Premessa
(perché non ci saranno le note dell'autore a fine pagina): Grazie
a tutti quelli che hanno seguito e recensito questa fanfiction. Mi
scuso per l'enorme attesa, ma spero che questa ultima One-Shot sia di
vostro gradimento. Se farete domande nelle recensioni, vi
risponderò nel prossimo capitolo di "Underwater Moon" (la
prossima in linea da completare e aggiornare).
Dedica (questa volta
c'è): ad Edward, che voleva un finale con
almeno un morto; a Noriko che voleva che, per una buona volta, non
morisse nessuno.
The
Truth in a Nightmare
Si
voltò di scatto.
Aveva
sentito un rumore alle sue spalle.
Nulla.
Dietro
di lei c’era solo buio.
“Nii-san…?”
La voce che era un sussurro, le
lacrime lungo le gote e le gambe che minacciavano di cedere da un
momento
all’altro.
“Nii-san!?”
Non
le rispose nessuno, come prima.
“Allen-kun?”
Mosse
qualche passo in avanti, le mani
strette al petto.
Era
sola.
“Lavi?”
Inciampò
e cadde a terra, portando le mani
in avanti per frenare la caduta.
“Dove
siete finiti…?”
Doveva
trattarsi di un incubo, di un brutto
scherzo della sua fervida immaginazione.
Era
tutto buio, tranne quella luce davanti
ai suoi occhi che tentava –invano- di
raggiungere. La vedeva proprio
davanti a sé ma, nonostante questo, pareva sempre
irraggiungibile.
“Allen-kun…”
Si
rialzò a fatica, l’abito che ondeggiava
come sospinto da un vento inesistente.
Qualche
passo, calmo e controllato, e li
vide.
Vide
ancora quella scena che tanto l’aveva
spaventata tempo addietro.
Erano
tutti morti.
Tutti
a terra, con un rivolo di sangue che
correva dalle loro labbra e gli occhi chiusi. Potevano parere
addormentati, se
non fosse stato per quel sangue. No…
Basta!
Si
prese la testa fra le mani, piangendo
ininterrottamente. No… Allen-kun!
---
Spalancò
gli occhi, ritrovandosi distesa
sulla schiena ad osservare un cielo pieno di nuvole plumbee.
Cercò
di issarsi sulle braccia, ma quelle
non le risposero; era svuotata di ogni singola energia.
Si
girò su un lato, osservando il sangue a
terra. Il mio sangue…
Cercò
di tamponare la ferita al fianco con
le mani, mentre la vista le si annebbiava ancora. Cosa…?
Un
boato lontano attirò la sua attenzione,
facendola rinsavire per qualche momento.
“Allen-kun…”
Si
trascinò a fatica fino al corpo che
giaceva accanto a lei.
“Allen-kun?”
Lo
scosse, fino a che non poté vederlo in
volto.
Lavi.
“Lavi…
Lavi, stai bene?”
Sembrava
addormentato, ma la pozza di
sangue a terra tradiva quell’immagine di pace dipinta sul suo
volto.
“Lavi!
Lavi, no!”
Lo
scosse ancora, la vista totalmente appannata
dalle lacrime.
“No…
No…”
Qualche
ciuffo sporco di sangue le ricadde
sulla fronte, sospinto dal vento freddo che cercava di spostare le
pesanti
nuvole cariche di pioggia. Perché…?
Erano
stati inviati in missione qualche
giorno prima. Una missione semplice, che non avrebbe dovuto avere molte
complicazioni, il massimo che avrebbero trovato sarebbe stato qualche
akuma di
livello tre. Eppure, era tutto andato per il verso sbagliato.
“No…”
Picchiò
un pugno senza forza a terra e
poggiò il capo sulla spalla del compagno, mentre le lacrime
le pulivano il
volto sporco di polvere e sangue. Tutto questo
è… è dannatamente sbagliato…
Un
altro pugno.
Un’altra
lacrima.
Ed
un’ultima immagine stampata nella mente.
Allen-kun…
Lontano,
oltre le immense chiome di quegli
alberi, un altro boato.
Lenalee
alzò il capo, trattenendo a stento
le altre lacrime che minacciavano di tornare a rigarle il volto, si
puntellò
sui gomiti, riuscendo infine a sedersi. La colse subito un capogiro e
la sua
mano corse all’istante al fianco, alla ferita ancora aperta.
Doveva
trovare Allen.
(Doveva
fermarlo.)
Si
alzò a fatica, strappando la manica
della divisa e avvolgendola attorno al fianco ferito e sanguinante.
“Allen-kun…”
Aveva
freddo. Forse perché era inverno
inoltrato. Ma la sua divisa era molto imbottita.
“Alle…”
Una
fitta la attraversò da parte a parte,
smorzandole il respiro e facendola barcollare.
Quanto
avrebbe desiderato poter cancellare
gli ultimi attimi di quella dannata missione che a nulla di buono aveva
portato, se non la perdita di molti compagni.
A
suo fratello sarebbe venuto un colpo al
cuore vedendo quei capelli –appena ricresciuti-
già da tagliare, tanto
erano impregnati di sangue. Ma nemmeno quel pensiero la fece sorridere.
Non
poteva sbuffare e fare la faccia offesa, in attesa di scuse, aspettando
che
tornasse la tranquillità che c’era prima di quella
battaglia. Era impossibile.
Aveva
visto con i propri occhi contro cosa
si erano apprestati a combattere –e a
perdere- ed aveva capito che
lei sarebbe morta, piuttosto che combattere contro di lui. Non ne
avrebbe avuta
la forza. Non poteva permettersi di mancare ai suoi doveri di
esorcista, ma non
poteva nemmeno provare a ferirlo, era troppo importante per lei. Non
avrebbe mai
ucciso Allen, piuttosto sarebbe morta lei.
