L'ErrorE_/

di HuGmyShadoW
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** °(PROLOGO)° ***
Capitolo 2: *** °(Uno)° ***
Capitolo 3: *** °(Due)° ***
Capitolo 4: *** °(Tre)° ***
Capitolo 5: *** °(Quattro)° ***



Capitolo 1
*** °(PROLOGO)° ***


°(PROLOGO)°

Sono un ragazzo comune, uno come tanti, perfettamente rientrante nei criteri della normalità, che ha avuto solo la fortuna e la condanna di nascere in una certa famiglia.
Non smettete ora di leggere perché questa che sto per raccontarvi è la mia storia, ma un giorno potrebbe benissimo diventare la vostra.
Il mio nome è Jake, ho 17 anni. Non mi descriverò adesso, sarebbe perfettamente inutile, e più avanti capirete perché. Vivo in Germania, precisamente nella cittadina di Loitsche, e fin qui non ci sarebbe nulla di strano, ma come presto vi accorgerete, niente in questa storia è normale o affidato al caso.
E infatti, il mio cognome è Kaulitz.
Sì, lo so, adesso sarete sorpresi, penserete ‘Non è possibile’, ‘E’ una balla’, ‘Si sono inventati tutto’. Mi spiace deludervi, ma è questa la verità. Scomoda, difficile da digerire forse, ma io non ho il potere di alterare fatti già avvenuti, altrimenti non sarei qui.
Mi chiamo Jake Kaulitz e il mio nome, la mia vita, la mia intera esistenza è solo un enorme, gigantesco sbaglio. Io sono l’Errore.


°°°
Hallo a tutti! Questa storia era un pezzo che mi gironzolava per la mente e ho voluto provare a vedere se riuscivo a metterla su carta... Intanto vi propongo l'introduzione, se piace continuerò a scrivere gli altri capitoli. Vi pregherei di lasciarmi qualche recensioncina, tanto per capire se quello che scrivo vale qualcosa o se farei meglio a darmi all'ippica! xD
Grazie mille in anticipo a chiunque leggerà, metterà nei prefeiti e commenterà la mia fic. A presto!
Roby_*

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Capitolo 2
*** °(Uno)° ***




°(Uno)°

La nascita di un bimbo inatteso, solitamente, è come la caduta di una stella cometa, un evento emozionante ed irripetibile, una gioia immensa nel cuore. In altri casi può essere un fastidioso problema, una scelta sbagliata, una bruciante caduta sui pattini.
I coniugi Kaulitz avevano appena avuto due gemelli, come previsto dalle radiografie. Eppure, quattro mesi dopo, nacqui io, il 1° Gennaio 1990, un anno più tardi, se vogliamo essere convenzionali. La sorpresa fu grande perché tutti quei controlli medici non mi avevano individuato. Che fosse stato un errore non intenzionale di un medico inesperto o un segno del destino, nessuno mai lo seppe. E lo sbalordimento fu ancora più grande quando i dottori si accorsero che a tutti gli effetti io ero un altro gemello. Capite adesso perché trovavo inutile descrivermi?
Allora, dicevo... quando io, piccolo bimbo imprevisto, andai ad abitare a casa con i miei genitori, i miei due fratelli avevano poco più di cinque mesi. Non li ricordo, ma grazie alle descrizioni di mamma non mi è difficile raffigurarmeli. Per un breve, felice periodo io crebbi insieme a loro, sedendo sullo stesso passeggino e dormendo con papà la notte. Poi qualcosa cambiò, si lacerò irrimediabilmente. Simone, la mia mamma, faticava a tirare avanti con tre figli piccoli a cui badare, e lo stipendio di papà non bastava più. Mamma mi raccontava che litigarono tanto in quel periodo, troppo stanchi, costretti a continui sacrifici. Una sera papà arrivò perfino alle mani, e di questo credo di avere un ricordo molto vago. Forse a causa di un bicchiere di troppo trangugiato con leggerezza per lasciarsi alle spalle i proprio problemi, forse per la rottura di una diga dentro di sé, papà diede uno schiaffo a mia madre. Forte, di rovescio, apposta per ferire. E anche più tardi, non gli era dispiaciuto. Io ero presente e non potei fare nulla. Ancora oggi, davanti ai miei occhi, si ripetono immagini in sequenza come fotografie un po’ rovinate dal tempo: Simone che cadeva a terra con uno strillo, che si rialzava tremando, che mi afferrava dalla culla e si rifugiava in camera sbattendo la porta. Ci siamo addormentati piangendo insieme, quella notte. Avevo pochi mesi, eppure questa scena è sempre stata impressa in rilievo nella mia mente, sempre.
Alla fine, dopo sofferte discussioni, vinse papà. Al limite della sopportazione, costrinse la mamma a lasciarmi in adozione, o in un orfanotrofio.

