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E, dopo averci lavorato sopra per quasi
sei mesi, eccomi qua.
Mi sono divertita un botto a scriverla,
e spero che voi, leggendola, possiate fare altrettanto ;)
Era partita come una rivisitazione del
romanzo di JaneAusten, ma poi è passato in
secondo piano quando ho cominciato a fantasticarci su senza il libro sottoagli occhi, e alla fine è venuto fuori quello che
è venuto fuori. E in fondonon è chemi dispiaccia poi più
di tanto.
Sarà composta di una decina di capitoli (nonostante
tutte le mie buone intenzioni non l'ho ancora finita :/) e ne pubblicherò all'incirca uno a settimana.
Grazie infinite alla mia betalalla_4per il suobetaggioe un grazie anche aGiuls_18per il sostegno e qualcheletturinaqua e là :3
Ora sparisco in fretta prima che mi
lanciate pomodori…
Buona lettura!
Love,
Gage.
~*~
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 1
«J
ohn, devi venire alla festa. Devi
distrarti unpo’,dannazione! Non puoi
rifiutare un invito della Dimmock… Ci saranno tutti!»ripeté Mike per la terza
volta nello stesso giorno.
John portò gli occhi al cielo per poi
puntarli nel proprio piatto.
Nella mensa in cui sitrovavanorisuonava il solito
incessante brusio dato dal chiacchiericcio dei numerosi studenti che stavano
mangiando. C'era chi pranzava in silenzio al suo posto, inviando di tanto in
tanto un messaggio col cellulare o leggendo un libro, chi ascoltava musica e
chi invece discuteva della mattinata appena passata. Al tavolo dove sedevano
John e Mike in quell’istante c’erano solo un paio di ragazzine del primo anno
che sfogliavano alcune riviste lanciando di tanto in tanto qualcheurlettodi gioia alla vista di un attraente
cantante o sbuffi di delusione all’ennesima storia d’amore finita tra qualche
popolare coppia di attori hollywoodiani. Johnavrebbetanto voluto strappare
loro di mano quelle cose o spostarsi in un altro tavolo, ma l’amico lo aveva
costretto a sedersi lì. Non era proprio un posto appartato e John si era
separato dagli amici della squadra di rugby solo perché aveva intenzione di
ripassare per il test di letteratura inglese del pomeriggio. Inutile dire che
di quel passo non avrebbe ripetuto nemmeno una parola.
«Oh,piantala! Ti ho già detto di no.
Perché devi fare tutte queste scene? È solo una festa!»
«Non è solo una festa, è lafestadell’anno.» lo corresse cocciuto l’altro.
«Dicono che abbia invitato anche un sacco di gente importante.»
«Come fa ogni anno?» commentò John
sarcastico, per poi addentare un bel pezzo di pollo che gli avrebbe tenuto
impegnata la bocca almeno per qualche minuto.
Mike lo guardò con tanto d’occhi e si
dilungò sui nomi degli invitati, la maggior partedei
qualiJohn conosceva solo per fama.«Gira voce che abbia
persino invitato alcuni suoi amici di Scotland Yard. Ti rendi conto? Quella ha
amici pure lì!»
John deglutì. «Ti ricordo che suo fratello
ci lavora, là dentro…» commentò sarcasticamente.
Mike fece un gesto d’impazienza con la
mano. «AndiamoJohn! Verrà tua sorella e tu no? Pensavo che avessi deciso di non lasciarla
più sola…»
John s’incupì. «Almeno questa volta spero
che userà il cervello.»
«Sei un idiota John.»
Il ragazzo sbuffò e si guardò intorno con
aria annoiata.
Come in ogni liceo che si rispetti anche
al Barts esisteva una specie di piramide sociale alla cui sommità si trovavano
i membri della squadra di rugby e lecheerleadera loro associate, mentre
alla sua base c’erano i cosiddetti secchioni e i più sfigati della scuola,
sempre isolati e il più delle volte con un paio di occhiali tondi sul naso. In
mezzo si vagava tra i membri delle varie squadre sportive (subito sotto a
quella di rugby) e gli svariati gruppi scolastici. C’erail club di astronomia, quello di cucito e
quello di cucina, il club di scrittura creativa e quello di lettura, canto
corale e canto coreografato. Solitamente durante la pausa pranzo i membri dei
vari club si riunivano ciascuno al proprio tavolo nella mensa e pranzavano tra
i loro coetanei e amici senza mai mischiarsi ai gruppi altrui. Poi c’erano
alcuni tavoli chevenivanopuntualmente lasciati
liberi perché “senza padrone” ed era lì che si sedevano coloro che ancora non
appartenevano ad un gruppo, solitamente quelli del primo anno, o chi, come John
e Mike in quel momento, desiderava prendersi un attimo di pace.
Proprio in quell’istante, al tavolo dei
Blackheath, Harry Smith stava imitando la fatale caduta della squadra
avversaria che la sera primaavevaregalato loro la
vittoria, tra le risate delle cheerleader e dei compagni. John desiderò essere
lì con loro solo per un momento, prima che il suo sguardo si posasse sul libro
in bella vista appoggiato sul tavolo accanto al vassoio.
«Orgoglio e pregiudizio… che razza
di libri vi fanno leggere?» commentò sarcasticamente Mike.
Le ragazze del primo anno lanciarono un
altro gridolino ecominciaronoa ridere sguaiatamente
riguardo a una certa battuta fatta da una delle due, guadagnandosi l’ennesima
occhiataccia da parte di John.
«Magari i più importanti della letteratura
inglese?» ribatté l’altro stizzito e, abbandonato il piatto, afferrò il tomo e
fece per alzarsi.
«Te ne vaidi
già?»
«Sì, Mike. Al contrario di te non ho la minima intenzione di farmi bocciare.»
L’amico fece una smorfia infastidita e si
rigirò la forchetta tra le dita. «Se continuicosìti stresserai troppo e
l’esame non lo passerai nemmeno sapendo tutto il programma a memoria.»
«Ho bisogno di studiare e stasera approfitterò del non-allenamento per
questo. Perché ti è così difficile capire quanto sia importante per me entrare
in quella dannata accademia?»
Mike lo guardò di sbieco. «No, non lo
capisco…»
John sbuffò ancora sonoramente. Poi sembrò
prendere una decisione e, assicuratosi che nessuno li stesse ascoltando, siportòle mani a coppa alle labbra e si chinò un
po’ di più verso l’amico. «La verità è che ho un appuntamento con Sarah…»
sussurrò.
L’amico lo guardò sorpreso, poi rise e gli
diede una pacca sulla spalla.«Eccolo lì il nostroJohnny-Boy! Altro che studio… beh, questo cambia le
cose. Caspita, Sarah! Hai fatto un bel colpo questa volta!»
John lo implorò di abbassare la voce. «È
ancora un segreto, per favore…» lo supplicò. «E comunque ci vediamo per
studiare…»
Mike rise un’altra volta.«Vuoi davvero farmi credere che quella
abbia intenzione di studiare stasera? Fai prima a portarla alla festa…»
John scosse la testa.«Ho detto che alla festa non ci vengo,
Mike, basta. Preferisco la tranquillità di casa suaaduna festa in mezzo a un manipolo di
ragazzi ubriachi…»
«Ah beh, certo… casa sua… Capisco.»
ridacchiò l’altro.
John sospirò scuotendo la testa, poi
sbatté un po’ troppo violentemente il bicchiere sul tavolo, chiudendo così la
discussione con decisione e facendo sobbalzare le biondine di fianco.
Ma, com’è vero che il sole sorge a est e tramontaadovest, è anche vero che le cose non vanno
mai come le si aspetta.
~*~
Gregory Lestrade osservava esasperato il
ragazzosedutoaffianco a lui sul taxi.
Sherlock era appollaiato sul sedile anteriore con l’aria truce, le braccia
incrociate al petto e le mani strette a pugno. Indossava una dei suoi soliti
completi costosi, lo stesso che aveva indossato per tutto il giornoadessere precisi, ed i capelli spettinati
gli ricadevano in riccioli sul volto pallido e affilato.
Non c’era stato verso di fargli cambiare
l’abito e neanche di pettinarlo. A Greg pareva di avere a che fare con un
bambino di sei anni, nonostante il ragazzo al suo fianco ne dimostrasse circa
il triplo.
Continuava a maledire Mycroft per quella
bella pensata: gli aveva ripetuto per un’intera settimana che non aveva nessuna
intenzione di trascinarsi dietrouno
Sherlockirritato, e quindi scorbutico, a una festa il cui scopo era semplicemente
divertirsi, ma il maggiore degli Holmes era irremovibile. Ricordava
perfettamente la discussione avuta solo qualche ora prima mentretentavanodi trovare un modo per
convincere Sherlock a schiodarsi dalla sua camera.
«Ti rendi conto che la sua presenza
rovinerà l’intera festa?»aveva detto Lestrade leggermente
incazzato.
«Ci saranno decine di persone, la sua
presenza nuocerà solo a qualche sfortunato.»aveva replicato
pacatamente il maggiore degli Holmes.
«Per esempio me!»
«Te ne prego Gregory... Sai quanto me che ne ha bisogno. Hai presente i
nervi di mia madre, no? Non voglio che le succeda niente, e Sherlockprima o poipotrebbe causarle
qualche malattia irreversibile.»
Lestrade aveva guardato Mycroft ponderando
l’idea di tirargli un bel ceffone.
«Se non sbaglio mi devi ancora un favore
per quell’ammissione che tanto desideravi.»aveva poi aggiunto
Holmes, e Greg era stato costretto ad accettare contro la propria volontà,
un’altra volta. Se c’era una cosa che odiava fare, sicuramente quella era
discutere con Mycroft Holmes: chissà per quale assurdo e contorto motivo l’uomo
doveva riuscire ad averla vinta ogni volta.
«Non avresti dovuto accettare, allora.»
Lestrade rivolse uno sguardo incredulo a
Sherlock: era sicuro di non aver aperto bocca su ciò che gli passava per la
testa in quel momento.
L’altro roteò gli occhi. «Ti si legge in
faccia quello che pensi.»
«Piantaladi fare il bambino una buona volta e
lasciami divertire stasera, ok?» sbottò seccato l’amico, strofinandosi le mani
sui pantaloni in un gesto nervoso.
Sherlock non rispose, voltando invece lo
sguardo verso il finestrino che si appannò con il calore del suo respiro.
«Sarà una festa piena di ragazzi. Vedi di cercartene qualcuno di abbastanza
interessante e di fartelo amico.»continuò Greg.
Sherlock arricciò il naso. «Per poi
entrare a far parte di qualche insulso gruppo su qualche altrettanto insulso
argomento e potermi sedereadun insulso tavolo
insieme ad altre insulse persone?»
Greg sbuffò.«È la regola, Sherlock!
Sei al Barts ormai da un anno e non sei ancora entrato a far parte di un
gruppo! Lo sai che è anche per questo che ti prendono di mira? I Blackheath si divertono prendendo in giro glisfigatio chi non fa parte di un club, o chi è
tutti e due. E tu non sei per niente uno sfigato.»
«Parli come se fossi mio padre.» sbuffò l’altro
infastidito.
«Beh, scusami tanto se tuo fratello ha
deciso che io ti debba fare da baby-sitter.»
«Appunto. Non avresti dovuto accettare. Mycroft sembra avere una certa
influenza su di te…»mormorò Sherlock distrattamente, ma non per questo in modo meno pungente.
Fu una fortuna che fosse buio, per lo meno
il moro non si accorse del lieve rossore che andò a imporporare le guance di
Lestrade. Il ragazzo era perennemente in lotta con il fratello del suo migliore
amico per la sua dignità: non c’era mai una volta in cui Greg riuscisse ad
avere ragione in qualche discussione.Madopotutto Mycroft era un
Holmes e aveva sette anni in più di lui; solo con questo pensiero il ragazzo
riusciva a consolarsi e a tirare avanti.
Certo che condividere i suoi pensieri con l’amico sarebbe servito a ben
poco, Greg si limitò a sbuffare e a voltare lo sguardo dall’altra parte. «Per lo meno lascia in pace Dimmock. Siamo in buoni rapporti con lui, e sai cosa questo vuol dire.»borbottò, ma Sherlock
non sembrava più ascoltarlo.
~*~
Sarah arrivò con due cartoni di pizza in
mano che appoggiò poi sul tavolino, nello spazio libero tra i libri accatastati
l’uno sull’altro alla rinfusa.
«Il ragazzo delle consegne era leggermente
incazzato…» ridacchiò mentreprendevaposto sul divano vicino
a John, il quale rise a sua volta.
«Non è da tutti ordinare pizze alle undici
di sera, vero?»
Sarah aprì la lattina di coca ridendo.
«Speriamo solo che non abbia confuso
qualche ingrediente, come lo zucchero con il sale per esempio.» aggiunse John,
che nel frattempo aveva aperto il primo cartone e stava guardando con aria
critica la mozzarella filante straripare da un pezzo di crosta.
Sarah continuò a ridere e dovette portarsi
una mano alla bocca perl’improvviso attacco di
tosse dovuto alla coca appena bevuta. Quando finalmente ebbedeglutitoguardò John con aria di
rimprovero. «Smettila di farmi ridere… Mi fanno già male gli addominali per
tutte le battute di prima…»
John sogghignò. «Che ci posso fare se sono
così simpatico?»
Sarah sospirò. «In realtà niente…»
John addentò la prima fetta e masticò
lentamente, osservando la ragazza fare altrettanto.
Si trovava a casa sua ormai da più di tre
ore e non ricordava di essersi mai divertito tanto con una ragazza. Sarah era
una delle migliori con cui avesse mai avuto un appuntamento, anche se di
studio, come nel loro caso. Con lei anche gli argomenti più noiosi del libro
sembravano divenire improvvisamente più interessanti, anche se forse era lei ad
affascinarlo, con i suoi modi gentili e la sua determinazione a finire il
lavoro per poter poi così fare qualcosa di più divertente, come mangiarsi una
pizza per esempio. John aveva ridacchiato mentalmente quando Sarah glielo aveva
detto, cogliendo l’espressione maliziosa del suo sguardo.Mail ragazzo sapeva per esperienza che
quello che Sarah intendeva non era l’approccio giusto per un primo appuntamento
e si limitava a scherzare, mostrando il lato più divertente di sé con cui
sapeva avere le maggiori possibilità di far colpo. E cistava riuscendo bene a giudicare dalle occhiate dolci che la ragazza gli
lanciava ogni tanto. Per una volta John si
ritrovava a sperare che il loro rapporto potesse approfondirsi di più, come gli
era successo in rare occasioni.
Era uscito con un sacco di altre ragazze
affascinanti e simpatiche, ma con nessuna era riuscito a sentirsi completamente
a suo agio come con Sarah. Forse uno degli elementi che la favorivanoera il fatto cheanche lei era decisa a
dare il meglio di sé nello studio, tralasciando solite frivolezze a cui altre
difficilmente avrebbero rinunciato.
«Sei un ragazzo simpatico John Watson, e
finora non ho ancora trovato qualche tipo di difetto in te.»
John sorrise.«E questo che fai ai primi appuntamenti?
Trovi i difetti negli altri?»scherzò.
Sarah si diede un’occhiata critica
intorno. «E questo lo chiami appuntamento?»
John si strinse nelle spalle. «Come dovrei
chiamarlo?»
«Beh, ritrovo di studio, per esempio…
Comunque sì, mi piace trovare difetti, tanto per sapere con chihoa che fare. E tu? Ne hai trovato qualcuno
in me?»
John scosse la testa. «Dovrei trovarne?»
Sarah annuì. «Non fare il timido John… Non
mi offendo.»
John deglutì, non sapendo cosa rispondere.
Sarah notò il suo disagio e ridacchiò. «Il
mio ex mi diceva sempre che sono troppo curiosa e impulsiva…»
John la guardò sorpreso. «Davvero?» poi
aggiunse: «La curiosità laconsideriun difetto?»
«Oh beh… Dipende dalcontesto, ma per la maggior parte dei casi per me
vale come difetto. Se pensi che poi il mio ragazzomi ha lasciato proprio per questo…»
John ridacchiò. «Che cosa gli hai fatto?»
Sarah cominciò a sbocconcellare la crosta
di una fetta di pizza con aria truce. «Diciamo che non gli è piaciuto quando
sono andata a curiosare nei suoi affari famigliari…»
Un brivido freddo percorse la schiena del
ragazzo a quell’affermazione, e Sarah dovette notarlo dalla sua espressione
perché si affrettò ad aggiungere:«Non lo faccio più, ovviamente… Ho imparato la lezione.Macontinuo a pensare di aver fatto la mossa
più giusta. Avevo l’impressione che mi stesse tradendo con una sua amica,
quando invece aveva solo alcuni problemi con i suoi. Se solo me lo avesse
detto…»Sospirò.
«Allora posso considerarmi fortunato che
non l’abbia fatto…» mormorò John con un sorriso appena accennato sul volto.
Sarah arrossì lievemente.
Passarono alcuni minuti in silenzio, poi
fu di nuovo lei a parlare. «Ora che ci penso un difettoce l’hai…»
John alzò lo sguardo sorpreso. «Spero
qualcosa di non troppo evidente…»
Sarah sogghignò. «No, non si nota,a meno chenon ti si provochi.»
affermò.
«Ah sì?»
Sarah abbassò lo sguardo a rimirarsi
un’unghia.«Ricordi la prima volta
che ci siamo incontrati? Alla festa dopo la partita di rugby?»
John annuì.
«C’era un tizio… Un certo Spencer…»
John corrugò la fronte nello sforzo di
riportare i ricordi alla mente, e quando essiriaffioraronoemise un flebile «Oh…»
Sarah lo osservò attentamente. «Ti aveva
provocato?»
John ricordava abbastanza bene quel
momento. Dopo una vittoria alla partita di rugby di quel giorno era andato con
la squadra a festeggiare al loro solito bar, e lì aveva conosciuto il nuovo
ragazzo diJanette, una delle sue ex. Gli
era sembrato insopportabile fin da subito e aveva avuto modo di provare
l’autenticità di quell’antipatia quando, due ore dopo circa, il ragazzo aveva
cominciato a sparlare alle sue spalle. A quanto parevaJanettedoveva avergli raccontato molto su di lui,
perché Spencer aveva cominciato a parlare di Harriet e dei suoi problemi con
l’alcool. A quel punto John non aveva più resistito e gli aveva risposto male,
dando inizio così a una rissa, fermata per l’appunto da Sarah prima che
cominciassero a prendersi a pugni. Ricordava bene l’orribile sensazione di
essere statomesso a nudodavanti ai suoi amici
con ciò che più tentava di nascondere, l’orribile sensazione che si prova
quando si viene feriti nell’orgoglio.
Sì, John poteva definirsi abbastanza
orgoglioso.
«Èuna
brutta cosa vero?» tentò di sviare.
Dopo essersi assicurata che John non si
fosse offeso, Sarah annuì. «La maggior parte delle volte.»
John sorrise. «Quindi abbiamo entrambi i
nostri difetti.»constatò.
Sarah sorrise a sua volta.
Buttarono via i cartoni della pizza e si
sedettero sul divano con l’intenzione di guardarsi un po’ di tv. Stavano
decidendo se guardarsi un film o fare qualcos’altro quando il cellulare di John
squillò dal tavolo. Il ragazzo rivolse un’occhiataccia all’apparecchio, quasi
sperando che smettesse di vibrare. Quando questi non lofecesi scusò con Sarah e lo prese in mano: la
foto di sua sorella compariva sullo schermo, accompagnata dal suo nome e
cognome. John trattenne a stento un’imprecazione.
«Che succede?» Sarah si avvicinò
interrogativa.
«Mia sorella.» rispose John, secco, poi
premette la cornetta verde. «Che c’è?»
«Numero quattro diBrookStreet. Vieni subito, se puoi.
Se non ti è possibile, vieni lo stesso.»fece una voce profonda dall’altro capo
della cornetta.
Per poco John non si prese un colpo. «Chi
parla?»
Dall’altra parte qualcuno sbuffò.«Harriet è tua sorella? Sì, ovviamente.»John non ebbe neanche il
tempo di rispondere alla domanda.
«Vieni al quattro diBrookStreet, penso che non tornerà
a casa da sola.» e con questo chiuse la chiamata.
John rimase imbambolato con il cellulare
all’orecchio, mentre la sua mente correva avanti col pensiero. Harriet si era
cacciata un’altra volta nei guai. Aveva semplicemente esagerato un’altra volta
con l’alcool o qualcosa in più? Poi gli venne in mente l’indirizzo che gli era
stato dato al cellulare e si rilassò un poco.BrookStreetera l’indirizzo dove
Clara Dimmock aveva organizzato la festa, quindi non
c’era motivo di preoccuparsi più di tanto. Clara poteva anche essere una
ragazza avventata, ma non sufficientemente da permettere che qualcuno si
facesse maleaduna delle sue feste: su
questo John sapeva che la ragazza faceva attenzione. Chiunque entrasse con
qualcosa d’illegale era subito cacciato dalla festa, almeno suquesto Claraera irremovibile.
«Cos’èsuccesso?» chiese Sarah con
apprensione.
John si riscosse dai suoi pensieri e
sospirò pesantemente. «Mia sorella…» Deglutì, «Sì è cacciata nei guai…»
«Che genere di guai?» chiese preoccupata
la ragazza, poiarrossìlievemente e distolse lo
sguardo.«No, scusa, non dovevo
chiedertelo. Me lo dirai solo se vorrai.»
John si agitò sul posto. «No non… non è
niente.» Si morse un labbro nervosamente. «Penso che si sia fatta qualcosa alla
festa… Niente di grave.»
Sarah annuì. «Quindidevi…?»
Il ragazzo si passò una mano sul volto.
«Mi dispiace…» sospirò.
Leiglisorrise comprensiva.
«Beh, è comunque tardi… Ci sentiamo?»
John si alzò e raggruppò le sue cose.«Ti andrebbe di vederci venerdì? Magari un
film?»chiese.
Sarah annuì. «D’accordo… Ma niente film
romantici, nonsonoproprio il mio genere.»
L’altro ridacchiò. «Neanche il mio.»
La ragazza lo accompagnò alla porta e li
aspettò che l’ascensore arrivasse, facendogli compagnia. Quando si udì il
tintinnio delle grate aprirsi lo salutò: «Alloraa
venerdì, John Watson… e fammi sapere se è andata bene con tua… Cioè, sempre se
vuoi…»
John sorrise. «Ti mando un messaggio, ok?»
Sarah annuì, poi, quasi timidamente, si sporse
verso di lui e gli diede un bacio leggero sulle labbra. «Tieni a bada il tuo
orgoglio.» scherzò, e richiuse la porta.
John ridacchiò tra sé e sé ed entrò
nell’ascensore, che scese poi sferragliando i sei piani che lo separavano
dall’uscita.
Una volta instradaJohn prese un respiro
profondo. Era passata la mezzanotte, il che voleva dire che di prendere la
metro non se ne parlava neanche. Si avviò alla fermata dell’autobus più vicina,
ma una volta arrivatoci, vide che mancava più di mezzora alla corsa successiva.
L’unica macchina che possedevanose l’era presa Harriet, il che voleva dire che aBrookStreet ci sarebbe dovuto arrivare con le
proprie gambe: di certo non avrebbe chiesto un passaggio a Sarah. Poi, come se
non bastasse, cominciò a scendere una pioggia sottile. Con uno sbuffo di rabbia
John si calò il cappuccio sul volto e si avviò a piedi verso la sua
destinazione.
Ci impiegò venti minuti buoni a passo
svelto, e in un certo senso fu contento del risultato, tanto da salire gli
scalini che lo separavano dall’appartamento a piedi. Quando suonò alcampanelloaveva il fiatone.
Dall’ingresso sentiva il suono della musica a tutto volume accesa in sala, e
per una volta si chiese che cosa ne pensassero i vicini. Per quanto ne sapeva
le feste diClaraduravano fino alle prime
ore del mattino; di certo lui non avrebbe voluto avere una vicina del genere.
Andò ad aprirgli Clara in persona, cheglisorrise e lo fece entrare nell’ampio
ingresso. «HeilàJohnny!» Lo abbracciò
velocemente. «Ti aspettavo qui come invitato, non come tassista.»
John abbassò lo sguardo imbarazzato. «Mi
dispiace di non essere venuto… Avevo un…»
Clara fece un gesto con la mano. «Non
importa, ora sei qui, no?» ridacchiò.«Vieni, tua sorella è da
questa parte… Avresti anche potuto farmela conoscere prima, però. Adirla verità pensavo che fossi figlio unico.»
John non rispose, cercando invece con lo
sguardo la sorella. La trovò in un angolo della sala, seduta su di unpuffbluastrocon
inmano un bicchiere di quella che sperava vivamente essere acqua. Al suo
fianco c’era Mike, anche lui con un bicchiere in mano, e quando lovidegli fece un gesto con la mano in segno di
saluto.«Che ti avevo detto
stamattina? Non puoi perderti la festa dell’anno…»ironizzò il ragazzo, tirandogli una bella
pacca sulla spalla.
Johnglisorrise di circostanza e
si rivolse alla sorella. «Riesci a non provocare una guerra mondiale prima che
io me ne torni a casa?»
Qualcuno seduto vicino si mosse sulla
sedia, voltandosi verso John, ma il ragazzo era troppo occupato a prendersela
con la sorella per accorgersi di altro.
Harriet lo guardò con occhi vacui, poi
scosse la testa e abbassò lo sguardo verso il bicchiere che teneva in mano,
guardandolo come se fosse fatto di un particolare diamante.
John sospirò e tirò fuori il cellulare dai
pantaloni per guardare l’ora, facendo al contempo cadere il portafoglio che
teneva nella stessa tasca. Si affrettò a raccoglierlo, poi continuò il
discorso. «È passata la mezzanotte, magari possiamo essere a casa per l’una ed
evitare di far preoccupare mamma…»
Harriet scosse la testa, alzando lo
sguardo sulla sala. «Non voglio… non… in questo stato.» borbottò.
John strinse una mano a pugno. «Forse
avresti dovuto pensarci prima, eh?»
«Questa volta do ragione a Harriet, John.Dai,ancora una mezzoretta.
Beviamoci qualcosa, ti va?»fece Mike, guadagnandosi un’occhiataccia dall’amico.
John sospirò e si lasciò cadere su un
altropufflì vicino. «No grazie.»
rispose secco.
«D’accordo…» sospirò Mike. «Ti va una coca
Sherlock?»
John si accorse solo in quel momento del
ragazzo seduto a gambe accavallate sulla sedia vicino a Mike. Era alto e snello,
il volto pallido e affilato era contornato da lunghi riccioli castani e aveva
un paio di occhi di colore chiaro, che alla richiesta di Mike distolse da John
per puntarli negli occhi del vicino. «No.»
Fu una sola parola, ma per John fu
abbastanzaperriconoscere la voce del
ragazzo che gli aveva parlato al cellulare.
Lo guardò interrogativo. Mike si diede una
manata sulla fronte, borbottando qualcosa sul fatto che si scusava per non aver
pensato a presentarli. «John, ti presento Sherlock Holmes, un mio… ehm…» gettò
un’occhiata al ragazzo,«…diciamo amico.
Frequenta il terzo anno da noi al Barts, non so se lo hai mai visto. Prima ha
avuto la cortesia di chiamarti quando tua sorella ha, diciamo, un po’
esagerato…»
John sospirò, non osando pensare a cosa
Harriet avesse mai potuto fare per costringere un ragazzo a chiamarne il
fratello, poi sorrise. «Piacere, John Watson.» e tese una mano verso l’altro,
il quale, però, lo guardò distante senza muovere un muscolo.
«Piacere.» rispose laconico.
John si affrettò a ritirare la mano,
limitandosiadignorare il suo
comportamento.
«Beh, io vado a prendermi una coca.» fece
Mike, e si alzò, per poi allontanarsi lungo la parete evitando i ragazzi che si
muovevano a ritmo della musica a tutto volume.
John osservò Sherlock, che intanto aveva
distolto lo sguardo e fissava un punto indefinito di fronte a sé, soffermandosi
in modo particolare sui suoi abiti lindi e costosi. Sedeva ritto e
composto, in un modo che gli dava un’odiosa aria altezzosa, e osservava i
ragazzi nella sala con superiorità. John provò subito un moto di antipatia nei
suoi confronti. Per quanto ne sapeva quel ragazzo era solo uno dei tanti
ricchi sfondati checredevanodi essere superiori a
tutto e a tutti e che non si abbassavano a guardare una persona se non portava
orologi o scarpe di marca.
John non aveva mai avuto pregiudizi di
nessun genere nei riguardi dicoloro che avevanola fortuna di essere più
ricchi di lui, ma osservando Sherlock Holmes cominciò a pensare che in fondo
non erano solo voci di persone gelose quelle. Non che tutti i ricchi si
comportassero così, poi. John sperava vivamente di non dover mai avere a che
fare con qualcuno di loro.
«No.» La sua voce profonda lo
distolse dai suoi pensieri. Sherlock lo stava osservando di nuovo, questa volta
però con aria irritata.
Il ragazzo lo guardò accigliato. «Che cosa
no?»
«No, non sono uno dei tanti noiosi ricchi
sfondati.»
John spalancò la bocca, sorpreso mentre
l’altro lo osservava con diffidenza.«E invece tu sei noioso, esattamente come tutti.Manon ricco…»
A quelle parole John sentì una morsa
stringergli lo stomaco.
«…e neanche nella media direi. Tua sorella non ha nemmeno i soldi per
comprarsi un abito nuovo, figuriamoci. Per fortuna quelli di vostra madre sono
ancora in buono stato.»
John sedeva rigido sulpuff, le unghie che gli affondavano nel palmo
della mano da quantostringevaforte i pugni, la mente
divisa tra la stupore per quello che il ragazzo sapeva su di lui e la
frustrazione per ciò che gli stava sbattendo in faccia senza il minimo tatto.
Alla fine si risolse nell’esprimere un unico pensiero. «Che cosa vuoi da me?»
Sherlock fece saettare gli occhi sul suo
viso. «Niente.» disse poi con una smorfia, e si alzò.
«Sherlock, tutto a posto?» dalla folla
spuntò un ragazzo allampanato, i capelli in disordine e il viso leggermente
arrossato.
Il moro non rispose, limitandosi a spostare
lo sguardo sul nuovo arrivato.
Il ragazzo notò John e sorrise.«Avete fatto conoscenza? Piacere, Greg
Lestrade.»disse e allungò una mano
verso il ragazzo, il quale, furioso, si alzò a sua volta e voltò le spalle ai
due. «AndiamoHarriet.» disse, poi prese la sorella per le spalle e la guidò fuori dalla
sala, fermandosi solo a salutare Mike e a ringraziare Clara per l’ospitalità.
Intanto Greg spostava lo sguardo da
Sherlock a John, ormai lontano. Poi sospirò. «Che cosa diamine gli hai detto?»
Sherlock si strinse nelle spalle. «La
verità.»
Greg si passò una mano sul volto e sbuffò.
«E ti sei chiesto se fosse giustodirglila verità?»
Dato cheèmoooltolungo, cercherò di essere il più breve possibile.
Allora, che dire? Il primo capitolo
ha avuto un successo (almeno per i miei standard) che non mi aspettavo per niente.
Non so che altro dirvi se non ringraziarvi e sperare che la storia possa continuare
a piacervi con la continuazione *^*
Detto questo, avviso che alla
fine del testo troverete un po’ di note. Ho pensato fosse doveroso metterle per
una maggiore comprensione del testo ;)
Prima di leggere, tuttavia, vi
annuncio già che la storia tratterà molto spesso di argomenti riguardanti il rugby.(Inquesto caso quello a 15 giocatori poiché è il
più diffuso in Inghilterra). Per questo vi rimando alla paginawikipediadovene parla:qui.
Per quanto riguarda il prossimo
aggiornamento, invece, in questo periodo sono abbastanza impegnata con lo studio
quindi potrebbero esserci dei possibili ritardi. Se tutto dovesse andare per il
meglio, però, aggiornerò martedì prossimo.
Bene… comealsolito: buona lettura!
Gage.
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo2
A
ppena John se ne fu andato, Sherlock
ripensò all’espressione che il ragazzo aveva assunto alle sue parole, confermando
le sue teorie e dicendogli che ancora una volta era giunto alle giuste conclusioni.
Compiacendosi di se stesso lasciò
che le parole di Lestrade perdessero il loro significato, scivolando via dai meandri
della sua mente, mentre un sorriso superbo gli affiorava sul volto sotto lo sguardo
attonito dell’altro.
«Ti diverticosì tantoa inimicarti le persone?» sbuffò Greg.
Sherlock roteò gli occhi. «Iodicosolo la verità. Se poirisulta
esserescomoda non è colpa
mia…» disse, poi voltò definitivamente le spalle all’altro e si avviò a passi cadenzati
verso il lungo tavolo delle bibite.
Puntò verso un the freddo alla pesca
e se lo versò in un bicchiere, portandolo poi alle labbra.
Al pensiero di dover rimanere lì
ancora per un paio d’ore un vago senso di nausea gli attanagliò lo stomaco e dopo
qualche secondo decise che avrebbe abbandonato la festa non appena Greg si sarebbe
ributtato nella massa e avrebbe definitivamente perso ogni tipo di controllo su
di lui. Mischiandosi al resto dei ragazzi si sarebbe avviato verso l’ingresso, dove
avrebbe tranquillamente recuperato il proprio cappotto e la propria sciarpa con
qualche scusa, e sarebbe poi uscitofuori, via da tutto e da tutti. Se proprio
avrebbe avuto difficoltà nel recuperare il vestiario decise che ne avrebbe fatto
a meno: dopotutto fuori non era poi così freddo e lui era ormai abituato a mantenere
sbalzi di temperatura improvvisi. L’unico problema che si poneva davanti alla propria
fuga era Mycroft: era sicuro chenon lo avrebbe fatto entrarein casa prima di una certa ora. E Greg poteva
anche non essere una cima d’intelligenza, maprima o poise ne sarebbe accorto e avrebbe immediatamente
inviato un messaggio a Mycroft per avvisarlo. Odiava quella strana chimica che intercorreva
tra l’amico e il fratello e che portava Gregadubbidire ciecamente a Mycroft: pareva che non
ci fosse nient’altro al mondo da fare per entrambi che tenerlo sotto ferreo controllo.
Sapeva che Greg si sentiva nettamente inferiore a suo fratello e odiava Mycroft
per come riusciva ad averla vinta solo con un’occhiata minacciosa.
Alla fine del suo lungo ragionamento
decise che avrebbe tentato la fortuna con l’amico. Per quanto riguardava il rimanere
chiuso fuori di casa, Sherlock non aveva la minima fretta di tornarci e pensò che
un giretto nei dintorni non gli avrebbe fatto male: magari avrebbe trovato un assassino
per strada.
Quando, però, mezzo minuto dopo
abbassò il bicchiere pronto a mettere in atto il suo piano, si ritrovòfaccia a
facciacon il sorriso affabile
di Irene Adler.
«Ciao, Sherlock…» mormorò lei suadente.
«Passata una buona serata?»
Il ragazzo non riuscì a trattenere
uno sbuffo infastidito.
Irene Adler era una delle ragazze
più subdole e intelligenti che avesse mai conosciuto. Si erano parlati per la prima
volta durante una noiosa ora di corso al Barts, e da quel momento Irene lo aveva
puntato, decisa a prendersi una parte della sua vita. Sherlock ammirava Irene Adler,
la ammirava per la sua furbizia e le sue capacità intellettive che di certo non
losuperavanoma
comunque lo rendevano spesso dubbioso sulle proprie deduzioni. Irene Adler era un’attrice
nata e Sherlock non riusciva quasi mai a interpretare il suo comportamento.
Era, con James Moriarty, a capo
del Brainy club, il gruppo che comprendeva tutti i ragazzi più intelligenti della
scuola, desiderosi di mettersi alla prova con gare di matematica e logica. Più volte
gliavevaproposto
di entrare a farne parte e Sherlock aveva anche partecipato a un paio di incontri,
durante i quali aveva conosciuto Stamford, ma trovava la cosa fin troppo noiosa
e alla fine aveva lasciato perdere.MaIrene no. La ragazza si era naturalmente accorta
della propria situazione privilegiata e aveva ormai tentato in tutti i modi di avvicinarlo,
con scarso successo.
In quel momento Sherlock desiderò
con tutto se stesso che la ragazza decidesse di lasciarlo in pace, o che un qualsiasi
altro ragazzo la invitasse a bere qualcosa distraendola da lui, ma non avvenne niente
di tutto ciò. Irene non si arrese al silenzio del ragazzo e continuò. «Che noia
queste feste, vero?» Si avvicinò altavolo doveSherlock si appoggiava e osservò la sala pensierosa.
«Scommetto che ti stai annoiando ancora più che nell’ascoltare un qualche nostro
incontro del Brainy.» sorrise.
Sherlock appoggiò il bicchiere sul
tavolo e la guardò dall’alto in basso.
«E pensare checredevoche le gare di matematica fossero difficili…
speravo potessero almeno incuriosirti. Scommetto che declinerai ogni mia altra proposta
di unirti a noi, vero?» Irene scosse i lunghi capelli con un sorriso tristeadincurvarle le labbra.
«Sì.Male feste sono molto meno noiose.»
Irene si finse sorpresa.«Oh,
davvero? Avrei dettoesattamente il contrario…»
Sherlock non rispose, spostando
lo sguardo sulla sala. Vide distintamente Greg Lestrade parlare dall’altro capo
della stanza con un suo compagno di corso.
«A volte mi stupisci Sherlock. Quando credo di
averti perfettamente compreso tu mi escifuoricon frasi del genere che mi mandano totalmente
in confusione.» disse l’altra, fingendo un tono lamentoso.
Sherlock si spostò lateralmente
come a voler raggiungere un tovagliolo di carta sul tavolo, in realtà tenendo d’occhio
l’amico da lontano e allo stesso tempo nascondendosi da lui. Irene lo seguì, per
niente interessata alle sue mosse.
«Sono abbastanza imprevedibile.»
borbottò il moro.
«Abbastanza da essere terribilmente
affascinante.» aggiunse l’altra sorridendogli convinta.
Sherlock le lanciò un’occhiata di
traverso.
«Visto chequesta
festa non ti sta annoiando… che ne dici di fare qualche passo insieme?»
Sherlock soppesò le sue parole mentre
un pensiero contorto ma fattibile sifacevastrada nella sua mente. Vide distintamente Greg
porgere un bicchiere di coca cola (oh Greg, davvero?) all’ospite della festa,
Clara. Qualcosa gli disse che sarebbe stato impegnato per un po’. Stava perdeclinare
l’offertaquando l’amico gettò un’occhiata
nella sua direzione e lo squadrò torvo.
Nel giro di mezzo secondo Sherlock
aveva afferrato Irene per un braccio e la tirava verso l’improvvisata pista da ballo,
stando ben attento a sorridere come se la ragazza avesse appena detto qualcosa diestremamentedivertente. Come previsto, Greg ci cascò in
pieno e tornòadoccuparsi
dei suoi futili discorsi e di Clara.
Irene gli scoccò le dita davanti
agli occhi. «Mami stai ascoltando?»
Sherlock si riscosse e la guardò
interrogativo.
«Dicevo… sai ballare?»
Il ragazzo si trattenne dallo sbuffare.
Certo che sapeva ballare, e anche bene adirla verità. Aveva passato ore intere a seguire
un corso di ballo da sala perché “facciamolo per la mamma”. All’inizio non lo voleva
fare, lo considerava un’inutile perdita di tempo, ma poi alla fine era stato costretto
a frequentare le lezioni contro la sua volontà, e non aveva mai odiato tanto Mycroftcomequando lo aveva obbligato a farlo solo per rendere
felice la madre e farsi adorare ancora di più. Tuttavia dopo qualche lezione aveva
cominciato a trovare il ballo qualcosa diestremamenteinteressante e, nonostante dimostrasse tutto
il contrario, Sherlock aveva cominciato ad aspettare le lezioni settimanali quasi
con ansia. «Sì.» rispose, e presa la ragazza tra le braccia cominciò a muoversi
con lei tra le numerose coppiette sulle note diAThousandYears,
titolo che ricordò grazie alla radio che aveva ascoltato poco prima in taxi.
Irene sorrise.«Lo
sai che sei strano? Non hai mai avuto ragazze e non vieni mai alle feste… eppure
sai ballare e ti piace.»
«Nessuno ha detto che mi piace ballare…»
Greg esplose in una finta risata,
probabilmente causata da una delle pessime battute di Clara.
«Oh, andiamo… balli molto bene.»
«Non ho bisogno di complimenti.»
«Ah no? L’orgoglio in persona non vuole complimenti?»
Greg fissava con evidente desiderio
la ragazza al suo fianco, ormai completamente dimentico del ragazzo che avrebbe
dovuto tenere sotto controllo.
La porta d’ingresso era vicina,
ancora un paio di strofe e l’avrebbe raggiunta. «Non ne ho bisogno.»
Irene sospirò. «Chi era la ragazza
di prima?»
«Quale ragazza?»
«La biondina che ti si era appiccicata
addosso…»
«Harriet Watson.»
«Conosci anche il suo nome? Dovrei essere gelosa?»
La canzone finì e Sherlock si fermò.
Con un gesto plateale s’inchinò alla sua dama e le baciò ironicamente il dorso della
mano.«Famiglia relativamente povera, orfana di padre, alcolista, in cattivi
rapporti con il fratello e abiti dismessi. Direi che puoi farne a
meno.»sorrise, e con un lieve cenno del capo si congedò.
Al contrario di quanto aveva pensato
non faticò a riprendersi il cappotto e qualche attimo dopo era già per le scale
dell’edificio che scese a due a due finché non si ritrovò fuori all’aria fresca
di fine autunno.
Tuttavia non fece in tempo a girare l’angolo che il suo cellulare squillò.
Con una punta di amarezza Sherlock si guardò intorno e individuò subito una telecamera
a circuito chiuso che puntava verso di lui a pochi metri di distanza. Le voltò accuratamente
le spalle e s’incamminò per la strada buia, ignorando completamente il messaggio
che sapeva essere di Mycroft.
La festa era così noiosa? MH
~*~
Quella sera, quando i fratelli Watson
tornarono acasa,trovarono la madre appisolata in sala sul divano-letto
con il telecomando in mano e la tv accesa sul notiziario della BBC.
Harriet se la filò immediatamente
nella stanza che condivideva con John, mentre quest’ultimo si avvicinò alla donna
e, avendo cura di non svegliarla, spense il televisore. I suoi buoni propositivennerotuttavia infranti quando un forte rumore provenne
dalla camera adiacente. In un attimo Jocelyn aveva aperto gli occhi e si guardava
intorno spaventata. «Che succede?» biascicò assonnata. «Ah…
Johnny. Già di ritorno?»
John si stampò un sorriso in faccia
e annuì.«Sì, mamma… e tu come stai? Hai preso le pastiglie?»
«E com’è andata con Sarah? Tutto bene?»chiese invece l’altra, ignorando la domanda del figlio minore.
«Sì bene…» mentì John, poiché aveva
sperato in un finale leggermente diverso.
«Harriet?» continuò Jocelyn, mentre
si tirava su a sedere stropicciandosi gli occhi con una mano.
Si è ubriacata per l’ennesima
volta e sono dovuto andarla a prendere rovinando il mio appuntamento, pensò,
ma le parole che gli uscironodibocca furono tutt’altre.«Tutto
a posto. È tornata prima di me. Ora è di là che dorme…»
«E quel rumore?»
John strinse le labbra e, approfittando
del dormiveglia della madre sorrisedicircostanza e riuscì a sviare il discorso.«Oh…
deve essere caduto qualcosa in cucina.Maora dormi, è già tardi…» Con un gesto affettuoso
sistemò il cuscino e la aiutò a sdraiarsi. «Notte mamma.»
Jocelyn sorrise contenta. «Buona
notte figlio mio.»
Come ormai faceva da anni, John
evitò anche questa volta di riferirle di Harriet e dei suoi problemi: era una cosa
che era sempre riuscito a gestirepiù o menoda solo, e come sempre ne avrebbe parlato con
Harriet, magari l’indomani, quando sarebbero stati entrambi abbastanza lucidi. Si
preparò e poi si buttò sul letto, stanco morto.
La famiglia Watson viveva in un
piccolo bilocale nella periferia di Londra, dove si era trasferita dopo che il padre
se ne era andato. Purtroppo non erano una famiglia agiata e si erano potuti permettere
solo un piccolo appartamento in affitto, così che John si era ritrovato a dover
condividere la stanza da letto con Harriet, che già di per sé era piccola, figurarsi
se dovevano starci in due.
Proprio per questo motivo quella
notte John seppe per certo che la sorella non dormì: la sentì rigirarsi in continuazione
nel letto prima di addormentarsi e, le poche volte in cui si svegliò durante la
notte, la vide stesa supina sul materasso a fissare il soffitto. Quando infine la
mattina si alzò per andare a scuola, notò che era già in piedi.
La trovò seduta al tavolo di cucina
a rigirarsi tra le mani una tazza di caffè con un paio di profonde occhiaie e il
viso pallido di chi non ha chiuso occhio durante la notte. John la osservò con apprensione.
«Va tutto bene?» le chiese.
La ragazza sollevò la tazza e bevve
un lungo sorso, poi fissò il fratello negli occhi. «Quando mai va tutto bene?» disse
acida.
John sospirò. «Potresti per lo meno
provare a fare andare tutto bene, ma sembra che non te ne freghi niente della tua
vita.»
Harriet scoppiò in una breve risata
isterica. «Questa vita non ha un senso, nonloha
mai avuto, e non lo avrà mai.È per questo chevuoi arruolarti nell'esercito, vero? Vuoi allontanarti
il più possibile dalla tua vita?»
John roteò gli occhi al cielo e
strinse i denti. Era sempre la solita storia, lui che cominciava a parlare pacatamente
e Harriet che tirava in mezzo quel discorso di cui avevano già ampiamente discusso.
«Piantala.» disse semplicemente,
mettendo a bollire il latte.
«Non smetteremo mai diparlarne,John…»
Il ragazzo assottigliò gli occhi.«Ho
sognato di entrare nell'esercito fin da piccolo. Ho cominciato a pensarci quando
ancora c'era papà…»
«Quando c'era papà era diverso, John. Se lui
fosseancoraqui non
ci sarebbero così tanti problemi.Malui è morto, e ora tu non puoi abbandonarci
così.» disse duramente.
John le diede le spalle e cominciò
a imburrare una fetta di pane furiosamente, tanto che a metà dell’operalasciò perderee buttò il coltello nel lavandino.
«Non puoi andartene. È sbagliato e tu lo sai.
Non puoi lasciarci.»continuò Harriet imperterrita.
John si voltò stringendo le mani
a pugno.«Sei tu la maggiore, Harriet. Te lo ricordi questo? Tu
dovresti tirare avanti la famiglia, tu avresti dovuto prendereil posto
di papà e dare un senso a tutto questo! E invece no! Hai preferito annegare nell'alcool
e lasciare che fossi io a risolvere i problemi. Ti piace vivere in questa casa in
cui a malapena riusciamo a muoverci? Ti piace indossare abiti dismessi della mamma?
Eh?»John si rese conto di avere alzato un po’ troppo
la voce e si sforzò di darsi una calmata per evitare di svegliare Jocelyn.
Harriet lo fissò tristemente. «Pensi
ancora al ragazzo di ieri sera, vero?»
John deglutì a fatica e si lasciò
cadere su una sedia. Si passò una mano sul volto. «Scusa…» mormorò afflitto.
Harriet scosse la testa lentamente.«Non
devi sempre prendertela se qualcuno ti provoca, John. Vorrei vedere quello Sherlock
dopo aver vissuto una vita come la nostra. Per lui deve essere stato facile… circondato
dai soldi.»
No, non sono uno dei tanti
noiosi ricchi sfondati.
John si disse che Harriet aveva
ragione, e la rabbia andò viaviascemando. Era incredibile come la ragazzarisultassesaggia a volte.
«E poi…» continuò Harriet con una
smorfia,«…non aveva tutti i torti a prendersela con te. È stata
colpa mia, scusa. Devo aver tentato di baciarlo… mi sembra.»
John strabuzzò gli occhi e per un
attimo ebbe pietà per il ragazzo. Aveva visto una sola volta Harriet ubriaca darsi
al corteggiamento, e non gli era per niente piaciuto, né a lui né al ragazzo oggetto
del suo interesse.
Tornò a guardarla mentre finiva
il suo caffè. «Sei sicura di stare bene?»
La ragazza annuì.
«Perché non hai dormito?» insistette,
deciso a ricevere una risposta convincente.
Harriet lo guardò con occhi vacui.
«Ero… Niente.»
John lanciò un'occhiata all'orologio:
si stava facendo tardi.«Senti… Torna a casa oggi, ok? Dopo
il lavoro vieni a casa. E questa volta chiederò a mamma se lo hai fatto. Non mentirò.»
Harriet abbassòlo sguardo
sconfitta.
«Cerchiamo di tirarci fuori di qui, va bene?
Un passo alla volta. Pensa a rimetterti insesto,Harry.»
La ragazza annuì con una smorfia
sul volto. Poco prima che John uscisse lo raggiunse alla porta e dopo averlo osservato
mettersi le scarpe lo fermò qualche secondo in più.«Oggi
vado a fare la spesa, va bene? Vado al centro…»
John gli lanciò un'occhiata sorpreso.
«Da quando in qua vai tu a fare la spesa?»
Harry sbuffò. «Muoviti, o farai tardi.»
~*~
Se c’era una cosa che Harriet odiava,
quella era andare a fare la spesa. A dire ilvero lagiovane Watson odiava in generale occuparsi
della sua famiglia, ma quel tipo in particolare di occupazione le era impossibile
da accettare. A differenza delle ragazze della sua età (o delle ragazze in generale,
dipende dai punti di vista), Harrietnon desiderava affattosaper gestire ed occuparsi di una famiglia.
La ragazza preferivadi gran lungalasciar lavorare il fratello “come una femminuccia”
e occuparsi d’altro, come, per esempio, portare a casa il proprio stipendio, comunque
abbastanza esiguo, mantenendo così la famiglia con il proprio lavoro.
Harriet era del tutto diversa da
John: impulsiva e cocciuta, sempre arrogante con tutticoloroche le offrivano il loro appoggio, convinta
di poter contare solo su se stessa, ma allo stesso tempo bisognosa dell’aiuto del
fratello ogni qual volta si ritrovava barcollante per il troppo alcool ingerito
a qualche chilometro da casa. Per questo e molti altri motivi i due Watson non riuscivano
ad andare pienamente d’accordo.
Anche se tentava di nasconderlo,
molte volte Johncoglievail suo
lato tenero, come quando, per esempio, tornava a casa e la trovava accoccolata con
la madre sul divano, o quando presa da improvvisi moti di gentilezza preparava la
colazione per tutta la famiglia.
A parte questi rari momenti, però,eraa lui che toccavano tutti i lavori domestici
che non svolgeva Jocelyn, come spolverare negli angoli più remoti e irraggiungibili
della casa, o apparecchiare per il pranzo e la cena, o stendere e ritirare i panni
una volta asciutti, o, per l’appunto, fare la spesa.
Se quel pomeriggio Harriet aveva
deciso di rendersi utile di sicuro c’era un motivo ben preciso e ben più importante
delle effettive compere.
Dopo aver vagato perTescoper neanche mezzora, dove aveva comprato in
fretta e furia l’essenziale, Harriet si era fermata alBlueBar, con la scusa di una pausa veloce e un buon
caffè.
Si sedette a uno dei tavolini che
davano sul corridoio del centro commerciale e prese in mano il menù con aria noncurante,
aspettando che qualcuno venisse a prendere l’ordine. Per la verità, aspettando quel
qualcuno in particolare che arrivò pochi minuti più tardi.
Clara si avvicinòadHarriet vestita con la divisa del bar, i capelli
stretti in una coda e un palmare per prendere le ordinazioni in mano. Sembrò sorpresa
di vederla lì e dopo qualche secondo di esitazione si sedette al tavolino, sprofondando
con la testa tra le braccia.
Harriet ridacchiò. «Stanca?»
Clara emerse quel poco per guardarla
bene in faccia. «Lavora tu per otto ore ininterrotte perché la tua amica è a casa
malata e non c’è nessun’altra a sostituirla.»
Sorrisero entrambe, poi Clara prese
il palmare e il pennino. «Allora cosa ordina signorina Watson?»
La ragazza guardò con attenzione
il menù. «Lei cosa mi consiglia?»
L’altra sbuffò sonoramente, senza
riuscire a trattenere però un sorriso. «Beh… a quest’ora un caffè non ci sta poi
tanto male.»
«E quanto viene?»
«Due sterline e cinquanta.»
Harriet ghignò, nascosta dal foglio
plastificato che teneva in mano. «Guarda che caso… ho giustogiustocinque sterline.»
Con un leggero batticuore alzò lo
sguardo per puntarlo negli occhi castano chiaro dell’altra che la guardò per un
attimo senza capire. Poi alzò un sopracciglio. «Non ci credo…»
Harriet sorrise di circostanza e
abbassò del tutto il menù. «Sevuoi,non è…»
Clara balzò in piedi.«Oh
figurati! Lo prendo volentieri un caffè… giusto per staccare un attimo. Tantocomevedi non è che abbiamo molti clienti…» disse,
facendo un gesto col braccio ad indicare i tavolini vuoti intorno a loro. Poi sorriseadHarriet e sparì oltre il bancone.
La ragazza tirò un sospiro di sollievo
e siposizionòpiù
comodamente sulla sedia, aspettando che l’altra tornasse con i due caffè.
Sorrise tra sé e sé: per una volta ci aveva visto giusto.
~*~
Nonostante il discorso avuto con
la sorella, John aveva pensato molto più spesso di quanto avrebbe voluto a Sherlock
Holmes. Le sue parole gli risuonavano in testa ogni volta che apriva la porta di
casa e guardava stancamente il buco in cui vivevano; ogni volta che vedeva Harriet
uscire con un paio di pantaloni sgualciti che ricordava di aver visto molte volte
addosso a Jocelyn; ognivoltache indossava uno dei suoi maglioni fatti a
mano di cui era sempre andato fiero perché gli davano un aspetto originale rispetto
a tutti gli altri. Pensava a lui perfino agli allenamenti di rugby, ma in quei momenti
non poteva che ringraziarlo: visualizzava davanti agli occhi la sua espressione
altezzosa e ciò gli dava la rabbia necessaria per buttarsi nella mischia.
Una settimana dopo la festa, John
era riuscito a dimenticarsi di Holmes grazie all'appuntamento che aveva avuto con
Sarah, finito in bellezza con un bacio particolarmente approfondito. Era proprioadesso che stava pensando quando, quel giovedì
pomeriggio, salì al laboratorio di chimica per andare ad aiutare Mike a studiare
per un compito relativamente importante.
Se avesse saputo che lì avrebbe
incontrato per la seconda volta quello che era stato l'oggetto dei suoi pensieri
fino a qualche giorno prima, forse non vi sarebbe andato.
Macosì non
fu e John varcò le porte del laboratorio. Mike si girò appena sentì le porte aprirsi,
accogliendolo con un sorriso e una delle sue solite pacche sulla schiena da far
tremare l'intera cassa toracica. John lo salutò a sua volta e scansandolo si avvicinò
al tavolo, ma si bloccò a metà passo, stringendo improvvisamente la spallina dello
zaino con ansia.
Sherlock Holmes era chino su una
provetta contenente uno strano liquido, e teneva una pipetta di plastica in mano
dalla quale fece uscire un paio di gocce con estrema concentrazione.
Per un attimo John si chiese se
non fosse un brutto segno e se non dovesse girare i tacchi e andarsene prima di
cominciare a prenderlo a pugni. Poi però ripensò alle parole della sorella e si
fece forza. Lo ignorò totalmente, approfittando del fatto che l'altro non si fosse
apparentemente accorto della sua presenza, e cominciò invece a parlare con Mike,
cercando di ricordare cosa dovessero fare quel pomeriggio.
Dopodieci minuti
Johnsi era ormai dimenticato
di avere al suo fianco Sherlock Holmes, e studiava tranquillamente con Mike, aiutandolo
a fare esercizio sulla nomenclatura chimica.
«Ho bisogno del tuo cellulare, Mike.»
La voce profonda di Sherlock interruppe a metà il discorso di John, il quale si
bloccò e si voltò distrattamente verso il ragazzo che stava osservando i due amici
con aria critica.
Mike sospirò. «Non puoi usare il
fisso?» chiese.
Sherlock lo guardò con distacco.
«Lo sai che preferisco i messaggi…» ribatté.
Mike si strinse nelle spalle.«Beh,
mi dispiace. L'ho lasciato nel giubbotto.»
Benché il discorso non lo interessasse
di persona, John si ritrovò ad ascoltare le parole di Sherlock.
Il giovane Watson era sempre stato
cortese con tutti, cercando di acquistare la simpatia della maggior parte di coloro
con cui entrava in contatto: solo poche volte sieraritrovato a rifiutare una richiesta d'aiuto.
Fu in particolare per quella sua più che giusta abitudine che la sua mano corse
al proprio cellulare nella tasca dei pantaloni. Quando si accorse di quel suo riflessoincondizionatoera ormai troppo tardi e Sherlock se ne era
già accorto. John avrebbe benissimo potuto dargli le spalle e riprendere il suo
lavoro senza proferire parola, ma il suo stesso istinto gli evitò quella scortesia
che, tra parentesi, Sherlock si sarebbe sicuramente meritato, e si costrinse a tendergli
il proprio cellulare.
«Ehm… Puoi usare il mio.» disse
porgendoglielo.
Sherlock puntò i suoi occhi chiari
in quelli di John, il volto che tradiva tutta la sua sorpresa. Per un attimo rimase
a guardare il ragazzo con tanto d'occhi, poi fece qualche passo verso di lui e gli
prese il cellulare. «Grazie…» disse, distogliendo subito lo sguardo da John, il
quale osservò con apprensione l’apparecchio nelle sue mani chiedendosi se fosse
stata una buona idea.
Sherlock aprì la tastiera e cominciò
a scrivere qualcosa.
Quando John stava per tornare al
suostudiovenne
però bloccato un'altra volta dalla solita voce profonda.
«Afghanistan o Iraq?»
Si voltò di scatto verso Sherlock,
strabuzzando gli occhi. «Come scusa?»
Sherlock strinse le labbra per nascondere
un sorriso sprezzante.«Tuo padre. È stato ferito in Afghanistan
o in Iraq?»
John spalancò le labbra per lo stupore.
Si voltò meccanicamente verso Mike, il quale lo guardava a sua volta con un sorrisetto
divertito sul volto. «Gli hai parlato di me?» chiese con una punta di rabbia nella
voce.
Mike scosse la testa. «Assolutamente
no.»
John tornò a osservare Sherlock.
«In Afghanistan.» acconsentì. «Chi ti ha parlato di me?»
Sherlock richiuse il cellulare e
glielo porse. «Nessuno.»
John spostò il peso da una gamba
all'altra. «E allora come fai a sapere tutte queste cose?»
Sherlock lo studiò. «Non le so,
le deduco.»
A John venne da ridere, ma sempre
per quel suo dannato istinto si limitò a scuotere la testa con sufficienza. «Tu
faresti cosa?»
Sherlock alzò il mento, orgoglioso.
«Non mi aspetto che tu capisca.» disse, e gli diede le spalle per tornare al suo
lavoro.
John represse un moto di rabbia.
«Visto chemi sono degnato di darti una risposta gradirei
ricevere lo stesso trattamento.» disse duramente.
Sherlock sbuffò e continuando a
non guardarlo cominciò a parlare.«L’altra sera alla festa di Clara ti
è caduto il portafoglio dalla tasca e si è aperto. Dentro c'era una foto dei tuoi
genitori e tuo padre aveva una spalla fasciata. Perché i tuoi genitori? La foto
era a colori, per cui non potevano essere i tuoi nonni. Forse
degli zii, ma molto più probabile i tuoi. Tua sorella, poi, indossa abiti
usati che le vanno anche un po’ larghi, perciò devono appartenere a tua madre.Quindi,
tua madre è ancora viva mentre tuo padre no, ecco il perché della foto nel portafoglio.
«In oltre come immagine di sfondo
del cellularehaiun'altra
foto di tuo padre, questa volta vestito da militare. È anche abbronzato.Abbronzatovuol dire guerra in meridione, guerra in meridione,
Afghanistan o Iraq.»
Se la sera precedente John aveva
dato ascolto al suo orgoglio ferito, in quel momento non poté evitare di lasciarsi
andare allo stupore e all'ammirazione. «Fantastico…» mormoròinfatti.
E, per la seconda volta nel giro
di pochi minuti, Sherlock alzò nuovamente lo sguardo verso John, sorpreso come poche
volte glicapitavadi essere.
Mai gli era successo di trovarsi di fronte una persona che gli facesse un favore
dopo il suo comportamento scortese, ancora più sorprendente che questa persona continuasse
a parlargli anche dopo che gli avesse fatto il giochetto che tanti odiavano. «Davvero?»
disse, non riuscendo a nascondere l'improvviso
moto di gratitudine che quel complimento gli aveva procurato.
John lo osservò con curiosità. «Sì,
perché?»
«Non è quello che solitamente mi
dicono.»
Il ragazzo non ebbe particolari
difficoltà a capirne il motivo. «E di solito cosa ti dicono?»
«Fuori dai piedi.»
E John sorrise a Sherlock Holmes.
~*~
MollyHoopereraunaragazza timida ma
molto più sveglia di molte altre ragazze della sua età.
Era sempre silenziosa e stava un
po' sulle sue, il più delle volte era sola, ma non perché non avesse amici, anzi.
Molly, al Barts, era apprezzata da tutti coloroche la conoscevano o avevano il piacere di parlarci
anche solo una volta per errore: era una di quei pochi che passavano pressoché inosservati
e che non davano fastidio a nessuno.
Frequentava il suo terzo anno in
quella scuola e apparteneva a molti gruppi scolastici, tra cui il Brainy Club, il
gruppo di scienze e quello di canto coreografato. Non era molto brava a cantare,
lo sapeva anche lei, ma la musica l'aveva sempre in qualche modo appassionata ed
entrare nelglee[1] della scuola le era stato particolarmente di
aiuto per migliorare le sue abilità canore. Nel Brainy, invece, ci era entrata quasi
per errore.
