to breathe again

di Dracaryser
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Trouble is a friend ***
Capitolo 2: *** And then you ***
Capitolo 3: *** Love is beginning ***
Capitolo 4: *** Fly on (O) ***
Capitolo 5: *** Give me love ***
Capitolo 6: *** All I want ***
Capitolo 7: *** Chasing cars ***
Capitolo 8: *** What a day ***



Capitolo 1
*** Trouble is a friend ***


Dopo trentasei ore di pioggia ininterrotta venni svegliata dai raggi del sole che filtravano tra le tende semiaperte che la sera prima non avevo avuto la forza di chiudere. Al termine di una settimana di lavoro era arrivato il mio giorno libero. Guardai per prima cosa il comodino che ospitava l'ultimo libro terminato. Decisi che dovevo iniziarne uno nuovo e che quello sarebbe stato il giorno perfetto per uscire a comprarlo. Mi tirai senza molta fatica fuori dal letto e andai ad aprire le tende per far sì che la luce illuminasse la stanza rimasta al buio per almeno una settimana.

Dopo aver fatto colazione ed essermi lavata presi dei vestiti dalla pila di biancheria pulita sulla sedia. Indossai jeans e maglietta e misi un paio di stivali alti fino al ginocchio. Nonostante avessi superato da cinque anni i trenta non c'era cosa che mi rendesse più felice di sguazzare con gli stivali nelle pozzanghere, e a Seattle, città in cui la percentuale di precipitazioni era direttamente proporzionale al numero di grattacieli vertiginosi, le pozzanghere non mancavano mai.

Scesi senza fretta le scale e mi incamminai verso il negozio di libri tra Pine street e 6th Avenue accorgendomi che il cielo era meno limpido di quanto mi aspettassi e pensai che probabilmente sarebbe piovuto di lì a poco. Accelerai il passo e arrivai al negozio. Le tende indaco con fiocchi panna rendevano la facciata della libreria regale e al tempo stesso confortevole. Entrai facendo suonare i pendagli sulla porta che annunciano l'arrivo di un nuovo cliente e che di conseguenza rendono il suono, che altrimenti sarebbe irritante, gradito al proprietario.Feci un cenno di saluto al proprietario, corpulento e barbuto, che stava giocando con i nipoti,almeno supponevo che lo fossero, dato che in realtà non avevo mai intrattenuto alcun tipo di conversazione con l'uomo che lasciava sfogliassi tutti i libri di quattro interi scaffali per sceglierne uno o due al massimo, ma che mi vedeva tornare ogni settimana.

Mentre mi trovavo a metà tra il reparto dei romanzi ottocenteschi e i classici latini vidi una donna dalla pelle color latte e i capelli rossi tenere in mano un libro con la copertina a me familiare.

"Meraviglia" esclamai sospirando con una mano poggiata sul petto, come ero solita fare quando parlavo delle cose che sentivo sotto la pelle.

La donna,immersa nella lettura della trama del libro, ebbe un sussulto e alzò gli occhi. Solo allora potei accorgermi dell'intensità del blu-mare che ondeggiava intorno alle sue pupille.

"Prego?" mi disse. Con un tono più irritato che confuso.

"Il libro che ha in mano. E' una meraviglia. Glielo consiglio vivamente."

Non mi rispose e tornò al libro di Vanessa Diffenbaugh che aveva legato per pochi attimi la mia vita alla sua.
"Non è per me in realtà" Esordì, rompendo il silenzio e inclinando l'angolo destro della bocca all'insù, accennando un mezzo sorriso.Non avrei assolutamente potuto chiedere per chi fosse, così mi uscì un "Ah" e sparii dietro la sezione per bambini, lontata dieci passi da lì.

Avevo già trovato quello che cercavo, ma rimasi un altro po' a guardare cosa avrebbe comprato la donna e ad ipotizzare per chi potesse essere e per quale occasione.

Saltò velocemente la sezione dei classici latini su cui mi ero soffermata io pochi minuti prima e spazientita prese un libro a caso dallo scaffale dei best-seller e chiese di confezionarlo con un fiocco.
Continuai a guardarla mentre attendeva che una ragazza imbranata le incartasse il libro. Non riuscii bene ad individuare il vestito sotto il cappotto bianco, a parer mio fuori stagione ad Ottobre, ma qualunque lavoro svolgesse, doveva esigere sicuramente una certa classe.

Alzò gli occhi dal bancone dopo il terzo tentativo andato in fumo della ragazza che si disperava per fare un fiocco con il nastro e le forbici e voltò la testa nella mia direzione. Prontamente abbassai lo sguardo sul libro che avevo scelto e finsi di essere titubante. Poi lo sollevai incontrando il suo e finsi indifferenza volgendolo subito ad un libro posto troppo in alto per i miei 165 centimentri che più i cinque di stivali divenivano 170 centimetri d'altezza.

In realtà, incrociando quelle due distese d'acqua blu per una seconda volta mi sentii quasi essere sottratta alla legge di gravità. Dopo cinque minuti abbondanti la ragazza al bancone aveva fatto un lavoro più o meno decente ed io vidi la massa di capelli rossi ondeggiare e allontanarsi sempre più dalla mia visuale.  

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Capitolo 2
*** And then you ***


La sveglia puntata alle cinque e cinquanta del mattino destò il sonno tormentato e mi ricordò che avrei dovuto essere in ospedale per le sette.

Erano passate tre settimane dall'incontro con la donna della libreria e il mese di Novembre aveva portato con sé le sue tipiche tonalità cromatiche che variavano dall'arancione al castano e ovviamente anche i preparativi per l'imminente festa del Ringraziamento.

Continuavano a ripetersi nella mia mente quelle poche scene svoltesi nel negozio drappeggiato con tendine blu. Non era la prima volta che incontravo una persona che con un solo sguardo risvegliava in me sensazioni latenti come un herpes.
Ero solita infatti cercare sguardi di gente sconosciuta e produrre dei film mentali su ipotetici appuntamenti e relazioni per poi dopo un po' dimenticarmene totalmente.

 

Ma al solo pensiero di quei capelli sentivo la pelle sotto i vestiti bruciare e un senso di turbamento si impadroniva di me.

Mi preparai con tutta la calma possibile mentre il canale musciale trasmetteva la classifica della settimana. Quando fu sul punto di trasmettere le tre canzoni sul podio spensi il televisore. Scesi le scale e dopo essere salita in auto guidai, senza nemmeno guardare la strada, verso l'ospedale continuando a rivedere le sequenze di quell'incontro cercando di capire da dove derivasse il mio malessere.