Si
appoggiò al tronco di un albero e
respirò a fondo. Cosa avrebbe fatto allora? Non era meglio
forse scappare e
lasciarsi tutto alle spalle?
Se
non poteva ucciderlo, e qualcuno le
aveva impedito di amarlo, cosa poteva fare lei se non stare in disparte
a guardare
ed attendere la propria morte? Che morte stupida sarebbe stata la sua.
Sarebbe
rimasta ferma, attendendo il colpo di grazia e, probabilmente, non
avrebbe
neppure pianto perché sapeva che, almeno, non lo avrebbe
più visto compiere
omicidi per i quali si sarebbe dannato a vita.
“Scusami,
Nii-san.”
Sì,
quello a cui avrebbe fatto più male
sarebbe sarebbe stato suo fratello Komui. Lui teneva a lei e, anche se
non lo
avrebbe mai ammesso apertamente, ad Allen. Sperava davvero che la sua
sorellina
tanto adorata avesse trovato qualcuno da amare oltre a lui, qualcuno
con cui
compiere il tanto odiato grande passo dalla quale
l'aveva sempre tenuta
lontana.
Qualcuno
le sfrecciò davanti e interruppe i
suoi pensieri. Una scia di capelli corvini, seguiti a ruota da una
katana, le
ridiedero la speranza. Forse qualcuno poteva fermare veramente Allen. Però...
“Kanda!”,
urlò, sperando che lui la sentisse
tant'era preso dalla sua piccola battaglia, “Non
ucciderlo!”
Ci
fu qualcosa nello sguardo che le rivolse
che la fece trasalire. Non aveva intenzione di fermarsi. Ma nel
contempo era
consapevole del fatto che non ce ne fosse bisogno. Sapeva che sarebbe
morto,
come gli altri.
Si
rivoltò burbero verso l'avversario
invisibile agli occhi di Lenalee, perché semplicemente lei
non vedeva nessun
nemico da dover abbattere. La sua mente aveva escluso quell'immagine
che le
provocata tanto dolore. (Era ancora Allen.)
Non
potevano esserci dubbi. Non doveva avere
dubbi.
Se
avesse perso anche la fiducia, e la
speranza, cosa poteva rimanere di lei se non un involucro vuoto, pronto
ad
accasciarsi al suolo al minimo soffio di vento?
Doveva
sperare. Sperare e credere che tutto
fosse uno stupido incubo. Uno dei tanti che l'avevano tormentata. Uno
dei tanti
che, al risveglio, l'avevano fatta piangere. Uno dei tanti che aveva
predetto
la morte dei suoi compagni e amici.
Sentì
un rumore, uno schiocco ed un urlo
basso.
(Non
doveva sentire. Non voleva sentire.)
Chiuse
gli occhi e premette le mani sulle
orecchie. Lacrime silenziose iniziarono a rigarle di nuovo il viso,
mentre si
sorreggeva a stento con la schiena contro il tronco di quell'albero.
Lo
sentiva avvicinarsi. Percepiva il suo
respiro tanto conosciuto quanto estraneo in quel momento che avanzava
nella sua
direzione. Sembrava calmo. Sorrideva, Lenalee lo sapeva ma,
all'improvviso, la
ragazza colse un qualcosa che prima non aveva notato.
Iniziò
a piovere, lentamente, e quasi
subito la leggera pioggia cedette il passo ad una più
copiosa, una che impiegò
pochi secondi ad impregnare i suoi vestiti d'acqua.
Inspirò
a fondo Lenalee, mentre un
singhiozzo le causava un dolore lancinante nel petto. Sentì
quel sorriso farsi
più vicino e si lasciò scivolare al suolo.
Affondò le mani nella terra bagnata
e tenne la testa bassa, lasciando libero sfogo alle proprie lacrime,
che le
annebbiarono la vista.
Se
magari non avesse visto in volto il suo
assassino, il dolore della morte sarebbe stato un po' soffocato. Forse
avrebbe
potuto persino accettarla. Sarebbe morta con il capo chino, con la
vergogna di
chi non ha saputo lottare. L'unica che rimpianse in quel momento fu
che,
inconsapevolmente, sapeva che non avrebbe incontrato Dio. Non avrebbe
potuto
sfogarsi, dirgli di com'era stato ingiusto con gli esorcisti, con
l'umanità
intera. Si sarebbe semplicemente annullata. Avrebbe smesso di esistere.
Negli
annali della storia sarebbe stata solo una delle tante macchie
d'inchiostro che
il Quattordicesimo aveva versato. Sarebbe stata
nulla più che un nome
scritto su un foglio qualunque. Quindi, a questo punto, avrebbe fatto
differenza se fosse morta lottando, in piedi, con lo sguardo fiero e la
croce
degli esorcisti che svettava sul petto? Sicuramente no...
Un
paio di stivali si fermarono a pochi
centimetri da lei. Li vide bene. Esitavano, come trattenuti da qualcosa
di più
potente. Per un attimo Lenalee provò l'impulso di alzare il
volto, cercare
quegli occhi non più grigi e trovare una scintilla del suo
Allen che la fissava
colma di tristezza. La ragione però le disse di star ferma,
di aspettare; non
doveva avere fretta di morire. Per sua sfortuna, se così la
si poteva chiamare,
l'impulso vinse sulla ragione e si costrinse ad alzare lo sguardo.