Un giorno del suo secondo anno al
Barts era semplicementesedutain mensa, sola, a mangiare e leggere contemporaneamente
un libro di chimica, quando il suo tavolo era stato occupato da un gruppetto di
ragazzi che parlavano allegramente tra di loro. Molly aveva subito individuato la
capogruppo, Irene Adler,in quantouna delle ragazze più carine della scuola e
perquesto una delle più famose. Lei non
la sopportava, aveva avuto modo di provarlo su se stessa il giorno in cui, in ritardo
per l'ora di matematica, aveva corso lungo il corridoio ed era scivolata per colpa
di una pozza d'acqua, proprio di fronte ad Irene e al suo gruppo di amiche. Mentre
si rialzava raccogliendo le proprie cose da terra, Irene aveva bisbigliato con un
tono neanche troppo basso un commento per niente lusinghiero alle altre, facendo
arrossire Molly di colpo e procurandole una bella figuraccia davanti a tutte.
Quando Irene si era seduta a quel
tavolo, quindi, Molly aveva ponderato l'idea di finire in fretta il suo pranzo e
andarsene, ma un ragazzo grassoccio si era seduto di fronte a lei e si era presentato
allegramente.«Ciao, mi chiamo Mike. È un libro di chimica, quello?»
Dopo una mezzoretta passata a parlare
concitatamente di scuola, Molly era infine entrata a far parte del Brainy grazie
a quel ragazzo, al tempo un anno più avanti di lei. Ora lei e Mike erano buoni amici
e frequentavano a grandi linee gli stessi corsi.
Eraproprio
grazie a Mike che era arrivata a conoscere Sherlock Holmes: conservava il ricordo
di quel momento come uno dei più belli del suo periodo in quel liceo.
Era seduta tranquillamente al suo
posto all'inizio di uno degli incontridelBrainy, quando Mike e Jim Moriarty erano entrati
nell'aula, accompagnati da un ragazzo alto, magro e dai lineamenti spigolosi. Molly
credeva di essersi innamorata di lui non appena aveva voltato il suo bel viso contornato
da riccioli castani verso di lei, fissandola con quei suoi occhi chiari e penetranti.
Sherlock era stato presentato, come
di consuetudine, al club da Jim e poi, con grande felicità di Molly, si era seduto
al suo fianco.Insieme aMike
si erano presentati e lei aveva passato il resto dell'ora a fissarlo di nascosto,
e così tutti gli incontri seguenti, fino a quando un giorno non si era fatta coraggio
e alla fine dell'incontro gli si era avvicinata timidamente. «Giornataccia, è?»
aveva detto, notando la sua espressione per niente rilassata.
Sherlock aveva scossola testa
pensieroso, senza risponderle.
«Beh… io mi chiedevo se… se ti andasse
di prendere un caffè.»
«Sì, nero, con due zollette grazie.»
aveva risposto Sherlock, per poi sparire dietro al suo armadietto.
Molly era rimasta leggermente delusa
dal suo comportamento, ma glielo aveva comunque portato e in un certo senso aveva
passato del tempo con lui quel giorno, tenendogli aperto il laboratorio e aiutandolo
con alcuni esperimenti. Molly, infatti, aveva l'incarico di tenere le chiavi dell'aula
dove si riuniva il Brainy,ovveroil laboratorio di chimica, oltre l'orario scolastico,
per poi restituirle in segreteria al momento della chiusura.
Inutile dire che Sherlock se ne
approfittava ogni qual volta ne avesse l'occasione, e Molly acconsentiva sempre,
pur di fargli un piacere.
Così successe anche quel pomeriggio.
Nonostante Sherlock non facesse più parte del club, infatti, qualche volta passava
alla fine degli incontri e usufruiva del laboratorio.
Stavano lavorando per, a detta di
Sherlock, un compito di scienze, quando il ragazzo alzò lo sguardo e tra un'operazione
e l'altra se ne uscì con una frase che lasciò Molly a dir poco sorpresa.
«Conosci John Watson?»
La ragazza lo guardò imbambolata,
non sapendo cosa rispondere. Era la prima volta che il ragazzo le faceva una domanda
che non riguardava il laboratorio o uno qualsiasi dei suoi esperimenti.
«È-è… il mediano di apertura[2] dei Blackheath.» balbettò
infine, sistemandosi la coda distrattamente e cercando di darsi un tono sicuro.
Sherlock sbuffò.«Questo
lo so. È evidente dalla sua postura e dalla maglietta che indossava l'altro ieri
in mensa. Dimmi qualcosa di più.»
«Io… perchétiinteressa?» chiese.
Sherlock si prese un attimo prima
di rispondere, annotando qualcosa sul suo block notes riguardo all'esperimento.
«Mike mi ha chiesto di capire con quale ragazza esce.»
«Ma… è il suo migliore amico… lui
non dovrebbe saperlo?»
Sherlock fece un movimento disinteressato
con la mano. «Me lo dici sì o no?»
Molly fece un sospiro profondo.
«Io… credo che esca con Sarah Sawyer, quella delglee…
Ha mollato qualche settimana fa quellacheerleader,Janette.
Ma si sa che ci prova da sempre con MaryMorstan, il capitano dellecheerleader.»
«E sua sorella quanti anniha?»
Molly lo guardò con tanto d'occhi.
«Non volevi mica sapere…»
«Oh così… tanto per curiosità… Sono
le uniche cose che non sono riuscito a dedurre.»
«Maallora…» la
voce di Molly si spense quando Sherlock chiuse con uno scatto il block notes, dichiarando
che per quel pomeriggio aveva finito.
Del perché Sherlock avesse bisogno delle informazioni che gli aveva
appena dato, Molly nevenne a conoscenzasolo mesi e mesi più tardi.
~*~
John varcò le porte dello spogliatoio
con una voglia di fare gli allenamenti pari a zero, voglia che non fece altro che
diminuire quando vide Robert Williams fare mostra dei suoi addominali proprio in
mezzo alla stanza. Robert era il pilone sinistro[3] della squadra, uno dei giocatori
più bravi tra tutti e per questo anche il più famoso nella scuola,nonchéil più carino. Biondo e con occhi castani color
del cioccolato, aveva la maggior parte delle ragazze ai suoi piedi e non faceva
altro che vantarsene. In quanto a cervello, John si era chiesto più volte se ne
avesse uno, ed era arrivato alla conclusione che se loaveva, lo nascondeva veramente bene. Robert
era, da quando era diventato il pilone sinistro, in un continuo tira e molla con
Mary Morstan, la ragazza più carina in assoluto della
scuola. Al contrario di Robert, però, Mary non era poi così stupida: John aveva
avuto più volte l'impressione che si comportasse da oca come le altre solo per attirare
l'attenzione degli altri su di sé. In realtà John sapeva che lei era una brava ragazza
e in parte per quello, inparteper la sua innaturale bellezza, aveva più volte
tentato un qualsiasi tipo di approccio. L'ultima volta era stato a tanto così dal
convincerlaaduscire con
lui, prima che Robert si mettesse in mezzo chiedendole un appuntamento e dedicandole
l'ultimo punto della partita. E Mary aveva ovviamente accettato.
I due stavano per l'ennesima volta
insieme da quel giorno.
David Jones interruppe il filo dei
suoi pensieri quando si sedette sulla panca vicino a lui, già prontoadentrare in campo nella sua divisa rossa e nera[4].
«Allora Johnny? Pronto a spaccare?»sorrise, tirandogli una manata amichevole sulla spalla.
John sospirò e scosse la testa.
«Non esattamente… oggi nonsonoun granché in forma.»
«Parla lui…» ridacchiò, mostrandogli
le pesanti occhiaie cheaveva. «Tu non hai passato fino alle
quattro di mattina in giro per Londra.»
John abbassò lo sguardo, giusto
per non mostrare la smorfia contrariata comparsa sul suo volto.
David era un ragazzino spigliato,
magrolino e con una zazzera di capelli rossi in testa (cosa che gli aveva procurato
il soprannome de “il Rosso”). Le numerose lentiggini cheavevasul volto gli davano un'aria simpatica, cosa
che non stonava per niente con il suo carattere: David era il piccoletto della squadra,
da tutti preso in giro ma in qualche modo rispettato. Il Rosso era simpatico a tutti,
a chi più a chi meno, e ne approfittava sempre per intromettersi nei discorsi e
prendersi un po' di quella popolarità che abbondava per i suoi compagni. Non era
una gran cima nel rugby e per questo non aveva ancora trovato una ragazza "alla
sua altezza",ovvero, tradotto in inglese, una cheerleader.
Il fischio dell’allenatore li chiamò
tutti a rapporto e John abbandonò definitivamente i suoi pensieri per dedicarsi
anima e corpo al suo sport preferito.
Durante una delle pause tra una
corsa e l’altra, tuttavia, si ritrovò nuovamente vicino al Rosso. Prima che David
potesse iniziare uno dei suoi discorsi adoranti in merito alle cheerleader, però, John attaccò con uno delle prime cose che
gli vennero in mente.
«Conosci Sherlock Holmes?»
Note:
[1] In America i club di canto coreografato
si chiamanogleeclub (da
cui ovviamente prende nome l’omonimo telefilm). Ho tenuto lo stesso nome anche per
gli inglesi, ma non so se li chiamano così anche loro.
[2] Il mediano
d'apertura è uno dei ruoli più importanti nel rugby. È lui a decidere le strategie
di gioco da attuare durante una partita, tra le quali: calciare la palla per ottenere
un vantaggio tattico, passare la palla ai trequarti, passare la palla nuovamente
ad un giocatore di mischia o avanzare
mantenendo il possesso del pallone. (Per maggiori informazioniquila paginawiki)
[4] Dopo
una ricerca neanche tanto difficile ho scoperto che la squadra dei Blackheath esiste
davvero (quiil link al sito ufficiale). E i colori sono
proprio quelli xD.
Chiedo umilmente perdono per questo ritardo
ma purtroppo sto passando un paio di settimane particolarmente impegnative e il
tempo per scrivere è veramente poco… e anche perbetare, ovviamente. Lalla ha
fatto il possibile ed è riuscita a inviarmelo solo qualche minuto fa. (Tutti insieme, grazielalla!xD)
Mentre scrivo mi sono accorta di far
fatica io stessa a ricordarmi nome e ruolo dei personaggi secondari di mia invenzione,
così mi sono ingegnata per semplificarvi il compito ;)Quipotete trovare il mio blog: ho fatto una
cartella apposta dove metterò tutti gli appunti utili suOeP, schede sui personaggi e altro. Se vi va,
dateci un’occhiata^^
Ringrazio di cuore tutticoloroche hanno recensito, seguito, preferito,
ricordato e anche solo letto in silenzio ;)
E ora non vi trattengo oltre, lasciandovi
al capitolo,fin’orauno dei miei preferiti
tra quelli che ho scritto.
Buona lettura!
Gage.
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 3
N
ei secondi successivi alla sua domanda David
rimase a fissarlo con tanto d’occhi. «Holmes che?»
John tirò un sospiro.«Sherlock, Sherlock Holmes.Èun ragazzo del tuo anno, alto, capelli scuri,
occhi chiari…» fece un gesto con la mano ad indicare la propria testa. «Ha i capelli
ricci,più o meno, e abbastanza lunghi…»
David continuò a fissarlo perplesso. «No…»
«Io sì che lo conosco!»
John si girò di scatto, trovandosifaccia a facciacon Philip Anderson. Distolse subito lo sguardo
infastidito. «Nessuno ha chiesto il tuo parere Anderson.»
Philip non lo ascoltò e si sedette sulla panca
al loro fianco.«È uno psicopatico del mio
anno, non ti conviene dargli ascolto più di tanto. Perché t’interessa?»
John lo fissò con diffidenza. «Perché dici
che è uno psicopatico?»
Anderson scoppiò a ridere brevemente.«Dovresti sentire le cose che dice… e quello che fa! Crede
di essere un genio quando invece spara una quantità abnorme di cazzate. L’altra
volta mi ha detto che Sally era stata a letto con Smith, quando invece sa benissimo
che è lamiaragazza.»
John ghignò divertito. «Cosa ti fa pensare
che non avesse ragione?»
«Oh andiamo… Sally e Smith? Si guardavano in cagnesco finoadun paio di settimane fa! E poi dai… mi spieghi
come farebbe a capirlo semplicemente guardandomi?»
«Guardando lei…»
«No, guardando me!» Anderson fece un’espressione
sconvolta. «È pazzo… semplicementepazzo.»
John si strinse nelle spalle. «A me è parso
semplicemente geniale…»
«Ci hai parlato?» Il ragazzo spalancò gli occhi.«Addio… abbiamo perso John. Se cominci a credere aluipuoi direttamente suicidarti per la fine del
mondo.» rise.
«Chi è che stiamo perdendo?»
Jim Moriarty avanzava per il campo, lo sguardo
puntato sui suoi compagni di squadra e un ghigno beffardo sul volto.
«Johnny comincia a fare cattive conoscenze…»
ridacchiò il Rosso divertito.
John portò gli occhi al cielo e si alzò: se
nella conversazioneentravaanche Moriarty poteva star
certo che non sarebbe andata a finire bene. Il ragazzo frequentava il quarto anno,
come John, e i due si conoscevano dal loro primo anno al Barts. Nella squadra di
rugby rivestiva il ruolo di pilone eadessere sinceri non aveva tutta la sua simpatia. Anzi, non ne aveva proprio per
nulla. Lo trovava un ragazzo abbastanza inquietanteedarrogante, sia per il suo comportamento, sia
per il suo modo di relazionarsi con gli altri. Aveva la straordinaria capacità di
compiacere tutti coloro con cui entrava in contatto e, quindi, riceveva spesso favori,
anche dai professori, del tutto indecenti per uno studente brillante come lui. Nonostante
gli stesse antipatico, infatti, John non poteva non ammirarlo per la sua estrema
intelligenza: era capace di memorizzare cose improponibili e a scuola prendeva sempre
il massimo dei voti. Non per niente era a capo del Brainy Club.
«Quali cattive conoscenze?» chiese Jim, sedendosi
anche lui sulla panca e stiracchiandosi annoiato.
«Sherlock Holmes.» dichiarò il Rosso, guardando
Jim con ammirazione, quasi a voler ricevere un commento di apprezzamento per aver
ricordato quel nome a suo parere così difficile da pronunciare.
John si bloccò e conuno sbuffo infastidito decisedi rimanere: se dovevano
prendere in giro Sherlock, che almeno ci fosse qualcuno a difenderlo.
«Ah, sì… Sherlock, Sherlock Holmes.Un ragazzo davvero brillante.»
Tutti i presenti alzarono stupiti gli occhi
su Jim, il quale si osservava le mani con finto interesse. «Gli ho chiesto più volte
di entrare a far parte del mio club, ma a quanto pare non gli interessa.»
«Brillante?» gli fece eco Anderson. «Come puoi
dire che è brillante?»
«Non tutti hanno il tuo stesso QI Anderson.»
John rise divertito insieme ai suoi compagni
e per unavoltasi ritrovò d’accordo con
Moriarty.
Philip intanto era arrossito e stringeva i
pugni con rabbia. «È uno psicopatico…»
«Sociopatico iperattivo, Anderson, informati.»
Tra le risa generali John guardò Moriarty con
curiosità. «La sindrome di Asperger?»
Conosceva il tipo di malattia, ne aveva parlato
circa un anno prima il professore di scienze durante una lezione sui problemi psicologici.
Jim annuì lentamente mentre Anderson se ne
andava infastidito.«Lo porta ad avere grandi
capacità. Peccato che non le sappia sfruttare…»sospirò.
Manon poteva sapere che si sarebbe presto ricreduto.
~*~
«Che farai oggi?»
Sarah lo guardò con occhi sfuggenti.«Ho l’incontro delglee… poi mi sa che devo tornare
a casa. Mia madre non sta molto bene e mio fratello ha bisogno di essere controllato.»
John annuì mordendosi un labbro.«E domani? È già da un po’ che non ci vediamo fuori da scuola…»
Sarah non rispose, continuando a camminare.
Varcarono le porte d’ingresso e John lapreseper mano, senza notare l’espressione infastidita
della ragazza, la quale tuttavia non si divincolò dalla stretta.
Passarono per il corridoio in silenzio, salutando
semplicemente gli amici più stretti con qualche cenno delle mani e fermandosi di
tanto in tanto a discutere con una compagna digleedi Sarah, o qualche nuova recluta dei Blackheath che richiedeva emozionata l’attenzione
del mediano di apertura dellasquadra.
Si fermarono infine all’armadietto di John,
che ne approfittò per prendere i libri che gli sarebbero serviti durante la giornata.
«Allora?»
Sarah prese un respiro profondo. «John, io…»
Manon fece in tempo a finire la frase che Robert
Williams comparì in compagnia di Mary Morstan all’angolo del corridoio e, camminando
baldanzosamente con un sorriso stampato sul volto, si avvicinò ai due.
John alzò gli occhi al cielo e chiuse l’armadietto
con uno scatto veloce del braccio, facendo per allontanarsi con Sarah, maeratroppo tardi.
«Johnny boy! Come sta il mio mediano preferito?»
«Hey, Williams! Quale piacere…»disse sarcasticamente, cosa
che non sfuggì a Mary, la quale gli lanciò un’occhiata stranamente divertita.
«Io e Marystavamo pensando… perché non facciamo una bellaseratinaa quattro? Da Angelo… potrebbe essere una cosa
molto romantica!»esclamò, portando un braccio a stringere la vita della sua ragazza, facendola
ridacchiare divertita.
Sarah sorrise gelida. «Che idea geniale…»
Anche John non sembrava particolarmente convinto
e Robert dovette accorgersene, perché li guardò con aria dispiaciuta. «Non è che
ti stoobbligando,Johnny…»
«Nono… figurati… è che siamo abbastanza
impegnati in questo periodo…» si scusò John.
Mary spostò lo sguardo tra lui e Sarah, pensierosa.
«Va tutto bene tra voi?» chiese innocentemente.
Sarah avvampò improvvisamente e la guardò quasi
con odio.
«Che domande… ovvio che vatut-» cominciòJohn,
maSarah lo interruppe. «Grazie dell’invito, vi faremo sapere.» disse acida, per
poi prendere il ragazzo sotto braccio e trascinarlo via lungo il corridoio, fino
a sparire dietro l’angolo opposto.
«Ti ho mai detto quanto odio Mary Morstan?»
fece Sarah, camminando con furia per la scuola deserta.
John arrossì lievemente per poi fermarsi, costringendo
la ragazza a fare lo stesso. «Beh…non è
che…»
La ragazza portò gli occhi al cielo. «Non mi
dire che pure tu le vai dietro…»
John avvampò.«Come? Che cosa…? No! Io sto con te! Come puoi pensare che…?»
Sarah distolse lo sguardo e il silenzio calò
pesante tra loro.
«Senti io… io dovrei dirti una cosa…»disseinfine Sarah.
John colse la sua espressione triste e fece
due più due. «Fantastico…» disse amareggiato.
«Senti io non…non è che… insomma, sei un ragazzo dolcissimo, John.»
la ragazza lo guardò con apprensione, cercando una delle sue mani e stringendola
con gentilezza. «Sei veramente un bravo ragazzo e sono stata veramente bene con
te, ma…» sospirò, cercando le parole più adatte per rivelare i suoi pensieri. «Ma,
ecco… mi sono innamorata di un altro.»
John scostò la mano con ben poca gentilezza
e incrociò le braccia al petto. «Che cos’ho che non va?» chiese, il tono di voce
un po’ più alto di quanto aveva sperato.
Sarah scosse la testa. «Niente John, assolutamente
niente!» esclamò. «Sei gentile, premuroso, carino edestremamenteinteressante, ma, ecco… forse non siamo fatti
per stare insieme.»
John deglutì a forza, cercando di cacciare
indietro la delusione. E con questa arrivava a otto, otto ragazze con cui era stato
e che l’avevano mollato di loro spontanea volontà. Cominciava a credere che non
avrebbe mai trovato la sua anima gemella. Neanche con le ragazze che considerava
“giuste”riusciva a stare per più
di qualche mese, figurarsi con quelle che gli capitava di incontrare per caso alle
feste.
Stava per ribattere duramente quando delle
risate e uno scalpiccio veloce provennero dal fondo del corridoio, precedendo un
gruppo di ragazzi con l’uniforme dei Blackheath,i qualisi fermarono vicino al muro e continuarono a sghignazzare apparentemente molto
divertiti.
«Adesso che cosa deduci, eh?» disse uno, che
in seguito John riconobbe come il Rosso,seguitosubito dopo da un colpo e un gemito di dolore.
John guardò il gruppo con distacco, ancora
con le parole di Sarah in testa, prima che Anderson si spostasse e rivelasse una
mano pallida che si agitava freneticamente nell’aria e afferrava poi la felpa di
Smith, reggendosi. «Hai ancora voglia di scoprire con chisonoandato a letto ieri sera, psicopatico?» disse
il ragazzo, prima di scoppiare a ridere e tirare l’ennesimo calcio alla povera vittima.
Improvvisamente John si riscosse dai suoi pensieri
e si ritrovò come paralizzato nel fissare la lenta tortura che il povero ragazzo
di turno stava subendo.
Non era la prima volta che la squadra prendeva
di mira qualcuno e, senza un vero motivo, lo prendeva in giro o, nel peggior caso,
lo picchiava. Non era la prima volta che lo faceva e non era la prima volta che
John assisteva impotente allo spettacolo, sperando inutilmente che smettessero senza
il suo intervento.
Quando però realizzò chi era la vittima di
quella volta, improvvisamente trovò il coraggio per reagire, forse anche per quello
che sentiva in quel momento nei confronti di Sarah.
Gettò un’occhiata preoccupata alla ragazza,
poi le voltò le spalle e si avvicinò deciso al gruppetto di amici dall’altra parte
del corridoio.
«Hei!» esclamò, fermandosi davanti ad Anderson, in piedi a ridere ai colpi che il
ragazzo riceveva.
Philip si girò e lo guardò con un sorrisetto
divertito sul volto.«HeilàJohnny! Indovina un po’ chi c’è qui?»
John lo scostò con forza e s’intromise nel
gruppo, allungando il collo per accettarsi dell’identità della vittima. Poggiò una
mano sulla spalla di Smith, il quale si girò a guardarlo sorpreso.
«Johnny! Sei venuto a farci compagnia?»ghignò beffardamente.
Sherlock, il volto ancora più pallido del solito,
lo guardò con i suoi occhi gelidi. Aveva i muscoli del volto contratti in una smorfia
di dolore, il sangue che gli usciva copiosamente dal naso e un alone scuro intorno
a un occhio. Smith lo teneva su per il colletto della camicia bianca, ora tutta
stropicciata, e con l’altra mano lo teneva incollato al muro.
John spalancò un attimola bocca sorpreso, poi venne spinto da parte con ben poca gentilezza
da un altro membro della squadra. «AndiamoWatson, non coprirci la visuale.»
Harry ghignò malefico.«Camicia di lino! Guardate un po’ qui, ragazzi! Si arrabbierà
la tuamamminase la rovini?»
Sherlock fece una smorfia con la bocca, poi,
a sorpresa, gli sputò in faccia.
Smith si tirò indietro di colpo, gemendo schifato
con una mano sul volto, mentre Sherlock scivolava lungo il muro, le gambe che lo
reggevano a stento, e si rannicchiava per terra, nascondendo il volto tra le braccia
come a tentare di proteggersi da nuovi colpi.
«Razza di…» mormorò Smith pulendosi il volto
con una manica.
Sebastian Moran fece un passo avanti efeceper abbassarsi verso Sherlock ma John lo bloccò
con un braccio a metà strada, trattenendolo a forza e ricevendo in cambio uno sguardo
allibito dal compagno. «Che cos-»
«Togliti di mezzo John.» gli ringhiòaddosso Anderson.
«Basta!» esclamò il ragazzo, spingendo da parte
Moran e frapponendosi tra lui e Sherlock.«Non vedete com’è conciato?
Vi siete divertiti abbastanza!» Atteggiò il volto in una delle sue migliori espressioni
furenti e i compagni di squadra loguardarono, chi sorpreso, chi infastidito.
«Vi sembra il modo di comportarvi?»
Smith si avvicinò sorridendo stupidamente.«È la regola, John. Insegniamo ai bambini cattivi a portarcirispetto,ricordi?»
John inspirò un paio di volte, poi scosse la
testa, cercando di controllarsi.«Siete al vostro ultimo anno
e ancora vi comportate come bambini di dieci anni. È arrivato il momento di crescere
Smith.»
Harry sbatté un paio di volte le palpebre.
«Da quando in qua proteggi i froci, John?»
Il ragazzo sentì un brivido corrergli lungo
la schiena. «Basta.» ringhiò. «Non hai nessun diritto di chiamarlo così.»
Il tallonatore fece una smorfia divertita.
«È arrivato il principe azzurro,verginello.» disse, facendogli il verso.
John assottigliò gli occhi. «Cresci.»
Smith si leccò un paio di volte le labbra,
poi guardò i compagni che si strinsero nelle spalle: alcuni guardandoSherlock schifati, altri divertiti, i più giovani un po’ pentiti.
Quando tornò a guardare John, aveva un’espressione di puro divertimento dipinto
sul volto. «Vuoi proprio entrarci in quell’accademia, vero?» ghignò.
«Prenditela con chi sa tenerti testa, codardo.»
disse John, tirando fuori un coraggio che non sapeva neanche di possedere e che
solo una situazione del genere riusciva a donargli.
Smith lo guardò per qualche secondo, stupefatto,
poi abbassò lo sguardo. Aprì un paio di volte le labbra, come per dire qualcosa,
poi le richiuse. Gli voltò le spalle e fece un cenno ai compagni, cominciando a
camminare lungo il corridoio. Poco prima di sparire dietro l’angolo, tuttavia, si
fermò. «Non finiscequi,Holmes. Considerati fortunato
per questa volta…»
John rimase fermo sul posto per qualche secondo,
ansimando come se avesse appena fatto una lunga corsa, le immagini degli ultimi
momenti che gli vorticavano ancora in testa.
Sarah lo guardava a pochi metri di distanza,
gli occhi che le brillavano per l’ammirazione.
MaJohn non la degnò di uno sguardo, girandosi
invece verso Sherlock e piegandosi sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza.
«Hei… è tutto ok, ora.» disse, poggiandogli una
mano sulla spalla come a rassicurarlo.
Sherlock alzò la testa e puntò gli occhi color
ghiaccio verso di lui, fissandolo con uno sguardo indecifrabile.
«È tutto a posto, Sherlock?»
Il ragazzo si divincolò dalla sua stretta,
lasciando John perplesso, e, appoggiando una mano al muro, fece per alzarsi, barcollando
però sulle gambe malferme. John lo afferrò prontamente per un braccio, sostenendolo.
«Forse è meglio se vai a farti dare un’occhiata in infermeria…»
«Lasciami!» esclamò Sherlock, scostandosi di
colpo dalla mano di John. Lo guardò per qualche secondo, furente, poi gli voltò
deciso le spalle e si allontanò lungo il corridoio, una mano al naso per cercare
di fermare il flusso di sangue e l’altra appoggiata al muro per aiutarsi a camminare.
John, invece, rimase fermo sul posto a guardarlo,
sentendo una sorta di rabbia repressa crescergli addosso. Deglutì e sospirò, cercando
di calmarsi.
«Bel tipetto, eh?» fece Sarah, avvicinandosi
da dietro.
Il ragazzo si voltò a guardarla, stringendo
una mano a pugno. «Già…»
«Hai… hai fatto la cosa giusta. Poteva almeno ringraziarti…»
John sentì la nausea salirgli allo stomaco
e una gran voglia di risponderle male al suo sguardo colmo d’ammirazione.
«Senti… Io non volevo…»
MaJohn alzò una mano e la bloccò.«Grazie Sarah, ho passato dei bei momenti con te. Mi dispiace
che non abbia funzionato… Buona giornata.»disse, poi se ne andò anche lui, lasciando
la ragazza stupita e triste al suo posto.
Per tutta la mattinata John faticò a concentrarsi
sullo studio, tornando invece continuamente col pensiero a tutto quello che era
successo poche ore prima.
Provava un misto di rabbia e pentimento.
Ripensava a Sarah, a quello che si erano detti,
e non riusciva a provare altro che delusione: aveva veramente pensato che potesse
essere quella giusta. Lo aveva pensato, ci aveva sperato e aveva immaginato che
sarebbe durata più a lungo, che avrebbero avuto l’opportunità di conoscersi a fondo
e… di imparare ad amarsi. Evidentemente era stato troppo romantico, troppo sentimentale,
e ora non poteva che rimanerne deluso. Sarah aveva fatto tutto quello solo per avere
un po’ di popolarità: non le erano interessate le ore passate a studiareinsieme conJohn, le ore passate a discutere di algoritmi
o poesia, a mangiare pizze alle undici di sera. Le era interessato lui, come giocatore
di rugby, come membro della squadra. E ora evidentemente aveva trovato qualcuno
di migliore, qualcuno che fosse ammirato da tutti per i propri muscoli o per il
bel volto.
John non si era mai considerato un bel ragazzo:
aveva qualche chilo di troppo che neanche gli allenamenti costanti riuscivano a
fargli smaltire, un viso un po’ tondo e un’altezza infinitamente minore rispetto
a quella che avrebbe desiderato. Poi, però, c’erano i suoi occhi azzurri e caldi,
i suoi capelli biondo ceneree i suoi sorrisi dolci, i suoi modi di fare cordiali e gentili. Era quello che
solitamente piaceva alle ragazze con cui era stato. Il fatto che si trovasse anche
nella squadra di rugby, poi, aumentava di molto le sue possibilità.
Non si considerava un tipo molto coraggioso
e aveva dato modo di provarlo molte volte: di solito non agiva mai se non interessato
direttamente. Come Sarah gli aveva fattonotareera un ragazzo estremamente orgoglioso e, se punto nel vivo, non esitava mai
ad entrare in azione. Certo, avrebbe preferitodi gran
lungadare e ricevere giustizia con una buona chiacchierata che con qualche solido
pugno in faccia, ma a volte proprio non riusciva a trattenersi e agiva d’impulso,
lasciandosi guidare dalla rabbia.
Quella mattina era rimasto stupito della sua
velocità di reazione nel vedere che la vittima era Sherlock. Solitamente si teneva
fuori dalle zuffe, sia perché non gli piaceva mettersi contro i suoi amici, sia
perché sapevacheera qualcosa che non portava
niente di buono e temeva che, venendo scoperto, sarebbe andato incontro a pesanti
pene sulla sua condotta. Fare a pugni non era proprio il suo passatempo preferito.
Proprio per questo motivo, eper il fatto chenon era stato lui a essere preso di mira, non riusciva a comprendere il perché
del suo scatto.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta: per una
volta aveva avuto il coraggio di fermare i suoi amici e di cercare di farli ragionare,
salvando Sherlock da altri colpi che non gli avrebbero procurato altro che male.
Ora però temeva che i Blackheath non l’avrebbero dimenticato
tanto facilmente e per un attimo si chiese se ne fosse valsa la pena. Ricordò le
parole di del ragazzo dopo che erano rimasti soli, la sua espressione contrariata
e arrabbiata, come se salvarlo da qualche altro colpo fosse stata una cosa del tutto
inutile, e il pensiero di essere intervenuto per nulla non fece altro che aumentare.
Le parole fredde e distaccate che gliavevarivolto, il modo con cui se ne era andato, rifiutando il suo aiuto; John faceva
fatica a non pensare al volto sanguinante del ragazzo e al modo con cui era stato
ingiustamente trattato e insultato.
Provava qualcosa di molto simile alla rabbia
anche nei suoi confronti, ma c’era qualcosa nel suo ricordo che la mitigava.
Per tutta la giornata John non fece altro che
pensare a Sherlock Holmes, alternando di tanto in tanto il suo pensiero a quello
di Sarah, ma tornando alla fine sempre e comunque al volto pallido ed emaciato del
ragazzo.
Fu durante l’ultima ora della mattinata che
un pensiero gli passò per la mente, riuscendo a prevalere sugli altri e dargli un’idea
di come comportarsi. Provòadimmedesimarsi nei panni del
giovane Holmes, raccogliendo tute le informazioni che aveva ricevuto sul suo conto
e ricomponendoli come in un puzzle per riuscire a comprenderlo almeno un po’ di
più.
Sindrome di Asperger: portava il bambino affetto
a distaccarsi dalle persone, a non provare la minima empatia verso gli altri, a
isolarsi,adessere egocentrico, ad avere
ritmi costanti e interessi circoscritti.
John provòadimmedesimarsi in un piccolo Sherlock. Non doveva avere avuto molti amici durante
la sua infanzia e di conseguenza neanche in quel momento; probabilmente in molti
non lo avevano mai compreso fino in fondo, non lo avevano considerato abbastanza,
spaventati dai suoi modi eccentrici e del tutto fuori dalla norma.
Ripensò ai minuti di quella mattina, a come
dovesse sentirsi nel momento in cui Smith lo aveva attaccato, a come doveva essersi
sentito nell’essere picchiato e umiliato davanti a tutti.
E poi era arrivato lui, John, a proteggerlo
dalle molestie verbali e fisiche, a tendergli la mano eadoffrirgli un aiuto. Era stato lui a fermare
Smith, lui con la sua personalità, non Sherlock. Il giovane Holmesaveva dovutoessere aiutato, non era riuscito a difendersi
da solo.
E John capì, riuscì finalmente a comprendere
le ragioni del suo comportamento scortese: Sherlock era stato ferito nell’orgoglio,
aveva perso un briciolo della sua dignità ricevendo l’aiuto di John, era stato deluso
dalle proprie capacità.
Finalmente, John prese una decisione.
~*~
«Sherlock… andiamo, per favore…»
«Ti dico che è così Greg! Perché non ci sarebbero le scarpe, se no? Dove sarebbero
finite?»
John aprì lentamente la porta del laboratorio,
scivolando al suo interno il più silenziosamente possibile. Tuttavia la stanza era
quasi del tutto vuota, fatta eccezione per Sherlock e Lestrade, e perciò non fu
difficile notarlo.
Greg sbatté un paio di volte gli occhi e lo
guardò, stranito.
John alzò una mano in segno di saluto, arrossendo
lievemente, poi, senza dire una parola, presepostosu uno degli sgabelli, lanciando un’occhiata a Sherlock, il quale, chino su
degli appunti, non lo degnò del minimo sguardo.
Lestrade osservò per qualche secondo John,
stupito ma non dispiaciuto, poi tornò alla sua discussione. «Sherlock, non puoi
pensare che un paio di scarpepossanocostituire tutto questo mistero
attorno aPowers.»
A quelle parole John sentì un brivido percorrergli
la schiena e si fece più attento.
CarlPowersera stato uno studente del Barts fino a qualche mese prima. Nonostante non lo
avesse mai considerato più di tanto, John ricordava molto bene il suo volto, forse
anche per le numerose foto che erano state appese per la scuola dopo la sua morte.
Il ragazzo, infatti, era purtroppo deceduto in un incidente durante una gara di
nuoto svoltasi nella piscina della scuola. Carl era stato uno dei migliori nuotatori
del quartiere, forse uno dei migliori della città, una delle nuove promesse giovanili,
e se ne era andato così, per un arresto cardiaco facendo la cosa che amava di più.
John era rimasto molto colpito dalla sua morte, così come molti altri suoi amici
e compagni; per una settimana al Barts era regnato il caos: le gare erano state
interrotte, la piscina era rimasta chiusa e c’era stato un grande andirivieni di
polizia e gente varia che John non aveva potuto riconoscere.
Sentire Sherlock mormorare il suo nome non
poté che incuriosirlo.
«È proprio per questo Greg! Nessuno ci fa caso, nessuno le considera!Male scarpe, Greg… le scarpe! Dove sono finite?»
L’amico sbuffò sonoramente ediede un’occhiata all’ora sul cellulare.«Senti, non ho tempo da perdere purtroppo. Vedi di non cacciarti
nei guai un’altra volta, ok?»
«O Mycroft ti sgriderà?» gli fece il verso
Sherlock.
L’altro arrossì fino alla punta dei capelli.
«Lui non mi controlla, Sherlock!»
Mail moro stava scrivendo freneticamente sul
suo block notes e parve non sentirlo.
Con un sospiro pesante Lestrade gli voltò le
spalle e uscì dalla stanza.
Il silenzio tornò ad avvolgere pesantemente
il laboratorio mentre Sherlock continuavaadignorare deliberatamente John, e John continuava a fissare i suoi movimenti
cercando di capire come si sentisse dalle sue espressioni. Inutile dire che non
arrivò a comprendere nulla. «Allora… ehm… stai bene?» disse infine, desideroso di
spezzare il silenzio.
Sherlock alzò finalmente lo sguardo su di lui,
fissandolo gelido.Duròsolo pochi istanti, poi poggiò
i gomiti sul tavolo e si arruffò i riccioli con rabbia. «Carl, Carl… piscina, Carl,
scarpe…» cominciò a mormorare tra sé e sé.
John rimase un attimo senza parole, poi tossicchiò.
«Che… che cosa stai facendo?»chiese curioso.
«Che cosa vuoi?» esclamò l’altro di rimando,
sempre evitando di guardarlo negli occhi.
Il ragazzo più anziano si morse un labbro.
«Sono venuto a sapere se stavi meglio…»
Sherlock tornò a guardarlo. «Sì, sto bene.»
rispose laconico.«Ora puoi andartene.» aggiunse
tornandoadignorarlo.
John sospirò e guardò il soffitto, temendo
di avere qualche scatto rabbioso e di rovinare tutti i suoi buoni propositi. «Ti
dispiace se sto qui?»chiese titubantedopo qualche minuto.
Sherlock questa volta sbatté le mani sul tavolo.
«Se sei venutoquiper parlare e distrarmi,
la porta é quella.» disse, indicando con un gesto secco l'uscita.
John provò un improvviso moto di tenerezza
nei suoi confronti egli sorrise cordialmente.«Stamattina la mia ragazza mi ha lasciato e non avevo niente
da fare. Mi sono ricordato di te e ho pensato di venire a vedere come stavi…»
«Ti ho appena detto che sto bene.» Ora Sherlock
lo guardava attentamente.
«Sì beh… ho sentito…» fece una pausa e deglutì.
«Sei andato in infermeria?»
«Perché t’interessa?»
«Non m’interessa… cioè, è una curiosità.» John
cercò con tutto se stesso di non ridere per la buffa espressione che aveva assunto
il volto del ragazzo. «In fondo mi sono offerto di aiutarti e mi hai del tutto escluso…»
Sherlock sembrava non capire. «Perché dovrebbe
interessarti?»
Qualcosa dentro John si mosse e il sorriso
sparì dalle sue labbra, improvvisamente preso da un moto di tristezza. «Beh…» provò
a dire, guardando da tutt’altra parte pur di non guardarlo negli occhi. «Perché
ho pensato che potesse farti piacere… ecco… sapere che non volevo offenderti oggi.»
«Perché avresti dovuto offendermi?»
John tornò a guardarlo. «Beh…non è chetu mi abbia proprio ringraziato…» esitò.
Sherlock lo fissò ancora per qualche istante,
poi qualcosa nei suoi occhi cambiò. Spalancò le palpebre e balzò in piedi, battendo
le mani tra loro.«Ma certo!Macerto, ovvio!»
«Che cos…?»
Sherlock afferrò un paio di fogli dal tavolo
e raggiunse la porta in un battibaleno, lasciando John esterrefatto a guardarlo
sparire dietro l'angolo. Dopo un attimo d’incertezza, tuttavia, il ragazzo si alzò,
spinto dalla curiosità, e lo seguì a passo veloce lungo il corridoio e giù per le
scale.
Quando lo raggiunse al piano disottolo trovò a saltellare sulla punta dei piedi
davanti all'aula professori.
«Sherlock, che cosa…?»
Main quel momento il professore di filosofia
comparve sulla porta.
«Devo parlare con il preside, professore. CarlPowersè stato assassinato.»disse, con l’espressione di uno che sta parlando delle previsioni del tempo.
John e l’uomo spalancarono gli occhi, osservando
Sherlock come se fosse resuscitato all’improvviso dopo due anni in cui lo avevano
creduto morto. «Che cosa?»
Sherlock portò gli occhi al cielo e si lanciò
in un discorso dettagliato.«Il primo dubbio mi è venuto
quando, osservando attentamente il suo armadietto di cambio, ho notato l’assenza
delle sue scarpe. C’era tutto: vestiti, costume di ricambio, documenti vari utili
per la gara, accappatoio e materiale per la doccia. Tutto, ma non le scarpe. Strano
no? Ho così capito che c’era qualcosa che non andava. Sono riuscito a controllare…»
«Tu hai fatto cosa?» Il professore lo interruppe,
le mani sui fianchi e un’espressione per niente rassicurante sul volto.
Sherlock si bloccò e lo guardò con cipiglio
critico. «Non è questo l’importante ora…»
L’uomo alzò un dito e glielo puntò contro.«Holmes, come sai tutte queste cose? Nessuno ha avuto accesso
alla borsa diPowersdopoquelloche è successo!»
Il ragazzo sembrò comprendere le intenzioni
del professore e abbassò lo sguardo, senza sapere cosa dire. John lo vide mordersi
un labbro mentre l’altro continuava il suo discorso.
«Ti conviene sparire da qui al più presto,
tu e le tue assurde teorie!» disse, fissando i due ragazzi come se da un momento
all’altro potessero trasformarsi in due farfalle.
«Ma, signore, le sto dicendo chePowersè stato ucciso!»
L’uomo portò gli occhi al cielo e puntò un
dito verso il corridoio.«Sparite. E tu, Watson, al
posto di partecipare ai suoi inutili viaggi mentali vedi di portarmi quel tema suMarxentro la fine della settimana…»
John arrossì lievemente e annuì. «Sì, signore…»
E con un ultimo sbuffo, il professore si chiuse
dietro la porta e sparì all’interno dell’aula.
Sherlock intanto si era girato e aveva cominciato
a camminare per il corridoio, la testa bassa e le mani in tasca.
John lo guardò per un attimo con tristezza,
comprendendo perfettamente come il ragazzo dovesse sentirsi, e dopo un attimo di
esitazione lo seguì, affiancandolo. Si morse un labbro pensieroso, poi si decise.
«Come… perché pensi che Carl sia stato ucciso?» disse, una punta di curiosità nella
voce.
Il moro si fermò e lo guardò, scandagliandolo
con le sue iridi azzurre. «Carl soffriva di eczema, melo ha detto un suo compagno di allenamenti, e
prendeva ovviamente delle medicine. Carl è stato avvelenato. Ha preso le medicine,
è arrivato per fare la gara e dopo due ore il veleno ha fatto effetto paralizzandogli
i muscoli. CarlPowersè annegato.»
«Manell’autopsia… dovrebbe averlo rivelato le
tracce di veleno se…» lo interruppe John, concentrato sulle parole del ragazzo.
«È virtualmente impossibile. E in piùnessunocerca quel veleno! Le scarpe sono sparite perché devono esserci rimaste delle
tracce di crema avvelenata!»
«Fantastico…» si ritrovò a sussurrare John,
gli occhi leggermente spalancati per l’ammirazione.
Per un attimo gli occhi di Sherlock s’illuminarono
di una strana luce e un lieve sorriso comparve sulle sue labbra. «Mi credi?»chiese,l’immagine esatta della sorpresa.
John tentennò per un attimo, incerto su cosa
rispondergli, poi decise di annuire. «Beh, sì… è… la tua versione dei fattiè abbastanza probabile… cioè…» la sua voce si spense mentre si rendeva conto
di ciò che stava dicendo. CarlPowersera stato probabilmente ucciso
e lui era lì a parlarne come se niente fosse in un corridoio vuoto, mentre la polizia
stava rapidamente archiviando il caso come arresto cardiaco.
Il ragazzo alzò lo sguardo sul moro. «Forse
dovresti andare dalla polizia…»
«Non servirà. Nessuno mi crede mai…»disse, allontanando lo sguardo e fissando un
punto indefinito del muro.
John ebbe un tuffo al cuore, ritrovandosi a
provare un’assurda tenerezza per quel ragazzo solo, preso in giro da tutti per la
sua brillante intelligenza e genuina innocenza. Sherlock era un ragazzo strano,
ma non per questo doveva essere per forza solo. John lo guardò con apprensione e
si ritrovò a sorridergli. «Ioti credo.» disse,sottolineandol’io iniziale, e in quel momento sentì di non
poter dire niente di più giusto.
E infattiSherlock tornò a guardarlo, gli occhi che gli
brillavano. «Per-perché?»chiese,una punta di incertezza nella voce.
«Perché sei geniale…»glisorrise in risposta John.
«Psicopatico…» ribatté acidamente il moro.
Ma l’altro scossela testa divertito. «Sociopatico iperattivo.»
Rimasero per un attimo in silenzioadosservarsi l’un l’altro, poi Sherlock piegò
le labbra in un sorriso appenaappenaaccennato e, qualche secondo
più tardi, si ritrovarono entrambi a ridere di gusto senza un motivo preciso.
Main fondo, non c’era bisogno di alcun motivo.
~*~
Greg sedeva sulla poltrona con la gamba accavallata
e lo sguardo puntato sul liquido ambrato contenuto nella tazzina tra le sue mani.
Non ne aveva ancorabevutouna goccia e il the stava
ormai cominciando a raffreddarsi, ma al ragazzo non sembrava importare più di tanto.
«Allora?»
Greg alzò lo sguardo sul ragazzo più anziano
di fronte a lui e prese un respiro profondo. «Perché non glielo chiedi tu stesso?»
rispose, una nota annoiata nella voce.
Mycroft portò gli occhi al cielo e si sporse
in avanti, appoggiando la propria tazzina ormai vuota sul tavolino in mezzo a loro
e risistemandosi comodamente sulla poltrona. «Gregory… lo sai che non mi-»
«Non chiamarmi così.» lo interruppe l’altro
fissandolo duramente. «Lo sai che nonmi…»
«…piace? È il tuo nome completo, perché non dovrebbe piacerti?»
Il ragazzo lo osservò a boccaaperta,un sorriso a metà tra il divertito e il sorpreso
sul volto. «Tida fastidio quando ti chiamano
Mike, vero?» ghignò.
Mycroft sospirò. «D’accordoGreg… devo rifarti la domanda o pensi di ricordartela?»
Anche il ragazzo si sporse in avanti e appoggiò
la tazza sul tavolo accanto a quella dell’altro. Si rilassò nuovamente sulla poltrona
e si guardò intorno con fare divertito.«Non pensi sia tempo di cambiare
la carta da parati,Mycroft? È abbastanza… ridicola.»
«Non tergiversare.»
«Per quanto andranno avanti ancora questi interrogatori?»
Lestrade guardò il maggiore degli Holmes negli occhi. «Perché continuano da qualche
mese e mi sono stancato… uhm… diciamo al secondo?»
Il ragazzo più anziano sembrò un attimo interdetto,
poi si passò la punta della lingua sulle labbra e ricambiò lo sguardo con risolutezza,
aspettando in una risposta.
Passarono qualche secondo in assoluto silenzio,
poi Greg abbassò lo sguardo, sconfitto. Per l’ennesima volta. «Lo hanno preso ancora in giro, oggi.»
Mycroft roteò gli occhi.«Di questo passo mamma comincerà a farsi delle domande.
Sherlock non può caderedal letto ogni dueper tre.»
«Le dici che cade dal letto?» esclamò sbigottito
Lestrade.
L’altro si strinse nelle spalle. «Letto, scale…
qualche volta da bambino giocava a fare il pirata… Per come lo considera ororanon è difficile farle credere che si sia ficcato
la spada giocattolo negli occhi.»
Greg lo guardava incerto se ridereo meno. «Ha quasi diciassette anni, Mycroft.»
«Da quando in qua le madri smettono di considerarti
un bambino anche quando sei adulto?»
Il ragazzo si passò una mano sul volto e si
tolse il sorriso dalle labbra. «Quando sono venuto via dallaboratorioera appena entrato un certo ragazzo… John Watson
mi pare. Era lì per lui.»
Mycroft si fece attento rizzandosi sulla poltrona.«Per lui? Per cosa?»
«Non lo so.»
Uno sbuffo risentito provenne dal ragazzo più
grande. «Era lì per prenderlo in giro o cosa?»
Greg scosse la testa.«John è un bravo ragazzo, o almeno questo è quello che
ho sentito in giro. E no, Sherlock non ha fatto una piega vedendolo.»
«Che cosa si sono detti?»
«Me ne sono andato perchéqualcunochiamava insistentemente.»
Mycroft sospirò ancora, poi unì tra loro le
mani e fissò la parete di fronte, pensieroso. «Andrà tenuto d’occhio.»
Chiedo umilmente perdono per questo esagerato
ritardo ma ho avuto una settimana alquanto impegnativa ;)
Anyway, eccoci qui.
Spero non risulti essere un capitolo noioso perché ho fatto di tutto per alleggerirlo il più possibile
e i monologhi interiori dei personaggi servono molto a livello di trama xD
Ci risentiamo martedì/mercoledì per il prossimo!
Enjoy,
Gage.
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 4
E
ra una fredda e monotona mattina di novembre.
I corridoi del Barts risuonavano del solito
incessante brusio dato dal chiacchiericcio allegro degli studenti che, di prima
mattina, facevano il loro ingresso e si apprestavano a sopportare l’inizio di un
nuovo giorno di scuola.
Nonostante la prima ora fosse ritenuta, dai
professori, una delle ore migliori, perché i ragazzi si erano appena svegliati e
quindi erano più attivi, era anche quella più odiata, infatti dava inizio a una lunghissima e faticosissima giornata di sei ore. E non tutti
i ragazzi potevano dirsi veramente svegli, anzi. C’era ancora chi vagava in uno
stato di sonnolenza perpetua, chi pensava alle coperte calde appena abbandonate,
chi alla colazione saltata per la fretta o al sapore del cioccolato della brioche
mangiata pochi minuti prima e chi ai propri fratelli minori ancora a casa a godersi
il riposo. Poi c’erano i secchioni che non vedevano l’ora di
iniziare e se ne andavano in giro con un libro incollato al naso per ripassare la
materia della prima ora, i membri dei vari club che si chiamavano da una parte all’altra
del corridoio per salutarsi e mettersi d’accordo sui successivi incontri, i primini che strisciavano lungo i
muri dirigendosi in fretta verso la propria classe cercando di non essere preso
di mira dai più grandi.
E poi c’erano John, i Blackheath e le ragazze
dei suoi compagni di squadra che non facevano altro che tirare i propri ragazzi
verso di loro in cerca di attenzioni, mentre lui era solo in mezzo al gruppo, gli
occhi che vagavano distrattamente per il corridoio in cerca di qualcosa su cui focalizzare
la sua attenzione.
«Che ne dite di una cenetta tutti insieme da Angelo questa sera? Un’uscita di gruppo
tra cheerleaders e Blackheath!» esclamò una ragazza del terzo anno che John
aveva visto molte volte di sfuggita alla fine degli allenamenti. Non si ricordava
neanche come si chiamasse o con chi stesse.
«È una bella idea! Vero Mary?» La ragazza sorrise di
circostanza e regalò a Williams un bacio veloce sulla guancia. «Ovviamente…»
John si ritrovò a mordersi nervosamente un
labbro.
«Quante coppie siamo? Sempre meglio prenotare…»
Harry si guardò intorno e cominciò a contare
con un dito i presenti. «Uno, due, tre… voi venite? Cinque,
sei…» arrivò al punto in cui si trovava John e si
bloccò col dito per aria, prima che un sorrisetto divertito gli comparisse sulle
labbra.
«Oh, John… tu vieni? Da solo o ti porti dietro qualche primina secchiona da proteggere?»
John sentì un improvviso calore al volto e
seppe per certo di essere arrossito. Distolse lo sguardo con uno sbuffo. «Molto
simpatico…»
«Ah già, scusa… primino.» ghignò l’altro, caricando con forza l’ultima lettera. «Dimenticavo che a
te piacciono maschi…»
John sollevò di colpo gli occhi e strinse una
mano a pugno. «Sei ridicolo…»
«Hey ragazzi… basta.» Mary interruppe la discussione. «Sembrate dei bambini del primo anno. Rimandate le vostre discussioni sull’orientamento
sessuale a quando sarete più calmi entrambi, ok?»
John prese un respiro profondo e si costrinse
a sorridere.
«Verrai John?» chiese lei, lanciandogli un’occhiata curiosa. «Sono sicura che qualche
cheerleader è rimasta libera per questa
sera…»
John inorridì e si affrettò a scuotere la testa.
«No, grazie… penso che rimarrò a casa a studiare.»Perché non esci tu con me? Si ritrovò invece a pensare, osservandola
con apprensione e desiderio.
La ragazza parve dispiaciuta. «Beh, come vuoi…»
«Allora ritrovo per le sette? Partiamo dopo gli allenamenti?»
John fece qualche passo indietro e dopo aver
salutato qualcuno a caso si girò del tutto, dando
le spalle agli amici e avviandosi con innaturale calma verso l’aula della prima
ora. Di star lì a discutere di cene a cui non avrebbe potuto partecipare non gli andava proprio.
Nonostante fosse passato qualche giorno John
non riusciva ancora a scacciare quel peso al petto che si ritrovava dopo che Sarah
lo aveva lasciato: era come se con quel gesto la ragazza gli avesse tolto la speranza
di trovare qualcun altro con cui passare il proprio tempo. Da quel giorno non aveva
più cercato la compagnia di nessuno, isolandosi dai discorsi altrui e parlando solo
il minimo necessario per ciò che gli serviva, declinando ogni proposta di uscita o partecipazione a qualche evento.
Si era buttato sullo studio, tralasciando tutto il resto, e aveva tentato di allontanare
dalla sua testa, almeno per un po’, il pensiero di essere nuovamente un ragazzo
solo.
Svoltò sovrappensiero un angolo e tenne lo
sguardo fisso davanti a sé, puntando alla sua meta, quando un ragazzo gli sfrecciò
di fianco e andò ad urtarne un altro, fermo in mezzo al corridoio. «E togliti di mezzo!» esclamò arrabbiato,
prendendosela con il povero sfortunato.
John spostò la sua attenzione sul malcapitato,
prima di realizzare veramente chi avesse causato tutto quello scompiglio. Si fermò
di botto.
Sherlock era in piedi di fronte al suo armadietto,
lo sguardo fisso sullo sportello che aveva davanti e le mani strette a pugno lungo
i fianchi. Non doveva neanche essersi accorto del ragazzo che lo aveva urtato.
Improvvisamente dimentico di tutto, John gli
si avvicinò con l’intenzione di salutarlo, quando lo sguardo gli cadde sull’armadietto
dell’amico e sulla scritta in vernice gialla che campeggiava in bella vista sulla
superficie lucida.
«Verginello…» Senza neanche pensarci John si ritrovò a ripetere quelle parole, sussurrandole
appena tra le labbra ma non abbastanza piano da non essere sentito da Sherlock che,
sorpreso, si voltò di scatto.
John realizzò di aver espresso i suoi pensieri
ad alta voce non appena vide il volto ferito dell’altro davanti a sé e si pentì
immediatamente della sua disattenzione. «No, io non… cioè, stavo solo…» balbettò,
cercando di scusarsi, senza tuttavia riuscire a formulare una frase di senso compiuto.
«Ciao John.» disse infine Sherlock, girandosi
nuovamente verso l’armadietto e aprendolo.
«C-ciao…» John trasse un profondo respiro e distolse lo sguardo, cercando di controllare
il rossore che, sapeva, stava andando a colorargli le guance ancora una volta.
«La campanella sta per suonare.»
John lo ignorò. «Verginello? Chi l’ha scritto?»
Sherlock non rispose, continuando ad armeggiare
con libri e quaderni.
«Sherlock…» lo richiamò quasi severamente.
Con uno sbuffo il moro si girò a guardarlo.
«Chi lo fa ogni settimana.»
«Ovvero?»
«Non m’interessa.»
«Co…?»
«Lascia stare John.»
Il ragazzo lo guardò con apprensione. «Invece dovrebbe interessarti. Questo è bullismo,
dovresti dirlo a qualcuno…»
«Così che la prossima volta mi debba trovare
la parola “sfigato” al posto di questa?»
John lo osservò interdetto.
«Hai intenzione di lasciare che continuino
a prenderti in giro a vita?» chiese.
Sherlock richiuse l’armadietto e non rispose,
osservando invece con occhio critico la scritta, forse pensando a come cancellarla.
Sapeva per certo che se la bidella fosse venuta a sapere che il suo armadietto era
stato dipinto con quella vernice per l’ennesima volta lo avrebbe mandato a quel paese.
«Sherlock, sto dicendo seriamente.»
Il moro gli lanciò un’occhiata incuriosita.
«Perché ti preoccupi tanto per me?»
L’innocenza di quella domanda colpì John come
un pugno nello stomaco. La faccia dell’amico era veramente perplessa e Sherlock
aveva posto quella domanda esattamente come avrebbe potuto chiedere l’ora.
Il ragazzo rimase un attimo a bocca aperta,
sorpreso e senza la più pallida idea di come rispondergli. Deglutì a vuoto un paio
di volte, poi si strinse nelle spalle. «Beh, perché… sono miei amici. Insomma, non mi piace che si comportino così…» Gli sorrise sinceramente, proprio mentre la
campana lanciava il suo fastidioso trillo per l’inizio delle lezioni.
Rimasero entrambi fermi sul posto, aspettando,
come in un muto accordo, che il suono cessasse, poi John parve riscuotersi e fece
qualche passo indietro, come a comunicare all’altro che era tempo per lui di andare.
Sherlock lo salutò con un cenno del capo e
fece per andarsene, ma la voce di John lo bloccò dopo neanche due passi. «Sei al laboratorio oggi pomeriggio?»
«Sì…»
John si morse un labbro, poi annuì pensieroso.
«Ci vediamo dopo allora…» gli fece l’occhiolino e si voltò del tutto, senza aspettare
risposta.
Quel pomeriggio John varcò la porta dell’aula
di chimica con lo zaino in spalla e l’aria pensierosa. Aveva appena rifiutato l’invito
di Mike di andare a casa sua per aiutarlo con la preparazione di un altro test che
il ragazzo doveva svolgere di lì a pochi giorni, con la scusa che doveva vedersi
con Sarah, e aveva garbatamente ignorato le arie felici dei suoi compagni di squadra
al pensiero della serata imminente tra amici. Perfino il Rosso
si era trovato una cheerleader del primo
anno con cui uscire, e John si era sentito un po’ una nullità quando lo aveva saputo.
Sherlock, appollaiato su uno sgabello, al suo
ingresso alzò lo sguardo e gli regalò un lieve sorriso. Il giovane Holmes non era
tipo da sorridere molto, ma stranamente, vedendolo entrare in quel momento, gli
venne spontaneo e del tutto naturale. Non sapeva perché ma cominciava a provare
un certo piacere nel vederlo arrivare al suo fianco e, pur non essendone del tutto
sicuro, pensava di piacergli. Anche se probabilmente non lo avrebbe mai ammesso
nemmeno a se stesso, in un certo senso cominciava a sentirsi lusingato della sua
compagnia.
«Ciao!» salutò John allegramente, prendendosi
uno sgabello e avvicinandosi al lungo tavolo. «Che fai?»
«Francese…» mormorò il più giovane, osservando
John mentre sistemava libri e quaderni sul piano e tirava fuori il resto dell’occorrente.
«Uhm… ti piace?»
«Francese?»
«Sì…»
«Così e così.»
John gli lanciò un’occhiata divertita. «Neanche
a me piace molto… sarà una delle materie che mi mancherà di meno l’anno prossimo.»
Calò nuovamente il silenzio senza che nessuno
sapesse come romperlo.
Sherlock si limitò a continuare la sua traduzione
mentre John, pensieroso, si rigirava una matita tra le dita e sbirciava di tanto
in tanto il ragazzo che gli stava di fronte. Quel giorno non aveva nessun livido
a deturpargli il volto e John si sentì vagamente sollevato al pensiero che nessuno
dei suoi compagni gli avesse dato fastidio durante quei pochi giorni dalla loro
ultima disputa, senza contare la scritta sull’armadietto ovviamente.
«Alla fine l’hai tolta?» chiese dopo un po’,
senza aver ancora aperto libro.
Sherlock sollevò nuovamente lo sguardo e gli
lanciò un’occhiata incerta. «Come avevo previsto la commessa
mi ha letteralmente mandato a quel paese. Ma entro domani mattina sparirà…»
«E come?»
«Pensi che lascerebbe una scritta del genere su un armadietto? Lo dice solo perché
sono io, poi però la cancella prima che la veda il preside.
Una scritta in giallo fosforescente non passa inosservata.»
John si sentì arrossire nuovamente e abbassò
lo sguardo. Sherlock aveva ragione, ovviamente. Anche una sola scritta sull’armadietto
avrebbe voluto dire che nella scuola c’era del vandalismo e sicuramente il preside
non avrebbe mai voluto che il buon nome dell’istituto andasse perduto. Inoltre nessun
membro del personale voleva vedersi licenziato per non essere stato attento a una
cosa del genere, e, in un modo o nell’altro, l’avrebbero tolta. Solitamente, se
il responsabile di un’azione veniva scoperto, era lui stesso
a rimediare al proprio gesto, come punizione, ma, nel caso di Sherlock come in molti
altri, nessuno si preoccupava più di cercare un colpevole. Avveniva così frequentemente
che i professori si limitavano a condannare questi gesti,
che intaccavano il buon nome della scuola, con lunghi discorsi in classe, senza
poi tuttavia muovere un dito.
Nonostante la buona notizia per la scritta,
John non riuscì a rallegrarsi per il suo amico, sentendo invece crescere dentro
di lui un moto di compassione verso Sherlock che, oltre ad essere preso in giro,
non era neanche lontanamente tutelato dalla scuola per gli atti di bullismo che
riceveva. Si disse che d’ora in poi avrebbe fatto il possibile perché il giovane
Holmes potesse vivere la sua vita scolastica in pace e senza che nessuno gli desse
fastidio.
Il moro continuava a scrivere freneticamente
su un foglio, consultando di tanto in tanto un dizionario, così che John si ritrovò,
spinto dalla curiosità, a sporgersi in avanti e a leggere qualche riga del testo
che stava traducendo.
