Come le navi seguono il vento

di Astrid Romanova
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sidro e melagrane ***
Capitolo 3: *** Al primo quarto di meridiana ***
Capitolo 4: *** Non esistono porte chiuse ***
Capitolo 5: *** I rovi di more ***
Capitolo 6: *** La scacchiera senza Re ***
Capitolo 7: *** Lostris ivi ***
Capitolo 8: *** Vela Cremisi ***
Capitolo 9: *** Fuori rotta ***
Capitolo 10: *** Sottocoperta ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Prologo


 

Il mare non aveva mai esercitato particolare fascino su Adrian Hill.

Nei ricordi di quando era bambino rivedeva spesso il molo di Port Gale, la vasta concentrazione di navi appena giunte da terre lontane o in partenza per l'ignoto. All'epoca i bambini gridavano nei pomeriggi assolati, correndo tra le gambe dei marinai per poter vedere la grande Vela Cremisi levare l'ancora e allontanarsi verso l'orizzonte, mentre lui restava seduto sulla banchina domandandosi cosa, in fondo, ci fosse di tanto interessante nel viaggiare su un grosso pezzo di legno ondeggiante, per di più in balia del vento.

I riflessi di luce sull'acqua potevano anche essere poetici come diceva sua madre, ma quale altra attrattiva avrebbe mai potuto suscitare un'infinita distesa di semplice acqua?

Quasi vent'anni dopo i bambini c'erano ancora, ma la Cremisi era diventata una bagnarola sulla quale nemmeno il più disperato dei marinai avrebbe voluto prestare servizio. Il mare aveva gli stessi riflessi, ma era diventato molto meno infinito per Adrian, che aveva compiuto così tanti viaggi da una sponda all'altra da averne ormai perso il conto. Nessuna terra lontana o ignota, solo un altro regno con cui commerciare in qualsiasi prodotto che resistesse a due settimane in mare aperto.

In quel giorno di fine inverno, Adrian si guadagnava il suo compenso da marinaio osservando gli altri lavorare, comodamente appoggiato al parapetto della Sposa Tradita.

«Hill! Prendi quella dannata cima e tira, figlio di un cane!»

Il capitano Rhodes era il più educato contrabbandiere che Adrian avesse mai conosciuto. La maggior parte delle navi che non appartenevano alla Marina del Re salpavano dalla Costa Settentrionale con un carico che solo in parte era legale, ma i pochi ad esserne a conoscenza facevano finta di non saperlo. Dopo tanti anni trascorsi su imbarcazioni simili Adrian sapeva bene quale fosse la verità, e la verità era che un libero capitano aveva ben poco da guadagnarci se non agiva un passo oltre la legge.

Staccandosi dal proprio sostegno, il marinaio quasi trentenne raggiunse i propri compagni, pensando che “figlio di un cane” fosse, dopotutto, l'appellativo meno volgare che gli fosse stato affibbiato.

Afferrò l'estremità della cima e iniziò a tirare insieme ad altri quattro uomini finché la vela non fu totalmente issata; il suo apporto non era stato davvero necessario, ma nessuno pagherebbe un uomo che non si scomodi nemmeno per tirare una fune in vista della partenza. Ci si poteva provare, ma quando il capitano ti beccava ad oziare e ti gridava di darti una mossa, obbedivi senza fiatare. Al massimo uno sbuffo.

Si ritrovò da solo a sostenere la cima col compito di assicurarla alla galloccia, operazione che lo obbligò a piegare gambe e schiena. Tirò con forza un paio di volte per saggare la resistenza del nodo, quindi si rialzò per constatare felicemente di non avere più niente da fare.

«Il ragazzo delle pelli è davvero diventato un uomo di mare, a quanto vedo».

Un qualsiasi marinaio d'esperienza avrebbe ignorato le parole di una voce al vento, se questa non avesse specificato a chi si stesse rivolgendo. Ma non tutti i marinai d'esperienza erano stati, una volta, figli di un commerciante di pelli, e non tutte le voci udibili sul ponte di una nave avevano un chiaro timbro femminile.

Adrian si voltò senza fretta, ma non senza diffidenza e curiosità. Il cappuccio gli impediva di vedere il volto della donna di fronte che, rivolta nella sua direzione, stava sicuramente parlando con lui. Strinse gli occhi, pensò a cosa dire; in fondo era facile: era principalmente una la domanda che cavalcava i suoi dubbi.

