Orgoglio e Pregiudizio

di Gageta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - parte I ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - parte II ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 - parte III ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


E, dopo averci lavorato sopra per quasi sei mesi, eccomi qua.

Mi sono divertita un botto a scriverla, e spero che voi, leggendola, possiate fare altrettanto ;)

Era partita come una rivisitazione del romanzo di Jane Austen, ma poi è passato in secondo piano quando ho cominciato a fantasticarci su senza il libro sotto agli occhi, e alla fine è venuto fuori quello che è venuto fuori. E in fondo non è che mi dispiaccia poi più di tanto.

Sarà composta di una decina di capitoli (nonostante tutte le mie buone intenzioni non l'ho ancora finita :/) e ne pubblicherò all'incirca uno a settimana.

Grazie infinite alla mia beta lalla_4 per il suo betaggio e un grazie anche a Giuls_18 per il sostegno e qualche letturina qua e là :3

Ora sparisco in fretta prima che mi lanciate pomodori…

Buona lettura!

Love,

Gage.

 

~*~

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 1

 

«J

ohn, devi venire alla festa. Devi distrarti un po’, dannazione! Non puoi rifiutare un invito della Dimmock… Ci saranno tutti!» ripeté Mike per la terza volta nello stesso giorno.

John portò gli occhi al cielo per poi puntarli nel proprio piatto.

Nella mensa in cui si trovavano risuonava il solito incessante brusio dato dal chiacchiericcio dei numerosi studenti che stavano mangiando. C'era chi pranzava in silenzio al suo posto, inviando di tanto in tanto un messaggio col cellulare o leggendo un libro, chi ascoltava musica e chi invece discuteva della mattinata appena passata. Al tavolo dove sedevano John e Mike in quell’istante c’erano solo un paio di ragazzine del primo anno che sfogliavano alcune riviste lanciando di tanto in tanto qualche urletto di gioia alla vista di un attraente cantante o sbuffi di delusione all’ennesima storia d’amore finita tra qualche popolare coppia di attori hollywoodiani. John avrebbe tanto voluto strappare loro di mano quelle cose o spostarsi in un altro tavolo, ma l’amico lo aveva costretto a sedersi lì. Non era proprio un posto appartato e John si era separato dagli amici della squadra di rugby solo perché aveva intenzione di ripassare per il test di letteratura inglese del pomeriggio. Inutile dire che di quel passo non avrebbe ripetuto nemmeno una parola.

«Oh, piantala! Ti ho già detto di no. Perché devi fare tutte queste scene? È solo una festa!»

«Non è solo una festa, è la festa dell’anno.» lo corresse cocciuto l’altro. «Dicono che abbia invitato anche un sacco di gente importante.»

«Come fa ogni anno?» commentò John sarcastico, per poi addentare un bel pezzo di pollo che gli avrebbe tenuto impegnata la bocca almeno per qualche minuto.

Mike lo guardò con tanto d’occhi e si dilungò sui nomi degli invitati, la maggior parte dei quali John conosceva solo per fama. «Gira voce che abbia persino invitato alcuni suoi amici di Scotland Yard. Ti rendi conto? Quella ha amici pure lì!»

John deglutì. «Ti ricordo che suo fratello ci lavora, là dentro…» commentò sarcasticamente.

Mike fece un gesto d’impazienza con la mano. «Andiamo John! Verrà tua sorella e tu no? Pensavo che avessi deciso di non lasciarla più sola…»

John s’incupì. «Almeno questa volta spero che userà il cervello.»

«Sei un idiota John.»

Il ragazzo sbuffò e si guardò intorno con aria annoiata.

Come in ogni liceo che si rispetti anche al Barts esisteva una specie di piramide sociale alla cui sommità si trovavano i membri della squadra di rugby e le cheerleader a loro associate, mentre alla sua base c’erano i cosiddetti secchioni e i più sfigati della scuola, sempre isolati e il più delle volte con un paio di occhiali tondi sul naso. In mezzo si vagava tra i membri delle varie squadre sportive (subito sotto a quella di rugby) e gli svariati gruppi scolastici. C’era il club di astronomia, quello di cucito e quello di cucina, il club di scrittura creativa e quello di lettura, canto corale e canto coreografato. Solitamente durante la pausa pranzo i membri dei vari club si riunivano ciascuno al proprio tavolo nella mensa e pranzavano tra i loro coetanei e amici senza mai mischiarsi ai gruppi altrui. Poi c’erano alcuni tavoli che venivano puntualmente lasciati liberi perché “senza padrone” ed era lì che si sedevano coloro che ancora non appartenevano ad un gruppo, solitamente quelli del primo anno, o chi, come John e Mike in quel momento, desiderava prendersi un attimo di pace.

Proprio in quell’istante, al tavolo dei Blackheath, Harry Smith stava imitando la fatale caduta della squadra avversaria che la sera prima aveva regalato loro la vittoria, tra le risate delle cheerleader e dei compagni. John desiderò essere lì con loro solo per un momento, prima che il suo sguardo si posasse sul libro in bella vista appoggiato sul tavolo accanto al vassoio.

«Orgoglio e pregiudizio… che razza di libri vi fanno leggere?» commentò sarcasticamente Mike.

Le ragazze del primo anno lanciarono un altro gridolino e cominciarono a ridere sguaiatamente riguardo a una certa battuta fatta da una delle due, guadagnandosi l’ennesima occhiataccia da parte di John.

«Magari i più importanti della letteratura inglese?» ribatté l’altro stizzito e, abbandonato il piatto, afferrò il tomo e fece per alzarsi.

«Te ne vai di già

«Sì, Mike. Al contrario di te non ho la minima intenzione di farmi bocciare.»

L’amico fece una smorfia infastidita e si rigirò la forchetta tra le dita. «Se continui così ti stresserai troppo e l’esame non lo passerai nemmeno sapendo tutto il programma a memoria.»

«Ho bisogno di studiare e stasera approfitterò del non-allenamento per questo. Perché ti è così difficile capire quanto sia importante per me entrare in quella dannata accademia?»

Mike lo guardò di sbieco. «No, non lo capisco…»

John sbuffò ancora sonoramente. Poi sembrò prendere una decisione e, assicuratosi che nessuno li stesse ascoltando, si portò le mani a coppa alle labbra e si chinò un po’ di più verso l’amico. «La verità è che ho un appuntamento con Sarah…» sussurrò.

L’amico lo guardò sorpreso, poi rise e gli diede una pacca sulla spalla. «Eccolo lì il nostro Johnny-Boy! Altro che studio… beh, questo cambia le cose. Caspita, Sarah! Hai fatto un bel colpo questa volta!»

John lo implorò di abbassare la voce. «È ancora un segreto, per favore…» lo supplicò. «E comunque ci vediamo per studiare…»

Mike rise un’altra volta. «Vuoi davvero farmi credere che quella abbia intenzione di studiare stasera? Fai prima a portarla alla festa…»

John scosse la testa. «Ho detto che alla festa non ci vengo, Mike, basta. Preferisco la tranquillità di casa sua ad una festa in mezzo a un manipolo di ragazzi ubriachi…»

«Ah beh, certo… casa sua… Capisco.» ridacchiò l’altro.

John sospirò scuotendo la testa, poi sbatté un po’ troppo violentemente il bicchiere sul tavolo, chiudendo così la discussione con decisione e facendo sobbalzare le biondine di fianco.

Ma, com’è vero che il sole sorge a est e tramonta ad ovest, è anche vero che le cose non vanno mai come le si aspetta. 

~*~

Gregory Lestrade osservava esasperato il ragazzo seduto affianco a lui sul taxi. Sherlock era appollaiato sul sedile anteriore con l’aria truce, le braccia incrociate al petto e le mani strette a pugno. Indossava una dei suoi soliti completi costosi, lo stesso che aveva indossato per tutto il giorno ad essere precisi, ed i capelli spettinati gli ricadevano in riccioli sul volto pallido e affilato.

Non c’era stato verso di fargli cambiare l’abito e neanche di pettinarlo. A Greg pareva di avere a che fare con un bambino di sei anni, nonostante il ragazzo al suo fianco ne dimostrasse circa il triplo.

Continuava a maledire Mycroft per quella bella pensata: gli aveva ripetuto per un’intera settimana che non aveva nessuna intenzione di trascinarsi dietro uno Sherlock irritato, e quindi scorbutico, a una festa il cui scopo era semplicemente divertirsi, ma il maggiore degli Holmes era irremovibile. Ricordava perfettamente la discussione avuta solo qualche ora prima mentre tentavano di trovare un modo per convincere Sherlock a schiodarsi dalla sua camera.

«Ti rendi conto che la sua presenza rovinerà l’intera festa?» aveva detto Lestrade leggermente incazzato.

«Ci saranno decine di persone, la sua presenza nuocerà solo a qualche sfortunato.» aveva replicato pacatamente il maggiore degli Holmes.

«Per esempio me!»

«Te ne prego Gregory... Sai quanto me che ne ha bisogno. Hai presente i nervi di mia madre, no? Non voglio che le succeda niente, e Sherlock prima o poi potrebbe causarle qualche malattia irreversibile.»

Lestrade aveva guardato Mycroft ponderando l’idea di tirargli un bel ceffone.

«Se non sbaglio mi devi ancora un favore per quell’ammissione che tanto desideravi.» aveva poi aggiunto Holmes, e Greg era stato costretto ad accettare contro la propria volontà, un’altra volta. Se c’era una cosa che odiava fare, sicuramente quella era discutere con Mycroft Holmes: chissà per quale assurdo e contorto motivo l’uomo doveva riuscire ad averla vinta ogni volta.

«Non avresti dovuto accettare, allora.»

Lestrade rivolse uno sguardo incredulo a Sherlock: era sicuro di non aver aperto bocca su ciò che gli passava per la testa in quel momento.

L’altro roteò gli occhi. «Ti si legge in faccia quello che pensi.»

«Piantala di fare il bambino una buona volta e lasciami divertire stasera, ok?» sbottò seccato l’amico, strofinandosi le mani sui pantaloni in un gesto nervoso.

Sherlock non rispose, voltando invece lo sguardo verso il finestrino che si appannò con il calore del suo respiro.

«Sarà una festa piena di ragazzi. Vedi di cercartene qualcuno di abbastanza interessante e di fartelo amico.» continuò Greg.

Sherlock arricciò il naso. «Per poi entrare a far parte di qualche insulso gruppo su qualche altrettanto insulso argomento e potermi sedere ad un insulso tavolo insieme ad altre insulse persone?»

Greg sbuffò. «È la regola, Sherlock! Sei al Barts ormai da un anno e non sei ancora entrato a far parte di un gruppo! Lo sai che è anche per questo che ti prendono di mira? I Blackheath si divertono prendendo in giro gli sfigati o chi non fa parte di un club, o chi è tutti e due. E tu non sei per niente uno sfigato

«Parli come se fossi mio padre.» sbuffò l’altro infastidito.

«Beh, scusami tanto se tuo fratello ha deciso che io ti debba fare da baby-sitter.»

«Appunto. Non avresti dovuto accettare. Mycroft sembra avere una certa influenza su di te…» mormorò Sherlock distrattamente, ma non per questo in modo meno pungente.

Fu una fortuna che fosse buio, per lo meno il moro non si accorse del lieve rossore che andò a imporporare le guance di Lestrade. Il ragazzo era perennemente in lotta con il fratello del suo migliore amico per la sua dignità: non c’era mai una volta in cui Greg riuscisse ad avere ragione in qualche discussione. Ma dopotutto Mycroft era un Holmes e aveva sette anni in più di lui; solo con questo pensiero il ragazzo riusciva a consolarsi e a tirare avanti.

Certo che condividere i suoi pensieri con l’amico sarebbe servito a ben poco, Greg si limitò a sbuffare e a voltare lo sguardo dall’altra parte. «Per lo meno lascia in pace Dimmock. Siamo in buoni rapporti con lui, e sai cosa questo vuol dire.» borbottò, ma Sherlock non sembrava più ascoltarlo.

~*~

Sarah arrivò con due cartoni di pizza in mano che appoggiò poi sul tavolino, nello spazio libero tra i libri accatastati l’uno sull’altro alla rinfusa.

«Il ragazzo delle consegne era leggermente incazzato…» ridacchiò mentre prendeva posto sul divano vicino a John, il quale rise a sua volta.

«Non è da tutti ordinare pizze alle undici di sera, vero?»

Sarah aprì la lattina di coca ridendo.

«Speriamo solo che non abbia confuso qualche ingrediente, come lo zucchero con il sale per esempio.» aggiunse John, che nel frattempo aveva aperto il primo cartone e stava guardando con aria critica la mozzarella filante straripare da un pezzo di crosta.

Sarah continuò a ridere e dovette portarsi una mano alla bocca per l’improvviso attacco di tosse dovuto alla coca appena bevuta. Quando finalmente ebbe deglutito guardò John con aria di rimprovero. «Smettila di farmi ridere… Mi fanno già male gli addominali per tutte le battute di prima…»

John sogghignò. «Che ci posso fare se sono così simpatico?»

Sarah sospirò. «In realtà niente…»

John addentò la prima fetta e masticò lentamente, osservando la ragazza fare altrettanto.

Si trovava a casa sua ormai da più di tre ore e non ricordava di essersi mai divertito tanto con una ragazza. Sarah era una delle migliori con cui avesse mai avuto un appuntamento, anche se di studio, come nel loro caso. Con lei anche gli argomenti più noiosi del libro sembravano divenire improvvisamente più interessanti, anche se forse era lei ad affascinarlo, con i suoi modi gentili e la sua determinazione a finire il lavoro per poter poi così fare qualcosa di più divertente, come mangiarsi una pizza per esempio. John aveva ridacchiato mentalmente quando Sarah glielo aveva detto, cogliendo l’espressione maliziosa del suo sguardo. Ma il ragazzo sapeva per esperienza che quello che Sarah intendeva non era l’approccio giusto per un primo appuntamento e si limitava a scherzare, mostrando il lato più divertente di sé con cui sapeva avere le maggiori possibilità di far colpo. E ci stava riuscendo bene a giudicare dalle occhiate dolci che la ragazza gli lanciava ogni tanto. Per una volta John si ritrovava a sperare che il loro rapporto potesse approfondirsi di più, come gli era successo in rare occasioni.

Era uscito con un sacco di altre ragazze affascinanti e simpatiche, ma con nessuna era riuscito a sentirsi completamente a suo agio come con Sarah. Forse uno degli elementi che la favorivano era il fatto che anche lei era decisa a dare il meglio di sé nello studio, tralasciando solite frivolezze a cui altre difficilmente avrebbero rinunciato.

«Sei un ragazzo simpatico John Watson, e finora non ho ancora trovato qualche tipo di difetto in te.»

John sorrise. «E questo che fai ai primi appuntamenti? Trovi i difetti negli altri?» scherzò.

Sarah si diede un’occhiata critica intorno. «E questo lo chiami appuntamento?»

John si strinse nelle spalle. «Come dovrei chiamarlo?»

«Beh, ritrovo di studio, per esempio… Comunque sì, mi piace trovare difetti, tanto per sapere con chi ho a che fare. E tu? Ne hai trovato qualcuno in me?»

John scosse la testa. «Dovrei trovarne?»

Sarah annuì. «Non fare il timido John… Non mi offendo.»

John deglutì, non sapendo cosa rispondere.

Sarah notò il suo disagio e ridacchiò. «Il mio ex mi diceva sempre che sono troppo curiosa e impulsiva…»

John la guardò sorpreso. «Davvero?» poi aggiunse: «La curiosità la consideri un difetto?»

«Oh beh… Dipende dal contesto, ma per la maggior parte dei casi per me vale come difetto. Se pensi che poi il mio ragazzo mi ha lasciato proprio per questo…»

John ridacchiò. «Che cosa gli hai fatto?»

Sarah cominciò a sbocconcellare la crosta di una fetta di pizza con aria truce. «Diciamo che non gli è piaciuto quando sono andata a curiosare nei suoi affari famigliari…»

Un brivido freddo percorse la schiena del ragazzo a quell’affermazione, e Sarah dovette notarlo dalla sua espressione perché si affrettò ad aggiungere:«Non lo faccio più, ovviamente… Ho imparato la lezione. Ma continuo a pensare di aver fatto la mossa più giusta. Avevo l’impressione che mi stesse tradendo con una sua amica, quando invece aveva solo alcuni problemi con i suoi. Se solo me lo avesse detto…» Sospirò.

«Allora posso considerarmi fortunato che non l’abbia fatto…» mormorò John con un sorriso appena accennato sul volto.

Sarah arrossì lievemente.

Passarono alcuni minuti in silenzio, poi fu di nuovo lei a parlare. «Ora che ci penso un difetto ce l’hai…»

John alzò lo sguardo sorpreso. «Spero qualcosa di non troppo evidente…»

Sarah sogghignò. «No, non si nota, a meno che non ti si provochi.» affermò.

«Ah sì?»

Sarah abbassò lo sguardo a rimirarsi un’unghia. «Ricordi la prima volta che ci siamo incontrati? Alla festa dopo la partita di rugby?»

John annuì.

«C’era un tizio… Un certo Spencer…»

John corrugò la fronte nello sforzo di riportare i ricordi alla mente, e quando essi riaffiorarono emise un flebile «Oh…»

Sarah lo osservò attentamente. «Ti aveva provocato?»

John ricordava abbastanza bene quel momento. Dopo una vittoria alla partita di rugby di quel giorno era andato con la squadra a festeggiare al loro solito bar, e lì aveva conosciuto il nuovo ragazzo di Janette, una delle sue ex. Gli era sembrato insopportabile fin da subito e aveva avuto modo di provare l’autenticità di quell’antipatia quando, due ore dopo circa, il ragazzo aveva cominciato a sparlare alle sue spalle. A quanto pareva Janette doveva avergli raccontato molto su di lui, perché Spencer aveva cominciato a parlare di Harriet e dei suoi problemi con l’alcool. A quel punto John non aveva più resistito e gli aveva risposto male, dando inizio così a una rissa, fermata per l’appunto da Sarah prima che cominciassero a prendersi a pugni. Ricordava bene l’orribile sensazione di essere stato messo a nudo davanti ai suoi amici con ciò che più tentava di nascondere, l’orribile sensazione che si prova quando si viene feriti nell’orgoglio.

Sì, John poteva definirsi abbastanza orgoglioso.

«È una brutta cosa vero?» tentò di sviare.

Dopo essersi assicurata che John non si fosse offeso, Sarah annuì. «La maggior parte delle volte.»

John sorrise. «Quindi abbiamo entrambi i nostri difetti.» constatò.

Sarah sorrise a sua volta.

Buttarono via i cartoni della pizza e si sedettero sul divano con l’intenzione di guardarsi un po’ di tv. Stavano decidendo se guardarsi un film o fare qualcos’altro quando il cellulare di John squillò dal tavolo. Il ragazzo rivolse un’occhiataccia all’apparecchio, quasi sperando che smettesse di vibrare. Quando questi non lo fece si scusò con Sarah e lo prese in mano: la foto di sua sorella compariva sullo schermo, accompagnata dal suo nome e cognome. John trattenne a stento un’imprecazione.

«Che succede?» Sarah si avvicinò interrogativa.

«Mia sorella.» rispose John, secco, poi premette la cornetta verde. «Che c’è?»

«Numero quattro di Brook Street. Vieni subito, se puoi. Se non ti è possibile, vieni lo stesso.» fece una voce profonda dall’altro capo della cornetta.

Per poco John non si prese un colpo. «Chi parla?»

Dall’altra parte qualcuno sbuffò. «Harriet è tua sorella? Sì, ovviamente.» John non ebbe neanche il tempo di rispondere alla domanda.

«Vieni al quattro di Brook Street, penso che non tornerà a casa da sola.» e con questo chiuse la chiamata.

John rimase imbambolato con il cellulare all’orecchio, mentre la sua mente correva avanti col pensiero. Harriet si era cacciata un’altra volta nei guai. Aveva semplicemente esagerato un’altra volta con l’alcool o qualcosa in più? Poi gli venne in mente l’indirizzo che gli era stato dato al cellulare e si rilassò un poco. Brook Street era l’indirizzo dove Clara Dimmock aveva organizzato la festa, quindi non c’era motivo di preoccuparsi più di tanto. Clara poteva anche essere una ragazza avventata, ma non sufficientemente da permettere che qualcuno si facesse male ad una delle sue feste: su questo John sapeva che la ragazza faceva attenzione. Chiunque entrasse con qualcosa d’illegale era subito cacciato dalla festa, almeno su questo Clara era irremovibile.

«Cos’è successo?» chiese Sarah con apprensione.

John si riscosse dai suoi pensieri e sospirò pesantemente. «Mia sorella…» Deglutì, «Sì è cacciata nei guai…»

«Che genere di guai?» chiese preoccupata la ragazza, poi arrossì lievemente e distolse lo sguardo. «No, scusa, non dovevo chiedertelo. Me lo dirai solo se vorrai.»

John si agitò sul posto. «No non… non è niente.» Si morse un labbro nervosamente. «Penso che si sia fatta qualcosa alla festa… Niente di grave.»

Sarah annuì. «Quindi devi…?»

Il ragazzo si passò una mano sul volto. «Mi dispiace…» sospirò.

Lei gli sorrise comprensiva. «Beh, è comunque tardi… Ci sentiamo?»

John si alzò e raggruppò le sue cose. «Ti andrebbe di vederci venerdì? Magari un film?» chiese.

Sarah annuì. «D’accordo… Ma niente film romantici, non sono proprio il mio genere.»

L’altro ridacchiò. «Neanche il mio.»

La ragazza lo accompagnò alla porta e li aspettò che l’ascensore arrivasse, facendogli compagnia. Quando si udì il tintinnio delle grate aprirsi lo salutò: «Allora a venerdìJohn Watson… e fammi sapere se è andata bene con tua… Cioè, sempre se vuoi…»

John sorrise. «Ti mando un messaggio, ok?»

Sarah annuì, poi, quasi timidamente, si sporse verso di lui e gli diede un bacio leggero sulle labbra. «Tieni a bada il tuo orgoglio.» scherzò, e richiuse la porta.

John ridacchiò tra sé e sé ed entrò nell’ascensore, che scese poi sferragliando i sei piani che lo separavano dall’uscita.

Una volta in strada John prese un respiro profondo. Era passata la mezzanotte, il che voleva dire che di prendere la metro non se ne parlava neanche. Si avviò alla fermata dell’autobus più vicina, ma una volta arrivatoci, vide che mancava più di mezzora alla corsa successiva. L’unica macchina che possedevano se l’era presa Harriet, il che voleva dire che a Brook Street ci sarebbe dovuto arrivare con le proprie gambe: di certo non avrebbe chiesto un passaggio a Sarah. Poi, come se non bastasse, cominciò a scendere una pioggia sottile. Con uno sbuffo di rabbia John si calò il cappuccio sul volto e si avviò a piedi verso la sua destinazione.

Ci impiegò venti minuti buoni a passo svelto, e in un certo senso fu contento del risultato, tanto da salire gli scalini che lo separavano dall’appartamento a piedi. Quando suonò al campanello aveva il fiatone. Dall’ingresso sentiva il suono della musica a tutto volume accesa in sala, e per una volta si chiese che cosa ne pensassero i vicini. Per quanto ne sapeva le feste di Clara duravano fino alle prime ore del mattino; di certo lui non avrebbe voluto avere una vicina del genere.

Andò ad aprirgli Clara in persona, che gli sorrise e lo fece entrare nell’ampio ingresso. «Heilà Johnny!» Lo abbracciò velocemente. «Ti aspettavo qui come invitato, non come tassista.»

John abbassò lo sguardo imbarazzato. «Mi dispiace di non essere venuto… Avevo un…»

Clara fece un gesto con la mano. «Non importa, ora sei qui, no?» ridacchiò. «Vieni, tua sorella è da questa parte… Avresti anche potuto farmela conoscere prima, però. A dir la verità pensavo che fossi figlio unico.»

John non rispose, cercando invece con lo sguardo la sorella. La trovò in un angolo della sala, seduta su di un puff bluastro con in mano un bicchiere di quella che sperava vivamente essere acqua. Al suo fianco c’era Mike, anche lui con un bicchiere in mano, e quando lo vide gli fece un gesto con la mano in segno di saluto. «Che ti avevo detto stamattina? Non puoi perderti la festa dell’anno…» ironizzò il ragazzo, tirandogli una bella pacca sulla spalla.

John gli sorrise di circostanza e si rivolse alla sorella. «Riesci a non provocare una guerra mondiale prima che io me ne torni a casa?»

Qualcuno seduto vicino si mosse sulla sedia, voltandosi verso John, ma il ragazzo era troppo occupato a prendersela con la sorella per accorgersi di altro.

Harriet lo guardò con occhi vacui, poi scosse la testa e abbassò lo sguardo verso il bicchiere che teneva in mano, guardandolo come se fosse fatto di un particolare diamante.

John sospirò e tirò fuori il cellulare dai pantaloni per guardare l’ora, facendo al contempo cadere il portafoglio che teneva nella stessa tasca. Si affrettò a raccoglierlo, poi continuò il discorso. «È passata la mezzanotte, magari possiamo essere a casa per l’una ed evitare di far preoccupare mamma…»

Harriet scosse la testa, alzando lo sguardo sulla sala. «Non voglio… non… in questo stato.» borbottò.

John strinse una mano a pugno. «Forse avresti dovuto pensarci prima, eh?»

«Questa volta do ragione a Harriet, John. Dai, ancora una mezzoretta. Beviamoci qualcosa, ti va?» fece Mike, guadagnandosi un’occhiataccia dall’amico.

John sospirò e si lasciò cadere su un altro puff lì vicino. «No grazie.» rispose secco.

«D’accordo…» sospirò Mike. «Ti va una coca Sherlock?»

John si accorse solo in quel momento del ragazzo seduto a gambe accavallate sulla sedia vicino a Mike. Era alto e snello, il volto pallido e affilato era contornato da lunghi riccioli castani e aveva un paio di occhi di colore chiaro, che alla richiesta di Mike distolse da John per puntarli negli occhi del vicino. «No.»

Fu una sola parola, ma per John fu abbastanza per riconoscere la voce del ragazzo che gli aveva parlato al cellulare.

Lo guardò interrogativo. Mike si diede una manata sulla fronte, borbottando qualcosa sul fatto che si scusava per non aver pensato a presentarli. «John, ti presento Sherlock Holmes, un mio… ehm…» gettò un’occhiata al ragazzo, «…diciamo amico. Frequenta il terzo anno da noi al Barts, non so se lo hai mai visto. Prima ha avuto la cortesia di chiamarti quando tua sorella ha, diciamo, un po’ esagerato…»

John sospirò, non osando pensare a cosa Harriet avesse mai potuto fare per costringere un ragazzo a chiamarne il fratello, poi sorrise. «Piacere, John Watson.» e tese una mano verso l’altro, il quale, però, lo guardò distante senza muovere un muscolo.

«Piacere.» rispose laconico.

John si affrettò a ritirare la mano, limitandosi ad ignorare il suo comportamento.

«Beh, io vado a prendermi una coca.» fece Mike, e si alzò, per poi allontanarsi lungo la parete evitando i ragazzi che si muovevano a ritmo della musica a tutto volume.

John osservò Sherlock, che intanto aveva distolto lo sguardo e fissava un punto indefinito di fronte a sé, soffermandosi in modo particolare sui suoi abiti lindi e costosi. Sedeva ritto e composto, in un modo che gli dava un’odiosa aria altezzosa, e osservava i ragazzi nella sala con superiorità. John provò subito un moto di antipatia nei suoi confronti. Per quanto ne sapeva quel ragazzo era solo uno dei tanti ricchi sfondati che credevano di essere superiori a tutto e a tutti e che non si abbassavano a guardare una persona se non portava orologi o scarpe di marca.

John non aveva mai avuto pregiudizi di nessun genere nei riguardi di coloro che avevano la fortuna di essere più ricchi di lui, ma osservando Sherlock Holmes cominciò a pensare che in fondo non erano solo voci di persone gelose quelle. Non che tutti i ricchi si comportassero così, poi. John sperava vivamente di non dover mai avere a che fare con qualcuno di loro.

«No.» La sua voce profonda lo distolse dai suoi pensieri. Sherlock lo stava osservando di nuovo, questa volta però con aria irritata.

Il ragazzo lo guardò accigliato. «Che cosa no?»

«No, non sono uno dei tanti noiosi ricchi sfondati.»

John spalancò la bocca, sorpreso mentre l’altro lo osservava con diffidenza. «E invece tu sei noioso, esattamente come tutti. Ma non ricco…»

A quelle parole John sentì una morsa stringergli lo stomaco.

«…e neanche nella media direi. Tua sorella non ha nemmeno i soldi per comprarsi un abito nuovo, figuriamoci. Per fortuna quelli di vostra madre sono ancora in buono stato.»

John sedeva rigido sul puff, le unghie che gli affondavano nel palmo della mano da quanto stringeva forte i pugni, la mente divisa tra la stupore per quello che il ragazzo sapeva su di lui e la frustrazione per ciò che gli stava sbattendo in faccia senza il minimo tatto. Alla fine si risolse nell’esprimere un unico pensiero. «Che cosa vuoi da me?»

Sherlock fece saettare gli occhi sul suo viso. «Niente.» disse poi con una smorfia, e si alzò.

«Sherlock, tutto a posto?» dalla folla spuntò un ragazzo allampanato, i capelli in disordine e il viso leggermente arrossato.

Il moro non rispose, limitandosi a spostare lo sguardo sul nuovo arrivato.

Il ragazzo notò John e sorrise. «Avete fatto conoscenza? Piacere, Greg Lestrade.» disse e allungò una mano verso il ragazzo, il quale, furioso, si alzò a sua volta e voltò le spalle ai due. «Andiamo Harriet.» disse, poi prese la sorella per le spalle e la guidò fuori dalla sala, fermandosi solo a salutare Mike e a ringraziare Clara per l’ospitalità.

Intanto Greg spostava lo sguardo da Sherlock a John, ormai lontano. Poi sospirò. «Che cosa diamine gli hai detto?»

Sherlock si strinse nelle spalle. «La verità.»

Greg si passò una mano sul volto e sbuffò. «E ti sei chiesto se fosse giusto dirgli la verità?»

Ancora una volta, Sherlock non rispose.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ed eccoci qui con il secondo capitolo…

Dato che è mooolto lungo, cercherò di essere il più breve possibile.

Allora, che dire? Il primo capitolo ha avuto un successo (almeno per i miei standard) che non mi aspettavo per niente. Non so che altro dirvi se non ringraziarvi e sperare che la storia possa continuare a piacervi con la continuazione *^*

Detto questo, avviso che alla fine del testo troverete un po’ di note. Ho pensato fosse doveroso metterle per una maggiore comprensione del testo ;)

Prima di leggere, tuttavia, vi annuncio già che la storia tratterà molto spesso di argomenti riguardanti il rugby. (In questo caso quello a 15 giocatori poiché è il più diffuso in Inghilterra). Per questo vi rimando alla pagina wikipedia dove ne parla: qui.

Per quanto riguarda il prossimo aggiornamento, invece, in questo periodo sono abbastanza impegnata con lo studio quindi potrebbero esserci dei possibili ritardi. Se tutto dovesse andare per il meglio, però, aggiornerò martedì prossimo.

Bene… come al solito: buona lettura!

Gage.

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 2

 

 

A

ppena John se ne fu andato, Sherlock ripensò all’espressione che il ragazzo aveva assunto alle sue parole, confermando le sue teorie e dicendogli che ancora una volta era giunto alle giuste conclusioni.

Compiacendosi di se stesso lasciò che le parole di Lestrade perdessero il loro significato, scivolando via dai meandri della sua mente, mentre un sorriso superbo gli affiorava sul volto sotto lo sguardo attonito dell’altro.

«Ti diverti così tanto a inimicarti le persone?» sbuffò Greg.

Sherlock roteò gli occhi. «Io dico solo la verità. Se poi risulta essere scomoda non è colpa mia…» disse, poi voltò definitivamente le spalle all’altro e si avviò a passi cadenzati verso il lungo tavolo delle bibite.

Puntò verso un the freddo alla pesca e se lo versò in un bicchiere, portandolo poi alle labbra.

Al pensiero di dover rimanere lì ancora per un paio d’ore un vago senso di nausea gli attanagliò lo stomaco e dopo qualche secondo decise che avrebbe abbandonato la festa non appena Greg si sarebbe ributtato nella massa e avrebbe definitivamente perso ogni tipo di controllo su di lui. Mischiandosi al resto dei ragazzi si sarebbe avviato verso l’ingresso, dove avrebbe tranquillamente recuperato il proprio cappotto e la propria sciarpa con qualche scusa, e sarebbe poi uscito fuori, via da tutto e da tutti. Se proprio avrebbe avuto difficoltà nel recuperare il vestiario decise che ne avrebbe fatto a meno: dopotutto fuori non era poi così freddo e lui era ormai abituato a mantenere sbalzi di temperatura improvvisi. L’unico problema che si poneva davanti alla propria fuga era Mycroft: era sicuro che non lo avrebbe fatto entrare in casa prima di una certa ora. E Greg poteva anche non essere una cima d’intelligenza, ma prima o poi se ne sarebbe accorto e avrebbe immediatamente inviato un messaggio a Mycroft per avvisarlo. Odiava quella strana chimica che intercorreva tra l’amico e il fratello e che portava Greg ad ubbidire ciecamente a Mycroft: pareva che non ci fosse nient’altro al mondo da fare per entrambi che tenerlo sotto ferreo controllo. Sapeva che Greg si sentiva nettamente inferiore a suo fratello e odiava Mycroft per come riusciva ad averla vinta solo con un’occhiata minacciosa.

Alla fine del suo lungo ragionamento decise che avrebbe tentato la fortuna con l’amico. Per quanto riguardava il rimanere chiuso fuori di casa, Sherlock non aveva la minima fretta di tornarci e pensò che un giretto nei dintorni non gli avrebbe fatto male: magari avrebbe trovato un assassino per strada.

Quando, però, mezzo minuto dopo abbassò il bicchiere pronto a mettere in atto il suo piano, si ritrovò faccia a faccia con il sorriso affabile di Irene Adler.

«Ciao, Sherlock…» mormorò lei suadente. «Passata una buona serata?»

Il ragazzo non riuscì a trattenere uno sbuffo infastidito.

Irene Adler era una delle ragazze più subdole e intelligenti che avesse mai conosciuto. Si erano parlati per la prima volta durante una noiosa ora di corso al Barts, e da quel momento Irene lo aveva puntato, decisa a prendersi una parte della sua vita. Sherlock ammirava Irene Adler, la ammirava per la sua furbizia e le sue capacità intellettive che di certo non lo superavano ma comunque lo rendevano spesso dubbioso sulle proprie deduzioni. Irene Adler era un’attrice nata e Sherlock non riusciva quasi mai a interpretare il suo comportamento.

Era, con James Moriarty, a capo del Brainy club, il gruppo che comprendeva tutti i ragazzi più intelligenti della scuola, desiderosi di mettersi alla prova con gare di matematica e logica. Più volte gli aveva proposto di entrare a farne parte e Sherlock aveva anche partecipato a un paio di incontri, durante i quali aveva conosciuto Stamford, ma trovava la cosa fin troppo noiosa e alla fine aveva lasciato perdere. Ma Irene no. La ragazza si era naturalmente accorta della propria situazione privilegiata e aveva ormai tentato in tutti i modi di avvicinarlo, con scarso successo.

In quel momento Sherlock desiderò con tutto se stesso che la ragazza decidesse di lasciarlo in pace, o che un qualsiasi altro ragazzo la invitasse a bere qualcosa distraendola da lui, ma non avvenne niente di tutto ciò. Irene non si arrese al silenzio del ragazzo e continuò. «Che noia queste feste, vero?» Si avvicinò al tavolo dove Sherlock si appoggiava e osservò la sala pensierosa. «Scommetto che ti stai annoiando ancora più che nell’ascoltare un qualche nostro incontro del Brainy.» sorrise.

Sherlock appoggiò il bicchiere sul tavolo e la guardò dall’alto in basso.

«E pensare che credevo che le gare di matematica fossero difficili… speravo potessero almeno incuriosirti. Scommetto che declinerai ogni mia altra proposta di unirti a noi, vero?» Irene scosse i lunghi capelli con un sorriso triste ad incurvarle le labbra.

«Sì. Ma le feste sono molto meno noiose.»

Irene si finse sorpresa. «Oh, davvero? Avrei detto esattamente il contrario…»

Sherlock non rispose, spostando lo sguardo sulla sala. Vide distintamente Greg Lestrade parlare dall’altro capo della stanza con un suo compagno di corso.

«A volte mi stupisci Sherlock. Quando credo di averti perfettamente compreso tu mi esci fuori con frasi del genere che mi mandano totalmente in confusione.» disse l’altra, fingendo un tono lamentoso.

Sherlock si spostò lateralmente come a voler raggiungere un tovagliolo di carta sul tavolo, in realtà tenendo d’occhio l’amico da lontano e allo stesso tempo nascondendosi da lui. Irene lo seguì, per niente interessata alle sue mosse.

«Sono abbastanza imprevedibile.» borbottò il moro.

«Abbastanza da essere terribilmente affascinante.» aggiunse l’altra sorridendogli convinta.

Sherlock le lanciò un’occhiata di traverso.

«Visto che questa festa non ti sta annoiando… che ne dici di fare qualche passo insieme?»

Sherlock soppesò le sue parole mentre un pensiero contorto ma fattibile si faceva strada nella sua mente. Vide distintamente Greg porgere un bicchiere di coca cola (oh Greg, davvero?) all’ospite della festa, Clara. Qualcosa gli disse che sarebbe stato impegnato per un po’. Stava per declinare l’offerta quando l’amico gettò un’occhiata nella sua direzione e lo squadrò torvo.

Nel giro di mezzo secondo Sherlock aveva afferrato Irene per un braccio e la tirava verso l’improvvisata pista da ballo, stando ben attento a sorridere come se la ragazza avesse appena detto qualcosa di estremamente divertente. Come previsto, Greg ci cascò in pieno e tornò ad occuparsi dei suoi futili discorsi e di Clara.

Irene gli scoccò le dita davanti agli occhi. «Ma mi stai ascoltando?»

Sherlock si riscosse e la guardò interrogativo.

«Dicevo… sai ballare?»

Il ragazzo si trattenne dallo sbuffare. Certo che sapeva ballare, e anche bene a dir la verità. Aveva passato ore intere a seguire un corso di ballo da sala perché “facciamolo per la mamma”. All’inizio non lo voleva fare, lo considerava un’inutile perdita di tempo, ma poi alla fine era stato costretto a frequentare le lezioni contro la sua volontà, e non aveva mai odiato tanto Mycroft come quando lo aveva obbligato a farlo solo per rendere felice la madre e farsi adorare ancora di più. Tuttavia dopo qualche lezione aveva cominciato a trovare il ballo qualcosa di estremamente interessante e, nonostante dimostrasse tutto il contrario, Sherlock aveva cominciato ad aspettare le lezioni settimanali quasi con ansia. «Sì.» rispose, e presa la ragazza tra le braccia cominciò a muoversi con lei tra le numerose coppiette sulle note di A Thousand Years, titolo che ricordò grazie alla radio che aveva ascoltato poco prima in taxi.

Irene sorrise. «Lo sai che sei strano? Non hai mai avuto ragazze e non vieni mai alle feste… eppure sai ballare e ti piace.»

«Nessuno ha detto che mi piace ballare…»

Greg esplose in una finta risata, probabilmente causata da una delle pessime battute di Clara.

«Oh, andiamo… balli molto bene.»

«Non ho bisogno di complimenti.»

«Ah no? L’orgoglio in persona non vuole complimenti?»

Greg fissava con evidente desiderio la ragazza al suo fianco, ormai completamente dimentico del ragazzo che avrebbe dovuto tenere sotto controllo.

La porta d’ingresso era vicina, ancora un paio di strofe e l’avrebbe raggiunta. «Non ne ho bisogno.»

Irene sospirò. «Chi era la ragazza di prima?»

«Quale ragazza?»

«La biondina che ti si era appiccicata addosso…»

«Harriet Watson.»

«Conosci anche il suo nome? Dovrei essere gelosa?»

La canzone finì e Sherlock si fermò. Con un gesto plateale s’inchinò alla sua dama e le baciò ironicamente il dorso della mano. «Famiglia relativamente povera, orfana di padre, alcolista, in cattivi rapporti con il fratello e abiti dismessi. Direi che puoi farne a meno.» sorrise, e con un lieve cenno del capo si congedò.

Al contrario di quanto aveva pensato non faticò a riprendersi il cappotto e qualche attimo dopo era già per le scale dell’edificio che scese a due a due finché non si ritrovò fuori all’aria fresca di fine autunno.

Tuttavia non fece in tempo a girare l’angolo che il suo cellulare squillò. Con una punta di amarezza Sherlock si guardò intorno e individuò subito una telecamera a circuito chiuso che puntava verso di lui a pochi metri di distanza. Le voltò accuratamente le spalle e s’incamminò per la strada buia, ignorando completamente il messaggio che sapeva essere di Mycroft.

La festa era così noiosa? MH

~*~

Quella sera, quando i fratelli Watson tornarono a casa, trovarono la madre appisolata in sala sul divano-letto con il telecomando in mano e la tv accesa sul notiziario della BBC.

Harriet se la filò immediatamente nella stanza che condivideva con John, mentre quest’ultimo si avvicinò alla donna e, avendo cura di non svegliarla, spense il televisore. I suoi buoni propositi vennero tuttavia infranti quando un forte rumore provenne dalla camera adiacente. In un attimo Jocelyn aveva aperto gli occhi e si guardava intorno spaventata. «Che succede?» biascicò assonnata. «Ah… Johnny. Già di ritorno?»

John si stampò un sorriso in faccia e annuì. «Sì, mamma… e tu come stai? Hai preso le pastiglie?»

«E com’è andata con Sarah? Tutto bene?» chiese invece l’altra, ignorando la domanda del figlio minore.

«Sì bene…» mentì John, poiché aveva sperato in un finale leggermente diverso.

«Harriet?» continuò Jocelyn, mentre si tirava su a sedere stropicciandosi gli occhi con una mano.

Si è ubriacata per l’ennesima volta e sono dovuto andarla a prendere rovinando il mio appuntamento, pensò, ma le parole che gli uscirono di bocca furono tutt’altre. «Tutto a posto. È tornata prima di me. Ora è di là che dorme…»

«E quel rumore?»

John strinse le labbra e, approfittando del dormiveglia della madre sorrise di circostanza e riuscì a sviare il discorso. «Oh… deve essere caduto qualcosa in cucina. Ma ora dormi, è già tardi…» Con un gesto affettuoso sistemò il cuscino e la aiutò a sdraiarsi. «Notte mamma.»

Jocelyn sorrise contenta. «Buona notte figlio mio.»

Come ormai faceva da anni, John evitò anche questa volta di riferirle di Harriet e dei suoi problemi: era una cosa che era sempre riuscito a gestire più o meno da solo, e come sempre ne avrebbe parlato con Harriet, magari l’indomani, quando sarebbero stati entrambi abbastanza lucidi. Si preparò e poi si buttò sul letto, stanco morto.

La famiglia Watson viveva in un piccolo bilocale nella periferia di Londra, dove si era trasferita dopo che il padre se ne era andato. Purtroppo non erano una famiglia agiata e si erano potuti permettere solo un piccolo appartamento in affitto, così che John si era ritrovato a dover condividere la stanza da letto con Harriet, che già di per sé era piccola, figurarsi se dovevano starci in due.

Proprio per questo motivo quella notte John seppe per certo che la sorella non dormì: la sentì rigirarsi in continuazione nel letto prima di addormentarsi e, le poche volte in cui si svegliò durante la notte, la vide stesa supina sul materasso a fissare il soffitto. Quando infine la mattina si alzò per andare a scuola, notò che era già in piedi.

La trovò seduta al tavolo di cucina a rigirarsi tra le mani una tazza di caffè con un paio di profonde occhiaie e il viso pallido di chi non ha chiuso occhio durante la notte. John la osservò con apprensione. «Va tutto bene?» le chiese.

La ragazza sollevò la tazza e bevve un lungo sorso, poi fissò il fratello negli occhi. «Quando mai va tutto bene?» disse acida.

John sospirò. «Potresti per lo meno provare a fare andare tutto bene, ma sembra che non te ne freghi niente della tua vita.»

Harriet scoppiò in una breve risata isterica. «Questa vita non ha un senso, non lo ha mai avuto, e non lo avrà mai. È per questo che vuoi arruolarti nell'esercito, vero? Vuoi allontanarti il più possibile dalla tua vita?»

John roteò gli occhi al cielo e strinse i denti. Era sempre la solita storia, lui che cominciava a parlare pacatamente e Harriet che tirava in mezzo quel discorso di cui avevano già ampiamente discusso. «Piantala.» disse semplicemente, mettendo a bollire il latte.

«Non smetteremo mai di parlarne, John…»

Il ragazzo assottigliò gli occhi. «Ho sognato di entrare nell'esercito fin da piccolo. Ho cominciato a pensarci quando ancora c'era papà…»

«Quando c'era papà era diverso, John. Se lui fosse ancora qui non ci sarebbero così tanti problemi. Ma lui è morto, e ora tu non puoi abbandonarci così.» disse duramente.

John le diede le spalle e cominciò a imburrare una fetta di pane furiosamente, tanto che a metà dell’opera lasciò perdere e buttò il coltello nel lavandino.

«Non puoi andartene. È sbagliato e tu lo sai. Non puoi lasciarci.» continuò Harriet imperterrita.

John si voltò stringendo le mani a pugno. «Sei tu la maggiore, Harriet. Te lo ricordi questo? Tu dovresti tirare avanti la famiglia, tu avresti dovuto prendere il posto di papà e dare un senso a tutto questo! E invece no! Hai preferito annegare nell'alcool e lasciare che fossi io a risolvere i problemi. Ti piace vivere in questa casa in cui a malapena riusciamo a muoverci? Ti piace indossare abiti dismessi della mamma? Eh?» John si rese conto di avere alzato un po’ troppo la voce e si sforzò di darsi una calmata per evitare di svegliare Jocelyn.

Harriet lo fissò tristemente. «Pensi ancora al ragazzo di ieri sera, vero?»

John deglutì a fatica e si lasciò cadere su una sedia. Si passò una mano sul volto. «Scusa…» mormorò afflitto.

Harriet scosse la testa lentamente. «Non devi sempre prendertela se qualcuno ti provoca, John. Vorrei vedere quello Sherlock dopo aver vissuto una vita come la nostra. Per lui deve essere stato facile… circondato dai soldi.»

No, non sono uno dei tanti noiosi ricchi sfondati.

John si disse che Harriet aveva ragione, e la rabbia andò via via scemando. Era incredibile come la ragazza risultasse saggia a volte.

«E poi…» continuò Harriet con una smorfia, «…non aveva tutti i torti a prendersela con te. È stata colpa mia, scusa. Devo aver tentato di baciarlo… mi sembra.»

John strabuzzò gli occhi e per un attimo ebbe pietà per il ragazzo. Aveva visto una sola volta Harriet ubriaca darsi al corteggiamento, e non gli era per niente piaciuto, né a lui né al ragazzo oggetto del suo interesse.

Tornò a guardarla mentre finiva il suo caffè. «Sei sicura di stare bene?»

La ragazza annuì.

«Perché non hai dormito?» insistette, deciso a ricevere una risposta convincente.

Harriet lo guardò con occhi vacui. «Ero… Niente.»

John lanciò un'occhiata all'orologio: si stava facendo tardi. «Senti… Torna a casa oggi, ok? Dopo il lavoro vieni a casa. E questa volta chiederò a mamma se lo hai fatto. Non mentirò.»

Harriet abbassò lo sguardo sconfitta.

«Cerchiamo di tirarci fuori di qui, va bene? Un passo alla volta. Pensa a rimetterti in sesto, Harry.»

La ragazza annuì con una smorfia sul volto. Poco prima che John uscisse lo raggiunse alla porta e dopo averlo osservato mettersi le scarpe lo fermò qualche secondo in più. «Oggi vado a fare la spesa, va bene? Vado al centro…»

John gli lanciò un'occhiata sorpreso. «Da quando in qua vai tu a fare la spesa?»

Harry sbuffò. «Muoviti, o farai tardi.»

~*~

Se c’era una cosa che Harriet odiava, quella era andare a fare la spesa. A dire il vero la giovane Watson odiava in generale occuparsi della sua famiglia, ma quel tipo in particolare di occupazione le era impossibile da accettare. A differenza delle ragazze della sua età (o delle ragazze in generale, dipende dai punti di vista), Harriet non desiderava affatto saper gestire ed occuparsi di una famiglia. La ragazza preferiva di gran lunga lasciar lavorare il fratello “come una femminuccia” e occuparsi d’altro, come, per esempio, portare a casa il proprio stipendio, comunque abbastanza esiguo, mantenendo così la famiglia con il proprio lavoro.

Harriet era del tutto diversa da John: impulsiva e cocciuta, sempre arrogante con tutti coloro che le offrivano il loro appoggio, convinta di poter contare solo su se stessa, ma allo stesso tempo bisognosa dell’aiuto del fratello ogni qual volta si ritrovava barcollante per il troppo alcool ingerito a qualche chilometro da casa. Per questo e molti altri motivi i due Watson non riuscivano ad andare pienamente d’accordo.

Anche se tentava di nasconderlo, molte volte John coglieva il suo lato tenero, come quando, per esempio, tornava a casa e la trovava accoccolata con la madre sul divano, o quando presa da improvvisi moti di gentilezza preparava la colazione per tutta la famiglia.

A parte questi rari momenti, però, era a lui che toccavano tutti i lavori domestici che non svolgeva Jocelyn, come spolverare negli angoli più remoti e irraggiungibili della casa, o apparecchiare per il pranzo e la cena, o stendere e ritirare i panni una volta asciutti, o, per l’appunto, fare la spesa.

Se quel pomeriggio Harriet aveva deciso di rendersi utile di sicuro c’era un motivo ben preciso e ben più importante delle effettive compere.

Dopo aver vagato per Tesco per neanche mezzora, dove aveva comprato in fretta e furia l’essenziale, Harriet si era fermata al Blue Bar, con la scusa di una pausa veloce e un buon caffè.

Si sedette a uno dei tavolini che davano sul corridoio del centro commerciale e prese in mano il menù con aria noncurante, aspettando che qualcuno venisse a prendere l’ordine. Per la verità, aspettando quel qualcuno in particolare che arrivò pochi minuti più tardi.

Clara si avvicinò ad Harriet vestita con la divisa del bar, i capelli stretti in una coda e un palmare per prendere le ordinazioni in mano. Sembrò sorpresa di vederla lì e dopo qualche secondo di esitazione si sedette al tavolino, sprofondando con la testa tra le braccia.

Harriet ridacchiò. «Stanca?»

Clara emerse quel poco per guardarla bene in faccia. «Lavora tu per otto ore ininterrotte perché la tua amica è a casa malata e non c’è nessun’altra a sostituirla.»

Sorrisero entrambe, poi Clara prese il palmare e il pennino. «Allora cosa ordina signorina Watson?»

La ragazza guardò con attenzione il menù. «Lei cosa mi consiglia?»

L’altra sbuffò sonoramente, senza riuscire a trattenere però un sorriso. «Beh… a quest’ora un caffè non ci sta poi tanto male.»

«E quanto viene?»

«Due sterline e cinquanta.»

Harriet ghignò, nascosta dal foglio plastificato che teneva in mano. «Guarda che caso… ho giusto giusto cinque sterline.»

Con un leggero batticuore alzò lo sguardo per puntarlo negli occhi castano chiaro dell’altra che la guardò per un attimo senza capire. Poi alzò un sopracciglio. «Non ci credo…»

Harriet sorrise di circostanza e abbassò del tutto il menù. «Se vuoi, non è…»

Clara balzò in piedi. «Oh figurati! Lo prendo volentieri un caffè… giusto per staccare un attimo. Tanto come vedi non è che abbiamo molti clienti…» disse, facendo un gesto col braccio ad indicare i tavolini vuoti intorno a loro. Poi sorrise ad Harriet e sparì oltre il bancone.

La ragazza tirò un sospiro di sollievo e si posizionò più comodamente sulla sedia, aspettando che l’altra tornasse con i due caffè.

Sorrise tra sé e sé: per una volta ci aveva visto giusto.

~*~

Nonostante il discorso avuto con la sorella, John aveva pensato molto più spesso di quanto avrebbe voluto a Sherlock Holmes. Le sue parole gli risuonavano in testa ogni volta che apriva la porta di casa e guardava stancamente il buco in cui vivevano; ogni volta che vedeva Harriet uscire con un paio di pantaloni sgualciti che ricordava di aver visto molte volte addosso a Jocelyn; ogni volta che indossava uno dei suoi maglioni fatti a mano di cui era sempre andato fiero perché gli davano un aspetto originale rispetto a tutti gli altri. Pensava a lui perfino agli allenamenti di rugby, ma in quei momenti non poteva che ringraziarlo: visualizzava davanti agli occhi la sua espressione altezzosa e ciò gli dava la rabbia necessaria per buttarsi nella mischia.

Una settimana dopo la festa, John era riuscito a dimenticarsi di Holmes grazie all'appuntamento che aveva avuto con Sarah, finito in bellezza con un bacio particolarmente approfondito. Era proprio ad esso che stava pensando quando, quel giovedì pomeriggio, salì al laboratorio di chimica per andare ad aiutare Mike a studiare per un compito relativamente importante.

Se avesse saputo che lì avrebbe incontrato per la seconda volta quello che era stato l'oggetto dei suoi pensieri fino a qualche giorno prima, forse non vi sarebbe andato.

Ma così non fu e John varcò le porte del laboratorio. Mike si girò appena sentì le porte aprirsi, accogliendolo con un sorriso e una delle sue solite pacche sulla schiena da far tremare l'intera cassa toracica. John lo salutò a sua volta e scansandolo si avvicinò al tavolo, ma si bloccò a metà passo, stringendo improvvisamente la spallina dello zaino con ansia.

Sherlock Holmes era chino su una provetta contenente uno strano liquido, e teneva una pipetta di plastica in mano dalla quale fece uscire un paio di gocce con estrema concentrazione.

Per un attimo John si chiese se non fosse un brutto segno e se non dovesse girare i tacchi e andarsene prima di cominciare a prenderlo a pugni. Poi però ripensò alle parole della sorella e si fece forza. Lo ignorò totalmente, approfittando del fatto che l'altro non si fosse apparentemente accorto della sua presenza, e cominciò invece a parlare con Mike, cercando di ricordare cosa dovessero fare quel pomeriggio.

Dopo dieci minuti John si era ormai dimenticato di avere al suo fianco Sherlock Holmes, e studiava tranquillamente con Mike, aiutandolo a fare esercizio sulla nomenclatura chimica.

«Ho bisogno del tuo cellulare, Mike.» La voce profonda di Sherlock interruppe a metà il discorso di John, il quale si bloccò e si voltò distrattamente verso il ragazzo che stava osservando i due amici con aria critica.

Mike sospirò. «Non puoi usare il fisso?» chiese.

Sherlock lo guardò con distacco. «Lo sai che preferisco i messaggi…» ribatté.

Mike si strinse nelle spalle. «Beh, mi dispiace. L'ho lasciato nel giubbotto.»

Benché il discorso non lo interessasse di persona, John si ritrovò ad ascoltare le parole di Sherlock.

Il giovane Watson era sempre stato cortese con tutti, cercando di acquistare la simpatia della maggior parte di coloro con cui entrava in contatto: solo poche volte si era ritrovato a rifiutare una richiesta d'aiuto. Fu in particolare per quella sua più che giusta abitudine che la sua mano corse al proprio cellulare nella tasca dei pantaloni. Quando si accorse di quel suo riflesso incondizionato era ormai troppo tardi e Sherlock se ne era già accorto. John avrebbe benissimo potuto dargli le spalle e riprendere il suo lavoro senza proferire parola, ma il suo stesso istinto gli evitò quella scortesia che, tra parentesi, Sherlock si sarebbe sicuramente meritato, e si costrinse a tendergli il proprio cellulare.

«Ehm… Puoi usare il mio.» disse porgendoglielo.

Sherlock puntò i suoi occhi chiari in quelli di John, il volto che tradiva tutta la sua sorpresa. Per un attimo rimase a guardare il ragazzo con tanto d'occhi, poi fece qualche passo verso di lui e gli prese il cellulare. «Grazie…» disse, distogliendo subito lo sguardo da John, il quale osservò con apprensione l’apparecchio nelle sue mani chiedendosi se fosse stata una buona idea.

Sherlock aprì la tastiera e cominciò a scrivere qualcosa.

Quando John stava per tornare al suo studio venne però bloccato un'altra volta dalla solita voce profonda.

«Afghanistan o Iraq?»

Si voltò di scatto verso Sherlock, strabuzzando gli occhi. «Come scusa?»

Sherlock strinse le labbra per nascondere un sorriso sprezzante. «Tuo padre. È stato ferito in Afghanistan o in Iraq?»

John spalancò le labbra per lo stupore. Si voltò meccanicamente verso Mike, il quale lo guardava a sua volta con un sorrisetto divertito sul volto. «Gli hai parlato di me?» chiese con una punta di rabbia nella voce.

Mike scosse la testa. «Assolutamente no.»

John tornò a osservare Sherlock. «In Afghanistan.» acconsentì. «Chi ti ha parlato di me?»

Sherlock richiuse il cellulare e glielo porse. «Nessuno.»

John spostò il peso da una gamba all'altra. «E allora come fai a sapere tutte queste cose?»

Sherlock lo studiò. «Non le so, le deduco.»

A John venne da ridere, ma sempre per quel suo dannato istinto si limitò a scuotere la testa con sufficienza. «Tu faresti cosa?»

Sherlock alzò il mento, orgoglioso. «Non mi aspetto che tu capisca.» disse, e gli diede le spalle per tornare al suo lavoro.

John represse un moto di rabbia. «Visto che mi sono degnato di darti una risposta gradirei ricevere lo stesso trattamento.» disse duramente.

Sherlock sbuffò e continuando a non guardarlo cominciò a parlare. «L’altra sera alla festa di Clara ti è caduto il portafoglio dalla tasca e si è aperto. Dentro c'era una foto dei tuoi genitori e tuo padre aveva una spalla fasciata. Perché i tuoi genitori? La foto era a colori, per cui non potevano essere i tuoi nonni. Forse degli zii, ma molto più probabile i tuoi. Tua sorella, poi, indossa abiti usati che le vanno anche un po’ larghi, perciò devono appartenere a tua madre. Quindi, tua madre è ancora viva mentre tuo padre no, ecco il perché della foto nel portafoglio.

«In oltre come immagine di sfondo del cellulare hai un'altra foto di tuo padre, questa volta vestito da militare. È anche abbronzato. Abbronzato vuol dire guerra in meridione, guerra in meridione, Afghanistan o Iraq.»

Se la sera precedente John aveva dato ascolto al suo orgoglio ferito, in quel momento non poté evitare di lasciarsi andare allo stupore e all'ammirazione. «Fantastico…» mormorò infatti.

E, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, Sherlock alzò nuovamente lo sguardo verso John, sorpreso come poche volte gli capitava di essere. Mai gli era successo di trovarsi di fronte una persona che gli facesse un favore dopo il suo comportamento scortese, ancora più sorprendente che questa persona continuasse a parlargli anche dopo che gli avesse fatto il giochetto che tanti odiavano. «Davvero?» disse, non riuscendo a nascondere l'improvviso moto di gratitudine che quel complimento gli aveva procurato.

John lo osservò con curiosità. «Sì, perché?»

«Non è quello che solitamente mi dicono.»

Il ragazzo non ebbe particolari difficoltà a capirne il motivo. «E di solito cosa ti dicono?»

«Fuori dai piedi.»

E John sorrise a Sherlock Holmes.

~*~

Molly Hooper era una ragazza timida ma molto più sveglia di molte altre ragazze della sua età.

Era sempre silenziosa e stava un po' sulle sue, il più delle volte era sola, ma non perché non avesse amici, anzi. Molly, al Barts, era apprezzata da tutti coloro che la conoscevano o avevano il piacere di parlarci anche solo una volta per errore: era una di quei pochi che passavano pressoché inosservati e che non davano fastidio a nessuno.

Frequentava il suo terzo anno in quella scuola e apparteneva a molti gruppi scolastici, tra cui il Brainy Club, il gruppo di scienze e quello di canto coreografato. Non era molto brava a cantare, lo sapeva anche lei, ma la musica l'aveva sempre in qualche modo appassionata ed entrare nel glee[1] della scuola le era stato particolarmente di aiuto per migliorare le sue abilità canore. Nel Brainy, invece, ci era entrata quasi per errore.

