We all fall down like toy soldiers.

di Alaska__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** OO ~ Sarebbero tutti caduti come soldatini. ***
Capitolo 2: *** O1 ~ La parola più difficile da dire è addio; parte 1 ***
Capitolo 3: *** O1 ~ La parola più difficile da dire è addio; parte 2 ***



Capitolo 1
*** OO ~ Sarebbero tutti caduti come soldatini. ***






OO ~ Sarebbero tutti caduti come soldatini

 
 
Seneca Crane indugiò dinnanzi alla massiccia porta che consentiva l’accesso alla sala degli Strateghi. Era corso lì di gran lena, quasi avesse premura di cominciare, ma improvvisamente sentì la sua iniziale sicurezza venire meno.
Era già da tempo che si preparava a quel giorno. Lo aspettava da mesi – ovvero da quando gli avevano affidato l’incarico di Primo Stratega. Aveva preparato tutto nei minimi dettagli, controllando e ricontrollando più volte che ogni cosa fosse perfetta, come ad un appuntamento galante con una donna. Aveva scelto il suo staff con cura, analizzando ogni persona e ogni loro più recondito particolare.
Ricordava l’eccitazione provata quando Snow gli aveva annunciato quale sarebbe stato il suo nuovo incarico. Era ciò a cui ambiva da anni, sin da quando era bambino e seguiva gli Hunger Games in televisione. Ammirava gli Strateghi e le loro idee innovative, ogni anno sempre diverse e sempre più interessanti. Certo, spesso non erano tutte bellissime, ma Seneca ammirava comunque coloro che si mettevano in gioco a quel modo.
Fare il Primo Stratega era pericoloso, questo Crane lo sapeva molto bene. Solo l’anno prima, il suo predecessore era scomparso in circostanze misteriose appena dopo la fine dei Giochi. I capitolini avevano creduto ad ogni parola uscita dalla bocca del presidente Snow, ma la realtà dei fatti era un’altra: il Primo Stratega della settantunesima edizione era stato giustiziato perché reo di aver permesso che il tributo del Distretto 6 – Titus – impazzisse e commettesse atti di cannibalismo ai danni degli altri tributi. Era stata, indubbiamente, un’edizione particolare, eccitante e – per certi versi – spaventosa, ma se Snow non apprezzava l’edizione, le conseguenze potevano essere devastanti.
Seneca sospirò, appoggiando una mano sulla maniglia. Cercò di ritrovare in sé tutta la voglia di lavorare che sentiva prima.
Ce l’avrebbe fatta. Ce la doveva fare.
Aprì la porta e fece il suo ingresso nella sala circolare. Gli Strateghi erano tutti seduti di fronte ai loro monitor personali, già accesi. Al centro della stanza era proiettata un’immagine dell’isola, l’Arena di quell’edizione.
Non appena Seneca mise piede nella sala, gli Strateghi si alzarono in piedi, in segno di rispettoso saluto. In quel momento, Crane sentì un’ondata di potere pervadere ogni singola cellula del suo essere e la sua eccitazione tornò a galla. Era lui il capo, lì. Erano tutti soldatini nelle sue mani.
«Seduti», ordinò, mentre scendeva le scale per avvicinarsi ai suoi collaboratori. Essi obbedirono, ricominciando a sistemare gli ultimi particolari.
«Come procede la situazione?», domandò il Primo Stratega, avvicinandosi ad una donna.
«I tributi sono nelle camere di lancio, signor Crane. Aspettavamo lei per cominciare», rispose quella. Seneca annuì.
«Che entrino nei tubi. Si comincia».
Nel mentre che la stratega annunciava ciò all’altoparlante, Seneca risalì le scale, per essere sopraelevato e osservare il lavoro di tutti. Inoltre, voleva dire alcune cose prima che i Giochi avessero inizio.
«Signori», disse a gran voce, e tutti si voltarono verso di lui. «Spero abbiate riposato, perché questi saranno dei giorni molto intensi». Rivolse la sua attenzione agli schermi posti sul muro, dove venivano proiettate le immagini dei ventiquattro tributi che salivano nell’Arena. Osservò i loro volti, Seneca, uno ad uno. C’era chi era sicuro di sé, chi un po’ meno, chi del tutto terrorizzato. Una cosa in comune, però, l’avevano: sarebbero tutti caduti, uno dopo l’altro, come dei soldatini. E  anche il vincitore non sarebbe mai stato libero, ma semplicemente un giocattolo in mano alla Capitale, per sempre.
«Prima di iniziare, volevo dirvi: buon lavoro», esclamò Seneca. «E che i settantaduesimi Hunger Games abbiano inizio».

***

« Step by step, heart to heart, left right left,
we all fall down like toy soldiers.
Bit by bit, torn apart, we never win
but the battle wages on for toy soldiers »

-Eminem; "Like toy soldiers"

 
Alaska's corner

Ho paura, sì. Comunque, buonasera. 
Me è Paola/Alaska/Nihal/chiamatemicomecavolovolete, la vostra Prima Stratega. Questa è la mia prima interattiva e sì, mi sto cagando addosso sono un po' agitata. Mi scuso se il capitolo è risultato noioso, purtroppo tendo ad essere troppo introspettiva a volte. 
Il titolo viene da una canzone di Eminem, come avrete intuito, ma non sto ad annoiarvi sul perché e sul come mai l'ho scelta. 
Vi mollo subito il regolamento e prima ci terrei a chiarire che questa storia non è stata scritta con lo scopo di avere più recensioni.


• Ognuno può prenotare solo un tributo. E vi sarei grata di non scrivere delle recensioni di due righe in cui prenotate e basta. Verranno prese in considerazione le recensioni degne di questo nome. 
• La scheda per i tributi mi deve essere mandata esclusivamente per MP. Non voglio ritrovarmi recensioni contenenti le schede: non le guardo perché significa che non avete letto questo regolamento. Sarò anche antipatica, ma se c’è un regolamento, esso va letto e rispettato. Vi verrà consegnata non appena prenoterete il vostro tributo. 
Vi pregherei di fare delle schede molto dettagliate, così da avere più informazioni e facilitarmi un po’ la scrittura, per non rendere OOC i vostri personaggi. Quindi, no schede da due righe. Devo sapere tante cose, perché loro saranno nelle mie mani.
Un’altra cosa: coerenza! I personaggi devono essere verosimili. Mi spiego: non potete crearmi un bimbo rachitico del Distretto 12 con la forza di Hercules. Al massimo dategli altre qualità, rendetelo furbo, agile.
 • Per quanto riguarda le coppie tra tributi, preferirei non ce ne fossero troppe perché io e il genere romantico non andiamo esattamente d’accordo.
 • Per quanto concerne le alleanze, dovrete mettervi d’accordo tra di voi. Ho già creato un gruppo facebook, in cui potrete conoscervi, così da contattarvi e mettervi d’accordo, ovviamente prima del capitolo sull’addestramento. Per aggiungervi, basta chiedere. Appena avrò ricevuto la vostra adesione, vi manderò il link.
Comunque, le vostre decisioni in merito alle alleanze, preferirei me le mandaste per MP qui o su faccialibro.  
 • I posti sono esauriti.
Le altre cose utili e inutili (?) ve le dirò man mano. Vi giuro che sono una brava persona, non sono cattiva come sembro! Forse un po’, visto che sono più antipatica di Catnippa.
A questo punto, felici Hunger Games e possa la buona sorte sempre essere a vostro favore.
La vostra Capo Stratega e i suoi assistenti Yasha, Dave e Lael ♥ (Ci dovrebbero essere anche Finnick e Connor, ma sono entrambi impegnati a fare i mentori, e Finnick si trastulla facendo la squillo e ammirando il sedere di PandaGale ♥ )


 

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Capitolo 2
*** O1 ~ La parola più difficile da dire è addio; parte 1 ***








O1 ~ La parola più difficile da dire è “addio” – parte 1


 

 
 I. Luxury
 
 Durante le Mietiture, al Distretto 1 risplendeva sempre il sole, quasi l’estrazione dei tributi fosse una festa. D’altronde, era il momento più atteso da tutti, quello. I giovani si preparavano per offrirsi volontari, i mentori erano pronti a far vincere i loro protetti – cosa che capitava spesso, in un Distretto Favorito come quello.
Cashmere accavallò le gambe, sistemandosi la gonna del suo nuovo vestitino che si era fatta recapitare personalmente da Capitol City. Lo aveva disegnato la sua ormai ex-stilista, che da sempre creava degli abiti meravigliosi per mettere in risalto le qualità della Vincitrice.
Sorrise, scrutando le facce quasi contente di tutti i ragazzi stipati sotto il palco. C’era stata anche lei lì sotto, nemmeno dieci prima. Comprendeva benissimo i sentimenti di quei giovani: lei aveva smaniato pur di offrirsi volontaria, come tutte le ragazze della prima fila, le quali apparivano pronte a scattare quando Lucille avrebbe fatto la fatidica domanda.
Suo fratello Gloss le posò una mano sulla coscia, avvicinando il volto al suo orecchio. «Ti diverti, sorellina?» chiese, alludendo al sorriso che ostentava la Vincitrice. Cashmere annuì, sistemandosi i riccioli biondi.
«Sono molto incuriosita, a dire il vero» rispose, attorcigliando una ciocca di capelli intorno al dito. «Voglio proprio vedere chi si offrirà volontario quest’anno».
Gloss rivolse uno sguardo carico di attesa agli aspiranti tributi, osservando attentamente chi era posizionato sotto il palco. Di solito, erano quelli delle prime file – ovvero i diciottenni e i diciassettenni – ad offrirsi volontari.
«Spero qualcuno di competente» ribatté l’uomo, inarcando un sopracciglio. «Non abbiamo avuto molta fortuna, in questi ultimi anni» fu il suo amaro commento. In effetti, dopo Cashmere non vi erano più stati vincitori, al Distretto 1. Al contrario, il Distretto 4 era riuscito a trionfare ben tre anni e questo era considerato una specie di vergogna. Erano orgogliosi, gli abitanti del primo Distretto.
«Forse è meglio concentrarsi sulla Mietitura» suggerì Cashmere, indicando Lucille, la quale aveva appena estratto il bigliettino riportante il nome del tributo femminile. Gloss si appoggiò allo schienale della sedia, non prima di rivolgere un sorrisetto alla sorellina.
Cashmere si concentrò sui movimenti di Lucille, che, nel frattempo, si era avvicinata al microfono con aria contenta.
«Un nome bello lungo» commentò, dopo aver dato un’occhiata all’identità del tributo. Si schiarì la voce, prima di leggere il nome: «Uriel Rhaenys Ingrid Elyse Lanair». L’escort alzò lo sguardo verso il pubblico, inarcando le sopracciglia come a voler chiedere conferma di aver letto correttamente.
Cashmere posò una mano sul braccio del fratello, lanciandogli uno sguardo interrogativo. Aveva già sentito parlare di una certa Lanair. A dire il vero, tutto il Distretto 1 conosceva lei e la sua tremenda storia.
La famiglia Lanair era una delle più ricche del Distretto, prima di venire praticamente sterminata. La causa del devasto era proprio lei: Uriel. Si diceva che avesse ammazzato le sue due sorelle e  suo fratello, nonché sua madre, morta nel darla alla luce. Suo padre l’aveva abbandonata nella loro villa, prima di compiere l’ultimo atto: il suicidio.
Cashmere ricordava vagamente la casa dei Lanair: un tempo doveva essere stata una splendida abitazione, ma gli anni e il fatto che fosse quasi disabitata l’avevano resa ormai decadente.
Uriel si avvicinò al palco a pugni stretti, con un’espressione arrabbiata in volto. Era di certo una ragazza che non passava inosservata – il che non aveva fatto altro che aumentare le dicerie sul suo conto. Già i suoi capelli erano strani: li portava lunghi solo dal lato sinistro, mentre quello destro presentava una corta peluria nera. E non era finita lì: se sul lato destro i capelli erano neri, su quello sinistro erano bianchi, candidi come la neve che cadeva ogni inverno al Distretto 1. Anche questa strana peculiarità aveva fatto sì che Uriel avesse un soprannome: Bianca. Era conosciuta da tutti così, un po’ per i suoi capelli, un po’ perché era considerata come l’Anticristo – il che si ricollegava ad alcune storie religiose, tramandate di generazione in generazione, secondo le quali era esistito, un tempo, un cavaliere, detto appunto Cavaliere Bianco e considerato da tutti come colui che si opponeva al Salvatore.
«Benvenuta, Uriel!» la accolse Lucille con il suo consueto sorriso, che la ragazza non ricambiò. «Vorrei solo chiederti se ho letto il tuo nome nella maniera giusta».
Uriel le lanciò uno sguardo arrabbiato e i suoi occhi grigi parvero trapassare la capitolina da parte a parte. «Non vuoi davvero conoscere il mio nome» rispose, lasciando Lucille di stucco.
«D’accordo… credo», l’escort scosse la testa, prima di rivolgersi nuovamente al pubblico. «Allora, c’è qualche volontario?»
Un grave silenzio cadde sulla piazza. Coloro che erano già pronti ad offrirsi volontari non alzarono la mano, osservando il palco con aria quasi strafottente. Gli uomini che avevano scommesso, come ogni anno, rimasero zitti, con i loro fogli in mano.
«Suppongo che non ci sia nessuno» commentò Lucille, abbassando notevolmente il tono di voce. «Quindi, credo sia ora di estrarre il nostro cavaliere, giusto?»
Andò verso la boccia contenente i nomi dei maschi, per tornare dopo pochi secondi. Aprì il foglietto quasi di fretta, prima di leggere il nome del maschio: «Edric Peasley!»
Il ragazzo appena estratto sembrava più normale, rispetto ad Uriel. I suoi corti capelli biondi parevano quasi rilucere sotto i raggi del sole, mentre si avviava al palco in modo composto e con un sorrisino stampato in volto. Appariva più bendisposto di Uriel, ma Cashmere vide qualcosa di ambiguo nel suo comportamento, forse nel sorriso, che era piuttosto tirato.
«Benvenuto, Edric!» lo salutò Lucille, posandogli una mano sulla spalla, non appena il ragazzo si posizionò accanto a lei.
«La ringrazio per il cortese benvenuto, Lucille» disse Edric.
«Abbiamo un vero cavaliere, qui!» esclamò la donna, sorridendo a trentadue denti. «E dunque vi chiedo: c’è qualche coraggioso ragazzo che vuole offrirsi vol-». Lucille fu bruscamente interrotta da Edric, che portò una mano dinnanzi al microfono, per non farla parlare. Un gruppo di ragazzi abbassò la mano, vedendo il cambiamento improvviso della Mietitura.
«Ringrazio tutti voi per la gentile offerta, ma nessuno si sacrificherà al mio posto, quest’anno» disse Edric, posizionandosi davanti al microfono. Lucille riprese il possesso dell’oggetto, spostando il ragazzo con una mano.
«Ti vedo ben deciso, Edric. Vuoi dire qualcosa al pubblico?» chiese l’escort. Il ragazzo scosse la testa con aria indifferente.
«Avrei molti argomenti da esporre a Capitol City, ma mi limiterò a dire che trovo ridicoli gli Hunger Games. Poteva fare di meglio, presidente Snow» esclamò Edric, con un mezzo sorriso sarcastico, sotto gli occhi attoniti di Lucille, la quale si sbrigò a porre fine a quella Mietitura. Nessun volontario per il Distretto 1 equivaleva ad una vera umiliazione.
«Signore e signori, i tributi del Distretto 1: Uriel Rhaenys Ingrid Elyse Lanair e Edric Peasley!»


 
 
Uriel
 
Uriel tamburellò nervosamente con le dita sul davanzale della finestra, che dava proprio sulla piazza del Distretto 1. Era un bel posto, quello: grande, circondato da palazzi molto eleganti e da botteghe dalle vetrine allettanti, che parevano proprio invitare i visitatori ad entrare. La diciottenne c’era stata poche volte, in vita sua – o almeno, negli ultimi sette anni, poiché vi era andata solamente per partecipare alle Mietiture.
Un sorrisetto sarcastico si formò sul suo volto, nel ripensare a pochi minuti prima.
Se lo aspettava. Sapeva che nessuno si sarebbe mai offerto per lei, la reietta del Distretto 1. Tutti la volevano vedere morta e Uriel era conscia di tutto ciò.
Anche in un Distretto come il primo, dove li addestravano anni per vincere gli Hunger Games, la giustizia era una cosa importante. Sembrava proprio che quel giorno, gli abitanti si fossero messi d’accordo per porre fine a tutta quella storia.
I Lanair erano ormai andati, morti, perduti. Tutti a parte una: Uriel Rhaenys Ingrid Elyse, la figlia più piccola, quella nata per errore – o per miracolo come sosteneva suo padre nei primi tempi. Tuttavia, anche lui aveva abbandonato il piccolo miracolo, svuotando la sua elegante villa di tutto: inservienti, animali, lui stesso.
Uriel osservò attentamente il suo riflesso nel vetro della finestra e toccò la parte destra del cranio, coperta da una peluria nera. La accarezzò piano, sentendo che i capelli iniziavano già a ricrescere. Una volta giunta a Capitol City, avrebbe dovuto farli tagliare. Non voleva che quella sua parte oscura la tormentasse ancora di più. Avrebbe dovuto sopprimerla per l’ennesima volta, lasciando lunghi solo i suoi capelli bianchi – la sua parte buona.
La porta che dava nella stanza si aprì in maniera quasi brusca, obbligando Uriel a voltarsi.
«Vieni» ordinò secco un Pacificatore, facendole cenno di uscire. La diciottenne si avviò verso il soldato, con un sospiro.
Nessuno era andato a trovarla.
 


 
Edric
 
Accarezzò la copertina di un libro quasi dolcemente, beandosi della sensazione donatagli da quel semplice tocco. Era una cosa che gli accadeva spesso, quando stringeva un libro tra le mani. Amava avere un volume con sé – fosse esso un grosso tomo o un libriccino di piccole dimensioni.
Edric – da tutti detto Ric – aveva provato una strana felicità, nell’entrare nella stanza designatagli al Palazzo di Giustizia. Tutte le pareti erano coperte da mobili alti fino al soffitto, colmi di libri. Curioso e desideroso di distrarsi, Ric ne aveva preso uno, dando una breve lettura alla prima pagina. Non era nulla di nuovo: il solito libro sulla creazione di gioielli. Il Distretto  1 era pieno di volumi del genere e – dopo gli anni passati a sentire quelle cose a scuola – Edric ne aveva fin sopra i capelli. Oltretutto, suo padre e suo fratello lavoravano in una ditta che si occupava della creazione di monili preziosi per Capitol City.
Il biondo si affrettò a rimettere il volume a posto, sentendo delle voci fuori dalla stanza. Fece appena in tempo, poiché la porta si spalancò subito e i suoi famigliari fecero il loro ingresso. In testa c’era David Peasley, suo padre. A vederli, nessuno avrebbe mai detto che fossero padre e figlio. Erano molto diversi fisicamente, loro due. David era moro e aveva profondi occhi scuri, mentre Ric aveva una folta capigliatura bionda e occhi verdi, leggermente a mandorla.
Nel vedere il figlio, David lo strinse a sé, senza dire neanche una parola. Edric ricambiò la stretta, cercando di non piangere – cosa che stava facendo invece suo padre, come vide dopo che il loro abbraccio fu sciolto.
«Mi dispiace tanto, Ric» mormorò l’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. «Fa’ di tutto per tornare. Non posso perdere anche te» continuò, e nell’ultima parte della frase la sua voce si abbassò notevolmente. Edric chinò il capo. Sua madre era morta ormai da tempo, ma il suo ricordo era vivo più che mai, all’interno della famiglia Peasley.
«Ci proverò, papà» promise il ragazzo, sforzandosi di mostrare un atteggiamento sicuro di sé.
David lasciò il posto a Edwyn, il fratello maggiore di Edric. Anche lui non assomigliava molto al tributo. Aveva fortuna, lui. Invece, Ric era stato appena scelto per partecipare agli Hunger Games. Ecco perché Edwyn era chiamato da tutti Win vincere.
Inaspettatamente, il ragazzo abbracciò Edric. Il biondo ne rimase piacevolmente sorpreso e strinse suo fratello con ancora più vigore. Edwyn era sempre stato un duro, uno che non abbracciava quasi mai i suoi famigliari. Nemmeno quando erano piccoli lo aveva mai stretto, a parte una volta: al funerale della madre.
Edric ricordava tutto di quel giorno, ogni particolare. Pioveva, o meglio, diluviava, e il ticchettio prodotto dalle gocce di pioggia che cadevano sul legno della bara era quasi fastidioso. Edwyn lo teneva per le spalle, mentre la cassa veniva calata nella terra. Abigail – la sua sorellina – era appena nata e sua madre era morta proprio nel darla alla luce. L’infante piangeva, stretta tra le braccia del padre. Anche Edric piangeva, proprio come lei, suo padre e suo fratello. La pioggia non aveva mai cessato per tutto il giorno, né per quello seguente. Aveva smesso di piovere solo una settimana dopo, quando suo padre aveva ricominciato – anche se forzatamente – a sorridere, contagiando Ric e Edwyn. Quello era stato anche il giorno in cui Abigail aveva fatto per la prima volta un verso simile ad una risatina.
Ricordava tutto, Edric. Ogni cosa.
Suo fratello sciolse l’abbraccio in silenzio, lasciando però le mani sulle spalle di Edric – proprio come durante il funerale. «Vinci, Ric. Sei un geniaccio, ce la puoi fare» sussurrò, avvicinando il volto a quello del fratello, prima di andarsene e lasciare che Abigail lo abbracciasse.
La piccola appariva molto confusa e si guardava in giro con aria disorientata.
«Che succede, Ric?» chiese, e la sua vocetta tremava per lo spavento. Edric le carezzò i capelli castani, dolcemente.
«Il tuo fratellone parte, Abigail. Partirò per un viaggio di molti giorni, ma tornerò» spiegò, abbassando sempre di più il tono di voce. «Tornerò» ripeté, come a volersi convincere di quell’eventualità.
«E me lo porti un regalino?» chiese la piccola, allargando le braccia. Edric rise, prendendola in braccio e roteando su se stesso. Abigail si divertiva sempre, quando faceva così.
«Ti porterò un meraviglioso dono» promise Edric, mettendola di nuovo a terra.
«Me lo prometti, Ric?»
Il ragazzo fece un respiro profondo. Non poteva promettere certe cose, ma guardando il volto di Abigail, decise che ne valeva la pena.
«Te lo prometto». Allungò il mignolo della mano destra, mostrandolo alla sorellina. La piccola ridacchiò, facendo lo stesso. Lo avvicinò al dito del fratello, stringendolo. Era un gesto che facevano sempre, quando Edric doveva prometterle qualcosa di importante.
Forse – pensò Ric, vedendo il sorriso di Abigail – ne valeva davvero la pena.



 
 
 
II. Masonry
 
Al suo fianco, Enobaria continuava a chiacchierare amabilmente con Brutus, sfoderando, di tanto in tanto, il suo spaventoso sorriso dai denti appuntiti. Era un anno importante per lei, quello: il decimo anniversario della sua vittoria. Lyme era sicura che la sua collega avrebbe fatto di tutto pur di vincere. Era dalla sessantaduesima edizione che un tributo del Distretto 2 non vinceva e i cittadini iniziavano a sentirsi poco appagati. Era ciò che ci si aspettava da un Distretto Favorito: vittorie costanti.
La bionda vincitrice dei sessantunesimi Hunger Games si sistemò meglio sulla sedia, slacciandosi il primo bottone della sua camicia bianca e facendosi aria con una mano. Faceva veramente caldo, quel giorno, nonostante l’aria di montagna mitigasse decisamente tutta quella calura.
«Io e Brutus stiamo scommettendo su chi si offrirà quest’anno». Enobaria aveva avvicinato il volto a quello di Lyme, sussurrando queste parole. La bionda sorrise, lanciando un’occhiata al pubblico.
«E dunque chi pensate saranno i nostri tributi?» chiese, allungandosi un po’ per guardare in faccia anche Brutus.
«Sicuramente non il figlio di Nick King» rispose Enobaria, indicando con il capo il vincitore dei quarantesimi Hunger Games. «Ma per come gli è andata l’ultima volta, direi che sarebbe meglio non mandare anche il suo secondogenito». Sorrise di nuovo, sfoderando i suoi denti chirurgicamente modificati a Capitol City. Quell’anno li avrebbe di sicuro messi in bella mostra.
Brutus aveva iniziato a sghignazzare e anche Lyme si costrinse a fare un sorrisetto. Si girò verso Nick, che stava chiacchierando con uno dei consiglieri distrettuali. Quell’uomo aveva costretto il proprio figlio ad offrirsi volontario, alcuni anni prima, ma questi era morto e nel momento in cui nessuno si aspettava l’omicidio di un Favorito: durante il Bagno di Sangue. Il ragazzo del Distretto 7 gli aveva mozzato la testa in meno di un minuto.
«Spero per lui che gli vada meglio con il secondo figlio» sospirò Lyme, tornando a rivolgersi ad Enobaria.
«Anche se perdesse, non mi dispiacerebbe» mormorò quest’ultima, prima di essere interrotta dalla voce di Zoe, l’accompagnatrice del Distretto 2.
«Questo è ormai il quinto anno che sono l’accompagnatrice di questo Distretto e sono fiera di dirvi quanti tributi valorosi ho incontrato, durante il mio lavoro. Certo, sono morti tutti, ma avevano coraggio da vendere, per questo sono fiera di lavorare al Distretto 2» disse la escort, gesticolando in maniera quasi compulsiva. Era un vizio di Zoe che Lyme non sopportava: muoveva sempre, ossessivamente, le mani, quando parlava. Inoltre, i suoi capelli erano legati in tante treccine nelle quali erano infilate delle campanelle, quindi, il suo arrivo era sempre annunciato da un fastidio scampanellio.
«Come sempre, prima le signore!» annunciò la capitolina, prima di pescare un foglietto. «Lauren Colfer!» chiamò.
Dalla fila delle diciassettenni uscì una ragazza, con un largo sorriso soddisfatto in volto. Tuttavia, esso si spense subito non appena arrivò al palco e vide una mano svettare verso l’alto, più veloce delle altre.
«Sembra proprio che abbiamo una volontaria! Vieni pure, tesoro». Dalla medesima fila si levò una ragazzina. A differenza di Lauren, quest’ultima era decisamente bassa e minuta. Aveva un viso piccolo, incorniciato da lunghi e lisci capelli biondi. Non era di certo il genere di volontaria che ci si aspettava, a giudicare dal suo aspetto fisico così fanciullesco.
«Come ti chiami?» domandò Zoe, porgendole il microfono.
«Petra Kill» rispose quest’ultima, e il suo tono di voce tradiva tutta la sua determinazione.
«Bene! Dopo la coraggiosa uscita di questa giovane, direi di procedere con l’estrazione del tributo maschio». L’accompagnatrice andò ad estrarre il nome del maschio, quasi cadendo a causa dei vertiginosi tacchi che indossava. «Edgar King!» chiamò.
Lyme si voltò subito verso Nick, il quale si era sporto leggermente in avanti per vedere l’arrivo del suo ultimogenito. L’uomo strinse le labbra e Lyme sapeva benissimo il perché: voleva che Edgar si offrisse volontario l’anno dopo.
Tuttavia, anche questa volta una mano svettò verso l’alto, indicando che un ragazzo voleva offrirsi volontario.
«Meraviglioso!» commentò Zoe, quasi sillabando la parola. «Un altro volontario! Vieni pure».
Mentre Edgar tornava al suo posto, un ragazzo si fece avanti. Era molto alto e ben piazzato. I suoi capelli rossi spiccavano in mezzo alla folla, grazie anche alla sua altezza. Un’altra cosa che colpiva molto era il tatuaggio che si intravedeva sulla sua mano: un orologio che segnava le otto in punto, dal quale si levavano delle fiamme che coprivano gran parte dell’avambraccio. Il tatuaggio doveva sicuramente continuare, ma il resto del disegno era coperto dalla manica della sua camicia.
«Il tuo nome?» chiese la capitolina, quando il giovane le si affiancò.
«War». Zoe gli lanciò uno sguardo piuttosto incuriosito. Scosse la testa e i campanellini tintinnarono.
«Non esiste nessuno con questo nome» rilevò, aggrottando la fronte. «Qual è il tuo nome?»
«War. Solo War» rispose il ragazzo, fulminando la capitolina con lo sguardo.
Lyme osservò la scena senza battere ciglio. Aveva già visto quel ragazzo all’Accademia, alcuni anni prima, ma era ormai tempo che non lo vedeva. Sapeva solo che era un tipo molto combattivo e spesso era al centro delle risse all’Accademia. Nessuno conosceva il suo vero nome: tutti lo chiamavano War. Giravano anche delle strane voci su di lui: si diceva che dovunque andasse portasse il caos, che dovunque passasse succedesse qualcosa di grave. Il suo passato era misterioso e nessuno lo conosceva. Tutti gli abitanti più ribelli, però, lo prendevano come un modello di riferimento da cui prendere esempio. Girava anche la voce che avesse combinato un disastro con una dinamite.
La voce di Zoe riscosse la Vincitrice dai suoi pensieri.
«Un bell’applauso per i coraggiosi volontari del Distretto 2: Petra Kill e… War» esclamò, indugiando sul nome del ragazzo.
 