«Ci conosciamo?»

Non era mai stata sua abitudine quella di raccontare a destra e sinistra della sua infanzia in una famiglia di pellettieri; quando viaggiavi costantemente da una sponda all'altra del mare, senza mai fermarti a lungo nello stesso porto, cambiando nave quasi ad ogni approdo e seguendo rotte sempre diverse, non avevi mai abbastanza tempo per farti degli amici. Pur trascorrendo due settimane circondato sempre dalla stessa manciata di volti non sentivi il desiderio di entrare in confidenza con qualcuno, e gli argomenti di conversazione erano sempre molto più pratici: compenso, donne, compenso, taverna preferita, donne e qualsiasi appellativo indecoroso fosse possibile dare al capitano.

«Molto poco, di questi tempi» fu la criptica risposta dell'imbucata.

Un sacro dono dell'umanità che Adrian non aveva mai ricevuto era la pazienza.

«Mmh, certo» confermò con vena ironica, parlando forse più a sé stesso che a lei.

Sorrise guardando altrove, vago, fingendo indifferenza. In realtà non gli piaceva non sapere con chi stesse parlando e non avrebbe permesso a quella situazione di durare ancora a lungo. Con una singola falcata arrivò abbastanza vicino alla donna da poter alzare il braccio, afferrare il bordo del cappuccio che le copriva il volto e tirarlo indietro, incrociando finalmente lo sguardo della sua interlocutrice misteriosa.

Le dita gli si bloccarono serrate sulla stoffa, la sua espressione sospettosa divenne di puro stupore; la spavalderia con cui aveva in mente di liberarsi dell'incomoda visitatrice annegò nel mare che li circondava, mentre ricordi sbiaditi ma conservati nell'angolo più nostalgico della sua memoria riaffioravano per la prima volta dopo un'infinità di anni.

Boccheggiò.

Non era il sorriso della donna a renderla impossibile da non riconoscere, né i suoi capelli biondi o il verde del suo sguardo. Erano quegli occhi grandi, i lineamenti morbidi ancora così simili a quelli della bambina che aveva conosciuto, ma soprattutto quei tre, inconfondibili nei sulla guancia sinistra, quella verso cui erano piegate beffardamente le sue labbra.

«Ra...»

«Ehi! Hill, con chi diavolo stai parlando?»

La voce del capitano spezzò il filo dei ricordi e il sussurro con cui stava per pronunciare quel nome, accompagnata dal suono dei suoi stivali sulle assi di legno del ponte.

«Signorina, deve scedere immediatamente dalla mia nave. Stiamo per salpare, in caso non l'abbia notato» borbottò.

«L'ho notato, capitano. Ci dia solo cinque minuti.»

Se da un lato lei non sembrava lontanamente intenzionata a scendere, dall'altro il capitano non sembrava intenzionato a concedere soli cinque secondi, figurarsi cinque minuti.

«Neanche per idea, ora lei scende dalla mia nave. Non è autorizzata a stare qui.»

Pur essendo tra i più educati, il capitano Rhodes era pur sempre un contrabbandiare, un contrabbandiere sui quarant'anni con una pazienza molto scarsa e l'abitudine di non dover mai ripetere le cose due volte. E, nel suo modo di vedere le cose, educazione non andava di pari passo con cavalleria.

«Cinque-minuti» scandì lei.

Con eccessiva prepotenza, il capitano decise di passare dalle parole alle azioni, afferrando la donna per il braccio con tutta la probabile intenzione di trascinarla giù dalla nave. Un gesto da vero gentiluomo. Un gentiluomo che, come scoprì presto, aveva a che fare con una altrettanto gentildonna, la quale per nulla allarmata dall'irruenza del capitano giocò d'anticipo serrando le proprie dita attorno al suo polso e torcendolo, costringendolo a voltarsi di schiena. Il braccio premuto dolorosamente vicino alle scapole, il capitano fu spinto in avanti fino a sbattere contro il parapetto e lì rimase, mentre lei usava l'avambraccio libero per premergli il collo sul bordo in legno lucidato.