Giunsi al Seattle Grace Mercy West per le sei e quarantacinque. Infilai il mio camice bianco e sfruttai il mio quarto d'ora di anticipo per fare colazione con l'unica pietanza commestibile che si poteva trovare nella mensa dell'ospedale: torta ai frutti di bosco.
Non so ben dire se era la pasta particolarmente morbida o i pezzetti di more e lamponi freschi a renderla estremamente irresistibile ed affascinante, ma quella torta mi aveva stregato quasi quanto gli occhi della donna con il cappotto bianco.
Alle sette iniziai il mio turno e dopo sei ore trascorse tra il pronto soccorso e l'ambulatorio mi diressi nella stanza del medico di guardia per riposare in attesa di un nuovo intervento.
Attraversai velocemente il reparto di pediatria per evitare di imbattermi in Arizona Robbins, una collega logorroica e dai modi eccessivamente zuccherati, ma mentre camminavo a passo spedito mi sentii chiamare dal primario di chirurgia. Non ascoltai attentamente i primi due minuti del suo sproloquio sui tagli al budget e iniziai a prestare attenzione solo quando iniziò a parlarmi di Teodore Buckland.
Ted infatti, l'avvocato che si occupava delle cause e delle questioni giuridiche e legali dell'ospedale, aveva fatto fortuna con la sua band a cappella ed era partito per Los Angeles.

Owen Hunt sembrava estremamente divertito dalla notizia e così ero io. La nostra ilarità si manifestò con una sonora risata che venne interrotta da un "Eccomi" alle mi spalle.
"Ti presento il nostro nuovo avvocato, Abby Whelan." Disse Owen mentre mi voltavo a conoscere il nuovo avvocato.

Pochi attimi dopo mi trovai faccia a faccia con la donna della libreria. Abby Whelan.

Feci tutto ciò che era in mio potere per evitare di inebetirmi davanti a quello che non mi sembrava altro che il ritratto della perfezione.
Un tailleur di gonna e giacca color tortora e una camicietta turchese coprivano la pelle color latte che mi era parso profumasse di lavanda.

Continuai a guardarla mentre Hunt mi presentava a lei e notai, con delusione, che non mostrava alcun segno di perplessità. Come se non avesse l'impressione di avermi già vista.

Mi congendai da loro con una scusa e continuai a camminare verso la mia meta: la stanza del medico di guardia.
Mi sdraiai ma non riuscivo nemmeno a chiudere gli occhi per paura che fosse un sogno e che questa volta non l'avrei mai più rivista. Mi convinsi che i capelli legati, il camice e l'assenza di make-up potevano rendere difficile riconoscere una persona vista per pochi minuti.
Mi alzai e andai nella stanza degli strutturati per prendere un caffè.
Aprii la porta sbadigliando e mentre mi coprivo la bocca con la mano e la mia faccia si contorceva in un'orribile epressione rividi la cascata di capelli rossi. Aspettò che riassumessi sembianze umane e -" Aveva ragione"- mi disse -" E' una meraviglia."


Restai immobile per alcuni secondi, chiedendomi perchè non mi avesse detto prima che mi aveva rinosciuta.

"Pensavo non fosse per lei" le risposi.

"Sì il libro non era per me, ma sono tornata il giorno dopo e l'ho comprato. E speravo a dire il vero di incontrarla e ringraziarla."

Mi spostai dalla porta e mi avvicinai all'ebollitore per preparare il caffè.

"Ne vuole?" Le chiesi, mostrandole l'ebollitore.

"Sì perfavore." Mi rispose con fare molto più gentile rispetto alla libreria.

Quando il caffè fu pronto presi due tazze dal mobile sopra il lavello e lo versai. Le porsi la sua tazza e mi sedetti al tavolo, di fronte a lei. Avevo notato che il suo accento era diverso da quello dei miei colleghi.

"Non è di Seattle, o sbaglio?" Le chiesi, immergendo il mio labbro superiore nel caffè bollente.

"Non sbaglia. Sono originaria di Sitka, Alaska, ed ho studiato e lavorato fino a poco tempo fa a Washington D.C. E lei?"

"Io vengo da un po' più lontano: Italia. Vivo a Seattle da 5 anni. Come si è trovata fino ad ora?"

"Non saprei ben dire. Ma per il momento qualunque posto è meglio di Washington per me."

Volevo saperne di più. Volevo assolutamente sapere perchè aveva lasciato la Città del Presidente, ma non feci in tempo a finire il mio caffè che il cercapersone suonò.

"Incidente d'auto. Devo scappare. E' stato un piacere, a presto." Dissi, cercando di mascherare la mia incontenibile gioia.

"Anche per me." Rispose lei accennando un mezzo sorriso.

Il paziente dell'incidente d'auto morì sul tavolo operatorio dopo ore di montagne russe. Esausta e anche avvilita dichiarai l'ora del decesso, lasciai la sala operatoria e tornai a casa.
Pigiai più volte il pulsante dell'ascensore che tardava ad arrivare e che probabilmente si era bloccato. Salii le scale velocemente e arrivai alla porta del 122c, il mio appartamento.
Realizzai che non avevo cenato ed andai a consultare il frigo. Al suo interno trovai il gateau della sera precedente. Ne divorai due porzioni abbondanti e mi fiondai a letto.

Mentre cercavo di abbandonarmi tra le braccia di Morfeo il display del mio cellulare si illuminò.
Sullo sfondo apparì l'icona dei messaggi in arrivo. Mi chiesi chi potesse essere e se fosse il caso di controllare. Presi il cellulare dal comodino che adesso ospitava un libro di Charles Dickens e sfiorai lo schermo.

Messaggio da Cleo.

"Oggi una cliente ha ordinato una composizione di Tulipani e Ranuncolo. Mi ha ricordato te."

"Io avrei preso la Viola del pensiero al posto del Ranuncolo."
Cancellai.

"I fiori non mi sembrano un gran pretesto per scrivermi."
Cancellai.

"Hai avuto l'occasione di scegliere ed hai sbagliato. Non scrivermi più."
Cancellai e non risposi. Rimasi a fissare il messaggio e a rileggerlo finchè non mi addormentai.

Mi svegliai di malumore, con un mal di testa e un mal di denti atroci. A causa del messaggio avevo digrignato i denti per tutta la notte. Aprii la finestra per controllare il tempo. Il cielo era grigio e faceva presumere che sarebbe piovuto di lì a poco. Mi preparai in fretta per evitare di guidare sotto la pioggia. Amavo la pioggia e tutto ciò che essa concerne ma guidare sull'asfalto bagnato mi faceva stare terribilmente in ansia.

Cominciò a piovere quando io mi trovavo all'ingresso del parcheggio dell'ospedale e mi sentii piuttosto soddisfatta, anche se ancora turbata. Percorsi il tragitto di venti metri che separava il parcheggio dall'ingresso dell'ospedale senza ombrello e mi bagnai dalla testa ai piedi.

Adesso alla mia angoscia per il messaggio di Cleo si aggiungeva il disagio per gli indumenti ed i capelli fradici.