Era sera, una gelida sera di fine Febbraio. Papà era già andato a letto, incapace ci dirmi anche solo addio, perché in fondo mi voleva bene. Il caminetto era acceso e le fiamme gettavano luce su tavolini, poltrone, soprammobili, che come in un grottesco gioco manovrato da un abile marionettista, si deformavano e si allungavano a dismisura, proiettando sulle pareti la parte meno innocua della loro natura immobile e pacifica. Il fuoco mi aveva sempre affascinato.
Tremando e singhiozzando, mamma mi aveva avvolto più stretto che mai in cinque maglioni, distogliendomi dai miei leggeri pensieri, mentre io la fissavo serio, non capendo. Aveva aperto la porta e senza guardarsi indietro si era gettata nelle fauci della notte. L’aria della sera mi aveva punto con mille aghi il viso, le mani, gli occhi. Avevo freddo, ma non piangevo. Ero troppo occupato ad osservare con curiosità le piccole stelle che, come minuscoli buchi di luci, mi parevano salutare. Cominciò anche a nevicare, ad un certo punto. E per me era un gioco anche quello, tentare di afferrare con le manine i fiocchi bagnati che mi si posavano sul naso. E risi forte, divertito.
Fu allora, credo, che mamma scoppiò a piangere. Per tutto il tempo aveva tenuto lo sguardo duro, fisso sui propri passi, e le labbra contratte; quel cambiamento improvviso mi sconvolse.
Singhiozzando, mi strinse forte al petto e si accasciò sugli scalini di un condominio come una bambola di pezza a cui erano stati tagliati i fili. E non capivo ancora, ma non volevo vederla così. Allungai un braccio e le accarezzai goffamente le guance bagnate. Lei mi avvolse ancora più stretto baciandomi la manina, poi si alzò asciugandosi fieramente gli occhi e senza ripensamenti si voltò. Il vento, umido di neve, sferzava la mia faccia. Era piacevole dopotutto. A falcate decise, arrivammo a destinazione relativamente presto. Riconobbi la casa, la mia casa, e lanciai un gridolino di gioia. Mamma mi fece segno di non fare rumore e con cautela mai vista la vidi infilarsi fra la porta sul retro. Sobbalzai contro il suo petto su tanti gradini in una scalata infinita di ripidi gradini, in controtempo coi battiti del mio cuore. Un cigolio simile in tutto e per tutto a un lamento e... non so come, ma ad un certo punto non vidi più nulla. Era diventato tutto buio e l’aria aveva accolto un vago odore di chiuso.
Luce. Sbattei le palpebre, abbagliato, e solo quando mamma mi ebbe adagiato in una culla d’altri tempi, diversa dalla mia, capii che ero nella “stanza sopra la casa”, la soffitta. Non ero ancora entrato lì, e incuriosito lasciavo vagare lo sguardo senza posarlo mai su niente.
Quella notte, mamma rimase sempre con me. Mi parlò a lungo, mi consolò, mi promise che non avrebbe lasciato che mi portassero via. E io le credetti. Che altro potevo fare?
Mentre fuori nevicava, mi addormentai al sicuro fra le braccia dell’unica donna della mia vita, che, anche se ancora non lo sapevo, mi aveva salvato e distrutto la vita in un unico istante.  

°°°

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Capitolo 3
*** °(Due)° ***



°(Due)°


Un raggio di sole si fece largo a fatica nella città di cianfrusaglie impolverata che regnava nella soffitta. Filtrando attraverso lo spiraglio di una piccola finestrella ad oblò, si muoveva lentamente, senza fretta, ora immergendosi nel tessuto logoro di un vecchio divano, ora scavalcando agilmente qualche sgangherato gioco da tavolo a cui mancavano più pezzi di quanti ne contenesse, ora sbirciando attentamente all’interno di scatoloni umidi e dimenticati da tempo. Sembrava cercare qualcosa, il piccolo raggio di sole, ma senza affannarsi troppo, perché sapeva bene che quello che bramava era già lì.

