quel ragazzino dall’aria un po’ persa, quando poche ore prima l’avrebbe volentieri scambiato per un assassino a sangue freddo se non avesse saputo per certo che era uno studente della scuola.
I suoi piedi parvero portarla inevitabilmente davanti al duo: doveva fare due chiacchiere con quel tipo, non sapeva neppure perché.
Il ragazzo parve sorpreso di vedersela spuntare davanti, le gambe spalancate a bloccargli il passaggio, le braccia conserte e lo sguardo più truce che poteva assumere. Per un istante le parve quasi intimorito. Ma l’attimo successivo sembrava sul punto di riderle in faccia.
Certo, doveva apparire alquanto poco imperiosa con quella sua espressione da bambina e il corpicino esile, ma nonostante ciò Emma decise di ignorare la reazione ilare che aveva scatenato la sua apparizione in Holmes.
“Possiamo fare qualcosa per te, piccolina?” domandò il ragazzo accanto al Corvonero, con fare gentile.
Emma strinse denti e pugni e sibilò, decisa:
“Non chiamarmi ‘piccolina’”.
Il ragazzo parve quasi scottato dalla sua reazione, e borbottò un “Oh” semi dispiaciuto.
“Come siamo focosi, signorina Swan” commentò Holmes, fissandola ancora divertito. Avrebbe davvero voluto capire cosa ci trovava di tanto divertente in lei.
Il Grifondoro lo fissò un attimo stupito.
“Sherlock, conosci questa…”
“Tutto a posto John, amico mio” si affrettò a rassicurarlo il ragazzo, stringendo la spalla all’amico, che sembrava vagamente confuso. Emma continuava a guardarlo truce.
“Io e la signorina Swan abbiamo avuto una… Lezione comune, oggi” spiegò Sherlock, ritornando con lo sguardo su di lei.
La bambina chiese, più aspra che poteva:
“Cosa diamine avevi da fissarmi a quel modo?”
Sherlock rimase inebetito dalla domanda, poi la sua bocca si distese in un sorriso.
“Ora è vietato guardare le persone, signorina Swan?”
“Sì se lo sguardo che gli si rivolge sembra quello di uno stupratore”.
John divenne bianco al sentirle pronunciare quella parola, mentre a Sherlock scappò una risata trattenuta.
“Che linguaggio impertinente per una bambina, signorina Swan!”
Il Grifondoro, al contrario di lui, sembrava essere ancora sconcertato da quel suo vocabolario colorito. Fortunatamente non aveva usato alcune delle sue espressioni migliori.
“Spiegami che avevi da guardarmi a quel modo” ripeté Emma convinta, senza lasciarsi sviare da quell’interruzione.
Sherlock alzò le spalle, come fosse una cosa assolutamente infantile.
“Molto semplice, mia cara” spiegò, con una sicurezza calma e certa. “Ho prove a sufficienza per dimostrare che Cassidy stamattina non si è affatto fermato a parlare con te per chiederti gli appunti”.
John lo fissò un istante, come se già immaginasse la sua reazione, e stringendogli una spalla tentò un “Sherlock…” timido.
“Ah, davvero?” chiese Emma con arroganza. Voleva proprio vedere quali prove avrebbe cacciato fuori quel detective da strapazzo.
Sherlock non ebbe neppure bisogno di prendere fiato, prima di iniziare a parlare, senza mai concedersi una pausa e con una sicurezza assolutamente disarmante:
“Il caro signor Cassidy stamattina è andato alla Gufiera per spedire una lettera urgentemente, e questo è decisamente chiaro dal fatto che aveva varie graffi sulla mano, prodotti, come è deducibile dalla loro forma e dalla loro profondità, dal becco di un gufo.
Ora naturalmente lei potrebbe dirmi che potrebbe anche averglieli causati il suo gufo personale, ma questa tesi è subito fugata dal fatto chiaro e inequivocabile che Cassidy possiede un gatto di minuscola taglia. Come lo so? Cassidy presentava vari peli sulla gamba quando è entrato nella Serra, peli di gatto certamente, visto che qui non sono ammessi altri animali che possano rispondere a questi parametri. Inoltre il fatto che essi arrivassero poco sopra la caviglia mi lascia intendere che sia un gatto alquanto minuscolo, forse addirittura appena nato.
Dunque, come dicevo pocanzi, Cassidy si è diretto nella Gufiera stamattina, dopo aver scritto una lettera molto velocemente, tanto velocemente che si è rovesciato addirittura dell’inchiostro sulla mano, che poi ha tentato di ripulire alla bell’e meglio. La fretta l’ha anche portato a inciampare lungo le scale, come dimostra la veste strappata che esibiva stamattina e la maniera pietosa in cui zoppicava.
Ora, come lei sa di certo, il percorso che va dalla Gufaia alla Serra non segue affatto il percorso che si segue dal Dormitorio dei Tassorosso alla stessa, quindi il signor Cassidy non può averla incontrata e averle chiesto di prendergli degli appunti mentre già andava verso la Serra.”
Durante tutto il discorso, John era rimasto impassibile e lievemente stizzito, come se quella sfilza di informazioni lo innervosissero ma ci fosse ormai abituato. Emma, al contrario, era rimasta letteralmente a bocca aperta, e il Grifondoro la guardava con occhi condiscenti, come a provare compassione per lei.
Si chiese se il loro primo incontro fosse stato simile e se anche John fosse rimasto sconvolto dalle sue capacità. Lei di sicuro lo era stata.
Sherlock sorrise affabile, con quel sorriso che doveva sembrare dolce ma sembrava quasi malefico.
“E potrei continuare per ore, signorina Swan” commentò il Corvonero, alzando le spalle. “Il suo teatrino con Cassidy è stato assolutamente idiota”.
Emma richiuse la bocca e, dopo l’iniziale shock, trovò la forza di ribattere, piccata:
“Beh,  non sono di certo affari tuoi!”
“Certo che no” confermò Sherlock, sincero. “Ma i ritardi giovano ben poco sul rendimento scolastico”.
La sua voce divenne improvvisamente melliflua e quasi inquietante.
“I risultati si vedono tutti agli esami, signorina Swan” commentò il Corvonero, sicuro e tagliente come una lama di coltello. Stavolta Emma sostenne il suo sguardo tenendo il mento alto e gli occhi fissi sui suoi.
“E sono certo che non sarà un gran piacere venir bocciata da una delle Scuole di Magia più prestigiose del mondo”. A quel punto John sospirò, passandosi le mani sul viso.
“Questa potevi risparmiartela, Sherlock”.
“Era necessaria”.
“Non lo era affatto, ora l’hai spaventata a morte!”.
“Non c’è problema”, rispose Emma alzando le spalle con noncuranza. “Io non credo nella magia”.

Riuscì a trovare Neal solo il mattino seguente, al tavolo della colazione.
Il ragazzo era infilato tra due ragazzi dall’aria cordiale: uno di loro era grassottello e basso, con una forte “erre” moscia e l’aria da imbranato, l’altro era quel bambino col cognome strano che era stato Smistato con lei. Hiccup o una cosa simile, se non sbagliava.
Emma tentò di attirare la sua attenzione chiamandolo vanamente un paio di volte con degli “Pss!” poco circospetti, ma il ragazzo non parve accorgersi dei suoi richiami.
Allora, spazientita, iniziò a strappare lentamente il bordo della pagina del primo libro che le capitò a mano tra quelli che teneva sopra al tavolo.
Qualche istante dopo Neal fu colpito da una pallina di carta ben lanciata dalla bambina. D’istinto si girò immediatamente verso il tavolo dei Serpeverde, ma tutto sembrava anche troppo tranquillo. Con la coda nell’occhio Emma notò Jack giocherellare davanti ai suoi compagni con un fiocco di neve, mentre i più piccoli esplodevano in esclamazioni di “Ooooh” e “Aaaah”.
Il Tassorosso grassottello accanto a Neal, accortosi dello spettacolo, spalancò occhi e bocca guardandolo con aria strabiliata. Un Serpeverde dai capelli biondi scuri a coprirgli gli occhi abbelliti da un paio di occhialoni rotondi gli urlò, abbastanza forte da essere udito da tutta la Sala:
“Ehi Verne, per i non residenti c’è la tassa da pagare!”
Emma riuscì ad attirare l’attenzione di Neal e, quando lui la vede, sembrò illuminarsi: la salutò allegramente con la mano e sorrise con tanta letizia che per un istante Emma fu sicura di essere diventata rossa.
“Ehi, Emma!” esclamò, come se la conoscesse da sempre.
La bambina aveva tante di quelle cose da chiedergli, ma decise di partire dalla più semplice.
“Come sai il mio nome?” domandò, tentando di non alzare troppo la voce: il tavolo era sì immerso nel brusio degli studenti, ma era comunque imbarazzante il volume con cui Neal aveva parlato.
“L’ho sentito allo Smistamento!” spiegò lui, come fosse una cosa ovvia.
Emma alzò un angolo della bocca, insoddisfatta.
“Così ricordi il nome di ogni studente Smistato quest’anno o cosa?”
Per un istante pensò che probabilmente, se si fosse trattato di Sherlock, gli avrebbe risposto di sì.
Neal ridacchiò e disse, in tono innocente e quasi imbarazzato:
“No, ma tu mi seri rimasta impressa!”.
Emma rimase un istante a considerare quell’affermazione.
Gli era rimasta impressa… Doveva prenderlo come un complimento? Insomma, cosa c’era di tanto memorabile in lei? Cosa tanto grandioso da farla ricordare, tra mille facce, a uno studente?
Pensò che non approfondire sarebbe stato certamente migliore.
“Come mai mi hai aiutato, l’altro giorno, alla Serra?”. Stavolta la sua voce fu poco più che un sussurro, perché aveva notato, dall’altra parte della stanza, la figura della Sprite.
Il ragazzo, sporgendosi verso di lei, spiegò, come fosse naturale:
“Beh, ti ho visto in difficoltà e non volevo che passassi dei guai seri, ecco tutto”. Il suo tono la lasciò interdetta: Neal non le stava raccontando bugie e non stava improvvisando, né gli stava chiedendo un favore in cambio di ciò che aveva fatto per lei. Semplicemente, l’aveva fatto perché voleva. Senza neppure conoscerla bene e senza pretendere nulla in cambio. L’aveva aiutata perché gli sembrava la cosa giusta da fare.
Sembrava un concetto talmente astratto per Emma…
La sua espressione doveva essere davvero stupida, perché Neal le sorrise amichevole e, come se si sentisse in dovere di spiegare aggiunse:
“Non mi piace che le persone se la passino male”.
E detto questo, le fece l’occhiolino.
Emma rimase a guardarlo per un istante, cercando qualche segno che potesse rivelarle il suo giochetto. Ma il suo volto non mentiva, e nulla era più vero, da quando era nata, di quel sorriso e di quella risposta sicura che le aveva dato: Neal l’aveva fatto solo per aiutarla. Neal non chiedeva nulla in cambio.
Alla fine, si concesse di alzare un angolo della bocca. E questo parve bastare ai due per capire che erano appena diventati amici.