Entrai nell'ascensore per giungere al piano degli spogliatoi e quando le porte si aprirono vidi Abby.
La carne sotto gli abiti zuppi divampò tanto che mi sembrò di essermi asciugata.

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Capitolo 3
*** Love is beginning ***


Gli spogliatoi si trovavano alla fine del corridoio e lei proprio nel mezzo, seduta alla postazione delle infermiere, leggeva qualcosa.
Probabilmente era il fascicolo di una causa, ma poteva anche essere l'ultimo numero di un giornale di fumetti, da quella distanza non avrei potuto capire di cosa si trattasse.

Appurai che l'essermi asciugata era stata solamente un'impressione e che dai miei capelli le goccioline d'acqua cadevano sulle mie scarpe e sul pavimento.

In un'altra occasione avrei fatto di tutto per farmi notare ma in quel momento, in cui tutto ciò che volevo era una tovaglia asciutta, decisi di passarle davanti senza richiamare l'attenzione dei suoi occhi blu.

A testa bassa oltrepassai la postazione delle infermiere e quando pensai di essere riuscita nel mio intento "Ehi ti cercavo"- disse Alex Karev, con un tono decisamente troppo alto che determinò il fallimento del mio piano, -"Ho bisogno di un consulto. Sei disponibile?"

-"Mi cambio e arrivo" risposi rassegnandomi al mio imbarazzo.

Andò nella direzione opposta alla mia e finsi di seguire lui con lo sguardo ma mi voltai per guardare Abby.

La sorpresi a guardarmi e -"Buongiorno" le dissi, con un sorriso imbarazzato.
-"Giorno" mi rispose accennando il suo sorriso a metà che lasciava inalterata la sua guancia sinistra.

Trascorsi la mattinata passando da un caso all'altro e sperando di incontrarla in ogni stanza in cui entrassi, ma ogni volta che varcavo la soglia, ora della stanza degli strutturati, ora di quella della sala riunioni, venivo delusa dalla sua assenza.

Quel giorno, contrariamente alla mia consuetudine, andai a pranzo in mensa con la certezza di trovarvi Abby perché, nonostante mi sembrasse una creatura quasi divina, aveva bisogno di nutrirsi come i comuni mortali.

Non ero solita pranzare con i miei colleghi, al contrario, tendevo ad evitare di instaurare ogni rapporto interpersonale e a lasciare che rimanesse esclusivamente professionale, e non mi pareva che nessuno si fosse mai preso pena per ciò.
Da ragazza mi ero convinta che questo disinteresse verso gli altri fosse una cosa momentanea dovuta all'adolescenza e alle persone, decisamente poco interessanti e con una forma mentis completamente diversa dalla mia, del paesino in cui vivevo.
Ma crescendo e giungendo negli States il mio rifiuto verso gli altri era rimasto inalterato.

Tirai un gran sospiro e mi diressi verso la mensa. La luce del sole filtrava dalle vetrate e si proiettava sui tavoli bianchi che riempivano la stanza.

Il bianco era senza dubbio il colore prevalente nella stanza, seguito dal blu e dall'azzurro delle divise chirurgiche.

Presi un vassoio, le patatine, un sandwich e il latte al cioccolato, e con quel pranzo degno di un bambino di otto anni con pessime abitudine alimentari cercai un tavolo libero.

Mi sedetti ed iniziai a togliere la pellicola che avvolgeva il sandwich al tonno. Dopo aver srotolato i tre strati di pellicola potei addentare il primo boccone.

Guardavo i tavoli bianchi disposti simmetricamente nella parte vuota della mensa e, come una macchia di vino su un tappeto bianco, i capelli rossi ruppero il perfetto equilibrio simmetrico e cromatico di quella parte deserta della stanza.

"Posso?" Mi chiese Abby.

"Certamente!" Risposi, con fin troppa enfasi.

"Mi spiace disturbarla, ma non c'è nulla che io odi più che mangiare da sola e non ho fatto conoscenza con nessuno all'infuori di lei e del primario Hunt. Sembrano tutti presi da qualcosa."

Continuò a parlare ma ascoltai una piccola percentuale dei suoni che uscivano dalle sue labbra.

Fui felice per un attimo del fatto che conoscesse solo me, che non dovessi dividerla con qualcun altro ma ero sicura che da lì a qualche giorno qualcuno avrebbe tentato di approcciarla.
Com'era possibile, d'altronde, non rimanere ammaliati da tanta radiosità e bellezza.

I capelli, lisci dalle radici, divenivano mossi al livello delle punte che cadevano sulle spalle e sulla schiena.
Gli occhi blu, messi in risalto dalla blusa indaco che avvolgeva la sua pelle, mi ipnotizzarono finchè mi chiese -"Mi sta seguendo?"e svegliò la mia mente itinerante.

"Sì mi scusi, stavo pensando ad un paziente." Risposi prontamente, fingendomi preoccupata.

"Le dispiacerebbe se fossimo meno formali?" Mi chiese timidamente.

"Affatto." risposi.

Mi sentii come una dodicenne alla sua prima cotta, e temetti di comportarmi da tale.
Sentii il sangue arrivarmi subito alle orecchie e i battiti accelerare.
Voleva che fossimo meno formali. Quella domanda mi aveva aperto un mondo ed aveva dato l'input per la proiezione dei miei film mentali.

A distogliermi da essi questa volta fu la suoneria del suo cellulare.

"Harrison!" rispose, e per la prima volta vidi sul suo volto un sorriso completo.

Mi salutò con un cenno della mano e si allontanò dal tavolo della mensa.

Rimasi lì, pervasa da un'immensa delusione e rabbia nei confronti dell'interlocutore all'altro capo del telefono.
Chiunque avesse il potere di far sorridere Abby in quel modo era sicuramente una persona a lei non indifferente.

La aspettai per venti minuti ma non tornò, svuotai il mio vassoio che conteneva solo gli involucri del mio pranzo e, terminata la mia giornata lavorativa, mi cambiai e tornai a casa.

Non aveva smesso di piovere nemmeno per un attimo da quella mattina, ed io, grondante d'acqua, giurai sul pianerottolo di casa che la prossima volta avrei ricordato l'ombrello.

Feci una doccia bollente, coccolata dalla fragranza alla vaniglia del bagno-doccia e passai la mia serata avvolta da un plaid sulla mia poltrona preferita. Giunta al terzo capitolo dell'Odissea di Joyce mi addormentai.

Venni svegliata dal mio cellulare, distrattamente lasciato in modalità suoneria, che mi segnalava la presenza di un nuovo messaggio.

Questa volta sapevo già chi potesse essere. Decisi di non leggere il messaggio per evitare un'emicrania ma, appena venti secondi dopo aver preso la decisione, la mia mano digitò automaticamente il codice di sblocco e aprì il messaggio di Cleo.

"Un giglio per te..."
Lessi sullo schermo troppo luminoso per i miei occhi assonnati e semichiusi.