Percorse con
gli occhi gonfi di pianto ogni parte della figura che aveva davanti e
sobbalzò
alla vista del sangue nero che colava dalla gamba destra.
Una
goccia salata le si posò sulle labbra,
ma non era sua. Alzò gli occhi di scatto e quasi se ne
pentì quando si accorse
che quello che aveva dinnanzi era un semplice uomo, nulla di
più. Allen se ne
stava lì, di fronte a lei, con il sorriso di chi ha vinto
sulle labbra, e la
disperazione di chi ha perso la cosa che le era più cara
negli occhi dorati,
colmi di lacrime come quelli di colei che lo fissava.
Normalmente,
in una situazione come quella,
Lenalee si sarebbe coperta il volto con le mani, singhiozzato il suo
nome e si
sarebbe lasciata cullare dalle sue braccia che, ne aveva avuto prova
più volte,
non mancavano mai di avvolgerla stretta in quelle occasioni. Era sempre
stato
lì con lei, pronto a proteggerla e rassicurarla, a
difenderla dalle battute
acide di Lavi, ed ora il mondo pareva essersi ribaltato. Lui era
lì. Ma per
ucciderla, perché quel gesto avrebbe lacerato
definitivamente la sua anima. E
un'anima come la sua, che dalla vita aveva sempre ricevuto notevoli
colpi, non
avrebbe retto ad un ulteriore dolore, ad un ulteriore taglio profondo.
Non
avrebbe retto alla perdita di una persona a lui cara.
Era
dunque quello il destino di una persona
che aveva sempre dato tutto se' stesso per il prossimo?
(Che
mondo crudele.)
Poi,
mentre il vento aveva iniziato a
soffiare tra le chiome degli alberi e ad aumentare la forza della
pioggia,
Allen si mise in ginocchio davanti a Lenalee. Per un attimo un barlume
di
speranza la sfiorò, facendole credere che quella mano che
allungava verso di
lei fosse per aiutarla ad alzarsi, o stesse per asciugarle le lacrime e
dire di
non piangere, che non ce n'era bisogno, che se la sarebbero cavata come
sempre.
Quando, però, sentì quella mano stranamente calda
stringersi attorno al suo
collo, soffocò un singhiozzo e sentì un brivido
lungo la schiena. La ferita al
fianco iniziò a pulsare, più forte di prima. Le
gambe si mossero in uno spasmo
mentre le dita stringevano, bloccandole il respiro e le lacrime in
gola. Tutto
il suo corpo la stava spronando a difendersi, a lottare. Eppure lei
aveva
deciso di non pensare più, di abbandonarsi a quella
sensazione fredda che la
stava accogliendo, estranea e per nulla attesa. Chiedeva solo di poter
morire
prima di vedere ulteriori stragi compiute da lui.
Voleva troppo forse?
Quella
mano strinse ancora di più,
strappandole un gemito di dolore che non fece altro che far allargare,
maligno,
quel sorriso sulle labbra ora fredde del ragazzo. Lui si
alzò piano,
trascinandola con se'. Era diventato alto. I piedi non toccavano
più a terra.
Si sentiva sospesa come nel vuoto. Le braccia le caddero inermi lungo i
fianchi. Non avrebbe lottato, non poteva farlo.
Aveva
desiderato non guardarlo negli occhi,
perché sapeva che non avrebbe fatto altro che provocarle un
dolore immenso, ma
ora voleva morire in quella maniera. Voleva morire soffocata, mentre
sprofondava nel suo sguardo triste, nei suoi occhi gonfi di pianto.
Avrebbe
conservato quell'immagine inquietante di lui per sempre, anche se una
volta
smesso di respirare avrebbe smesso anche di esistere.
Cercò
di fissare gli occhi di lui,
muovendosi con le poche energie che le rimanevano. All'improvviso
quell'oro
acceso incontrò il suo sguardo e l'espressione di puro
orrore che vi lesse la
spiazzò. Allen non voleva ucciderla. Era costretto a farlo e
ad assistere,
perché il Quattordicesimo voleva ridere della sua disfatta,
voleva godersi il
momento in cui avrebbe dominato sul Distruttore del Tempo. Il momento
in cui
avrebbe disfatto anche l'ultimo nodo che lo teneva legato alla propria
coscienza.
Allen
volse altrove lo sguardo, nascondendo
gli occhi sotto la frangia ormai castana, ma le lacrime e il ghigno
mefistofelico in volto erano ancora visibili. Anche troppo. Voleva
sentirlo
parlare ora. Voleva auto infliggersi un'altra tortura.
“Allen-kun...”
Nel
sentire la sua stessa voce così debole,
così piena di dolore, si spaventò e smise di
piangere. Quante volte quelle
lacrime erano scese sulle sue gote senza alcun motivo? Ed ora, ora che
avevano
un motivo più che valido per tornare a bagnarle il viso,
erano scomparse. Forse
le aveva finite. Aveva pianto troppo in precedenza, ed ora non era
più in grado
di piangere.
“A...
Al...”
Accadde
tutto rapidamente. Sentì la presa
sul collo farsi più forte, il vento aumentare e vide il
ragazzo allontanarsi da
lei di scatto. Poi un dolore al capo e alla schiena la percorsero senza
alcun
preavviso, e nel momento in cui si sentì scivolare contro il
tronco di un
albero capì che non era stato lui ad allontanarsi, ma lei ad
esser scagliata
lontano con violenza. Cadde su un fianco e iniziò a sputare
sangue, una mano
sulla bocca e una sulla ferita al fianco.
Perché
non aveva stretto di più? Perché non
le aveva spezzato il collo e messo fine alle sue sofferenze? Era forse
questo
che voleva il Quattordicesimo, sentire l'animo di Allen sbriciolarsi
poco a
poco mentre la uccideva lentamente?