Ero avvolto come in un bozzolo da mille coperte indistinguibili le une dalle altre. Durante la notte, il loro calore mi aveva protetto dagli spifferi, ma ora che il giorno avanzava il loro morbido infagottarmi si faceva sempre più soffocante. Sospirai immergendo il viso fra le pieghe del cuscino e presi a lottare contro gli improbabili legacci della mia prigione di stoffa. Avevo caldo, stavo sudando, ma non volevo svegliarmi, e come se già non bastasse, una luce diretta abbagliante che pian piano era scivolata senza un rumore lungo il mio corpo mi aveva di botto inondato il viso. Tenendo le palpebre furiosamente serrate, annaspai con le mani davanti al mio viso prima di trovare il lembo del lenzuolo. Alla fine, con un gemito rabbioso, calciai via le coperte che rotolarono inerti sul pavimento, ai piedi del vecchio letto con le spalliere di metallo che fungeva da “tana”. Barcollando, mi misi in piedi e mi grattai la testa. Lunghe ciocche di capelli soffici e neri si impigliarono fra le mie dita. Le liberai delicatamente e con gli occhi incollati di sonno, mi trascinai a zig-zag fino ad una cassettiera addossata al muro opposto. Schiusi le palpebre e un paio di occhi nocciola, gonfi e ancora fragranti, insaporiti del dolce dormire della notte appena passata ricambiarono il mio sguardo. Mi avvicinai di più allo specchio, scrutandomi attentamente fra una macchia di ruggine e un’altra. Mi piacevano quegli specchi, antichi, provati dal tempo...
“Brutta faccia...”, pensai osservandomi da più angolazioni. Sbadigliai accarezzando l’idea di tornarmene a letto quando un pensiero mi balenò nella mente, veloce come un battito d’ali.
-Ehi!-, esclamai ad alta voce, osservando che il mio riflesso apriva la bocca come un efficiente pappagallo. Immediatamente corsi al calendario ingiallito appeso di sbilenco alla parete. Scorsi velocemente i giorni mentre il mio sorriso si allargava mano a mano che il tempo di carta scorreva.  
-Sì!!-.
Gettai a terra il calendario e misi subito al suo posto uno nuovo fiammante. Accarezzai delicatamente il primo quadratino del foglio di gennaio.
-Sì! Sì! Sì!-. Ero incapace di contenere il mio entusiasmo, ma dopotutto, capitemi. Non si compiono 17 anni tutti i giorni!
Feci correre lo sguardo per la stanza, disordinato specchio della mia vita fin dai primi mesi.
Un vispo orologio ticchettante, unica nota stonata in quella sinfonia di polvere e lentezza mi rivelò che erano già le otto passate. Papà sicuramente non c’era.
Con l’adrenalina che mi ribolliva nelle vene afferrai un paio di jeans e un maglione senza nemmeno capire di che colore fossero, caracollai fuori saltellando per infilarmi una scarpa e chiusi la porta sbattendola forte.
Sentivo il cuore a mille mentre scendevo con sofferta lentezza le scale scricchiolanti che portavano alla soffitta, e il pompare del sangue nelle orecchie mi assordava.
Senza accorgermene arrivai davanti all’immacolata porta della stanza da letto di mamma. Prima di bussare gettai un’occhiata al corridoio buio. Tutto tranquillo. Mi schiarii la voce e battei le nocche contro il legno.
-Mamma?-, chiamai sottovoce socchiudendo la porta. La mia voce venne assorbita subito dalla moquette. La stanza linda e profumata era perfettamente ordinata; solo un libro sul comodino lasciato aperto dalla sera prima e un maglione adagiato contro lo schienale della  sedia a dondolo in un angolo regalavano un po’ più umanità a quella camera da catalogo.
-Mamma...?-, ripetei avanzando. Mi diressi a passi silenziosi fino al centro della stanza seguendo il percorso tracciato dalla debole striscia di luce che filtrava dalla porta. Mi fermai accanto al letto e tesi le orecchie. Niente, nessuno rumore.
“Sarà in cucina?”, mi chiesi tornando in fretta sui miei passi. Accompagnai con delicatezza la chiusura della porta e mi voltai.
-AH!-.
Un istante dopo mi pentii del mio strillo e mi premetti una mano sul cuore, tentando invano di rallentare il suo battito e il mio respiro.
-Mamma, mi hai spaventato! Perché salti sempre fuori dal nulla?-, protestai con il fiato corto.
Lei mi osservò dolcemente mentre mi riprendevo, poi si avvicinò e mi carezzò la guancia.
-Scusami, Jake...-.
Che tipo, mia madre. Per me era la colonna portante della mia vita, l’unica donna a cui mi fossi mai affezionato. Ogni volta che la vedevo cercavo di respirare più a fondo il suo profumo, di imprimermi bene nella mente il suo modo di sorridere, tutto un sollevarsi di fossette, quel suo mettere le mani sui fianchi, ogni cellula del suo meraviglioso, dolce essere.
L’amavo. E lei amava me.
Con un sorriso, Simone mi distolse dalle mie contemplazioni.
-Stavo per venire a svegliarti. Vieni in cucina, c’è una sorpresa per te!-. Nel dirlo si illuminò in volto, e anche non sapendo cosa mi aveva preparato, era quello il mio regalo più bello.  La presi per mano e mi lascia guidare senza esitazioni lungo il corridoio buio e poi giù per le ripide scale di legno, attraverso l’atrio e fino in cucina.
-Papà non c’è vero?-, le domandai con una punta d’ansia nella voce.
-No, non è ancora tornato da ieri sera... Adesso però dovresti chiudere gli occhi-, ridacchiò con una mano già sulla maniglia della porta.
-Ma dai, mamma! Non ho più cinque anni!-, sbuffai.
Nei suoi occhi calò un’ombra come un sipario e capii all’istante di averla ferita. Mi morsi la lingua e sospirai.
-Va bene... Ecco, sono chiusi!-, esclamai serrando per bene le palpebre.
Immaginai il suo sorriso mentre mi mormorava -Resta qui...- e spariva oltre la soglia. Più leggera di un soffio di vento, la presa della sua mano svanì e le mie dita strinsero il vuoto.
Capii all’istante quando fui veramente solo. Il silenzio era tutto intorno a me e una vertigine aveva preso a contorcermi le budella. Lì, vicino al semplice portaombrelli, ad un passo dalla mia isola di salvezza, mi sentii come sull’orlo di un precipizio. Potevo quasi sentire il vento fischiare nelle mie orecchie e se solo avessi allungato il piede, probabilmente non ci sarebbe stato più nulla a sostenermi... Mi spostai di un centimetro più avanti, sempre ad occhi chiusi, e mi aspettai di sentire il vuoto piombare sotto le mie dita...
-Jake-.
Sobbalzai.
-Jake... Ora puoi aprire gli occhi-.  
Con cautela, sollevai prima una palpebra e poi l’altra. Niente precipizio. Niente strapiombo incombente sotto i miei piedi, solo il vecchio, consumato parquet di sempre.
Alzai gli occhi, attirato da un chiarore.
Con un sorriso grande e luminoso come la luna a sovrastare tante candeline in fila, Simone mi porse una torta bellissima, glassata, invitante come nessun altra.
-Buon compleanno-.