 
Petra
 
Petra giocherellò distrattamente con una ciocca di capelli, intrecciandola e poi sciogliendola.
Le sue labbra si incurvarono in un sorrisino compiaciuto.
Ce l’aveva fatta. Si era offerta volontaria dopo tanto tempo che aspettava.
Erano anni che si allenava per questo – anche se non seriamente, visto che i primi anni di Accademia li aveva passati senza impegnarsi granché. Era stato l’incontro con Reace a cambiarla. Lui era un buon combattente e l’amore che Petra aveva provato nei suoi confronti aveva fatto sì che anche lei volesse essere così. Tuttavia, Reace non era più con lei: se n’era andato al Distretto 8, inseguendo il suo sogno di diventare un Pacificatore.
Petra strinse i pugni, ricordando il dolore provato quando lui le aveva annunciato la nefasta notizia. Era stato quello l’episodio scatenante della sua voglia di partecipare agli Hunger Games: voleva dimostrare a Reace che anche lei poteva far male alle persone, proprio come lui ne aveva fatto a lei.
Sospirò. Meglio non pensare a tutto ciò. I suoi famigliari sarebbero entrati da un momento all’altro e lei voleva mostrarsi contenta e felice. Era anche per loro che si era offerta volontaria: voleva renderli fieri di lei, per ringraziarli di averla accudita per anni come una figlia.
Petra non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Era stata per anni con sua madre, ma lei era morta durante gli Hunger Games, diversi anni prima. Le aveva lasciato solo la sua sorellina, Makaira. Entrambe erano state adottato dallo zio Bloodbath, che le aveva accudite per anni come due figlie – facendo anche loro credere di esserlo. La bionda provava ancora del risentimento poiché suo zio non le aveva mai rivelato la verità, ma gli voleva ancora bene come prima – forse anche di più, visto che era appena un adolescente quando aveva deciso di prenderle con sé.
Entrarono tutti dopo qualche secondo. La famiglia era al gran completo: c’erano i suoi zii – Bloodbath e Skyler – sua sorella Makaira e i suoi cugini Telos, Aiskune, Milites e Feast – quest’ultima aveva appena due anni e portava il nome della madre di Petra. Una caratteristica comune a tutti i membri della famiglia erano i nomi piuttosto sfortunati. Sembrava quasi un’usanza macabra, ma tutti venivano chiamati in un modo che richiamasse la morte. Il nome di Petra, ad esempio, significava morte da una pietra. Ecco perché la ragazza non amava come venivano chiamati i membri della sua famiglia: sembravano quasi un cattivo presagio.
I suoi famigliari parevano tutti molto contenti e fieri di lei. Suo zio continuava a sorridere e fu il primo ad abbracciarla.
«Complimenti, siamo fieri di te!» si congratulò, dandole una poderosa pacca sulla schiena. Skyler fu decisamente più delicata, ma la sua felicità e la soddisfazione erano evidenti. Petra sentì il cuore gonfiarsi dalla gioia: era quello che voleva, rendere fieri i suoi zii. Era anche un modo per ringraziarli e vederli così contenti non poteva che renderla felice.
L’abbraccio con sua sorella Makaira fu molto dolce e tenero. La ragazza era evidentemente commossa, ma felice. Petra le sorrise, un po’ malinconica. Era l’unica sorella che aveva, anche se il padre – con ogni probabilità – non era nemmeno lo stesso. Nonostante la ragazza preferisse sfogarsi con Telos – suo cugino undicenne – il rapporto con Makaira restava sempre speciale.
Telos le saltò praticamente addosso, stringendola a sé mentre rideva. «Le hai fregate tutte!» esclamò, alludendo al fatto che la mano di Petra era stata la prima a svettare verso l’alto, di modo che fosse scelta come volontaria.
«Visto?» La ragazza gli scompigliò i capelli chiari, facendogli l’occhiolino. Telos ridacchiò, dandole una spintarella.
«Adesso vedi di vincere, però» si raccomandò, prima che sua sorella Aiskune lo spingesse da parte per salutare Petra. La piccola la abbracciò in silenzio, ma con il sorriso sulle labbra. Milites sembrava più spaventato, ma anche lui era comunque contagiato dalla gioia dei genitori e i fratelli. Era ancora piccolo e non capiva bene cosa stesse facendo sua cugina – o, come lui credeva, sua sorella.
«Cosa vai a fare, Petra?» chiese infatti, guardandosi intorno con aria stranita.
«Vado via per qualche settimana» rispose la bionda, carezzandogli una guancia.
«A fare che?»
«A… giocare». Non sapeva come spiegargli la questione degli Hunger Games: Milites era piccolo e si sarebbe spaventato.
«Divertiti anche per me, allora!» esclamò il bambino. Petra rise, beandosi dell’ingenuità del suo cuginetto.
Infine, andò a salutare Feast, la più piccola di casa, di appena due anni. Nel vederla, sentì la malinconia prendere possesso del suo animo: quella piccina aveva lo stesso nome di sua madre, che lei non aveva fatto in tempo a conoscere.
Non appena Petra entrò nel suo campo visivo, la bambina allungò le manine verso di lei e Skyler – che la teneva in braccio, cullandola dolcemente – gliela porse tra le braccia. Petra la cullò per qualche secondo, sorridendole.
«Ciao, Feast» la salutò poi, posandole un bacio in fronte. «Ci vediamo presto».
La sua famiglia uscì in un coro di saluti, lasciando entrare Emelìne, la sua migliore amica. Fisicamente erano entrambe molto simili, ma le somiglianze si fermavano qui. Emelìne aveva i capelli acconciati in una cascata di rasta e il suo stile era – come lo definiva lei – hippie. Vederla la prima volta poteva dare l’impressione sbagliata, in quanto Emelìne appariva piuttosto strana, ma Petra sapeva che poteva fidarsi di lei. Le era stata accanto praticamente tutta la vita.
Non appena mise piede nella stanza, la strinse forte, senza dire una parola. Dopodiché, sciolse l’abbraccio e le porse un bigliettino.
«Cos’è?» domandò il tributo, inarcando un sopracciglio. Emelìne fece spallucce.
«Potresti aprirlo, così lo scopri» suggerì, con aria ironica. Petra scosse la testa in un atteggiamento di finta indignazione, per poi aprire il bigliettino – perfettamente piegato a metà. Non vi era disegnato nulla, ma in mezzo spiccava la scritta colorata buona fortuna, sicuramente fatta da Emelìne, considerando quanto strana fosse la calligrafia. Tutt’intorno vi erano le firme delle loro amiche.
Petra rimase in silenzio per qualche secondo, osservando, con aria commossa, quel piccolo pensiero. Non era molto, ma la faceva sentire bene, in forza, in pace con se stessa. Con l’appoggio delle sue amiche e della sua famiglia, tutto sembrava più facile, persino vincere gli Hunger Games.
«Adesso non piangere, però». Emelìne l’abbracciò una seconda volta, dandole anche un piccolo bacio sulla guancia. «Fa’ la brava, nell’Arena» sussurrò, prima di sciogliere l’abbraccio e posarle le mani sulle spalle. «Intesi?»
Petra fece una risatina. «Intesi. Fa’ la brava anche tu. E salutami tutte».
E in quel momento, tutto le parve meravigliosamente bello. Aveva il supporto di tutti coloro a cui voleva bene: nulla sarebbe potuto andare storto.


 
 
 
Warner
 
Warner Krig Razlad – o meglio War – stava in piedi al centro della stanza, con le braccia incrociate al petto. Non aspettava nessuno perché sapeva che nessuna persona aveva il desiderio di vederlo. Lui era War, colui che portava scompiglio dovunque si recasse e non di certo una persona piacevole da avere accanto.
L’unica che sarebbe potuta andare a trovarlo era Rosary.
War scosse la testa, cercando di allontanare quel pensiero. Non nutriva alcun desiderio di vederla. Era stata lei a farlo finire nella fauci del Drago – una setta di cui, per qualche tempo, era stato adepto.
Tuttavia, era stata sempre la stessa Rosary ad accoglierlo quando Soleil – la donna con la quale lui aveva vissuto per anni – non lo voleva. Era stata Rosary a trattarlo, finalmente, come un figlio, come una creatura da accudire. Lei aveva sognato per lui un futuro più roseo, al contrario di Soleil.
War sapeva, in cuor suo, che Rosary gli voleva bene. Era forse una delle poche persone a cui lui piacesse veramente. Nella sua vita, lei gli aveva fatto tanto bene quanto male. Nonostante non fossero parenti, lei lo aveva accolto, nutrito, cresciuto. Tutto finché suo marito non era morto. Era stato allora che era nata la nuova Rosary, una donna logorata dal desiderio di vendetta e dalla rabbia – un po’ come lui, in fondo. La rabbia era ormai la sua migliore amica.
Fu infatti la donna che andò a trovare Warner. Entrò nella stanza, sempre stringendo la sua amata Bibbia al petto. Era un antico tomo religioso che lei si portava sempre appresso, specialmente dopo la morte di suoi marito – avvenuta a causa di un gruppo di ribelli. Aveva subito un grave periodo di traviamento, dopo quell’orribile evento, tanto da entrare nella setta del Drago dell’Apocalisse, nella quale aveva trascinato anche War.
Lui non avrebbe mai voluto farne parte. Ecco perché non nutriva un gran desiderio di vedere Rosary: era anche colpa sua se si era offerto volontario. Se non lo avesse fatto, lo avrebbero di sicuro giustiziato per l’assassinio del sindaco del Distretto 2, avvenuto poco tempo prima.
Rosary lo abbracciò e, anche se freddamente, Warner ricambiò, posandole le mani sui fianchi.
«Andrà tutto bene» sussurrò la donna, posandogli una mano su una guancia.
«Ci saranno tanti altri ragazzi allenati quanto me» ribatté War, indietreggiando di poco. Rosary rimase ferma a guardarlo, prima di aprire il suo libro in un punto che sembrava già segnato.
«Potrebbero esserci delle persone importanti» sussurrò, tanto che Warner temette di aver capito male. Persone importanti? A chi si riferiva precisamente? Lui di persone importanti non ne aveva mai incontrate e, di sicuro, nell’Arena non avrebbe trovato degli amici.
«Persone imp-»
«Ci sarà gente di cui potrai fidarti» lo interruppe Rosary, con gli occhi puntati sul suo libro. Leggeva a bassa voce, in un mormorio sommesso. War si avvicinò di qualche passo, cercando di capire cosa stesse dicendo.
«Fidarmi?» domandò retorico, aggrottando la fronte in un’espressione confusa. Rosary smise di leggere e alzò il capo, fissandolo negli occhi. Sembrava quasi spiritata, in quel momento, con gli occhi sgranati e l’aria sognante, come se avesse appena avuto una visione.
«Ascoltami attentamente» ordinò Rosary, alzando il dito indice della mano destra con aria solenne. War stette in silenzio, per la prima volta attento a ciò che diceva la donna. Di solito, non ascoltava mai mentre Rosary leggeva: non capiva molto ciò che era scritto nella Bibbia. Era complicato e – per certi versi – strano, ma la donna era quasi innamorata di ogni frase, ogni lettera presente in quel volume.
«Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: “Vieni”. Allora uscì un secondo cavallo, rosso fuoco» fece una pausa, alzando per un istante il volto dalle pagine del libro, per guardare War negli occhi. Quasi senza pensarci, il ragazzo portò una mano ai suoi capelli rosso fuoco. Rosary tornò a rivolgere la sua attenzione alla Bibbia, con aria quasi famelica. «A colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada».
Questa volta, la mano di War corse alla sua gamba, per toccare la spada. Era sua, la sua inseparabile compagna. L’aveva nascosta sotto i pantaloni lunghi, di modo che nessuno – in particolare i Pacificatori – la notasse. Non gli avrebbero nemmeno permesso di avvicinarsi al palco, spaventati che avrebbe potuto ammazzare qualcuno.
Aveva anche un nome, quella spada: Chaosworth. L’aveva trovata nella stanza di Devin, il marito di Rosary e suo padre adottivo per qualche tempo. Era ormai un’amica, per lui. Combattere con quell’arma era quasi un’azione abituale. Era parte di lui, quando lottava con Chaosworth si sentiva imbattibile.
Lanciò un’occhiata a Rosary, piuttosto sorpreso da ciò che la donna aveva appena letto. Quel pezzo della Bibbia sembrava parlare di lui. Il rosso erano i suoi capelli, la spada era Chaosworth. E anche l’altra frase – il potere di togliere la pace dalla terra – sembrava parlare esattamente di lui. Era un riassunto della sua vita, quello: dovunque andasse, la pace spariva.
«Che altro dice?» domandò, indicando il libro con un cenno del capo. Si era improvvisamente incuriosito, riguardo a quella storia. Voleva saperne di più, conoscere più a fondo la storia del Cavaliere e, soprattutto, sapere chi fossero quei fantomatici alleati a cui Rosary alludeva poco prima.
«Il Cavaliere Rosso aveva anche degli alleati» mormorò la donna, chiudendo di botto il libro.
«E chi erano?»
La loro conversazione fu interrotta da un Pacificatore che spalancò la porta bruscamente. «Tempo» annunciò, con tono quasi seccato.
Rosary guardò per un’ultima volta Warner, allungandosi per stringergli la mano. Poi uscì, lasciando il ragazzo con mille dubbi.


 

 
III. Technology
 
Beetee si sistemò nervosamente gli occhiali dalla grossa montatura, che poco prima erano scivolati lungo il suo naso. Nel compiere quel semplice gesto gli tremavano le mani – indice dell’ansia che da quella mattina non lo aveva lasciato in pace. Era sempre così, durante le Mietiture. Essere mentore non aveva di certo semplificato le cose. Pareva quasi che l’agitazione provata da tutta la folla di ragazzini si trasmettesse in mille altre direzioni, colpendo anche chi non c’entrava direttamente con l’estrazione dei tributi.
L’uomo si passò una mano sul mento, carezzando la sua corta barba nera. Osservò attentamente i ragazzi stipati sotto il palco. I loro volti erano simili nella loro diversità. Poteva essere un’affermazione molto stramba, ma Beetee, in tanti volti dai diversi lineamenti, vedeva sostanzialmente le stesse cose: paura, ansia, turbamento. I volti dei ragazzi della prima fila apparivano leggermente più speranzosi, considerato che quella era la loro ultima Mietitura. Se solo Janis non avesse estratto il loro nome, loro sarebbero stati liberi. Liberi di vivere in pace, senza paura. Beetee inarcò un sopracciglio. Senza paura? Di sicuro no: quella li avrebbe sempre perseguitati per anni e anni, quando anche i loro figli sarebbero stati estraibili.
Con un sospiro, il Vincitore si voltò verso Wiress, che sedeva alla sua destra  con aria composta. La donna fissava Janis, che continuava a saltellare da una parte all’altra del palco, eccitata dall’imminente estrazione.
Beetee rivolse nuovamente la sua attenzione alla capitolina. Nonostante tutto, Janis non era una cattiva donna. Era solo la sua educazione a renderla così strana.
«Scopriamo subito chi sarà il nostro tributo femmina!» trillò l’escort, stringendo tra le mani un foglietto di carta, pescato poco prima dall’ampolla posta alla destra del palco. Era piegato in due, così la donna dovette aprirlo – e lo fece con una lentezza esasperante.
«Storm Harper!» esclamò tutta gioiosa, levando il capo e osservando con un sorriso a trentadue denti le ragazzine. Non che Janis sorridesse poco: un esperimento chirurgico effettuato alcuni anni prima aveva fatto sì che le sue labbra fossero sempre rivolte all’insù, in un perenne sorriso.
Nel frattempo, dalla fila delle sedicenni uscì una ragazzina, dai lunghi e ondulati capelli corvini. Era minuta, tanto che Beetee ebbe l’impressione che potesse cadere, nel camminare verso il palco. Oltretutto, il cognome Harper gli era familiare. Rifletté per un istante, mentre Storm si avvicinava alla scaletta.
Harper.
Deena Harper. Il nome si formò nella mente del Vincitore proprio nel momento in cui Storm giunse accanto a Janis, sorridendo al pubblico. Non era un vero sorriso, quello. Appariva più un ghigno cattivo, come se la ragazzina nascondesse qualcosa.
Beetee ricordò. Gli Harper erano stati oggetti delle chiacchiere del Distretto 3 per parecchio tempo, alcuni anni prima. Si diceva che Deena Harper, la madre, avesse tentato di uccidere la figlioletta, il cui nome era Storm, come la ragazzina che era stata appena estratta. Di Deena Harper non si parlava più da un po’. Dopo quell’episodio, era fuggita e si erano perse le sue tracce. Aveva lasciato soli una figlia, un figlio e il marito.
«E ora, il tributo maschio!» annunciò Janis, risvegliando Beetee. L’uomo si sistemò gli occhiali per la seconda volta, mentre l’escort annunciava il nome del tributo. «Raiden Gordon» chiamò, e da una delle prime file – quella dei diciassettenni – si staccò un ragazzo dai corti capelli rossi. Raiden camminava a testa alta, senza degnare di uno sguardo i suoi compagni. Beetee credeva di non averlo mai visto in giro, ma rimase colpito dalla noncuranza con cui si avvicinò al palco, quasi non volesse dare la soddisfazione a qualcuno di vederlo triste.
«I tributi del Distretto 3!» esclamò Janis, battendo le mani, dopo che Raiden le si posizionò a fianco. «Fate un bell’applauso per Storm Harper e Raiden Gordon!»


 
 
Storm
 
La sedicenne si sedette sulla poltroncina, accarezzando il pregiato tessuto che la ricopriva. Storm provò a indovinare cosa fosse. Velluto? Seta? Cotone? Non se ne intendeva di tessuti – del resto, veniva dal Distretto 3. Qualunque cosa era però meglio che pensare a cosa era appena accaduto.
Il suo nome.
Janis aveva chiamato lei.
Portò una mano al volto, tirando indietro i lunghi capelli neri che le erano finiti davanti agli occhi. Abbassò lo sguardo, fissando con insistenza le sue scarpe, delle ballerine nere – un piccolo regalo di suo fratello Devon.
Pensare a suo fratello le fece sentire una fitta al cuore. A suo padre non importava nulla di lei, non più, dopo che sua madre se n’era andata e lui aveva scaricato la colpa di tutto ciò sulla figlia minore. Ma Devon era diverso. Lui teneva a Storm, l’aveva praticamente cresciuta e, persino in quei mesi in cui si era dovuto occupare della moglie incinta, non aveva smesso un attimo di curarla – anche se con meno frequenza rispetto ai mesi precedenti.
Doveva essere disperato – si disse Storm – e vederlo entrare nella stanza non fece che alimentare le sue supposizioni. Nessuno si sarebbe mai aspettato che un ragazzo grande e grosso come Devon Harper potesse piangere, eppure le lacrime rigavano il suo volto, scendendo copiose.
Storm si alzò dalla comoda poltrona, andandogli incontro. Gli cinse la vita con le braccia e lui ricambiò la stretta, carezzando i capelli della sorella – corvini come i suoi. Storm si sentì protetta tra quelle braccia forti. Ormai era Devon suo padre, non più Deniel Harper.
I due fratelli sciolsero l’abbraccio, in religioso silenzio, così che Storm poté rivolgere la sua attenzione a Denise, la moglie di Devon. Il pancione spuntava da sotto la sua maglietta a righe, facendo intendere che la donna doveva partorire di lì a pochi mesi.
«Mi dispiace» mormorò Denise, abbracciando Storm. Anche lei piangeva, ma rispetto al marito appariva più composta e la sua voce tremava appena. Storm annuì semplicemente, senza sapere cos’altro dire. Prese per mano suo fratello, sorridendogli. Devon ricambiò, anche se in modo stentato.
«Devi tornare» sussurrò.
«Ci proverò».
«No. Devi. Io e Denise vogliamo farti conoscere la tua nipotina». Devon lanciò un’occhiata intenerita a Denise, che carezzò delicatamente il suo pancione. Storm posò una mano sul ventre della donna e sentì un movimento all’interno.
«Scalcia» spiegò Denise. «Sente che la sua zietta la sta ascoltando».
«Volevamo chiamarla come te» si intromise Devon, cingendo il fianco della moglie con un braccio, ma senza staccare la sua mano da quella della sorella. «Vogliamo chiamarla come te. L’idea era di tenertelo nascosto fino al parto, ma…» si interruppe, senza riuscire più a continuare.
Storm si sentì improvvisamente felice, come non le succedeva da anni. Era una delle cose più belle che le avessero mai detto e sentì una strana determinazione pervaderle il corpo. Doveva tornare. Per sua nipote. Per Storm Harper, la bambina con il suo stesso nome.
«Grazie» sussurrò, prima che un Pacificatore condusse Devon e Denise fuori dalla stanza.
Storm rimase sola, sicura che nessun’altro sarebbe entrato. Invece, la porta si aprì, consentendo l’accesso a suo padre, Deniel Harper. L’uomo entrò insicuro, guardandosi intorno con nervosismo, con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni. Dopodiché, sembrò accorgersi della figlia e rimase a fissarla.
Storm si chiese cosa fosse venuto a fare lì. Aveva passato anni ignorandola, lasciandola da sola, alle cure di suo fratello più grande. E ora era in quella stanza, con l’aria di un cane bastonato. Non riuscì a provare rancore nei suoi confronti, Storm. Era semplicemente un uomo distrutto dalla depressione della moglie, caduta in quel terribile vortice di disperazione proprio appena dopo la nascita della figlia più piccola.
«Scusa» esordì l’uomo, prima di andarle incontro e stringerla in un abbraccio forte. Non parlarono, durante quell’incontro. Tre minuti non sarebbero bastati a raccontare gli avvenimenti e i sentimenti di una vita intera.
E a Storm andava bene così perché finalmente aveva un altro motivo per tornare a casa.


 
 
 
Raiden
 
Fuori dalla stanza poteva ancora udire la voce eccitata di Janis, che continuava a ciarlare di come fosse andata quella Mietitura.
«Hai visto con che ardore sono saliti sul palco i nostri tributi? Mi sembrano agguerriti!» esclamò, parlando forse con il sindaco o qualche suo amico capitolino.
Raiden scosse il capo, cercando di non pensare a quanto disgustosi fossero gli abitanti di Capitol City. Agguerriti? Ma dove li aveva visti agguerriti? Certo, lui era salito sul palco con fare molto deciso, ma la realtà era un'altra. Lui era spaventato a morte e sapeva che nemmeno la sua intelligenza lo avrebbe aiutato tanto a fargli passare quella sensazione.
Decise di ingannare il tempo pensando a qualcosa che non fosse l’imminente arrivo dei suoi genitori. Provò a immaginare come dovesse essere l’Arena di quell’anno. Una landa ghiacciata? Un’isolotto senza nulla nel mare aperto? Sperava che non fosse nulla di troppo malvagio. Ricordava che, qualche anno prima, i tributi erano stati costretti a combattersi l’un l’altro in una landa desolata, piena di scorpioni e altri ibridi poco simpatici.
Raiden aveva passato anni progettando arene. Casa sua era piena di modellini plastici che rappresentavano ogni volta un luogo diverso. Per ogni tipologia, poi, aveva stilato anche una possibile strategia.
Arena boscosa significava nascondigli dietro gli alberi o tra i cespugli, quindi maggiore probabilità di sopravvivenza.
Arena acquatica significava sei fregato, Raiden. Lui, infatti, non sapeva nuotare. Nessuno sapeva fare ciò, al Distretto 3. Non c’erano laghi. In generale, non c’era natura, solo fabbriche.
Arena innevata significava possibile morte a causa del freddo. Raiden era già abituato alle temperature non troppo elevate. Gli inverni al Distretto 3 erano abbastanza freddi, quindi qualche possibilità di resistere avrebbe potuto averla.
Stava giusto pensando a come doveva essere trovarsi in un’Arena piena di caramelle, quand’ecco che sua madre e suo padre fecero capolino nella stanza. Le loro reazioni furono proprio come Raiden si aspettava. Sua madre era in lacrime, disperata all’idea di perdere il suo unico figlio. Nel vederlo, si gettò subito addosso a lui, stringendolo tanto forte da strozzarlo.
«Mi ammazzi, mamma» commentò Raiden, in un tentativo di non apparire troppo scosso o spaventato. La donna allentò un poco la presa, continuando però a fare ciò che Raiden più odiava al mondo: gli carezzava i capelli. Il tributo alzò gli occhi verso il soffitto della stanza. Di norma, lui non permetteva a nessuno di toccargli i capelli. Gli dava fastidio. Ma la mamma è sempre la mamma, e Raiden glielo permetteva. Era sempre estremamente protettiva nei suoi confronti, il che era comprensibile, visto che era il suo unico figlio e visto che aveva faticato non poco a darlo alla luce.
Il padre di Raiden – un uomo freddo, dall’aria calcolatrice – gli diede semplicemente una pacca sulla spalla. Nonostante il suo aspetto chiuso e burbero, si vedeva la sua sofferenza, nei suoi occhi blu identici a quelli del figlio.
«Vinci, figliolo» si raccomandò, senza aggiungere altro.
«Lo farò» promise Raiden, con un sorriso stentato stampato in volto. Rivolse poi la sua attenzione alla madre, che continuava a singhiozzare con le mani premute sul volto.
«Non voglio crederci» mugolò la donna. Raiden la strinse forte, tentando, in qualche modo strano, di consolarla.
«Non preoccuparti, mamma. Posso vincere. E in caso io muoia…» fece una pausa, cercando di non pensare a quella tragica eventualità. «In caso io muoia, non preoccuparti» riprese. «La morte è una costante della vita. Niente andrà perso, i morti danno ossigeno alla vita, facendo attecchire le radici degli alberi, facendo crescere l'erba. La morte è la normalità e in quanto tale non dobbiamo averne paura».
Il suo primo pensiero fu: “come diavolo mi sono uscite queste parole dalla bocca?”
Sua madre alzò lo sguardo, smettendo per un attimo di singhiozzare. «Raiden, ma che cavolo dici?» domandò, facendo una risatina isterica che contagiò anche il tributo.
«Non lo so neanche io, mamma, ma, come vedi, hai smesso di piangere».
Prima che se ne andassero, Raiden pregò che sua madre si ricordasse quelle parole, in caso di morte.