Note d'autrice:
Il rimanere nel limite di 4750 parole mi è costato sacrificare molte parti di questa prima parte della storia per il secondo turno: ho dovuto tagliare un pezzo, nella Serra, in cui Emma vedeva Belle, un'altra con alcuni approfondimenti sulla storia di Jack (ve la scrivo qui nel caso non riuscissi mai a inserirla: si è appena trasferito dall'Irlanda e, non avendo mai frequentato una scuola di magia, naturalmente gli tocca iniziare tutto dal primo anno anche se ha quattordici\quindici anni. In un'altra parte si vedeva Anna seduta accanto a Emma al tavolo dei Tassorosso. Poi c'era un'altra in cui Emma riconsiderava l'utilità della bacchetta e l'effetto rassenerante che aveva su lei. E altre cose.
Ora: alcuni termini sono volutamente volgari essendo oramai nel dizionario personale di Emma, e sono ripetute apposta.
Ora passiamo alla parte non tecnica: in questo capitolo sono apparsi Neal, John e Sherlock. Questi ultimi provengono non dalla serie classica di libri, ma dalla serie tv della BBC "Sherlock", di cui ho visto due puntate. Inutile dirlo, l'ho amato. Torneranno mai? E chi lo sa. Però questa apparizione "omaggio" volevo fargliela avere. Mi sono letteralmente scervellata per il discorso di Sherlock, perchè trovasse delle "prove" plausibili, e non so dunque se davvero la Guferia e il Dormitorio di Tassorosso abbiano percorsi diversi per portare alla Serra. Questo è comunque il meglio che ho trovato. Poi naturalmente il VERO Sherlock avrebbe fatto molto meglio.
Inoltre appaiono anche due personaggi che molti di voi non conosceranno, ovvero Teddy Duchamp e Verne Tessio del film del 1986 "Stand by me" (ne approfitto per fargli pubblicità: guardatelo, è uno dei miei film preferiti). Bene, io ho questo headcanon in testa in cui ognuno di loro è una Casa di Hogwarts: Chris è Grifondoro, Gordie Corvonero, Teddy Serpeverde e Verne Tassorosso. E SENTIVO di doverli inserire, perché li adoro, e adoro tutto il loro mondo e il film. E adoro il legame di amicizia tra Chris e Gordie. E' una delle cose più "vere" che io abbia mai visto in un film. R.I.P. River Phoenix, a proposito.
Forse già dal prossimo capitolo appariranno anche Chris e Gordie, ma di sicuro prima o poi la banda sarà al completo. Citerò mai la famosa ricerca de cadavere del film? Beh... Perché no.
Devo dire che questo turno mi sta distruggendo: non solo devo trovare a Emma due amici (il primo è Neal, appunto, qui in versione più "Baelfire"), ma devo anche farli unire da una sfida e poi presentare un cattivo che "tenti" Emma. Mi ci vorranno almeno due capitoli e ho ancora due giorni prima di partire per la Puglia. Ma spero di farcela, anche perché mi ci sto mettendo molto.
Provate a indovinare chi sarà il terzo componente del trio...
Mi pare di aver detto tutto, comunque. Spero di aver reso IC i nuovi personaggi e non avervi fatto annoiare. Alla prossima! (che sarà molto presto, se la fortuna mi assisterà)

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


Le settimane erano passate, un po’ meno lente e un po’ meno gravi.
Certo, le lezioni erano sempre dannatamente noiose, gli insegnanti pretenziosi nei loro ruoli quanto delle prime donne, e i rapporti di Emma con i Tassorosso erano a livelli catastrofici, tanto che una volta un ragazzo non si era fatto troppi scrupoli a dirle in faccia che lei non si meritava affatto “la loro nobile Casa”. Emma aveva seriamente pensato di dargli un calcio in quel posto, ma Neal aveva tanto insistito perché lo ignorasse.
“Smith è e sarà sempre un cretino”, aveva commentato scuotendo la testa. “Sfracellandogli i gioielli non farai altro che dargli un pretesto per farti mandare dalla McGrannit”.
Ma ora che c’era Neal, con lei, non era più tanto male. Il ragazzo compensava perfettamente i suoi difetti con i suoi pregi, era tanto riflessivo quanto lei era impulsiva e tanto calmo quanto lei era impetuosa. Se lei era troppo arrabbiata per riflettere, Neal era pronto a ricordarle di agire con calma. Se Neal si dimostrava troppo tenero con chi gli ricordava crudelmente che “suo padre l’aveva abbandonato”, Emma era pronta a far emergere il lato selvaggio del ragazzo.
Le sere le passava ormai davanti al fuoco della Sala Comune, seduta su una poltrona con le gambe penzoloni lungo la poltrona troppo alta per lei, a parlare di tutto ciò che le affollava la mente senza filtri. Neal la ascoltava, senza commentare, scuotendo ogni tanto la testa per indicare che aveva capito e invitarla ad andare avanti, fino a che non aveva finito. Poi alzava un angolo della bocca e faceva qualche commento stupido che, però, riusciva sempre a farla sorridere.
Era strano avere qualcuno con cui parlare, e altrettanto strano avere qualcuno di cui sentiva di potersi fidare. Certo, non si era mai del tutto sfogata con lui (le sue difese avevano e avrebbero sempre fatto fatica a crollare) ma era una sensazione piacevole, dopo una giornata passata a scuotere la testa davanti alle più mirabolanti prove che la magia esistesse, conversare con qualcuno che sembrasse, almeno un minimo, normale.
“Come mai non ci credi?” le aveva chiesto una volta Neal, interrompendola per la prima volta da quando si erano incontrati durante una delle sue filippiche.
Emma aveva aggrottato le sopracciglia, indecisa se ridere o meno, e aveva commentato, secca:
“Scherzi? Perché dovrei credere in qualcosa che non esiste?”
Neal aveva alzato le spalle, come chi la sapeva lunga.
“Il fatto che tu sia troppo cocciuta per vedere la verità non la rende meno vera, ti pare?”.
La bambina aveva aperto la bocca, pronta a replicare, ma poi aveva scosso la testa contrariata, senza aggiungere altro.

Era un giorno come tanti, o così sembrava, quando l’aveva scontrato.
Come al solito, era in ritardo. Non che fosse stata una cosa voluta, quella volta: Verne l’aveva trattenuta mezz’ora sulla porta dell’aula di Storia della Magia chiedendole se aveva degli appunti da prestargli.
“Oh, ma andiamo, devi pure averli!”. Il suo tono supplicante le dava enormemente sui nervi, non c’era che dire. Non riusciva a capire come Neal riuscisse a sopportarlo per dieci secondi.
“Spiacente, Tessio” aveva tentato per la millesima volta, il tono ormai ridotto a quello di un padre che canta per la milionesima volta la stessa cantilena a suo figlio o come quello di un insegnante che cerca di far entrare nella testa dei suoi studenti un concetto particolarmente difficile.
“Ma ho bisogno di quegli appunti per la verifica di Storia della Magia di venerdì!!!”. Ora era veramente disperato. Emma non si sarebbe stupita se fosse scoppiato a piangere o cose simili.
“Non potevi farteli da solo, Tessio?”. Era certa che, se non se ne fosse andato al più presto, gli avrebbe spaccato qualcosa in testa. Odiava i ragazzini piagnucolosi.
“Li ho fatti”, aveva spiegato lui, guardandola implorante. “Ma ho dovuto prestarli a Teddy perché ha detto che servivano anche a lui…”
Emma l’aveva guardato come chi fissa un gattino particolarmente stupido.
“Li hai dati… A Duchamp?”
Verne aveva annuito con quell’espressione disperata ancora dipinta sul viso, il labbro proteso in quella richiesta e gli occhi spalancati come quelli di un pesce palla.
Emma aveva annuito, appoggiando la testa allo stipite della porta.
“Sacrosanto, Tessio, non ti facevo così idiota…”.
Emma correva disperata stringendosi i libri al petto, il fiato corto per la velocità a cui stava procedendo. Non avrebbe mai creduto di poter essere così in ritardo in tutta la sua carriera scolastica in quella scuola. Immaginava già il viso di Piton aprirsi in un sorriso crudele mentre la rispediva soddisfatto a Kensington Garden, e il pensiero parve dargli nuova forza: la bambina scattò lesta, tentando di ignorare il dolore al petto…
E poi qualcosa le arrivò addosso, con la forza di un’onda che arriva contro uno scoglio, e la sbalzò a terra con i libri e i fogli degli appunti scritti fitti fitti. Al contatto con il pavimento sentì un tonfo secco, come di qualcosa che si spezzava dolorosamente, e richiuse gli occhi.
Per un istante i suoi sensi furono attutiti completamente dalla sensazione ovattata che la circondava, come una pellicola trasparente. Poi una voce strascicata penetrò la pellicola, e i suoi sensi si riattivarono tutti, mentre qualcuno le chiedeva “Tutto bene?”.
Il palmo bruciava come mille fuochi, e Emma non fu shoccata di vedere un graffio superficiale attraversarlo tutto. Ma non era granché, in fondo. Il danno maggiore doveva essere alla guancia con cui aveva sbattuto a terra, perché quando provò a staccarsi dal pavimento un gemito le uscì dalla gola: era come non avere più pelle a proteggere la bocca, come se la mascella fosse totalmente esposta alle intemperie, come se non ci fosse davvero più una guancia.
Riuscì a girarsi solo dopo alcuni istanti. La prima cosa che entrò nella sua visuale fu una mano tesa verso di lei, decisamente più grande della sua e dall’aria molto più rozza. Le dita erano grosse e coperte di tagli e taglietti vari, come se il suo proprietario se li fosse fatti tentando di usare un rasoio.
La seconda cosa che vide fu un viso: occhi scuri, capelli castani spinti all’indietro, un sorriso sardonico e scaltro di chi se ne frega e ne va fiero. Aveva lo stesso sguardo impertinente di Sherlock, ma al contrario del suo, che era lo sguardo intimidatorio di chi sembrava conoscerla più di quanto lei stessa si conoscesse, quello dello sconosciuto era lo sguardo di chi si sente forte ma in realtà ha ben poco da offrire. Ne aveva conosciuti talmente tanti, all’orfanotrofio…
A quella vista, la rabbia le montò dentro con una forza assurda. Non sapeva perché, ma sentiva già di odiarlo immensamente.
Si alzò in piedi col mento alto e gli occhi infiammati di forza distruttrice, dimenticando il dolore a guancia e mano. Appena vide la sua ferita, il ragazzo fece un passo indietro esclamando scherzoso:
“Whoo! E io che volevo chiederti di uscire con me…”. Tentò una risata, ma Emma non gli diede il tempo di finire: la sua mano partì prima che potesse fermarlo e lasciò l’impronta dello schiaffo sulla pelle del ragazzo.
Emma non si era mai sentita più in collera con qualcuno: l’aveva fatta cadere, e le aveva fatto anche male. E aveva quel dannatissimo sguardo di chi è troppo sicuro di sé, come di un conquistatore che sa già di aver preso la patria prima di averla toccata anche solo col piede. Sentiva il suo corpo tremare tutto come se lo sentisse dal di fuori, e la rabbia infervorarla completamente e bruciare lì, sulla guancia, nel punto dove faceva più male.
Il ragazzo parve rimanere un istante interdetto a quella sua reazione, sfiorandosi anche la pelle vittima dello schiaffo con la mano, ma quando la guardò tutto ciò che fece fu sorridere divertito e produrre un suono rauco e ironico che doveva essere una specie di risata.
“Sei focosa, eh?” commentò, passandosi la lingua sul labbro superiore. Emma notò che c’era un po’ di sangue, e non poté fare a meno di dirsi soddisfatta.
“Bene”, continuò lui, guardandola da capo a piedi e esaminandola con attenzione. “Mi piacciono le focose…”.
Emma tentò di mantenersi calma ma divenne comunque rossa di imbarazzo.
“Sono del primo anno” si affrettò a specificare, premurandosi di tenere il mento ben alto. Probabilmente la sbucciatura sulla guancia non era un bello spettacolo in quel modo, ma era l’unica maniera che Emma conoscesse per mostrarsi superiore a qualcuno.
Con una smorfia di disgusto (probabilmente per la ferita), il ragazzo disse, pensandoci ben bene un istante:
“Beh, non mi fa grandi problemi. Siete molto più interessanti, voi bambine”.
Emma spalancò gli occhi, completamente sconvolta: nessuno le si era mai rivolta così. Kensington Garden non era certo un paradiso di santi, ma era pur sempre un orfanotrofio: era pieno di suore, e qualsiasi volgarità che riuscissero a percepire era tacitata da un ceffone da far volare la testa e un giorno di digiuno. Emma ricordava ancora con chiarezza allucinante il giorno in cui aveva dato della “stronza” a Suor Mary, senza neppure sapere che volesse dire.
Si costrinse a non mostrarsi toccata da quella sua nota di volgarità e gli intimò, con forza:
“Mi hai fatto cadere, chiedimi immediatamente scusa!”.
Il ragazzo non disse nulla, ma iniziò a passarsi pigramente un dito lungo il labbro sanguinante.
“CHIEDI scusa!” esclamò per la seconda volta Emma, infervorata.
Il ragazzo portò le mani avanti e, con tono divertito, le fece notare:
“Ehi, ehi, ehi, ehi! Non ero io quella che correva a duecento all’ora lungo i corridoi”.
Emma era lì lì per controbattere, ma poi lo sguardo del ragazzo la zittì: la guardava come chi guarda una preda succulenta, come chi osserva un pesce comprato al mercato e ne esamina la consistenza. Su quel corpicino di quattordicenne l’effetto era decisamente spassoso.
La bambina si lasciò scappare un sorriso, e il ragazzo sconosciuto fece altrettanto, malizioso.
“Bene…” disse allora, continuando a mantenere quel sorrisetto. “Allora direi che non ci resta che presentarci…”.
Gli tese la mano sana, con lo sguardo più innocente che potesse assumere, e proseguì, melliflua:
“Emma Swan, Tassorosso”.
Il suo tono dolce e zuccheroso pareva aver insospettito il ragazzo, ma l’ombra di dubbio che gli aveva visto negli occhi scomparve un attimo dopo quando lei gli sorrise più provocante che riusciva. Di certo l’effetto doveva essere alquanto comico, ma a Emma non importava. Ciò che contava era che funzionasse.
Il ragazzo parve confortato dal suo sguardo accondiscende: aprì la bocca in un sorriso che mostrò tutti i denti (uno di loro, notò Emma con stupore, era addirittura d’oro) e, porgendole la mano, esclamò:
“Killian Jones, Serpeverde, Battitore di Quidditch e molto amante delle ragazze!”.
Una risatina decisamente ebete gli uscì dalla gola, ma fu subito zittito quando strinse la mano di Emma: una scossa violenta lo percosse tutto da capo a piedi in un singolo istante, e Killian cadde riverso sul pavimento, spiazzato e sconcertato, con la bocca semi aperta e il respiro lento.
Stavolta fu Emma a ridere, avvicinandosi al suo corpo misurando attentamente ogni passo.
“Questi aggeggini…” commentò, mostrandogli con cinismo il palmo: vi era attaccato una specie di bottone, nero e all’apparenza completamente innocente, che Killian non aveva assolutamente notato. “Torna utile averne uno”.
Lo sguardo del Serpeverde andò prima al congegno poi a lei, poi di nuovo al congegno e poi di nuovo a lei. Sembrava così confuso che per un istante a Emma fece pena. Solo per un istante.
Poi una smorfia gli traversò tutto il viso, e la bambina constatò che era effettivamente una specie di sorriso storto.
“Ne hai di frecce al tuo arco, piccola…” commentò, guardandola con ancora una punta di malizia.
Emma si dondolò lievemente sul posto, segretamente gratificata da quello che doveva essere una specie di complimento.
“Sì, beh, non chiamarmi mai più ‘piccola’” lo avvertì lei, mentre Killian tentava di rialzarsi con malagrazia.
Il Serpeverde alzò un sopracciglio.
“Mi fulmineresti ancora con quell’affare?” domandò, sinceramente curioso.
Emma parve rifletterci un istante.
“Mi inventerò qualcosa” terminò infine.
Killian aprì le braccia, con fare teatrale.
“Beh, non mi sorprenderebbe affatto!” terminò, afferrando un libro che gli era evidentemente caduto quando gli era sbattuto contro.
Emma posò lo sguardo sul manuale, immaginandosi già uno dei titoli altisonanti e pomposi che avevano i libri di Neal. Ma non fu il nome ad attirare la sua attenzione.
Da una delle pagine, circospetta, spuntava una pergamena lievemente ingiallita, con disegnata sul bordo quello che sembrava una tarantola gigantesca. Emma aggrottò le sopracciglia, incuriosita come non mai.
“Cos’è?” tentò, indicandola a Killian. Prima che potesse anche capire a cosa di riferisse, l’aveva già afferrata con un singolo movimento del polso dal libro, e la esaminava con gli occhi che correvano da un capo all’altro della carta.
Killian tentò di strappargliela via di mano, con dei “Dai, su!” supplichevoli, ma la bambina era troppo svelta e, con due o tre movimenti delle braccia riuscì a un tempo ad allontanare il ragazzo e a leggere tutto ciò che era scritto sulla pergamena.
Quando alzò lo sguardo dal foglio, gli occhi erano, se possibile, ancora più grandi di quando Killian l’aveva stuzzicata malizioso.
Il Serpeverde si mordicchiò il labbro inferiore, come se fosse imbarazzato, poi giunse le mani, fischiettando e dondolandosi sui talloni. DECISAMENTE imbarazzato.
Emma tenne la pergamena alta sopra la sua testa e, agitandola, chiese con forza:
“Cos’è… QUESTO?”
Killian aprì e richiuse la bocca un paio di volte, come se non sapesse cosa dire. Poi, con quanta più naturalezza aveva esclamò, con finto fare gioioso:
“Il mio progetto su come entrare nella Foresta Proibita, mi pare ovvio”. Lo aveva detto tanto naturalmente che Emma ne rimase più sconcertata che se gli avesse detto una bugia assurda e palesemente falsa.
La bambina guardò più e più volte il foglio, rigirandoselo ben bene tra le mani, con aria semi critica.
“Pfff…” borbottò riconsegnandoglielo, “I miei piani per uscire dall’orfanotrofio erano migliori”.
Killian riafferrò la pergamena e, con tono tagliente, replicò:
“Ma tu non sei mai uscita da quell’orfanotrofio, giusto?”.
Lo sguardo che Emma gli lanciò fu tanto velenoso che il ragazzo alzò le mani come a fargli capire che scherzava.
“Potrei fare veramente meglio” commentò sibilante la bambina, raccogliendo un po’ alla volta i libri.
Killian parve pensarci un istante poi, con naturalezza, le chiese:
“Beh, perché non lo fai, allora?”.
Emma alzò lo sguardo da terra, fissandolo come fosse stato un alieno venuto dallo spazio. Ma il suo sguardo era tremendamente serio.
“Stai scherzando?” chiese, speranzosa quasi che dicesse di sì.
“No”. Era una constatazione sicura, non ironica né scherzosa. Killian le stava semplicemente facendo una proposta.
La bambina aggottò le sopracciglia, confusa.
“Cosa… Cosa dovrei fare, scusa?” domandò, improvvisamente interessata.
Killian unì le mani, come un imprenditore che sta per stipulare un contratto e le spiegò, con calma innaturale:
“Io questo sabato a mezzanotte avevo intenzione di mettere in pratica questo piano, il piano che tu definisci orrendo”. Calcò sulla parola con fare teatrale, ma Emma non mostrò di volersi scusare o di voler commentare ulteriormente su quel punto.
Killian riprese fiato.
“Ti propongo semplicemente di uscire nello stesso giorno dal tuo Dormitorio, di raggiungermi e di unirti a me nella mia esplorazione”. Lo diceva con una sicurezza assolutamente disarmante, quasi spaventosa.
Emma scosse la testa, per nulla convinta.
“Tu sei pazzo” sentenziò infine, prendendo gli ultimi libri da terra e dirigendosi a passo svelto verso l’aula di Piton.
“Può darsi” sentì la voce di Killian dietro di sé che l’immobilizzò sul posto. “Ma non hai detto di no, Swan”.
Emma rimase un attimo immobile, come se stesse riflettendo su qualcosa di importante.
Poi, a passo marziale, ricominciò il suo cammino verso l’aula di Pozioni.
Era assurdo, ma doveva ammettere che per un istante l’idea di entrare con Killian nella Foresta le era sembrata non solo possibile, ma anche allettante.