Sbuffai e poggiai il libro sul tavolino vicino al divano. Mi raggomitolai su me stessa e sistemai il plaid in maniera tale che coprisse i miei piedi che avevo l'abitudine di lasciare nudi in qualunque periodo dell'anno.

La luce accesa della lampada mi impedì di riaddormentarmi e, compiendo quello che mi sembrò uno sforzo sovra-umano, andai a dormire nel mio letto.

Mi sembrava davvero troppo freddo e vuoto, come se la eco della mia solitudine raggelasse la stanza e si infiltrasse fin sotto le coperte.

Le tirai via e posizionai un cuscino trasversalmente.
Il mio battito cardiaco si adeguò al ritmo del ticchettio della pioggia sui vetri della finestra e, finalmente, mi addormentai.

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Capitolo 4
*** Fly on (O) ***


Passarono tre settimane e a quel primo incontro in mensa ne seguirono altri.

Ogni giorno, o quasi, ci trovavamo per pranzare insieme.

Non lo avevamo deciso. Era un meccansimo innescatosi automaticamente.Tutto effettivamente era naturale con lei, ogni movimento, ogni parola ed ogni sguardo.
Ma percepivo, lo sentivo con ogni cellula del mio corpo, che l'intensità dei suoi sentimenti non era minimamente paragonabile alla mia.

Attesi con ansia l'ora di pranzo e, una volta giunta, mi affrettai per raggiungere la mensa. Quell'ansia mi divorava ogni giorno.
Mi sedetti ed ero terrorizzatta dall'idea che non si presentasse.


-"Sono esausta, e siamo solo a metà giornata." Mi disse abbandonansi sulla sedia.

-"Ciao anche a te." Le risposi con una stizza di ironia.

-"Ciao, scusa. Ho passato cinque ore in sala conferenze con il consiglio che non riesce ad accordarsi

sulla decisione da prendere. Ripeto gli stessi concetti dalle otto di questa mattina, salvami."

-"Di' loro che ho richiesto una consulenza legale e di chiamarti quando hanno finito. Per qualche motivo hanno soggezione di me. Non obietteranno. "

-"Per qualche motivo?" sbuffò sorridendo.

"Che intendi?" Chiesi infastidita.

-"Tu hai quest'aria di superiorità e noncuranza. Penso dipenda dai muri che erigi intorno a te continuamente. E non sono semplici muri di mattoni, sono in titanio rinforzato, sorvegliati da cani da guardia addestrati. Mi chiedo come tu mi abbia permesso di avvicinarmi ."

-"Per via del libro." Risposi accenando un mezzo sorriso, movimento che avevo assimilato involontariamente guardandola così attentamente giorno per giorno.

Sorrise anche lei e restammo per qualche minuto in silenzio.


-"Per chi era quel libro?" Trovai finalmente il coraggio di chiedere.

-"Per una mia vecchia collega per la quale non ho mai avuto molta simpatia. Non gliel'ho mai nemmeno spedito."

-"Hai fatto bene, è un libro splendido e dovresti leggerlo tu."

-"Ricordi quale libro ho preso?" Mi chiese sorpresa.

-"Ho una buona memoria io."

Come avrei potuto dirle che ogni sera, prima di addormentarmi, l'ultima cosa a cui pensavo era la massa di capelli rossi ondeggiare e allontanarsi dalla mia visuale?

-"Hai la giornata libera domani?" Chiese destandomi dal mio momento di melanconia.

-"Sì. E' stata una settimana devastante. Odio insegnare agli specializzandi. Voglio dormire per diciotto ore filate."

-"Con chi mi lamenterò della mia giornata?"

-"Puoi venire la sera a casa mia e lamentarti di tutto ciò che vuoi." Dissi scherzando.

-"D'accordo. Sarò da te per le otto. Preparati ad uno sproloquio di circa mezz'ora, domani chiudiamo il caso Bitten. Mandami un messaggio con l'indirizzo."

Rimasi sorpresa dalla sua risposta ma non mi dispiacque per niente che non avesse colto l'ironia nella mia voce, al contrario, mi sentii elettrizzata.

"Lo farò. Vado, ho un intervento." E mi allontanai.

 

Il suono dell campanello, atteso da quando la lancetta corta dell'orologio si era posizionata sul numero otto del quadrante, mi giunse ottavato nella camera da letto.

Mi precipitai ad aprire e la invitai ad entrare.

-"Hai fame? Hai cenato?" Chiesi vedendola sfinita.

-"Sì tranquilla, grazie. Voglio solo sedermi, sono esausta. L'ascensore non funziona."

-"Lo so, capita spesso."

-"Davvero? Cambia appartamento!"

-"No, mi piace questo." Dissi stringendomi alla poltrona, come se qualcuno  stesse cercando di  portarmela via.

-"Certo, sarebbe un peccato lasciare questa casa piena di foto di amici e familiari." Disse Abby indicando le cornici vuote adagiate nella libreria che il padrone di casa mi aveva regalato a Natale e che vuote erano rimaste.

-"Ho visto che hai un piano ed una chitarra, suoni? " Mi disse, per rimediare al suo colpo basso.

-"Sì. O almeno ero solita farlo. Non ho molto tempo."

Esitai per qualche attimo e continuai.

-"In realtà è una scusa. Quando abiti da sola all'inizio la musica è la migliore compagnia, ma poi, ogni volta che una nota rimbomba nella casa vuota ti ricorda quanto tu sia sola. E tu? Suoni?"

"Ho provato per un po' ma non tocco un piano da anni. Ne avevo uno, ma poi ho odiato quel piano e tutto ciò che quella casa conteneva."

-"Ti andrebbe di ricominciare?"

Le dissi, invitandola con la mano a seguirmi nel mio piccolo angolo di paradiso in cui ormai non entravo da un po'.

Ci sedemmo sullo sgabello, stringendosi un po' ci si stava benissimo in due.
Poggiò le sue mani cautamente sui tasti, come se fossero roventi.
La posizione era sbagliata, contorsi le labbra in una smorfia di dissenso e le mostrai la posizione esatta, ma il suo pollice finiva sempre da tutt'altra parte.
Pigiò qualcuno dei tasti con le sue dita sottili e quando emisero dei flebili suoni si alzò di scatto, come se si fosse realmente bruciata.

-"Suona qualcosa tu per favore." Mi disse con uno sguardo pieno di sofferenza.

Le sorrisi, tentando di compensare la tristezza dei suoi occhi con la gioia dei miei.Lei mi lasciò lo sgabello appoggiandosi alla parete.

Non avevo idea di cosa suonare. Il suo sguardo pesante si posò fisso su di me ed offuscava la mia mente.
Sfogliai nervosamente gli spartiti che per poco non si sparpagliarono sul pavimento. Ne presi uno a caso e respirai profondamente sgranchendo le dita.