Ci spostammo in cucina, dove mi attendeva un pacchetto innocentemente posato sul tavolo. Soffia sulle candeline, diciassette, blu come il cielo, e le spensi tutte in un colpo. Nonostante le insistenze di mamma, preferii non esprimere nessuno desiderio.
Con una fetta del dolce davanti per ciascuno, Simone aspettò che aprissi il mio regalo multicolore. Lo scartai con impazienza, facendo a brandelli la carta, ed esibii un’impeccabile espressione da festeggiato stupito.
Per farla contenta, solo per la sua felicità.  
Chiacchierammo tanto, parlando del più e del meno, del tempo, del nuovo anno, di papà, dei vicini, stando bene attenti a non toccare l’argomento “fratelli”.
Il grande orologio sopra il forno ormai segnava le dieci passate; entrambi sapevamo che papà sarebbe tornato da un momento all’altro, ma nessuno dei due intendeva finirla così.
Lanciando un breve sguardo alla cucina ordinata, sospirai, pensando a quante volte avevo abbandonato la mia cena solitaria per spiare loro, i miei fratelli e i miei genitori, mangiare ridendo, conversando, felici, sereni... Io non avrei mai fatto parte di questa famiglia, lo sapevo bene.
Sospirai, stuzzicando con la forchetta la mia fetta di torta quasi intatta. Mamma se ne accorse.
-Non ti piace?-.
Alzai gli occhi, allarmato.
-No, no, è buonissima! Davvero!-, esclamai.
Simone sorrise morbidamente, di un sorriso umido, non solare come al solito. E anch’io ricambiai lo stesso tipo di sorriso. Posai la forchetta.
-Grazie mamma. Questo è il più bel compleanno della mia vita-.
E coccolato dolcemente da quel profumo di casa, rimasi sorpreso del fatto che lo pensavo davvero.


°°°


Come  
miya shinizuu mi ha fatto notare, nel capitolo precedente è scritto che Jake è nato quattro mesi dopo rispetto agli altri due gemellini. Io non sono molto informata sulle gentica e simili, però credo possa succedere che un bambino si formi in ritardo rispetto ai fratelli, anche a mesi di distanza (in casi più unici che rari... -_-'); diciamo che mi prendo questa licenza poetica, e voi, se potete, perdonate l'inverosimilità degli inizi.
Ringrazio quanti hanno commentato e quanti hanno messo la mia storia fra i preferiti. Cercherò di aggiornare il prima possibile. Baci <3



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Capitolo 4
*** °(Tre)° ***



°(Tre)°



Fui il primo ad udire la porta sul retro che sbatteva. Trasalii e balzai in piedi con un sussulto. L’adrenalina aveva ripreso a circolare, permettendomi di avere una percezione più accelerata del mio mondo. Afferrai il piatto ancora pieno davanti a me e lo gettai nel lavabo, nel quale atterrò con un tonfo secco. Con il cuore in gola, sfrecciai a scaraventare la torta nel frigorifero, con coltello e tutto. Infine, mi voltai per dare un bacio a mamma e notai che non si era ancora mossa dalla posizione in cui si trovava: la schiena curva, la testa bassa, le spalle cascanti.