Quel gesto provocò una serie di reazioni concatenate al termine del quale, in situazione di stallo, una manciata di fedelissimi marinai armati di coltello puntavano le lame contro l'attentatrice, fronteggiati dall'istintività di Adrian che aveva sfoderato il proprio pugnale – sempre ben nascosto nello stivale destro – brandendolo vero i suoi stessi compagni. Tutta gente conosciuta un paio d'ore prima, comunque.

La donna lasciò andare il capitano, facendosi indietro per portarsi ad una distanza di sicurezza dalla sua furia. Le imprecazioni a tutta voce che seguirono furono parole al vento: in pochi secondi il “diavolo biondo” si era defilato, lanciando un'ultima occhiata ad Adrian.

Che si ritrovò solo ad affrontare tutta la rabbia e la vergogna del capitano.

«Hill! Bastardo traditore, se fossimo in mare aperto staresti già sfilando sulla passerella! Scendi dalla mia nave, ADESSO!».

Dopo aver lentamente riposto il pugnale, Adrian si raddrizzò tenendo le mani bene in vista, tanto per essere cauto. Sorrise, come a voler dare poca importanza a ciò che era appena avvenuto.

«Ah, sì, io... tolgo il disturbo» confermò affabile, quindi tutta la flemma dimostrata fino a quel momento bruciò come combustibile per la fretta con cui abbandonò il ponte.

Le ingiurie lo seguirono anche mentre attraversava il molo, cercando con gli occhi una chioma di capelli biondi in cima ad una figura non troppo alta. La trovò ferma sulla banchina, seminascosta da un veliero attraccato di proprietà della Marina del Re, come suggeriva il simbolo sulla fiancata. La raggiunse fermandosi alle sue spalle, incerto su cosa avrebbe o non avrebbe dovuto dire. Forse il suo semplice silenzio sarebbe stato sufficientemente eloquente, ma c'erano migliaia di parole che attraversavano la sua mente. Milioni.

«Non ti vedo da diciassette anni e in meno di tre minuti sei riuscita a farmi sbattere giù dalla nave.»

Brillante spunto di conversazione.

«Ce ne sono altre» minimizzò lei.

Poteva percepire il suo sorriso, anche se non lo vedeva.

«Non è questo il punto. Il punto è che dopo diciassette anni spunti dal nulla e mi fai perdere il lavoro.»

«Poche storie marinaio, non ho estratto io il pugnale dagli stivali.»

Obiezione accolta. Adrian si era lasciato trascinare dall'istinto, l'istinto di schierarsi con una persona che conosceva fin da quando era bambino contro una serie di uomini che vedeva per la prima volta in vita sua. Legittimo, comprensibile e assolutamente disastroso.

«No, tu hai solo schiacciato la faccia del mio capitano contro il parapetto» ribattè ironico.

«Non ti ricordavo come uno a cui piacesse prendere ordini dagli idioti. L'ultima volta che ti ho visto eri un ribelle spettinato molto contrariato perché avevi appena perso una sfida contro me».

Lo stava prendendo in giro? Lo stava prendendo in giro.

«Avevo vinto» precisò Adrian, che aveva un'opinione molto diversa dalla sua su cosa significasse perdere una sfida, «e comunque avevo undici anni. Undici anni. Tutti sono ribelli a undici anni».

«Io non lo ero» negò lei pacata.

Lui non era del tutto d'accordo, ma la questione era irrilevante.

Diciassette anni, per l'amor di Dio. Diciassette anni.

Con passi incerti coprì la distanza che ancora li separava, posando una mano sulla spalla della donna. Fin tanto che non la vedeva in viso era difficile convincersi realmente che fosse lei. Nonostante le parole, nonostante i ricordi, aveva bisogno di guardarla. Aveva bisogno di pronunciare il suo nome e sentirle dire “sì, sono io”.

«Ravenna» mormorò, eseguendo una lieve pressione sulla sua spalla per indurla a voltarsi.

Lei si girò, incrociando il suo sguardo. Per la prima volta, Adrian vi scorse un po' del disorientamento che lui stesso provava.

«Come...»

«Come ti ho trovato? Non l'ho fatto» lo anticipò lei.