Un giorno del suo secondo anno al Barts era semplicemente seduta in mensa, sola, a mangiare e leggere contemporaneamente un libro di chimica, quando il suo tavolo era stato occupato da un gruppetto di ragazzi che parlavano allegramente tra di loro. Molly aveva subito individuato la capogruppo, Irene Adler, in quanto una delle ragazze più carine della scuola e per questo una delle più famose. Lei non la sopportava, aveva avuto modo di provarlo su se stessa il giorno in cui, in ritardo per l'ora di matematica, aveva corso lungo il corridoio ed era scivolata per colpa di una pozza d'acqua, proprio di fronte ad Irene e al suo gruppo di amiche. Mentre si rialzava raccogliendo le proprie cose da terra, Irene aveva bisbigliato con un tono neanche troppo basso un commento per niente lusinghiero alle altre, facendo arrossire Molly di colpo e procurandole una bella figuraccia davanti a tutte.

Quando Irene si era seduta a quel tavolo, quindi, Molly aveva ponderato l'idea di finire in fretta il suo pranzo e andarsene, ma un ragazzo grassoccio si era seduto di fronte a lei e si era presentato allegramente. «Ciao, mi chiamo Mike. È un libro di chimica, quello?»

Dopo una mezzoretta passata a parlare concitatamente di scuola, Molly era infine entrata a far parte del Brainy grazie a quel ragazzo, al tempo un anno più avanti di lei. Ora lei e Mike erano buoni amici e frequentavano a grandi linee gli stessi corsi.

Era proprio grazie a Mike che era arrivata a conoscere Sherlock Holmes: conservava il ricordo di quel momento come uno dei più belli del suo periodo in quel liceo.

Era seduta tranquillamente al suo posto all'inizio di uno degli incontri del Brainy, quando Mike e Jim Moriarty erano entrati nell'aula, accompagnati da un ragazzo alto, magro e dai lineamenti spigolosi. Molly credeva di essersi innamorata di lui non appena aveva voltato il suo bel viso contornato da riccioli castani verso di lei, fissandola con quei suoi occhi chiari e penetranti.

Sherlock era stato presentato, come di consuetudine, al club da Jim e poi, con grande felicità di Molly, si era seduto al suo fianco. Insieme a Mike si erano presentati e lei aveva passato il resto dell'ora a fissarlo di nascosto, e così tutti gli incontri seguenti, fino a quando un giorno non si era fatta coraggio e alla fine dell'incontro gli si era avvicinata timidamente. «Giornataccia, è?» aveva detto, notando la sua espressione per niente rilassata.

Sherlock aveva scosso la testa pensieroso, senza risponderle.

«Beh… io mi chiedevo se… se ti andasse di prendere un caffè.»

«Sì, nero, con due zollette grazie.» aveva risposto Sherlock, per poi sparire dietro al suo armadietto.

Molly era rimasta leggermente delusa dal suo comportamento, ma glielo aveva comunque portato e in un certo senso aveva passato del tempo con lui quel giorno, tenendogli aperto il laboratorio e aiutandolo con alcuni esperimenti. Molly, infatti, aveva l'incarico di tenere le chiavi dell'aula dove si riuniva il Brainy, ovvero il laboratorio di chimica, oltre l'orario scolastico, per poi restituirle in segreteria al momento della chiusura.

Inutile dire che Sherlock se ne approfittava ogni qual volta ne avesse l'occasione, e Molly acconsentiva sempre, pur di fargli un piacere.

Così successe anche quel pomeriggio. Nonostante Sherlock non facesse più parte del club, infatti, qualche volta passava alla fine degli incontri e usufruiva del laboratorio.

Stavano lavorando per, a detta di Sherlock, un compito di scienze, quando il ragazzo alzò lo sguardo e tra un'operazione e l'altra se ne uscì con una frase che lasciò Molly a dir poco sorpresa.

«Conosci John Watson?»

La ragazza lo guardò imbambolata, non sapendo cosa rispondere. Era la prima volta che il ragazzo le faceva una domanda che non riguardava il laboratorio o uno qualsiasi dei suoi esperimenti.

«È-è… il mediano di apertura[2] dei Blackheath.» balbettò infine, sistemandosi la coda distrattamente e cercando di darsi un tono sicuro.

Sherlock sbuffò. «Questo lo so. È evidente dalla sua postura e dalla maglietta che indossava l'altro ieri in mensa. Dimmi qualcosa di più.»

«Io… perché ti interessa?» chiese.

Sherlock si prese un attimo prima di rispondere, annotando qualcosa sul suo block notes riguardo all'esperimento. «Mike mi ha chiesto di capire con quale ragazza esce.»

«Ma… è il suo migliore amico… lui non dovrebbe saperlo?»

Sherlock fece un movimento disinteressato con la mano. «Me lo dici sì o no?»

Molly fece un sospiro profondo. «Io… credo che esca con Sarah Sawyer, quella del glee… Ha mollato qualche settimana fa quella cheerleader, Janette. Ma si sa che ci prova da sempre con Mary Morstan, il capitano delle cheerleader

«E sua sorella quanti anni ha

Molly lo guardò con tanto d'occhi. «Non volevi mica sapere…»

«Oh così… tanto per curiosità… Sono le uniche cose che non sono riuscito a dedurre.»

«Ma allora…» la voce di Molly si spense quando Sherlock chiuse con uno scatto il block notes, dichiarando che per quel pomeriggio aveva finito.

Del perché Sherlock avesse bisogno delle informazioni che gli aveva appena dato, Molly ne venne a conoscenza solo mesi e mesi più tardi.

~*~

John varcò le porte dello spogliatoio con una voglia di fare gli allenamenti pari a zero, voglia che non fece altro che diminuire quando vide Robert Williams fare mostra dei suoi addominali proprio in mezzo alla stanza. Robert era il pilone sinistro[3] della squadra, uno dei giocatori più bravi tra tutti e per questo anche il più famoso nella scuola, nonché il più carino. Biondo e con occhi castani color del cioccolato, aveva la maggior parte delle ragazze ai suoi piedi e non faceva altro che vantarsene. In quanto a cervello, John si era chiesto più volte se ne avesse uno, ed era arrivato alla conclusione che se lo aveva, lo nascondeva veramente bene. Robert era, da quando era diventato il pilone sinistro, in un continuo tira e molla con Mary Morstan, la ragazza più carina in assoluto della scuola. Al contrario di Robert, però, Mary non era poi così stupida: John aveva avuto più volte l'impressione che si comportasse da oca come le altre solo per attirare l'attenzione degli altri su di sé. In realtà John sapeva che lei era una brava ragazza e in parte per quello, in parte per la sua innaturale bellezza, aveva più volte tentato un qualsiasi tipo di approccio. L'ultima volta era stato a tanto così dal convincerla ad uscire con lui, prima che Robert si mettesse in mezzo chiedendole un appuntamento e dedicandole l'ultimo punto della partita. E Mary aveva ovviamente accettato.

I due stavano per l'ennesima volta insieme da quel giorno.

David Jones interruppe il filo dei suoi pensieri quando si sedette sulla panca vicino a lui, già pronto ad entrare in campo nella sua divisa rossa e nera[4].

«Allora Johnny? Pronto a spaccare?» sorrise, tirandogli una manata amichevole sulla spalla.

John sospirò e scosse la testa. «Non esattamente… oggi non sono un granché in forma.»

«Parla lui…» ridacchiò, mostrandogli le pesanti occhiaie che aveva. «Tu non hai passato fino alle quattro di mattina in giro per Londra.»

John abbassò lo sguardo, giusto per non mostrare la smorfia contrariata comparsa sul suo volto.

David era un ragazzino spigliato, magrolino e con una zazzera di capelli rossi in testa (cosa che gli aveva procurato il soprannome de “il Rosso”). Le numerose lentiggini che aveva sul volto gli davano un'aria simpatica, cosa che non stonava per niente con il suo carattere: David era il piccoletto della squadra, da tutti preso in giro ma in qualche modo rispettato. Il Rosso era simpatico a tutti, a chi più a chi meno, e ne approfittava sempre per intromettersi nei discorsi e prendersi un po' di quella popolarità che abbondava per i suoi compagni. Non era una gran cima nel rugby e per questo non aveva ancora trovato una ragazza "alla sua altezza", ovvero, tradotto in inglese, una cheerleader.

Il fischio dell’allenatore li chiamò tutti a rapporto e John abbandonò definitivamente i suoi pensieri per dedicarsi anima e corpo al suo sport preferito.

Durante una delle pause tra una corsa e l’altra, tuttavia, si ritrovò nuovamente vicino al Rosso. Prima che David potesse iniziare uno dei suoi discorsi adoranti in merito alle cheerleader, però, John attaccò con uno delle prime cose che gli vennero in mente.

«Conosci Sherlock Holmes?»

 

 

 

Note:

[1] In America i club di canto coreografato si chiamano glee club (da cui ovviamente prende nome l’omonimo telefilm). Ho tenuto lo stesso nome anche per gli inglesi, ma non so se li chiamano così anche loro.

[2] Il mediano d'apertura è uno dei ruoli più importanti nel rugby. È lui a decidere le strategie di gioco da attuare durante una partita, tra le quali: calciare la palla per ottenere un vantaggio tattico, passare la palla ai trequarti, passare la palla nuovamente ad un giocatore di mischia o avanzare mantenendo il possesso del pallone. (Per maggiori informazioni qui la pagina wiki)

[3] Altro ruolo nel rugby… qui wiki

[4] Dopo una ricerca neanche tanto difficile ho scoperto che la squadra dei Blackheath esiste davvero (qui il link al sito ufficiale). E i colori sono proprio quelli xD.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Chiedo umilmente perdono per questo ritardo ma purtroppo sto passando un paio di settimane particolarmente impegnative e il tempo per scrivere è veramente poco… e anche per betare, ovviamente. Lalla ha fatto il possibile ed è riuscita a inviarmelo solo qualche minuto fa. (Tutti insieme, grazielalla! xD)

Mentre scrivo mi sono accorta di far fatica io stessa a ricordarmi nome e ruolo dei personaggi secondari di mia invenzione, così mi sono ingegnata per semplificarvi il compito ;) Qui potete trovare il mio blog: ho fatto una cartella apposta dove metterò tutti gli appunti utili su OeP, schede sui personaggi e altro. Se vi va, dateci un’occhiata^^

Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno recensito, seguito, preferito, ricordato e anche solo letto in silenzio ;)

E ora non vi trattengo oltre, lasciandovi al capitolo, fin’ora uno dei miei preferiti tra quelli che ho scritto.

Buona lettura!

Gage.

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 3

 

N

ei secondi successivi alla sua domanda David rimase a fissarlo con tanto d’occhi. «Holmes che?»

John tirò un sospiro. «Sherlock, Sherlock Holmes. È un ragazzo del tuo anno, alto, capelli scuri, occhi chiari…» fece un gesto con la mano ad indicare la propria testa. «Ha i capelli ricci, più o meno, e abbastanza lunghi…»

David continuò a fissarlo perplesso. «No…»

«Io sì che lo conosco!»

John si girò di scatto, trovandosi faccia a faccia con Philip Anderson. Distolse subito lo sguardo infastidito. «Nessuno ha chiesto il tuo parere Anderson.»

Philip non lo ascoltò e si sedette sulla panca al loro fianco. «È uno psicopatico del mio anno, non ti conviene dargli ascolto più di tanto. Perché t’interessa?»

John lo fissò con diffidenza. «Perché dici che è uno psicopatico?»

Anderson scoppiò a ridere brevemente. «Dovresti sentire le cose che dice… e quello che fa! Crede di essere un genio quando invece spara una quantità abnorme di cazzate. L’altra volta mi ha detto che Sally era stata a letto con Smith, quando invece sa benissimo che è la mia ragazza.»

John ghignò divertito. «Cosa ti fa pensare che non avesse ragione?»

«Oh andiamo… Sally e Smith? Si guardavano in cagnesco fino ad un paio di settimane fa! E poi dai… mi spieghi come farebbe a capirlo semplicemente guardandomi?»

«Guardando lei…»

«No, guardando me!» Anderson fece un’espressione sconvolta. «È pazzo… semplicemente pazzo

John si strinse nelle spalle. «A me è parso semplicemente geniale…»

«Ci hai parlato?» Il ragazzo spalancò gli occhi. «Addio… abbiamo perso John. Se cominci a credere a lui puoi direttamente suicidarti per la fine del mondo.» rise.

«Chi è che stiamo perdendo?»

Jim Moriarty avanzava per il campo, lo sguardo puntato sui suoi compagni di squadra e un ghigno beffardo sul volto.

«Johnny comincia a fare cattive conoscenze…» ridacchiò il Rosso divertito.

John portò gli occhi al cielo e si alzò: se nella conversazione entrava anche Moriarty poteva star certo che non sarebbe andata a finire bene. Il ragazzo frequentava il quarto anno, come John, e i due si conoscevano dal loro primo anno al Barts. Nella squadra di rugby rivestiva il ruolo di pilone e ad essere sinceri non aveva tutta la sua simpatia. Anzi, non ne aveva proprio per nulla. Lo trovava un ragazzo abbastanza inquietante ed arrogante, sia per il suo comportamento, sia per il suo modo di relazionarsi con gli altri. Aveva la straordinaria capacità di compiacere tutti coloro con cui entrava in contatto e, quindi, riceveva spesso favori, anche dai professori, del tutto indecenti per uno studente brillante come lui. Nonostante gli stesse antipatico, infatti, John non poteva non ammirarlo per la sua estrema intelligenza: era capace di memorizzare cose improponibili e a scuola prendeva sempre il massimo dei voti. Non per niente era a capo del Brainy Club.

«Quali cattive conoscenze?» chiese Jim, sedendosi anche lui sulla panca e stiracchiandosi annoiato.

«Sherlock Holmes.» dichiarò il Rosso, guardando Jim con ammirazione, quasi a voler ricevere un commento di apprezzamento per aver ricordato quel nome a suo parere così difficile da pronunciare.

John si bloccò e con uno sbuffo infastidito decise di rimanere: se dovevano prendere in giro Sherlock, che almeno ci fosse qualcuno a difenderlo.

«Ah,… Sherlock, Sherlock Holmes. Un ragazzo davvero brillante.»

Tutti i presenti alzarono stupiti gli occhi su Jim, il quale si osservava le mani con finto interesse. «Gli ho chiesto più volte di entrare a far parte del mio club, ma a quanto pare non gli interessa.»

«Brillante?» gli fece eco Anderson. «Come puoi dire che è brillante?»

«Non tutti hanno il tuo stesso QI Anderson.»

John rise divertito insieme ai suoi compagni e per una volta si ritrovò d’accordo con Moriarty.

Philip intanto era arrossito e stringeva i pugni con rabbia. «È uno psicopatico…»

«Sociopatico iperattivo, Anderson, informati.»

Tra le risa generali John guardò Moriarty con curiosità. «La sindrome di Asperger?»

Conosceva il tipo di malattia, ne aveva parlato circa un anno prima il professore di scienze durante una lezione sui problemi psicologici.

Jim annuì lentamente mentre Anderson se ne andava infastidito. «Lo porta ad avere grandi capacità. Peccato che non le sappia sfruttare…» sospirò.

Ma non poteva sapere che si sarebbe presto ricreduto.

~*~

«Che farai oggi?»

Sarah lo guardò con occhi sfuggenti. «Ho l’incontro del glee… poi mi sa che devo tornare a casa. Mia madre non sta molto bene e mio fratello ha bisogno di essere controllato.»

John annuì mordendosi un labbro. «E domani? È già da un po’ che non ci vediamo fuori da scuola…»

Sarah non rispose, continuando a camminare.

Varcarono le porte d’ingresso e John la prese per mano, senza notare l’espressione infastidita della ragazza, la quale tuttavia non si divincolò dalla stretta.

Passarono per il corridoio in silenzio, salutando semplicemente gli amici più stretti con qualche cenno delle mani e fermandosi di tanto in tanto a discutere con una compagna di glee di Sarah, o qualche nuova recluta dei Blackheath che richiedeva emozionata l’attenzione del mediano di apertura della squadra.

Si fermarono infine all’armadietto di John, che ne approfittò per prendere i libri che gli sarebbero serviti durante la giornata. «Allora?»

Sarah prese un respiro profondo. «John, io…»

Ma non fece in tempo a finire la frase che Robert Williams comparì in compagnia di Mary Morstan all’angolo del corridoio e, camminando baldanzosamente con un sorriso stampato sul volto, si avvicinò ai due.

John alzò gli occhi al cielo e chiuse l’armadietto con uno scatto veloce del braccio, facendo per allontanarsi con Sarah, ma era troppo tardi.

«Johnny boy! Come sta il mio mediano preferito?»

«Hey, Williams! Quale piacere…» disse sarcasticamente, cosa che non sfuggì a Mary, la quale gli lanciò un’occhiata stranamente divertita.

«Io e Mary stavamo pensando… perché non facciamo una bella seratina a quattro? Da Angelo… potrebbe essere una cosa molto romantica!» esclamò, portando un braccio a stringere la vita della sua ragazza, facendola ridacchiare divertita.

Sarah sorrise gelida. «Che idea geniale…»

Anche John non sembrava particolarmente convinto e Robert dovette accorgersene, perché li guardò con aria dispiaciuta. «Non è che ti sto obbligando, Johnny…»

«No no… figurati… è che siamo abbastanza impegnati in questo periodo…» si scusò John.

Mary spostò lo sguardo tra lui e Sarah, pensierosa. «Va tutto bene tra voi?» chiese innocentemente.

Sarah avvampò improvvisamente e la guardò quasi con odio.

«Che domande… ovvio che va tut-» cominciò John, ma Sarah lo interruppe. «Grazie dell’invito, vi faremo sapere.» disse acida, per poi prendere il ragazzo sotto braccio e trascinarlo via lungo il corridoio, fino a sparire dietro l’angolo opposto.

«Ti ho mai detto quanto odio Mary Morstan?» fece Sarah, camminando con furia per la scuola deserta.

John arrossì lievemente per poi fermarsi, costringendo la ragazza a fare lo stesso. «Beh… non è che…»

La ragazza portò gli occhi al cielo. «Non mi dire che pure tu le vai dietro…»

John avvampò. «Come? Che cosa…? No! Io sto con te! Come puoi pensare che…?»

Sarah distolse lo sguardo e il silenzio calò pesante tra loro.

«Senti io… io dovrei dirti una cosa…» disse infine Sarah.

John colse la sua espressione triste e fece due più due. «Fantastico…» disse amareggiato.

«Senti io non… non è che… insomma, sei un ragazzo dolcissimo, John.» la ragazza lo guardò con apprensione, cercando una delle sue mani e stringendola con gentilezza. «Sei veramente un bravo ragazzo e sono stata veramente bene con te, ma…» sospirò, cercando le parole più adatte per rivelare i suoi pensieri. «Ma, ecco… mi sono innamorata di un altro.»

John scostò la mano con ben poca gentilezza e incrociò le braccia al petto. «Che cos’ho che non va?» chiese, il tono di voce un po’ più alto di quanto aveva sperato.

Sarah scosse la testa. «Niente John, assolutamente niente!» esclamò. «Sei gentile, premuroso, carino ed estremamente interessante, ma, ecco… forse non siamo fatti per stare insieme.»

John deglutì a forza, cercando di cacciare indietro la delusione. E con questa arrivava a otto, otto ragazze con cui era stato e che l’avevano mollato di loro spontanea volontà. Cominciava a credere che non avrebbe mai trovato la sua anima gemella. Neanche con le ragazze che considerava “giuste riusciva a stare per più di qualche mese, figurarsi con quelle che gli capitava di incontrare per caso alle feste.

Stava per ribattere duramente quando delle risate e uno scalpiccio veloce provennero dal fondo del corridoio, precedendo un gruppo di ragazzi con l’uniforme dei Blackheath, i quali si fermarono vicino al muro e continuarono a sghignazzare apparentemente molto divertiti.

«Adesso che cosa deduci, eh?» disse uno, che in seguito John riconobbe come il Rosso, seguito subito dopo da un colpo e un gemito di dolore.

John guardò il gruppo con distacco, ancora con le parole di Sarah in testa, prima che Anderson si spostasse e rivelasse una mano pallida che si agitava freneticamente nell’aria e afferrava poi la felpa di Smith, reggendosi. «Hai ancora voglia di scoprire con chi sono andato a letto ieri sera, psicopatico?» disse il ragazzo, prima di scoppiare a ridere e tirare l’ennesimo calcio alla povera vittima.

Improvvisamente John si riscosse dai suoi pensieri e si ritrovò come paralizzato nel fissare la lenta tortura che il povero ragazzo di turno stava subendo.

Non era la prima volta che la squadra prendeva di mira qualcuno e, senza un vero motivo, lo prendeva in giro o, nel peggior caso, lo picchiava. Non era la prima volta che lo faceva e non era la prima volta che John assisteva impotente allo spettacolo, sperando inutilmente che smettessero senza il suo intervento.

Quando però realizzò chi era la vittima di quella volta, improvvisamente trovò il coraggio per reagire, forse anche per quello che sentiva in quel momento nei confronti di Sarah.

Gettò un’occhiata preoccupata alla ragazza, poi le voltò le spalle e si avvicinò deciso al gruppetto di amici dall’altra parte del corridoio.

«Hei!» esclamò, fermandosi davanti ad Anderson, in piedi a ridere ai colpi che il ragazzo riceveva.

Philip si girò e lo guardò con un sorrisetto divertito sul volto. «Heilà Johnny! Indovina un po’ chi c’è qui?»

John lo scostò con forza e s’intromise nel gruppo, allungando il collo per accettarsi dell’identità della vittima. Poggiò una mano sulla spalla di Smith, il quale si girò a guardarlo sorpreso.

«Johnny! Sei venuto a farci compagnia?» ghignò beffardamente.

Sherlock, il volto ancora più pallido del solito, lo guardò con i suoi occhi gelidi. Aveva i muscoli del volto contratti in una smorfia di dolore, il sangue che gli usciva copiosamente dal naso e un alone scuro intorno a un occhio. Smith lo teneva su per il colletto della camicia bianca, ora tutta stropicciata, e con l’altra mano lo teneva incollato al muro.

John spalancò un attimo la bocca sorpreso, poi venne spinto da parte con ben poca gentilezza da un altro membro della squadra. «Andiamo Watson, non coprirci la visuale.»

Harry ghignò malefico. «Camicia di lino! Guardate un po’ qui, ragazzi! Si arrabbierà la tua mammina se la rovini?»

Sherlock fece una smorfia con la bocca, poi, a sorpresa, gli sputò in faccia.

Smith si tirò indietro di colpo, gemendo schifato con una mano sul volto, mentre Sherlock scivolava lungo il muro, le gambe che lo reggevano a stento, e si rannicchiava per terra, nascondendo il volto tra le braccia come a tentare di proteggersi da nuovi colpi.

«Razza di…» mormorò Smith pulendosi il volto con una manica.

Sebastian Moran fece un passo avanti e fece per abbassarsi verso Sherlock ma John lo bloccò con un braccio a metà strada, trattenendolo a forza e ricevendo in cambio uno sguardo allibito dal compagno. «Che cos-»

«Togliti di mezzo John.» gli ringhiò addosso Anderson.

«Basta!» esclamò il ragazzo, spingendo da parte Moran e frapponendosi tra lui e Sherlock. «Non vedete com’è conciato? Vi siete divertiti abbastanza!» Atteggiò il volto in una delle sue migliori espressioni furenti e i compagni di squadra lo guardarono, chi sorpreso, chi infastidito. «Vi sembra il modo di comportarvi?»

Smith si avvicinò sorridendo stupidamente. «È la regola, John. Insegniamo ai bambini cattivi a portarci rispetto, ricordi?»

John inspirò un paio di volte, poi scosse la testa, cercando di controllarsi. «Siete al vostro ultimo anno e ancora vi comportate come bambini di dieci anni. È arrivato il momento di crescere Smith.»

Harry sbatté un paio di volte le palpebre. «Da quando in qua proteggi i froci, John?»

Il ragazzo sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «Basta.» ringhiò. «Non hai nessun diritto di chiamarlo così.»

Il tallonatore fece una smorfia divertita. «È arrivato il principe azzurro, verginello.» disse, facendogli il verso.

John assottigliò gli occhi. «Cresci.»

Smith si leccò un paio di volte le labbra, poi guardò i compagni che si strinsero nelle spalle: alcuni guardando Sherlock schifati, altri divertiti, i più giovani un po’ pentiti. Quando tornò a guardare John, aveva un’espressione di puro divertimento dipinto sul volto. «Vuoi proprio entrarci in quell’accademia, vero?» ghignò.

«Prenditela con chi sa tenerti testa, codardo.» disse John, tirando fuori un coraggio che non sapeva neanche di possedere e che solo una situazione del genere riusciva a donargli.

Smith lo guardò per qualche secondo, stupefatto, poi abbassò lo sguardo. Aprì un paio di volte le labbra, come per dire qualcosa, poi le richiuse. Gli voltò le spalle e fece un cenno ai compagni, cominciando a camminare lungo il corridoio. Poco prima di sparire dietro l’angolo, tuttavia, si fermò. «Non finisce qui, Holmes. Considerati fortunato per questa volta…»

John rimase fermo sul posto per qualche secondo, ansimando come se avesse appena fatto una lunga corsa, le immagini degli ultimi momenti che gli vorticavano ancora in testa.

Sarah lo guardava a pochi metri di distanza, gli occhi che le brillavano per l’ammirazione.

Ma John non la degnò di uno sguardo, girandosi invece verso Sherlock e piegandosi sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza. «Hei… è tutto ok, ora.» disse, poggiandogli una mano sulla spalla come a rassicurarlo.

Sherlock alzò la testa e puntò gli occhi color ghiaccio verso di lui, fissandolo con uno sguardo indecifrabile.

«È tutto a posto, Sherlock?»

Il ragazzo si divincolò dalla sua stretta, lasciando John perplesso, e, appoggiando una mano al muro, fece per alzarsi, barcollando però sulle gambe malferme. John lo afferrò prontamente per un braccio, sostenendolo. «Forse è meglio se vai a farti dare un’occhiata in infermeria…»

«Lasciami!» esclamò Sherlock, scostandosi di colpo dalla mano di John. Lo guardò per qualche secondo, furente, poi gli voltò deciso le spalle e si allontanò lungo il corridoio, una mano al naso per cercare di fermare il flusso di sangue e l’altra appoggiata al muro per aiutarsi a camminare.

John, invece, rimase fermo sul posto a guardarlo, sentendo una sorta di rabbia repressa crescergli addosso. Deglutì e sospirò, cercando di calmarsi.

«Bel tipetto, eh?» fece Sarah, avvicinandosi da dietro.

Il ragazzo si voltò a guardarla, stringendo una mano a pugno. «Già…»

«Hai… hai fatto la cosa giusta. Poteva almeno ringraziarti…»

John sentì la nausea salirgli allo stomaco e una gran voglia di risponderle male al suo sguardo colmo d’ammirazione.

«Senti… Io non volevo…»

Ma John alzò una mano e la bloccò. «Grazie Sarah, ho passato dei bei momenti con te. Mi dispiace che non abbia funzionato… Buona giornata.» disse, poi se ne andò anche lui, lasciando la ragazza stupita e triste al suo posto.

 

Per tutta la mattinata John faticò a concentrarsi sullo studio, tornando invece continuamente col pensiero a tutto quello che era successo poche ore prima.

Provava un misto di rabbia e pentimento.

Ripensava a Sarah, a quello che si erano detti, e non riusciva a provare altro che delusione: aveva veramente pensato che potesse essere quella giusta. Lo aveva pensato, ci aveva sperato e aveva immaginato che sarebbe durata più a lungo, che avrebbero avuto l’opportunità di conoscersi a fondo e… di imparare ad amarsi. Evidentemente era stato troppo romantico, troppo sentimentale, e ora non poteva che rimanerne deluso. Sarah aveva fatto tutto quello solo per avere un po’ di popolarità: non le erano interessate le ore passate a studiare insieme con John, le ore passate a discutere di algoritmi o poesia, a mangiare pizze alle undici di sera. Le era interessato lui, come giocatore di rugby, come membro della squadra. E ora evidentemente aveva trovato qualcuno di migliore, qualcuno che fosse ammirato da tutti per i propri muscoli o per il bel volto.

John non si era mai considerato un bel ragazzo: aveva qualche chilo di troppo che neanche gli allenamenti costanti riuscivano a fargli smaltire, un viso un po’ tondo e un’altezza infinitamente minore rispetto a quella che avrebbe desiderato. Poi, però, c’erano i suoi occhi azzurri e caldi, i suoi capelli biondo cenere e i suoi sorrisi dolci, i suoi modi di fare cordiali e gentili. Era quello che solitamente piaceva alle ragazze con cui era stato. Il fatto che si trovasse anche nella squadra di rugby, poi, aumentava di molto le sue possibilità.

Non si considerava un tipo molto coraggioso e aveva dato modo di provarlo molte volte: di solito non agiva mai se non interessato direttamente. Come Sarah gli aveva fatto notare era un ragazzo estremamente orgoglioso e, se punto nel vivo, non esitava mai ad entrare in azione. Certo, avrebbe preferito di gran lunga dare e ricevere giustizia con una buona chiacchierata che con qualche solido pugno in faccia, ma a volte proprio non riusciva a trattenersi e agiva d’impulso, lasciandosi guidare dalla rabbia.

Quella mattina era rimasto stupito della sua velocità di reazione nel vedere che la vittima era Sherlock. Solitamente si teneva fuori dalle zuffe, sia perché non gli piaceva mettersi contro i suoi amici, sia perché sapeva che era qualcosa che non portava niente di buono e temeva che, venendo scoperto, sarebbe andato incontro a pesanti pene sulla sua condotta. Fare a pugni non era proprio il suo passatempo preferito. Proprio per questo motivo, e per il fatto che non era stato lui a essere preso di mira, non riusciva a comprendere il perché del suo scatto.

Sapeva di aver fatto la cosa giusta: per una volta aveva avuto il coraggio di fermare i suoi amici e di cercare di farli ragionare, salvando Sherlock da altri colpi che non gli avrebbero procurato altro che male. Ora però temeva che i Blackheath non l’avrebbero dimenticato tanto facilmente e per un attimo si chiese se ne fosse valsa la pena. Ricordò le parole di del ragazzo dopo che erano rimasti soli, la sua espressione contrariata e arrabbiata, come se salvarlo da qualche altro colpo fosse stata una cosa del tutto inutile, e il pensiero di essere intervenuto per nulla non fece altro che aumentare. Le parole fredde e distaccate che gli aveva rivolto, il modo con cui se ne era andato, rifiutando il suo aiuto; John faceva fatica a non pensare al volto sanguinante del ragazzo e al modo con cui era stato ingiustamente trattato e insultato.

Provava qualcosa di molto simile alla rabbia anche nei suoi confronti, ma c’era qualcosa nel suo ricordo che la mitigava.

Per tutta la giornata John non fece altro che pensare a Sherlock Holmes, alternando di tanto in tanto il suo pensiero a quello di Sarah, ma tornando alla fine sempre e comunque al volto pallido ed emaciato del ragazzo.

Fu durante l’ultima ora della mattinata che un pensiero gli passò per la mente, riuscendo a prevalere sugli altri e dargli un’idea di come comportarsi. Provò ad immedesimarsi nei panni del giovane Holmes, raccogliendo tute le informazioni che aveva ricevuto sul suo conto e ricomponendoli come in un puzzle per riuscire a comprenderlo almeno un po’ di più.

Sindrome di Asperger: portava il bambino affetto a distaccarsi dalle persone, a non provare la minima empatia verso gli altri, a isolarsi, ad essere egocentrico, ad avere ritmi costanti e interessi circoscritti.

John provò ad immedesimarsi in un piccolo Sherlock. Non doveva avere avuto molti amici durante la sua infanzia e di conseguenza neanche in quel momento; probabilmente in molti non lo avevano mai compreso fino in fondo, non lo avevano considerato abbastanza, spaventati dai suoi modi eccentrici e del tutto fuori dalla norma.

Ripensò ai minuti di quella mattina, a come dovesse sentirsi nel momento in cui Smith lo aveva attaccato, a come doveva essersi sentito nell’essere picchiato e umiliato davanti a tutti.

E poi era arrivato lui, John, a proteggerlo dalle molestie verbali e fisiche, a tendergli la mano e ad offrirgli un aiuto. Era stato lui a fermare Smith, lui con la sua personalità, non Sherlock. Il giovane Holmes aveva dovuto essere aiutato, non era riuscito a difendersi da solo.

E John capì, riuscì finalmente a comprendere le ragioni del suo comportamento scortese: Sherlock era stato ferito nell’orgoglio, aveva perso un briciolo della sua dignità ricevendo l’aiuto di John, era stato deluso dalle proprie capacità.

Finalmente, John prese una decisione.

~*~

«Sherlock… andiamo, per favore…»

«Ti dico che è così Greg! Perché non ci sarebbero le scarpe, se no? Dove sarebbero finite?»

John aprì lentamente la porta del laboratorio, scivolando al suo interno il più silenziosamente possibile. Tuttavia la stanza era quasi del tutto vuota, fatta eccezione per Sherlock e Lestrade, e perciò non fu difficile notarlo.

Greg sbatté un paio di volte gli occhi e lo guardò, stranito.

John alzò una mano in segno di saluto, arrossendo lievemente, poi, senza dire una parola, prese posto su uno degli sgabelli, lanciando un’occhiata a Sherlock, il quale, chino su degli appunti, non lo degnò del minimo sguardo.

Lestrade osservò per qualche secondo John, stupito ma non dispiaciuto, poi tornò alla sua discussione. «Sherlock, non puoi pensare che un paio di scarpe possano costituire tutto questo mistero attorno a Powers

A quelle parole John sentì un brivido percorrergli la schiena e si fece più attento.

Carl Powers era stato uno studente del Barts fino a qualche mese prima. Nonostante non lo avesse mai considerato più di tanto, John ricordava molto bene il suo volto, forse anche per le numerose foto che erano state appese per la scuola dopo la sua morte. Il ragazzo, infatti, era purtroppo deceduto in un incidente durante una gara di nuoto svoltasi nella piscina della scuola. Carl era stato uno dei migliori nuotatori del quartiere, forse uno dei migliori della città, una delle nuove promesse giovanili, e se ne era andato così, per un arresto cardiaco facendo la cosa che amava di più. John era rimasto molto colpito dalla sua morte, così come molti altri suoi amici e compagni; per una settimana al Barts era regnato il caos: le gare erano state interrotte, la piscina era rimasta chiusa e c’era stato un grande andirivieni di polizia e gente varia che John non aveva potuto riconoscere.

Sentire Sherlock mormorare il suo nome non poté che incuriosirlo.

«È proprio per questo Greg! Nessuno ci fa caso, nessuno le considera! Ma le scarpe, Greg… le scarpe! Dove sono finite?»

L’amico sbuffò sonoramente e diede un’occhiata all’ora sul cellulare. «Senti, non ho tempo da perdere purtroppo. Vedi di non cacciarti nei guai un’altra volta, ok?»

«O Mycroft ti sgriderà?» gli fece il verso Sherlock.

L’altro arrossì fino alla punta dei capelli. «Lui non mi controlla, Sherlock!»

Ma il moro stava scrivendo freneticamente sul suo block notes e parve non sentirlo.

Con un sospiro pesante Lestrade gli voltò le spalle e uscì dalla stanza.

Il silenzio tornò ad avvolgere pesantemente il laboratorio mentre Sherlock continuava ad ignorare deliberatamente John, e John continuava a fissare i suoi movimenti cercando di capire come si sentisse dalle sue espressioni. Inutile dire che non arrivò a comprendere nulla. «Allora… ehm… stai bene?» disse infine, desideroso di spezzare il silenzio.

Sherlock alzò finalmente lo sguardo su di lui, fissandolo gelido. Durò solo pochi istanti, poi poggiò i gomiti sul tavolo e si arruffò i riccioli con rabbia. «Carl, Carl… piscina, Carl, scarpe…» cominciò a mormorare tra sé e sé.

John rimase un attimo senza parole, poi tossicchiò. «Che… che cosa stai facendo?» chiese curioso.

«Che cosa vuoi?» esclamò l’altro di rimando, sempre evitando di guardarlo negli occhi.

Il ragazzo più anziano si morse un labbro. «Sono venuto a sapere se stavi meglio…»

Sherlock tornò a guardarlo. «Sì, sto bene.» rispose laconico. «Ora puoi andartene.» aggiunse tornando ad ignorarlo.

John sospirò e guardò il soffitto, temendo di avere qualche scatto rabbioso e di rovinare tutti i suoi buoni propositi. «Ti dispiace se sto qui?» chiese titubante dopo qualche minuto.

Sherlock questa volta sbatté le mani sul tavolo. «Se sei venuto qui per parlare e distrarmi, la porta é quella.» disse, indicando con un gesto secco l'uscita.

John provò un improvviso moto di tenerezza nei suoi confronti e gli sorrise cordialmente. «Stamattina la mia ragazza mi ha lasciato e non avevo niente da fare. Mi sono ricordato di te e ho pensato di venire a vedere come stavi…»

«Ti ho appena detto che sto bene.» Ora Sherlock lo guardava attentamente.

«Sì beh… ho sentito…» fece una pausa e deglutì. «Sei andato in infermeria?»

«Perché t’interessa?»

«Non m’interessa… cioè, è una curiosità.» John cercò con tutto se stesso di non ridere per la buffa espressione che aveva assunto il volto del ragazzo. «In fondo mi sono offerto di aiutarti e mi hai del tutto escluso…»

Sherlock sembrava non capire. «Perché dovrebbe interessarti?»

Qualcosa dentro John si mosse e il sorriso sparì dalle sue labbra, improvvisamente preso da un moto di tristezza. «Beh…» provò a dire, guardando da tutt’altra parte pur di non guardarlo negli occhi. «Perché ho pensato che potesse farti piacere… ecco… sapere che non volevo offenderti oggi.»

«Perché avresti dovuto offendermi?»

John tornò a guardarlo. «Beh… non è che tu mi abbia proprio ringraziato…» esitò.

Sherlock lo fissò ancora per qualche istante, poi qualcosa nei suoi occhi cambiò. Spalancò le palpebre e balzò in piedi, battendo le mani tra loro. «Ma certo! Ma certo, ovvio!»

«Che cos…?»

Sherlock afferrò un paio di fogli dal tavolo e raggiunse la porta in un battibaleno, lasciando John esterrefatto a guardarlo sparire dietro l'angolo. Dopo un attimo d’incertezza, tuttavia, il ragazzo si alzò, spinto dalla curiosità, e lo seguì a passo veloce lungo il corridoio e giù per le scale.

Quando lo raggiunse al piano di sotto lo trovò a saltellare sulla punta dei piedi davanti all'aula professori.

«Sherlock, che cosa…?»

Ma in quel momento il professore di filosofia comparve sulla porta.

«Devo parlare con il preside, professore. Carl Powers è stato assassinato.» disse, con l’espressione di uno che sta parlando delle previsioni del tempo.

John e l’uomo spalancarono gli occhi, osservando Sherlock come se fosse resuscitato all’improvviso dopo due anni in cui lo avevano creduto morto. «Che cosa?»

Sherlock portò gli occhi al cielo e si lanciò in un discorso dettagliato. «Il primo dubbio mi è venuto quando, osservando attentamente il suo armadietto di cambio, ho notato l’assenza delle sue scarpe. C’era tutto: vestiti, costume di ricambio, documenti vari utili per la gara, accappatoio e materiale per la doccia. Tutto, ma non le scarpe. Strano no? Ho così capito che c’era qualcosa che non andava. Sono riuscito a controllare…»

«Tu hai fatto cosa?» Il professore lo interruppe, le mani sui fianchi e un’espressione per niente rassicurante sul volto.

Sherlock si bloccò e lo guardò con cipiglio critico. «Non è questo l’importante ora…»

L’uomo alzò un dito e glielo puntò contro. «Holmes, come sai tutte queste cose? Nessuno ha avuto accesso alla borsa di Powers dopo quello che è successo!»

Il ragazzo sembrò comprendere le intenzioni del professore e abbassò lo sguardo, senza sapere cosa dire. John lo vide mordersi un labbro mentre l’altro continuava il suo discorso.

«Ti conviene sparire da qui al più presto, tu e le tue assurde teorie!» disse, fissando i due ragazzi come se da un momento all’altro potessero trasformarsi in due farfalle.

«Ma, signore, le sto dicendo che Powers è stato ucciso!»

L’uomo portò gli occhi al cielo e puntò un dito verso il corridoio. «Sparite. E tu, Watson, al posto di partecipare ai suoi inutili viaggi mentali vedi di portarmi quel tema su Marx entro la fine della settimana…»

John arrossì lievemente e annuì. «Sì, signore…»

E con un ultimo sbuffo, il professore si chiuse dietro la porta e sparì all’interno dell’aula.

Sherlock intanto si era girato e aveva cominciato a camminare per il corridoio, la testa bassa e le mani in tasca.

John lo guardò per un attimo con tristezza, comprendendo perfettamente come il ragazzo dovesse sentirsi, e dopo un attimo di esitazione lo seguì, affiancandolo. Si morse un labbro pensieroso, poi si decise. «Come… perché pensi che Carl sia stato ucciso?» disse, una punta di curiosità nella voce.

Il moro si fermò e lo guardò, scandagliandolo con le sue iridi azzurre. «Carl soffriva di eczema, me lo ha detto un suo compagno di allenamenti, e prendeva ovviamente delle medicine. Carl è stato avvelenato. Ha preso le medicine, è arrivato per fare la gara e dopo due ore il veleno ha fatto effetto paralizzandogli i muscoli. Carl Powers è annegato.»

«Ma nell’autopsia… dovrebbe averlo rivelato le tracce di veleno se…» lo interruppe John, concentrato sulle parole del ragazzo.

«È virtualmente impossibile. E in più nessuno cerca quel veleno! Le scarpe sono sparite perché devono esserci rimaste delle tracce di crema avvelenata!»

«Fantastico…» si ritrovò a sussurrare John, gli occhi leggermente spalancati per l’ammirazione.

Per un attimo gli occhi di Sherlock s’illuminarono di una strana luce e un lieve sorriso comparve sulle sue labbra. «Mi credi?» chiese, l’immagine esatta della sorpresa.

John tentennò per un attimo, incerto su cosa rispondergli, poi decise di annuire. «Beh, sì… è… la tua versione dei fatti è abbastanza probabile… cioè…» la sua voce si spense mentre si rendeva conto di ciò che stava dicendo. Carl Powers era stato probabilmente ucciso e lui era lì a parlarne come se niente fosse in un corridoio vuoto, mentre la polizia stava rapidamente archiviando il caso come arresto cardiaco.

Il ragazzo alzò lo sguardo sul moro. «Forse dovresti andare dalla polizia…»

«Non servirà. Nessuno mi crede mai…» disse, allontanando lo sguardo e fissando un punto indefinito del muro.

John ebbe un tuffo al cuore, ritrovandosi a provare un’assurda tenerezza per quel ragazzo solo, preso in giro da tutti per la sua brillante intelligenza e genuina innocenza. Sherlock era un ragazzo strano, ma non per questo doveva essere per forza solo. John lo guardò con apprensione e si ritrovò a sorridergli. «Io ti credo.» disse, sottolineando l’io iniziale, e in quel momento sentì di non poter dire niente di più giusto.

E infatti Sherlock tornò a guardarlo, gli occhi che gli brillavano. «Per-perché chiese, una punta di incertezza nella voce.

«Perché sei geniale…» gli sorrise in risposta John.

«Psicopatico…» ribatté acidamente il moro.

Ma l’altro scosse la testa divertito. «Sociopatico iperattivo.»

Rimasero per un attimo in silenzio ad osservarsi l’un l’altro, poi Sherlock piegò le labbra in un sorriso appena appena accennato e, qualche secondo più tardi, si ritrovarono entrambi a ridere di gusto senza un motivo preciso.

Ma in fondo, non c’era bisogno di alcun motivo.

~*~

Greg sedeva sulla poltrona con la gamba accavallata e lo sguardo puntato sul liquido ambrato contenuto nella tazzina tra le sue mani. Non ne aveva ancora bevuto una goccia e il the stava ormai cominciando a raffreddarsi, ma al ragazzo non sembrava importare più di tanto.

«Allora?»

Greg alzò lo sguardo sul ragazzo più anziano di fronte a lui e prese un respiro profondo. «Perché non glielo chiedi tu stesso?» rispose, una nota annoiata nella voce.

Mycroft portò gli occhi al cielo e si sporse in avanti, appoggiando la propria tazzina ormai vuota sul tavolino in mezzo a loro e risistemandosi comodamente sulla poltrona. «Gregory… lo sai che non mi-»

«Non chiamarmi così.» lo interruppe l’altro fissandolo duramente. «Lo sai che non mi…»

«…piace? È il tuo nome completo, perché non dovrebbe piacerti?»

Il ragazzo lo osservò a bocca aperta, un sorriso a metà tra il divertito e il sorpreso sul volto. «Ti da fastidio quando ti chiamano Mike, vero?» ghignò.

Mycroft sospirò. «D’accordo Greg… devo rifarti la domanda o pensi di ricordartela?»

Anche il ragazzo si sporse in avanti e appoggiò la tazza sul tavolo accanto a quella dell’altro. Si rilassò nuovamente sulla poltrona e si guardò intorno con fare divertito. «Non pensi sia tempo di cambiare la carta da parati, Mycroft? È abbastanza… ridicola.»

«Non tergiversare.»

«Per quanto andranno avanti ancora questi interrogatori?» Lestrade guardò il maggiore degli Holmes negli occhi. «Perché continuano da qualche mese e mi sono stancato… uhm… diciamo al secondo?»

Il ragazzo più anziano sembrò un attimo interdetto, poi si passò la punta della lingua sulle labbra e ricambiò lo sguardo con risolutezza, aspettando in una risposta.

Passarono qualche secondo in assoluto silenzio, poi Greg abbassò lo sguardo, sconfitto. Per l’ennesima volta. «Lo hanno preso ancora in giro, oggi.»

Mycroft roteò gli occhi. «Di questo passo mamma comincerà a farsi delle domande. Sherlock non può cadere dal letto ogni due per tre.»

«Le dici che cade dal letto?» esclamò sbigottito Lestrade.

L’altro si strinse nelle spalle. «Letto, scale… qualche volta da bambino giocava a fare il pirata… Per come lo considera or ora non è difficile farle credere che si sia ficcato la spada giocattolo negli occhi.»

Greg lo guardava incerto se ridere o meno. «Ha quasi diciassette anni, Mycroft.»

«Da quando in qua le madri smettono di considerarti un bambino anche quando sei adulto?»

Il ragazzo si passò una mano sul volto e si tolse il sorriso dalle labbra. «Quando sono venuto via dal laboratorio era appena entrato un certo ragazzo… John Watson mi pare. Era lì per lui.»

Mycroft si fece attento rizzandosi sulla poltrona. «Per lui? Per cosa?»

«Non lo so.»

Uno sbuffo risentito provenne dal ragazzo più grande. «Era lì per prenderlo in giro o cosa?»

Greg scosse la testa. «John è un bravo ragazzo, o almeno questo è quello che ho sentito in giro. E no, Sherlock non ha fatto una piega vedendolo.»

«Che cosa si sono detti?»

«Me ne sono andato perché qualcuno chiamava insistentemente.»

Mycroft sospirò ancora, poi unì tra loro le mani e fissò la parete di fronte, pensieroso. «Andrà tenuto d’occhio.»

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Chiedo umilmente perdono per questo esagerato ritardo ma ho avuto una settimana alquanto impegnativa ;)

Anyway, eccoci qui.

Spero non risulti essere un capitolo noioso perché ho fatto di tutto per alleggerirlo il più possibile e i monologhi interiori dei personaggi servono molto a livello di trama xD

Ci risentiamo martedì/mercoledì per il prossimo!

Enjoy,

Gage.

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 4

 

E

ra una fredda e monotona mattina di novembre.

I corridoi del Barts risuonavano del solito incessante brusio dato dal chiacchiericcio allegro degli studenti che, di prima mattina, facevano il loro ingresso e si apprestavano a sopportare l’inizio di un nuovo giorno di scuola.

Nonostante la prima ora fosse ritenuta, dai professori, una delle ore migliori, perché i ragazzi si erano appena svegliati e quindi erano più attivi, era anche quella più odiata, infatti dava inizio a una lunghissima e faticosissima giornata di sei ore. E non tutti i ragazzi potevano dirsi veramente svegli, anzi. C’era ancora chi vagava in uno stato di sonnolenza perpetua, chi pensava alle coperte calde appena abbandonate, chi alla colazione saltata per la fretta o al sapore del cioccolato della brioche mangiata pochi minuti prima e chi ai propri fratelli minori ancora a casa a godersi il riposo. Poi c’erano i secchioni che non vedevano l’ora di iniziare e se ne andavano in giro con un libro incollato al naso per ripassare la materia della prima ora, i membri dei vari club che si chiamavano da una parte all’altra del corridoio per salutarsi e mettersi d’accordo sui successivi incontri, i primini che strisciavano lungo i muri dirigendosi in fretta verso la propria classe cercando di non essere preso di mira dai più grandi.

E poi c’erano John, i Blackheath e le ragazze dei suoi compagni di squadra che non facevano altro che tirare i propri ragazzi verso di loro in cerca di attenzioni, mentre lui era solo in mezzo al gruppo, gli occhi che vagavano distrattamente per il corridoio in cerca di qualcosa su cui focalizzare la sua attenzione.

«Che ne dite di una cenetta tutti insieme da Angelo questa sera? Un’uscita di gruppo tra cheerleaders e Blackheath!» esclamò una ragazza del terzo anno che John aveva visto molte volte di sfuggita alla fine degli allenamenti. Non si ricordava neanche come si chiamasse o con chi stesse.

«È una bella idea! Vero Mary?» La ragazza sorrise di circostanza e regalò a Williams un bacio veloce sulla guancia. «Ovviamente…»

John si ritrovò a mordersi nervosamente un labbro.

«Quante coppie siamo? Sempre meglio prenotare…»

Harry si guardò intorno e cominciò a contare con un dito i presenti. «Uno, due, tre… voi venite? Cinque, sei…» arrivò al punto in cui si trovava John e si bloccò col dito per aria, prima che un sorrisetto divertito gli comparisse sulle labbra.

«Oh, John… tu vieni? Da solo o ti porti dietro qualche primina secchiona da proteggere?»

John sentì un improvviso calore al volto e seppe per certo di essere arrossito. Distolse lo sguardo con uno sbuffo. «Molto simpatico…»

«Ah già, scusa… primino.» ghignò l’altro, caricando con forza l’ultima lettera. «Dimenticavo che a te piacciono maschi…»

John sollevò di colpo gli occhi e strinse una mano a pugno. «Sei ridicolo…»

«Hey ragazzi… basta.» Mary interruppe la discussione. «Sembrate dei bambini del primo anno. Rimandate le vostre discussioni sull’orientamento sessuale a quando sarete più calmi entrambi, ok?»

John prese un respiro profondo e si costrinse a sorridere.

«Verrai John?» chiese lei, lanciandogli un’occhiata curiosa. «Sono sicura che qualche cheerleader è rimasta libera per questa sera…»

John inorridì e si affrettò a scuotere la testa. «No, grazie… penso che rimarrò a casa a studiare.» Perché non esci tu con me? Si ritrovò invece a pensare, osservandola con apprensione e desiderio.

La ragazza parve dispiaciuta. «Beh, come vuoi…»

«Allora ritrovo per le sette? Partiamo dopo gli allenamenti?»

John fece qualche passo indietro e dopo aver salutato qualcuno a caso si girò del tutto, dando le spalle agli amici e avviandosi con innaturale calma verso l’aula della prima ora. Di star lì a discutere di cene a cui non avrebbe potuto partecipare non gli andava proprio.

Nonostante fosse passato qualche giorno John non riusciva ancora a scacciare quel peso al petto che si ritrovava dopo che Sarah lo aveva lasciato: era come se con quel gesto la ragazza gli avesse tolto la speranza di trovare qualcun altro con cui passare il proprio tempo. Da quel giorno non aveva più cercato la compagnia di nessuno, isolandosi dai discorsi altrui e parlando solo il minimo necessario per ciò che gli serviva, declinando ogni proposta di uscita o partecipazione a qualche evento. Si era buttato sullo studio, tralasciando tutto il resto, e aveva tentato di allontanare dalla sua testa, almeno per un po’, il pensiero di essere nuovamente un ragazzo solo.

Svoltò sovrappensiero un angolo e tenne lo sguardo fisso davanti a sé, puntando alla sua meta, quando un ragazzo gli sfrecciò di fianco e andò ad urtarne un altro, fermo in mezzo al corridoio. «E togliti di mezzo!» esclamò arrabbiato, prendendosela con il povero sfortunato.

John spostò la sua attenzione sul malcapitato, prima di realizzare veramente chi avesse causato tutto quello scompiglio. Si fermò di botto.

Sherlock era in piedi di fronte al suo armadietto, lo sguardo fisso sullo sportello che aveva davanti e le mani strette a pugno lungo i fianchi. Non doveva neanche essersi accorto del ragazzo che lo aveva urtato.

Improvvisamente dimentico di tutto, John gli si avvicinò con l’intenzione di salutarlo, quando lo sguardo gli cadde sull’armadietto dell’amico e sulla scritta in vernice gialla che campeggiava in bella vista sulla superficie lucida.

«Verginello…» Senza neanche pensarci John si ritrovò a ripetere quelle parole, sussurrandole appena tra le labbra ma non abbastanza piano da non essere sentito da Sherlock che, sorpreso, si voltò di scatto.

John realizzò di aver espresso i suoi pensieri ad alta voce non appena vide il volto ferito dell’altro davanti a sé e si pentì immediatamente della sua disattenzione. «No, io non… cioè, stavo solo…» balbettò, cercando di scusarsi, senza tuttavia riuscire a formulare una frase di senso compiuto.

«Ciao John.» disse infine Sherlock, girandosi nuovamente verso l’armadietto e aprendolo.

«C-ciao…» John trasse un profondo respiro e distolse lo sguardo, cercando di controllare il rossore che, sapeva, stava andando a colorargli le guance ancora una volta.

«La campanella sta per suonare.»

John lo ignorò. «Verginello? Chi l’ha scritto?»

Sherlock non rispose, continuando ad armeggiare con libri e quaderni.

«Sherlock…» lo richiamò quasi severamente.

Con uno sbuffo il moro si girò a guardarlo. «Chi lo fa ogni settimana.»

«Ovvero?»

«Non m’interessa.»

«Co…?»

«Lascia stare John.»

Il ragazzo lo guardò con apprensione. «Invece dovrebbe interessarti. Questo è bullismo, dovresti dirlo a qualcuno…»

«Così che la prossima volta mi debba trovare la parola “sfigato” al posto di questa?»

John lo osservò interdetto.

«Hai intenzione di lasciare che continuino a prenderti in giro a vita?» chiese.

Sherlock richiuse l’armadietto e non rispose, osservando invece con occhio critico la scritta, forse pensando a come cancellarla. Sapeva per certo che se la bidella fosse venuta a sapere che il suo armadietto era stato dipinto con quella vernice per l’ennesima volta lo avrebbe mandato a quel paese.

«Sherlock, sto dicendo seriamente.»

Il moro gli lanciò un’occhiata incuriosita. «Perché ti preoccupi tanto per me?»

L’innocenza di quella domanda colpì John come un pugno nello stomaco. La faccia dell’amico era veramente perplessa e Sherlock aveva posto quella domanda esattamente come avrebbe potuto chiedere l’ora.

Il ragazzo rimase un attimo a bocca aperta, sorpreso e senza la più pallida idea di come rispondergli. Deglutì a vuoto un paio di volte, poi si strinse nelle spalle. «Beh, perché… sono miei amici. Insomma, non mi piace che si comportino così…» Gli sorrise sinceramente, proprio mentre la campana lanciava il suo fastidioso trillo per l’inizio delle lezioni.

Rimasero entrambi fermi sul posto, aspettando, come in un muto accordo, che il suono cessasse, poi John parve riscuotersi e fece qualche passo indietro, come a comunicare all’altro che era tempo per lui di andare.

Sherlock lo salutò con un cenno del capo e fece per andarsene, ma la voce di John lo bloccò dopo neanche due passi. «Sei al laboratorio oggi pomeriggio?»

«Sì…»

John si morse un labbro, poi annuì pensieroso. «Ci vediamo dopo allora…» gli fece l’occhiolino e si voltò del tutto, senza aspettare risposta.

 

 

Quel pomeriggio John varcò la porta dell’aula di chimica con lo zaino in spalla e l’aria pensierosa. Aveva appena rifiutato l’invito di Mike di andare a casa sua per aiutarlo con la preparazione di un altro test che il ragazzo doveva svolgere di lì a pochi giorni, con la scusa che doveva vedersi con Sarah, e aveva garbatamente ignorato le arie felici dei suoi compagni di squadra al pensiero della serata imminente tra amici. Perfino il Rosso si era trovato una cheerleader del primo anno con cui uscire, e John si era sentito un po’ una nullità quando lo aveva saputo.

Sherlock, appollaiato su uno sgabello, al suo ingresso alzò lo sguardo e gli regalò un lieve sorriso. Il giovane Holmes non era tipo da sorridere molto, ma stranamente, vedendolo entrare in quel momento, gli venne spontaneo e del tutto naturale. Non sapeva perché ma cominciava a provare un certo piacere nel vederlo arrivare al suo fianco e, pur non essendone del tutto sicuro, pensava di piacergli. Anche se probabilmente non lo avrebbe mai ammesso nemmeno a se stesso, in un certo senso cominciava a sentirsi lusingato della sua compagnia.

«Ciao!» salutò John allegramente, prendendosi uno sgabello e avvicinandosi al lungo tavolo. «Che fai?»

«Francese…» mormorò il più giovane, osservando John mentre sistemava libri e quaderni sul piano e tirava fuori il resto dell’occorrente.

«Uhm… ti piace?»

«Francese?»

«Sì…»

«Così e così.»

John gli lanciò un’occhiata divertita. «Neanche a me piace molto… sarà una delle materie che mi mancherà di meno l’anno prossimo.»

Calò nuovamente il silenzio senza che nessuno sapesse come romperlo.

Sherlock si limitò a continuare la sua traduzione mentre John, pensieroso, si rigirava una matita tra le dita e sbirciava di tanto in tanto il ragazzo che gli stava di fronte. Quel giorno non aveva nessun livido a deturpargli il volto e John si sentì vagamente sollevato al pensiero che nessuno dei suoi compagni gli avesse dato fastidio durante quei pochi giorni dalla loro ultima disputa, senza contare la scritta sull’armadietto ovviamente.

«Alla fine l’hai tolta?» chiese dopo un po’, senza aver ancora aperto libro.

Sherlock sollevò nuovamente lo sguardo e gli lanciò un’occhiata incerta. «Come avevo previsto la commessa mi ha letteralmente mandato a quel paese. Ma entro domani mattina sparirà…»

«E come?»

«Pensi che lascerebbe una scritta del genere su un armadietto? Lo dice solo perché sono io, poi però la cancella prima che la veda il preside. Una scritta in giallo fosforescente non passa inosservata.»

John si sentì arrossire nuovamente e abbassò lo sguardo. Sherlock aveva ragione, ovviamente. Anche una sola scritta sull’armadietto avrebbe voluto dire che nella scuola c’era del vandalismo e sicuramente il preside non avrebbe mai voluto che il buon nome dell’istituto andasse perduto. Inoltre nessun membro del personale voleva vedersi licenziato per non essere stato attento a una cosa del genere, e, in un modo o nell’altro, l’avrebbero tolta. Solitamente, se il responsabile di un’azione veniva scoperto, era lui stesso a rimediare al proprio gesto, come punizione, ma, nel caso di Sherlock come in molti altri, nessuno si preoccupava più di cercare un colpevole. Avveniva così frequentemente che i professori si limitavano a condannare questi gesti, che intaccavano il buon nome della scuola, con lunghi discorsi in classe, senza poi tuttavia muovere un dito.

Nonostante la buona notizia per la scritta, John non riuscì a rallegrarsi per il suo amico, sentendo invece crescere dentro di lui un moto di compassione verso Sherlock che, oltre ad essere preso in giro, non era neanche lontanamente tutelato dalla scuola per gli atti di bullismo che riceveva. Si disse che d’ora in poi avrebbe fatto il possibile perché il giovane Holmes potesse vivere la sua vita scolastica in pace e senza che nessuno gli desse fastidio.

Il moro continuava a scrivere freneticamente su un foglio, consultando di tanto in tanto un dizionario, così che John si ritrovò, spinto dalla curiosità, a sporgersi in avanti e a leggere qualche riga del testo che stava traducendo.

 

Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout

Contre les portes de la nuit

Et les passants qui passent les désignent du doigt [1]

 

«Ah… Jaques Prévert… mi è sempre piaciuta quella poesia.»

Sherlock sobbalzò, ritrovandosi John a poca distanza da lui che leggeva tranquillamente quello che stava scrivendo.