Un
piede le premette sul viso,
schiacciandola nel fango. Una mano la sollevò e
sentì un dolore forte allo
stomaco. Cadeva, eppure non toccava mai il suolo. Rimaneva sospesa a
mezz'aria,
colpita da quei pugni carichi d'odio e di pazzia, di tristezza e
d'orrore, e
non riusciva a cadere a terra. La pioggia le scorreva sul viso,
cancellando i
rivoli di sangue e colpendola con ferocia.
Perché
Allen non le parlava? Perché si
limitava a sorridere, piangere e colpirla? Le andava bene sentire anche
solo un
“muori” sussurrato a mezza voce, una risata che
probabilmente non era nemmeno
sua, ma voleva sentirlo.
La
colpì in pieno viso e la lasciò cadere.
Non atterrò sul terreno però, sotto di lei c'era
qualcosa di più morbido, per
quanto fosse rigido e freddo. Si scostò quel tanto che
bastava per guardare e
inorridì davanti a quegli occhi vacue e spenti.
Soffocò un urlò, si scostò di
fretta e si mise le mani sugli occhi. Non ancora. Non ancora,
ti prego...
Era
tutto un brutto incubo. Doveva essere
tutto un brutto incubo, perché se non era così...
“Mo...”,
sussurrò, mentre le parole le
uscivano a fatica dalle labbra serrate, “Mostro! Sei un
mostro!”
Non
guardò il volto di Allen. Sapeva che il
sorriso aleggiava ancora sulle sue labbra e che quegli occhi
compassionevoli
l'avrebbero tradita. Sapeva che Allen voleva essere ucciso, proprio
come lei ed
entrambi non avevano controllo del proprio corpo. Erano schiavi di
ciò che
avevano dentro di loro, e nulla li avrebbe smossi da quella situazione.
Il loro
destino era stato tessuto tempo addietro, ancora prima che si
conoscessero, e a
poco si sarebbe compiuto. Lei sarebbe morta, e per mano sua.
Non
era rimasto nessuno, solo loro due, del
gruppo di sei esorcisti che erano partiti verso quella missione non
troppo
complicata. Di tutti loro, ne sarebbe tornato solo uno alla Home, e si
sarebbe
recato là probabilmente per continuare la sua opera di
sterminio. Se solo fosse
riuscita a contattare suo fratello per avvisarlo, magari avrebbe
evitato
un'ulteriore strage.
“Perché...?”,
bisbigliò, stringendo le mani
al petto, “Perché fai tutto ciò?! Non
avevi rinnegato il Conte, non lo avevi
tradito?! Dovresti stare dalla nostra parte, maledizione!”
Il
ghignò sul volto angelico di Allen si
allargò, e nell'aria si diffuse il suono della sua risata.
“Io...” Un passo
verso di lei. “... non sto...” Ancora uno,
più pesante del precedente. “...
dalla parte...” Si chinò, afferrandole i capelli
con la mano destra. “... di
nessuno!” La sollevò, e la buttò a
terra, lasciandola cadere a pochi passi dal
corpo del compagno.
---
Lenalee
ricordava bene ogni momento della
sua vita – fatta eccezione del periodo precedente alla sua
entrata nell'Ordine
Oscuro. Ricordava i volti di tutte che persone che avevano varcato
quell'immenso portone, felici per ave raggiunto la loro meta e
spaventate per
quello che poteva accader loro da quel momento. Però,
ricordava anche tutti
coloro che erano usciti e mai più rientrati.
Ricordava
il volto di Kanda, il giorno in
cui lo incontrò. Lo aveva scambiato per una ragazza a causa
di quei capelli
così lunghi e quei tratti teneri da bambino, sebbene fosse
burbero sin
d'allora.
Ricordava
Lavi, a sedici anni, accanto al
vecchio panda che risaliva il torrente sotterraneo dell'Ordine su di
una barca.
Lo aveva salvato dalla furia omicida di Kanda e subito aveva capito che
quello
non era un ragazzo come gli altri. Era abituata ad esser circondata da
cose
“strane”, ma che un ragazzo dovesse non provare
sentimenti lo trovava contro
natura. Però non si era mai lamentata, ne' mai avrebbe
espresso ad alta voce
quel pensiero. Infondo aveva trovato sia il vecchio che il rosso ben
disposti
nei loro confronti. Non era il caso di stressarli con i suoi pensieri.
Ricordava,
quel giorno nella sala di
controllo, la scalata impossibile di Allen lungo la rupe della sede
dell'Ordine. Si era preoccupata – poteva benissimo essere un
akuma – ma dentro
di se' aveva anche riso. Kanda, ancora una volta, si era lanciato
all'attacco e
lei, come era sua consuetudine da anni, lo aveva fermato, impedendogli
di
uccidere il presunto compagno. Aveva accompagnato il nuovo arrivato per
la
sede, gli aveva mostrato ogni stanza – tranne quelle di suo
fratello. Alla
notizia che lui fosse un quindicenne si era rallegrata. Finalmente non
sarebbe
più stata la 'piccola e indifesa Lenalee'. C'era finalmente
qualcuno più
piccolo di lei. Avrebbe potuto essere una sorella per lui, in qualche
modo.
Aveva scoperto presto, però, che quell'espressione dolce sul
viso del ragazzo
nascondeva un carattere forte e fu in quel momento che capì
che non poteva
essere nulla di più che se' stessa con lui, che era ancora
lei la più piccola e
la più indifesa. Lui aveva degli ideali più forti
dei suoi per cui combattere.