 
IV. Fishing
 
Finnick passò una mano tra i suoi capelli, cercando di dar loro una forma decente. Quel giorno non volevano proprio saperne di stare a posto e il vento, che da quella mattina infuriava al Distretto 4, non era certo di aiuto. Sospirando, si appoggiò allo schienale della sedia, mentre Katryn continuava a parlare e a raccontare di quanto fosse onorata di essere l’accompagnatrice di un Distretto importante come quello dei pescatori.
Sentì le dita di qualcuno infilarsi tra le sue. Si voltò verso la ragazza alla sua destra. Annie guardava fisso davanti a sé, con lo sguardo perso sulla superficie del mare. Finnick strinse la mano della Vincitrice dei settantesimi Hunger Games, cercando di tranquillizzarla. Sapeva che quel tentativo sarebbe stato vano: lui stesso era agitato come il mare, quel giorno.
Mentre Katryn si avvicinava all’ampolla contenente i nomi delle femmine, il ventunenne si voltò verso Connor, il  suo migliore amico e Vincitore dei sessantottesimi Hunger Games, alla disperata ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi. Il ragazzo girò leggermente la testa verso di lui, sorridendo.
Nel frattempo, la capitolina leggeva il primo nome, quello del tributo femmina. «Kayla Carter!» esclamò a gran voce. Dalla folla emerse la figura di una ragazzina e Finnick sentì il cuore sprofondare. Kayla era piccina, sicuramente aveva dodici anni. Si avvicinò al palco, con le gambe che le tremavano e il volto che era una maschera di terrore. Katryn l’accolse con un gran sorriso che parve spaventare ancora di più la piccola. Finnick non la biasimò: quell’anno, Katryn aveva deciso di vestirsi completamente di nero e aveva aggiunto un nuovo accessorio alla sua già stramba mise. Si trattava di un paradenti – ovviamente nero, quindi pareva che i denti della capitolina fossero marci.
«C’è qualche volontaria?» chiese l’accompagnatrice, con una mano sulla spalla di Kayla. Da una delle prime file, Finnick notò una mano che svettava. Sentì per un istante il cuore che diventava più leggero, alla vista del sorriso trattenuto della piccola Kayla.
La giovane volontaria iniziò a dirigersi verso il palco. Era sicuramente una che si faceva notare, questo Finnick doveva ammetterlo. Non era una folgorante bellezza, non aveva nulla di strano, se non le dimensioni. Quella ragazza sfiorava sicuramente i due metri e, a vederla, non pareva per nulla femminile, se non per i suoi lunghi capelli biondi, che cadevano sul suo volto a coprirle l’occhio destro.
«Come ti chiami, tesoro?» domandò Katryn, visibilmente incuriosita dalla mastodontica volontaria.
«Olivier Milla Armstrong» rispose quella, con lo sguardo rivolto laddove finiva la piazza del Distretto 4.
«Bene!» trillò l’escort, battendo le mani. «Fate un bell’applauso alla nostra Olivier…»
«Catherine!» L’incitazione della capitolina fu interrotta dalla possente voce di Olivier. Katryn guardò la ragazza, indietreggiando visibilmente spaventata. Ma la giovane non ce l’aveva con lei, bensì con qualcuno in mezzo alla folla, considerato che il suo unico occhio non coperto dai capelli era rivolto agli aspiranti tributi.
«Non piangere!» urlò Olivier. Finnick – quasi senza accorgersene – si fece piccolo piccolo sulla sedia, spaventato da tanta veemenza e dalla voce della ragazza, che sicuramente si era udita fino in fondo alla piazza, nonostante non avesse usufruito del microfono.
Dopo un istante – durato il tempo che a Katryn passasse lo spavento – fu annunciato anche il nome del tributo maschio, Ansel Diesel.
Il ragazzo – dai capelli castani lunghi fino alle spalle e un abbigliamento poco consono alla Mietitura – si diresse verso il palco con la mascella serrata e l’aria arrabbiata. L’escort lo accolse con il consueto sorriso, ma lui la fulminò con lo sguardo.
«C’è qualche volontario?» domandò la donna, per la seconda volta. Ancora, dalla prima fila, una mano svettò verso l’alto. Era quella di un diciottenne dalla tipica pelle abbronzata degli abitanti del quarto Distretto e i capelli castani tagliati corti.
Finnick si immobilizzò sulla sedia.
Lo conosceva.
Tutti i Vincitori lo conoscevano perché vivevano con lui al Villaggio dei Vincitori. Istintivamente, il ventunenne si voltò verso una donna, seduta a poca distanza da lui: Talilah. Aveva vinto qualche anno prima di lui, ma non ricordava l’edizione precisa. L’aveva conosciuta, negli anni. Era una donna deliziosa, ma aveva un piccolo problema: gli uomini. Andava con moltissimi di loro – spesso anche per volere del Presidente Snow. E a causa di quello, nessuno sapeva chi fosse il padre di suo figlio.
Nel vedere ciò che aveva fatto il ragazzo, Telilah portò una mano dinnanzi alla bocca, soffocando un grido. Conn posò una mano sulla sua schiena, in un inutile tentativo di tranquillizzarla, mentre il ragazzo saliva le scale che portavano al palco.
Finnick tornò a rivolgere la sua attenzione ai tributi, aggrappandosi al bracciolo della sedia. Ecco perché non gli piacevano le Mietiture: potevano esserci degli spiacevoli inconvenienti – come i volontari non previsti che lasciavano a bocca asciutta i propri parenti.
Al Vincitore non sfuggì l’occhiata di disappunto di Olivier, nel vedere il ragazzo che si offriva volontario. Quell’espressione, però, svanì subito dal suo volto. La ragazza fece spallucce e tirò fuori, da una tasca dei pantaloni, una fiaschetta, da cui si mise a bere sotto gli occhi stupiti della povera Katryn.
Scuotendo il capo, la capitolina tornò a rivolgersi al volontario, in piedi accanto a lei.
«Come ti chiami?» chiese, con un nero sorriso stampato in volto.
«Holand Gage» fu la secca risposta del ragazzo, che si voltò verso i Vincitori, lanciando uno sguardo triste alla madre.
«Un bell’applauso per i nostri tributi dal Distretto 4: Olivier Milla Armstrong e Holand Gage!» esultò Katryn, ponendo finalmente fine a quella settantaduesima Mietitura.


 
 
 
Olivier
 
Olivier – o meglio, Olly, come i suoi parenti la chiamavano – stava in piedi, accanto alla verde poltroncina di velluto presente nella sala al Palazzo di Giustizia nella quale i Pacificatori l’avevano accompagnata. La sua entrata in quell’aula sarebbe stata comica, vista dal di fuori: un’enorme ragazza bionda, accompagnata da due soldati che parevano bambini, confrontati con lei.
Di certo, la grande mole di Olly non era una peculiarità tutta sua, come dimostrò poi l’entrata dei suoi parenti. Gli Armstrong erano conosciuti al Distretto 4 proprio per quella loro altezza quasi esagerata, ma non solo. I genitori – Gargantos e Maria – facevano, infatti, parte dell’esercito e pareva che quel lavoro si rispecchiasse anche sul comportamento dei figli. Non era raro vederli camminare quasi a passo di marcia, facendosi largo tra la folla della scuola grazie alla loro enorme mole.
Gli Armstrong entrarono tutti insieme. In testa c’era Catherine, la più piccola tra i fratelli – la ragazzina a cui Olly si era appellata durante la Mietitura. Nonostante la sua giovane età – dodici anni – la più piccola di casa Armstrong presentava già il tipico fisico della famiglia, anche se, come spesso Olivier doveva ammettere, era l’unica che apparisse veramente carina.
Non appena misero piede nella stanza, Olly portò una mano tesa alla fronte, poco sopra al sopracciglio, nel tipico saluto militare che i genitori le avevano insegnato da piccola. Era un gesto che si usava molto nell’esercito, per salutarsi tra soldati, le avevano spiegato.
I genitori ricambiarono il saluto, portandosi in prima fila. Dopodiché, rimasero tutti fermi, ad osservarsi in silenzio. L’occhio sinistro di Olivier – l’unico da cui vedeva bene – si posò per un istante sulla sorella minore, Stronger. Era anche per lei che si era offerta volontaria, non solo per la gloria personale. La secondogenita della famiglia Armstrong – infatti – aveva intenzione di offrirsi volontaria. Ma aveva solo quindici anni ed erano pochi per compiere quel gesto. Per questo, Olly aveva deciso di offrirsi, nonostante sapesse i rischi e nonostante il suo handicap – la ragione per cui teneva sempre un ciuffo di capelli biondi dinnanzi all’occhio destro, da cui non vedeva più. O almeno, vedeva solo ombre, il resto era tutto confuso.
«Avanti, abbracciatemi pure!», ordinò dopo un istante, con un sorrisino che le incurvava le labbra. Le sue sorelle e suo fratello sorrisero di rimando, facendosi avanti, felici. La prima a stringersi a lei fu Amue, sua sorella gemella. Nonostante e loro somiglianze, Olivier e Amue erano facili da distinguere: la prima era di circa cinque centimetri più alta, con un fisico più possente, mentre la seconda era magra. Inoltre, Amue non portava il fatidico ciuffo di capelli dinnanzi all’occhio destro.
L’abbraccio di sua sorella Stronger fu una specie di stritolazione. Olivier sapeva – in cuor suo – che la quindicenne non era realmente arrabbiata con lei. Quell’abbraccio così forte era semplicemente una conseguenza del suo fisico quasi maschile e, per quanto fosse più bassa della sorella maggiore, era davvero forte.
Dell’unico fratello di Olly – Alex Louis – tutto si poteva pensare, tranne che avesse quattordici anni. Ma Alex era un Armstrong e, come tale, la sua altezza era esagerata. Come il padre, il quattordicenne superava i due metri ed era cresciuto ad una velocità incredibile. L’abbraccio con Olivier fu molto dolce, ma anche molto soffocante.
Infine, arrivò Catherine. La sua stretta fu molto più debole di quella delle sorelle e di Alex e, finalmente, quello sarebbe potuto sembrare un abbraccio vero.
Olivier prese il volto della sorellina tra le mani, fissando i suoi occhi in quelli della dodicenne.
«Non mostrarti mai debole, Catherine. Mi raccomando» disse con aria severa, ma il sorriso che spiccava sul suo volto tradiva l’affetto nutrito nei confronti della sorellina. La piccola annuì, con gli occhi ancora lucidi dal pianto di prima.
Il bussare alla porta costrinse gli Armstrong a girarsi. Un Pacificatore fece capolino. «Tempo» annunciò.
Olivier sospirò, mentre tutti si voltavano verso di lei.
«Buona fortuna, Olivier!» esclamò suo padre, portando la mano alla fronte per fare il saluto militare, imitato dalla moglie.
«Torna vincitrice» si raccomandò quest’ultima. Olivier ricambiò il saluto.
«Contateci» disse, mentre tutti si dirigevano all’esterno. Prima di uscire, Catherine si voltò per salutarla con la mano e Olly ricambiò, sorridendole.
Quando finalmente la porta fu chiusa, la giovane rovistò nella tasca dei pantaloni, tirando fuori la sua inseparabile fiaschetta per bere un sorso.
“Felici Hunger Games” pensò, quasi facendo un finto brindisi.
 


 
Holand
 
Il diciottenne tamburellò nervosamente con le dita sul davanzale della finestra – dalla quale si poteva vedere, in lontananza, il mare. Aspettava con ansia l’arrivo di sua madre, anche se non avrebbe voluto vedere il suo volto spaventato. Non le aveva detto che si sarebbe offerto volontario. Non l’aveva detto a nessuno, a dire il vero. L’unica ad averlo intuito doveva essere stata Olivier, vista la sua faccia durante la Mietitura e considerato che era l’unica a sapere di cosa accadeva nell’animo di Holand.
Appoggiò la fronte al vetro della finestra, sospirando. Due settimane. Poi avrebbe vinto e sarebbe finito tutto. Morte o vita non facevano differenza. Avrebbe smesso di soffrire in ogni caso.
Il rumore della porta che si apriva lo distrasse. Si voltò. Sua madre era lì, con il volto umido dalle lacrime e i capelli biondi spettinati. Non appena il Pacificatore chiuse la porta dietro di sé, la donna corse incontro al figlio, gettandogli le braccia al collo. Holand cinse la vita della madre, inspirando a fondo l’odore che emanavano i suoi capelli. Era un buon profumo. Sapeva di casa, sapeva di affetto. Nonostante tutto, Holand adorava sua madre. Poteva anche non essere quel che si dice una madre perfetta, ma lo aveva accudito per diciotto anni, senza mai fargli mancare nulla.
«Stai attento» disse, quando sciolsero il loro abbraccio. Holand sorrise, cercando di assumere un atteggiamento sicuro di sé. La verità era che stava per piangere anche lui, ma non poteva farlo dinnanzi a sua madre.
«Lo sono sempre» ribatté, mentre Talilah gli carezzava il volto, piangendo.
«Ascoltami bene» continuò la donna, mettendogli le mani sulle spalle e fissandolo intensamente negli occhi. «Non farò la mentore. È già da anni che non faccio questo lavoro. Sarai solo, a Capitol City». Abbassò lo sguardo, stringendo le labbra. «Sarò franca, Holand: vincere gli Hunger Games non è una passeggiata, nonostante l’addestramento. Puoi essere allenato quanto vuoi, ma avrai comunque dei problemi». Rialzò la testa, guardando il figlio negli occhi. «Non farti mettere i piedi in testa da nessuno. Non arrenderti e, soprattutto, da’ ascolto al tuo mentore. Penso che sarà Roman» aggiunse, togliendo le mani dalle spalle del ragazzo.
«Sarò prudente, mamma» disse semplicemente Holand, sorridendo divertito dinnanzi all’aspetto della donna. Talilah Gage aveva sempre un aspetto curato e ordinato, ma in quel momento pareva che un uragano l’avesse colpita.
«Ancora non capisco perché ti sei offerto volontario» singhiozzò, passando le mani sulle guance per asciugarle. Dopodiché, le portò dietro la nuca, armeggiando per un istante con il nodo della sua collana. Era un vecchio portafortuna che Talilah aveva portato con sé durante gli Hunger Games, una collana con attaccato un dente di squalo. Lo porse al ragazzo, con una nuova luce di determinazione negli occhi.
«Non togliertelo mai» si raccomandò, mentre Holand prendeva il regalo dalle mani della madre. Talilah fece appena in tempo a dare un bacio sulla fronte al figlio, prima che un Pacificatore annunciasse la fine dell’incontro.
Holand legò la collana dietro il suo collo, cercando di riprendersi dall’incontro appena avvenuto. Tuttavia, non ne ebbe il tempo, perché altre due persone fecero il loro ingresso nella stanza: Tyson e Harmony. Nel vederli, le labbra del diciottenne si strinsero in una smorfia disgustata. Erano loro la ragione per cui si era offerto volontario. Loro e il loro stupido matrimonio.
«Ciao» li salutò, cercando di apparire contento, ma dal suo tono di voce si potevano intuire i suoi veri sentimenti.
«Ciao!» lo salutò allegramente Tyson, alzando una mano per dargli il cinque. Holand ricambiò il gesto, ridendo, suo malgrado. Per quanto covasse del rancore nei suoi confronti, Tyson era pur sempre il suo migliore amico, il figlio di colui che per anni era stato come un padre adottivo per lui. Jennon era ormai morto da tempo, ma la sua figura che riportava la barca a riva nel tardo pomeriggio era ancora ben stampata nella mente di Holand. Jennon era stato un modello, per lui, l’uomo a cui aveva fatto riferimento per anni. Purtroppo, anche lui se n’era andato, disperso per mare come altri prima di lui. Gli era rimasto Tyson, anche se ultimamente erano più le volte che gli dava sui nervi che le volte in cui andavano d’accordo.
«Ciao, Holand» sussurrò Harmony, abbracciandolo dolcemente. La sensazione provocatagli dalle braccia della ragazza non aveva eguali. Holand non avrebbe mai voluto sciogliere il loro abbraccio. Voleva rimanere lì per sempre, con Harmony stretta a sé e il suo profumo che gli impregnava dolcemente le narici.
Purtroppo, lei si staccò troppo presto e lui dovette accontentarsi di guardarla mentre stava attaccata al braccio di Tyson, lanciandogli, di tanto in tanto, qualche occhiatina timida. Il ragazzo osservò le sue labbra, piccole e delicate. Avrebbe tanto voluto che si unissero alle sue, bramava quella cosa da anni e, ogni volta che fantasticava, doveva ricordare a se stesso che lei era solo un’amica, già impegnata, per di più.
«Bella mossa» commentò Tyson, alludendo al fatto che l’amico si era offerto volontario. «Non me lo aspettavo».
«Sorpresa» ribatté il diciottenne con finta ironia, grattandosi la nuca con fare imbarazzato. Tyson fece una risatina.
«Ci sono rimasto secco, all’inizio. Ma tu tornerai, eh?» chiese, dandogli un pugnetto sul braccio. Holand rispose alla provocazione, ridendo. Era una cosa normale, stuzzicarsi a quel modo, per due ragazzi della loro età. E Holand era felice che almeno qualcuno non stesse piangendo per lui. Si sarebbe aspettato tutt’altra reazione, ma Tyson sembrava a suo agio. Harmony era più enigmatica, ma i suoi sorrisini gli facevano supporre che provasse le stesse emozioni del suo fidanzato.
«Quando tornerai, potremo vantarci di avere una star al nostro matrimonio!» scherzò Tyson, cingendo con un braccio la vita di Harmony. Holand fece una risata priva di allegria, mentre i ricordi del giorno prima – in cui i due piccioncini gli avevano annunciato il loro imminente matrimonio – lo travolgevano come l’onda di un uragano.
«Già. Sarà bellissimo» bofonchiò, con gli occhi persi in quelli marroni di Harmony, che non si erano staccati nemmeno per un istante da lui.
Il Pacificatore arrivò poco dopo, con somma felicità del giovane tributo. Pensava che Tyson e Harmony fossero gli ultimi, quand’ecco che entrò nella stanza una ragazzina. Holand fu non poco sorpreso di quella visita. Si sarebbe aspettato chiunque, ma non Lilith, la sorella minore di Harmony. La giovane entrò timidamente, con le guance rosse e gli occhi che non si staccavano dal pavimento. Holand rimase in piedi, aspettando che lei dicesse qualcosa, mentre i secondi passavano.
Stava per chiederle cosa ci facesse lì – in fondo, loro due non erano amici – quando Lilith andò verso di lui con passo sicuro. Si piazzò proprio dinnanzi a Holand, mettendo le sue mani sul collo del ragazzo e allungandosi verso di lui.
In un attimo, le loro labbra si incontrarono e il tributo non poté ritrarsi. Lilith lo intrappolò in un bacio dolce, ma che non sapeva di niente, se non di stupore e sale. Sale, perché quando le loro bocche si separarono l’una dall’altra, Holand notò le lacrime che rigavano le guance della ragazzina.
«Torna a casa», sussurrò lei, guardandolo negli occhi. «Non per forza da me, ma torna, ti prego». Il suo sguardo si abbassò verso il pavimento e la giovane indietreggiò. «Ti amo» mormorò, prima di andarsene e lasciare Holand da solo, stupito come mai in vita sua.




 
V. Power
 
Robert cercò di concentrarsi su ciò che gli accadeva intorno, provando a capire qualcosa tra i fumi dell’alcool che annebbiavano il suo cervello. Aveva provato a bere poco, quella mattina, ma il richiamo delle bottiglie era stato irresistibile e, come ogni giorno, si era ritrovato con un livello di alcool nel corpo quasi sconvolgente. La verità era che il vino lo riempiva. Riempiva il vuoto che sentiva nell’anima.
Il suo sguardo si perse sulla distesa di tributi sotto il palco. Erano tutti ammassati come sardine in scatola. Le loro facce erano tutte uguali: tese, inespressive. Molti si tenevano per mano, cercando di confortarsi a vicenda. Altri si guardavano in giro, alla disperata ricerca di qualche amico o di qualche parente. Ricordava bene l’emozione provata durante la Mietitura che aveva segnato il suo destino. Era semplicemente rimasto pigiato tra tanti altri sedicenni, aspettando con paura ed impazienza la chiamata del tributo maschio. Aveva sperato, in quel momento, che tutto passasse in fretta. Tuttavia, quando fu lui ad essere chiamato, si era sentito male. Aveva pensato di essere spacciato. Eppure, ce l’aveva fatta, anche se a costo di diventare un alcolizzato.
Al suo fianco, Jack Underwood appariva molto teso, sicuramente più di lui. Robert non aveva figli – non ne aveva voluti, considerato che sarebbero potuti diventare dei tributi. Jack, invece, ne aveva ben quattro, di cui tre facenti parte della folla di ragazzini sotto il palco.
«E ora, vediamo di scoprire chi sarà il nostro tributo femmina durante questi settantaduesimi Hunger Games!» esclamò Marion, la nuova escort del Distretto 5, al termine del suo discorso. Robert rimase impassibile, mentre la donna estraeva un bigliettino e tornava al microfono, per annunciare il nome della sfortunata ragazza.
L’accompagnatrice si sistemò i capelli arancioni, che pendevano solo da una parte poiché il lato destro del capo era rasato, prima di dire a gran voce: «Charity Faye Underwood!»
Al fianco di Robert, Jack ebbe un sussulto. L’uomo portò avanti il busto, osservando con gli occhi sgranati la sua unica figlia di appena diciassette anni. Era una ragazzina abbastanza alta, il cui volto molto grazioso era incorniciato da capelli castani ondulati, lunghi fino al seno.
Charity si diresse verso il palco con aria spaventata, ma sicura. Nel salire, lanciò un’occhiata a Jack e, proprio in quell’istante, Robert poté notare i suoi grandi occhi chiari lucidi di lacrime.
«Fantastico!» trillò Marion, sillabando bene quell’esclamazione. «Passiamo al tributo maschio» annunciò, dirigendosi di gran lena verso l’ampolla contenente i nomi dei maschi. Ritornò dopo pochi secondi, quasi correndo sui tacchi alti. Si schiarì bene la voce, prima di esclamare a gran voce: «Shadow Stevens!»
Quel cognome – Stevens – non era nuovo a Robert. Per quanto stesse rintanato nella sua casa al Villaggio dei Vincitori, qualcosa sapeva. E quindi, sapeva che gli Stevens erano una delle poche famiglie ricche del Distretto 5. Il padre di quel ragazzo doveva essere un genetico molto famoso.
Il ragazzo che uscì dalla fila dei diciassettenni appariva quasi rilassato. Nel camminare, si sistemò i suoi occhiali dalla montatura rossa e non degnò di uno sguardo gli altri ragazzi, fissando con insistenza il palco. Salì le scale lentamente, andando ad accomodarsi alla destra di Marion, la quale esplose in un’esclamazione gioiosa, molto fuori luogo, considerato il momento.
«Un bell’applauso ai nostri tributi dal Distretto 5: Charity Faye Underwood e Shadow Stevens!»


 
 
 
Charity
 
Si torturò le mani, agitata all’idea di salutare – forse per l’ultima volta – i  suoi famigliari. Charity strizzò gli occhi più volte, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Non poteva mostrarsi triste dinnanzi ai suoi fratellini, altrimenti anche loro si sarebbero arresi in partenza.
Sapeva che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato: i figli dei Vincitori venivano sempre estratti, in un modo o nell’altro. Era già stato un mezzo miracolo che suo fratello maggiore Logan non fosse stato scelto durante le Mietiture precedenti.
Non aveva le prove che fosse stata un’estrazione truccata – magari era stato solo un caso – ma da anni era conscia di essere a rischio, sebbene il suo nome apparisse poche volte, vista la sua non necessità di usufruire delle tessere.
La porta che si apriva la costrinse ad alzarsi dalla poltroncina, mentre tutta la sua famiglia faceva il suo ingresso. A guidare il gruppetto c’era sua madre, Alyssa. Nel vedere la figlia, la donna l’abbracciò subito, singhiozzando piano. Le carezzò il viso con dolcezza, mentre le lacrime rigavano il suo volto. Charity sentì il suo cuore sprofondare, ma si sforzò di stamparsi un sorriso in volto.
«Non piangere, mamma» sussurrò, prendendola per mano. «Va tutto bene, davvero» aggiunse. Alyssa annuì, senza però accennare a smettere di piangere.
Charity si rivolse poi a Sophie, la piccola della famiglia Underwood. Aveva appena dieci anni, il che rendeva Charity più tranquilla riguardo alla sua sorte alla Mietitura. Nonostante la sua giovane età, però, la bambina capiva benissimo cosa stava accadendo alla sorellona, così le si buttò praticamente addosso, singhiozzando incessantemente.
«Sssh, non piangere» mormorò Charity, carezzando i capelli della piccola. La bambina alzò lo sguardo verso la ragazza, asciugandosi il naso con una mano.
«Non voglio che muori!» esclamò, mentre le lacrime iniziavano a scendere sempre più copiose lungo le sue gote.
«Non morirò» promise Charity, asciugando il volto della sorellina con i pollici. «Ma tu cerca di non spaventarti troppo, d’accordo?»
La piccola annuì, lasciando che la sorella maggiore venisse abbracciata anche dagli altri tre fratelli: Logan, Jace e Fred, questi ultimi due gemelli di tredici anni. Erano stati loro la vera preoccupazione di Charity durante la Mietitura e sentire il nome di Shadow anziché il loro l’aveva fatta sentire molto più sollevata.
«E papà?» chiese la ragazza, notando l’assenza di Jack. Sua madre tirò su con il naso, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto bianco.
«È già andato sul treno. Ti aspetta lì» rispose la donna, proprio nel momento in cui un Pacificatore annunciava lo scadere del tempo.
«No!» strillò Sophie, aggrappandosi con forza al vestito della sorella. Charity sentì una pugnalata al cuore: non voleva andare a Capitol City. Non poteva lasciare quel vuoto in famiglia.
«Va’, Sophie» ordinò gentilmente alla piccola, dandole una spintarella sulla schiena. Era un gesto che non avrebbe mai voluto fare e, mentre i suoi famigliari se ne andavano, la ragazza chiuse gli occhi, immaginando che tutto ciò fosse solo un orribile incubo.
Tuttavia, dovette svegliarsi quando arrivò la seconda visita di quella giornata. Ally, la sua migliore amica, entrò nella stanza quasi in punta di piedi, con cautela. Le due ragazze rimasero ad osservarsi per qualche istante. Ally stava in piedi, dinnanzi alla porta, con le mani strette sul tessuto poco pregiato di cui era fatto il suo vestito. Non poteva aspirare ad avere abiti migliori: era molto povera. Ma, nonostante il differente tenore di vita che correva tra le due, le ragazze si consideravano quasi sorelle. Addirittura, Charity passava molto più tempo con i poveri ragazzi della periferia, che con quelli ricchi – che già di per sé erano pochi.
«Lo so che quella è una maschera» esordì Ally dopo qualche minuto. «Tu non sei tranquilla. Sfogati» ordinò, avvicinandosi a Charity. La ragazza stette ferma per un istante, ma dopo trenta secondi, qualcosa in lei iniziò a cambiare. Il rancore, la rabbia, il nervosismo, le lacrime che aveva trattenuto sino a quel momento iniziarono a farsi sentire in tutta la loro devastante potenza. Sentì l’urlo risalirle lungo il corpo e non riuscì più a trattenerlo.
Ally corse subito ad abbracciarla, tenendola stretta mentre piangeva e imprecava, carezzandole i lunghi capelli castani.
«Non voglio morire!» urlò Charity, con la voce rotta dal pianto. «Sono troppo giovane, ho ancora troppe cose da fare! Non voglio andarmene da qui!»
Ally non parlò, lasciando che la sua migliore amica tirasse fuori tutto ciò che sentiva.
«Non morirai. Non puoi morire» ribatté, mentre iniziava a piangere anche lei. «Ho bisogno di te», continuò, sciogliendo l’abbraccio. «Promettimi che tornerai a casa».
Charity scosse la testa. Non si potevano promettere certe cose. Erano più grandi di loro. Solo il destino conosceva la verità.
«Farò il possibile» disse infine, poco prima che un soldato le portasse via la sua migliore amica, lasciandola sola con le sue lacrime.
 