Les enfants qui s’aiments’embrassentdebout
Contrelesportes de la nuit
Et les passants qui passent les désignent du doigt…[1]
«Ah… Jaques Prévert… mi è sempre piaciuta quella poesia.»
Sherlock sobbalzò, ritrovandosi John a poca
distanza da lui che leggeva tranquillamente quello che stava scrivendo.
«È stupida.»
John lo guardò sorpreso. «Perché?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle, evitando
con cura gli occhi di John. Qualcosa nella sua vicinanza cominciò a metterlo in
difficoltà, e la cosa era strana dato che non si era mai curato
della vicinanza con qualcuno. Non aveva mai amato gesti affettivi quali baci e abbracci,
questo era vero, ma quando si trattava di parlare con qualcuno non aveva mai neanche
pensato al fatto che potesse sentirsi così… a disagio.
Per sua fortuna John si ritrasse poco dopo,
appoggiando poi con aria trasognata la testa a una mano. «Ah… è una delle poesia d’amore più famose al mondo. Se c’è
qualcosa di utile nello studiare il francese, questa è proprio il poter leggere
in lingua originale poesie come quella.»
Sherlock rilesse le prime righe della poesia,
senza tuttavia riuscire a trovare in essa un significato più profondo delle semplici
parole scritte.
John fissava un punto indefinito del muro di
fronte a sé, mangiucchiando distrattamente il cappuccio della penna. «Sembra che
tutto ruoti intorno all’amore di questi tempi…» sospirò. Lanciò un’occhiata a Sherlock
e gli sorrise. «Hai una ragazza?»
Il moro s’irrigidì e dopo un attimo d’indecisione
scosse la testa. «Non è decisamente il mio campo.»
John si morse un labbro e arrossì lievemente
sulle guance per l’ennesima volta. «Oh… ehm… un ragazzo?» tentò, pentendosi subito
dopo della domanda.
Sherlock sembrò trafiggerlo con i suoi occhi
cristallini mentre lo fissava, vagamente incuriosito. «No…» rispose, distogliendo
poco dopo lo sguardo.
«O-ok…» Anche John distolse gli occhi, temendo di diventare di un colore ancora più
acceso. Perché mai doveva fare domande del genere? Si sentiva terribilmente a disagio
in quel momento e, come spesso gli capitava, si sentiva anche in dovere di concludere decentemente la conversazione per evitare
possibili fraintendimenti. «Beh, va bene… voglio dire, anche se avessi un ragazzo,
andrebbe comunque bene.» si ritrovò quindi a dire.
Sherlock lo guardò di sottecchi, pensando improvvisamente
che John era proprio un ingenuo. «Lo so…»
L’imbarazzo era palpabile e John si ritrovò
a morsicare ancora più nervosamente il cappuccio. «Bene.»
«Sì, bene. Grazie.»
Con un sospiro John abbassò lo sguardo sul
proprio libro di matematica, cominciando poi a disegnare nei margini tanti piccoli
cuoricini, sovrappensiero. «Prima o poi troverò quella giusta…»
mormorò tra sé e sé.
Sherlock alzò lo sguardo sull’amico. «È… è
bello?»
John lo guardò stupito. «Che cosa?»
«Avere una ragazza…»
L’altro sorrise, chiudendo gli occhi e annuendo piano. «È bellissimo…
non ne hai mai avuta una?» chiese innocentemente.
Sherlock scosse la testa, osservando con particolare
attenzione l’espressione vagamente sorpresa di John: di certo per lui doveva essere
strano non avere mai avuto qualcuno, non con la sua età. Per Sherlock invece era
del tutto normale e non ne aveva mai neanche sentito il bisogno.
«Un giorno la troverai anche tu…»
Il moro alzò nuovamente lo sguardo e lo puntò
negli occhi gioviali dell’altro: sembrava che John fosse veramente convinto di ciò
che stava dicendo e Sherlock sentì una strana morsa al petto nell’ascoltare quelle
parole.
«Un giorno troveremo anche noi le nostre anime
gemelle… dobbiamo solo avere pazienza…» borbottò poi l’altro, il pensiero perso
chissà dove.
Non sapeva che, di pazienza, ne avrebbe dovuta avere ben poca.
~*~
Si trovava nell’aula 23 al secondo piano, il ritrovo del Brainy era
terminato da qualche minuto e quasi tutti i ragazzi che vi avevano partecipato se
ne erano già andati. Molly si era attardata qualche minuto per radunare le sue cose
e scrivere un messaggio alla madre per avvisarla che stava per tornare a casa. Non
c’era nessuno oltre a lei, o almeno era quello che credeva.
«Ti andrebbe di uscire insieme uno di questi
giorni?»
La ragazza si voltò di scatto, fissando con
gli occhi sgranati il ragazzo che aveva appena parlato. Rimase un attimo imbambolata
a fissare il suo bel volto, gli occhi color nocciola che la guardavano con curiosità.
Aprì un paio di volte le labbra, sorpresa, ma le richiuse subito dopo, senza sapere
cosa dire. «Co-cosa?» balbettò infine.
Jim Moriarty sorrise gentilmente, avvicinandosi con passo apparentemente indeciso
verso di lei.
Molly si ritrasse automaticamente, pentendosi
subito dopo del suo gesto.
«Ehi, non voglio mica farti del male.»
Molly arrossì violentemente, distogliendo lo
sguardo. «No, non… non intendevo…»
Il ragazzo ridacchiò e si fermò dov’era, mettendosi
le mani in tasca, sorridendole. «Sai… è da un po’ che ti osservo.»
«Da-davvero?» proprio non le riusciva di parlare normalmente.
L’altro annuì pensieroso, senza staccarle gli
occhi di dosso. «Sei una ragazza interessante,
Molly Hopper… molto. E a me piacciono le ragazze interessanti, sai?»
«Interessante… perché?»
Il ragazzo si avvicinò di qualche passo, fino
a quando non ci fu neanche mezzo metro a separarli. Piegò la testa da un lato, osservandola
intensamente, poi allungò lentamente una mano verso di lei e le accarezzò delicatamente
il volto.
Molly rimase immobile, impietrita davanti a
quel gesto. Teneva gli occhi fissi in quelli dell’altro, incapace di muoversi o
di fare alcunché. Era come se avesse appena
perso il controllo del proprio corpo, persino delle palpebre, arrivando a tenere
gli occhi spalancati, tutta la sua attenzione concentrata sul punto di contatto
tra la loro pelle. E inevitabilmente arrossì ancora di più.
«Sei terribilmente carina quando arrossisci
così.» sorrise Jim. Poi, quasi bruscamente, abbassò la mano e rimise quel poco di
distanza tra loro che permise a Molly di tornare alla realtà. «Non hai ancora risposto
alla mia domanda…»
Molly ondeggiò per un attimo sul posto, confusa,
così che il ragazzo si ritrovò a ripetere la domanda. «Vuoi uscire con me, Molly
Hooper?»
La ragazza si sentì mancare. «Ma… io pensavo che…»
«Oh già… lo pensano tutti a quanto pare. Beh, no, non è vero.»
Deglutì un paio di volte, a vuoto, poi, racimolando
quel poco di coraggio che fino a quel momento le era mancato, annuì velocemente.
Per un attimo il dolce viso del ragazzo fu
attraversato da un lampo di trionfo, ma fu solo un secondo, e Molly non se ne accorse
neanche. Poi la voce del giovane si fece un poco più bassa, come se volesse far sì che nessuno lo sentisse, anche se nella stanza c’erano
solo loro due. «Questo è il mio numero…» Tirò fuori una penna, evidentemente già
preparata in precedenza, e presa con delicatezza la mano di Molly scrisse velocemente
una serie di numeri sul suo polso. La ragazza rimase immobile con il battito cardiaco
accelerato, gli occhi fissi sul volto del bruno e le gambe molli. Quando Moriarty
si sollevò e incontrò nuovamente il suo sguardo credette di poter svenire tra le sue braccia da un momento all’altro, cosa
che poi sarebbe stata sicuramente più romantica di un numero scritto sulla sua pelle.
«Ci vediamo, Molly Hooper…» disse, e con un
ultimo sorriso uscì dall’aula.
La ragazza dovette appoggiarsi al muro e chiudere
gli occhi per riprendere completamente il controllo di se stessa. Cosa le stava
succedendo? L’ultima cosa che si aspettava era di essere invitata ad uscire da qualcuno, da quella persona in particolare,
poi, credeva di non essere mai neanche stata notata. E invece evidentemente non
era stato così: era stata notata eccome.
Respirò diverse volte poi un sorriso le comparve
sulle labbra. Jim l’aveva appena definita interessante: lei, la semplice e umile
Molly Hooper era interessante agli occhi di Jim Moriarty.
Il ragazzo aveva fama nella scuola per l’essere
terribilmente selettivo in questioni amorose. Da che Molly poteva ricordare lo aveva
visto soltanto in compagnia di un paio di ragazze da quando lo conosceva, e la storia
non era durata più di due mesi per ciascuna. Era di comune pensiero che il ragazzo
usasse le proprie relazioni solo per scopi personali e che le storie avute fossero
quindi solo futili messe in scena, tutte costruite per arrivare ad un fine accuratamente prefissato. Da dove
quell’idea fosse venuta non lo sapeva nessuno. Per
quanto Molly ne sapesse, non era successo niente di strano intorno alle ragazze
che erano state con Moriarty, niente che potesse far anche solo pensare ad un secondo fine. La ragazza era nel Brainy,
quindi poteva dire di conoscere Moriarty più di molti altri, ma non le era mai parso
un ragazzo così malvagio come veniva dipinto da molti. Un po’
inquietante, forse, ma niente di più.
Come molti altri, invece, Molly aveva sempre
creduto che tra lui e Irene Adler ci fosse qualcosa. Non era per niente raro trovarli
in giro per i corridoi a parlare tra una lezione e l’altra; a pranzo mangiavano
sempre insieme e nei vari compiti in classe facevano sempre gruppo. Più volte i
due avevano negato una possibile relazione ma quasi nessuno ci aveva mai creduto.
Ora Molly poteva dire di essere l’unica ad esserne certa, o almeno era quella che sperava.
Mentre chiudeva con aria persa la porta del
laboratorio, si ritrovò a pensare a Sherlock Holmes. Non sapeva come le fosse venuto
in mente ma, non appena il suo volto spigoloso fece capolino tra i suoi pensieri,
qualcosa si fece sentire all’altezza del cuore. Non avrebbe saputo descriverlo esattamente,
ma le sembrava qualcosa di molto vicino al desiderio. Da quando lo aveva conosciuto non aveva avuto occhi che per lui, il ragazzo
dal volto pallido e dai riccioli ribelli: aveva cercato più volte di intavolare
conversazioni decenti solo per avere qualche momento con lui, e ora gli stava voltando
le spalle per stare con qualcuno che sapeva quasi per certo non essere apprezzato
da Sherlock. In qualche modo, però, riuscì a scacciare il suo pensiero e, con il
cuore colmo di gioia a causa degli ultimi minuti appena passati, riconsegnò le chiavi in segreteria e tornò a casa.
Qualche giorno più tardi Molly avanzava lentamente
lungo il corridoio delle palestre, diretta verso l’ufficio dell’allenatore delle
cheerleader. Le mani stringevano nervosamente
la spallina dello zaino e aveva lo sguardo fisso nel vuoto.
Quasi come in trance, bussò alla porta, e dopo
un freddo “avanti” pronunciato dall’interno fece il suo ingresso nella stanza.
Venti minuti più tardi ne usciva stringendo tra le mani una
scatola contenente la sua nuova maglia rossa e nera.
~*~
Sherlock sedeva al proprio tavolo nella mensa
con il piatto davanti agli occhi, facendo vagare la forchetta tra il cibo, spezzettandolo
e accantonandolo senza neanche provare a portarlo alle labbra.
Poteva tranquillamente trattarsi di uno dei
suoi soliti attacchi di digiuno improvvisi, dovuti la maggior parte
delle volte a qualche interessante studio, scolastico e non, che stava portando
avanti da qualche tempo, o di una di quelle volte in cui i pensieri in testa erano
talmente tanti che aggiungervi pure i comandi per muovere i muscoli gli avrebbe
causato una qualche esplosione cerebrale per il sovraccarico di informazioni. Ma quella volta no, si trattava d’altro.
Era passato appena un mese da quando aveva
conosciuto John alla festa di Clara e fin dal primo momento in cui aveva incrociato
il suo sguardo aveva capito che in lui c’era qualcosa di diverso. Non aveva voluto
ammetterlo neanche a se stesso ma era rimasto subito colpito dalla sua presenza,
per così dire.
Nella sua breve vita, Sherlock non aveva avuto
molti amici: a dir la verità non aveva mai
preso neanche in considerazione la possibilità di averne qualcuno. Aveva sempre
amato la solitudine, e non perché fosse una quasi ovvia conseguenza del suo disturbo.
La verità era che quando stava con gli altri non si sentiva mai così a proprio agio
come quando se ne stava da solo a pensare alle proprie cose. Forse era per il suo
carattere, un po’ impacciato con tutto quello che riguardava la sfera emotiva, o
anche per la sua inspiegabile curiosità e intelligenza, cosa che gli causava sempre
sguardi pungenti e ostili, ma Sherlock non aveva mai preso la sua solitudine come
una condanna. Semplicemente gli piaceva, lo cullava e rassicurava.
Cercava sempre un modo per scappare quando
i suoi genitori tentavano di entrare in contatto con lui tramite gesti di affetto
o semplici domande sulla sua vita scolastica. Era più forte di lui: non riusciva
a starli ad ascoltare, si annoiava e finiva sempre per rispondergli male. Sua madre
credeva fosse solo una crisi passeggera, il classico cambiamento adolescenziale,
e suo padre le dava corda, anche se si preoccupava un filino di più dell’avvenire
del figlio e certe volte cercava di entrare in contatto con
lui attirandolo con qualcosa che lo interessasse. Al contrario di quanto pensavano
in molti osservando la famiglia Holmes, Mycroft e Sherlock erano sempre stati coccolati
e viziati a dovere dai loro genitori. I signori Holmes gli volevano un bene dell’anima
e li avevano sempre accontentati in tutte le loro esigenze. Sherlock in particolare
era sempre stato assecondato nelle sue pretenziose richieste: era il piccolino di
casa e tutti sentivano il dovere di prendersi cura di lui. Signora Hudson compresa.
L’anziana donna era la governante di casa Holmes
ed era, tra tutti, forse la migliore nel capire fino in fondo il piccolo Sherlock
e nell’apprezzarlo in tutte le sue stranezze. Il ragazzo si fidava ciecamente di
lei ed era l’unica da cui accettava gesti d’affetto ogni tanto. Amava particolarmente
le tazze di the che gli preparava al mattino e i biscotti appena sfornati al pomeriggio.
Tuttavia per il resto del tempo Sherlock cercava
di stare il più solo possibile, occupandosi delle sue cose e disdegnando chiunque
osasse disturbarlo. Per questo motivo stava cominciando a preoccuparsi.
Conosceva John da solo un mese e due giorni
e non riusciva a capire da dove provenisse tutta quell’attrazione nei suoi confronti.
Proprio mentre rimuginava riguardo a questo,
si accorse di star fissando da tempo indeterminato il ragazzo
in questione che si trovava dall’altra parte della sala insieme al suo gruppo di
amici. Nell’esatto istante in cui Sherlock realizzò quello che stava facendo, John girò di poco la testa e i loro sguardi s’incrociarono.
Il moro avvertì una stretta al petto e per un attimo si dimenticò pure di respirare,
vergognandosi terribilmente per essere stato scoperto. Tuttavia John non sembrò
prendersela, anzi. Un lieve sorriso si aprì sul suo volto e lo salutò con un cenno
della testa.
Sherlock deglutì a forza, poi si costrinse
a sorridere pure lui e a distogliere rapidamente lo sguardo. In fretta e furia radunò
le sue cose, si alzò e mise a posto il vassoio, poi si avviò verso l’uscita, evitando
accuratamente di guardare il giovane Watson, seduto poco distante dalla porta.
Il moro si addentrò nei corridoi deserti della
scuola, camminando velocemente e cercando di lasciare indietro nella sua testa tutti
i pensieri che non riguardassero John soltanto.
Si infilò in un’aula vuota e tirò fuori un paio di libri e una penna, giusto perché
se qualcuno fosse entrato avrebbe sempre potuto dire di essersi messo lì a ripassare
la lezione prima dell’inizio della sessione pomeridiana, e, poggiata la testa tra
le mani, cercò di fare un po’ di ordine nella sua mente.
Si focalizzò sul pensiero di John, su tutto
quello che avevano vissuto insieme in quegli ultimi tempi, e nel giro di qualche
minuto arrivò alla conclusione che se aveva ben inteso cosa per gli altri volesse
dire avere un amico, allora a quel punto lui aveva un amico, e quel ragazzo
era John Watson.
Era incredibile come in poco tempo Sherlock
fosse riuscito ad affezionarsi al lui: gli era bastato mostrare un poco della sua
incredibile intelligenza, un poco della sua irreversibile solitudine e qualche battuta
di spicco qua e là, e John si era completamente perso in quel sentimento che tutti
definivano amicizia. E forse, un po’ si era perso anche lui.
A parte John non aveva mai avuto qualcuno che
potesse definirsi suo amico, forse solo Lestrade ci era andato molto vicino. Si
erano conosciuti durante uno dei primi giorni di Sherlock al Barts, un anno prima,
quando il ragazzo si era seduto infuriato al suo tavolo a mensa dopo una litigata
con Clara Dimmock. Inizialmente Sherlock aveva tentato di evitarlo, ma, dopo qualche
altro incontro casuale, un giorno Lestrade se ne era uscito con la sua ferrea intenzione
di entrare a Scotland Yard e improvvisamente aveva ricevuto l’intera attenzione
dell’altro. Insieme, avevano iniziato a discutere di gialli e serial killer, assassini,
omicidi e metodi d’investigazione. Non si erano più separati. In un anno avevano
stretto un solido rapporto, tanto che perfino Mycroft si era preoccupato di parlargli
in privato, come faceva sempre con chiunque mostrasse interesse nei confronti di
Sherlock. Era una cosa che il minore degli Holmes non sopportava e faceva di tutto
perché non accadesse: ma Mycroft riusciva sempre ad avere la meglio.
Tuttavia John non era Lestrade e Sherlock credeva
di averlo preso in simpatia non appena quel “fantastico!” era uscito dalle sue labbra
al posto di qualche battutina sprezzante. Il caso era arrivato dopo, la morte di
Powers era entrata in scena in
un secondo momento: essa era servita solo a legarli insieme un po’ di più e ad ingranare la loro nuova amicizia.
Sherlock ripercorse tutti i momenti che aveva passato in compagnia del giovane Watson, dall’istante
in cui aveva preso in mano il cellulare della sorella per chiamarlo al momento in
cui John era entrato nel laboratorio, una settimana più tardi. Ripensò anche a tutti
i pomeriggi che il ragazzo aveva passato al suo fianco, a parlargli e a regalargli
i suoi sorrisi di apprezzamento a qualche battuta sui professori o a qualche sua
geniale uscita.
Sherlock non aveva mai ricevuto complimenti
per le sue capacità di osservazione e deduzione, men che meno da perfetti sconosciuti, o quasi, come il giovane Watson.
Come si sentiva quando era in sua compagnia?
Bene.
E quando se ne andava? Un po’ peggio.
Sherlock continuò a farsi domande del genere
e non riuscì a trovare vie di scampo: John Watson era diventato suo amico e lui
stesso era diventato amico di John. Il ragazzo, dal
giorno in cui lo aveva “salvato” dai giocatori del Blackheath, non aveva fatto altro
che andare a trovarlo tutti i pomeriggi su al laboratorio e fare insieme a lui i compiti. Il mediano gli aveva parlato
di molte cose, aveva condiviso con lui le sue passioni e i suoi pensieri (soprattutto
in merito alle ragazze, ma Sherlock li aveva del tutto
cancellati dalla sua testa), e lui era sempre rimasto in silenzio, senza fare domande
e distraendosi molto meno di quanto avesse invece mai fatto con altri. Si erano
fatti compagnia reciprocamente, uno che si sentiva solo dopo essere stato mollato
dalla propria ragazza, e che non aveva trovato modo migliore di passare il tempo,
e uno che alla solitudine ci era abituato, e che per una
volta si era sentito apprezzato e ammirato. Sherlock gli aveva raccontato della
sua passione per i gialli, per gli omicidi e i suicidi, per tutto ciò che riguardasse
un intricato caso da risolvere in qualità di detective, e John lo aveva
ascoltato quasi a bocca aperta, lodandolo e facendo domande, incuriosito dalla mente
geniale dell’amico.
Quando la campanella suonò, Sherlock si avviò verso la lezione seguente con
il sorriso sulle labbra, il pensiero già rivolto all’imminente pomeriggio in compagnia
del suo nuovo amico.
~*~
«Sai una cosa?»
«Mmh…?»
«Dovremmo spingerci un po’ più in là…»
Harriet lanciò un mugolio di piacere e si staccò
dalle labbra di Clara, così che potesse trovarsi ad una distanza decente per guardarla negli occhi. «Più in là come?» sorrise maliziosamente.
«Hai capito…»
Harriet rise e, presa per le spalle, la spinse
fino a farla sdraiare completamente sul divano, tendendosi sopra di lei per arrivare
alle sue labbra, che catturò nuovamente prima che la ragazza potesse anche solo
pensare di parlare.
Si trovavano in casa Watson, nell’ora più calda
del pomeriggio, e il silenzio in cui erano immerse era rotto soltanto dal suono
dei loro baci e dal cigolio del vecchio divano che reggeva a malapena il loro peso.
La loro era stata una mossa molto azzardata: Harriet sapeva
bene che casa sua non era il luogo migliore dove portare la sua nuova ragazza per
passare del tempo insieme senza essere viste. Jocelyn era uscita quel pomeriggio
con una delle amiche vicine di casa e non sarebbe tornata prima delle sei di sera,
era vero, e John sarebbe rimasto a scuola fino alle cinque e mezza passate, ma non
si sapeva mai chi potesse capitare in casa Watson da un momento all’altro. Harriet
aveva comunque preferito rendere disponibile casa sua per il loro piccolo incontro…
non le andava di andare a casa di Clara, dove qualcuno
era sempre di passaggio e una madre particolarmente brontolona avrebbe potuto avere
qualcosa da ridire sulla nuova uscita di sua figlia. A quanto diceva, la ragazza
non era mai stata con una donna, una persona del suo stesso sesso, ma aveva cominciato
a pensare alle ragazze come a qualcosa di più che semplici amiche quando la sua
migliore amica d’infanzia l’aveva abbandonata per un ragazzo abbastanza “fuori di testa” e lei si era ritrovata ad essere gelosa del
nuovo arrivato, provando l’orribile sensazione di essere stata esclusa da una parte
della sua vita. Le ci era voluto un po’ di tempo
per abituarsi alla nuova visione che aveva del mondo ma aveva accettato il tutto
con molta serenità e anche con una buona dose di curiosità verso le nuove esperienze
che avrebbe potuto vivere.
Harriet amava la vivacità di quella ragazza,
la sua testardaggine e il suo carattere forte ma sotto sotto
tenero e sensibile. Tra loro due era lei la più grande, quella con più esperienza
nel campo, e in un certo senso si sentiva in dovere di proteggerla e istruirla.
Sarebbe volentieri rimasta lì tutto il pomeriggio
e anche la sera, ma tutto ad un tratto la chiave girò
nella serratura della porta ed essa si aprì, rivelando la figura maschile del giovane
Watson.
Harriet balzò in piedi di colpo, barcollando
per un momento sulle gambe per un improvviso giramento di testa dato dal brusco
movimento appena compiuto.
Clara spalancò gli occhi spaventata e s’inchiodò
al divano, lo sguardo rivolto verso il soffitto.
John stava sulla porta, una mano tesa verso
il portaoggetti alla sua sinistra nel gesto di posare le chiavi, gli occhi che vagavano
incerti sulla figura di Harriet in piedi, ansimante, che lo fissava con una punta
di terrore negli occhi.
Dopo qualche secondo di assoluto silenzio,
la ragazza si schiarì la voce e, con un ultimo sguardo alla ragazza sul divano,
sorrise al fratello.
«Tornato presto oggi… eh?»
Note:
[1]Lesenfantsqui s’aiments’embrassentdebout
Contrelesportesde lanuit
Etlespassantsquipassentlesdésignentdudoigt
Maislesenfantsqui s’aiment
Nesontlà pourpersonne
Etc’estseulementleurombre
Quitrembledanslanuit
Excitantlaragedespassants
Leurrage,leurmépris,leursriresetleurenvie
Lesenfantsqui s’aimentnesontlà pourpersonne
Ilssontailleursbienplusloinquelanuit
Bienplushautquele jour
Dansl’éblouissanteclartédeleurpremieramour.
I ragazzi che si amano si baciano inpiedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano adito
Mai ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia, il loro disprezzo, le risa,
la loro invidia
lmeno quel pomeriggio John tornò a casa prima
del previsto.
Durante l’ultima ora di lezione, nel suo caso
quella di ginnastica, aveva avuto la bella idea di scivolare sulla pista di atletica
che la scuola usava per l’allenamento degli studenti in vista delle gare di corsa
della regione, sfregandosibuonparte della gamba coperta
solo dai pantaloncini. Era stato in infermeria per mezzora, aspettando che la giovane
infermiera di turno gli disinfettasse la pelle sfregiata quel poco che bastava,
e poi, dolorante e giù di corda, aveva preso l’autobus per tornare a casa.
Aveva ben tre ore di anticipo rispetto al solito
e per quello si aspettava di sorprendere Harriet, ma di certo non in quel modo,menche meno in compagnia di Clara.
Entrò in casa a testa bassa, mormorando un
“ciao” a mezza voce mentre chiudeva la porta, per poi bloccarsi a metà del gesto
con le chiavi a mezz’aria e gli occhi spalancati per lo stupore: sua sorella era
in piedi davanti a lui, con gli abiti spiegazzati, i capelli in disordine e il volto
accaldato mentre una delle sue compagne di scuola era sdraiata sul suo divano, lo
sguardo che correva per la stanza senza sapere dove soffermarsi.
«Tornato presto oggi… eh?»
In un attimo Harriet era passata dallo spavento
iniziale alla sua solita strafottenza e John, se non fosse stato troppo impegnato
a ricordarsi come chiudere la bocca e sbattere le palpebre, probabilmente si sarebbe
chiesto come facesse. Fece vagare lo sguardo per la stanza, collegando pian piano
i pezzi, e quandorealizzòsi ritrovò inconsciamente
a fare qualche passo indietro, verso la porta che aveva appena varcato.
In un attimo Harriet si lanciò verso di essa
e prima che John potesse anche solo cercare di capire le sue intenzioni si era già
frapposta tra lui e l’uscita, sfidandolo quasi con gli occhi a fare un altro passo. Il sorriso scomparve dalle sue labbra e si fece improvvisamente
seria.
Nel frattempo Clara, dopo essersi sistemata
vestiti e capelli, si era seduta e fissava i due giovani Watson non sapendo bene
come comportarsi.
«Temo sia giunto il momento di dirti una cosa…»
mormorò la ragazza più grande, sorridendo incerta al fratello. Fece un gesto con
il braccioadindicare il divano, come
per invitarlo a sedersi, ma John non si mosse dal suo posto. «Che cosa vuol dire?»
chiese invece, la voce spaventosamente ferma.
Harriet distolse lo sguardo e fece qualche
passo nella stanza verso l’altra ragazza. «Che razza di domanda è?» disse poi con
un tono di voce vagamente divertito.
John trovò la forza di spostare un braccio
e lo mosse davanti a lui, principalmente con l’intenzione di indicare Clara.«Questo. Che cosa vuol dire?»la voce gli uscì dalle labbra quasi come un
lamento.
«Veramente, fratellino, ti facevo più intelligente.»
Il colorito del ragazzo si feceadun tratto terreo mentre deglutiva un paio di
volte a vuoto. Alla fine parlò. «Voi siete…»
«Lesbiche?»
«…due ragazze…»
Harriet chiuse la bocca di scatto e deglutì
a sua volta. «Sì.»
Ma John aveva già avuto la risposta che voleva
eadun tratto si sentì girare
la testa, tanto che dovette appoggiarsi con le mani al muro e chiudere gli occhi,
respirando piano.
«John, forse è meglio che ti siedi, hai una
brutta cera…»
«Stai zitta!» sbottò l’altro, aprendo nuovamente
gli occhi e lasciando Harriet di stucco. «Staizitta,ok? Non è divertente. Questo… non è…» prese un paio di respiri profondi. «Non è divertente.»
«Nessuno ha detto che lo è.» Questa volta era
stata Clara a parlare e i due fratelli Watson ne furono entrambi talmente sorpresi
che si girarono a guardarla.
«Clara non…» tentò di fermarla la ragazza.
«Perché?» la ragazza fece vagare lo sguardo
da uno all’altra. «Perché tutto questo teatrino?»
John la squadrò dall’alto in basso con cipiglio
critico, ma Clara non demorse, facendo un passo verso di lui e osservandolo con
gli occhi socchiusi. «Hai forse qualche problema?»
«Clara, lascia stare per favore. Lasciami…»
Le due ragazze si osservaronol’un l’altra.
«È mio fratello.»
«Evidentemente però non ha capito che…»
Harriet non la lasciò finire di parlare e la
trasse a sé, baciandola con forza e zittendola.
John osservò quell’improvviso slancio di affetto
e si ritrovòadindietreggiare di qualche
passo, inorridito.
«Lascia che sia io a parlarci, ok?» disse Harriet,adun soffio dal suo volto.
L’altra si passò la lingua sulle labbra per poi annuire velocemente. Raccattò da terra il proprio zaino, s’infilò
la felpa che aveva abbandonato sul divano e con un ultimo sguardo di rimprovero
alla giovane Watson passò davanti al ragazzo a testa alta e uscì dalla porta a passo
deciso.
«Si può sapere cosa ti prende?» sbottò Harriet
non appena udì i passi della sua ragazza affievolirsi sulle scale.
«Come sarebbe a dire che cosa mi è preso? TU PIUTTOSTO!»John si ritrovava improvvisamente
senza fiato e il cuore che gli batteva a mille nel petto. Non riusciva a credere
a ciò che aveva appena visto, non riusciva e non potevaveramentecredere che Harriet fosse quello che si era
appena dimostrata.Gliera totalmente inconcepibile
una cosa del genere, soprattutto non dopo tutto quel tempo: come aveva fatto a nasconderlo?
Il dubbio gli passò per la mente e non poté fare a meno di chiederglielo.
Si appoggiò al muro e prese un respiro profondo.
«Che cosa… da quanto?»
Harriet si passò la lingua sulle labbra, pensierosa,
poi si lasciò cadere sul divano, dove fino a cinque minuti c’era
Clara, e si sdraiò comodamente su di esso, distendendo le gambe e stiracchiandosi.
«Da un po’…»
«E si può sapere PERCHÉ?»
Harriet alzò lo sguardo stupita. «Che cosa vorrebbe dire perché?»
John si passò una mano sulla fronte e si trascinò
fino ad afferrare una sedia e a lasciarsi cadere sopra. Aprì un paio di volte la
bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non gli venne in mente niente. Avrebbe
voluto chiederle perché non glielo aveva detto prima, perché era stato così cieco
da non notarlo, come aveva fatto a nasconderglielo ma soprattutto… perché. Non sapeva neanche lui che cosa volesse
veramente dire con quella domanda, solo sentiva qualcosa in fondo allo stomaco,
come una stretta, e non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo, nonadHarriet.
«Penso sia da… uhm… circa tre anni.»
John alzò lo sguardo sulla sorella. «E quando
avevi intenzione di dirmelo?» C’era rabbia nella sua voce e non fece nulla per nasconderlo.
«Magari quando avresti reagito in un altro
modo…»
«E come avrei dovuto reagire?» John la osservò
con gli occhi spalancati per lo stupore.
«Magari, dopo aver passato settimane a stare
dietro ad un ragazzo visibilmentegay, avresti anche potuto capirmi.»
Il ragazzo rimase qualche secondo immobile
soppesando le parole che aveva appena pronunciato. «Che
cosa?»
Harriet sbuffò e portò le maniadintrecciarsi dietro la nuca, chiudendo gli
occhi.«Clara mi ha detto tutto.
Quel ragazzo…She-sherkl…»
«Sherlock.»
«Sì, lui. È il tipo con cui ti seiscontratoalla festa di Clara la scorsa volta, vero?»
«Che cosa c’entra lui, ora?» mormorò John a
denti stretti.
«Oh andiamo, fratellino… Clara mi ha detto tutto. È da settimane che passi i
tuoi pomeriggi in sua compagnia. Non dirmi che non ti sei accorto della sua om-»
«Non ègay.» La voce di John uscì sicura
e pungente. «E continuo a non capire cosa questo possa c’entrare con la tua situazione,
ora.»
Harriet sbadigliò. «Come vuoi… ma sappi che
so riconoscere chi è come me, e Sherlock è uno di quelli.»
John emise un profondo respiro irritato.«Ci ho parlato e fidati che non è così. Gli piacciono le
ragazze…»O almeno credo…si ritrovò a pensare.In effettinon aveva ancora ben inteso
che cosa Sherlock provasse e nei confronti di chi. Insomma, gli aveva sempre parlato
di ragazze e lui non aveva mai detto niente su di sé; probabilmente non era neanche
interessato ai rapporti umani, per quel che ne sapeva. Eppure era convinto che non
fossegay: ricordava bene il discorso
avuto con lui riguardo la poesia diPrévert, la sua domanda sul se fosse
bello avere una ragazza. Perché avrebbe dovuto chiederglielo altrimenti?
«Si puòsapere
dovesia veramente il problema?»
John alzò lo sguardo sulla sorella, che lo
stava fissando intensamente. «Non…» si bloccò, ancora incapace di esprimere a parole
quello che sentiva dentro. La verità era che non lo sapeva neanche lui come si sentiva.
Sicuramente era sorpreso, molto, e forse anche un po’ deluso.Madeluso da cosa poi?
Sapeva che, in fondo, non c’era niente di male
in quello che Harriet aveva e stava facendo: o almeno questo era quello che aveva
sempre pensato riguardo all’omosessualità. Lui stesso aveva difeso Sherlock da quell’accusa
e lo avrebbe rifatto anche per altri, perfino sconosciuti. Solo…soloche Harriet era sua sorella, ecco cosa c’era
che non andava. La stretta allo stomaco si fece più forte nel realizzare ciò. Sua
sorella era, senza troppi giri di parole, lesbica.
«Non…» deglutì. «Non lo so…» ammise poi, più
a se stesso che ad altri.
«Beh… non c’è bisogno che tu lo sappia, non ora. Prenditi tutto il tempo che
vuoi, solo lascia stare Clara ed evita di dirlo alla mamma. Non so quanto possa
essere d’accordo.»
John annuì lentamente e si rifugiò in bagno per farsi una doccia, lasciando
che la tensione lo abbandonasse sotto il getto d’acqua calda.
~*~
Sherlock aspettò nel laboratorio per tutto
il pomeriggio, invano. Quel giorno John non arrivò.
All’inizio il ragazzo aveva pensatoadun possibile ritardo dell’amico, dovuto a qualche
professore o compagno che lo aveva fermato dopo la fine delle lezioni, o forse alla
sua sbadataggine; poteva aver dimenticato qualcosa in qualche classe e la stava
cercando, o poteva anche essere andato in bagno.
Sherlock aveva pensato a tutto e di più e aveva
aspettato pazientemente, cominciando anche a studiare da solo. Quando poi, un’ora
più tardi, aveva controllato l’orologio alla parete, si era arreso.
Non sapeva neanche lui perché, ma quando avevarealizzatoche John non sarebbe andato al loro ritrovo
pomeridiano aveva avvertito una strana fitta allo stomaco e si era sentito improvvisamente
triste. Aveva appoggiato la testaaduna mano e aveva cominciato a sfogliare distrattamente le pagine del suo libro
di filosofia, perso nei suoi pensieri.
La prima cosa cui aveva pensato, forse perché
John non faceva altro che parlarne, era stata un’eventuale ragazza: possibile che
l’amico avesse finalmente trovato una nuova persona con cui passare il proprio tempo?
Qualcuno che lo aveva attratto a tal punto da dimenticarsi di lui?
Vagò tra il pensiero di un richiamo improvviso
della madre che lo voleva a casaadun allenamento di rugby a sorpresa, da una possibile punizione inflitta da qualche
professore a una vera e propria dimenticanza di John che quel giorno poteva aver
avuto altri pensieri per la testa per stare a pensare ad uno del terzo anno come
lui. Valutò le più disparate possibilità, ma nessuna gli sembrò più plausibile di
una possibile nuova “Sarah”, se non lei stessa, ovviamente.
Doveva essere andata per forza in quel modo.
Erano settimane che John si lamentava di non avere una ragazza da portare fuori
al cinema e con la quale studiare, con cui passare il proprio tempo libero e con
cui parlare, discutere e sentirsi, con parole sue, a casa.
Sherlock non aveva badato molto ai suoi discorsi,
concentrandosi di più sulle cose che gli interessavano, aiutandolo perfino quando
non gli tornava qualche risultato di matematica o fisica. John era sempre sorpreso
quando prendeva in mano la situazione e cominciava a spiegargli i giusti procedimenti:
il moro credeva che non si sarebbe mai stancato di sentire le parole di approvazione
nei suoi confronti uscire dalle labbra del suo amico.
Quel pomeriggio, immancabilmente, gli mancò
tutto quello. Passò tutto il tempo a studiare da solo, chino sui libri, cercando
di focalizzare la sua attenzione sulle parole scritte in inchiostro nero piuttosto
che su quelle appartenenti ai suoi ricordi, su quelle parole pronunciate con tono
morbido da John, da quelle sue labbra che molte volte si stendevano in un sorriso
cordiale.
Quando alzò lo sguardo dal libro discienzevide che al di fuori della finestra cominciava
a farsi buio.
Con un sospiro raccolse le sue cose e uscì
dal Barts, l’aria truce e il morale a terra. Si sentiva uno stupido, ma non riusciva
a fare a meno di pensare alla nuova ragazza di John, a come poteva essere, achipotevaessere. Che cosa sarebbe
successo a quel punto? Se John aveva veramente trovato qualcun altro con cui passare
il proprio tempo, che cosa ne sarebbe stato di lui?
Beh, sarebbe tornato alla sua solita solitudine.
Non era certo una novità per lui e forse non gli dispiaceva neanche più di tanto.
In fondo a che cosa gli serviva un amico? Aveva passato buona parte della sua breve
vita senza altra compagnia se non se stesso, o suo fratello, o il suo cane. Quest’ultimo
in particolare era forse stato uno dei suoi migliori amici quando era più piccolo,
ma era pur sempre un animale, un essere senza il dono della parola, e oltre a dargli
affetto non aveva fatto altro. Sherlock dopotutto non aveva bisogno di parlare con
qualcuno: poteva benissimo prendere il suo teschio antico – regalatogli da suo padre
qualche anno prima – e illustrare a lui i suoi problemi. Non aveva bisogno di qualcuno
che gli rispondesse, ma solo di qualcuno o qualcosa che lo ascoltasse: parlare ad
alta voce era molto utile per schiarirsi le idee e a volte anche lui aveva bisogno
di mettere ordine fra i suoi pensieri.
Peròera piacevole la compagnia di John, qualcuno
di vero e reale, tangibile, vivo; qualcuno che poteva ascoltarlo e dargli corda,
incoraggiarlo e lusingarlo con complimenti.
Il ragazzo scacciò via a forza quei pensieri,
rinchiudendoli in una nuova camera del suo palazzo mentale nel tentativo di isolarli.
Non c’era motivo di preoccuparsi tanto per John: lui non aveva bisogno di nessuno
se non di se stesso, e gli andava bene.
Varcò l’uscita dell’istituto e si diresse verso
la fermata della Tube più vicina ma, non appena svoltò l’angolo, una berlina nera
gli si avvicinò silenziosamente.
Inizialmente Sherlock fece finta di niente,
continuando a camminare con gli occhi puntati dritti di fronte a sé, ma, quando
tentò di attraversare la strada per raggiungere il marciapiede opposto, la vettura
gli si parò davanti e, sconfitto, non poté fare altro che aprire la portiera e salire
a bordo.
L’auto si avviò veloce lungo le vie della città,
passando attraverso il traffico con assoluta semplicità, quasi come se le altre
si spostassero volutamente per farla passare. Sherlock non aprì bocca, sedendo pensieroso
con lo sguardorivoltoverso l’esterno, perso tra
le luci della città che entrava nel pieno della sua vita notturna.
Dopo una decina di minuti giunsero finalmente
a BakerStreet, fermandosi con naturalezza
davanti al 221B. Sherlock, che aveva imparato a memoria l’intera pianta della città,
aveva già capito alla prima svolta del percorso dove si stavano dirigendo e per
quello non ne fu particolarmente sorpreso.
Scese dalla macchina con una mezza idea di
correre via e andare direttamente alla fermata della Tube ma poi guardò il battente
del 221B e, spinto dalla curiosità, entrò nella casa. Salì i diciassette
scalini che portavano al piano superiore con passo felpato e varcò l’ingresso dell’appartamento
di suo fratello, entrando poi nel salotto.
Mycroft era seduto comodamente sulla sua poltrona
nera con un giornale tra le mani, vestito di tutto punto come suo solito, e quando
il fratello minore feceil suo ingresso non lo degnò di uno sguardo.
Sherlock non se ne curò, appoggiando invece
lo zaino a terra e avvicinandosi alla poltrona rossa di fronte a quella dove sedeva
il fratello. Si rannicchiò su di essa, cercando una delle posizioni in cui si sentiva
comodo, e quando latrovòsi rilassò, chiudendo gli
occhi e lasciandosi cullare da quel calore immateriale.
«Com’è andata a scuola oggi?»
Sherlock fece una smorfia, tenendo sempre gli
occhi chiusi, e rispose con un’altra domanda. «Perché sei a BakerStreet?» Poté quasi immaginarsi il fratello che,
alla sua uscita, portava gli occhi al cielo e si tratteneva dallo sbuffare solo
per non dargli soddisfazione.
«Guardati. Se non ti avessi fatto portarequinon saresti neanche salito.»
Sherlock lasciò che un sorrisino beffardo andasse
a increspargli le labbra e rimase in silenzio mentre l’altro chiudeva il giornale,
lo ripiegava attentamente e lo poggiava sul tavolino tra loro. «The?» disse, prendendo
in mano la sua tazza e portandola all’altezza delle labbra.
Sherlock aprì gli occhi e guardò il soffitto
sopra di lui, scuotendo piano la testa. «Che cosa volevi dirmi?» Non riuscì a nascondere
una nota di curiosità nella sua voce e a Mycroft non sfuggìlafugace occhiata speranzosa che il giovane gli
scoccò.
Con un sospiro fissò il liquido ambrato nella
tazzina e scosse la testa. «Mi piacerebbe tanto sapere cosa ti attrae di questa
catapecchia…»
Il più giovane degli Holmes fece un’espressione
offesa. «Non è una catapecchia… edè-»
«…isolata dal resto della nostra famiglia,
sì lo so Sherlock.»Mycroft rimase a osservare il fratello minore per qualche minuto, scandagliandolo
dalla testa ai piedi alla ricercadi indizi che non faticò a trovare.
«Come è andata oggi?» chiese di nuovo.
«Devi smetterla di torturare Lestrade…» fece
l’altroinrisposta.
Il maggiore questa volta portò veramente gli
occhi al cielo e non si preoccupò neanche di nasconderlo.«Va bene, arriverò al punto. Chi è John Watson?»
«Gavinnon te l’ha detto?»
«Greg…»
«Sì, lui.»
«Non mi ha saputo dire niente a riguardo.»
Sherlock sbuffò e diede le spalle all’altro,
girandosi sulla poltrona e rannicchiandosi ancora di più su di essa come a cercare
protezione. «È un amico.»
Mycroft dovette trattenersi dallo spalancare
la bocca per lo stupore. «Che genere di amico?»
Ancora silenzio.
«Sherlock, rispondimi per favore. L’autista non può aspettare tutto il giorno.»
«Non ho nessuna fretta di tornare a casa.»
«Che genere di amico?» ripeté, calcando le
parole a una a una.
Il moro aprì la bocca per parlare ma la voce
gli morì in gola. Avrebbe voluto dire a Mycroft di lasciarlo in pace, che quella
volta andava tutto bene e che se la poteva cavare benissimo da solo. Avrebbe voluto
dirgli che John era l’unico che lo aveva apprezzato veramentein quella scuola, l’unico che aveva considerato un vero amico e l’unico che
gi aveva fatto compagnia durante i suoi altrimenti solitari pomeriggi; ma non riuscì
a dire niente di tutto quello, mentre tra le palpebre socchiuse gli balenò l’immagine
di John in un qualche angolo nascosto della scuola a baciare una ragazza mentre
lui lo aspettava al laboratorio. Una strana morsa gli strinse la bocca dello stomaco
e al posto di qualche frase scocciata gli uscì solo un grugnito di disapprovazione.
«Unocome gli altri. Ordinario.»disse infine.
Mycroft osservò attentamente il fratello, cogliendo
il tono afflitto del ragazzo e collegandolo all’espressione triste con cui era entrato
in casa – era ancora troppo piccoloper saperlanascondere alla perfezione – e inevitabilmente capì, o perlomeno gli parve di
capire: per una volta non era per niente certo delle conclusioni a cui era arrivato.
Possibile che Sherlock fosse veramente triste per l’aver solo nominato il nome di
quel ragazzo? Possibile che, per una volta, potesse essere infelice e non scocciato
e irritato? E possibile che la causa di tutto ciò fosse semplicemente un amico?
«Devo dedurne che oggi non èstatauna bella giornata?»
Un altro grugnito provenne dalla poltrona e
Mycroft non poté far altro che sospirare.«Lo conosci appena da un mese,
hai passato con lui tutti i pomeriggi dal quel momento e ora sei infelice per qualcosa
che è successo tra voi. Devo aspettarmi una qualche dichiarazione improvvisa non
appena farete pace?»
Finalmente Sherlock si girò a guardarlo con
aria truce. «Ora che hai dedotto tutto, cosa vuoi?»
Mycroft rimase un attimo in silenzio, all’apparenza
del tutto tranquillo, in realtà piuttosto stupito. Poi si passò una mano sul volto
con aria stanca e sospirò. «Dare ascolto ai propri sentimenti non è un vantaggio,
Sherlock.»
Il ragazzo sbuffò e rivolse lo sguardo al soffitto.
«Non me ne importa niente dei sentimenti.»
«Ti stai contraddicendo da solo.»
«Lasciami in pace.» mormorò Sherlock infine,
chiudendo gli occhi e cercando di scacciare quell’improvvisa voglia di prenderlo
a pugni.
Mycroft sbuffò per l’ennesima volta e con un
movimento fluido si alzò dalla poltrona.«Ti ho avvisato in passato
e oggi te l’ho ripetuto: se ti lascerai prendere soffrirai, inevitabilmente. È meglio
che ti lasci tutto alle spalle al più presto.»
Inrisposta ebbe solo un grugnito infastidito.
«Non costringermi a fare una bella chiacchierata
con il giovane Watson…»
Sherlock questa volta dovette stringere i pugni
per trattenersi, non senza difficoltà, dal balzargli veramente addosso. Se all’inizio
era entrato in casa quasi per curiosità, ora desiderava non averci mai messo piede.
«Ti ho detto di lasciarmi in pace.» ringhiò.
Mycroft osservò dall’alto in basso il proprio
fratello minore con una punta di tenerezza. Sapeva di non essere una tra le maggiori
simpatie di Sherlock, ma proprio non gli riuscivadifargli capire che tutte le sue attenzioni erano solo dovute al fatto che si
preoccupava sempre per lui, costantemente.
In passato lui e i sui genitori sieranoaffidati troppo al suo buonsenso e le cose
erano inevitabilmente precipitate con l’avvento dell’adolescenza. Se Mycroft aveva
pensato che suo fratello sarebbe stato troppo intelligenteper compiereatti del genere, si era sbagliato: il giovane
Holmes non era stato in grado di prendersi cura di se stesso, non aveva saputo proteggersi
dal mondo esterno e aveva rischiato grosso. Era caduto una volta e, proprio quando
sembrava essersi rialzato, era crollato nuovamente.
Sherlock aveva bisogno di qualcuno che si preoccupasse
per lui, regolarmente, e Mycroft si era deliberatamente offerto per quell’incarico.
«Ti ricordi dell’ultima volta, vero? Non voglio ricaderci ancora…»
«Ho imparato la lezione.» sibilò a denti stretti
l’altro.
Il più grande annuì e preso l’ombrellosi incamminò verso l’uscita.«Ti concedo di rimanere un po’ qui, ma mamma ti vuole a
casa per cena. Chiaro?»
Sherlock si rilassò sulla poltrona e assentì
con uno sbuffo annoiato. Poco prima che il fratello uscisse definitivamente dall’appartamento,
tuttavia, gli pose una domanda, giusto per ripagarlo della sua insistenza.«Quando hai intenzione di comunicarle che l’appartamento
che ti ha regalato non ti piace? Non apprezzerà l’idea che tu te ne sia comprato
un altro in pieno centro.»
Mycroft si bloccò con una mano sulla maniglia,
sospirando pesantemente. Pensò a qualcosa di sensato per rispondergli, poi portò
gli occhi al cielo e uscì dalla stanza senza proferire parola.
Dalla sua poltrona Sherlock sorrise divertito: era sempre un piacere stuzzicare
il fratello.
~*~
«Sherlock!»
Il ragazzo interpellato si girò di scatto,
riuscendo a trattenere a stento un sorriso. «John…»
Il biondo lo raggiunse con pochi passi e si
appoggiò all’armadietto di fianco a quello del moro, stringendo al petto i libri
della prima ora appena recuperati dal suo.
Sherlock realizzò di essere rimasto immobile
per qualche secondo a fissarlo intensamente, così distolse lo sguardo, continuando
ad armeggiare per cercare i libri di chimica tra quelli impilati ordinatamente all’interno
del piccolo spazio. Il sorriso si affievolì sul suo volto fino a lasciare il posto
a una smorfia annoiata al pensiero di ciò che era successo il giorno prima.
«Scusami per ieri, se non sono venuto. Ho… avuto alcuni problemi.»
Il moro sentì lo stomaco fargli una capriola
mentre i pensieri s’ingarbugliavano l’uno sull’altro. Si girò con estrema lentezza
verso di lui e lo osservò attentamente. «Che genere di problemi?»
Il ragazzo arrossì lievemente e portò una mano
a grattarsi la nuca. «Ecco io… sono caduto durante l’ora di ginnastica.»
Sherlock si ritrovò a sorridere divertito all’espressione
imbarazzata dell’altro, come se cadere durante una corsa fosse un errore di cui
vergognarsi, e sentì il peso che aveva nel petto alleggerirsi: John non aveva avuto
altri impegni, nonavevanessuna ragazza da cui andare.
Sierafatto tanti problemi per
nulla, non era successo niente di nuovo e il ragazzo sarebbe rimasto ancora con
lui, come sempre da un po’ di tempo a quella parte.
«Quindinon haiintenz-» disse, ma non fece in tempo
a finire la frase che una ragazza gli si parò di fianco.
«Penso che tu abbia sbagliato a comportarti
in quel modo con Harriet.»
John si girò di scatto, sorpreso dall’improvvisa
interruzione. Squadrò Clara da capo a piedi, poi aprì la bocca per rispondere ma
rimase bloccato, fissando lo sguardo fiero della ragazza davanti a sé.
«Pensi che sia facile vivere in questo modo? Pensi che sia facile accettarlo?»
Sherlock chiuse l’armadietto e si accigliò,
spostando lo sguardo da lei all’amico a intervalli regolari con curiosità.
John strinse le mani a pugno e si costrinse
a parlare. «Possiamo… parlarne in un altro momento?» mormorò, la voce così bassa
che fece fatica lui stesso a sentirsi.
«Per quale motivo?» gli occhi della ragazza
si posarono sul moro al suo fianco e piegò le labbra, divertita. «Almeno ho il sostegno
di qualcuno che vive nella mia stessa situazione.»
John fece un respiro profondo. «Non è perché
c’è Sherlock - e tanto per la cronaca non ègay– ma perché siamo nel bel mezzo di un corridoio con tanto di studenti che ci
gironzolano attorno!» esclamò.
Sherlock inarcò un sopracciglio all’affermazione
del compagno e ricevette un occhiolino divertito da parte di Clara.
«Harriet è la mia ragazza e non ti permetterò
di mandarla in depressione solo perché non ti va bene che lei sia lesbica.» disse
poi la ragazza, abbassando il tono di voce in modo che solo i due di fronte a lei
potessero sentirla.
John spalancò gli occhi. «Io non ho dettoch-»
«Ma guarda chi c’è qui!»
Al suono di quella voce Clara s’irrigidì, assottigliò
le labbra e tenne lo sguardo fisso in quello di John. Il ragazzo, invece, portò
gli occhi al cielo. «Cosa vuoiSmith?» sbuffò, tradendo tuttavia una certa agitazione.
«Ilverginelloe l’indecisa. Ti stai costruendo
un bel gruppetto attorno a te, eh John? Cosa fate, organizzateun gay club tuttiinsieme?»
John sentì le mani prudergli per la voglia
di prendere il compagno a cazzotti, ma prese un respiro profondo e si costrinse
a pensare cheera soloin cerca di attenzioni. Quando
si guardòintorno ilsuo pensiero venne subito
confermato nel vedere la piccola folla che alla provocazione di Smith si stava radunando
incuriosita attorno a loro. Inoltre vide una buona parte dei suoi compagni di squadra
in piedi accanto al tallonatore con un ghigno divertito sul volto, Anderson e il
Rosso compresi.
«Sai… non credo che tua sorella possa entrare a farne parte. È un vero peccato,
ma lei nonfapiù il liceo, vero?»
John si passò la lingua sulle labbra, cercando
le parole più adatte per mandarlo a quel paese e andarsene di lì prima che la situazione
degenerasse. «Grazie Smith, terrò a mente il tuo consiglio.»
Il sorriso del tallonatore non fece che allargarsi.
Allargò le braccia e si guardò intorno con aria trionfante.«Che vi dicevo? Il nostro Johnny Boy è passato dall’altra
parte!»
Il diretto interessato sentì la rabbia montargli
dentro e fu solo con un enorme sforzo che riuscì a trattenersi dall’arrossire.
Intanto Clara fissava con insistenza il laccio
delle proprie scarpe e Sherlock si era premuto contro l’armadietto con fare noncurante,facendofinta di leggere una pagina del suo libro e
sperando con tutto se stesso che il suo amico riuscisse a tenere testa ai suoi compagni
di squadra solo con le parole, evitando di sfociare in una zuffa a pochi minuti
dall’inizio delle lezioni.Manon aveva fatto conto con
l’orgoglio di John, e con quanto esso poco resistesse alle provocazioni degli altri.
«E dimmi… comincerai anche tu a ubriacarti come tua sorella ora? È questo che
comporta il diventaregay, forse?»
John mosse un passo in avanti di scatto, fermandosi
poi poco dopo a poca distanza dall’altro. «Smettila.» soffiò tra i denti, le unghie
delle dita che quasi affondavano nei palmi.
«Oppure?» ghignò l’altroinrisposta.
E John non resistette più. In un attimo lo
prese per il colletto della felpa e con uno slancio lo schiacciò contro la fila
di armadietti di fronte.
«John!» Clara allungò una mano verso il ragazzo,
terrorizzata. «John,lascia perdere!»
Sherlock, invece, rimase fermo sul posto con
il cuore in gola.
Harry intanto rideva di gusto. «È tutto qui
quello che sai fare?»
John strinse la presa sulla stoffa e lo guardò
in cagnesco, sibilando tra i denti: «Finiscila ora e mi fermo, ok?»
Il sorriso sul volto del ragazzo si spense
di colpo. «E chi ha detto che tu ti debba fermare?»
Tempo di neanche un secondo e Smithgli era addosso, tirando pugni alla cieca e spintonando
John che, colto alla sprovvista, si ritrovò ad indietreggiare, non riuscendo a fare
altro se non proteggersi come meglio poteva dai colpi dell’altro.
«John!» Clara li guardava con il terrore dipinto
in volto, avvicinandosi e cercando inutilmente di richiamarli all’ordine.
Sherlock osservava la scena come da molto lontano,
il cuore che gli batteva forte nel petto per la paura che John si potesse fare del
male e i denti che torturavano il labbro inferiore per l’indecisione: doveva intervenire
anche lui o lasciare che gli eventi facessero il loro corso? Avrebbe potuto benissimo
correre via per evitare che prendessero di mira anche lui, o buttarsi nella zuffa
per aiutare John. Un altro pensiero che gli passò per la mente fuquello diandare a cercare un professore che con la sua
autorità avrebbe potuto calmare le acque, ma aveva anche paura che John venisse
punito per la sua uscita e non voleva peggiorare la situazione. Così rimase fermo
sul posto, sperando che la cosa finisse al più presto.
Clara riuscì finalmente ad afferrare John per
il cappuccio della sua felpa e lo tirò indietro, rischiando di soffocarlo per lo
strattone. Smith però non sembrava dell’idea di lasciarlo andare così facilmente
e lo trattenne per gli orli della stessa felpa, rischiando così di lacerarla.
Intanto gli studenti che si erano riuniti intorno
alla scena incitavano i due duellanti, chistavadalla parte del tallonatore e chi da quella del mediano. Nessuno pareva dell’idea
di fermarli, a parte Clara.
Non trascorsero neanche un paio di minuti che,
tuttavia, giunse sul luogo il professore di letteratura inglese che, nonostante
non fosse di grande corporatura, incuteva sempre ungrantimore per la sua aurea di grave compostezza.
Bastò un’occhiata al suo volto infuriato per far diradare la maggior parte degli
spettatori e un suo “basta!” urlato a pieni polmoni per farsi sentire oltre il persistente
brusio e far smettere i due ragazzi nel giro di un secondo.
John spinse via il compagno di squadra e rimase
sul posto, ansimante, un livido che si stava allargando lentamente sulla sua guancia
e gli abiti spiegazzati.
Sherlock tirò un sospiro di sollievoinsieme conClara che, però, approfittò dell’improvvisa
calma per dileguarsi dal corridoio.
«Si può sapere checosa diamine vi è preso?» tuonò l’insegnante.«Vi voglio entrambi nell’ufficio del preside. SUBITO.»esclamò, per poi girarsi
e cominciare a camminare a passo sostenuto lungo il corridoio.
John scoccò un’occhiata a Sherlock, il quale
si sentì gelare per la rabbia contenuto in esso, per poi avviarsi sulla scia del
professore, sistemandosi nel frattempo i vestiti addosso con l’intento di darsi
una sistemata prima di farsi vedere dal preside in persona.
Il trillo insistente della campanella coprì il chiacchiericcio degli studenti
che, finito lo spettacolo, si avviarono a lezione, mentre Sherlock incrociava quasi
per caso lo sguardo con quello di Mary Morstan, in piedi poco lontano da lui e con
un lieve sorriso sulle labbra.
~*~
«Ed eccomi qui.»
Sherlock si girò di scatto, sorpreso, squadrando
l’amico dalla testa ai piedi: un livido gli deturpava il volto, allungandosi sulla
sua guancia destra e il suo sguardo era afflitto.«Cosa ci fai qui? Non hai
gli allenamenti oggi?»chiese.
John sospirò e scosse la testa. «Punizione.»
Sherlock esalò un debole “oh…” e annuì, pensieroso, mentre chiudeva l’armadietto dietro di sé. «Quindi vieni
su al laboratorio?»chiese titubante, senza poter tuttavia fare
a meno di nascondere una nota di speranza nella voce.
Il giovane Watson annuì tristemente. «Da oggi
per una settimana non avrò altro da fare il martedì e il venerdì pomeriggio, quindi
credo che dovrò romperti le scatole due giorni in più… a quanto pare difendere tua
sorella da un attacco contro i suoi diritti omosessuali equivaleadessere allontanato dalla squadra di rugby per
gli allenamenti settimanali. Frequentiamo proprio una bella scuola…»sospirò.
«Senza contare che tra gli studenti si aggira
indisturbato un assassino e nessuno a parte noi e il professore di filosofia lo
sa.»
John avvertì una strana morsa alla bocca dello
stomaco nell’udire quelle parole.«Ci pensi ancora? APowers?»
Sherlock portò gli occhi al cielo.«Ovvio, John. Non si abbandona nel nulla un caso se non
è risolto.»
L’altro sorrise. «Beh… ma se non ci sono abbastanza proveperincolpare qualcuno come si può concluderlo?
Non sappiamo nemmeno chi è… potrebbe essere chiunque.»
Sherlock arricciò il naso. «Prima o poitornerà allo scoperto. Un
genio del genere non se ne va semplicemente così, di punto in bianco.»
«Genio?» mormorò John stupito.
Tuttavia Sherlock aveva cominciato a camminare
borbottando tra sé e sé e non lo ascoltò. Stringendosi nelle spalle il ragazzo lo
seguì, diretto verso il laboratorio.
«E poi non riesco ancora a capire quale possa essere stato il movente. Perché
avrebbe dovuto ucciderePowers?Sicuramente per qualche ragione di suo interesse personale. Che Carl avesse scoperto
qualcosa su di lui? Sarebbe il modo migliore per farlo tacere: ucciderlo.»
Girarono l’angolo.
John sembrava leggermente scosso dalla totale
indifferenza dell’amico mentre parlava.«Ma… voglio dire, siamo… siamo
solo ragazzi. Credi veramente che qualcuno di noi potrebbe fare qualcosa del genere?»
«Beh, o noi o un professor-» Sherlock si bloccò
di colpo in mezzo al corridoio. «Noi siamo sempre al laboratorio di pomeriggio!»
esclamò.
John si accigliò, fermandosi anche lui dietro
all’amico. «Sì…?»
Le labbra del moro si stesero lentamente in
un sorriso, mentre il volto si apriva in un ghigno consapevole. «E quandousciamonon passiamo mai dal mio armadietto…»
John aprì la bocca per parlare ma in quel momento
Mary comparve dall’angolo opposto e, vedendolo,glisorrise raggiante, così che John si dimenticò di quello che voleva dire. La
ragazza avanzò lungo il corridoio nella loro direzione.