«È stupida.»

John lo guardò sorpreso. «Perché?»

Il ragazzo si strinse nelle spalle, evitando con cura gli occhi di John. Qualcosa nella sua vicinanza cominciò a metterlo in difficoltà, e la cosa era strana dato che non si era mai curato della vicinanza con qualcuno. Non aveva mai amato gesti affettivi quali baci e abbracci, questo era vero, ma quando si trattava di parlare con qualcuno non aveva mai neanche pensato al fatto che potesse sentirsi così… a disagio.

Per sua fortuna John si ritrasse poco dopo, appoggiando poi con aria trasognata la testa a una mano. «Ah… è una delle poesia d’amore più famose al mondo. Se c’è qualcosa di utile nello studiare il francese, questa è proprio il poter leggere in lingua originale poesie come quella.»

Sherlock rilesse le prime righe della poesia, senza tuttavia riuscire a trovare in essa un significato più profondo delle semplici parole scritte.

John fissava un punto indefinito del muro di fronte a sé, mangiucchiando distrattamente il cappuccio della penna. «Sembra che tutto ruoti intorno all’amore di questi tempi…» sospirò. Lanciò un’occhiata a Sherlock e gli sorrise. «Hai una ragazza?»

Il moro s’irrigidì e dopo un attimo d’indecisione scosse la testa. «Non è decisamente il mio campo.»

John si morse un labbro e arrossì lievemente sulle guance per l’ennesima volta. «Oh… ehm… un ragazzo?» tentò, pentendosi subito dopo della domanda.

Sherlock sembrò trafiggerlo con i suoi occhi cristallini mentre lo fissava, vagamente incuriosito. «No…» rispose, distogliendo poco dopo lo sguardo.

«O-ok…» Anche John distolse gli occhi, temendo di diventare di un colore ancora più acceso. Perché mai doveva fare domande del genere? Si sentiva terribilmente a disagio in quel momento e, come spesso gli capitava, si sentiva anche in dovere di concludere decentemente la conversazione per evitare possibili fraintendimenti. «Beh, va bene… voglio dire, anche se avessi un ragazzo, andrebbe comunque bene.» si ritrovò quindi a dire.

Sherlock lo guardò di sottecchi, pensando improvvisamente che John era proprio un ingenuo. «Lo so…»

L’imbarazzo era palpabile e John si ritrovò a morsicare ancora più nervosamente il cappuccio. «Bene.»

«Sì, bene. Grazie.»

Con un sospiro John abbassò lo sguardo sul proprio libro di matematica, cominciando poi a disegnare nei margini tanti piccoli cuoricini, sovrappensiero. «Prima o poi troverò quella giusta…» mormorò tra sé e sé.

Sherlock alzò lo sguardo sull’amico. «È… è bello?»

John lo guardò stupito. «Che cosa?»

«Avere una ragazza…»

L’altro sorrise, chiudendo gli occhi e annuendo piano. «È bellissimo… non ne hai mai avuta una?» chiese innocentemente.

Sherlock scosse la testa, osservando con particolare attenzione l’espressione vagamente sorpresa di John: di certo per lui doveva essere strano non avere mai avuto qualcuno, non con la sua età. Per Sherlock invece era del tutto normale e non ne aveva mai neanche sentito il bisogno.

«Un giorno la troverai anche tu…»

Il moro alzò nuovamente lo sguardo e lo puntò negli occhi gioviali dell’altro: sembrava che John fosse veramente convinto di ciò che stava dicendo e Sherlock sentì una strana morsa al petto nell’ascoltare quelle parole.

«Un giorno troveremo anche noi le nostre anime gemelle… dobbiamo solo avere pazienza…» borbottò poi l’altro, il pensiero perso chissà dove.

Non sapeva che, di pazienza, ne avrebbe dovuta avere ben poca.

~*~

Si trovava nell’aula 23 al secondo piano, il ritrovo del Brainy era terminato da qualche minuto e quasi tutti i ragazzi che vi avevano partecipato se ne erano già andati. Molly si era attardata qualche minuto per radunare le sue cose e scrivere un messaggio alla madre per avvisarla che stava per tornare a casa. Non c’era nessuno oltre a lei, o almeno era quello che credeva.

«Ti andrebbe di uscire insieme uno di questi giorni?»

La ragazza si voltò di scatto, fissando con gli occhi sgranati il ragazzo che aveva appena parlato. Rimase un attimo imbambolata a fissare il suo bel volto, gli occhi color nocciola che la guardavano con curiosità. Aprì un paio di volte le labbra, sorpresa, ma le richiuse subito dopo, senza sapere cosa dire. «Co-cosa?» balbettò infine.

Jim Moriarty sorrise gentilmente, avvicinandosi con passo apparentemente indeciso verso di lei.

Molly si ritrasse automaticamente, pentendosi subito dopo del suo gesto.

«Ehi, non voglio mica farti del male.»

Molly arrossì violentemente, distogliendo lo sguardo. «No, non… non intendevo…»

Il ragazzo ridacchiò e si fermò dov’era, mettendosi le mani in tasca, sorridendole. «Sai… è da un po’ che ti osservo.»

«Da-davvero?» proprio non le riusciva di parlare normalmente.

L’altro annuì pensieroso, senza staccarle gli occhi di dosso. «Sei una ragazza interessante, Molly Hopper… molto. E a me piacciono le ragazze interessanti, sai?»

«Interessante… perché?»

Il ragazzo si avvicinò di qualche passo, fino a quando non ci fu neanche mezzo metro a separarli. Piegò la testa da un lato, osservandola intensamente, poi allungò lentamente una mano verso di lei e le accarezzò delicatamente il volto.

Molly rimase immobile, impietrita davanti a quel gesto. Teneva gli occhi fissi in quelli dell’altro, incapace di muoversi o di fare alcunché. Era come se avesse appena perso il controllo del proprio corpo, persino delle palpebre, arrivando a tenere gli occhi spalancati, tutta la sua attenzione concentrata sul punto di contatto tra la loro pelle. E inevitabilmente arrossì ancora di più.

«Sei terribilmente carina quando arrossisci così.» sorrise Jim. Poi, quasi bruscamente, abbassò la mano e rimise quel poco di distanza tra loro che permise a Molly di tornare alla realtà. «Non hai ancora risposto alla mia domanda…»

Molly ondeggiò per un attimo sul posto, confusa, così che il ragazzo si ritrovò a ripetere la domanda. «Vuoi uscire con me, Molly Hooper?»

La ragazza si sentì mancare. «Ma… io pensavo che…»

«Oh già… lo pensano tutti a quanto pare. Beh, no, non è vero.»

Deglutì un paio di volte, a vuoto, poi, racimolando quel poco di coraggio che fino a quel momento le era mancato, annuì velocemente.

Per un attimo il dolce viso del ragazzo fu attraversato da un lampo di trionfo, ma fu solo un secondo, e Molly non se ne accorse neanche. Poi la voce del giovane si fece un poco più bassa, come se volesse far sì che nessuno lo sentisse, anche se nella stanza c’erano solo loro due. «Questo è il mio numero…» Tirò fuori una penna, evidentemente già preparata in precedenza, e presa con delicatezza la mano di Molly scrisse velocemente una serie di numeri sul suo polso. La ragazza rimase immobile con il battito cardiaco accelerato, gli occhi fissi sul volto del bruno e le gambe molli. Quando Moriarty si sollevò e incontrò nuovamente il suo sguardo credette di poter svenire tra le sue braccia da un momento all’altro, cosa che poi sarebbe stata sicuramente più romantica di un numero scritto sulla sua pelle.

«Ci vediamo, Molly Hooper…» disse, e con un ultimo sorriso uscì dall’aula.

La ragazza dovette appoggiarsi al muro e chiudere gli occhi per riprendere completamente il controllo di se stessa. Cosa le stava succedendo? L’ultima cosa che si aspettava era di essere invitata ad uscire da qualcuno, da quella persona in particolare, poi, credeva di non essere mai neanche stata notata. E invece evidentemente non era stato così: era stata notata eccome.

Respirò diverse volte poi un sorriso le comparve sulle labbra. Jim l’aveva appena definita interessante: lei, la semplice e umile Molly Hooper era interessante agli occhi di Jim Moriarty.

Il ragazzo aveva fama nella scuola per l’essere terribilmente selettivo in questioni amorose. Da che Molly poteva ricordare lo aveva visto soltanto in compagnia di un paio di ragazze da quando lo conosceva, e la storia non era durata più di due mesi per ciascuna. Era di comune pensiero che il ragazzo usasse le proprie relazioni solo per scopi personali e che le storie avute fossero quindi solo futili messe in scena, tutte costruite per arrivare ad un fine accuratamente prefissato. Da dove quell’idea fosse venuta non lo sapeva nessuno. Per quanto Molly ne sapesse, non era successo niente di strano intorno alle ragazze che erano state con Moriarty, niente che potesse far anche solo pensare ad un secondo fine. La ragazza era nel Brainy, quindi poteva dire di conoscere Moriarty più di molti altri, ma non le era mai parso un ragazzo così malvagio come veniva dipinto da molti. Un po’ inquietante, forse, ma niente di più.

Come molti altri, invece, Molly aveva sempre creduto che tra lui e Irene Adler ci fosse qualcosa. Non era per niente raro trovarli in giro per i corridoi a parlare tra una lezione e l’altra; a pranzo mangiavano sempre insieme e nei vari compiti in classe facevano sempre gruppo. Più volte i due avevano negato una possibile relazione ma quasi nessuno ci aveva mai creduto. Ora Molly poteva dire di essere l’unica ad esserne certa, o almeno era quella che sperava.

Mentre chiudeva con aria persa la porta del laboratorio, si ritrovò a pensare a Sherlock Holmes. Non sapeva come le fosse venuto in mente ma, non appena il suo volto spigoloso fece capolino tra i suoi pensieri, qualcosa si fece sentire all’altezza del cuore. Non avrebbe saputo descriverlo esattamente, ma le sembrava qualcosa di molto vicino al desiderio. Da quando lo aveva conosciuto non aveva avuto occhi che per lui, il ragazzo dal volto pallido e dai riccioli ribelli: aveva cercato più volte di intavolare conversazioni decenti solo per avere qualche momento con lui, e ora gli stava voltando le spalle per stare con qualcuno che sapeva quasi per certo non essere apprezzato da Sherlock. In qualche modo, però, riuscì a scacciare il suo pensiero e, con il cuore colmo di gioia a causa degli ultimi minuti appena passati, riconsegnò le chiavi in segreteria e tornò a casa.

 

Qualche giorno più tardi Molly avanzava lentamente lungo il corridoio delle palestre, diretta verso l’ufficio dell’allenatore delle cheerleader. Le mani stringevano nervosamente la spallina dello zaino e aveva lo sguardo fisso nel vuoto.

Quasi come in trance, bussò alla porta, e dopo un freddo “avanti” pronunciato dall’interno fece il suo ingresso nella stanza.

Venti minuti più tardi ne usciva stringendo tra le mani una scatola contenente la sua nuova maglia rossa e nera.

~*~

Sherlock sedeva al proprio tavolo nella mensa con il piatto davanti agli occhi, facendo vagare la forchetta tra il cibo, spezzettandolo e accantonandolo senza neanche provare a portarlo alle labbra.

Poteva tranquillamente trattarsi di uno dei suoi soliti attacchi di digiuno improvvisi, dovuti la maggior parte delle volte a qualche interessante studio, scolastico e non, che stava portando avanti da qualche tempo, o di una di quelle volte in cui i pensieri in testa erano talmente tanti che aggiungervi pure i comandi per muovere i muscoli gli avrebbe causato una qualche esplosione cerebrale per il sovraccarico di informazioni. Ma quella volta no, si trattava d’altro.

Era passato appena un mese da quando aveva conosciuto John alla festa di Clara e fin dal primo momento in cui aveva incrociato il suo sguardo aveva capito che in lui c’era qualcosa di diverso. Non aveva voluto ammetterlo neanche a se stesso ma era rimasto subito colpito dalla sua presenza, per così dire.

Nella sua breve vita, Sherlock non aveva avuto molti amici: a dir la verità non aveva mai preso neanche in considerazione la possibilità di averne qualcuno. Aveva sempre amato la solitudine, e non perché fosse una quasi ovvia conseguenza del suo disturbo. La verità era che quando stava con gli altri non si sentiva mai così a proprio agio come quando se ne stava da solo a pensare alle proprie cose. Forse era per il suo carattere, un po’ impacciato con tutto quello che riguardava la sfera emotiva, o anche per la sua inspiegabile curiosità e intelligenza, cosa che gli causava sempre sguardi pungenti e ostili, ma Sherlock non aveva mai preso la sua solitudine come una condanna. Semplicemente gli piaceva, lo cullava e rassicurava.

Cercava sempre un modo per scappare quando i suoi genitori tentavano di entrare in contatto con lui tramite gesti di affetto o semplici domande sulla sua vita scolastica. Era più forte di lui: non riusciva a starli ad ascoltare, si annoiava e finiva sempre per rispondergli male. Sua madre credeva fosse solo una crisi passeggera, il classico cambiamento adolescenziale, e suo padre le dava corda, anche se si preoccupava un filino di più dell’avvenire del figlio e certe volte cercava di entrare in contatto con lui attirandolo con qualcosa che lo interessasse. Al contrario di quanto pensavano in molti osservando la famiglia Holmes, Mycroft e Sherlock erano sempre stati coccolati e viziati a dovere dai loro genitori. I signori Holmes gli volevano un bene dell’anima e li avevano sempre accontentati in tutte le loro esigenze. Sherlock in particolare era sempre stato assecondato nelle sue pretenziose richieste: era il piccolino di casa e tutti sentivano il dovere di prendersi cura di lui. Signora Hudson compresa.

L’anziana donna era la governante di casa Holmes ed era, tra tutti, forse la migliore nel capire fino in fondo il piccolo Sherlock e nell’apprezzarlo in tutte le sue stranezze. Il ragazzo si fidava ciecamente di lei ed era l’unica da cui accettava gesti d’affetto ogni tanto. Amava particolarmente le tazze di the che gli preparava al mattino e i biscotti appena sfornati al pomeriggio.

Tuttavia per il resto del tempo Sherlock cercava di stare il più solo possibile, occupandosi delle sue cose e disdegnando chiunque osasse disturbarlo. Per questo motivo stava cominciando a preoccuparsi.

Conosceva John da solo un mese e due giorni e non riusciva a capire da dove provenisse tutta quell’attrazione nei suoi confronti.

Proprio mentre rimuginava riguardo a questo, si accorse di star fissando da tempo indeterminato il ragazzo in questione che si trovava dall’altra parte della sala insieme al suo gruppo di amici. Nell’esatto istante in cui Sherlock realizzò quello che stava facendo, John girò di poco la testa e i loro sguardi s’incrociarono. Il moro avvertì una stretta al petto e per un attimo si dimenticò pure di respirare, vergognandosi terribilmente per essere stato scoperto. Tuttavia John non sembrò prendersela, anzi. Un lieve sorriso si aprì sul suo volto e lo salutò con un cenno della testa.

Sherlock deglutì a forza, poi si costrinse a sorridere pure lui e a distogliere rapidamente lo sguardo. In fretta e furia radunò le sue cose, si alzò e mise a posto il vassoio, poi si avviò verso l’uscita, evitando accuratamente di guardare il giovane Watson, seduto poco distante dalla porta.

Il moro si addentrò nei corridoi deserti della scuola, camminando velocemente e cercando di lasciare indietro nella sua testa tutti i pensieri che non riguardassero John soltanto.

Si infilò in un’aula vuota e tirò fuori un paio di libri e una penna, giusto perché se qualcuno fosse entrato avrebbe sempre potuto dire di essersi messo lì a ripassare la lezione prima dell’inizio della sessione pomeridiana, e, poggiata la testa tra le mani, cercò di fare un po’ di ordine nella sua mente.

Si focalizzò sul pensiero di John, su tutto quello che avevano vissuto insieme in quegli ultimi tempi, e nel giro di qualche minuto arrivò alla conclusione che se aveva ben inteso cosa per gli altri volesse dire avere un amico, allora a quel punto lui aveva un amico, e quel ragazzo era John Watson.

Era incredibile come in poco tempo Sherlock fosse riuscito ad affezionarsi al lui: gli era bastato mostrare un poco della sua incredibile intelligenza, un poco della sua irreversibile solitudine e qualche battuta di spicco qua e là, e John si era completamente perso in quel sentimento che tutti definivano amicizia. E forse, un po’ si era perso anche lui.

A parte John non aveva mai avuto qualcuno che potesse definirsi suo amico, forse solo Lestrade ci era andato molto vicino. Si erano conosciuti durante uno dei primi giorni di Sherlock al Barts, un anno prima, quando il ragazzo si era seduto infuriato al suo tavolo a mensa dopo una litigata con Clara Dimmock. Inizialmente Sherlock aveva tentato di evitarlo, ma, dopo qualche altro incontro casuale, un giorno Lestrade se ne era uscito con la sua ferrea intenzione di entrare a Scotland Yard e improvvisamente aveva ricevuto l’intera attenzione dell’altro. Insieme, avevano iniziato a discutere di gialli e serial killer, assassini, omicidi e metodi d’investigazione. Non si erano più separati. In un anno avevano stretto un solido rapporto, tanto che perfino Mycroft si era preoccupato di parlargli in privato, come faceva sempre con chiunque mostrasse interesse nei confronti di Sherlock. Era una cosa che il minore degli Holmes non sopportava e faceva di tutto perché non accadesse: ma Mycroft riusciva sempre ad avere la meglio.

Tuttavia John non era Lestrade e Sherlock credeva di averlo preso in simpatia non appena quel “fantastico!” era uscito dalle sue labbra al posto di qualche battutina sprezzante. Il caso era arrivato dopo, la morte di Powers era entrata in scena in un secondo momento: essa era servita solo a legarli insieme un po’ di più e ad ingranare la loro nuova amicizia.

Sherlock ripercorse tutti i momenti che aveva passato in compagnia del giovane Watson, dall’istante in cui aveva preso in mano il cellulare della sorella per chiamarlo al momento in cui John era entrato nel laboratorio, una settimana più tardi. Ripensò anche a tutti i pomeriggi che il ragazzo aveva passato al suo fianco, a parlargli e a regalargli i suoi sorrisi di apprezzamento a qualche battuta sui professori o a qualche sua geniale uscita.

Sherlock non aveva mai ricevuto complimenti per le sue capacità di osservazione e deduzione, men che meno da perfetti sconosciuti, o quasi, come il giovane Watson.

Come si sentiva quando era in sua compagnia? Bene.

E quando se ne andava? Un po’ peggio.

Sherlock continuò a farsi domande del genere e non riuscì a trovare vie di scampo: John Watson era diventato suo amico e lui stesso era diventato amico di John. Il ragazzo, dal giorno in cui lo aveva “salvato” dai giocatori del Blackheath, non aveva fatto altro che andare a trovarlo tutti i pomeriggi su al laboratorio e fare insieme a lui i compiti. Il mediano gli aveva parlato di molte cose, aveva condiviso con lui le sue passioni e i suoi pensieri (soprattutto in merito alle ragazze, ma Sherlock li aveva del tutto cancellati dalla sua testa), e lui era sempre rimasto in silenzio, senza fare domande e distraendosi molto meno di quanto avesse invece mai fatto con altri. Si erano fatti compagnia reciprocamente, uno che si sentiva solo dopo essere stato mollato dalla propria ragazza, e che non aveva trovato modo migliore di passare il tempo, e uno che alla solitudine ci era abituato, e che per una volta si era sentito apprezzato e ammirato. Sherlock gli aveva raccontato della sua passione per i gialli, per gli omicidi e i suicidi, per tutto ciò che riguardasse un intricato caso da risolvere in qualità di detective, e John lo aveva ascoltato quasi a bocca aperta, lodandolo e facendo domande, incuriosito dalla mente geniale dell’amico.

Quando la campanella suonò, Sherlock si avviò verso la lezione seguente con il sorriso sulle labbra, il pensiero già rivolto all’imminente pomeriggio in compagnia del suo nuovo amico.

~*~

«Sai una cosa?»

«Mmh…?»

«Dovremmo spingerci un po’ più in là…»

Harriet lanciò un mugolio di piacere e si staccò dalle labbra di Clara, così che potesse trovarsi ad una distanza decente per guardarla negli occhi. «Più in là come?» sorrise maliziosamente.

«Hai capito…»

Harriet rise e, presa per le spalle, la spinse fino a farla sdraiare completamente sul divano, tendendosi sopra di lei per arrivare alle sue labbra, che catturò nuovamente prima che la ragazza potesse anche solo pensare di parlare.

Si trovavano in casa Watson, nell’ora più calda del pomeriggio, e il silenzio in cui erano immerse era rotto soltanto dal suono dei loro baci e dal cigolio del vecchio divano che reggeva a malapena il loro peso. La loro era stata una mossa molto azzardata: Harriet sapeva bene che casa sua non era il luogo migliore dove portare la sua nuova ragazza per passare del tempo insieme senza essere viste. Jocelyn era uscita quel pomeriggio con una delle amiche vicine di casa e non sarebbe tornata prima delle sei di sera, era vero, e John sarebbe rimasto a scuola fino alle cinque e mezza passate, ma non si sapeva mai chi potesse capitare in casa Watson da un momento all’altro. Harriet aveva comunque preferito rendere disponibile casa sua per il loro piccolo incontro… non le andava di andare a casa di Clara, dove qualcuno era sempre di passaggio e una madre particolarmente brontolona avrebbe potuto avere qualcosa da ridire sulla nuova uscita di sua figlia. A quanto diceva, la ragazza non era mai stata con una donna, una persona del suo stesso sesso, ma aveva cominciato a pensare alle ragazze come a qualcosa di più che semplici amiche quando la sua migliore amica d’infanzia l’aveva abbandonata per un ragazzo abbastanza “fuori di testa” e lei si era ritrovata ad essere gelosa del nuovo arrivato, provando l’orribile sensazione di essere stata esclusa da una parte della sua vita. Le ci era voluto un po’ di tempo per abituarsi alla nuova visione che aveva del mondo ma aveva accettato il tutto con molta serenità e anche con una buona dose di curiosità verso le nuove esperienze che avrebbe potuto vivere.

Harriet amava la vivacità di quella ragazza, la sua testardaggine e il suo carattere forte ma sotto sotto tenero e sensibile. Tra loro due era lei la più grande, quella con più esperienza nel campo, e in un certo senso si sentiva in dovere di proteggerla e istruirla.

Sarebbe volentieri rimasta lì tutto il pomeriggio e anche la sera, ma tutto ad un tratto la chiave girò nella serratura della porta ed essa si aprì, rivelando la figura maschile del giovane Watson.

Harriet balzò in piedi di colpo, barcollando per un momento sulle gambe per un improvviso giramento di testa dato dal brusco movimento appena compiuto.

Clara spalancò gli occhi spaventata e s’inchiodò al divano, lo sguardo rivolto verso il soffitto.

John stava sulla porta, una mano tesa verso il portaoggetti alla sua sinistra nel gesto di posare le chiavi, gli occhi che vagavano incerti sulla figura di Harriet in piedi, ansimante, che lo fissava con una punta di terrore negli occhi.

Dopo qualche secondo di assoluto silenzio, la ragazza si schiarì la voce e, con un ultimo sguardo alla ragazza sul divano, sorrise al fratello.

«Tornato presto oggi… eh?»

 

Note:

[1] Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout

Contre les portes de la nuit

Et les passants qui passent les désignent du doigt

Mais les enfants qui s’aiment

Ne sont là pour personne

Et c’est seulement leur ombre

Qui tremble dans la nuit

Excitant la rage des passants

Leur rage, leur mépris, leurs rires et leur envie

Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne

Ils sont ailleurs bien plus loin que la nuit

Bien plus haut que le jour

Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour.

 

I ragazzi che si amano si baciano in piedi

Contro le porte della notte

E i passanti che passano li segnano a dito

Ma i ragazzi che si amano

Non ci sono per nessuno

Ed è la loro ombra soltanto

Che trema nella notte

Stimolando la rabbia dei passanti

La loro rabbia, il loro disprezzo, le risa, la loro invidia

I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno

Essi sono altrove molto più lontano della notte

Molto più in alto del giorno

Nell’abbagliante splendore del loro primo amore.

-Jaques Prévert

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 5

 

A

lmeno quel pomeriggio John tornò a casa prima del previsto.

Durante l’ultima ora di lezione, nel suo caso quella di ginnastica, aveva avuto la bella idea di scivolare sulla pista di atletica che la scuola usava per l’allenamento degli studenti in vista delle gare di corsa della regione, sfregandosi buon parte della gamba coperta solo dai pantaloncini. Era stato in infermeria per mezzora, aspettando che la giovane infermiera di turno gli disinfettasse la pelle sfregiata quel poco che bastava, e poi, dolorante e giù di corda, aveva preso l’autobus per tornare a casa.

Aveva ben tre ore di anticipo rispetto al solito e per quello si aspettava di sorprendere Harriet, ma di certo non in quel modo, men che meno in compagnia di Clara.

Entrò in casa a testa bassa, mormorando un “ciao” a mezza voce mentre chiudeva la porta, per poi bloccarsi a metà del gesto con le chiavi a mezz’aria e gli occhi spalancati per lo stupore: sua sorella era in piedi davanti a lui, con gli abiti spiegazzati, i capelli in disordine e il volto accaldato mentre una delle sue compagne di scuola era sdraiata sul suo divano, lo sguardo che correva per la stanza senza sapere dove soffermarsi.

«Tornato presto oggi… eh?»

In un attimo Harriet era passata dallo spavento iniziale alla sua solita strafottenza e John, se non fosse stato troppo impegnato a ricordarsi come chiudere la bocca e sbattere le palpebre, probabilmente si sarebbe chiesto come facesse. Fece vagare lo sguardo per la stanza, collegando pian piano i pezzi, e quando realizzò si ritrovò inconsciamente a fare qualche passo indietro, verso la porta che aveva appena varcato.

In un attimo Harriet si lanciò verso di essa e prima che John potesse anche solo cercare di capire le sue intenzioni si era già frapposta tra lui e l’uscita, sfidandolo quasi con gli occhi a fare un altro passo. Il sorriso scomparve dalle sue labbra e si fece improvvisamente seria.

Nel frattempo Clara, dopo essersi sistemata vestiti e capelli, si era seduta e fissava i due giovani Watson non sapendo bene come comportarsi.

«Temo sia giunto il momento di dirti una cosa…» mormorò la ragazza più grande, sorridendo incerta al fratello. Fece un gesto con il braccio ad indicare il divano, come per invitarlo a sedersi, ma John non si mosse dal suo posto. «Che cosa vuol dire?» chiese invece, la voce spaventosamente ferma.

Harriet distolse lo sguardo e fece qualche passo nella stanza verso l’altra ragazza. «Che razza di domanda è?» disse poi con un tono di voce vagamente divertito.

John trovò la forza di spostare un braccio e lo mosse davanti a lui, principalmente con l’intenzione di indicare Clara. «Questo. Che cosa vuol dire?» la voce gli uscì dalle labbra quasi come un lamento.

«Veramente, fratellino, ti facevo più intelligente.»

Il colorito del ragazzo si fece ad un tratto terreo mentre deglutiva un paio di volte a vuoto. Alla fine parlò. «Voi siete…»

«Lesbiche?»

«…due ragazze…»

Harriet chiuse la bocca di scatto e deglutì a sua volta. «Sì.»

Ma John aveva già avuto la risposta che voleva e ad un tratto si sentì girare la testa, tanto che dovette appoggiarsi con le mani al muro e chiudere gli occhi, respirando piano.

«John, forse è meglio che ti siedi, hai una brutta cera…»

«Stai zitta!» sbottò l’altro, aprendo nuovamente gli occhi e lasciando Harriet di stucco. «Stai zitta, ok? Non è divertente. Questo… non è…» prese un paio di respiri profondi. «Non è divertente.»

«Nessuno ha detto che lo è.» Questa volta era stata Clara a parlare e i due fratelli Watson ne furono entrambi talmente sorpresi che si girarono a guardarla.

«Clara non…» tentò di fermarla la ragazza.

«Perché?» la ragazza fece vagare lo sguardo da uno all’altra. «Perché tutto questo teatrino?»

John la squadrò dall’alto in basso con cipiglio critico, ma Clara non demorse, facendo un passo verso di lui e osservandolo con gli occhi socchiusi. «Hai forse qualche problema?»

«Clara, lascia stare per favore. Lasciami…»

Le due ragazze si osservarono l’un l’altra.

«È mio fratello.»

«Evidentemente però non ha capito che…»

Harriet non la lasciò finire di parlare e la trasse a sé, baciandola con forza e zittendola.

John osservò quell’improvviso slancio di affetto e si ritrovò ad indietreggiare di qualche passo, inorridito.

«Lascia che sia io a parlarci, ok?» disse Harriet, ad un soffio dal suo volto.

L’altra si passò la lingua sulle labbra per poi annuire velocemente. Raccattò da terra il proprio zaino, s’infilò la felpa che aveva abbandonato sul divano e con un ultimo sguardo di rimprovero alla giovane Watson passò davanti al ragazzo a testa alta e uscì dalla porta a passo deciso.

«Si può sapere cosa ti prende?» sbottò Harriet non appena udì i passi della sua ragazza affievolirsi sulle scale.

«Come sarebbe a dire che cosa mi è preso? TU PIUTTOSTO!» John si ritrovava improvvisamente senza fiato e il cuore che gli batteva a mille nel petto. Non riusciva a credere a ciò che aveva appena visto, non riusciva e non poteva veramente credere che Harriet fosse quello che si era appena dimostrata. Gli era totalmente inconcepibile una cosa del genere, soprattutto non dopo tutto quel tempo: come aveva fatto a nasconderlo? Il dubbio gli passò per la mente e non poté fare a meno di chiederglielo.

Si appoggiò al muro e prese un respiro profondo. «Che cosa… da quanto?»

Harriet si passò la lingua sulle labbra, pensierosa, poi si lasciò cadere sul divano, dove fino a cinque minuti c’era Clara, e si sdraiò comodamente su di esso, distendendo le gambe e stiracchiandosi. «Da un po’…»

«E si può sapere PERCHÉ?»

Harriet alzò lo sguardo stupita. «Che cosa vorrebbe dire perché?»

John si passò una mano sulla fronte e si trascinò fino ad afferrare una sedia e a lasciarsi cadere sopra. Aprì un paio di volte la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non gli venne in mente niente. Avrebbe voluto chiederle perché non glielo aveva detto prima, perché era stato così cieco da non notarlo, come aveva fatto a nasconderglielo ma soprattutto… perché. Non sapeva neanche lui che cosa volesse veramente dire con quella domanda, solo sentiva qualcosa in fondo allo stomaco, come una stretta, e non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo, non ad Harriet.

«Penso sia da… uhm… circa tre anni.»

John alzò lo sguardo sulla sorella. «E quando avevi intenzione di dirmelo?» C’era rabbia nella sua voce e non fece nulla per nasconderlo.

«Magari quando avresti reagito in un altro modo…»

«E come avrei dovuto reagire?» John la osservò con gli occhi spalancati per lo stupore.

«Magari, dopo aver passato settimane a stare dietro ad un ragazzo visibilmente gay, avresti anche potuto capirmi.»

Il ragazzo rimase qualche secondo immobile soppesando le parole che aveva appena pronunciato. «Che cosa?»

Harriet sbuffò e portò le mani ad intrecciarsi dietro la nuca, chiudendo gli occhi. «Clara mi ha detto tutto. Quel ragazzo… She-sherkl»

«Sherlock.»

«Sì, lui. È il tipo con cui ti sei scontrato alla festa di Clara la scorsa volta, vero?»

«Che cosa c’entra lui, ora?» mormorò John a denti stretti.

«Oh andiamo, fratellino… Clara mi ha detto tutto. È da settimane che passi i tuoi pomeriggi in sua compagnia. Non dirmi che non ti sei accorto della sua om-»

«Non è gay.» La voce di John uscì sicura e pungente. «E continuo a non capire cosa questo possa c’entrare con la tua situazione, ora.»

Harriet sbadigliò. «Come vuoi… ma sappi che so riconoscere chi è come me, e Sherlock è uno di quelli.»

John emise un profondo respiro irritato. «Ci ho parlato e fidati che non è così. Gli piacciono le ragazze…» O almeno credo… si ritrovò a pensare. In effetti non aveva ancora ben inteso che cosa Sherlock provasse e nei confronti di chi. Insomma, gli aveva sempre parlato di ragazze e lui non aveva mai detto niente su di sé; probabilmente non era neanche interessato ai rapporti umani, per quel che ne sapeva. Eppure era convinto che non fosse gay: ricordava bene il discorso avuto con lui riguardo la poesia di Prévert, la sua domanda sul se fosse bello avere una ragazza. Perché avrebbe dovuto chiederglielo altrimenti?

«Si può sapere dove sia veramente il problema?»

John alzò lo sguardo sulla sorella, che lo stava fissando intensamente. «Non…» si bloccò, ancora incapace di esprimere a parole quello che sentiva dentro. La verità era che non lo sapeva neanche lui come si sentiva. Sicuramente era sorpreso, molto, e forse anche un po’ deluso. Ma deluso da cosa poi?

Sapeva che, in fondo, non c’era niente di male in quello che Harriet aveva e stava facendo: o almeno questo era quello che aveva sempre pensato riguardo all’omosessualità. Lui stesso aveva difeso Sherlock da quell’accusa e lo avrebbe rifatto anche per altri, perfino sconosciuti. Solo… solo che Harriet era sua sorella, ecco cosa c’era che non andava. La stretta allo stomaco si fece più forte nel realizzare ciò. Sua sorella era, senza troppi giri di parole, lesbica.

«Non…» deglutì. «Non lo so…» ammise poi, più a se stesso che ad altri.

«Beh… non c’è bisogno che tu lo sappia, non ora. Prenditi tutto il tempo che vuoi, solo lascia stare Clara ed evita di dirlo alla mamma. Non so quanto possa essere d’accordo.»

John annuì lentamente e si rifugiò in bagno per farsi una doccia, lasciando che la tensione lo abbandonasse sotto il getto d’acqua calda.

~*~

Sherlock aspettò nel laboratorio per tutto il pomeriggio, invano. Quel giorno John non arrivò.

All’inizio il ragazzo aveva pensato ad un possibile ritardo dell’amico, dovuto a qualche professore o compagno che lo aveva fermato dopo la fine delle lezioni, o forse alla sua sbadataggine; poteva aver dimenticato qualcosa in qualche classe e la stava cercando, o poteva anche essere andato in bagno.

Sherlock aveva pensato a tutto e di più e aveva aspettato pazientemente, cominciando anche a studiare da solo. Quando poi, un’ora più tardi, aveva controllato l’orologio alla parete, si era arreso.

Non sapeva neanche lui perché, ma quando aveva realizzato che John non sarebbe andato al loro ritrovo pomeridiano aveva avvertito una strana fitta allo stomaco e si era sentito improvvisamente triste. Aveva appoggiato la testa ad una mano e aveva cominciato a sfogliare distrattamente le pagine del suo libro di filosofia, perso nei suoi pensieri.

La prima cosa cui aveva pensato, forse perché John non faceva altro che parlarne, era stata un’eventuale ragazza: possibile che l’amico avesse finalmente trovato una nuova persona con cui passare il proprio tempo? Qualcuno che lo aveva attratto a tal punto da dimenticarsi di lui?

Vagò tra il pensiero di un richiamo improvviso della madre che lo voleva a casa ad un allenamento di rugby a sorpresa, da una possibile punizione inflitta da qualche professore a una vera e propria dimenticanza di John che quel giorno poteva aver avuto altri pensieri per la testa per stare a pensare ad uno del terzo anno come lui. Valutò le più disparate possibilità, ma nessuna gli sembrò più plausibile di una possibile nuova “Sarah”, se non lei stessa, ovviamente.

Doveva essere andata per forza in quel modo. Erano settimane che John si lamentava di non avere una ragazza da portare fuori al cinema e con la quale studiare, con cui passare il proprio tempo libero e con cui parlare, discutere e sentirsi, con parole sue, a casa.

Sherlock non aveva badato molto ai suoi discorsi, concentrandosi di più sulle cose che gli interessavano, aiutandolo perfino quando non gli tornava qualche risultato di matematica o fisica. John era sempre sorpreso quando prendeva in mano la situazione e cominciava a spiegargli i giusti procedimenti: il moro credeva che non si sarebbe mai stancato di sentire le parole di approvazione nei suoi confronti uscire dalle labbra del suo amico.

Quel pomeriggio, immancabilmente, gli mancò tutto quello. Passò tutto il tempo a studiare da solo, chino sui libri, cercando di focalizzare la sua attenzione sulle parole scritte in inchiostro nero piuttosto che su quelle appartenenti ai suoi ricordi, su quelle parole pronunciate con tono morbido da John, da quelle sue labbra che molte volte si stendevano in un sorriso cordiale.

Quando alzò lo sguardo dal libro di scienze vide che al di fuori della finestra cominciava a farsi buio.

Con un sospiro raccolse le sue cose e uscì dal Barts, l’aria truce e il morale a terra. Si sentiva uno stupido, ma non riusciva a fare a meno di pensare alla nuova ragazza di John, a come poteva essere, a chi poteva essere. Che cosa sarebbe successo a quel punto? Se John aveva veramente trovato qualcun altro con cui passare il proprio tempo, che cosa ne sarebbe stato di lui?

Beh, sarebbe tornato alla sua solita solitudine. Non era certo una novità per lui e forse non gli dispiaceva neanche più di tanto. In fondo a che cosa gli serviva un amico? Aveva passato buona parte della sua breve vita senza altra compagnia se non se stesso, o suo fratello, o il suo cane. Quest’ultimo in particolare era forse stato uno dei suoi migliori amici quando era più piccolo, ma era pur sempre un animale, un essere senza il dono della parola, e oltre a dargli affetto non aveva fatto altro. Sherlock dopotutto non aveva bisogno di parlare con qualcuno: poteva benissimo prendere il suo teschio antico – regalatogli da suo padre qualche anno prima – e illustrare a lui i suoi problemi. Non aveva bisogno di qualcuno che gli rispondesse, ma solo di qualcuno o qualcosa che lo ascoltasse: parlare ad alta voce era molto utile per schiarirsi le idee e a volte anche lui aveva bisogno di mettere ordine fra i suoi pensieri.

Però era piacevole la compagnia di John, qualcuno di vero e reale, tangibile, vivo; qualcuno che poteva ascoltarlo e dargli corda, incoraggiarlo e lusingarlo con complimenti.

Il ragazzo scacciò via a forza quei pensieri, rinchiudendoli in una nuova camera del suo palazzo mentale nel tentativo di isolarli. Non c’era motivo di preoccuparsi tanto per John: lui non aveva bisogno di nessuno se non di se stesso, e gli andava bene.

Varcò l’uscita dell’istituto e si diresse verso la fermata della Tube più vicina ma, non appena svoltò l’angolo, una berlina nera gli si avvicinò silenziosamente.

Inizialmente Sherlock fece finta di niente, continuando a camminare con gli occhi puntati dritti di fronte a sé, ma, quando tentò di attraversare la strada per raggiungere il marciapiede opposto, la vettura gli si parò davanti e, sconfitto, non poté fare altro che aprire la portiera e salire a bordo.

L’auto si avviò veloce lungo le vie della città, passando attraverso il traffico con assoluta semplicità, quasi come se le altre si spostassero volutamente per farla passare. Sherlock non aprì bocca, sedendo pensieroso con lo sguardo rivolto verso l’esterno, perso tra le luci della città che entrava nel pieno della sua vita notturna.

Dopo una decina di minuti giunsero finalmente a Baker Street, fermandosi con naturalezza davanti al 221B. Sherlock, che aveva imparato a memoria l’intera pianta della città, aveva già capito alla prima svolta del percorso dove si stavano dirigendo e per quello non ne fu particolarmente sorpreso.

Scese dalla macchina con una mezza idea di correre via e andare direttamente alla fermata della Tube ma poi guardò il battente del 221B e, spinto dalla curiosità, entrò nella casa. Salì i diciassette scalini che portavano al piano superiore con passo felpato e varcò l’ingresso dell’appartamento di suo fratello, entrando poi nel salotto.

Mycroft era seduto comodamente sulla sua poltrona nera con un giornale tra le mani, vestito di tutto punto come suo solito, e quando il fratello minore fece il suo ingresso non lo degnò di uno sguardo.

Sherlock non se ne curò, appoggiando invece lo zaino a terra e avvicinandosi alla poltrona rossa di fronte a quella dove sedeva il fratello. Si rannicchiò su di essa, cercando una delle posizioni in cui si sentiva comodo, e quando la trovò si rilassò, chiudendo gli occhi e lasciandosi cullare da quel calore immateriale.

«Com’è andata a scuola oggi?»

Sherlock fece una smorfia, tenendo sempre gli occhi chiusi, e rispose con un’altra domanda. «Perché sei a Baker Street?» Poté quasi immaginarsi il fratello che, alla sua uscita, portava gli occhi al cielo e si tratteneva dallo sbuffare solo per non dargli soddisfazione.

«Guardati. Se non ti avessi fatto portare qui non saresti neanche salito.»

Sherlock lasciò che un sorrisino beffardo andasse a increspargli le labbra e rimase in silenzio mentre l’altro chiudeva il giornale, lo ripiegava attentamente e lo poggiava sul tavolino tra loro. «The?» disse, prendendo in mano la sua tazza e portandola all’altezza delle labbra.

Sherlock aprì gli occhi e guardò il soffitto sopra di lui, scuotendo piano la testa. «Che cosa volevi dirmi?» Non riuscì a nascondere una nota di curiosità nella sua voce e a Mycroft non sfuggì la fugace occhiata speranzosa che il giovane gli scoccò.

Con un sospiro fissò il liquido ambrato nella tazzina e scosse la testa. «Mi piacerebbe tanto sapere cosa ti attrae di questa catapecchia…»

Il più giovane degli Holmes fece un’espressione offesa. «Non è una catapecchia… ed è-»

«…isolata dal resto della nostra famiglia, sì lo so Sherlock.» Mycroft rimase a osservare il fratello minore per qualche minuto, scandagliandolo dalla testa ai piedi alla ricerca di indizi che non faticò a trovare. «Come è andata oggi?» chiese di nuovo.

«Devi smetterla di torturare Lestrade…» fece l’altro in risposta.

Il maggiore questa volta portò veramente gli occhi al cielo e non si preoccupò neanche di nasconderlo. «Va bene, arriverò al punto. Chi è John Watson?»

«Gavin non te l’ha detto?»

«Greg…»

«Sì, lui.»

«Non mi ha saputo dire niente a riguardo.»

Sherlock sbuffò e diede le spalle all’altro, girandosi sulla poltrona e rannicchiandosi ancora di più su di essa come a cercare protezione. «È un amico.»

Mycroft dovette trattenersi dallo spalancare la bocca per lo stupore. «Che genere di amico?»

Ancora silenzio.

«Sherlock, rispondimi per favore. L’autista non può aspettare tutto il giorno.»

«Non ho nessuna fretta di tornare a casa.»

«Che genere di amico?» ripeté, calcando le parole a una a una.

Il moro aprì la bocca per parlare ma la voce gli morì in gola. Avrebbe voluto dire a Mycroft di lasciarlo in pace, che quella volta andava tutto bene e che se la poteva cavare benissimo da solo. Avrebbe voluto dirgli che John era l’unico che lo aveva apprezzato veramente in quella scuola, l’unico che aveva considerato un vero amico e l’unico che gi aveva fatto compagnia durante i suoi altrimenti solitari pomeriggi; ma non riuscì a dire niente di tutto quello, mentre tra le palpebre socchiuse gli balenò l’immagine di John in un qualche angolo nascosto della scuola a baciare una ragazza mentre lui lo aspettava al laboratorio. Una strana morsa gli strinse la bocca dello stomaco e al posto di qualche frase scocciata gli uscì solo un grugnito di disapprovazione. «Uno come gli altri. Ordinario.» disse infine.

Mycroft osservò attentamente il fratello, cogliendo il tono afflitto del ragazzo e collegandolo all’espressione triste con cui era entrato in casa – era ancora troppo piccolo per saperla nascondere alla perfezione – e inevitabilmente capì, o perlomeno gli parve di capire: per una volta non era per niente certo delle conclusioni a cui era arrivato. Possibile che Sherlock fosse veramente triste per l’aver solo nominato il nome di quel ragazzo? Possibile che, per una volta, potesse essere infelice e non scocciato e irritato? E possibile che la causa di tutto ciò fosse semplicemente un amico?

«Devo dedurne che oggi non è stata una bella giornata?»

Un altro grugnito provenne dalla poltrona e Mycroft non poté far altro che sospirare. «Lo conosci appena da un mese, hai passato con lui tutti i pomeriggi dal quel momento e ora sei infelice per qualcosa che è successo tra voi. Devo aspettarmi una qualche dichiarazione improvvisa non appena farete pace?»

Finalmente Sherlock si girò a guardarlo con aria truce. «Ora che hai dedotto tutto, cosa vuoi?»

Mycroft rimase un attimo in silenzio, all’apparenza del tutto tranquillo, in realtà piuttosto stupito. Poi si passò una mano sul volto con aria stanca e sospirò. «Dare ascolto ai propri sentimenti non è un vantaggio, Sherlock.»

Il ragazzo sbuffò e rivolse lo sguardo al soffitto. «Non me ne importa niente dei sentimenti.»

«Ti stai contraddicendo da solo.»

«Lasciami in pace.» mormorò Sherlock infine, chiudendo gli occhi e cercando di scacciare quell’improvvisa voglia di prenderlo a pugni.

Mycroft sbuffò per l’ennesima volta e con un movimento fluido si alzò dalla poltrona. «Ti ho avvisato in passato e oggi te l’ho ripetuto: se ti lascerai prendere soffrirai, inevitabilmente. È meglio che ti lasci tutto alle spalle al più presto.»

In risposta ebbe solo un grugnito infastidito.

«Non costringermi a fare una bella chiacchierata con il giovane Watson…»

Sherlock questa volta dovette stringere i pugni per trattenersi, non senza difficoltà, dal balzargli veramente addosso. Se all’inizio era entrato in casa quasi per curiosità, ora desiderava non averci mai messo piede. «Ti ho detto di lasciarmi in pace.» ringhiò.

Mycroft osservò dall’alto in basso il proprio fratello minore con una punta di tenerezza. Sapeva di non essere una tra le maggiori simpatie di Sherlock, ma proprio non gli riusciva di fargli capire che tutte le sue attenzioni erano solo dovute al fatto che si preoccupava sempre per lui, costantemente.

In passato lui e i sui genitori si erano affidati troppo al suo buonsenso e le cose erano inevitabilmente precipitate con l’avvento dell’adolescenza. Se Mycroft aveva pensato che suo fratello sarebbe stato troppo intelligente per compiere atti del genere, si era sbagliato: il giovane Holmes non era stato in grado di prendersi cura di se stesso, non aveva saputo proteggersi dal mondo esterno e aveva rischiato grosso. Era caduto una volta e, proprio quando sembrava essersi rialzato, era crollato nuovamente.

Sherlock aveva bisogno di qualcuno che si preoccupasse per lui, regolarmente, e Mycroft si era deliberatamente offerto per quell’incarico.

«Ti ricordi dell’ultima volta, vero? Non voglio ricaderci ancora…»

«Ho imparato la lezione.» sibilò a denti stretti l’altro.

Il più grande annuì e preso l’ombrello si incamminò verso l’uscita. «Ti concedo di rimanere un po’ qui, ma mamma ti vuole a casa per cena. Chiaro?»

Sherlock si rilassò sulla poltrona e assentì con uno sbuffo annoiato. Poco prima che il fratello uscisse definitivamente dall’appartamento, tuttavia, gli pose una domanda, giusto per ripagarlo della sua insistenza. «Quando hai intenzione di comunicarle che l’appartamento che ti ha regalato non ti piace? Non apprezzerà l’idea che tu te ne sia comprato un altro in pieno centro.»

Mycroft si bloccò con una mano sulla maniglia, sospirando pesantemente. Pensò a qualcosa di sensato per rispondergli, poi portò gli occhi al cielo e uscì dalla stanza senza proferire parola.

Dalla sua poltrona Sherlock sorrise divertito: era sempre un piacere stuzzicare il fratello.

~*~

«Sherlock!»

Il ragazzo interpellato si girò di scatto, riuscendo a trattenere a stento un sorriso. «John…»

Il biondo lo raggiunse con pochi passi e si appoggiò all’armadietto di fianco a quello del moro, stringendo al petto i libri della prima ora appena recuperati dal suo.

Sherlock realizzò di essere rimasto immobile per qualche secondo a fissarlo intensamente, così distolse lo sguardo, continuando ad armeggiare per cercare i libri di chimica tra quelli impilati ordinatamente all’interno del piccolo spazio. Il sorriso si affievolì sul suo volto fino a lasciare il posto a una smorfia annoiata al pensiero di ciò che era successo il giorno prima.

«Scusami per ieri, se non sono venuto. Ho… avuto alcuni problemi.»

Il moro sentì lo stomaco fargli una capriola mentre i pensieri s’ingarbugliavano l’uno sull’altro. Si girò con estrema lentezza verso di lui e lo osservò attentamente. «Che genere di problemi?»

Il ragazzo arrossì lievemente e portò una mano a grattarsi la nuca. «Ecco io… sono caduto durante l’ora di ginnastica.»

Sherlock si ritrovò a sorridere divertito all’espressione imbarazzata dell’altro, come se cadere durante una corsa fosse un errore di cui vergognarsi, e sentì il peso che aveva nel petto alleggerirsi: John non aveva avuto altri impegni, non aveva nessuna ragazza da cui andare. Si era fatto tanti problemi per nulla, non era successo niente di nuovo e il ragazzo sarebbe rimasto ancora con lui, come sempre da un po’ di tempo a quella parte.

«Quindi non hai intenz-» disse, ma non fece in tempo a finire la frase che una ragazza gli si parò di fianco.

«Penso che tu abbia sbagliato a comportarti in quel modo con Harriet.»

John si girò di scatto, sorpreso dall’improvvisa interruzione. Squadrò Clara da capo a piedi, poi aprì la bocca per rispondere ma rimase bloccato, fissando lo sguardo fiero della ragazza davanti a sé.

«Pensi che sia facile vivere in questo modo? Pensi che sia facile accettarlo?»

Sherlock chiuse l’armadietto e si accigliò, spostando lo sguardo da lei all’amico a intervalli regolari con curiosità.

John strinse le mani a pugno e si costrinse a parlare. «Possiamo… parlarne in un altro momento?» mormorò, la voce così bassa che fece fatica lui stesso a sentirsi.

«Per quale motivo?» gli occhi della ragazza si posarono sul moro al suo fianco e piegò le labbra, divertita. «Almeno ho il sostegno di qualcuno che vive nella mia stessa situazione.»

John fece un respiro profondo. «Non è perché c’è Sherlock - e tanto per la cronaca non è gay – ma perché siamo nel bel mezzo di un corridoio con tanto di studenti che ci gironzolano attorno!» esclamò.

Sherlock inarcò un sopracciglio all’affermazione del compagno e ricevette un occhiolino divertito da parte di Clara.

«Harriet è la mia ragazza e non ti permetterò di mandarla in depressione solo perché non ti va bene che lei sia lesbica.» disse poi la ragazza, abbassando il tono di voce in modo che solo i due di fronte a lei potessero sentirla.

John spalancò gli occhi. «Io non ho detto ch-»

«Ma guarda chi c’è qui

Al suono di quella voce Clara s’irrigidì, assottigliò le labbra e tenne lo sguardo fisso in quello di John. Il ragazzo, invece, portò gli occhi al cielo. «Cosa vuoi Smith?» sbuffò, tradendo tuttavia una certa agitazione.

«Il verginello e l’indecisa. Ti stai costruendo un bel gruppetto attorno a te, eh John? Cosa fate, organizzate un gay club tutti insieme?»

John sentì le mani prudergli per la voglia di prendere il compagno a cazzotti, ma prese un respiro profondo e si costrinse a pensare che era solo in cerca di attenzioni. Quando si guardò intorno il suo pensiero venne subito confermato nel vedere la piccola folla che alla provocazione di Smith si stava radunando incuriosita attorno a loro. Inoltre vide una buona parte dei suoi compagni di squadra in piedi accanto al tallonatore con un ghigno divertito sul volto, Anderson e il Rosso compresi.

«Sai… non credo che tua sorella possa entrare a farne parte. È un vero peccato, ma lei non fa più il liceo, vero?»

John si passò la lingua sulle labbra, cercando le parole più adatte per mandarlo a quel paese e andarsene di lì prima che la situazione degenerasse. «Grazie Smith, terrò a mente il tuo consiglio.»

Il sorriso del tallonatore non fece che allargarsi. Allargò le braccia e si guardò intorno con aria trionfante. «Che vi dicevo? Il nostro Johnny Boy è passato dall’altra parte!»

Il diretto interessato sentì la rabbia montargli dentro e fu solo con un enorme sforzo che riuscì a trattenersi dall’arrossire.

Intanto Clara fissava con insistenza il laccio delle proprie scarpe e Sherlock si era premuto contro l’armadietto con fare noncurante, facendo finta di leggere una pagina del suo libro e sperando con tutto se stesso che il suo amico riuscisse a tenere testa ai suoi compagni di squadra solo con le parole, evitando di sfociare in una zuffa a pochi minuti dall’inizio delle lezioni. Ma non aveva fatto conto con l’orgoglio di John, e con quanto esso poco resistesse alle provocazioni degli altri.

«E dimmi… comincerai anche tu a ubriacarti come tua sorella ora? È questo che comporta il diventare gay, forse?»

John mosse un passo in avanti di scatto, fermandosi poi poco dopo a poca distanza dall’altro. «Smettila.» soffiò tra i denti, le unghie delle dita che quasi affondavano nei palmi.

«Oppure?» ghignò l’altro in risposta.

E John non resistette più. In un attimo lo prese per il colletto della felpa e con uno slancio lo schiacciò contro la fila di armadietti di fronte.

«John!» Clara allungò una mano verso il ragazzo, terrorizzata. «John, lascia perdere

Sherlock, invece, rimase fermo sul posto con il cuore in gola.

Harry intanto rideva di gusto. «È tutto qui quello che sai fare?»

John strinse la presa sulla stoffa e lo guardò in cagnesco, sibilando tra i denti: «Finiscila ora e mi fermo, ok?»

Il sorriso sul volto del ragazzo si spense di colpo. «E chi ha detto che tu ti debba fermare?»

Tempo di neanche un secondo e Smith gli era addosso, tirando pugni alla cieca e spintonando John che, colto alla sprovvista, si ritrovò ad indietreggiare, non riuscendo a fare altro se non proteggersi come meglio poteva dai colpi dell’altro.

«John!» Clara li guardava con il terrore dipinto in volto, avvicinandosi e cercando inutilmente di richiamarli all’ordine.

Sherlock osservava la scena come da molto lontano, il cuore che gli batteva forte nel petto per la paura che John si potesse fare del male e i denti che torturavano il labbro inferiore per l’indecisione: doveva intervenire anche lui o lasciare che gli eventi facessero il loro corso? Avrebbe potuto benissimo correre via per evitare che prendessero di mira anche lui, o buttarsi nella zuffa per aiutare John. Un altro pensiero che gli passò per la mente fu quello di andare a cercare un professore che con la sua autorità avrebbe potuto calmare le acque, ma aveva anche paura che John venisse punito per la sua uscita e non voleva peggiorare la situazione. Così rimase fermo sul posto, sperando che la cosa finisse al più presto.

Clara riuscì finalmente ad afferrare John per il cappuccio della sua felpa e lo tirò indietro, rischiando di soffocarlo per lo strattone. Smith però non sembrava dell’idea di lasciarlo andare così facilmente e lo trattenne per gli orli della stessa felpa, rischiando così di lacerarla.

Intanto gli studenti che si erano riuniti intorno alla scena incitavano i due duellanti, chi stava dalla parte del tallonatore e chi da quella del mediano. Nessuno pareva dell’idea di fermarli, a parte Clara.

Non trascorsero neanche un paio di minuti che, tuttavia, giunse sul luogo il professore di letteratura inglese che, nonostante non fosse di grande corporatura, incuteva sempre un gran timore per la sua aurea di grave compostezza. Bastò un’occhiata al suo volto infuriato per far diradare la maggior parte degli spettatori e un suo “basta!” urlato a pieni polmoni per farsi sentire oltre il persistente brusio e far smettere i due ragazzi nel giro di un secondo.

John spinse via il compagno di squadra e rimase sul posto, ansimante, un livido che si stava allargando lentamente sulla sua guancia e gli abiti spiegazzati.

Sherlock tirò un sospiro di sollievo insieme con Clara che, però, approfittò dell’improvvisa calma per dileguarsi dal corridoio.

«Si può sapere che cosa diamine vi è preso?» tuonò l’insegnante. «Vi voglio entrambi nell’ufficio del preside. SUBITO.» esclamò, per poi girarsi e cominciare a camminare a passo sostenuto lungo il corridoio.

John scoccò un’occhiata a Sherlock, il quale si sentì gelare per la rabbia contenuto in esso, per poi avviarsi sulla scia del professore, sistemandosi nel frattempo i vestiti addosso con l’intento di darsi una sistemata prima di farsi vedere dal preside in persona.

Il trillo insistente della campanella coprì il chiacchiericcio degli studenti che, finito lo spettacolo, si avviarono a lezione, mentre Sherlock incrociava quasi per caso lo sguardo con quello di Mary Morstan, in piedi poco lontano da lui e con un lieve sorriso sulle labbra.

~*~

«Ed eccomi qui.»

Sherlock si girò di scatto, sorpreso, squadrando l’amico dalla testa ai piedi: un livido gli deturpava il volto, allungandosi sulla sua guancia destra e il suo sguardo era afflitto. «Cosa ci fai qui? Non hai gli allenamenti oggi?» chiese.

John sospirò e scosse la testa. «Punizione.»

Sherlock esalò un debole “oh” e annuì, pensieroso, mentre chiudeva l’armadietto dietro di sé. «Quindi vieni su al laboratorio?» chiese titubante, senza poter tuttavia fare a meno di nascondere una nota di speranza nella voce.

Il giovane Watson annuì tristemente. «Da oggi per una settimana non avrò altro da fare il martedì e il venerdì pomeriggio, quindi credo che dovrò romperti le scatole due giorni in più… a quanto pare difendere tua sorella da un attacco contro i suoi diritti omosessuali equivale ad essere allontanato dalla squadra di rugby per gli allenamenti settimanali. Frequentiamo proprio una bella scuola…» sospirò.

«Senza contare che tra gli studenti si aggira indisturbato un assassino e nessuno a parte noi e il professore di filosofia lo sa.»

John avvertì una strana morsa alla bocca dello stomaco nell’udire quelle parole. «Ci pensi ancora? A Powers?»

Sherlock portò gli occhi al cielo. «Ovvio, John. Non si abbandona nel nulla un caso se non è risolto.»

L’altro sorrise. «Beh… ma se non ci sono abbastanza prove per incolpare qualcuno come si può concluderlo? Non sappiamo nemmeno chi è… potrebbe essere chiunque.»

Sherlock arricciò il naso. «Prima o poi tornerà allo scoperto. Un genio del genere non se ne va semplicemente così, di punto in bianco.»

«Genio?» mormorò John stupito.

Tuttavia Sherlock aveva cominciato a camminare borbottando tra sé e sé e non lo ascoltò. Stringendosi nelle spalle il ragazzo lo seguì, diretto verso il laboratorio.

«E poi non riesco ancora a capire quale possa essere stato il movente. Perché avrebbe dovuto uccidere Powers? Sicuramente per qualche ragione di suo interesse personale. Che Carl avesse scoperto qualcosa su di lui? Sarebbe il modo migliore per farlo tacere: ucciderlo.»

Girarono l’angolo.

John sembrava leggermente scosso dalla totale indifferenza dell’amico mentre parlava. «Ma… voglio dire, siamo… siamo solo ragazzi. Credi veramente che qualcuno di noi potrebbe fare qualcosa del genere?»

«Beh, o noi o un professor-» Sherlock si bloccò di colpo in mezzo al corridoio. «Noi siamo sempre al laboratorio di pomeriggio!» esclamò.

John si accigliò, fermandosi anche lui dietro all’amico. «Sì…?»

Le labbra del moro si stesero lentamente in un sorriso, mentre il volto si apriva in un ghigno consapevole. «E quando usciamo non passiamo mai dal mio armadietto…»

John aprì la bocca per parlare ma in quel momento Mary comparve dall’angolo opposto e, vedendolo, gli sorrise raggiante, così che John si dimenticò di quello che voleva dire. La ragazza avanzò lungo il corridoio nella loro direzione.