 
Shadow
 
Dalla grossa finestra, Shadow osservava il via vai di gente che scemava dopo l’estrazione. Un mezzo sorrisetto sarcastico si stampò sul suo volto. Non l’avrebbe mai ammesso, ma nel profondo del suo animo provava un certo rancore nei confronti di coloro che non erano stati scelti per partecipare agli Hunger Games.
Senza speranza.
Era così che si sentiva. Aveva studiato per anni, letto libri su ogni sorta di cosa, ma nessuno di essi gli aveva mai spiegato quanto fosse difficile affrontare certe situazioni. Nessun tomo riportava la spiegazione di come si potesse sopravvivere agli Hunger Games. Di certo, lui le carte in regola le aveva: la sua intelligenza era spesso invidiata dai suoi compagni di classe e, grazie ai libri letti in diciassette anni di vita, conosceva molte cose. Ma sarebbe bastata solo quella a farlo sopravvivere? Aveva visto, nelle precedenti edizioni, che anche gente molto intelligente era morta, spesso in maniera stupida. L’episodio che gli venne in mente nel pensarci risaliva a circa sette anni prima. Durante la sessantacinquesima edizione, uno dei tributi era una ragazzina estremamente intelligente del Distretto 3. Aveva stupito tutti con il suo gran cervello, ma alla fine era morta, cadendo da un albero e spezzandosi la schiena, prima che la ragazza del Distretto 2 la trapassasse da parte a parte con la sua spada.
Shadow scosse la testa. Meglio non pensarci, non in quel momento, con ancora addosso tutta l’agitazione dei minuti prima.
La porta si aprì all’improvviso, costringendolo a voltarsi. Dinnanzi a lui si stagliavano due figure: Erich e Suseth, suo padre e sua madre. La differenza di età tra i due si notava fin da subito, dalla prima occhiata. Laddove il volto di Erich presentava già le prime rughe della vecchiaia, quello di Suseth era quasi fresco come una rosa e non una ruga intaccava il suo volto. Era ancora giovane, quest’ultima. Shadow era nato molto presto. All’epoca, sua madre aveva appena ventitré anni ed era la segretaria di Erich Stevens, noto genetista del Distretto 5, che invece di anni ne aveva trentotto.
Nel vedere il figlio, la donna gli corse incontro, stringendolo in un abbraccio tanto dolce quanto freddo. Non erano abituati a grandi manifestazioni di affetto, in famiglia: per quanto i genitori tenessero al figlio, erano piuttosto distaccati, impegnati com’erano nel loro lavoro.
«Ciao, Shadow» lo salutò sua madre, spostandogli il suo lungo ciuffo di capelli biondi da davanti agli occhi.
«Mamma» fu il saluto del ragazzo, accompagnato da un sorriso appena accennato. Suseth si staccò da lui, per permettergli di salutare anche il padre, a cui Shadow strinse semplicemente la mano.
«Mi dispiace tanto, figliolo» disse Erich. Shadow annuì con poca convinzione.
«Non me l’aspettavo» ammise, ed era vero. Essendo ricco, non aveva mai avuto bisogno di prendere le tessere. Non si sarebbe mai aspettato di essere scelto. Di sicuro, da quel lato era favorito, come pochi altri nel suo Distretto potevano permettersi. Eppure, era stato mietuto comunque. Ennesima prova che – nonostante le possibilità a favore – nulla era mai certo.
«Neanche noi. È terribile» commentò Suseth, afferrando una mano del figlio tra le sue e sorridendogli con dolcezza. In quel momento, Shadow si accorse del luccichio proveniente dagli occhi della madre e sentì una strana sensazione percorrergli il corpo, da capo a piedi.
Si sentiva triste. Vuoto. Affranto.
«Un lato positivo c’è» si intromise Erich, cercando di incoraggiare il figlio con un sorriso poco convincente. «Se vincerai, potrai elevare ancora di più il buon nome della nostra famiglia» commentò, dandogli una pacca sulla spalla. Shadow accettò quella strana manifestazione d’affetto senza commentare, anche se, in realtà, sentiva una rabbia cieca che pervadeva il suo corpo.
Persino quando suo figlio stava per morire, Erich pensava al buon nome della famiglia Stevens, senza preoccuparsi di altro. Erano anni che lo tartassava con tutto ciò. «Diventerai un noto genetista, Shadow. Porterai avanti il lavoro della nostra famiglia» gli ripeteva spesso, come se ciò potesse rendere il suo unico figlio felice. La realtà era che Shadow non voleva essere un genetista. Non gli importava. Voleva scegliere lui cosa fare della sua vita.
E quando i genitori se ne andarono, a lui non rimase che stare da solo con tutte le ombre che da anni oscuravano il suo animo.




 
VI. Transportation
 
Durante le Mietiture, il tempo si oscurava sempre. Sembrava quasi che una nuvola di tristezza calasse sul Distretto 6, oscurando non solo la luce del sole, ma anche gli animi delle persone che assistevano all’annuale estrazione dei tributi.
Franziska lo aveva notato già diversi anni prima, quando era una semplice ragazza che era obbligata a fare presenza in piazza, con migliaia di altri giovani. In particolare, aveva in mente un episodio avvenuto quando aveva appena dodici anni ed era alla sua prima Mietitura. Il cielo era diventato di un lugubre grigio, ma, dopo che il treno era partito alla volta di Capitol City con a bordo i tributi, il sole era spuntato, illuminando di nuovo il Distretto.
Ma non solo durante l’estrazione dei tributi accadeva ciò. Il cielo pareva essere in sintonia con l’animo del Distretto 6 e si oscurava anche in altri momenti – durante la morte dei tributi, per esempio, o durante i funerali. Anzi, durante i funerali il cielo piangeva. Anche quando era stato sepolto il suo fidanzato – dopo essere  morto per lei – il cielo aveva pianto. Grosse gocce di pioggia erano cadute, bagnando le aride strade del Distretto, bagnando il volto di Franziska, aiutandola a non mostrare le lacrime.
In quel momento, prima della Mietitura per i settantaduesimi Hunger Games, il cielo iniziava a riempirsi di grigie nuvole. Franziska alzò lo sguardo, socchiudendo un poco gli occhi per evitare di farsi accecare dalla forte luce. Dopo un istante, poté rivolgere la sua attenzione alla piazza. Cercò suo figlio, in mezzo alla selva di teste degli aspiranti tributi, trovandolo nella fila dei sedicenni. Jonathan guardava verso di lei, con aria abbastanza sconsolata. La donna strinse le labbra. Era uno dei papabili nuovi tributi, data la sua parentela con lei e con un altro tributo morto durante i cinquantaseiesimi Hunger Games – edizione che lei aveva vinto. Vittoria ingiusta, la definiva spesso.
Distolse lo sguardo, concentrandosi su Arriette, che saltellava da una parte all’altra del palco, con i riccioli viola che sembravano balzare insieme a lei. La capitolina andò verso il microfono, stringendo tra le mani un foglietto di carta. In volto aveva un’espressione trionfante, quasi avesse appena vinto gli Hunger Games.
«Il tributo femmina del Distretto 6 è…» fece una pausa, alzando lo sguardo per osservare tutti gli adolescenti stipati sotto il palco, «… Liesel Morgfair», concluse, con un breve applauso che nessun altro alimentò.
Da una delle file dei quindicenni si staccò una ragazzina, che camminava con passo insicuro. Franziska osservò attentamente come procedeva verso il palco. Indossava un vestitino molto grazioso – di ottima fattura, lo classificò la Vincitrice. Quella Liesel doveva essere una piuttosto benestante, a giudicare anche dalla sua acconciatura curata nei minimi dettagli. Una cascata di boccoli biondi le scendeva fino a poco dopo le spalle, incorniciando un viso dai tratti graziosi.
Liesel si affiancò alla capitolina sul palco e, non appena lo fece, Arriette si buttò a capofitto sull’ampolla con i nomi dei maschi, tornando dopo pochi secondi con un foglietto tra le dita. Lo mostrò al pubblico, prima di annunciare il nome del malcapitato. Franziska afferrò con forza i braccioli della sedia. “Non Jonathan. Non Jonathan”, si ripeteva come un mantra.
«Il tributo maschio del Distretto 6 è Ryder Jordan Wheeler» disse poi Arriette, con un sorriso soddisfatto in volto.
Il nome del tributo estratto era familiare, a Franziska. Sapeva che Jonathan aveva un compagno di classe che si chiamava Ryder – un ragazzo piuttosto enigmatico, da come glielo descriveva. Girava voce che tutti lo chiamassero Hood, per via del cappuccio che portava sempre in testa. E anche quel giorno, si presentò così, sul palco.
Ryder doveva sicuramente essere un bel ragazzo, ma con il cappuccio che gli copriva il capo, era difficile stabilire ciò. Indossava una felpa, aperta a mostrare una camicia bianca –  un capo elegante per la Mietitura. Le sue mani erano ficcate nelle tasche dei pantaloni e il ragazzo avanzava a testa bassa, fissando intensamente le sue scarpe da ginnastica. Arrivò sul palco con ancora il cappuccio addosso e a Franziska non sfuggì l’espressione indignata della capitolina, cosa che la fece sorridere. Arriette era fissata con l’etichetta e – di sicuro – salire sul palco della Mietitura vestito a quel modo non era un punto a favore per Ryder.
«I tributi del Distretto 6!» esultò Arriette, indicandoli. «Liesel Morgfair e Ryder Jordan Wheeler!»


 
 
Liesel
 
Torturò con le dita uno dei suoi boccoli biondi, osservando ciò che accadeva fuori dalla finestra. A dire il vero, non si vedeva molto, dalla stanza in cui era stata condotta. Liesel poteva, però, notare le officine, che si stagliavano a qualche chilometro di distanza. Quel giorno erano tutte chiuse, a causa della Mietitura.
Sentì un improvviso male alla gola, come accadeva spesso quando le veniva da piangere. Deglutì, quasi volesse fare sparire quello strano nodo che sembrava impedirle di respirare. Non era una sensazione triste, quella. La cosa era molto ambigua, ma Liesel, in quel momento, non si sentiva affatto depressa, come tutti si sarebbero aspettati. Aveva accettato la cosa in modo migliore di quanto credesse. Aveva fantasticato anni pensando a come doveva sentirsi un tributo quando veniva estratto. La realtà dei fatti era un’altra: lei stava bene.
Tuttavia, nel vedere le officine, le si formò un groppo in gola. Ripensò ai bei momenti trascorsi lì, assemblando pezzi che sarebbero poi diventati parte di un hovercraft o di un treno, sognando di volare alta nel cielo. Era quello che desiderava di più: diventare una pilota, per poter ammirare il mondo dall’alto, ridendo di quanto le persone sembrassero delle formiche, da quella prospettiva. Liesel era sicura che anche l’uomo più grande del mondo sarebbe apparso innocuo, da un’altezza tanto elevata.
Chiuse gli occhi per un momento, facendo una mappa mentale del Distretto 6. Se proprio doveva morire, era meglio imprimersi ogni dettaglio. Le officine, da cui fuoriuscivano degli sbuffi di nero fumo ogni volta che gli operai lavoravano. La piazza, l’unico posto allegro nel Distretto. Un pezzo di metallo tra le mani, che sarebbe diventato poi parte di un pezzo più grosso, che a sua volta sarebbe diventato qualcosa di ancora più grande. Era una ruota, quella.
Liesel si voltò giusto in tempo, mentre la porta veniva spalancata da un soldato in uniforme bianca e la sua famiglia entrava. In testa c’era Clareh, sua sorella maggiore di diciassette anni. Nel vedere la più piccola di casa, Clareh le gettò le braccia al collo, con il corpo scosso dai singhiozzi.
«Liesel…» mormorò sua madre, Louise, carezzandole i capelli. Suo padre – Jayes – si limitò al silenzio, abbracciando le sue figlie con fare protettivo. Non parlarono molto, durante quell’incontro. Tutti e quattro erano consci del fatto che non servivano molte parole, in quel momento. Nulla avrebbe cambiato il passato.
Liesel sentì le lacrime premere, pretendendo di uscire e scorrere lungo le sue gote. Si morse un labbro, cercando di ricacciarle indietro, quasi con rabbia. Non voleva che la sua famiglia avesse un ricordo così triste di lei.
«Sii prudente» si raccomandò sua madre, dopo che il loro abbraccio di gruppo fu sciolto. Liesel le cinse la vita con le braccia, appoggiando la testa al petto della donna.
«Sto bene, mamma», sussurrò. Si staccò da Louise, rivolgendo la sua attenzione a tutta la famiglia. Li osservò uno per uno, a partire proprio dalla donna. «Dovete promettermi una cosa» ordinò infine, prendendo per mano Clareh, che continuava a singhiozzare. «Dovete andare avanti» fece una pausa, fissando i suoi occhi in quelli della sorella. «Qualunque cosa accada» aggiunse, stringendo più forte la mano di Clareh. La diciassettenne annuì, un po’ a stento, prima di venire condotta fuori dalla stanza dallo stesso Pacificatore di prima. Nell’uscire, i suoi occhi cercarono quelli della sorella. La salutò con una mano, poi la porta si richiuse.
Dopo pochi istanti – durante i quali Liesel non ebbe nemmeno il tempo di ricomporsi – entrarono Valentine e Clarisse, le sue due migliori e uniche amiche. Entrambe le si buttarono addosso, mandandola quasi a terra.
«Ehi, piano!» esclamò Liesel, e quasi si stupì della risatina uscita dalle sue labbra. Era di certo fuori luogo, ma Valentine e Clarisse riuscivano sempre a strapparle un sorriso. Non aveva altri amici, lei, non era una che socializzava facilmente. Per qualche strano caso, la odiavano tutti, e, in poco tempo, era divenuta vittima di bullismo. Persino durante la Mietitura, non le erano sfuggiti i risolini sarcastici delle altre ragazze, che avevano goduto nel vederla camminare verso il palco.
«Non ridere!» strillò Valentine, sciogliendo l’abbraccio.
«Devi vincere, intesi?» si intromise Clarisse, spingendo via l’altra ragazza e piazzandosi davanti a Liesel con le mani sui fianchi. La bionda sorrise, senza rispondere. Le abbracciò tutte e due, pregando di non scoppiare a piangere proprio in quel momento.


 
 
 
Ryder
 
Il sedicenne continuava a camminare, senza fermarsi nemmeno un istante. Andava avanti e indietro, dalla porta alla finestra, quasi sotto ipnosi. Dopo diversi minuti, era ormai diventato un gesto meccanico.
Ryder si sentiva in gabbia. Aveva quasi l’impressione che quella stanza lo stesse opprimendo, quasi le pareti si stessero restringendo per schiacciarlo. Camminare di continuo era l’unica maniera per far evadere la sua mente da quelle terribili quattro mura.
Si sistemò il cappuccio in un gesto nervoso, mentre le mani – ficcate in tasca – tremavano come mai gli era successo in vita sua. L’ultima volta che si era sentito così indifeso era stato il giorno dell’incidente.
Era una storia che conoscevano un po’ tutti al Distretto 6, quella. Anni prima, un terribile incidente ferroviario aveva portato via a Ryder la sorella e la madre, lasciando che lui, suo padre Noah e suo fratello Reev tirassero avanti da soli. Ryder non ricordava molto di quella giornata. Era accaduto tutto in fretta, troppo in fretta perché lui se ne rendesse conto. L’unico ricordo veramente nitido era il dolore alla schiena e alle braccia – dolore che gli tornava alla mente ogni volta che vedeva le cicatrici.
Chiuse gli occhi tanto forte da farsi quasi male.
Non doveva pensare all’incidente. Doveva solo concentrarsi sul presente.
Suo padre e il suo fratellino entrarono pochi secondi dopo. Vederli fu per Ryder un pugno nello stomaco. Noah non piangeva, ma il dolore nei suoi occhi si sarebbe visto anche a chilometri di distanza. Reev, invece, aveva il volto rigato dalle lacrime e continuava a tirare su con il naso.
Il padre aprì la bocca, come a voler dire qualcosa, e Ryder si avvicinò a lui. Sapeva che si stava sforzando anche lui di non pensare alla moglie e a sua figlia Casey. Dopo l’incidente, Ryder e Reev erano tutto ciò che gli era rimasto.
E Ryder era un tributo.
Noah richiuse subito la bocca, allungando le braccia per stringere a sé il figlio maggiore. Ryder ricambiò l’abbraccio, provando una strana sensazione di felicità che gli pervadeva le membra. Lui e suo padre si volevano bene – in fondo, erano l’uno l’ancora dell’altro, da quando le due donne della famiglia erano morte – ma le loro manifestazioni d’affetto erano sempre state fredde e rare.
«Tornerò» sussurrò il ragazzo all’orecchio del padre, con la voce distorta. Sentiva un enorme groppo in gola, ma si sforzò di non piangere. Non poteva farlo davanti a Reev.
L’abbraccio con suo padre sembrò durare troppo poco. Ryder avrebbe voluto rimanere lì sempre, ma il tempo stringeva e sapeva che, da un momento all’altro, un Pacificatore sarebbe entrato per portare via i suoi famigliari. Si rivolse allora a Reev, che non aveva mai smesso di singhiozzare.
 «Ehi, Reev» lo salutò, abbassandosi per poterlo guardare negli occhi. «Voglio farti vedere una cosa» annunciò, allungando una mano verso il viso del fratellino, per asciugargli le guance. Il bambino si stropicciò un occhio, annuendo. Ryder ficcò una mano nella tasca destra dei jeans, tirando fuori un foglio, piegato in quattro. Lo aprì, mostrandolo a Reev. Era un disegno. Lo aveva fatto il più piccolo di casa qualche anno prima. Ormai si vedevano i segni del tempo, ma Ryder non aveva mai smesso di portarlo in giro con sé. Era il suo portafortuna perché rappresentava un suo sogno impossibile. Raffigurava tutta la famiglia Wheeler al completo – incluse Casey e sua madre Maelle. Erano tutti e cinque su un aereo, sorridenti. Ryder amava passare degli interi minuti ad osservarlo, pensando a come sarebbe stato bello poter portare tutta la sua famiglia su un hovercraft, una volta che sarebbe diventato un pilota professionista.
«Te lo ricordi? Lo facesti tu qualche anno fa. Da quando me l’hai regalato, lo porto sempre con me, ad ogni Mietitura. È il mio portafortuna» raccontò il sedicenne, scompigliando i capelli chiari del fratellino. «Lo porterò anche nell’Arena. Sono sicuro che farà il suo dovere» aggiunse con un sorriso. Al sentire la parola Arena, Reev scoppiò di nuovo a piangere e gettò le braccia al collo del fratello.
«Ho paura» mormorò. Ryder gli carezzò la schiena delicatamente, cercando di rassicurarlo.
«Ehi, io sono Danger, te lo sei dimenticato?» chiese, alludendo al fatto che in casa lo chiamassero tutti con quel soprannome, Danger – pericolo. Gliel’avevano affibbiato per via della sua strana passione: saltare dai treni in corsa. Ryder sapeva che al Distretto 6 lo additavano tutti come un pazzo, ma non gli importava. Nessuno sapeva perché faceva ciò, nessuno sapeva quanto dolore provasse e quanto saltare dai treni lo aiutasse. Danger era come chiamavano Casey prima che morisse. Sentire il suo soprannome lo faceva sentire male, a volte.
«Nulla può spaventarmi» continuò, sciogliendo l’abbraccio e guardando Reev con un gran sorriso, che il bambino, anche se un po’ forzatamente, ricambiò.
«Promettimi che tornerai, così potremo volare insieme e visitare tutti i Distretti, quando sarai un pilota» disse Reev, abbracciandolo ancora. Era un il loro sogno, quello: scappare via dal cupo Distretto 6 e visitare le altre fazioni di Panem, volando con il loro hovercraft.
«Te lo prometto. E tu sarai il mio co-pilota». Ryder arruffò i capelli del fratellino, prima di stringergli forte la mano. Reev lo guardò negli occhi, sorridendo – questa volta senza forzature. I due fratelli sciolsero la stretta, per poi far combaciare i loro pugni. Dopodiché aprirono le mani, allontanandole l’una dall’altra, prima di stringerla di nuovo, avvicinando le loro spalle, di modo che quella destra di Ryder sfiorasse quella sinistra di Reev. Era il loro saluto speciale, quello: un modo tutto loro per dimostrarsi il loro affetto.
Quando poi Noah e Reev uscirono, Ryder sentì una morsa allo stomaco, che sparì non appena Alexis – la sua migliore amica – mise piede nella stanza.
«Ehilà, Scar» lo salutò lei, e il suo sforzo di risultare allegra si percepiva benissimo. Scar era un altro dei tanti soprannomi di Ryder. Solo Alexis lo chiamava così, per via delle sue cicatrici.
«Buondì, Lexi» ricambiò il saluto Ryder, con un sorriso. «Qual buon vento ti porta da queste parti?» chiese, ficcandosi – come sempre – le mani in tasca.
«Il vento che vuole dirti di non conquistare troppe ragazze, quando sarai a Capitol City» rispose Alexis con una risatina, avvicinandosi all’amico. «Ricorda che loro vorranno ucciderti, non sbaciucchiarti» aggiunse, alludendo al gran numero di ragazze avute da Ryder sino a quel momento. Il sedicenne alzò gli occhi, facendo finta di essere seccato.
«E tu? Vuoi uccidermi o sbaciucchiarmi?» chiese Ryder, con un sorriso furbetto stampato in volto. Lexi inarcò un sopracciglio, prima di tirargli un pugno sul braccio. Ryder portò una mano sul punto dove l’aveva colpito, facendo finta di essersi fatto un gran male. La ragazza non rise, però. Si fece improvvisamente seria e, altrettanto all’improvviso, abbracciò il suo amico.
«Vedi di tornare a casa, capito?»
Ryder circondò la vita di Alexis con le braccia, appoggiando il mento sulla testa della ragazza. «Me la caverò» promise a voce bassa. «Chi lo sa? Magari l’Arena è un treno da cui dobbiamo buttarci giù!»
Alexis sciolse un poco l’abbraccio, alzando la testa per guardarlo negli occhi. «Compiere azioni spericolate di tanto in tanto e uccidere ragazzini non è esattamente la stessa cosa» puntualizzò. «Fai attenzione, Scar».
Lo abbracciò nuovamente, prima dell’entrata di un Pacificatore. I due amici sciolsero l’abbraccio, anche se a malincuore.
Ryder annuì, sistemandosi il cappuccio. Portò una mano sulla schiena, toccandosi proprio dove c’erano le cicatrici. «Me la caverò con qualche cicatrice… come sempre».
 
 
*
 
«E come avviene questa cerimonia della separazione tra due persone, Jane? M’insegni, non me ne intendo».
«Si dice “addio” o qualche altra formula».
[…]
«Secondo me è arido e inimicale. Mi piacerebbe qualcos’altro, una piccola aggiunta al rito. Se ci si stringesse la mano, per esempio. Ma, no, neppure questo mi accontenterebbe. Allora lei non mi dirà altro che addio, Jane?»
«È abbastanza, signore; si può mettere il cuore sia in una parola che in molte».

-Charlotte Brontë; “Jane Eyre”


 


Alaska's corner

Ed eccoci qui con il primo capitolo, decisamente troppo lungo. Mea culpa, lo ammetto, sono prolissa e mi piace concentrarmi sui pensieri di ogni singolo personaggio. Quindi, scusate se è troppo lungo, scusate se vi ho rotto le palle. Purtroppo, i preliminari degli HG sono tremendamente noiosi e vorrei farli tutti abbastanza in fretta – anche se ciò comporta capitoli lunghi un chilometro.
Comunque, qui avete visto i nostri primi dodici tributi. Simpatici, vero? Io mi sto già affezionando a tutti loro.
Ve li elenco un po’, almeno potete ricordarvi meglio i loro nomi. Cliccando sul nome potrete vedere i loro bei faccini. Spero si vedano perché i link sono quelli di effebì (?) – facebook per quelli che non capiscono la mia lingua.
 
 
Vediamo se c’è qualcosa da dire su questo capitolo. Innanzitutto, una premessa: sappiate che inserirò diversi flashback riguardanti quasi tutti i tributi. Molti di loro hanno avuto delle esperienze passate piuttosto interessanti o comunque cose che li hanno portati ad essere ciò che sono ora. Di molti di loro vi ho già accennato parte della vita, ma credo che inserirò questi piccoli tuffi nel passato per descriverli al meglio. Diciamo che io sono fissata con i flashback, ne metto molti perché li ritengo anche piuttosto importanti. Mi piace mostrare gli avvenimenti passati delle vite dei miei personaggi – e credo che farò lo stesso con i vostri.
Comunque, vediamo se c’è qualche puntualizzazione da fare.
In primis, nella parte del Distretto 1 vi ho accennato ad alcune storie religiose in cui si parlava di un certo Cavaliere Bianco [ Era conosciuta da tutti così, un po’ per i suoi capelli, un po’ perché era considerata come l’Anticristo – il che si ricollegava ad alcune storie religiose, tramandate di generazione in generazione, secondo le quali era esistito, un tempo, un cavaliere, detto appunto Cavaliere Bianco e considerato da tutti come colui che si opponeva al Salvatore. ] Queste storie sono gli avvenimenti narrati nella Bibbia. Non credo che a Panem abbiano una grande cultura religiosa, quindi ho preferito inserire questo appunto per spiegarmi meglio.
 
Le parti prese dalla Bibbia durante i saluti di Warner sono veramente prese dal libro dell’Apocalisse. Ho dato un’occhiatina su internet, le ho lette e scritte qui, così risulta più credibile (?). Ah, durante la Mietitura fanno apparizione anche alcuni miei OC, in particolare Nick, Edgar e Lauren, questi ultimi due erano tributi durante la settantatreesima edizione – scritta da me medesima. In generale, ci sono molti miei OC in questa FF, tra mentori & co. Giusto nella Mietitura del D4  viene presentato Connor, che è un altro mio OC e viene nominato anche un certo Roman. Franziska è un altro mio personaggio, così come suo figlio.
 
Stava giusto pensando a come doveva essere trovarsi in un’Arena piena di caramelle – questa frase è volutamente nonsense. Non sapevo come introdurre l’entrata dei genitori di Raiden e volevo scrivere questa frase che si ricollegava ai precedenti pensieri del tributo. L’Arena di caramelle mi è venuta in mente a random, perché non sapevo che tipo di Arena mettere. :’D
 
Non voglio che muori! – qui ho volutamente mancato un congiuntivo. La sorellina di Charity ha solo dieci anni: non credo che sappia parlare come un libro stampato o, comunque, a dieci anni è normale fare certi errori di grammatica.
 
E quando i genitori se ne andarono, a lui non rimase che stare da solo con tutte le ombre che da anni oscuravano il suo animo. – questa frase contiene un evidente gioco di parole con il nome di Shadow che significa, appunto, “ombra”.
 
Che altro? Ah, sì, il figlio di Franziska – Jonathan – è shippabilissimo con me, siamo canon fino all’inverosimile. In caso, sappiate che il suo pv è Fernando Torres – uno dei miei calciatori preferiti, che io amo alla follia.
E ah, ho cercato di dare la medesima importanza a tutti i vostri tributi. Poi è ovvio che in base a chi va a salutarli o che la parte diventa più o meno lunga. Lo stesso vale per le Mietiture: una Mietitura in cui non accade nulla verrà di certo più corta di una in cui ci sono volontari, oppure accadono dei fatti strani.
 
E ora avrei una richiestuccia. [ urlano in coro: «Paolaaaa, sei una fottuta cagacazzo!» ]. Comunque, avete presente quelle famose richieste per la scheda di cui vi avrei chiesto più avanti? Ecco, ora ne ho bisogno. Perché ve le chiedo adesso? Riposta: non volevo caricarvi subito con tutto il troppo lavoro. Già vi ho obbligati/e a mandarmi delle schede dettagliate [ sappiate che su questa cosa sono stata molto, molto, molto attenta e ho badato a chi ha rispettato o no questo punto del regolamento ], non volevo farvi lavorare come muli, considerato che molte di voi avevano/hanno gli esami di maturità e quelli all’università.
Comunque, i prossimi punti di cui ho bisogno sono i seguenti:
• Comportamento in treno. Il che significa: rapporto con il compagno di squadra, con il mentore, comportamento in generale durante il viaggio.
• Sfilata. Ossia: rapporto con lo stilista, comportamento durante la parata e… vestito. Già, vorrei che foste voi a deciderlo. Dovete trovare un outfit che vi aiuti durante la sfilata, uno che vi faccia ottenere punti. Sappiate che Seneca sarà lì ad osservare tutto.
• Addestramento e alleanze. Con chi si alleerà il vostro tributo? In che situazione vorreste far conoscere la vostra squadra? Che rapporto avranno gli alleati? Su che armi si concentrerà il vostro tributo e cosa mostrerà alla sessione privata per ottenere un bel punteggio? E come si comporterà durante i tre giorni di addestramento e la sessione privata?
• Intervista. Come si porrà nei confronti dei capitolini? Come risponderà alle domande di Caesar? Sarà misterioso, oppure allegro e frizzante? Incuterà timore o si farà amare? E soprattutto: come sarà vestito?
 