«Dio, che stupido!» Sherlock portò gli occhi
al cielo e si batté una mano sulla fronte. «Stupido,stupido, stupido!» esclamò tra sé e sé, girando su
se stesso e tornando sui propri passi.
«Ciao John!»
«Mary…» Il ragazzo sorrise alla biondina che
in pochi passi lo aveva raggiunto. «Come… come mai da queste parti?» Girò di poco
la testa in direzione di Sherlock per vedere cosa stava facendo ma,vedendoloallontanarsi, decise di abbandonarlo un attimo
e dedicò la propria attenzione alla ragazza che sembrava sul punto di dire qualcosa.
Sherlock intanto si avvicinò al muro d’angolo,
affacciandosi lentamente sul corridoio dove si trovava il suo armadietto.
«Se… ecco, insomma…» La ragazza sembrava leggermente
imbarazzata e dovette distogliere lo sguardo per puntarlo sulla punta delle sue
scarpe. «…se ti andasse di uscire, un giorno di questi.»
John riuscì a trattenersi dal spalancare le
labbra per lo stupore. Un leggero colorito rossastro andòadimporporargli le guance mentre, all’improvviso
dimentico di qualunque cosa al di fuori di Mary, annuiva velocemente, anche se non
aveva ancora del tutto elaborato l’informazione.
Sherlock si staccò dall’angolo e camminò deliberatamente
nel corridoio, diretto verso il punto da cui era partito neanche cinque minuti prima.
Lì per terra, esattamente sotto il suo armadietto,
impiastricciato per l’ennesima volta in un solo mese, giaceva abbandonata una bomboletta
spray di colore giallo acceso.
«Eccoti qui…» mormorò sottovoce, e chinatosi,
afferrò delicatamente l’oggetto. «…ti ho trovato.»
Note: (o forse è meglio chiamarle curiosità?)
Non so se l’avetenotatoma in questo capitolo John continua a ripetere
che Sherlock non è gay. Mi sono divertita a rigirare la famosa frase “I’mnot gay”xD
Per quanto riguarda l’incontro tra i due
fratelli Holmes a BakerStreet, invece, ho voluto far
accomodare il nostro Sherlock nella poltrona di John perché mi sembrava carino associarla
a John stesso: Sherlock si rifugia nella poltrona rossa, nel suo “caldo abbraccio”.
Mi scuso per l’eventuale OOC, ma insomma…
non sono propriamentei Johne Sherlock che conosciamo.
Ricordiamoci che hanno una ventina di anni in meno ;)
Aspetto di pubblicare questo capitolo fin
dall’inizio della storia ;)
Abbiamo superato la metà, quindi allacciatevi
le cinture perché la strada che ci manca di qui fino alla fine si fa bella tosta.
Se non dovessetornarviqualcosa con la caratterizzazione dei personaggi (consiglio dilallamia straordinaria beta <3 ) vi chiederei di avere pazienza, molte cose verranno
spiegate in seguito e può darsi che i dubbi si risolveranno da sé…
Il prossimo capitolo, giusto per farvi sapere,
è a metà. Potrebbe volerci una settimana piena per finirlo e poi un po’ perbetarlo.
E ora non vi trattengo oltre ;)
Buona lettura!
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 6
U
n pomeriggio, pochi giorni dopo aver ritrovato la bomboletta
spray vuota, Sherlock era seduto al suo solito posto nel laboratorio, in attesa
di John - che sarebbe venuto, glielo aveva promesso
– e di Molly Hooper.
Il ragazzo aveva chiesto il suo aiuto per alcune operazioni
che voleva svolgere su di essa: aveva la netta impressione che quella bomboletta
non fosse stata lasciata lì per sbaglio. Era intenzionato a scoprirne il proprietario
e non si sarebbe arreso tanto facilmente. Molly poteva dargli una mano con quella
che era una semplice scatola di latta: potevano ricavare molte informazioni da essa,
bastava un’occhiata più approfondita e, Sherlock ne era certo, sarebbe arrivato
vicinissimo alla soluzione.
C’era qualcosa, in tutta quella storia, che non gli tornava.
I suoi pensieri furono interrotti dal rumore della porta
che si apriva. Alzò lo sguardo, speranzoso, e quando vide entrare Molly qualcosa
lo lasciò a bocca asciutta, anche se non avrebbe saputo dire esattamente cosa.
Con sua grande sorpresa videla ragazza tenerela porta aperta dietro di sé, ma le sue speranze vennero
doppiamente deluse nel vedere che il nuovo ospite non era colui che si aspettava.
Girò la testa, infastidito, mentre Moriarty si guardava intorno con aria incuriosita.
«Allora alla fine ti sei messa d’accordo con Mary?» chiese
il ragazzo, mentre Molly si toglieva la giacca e appoggiava lo zaino sul lungo tavolo.
«Sì…»
Sherlock, che al nome pronunciato dal ragazzo si era fatto
improvvisamente più attento, li osservò con la coda dell’occhio.
Jim era a poca distanza dalla ragazza e la osservava con
una strana espressione negli occhi, quasi innamorata. Molly si girò verso di lui
eglisorrise timidamente, poco prima che Moriarty
la tirasse verso di sé, depositandole un bacio veloce sulle labbra.
Sherlock distolse velocemente lo sguardo, tornandoadosservare con attenzione la bombolette sul tavolo davanti
a lui.
«E così, Sherlock Holmes, eccoti qua. Molly mi ha parlato molto di te…»Jim gli si avvicinò con aria noncurante, prestando
particolare attenzione all’oggetto che teneva tra le mani. «Alla fine non sei più
venuto al Brainy…»
Sherlock fece una smorfia, scuotendo la testa. «Non m’interessa.»
ribatté freddamente.
L’altro parve non ascoltarlo mentre anche lui prendeva
uno sgabello e si sedeva dall’altra parte del tavolo, sotto lo sguardo stupito e
attento di Molly, che non lo perse di vista neanche per un secondo.
«Che cos’è quella?»
La ragazza spostò gli occhi da uno all’altro, temendo la
reazione del moro. Sapeva che tra i due non scorreva buon sangue, lo aveva sempre
notato dalle espressioni infastidite di Sherlock ogni volta che incrociava il capitano
del Brainy nei corridoi, e sinceramente non riusciva a capire per quale motivo Jim
ci tenesse tanto a scambiare due parole con lui.
Sherlock si passò la lingua tra i denti e non rispose,
limitandosi a guardare il ragazzo più grande negli occhi, intensamente. Rimasero
in quella posizione per qualche secondo, poi Moriarty distolse lo sguardo con un
sorriso divertito sul volto. «Quella è la vernice con cui impiastricciano il tuo
armadietto ogni settimana?» chiese.
Il ragazzo più giovane annuì lentamente, quasi che la sua
affermazione potesse provocare qualcosa di pericolosamente irreversibile.
«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»
Sherlock corrugò la fronte, spostando gli occhi sul volto
del capitano freneticamente, come a voler imprimersi nella mente ogni più piccolo
dettaglio.
«Anch’io.» disseinfine,l’espressione impassibile.
Molly si ritrovò a tirare unsospiro di sollievo, mentre la momentanea tensione che l’aveva attanagliata
in precedenza si affievoliva. Moriarty invece osservava Sherlock, serio in viso,
ticchettando ritmicamente con le dita sul piano da lavoro.
«In tal caso perdonami per il disturbo, vi lascio al vostro
lavoro.»Moriarty si alzò, scambiando una veloce occhiata
con Molly sotto lo sguardo vigile di Sherlock che non si perdeva un secondo di quella
strana scenetta.
«Ci vediamo più tardi tesoro.» lasciò un bacio umido sulla
guancia della ragazza e con un ultimo cenno del capo in segno di saluto sparì oltre
la porta.
Solo quando i suoi passi si furono affievoliti lungo il
corridoioSherlocksi azzardò a riportare la sua attenzione sull’oggetto
che aveva tra le mani, ragionando freneticamente. «Da quando in qua fai lacheerleader?»
Molly, che si stava avvicinando al ragazzo per cercare
di capire cosa voleva da lei, alle sue parole si fermò di botto con il cuore in
gola: se ne era accorto alla fine. «Da un po’… perché?»
Sherlock non le rispose, ponendole invece un’altra domanda.
«Perché?» spostò i suoi occhi cristallini su di lei e la fissò intensamente.
La ragazza parve insicura di quale risposta dare, poi si
fece coraggio e alzò il mento, fiera.«Perché mi andava. Volevo mettermi alla prova
e diventare qualcosa di più della semplice e timida Molly Hooper.»
Il moro portò le mani a congiungersi sotto il mento, pensieroso.
«E lui non c’entra niente con tutto questo?»
La ragazza vacillò sul posto mentre un colorito rossastro
andavaadimporporarle le guance.«Perché dovrebbe questo avere qualcosa a che fare con Jim?
È stata una mia decisione.»Guardò il compagno con aria
infastidita, poi spostò la sua attenzione sulla bomboletta spray.«E comunque non sono affari tuoi. Che cosa volevi che facessi?»rispose, tentando di deviare il discorso.
Sherlock tamburellò con le dita sul piano, come Moriarty
aveva fatto fino a qualche minuto prima, e sorrise delicatamente. Guardò prima l’orologio
che portava al polso, poi la porta, con aria sconsolata. «Da quanto tempo state
insieme?»
Molly esitò. «Qualche settimana.» Non voleva parlare di
questo con Sherlock. Per un anno interogli era andata dietro, lo aveva guardato e ammirato
da lontano, lo aveva accontentato quando voleva solo per poterlo sentire un po’
più vicino a sé, per tentare un approccio con lui. Aveva avuto una cotta per lui
fin dal primo momento in cui lo aveva visto e, forse, quel sentimento di forte affetto
nei suoi confronti non se ne era ancora andato. Discutere con lui di Jim Moriarty,
il suo nuovo ragazzo, era troppo strano e in un certo senso imbarazzante; senza
contare che tra i due ragazzi non scorreva buon sangue.
Quando Sherlock guardò per l’ennesima volta la porta, qualche
secondo più tardi, Molly non poté fare a meno di portare il pensiero verso l’oggetto
della sua attenzione. Non era una ragazza stupida, capiva ciò che vedeva, sapeva
elaborare le informazioni e farsi una propria idea. Abbassò lo sguardo, sconfitta.
«Io… io lo so cosa si prova.»
Sherlock alzò lo sguardo sorpreso, interrompendo di colpo
il suo tamburellare. «Che cosa?»
La ragazza deglutì. «So…socosa si prova a sentirsi
soli.»
Il moro sollevò un sopracciglio e rimase in silenzio, in
attesa di qualcosa in più.
Molly distolse lo sguardo, lievementeimbarazzata. «Tu sei triste, quando… quando pensi che a lui non importi
niente di te.»
«Lui chi?»
Prese un respiro profondo.«John. Lo stai aspettando vero? Non fai altro che guardare
l’orologio. Hai paura che con Mary si sia dimenticato di te.»
Sherlock si sentì improvvisamente sprofondare mentre assimilava
le parole della compagna.
«Hai paura che non ti veda più, troppo occupato a pensare a lei. Io lo so, Sherlock.
Non dire di no, so che è così.»continuò; ora che aveva iniziato
sembrava che non riuscisse più a fermarsi.
«Per-perché?» si odiò per l’esitazione nella sua voce,
non avrebbe voluto dimostrarle che ciò che stava dicendo era vero. O almeno, lo
era? Di sicuro era vero che continuava a guardare l’orologio: John era in ritardo
di mezzora, gli aveva promesso che sarebbe arrivato non appenafinitala scuola perché Mary aveva gli allenamenti da cheerleader
e non potevano stare insieme. Glielo avevapromesso,John manteneva sempre le
sue promesse.
Eppure non era ancora arrivato e Sherlock non stava del
tutto bene per questo. Si sentiva molto strano, più del solito. Da quando aveva
conosciuto Johnqualcosa in lui era cambiato, se ne era accorto,
e ora quasi non riconosceva più alcuni aspetti di se stesso, come in quel momento.
Che cos’era quell’improvvisa voglia di usciredilì e andarlo a cercare? Certo,
aveva appena scoperto qualcosa diestremamenteinteressante e voleva dirglielo,
ma fino a qualche mese prima non aveva avuto bisogno di dire niente a nessuno. Per
non parlare del fatto che il vecchio Sherlock non si sarebbe mai disturbato ad andare
a cercare qualcuno che sdegnava la sua compagnia. Fino a qualche mese prima non
aveva neanche avuto una compagnia.
«Perché è la stessa cosa che succede a me, sempre.» disse
Molly, decisa.«Lo vedo. Tu sei triste quando nessuno ti guarda.»
«Matu mi stai guardando…» Sherlock
puntò i suoi occhi chiari su di lei, confuso, e la ragazza parve un attimo rattristarsi.
«Io… io non conto. È diverso…»ammise.
Il ragazzo la fissò attentamente, come se il solo guardarla
potesse dargli tutte le risposte checercava. «Perché lui dovrebbe contare, invece?»
Molly questa volta esitò.«Non lo so… io non posso saperlo. Dovresti dirmelo tu…»le ultime parole furono un mormorio indistinto.
Sherlock distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi. Perché
John Watson sarebbe dovuto essere diverso?
«Forse… forse hai un certo tipo di rapporto con lui. Più… approfondito?»si morse un labbro, temendo di essersi spinta
troppo in là, ma Sherlock ripeté le sue parole sottovoce, senza guardarla.
«Perché Moriarty dovrebbe volere stare con te?» disse infine,
sotto lo sguardo attonito dell’altra.
«Cosa vorrebbedire?»
Sherlock si alzò dallo sgabello e radunò le sue cose con
un’aria vagamente infastidita. «Esattamente quello che sembra.»
Molly strinse un pugno.«Forse perché mi trova carina? Forse perché
è l’unico ad avermi notato in tutto questo tempo?»Il risentimento si fece sentire attraverso le sue parole.
Il ragazzo si girò verso di lei, fermandosi per qualche
istante. «Moriarty non è il tuo tipo,decisamente. Ti consiglio apertamente di lasciarlo.»
«Che cosa? No!»
«E grazie della chiacchierata, ma non mi servi più. Ho già
trovato quello che cercavo…»disse, e uscì dalla stanza,
lasciando la ragazza sconvolta e irritata al suo posto.
~*~
Sherlock mise più piani possibili tra lui e il laboratorio,
camminando a tutta velocità per i corridoi senza una meta precisa. In testa gli
frullavano mille pensieri, più del solito: oggetti, indizi, luoghi, dialoghi e volti
si accavallavano uno sull’altro, impedendogli di concentrarsi. Voleva risolvere
troppe cose contemporaneamente ma in quel modo non faceva altro che più confusione.
Si fermò in mezzo al corridoio, chiuse gli occhi e portò
le dita alle tempie, respirando piano.
Suddivise ogni informazione nelle tre categorie più rilevanti,
separandole nettamente quando sembravano legarsi tra loro – a quello ci avrebbe
pensato dopo – quindi analizzò con cura le treopzioni.
Controllò l’ora: John era in ritardo da più di mezzora
pertanto era certo che non sarebbe venuto. Ignorando quel qualcosa alla bocca dello
stomaco lo archiviò, insieme al laboratorio e al discorso con Molly, nella stanza
a piano terra del suo palazzo mentale, là dove teneva quelle cose che richiedevano
urgente attenzione.
CarlPowers. Il ragazzo era morto quasi sicuramente avvelenato,
qualcuno doveva averlo ucciso, ne era sicuro. Eppure continuava a pensare che c’era
qualcosa che gli sfuggiva. Aveva osservato a lungo intorno a sé in quei mesi dalla
sua morte, aveva guardato attentamente ogni studente che gli capitava sottotiroma non era mai riuscito a ricavare niente da tutto ciò.
Eppure…
Archiviò anche quell’argomento, chiudendolo in un cassetto
esattamente sotto all’altro, e si concentrò invece su quei pensieri che premevano
per uscire ed essere analizzati.
Jim Moriarty.
Il discorso avuto nel laboratorio non era stato per niente
casuale, Sherlock lo sapeva, esapevaanche che quel ragazzo era pericoloso in un
modo o nell’altro. Ripensò alla bomboletta che aveva avuto tra le mani, alla vernice
gialla che aveva imbrattato numerose volte il suo armadietto personale, esponendo
scritte quali “sfigato”, “gay”, “verginello”, e un sacco di altri insulti. Aveva sempre pensato che l’autore dovesse essere
un giocatore della squadra dei Blackheath, nessuno sembrava volersi mettere in mostra
più di loro, ma, adirla verità, il suo pensiero si era rivolto per
lo più verso i membri di spicco, quali Smith, Anderson e Moran – coloro che oltre
agli insulti aggiungevano anche molestie fisiche – e non aveva mai considerato veramente
quella possibilità.
Moriarty aveva un alibi perfetto: era unodegli studenti modello, era diligente in classe e partecipava amolti club extrascolastici
quale il Brainy, di cui era capo, insieme alla squadra di rugby. Non prendeva mai
parte a risse, non arrivava mai in ritardo, non mancava mai un giorno da scuola;
era lo studente perfetto,colui cheera ammirato da tutti i professori e che aveva
ottime possibilità di essere eletto a migliore studente dell’anno. Nessuno faceva
caso a lui.
Eppure Sherlock fin dalla prima volta che lo aveva incontrato
aveva avuto un pensiero per lo più negativo nei suoi confronti, anche se non aveva
molte informazioni al riguardo. Quella era stata una delle rarissime volte che si
era affidato al suo intuito e non alle sue tanto amate deduzioni.
Aprì gli occhi e si appoggiò al muro, ripercorrendo nella
sua mente il discorso avuto poco prima. Moriarty sapeva che il suo armadietto era
continuamente impiastricciato, sapeva che il colore era sempre il giallo acceso,
sapeva che quella era la bomboletta usata dall’autore degli insulti. Non ci voleva
un genio per capire che l’unica spiegazione era che il ragazzo conosceva il suo
aggressore.
«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»
Oppure…
Si bloccò, spalancando gli occhi. Portò il palmo di una
delle mani a contatto con la parete liscia dietro di sé, aprì le dita e, flettendole,
cominciò a muoverle su e giù, battendole ritmicamente. No, non ritmicamente. Mignolo,
anulare, medio, indice, pollice. Cinque dita? Sì.
Si concentrò sui suoi ricordi, focalizzando il movimentodellamani di Moriarty.
Mignolo, anulare, medio, indice, pollice,mignolo. Sei dita.
Pausa.
Mignolo, anulare, medio, indice. Quattro dita.
Pausa.
E così via.
Nel giro di qualche secondo riuscì a ricostruire il ritmo
delle dita di Moriarty e mezzo secondo dopo lo aveva già collegato al resto.
Il movimento era stato di cinque, sei, quattro e infine
sei dita.Avevaripetuto la mossa esattamente tre volte, sicuramente
per assicurarsi che Sherlock riuscisse a memorizzarla. E l’unica cosa che poteva
essere ricollegata a quel codice, era la combinazione per aprire il suo armadietto.
Nel suo palazzo mentale si spalancò un cassetto, rivelando
il suo contenuto; i ricordi scivolarono fuori, s’ingarbugliarono tra loro finoadunirsi, fino a creare un puzzle perfetto.
E Sherlock capì.
Spalancò gli occhi e con il cuore che gli batteva a mille
per l’eccitazionesi precipitò lungo il corridoio,
correndo verso il piano superiore, salendo i gradini della scale a due a due fino
a quando non si ritrovò davanti al suo armadietto intonso, ansimante.
Con le dita che quasi gli tremavano per la felicità dell’aver
risolto il problema girò inumerinidel codice fino a sentire lo scatto della serratura
che si apriva, e spalancò l’armadietto.
Fece scorrere lo sguardo all’interno di essomentre un sorriso gli compariva sulle labbra nel vedere
un paio di scarpe da ginnastica, usate, da ragazzo, piazzate nel bel mezzo dello
spazio disponibile, ricavato accatastando i libri di testo tutt’intorno.
Tuttavia non fece in tempo a toccarle che dei passi leggeri
risuonarono per il corridoio deserto e una voce femminile lo richiamò all’attenzione.
«Sherlock!»
Il ragazzo si girò di scatto, chiudendo l’anta di metallo
dietro di sé come a voler nascondere la presenza delle scarpe, e fissò lacheerleaderche si stava avvicinando. «Mary…»
La bionda si fermò con eleganza e lo osservò, torva. «Sherlock.»
ripeté, perentoria. «Dov’è John?»
Il moro, ancora col pensiero rivolto alla sua nuova scoperta,
rimase un attimo imbambolato a fissarla.«John? Non è con me…»
La ragazza sbuffò, seccata.«Possibile che debba sparire così nel nulla da un momento
all’altro? È da ore che lo cerco. Non c’è né al campo di rugby, né in biblioteca,
né al bar o alla mensa. Sarah non l’ha visto, Molly al laboratorio mi ha detto di
venire a cercare te, John ha detto che doveva venire da te questo pomeriggio. Possibile
che sia tornato a casa senza dirmi nulla? Aveva detto che saremmo andati al parco
più tardi…»
Improvvisamente la confusione che alleggiava nella sua
testa sparì del tutto e Sherlock si ritrovò a spalancare l’ennesimo cassetto, riversando
altri ricordi e strane sensazioni accumulati nel corso di quei mesi.
Con un colorito terreo in viso si voltò verso il proprio
armadietto, fissando come da molto lontano la propria mano ancora appoggiata sul
freddo metallo, mentre una nuova idea sifacevastrada nella sua mente.
Le sorprese non erano ancora finite.
Molly, il discorso in laboratorio con Moriarty, John in
ritardo per l’ennesima volta, la bomboletta, le scarpe miracolosamente ritrovate:
era tutto collegato.
Spalancò le labbra e gli occhi mentre tutto tornava al
suo posto e una paura cieca sifacevaall’improvviso strada dentro di lui.
CarlPowersera morto nella piscina della scuola, solo
pochi mesi prima, e le scarpe cheavevaappena ritrovato erano le
sue. Non c’erano altre vie di scampo.
Cominciò a correre all’improvviso, facendo prendere un
colpo a Mary che lo osservò sparire dietro l’angolo con la sorpresa dipinta in volto,
prima che si decidesse a seguirlo, rincorrendolo per i corridoi deserti, chiamandolo
ad alta voce per farsi dare una spiegazione.
Ma Sherlock non aveva altri pensieri che John in quel momento,
e niente poteva distrarlo dal suo obiettivo.
Scese le scale saltando deliberatamente scalini anche cinque
alla volta, fino ad arrivare al piano interrato, dove sfrecciò attraverso le palestre
e gli spogliatoi, fino a precipitarsi contro le porte d’emergenza con i maniglioni
antipanico, spingendo con tutte le sue forze ed entrando come una furia sul pavimento
piastrellato della piscina.
Rimase fermo per qualche istante, ansimando, il cuore che
gli batteva a mille nel petto e il terrore che lo attraversava da capo a piedi.
Udì subito il rumore di acqua spostata, il suono degli
spruzzi e la flebile richiesta d’aiuto proveniente dal centro della piscina, dove
Sherlock andò immediatamente a posare gli occhi cristallini.
Non ci pensò due volte.
«JOHN!»
Con unaspintadi gambe si precipitò a bordo
piscina, si tolse le scarpe con un movimento veloce e, datosi lo slancio con le
braccia, si tuffò. Ruppe la superficie dell’acqua con un sonoro scroscio e cominciò
a muoversi agilmente, nuotando più veloce che poteva verso il centro piscina.
Mentre nell’edificio risuonava l’urlo terrorizzato di Mary,
Sherlock raggiunse l’amico che continuava a ricadere sotto la superficie, come se
non riuscisse a rimanere a galla. S’immerse totalmente e, evitando le braccia del
ragazzo che si agitavano freneticamente, gli cinse il busto con le proprie, spingendolo
verso l’alto.
Il ragazzo più grande boccheggiò, muovendo le gambe in
cerca di equilibrio, mentre Sherlock riaffiorava quel poco che gli permetteva di
respirare e, tenendo John con un braccio, cercava di trascinarlo verso il punto
da cui si era appena tuffato.
Con fatica riuscirono a raggiungere il bordo della piscina
e, con l’aiuto della ragazza, Sherlock riuscìadissare l’amico verso l’alto,
portandolo in salvo sul pavimento.
John si trascinò oltre il bordo camminando carponi e cominciò
a tossire, sputando acqua e inspirando quanta più aria poteva, mentre Mary ripeteva
senza fiato il suo nome come una lenta litania con l’orrore dipinto in volto.
Anche Sherlock uscì dall’acqua e raggiunse l’amico.«John! John!»
Il ragazzo interpellato si lasciò cadere a terra supino,
distrutto, e chiuse gli occhi, respirando piano.
Il moro gli si avvicinò e cominciò a sbottonargli la camicia
con l’intenzione di togliergliela per facilitargli la respirazione quando John spalancò
gli occhi e gli prese i polsi, allontanandoli con gentilezza. «Va…vatutto bene…» Aveva la voce roca per il troppo tossire e
Sherlock si lasciò convincere, notando però, da quella distanza, un piccolo foro
alla base del suo collo. Allungò una mano verso di esso e lo sfiorò con la punta
delle dita, poi poggiò l’altra mano sulla guancia del ragazzo per tenerlo fermo
e si avvicinò al forellino, osservandolo attentamente. «Che cos’è?»
Mary alzò lo sguardo verso Sherlock, terrorizzata. «Che
cosa?»
John si agitò, cercando di liberarsi dalla presa dell’amico,
e fece forza su un gomito per sollevarsi quel tanto chebastavaper riuscire a parlare. «Non- non lo so.» si fermò, inspirando
una nuova boccata d’aria e deglutendo.«Mi hanno preso da dietro e mi hanno ficcato
qualcosa nel collo. Quando mi sono risvegliato, ero lì dentro.»Fece un cenno verso la piscina e chiuse gli
occhi per un improvviso giramento di testa.
«Chi? Chi è stato?»Mary si avvicinò e accarezzò
il volto del suo ragazzo con le lacrime agli occhi.«Chi potrebbe fare qualcosa del genere? Saresti potuto morire!
Oddio…»
Sherlock osservò come da molto lontano la coppia mentre
tentava inutilmente di rimettere ordine tra i propri pensieri. C’era qualcosa che
lo bloccava, qualcosa che gli impediva di fermarsi, concentrarsi e ragionare razionalmente.
«Sherlock.» Uscì come un rantolo dalle labbra di John,
ma bastò per attirare la sua attenzione.
«John…»
Un debole sorriso gli spuntò sulle labbra mentre respirava
a fondo per l’ennesima volta. «Grazie…»
Il ragazzo distolse lo sguardo e fece forza sulle braccia
per alzarsi, barcollando sul posto una volta tiratosi in piedi del tutto. Sentiva
la testa girargli, sicuramente per lo sforzo appena compiuto, ma c’era anche qualcos’altro.
«Dobbiamo dirlo a qualcuno. Cazzo John, mi hai fatto prendere un colpo…»Mary aiutò il ragazzo ad alzarsi e lo prese
per le spalle, evitando di abbracciarlo solo per non bagnarsi a sua volta. Lo baciò
velocemente sulle labbra con le mani che le tremavano per la paura. «Va tutto bene
Mary, sto bene ora.»
Sherlock tremava. Quando se ne resecontosollevò le braccia e si guardò le mani: tremavano, incontrollabili,
e non era per il freddo. Barcollò un attimo sul posto mentre qualcosa di molto simile
al panico lo artigliava.
Ignorando i richiami di John si allontanò dal luogo, prima
con un’andatura lenta, poi sempre più velocemente, fino a correre, scivolando e
incespicando, diretto verso il primo bagno a portata di mano.
Spalancò la porta di quello dei maschi al primo piano e
si avvicinò con furia al lavandino, afferrando i bordi con forza e sporgendosi verso
lo specchio di fronte. Guardò attentamente il proprio riflesso, scrutando il proprio
volto alla ricerca di quegli indizi che gli avrebbero confermato i propri pensieri.
Esalò un debole respiro che andò ad appannare il vetro
per poi ritrarsi con sgomento e con le gambe che improvvisamente sembravano non
riuscire più a reggerlo in piedi. Indietreggiò fino alla porta di uno dei gabinetti,
appoggiandosiadessa di schiena con tutto il suo peso e prendendosi
la testa tra le mani, passandosi le dita tra i capelli fradici. Respirò lentamente,
cercando diregolarizzarei battiti del proprio cuore, ma il ricordo
di ciò che aveva appena visto non fece altro che peggiorare la situazione.
Deglutì un paio di volte e si ostinò a concentrarsi sull’immagine
del suo volto nello specchio, il propriovoltopallido e… gli occhi. Gli
occhi dicevano tutto, più del suo respiro e dei suoi battiti accelerati. Quegli
occhi chiari, quelle pupille dilatate.
Un brivido freddolopercorse dalla testa ai piedi
quando si rese conto di quello che stava realmente succedendo e, alzato ancora una
volta lo sguardo verso lo specchio, osservò il suo corpo magro scosso da tremiti
incontrollabili sotto gli abiti inzuppati e le proprie mani tremare visibilmente.
Con un gesto seccato si passò il dorso della mano sulla fronte, scacciando nervosamente
le gocce d’acqua che la imperlavano e imponendosi di tranquillizzarsi.
Proprio in quel momento la porta si spalancò un’altra volta
e John entrò nel bagno, guardandosi intorno con la preoccupazione dipinta in volto.«Sher…»
Quando lo vide appiattito lungo il legno ramato, i suoi
occhi si spalancarono e rimase fermo sul posto per qualche secondo, con una pila
di asciugamani in una mano. Ne aveva uno sulle spalle e si eratoltola camicia, probabilmente per evitare di inzuppare anche
quello.
Tentò un debole sorriso e gli si avvicinò lentamente, gli
asciugamani tesi in avanti comeadinvitarlo a prenderne uno.
«È meglio se ti spogli e ti copri o rischi di prenderti qualcosa… la squadra ha
degli abiti di ricambio che puoi mettere.»
Il moro si appiattì ancora di più alla porta dietro di
sé, guardando un punto fisso dello specchio davanti a lui pur di non guardarlo negli
occhi.
«Ehi…» la voce di John tradiva una nota di panico ma risuonava
calda e rassicurante, al che Sherlock chiuse gli occhi, poggiando la nuca contro
il suo sostegno e prendendo alcuni respiri profondi. Qualche secondo dopo la mano
di John strinse la sua e il suo tocco bruciò sulla sua pelle, tanto che si ritrovò
a spalancare le palpebre di colpo. Tuttavia non si staccò, nonostante il suo cuore
avesse cominciato a battere, se possibile, ancora più rapidamente.
«Ehi… guardami.»
Con il cuore in gola voltò di poco la testa, ritrovandosi
l’amico a poche decine di centimetri di distanza.
«Va tutto bene, ok? Sto bene…»
John guardava con una certa preoccupazione il suo migliore
amico: non lo aveva mai visto in uno stato del genere. Sherlock era sempre stato
quello sprizzante di energia, quello che andava dritto in faccia al pericolo senza
preoccuparsi delle conseguenze, quello che sembrava non avere paura di nulla e non
provare altre emozioni oltre all’eccitazione per qualcosa di elettrizzante. Gli
venne naturaleprenderloper mano, cercando di infondergli quel poco
di sicurezza e vicinanza che poteva. In fondo erano entrambi lì, salvi, e oltre
al grande spaventopresonon c’era nient’altro a poterli turbare.
Tuttavia, nonostante tutte le sue buone intenzioni, Sherlock
sembrò diventare ancora più a disagio, arrossendo violentemente e voltando la testa
dall’altra parte.
«Sherlock, va tutto bene. Sei terrorizzato…»
«Non sono terrorizzato.» la voce gli uscì bassa, leggermente
roca, ma ferma.
«Va bene, non lo sei.» Sospirò e aprì uno degli asciugamani
portandolo poi dietro le sue spalle, coprendolo. Gli sbottonò la camicia, invitandolo
a togliersela, e Sherlock obbedì finendo il lavoro mentre John prendeva un altro
asciugamano e glielo metteva in testa, frizionando poi con le mani per asciugargli
almeno un po’ i capelli.
«Senti… va tutto bene, davvero. Del resto ci preoccuperemodopo,ok? Ora va tutto bene, puoi tranquillizzarti.»
«Io…»
John deglutì e lo costrinse a guardarlo negli occhi.«Non dirmi che non sei spaventato, stai tremando come una
foglia. Prendi un paio di respiri profondi, ok? Siamo qui sani e salvi, entrambi,
non è successo niente, nonmièsuccesso niente. Sii razionale.»
Sherlock non poteva sopportare quella vicinanza, nonpotevae cercò di divincolarsi dalla sua stretta ma John lo tenne
fermo davanti a sé, facendolo arrossire ancora di più.
«Lasciami… per favore…»
Una stretta allo stomaco mentre il giovane Watson coglieva
l’espressione disperata dell’amico e il tono lievemente lamentoso e spaventato che
aveva assunto la sua voce. «Che cos’hai?» chiese, smettendo di strofinargli l’asciugamano
in testa e mantenendo il suo sguardo.
Sherlock fu scosso da un leggero tremore mentre percorreva
con gli occhi la bocca dai lineamenti morbidi che si era appena mossa a pochi centimetri
di distanza da lui. Provò un’improvvisa e irresistibile voglia di allungarsi e toccare
quelle labbra dolci e accoglienti, di sfiorarle con un dito per saggiarne la consistenza,
di toccarle con le propriee…
Si riscosse alla presa leggermente più forte delle sue
dita, accorgendosi di non aver ascoltato una sola parola di quello che l’altro aveva
detto nel frattempo.
«…è normale che tu ti sia spaventato, hai solo avuto paura per me.Maora è tutto a posto, ok? Sherlock?»
Il moro boccheggiò in cerca d’aria e tentò di allontanarlo
da se stesso. Prese un altro paio di respiri profondi, cercando di non pensare a
come potesse essere baciare John, a come si sarebbe sentito se l’altro avesse ricambiato,
a che cos’era quell’ondata di calore che gli lambiva il petto e il volto e che aumentava
improvvisamente la sua sudorazione corporea. «Non… Non sono spaventato.»
Il ragazzo più grande sorrise cordialmente.«Va bene, non lo sei. Allora cosa?»
Sherlock scosse la testa, passandosi la lingua sulle labbra
e chiudendo nuovamente gli occhi. «I-io…»
«Uhm…?»
Tenendo gli occhi serrati si costrinse a parlare. «Ho…»
deglutì, non sapendo come spiegarsi.
Non voleva dirgli quello che stava provando in quel momento,
non voleva ma allo stesso tempo avrebbevolutoche John capisse e che si
staccasse, che lo lasciasse solo con i propri pensieri e con quelle emozioni che
sembravano essere improvvisamente impazzite.
«Sherlock, cosa c’è? Dimmelo, vedrai che andrà meglio… posso aiutarti.»
Ebbe un tuffo al cuore e si rese conto che le gambe avrebbero
potuto benissimo cedergli da un momento all’altro. Riaprì gli occhi, tentato, e
fissò quegli occhiblu che lo guardavano sinceri
e apprensivi, quegli occhi che lasciavano intravvedere una devozione e un’amicizia
profonda. John voleva veramente aiutarlo, lo aveva seguito nel bagno perché aveva
temuto per la sua reazione, quando era fuggito dalla piscina di colpo, senza una
parola o una spiegazione.
Sherlock ricordò il contatto tra la guancia di John e il
palmo della sua mano, la sensazione di quella pelle liscia e compatta, la carezza
che involontariamente gli aveva dato per fargli tenere ferma la testa. Ricordò i
suoi occhi spaventati e lievemente appannati dalla droga che avevano usato per addormentarlo,
il sollievo che gli aveva disteso i muscoli del volto nel vederlo sopra di lui,
come se la sola vista di Sherlock avesse potuto rassicurarlo sulla sua sorte. Il
moro si sentì vagamente girare la testa mentre la sua mente non sembrava far altro
che regalargli il ricordo di tutte quelle volte in cui era entrato in contatto con
John, un lieve sfregamento di mani o anche soltanto un fugace sguardo nella mensa.
Possibile che quello che sentiva nei suoi confronti fosse più che semplice amicizia?
Sherlock non aveva mai provato niente di simile in vita sua, non aveva altro con
cui paragonare la sua situazione e cominciava quasi ad averne paura.
Avrebbe volutolasciar
perderetutto quello che sentiva dentro di sé, avrebbe voluto affidarsi alla sua tanto
amata ferrea logica e poterci ragionare su con calma, ma non poteva dimenticare
le sue pupille dilatate, il suo battito cardiaco accelerato. Il suo poteva benissimo
essere un sintomo di paura, ma non aveva mai provato un terrore così radicale, per
niente: evidentemente solo John era riuscito a farlo preoccupare a tal punto da
arrivare al bagno in quello stato. Lo stesso John che ora lo teneva fermo, attaccato
a una porta, a pochi centimetri di distanza dal suo viso.
John osservava Sherlock, passando lo sguardo su quel volto
bagnato, sul colorito pallido della sua fronte. Sentiva il corpo gracile dell’amico
sotto le sue dita tremare lievemente e vedeva con chiarezza il disagio sul suo volto,
ma non riusciva a capirne il perché. Lui era sano e salvo, non gli era successo
niente di grave e Sherlock non avrebbe dovuto perdere il controllo per una sciocchezza
del genere. Che cosa gli stava succedendo?
«John…» Quello di Sherlock fu solo un debole sussurro che
colpì John proprio per il suo tono basso e quasi stanco.
«Sì?» Il ragazzo deglutì a forza mentre qualcosa gli si
agitava nel profondo.
«I-io…» Gli occhi di Sherlock vagarono freneticamente
sul viso dell’altro, in cerca di una rassicurazione che non riusciva a trovare.
Si concentrò sul tocco di John sulla sua nuca, del calore che sentiva nella vicinanza
con il suo corpo.
Aprì nuovamente le labbra per parlare ma dalla gola non
uscì alcun suono.
E poi, avvenne.
Successe tutto nel giro di pochi secondi e in seguito Sherlock
sarebbe riuscito a ricordarli precisamente in ogni loro millesimo.
In quell’istante ogni più piccolo pensiero che vorticava
nella testa del giovane sembrò sparire, ogni porta del suo palazzo mentale si chiuse
di scatto, ogni possibilità di controllo sembrò sparire in una bolla di sapone.
Un attimo prima era attaccato alla porta, spaventato e
insicuro, un attimo dopo si era spinto in avanti, annullando ogni distanza, occupando
l’aria fra loro, ricercando un contatto che non aveva mai avuto ma che in quel momento
sembrava desiderare con tutto se stesso.
Le labbra dei due ragazzi si scontrarono dolcemente.
Sherlock sentì un brivido percorrerlo da capo a piedi,
sentì il calore delle labbra dell’altro sulle sue e qualcosa partire dal suo petto
e irradiarsi per tutto il resto del corpo. Più che la sensazione del bacio in sé,
Sherlock riuscì a focalizzare la sensazione di essere lì, di starlo facendo, di
star baciando John. Era lui il suo unico problema, era lui che, con la sua presenza,
faceva in modo che fosse speciale. In seguito Sherlock avrebbe capito che con nessun
altro una cosa del genere avrebbe potuto funzionare.
John, del canto suo, colse appena il movimento improvviso
dell’amico e ne rimase a dir poco sorpreso. Un attimo prima lo stava guardando,
un attimo dopo lo avevapraticamenteaddosso.
Il suo cuore perse un battito non appena le labbra di Sherlock
si posarono sulle sue e, nella momentanea sorpresa, John non riuscì a far altro
che spalancare gli occhi e rimanere immobile. Sentì le labbra dell’amico premere
contro le sue e tutto quello cui riuscì a pensare fu a che cosa diavolo stesse succedendo.
Rimase bloccato sul posto, incapace di fare alcun che, lasciando che le loro labbra
rimanessero a contatto, in un bacio che era solo un lieve tocco, una morbida carezza.
Non era niente, ma nel frattempo era tutto.
Rimasero nella stessa posizione per qualche secondo, poi
John sembrò riscuotersi improvvisamente e con una lievespintadelle mani allontanò Sherlock da sé, lo spinse verso la
porta con poca gentilezza e fece un passo indietro.
Il moro sbatté lievemente la testa contro il legno, annaspando
per l’improvviso spostamento d’aria e sentendo tutto il calore del corpo di John
svanire in un attimo, lasciandolo preda di un’aria che non gli era mai sembrata
più fredda.
Rimasero a fissarsi immobili, Sherlock che realizzava improvvisante
le conseguenze delle sue azioni e John che sentiva il proprio corpo irrigidirsi,
quasi che temesse una nuova mossa poco desiderata dell’altro.
Il giovane Watson si vide passare davanti mesi emesid’insulti, di occhiate, di sguardi distolti all’ultimo
secondo, di momenti d’imbarazzo e di parole, discorsi, dicerie. Lui che aveva fatto
di tutto perché Sherlock potesse non essere più preso in giro, lui che aveva pensato
che tutto dovesse essere solo un pensiero distorto di persone che non riuscivano
a capire e comprendere a fondo il suo amico. Lui che aveva fatto di tutto per Sherlock,
che lo aveva aiutato, che gli aveva tenuto compagnia, chegli era stato affianco nonostante quello che gli gridavano
dietro. Sentì qualcosa di molto simile alla rabbia salirgli addosso mentre realizzava
quanto appena successo.
Sherlock lo aveva baciato.
Lui, un ragazzo, era stato baciato da un altro ragazzo.
Sherlock, a dispetto di tutto quello che aveva creduto
in quei mesi, eragay. Era attratto da lui.
In seguito ci avrebbe pensato, avrebbe indugiato su quel
particolare momento della sua vita, avrebbe capito molte cose e non ne avrebbe capite
altre, ma in quel momento tutto quello che riuscì a fare fu compiere alcuni passi
indietro, allontanarsi dal suo amico e raggiungere la porta.
Sherlock spalancò la bocca in un muto richiamo, il volto
improvvisamente pallido, ma prima che potesse dire qualcosa, John si era già girato
ed era sparito nel corridoio.
La porta si richiuse con un sonoro schiocco e Sherlock
scivolò lungo la porta, fino a sedersi a terra, tremante, più confuso che mai.
E lì rimase.
Note:
5646. Nella tastiera di un cellulare il codice di apertura
dell’armadiettodiSherlock corrisponde alle lettere J O H N.
e lo era aspettato: un giorno, due, tre; anche
cinque o una settimana, ma non tutto quel tempo, non tre settimane di assoluto silenzio.
Tutto era silenzioso, tutto ciò che riguardavaJohnera diventato silenzioso: non c’erano più chiacchierate,
niente più sfioramenti indiscreti, perfino niente più sguardi.
Non si erano più visti dopo quel momento nel
bagno: John non era più andato al laboratorio dopo le lezioni pomeridiane e Sherlock
aveva semplicemente aspettato, speranzoso. Invano.
Il giorno subito dopo quello stupido bacio
– perchéerastato questo alla fine, uno
stupido sfioramento di labbra che aveva portato fine alla loro amicizia – Sherlock
era arrivato a scuola con l’intenzione di chiarire le sue intenzioni del pomeriggio
precedente, non appena John fosse arrivato al laboratorio. Malui non si era presentato.
Allora aveva aspettato il giorno successivo
e, dopo aver preso le proprie cose dall’armadietto, si era diretto verso ilcorridoio dovec’era quello di John, e lo aveva visto lì,
in compagnia di Mary, a sorridere e chiacchierare allegramente. Sherlock si era
avvicinato risoluto, proprio mentre i due cominciavano a incamminarsi mano nellamanonella sua direzione per andare in classe, e
incrociato lo sguardo dell’amico aveva aperto bocca per parlare, per pronunciare
il suo nome e richiamare la sua attenzione, ma l’altro aveva distolto lo sguardo
e aveva puntato dritto, schivandolo dietro a un’altra coppietta e dirigendosi in
tutta fretta verso il punto da dove Sherlock era arrivato. Il moro lo aveva guardato
sparire dietro l’angolo con aria impassibile mentre, invece, dentro si sentiva cadere
a pezzi.
Era andata avanti così per una settimana, con
Sherlock che cercava ogni occasione possibile per parlargli, che lo cercava all’inizio
e alla fine delle lezioni o durante le pause pranzo, e con John che non lo degnava
di uno sguardo, che lo evitava e faceva come se non esistesse.
Poi Sherlock aveva smesso di cercarlo, si era
rinchiuso in se stesso e aveva cercato in tutti imodi unavia di fuga da quello che si sentiva dentro.
Dare ascolto ai propri sentimenti non è un
vantaggio.
Le parole di suo fratello continuavano a rimbombargli
in testa ogni volta che il volto di John gli tornava alla mente. Lui, Sherlock,
il ragazzo intelligente e razionale che faceva di tutto per coprire le proprie emozioni,
era stato preso in giro e spezzato proprio da quest’ultime.
Si sentiva uno stupido. Nella sua eterna lotta
per diventare migliore di suo fratello, fin da bambino lo aveva ascoltato e aveva
chiuso tutto ciò che riguardava la sfera dei sentimenti per potersi concentrare
maggiormente sulla sua mente, su ciò che essa era in grado di fare, osservando,
analizzando, catalogando e deducendo. Si era allenato nella memorizzazione di particolari
suparticolari, cercando di fare il possibile
per diventare il migliore. Mycroft era il più intelligente della famiglia, quello
che a cinque anni leggeva già da solo il racconto di Natale di Dickens, quello che
in sesta sapeva dimostrare i teoremi di Euclide e calcolarela forza pesoesercitata da un dado su un asse inclinato
di sessanta gradi.
Sherlock lo aveva osservato fin da bambino,
prendendolo come esempio da seguire, e tra loro era nata la classica rivalità tra
fratelli, solo che nel loro caso si trattava di una rivalità a livello mentale,
una gara a chi sarebbe diventato il più intelligente.
Tuttavia il giovane Holmes era entrato nell’età
adolescenziale e i suoi bisogni fisici e affettivi si erano fatti presto sentire.
Aveva provato a rinchiuderli in un angolo del suo palazzo mentale, aveva provatoadescluderli dalla sua vita – anche ricorrendo
a metodi per niente salutari – ma non ci era riuscito, neanche imparando la lezione
in ben più di un caso.
Con John eradecisamentearrivato all’apoteosi della sua stupidità.
In preda a quei dannati bollori adolescenziali,
Sherlock si era spesso ritrovato a fantasticare riguardo a una sua possibile esperienza
sessuale. Bambino dentro in quanto a relazioni, non aveva potuto oltremodo resistere
al suo cambiamento fisico e si era ritrovato a dover soddisfare ben più di una volta
il suo corpo.Macon John era diverso.
Non aveva mai sentito il bisogno di baciare,
ilbisognodi un gesto così delicato
ma pieno di significato, né di passare il proprio tempo con qualcuno: quello era
stato in assoluto il primo caso.
Tutta l’adrenalina provata nella corsa verso
la piscina, la paura che lo aveva stretto in una morsa nel saperlo in pericolo,
il sollievo nel vederlo sano e salvo: erano tutti fattori che avevano contribuito
a quel gesto inutile e insensato.
Ora si sentiva terribilmente solo e, odiava
ammetterlo, gli mancava, ma soprattutto sapeva che il ragazzo non sarebbe più tornato
da lui e forse era questa la cosa che faceva più male. Sapeva che era arrabbiato
con lui, che era tutta colpa sua, e quel peso gli gravava addosso, sopraffacendolo.
Rivoleva John indietro, come prima, non voleva nient’altro.
Ogni tanto lo vedeva da lontano con Mary e
qualcosa nel suo petto bruciava terribilmente. Sapeva che era gelosia, ma nemmeno
lui riusciva a capacitarsi di poter provare un sentimento del genere. Una volta
li trovò pure dietro un angolo a scambiarsi effusioni e non resistette all’impulso
di andarsene da lì al più presto.
Praticamentetutte le sere, si sdraiava sul letto e si lasciava
andare al ricordo di quell’unico, dannato bacio, ripensava al tocco delle labbra
di John sulle sue, a quel breve ma intenso contatto, e inevitabilmente finiva per
il fantasticarci sopra, pensando a come sarebbe potuto essere se l’altro avesse
ricambiato, a cosa sarebbe successo se John fosse stato attratto da lui. Poialmattino finiva per pentirsene, arrivando a
scuola con la sola voglia di tornare indietro nel tempo fino alla festa di Clara.
Anzi, sarebbe statodecisamentemeglio se non si fosse lasciato
trascinare a quella festa, se invece fosse rimasto a casa sua a leggere l’ennesimo
giallo o le strisce di cronaca nera sulTimes.
Si era sentito in quel modo anche altre volte,
alcune neerauscito indenne, altre un
po’ meno.
A tre settimane dal bacio cercava ancora un
modo per dimenticarlo, perdendo puntualmente la sfida ogni sera, quando la sua mente
doveva spegnersi per riposare almeno qualche ora e la sensazione delle labbra di
John sulle sue diventava l’unica cosa in grado di calmarlo. In qualche modo il pensiero
di quell’istante di felicità riusciva a tranquillizzarlo, a fargli dimenticare anche
solo per qualche minuto tutto quello che era successo dopo, in quelle lunghe settimane
solitarie.
Un pomeriggio Sherlock si ritrovò senza volerlo
nei pressi del campo di allenamentodellasquadra di rugby, proprio nel momento in cui i Blackheath, finita l’esercitazione,
uscivano dagli spogliatoi per dirigersi a casa.
Ignorando quella parte di cervello che gli
suggeriva di allontanarsi di lì al più presto, proseguì dritto per la sua strada
verso una delle uscite secondarie della scuola e, inevitabilmente, catturò l’attenzione
di qualcuno della squadra che gli gridò da lontano: «Vieni a rifarti gli occhi,
Holmes?»
Il moro evitò accuratamente di prestargli la
benché minima attenzione, econtinuò a camminare a passo
sostenuto, gli occhi incollati alla sua meta.
Maevidentemente la squadra non si era abbastanza
stancata in campo, perché sembrava ancora in vena di giocare al gatto e il topo
con lui.
Aveva quasi raggiunto il cancello d’uscita
quando due mani ferme lo afferrarono per le spalle e con ben pocagentilezzalo sbatterono contro il muro dell’edificio
lì vicino. Per un attimo Sherlock si sentì il respiro mozzato per il colpo appena
preso e i libri chetenevain mano caddero a terra in
uno svolazzo di fogli. Boccheggiò in cerca d’aria e si ritrovò il corpo massiccio
di Harry Smith a pochi centimetri, una delle sue mani premute sul collo e una sulla
spalla per tenerlo inchiodato al muro.«Come mai questa visitaverginello? Ammetto che non avevo voglia di venirti a
prendere a pugni, ma sai com’è… hai una certa attrazione per i cattivi ragazzi…»gli soffiò a pochi centimetri
dal collo.
Sherlock prese un debole respiro, arricciando
il naso all’odore acre di sudore che emanava il ragazzo e strinse i denti mentre
avvertiva il gruppo di compagni avvicinarsi dietro il suo aggressore.
«Ora non c’è John a salvarti la pelle, eh?»
gli rise addosso e Sherlock per un attimo si sentì sprofondare nel terreno al sentire
quel nome.
«Non ho bisogno di nessuno per dirti che diventi
ogni giorno più cretino.» ribatté stizzito.
Smith rise di gusto a quelle parole e si girò
verso gli altri. «Cretino?» tornò a guardarlo con disprezzo. «Hai paura chedicendoqualche brutta parolina tua madre ti prenda
a calci in culo?»
Sherlock cercò di divincolarsi dalla stretta
ma tutto quello che ottenne fu una presa più salda al colletto della giacca. «Lasciami…»
sibilò a denti stretti.
L’altro rise, seguito dai compagni.«Cazzo, che paura! Holmes potrebbe uccidermi, aiuto ragazzi!»disse con una falsa voce
spaventata.
E il moro non resistette più alla tentazione.«Ci provi gusto a trattarmi così, vero? È quello che vorresti
fare all’amante di tuo padre, forse? Non è colpa mia se nel bel mezzo della sua
felice vita da sposato con due figli si riscopre esseregaye comincia ad uscire con un vecchio amico di
liceo. Scommetto che non ti è piaciuto scoprire che ci va a letto insieme, per non
parlare del fatto che secondo gli idioti come te l’omosessualità sarebbe una malattia,
e ti consiglierei di stare attento, perché potrebbe essere una malattia genetica
e in talcas-» Aveva detto tutto nel giro
di qualche secondo, sputando fuori le parole come in un discorso imparato a memoria,
ma prima che potesseconcluderela frase arrivò il dolore.
Un colpo, due, tre dritti allo stomaco. Rimase
senza fiato per qualche secondo. Rantolò e la sua presa sui vestiti di Smith si
allentò del tutto.
Un calcio alle gambe, un
pugno alla mandibola.
Ora Smith non si preoccupava neanche di tenerlo
su così siritrovòper terra, carponi, le braccia
sollevate sopra la testa nel tentativo di proteggersi da altri colpi.
Sentiva dolore, dappertutto, e i colpi sembravano
non finire mai. Strinse gli occhi, raggomitolandosi su se stesso e aspettando che
succedesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Harry si fermò e rimase lì, ansimante, a fissarlo
rabbioso, il volto rosso per l’indignazione.
Sherlock alzò di poco lo sguardo, titubante,
il dolore che lo attraversava da parte a parte.
Non l’avesse mai fatto.
Smith lo tirò su un’altra volta, ringhiandogli
controad unsoffio dal viso. «Ripeti
quello che hai detto se hai il coraggio…»
Nonostante le parole premessero sulle sue labbra
per uscire, Sherlock non ebbe la forza di spiccicare parola, soprattutto quando
oltre la spalla del suo assalitore riuscì a vedere una bionda tirare per la manica
il proprio ragazzo.
Per un attimo tutto intorno a lui si fece muto
mentre i suoi occhi incrociavano quelli di John, in piedi poco lontano, fermo sul
posto come imbambolato. In quell’istante ogni dolore sembrò svanire nel nulla: John
sarebbe arrivato, ne avrebbe dette quattro a Smith, magari lo avrebbe anche messo
a terra, finendo ciò che aveva iniziato solo qualche settimana prima; lo avrebbe
salvato, si sarebbe chinato sopra di lui e si sarebbe offerto di portarlo in infermeria,
sostenendolo lungo il tragitto; sicuramente si sarebbe scusato per quelle settimane
di silenzio, magari avrebbe potuto spiegargli il perché delle sue azioni; sarebbero
tornati amici, come una volta.
Fu solo un istante, un unico breveistantedi speranza.
John deglutì, Sherlock lo vide pure da quella
distanza mentre ogni fibra del suo corpo gridava aiuto.
Poi John distolse lo sguardo e si girò.
In un attimo fu come se tutto il mondo intorno
a lui crollasse, come se un terremoto gli squassasse il corpo, come se tutto intorno
a lui cessasse di esistere. Il cuore perse alcuni battiti e un dolore tutt’altro
che fisico si sommò a tutti gli altri. Le gambe gli cedettero del tutto e si ritrovò
a scivolare all’indietro, mentre un gemito strozzato gli usciva dalle labbra.
Chiuse gli occhi e si allontanò dalla realtà,
escludendo tutto ciò che non riguardasse quell’unico momento di speranza che aveva
avuto, mentre nuovi colpi si susseguirono agli altri, aumentando di secondo in secondo.
Madi tutto quello che gli fecero, lui non sentì
nient’altro.
Rannicchiato su se stesso in posizione fetale,
Sherlock tremava febbrilmente. I denti battevano l’uno sull’altro, le mani strette
a pugno sotto il mento tremavano incontrollabili. Le lacrime scendevano rigandogli
il volto, e andavano a finire tra i suoi capelli, inumidendoli.
Il suo lungo cappotto nero fungeva da unica
copertura sotto la quale rifugiarsi, cercando un conforto nella poltrona rossa del
salotto di BakerStreetche nessuno in quel momento
poteva dargli.
Il suo corpo era un dolore unico, indolenzito
dai colpi ricevuti, ma niente poteva essere messo a confronto con quello che sentiva
dentro. Stava male, troppo.
Quasi non sentì i passi sulle scale, perso
nei suoi pensieri, ma quando liregistròchiuse con forza gli occhi,
bloccando come poteva i singhiozzi che gli uscivano dalle labbra, stringendosi ancora
di più su se stesso.
La voce di Mycroft risuonò forte e sicura all’interno
della stanza.
«A casa. Ora.»
~*~
Quando John si rese conto delle conseguenze
delle sueazioniera ormai troppo tardi.
La verità era che non aveva saputo come comportarsi,
qualcosa lo aveva bloccato dall’andare avanti e lasciarsi quel bacio alle spalle,
qualcosa che non era per niente in grado di definire.
Aveva passato una notte di sonno agitato per
quel continuo pensiero che non smetteva di ronzargli in testa: la sensazione delle
labbra di Sherlock sulle sue, il volto a pochi centimetri di distanza, il naso che
aveva gentilmente stuzzicato il suo in una lieve carezza quando si era avvicinato.
John sapeva che quello che era successo era
in buona parte per colpa sua: era entrato in quel bagno seminudo, aveva iniziato
a spogliare Sherlock, aveva frizionato l’asciugamano sui suoi capelli come avrebbe
potuto benissimo fare una madre premurosa. Era stato forse troppo per il ragazzo?
Aveva dimostrato qualcosa che poteva andare oltre l’amicizia incoraggiandolo a compiere
quel gesto sfrontato? Ma soprattutto, comeaveva
potutonon accorgersi che i sentimenti di Sherlock nei suoi confronti erano arrivati
ad un tale livello?
John aveva avuto paura. Non gli piaceva ammetterlo,
ma alla fine era questo che era successo. Aveva avuto paura perché nonavevasaputo come reagire.
Cosa potevamai fare ora che il suo migliore amico si era
rivelato in quella maniera?Cosa dovevafare John, adesso che Sherlock
aveva voluto avere di più di quello che poteva offrirgli?
John aveva paura di parlargli ora, aveva paura
anche solo di vederlo per dover affrontare un discorso chesapevasarebbe andato a finire male comunque.
Che cosa mai poteva succedere in una situazione
del genere? Avrebbe potuto procedere come da manuale, come avrebbe potuto fare con
una qualsiasi ragazza che gli andava dietro. I soliti discorsi senza capo nécoda,della serie “mi dispiace ma non siamo fatti
l’uno per l’altra”, un mezzo sorrisetto timido… e poi? Poi il silenzio più totale,
l’imbarazzo del dover parlare con quel qualcuno che sai che ti vede con un’angolatura
diversa, che sai che non può accontentarsi soltanto di quello che già avete. John
non riusciva a vedere un modo per uscirne dopo una cosa del genere, neanche cambiando
l’oggetto del suo pensiero con una delle sue ex. Gli bastava pensare a Sarah, con
lei era andata esattamente così: le solite frasi fatte buttate lì come niente e
poi basta; non più un saluto, non più un’occhiata o un semplice sorriso a distanza.
Rivolgendosi al volto di Mary, John riusciva
quasi a immaginarsi come sarebbe potuto andare un discorso così con lei:avrebbe potutoandare da lei e parlarle, magari lontano da
occhi indiscreti; avrebbe tentato di essere il più gioviale possibile, cercando
di metterla a suo agio e di non essere troppo incisivo con il suo rifiuto; avrebbe
chiarito le cose come stavano, le avrebbe fatto presente che le piaceva la sua compagnia,
che a lei non voleva rinunciare e che potevano essere quello che erano sempre stati,
amici.
Ma poi si rese conto che un
discorso del genere aveva ben poco a che fare con Sherlock. Si sarebbe per caso
comportato in quel modo con qualcuno verso il quale non provava il minimo interesse?
Sarebbero andate veramente così le cose se l’oggetto dei suoi pensieri fosse stato
una ragazza a caso della scuola? Il solo pensiero di comportarsi così con lei gli
faceva venire i brividi.
E con l’amico non era da meno.
Mary era quella ragazza che aveva desiderato
per tre lunghi anni, quella ragazza che aveva osservato e ammirato in silenzio,
aspettando il momento giusto per farsi conoscere e invitarlaaduscire. Erapraticamenteovvio che usando lei come esempio le cose sarebbero andate così: la sua presenza
non era una cosa che gli creava imbarazzo perché ne era a sua volta attratto. Non
poteva provare a fare un simile discorso con Sherlock, non poteva perché l’imbarazzo
sarebbe stato veramente troppo e sapeva che la loro amicizia sarebbe finita comunque.
La sua compagnia sarebbe stata troppo pesante, troppo difficile da sopportare, e
avrebbero finito con l’allontanarsi in ogni modo.
Masi sa che, inevitabilmente, cercando di fare
le cose per il meglio, si finisce sempre per sbagliare qualcosa; John non fu da
meno.
Si ritrovava davanti all’ostacolo di dover
affrontare un problema e di non avere i mezzi per superarlo. Che cosa avrebbe dovuto
fare?
Avrebbe dovuto prepararsi un discorso, cercare
accuratamente le parole con cui esprimersi e le espressioni più delicate per dirgli
che una situazione del genere non era accettabile. Avrebbe dovuto dirgli che si
era sbagliato, che tra loro non c’eraaltro
che semplice amicizia, che forse era stato anche un errore di John, ma che non
era sua intenzione andare oltre quella condizione di pura simpatia, di affetto reciproco.
Costruire un discorso del genere non era una
cosa semplice: richiedeva molta attenzione e una buona dose d’ispirazione. Non era
il genere di cose che il giovane Watson era abituato a fare.
Avrebbe dovuto evitare di deludere il suo amico,
avrebbe dovuto far sì che nelle sue parole non ci fosse alcuna esitazione, che esse
mettessero bene in chiaro la situazione senza lasciare spiragli di speranza su qualcosa
che non sarebbe mai potuto accadere.
Perché, diamine, lui non era gay. Come poteva Sherlock anche solo pensare chepotessediventarlo solo per lui? John non provava nessuna
attrazione nei suoi confronti, non aveva mai sentito il desiderio diprenderlo tra le bracciae baciarlo, di trattarlo
come avrebbe fatto con una qualsiasi sua ragazza. Il solo pensiero gli dava i brividi;
lui non eragay, non lo era mai stato, perché
sarebbe dovuto diventarlo tutto in un colpo? Semplicemente, non riusciva a concepire
l’idea di un cambiamento così radicale.