Azzardai una nota.
Troppo bassa.
Mi spostai di un'ottava.
Perfetto.

Dopo qualche timidio tentativo presi coraggio. La melodia e il profumo dei suoi capelli riempirono la stanza e mi sembrò che l'enorme macigno che gravava sul mio cuore si desintegrasse.

Quando finii si avvicinò con una smorfia di dolore.
Sfiorò i tasti del piano con le dita, ne suonò uno e chiuse gli occhi.

-"Una volta suonavo, niente di che in realtà. Mio marito però non apprezzava e mi chiedeva di smettere. Io facevo finta di non sentirlo, allora lui veniva verso di me, mi prendeva le dita e me le stringeva fino a farmi quasi svenire dal dolore, poi premeva la mia testa sui tasti finchè non iniziava a sanguinarmi il naso."

Continuò a raccontare e le gambe le si fecero estremamente deboli. Andò a sedersi sul divano ed iniziò a piangere.

Non sapevo cosa fare. Avevo sempre odiato i piagnistei: quando qualcuno piangeva io ero solita allontanarmi. Ma in quel momento non c'era nessun altro posto in cui volessi essere.

Decisi di abbracciarla e lei si fece piccola piccola. Le asciugai le lacrime, chiuse gli occhi e il viso le si fece più sereno.
Passarono i minuti e lei smise di piangere ma nessuna delle due aveva intenzione di rompere il silenzio.
Guardai i suoi capelli, le sue guance, le sue caviglie e in un attimo una cosa mi fu chiara: sarei andata all'inferno per proteggerla.

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Capitolo 5
*** Give me love ***


L'orologio della cucina segnava le otto e trenta, la pioggia aveva iniziato a battere contro i vetri e il profumo di pollo al curry che proveniva dall'appartamento adiacente al mio si era infiltrato nelle mie narici. 

Abby era tra le mie braccia, inerme, indifesa. Riuscivo in qualche modo a sentire il suo dolore.

Spostai i ciuffi che aveva davanti agli occhi ed iniziai ad accarezzarle i capelli.
Inizialmente sfiorai qualche ciocca ma poi la mia mano con estrema naturalezza procedeva dalla fronte fino alle punte. 
Tavolta le dita sfioravano il collo e ciò le provocava una sensazione di solletico che la faceva sorridere. 

Tra una carezza e l'altra persi la cognizione del tempo.
Sospirò, si schiarì la voce e si allontanò da me, poggiandosi contro lo schienale. 
Sentendola andare via dalle mie braccia mi sembrò che mi privassero dell'ossigeno.

Ci guardammo per un po'.  Le sue labbra erano serrate in una linea retta, gli occhi, arrossati dal pianto erano pieni di sofferenza e sul viso erano chiari i segni della stanchezza.
Avrei voluto toccarla di nuovo. Avrei voluto allungare una mano e distendere le linee sul volto, ma pensai che per quella sera il contatto fisico fosse stato sufficiente.

Sospirò di nuovo e con un  "Mi dispiace." ruppe il silenzio che fino ad allora aveva dominato la situazione.
Io non risposi, lasciai che continuasse. 
-"Mi dispiace averti messa a disagio. Non avrei mai voluto che mi vedessi in questo stato, così vulnerabile.  Questo è il motivo per cui ho lasciato Washington."
-"Non hai nulla di cui dispiacerti. Spiace a me di aver fatto riaffiorare quei ricordi." risposi io. 

Scosse la testa e si alzò. Mi chiese dove fosse il bagno ed io rimasi a fissare la forma che il suo corpo aveva impresso sul divano. 
Uscì dal bagno strofinandosi gli occhi e i capelli rossi erano legati in una coda di cavallo che, mentre camminava, ondeggiava dietro la schiena. 

-"Credo sia ora che io vada." disse sfiorandosi le punte dei capelli, come se volesse, inconsciamente, colmare la mancanza del mio tocco.
-"D'accordo, buona notte. Ci vediamo."
Pregai che la porta  non si aprisse, impedendole di andare via. 
Avrei voluto che rimanesse lì, avrei voluto abbracciarla per tutta la notte e dirle che, se fosse rimasta con me, non avrei permesso che nessuno le torcesse nemmeno uno dei suoi morbidi capelli color rame. 
Avrei voluto, ma non lo feci.

 Dopo averla salutata restai in silenzio e la porta sì aprì con uno scatto, permettendole di lasciarmi lì.
Indietreggiai, come se dalla porta chiusa effluvi di angoscia e solitudine si dirigessero verso di me.
Dopo qualche passo mi ritrovai in cucina, stanza nella quale l'orologio da parete segnava le dieci e trenta.

Misi dell'acqua a bollire e in una tazza decorata da strisce che alternavano colori freddi a colori caldi un filtro alla malva. 
La tisana era troppo calda perchè la bevessi subito, così portai la tazza  in camera e sorseggiai quel fluido bollente con la schiena poggiata alla spalliera del letto e il piumone sulle gambe. 
Mi addormentai venti minuti dopo aver terminato la bevanda, ma un rumore mi svegliò.

Non era alcun suono proveniente dal mio cellulare, nè dall'interno dell'appartamento. 
Il suono che mi aveva svegliata era quello delle nocche sulla porta. 

Pensai che fosse la vicina venuto a reclamare il suo gatto che aveva un'insana passione per i fiori sulla mia terrazza.
Ma tutti i fiori erano seccati, appassiti. Tutto ciò che una volta era rigoglioso e variopinto era diventato arido e color giallo paglierino. 

Scostai le coperte e al buio mi diressi verso la porta d'ingresso. Accesi la lampada e con tedio la aprii.
Quel che mi aspettavo era una donna bionda in tuta che parlava prolungando le vocali, ma le mie aspettative vennero deluse.
Davanti a me c'era nuovamente Abby che mi chiese :"Posso restare a dormire qui?"

Fui stupita ed egoisticamente felice della sua visita. 
-"Che succede?" Chiesi preoccupata, esortandola ad entrare e chiudendo velocemente la porta dietro di lei. 
-"Sono salita in macchina ma non sono riuscita a mettere in moto. Non riuscivo a muovermi. Ho dovuto fare appello a tutte le mie forze per tornare qui. " Mi rispose respirando a fatica e poi ripetè, quasi supplicandomi :"Posso restare a dormire qui? Per favore?"
-"Certamente." Dissi tentando di placare l'istinto di stringerla a me, ma a quella risposta fu lei ad avvicinarsi.
Io rimasi inerme, lei mise le braccia attorno al mio tronco, divenuto rigido per la sorpresa, io a mia volta cinsi le braccia intorno alle sue ed istintivamente le baciai la fronte. 
Temetti che fosse infastidita da quel gesto ma invece si strinse a me ancora di più. 
Mi liberai con delicatezza dalla stretta delle sue braccia e la invitai a sedere.
Presi dal mio armadio delle coperte, un cuscino, ed un pigiama pulito, preparai velocemente il divano e le dissi di rivolgersi a me per qualunque cosa.
-"Grazie" pronunciò con voce sommessa.
Io chinai la testa e le sorrisi gentilmente per poi lasciarla da sola e tornare nella mia stanza. 