“TU VUOI FARE COSA?!?!?!”.
La voce di Neal rimbombò per tutta la Sala, e Emma dovette zittirlo intimandogli di fare silenzio. Dal suo posto poco lontano da lei Anna alzò lo sguardo dal testo su cui era china. La bambina le rivolse un sorriso riparatore per tranquillizzarla e quella rispose stirando lievemente le labbra.
L’urlo di Neal aveva attirato anche Belle French al suo tavolo, che rimase a fissarli sconcertati per un attimo anche lei. Al suo sguardo Emma non badò.
Si chinò velocemente verso Neal e, circospetta, spiegò a bassa voce:
“Senti… Io penso che non sarebbe una cattiva idea!”.
“Non una cattiva idea!” esclamò il compagno semi shoccato, alzando di nuovo la voce (Emma lo invitò ad abbassarla con un cenno della mano).
Dal suo posto, al tavolo dei Serpeverde, si udì un commento di Duchamp:
“Ehi, Cassidy!” rimbombò la sua voce nel silenzio della Sala. “La tua ragazza ti eccita o cosa?”.
La sua risata odiosa, quella specie di “eheeheheh” che sembrava un flauto stonato, fu seguita da quella di altri Serpeverde e anche da qualcuno agli altri tavoli. Emma notò con una punta di irritazione che anche Lachance dai Corvonero e Chambers dai Grifondoro si erano uniti a quella risata generale.
Neal divenne rosso fino alla punta delle orecchie, ma non disse nulla.
Emma invece non riuscì a trattenersi.
Si portò le mani alla bocca e, con tutto il fiato che aveva, urlò:
“Ehi, Duchamp!”. L’assenza dei professori parve infonderle ulteriore forza. “Hai controllato mica come sta il tuo flauto? Perché si vede da quaggiù che è moscio come la tua faccia!”
Un coro di “UUUH!” si alzò, incitato dallo stesso Teddy. Il ragazzino rideva sguaiatamente della battuta come fosse stata sua, gli occhi da pazzo che risplendevano dietro gli occhiali.
Emma scosse il capo, soddisfatta, e tornò a sedersi. Non c’era che dire: era bello quando i professori si allontanavano dalla Sala.
Neal, accanto a lei, era diventato lievemente rosso e teneva gli occhi bassi.
“Grazie…” commentò, a voce tanto bassa che Emma non l’avrebbe quasi udito, se non gli fosse stato così vicina.
Lei alzò le spalle, con fare ovvio.
“Quello se la tira da morire” commentò, guardando per un’ultima volta Duchamp al suo tavolo che aveva iniziato una cantilena che pareva da ubriachi.
“Ma Verne è suo amico” sussurrò Neal, come se lo dicesse solo per dire qualcosa.
Emma lo guardò per un istante attonita.
“Tessio… E Duchamp?”
Il Tassorosso annuì, con un sorriso che diceva “non ci credo nemmeno io”.
Emma alzò gli occhi al cielo, con un “Aaaah…” esasperato. Quel ragazzino doveva decisamente trovarsi nuovi amici.
“Comunque”, Neal tossì, tentando di cancellare il rosso sulle sue guance passandosi le mani sul viso. “Come sai che puoi fidarti di quel tipo, quel… Killian?”.
La bambina scosse la testa.
“Non ho detto che mi fido” ribatté, come per precisare. “Ma mi sembra un tipo…”.
Non poteva certo dire “a posto”. Non dopo il modo in cui ci aveva provato con lei. E non poteva neppure dire che fosse incredibilmente simpatico. Se la tirava quasi quanto Duchamp, decisamente.
“… Tosto”, affermò alla fine, sorprendendo sé stessa dicendolo.
Neal la guardò scettico, con l’aria di chi se ne intendeva.
“Tosto?” ripeté, il tono intriso di dubbio.
Lei si affrettò a annuire. Doveva pure trovare qualcosa di positivo in Killian, dato che molto probabilmente si sarebbe infilata nella Foresta Proibita con lui.
Il ragazzo si concentrò per un istante sul suo bicchiere di succo di zucca. Aveva le sopracciglia contratte e gli occhi come immersi in qualche pensiero strano.
“Perché me l’hai detto, Emma?” domandò, senza distogliere lo sguardo dal boccale. “Vuoi che ti dia la mia approvazione o cosa?”.
“Non ho detto questo” gli fece notare lei sicura. Strinse i pugni più forte che poteva, come se solo compiere quel gesto potesse darle abbastanza forza.
“E allora perché sprechi tempo con me, visto che hai già deciso di andare con quel tipo ‘tosto’?”. Il tono di Neal era tagliente come non era mai stato, il suo sguardo freddo e rabbioso a un tempo.
Emma rimase allibita da quella reazione: quando mai il ragazzo si era comportato in modo tanto aggressivo con lei? Quando mai si era permesso di rivolgersi a lei a quel modo? Quando aveva smesso di essere la parte calma tra loro due?
La bambina lo guardò riducendo gli occhi a due fessure minuscole. La rabbia ribolliva in lei con la stessa forza con cui aveva fatto quando aveva scontrato Killian: era la stessa, identica, sensazione a distanza di sole tre o quattro ore. Non si sarebbe mai aspettata di provare qualcosa del genere verso Neal.
“Se vuoi saperlo, te ne ho parlato solo perché volevo sapere cosa tu ne pensassi”. Il suo tono era asciutto e freddo, sebbene la voce le tremasse lievemente. Tentò di mantenerla più calma e neutra possibile mentre continuava, imperterrita:
“Per quanto mi riguarda puoi fare quello che vuoi, Neal” (sul suo nome prese una pausa). “Ma io andrò con Killian, e tu non potrai fare nulla per impedirmelo”.
Detto ciò, si alzò dignitosamente dal tavolo, senza degnare il compagno di uno sguardo, e salì velocemente le scale fino al Dormitorio.