-Mamma?-, chiamai preoccupato inginocchiandomi davanti a lei.
Lei sorrise asciugandosi gli occhi e mi prese le mani.
-Scusami, Jake... Avrei tanto voluto che questo fosse stato un compleanno diverso, per te-.
Mi allungai a baciarle la guancia senza riuscire a mandare giù il groppo che mi bloccava la gola.
-Lo è stato... Grazie di tutto-.
Lei ridacchiò istericamente e mi carezzo il viso, delicata come il battito d’ali di una farfalla.
Passi nell’atrio.
-Simone, ci sei?-.
-È papà... Devo andare-, sussurrai in fretta e furia. Strinsi le sue mani nelle mie e sfrecciai fuori proprio nell’istante in cui la seconda porta della cucina si apriva.
-Simone... Che succede?-, sentii chiedere papà prima di imboccare tristemente le scale e raggiungere di nuovo la mia Tana. Mi chiusi la scricchiolante porta di legno alle spalle e barcollai a stendermi sul mio letto tutto cigoli.
A pancia in su, rimasi a fissare per un lasso di tempo interminabile la polvere vorticare in una strana danza lungo il cono di luce proiettato dalla finestrella. La luce cambiò, diventò più morbida e scura, solo un pallido riflesso del giallo intenso di quella mattina. Non sentivo niente, né la fame né il bruciore delle lacrime che mi scorrevano pigre sulle guance. Il tempo passava, passava, passava, senza un qualcosa che potesse attirare nuovamente la mia attenzione e risvegliarmi da quello stato catatonico in cui mi trovavo. Potevo solo guardare senza vedere davvero il soffitto e pensare; più che altro, immaginare, fantasticare... Come sarebbe stata la mia vita se il destino avesse deciso diversamente per me, cosa avessi provato nell’essermi svegliato in un vero letto, in una vera stanza, magari proprio quella mattina, il mio compleanno. Sorrisi, mentre altre lacrime, a mia insaputa, mi sgorgavano dagli occhi arrossati e stanchi. Faceva troppo male pensare agli “e se...”, perciò smisi.
Altri secondi, minuti, ore che si accumulavano inerti in un angolo della mia stanza e da lì mi fissavano con occhi spenti...

Solo quando fui scosso dai primi spasmi mi accorsi di avere freddo. Sbattei le palpebre, confuso, mi asciugai gli occhi e afferrai l’orlo delle tante coperte. Avevo le braccia e le mani intorpidite, tanto che solo dopo alcuni tentativi riuscii a tirarmele con un sospiro fin sopra la testa. Al caldo, sotto quell’improvvisato rifugio nel Rifugio, mi concessi di chiudere gli occhi e far finta di non esistere. A poco a poco il freddo si calmò. Forse mi addormentai. Persi di nuovo la cognizione del tempo... ma l’avevo mai avuta?
All’improvviso mi svegliai, non bruscamente, quasi incalzato da qualcosa. Sbadigliai e finalmente mi azzardai a far capolino con la testa dal mio fagotto di coperte, anche perché stavo soffocando lì sotto! Mi rizzai a sedere ancora intontito e volsi lo sguardo in alto...
-Wow-, mormorai improvvisamente sveglio, alzandomi in piedi sul letto. Dal cielo malinconico e grigio, solo un ricordo sbiadito del blu terso di quella mattina, fioccavano disordinatamente angeli bianchi. Piccoli o grandi, svelti o restii a lasciare la propria nuvola, un’infinità di fiocchi di neve scendevano dal cielo. Mi avvolsi una coperta attorno alle spalle e salii sopra al comodino, in prossimità dell’unica finestrella ad oblò della mia “camera”.
Lo spettacolo che mi si parò davanti mi spezzò il fiato. La città, sotto di me, imbiancata e silenziosa, sottomessa al candore della neve. E capii.
Che lungo le strade ghiacciate non sarebbe passata alcuna macchina; sui tetti di zucchero filato non avrebbe saltato nessun gatto; i vialetti sarebbero rimasti vuoti delle passeggiate degli adulti. La neve proteggeva il silenzio e l’innocenza...
Sbam!
Il tonfo secco della porta che sbatteva mi fece quasi cadere dal comodino per il salto di un metro che feci! Scesi prudentemente rabbrividendo al contatto dei miei piedi col pavimento gelato. Trascinandomi dietro la coperta come una specie di strascico imbottito saltellai in punta di piedi verso l’entrata.
In un primo momento credetti di essermi perfino sbagliato, di non aver mai sentito niente perché nella penombra sempre più fitta non scorsi alcunché. Stavo per tornarmene alla finestrella, intenzionato a passarci l’intero pomeriggio e forse anche la sera, quando un lembo colorato di qualcosa che non avevo proprio notato attirò la mia attenzione. Tornai indietro e mi inginocchiai vicino alla “cosa”, mezza infilata sotto la porta. La tirai fuori e me la alzai davanti al viso, aguzzando la vista, curioso. Quando capii di cosa si trattasse non potei fare a meno di sorridere. Me lo strinsi al petto e corsi ad imbacuccarmi di nuovo a letto: gli spifferi nella Soffitta erano tremendi e non potevo permettermi di ammalarmi! Mi avvolsi stretto nelle coperte, improvvisamente euforico, e accesi la piccola lampada a braccio che stazionava da sempre sul mio comodino. Mi ravviai i capelli spostando dietro le orecchie un ciuffo scuro dispettoso. Eccitato, accarezzai il dorso del volumetto nero a scritte oro, il mio unico regalo di compleanno.
‘Oceanomare’ recitava l’elaborata grafia dorata sulla copertina.
“Mmm... Chissà com’è”, pensai curioso.
Sollevai la copertina rigida e l’immagine di un mare arrabbiato, grigio, tumultuoso, eppure affascinante e seducente mi apparve sotto il titolo, stavolta declamato in un carattere nero più sobrio.
Fuori, la neve continuava a cadere silenziosamente, ma io ero già stato rapito dalle onde di parole, frasi e pagine che i miei occhi scorrevano rapidamente. Dietro quella pagina bianca si accavallavano maree spumose e fiotti color acciaio implacabili e morbidi e orizzonti infiniti dipinti di sole. I miei occhi scivolavano insaziabili sulle ordinate file nere, scoprendo a poco a poco un mondo diverso mai immaginato.