Questa scheda potrete anche mandarmela “a pezzi”. Mi spiego: non appena avrete finito di parlarmi del comportamento in treno, potrete subito mandarmelo, così velocizziamo il tutto. E sappiate che le alleanze saranno piuttosto… effimere. Potrebbero anche rompersi durante il Bagno di Sangue – in tal caso, non odiatemi.
 
Ah, prima che mi dimentichi: il titolo del capitolo è una frase di Glee – 5x03, per la precisione, la puntata più triste di tutta la storia di Glee.
Bene, questo è tutto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, spero vi divertiate.
Un bacio.
Alaska. ~

 

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Capitolo 3
*** O1 ~ La parola più difficile da dire è addio; parte 2 ***







O1 ~ La parola più difficile da dire è “addio” – parte 2


 
 
VII. Lumber
 
L’appena percettibile scrosciare delle lontane cascate era l’unico suono che si sentiva al Distretto 7, quel giorno. Tutta la piazza era in silenzio – o quasi, visto che Jane continuava a parlare di quanto fosse felice di essere nuovamente l’accompagnatrice del Distretto 7.
Keith si stropicciò gli occhi, soffocando l’ennesimo sbadiglio. Ormai procedeva alla velocità di uno al secondo, ma non poteva farci niente. Il discorso del sindaco era stato molto noioso e quello di Jane lo stava eguagliando. Non che fosse l’unico a non divertirsi: alla sua destra, Johanna continuava a lanciare occhiate inviperite alla capitolina, mentre i possibili tributi facevano di tutto fuorché ascoltare.
«Sono davvero onorata di essere, per quello che è il decimo anno di fila, l’accompagnatrice di questo meraviglioso Distretto, specialmente quest’anno, dopo il grande trionfo di una degli abitanti!» strillò Jane, girando un poco il capo per lanciare un’occhiata eloquente a Johanna Mason, la vincitrice della settantunesima edizione. Questa non sorrise, non parlò. Rimase ferma, con lo sguardo fisso sul pubblico.
Keith la guardò di sottecchi, cercando un modo di tranquillizzarla. Era stato il suo mentore, lui, la sua guida. L’aveva fatta trionfare, ma gli Hunger Games non erano stati che l’inizio di una lunga beffa. Keith aveva ormai capito che vincere non portava a nulla, se non alla ricchezza. Ma oltre ai soldi, un Vincitore non aveva nulla. La gloria, forse, ma nemmeno quella poteva ripagare i sensi di colpa per aver ucciso qualcuno, oppure le perdite subite a causa dei Giochi. Quello non era il reality show di Capitol City, il gioco dei tributi: quello era il gioco di Snow. Era lui il burattinaio che governava i fili delle bambole, muovendole a suo uso e consumo, uccidendole e facendole vincere, osannandole e maledicendole. Se non si eseguivano i suoi ordini, lui uccideva i parenti. Semplice, immediato, spaventoso, ma funzionava. E a Johanna era capitato tutto ciò.
Keith sospirò, tamburellando con il piede a terra come faceva sempre quando era nervoso.
«Ma credo che vi stiate annoiando tutti, quindi direi di procedere con il momento che tutti state aspettando: l’estrazione!» annunciò la capitolina, sistemandosi i lunghi guanti color crema che indossava.
«Tutti, certo» bofonchiò Johanna, con le braccia conserte. Keith sorrise rassegnato, avvicinando il volto a quello della ragazza.
«Ricordati ciò che ti ho detto» sussurrò, prima di tornare ad appoggiarsi allo schienale. Johanna alzò gli occhi al cielo, ma obbedì.
Jane ritornò al microfono, accompagnata dal rumore prodotto dai suoi tacchi sul legno del palco. Fece per leggere il nome del tributo scelto, ma dal pubblico si sentì un urlo: «Mi offro volontaria!»
Keith rimase sorpreso da due cose. Innanzitutto, c’era un volontario. In un Distretto povero come quello dei falegnami era una cosa rara. In secondo luogo, la ragazzina che si era offerta volontaria non era quel genere di volontaria. Era piccola, sicuramente una dodicenne, considerato che uscì proprio da una delle ultime file. Aveva lunghi capelli corvini, che incorniciavano un volto piccolo, da bambina. Tuttavia, non fu questa la cosa più strana, ma il modo in cui si atteggiò. La volontaria camminava a quattro zampe e ricordava vagamente un ragno per il modo il cui si muoveva. Giunta nel corridoio che consentiva l’accesso al palco, la ragazzina si abbassò ancora di più e iniziò a camminare all’indietro, con lo stomaco che quasi rasentava il terreno. Si avvicinò agli adulti, precisamente ad una donna dalla magrezza estrema, che sembrava potesse frantumarsi da un momento all’altro. La dodicenne le sussurrò qualcosa all’orecchio, prima di dirigersi verso il palco.
Fu in quel momento che si udì l’urlo.
Era una donna, una signora da tutti conosciuta al Distretto: Scarlett Buendìa, o meglio, Scarlett Dunaeva, la primogenita dell’ormai anziano sindaco.
Allora, Keith capì. Non solo lui, ma tutto il pubblico.
La donna a cui la volontaria si era avvicinata era Coco Vasilievna, da nubile conosciuta come Coco Dunaeva, la figlia ultimogenita del sindaco.
Keith rimase impietrito sulla sedia, con gli occhi sgranati dalla sorpresa. Era una storia che tutti conoscevano, al Sette, e che per anni aveva spaventato il popolo.
Coco Dunaeva era la figlia del sindaco, una ragazza di bell’aspetto e molto dolce, che si era sposata, anni addietro, con un semplice boscaiolo, Jared Vasili. La loro vita era andata avanti in modo pressoché perfetto per anni: vivevano in una bella casa, felici, e avevano due splendide figlie gemelle. Fu allora che accadde ciò che per anni era stato oggetto di chiacchiere e commenti maligni da parte degli abitanti del Distretto 7. Coco fu uccisa con un colpo di pistola da uno degli amici del marito – il quale aveva il brutto vizio di bere e, spesso, portava a casa anche alcuni della sua compagnia, come lui ubriachi. Jared si rese conto solo il giorno dopo della morte dell’amata moglie e vi  rimase tanto male che si suicidò, insieme alle sue bambine. Scarlett, allora, cercò disperatamente suo cognato e le nipoti, grazie anche all’aiuto di suo marito Thomas – ricco e influente cittadino del settimo Distretto.
Da qui in poi la storia si faceva confusa: la versione ufficiale era che i due coniugi Buendìa avevano ritrovato una delle gemelle in uno stato a dir poco confusionale, mentre l’altra bambina e il padre giacevano sul fondo del dirupo, i loro corpi straziati. Tuttavia, non mancavano altre storie: c’era chi sosteneva che la gemella sopravvissuta avesse ucciso la sorella e il padre per nutrirsi, chi sosteneva che lì nel dirupo vi fossero delle orribili creature, la cui vista aveva fatto andare fuori di testa la bambina.
Erano alcuni anni che la piccola era scomparsa e nessuno sapeva che fine avesse fatto. In quel momento, tutti avevano la risposta.
Una volta giunta sul palco, Jane sorrise dolcemente alla ragazzina, nonostante fosse evidente il suo timore nei confronti della volontaria.
«Come ti chiami?» chiese. La ragazzina alzò lo sguardo verso di lei con aria stranita.
«Odie» rispose semplicemente, tornando a guardare il pubblico.
«Odie?» ripeté Jane, inarcando un sopracciglio. «Non hai un nome normale?»
«Mi chiamo Odie!» esclamò la volontaria, e la sua rabbia era evidente.
«D’accordo. Ti chiami Odie». Jane prese un bel respiro, prima di stamparsi il solito sorriso a trentadue denti in volto. «E ora, il tributo mas-».
La sua frase fu interrotta da Odie, che aveva strappato una ciocca dei capelli rosso fiamma di Jane. La capitolina fece un verso di sorpresa e dolore, mentre la ragazzina si infilava la ciocca di capelli in bocca e la mangiava di gusto.
Keith sgranò gli occhi cerulei, indietreggiando impercettibilmente con la sedia. Quella ragazzina aveva qualcosa che non andava.
I Pacificatori arrivarono come furie, salendo sul palco con aria aggressiva. Due di loro presero Odie per le braccia, trascinandola dentro il Palazzo di Giustizia. Lei tentò di divincolarsi e addirittura morse uno di loro sul braccio. Quest’ultimo, però, la tenne ben stretta e la portò all’interno dell’edificio.
Nel frattempo, uno dei soldati in uniforme bianca si tolse il casco, avvicinandosi al microfono.
«Ci scusiamo per l’inconveniente, ma la giovane doveva essere portata via in quanto elemento di disturbo alla quiete pubblica» spiegò, dopodiché fece un cenno con il capo a Jane e si rimise il casco, per tornare al suo posto.
«Si prospetta una Mietitura interessante» commentò la donna, toccandosi la testa laddove Odie le aveva strappato la ciocca di capelli. «Passiamo al tributo maschio».
Jane ripeté le azioni poco prima, continuando a toccarsi il capo. «Il tributo maschio del Distretto 7 è Garrett Wood» annunciò poco dopo.
Keith sentì Johanna che gli toccava il fianco con una mano. Si voltò verso la diciottenne, che stava indicando il pubblico con un dito.
«Parente?» mimò con le labbra. Keith scosse la testa. Anche lui si chiamava Wood di cognome, ma al Distretto 7 – dove regnavano i boschi – era un cognome piuttosto diffuso e lui non sapeva nemmeno chi fossero i suoi parenti, al di là di suo padre, sua sorella Althea, i nonni, gli zii e i suoi pochi cugini.
Nel frattempo, si era sentito provenire un urlo molto acuto dal pubblico. Chi aveva urlato era di sicuro una femmina – una ragazza, magari parente del tributo appena estratto.
Keith si concentrò su colui che stava camminando verso il palco, curioso di conoscere chi fosse quel misterioso Wood. La prima cosa che lo colpì era il modo in cui camminava verso il palco. Non era tanto l’espressione impassibile e dura a incuriosirlo, quanto il modo in cui si dirigeva verso la scalinata in legno. I suoi occhi erano sfuggenti e continuava a muovere la testa, con le braccia leggermente protese verso l’esterno, come a voler captare tutti i suoni possibili e tutte le persone che gli stavano accanto.
Cieco. Quel ragazzo non ci vedeva.
Nella mente di Keith si formò subito un unico pensiero: l’incendio. Aveva sentito parlare, diversi anni prima, di un terribile incendio nel quale era perito un uomo, padre di un ragazzo che aveva perso la vista. Come sempre, le chiacchiere del popolo erano andate avanti per anni e nuovi particolari vi si erano aggiunti, quindi nessuno conosceva la storia ufficiale. Si sapeva solo che un uomo era morto, lasciando da solo il suo unico figlio.
Garret raggiunse il palco lentamente, con i lunghi capelli biondi appena mossi dal venticello. Anche Jane sembrava abbastanza scossa nel vederlo: a Capitol City non dovevano esserci persone cieche, considerati tutti gli interventi chirurgici che potevano permettersi per essere in splendida forma.
«I tributi del Distretto 7» annunciò la donna. «Garrett Wood e…» si voltò leggermente verso la porta del Palazzo di Giustizia. «… Odie» concluse, scrollando la testa.
 
 

 
Odessa
 
Si faceva chiamare Odie, ma il suo vero nome era Odessa Auerstädt Charlize Brianna Vasilievna. Non aveva mai amato particolarmente come l’avevano chiamata i suoi genitori, preferendo farsi conoscere con il semplice diminutivo di Odie.
I Pacificatori l’avevano trascinata in una piccola stanzetta quadrata nel Palazzo di Giustizia, stando ben attenti a non farsi mordere dalla ragazzina dall’apparenza innocua. Era quello che pensavano tutti, nel vederla: Odie era decisamente graziosa, dal viso minuto incorniciato da lunghi capelli corvini, gli occhi chiari e quell’adorabile spruzzata di lentiggini su entrambi gli zigomi. In realtà, per quanto dolce e delicata potesse apparire, Odie non lo era affatto. I più si tenevano alla larga da lei, specialmente dopo aver sentito la spaventosa storia sul suo passato. Non aveva avuto un’infanzia felice, per niente. Sua zia aveva fatto di tutto per farla diventare una bambina normale, ma i suoi tentativi erano stati del tutto vani. Addirittura, aveva chiamato uno psicologo perché potesse cavarle qualche parola di bocca riguardo a ciò che era accaduto dopo che suo padre si era gettato dal burrone con lei e sua sorella gemella America. Tuttavia, Odie non aveva mai risposto apertamente alle domande del dottore, parlando a monosillabi oppure uscendosene fuori con frasi del tutto inappropriate.
Nessuno entrò dalla massiccia porta di legno che dava accesso alla stanza nella quale l’avevano condotta. Odie rimase sola per circa un’ora, seduta su una poltrona ormai malridotta, canticchiando una melodia decisamente strana. Non che fosse bello sentirla: la ragazzina aveva una vocetta rauca, che stonava con il suo aspetto tanto aggraziato e fanciullesco. E anche la canzone non era delle migliori: era una melodia orribile, il cui testo era formato da frasi costruite a caso, del tutto sconnesse. Le parole si susseguivano come un testo composto da un bambino di due anni che ancora non sa parlare bene.
A Odie, però, sembrava piacere e continuava a canticchiare, imperterrita delle occhiatacce lanciatele di tanto in tanto dal Pacificatore che stava di guardia fuori dalla porta.
Dopo un’oretta, il malcapitato soldato aprì la porta di botto, facendo cenno alla dodicenne di uscire. La ragazzina si alzò dalla poltrona, lisciandosi il vestito – nero, come quasi tutti i suoi abiti.
«Avanti, vieni» la esortò l’uomo. Veloce come un fulmine, Odie gli andò addosso, mordendolo sul braccio. I suoi denti affondarono nel tessuto bianco. All’uomo sfuggì un’esclamazione di disappunto. Si levò Odessa di dosso, mormorando delle imprecazioni, mentre la ragazzina ridacchiava. Ma nonostante l’apparente felicità, i suoi occhi chiari dalle curiose sfumature rossastre restavano freddi, quasi lei non provasse alcuna emozione.
 
 

 
Garrett
 
Nella stanza vi era un buon profumo di fiori, al quale si mescolava il tipico odore del legno che permeava un po’ dovunque, al Distretto 7.
Garrett inspirò a pieni polmoni, beandosi di quel profumo tanto soave che avrebbe potuto non sentire più. Era l’odore di casa, dei boschi in cui amava scappare quando era costretto a stare all’orfanotrofio. Sapeva di giornate passate con suo padre, aiutandolo a tagliare la legna, di pomeriggi passati ad allenarsi nel bosco per affinare al meglio i quattro sensi che gli erano rimasti dopo che un terribile incendio gli aveva portato via la vista.
Nonostante il suo handicap decisamente grave, Garrett aveva imparato a vivere come un normodotato. Fin da quando era rimasto orfano, aveva iniziato a scappare nel bosco per allenarsi con un bastone appuntito, che usava come un’arma. Ormai riusciva ad orientarsi benissimo al Distretto, facendo affidamento anche sui ricordi che aveva, risalenti ancora al tempo in cui vedeva.
A testoni, provò a controllare se nella stanza vi fosse una finestra. Non avrebbe mai potuto guardare al di fuori del vetro, ma voleva immaginarsi la piazza. La ricordava bene, nonostante fossero ormai passati anni. Gli tornarono alla mente tanti episodi della sua vita: le corse in falegnameria per consegnare il legname, le giornate passate ad ammirare la vetrina del negozio di dolci, l’odore di segatura che permeava l’ambiente e il lontano suono delle cascate, che rendeva il tutto più armonioso.
Gli piaceva, casa sua. Nonostante tutto, era davvero un bel posto, anche se abbastanza povero.
Delle voci al di fuori della stanza lo costrinsero a voltarsi e a muovere qualche passo. Fece un sorrisino. Quella vocetta l’avrebbe riconosciuta dovunque: Kayley, la sua ragazza. Era una delle poche persone che gli piacevano davvero. Garrett non aveva mai avuto molti amici. Non erano tanto gli altri che lo escludevano, quanto lui che rifiutava di avere rapporti umani. La gente non gli era mai piaciuta particolarmente, fatta eccezione per Kayley e suo padre Lionel, un Pacificatore morto alcuni anni prima nel Distretto 8 – luogo nel quale era stato traferito.
La porta si aprì e Garrett fece appena in tempo ad aprire la bocca, prima che Kayley gli si buttasse addosso. La ragazza singhiozzava e lo strinse tanto forte da fargli male.
«Piano» l’ammonì Garrett, dandole qualche pacca amichevole sulla schiena. Kayley non lo ascoltò, continuando a piangere ininterrottamente.
«Avrei dovuto offrirmi volontaria» mugugnò, con il volto premuto contro il petto di Garrett. Lui le carezzò i capelli, cercando, invano, di calmarla.
Non passò nemmeno un minuto, che Kayley cominciò a tartassarlo, parlando alla velocità della luce, nel suo solito modo. Era quella la grande differenza tra lei e Garrett: Kayley chiacchierava volentieri con chiunque, era una vera forza della natura; il ragazzo, invece, se ne stava sempre sulle sue, rispondendo a monosillabi e preferendo stare da solo. A parte questo, però, erano più simili di quanto sembrasse. Ecco perché battibeccavano tanto spesso.
«Garrett, ascoltami» esordì la ragazza, mettendogli le mani sulle spalle. «Manda al diavolo la misantropia». Il tributo fece per parlare, ma la ragazza gli premette una mano sulla bocca tanto forte da fargli male. «Ascoltami per una buona volta! Puoi essere misantropo quanto cavolo vuoi, ma devi lasciare da parte per un po’ il tuo odio nei confronti delle persone. Trovati degli alleati. Ti aiuteranno a sopravvivere».
Il ragazzo sbuffò. Non era la prima volta che Kayley gli intimava di farsi degli amici. Avevano già avuto discussioni del genere, ma non erano mai finite bene. Di solito, si mandavano a quel paese per poi fare pace il giorno dopo. Tuttavia, nonostante le numerose litigate, Garrett non aveva mai dato ascolto ai consigli di Kayley. Lui non voleva amici, né tantomeno alleati, anche se gli sarebbero stati indubbiamente utili, nell’Arena. Sarebbero potuti essere i suoi occhi, ma l’idea di avere qualcuno accanto lo innervosiva.
«No, Kayley. Ne abbiamo già parlato» ribatté. Nella sua mente, poté quasi vedere il broncio messo su dalla sua ragazza.
«Sei un misantropo!» lo accusò, colpendogli il petto con l’indice. Garrett indietreggiò, andando a sbattere con la gamba contro il bracciolo della poltrona.
«E tu socializzi anche con i muri».
«Tu solo con quelli!»
«E puoi darmi torto? Le persone sono stupide e non capiscono!» Kayley proruppe in un verso arrabbiato, come faceva sempre in quei momenti. Garrett si rabbuiò. Non voleva discutere con lei, non in quel momento, appena dopo essere diventato il tributo maschio del Distretto 7.
«Se non te ne sei accorto, io rientro nella categoria persone. E anche tu».
«Lo so, ma tu sei diversa» mormorò il ragazzo, grattandosi una guancia. Kayley sospirò, prima di correre ad abbracciarlo.
«Abbiamo poco tempo e non voglio litigare» sussurrò, stringendolo con vigore. Garrett le circondò la vita con le braccia, appoggiando il mento sulla sua testa. Poteva sentire l’odore dei suoi capelli. Era buono, sapeva di fiori. Non aveva mai visto Kayley diventare un’adolescente. Nella mente aveva solo alcune immagini confuse, risalenti all’infanzia, quando ancora non si conoscevano bene. Ricordava una ragazzina dai capelli castani e dagli occhi grandi, che continuava a chiacchierare incessantemente. Caratterialmente, Kayley non era cambiata molto.
«Neanche io» ammise il tributo, prima che la porta venisse aperta da un uomo in uniforme bianca. Garrett non aveva mai amato particolarmente i Pacificatori – come tutti, del resto. L’unico ad essergli simpatico era stato Lionel, il padre di Kayley, ma lui era diverso. Gli venne automatico sorridere, pensando a come anche Kayley fosse diversa dalle altre persone. Doveva essere una specie di vizio di famiglia. Qualunque cosa li rendesse diversi, però, era riuscito a rompere la corazza da misantropo di Garrett, facendolo affezionare a delle persone per la prima volta in vita sua.
«Vedi di tornare. Se no, ti resuscito e poi ti ammazzo» mormorò Kayley, prima di posare le sue labbra su quelle del ragazzo, come a voler suggellare un patto importante.
 
 
 


 
VIII. Textiles
 
Cecelia accavallò le gambe, passandosi una mano tra i lunghi capelli scuri per tenerli lontani dagli occhi. Da sempre, la sua folta chioma le aveva dato fastidio a quel modo. Ogni tanto – come in quel momento – ricordava la voce di sua madre che le consigliava di tagliarseli. Sua nonna, addirittura, le raccontava che la gente diventava cieca, se le finivano i capelli negli occhi.
Un sorrisino increspò le labbra della Vincitrice, anche se sarebbe potuto risultare molto fuori luogo, considerato che Cecelia si trovava sul palco dove Arianne – l’escort del Distretto 8 – continuava a gridare al microfono.
La donna sospirò, sistemandosi la gonna del vestito che indossava. L’aveva fatto lei personalmente, apposta per il giorno della Mietitura. Era un semplice abitino arancione – il suo colore preferito. Lo indossava ogni anno, da quando aveva vinto. Era il suo piccolo portafortuna, anche  se non le serviva ancora molto, considerato che i suoi figli erano tutti troppo piccoli per partecipare alla Mietitura.
La sua mano destra corse istintivamente a sfiorare il suo ventre – portatore di una nuova vita che sarebbe venuta al mondo di lì a circa sei mesi. Sperava solo che non facesse troppo il matto durante gli Hunger Games.
«Sono davvero felice di essere qui per quello che ormai è il decimo anno di fila!» esclamò Arianne, spalancando le braccia ricoperte di glitter color oro, in tinta con il suo vestitino striminzito. Cecelia inarcò un sopracciglio, vedendo in che modo orribile era stato cucito il lato sinistro dell’abito. La linea dei punti era decisamente storta. Chiunque fosse stato lo stilista che lo aveva messo a posto, aveva bisogno di ripetizioni.
«Da settantadue anni, gli Hunger Games portano gioia e ricchezza nei nostri Distretti e io sono davvero onorata di lavorare a questo meraviglioso progetto!» completò il suo discorso con un finto applauso, che nessuno, nelle file sottostanti, alimentò. L’unico fu il sindaco che – forse mosso a compassione – batté piano le mani.
«È giunto il momento di scegliere la nostra fortunata ragazza che rappresenterà il Distretto 8 ai settantaduesimi Hunger Games» annunciò Arianne, dirigendosi di gran lena verso l’ampolla contenente i nomi delle femmine.
In tutta la sua fretta, la capitolina non si accorse di una cosa importante che aveva notato tutto il Distretto. Una ragazza, dai lunghi capelli castani, camminava verso il palco, con aria solenne. Era indubbiamente una ragazza graziosa, ma c’era qualcosa di strano, in lei. L’espressione del suo volto era curiosa – pareva quasi che sapesse già quello che sarebbe accaduto - e la benda che portava per coprire l’occhio destro non faceva che accentuare questa stranezza.
Arianne tornò al microfono, molto più lentamente di prima, stringendo tra le mani un foglietto piegato in due. Cecelia si allungò un poco in avanti con il busto, incuriosita da quella giovane così stramba. Lanciò un’occhiata a Edward – suo marito e Vincitore della cinquantottesima edizione. L’uomo aggrottò la fronte, mimando con le labbra la frase: «che diavolo succede?»
Cecelia scosse la testa, riprendendo a guardare la ragazza. Arianne aveva fatto finta di niente e stava leggendo il nome della ragazza.
«Seta Velour» chiamò, lanciando un’occhiataccia alla giovane che ormai era salita sul palco.
«Eccomi» rispose la misteriosa ragazza. Al sentirla, tutto il pubblico iniziò a parlottare, bisbigliando cose sul suo conto. Cecelia strinse le labbra. Aveva già sentito parlare di Seta Velour e del suo occhio mancante, ma non l’aveva riconosciuta subito. Era piuttosto famosa, al Distretto 8 e altrove, anche se i più la vedevano come una pazza visionaria, per via della storia abbastanza tormentata della sua famiglia. Per anni, Seta aveva vissuto con una donna – da tutti considerata la strega del Distretto. Ciò non aveva fatto altro che alimentare le dicerie su di lei, anche dopo che era diventata famosa a Capitol City, per via della sua bravura come sarta.
Arianne batté le mani, cercando di riportare l’attenzione della folla su di lei. Gli abitanti del Distretto 8 smisero di parlare, riprendendo a guardare il palco con la stessa aria spaventata di prima. L’escort ripeté le stesse azioni compiute nell’estrarre il tributo femmina, dirigendosi però dalla parte opposta del palco. Ritornò trionfante pochi secondi dopo, stringendo tra le dita un pezzo di carta, che teneva alto per mostrarlo alla folla.
«Il tributo maschio del Distretto 8 è…», alzò lo sguardo, osservando per un attimo i ragazzini stipati sotto il palco, «… Adryan Greenhill», concluse con un sorriso a trentadue denti. Il sindaco ebbe un sussulto.
Lì per lì, Cecelia non capì cosa stesse succedendo. Poi collegò il tutto. Greenhill era lo stesso cognome del sindaco. Quel ragazzino era suo figlio.
Adryan raggiunse il palco con aria tremante e sembrava quasi che si stesse per spezzare. Era alto, ma molto minuto, con un viso sottile su cui spiccavano due grandi occhi grigi. I suoi capelli corvini gli finivano sulla fronte, coprendogli leggermente gli occhi.
«I tributi dal Distretto 8!», esultò Arianne, una volta che la ebbero raggiunta sul palco. «Seta Velour e Adryan Greenhill!»
 