Sabato arrivò anche troppo lentamente per i suoi gusti. Era assurdo quanto il tempo si comportasse male in certe situazioni: tanto più Emma sperava che il giorno prestabilito arrivasse in fretta, tanto più a lungo sembrava protrarsi l’attesa.
Le lezioni divennero, se possibile, un supplizio ancora peggiore, e la bambina le trascorreva osservando ogni strumento che potesse indicare tempo, fossero essi pendole o orologi, e contando i minuti e i secondi che la separavano dalla fine della lezione.
Il compito di Storia della Magia andò malissimo, tanto che perfino Tessio, che era riuscito a recuperare gran parte degli appunti da Lachance (per Emma era ancora un mistero come un ragazzo all’apparenza tanto intelligente potesse essere tanto amico di quel pappamolle e di quel folle di Duchamp) aveva conseguito risultati migliori dei suoi. Ma il suo interesse per le materie era andato scemando ancora di più, e oramai Emma non sentiva più alcun motivo per restare a Hogwarts se non l’uscita che l’aspettava sabato sera.
Lentamente l’idea di quella incursione le era penetrata nella mente, con una velocità sconcertante, e Emma si era trovata più volte a fantasticare su quella mitica meta proibita, su quel luogo misterioso e sul come i produttori di quel programma l’avessero progettata. Certamente doveva essere qualcosa di davvero grandioso e assurdamente pericoloso, se gli era così tassativamente proibito entrarci.
Certo, non poteva contenere creature magiche o pericoli mortali come aveva voluto fargli chiedere quel tizio con la barba il giorno dello Smistamento (oltretutto la barba che Frate Lawrence si metteva per fare Babbo Natale era decisamente più credibile di quella dell’attore), ma doveva esserci sotto qualcosa di grosso, decisamente.
Neal era uscito dalla sua vita con la velocità con cui vi era entrato: le loro serate davanti al caminetto della Sala Comune erano ormai un rito che pareva morto e sepolto, e Emma aveva iniziato a sedersi nella Sala Grande vicino a Anna. La bambina pareva essere estremamente interessata a conoscerla, ma la maggior parte del tempo era lei a parlare mentre Emma si limitava ad ascoltare qualche sprazzo di conversazione.
Dal poco che aveva realmente capito, la Tassorosso aveva una sorella maggiore Serpeverde, di nome Elsa, che però la ignorava stranamente da quando erano piccole. A suo avviso quel periodo a Hogwarts avrebbe potuto riconciliarle, o almeno così sperava lei. Emma non aveva mai trovato il coraggio di dirle che probabilmente il suo sogno non si sarebbe mai avverato.
Alla fine, nonostante tutta l’impazienza e l’ansia che aveva accumulato durante la lunga settimana, alla fine il sabato arrivò.
Per paura di non svegliarsi al giusto orario Emma rimase sveglia tutta la notte, il volto perso nella contemplazione del soffitto, l’adrenalina troppo alta per tentare anche solo di chiudere gli occhi. Sentiva che dormire sarebbe stato impossibile anche se l’avesse voluto.
Mezzanotte arrivò silenziosa e accogliente, come una mamma che accoglie i propri figli.
Lentamente, tenendo le pantofole tra le mani e camminando a piedi scalzi lungo il pavimento freddo (brividi freddi la pervasero tutta), la bambina riuscì ad attraversare il Dormitorio.
Solo quando fu di fronte alla catasta di botti che era l’ingresso della Sala Comune si concesse un sospiro di sollievo: la paura di venire scoperta l’aveva attanagliata ad ogni scricchiolio, ad ogni rumore, ad ogni movimento delle sue compagne.
Tirò fuori la bacchetta con quanta più delicatezza aveva, pronta ad uscire, quando un rumore acuto la fece voltare di scatto. Il suo viso divenne cereo quando si accorse che la porta del Dormitorio dei ragazzi si stava aprendo e un terrore sordo la prese tutta.
“Calma, Emma” si sussurrò, prendendo profondi respiri. Doveva riflettere. Doveva stare calma.
Prima che potesse escogitare qualcosa di decente, una voce familiare sussurrò, in un bisbiglio che rimbombò lungo le pareti, “Sono io”.
Emma spalancò gli occhi riconoscendola.
“Sono qui”.
La bacchetta, che si era alzata automaticamente (che idee idiote che aveva…), si abbassò in fretta.
“Neal?” domandò al buio, aggrottando le sopracciglia.
“Sì…” confermò la voce. La porta si richiuse senza neppure un gemito, e il viso di Neal le apparve, scuro nel buio, sicuro e deciso.
Un sorriso ironico le spuntò sulle labbra.
“Non avevi detto che non saresti venuto?”
Il ragazzo scese le scale con naturalezza, e stranamente non vi fu un solo scricchiolio da quelle.
“Non credo proprio” commentò lui. Ora le era davanti, le mani intrecciate e gli occhi bassi. Nel buio Emma poteva vedere la tunica da notte rossa che lo avvolgeva tutta e che lo faceva sembrare una specie di fantasma.
“Hai detto che potevo fare quello che volevo” sussurrò Neal, il tono tra il sicuro e l’incerto. “E io andrò con te”.
A quelle parole alzò lo sguardo, e Emma vide i suoi occhi brillare per un istante nel buio.
“E tu non potrai fare nulla per impedirmelo”.


Note d'autrice:
E anche questo capitolo è andato, YEAAAAH! Dunque ora mi pare chiaro chi sia il terzo membro del trio, giusto? Bene, questo vi fa capire che succederanno un sacco di casini!!!
In questo capitolo sono riuscita ad infilare anche Chris e Gordie, YEAAAAH!! Probabilmente avranno qualche scenetta, o una specie di "apparizione tributo" come quella di Sherlock e John: li amo troppo quei due ragazzini (gli ho pure dedicato un video, pensate che onore XD).
Mi pare che non ci sia molto da segnalare qui: prossimo capitolo, incursione nella Foresta Proibita. Pregate per me.

(Ah solo questo: nel file originale le "r" di Verne erano in corsivo perché ha la "r" moscia, ma questo cavolo di editor non me le fa mettere...)

 

 

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Capitolo 4
*** Chapter 4 ***


Neal e Emma scivolarono lentamente lungo i corridoi tenendo il fiato sospeso e l’orecchio teso ad avvertire il passo felpato della gatta di Gazza o la presenza maligna di Pix. La bambina doveva ammettere, nonostante tutto il suo scetticismo, che quella sottospecie di folletto era stato fatto alquanto bene da chiunque avesse organizzato quello scherzetto. Chissà con quale trucco l’avevano creato…
Le lunghe finestre in stile gotico lanciavano ombre inquietanti lungo i pavimenti, e per un istante alla piccola parve di vedere un occhio spuntare da una delle armature appoggiate al muro farle l’occhiolino e scrutarla grave.
Gli arazzi rappresentanti i simboli delle Case, in Sala Comune, sembravano molto più inquietanti di quanto lo fossero mai stati: la loro ampiezza sembrava estendersi minacciosa sopra le loro teste, come fossero stati cavalieri pronti a tuffarsi sulla preda e non semplici pezzi di stoffa.
Il brusio che oramai aveva imparato a conoscere era sostituito da un silenzio spettrale e innaturale, e la luce che filtrava dai vetri non era calda e luminosa come quella del sole,  ma era quella bianca e lattea della luna. Il profilo della Foresta Proibita si stagliava minaccioso davanti ai loro occhi, parendo quasi chiamarli verso di sé. Era assurdo quanto le cose più semplici e le situazioni più familiari nell’ombra della notte paressero tanto più inquietanti e estranee.
Per tutta la traversata la percezione della mano di Neal stretta nella sua fu un conforto assurdamente piacevole. Il bambino procedeva svelto sul pavimento freddo, misurando ogni passo come fosse un esperto, senza emettere il minimo rumore. Sembrava farlo da tutta una vita, tanto erano naturali e rilassati i suoi movimenti.
Emma si ricordò di quanto, scendendo le scale del Dormitorio quella stessa notte, fossero risultati felpati i suoi passi, e quanto il silenzio che li circondava fosse rimasto tale. Era straordinariamente bravo a scivolare via, eppure non pareva muoversi diversamente da come si muovesse lei. Anzi, se possibile era anche meno circospetto di quanto il suo istinto la portasse ad essere: camminava come avrebbe camminato ogni giorno, come se stesse semplicemente facendo una passeggiatina in Sala Grande, come se quella situazione gli fosse familiare.
Emma ci mise qualche istante a realizzare che doveva esserlo per il suo compagno.
“Da quanto tempo lo fai?” domandò Emma in un sussurro. Sentì la presa di Neal sulla sua mano stringersi di istinto come fosse in allarme e poi rilassarsi come se non avesse voluto destare sospetti.
“Da quanto faccio cosa?”chiese, deglutendo lievemente. Alla bambina parve di aver colto una sorta di indecisione nella sua voce.
Aprì la bocca ma riflesse un istante per riuscire a esprimersi al meglio. Non era sicura di cosa volesse dire, in verità.
“Insomma… Da quant’è che…”. Si fermò passandosi la lingua sulle labbra: se le sentiva incredibilmente secche.
Neal sbuffò e, alzando le spalle, domandò con fare piccato:
“Da quanto è che rubo?”.
In altre occasioni e con altre persone, Emma avrebbe detto un certo e schietto “sì”. Ma quella non era una situazione qualunque, e Neal non era un’ “altra persona”.
“Non ho detto questo”, bisbigliò, stringendogli più forte la mano. Neal si arrestò all’improvviso nella sua marcia, rimanendo con gli occhi fissi nel vuoto e lo sguardo perso in chissà quale riflessione. Pareva averlo colpito più forte che se gli avesse dato un pugno in faccia.
“Ma era quello che intendevi”. La sua voce era così secca che Emma quasi se ne spaventò.
Neal non aveva mai voluto spingersi in dettagli sulla sua vita prima di Hogwarts, come anche lei si era rifiutata di fare, ma era certa che non ci fosse nulla di buono nel suo passato. E come poteva essere stata buona la vita di un ragazzino abbandonato dal suo stesso padre?
Il bambino abbassò lo sguardo, concentrandosi testardamente sul pavimento lucido. Per un attimo a Emma parve di vedere luccicare qualcosa agli angoli degli occhi, ma un istante dopo si convinse che doveva aver immaginato. Neal non le era mai sembrato così fragile da quando lo conosceva.
“Come credi…” iniziò, in sussurri ansimanti. Sembrava stesse facendo un grande sforzo per trattenere le lacrime. “Come credi che sia sopravvissuto… Senza un padre?”. La voce gli si spezzò sull’ultima parola, e tutto ciò che gli uscì dalla gola fu una specie di soffio sofferente e incerto.
Emma sentì la tristezza e la pena riempirla tutta, il desiderio di fare qualcosa per lui divenire enormemente impellente e espandersi nel petto, fino a diventare qualcosa di troppo enorme per essere controllato.
Ma cosa poteva dire? Sussurrare come chi parla a un bambino di due anni che capiva (e in fondo era vero), che tutto ciò che aveva passato lui l’aveva passato anche lei? Ma era quanto di più idiota potesse fare: ricordava ancora quando Suor Christine le diceva quelle parole mentre lei stringeva al petto una bambola troppo fredda e guardava il vuoto del muro davanti a lei con sguardo vitreo. E non l’aveva mai aiutata sapere che una di quelle suoracce odiate avesse passato tutta la sua vita a Kensington Garden, che magari fosse alloggiata nella stessa stanza in cui ora era lei, che aveva usato il suo letto, che aveva pianto sul cuscino su cui oramai aveva smesso di piangere.
Tutto ciò che si sentì di fare fu prendergli il viso con la destra (era incredibilmente piccola e minuta) e carezzarglielo dolcemente, serrando la presa sull’altra mano. Un sorriso lieve fece capolino sul viso grave di Neal, ma il bambino non pareva essere soddisfatto.
“Tutto ciò che ho fatto…” gli uscì dalla bocca, nel silenzio della notte scura. “… L’ho fatto per sopravvivere”.
Perché si stava giustificando con lei? Perché le diceva cose che sapeva già? Non aveva bisogno di scusarsi, no. Non c’era nulla da scusare, in fondo.
“Lo so” tentò Emma, lievemente imbarazzata. Era una situazione talmente strana, avere qualcuno che le parlasse in quel modo, che cercasse il suo appoggio, che le chiedesse umilmente scusa… Era così estraneo per lei.
Gli strinse un po’ più forte la mano, per fargli capire che aveva compreso. Neal parve rasserenato da quella conferma e subito ricominciò a strisciare sul pavimento, con una velocità che la lasciò stupefatta: era straordinario quanto lesto potesse andare senza fare il minimo rumore.
Fu solo in quel momento che Emma si accorse che lei e Neal, in fondo, erano più simili di quanto lei credesse.