E quella maledizione... era una cosa che, per quanto si fosse sforzata,
lei non
poteva comprendere.
Si
era affezionata subito a tutti loro.
Erano diventati pezzi nuovi per il suo puzzle e li aveva stretti al
petto,
terrorizzata al pensiero di perderli e gelosa che qualcun altro potesse
pretenderli.
Poi
era tutto cambiato.
Quell'amicizia
iniziale era scomparsa,
sostituita da un legame più forte. Per Lenalee quei ragazzi
non erano più
amici, compagni o semplici conoscenti: erano la sua famiglia.
Si
era promessa che avrebbe combattuto per
loro e per suo fratello ma più lei tentava e più
falliva.
Vedeva
tutti allontanarsi, creare una
voragine insuperabile fra loro e lei. Loro crescevano, cambiavano e si
evolvevano. Lei era bloccata. Bloccata, senza innocence e forza di
camminare.
Odiava quella situazione. Tutti si preoccupavano più del
solito e lei non
poteva fare nulla per rassicurarli oltre dire un semplice 'sto bene',
ma quella
debolezza non poteva nasconderla. Le gambe le tremavano di continuo e,
se si
sforzava di camminare, si stancava velocemente.
Lungo
tutta la strada attraverso l'Arca si
era sentita debole e spaventata. Voleva aiutare i compagni, la sua
famiglia, a
combattere. Voleva tornare indietro assieme ad Allen per salvare Kanda
e
Crowley. Voleva poter saltare da quelle macerie e afferrare Lavi e
Chaoji prima
che cadessero. Voleva poter aiutare Allen a cancellare il download o,
almeno,
non esser d'intralcio a Cross mentre rallentava il trasferimento
dell'uovo.
E
poi erano tornati a casa.
Aveva
sperato Lenalee. 'Tutto sarebbe
tornato come prima'.
E
invece l'Ordine, all'improvviso si era
ritrovato sotto attacco.
Era
successo tutto di mattina presto,
qualcuno ancora dormiva. I combattimenti si erano prolungati a lungo e
lei,
senza innocence, non aveva potuto far altro che stare ad aspettare
assieme a
Lavi e le infermiere che accudivano Crowley. Alla fine però,
aveva potuto
combattere. Aveva rischiato la sua vita pur di tornare sul campo di
battaglia.
Suo fratello era in pericolo. Allen era in pericolo. E anche tutto
l'Ordine.
Non poteva rimanere ferma ad aspettare in una stanza buia. Si era
precipitata
da Hebraska, accompagnata da Leverrier, e aveva recuperato l'innocence,
lottato
contro il livello quattro, assieme ad Allen.
E
l'home era cambiata. Si erano trasferiti
in un altro posto.
Aveva
dovuto abbandonare il luogo in cui
era cresciuta. Il luogo in cui aveva rincontrato suo fratello, dove
aveva
conosciuto i suoi amici, la sua famiglia. Il luogo in cui
però aveva perso
molte persone a lei importanti. Aveva pensato allora che si sarebbe
rifatta una
vita una volta arrivata all'home nuova. Avrebbe provato a ricominciare
da capo,
con i suoi amici ancora in vita, mettendo da parte, ma non
dimenticando, coloro
che erano morti.
Purtroppo,
però, qualcuno aveva stravolto i
suoi piani. Tutto era cominciato per il peggio. Allen era stato portato
via da
dei funzionari della Sede Centrale e, una volta tornato, era cambiato,
era
diverso. Lei aveva chiesto se stesse bene e lui aveva risposto di
sì, che non
aveva nulla. Aveva subito intuito che quelle sue parole erano false; le
aveva
dette solo per tranquillizzarla perché era sicuro che lei
non lo avrebbe
accettato o, nel peggiore dei casi, si sarebbe preoccupata fino
all'inverosimile. E Lenalee gli avrebbe creduto, come aveva sempre
fatto
d'altronde, se non fosse stato per quel sorriso tirato che aveva in
volto. Era
un ragazzo spontaneo, per lui mentire bene non era semplice e, quando
tentava
di farlo, ci riusciva con scarsi risultati. E, malgrado il suo
tentativo di non
dirle nulla, Lenalee era venuta a sapere cosa tanto lo preoccupava.
Lvellie
aveva svelato loro tutto il giorno dopo. Aveva radunato i Generali e
gli
esorcisti e, assieme a Komui, li aveva informati del fato del ragazzo e
del
fatto che, nonostante tutto, avrebbe continuato a svolgere i suoi
doveri da
esorcista.
E
Allen aveva chiesto di esser ucciso nel
caso il Quattordicesimo si fosse svegliato e attaccato l'Ordine.
Lenalee
avrebbe voluto urlare, picchiare i
pugni a terra, piangere e chiedere perché, però
rimase ferma dov'era, con gli
occhi spalancati e le braccia lungo i fianchi, incredula che parole
tanto amare
potessero uscire da una bocca tanto candida.
---
Non
aveva mai visto Allen giocare a carte e
la cosa non la entusiasmava poi molto. Non lo aveva mai visto barare
per
accaparrarsi soldi o, semplicemente, perché il suo ego non
avrebbe sopportato
una sconfitta. Però, in quel momento, Lenalee era sicura che
avrebbe preferito
vedere il suo “Lato Oscuro” - come lo aveva
chiamato Lavi – piuttosto che quel
ghigno sul suo volto.
Lo
vedeva davanti a sé, lo sguardo
indeciso.
“Sai”,
esordì la voce di Allen, con una nota
di disprezzo, “sono proprio indeciso in questo momento:
ucciderti qui e subito,
o divertirmi ancora un po' con te?”