«Dio, che stupido!» Sherlock portò gli occhi al cielo e si batté una mano sulla fronte. «Stupido, stupido, stupido!» esclamò tra sé e sé, girando su se stesso e tornando sui propri passi.

«Ciao John!»

«Mary…» Il ragazzo sorrise alla biondina che in pochi passi lo aveva raggiunto. «Come… come mai da queste parti?» Girò di poco la testa in direzione di Sherlock per vedere cosa stava facendo ma, vedendolo allontanarsi, decise di abbandonarlo un attimo e dedicò la propria attenzione alla ragazza che sembrava sul punto di dire qualcosa.

Solo per qualche secondo.

«Mi stavo chiedendo…» iniziò, guadagnandosi l’assoluta attenzione dell’altro.

Sherlock intanto si avvicinò al muro d’angolo, affacciandosi lentamente sul corridoio dove si trovava il suo armadietto.

«Se… ecco, insomma…» La ragazza sembrava leggermente imbarazzata e dovette distogliere lo sguardo per puntarlo sulla punta delle sue scarpe. «…se ti andasse di uscire, un giorno di questi.»

John riuscì a trattenersi dal spalancare le labbra per lo stupore. Un leggero colorito rossastro andò ad imporporargli le guance mentre, all’improvviso dimentico di qualunque cosa al di fuori di Mary, annuiva velocemente, anche se non aveva ancora del tutto elaborato l’informazione.

Sherlock si staccò dall’angolo e camminò deliberatamente nel corridoio, diretto verso il punto da cui era partito neanche cinque minuti prima.

Lì per terra, esattamente sotto il suo armadietto, impiastricciato per l’ennesima volta in un solo mese, giaceva abbandonata una bomboletta spray di colore giallo acceso.

«Eccoti qui…» mormorò sottovoce, e chinatosi, afferrò delicatamente l’oggetto. «…ti ho trovato.»

 

 

 

 

Note: (o forse è meglio chiamarle curiosità?)

Non so se l’avete notato ma in questo capitolo John continua a ripetere che Sherlock non è gay. Mi sono divertita a rigirare la famosa frase “I’m not gay xD

Per quanto riguarda l’incontro tra i due fratelli Holmes a Baker Street, invece, ho voluto far accomodare il nostro Sherlock nella poltrona di John perché mi sembrava carino associarla a John stesso: Sherlock si rifugia nella poltrona rossa, nel suo “caldo abbraccio”.

Mi scuso per l’eventuale OOC, ma insomma… non sono propriamente i John e Sherlock che conosciamo. Ricordiamoci che hanno una ventina di anni in meno ;)

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Finalmente ci siamo.

Aspetto di pubblicare questo capitolo fin dall’inizio della storia ;)

Abbiamo superato la metà, quindi allacciatevi le cinture perché la strada che ci manca di qui fino alla fine si fa bella tosta.

Se non dovesse tornarvi qualcosa con la caratterizzazione dei personaggi (consiglio di lalla mia straordinaria beta <3 ) vi chiederei di avere pazienza, molte cose verranno spiegate in seguito e può darsi che i dubbi si risolveranno da sé…

Il prossimo capitolo, giusto per farvi sapere, è a metà. Potrebbe volerci una settimana piena per finirlo e poi un po’ per betarlo.

E ora non vi trattengo oltre ;)

Buona lettura!

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 6

 

U

n pomeriggio, pochi giorni dopo aver ritrovato la bomboletta spray vuota, Sherlock era seduto al suo solito posto nel laboratorio, in attesa di John  - che sarebbe venuto, glielo aveva promesso – e di Molly Hooper.

Il ragazzo aveva chiesto il suo aiuto per alcune operazioni che voleva svolgere su di essa: aveva la netta impressione che quella bomboletta non fosse stata lasciata lì per sbaglio. Era intenzionato a scoprirne il proprietario e non si sarebbe arreso tanto facilmente. Molly poteva dargli una mano con quella che era una semplice scatola di latta: potevano ricavare molte informazioni da essa, bastava un’occhiata più approfondita e, Sherlock ne era certo, sarebbe arrivato vicinissimo alla soluzione.

C’era qualcosa, in tutta quella storia, che non gli tornava.

I suoi pensieri furono interrotti dal rumore della porta che si apriva. Alzò lo sguardo, speranzoso, e quando vide entrare Molly qualcosa lo lasciò a bocca asciutta, anche se non avrebbe saputo dire esattamente cosa.

Con sua grande sorpresa vide la ragazza tenere la porta aperta dietro di sé, ma le sue speranze vennero doppiamente deluse nel vedere che il nuovo ospite non era colui che si aspettava. Girò la testa, infastidito, mentre Moriarty si guardava intorno con aria incuriosita.

«Allora alla fine ti sei messa d’accordo con Mary?» chiese il ragazzo, mentre Molly si toglieva la giacca e appoggiava lo zaino sul lungo tavolo. «Sì…»

Sherlock, che al nome pronunciato dal ragazzo si era fatto improvvisamente più attento, li osservò con la coda dell’occhio.

Jim era a poca distanza dalla ragazza e la osservava con una strana espressione negli occhi, quasi innamorata. Molly si girò verso di lui e gli sorrise timidamente, poco prima che Moriarty la tirasse verso di sé, depositandole un bacio veloce sulle labbra.

Sherlock distolse velocemente lo sguardo, tornando ad osservare con attenzione la bombolette sul tavolo davanti a lui.

«E così, Sherlock Holmes, eccoti qua. Molly mi ha parlato molto di te…» Jim gli si avvicinò con aria noncurante, prestando particolare attenzione all’oggetto che teneva tra le mani. «Alla fine non sei più venuto al Brainy…»

Sherlock fece una smorfia, scuotendo la testa. «Non m’interessa.» ribatté freddamente.

L’altro parve non ascoltarlo mentre anche lui prendeva uno sgabello e si sedeva dall’altra parte del tavolo, sotto lo sguardo stupito e attento di Molly, che non lo perse di vista neanche per un secondo.

«Che cos’è quella?»

La ragazza spostò gli occhi da uno all’altro, temendo la reazione del moro. Sapeva che tra i due non scorreva buon sangue, lo aveva sempre notato dalle espressioni infastidite di Sherlock ogni volta che incrociava il capitano del Brainy nei corridoi, e sinceramente non riusciva a capire per quale motivo Jim ci tenesse tanto a scambiare due parole con lui.

Sherlock si passò la lingua tra i denti e non rispose, limitandosi a guardare il ragazzo più grande negli occhi, intensamente. Rimasero in quella posizione per qualche secondo, poi Moriarty distolse lo sguardo con un sorriso divertito sul volto. «Quella è la vernice con cui impiastricciano il tuo armadietto ogni settimana?» chiese.

Il ragazzo più giovane annuì lentamente, quasi che la sua affermazione potesse provocare qualcosa di pericolosamente irreversibile.

«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»

Sherlock corrugò la fronte, spostando gli occhi sul volto del capitano freneticamente, come a voler imprimersi nella mente ogni più piccolo dettaglio.

«Anch’io.» disse infine, l’espressione impassibile.

Molly si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo, mentre la momentanea tensione che l’aveva attanagliata in precedenza si affievoliva. Moriarty invece osservava Sherlock, serio in viso, ticchettando ritmicamente con le dita sul piano da lavoro.

«In tal caso perdonami per il disturbo, vi lascio al vostro lavoro.» Moriarty si alzò, scambiando una veloce occhiata con Molly sotto lo sguardo vigile di Sherlock che non si perdeva un secondo di quella strana scenetta.

«Ci vediamo più tardi tesoro.» lasciò un bacio umido sulla guancia della ragazza e con un ultimo cenno del capo in segno di saluto sparì oltre la porta.

Solo quando i suoi passi si furono affievoliti lungo il corridoio Sherlock si azzardò a riportare la sua attenzione sull’oggetto che aveva tra le mani, ragionando freneticamente. «Da quando in qua fai la cheerleader

Molly, che si stava avvicinando al ragazzo per cercare di capire cosa voleva da lei, alle sue parole si fermò di botto con il cuore in gola: se ne era accorto alla fine. «Da un po’… perché?»

Sherlock non le rispose, ponendole invece un’altra domanda. «Perché?» spostò i suoi occhi cristallini su di lei e la fissò intensamente.

La ragazza parve insicura di quale risposta dare, poi si fece coraggio e alzò il mento, fiera. «Perché mi andava. Volevo mettermi alla prova e diventare qualcosa di più della semplice e timida Molly Hooper.»

Il moro portò le mani a congiungersi sotto il mento, pensieroso. «E lui non c’entra niente con tutto questo?»

La ragazza vacillò sul posto mentre un colorito rossastro andava ad imporporarle le guance. «Perché dovrebbe questo avere qualcosa a che fare con Jim? È stata una mia decisione.» Guardò il compagno con aria infastidita, poi spostò la sua attenzione sulla bomboletta spray. «E comunque non sono affari tuoi. Che cosa volevi che facessi?» rispose, tentando di deviare il discorso.

Sherlock tamburellò con le dita sul piano, come Moriarty aveva fatto fino a qualche minuto prima, e sorrise delicatamente. Guardò prima l’orologio che portava al polso, poi la porta, con aria sconsolata. «Da quanto tempo state insieme?»

Molly esitò. «Qualche settimana.» Non voleva parlare di questo con Sherlock. Per un anno intero gli era andata dietro, lo aveva guardato e ammirato da lontano, lo aveva accontentato quando voleva solo per poterlo sentire un po’ più vicino a sé, per tentare un approccio con lui. Aveva avuto una cotta per lui fin dal primo momento in cui lo aveva visto e, forse, quel sentimento di forte affetto nei suoi confronti non se ne era ancora andato. Discutere con lui di Jim Moriarty, il suo nuovo ragazzo, era troppo strano e in un certo senso imbarazzante; senza contare che tra i due ragazzi non scorreva buon sangue.

Quando Sherlock guardò per l’ennesima volta la porta, qualche secondo più tardi, Molly non poté fare a meno di portare il pensiero verso l’oggetto della sua attenzione. Non era una ragazza stupida, capiva ciò che vedeva, sapeva elaborare le informazioni e farsi una propria idea. Abbassò lo sguardo, sconfitta.

«Io… io lo so cosa si prova.»

Sherlock alzò lo sguardo sorpreso, interrompendo di colpo il suo tamburellare. «Che cosa?»

La ragazza deglutì. «So… so cosa si prova a sentirsi soli.»

Il moro sollevò un sopracciglio e rimase in silenzio, in attesa di qualcosa in più.

Molly distolse lo sguardo, lievemente imbarazzata. «Tu sei triste, quando… quando pensi che a lui non importi niente di te.»

«Lui chi?»

Prese un respiro profondo. «John. Lo stai aspettando vero? Non fai altro che guardare l’orologio. Hai paura che con Mary si sia dimenticato di te.»

Sherlock si sentì improvvisamente sprofondare mentre assimilava le parole della compagna.

«Hai paura che non ti veda più, troppo occupato a pensare a lei. Io lo so, Sherlock. Non dire di no, so che è così.» continuò; ora che aveva iniziato sembrava che non riuscisse più a fermarsi.

«Per-perché?» si odiò per l’esitazione nella sua voce, non avrebbe voluto dimostrarle che ciò che stava dicendo era vero. O almeno, lo era? Di sicuro era vero che continuava a guardare l’orologio: John era in ritardo di mezzora, gli aveva promesso che sarebbe arrivato non appena finita la scuola perché Mary aveva gli allenamenti da cheerleader e non potevano stare insieme. Glielo aveva promesso, John manteneva sempre le sue promesse.

Eppure non era ancora arrivato e Sherlock non stava del tutto bene per questo. Si sentiva molto strano, più del solito. Da quando aveva conosciuto John qualcosa in lui era cambiato, se ne era accorto, e ora quasi non riconosceva più alcuni aspetti di se stesso, come in quel momento. Che cos’era quell’improvvisa voglia di uscire di lì e andarlo a cercare? Certo, aveva appena scoperto qualcosa di estremamente interessante e voleva dirglielo, ma fino a qualche mese prima non aveva avuto bisogno di dire niente a nessuno. Per non parlare del fatto che il vecchio Sherlock non si sarebbe mai disturbato ad andare a cercare qualcuno che sdegnava la sua compagnia. Fino a qualche mese prima non aveva neanche avuto una compagnia.

«Perché è la stessa cosa che succede a me, sempre.» disse Molly, decisa. «Lo vedo. Tu sei triste quando nessuno ti guarda.»

«Ma tu mi stai guardando…» Sherlock puntò i suoi occhi chiari su di lei, confuso, e la ragazza parve un attimo rattristarsi.

«Io… io non conto. È diverso…» ammise.

Il ragazzo la fissò attentamente, come se il solo guardarla potesse dargli tutte le risposte che cercava. «Perché lui dovrebbe contare, invece?»

Molly questa volta esitò. «Non lo so… io non posso saperlo. Dovresti dirmelo tu…» le ultime parole furono un mormorio indistinto.

Sherlock distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi. Perché John Watson sarebbe dovuto essere diverso?

«Forse… forse hai un certo tipo di rapporto con lui. Più… approfondito?» si morse un labbro, temendo di essersi spinta troppo in là, ma Sherlock ripeté le sue parole sottovoce, senza guardarla.

«Perché Moriarty dovrebbe volere stare con te?» disse infine, sotto lo sguardo attonito dell’altra.

«Cosa vorrebbe dire?»

Sherlock si alzò dallo sgabello e radunò le sue cose con un’aria vagamente infastidita. «Esattamente quello che sembra.»

Molly strinse un pugno. «Forse perché mi trova carina? Forse perché è l’unico ad avermi notato in tutto questo tempo?» Il risentimento si fece sentire attraverso le sue parole.

Il ragazzo si girò verso di lei, fermandosi per qualche istante. «Moriarty non è il tuo tipo, decisamente. Ti consiglio apertamente di lasciarlo.»

«Che cosa? No!»

«E grazie della chiacchierata, ma non mi servi più. Ho già trovato quello che cercavo…» disse, e uscì dalla stanza, lasciando la ragazza sconvolta e irritata al suo posto.

~*~

Sherlock mise più piani possibili tra lui e il laboratorio, camminando a tutta velocità per i corridoi senza una meta precisa. In testa gli frullavano mille pensieri, più del solito: oggetti, indizi, luoghi, dialoghi e volti si accavallavano uno sull’altro, impedendogli di concentrarsi. Voleva risolvere troppe cose contemporaneamente ma in quel modo non faceva altro che più confusione.

Si fermò in mezzo al corridoio, chiuse gli occhi e portò le dita alle tempie, respirando piano.

Suddivise ogni informazione nelle tre categorie più rilevanti, separandole nettamente quando sembravano legarsi tra loro – a quello ci avrebbe pensato dopo – quindi analizzò con cura le tre opzioni.

Controllò l’ora: John era in ritardo da più di mezzora pertanto era certo che non sarebbe venuto. Ignorando quel qualcosa alla bocca dello stomaco lo archiviò, insieme al laboratorio e al discorso con Molly, nella stanza a piano terra del suo palazzo mentale, là dove teneva quelle cose che richiedevano urgente attenzione.

Carl Powers. Il ragazzo era morto quasi sicuramente avvelenato, qualcuno doveva averlo ucciso, ne era sicuro. Eppure continuava a pensare che c’era qualcosa che gli sfuggiva. Aveva osservato a lungo intorno a sé in quei mesi dalla sua morte, aveva guardato attentamente ogni studente che gli capitava sotto tiro ma non era mai riuscito a ricavare niente da tutto ciò. Eppure…

Archiviò anche quell’argomento, chiudendolo in un cassetto esattamente sotto all’altro, e si concentrò invece su quei pensieri che premevano per uscire ed essere analizzati.

Jim Moriarty.

Il discorso avuto nel laboratorio non era stato per niente casuale, Sherlock lo sapeva, e sapeva anche che quel ragazzo era pericoloso in un modo o nell’altro. Ripensò alla bomboletta che aveva avuto tra le mani, alla vernice gialla che aveva imbrattato numerose volte il suo armadietto personale, esponendo scritte quali “sfigato”, “gay”, “verginello”, e un sacco di altri insulti. Aveva sempre pensato che l’autore dovesse essere un giocatore della squadra dei Blackheath, nessuno sembrava volersi mettere in mostra più di loro, ma, a dir la verità, il suo pensiero si era rivolto per lo più verso i membri di spicco, quali Smith, Anderson e Moran – coloro che oltre agli insulti aggiungevano anche molestie fisiche – e non aveva mai considerato veramente quella possibilità.

Moriarty aveva un alibi perfetto: era uno degli studenti modello, era diligente in classe e partecipava a molti club extrascolastici quale il Brainy, di cui era capo, insieme alla squadra di rugby. Non prendeva mai parte a risse, non arrivava mai in ritardo, non mancava mai un giorno da scuola; era lo studente perfetto, colui che era ammirato da tutti i professori e che aveva ottime possibilità di essere eletto a migliore studente dell’anno. Nessuno faceva caso a lui.

Eppure Sherlock fin dalla prima volta che lo aveva incontrato aveva avuto un pensiero per lo più negativo nei suoi confronti, anche se non aveva molte informazioni al riguardo. Quella era stata una delle rarissime volte che si era affidato al suo intuito e non alle sue tanto amate deduzioni.

Aprì gli occhi e si appoggiò al muro, ripercorrendo nella sua mente il discorso avuto poco prima. Moriarty sapeva che il suo armadietto era continuamente impiastricciato, sapeva che il colore era sempre il giallo acceso, sapeva che quella era la bomboletta usata dall’autore degli insulti. Non ci voleva un genio per capire che l’unica spiegazione era che il ragazzo conosceva il suo aggressore.

«Beh, se ti può interessare, so a chi appartiene.»

Oppure…

Si bloccò, spalancando gli occhi. Portò il palmo di una delle mani a contatto con la parete liscia dietro di sé, aprì le dita e, flettendole, cominciò a muoverle su e giù, battendole ritmicamente. No, non ritmicamente. Mignolo, anulare, medio, indice, pollice. Cinque dita? Sì.

Si concentrò sui suoi ricordi, focalizzando il movimento della mani di Moriarty.

Mignolo, anulare, medio, indice, pollice, mignolo. Sei dita.

Pausa.

Mignolo, anulare, medio, indice. Quattro dita.

Pausa.

E così via.

Nel giro di qualche secondo riuscì a ricostruire il ritmo delle dita di Moriarty e mezzo secondo dopo lo aveva già collegato al resto.

Il movimento era stato di cinque, sei, quattro e infine sei dita. Aveva ripetuto la mossa esattamente tre volte, sicuramente per assicurarsi che Sherlock riuscisse a memorizzarla. E l’unica cosa che poteva essere ricollegata a quel codice, era la combinazione per aprire il suo armadietto.

Nel suo palazzo mentale si spalancò un cassetto, rivelando il suo contenuto; i ricordi scivolarono fuori, s’ingarbugliarono tra loro fino ad unirsi, fino a creare un puzzle perfetto.

E Sherlock capì.

Spalancò gli occhi e con il cuore che gli batteva a mille per l’eccitazione si precipitò lungo il corridoio, correndo verso il piano superiore, salendo i gradini della scale a due a due fino a quando non si ritrovò davanti al suo armadietto intonso, ansimante.

Con le dita che quasi gli tremavano per la felicità dell’aver risolto il problema girò i numerini del codice fino a sentire lo scatto della serratura che si apriva, e spalancò l’armadietto.

Fece scorrere lo sguardo all’interno di esso mentre un sorriso gli compariva sulle labbra nel vedere un paio di scarpe da ginnastica, usate, da ragazzo, piazzate nel bel mezzo dello spazio disponibile, ricavato accatastando i libri di testo tutt’intorno.

Tuttavia non fece in tempo a toccarle che dei passi leggeri risuonarono per il corridoio deserto e una voce femminile lo richiamò all’attenzione. «Sherlock!»

Il ragazzo si girò di scatto, chiudendo l’anta di metallo dietro di sé come a voler nascondere la presenza delle scarpe, e fissò la cheerleader che si stava avvicinando. «Mary…»

La bionda si fermò con eleganza e lo osservò, torva. «Sherlock.» ripeté, perentoria. «Dov’è John?»

Il moro, ancora col pensiero rivolto alla sua nuova scoperta, rimase un attimo imbambolato a fissarla. «John? Non è con me…»

La ragazza sbuffò, seccata. «Possibile che debba sparire così nel nulla da un momento all’altro? È da ore che lo cerco. Non c’è né al campo di rugby, né in biblioteca, né al bar o alla mensa. Sarah non l’ha visto, Molly al laboratorio mi ha detto di venire a cercare te, John ha detto che doveva venire da te questo pomeriggio. Possibile che sia tornato a casa senza dirmi nulla? Aveva detto che saremmo andati al parco più tardi…»

Improvvisamente la confusione che alleggiava nella sua testa sparì del tutto e Sherlock si ritrovò a spalancare l’ennesimo cassetto, riversando altri ricordi e strane sensazioni accumulati nel corso di quei mesi.

Con un colorito terreo in viso si voltò verso il proprio armadietto, fissando come da molto lontano la propria mano ancora appoggiata sul freddo metallo, mentre una nuova idea si faceva strada nella sua mente.

Le sorprese non erano ancora finite.

Molly, il discorso in laboratorio con Moriarty, John in ritardo per l’ennesima volta, la bomboletta, le scarpe miracolosamente ritrovate: era tutto collegato.

Spalancò le labbra e gli occhi mentre tutto tornava al suo posto e una paura cieca si faceva all’improvviso strada dentro di lui.

Carl Powers era morto nella piscina della scuola, solo pochi mesi prima, e le scarpe che aveva appena ritrovato erano le sue. Non c’erano altre vie di scampo.

Cominciò a correre all’improvviso, facendo prendere un colpo a Mary che lo osservò sparire dietro l’angolo con la sorpresa dipinta in volto, prima che si decidesse a seguirlo, rincorrendolo per i corridoi deserti, chiamandolo ad alta voce per farsi dare una spiegazione.

Ma Sherlock non aveva altri pensieri che John in quel momento, e niente poteva distrarlo dal suo obiettivo.

Scese le scale saltando deliberatamente scalini anche cinque alla volta, fino ad arrivare al piano interrato, dove sfrecciò attraverso le palestre e gli spogliatoi, fino a precipitarsi contro le porte d’emergenza con i maniglioni antipanico, spingendo con tutte le sue forze ed entrando come una furia sul pavimento piastrellato della piscina.

Rimase fermo per qualche istante, ansimando, il cuore che gli batteva a mille nel petto e il terrore che lo attraversava da capo a piedi.

Udì subito il rumore di acqua spostata, il suono degli spruzzi e la flebile richiesta d’aiuto proveniente dal centro della piscina, dove Sherlock andò immediatamente a posare gli occhi cristallini.

Non ci pensò due volte.

«JOHN!»

Con una spinta di gambe si precipitò a bordo piscina, si tolse le scarpe con un movimento veloce e, datosi lo slancio con le braccia, si tuffò. Ruppe la superficie dell’acqua con un sonoro scroscio e cominciò a muoversi agilmente, nuotando più veloce che poteva verso il centro piscina.

Mentre nell’edificio risuonava l’urlo terrorizzato di Mary, Sherlock raggiunse l’amico che continuava a ricadere sotto la superficie, come se non riuscisse a rimanere a galla. S’immerse totalmente e, evitando le braccia del ragazzo che si agitavano freneticamente, gli cinse il busto con le proprie, spingendolo verso l’alto.

Il ragazzo più grande boccheggiò, muovendo le gambe in cerca di equilibrio, mentre Sherlock riaffiorava quel poco che gli permetteva di respirare e, tenendo John con un braccio, cercava di trascinarlo verso il punto da cui si era appena tuffato.

Con fatica riuscirono a raggiungere il bordo della piscina e, con l’aiuto della ragazza, Sherlock riuscì ad issare l’amico verso l’alto, portandolo in salvo sul pavimento.

John si trascinò oltre il bordo camminando carponi e cominciò a tossire, sputando acqua e inspirando quanta più aria poteva, mentre Mary ripeteva senza fiato il suo nome come una lenta litania con l’orrore dipinto in volto.

Anche Sherlock uscì dall’acqua e raggiunse l’amico. «John! John!»

Il ragazzo interpellato si lasciò cadere a terra supino, distrutto, e chiuse gli occhi, respirando piano.

Il moro gli si avvicinò e cominciò a sbottonargli la camicia con l’intenzione di togliergliela per facilitargli la respirazione quando John spalancò gli occhi e gli prese i polsi, allontanandoli con gentilezza. «Va… va tutto bene…» Aveva la voce roca per il troppo tossire e Sherlock si lasciò convincere, notando però, da quella distanza, un piccolo foro alla base del suo collo. Allungò una mano verso di esso e lo sfiorò con la punta delle dita, poi poggiò l’altra mano sulla guancia del ragazzo per tenerlo fermo e si avvicinò al forellino, osservandolo attentamente. «Che cos’è?»

Mary alzò lo sguardo verso Sherlock, terrorizzata. «Che cosa?»

John si agitò, cercando di liberarsi dalla presa dell’amico, e fece forza su un gomito per sollevarsi quel tanto che bastava per riuscire a parlare. «Non- non lo so.» si fermò, inspirando una nuova boccata d’aria e deglutendo. «Mi hanno preso da dietro e mi hanno ficcato qualcosa nel collo. Quando mi sono risvegliato, ero lì dentro.» Fece un cenno verso la piscina e chiuse gli occhi per un improvviso giramento di testa.

«Chi? Chi è stato?» Mary si avvicinò e accarezzò il volto del suo ragazzo con le lacrime agli occhi. «Chi potrebbe fare qualcosa del genere? Saresti potuto morire! Oddio…»

Sherlock osservò come da molto lontano la coppia mentre tentava inutilmente di rimettere ordine tra i propri pensieri. C’era qualcosa che lo bloccava, qualcosa che gli impediva di fermarsi, concentrarsi e ragionare razionalmente.

«Sherlock.» Uscì come un rantolo dalle labbra di John, ma bastò per attirare la sua attenzione.

«John…»

Un debole sorriso gli spuntò sulle labbra mentre respirava a fondo per l’ennesima volta. «Grazie…»

Il ragazzo distolse lo sguardo e fece forza sulle braccia per alzarsi, barcollando sul posto una volta tiratosi in piedi del tutto. Sentiva la testa girargli, sicuramente per lo sforzo appena compiuto, ma c’era anche qualcos’altro.

«Dobbiamo dirlo a qualcuno. Cazzo John, mi hai fatto prendere un colpo…» Mary aiutò il ragazzo ad alzarsi e lo prese per le spalle, evitando di abbracciarlo solo per non bagnarsi a sua volta. Lo baciò velocemente sulle labbra con le mani che le tremavano per la paura. «Va tutto bene Mary, sto bene ora.»

Sherlock tremava. Quando se ne rese conto sollevò le braccia e si guardò le mani: tremavano, incontrollabili, e non era per il freddo. Barcollò un attimo sul posto mentre qualcosa di molto simile al panico lo artigliava.

Ignorando i richiami di John si allontanò dal luogo, prima con un’andatura lenta, poi sempre più velocemente, fino a correre, scivolando e incespicando, diretto verso il primo bagno a portata di mano.

Spalancò la porta di quello dei maschi al primo piano e si avvicinò con furia al lavandino, afferrando i bordi con forza e sporgendosi verso lo specchio di fronte. Guardò attentamente il proprio riflesso, scrutando il proprio volto alla ricerca di quegli indizi che gli avrebbero confermato i propri pensieri.

Esalò un debole respiro che andò ad appannare il vetro per poi ritrarsi con sgomento e con le gambe che improvvisamente sembravano non riuscire più a reggerlo in piedi. Indietreggiò fino alla porta di uno dei gabinetti, appoggiandosi ad essa di schiena con tutto il suo peso e prendendosi la testa tra le mani, passandosi le dita tra i capelli fradici. Respirò lentamente, cercando di regolarizzare i battiti del proprio cuore, ma il ricordo di ciò che aveva appena visto non fece altro che peggiorare la situazione.

Deglutì un paio di volte e si ostinò a concentrarsi sull’immagine del suo volto nello specchio, il proprio volto pallido e… gli occhi. Gli occhi dicevano tutto, più del suo respiro e dei suoi battiti accelerati. Quegli occhi chiari, quelle pupille dilatate.

Un brivido freddo lo percorse dalla testa ai piedi quando si rese conto di quello che stava realmente succedendo e, alzato ancora una volta lo sguardo verso lo specchio, osservò il suo corpo magro scosso da tremiti incontrollabili sotto gli abiti inzuppati e le proprie mani tremare visibilmente. Con un gesto seccato si passò il dorso della mano sulla fronte, scacciando nervosamente le gocce d’acqua che la imperlavano e imponendosi di tranquillizzarsi.

Proprio in quel momento la porta si spalancò un’altra volta e John entrò nel bagno, guardandosi intorno con la preoccupazione dipinta in volto. «Sher…»

Quando lo vide appiattito lungo il legno ramato, i suoi occhi si spalancarono e rimase fermo sul posto per qualche secondo, con una pila di asciugamani in una mano. Ne aveva uno sulle spalle e si era tolto la camicia, probabilmente per evitare di inzuppare anche quello.

Tentò un debole sorriso e gli si avvicinò lentamente, gli asciugamani tesi in avanti come ad invitarlo a prenderne uno. «È meglio se ti spogli e ti copri o rischi di prenderti qualcosa… la squadra ha degli abiti di ricambio che puoi mettere.»

Il moro si appiattì ancora di più alla porta dietro di sé, guardando un punto fisso dello specchio davanti a lui pur di non guardarlo negli occhi.

«Ehi…» la voce di John tradiva una nota di panico ma risuonava calda e rassicurante, al che Sherlock chiuse gli occhi, poggiando la nuca contro il suo sostegno e prendendo alcuni respiri profondi. Qualche secondo dopo la mano di John strinse la sua e il suo tocco bruciò sulla sua pelle, tanto che si ritrovò a spalancare le palpebre di colpo. Tuttavia non si staccò, nonostante il suo cuore avesse cominciato a battere, se possibile, ancora più rapidamente.

«Ehi… guardami.»

Con il cuore in gola voltò di poco la testa, ritrovandosi l’amico a poche decine di centimetri di distanza.

«Va tutto bene, ok? Sto bene…»

John guardava con una certa preoccupazione il suo migliore amico: non lo aveva mai visto in uno stato del genere. Sherlock era sempre stato quello sprizzante di energia, quello che andava dritto in faccia al pericolo senza preoccuparsi delle conseguenze, quello che sembrava non avere paura di nulla e non provare altre emozioni oltre all’eccitazione per qualcosa di elettrizzante. Gli venne naturale prenderlo per mano, cercando di infondergli quel poco di sicurezza e vicinanza che poteva. In fondo erano entrambi lì, salvi, e oltre al grande spavento preso non c’era nient’altro a poterli turbare.

Tuttavia, nonostante tutte le sue buone intenzioni, Sherlock sembrò diventare ancora più a disagio, arrossendo violentemente e voltando la testa dall’altra parte.

«Sherlock, va tutto bene. Sei terrorizzato…»

«Non sono terrorizzato.» la voce gli uscì bassa, leggermente roca, ma ferma.

«Va bene, non lo sei.» Sospirò e aprì uno degli asciugamani portandolo poi dietro le sue spalle, coprendolo. Gli sbottonò la camicia, invitandolo a togliersela, e Sherlock obbedì finendo il lavoro mentre John prendeva un altro asciugamano e glielo metteva in testa, frizionando poi con le mani per asciugargli almeno un po’ i capelli.

«Senti… va tutto bene, davvero. Del resto ci preoccuperemo dopo, ok? Ora va tutto bene, puoi tranquillizzarti.»

«Io…»

John deglutì e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «Non dirmi che non sei spaventato, stai tremando come una foglia. Prendi un paio di respiri profondi, ok? Siamo qui sani e salvi, entrambi, non è successo niente, non mi è successo niente. Sii razionale.»

Sherlock non poteva sopportare quella vicinanza, non poteva e cercò di divincolarsi dalla sua stretta ma John lo tenne fermo davanti a sé, facendolo arrossire ancora di più.

«Lasciami… per favore…»

Una stretta allo stomaco mentre il giovane Watson coglieva l’espressione disperata dell’amico e il tono lievemente lamentoso e spaventato che aveva assunto la sua voce. «Che cos’hai?» chiese, smettendo di strofinargli l’asciugamano in testa e mantenendo il suo sguardo.

Sherlock fu scosso da un leggero tremore mentre percorreva con gli occhi la bocca dai lineamenti morbidi che si era appena mossa a pochi centimetri di distanza da lui. Provò un’improvvisa e irresistibile voglia di allungarsi e toccare quelle labbra dolci e accoglienti, di sfiorarle con un dito per saggiarne la consistenza, di toccarle con le proprie e

Si riscosse alla presa leggermente più forte delle sue dita, accorgendosi di non aver ascoltato una sola parola di quello che l’altro aveva detto nel frattempo.

«…è normale che tu ti sia spaventato, hai solo avuto paura per me. Ma ora è tutto a posto, ok? Sherlock?»

Il moro boccheggiò in cerca d’aria e tentò di allontanarlo da se stesso. Prese un altro paio di respiri profondi, cercando di non pensare a come potesse essere baciare John, a come si sarebbe sentito se l’altro avesse ricambiato, a che cos’era quell’ondata di calore che gli lambiva il petto e il volto e che aumentava improvvisamente la sua sudorazione corporea. «Non… Non sono spaventato.»

Il ragazzo più grande sorrise cordialmente. «Va bene, non lo sei. Allora cosa?»

Sherlock scosse la testa, passandosi la lingua sulle labbra e chiudendo nuovamente gli occhi. «I-io…»

«Uhm…?»

Tenendo gli occhi serrati si costrinse a parlare. «Ho…» deglutì, non sapendo come spiegarsi.

Non voleva dirgli quello che stava provando in quel momento, non voleva ma allo stesso tempo avrebbe voluto che John capisse e che si staccasse, che lo lasciasse solo con i propri pensieri e con quelle emozioni che sembravano essere improvvisamente impazzite.

«Sherlock, cosa c’è? Dimmelo, vedrai che andrà meglio… posso aiutarti.»

Ebbe un tuffo al cuore e si rese conto che le gambe avrebbero potuto benissimo cedergli da un momento all’altro. Riaprì gli occhi, tentato, e fissò quegli occhi blu che lo guardavano sinceri e apprensivi, quegli occhi che lasciavano intravvedere una devozione e un’amicizia profonda. John voleva veramente aiutarlo, lo aveva seguito nel bagno perché aveva temuto per la sua reazione, quando era fuggito dalla piscina di colpo, senza una parola o una spiegazione.

Sherlock ricordò il contatto tra la guancia di John e il palmo della sua mano, la sensazione di quella pelle liscia e compatta, la carezza che involontariamente gli aveva dato per fargli tenere ferma la testa. Ricordò i suoi occhi spaventati e lievemente appannati dalla droga che avevano usato per addormentarlo, il sollievo che gli aveva disteso i muscoli del volto nel vederlo sopra di lui, come se la sola vista di Sherlock avesse potuto rassicurarlo sulla sua sorte. Il moro si sentì vagamente girare la testa mentre la sua mente non sembrava far altro che regalargli il ricordo di tutte quelle volte in cui era entrato in contatto con John, un lieve sfregamento di mani o anche soltanto un fugace sguardo nella mensa. Possibile che quello che sentiva nei suoi confronti fosse più che semplice amicizia? Sherlock non aveva mai provato niente di simile in vita sua, non aveva altro con cui paragonare la sua situazione e cominciava quasi ad averne paura.

Avrebbe voluto lasciar perdere tutto quello che sentiva dentro di sé, avrebbe voluto affidarsi alla sua tanto amata ferrea logica e poterci ragionare su con calma, ma non poteva dimenticare le sue pupille dilatate, il suo battito cardiaco accelerato. Il suo poteva benissimo essere un sintomo di paura, ma non aveva mai provato un terrore così radicale, per niente: evidentemente solo John era riuscito a farlo preoccupare a tal punto da arrivare al bagno in quello stato. Lo stesso John che ora lo teneva fermo, attaccato a una porta, a pochi centimetri di distanza dal suo viso.

John osservava Sherlock, passando lo sguardo su quel volto bagnato, sul colorito pallido della sua fronte. Sentiva il corpo gracile dell’amico sotto le sue dita tremare lievemente e vedeva con chiarezza il disagio sul suo volto, ma non riusciva a capirne il perché. Lui era sano e salvo, non gli era successo niente di grave e Sherlock non avrebbe dovuto perdere il controllo per una sciocchezza del genere. Che cosa gli stava succedendo?

«John…» Quello di Sherlock fu solo un debole sussurro che colpì John proprio per il suo tono basso e quasi stanco.

«Sì?» Il ragazzo deglutì a forza mentre qualcosa gli si agitava nel profondo.

«I-io…» Gli occhi di Sherlock vagarono freneticamente sul viso dell’altro, in cerca di una rassicurazione che non riusciva a trovare. Si concentrò sul tocco di John sulla sua nuca, del calore che sentiva nella vicinanza con il suo corpo.

Aprì nuovamente le labbra per parlare ma dalla gola non uscì alcun suono.

E poi, avvenne.

Successe tutto nel giro di pochi secondi e in seguito Sherlock sarebbe riuscito a ricordarli precisamente in ogni loro millesimo.

In quell’istante ogni più piccolo pensiero che vorticava nella testa del giovane sembrò sparire, ogni porta del suo palazzo mentale si chiuse di scatto, ogni possibilità di controllo sembrò sparire in una bolla di sapone.

Un attimo prima era attaccato alla porta, spaventato e insicuro, un attimo dopo si era spinto in avanti, annullando ogni distanza, occupando l’aria fra loro, ricercando un contatto che non aveva mai avuto ma che in quel momento sembrava desiderare con tutto se stesso.

Le labbra dei due ragazzi si scontrarono dolcemente.

Sherlock sentì un brivido percorrerlo da capo a piedi, sentì il calore delle labbra dell’altro sulle sue e qualcosa partire dal suo petto e irradiarsi per tutto il resto del corpo. Più che la sensazione del bacio in sé, Sherlock riuscì a focalizzare la sensazione di essere lì, di starlo facendo, di star baciando John. Era lui il suo unico problema, era lui che, con la sua presenza, faceva in modo che fosse speciale. In seguito Sherlock avrebbe capito che con nessun altro una cosa del genere avrebbe potuto funzionare.

John, del canto suo, colse appena il movimento improvviso dell’amico e ne rimase a dir poco sorpreso. Un attimo prima lo stava guardando, un attimo dopo lo aveva praticamente addosso.

Il suo cuore perse un battito non appena le labbra di Sherlock si posarono sulle sue e, nella momentanea sorpresa, John non riuscì a far altro che spalancare gli occhi e rimanere immobile. Sentì le labbra dell’amico premere contro le sue e tutto quello cui riuscì a pensare fu a che cosa diavolo stesse succedendo. Rimase bloccato sul posto, incapace di fare alcun che, lasciando che le loro labbra rimanessero a contatto, in un bacio che era solo un lieve tocco, una morbida carezza. Non era niente, ma nel frattempo era tutto.

Rimasero nella stessa posizione per qualche secondo, poi John sembrò riscuotersi improvvisamente e con una lieve spinta delle mani allontanò Sherlock da sé, lo spinse verso la porta con poca gentilezza e fece un passo indietro.

Il moro sbatté lievemente la testa contro il legno, annaspando per l’improvviso spostamento d’aria e sentendo tutto il calore del corpo di John svanire in un attimo, lasciandolo preda di un’aria che non gli era mai sembrata più fredda.

Rimasero a fissarsi immobili, Sherlock che realizzava improvvisante le conseguenze delle sue azioni e John che sentiva il proprio corpo irrigidirsi, quasi che temesse una nuova mossa poco desiderata dell’altro.

Il giovane Watson si vide passare davanti mesi e mesi d’insulti, di occhiate, di sguardi distolti all’ultimo secondo, di momenti d’imbarazzo e di parole, discorsi, dicerie. Lui che aveva fatto di tutto perché Sherlock potesse non essere più preso in giro, lui che aveva pensato che tutto dovesse essere solo un pensiero distorto di persone che non riuscivano a capire e comprendere a fondo il suo amico. Lui che aveva fatto di tutto per Sherlock, che lo aveva aiutato, che gli aveva tenuto compagnia, che gli era stato affianco nonostante quello che gli gridavano dietro. Sentì qualcosa di molto simile alla rabbia salirgli addosso mentre realizzava quanto appena successo.

Sherlock lo aveva baciato.

Lui, un ragazzo, era stato baciato da un altro ragazzo.

Sherlock, a dispetto di tutto quello che aveva creduto in quei mesi, era gay. Era attratto da lui.

In seguito ci avrebbe pensato, avrebbe indugiato su quel particolare momento della sua vita, avrebbe capito molte cose e non ne avrebbe capite altre, ma in quel momento tutto quello che riuscì a fare fu compiere alcuni passi indietro, allontanarsi dal suo amico e raggiungere la porta.

Sherlock spalancò la bocca in un muto richiamo, il volto improvvisamente pallido, ma prima che potesse dire qualcosa, John si era già girato ed era sparito nel corridoio.

La porta si richiuse con un sonoro schiocco e Sherlock scivolò lungo la porta, fino a sedersi a terra, tremante, più confuso che mai.

E lì rimase.

 

 

 

Note:

5646. Nella tastiera di un cellulare il codice di apertura dell’armadietto di Sherlock corrisponde alle lettere J O H N.

 

*corre via più veloce della luce*

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 7

 

S

e lo era aspettato: un giorno, due, tre; anche cinque o una settimana, ma non tutto quel tempo, non tre settimane di assoluto silenzio.

Tutto era silenzioso, tutto ciò che riguardava John era diventato silenzioso: non c’erano più chiacchierate, niente più sfioramenti indiscreti, perfino niente più sguardi.

Non si erano più visti dopo quel momento nel bagno: John non era più andato al laboratorio dopo le lezioni pomeridiane e Sherlock aveva semplicemente aspettato, speranzoso. Invano.

Il giorno subito dopo quello stupido bacio – perché era stato questo alla fine, uno stupido sfioramento di labbra che aveva portato fine alla loro amicizia – Sherlock era arrivato a scuola con l’intenzione di chiarire le sue intenzioni del pomeriggio precedente, non appena John fosse arrivato al laboratorio. Ma lui non si era presentato.

Allora aveva aspettato il giorno successivo e, dopo aver preso le proprie cose dall’armadietto, si era diretto verso il corridoio dove c’era quello di John, e lo aveva visto lì, in compagnia di Mary, a sorridere e chiacchierare allegramente. Sherlock si era avvicinato risoluto, proprio mentre i due cominciavano a incamminarsi mano nella mano nella sua direzione per andare in classe, e incrociato lo sguardo dell’amico aveva aperto bocca per parlare, per pronunciare il suo nome e richiamare la sua attenzione, ma l’altro aveva distolto lo sguardo e aveva puntato dritto, schivandolo dietro a un’altra coppietta e dirigendosi in tutta fretta verso il punto da dove Sherlock era arrivato. Il moro lo aveva guardato sparire dietro l’angolo con aria impassibile mentre, invece, dentro si sentiva cadere a pezzi.

Era andata avanti così per una settimana, con Sherlock che cercava ogni occasione possibile per parlargli, che lo cercava all’inizio e alla fine delle lezioni o durante le pause pranzo, e con John che non lo degnava di uno sguardo, che lo evitava e faceva come se non esistesse.

Poi Sherlock aveva smesso di cercarlo, si era rinchiuso in se stesso e aveva cercato in tutti i modi una via di fuga da quello che si sentiva dentro.

Dare ascolto ai propri sentimenti non è un vantaggio.

Le parole di suo fratello continuavano a rimbombargli in testa ogni volta che il volto di John gli tornava alla mente. Lui, Sherlock, il ragazzo intelligente e razionale che faceva di tutto per coprire le proprie emozioni, era stato preso in giro e spezzato proprio da quest’ultime.

Si sentiva uno stupido. Nella sua eterna lotta per diventare migliore di suo fratello, fin da bambino lo aveva ascoltato e aveva chiuso tutto ciò che riguardava la sfera dei sentimenti per potersi concentrare maggiormente sulla sua mente, su ciò che essa era in grado di fare, osservando, analizzando, catalogando e deducendo. Si era allenato nella memorizzazione di particolari su particolari, cercando di fare il possibile per diventare il migliore. Mycroft era il più intelligente della famiglia, quello che a cinque anni leggeva già da solo il racconto di Natale di Dickens, quello che in sesta sapeva dimostrare i teoremi di Euclide e calcolare la forza peso esercitata da un dado su un asse inclinato di sessanta gradi.

Sherlock lo aveva osservato fin da bambino, prendendolo come esempio da seguire, e tra loro era nata la classica rivalità tra fratelli, solo che nel loro caso si trattava di una rivalità a livello mentale, una gara a chi sarebbe diventato il più intelligente.

Tuttavia il giovane Holmes era entrato nell’età adolescenziale e i suoi bisogni fisici e affettivi si erano fatti presto sentire. Aveva provato a rinchiuderli in un angolo del suo palazzo mentale, aveva provato ad escluderli dalla sua vita – anche ricorrendo a metodi per niente salutari – ma non ci era riuscito, neanche imparando la lezione in ben più di un caso.

Con John era decisamente arrivato all’apoteosi della sua stupidità.

In preda a quei dannati bollori adolescenziali, Sherlock si era spesso ritrovato a fantasticare riguardo a una sua possibile esperienza sessuale. Bambino dentro in quanto a relazioni, non aveva potuto oltremodo resistere al suo cambiamento fisico e si era ritrovato a dover soddisfare ben più di una volta il suo corpo. Ma con John era diverso.

Non aveva mai sentito il bisogno di baciare, il bisogno di un gesto così delicato ma pieno di significato, né di passare il proprio tempo con qualcuno: quello era stato in assoluto il primo caso.

Tutta l’adrenalina provata nella corsa verso la piscina, la paura che lo aveva stretto in una morsa nel saperlo in pericolo, il sollievo nel vederlo sano e salvo: erano tutti fattori che avevano contribuito a quel gesto inutile e insensato.

Ora si sentiva terribilmente solo e, odiava ammetterlo, gli mancava, ma soprattutto sapeva che il ragazzo non sarebbe più tornato da lui e forse era questa la cosa che faceva più male. Sapeva che era arrabbiato con lui, che era tutta colpa sua, e quel peso gli gravava addosso, sopraffacendolo. Rivoleva John indietro, come prima, non voleva nient’altro.

Ogni tanto lo vedeva da lontano con Mary e qualcosa nel suo petto bruciava terribilmente. Sapeva che era gelosia, ma nemmeno lui riusciva a capacitarsi di poter provare un sentimento del genere. Una volta li trovò pure dietro un angolo a scambiarsi effusioni e non resistette all’impulso di andarsene da lì al più presto.

Praticamente tutte le sere, si sdraiava sul letto e si lasciava andare al ricordo di quell’unico, dannato bacio, ripensava al tocco delle labbra di John sulle sue, a quel breve ma intenso contatto, e inevitabilmente finiva per il fantasticarci sopra, pensando a come sarebbe potuto essere se l’altro avesse ricambiato, a cosa sarebbe successo se John fosse stato attratto da lui. Poi al mattino finiva per pentirsene, arrivando a scuola con la sola voglia di tornare indietro nel tempo fino alla festa di Clara. Anzi, sarebbe stato decisamente meglio se non si fosse lasciato trascinare a quella festa, se invece fosse rimasto a casa sua a leggere l’ennesimo giallo o le strisce di cronaca nera sul Times.

Si era sentito in quel modo anche altre volte, alcune ne era uscito indenne, altre un po’ meno.

A tre settimane dal bacio cercava ancora un modo per dimenticarlo, perdendo puntualmente la sfida ogni sera, quando la sua mente doveva spegnersi per riposare almeno qualche ora e la sensazione delle labbra di John sulle sue diventava l’unica cosa in grado di calmarlo. In qualche modo il pensiero di quell’istante di felicità riusciva a tranquillizzarlo, a fargli dimenticare anche solo per qualche minuto tutto quello che era successo dopo, in quelle lunghe settimane solitarie.

 

Un pomeriggio Sherlock si ritrovò senza volerlo nei pressi del campo di allenamento della squadra di rugby, proprio nel momento in cui i Blackheath, finita l’esercitazione, uscivano dagli spogliatoi per dirigersi a casa.

Ignorando quella parte di cervello che gli suggeriva di allontanarsi di lì al più presto, proseguì dritto per la sua strada verso una delle uscite secondarie della scuola e, inevitabilmente, catturò l’attenzione di qualcuno della squadra che gli gridò da lontano: «Vieni a rifarti gli occhi, Holmes?»

Il moro evitò accuratamente di prestargli la benché minima attenzione, e continuò a camminare a passo sostenuto, gli occhi incollati alla sua meta.

Ma evidentemente la squadra non si era abbastanza stancata in campo, perché sembrava ancora in vena di giocare al gatto e il topo con lui.

Aveva quasi raggiunto il cancello d’uscita quando due mani ferme lo afferrarono per le spalle e con ben poca gentilezza lo sbatterono contro il muro dell’edificio lì vicino. Per un attimo Sherlock si sentì il respiro mozzato per il colpo appena preso e i libri che teneva in mano caddero a terra in uno svolazzo di fogli. Boccheggiò in cerca d’aria e si ritrovò il corpo massiccio di Harry Smith a pochi centimetri, una delle sue mani premute sul collo e una sulla spalla per tenerlo inchiodato al muro. «Come mai questa visita verginello? Ammetto che non avevo voglia di venirti a prendere a pugni, ma sai com’è… hai una certa attrazione per i cattivi ragazzi…» gli soffiò a pochi centimetri dal collo.

Sherlock prese un debole respiro, arricciando il naso all’odore acre di sudore che emanava il ragazzo e strinse i denti mentre avvertiva il gruppo di compagni avvicinarsi dietro il suo aggressore.

«Ora non c’è John a salvarti la pelle, eh?» gli rise addosso e Sherlock per un attimo si sentì sprofondare nel terreno al sentire quel nome.

«Non ho bisogno di nessuno per dirti che diventi ogni giorno più cretino.» ribatté stizzito.

Smith rise di gusto a quelle parole e si girò verso gli altri. «Cretino?» tornò a guardarlo con disprezzo. «Hai paura che dicendo qualche brutta parolina tua madre ti prenda a calci in culo?»

Sherlock cercò di divincolarsi dalla stretta ma tutto quello che ottenne fu una presa più salda al colletto della giacca. «Lasciami…» sibilò a denti stretti.

L’altro rise, seguito dai compagni. «Cazzo, che paura! Holmes potrebbe uccidermi, aiuto ragazzi!» disse con una falsa voce spaventata.

E il moro non resistette più alla tentazione. «Ci provi gusto a trattarmi così, vero? È quello che vorresti fare all’amante di tuo padre, forse? Non è colpa mia se nel bel mezzo della sua felice vita da sposato con due figli si riscopre essere gay e comincia ad uscire con un vecchio amico di liceo. Scommetto che non ti è piaciuto scoprire che ci va a letto insieme, per non parlare del fatto che secondo gli idioti come te l’omosessualità sarebbe una malattia, e ti consiglierei di stare attento, perché potrebbe essere una malattia genetica e in tal cas-» Aveva detto tutto nel giro di qualche secondo, sputando fuori le parole come in un discorso imparato a memoria, ma prima che potesse concludere la frase arrivò il dolore.

Un colpo, due, tre dritti allo stomaco. Rimase senza fiato per qualche secondo. Rantolò e la sua presa sui vestiti di Smith si allentò del tutto.

Un calcio alle gambe, un pugno alla mandibola.

Ora Smith non si preoccupava neanche di tenerlo su così si ritrovò per terra, carponi, le braccia sollevate sopra la testa nel tentativo di proteggersi da altri colpi.

Sentiva dolore, dappertutto, e i colpi sembravano non finire mai. Strinse gli occhi, raggomitolandosi su se stesso e aspettando che succedesse qualcosa, qualsiasi cosa.

Harry si fermò e rimase lì, ansimante, a fissarlo rabbioso, il volto rosso per l’indignazione.

Sherlock alzò di poco lo sguardo, titubante, il dolore che lo attraversava da parte a parte.

Non l’avesse mai fatto.

Smith lo tirò su un’altra volta, ringhiandogli contro ad un soffio dal viso. «Ripeti quello che hai detto se hai il coraggio…»

Nonostante le parole premessero sulle sue labbra per uscire, Sherlock non ebbe la forza di spiccicare parola, soprattutto quando oltre la spalla del suo assalitore riuscì a vedere una bionda tirare per la manica il proprio ragazzo.

Per un attimo tutto intorno a lui si fece muto mentre i suoi occhi incrociavano quelli di John, in piedi poco lontano, fermo sul posto come imbambolato. In quell’istante ogni dolore sembrò svanire nel nulla: John sarebbe arrivato, ne avrebbe dette quattro a Smith, magari lo avrebbe anche messo a terra, finendo ciò che aveva iniziato solo qualche settimana prima; lo avrebbe salvato, si sarebbe chinato sopra di lui e si sarebbe offerto di portarlo in infermeria, sostenendolo lungo il tragitto; sicuramente si sarebbe scusato per quelle settimane di silenzio, magari avrebbe potuto spiegargli il perché delle sue azioni; sarebbero tornati amici, come una volta.

Fu solo un istante, un unico breve istante di speranza.

John deglutì, Sherlock lo vide pure da quella distanza mentre ogni fibra del suo corpo gridava aiuto.

Poi John distolse lo sguardo e si girò.

In un attimo fu come se tutto il mondo intorno a lui crollasse, come se un terremoto gli squassasse il corpo, come se tutto intorno a lui cessasse di esistere. Il cuore perse alcuni battiti e un dolore tutt’altro che fisico si sommò a tutti gli altri. Le gambe gli cedettero del tutto e si ritrovò a scivolare all’indietro, mentre un gemito strozzato gli usciva dalle labbra.

Chiuse gli occhi e si allontanò dalla realtà, escludendo tutto ciò che non riguardasse quell’unico momento di speranza che aveva avuto, mentre nuovi colpi si susseguirono agli altri, aumentando di secondo in secondo.

Ma di tutto quello che gli fecero, lui non sentì nient’altro.

 

 

Rannicchiato su se stesso in posizione fetale, Sherlock tremava febbrilmente. I denti battevano l’uno sull’altro, le mani strette a pugno sotto il mento tremavano incontrollabili. Le lacrime scendevano rigandogli il volto, e andavano a finire tra i suoi capelli, inumidendoli.

Il suo lungo cappotto nero fungeva da unica copertura sotto la quale rifugiarsi, cercando un conforto nella poltrona rossa del salotto di Baker Street che nessuno in quel momento poteva dargli.

Il suo corpo era un dolore unico, indolenzito dai colpi ricevuti, ma niente poteva essere messo a confronto con quello che sentiva dentro. Stava male, troppo.

Quasi non sentì i passi sulle scale, perso nei suoi pensieri, ma quando li registrò chiuse con forza gli occhi, bloccando come poteva i singhiozzi che gli uscivano dalle labbra, stringendosi ancora di più su se stesso.

La voce di Mycroft risuonò forte e sicura all’interno della stanza.

«A casa. Ora.»

~*~

Quando John si rese conto delle conseguenze delle sue azioni era ormai troppo tardi.

La verità era che non aveva saputo come comportarsi, qualcosa lo aveva bloccato dall’andare avanti e lasciarsi quel bacio alle spalle, qualcosa che non era per niente in grado di definire.

Aveva passato una notte di sonno agitato per quel continuo pensiero che non smetteva di ronzargli in testa: la sensazione delle labbra di Sherlock sulle sue, il volto a pochi centimetri di distanza, il naso che aveva gentilmente stuzzicato il suo in una lieve carezza quando si era avvicinato.

John sapeva che quello che era successo era in buona parte per colpa sua: era entrato in quel bagno seminudo, aveva iniziato a spogliare Sherlock, aveva frizionato l’asciugamano sui suoi capelli come avrebbe potuto benissimo fare una madre premurosa. Era stato forse troppo per il ragazzo? Aveva dimostrato qualcosa che poteva andare oltre l’amicizia incoraggiandolo a compiere quel gesto sfrontato? Ma soprattutto, come aveva potuto non accorgersi che i sentimenti di Sherlock nei suoi confronti erano arrivati ad un tale livello?

John aveva avuto paura. Non gli piaceva ammetterlo, ma alla fine era questo che era successo. Aveva avuto paura perché non aveva saputo come reagire.

Cosa poteva mai fare ora che il suo migliore amico si era rivelato in quella maniera? Cosa doveva fare John, adesso che Sherlock aveva voluto avere di più di quello che poteva offrirgli?

John aveva paura di parlargli ora, aveva paura anche solo di vederlo per dover affrontare un discorso che sapeva sarebbe andato a finire male comunque.

Che cosa mai poteva succedere in una situazione del genere? Avrebbe potuto procedere come da manuale, come avrebbe potuto fare con una qualsiasi ragazza che gli andava dietro. I soliti discorsi senza capo né coda, della serie “mi dispiace ma non siamo fatti l’uno per l’altra”, un mezzo sorrisetto timido… e poi? Poi il silenzio più totale, l’imbarazzo del dover parlare con quel qualcuno che sai che ti vede con un’angolatura diversa, che sai che non può accontentarsi soltanto di quello che già avete. John non riusciva a vedere un modo per uscirne dopo una cosa del genere, neanche cambiando l’oggetto del suo pensiero con una delle sue ex. Gli bastava pensare a Sarah, con lei era andata esattamente così: le solite frasi fatte buttate lì come niente e poi basta; non più un saluto, non più un’occhiata o un semplice sorriso a distanza.

Rivolgendosi al volto di Mary, John riusciva quasi a immaginarsi come sarebbe potuto andare un discorso così con lei: avrebbe potuto andare da lei e parlarle, magari lontano da occhi indiscreti; avrebbe tentato di essere il più gioviale possibile, cercando di metterla a suo agio e di non essere troppo incisivo con il suo rifiuto; avrebbe chiarito le cose come stavano, le avrebbe fatto presente che le piaceva la sua compagnia, che a lei non voleva rinunciare e che potevano essere quello che erano sempre stati, amici.

Ma poi si rese conto che un discorso del genere aveva ben poco a che fare con Sherlock. Si sarebbe per caso comportato in quel modo con qualcuno verso il quale non provava il minimo interesse? Sarebbero andate veramente così le cose se l’oggetto dei suoi pensieri fosse stato una ragazza a caso della scuola? Il solo pensiero di comportarsi così con lei gli faceva venire i brividi.

E con l’amico non era da meno.

Mary era quella ragazza che aveva desiderato per tre lunghi anni, quella ragazza che aveva osservato e ammirato in silenzio, aspettando il momento giusto per farsi conoscere e invitarla ad uscire. Era praticamente ovvio che usando lei come esempio le cose sarebbero andate così: la sua presenza non era una cosa che gli creava imbarazzo perché ne era a sua volta attratto. Non poteva provare a fare un simile discorso con Sherlock, non poteva perché l’imbarazzo sarebbe stato veramente troppo e sapeva che la loro amicizia sarebbe finita comunque. La sua compagnia sarebbe stata troppo pesante, troppo difficile da sopportare, e avrebbero finito con l’allontanarsi in ogni modo.

Ma si sa che, inevitabilmente, cercando di fare le cose per il meglio, si finisce sempre per sbagliare qualcosa; John non fu da meno.

Si ritrovava davanti all’ostacolo di dover affrontare un problema e di non avere i mezzi per superarlo. Che cosa avrebbe dovuto fare?

Avrebbe dovuto prepararsi un discorso, cercare accuratamente le parole con cui esprimersi e le espressioni più delicate per dirgli che una situazione del genere non era accettabile. Avrebbe dovuto dirgli che si era sbagliato, che tra loro non c’era altro che semplice amicizia, che forse era stato anche un errore di John, ma che non era sua intenzione andare oltre quella condizione di pura simpatia, di affetto reciproco.

Costruire un discorso del genere non era una cosa semplice: richiedeva molta attenzione e una buona dose d’ispirazione. Non era il genere di cose che il giovane Watson era abituato a fare.

Avrebbe dovuto evitare di deludere il suo amico, avrebbe dovuto far sì che nelle sue parole non ci fosse alcuna esitazione, che esse mettessero bene in chiaro la situazione senza lasciare spiragli di speranza su qualcosa che non sarebbe mai potuto accadere.

Perché, diamine, lui non era gay. Come poteva Sherlock anche solo pensare che potesse diventarlo solo per lui? John non provava nessuna attrazione nei suoi confronti, non aveva mai sentito il desiderio di prenderlo tra le braccia e baciarlo, di trattarlo come avrebbe fatto con una qualsiasi sua ragazza. Il solo pensiero gli dava i brividi; lui non era gay, non lo era mai stato, perché sarebbe dovuto diventarlo tutto in un colpo? Semplicemente, non riusciva a concepire l’idea di un cambiamento così radicale.