Adrian aggrottò le sopracciglia. Era facile intuire la domanda che lui volesse farle, non era stato quello a insospettirlo. No, c'era dell'altro: cosa avrebbe dovuto significare “non ti ho trovato”? Era lì davanti a lui. Sì che lo aveva trovato, come lo trovava quando lui si nascondeva dopo averle rubato le more appena raccolte, che le erano costate numerosi graffi sulle mani, sui polsi, a volte fin quasi ai gomiti.

Ravenna sospirò.

«Ho sentito delle voci, in una locanda. Qualcuno che parlava di un marinaio di Vessa, un certo Hill, con cui aveva appena prestato servizio durante la traversata, un giovanotto scapestrato e assolutamente inaffidabile.»

Si vedeva da come le tremavano le labbra che si stesse sforzando di non ridere o, almeno, di non sorridere come se trovasse tutto abbastanza divertente. Ma durò poco. Si fece più seria, guardò in basso, sembrò riflettere sulle parole da usare. Era quasi triste il modo in cui nessuno dei due sembrava sapere bene cosa dire. Come se potessero davvero esserci delle parole sbagliate. Come se non si conoscessero affatto.

«Non ti ho trovato, Adrian. Sei solo... capitato» terminò Ravenna.

«Ma sei venuta sulla nave» le fece notare lui.

«Certo che sì. Tu non l'avresti fatto? Non avresti voluto vedermi se ti avessero detto che uscendo da una locanda e camminando sempre dritto mi avresti trovata ad alzare una vela?»

Era una domanda interessante. Se avesse saputo che la bambina delle more era ad un tiro di schioppo da lui, se invece di trovarsela di fronte all'improvviso avesse potuto scegliere di incontrarla o meno, l'avrebbe raggiunta? Probabilmente ci avrebbe pensato, rischiando di perdere la sua occasione e rendendosi conto di quanto avrebbe rimpianto quell'opprtunità.

«Sì, credo di sì» ammise infine.

Ne seguirono diversi secondi di silenzio, carico della curiosità che entrambi tenevano a freno dietro le labbra, ma difficile da contenere troppo a lungo.

«Cosa ti ha portata qui, a Port Gale?» domandò Adrian. «Credevo fossi andata a vivere con un qualche tuo parente a... be', non so dove, non me l'hanno mai detto.»

Per qualche motivo quella domanda sembrò finalmente distendere l'atmosfera, come se avesse aperto una porta fino a quel momento rimasta chiusa, lasciandoli a tentare di comunicare tramite il buco della serratura.

«Vorrei farti la stessa domanda. E vorrei chiederti come sei finito a diventare un marinaio, tu che il mare non l'hai mai amato.»

Adrian non si scompose di un millimetro.

«Già, ma te l'ho chiesto prima io.»

La risata di Ravenna arrivò in ritardo, come quella di chi non capisce al volo una battuta. Ma la sua non era battuta. O lo era?

Te l'ho chiesto prima io.

Quelle stesse parole si ripeterono nella sua mente, assumendo ogni volta un tono sempre più infantile, sempre più dolce. Il tono di una bambina.

Quanti anni hai, Adrian?

E tu?

Te l'ho chiesto prima io.

Si picchiò il palmo contro la fronte diverse volte, incredulo di aver pronunciato proprio quelle esatte parole.

«Sei proprio un bambino» lo canzonò Ravenna.

Sei proprio una bambina.

Certo che sono una bambina, ho sette anni.

Ah! Ecco, me lo hai detto.

Anche Adrian non potè evitare di sorridere.

«Da bambino a bambina: posso offrirti del sidro di mele?» propose, finalmente conscio che non c'era nulla da temere. Lei era sempre la stessa bambina con cui litigava tanti anni prima, la stessa che lo aveva spinto nel fango e a cui faceva gli sgambetti.

«Mi racconterai cosa ti è successo in tutti questi anni?» si sentì chiedere in risposta. Esitò.

«Tu lo farai?»

Ravenna lo osservò per alcuni istanti, quindi annuì con un sorriso.

«Fammi strada, marinaio.»