Si
chinò verso di lei, la mantella
dell'Ordine volteggiante nell'aria gelida, e le prese il viso fra il
pollice e
l'indice, alzandolo e squadrandolo, quel ghigno ancora sulle labbra
candide. “Lui”,
ed indicò sé stesso, “ti ama
così tanto. Mi chiedo cosa diavolo abbia mai visto
in te.” E con uno strattone la fece cadere all'indietro,
inciampare nel corpo
del compagno ed abbandonarsi al suolo, le braccia aperte e le lacrime
lungo le
gote arrossate dal freddo.
Gli
occhi piangevano ancora. Era una cosa
così strana e straziante.
Voleva
essere ucciso. Lui voleva morire. E
insieme a lei, probabilmente.
Eppure,
quella volta nell'arca, superata la
porta della stanza in cui Jasdebi aveva teso loro un'imboscata, quella
volta
che lei, Lenalee, aveva pianto e scalciato per tornare indietro a
salvare
Crowley, lui non aveva desiderato la morte. Desiderava vivere,
più di ogni
altra cosa, e salvare i suoi compagni. Voleva tornare all'home assieme
a tutti
e festeggiare con Komui e gli altri.
« I'm not
giving up either.
I'm struggling and struggling to
protect everybody, no matter what. »
Però,
ora si era dato per vinto.
Possibile
che le parole di un solo uomo
possano cambiare così radicalmente un'esistenza?
Un
uomo morto, come se non bastasse.
(Loro
lo credevano morto.)
Allen
non era stato più sé stesso da quando
Cross gli aveva rivelato che Mana era il fratello del Quattordicesimo,
e lui ne
era l'ospite. Aveva mascherato quella tristezza, quel senso di
oppressione,
giorno dopo giorno con sorrisi che parevano veri e quella voce ferma e
sicura
che, in realtà, nell'animo era in bilico sulla punta di un
coltello.
“Allen-kun...”,
iniziò Lenalee, voltando la
testa verso gli alberi per non vedere ne il corpo del compagno ne gli
occhi di
Allen, “... lui, voleva vivere! Voleva distruggere il Conte
perché altra gente
non soffrisse come lui e Mana!”
Il
Quattordicesimo smise di ridere, e si
fece serio in volto.
---
Quando
Komui aveva aperto quella porta
aveva strillato e la torta al cioccolato gli era scivolata dalle mani.
Lenalee
era rimasta immobile, spaventata.
Allen, dal canto suo, aveva assunto in volto varie sfumature di rosso
che
crescevano d'intensità più il dito dell'uomo
davanti a loro lo indicava,
colpevole.
“Tu!”
Il
ragazzo aveva spalancato gli occhi.
“Io...?”
“Tu...
e la mia Lenalee!”
La
bocca dell'uomo, spalancata in un urlo
ormai sordo, aveva toccato terra e il dito che li puntava aveva
iniziato a
tremare.
“Voi
due...!”
Lenalee
a quel punto aveva urlato e
sbattuto il fratello fuori, chiudendo la porta. Si era vestita ed aveva
aiutato
Allen a fare lo stesso. Erano poi usciti, per trovarsi di fronte un
Supervisore
della Sezione Scientifica ancora sconvolto e pietrificato, la bocca
sempre
spalancata e il dito accusatore puntato verso il vuoto, tremante. Lo
avevano
aiutato ad alzarsi e ad andare nel suo ufficio con la promessa di
spiegare
tutto, ma l'uomo era rimasto ancora immobile con il volto contratto in
un urlo
silenzioso. Avevano deciso di ignorarlo ma, nell'istante in cui Lenalee
disse
“Andiamo, Allen-kun”, Komui era scattato verso la
sorella, bloccandola per un
braccio.
Non
l'aveva guardata in volto. Sembrava
imbarazzato.
“Lenalee,
perché mi fai questo?”, aveva
puntato il dito nuovamente verso Allen, con le lacrime agli occhi e il
naso che
gocciolava.
La
ragazza si era voltata e, dopo uno
sbuffo e un sussurro che solo il compagno accanto a lei aveva udito
– che palle
-, rispose al fratello. “Io non ti sto facendo nulla,
Nii-san. Sono libera di
stare con chi voglio, o sbaglio?”
Komui
era scoppiato in lacrime. Aveva
imprecato, scalciato, ma non aveva smosso la sorella dalla decisione
che aveva
preso.
Era
in quel momento che aveva iniziato a
pianificare la sua vendetta contro Allen Walker.
Lavi
non aveva resistito a lungo. Da mesi
si teneva quel segreto che non aveva avuto il coraggio di svelare
nemmeno al
suo vecchio Panda.
(Le
minacce di Lenalee lo spaventavano.)
Ormai
che Komui sapeva tutto, si era
lasciato andare, sbandierando ai quattro venti il fatto che avesse
visto Allen
e Lenalee assieme mesi addietro. Questo non aveva fatto altro che
aumentare la
rabbia omicida che cresceva nel Supervisore ogni giorno. Gli avevano
mentito e,
per giunta, per dei mesi interi.
Alcuni
ragazzi della scientifica avevano
appeso un calendario, vicino alle loro scrivanie, che segnava il conto
alla
rovescia della fine di Komui. Erano sicuri che, una volta che Lenalee
fosse
venuta a conoscenza del nuovo Komurin, non avrebbe risparmiato il
fratello.
Loro, però, erano stati costretti a tener chiusa la bocca.
(Le
minacce del Capo funzionavano sempre.)