E forse, in fondo, un po’ di quella paura arrivava
anche da quel terribile cambiamento che una situazione del genere avrebbe richiesto:
essere all’improvviso attratto da un ragazzo del suo stesso sesso non era una cosa
da nulla.
John aveva paura anche solo a pensareaduna cosa del genere.
Il giorno seguente al bacio non ebbe la forza
di presentarsi al laboratorio.
Il giorno dopo ancora, il ragazzo non aveva
ancora un’idea chiara di come comportarsi e quandoincrociòil giovane amico non trovò soluzione migliore
di quella di ignorarlo. Non avrebbe voluto farlo, sapeva che in qualche modo non
era una cosa buona, ma nel panico che lo assalì in quelmomentofu l’unica cosa che riuscì a fare.
Nei giorni seguenti la storia si ripeté uguale,adogni ora: a John pareva di vedere riccioli
castani dappertutto ora e non capiva se era lui a star impazzendo o se effettivamente
Sherlock lo stava pedinando.
Una settimana dopo girava ancora di soppiatto
per i corridoi, controllando ogni volta con attenzione che il ragazzo non fosse
nei paraggi. Non era ancoradecisamentepronto ad incontrarlo.
Una sera dopotante, a malincuore – il suo buonsenso gli diceva
ancora che si stava comportando nel modo sbagliato – prese forse una delle decisioni
più meschine che gli fossero mai passate per la testa: decise di tagliare definitivamente
i ponti con Sherlock, di non rivolgergli più la parola e di lasciarlo andare per
la sua strada. Aveva passato dei bei momenti con lui, era arrivato perfino al punto
di definirlo il proprio migliore amico; ma avevano superato il limite. Non era più
possibile continuare una storia del genere, non in quel modo. Rischiavano solo di
rovinare ancora di più la faccenda e di rovinare quello che c’era stato fino a poco
tempo prima. John avrebbe mantenuto il ricordo di quei pomeriggi passati all’insegna
dello studio e dei pazzeschi ragionamenti del suo amico.
Un giorno, almeno diquesto neera sicuro, gli avrebbe parlato, gli avrebbe
spiegato. Quando il tempo avrebbe lavato via parte dell’imbarazzo, allora sarebbe
arrivato il momento per chiarirsi.Maper il momento, John voleva rimanere tranquillo e in pace con se stesso.
Ora che si era tolto almeno un peso dal cuore
gli sembrava molto più facile ignorare l’amico. Procedeva per inerzia, ripetendo
sempre le stesse cose. Evitava accuratamente di passare nei dintorni del laboratorio
e quando sispostavacercava di farlo sempre in
compagnia; sapeva che da solo sarebbe stato una preda più facile. Di certo Sherlock
non avrebbe parlato nel bel mezzo di un gruppo di ragazzideiBlackheath.
Diquello
neera certo, o almeno lo fu fino a quando un pomeriggio, uscendo da un allenamento
meno stressante degli altri, non sentì lo schiamazzo dei suoi compagni di squadra
poco lontano da lui. Si trovava mano nella mano con Mary ed era diretto verso la
fermata più vicina dell’autobus, il quale secondo gli orarisarebbe dovutopassare di lì a pochi minuti. Stavano camminando
in fretta e per questo John si girò solo per qualche secondo, giusto il tempo perdare un’occhiata allasituazione in corso.
Non l’avesse mai fatto.
Si ritrovò bloccato in mezzo alla strada, gli
occhi che si spalancavano e il cuore che cominciava a battergli a mille nel vedere
la figura pallida del suo amico vittima per l’ennesima volta dei colpi dei compagni.
Inevitabilmente ricollegò subito la situazione a quel giorno di qualche settimana
prima, quando in una circostanza simile si era fatto coraggio e aveva fermato i
suoi amici, salvandolo da altri inutili colpi. In quel momento provò l’irresistibile
voglia di intervenire, ma il pensiero di quello che era successo e la ragazza che
al suo fianco lo stava tirando per una manica loriportaronoalla realtà.
«Andiamo, John! Perdiamo l’autobus!»
E il ragazzo, dopo un attimo d’indecisione,
chiuse gli occhi ancora una volta, lasciando che il destino facesse il suo corso,
e si allontanò dalla scena.
Il peso di ciò che aveva fatto non lo abbandonò,
e se primagli era sembrato di poter tirare
un sospiro di sollievo alla sua decisione di definitivo allontanamento, ora tutto
gli era tornato in mente e non riusciva più a fare niente per scacciare quel senso
di colpa che lo opprimeva. Ora, oltre al bacio e al suo silenzio doveva fare i conti
anche con fatto di non aver fermato la squadra di rugby dal prenderlo a pugni.
Così, facendo di tutto pur di non pensarci,
finiva sempre per tornare con la mente a quel pomeriggio. Il bacio era il primo
tra i suoi pensieri ovviamente, ma un’altra cosa alla quale continuava a pensare era
ciò che era accaduto prima. Chi mai aveva voluto addormentarlo e buttarlo in mezzo
a una piscina? Chi aveva voluto ucciderlo?
Ricordava perfettamente di essersi lasciato
alle spalle i propri compagni di squadra dopo essere uscito dall’ufficio delcoach, dal quale era andato per scusarsi e chiedere
di essere nuovamente ammesso agli allenamenti, e poi ricordava due mani che lo afferravano
per le spalle mentre si stava dirigendo con calma verso le scale d’ingresso e il
lieve pizzicore dato dalla punta di un ago che si andava a conficcare in un punto
imprecisato del collo.
Poi ricordava l’acqua che si chiudeva sopra
di lui, che lo lambiva tutto intorno, insinuandosi ovunque poteva e soffocandolo.
Aveva aperto gli occhi, aveva scalciato con tutte le sue forze per risalire in superficie,
cercando di ignorare il panico improvviso.Masi era accorto di non riuscire a muoversi molto bene, di non essere in grado
di controllare i propri arti superiori o inferiori. A quel punto il panico lo aveva
assalito davvero e nello stato di semicoscienza in cui ancora si trovava, aveva
continuato a scalciare e sbracciarsi, per quel che poteva, inalando aria ogni qual
volta ci riusciva, insieme anche a una gran quantità d’acqua. Non sapeva quanto
tempo aveva passato in quelle condizioni, sicuramente erastatauna questione di neanche un minuto, e, quando
aveva sentito le braccia di Sherlock che lo stringevano, il sollievo lo aveva invaso.
Non poteva non ammettere che l’amico gli aveva
salvato la vita, e forse quel pensiero era uno dei tanti che lo accusavano per il
suo prolungato silenzio e per il suo non-intervento all’uscita degli allenamenti.
Quando ripensava allapiscinanon poteva fare a meno di chiedersi se Sherlock
avesse già risolto il problema, se avesse scoperto chi era stato il suo aggressore.
La nostalgia per le loro avventure era impossibile da scacciare.
Si era talmente abituato all’idea di ignorarlo
che, tre settimane dopo l’incidente, si rese conto di qualcosa che stonava nella
sua solita routine quotidiana, che qualcosa mancava.
La prima campanella d’allarme la ebbe quando un giorno,
a mensa, il suo sguardo scivolò come di consueto verso il posto occupato solitamente
da Sherlock. Si diceva di farlo solo per essere sicuro di non essere preso di sorpresa:
un continuo controllo silenzioso per rimanere tranquillo.
Maquel giorno il suo sguardo scivolò su un posto
vuoto.
Si bloccò di colpo, smettendo addirittura di
ascoltare il Rosso che parlava vivacemente al suo fianco, mentre i suoi occhi volavano
da una parte all’altra della stanza, cercando con attenzione quei riccioli castani
checonoscevacosì bene. Si riscosse dal
suo pensiero solo quando qualcuno lo scosse per una spalla, richiamandolo all’attenzione,
ancora senza aver trovato una sola traccia della presenza dell’amico.
In quel momento non fece altro che stringersi
nelle spalle: dopotutto Sherlock era sempre stato un ragazzo abbastanza strano,
poteva benissimo aver scelto di saltare il pranzo, quel giorno. Bastò quel pensiero
a tranquillizzarlo, almeno un poco, e l’immagine del ragazzo scivolò via dalla sua
mente per le ore successive.
Il giorno dopo, però, Sherlock non c’era ancora:
il suo posto, un tavolo isolato dal resto della sala, in un angolo all’ombra di
una parete rientrante, era ancora vuoto.
Qualcosa cominciò a smuoversi dentro di lui
ma ancora una volta allontanò il pensiero dalla mente,dando la colpadi quell’assenza a qualche futile motivo, come
una malattia o un cambiamento nell’orario scolastico.
La stessa storia si ripeté per i tre giorni
a venire. John continuava a ignorare quel peso che gli gravava sulle spalle, quel
senso di colpa che non lo lasciava mai andare. C’era quella strana sensazione, ostile
quasi, quel dubbio chesi insinuava nelle sottili crepe
del suo animo confuso: e se Sherlock se ne era andato per colpa sua?
Una settimana dopo non c’era ancora alcuna
traccia del ragazzo.
Fu solo in un pomeriggio tra tanti, uno dei
più noiosi che avesse mai passato, che John si ritrovò nei pressi del laboratorio,
e, prendendo il coraggio a quattro mani, decise di entrare. Si sarebbe solo affacciato,
giusto per controllare che effettivamente Sherlock non ci fosse. Perché non poteva
essere lì, no? Era passato molto tempo dall’ultima volta che lo aveva visto, non
era possibile che il ragazzo fosse tornato a scuola e che lui non lo avesse ancora
scorto tra le decine di studenti che affollavano la scuola. Aveva avuto buon occhio
per questo.
Aprì la porta e fece qualche passo all’interno
della stanza, guardandosi intorno con attenzione. Anche quell’ultima fievole speranza
di vedere il giovane amico appollaiato sul suo solito sgabello, però, svanì nell’istante
esatto in cui i suoi occhi scorsero la figura minuta di una ragazza china su un
microscopio.
Molly Hooper lo sentì entrare e alzò lo sguardo
di riflesso, scrutandolo attentamente con i suoi occhi castani chiari. Aveva un’espressione
di muto stupore dipinta sul volto e rimase a fissarlo in silenzio, con una punta
di curiosità.
«Scusami…» John deglutì, abbassando il capo.«Non volevo disturbare. Mi dispiace…»disse. Aprì e chiuse la manosinistra unpaio di volte, in un chiaro gesto nervoso,
poi alzò nuovamente lo sguardo e aprì la bocca, come se volesse dire qualcos’altro,
ma si bloccò. Richiuse le labbra erimasequalche secondo in silenzio, poi annuì tra sé e sé e si girò. Aveva già abbassato
la maniglia della porta quando la voce della ragazza lo bloccò.
«Lo stai cercando, vero?»
Molly non era stupida, aveva chiaramente inteso
le reali intenzioni del ragazzo e non era riuscita a fare a meno di dirglielo. Il
ricordo dello sguardo afflitto di Sherlock era ancora troppo vivido perché potesse
dimenticarlo.
John deglutì a vuoto e scosse la testa senza
convinzione.«No. Stavo solo…» le parole
gli morirono sulle labbra ancora prima che riuscisse aconcluderela frase.
Molly sorrise lievemente. «Non viene più a
scuola da quasi due settimane ormai…» continuò, tornando però conliocchi al suo lavoro. «Non so perché e non so
dove sia, purtroppo… mi dispiace.»
Il ragazzo annuì. «Io…» sospirò. «Grazie.»
Esitò sul posto, incerto su cosa dire. «Non è che… se per caso lo vedi, o torna,
insomma…»
Molly scosse tristemente la testa.«Dubito che lo rivedrò. Perché non chiedi a Lestrade? Lui
è in buoni rapporti con la famiglia Holmes, potrebbe saperne qualcosa…» Sorrise
cordialmente e lo salutò con un gesto del capo, tornandoadoccuparsi delle sue cose.
John rimase un attimo a guardarla in silenzio,
poi emise un “grazie” a mezza voceeduscì dal laboratorio.
La curiosità e il senso di colpa erano ormai
diventati troppo pesanti da sopportare, e John, nonostante ciò che si era ripromesso,
non poté fare a meno di seguire il consiglio di Molly.
Il giorno dopo, alla fine dell’ultima ora di
lezione primadellapausa pranzo, si tenne distante
dai compagni di squadra, attardandosi in classe più del necessario, e solo quando
fu sicuro che nessuno fosse a portata d’orecchio uscì dall’aula, scendendo le scale
ed entrando in mensa. Si guardò accuratamente intorno, evitando con gli occhi qualsiasi
persona che non fosse quella che stava cercando.
Infine lo trovò: Lestrade era seduto da solo
poco lontano dalbancone doveservivano il pranzo, con
un libro davanti agli occhi e una forchetta nella mano libera. John si avvicinò
con aria titubante, poi si fece coraggio e si sedette al posto di fronte, lasciando
cadere lo zaino ai suoi piedi.
Il ragazzo alzò lo sguardo annoiato, probabilmente
solo per vedere chi era il nuovo arrivato, e quando vide che questi era John un
sorriso andòadincrespargli le labbra.
«Er… Ciao.» iniziò il mediano, agitandosi un
poco sullo sgabello.«Non è che… mi chiedevo. Mi
chiedevo se…»
«Aveva ragione allora. Come sempre dopotutto…»lo interruppe l’altro. Sospirò, e chiuse il
libro, posando contemporaneamente la forchetta nel piatto. Corrugò un attimola fronte pensieroso, poi annuì tra sé e sé e
portò una mano alla tasca esterna del suo zaino, tirandone fuori una busta di carta
bianca. «Sherlock mi ha chiesto di consegnartela non appena avrestichiestodi lui.» disse, porgendogliela.«Sinceramente cominciavo a pensare che non saresti mai venuto.
Evidentemente sapeva il fatto suo.»
Rimase immobile, osservando con curiosità la
reazione di John che, quasi come se la busta potesse contenere un esplosivo, la
afferrò, rigirandosela tra le mani con lentezza.
«Mi ha detto di consegnartela e basta, senza
dirti nient’altro.»Si strinse nelle spalle. «Sai com’è fatto… lui e le sue strane idee.»
John annuì, staccando gli occhi a forza dal
proprio nome scritto con quella grafia sghemba che non poteva che appartenere al
suo amico, e si alzò, improvvisamente desideroso di allontanarsi il più possibile
da occhi indiscreti per leggere in tutta tranquillità quel messaggio.
«Ehm… grazie. Ma… non si può proprio sapere che fine abbia fatto?»
«Ecco… credo l’abbia scritto lì dentro. Spero. Non posso fare altro, scusami.»
«Nono, va bene. Grazie.»John sorrise cordialmente,
poi si allontanò, uscendo dalla mensa.
Per quel giorno poteva benissimo saltare il pranzo.
~*~
Se stai leggendo questeparolesignifica che Lestrade ti ha consegnato la
lettera e che quindi tu gli hai chiesto di me.
Avrei voluto potertelo dire di persona ma durante
le scorse settimane i miei tentativi di rivolgerti la parola sono falliti miseramente,
quindi te lo dico ora, in questa lettera. (Avrei preferito
inviarti una mail, ma in tal caso la cosa avrebbe potuto darti fastidio così ho
voluto scriverti via carta, in modo che avresti avuto mie notizie solo se fossi
stato proprio tu a chiederne).
Prima di tutto mi dispiace per quello che è
successo e per come la cosa ti abbia innegabilmente urtato. Non volevo che andasse
a finire così. Non ero totalmente in me in quel momento, ero (sì lo ammetto, e prendine
nota perché non succederà mai più) abbastanza scosso per quello che era successo.
Ancora adesso non riesco però a capire quale sia stato il problemadi fondo. Volevo chiederti scusa, speravo che me ne
lasciassi almeno la possibilità.
Ad ogni modo.
Penso che la tua curiositàsia dovutaprincipalmente al fatto che nelle ultime settimane
non mi hai visto a scuola. È così: non ti ho evitato di mia spontanea volontà, ma
me ne sono proprio andato. Non verrò più al Barts; i miei genitori si sono apparentemente
stancati di vedermi tornare a casa con un occhio nero un giorno sì e uno no, e Mycroft
(mio fratello, nel caso non lo sapessi) non ha più scuse soddisfacenti da inventare
per coprirmi.
Per questo mi ritrovo costretto a scriverti
qui, per salutarti. Questo è in sostanza il mio biglietto d’addio. È questo che
fanno le persone, no? Lasciano un biglietto.
Non penso ci rivedremo ancora, anzi. Non venirmi
a cercare, non sentirti in colpa per quello che è successo ecceteraeccetera. Va bene così, evidentemente
le cose dovevano andare in questo modo e per quanto midispiaccianon credo che ci sia molto da fare.
Sono sicuro che la tua vita proseguirà tranquillamente
anche senza la mia presenza.
Per il resto, grazie di tutto, e tieni d’occhio
Molly Hooper da parte mia.
Addio, John.
Lo so, loso… sono imperdonabile. Sono
stata risucchiata in un vortice scuola/verifiche/studio, mi dispiace terribilmente
D:
Dalla regia mi dicono inoltre che sono una
persona orribile. Ehm… sì ecco… *si nasconde*
Ci tenevo a ringraziare quelle ragazze che
hanno recensito,sietestate tutte dolcissime
<3
A presto (spero vivamente non più di una
settimana),
Avevo già detto quanto amassi Harriet,vero? Bene, lo ripetoxD
E anche Mycroft… è adorabile su, ammettiamolo.
Altra cosa: grazie, grazie a tutte voi, non
sapete quanto mi rendete felice con i vostri preziosi commenti <3
E un grazie anche a tutticoloroche la seguono in silenzio, ovviamente! Se
la storia procede senza troppiintoppiè anche perché ci siete
qui voi a sostenermi ;)
Bene. Ora… 12 pagine di word. È tipo il capitolo
più lungo che io abbia mai scritto…
Per questo vi lascio senza dilungarmi troppo. Grazie ancora!
Ps. buona lettura!
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 8
T
utto sembrava essere tornato alla normalità,
sempre che con normalità si potesse definire quello stato di continuo nervosismo
in cui John si era ritrovato. Si diceva di essere stato fortunato per aver risolto
uno dei tanti problemi che lo assillavano: Sherlock se ne era andato dalla scuola,
non aveva più preoccupazioni di nessun genere; non doveva più nascondersi, nondovevapiù girare per i corridoi sospettando un incontro
indesiderato da un momento all’altro e non doveva più preoccuparsi di tenersi lontano
da luoghi come il laboratorio o il corridoio dove Sherlock aveva avuto il suo personale
armadietto.
Maallora che cos’era quel peso che continuava
ad avvertire nei pressi dello stomaco? Che cos’era quel senso di nausea che lo prendeva
ogni volta che passava per l’uscita esterna del campo di rugby in direzionedellafermata dell’autobus?
Ogni volta che guardava Smith negliocchigli sembrava di vedere un corridoio vuoto e
un ragazzo pallido che veniva costretto alla parete; ogni volta che camminava per
i corridoi della scuola per raggiungere la classe dell’ora successiva gli sembrava
di vedere una testa riccioluta ovunque, come se il fantasma di Sherlock continuasse
a perseguitarlo, bloccato nel tempo e nello spazio.
Molte volte, quando passava di fronte alla
targhetta affissa alla parete d’entrata degli spogliatoi dedicata a CarlPowers, si fermava, e rimanevaadosservare le lettere dorate che componevano
quel nome, come in trance, mentre l’eco di parole lontane anni luce da lui gli rimbombavano
in testa.
Una sera, uscendo con gli amici, gli parve
perfino di sentire una risata profonda vicino a lui mentre rideva con il gruppo
di qualche evento curioso.
Quando stava con Mary, invece, quando la baciava…
Il suo pensiero non lo abbandonava mai.
Passarono i giorni, un lento susseguirsi di
avvenimenti, parole, situazioni ed emozioni, ricordi e sensazioni.
John aveva riposto la lettera di Sherlock in
un posto sicuro, sotto ad alcuni libri nel cassetto del comodino. La custodiva come
una reliquia, un simbolo concreto di tutto quello che aveva vissuto nel giro di
qualche mese con un amico straordinario, una delle persone migliori, più umane che
avesse mai conosciuto.[1]
Perché per quanto Sherlock avesse cercato di
nasconderlo, per quanto avesse ignorato palesemente la realtà delle cose, John aveva
visto oltre la lastra di ghiaccio che sembrava sempre separarlo dal resto del mondo,
erariuscitoa scivolare oltre quella
barriera e a scoprire una persona tutta nuova al suo interno: John era riuscito
a conoscere Sherlock Holmes, a fare breccia nel suo animo imperturbabile e riservato
per scoprire cose del tutto inaspettate. Lui, un semplice ragazzo appassionato di
studi e rugby era riuscito a disseppellire sentimenti repressi e mai affrontati.
Gli veniva male a pensare alla lettera. Era
stata una completa sorpresa, qualcosa che non si era per niente aspettato.
L’aveva letta con il cuore in gola, solo, in
un’aula durante la pausa pranzo, scorrendo quelle poche righe che svelavano quanto
Sherlock si fosse visibilmente pentito per il casino che aveva combinato.
Quando aveva letto le ultime due parole, quell’addio
che gli aveva lasciato l’amaro in bocca, in quel momento aveva desiderato di poter
sprofondare nel terreno per la vergogna e il senso di colpa, più forte che mai.
Era stato, se possibile, ancora peggio.
Il messaggio traspariva dispiacere da ogni
parola, ogni lettera in inchiostro nero sembrava essere stata vergata con grande
attenzione, come se una sola sbavatura potesse rendere l’interalettera uninsulto alla pazienza di John. Sherlock aveva
veramente temuto di averlo perso completamente, di averlo fatto arrabbiare al punto
dafarsiodiare per quella stupida
mancanza di lucidità che lo aveva spinto al gesto estremo.
John sapeva che le cose non stavano per niente
così, ma evidentemente l’impressione che aveva dato era tutt’altra. All’inizio,
forse, era stato un po’ arrabbiato, probabilmente anche deluso, ma era passato in
fretta. I problemi erano diventati altri: aveva dovuto capire cosa fare, cosa dirgli,
come comportarsi.
E aveva fallito miseramente in tutto.
Eppure, ancora adesso, non riusciva a comprendere
a fondo il suo errore, non riusciva – ripercorrendo mentalmente quello che aveva
vissuto negli ultimi giorni – a trovare un modo più ragionevole in cui avrebbe potuto
comportarsi.
La risposta arrivò ancora prima di quanto potesse
aspettarsi.
Passò il periodo natalizio e la settimana di
vacanza prevista, poi a gennaio, tornando a scuola,cominciaronoa girare delle voci.
All’inizio John non ci fece molto caso: camminava
tranquillamente per i corridoi e qualcuno si girava al suo passaggio; qualcuno lo
indicava bisbigliando a bassa voce con il vicino, altri ridacchiavano e gli voltavano
le spalle. Già abituato a quelle reazioni quando girava in compagnia di Sherlock,
non comprese subito cosa stesse succedendo.
Si rese veramente conto dell’atteggiamento
degli altri solo grazie ai suoi compagni di squadra quando, un pomeriggio, lo misero
di fronte alla verità, una veritàche non si aspettava e che lo lasciò spiazzato e scosso.Mala storia completa la apprese solo più tardi.
Imboccò il corridoio che portava verso gli
spogliatoi come suo solito e si ritrovò davanti gran parte dei Blackheath e un gruppetto
di ragazzi: parlavano animatamente tra loro e sembravano litigare.
Non fece quasi in tempo a realizzare cosa stesse
succedendo che qualcuno lo chiamò. «John!»
Si fermò poco lontano dal gruppo, posando lo
sguardo sulla ragazza castana al centro che lo guardava con apprensione.«Ti prego… di’ loro che non è vero. Vero?»disse, parlando con una vocina
tendente al lamentoso. Sembrava visibilmente scossa.
«Ne abbiamo le prove! Perché continuare a negare?»ridacchiò qualcuno dalla parte dei Blackheath.
«Che cosa succede?»
«Sherlock era un bravo ragazzo, non avrebbe
mai potuto fare qualcosa del genere!» esclamò Molly, deglutendo a fatica.
Dopo aver passato giorni a cercare di non pensarlo
neanche, nel sentire quel nome pronunciato ad alta voce John si fece subito più
attento. Spostò lo sguardo dalla ragazza a Sebastian Moran, inpiedi poco lontano, che sogghignava con un fascicolo di fogli
in mano.
«John lo conosceva bene. Sherlock non avrebbe mai fatto qualcosa del genere.
Quei documenti sono falsi.»continuò la mora imperterrita.
«Molly,lascia
perdere… andiamo.» Greg Lestrade la bloccò con un braccio, tirandola verso di sé. «Non
vale neanche la pena di discuterne.»
«Discutere di cosa?» John guardòidue interrogativo, chiedendosi quale fosse
il nuovo motivo per il quale prendere in giro Sherlock. Se ne era andato, per sempre,
che senso aveva continuare a farlo? Soprattutto dopo che li aveva lasciati senza
fare niente oltre che sparire da un giorno all’altro evitando di dare spiegazioni.
Greg si passò una mano sul volto, apparentemente
stanco, mentre Moran sorrideva sornione e gli porgeva i fogli che teneva in mano.
«Penso che tu possa capire tutto da qui, caro il mio Watson…»
John gli scoccò un’occhiata truce, poi afferrò
i fogli e dette uno sguardo veloce al nome scritto all’inizio. Spalancò gli occhi,
stupito.
«Non avete il diritto di prendere quei documenti!»
continuò Molly, staccandosi con uno strattone da Lestrade e fronteggiando il giocatore
di rugby faccia a faccia.
«Che caratterino! Non si addice a una signorina per bene come lei, miss Hooper.»ironizzò il ragazzo, facendo
qualche passo indietro con le mani davanti a sé. «Dovresti insegnarle le buone maniere,
Jim…»
«AndiamoSeb… sai come mi piacciono le
ragazze.»
John alzò lo sguardo dai documenti con il cuore
in gola, fissando il nuovo arrivato con tanto d’occhi.
…tieni d’occhio Molly Hooper da parte mia.
Quando vide il ragazzo superare l’amico in
pochi passi e passare un braccio intorno alla vita della ragazzaprovòun moto di disgusto, che aumentò quando ella
arrossì lievemente sulle guance e abbassò lo sguardo.
«Perché tutte queste scene per Holmes, amore? Ormai è acqua passata, se n’è andato…»
«Dove gli avetepresiquesti?» la voce gli uscì dalle labbra più
forte del previsto e quasi tutti i ragazzi che erano ancora presenti sulla scena
si girarono a guardarlo, incuriositi.
«È merito mio, se così si può dire.» il ghigno
che comparve sulle labbra di Moriarty – e che nessuno vide a parte John – gli fece
quasi accapponare la pelle.
«Perché?» Sentiva la rabbia affiorargli piano,
dal profondo dello stomaco, e s’impose di calmarsi.
Il pilone destro della squadra si strinse nelle
spalle, guardandosi intorno fieramente.«Perché ho fatto delle ricerche.
Non dirmi che non interessava anche a te sapere dove fosse andato a cacciarsi Holmes,
eh John?»
Strinse una mano a pugno. «Non avevi il diritto
di farlo.»
Moriarty ridacchiò e fece segno ai compagni
di allontanarsi, posando poi un bacio sulla fronte della sua ragazza e sussurrandole
qualcosa all’orecchio. Dopociò, Molly si allontanò, non
prima di aver gettato un’ultima occhiata a John, ancora in piedi nello stesso punto.
«Avanti, cos’haida dirmi, John? Il fedele amico John Watson…»
Inspirò a fondo, socchiudendo per un attimo
gli occhi. «Non è vero.»
«Oh, allora gli hailetti?»
«Non.È.Vero.» soffiò, avvertendo una traccia di panico
crescere lentamente, soffocandolo in una morsa.
Moriarty sospirò apparentemente triste, poiglisorrise cordialmente.«Evidentemente a me non crede. Gregory? Tu lo sapevi, non
è vero?»
Il ragazzo interpellato strinse i pugni, guardandolo
con ribrezzo, e non rispose fino a quando non fu John stesso a guardarlo, carico
di angoscia. «Mycroft… suo fratello mi aveva accennato.Manon è stato niente di terribile. Sherlock era
un bravo ragazzo.»sospirò, abbassando lo sguardo come pentito.
«Niente di terribile? NIENTE? Ha rischiato di finire in overdose! A SEDICI ANNI.»John non ricordò di essersi
sentito così male negli ultimi anni.
Sherlock, il suo migliore amico, quel ragazzo
pazzesco e pieno di risorse aveva in passato ceduto all’utilizzo di sostanze stupefacenti,
evitando per un soffio la morte. Le parole stampate in inchiostro nero su quei documenti
non potevano che essere vere. Erano documenti ufficiali quelli, John lo sapeva molto
bene.
«Te la sei presa perché non ti ha mai detto niente? Fossi intenon sarei così sorpreso. Quanto veramente sai
della sua infanzia? Della sua vita privata? Scommetto che non sapevi neanche che
avesse un fratello, uhm?»
John cercò aiuto nel ragazzo al suo fianco,
guardandolo conapprensione, maLestrade stava fissando un
punto imprecisato della parete di fronte apparentemente distaccato dalla discussione
in corso.
«Non mi sorprenderei se ci è ricaduto di nuovo. Se cipensii pezzi combaciano, no? È sparito da un giorno
all’altro, senza dare spiegazioni, dopo aver passato un anno d’inferno per colpa
di quei tuoi compagni di squadra che ti piace tanto definire amici. E una volta
tanto che aveva trovato un amico, una volta tanto che era riuscito a spingersi più
in là della semplice amicizia…»
«Basta!» John esplose, il volto che si era
trasformato in una maschera di rabbia e frustrazione, sorpresa perfino. Come diavolo
faceva Jim a sapere tutte quelle cose?
Alle ultime parole di Moriarty, Lestrade voltò
lo sguardo verso John, spalancando lievemente gli occhi per lo stupore, mentre il
mediano respirava piano, a fatica.
«Perché non avrebbe dovuto dirmi niente?» chiese,
sconfitto e desideroso di risposte.
«Perché se ne vergognava.» Intervenne Greg,
cercando di rassicurarlo con lo sguardo.«Non è una cosa di cui andare
fieri. Penso che Sherlock volesse che tu lo rispettassi, che lo guardassi con occhi
diversi. Non l’ho mai visto comportarsi così con qualcuno.»
John sentì un lieve pizzicore agli occhi e
spostò il peso da una gamba all’altra mentre l’ennesima ondata di ricordi lo colpiva
in pieno.
«Ciò non toglie niente al suo passato.» ribatté
Moriarty, come se volesse piantare a fondo quell’idea nella testa di John, il quale,
a quelle parole, dovette trattenersi dal rispondergli male, sapendo che era esattamente
quello che il ragazzo voleva.
«Ok, va bene. Èsolo partedel suo passato, no? Le persone
possono cambiare col tempo…»disse, moderando il tono di voce perché suonasse calmo e sicuro.«E tu non avevi alcun diritto di prendere questi documenti
e di farli girare per la scuola come se niente fosse. Ora questi tornano dal preside
e ci tornano insieme ad un mio richiamo per violazione
della privacy. D’accordo?»
Moriarty alzò un sopracciglio e sollevò un
angolo delle labbra. «John Watson, fedele fino alla fine… molto bene.» ghignò nuovamente,
con quell’aria spavalda e sicura che lo contraddistingueva, per poi girare sui tacchi
e allontanarsi lungo il corridoio.«Oh, e a proposito. Puoi tenerli,
se vuoi. Ne ho fatte delle copie.»disse, e sparì dietro l’angolo.
«John…»
«No.» fu la sua secca risposta. Prese un respiro profondo, cercando di non pensare
all’espressione che si era dipinta sul volto di Moriarty poco prima, e senza neanche
un cenno di saluto verso Lestrade si allontanò dalla parte opposta, stringendo i
fogli cheavevain mano come se fossero un
prezioso tesoro di cui prendersi cura.
~*~
Quella sera, John tornò a casa con il morale
a terra e, data l’ora piuttosto tarda, si congedò dalla madre subito dopo averla
salutata, dicendole che era stanco e che aveva mangiato un panino per strada, ritirandosi
così in camera sua.
Spinse lo zaino con i libri sotto il letto
e si buttò di pancia sul materasso, sprofondando con il volto nei cuscini. I fogli
chetenevaancora in mano finirono con
uno svolazzo per terra, senza che si preoccupasse di raccoglierli: non avevano la
minima importanza ora.
Strinse con forza le palpebre, affondando nella
stoffa fino a quando non gli mancò il respiro e con un grugnito dovette girarsi
supino. Portò le mani al volto e sistrofinòmalamente gli occhi, cercando di cacciare quel nodo alla gola che lo aveva accompagnato
per tutto il tragitto fino a casa.
Si rese conto di quanto tempo avesse realmente
passato a rigirarsi nel letto senza riuscire a chiudere occhio soltanto quando udì
la porta della camera aprirsi e vide la figura di sua sorella stagliarsi contro
la luce proveniente da fuori.
La ragazza chiuse la porta, senza paura di
farlo con gentilezza per non svegliare John, e si trascinò fino al letto, dove si
distese, anche lei supina, e puntò gli occhi al soffitto, scrutandolo nel buio.
Non seppero mai quanto tempo effettivamente
passarono in silenzio, ognuno con i propri pensieri, facendo finta di dormire. Probabilmente
passarono ore, forse solo cinque minuti.
Alla fine fu Harriet a rompere il silenzio.
«Qualcosa che non va?»
John mandò un grugnito stanco e si girò su
un fianco, dando le spalle alla sorella. Aveva ancora in testa quelle poche righe
cheavevaletto da quei dannati fogli,
prima di decidere di aver letto troppo, e non riusciva a scacciare dalla mente l’immagine
di Sherlock, steso in un letto d’ospedale, il volto ancora più pallido del normale
e un genitore seduto al suo fianco con la testa tra le mani, distrutto dal dolore.
E tutto solo perché non aveva avuto il coraggio di affrontare la situazione in cui
si era ritrovato. Di certo non sarebbe andato a raccontarloadHarriet.
«Sai… pensavo di aver trovato qualcuno di speciale
per una volta…» continuò la ragazza, incurante del fatto che John la stesse ascoltandoo meno. «Ma non faccio altro chesbagliare,ogni dannatissima volta.» Sospirò sconsolata.
John annuì mentalmente alle sue parole, trovandosi
in totale accordo. Qualsiasi cosa potesse fare, qualsiasi decisione prendesse, commetteva
sempre qualche errore, che il senso di colpa e la delusione lo stringessero senza
possibilità di fuga.
«Mi auguro che tu sia felice con Mary, che almeno tu abbia trovato la tuapersona speciale. O forse vi siete lasciati?»
«No…» borbottò e poté quasi immaginarsi Harriet
sorridere nel buio.
John si lasciò sfuggireunsorriso, più di disperazione che altro.
Rimase in silenzio, soppesando le sue parole.
In fondo non aveva niente da perdere. Era vero che parlare aiutava, John lo aveva
provato più volte sulla propria pelle nel corso della sua vita. Ricordava molto
bene quella notte lontana, un giorno di primavera, quando aveva appena cinque anni.
Pochi giorni prima suo padre, Jonathan Watson, li aveva lasciati, colpito improvvisamente
da un infarto sulla strada di casa. Quella notte, dopo quasi una settimana in cui
John si era sentito totalmente perso e confuso, si era ritrovato tra le braccia
di Harriet e, insieme, stesi sul letto uno stretto all’altro, si erano parlati a
vicenda, ricordando tutti quei bei momenti che avevano passato insieme con lui.
Avevano parlato fino a notte fonda, consolandosi a vicenda, e la mattina dopo John
ricordava molto bene di essersi sentito meglio, di aver perso quel peso che lo aveva
accompagnato per giorni interi. Valeva la pena rivelare tutta la storiaadHarriet? Poteva veramente aiutarlo o si sarebbe
limitata ai suoi soliti commenti sarcastici?
Sarebbe potuto benissimo accadere, conoscendola.Mase non parlava con lei, con chi altro avrebbe
potuto farlo? Aveva bisogno di farlo e nessuno più di lei sapeva cosa volesse dire
trovarsi in una situazione sentimentale con qualcuno dello stesso sesso, anche se
a senso unico.
John sospirò pesantemente e tornò supino, stringendo
gli occhi.
«Non è colpa di Mary.»
Harriet si agitò sul letto, probabilmente sistemandosi
in una posizione più comoda grazie alla quale avrebbe potuto osservare suo fratello.
«Hai trovato qualcuno più interessante di lei?»
Il ragazzo si prese una pausa di silenzio,
scegliendo le parole con cura.«No. Si tratta… sitrattadi…» deglutì a vuoto, incapace di pronunciare
quel nome che apriva troppi scenari imbarazzanti nella sua testa. Per una volta
ringraziò di essere al buio e di non poter essere visto.
«Si tratta di Sherlock.»
Harriet sbuffò infastidita.«Tutto qui? Cosa diamine può essere successo perché tu ti
preoccupi come una ragazzina alle prese con il suo primo amore?»
Un brivido gli attraversò la schiena e dovette
costringersi a prendere un paio di respiri profondi prima di proseguire il discorso.
«Non è così semplice…»
«Oh ovvio. Quel ragazzo non è semplice sotto molti punti di vista. Non capisco
come tu riesca a sopportarlo.»
«Harriet!» la rimproverò.
«Sì scusa. Vai avanti con i problemi tra te e il tuomiglioreamico.»
«Mi ha baciato.»
Lo disse di getto, senza neanche lasciarla
finire di parlare, e Harriet si zittì subito. Ci fu un movimento al suo fianco,
poi la luce si accese di colpo, costringendolo a stringere con forza le palpebre
e a portarsi un braccio sul volto. «Macosa…?»
«Che cosa ha fatto?» la voce le uscì stridula,
quasi come un urlo a bassa voce.
John sentì il sangue affluirgli al volto e
non poté evitare di arrossire, risposta apparentemente sufficienteadHarriet, la quale lanciò un gridolino sommesso
che lo costrinse a lanciarle un’occhiataccia.
«Oh. Mio. Dio.» mormorò piano,
mentre un sorriso andavaadilluminarle il volto. «Ommioddio!» esclamò poi, balzando
in piedi e osservando John con una luce negli occhi che non lo rassicurò per niente.«E cosa hai fatto? Hai ricambiato?»allargò ancora di più il
sorriso, come se quella notizia le avesse risollevato improvvisamente il morale.
Il ragazzo sbuffò, mettendosi a sedere sul
letto e affondando il volto tra le mani. «Piantala.»
Harriet ridacchiò e si risedette sul letto,
sporgendosi in avanti verso il fratello.«Dio che cosa tenera! Ti prego,
dimmi che hairicambiat-»
«Non sonogay, ok? La pianti? Ovvio che
non ho ricambiato!»ribatté stizzito.
Il sorriso scivolò via dalle sue labbra, sostituito
da un’espressione perplessa e ansiosa. «Che cosa hai fatto allora?»
John chiuse gli occhi e sospirò: questa era
probabilmente la cosa di cui si vergognava di più. «Me ne sono andato…» mormorò,
quasi non volesse farsi sentire dall’altra che, a quelle parole, spalancò gli occhi
e si afflosciò su se stessa, tutto l’entusiasmo che scemava in un’espressione delusa.
«No…» si portòle mani tra i capelli e si
buttò all’indietro, andando a cozzare con la schiena contro il muro.«No ti prego… è uno scherzo vero? Dimmi che non l’hai fatto
veramente…»
John deglutì, pentito, e abbassò lo sguardo.
«Dio John, quanto sei stupido!»
«Ok!» il ragazzo portò le mani davanti a sé
in un segno di resa.«Ok, d’accordo… ho sbagliato,
me ne sono reso conto anch’io. Ma cos’altroavreipotuto fare?»
«Checosa cosa? Come sarebbe a dire cosa avresti potuto fare?
Che cosa avresti fatto in una situazione del genere?»Harriet sembrava fuori di sé, arrabbiata con
il fratello come non lo era mai stata in tanti anni della loro infanzia.
«Ora tu torni da lui, anche adesso. Anzi hai il suo numero di cellulare? Ora
gli dici che ti dispiace, sono stata chiara? Chiamalo e digli che ti dispiace!»esclamò, puntando un dito
accusatorio verso di lui.
«Non ho il suo numero e non lo chiamerò all’una
di notte per questo, ok?» sibilò, guardandola con furia.
«Oh povero, povero, Sherlock! Perché ti devi innamorare di certi imbecilli senza
cuore?»
John si sentì punto sul vivo e non riuscì a
sostenere il suo sguardo carico di accuse.
«D’accordo, quel ragazzo non è uno dei migliori in quanto a cordialità… ma diamine!
Come hai potuto anche solo pensare di reagire in quel modo? Nessuno, e diconessunodovrebbe ricevere un trattamento del genere!»
«È troppo tardi.» borbottò.
«Cosa?»
«È troppo tardi, va bene?» balzò in piedi,
stringendo i pugni con forza. «Anche se volessi scusarmi, è troppo tardi.»
«Non è mai troppo tardi…» vedendo lo sconforto
che attraversava il volto del fratello, l’espressione di Harriet si addolcì.Aduna sua occhiata sconsolata, tuttavia, un pensiero
le attraversò la mente. «Quanto tempo fa è successo?» chiese con un filo di voce,
già immaginando la risposta tutt’altro che soddisfacente.
«Circa un mese fa…» emise con un sospiro pieno
di sconforto.
La giovane esalò un verso a metà tra un singhiozzo
e un grugnito di rimprovero, scuotendo la testa. «Sei un idiota.»
John non poté che darle ragione. «Macos’altro… come avrei dovuto reagire?» chiese, lasciandosi
nuovamente cadere sul letto.«È successo così, di punto
in bianco. Io non… non me lo aspettavo. E ora non posso fare più niente. Se n’è
andato, non lo rivedrò mai più…»La voce gli si affievolì fino a sparire del tutto.
«Perché ti è così difficile capire che non
c’è alcuna differenza tra te e me?»
«Io non…»
«No, ora mi lasci parlare, razza di deficiente
che non sei altro.»
John si zittì, tornando supino con gli occhi
al soffitto.
«Non cambianiente,ok? Non c’è niente di diverso tra una relazione omosessuale euna etero. Beh, forse a livello fisico sì, ma penso
che questo non t’interessi, per ora.»gli lanciò un’occhiata vagamente divertita
e John scelse di ignorarla deliberatamente.
«Se ti piace una persona, profondamente, di
là dal fatto che essa sia un maschio o una femmina, mi spieghi qualeproblemapotrebbe mai esserci? Si parla sempre di anime
gemelle e amore vero eblabla. Eppure ancora adesso ci sono persone che non riescono a capacitarsi del fatto
che una persona possa amarne una del suo stesso sesso.»
«Non ho mai detto di essere contro relazioni
di nessun genere…» la interruppe.
«No, non lo hai mai detto, ma evidentemente non te lo sei ancora ficcato bene
in testa. Non posso credere che ti saresti comportato così se al posto di Sherlock
ci sarebbe stata una ragazza: sarai anche un idiota ma non sei stronzo fino a questo
punto, diquesto nesono certa. Sei troppo ingenuo
e buono per un comportamento del genere. Sei stato un villano nei suoi confronti,
almeno di questo te ne sei reso conto alla fine…»fece una pausa, come a voler assaporare quel
momento di superiorità in cui si trovava. «Sono convinta che tu non sia stato te
stesso in quel momento, vero?»
Era una domanda retorica e John non le rispose.
«Ti sei lasciato prendere dall’angoscia, hai pensato di non sapere come reagire
e hai lasciato che l’istinto agisse per te. Ti sei imposto di fare una determinata
cosa – scappare per la precisione – come reazioneadun attacco di panico. E invece le cose sarebbero potute andare diversamente
solo lasciando che il tuo buon cuore agisse per te. Sei un ragazzo meraviglioso
John, lo sanno tutti, e hai abbastanza esperienza con le ragazze per tirarti fuori
da una situazione del genere. Te ne rendi conto adesso? Hai considerato Sherlock
come un ragazzo, maschio, hai lasciato che i pregiudizi e il tuo orgoglio prendessero
il sopravvento. Lo capisci ora?»
John arricciò le labbra mentre le parole di
Harriet lo colpivano nel profondo. Aveva ragione, troppo, e non poté non pensare
a come sarebbero potute andare le cose se solo non si fosse lasciato prendere dal
panico.
Per l’ennesima volta si ritrovò a ripercorrere
mentalmente tutto il cammino che aveva compiuto con la sua amicizia con Sherlock,
da quella notte alla festa fino a quel pomeriggio nel bagno. Ripensò al momento
in cui aveva cominciato ad asciugargli i capelli con dolcezza, come una madre preoccupata
asciuga il suo bambino per paura che si possa prendere un raffreddore.
Che cosa era successo in quel momento? Si era
lasciato andare, ecco che cos’erasuccesso.
Fin dall’inizio aveva capito che Sherlock era
un ragazzo solo, senza amici, compagni su cui fare pieno affidamento. Fin dall’inizio
John aveva provato un sentimento di pietà nei suoi confronti, tanto da ignorare
i suoi modi sgarbati e pieni di supponenza per cercare di diventare suo amico, di
fargli capire che poteva essere apprezzato anche lui. Lo aveva protetto sotto la
sua ala, aveva fatto in modo che nessuno lo infastidisse e che potesse vivere una
vita normale, come tutti gli altri. Non era forse questo il ruolo di una madre?
Lo aveva protetto come una madreproteggeil proprio figlio, lo aveva confortato, ascoltato, si era fatto in quattro per
lui e le sue strambe idee. E quel sentimento di protezione persisteva ancora adesso,
benché ormai non lo vedesse da quasi un mese.
Strinse gli occhi e si costrinse a focalizzare
l’immagine di Sherlock a un soffio da lui, il suo respiro che gli accarezzava la
pelle, le sue labbra sulle sue, quel leggero, dolce tocco.
Era stato così terribile? Era veramente stato
così terribile da potersi permettere di comportarsi a quel modo?
Qualcosa si agitò nel suo stomaco mentre ricordava
sempre meglio ogni più piccola emozione provata, ogni sensazione, dalla pressione
delle labbra di Sherlock alle sue mani sulla sua testa.
Per un attimo, soltanto per un attimo, provòadimmaginare quelle stesse mani scivolare sul
suo volto, andare una verso il suo collo e dietro la nuca, immergendosi tra i suoi
capelli bagnati, mentre l’altra andava a porsi sotto il mento. Immaginò le sue labbra
aprirsi, cercare affannosamente quelle dell’altro…
Spalancò gli occhi di colpo, trattenendo il
fiato.
«No…» ansimò, portandosi le mani alla testa
e rannicchiandosi su se stesso in posizione fetale.«No. No…»
«Che c’è?» In un attimo Harriet fu al suo fianco,
preoccupata.
«Mi dispiace…»mormorò,la voce un flebile sussurro. «Mi dispiace…»
ripeté, chiudendo gli occhi, cercando di scacciare quelle stupide immagini dalla
sua testa.
E una volta tanto che aveva trovato un amico,
una volta tanto che era riuscito a spingersi più là della semplice amicizia…
Le parole di Moriarty riecheggiarono vicine,
costringendolo a prendere un paio di respiri profondi. Perché erano così dannatamente
vere? Perché quel ragazzo che di buono non avevaniente,quella volta aveva avuto ragione su tutto?
Era stata colpa sua, soltantocolpasua. Aveva abbandonato Sherlock, lo aveva lasciato
nelle mani di quei suoi amici che amici non lo erano proprio per niente, non lo
aveva protetto e, quasi certamente, lui era ricaduto in quel circolovizioso. Sherlock, il suo amico, il suomiglioreamico, era stato male per colpa sua, quando era stato proprio lui, John, a cercare
di tenerlo fuori dai guai per proteggerlo da inutili danni fisici.
«Mi dispiace…» sussurrò nuovamente, sentendo
gli occhi cominciare a pizzicare.
«Lo so…» disse Harrietinrisposta, passandogli amorevolmente una mano
tra i capelli biondo cenere. «E cascasse il mondo, ma stai pur certo che troveremo
un modo perché tu possa dirglielo di persona.»
Sorrise tra sé e sé, guardando suo fratello tranquillizzarsi sotto il suo tocco
e prendere la via del sonno, stanco morto. Osservò quella figura che conosceva fin troppo
bene, quei lineamenti che erano così simili ai suoi.
E cascasse il mondo, Sherlock, ma tu avrai questo ragazzo. Non avresti potuto
fare scelta migliore.Pensò con mezzo un sorriso.
~*~
Il giorno dopo John ebbe ben poco tempo per
pensare alla scuola.
Almattino rinunciò a fare colazione, arrivando
a scuola con una decina di minuti di anticipo. Cominciò a girare per i corridoi,
in cerca di quell’unica persona che poteva aiutarlo. Non trovandola, fu costretto
ad andare a lezione, ma passò l’intera ora a fissare le lancette dell’orologio che
battevano i secondi, in attesa che finisse. Quando il suono della campanella si
fece sentire sopra la voce del professore dimatematicasi preparò in fretta e continuò la sua ricerca nei cinque minuti di pausa tra
una lezione e l’altra.
La stessa cosa si ripeté per tutte le ore successive,
ma di Lestrade non c’era alcuna traccia.
All’ora di pranzo, benché non avesse per niente
fame, fu costretto a scendere in mensa per controllare anche lì, e non lo trovò.
Sedette sconsolatoaduno dei tavoli, ansimando per la lunga corsa,
e affondò il viso tra le mani. Possibile che fosse sparito pure lui?
Non ebbe pace finoalpomeriggio, quando, finalmente, mentre prendeva
le sue ultime cose dall’armadietto per tornare a casa, una voce non lo richiamò,
ansimante.
«John!»
Si girò di scatto, rischiando di fare cadere
a terra i libri chetenevaancora in mano, e sorrise
nel vedere Greg avanzare velocemente verso di lui. Aveva il volto accaldato e sembrava
aver appena compiuto una lunga corsa.
«Ti stavo cercando.» Pronunciarono quelle parole
nello stesso istante e si guardarono stupiti l’un l’altro.
«Oh… wow, perfetto.» sospirò il nuovo arrivato.
«Ci siamo rincorsi per tutta la giornata?»
John sorrise, un peso che finalmente lo abbandonava,
e rimase in silenzio, aspettando con curiosità che l’altro parlasse.
«Ecco… riguardo a quello che è successo ieri…»
iniziò Greg, spostando il peso da una gamba all’altra.«Ieri sono uscito con Mycroft, suo fratello… cioè, uscito.
L’ho… l’ho incontrato, ecco…»diventò paonazzo da un momento all’altro e si affrettò a distogliere lo sguardo.
«Insomma… mi ha detto di dirti che è dispostoadincontrarti, tra un paio di giorni. Ho pensato che è l’unico che possa dirti
tutto per filo e per segno, che possa rispondere alle tue domande. Nessuno conosce
Sherlockmegliodi lui…» Si fermò e si morse
un labbro, arrischiandosi a lanciargli un’occhiata di traverso.
John ascoltò attentamente le parole dell’amico,
valutandole.«Io… ehm… non saprei. Sherlock…
ci sarà anche lui?»
Greg scosse la testa.«No, al momento non ti è possibile vederlo. Mycroft vuole
solo scambiare un paio di parole con te…»
Prese un respiro profondo. «Ok.Va-vabene…» annuì poi, scoprendo di sentirsi molto più leggero.
Lestrade sembrò sollevato. Cercò qualcosa nelle
sue tasche e poi glielo porse. «221B Baker Street. Lo troverai
lì dopodomani, appena dopo scuola.»Dopo un attimo di esitazione sorrise cordiale.
John annuì e prese il foglietto di carta con
scritto indirizzo e orario dell’appuntamento.
Stava andando tutto troppo beneper essere
vero.
~*~
Quel pomeriggio arrivò a BakerStreetcon venti minuti di anticipo.
Rimase in strada per i successivi dieci, camminando
avanti e indietro sul marciapiede di frontealla porta del 221B, strofinando le mani tra loro in un chiaro
gesto nervoso. Per un attimo pensò pure di andarsene, di scappare ancora una volta
da quello che lo aspettava e che aveva paura di affrontare, ma non lo fece, non
questa volta. Era un uomo, che diamine, doveva risolvere la cosauna volta per tutte.
Quando mancavano ormai cinque minuti all’ora
dell’appuntamentoJohnsi decise a fare quegli ultimi
passi che lo separavano dalla porta verdognola e, preso il coraggio a due mani,
suonò il campanello.
Si udirono alcuni passi felpati all’interno,
poi, dopo un tramestio di chiavi, comparve una signora sulla settantina, vestita
di un viola molto appariscente, cheglisorrise allegramente. «John Watson?» chiese, ignorando l’espressione stupita
del ragazzo che aveva gettato un’occhiata al biglietto che teneva ancora in mano,
preoccupato di aver sbagliato indirizzo. Nel sentire il suo nome alzò nuovamente
lo sguardo e annuì.
«Oh bene! Ti stavamo aspettando… sono la signora Hudson, la governante degli
Holmes. Prego, entra…»disse, aprendogli la porta.
Si ritrovò in uno spazio angusto e quasi buio,
occupato per buona metà da una scala che portava al piano superiore.«Mycroft ti sta aspettando di sopra, caro. Vuoi del the?
Veloporto su appena pronto.»
John le sorrise e scosse la testa. «No, la
ringrazio.» disse, poi, assecondando l’invito della signora, avanzò verso le scale
e le salì, fino al primo pianerottolo, dove una porta aperta rivelava l’interno
dell’appartamento, piccolo ma accogliente.
«Ehm… Posso?»chiese titubante, affacciandosi verso il salotto dove la figura
di un uomo era seduta su un’ampia poltrona nera.
Mycroft alzò lo sguardo dal giornale che stava
leggendo e fece un cenno di saluto con il capo. «Prego, vieni…»
John avanzò nella stanza, strofinando tra loro
le mani e guardandosi intorno con curiosità. Come aveva intuito alla prima occhiata
l’appartamento non era molto grande: in quel momento si trovava nel salotto, occupato
per la gran parte da mobili, due poltrone e un divano. Le tende alle due finestre
presenti erano tirate e gettavano la stanza in penombra. Sulla sinistra il fuoco
scoppiettava allegramente nel caminetto, sopra al quale una strana varietà di cianfrusaglie
giaceva su di una mensola, tra cui un teschio e un pacco di fogli tenuti fermi da
un coltello.
Sulla parete di sinistra una delle cose che
lo colpì particolarmente fu il grandesmilegiallo disegnato sulla carta da parati, di un’orribile trama a fiori neri.
«Perdona il disordine, la signora Hudson fa
il possibile, ma c’è sempre qualcosa…» sospirò stancamente, chiudendo il giornale
e posandolo sul tavolino tra le due poltrone. «Siediti pure, abbiamo molto di
cui parlare.»
John annuì e, appoggiata la giacca all’appendiabiti
lì vicino, andò a sedersi sull’unica poltrona disponibile posta di fronte a quella
del maggioredegliHolmes: una rossa, dall’aria
molto comoda, cosa che poté confermare un attimo dopo, sprofondandoci dentro.
«A quanto ho capito Jim Moriarty siè presoalcune libertà nei confronti di mio fratello.»
cominciò l’altro, accavallando le gambe e fissando il suo ospite con occhi attenti
e inquisitori.
Il ragazzo annuì, cercando di mantenere il
suo sguardo. «Mi ha dato… alcuni documenti.» mormorò.
«Già, ovvio. Inutile dire chece loeravamo aspettati.» Sorrise, come se non potesse ricevere notizia migliore,
sotto lo sguardo sorpreso di John.
«Ve lo… eravate aspettati?»chiese sconcertato.
Mycroft sospirò. «Oh John, ci sono molte cose
che non sai…» fece una pausa, passandosi una mano sugli occhi. «È una storia abbastanza
complicata, matenteròdi essere il più esaustivo
possibile.»
Frugò nella tasca interna della giacca e ne
tirò fuori un fascicolo di documenti piegati a metà, che dispiegò e porse al ragazzo.
«Ho ragione di pensare che tu non gli abbialettifino in fondo, non è così?»
John annuì e afferrò riluttante i fogli. «Non
penso che sia necessario… sono fatti suoi.»
«Date le circostanze, non più.» Il ragazzo
più grande osservò l’amico di suo fratello scorrere colpevole le righe.
«È successo veramente, questo nonpensosia più un segreto. In passato Sherlock ha,
a tutti gli effetti, abusato di sostanze stupefacenti, danneggiando la sua salute
per un lungo periodo. La situazione mi è sfuggita di mano, abbiamo avuto troppa
fiducia nelle sue capacità intellettive. Ma purtroppo la sua situazione non era
una delle migliori…»
John deglutì a vuoto, incapace di leggere altro,
e riportò lo sguardo sul maggiore degli Holmes.
«Ha sempre ricevuto maltrattamenti dai suoi compagni di classe o semplicemente
da ragazzi dei licei in cui è stato. È sempre stato solo, lui e la sua grande vivacità
e dannata curiosità. Non sarei dovuto rimanere sorpreso di quello che è successo.»sospirò. «Ha cambiato un
liceoall’anno, come puoi vedere. Non
è resistito di più nello stesso posto, almeno fino all’anno scorso…»
«Per-perché?»
Mycroft lo scrutò attentamente.«Sono stato costantemente in azione, l’ho controllato dal
suo primo giorno. È stato un anno perfetto, almeno fino a quando non sei arrivato
tu.»
John rabbrividì.
«Sono rimasto piacevolmente sorpreso dal tuo atteggiamento nei confronti di mio
fratello, in tutti i sensi. Sherlock non ha… non ha mai avuto un amico, uno verointendo.»
Poté quasi vedere un barlume di ringraziamento
nel suo sguardo mentre pronunciava le ultime parole.
«Anche se non capisco cosa possa essere successo
negli ultimi mesi di così grave perché potessi negargli la tua amicizia.»
John divenne all’improvviso paonazzo e tentò
di spiegarsi, ma l’altro lo bloccò con un gesto della mano.
«Non è nei miei interessi saperlo,sonoqui per altro.» Diede un’occhiata veloce all’orologio
da polso, poi si schiarì la voce.«E ora, veniamo al punto del
nostro incontro. Ci sono alcune cose che non sai, maho ragione di credereche sia meglio che tu ne
sia al corrente.»
Il corridoio era silenzioso, privo del chiacchiericcio
e dei passi degli studenti. Non c’eranessuno, a parte lui e il ragazzo che lo aveva
seguito fino a quel punto.
Preso un respiro profondo, Sherlock si girò.
«Non sono ancora riuscito a sottrarla a Mycroft.»
Moriarty sorrise, poiportògli occhi al soffitto e le mani ad unirsi dietro
la schiena. «Non importa, sono sicuro chepuoi farcela, mio caro Sherlock Holmes…»
«Perché lo hai fatto?» ribatté il moro, fissandolo
con occhi vacui. «Perché hai uccisoPowers?»
«Oh andiamo… non ci sei arrivato?» Moriarty
rise, riportando lo sguardo sul giovane di fronte a sé. «Sei così ingenuo…»
«L’hai ucciso perché aveva scoperto la verità,
perché sapeva che eri un ladro e un assassino.»
«Uh… dai, ti prego. Non era così intelligente.»
Sherlock fece qualche passo in avanti, lentamente,
scrutandolo dalla testa ai piedi. «Troppo intelligente, troppo superiore per rimanere
semplicemente a guardare il mondo che ti gira intorno, troppo per aspettare, per
crescere.»
«Pensi che, se avessi cominciato dopo, sarebbe
statomeglio?» ghignò.«Ho ucciso a tredici anni, [2] come pensi che
sia vivere una vita così monotona come tutti gli altri?Matu ne sai qualcosa, vero?»
«Perché tutti questi giochetti? Perché non farmelo capire e basta?»
«Andiamo… non dirmi che non ti sei divertito.»Si lisciò la camicia, lanciando una veloce occhiata al proprio orologio.
«Potrei denunciarti,potreidire tutto a mio fratello.» si arrischiò Sherlock,
osservando con attenzione la reazione di Moriarty, che a quelle parole rise.
«Beh… tu fallo, e sappi che ti brucerò. Ti brucerò il cuore, te lo garantisco.»
Il ragazzo rabbrividì, passandosi la punta
della lingua sulle labbra. «E se trovassi un modo per raggirarti?»
«Beh, allora buona fortuna. Credimi, ne sarò veramente sorpreso.»disse, e con un ultimo sguardo al giovane Holmes, se ne andò.
«No…»
«Sì.»
«Moriarty… non può essere.»
Mycroft sospirò e portò le punte delle dita
alle labbra.«Ci ha ricattato, Dio solo
sa quanto sia intelligente quel ragazzo. Lavora per una rete terroristica, vuole
alcune informazioni da me e per averle è arrivato fino a minacciare mio fratello.»
«Che cosa?»
Il maggiore degli Holmes annuì tristemente.
«Ricopro un certo ruolo nel governo e ha richiesto la mia attenzione riguardo alcuni…
alcune cose.»
Sospirò e si allungo sulla poltrona, osservando
John con un mezzo sorriso sulle labbra.«In definitiva, Sherlock se
n’è andato da quella scuola per questioni di sicurezza. Moriarty ha avuto quello
che gli interessava ma non ho intenzione di mettere a rischio la sua vita più di
quanto non lo sia già stata. Per quanto ti riguarda, John, puoi tranquillizzarti,
non hai nessuna colpa in merito.»
Il ragazzo si afflosciò sulla poltrona, a metà
tra il sollevato e il frustrato. Aveva passato settimane a cercare di scacciare
quel senso di colpa che lo attanagliava in ogni momento, e alla fine, Sherlock se
ne era sì andato, ma per motivi che non lo riguardavano minimamente.
«Ora…» diede un’altra occhiata all’orologio,
poi una alla porta, e infine tornò su John. «Sherlock frequentaattualmenteuna scuola privata, dove possiamo essere certi
che non gli accada nulla. Mi aveva chiesto di non coinvolgerti in tutto questo perché
a quanto pare teme alla tua incolumità ma credo che date le circostanze sia megliochetu sappia tutto, per filo e per segno. E…»
Il campanello suonò al piano di sotto, seguito
da alcuni passi veloci che andavano ad aprire. «Sherlock, caro… cosa succede?»