Era straordinario che la scuola fosse tanto ben sorvegliata, i professori tanto intransigenti sull’impossibilità di andarsene e gli studenti così restii a farlo (forse come lei e Neal non avevano proprio un bel posto in cui tornare) ma che per aprire il portone bastasse un semplice “Alohomora”. Era il primissimo incantesimo che Emma aveva imparato, e fu un’immensa soddisfazione pronunciarlo facendo aprire la porta con un cigolio che la fece sorridere soddisfatta.
“Però”, si disse. “Le telecamere devono funzionare proprio male…”. Si era convinta che tutto fosse tenuto d’occhio con delle telecamere simili a quelle che James Bond utilizzava nei suoi film (ne aveva visto uno infilandosi di nascosto in un cinema durante una gita a una chiesa), quelle piccolissime che nessuno riusciva a vedere, e che quell’ “Alohomora” fosse come una parola d’ordine che facesse scattare tutte le serrature. Alquanto sospetto che l’avessero messa a loro disposizione, ma visto che gli era tornata utile non potevano lamentarsi.
“Troppo facile”, commentò Neal, con aria di superiorità. La bambina gli scagliò un’occhiataccia mentre si infilavano lentamente nel fitto buio e correvano lungo il prato che li avrebbe portati alla foresta.
Il senso di liberazione che Emma si sentiva dentro e l’adrenalina parevano darle una forza immensa, e la corsa fu simile a un volo. L’idea di penetrare nella Foresta era quanto di più eccitante le fosse capitato dall’inizio della sua permanenza a Hogwarts.
Neal sembrava molto meno sicuro di lei, ma mentre procedevano a passo svelto lungo il pendio non lo sentì lamentarsi neppure una volta, sebbene il suo viso lasciava intendere che avrebbe fatto di tutto per tornare indietro e rinfilarsi nel suo letto. Ma oramai ciò che era fatto era fatto, e il ragazzino pareva non volersi tirare indietro, più per affetto per Emma che per spirito di avventura.
Arrivati al margine della Foresta, la bambina notò un’ombra scura stagliarsi vicino agli alberi. Il viso dello sconosciuto era coperto da un cappuccio parte di un mantello nero che gli copriva tutto il corpo e lo faceva sembrare incredibilmente più grosso. In verità era chiaro che il suo fisico era mingherlino e non propriamente minaccioso, e la stoffa del mantello strabordava da ogni parte, dandogli un’aria assolutamente ridicola passato il primo impatto.
“Killian?” tentò Emma, già immaginando il sorriso sardonico che l’avrebbe accolta.
Ed effettivamente, quando la figura alzò il cappuccio scuro, la bambina distinse nel buio i tratti del Serpeverde. Il suo dente d’oro scintillò malignamente.
“Swan!” esclamò, ostentando un finto stupore. “Non mi aspettavo che venissi, dopo avermi dato del pazzo!”
“Ma tu sei rimasto comunque ad aspettarmi” gli fece notare lei, incrociando le braccia al petto.
Killian alzò le spalle. Il movimento parve molto più ampio a causa della quantità di stoffa che lo ricopriva.
“Che vuoi farci” commentò lui, avvicinandosi a lei pericolosamente. Le parve di sentire della Burrobirra nel suo alito. “Sono un inguaribile romanticone” bisbigliò, con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.
“Mh mh” si sentì tossicchiare alla sua destra. Emma ebbe un lieve sussulto: si era quasi dimenticata di Neal. Quasi.
Killian parve accorgersi solo in quell’istante della presenza dell’altro, e la smorfia che compì fu tutt’altro che invisibile.
“Killian, lui è Neal” si affrettò a dire, indicandoglielo imbarazzata. Sentiva che avrebbe potuto anche aggiungere qualcosa, ma non sapeva davvero cosa. Forse l’espressione “il mio amico” davanti al nome del compagno sarebbe stato un buon inizio.
Killian si avvicinò a passi lenti e misurati a lui, squadrandolo da capo a piedi come un insegnante che osserva uno studente all’esame. Neal, da parte sua, non si dimostrò imbarazzato come era di solito, ma anzi mantenne lo sguardo fisso su di lui e ricambiò quella punta di sfida che brillava negli occhi dell’altro. Emma era certa di non aver mai visto il Tassorosso guardare a quel modo qualcuno, con quell’espressione che era antipatia pura e una sorta di disprezzo che non tentava in alcun modo di nascondere. Quella sua reazione non era proprio da Neal. Non dal Neal che conosceva.
Killian gli diede un’ulteriore occhiata mordendosi un labbro.
“Pensavo sarebbe stata una cosa a due…” borbottò, e Emma non capì se lo avesse detto con un tono più carico di disprezzo o di sarcasmo.
Emma alzò le spalle, con noncuranza. O meglio, tentando di mostrare noncuranza.
“Non hai detto che non potevo portare un mio amico” gli fece notare, come fosse una cosa ovvia.
Il ragazzo parve pentirsi silenziosamente di non aver specificato quel particolare, ma non lo diede a vedere. Semplicemente, tornò a osservare Neal, che era ancora zitto e non pareva pronto ad abbassare per primo lo sguardo.
Emma sospirò per tentare di infrangere la cortina dell’imbarazzo.
“Bene!” esclamò con finta allegria. I ragazzi parvero riprendersi, e si voltarono a guardarla nel medesimo istante. “Andiamo?”, domandò mantenendo il tono preso in precedenza. Da una parte il suo desiderio di entrare in quella Foresta era ormai incontrollabile, dall’altra sperava che la tensione formatasi tra i due si sciogliesse non appena fosse iniziata l’esplorazione.
Killian sorrise come se nulla fosse accaduto.
“Sicuro, piccola!” esclamò, passandogli una lanterna che, Emma si accorse solo in quel momento, aveva appoggiato a terra. Le maniche del mantello, che il ragazzo aveva arrotolato alla bell’e meglio, gli ricaddero giù in tutta la loro lunghezza.
Emma sbuffò lievemente.
“Mi spieghi perché diamine hai messo quella cosa? “ chiese, afferrando una lanterna che Killian le aveva porto con una smorfia ammiccante. “Non c’è nessuno che ci veda!”.
Il ragazzo spiegò, passando la lanterna a Neal (per un momento si irrigidì e così fece anche il Tassorosso):
“Perché fa scena, ok? È una grandissima figata e volevo fare una cosa simile almeno una volta nella vita!”.
Emma alzò gli occhi al cielo.
“Oh, bene, se vuoi sembrare un mago…”
“Io SONO un mago, piccola” gli fece notare lui, sporgendosi lentamente verso l’interno della Foresta. Quando si ritrasse per dargli il segnale per entrare, Emma si voltò lentamente a osservare Neal: la luce della lanterna gli dava un’aria quasi mistica e straordinariamente inquietante, come quella dei ragazzini che, all’orfanotrofio, si sistemavano una pila sotto il mento per raccontare le storie di fantasmi.
Il ragazzo non sembrava affatto sicuro, ma si serbò di dire qualcosa. Per un istante Emma si pentì di averlo trascinato in quella storia.
Poi lui annuì, come a assicurarle che era pronto.
E, con un sospiro, si infilarono nella Foresta.

All’esterno, la notte era ancora più impressionante, se possibile: il terreno scricchiolava crepitante sotto i loro piedi (Emma aveva le pantofole, Neal era a piedi scalzi e quelli di Killian erano invisibili sotto la tunica) e i profili scuri e scarni degli alberi erano come mille guardiani al loro cammino. Ma invece che rassicurarla, ciò non fece altro che far salire l’ansia di Emma.
“Però” pensò tra sé e sé, “c’è da dire che questa Foresta l’hanno fatta davvero bene…”.
Contrariamente a quanto avesse pensato, quella zona non era una parte di set devastata o piena di marchingegni pronti a crollare loro in testa, ma era ben sistemato e assolutamente realistico: le foglie che frusciavano al loro passaggio, i cespugli che ricoprivano gli alberi, i sentieri di terra battuta che ogni tanto incontravano… Non sembrava esserci nulla di particolarmente spaventoso, anche se, se non avesse saputo che quella era tutta una finzione, probabilmente quella Foresta avrebbe avuto un che di inquietante.
Il silenzio era rotto ogni tanto dal canto di un gufo o dall’ululare lontano di un lupo. A ognuno di quei rumori Emma scattava per un istante, ma poi si ricordava con quanta forza aveva che erano solo suoni preregistrati. DOVEVANO essere solo suoni preregistrati.
Una sorta di nebbiolina bianca era alta sopra le cime spoglie degli alberi, che sembravano protendersi verso il cielo come a implorare aiuto con i loro rami. La mancanza di foglie ad adornarle faceva sembrare tutto ancora più spettrale.
Tutto ciò era semplicemente quello che la fievole luce delle lanterne poteva mostrare loro, in un alone azzurrino chiaro che sembrava distorcere la realtà. Emma era certa che di giorno quegli alberi non dovessero avere gli occhi, e non dovessero sembrare anime urlanti in pena.
Nel complesso, lo doveva ammettere, l’effetto era ben riuscito, e in aggiunta la luce della luna, unica illuminazione insieme alle lanterne, aggiungeva un tocco di spettralità al tutto.
Killian guidava il gruppo, tenendo la lanterna ben alta e guardandosi a ogni passo a destra e a sinistra. Dei tre sembrava il meno sicuro, e il fatto che fosse stato proprio lui a proporre l’incursione rendeva assai comica la situazione. E il cappuccio che teneva calato sul viso non aiutava a far risaltare la sua serietà come guida. Al momento sembrava più una imitazione mal riuscita dei capo scout che erano venuti una volta all’orfanotrofio. Gli mancava solo la cintura coi distintivi.
Neal si guardava intorno con una sorta di curiosità mista a vaga paura, ma non sembrava avere intenzione di mostrarsi terrificato: teneva le spalle dritte e il mento alto, come lei quando tentava di intimorire qualche Serpeverde. Probabilmente era per mostrarsi superiore a Killian, pensò fugacemente.
Lei chiudeva il trio, tenendosi la vestaglia con una mano e reggendo la lanterna nell’altra, ben attenta a dove metteva i piedi e cercando con lo sguardo qualche telecamera o delle impalcature che potessero testimoniare il lavoro che era stato svolto. Ma non c’era nulla, assolutamente nulla, che contraddistinguesse una foresta vera da una ricreata in studio.
“Non capisco perché ci impediscano di venire qui” commentò, continuando la sua strenua ricerca di qualche misero elemento scenico. “Insomma… Non mi pare… Pericoloso”.
Killian e Neal si voltarono in contemporanea, il primo leggermente sconcertato, il secondo lievemente meno.
“Stai scherzando, vero?” domandò il Serpeverde, come se avesse appena detto una stupidaggine assurda. Emma replicò, poco convinta:
“Ehm, no, in verità. Siamo qui da dieci minuti e ancora non ci sono caduti pezzi di impalcatura in testa o rami finti, quindi…”, spalancò le braccia. “Non mi lamento”.
Killian continuava a fissarla a bocca aperta, Neal si passò una mano sulla fronte. Le parve di sentirlo sussurrare qualcosa che suonava come “Oh, poveri noi…”.
“Il luogo più misterioso e zeppo di creature di ogni sorta in tutto il perimetro della scuola e tu…”. La voce del Serpeverde si alzò notevolmente.
“Lascia perdere, amico” borbottò Neal, con aria esausta. “Lei non crede che questa sia una Foresta vera, chiaro?”.
Killian aggrottò le sopracciglia, vagamente confuso, e dalla bocca gli uscì un “Cosa?” stupito e sconcertato.
“Certo che non ci credo!” esclamò lei, alzando gli occhi al cielo. “Ma dico io, come potete credere che la magia esista, ragazzi? Questo è uno scherzetto di qualche produttore cinematografico uscito pazzo, ecco cos’è!”. Il suo tono era più convinto di quanto non si sentisse lei in realtà. Era assurdo, ma dicendo quelle parole si rese conto di quanto false sembrassero, ora, alle sue orecchie.
Killian parve accorgersi della sua incertezza.
“Stai ingannando te stessa, mia cara” commentò alzando l’angolo della bocca che gli aveva fatto sanguinare. Nel baluginio tetro delle lanterne il sangue rappreso luccicò in maniera inquietante.
“Non è vero!” esclamò lei con forza. Forse troppa forza.
“Oh, sì che lo stai facendo…”. Il suo tono era diventato mellifluo e lieve come miele, ma viscido come olio di ricino. “Non credi neppure tu a quello che hai appena detto. Inizi a dubitarne, eh? Inizi a dubitarne, quando le prove ti schiacciano in maniera così prorompente…”.
Emma avrebbe voluto aprire bocca, parlare, urlargli contro che non credeva nella magia né a quella pagliacciata… Ma non lo fece. Stette zitta, con il labbro proteso in avanti come se stesse per parlare e un’espressione abbastanza ridicola, visto che Killian ridacchiò.
Neal, dietro di lui, parve non gradire la sua ilarità.
“Lasciala in pace” disse, in un tono perentorio che non gli aveva mai sentito usare. Non c’era che dire, quella sera aveva decisamente scoperto un nuovo Neal.
Killian si voltò ondeggiando col mantello verso di lui.
“Perché non dovrei?” domandò, in tono sgarbato. Non pareva volersi fare alcuno scrupolo con Neal, come invece aveva fatto con lei. O almeno, a Emma pareva che ci fosse andato piano.
“La ragazzina qui presente ti ha fatto venire in un luogo che supera la nostra immaginazione riguardo a pericoli o creature magiche, e tu la segui buono buono senza neppure provare a convincerla che tutto, qui, è reale?”.
Il volto di Neal parve turbato per un istante, poi gli rispose, con sicurezza e freddezza piatte:
“Non mi ha costretto nessuno a venire qui”.
Killian alzò un sopracciglio.
“Beh, ma ti saresti mai infilato qui, se lei non te l’avesse proposto?”. Marcò volontariamente sulla parola “lei”, e nel dirlo le lanciò un’occhiata penetrante. Senza volerlo Emma si trovò ad abbassare il capo.
Neal lo guardò stringendo i pugni e mordendosi il labbro inferiore con una forza tale che la bambina vide una goccia di sangue colare giù sul mento. Poi, senza preavviso, spintonò Killian con una forza che Emma non avrebbe pensato avesse.
“NO!” esclamò d’istinto lei, tentando di raggiungere Neal. Ma prima che potesse farlo, il Serpeverde era già in piedi, il viso rosso di rabbia, e si era frapposta tra lei e la poca distanza che intercorreva col Tassorosso.
Il pugno che gli tirò lo fece cadere a terra con un gemito di dolore.
“NEAL!”.
Emma si precipitò a raggiungere l’amico, chinandosi tra le foglie.
Il ragazzo teneva una mano premuta sul viso, e la Tassorosso rimase inorridita nel notare che era sporca di sangue.
“Oh, cristo…” sussurrò, carezzando il viso dell’amico. Neal rantolò e tossì per alcuni istanti, sotto lo sguardo compiaciuto di Killian. Emma lo odiò con una forza con cui non aveva mai odiato nessuno.
Poi, con uno scatto fulmineo, la spinse da parte, gettandola nel fogliame, e si scaraventò sull’avversario.
La bambina rimase intontita a terra, mentre i corpi di Neal e Killian finivano a terra, in un groviglio confuso, e si rotolavano tirando calci e pugni. Non era la prima volta che assisteva a una rissa, ma era decisamente la prima volta che la rissa la riguardava direttamente. E non riusciva a muoversi.
Era come se una forza invisibile la trattenesse a terra, spaurita e senza parole, mentre i ragazzi continuavano a picchiarsi, con la forza di animali selvaggi, feroci e decisi a non mollare.
“BASTA!” tentò, con quanta forza aveva, non osando avvicinarsi: l’intreccio di corpi era così fitto che non avrebbe saputo riconoscere Neal da Killian, ed era tanto furioso che temeva chr anche solo la vicinanza di qualche metro potesse nuocerle senza che loro alzassero un dito su di lei.
“SMETTETELA!”. Altro grido inutile nella notte.
Emma si accorse solo in quell’istante del fatto che Neal stava avendo la peggio: nonostante la forza dei suoi colpi, Killian pareva aver avuto più tecnica e aveva agito con più tattica.
L’ultima cosa che vide fu la bacchetta del Serpeverde contro le tempie del Tassorosso, e la sua bocca che si spalancava per pronunciare un incantesimo. Un grido echeggiò nella notte… Probabilmente il suo grido.
Poi, d’un tratto, le lanterne si spensero.
Il buio li inghiottì all’improvviso, senza alcun avvertimento, e Emma sentì il freddo congelarla ulteriormente sul posto. Era stata più la paura che il danno vero e proprio: non temeva l’oscurità da quando, a tre anni, Eleonor Bich l’aveva rinchiusa in una stanza buia per un intero pomeriggio, ignorando le sue urla e i suoi schiamazzi.
I rumori della battaglia accanto a lei cessarono. Anche i ragazzi parevano essere rimasti stupiti dalla novità.
Si udirono due “Lumos” in contemporanea, e una luce azzurrognola illuminò i volti dei combattenti. Emma si accorse con sorpresa che proveniva dalle loro bacchette.
La bambina approfittò della calma per osservare le condizioni dei due contendenti.
Killian riportava solo alcuni graffi non molto profondi, anche se Neal era riuscito, con un pugno evidentemente ben assestato, a riaprire la ferita che gli aveva già fatto. Ora era decisamente più profonda e gli percorreva tutta la lunghezza del labbro, e l’effetto era quanto mai sgradevole.
Le ferite riportate da Neal, però, erano decisamente peggiori. Emma trasalì al vedere come era ridotto: aveva vari bozzi alla testa, e una lunga striscia di sangue gli partiva dalla tempia e arrivava fino al mento. Per non parlare dei graffi che le unghie di Killian gli avevano inferto: tagli profondi e lunghi, che gli sfiguravano il volto e sembravano quasi fatti con un coltello.
Ma non c’era tempo per medicare le ferite: le espressioni sul viso di Neal e dell’altro le fecero capire che c’era qualcosa che non andava.
Emma aggrottò le sopracciglia curiosa, mentre con circospezione i due si giravano, illuminando lentamente lo spazio attorno a loro con le bacchette, con una tale cura e apprensione che alla bambina non servì l’intimazione di Killian di rimanere in silenzio per starsene zitta.
Neal lentamente si voltò, tenendo la bacchetta ben stretta in mano…
E uno scorpione gigantesco, con tanto di chele pronte a spezzettare la carne e tenaglie per lacerarla, apparve dal nulla, il pungiglione ben alto sopra di sé e uno stridulo verso di avvertimento.
La bambina si trascinò con velocità indietro sul terreno, fissando la creatura con un misto di terrore e stupore sordo. Dannazione… Era così vera…
E non c’era nessuna persona al mondo che potesse ricreare una creatura del genere.
Nessuno.
Non era umanamente concepibile.
Non un qualcosa di così… Vero, tangibile, certo.
Non poteva essere falso.
Ma allora… Doveva essere per forza…
Il sorriso di Killian fu totalmente fuori luogo, ma il ragazzo sembrava quasi essere soddisfatto dalla sua espressione allibita.
“Figlio del Re Scorpione” constatò, come fosse una cosa che vedeva tutti i giorni, rigirandosi la bacchetta tra le mani. Poi, rivolgendosi lievemente verso Emma, ancora a terra, domandò sardonico:
“Ora ci credi, mia piccola scettica?”.
“Non mi pare questo il momento di discuterne!” esclamò Neal, lo sguardo fisso sul bestione e gli occhi sbarrati. La bacchetta gli tremava tra le mani, ma pareva sicuro a fare ciò che doveva fare.
Killian sospirò profondamente e, carezzando la bacchetta, sentenziò:
“Bene, bene, bene… Sarà uno spasso”.