E forse, in fondo, un po’ di quella paura arrivava anche da quel terribile cambiamento che una situazione del genere avrebbe richiesto: essere all’improvviso attratto da un ragazzo del suo stesso sesso non era una cosa da nulla.

John aveva paura anche solo a pensare ad una cosa del genere.

 

Il giorno seguente al bacio non ebbe la forza di presentarsi al laboratorio.

Il giorno dopo ancora, il ragazzo non aveva ancora un’idea chiara di come comportarsi e quando incrociò il giovane amico non trovò soluzione migliore di quella di ignorarlo. Non avrebbe voluto farlo, sapeva che in qualche modo non era una cosa buona, ma nel panico che lo assalì in quel momento fu l’unica cosa che riuscì a fare.

Nei giorni seguenti la storia si ripeté uguale, ad ogni ora: a John pareva di vedere riccioli castani dappertutto ora e non capiva se era lui a star impazzendo o se effettivamente Sherlock lo stava pedinando.

Una settimana dopo girava ancora di soppiatto per i corridoi, controllando ogni volta con attenzione che il ragazzo non fosse nei paraggi. Non era ancora decisamente pronto ad incontrarlo.

Una sera dopo tante, a malincuore – il suo buonsenso gli diceva ancora che si stava comportando nel modo sbagliato – prese forse una delle decisioni più meschine che gli fossero mai passate per la testa: decise di tagliare definitivamente i ponti con Sherlock, di non rivolgergli più la parola e di lasciarlo andare per la sua strada. Aveva passato dei bei momenti con lui, era arrivato perfino al punto di definirlo il proprio migliore amico; ma avevano superato il limite. Non era più possibile continuare una storia del genere, non in quel modo. Rischiavano solo di rovinare ancora di più la faccenda e di rovinare quello che c’era stato fino a poco tempo prima. John avrebbe mantenuto il ricordo di quei pomeriggi passati all’insegna dello studio e dei pazzeschi ragionamenti del suo amico.

Un giorno, almeno di questo ne era sicuro, gli avrebbe parlato, gli avrebbe spiegato. Quando il tempo avrebbe lavato via parte dell’imbarazzo, allora sarebbe arrivato il momento per chiarirsi. Ma per il momento, John voleva rimanere tranquillo e in pace con se stesso.

Ora che si era tolto almeno un peso dal cuore gli sembrava molto più facile ignorare l’amico. Procedeva per inerzia, ripetendo sempre le stesse cose. Evitava accuratamente di passare nei dintorni del laboratorio e quando si spostava cercava di farlo sempre in compagnia; sapeva che da solo sarebbe stato una preda più facile. Di certo Sherlock non avrebbe parlato nel bel mezzo di un gruppo di ragazzi dei Blackheath.

Di quello ne era certo, o almeno lo fu fino a quando un pomeriggio, uscendo da un allenamento meno stressante degli altri, non sentì lo schiamazzo dei suoi compagni di squadra poco lontano da lui. Si trovava mano nella mano con Mary ed era diretto verso la fermata più vicina dell’autobus, il quale secondo gli orari sarebbe dovuto passare di lì a pochi minuti. Stavano camminando in fretta e per questo John si girò solo per qualche secondo, giusto il tempo per dare un’occhiata alla situazione in corso.

Non l’avesse mai fatto.

Si ritrovò bloccato in mezzo alla strada, gli occhi che si spalancavano e il cuore che cominciava a battergli a mille nel vedere la figura pallida del suo amico vittima per l’ennesima volta dei colpi dei compagni. Inevitabilmente ricollegò subito la situazione a quel giorno di qualche settimana prima, quando in una circostanza simile si era fatto coraggio e aveva fermato i suoi amici, salvandolo da altri inutili colpi. In quel momento provò l’irresistibile voglia di intervenire, ma il pensiero di quello che era successo e la ragazza che al suo fianco lo stava tirando per una manica lo riportarono alla realtà.

«Andiamo, John! Perdiamo l’autobus!»

E il ragazzo, dopo un attimo d’indecisione, chiuse gli occhi ancora una volta, lasciando che il destino facesse il suo corso, e si allontanò dalla scena.

Il peso di ciò che aveva fatto non lo abbandonò, e se prima gli era sembrato di poter tirare un sospiro di sollievo alla sua decisione di definitivo allontanamento, ora tutto gli era tornato in mente e non riusciva più a fare niente per scacciare quel senso di colpa che lo opprimeva. Ora, oltre al bacio e al suo silenzio doveva fare i conti anche con fatto di non aver fermato la squadra di rugby dal prenderlo a pugni.

Così, facendo di tutto pur di non pensarci, finiva sempre per tornare con la mente a quel pomeriggio. Il bacio era il primo tra i suoi pensieri ovviamente, ma un’altra cosa alla quale continuava a pensare era ciò che era accaduto prima. Chi mai aveva voluto addormentarlo e buttarlo in mezzo a una piscina? Chi aveva voluto ucciderlo?

Ricordava perfettamente di essersi lasciato alle spalle i propri compagni di squadra dopo essere uscito dall’ufficio del coach, dal quale era andato per scusarsi e chiedere di essere nuovamente ammesso agli allenamenti, e poi ricordava due mani che lo afferravano per le spalle mentre si stava dirigendo con calma verso le scale d’ingresso e il lieve pizzicore dato dalla punta di un ago che si andava a conficcare in un punto imprecisato del collo.

Poi ricordava l’acqua che si chiudeva sopra di lui, che lo lambiva tutto intorno, insinuandosi ovunque poteva e soffocandolo. Aveva aperto gli occhi, aveva scalciato con tutte le sue forze per risalire in superficie, cercando di ignorare il panico improvviso. Ma si era accorto di non riuscire a muoversi molto bene, di non essere in grado di controllare i propri arti superiori o inferiori. A quel punto il panico lo aveva assalito davvero e nello stato di semicoscienza in cui ancora si trovava, aveva continuato a scalciare e sbracciarsi, per quel che poteva, inalando aria ogni qual volta ci riusciva, insieme anche a una gran quantità d’acqua. Non sapeva quanto tempo aveva passato in quelle condizioni, sicuramente era stata una questione di neanche un minuto, e, quando aveva sentito le braccia di Sherlock che lo stringevano, il sollievo lo aveva invaso.

Non poteva non ammettere che l’amico gli aveva salvato la vita, e forse quel pensiero era uno dei tanti che lo accusavano per il suo prolungato silenzio e per il suo non-intervento all’uscita degli allenamenti.

Quando ripensava alla piscina non poteva fare a meno di chiedersi se Sherlock avesse già risolto il problema, se avesse scoperto chi era stato il suo aggressore. La nostalgia per le loro avventure era impossibile da scacciare.

Si era talmente abituato all’idea di ignorarlo che, tre settimane dopo l’incidente, si rese conto di qualcosa che stonava nella sua solita routine quotidiana, che qualcosa mancava.

La prima campanella d’allarme la ebbe quando un giorno, a mensa, il suo sguardo scivolò come di consueto verso il posto occupato solitamente da Sherlock. Si diceva di farlo solo per essere sicuro di non essere preso di sorpresa: un continuo controllo silenzioso per rimanere tranquillo.

Ma quel giorno il suo sguardo scivolò su un posto vuoto.

Si bloccò di colpo, smettendo addirittura di ascoltare il Rosso che parlava vivacemente al suo fianco, mentre i suoi occhi volavano da una parte all’altra della stanza, cercando con attenzione quei riccioli castani che conosceva così bene. Si riscosse dal suo pensiero solo quando qualcuno lo scosse per una spalla, richiamandolo all’attenzione, ancora senza aver trovato una sola traccia della presenza dell’amico.

In quel momento non fece altro che stringersi nelle spalle: dopotutto Sherlock era sempre stato un ragazzo abbastanza strano, poteva benissimo aver scelto di saltare il pranzo, quel giorno. Bastò quel pensiero a tranquillizzarlo, almeno un poco, e l’immagine del ragazzo scivolò via dalla sua mente per le ore successive.

Il giorno dopo, però, Sherlock non c’era ancora: il suo posto, un tavolo isolato dal resto della sala, in un angolo all’ombra di una parete rientrante, era ancora vuoto.

Qualcosa cominciò a smuoversi dentro di lui ma ancora una volta allontanò il pensiero dalla mente, dando la colpa di quell’assenza a qualche futile motivo, come una malattia o un cambiamento nell’orario scolastico.

La stessa storia si ripeté per i tre giorni a venire. John continuava a ignorare quel peso che gli gravava sulle spalle, quel senso di colpa che non lo lasciava mai andare. C’era quella strana sensazione, ostile quasi, quel dubbio che si insinuava nelle sottili crepe del suo animo confuso: e se Sherlock se ne era andato per colpa sua?

Una settimana dopo non c’era ancora alcuna traccia del ragazzo.

Fu solo in un pomeriggio tra tanti, uno dei più noiosi che avesse mai passato, che John si ritrovò nei pressi del laboratorio, e, prendendo il coraggio a quattro mani, decise di entrare. Si sarebbe solo affacciato, giusto per controllare che effettivamente Sherlock non ci fosse. Perché non poteva essere lì, no? Era passato molto tempo dall’ultima volta che lo aveva visto, non era possibile che il ragazzo fosse tornato a scuola e che lui non lo avesse ancora scorto tra le decine di studenti che affollavano la scuola. Aveva avuto buon occhio per questo.

Aprì la porta e fece qualche passo all’interno della stanza, guardandosi intorno con attenzione. Anche quell’ultima fievole speranza di vedere il giovane amico appollaiato sul suo solito sgabello, però, svanì nell’istante esatto in cui i suoi occhi scorsero la figura minuta di una ragazza china su un microscopio.

Molly Hooper lo sentì entrare e alzò lo sguardo di riflesso, scrutandolo attentamente con i suoi occhi castani chiari. Aveva un’espressione di muto stupore dipinta sul volto e rimase a fissarlo in silenzio, con una punta di curiosità.

«Scusami…» John deglutì, abbassando il capo. «Non volevo disturbare. Mi dispiace…» disse. Aprì e chiuse la mano sinistra un paio di volte, in un chiaro gesto nervoso, poi alzò nuovamente lo sguardo e aprì la bocca, come se volesse dire qualcos’altro, ma si bloccò. Richiuse le labbra e rimase qualche secondo in silenzio, poi annuì tra sé e sé e si girò. Aveva già abbassato la maniglia della porta quando la voce della ragazza lo bloccò.

«Lo stai cercando, vero?»

Molly non era stupida, aveva chiaramente inteso le reali intenzioni del ragazzo e non era riuscita a fare a meno di dirglielo. Il ricordo dello sguardo afflitto di Sherlock era ancora troppo vivido perché potesse dimenticarlo.

John deglutì a vuoto e scosse la testa senza convinzione. «No. Stavo solo…» le parole gli morirono sulle labbra ancora prima che riuscisse a concludere la frase.

Molly sorrise lievemente. «Non viene più a scuola da quasi due settimane ormai…» continuò, tornando però con li occhi al suo lavoro. «Non so perché e non so dove sia, purtroppo… mi dispiace.»

Il ragazzo annuì. «Io…» sospirò. «Grazie.» Esitò sul posto, incerto su cosa dire. «Non è che… se per caso lo vedi, o torna, insomma…»

Molly scosse tristemente la testa. «Dubito che lo rivedrò. Perché non chiedi a Lestrade? Lui è in buoni rapporti con la famiglia Holmes, potrebbe saperne qualcosa…» Sorrise cordialmente e lo salutò con un gesto del capo, tornando ad occuparsi delle sue cose.

John rimase un attimo a guardarla in silenzio, poi emise un “grazie” a mezza voce ed uscì dal laboratorio.

La curiosità e il senso di colpa erano ormai diventati troppo pesanti da sopportare, e John, nonostante ciò che si era ripromesso, non poté fare a meno di seguire il consiglio di Molly.

Il giorno dopo, alla fine dell’ultima ora di lezione prima della pausa pranzo, si tenne distante dai compagni di squadra, attardandosi in classe più del necessario, e solo quando fu sicuro che nessuno fosse a portata d’orecchio uscì dall’aula, scendendo le scale ed entrando in mensa. Si guardò accuratamente intorno, evitando con gli occhi qualsiasi persona che non fosse quella che stava cercando.

Infine lo trovò: Lestrade era seduto da solo poco lontano dal bancone dove servivano il pranzo, con un libro davanti agli occhi e una forchetta nella mano libera. John si avvicinò con aria titubante, poi si fece coraggio e si sedette al posto di fronte, lasciando cadere lo zaino ai suoi piedi.

Il ragazzo alzò lo sguardo annoiato, probabilmente solo per vedere chi era il nuovo arrivato, e quando vide che questi era John un sorriso andò ad increspargli le labbra.

«Er… Ciao.» iniziò il mediano, agitandosi un poco sullo sgabello. «Non è che… mi chiedevo. Mi chiedevo se…»

«Aveva ragione allora. Come sempre dopotutto…» lo interruppe l’altro. Sospirò, e chiuse il libro, posando contemporaneamente la forchetta nel piatto. Corrugò un attimo la fronte pensieroso, poi annuì tra sé e sé e portò una mano alla tasca esterna del suo zaino, tirandone fuori una busta di carta bianca. «Sherlock mi ha chiesto di consegnartela non appena avresti chiesto di lui.» disse, porgendogliela. «Sinceramente cominciavo a pensare che non saresti mai venuto. Evidentemente sapeva il fatto suo.»

Rimase immobile, osservando con curiosità la reazione di John che, quasi come se la busta potesse contenere un esplosivo, la afferrò, rigirandosela tra le mani con lentezza.

«Mi ha detto di consegnartela e basta, senza dirti nient’altro.» Si strinse nelle spalle. «Sai com’è fatto… lui e le sue strane idee.»

John annuì, staccando gli occhi a forza dal proprio nome scritto con quella grafia sghemba che non poteva che appartenere al suo amico, e si alzò, improvvisamente desideroso di allontanarsi il più possibile da occhi indiscreti per leggere in tutta tranquillità quel messaggio.

«Ehm… grazie. Ma… non si può proprio sapere che fine abbia fatto?»

«Ecco… credo l’abbia scritto lì dentro. Spero. Non posso fare altro, scusami.»

«No no, va bene. Grazie.» John sorrise cordialmente, poi si allontanò, uscendo dalla mensa.

Per quel giorno poteva benissimo saltare il pranzo.

~*~

Se stai leggendo queste parole significa che Lestrade ti ha consegnato la lettera e che quindi tu gli hai chiesto di me.

Avrei voluto potertelo dire di persona ma durante le scorse settimane i miei tentativi di rivolgerti la parola sono falliti miseramente, quindi te lo dico ora, in questa lettera. (Avrei preferito inviarti una mail, ma in tal caso la cosa avrebbe potuto darti fastidio così ho voluto scriverti via carta, in modo che avresti avuto mie notizie solo se fossi stato proprio tu a chiederne).

Prima di tutto mi dispiace per quello che è successo e per come la cosa ti abbia innegabilmente urtato. Non volevo che andasse a finire così. Non ero totalmente in me in quel momento, ero (sì lo ammetto, e prendine nota perché non succederà mai più) abbastanza scosso per quello che era successo. Ancora adesso non riesco però a capire quale sia stato il problema di fondo. Volevo chiederti scusa, speravo che me ne lasciassi almeno la possibilità.

Ad ogni modo.

Penso che la tua curiosità sia dovuta principalmente al fatto che nelle ultime settimane non mi hai visto a scuola. È così: non ti ho evitato di mia spontanea volontà, ma me ne sono proprio andato. Non verrò più al Barts; i miei genitori si sono apparentemente stancati di vedermi tornare a casa con un occhio nero un giorno sì e uno no, e Mycroft (mio fratello, nel caso non lo sapessi) non ha più scuse soddisfacenti da inventare per coprirmi.

Per questo mi ritrovo costretto a scriverti qui, per salutarti. Questo è in sostanza il mio biglietto d’addio. È questo che fanno le persone, no? Lasciano un biglietto.

Non penso ci rivedremo ancora, anzi. Non venirmi a cercare, non sentirti in colpa per quello che è successo eccetera eccetera. Va bene così, evidentemente le cose dovevano andare in questo modo e per quanto mi dispiaccia non credo che ci sia molto da fare.

Sono sicuro che la tua vita proseguirà tranquillamente anche senza la mia presenza.

Per il resto, grazie di tutto, e tieni d’occhio Molly Hooper da parte mia.

 

Addio, John.

 

 

 

 

 

Lo so, lo so… sono imperdonabile. Sono stata risucchiata in un vortice scuola/verifiche/studio, mi dispiace terribilmente D:

Dalla regia mi dicono inoltre che sono una persona orribile. Ehm… sì ecco… *si nasconde*

Ci tenevo a ringraziare quelle ragazze che hanno recensito, siete state tutte dolcissime <3

A presto (spero vivamente non più di una settimana),

Gage.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Avevo già detto quanto amassi Harriet, vero? Bene, lo ripeto xD

E anche Mycroft… è adorabile su, ammettiamolo.

Altra cosa: grazie, grazie a tutte voi, non sapete quanto mi rendete felice con i vostri preziosi commenti <3

E un grazie anche a tutti coloro che la seguono in silenzio, ovviamente! Se la storia procede senza troppi intoppi è anche perché ci siete qui voi a sostenermi ;)

Bene. Ora… 12 pagine di word. È tipo il capitolo più lungo che io abbia mai scritto…

Per questo vi lascio senza dilungarmi troppo. Grazie ancora!

Ps. buona lettura!

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 8

 

T

utto sembrava essere tornato alla normalità, sempre che con normalità si potesse definire quello stato di continuo nervosismo in cui John si era ritrovato. Si diceva di essere stato fortunato per aver risolto uno dei tanti problemi che lo assillavano: Sherlock se ne era andato dalla scuola, non aveva più preoccupazioni di nessun genere; non doveva più nascondersi, non doveva più girare per i corridoi sospettando un incontro indesiderato da un momento all’altro e non doveva più preoccuparsi di tenersi lontano da luoghi come il laboratorio o il corridoio dove Sherlock aveva avuto il suo personale armadietto.

Ma allora che cos’era quel peso che continuava ad avvertire nei pressi dello stomaco? Che cos’era quel senso di nausea che lo prendeva ogni volta che passava per l’uscita esterna del campo di rugby in direzione della fermata dell’autobus?

Ogni volta che guardava Smith negli occhi gli sembrava di vedere un corridoio vuoto e un ragazzo pallido che veniva costretto alla parete; ogni volta che camminava per i corridoi della scuola per raggiungere la classe dell’ora successiva gli sembrava di vedere una testa riccioluta ovunque, come se il fantasma di Sherlock continuasse a perseguitarlo, bloccato nel tempo e nello spazio.

Molte volte, quando passava di fronte alla targhetta affissa alla parete d’entrata degli spogliatoi dedicata a Carl Powers, si fermava, e rimaneva ad osservare le lettere dorate che componevano quel nome, come in trance, mentre l’eco di parole lontane anni luce da lui gli rimbombavano in testa.

Una sera, uscendo con gli amici, gli parve perfino di sentire una risata profonda vicino a lui mentre rideva con il gruppo di qualche evento curioso.

Quando stava con Mary, invece, quando la baciava…

Il suo pensiero non lo abbandonava mai.

Passarono i giorni, un lento susseguirsi di avvenimenti, parole, situazioni ed emozioni, ricordi e sensazioni.

John aveva riposto la lettera di Sherlock in un posto sicuro, sotto ad alcuni libri nel cassetto del comodino. La custodiva come una reliquia, un simbolo concreto di tutto quello che aveva vissuto nel giro di qualche mese con un amico straordinario, una delle persone migliori, più umane che avesse mai conosciuto. [1]

Perché per quanto Sherlock avesse cercato di nasconderlo, per quanto avesse ignorato palesemente la realtà delle cose, John aveva visto oltre la lastra di ghiaccio che sembrava sempre separarlo dal resto del mondo, era riuscito a scivolare oltre quella barriera e a scoprire una persona tutta nuova al suo interno: John era riuscito a conoscere Sherlock Holmes, a fare breccia nel suo animo imperturbabile e riservato per scoprire cose del tutto inaspettate. Lui, un semplice ragazzo appassionato di studi e rugby era riuscito a disseppellire sentimenti repressi e mai affrontati.

Gli veniva male a pensare alla lettera. Era stata una completa sorpresa, qualcosa che non si era per niente aspettato.

L’aveva letta con il cuore in gola, solo, in un’aula durante la pausa pranzo, scorrendo quelle poche righe che svelavano quanto Sherlock si fosse visibilmente pentito per il casino che aveva combinato.

Quando aveva letto le ultime due parole, quell’addio che gli aveva lasciato l’amaro in bocca, in quel momento aveva desiderato di poter sprofondare nel terreno per la vergogna e il senso di colpa, più forte che mai. Era stato, se possibile, ancora peggio.

Il messaggio traspariva dispiacere da ogni parola, ogni lettera in inchiostro nero sembrava essere stata vergata con grande attenzione, come se una sola sbavatura potesse rendere l’intera lettera un insulto alla pazienza di John. Sherlock aveva veramente temuto di averlo perso completamente, di averlo fatto arrabbiare al punto da farsi odiare per quella stupida mancanza di lucidità che lo aveva spinto al gesto estremo.

John sapeva che le cose non stavano per niente così, ma evidentemente l’impressione che aveva dato era tutt’altra. All’inizio, forse, era stato un po’ arrabbiato, probabilmente anche deluso, ma era passato in fretta. I problemi erano diventati altri: aveva dovuto capire cosa fare, cosa dirgli, come comportarsi.

E aveva fallito miseramente in tutto.

Eppure, ancora adesso, non riusciva a comprendere a fondo il suo errore, non riusciva – ripercorrendo mentalmente quello che aveva vissuto negli ultimi giorni – a trovare un modo più ragionevole in cui avrebbe potuto comportarsi.

La risposta arrivò ancora prima di quanto potesse aspettarsi.

Passò il periodo natalizio e la settimana di vacanza prevista, poi a gennaio, tornando a scuola, cominciarono a girare delle voci.

All’inizio John non ci fece molto caso: camminava tranquillamente per i corridoi e qualcuno si girava al suo passaggio; qualcuno lo indicava bisbigliando a bassa voce con il vicino, altri ridacchiavano e gli voltavano le spalle. Già abituato a quelle reazioni quando girava in compagnia di Sherlock, non comprese subito cosa stesse succedendo.

Si rese veramente conto dell’atteggiamento degli altri solo grazie ai suoi compagni di squadra quando, un pomeriggio, lo misero di fronte alla verità, una verità che non si aspettava e che lo lasciò spiazzato e scosso. Ma la storia completa la apprese solo più tardi.

Imboccò il corridoio che portava verso gli spogliatoi come suo solito e si ritrovò davanti gran parte dei Blackheath e un gruppetto di ragazzi: parlavano animatamente tra loro e sembravano litigare.

Non fece quasi in tempo a realizzare cosa stesse succedendo che qualcuno lo chiamò. «John!»

Si fermò poco lontano dal gruppo, posando lo sguardo sulla ragazza castana al centro che lo guardava con apprensione. «Ti prego… di’ loro che non è vero. Vero?» disse, parlando con una vocina tendente al lamentoso. Sembrava visibilmente scossa.

«Ne abbiamo le prove! Perché continuare a negare?» ridacchiò qualcuno dalla parte dei Blackheath.

«Che cosa succede?»

«Sherlock era un bravo ragazzo, non avrebbe mai potuto fare qualcosa del genere!» esclamò Molly, deglutendo a fatica.

Dopo aver passato giorni a cercare di non pensarlo neanche, nel sentire quel nome pronunciato ad alta voce John si fece subito più attento. Spostò lo sguardo dalla ragazza a Sebastian Moran, in piedi poco lontano, che sogghignava con un fascicolo di fogli in mano.

«John lo conosceva bene. Sherlock non avrebbe mai fatto qualcosa del genere. Quei documenti sono falsi.» continuò la mora imperterrita.

«Molly, lascia perdere… andiamo.» Greg Lestrade la bloccò con un braccio, tirandola verso di sé. «Non vale neanche la pena di discuterne.»

«Discutere di cosa?» John guardò i due interrogativo, chiedendosi quale fosse il nuovo motivo per il quale prendere in giro Sherlock. Se ne era andato, per sempre, che senso aveva continuare a farlo? Soprattutto dopo che li aveva lasciati senza fare niente oltre che sparire da un giorno all’altro evitando di dare spiegazioni.

Greg si passò una mano sul volto, apparentemente stanco, mentre Moran sorrideva sornione e gli porgeva i fogli che teneva in mano. «Penso che tu possa capire tutto da qui, caro il mio Watson…»

John gli scoccò un’occhiata truce, poi afferrò i fogli e dette uno sguardo veloce al nome scritto all’inizio. Spalancò gli occhi, stupito.

«Non avete il diritto di prendere quei documenti!» continuò Molly, staccandosi con uno strattone da Lestrade e fronteggiando il giocatore di rugby faccia a faccia.

«Che caratterino! Non si addice a una signorina per bene come lei, miss Hooper.» ironizzò il ragazzo, facendo qualche passo indietro con le mani davanti a sé. «Dovresti insegnarle le buone maniere, Jim…»

«Andiamo Seb… sai come mi piacciono le ragazze.»

John alzò lo sguardo dai documenti con il cuore in gola, fissando il nuovo arrivato con tanto d’occhi.

…tieni d’occhio Molly Hooper da parte mia.

Quando vide il ragazzo superare l’amico in pochi passi e passare un braccio intorno alla vita della ragazza provò un moto di disgusto, che aumentò quando ella arrossì lievemente sulle guance e abbassò lo sguardo.

«Perché tutte queste scene per Holmes, amore? Ormai è acqua passata, se n’è andato…»

«Dove gli avete presi questi?» la voce gli uscì dalle labbra più forte del previsto e quasi tutti i ragazzi che erano ancora presenti sulla scena si girarono a guardarlo, incuriositi.

«È merito mio, se così si può dire.» il ghigno che comparve sulle labbra di Moriarty – e che nessuno vide a parte John – gli fece quasi accapponare la pelle.

«Perché?» Sentiva la rabbia affiorargli piano, dal profondo dello stomaco, e s’impose di calmarsi.

Il pilone destro della squadra si strinse nelle spalle, guardandosi intorno fieramente. «Perché ho fatto delle ricerche. Non dirmi che non interessava anche a te sapere dove fosse andato a cacciarsi Holmes, eh John?»

Strinse una mano a pugno. «Non avevi il diritto di farlo.»

Moriarty ridacchiò e fece segno ai compagni di allontanarsi, posando poi un bacio sulla fronte della sua ragazza e sussurrandole qualcosa all’orecchio. Dopo ciò, Molly si allontanò, non prima di aver gettato un’ultima occhiata a John, ancora in piedi nello stesso punto.

«Avanti, cos’hai da dirmi, John? Il fedele amico John Watson…»

Inspirò a fondo, socchiudendo per un attimo gli occhi. «Non è vero.»

«Oh, allora gli hai letti

«Non. È. Vero.» soffiò, avvertendo una traccia di panico crescere lentamente, soffocandolo in una morsa.

Moriarty sospirò apparentemente triste, poi gli sorrise cordialmente. «Evidentemente a me non crede. Gregory? Tu lo sapevi, non è vero?»

Il ragazzo interpellato strinse i pugni, guardandolo con ribrezzo, e non rispose fino a quando non fu John stesso a guardarlo, carico di angoscia. «Mycroft… suo fratello mi aveva accennato. Ma non è stato niente di terribile. Sherlock era un bravo ragazzo.» sospirò, abbassando lo sguardo come pentito.

«Niente di terribile? NIENTE? Ha rischiato di finire in overdose! A SEDICI ANNI.» John non ricordò di essersi sentito così male negli ultimi anni.

Sherlock, il suo migliore amico, quel ragazzo pazzesco e pieno di risorse aveva in passato ceduto all’utilizzo di sostanze stupefacenti, evitando per un soffio la morte. Le parole stampate in inchiostro nero su quei documenti non potevano che essere vere. Erano documenti ufficiali quelli, John lo sapeva molto bene.

«Te la sei presa perché non ti ha mai detto niente? Fossi in te non sarei così sorpreso. Quanto veramente sai della sua infanzia? Della sua vita privata? Scommetto che non sapevi neanche che avesse un fratello, uhm?»

John cercò aiuto nel ragazzo al suo fianco, guardandolo con apprensione, ma Lestrade stava fissando un punto imprecisato della parete di fronte apparentemente distaccato dalla discussione in corso.

«Non mi sorprenderei se ci è ricaduto di nuovo. Se ci pensi i pezzi combaciano, no? È sparito da un giorno all’altro, senza dare spiegazioni, dopo aver passato un anno d’inferno per colpa di quei tuoi compagni di squadra che ti piace tanto definire amici. E una volta tanto che aveva trovato un amico, una volta tanto che era riuscito a spingersi più in là della semplice amicizia…»

«Basta!» John esplose, il volto che si era trasformato in una maschera di rabbia e frustrazione, sorpresa perfino. Come diavolo faceva Jim a sapere tutte quelle cose?

Alle ultime parole di Moriarty, Lestrade voltò lo sguardo verso John, spalancando lievemente gli occhi per lo stupore, mentre il mediano respirava piano, a fatica.

«Perché non avrebbe dovuto dirmi niente?» chiese, sconfitto e desideroso di risposte.

«Perché se ne vergognava.» Intervenne Greg, cercando di rassicurarlo con lo sguardo. «Non è una cosa di cui andare fieri. Penso che Sherlock volesse che tu lo rispettassi, che lo guardassi con occhi diversi. Non l’ho mai visto comportarsi così con qualcuno.»

John sentì un lieve pizzicore agli occhi e spostò il peso da una gamba all’altra mentre l’ennesima ondata di ricordi lo colpiva in pieno.

«Ciò non toglie niente al suo passato.» ribatté Moriarty, come se volesse piantare a fondo quell’idea nella testa di John, il quale, a quelle parole, dovette trattenersi dal rispondergli male, sapendo che era esattamente quello che il ragazzo voleva.

«Ok, va bene. È solo parte del suo passato, no? Le persone possono cambiare col tempo…» disse, moderando il tono di voce perché suonasse calmo e sicuro. «E tu non avevi alcun diritto di prendere questi documenti e di farli girare per la scuola come se niente fosse. Ora questi tornano dal preside e ci tornano insieme ad un mio richiamo per violazione della privacy. D’accordo?»

Moriarty alzò un sopracciglio e sollevò un angolo delle labbra. «John Watson, fedele fino alla fine… molto bene.» ghignò nuovamente, con quell’aria spavalda e sicura che lo contraddistingueva, per poi girare sui tacchi e allontanarsi lungo il corridoio. «Oh, e a proposito. Puoi tenerli, se vuoi. Ne ho fatte delle copie.» disse, e sparì dietro l’angolo.

«John…»

«No.» fu la sua secca risposta. Prese un respiro profondo, cercando di non pensare all’espressione che si era dipinta sul volto di Moriarty poco prima, e senza neanche un cenno di saluto verso Lestrade si allontanò dalla parte opposta, stringendo i fogli che aveva in mano come se fossero un prezioso tesoro di cui prendersi cura.

~*~

Quella sera, John tornò a casa con il morale a terra e, data l’ora piuttosto tarda, si congedò dalla madre subito dopo averla salutata, dicendole che era stanco e che aveva mangiato un panino per strada, ritirandosi così in camera sua.

Spinse lo zaino con i libri sotto il letto e si buttò di pancia sul materasso, sprofondando con il volto nei cuscini. I fogli che teneva ancora in mano finirono con uno svolazzo per terra, senza che si preoccupasse di raccoglierli: non avevano la minima importanza ora.

Strinse con forza le palpebre, affondando nella stoffa fino a quando non gli mancò il respiro e con un grugnito dovette girarsi supino. Portò le mani al volto e si strofinò malamente gli occhi, cercando di cacciare quel nodo alla gola che lo aveva accompagnato per tutto il tragitto fino a casa.

Si rese conto di quanto tempo avesse realmente passato a rigirarsi nel letto senza riuscire a chiudere occhio soltanto quando udì la porta della camera aprirsi e vide la figura di sua sorella stagliarsi contro la luce proveniente da fuori.

La ragazza chiuse la porta, senza paura di farlo con gentilezza per non svegliare John, e si trascinò fino al letto, dove si distese, anche lei supina, e puntò gli occhi al soffitto, scrutandolo nel buio.

Non seppero mai quanto tempo effettivamente passarono in silenzio, ognuno con i propri pensieri, facendo finta di dormire. Probabilmente passarono ore, forse solo cinque minuti.

Alla fine fu Harriet a rompere il silenzio. «Qualcosa che non va?»

John mandò un grugnito stanco e si girò su un fianco, dando le spalle alla sorella. Aveva ancora in testa quelle poche righe che aveva letto da quei dannati fogli, prima di decidere di aver letto troppo, e non riusciva a scacciare dalla mente l’immagine di Sherlock, steso in un letto d’ospedale, il volto ancora più pallido del normale e un genitore seduto al suo fianco con la testa tra le mani, distrutto dal dolore. E tutto solo perché non aveva avuto il coraggio di affrontare la situazione in cui si era ritrovato. Di certo non sarebbe andato a raccontarlo ad Harriet.

«Sai… pensavo di aver trovato qualcuno di speciale per una volta…» continuò la ragazza, incurante del fatto che John la stesse ascoltando o meno. «Ma non faccio altro che sbagliare, ogni dannatissima volta.» Sospirò sconsolata.

John annuì mentalmente alle sue parole, trovandosi in totale accordo. Qualsiasi cosa potesse fare, qualsiasi decisione prendesse, commetteva sempre qualche errore, che il senso di colpa e la delusione lo stringessero senza possibilità di fuga.

«Mi auguro che tu sia felice con Mary, che almeno tu abbia trovato la tua persona speciale. O forse vi siete lasciati?»

«No…» borbottò e poté quasi immaginarsi Harriet sorridere nel buio.

«Avete litigato? Potresti dirmelo sai… parlare aiuta molto.»

John si lasciò sfuggire un sorriso, più di disperazione che altro.

Rimase in silenzio, soppesando le sue parole. In fondo non aveva niente da perdere. Era vero che parlare aiutava, John lo aveva provato più volte sulla propria pelle nel corso della sua vita. Ricordava molto bene quella notte lontana, un giorno di primavera, quando aveva appena cinque anni. Pochi giorni prima suo padre, Jonathan Watson, li aveva lasciati, colpito improvvisamente da un infarto sulla strada di casa. Quella notte, dopo quasi una settimana in cui John si era sentito totalmente perso e confuso, si era ritrovato tra le braccia di Harriet e, insieme, stesi sul letto uno stretto all’altro, si erano parlati a vicenda, ricordando tutti quei bei momenti che avevano passato insieme con lui. Avevano parlato fino a notte fonda, consolandosi a vicenda, e la mattina dopo John ricordava molto bene di essersi sentito meglio, di aver perso quel peso che lo aveva accompagnato per giorni interi. Valeva la pena rivelare tutta la storia ad Harriet? Poteva veramente aiutarlo o si sarebbe limitata ai suoi soliti commenti sarcastici?

Sarebbe potuto benissimo accadere, conoscendola. Ma se non parlava con lei, con chi altro avrebbe potuto farlo? Aveva bisogno di farlo e nessuno più di lei sapeva cosa volesse dire trovarsi in una situazione sentimentale con qualcuno dello stesso sesso, anche se a senso unico.

John sospirò pesantemente e tornò supino, stringendo gli occhi.

«Non è colpa di Mary.»

Harriet si agitò sul letto, probabilmente sistemandosi in una posizione più comoda grazie alla quale avrebbe potuto osservare suo fratello. «Hai trovato qualcuno più interessante di lei?»

Il ragazzo si prese una pausa di silenzio, scegliendo le parole con cura. «No. Si tratta… si tratta di…» deglutì a vuoto, incapace di pronunciare quel nome che apriva troppi scenari imbarazzanti nella sua testa. Per una volta ringraziò di essere al buio e di non poter essere visto.

«Si tratta di Sherlock.»

Harriet sbuffò infastidita. «Tutto qui? Cosa diamine può essere successo perché tu ti preoccupi come una ragazzina alle prese con il suo primo amore?»

Un brivido gli attraversò la schiena e dovette costringersi a prendere un paio di respiri profondi prima di proseguire il discorso. «Non è così semplice…»

«Oh ovvio. Quel ragazzo non è semplice sotto molti punti di vista. Non capisco come tu riesca a sopportarlo.»

«Harriet!» la rimproverò.

«Sì scusa. Vai avanti con i problemi tra te e il tuo migliore amico.»

«Mi ha baciato.»

Lo disse di getto, senza neanche lasciarla finire di parlare, e Harriet si zittì subito. Ci fu un movimento al suo fianco, poi la luce si accese di colpo, costringendolo a stringere con forza le palpebre e a portarsi un braccio sul volto. «Ma cosa…?»

«Che cosa ha fatto?» la voce le uscì stridula, quasi come un urlo a bassa voce.

John sentì il sangue affluirgli al volto e non poté evitare di arrossire, risposta apparentemente sufficiente ad Harriet, la quale lanciò un gridolino sommesso che lo costrinse a lanciarle un’occhiataccia.

«Oh. Mio. Dio.» mormorò piano, mentre un sorriso andava ad illuminarle il volto. «Ommioddio!» esclamò poi, balzando in piedi e osservando John con una luce negli occhi che non lo rassicurò per niente. «E cosa hai fatto? Hai ricambiato?» allargò ancora di più il sorriso, come se quella notizia le avesse risollevato improvvisamente il morale.

Il ragazzo sbuffò, mettendosi a sedere sul letto e affondando il volto tra le mani. «Piantala

Harriet ridacchiò e si risedette sul letto, sporgendosi in avanti verso il fratello. «Dio che cosa tenera! Ti prego, dimmi che hai ricambiat-»

«Non sono gay, ok? La pianti? Ovvio che non ho ricambiato!» ribatté stizzito.

Il sorriso scivolò via dalle sue labbra, sostituito da un’espressione perplessa e ansiosa. «Che cosa hai fatto allora?»

John chiuse gli occhi e sospirò: questa era probabilmente la cosa di cui si vergognava di più. «Me ne sono andato…» mormorò, quasi non volesse farsi sentire dall’altra che, a quelle parole, spalancò gli occhi e si afflosciò su se stessa, tutto l’entusiasmo che scemava in un’espressione delusa. «No…» si portò le mani tra i capelli e si buttò all’indietro, andando a cozzare con la schiena contro il muro. «No ti prego… è uno scherzo vero? Dimmi che non l’hai fatto veramente…»

John deglutì, pentito, e abbassò lo sguardo.

«Dio John, quanto sei stupido!»

«Ok!» il ragazzo portò le mani davanti a sé in un segno di resa. «Ok, d’accordo… ho sbagliato, me ne sono reso conto anch’io. Ma cos’altro avrei potuto fare?»

«Che cosa cosa? Come sarebbe a dire cosa avresti potuto fare? Che cosa avresti fatto in una situazione del genere?» Harriet sembrava fuori di sé, arrabbiata con il fratello come non lo era mai stata in tanti anni della loro infanzia.

«Ora tu torni da lui, anche adesso. Anzi hai il suo numero di cellulare? Ora gli dici che ti dispiace, sono stata chiara? Chiamalo e digli che ti dispiace!» esclamò, puntando un dito accusatorio verso di lui.

«Non ho il suo numero e non lo chiamerò all’una di notte per questo, ok?» sibilò, guardandola con furia.

«Oh povero, povero, Sherlock! Perché ti devi innamorare di certi imbecilli senza cuore?»

John si sentì punto sul vivo e non riuscì a sostenere il suo sguardo carico di accuse.

«D’accordo, quel ragazzo non è uno dei migliori in quanto a cordialità… ma diamine! Come hai potuto anche solo pensare di reagire in quel modo? Nessuno, e dico nessuno dovrebbe ricevere un trattamento del genere!»

«È troppo tardi.» borbottò.

«Cosa?»

«È troppo tardi, va bene?» balzò in piedi, stringendo i pugni con forza. «Anche se volessi scusarmi, è troppo tardi.»

«Non è mai troppo tardi…» vedendo lo sconforto che attraversava il volto del fratello, l’espressione di Harriet si addolcì. Ad una sua occhiata sconsolata, tuttavia, un pensiero le attraversò la mente. «Quanto tempo fa è successo?» chiese con un filo di voce, già immaginando la risposta tutt’altro che soddisfacente.

«Circa un mese fa…» emise con un sospiro pieno di sconforto.

La giovane esalò un verso a metà tra un singhiozzo e un grugnito di rimprovero, scuotendo la testa. «Sei un idiota.»

John non poté che darle ragione. «Ma cos’altro… come avrei dovuto reagire?» chiese, lasciandosi nuovamente cadere sul letto. «È successo così, di punto in bianco. Io non… non me lo aspettavo. E ora non posso fare più niente. Se n’è andato, non lo rivedrò mai più…» La voce gli si affievolì fino a sparire del tutto.

«Perché ti è così difficile capire che non c’è alcuna differenza tra te e me?»

«Io non…»

«No, ora mi lasci parlare, razza di deficiente che non sei altro.»

John si zittì, tornando supino con gli occhi al soffitto.

«Non cambia niente, ok? Non c’è niente di diverso tra una relazione omosessuale e una etero. Beh, forse a livello fisico sì, ma penso che questo non t’interessi, per ora.» gli lanciò un’occhiata vagamente divertita e John scelse di ignorarla deliberatamente.

«Se ti piace una persona, profondamente, di là dal fatto che essa sia un maschio o una femmina, mi spieghi quale problema potrebbe mai esserci? Si parla sempre di anime gemelle e amore vero e bla bla. Eppure ancora adesso ci sono persone che non riescono a capacitarsi del fatto che una persona possa amarne una del suo stesso sesso.»

«Non ho mai detto di essere contro relazioni di nessun genere…» la interruppe.

«No, non lo hai mai detto, ma evidentemente non te lo sei ancora ficcato bene in testa. Non posso credere che ti saresti comportato così se al posto di Sherlock ci sarebbe stata una ragazza: sarai anche un idiota ma non sei stronzo fino a questo punto, di questo ne sono certa. Sei troppo ingenuo e buono per un comportamento del genere. Sei stato un villano nei suoi confronti, almeno di questo te ne sei reso conto alla fine…» fece una pausa, come a voler assaporare quel momento di superiorità in cui si trovava. «Sono convinta che tu non sia stato te stesso in quel momento, vero?»

Era una domanda retorica e John non le rispose.

«Ti sei lasciato prendere dall’angoscia, hai pensato di non sapere come reagire e hai lasciato che l’istinto agisse per te. Ti sei imposto di fare una determinata cosa – scappare per la precisione – come reazione ad un attacco di panico. E invece le cose sarebbero potute andare diversamente solo lasciando che il tuo buon cuore agisse per te. Sei un ragazzo meraviglioso John, lo sanno tutti, e hai abbastanza esperienza con le ragazze per tirarti fuori da una situazione del genere. Te ne rendi conto adesso? Hai considerato Sherlock come un ragazzo, maschio, hai lasciato che i pregiudizi e il tuo orgoglio prendessero il sopravvento. Lo capisci ora?»

John arricciò le labbra mentre le parole di Harriet lo colpivano nel profondo. Aveva ragione, troppo, e non poté non pensare a come sarebbero potute andare le cose se solo non si fosse lasciato prendere dal panico.

Per l’ennesima volta si ritrovò a ripercorrere mentalmente tutto il cammino che aveva compiuto con la sua amicizia con Sherlock, da quella notte alla festa fino a quel pomeriggio nel bagno. Ripensò al momento in cui aveva cominciato ad asciugargli i capelli con dolcezza, come una madre preoccupata asciuga il suo bambino per paura che si possa prendere un raffreddore.

Che cosa era successo in quel momento? Si era lasciato andare, ecco che cos’era successo.

Fin dall’inizio aveva capito che Sherlock era un ragazzo solo, senza amici, compagni su cui fare pieno affidamento. Fin dall’inizio John aveva provato un sentimento di pietà nei suoi confronti, tanto da ignorare i suoi modi sgarbati e pieni di supponenza per cercare di diventare suo amico, di fargli capire che poteva essere apprezzato anche lui. Lo aveva protetto sotto la sua ala, aveva fatto in modo che nessuno lo infastidisse e che potesse vivere una vita normale, come tutti gli altri. Non era forse questo il ruolo di una madre? Lo aveva protetto come una madre protegge il proprio figlio, lo aveva confortato, ascoltato, si era fatto in quattro per lui e le sue strambe idee. E quel sentimento di protezione persisteva ancora adesso, benché ormai non lo vedesse da quasi un mese.

Strinse gli occhi e si costrinse a focalizzare l’immagine di Sherlock a un soffio da lui, il suo respiro che gli accarezzava la pelle, le sue labbra sulle sue, quel leggero, dolce tocco.

Era stato così terribile? Era veramente stato così terribile da potersi permettere di comportarsi a quel modo?

Qualcosa si agitò nel suo stomaco mentre ricordava sempre meglio ogni più piccola emozione provata, ogni sensazione, dalla pressione delle labbra di Sherlock alle sue mani sulla sua testa.

Per un attimo, soltanto per un attimo, provò ad immaginare quelle stesse mani scivolare sul suo volto, andare una verso il suo collo e dietro la nuca, immergendosi tra i suoi capelli bagnati, mentre l’altra andava a porsi sotto il mento. Immaginò le sue labbra aprirsi, cercare affannosamente quelle dell’altro…

Spalancò gli occhi di colpo, trattenendo il fiato.

«No…» ansimò, portandosi le mani alla testa e rannicchiandosi su se stesso in posizione fetale. «No. No…»

«Che c’è?» In un attimo Harriet fu al suo fianco, preoccupata.

«Mi dispiace…» mormorò, la voce un flebile sussurro. «Mi dispiace…» ripeté, chiudendo gli occhi, cercando di scacciare quelle stupide immagini dalla sua testa.

E una volta tanto che aveva trovato un amico, una volta tanto che era riuscito a spingersi più là della semplice amicizia…

Le parole di Moriarty riecheggiarono vicine, costringendolo a prendere un paio di respiri profondi. Perché erano così dannatamente vere? Perché quel ragazzo che di buono non aveva niente, quella volta aveva avuto ragione su tutto?

Era stata colpa sua, soltanto colpa sua. Aveva abbandonato Sherlock, lo aveva lasciato nelle mani di quei suoi amici che amici non lo erano proprio per niente, non lo aveva protetto e, quasi certamente, lui era ricaduto in quel circolo vizioso. Sherlock, il suo amico, il suo migliore amico, era stato male per colpa sua, quando era stato proprio lui, John, a cercare di tenerlo fuori dai guai per proteggerlo da inutili danni fisici.

«Mi dispiace…» sussurrò nuovamente, sentendo gli occhi cominciare a pizzicare.

«Lo so…» disse Harriet in risposta, passandogli amorevolmente una mano tra i capelli biondo cenere. «E cascasse il mondo, ma stai pur certo che troveremo un modo perché tu possa dirglielo di persona.»

Sorrise tra sé e sé, guardando suo fratello tranquillizzarsi sotto il suo tocco e prendere la via del sonno, stanco morto. Osservò quella figura che conosceva fin troppo bene, quei lineamenti che erano così simili ai suoi.

E cascasse il mondo, Sherlock, ma tu avrai questo ragazzo. Non avresti potuto fare scelta migliore. Pensò con mezzo un sorriso.

~*~

Il giorno dopo John ebbe ben poco tempo per pensare alla scuola.

Al mattino rinunciò a fare colazione, arrivando a scuola con una decina di minuti di anticipo. Cominciò a girare per i corridoi, in cerca di quell’unica persona che poteva aiutarlo. Non trovandola, fu costretto ad andare a lezione, ma passò l’intera ora a fissare le lancette dell’orologio che battevano i secondi, in attesa che finisse. Quando il suono della campanella si fece sentire sopra la voce del professore di matematica si preparò in fretta e continuò la sua ricerca nei cinque minuti di pausa tra una lezione e l’altra.

La stessa cosa si ripeté per tutte le ore successive, ma di Lestrade non c’era alcuna traccia.

All’ora di pranzo, benché non avesse per niente fame, fu costretto a scendere in mensa per controllare anche lì, e non lo trovò.

Sedette sconsolato ad uno dei tavoli, ansimando per la lunga corsa, e affondò il viso tra le mani. Possibile che fosse sparito pure lui?

Non ebbe pace fino al pomeriggio, quando, finalmente, mentre prendeva le sue ultime cose dall’armadietto per tornare a casa, una voce non lo richiamò, ansimante.

«John!»

Si girò di scatto, rischiando di fare cadere a terra i libri che teneva ancora in mano, e sorrise nel vedere Greg avanzare velocemente verso di lui. Aveva il volto accaldato e sembrava aver appena compiuto una lunga corsa.

«Ti stavo cercando.» Pronunciarono quelle parole nello stesso istante e si guardarono stupiti l’un l’altro.

«Oh… wow, perfetto.» sospirò il nuovo arrivato. «Ci siamo rincorsi per tutta la giornata?»

John sorrise, un peso che finalmente lo abbandonava, e rimase in silenzio, aspettando con curiosità che l’altro parlasse.

«Ecco… riguardo a quello che è successo ieri…» iniziò Greg, spostando il peso da una gamba all’altra. «Ieri sono uscito con Mycroft, suo fratello… cioè, uscito. L’ho… l’ho incontrato, ecco…» diventò paonazzo da un momento all’altro e si affrettò a distogliere lo sguardo. «Insomma… mi ha detto di dirti che è disposto ad incontrarti, tra un paio di giorni. Ho pensato che è l’unico che possa dirti tutto per filo e per segno, che possa rispondere alle tue domande. Nessuno conosce Sherlock meglio di lui…» Si fermò e si morse un labbro, arrischiandosi a lanciargli un’occhiata di traverso.

John ascoltò attentamente le parole dell’amico, valutandole. «Io… ehm… non saprei. Sherlock… ci sarà anche lui?»

Greg scosse la testa. «No, al momento non ti è possibile vederlo. Mycroft vuole solo scambiare un paio di parole con te…»

Prese un respiro profondo. «Ok. Va-va bene…» annuì poi, scoprendo di sentirsi molto più leggero.

Lestrade sembrò sollevato. Cercò qualcosa nelle sue tasche e poi glielo porse. «221B Baker Street. Lo troverai lì dopodomani, appena dopo scuola.» Dopo un attimo di esitazione sorrise cordiale.

John annuì e prese il foglietto di carta con scritto indirizzo e orario dell’appuntamento.

Stava andando tutto troppo bene per essere vero.

~*~

Quel pomeriggio arrivò a Baker Street con venti minuti di anticipo.

Rimase in strada per i successivi dieci, camminando avanti e indietro sul marciapiede di fronte alla porta del 221B, strofinando le mani tra loro in un chiaro gesto nervoso. Per un attimo pensò pure di andarsene, di scappare ancora una volta da quello che lo aspettava e che aveva paura di affrontare, ma non lo fece, non questa volta. Era un uomo, che diamine, doveva risolvere la cosa una volta per tutte.

Quando mancavano ormai cinque minuti all’ora dell’appuntamento John si decise a fare quegli ultimi passi che lo separavano dalla porta verdognola e, preso il coraggio a due mani, suonò il campanello.

Si udirono alcuni passi felpati all’interno, poi, dopo un tramestio di chiavi, comparve una signora sulla settantina, vestita di un viola molto appariscente, che gli sorrise allegramente. «John Watson?» chiese, ignorando l’espressione stupita del ragazzo che aveva gettato un’occhiata al biglietto che teneva ancora in mano, preoccupato di aver sbagliato indirizzo. Nel sentire il suo nome alzò nuovamente lo sguardo e annuì.

«Oh bene! Ti stavamo aspettando… sono la signora Hudson, la governante degli Holmes. Prego, entra…» disse, aprendogli la porta.

Si ritrovò in uno spazio angusto e quasi buio, occupato per buona metà da una scala che portava al piano superiore. «Mycroft ti sta aspettando di sopra, caro. Vuoi del the? Ve lo porto su appena pronto.»

John le sorrise e scosse la testa. «No, la ringrazio.» disse, poi, assecondando l’invito della signora, avanzò verso le scale e le salì, fino al primo pianerottolo, dove una porta aperta rivelava l’interno dell’appartamento, piccolo ma accogliente.

«Ehm… Posso?» chiese titubante, affacciandosi verso il salotto dove la figura di un uomo era seduta su un’ampia poltrona nera.

Mycroft alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo e fece un cenno di saluto con il capo. «Prego, vieni…»

John avanzò nella stanza, strofinando tra loro le mani e guardandosi intorno con curiosità. Come aveva intuito alla prima occhiata l’appartamento non era molto grande: in quel momento si trovava nel salotto, occupato per la gran parte da mobili, due poltrone e un divano. Le tende alle due finestre presenti erano tirate e gettavano la stanza in penombra. Sulla sinistra il fuoco scoppiettava allegramente nel caminetto, sopra al quale una strana varietà di cianfrusaglie giaceva su di una mensola, tra cui un teschio e un pacco di fogli tenuti fermi da un coltello.

Sulla parete di sinistra una delle cose che lo colpì particolarmente fu il grande smile giallo disegnato sulla carta da parati, di un’orribile trama a fiori neri.

«Perdona il disordine, la signora Hudson fa il possibile, ma c’è sempre qualcosa…» sospirò stancamente, chiudendo il giornale e posandolo sul tavolino tra le due poltrone. «Siediti pure, abbiamo molto di cui parlare.»

John annuì e, appoggiata la giacca all’appendiabiti lì vicino, andò a sedersi sull’unica poltrona disponibile posta di fronte a quella del maggiore degli Holmes: una rossa, dall’aria molto comoda, cosa che poté confermare un attimo dopo, sprofondandoci dentro.

«A quanto ho capito Jim Moriarty si è preso alcune libertà nei confronti di mio fratello.» cominciò l’altro, accavallando le gambe e fissando il suo ospite con occhi attenti e inquisitori.

Il ragazzo annuì, cercando di mantenere il suo sguardo. «Mi ha dato… alcuni documenti.» mormorò.

«Già, ovvio. Inutile dire che ce lo eravamo aspettati.» Sorrise, come se non potesse ricevere notizia migliore, sotto lo sguardo sorpreso di John.

«Ve lo… eravate aspettati?» chiese sconcertato.

Mycroft sospirò. «Oh John, ci sono molte cose che non sai…» fece una pausa, passandosi una mano sugli occhi. «È una storia abbastanza complicata, ma tenterò di essere il più esaustivo possibile.»

Frugò nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori un fascicolo di documenti piegati a metà, che dispiegò e porse al ragazzo. «Ho ragione di pensare che tu non gli abbia letti fino in fondo, non è così?»

John annuì e afferrò riluttante i fogli. «Non penso che sia necessario… sono fatti suoi.»

«Date le circostanze, non più.» Il ragazzo più grande osservò l’amico di suo fratello scorrere colpevole le righe.

«È successo veramente, questo non penso sia più un segreto. In passato Sherlock ha, a tutti gli effetti, abusato di sostanze stupefacenti, danneggiando la sua salute per un lungo periodo. La situazione mi è sfuggita di mano, abbiamo avuto troppa fiducia nelle sue capacità intellettive. Ma purtroppo la sua situazione non era una delle migliori…»

John deglutì a vuoto, incapace di leggere altro, e riportò lo sguardo sul maggiore degli Holmes.

«Ha sempre ricevuto maltrattamenti dai suoi compagni di classe o semplicemente da ragazzi dei licei in cui è stato. È sempre stato solo, lui e la sua grande vivacità e dannata curiosità. Non sarei dovuto rimanere sorpreso di quello che è successo.» sospirò. «Ha cambiato un liceo all’anno, come puoi vedere. Non è resistito di più nello stesso posto, almeno fino all’anno scorso…»

«Per-perché

Mycroft lo scrutò attentamente. «Sono stato costantemente in azione, l’ho controllato dal suo primo giorno. È stato un anno perfetto, almeno fino a quando non sei arrivato tu.»

John rabbrividì.

«Sono rimasto piacevolmente sorpreso dal tuo atteggiamento nei confronti di mio fratello, in tutti i sensi. Sherlock non ha… non ha mai avuto un amico, uno vero intendo

Poté quasi vedere un barlume di ringraziamento nel suo sguardo mentre pronunciava le ultime parole.

«Anche se non capisco cosa possa essere successo negli ultimi mesi di così grave perché potessi negargli la tua amicizia.»

John divenne all’improvviso paonazzo e tentò di spiegarsi, ma l’altro lo bloccò con un gesto della mano.

«Non è nei miei interessi saperlo, sono qui per altro.» Diede un’occhiata veloce all’orologio da polso, poi si schiarì la voce. «E ora, veniamo al punto del nostro incontro. Ci sono alcune cose che non sai, ma ho ragione di credere che sia meglio che tu ne sia al corrente.»

 

 

Il corridoio era silenzioso, privo del chiacchiericcio e dei passi degli studenti. Non c’era nessuno, a parte lui e il ragazzo che lo aveva seguito fino a quel punto.

Preso un respiro profondo, Sherlock si girò.

«Non sono ancora riuscito a sottrarla a Mycroft.»

Moriarty sorrise, poi portò gli occhi al soffitto e le mani ad unirsi dietro la schiena. «Non importa, sono sicuro che puoi farcela, mio caro Sherlock Holmes…»

«Perché lo hai fatto?» ribatté il moro, fissandolo con occhi vacui. «Perché hai ucciso Powers

«Oh andiamo… non ci sei arrivato?» Moriarty rise, riportando lo sguardo sul giovane di fronte a sé. «Sei così ingenuo…»

«Così dannatamente noioso.» ribatté l’altro, stizzito.

«Ah sì?»

«L’hai ucciso perché aveva scoperto la verità, perché sapeva che eri un ladro e un assassino.»

«Uh… dai, ti prego. Non era così intelligente.»

Sherlock fece qualche passo in avanti, lentamente, scrutandolo dalla testa ai piedi. «Troppo intelligente, troppo superiore per rimanere semplicemente a guardare il mondo che ti gira intorno, troppo per aspettare, per crescere.»

«Pensi che, se avessi cominciato dopo, sarebbe stato meglio?» ghignò. «Ho ucciso a tredici anni, [2] come pensi che sia vivere una vita così monotona come tutti gli altri? Ma tu ne sai qualcosa, vero?»

«Perché tutti questi giochetti? Perché non farmelo capire e basta?»

«Andiamo… non dirmi che non ti sei divertito.» Si lisciò la camicia, lanciando una veloce occhiata al proprio orologio.

«Potrei denunciarti, potrei dire tutto a mio fratello.» si arrischiò Sherlock, osservando con attenzione la reazione di Moriarty, che a quelle parole rise.

«Beh… tu fallo, e sappi che ti brucerò. Ti brucerò il cuore, te lo garantisco.»

Il ragazzo rabbrividì, passandosi la punta della lingua sulle labbra. «E se trovassi un modo per raggirarti?»

«Beh, allora buona fortuna. Credimi, ne sarò veramente sorpreso.» disse, e con un ultimo sguardo al giovane Holmes, se ne andò.

 

 

«No…»

«Sì.»

«Moriarty… non può essere.»

Mycroft sospirò e portò le punte delle dita alle labbra. «Ci ha ricattato, Dio solo sa quanto sia intelligente quel ragazzo. Lavora per una rete terroristica, vuole alcune informazioni da me e per averle è arrivato fino a minacciare mio fratello.»

«Che cosa?»

Il maggiore degli Holmes annuì tristemente. «Ricopro un certo ruolo nel governo e ha richiesto la mia attenzione riguardo alcuni… alcune cose.»

Sospirò e si allungo sulla poltrona, osservando John con un mezzo sorriso sulle labbra. «In definitiva, Sherlock se n’è andato da quella scuola per questioni di sicurezza. Moriarty ha avuto quello che gli interessava ma non ho intenzione di mettere a rischio la sua vita più di quanto non lo sia già stata. Per quanto ti riguarda, John, puoi tranquillizzarti, non hai nessuna colpa in merito.»

Il ragazzo si afflosciò sulla poltrona, a metà tra il sollevato e il frustrato. Aveva passato settimane a cercare di scacciare quel senso di colpa che lo attanagliava in ogni momento, e alla fine, Sherlock se ne era sì andato, ma per motivi che non lo riguardavano minimamente.

«Ora…» diede un’altra occhiata all’orologio, poi una alla porta, e infine tornò su John. «Sherlock frequenta attualmente una scuola privata, dove possiamo essere certi che non gli accada nulla. Mi aveva chiesto di non coinvolgerti in tutto questo perché a quanto pare teme alla tua incolumità ma credo che date le circostanze sia meglio che tu sappia tutto, per filo e per segno. E…»

Il campanello suonò al piano di sotto, seguito da alcuni passi veloci che andavano ad aprire. «Sherlock, caro… cosa succede?»