John spalancò gli occhi, mentre Mycroft allargava
il suo sorriso e abbassava lo sguardo, evitando accuratamente quello del ragazzo.
«Perché Mycroft è qui? Che cosa diamine è successo ora?»La voce irritata di Sherlock
risuonò chiaramente sulle scale, avvicinandosi velocemente.
John si alzò di colpo, il cuore che cominciava
a battergli all’impazzata nel petto, e quando sentì la porta dell’appartamento aprirsi
con un sonoro scatto non poté fare a meno di girarsi verso di essa, il fiato improvvisamente
corto.
Il nuovo arrivato s’immobilizzò di colpo sulla
porta, le parole che stava per pronunciare bloccate sulla punta della lingua, incapaci
di essere esposte. Spalancò gli occhi, un ricciolo che gli ricadeva sulla fronte
dopo la corsa per le scale. Lo zaino cadde a terra con un tonfo sordo mentre i suoi
occhi si posavano sulla bassa figura del suo unico amico, in piedi di fianco alla
poltrona rossa, lasuapoltrona.
~ John:Youwere the best man, the mosthuman, humanbeing, that I everknow… – 2x03
[2] Purtroppo non me lo sono inventata, nel telefilm si può chiaramente vedere
la data in cui Moriarty ha uccisoPowers, quando Sherlock scrive
il post sul suo blog alla fine della 1x03 per chiamarlo alla piscina. Con qualche
rapido calcolo, ebbene sì, Moriarty ha ucciso a tredici anni.
Ebbene sì,parteI. Doveva essere un tutt’uno main questi mesi sono diventata
molto prolissasarebbe venuta una cosa mostruosa, il doppio
del precedente, così mi sono dovuta arrangiare e dividerlo. Tanto non vi dispiace
tenermi compagnia ancora per un pochino, no?:D*evita pomodori*
AVVISO: Questa storia è stata pensata dalla
sottoscritta in un certo modo nei mesi precedenti alla messa in onda della terza
stagione e per questo nella mia testa Mary aveva un certo carattere e certi comportamenti.
Dopo aver visto le nuovepuntate inevitabilmentesono stata influenzata dal’interpretazione della nostra cara Amanda e l'ho modificata
un po' per avvicinarla a quella della serie, ma nella storia ha un certo ruolo e
perciò il suo carattere cambia un po'. Posso dire tranquillamente che è OOC.
Per il resto, nel caso non fosse chiaro,
le parti in corsivo si rifanno ad alcuni flashback, e saranno presenti sia in questochenella seconda parte ;)
E ora, signore esignori, buona lettura!
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 9 – parte I
E
rano ormai giorni che Molly osservava Sherlock:
al mattino, quando prelevava i libri utili per la giornata dall’armadietto che si
trovava sul suo stesso piano, all’ora di pranzo, quando si azzardava a lanciare
un’occhiata a quel tavolo isolato al quale lui amava sedersi, al pomeriggio, quando
varcava la soglia del laboratorio e lui era seduto al suo solito posto. Molly vedeva
sempre Sherlock, ma sebbene lui fosse sempre lì davanti ai suoi occhi, al tempo
stesso era come se non ci fosse.
All’inizio aveva fatto finta di niente, memore
del loro ultimo discorso che era andato a finiredecisamentemale. Era ancora arrabbiata con lui per la
sfacciataggine che aveva dimostrato nel farle chiaramente capire che Moriarty non
gli piaceva.Machi era Sherlock Holmes per
dirle che frequentava la persona sbagliata? Chi era per impedirle di stare con l’unica
persona che l’aveva notata, apprezzata e resa importante? Perché era così che si
sentiva quando stava con Jim:importante. Sherlock non
le aveva dato mai niente di tutto questo, aveva sempre avuto la sensazione di essere
per lui solo una specie di giocattolo al quale poteva chiedere l’aiuto necessario
nel momento del bisogno, per poi essere abbandonata una volta diventata inutile.
Poi però aveva cominciato a vederlo veramente,
a osservare i suoi gesti, le sue espressioni, a notare quei piccoli particolari
apparentemente insignificanti che tuttavia erano pregni di qualcosa di molto più
profondo, qualcosa che Sherlock mostrava inconsciamente al mondo. E non leci era voluto molto per capire che, ancora una
volta, qualcosa in lui non andava.
Conosceva quel ragazzo smilzo e vivace da quando
aveva messo piede nella scuola, lo aveva osservato per un tempo che le era parso
infinito nella sua interminabile contemplazione da ragazza perdutamente innamorata.
Lo aveva osservatocosì tantoda impararne ogni tratto
a memoria, da poter riconoscere ogni più piccola sottigliezza nella sua espressione,
e mai, in quasi due anni, lo aveva visto in quel modo.
Qualcosa in Sherlock stonava con il ricordo
che ne aveva, un ragazzo sfrontato, intelligente e apatico, quasi arrogante, a tratti
maleducato e disinteressato. Qualcosa era cambiato. Nei suoi modi
di fare, nelle sue espressioni, nel suo sguardo. C’era qualcosa in lui che
aveva preso una piega diversa e lo aveva lentamente trasformato in un tesoro ancora
più prezioso, in qualcosa di più maturo, migliore. C’era più delicatezza nei suoi
gesti, più gentilezza nel parlare, più sensibilità nel suo sguardo. E fu proprio
nel suo sguardo che un giorno Molly credette di perdersi. Aveva sempre paragonato
il colore dei suoi occhi al ghiaccio, a quella sostanza consistente e impenetrabile,
così dura, e fredda. Le erarisultatonaturale, paragonato al suo modo di fare, così scostante e gelido.
Eppure, in uno di quei pomeriggi tra tanti,
Molly guardò negli occhi Sherlock Holmes, e tutto quello chevidefu un profondo pozzo di sentimenti repressi
in cui rischiò di precipitare.
«John.»
Un unico sussurro, lieve, quasi inudibile.
Un’unica parola, un unico nome pieno di significato, che forse comprendeva fino
in fondo soltanto lui.
Per un attimo gli sembrò che il cuore avesse
cessato di battergli, quell’attimo stesso in cui incrociò, sorpreso, lo sguardo
di quel ragazzo che lo aveva fatto tanto pensare.
Era proprio davanti ai suoi occhi,John, ilsuoJohn, in carne e ossa.
Rigido, in piedi, di fianco a quella poltrona
rossa in cui tante volte Sherlock si era rifugiato in cerca di conforto. Lasciò
che il suo sguardo indugiasse sulla sua figura stagliata contro la luce soffusa
proveniente dalle grandi finestre del salotto, scandagliando in lungo e in largo
ogni particolare del suo volto e del suo corpo, dal colore biondo cenere dei suoi
capelli alle linee dolci del viso, dall’immancabile maglione dalle trame improponibili
alle sue mani, scosse da un lieve tremito nervoso.
Un leggero rossore andò a imporporargli le
guance quando i loro occhi s’incrociarono nuovamente, come in una silenziosa e impaziente
rincorsa. Sherlock sapeva di essere arrossito a sua volta, ma non era del tutto
sicuro di esserlo per la situazione in cui si trovava o piuttosto per l’essere accaldato
dopo la veloce corsa su per le scale. Ansimava pesantemente, anche se tentava di
nasconderlo, e forse non era solo per quei diciassette gradini.
Ancora una volta si ritrovò con mille pensieri
a frullargli per la testa, aggrovigliati, impossibilitato nel sbrogliare la matassa,
ancora una volta solo per John, per tutto quello che quel semplice ragazzo riusciva
a fargli provare. E per uno che non aveva fatto altro che evitare quel genere di
emozioni per una vita intera, non era altro che un mondo sconosciuto nel quale muovere
i primi passi, senza la minima idea di cosa avrebbe potuto trovare a quello successivo.
Sherlock aveva il terrore di commettere qualche passo falso, di cadere in fallo,
di rovinare tutto, ancora una volta.
John era nel suo salotto, in casa sua, evidentemente
sorpreso di vederlo. Non era stato avvisato, non aveva saputo che sarebbe arrivato,
era stato trascinato lì con la forza? Era imbarazzato, si sarebbe irritato, arrabbiato?
Rimasero a fissarsi per quelli che gli parvero
secondi infiniti, dilatati all’impossibile, ognuno seguendo il filo dei propri pensieri,
poi qualcuno tossicchiò spezzando l’incanto.
Con il cuore in gola Sherlock spostò impercettibilmente
lo sguardo verso la poltrona nera, leggermente più a destra rispetto al suo campo
visivo, e s’irrigidì nel vedere suo fratello alzarsi con estrema calma, stirandosi
i pantaloni con il palmo aperto della mano e alzare beffardo lo sguardo su di lui.
«Bentornato a casa, Sherlock. Spero che tu abbia passato
una buona giornata.»
Le mani scattarono, chiudendosi a pugno, mentre
il cuore cessava di battergli all’impazzata e, improvvisamente, riprendeva il suo
ritmo normale, il fiato che quasi diventava solo un fievole sospiro.
Con la coda dell’occhio vide lo sguardo di
John vagare confuso tra lui e Mycroft, e avvertì una stretta al cuore nel vedere
il suo volto indurirsi. Si era accorto di essere stato imbrogliato, stava collegando
i pezzi, lo avrebbe odiato. Sapeva che John odiava essere ferito nell’orgoglio,
e Mycroft, con quell’aria sicura e altezzosa, di sicuro non aveva migliorato la
situazione.
Era così che doveva andare a finire? Dopotuttoquello che aveva faticato per cercare un modo
di ricongiungersi al suo migliore amico? Mycroft, c’era sempre lui a rovinare tutto,
c’era sempre stato e non avrebbe mai smesso di esserci.
«Avevamo detto che non l’avremmo tirato in
mezzo.»La voce gli tremò appena
nel pronunciare quella frase, anche se tentò di suonare il più sicuro possibile.
Non era colpa sua, John doveva sapere che non era stata colpa sua. Lui non voleva
fargli del male, John doveva capirlo. Lui voleva solo tornare a essere suo amico,
voleva parlargli, vederlo sorridere, condividere tutti quei bei momenti che avevano
passato insieme ancora una volta, eliminando qualunque cosa c’era stata in mezzo
nel frattempo.
John tornò a posare gli occhi su di lui, ma
Sherlock non si azzardò a guardarlo, non voleva vederlo furente con lui, era già
successo una voltae gli era bastato.
«Beh, vedi, non sempre tutto quello chediciè come manna dal cielo. Per una volta, fidati
di me. Non ho mai preso ordini da te, Sherlock, e di certo non comincerò ora.» sorrise l’altro, furbo, e si rigirò il manico dell’ombrello
tra le mani. «Non mi dai mai ascolto quando ti chiedo di fare qualcosa, prendila
come una mia personale vendetta.»
Avrebbe dovutoarrabbiarsi, scattare in avanti, prenderlo
per il colletto della camicia e minacciarlo, mentre invece si ritrovò a spalancare
le labbra, stupito. Dopotuttoquello che gli aveva detto,
dopo tutto il discorso che avevano fatto, aveva avuto il coraggio di fare una cosa
del genere[1]. Sherlock non odiò mai suo fratello come in quel momento.
Si azzardò a lanciare un’occhiata a John, senza
neanche tentare di nascondere la confusione e la paura per quello che avrebbe potuto
vedere.Invece lo sguardo sereno che John gli rivolseinrisposta ebbe la forza di calmare la furia
che gli stava pian piano crescendo nel petto, sostituita da una nuova ondata di
pensieri. Non era arrabbiato? Non era imbarazzato? Non era confuso, infuriato, ferito?
Mycroft tornò a guardare l’orologio con aria
assente, poi annuì tra sé e sé.«Bene. Ho un appuntamento
tra qualche minuto, quindi… vogliate scusarmi, ma credo che abbiate molto di cui
parlare.»Rivolseadentrambi un sorriso mellifluo, poi si allontanò
a passi cadenzati e uscì dalla stanza senza aggiungere altro.
Sherlock lo lasciò passare con sguardo assente,
senza neanche tentare di fermarlo o chiedergli spiegazioni, rimanendo semplicemente
fermo sul posto, incapace di compiere qualsiasi azione.
Il silenzio calò nuovamente, prepotentemente,
su di loro.
Lo vide deglutire, a disagio, e agitarsi sul
posto, forse senza riuscire a guardarlo negli occhi. Quando finalmente alzò di nuovo
lo sguardo su di lui, interminabili minuti più tardi, ogni pensiero negativo sparì
nel nulla, cancellato dal sorriso che John gli stava rivolgendo.
«Va tutto bene?»
Molly si avvicinò con passo incerto al ragazzo,
mentre le barriere d’indifferenza che aveva eretto intorno a sé si andavano a infrangere
di fronte alla profonda quanto raggelante tristezza celata in quello sguardo cristallino.
Per tutta risposta, Sherlock distolse lo sguardo
e lo riportò alle proprie mani, unite nella posizione che era solito prendere mentre
pensava, ignorando del tutto la domanda che gli era stata appena rivolta.
«Sherlock…» lo richiamò la ragazza, decisa
per quella volta a prendere in mano la situazione. Avvicinò uno sgabello e si sedette
di fianco a lui, fissandolo intensamente. Lo vide deglutire e prendere un lieve
respiro, ma ancora non aprì bocca, chiudendosi ermeticamente nel suo guscio, chiudendoaddirittura gli occhi.
Molly sentì un moto d’improvvisa consapevolezza
attraversarla mentre si accorgeva, ancora una volta, della mancanza di qualcosadienormemente importante. «Sherlock…» ripeté,
questa volta con la voce incrinata da una venatura d’incertezza. «Dov’è John?»
Un brividolopercorse, impercettibile, e Molly non poté
che stupirsi della sua reazione, così strana in una persona come lui. Gettò un’occhiata
all’orologio alla parete, costatando che l’ora in cui era solito arrivare il giovane
Watson era ormai passata da un pezzo, mentre un pensiero quanto mai assurdo sifacevastrada nella sua mente.
Sapeva di Mary, ovviamente, sapeva che i due
si erano messi insieme felicemente qualche settimana prima: la ragazza era una sua
compagna di squadra, nellecheerleader, nonché sua amica, in un
certo senso. La bella notizia era arrivata così inaspettata che, come Molly, erano
rimaste stupefatte anche le altre ragazze della squadra, alcune addirittura scandalizzate
dall’improvviso cambio d’ideale, dopo un ragazzo “importante” come Robert Williams.Maerano passate settimane da quell’evento e Molly
aveva più volte visto John ancora in compagnia di Sherlock. Quello che però cominciava
a rattristarla era il ricordo di ben due settimane di silenzio, durante le quali
non liavevamai visti insieme, neanche
di sfuggita.
«A-avete litigato?»
mormorò, pensando all’unico motivo plausibile per un comportamento del genere da
parte del moro.Manon riuscì ad averne conferma,
se non nell’improvviso agitarsi di Sherlock sulla sedia, nel suo strofinare tra
loro le mani con crescente nervosismo.
«Parlami,Sherlock. Posso aiutarti…» continuò, imperterrita, appoggiando una mano sulla sua spalla
nel debole tentativo di rassicurarlo.
Con sua grande sorpresa Sherlock non si scostò
dal suo tocco, rilassando invece la schiena al contatto e poggiando i gomiti sul
tavolo, continuando però a fissare dritto davanti a sé.
«Sherlock…»
Il ragazzo scosse la testa e si scrollò la
sua mano di dosso, come dopo aver preso un’importante decisione.
Rimasero in silenzio per un tempo indefinito,
poi Molly sospirò e si alzò, arrendendosi all’apparente disinteresse dell’altro
nel comunicare i suoi sentimenti.Vennepresto smentita dalla sua voce profonda, che richiamava nuovamente la sua attenzione.
«Cos’haifatto quando Moriarty ti ha chiesto di uscire,
la prima volta?»
Molly tornò a fissarlo, un lieve nervosismo
che andava a infondersi in tutto il suo corpo. «Cosa vuoiancora da Jim? Ti ho già detto che non sono…» si bloccò, confusa dalla nuova espressione che andò a dipingersi
sul volto di Sherlock mentre si girava verso di lei.
Dolore, undoloredistante e profondo, qualcosa che le fece stringere
il cuore. «Perché t’interessa?» chiese quindi, modulando il tono di voce perché
suonasse meno pungente possibile.
«Soltanto… dimmelo.»
Deglutì a vuoto.«E-ero sorpresa… tutto qui. Non
pensavo che qualcuno me lo avrebbe mai chiesto. Di uscire, intendo…»
«Che cosa avresti fatto se lui ti avesse baciato
bruscamente, senza preavviso?»
Molly rimase immobile, aprendo la bocca stupita.
Cosa diavolo stava dicendo? La sua espressione tradiva una certa irrequietezza,
addirittura imbarazzo.
«Sherlock.» lo richiamò, ancora, e lui tornò
a fissare il muro, mordendosi un labbro.
«Che cosa è successo?» chiese infine con un
sospiro, cogliendo al volo il suggerimento che le era appena stato dato. Non avrebbe
avuto altro motivo di porre una domanda del genere.
«Non c’è niente di sbagliato in me…»
Il suo tono di voce quasi la spaventò, da quanto
era basso, profondo.
«Ciao…» mormorò John, talmente piano che quasi
temette non si fosse sentito.
Il moro si agitò sul posto, gli occhi che correvano
frenetici sul suo volto alla ricerca di tracce di collera, inesistenti.
«Io non…» John si guardò intorno, incapace
di tenere fermi gli occhi su di lui per più di qualche secondo.«Non sapevo che… che saresti venuto. Ecco…»
«Non è colpa mia.» lo interruppe subito l’altro,
sulla difensiva, e John sorrise intenerito alla sua espressione sconcertata, sentendo
la tensione che era stata loro compagna fino a quel momento abbandonarlo.
«Lo so. Però… forse tuo fratello ha ragione…» deglutì,
allontanando ancora una volta lo sguardo. «Dovremmo…dovremmoparlare.»
Sherlock sentì il cuore accelerare, e unbrivido lopercorse da capo a piedi nel costatare che
John era anche più tranquillo di lui. Perse un battito quando l’amico si girò e
fece per sedersi sulla poltrona: John non se ne sarebbe andato, sarebbe rimasto,
non era arrabbiato.
Interdetto, mosse qualche passo in avanti e
quando l’altro si sedette definitivamente presepostoanche lui sulla poltrona di fronte.
Tenne lo sguardo fisso sull’amico – se ancora
poteva definirlo in quel modo – e rimase seduto sul bordo del cuscino, nonostante
non si trovasse molto a suoagionell’essere così vicino a
lui.
John deglutì ancora e tornò a posare lo sguardo
su Sherlock, questa volta sforzandosi di mantenerlo.
«Mi dispiace.» Lo dissero insieme, contemporaneamente,
ed entrambi sorrisero imbarazzati nel rendersene conto.
«Non… veramente. Mi dispiace
per… per essermi comportato in quel modo.» John deglutì,
trovando particolarmente interessanti i lacci delle proprie scarpe. «Sono stato un… idiota. Sì, esatto. Mi dispiace…» Prendendo il coraggio a due mani alzò nuovamente lo sguardo
e sospirò di sollievo nel realizzare di aver finalmente raggiunto il proprio obiettivo.
«È stata colpa mia, non avrei dovuto…»
John alzò una mano, bloccandolo. «No, veramente. Non devi scusarti… cioè… ecco, lo hai già fatto
nella lettera… ma non… non c’è n’è bisogno, davvero. Ho sbagliato io.»
Sherlock si appoggiò allo schienale e portò
le ginocchia al petto, tentando di nascondere quel moto di gioia che lo aveva colto
nel sentire quelle parole. «Non… sei… arrabbiato?» mormorò, temendo di rovinare
il momento caricandosi di troppa euforia.
Il sorriso che John gli rivolse per poco non
lo fece sciogliere sul posto. Aveva desideratocosì tantoe per così tanto tempo poterlo vedere ancora una volta, poter vedere quelle
labbra distendersi solo per lui.
«No, non lo sono.» Tentò di suonare il più
sicuro possibile nonostante il groppo alla gola che gli eravenutonel sentire quelle parole. «Non avrei neanche
dovuto… mi sono comportato malissimo.» Strofinò le mani
tra loro, cercando di scacciare l’orgoglio e di dire tutto quello che pensava per
rassicurarlo il più possibile.«Vorrei poter tornare indietro
e… e cambiare. Dire al me del passato di fare meno l’imbecille.» Ridacchiò tra sé e sé, riuscendo a strappargli un sorriso e
a smorzare un poco l’imbarazzo.
«Mycroft non avrebbe dovuto portarti qui.»
«P-perché?»
Sherlock distolse lo sguardo e lo lasciò scivolare
per la stanza. «È pericoloso.»
«Per la storia di Moriarty?»
Annuì lentamente, stringendo un po’ di più
le ginocchia con le braccia per reprimere un brivido. «Erameglio… era meglio se rimanevamo separati.»
John aprì la bocca per dire qualcosa ma all’ultimo
momento si bloccò, mordendosi con forza il labbro inferiore all’espressione triste
sul volto dell’amico.
Deglutì e si guardò intorno, alla ricerca di
un argomento qualsiasi per risollevare la conversazione e renderla il più simile
possibile a tutte quelle passate, come se non fosse successo nulla. I suoi occhi
si soffermarono sulla custodia di un violino, poco distante. «Sai suonare?»chiese stupito.
«Oh ragazzi, scusate se vi disturbo.»
I due alzarono contemporaneamente lo sguardo
verso la signora Hudson, entrata in quel momento nell’appartamento reggendo in bilico
tra le braccia un vassoio completo di tazzine da the e piattini con biscotti. Avanzò
nella stanza stando attenta a non rovesciarsi le cose addosso e poggiò il vassoio
sul tavolino tra le due poltrone, dando poi un buffetto sulla guancia del moro che
allontanò il volto infastidito, sotto lo sguardo divertito di John.
«Un po’ di the e biscotti per merenda.» disse,
sorridendoadentrambi come se fossero
la cosa migliore che avesse visto negli ultimi dieci anni – e forse nel caso di
Sherlock lo era veramente. Poi, guardando John, aggiunse sottovoce, come se non
volesse farsi sentire dall’altro. «Se riesci a tirarmelo un po’ su di moralemeglioancora! È da giorni che gira con quel faccino
triste…»
Il sorriso gli si raggelò sul volto mentre
vedeva con la coda dell’occhio l’amico arrossire violentemente nonostante cercasse
di nasconderlo. «I-io… eh, ok… ci proverò.» deglutì, abbassando
la testa e fissando con una certa intensità il tappeto fino a quando l’anziana signora
non scomparve dietro la porta.
«Vuoi sentire qualcosa?» Senza aspettare risposta
Sherlock si alzò dalla poltrona con un movimento fluido e tirò fuori lo strumento
dalla custodia, avvicinandosi quindi alla finestra e dando le spalle a John, il
quale scacciò a forza i sensi di colpa e versò del the bollente in una tazza, soffiandoci
poi sopra per raffreddarlo.
«Perché dovrebbe esserci qualcosa di sbagliato
in te?» mormorò con gentilezza.
Sherlock si passò le mani sul volto e respirò
piano. «Perché non…» deglutì, incapace di continuare.
«Che cosa hai fatto?Cosa èsuccesso con John?» Molly
tentò di essere il più persuasiva possibile, spronandolo a raccontargli la situazione.
Sapeva per certo che parlare lo avrebbe aiutato e forse, pensò con una certa soddisfazione,
lei stessa poteva provare ad aiutarlo.
«Io l’ho… l’ho baciato.»
La ragazza rimase interdetta, sorpresa della
risposta. Forse un pochino se lo era aspettata, ma sentirlo dire lo rendeva ancora
più surreale di quanto già non fosse. «E lui si è arrabbiato?» chiese, cauta, mentre un moto di compassione
la avvolgeva alla vista di quel ragazzo confuso da qualcosa che non riusciva a controllare.
Sherlock sembrò riprendersi e rizzò la schiena,
respirando piano.«Non capisco perché dovrebbe
esserlo. Dovrebbe?»
Voltò di poco la testa verso di lei, guardandola
con un’espressione attenta e calcolatrice, tutto il contrario di quello che era
fino a qualche secondo prima.
Molly scosse di poco la testa. «Io non… non
lo so…»
«Bacia milioni di ragazzeall’anno, non è così? Siamo amici, lui sa che…
che io non… perché dovrebbe arrabbiarsi per uno stupido bacio? Non ho mai baciato
nessuno, invece lui l’ha fatto un sacco di volte. Avrebbe dovuto capirmi,dovrebbecapirmi, no?» L’occhiata che le rivolse aveva una strana ombra di disperazione.
La ragazza scosse nuovamente la testa, gli
occhi chele si inumidivanonel vedere quel ragazzo sempre sicuro di sé crollarle lentamente davanti, un
pezzo alla volta. «Sherlock non… forse non è arrabbiato…» disse in un sussurro.
«Forse… forse non se loaspettava,tutto qui.»
«Ma le ragazze s’innamorano di lui, no? Perché deve essere così strano che io…
che lui…»
«Per le ragazze è diverso.» Prese un respiro
profondo, avvicinandosi quel tanto chebastavaper trovarsi a poche decine di centimetri di distanza da lui, per fargli sentire
la propria vicinanza.«John… lui ha gusti diversi.
Ecco…» sospirò. «Gli piacciono le ragazze…»
Sherlock tornò a guardare il muro e rimase
in silenzio, soppesando le ultime parole della ragazza. Perché doveva essere tutto
così dannatamente difficile?
«Io non voglio… non è colpa mia. Perché John non dovrebbe più… parlarmi?» la voce s’incrinò e si ritrovò a mordersi un labbro con ferocia.
Si alzò di scatto e si sistemò il maglione, ignorando l’improvviso pizzicore agli
occhi e quel nodo alla gola che gli impediva di pensare lucidamente.
«Non mi hai mai detto di saper suonare…»
Sherlock non rispose, poggiando invece il mento
sullo strumento e cominciando a muovere l’archetto sulle corde, componendo una melodia
lenta, malinconica, che si diffuse nell’aria fino quasiadentrare nelle ossa di John, a farlo rabbrividire.
A metà brano circa si ritrovò costretto a riappoggiare la tazzina sul vassoio, prima
che il tremore alle mani gli facesse rovesciare il liquido ambrato sulle vesti.
Quando il moro terminò
rimase immobile con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra, perso nei suoi pensieri,
almeno fino a quando un lieve battere di mani non lo fece tornare in se stesso e
girare verso l’amico.
Sorrise intimidito nel rivedere, finalmente,
lo sguardo adorante che John gli aveva sempre rivolto.«Sei bravissimo. È bellissima…»
disse, sorridendogli apertamente.«Non mi hai mai detto niente
di… tutto questo. Né del tuo passato, né… né di quello che fai al pomeriggio, finita
scuola.»
Sherlock ripose lo strumento al suo posto e
si strinse nelle spalle. «Non è importante.»
John sospirò intenerito. «Perché non dovrebbe
esserlo?»
«Non è mai interessato a nessuno.»
«A me sarebbe interessato.»
Lo sguardo che Sherlock gli rivolse per poco
non gli impose di alzarsi e stringerlo in un abbraccio stritolatore. Quello che
invece si limitò a fare fu mettere tutta la dolcezza e l’affetto possibili nell’ennesimo
sorriso che tornò a rivolgergli. «A me interessa.» si corresse poco dopo.
«Perché non mi dici cosa hai fatto in queste settimane? Com’è la nuova scuola?»
Sherlock si lasciò convincere dal suo tono
allegro e solidale e cominciò a parlargli di tutto quello che era successo dopo
la sua dipartita dal Barts, caricandosi di entusiasmo per tutto quello che, finalmente
dopo tutto quel tempo, gli pareva di aver ritrovato. Gli raccontò di come si fosse
trasferito a BakerStreet, dove abitava con la signora
Hudson senza nessun genitore a dargli fastidio – anche se apprensiva com’era, sua
madre lo veniva a trovare un giorno sì e uno no per sapere come stava – di come
la nuova scuola fosse molto più permissiva, di come lì non esistessero bulli e di
come stesse bene, potendo girare tranquillamente per i corridoi senza che nessuno
gli desse fastidio. Gli parlò di com’era stato obbligato a indossare quell’orribile
uniforme e di come gli mancassero gli abiti che solitamente metteva al Barts, ma
omise quella parte del racconto di come aveva passato tutti i pomeriggi solo con
se stesso, senza nessuno a fargli compagnia oltre a quel teschio sul davanzale del
caminetto, di come fossero proceduti quegli esperimenti che avevano iniziato insieme
al Barts, di quanto fosse stato noioso tutto quel tempo senza di lui; di quanto
fosse stato triste e sconfortato dalla sua lontananza.
«E di amici? Ne haifattidi nuovi?» chiese John qualche
decina di minuti più tardi, in un attimo di pausa tra un discorso e l’altro. Si
sentiva sollevato del fatto che Sherlock avesse cominciato a parlare allegramente
di tutto ciò, come se veramente non fosse successo niente nelle ultime settimane.
Gli sembrava di essere tornato indietro nel tempoaduna delle loro classiche chiacchierate nel laboratorio: solo che questa volta
non era lui a parlare, ma Sherlock.
A quella domanda il moro s’incupì. «Non ho
bisogno di amici…»
Qualcosa gli chiuse la bocca dello stomaco.
«Non ne ho mai avuti, non ne ho e non ne voglio.» Si rigirò la tazza ormai vuota tra le dita, osservandola con
attenzione come se fosse un inestimabile tesoro.
«Non è vero…» mormorò John, sconfitto. «Non
è vero.» ripeté, con più convinzione. Lo guardò fissò negli occhi, mantenendo il
suo sguardo con orgoglio. «Hai Lestrade… e Mike, e Molly.» Deglutì a vuoto. «Hai
me…»
Sherlock spalancò impercettibilmente gli occhi,
come sorpreso, e John si costrinse a continuare, colto da un moto d’implacabile
tenerezza. «Non mi sono comportato esattamente da amico ma… voglio farmi perdonare, Sherlock. Voglio farlo perché… beh, perché sei il
miomiglioreamico.»Sorrise nuovamente, questa
volta però mantenendo lo sguardo.
Il moro rimase immobile al suo posto, non un
muscolo che si muoveva. «Co-cosa?»
«Sì.»
«Vuoi dire che… io sono…»
«Sì, il mio migliore amico. Ne abbiamo passate tante insieme… forse non te l’ho
mai detto, vero? Hai ragione, come ha ragione Harriet.
Sono proprio un idiota.»
Qualcosa dentro Sherlock si smosse definitivamente,
qualcosa che non avrebbe mai saputo descrivere ma che si trovava molto vicino al
cuore. Il petto gli si gonfiò di gioia e, se solo si fosse lasciato andare, probabilmente
lacrime di contentezza avrebbero solcato le sue guance.
«Anche se non frequentiamo
più la stessa scuola… beh. Possiamo comunque continuare a vederci, no? »
Sherlock annuì subito, senza pensarci per più
di qualche secondo. «Po-potresti venirequi. Quando vuoi. BakerStreetè sempre aperta per te, John…» mormorò incerto.
John, invece, annuì convinto. «Tornerò, te
lo prometto…»
E lo fece, per somma felicità del giovane Holmes.
John tornò il giorno seguente, e quello dopo
ancora. Poi fece una pausa di un paio di giorni nel quale Sherlock non ricevette
sue notizie e si preoccupò, ma inutilmentedato cheil ragazzo tornò il terzo scusandosi perché aveva avuto degli impegni.
Alla fine raggiunsero un
accordo. John sarebbe venuto un giorno sì e due no, un compromesso per riuscire
a tenergli compagnia e fare tutte quelle cose per la scuola e per i suoi altri amici:
partecipare agli allenamenti, passare del tempo con Mary, uscire la sera con i ragazzi
della squadra di rugby e partecipare alle partite dei Blackheath.
Quando il nome di Mary uscì dalle labbra di
John – perché era stato distratto, solo per quello – Sherlock sentì una fitta al
petto e dovette trovare una scusa per non guardarlo negli occhi, per nascondergli
quello che provava veramente al pensiero dell’amicocon quella ragazza. Non che Mary non gli piacesse, non provava niente di particolare
nei suoi confronti. Solo, sapere che John provava per lei quello che non avrebbe
mai potuto provare per lui, lo faceva stare male e non doveva, non voleva stare
male. Glielo doveva, in fondo: John lo aveva perdonato ed era tornato da lui, erano
di nuovo buoni amici, e pretendere di avere qualcosa in più sarebbe stato soltanto
meschino nei suoi confronti.
All’inizio riabituarsi l’uno alla compagnia
dell’altro, almeno per John, non fu facile, non dopo il bacio. C’era un certo imbarazzo
nei suoi movimenti all’interno dell’appartamento di Baker Street,
una certa attenzione in tutto quello che faceva in presenza di Sherlock. Quandoparlavasembrava misurare le parole con cura, a volte
sembrava quasi avesse imparato interi discorsi a memoria; quando sedevano nelle
poltrone del salotto e Sherlock suonava qualcosa per lui, sembrava sempre evitare
accuratamente il suo sguardo; e per nessun motivo, neanche per sbaglio, si toccavano:
John gli era vicino in quei giorni, ma mai fisicamente. Da quando si erano riappacificati,
non si erano mai nemmeno sfiorati una volta, neanche per sbaglio. Né quando Sherlock
gli prestò una penna, né quando John gli versò il the un pomeriggio, né quando,
girando l’angolo del corridoio, per poco non andarono a scontrarsi.
C’era qualcosa di dannatamente sbagliato in
tutta quella timidezza: come se un solo minuscolo contatto con la pelle di John
significasse riportarli alla situazione nel bagno di settimane prima.
Per fortuna le cose migliorarono col tempo,
e piano piano John riuscì a lasciarsi andare e a comportarsi
nuovamente come una volta, rilassandosi al comportamento di Sherlock, come se si
fosse assicurato che il moro non tentasse più un approccio con lui maggiore di quello
che avevano già.
Sherlock avvertì il cambiamento graduale e
se ne rallegrò, ma l’ultimo passo lo fecero un pomeriggio,
quando successe qualcosa di totalmente inaspettato.
Il giovane Holmes stava trasportando una pila
di libri dalla sua camera al salotto, parlando contemporaneamente con l’amico, quando
non vide una pallina di spugna ai suoi piedi e, inevitabilmente, rovinò a terra.
John, a soli pochi metri di distanza,accorseprecipitosamente.
«Che diamine…?»
Il giovane Holmes riemerse dai libri massaggiandosi
piano la testa, un lieve rossore che andavaadimporporargli le guance.
«Tutto bene?» sorrise l’altro, divertito, e
gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi.
Sherlock spalancò gli occhi a quella muta offerta,
lo stomaco che gli faceva una capriola mentre realizzava il repentino cambiamento.
Tremante, si aggrappò alla mano dell’amico e con un piccolo sforzo si tirò su, evitando
accuratamente lo sguardo dell’altro. Con uno sbuffo, fece poi per chinarsi nuovamente
per raccogliere i libri, quando lo colse un improvviso giramento di testa.
John fu rapido ad afferrarlo per un braccio
e lo sostenne. «Ehi… hai battuto la testa?»
Scosse lentamente il capo, cercando di ignorare
con tutto se stesso la presa ferrea sulla sua carne.«Va-va tutto bene. Devo solo…»
Il tocco caldo delle dita dell’amico sulla
sua fronte glibloccaronole parole sul nascere. «Ti
sei addirittura tagliato con la copertina di un libro, idiota.» ridacchiò, scostandosi
e obbligandolo a sedersi sulla poltrona lì vicina. «C’èdel disinfettante da qualche parte in questo
marasma?» chiese.
Sherlock annuì, leggermente confuso, e lo guidò
con la voce fino al bagno, dal quale il giovane Watson tornò quasi in un lampo.
«Missione compiuta.»
«Non ce n’è bisogno… è solo un graffio…» mormorò
piano, non del tutto convinto, gli occhi che si facevano grandimano a manoche John si sedeva di fronte a lui, scostandogli
i capelli dal volto e applicando il liquido con un batuffolo di cotone.«Meglio prevenire che curare, no? Metti che poi s’infetta?
E poi… dovrò pure imparare. Se voglio diventaremedicoci vorrà questo e ben altro. Senza contare che nel bel mezzo di una battaglia
armata, tra tanta polvere e chissà cosa, le infiammazioni saranno il pane quotidiano…»
Sherlock s’irrigidì, dimenticando per un attimo
la sua vicinanza e tutto quello che essa comportava. «Che cosa?»
John gli lanciò un’occhiata di traverso, per
poi comprendere e farsi subito più serio. Deglutì, finendo di tamponare il taglio
in silenzio, poi si scostò definitivamente e si afflosciò su quella che era ormai
diventata la sua poltrona. «Non… te l’ho mai detto, vero?» chiese con un filo di
voce.
Il moro non rispose, fissandolo con intensità
e agitazione crescente.
Prese un respiro profondo.«A-avevi ragione… la prima volta
che ci siamo incontrati. Cioè, al laboratorio, ricordi?»
Annuì.
«Mio padre era un medico… un medico militare. In Afghanistan.Venneferito ad una spalla durante un attacco a sorpresa
e riuscì a salvarsi solo grazie all’intervento di uno dei suoi compagni… Venne curato,
ma non risultò più idoneo al campo di battaglia, e venne congedato…» John guardava
fisso un punto del pavimento, lo sguardo triste.«Tornò a Londra e conobbe
mia madre, poi nacque mia sorella e infine io… Puoi immaginarti che tipo di vita
fece. Era felice sì, ma la guerra gli mancava, lo sapevano tutti. Lo capivo da come
me la raccontava…» Sorrise lievemente al pensiero e Sherlock
si agitò sulla poltrona, sapendo dove stava andando a parare.«L’ho sempre ammirato, sempre. Ho amato i suoi racconti
dal primo all’ultimo, ho sognato di essere lì con lui,adogni attacco, perlustrazione o appostamento.»
«È sempre stato il mio sogno. Fin da bambino…» Alzò
gli occhi su di lui, un’ombra di tristezza che li attraversava.«E ora… è quasi il momento ormai. Devo fare la mia scelta.»
Sherlock distolse lo sguardo, accoccolandosi
contro lo schienale della poltrona. «Capisco…» mormorò, distante.
John lo guardò con apprensione e sorrise tra
sé e sé. «Sono davvero così importante per te…?» Fu poco più di un sussurro, ma
ogni parola giunse alle orecchie del moro chiaramente, quasi fosse stata pronunciata
a pochi centimetri di distanza. Alzò gli occhi su di lui, scrutando attentamente
la sua espressione serena e rilassata, il caldo sorriso che alleggiava sulle sue
labbra, il lieve rossore che andava crescendo sulle sue guance.
Si ritrovò ad annuire, lentamente. «Molto…»
sussurròinrisposta.
Si sorrisero a vicenda, e mai, da quando si
erano conosciuti, si sentirono così legati come in quel momento.
«Vedrai che si risolverà tutto…» furono le ultime parole che Molly gli rivolse,
prima che la porta del laboratorio si chiudesse dietro di lui.
~*~
«Sono così contenta di essere venuta a vedere questo film, stasera! È una vera
fortuna aver trovato qualcunoa cuipiacciano i film romantici…»
Mary sorrise, felice, e gli passò un braccio intorno alla vita per stringerlo più
a sé.
«Già… è stato proprio un belfilm.[2]»
«Perché non insegni anche aglialtriad essere così romantici?» Si avvicinò e gli
stampò un bacio sulla guancia. John si fermò,l’avvolse in un abbraccio e
premette le proprie labbra sulle sue, immergendo le dita tra i suoi capelli biondi
e chiudendo gli occhi, lasciando che fosse lei ad approfondire ilcontatto. I suoi pensieri volarono al film che aveva appena visto, dov’era successa
una scena del genere, finita poi in una stanza da letto, fino al mattino seguente,
quando i due protagonisti si erano risvegliatiunoabbracciato all’altro. Qualcosa nel basso ventre si risvegliò a quel pensiero,
ma poi un’altra immagine si sovrappose a quella di Mary.
I capelli improvvisamente divennero più corti,
si arricciarono, il corpo della ragazza si assottigliò, facendosi più spigoloso
e fragile, il morbido ostacolo dei suoi seni sparì del tutto, lasciando spazio a
un petto magro e nudo.
Si staccò di colpo, ansimando e spalancando
gli occhi, cercando di mettere a fuoco Mary, sorpresa di fronte a lui.
«John? Tutto bene?» chiese, preoccupata.
«Io…» deglutì a vuoto, sbattendo velocemente le palpebre.«Io… sì. Scusami, un giramento di testa…»le regalò un sorriso tirato,
poi la strinse in vita e riprese a camminare, lasciando tuttavia vagare la mente
su altro mentre la ragazza gli illustrava come, secondo lei, il protagonista avrebbe
potuto agire diversamente sul finale.
~*~
«John! John!»
Il ragazzo si girò di colpo, guardando la ragazza
arrivare a passo di marcia lungo il corridoio.
«Dove diavolo sei finito? È da mezz’ora che ti aspetto all’uscita degli spogliatoi!»
Sherlock, al suo fianco, distolse lo sguardo
e si girò verso l’armadietto, nascondendo a forza un sorrisetto divertito.
John esibì una faccia perplessa. «O-oddio… oggi è martedì?»
Mary annuì, le mani piantate nei fianchi e
gli occhi che correvano dal suo ragazzo a Sherlock,ancora voltato.
«Io…» John si passò una mano sul volto, sospirando
stancamente. «Scusami… me ne sono dimenticato…»
«Muoviti, o perdiamo anche l’autobus delle
cinque emezza.» sospirò, per poi allontanarsi
senza rivolgergli più un’occhiata.
Sherlock esaminò ancora una volta il metallo
macchiato di giallo, quel poco che noneranoancora riusciti a lavar via dall’ultima volta che era stato lì. «Per lo meno
alla nuova scuola nessuno gira con bombolette spray alla mano…»
«Immagino…»
«Scusami se… se Mary…»
«Oh no… non preoccuparti, è colpa mia… andiamo?»
Sherlock annuì, raccolse lo zaino da terra e si avviò lungo il corridoio, con
John al seguito.
~*~
«Stavamo pensando di andare a mangiare qualcosa al solito ristorante, questa
sera… sul presto comunque. Le altre ragazze dicevano che…»
«Proprio oggi pomeriggio?» John allontanò lo
sguardo dal piatto di pasta che aveva davanti e si voltò a guardarla.
«Perché?»
«Sherlock voleva andare a vedere quel nuovo
film thriller… quello con… glieloavevopromesso.»
Mary gli scoccò un’occhiata truce.«Non puoi rimandare? È soltanto uno, noi siamo due intere squadre.»
John aprì la bocca per replicare, manon trovò nessuna argomentazione in grado di reggere il confronto.
Eranogiorni che il moro lo stava
assillando per quel nuovo film: era uno dei pochi che avrebbe potuto davvero interessarlo,
diceva, in cui la trama non era per niente stupida e che perfino lui sapeva che
avrebbe faticato per trovare il colpevole. Aveva già prenotato i biglietti, e quello
era l’ultimo giorno in cui era in programmazione. Non ci sarebbe stata più alcuna
possibilità di vederlo.
Tentò di dirglielo ma lei rimase impassibile.
«Se è un veroamicocapirà perché non puoi andare.
Rinuncerestiadun appuntamento con la tua
ragazza per accompagnare un ragazzino arrogante ed egoista?»
John incassò le parole senza replicare, non
trovando la voglia necessaria per iniziare una discussione che avrebbe dato luogo
a un litigio. «D’accordo, ho capito…» sospirò invece, tornando a guardare fisso
il proprio piatto e ignorando il sorrisetto di vittoria che si dipinse sul volto
della ragazza.
Sherlock non l’avrebbe presa per niente bene.
~*~
«Ti avevoavvisato,Sherlock...»
Il ragazzo lo ignorò, fissando la carta plastificata
accartocciarsi nel caminetto e prendere lentamente fuoco. Si era seduto lì, per
terra, subito dopo aver ricevuto la chiamata di John un paio d’ore prima, e non
si era più rialzato. I biglietti cheavevaconservato con cura fino a quel momento, guardandoli con gioia ogni volta che
ci posava sopra lo sguardo, erano finiti appallottolati con rabbia nella sua mano
nel giro di due minuti, non appena aveva scoperto che sarebbero stati del tutto
inutili, per poi essere distesi e appallottolati di nuovo, più volte, fino a quando
il fuoco non aveva attirato la sua attenzione e, questione di secondi, i biglietti
erano andati a fare compagnia alla legna da ardere.
«Mai farsicoinvolgere,i sentimenti sono un errore, il più grande errore umano.»
«Non sono coinvolto.»
Mycroft sospirò, spostando il peso da una gamba
all'altra. «Ne sei così sicuro?»
Le fiamme danzavano davanti ai suoi occhi,
allegramente, non facendo altro che accrescere la sua rabbia. Avevano programmato
tutto, lui e John, dal film a cosa prendere da mangiare, e Sherlock ci aveva pensato
per giorni, felice di poter fare qualcosa di nuovo con il suo amico, qualcosa che
in qualche modo lo faceva sentire come tutti gli altri. Il ragazzo sembrava essere
stato entusiasta della cosa.Maovviamente non avevano fatto
i conti con Mary, John non si era evidentemente preoccupato di avvisarla e di tenersi
libero per il pomeriggio.
«Sono abbastanza chiari i tuoi sentimenti per
lui, sai?»
Sherlock continuò a guardare fisso nel fuoco,
lasciando che la rabbia scivolasse via, sostituita da una sensazione di vuoto, un
dolore al petto, quel qualcosa che sapeva precedere le lacrime.
«Ma John non sembra avere i tuoi stessi interessi…
non è il caso che tu ti arrenda?»
Una sola, unica lacrima solcò il suo volto,
scivolando veloce verso il mento e rimanendo sospesa nel vuoto, pronta a cadere.
«Lasciami in pace.» mormorò,
la voce leggermente roca.
E, sorprendentemente, Mycroft soddisfò la sua richiesta.
~*~
«Beh? Già a casa?»
John voltò di poco la testa sul cuscino, osservando
la sorella con occhi vuoti. «Mary mi ha trascinatoadun appuntamento dell'ultimo secondo.»
Harriet spalancò di poco le labbra, stupita.
«E Sherlock?»
Distolse lo sguardo e lo puntò sul soffitto,
respirando piano.«Ho sbagliato. Di nuovo.»
La ragazza si lasciò cadere sul letto e osservò
tristemente il fratello. «Pensi che ti saresti divertito di più con Sherlock al
cinema, vero?»
«Decisamente.»
Rimasero in silenzio per una decina di minuti,
poi Harriet sospirò e chiuse gli occhi, appoggiando la testa al muro. «Pensa a cosavuoi veramente, John, e tienitelo stretto.»
«Se solo lo sapessi…»
~*~
Il fuoco scoppiettava allegramente nel camino,
rompendo il pesante silenzio che alleggiava nella stanza. La luce prodotta dalle
fiamme era l'unica a contribuire all'illuminazione del piccolo salotto, insieme
alla fioca luce proveniente dalle finestre, quella poca che riusciva a filtrare
tra nuvole nere come pece all'esterno.
Sherlock sedeva nella poltrona rossa, lo sguardo
perso davanti a sé, il petto che si alzava e abbassava lentamente al ritmo del suo
respiro. Erano appena passate le cinque, e aspettava, con calma, l'arrivo della
pioggia. Era una scommessa che aveva fatto con se stesso, non appena aveva notato
il cielo carico di pioggia, un paio di ore prima. Si era ripromesso che, se non
avesse cominciato a piovere prima di tre ore, avrebbe tagliato definitivamente i
ponti con John e tutto quello che lo riguardava, perfino Moriarty. Semplicemente,
era tutto diventato troppo per essere sopportato, e si era stancato di aspettare.
John aveva fatto la sua scelta, aveva scelto Mary, e Sherlock non aveva intenzione
di competere con lei per le sue attenzioni. Per una volta si era affidato ai consigli
di Mycroft: non valeva davvero la pena provare qualcosa per chiunque. Sherlock si
era sempre fidato solo di se stesso e le cose erano sempre andate a gonfie vele.
Non aveva veramente bisogno d'altro.
Mancava ormai solo una mezzora scarsa allo
scadere del tempo che avrebbe deciso il suo futuro da lì in avanti.
Era una cosa abbastanza stupida, se ne rendeva
conto: affidare il destino dei suoi sentimenti a un evento così casuale come la
pioggia... eppure sentiva che era la cosa migliore da fare. Da solo forse non sarebbe
mai riuscito a scegliere.
Una mezzora ancora senz’acqua a bagnare le
strade e sarebbe finito tutto, eforse
forseera quello che desiderava nel profondo.
Un tuono risuonò in lontananza, seguito subito
da una leggera vibrazione vicina.
S’immobilizzò, smettendo addirittura di respirare
per qualche secondo. Un'altra vibrazione.
Con estrema lentezza voltò il capo alla sua
destra, guardando interrogativo il proprio cellulare sul basso tavolinetto. Possibile?
Ormai con l'attenzione catturata dal piccolo
oggetto si alzò, avvicinandosi.
Sbloccò lo schermo e lesse il nuovo messaggio.
Il cuore mancò un battito, gli occhi che scorrevano
velocemente il breve testo.
Con uno scatto repentino volò verso la porta,
afferrò il cappotto e si precipitò giù per le scale, salutando a gran voce la signora
Hudson e bloccando appena in tempo un taxi di passaggio.
Non si accorse neanche del dolce battito delle
goccedipioggia sul tetto dell'auto,
troppo preso dai nuovi pensieri che cominciavano a frullargli per la testa.
Vieni e gioca.
Tetto del Barts. JM
Continua…
Note:
[1] Non vi siete perse una scena, tranquille ;)
Un discorso tra Mycroft e Sherlock c'è stato, nel mio immaginario, ma non è
strettamente importante per questa storia. Un giorno vedrà la luce, ma in un altrocontesto.
[2] Dal primo capitolo:
Sarah annuì. «D’accordo… Ma niente film romantici, nonsonoproprio il mio genere.»
L’altro ridacchiò. «Neanche il mio.»
Ps. Il prossimo capitolo
è già a metà! Spero di riuscire a finirlo in fretta sfruttando gli ultimi giorni
di vacanza ;)
«E poi è arrivata Denise, con quel suo sorrisino falso, chiedendogli le stesse
identiche cose che gli stava chiedendo Jennifer! L'avrei presa a schiaffi! E sì
che lo sapeva che Denise ci stava provando…»
«Uhm…»
«È l'ora che abbassi un po' i toni quella stronza, poco ci mancava che Denise
scoppiasse a piangere. È da secoli che va dietro a quel ragazzo, poi arriva lei
e… glielo porta via?Mache ci provi soltanto…»
«Uhm…»
«Senza contare che l'altro giorno sono stata
dal ginecologo, avremo un bel maschietto!»
John storse il naso mugugnando l'ennesimo «Uhm…»
del pomeriggio, quando realizzò improvvisamente le ultime parole di Mary e fece
scattare su la testa, guardandola con un'espressione inebetita. «Che cosa?»
Mary mise il broncio e sbatté con un po' troppa
forza il libro sul tavolo.«Perché non mi stai ascoltando?
A cosa pensi di così importante?»
John si passò una mano sul volto, innervosito
dallo scherzo appena ricevuto, e sfogliò un'altra pagina del libro di storia, con
fare annoiato. «Sono rimasto in biblioteca con te perché mi hai chiesto di aiutarti
a studiare, non per sentirmi raccontare vita, morte e miracoli delle tue amiche…»
Mary gli scoccò un'occhiata truce. «Pensavo
di raccontarti qualcosa della mia vita,visto
chetu non lo fai mai!»
John sospirò, sentendo montare lentamente la
rabbia nella sua voce. Il vento si stava alzando ancora una volta, pronto a travolgerli
nella tempesta, l'ennesima discussione senza capo né coda.«Per favore, Mary, andiamo avanti, ok? Non ho voglia di
perdere tempo inutilmente.»
«Perché ovviamente è questo che fai nei tuoi pomeriggi con Sherlock, no? Studiate
e studiate senza neanche guardarvi in faccia!»
John alzò lo sguardo, stupito. «Cosa c'entra
Sherlock, ora?»
«Sherlock, Sherlock… non fai che parlare di lui! C’entra sempre. Stavi pensando
a lui prima, non è vero? Magari a quanto ti saresti divertito a casa sua invece
che stare qui ad ascoltare qualche innocente attimo di vita della tua ragazza!»
La guardò, stralunato, senza tuttavia avere
la forza di ribattere. Purtroppo, per una volta, Mary aveva ragione: stava pensando
proprio a Sherlock, al fatto che lo aveva lasciato solo con se stesso per l'ennesimo
pomeriggio di seguito. Non appena la ragazza aveva cominciato a parlare degli inutili
pettegolezzi riguardanti le sue amiche, avevapraticamentemandato il cervello in standby, lasciando scivolare i pensieri verso quel
ragazzo solo nel suo appartamento a Baker Street, a fare chissà quale interessante
esperimento.
«Non sono stupida, sai? Non è la prima volta che mi chiedono perché continui
a stare con te se non mi dedichi mai le tue attenzioni!»
John strinse le labbra in un muto scatto rabbioso.«È questo che sei? Gelosa di Sherlock?»chiese poco dopo, con la
voce più bassa di quanto avrebbe voluto.
Mary portò gli occhi al cielo, esibendo una
smorfia disgustata.«Ci manca poco! Ti rendi conto
di come ti comporti? In ogni cosa che facciamo c'è sempre Sherlock di mezzo: “maio dovevo fare di qui, dovevo
fare di là”… e alla tua ragazza chi ci pensa? Uhm?»
Il biondo prese un respiro profondo, cercando
di calmare almeno in parte la rabbia. «Stai diventando ridicola…»
«Ridicola?» Esibì un sorriso sarcastico.«Come credi che mi debba sentire? Robert per lo meno si
premurava di parlarmi!»
«Parlarti? Passiamo insieme almeno otto ore al giorno tutta la settimana, se
non di più, perfino nei giorni in cui sto qualche ora da Sherlock! È il mio migliore
amico, perché diavolo nondovreidedicargli del tempo?»
«Un amico non ti occupa i pensieri ventiquattro ore su ventiquattro! Robert era
sempre pronto a fare qualunque cosa per me! Portarmi lo zaino quando era troppo
pesante, venirmi a prendere alla fine di ogni lezione, uscire tutti i pomeriggi
a svagarsi in lunghe passeggiate romantiche…»
«E allora perché l'hai lasciato!» sbottò, alzandosi
in piedi e rischiando di buttare a terra la sedia per lo slancio improvviso.
«Signori, cos'è questo baccano?» Il bibliotecario
si affacciò da dietro uno scaffale, guardandoli truce. «Vi devo ricordare in quale
luogo ci troviamo?»
«Perché pensavo fossi un ragazzo migliore…»
sibilò lei non appena fu fuori della vista dell’uomo. «E
ci ho anche creduto all'inizio. I tuoi modi gentili, la tua espressione quando mi
guardavi… ti rendi conto che non ti comporti più così?»
John chiuse gli occhi e respirò lentamente.
«O forse la tua attenzione ora è rivolta solo a quello stupido ragazzo? Devo
dare ragione ad Anderson e le sue teorie sulla coppiaWatson-Holmes?»
«Perché devi dire così?» La guardò, deluso.
«Lo sai come vi chiamano?Johnlock! JOHNLOCK! Quellesfigatedi Louise eMelyssacontinuano a blaterare cose senza senso su quanto siete “teneri" insieme!»
Spalancò le labbra, stupito. Conosceva le due
ragazze, erano quelle del primo anno che si sedevano sempre insieme al tavolo opposto
a quello dei Blackheath, fissate con gli attori,film e
serie televisive, fumetti e chissà cos’altro. Erano diventatecheerleaderall'inizio dell'anno e si erano subito fatte
notare per la loro eccessiva esuberanza. Con una fitta al petto soppesò attentamente
le parole della ragazza, iniziando con il pensare a quanto fosse ridicola quella
teoria e ritrovandosi a ripetere mentalmente quella strana unione di nomi,trovandoche suonasse estremamente bene.
«Come dovrei sentirmi io?» piagnucolò lei,
rivolgendogli un paio di occhi colmi di tristezza.
John deglutì, scacciando per l’ennesima volta
l’immagine di Sherlock tra le sue braccia nel bagno, ed esitò, scuotendo poi la
testa debolmente. «Sherlock non ha nessuno,
ok? Nessuno che si preoccupi di starlo ad ascoltare e discutere con lui, nessuno
che gli dia retta e non si limiti a classificarlo come psicopatico e a prenderlo
in giro. Sono il suo unico amico.»
«Quel ragazzo ègay!» lo interruppe l'altra, guardandolo incredula.
Respirò a fondo e annuì. «Lo so.»
Mary spalancò ancora di più gli occhi.«È innamorato di te! Sai anche questo vero? O forse non
hai neanche notato come ti guarda?»sibilò tra i denti.
«So anche questo…» mormorò, gli occhi persi
in un punto indefinito di fronte a sé. «E allora?»
«Allora cosa?» La ragazza lo guardò con gli
occhi lucidi. «Passi del tempo con un ragazzoa cuipiaci?»
«Sì!» esclamò, tornando a guardarla con occhi
vacui. Si chinò in avanti, abbassando la voce per limitare il disturbo a chi sedeva
poco lontano.«E la sai una cosa? Lo faccio
perché lui haveramentebisogno di me…»Con il cuore che cominciava a battergli a mille cominciò a riordinare le proprie
cose, ignorando la sua espressione stupefatta e mettendo un po’ troppa energia nei
movimenti.
«Che cosa fai?»
Deglutì, chiudendo la cerniera anteriore dello
zaino. «Vado da lui.»
Mary si alzò, fermandolo per un braccio. «Perché?»
La guardò negli occhi, mantenendo orgogliosamente
lo sguardo. «Perché è la cosa giusta da fare.»
«Non puoi farlo! Mi stai tradendo con Sherlock? Mi stai veramente facendo questo?»
Una lacrima lerigòil volto, gli occhi castani
che lo fissavano, increduli.
John la guardò per qualche secondo, ponderando
attentamente le parole, ma quando stava perparlareavvertì il cellulare vibrare nella propria tasca. Abbassando lo sguardo lo tirò
fuori dai pantaloni e lo sbloccò, spalancando poi gli occhi di fronte al messaggio.
«Se davvero mi hai amato, una volta, guardami negli occhi e sistemiamo tutto.
Facciamo pace e vediamo di risolvere la cosa… okay?»chiese lei, con un filo di voce.
John respirò piano e tornò a rivolgerle lo
sguardo. «Devo andare, mi dispiace Mary…»
Fece per girarsi ma lei lo bloccò, prendendogli
il volto tra le mani e costringendolo a guardarla dritto negli occhi. «Ti prego…»
cominciò a tremare lievemente, altre lacrime che si aggiungevano alla prima nel
lento percorso verso il mento.
Il ragazzo alzò le mani e le poggiò sulle sue.
«Mi dispiace, non posso.» Un nodo gli si fermò in gola.«Hai ragione, non sono stato leale con te, e mi dispiace.
Lui… lui ha bisogno di me…»respirò piano, scacciando il senso di colpa. «Mi dispiace…» Allontanò le sue
mani dal proprio volto, continuando a guardarla negli occhi, poi si voltò definitivamente
e sparì verso l’uscita della biblioteca.
Qualcuno potrebbe farsi male… sul tetto. JM
~*~
Sherlock poggiò le mani sulla porta di uscita
e, dopo un ultimo momento d’esitazione, spinse il battente e la aprì.
Subito una folata di aria fresca di fine inverno
gli sferzò il volto, costringendolo a portarsi una mano alla fronte per scostare
un ciuffo ribelle di capelli, poi si guardò intorno e mosse lentamente qualche passo
in avanti. Registrò con gli occhi ogni minimo particolare di quella superficie di
cemento, dal buco di scolo in un angolo alla vernice scrostata presente su tutto
il cornicione, fino a fermarsi definitivamente sulla nera figura seduta poco più
avanti, girata verso l’esterno della terrazza, che guardava con occhi persi il paesaggio
sottostante.
«Ben ritrovato, Sherlock!» Moriarty si voltò
verso di lui, sorridendo mellifluo.«Pensavo di non vederti più!
Com’è la nuova scuola?»
Sherlock non rispose, fermandosi a pochi passi
di distanza e studiandolo attentamente, la testa leggermente inclinata di lato.
«Lo sai? Ci sei mancato… la squadra ha perso una delle sue vittime preferite.»rise l’altro. Gettò un’ultima
occhiata di sotto, poi si alzò e unì le mani dietro la schiena.«Allora… cos’è tutto questo silenzio? Hai perso la tua solita
facciatosta?»
«Cosa vuoi?» chiese, ignorando la sua domanda.
Moriarty alzò lo sguardo, per poi coprirsi
gli occhi con una mano.«Bel pomeriggio per morire,
vero? Guarda, perfino il cielo piange tutto il loro dolore!»
Sherlock s’irrigidì, respirando piano.
Il ragazzo rise di gusto alla sua espressione
quasi stupefatta e tornò a guardarlo, cominciando a girargli intorno. «Sai cosa
succede a chi ne sa più di quantodovrebbe…» mormorò.
Il moro deglutì e lo seguì con lo sguardo.«Perché dovresti farlo ora? Hai avuto tutto il tempo, prima…»
Rise nuovamente. «Davvero non ci arrivi da
solo?»
Le lacrime le rigavano il volto,silenziose, mentre se ne stava seduta lì, esattamente
dove John l’aveva lasciata, a fissare con occhi vuoti la parete di fronte a sé.
Era stata una stupida a non notarlo prima,
se ne rendeva conto solo in quel momento. O meglio, se n’era resa conto quando era
statoluia dirglielo, quell’uggioso
pomeriggio dopo gli allenamenti. Era così palese, così terribilmente chiaro, che
lei stessa non riusciva a capire come avesse fatto a non accorgersene fino a quando
non era stato qualcun altro a suggerirglielo, a metterle quella pulce nell’orecchio.