Note d'autrice:
SAAAALVEEE!!
Allora, visto che domani parto per la Puglia mi tocca pubblicare gli ultimi due capitoli stasera. Direi che vi sto viziando un po' troppo, eh? XD
Che dire... Arrivata alla fine di questa avventura mi sento... Esausta. Veramente. Quattro capitoli in quattro giorni. WOW. L'ho fatto davvero? Sì, l'ho fatto. A voi giudicare se fanno schifo o se si meritano una mini recensione.
Probabilmente il prossimo capitolo arriverà tardi, quindi mi spiace avervi postato così tanti capitoli in fretta e furia per poi lasciarvi senza nulla per un bel po' (a quelle 5 persone che mi seguono XD).
Alloooora... Che devo dire di questo capitolo? Killian e Neal si odiano e mi pare giusto XD Il Figlio del Re Scorpione me lo sono inventato (tra l'altro, che nome del cavolo), quindi E' MIO (stringendoselo al petto manco fosse un peluche invece che uno scorpione che potrebbe uccidermi da un momento all'altro).
Finalmente Emma ha iniziato a credere? Ebbene....
Sìììììììì!!!
STAPPATE LO SPUMANTEEEEE!!!
OK, vado a pubblicare il prossimo capitolo e poi mi defilo, ciau!

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Capitolo 5
*** Chapter 5 ***