Infine, posai il libro. L’avevo finito incredibilmente in fretta, affamato di quel sapore di salsedine che potevo sentire provenire dalle pagine, affamato di vita, di racconti altrui, anche se così tristi e orribilmente veri. Gli occhi mi bruciavano e mi sentivo la testa pesante. Sbadigliai, pronto a lasciarmi andare al mondo dei sogni, quando un rumore al piano di sotto mise in allarme i miei sensi. Tesi le orecchie. Una porta che si chiudeva non troppo silenziosamente. Risate soffocate. Voci maschili, giovani, chiare. Altre risate ed infine un silenzio costellato di qualche raro sussurro.
Abbandonai la testa sul cuscino con un sospiro e mi stropicciai stancamente la fronte. Accidenti. E chi se lo poteva ricordare che proprio oggi sarebbero tornati a casa i miei fratelli?!

°°°
Ta-daaan! Colpo di scena! ^^  
Scusatemi se non aggiorno sempre presto, ma i miei impegni verso la comunità crescono di giorno in giorno, allontanandomi sempre più dal pc! T^T
Ma non temete, in qualche modo riuscirò a scrivere qualcosina per voi!
Allora, ringrazio chi ha messo la mia ficcy fra i preferiti, chi ha commentato (sperando che mi lasci una recensioncina sempre :P) e anche chi ha solo letto, che mi fà tanto felice lo stesso! ^^
Vi saluto, alla prossima!

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Capitolo 5
*** °(Quattro)° ***


 

°(Quattro)°

 