John era chiaramente innamorato di quell’insulso ragazzo, quell’arrogante, insolente
e altezzosoragazzo. Sarebbe dovutorisultarleevidente dalle occhiate che gli lanciava, da
quell’espressione completamente persa che aveva quando ne parlava, da quei continui
e insensati riferimenti ai pomeriggi che passava insieme a lui. Ma era andata avanti
per la sua strada, ignorando tutti quei segni chele si
presentavanosotto agli occhi, convinta dei sentimenti di John per lei. Lo aveva notato fin
dal suo secondo anno lì al Barts, quando si erano incrociati in un corridoio e il
ragazzo le aveva rivolto uno sguardo quasi adorante, osservandola inebetito fino
a quando non era sparita dietro l’angolo. Mary sapeva di avere questo effetto sui
ragazzi, così all’inizio non se ne era curata più di tanto. Poi però lecheerleadere i Blackheath avevano iniziato ad uscire insieme,
e pianopianoavevano cominciato a conoscersi
meglio: la bionda aveva tuttavia accuratamente evitato ogni sua possibile avance,
concentrandosi invece su quelle di Robert, che era molto più affascinante e sicuramente
più popolare del giovane Watson. Si era ricreduta solo qualche mese prima, essendosi
stufata dei suoi soliti discorsi privi di senso. Al tempo non aveva quasi fatto
caso a Sherlock, fermamente convinta che John passasse del tempo con lui e stesse
dalla sua parte negli scontri con i Blackheath solo a causa del suo buon cuore.
«Ma sei proprio sicura che John provi per te
quello che tu provi per lui?»Lesueparole le rimbombarono nella mente per l’ennesima
volta nelle ultime settimane, riecheggiando con l’identico tono conle qualierano state pronunciate.
Ricordava bene quel momento, subito fuori dall’uscita
degli spogliatoi: quel giorno John non c’era, si erapresouna brutta febbre ed era rimasto a casa per
quasi una settimana. Era stato proprio in quel momento che Moriarty si era avvicinato…
«Andiamo… non potevo ucciderti così, all’improvviso,
senza nessuna apparente ragione… e poi ildivertimento
dovesarebbe stato?»
Sherlock represse un brivido. «Che cosa avresti
fatto di così divertente?»
«Oh… tante, belle cose. Sai, una volta che hai fatto partire lafiammanon ci vuole molto perché il fuoco si espanda,
soprattutto se hai ben steso prima il terreno con molte foglie secche…»
Socchiuse le palpebre, cercando di capire il
senso di quella metafora.
«Quante persone ti odiano qua dentro! Hai mai provato a contarle? Ogni ragazzo
che hai rimbeccato per la grammatica scorretta, che hai pubblicamente umiliato svelando
interessanti dettagli sulla sua vita… un po’ tutti, insomma. Cominci a capire…?»
Sherlock aprì nuovamente gli occhi, realizzando
finalmente l’intricato piano del ragazzo che gli stava di fronte. «E una volta data
la notizia della mia assenza per droga non c’èvolutoniente perché tutti ci credessero, cominciando a pensare che fossi solo un tossicodipendente…»
Jim sorrise, soddisfatto.«Vedi? E non ho fatto neanche molta fatica, haifattotutto tu. Quei dettagli sul passato sono soltanto
tuoi… gli errori che hai commesso anche.»
«Quindicome pensi di farla finire la storia?» chiese
infine, il cuore che cominciava ad aumentare il suo ritmo.
«Dimmi un po’ Mary, quante volte John ti ha abbandonato per il suo migliore amico?
Quante volte si è dimenticato di te perché doveva fare qualche cosa di molto interessante
con quello Sherlock Holmes?»
Il cuore cominciò a batterle velocemente. «Che
cosa vuoi dire?»
«Andiamo… non dirmi che non ci hai mai pensato. Ti sei mai chiesta che cosa faccianoqueidue insieme tutti quei pomeriggi? O per quale
assurdo motivo John continui a riferirsi a lui ogni santa volta?»
A quelle parole rimase interdetta, fissando
il ragazzo a bocca aperta. «Mi staresti dicendo che John è innamorato di Holmes?»
L’altro strinse le spalle. «Diquesto non nesono certo, ma forseforsedarei ascolto a tutte quelle voci che li riguardano…
non credi?»
«Piantaladi dire fesserie. John non ègay.»
Moriarty rise di gusto. «Solo perché non è
mai stato con unragazzonon significa certo che non
sia gay… chi ti dice che non abbia represso la sua situazione solo per non essere
preso di mira? Non è la prima volta che un omosessuale si nasconde agli occhi di
tutti coprendosi con una ragazza… nel tuo caso, addirittura unadella più popolaridella scuola!»
«John non farebbe mai una cosa del genere!»
«Uhm… quanto realmente sai di lui, ragazza mia? È cresciuto in una famiglia relativamente
povera, senza un padre, con una sorella alcolizzata…»
«Smettila.»
«E poi quel bacio… fossi intemi sarei preoccupata.»
Lo guardò, esterrefatta. «Quale bacio?»
«Come, non lo sapevi?» L’espressione sorpresa
sul suo volto era comicamente falsa.«È stata la causa del loro
litigio! Sherlock si è spinto un po’ troppo in là e ha pensato bene di baciarlo,
quella volta nel bagno… i pettegolezzi girano, lo sai?»
A quelle parole sbiancò completamente.
«E quanto si è arrabbiato John! Ma oralo ha perdonato… proprio un
bravo ragazzo.»
Mentre ripensava al discorso, si rigirò quello
stranogiochinotra le mani, con un’altrettanto
strana levetta al centro.
«Ragazzo depresso sisuicidanella sua scuola! Il ragazzo che soffriva di
depressione, morto suicida dal tetto del rinomato liceo Barts!»
Sherlock respirò a fondo, inalando più aria
possibile nel tentativo di calmare l’improvvisa agitazione.«Cosa ti fa credere che riuscirai nell’intento? Potrei benissimo
aver chiesto aiuto a mio fratello, nel tragitto per venirequi…»
«Masappiamo entrambi che non è così, non è vero?»
sogghignò l’altro.«Devi proprio odiare tuo fratello
per non rivolgerti a lui in un momento cruciale come questo. Sai, per essere così
intelligente sei proprio un idiota…»
Rabbrividì al suono di quella parola, quell’insulto
che John gli aveva sempre rivolto scherzosamente.«E se decidessi di non farlo?
Se decidessi di non buttarmi?Cosa farestiper obbligarmi? Mi punteresti
una pistola alla testa?»
Moriarty sorrise, beffardo.
«Beh, pensaci Mary… parlargli. Magari ha solo bisogno di un aiuto esterno, magari
puoi riportarlo sulla buona strada… non pensi anche tu?»
Rimase a fissarlo, inerte.
«Nel caso le cose finissero male, ecco… potresti
voler dare una piccola lezioncina al tuo caro ragazzo…»
Era stato in quel momento che le aveva premuto
nella mano quello strano oggetto, sorridendole rassicurante.
«Ti basterà tirare quella piccola levetta al
mio segnale e John capirà il madornale errore che ha commesso…»le aveva sussurrato in un orecchio, prima di accarezzarle il volto e andarsene.
«Se non lo farai gli spogliatoi del campo darugbysalteranno in aria, e con loro anche tutti quelli che si stanno preparando al
suo interno proprio adesso! Allora, cosa hai intenzione di fare?»
~*~
John uscì dalla biblioteca correndo, lasciano
perfino cadere lo zaino a terra senza quasi accorgersene.
Si fiondò per i corridoi, correndo più velocemente
che poteva, cercando di pensare razionalmente a cosa stesse accadendo sul tetto
della scuola.
Il suo primo pensiero dopo aver letto il messaggio
era andato a Sherlock, al fatto che sicuramente il ragazzo doveva trovarsi sul tetto:
solo in un secondo momento avevarealizzatoche il “qualcuno” che avrebbe potuto farsi male poteva essere effettivamente
lui.
Sentiva la paura crescergli lentamente dentro,facendosistrada tra tutti quei pensieri ottimisti che
non riusciva a fare a meno di formulare in situazioni di emergenza come quella.
Aveva il terrore di non arrivare in tempo, di non poter fermare qualsiasi cosa stesse
succedendo là sopra:non poteva permettersi di perdere Sherlock, non dopo tutto quello che era successo,
e neanche che qualcuno potesse fargli del male. Aveva giurato che non lo avrebbe
più abbandonato, che ci sarebbe stato quando ne avrebbe avuto bisogno.
Si fermò al secondo piano, sfinito, piegandosi
sulle ginocchia e cercando di riprendere fiato.
Perché non era rimasto con lui come prefissato,
quel pomeriggio? Perché non gli era rimasto al fianco, esattamente dove doveva stare?
Sherlock, Sherlock, Sherlock.
Riprese la sua corsa non appena ebbe recuperato
abbastanza forze e completò le ultime rampe di scale, le gambe che a stento lo reggevano
in piedi per il prolungato sforzo. Rimase sul pianerottolo per qualche secondo,
respirando piano, fissando quella porta grigia che lo separava dalla terrazza esterna
e da tutto quello che lì stava accadendo e sarebbeaccaduto.
Non poteva sapere cosa lo stava aspettando,
non poteva sapere se sarebbe tornato indietro vivo o se sarebbe morto su quel tetto.In effettinon sapeva neanche se era uno scherzo, un diversivo,
o una trappola, ma in quel momento non gli importò, neanche se ciò che stava per
fare lo avrebbe portato tra le braccia della morte.
Nonostante questo, John prese un respiro profondo, poi spinse definitivamente
il maniglione antipanicoeduscì fuori, all’aperto, sotto
la pioggia scrosciante.
~*~
Irene Adler aveva vissuto a lungo sotto l’ombra
di Jim Moriarty, lo aveva seguito come un cagnolino durante i suoi anni al Barts,
sapendo di essere una delle sue favorite e una delle quali si fidava maggiormente.
Tuttavia non era di certo una stupida, né una sprovveduta, e sapeva che il ragazzo
nascondeva qualcosa dietro a quella facciata da studente modello che si era costruito
intorno. Non aveva mai osato andare oltre, cercare di capire più a fondo: non avrebbe
mai neanche potuto immaginare di prendersi gioco di lui. Moriarty era troppo intelligente,
se ne sarebbe sicuramente accorto se qualcosa non fosse andato per il verso giusto.
E Irene non aveva alcuna intenzione di cacciarsi nei guai.
O almeno non ne aveva avuta fino a quello che
sembrava un lontano giorno d’inverno, poco prima che Sherlock Holmes sparisse dalla
circolazione.
Aveva accettato, felice di potersi prendere
gioco di lui, e ora era lì, pronta all’azione già da qualche mese, in attesa che
succedesse qualcosa,qualsiasi cosa che la collegasse al
giovane ragazzo che ammirava.
Quando quel pomeriggio ricevette il messaggio di Sherlock, breve e sintetico
come suo solito, sapeva già cosa fare.
~*~
La prima cosa che vide una volta fuori all’aria
aperta, nonostante il brutto tempo, fu l’inconfondibile sagoma del suo migliore
amico, in piedi sul parapetto. Il cuore perse un battito mentre lo guardava esterrefatto.
«SHERLOCK!» urlò poco dopo, tendendo una mano
in avanti come a volerlo afferrare.
Con il cuore in gola vide il ragazzo girarsi
di colpo, i capelli fradici appiattiti lungo il volto pallido ed emaciato. Il suo
fu solo un debole sussurro. «John…»
«Mabene bene… John Watson, il principe azzurro, è arrivato.»
Il mediano strizzò gli occhi e si guardò attorno,
scorgendo subito l’alta figura di Moriarty poco distante da sé. «Jim…»
«Cominciavo a pensare che non saresti venuto… ma come avresti potuto? Sherlock,
l’unico ragazzo di cui tisaresti mai potutoinnamorare…»
Si portò una mano sulla fronte per ripararsi
dalla pioggia e, ignorando deliberatamente il compagno di squadra, si voltò verso
l’amico. «Scendi immediatamente di lì!»
L’occhiata che il moro gli rivolse era colma
di rabbia e agitazione. «Maledizione…» lo sentì mormorare tra sé e sé.
«Ora sì che le cose si fanno interessanti! M’immagino già i titoli sui giornali,
domani mattina…La tragedia omosessuale che ha sconvolto il
liceo Barts, il suicidio della coppia gay vittima del bullismo adolescenziale…»
John tornò a guardare Moriarty, ansimando.
«Che cosa vuol dire?»
«Lascialo andare.» la voce ansiosa di Sherlock
riuscì a farsi sentire sopra lo scroscio della pioggia.
«Oh Sherlock, e come potrei? Così che poi sia in grado di raccontare tutto? Ha
scelto lui di venirequi, ha abboccato all’esca.
Non mi resta altro da fare che simulare il vostro suicidio! Non è un bel finale
per una storia?E insieme andarono verso la morte, uniti per
sempre dal loro profondo amore…»
«Oh per l’amore del cielo, basta!»
«Paura John? Vedrai, sarà molto semplice…»
«Sherlock! Ti prego, scendi di lì…»
Il moro gli rivolse un’occhiata furente, toccata
comunque da una punta di dolore nel sentire riecheggiare in quelle parole il panico
dell’amico. Perché John doveva sempre complicare tutto in quel modo? Si morse un
labbro e strinse una mano a pugno, cercando di fermare un accenno di tremore. «Mi
dispiace John…»
«Mary!» Molly irruppe nella stanza, individuando
subito la ragazza seduta in fondo, occhi alla parete. Si avvicinò dislancio,rallentando il passo quando lei le rivolse
uno sguardo addolorato, gli occhi rossi per il pianto. «Mary, cosa succede?»chiese cauta.
L’altra scosse la testa. «Lasciami in pace…»
Respirò lentamente, cercando di trovare le
parole più adatte. Vide quello che reggeva in mano e per poco non si prese un colpo.
«Tiprego,Mary, ascoltami…»
Irene salì prudente gli ultimi scalini, muovendosi
con passo felpato, cercando di non farsi sentire dal ragazzo in piedi di fianco
alla porta, lo sguardo puntato all’esterno.
Solo quando gli fuvicinasi azzardò a parlare, con un filo di voce.
«Ritrovo pomeridiano sul tetto,quest’oggi, Moran?»
«Se non lo facciamo, farà saltare in aria il
campo da rugby, John…»
Il biondo spostò gli occhi da uno all’altro,
incredulo.«Moriarty… fermati ti prego.
Siamo solo ragazzi dannazione! Che cosa diamine stai facendo?»
«Oh John… quanto sei ingenuo… non capisci che non ti rimane nient’altro da fare?
Saltate e finiamola qui. Stiamo solo perdendo tempo per inutili sciocchezze…»
Rabbrividì, cercando qualcosa nello sguardo
di Sherlock che gli dicesse quanto tutto quello fosse solo una messa in scena.Malui era impassibile.
«Mary,ascoltami,io ti capisco… davvero. John si è comportato malissimo.Madevi capire che…» sospirò, guardandola dritto
negli occhi. «Non sempre le cose vanno come vorremmo… no?» tentò un debole sorriso.
«Ci siamo innamorate entrambe del ragazzo sbagliato…» sussurrò.
La bionda scosse la testa. «John era perfetto…»
«No, non lo era, se siamo in questasituazionenon lo era affatto. Guardami, Mary… io non
ho niente di quello che hai tu. Popolarità, bellezza, ragazzi ai miei piedi… mi
sono innamorata di Sherlock. Lo sono ancora… credo.»deglutì.«Ma non gliene faccio una
colpa. Dovresti sapere anche meglio di me che l’amore non funziona mai come dovrebbe.»
«Perché lui? Perché lui e non me?»chiese con un filo di voce.
«Perché è andata così. Perché John si è ritrovato in Sherlock, loro sono… sono
cosìperfetti insieme. Insomma, li hai mai visti?»
Mary scosse la testa e si prese il viso tra
le mani. «Non posso, nonpossofarlo…»
«Sì che puoi! Calmati, va bene? Prendi un respiro profondo… andrà tutto bene.
Troveremo anche noi la nostra anima gemella un giorno. Uhm?»
«Io non…»
Si avvicinò, fino a inginocchiarsi di fronte
a lei. Con gesti lenti e misurati le tolse l’oggetto di mano e la strinse in un
abbraccio, sospirando sollevata quando Mary la strinse a séinrisposta, cominciando a singhiozzare sulla
sua spalla.
Con un movimento veloce del braccio lo disarmò,
approfittando della sua sorpresa, e lo colpì sulla nuca con il calcio dell’arma.
«BuonanotteSeb…» sussurrò, adagiando piano
il suo corpo a terra.
«Oh ragazzi basta! Mi stostancando,ok? Le minacce le avete avute,
ma forse non vi sono ben chiare.Seb! Vieni avanti, forza…»
Moriarty fece il grave errore di portare gli
occhi al cielo e per questo non vide la figura della ragazza avanzare sul terrazzo,
l’arma puntata verso di lui. Quando finalmente abbassò lo sguardo, arcuò un sopracciglio,
perplesso. «Oh…ohfantastico!»
John si voltò di scatto verso la nuova arrivata,
il sollievo che lo invadeva improvvisamente mentre vedeva con la coda dell’occhio
Sherlock scendere dal cornicione con un lieve balzo.
«Mi hai sottovalutato, Moriarty…» cominciò
il moro, camminando baldanzoso verso di loro, un ghigno soddisfatto sulle labbra.
«Oh, per lo meno, non ti sei curato di tenermi continuamente sotto controllo e notare
il mio piccolo cambiamento.»
Moriarty rise, una risata priva di gioia.
«Una volta, forse, avrei fatto tutto di testa mia, ma mi sono accorto in tempo
che se avevo intenzione di batterti dovevo cedere e chiedere aiuto. Hai intessuto
un buon piano, davvero, ma sono riuscito a superarti…»
«Sherlock Holmes, una mente a dir poco genialedirei… che mi dici di Mary?»
A quelle parole John spalancò gli occhi, spostandoli
da uno all’altro.
«Completamente inoffensiva.»
«E chi ti dice che quella ragazza fosse la
mia unica arma?»
«Oh, non lo era, infatti, non è così? Un semplice diversivo. La tua arma era già al lavoro…»
«Lo è ancora, o hai fermato anche quella?»
Sherlock fece una smorfia.«Ovviamente. Non c’è stato alcun allenamento oggi, ristrutturazione
degli spalti, non lo sapevi?»
Moriarty alzò le braccia al cielo.«Complimenti. Pensavo non ti saresti abbassato a un tale
livello di stupidità. L’amore non è un vantaggio, Sherlock.»
Il ragazzo gettò una veloce occhiata a John,
il quale sentì il cuore mancargli un battito.«Ne sono consapevole e non
vi cadrò più tanto facilmente. Sbagliando s’impara…»citò, guardandolo con supponenza.
«Hai calcolato tutte le tue mosse, complimenti…
ma temo tu non abbia pensato al mio piano B.» disse, mentre armeggiava con le tasche
della felpa, per poi tirarne fuori un’altra arma. «Hai sempre creduto che non mi
sarei mai abbassato a sporcarmi le mani personalmente, non è così?» Caricò e puntò
verso Sherlock, il quale s’irrigidì sul posto.
Irene strinse con più sicurezza la sua pistola.
«Vuoi fare a chi spara per primo?»
«Oh dolcezza… non ti conviene giocare con me.»
Qualcosa dentro John scattò, scacciando il
panico improvviso. Incrociò lo sguardo dell’amico, che a sua volta lo stava osservando,
e rimase colpito dal terrore soppresso nei suoi occhi, quella muta richiesta d’aiuto,
o forse una richiesta di perdono, non lo sapeva. Seppe soltanto che in quel momento
una scarica di adrenalina lo invase, dandogli un coraggio che non avrebbe mai creduto
di possedere. In seguito, non avrebbe più avuto dubbi su che cosa l’avessespinto al gesto estremo.
Un rumore sordo risuonò per le scale, di passi
che salivano velocemente, e in quell’esatto istante avvenne tutto, con una velocità
tale che sarebbe stato difficile ricostruire l’intera scena senza perdere qualche
particolare.
Le dita del ragazzo premettero leggermente
di più sul grilletto, pronte a lasciare andare il colpo, quando John scattò in avanti,
con la forza e la rabbia dovuta ad anni eannidi allenamento nel ruolo di mediano d’apertura della sua squadra, e si gettò
verso di lui, deciso a deviare la traiettoria di un eventuale sparo.
Insieme conJohn anche Sherlock si buttò in avanti, un
solo millesimo di secondo di ritardo, e urtò la spalla di Moriarty, il quale si
era voltato verso il compagno di squadra e aveva premuto definitivamente il grilletto.
Il suono dello sparo risuonò nell’aria, nel
momento esatto in cui una serie di uomini in nero si riversava sulla terrazza, accerchiando
i ragazzi.
Moriarty si scrollò di dosso il moro e buttò
via l’arma, portando le mani in alto.
Sherlock, invece, si lasciò spingere via e
guardò come al rallentatore il suo migliore amico portarsi una mano alla coscia,
un’espressione puramente sorpresa sul volto, e scivolare sul pavimento bagnato su
un ginocchio, vacillando pericolosamente.
Il terrore lo invase da capo a piedi, una scarica
elettrica percorse ogni centimetro del suo corpo, irrigidendo gli arti, mandando
in frantumi per un momento ogni stanza del suo palazzo mentale. Gli parve di sentire
il proprio cuore perdere più di un battito, e, quasi senza neanche rendersene conto,
si gettò in avanti, raggiungendolo.
Non l’arteria femorale, non l’arteria femorale, non l’arteria femorale.
Si buttò in ginocchio al suo fianco e lo accolse
tra le proprie braccia, adagiandolo a terra in modo che la gamba ferita rimanesse
a riposo. Si sedette sui talloni, un braccio dietro la testa di John e l’altro che
artigliava inconsciamente il suo maglione, e osservò attentamente la ferita, cercando
invano di localizzare il punto esatto in cui il proiettile era penetrato.
John, John, John, John…
Lo tenne seduto, accostandoselo al petto, stringendo
un po’ più del necessario. «Tiprego,John, resisti…»
Il ragazzo rantolò, alzando gli occhi su di
lui, e le sue labbra si aprirono in un accenno di sorriso. «Sherlock…» Uno smorfia
di dolore e chiuse gli occhi, respirando con forza per inalare più aria possibile.
Sherlock si avvicinò sempre più pericolosamente
al suo viso, andando quasi a sfiorare il suo naso con il proprio. «Tiprego,John…»
«A-andràtutto bene.» mormorò piano l’altro, le forze
che,sentiva, lo stavano lentamente abbandonando.
«Andrà tutto bene…» ripeté, socchiudendo gli occhi.
Le loro fronti si toccarono e Sherlock strinse
gli occhi, spingendo un pocoper poterapprofondire quel piccolo
contatto, cercando conforto in quelle parole, aggrappandosi al ragazzo come se fosse
la sua unica ancora di salvezza in un mare in tempesta. Riaprì le palpebre solo
quando sentì la mano dell’amico aggrapparsi a sua volta al colletto della sua giacca.
«Tieni gli occhi fissi su di me…»
Sherlock obbedì, respirando piano e a fatica.
L’ultima cosa che John vide, prima di chiudere
gli occhi, furono le lacrime che solcavano il volto del suo migliore amico, per
la prima volta senza controllo; l’ultima cosa che avvertì fu il calore del suo corpo,
del suo abbraccio, del suo volto a pochi centimetri dal suo; l’ultima cosa che sentì,
il singhiozzo silenzioso del suo pianto.
Ti prego Dio, fammi vivere.
E tutto fu buio.
Continua…
Ok, ammetto che questa cosa comincia a sfiorare
il ridicolo.
Vi giuro, in tutte le lingue del mondo e
sulla testa diMoffat, che questa doveva essere
la seconda e ultima parte del capitolo nove.
Ma, e c’è un ma, sono una grande [inserire insulto qui] e siccome devo sempre
stravolgere tutti i programmi, siccome le scene che mi scrivo capitolo per capitolo
prima di iniziare a scrivere una storia non sono mai abbastanza, siccome a quanto
pare questi due piccoli idioti devono farci patire le pene dell’inferno…
C’è una parte III.
Mi dispiace, mi rendo conto che la cosa sta
andando un po’ per le lunghe e vi chiedo umilmente scusa.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo
sto facendo tutto il possibile per finire di correggerlo, ma la vita reale si è
messa in mezzo… Spero veramente di non dovervi fare attendere troppo <3
Non dirò niente. Solo… passatemi l’OOC questa
volta.
E non uccidetemi.
(Hoscritto il capitolo ascoltando di sottofondoYesterdaycantata da Lea Michele. Se volete una colonna
sonora sotto…)
A quella meravigliosa persona
che si sta prendendo la briga dibetareogni capitolo (e di sopportarmi, questa è una delle parti fondamentali di essere
la mia beta, forse^^). Perché senza di lei quasi sicuramente ora nonsaremmoqui.
Happy, averyveryhappybirthday,lalla<3
(Vero che mi vuoi bene in fondo in fondo? *^*)
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 9 – parte III
Seppe di essere sveglio solo quando avvertì
distintamente il leggero scrosciare della pioggia, poco lontano, il ticchettare
delle gocce contro il vetro di una finestra.
Rimase immobile, ascoltando il suono del proprio
respiro, in attesa che la nebbia che gli affollava la mente si dissipasse almeno
un poco, permettendogli di riprendere completamente il controllo del suo corpo.
La prima cosa che lo colpì, quando riaprì lentamente
gli occhi, fu una forte luce bianca che tentò di mettere lentamente a fuoco sbattendo
più volte le palpebre ancora impastate dal sonno. Mosse di poco il capo, strizzando
di colpo le palpebre quando una fitta gli attraversò il cranio da parte a parte.
Aspettò immobile che il dolore si dissipasse, poi si azzardò a gettare una nuova
occhiata al soffitto. Respirò a fondo, rilassandosi qualche secondo, poi finalmente
tentò di tirarsi su puntando i gomiti.
«Fossi intenon farei un simile sforzo.» La vocepacataprovenne direttamente dalla sua destra e John fece appena in tempo a sentirla
che una nuova fitta, questa volta alla gamba, gli mozzò il fiato. «Non ne ha alcun
bisogno.»
Una sedia strusciò sul pavimento e una figura
alta comparve nel suo campo visivo, avvicinandosi.
John rinunciò al tentativo di mettersi a sedere
e si accasciò contro il cuscino, voltandosi verso l’uomo che si rivelò essere nient’altri
che Mycroft Holmes.
«Buongiorno, John.» cominciò l’altro, un sorriso
tirato che andava a dipingersi sul suo volto. «Come stai?»
Il ragazzo accolse con una smorfia il cambiamento
di tono.
«Il corpo è il tuo, nessuno può sapere meglio di te se stai bene o no. Anche
se, in effetti, dal tuo punto di vista preferiresti una risposta per capire esattamente
il tuo stato attuale di salute – in seguito alla ferita di arma da fuoco che ti
sei coraggiosamente procurato salvando mio fratello da quello che avrebbe potuto
essere un colpo mortale – e non un semplice controllo personale delle facoltà fisiche,
che potresti benissimo trovare ascoltando a fondo il tuo corpo. Non ha molto senso
chiederselo quando posso tranquillamente darti il parere del medico che è passato
di qua giustocinquantatreminuti fa. In ogni caso,
la miaera unadomanda di cortesia.» concluse
Holmes, guardandolo dall’alto in basso.
John sbatté un paio di volte le palpebre, stordito
dal fiume di parole, e poi annuì lentamente, attento a non procurarsi altre probabili
fitte. «Credo… penso di stare bene.»
«In questo caso posso assicurarti che hai ricevuto le migliori cure che sono
riuscito a trovare e sei in buona salute. L’operazione è andata a dovere senza lasciare
danni permanenti. Fortunatamente il proiettile ha evitato l’arteria femorale, anche
se ci è andato molto vicino. Hai avuto… fortuna.»
Si passò una mano sulla fronte, ignorando le
ultime parole dell’uomo: di certo non aveva nessuna intenzione di pensare a quanto
fosse andato vicino alla morte, non dopo essersi risvegliato sano e salvo in un
comodo letto di ospedale.
«E Sherlock? Dov’è? Sta bene?»chiese poi, quando il ricordo del volto dell’amico
gli tornò alla mente, pallido e tirato sotto la pioggia continua.
«Si sveglia dopo aver rischiato la morte, senza sapere neanche come si è trovato
in una simile situazione, e la prima cosa cui pensa è mio fratello. Mi sorprendi,John…»
Arrossì di colpo, trovando fastidioso il ritorno
alla formalità nel suo tono. Ignorò il suo sorrisetto a fior di labbra e guardò
da un’altra parte, cercando di far defluire via il sangue dal volto pensando a qualcosa
che non fosse il viso di Sherlock a pochi centimetri di distanza dal suo.
«Sta… bene. Neanche un graffio per sua grande fortuna. È rimasto qui in ospedale
fino a quando non abbiamo ricevuto la notizia che eri fuori pericolo, e a quel punto
è tornato a casa senza una parola. Non ha voluto mettere piede fuori in questi giorni…»
A quelle parole John deglutì, sperando con
tutto il cuore di non aver ferito in qualche altro modo l’amico. Ricordava fin troppo
bene la sua rabbia quando era arrivato sul tetto, il suo volto furioso quando lo
aveva visto, come se fosse arrabbiato con lui per essere venuto.
«Suppongo che avrete modo di vedervi una volta fuori da questo posto, non è così
chiuso in se stesso da non volerti vedere. Credo.»
John annuì e sospirò.«Mia… madre? E mia sorella?»
«Oh, stavano andando a mangiare quando sono arrivato. Spero non se la prenderanno
se non sono riuscite a vedere il tuo risveglio.» rimase in silenzio, forse aspettando
altre domande, ma quando John gli lanciò un’occhiata ditraversosi rese conto della domanda sottointesa e spalancò
impercettibilmente gli occhi.«E ovviamente stanno bene.
Un po’ preoccupate, ma suppongo che stiano bene…»
Chiuse gli occhi e sorrise divertito: gli Holmes
non sarebbero mai cambiati. «Quindi… perché sei qui?» chiese
infine.
L’altro sospirò. «Perchého ragione di credereche tu voglia sapere qualcosa
di tutto quello che è successo, e sono l’unico, a parte Sherlock, in grado di raccontarti
come sono andate le cose per filo e per segno.»
«Bene. Era tutto organizzato? Nei minimi dettagli? Non c’era il rischio che Sherlock
morisse se non fossi andato sul tetto?»
Mycroft sorrise, fortunatamente non visto dall’altro
che aveva ancora gli occhi chiusi.«Esattamente. Non avevo calcolato
il fattore John Watson, anche se ammetto che la piega che ha preso la faccenda è
migliore di quanto avessi programmato.»
«Cos’era in programma?»
«Un finto suicidio.»
John aprì gli occhi e lo guardò, stupito. «Finto?»
«Sì, unacosa untantino complicata. Penso che Sherlock sarà felice di illustrartela in un altro
momento, magari quandosaraipiù lucido.»
«Quindi… Sherlock aveva un piano diverso?»
«Il mio adorato fratellino deve sempre fare di testa sua… Sì, aveva un piano
tutto suo. Sono rimasto piacevolmente stupito dalla quantità di persone cheèriuscito a coinvolgere.»
«In che modo?»
«Oh beh… mi pare di aver capito che la signorina Molly Hooper avesse il compito
di sorvegliare Mary Morstan, Irene Adler di sorvegliare Sebastian Moran e arrivare
in caso di bisogno, mentre Gregory Lestrade il compito di chiamarmi una volta giunto
il momento. Ho fatto il possibile per arrivare quanto prima. E siamo riusciti ad
evitare una probabile morte per dissanguamento, il che mi sembra un ottimo risultato.»
John si accigliò. «Perché non mi è stato detto
niente di tutto questo?»
Mycroft stette un attimo in silenzio, soppesando
le sue parole, poi scosse la testa. «Non so cosa passasse per la mente di mio fratello,
perdonami.»
«E Moriarty che fine ha fatto?»
«Avremo il verdetto finale solo domani, ma
credo che qualcheannettoin carcere se lo farà. Per
quanto la situazione potrà essere in mio potere tenterò di fare del mio meglio perché
sia più tempo possibile.»
Avrebbe voluto fare un milione di altre domande,
ma in quel momento la porta della stanza si aprì e Mycroft per poco non fu travolto
dal passaggio di Jocelyn Watson e della figlia che accorsero subito al letto di
John, la prima regalandogli un lungo abbraccio e la seconda rimanendo un attimo
in disparte per poi prendersi il suo tempo nell’abbracciare il fratello a sua volta
e ricoprirlo d’insulti per lo spavento che gli aveva fatto prendere.
John vide solo con la coda dell’occhio il maggiore
degli Holmes alzarsi con un’assurda tranquillità, sistemarsi la giacca addosso e
uscire in silenziosenza piùalcuna parola.
Riuscì a sopportare tutte le chiacchiere delle
due donne solo al pensiero che dopoquelloche era successo avrebbe potuto non rivederle mai più, e quando la prima tempesta
si calmò accettò di buon grado la chiacchierata che seguì, anche se non riuscì a
fare a meno di estraniarsi dalla conversazione quando gli tornavano alla mente certi
particolari che andava a confrontare direttamente con alcuni ricordi appartenenti
al suo passato.
Adun certo punto non riuscì più ad ignorare il
mal di testa e una smorfia di dolore lo tradì agli occhi della madre, che gli consigliò
di tornare a dormire, per poi rimboccargli le coperte e salutarlo con un bacio in
fronte. Harriet lasciò che la madre uscisse prima di sussurrargli all’orecchio:
«Sherlock è il ragazzo perfetto.»
Gli fece l’occhiolino, con l’aria di chi sa
il fatto suo, per poi uscire rincuorata dal leggero rossore che aveva imporporato
le guance del fratello.
L’ultima cosa cui John pensò prima di addormentarsi, stranamente, furono un
paio di dolci labbra poggiate con delicatezza sulle sue, umide di pianto, un ricordo
che non credeva di avere ma che ebbe il potere di trasportarlo nuovamente nel regno
dei sogni.
~*~
«Allora come sta?»
Mycroft scrutò attentamente il ragazzo al suo
fianco, spostando poi lo sguardo sul marciapiede e sulla strada, scivolando sull’auto
nera che lo stava pazientemente aspettando.
«Sorprendentemente bene. Pensavo sarebbe stato per lo meno scosso, e invece…»
«E Sherlock?»
Sospirò. «A BakerStreet. Non vuole saperne di uscire. Credo che sia…
come si dice? Emotivamente provato.»
Greg lo guardò con una scintilla di divertimento
nello sguardo.«Ma davvero? Sherlock emotivamente
provato?»
«Ho tentato di fargli capire quando fosse inutile…»
«A volte mi chiedo come possano essere cosìidioti queidue.» continuò Lestrade, ignorando accuratamente
l’affermazione che, sapeva, l’amico stava per fare.«Si vede lontano un miglio quello che provano l’uno per
l’altro. Giuro che se non si mettono insieme dopoquelloche è successo li strozzo, uno dopo l’altro.»
Mycroft sospirò, non cogliendo l’allusione
dell’altro. «Dillo a Watson, Lestrade, mio fratello ha fatto di tutto per attirare
le sue attenzioni.»
Il ragazzo lo guardò, stranito. «E cosa avrebbe
fatto, esattamente?»
«Oh beh, di tutto… Si vedono tutti i pomeriggi, o almeno quasi tutti. Lo invita
sempre a casa sua, parlano sempre… insieme. Parlano di cose che probabilmente interessano
solo a Sherlock, temo, ma credo che sia il suo modo per dimostrargli quanto ci tiene
a lui e-»
«Mycroft.»
Si girò appena verso Greg, sorprendendosi della
sua espressione divertita. «Sì?»
«Siamo sicuri di star parlando delle stesse
due persone?»
Deglutì a vuoto, rigirandosi l’ombrello tra
le mani con aria distratta, una stretta al petto indesiderata lo distrasse per un
attimo dal filo del discorso. «E di chi dovrei maiparlare,Lestrade?»
Sorrise. «Stai usando un tono troppo
formale, Mycroft, stai mettendo le distanze…»
Spalancò impercettibilmente gli occhi. «No,
non è vero.»
Greg sospirò debolmente e distolse lo sguardo.
«Credo che accetterò il tuo invito.»
«Q-qualeinvito?»
«Quello che mi proporrai domani via telefono
per discutere a casa tua di argomenti di cui non me ne importa una beata mazza.»Osservò con la coda dell’occhio
il compagno arrossire violentemente sulle guance, prima di girarsi e cominciare
a camminare.
«A domani Mike.» urlò quando fu a qualche metro
di distanza, allungando un braccio in mezzo alla strada nel tentativo di fermare
un taxi di passaggio.
«Mycroft.»ribadìl’altro a bassa voce, una
volta che Lestrade salì a bordo dell’auto, senza tuttavia poter fare a meno di nascondere
un sorrisetto soddisfatto.
~*~
Avanzò zoppicando tra le file di lastreinmarmo, sostenuto da una parte dalla stampella
e dall’altra da Harriet che, lentamente, procedeva al suo fianco tenendolo saldo
per un braccio.
Sorpassarono decine e decine di nomi, date,
foto sbiadite dal tempo e fiori avvizziti per mancanza d’acqua, fino a quando nonraggiunserola fila di tombe recanti una data che conoscevano
molto bene. Sorpassarono varie lastre, fino a fermarsi davanti a una tomba nera
come la pece, del tutto spoglia, recante solo il nome diJonathan Watsone le date di nascita e morte in un’articolata
scrittura a ghirigori.
Harriet lasciò il suo braccio e si chinò in
avanti, posando sul terreno ai suoi piedi un mazzetto di fiori bianchi, i preferiti
della mamma, sostituendoli a quelli già presenti che infilò noncurante nella borsa
a tracolla, con l’intenzione di buttarli più tardi.
Rimasero in silenzio, gli sguardi posati su
quelle parole che tante volte avevano visto, quelle due date che racchiudevano in
un trattino una vita intera, passata prima in un campo di battaglia e poi in una
casa, a crescere una famiglia.
John sentì le lacrime pungergli gli occhi ma
si trattenne, ricacciandole indietro con forza. La consapevolezza di averlo perso
era ormai parte della sua vita, era passato molto tempo da quel lontano giorno di
primavera, ormai avevano metabolizzato la cosa. Solo che, in quel momento, dopoquelloche era successo, sentiva di doversi sfogare
in qualche modo, forse riversando quelle lacrime che aveva sempre trattenuto, come
una prova di forza interiore.
Passò qualche minuto a osservare la pietra
e i fiori, rimuginando tra sé e sé, poi si girò verso Harriet. «Posso… rimanere
un attimo da solo?»
La ragazza lo guardò interrogativa, poi annuì
e si avviò sul selciato, raggiunse un albero e si appoggiò al tronco, sorvegliando
il fratello da lontano.
John la osservò distante, poi tornò a guardare
la lastra di marmo nero e inspirò a fondo, lasciando che l’aria fredda di fine inverno
lo invadesse, dandogli un po’ più di lucidità.
«Hai… ci hai sempre raccontato tante storie…»
cominciò, ripercorrendo conla mente interi pomeriggipassati sulle ginocchia di suo padre, seduto sulla poltrona vicino al camino
nella loro vecchia casa.«Amavo quelle di guerra. Lo
sapevi, vero? Non facevi altro che raccontarmene, anche se Harriet le odiava.»Sorrise lievemente al ricordo.«Ti ammiravo molto… ero, ero orgoglioso. Il mio papà soldato,colui checombatteva per salvare vite. Avevo una fervida
immaginazione.»
Sospirò e percorse con lo sguardo la fila di
lastre accanto a quella del padre.«Ho sempre desiderato diventare
come te. Arruolarmi e… e fare tutto quello che mi hai sempre raccontato. Volevo
che fossi orgoglioso di me.»
Si bloccò e si morse un labbro, respirando
a forza per scacciare la tristezza che rischiava di sopraffarlo. Tornò a guardare
la tomba, cercando di concentrarsi e di eliminare ogni brutto pensiero.
«E ce n’era anche un’altra, di storia. Era quella che seguiva il congedamento
dall’esercito. La preferita di Harriet. Beh, piaceva anche a me, ovviamente, forse
era al secondo posto.»ridacchiò tra sé e sé.«Ci raccontavi di come avessi
conosciuto la mamma; del primo momento in cui l’avevi vista, di come ti fossi innamorato
subito di lei. Ho sempre pensato che l’avessi romanzata un po’ troppo…
«Insomma. Ho provato sulla mia pelle che l’amore a prima vista non esiste…»Sospirò nuovamente e spostò
il peso da una gamba all’altra per non sforzare troppo il braccio che teneva la
stampella.
«Dicevi che senza di lei probabilmente non
saresti resistito al dopoguerra, che erastatail tuo sostegno, la tua ancora di salvezza. Mamma amava quella parte della storia…»Abbassò lo sguardo, chiudendo
gli occhi e strizzando le palpebre nel tentativo di visualizzare il suo volto, così
come lo ricordava.«Lei ti guardava, tu la guardavi
e… e ci dicevi che un giorno l’avremmo trovata anche noi, la nostra persona speciale.
Qualcuno di cui fidarsi ciecamente, alla quale avremmo affidato la nostra stessa
vita. Qualcuno da amare, proteggere e…»la voce gli si spezzò e dovette rimanere in
silenzio per un paio di minuti per recuperare il contegno.
«Io voglioarruolarmi,papà. Voglio… voglio seguire il mio sogno, voglio che tu possa essere fiero
di me.»Una lacrima sfuggì al suo
autocontrollo e gli rigò il volto.
«Macosa avresti fatto se avessi incontrato la
mamma prima di partire?» strinse le labbra, il cuore che cominciava a battergli
più forte nel petto. «Cosa avrestifatto se avessi subito incontrato la tua persona speciale? Avresti avuto il
coraggio di abbandonarla?»deglutì e chiuse gli occhi, passandosi poi una mano sulla fronte.
Aspettò, in silenzio,aspettòuna risposta che, sapeva, non sarebbe mai arrivata.
Voglio solo sapere, papà,vogliosapere cosa avresti fatto tu al mio postopensò disperatamente, le mani chiuse a pugno nel tentativo di ascoltare quella
voce di cui tanto parlavano, la voce della coscienza, quella voce che potesse dirgli
cosa fare.
Una goccia. Due gocce caddero, seguite subito
da una terza. Alzò lo sguardo, osservò quell’immenso spazio che si perdeva su, all’infinito,
quelle nuvole grigie cariche di pioggia. Sorrise amaramente: perfino il cielo aveva
cominciato a piangere per lui, per l’assurda situazione in cui si trovava.
Ripensò a sua madre, al suo sorriso triste
ogni volta che vedeva la foto di Jonathan sulla mensola di sala. Ripensò a quella
foto, dove l’uomo sorrideva con una spalla fasciata, quellaspalladove si trovava la cicatrice di quel proiettile
che aveva rischiato di ucciderlo.Cosa sarebbesuccesso se suo padre avesse perso la vita durante qualche sua spedizione? O
se non avesse mai conosciuto sua madre?
Cosa sarebbesuccesso se quella sera di qualche mese prima
non avesse messo piede alla festa di Clara?Cosa sarebbesuccesso se fosse morto, là sul tetto?
Harriet si staccò dal tronco e cominciò a camminare
verso di lui, aprendo un ombrello per ripararsi dalla pioggia sempre più fitta.
John gettò ancora un’occhiata al nome di suo
padre, custodito per sempre nella pietra e tra i suoi ricordi, checustodiva gelosamentequasi fossero un secondo
cuore. Guardò quel nome un’ultima volta e, tranquillamente, sorrise.«Lo so cos’avresti fatto. Lo so, e sono un idiota per averne
anche solo dubitato.»
«AndiamoJohn? Comincia a farsi un po’ brutto…»
Annuì alle parole della sorella e sotto il
suo sguardo rizzò la schiena, salutando suo padre come gli aveva insegnato da piccolo,
petto in fuori e mano sulla fronte, poi prese sottobraccio la sorella e si avviò
verso l’uscita del cimitero.
Era giunto il momento di prendere in mano la situazione.
~*~
La pioggia batteva violentemente sul vetro
della finestra, coperta solo dal suono melodioso del violino.L’archetto scorreva leggero sulle corde, guidato dalle agili dita di Sherlock,
che, rivolto verso la finestraadocchi chiusi, si lasciava
trasportare dalla dolce melodia, dando al piccolo salotto un senso di pace e tranquillità.
Le note si susseguivano unaaduna, creando un’armonia perfetta
tra loro. Lo spartito dove erano state appuntate le note giaceva inosservato sul
suo leggio: fin dall’inizio del brano non era stato consultato neanche per un istante.
John, seduto alla sua solita poltrona, osservava
distrattamente il corpo smilzo dell’amico muoversi al ritmo incalzante della musica,
una mano che stringeva nervosamente il bracciolo e l’altra che teneva in equilibrio
tra le labbra una tazzina di the quasi fredda.
Per un attimo il motivo rallentò, fin quasi
a spegnersi, per poi riaccendersi improvvisamente con un’acuta nota strascicata.
John rabbrividì d’istinto e la sua mano tremò, tanto che dovette stringere più forte
il bracciolo della poltrona per tentare di fermarla. C’era qualcosa diestremamentefamigliare in quella straziante melodia, qualcosa
che gli stringeva il cuore e che gli impediva di respirare correttamente. Ma non
erasoloquella composizione a fargli
venire i brividi, c’era anche della paura, radicata nel profondo, quella stessa
paura cieca che lo aveva colto alla sprovvista la mattina del suo risveglio, quando
Sherlock non era lì all’ospedale, la stessa che aveva provato per giorni dopo il
bacio nel bagno, quella paura che si riferiva sempre e solamente a Sherlock. Uno
strano nodo gli strinse la gola, tanto che la mano tremò nuovamente e dovette sporgersi
in avanti per riappoggiare la tazzina sul vassoio prima di rischiare qualche brutto
danno.
Il moro dovette accorgersene, perché un attimo
dopo girò di poco il capo verso di lui e abbassò di colpo l’archetto, interrompendo
la musica.
«Non ti piace?» la sua voce risuonò roca e
leggermente irritata mentre volgeva lo sguardo verso di lui e lo trafiggeva con
i suoi occhi chiari.
John ricambiò lo sguardo e sorrise lievemente.«No… è bellissima. L’hai composta tu?»
Sherlock tornò a rivolgere lo sguardo verso
la finestra. «È dedicata a una persona speciale.»
Lo stomaco gli fece una capriola mentre scrutava
con gli occhi la sua figura avvolta nella vestaglia blu notte. Tremò ancora, impercettibilmente,
e dovette trattenersi dal compiere gesti improvvisi, imponendosi di mantenere il
piano che si era fissato in testa, quello che aveva programmato attentamente nei
giorni di convalescenza.Immobile sulla poltrona ascoltò il cuore accelerare
improvvisamente i suoi battiti e deglutì a forza, rimanendo in silenzio, lasciando
che l'eco di quelle parole alleggiasse nell'aria intorno a loro.
Sherlock stava per ricominciare a suonare quando
John spezzò il silenzio, stupendosi egli stesso per la fermezza del suo tono di
voce.«Pensavo di vederti all'ospedale
questo pomeriggio. Pensavo saresti stato lì quando mi avrebbero dimesso. Almeno
quello…»
Il moro s’irrigidì, stringendo con un po’ più
di forza il sottile legno nelle sue mani, rischiando di graffiarsi con le corde.
Tuttavia non si scompose e tenne lo sguardo fisso fuori dalla finestra. «Perché?»
mormorò, sicuro di essere sentito nonostante avesse parlato con un filo di voce.
John deglutì a vuoto e sorrise. «Perché è così
che si fa con le persone speciali, con le persone cui vogliamo bene.»
«Madavvero…» rispose secco ilmoro, azzardando un movimento veloce del braccio ed emettendo una nota stridula
che gli fece venire la pelle d’oca.
Trattenne il respiro, guardandolo con profonda
tristezza. «Ho per caso frainteso?»
Sherlock sbuffò sonoramente e roteò l’archetto
come una spada, fendendo l’aria e producendo un sonoro schiocco, che, al contrario
di quanto avrebbe voluto,non spaventò affattoJohn. Rimase a fissare la libreria di fronte a sé, posando gli occhi su tutto
fuorché sull’amico.
«Mary mi avrà volentieri sostituito.»
Il biondo si lasciò sfuggireunsorriso. «Nessuno potrebbe mai sostituirti…»
Ecco la scintilla, quel guizzo veloce d’incomprensione
nel suo sguardo. Osservò la reazione di Sherlock, mentre si girava e lo scrutava,
impassibile.
«…neanche Mary. E non credo vorrà anche solo provarci, da qui in avanti.»
Un’ombra d’incertezza attraversò il suo volto,
la mente che volava già alla ricerca di tutti quei dettagli che gli erano sfuggiti,
collegandoli e cercando di dare unsensoalle sue parole.«Perché?» chieseinfine,una nota di curiosità nella voce. «È quello
che fanno le persone che ci vogliono bene…» aggiunse sarcasticamente.
John non riuscì a trattenere un sorriso trionfante.«Perché ci siamo lasciati. Io l’ho lasciata, per la precisione.»
Questa volta il viso di Sherlock assunse un’espressione
di pura sorpresa, mentre si voltava completamente verso di lui. Rimase immobile,
senza neanche respirare.
John distolse lo sguardo e con un sospiro raccolse
la stampella da terra. Facendo forza su di essa, si alzò lentamente, emettendo un
grugnito infastidito alla fitta di dolore che gli attraversò la gamba, e fece qualche
passo in avanti, avvicinandosi all’amico. Anche se non lo diede a vedere, il cuore
cominciò a battergli all’impazzata per l’agitazione, sentendo che il momento si
stava avvicinando.
Il moro osservò e registrò ogni suo movimento,
ogni più piccola mossa delle sue mani e del suo corpo. Colse al volo il brusco piegamento
della gamba malata sottoal suopeso, il tremolio della sua
mano sulla stampella, il chiudersi e riaprirsi nervoso dell’altra nell’aria. Ma
più di tutto, il suo sguardo fu catturatodai suoi
occhi azzurro scuro, dalla morbidezza nelle piccole rughe della sua fronte,
dalla dolcezza che emanava quel volto così famigliare ma allo stesso tempo ancora
così sconosciuto. Perché l’espressione che John aveva in quel momentogliera del tutto nuova, un’espressione che mai
era comparsa in sua presenza, che mai gli aveva rivolto.
E improvvisamente ebbe paura.
John si fermò a meno di mezzo metro di distanza,
chiudendo gli occhi con forza nel ricercare quelle parole cheavevascelto con cura, ma che in quel momento sembravano
essere state cancellate dalla sua mente.
«Ho… credo che…» deglutì, riaprendo le palpebre
e fissandolo nuovamente dritto negli occhi, perdendosi nella bellezza di quell’assurdo
colore a metà tra il verde chiaro e l’azzurro, il ghiaccio e una giornata poco nuvolosa.
Alla complessità di quegli occhi si ammutolì, decidendo che i fatti erano decisamentemeglio delle parole.
Ebbe ancora un momento d’esitazione, poi coprì
definitivamente la distanza che li separava, allungando una mano verso il suo viso.
Sherlock scattò istintivamente all’indietro, confuso e impaurito da quello che stava
succedendo, ma non fu abbastanza veloce e John riuscì a bloccarlo con una mano dietro
al collo.
John risalì lentamente verso il suo viso, accarezzò
lentamente con il pollice la sua pelle, scivolando in una lieve carezza sullo zigomo
e la mandibola, il cuore in gola.
Poi, con una lentezza quasi esasperante, si
sporse definitivamente in avanti e poggiò le labbra sulle sue, spezzandouna volta per tuttequella sottile barriera che
le aveva tenute separate per tutto quel tempo. Chiuse gli occhi, lasciando che quel
contatto lo inebriasse, ubriacasse, che il lieve peso di quelle labbra così dolci,
così pure e inesplorate si sovrapponesse al ricordo che già ne aveva, quello di
mesi prima.
Sherlock rimase immobile sul posto, rigido,
il cuore che sembrava quasi volergli uscire dal petto da quanto batteva velocemente.
Spalancò gli occhi in un muto grido di stupore, il cervello che tentava di registrare
ogni singolo millimetro di pelle davanti ai suoi occhi, la sensazione di quelle
labbra sulle sue, del tocco morbido del suo naso sulla guancia dell’altro. Andò
in panne, sopraffatto dalla molteplicità di tutte le emozioni che lo attraversavano.
John si staccò dopoquelliche sembrarono interminabili secondi più tardi.
Lo guardò, gli occhi colmi di una felicità che credeva essereimpossibileda provare. «Ancora meglio di quello che ricordavo…»
mormorò, il fiato caldo che andava ad infrangersi sul volto
bollente dell’altro.
All’espressione totalmente persa di Sherlock,
tuttavia, John sentì il proprio sorriso scivolare via, la sua felicità affievolirsi,
toccata dalla fragilità di quegli occhi.
Lasciò cadere senza esitazione la stampella
a terra e lo trasse a sé con il braccio finalmente libero, stringendogli la vita.
L’altra mano scivolò sulla sua pelle e andò a infiltrarsi tra i suoi riccioli, spinse
in avanti il capo e lo andò a posare sulla sua spalla, incassandolo poi nel collo.
«Oh, Sherlock…» mugugnò, la voce che cominciava a tremargli per l’emozione. Chiuse
gli occhi, sentendosi prossimo alle lacrime. «Mi dispiace, midispiacetantissimo…» premette il volto contro la pelle
lasciata nuda dalla maglietta, aspirando a fondo il suo buon odore. «Ti prego perdonami…
mi dispiace…»
Lo strinse ancora di più a sé, sentendolo fin
troppo rigido tra le sue braccia.Perdonami,perdonamiper la mia stupidità, per la mia cecità, per
averti lasciato solo quando non avrei dovuto. Perdonami, ti prego…
Stava quasi per staccarsi, preoccupato di essersi
spinto troppo in là, quando il corpo del ragazzo si ammorbidì, il suo volto fece
per muoversi in avanti e trovare spazio contro la spalla di John.
Strinse di più gli occhi, il sorriso che tornava
a prendere possesso delle sue labbra mentre le mani di Sherlock si arrampicavano
goffamente sul suo maglione,risalivanotimidamente lungo la sua
schiena e lo stringevano, dapprima piano, poi con più forza. «John…»
Il ragazzo lasciò che una lacrima gli solcasse
il volto mentre premeva le labbra contro il suo collo, lo accarezzava con gentilezza
sulla nuca, aggrovigliando le dita tra i suoi riccioli. «Va bene,vatutto bene… sono qui.»
Lo sentì tremare contro il suo petto e lo strinse
di più a sé, lasciando piccoli baci sulla sua pelle e cullandolo con un leggero
ondeggiamento delle gambe, per quanto la sua ferita glielo permettesse.
Lasciò che si rilassasse nel suo abbraccio, che cercasse conforto nella sua stretta.
Quando un lieve singhiozzo uscì dalle suelabbrasciolse l’abbraccio per poterlo guardare in viso e venne travolto da un’ondata
di dolore nel vedere le lacrime solcare le sue guance. Gli prese il volto tra le
mani e tornòadunire le loro labbra, lasciandoci
una serie di baci a stampo, ancora non sicuro di volersi spingere troppo in là per
paura di ferirlo. Gli sembrava di avere tra le braccia un prezioso vaso di ceramica,
pronto a spezzarsi e andare in frantumi al minimo passo falso.
Dopoquelleche parvero ore Sherlock si calmò e strinse il suo maglione con più forza, tirandolo
verso di lui.
Non seppe come finirono sul divano, come fece
a camminare fin lì con la gamba malconcia.
Fatto sta che si ritrovò seduto in un angolo,
adagiato contro una pila di cuscini, Sherlock accoccolato contro di sé, con gli
occhi lucidi e il respiro che andava ad accarezzargli il petto. John lo stringeva,
possessivamente. Gli mormorava parole di conforto, continuando il movimento delle
dita tra i suoi capelli; gli stuzzicava il volto con il naso, regalandogli qualche
bacio leggero sulle labbra, sulle guance, sulla fronte e tra i capelli.
Come aveva potuto rifiutarlo, come avevapotutoanche solo pensare di poter scappare da tutto
quello. Guardava quel ragazzo fragile tra le sue braccia, ne sentiva il dolce peso,
il calore che esso emanava e si beava di quella visione, come un bambino in un negozio
di caramelle: il suo piccolo tesoro, il fiore sbocciato al sorgere del sole, una
goccia d’acqua colorata in un bicchiere colmo fino all’orlo.
Il suo pericolo vivente.
Aveva sognato fin da piccolo di trovare il
proprio campo di battaglia, di potersi sentire come suo padre. Ed era sempre stato
tutto lì, a portata di mano. Era bastato Sherlock, senza inutili accademie e arruolamenti,
bastava solo lui e sentiva di non volere nient’altro.
Troppo orgoglio, troppa infantilità nel suorelazionarsicon i sentimenti, troppa paura del giudizio
altrui. Aveva evitato a lungo tutto quello, lo aveva tenuto lontano per paura di
stravolgere il suo mondo.Mail suo mondo era stato stravolto
nel momento esatto in cui Sherlock aveva aperto bocca a quel cellulare, quella dannata
–bellissima, benedetta– sera. Era come se in quell'istante le loro vite si fossero toccate, i fili
delle loro esistenze incrociati, intrecciati col passare del tempo, per giungere
infine al culmine, in quella stanza, in quel giorno, in quella situazione.
Intrecciò le dita con quelle del ragazzo, cominciando
a muovere il pollice in circolo sul dorso della sua mano.
Sherlock aprì di poco gli occhi, alzando lo
sguardo verso di lui.
Bellissimo,bellissimoe suo, soltanto suo.
Glisorrise, inebriato della sua presenza. «Non
lasciare che me ne vada, mai più…» sussurrò, chinandosi per sigillare quel patto
con l’ennesimo bacio, questa volta cercando un contatto più approfondito. Gli prese
il volto tra le dita, saggiando con cura le sue labbra, sfiorandole timidamente
con la punta della lingua, rabbrividendo di piacere.
Quando si staccarono Sherlock stese le labbra
in un sorriso colmo di gioia, e andò a sfiorare il suo naso con il proprio. «Non
lo farò.» disse, respirando sulla sua pelle.
John sorrise, le lacrime che ormai non erano
più trattenute, e lo strinse di più a séinrisposta.
Passarono il resto del pomeriggio così, accoccolati
l'uno all'altro a scambiarsi baci e carezze, annebbiati dalla dolcezza del momento,
e quando giunse la sera siaddormentaronoinsieme, stanchi per i troppi
spaventi e per le troppe nuove e forti emozioni appena scoperte.
Quella notte, John non tornò
a casa.
*si asciuga lacrimuccia*
Ci sono voluti la bellezza di11capitoli ma alla fine ce l’abbiamo fatta!
*applauso ai due protagonisti*
Ma non pensate che sia finita qui… *buahahaha*
E ora lasciamoli lì,
i nostri due piccoli idioti *^*
Vi sussurro un veloce salutino, ci risentiamo
con l'ultimo capitolo! (questa volta veramente l’ultimoxD)
JaneAusten.
Una grande scrittrice che ha creato un fantastico libro dal quale ho preso
ispirazione per scrivere questa ff.
Ho voluto renderle omaggio
nella storia stessa e ho creato questo… uhm.Giochino? Provateadunire le lettere iniziali di ogni capitolo
(quelle in grassetto tanto per intenderci).
Se non avete voglia di aprire
tutti e dieci i capitoli cliccate direttamente[qui], l’ho già fatto io per voixD
Niente, ci salutiamo alla
fine. Perdonate l’estremo fluff e le varie punte di OOC ma dopotuttoquello che è successo mi sembrava giusto
chiudere in bellezza.
Per l’ultima volta su questo
fronte, buona lettura!
Orgoglio e
Pregiudizio
Capitolo10
N
el torpore mattutino Sherlock
aprì gli occhi, sbattendo più volte le palpebre ancora pesanti di sonno, e
subito, senza nemmeno rendersene conto, sorrise. Inspirò a fondo dal naso,
inalò quel famigliare odore che aveva imparato ad amare e ad associare alla
felicità: il buon profumo di John Watson. Non avrebbe saputo definirlo in
nessun altro modo, con nessuna descrizione melensa di quelle che comparivano
nei romanzetti rosa della signora Hudson o di quelle patetiche da ragazzina
alla prima cotta: era semplicemente John.
Rimase per un tempo indefinito
immobile, silenzioso, registrando con cura ogni particolare della sua posizione
e ascoltando rapito il respiro del ragazzo poco sopra di lui.
Si trovavano nella medesima posizione
nella quale si erano addormentati, John appoggiato alla pila di cuscini e
Sherlock rannicchiato contro di lui, stretto tra il suo corpo e lo schienale
del divano. Con un braccio circondava ancora il suo torace, affondando nella
lana colorata del suo maglione mentre poggiava il viso da qualche parte sul suo
petto, non abbastanza vicino al cuore per sentire il suo battito rimbombare per
la cassa toracica. Avrebbe voluto farlo e si appuntò mentalmente di trovare
un’occasione più avanti.
Rabbrividì al pensiero di aver
passato un’intera nottata al suo fianco, rassicurato dal suo tiepido calore
corporeo e da quelle braccia che lo avevano stretto fino a poco prima di
addormentarsi, e che in quel momentogiacevanoabbandonate sulla sua schiena.
Avvertì distintamente un dolore
alla spalla per la posizione scomoda in cui sitrovavama non osò muovere un muscolo per paura di
svegliarlo, di svegliare il suo ragazzo.
Il suoragazzo.
Non appena l’idea gli passò per
lamentesentì
un lieve calore inondargli il petto, le dita tremargli per l’emozione nello
sfiorare quel morbido tessuto che aveva stretto alla ricerca di una
rassicurazione all’improvviso turbinare di pensieri nella sua testa.
Com’era successo? Com’erano
riusciti ad arrivare fino a quello?
Ricordava bene gli ultimi
momenti passati in compagnia del suo allora migliore amico – adessosuoragazzo,
perché continuava a ripeterselo? – e ripensandoci non riusciva a capire per
quale ragione John si fosse spinto fino a quel punto, la sera precedente.