La creatura emise un altro verso gutturale, scioccando le chele con fare minaccioso. Emma rimase pietrificata dai suoi occhi scuri che la fissavano con voracità golosa e dallo schioccare delle chele, che come un segnale prestabilito pareva indicare che l’ora di pranzo doveva essere arrivato per il mostro.
Killian le rivolse un ultimo sorriso e si voltò verso il nemico con sguardo follemente eccitato.
“Tranquilla, piccola”. Emma vide la sua ombra alzare la bacchetta. “Ti proteggerò io”.
Poi una sfilza di urla varie si udirono nel silenzio della notte, seguite da striduli suoni emessi dallo scorpione. Emma si ritrovò a guardare raggi di luce  rossa, azzurra e bianca partire da qualche punto nel buio e confluire contro la creatura, che pareva avvertirle come se gli facessero solo il solletico. Qualunque cosa quei due stessero facendo non era evidentemente sufficiente ad abbattere il Figlio del Re Scorpione.
Senza la luce delle lanterne o delle bacchette a illuminare la scena, Emma non riusciva a vedere granché, ma percepiva le foglie frusciare accanto a lei, mentre i due ragazzi si spostavano da una parte all’altra della Foresta, e le urla eccitate di Killian che spronavano la creatura.
“Oh, forza, bestione!” lo sentì gridare da un punto indistinto alla sua destra. “Valgo decisamente la pena di essere mangiato, vedrai!”.
Gli unici istanti in cui non fosse completamente buio e in cui la battaglia non le sembrasse tanto confusa erano quelli in cui i raggi illuminavano sinistramente tutta la scena, per brevi istanti, come tuoni che illuminano il nero fondo della notte durante una tempesta. Erano immagini passeggere e intermittenti, come quelle viste accendendo e spegnendo di continuo la luce in una stanza: il viso folle di Killian nella mischia; Neal che lanciava un incantesimo mentre lo scorpione stava per raggiungerlo; la creatura che la guardava con occhi grandi e tremendi, promettendole una fine lunga e dolorosa.
Non era ancora riuscita a muoversi, eppure era ben consapevole che in quella posizione era decisamente ben esposta: lo scorpione avrebbe potuto colpirla quanto voleva, e nell’oscurità Neal e Killian avrebbero potuto mirare male e ferirla con un incantesimo. Così, facendo forza sulle mani, si alzò lentamente in piedi, col viso ancora fisso sul campo per cogliere ogni minimo movimento che la sua vista riuscisse a cogliere e le gambe pesanti.
Ma non riuscì a fare altro: rimase così ferma, con le gambe divaricate e la vestaglia che le fluttuava intorno ai ginocchi magri. Un terrore freddo l’aveva presa tutta. Emma non si era mai sentita così stupida e debole in tutta la sua vita.
Non c’era nulla che fosse in grado di fare, nulla che il suo cervello ghiacciato riuscisse a elaborare, nessuna idea che riuscisse a nascere dalla sua mente.
Il movimento elegante del polso di Killian che lanciava un incantesimo…
Lo scorpione che lanciava un grido sommesso…
E il suo pungiglione che, con velocità assurda, sferzò l’aria notturna con uno stridio.
Killian fu abbastanza svelto, e si abbassò prima che potesse colpirlo. Neal non fu altrettanto fortunato: la coda dell’animale lo prese in pieno petto, e il ragazzo andò a sbattere contro un albero emettendo un verso strozzato che la fece impallidire.
“Neal!” urlò con quanta forza aveva. La vista dell’amico immobile contro la corteccia, il suo viso pallido e massacrato dai tagli, le labbra semi schiuse e gli occhi che tentavano inutilmente di aprirsi furono la molla che la fece muovere dal punto in cui aveva assistito impotente alla battaglia fino ad allora, il respiro corto e il volto cereo.
“SCAPPA!” udì la voce di Killian, che sembrava ora estremamente lontana. Ma Emma non lo ascoltava nemmeno: corse più veloce che poteva verso il punto in cui Neal era. Sentì il Serpeverde gridare qualcosa, ma non ascoltò: il suo unico pensiero era l’amico.
Lo scorpione pareva non aver gradito molto la sua mossa, perché un istante dopo Emma fu scaraventata in aria da qualcosa che le si infilò, dispettoso, tra le gambe. Fu un volo breve, ma bastò a lasciarla senza fiato con la faccia riversa tra le foglie, i sensi sordi a qualsiasi impulso esterno, il suo corpo incurante di qualsiasi cosa stesse accadendo.
Fu solo un istante, un istante in cui nulla la turbò. Poi si sentì trascinata per le caviglie, ed emise un urlo di dolore: quella destra doveva essere rotta, perché il contatto era stato devastante.
Lo stordimento la prese tutta, la sua mente non riusciva a capire null’altro se non che stava per diventare il pasto di quella creatura che non avrebbe neppure dovuto esistere.
La sua mente sembrava essere vuota e tutto appariva dannatamente senza logica: non era vero, non poteva essere vero. Non era fisicamente possibile che una cosa così enorme esistesse. A meno che non fosse un esperimento mal riuscito di genetica e chiunque avesse progettato quel teatrino stesse cercando di tenerlo a  bada in quel posto. Forse era per questo che era tassativamente vietato entrare: doveva esserci una centrale nucleare lì accanto, o qualcosa del genere. Doveva pur esserci una spiegazione logica… Doveva!
“EMMA!”.
Quell’urlo parve riscuoterla dallo stato confusionale in cui era caduta. La caviglia pulsava di dolore e la ferita sulla guancia doveva essersi riaperta, ma non era assolutamente il momento di fermarsi a piangersi addosso: fosse quella il frutto di qualche mutazione genetica o della magia, stava per divorarla.
La bambina conficcò le dita con quanta più forza aveva nel terreno, e si ribellò dalla presa dello scorpione agitando le gambe con decisione. La terra le entrava sotto le unghie e la caviglia si lamentava sempre più veementemente, ma Emma non poteva mollare.
Si contorse nel fogliame, respirando affannata, appellando a sé quanta più forza aveva e dibattendosi tra gemiti e strilli. Lo scorpione emetteva altri versi, tirava più forte, ma lei continuava a trattenersi al suolo, affondando i palmi nel terreno e aggrappandosi a qualsiasi cosa potesse darle sostegno: un ramo, una pietra… Qualsiasi cosa che potesse rallentare la sua corsa verso la morte.
“KILLIAN!” gridò, con quanta voce aveva. Lo scorpione mugghiò di nuovo, e Emma si rese conto che doveva essersi avvicinata di molto alla sua bocca: il suo fiato le scompigliò i capelli, e la bambina sentì uno strano odore come di carne putrefatta che le diede il voltastomaco.
Non poteva fare altro: la bacchetta le era sfuggita di mano quando aveva fatto quel volo, e anche se l’avesse avuta, cosa avrebbe fatto? Era solo una ragazzina del primo anno, e non sapeva assolutamente nulla che potesse tornargli utile.
Oh, ma perché non era stata più attenta durante Incantesimi o Difesa contro le Arti Oscure? Perché non aveva imparato più formule e si era mostrata così indifferente a tutto ciò che, in quel momento, avrebbe potuto salvarla?
Perché non ci aveva creduto, ecco il perché. Non aveva creduto a una singola parola che gli avevano detto dal primo giorno, era stata tanto sorda da non sentire gli avvertimenti, tanto cieca da non vedere le evidenze, tanto cocciuta da negare che, sì, la magia doveva esistere, e che ora avrebbe potuto aiutarla.
Se solo si fosse degnata di studiare.
Se solo si fosse degnata di crederci, anche solo per un istante.
Uno strattone più deciso degli altri la fece scivolare via dalla pietra a cui era aggrappata, e la bambina sentì un dolore sordo attraversarla partendo dal palmo.
Emma urlò di terrore, tentando un ulteriore appiglio. Scavò disperatamente nel fogliame, guardandolo macchiarsi del rosso del suo sangue (doveva essersi fatta qualcosa alla mano), appellandosi a tutta la forza che aveva, all’ardimento che prima l’aveva animata. Ma qualsiasi forma di energia che avesse avuto prima si era come prosciugata, e ogni movimento che ora compiva era decisamente troppo lento e troppo poco deciso per contrastare la forza dello scorpione.
“KILLIAAAAAN!” urlò di nuovo, aggrappandosi al terreno con quanta forza aveva. Scosse le gambe gemendo, ma la caviglia era diventata oramai talmente dolorante che a ogni movimento la prendeva un conato di vomito.
Nessuna reazione dal Serpeverde. Nessun segno che l’avesse anche solo udita. Il pensiero che se ne fosse andato lasciandola al suo destino la sferzò tutta, e ad Emma sembrò di cadere in un buco nero e senza fine: Killian non poteva averla abbandonata. Non poteva essere sola.
Non poteva farcela.
“AGUAMENTI!”, fu l’ultima cosa che Emma udì nitidamente prima che il ruggito emesso dallo scorpione sovrastasse qualsiasi altro suono, e un sospiro di sollievo le uscì dalla gola quando udì la presa sulle caviglie cessare.
Intontita e non ben conscia di ciò che fosse accaduto, Emma si arrischiò a guardarsi alle spalle. Il solo voltare la testa le costò un forte dolore alle tempie che la fece tremare tutta.
Lo scorpione ululava di dolore, mentre due getti d’acqua lo colpivano con forza. A Emma servirono alcuni istanti per accorgersi che l’acqua proveniva dalla bacchetta di Killian… E da quella di Neal.
Il ragazzino si teneva in piedi con la bocca contratta in una smorfia di dolore, ma nonostante i bozzi e le ferite stava bene. Stava bene…
“CORRI!”.
Emma scosse la testa, incapace di comprendere cosa stesse accadendo. Killian le stava urlando qualcosa, le stava intimando di fare qualcosa…
“Va via da qui, Emma, veloce!”
Ma lei non voleva andarsene. Non poteva andarsene.
I getti d’acqua sembravano diventare sempre meno efficaci, e lo scorpione si stava già riprendendo… E Neal stava facendo uno sforzo immenso per mantenere la sua posizione: la bacchetta gli tremava tra le mani, e dovette reggerla anche con l’altra mano per non farla scivolare via. Emma si accorse solo allora che aveva i palmi scorticati e gonfi. Evidentemente lo scontro con Killian era stato anche più duro di quanto avesse immaginato.
Anche l’altro sembrava sul punto di cedere: il getto d’acqua che aveva creato sembrava rivoltarsi contro di lui, e i suoi muscoli erano tutti tesi nello sforzo di mantenere indietro l’incantesimo.
Lentamente lo scorpione schioccò le chele… E guardò Neal con aria famelica.
Il suo braccio agì prima della sua mente: afferrò qualcosa che giaceva nel terreno (Emma non capì mai come aveva saputo che era precisamente lì) e lo alzò contro la creatura.
“Wingardium Leviosa!”.
Era una cosa così idiota e lo scorpione così immenso che Emma si stupì lei stessa quando, con un verso di sorpresa, quello si alzò in volo sopra le testa di Neal e Killian, agitando il pungiglione all’aria con aria idiota.
Emma rimase con la bocca spalancata e la bacchetta alzata in mano, a guardare quello che lei stessa aveva fatto, la gola secca e gli occhi sgranati. Un istante prima non credeva nella magia… Ed ora aveva sollevato uno scorpione gigante in volo.
Prima che potesse anche solo sussurrare “Porca miseria”, si udirono due “Stupeficium!” perfettamente contemporanei. Due raggi rossi nella notte colpirono lo scorpione sulla parte più molle della pelle e quello fu scaraventato lontano, mentre il suo verso stridulo riecheggiava ancora.
La notte ridiventò all’improvviso silenziosa. Unici suoni, i loro tre respiri affannati, il frusciare del vento che si impigliava tra i rami degli alberi e il crepitio lieve del terreno. Era tutto così straordinariamente calmo rispetto al rumore che c’era stato prima che le venne quasi il mal di testa.
Un “Lumos” stremato uscì dalla gola di Neal, e la Foresta ritornò almeno un minimo luminosa.
Il viso del Tassorosso era bianco e sudato, ed era ben chiaro che un solo passo gli costava una fatica immensa. Nella luce azzurrina della bacchetta il suo volto sembrava ancora più scavato e scheletrico. Alle ferite riportate durante la rissa con Killian si aggiungevano quella causate dal suo volo disastroso, e il ragazzo sembrava davvero reggersi in piedi per un puro miracolo.
Emma fu quasi sul punto di dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse essere sufficiente per fargli capire quanto dispiaciuta e addolorata si sentisse, quanto stupida era stata a volerlo trascinare fino a lì, quanto idiota era stata a permettere che andasse con lei. Ma non era mai stata brava con i discorsi, e sentiva che tutto ciò che avrebbe detto sarebbe stato una grandissima stupidaggine.
Killian si avvicinò a lei riavviandosi i capelli all’indietro con un sospiro di sollievo. Chissà perché, il primo pensiero che le venne guardandolo fu che evidentemente la sua prima preoccupazione mentre combatteva doveva essere stata la sua acconciatura.
“Cavoli, Swan” commentò il ragazzo, sedendosi accanto a lei tra le foglie. “Come hai fatto a fare quella cosa pazzesca?”.
Lei spalancò la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse. Non aveva veramente idea di cosa avrebbe potuto dire. Era tutto così confuso…
Neal si accasciò con un gemito tra le foglie, affondando il viso tra di esse. Il suo primo impulso fu quello di poggiarli una mano sul capo e controllare ogni sua ferita, ma si trattenne a fatica. A Neal non sarebbe piaciuto.
Killian aspettò una risposta per qualche secondo, poi si arrese.
“Va bene!” commentò, unendo le mani  e esibendosi in un sorriso compiaciuto. “Come andiamo?”.
Emma rimase allibita a quella domanda.
“Come andiamo?” ripeté in un filo di voce. Killian parve accorgersi della cretinata che aveva detto, perché il sorriso scomparve immediatamente dal suo viso e lo vide deglutire rumorosamente.
“COME ANDIAMO???” urlò, con quanta forza aveva. La rabbia la riempiva così completamente che Emma sentiva di poter anche ignorare il dolore alla caviglia per gettarsi al collo di quell’idiota.
“Sono venuta in questo postaccio VERO, sono stata attaccata da un mostro VERO, sono stata in pericolo di perdere la vita VERAMENTE e il mio migliore amico per poco non ci rimetteva VERAMENTE la pelle! Per te come va, Jones, dimmi un po’? ”. Il suo tono si alzava a ogni parola e la sua espressione doveva sembrare decisamente minacciosa, perché Killian pareva decisamente spaventato da quell’improvviso sfogo di rabbia. Dal suo rifugio tra le foglie sentì Neal alzare la testa lievemente: immaginò la sua espressione allibita a osservare la scena. Ma probabilmente il fatto che stesse facendo quella scenata con Killian doveva anche soddisfarlo in un certo qual modo
“Spero tu ti sia divertito a fare il mago figo con in tuo mantello da cretino, perché io sinceramente non mi sono divertita affatto!” continuò, aprendo le braccia. “Non mi diverto rischiando la vita, io! E non mi diverto alzando un bestione in volo! Non è una cosa normale, Cristo!” urlò, quasi in preda all’isteria. “Dio santo, la magia non esiste!!! Potete fare di tutto per farmelo credere, ma io so che non esiste!!!”.
Neal aveva alzato gli occhi al cielo e aveva sospirato rassegnato, come chi si arrende definitivamente. Killian sembrava essere meno intimorito, ora, e la fissava con sguardo serio e… Semi comprensivo?
“Eppure ho appena fatto volare uno scorpione gigantesco che Dio solo sa come fa a esistere, e l’ho fatto con un pezzo di legno!!”. Mentre agitava la bacchetta in preda all’isteria totale il Serpeverde si ritirò come se avesse paura che lo colpisse in un occhio, con sguardo disgustato e stranito.
“E non ho idea di come ho fatto! Non so come né perché, ma ho fatto volare un fottutissimo scorpione gigante con un pezzo di legno!!!”. La sua voce raggiunse i picchi massimi che sentiva potesse raggiungere, e lei si fermò, svuotata di tutto ciò che aveva da dire, il respiro affannoso e gli occhi a chiedere dolorosamente “perché”.
Era tutto così strano… Tutto così assurdo…
Tutto ciò a cui aveva sempre creduto si sgretolava sotto i suoi occhi, lasciandola incerta e in balia dei dubbi. Cos’era vero e cos’era falso in quel posto? Cosa c’era di reale e cosa di irreale?
Killian la guardava senza parlare, gli occhi scuri che scintillavano alla luce della bacchetta di Neal, le labbra contratte come a impedirsi di dire qualcosa. La fissava come lei aveva guardato Neal qualche ora prima: come chi pensa a cosa dire senza sembrare ridicolo, come chi vuole dire “So come ti senti” ma sa che sarà inutile.
Poi il ragazzo si decise ad aprire bocca.
E disse poche ma chiare parole.
“È per questo che siamo qui con te, Emma: per aiutarti ad accettarlo”.
Un istante di silenzio e un sorriso storto.
Emma si rivolse a Neal, e lui annuì come ad confermare quello che aveva detto Killian.
La bambina li guardò entrambi, l’uno seduto accanto a lei con quel viso serafico e strafottente, l’altro con un sorriso timido a evidenziare una bellezza sopita e delicata.
E in quell’istante Emma seppe che erano divenuti amici.

Un prato grigio e spoglio.
Strisce di rosso che lentamente colavano a adornare un pendio sulla cui cima si ergeva una chiesetta dismessa e disastrata.
Poi vide chiaramente sé stessa, su quella collina, a guardarsi intorno con curiosità, i piedi scalzi e la sola vestaglia a coprirle il corpo scarno.
“C’è nessuno?”. La sua voce rimbombò nel silenzio, provocando vari eco spettrali. Il paesaggio era coperto da una fitta e densa nebbia, simile a quella della Foresta Proibita.
Un movimento impercettibile dietro di lei.
Lei che si voltava lentamente, a guardare una figura incappucciata. Indossava il mantello nero di Killian, e il suo viso era invisibile dietro il cappuccio.
“Che cosa vuoi da me?” sentì la sua voce, incerta ma ferma. Solo allora Emma si accorse che c’era qualcosa che non andava per niente nel suo viso, qualcosa che decisamente non tornava, qualcosa di sbagliato che però non riusciva ad afferrare. Era come quando, durante un’interrogazione, sentiva di avere la risposta sulla punta della lingua e quella sfuggiva via lentamente, scivolando dalla bocca e ritornandosene in un antro della sua mente, non troppo lontana per essere riafferrata ma abbastanza per essere irraggiungibile.
“Nulla di che, mia cara” sibilò qualcosa –o qualcuno- che le parve incredibilmente vicino.
Il suono di quella voce crepitante, di quel suono che non sapeva neppure se definire del tutto “voce”, di quel qualcosa che non sapeva davvero inserire nella gamma di suoni da lei conosciuti le fece venire la pelle d’oca.
Il mantello che cadeva lentamente a terra, sull’erba verde e brillante.
Il suo viso stupito e angosciato.
“Io… Io non voglio nulla a che fare con te!” esclamò, con una determinazione incerta e timida. Solo allora si accorse cosa c’era che non andava in tutta la situazione.
Il viso che stava guardando, bianco e allibito, era certamente il suo. Ma era più grande. Pareva avere almeno quattordici o quindici anni nei tratti più duri e decisi, e gli occhi presentavano una sorta di consapevolezza adulta che ancora non era del tutto sua.
La figura non disse nulla, ma si limitò a guardarla, avvicinandosi lentamente a lei con passo lento e ufficioso. Si ritrasse lentamente tentando di scampare a quelle mani che si avvicinavano con fare minaccioso.
“Non ho nulla che tu possa volere, davvero!”. Ora il suo tono era disperatamente conciliante, come quello di un killer che cerca di ingraziarsi il giudice. Ma questo non fermò l’altro: fece altri due o tre passi lenti e misurati, guardandola come se fosse un premio da conquistare.
“Io… Io non farò mai quello che mi hai chiesto, se vuoi saperlo!” esclamò, ancora meno sicura, ma agitando il dito come una maestrina. Le sue mani erano sempre più vicine, la sua paura sempre più grande.
“Insomma, cosa puoi volere da me?”.
La figura che le arrivava alle spalle, con una velocità innaturale.
Il suo trasalire quando lui le prese con forza la mano destra.
E poi di nuovo quella voce, che le bisbigliava all’orecchio due semplici parole.
“Voglio te”.