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Capitolo 6
*** All I want ***


Poggiai la mano sul mio petto respirando profondamente e sentendo il battito cardiaco tornare regolare.
Grattai con l'indice la punta del naso e riuscii a sentire l'odore dei suoi capelli tra le dita.

Abby si trovava ad appena dieci passi da me, alla stessa distanza a cui mi ero trovata io in libreria.
Ma quel giorno eravamo due estranee, in quel momento invece lei stava dormendo sul mio divano indossando uno dei miei pigiami.

Pensai un attimo a ciò che mi aveva raccontato e all'inferno che aveva vissuto ed andai a letto amareggiata.

Quando aprii gli occhi il sole non aveva ancora fatto capolino da dietro i vertiginosi grattacieli, ma, vincendo la mia pigrizia, mi alzai a controllare se fosse sveglia o dormisse ancora. Trovai il divano vuoto e sistemato, le lenzuola ed il pigiama piegati e la luce del corridoio che conduceva in cucina accesa.

Mi illusi di essere in un classico film d'amore, in cui la persona che si ferma a dormire prepara la colazione e volteggia con la spatola dei pancakes versando il succo d'arancia, ma così non fu.
Non trovai altro che un post-it giallo sul frigo e l'ebollitore mezzo pieno d'acqua che avevo lasciato lì la sera prima.

Ci vediamo al lavoro.
Grazie. Scusa.
Abby.

Non prestai molta attenzione al contenuto del messaggio pragmatico, ne studiai piuttosto la calligrafia e la disposizione su quella piccola pagina adesiva.
Staccai il post-it e ripassai le linee d'inchiostro con l'indice.

Qualche anno prima avevo letto riguardo lo studio della calligrafia e quanto essa possa rivelare su una persona, ma era passato troppo tempo e il libro probabilmente si trovava sotto altri, troppi altri libri.
Mi affidai dunque unicamente alle mie capacità mnemoniche e passai finalmente alla decifrazione.

L'inchiostro non era calcato, ciò rivelava insicurezza, paura e debolezza, le lettere grandi invece abilità nella vita di società.
La scrittura tendeva verso il basso, proprio di chi è un pessimista ed ha paura di sbagliare.
Chi non lascia margine a sinistra, invece, è una persona legata al passato più che al futuro e alle nuove esperienze.
Infine, la firma era a sinistra, sintomo di freno e riserve verso le relazioni, ed essa era molto diversa dal testo, segno di uno scrivente che ha un bisogno di mascherarsi all'esterno e si stima poco.

Rividi Abby, per ciò che mi aveva permesso di conoscere, in molti di quei tratti, ed in molti rividi anche me stessa.

Il sole continuava a nascondersi dietro quegli imponenti edifici e dovetti attendere ore prima di raggiungere il Seattle Grace Mercy West, e prima di uscire di casa piegai e misi nella tasca dei jeans il post-it.

Incrociai per i corridoi dell'ospedale Meredith Grey che non si limitò a salutarmi con un cenno come di consueto, ma che mi fermò.
-"Ciao, vai di fretta?" Chiese lei con un sorriso benevolo, anche se un po' forzato.

-"In realtà sì." Mentii io, sfiorando il taschino del camice che conteneva il cercapersone, come per far capire che avevo ricevuto una chiamata.

-"Volevo solo invitarti a casa mia per il Ringraziamento questo giovedì, sempre che tu non abbia già preso impegni. " Mi disse, spostando il ciuffo di capelli biondi che non aveva imprigionato nella coda di cavallo.

-"A dire il vero non lo festeggio, ma grazie per l'invito Meredith." risposi io sorridendo gentilmente

Mi superò di tre passi ed io mi voltai per continuare a sostenere la conversazione.

Poi disse:"Non è una festività italiana, giusto." E sorrise di rimando.

-"Niente per cui essere grata in realtà." Avrei voluto rispondere acidamente io, ma non lo feci, evitando così che il buco nero creato dalla mia misantropia mi risucchiasse.

Si allontanò ed io mi voltai nuovamente proseguendo per la mia direzione.

Riconobbi Abby dalla voce, si agitava e scuoteva la testa mentre discuteva con qualcuno.
Stava rappresentando Callie Torres in una causa alquanto spinosa e supposi che il suo interlocutore in giacca e cravatta fosse l'avvocato dello snowboarder che aveva citato in giudizio il chirurgo ortopedico.

Attesi che finisse di parlare con l'uomo e mi avvicinai, interrompendola nella lettura di un fascicolo con un :"Ehi" e sfiorandole l'avambraccio poggiato sulla scrivania bianca.
Ritrasse il braccio e lasciò che cadesse su un fianco poi si girò. 

-"Scusa di nuovo, non accadrà più, e grazie." disse con un tono sorprendentemente freddo e distaccato.

-"Ti sei già scusata e mi hai ringraziata nel post-it. Potevi restare e fare colazione insieme a me. A proposito, non ho ancora mangiato nulla, ti va di andare in caffetteria?" Le domandai io, terrorizzata dal suo tono ostile.

-"Ho detto che non accadrà più, voglio dire che non dovremmo frequentarci e tanto meno condividere informazioni che dovrebbero rimanere private. Ti saluto, passa una buona giornata." rispose tenendo il fascicolo sottobraccio e allontanandosi.

Non dissi nulla, non la fermai e non mi mossi.
Lasciai che portasse la cascata di capelli rossi altrove, ovunque volesse.

Provai rabbia e delusione, verso lei e poi verso di me.
In un mese tutto ciò a cui avevo pensato e a cui mi ero dedicata era Abby, trascurando il mio lavoro e me stessa.

Sapevo che il suo comportamento era dettato unicamente dalla paura di mostrarsi vulnerabile e indifesa, ma non poteva irrompere nella mia vita e poi lasciarmi lì afona e lasciando un vuoto che, dopo l'ultima volta, non avrei potuto colmare. Non sarei rimasta inerme.
Io volevo salvarla, ma chi avrebbe salvato me?

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Capitolo 7
*** Chasing cars ***


Il caffè della macchinetta aveva un sapore orribile, niente a che vedere con l'Espresso italiano, e ancora dopo cinque anni, non mi ero abituata a quell'aroma.
Tuttavia, frastornata e ferita dalle parole di Abby, attendevo che l'erogatore versasse in un bicchiere di carta quel liquido marrone e mescolai con la bacchettina in plastica lo zucchero versato in abbondanza per coprire il cattivo sapore di quella pseudo-bevanda alla caffeina.