Il mattino seguente mi svegliai lentamente, senza alcuna fretta, come una farfalla che esce dal suo bozzolo. Nessun raggio di sole impertinente o uccellino che si schiantava contro la finestra erano stati la causa del mio risveglio prematuro, e forse fu proprio perché l’avevo deciso io che aprire gli occhi fu quasi piacevole. Mi stiracchiai pigramente, sbadigliando alla vecchia pendola a cucù incastrata fra il vecchio armadio di legno e la vecchia scatola di vecchi peluche. Non si poteva negare che la mia Tana fosse ben fornita di pezzi d’antiquariato...
Mi alzai di buono, anzi, di ottimo umore e mi ritrovai a infilarmi i jeans del giorno prima fischiettando sottovoce “Livin’ la vida loca”: quel giorno ero proprio in vena di follie, avevo voglia di vivere la mia vita in modo pazzo, proprio come nella canzone. Anche se forse, prima di tutto, la mia vita dovevo viverla...
Lanciai un’occhiata alla finestrella rotonda semi aperta dalla notte appena trascorsa, e di rimando il cielo grigio e arrabbiato sembrò scrutarmi con dolorosa attenzione.
Un brivido freddo mi attraversò la schiena, per cui corsi ad mi infilarmi l’ennesimo maglione, rosso, sopra agli altri due che già indossavo. Adoravo il blu, praticamente avrei indossato solo quel colore, e invece quasi ogni maglione, t-shirt, o camicia che possedevo erano bianche, arancione o nere. Un’altra piccola ingiustizia della vita. Ma in fondo, che m’importava dei colori?
Stavo per scendere a fare colazione, ma prima gettai un’occhiata frettolosa alla sveglietta azzurra (almeno quella!) e mi bloccai in mezzo alla stanza. Era troppo presto? O troppo tardi? Non avevo idea di quando si svegliassero abitualmente i miei fratelli... E se li avessi incrociati per le scale, o in camera di mamma? Che spiegazione avrei dato loro? Preferii non pensarci.
Con cautela, mi avvicinai in punta di piedi alla porta e la socchiusi di qualche centimetro, rimanendo in ascolto. Nessun rumore. Mi azzardai ad aprirla un po’ di più e ad affacciarmi fuori con la testa. Silenzio più assoluto. Erano tutti a letto, a quanto pareva...
Il mio stomaco diede in un debole ruggito di protesta per la fame e l’eco che si propagò giù per le scale sembrò un boato nella calma sonnacchiosa della prima mattina. Mi premetti la pancia con le braccia per soffocare i brontolii e mi apprestai a fare una capatina in cucina alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
Durante la mia lenta e attenta discesa, ogni gradino scricchiolante, ogni fruscio fuori dalla finestra mi facevano sobbalzare e tendere spasmodicamente le orecchie alla ricerca della fonte di quel rumore, immobilizzato; dopo qualche secondo mi tranquillizzavo e riprendevo a scendere, scalino dopo scalino, col cuore in gola e uno strisciante panico posizionato più o meno dietro la nuca.
Dopo il doppio del tempo che ci avrei messo per arrivare a piano terra senza nessuno in casa, finalmente, nella luce acerba del mattino che filtrava dalla porta a vetri, la porta bianca mi si parò davanti. La aprii, titubante, e mi avvicinai subito al frigo, bianco anch’esso. Quando lo spalancai, per un momento la luce interna mi abbagliò, tanto che dovetti chiudere gli occhi per qualche secondo prima di riprendere a distinguere qualsiasi cosa.
“Vediamo, vediamo...”, rimuginai fra me e me procedendo nell’esplorazione. C’era qualche confezione di latte aperta, diverse lattine di Redbull, comprate apposta per i miei fratelli probabilmente, frutta, verdura, merendine e... ah, la torta di ieri! Ancora intatta. Mamma doveva essere riuscita a difenderla bene. Un’immagine molto fantasiosa di mia madre con un mitra in mano e l’elmetto in testa di guardia al frigorifero mi fece sorridere. Ce l’avrei anche vista, mettere a rischio la propria vita per proteggere glassa e candeline!
“Questa è meglio farla sparire”, pensai afferrando delicatamente il dolce e allungandomi a pescare una forchetta e un coltello da un cassetto. Posai il tutto sul tavolo bianco della cucina, chinandomi ancora sullo sportello aperto per decidere che prendere da bere.
Un rumore soffocato che non riuscii ad identificare mi fece drizzare improvvisamente. Silenzio. Forse me l’ero solo immaginato. Alzai le spalle e mi rimisi a trafficare col frigo tendendo bene le orecchie. Un altro rumore. Non potevo sbagliarmi, stavolta! Balzai indietro con il cuore che mi batteva forte nelle orecchie e ascoltai, ascoltai con tutto me stesso, teso come mai prima di allora.
Un colpo di tosse, proprio ai piedi delle scale, nell'atrio, e un'ombra che si allungava sempre di più sotto la fessura della porta.
-Merda...-, mormorai voltandomi e precipitandomi fuori dalla cucina, attraverso la porta di servizio. Ai piedi avevo solo un paio di calzini ai piedi, e slittando qua e là sul pavimento stralucido, corsi fuori in giardino, sull'erba ghiacciata, affiancato costantemente dalla mia ombra che mi teneva testa senza alcuno sforzo. Col fiatone e una paura gelida che non dipendeva dalla temperatura esterna attorno ai meno 5°C, mi appoggiai al muro e vi ci scivolai contro, fino a toccare terra, sfinito. Per qualche minuto rimasi ad osservare il sole timido e stanco oltre la coltre di nuvole tentando di riprendermi, mentre un solo pensiero mi scorreva nella mente: potevo essere visto. L'unica incognita era da chi...
Il mio sedere stava diventando un blocco di ghiaccio, perciò mi rialzai in piedi battendo i denti. E se fosse stata solo Simone, scesa per un bicchiere d'acqua? La mia lotta interiore stava diventando un affare di Stato per la mia mente, combattuta fra i due sentimenti che si sfidavano a colpi di sciabole nella mia testa. Non so dire quanto passeggiai avanti e indietro cercando di decidermi a favore di una delle due idee che mi ronzavano dentro, ma se fosse stata estate, il cemento sotto i miei piedi sarebbe diventato rovente!
Alla fine, la curiosità ebbe il sopravvento sulla paura, poiché fu di certo la curiosità a farmi strisciare di nuovo attorno alla casa fino all'ingresso sul retro. Ancora quei brandelli di responsabilità e paura cercavano di attirare la mia attenzione, mail desiderio di sapere chi c'era in cucina li seppellì ben presto.
Senza rendermene conto, arrivai.  La porta era chiusa male come l'avevo lasciata. Non era mamma dunque, lei se ne sarebbe accorta all'istante e l'avrebbe accostata con precisione... forse era papà, o forse, forse...
Mi arrampicai sopra un secchio rovesciato per arrivare alla piccola finestrella della cucina, ci sbirciai dentro e per poco non ruzzolai a terra! Miracolosamente mi aggrappai al pressoché inesistente davanzale, riuscendo a farlo nemmeno troppo rumorosamente e attesi, cercando di cogliere qualunque rumore che lasciasse presagire che Tom, che ora si stava sbafando tranquillamente la mia torta, avesse scoperto la mia presenza. Poiché non sentivo nulla e mi stavo stufando di rimanere mezzo accucciato e aggrappato per le unghie, provai a rialzarmi per dare un'altra occhiatina. Sospirai di sollievo quando constatai che il mio fratellone coi rasta non si era accorto di niente, e mi accigliai, un po' meno contento, quando mi accorsi che aveva praticamente finito tutto il mio dolce.
E mentre fissavo con disappunto quella leccornia al cioccolato sparire nello stomaco di quell'ingordo del mio gemello, mi domandai questa cosa: Se qualche vicino troppo mattiniero avesse messo fuori la testa in questo momento, cos'avrebbe visto? Un ragazzo alto e longilineo con una gran massa di corti capelli neri in calzini che spiava nella casa dei vecchi Kaulitz, mi risposi. Decisamente non sarebbe stata una bella immagine. Senza contare che qualche nonnina più furba delle altre con un bel po' di anni alle spalle avrebbe potuto tranquillamente scambiarmi per un ladro o un malintenzionato, e chiamare la polizia. E nemmeno questa sarebbe stata una buona cosa.
Il mio stomaco brontolò ancora una volta, protestando alla vista dell'ennesima fetta che svaniva come per magia al semplice lavorio di mascelle di Tom. Già, Tom... Lo osservai bene per tutto il tempo che rimase ad ingozzarsi e finché non sbadigliò e se ne tornò di sopra sbattendo la porta, lasciando torta e bibita sul tavolo.
Non è che non l'avessi mai visto, avevo quei pochi ricordi sbiaditi dell'anno passato assieme a lui e a Bill, e ovviamente mamma comprava qualunque rivista che nominasse anche di sfuggita i Tokio Hotel, per cui potevo quasi affermare di conoscere tutti i componenti della band. Averceli in casa però era un altro paio di maniche!
Soffiai fuori un po' di vapore verso il cielo, tanto per vedere come si confondeva con le nuvole e solo in quel momento mi accorsi di star tremando violentemente. Non mi sentivo più i piedi, perciò saltai giù dal secchio e presi a pestare per terra, tentando di tornare a far circolare il sangue nelle dita. Non ce la facevo più, dovevo tornarmene dentro, al calduccio! Mi avviai verso la porta e la socchiusi, avvertendo già il familiare calore della mia Tana, quando qualcuno dai capelli scuri mooolto arruffati si materializzò stiracchiandosi all'altra entrata della cucina. Imprecai fra me e me facendo immediatamente marcia indietro e correndo di nuovo al mio secchio. Era Bill, ovvio. Ringraziai il cielo che avesse il risveglio lento e fosse riuscito ad aprire gli occhi solo quel tanto che bastava per centrare la porta, altrimenti mi avrebbe scorto di sicuro!