“Stai bene, Emma?” domandò Neal, sporgendosi lievemente verso di lei. “Hai l’aria pensierosa…”.
Solo allora lei parve riprendersi, e con un “Mh?” fissò come se lo vedesse per la prima volta il Tassorosso.
“Terra chiama Emma, Terra chiama Emma…” commentò il compagno, sorbendo il suo succo di zucca.
“Scusa” si affrettò a spiegare lei. “È che mi pare di aver fatto un sogno stranissimo stanotte ma non lo ricordo…”. Non ricordare era assolutamente frustrante, e la sensazione che quel sogno non fosse affatto inutile aumentava il suo sentirsi furiosa con sé stessa.
Neal alzò le spalle e disse, conciliante:
“Sarà stata una cavolata…”.
Emma rimase un altro istante a tentare di ricordare, di vedere anche solo una minima parte di quella visione, poi scosse la testa e affermò, poco convinta:
“Già… Probabile”.

Quella mattina tutta la scuola era stata informata della loro “piccola avventura”, come l’aveva definita la McGrannit, nella Foresta Proibita. Chissà perché Emma pensava che, se non avessero avuto assoluto bisogno di andare in Infermeria e fossero riusciti a nascondere la verità, Sherlock avrebbe comunque indovinato ogni dettaglio di quella loro trasgressione.
Fortunatamente il tutto si era risolto con qualche punto tolto a Tassorosso e a Serpeverde (che non l’avevano presa granché bene), perché l’espulsione era un’alternativa decisamente non contemplabile. A quanto pareva il preside Silente in persona (Emma si era oramai convinta che doveva essere vera quella barba) aveva apprezzato la loro “sincerità”. Era stata davvero una fortuna che Killian non avesse rivelato che il suo primo piano prevedeva portarli all’ospedale Babbano più vicino e poi trasferirsi tutti e tre a Las Vegas.
Sebbene la fuga dalla scuola fosse stata dipinta nei peggiori toni che la professoressa avesse trovato e lo scontro con il Figlio del Re Scorpione era stato del tutto omesso dal suo discorso, alla quarta ora i corridoi non facevano altro che risuonare del racconto dell’impresa che, raccontato in quei toni, faceva sembrare alcuni passi dell’ “Iliade” robetta.
Neal era stato letteralmente assediato da alcune Tassorosso perché gli raccontassero tutti i dettagli, ma era restio a rispondere e diveniva rosso ad ogni nuova domanda.
“Devi essere stato molto coraggioso” aveva commentato una certa Wendy, guardandolo con un’aria tanto adorabile e dolce che per un istante Emma ne era stata nauseata.
Neal era divenuto rosso per un istante, come sempre accadeva, ma stavolta aveva trovato la forza di sussurrare, con un tono anche lievemente pomposo:
“Penso… Penso di sì”.
Killian invece pareva sguazzare nello stato di celebrità come Zio Paperone sguazzava nell’oro: non mancava mai di raccontare nuovamente della suo eroica avventura, e ogni volta che lo faceva Emma era certa che aggiungesse qualcosa. Come si spiegava allora quella ragazza di Serpeverde che le aveva chiesto se si fosse sentita emozionata quando Jones l’aveva riportata in braccio a Hogwarts? O Jack che le aveva domandato se poteva chiedere a Killian di dargli lezioni di karate visto che era un esperto? O Duchamp che, con un sorriso folle, aveva domandato se il ragazzo baciava bene? Anche se probabilmente quella era farina del sacco del solo Teddy.
Quanto a lei, il suo comportamento freddo e distaccato era servito ad allontanare in fretta i curiosi: non aveva davvero voglia di parlare di nuovo dello scorpione, né ricordare tutto ciò che quello significava per lei. L’unica con cui si era concessa qualche semi confessione era stata Anna: alla sua curiosità spontanea e alla sua allegria entusiastica non poteva dire davvero di no.
C’erano poi stati quelli che si erano presentati anche a farle i complimenti, come Chambers che pareva essere rimasto davvero colpito dal suo coraggio (“Gordie mi ha detto che un Figlio del Re Scorpione è un avversario alquanto tosto” aveva commentato, imbarazzato) o Belle che ne aveva approfittato per chiederle scusa per non aver detto nulla quel giorno alla Serra.
“Non sono una che si districa molto bene nella vita reale” aveva spiegato arrossendo. “È tutto molto più semplice sulla carta…”. Emma non gliel’aveva detto ma si trovava pienamente d’accordo con quell’affermazione: decisamente non c’era nulla di più complicato della vita reale.
Sarebbe stata davvero dura credere in qualcosa che aveva sempre tentato così tenacemente di respingere, vedere in ogni piccola cosa lì a Hogwarts non l’arte di un cineasta ma un atto di pura magia, arrendersi alle evidenze senza opporre la minima resistenza.
Forse doveva semplicemente cedere al fatto che l’Emma concreta e scettica non era fatta per vivere in quel mondo. Avrebbe potuto andarsene quando voleva, ritornare nel caro vecchio orfanotrofio dove quel suo lato cinico e rabbioso era l’unico modo che conoscesse per sopravvivere.
Ma la verità era che non le dispiaceva affatto quel nuovo, strano, folle mondo.
Certo, ci sarebbe voluto un bel po’ ad abituarsi, ma sentiva che prima o poi  avrebbe iniziato ad apprezzare lo svegliarsi la mattina e trovare nella Sala Grande dei fantasmi che svolazzavano allegri sopra le loro teste, l’agitare la bacchetta e vedere scintille spuntare dalla sua punta, il mescolare degli ingredienti e sentire che a qualcosa sarebbe servito.
E poi c’erano Killian e Neal con lei.
Non poteva chiedere di meglio.

Il mantello della figura incappucciata frusciava lentamente sul pavimento freddo e bianco della stanza.
L’uomo, o ciò che restava dell’uomo, stava a capo chino sulla brandina, a fissare qualche dettaglio delle piastrelle squadrate che aveva attirato la sua attenzione.
“Te lo chiederò per l’ultima volta”, sibilò l’altro, tenendo la bacchetta puntata sulle tempie della creatura. La sua voce era calma e disinteressata, ma una punta di rabbia pareva essere celata dietro quell’apparente cortina di indifferenza. “Ti unirai a noi quando verrà il momento?”.
L’uomo sbuffò, sollevando un angolo della bocca e alzando gli occhi da ranocchio su di lui. L’intera superficie della sua pelle era raggrinzita e verdognola, simile a quella di un coccodrillo, e gli dava un aspetto malaticcio e allo stesso tempo tremendamente spaventoso.
“Dipende da ciò che siete disposti a offrirmi, caro” precisò, in un tono ovvio ma minaccioso.
Sotto il mantello gli parve di vedere la figura alzare lievemente un sopracciglio, come se quell’affermazione avesse infranto il muro della sua indifferenza e l’avesse stupito.
“Non combatteresti, dunque, per i tuoi ideali?”
L’uomo esplose in una risatina agghiacciante, simile a quella di un clown particolarmente ilare.
“Avere degli ideali non mi fa certo guadagnare qualcosa, caro, non ti pare?” commentò, il sorriso ancora stampato sul viso.
La figura rimase zitta un secondo. Poi commentò, in tono compiaciuto:
“Vedo che pensiamo sulla stessa lunghezza d’onda, noi due”.
L’uomo dalla pelle di coccodrillo sorrise maligno, scoprendo i denti scuri e malconci.
“Allora è ovvio perché tu debba farmi un buon prezzo, caro” sussurrò lui, malignamente. “Perché per avere i servigi di uno dei più grandi Maghi Oscuri di sempre non si può certo non dargli qualcosa che valga la pena e che lo ripaghi completamente”.
Eruppe in un’altra risata, le labbra tirate in quell’orrendo sorriso sghignazzante.
La figura parve riflettere un istante e poi lasciò cadere la bacchetta lungo il suo fianco. L’uomo continuava a guardarlo, interessato.
“Potrei offrirti la libertà…”. L’uomo alzò gli occhi al cielo e sospirò, come se avesse già vissuto quella scena un centinaio di volte. “Ma non sarebbe abbastanza per convincerti, visto che potresti andartene da qui in qualsiasi momento, vero?”.
L’uomo sorrise deliziato.
“Vedo che lei mi capisce davvero, caro” commentò con quel tono acuto e sibilante.
La figura parve fare un mezzo sorriso sotto il cappuccio.
“E… Se ti offrissi tuo figlio, invece?”.
L’uomo sgranò gli occhi, in un’espressione di sorpresa tanto stupita quanto dubbiosa.
“Bae?” domandò, in un soffio, come se pronunciare quel nome gli costasse uno sforzo.
La figura non si mosse dalla sua posizione.
“Sapete dov’è il mio bambino?” chiese, con quell’espressione speranzosa ancora impressa sul viso squamoso.
L’altro sospirò e, asciutto, spiegò:
“Se te lo dicessi tu andresti subito lì e il nostro accordo sarebbe inutile”.
Gli occhi dell’uomo divennero di fuoco e la figura lo vide stringere i denti con forza.
“Posso vederlo con la magia! Ho trovato lo strumento…”
“Potresti” lo interruppe la figura. “Ma non se il nostro Signore te lo impedirà”.
L’altro lo fissò per alcuni istanti, con una rabbia spaventosa negli occhi. Poi si alzò di scatto e, sul punto di scaraventarsi al collo dello sconosciuto… Si bloccò.
Il sorriso della figura era ben visibile anche sotto il cappuccio, a quella distanza. Il viso squamoso dell’uomo divenne una maschera di terrore, quando notò quello che aveva in mano l’altro.
Si avvicinò lentamente sotto lo sguardo di sfida e allo stesso tempo di orrore dell’uomo e sentenziò, con quella voce indefinibile:
“Ormai sei nostro, e non c’è nulla che potrai fare per liberarti di queste catene…”.
La sua mano carezzò con delicatezza la superficie lucida del coltello, mentre sussurrava, mellifluo:
“… Tremotino”.


Note d'autrice:
EEEEEE...
SIIII, ABBIAMO ANCHE TREMOTINOOOOOOO!!!
So che fa schifo come nome, preferisco anche io Rumple, ma non me lo ricordo mai...
Chi è la figura incappucciata?
Cosa vuole da Emma?
Chi è il figlio di Tremo? (OK, questo lo sapete già)
Per chi lavora il tizio?
Vi sono piaciuti i mini siparietti dei personaggi? Ho voluto dare a Chris una minima apparizione (QUESTO RAGAZZO SE LO MERITA TALMENTE TANTO... Insomma... Basta guardare la scena in cui consola Gordie... Oh mamma... GUARDATE QUEL FILM, VI PREGO. Se può servire convincervi... Guardate la mia immy del profilo e ditemi se le facce che hanno non sono epiche XD). E poi Belle è riapparsa. E la frase che dice... Sapete cosa? Lo penso anch'io. Totalmente.
AH, e c'è anche Wendy! Questa Wendy è quella di OUAT. Lo ammetto, non la adoro, però la BaexWendy mi piaceva... E chissà... Qui potrebbe essere canon.
Giusto perchè lo sappiate, tizio non è uno dei cattivi di OUAT o di HP o di qualsiasi altro film: è un personaggio completamente inventato da me. Forse lievemente ispirato a quello psicopatico di Peter. Non so, devo ancora definire quel punto.
Spero vi sia piaciuto e che non faccia totalmente schifo. La parte del combattimento con lo scorpione non mi è piaciuta molto, ma ci ho provato. Zia Row o la Clare avrebbero fatto decisamente meglio di me...
Vi lascio prima che mio padre mi uccida! Alla prossima!

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