 

 
Seta
 
La quindicenne sistemò la benda che le copriva il suo occhi destro – un finto occhio destro, per essere precisi. Era un semplice occhio di vetro che sopperiva la mancanza di quello vero, perso quando Seta era ancora bambina. Tuttavia, quello incuteva timore in tutta la popolazione del Distretto 8, ecco perché lei lo teneva nascosto.
Seta sospirò, carezzando il pregiato tessuto che ricopriva la poltrona sulla quale era seduta. Conoseva bene tutte le voci che si dicevano su di lei al Distretto. Era stata appellata con diversi epiteti: figlia del demonio, maga, ma i più famosi erano la strega e la lunatica. Non che Seta andasse fiera di quella sua reputazione – si era sforzata, anche negli anni precedenti, di farsi degli amici – ma ormai era abituata a tutto ciò che veniva detto su di lei e sulla sua ormai defunta nonna, Amalia Velour. In realtà, Amalia non era stata la sua vera nonna, ma semplicemente una madre adottiva. Nonostante ciò, data l’avanzata età della signora, Seta l’aveva sempre considerata come una nonna, protettiva e dolce, che le aveva anche insegnato a leggere i tarocchi.
La quindicenne fissò intensamente la porta, aspettandosi che, da un momento all’altro, entrasse Amalia. Mai come in quel momento Seta aveva sentito la sua mancanza. Il giorno prima, nel consultare i suoi tarocchi che le avevano predetto l’imminente estrazione alla Mietitura, Seta aveva immaginato che la mano fragile e rugosa della nonna le carezzasse i capelli, facendola sentire un po’ più confortata. Invece, Seta era rimasta sola tutta la notte, stringendo la sua carta del Matto, che conservava ormai da anni e ripensando alla runa lasciatale dalla nonna – Algiz – che, a detta dell’anziana, l’avrebbe protetta.
La porta si aprì e, per un istante, Seta immaginò di vedere la figura ingobbita dagli anni di Amalia. Ad entrare, però, fu sua  sorella Lana, accompagnata dal fidanzato Trevor. Al contrario della nonna, Lana era una sua vera parente, con la differenza che i suoi genitori, anch’essi deceduti, avevano deciso di tenerla, mentre Seta, nata come secondogenita, era stata abbandonata dinnanzi alla porta di casa di Amalia Velour. Non era stata una scelta cattiva, quella dei genitori di Seta. Sebbene la giovane fosse nata quasi per errore, i due le volevano veramente bene. Il problema, come in molte altre famiglie del Distretto 8, era la ricchezza.
Senza neanche salutare la sorella minore, Lana le andò incontro, abbracciandola. Seta ricambiò la stretta, sebbene in modo più freddo e distaccato. La maggiore delle due era sicuramente la più brava nelle manifestazioni d’affetto. Sin da quando si erano ritrovate, Lana si era mostrata aperta e affettuosa nei confronti di Seta, mentre la ragazzina aveva sempre manifestato un atteggiamento distaccato, come con tutte le altre persone. C’era stato un tempo in cui Seta Velour era una ragazzina aperta e socievole, che si fidava facilmente delle persone, ma dopo l’incidente in cui perse l’occhio, divenne molto più malfidente e sua sorella – nonostante il forte legame di sangue che le univa – non era esente da tutto ciò.
L’occhio di Seta si posò per un istante su Trevor, il fidanzato e convivente di Lana. Il ragazzo si guardava in giro con aria spaesata. Aveva le braccia incrociate al petto, in un gesto di chiusura nei confronti di ciò che lo circondava. Seta era conscia del fatto che Trevor non si fidasse di lei, così non vi badò, concentrandosi solo su ciò che avrebbe detto a Lana per calmarla.
«Non essere spaventata» disse la sorella maggiore, quando il loro abbraccio fu sciolto. Scostò una ciocca di capelli di Seta e la portò dietro l’orecchio della ragazzina, mettendo in bella mostra la benda che copriva l’occhio destro. «Cerca di tornare a casa» sussurrò poi, stringendo a sé la sorella per a seconda volta.
«Non ho paura» ribatté Seta a bassa voce. «Sapevo che tutto ciò sarebbe successo».
Lana sciolse l’abbraccio in modo brusco, quasi avesse paura di toccarla. Le mise le mani sulle spalle, in un atteggiamento di rimprovero e Seta si trattenne dallo sbuffare. Lana, nonostante tutto, era come gli altri abitanti del Distretto: malfidente, sospettosa. Non credeva alla magia e ai tarocchi.
«Seta, ti prego, smettila di credere all’arcano e a queste sciocchezze! La nonna credeva che fossero vere,  ma tu devi concentrarti sulla realtà dei fatti» esclamò, fissando intensamente l’occhio sinistro della più piccola. Seta scosse la testa.
«Non posso. È nella mia natura».
Lana rimase ferma, sul volto un’espressione seria. Negli occhi aveva una strana luce – la luce della delusione. Seta si sentì in colpa per ciò che aveva appena detto. Stava per andare agli Hunger Games e aveva deluso sua sorella. Questo senso di colpa fu però soppresso dall’ira. Non era una rabbia tremenda e Seta non lo dava a vedere, ma si sentiva furiosa nei confronti di Lana, a volte. Le doleva ammetterlo, ma certe volte era ottusa anche lei, proprio come tutti gli altri abitanti del Distretto.
Un Pacificatore spalancò la porta. «Tempo» disse, e Lana tolse le mani dalle spalle della sorella.
«Dunque… ciao, Seta. Cerca di tornare» mormorò, prima di dirigersi verso la porta.
«Ciao, Lana» rispose Seta. «E ciao anche a te, Trevor» aggiunse, inarcando un sopracciglio. Il ragazzo si voltò, quasi sobbalzando nel sentire il suo nome.
«Sì, ciao» disse frettolosamente, prima di afferrare la mano della fidanzata e uscire dalla stanza.
Seta osservò tutta la scena e non le sfuggì l’ultimo, deluso sguardo che le lanciò sua sorella.
 
 

 
Adryan
 
Essere figlio del sindaco aveva molti lati belli, ma non rendeva  Adryan esente dalle Mietiture e dal lavoro in fabbrica.
Con un gesto infastidito, il ragazzino spostò il suo lungo ciuffo di capelli corvini dalla fronte, per impedire che gli andasse davanti agli occhi.
Non aveva neanche una tessera.
La buona sorte era a suo favore.
Eppure era stato scelto lo stesso.
Sentì la rabbia ribollirgli nelle vene. Era arrabbiato con Capitol City, con il presidente Snow, con chi aveva dato inizio agli Hunger Games.
Si sedette di botto sulla poltrona, cercando di calmarsi. Neanche una lacrima era sgorgata dai suoi occhi in tutto quel tempo e sapeva che nemmeno l’entrata dei suoi famigliari lo avrebbe fatto piangere. Non piangeva mai, Adryan, da quando sua madre era morta alcuni anni prima. Era piccolo, ma ricordava ancora il dolore provato nel vederla ormai moribonda nel suo letto. Era lentamente diventata quasi rinsecchita. La malattia l’aveva logorata dall’interno, facendola invecchiare precocemente. L’unica cosa a non essere malata era il suo animo. Adryan la ricordava come una donna forte e combattiva, che non aveva cessato un attimo di lottare, nemmeno all’apice della malattia. La rivedeva così ogni notte, quando lei andava a fargli visita nel sonno e lui si svegliava, convinto di avere la mano di lei posata sulla spalla o sui capelli, in un gesto confortevole.
Gli mancava da morire, ma non poteva più far nulla per portarla indietro.
Sua sorella entrò nella stanza come una furia, gettandosi addosso a lui non appena si mise in piedi. Suo padre la seguiva, senza battere ciglio, con le mani dietro la schiena nel modo in cui era solito camminare.
La ragazza singhiozzava rumorosamente e, nonostante avessero ben dieci anni di differenza, pareva Adryan l’adulto in quella stanza. Aveva mantenuto un atteggiamento composto. L’unica cosa che faceva comprendere agli altri il suo dolore erano i suoi occhi grigi – che, accompagnati dai capelli scuri, richiamavano alla provenienza della sua famiglia, originaria del Distretto 12.
Adryan accarezzò la schiena della sorella, cercando di calmarla, ma lei continuava a piangere senza interruzione.
«Non è possibile» mormorò, con la voce rotta dal pianto. Adryan fece spallucce.
«È possibilissimo. L’hai appena visto» ribatté con voce atona, appoggiando il capo sul petto della sorella. La ragazza affondò la mano nei folti capelli del fratello, senza smettere di singhiozzare.
Adryan chiuse gli occhi, beandosi di quella improvvisa sensazione simile alla felicità. Non poteva definirsi felice del tutto, ma provava una bella emozione come quando, da piccolo, andava a rintanarsi tra le braccia di sua sorella per essere confortato dopo un incubo, una litigata con i compagni di scuola o quando semplicemente si sentiva triste perché trascurato dal padre. Era quella una delle cose che aveva fatto più male a Adryan in tutti quegli anni: dopo la perdita della madre, anche il padre lo aveva abbandonato, preso com’era dai suoi impegni da sindaco.
«Cerca di non morire» singhiozzò sua sorella, sciogliendo di poco l’abbraccio per guardarlo negli occhi. Adryan annuì, lanciando un’occhiatina al padre, che per tutto il tempo era rimasto fermo, ad osservare i suoi due unici figli. Il tredicenne azzardò un passo verso di lui, togliendo le braccia dalla vita della sorella. Il sindaco del Distretto 8 sorrise, in modo triste, allargando le braccia in maniera quasi intimidita. Adryan non ci pensò due volte e corse ad abbracciarlo, per sentire un po’ dell’affetto che gli era mancato in tutti quegli anni. Non si dissero niente, lui e suo padre, rimasero semplicemente fermi, in un abbraccio che parve durare troppo poco.
«Torna, figliolo» disse l’uomo, stringendo forte la spalla del figlio. «Non posso permettermi di perdere anche te».
«Ci proverò» promise Adryan, prima di stringere di nuovo sua sorella, forse per l’ultima volta in tutta la sua vita.
 
 


 
IX. Grain
 
Niklas odiava le Mietiture. Le aveva sempre odiate, sin da quando era stato obbligato a presentarsi in piazza, ogni anno. Ormai aveva ventiquattro anni ed era un mentore, ma i suoi sentimenti nei confronti di quella manifestazione non erano mutati. Detestava dover esibire la sua migliore maschera da bravo ragazzo, quando in realtà avrebbe voluto alzarsi in piedi e urlare al mondo quanto odiasse Capitol City e gli Hunger Games. Sapevano tutti quanto lui avesse un carattere difficile – lo aveva dimostrato anche dopo aver vinto, quando aveva gentilmente mandato il presidente Snow a quel paese.
Un’altra cosa che odiava era vedere i ragazzini che salivano sul palco, sapendo che non avrebbero mai vinto e che lui non avrebbe potuto aiutarli. Erano ormai sei anni che faceva quel lavoro. Sei anni in cui si era arrabbiato, aveva visto morire dei ragazzi innocenti e non aveva potuto far nulla per salvarli. Al Distretto 9, del resto, non vinceva mai nessuno. Già la sua vittoria era stata una bella sorpresa: nessuno si sarebbe mai aspettato che quel ragazzo dai capelli ribelli color del grano e il viso che si illuminava solo quando compiva una malefatta avrebbe trionfato. Eppure ce l’aveva fatta, contro ogni previsione. Era ciò che si ripeteva all’inizio di ogni Mietitura, quando il suo cronico pessimismo lo faceva sprofondare in un turbine di ansia e tristezza.
Odiava anche Ginevra, l’accompagnatrice. La detestava fin da quando era bambino e assisteva alle Mietiture e quando l’aveva poi incontrata nel treno diretto alla Capitale, il suo odio era aumentato. L’escort aveva guardato il suo braccio sinistro e i tagli che sopra vi formavano una rossa ragnatela con occhio critico, commentando con un: «se te li sei fatti tu, sei proprio idiota», che aveva fatto arrabbiare non poco Niklas. Infatti, le aveva gettato addosso uno dei cupcake posati sui tavolini, rovinando la sua elaborata acconciatura.
Non aveva mai riso tanto in vita sua come in quel momento, anche se suo zio Yezekael lo avrebbe volentieri ucciso.
«Signore e signori, onoriamo questo giorno!» strillò Ginevra. Dalle labbra di Niklas uscì un lamento, ma Karen – una delle Vincitrici – lo zittì, tirandogli uno schiaffetto sulla coscia, così che il ragazzo si limitò ad alzare gli occhi al cielo e sbuffare.
«Vediamo ora chi sarà la nostra rappresentante agli Hunger Games» continuò la capitolina, con i denti rivestiti d’argento che scintillavano sotto la luce del sole. Si avvicinò alla boccia destra, tornando poi dopo qualche secondo, stringendo forte un foglietto.
«Abbiamo un nome bello lungo, qui!» commentò, dopo aver dato un’occhiata alla scritta. «Spero di leggerlo bene. Dunque, il tributo femmina del Distretto 9 è Michelle Ophelia Rah’el Taahira Edelweiss!»
Un silenzio impressionante calò sulla piazza. Già prima faceva quasi pura, ma in quel momento non si sentiva nulla di nulla. Persino gli uccelli avevano smesso di cantare. Niklas si fece attento, portando il busto in avanti.
Non era possibile. Non poteva essere estratta lei. Era morta.
Era una storia abbastanza famosa al Distretto 9, quella. Tutti la conoscevano, dai bambini agli adulti. La storia risaliva a qualche anno prima, ancora prima che Niklas vincesse e riguardava una famiglia, gli Edelweiss, composta, oltre che dai genitori, da quattro bambini, tutti gemelli. Niklas non sapeva la storia per filo e per segno, ma gli pareva di ricordare che gli Edelweiss facessero parte di un gruppo di strane persone, che si facevano chiamare Cristiani. Una dei gemelli – Michelle, appunto – era morta anni prima, per via di una punizione inflittale da altri della congrega. Si diceva che a causa della sua nascita, non crescesse più frumento. I Cristiani avevano un modo tutto loro di vedere il mondo e avevano visto la nascita di quei quattro gemelli come un evento nefasto.
 Un’altra dei gemelli era deceduta, perché rinchiusa in un vecchio granaio, senza né acqua né cibo.
C’era un però. Dopo la morte della gemella, molti omicidi ebbero luogo al Distretto e cominciarono con la morte del capo dei Cristiani, un anziano che tutti conoscevano come il pastore. L’ultimo, invece, era stato proprio il capofamiglia degli Edelweiss, che aveva lasciato la moglie e i suoi due figli maschi. Si dicevano cose strane, in giro. Molti sostenevano che gli omicidi fossero opera di Michelle, la gemella morta, poiché accanto al cadavere del padre era stato trovato un bigliettino, riportante la scritta: I principali colpevoli sono tutti morti, ma non è ancora finita. La vostra sofferenza non è ancora pari alla mia. Avrete altre notizie dalla M.O.R.T.E.
E, in effetti, le iniziali della ragazza davano proprio quella parola: morte.
«Michelle Ophelia Rah’el Taahira Edelweiss?» ripeté Ginevra, insicura. Dal fondo della piazza, una donna si fece avanti. Camminava a capo chino, con le mani giunte in grembo. Si portò fino ai piedi del palco.
«Io so dov’è» annunciò con fare solenne, alzando il capo verso la capitolina. Si voltò verso i Pacificatori, che si erano fatti avanti, preoccupati che quella donna dall’apparenza innocua potesse fare qualcosa di male. «Sono disposta a portarvi fino al luogo dove Michelle è nascosta» si offrì, rivolta ai soldati. Uno di loro, probabilmente il capo, annuì, facendo cenno alla donna di precederli.
Quando si furono allontanati, Ginevra riprese a parlare. «Una Mietitura interessante, non c’è che dire» commentò, con fare quasi allegro. «Mentre aspettiamo la nostra Michelle, direi che possiamo procedere con l’estrazione del tributo maschio, che ne dite?» chiese, rivolta al pubblico. Come previsto, nessuno rispose e Ginevra andò verso la boccia sinistra.
«Il tributo maschio è Seth Rye Aage» annunciò, dopo un istante. Un ragazzino biondo si fece avanti, con uno strano sorrisino stampato in volto. Non che fosse un sorriso felice: sembrava più una cosa forzata, forse per nascondere la sorpresa di essere stato scelto. Niklas cercò di capire dove l’avesse già visto, prima di ricordarsi che quel Seth dovesse far parte di una delle tante bande di teppistelli che giravano al Distretto. Lo aveva intravisto, di tanto in tanto, mentre girovagava con un gruppetto di ragazzi più grandi che si divertivano a far caos. Tuttavia, non aveva mai saputo il suo nome. Lo aveva colpito, però, quella sua espressione da duro, che stonava un po’ in confronto al suo viso ancora da bambino.
«Che cazzo guardi?» chiese il ragazzino con aria feroce, nel vedere che Ginevra lo stava fissando con un sorriso smagliante. La donna indietreggiò, facendosi seria. Si schiarì la voce, tornando poi a rivolgersi al pubblico.
«Bene, ora non ci resta che aspettare…» si interruppe, vedendo che un gruppetto di persone stavano arrivando. Erano perlopiù Pacificatori, ma al centro si poteva distinguere benissimo una ragazza. I suoi capelli verdi, leggermente mossi dalla brezza, non apparivano di certo inosservati, così come il lungo mantello nero che indossava e il trucco che le circondava i suoi profondi occhi dal colore molto particolare: a prima vista potevano sembrare azzurro ghiaccio, ma all’estremità dell’iride erano verdi.
Nel vederla passare, la folla iniziò a bisbigliare, ma Michelle non vi badò, continuando a camminare verso il palco a testa alta. Salì, per poi stringere frettolosamente la mano di Seth, mentre la voce di Ginevra annunciava la fine di quella settantaduesima Mietitura.
«Con grande onore vi presento i tributi del Distretto 9: Seth Rye Aage e Michelle Ophelia Rah’el Taahira Edelweiss!»
 
 

 
Michelle
 
Michelle sapeva benissimo che c’era qualcosa che non andava. Lo aveva capito non appena sua madre era giunta al capanno nel quale era barricata da anni, accompagnata da un gruppetto di Pacificatori. Inizialmente, pensava che l’avessero scoperta e fossero andati lì per giustiziarla. Pensandoci bene, però, si era ricordata di che giorno fosse quello: il giorno della Mietitura. Quando poi l’avevano accompagnata in piazza, aveva capito che i suoi dubbi erano fondati. Era stata scelta come tributo femminile.
Nel breve tempo in cui stette al Palazzo di Giustizia, Michelle capì che qualcuno doveva aver messo mano alle Mietiture oppure qualcuno aveva spifferato tutta la sua storia, facendo sì che lei fosse inserita nella lista dei papabili tributi.
Si riavviò i capelli verdi con una mano, sospirando. Non le erano sfuggite le occhiate spaventate della gente e i loro sussurri al suo passaggio. Come poteva essere lì? Michelle non li biasimava per quel loro comportamento. Per anni si era nascosta in un capanno, covando rancore e uscendo solo per uccidere coloro che in passato le avevano fatto del male. Il pensiero andò subito a suo padre e al modo in cui l’aveva guardata, prima che lei calasse la falce sul suo collo. L’aveva riconosciuta. Guardandola negli occhi – quegli occhi così particolari, che soli i gemelli Edelweiss avevano – aveva capito che sua figlia era ancora viva. Ma non avrebbe mai potuto rivelarlo a nessuno.
Michelle si chiese chi sarebbe andato a trovarla. Il suo inconscio le suggeriva che nessuno le avrebbe fatto visita, ma il suo cuore sperava che almeno i suoi fratelli gemelli – Uriel e Raphael – andassero da lei, per salutarla.
E così fu. Dopo qualche minuto, la porta venne aperta da un Pacificatore e i due gemelli Edelweiss – gli unici rimasti della famiglia, assieme alla madre – fecero la loro entrata, un po’ titubanti. Erano ormai dieci anni che Michelle non li vedeva. Né lei si era fatta viva, né loro erano andati a trovarla e la ragazza sapeva anche perché. I sensi di colpa dovevano averli logorati dall’interno per anni, dopo che l’avevano tradita, rivelando al pastore che lei e sua sorella si erano nascoste nel capanno, per evitare l’Espiazione Del Male Tramite Fuoco.
La  ragazza scosse la testa, pensando a ciò che la sua religione le aveva insegnato sin da bambina: porgi l’altra guancia. Dopo anni, Michelle voleva ancora bene ai suoi fratelli e vederli entrare a quel modo le fece dolere il cuore.
«Ciao, Uriel. Ciao, Raphael» li salutò, abbassando un poco il capo. I ragazzi risposero con aria intimidita.
«Siamo venuti qui…» cominciò Uriel, interrompendosi per lanciare un’occhiata a Raphael. Quest’ultimo si morse il labbro inferiore, guardando la sorella.
«Siamo venuti qui per chiederti di perdonarci» continuò. I due si avvicinarono a Michelle e la ragazza poté leggere la sincerità nei loro occhi chiari, identici ai suoi.
«Abbiamo sbagliato, dieci anni fa. Non avremmo dovuto tradire te e Gabrielle» aggiunse Uriel. «È stato un terribile errore. Ci siamo comportati nello stesso, irragionevole modo del pastore. Se solo fossimo stati zitti, avremmo potuti salvare Gabrielle e anche te. Pensavamo che fossi morta».
«Tutti lo pensavano» si intromise Raphael. «E siamo davvero felici che tu sia viva». Prese tra le mani quella destra della sorella, facendo un sorriso stentato che Michelle ricambiò.
«E quel giorno, non abbiamo perso solo te e Gabrielle» raccontò Uriel, facendo un respiro profondo. «Nostra madre è come impazzita dal dolore, specialmente dopo la morte di nostro padre» si interruppe, indugiando sull’ultima parte della frase. Questa volta, oltre alla sincerità, Michelle lesse qualcos’altro, nei suoi occhi: consapevolezza. Lo sapevano che era stata lei. Quel suo bigliettino era stato una prova fin troppo sufficiente. Non c’erano molte persone al Distretto 9 le cui iniziali dessero la parola morte.
«Non è tutto. Aveva l’abitudine di… alzare le mani. Ci picchiava. Ci picchia» continuò Raphael. Michelle si sentì colpita da quelle parole. Mai avrebbe immaginato che la sua famiglia stesse passando una situazione tanto brutta, dopo la morte di Gabrielle e la sua scomparsa. Aveva passato anni covando rancore nei confronti di tutti perché non erano riusciti a salvarla, ma non si era mai chiesta come dovessero sentirsi veramente. Al che, fece un gesto inaspettato: abbracciò i suoi fratelli, insieme.
«Io non ce l’ho con voi. Farò di tutto per tornare, così potrò portarvi in salvo al Villaggio dei Vincitori» ribatté, con tono ironico.
«Pregheremo perché ciò accada» risposero in coro, una volta sciolto l’abbraccio. Le labbra di Michelle si incresparono in un sorriso. La cosa bella di avere dei fratelli gemelli era quella: si era come sintonizzati. Le era mancata quella sensazione così dolce.
«Non pregate per me» sussurrò, proprio nel momento in cui un Pacificatore apriva la porta. «Non pregate affatto. Non servirà a niente» concluse, mentre i suoi fratelli venivano scortati all’esterno della stanza, lasciando Michelle da sola.
 
 

 
Seth
 
Erano minuti che continuava a scrocchiarsi le nocche, in un gesto che faceva sempre quando era nervoso. Seth camminava per la stanza e più i minuti passavano, più lui era agitato. La sua ansia non era dovuta al fatto che probabilmente non sarebbe andato nessuno a trovarlo – ormai era abituato a stare da solo – ma c’erano altri problemi ben più grandi che lo preoccupavano.
Innanzitutto, la sua compagna. Quando aveva saputo che avrebbe partecipato agli Hunger Games con Michelle, non si era sentito affatto felice. Aveva passato mesi a spiarla, riferendo ogni particolare della sua vita al presidente Snow, e temeva che lo avesse scoperto. Comunque, la presenza della ragazza dei capelli verdi lo rendeva piuttosto agitato, anche per le storie che giravano su di lei. Giusto pochi giorni prima aveva sentito una frase riferita a lei: se vedi gli occhi di Michelle poi muori. Era rabbrividito, sentendo ciò.
Non aveva deciso lui di spiarla: era stato tutto un ordine del presidente. Seth conosceva già la sua storia così triste e ne era rimasto profondamente colpito. Era stato un lavoro difficile e pericoloso: se era vero che la ragazza uccideva la gente, Seth temeva che facesse del male anche a lui.
In secondo luogo, il biondo era preoccupato a causa del presidente. Giusto pochi giorni prima si era dimesso dal suo lavoro, sentendosi in colpa per tutto ciò che aveva fatto da anni. Non era la prima volta: Seth aveva passato anni con i sensi di colpa che bussavano, di tanto in tanto, alla sua porta. In quei momenti, andava a rifugiarsi all’aperto, tra i campi di grano, sugli alberi o, semplicemente, girovagava per non pensare a che persona maligna fosse. In uno di quei momenti di sconforto, aveva pregato Snow di non farlo più lavorare. L’uomo aveva accettato in modo pacifico, ma Seth ricordava benissimo la luce che aveva visto nei suoi occhi da serpente, così come ricordava il suo sorrisetto malvagio. Lo aveva guardato come per dirgli: «me la pagherai, Seth».
E pochi giorni dopo, lui era stato estratto per partecipare agli Hunger Games.
Stava giusto rimuginando su questo particolare, quando la porta si spalancò, improvvisamente. Una bambina entrò nella stanza, con il volto rigato dalle lacrime.
Seth dovette trattenere un sorrisino compiaciuto. Si chiamava Sophia, quella bambina, ed era la sua unica amica. Nonostante gli anni di differenza, era l’unica persona a cui Seth volesse bene. Era anche l’unica persona a cui lui potesse aggrapparsi nei momenti di sconforto. Non aveva né un padre né una madre. Anzi, una madre l’aveva avuta, Seth, ma era morta anni prima in circostanze misteriose, così era stato rinchiuso in un orfanotrofio, da cui poi era scappato.
Sophia si fece avanti con le gambe che le tremavano. Tirò su con il naso, mentre si asciugava le lacrime.
Seth sentì il cuore stringersi, a quella visione, ma cercò di non mostrarsi debole. Nonostante volesse bene a Sophia, non si mostrava mai in condizioni pietose davanti a lei. Già quando si erano incontrati, lui era sull’orlo delle lacrime, durante una delle sue crisi dovute ai sensi di colpa. Lei era stata con lui e lo aveva addirittura pregato di essere amici.
«Seth…» pigolò la bambina, tirando su con il naso. Una cosa di Sophia che Seth amava era il fatto che lo chiamasse sempre per nome. Al Distretto lo chiamavano tutti Lui.
«Non piangere, Sophia» la rimproverò il ragazzo. «Solo gli smidollati piangono».
Sophia non gli diede ascolto, continuando a singhiozzare, prima  di buttarsi addosso all’amico e stringerlo forte a sé. Seth rimase sorpreso da quell’azione. Nessuno lo aveva mai abbracciato prima di allora, nemmeno la bambina. Con un mezzo sorriso, cinse la vita della piccola con braccia, stringendola forte. Ricordava vagamente che sua madre lo abbracciava così, quando era un bambino.
«Non devi morire» mugolò Sophia, con il volto premuto contro il petto di Seth.
«Non morirò. Cercherò di tornare a casa, okay?» ribatté il giovane, in modo brusco. La bambina lo guardò con gli occhi pieni di lacrime, per niente offesa dal tono brusco con cui Seth le aveva parlato. Ormai era abituata a sentirlo parlare così.
«Okay» assentì Sophia, smettendo per un attimo di singhiozzare, prima di stringersi ancora al suo amico. Dopo pochi secondi, parve ricordarsi di qualcosa e si staccò da lui, portando le mani dietro la nuca per slegare la sua collana. In quel momento, un Pacificatore entrò e la bambina si affrettò a consegnare il regalo al ragazzo.
«Devi tenerla sempre. Abbassati, ora» ordinò, alzandosi sulle punte dei piedi. Seth fece come detto e si stupì non poco quando sentì le labbra della piccola premute contro la sua guancia.
Quando Sophia uscì, il tributo rimase imbambolato, fissando il regalo della bambina: un pezzo di corda con attaccata una spiga di grano.
 