Alle otto del mattino l'ospedale si trovava nel pieno della sua attività: gli specializzandi iniziavano il giro con i propri mentori, gli inservienti setacciavano i piani in cerca di mansioni da sbrigare, i pazienti si preparavano alle terapie o agli interventi cui si sarebbero sottoposti di lì a poco,
io avrei dovuto seguire i post-operatori del primario di cardiochirurgia.

Diedi un'occhiata al mio orologio da polso rosso e mi affrettai a bere il mio caffè per non adempire ad i miei incarichi in ritardo.

Mentre passavo da una stanza all'altra dei pazienti che il Dr. Jeff Russell mi aveva assegnato ripensavo a ciò che era accaduto.

Non c'erano grandi misteri da risolvere, lo avevo da sempre saputo e in ciò non potevo biasimarla, mi aveva dato sempre poco ed ero stata io ad aggrapparmi con le unghie e con i denti a quel centesimo di Abby Whelan che lei mi aveva concesso.
Però non avrei dovuto smettere di lottare, per me ma anche per lei, che era debole, e che prima o poi avrebbe avuto bisogno di me.

 

Risistemai il camice ospedaliero dell'ultimo dei miei pazienti, sfilai i guanti in lattice che avevo utilizzato per controllare che la ferita si stesse rimarginando e li gettai nel contenitore.

Appena fuori dalla stanza, sfruttando quel poco tempo libero che avevo cercai Meredith.
Il suo nome sul tabellone non appariva prima di un intervento fissato per le dieci.

-"Meredith!" Esclamai, facendo in modo che mi sentisse dal fondo del corridoio.

Mentre percorrevo quei venti menri realizzai che non avevo mai pronunciato il suo nome, ma che mi ero rivolta a lei solo con 'Dottoressa Grey'.

-"Dimmi." Rispose lei stranita dal mio approccio, inusuale da parte mia, manifestando la sua curiosità strizzando gli occhi.

-"Se non è un problema vorrei accettare il tuo invito. Sono molto curiosa, soprattutto di assaggiare il rinomato tacchino del Ringraziamento. Se l'invito è ancora valido.." Quasi supplicai, sperando di non sembrare disperata quanto effettivamente ero.

-"In realtà non sarò nemmeno io a cucinarlo, ma l'invito è ancora valido. Puoi portare chi vuoi.." Si interruppe un attimo, capendo che si stava addentrando in un territorio ostile, poi riprese a parlare:

-"Potresti chiedere al nuovo avvocato, vi vedo spesso insieme, credo siate amiche, o magari mi sbaglio. Ad ogni modo, ti aspettiamo per le cinque e trenta, ti invierò un messaggio con l'indirizzo."

Ringraziai e la salutai, sedendomi in sala d'attesa, come per riposarmi dopo quell'enorme sforzo.
Poggiai il gomito sul bracciolo della sedia ed il mento sul palmo della mano, guardando le persone che rappresentavano il cuore pulsante dell'ospedale e sentendomi grata di avere la possibilità di stare in quel posto.


Attesi con ansia quel quarto giovedì di novembre, e nonostante la temperatura fuori raggiungesse spesso temperature molto basse, dentro di me sentivo una nuova forza divampare.

Stavo per partecipare ad una cena a casa di uno dei membri del consiglio dell'ospedale.

Mi chiesi, mentre seduta sul letto consultavo l'interno dell'armadio, perchè mai fossi stata invitata.
Supposi che dopo la partenza di Cristina Yang, chirurgo che io conoscevo solo di fama, trasferitasi in Svizzera poco prima del mio arrivo, Meredith stesse ancora cercando qualcuno che le somigliasse e, più volte, era stato detto dai colleghi riferendosi a me :"E' come se la Yang non fosse mai andata via."

 

Provai diversi indumenti e scarpe finchè la mia camera da letto non sembrò un outlet al termine dei saldi.
Nessuno dei vestiti mi sembrava adatto, poco o troppo elegante, troppo aderente o troppo coperto, scarpe troppo basse o troppo alte. Fui tentata per un attimo di dare buca, ma mi ricordai finalmente di un vestito nero lasciato in lavanderia qualcosa come cinque mesi prima e mi precipitai in macchina.

Il traffico in strada era provocato da persone che, come me, in uno dei giorni più importanti per il popolo Americano, avevano rimandato o dimenticato qualcosa.
Procedetti meccanicamente in quelle arterie ostruite e quando mi ritrovai davanti il negozio di fiori di Cleo mi si strinse il cuore nel petto.
Fortuna volle che fosse chiuso in quel giorno di festa e così fui in grado di proseguire e riprendere il mio vestito, lo indossai, e con esso delle scarpe nere con il tacco.

Passai le mani tra i lunghi capelli castani così da districare i ricci e spostarli tutti da un lato.

Non mi ero mai intesa di moda o bellezza, e quel poco che stavo mettendo in atto lo avevo imparato da mia sorella da ragazza.

Finito il trucco mi controllai allo specchio e a stento riconobbi la persona che mi restituì lo sguardo.
Sorrisi compiaciuta e feci un giro su me stessa, per quel giorno avrei potuto accantonare i miei problemi e le mie sofferenze dai capelli rossi.


Rischiai di perdermi una o due volte.
La casa di Meredith e Derek Sheperd si trovava su una collinetta in periferia, circondata da alberi e rilievi. L'esterno, di legno e pietra, ben si conciliava con l'arredamento moderno all'interno dell'abitazione. Mi feci strada sul viale di ciottoli e quando suonai al campanello Zola, la figlia maggiore dei coniugi Sheperd mi aprì la porta.

Fui invidiosa di quella casa e dell'atmosfera. Foto di parenti ed amici spuntavano su ogni mobile ed ogni parete, disegni di bambini appesi al frigo, piante rigogliose adornavano tutti gli angoli e le risate dei colleghi giungevano alle mie orecchie.
Avevo da tempo rinunciato alla possibilità di creare tutto ciò e mi ero rassegnata, ma in quel momento, quella possibilità sembrava ritornare.

Ero in una stanza piena di medici e, se solo lo avessi voluto, di amici.

Ma poco prima della seconda portata il mio cellulare suonò.
Già sapevo chi fosse e sfiorai lo schermo in corrispondenza della notifica sulla casella dei messaggi convinta di leggere uno dei soliti messaggi di Cleo, ma non lessi di rose, margherite o orchidee.

Al contrario, il messaggio era da parte di Abby.

Puoi aiutarmi?
Casa mia.

Mi gelò il sangue nelle vene, controllai il cerca-persone ma non avevo ricevuto alcuna chiamata e, dall'assenza di quel suono a intermittenza, supposi che nemmeno le persone che mi circondavano erano desiderate.

Lasciai la tavola, mi scusai dicendo che avevo ricevuto una chiamata dall'ospedale e me ne andai.