Niente nei suoi gesti, nelle sue azioni, nelle sue espressioni aveva potuto
prepararlo a quello che alla fine era successo. Aveva sperato a lungo, per
mesi, era addirittura arrivato a stare male interiormente per quei sentimenti
che John evidentemente non ricambiava, e poi, di punto in bianco, lui era
arrivato lì, a casa sua, lo aveva baciato –ancora meglio
di comericordavoaveva detto – lo aveva stretto in un
lungo abbraccio e gli aveva ripetuto fino allo sfinimento quanto gli
dispiacesse per il suo “ignobile” comportamento. Sherlock non aveva ascoltato
neanche la metà di quelle parole sussurrategli a fior di pelle, troppo
concentrato sulla consapevolezza di essere ricambiato, di poter finalmente
avere quello che aveva desiderato per mesi e che mai avrebbe pensato di poter
provare per una persona.
A volerlo ammettere era ancora
abbastanza confuso da tutte quelle emozioni che gli mandavano insubbugliolo stomaco, da quel turbine di pensieri che
gli affollavano la testa. Era semplicemente incredibile quanto una sola persona,
del tutto ordinaria tra l’altro, fosse riuscita a cambiarlo in quel modo, a
fargli provare qualcosa di più della semplice amicizia. L’ultima volta che
aveva provato qualcosa per qualcuno era stato conRedbeard,
il suo amato setter irlandese. Era stato il suo unico amico d’infanzia, l’unico
di cui sentiva di potersi veramente fidare nonostante si trattasse solo di un
animale: quando se ne era andato Sherlock non ne aveva più voluto sapere di
avere amici, si era semplicemente chiuso in se stesso, escludendosi dal mondo e
da tutto quello che poteva coinvolgerlo emotivamente, incoraggiato anche da
Mycroft. Credeva fosseRedbeardla causa principale della sua quasi totale
inesperienza sentimentale, qualcosa che lo aveva perfino portato ad
autodefinirsi autistico, a farsi riconoscere come affetto dalla sindrome di
Asperger. Non era vero, questo lui lo sapeva bene, il suo era stato solo un
tentativo di classificarsi in qualche modo.
Socchiuse le palpebre,
scacciando quei pensieri dalla mente, e ascoltò con attenzione il respiro di
John farsi più irregolare, il suo corpo cominciare a muoversi
involontariamente, chiari segni chestavaper svegliarsi.
Fu solo in quel momento che
notò il plaid che lo copriva dalla vita in giù e il vassoio con tanto di the e
biscotti appoggiato sul tavolino poco distante. L’ombra di un sorriso gli
comparve sul volto mentrerealizzavache la signora Hudson doveva essere salita
come ogni mattina per portargli la colazione e doveva averli trovati lì, uno
abbracciato all’altro sul divano. Non sapeva che ore fossero, probabilmente
doveva essere già passata un’ora da quando la donna aveva messo piede
nell’appartamento. Presumibilmente si era destato dal sonno proprio a causa
sua, magari quando li aveva disteso su di loro la coperta – come se ne avesse
bisogno, stretto com’era contro il corpo caldo di John.
Avvertì il ragazzo agitarsi
sotto di sé e rimase immobile, senza azzardarsi ad alzare lo sguardo verso il
suo viso, spaventato da qualcosa che non sapeva neanche lui cosa fosse.
Un tremito, un movimento del
capo, e poi anche John si fermò, il respiro tornato regolare. Pochi secondi
dopo un braccio si scostò dalla schiena di Sherlock e una mano andò ad
accarezzargli gentilmente la nuca, passando le dita tra i lunghi riccioli
castani. Con il cuore in gola alzò lo sguardo e si ritrovòfaccia
a faccia con il volto sorridente di John, gli occhi ancora impastati dal sonno
che lo guardavano con un affetto quasi materno. O forse era amore? Davvero, non
avrebbe mai saputo distinguere le due cose, soprattutto se a guardarlo in quelmodoerano quelle iridi indaco scuro, quegli
occhi di cui non avrebbe mai smesso di catalogare ogni più piccola screziatura.
«Buongiorno…» mormorò il
biondo, la voce ridottaadun sussurro.
Sherlock deglutì. «Buongiorno.»
Un brividoglipercorse
la schiena quando John si piegò in avanti, unendo per l’ennesima volta le loro
labbra. Improvvisamente si sentì più leggero e sorrise a sua volta quando si
staccarono, guardando quasi in adorazione il ragazzo sbadigliare e stropicciarsi
gli occhi con la mano libera.
Si staccò di malavoglia da lui
per lasciargli un po’ di libertà e si alzò in piedi, scostando il plaid e
buttandolo in un angolo del divano.
«Ah… non era mia intenzione passare la notte
fuori.Mia mammasarà
preoccupata.» mormorò il ragazzo, sorridendogli appena.
«Mycroft si sarà sicuramente
preoccupato di avvisarla.»
«Myc… cosa?» arrossì lievemente, in un modo che
Sherlock trovò semplicemente adorabile.
«Lui si… si preoccupa sempre disapere
dovesono e cosa faccio.
Non mi sorprenderebbe se avesse chiamato la signora Hudson per accertarsi che
tu fossi ancora qui.»
«Oh…» John non disse
nient’altro, lasciando invece vagare lo sguardo per la stanza e notando la
colazione sul tavolino.«Lei… lei ci ha… visti? Prima
intendo…»arrossì se possibile ancora di più,
evitando accuratamente gli occhi dell’altro.
Sherlock si strinse nelle spalleinrisposta e adocchiato il cellulare
dell’amico sul divano glielo passò. «Chiama a casa…» disse, poi si sedette
sulla poltrona, cercando di ignorare quel fastidioso timore che cominciava ad
affiorargli nel petto, e si servì il the.
~*~
Le cose andarono
sorprendentemente bene nei giorni seguenti,giorniche presto si trasformarono in settimane.
Sherlock si svegliava al
mattino con il cuore leggero, la felicità che si mostrava in tutto quello che
faceva.
Con la gamba malconcia John non
poteva più giocare a rugby, così per una scusa o per l’altra passava i suoi
pomeriggi a BakerStreet, in compagnia di uno Sherlock entusiasta,
sempre pronto ad aiutarlo in ogni modo possibile immaginabile, cercando i
passatempi migliori per renderlo felice. Il moro sapeva che John teneva molto
alla sua squadra e che era giù di morale perché con la gamba che siritrovavanon poteva giocare le ultime partite del
suo ultimo anno di liceo. Si sentiva in colpa per questo, in fondo era solo per
causa sua se il proiettile aveva preso John e non lui. Non che poi gli
dispiacesse: grazie a quel proiettile ora aveva il suo ragazzo tutto per sé,
senza doverlo condividere con quello che considerava uno sport stupido e privo
del minimo senso pratico.
Sherlock aspettava sempre che
il campanello suonasse, poi si fiondava giù per le scale e accoglieva John con
il solito bacio sulle labbra al quale la signora Hudson assisteva facendo finta
di tenersi impegnata a chiudere la porta, o a sistemare uno dei quadri
nell’ingresso, o a pulireun’invisibile bricioladal
colletto del vestito. E poi, una volta che i due ragazzi eranosaliti,spariva in cucina a preparare la merenda e
gliela portava su, bussando sempre prima di entrare.
C’erano pomeriggi in cui si
sdraiavano semplicemente sul divano e parlavano del più e del meno,
coccolandosi a vicenda, altri in cui Sherlock gli suonava qualcosa col violino
e poi guardavano tv spazzatura per il resto del tempo, divertendosi nel
commentare presentatori o improbabili detective all’opera; certi giorni, quelli
in assoluto più noiosi, li passavano sui libri, altri ancora, e Sherlock ne
avrebbe volentieri fatto a meno, John lo costringevaaduscire all’aria aperta e così passavano
intere ore a passeggiare per il quartiere[1], spingendosi finoRegent’sPark o passando per i giardini diPaddingtonStreet – odiava quelle passeggiate, John si
faceva stranamente più taciturno e si teneva sempre a una certa distanza da
lui; oppure, e quelli erano in assoluto i pomeriggi migliori, giocavano aCluedoed era sempre Sherlock a vincere, anche se
John stava facendo i suoi progressi e presto sarebbe diventato più difficile
batterlo.
Andava tutto per il meglio,
insomma, e Sherlock proprio non riusciva a capire da dove arrivasse
quell’agitazione che lo prendeva ogni qual voltaJohnarrivava con qualche minuto di ritardo, oppure lo chiamava
per dirgli che per qualche impegno quel giorno non potevano vedersi. Non era
stupido né troppo egoista, sapeva che il ragazzo aveva anche i suoi impegni, ai
quali lui non poteva prendere parte, ma c’era sempre quella piccola scintilla
di preoccupazione, quel sordo timore che lo prendeva sempre nei momenti meno
opportuni.
Un giorno gli arrivò un
messaggio con il quale il ragazzo lo avvisava che a causa di un progetto di
scienze doveva trattenersi a scuola più del previsto. Dopo lunghi discorsi
interiori, momenti di totale convinzione e altri di sconforto, alla fine
Sherlock decise di fargli una sorpresa e difarsitrovare fuori dal Barts.
Come sospettava il sorriso
iniziale con il quale John loaccolsesi trasformò nel giro di due secondi in una
smorfia agitata mentre continuava a parlare con i suoi amici e attraversava i
cancelli d’ingresso. Si fermò a pochi passi da esso schiarendosi la gola per
attirare la loro attenzione prima che si dirigessero verso la fermata
dell’autobus. Indicò con un cenno del capo Sherlock, sul marciapiede opposto
della strada.«Ehm… io mi fermo qui. Ci vediamodomani…»
Mike scorse il moro e lo salutò
allegramente.«Dove andate di bello? Non ho nessuna voglia di
andare a casa ora…»
John rabbrividì, poi sorrise di
circostanza.«Oh beh… non lo so. Penso chefaremofino a casa sua a piedi, ho bisogno di
sgranchire un po’ la gamba…» disse, picchiettandosi con la stampella la coscia
fasciata sotto i jeans.
L’altro sorrise.«Perfetto!
Vengo con voi, così ti accompagno a casa dopo.»gli
strizzò l’occhio e poi attraversò la strada, senza curarsi di ricevere una
risposta.
John lo seguì controvoglia,
cogliendo con una punta di dispiacere l’espressione accigliata del moro nel
ritrovarsidavanti qualcunodi
indesiderato.
Sherlock notò subito la sua
esitazione quando si avvicinò, dedusse subito dal modo con cui si tormentava
l’orlo della giacca che per quella volta non avrebbe potuto baciarlo per
salutarlo come suo solito.
Passarono il resto della
camminata separati da Mike che, in mezzo a loro, continuava a parlare di cose
che Sherlock faceva fatica a registrare, troppo impegnato a scrutare John in
cerca di spiegazioni.
Fu solo quando arrivarono
davanti alla porta del221Bche finalmente
comprese il problema alla radice, dando voce a quel peso nel petto che lo aveva
accompagnato per tutti quei giorni.
John rimase rigido sul posto,
occhieggiando Mike con la coda dell’occhio ed evitando il suo sguardo, una
punta di rossore sulle guance. Sherlock si morse la lingua, resistendo
all’impulso di compiere gesti indiscreti, e li salutò freddamente, accogliendo
con disprezzo il saluto esitante del suo ragazzo mentre si teneva a debita
distanza da lui. Infinevoltòloro le spalle ed entrò in casa.
La felicità che aveva provato
per tutte quelle settimane sembrò sparire tutta di un colpo, come se la bolla
in cui si trovava fino a qualche minuto prima fosse improvvisamente scoppiata.
Si rannicchiò sul divano e rimase lì a rimuginare fino a quando la signora
Hudson non lo costrinse a buttare giù qualche boccone verso l’ora di cena.
Ignorò il continuo vibrare del cellulare all’arrivo dei messaggi, sicuramente
tutti da parte di John, mettendolo poi in silenzioso quando cominciò a
chiamarlo insistentemente. Non se la sentiva di parlargli, preferiva mettere
ordine tra i suoi pensieri e discuternefaccia a facciail giorno dopo.
E così fece.
Il pomeriggio seguente John
arrivò in anticipo e, salutata la padrona di casa, seguì Sherlock su per le
scale.
La signora Hudson avvertì la
tensione nell’aria ed ebbe il buon senso di non disturbarli con la merenda,
almeno per quel giorno.
I due ragazzipreseroposto sulle poltrone, uno di fronte
all’altro, e Sherlock portò le ginocchia al petto, cominciando a scrutarlo con
i suoi occhi cristallini. John, a disagio, lasciò cadere la stampella a terra e
si sistemò meglio, tendendosi involontariamente verso l’altro col busto.
«Perché non mi hai risposto ieri?»chiese,una punta di esitazione nella voce.
Il moro non rispose, abbassando
lo sguardo. «Ti vergogni di me?» chiese invece, fissando con un certo interesse
le proprie dita.
John sospirò e si prese la
testa tra le mani.«Io… no. Non mi vergogno di te. Solo… Non sei tu,
sono io. È che…»
Sherlock alzò lo sguardo e lo
incrociò con il suo, preoccupato.
«Mi dispiace, io non… non
intendevo offenderti.»Si agitò sulla poltrona, a disagio.«Devo
ancora comprendere cosa mi sta succedendo. Capisci?»Lo guardò,
speranzoso. «Insomma… pensavo di essere etero, e poi arrivi tu, e…» rise
sommessamente.«Non voglio tirarti in mezzo, è una cosa che sto
cercando di affrontare da solo. È un mio problema alla fine. Solo… vorrei che
rimanesse una cosa tra noi, almeno per il momento.Manon farti passare per la testa cose strane.
Non mi vergogno di te, anzi, non so neanche come tu abbia fattoadinnamorarti di me… insomma…» si passò una
mano tra i capelli, imbarazzato.
Il moro sembrò stringersi di
più le gambe al petto.«E se un giorno ti stancassi di me?
Se scoprissi che preferisci stare con una ragazza?[3]»
John allargò di poco gli occhi,
poi li abbassò, guardandosi le mani. Prese un respiro profondo, poi iniziò.«Ricordo
di aver visto per la prima volta Mary uno dei primi giorni al Barts, a mensa.
Era una delle ragazze più belle che avessi mai visto, bionda, simpatica,cheerleader…»
guardò la sua espressone irritata nel sentir nominare l’ex e gli sorrise
dolcemente. «Quando mi ha chiesto di uscire, quel pomeriggio, non potevo
crederci, mi sembrava qualcosa di assolutamente incredibile perunocome me. E ho accettato.»
Prese un respiro profondo.«Non
negherò di aver passato dei bei momenti con lei, né con Sarah né conJanette.
Ogni ragazza che ho scelto, conil qualeho accettato di uscire e di vedermi per un
certo periodo di tempo… con ognuna ho passato dei momenti che non scorderò
facilmente.» si morse un labbro e riprese.«Ora ci sei tu. Non posso
prometterti che sarà per sempre, non posso dire che ci sposeremo e faremo
chissà cosa. Magari passeremo insieme ancora dieci anni, forse meno, forse più.
Può darsi che tra qualche mese litigheremo, può darsi che un giorno scopriremo
di non poterci più sopportare l’un l’altro e ci lasceremo. Quello che sto
tentando di dirti…»Lo guardò amorevolmente, cercando di
rassicurarlo col suo tono di voce.«…è che, beh, non possiamo sapere
quello che succederà, no? È questo il bello delle relazioni,più o
meno…» Tossicchiò, imbarazzato.«Ho sempre cercato di…
di scegliere con cura le persone con cui instaurare un rapporto… se ho tentato
di avvicinarle è stato soltanto perché sapevo che valeva la pena provarci. Non
ti sto prendendo in giro, nonstoandando alla cieca. So cosa sto facendo…
ok?»
Sherlock lo guardò, soppesando
le sue parole. E non poté fare a meno di chiederglielo, di esternare quella
piccola preoccupazione che aveva occupato i suoi pensieri per i giorni
precedenti.«Perché io?»
Un sospiro e un mezzo sorriso.«Potrei
dirti perché sei geniale, perché non ho mai visto un ragazzo così attivo, efantastico. Perché… perché quando
sono con te… mi sento vivo. Come se non potessi fare altro che seguirti, e
guardarti le spalle e… fare in modo che tu sia al sicuro, sempre. E rispettato.
Posso dirti perché mi sono innamorato della tua voce, e della tua espressione
quando trovi qualcosa d’interessante. E i tuoi occhi… il loro colore, il guizzo
chehannoquando
hai una nuova idea.»
Sherlock sentì le proprie
guance andare a fuoco e avvertì l’impulso di gettarsi tra le sue braccia.
«Non avrei mai creduto di arrivare fino a
questo punto, credimi. Tu hai… hai rivoluzionato tutto. Mi haipraticamenterivoltato da capo a piedi. E tutto per una
sera, una chiamata al cellulare… non ho mai creduto nel caso, sai? Tra le
migliaia di persone che potevo incrociare, ho incontrato proprio te. E credimi
se ti dico che non tornerei mai indietro.»
Una lacrima solcò il viso del
moro, che se neaccorsesono
quando la sentì bagnargli il viso. John si fermò, colpito da quell’improvvisa
esternazione di commozione che non avrebbe mai creduto possibile per una
persona come lui. Allungò una mano nella sua direzione e presto Sherlock la
afferrò, lasciandosi tirare tra le sue braccia, accoccolandosi contro di lui.
Premette le labbra contro la
sua fronte e sospirò, felice comesentivadi non esserlo mai stato in vita sua.
«Voglio te perché… perché sei semplicemente tu.»
Sherlock singhiozzò, un verso
che sentì come da molto lontano, come se non fosse stato veramente luiademetterlo. Si vergognò per quella sua
debolezza, sivergognòdi
mostrarsi così vulnerabile ai suoi occhi, ma non poté fare a meno di stringersi
a lui e affondare il volto nel suo maglione, cercando un modo di fermare le
lacrime che lentamente gli inondavano gli occhi.
«Vale la pena provarci. Lo vale davvero, non
lo vuoi anche tu?»Gli accarezzò il volto, costringendolo a
guardarlo negli occhi, e Sherlock annuì, spingendosi poi in avanti per
baciarlo, sorprendendosi egli stesso per quel gesto. Non aveva mai preso lui
l’iniziativa, non finoad allora.
John mandò un gemito di piacere
e lo trasse più vicino, tracciando con la lingua il contorno delle sue labbra e
spingendosi poi all’interno della sua bocca, stringendolo rassicurante al lieve
tremito chelopercorse.
Si staccarono solo per riprendere
fiato e John lo guardò, deglutendo, preoccupato per la sua reazione. Sherlock
avvertì il suo nervosismo e scosse la testa, sorridendo e riprendendo il bacio
da capo, eseguendo curioso il gesto appena compiuto.
John sorrise mentalmente. Questo sì che era un bel passo avanti.
~*~
Dopo quel piccolo gesto
d’intimità Sherlock cominciò ad avvertire una certa elettricità, se così poteva
essere definita, ogni volta che John varcava la soglia del 221B.C’era
qualcosa di nuovo nel modo in cui si guardavano l’un l’altro, nel modo in cui
il suo corpo sembrava reagire a quei lunghi contatti che ormai si scambiavano
abitualmente durante i loro pomeriggi insieme.
Più di una volta successe che
John dovesse staccarsi da lui, spingerlo via in qualche modo, arrossendo
visibilmente e allontanandosi con una scusa buttata lì sul momento per alcuni
minuti.
Sherlock sapeva cosa stava
succedendo, in qualche modo, e non poteva dire che fosse tutto rose e fiori. Se
prima di John non aveva mai baciato qualcuno, tanto meno aveva mai pensato a
come comportarsi in una situazione del genere, con il suo corpo che sembrava
reagire per i fatti suoi, senza che lui potesse avere un minimo di controllo su
di esso.
Ogni volta guardava John con
estremo imbarazzo, senza avere la più pallida idea di come agire per fargli
capire che… beh, il che cosa non lo sapeva nemmeno lui.
Avvertiva con forte chiarezza
il suo desiderio ma non sapeva come valutare il proprio. Quando ci pensava, da
solo, accarezzava l’idea di condividere quel particolare nuovo passo della sua
vita con John, cercava di immaginare possibili scenari in cui, in un modo o
nell’altro finivano nel suo letto e… in quel momento respirava rumorosamente e
la fantasia siconcludeva, il rossore che, sapeva, andava a lambirlo
fin sopra le orecchie.
Non avrebbe mai e poi mai
immaginato di poter cominciare a pensare al sesso. Mycroft avrebbe sicuramente
riso fino alle lacrime se fosse venuto a saperlo.
Eppure non poteva far finta di
niente, il problema c’era e in qualche modo avrebbero dovuto affrontarlo.
Sherlock sapeva di non potersi tirare indietro, che era una cosa assolutamente
normale e che John aveva tutte le ragioni del mondo per volerlo fare.
Nonostante tutto quello che gli avevadettoaveva
ancora paura di deluderlo e sapeva per certo che a lungo andare quel bisogno
non avrebbe più potuto essere ignorato.
Così cominciò a informarsi, a
venire a patti con se stesso, a convincersi che se tutti gli umani del mondo
riuscivano a venirne fuori poteva benissimo farcela anche lui. In fondo
cos’era?Un semplice atto fisico, un qualcosa di umano e, anche e
soprattutto, animalesco.
E quando il giorno arrivò,
Sherlock colse al volo l’occasione.
Erano le due del pomeriggio,
John sarebbe arrivato di lì a un’ora, così decise di farsi una doccia. Di certo
quandouscìdal
bagno con solo i pantaloni del pigiama addosso e si diresse in cucina per bersi
un bicchiere d’acqua non si aspettava di trovarselo davanti, seduto comodamente
al tavolo con in mano il giornale che Mycroft aveva lasciato lì quella mattina.
Era in anticipo.
Gli occhi di John scattarono
verso di lui, pronto al solito sorrisopre-bacio, quando poi lasciò che
scivolassero con una lentezza disarmante sul torso nudo,sulla
quellapelle bianca come
il latte punteggiata qua e là da piccoli nei. John deglutì a vuoto, la gola
improvvisamente secca, e Sherlock tremò lievemente sul posto, improvvisamente
incapace di muovere un solo muscolo.
Prese un respiro profondo, poi
fissò lo sguardo in quello del ragazzo e, lentamente, si girò e tornò da dove
era venuto, percorrendo il corridoio e scivolando nella sua stanza, lasciando
volontariamente la porta aperta di un piccolo spiraglio, in un evidente invito.
Non dovette aspettare molto.
In piedi in mezzo alla stanza,
il respiroadun tratto
accelerato, osservò John arrivare e starsene sulla soglia, guardandolo con
un’espressione così piena di emozioni che Sherlock non riuscì a decifrarne
neanche la metà.
«Sherlock…»mormorò,la voce incredibilmente roca.
Il moro si morse un labbro,
poi, tirando fuori tutto il suo coraggio, si sedette sul letto.
John esitò sul posto, poi si
avvicinò e si sedette al suo fianco, socchiudendo gli occhi come se dovesse
pensare a come continuare la cosa. «Sherlock…» ripeté, questa volta con un po’
più di sicurezza, ma l’altro, fremente, non gli diede modo di continuare,
prendendolo per l’orlo della camicia e tirandolo giù con sé, cominciando a
baciarlo con foga.
John, sorprendentemente,
rispose al bacio, piegandosi in avanti, schiacciandolo sotto di lui con il suo
peso, inginocchiandosi sul letto e baciandolo fino a non avere più fiato. A
quel punto poggiò la fronte sulla sua e respirò, faticosamente.
Con una mano risalì lungo il
suo petto, accarezzando quella pelle fresca di pulito e strofinando il naso in
un gesto di affetto sulla sua guancia.
Sherlock tremò.
John cominciò a baciarlo lungo
la mandibola, scendendo giù, verso il collo, la clavicola, la spalla.
Sherlock gemette.
Il biondo sollevò preoccupato
lo sguardo e con un sospiro si tolse da sopra di lui, sdraiandosi al suo fianco.
Lo circondò con le braccia e poggiò la fronte contro la sua spalla, chiudendo
gli occhi e sorridendo.
Il ragazzo si agitò tra le sue
braccia. «John?»
«Shh…» sussurrò l’altroinrisposta. «Va bene così.»
«MaJohn…»
«Stai tremando.»
Sherlock rimase immobile,
maledicendosi mentalmente per quella sua stupida reazione. «E allora?» domandò,
facendo il possibile per suonare irritato.
«E allora non abbiamo nessuna fretta. Lo
sai?»alzò lo sguardo su di lui, sorridendogli
con gli occhi.
«Ma…»
«Piantala.» Cominciò ad accarezzargli la schiena con
movimenti circolari, come a volerlo rassicurare.
«Tu lo vuoi.» continuò,
imperterrito.
John sbuffò e richiuse gli
occhi. «Non voglio niente che tu nonvoglia.»
Il moro gemette di frustrazione
e si dimenò, sciogliendo l’abbraccio e portandosi sopra di lui. Cominciò a
slacciargli i bottoni della camicia, soffiando piano dalle narici quando le
mani ebbero la bella idea di scivolare, senza riuscire a togliere il tondino di
plastica dall’asola, e in quel momento John gli circondò le mani con le
proprie, fissandolo con curiosità. «Che cosa ti prende?» Lo accarezzò con una
mano sul viso, sorridendo alla sua espressione demoralizzata.
«Io voglio solo…»
«…accontentarmi? Davvero?»Lo trasse
a sé con dolcezza, costringendolo a sdraiarsi su di lui. «Da quando in qua
l’arrogante Sherlock Holmes è diventato così altruista?»
Il moro sbuffò, rilassandosi
comunque contro il calore del suo petto. «E se lo facessi per me?»
Il suono di una risata sommessa
vibrò per la sua cassa toracica e Sherlock si sentì improvvisamente ancora più
irritato. «Cosa c’è?»
John affondò le dita tra i suoi
capelli. «Niente… sei solo…adorabile.»
Si scostò quel poco che gli
permettesse di guardarlo negli occhi e socchiuse le palpebre. «Non voglio
essereadorabile…» disse,
suonando scocciato. «Voglio essere… desiderabile…?»
John rise ancora, baciandogli
una guancia alla volta.«Lo sei. Molto. Saremmo in questa
situazione, altrimenti?»
Sospirò e si lasciò scivolare
nuovamente al suo fianco, chiudendo gli occhi e rinunciando a tutti i suoi
buoni propositi. Dubitava si sarebbero mai mossi di lì.
«È comunque un buon passo
avanti.» continuò l’altro, portando avanti il movimento delle dita tra i suoi
capelli.«Ci arriveremo quando vorremo. Abbiamo tutto il tempo
del mondo…»
Rimasero in silenzio per un
po’, ascoltando ciascuno il respiro dell’altro, poi John lo ruppe nuovamente.
«Se c’è…» deglutì.«Se
c’è qualcosa, qualsiasi cosa, che ti spaventa… o che, non so… qualcosa di cui
vuoi parlare. Sai che puoi farlo, vero?»
Sherlock annuì, un po’ in
imbarazzo, e prese a fissare lo spazio di pelle lasciato libero dalla camicia
per metà sbottonata, pensando.
Dopo un certolasso
di tempoche non avrebbe
saputo definire si fece coraggio. «Quante… quante volte l’hai già fatto?» C’era
una domanda sottointesa, quella che forse lo turbava di più:l’hai già fatto?
John sembrò esitare. «Ha
davvero importanza saperlo?» Una pausa. «Abbastanza per, diciamo, sapere cosa
fare, e poche per… per considerarmi anche adun livello superiore di quello di un
principiante.Maè stato
solo con ragazze. Possiamo considerarla come una prima volta, se è questo il
problema.» glisorrise, arrotolando un ricciolo
particolarmente lungo attorno al suo dito.
Sherlock sospirò e chiuse gli
occhi, tentando di non mostrarsi troppo a disagio per quello. In fondo seloera aspettato, era ovvio che John –
un ragazzo assolutamente ordinario per quel verso – non avesse ancora certi
problemi. Si sentiva un perfetto idiota, almeno per una volta.
Non seppe da dove arrivò la
domanda successiva, e neanche il motivo del suo sentirsi improvvisamente più
leggero. «Fa… male?» fu poco più di un sussurro, talmente basso che non si
sarebbe stupito se John non lo avesse sentito.
Ma il ragazzo aveva sentito
eccome e si tirò sufacendoforza
su un gomito, in modo da poterlo guardare bene in viso. Sembrava quasi turbato
da quella domanda.Glisorrise
con quello che voleva essere un gesto rassicurante, che voleva non farlo
sentire a disagio per quella domanda personale. «È questo il problema?» chiese,fermoma con dolcezza.
Sherlock deglutì e distolse lo
sguardo. «Forse…?»
John si chinò in avanti e lo
baciò sulle labbra. «Non farei mai qualcosa che possa
farti male, Sherlock. Non di proposito.»
«Ma… insomma, l’anatomia…»
«Ascolta. Se ti riferisci a… a quella
particolare forma di…»sospirò.«Sì insomma, io credo di sì. Non
credo che si rimanga del tutto incolumi dopo una penetrazione del genere.»Arrossì lievemente sulle guance come se a parlare con certi termini si
sentisse in imbarazzo.«Ma c’è un’adeguata preparazione,
prima. Il dolore dovrebbe essere minimo…»
Sherlock rabbrividì
inconsciamente e annuì.
«Non è comunque quello che
avevo in mente, almeno per il momento.»Aggiunse il biondo poco dopo, gli occhiadun tratto assenti.
Quando tornò a guardarlo aveva
una nuova luce nello sguardo, un evidente desiderio. «Ti… ti fidi di me?»
Sherlock si sentì
improvvisamente libero da ogni peso mentre guardava con più calma i suoi occhi
azzurro caldo, e annuiva. «Sì…»
John ricominciò a baciarlo,
lentamente, lasciando che il ragazzo si rilassasse tra le sue braccia, poi
ricominciò la sua scia di baci verso il torace, fermandosi poco sopra il ventre
e volgendo lo sguardoin su. Sherlock lo guardava con
occhi grandi, le pupille dilatate come mai prima di quel momento, e John lasciò
che il suo respiro increspasse la pelle nivea con un accenno dipelled’oca. «Ok?»
«Ok…» rispose l’altro,
respirando velocemente.
Con una lentezza disarmante lo
spogliò degli ultimi indumenti, rimanendo finalmente a guardarlo, interamente
nudo.Bellissimo.
Glielo sussurrò sulla pelle
mentre risaliva verso le sue labbra, che ricominciò a baciare con avidità. Gli
prese le mani e lo guidò aconcludereil lavoro che aveva iniziato con la propria
camicia, per poi aiutarlo nel togliersi pantaloni e boxer.
Si prese un momento per
guardarlo in volto, sorridendogli. «Ok…?» chiese ancora, e non dovette
aspettare neanche mezzo secondo perché arrivasse la risposta.
«Ok.» rispose Sherlock, e con
un tremolio esitante nelle mani percorse il profilo dei suoi addominali
accennati, prendendosi il suo tempo nel guardarlo, nel riempirsi della visione
di tutta quella pelle scoperta davanti ai suoi occhi. John gli prese una mano e
se la portò alle labbra, baciandogli le dita unaa una, poi tornò a baciarlo dietro al collo, là dove sapeva
piacergli.
Sherlock chiuse gli occhi e si
lasciò guidare nei movimenti, trovandosi improvvisamente senza fiato quando
John lo toccò per la prima volta, e non poté trattenersi dal chiamare il suo
nome con voce roca.
Il ragazzo si mosse sopra di
lui e guidò una delle sue mani a fare lo stesso su di sé, per poi emettere un
gemito proprio vicino al suo orecchio, così vicinoche
Sherlock credette di poter esplodere da un momento all’altro dalla potenza di
quel calore che andava intensificandosi di secondo in secondo.
C’era stato un tempo in cui
aveva sentito solo silenzio, in cui aveva vagato in una fitta nebbia dove John
non c’era, dove era solo, esposto al freddo e alla solitudine del mondo. Ora,
invece, il silenzio era rotto dai loro sospiri e John era lì, dappertutto, in
ogni singolo millimetro cubo d’aria, e lo abbracciava, lo proteggeva, non lo
lasciava.
Quando giunse allimitechiamò disperatamente il suo nome, si
aggrappò a lui, travolto da emozioni che non sapeva contenere.
«Sono qui, non ti lascio…» La
sua voce risuonò vicina e Sherlock non poté far altro che fidarsi mentre si
lasciava cadere, ecadere, senza mai raggiungere il fondo.
Avvertì vagamente John
mormorare il suo nome mentre veniva anche lui, stringendolo possessivamente e
baciandolo.
Sdraiati vicini, abbracciati
come se non potessero fare a meno l’uno dell’altro, il moro stretto contro il
suo petto e John che sembrava aver sviluppato un particolare interesse per i
suoi capelli, i due ragazzi giacevano in silenzio, ascoltando il suono dei loro
respiri tornati regolari.
Non c’era imbarazzo ora, né
agitazione o timidezza, erano semplicementestrettiinsieme, come se improvvisamente fossero
diventati un’unica entità: John-e-Sherlock,Sherlock-e-John.
Indissolubile, indistruttibile.
«Giudizio finale?» chiese
infine il biondo, respirando piano contro la sua pelle mentre gli dava un bacio
in fronte.
«Mmh…» mugugnò l’altro, gli occhi chiusi,perso
ancoranella bolla di
calore silenziosa di pochi istanti prima.
«Va bene che il sesso porta via
la capacità di parola ma ora dovresti essere in grado di formulare frasi
compiute…» scherzò, ricevendoinrisposta un pugno leggero sulla spalla
destra, seguito da un sorrisetto divertito.
«Dovremmo farlo più spesso…»
disse poi il moro, tornando serio e sistemandosi meglio contro di lui.
John ridacchiò sommessamente e
lo baciò sulla punta del naso.«Quando vuoi. Ci sono un sacco di
cose che vorrei farti fare.»
«Idiota.»
Risero insieme e, davvero, per una volta Sherlock credette di non
poter essere più felice di così.
~*~
«Heilà, John!
Come te la passi?»
Il ragazzo interpellato alzò lo
sguardo verso la ragazza castana che si stava avvicinando con un sorriso
stampato in volto.
«Sarah…» sorrise, dandole poi i
consueti baci sulle guance per salutarla.«Abbastanza bene, grazie. Tu?»
La ragazza sorrise a sua volta
e occhieggiò il bicchiere che John teneva in mano come per assicurarsi che
avesse finito di bere. «Bella festa,vero?» mormorò poi, guardandosi
intorno con aria felice.
John annuì lievemente,
lanciando un’occhiata verso l’altra parte della
palestra dove Sherlock, seduto da solo su una sedia, fissava i ragazzi
volteggiare sull’improvvisata pista da ballo con aria critica.
C’era voluta tutta la sua buona
volontà per convincerlo a venire al ballo di fine anno del Barts, tanto che
perfino Greg si era messo in mezzo, rischiando di far soffocare John, il quale
aveva scoperto solo in quel momento che anche lui sapeva della loro relazione.
Solosuccessivamentesi
era reso conto che doveva avere ottenuto l’informazione da Mycroft, e alla fine
la cosa era arrivata ai limiti dell’assurdo quando, insieme, avevano dovuto
convincere Sherlock ad indossare il classico papillon di tradizione nella
scuola. Non credeva di essersi mai divertito tanto. Il giovane Holmes l’aveva
presa un po’ sul personale e si era incupito, così che poi John aveva dovuto
trovare un modo per consolarlo ed erano finiti per non farglielo indossare, a
patto però che non facesse altre storie.
Guardandolo in quel momento
John non poté fare a meno di sorridere al ricordo e quasi non si rese conto
della domanda che Sarah gli aveva appena posto. «Scusa?»
«Ti va di venire a ballare?»
chiese nuovamente lei, arrossendo appena.
John spalancò gli occhi, il
pensiero subito rivolto al suo ragazzo, e rimase a fissarla come imbambolato,
senza trovare le parole per dirle che no, non aveva nessuna intenzione di
ballare con lei.
L’altra, vedendolo impacciato,glisorrise e lo trascinò verso la pista
prendendolo per una mano.
John prese un respiro profondo
e sperò con tutto se stesso che Sherlock capisse e non si arrabbiasse se stava
con Sarah per qualche minuto.
«Non hai trovato più nessuno
dopo Mary?» chiese la ragazza, a quanto sembrava intenzionata a fare
conversazione.
John si morse un labbro. «No…sai,lo studio.»
«Oh, John! Sempre a studiare.» sorrise,
«Certo, dopo l’incidente di qualche mese fa avrai avuto un sacco di tempo
libero visto che non giocavi a rugby, però di questo passo finirai per
ammazzarti di studio… Siamo ragazzi, no? Non possiamo pensare sempre e
solamente alla scuola. Godiamoci la vita ora che possiamo.»
Il ragazzo volò subito col
pensiero ai suoi pomeriggi con Sherlock, pensando che, sì, si stava proprio
perdendo il bello della vita.
«Sì, beh…» Rimase sul vago, fissandosi per qualche istante la
punta delle scarpe.
«Come mai non hai invitato nessuno, stasera?
Non avrei mai creduto di trovarti solo…»
«Non sono solo.» sbuffò John,
portandosi a qualche passo di distanza e guardando nella direzione di Sherlock,
il quale, però, non erapiù lì. Deglutì, a disagio. «Sono
venuto con Sherlock… dove si è cacciato ora?» disse, ruotando sul posto per
cercarlo.
«Oh…
Sherlock. Beh… diciamo che mi aspettavo venissi con qualche ragazza.»
«Scusa
Sarah. Non è il momento. Grazie per la chiacchierata… ci vediamo in giro.»disse velocemente, poi si allontanò prima che potesse fermarlo
nuovamente.
Attraversò l’intera palestra,
cercando quella testa riccioluta che lo avrebbe ricondotto a quell’idiota del
suo ragazzo.
Lo trovò solo dieci minuti più
tardi, bloccato a metà strada verso il cancello di uscita della scuola da
quello che riconobbe subito come Mike Stamford. Ringraziò l’amico mentalmente e
corse nella loro direzione. «Sherlock, dove vai?»
Il moro si voltò sorpreso verso
di lui, per poi tramutare la sua espressione in pura freddezza.«Me
ne torno a casa. Ne ho abbastanza.»
John gettò un’occhiata a Mike,
scusandosi con lo sguardo, poiprese Sherlockper un braccio e lo trascinò via con sé,
con la scusa che Molly li stava cercando.
Si fermò solo quando furono al
sicuro in un angolo buio del cortile e, dopo essersi accertato che non ci fosse
nessuno nei paraggi, lo spinse contro il muro e lo baciò, odiandosi per non
avere ancora avuto il coraggio di farlo in pubblico.
«Piantala…» sbuffò Sherlock infastidito, cercando di
liberarsi dalla sua stretta. «Non ho intenzione di passare la serata a
guardartiflirtarecon
delle insulse ragazze.»
John lo guardò con tristezza.
«Non stavoflirtando, idiota. Saiquanto
Sarahpossa essere
invadente.»
Il ragazzo incrociò le braccia
al petto e s’incupì, posando lo sguardo su una pianta vicina piuttosto che
guardarlo in faccia.
John si morse un labbro,
ascoltando la musica che proveniva ovattatadalla palestra poco lontano, e gli
venne un’idea. Lopreseper
mano, forzando la sua presa per intrecciare le loro dita, e lo trascinò lontano
dalla parete, al centro del piccolo spiazzo, gettandogli poi le braccia al
collo per tirarselo vicino. Appoggiò il capo sulla sua spalla e cominciò a
ondeggiare spostando il peso da una gamba all’altra, socchiudendo gli occhi.
«Nessunomiimpedirà
di ballare con il mio ragazzo al ballo della scuola. Ci siamo solo noi qui,tu ed io… non è
meglio così? Niente casino, niente persone inutili.»
«Potevamofarloa casa.» borbottò Sherlock sottovoce, non
rinunciando però ad allacciare le proprie braccia intorno alla sua vita.
«Uhm… che gusto ci sarebbe stato? Non ti
saresti mai vestito in questo modo a Baker Street. E
poi siamo al Barts, dove ci siamo conosciuti. Non è più romantico, così?»sorrise tra sé e sé e alzò lo sguardo verso di lui.
«Ci siamo conosciuti da Clara.»
«Oh, sai cosaintendo,idiota. Dove ci siamo realmente conosciuti,
un po’ per volta.»
«E dove abbiamo quasi rischiato
di morire.»
John ridacchiò e gli tirò un
debole pugno contro la spalla. «Guastafeste.»
Rimasero abbracciati per un
tempo indefinito, poi John sospirò.«Prometto che farò il possibile per
fare quest’ultimo passo e rivelarci a tutti. Non ce la faccio più a tenerti
nascosto. Ho paura che qualcuno ti metta gli occhi addosso.»
«Dissecolui
cheaveva appena finito
di parlare con una delle sue ex.»
John gli prese il volto tra le
mani e lo fissò, serio.«Non voglio che accada mai più. Ti
autorizzo a prendermi a pugni la prossima volta che parlerò per più di dieci
minuti con una ragazza senza che tu sia presente. Ok?»
Sherlock si strinse tra le sue braccia e sospirò. «Ok.»
~*~
Epilogo
Quattro mesi dopo
Le feste di Clara non erano mai
state così vive come quella sera.
Non c’era un singolo angolo
della stanza in cui non ci fosse qualcuno che chiacchierava con la propria
amica, o con l’amicadell’amico, che ballava, beveva o rideva.
La musica, poi, giravaadun volume talmente alto che presto qualcuno
del vicinato avrebbe potuto avere qualcosa da ridire, e nessuno si sarebbe
stupito nel sentire il suono del campanello d’ingresso. Sempre che si sentisse,
ovviamente.
In mezzo a tutto quel tumulto,
John se ne stava seduto su unpuffun po' in disparte, un bicchiere di coca
cola in mano e lo sguardo perso sulla sala intorno a sé. Al suo fianco un
eccitato Mike Stamford parlava animatamente della sua nuova conquista - che
stranamente quella sera era stata troppo impegnataper
potervenire a
divertirsi col suo nuovo ragazzo - incurante del fatto che l'amico lo stesse
ascoltando o meno.
E John non lo stava facendo, o
almeno non del tutto. La sua attenzione era rivolta da tutt'altra parte e gli
bastava mugugnare qualche monosillabo ogni tanto per far sì che Mike non lo
stressasse troppo.
I suoi pensieri ricadevano senza
troppa fantasia, su quel giorno di un anno prima quando, seduto su uno di queipuff,
aveva fatto la conoscenza di Sherlock Holmes, nell’esatto momento in cui Mike
aveva proposto di prendere una coca cola, bevanda che piuttosto casualmente
John teneva in mano proprio in quel momento.
Se al tempo qualcuno gli avesse
detto che quel ragazzo dai tratti spigolosi e dai riccioli ribelli sarebbe
diventato il suo ragazzo, probabilmente John avrebbe riso e si sarebbe tenuto
ben alla larga da quel qualcuno per evitare di incapparci una seconda volta.
Eppure il tempo aveva fatto il
suo corso, gli eventi si erano susseguiti uno dietro l’altro e a un anno da
quello stesso giorno, John giaceva su quello stessopuffcon il pensiero a quello che sarebbe
successo di lì a poco quando lui e Sherlock sarebbero ritornati a BakerStreet,
a casa loro.
Era strano da pensare, non si
era ancora abituato all’idea di condividere un appartamento con il suo ragazzoda-non-più-di-sei-mesi. Se pensava che c’eranocoppie che prima di andare a vivere insieme
passavano gli anni a frequentarsi, non poteva che dirsi contento del suo
personale risultato.
Si era trasferito al221Bsu insistenza del giovane Holmes, con
approvazione del più grande, Mycroft – che si era detto contento di non dover
più badare al fratello come una balia – e delle intere due famiglie Watson e
Holmes. Harriet aveva letteralmente fatto i salti di gioia alla notizia,
festeggiando perché per una volta nella sua vita avrebbe avuto la stanza tutta
per sé, e aveva ammiccato maliziosamente verso John, il quale era arrossito fin
alla punta delle orecchie, rischiando di farsi scoprire da Jocelyn. La madre
aveva fatto finta di niente, ma da come si era comportata, accettando di buon
grado la separazione del figlio dal nucleo famigliare e sorridendo ampiamente
al giovane Holmes, venuto a presentarsi sotto stressante richiesta di Harriet
come nuovo coinquilino, John dubitava fortemente che non si fosse accorta della
relazione in corso tra il figlio e quel suo amico strambo ma incredibilmente
attraente (a detta di qualcuno). Dubitava fortemente che Jocelyn si fosse
bevuta la storia del trasferirsi per lasciare casa un po’ più libera e per
avere un maggiore spazio per studiare per l’università. Secondo Harriet le
occhiate che i due ragazzi siscambiavanoerano peggiori di quelle tra due amanti in
un melenso telefilm per pensionate, e John non faticava a crederci,
costringendosi a limitare le occhiate al suo ragazzo in pubblico allo stretto
necessario.
Non lo avevano ancora detto a
nessuno, ovviamente.
Sherlock non sembrava essere
molto toccato dalla faccenda: dopo aver insistito per mesi perché John
rivelasse la loro relazione, infatti, ilragazzosi era stranamente acquietato e ora John
non riusciva più a capire se fosse solo uno dei suoi strani metodi intricati
per convincerlo a rivelarsi o se, effettivamente, non gli importasse più.
Tra i due era John quello in
perenne indecisione, quello che faceva un passo avanti e poi tre indietro.
Ogni giorno si alzava con la
convinzione che quello sarebbe stato il giorno giusto, che quel pomeriggio,
quando sarebbe andato a prendere Sherlock a scuola, lo avrebbepresoper mano davanti a tutti e avrebbe mandato
a quel paese tutto il resto; che quella sera, uscendo con gli amici del rugby
per la birra settimanale, si sarebbe rivelato durante qualche discorso senza
capo né coda da brillo; che quel giorno un’illuminazione divina gli avrebbe
dato il coraggio necessario per urlare al mondo che, diamine, lui amava
Sherlock Holmes e con lui avrebbe passato anche il resto della sua vita, che
gli altri lo accettassero o meno.
Mapuntualmente
ogni giorno perdeva la sua occasione, riparandosi dietro a sorrisi imbarazzati
o commenti sarcastici. Più tempo passava e più sentiva le proprie convinzioni
abbandonarlo e Sherlock diventare sempre più scorbutico.
Poteva dire quello che voleva,
ma John sapeva che era ancora giù di morale per quella storia. E non poteva non
dargli ragione: stavano insieme da quasi sei mesi e ancoradovevanogirare per strada evitando meno contatto
fisico possibile, quando invece entrambi avrebbero voluto abbracciarsi e
scambiarsi sguardi amorevoli ogni due per tre, John compreso.
Macome
aveva impiegato mesi per accettare il suo amore per Sherlock, ora stava
impiegando quasi il doppio del tempo per mostrarsi agli altri per quello che
era veramente. Aveva paura di quello che avrebbero potuto dire, divenireescluso dalla maggior parte dei suoi amici
o di essere guardato con meno rispetto di quello che si era pian piano
guadagnato con il passare degli anni. Chissà per quale assurdo motivo, tutto
quellorisultava essereancora
un problema.
I due ragazzi avevano avuto una
discussione proprio quella mattina su quel particolare argomento, quando John
si era arrabbiato sul fatto che il ragazzo non lo avesse avvisato quando era
uscito per andare a prendere un libro da un certo Victor Trevor, e Sherlock
aveva ribattuto acidamente che a John non sarebbe comunque importato, anche se
fosse uscito con quel tipo per andarci a bere qualcosa insieme. L’altro si era
sentito ferito da quell’insinuazione e i due non si erano parlati per il resto
della giornata, almeno fino a quando John non aveva cominciato a prepararsi per
la festa e, una volta sceso per chiamare un taxi, il moro non lo aveva
raggiunto con aria cupa, commentando con un “da solo non ti lascio andare” che
aveva scaldato il cuore dell’altro e lo aveva spinto a tenerselo stretto al
petto lungo tutto il tragitto fino alla casa di Clara.
In quel momento, seduto su quelpuffblu che custodiva così tanti ricordi, John
poteva vedere il suo ragazzo, in piedi contro il muro dalla parte opposta della
sala, affiancato da un’allegra Molly che sembrava parlargli con la stessa
vivacità con la quale Mike si stava rivolgendo a lui. Entrambi, neanche a farlo
apposta, annuivano di tanto in tanto, lasciando invece vagare lo sguardo
intorno a loro. Nell’esatto istante in cui John formulava quei pensieri,
Sherlock alzò lo sguardo verso di lui e i loro occhi s’incrociarono. Quelli
cristallini del compagno sembrarono mandargli una muta richiesta d’aiuto, quasi
considerasse la compagnia di Molly come un mortorio.
John sospirò stancamente e
abbassò lo sguardo al liquido ambrato nel suo bicchiere, lasciando che le
parole di Mike gli scivolassero addosso senza neanche sforzarsi di comprenderle.
«Che poi, voglio dire, se le piaccio, perché
nascondersi? Non avrebbe senso!»
John alzò gli occhi di scatto.
«Cosa?»
«Janine.
Continua a dirmi di non aver mai conosciuto un ragazzo come me, che non si è
maitrovatacosì
bene con nessun altro e che non sono neanche così brutto come penso. Ma allora
perché sembra fare di tutto perché non ci vedano insieme?»
Il ragazzo sentì un live
tremore alla propria mano e, deglutendo, appoggiò il bicchiere su un tavolino
poco distante per evitare di combinare qualche pasticcio. «Così è lei quella
che non si vuole far vedere in giro con te?» ironizzò, mentre gli occhi
saettavano velocemente verso Sherlock, ancora nella medesima posizione dipoco
prima.
Tuttavia non ascoltò il seguito
della conversazione, che Mike si premurò di portare avanti in solitario, poiché
la sua attenzionevennecatturata
dall’intero insieme della sala.
I ricordi scorrevano veloci,
accavallandosi l’uno sull’altro. La prima volta che aveva ascoltato il suono
della sua voce profonda al cellulare; la volta in cui era andato per la prima
volta al laboratorio, il giorno in cui aveva fermato i suoi compagni dal
prenderlo a pugni; la prima volta che Sherlock lo aveva baciato, là in quel
bagno, quando entrambi erano ancora troppo spaventatiper ammetterequello che stava realmente succedendo tra
di loro e il giorno in cui John lo aveva baciato sul serio, dichiarandogli
tutto il suo affetto; quando avevano fatto l’amore per la prima volta, quando
lo avevano fatto per la seconda, sul divano, un giorno piovoso di maggio. I
pomeriggi che avevano passato sul letto, a scambiarsi pensieri e carezze e
coccolandosi l’un l’altro, quelli passati davanti a un tavolo colmo di libri per
qualchestranoesperimento in corso. Il primo vero caso
che Sherlock aveva risolto sotto richiesta di alcune conoscenze di famiglia,
che aveva come protagonista un tassistasuicida, la prima tazza di the con
Mycroft, il primo cinese davanti aDoctorWho,
la prima litigata e la prima riappacificazione, la prima doccia insieme e le
corse sotto la pioggia per tornare a casa.
Ogni momento era un ricordo
indelebile nella mente di John: erano passati appena cinque mesi e avevano già
vissuto un sacco di emozioni e bei momenti che andavano solo a rafforzare tutto
quello che provavano l’uno per l’altro. John credeva di non potersi mai
stancare di guardare quel volto pallido, di affondare le dita in quei riccioli
castani, di perdersi in quegli occhi chiari di tutte le sfumature dell’azzurro
e del verde, di baciare quelle labbra di una bellezza impossibile e di
svegliarsi ogni mattina, in quel letto, con il suo corpo caldo vicino.
Lasciò scivolare lo sguardo
sulla sala, su tutte quelle persone che definiva amici, in alcuni casi anche
semplici conoscenti, e sul quale basava la maggior parte delle sue convinzioni.
Non poté fare a meno di
sorridere tra sé e sé quando vide Greg Lestrade, in un angolo della sala, che
scriveva freneticamente al cellulare, lanciando qualche volta un’occhiata
intorno a sé e arrossendo visibilmente.
Il sorriso un po’ si spense
quando notò Clara giocherellare nervosamente con una ciocca di capelli mentre
parlava con un ragazzo poco più alto di lei che John aveva visto qualche volta
nei corridoi del Barts. Lei e Harriet avevano rotto solo qualche settimana
prima, dopo interi mesi passati a litigare.
Dall’altra parte della sala,
invece, il Rosso si vantava con una ragazza del suo stesso anno, un po’ timida
ma congli stessi capelli rossoacceso, che sembrava essere lusingata dalle
attenzioni che le venivano rivolte.
Si lasciò trasportare dalle
note del lento che risuonava per la sala e si ritrovò a osservare la maggior
parte dei suoi compagni di squadra mentre vagavano abbracciati alle proprie
compagne, scambiandosi effusioni e alcuni gesti indiscreti che lo fecero
vagamente rabbrividire.
Era per quelle persone che
aveva fatto tutto questo, in tutti quei mesi? Era perché si vergognava di
quella parte di sé che aveva dovuto ammettere la sua omosessualità (o qualsiasi
cosa fosse)?
A John piaceva Sherlock, amava
Sherlock, nessun altro.
E, pensandoci, non riusciva
neanche più a trovare unsensoa quelle parole che tanto lo spaventavano.
Dove stava il problema nell’apprezzare qualcuno del proprio sesso?
Gli bastava guardare le
numerose coppie che volteggiavano proprio davanti ai suoi occhi per comprendere
che tra di esse non c’era più sentimento di quanto non ce ne fosse in un
cucchiaino da caffè[3].
Quella stupida etichetta non
era nient’altro che una parola, basata su pregiudizi e convinzioni ormai
passate, su pensieri innaturali e su antiche usanze ampiamente discusse e senza
ancora una spiegazione plausibile. Chi era l’uomo per giudicare un sentimento
così potente come l’amore? Chi erano tutti per potersi permettere di dire che
l’amore tra loro fosse sbagliato? Ma soprattutto, dove stava la differenzadi
fondo?
Era vero, una coppia gay non
sarebbe mai stata in grado di procreare e portare avanti l’umanità; forse era
contro natura, forse non era esattamente quello che ci si aspettava.Manessuno aveva il diritto di dichiararsi nel
giusto o nel torto, non quando si trattava di un tema così delicato.
John lo aveva provato sulla
propria pelle, si era ritrovato nella situazione di dover accettare qualcosa
che non avrebbe mai immaginato di poter provare. E non era rimasto per niente
sconvolto da ciò, anzi. Ammetterlo era stato solo un passo in più verso la
totale conoscenza di se stesso. Non poteva dire di non sentirsi più libero dopoquell’ammissione,
libero del peso della menzogna, di quel peso che non portava altro che
dispiaceri.
Bastò un sorriso un po’ più
sincero degli altri, uno sfioramento casuale che forse di accidentale non aveva
proprio niente.
Qualcosa dentro di lui scattò.
Un attimo prima era seduto, lo
sguardo perso di fronte a sé e un orecchiooccupato acarpire qualche parola qua e là del
discorso di Mike, un attimo dopo si era alzato, come in trance, e aveva
cominciato a camminare verso un punto preciso della sala, incurante dei
richiami stupiti dell’altro. Gli occhi si appuntarono sull’alta figura del suo
coinquilino, mentre Molly,affiancoa lui, si voltava di poco e lo notava con
la coda dell’occhio.
John attraversò la stanza nel
giro di qualche secondo, evitando accuratamente i ragazzi che siritrovavaper la strada e tutti coloro che,
notandolo, si allungarono verso di lui per salutarlo o per lasciargli qualche
pacca amichevole sulla spalla.
Sherlock lo notò e spalancò gli
occhi, forse nel tentativo di dedurre il risultato delle sue azioni, ma se
c’era qualcosa di cui John poteva andare fiero, quella era il fatto di essere
l’unica persona imprevedibile che fosse veramente in grado di stupirlo.
Coprì con pochi passi la
distanza che li separava, ignorando lo sguardo sorpreso che Molly gli rivolse.
Quando Sherlock intese, era ormai troppo tardi.
John gli si avvicinò di
slancio, prima che qualche stupido pensiero potesse impedirgli di fare ciò che
si era imposto, prima che qualsiasi altro fattore indefinito potesse
ostacolarlo.
Afferrò con le mani i lembi
della camicia di Sherlock e lo trasse a sé, costringendolo a chinarsi quel poco
che gli permettesse di arrivare alla sua altezza.
Lo baciò, con tutta la
delicatezza di cui era capace.
Il ragazzo s’irrigidì sotto di
lui e John poté quasi vedere attraverso le palpebrechiuse
isuoi occhi spalancarsi
e la sua espressione di stupore per quell’improvviso gesto. Poi, come
rassicurato dal fatto che John non si fosse ancora staccato, Sherlock allungò
le braccia e arrivò a cingergli la vita, aprendo le labbra e rispondendo al suo
bacio.
Non durò molto.
John si staccò lentamente,
riaprì gli occhi e li tenne fissi in quelli del suo ragazzo mentre un sorriso
si apriva sul volto di entrambi.
Il silenzio li avvolgeva, non
un urlo, non una parola volava per la stanza, e per John, in quel momento,
c’era solo Sherlock, Sherlock e le sue labbra, Sherlock e le sue stranezze, la
sua inafferrabile genialità e le sue strane manie. C’era solo Sherlock e il
loro passato insieme, le loro avventure e i loro bisticci, il loro cambiamento
e quel sentimento forte e potente che era il loro amore.
In quel momento tutto
l’orgoglio di John, tutti i pregiudizi che entrambi erano riusciti ad
affrontare e superare erano spariti in una bolla di sapone.
In quel momento John sentì di
cominciare a vivere veramente,sentìdi poter cominciare quella nuova vita e di
poter affrontare tutto ciò che ci sarebbe stato sul suo cammino. Sentiva che se
Sherlock era lì, con lui, tutto sarebbe andato per il meglio.
Cercò la mano del compagno e
intrecciò le loro dita.
Era pronto. Era finalmente
pronto a dimostrare a tutti quello che provava, e improvvisamente non gli
importava più di tanto ciò che avrebbero pensato i suoi amici. Lui amava
Sherlock, lo aveva dimostrato a se stesso, aveva anche provato a sfuggirgli,
inutilmente. Il destino aveva fatto il suo corso. Ciò che provava per quel
falso sociopatico era molto più che semplice affetto e se i suoi amici volevano
avere ancora la sua amicizia avrebbero dovuto accettarlo, così com’era. Era la
cosa giusta da fare, ora non aveva più dubbi.
Probabilmente lo avrebbero
preso in giro, avrebbero riso di lui. Probabilmente lo avrebbero chiamatogay,
frocio o che altro, ma improvvisamente tutto aveva perso importanza.
Se c’era Sherlock al suo
fianco, sapeva che niente sarebbe stato impossibile, e con il senno di poi, valeva
la pena provarci.
Lo guardò, fissò il suo sguardo
nei suoi occhi cristallini. «Ok?» chiese in un sussurro.
Sherlock sorrise,
improvvisamente più sereno. «Ok.»
E John si voltò.
Fine.
Note:
[1] Riferimento al canone. Watson accenna
al fatto che ogni tanto costringe Holmesaduscire quando non ha un caso a tenerlo
impegnato.
[2] Ah… ehm. Sarebbe troppo chiedervi di
tenerlo a mente? Cioè… si insomma. Forse. Non so neanche se…vabeh,
niente. Non importa.
[3] Piccola citazione da Harry Potter <3
Ebbene, l’ho fatto. Ho
veramente portato a termine questa pazzia. Quanto sono triste? Tanto. MOLTO.
È quasi passato un anno da
quando ho letto per la prima volta Orgoglio e Pregiudizio e ho deciso, non
appenaDarcyè
entrato in scena, di scriverci una ffa tema Sherlock. E niente, quei due mi sono
entrati nel cuore e credo che andrò avanti a pensarci ancora per un bel po’,
almeno fino a quando un’altra idea malsana non mi balzerà in mente.
Maora
basta ciarlare, spazio ai ringraziamenti. (Perché quando ci vogliono, civogliono).
Ungrazie,
ma un vero grazie di cuore va alla miafantasticherrimabeta, una ragazza che mi ha supportato
nell'iniziale indecisione per la pubblicazione, che mi ha incoraggiata strada
facendo, che mi ha sopportata nelle mie insistenze da "allora hai finito
dibetareche
stasera si pubblica?". E' una santa, cosa vi devo dire. Ed è la mia beta,
sola e inimitabile. Non so neanche come avrei fatto senza di lei <3
Un secondo grazie va a
Giulia, che mi ha letteralmenteforzataa iniziareGleee, credetemi, senza di lei non saremmo qua.
<3
E…myCass,
non so neanche da dove iniziare.
Sapete quanti siete? Quanti?!Tanti. Tantissimi. Il primo capitolo ha da
poco superato le 2000 visualizzazioni, i seguiti/preferiti/ricordati sfiorano i
200. Non ho mai visto numeri così alti nelle mie storie e ogni volta che cipensomi vengono le lacrime agli occhi. Grazie.
GRAZIE.
Vi voglio tutti qui per un
abbraccio di gruppo perché siete magnificieio sono talmente patetica da non riuscire neanche a fare un
ringraziamento decente.ç_ç
Un particolare e immenso
grazievasoprattutto
a chi ha recensito perché, giuro, leggere i vostri commenti è stato uno delle
cose più belle nello scrivere questa storia. <3
E ora la pianto, seriamente.
È stato bello, ci si becca in
giro. Vi auguro delle buone vacanze e, finalmente, dopo dodici capitoli, la
smetto di rompervi le pallexD
Con affetto,
Gageta.
Ps. Non so voi ma io mi diverto sempre a
vedere idietro le quintedi
un telefilm o a sapere le varie tribolazioni delle scrittrici (anche quelle qui
suefp, sì xD).
Percoloro che hannoquesto
mio stesso “hobby”, ho messo insieme un po’ di curiosità varie sulla storia,
dalla stesura ai variEasterEggsnei capitoli.[click]
Pps.[qui]il
mio profilofaccialibro, se vi va sentitevi libere di chiedermi
l'amicizia:D