John spalancò gli occhi, mentre Mycroft allargava il suo sorriso e abbassava lo sguardo, evitando accuratamente quello del ragazzo.

«Perché Mycroft è qui? Che cosa diamine è successo ora?» La voce irritata di Sherlock risuonò chiaramente sulle scale, avvicinandosi velocemente.

John si alzò di colpo, il cuore che cominciava a battergli all’impazzata nel petto, e quando sentì la porta dell’appartamento aprirsi con un sonoro scatto non poté fare a meno di girarsi verso di essa, il fiato improvvisamente corto.

Il nuovo arrivato s’immobilizzò di colpo sulla porta, le parole che stava per pronunciare bloccate sulla punta della lingua, incapaci di essere esposte. Spalancò gli occhi, un ricciolo che gli ricadeva sulla fronte dopo la corsa per le scale. Lo zaino cadde a terra con un tonfo sordo mentre i suoi occhi si posavano sulla bassa figura del suo unico amico, in piedi di fianco alla poltrona rossa, la sua poltrona.

«John…»

 

 

 

 

 

 

Note:

[1] ~ John : That was amazing.

Sherlock: You think so?

John: Of course it was. It was extraordinary. It was quite... extraordinary. – 1x01

~ John: You were the best man, the most human, human being, that I ever know… – 2x03

 

[2] Purtroppo non me lo sono inventata, nel telefilm si può chiaramente vedere la data in cui Moriarty ha ucciso Powers, quando Sherlock scrive il post sul suo blog alla fine della 1x03 per chiamarlo alla piscina. Con qualche rapido calcolo, ebbene sì, Moriarty ha ucciso a tredici anni.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - parte I ***


Ebbene sì, parte I. Doveva essere un tutt’uno ma in questi mesi sono diventata molto prolissa sarebbe venuta una cosa mostruosa, il doppio del precedente, così mi sono dovuta arrangiare e dividerlo. Tanto non vi dispiace tenermi compagnia ancora per un pochino, no? :D *evita pomodori*

AVVISO: Questa storia è stata pensata dalla sottoscritta in un certo modo nei mesi precedenti alla messa in onda della terza stagione e per questo nella mia testa Mary aveva un certo carattere e certi comportamenti. Dopo aver visto le nuove puntate inevitabilmente sono stata influenzata dal’interpretazione della nostra cara Amanda e l'ho modificata un po' per avvicinarla a quella della serie, ma nella storia ha un certo ruolo e perciò il suo carattere cambia un po'. Posso dire tranquillamente che è OOC.

Per il resto, nel caso non fosse chiaro, le parti in corsivo si rifanno ad alcuni flashback, e saranno presenti sia in questo che nella seconda parte ;)

E ora, signore e signori, buona lettura!

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 9 – parte I

 

E

rano ormai giorni che Molly osservava Sherlock: al mattino, quando prelevava i libri utili per la giornata dall’armadietto che si trovava sul suo stesso piano, all’ora di pranzo, quando si azzardava a lanciare un’occhiata a quel tavolo isolato al quale lui amava sedersi, al pomeriggio, quando varcava la soglia del laboratorio e lui era seduto al suo solito posto. Molly vedeva sempre Sherlock, ma sebbene lui fosse sempre lì davanti ai suoi occhi, al tempo stesso era come se non ci fosse.

All’inizio aveva fatto finta di niente, memore del loro ultimo discorso che era andato a finire decisamente male. Era ancora arrabbiata con lui per la sfacciataggine che aveva dimostrato nel farle chiaramente capire che Moriarty non gli piaceva. Ma chi era Sherlock Holmes per dirle che frequentava la persona sbagliata? Chi era per impedirle di stare con l’unica persona che l’aveva notata, apprezzata e resa importante? Perché era così che si sentiva quando stava con Jim: importante. Sherlock non le aveva dato mai niente di tutto questo, aveva sempre avuto la sensazione di essere per lui solo una specie di giocattolo al quale poteva chiedere l’aiuto necessario nel momento del bisogno, per poi essere abbandonata una volta diventata inutile.

Poi però aveva cominciato a vederlo veramente, a osservare i suoi gesti, le sue espressioni, a notare quei piccoli particolari apparentemente insignificanti che tuttavia erano pregni di qualcosa di molto più profondo, qualcosa che Sherlock mostrava inconsciamente al mondo. E non le ci era voluto molto per capire che, ancora una volta, qualcosa in lui non andava.

Conosceva quel ragazzo smilzo e vivace da quando aveva messo piede nella scuola, lo aveva osservato per un tempo che le era parso infinito nella sua interminabile contemplazione da ragazza perdutamente innamorata. Lo aveva osservato così tanto da impararne ogni tratto a memoria, da poter riconoscere ogni più piccola sottigliezza nella sua espressione, e mai, in quasi due anni, lo aveva visto in quel modo.

Qualcosa in Sherlock stonava con il ricordo che ne aveva, un ragazzo sfrontato, intelligente e apatico, quasi arrogante, a tratti maleducato e disinteressato. Qualcosa era cambiato. Nei suoi modi di fare, nelle sue espressioni, nel suo sguardo. C’era qualcosa in lui che aveva preso una piega diversa e lo aveva lentamente trasformato in un tesoro ancora più prezioso, in qualcosa di più maturo, migliore. C’era più delicatezza nei suoi gesti, più gentilezza nel parlare, più sensibilità nel suo sguardo. E fu proprio nel suo sguardo che un giorno Molly credette di perdersi. Aveva sempre paragonato il colore dei suoi occhi al ghiaccio, a quella sostanza consistente e impenetrabile, così dura, e fredda. Le era risultato naturale, paragonato al suo modo di fare, così scostante e gelido.

Eppure, in uno di quei pomeriggi tra tanti, Molly guardò negli occhi Sherlock Holmes, e tutto quello che vide fu un profondo pozzo di sentimenti repressi in cui rischiò di precipitare.

 

 

«John.»

Un unico sussurro, lieve, quasi inudibile. Un’unica parola, un unico nome pieno di significato, che forse comprendeva fino in fondo soltanto lui.

Per un attimo gli sembrò che il cuore avesse cessato di battergli, quell’attimo stesso in cui incrociò, sorpreso, lo sguardo di quel ragazzo che lo aveva fatto tanto pensare.

Era proprio davanti ai suoi occhi, John, il suo John, in carne e ossa.

Rigido, in piedi, di fianco a quella poltrona rossa in cui tante volte Sherlock si era rifugiato in cerca di conforto. Lasciò che il suo sguardo indugiasse sulla sua figura stagliata contro la luce soffusa proveniente dalle grandi finestre del salotto, scandagliando in lungo e in largo ogni particolare del suo volto e del suo corpo, dal colore biondo cenere dei suoi capelli alle linee dolci del viso, dall’immancabile maglione dalle trame improponibili alle sue mani, scosse da un lieve tremito nervoso.

Un leggero rossore andò a imporporargli le guance quando i loro occhi s’incrociarono nuovamente, come in una silenziosa e impaziente rincorsa. Sherlock sapeva di essere arrossito a sua volta, ma non era del tutto sicuro di esserlo per la situazione in cui si trovava o piuttosto per l’essere accaldato dopo la veloce corsa su per le scale. Ansimava pesantemente, anche se tentava di nasconderlo, e forse non era solo per quei diciassette gradini.

Ancora una volta si ritrovò con mille pensieri a frullargli per la testa, aggrovigliati, impossibilitato nel sbrogliare la matassa, ancora una volta solo per John, per tutto quello che quel semplice ragazzo riusciva a fargli provare. E per uno che non aveva fatto altro che evitare quel genere di emozioni per una vita intera, non era altro che un mondo sconosciuto nel quale muovere i primi passi, senza la minima idea di cosa avrebbe potuto trovare a quello successivo. Sherlock aveva il terrore di commettere qualche passo falso, di cadere in fallo, di rovinare tutto, ancora una volta.

John era nel suo salotto, in casa sua, evidentemente sorpreso di vederlo. Non era stato avvisato, non aveva saputo che sarebbe arrivato, era stato trascinato lì con la forza? Era imbarazzato, si sarebbe irritato, arrabbiato?

Rimasero a fissarsi per quelli che gli parvero secondi infiniti, dilatati all’impossibile, ognuno seguendo il filo dei propri pensieri, poi qualcuno tossicchiò spezzando l’incanto.

Con il cuore in gola Sherlock spostò impercettibilmente lo sguardo verso la poltrona nera, leggermente più a destra rispetto al suo campo visivo, e s’irrigidì nel vedere suo fratello alzarsi con estrema calma, stirandosi i pantaloni con il palmo aperto della mano e alzare beffardo lo sguardo su di lui. «Bentornato a casa, Sherlock. Spero che tu abbia passato una buona giornata.»

Le mani scattarono, chiudendosi a pugno, mentre il cuore cessava di battergli all’impazzata e, improvvisamente, riprendeva il suo ritmo normale, il fiato che quasi diventava solo un fievole sospiro.

Con la coda dell’occhio vide lo sguardo di John vagare confuso tra lui e Mycroft, e avvertì una stretta al cuore nel vedere il suo volto indurirsi. Si era accorto di essere stato imbrogliato, stava collegando i pezzi, lo avrebbe odiato. Sapeva che John odiava essere ferito nell’orgoglio, e Mycroft, con quell’aria sicura e altezzosa, di sicuro non aveva migliorato la situazione.

Era così che doveva andare a finire? Dopo tutto quello che aveva faticato per cercare un modo di ricongiungersi al suo migliore amico? Mycroft, c’era sempre lui a rovinare tutto, c’era sempre stato e non avrebbe mai smesso di esserci.

«Avevamo detto che non l’avremmo tirato in mezzo.» La voce gli tremò appena nel pronunciare quella frase, anche se tentò di suonare il più sicuro possibile. Non era colpa sua, John doveva sapere che non era stata colpa sua. Lui non voleva fargli del male, John doveva capirlo. Lui voleva solo tornare a essere suo amico, voleva parlargli, vederlo sorridere, condividere tutti quei bei momenti che avevano passato insieme ancora una volta, eliminando qualunque cosa c’era stata in mezzo nel frattempo.

John tornò a posare gli occhi su di lui, ma Sherlock non si azzardò a guardarlo, non voleva vederlo furente con lui, era già successo una volta e gli era bastato.

«Beh, vedi, non sempre tutto quello che dici è come manna dal cielo. Per una volta, fidati di me. Non ho mai preso ordini da te, Sherlock, e di certo non comincerò ora.» sorrise l’altro, furbo, e si rigirò il manico dell’ombrello tra le mani. «Non mi dai mai ascolto quando ti chiedo di fare qualcosa, prendila come una mia personale vendetta.»

Avrebbe dovuto arrabbiarsi, scattare in avanti, prenderlo per il colletto della camicia e minacciarlo, mentre invece si ritrovò a spalancare le labbra, stupito. Dopo tutto quello che gli aveva detto, dopo tutto il discorso che avevano fatto, aveva avuto il coraggio di fare una cosa del genere[1]. Sherlock non odiò mai suo fratello come in quel momento.

Si azzardò a lanciare un’occhiata a John, senza neanche tentare di nascondere la confusione e la paura per quello che avrebbe potuto vedere. Invece lo sguardo sereno che John gli rivolse in risposta ebbe la forza di calmare la furia che gli stava pian piano crescendo nel petto, sostituita da una nuova ondata di pensieri. Non era arrabbiato? Non era imbarazzato? Non era confuso, infuriato, ferito?

Mycroft tornò a guardare l’orologio con aria assente, poi annuì tra sé e sé. «Bene. Ho un appuntamento tra qualche minuto, quindi… vogliate scusarmi, ma credo che abbiate molto di cui parlare.» Rivolse ad entrambi un sorriso mellifluo, poi si allontanò a passi cadenzati e uscì dalla stanza senza aggiungere altro.

Sherlock lo lasciò passare con sguardo assente, senza neanche tentare di fermarlo o chiedergli spiegazioni, rimanendo semplicemente fermo sul posto, incapace di compiere qualsiasi azione.

Il silenzio calò nuovamente, prepotentemente, su di loro.

Lo vide deglutire, a disagio, e agitarsi sul posto, forse senza riuscire a guardarlo negli occhi. Quando finalmente alzò di nuovo lo sguardo su di lui, interminabili minuti più tardi, ogni pensiero negativo sparì nel nulla, cancellato dal sorriso che John gli stava rivolgendo.

 

 

«Va tutto bene?»

Molly si avvicinò con passo incerto al ragazzo, mentre le barriere d’indifferenza che aveva eretto intorno a sé si andavano a infrangere di fronte alla profonda quanto raggelante tristezza celata in quello sguardo cristallino.

Per tutta risposta, Sherlock distolse lo sguardo e lo riportò alle proprie mani, unite nella posizione che era solito prendere mentre pensava, ignorando del tutto la domanda che gli era stata appena rivolta.

«Sherlock…» lo richiamò la ragazza, decisa per quella volta a prendere in mano la situazione. Avvicinò uno sgabello e si sedette di fianco a lui, fissandolo intensamente. Lo vide deglutire e prendere un lieve respiro, ma ancora non aprì bocca, chiudendosi ermeticamente nel suo guscio, chiudendo addirittura gli occhi.

Molly sentì un moto d’improvvisa consapevolezza attraversarla mentre si accorgeva, ancora una volta, della mancanza di qualcosa di enormemente importante. «Sherlock…» ripeté, questa volta con la voce incrinata da una venatura d’incertezza. «Dov’è John?»

Un brivido lo percorse, impercettibile, e Molly non poté che stupirsi della sua reazione, così strana in una persona come lui. Gettò un’occhiata all’orologio alla parete, costatando che l’ora in cui era solito arrivare il giovane Watson era ormai passata da un pezzo, mentre un pensiero quanto mai assurdo si faceva strada nella sua mente.

Sapeva di Mary, ovviamente, sapeva che i due si erano messi insieme felicemente qualche settimana prima: la ragazza era una sua compagna di squadra, nelle cheerleader, nonché sua amica, in un certo senso. La bella notizia era arrivata così inaspettata che, come Molly, erano rimaste stupefatte anche le altre ragazze della squadra, alcune addirittura scandalizzate dall’improvviso cambio d’ideale, dopo un ragazzo “importante” come Robert Williams. Ma erano passate settimane da quell’evento e Molly aveva più volte visto John ancora in compagnia di Sherlock. Quello che però cominciava a rattristarla era il ricordo di ben due settimane di silenzio, durante le quali non li aveva mai visti insieme, neanche di sfuggita.

«A-avete litigato?» mormorò, pensando all’unico motivo plausibile per un comportamento del genere da parte del moro. Ma non riuscì ad averne conferma, se non nell’improvviso agitarsi di Sherlock sulla sedia, nel suo strofinare tra loro le mani con crescente nervosismo.

«Parlami, Sherlock. Posso aiutarti…» continuò, imperterrita, appoggiando una mano sulla sua spalla nel debole tentativo di rassicurarlo.

Con sua grande sorpresa Sherlock non si scostò dal suo tocco, rilassando invece la schiena al contatto e poggiando i gomiti sul tavolo, continuando però a fissare dritto davanti a sé.

«Sherlock…»

Il ragazzo scosse la testa e si scrollò la sua mano di dosso, come dopo aver preso un’importante decisione.

Rimasero in silenzio per un tempo indefinito, poi Molly sospirò e si alzò, arrendendosi all’apparente disinteresse dell’altro nel comunicare i suoi sentimenti. Venne presto smentita dalla sua voce profonda, che richiamava nuovamente la sua attenzione.

«Cos’hai fatto quando Moriarty ti ha chiesto di uscire, la prima volta?»

Molly tornò a fissarlo, un lieve nervosismo che andava a infondersi in tutto il suo corpo. «Cosa vuoi ancora da Jim? Ti ho già detto che non sono…» si bloccò, confusa dalla nuova espressione che andò a dipingersi sul volto di Sherlock mentre si girava verso di lei.

Dolore, un dolore distante e profondo, qualcosa che le fece stringere il cuore. «Perché t’interessa?» chiese quindi, modulando il tono di voce perché suonasse meno pungente possibile.

«Soltanto… dimmelo.»

Deglutì a vuoto. «E-ero sorpresa… tutto qui. Non pensavo che qualcuno me lo avrebbe mai chiesto. Di uscire, intendo…»

«Che cosa avresti fatto se lui ti avesse baciato bruscamente, senza preavviso?»

Molly rimase immobile, aprendo la bocca stupita. Cosa diavolo stava dicendo? La sua espressione tradiva una certa irrequietezza, addirittura imbarazzo.

«Sherlock.» lo richiamò, ancora, e lui tornò a fissare il muro, mordendosi un labbro.

«Che cosa è successo?» chiese infine con un sospiro, cogliendo al volo il suggerimento che le era appena stato dato. Non avrebbe avuto altro motivo di porre una domanda del genere.

«Non c’è niente di sbagliato in me…»

Il suo tono di voce quasi la spaventò, da quanto era basso, profondo.

 

 

 

«Ciao…» mormorò John, talmente piano che quasi temette non si fosse sentito.

Il moro si agitò sul posto, gli occhi che correvano frenetici sul suo volto alla ricerca di tracce di collera, inesistenti.

«Io non…» John si guardò intorno, incapace di tenere fermi gli occhi su di lui per più di qualche secondo. «Non sapevo che… che saresti venuto. Ecco…»

«Non è colpa mia.» lo interruppe subito l’altro, sulla difensiva, e John sorrise intenerito alla sua espressione sconcertata, sentendo la tensione che era stata loro compagna fino a quel momento abbandonarlo.

«Lo so. Però… forse tuo fratello ha ragione…» deglutì, allontanando ancora una volta lo sguardo. «Dovremmo… dovremmo parlare.»

Sherlock sentì il cuore accelerare, e un brivido lo percorse da capo a piedi nel costatare che John era anche più tranquillo di lui. Perse un battito quando l’amico si girò e fece per sedersi sulla poltrona: John non se ne sarebbe andato, sarebbe rimasto, non era arrabbiato.

Interdetto, mosse qualche passo in avanti e quando l’altro si sedette definitivamente prese posto anche lui sulla poltrona di fronte.

Tenne lo sguardo fisso sull’amico – se ancora poteva definirlo in quel modo – e rimase seduto sul bordo del cuscino, nonostante non si trovasse molto a suo agio nell’essere così vicino a lui.

John deglutì ancora e tornò a posare lo sguardo su Sherlock, questa volta sforzandosi di mantenerlo.

«Mi dispiace.» Lo dissero insieme, contemporaneamente, ed entrambi sorrisero imbarazzati nel rendersene conto.

«Non… veramente. Mi dispiace per… per essermi comportato in quel modo.» John deglutì, trovando particolarmente interessanti i lacci delle proprie scarpe. «Sono stato un… idiota. Sì, esatto. Mi dispiace…» Prendendo il coraggio a due mani alzò nuovamente lo sguardo e sospirò di sollievo nel realizzare di aver finalmente raggiunto il proprio obiettivo.

«È stata colpa mia, non avrei dovuto…»

John alzò una mano, bloccandolo. «No, veramente. Non devi scusarti… cioè… ecco, lo hai già fatto nella lettera… ma non… non c’è n’è bisogno, davvero. Ho sbagliato io.»

Sherlock si appoggiò allo schienale e portò le ginocchia al petto, tentando di nascondere quel moto di gioia che lo aveva colto nel sentire quelle parole. «Non… sei… arrabbiato?» mormorò, temendo di rovinare il momento caricandosi di troppa euforia.

Il sorriso che John gli rivolse per poco non lo fece sciogliere sul posto. Aveva desiderato così tanto e per così tanto tempo poterlo vedere ancora una volta, poter vedere quelle labbra distendersi solo per lui.

«No, non lo sono.» Tentò di suonare il più sicuro possibile nonostante il groppo alla gola che gli era venuto nel sentire quelle parole. «Non avrei neanche dovuto… mi sono comportato malissimo.» Strofinò le mani tra loro, cercando di scacciare l’orgoglio e di dire tutto quello che pensava per rassicurarlo il più possibile. «Vorrei poter tornare indietro e… e cambiare. Dire al me del passato di fare meno l’imbecille.» Ridacchiò tra sé e sé, riuscendo a strappargli un sorriso e a smorzare un poco l’imbarazzo.

«Mycroft non avrebbe dovuto portarti qui.»

«P-perché

Sherlock distolse lo sguardo e lo lasciò scivolare per la stanza. «È pericoloso.»

«Per la storia di Moriarty?»

Annuì lentamente, stringendo un po’ di più le ginocchia con le braccia per reprimere un brivido. «Era meglio… era meglio se rimanevamo separati.»

John aprì la bocca per dire qualcosa ma all’ultimo momento si bloccò, mordendosi con forza il labbro inferiore all’espressione triste sul volto dell’amico.

Deglutì e si guardò intorno, alla ricerca di un argomento qualsiasi per risollevare la conversazione e renderla il più simile possibile a tutte quelle passate, come se non fosse successo nulla. I suoi occhi si soffermarono sulla custodia di un violino, poco distante. «Sai suonare?» chiese stupito.

«Oh ragazzi, scusate se vi disturbo.»

I due alzarono contemporaneamente lo sguardo verso la signora Hudson, entrata in quel momento nell’appartamento reggendo in bilico tra le braccia un vassoio completo di tazzine da the e piattini con biscotti. Avanzò nella stanza stando attenta a non rovesciarsi le cose addosso e poggiò il vassoio sul tavolino tra le due poltrone, dando poi un buffetto sulla guancia del moro che allontanò il volto infastidito, sotto lo sguardo divertito di John.

«Un po’ di the e biscotti per merenda.» disse, sorridendo ad entrambi come se fossero la cosa migliore che avesse visto negli ultimi dieci anni – e forse nel caso di Sherlock lo era veramente. Poi, guardando John, aggiunse sottovoce, come se non volesse farsi sentire dall’altro. «Se riesci a tirarmelo un po’ su di morale meglio ancora! È da giorni che gira con quel faccino triste…»

Il sorriso gli si raggelò sul volto mentre vedeva con la coda dell’occhio l’amico arrossire violentemente nonostante cercasse di nasconderlo. «I-io… eh, ok… ci proverò.» deglutì, abbassando la testa e fissando con una certa intensità il tappeto fino a quando l’anziana signora non scomparve dietro la porta.

«Vuoi sentire qualcosa?» Senza aspettare risposta Sherlock si alzò dalla poltrona con un movimento fluido e tirò fuori lo strumento dalla custodia, avvicinandosi quindi alla finestra e dando le spalle a John, il quale scacciò a forza i sensi di colpa e versò del the bollente in una tazza, soffiandoci poi sopra per raffreddarlo.

 

 

 

«Perché dovrebbe esserci qualcosa di sbagliato in te?» mormorò con gentilezza.

Sherlock si passò le mani sul volto e respirò piano. «Perché non…» deglutì, incapace di continuare.

«Che cosa hai fatto? Cosa è successo con John?» Molly tentò di essere il più persuasiva possibile, spronandolo a raccontargli la situazione. Sapeva per certo che parlare lo avrebbe aiutato e forse, pensò con una certa soddisfazione, lei stessa poteva provare ad aiutarlo.

«Io l’ho… l’ho baciato.»

La ragazza rimase interdetta, sorpresa della risposta. Forse un pochino se lo era aspettata, ma sentirlo dire lo rendeva ancora più surreale di quanto già non fosse. «E lui si è arrabbiato?» chiese, cauta, mentre un moto di compassione la avvolgeva alla vista di quel ragazzo confuso da qualcosa che non riusciva a controllare.

Sherlock sembrò riprendersi e rizzò la schiena, respirando piano. «Non capisco perché dovrebbe esserlo. Dovrebbe?»

Voltò di poco la testa verso di lei, guardandola con un’espressione attenta e calcolatrice, tutto il contrario di quello che era fino a qualche secondo prima.

Molly scosse di poco la testa. «Io non… non lo so…»

«Bacia milioni di ragazze all’anno, non è così? Siamo amici, lui sa che… che io non… perché dovrebbe arrabbiarsi per uno stupido bacio? Non ho mai baciato nessuno, invece lui l’ha fatto un sacco di volte. Avrebbe dovuto capirmi, dovrebbe capirmi, no?» L’occhiata che le rivolse aveva una strana ombra di disperazione.

La ragazza scosse nuovamente la testa, gli occhi che le si inumidivano nel vedere quel ragazzo sempre sicuro di sé crollarle lentamente davanti, un pezzo alla volta. «Sherlock non… forse non è arrabbiato…» disse in un sussurro. «Forse… forse non se lo aspettava, tutto qui.»

«Ma le ragazze s’innamorano di lui, no? Perché deve essere così strano che io… che lui…»

«Per le ragazze è diverso.» Prese un respiro profondo, avvicinandosi quel tanto che bastava per trovarsi a poche decine di centimetri di distanza da lui, per fargli sentire la propria vicinanza. «John… lui ha gusti diversi. Ecco…» sospirò. «Gli piacciono le ragazze…»

Sherlock tornò a guardare il muro e rimase in silenzio, soppesando le ultime parole della ragazza. Perché doveva essere tutto così dannatamente difficile?

«Io non voglio… non è colpa mia. Perché John non dovrebbe più… parlarmi?» la voce s’incrinò e si ritrovò a mordersi un labbro con ferocia. Si alzò di scatto e si sistemò il maglione, ignorando l’improvviso pizzicore agli occhi e quel nodo alla gola che gli impediva di pensare lucidamente.

 

 

«Non mi hai mai detto di saper suonare…»

Sherlock non rispose, poggiando invece il mento sullo strumento e cominciando a muovere l’archetto sulle corde, componendo una melodia lenta, malinconica, che si diffuse nell’aria fino quasi ad entrare nelle ossa di John, a farlo rabbrividire. A metà brano circa si ritrovò costretto a riappoggiare la tazzina sul vassoio, prima che il tremore alle mani gli facesse rovesciare il liquido ambrato sulle vesti.

Quando il moro terminò rimase immobile con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra, perso nei suoi pensieri, almeno fino a quando un lieve battere di mani non lo fece tornare in se stesso e girare verso l’amico.

Sorrise intimidito nel rivedere, finalmente, lo sguardo adorante che John gli aveva sempre rivolto. «Sei bravissimo. È bellissima…» disse, sorridendogli apertamente. «Non mi hai mai detto niente di… tutto questo. Né del tuo passato, né… né di quello che fai al pomeriggio, finita scuola.»

Sherlock ripose lo strumento al suo posto e si strinse nelle spalle. «Non è importante.»

John sospirò intenerito. «Perché non dovrebbe esserlo?»

«Non è mai interessato a nessuno.»

«A me sarebbe interessato.»

Lo sguardo che Sherlock gli rivolse per poco non gli impose di alzarsi e stringerlo in un abbraccio stritolatore. Quello che invece si limitò a fare fu mettere tutta la dolcezza e l’affetto possibili nell’ennesimo sorriso che tornò a rivolgergli. «A me interessa.» si corresse poco dopo.

«Perché non mi dici cosa hai fatto in queste settimane? Com’è la nuova scuola?»

Sherlock si lasciò convincere dal suo tono allegro e solidale e cominciò a parlargli di tutto quello che era successo dopo la sua dipartita dal Barts, caricandosi di entusiasmo per tutto quello che, finalmente dopo tutto quel tempo, gli pareva di aver ritrovato. Gli raccontò di come si fosse trasferito a Baker Street, dove abitava con la signora Hudson senza nessun genitore a dargli fastidio – anche se apprensiva com’era, sua madre lo veniva a trovare un giorno sì e uno no per sapere come stava – di come la nuova scuola fosse molto più permissiva, di come lì non esistessero bulli e di come stesse bene, potendo girare tranquillamente per i corridoi senza che nessuno gli desse fastidio. Gli parlò di com’era stato obbligato a indossare quell’orribile uniforme e di come gli mancassero gli abiti che solitamente metteva al Barts, ma omise quella parte del racconto di come aveva passato tutti i pomeriggi solo con se stesso, senza nessuno a fargli compagnia oltre a quel teschio sul davanzale del caminetto, di come fossero proceduti quegli esperimenti che avevano iniziato insieme al Barts, di quanto fosse stato noioso tutto quel tempo senza di lui; di quanto fosse stato triste e sconfortato dalla sua lontananza.

«E di amici? Ne hai fatti di nuovi?» chiese John qualche decina di minuti più tardi, in un attimo di pausa tra un discorso e l’altro. Si sentiva sollevato del fatto che Sherlock avesse cominciato a parlare allegramente di tutto ciò, come se veramente non fosse successo niente nelle ultime settimane. Gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo ad una delle loro classiche chiacchierate nel laboratorio: solo che questa volta non era lui a parlare, ma Sherlock.

A quella domanda il moro s’incupì. «Non ho bisogno di amici…»

Qualcosa gli chiuse la bocca dello stomaco.

«Non ne ho mai avuti, non ne ho e non ne voglio.» Si rigirò la tazza ormai vuota tra le dita, osservandola con attenzione come se fosse un inestimabile tesoro.

«Non è vero…» mormorò John, sconfitto. «Non è vero.» ripeté, con più convinzione. Lo guardò fissò negli occhi, mantenendo il suo sguardo con orgoglio. «Hai Lestrade… e Mike, e Molly.» Deglutì a vuoto. «Hai me…»

Sherlock spalancò impercettibilmente gli occhi, come sorpreso, e John si costrinse a continuare, colto da un moto d’implacabile tenerezza. «Non mi sono comportato esattamente da amico ma… voglio farmi perdonare, Sherlock. Voglio farlo perché… beh, perché sei il mio migliore amico.» Sorrise nuovamente, questa volta però mantenendo lo sguardo.

Il moro rimase immobile al suo posto, non un muscolo che si muoveva. «Co-cosa

«Sì.»

«Vuoi dire che… io sono…»

«Sì, il mio migliore amico. Ne abbiamo passate tante insieme… forse non te l’ho mai detto, vero? Hai ragione, come ha ragione Harriet. Sono proprio un idiota.»

Qualcosa dentro Sherlock si smosse definitivamente, qualcosa che non avrebbe mai saputo descrivere ma che si trovava molto vicino al cuore. Il petto gli si gonfiò di gioia e, se solo si fosse lasciato andare, probabilmente lacrime di contentezza avrebbero solcato le sue guance.

«Anche se non frequentiamo più la stessa scuola… beh. Possiamo comunque continuare a vederci, no? »

Sherlock annuì subito, senza pensarci per più di qualche secondo. «Po-potresti venire qui. Quando vuoi. Baker Street è sempre aperta per te, John…» mormorò incerto.

John, invece, annuì convinto. «Tornerò, te lo prometto…»

 

E lo fece, per somma felicità del giovane Holmes.

John tornò il giorno seguente, e quello dopo ancora. Poi fece una pausa di un paio di giorni nel quale Sherlock non ricevette sue notizie e si preoccupò, ma inutilmente dato che il ragazzo tornò il terzo scusandosi perché aveva avuto degli impegni.

Alla fine raggiunsero un accordo. John sarebbe venuto un giorno sì e due no, un compromesso per riuscire a tenergli compagnia e fare tutte quelle cose per la scuola e per i suoi altri amici: partecipare agli allenamenti, passare del tempo con Mary, uscire la sera con i ragazzi della squadra di rugby e partecipare alle partite dei Blackheath.

Quando il nome di Mary uscì dalle labbra di John – perché era stato distratto, solo per quello – Sherlock sentì una fitta al petto e dovette trovare una scusa per non guardarlo negli occhi, per nascondergli quello che provava veramente al pensiero dell’amico con quella ragazza. Non che Mary non gli piacesse, non provava niente di particolare nei suoi confronti. Solo, sapere che John provava per lei quello che non avrebbe mai potuto provare per lui, lo faceva stare male e non doveva, non voleva stare male. Glielo doveva, in fondo: John lo aveva perdonato ed era tornato da lui, erano di nuovo buoni amici, e pretendere di avere qualcosa in più sarebbe stato soltanto meschino nei suoi confronti.

All’inizio riabituarsi l’uno alla compagnia dell’altro, almeno per John, non fu facile, non dopo il bacio. C’era un certo imbarazzo nei suoi movimenti all’interno dell’appartamento di Baker Street, una certa attenzione in tutto quello che faceva in presenza di Sherlock. Quando parlava sembrava misurare le parole con cura, a volte sembrava quasi avesse imparato interi discorsi a memoria; quando sedevano nelle poltrone del salotto e Sherlock suonava qualcosa per lui, sembrava sempre evitare accuratamente il suo sguardo; e per nessun motivo, neanche per sbaglio, si toccavano: John gli era vicino in quei giorni, ma mai fisicamente. Da quando si erano riappacificati, non si erano mai nemmeno sfiorati una volta, neanche per sbaglio. Né quando Sherlock gli prestò una penna, né quando John gli versò il the un pomeriggio, né quando, girando l’angolo del corridoio, per poco non andarono a scontrarsi.

C’era qualcosa di dannatamente sbagliato in tutta quella timidezza: come se un solo minuscolo contatto con la pelle di John significasse riportarli alla situazione nel bagno di settimane prima.

Per fortuna le cose migliorarono col tempo, e piano piano John riuscì a lasciarsi andare e a comportarsi nuovamente come una volta, rilassandosi al comportamento di Sherlock, come se si fosse assicurato che il moro non tentasse più un approccio con lui maggiore di quello che avevano già.

Sherlock avvertì il cambiamento graduale e se ne rallegrò, ma l’ultimo passo lo fecero un pomeriggio, quando successe qualcosa di totalmente inaspettato.

Il giovane Holmes stava trasportando una pila di libri dalla sua camera al salotto, parlando contemporaneamente con l’amico, quando non vide una pallina di spugna ai suoi piedi e, inevitabilmente, rovinò a terra. John, a soli pochi metri di distanza, accorse precipitosamente.

«Che diamine…?»

Il giovane Holmes riemerse dai libri massaggiandosi piano la testa, un lieve rossore che andava ad imporporargli le guance.

«Tutto bene?» sorrise l’altro, divertito, e gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi.

Sherlock spalancò gli occhi a quella muta offerta, lo stomaco che gli faceva una capriola mentre realizzava il repentino cambiamento. Tremante, si aggrappò alla mano dell’amico e con un piccolo sforzo si tirò su, evitando accuratamente lo sguardo dell’altro. Con uno sbuffo, fece poi per chinarsi nuovamente per raccogliere i libri, quando lo colse un improvviso giramento di testa.

John fu rapido ad afferrarlo per un braccio e lo sostenne. «Ehi… hai battuto la testa?»

Scosse lentamente il capo, cercando di ignorare con tutto se stesso la presa ferrea sulla sua carne. «Va-va tutto bene. Devo solo…»

Il tocco caldo delle dita dell’amico sulla sua fronte gli bloccarono le parole sul nascere. «Ti sei addirittura tagliato con la copertina di un libro, idiota.» ridacchiò, scostandosi e obbligandolo a sedersi sulla poltrona lì vicina. «C’è del disinfettante da qualche parte in questo marasma?» chiese.

Sherlock annuì, leggermente confuso, e lo guidò con la voce fino al bagno, dal quale il giovane Watson tornò quasi in un lampo. «Missione compiuta.»

«Non ce n’è bisogno… è solo un graffio…» mormorò piano, non del tutto convinto, gli occhi che si facevano grandi mano a mano che John si sedeva di fronte a lui, scostandogli i capelli dal volto e applicando il liquido con un batuffolo di cotone. «Meglio prevenire che curare, no? Metti che poi s’infetta? E poi… dovrò pure imparare. Se voglio diventare medico ci vorrà questo e ben altro. Senza contare che nel bel mezzo di una battaglia armata, tra tanta polvere e chissà cosa, le infiammazioni saranno il pane quotidiano…»

Sherlock s’irrigidì, dimenticando per un attimo la sua vicinanza e tutto quello che essa comportava. «Che cosa?»

John gli lanciò un’occhiata di traverso, per poi comprendere e farsi subito più serio. Deglutì, finendo di tamponare il taglio in silenzio, poi si scostò definitivamente e si afflosciò su quella che era ormai diventata la sua poltrona. «Non… te l’ho mai detto, vero?» chiese con un filo di voce.

Il moro non rispose, fissandolo con intensità e agitazione crescente.

Prese un respiro profondo. «A-avevi ragione… la prima volta che ci siamo incontrati. Cioè, al laboratorio, ricordi?»

Annuì.

«Mio padre era un medico… un medico militare. In Afghanistan. Venne ferito ad una spalla durante un attacco a sorpresa e riuscì a salvarsi solo grazie all’intervento di uno dei suoi compagni… Venne curato, ma non risultò più idoneo al campo di battaglia, e venne congedato…» John guardava fisso un punto del pavimento, lo sguardo triste. «Tornò a Londra e conobbe mia madre, poi nacque mia sorella e infine io… Puoi immaginarti che tipo di vita fece. Era felice sì, ma la guerra gli mancava, lo sapevano tutti. Lo capivo da come me la raccontava…» Sorrise lievemente al pensiero e Sherlock si agitò sulla poltrona, sapendo dove stava andando a parare. «L’ho sempre ammirato, sempre. Ho amato i suoi racconti dal primo all’ultimo, ho sognato di essere lì con lui, ad ogni attacco, perlustrazione o appostamento.»

«È sempre stato il mio sogno. Fin da bambino…» Alzò gli occhi su di lui, un’ombra di tristezza che li attraversava. «E ora… è quasi il momento ormai. Devo fare la mia scelta.»

Sherlock distolse lo sguardo, accoccolandosi contro lo schienale della poltrona. «Capisco…» mormorò, distante.

John lo guardò con apprensione e sorrise tra sé e sé. «Sono davvero così importante per te…?» Fu poco più di un sussurro, ma ogni parola giunse alle orecchie del moro chiaramente, quasi fosse stata pronunciata a pochi centimetri di distanza. Alzò gli occhi su di lui, scrutando attentamente la sua espressione serena e rilassata, il caldo sorriso che alleggiava sulle sue labbra, il lieve rossore che andava crescendo sulle sue guance.

Si ritrovò ad annuire, lentamente. «Molto…» sussurrò in risposta.

Si sorrisero a vicenda, e mai, da quando si erano conosciuti, si sentirono così legati come in quel momento.

 

«Vedrai che si risolverà tutto…» furono le ultime parole che Molly gli rivolse, prima che la porta del laboratorio si chiudesse dietro di lui.

~*~

«Sono così contenta di essere venuta a vedere questo film, stasera! È una vera fortuna aver trovato qualcuno a cui piacciano i film romantici…» Mary sorrise, felice, e gli passò un braccio intorno alla vita per stringerlo più a sé.

«Già… è stato proprio un bel film.[2]»

«Perché non insegni anche agli altri ad essere così romantici?» Si avvicinò e gli stampò un bacio sulla guancia. John si fermò, l’avvolse in un abbraccio e premette le proprie labbra sulle sue, immergendo le dita tra i suoi capelli biondi e chiudendo gli occhi, lasciando che fosse lei ad approfondire il contatto. I suoi pensieri volarono al film che aveva appena visto, dov’era successa una scena del genere, finita poi in una stanza da letto, fino al mattino seguente, quando i due protagonisti si erano risvegliati uno abbracciato all’altro. Qualcosa nel basso ventre si risvegliò a quel pensiero, ma poi un’altra immagine si sovrappose a quella di Mary.

I capelli improvvisamente divennero più corti, si arricciarono, il corpo della ragazza si assottigliò, facendosi più spigoloso e fragile, il morbido ostacolo dei suoi seni sparì del tutto, lasciando spazio a un petto magro e nudo.

Si staccò di colpo, ansimando e spalancando gli occhi, cercando di mettere a fuoco Mary, sorpresa di fronte a lui.

«John? Tutto bene?» chiese, preoccupata.

«Io…» deglutì a vuoto, sbattendo velocemente le palpebre. «Io… sì. Scusami, un giramento di testa…» le regalò un sorriso tirato, poi la strinse in vita e riprese a camminare, lasciando tuttavia vagare la mente su altro mentre la ragazza gli illustrava come, secondo lei, il protagonista avrebbe potuto agire diversamente sul finale.

~*~

«John! John!»

Il ragazzo si girò di colpo, guardando la ragazza arrivare a passo di marcia lungo il corridoio.

«Dove diavolo sei finito? È da mezz’ora che ti aspetto all’uscita degli spogliatoi!»

Sherlock, al suo fianco, distolse lo sguardo e si girò verso l’armadietto, nascondendo a forza un sorrisetto divertito.

John esibì una faccia perplessa. «O-oddio… oggi è martedì?»

Mary annuì, le mani piantate nei fianchi e gli occhi che correvano dal suo ragazzo a Sherlock, ancora voltato.

«Io…» John si passò una mano sul volto, sospirando stancamente. «Scusami… me ne sono dimenticato…»

«Muoviti, o perdiamo anche l’autobus delle cinque e mezza.» sospirò, per poi allontanarsi senza rivolgergli più un’occhiata.

Sherlock esaminò ancora una volta il metallo macchiato di giallo, quel poco che non erano ancora riusciti a lavar via dall’ultima volta che era stato lì. «Per lo meno alla nuova scuola nessuno gira con bombolette spray alla mano…»

«Immagino…»

«Scusami se… se Mary…»

«Oh no… non preoccuparti, è colpa mia… andiamo?»

Sherlock annuì, raccolse lo zaino da terra e si avviò lungo il corridoio, con John al seguito.

~*~

«Stavamo pensando di andare a mangiare qualcosa al solito ristorante, questa sera… sul presto comunque. Le altre ragazze dicevano che…»

«Proprio oggi pomeriggio?» John allontanò lo sguardo dal piatto di pasta che aveva davanti e si voltò a guardarla.

«Perché?»

«Sherlock voleva andare a vedere quel nuovo film thriller… quello con… glielo avevo promesso.»

Mary gli scoccò un’occhiata truce. «Non puoi rimandare? È soltanto uno, noi siamo due intere squadre.»

John aprì la bocca per replicare, ma non trovò nessuna argomentazione in grado di reggere il confronto.

Erano giorni che il moro lo stava assillando per quel nuovo film: era uno dei pochi che avrebbe potuto davvero interessarlo, diceva, in cui la trama non era per niente stupida e che perfino lui sapeva che avrebbe faticato per trovare il colpevole. Aveva già prenotato i biglietti, e quello era l’ultimo giorno in cui era in programmazione. Non ci sarebbe stata più alcuna possibilità di vederlo.

Tentò di dirglielo ma lei rimase impassibile. «Se è un vero amico capirà perché non puoi andare. Rinunceresti ad un appuntamento con la tua ragazza per accompagnare un ragazzino arrogante ed egoista?»

John incassò le parole senza replicare, non trovando la voglia necessaria per iniziare una discussione che avrebbe dato luogo a un litigio. «D’accordo, ho capito…» sospirò invece, tornando a guardare fisso il proprio piatto e ignorando il sorrisetto di vittoria che si dipinse sul volto della ragazza.

Sherlock non l’avrebbe presa per niente bene.

~*~

«Ti avevo avvisato, Sherlock...»

Il ragazzo lo ignorò, fissando la carta plastificata accartocciarsi nel caminetto e prendere lentamente fuoco. Si era seduto lì, per terra, subito dopo aver ricevuto la chiamata di John un paio d’ore prima, e non si era più rialzato. I biglietti che aveva conservato con cura fino a quel momento, guardandoli con gioia ogni volta che ci posava sopra lo sguardo, erano finiti appallottolati con rabbia nella sua mano nel giro di due minuti, non appena aveva scoperto che sarebbero stati del tutto inutili, per poi essere distesi e appallottolati di nuovo, più volte, fino a quando il fuoco non aveva attirato la sua attenzione e, questione di secondi, i biglietti erano andati a fare compagnia alla legna da ardere.

«Mai farsi coinvolgere, i sentimenti sono un errore, il più grande errore umano.»

«Non sono coinvolto.»

Mycroft sospirò, spostando il peso da una gamba all'altra. «Ne sei così sicuro?»

Le fiamme danzavano davanti ai suoi occhi, allegramente, non facendo altro che accrescere la sua rabbia. Avevano programmato tutto, lui e John, dal film a cosa prendere da mangiare, e Sherlock ci aveva pensato per giorni, felice di poter fare qualcosa di nuovo con il suo amico, qualcosa che in qualche modo lo faceva sentire come tutti gli altri. Il ragazzo sembrava essere stato entusiasta della cosa. Ma ovviamente non avevano fatto i conti con Mary, John non si era evidentemente preoccupato di avvisarla e di tenersi libero per il pomeriggio.

«Sono abbastanza chiari i tuoi sentimenti per lui, sai?»

Sherlock continuò a guardare fisso nel fuoco, lasciando che la rabbia scivolasse via, sostituita da una sensazione di vuoto, un dolore al petto, quel qualcosa che sapeva precedere le lacrime.

«Ma John non sembra avere i tuoi stessi interessi… non è il caso che tu ti arrenda?»

Una sola, unica lacrima solcò il suo volto, scivolando veloce verso il mento e rimanendo sospesa nel vuoto, pronta a cadere.

«Lasciami in pace.» mormorò, la voce leggermente roca.

E, sorprendentemente, Mycroft soddisfò la sua richiesta.

~*~

«Beh? Già a casa?»

John voltò di poco la testa sul cuscino, osservando la sorella con occhi vuoti. «Mary mi ha trascinato ad un appuntamento dell'ultimo secondo.»

Harriet spalancò di poco le labbra, stupita. «E Sherlock?»

Distolse lo sguardo e lo puntò sul soffitto, respirando piano. «Ho sbagliato. Di nuovo.»

La ragazza si lasciò cadere sul letto e osservò tristemente il fratello. «Pensi che ti saresti divertito di più con Sherlock al cinema, vero?»

«Decisamente

Rimasero in silenzio per una decina di minuti, poi Harriet sospirò e chiuse gli occhi, appoggiando la testa al muro. «Pensa a cosa vuoi veramente, John, e tienitelo stretto.»

«Se solo lo sapessi…»

~*~

Il fuoco scoppiettava allegramente nel camino, rompendo il pesante silenzio che alleggiava nella stanza. La luce prodotta dalle fiamme era l'unica a contribuire all'illuminazione del piccolo salotto, insieme alla fioca luce proveniente dalle finestre, quella poca che riusciva a filtrare tra nuvole nere come pece all'esterno.

Sherlock sedeva nella poltrona rossa, lo sguardo perso davanti a sé, il petto che si alzava e abbassava lentamente al ritmo del suo respiro. Erano appena passate le cinque, e aspettava, con calma, l'arrivo della pioggia. Era una scommessa che aveva fatto con se stesso, non appena aveva notato il cielo carico di pioggia, un paio di ore prima. Si era ripromesso che, se non avesse cominciato a piovere prima di tre ore, avrebbe tagliato definitivamente i ponti con John e tutto quello che lo riguardava, perfino Moriarty. Semplicemente, era tutto diventato troppo per essere sopportato, e si era stancato di aspettare. John aveva fatto la sua scelta, aveva scelto Mary, e Sherlock non aveva intenzione di competere con lei per le sue attenzioni. Per una volta si era affidato ai consigli di Mycroft: non valeva davvero la pena provare qualcosa per chiunque. Sherlock si era sempre fidato solo di se stesso e le cose erano sempre andate a gonfie vele. Non aveva veramente bisogno d'altro.

Mancava ormai solo una mezzora scarsa allo scadere del tempo che avrebbe deciso il suo futuro da lì in avanti.

Era una cosa abbastanza stupida, se ne rendeva conto: affidare il destino dei suoi sentimenti a un evento così casuale come la pioggia... eppure sentiva che era la cosa migliore da fare. Da solo forse non sarebbe mai riuscito a scegliere.

Una mezzora ancora senz’acqua a bagnare le strade e sarebbe finito tutto, e forse forse era quello che desiderava nel profondo.

Un tuono risuonò in lontananza, seguito subito da una leggera vibrazione vicina.

S’immobilizzò, smettendo addirittura di respirare per qualche secondo. Un'altra vibrazione.

Con estrema lentezza voltò il capo alla sua destra, guardando interrogativo il proprio cellulare sul basso tavolinetto. Possibile?

Ormai con l'attenzione catturata dal piccolo oggetto si alzò, avvicinandosi.

Sbloccò lo schermo e lesse il nuovo messaggio.

Il cuore mancò un battito, gli occhi che scorrevano velocemente il breve testo.

Con uno scatto repentino volò verso la porta, afferrò il cappotto e si precipitò giù per le scale, salutando a gran voce la signora Hudson e bloccando appena in tempo un taxi di passaggio.

Non si accorse neanche del dolce battito delle gocce di pioggia sul tetto dell'auto, troppo preso dai nuovi pensieri che cominciavano a frullargli per la testa.

 

Vieni e gioca.

Tetto del Barts. JM

 

Continua…

 

 

 

 

 

Note:

[1] Non vi siete perse una scena, tranquille ;)

Un discorso tra Mycroft e Sherlock c'è stato, nel mio immaginario, ma non è strettamente importante per questa storia. Un giorno vedrà la luce, ma in un altro contesto.

[2] Dal primo capitolo:

Sarah annuì. «D’accordo… Ma niente film romantici, non sono proprio il mio genere.»

L’altro ridacchiò. «Neanche il mio.»

 

Ps. Il prossimo capitolo è già a metà! Spero di riuscire a finirlo in fretta sfruttando gli ultimi giorni di vacanza ;)

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - parte II ***


Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 9 – parte II

 

«E poi è arrivata Denise, con quel suo sorrisino falso, chiedendogli le stesse identiche cose che gli stava chiedendo Jennifer! L'avrei presa a schiaffi! E sì che lo sapeva che Denise ci stava provando…»

«Uhm…»

«È l'ora che abbassi un po' i toni quella stronza, poco ci mancava che Denise scoppiasse a piangere. È da secoli che va dietro a quel ragazzo, poi arriva lei e… glielo porta via? Ma che ci provi soltanto…»

«Uhm…»

«Senza contare che l'altro giorno sono stata dal ginecologo, avremo un bel maschietto!»

John storse il naso mugugnando l'ennesimo «Uhm…» del pomeriggio, quando realizzò improvvisamente le ultime parole di Mary e fece scattare su la testa, guardandola con un'espressione inebetita. «Che cosa?»

Mary mise il broncio e sbatté con un po' troppa forza il libro sul tavolo. «Perché non mi stai ascoltando? A cosa pensi di così importante?»

John si passò una mano sul volto, innervosito dallo scherzo appena ricevuto, e sfogliò un'altra pagina del libro di storia, con fare annoiato. «Sono rimasto in biblioteca con te perché mi hai chiesto di aiutarti a studiare, non per sentirmi raccontare vita, morte e miracoli delle tue amiche…»

Mary gli scoccò un'occhiata truce. «Pensavo di raccontarti qualcosa della mia vita, visto che tu non lo fai mai!»

John sospirò, sentendo montare lentamente la rabbia nella sua voce. Il vento si stava alzando ancora una volta, pronto a travolgerli nella tempesta, l'ennesima discussione senza capo né coda. «Per favore, Mary, andiamo avanti, ok? Non ho voglia di perdere tempo inutilmente.»

«Perché ovviamente è questo che fai nei tuoi pomeriggi con Sherlock, no? Studiate e studiate senza neanche guardarvi in faccia!»

John alzò lo sguardo, stupito. «Cosa c'entra Sherlock, ora?»

«Sherlock, Sherlock… non fai che parlare di lui! C’entra sempre. Stavi pensando a lui prima, non è vero? Magari a quanto ti saresti divertito a casa sua invece che stare qui ad ascoltare qualche innocente attimo di vita della tua ragazza!»

La guardò, stralunato, senza tuttavia avere la forza di ribattere. Purtroppo, per una volta, Mary aveva ragione: stava pensando proprio a Sherlock, al fatto che lo aveva lasciato solo con se stesso per l'ennesimo pomeriggio di seguito. Non appena la ragazza aveva cominciato a parlare degli inutili pettegolezzi riguardanti le sue amiche, aveva praticamente mandato il cervello in stand by, lasciando scivolare i pensieri verso quel ragazzo solo nel suo appartamento a Baker Street, a fare chissà quale interessante esperimento.

«Non sono stupida, sai? Non è la prima volta che mi chiedono perché continui a stare con te se non mi dedichi mai le tue attenzioni!»

John strinse le labbra in un muto scatto rabbioso. «È questo che sei? Gelosa di Sherlock?» chiese poco dopo, con la voce più bassa di quanto avrebbe voluto.

Mary portò gli occhi al cielo, esibendo una smorfia disgustata. «Ci manca poco! Ti rendi conto di come ti comporti? In ogni cosa che facciamo c'è sempre Sherlock di mezzo: “ma io dovevo fare di qui, dovevo fare di là”… e alla tua ragazza chi ci pensa? Uhm?»

Il biondo prese un respiro profondo, cercando di calmare almeno in parte la rabbia. «Stai diventando ridicola…»

«Ridicola?» Esibì un sorriso sarcastico. «Come credi che mi debba sentire? Robert per lo meno si premurava di parlarmi!»

«Parlarti? Passiamo insieme almeno otto ore al giorno tutta la settimana, se non di più, perfino nei giorni in cui sto qualche ora da Sherlock! È il mio migliore amico, perché diavolo non dovrei dedicargli del tempo?»

«Un amico non ti occupa i pensieri ventiquattro ore su ventiquattro! Robert era sempre pronto a fare qualunque cosa per me! Portarmi lo zaino quando era troppo pesante, venirmi a prendere alla fine di ogni lezione, uscire tutti i pomeriggi a svagarsi in lunghe passeggiate romantiche…»

«E allora perché l'hai lasciato!» sbottò, alzandosi in piedi e rischiando di buttare a terra la sedia per lo slancio improvviso.

«Signori, cos'è questo baccano?» Il bibliotecario si affacciò da dietro uno scaffale, guardandoli truce. «Vi devo ricordare in quale luogo ci troviamo?»

«Perché pensavo fossi un ragazzo migliore…» sibilò lei non appena fu fuori della vista dell’uomo. «E ci ho anche creduto all'inizio. I tuoi modi gentili, la tua espressione quando mi guardavi… ti rendi conto che non ti comporti più così?»

John chiuse gli occhi e respirò lentamente.

«O forse la tua attenzione ora è rivolta solo a quello stupido ragazzo? Devo dare ragione ad Anderson e le sue teorie sulla coppia Watson-Holmes?»

«Perché devi dire così?» La guardò, deluso.

«Lo sai come vi chiamano? Johnlock! JOHNLOCK! Quelle sfigate di Louise e Melyssa continuano a blaterare cose senza senso su quanto siete “teneri" insieme!»

Spalancò le labbra, stupito. Conosceva le due ragazze, erano quelle del primo anno che si sedevano sempre insieme al tavolo opposto a quello dei Blackheath, fissate con gli attori, film e serie televisive, fumetti e chissà cos’altro. Erano diventate cheerleader all'inizio dell'anno e si erano subito fatte notare per la loro eccessiva esuberanza. Con una fitta al petto soppesò attentamente le parole della ragazza, iniziando con il pensare a quanto fosse ridicola quella teoria e ritrovandosi a ripetere mentalmente quella strana unione di nomi, trovando che suonasse estremamente bene.

«Come dovrei sentirmi io?» piagnucolò lei, rivolgendogli un paio di occhi colmi di tristezza.

John deglutì, scacciando per l’ennesima volta l’immagine di Sherlock tra le sue braccia nel bagno, ed esitò, scuotendo poi la testa debolmente. «Sherlock non ha nessuno, ok? Nessuno che si preoccupi di starlo ad ascoltare e discutere con lui, nessuno che gli dia retta e non si limiti a classificarlo come psicopatico e a prenderlo in giro. Sono il suo unico amico.»

«Quel ragazzo è gay!» lo interruppe l'altra, guardandolo incredula.

Respirò a fondo e annuì. «Lo so.»

Mary spalancò ancora di più gli occhi. «È innamorato di te! Sai anche questo vero? O forse non hai neanche notato come ti guarda?» sibilò tra i denti.

«So anche questo…» mormorò, gli occhi persi in un punto indefinito di fronte a sé. «E allora?»

«Allora cosa?» La ragazza lo guardò con gli occhi lucidi. «Passi del tempo con un ragazzo a cui piaci?»

«Sì!» esclamò, tornando a guardarla con occhi vacui. Si chinò in avanti, abbassando la voce per limitare il disturbo a chi sedeva poco lontano. «E la sai una cosa? Lo faccio perché lui ha veramente bisogno di me…» Con il cuore che cominciava a battergli a mille cominciò a riordinare le proprie cose, ignorando la sua espressione stupefatta e mettendo un po’ troppa energia nei movimenti.

«Che cosa fai?»

Deglutì, chiudendo la cerniera anteriore dello zaino. «Vado da lui.»

Mary si alzò, fermandolo per un braccio. «Perché?»

La guardò negli occhi, mantenendo orgogliosamente lo sguardo. «Perché è la cosa giusta da fare.»

«Non puoi farlo! Mi stai tradendo con Sherlock? Mi stai veramente facendo questo?» Una lacrima le rigò il volto, gli occhi castani che lo fissavano, increduli.

John la guardò per qualche secondo, ponderando attentamente le parole, ma quando stava per parlare avvertì il cellulare vibrare nella propria tasca. Abbassando lo sguardo lo tirò fuori dai pantaloni e lo sbloccò, spalancando poi gli occhi di fronte al messaggio.

«Se davvero mi hai amato, una volta, guardami negli occhi e sistemiamo tutto. Facciamo pace e vediamo di risolvere la cosa… okay?» chiese lei, con un filo di voce.

John respirò piano e tornò a rivolgerle lo sguardo. «Devo andare, mi dispiace Mary…»

Fece per girarsi ma lei lo bloccò, prendendogli il volto tra le mani e costringendolo a guardarla dritto negli occhi. «Ti prego…» cominciò a tremare lievemente, altre lacrime che si aggiungevano alla prima nel lento percorso verso il mento.

Il ragazzo alzò le mani e le poggiò sulle sue. «Mi dispiace, non posso.» Un nodo gli si fermò in gola. «Hai ragione, non sono stato leale con te, e mi dispiace. Lui… lui ha bisogno di me…» respirò piano, scacciando il senso di colpa. «Mi dispiace…» Allontanò le sue mani dal proprio volto, continuando a guardarla negli occhi, poi si voltò definitivamente e sparì verso l’uscita della biblioteca.

 

Qualcuno potrebbe farsi male… sul tetto. JM

~*~

Sherlock poggiò le mani sulla porta di uscita e, dopo un ultimo momento d’esitazione, spinse il battente e la aprì.

Subito una folata di aria fresca di fine inverno gli sferzò il volto, costringendolo a portarsi una mano alla fronte per scostare un ciuffo ribelle di capelli, poi si guardò intorno e mosse lentamente qualche passo in avanti. Registrò con gli occhi ogni minimo particolare di quella superficie di cemento, dal buco di scolo in un angolo alla vernice scrostata presente su tutto il cornicione, fino a fermarsi definitivamente sulla nera figura seduta poco più avanti, girata verso l’esterno della terrazza, che guardava con occhi persi il paesaggio sottostante.

«Ben ritrovato, Sherlock!» Moriarty si voltò verso di lui, sorridendo mellifluo. «Pensavo di non vederti più! Com’è la nuova scuola?»

Sherlock non rispose, fermandosi a pochi passi di distanza e studiandolo attentamente, la testa leggermente inclinata di lato.

«Lo sai? Ci sei mancato… la squadra ha perso una delle sue vittime preferite.» rise l’altro. Gettò un’ultima occhiata di sotto, poi si alzò e unì le mani dietro la schiena. «Allora… cos’è tutto questo silenzio? Hai perso la tua solita faccia tosta

«Cosa vuoi?» chiese, ignorando la sua domanda.

Moriarty alzò lo sguardo, per poi coprirsi gli occhi con una mano. «Bel pomeriggio per morire, vero? Guarda, perfino il cielo piange tutto il loro dolore!»

Sherlock s’irrigidì, respirando piano.

Il ragazzo rise di gusto alla sua espressione quasi stupefatta e tornò a guardarlo, cominciando a girargli intorno. «Sai cosa succede a chi ne sa più di quanto dovrebbe…» mormorò.

Il moro deglutì e lo seguì con lo sguardo. «Perché dovresti farlo ora? Hai avuto tutto il tempo, prima…»

Rise nuovamente. «Davvero non ci arrivi da solo?»

 

 

 

Le lacrime le rigavano il volto, silenziose, mentre se ne stava seduta lì, esattamente dove John l’aveva lasciata, a fissare con occhi vuoti la parete di fronte a sé.