Spendo due parole veloci per presentarvi la prospettiva di questa storia, composta da un totale di 23 capitoli (prologo ed epilogo compresi). 
È frutto di un'idea nata quasi per caso, nata per essere così breve che poteva passare quasi inosservata. Tre, forse quattro capitoli, per narrare di come l'amore di una figlia potesse attraversare anche il mondo intero per ricongiungersi con quello di un genitore, e non solo il contrario. Poi è arrivato qualcos'altro. Sono arrivate altre centinaia di cose, di idee, di possibilità. Ed era tutto stampato a fuoco nella mia testa, un'esperienza che raramente mi è capitata prima. Non potevo ignorarla, perciò un capitolo dopo l'altro sono arrivata a 23. Mi chiedo solo quanti di voi mi accompagneranno fino alla fine.
Se ne avete il tempo e la voglia vi invito a lasciare un commento; se ne avete il tempo ma non la voglia non so cosa dirvi, vi inviterei lo stesso ma non mi ascoltereste, perciò evitiamo lo spreco di parole all'alba della mezzanotte e tranta minuti; se non ne avete il tempo ma ne avete la voglia vi capisco, la vita è una stronza; se non ne avete né la voglia né il tempo non avete nemmeno letto fino a qui, quindi non vi dico niente.
Le due parole sono diventate praticamente una flashfic, quindi ora vi lascio andare, e grazie per essere passati di qui :)

Au Revoir,
Astrid

 

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Capitolo 2
*** Sidro e melagrane ***




#1. Sidro e melagrane



Ventuno anni prima

 

La bancarella era piena di oggetti in legno meravigliosamente intagliati, da semplici scatole vuote a deliziosi fermacapelli lucidati. Ravenna li osservava, curiosa; non si capacitava di come un tronco d'albero potesse trasformarsi in qualcosa di così diverso. A volte si era fermata di fronte alla bottega dell'artigiano, sbirciandolo mentre lavorava per cercare di capire a quali magie ricorresse, ma l'uomo era sempre e semplicemente attrezzato con un arnese o con l'altro, segando, levigando, montando e misurando. Forse le magie le eseguiva di notte, quando era certo che nessuno guardasse, ma suo padre non le avrebbe mai permesso di girare per il villaggio dopo il tramonto.

Un colpetto sulla schiena la sospinse in avanti, facendole perdere di vista il pettine dipinto che assomigliava tanto a quello che aveva rotto proprio la settimana precedente.

«Andiamo, Ravenna» la incitò suo padre.

La bambina gli saltellava appresso mentre attraversavano la via del mercato, guardandosi intorno in cerca di qualcosa di interessante. Le bancarelle erano disposte l'una di fianco all'altra su entrambi i lati, gestite la maggior parte da persone che provenivano da villaggi o città a lei sconosciuti, venuti fin lì per vendere la propria merce come ogni anno.

«Gren! Il miglior fabbro della Costa Settentrionale!»

Per poco Ravenna non andò a sbattere contro le gambe del padre quando questi si fermò all'improvviso.

«Merrytt!»

Gren si avvicinò alla bancarella dal quale era giunto il richiamo, seguito da una irritatissima Ravenna che proprio non sopportava quel genere di interruzioni.

«Amico mio! Come ti vanno gli affari?»

Ancora meno sopportava ascoltare due adulti che parlassero di lavoro.

Da che ricordava non c'era stato un solo anno che Merrytt non fosse stato presente al mercato di Cerys. Una settimana in primavera e una in autunno, erano le uniche occasioni in cui lui e suo padre si ritrovavano. Non sapeva quando si fossero conosciuti – sicuramente prima ancora della sua nascita – ma gli incontri abitudinari avevano fatto di loro due buoni amici, sentimento che lei non aveva mai davvero condiviso, né verso il mercante stesso né, tanto meno, verso suo figlio Rhonon.

«Ti ricordi di Rhonon, vero?»

Per un attimo Ravenna pensò che il mercante stesse parlando con lei, ma il suo sguardo era ancora puntato su Gren. Forse nemmeno l'aveva notata, nascosta com'era dietro le gambe di suo padre. Teneva le mani posate sulle spalle di un ragazzo bruno e allampanato, tutto serio e inflessibile, che tese la mano a Gran ed esordì con un dignitosissimo: «piacere di rivederla, signore.»

Una noia mortale.

Ravenna perse il filo del discorso quasi immediatamente, iniziando a dare un'occhiata alle pelli esposte sulla bancarella e, mentre la conversazione procedeva con quella monotonia tipica degli adulti, lei fu attratta da ben altro, qualcosa che a tutti sembrava essere sfuggito.