Giunta davanti casa di Abby, che non avevo mai visitato, ma della quale conoscevo l'indirizzo perché una volta le avevo dato un passaggio, bussai più volte ma non ricevetti risposta.
Esitai per un po' e poi entrai. Mi guardai intorno e chiamai il suo nome ma il silenzio sembrava essere l'unico inquilino di quella casa apparentemente vuota.
Finalmente aprii la porta di una stanza. .

Rimasi ferma sull'uscio, aspettando di ricevere risposta da quel corpo raggomitolato su se stesso all'interno della vasca da bagno.

Poggiava la guancia destra sulle ginocchia e cingeva le gambe con le lunghe e bianche braccia.
Guardò verso di me ma il suo sguardo sembro passarmi attraverso.

Tolsi le scarpe per evitare di cadere e andai verso di lei, immersi una mano nell'acqua che si rivelò essere gelida.

-"Da quanto tempo sei qui dentro?" Chiesi, senza aspettarmi una risposta.

-"Due ore, o forse tre. Non riesco ad uscire, puoi aiutarmi?" Mi rispose con una voce tanto flebile che mi sembrò di averla immaginata.

Cercai una tovaglia nell'armadietto e con molta indiscrezione la tirai fuori dalla vasca da bagno e la coprii. Con un'altra le tamponai i capelli umidi e il viso, eccessivamente pallido.
La accompagnai in camera e preparai del tè.

Sorseggiava estremamente piano, e temevo che svenisse dopo ogni sorso.
Era ancora una volta priva di difese e vulnerabile, mentre io ero colei che la stava salvando, di nuovo.

A poco a poco il suo viso divenne roseo e mi dovetti trattenere dall'accarezzare le guance.

-"Mi dispiace di averti interrotta." Disse alludendo al mio abbigliamento.

Io non risposi. Delle scuse non sarebbero bastate e lei lo sapeva.

-"Non è così che funziona. Non appaio quando vuoi tu. Tu lo sai, hai visto che la mia vita non è piena di persone care, sai della mia difficoltà a legarmi e a fidarmi ma hai preferito tagliare i ponti.
So che hai paura di mostrarti così, e che se non lasci che le persone si avvicinino non possono ferirti, ma devi decidere.
So anche cosa vuol dire scambiare le tue paure, i tuoi respiri, la tua pelle con qualcuno ed ho paura anche io. La scelta sta a te, possiamo essere sconosciute o amiche."
'Amiche'.
Quella parola mi si bloccò in gola e feci fatica perfino a pronunciarla, ma le stavo dando un'ultima possibilità ed ero consapevole del fatto che non avrei avuto niente più di quello.

-"Non ho paura di mostrarmi debole, vulnerabile e indifesa. Non è essere ferita che mi fa paura, a quello sono abituata." Si fermò un attimo e si strinse nella tovaglia, per poi riprendere:

-"Quello che mi fa paura, che mi ha terrorizzata a tal punto da chiederti di allontanarti è stato ciò che ho provato quando sul tuo divano mi stringevi a te e accarezzavi i miei capelli così dolcemente. " 

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Capitolo 8
*** What a day ***


Il pavimento sotto i miei piedi nudi era gelato, ma poco mi importava.
In quel momento mi sarebbe bastato compiere due passi o pronunciare due parole e la persona che per tutto quel tempo avevo desiderato sarebbe stata mia.
Ma non avanzai, né articolai parole.

Attesi invece che finisse di parlare, per dire quello che io non avrei mai avuto il coraggio di dichiarare.

-"So che è sbagliato, ma non posso fare finta di niente.
Dopo Charles ho chiuso tutte le porte. Non ho permesso a nessuno di avvicinarsi, tanto meno di toccarmi. Ho evitato i contatti fisici con chiunque per anni.
Ma tu... non avrei mai voluto che smettessi di stringermi, ed ho avuto paura. Paura di te e di me. Mi dispiace, io so quanto tu sia restia ed ostile alle relazioni, ma penso che tu abbia bisogno di essere salvata tanto quanto ne ho bisogno io. "

Abby parlò tutto d'un fiato, come per liberarsi di un peso, guardandomi dritta negli occhi.
E solo dopo aver pronunciato l'ultima parola li abbassò, ed in essi aleggiavano vergogna e senso di colpa.

A quel punto avanzai, sperando che il suono flebile dei miei piedi nudi che procedevano sul pavimento le facessero sollevare il viso.

"Io non riesco nemmeno a respirare quando non ci sei." Dissi scuotendo appena il capo e cercando di contenere il tremolio del mio mento.

Seduta sul bordo del letto, con la tazza vuota tra le mani, indietreggiò con il busto e mi guardò di traverso.

Mi chiesi come fosse possibile tanta sorpresa, il mio sentimento non era forse chiaro come la luce del sole?

Vergogna e senso di colpa svanirono dai suoi occhi increduli.
Dopo la mia dichiarazione rimasi a fissarla, e lei di rimando.
Entrambe inermi, prive di barriere, impaurite e compiaciute allo stesso tempo.

Mentre scrutavo nei suoi occhi blu, che sin dal primo momento mi avevano privata di giudizio, vidi quanto il volto fosse sciupato e gli zigomi sporgenti.
Spostai lo sguardo poi sulle spalle, rimaste nude, quasi scarne.
Nuovamente un istinto di protezione si impadronì di me, questa volta era ancora più forte e, quasi, morboso.

Ma prima che potessi compiere un altro passo in avanti finalmente mi sorrise.
Non più uno di quei sorrisi a metà, asettici e puramente di cortesia.
Gli angoli della bocca si inclinarono entrambi all'insù, il naso si arricciò appena e gli occhi si riempirono di una nuova luce e sicurezza.

-"Forse dovrei vestirmi, mi aspetti per qualche minuto?." Chiese, continuando a sorridere e alzandosi per chiudere la porta.

-"Non vado da nessuna parte. " Risposi io spostandomi nella stanza attigua.

Rimasi in piedi, un po' ingessata, e mi guardai attorno.

L'appartamento era alquanto anonimo ed ordinario, come se il silenzioso inquilino non avesse intenzione di piantare le proprie radici, quasi come fosse una camera d'albergo.
Mentre cercavo con insistenza una cosa qualunque all'interno della casa che la rappresentasse e che fosse davvero sua, ma con scarso successo, uscì dalla camera.

Sul viso aveva un velo di trucco, che copriva e mascherava la stanchezza, il corpo invece era avvolto da un semplice abito bianco, stretto in vita da un nastro rosso e lungo fin sulle ginocchia.

-"Prego." Mi disse, indicando il divano con un gesto della mano.

Mi sedetti, un po' impacciata e lei dopo di me.
Ci avvicinammo entrambe a poco a poco, finché mise la sua testa sulla mia spalla, le baciai la fronte e socchiuse gli occhi, avvicinandosi ancora di più, io adagiai il mento sulla sua testa .

-"Non lasciarmi andare."

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