Era stata una stupida a non notarlo prima, se ne rendeva conto solo in quel momento. O meglio, se n’era resa conto quando era stato lui a dirglielo, quell’uggioso pomeriggio dopo gli allenamenti. Era così palese, così terribilmente chiaro, che lei stessa non riusciva a capire come avesse fatto a non accorgersene fino a quando non era stato qualcun altro a suggerirglielo, a metterle quella pulce nell’orecchio. John era chiaramente innamorato di quell’insulso ragazzo, quell’arrogante, insolente e altezzoso ragazzo. Sarebbe dovuto risultarle evidente dalle occhiate che gli lanciava, da quell’espressione completamente persa che aveva quando ne parlava, da quei continui e insensati riferimenti ai pomeriggi che passava insieme a lui. Ma era andata avanti per la sua strada, ignorando tutti quei segni che le si presentavano sotto agli occhi, convinta dei sentimenti di John per lei. Lo aveva notato fin dal suo secondo anno lì al Barts, quando si erano incrociati in un corridoio e il ragazzo le aveva rivolto uno sguardo quasi adorante, osservandola inebetito fino a quando non era sparita dietro l’angolo. Mary sapeva di avere questo effetto sui ragazzi, così all’inizio non se ne era curata più di tanto. Poi però le cheerleader e i Blackheath avevano iniziato ad uscire insieme, e piano piano avevano cominciato a conoscersi meglio: la bionda aveva tuttavia accuratamente evitato ogni sua possibile avance, concentrandosi invece su quelle di Robert, che era molto più affascinante e sicuramente più popolare del giovane Watson. Si era ricreduta solo qualche mese prima, essendosi stufata dei suoi soliti discorsi privi di senso. Al tempo non aveva quasi fatto caso a Sherlock, fermamente convinta che John passasse del tempo con lui e stesse dalla sua parte negli scontri con i Blackheath solo a causa del suo buon cuore.

«Ma sei proprio sicura che John provi per te quello che tu provi per lui?» Le sue parole le rimbombarono nella mente per l’ennesima volta nelle ultime settimane, riecheggiando con l’identico tono con le quali erano state pronunciate.

Ricordava bene quel momento, subito fuori dall’uscita degli spogliatoi: quel giorno John non c’era, si era preso una brutta febbre ed era rimasto a casa per quasi una settimana. Era stato proprio in quel momento che Moriarty si era avvicinato…

 

 

 

«Andiamo… non potevo ucciderti così, all’improvviso, senza nessuna apparente ragione… e poi il divertimento dove sarebbe stato?»

Sherlock represse un brivido. «Che cosa avresti fatto di così divertente?»

«Oh… tante, belle cose. Sai, una volta che hai fatto partire la fiamma non ci vuole molto perché il fuoco si espanda, soprattutto se hai ben steso prima il terreno con molte foglie secche…»

Socchiuse le palpebre, cercando di capire il senso di quella metafora.

«Quante persone ti odiano qua dentro! Hai mai provato a contarle? Ogni ragazzo che hai rimbeccato per la grammatica scorretta, che hai pubblicamente umiliato svelando interessanti dettagli sulla sua vita… un po’ tutti, insomma. Cominci a capire…?»

Sherlock aprì nuovamente gli occhi, realizzando finalmente l’intricato piano del ragazzo che gli stava di fronte. «E una volta data la notizia della mia assenza per droga non c’è voluto niente perché tutti ci credessero, cominciando a pensare che fossi solo un tossicodipendente…»

Jim sorrise, soddisfatto. «Vedi? E non ho fatto neanche molta fatica, hai fatto tutto tu. Quei dettagli sul passato sono soltanto tuoi… gli errori che hai commesso anche.»

«Quindi come pensi di farla finire la storia?» chiese infine, il cuore che cominciava ad aumentare il suo ritmo.

 

 

 

«Dimmi un po’ Mary, quante volte John ti ha abbandonato per il suo migliore amico? Quante volte si è dimenticato di te perché doveva fare qualche cosa di molto interessante con quello Sherlock Holmes?»

Il cuore cominciò a batterle velocemente. «Che cosa vuoi dire?»

«Andiamo… non dirmi che non ci hai mai pensato. Ti sei mai chiesta che cosa facciano quei due insieme tutti quei pomeriggi? O per quale assurdo motivo John continui a riferirsi a lui ogni santa volta?»

A quelle parole rimase interdetta, fissando il ragazzo a bocca aperta. «Mi staresti dicendo che John è innamorato di Holmes?»

L’altro strinse le spalle. «Di questo non ne sono certo, ma forse forse darei ascolto a tutte quelle voci che li riguardano… non credi?»

«Piantala di dire fesserie. John non è gay

Moriarty rise di gusto. «Solo perché non è mai stato con un ragazzo non significa certo che non sia gay… chi ti dice che non abbia represso la sua situazione solo per non essere preso di mira? Non è la prima volta che un omosessuale si nasconde agli occhi di tutti coprendosi con una ragazza… nel tuo caso, addirittura una della più popolari della scuola!»

«John non farebbe mai una cosa del genere!»

«Uhm… quanto realmente sai di lui, ragazza mia? È cresciuto in una famiglia relativamente povera, senza un padre, con una sorella alcolizzata…»

«Smettila.»

«E poi quel bacio… fossi in te mi sarei preoccupata.»

Lo guardò, esterrefatta. «Quale bacio?»

«Come, non lo sapevi?» L’espressione sorpresa sul suo volto era comicamente falsa. «È stata la causa del loro litigio! Sherlock si è spinto un po’ troppo in là e ha pensato bene di baciarlo, quella volta nel bagno… i pettegolezzi girano, lo sai?»

A quelle parole sbiancò completamente.

«E quanto si è arrabbiato John! Ma ora lo ha perdonato… proprio un bravo ragazzo.»

Mentre ripensava al discorso, si rigirò quello strano giochino tra le mani, con un’altrettanto strana levetta al centro.

 

 

 

«Ragazzo depresso si suicida nella sua scuola! Il ragazzo che soffriva di depressione, morto suicida dal tetto del rinomato liceo Barts!»

Sherlock respirò a fondo, inalando più aria possibile nel tentativo di calmare l’improvvisa agitazione. «Cosa ti fa credere che riuscirai nell’intento? Potrei benissimo aver chiesto aiuto a mio fratello, nel tragitto per venire qui…»

«Ma sappiamo entrambi che non è così, non è vero?» sogghignò l’altro. «Devi proprio odiare tuo fratello per non rivolgerti a lui in un momento cruciale come questo. Sai, per essere così intelligente sei proprio un idiota…»

Rabbrividì al suono di quella parola, quell’insulto che John gli aveva sempre rivolto scherzosamente. «E se decidessi di non farlo? Se decidessi di non buttarmi? Cosa faresti per obbligarmi? Mi punteresti una pistola alla testa?»

Moriarty sorrise, beffardo.

 

 

 

«Beh, pensaci Mary… parlargli. Magari ha solo bisogno di un aiuto esterno, magari puoi riportarlo sulla buona strada… non pensi anche tu?»

Rimase a fissarlo, inerte.

«Nel caso le cose finissero male, ecco… potresti voler dare una piccola lezioncina al tuo caro ragazzo…»

Era stato in quel momento che le aveva premuto nella mano quello strano oggetto, sorridendole rassicurante.

«Ti basterà tirare quella piccola levetta al mio segnale e John capirà il madornale errore che ha commesso…» le aveva sussurrato in un orecchio, prima di accarezzarle il volto e andarsene.

 

 

 

«Se non lo farai gli spogliatoi del campo da rugby salteranno in aria, e con loro anche tutti quelli che si stanno preparando al suo interno proprio adesso! Allora, cosa hai intenzione di fare?»

~*~

John uscì dalla biblioteca correndo, lasciano perfino cadere lo zaino a terra senza quasi accorgersene.

Si fiondò per i corridoi, correndo più velocemente che poteva, cercando di pensare razionalmente a cosa stesse accadendo sul tetto della scuola.

Il suo primo pensiero dopo aver letto il messaggio era andato a Sherlock, al fatto che sicuramente il ragazzo doveva trovarsi sul tetto: solo in un secondo momento aveva realizzato che il “qualcuno” che avrebbe potuto farsi male poteva essere effettivamente lui.

Sentiva la paura crescergli lentamente dentro, facendosi strada tra tutti quei pensieri ottimisti che non riusciva a fare a meno di formulare in situazioni di emergenza come quella. Aveva il terrore di non arrivare in tempo, di non poter fermare qualsiasi cosa stesse succedendo là sopra: non poteva permettersi di perdere Sherlock, non dopo tutto quello che era successo, e neanche che qualcuno potesse fargli del male. Aveva giurato che non lo avrebbe più abbandonato, che ci sarebbe stato quando ne avrebbe avuto bisogno.

Si fermò al secondo piano, sfinito, piegandosi sulle ginocchia e cercando di riprendere fiato.

Perché non era rimasto con lui come prefissato, quel pomeriggio? Perché non gli era rimasto al fianco, esattamente dove doveva stare?

Sherlock, Sherlock, Sherlock.

Riprese la sua corsa non appena ebbe recuperato abbastanza forze e completò le ultime rampe di scale, le gambe che a stento lo reggevano in piedi per il prolungato sforzo. Rimase sul pianerottolo per qualche secondo, respirando piano, fissando quella porta grigia che lo separava dalla terrazza esterna e da tutto quello che lì stava accadendo e sarebbe accaduto.

Non poteva sapere cosa lo stava aspettando, non poteva sapere se sarebbe tornato indietro vivo o se sarebbe morto su quel tetto. In effetti non sapeva neanche se era uno scherzo, un diversivo, o una trappola, ma in quel momento non gli importò, neanche se ciò che stava per fare lo avrebbe portato tra le braccia della morte.

Nonostante questo, John prese un respiro profondo, poi spinse definitivamente il maniglione antipanico ed uscì fuori, all’aperto, sotto la pioggia scrosciante.

~*~

Irene Adler aveva vissuto a lungo sotto l’ombra di Jim Moriarty, lo aveva seguito come un cagnolino durante i suoi anni al Barts, sapendo di essere una delle sue favorite e una delle quali si fidava maggiormente. Tuttavia non era di certo una stupida, né una sprovveduta, e sapeva che il ragazzo nascondeva qualcosa dietro a quella facciata da studente modello che si era costruito intorno. Non aveva mai osato andare oltre, cercare di capire più a fondo: non avrebbe mai neanche potuto immaginare di prendersi gioco di lui. Moriarty era troppo intelligente, se ne sarebbe sicuramente accorto se qualcosa non fosse andato per il verso giusto. E Irene non aveva alcuna intenzione di cacciarsi nei guai.

O almeno non ne aveva avuta fino a quello che sembrava un lontano giorno d’inverno, poco prima che Sherlock Holmes sparisse dalla circolazione.

Aveva accettato, felice di potersi prendere gioco di lui, e ora era lì, pronta all’azione già da qualche mese, in attesa che succedesse qualcosa, qualsiasi cosa che la collegasse al giovane ragazzo che ammirava.

Quando quel pomeriggio ricevette il messaggio di Sherlock, breve e sintetico come suo solito, sapeva già cosa fare.

~*~

La prima cosa che vide una volta fuori all’aria aperta, nonostante il brutto tempo, fu l’inconfondibile sagoma del suo migliore amico, in piedi sul parapetto. Il cuore perse un battito mentre lo guardava esterrefatto.

«SHERLOCK!» urlò poco dopo, tendendo una mano in avanti come a volerlo afferrare.

Con il cuore in gola vide il ragazzo girarsi di colpo, i capelli fradici appiattiti lungo il volto pallido ed emaciato. Il suo fu solo un debole sussurro. «John…»

«Ma bene bene… John Watson, il principe azzurro, è arrivato.»

Il mediano strizzò gli occhi e si guardò attorno, scorgendo subito l’alta figura di Moriarty poco distante da sé. «Jim…»

«Cominciavo a pensare che non saresti venuto… ma come avresti potuto? Sherlock, l’unico ragazzo di cui ti saresti mai potuto innamorare…»

Si portò una mano sulla fronte per ripararsi dalla pioggia e, ignorando deliberatamente il compagno di squadra, si voltò verso l’amico. «Scendi immediatamente di lì!»

L’occhiata che il moro gli rivolse era colma di rabbia e agitazione. «Maledizione…» lo sentì mormorare tra sé e sé.

«Ora sì che le cose si fanno interessanti! M’immagino già i titoli sui giornali, domani mattina… La tragedia omosessuale che ha sconvolto il liceo Barts, il suicidio della coppia gay vittima del bullismo adolescenziale»

John tornò a guardare Moriarty, ansimando. «Che cosa vuol dire?»

«Lascialo andare.» la voce ansiosa di Sherlock riuscì a farsi sentire sopra lo scroscio della pioggia.

«Oh Sherlock, e come potrei? Così che poi sia in grado di raccontare tutto? Ha scelto lui di venire qui, ha abboccato all’esca. Non mi resta altro da fare che simulare il vostro suicidio! Non è un bel finale per una storia? E insieme andarono verso la morte, uniti per sempre dal loro profondo amore…»

«Oh per l’amore del cielo, basta!»

«Paura John? Vedrai, sarà molto semplice…»

«Sherlock! Ti prego, scendi di lì…»

Il moro gli rivolse un’occhiata furente, toccata comunque da una punta di dolore nel sentire riecheggiare in quelle parole il panico dell’amico. Perché John doveva sempre complicare tutto in quel modo? Si morse un labbro e strinse una mano a pugno, cercando di fermare un accenno di tremore. «Mi dispiace John…»

 

 

 

«Mary!» Molly irruppe nella stanza, individuando subito la ragazza seduta in fondo, occhi alla parete. Si avvicinò di slancio, rallentando il passo quando lei le rivolse uno sguardo addolorato, gli occhi rossi per il pianto. «Mary, cosa succede?» chiese cauta.

L’altra scosse la testa. «Lasciami in pace…»

Respirò lentamente, cercando di trovare le parole più adatte. Vide quello che reggeva in mano e per poco non si prese un colpo. «Ti prego, Mary, ascoltami…»

 

 

 

Irene salì prudente gli ultimi scalini, muovendosi con passo felpato, cercando di non farsi sentire dal ragazzo in piedi di fianco alla porta, lo sguardo puntato all’esterno.

Solo quando gli fu vicina si azzardò a parlare, con un filo di voce. «Ritrovo pomeridiano sul tetto, quest’oggi, Moran?»

 

 

 

«Se non lo facciamo, farà saltare in aria il campo da rugby, John…»

Il biondo spostò gli occhi da uno all’altro, incredulo. «Moriarty… fermati ti prego. Siamo solo ragazzi dannazione! Che cosa diamine stai facendo?»

«Oh John… quanto sei ingenuo… non capisci che non ti rimane nient’altro da fare? Saltate e finiamola qui. Stiamo solo perdendo tempo per inutili sciocchezze…»

Rabbrividì, cercando qualcosa nello sguardo di Sherlock che gli dicesse quanto tutto quello fosse solo una messa in scena. Ma lui era impassibile.

 

 

 

«Mary, ascoltami, io ti capisco… davvero. John si è comportato malissimo. Ma devi capire che…» sospirò, guardandola dritto negli occhi. «Non sempre le cose vanno come vorremmo… no?» tentò un debole sorriso. «Ci siamo innamorate entrambe del ragazzo sbagliato…» sussurrò.

La bionda scosse la testa. «John era perfetto…»

«No, non lo era, se siamo in questa situazione non lo era affatto. Guardami, Mary… io non ho niente di quello che hai tu. Popolarità, bellezza, ragazzi ai miei piedi… mi sono innamorata di Sherlock. Lo sono ancora… credo.» deglutì. «Ma non gliene faccio una colpa. Dovresti sapere anche meglio di me che l’amore non funziona mai come dovrebbe.»

«Perché lui? Perché lui e non me?» chiese con un filo di voce.

«Perché è andata così. Perché John si è ritrovato in Sherlock, loro sono… sono così perfetti insieme. Insomma, li hai mai visti?»

Mary scosse la testa e si prese il viso tra le mani. «Non posso, non posso farlo…»

«Sì che puoi! Calmati, va bene? Prendi un respiro profondo… andrà tutto bene. Troveremo anche noi la nostra anima gemella un giorno. Uhm?»

«Io non…»

Si avvicinò, fino a inginocchiarsi di fronte a lei. Con gesti lenti e misurati le tolse l’oggetto di mano e la strinse in un abbraccio, sospirando sollevata quando Mary la strinse a sé in risposta, cominciando a singhiozzare sulla sua spalla.

 

 

 

Con un movimento veloce del braccio lo disarmò, approfittando della sua sorpresa, e lo colpì sulla nuca con il calcio dell’arma. «Buonanotte Seb…» sussurrò, adagiando piano il suo corpo a terra.

 

 

 

«Oh ragazzi basta! Mi sto stancando, ok? Le minacce le avete avute, ma forse non vi sono ben chiare. Seb! Vieni avanti, forza…»

Moriarty fece il grave errore di portare gli occhi al cielo e per questo non vide la figura della ragazza avanzare sul terrazzo, l’arma puntata verso di lui. Quando finalmente abbassò lo sguardo, arcuò un sopracciglio, perplesso. «Oh… oh fantastico!»

John si voltò di scatto verso la nuova arrivata, il sollievo che lo invadeva improvvisamente mentre vedeva con la coda dell’occhio Sherlock scendere dal cornicione con un lieve balzo.

«Mi hai sottovalutato, Moriarty…» cominciò il moro, camminando baldanzoso verso di loro, un ghigno soddisfatto sulle labbra. «Oh, per lo meno, non ti sei curato di tenermi continuamente sotto controllo e notare il mio piccolo cambiamento.»

Moriarty rise, una risata priva di gioia.

«Una volta, forse, avrei fatto tutto di testa mia, ma mi sono accorto in tempo che se avevo intenzione di batterti dovevo cedere e chiedere aiuto. Hai intessuto un buon piano, davvero, ma sono riuscito a superarti…»

«Sherlock Holmes, una mente a dir poco geniale direi… che mi dici di Mary?»

A quelle parole John spalancò gli occhi, spostandoli da uno all’altro.

«Completamente inoffensiva.»

«E chi ti dice che quella ragazza fosse la mia unica arma?»

«Oh, non lo era, infatti, non è così? Un semplice diversivo. La tua arma era già al lavoro…»

«Lo è ancora, o hai fermato anche quella?»

Sherlock fece una smorfia. «Ovviamente. Non c’è stato alcun allenamento oggi, ristrutturazione degli spalti, non lo sapevi?»

Moriarty alzò le braccia al cielo. «Complimenti. Pensavo non ti saresti abbassato a un tale livello di stupidità. L’amore non è un vantaggio, Sherlock.»

Il ragazzo gettò una veloce occhiata a John, il quale sentì il cuore mancargli un battito. «Ne sono consapevole e non vi cadrò più tanto facilmente. Sbagliando s’impara…» citò, guardandolo con supponenza.

«Hai calcolato tutte le tue mosse, complimenti… ma temo tu non abbia pensato al mio piano B.» disse, mentre armeggiava con le tasche della felpa, per poi tirarne fuori un’altra arma. «Hai sempre creduto che non mi sarei mai abbassato a sporcarmi le mani personalmente, non è così?» Caricò e puntò verso Sherlock, il quale s’irrigidì sul posto.

Irene strinse con più sicurezza la sua pistola. «Vuoi fare a chi spara per primo?»

«Oh dolcezza… non ti conviene giocare con me.»

Qualcosa dentro John scattò, scacciando il panico improvviso. Incrociò lo sguardo dell’amico, che a sua volta lo stava osservando, e rimase colpito dal terrore soppresso nei suoi occhi, quella muta richiesta d’aiuto, o forse una richiesta di perdono, non lo sapeva. Seppe soltanto che in quel momento una scarica di adrenalina lo invase, dandogli un coraggio che non avrebbe mai creduto di possedere. In seguito, non avrebbe più avuto dubbi su che cosa l’avesse spinto al gesto estremo.

Un rumore sordo risuonò per le scale, di passi che salivano velocemente, e in quell’esatto istante avvenne tutto, con una velocità tale che sarebbe stato difficile ricostruire l’intera scena senza perdere qualche particolare.

Le dita del ragazzo premettero leggermente di più sul grilletto, pronte a lasciare andare il colpo, quando John scattò in avanti, con la forza e la rabbia dovuta ad anni e anni di allenamento nel ruolo di mediano d’apertura della sua squadra, e si gettò verso di lui, deciso a deviare la traiettoria di un eventuale sparo.

Insieme con John anche Sherlock si buttò in avanti, un solo millesimo di secondo di ritardo, e urtò la spalla di Moriarty, il quale si era voltato verso il compagno di squadra e aveva premuto definitivamente il grilletto.

Il suono dello sparo risuonò nell’aria, nel momento esatto in cui una serie di uomini in nero si riversava sulla terrazza, accerchiando i ragazzi.

Moriarty si scrollò di dosso il moro e buttò via l’arma, portando le mani in alto.

Sherlock, invece, si lasciò spingere via e guardò come al rallentatore il suo migliore amico portarsi una mano alla coscia, un’espressione puramente sorpresa sul volto, e scivolare sul pavimento bagnato su un ginocchio, vacillando pericolosamente.

Il terrore lo invase da capo a piedi, una scarica elettrica percorse ogni centimetro del suo corpo, irrigidendo gli arti, mandando in frantumi per un momento ogni stanza del suo palazzo mentale. Gli parve di sentire il proprio cuore perdere più di un battito, e, quasi senza neanche rendersene conto, si gettò in avanti, raggiungendolo.

Non l’arteria femorale, non l’arteria femorale, non l’arteria femorale.

Si buttò in ginocchio al suo fianco e lo accolse tra le proprie braccia, adagiandolo a terra in modo che la gamba ferita rimanesse a riposo. Si sedette sui talloni, un braccio dietro la testa di John e l’altro che artigliava inconsciamente il suo maglione, e osservò attentamente la ferita, cercando invano di localizzare il punto esatto in cui il proiettile era penetrato.

John, John, John, John…

Lo tenne seduto, accostandoselo al petto, stringendo un po’ più del necessario. «Ti prego, John, resisti…»

Il ragazzo rantolò, alzando gli occhi su di lui, e le sue labbra si aprirono in un accenno di sorriso. «Sherlock…» Uno smorfia di dolore e chiuse gli occhi, respirando con forza per inalare più aria possibile.

Sherlock si avvicinò sempre più pericolosamente al suo viso, andando quasi a sfiorare il suo naso con il proprio. «Ti prego, John…»

«A-andrà tutto bene.» mormorò piano l’altro, le forze che, sentiva, lo stavano lentamente abbandonando. «Andrà tutto bene…» ripeté, socchiudendo gli occhi.

Le loro fronti si toccarono e Sherlock strinse gli occhi, spingendo un poco per poter approfondire quel piccolo contatto, cercando conforto in quelle parole, aggrappandosi al ragazzo come se fosse la sua unica ancora di salvezza in un mare in tempesta. Riaprì le palpebre solo quando sentì la mano dell’amico aggrapparsi a sua volta al colletto della sua giacca. «Tieni gli occhi fissi su di me…»

Sherlock obbedì, respirando piano e a fatica.

L’ultima cosa che John vide, prima di chiudere gli occhi, furono le lacrime che solcavano il volto del suo migliore amico, per la prima volta senza controllo; l’ultima cosa che avvertì fu il calore del suo corpo, del suo abbraccio, del suo volto a pochi centimetri dal suo; l’ultima cosa che sentì, il singhiozzo silenzioso del suo pianto.

Ti prego Dio, fammi vivere.

E tutto fu buio.

 

Continua…

 

 

 

 

 

Ok, ammetto che questa cosa comincia a sfiorare il ridicolo.

Vi giuro, in tutte le lingue del mondo e sulla testa di Moffat, che questa doveva essere la seconda e ultima parte del capitolo nove.

Ma, e c’è un ma, sono una grande [inserire insulto qui] e siccome devo sempre stravolgere tutti i programmi, siccome le scene che mi scrivo capitolo per capitolo prima di iniziare a scrivere una storia non sono mai abbastanza, siccome a quanto pare questi due piccoli idioti devono farci patire le pene dell’inferno…

C’è una parte III.

Mi dispiace, mi rendo conto che la cosa sta andando un po’ per le lunghe e vi chiedo umilmente scusa.

Per quanto riguarda il prossimo capitolo sto facendo tutto il possibile per finire di correggerlo, ma la vita reale si è messa in mezzo… Spero veramente di non dovervi fare attendere troppo <3

Gage.

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Capitolo 11
*** Capitolo 9 - parte III ***


Non dirò niente. Solo… passatemi l’OOC questa volta.

E non uccidetemi.

(Ho scritto il capitolo ascoltando di sottofondo Yesterday cantata da Lea Michele. Se volete una colonna sonora sotto…)

 

 

 

 

 

A quella meravigliosa persona che si sta prendendo la briga di betare ogni capitolo (e di sopportarmi, questa è una delle parti fondamentali di essere la mia beta, forse^^). Perché senza di lei quasi sicuramente ora non saremmo qui.

Happy, a very very happy birthday, lalla <3

(Vero che mi vuoi bene in fondo in fondo? *^*)

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 9 – parte III

 

Seppe di essere sveglio solo quando avvertì distintamente il leggero scrosciare della pioggia, poco lontano, il ticchettare delle gocce contro il vetro di una finestra.

Rimase immobile, ascoltando il suono del proprio respiro, in attesa che la nebbia che gli affollava la mente si dissipasse almeno un poco, permettendogli di riprendere completamente il controllo del suo corpo.

La prima cosa che lo colpì, quando riaprì lentamente gli occhi, fu una forte luce bianca che tentò di mettere lentamente a fuoco sbattendo più volte le palpebre ancora impastate dal sonno. Mosse di poco il capo, strizzando di colpo le palpebre quando una fitta gli attraversò il cranio da parte a parte. Aspettò immobile che il dolore si dissipasse, poi si azzardò a gettare una nuova occhiata al soffitto. Respirò a fondo, rilassandosi qualche secondo, poi finalmente tentò di tirarsi su puntando i gomiti.

«Fossi in te non farei un simile sforzo.» La voce pacata provenne direttamente dalla sua destra e John fece appena in tempo a sentirla che una nuova fitta, questa volta alla gamba, gli mozzò il fiato. «Non ne ha alcun bisogno.»

Una sedia strusciò sul pavimento e una figura alta comparve nel suo campo visivo, avvicinandosi.

John rinunciò al tentativo di mettersi a sedere e si accasciò contro il cuscino, voltandosi verso l’uomo che si rivelò essere nient’altri che Mycroft Holmes.

«Buongiorno, John.» cominciò l’altro, un sorriso tirato che andava a dipingersi sul suo volto. «Come stai?»

Il ragazzo accolse con una smorfia il cambiamento di tono.

«Dovrei saperlo?» sbuffò, accennando comunque ad un sorriso.

«Il corpo è il tuo, nessuno può sapere meglio di te se stai bene o no. Anche se, in effetti, dal tuo punto di vista preferiresti una risposta per capire esattamente il tuo stato attuale di salute – in seguito alla ferita di arma da fuoco che ti sei coraggiosamente procurato salvando mio fratello da quello che avrebbe potuto essere un colpo mortale – e non un semplice controllo personale delle facoltà fisiche, che potresti benissimo trovare ascoltando a fondo il tuo corpo. Non ha molto senso chiederselo quando posso tranquillamente darti il parere del medico che è passato di qua giusto cinquantatre minuti fa. In ogni caso, la mia era una domanda di cortesia.» concluse Holmes, guardandolo dall’alto in basso.

John sbatté un paio di volte le palpebre, stordito dal fiume di parole, e poi annuì lentamente, attento a non procurarsi altre probabili fitte. «Credo… penso di stare bene.»

«In questo caso posso assicurarti che hai ricevuto le migliori cure che sono riuscito a trovare e sei in buona salute. L’operazione è andata a dovere senza lasciare danni permanenti. Fortunatamente il proiettile ha evitato l’arteria femorale, anche se ci è andato molto vicino. Hai avuto… fortuna.»

Si passò una mano sulla fronte, ignorando le ultime parole dell’uomo: di certo non aveva nessuna intenzione di pensare a quanto fosse andato vicino alla morte, non dopo essersi risvegliato sano e salvo in un comodo letto di ospedale.

«E Sherlock? Dov’è? Sta bene?» chiese poi, quando il ricordo del volto dell’amico gli tornò alla mente, pallido e tirato sotto la pioggia continua.

«Si sveglia dopo aver rischiato la morte, senza sapere neanche come si è trovato in una simile situazione, e la prima cosa cui pensa è mio fratello. Mi sorprendi, John…»

Arrossì di colpo, trovando fastidioso il ritorno alla formalità nel suo tono. Ignorò il suo sorrisetto a fior di labbra e guardò da un’altra parte, cercando di far defluire via il sangue dal volto pensando a qualcosa che non fosse il viso di Sherlock a pochi centimetri di distanza dal suo.

«Sta… bene. Neanche un graffio per sua grande fortuna. È rimasto qui in ospedale fino a quando non abbiamo ricevuto la notizia che eri fuori pericolo, e a quel punto è tornato a casa senza una parola. Non ha voluto mettere piede fuori in questi giorni…»

A quelle parole John deglutì, sperando con tutto il cuore di non aver ferito in qualche altro modo l’amico. Ricordava fin troppo bene la sua rabbia quando era arrivato sul tetto, il suo volto furioso quando lo aveva visto, come se fosse arrabbiato con lui per essere venuto.

«Suppongo che avrete modo di vedervi una volta fuori da questo posto, non è così chiuso in se stesso da non volerti vedere. Credo.»

John annuì e sospirò. «Mia… madre? E mia sorella?»

«Oh, stavano andando a mangiare quando sono arrivato. Spero non se la prenderanno se non sono riuscite a vedere il tuo risveglio.» rimase in silenzio, forse aspettando altre domande, ma quando John gli lanciò un’occhiata di traverso si rese conto della domanda sottointesa e spalancò impercettibilmente gli occhi. «E ovviamente stanno bene. Un po’ preoccupate, ma suppongo che stiano bene…»

Chiuse gli occhi e sorrise divertito: gli Holmes non sarebbero mai cambiati. «Quindi… perché sei qui?» chiese infine.

L’altro sospirò. «Perché ho ragione di credere che tu voglia sapere qualcosa di tutto quello che è successo, e sono l’unico, a parte Sherlock, in grado di raccontarti come sono andate le cose per filo e per segno.»

«Bene. Era tutto organizzato? Nei minimi dettagli? Non c’era il rischio che Sherlock morisse se non fossi andato sul tetto?»

Mycroft sorrise, fortunatamente non visto dall’altro che aveva ancora gli occhi chiusi. «Esattamente. Non avevo calcolato il fattore John Watson, anche se ammetto che la piega che ha preso la faccenda è migliore di quanto avessi programmato.»

«Cos’era in programma?»

«Un finto suicidio.»

John aprì gli occhi e lo guardò, stupito. «Finto?»

«Sì, una cosa un tantino complicata. Penso che Sherlock sarà felice di illustrartela in un altro momento, magari quando sarai più lucido.»

«Quindi… Sherlock aveva un piano diverso?»

«Il mio adorato fratellino deve sempre fare di testa sua… Sì, aveva un piano tutto suo. Sono rimasto piacevolmente stupito dalla quantità di persone che è riuscito a coinvolgere.»

«In che modo?»

«Oh beh… mi pare di aver capito che la signorina Molly Hooper avesse il compito di sorvegliare Mary Morstan, Irene Adler di sorvegliare Sebastian Moran e arrivare in caso di bisogno, mentre Gregory Lestrade il compito di chiamarmi una volta giunto il momento. Ho fatto il possibile per arrivare quanto prima. E siamo riusciti ad evitare una probabile morte per dissanguamento, il che mi sembra un ottimo risultato.»

John si accigliò. «Perché non mi è stato detto niente di tutto questo?»

Mycroft stette un attimo in silenzio, soppesando le sue parole, poi scosse la testa. «Non so cosa passasse per la mente di mio fratello, perdonami.»

«E Moriarty che fine ha fatto?»

«Avremo il verdetto finale solo domani, ma credo che qualche annetto in carcere se lo farà. Per quanto la situazione potrà essere in mio potere tenterò di fare del mio meglio perché sia più tempo possibile.»

Avrebbe voluto fare un milione di altre domande, ma in quel momento la porta della stanza si aprì e Mycroft per poco non fu travolto dal passaggio di Jocelyn Watson e della figlia che accorsero subito al letto di John, la prima regalandogli un lungo abbraccio e la seconda rimanendo un attimo in disparte per poi prendersi il suo tempo nell’abbracciare il fratello a sua volta e ricoprirlo d’insulti per lo spavento che gli aveva fatto prendere.

John vide solo con la coda dell’occhio il maggiore degli Holmes alzarsi con un’assurda tranquillità, sistemarsi la giacca addosso e uscire in silenzio senza più alcuna parola.

Riuscì a sopportare tutte le chiacchiere delle due donne solo al pensiero che dopo quello che era successo avrebbe potuto non rivederle mai più, e quando la prima tempesta si calmò accettò di buon grado la chiacchierata che seguì, anche se non riuscì a fare a meno di estraniarsi dalla conversazione quando gli tornavano alla mente certi particolari che andava a confrontare direttamente con alcuni ricordi appartenenti al suo passato.

Ad un certo punto non riuscì più ad ignorare il mal di testa e una smorfia di dolore lo tradì agli occhi della madre, che gli consigliò di tornare a dormire, per poi rimboccargli le coperte e salutarlo con un bacio in fronte. Harriet lasciò che la madre uscisse prima di sussurrargli all’orecchio: «Sherlock è il ragazzo perfetto.»

Gli fece l’occhiolino, con l’aria di chi sa il fatto suo, per poi uscire rincuorata dal leggero rossore che aveva imporporato le guance del fratello.

L’ultima cosa cui John pensò prima di addormentarsi, stranamente, furono un paio di dolci labbra poggiate con delicatezza sulle sue, umide di pianto, un ricordo che non credeva di avere ma che ebbe il potere di trasportarlo nuovamente nel regno dei sogni.

~*~

«Allora come sta?»

Mycroft scrutò attentamente il ragazzo al suo fianco, spostando poi lo sguardo sul marciapiede e sulla strada, scivolando sull’auto nera che lo stava pazientemente aspettando.

«Sorprendentemente bene. Pensavo sarebbe stato per lo meno scosso, e invece…»

«E Sherlock?»

Sospirò. «A Baker Street. Non vuole saperne di uscire. Credo che sia… come si dice? Emotivamente provato.»

Greg lo guardò con una scintilla di divertimento nello sguardo. «Ma davvero? Sherlock emotivamente provato?»

«Ho tentato di fargli capire quando fosse inutile…»

«A volte mi chiedo come possano essere così idioti quei due.» continuò Lestrade, ignorando accuratamente l’affermazione che, sapeva, l’amico stava per fare. «Si vede lontano un miglio quello che provano l’uno per l’altro. Giuro che se non si mettono insieme dopo quello che è successo li strozzo, uno dopo l’altro.»

Mycroft sospirò, non cogliendo l’allusione dell’altro. «Dillo a Watson, Lestrade, mio fratello ha fatto di tutto per attirare le sue attenzioni.»

Il ragazzo lo guardò, stranito. «E cosa avrebbe fatto, esattamente?»

«Oh beh, di tutto… Si vedono tutti i pomeriggi, o almeno quasi tutti. Lo invita sempre a casa sua, parlano sempre… insieme. Parlano di cose che probabilmente interessano solo a Sherlock, temo, ma credo che sia il suo modo per dimostrargli quanto ci tiene a lui e-»

«Mycroft.»

Si girò appena verso Greg, sorprendendosi della sua espressione divertita. «Sì?»

«Siamo sicuri di star parlando delle stesse due persone?»

Deglutì a vuoto, rigirandosi l’ombrello tra le mani con aria distratta, una stretta al petto indesiderata lo distrasse per un attimo dal filo del discorso. «E di chi dovrei mai parlare, Lestrade?»

Sorrise. «Stai usando un tono troppo formale, Mycroft, stai mettendo le distanze…»

Spalancò impercettibilmente gli occhi. «No, non è vero.»

Greg sospirò debolmente e distolse lo sguardo. «Credo che accetterò il tuo invito.»

«Q-quale invito?»

«Quello che mi proporrai domani via telefono per discutere a casa tua di argomenti di cui non me ne importa una beata mazza.» Osservò con la coda dell’occhio il compagno arrossire violentemente sulle guance, prima di girarsi e cominciare a camminare.

«A domani Mike.» urlò quando fu a qualche metro di distanza, allungando un braccio in mezzo alla strada nel tentativo di fermare un taxi di passaggio.

«Mycroft.» ribadì l’altro a bassa voce, una volta che Lestrade salì a bordo dell’auto, senza tuttavia poter fare a meno di nascondere un sorrisetto soddisfatto.

~*~

Avanzò zoppicando tra le file di lastre in marmo, sostenuto da una parte dalla stampella e dall’altra da Harriet che, lentamente, procedeva al suo fianco tenendolo saldo per un braccio.

Sorpassarono decine e decine di nomi, date, foto sbiadite dal tempo e fiori avvizziti per mancanza d’acqua, fino a quando non raggiunsero la fila di tombe recanti una data che conoscevano molto bene. Sorpassarono varie lastre, fino a fermarsi davanti a una tomba nera come la pece, del tutto spoglia, recante solo il nome di Jonathan Watson e le date di nascita e morte in un’articolata scrittura a ghirigori.

Harriet lasciò il suo braccio e si chinò in avanti, posando sul terreno ai suoi piedi un mazzetto di fiori bianchi, i preferiti della mamma, sostituendoli a quelli già presenti che infilò noncurante nella borsa a tracolla, con l’intenzione di buttarli più tardi.

Rimasero in silenzio, gli sguardi posati su quelle parole che tante volte avevano visto, quelle due date che racchiudevano in un trattino una vita intera, passata prima in un campo di battaglia e poi in una casa, a crescere una famiglia.

John sentì le lacrime pungergli gli occhi ma si trattenne, ricacciandole indietro con forza. La consapevolezza di averlo perso era ormai parte della sua vita, era passato molto tempo da quel lontano giorno di primavera, ormai avevano metabolizzato la cosa. Solo che, in quel momento, dopo quello che era successo, sentiva di doversi sfogare in qualche modo, forse riversando quelle lacrime che aveva sempre trattenuto, come una prova di forza interiore.

Passò qualche minuto a osservare la pietra e i fiori, rimuginando tra sé e sé, poi si girò verso Harriet. «Posso… rimanere un attimo da solo?»

La ragazza lo guardò interrogativa, poi annuì e si avviò sul selciato, raggiunse un albero e si appoggiò al tronco, sorvegliando il fratello da lontano.

John la osservò distante, poi tornò a guardare la lastra di marmo nero e inspirò a fondo, lasciando che l’aria fredda di fine inverno lo invadesse, dandogli un po’ più di lucidità.

«Hai… ci hai sempre raccontato tante storie…» cominciò, ripercorrendo con la mente interi pomeriggi passati sulle ginocchia di suo padre, seduto sulla poltrona vicino al camino nella loro vecchia casa. «Amavo quelle di guerra. Lo sapevi, vero? Non facevi altro che raccontarmene, anche se Harriet le odiava.» Sorrise lievemente al ricordo. «Ti ammiravo molto… ero, ero orgoglioso. Il mio papà soldato, colui che combatteva per salvare vite. Avevo una fervida immaginazione.»

Sospirò e percorse con lo sguardo la fila di lastre accanto a quella del padre. «Ho sempre desiderato diventare come te. Arruolarmi e… e fare tutto quello che mi hai sempre raccontato. Volevo che fossi orgoglioso di me.»

Si bloccò e si morse un labbro, respirando a forza per scacciare la tristezza che rischiava di sopraffarlo. Tornò a guardare la tomba, cercando di concentrarsi e di eliminare ogni brutto pensiero.

«E ce n’era anche un’altra, di storia. Era quella che seguiva il congedamento dall’esercito. La preferita di Harriet. Beh, piaceva anche a me, ovviamente, forse era al secondo posto.» ridacchiò tra sé e sé. «Ci raccontavi di come avessi conosciuto la mamma; del primo momento in cui l’avevi vista, di come ti fossi innamorato subito di lei. Ho sempre pensato che l’avessi romanzata un po’ troppo…

«Insomma. Ho provato sulla mia pelle che l’amore a prima vista non esiste…» Sospirò nuovamente e spostò il peso da una gamba all’altra per non sforzare troppo il braccio che teneva la stampella.

«Dicevi che senza di lei probabilmente non saresti resistito al dopoguerra, che era stata il tuo sostegno, la tua ancora di salvezza. Mamma amava quella parte della storia…» Abbassò lo sguardo, chiudendo gli occhi e strizzando le palpebre nel tentativo di visualizzare il suo volto, così come lo ricordava. «Lei ti guardava, tu la guardavi e… e ci dicevi che un giorno l’avremmo trovata anche noi, la nostra persona speciale. Qualcuno di cui fidarsi ciecamente, alla quale avremmo affidato la nostra stessa vita. Qualcuno da amare, proteggere e…» la voce gli si spezzò e dovette rimanere in silenzio per un paio di minuti per recuperare il contegno.

«Io voglio arruolarmi, papà. Voglio… voglio seguire il mio sogno, voglio che tu possa essere fiero di me.» Una lacrima sfuggì al suo autocontrollo e gli rigò il volto.

«Ma cosa avresti fatto se avessi incontrato la mamma prima di partire?» strinse le labbra, il cuore che cominciava a battergli più forte nel petto. «Cosa avresti fatto se avessi subito incontrato la tua persona speciale? Avresti avuto il coraggio di abbandonarla?» deglutì e chiuse gli occhi, passandosi poi una mano sulla fronte.

Aspettò, in silenzio, aspettò una risposta che, sapeva, non sarebbe mai arrivata.

Voglio solo sapere, papà, voglio sapere cosa avresti fatto tu al mio posto pensò disperatamente, le mani chiuse a pugno nel tentativo di ascoltare quella voce di cui tanto parlavano, la voce della coscienza, quella voce che potesse dirgli cosa fare.

Una goccia. Due gocce caddero, seguite subito da una terza. Alzò lo sguardo, osservò quell’immenso spazio che si perdeva su, all’infinito, quelle nuvole grigie cariche di pioggia. Sorrise amaramente: perfino il cielo aveva cominciato a piangere per lui, per l’assurda situazione in cui si trovava.

Ripensò a sua madre, al suo sorriso triste ogni volta che vedeva la foto di Jonathan sulla mensola di sala. Ripensò a quella foto, dove l’uomo sorrideva con una spalla fasciata, quella spalla dove si trovava la cicatrice di quel proiettile che aveva rischiato di ucciderlo. Cosa sarebbe successo se suo padre avesse perso la vita durante qualche sua spedizione? O se non avesse mai conosciuto sua madre?

Cosa sarebbe successo se quella sera di qualche mese prima non avesse messo piede alla festa di Clara? Cosa sarebbe successo se fosse morto, là sul tetto?

Harriet si staccò dal tronco e cominciò a camminare verso di lui, aprendo un ombrello per ripararsi dalla pioggia sempre più fitta.

John gettò ancora un’occhiata al nome di suo padre, custodito per sempre nella pietra e tra i suoi ricordi, che custodiva gelosamente quasi fossero un secondo cuore. Guardò quel nome un’ultima volta e, tranquillamente, sorrise. «Lo so cos’avresti fatto. Lo so, e sono un idiota per averne anche solo dubitato.»

«Andiamo John? Comincia a farsi un po’ brutto…»

Annuì alle parole della sorella e sotto il suo sguardo rizzò la schiena, salutando suo padre come gli aveva insegnato da piccolo, petto in fuori e mano sulla fronte, poi prese sottobraccio la sorella e si avviò verso l’uscita del cimitero.

Era giunto il momento di prendere in mano la situazione.

~*~

La pioggia batteva violentemente sul vetro della finestra, coperta solo dal suono melodioso del violino. L’archetto scorreva leggero sulle corde, guidato dalle agili dita di Sherlock, che, rivolto verso la finestra ad occhi chiusi, si lasciava trasportare dalla dolce melodia, dando al piccolo salotto un senso di pace e tranquillità. Le note si susseguivano una ad una, creando un’armonia perfetta tra loro. Lo spartito dove erano state appuntate le note giaceva inosservato sul suo leggio: fin dall’inizio del brano non era stato consultato neanche per un istante.

John, seduto alla sua solita poltrona, osservava distrattamente il corpo smilzo dell’amico muoversi al ritmo incalzante della musica, una mano che stringeva nervosamente il bracciolo e l’altra che teneva in equilibrio tra le labbra una tazzina di the quasi fredda.

Per un attimo il motivo rallentò, fin quasi a spegnersi, per poi riaccendersi improvvisamente con un’acuta nota strascicata. John rabbrividì d’istinto e la sua mano tremò, tanto che dovette stringere più forte il bracciolo della poltrona per tentare di fermarla. C’era qualcosa di estremamente famigliare in quella straziante melodia, qualcosa che gli stringeva il cuore e che gli impediva di respirare correttamente. Ma non era solo quella composizione a fargli venire i brividi, c’era anche della paura, radicata nel profondo, quella stessa paura cieca che lo aveva colto alla sprovvista la mattina del suo risveglio, quando Sherlock non era lì all’ospedale, la stessa che aveva provato per giorni dopo il bacio nel bagno, quella paura che si riferiva sempre e solamente a Sherlock. Uno strano nodo gli strinse la gola, tanto che la mano tremò nuovamente e dovette sporgersi in avanti per riappoggiare la tazzina sul vassoio prima di rischiare qualche brutto danno.

Il moro dovette accorgersene, perché un attimo dopo girò di poco il capo verso di lui e abbassò di colpo l’archetto, interrompendo la musica.

«Non ti piace?» la sua voce risuonò roca e leggermente irritata mentre volgeva lo sguardo verso di lui e lo trafiggeva con i suoi occhi chiari.

John ricambiò lo sguardo e sorrise lievemente. «No… è bellissima. L’hai composta tu?»

Sherlock tornò a rivolgere lo sguardo verso la finestra. «È dedicata a una persona speciale.»

Lo stomaco gli fece una capriola mentre scrutava con gli occhi la sua figura avvolta nella vestaglia blu notte. Tremò ancora, impercettibilmente, e dovette trattenersi dal compiere gesti improvvisi, imponendosi di mantenere il piano che si era fissato in testa, quello che aveva programmato attentamente nei giorni di convalescenza. Immobile sulla poltrona ascoltò il cuore accelerare improvvisamente i suoi battiti e deglutì a forza, rimanendo in silenzio, lasciando che l'eco di quelle parole alleggiasse nell'aria intorno a loro.

Sherlock stava per ricominciare a suonare quando John spezzò il silenzio, stupendosi egli stesso per la fermezza del suo tono di voce. «Pensavo di vederti all'ospedale questo pomeriggio. Pensavo saresti stato lì quando mi avrebbero dimesso. Almeno quello…»

Il moro s’irrigidì, stringendo con un po’ più di forza il sottile legno nelle sue mani, rischiando di graffiarsi con le corde. Tuttavia non si scompose e tenne lo sguardo fisso fuori dalla finestra. «Perché?» mormorò, sicuro di essere sentito nonostante avesse parlato con un filo di voce.

John deglutì a vuoto e sorrise. «Perché è così che si fa con le persone speciali, con le persone cui vogliamo bene.»

«Ma davvero…» rispose secco il moro, azzardando un movimento veloce del braccio ed emettendo una nota stridula che gli fece venire la pelle d’oca.

Trattenne il respiro, guardandolo con profonda tristezza. «Ho per caso frainteso?»

Sherlock sbuffò sonoramente e roteò l’archetto come una spada, fendendo l’aria e producendo un sonoro schiocco, che, al contrario di quanto avrebbe voluto, non spaventò affatto John. Rimase a fissare la libreria di fronte a sé, posando gli occhi su tutto fuorché sull’amico.

«Mary mi avrà volentieri sostituito.»

Il biondo si lasciò sfuggire un sorriso. «Nessuno potrebbe mai sostituirti…»

Ecco la scintilla, quel guizzo veloce d’incomprensione nel suo sguardo. Osservò la reazione di Sherlock, mentre si girava e lo scrutava, impassibile.

«…neanche Mary. E non credo vorrà anche solo provarci, da qui in avanti.»

Un’ombra d’incertezza attraversò il suo volto, la mente che volava già alla ricerca di tutti quei dettagli che gli erano sfuggiti, collegandoli e cercando di dare un senso alle sue parole. «Perché?» chiese infine, una nota di curiosità nella voce. «È quello che fanno le persone che ci vogliono bene…» aggiunse sarcasticamente.

John non riuscì a trattenere un sorriso trionfante. «Perché ci siamo lasciati. Io l’ho lasciata, per la precisione.»

Questa volta il viso di Sherlock assunse un’espressione di pura sorpresa, mentre si voltava completamente verso di lui. Rimase immobile, senza neanche respirare.

John distolse lo sguardo e con un sospiro raccolse la stampella da terra. Facendo forza su di essa, si alzò lentamente, emettendo un grugnito infastidito alla fitta di dolore che gli attraversò la gamba, e fece qualche passo in avanti, avvicinandosi all’amico. Anche se non lo diede a vedere, il cuore cominciò a battergli all’impazzata per l’agitazione, sentendo che il momento si stava avvicinando.

Il moro osservò e registrò ogni suo movimento, ogni più piccola mossa delle sue mani e del suo corpo. Colse al volo il brusco piegamento della gamba malata sotto al suo peso, il tremolio della sua mano sulla stampella, il chiudersi e riaprirsi nervoso dell’altra nell’aria. Ma più di tutto, il suo sguardo fu catturato dai suoi occhi azzurro scuro, dalla morbidezza nelle piccole rughe della sua fronte, dalla dolcezza che emanava quel volto così famigliare ma allo stesso tempo ancora così sconosciuto. Perché l’espressione che John aveva in quel momento gli era del tutto nuova, un’espressione che mai era comparsa in sua presenza, che mai gli aveva rivolto.

E improvvisamente ebbe paura.

John si fermò a meno di mezzo metro di distanza, chiudendo gli occhi con forza nel ricercare quelle parole che aveva scelto con cura, ma che in quel momento sembravano essere state cancellate dalla sua mente.

«Ho… credo che…» deglutì, riaprendo le palpebre e fissandolo nuovamente dritto negli occhi, perdendosi nella bellezza di quell’assurdo colore a metà tra il verde chiaro e l’azzurro, il ghiaccio e una giornata poco nuvolosa. Alla complessità di quegli occhi si ammutolì, decidendo che i fatti erano decisamente meglio delle parole.

Ebbe ancora un momento d’esitazione, poi coprì definitivamente la distanza che li separava, allungando una mano verso il suo viso. Sherlock scattò istintivamente all’indietro, confuso e impaurito da quello che stava succedendo, ma non fu abbastanza veloce e John riuscì a bloccarlo con una mano dietro al collo.

John risalì lentamente verso il suo viso, accarezzò lentamente con il pollice la sua pelle, scivolando in una lieve carezza sullo zigomo e la mandibola, il cuore in gola.

Poi, con una lentezza quasi esasperante, si sporse definitivamente in avanti e poggiò le labbra sulle sue, spezzando una volta per tutte quella sottile barriera che le aveva tenute separate per tutto quel tempo. Chiuse gli occhi, lasciando che quel contatto lo inebriasse, ubriacasse, che il lieve peso di quelle labbra così dolci, così pure e inesplorate si sovrapponesse al ricordo che già ne aveva, quello di mesi prima.

Sherlock rimase immobile sul posto, rigido, il cuore che sembrava quasi volergli uscire dal petto da quanto batteva velocemente. Spalancò gli occhi in un muto grido di stupore, il cervello che tentava di registrare ogni singolo millimetro di pelle davanti ai suoi occhi, la sensazione di quelle labbra sulle sue, del tocco morbido del suo naso sulla guancia dell’altro. Andò in panne, sopraffatto dalla molteplicità di tutte le emozioni che lo attraversavano.

John si staccò dopo quelli che sembrarono interminabili secondi più tardi. Lo guardò, gli occhi colmi di una felicità che credeva essere impossibile da provare. «Ancora meglio di quello che ricordavo…» mormorò, il fiato caldo che andava ad infrangersi sul volto bollente dell’altro.

All’espressione totalmente persa di Sherlock, tuttavia, John sentì il proprio sorriso scivolare via, la sua felicità affievolirsi, toccata dalla fragilità di quegli occhi.

Lasciò cadere senza esitazione la stampella a terra e lo trasse a sé con il braccio finalmente libero, stringendogli la vita. L’altra mano scivolò sulla sua pelle e andò a infiltrarsi tra i suoi riccioli, spinse in avanti il capo e lo andò a posare sulla sua spalla, incassandolo poi nel collo. «Oh, Sherlock…» mugugnò, la voce che cominciava a tremargli per l’emozione. Chiuse gli occhi, sentendosi prossimo alle lacrime. «Mi dispiace, mi dispiace tantissimo…» premette il volto contro la pelle lasciata nuda dalla maglietta, aspirando a fondo il suo buon odore. «Ti prego perdonami… mi dispiace…»

Lo strinse ancora di più a sé, sentendolo fin troppo rigido tra le sue braccia. Perdonami, perdonami per la mia stupidità, per la mia cecità, per averti lasciato solo quando non avrei dovuto. Perdonami, ti prego…

Stava quasi per staccarsi, preoccupato di essersi spinto troppo in là, quando il corpo del ragazzo si ammorbidì, il suo volto fece per muoversi in avanti e trovare spazio contro la spalla di John.

Strinse di più gli occhi, il sorriso che tornava a prendere possesso delle sue labbra mentre le mani di Sherlock si arrampicavano goffamente sul suo maglione, risalivano timidamente lungo la sua schiena e lo stringevano, dapprima piano, poi con più forza. «John…»

Il ragazzo lasciò che una lacrima gli solcasse il volto mentre premeva le labbra contro il suo collo, lo accarezzava con gentilezza sulla nuca, aggrovigliando le dita tra i suoi riccioli. «Va bene, va tutto bene… sono qui.»

Lo sentì tremare contro il suo petto e lo strinse di più a sé, lasciando piccoli baci sulla sua pelle e cullandolo con un leggero ondeggiamento delle gambe, per quanto la sua ferita glielo permettesse. Lasciò che si rilassasse nel suo abbraccio, che cercasse conforto nella sua stretta. Quando un lieve singhiozzo uscì dalle sue labbra sciolse l’abbraccio per poterlo guardare in viso e venne travolto da un’ondata di dolore nel vedere le lacrime solcare le sue guance. Gli prese il volto tra le mani e tornò ad unire le loro labbra, lasciandoci una serie di baci a stampo, ancora non sicuro di volersi spingere troppo in là per paura di ferirlo. Gli sembrava di avere tra le braccia un prezioso vaso di ceramica, pronto a spezzarsi e andare in frantumi al minimo passo falso.

Dopo quelle che parvero ore Sherlock si calmò e strinse il suo maglione con più forza, tirandolo verso di lui.

Non seppe come finirono sul divano, come fece a camminare fin lì con la gamba malconcia.

Fatto sta che si ritrovò seduto in un angolo, adagiato contro una pila di cuscini, Sherlock accoccolato contro di sé, con gli occhi lucidi e il respiro che andava ad accarezzargli il petto. John lo stringeva, possessivamente. Gli mormorava parole di conforto, continuando il movimento delle dita tra i suoi capelli; gli stuzzicava il volto con il naso, regalandogli qualche bacio leggero sulle labbra, sulle guance, sulla fronte e tra i capelli.

Come aveva potuto rifiutarlo, come aveva potuto anche solo pensare di poter scappare da tutto quello. Guardava quel ragazzo fragile tra le sue braccia, ne sentiva il dolce peso, il calore che esso emanava e si beava di quella visione, come un bambino in un negozio di caramelle: il suo piccolo tesoro, il fiore sbocciato al sorgere del sole, una goccia d’acqua colorata in un bicchiere colmo fino all’orlo.

Il suo pericolo vivente.

Aveva sognato fin da piccolo di trovare il proprio campo di battaglia, di potersi sentire come suo padre. Ed era sempre stato tutto lì, a portata di mano. Era bastato Sherlock, senza inutili accademie e arruolamenti, bastava solo lui e sentiva di non volere nient’altro.

Troppo orgoglio, troppa infantilità nel suo relazionarsi con i sentimenti, troppa paura del giudizio altrui. Aveva evitato a lungo tutto quello, lo aveva tenuto lontano per paura di stravolgere il suo mondo. Ma il suo mondo era stato stravolto nel momento esatto in cui Sherlock aveva aperto bocca a quel cellulare, quella dannata – bellissima, benedetta – sera. Era come se in quell'istante le loro vite si fossero toccate, i fili delle loro esistenze incrociati, intrecciati col passare del tempo, per giungere infine al culmine, in quella stanza, in quel giorno, in quella situazione.

Intrecciò le dita con quelle del ragazzo, cominciando a muovere il pollice in circolo sul dorso della sua mano.

Sherlock aprì di poco gli occhi, alzando lo sguardo verso di lui.

Bellissimo, bellissimo e suo, soltanto suo.

Gli sorrise, inebriato della sua presenza. «Non lasciare che me ne vada, mai più…» sussurrò, chinandosi per sigillare quel patto con l’ennesimo bacio, questa volta cercando un contatto più approfondito. Gli prese il volto tra le dita, saggiando con cura le sue labbra, sfiorandole timidamente con la punta della lingua, rabbrividendo di piacere.

Quando si staccarono Sherlock stese le labbra in un sorriso colmo di gioia, e andò a sfiorare il suo naso con il proprio. «Non lo farò.» disse, respirando sulla sua pelle.

John sorrise, le lacrime che ormai non erano più trattenute, e lo strinse di più a sé in risposta.

Passarono il resto del pomeriggio così, accoccolati l'uno all'altro a scambiarsi baci e carezze, annebbiati dalla dolcezza del momento, e quando giunse la sera si addormentarono insieme, stanchi per i troppi spaventi e per le troppe nuove e forti emozioni appena scoperte.

Quella notte, John non tornò a casa.

 

 

*si asciuga lacrimuccia*

Ci sono voluti la bellezza di 11 capitoli ma alla fine ce l’abbiamo fatta! *applauso ai due protagonisti*

Ma non pensate che sia finita qui… *buahahaha*

E ora lasciamoli lì, i nostri due piccoli idioti *^*

Vi sussurro un veloce salutino, ci risentiamo con l'ultimo capitolo! (questa volta veramente l’ultimo xD)

(Ultimo capitolo… oddio, suona troppo triste… D:)

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Capitolo 12
*** Capitolo 10 ***


Jane Austen. Una grande scrittrice che ha creato un fantastico libro dal quale ho preso ispirazione per scrivere questa ff.

Ho voluto renderle omaggio nella storia stessa e ho creato questo… uhm. Giochino? Provate ad unire le lettere iniziali di ogni capitolo (quelle in grassetto tanto per intenderci).

Se non avete voglia di aprire tutti e dieci i capitoli cliccate direttamente [qui], l’ho già fatto io per voi xD

Niente, ci salutiamo alla fine. Perdonate l’estremo fluff e le varie punte di OOC ma dopo tutto quello che è successo mi sembrava giusto chiudere in bellezza.

Per l’ultima volta su questo fronte, buona lettura!

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 10

 

 

N

el torpore mattutino Sherlock aprì gli occhi, sbattendo più volte le palpebre ancora pesanti di sonno, e subito, senza nemmeno rendersene conto, sorrise. Inspirò a fondo dal naso, inalò quel famigliare odore che aveva imparato ad amare e ad associare alla felicità: il buon profumo di John Watson. Non avrebbe saputo definirlo in nessun altro modo, con nessuna descrizione melensa di quelle che comparivano nei romanzetti rosa della signora Hudson o di quelle patetiche da ragazzina alla prima cotta: era semplicemente John.

Rimase per un tempo indefinito immobile, silenzioso, registrando con cura ogni particolare della sua posizione e ascoltando rapito il respiro del ragazzo poco sopra di lui.

Si trovavano nella medesima posizione nella quale si erano addormentati, John appoggiato alla pila di cuscini e Sherlock rannicchiato contro di lui, stretto tra il suo corpo e lo schienale del divano. Con un braccio circondava ancora il suo torace, affondando nella lana colorata del suo maglione mentre poggiava il viso da qualche parte sul suo petto, non abbastanza vicino al cuore per sentire il suo battito rimbombare per la cassa toracica. Avrebbe voluto farlo e si appuntò mentalmente di trovare un’occasione più avanti.

Rabbrividì al pensiero di aver passato un’intera nottata al suo fianco, rassicurato dal suo tiepido calore corporeo e da quelle braccia che lo avevano stretto fino a poco prima di addormentarsi, e che in quel momento giacevano abbandonate sulla sua schiena.

Avvertì distintamente un dolore alla spalla per la posizione scomoda in cui si trovava ma non osò muovere un muscolo per paura di svegliarlo, di svegliare il suo ragazzo.