Un piccoletto coi capelli scuri e l'aria imbronciata se ne stava rannicchiato sotto il tavolo, silenzioso e inosservato. Ravenna piegò la testa di lato, incuriosita, e fece qualche passo avanti, abbassandosi per non picchiare la testa contro il bordo di legno. Notando il suo movimento il bambino alzò lo sguardo, rivelando due vispi occhi azzurri che la osservarono guardinghi.

«Ciao» lo salutò lei.

«Ciao» rispose lui cauto.

«Perché sei qui sotto?»

«Così. Mi andava.»

Il bambino fece spallucce, come se per lui fosse qualcosa di ordinario nascondersi sotto le bancarelle dei mercati. Quando Ravenna lo faceva veniva sempre sgridata da suo padre, che la ammoniva di non dare fastidio ai proprietari.

«Come ti chiami?» gli chiese ancora.

«Adrian.»

«Quanti anni hai, Adrian?» continuò.

«E tu?»

«Te l'ho chiesto prima io.»

La fronte di Adrian si corrugò all'istante, mostrando tutto il suo malcontento.

«Sei proprio una bambina» la rimbeccò cantilenando.

«Certo che sono una bambina, ho sette anni» replicò Ravenna sulla difensiva.

«Ah! Ecco, me lo hai detto.»

Il bambino assunse un'aria trionfante, come se avesse appena vinto ad un gioco, mentre Ravenna gonfiò le guance indispettita. Lei non aveva capito che stessero giocando, non le era sembrata affatto una sfida.

«Ravenna! Cosa stai facendo?»

La risposta della bambina fu interrotta sul nascere dal richiamo di suo padre. Tirandosi indietro di un passo e raddrizzando la schiena alzò gli occhi su di lui, chiedendosi se fosse sbagliato anche essere solo per metà nascosta sotto un tavolo.

«Adrian! Ecco dov'eri!»

Il signor Hill si abbassò, allungò il braccio e afferrò quello del bambino, aiutandolo a rimettersi in piedi.

«Ecco, questo è il mio secondo figlio, Adrian» informò il mercante, scompigliando i capelli del suo secondogenito con affetto.

«Finalmente lo conosco!» esclamò Gren. «Ha proprio gli occhi della madre. A proposito, dov'è Jolene?»

«Oh, qui in giro. Adora visitare i mercati dove ci fermiamo. Ma guarda qua Ravenna, cresce a vista d'occhio!»

A Ravenna non sembrava proprio di essere cresciuta negli ultimi sei mesi, ma funzionava sempre così quando il signor Hill e suo padre si rincontravano: 'come si è fatta grande Ravenna!' E poi: 'è diventata proprio una bella bimba!' E poi ancora: 'ma guardala, è tutta sua madre!'

«Assomiglia alla mamma ogni giorno di più!»

Appunto.

Gren si fece un po' più cupo, come sempre quando Saoirse veniva nominata. Erano passati solo due anni dalla morte di sua moglie, ma anche dopo l'eternità intera avrebbe visto il mondo farsi un po' più buio al suo ricordo. Tutto il contrario di Ravenna che, sebbene avesse sofferto più di chiunque altro nel perdere sua madre, era ancora capace di vedere la luce nelle sue memorie di lei.

Ma, d'altro canto, Ravenna non lo stava nemmeno ascoltando. Era ancora indispettita dal non aver ottenuto risposta sull'età di Adrian, che ogni tanto le lanciava delle occhiate di indifferenza davvero irritanti.

Capitava ogni volta. Suo padre la spronava a giocare con gli altri bambini del villaggio, ma quando lei provava a fare amicizia ogni dialogo non durava più di mezzo minuto. Tutti iniziavano a correre in lungo largo giocando ad acchiapparsi, o a chi arrivava primo da qualche parte. Lei ci provava, ma era la più lenta di tutti. Oppure giocavano a nascondino, ma quando toccava a lei stare sotto non ricordava i nomi degli altri, e se doveva nascondersi lo faceva troppo bene e nessuno la trovava mai. O forse non la cercavano proprio.