 



 
X. Livestock
 
Dawn si sistemò i ricci rossi, che quel giorno proprio non volevano saperne di stare a posto. Si era svegliata letteralmente con un diavolo per capello e il fatto che fosse il giorno della Mietitura non contribuiva a migliorarle l’umore.
Si passò le mani sul volto come a volerlo pulire, cercando di darsi una svegliata. Come sempre, si era alzata all’alba, per osservare il cielo. Era una cosa che faceva sempre, quella. Amava l’alba: si adattava perfettamente a lei. Già il suo nome era una una garanzia, considerato che si chiamava Dawn – alba. E anche i suoi capelli erano, in qualche modo, legati a quella parte del giorno. Erano dello stesso colore che il cielo assumeva al levarsi del sole e suo padre, amante dell’alba come lei, aveva voluto chiamarla così.
Dawn guardò il gruppo di ragazzi presenti sotto il palco, con un misto di malinconia e tristezza. Avrebbe voluto abbracciarli tutti, dal primo all’ultimo, per far sentire loro la sua vicinanza e la sua comprensione. Ci era passata anche lei, anni prima, ed era riuscita a vincere contro ogni previsione.
Lanciò un’occhiata ben più critica a Marylin, l’escort, che raccontava, con aria allegra, dell’ultima disavventura capitatale: avevano sbagliato a tingerle le unghie. Dawn alzò gli occhi al cielo, esasperata. Ogni anno, Marylin propinava delle storie al Distretto 10. Lei le considerava divertenti, un ottimo modo per spezzare la tensione, ma la verità era che non facevano per niente ridere.
«E così dissi alla mia estetista: “Ehi, faccia di carota – dovete sapere che ha la pelle arancione – stai attenta a quello che fai, ché io settimana prossima devo tornare a salutare i cowboy del Distretto 10!” »
Concluse il tutto con una risata sguaiata, che nessuno alimentò. Vedendo che gli abitanti non la calcolavano, Marylin si schiarì la voce, tornando a concentrarsi su ciò che stava accadendo.
«Ma torniamo a noi, miei cari cowboy! Non potete capire quanto ami chiamarvi così! Diceva, è giunta l’ora di scegliere l’adorabile fanciulla che rappresenterà il Distretto 10 ai settantaduesimi Hunger Games» continuò, prima di andare ad estrarre il tributo, sistemandosi il largo cappello di paglia che aveva addosso – giusto per restare in tema “Distretto 10”.
Tornò al microfono, ridacchiando di gusto. Dawn inarcò un sopracciglio. Molta gente che aveva conosciuto era matta da legare, ma Marylin batteva tutti.
«Il tributo femmina del Distretto 10 è Arabella!» annunciò l’escort, battendo due volte le mani. Tuttavia, sembrò accorgersi di qualcosa, perché tornò a rivolgere la sua attenzione al foglio. «Arabella? Dev’esserci un errore, come può non avere un cognome, questa ragazza?»
Dawn trattenne una risatina. Se solo Marylin avesse abitato al Distretto 10, avrebbe conosciuto – almeno di fama – Arabella. Era un’adolescente, ma al Distretto era una specie di figura leggendaria. Giravano diverse voci su di lei: cavalcava in sella ad un cavallo, vivendo all’addiaccio, ma la cosa più importante era che, probabilmente, Arabella era la figlia del sindaco, Ryan McGiven. Quando poi la ragazza salì sul palco, Dawn ebbe la conferma che si trattava proprio di lei. Doveva avere all’incirca sedici anni, ma per l’altezza e il fisico minuto poteva anche averne di meno. Spiccava tra le altre ragazze per via della sua mise piuttosto eccentrica: un paio di stivali neri macchiati di fango coprivano la parte inferiore dei suoi pantaloni beige, a cui era abbinata una camicetta che un tempo doveva essere stata bianca. Quest’ultima le lasciava scoperte le spalle abbronzate, e, su quella destra, ricadeva la treccia disordinata in cui Arabella aveva acconciato i suoi capelli castani. In testa portava un grosso cappello di paglia da mandriano, decisamente poco femminile.
La ragazza salì sul palco con aria di scherno, lanciando un’occhiata al sindaco. «Buongiorno, sindaco McGiven!» lo salutò, togliendosi il cappello in segno di scherzoso rispetto. «Come sta sua figlia Nym?» chiese, ponendo particolare accento sul nome, che – Dawn intuì – doveva essere il modo in cui l’aveva chiamata suo padre. Prima di voltarsi, la giovane fece l’occhiolino al bambino seduto accanto al sindaco. Era Jamie McGiven: il suo unico figlio maschio.
Arabella si affiancò a Marylin, studiando attentamente la sua tenuta. «Il tuo cappello fa schifo e, per le cronaca, io mi chiamo Arabella. Solo Arabella, non ce l’ho un cognome» commentò, per poi voltarsi verso la folla. Dawn dovette trattenere una risata dinnanzi alle facce basite del sindaco e di Marylin. Aveva appena visto chi era Arabella, ma già provava della simpatia dei suoi confronti. Aveva decisamente coraggio, per atteggiarsi a quel modo.
«E ora il maschio» disse Marylin, rossa in viso – e ciò non era di sicuro dovuto al blush con cui si era truccata le guance quella mattina. Andò fino alla boccia con aria mortificata, prima di tornare e leggere il nome del maschio: «Verièn Sunrise Horyo».
Silenzio. Dalla folla non emerse nessuno.
«Verièn Sunrise Horyo» ripeté Marylin, a voce ben più alta. La folla iniziò a bisbigliare, finché, dal fondo della piazza, non si fece avanti un uomo robusto, dai capelli scuri.
«Carestia. Sali sul palco» ordinò, a voce tanto alta che tutti lo sentirono bene. Improvvisamente, la folla si aprì come una voragine, mentre Verièn – o meglio Carestia – si faceva avanti.
Dawn osservò attentamente il ragazzo, il famoso Carestia di cui tutti parlavano. Glielo avevano dipinto come un mostro, ma la Vincitrice non vide nulla di spaventoso in lui. Era un semplice ragazzo dai capelli scuri e dall’abbigliamento poco consono alla Mietitura, che si avviava verso il palco a testa bassa.
Nonostante Dawn si interessasse poco alle vicende della città, conosceva quella storia. Si ricollegava ad un brutto fatto accaduto qualche anno prima: l’epidemia di febbre Q, che aveva colpito numerosi capi di bestiame, conducendoli alla morte. Non solo gli animali erano stati colpiti, ma anche dalle persone, Carestia compreso. Solo che lui non era morto, mentre altri sì, e da allora era stato additato come un portatore di sventure, tanto che viveva da solo in mezzo al bosco, insieme ad un animale.
Improvvisamente, Dawn provò una pena immensa per lui. Immaginò come dovesse sentirsi, visto che era additato da tutti come un assassino. Non era di certo la prima volta. Dawn ormai sapeva che bastava porgere un dito e chiunque si sarebbe preso tutto la mano e lo stesso era accaduto con quella storia. Era bastata una semplice parola, un semplice fatto, e tutti avevano iniziato a trattare Verièn come un emarginato sociale.
Nel mentre che il ragazzo veniva estratto, Arabella aveva fischiettato tutto il tempo, interrompendosi solo nel vedere come era evoluta la situazione.
«Bene, visto che la tua compagna ha fatto un’entrata a dir poco spettacolare», Marylin lanciò un’occhiata arrabbiata ad Arabella, che riprese a fischiettare lo stesso motivetto di prima, «vuoi dire qualcosa anche tu, Verièn?»
Il ragazzo annuì. «Sì. Lo so che vorreste vedermi tutti morto, ma io non sono ancora pronto. Posso ancora fare la differenza».
Accadde tutto in un lampo. Il pubblico iniziò a gridare improperi nei confronti del ragazzo, che indietreggiò un poco con aria spaventata. I Pacificatori intervennero immediatamente, posizionandosi sotto il palco per impedire alla folla di salirvi e far del male a Carestia.
Le urla degli abitanti del Distretto 10 erano quasi più alte della voce di Marylin, che nessuno sentì mentre annunciava: «signore e signori, i tributi del Distretto 10: Arabella e Verièn Sunrise Horyo!»
 
 

 
Arabella
 
Nymphaea Daphne McGiven – o meglio, Arabella – sedeva scompostamente sulla poltrona, con una gamba appoggiata al bracciolo.
Era stata una bella sorpresa, quella, ma aveva deciso di non darsi per vinta e di mostrarsi sicura di sé. Ridacchiò, pensando alle espressioni basite di suo padre e di Marylin quando era salita sul palco. Di sicuro, si era già procurata l’odio della escort, che non aveva fatto altro se non fissarla quasi fosse uno scarafaggio con una malattia mortale.
La risata si trasformò in un sorriso intenerito nel ripensare al volto di suo fratello Jamie. Le era sembrato abbastanza triste, sul palco, ma era bastato fargli l’occhiolino e fare un po’ la scema per vederlo sorridere. Era l’unico della famiglia di cui le importasse veramente, oltre a sua madre. Di suo padre, ormai, non le importava più. Per quel che ne sapeva, Ryan McGiven poteva anche dimettersi dal suo incarico di sindaco.
Non lo considerava nemmeno più suo padre, dopo che aveva deciso di non rivolgerle più la parola. La sua fuga dalla ricca casa del capo del Distretto era stata un vero scandalo e Ryan ne era uscito umiliatissimo, specialmente dopo che Nymphaea aveva cambiato il nome all’anagrafe. Detestava il nome datole dai genitori. Era troppo raffinato, troppo snob per i suoi gusti. Nonostante la ricchezza della sua famiglia, lei non si considerava superiore agli altri. Anzi, lei voleva essere come gli altri, ecco perché se n’era andata, dopo la sua prima Mietitura. Aveva appena dodici anni, all’epoca, ma Arabella si sentiva già a disagio con il mondo che la circondava. Non sopportava di stare a casa e vedere la gente che moriva sotto i suoi occhi, mentre lei viveva la sua vita sfarzosa. Addirittura, suo padre la teneva chiusa in casa, impedendole persino di andare a scuola.
Ecco perché era scappata: odiava stare in gabbia. Era uno spirito libero, lei, una che aveva bisogno di sentire il vento sulla faccia e tra i capelli mentre cavalcava il suo cavallo, per essere felice.
Non si aspettava la visita di nessuno, quel giorno, anche se avrebbe tanto voluto che Jamie e sua madre andassero da lei. Loro sì che li considerava ancora parte della sua famiglia, sebbene Ryan avesse impedito loro di vederla e parlarle. Le mancavano entrambi: Jamie e le sue marachelle che facevano arrabbiare i suoi genitori; sua madre con la sua mania per l’ordine, che spesso la rendeva insopportabile, anche se, in realtà, aveva un carattere dolcissimo.
La porta, però, si aprì e un uomo fece la sua comparsa. Un largo sorriso si fece strada sul volto di Arabella, nel vedere l’uomo che, da quattro anni a quella parte, era diventato la sua famiglia.
Billy Joe – il cui vero nome era William – entrò nella stanza ostentando un atteggiamento sicuro. Non piangeva e non si lamentava. Ad Arabella andava bene così. Billy Joe la conosceva abbastanza bene da sapere che poteva farcela.
«Ehilà, Nym!» la salutò, prendendola in giro per il suo exploit durante la Mietitura. Nel farlo, si levò anche il cappello, imitando l’esatto gesto compiuto da Arabella, che si limitò ad una grassa risata.
«Buongiorno, Billy Joe!» lo salutò di rimando, togliendo il cappello e imitando un inchino, prima di correre ad abbracciare l’uomo. Inspirò a fondo l’odore emanato dalla sua camicia a quadri. Di certo non era molto buono, considerato che Billy Joe viveva da nomade, proprio come lei. Era stato questo, ad averli uniti. Entrambi vivevano al di fuori del Distretto 10, da soli, badando a loro stessi. L’uomo era stato il suo mentore per anni. Le aveva donato diverse perle di saggezza e insegnato tante cose. Ma il regalo più bello era stato di sicuro Ira, un meraviglioso stallone nero con cui Arabella girava l’ampio Distretto.
«Vedo che ci siamo divertite, quest’oggi!» commentò l’uomo, sciogliendo l’abbraccio. Arabella sogghignò, beandosi dell’immagine del volto di suo padre.
«Accipicchia! Hai visto che faccia aveva il vecchio Ryan? Gli ho fatto prendere un bel colpo!» ribatté, sistemandosi il cappello.
«Anche quella Marylin mi sembrava molto sconvolta» aggiunse Billy Joe con una risata.
«Le sta bene. È odiosa e il suo cappello faceva veramente schifo».
Billy Joe posò una mano sul capo di Arabella. «Ah, mia cara Arabella! Mi mancherai tantissimo!» esclamò, stringendola nuovamente a sé. La ragazza lo strinse forte. Le sarebbe tanto piaciuto vedere Billy Joe a Capitol City. Di sicuro, avrebbe fatto svenire tanti capitolini, visto il suo stile di vita decisamente eccentrico. Secondo Arabella, il suo vecchio amico sarebbe stato un mentore migliore di chiunque altro.
«Vorrei che tu fossi il mio mentore» disse infatti, con il volto premuto contro il petto dell’uomo. «Tu sì che sai come si vive e si sopravvive».
«Anche tu lo sai. E sono sicurissimo che tornerai a casa». Billy Joe le diede una poderosa pacca sulla spalla, che per poco non le fece uscire un polmone.
«Contaci! Seguimi in televisione, mi raccomando». La ragazza puntò l’indice della mano destra contro il volto dell’uomo, che lo spostò con un gesto della mano.
«Certo, certo. Il mio televisore è all’ultima moda!»
Entrambi scoppiarono a ridere, prima che Arabella si fece seria. «Davvero, Billy Joe. Dovrai venire fino in piazza per guardare i Giochi al maxischermo, ma guardali, ti prego. Sono sicura che sentirò il tuo affetto anche nell’Arena».
L’uomo annuì, comprensivo, carezzandole una guancia. «Promesso. Ma tu devi vincere» si raccomandò, proprio nel momento in cui la porta si spalancò. Billy Joe abbracciò Arabella un’ultima volta, prima di andarsene, lasciandola da sola.
La ragazza rimase a fissare la porta con insistenza, sperando che sua madre e Jamie entrassero, per salutarla. Passarono i minuti, ma nessuno arrivò.
Arabella fece spallucce, rimettendosi a fischiettare lo stesso motivetto della Mietitura.
Il vecchio Ryan poteva trattenerli quanto voleva, ma lei li avrebbe rivisti, da Vincitrice.
 
 

 
Verièn
 
Verièn. Verièn. Verièn,
Carestia continuava a ripetere mentalmente il suo nome.
Come aveva fatto a dimenticarselo? Era talmente abituato a sentirsi chiamare Carestia che non si ricordava più del suo nome di battesimo. Ormai, Verièn era a mille anni luce da lui. Apparteneva ad un passato che non ricordava più – un passato in cui era stato felice.
Ora era Carestia, un portatore della febbre Q che aveva ucciso numerose persone, tra cui i suoi fratellini.
Il pensiero di Vanger e Estella – i gemelli, suoi fratelli più piccoli – gli fece stringere il cuore. Si prese la testa tra le mani, cercando di pensare ad altro, per esempio agli imminenti saluti con i famigliari. Di certo non sarebbero andati in molti a trovarlo: suo padre lo aveva cacciato di casa e sua sorella Evangeline lo detestava. Inoltre, non aveva amici, se non Titanium, il suo toro che aveva accudito sin da quando era un bambino. Era anche a causa dell’animale se Carestia aveva contratto la febbre Q. Quando l’epidemia aveva colpito il Distretto, il ragazzo temeva che glielo uccidessero, ragion per cui lo aveva portato nel bosco, per accudirlo lontano da tutti.
Si sedette di botto sulla poltrona, lasciando fluire tutti i sentimenti negativi. Chiuse gli occhi. Fece un paio di respiri profondi. Nulla da fare: restavano ancora lì.
Carestia aveva ben stampate in mente le immagini della Mietitura. Non si aspettava quella reazione da parte del pubblico. Il suo intento non era stato quello di provocare; era evidente che gli abitanti del Distretto avessero compreso male la sua frase. Lui intendeva fare la differenza in senso buono: avrebbe potuto ricostruire la sua vita, dimostrando a tutti che non era come lo avevano dipinto. Non amava la violenza, Carestia. Era un ragazzo molto pacato, che preferiva giungere ad un accordo parlando, piuttosto che facendo a botte.
Eppure, tutti lo odiavano lo stesso per uno sbaglio commesso in passato.
Sospirò. Alla fine, poteva davvero fare la differenza, dimostrando a tutti chi era realmente.
La porta fu aperta da un Pacificatore, consentendo l’accesso a due persone. La prima a mettere piede nella stanza fu Elisabeth, una delle due sorelle maggiori di Carestia. Nonostante il brutto rapporto con la sua famiglia, Verièn era sempre andato d’accordo con sua sorella Elisabeth, anche dopo il fattaccio. Al contrario di Evangeline – che già prima dell’epidemia non lo sopportava molto – la secondogenita di casa Horyo lo aveva sempre trattato teneramente, come si fa di solito con i fratelli minori. Lo stesso aveva fatto Thanatos, il suo ragazzo e vincitore degli Hunger Games, che seguì Elisabeth nella stanza.
La ragazza gettò subito le braccia al collo del fratello, stringendolo forte a sé. Carestia appoggiò la testa sulla sua spalla, respirando il buon profumo emanato dai capelli biondi della sorella. Era un odore che sapeva di casa e di bei tempi andati.
«Ves…», mormorò sua sorella, chiamandolo con il suo soprannome. A differenza degli altri abitanti del Distretto 10, Elisabeth e Thanatos non lo avevano mai chiamato Carestia, preferendo rivolgersi a lui con il suo vecchio soprannome datogli in famiglia, l’unione della prima parte di Verièn con l’iniziale di Sunrise, il suo secondo nome. Quest’ultimo era un altro bel ricordo della sua famiglia. Victiamer – suo padre – aveva deciso di dargli quel secondo nome perché un giorno sarebbe stato lui a prendere le redini dell’allevamento di famiglia ed era simbolico: lo avevano chiamato come il momento del giorno in cui il sole faceva capolino all’orizzonte poiché lui era l’astro nascente della famiglia Horyo. Non solo lui, ma anche le sue sorelle e suo fratello avevano secondi nomi simili, che rimandavano alle varie parti del giorno.
«Sto bene» sussurrò Verièn, sciogliendo un poco l’abbraccio per guardare la sorella negli occhi, lucidi di lacrime. La ragazza annuì.
«Stai attento, Ves. Vedi di non farti ammazzare» si raccomandò con la voce distorta. Carestia le sorrise, cercando, in qualche modo, di farla sentire più tranquilla.
«Non preoccuparti, Elisabeth».
«Thanatos può darti qualche dritta». La ragazza si voltò verso il suo ragazzo, che fece qualche passo in direzione di Verièn, con le mani incrociate al petto.
«Ves, lo so che tu non sai usare nessuna arma», il Vincitore posò una mano sulla spalla di Carestia, «e questo potrebbe costarti caro, nell’Arena. Il mio consiglio è di buttarti sulle tecniche di sopravvivenza. Oppure, prova a usare qualche arma, per imparare a maneggiarla. Sarà difficile, perché avrete solo tre giorni, ma tu sei intelligente e puoi farcela». Thanatos sorrise incoraggiante, stringendo ancora di più la presa sulla spalla del cognato. «Purtroppo, non sarò il tuo mentore e mi dispiace tantissimo. Per diritto di anzianità, ce ne saranno altri. Quest’anno dovrebbero essere Dawn e Mark. Sono entrambi due persone affidabili, li conosco».
«A meno che conoscano la mia storia» ribatté Carestia, abbassando lo sguardo.
«Fidati. Possono aiutarti tantissimo» replicò Thanatos, prima di spostarsi per lasciare spazio ad Elisabeth. La bionda abbracciò nuovamente il fratello, tanto forte da strozzarlo.
«Sii prudente» si raccomandò, prendendo il volto del fratello tra le mani.
«Torna Vincitore, Ves» si intromise Thanatos, stringendo la mano del ragazzo.
«Ci proverò».
Elisabeth frugò nelle tasche dei pantaloni, tirando fuori un ciondolo a forma di spada per darlo a suo fratello. «Per te, Ves. Ti darà forza. Sono sicura che sarai un cavaliere portatore di bontà anche negli Hunger Games».
A questo punto, un Pacificatore entrò, portando fuori i due visitatori. Verièn rimase solo, continuando ad osservare il regalo di sua sorella.
 
 
 



 
XI. Agricolture
 
Seeder rivedeva anche in sogno i volti dei ragazzi durante la Mietitura. Non era una cosa normale – questo lo sapeva – ma la colpivano ogni anno le facce dei poveri ragazzi che attendevano sotto il palco di legno. Le capitava di svegliarsi, di tanto in tanto, nel bel mezzo della notte, chiedendosi a chi avrebbe dovuto fare da mentore ogni anno. Qualche volta vagava anche per il Distretto 11, osservando i volti tristi dei suoi abitanti. Uno in particolare l’aveva colpita una volta: una ragazzina di circa sedici anni era stata appena picchiata da un gruppo di Pacificatori perché aveva osato fare una pausa durante i lavori, ma non si era buttata giù dopo quell’episodio. Seeder ricordava ancora il suo volto, una maschera di freddezza e risentimento, che non lasciava trapelare neanche un minimo di debolezza. Era lo stesso volto che vedeva nelle madri che crescevano i loro figli in un posto ostile come il Distretto 11, nei padri che tornavano a casa ogni giorno e parevano sempre più ingobbiti dal duro lavoro.
Non era una passeggiata, vivere in quel posto, e spesso anche Seeder aveva desiderato scappare via, specialmente da bambina. Alla fine, essere stata scelta per partecipare agli Hunger Games era stata quasi una liberazione, poiché nessuno le dava più fastidio come prima.
Giocherellò un po’ con la fede che portava all’anulare della mano sinistra, continuando a girarla intorno al dito. Il matrimonio era stata una delle poche cose  veramente belle capitatele nella vita e, di tanto in tanto, stringeva sempre l’anello, specialmente quando si lasciava prendere dallo sconforto durante gli Hunger Games. Erano anni che era mentore e anni che vedeva morire tributi sotto i suoi occhi. Ogni anno il dolore si ripeteva. Non ci si abituava mai ad una cosa del genere.
«Felici Hunger Games» esclamò Felicity, l’escort dell’undicesimo Distretto. Sembrava proprio che con lei il famoso detto nomen omen non c’entrasse per niente: la capitolina era tutto fuorché felice. Ogni anno si presentava alla Mietitura con una faccia da funerale e tutti sapevano perché: era da tempo che desiderava farsi spostare in un altro Distretto. Seeder l’aveva sentita inveire contro Katryn, l’accompagnatrice del Distretto 4, sostenendo che le avesse rubato il posto in un Distretto prestigioso.
«E possa la buona sorte sempre essere a vostro favore» concluse l’accompagnatrice, con una nota di sarcasmo nella voce. «Direi che ora di scegliere la nostra ragazza, sì» aggiunse, e la sua malavoglia si sentiva ad ogni parola. Felicity si avvicinò alla boccia con aria annoiata, girandosi giusto in tempo per coprire un enorme sbadiglio. Tornò al microfono, strascicando i piedi – stranamente non coperti da un paio di scarpe con il tacco.
«Veganille Tourmaline» chiamò con voce alterata – probabilmente dovuta al fatto che stava trattenendo un altro sbadiglio. «E chissà se l’ho pronunciato bene».
Una ragazza si incamminò verso il palco. Era visibilmente nervosa, ma anche arrabbiata, a giudicare dalle occhiate truci che lanciava alle telecamere e alla povera Felicity – la quale continuava a fissarsi le unghie laccate di rosso.
Veganille aveva il tipico aspetto degli abitanti del Distretto 11: la sua pelle era scura e sul suo volto spiccavano due grandi occhi marroni. I capelli erano corvini, legati in un’alta coda di cavallo. Era vestita in modo semplice, ma i suoi abiti facevano trasparire bene il suo fisico da amazzone. Sembrava quasi allenata, il che risultava strano considerato che al Distretto 11 non si addestrava nessuno per partecipare ai Giochi.
«E ora il maschio» annunciò Felicity, per poi ripetere le stesse azioni di prima. «Jace White» chiamò, con voce annoiata.
Anche il ragazzo si staccò dalla fila dei diciassettenni. Era un giovane alto e magro, che si avvicinò al palco con aria intimidita, lanciando delle occhiate a chi stava intorno a sé. Rispetto ai suoi compaesani, risultava piuttosto diverso: non aveva i tipici capelli corvini degli abitanti del Distretto 11, ma una capigliatura castana, tendente al biondo e la sua pelle non era scura, ma chiara.
«I tributi del Distretto 11» li presentò Felicity, quando anche Jace si fu sistemato accanto a lei. Sbadigliò sonoramente, portando una mano davanti alla bocca per evitare che tutti le vedessero l’ugola. «Veganille Tourmaline e Jace White» concluse, ponendo fine anche alla Mietitura dell’undicesimo Distretto.
 
 

 
Veganille
 
Mai come in quel momento Veganille aveva desiderato essere in palestra, per prendere a pugni il sacco da boxe. Aveva una voglia matta di sfogarsi, di prendere a pugni qualcosa fino a essere stanca morta. Purtroppo, non poteva far nulla, lì dentro, o i Pacificatori l’avrebbero sbattuta nel treno ancora prima che i suoi famigliari andassero a salutarla.
Sfogò allora la sua rabbia contro il cuscino della poltrona, prendendolo a pugni in maniera quasi ossessiva e sentendo che la sua ira svaniva ad ogni colpo. Era così che si sentiva quando si allenava: più tranquilla, rilassata, ma, soprattutto, più libera.
Improvvisamente, desiderò avere con sé la faccia di colui che aveva inventato gli Hunger Games, per prenderlo a pugni fino a stordirlo. Odiava i Giochi, Vega, li odiava come non aveva mai detestato nulla in vita sua. Erano tutta una pagliacciata, un capriccio per tenere a bada i Distretti e i loro abitanti. Ma nessuno poteva legarli e costringerli in una gabbia. Erano persone, loro, non animali da mandare al macello. Ecco perché era nata la loro palestra, al Distretto 11. Non era proprio un vero centro di allenamento, ma andava bene lo stesso. Dopo casa sua, era il posto che Veganille preferiva al mondo. Era stata costruita soprattutto grazie a sua sorella Corinne, che aveva voluto creare un posto per permettere ai ragazzi di allenarsi e sfogare tutta la loro rabbia nei confronti di chi li opprimeva.
Vega ricordava ancora benissimo la prima volta in cui aveva preso a pugni un sacco da boxe, la rabbia che aveva controllato ogni suo movimento e le mani premurose e dolci di sua sorella che l’avevano guidata e aiutata, facendola diventare poi un’amante della boxe.
Smise di tempestare il cuscino di pugni non appena i suoi genitori e Corinne misero piede nella stanza. Sua madre e suo padre erano visibilmente scossi. La prima ad abbracciarla fu proprio la donna, che la strinse a sé singhiozzando. Nello stringerla, Veganille la sentì ancora più fragile di quanto già non fosse. Anche lei, come molte altre donne del Distretto 11, aveva i tipici occhi pieni di ansia e di paura. Erano quelli i migliori sostantivi che si abbinavano al luogo. Ansia e paura regnavano sovrani in ogni minuto dell’esistenza degli abitanti.
Per secondo, l’abbracciò suo padre. La sua stretta fu ben più vigorosa, ma anche l’uomo piangeva. Non era un pianto disperato, quello: le lacrime scendevano copiose lungo le sue gote, ma non un singhiozzo sfuggì dalle labbra del signor Tourmaline.
Sua sorella, invece, preferì un approccio più diretto e brusco, ma non per questo meno dolce. Le posò le mani sulle spalle, fissandola intensamente negli occhi tanto simili ai suoi.
Aveva sempre quell’aria da allenatrice con lei, Corinne, e in effetti per Vega era come un faro. L’aveva sempre guardata come un modello da cui prendere esempio, la persona che anche lei avrebbe voluto essere.
«Quando sarai nell’Arena, ricordati di colpire sempre nel modo giusto, al momento giusto» esordì, e mentre parlava Vega poté notare le lacrime che iniziavano a formarsi nei suoi occhi. «La cosa più importante è incassare bene e non cedere mai». Abbassò lo sguardo verso il pavimento, sbattendo le palpebre più volte. «Non perdere proprio quest’incontro, okay?» si raccomandò, con la voce rotta dal pianto.
Veganille le gettò le braccia al collo, stringendola a sé con vigore. «Okay» sussurrò al suo orecchio, sentendo le lacrime che iniziavano a formarsi ai lati degli occhi, pronte a scendere.
Quello sarebbe stato l’incontro più difficile della sua vita.
 