Il suo ragazzo.

Non appena l’idea gli passò per la mente sentì un lieve calore inondargli il petto, le dita tremargli per l’emozione nello sfiorare quel morbido tessuto che aveva stretto alla ricerca di una rassicurazione all’improvviso turbinare di pensieri nella sua testa.

Com’era successo? Com’erano riusciti ad arrivare fino a quello?

Ricordava bene gli ultimi momenti passati in compagnia del suo allora migliore amico – adesso suo ragazzo, perché continuava a ripeterselo? – e ripensandoci non riusciva a capire per quale ragione John si fosse spinto fino a quel punto, la sera precedente. Niente nei suoi gesti, nelle sue azioni, nelle sue espressioni aveva potuto prepararlo a quello che alla fine era successo. Aveva sperato a lungo, per mesi, era addirittura arrivato a stare male interiormente per quei sentimenti che John evidentemente non ricambiava, e poi, di punto in bianco, lui era arrivato lì, a casa sua, lo aveva baciato –ancora meglio di come ricordavo aveva detto – lo aveva stretto in un lungo abbraccio e gli aveva ripetuto fino allo sfinimento quanto gli dispiacesse per il suo “ignobile” comportamento. Sherlock non aveva ascoltato neanche la metà di quelle parole sussurrategli a fior di pelle, troppo concentrato sulla consapevolezza di essere ricambiato, di poter finalmente avere quello che aveva desiderato per mesi e che mai avrebbe pensato di poter provare per una persona.

A volerlo ammettere era ancora abbastanza confuso da tutte quelle emozioni che gli mandavano in subbuglio lo stomaco, da quel turbine di pensieri che gli affollavano la testa. Era semplicemente incredibile quanto una sola persona, del tutto ordinaria tra l’altro, fosse riuscita a cambiarlo in quel modo, a fargli provare qualcosa di più della semplice amicizia. L’ultima volta che aveva provato qualcosa per qualcuno era stato con Redbeard, il suo amato setter irlandese. Era stato il suo unico amico d’infanzia, l’unico di cui sentiva di potersi veramente fidare nonostante si trattasse solo di un animale: quando se ne era andato Sherlock non ne aveva più voluto sapere di avere amici, si era semplicemente chiuso in se stesso, escludendosi dal mondo e da tutto quello che poteva coinvolgerlo emotivamente, incoraggiato anche da Mycroft. Credeva fosse Redbeard la causa principale della sua quasi totale inesperienza sentimentale, qualcosa che lo aveva perfino portato ad autodefinirsi autistico, a farsi riconoscere come affetto dalla sindrome di Asperger. Non era vero, questo lui lo sapeva bene, il suo era stato solo un tentativo di classificarsi in qualche modo.

Socchiuse le palpebre, scacciando quei pensieri dalla mente, e ascoltò con attenzione il respiro di John farsi più irregolare, il suo corpo cominciare a muoversi involontariamente, chiari segni che stava per svegliarsi.

Fu solo in quel momento che notò il plaid che lo copriva dalla vita in giù e il vassoio con tanto di the e biscotti appoggiato sul tavolino poco distante. L’ombra di un sorriso gli comparve sul volto mentre realizzava che la signora Hudson doveva essere salita come ogni mattina per portargli la colazione e doveva averli trovati lì, uno abbracciato all’altro sul divano. Non sapeva che ore fossero, probabilmente doveva essere già passata un’ora da quando la donna aveva messo piede nell’appartamento. Presumibilmente si era destato dal sonno proprio a causa sua, magari quando li aveva disteso su di loro la coperta – come se ne avesse bisogno, stretto com’era contro il corpo caldo di John.

Avvertì il ragazzo agitarsi sotto di sé e rimase immobile, senza azzardarsi ad alzare lo sguardo verso il suo viso, spaventato da qualcosa che non sapeva neanche lui cosa fosse.

Un tremito, un movimento del capo, e poi anche John si fermò, il respiro tornato regolare. Pochi secondi dopo un braccio si scostò dalla schiena di Sherlock e una mano andò ad accarezzargli gentilmente la nuca, passando le dita tra i lunghi riccioli castani. Con il cuore in gola alzò lo sguardo e si ritrovò faccia a faccia con il volto sorridente di John, gli occhi ancora impastati dal sonno che lo guardavano con un affetto quasi materno. O forse era amore? Davvero, non avrebbe mai saputo distinguere le due cose, soprattutto se a guardarlo in quel modo erano quelle iridi indaco scuro, quegli occhi di cui non avrebbe mai smesso di catalogare ogni più piccola screziatura.

«Buongiorno…» mormorò il biondo, la voce ridotta ad un sussurro.

Sherlock deglutì. «Buongiorno.» Un brivido gli percorse la schiena quando John si piegò in avanti, unendo per l’ennesima volta le loro labbra. Improvvisamente si sentì più leggero e sorrise a sua volta quando si staccarono, guardando quasi in adorazione il ragazzo sbadigliare e stropicciarsi gli occhi con la mano libera.

Si staccò di malavoglia da lui per lasciargli un po’ di libertà e si alzò in piedi, scostando il plaid e buttandolo in un angolo del divano.

«Ah… non era mia intenzione passare la notte fuori. Mia mamma sarà preoccupata.» mormorò il ragazzo, sorridendogli appena.

«Mycroft si sarà sicuramente preoccupato di avvisarla.»

«Myc… cosa?» arrossì lievemente, in un modo che Sherlock trovò semplicemente adorabile.

«Lui si… si preoccupa sempre di sapere dove sono e cosa faccio. Non mi sorprenderebbe se avesse chiamato la signora Hudson per accertarsi che tu fossi ancora qui.»

«Oh…» John non disse nient’altro, lasciando invece vagare lo sguardo per la stanza e notando la colazione sul tavolino. «Lei… lei ci ha… visti? Prima intendo…» arrossì se possibile ancora di più, evitando accuratamente gli occhi dell’altro.

Sherlock si strinse nelle spalle in risposta e adocchiato il cellulare dell’amico sul divano glielo passò. «Chiama a casa…» disse, poi si sedette sulla poltrona, cercando di ignorare quel fastidioso timore che cominciava ad affiorargli nel petto, e si servì il the.

~*~

Le cose andarono sorprendentemente bene nei giorni seguenti, giorni che presto si trasformarono in settimane.

Sherlock si svegliava al mattino con il cuore leggero, la felicità che si mostrava in tutto quello che faceva.

Con la gamba malconcia John non poteva più giocare a rugby, così per una scusa o per l’altra passava i suoi pomeriggi a Baker Street, in compagnia di uno Sherlock entusiasta, sempre pronto ad aiutarlo in ogni modo possibile immaginabile, cercando i passatempi migliori per renderlo felice. Il moro sapeva che John teneva molto alla sua squadra e che era giù di morale perché con la gamba che si ritrovava non poteva giocare le ultime partite del suo ultimo anno di liceo. Si sentiva in colpa per questo, in fondo era solo per causa sua se il proiettile aveva preso John e non lui. Non che poi gli dispiacesse: grazie a quel proiettile ora aveva il suo ragazzo tutto per sé, senza doverlo condividere con quello che considerava uno sport stupido e privo del minimo senso pratico.

Sherlock aspettava sempre che il campanello suonasse, poi si fiondava giù per le scale e accoglieva John con il solito bacio sulle labbra al quale la signora Hudson assisteva facendo finta di tenersi impegnata a chiudere la porta, o a sistemare uno dei quadri nell’ingresso, o a pulire un’invisibile briciola dal colletto del vestito. E poi, una volta che i due ragazzi erano saliti, spariva in cucina a preparare la merenda e gliela portava su, bussando sempre prima di entrare.

C’erano pomeriggi in cui si sdraiavano semplicemente sul divano e parlavano del più e del meno, coccolandosi a vicenda, altri in cui Sherlock gli suonava qualcosa col violino e poi guardavano tv spazzatura per il resto del tempo, divertendosi nel commentare presentatori o improbabili detective all’opera; certi giorni, quelli in assoluto più noiosi, li passavano sui libri, altri ancora, e Sherlock ne avrebbe volentieri fatto a meno, John lo costringeva ad uscire all’aria aperta e così passavano intere ore a passeggiare per il quartiere[1], spingendosi fino Regent’s Park o passando per i giardini di Paddington Street – odiava quelle passeggiate, John si faceva stranamente più taciturno e si teneva sempre a una certa distanza da lui; oppure, e quelli erano in assoluto i pomeriggi migliori, giocavano a Cluedo ed era sempre Sherlock a vincere, anche se John stava facendo i suoi progressi e presto sarebbe diventato più difficile batterlo.

Andava tutto per il meglio, insomma, e Sherlock proprio non riusciva a capire da dove arrivasse quell’agitazione che lo prendeva ogni qual volta John arrivava con qualche minuto di ritardo, oppure lo chiamava per dirgli che per qualche impegno quel giorno non potevano vedersi. Non era stupido né troppo egoista, sapeva che il ragazzo aveva anche i suoi impegni, ai quali lui non poteva prendere parte, ma c’era sempre quella piccola scintilla di preoccupazione, quel sordo timore che lo prendeva sempre nei momenti meno opportuni.

Un giorno gli arrivò un messaggio con il quale il ragazzo lo avvisava che a causa di un progetto di scienze doveva trattenersi a scuola più del previsto. Dopo lunghi discorsi interiori, momenti di totale convinzione e altri di sconforto, alla fine Sherlock decise di fargli una sorpresa e di farsi trovare fuori dal Barts.

Come sospettava il sorriso iniziale con il quale John lo accolse si trasformò nel giro di due secondi in una smorfia agitata mentre continuava a parlare con i suoi amici e attraversava i cancelli d’ingresso. Si fermò a pochi passi da esso schiarendosi la gola per attirare la loro attenzione prima che si dirigessero verso la fermata dell’autobus. Indicò con un cenno del capo Sherlock, sul marciapiede opposto della strada. «Ehm… io mi fermo qui. Ci vediamo domani…»

Mike scorse il moro e lo salutò allegramente. «Dove andate di bello? Non ho nessuna voglia di andare a casa ora…»

John rabbrividì, poi sorrise di circostanza. «Oh beh… non lo so. Penso che faremo fino a casa sua a piedi, ho bisogno di sgranchire un po’ la gamba…» disse, picchiettandosi con la stampella la coscia fasciata sotto i jeans.

L’altro sorrise. «Perfetto! Vengo con voi, così ti accompagno a casa dopo.» gli strizzò l’occhio e poi attraversò la strada, senza curarsi di ricevere una risposta.

John lo seguì controvoglia, cogliendo con una punta di dispiacere l’espressione accigliata del moro nel ritrovarsi davanti qualcuno di indesiderato.

Sherlock notò subito la sua esitazione quando si avvicinò, dedusse subito dal modo con cui si tormentava l’orlo della giacca che per quella volta non avrebbe potuto baciarlo per salutarlo come suo solito.

Passarono il resto della camminata separati da Mike che, in mezzo a loro, continuava a parlare di cose che Sherlock faceva fatica a registrare, troppo impegnato a scrutare John in cerca di spiegazioni.

Fu solo quando arrivarono davanti alla porta del 221B che finalmente comprese il problema alla radice, dando voce a quel peso nel petto che lo aveva accompagnato per tutti quei giorni.

John rimase rigido sul posto, occhieggiando Mike con la coda dell’occhio ed evitando il suo sguardo, una punta di rossore sulle guance. Sherlock si morse la lingua, resistendo all’impulso di compiere gesti indiscreti, e li salutò freddamente, accogliendo con disprezzo il saluto esitante del suo ragazzo mentre si teneva a debita distanza da lui. Infine voltò loro le spalle ed entrò in casa.

La felicità che aveva provato per tutte quelle settimane sembrò sparire tutta di un colpo, come se la bolla in cui si trovava fino a qualche minuto prima fosse improvvisamente scoppiata. Si rannicchiò sul divano e rimase lì a rimuginare fino a quando la signora Hudson non lo costrinse a buttare giù qualche boccone verso l’ora di cena. Ignorò il continuo vibrare del cellulare all’arrivo dei messaggi, sicuramente tutti da parte di John, mettendolo poi in silenzioso quando cominciò a chiamarlo insistentemente. Non se la sentiva di parlargli, preferiva mettere ordine tra i suoi pensieri e discuterne faccia a faccia il giorno dopo.

E così fece.

Il pomeriggio seguente John arrivò in anticipo e, salutata la padrona di casa, seguì Sherlock su per le scale.

La signora Hudson avvertì la tensione nell’aria ed ebbe il buon senso di non disturbarli con la merenda, almeno per quel giorno.

I due ragazzi presero posto sulle poltrone, uno di fronte all’altro, e Sherlock portò le ginocchia al petto, cominciando a scrutarlo con i suoi occhi cristallini. John, a disagio, lasciò cadere la stampella a terra e si sistemò meglio, tendendosi involontariamente verso l’altro col busto. «Perché non mi hai risposto ieri?» chiese, una punta di esitazione nella voce.

Il moro non rispose, abbassando lo sguardo. «Ti vergogni di me?» chiese invece, fissando con un certo interesse le proprie dita.

John sospirò e si prese la testa tra le mani. «Io… no. Non mi vergogno di te. Solo… Non sei tu, sono io. È che…»

Sherlock alzò lo sguardo e lo incrociò con il suo, preoccupato.

«Mi dispiace, io non… non intendevo offenderti.» Si agitò sulla poltrona, a disagio. «Devo ancora comprendere cosa mi sta succedendo. Capisci?» Lo guardò, speranzoso. «Insomma… pensavo di essere etero, e poi arrivi tu, e…» rise sommessamente. «Non voglio tirarti in mezzo, è una cosa che sto cercando di affrontare da solo. È un mio problema alla fine. Solo… vorrei che rimanesse una cosa tra noi, almeno per il momento. Ma non farti passare per la testa cose strane. Non mi vergogno di te, anzi, non so neanche come tu abbia fatto ad innamorarti di me… insomma…» si passò una mano tra i capelli, imbarazzato.

Il moro sembrò stringersi di più le gambe al petto. «E se un giorno ti stancassi di me? Se scoprissi che preferisci stare con una ragazza?[3]»

John allargò di poco gli occhi, poi li abbassò, guardandosi le mani. Prese un respiro profondo, poi iniziò. «Ricordo di aver visto per la prima volta Mary uno dei primi giorni al Barts, a mensa. Era una delle ragazze più belle che avessi mai visto, bionda, simpatica, cheerleader…» guardò la sua espressone irritata nel sentir nominare l’ex e gli sorrise dolcemente. «Quando mi ha chiesto di uscire, quel pomeriggio, non potevo crederci, mi sembrava qualcosa di assolutamente incredibile per uno come me. E ho accettato.»

Prese un respiro profondo. «Non negherò di aver passato dei bei momenti con lei, né con Sarah né con Janette. Ogni ragazza che ho scelto, con il quale ho accettato di uscire e di vedermi per un certo periodo di tempo… con ognuna ho passato dei momenti che non scorderò facilmente.» si morse un labbro e riprese. «Ora ci sei tu. Non posso prometterti che sarà per sempre, non posso dire che ci sposeremo e faremo chissà cosa. Magari passeremo insieme ancora dieci anni, forse meno, forse più. Può darsi che tra qualche mese litigheremo, può darsi che un giorno scopriremo di non poterci più sopportare l’un l’altro e ci lasceremo. Quello che sto tentando di dirti…» Lo guardò amorevolmente, cercando di rassicurarlo col suo tono di voce. «…è che, beh, non possiamo sapere quello che succederà, no? È questo il bello delle relazioni, più o meno…» Tossicchiò, imbarazzato. «Ho sempre cercato di… di scegliere con cura le persone con cui instaurare un rapporto… se ho tentato di avvicinarle è stato soltanto perché sapevo che valeva la pena provarci. Non ti sto prendendo in giro, non sto andando alla cieca. So cosa sto facendo… ok?»

Sherlock lo guardò, soppesando le sue parole. E non poté fare a meno di chiederglielo, di esternare quella piccola preoccupazione che aveva occupato i suoi pensieri per i giorni precedenti.  «Perché io?»

Un sospiro e un mezzo sorriso. «Potrei dirti perché sei geniale, perché non ho mai visto un ragazzo così attivo, e fantastico. Perché… perché quando sono con te… mi sento vivo. Come se non potessi fare altro che seguirti, e guardarti le spalle e… fare in modo che tu sia al sicuro, sempre. E rispettato. Posso dirti perché mi sono innamorato della tua voce, e della tua espressione quando trovi qualcosa d’interessante. E i tuoi occhi… il loro colore, il guizzo che hanno quando hai una nuova idea.»

Sherlock sentì le proprie guance andare a fuoco e avvertì l’impulso di gettarsi tra le sue braccia.

«Non avrei mai creduto di arrivare fino a questo punto, credimi. Tu hai… hai rivoluzionato tutto. Mi hai praticamente rivoltato da capo a piedi. E tutto per una sera, una chiamata al cellulare… non ho mai creduto nel caso, sai? Tra le migliaia di persone che potevo incrociare, ho incontrato proprio te. E credimi se ti dico che non tornerei mai indietro.»

Una lacrima solcò il viso del moro, che se ne accorse sono quando la sentì bagnargli il viso. John si fermò, colpito da quell’improvvisa esternazione di commozione che non avrebbe mai creduto possibile per una persona come lui. Allungò una mano nella sua direzione e presto Sherlock la afferrò, lasciandosi tirare tra le sue braccia, accoccolandosi contro di lui.

Premette le labbra contro la sua fronte e sospirò, felice come sentiva di non esserlo mai stato in vita sua. «Voglio te perché… perché sei semplicemente tu.»

Sherlock singhiozzò, un verso che sentì come da molto lontano, come se non fosse stato veramente lui ad emetterlo. Si vergognò per quella sua debolezza, si vergognò di mostrarsi così vulnerabile ai suoi occhi, ma non poté fare a meno di stringersi a lui e affondare il volto nel suo maglione, cercando un modo di fermare le lacrime che lentamente gli inondavano gli occhi.

«Vale la pena provarci. Lo vale davvero, non lo vuoi anche tu?» Gli accarezzò il volto, costringendolo a guardarlo negli occhi, e Sherlock annuì, spingendosi poi in avanti per baciarlo, sorprendendosi egli stesso per quel gesto. Non aveva mai preso lui l’iniziativa, non fino ad allora.

John mandò un gemito di piacere e lo trasse più vicino, tracciando con la lingua il contorno delle sue labbra e spingendosi poi all’interno della sua bocca, stringendolo rassicurante al lieve tremito che lo percorse.

Si staccarono solo per riprendere fiato e John lo guardò, deglutendo, preoccupato per la sua reazione. Sherlock avvertì il suo nervosismo e scosse la testa, sorridendo e riprendendo il bacio da capo, eseguendo curioso il gesto appena compiuto.

John sorrise mentalmente. Questo sì che era un bel passo avanti.

~*~

Dopo quel piccolo gesto d’intimità Sherlock cominciò ad avvertire una certa elettricità, se così poteva essere definita, ogni volta che John varcava la soglia del 221B. C’era qualcosa di nuovo nel modo in cui si guardavano l’un l’altro, nel modo in cui il suo corpo sembrava reagire a quei lunghi contatti che ormai si scambiavano abitualmente durante i loro pomeriggi insieme.

Più di una volta successe che John dovesse staccarsi da lui, spingerlo via in qualche modo, arrossendo visibilmente e allontanandosi con una scusa buttata lì sul momento per alcuni minuti.

Sherlock sapeva cosa stava succedendo, in qualche modo, e non poteva dire che fosse tutto rose e fiori. Se prima di John non aveva mai baciato qualcuno, tanto meno aveva mai pensato a come comportarsi in una situazione del genere, con il suo corpo che sembrava reagire per i fatti suoi, senza che lui potesse avere un minimo di controllo su di esso.

Ogni volta guardava John con estremo imbarazzo, senza avere la più pallida idea di come agire per fargli capire che… beh, il che cosa non lo sapeva nemmeno lui.

Avvertiva con forte chiarezza il suo desiderio ma non sapeva come valutare il proprio. Quando ci pensava, da solo, accarezzava l’idea di condividere quel particolare nuovo passo della sua vita con John, cercava di immaginare possibili scenari in cui, in un modo o nell’altro finivano nel suo letto e… in quel momento respirava rumorosamente e la fantasia si concludeva, il rossore che, sapeva, andava a lambirlo fin sopra le orecchie.

Non avrebbe mai e poi mai immaginato di poter cominciare a pensare al sesso. Mycroft avrebbe sicuramente riso fino alle lacrime se fosse venuto a saperlo.

Eppure non poteva far finta di niente, il problema c’era e in qualche modo avrebbero dovuto affrontarlo. Sherlock sapeva di non potersi tirare indietro, che era una cosa assolutamente normale e che John aveva tutte le ragioni del mondo per volerlo fare. Nonostante tutto quello che gli aveva detto aveva ancora paura di deluderlo e sapeva per certo che a lungo andare quel bisogno non avrebbe più potuto essere ignorato.

Così cominciò a informarsi, a venire a patti con se stesso, a convincersi che se tutti gli umani del mondo riuscivano a venirne fuori poteva benissimo farcela anche lui. In fondo cos’era? Un semplice atto fisico, un qualcosa di umano e, anche e soprattutto, animalesco.

E quando il giorno arrivò, Sherlock colse al volo l’occasione.

Erano le due del pomeriggio, John sarebbe arrivato di lì a un’ora, così decise di farsi una doccia. Di certo quando uscì dal bagno con solo i pantaloni del pigiama addosso e si diresse in cucina per bersi un bicchiere d’acqua non si aspettava di trovarselo davanti, seduto comodamente al tavolo con in mano il giornale che Mycroft aveva lasciato lì quella mattina. Era in anticipo.

Gli occhi di John scattarono verso di lui, pronto al solito sorriso pre-bacio, quando poi lasciò che scivolassero con una lentezza disarmante sul torso nudo, sulla quella pelle bianca come il latte punteggiata qua e là da piccoli nei. John deglutì a vuoto, la gola improvvisamente secca, e Sherlock tremò lievemente sul posto, improvvisamente incapace di muovere un solo muscolo.

Prese un respiro profondo, poi fissò lo sguardo in quello del ragazzo e, lentamente, si girò e tornò da dove era venuto, percorrendo il corridoio e scivolando nella sua stanza, lasciando volontariamente la porta aperta di un piccolo spiraglio, in un evidente invito.

Non dovette aspettare molto.

In piedi in mezzo alla stanza, il respiro ad un tratto accelerato, osservò John arrivare e starsene sulla soglia, guardandolo con un’espressione così piena di emozioni che Sherlock non riuscì a decifrarne neanche la metà.

«Sherlock…» mormorò, la voce incredibilmente roca.

Il moro si morse un labbro, poi, tirando fuori tutto il suo coraggio, si sedette sul letto.

John esitò sul posto, poi si avvicinò e si sedette al suo fianco, socchiudendo gli occhi come se dovesse pensare a come continuare la cosa. «Sherlock…» ripeté, questa volta con un po’ più di sicurezza, ma l’altro, fremente, non gli diede modo di continuare, prendendolo per l’orlo della camicia e tirandolo giù con sé, cominciando a baciarlo con foga.

John, sorprendentemente, rispose al bacio, piegandosi in avanti, schiacciandolo sotto di lui con il suo peso, inginocchiandosi sul letto e baciandolo fino a non avere più fiato. A quel punto poggiò la fronte sulla sua e respirò, faticosamente.

Con una mano risalì lungo il suo petto, accarezzando quella pelle fresca di pulito e strofinando il naso in un gesto di affetto sulla sua guancia.

Sherlock tremò.

John cominciò a baciarlo lungo la mandibola, scendendo giù, verso il collo, la clavicola, la spalla.

Sherlock gemette.

Il biondo sollevò preoccupato lo sguardo e con un sospiro si tolse da sopra di lui, sdraiandosi al suo fianco. Lo circondò con le braccia e poggiò la fronte contro la sua spalla, chiudendo gli occhi e sorridendo.

Il ragazzo si agitò tra le sue braccia. «John?»

«Shh…» sussurrò l’altro in risposta. «Va bene così.»

«Ma John…»

«Stai tremando.»

Sherlock rimase immobile, maledicendosi mentalmente per quella sua stupida reazione. «E allora?» domandò, facendo il possibile per suonare irritato.

«E allora non abbiamo nessuna fretta. Lo sai?» alzò lo sguardo su di lui, sorridendogli con gli occhi.

«Ma…»

«Piantala.» Cominciò ad accarezzargli la schiena con movimenti circolari, come a volerlo rassicurare.

«Tu lo vuoi.» continuò, imperterrito.

John sbuffò e richiuse gli occhi. «Non voglio niente che tu non voglia

Il moro gemette di frustrazione e si dimenò, sciogliendo l’abbraccio e portandosi sopra di lui. Cominciò a slacciargli i bottoni della camicia, soffiando piano dalle narici quando le mani ebbero la bella idea di scivolare, senza riuscire a togliere il tondino di plastica dall’asola, e in quel momento John gli circondò le mani con le proprie, fissandolo con curiosità. «Che cosa ti prende?» Lo accarezzò con una mano sul viso, sorridendo alla sua espressione demoralizzata.

«Io voglio solo…»

«…accontentarmi? Davvero?» Lo trasse a sé con dolcezza, costringendolo a sdraiarsi su di lui. «Da quando in qua l’arrogante Sherlock Holmes è diventato così altruista?»

Il moro sbuffò, rilassandosi comunque contro il calore del suo petto. «E se lo facessi per me?»

Il suono di una risata sommessa vibrò per la sua cassa toracica e Sherlock si sentì improvvisamente ancora più irritato. «Cosa c’è?»

John affondò le dita tra i suoi capelli. «Niente… sei solo… adorabile

Si scostò quel poco che gli permettesse di guardarlo negli occhi e socchiuse le palpebre. «Non voglio essere adorabile…» disse, suonando scocciato. «Voglio essere… desiderabile…?»

John rise ancora, baciandogli una guancia alla volta. «Lo sei. Molto. Saremmo in questa situazione, altrimenti?»

Sospirò e si lasciò scivolare nuovamente al suo fianco, chiudendo gli occhi e rinunciando a tutti i suoi buoni propositi. Dubitava si sarebbero mai mossi di lì.

«È comunque un buon passo avanti.» continuò l’altro, portando avanti il movimento delle dita tra i suoi capelli. «Ci arriveremo quando vorremo. Abbiamo tutto il tempo del mondo…»

Rimasero in silenzio per un po’, ascoltando ciascuno il respiro dell’altro, poi John lo ruppe nuovamente.

«Se c’è…» deglutì. «Se c’è qualcosa, qualsiasi cosa, che ti spaventa… o che, non so… qualcosa di cui vuoi parlare. Sai che puoi farlo, vero?»

Sherlock annuì, un po’ in imbarazzo, e prese a fissare lo spazio di pelle lasciato libero dalla camicia per metà sbottonata, pensando.

Dopo un certo lasso di tempo che non avrebbe saputo definire si fece coraggio. «Quante… quante volte l’hai già fatto?» C’era una domanda sottointesa, quella che forse lo turbava di più: l’hai già fatto?

John sembrò esitare. «Ha davvero importanza saperlo?» Una pausa. «Abbastanza per, diciamo, sapere cosa fare, e poche per… per considerarmi anche ad un livello superiore di quello di un principiante. Ma è stato solo con ragazze. Possiamo considerarla come una prima volta, se è questo il problema.» gli sorrise, arrotolando un ricciolo particolarmente lungo attorno al suo dito.

Sherlock sospirò e chiuse gli occhi, tentando di non mostrarsi troppo a disagio per quello. In fondo se lo era aspettato, era ovvio che John – un ragazzo assolutamente ordinario per quel verso – non avesse ancora certi problemi. Si sentiva un perfetto idiota, almeno per una volta.

Non seppe da dove arrivò la domanda successiva, e neanche il motivo del suo sentirsi improvvisamente più leggero. «Fa… male?» fu poco più di un sussurro, talmente basso che non si sarebbe stupito se John non lo avesse sentito.

Ma il ragazzo aveva sentito eccome e si tirò su facendo forza su un gomito, in modo da poterlo guardare bene in viso. Sembrava quasi turbato da quella domanda. Gli sorrise con quello che voleva essere un gesto rassicurante, che voleva non farlo sentire a disagio per quella domanda personale. «È questo il problema?» chiese, fermo ma con dolcezza.

Sherlock deglutì e distolse lo sguardo. «Forse…?»

John si chinò in avanti e lo baciò sulle labbra. «Non farei mai qualcosa che possa farti male, Sherlock. Non di proposito.»

«Ma… insomma, l’anatomia…»

«Ascolta. Se ti riferisci a… a quella particolare forma di…» sospirò. «Sì insomma, io credo di sì. Non credo che si rimanga del tutto incolumi dopo una penetrazione del genere.» Arrossì lievemente sulle guance come se a parlare con certi termini si sentisse in imbarazzo. «Ma c’è un’adeguata preparazione, prima. Il dolore dovrebbe essere minimo…»

Sherlock rabbrividì inconsciamente e annuì.

«Non è comunque quello che avevo in mente, almeno per il momento.» Aggiunse il biondo poco dopo, gli occhi ad un tratto assenti.

Quando tornò a guardarlo aveva una nuova luce nello sguardo, un evidente desiderio. «Ti… ti fidi di me?»

Sherlock si sentì improvvisamente libero da ogni peso mentre guardava con più calma i suoi occhi azzurro caldo, e annuiva. «Sì…»

John ricominciò a baciarlo, lentamente, lasciando che il ragazzo si rilassasse tra le sue braccia, poi ricominciò la sua scia di baci verso il torace, fermandosi poco sopra il ventre e volgendo lo sguardo in su. Sherlock lo guardava con occhi grandi, le pupille dilatate come mai prima di quel momento, e John lasciò che il suo respiro increspasse la pelle nivea con un accenno di pelle d’oca. «Ok?»

«Ok…» rispose l’altro, respirando velocemente.

Con una lentezza disarmante lo spogliò degli ultimi indumenti, rimanendo finalmente a guardarlo, interamente nudo. Bellissimo.

Glielo sussurrò sulla pelle mentre risaliva verso le sue labbra, che ricominciò a baciare con avidità. Gli prese le mani e lo guidò a concludere il lavoro che aveva iniziato con la propria camicia, per poi aiutarlo nel togliersi pantaloni e boxer.

Si prese un momento per guardarlo in volto, sorridendogli. «Ok…?» chiese ancora, e non dovette aspettare neanche mezzo secondo perché arrivasse la risposta.

«Ok.» rispose Sherlock, e con un tremolio esitante nelle mani percorse il profilo dei suoi addominali accennati, prendendosi il suo tempo nel guardarlo, nel riempirsi della visione di tutta quella pelle scoperta davanti ai suoi occhi. John gli prese una mano e se la portò alle labbra, baciandogli le dita una a una, poi tornò a baciarlo dietro al collo, là dove sapeva piacergli.

Sherlock chiuse gli occhi e si lasciò guidare nei movimenti, trovandosi improvvisamente senza fiato quando John lo toccò per la prima volta, e non poté trattenersi dal chiamare il suo nome con voce roca.

Il ragazzo si mosse sopra di lui e guidò una delle sue mani a fare lo stesso su di sé, per poi emettere un gemito proprio vicino al suo orecchio, così vicino che Sherlock credette di poter esplodere da un momento all’altro dalla potenza di quel calore che andava intensificandosi di secondo in secondo.

C’era stato un tempo in cui aveva sentito solo silenzio, in cui aveva vagato in una fitta nebbia dove John non c’era, dove era solo, esposto al freddo e alla solitudine del mondo. Ora, invece, il silenzio era rotto dai loro sospiri e John era lì, dappertutto, in ogni singolo millimetro cubo d’aria, e lo abbracciava, lo proteggeva, non lo lasciava.

Quando giunse al limite chiamò disperatamente il suo nome, si aggrappò a lui, travolto da emozioni che non sapeva contenere.

«Sono qui, non ti lascio…» La sua voce risuonò vicina e Sherlock non poté far altro che fidarsi mentre si lasciava cadere, e cadere, senza mai raggiungere il fondo.

Avvertì vagamente John mormorare il suo nome mentre veniva anche lui, stringendolo possessivamente e baciandolo.

 

Sdraiati vicini, abbracciati come se non potessero fare a meno l’uno dell’altro, il moro stretto contro il suo petto e John che sembrava aver sviluppato un particolare interesse per i suoi capelli, i due ragazzi giacevano in silenzio, ascoltando il suono dei loro respiri tornati regolari.

Non c’era imbarazzo ora, né agitazione o timidezza, erano semplicemente stretti insieme, come se improvvisamente fossero diventati un’unica entità: John-e-Sherlock, Sherlock-e-John. Indissolubile, indistruttibile.

«Giudizio finale?» chiese infine il biondo, respirando piano contro la sua pelle mentre gli dava un bacio in fronte.

«Mmh…» mugugnò l’altro, gli occhi chiusi, perso ancora nella bolla di calore silenziosa di pochi istanti prima.

«Va bene che il sesso porta via la capacità di parola ma ora dovresti essere in grado di formulare frasi compiute…» scherzò, ricevendo in risposta un pugno leggero sulla spalla destra, seguito da un sorrisetto divertito.

«Dovremmo farlo più spesso…» disse poi il moro, tornando serio e sistemandosi meglio contro di lui.

John ridacchiò sommessamente e lo baciò sulla punta del naso. «Quando vuoi. Ci sono un sacco di cose che vorrei farti fare.»

«Idiota.»

Risero insieme e, davvero, per una volta Sherlock credette di non poter essere più felice di così.

~*~

«Heilà, John! Come te la passi?»

Il ragazzo interpellato alzò lo sguardo verso la ragazza castana che si stava avvicinando con un sorriso stampato in volto.

«Sarah…» sorrise, dandole poi i consueti baci sulle guance per salutarla. «Abbastanza bene, grazie. Tu?»

La ragazza sorrise a sua volta e occhieggiò il bicchiere che John teneva in mano come per assicurarsi che avesse finito di bere. «Bella festa, vero?» mormorò poi, guardandosi intorno con aria felice.

John annuì lievemente, lanciando un’occhiata verso l’altra parte della palestra dove Sherlock, seduto da solo su una sedia, fissava i ragazzi volteggiare sull’improvvisata pista da ballo con aria critica.

C’era voluta tutta la sua buona volontà per convincerlo a venire al ballo di fine anno del Barts, tanto che perfino Greg si era messo in mezzo, rischiando di far soffocare John, il quale aveva scoperto solo in quel momento che anche lui sapeva della loro relazione. Solo successivamente si era reso conto che doveva avere ottenuto l’informazione da Mycroft, e alla fine la cosa era arrivata ai limiti dell’assurdo quando, insieme, avevano dovuto convincere Sherlock ad indossare il classico papillon di tradizione nella scuola. Non credeva di essersi mai divertito tanto. Il giovane Holmes l’aveva presa un po’ sul personale e si era incupito, così che poi John aveva dovuto trovare un modo per consolarlo ed erano finiti per non farglielo indossare, a patto però che non facesse altre storie.

Guardandolo in quel momento John non poté fare a meno di sorridere al ricordo e quasi non si rese conto della domanda che Sarah gli aveva appena posto. «Scusa?»

«Ti va di venire a ballare?» chiese nuovamente lei, arrossendo appena.

John spalancò gli occhi, il pensiero subito rivolto al suo ragazzo, e rimase a fissarla come imbambolato, senza trovare le parole per dirle che no, non aveva nessuna intenzione di ballare con lei.

L’altra, vedendolo impacciato, gli sorrise e lo trascinò verso la pista prendendolo per una mano.

John prese un respiro profondo e sperò con tutto se stesso che Sherlock capisse e non si arrabbiasse se stava con Sarah per qualche minuto.

«Non hai trovato più nessuno dopo Mary?» chiese la ragazza, a quanto sembrava intenzionata a fare conversazione.

John si morse un labbro. «No… sai, lo studio.»

«Oh, John! Sempre a studiare.» sorrise, «Certo, dopo l’incidente di qualche mese fa avrai avuto un sacco di tempo libero visto che non giocavi a rugby, però di questo passo finirai per ammazzarti di studio… Siamo ragazzi, no? Non possiamo pensare sempre e solamente alla scuola. Godiamoci la vita ora che possiamo.»

Il ragazzo volò subito col pensiero ai suoi pomeriggi con Sherlock, pensando che, sì, si stava proprio perdendo il bello della vita.

«Sì, beh…» Rimase sul vago, fissandosi per qualche istante la punta delle scarpe.

«Come mai non hai invitato nessuno, stasera? Non avrei mai creduto di trovarti solo…»

«Non sono solo.» sbuffò John, portandosi a qualche passo di distanza e guardando nella direzione di Sherlock, il quale, però, non era più lì. Deglutì, a disagio. «Sono venuto con Sherlock… dove si è cacciato ora?» disse, ruotando sul posto per cercarlo.

«Oh… Sherlock. Beh… diciamo che mi aspettavo venissi con qualche ragazza.»

«Scusa Sarah. Non è il momento. Grazie per la chiacchierata… ci vediamo in giro.» disse velocemente, poi si allontanò prima che potesse fermarlo nuovamente.

Attraversò l’intera palestra, cercando quella testa riccioluta che lo avrebbe ricondotto a quell’idiota del suo ragazzo.

Lo trovò solo dieci minuti più tardi, bloccato a metà strada verso il cancello di uscita della scuola da quello che riconobbe subito come Mike Stamford. Ringraziò l’amico mentalmente e corse nella loro direzione. «Sherlock, dove vai?»

Il moro si voltò sorpreso verso di lui, per poi tramutare la sua espressione in pura freddezza. «Me ne torno a casa. Ne ho abbastanza.»

John gettò un’occhiata a Mike, scusandosi con lo sguardo, poi prese Sherlock per un braccio e lo trascinò via con sé, con la scusa che Molly li stava cercando.

Si fermò solo quando furono al sicuro in un angolo buio del cortile e, dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno nei paraggi, lo spinse contro il muro e lo baciò, odiandosi per non avere ancora avuto il coraggio di farlo in pubblico.

«Piantala…» sbuffò Sherlock infastidito, cercando di liberarsi dalla sua stretta. «Non ho intenzione di passare la serata a guardarti flirtare con delle insulse ragazze.»

John lo guardò con tristezza. «Non stavo flirtando, idiota. Sai quanto Sarah possa essere invadente.»

Il ragazzo incrociò le braccia al petto e s’incupì, posando lo sguardo su una pianta vicina piuttosto che guardarlo in faccia.

John si morse un labbro, ascoltando la musica che proveniva ovattata dalla palestra poco lontano, e gli venne un’idea. Lo prese per mano, forzando la sua presa per intrecciare le loro dita, e lo trascinò lontano dalla parete, al centro del piccolo spiazzo, gettandogli poi le braccia al collo per tirarselo vicino. Appoggiò il capo sulla sua spalla e cominciò a ondeggiare spostando il peso da una gamba all’altra, socchiudendo gli occhi. «Nessuno mi impedirà di ballare con il mio ragazzo al ballo della scuola. Ci siamo solo noi qui, tu ed io… non è meglio così? Niente casino, niente persone inutili.»

«Potevamo farlo a casa.» borbottò Sherlock sottovoce, non rinunciando però ad allacciare le proprie braccia intorno alla sua vita.

«Uhm… che gusto ci sarebbe stato? Non ti saresti mai vestito in questo modo a Baker Street. E poi siamo al Barts, dove ci siamo conosciuti. Non è più romantico, così?» sorrise tra sé e sé e alzò lo sguardo verso di lui.

«Ci siamo conosciuti da Clara.»

«Oh, sai cosa intendo, idiota. Dove ci siamo realmente conosciuti, un po’ per volta.»

«E dove abbiamo quasi rischiato di morire.»

John ridacchiò e gli tirò un debole pugno contro la spalla. «Guastafeste.»

Rimasero abbracciati per un tempo indefinito, poi John sospirò. «Prometto che farò il possibile per fare quest’ultimo passo e rivelarci a tutti. Non ce la faccio più a tenerti nascosto. Ho paura che qualcuno ti metta gli occhi addosso.»

«Disse colui che aveva appena finito di parlare con una delle sue ex.»

John gli prese il volto tra le mani e lo fissò, serio. «Non voglio che accada mai più. Ti autorizzo a prendermi a pugni la prossima volta che parlerò per più di dieci minuti con una ragazza senza che tu sia presente. Ok?»

Sherlock si strinse tra le sue braccia e sospirò. «Ok.»

~*~

 

Epilogo

Quattro mesi dopo

Le feste di Clara non erano mai state così vive come quella sera.

Non c’era un singolo angolo della stanza in cui non ci fosse qualcuno che chiacchierava con la propria amica, o con l’amica dell’amico, che ballava, beveva o rideva.

La musica, poi, girava ad un volume talmente alto che presto qualcuno del vicinato avrebbe potuto avere qualcosa da ridire, e nessuno si sarebbe stupito nel sentire il suono del campanello d’ingresso. Sempre che si sentisse, ovviamente.

In mezzo a tutto quel tumulto, John se ne stava seduto su un puff un po' in disparte, un bicchiere di coca cola in mano e lo sguardo perso sulla sala intorno a sé. Al suo fianco un eccitato Mike Stamford parlava animatamente della sua nuova conquista - che stranamente quella sera era stata troppo impegnata per poter venire a divertirsi col suo nuovo ragazzo - incurante del fatto che l'amico lo stesse ascoltando o meno.

E John non lo stava facendo, o almeno non del tutto. La sua attenzione era rivolta da tutt'altra parte e gli bastava mugugnare qualche monosillabo ogni tanto per far sì che Mike non lo stressasse troppo.

I suoi pensieri ricadevano senza troppa fantasia, su quel giorno di un anno prima quando, seduto su uno di quei puff, aveva fatto la conoscenza di Sherlock Holmes, nell’esatto momento in cui Mike aveva proposto di prendere una coca cola, bevanda che piuttosto casualmente John teneva in mano proprio in quel momento.

Se al tempo qualcuno gli avesse detto che quel ragazzo dai tratti spigolosi e dai riccioli ribelli sarebbe diventato il suo ragazzo, probabilmente John avrebbe riso e si sarebbe tenuto ben alla larga da quel qualcuno per evitare di incapparci una seconda volta.

Eppure il tempo aveva fatto il suo corso, gli eventi si erano susseguiti uno dietro l’altro e a un anno da quello stesso giorno, John giaceva su quello stesso puff con il pensiero a quello che sarebbe successo di lì a poco quando lui e Sherlock sarebbero ritornati a Baker Street, a casa loro.

Era strano da pensare, non si era ancora abituato all’idea di condividere un appartamento con il suo ragazzo da-non-più-di-sei-mesi. Se pensava che c’erano coppie che prima di andare a vivere insieme passavano gli anni a frequentarsi, non poteva che dirsi contento del suo personale risultato.

Si era trasferito al 221B su insistenza del giovane Holmes, con approvazione del più grande, Mycroft – che si era detto contento di non dover più badare al fratello come una balia – e delle intere due famiglie Watson e Holmes. Harriet aveva letteralmente fatto i salti di gioia alla notizia, festeggiando perché per una volta nella sua vita avrebbe avuto la stanza tutta per sé, e aveva ammiccato maliziosamente verso John, il quale era arrossito fin alla punta delle orecchie, rischiando di farsi scoprire da Jocelyn. La madre aveva fatto finta di niente, ma da come si era comportata, accettando di buon grado la separazione del figlio dal nucleo famigliare e sorridendo ampiamente al giovane Holmes, venuto a presentarsi sotto stressante richiesta di Harriet come nuovo coinquilino, John dubitava fortemente che non si fosse accorta della relazione in corso tra il figlio e quel suo amico strambo ma incredibilmente attraente (a detta di qualcuno). Dubitava fortemente che Jocelyn si fosse bevuta la storia del trasferirsi per lasciare casa un po’ più libera e per avere un maggiore spazio per studiare per l’università. Secondo Harriet le occhiate che i due ragazzi si scambiavano erano peggiori di quelle tra due amanti in un melenso telefilm per pensionate, e John non faticava a crederci, costringendosi a limitare le occhiate al suo ragazzo in pubblico allo stretto necessario.

Non lo avevano ancora detto a nessuno, ovviamente.

Sherlock non sembrava essere molto toccato dalla faccenda: dopo aver insistito per mesi perché John rivelasse la loro relazione, infatti, il ragazzo si era stranamente acquietato e ora John non riusciva più a capire se fosse solo uno dei suoi strani metodi intricati per convincerlo a rivelarsi o se, effettivamente, non gli importasse più.

Tra i due era John quello in perenne indecisione, quello che faceva un passo avanti e poi tre indietro.

Ogni giorno si alzava con la convinzione che quello sarebbe stato il giorno giusto, che quel pomeriggio, quando sarebbe andato a prendere Sherlock a scuola, lo avrebbe preso per mano davanti a tutti e avrebbe mandato a quel paese tutto il resto; che quella sera, uscendo con gli amici del rugby per la birra settimanale, si sarebbe rivelato durante qualche discorso senza capo né coda da brillo; che quel giorno un’illuminazione divina gli avrebbe dato il coraggio necessario per urlare al mondo che, diamine, lui amava Sherlock Holmes e con lui avrebbe passato anche il resto della sua vita, che gli altri lo accettassero o meno.

Ma puntualmente ogni giorno perdeva la sua occasione, riparandosi dietro a sorrisi imbarazzati o commenti sarcastici. Più tempo passava e più sentiva le proprie convinzioni abbandonarlo e Sherlock diventare sempre più scorbutico.

Poteva dire quello che voleva, ma John sapeva che era ancora giù di morale per quella storia. E non poteva non dargli ragione: stavano insieme da quasi sei mesi e ancora dovevano girare per strada evitando meno contatto fisico possibile, quando invece entrambi avrebbero voluto abbracciarsi e scambiarsi sguardi amorevoli ogni due per tre, John compreso.

Ma come aveva impiegato mesi per accettare il suo amore per Sherlock, ora stava impiegando quasi il doppio del tempo per mostrarsi agli altri per quello che era veramente. Aveva paura di quello che avrebbero potuto dire, di venire escluso dalla maggior parte dei suoi amici o di essere guardato con meno rispetto di quello che si era pian piano guadagnato con il passare degli anni. Chissà per quale assurdo motivo, tutto quello risultava essere ancora un problema.

I due ragazzi avevano avuto una discussione proprio quella mattina su quel particolare argomento, quando John si era arrabbiato sul fatto che il ragazzo non lo avesse avvisato quando era uscito per andare a prendere un libro da un certo Victor Trevor, e Sherlock aveva ribattuto acidamente che a John non sarebbe comunque importato, anche se fosse uscito con quel tipo per andarci a bere qualcosa insieme. L’altro si era sentito ferito da quell’insinuazione e i due non si erano parlati per il resto della giornata, almeno fino a quando John non aveva cominciato a prepararsi per la festa e, una volta sceso per chiamare un taxi, il moro non lo aveva raggiunto con aria cupa, commentando con un “da solo non ti lascio andare” che aveva scaldato il cuore dell’altro e lo aveva spinto a tenerselo stretto al petto lungo tutto il tragitto fino alla casa di Clara.

In quel momento, seduto su quel puff blu che custodiva così tanti ricordi, John poteva vedere il suo ragazzo, in piedi contro il muro dalla parte opposta della sala, affiancato da un’allegra Molly che sembrava parlargli con la stessa vivacità con la quale Mike si stava rivolgendo a lui. Entrambi, neanche a farlo apposta, annuivano di tanto in tanto, lasciando invece vagare lo sguardo intorno a loro. Nell’esatto istante in cui John formulava quei pensieri, Sherlock alzò lo sguardo verso di lui e i loro occhi s’incrociarono. Quelli cristallini del compagno sembrarono mandargli una muta richiesta d’aiuto, quasi considerasse la compagnia di Molly come un mortorio.

John sospirò stancamente e abbassò lo sguardo al liquido ambrato nel suo bicchiere, lasciando che le parole di Mike gli scivolassero addosso senza neanche sforzarsi di comprenderle.

«Che poi, voglio dire, se le piaccio, perché nascondersi? Non avrebbe senso!»

John alzò gli occhi di scatto. «Cosa?»

«Janine. Continua a dirmi di non aver mai conosciuto un ragazzo come me, che non si è mai trovata così bene con nessun altro e che non sono neanche così brutto come penso. Ma allora perché sembra fare di tutto perché non ci vedano insieme?»

Il ragazzo sentì un live tremore alla propria mano e, deglutendo, appoggiò il bicchiere su un tavolino poco distante per evitare di combinare qualche pasticcio. «Così è lei quella che non si vuole far vedere in giro con te?» ironizzò, mentre gli occhi saettavano velocemente verso Sherlock, ancora nella medesima posizione di poco prima.

Tuttavia non ascoltò il seguito della conversazione, che Mike si premurò di portare avanti in solitario, poiché la sua attenzione venne catturata dall’intero insieme della sala.

I ricordi scorrevano veloci, accavallandosi l’uno sull’altro. La prima volta che aveva ascoltato il suono della sua voce profonda al cellulare; la volta in cui era andato per la prima volta al laboratorio, il giorno in cui aveva fermato i suoi compagni dal prenderlo a pugni; la prima volta che Sherlock lo aveva baciato, là in quel bagno, quando entrambi erano ancora troppo spaventati per ammettere quello che stava realmente succedendo tra di loro e il giorno in cui John lo aveva baciato sul serio, dichiarandogli tutto il suo affetto; quando avevano fatto l’amore per la prima volta, quando lo avevano fatto per la seconda, sul divano, un giorno piovoso di maggio. I pomeriggi che avevano passato sul letto, a scambiarsi pensieri e carezze e coccolandosi l’un l’altro, quelli passati davanti a un tavolo colmo di libri per qualche strano esperimento in corso. Il primo vero caso che Sherlock aveva risolto sotto richiesta di alcune conoscenze di famiglia, che aveva come protagonista un tassista suicida, la prima tazza di the con Mycroft, il primo cinese davanti a Doctor Who, la prima litigata e la prima riappacificazione, la prima doccia insieme e le corse sotto la pioggia per tornare a casa.

Ogni momento era un ricordo indelebile nella mente di John: erano passati appena cinque mesi e avevano già vissuto un sacco di emozioni e bei momenti che andavano solo a rafforzare tutto quello che provavano l’uno per l’altro. John credeva di non potersi mai stancare di guardare quel volto pallido, di affondare le dita in quei riccioli castani, di perdersi in quegli occhi chiari di tutte le sfumature dell’azzurro e del verde, di baciare quelle labbra di una bellezza impossibile e di svegliarsi ogni mattina, in quel letto, con il suo corpo caldo vicino.

Lasciò scivolare lo sguardo sulla sala, su tutte quelle persone che definiva amici, in alcuni casi anche semplici conoscenti, e sul quale basava la maggior parte delle sue convinzioni.

Non poté fare a meno di sorridere tra sé e sé quando vide Greg Lestrade, in un angolo della sala, che scriveva freneticamente al cellulare, lanciando qualche volta un’occhiata intorno a sé e arrossendo visibilmente.

Il sorriso un po’ si spense quando notò Clara giocherellare nervosamente con una ciocca di capelli mentre parlava con un ragazzo poco più alto di lei che John aveva visto qualche volta nei corridoi del Barts. Lei e Harriet avevano rotto solo qualche settimana prima, dopo interi mesi passati a litigare.

Dall’altra parte della sala, invece, il Rosso si vantava con una ragazza del suo stesso anno, un po’ timida ma con gli stessi capelli rosso acceso, che sembrava essere lusingata dalle attenzioni che le venivano rivolte.

Si lasciò trasportare dalle note del lento che risuonava per la sala e si ritrovò a osservare la maggior parte dei suoi compagni di squadra mentre vagavano abbracciati alle proprie compagne, scambiandosi effusioni e alcuni gesti indiscreti che lo fecero vagamente rabbrividire.

Era per quelle persone che aveva fatto tutto questo, in tutti quei mesi? Era perché si vergognava di quella parte di sé che aveva dovuto ammettere la sua omosessualità (o qualsiasi cosa fosse)?

A John piaceva Sherlock, amava Sherlock, nessun altro.

E, pensandoci, non riusciva neanche più a trovare un senso a quelle parole che tanto lo spaventavano. Dove stava il problema nell’apprezzare qualcuno del proprio sesso?

Gli bastava guardare le numerose coppie che volteggiavano proprio davanti ai suoi occhi per comprendere che tra di esse non c’era più sentimento di quanto non ce ne fosse in un cucchiaino da caffè[3].

Quella stupida etichetta non era nient’altro che una parola, basata su pregiudizi e convinzioni ormai passate, su pensieri innaturali e su antiche usanze ampiamente discusse e senza ancora una spiegazione plausibile. Chi era l’uomo per giudicare un sentimento così potente come l’amore? Chi erano tutti per potersi permettere di dire che l’amore tra loro fosse sbagliato? Ma soprattutto, dove stava la differenza di fondo?

Era vero, una coppia gay non sarebbe mai stata in grado di procreare e portare avanti l’umanità; forse era contro natura, forse non era esattamente quello che ci si aspettava. Ma nessuno aveva il diritto di dichiararsi nel giusto o nel torto, non quando si trattava di un tema così delicato.

John lo aveva provato sulla propria pelle, si era ritrovato nella situazione di dover accettare qualcosa che non avrebbe mai immaginato di poter provare. E non era rimasto per niente sconvolto da ciò, anzi. Ammetterlo era stato solo un passo in più verso la totale conoscenza di se stesso. Non poteva dire di non sentirsi più libero dopo quell’ammissione, libero del peso della menzogna, di quel peso che non portava altro che dispiaceri.

Bastò un sorriso un po’ più sincero degli altri, uno sfioramento casuale che forse di accidentale non aveva proprio niente.

Qualcosa dentro di lui scattò.

Un attimo prima era seduto, lo sguardo perso di fronte a sé e un orecchio occupato a carpire qualche parola qua e là del discorso di Mike, un attimo dopo si era alzato, come in trance, e aveva cominciato a camminare verso un punto preciso della sala, incurante dei richiami stupiti dell’altro. Gli occhi si appuntarono sull’alta figura del suo coinquilino, mentre Molly, affianco a lui, si voltava di poco e lo notava con la coda dell’occhio.

John attraversò la stanza nel giro di qualche secondo, evitando accuratamente i ragazzi che si ritrovava per la strada e tutti coloro che, notandolo, si allungarono verso di lui per salutarlo o per lasciargli qualche pacca amichevole sulla spalla.

Sherlock lo notò e spalancò gli occhi, forse nel tentativo di dedurre il risultato delle sue azioni, ma se c’era qualcosa di cui John poteva andare fiero, quella era il fatto di essere l’unica persona imprevedibile che fosse veramente in grado di stupirlo.

Coprì con pochi passi la distanza che li separava, ignorando lo sguardo sorpreso che Molly gli rivolse. Quando Sherlock intese, era ormai troppo tardi.

John gli si avvicinò di slancio, prima che qualche stupido pensiero potesse impedirgli di fare ciò che si era imposto, prima che qualsiasi altro fattore indefinito potesse ostacolarlo.

Afferrò con le mani i lembi della camicia di Sherlock e lo trasse a sé, costringendolo a chinarsi quel poco che gli permettesse di arrivare alla sua altezza.

Lo baciò, con tutta la delicatezza di cui era capace.

Il ragazzo s’irrigidì sotto di lui e John poté quasi vedere attraverso le palpebre chiuse i suoi occhi spalancarsi e la sua espressione di stupore per quell’improvviso gesto. Poi, come rassicurato dal fatto che John non si fosse ancora staccato, Sherlock allungò le braccia e arrivò a cingergli la vita, aprendo le labbra e rispondendo al suo bacio.

Non durò molto.

John si staccò lentamente, riaprì gli occhi e li tenne fissi in quelli del suo ragazzo mentre un sorriso si apriva sul volto di entrambi.

Il silenzio li avvolgeva, non un urlo, non una parola volava per la stanza, e per John, in quel momento, c’era solo Sherlock, Sherlock e le sue labbra, Sherlock e le sue stranezze, la sua inafferrabile genialità e le sue strane manie. C’era solo Sherlock e il loro passato insieme, le loro avventure e i loro bisticci, il loro cambiamento e quel sentimento forte e potente che era il loro amore.

In quel momento tutto l’orgoglio di John, tutti i pregiudizi che entrambi erano riusciti ad affrontare e superare erano spariti in una bolla di sapone.

In quel momento John sentì di cominciare a vivere veramente, sentì di poter cominciare quella nuova vita e di poter affrontare tutto ciò che ci sarebbe stato sul suo cammino. Sentiva che se Sherlock era lì, con lui, tutto sarebbe andato per il meglio.

Cercò la mano del compagno e intrecciò le loro dita.

Era pronto. Era finalmente pronto a dimostrare a tutti quello che provava, e improvvisamente non gli importava più di tanto ciò che avrebbero pensato i suoi amici. Lui amava Sherlock, lo aveva dimostrato a se stesso, aveva anche provato a sfuggirgli, inutilmente. Il destino aveva fatto il suo corso. Ciò che provava per quel falso sociopatico era molto più che semplice affetto e se i suoi amici volevano avere ancora la sua amicizia avrebbero dovuto accettarlo, così com’era. Era la cosa giusta da fare, ora non aveva più dubbi.

Probabilmente lo avrebbero preso in giro, avrebbero riso di lui. Probabilmente lo avrebbero chiamato gay, frocio o che altro, ma improvvisamente tutto aveva perso importanza.

Se c’era Sherlock al suo fianco, sapeva che niente sarebbe stato impossibile, e con il senno di poi, valeva la pena provarci.

Lo guardò, fissò il suo sguardo nei suoi occhi cristallini. «Ok?» chiese in un sussurro.

Sherlock sorrise, improvvisamente più sereno. «Ok.»

E John si voltò.

 

 

 

 

 

Fine.

 

 

 

 

 

 

 

Note:

[1] Riferimento al canone. Watson accenna al fatto che ogni tanto costringe Holmes ad uscire quando non ha un caso a tenerlo impegnato.

[2] Ah… ehm. Sarebbe troppo chiedervi di tenerlo a mente? Cioè… si insomma. Forse. Non so neanche se… vabeh, niente. Non importa.

[3] Piccola citazione da Harry Potter <3

 

 

 

Ebbene, l’ho fatto. Ho veramente portato a termine questa pazzia. Quanto sono triste? Tanto. MOLTO.

È quasi passato un anno da quando ho letto per la prima volta Orgoglio e Pregiudizio e ho deciso, non appena Darcy è entrato in scena, di scriverci una ff a tema Sherlock. E niente, quei due mi sono entrati nel cuore e credo che andrò avanti a pensarci ancora per un bel po’, almeno fino a quando un’altra idea malsana non mi balzerà in mente.

Ma ora basta ciarlare, spazio ai ringraziamenti. (Perché quando ci vogliono, ci vogliono).

Un grazie, ma un vero grazie di cuore va alla mia fantasticherrima beta, una ragazza che mi ha supportato nell'iniziale indecisione per la pubblicazione, che mi ha incoraggiata strada facendo, che mi ha sopportata nelle mie insistenze da "allora hai finito di betare che stasera si pubblica?". E' una santa, cosa vi devo dire. Ed è la mia beta, sola e inimitabile. Non so neanche come avrei fatto senza di lei <3

Un secondo grazie va a Giulia, che mi ha letteralmente forzata a iniziare Glee e, credetemi, senza di lei non saremmo qua. <3

E… my Cass, non so neanche da dove iniziare.

Sapete quanti siete? Quanti?! Tanti. Tantissimi. Il primo capitolo ha da poco superato le 2000 visualizzazioni, i seguiti/preferiti/ricordati sfiorano i 200. Non ho mai visto numeri così alti nelle mie storie e ogni volta che ci penso mi vengono le lacrime agli occhi. Grazie. GRAZIE.

Vi voglio tutti qui per un abbraccio di gruppo perché siete magnifici e io sono talmente patetica da non riuscire neanche a fare un ringraziamento decente. ç_ç

Un particolare e immenso grazie va soprattutto a chi ha recensito perché, giuro, leggere i vostri commenti è stato uno delle cose più belle nello scrivere questa storia. <3

E ora la pianto, seriamente.

È stato bello, ci si becca in giro. Vi auguro delle buone vacanze e, finalmente, dopo dodici capitoli, la smetto di rompervi le palle xD

Con affetto,

Gageta.

 

 

Ps. Non so voi ma io mi diverto sempre a vedere i dietro le quinte di un telefilm o a sapere le varie tribolazioni delle scrittrici (anche quelle qui su efp, sì xD). Per coloro che hanno questo mio stesso “hobby”, ho messo insieme un po’ di curiosità varie sulla storia, dalla stesura ai vari Easter Eggs nei capitoli. [click]

Pps. [qui] il mio profilo faccialibro, se vi va sentitevi libere di chiedermi l'amicizia :D

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