E
Allen non era quasi mai in sede. Komui
continuava a spedirlo in diverse missioni, una dopo l'altra, senza
lasciargli
il tempo di poggiare la valigia da viaggio nell'atrio e dire
“sono tornato”. Ad
ogni sua partenza, stranamente, coincideva ogni
ritorno di Lenalee,
anche lei messa agli stremi.
Kanda
si era lamentato, e più di una volta.
Questo continuo spedire i due compagni in missione, e sempre separati,
non
lasciava molto lavoro ad altri esorcisti e lui iniziava ad annoiarsi,
anche con
la meditazione Zen.
Lavi,
invece, se la spassava, anche se
continuava a ricevere rimproveri dal vecchio Bookman.
Verso
la metà di Ottobre, era accaduto
l'inevitabile: Komurin, all'alba, aveva distrutto la camera di Allen
con il
ragazzo ancora all'interno. Il boato provocato aveva svegliato diversi
esorcisti e finders, e alcuni scienziati erano rinsaviti dal loro stato
di coma
apparente, scioccati.
Lavi
era stato il primo a raggiungere la
stanza ormai distrutta dell'amico. Aveva fatto in tempo a vederlo
fuggire,
ancora in pigiama, con al seguito il nuovo Komurin.
“Fermo,
Polipo!”, aveva urlato in
continuazione il Supervisore, lanciando diversi razzi verso Allen.
“Non
sono un polipoooo!”
Lavi
aveva tentato di fermare il robot, ma
non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Gli attacchi verso
il suo
Komurin avevano aumentato la rabbia di Komui.
“Vai,
Komurin! Uccidi il polipo!”
Allen
aveva saltato una ringhiera,
atterrando tranquillamente al piano sottostante. “Signor
Komui, la prego, mi
lasci spiegare!”, aveva urlato, fermo in mezzo al corridoio,
osservando l'uomo
in groppa alla gigantesca macchina che aveva costruito. “La
prego...”
Komui
aveva riso, maleficamente, abbassando
il capo. Quando l'aveva rialzato, Allen gli aveva letto in volto le sue
intenzioni: non lo avrebbe lasciato andare, non così
facilmente, almeno.
“Che
spiegazioni vuoi dare, eh?”, aveva
sibilato l'uomo, il volto che era il ritratto della pazzia,
“Chiunque osi
toccare la mia adorata Lenalee non merita un processo. Devi pagare per
ciò che
hai fatto.”
“Tecnicamente
io non l'ho solo...”
“Zittoooo!”,
il dito dell'uomo (ormai
totalmente fuori di senno) si era allungato ad una velocità
spaventosa verso un
grosso pulsante rosso, cosa che aveva provocato le urla di Reever.
“Stupido
Supervisore boccoloso, vuole
ucciderci tutti?!”
Komui
era scoppiato a ridere, mentre
osservava intento la luce che il robot emanava. “Se questa
è l'unica soluzione,
s..!” Non aveva fatto in tempo a finire la frase che Komurin
era esploso, e lui
si era sentito precipitare, sempre più veloce, verso il
pavimento mezzo
distrutto dell'ordine. Nella sua visuale erano entrati un paio di
stivali
rossi, aveva sentito un gran male alla testa e poi era diventato tutto
bianco.
Allen
si era svegliato nella sua stanza, la
testa dolorante ed una gamba fasciata. Si era guardato attorno confuso,
cercando di muovere il meno possibile il collo – anche quello
era fasciato.
Aveva alzato una mano e se l'era passata fra i capelli scompigliati,
con fare
assonnato.
“Cosa...?”
Aveva
sentito qualcosa muoversi alla sua
sinistra e subito aveva scorto, fra quelle lenzuola candide, la chioma
scura di
Lenalee. Aveva sorriso, l'espressione più calma e
rasserenata ora. Dormiva, il
capo fra le braccia appoggiate al bordo del suo letto.
“Lenalee...”
La
ragazza aveva un cerotto sulla mano
pallida, una benda su di un occhio e diversi taglietti in volto, ma a
lui
appariva sempre e comunque bellissima e insostituibile. Avrebbe dato la
sua
vita per potersi svegliare sempre col pensiero che lei stesse bene, per
poi
voltarsi e vederla dormire beata al suo fianco.
La
amava, e non poteva far nulla per
cambiare quel fatto.
Le
aveva baciato i capelli e si era alzato
piano, cercando di non svegliarla, andando dritto verso l'armadio per
cambiarsi. Era stato in quel momento che si era accorto del vassoio di
mitarashi dango sulla sua scrivania stracolma di fogli.
Lo
conosceva bene, lei.
Aveva
sorriso ancora, un sorriso dolce ed
indirizzato al caldo corpo che ancora dormiva poggiato al suo letto.
“Grazie,
Lenalee”, aveva sussurrato,
tornando da lei. L'aveva stretta in un debole abbraccio e l'aveva
sentita
gemere di dolore. Era ferita più gravemente di quanto
pensasse.
“Scusa.
Scusa perché non potrò proteggerti
per sempre, non da me, almeno.”
---
A
quel nome, il Quattordicesimo, non seppe
più cosa dire. Mana... lo ricordava, e bene. Sia per le sue
memorie che per
quelle di Allen. Entrambi i carichi d'emozioni che scaturivano
dall'udire quel
nome erano immensi e dolorosi. Allen aveva voglia di piangere,
picchiare i
pugni a terra e successivamente rialzarsi, esclamare di star bene ed
esser
convinto più che mai nel continuare la sua lotta contro il
Conte; il
Quattordicesimo provava rabbia, sete di vendetta.
“Mana
non è affar tuo”, esclamò la voce
aspra e rotta dai singhiozzi di un Allen che ancora pareva posseduto.