 

 
Jace
 
Jace si torturò le falangi, fissando incessantemente la porta. Non sarebbe andato nessuno a trovarlo. Non aveva famiglia, lui, o almeno, quella che aveva non poteva essere definita così. I suoi genitori adottivi facevano tutto fuorché i genitori. Erano due despoti terribili, che lo costringevano a lavorare insieme ai suoi fratelli – anch’essi adottati.
Quando i coniugi Seck erano andati a prenderlo all’orfanotrofio, Jace si era sentito felice. Finalmente avrebbe avuto una famiglia, finalmente nessuno lo avrebbe guardato storto per via del suo aspetto così poco da Distretto 11. Era una delle poche persone del luogo ad avere la pelle bianca, i capelli non troppo scuri e gli occhi marrone chiaro. I più avevano la pelle scura, così come gli occhi e i capelli.
La realtà dei fatti, però, era stata un’altra: i coniugi Seck erano terribili, lo costringevano a spaccarsi la schiena giorno dopo giorno, senza permettergli di lamentarsi. Nemmeno i suoi fratelli lo facevano. Jace avrebbe voluto sfogarsi almeno con loro, ma i due genitori adottivi erano sempre all’erta e l’ultima cosa che i ragazzini volevano era farsi picchiare.
La vita era stata davvero ingiusta con lui: prima era rimasto orfano, poi era stato praticamente schiavizzato e infine era stato estratto per partecipare agli Hunger Games. Vista così, la sua vita pareva davvero miserabile. Si domandò se qualcuno avesse pianto per la sua eventuale morte o la sua estrazione. Probabilmente i suoi fratelli lo avrebbero fatto di nascosto, ma i suoi genitori sarebbero stati arrabbiati, non tristi. Arrabbiati perché avrebbero avuto uno schiavetto in meno. L’unica cosa che riusciva a consolare Jace era il pensiero che, se fosse morto, avrebbe potuto rivedere i suoi veri genitori.
Contro ogni aspettativa, la porta si spalancò. Entrò una ragazzina, che si guardava in giro con aria guardinga. Indossava un abitino poco costoso, di pessima fattura.
«Lilly!» esclamò Jace, nel vederla. Le corse incontro, con aria spaventata. «Cosa ci fai qui?»
Lilly era una delle sue sorelle adottive. In tutto, Jace aveva cinque fratelli: Bridgette, Sandy, Lilly, Leo e Jasper. Erano la cosa più simile a degli amici che avesse al mondo.
«Sono venuta di nascosto» sussurrò, abbracciandolo. Jace ricambiò la stretta, ancora spaventato. Se i Seck l’avessero scoperta, Lilly avrebbe fatto una brutta fine.
«Gli altri?» s’informò il ragazzo. La sorellastra scosse la testa, lanciando un’occhiata alla porta, quasi temesse che i genitori adottivi entrassero da un momento all’altro.
«Non sono potuti venire». Sospirò, portando una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio. «I Seck non gliel’hanno permesso. Sono tutti piuttosto scossi, però».
«A parte i Seck».
«A parte i Seck» confermò Lilly, a testa bassa. «Sono abbastanza arrabbiati».
Le labbra di Jace si incurvarono in un mezzo sorriso sarcastico. «Hanno perso uno dei loro schiavi. Che peccato» commentò, con finto dispiacere.
«Mi dispiace, Jace». Lilly lo abbracciò di nuovo, con ancora più forza. «Io sono riuscita a sgattaiolare via. Sono dovuti andare un attimo all’orfanotrofio, credo che dovessero parlare dei soldi delle adozioni, visto che ora tu sei stato estratto». Fece una pausa e Jace si accorse di come le si fosse incrinata la voce nel pronunciare l’ultima frase. Stava per piangere.
«Adesso che morirò, non ne avranno più bisogno» sussurrò, sentendo che le lacrime iniziavano a formarsi nei suoi occhi.
«Promettimi che tornerai». Lilly alzò improvvisamente la testa, fissando Jace negli occhi, in modo tanto intenso che il biondo dovette distogliere lo sguardo.
«Lilly, lo sai come stanno le cose, qui. Se vinciamo è un miracolo».
«Fallo per noi. Fallo per te stesso, così potrai salvarci tutti da quei due» disse la ragazza, prima che un Pacificatore aprisse la porta. «Torna, Jace».
 
 



 
XII. Mining
 
Effie Trinket aveva indossato di nuovo quella stupida parrucca rosa acceso. Haymitch la odiava, così come odiava il modo in cui si agghindavano gli abitanti di Capitol City. E poi, lui detestava il rosa, lo considerava un colore insulso.
Al suo fianco, la capitolina lo osservava a labbra strette e ogni fibra del suo essere pareva schifata dal modo in cui Haymitch si era presentato sul palco. Era ubriaco fradicio, come sempre, e i suoi vestiti, benché lavati alcuni giorni prima, puzzavano di alcool poiché si era rovesciato addosso del liquore.
«Che hai da guardare così?» chiese il Vincitore, voltandosi verso l’escort. La sua voce era strascicata, come sempre quando era ubriaco. «Se proprio devi fissarmi così intensamente, ti do una foto, dolcezza».
Effie strinse ancora di più le labbra, coperte da un lucidissimo rossetto fucsia. «Mi chiedevo se arriverà un giorno in cui ti presenterai sobrio alle Mietiture». Accavallò le gambe, osservando il sindaco Undersee che continuava a parlare della storia di Panem.
«E io mi chiedo se la smetterai mai di indossare quell’orribile parrucca rosa». Effie gli lanciò uno sguardo irato, ma appariva decisamente comica con tutto quel trucco spalmato sulla faccia.
«Che uomo insolente» commentò, scuotendo la testa con aria contrariata. «Voi dei Distretti bassi siete sempre così… rozzi». Aveva detto Distretti bassi quasi fosse un insulto, sputandolo fuori dalle labbra come se fosse una parola intrisa di veleno. E di veleno – pensò Haymitch – Effie Trinket ne aveva parecchio, considerati tutti i trucchi che indossava.
«E voi di Capitol City siete sempre così idioti».
Fortunatamente, il sindaco concluse il suo discorso, dando il benvenuto ad Effie e ponendo fine a quella penosa conversazione, che sarebbe potuta andare avanti per ore. Ormai Haymitch non ci badava più: era abituato agli sguardi pieni di schifo di Effie Trinket e alle sue maniere da Capitol City, così com’era abituato a vedere morire i suoi tributi. Era dura da ammettere, ma in ventuno anni non era riuscito a far vincere nessuno.
«Come sempre, prima le signore» cinguettò Effie, prima di estrarre il nome del tributo femmina. «Hailey Marshall» chiamò, una volta tornata dinnanzi al microfono.
Haymitch aveva già sentito quel cognome. Alcuni anni prima c’era stata una ragazza che aveva partecipato agli Hunger Games che si chiamava Marshall. Come tutti, lei era morta ed era stata addirittura uccisa dal suo compagno di Distretto, anche lui ammazzato da lei.
Hailey era molto piccola – una dodicenne, a giudicare dal fatto che uscì dall’ultima fila. Aveva i capelli castani, lunghi fino alle spalle, che incorniciavano un volto minuto, da bambina.
Haymitch strinse le labbra. Le era tornata in mente la sorella della ragazzina. Era stata una delle morti più brutte da vedere, quella: uccisa dal suo stesso compagno di Distretto, per poi ucciderlo quasi per fortuna, lanciando il coltello alla cieca.
«E ora il maschio» annunciò Effie, dirigendosi verso l’ampolla accompagnata dal suono prodotto dai suoi tacchi sul legno del palco. «Halcyon Condor» chiamò poco dopo.
Dalla fila dei diciottenni si levò un ragazzo alto, dai capelli castani piuttosto lunghi, per un maschio. Anche quel cognome era familiare a Haymitch: ricordava che anche il ragazzo morto nella stessa edizione della sorella di Hailey si chiamava Condor di cognome.
A confermare i suoi dubbi fu lo sguardo che si scambiarono i due tributi, una volta che Halcyon ebbe raggiunto il palco. Si strinsero la mano, guardandosi intensamente negli occhi, quasi si stessero insultando mentalmente.
«I tributi del Distretto 12» esultò Effie Trinket. «Hailey Marshall e Halcyon Condor!»
 
 

 
Hailey
 
Hailey si sistemò le mollettine che usava per tirare indietro I capelli castani, mentre attendeva che la porta si aprisse da un momento all’altro.
Sembrava quasi il destino della sua famiglia, finire agli Hunger Games. Prima Shailene e ora lei. Hailey aveva appena cinque anni quando sua sorella fu estratta, ma ricordava ancora bene ciò che aveva visto in televisione: sua sorella a terra, morente, che lanciava un coltello per farlo finire nella schiena dell’avversario. Non aveva capito bene cosa fosse successo allora, ma da quel momento, suo padre Bruce era diventato stranamente irrequieto e iperprotettivo. Faceva di tutto per proteggerla, anche se lei già sapeva farlo da sola. Inoltre, Bruce continuava a parlare di un certo Halcyon e di come dovesse odiarlo con tutta se stessa. Negli anni a venire, aveva scoperto che quel fantomatico Halcyon era il fratello di colui che aveva ucciso Shailene.
E ora era stato estratto con lei.
Si passò le mani sul viso, come a voler pulirlo. Avrebbe tanto voluto che ci fosse sua sorella, con lei, avrebbe tanto voluto vederla vincere. Ma i tributi del Distretto 12 non vincevano mai. Era come una specie di maledizione. In settantuno anni, solo due tributi avevano vinto, di cui uno era morto pochi anni prima.
La porta si aprì, per permettere alla sua numerosa famiglia di entrare. Un sorriso si fece strada sul suo volto. Aveva una famiglia numerosa, Hailey e con quasi tutti aveva un bel rapporto. Suo padre Bruce era in testa, accompagnato dalla moglie e madre di Hailey, Odette. La differenza di età tra i due era ben visibile: Odette, con i suoi trent’anni, aveva un viso non ancora intaccato dai segni della vecchiaia. Il viso di Bruce, invece, era cupo e quelle poche rughe che aveva non facevano che aumentare la sua espressione crucciata. Hailey adorava suo padre – nonostante fosse iperprotettivo – ma aveva anche paura di lui. Faceva il macellaio e vederlo al lavoro le faceva quasi impressione. Nel bel mezzo del lavoro entrava come in un mondo tutto suo e non pareva distinguere un pezzo di carne umana da un pezzo di carne animale. Tuttavia, quel lavoro era stato utile anche alle sue figlie: Hailey non aveva la concezione dello schifo ed era diventata molto brava a lanciare i coltelli. Anche Shailene era stata molto abile in quello.
Suo padre la strinse subito a sé e in quel momento, la dodicenne iniziò a sentirsi veramente triste. Il poco benessere provato prima nel vedere la sua numerosa famiglia era sparito, sostituito invece da una malinconia che l’aveva afferrata bruscamente.
«Dunque, sei stata estratta con quell’Halcyon» disse suo padre, freddo, mentre Hailey stringeva a sé sua madre. Pronunciò il nome del ragazzo come una parolaccia e Hailey capì che, a distanza di anni, l’odio di suo padre nei confronti dei Condor non era diminuito.
«Non farti uccidere da quello, Hailey» si intromise suo zio Buster, abbracciandola. Era il fratello di suo madre e uno dei suoi zii preferiti. Era stato come una guida, per lei. Saggio e deciso, sapeva sempre che consigli darle. Hailey adorava anche la moglie di Buster, Peggy, una donna giovane, con un grande istinto materno. Se sua madre l’aveva preparata per anni a ciò che la aspettava una volta diventata adulta, senza però donarle troppo affetto, Peggy era stata la sua madre affettiva, quella che si divertiva a coccolarla e a viziarla.
L’abbraccio con lei fu dolce e tenero, e Hailey non voleva quasi più staccarsi.
«Mi dispiace tanto» mormorò la donna, carezzandole i capelli. Hailey annuì, senza sapere cosa dire. Era conscia che sarebbe scoppiata a piangere, aprendo bocca, e lei non voleva. Era l’ultima volta che vedeva la sua famiglia: voleva mostrarsi forte. Il morale del Distretto 12 era già basso e lei non nutriva il desiderio di affondarlo ulteriormente mostrandosi spaventata.
Dopo gli abbracci frettolosi con gli altri zii – dovuti al fatto che aveva poco tempo – andò incontro agli altri due membri della famiglia a cui voleva più bene in assoluto: Hewie e Shiloh, suo cugino e sua cugina, fratelli.
Hewie era stato una specie di guida, in quegli anni. Era a capo di una banda nella quale aveva fatto entrare anche Hailey, come suo braccio destro. Shiloh, invece, era la sua migliore amica, nonostante i loro quattro anni di differenza. Con lei riusciva ad essere veramente se stessa e a ridere sinceramente.
«Fagliela pagare. Tieni alto l’onore della banda» le sussurrò Hewie, quando Hailey lo abbracciò.
«Lo farò» promise la ragazzina. «E voi restate uniti, con o senza di me». Hewie apparì per un attimo disorientato. «Promettimelo, Hewie. Voglio che continuiate a restare uniti, anche se io morirò».
«Te lo prometto» sospirò il diciottenne, mentre la cuginetta scioglieva l’abbraccio.
Per ultima, Hailey abbracciò Shiloh. Al contrario suo, la sedicenne non aveva trattenuto le lacrime, che le stavano rigando le guance.
«Non morire, Hailey. Ti prego» disse, stringendola tanto forte che la ragazzina temette di spaccarsi tutte le ossa.
«Ci proverò, Shiloh. Non posso prometterti nulla» mormorò.
Quando il Pacificatore entrò per condurre fuori i suoi numerosissimi parenti, Hailey si sentì spaventata, ma più determinata che mai. Avrebbe reso onore a sua sorella Shailene, in qualche modo.
 

 
Halcyon
 
Halcyon sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta. I tributi del Distretto 12 non vincevano mai e lui, che era abituato a vedere la vita in nero, si sentiva alquanto pessimista riguardo all’esito dei Giochi. Oltretutto, avere un mentore ubriacone non avrebbe affatto aiutato né lui né Hailey. Non che gli importasse della sua compagna di Distretto: suo fratello Kurt era morto per colpa della sorella di quest’ultima, e lui non intendeva socializzare con lei.
Aveva dodici anni, quando Kurt era morto, quindi era abbastanza grande da capire cosa stesse succedendo. Ogni tanto rivedeva ancora quella scena: Kurt che uccideva la compagna e faceva per andarsene, ma veniva raggiunto da un coltello dritto alla schiena.
Halcyon non aveva mai odiato una persona così tanto, in tutta la sua vita. Aveva avuto ripercussioni orribili sulla sua famiglia, la morte di Kurt: suo padre aveva iniziato a dirgli che doveva odiare i Marshall, dal primo all’ultimo, mentre sua sorella Merope si era chiusa in se stessa, diventando egoista e approfittatrice. Tuttora, Halcyon non aveva un bellissimo rapporto con lei. Ci teneva, però, come teneva molto anche alle sue altre sorelle – Elettra e Maia. Essere l’unico figlio maschio non era facile e lui faceva di tutto pur di proteggere le sue sorelline, anche se non era un grande esempio di buona educazione, visto che non si faceva scrupoli a imprecare dinnanzi a loro.
Suo padre, Esteban, fu il primo a mettere piede nella stanza, seguito a ruota dalla moglie, Oleander, e dalle figlie.
Esteban era un minatore, ma, a differenza della maggior parte di coloro che svolgevano quel lavoro, era abbastanza ricco. In effetti, il figlio non lavorava molto, anche se sapeva come usare correttamente un piccone. Era stato proprio suo padre ad insegnargli l’arte del mestiere e lo stesso Esteban gli aveva anche parlato moltissimo della sua compagna di Distretto e di come dovesse odiare tutta la sua famiglia per aver ucciso Kurt.
Fu il primo ad abbracciarlo, dandogli anche una poderosa pacca sulla spalla. «Mi dispiace tanto» mormorò. «Sei stato estratto con la Marshall» aggiunse, inarcando le sopracciglia. Halcyon annuì, non sapendo cosa rispondere.
«Che curioso caso del destino» commentò poi, dirigendosi verso Oleander, per abbracciarla. Fu una stretta più delicata, ma molto dolce, quella di sua madre.
«Vedrai che andrà tutto bene» sussurrò la donna, con un sorriso un po’ stentato. Quella era una delle grandi differenze tra Halcyon e sua madre: laddove la prima era ottimista e speranzosa, il figlio era molto più pessimista e tendeva a non vedere la vita in rosa. A vederli non sarebbero sembrati madre e figlio, viste le loro differenze, ma Halcyon le voleva un gran bene.
La terza a stringerlo fu sua sorella Maia, la piccola di casa. Halcyon la sollevò, stringendola forte. Aveva appena dodici anni, ma lui la vedeva ancora come una bambina, mentre lei lo considerava il suo eroe. Tra le sorelle, era quella più allegra ed esuberante – carattere decisamente ereditato da sua madre. Maia aveva gli occhi umidi di lacrime nell’abbracciare il fratellone e anche Halcyon si sentì toccato nel profondo. Sua sorella ci teneva a lui, forse più delle altre due ragazzine. Faceva sempre di tutto per farlo sorridere e tenerlo allegro.
«Non morire, Halcyon» sussurrò, con la voce rotta dalle lacrime. Il ragazzo sospirò. Maia sapeva che suo fratello avrebbe fatto veramente tanta fatica a sopravvivere. Il Distretto 12 vinceva raramente – mai, a dire il vero.
«Ci proverò» ribatté il diciottenne, scompigliandole i capelli. Dopodiché, si rivolse alle altre sorelle.
Merope appariva piuttosto disinteressata. Elettra, invece, guardava suo fratello di sottecchi e, nonostante si sforzasse di sembrare una dura, era visibile il suo dispiacere.
«Pensi di abbracciarmi o tenermi il muso?» chiese Halcyon, allargando le braccia. Elettra alzò gli occhi al cielo, sospirando, prima di dirigersi di gran lena verso il fratello per abbracciarlo.
«Se non sopravvivi, sei un fottuto bastardo» mormorò. Era un rapporto particolare, il loro: Elettra si comportava peggio di un maschio, a volte. Era sboccata e irruenta, decisamente una che sapeva difendersi da sola. Tuttavia, Halcyon l’aveva sempre protetta come poteva, scatenando spesso le ire della sedicenne. Il suo carattere così forte aveva fatto sì che Elettra fosse il suo braccio destro, nella banda comandata proprio dal maggiore dei fratelli Condor. Un tempo, il comando era di Kurt, ma dopo la sua morte era passato al fratello minore.
L’abbraccio con Merope fu piuttosto freddo e distaccato. Halcyon non si aspettava di meglio. Da quando Kurt era morto, Merope di era chiusa in se stessa e non voleva bene a nessun altro. Era legatissima al fratello e la sua morte l’aveva sconvolta.
i suoi famigliari uscirono, salutandolo a gran voce. Non fece neanche in tempo a respirare, che la porta si aprì nuovamente e Colton, il suo migliore amico, fece il suo ingresso. Aveva la sua età e lo conosceva praticamente da sempre. Ovviamente, anche lui faceva parte della sua banda di amici. Era il suo amico storico, quello con cui aveva compiuto una serie di prime volte: prima sigaretta, prima sbronza, primo giorno di scuola.
Il loro abbraccio fu silenzioso e durò poco. Preferivano parlarsi, prima che Halcyon se ne andasse.
«Reina dove l’hai lasciata?» chiese il tributo, una volta che si furono staccati. Reina era la ragazza ufficiale di Colton, nonché la prima ragazza con cui Halcyon era stato e con cui aveva consumato la prima volta.
Colton fece spallucce. «Sono venuto qui subito, senza badare a nessun altro» rispose a bassa voce, osservando di sottecchi il suo migliore amico. La sua tristezza era visibile e Halcyon sentì un groppo in gola.
«Non me l’aspettavo. Ancora un cazzo di anno e sarei stato libero, invece…» Aprì le braccia e le fece cadere lungo i fianchi.
«Andrà tutto bene, Halcyon». Colton gli diede una pacca sulla spalla, tentando di rassicurarlo. «Sei un leader, l’hai dimenticato?»
Il tributo fece un sorriso appena accennato. «Hai ragione anche tu. Ma questi fottuti Hunger Games mi hanno rotto le palle. Prima Kurt e adesso me… non è che c’è una maledizione sulla mia famiglia?»
Colton scosse la testa. «Non lo so, Halcyon. Tu non buttarti giù, però. E rendi onore a tuo fratello» disse, prima che un Pacificatore entrasse per portarlo via.
Rimasto solo, Halcyon pensò. Forse aveva ragione Colton. Forse sarebbe morto, ma avrebbe reso onore a suo fratello, in qualche modo.
 
*
 
« Addio, ragazzo. Ti voglio bene, ragazzo. Abbi cura di te. »
-Dal film “Armageddon – giudizio finale”


 

Alaska's corner

Ciao a tutti! Finalmente posto la seconda parte. Ce l’avevo già pronta, ma, essendo andata in vacanza, l’ho dovuta postare dopo più di una settimana.
Ne approfitto per ringraziare coloro che hanno commentato il primo capitolo: spero di riuscire a rispondervi, in caso, sappiate che ho letto tutte le recensioni e voglio ringraziarvi di cuore.
In secondo luogo, questo capitolo è stato molto più duro rispetto al precedente. Forse perché le storie dei personaggi erano molto più complesse, forse perché la mia autostima è sotto i piedi, forse boh. In ogni caso, spero vi sia piaciuto e spero di aver reso bene i vostri bambini!
Come sempre, ecco qui le facce di coloro che sono stati oggi presentati:
 
 
 
Per questo capitolo non ho precisazioni particolari da fare. Come vi ho già detto, le storie dei vari tributi verranno approfondite man mano, con flashback e quant’altro. Già dal prossimo capitolo ce ne saranno alcuni. A proposito: come vanno le vostre schede? Ne ho già ricevute alcune e ringrazio chi ha iniziato a mandarmele. Avete tutto il tempo che volete, l’importante – come ho già detto a chi è su facebook – è di non mandarmele dopo tremila anni, ecco. xD
Niente, già che ci sono vi posto le foto dei mentori, considerato che alcuni le hanno già viste e altri no e considerato anche che appariranno nel prossimo capitolo.
 
-D1: Cashmere e Gloss Van der Woodsen – vincitrice della sessantaquattresima e vincitore della sessantatreesima edizione; lei 26 anni, lui 27. Li conoscete già tutti, eggià. Il loro cognome l’ho palesemente rubato a Serena Van der Woodsen di Gossip Girl – personaggio altamente inutile, ma dal cognome molto aristocratico. E boh, li shippo tanto ♥
-D2: Lyme Rabe e Enobaria Golding – vincitrici rispettivamente della sessantunesima e della sessantaduesima edizione; Lyme ha 29 anni e Enobaria ne ha 28. I loro cognomi li ho rubati alle attrici che le interpretano. In particolare, quello di Lyme è il cognome di Lily Rabe, colei che era stata scelta precedentemente, il cui ruolo è stato poi affidato a Gwendoline Christie. Io la preferisco perché è Brienne, ma sssh. *GoT everywhere*
-D3: Wiress Plummer e Beetee Latier – vincitrice della trentottesima edizione e vincitore della trentatreesima; lei 50 anni, lui 54. Il cognome di Wiress è quello della sua attrice, mentre quello di Beetee è lo stesso citato ne La ragazza di fuoco.
-D4: Finnick Odair, Connor Likin e Roman Enfert – sessantacinquesima, sessantottesima e quarantesima edizione; 21, 20 e 41 anni. Perché tre mentori? Innanzitutto, Conn è un mio OC – sì, dovete chiamarlo Conn, si arrabbia se lo chiamate Connor. Anche Roman è un mio OC. Finnick e Conn lavorano insieme per via della famosa occupazione di Finnick. In poche parole, mentre il Sirenetto fa la squillo, Conn cura i tributi e lo aiuta. È un bel ragazzo anche lui, quindi riesce ad ottenere facilmente sponsor, I mean ;D E poi ha i capelli rossi. E poi è il mio cucciolino, anche se fuma. Roman è il tipico Favorito, che si è offerto volontario ed è riuscito a vincere. Tra i tre mentori non corre buon sangue, specialmente tra Conn e Roman, mentre il mio amore va molto d’accordo con Finno, visto che sono best friends forevvah.
-D5: Jack Underwood e Nina Suzuki – Jack è un OC di _ClaryFray_. È il padre della sua bimba, quindi ho deciso che sarebbe stato carino se lui fosse stato il suo mentore. Pensavo di inserire Robert, all’inizio, ma ho cambiato idea. Robert è l’ubriacone presentato nel capitolo precedente, quello che viene ammazzato da Finno mio durante l’Edizione della Memoria. E l’ho chiamato Robert per un motivo: VINOH. *GoT*
Nina è la vincitrice della cinquantasettesima edizione e ha trentadue anni. È il tributo femmina durante l’Edizione della Memoria. È una donna di origini asiatiche e lo dimostra anche il suo stile, visto che è rimasta profondamente colpita dalle storie sul suo paese d’origine.
-D6: Franziska Madison e Annika Carrey – vincitrici rispettivamente della cinquantaseiesima e della cinquantunesima edizione; 34 e 38 anni. Franziska è un mio OC, la donna presentata nel capitolo precedente. In caso non si fosse capito, lei è andata nell’Arena insieme al suo fidanzato Aaron, da cui aveva avuto, circa tre mesi prima della Mietitura, un figlio: Jonathan. Annika è la morfaminomane. Loro due collaboreranno molto perché Annika sarà spesso in preda alle crisi d’astinenza o sarà nel suo mondo per via della droga.
-D7: Johanna Mason e Keith Wood – vincitrice della settantunesima edizione e vincitore dei sessantanovesimi Hunger Games; 18 anni lei e 21 lui. Johanna la conoscete tutti. Keith è un mio OC, che sarebbe morto durante l’edizione vinta da Finnick, ma che io ho fatto resuscitare. È un gatto adorabile (?). Oh, insomma, il suo soprannome è Gatto perché sa orientarsi benissimo anche al buio. È il cognato di Johanna. *sorride amabilmente* È stato anche suo mentore. È molto impulsivo, testardo e cerca sempre di mostrarsi spavaldo, ma riesce ad essere anche dolce e gentile, nonostante sia molto competitivo. Andò agli Hunger Games perché fu visto mentre uccideva un Pacificatore che stava per stuprare sua sorella Althea, più grande di lui di tre anni.
-D8: Cecelia Sanchez e Edward Rooney – vincitrice della cinquantottesima edizione e vincitore della cinquantacinquesima; 31 anni lei, 35 lui; marito e moglie. Ebbene sì, ho voluto che il marito di Cece fosse un Vincitore. Mi ispirava, come roba. Edward è un mio OC – un uomo dal passato difficile e il carattere ribelle, che si innamorò di Cecelia durante i cinquantottesimi Hunger Games. Hanno due figli e lei è incinta del terzo. Mi piacerebbe scrivere altro su di loro, in futuro.
-D9: Karen Kentwell e Niklas Brauer – vincitrice della ventisettesima edizione e vincitore della sessantaseiesima; 61 anni lei, 24 lui. Karen è il tributo femmina del Distretto 9 durante i settantacinquesimi HG. Niklas è un mio OC. La sua storia non è facile da raccontare ed è molto triste. Sua madre, Wendy, morì nel darlo alla luce, così che lui rimase a vivere con il padre. L’uomo era spesso ubriaco e violento e, anche se non lo mostrava, accusava Nik per la morte della moglie. Ah, sì, il suo soprannome è Nik, ma solo pochi possono chiamarlo così. Comunque, suo padre morì quando lui era bambino, nel bel mezzo di una rissa. A quel punto, il piccolo Nik fu portato da suo zio Yezekael, vincitore drogato degli Hunger Games e fratello di sua madre. Non avendo una guida, visto che Yezekael era spesso fatto, Nik è cresciuto allo sbaraglio, il che significa che lui è molto sboccato, irruento, maleducato e casinista. Era cleptomane e rubava diverse cose ai suoi compagni, inoltre ama andare in giro con uno skateboard – al presente perché sì, anche se ha ventiquattro anni si diverte lo stesso. Intorno ai tredici anni bruciò un  granaio insieme al suo migliore amico Mark, ma quest’ultimo fu preso dai Pacificatori e ucciso, cosa che ha portato Niklas a farsi del male, come “punizione”. E basta, va’, poverino. Sappiate solo che in questo periodo ha conosciuto la sua fidanzata ♥
-D10: Dawn Bolton e Mark Ward – vincitrice della sessantasettesima e vincitore della cinquantanovesima edizione; 21 anni lei, 30 anni lui. Sono i due tributi dell’Edizione della Memoria. Dawn è una ragazza dal carattere difficile ed è una vera peste. Mark è una specie di robot che maneggia i coltelli come palline da giocoliere ed è parecchio violento.
-D11: Seeder Howell e Chaff Mitchell  - vincitrice della trentatreesima edizione e vincitore della quarantacinquesima; 56 anni lei, 45 lui. Li conosciamo già, quindi direi che non serve una descrizione. Chaff potrebbe offrire da bere al tributo durante il viaggio, sappiatelo.
-D12: Haymitch Abernathy – vincitore della cinquantesima edizione; 48 anni. Non serve una descrizione, direi.
 
Finish. Nel prossimo capitolo appariranno tutti. Non vedo l’ora di leggere le vostre schede.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Pace, amore e biscotti,
Alaska. ~

 

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