Sarei rimasto ore ad osservare i miei fratelli, ma il freddo intenso partito dai miei piedi  mi era ormai arrivato al cervello, rendendo le riflessioni strategiche per tornarmene in Soffitta senza farmi vedere decisamente più faticose.
“Allora, se io passo di qua c'è Bill. E se entrassi dalla porta principale? No, no, è chiusa a chiave... Quindi devo aspettare che si alzi mamma e... ma che dico, non posso aspettare chissà quanto tempo, sto congelando già adesso! Merda...”.
Come se non avessi già perso la percezione di quel paio di orecchie ai lati della testa, una brezza freddo si mise a soffiare, attraversando i miei tre maglioni e trafiggendomi la carne con mille spine di ghiaccio. Ormai stavo improvvisando un esibizione di tip tap per riuscire a scaldarmi almeno un po', e come pubblico avevo solo l'urlo del vento e lo stridio dei rami dell'albero dietro casa... Aspetta un attimo...  L'albero?
Un'illuminazione a forma di lampadina mi si accese sopra la testa mentre costeggiavo il muro scrostato della casa e sfrecciavo dritto dritto alla vecchia quercia nodosa che si stagliava contro il cielo ingrigito come una figura stilizzata per bambini.
Mi avvicinai guardandomi attorno con attenzione, nell'eventualità che le solite vecchiette stessero guardando proprio dentro casa, ovvio, e presi a tastare il tronco e i rami bassi della pianta come se fossi cieco, appoggiando gradualmente il peso ora su questo tralcio, ora su quella fronda. Aveva i suoi anni, quel bestione, ma tutto sommato sembrava abbastanza sicuro...
Sbuffai, prossimo all'assideramento, maledissi almeno cinque volte il mio stomaco brontolone, mi accucciai in modo d'avere più spinta per raggiungere quel ramo che sembrava tanto perfetto e... saltai!

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