“Mana
è morto a causa mia...”
Che
voce strana, che tono piagnucoloso.
“Mio
fratello...”
Dalle
gote del ragazzo erano cadute altre
lacrime, che andarono immediatamente a mischiarsi con la pioggia.
“Ho
ucciso io mio padre, l'unica persona che
mi aveva accettato.”
Lenalee
aveva visto le ginocchia di Allen
tremare, minacciare di cedere, ma lui era rimasto fermo dov'era. Aveva
mantenuto la sua posizione di superiorità nei suoi confronti.
“Se
il Lord l'ha ucciso, è tutta colpa mia.”
Avrebbe
potuto alzarsi ed andare a
consolarlo, ma non lo fece. Allen l'avrebbe lasciata fare, si sarebbe
aggrappato
a lei o avrebbe cancellato le sue lacrime, fingendo di star bene; ma il
Quattordicesimo l'avrebbe quasi sicuramente uccisa per essersi
intromessa in
affari che non la riguardavano.
“Io
volevo bene a Mana, Lenalee. Nessuno
oltre a lui m'aveva mai accettato.”
E
Lenalee seppe che era Allen quello che
stava parlando in quel momento. La voce era la sua.
Le parole erano sue.
Il Quattordicesimo c'era, ma era Allen quello che stava parlando e
piangendo.
“Allen-kun...”,
allungò la mano verso di lui
e vide gli occhi colmi di lacrime spalancarsi, dilatarsi e spegnersi.
Se solo
ne avesse avuto le forze, si sarebbe alzata e lo avrebbe stretto
attorno al
collo, sussurrandogli che era tutto apposto, di non piangere, che
sarebbero
tornati a casa immediatamente ed avrebbero dimenticato tutte quelle
brutte
storie. Avrebbe appoggiato il capo sulla sua spalla ed avrebbe pianto
assieme a
lui, felice perché era tornato sé stesso e triste
per lui, per quello che aveva
sempre subito. “Allen-kun...”
“Lenalee...”,
Allen mosse un passo verso di
lei, la mano tesa come ad incontrare quella sporca di sangue e fango di
lei, e
si inginocchiò a terra con un gemito di dolore.
“Lenalee!”, prese la mano tesa
della ragazza fra le sue a la strinse, portandosela al petto ed
abbassando il
capo verso di lei. “Lenalee, io...”,
iniziò lui, gli occhi già lucidi e la voce
incrinata da quel muto pianto. Strinse più forte le mani al
petto e chiuse gli
occhi sperando che, una volta riaperti, tutto quello che era appena
accaduto
sarebbe scomparso, lasciando il posto a qualcosa di meno sgradevole e
doloroso.
“Allen-kun”,
lo chiamò Lenalee, alzandosi
appena per raggiungere la sua spalla e posarvi sopra il capo,
“Allen-kun, va
tutto bene.” Era lui. Era sicuramente tornato
in sé.
Il
ragazzo spalancò gli occhi, incredulo, e
strinse Lenalee forte, fra le sue braccia. “No che non va
tutto bene. Io...”
“Tu
non ne hai colpa, Allen-kun...”
Il
rumore della pioggia improvvisamente
sembrò farsi più forte. Il ticchettio delle gocce
che si infrangevano al suolo
era sempre più ritmato. Il vento si era calmato ma, fra un
singhiozzo e
l'altro, le foglie degli alberi non smettevano di muoversi.
Allen
non aveva la ben che minima idea di
come comportarsi.
Lui
aveva colpa, eccome. E lo sapeva.
“Lenalee...”
Sentì
il corpo della ragazza rilassarsi fra
le sue braccia e, solo qualche attimo dopo, si accorse che era svenuta.
Le
passò una mano fra i capelli bagnati e sporchi e attese.
Rimase
semplicemente in attesa che le
parole di scusa che voleva sussurrarle uscissero dalle sue labbra.
“...
da quando sono entrato nella tua vita
non ho fatto altro che causarti problemi. A te. A tutti.
Scusa.”
Spostò
il capo quel che bastava per vederla
in volto: sembrava stesse dormendo beatamente. Aveva tante –
troppe – ferite su
tutto il corpo. Ed era stato lui.
Lenalee
aveva detto che lui non ne aveva
colpa, ma aveva torto. Se non riusciva ad impedire che il
Quattordicesimo
prendesse il possesso di lui la colpa era sua, di nessun altro. Se
aveva fatto
tutto quello a Lenalee era colpa sua. Se, in uno di quegli attimi di
lucidità,
non era stato in grado di fermarsi dall'uccidere coloro che amava, la
colpa era
sua. Se l'unica cosa che era riuscito a fare era stato piangere, la
colpa era
sempre e solo sua.
Aveva
promesso ai suoi compagni che avrebbe
fermato lui stesso il Quattordicesimo, e non aveva mantenuto la
promessa. Il
Noah era lì, che ancora premeva per uscire, per terminare la
sua opera.
Afferrò
saldamente il proprio braccio
sinistro e levò il Crown Clown sopra di lui.
“Allen!”
Il
ragazzo si voltò spaventato, incontrando
gli occhi spaventati di un Lavi che reggeva Kanda per un braccio,
ancora
incosciente e sanguinante, però vivo.
“Lavi...
BaKanda”, sibilò, abbassando appena
il braccio.
“Non
farlo.”
Allen
sorrise, inclinando il capo di lato e
socchiudendo li occhi.
Schiuse
appena le labbra, quel tanto che
bastava a sussurrare.
“Saluta
tutti per me, Lavi.”
E
calò la spada.
|