Adrian, dal canto suo, trovava fastidiose le domande. Nella sua città facevano sempre tutti troppe domande. A lui bastava giocare con chiunque fosse alto più o meno come lui. Quella Ravenna era un'impicciona, nulla di più, anche se la sua espressione spazientita con le guance gonfie era divertente.

Al contrario dei loro padri, nessuno dei due conosceva l'altro. Ma una cosa la sapevano entrambi: non c'era una sola ragione al mondo per cui avrebbero dovuto perdere tempo a sopportarsi a vicenda.

 

◄►

 

Ravenna era tutto fuorché paziente.

Adrian era tutto fuorché ragionevole.

Nessuno dei due si sforzava di andare d'accordo con l'altro, ma ignorarsi non era così semplice come avevano immaginato. Potevano tenere la faccia ostinatamente girata dall'altra parte ogni volta che si incontravano, ma allora a Ravenna scappava una linguaccia e Adrian, per ripicca, le tirava i capelli. Allora lei gli faceva gli sgambetti quando lo vedeva gironzolare per il mercato, che conosceva molto meglio di lui. Adrian la rincorreva e lei riusciva sempre a nascondersi, ma appena abbandonava il proprio nascondiglio lui era pronto a lanciarle una palla di fango in piena faccia.

Arrivava la sera e Gren riportava a casa la figlia tutta sporca, così come Merrytt tornava alla locanda dove alloggiavano con il piccolo Adrian ricoperto di terra.

«Sono solo caduta.»

«Sono solo caduto.»

Caddero ogni giorno per tutta la settimana.

L'ultimo giorno di mercato Ravenna uscì di casa sorridente. Il giorno dopo, ne era certa, la famiglia Hill sarebbe ripartita, e allora lei si sarebbe finalmente liberata di quel fastidioso bambino che aveva scoperto avere la sua stessa età.

Quel giorno fu Adrian a provocarla, colpendola sui vestiti con la solita palla di fango. Ma Ravenna era di troppo buon umore per preoccuparsene. Si fermò un momento, constatò l'entità del danno e riprese a camminare come se nulla fosse.

Adrian non ne fu per niente contento.

Non molto dopo, nascosto sotto la bancarella della frutta fresca, aspettò che Ravenna passasse, si facesse regalare una bella melagrana matura e, al momento giusto, allungò una gamba su cui lei inciampò, cadendo a terra. Il frutto rotolò più avanti, dove lui corse a raccoglierlo. Ma ancora non ottene reazione; la bambina si rialzò con tranquillità, si spazzolò i vestiti con le mani e si allontanò, senza degnare di uno sguardo il sorriso sornione di Adrian che presto si trasformò in pura irritazione.

Anche i tentativi seguenti non andarono a buon fine: improvvisamente era come se Adrian non esistesse. Colto dall'esasperazione marciò verso di lei e le si parò davanti, impedendole di proseguire.

«Ho sette anni, va bene?» borbottò, le mani ben piantate sui fianchi.

Ravenna sbatté le palpebre e inclinò la testa di lato.

«Lo so.»

Adrian aggrottò le sopracciglia e piegò il collo a sua volta, cercando di capire se in quella posizione cambiasse qualcosa, visto che lei lo faceva sempre.

«Lo sai?» domandò confuso.

E comunque non c'era niente di diverso in quella posa.

Ravenna piegò il collo ancora di più, sbilanciando anche le spalle.

«Sì, lo so. Me l'ha detto tuo padre.»

Adrian la imitò, sempre più sconcertato.

«Allora hai barato» si lamentò.

«Ma non è un gioco!» si difese lei, che mai aveva barato in vita sua né mai lo avrebbe fatto.

«Ah no?»

La cosa buffa, per Ravenna, era che Adrian sembrava sinceramente stupito.

«No!» confermò.

Lui strinse le labbra e corrugò la fronte, seriamente preso dalle sue riflessioni.

«E allora perché ci siamo fatti tutti quei dispetti?»

«Perché mi stai antipatico.»

Adrian si raddrizzò si scatto con un'espressione molto offesa sul viso.

«Tu sei più antipatica» la rimbeccò.

«E allora tu sei cattivo!» rispose lei raddrizzandosi a sua volta.

«Io non sono cattivo!»

«Se io sono antipatica tu sei cattivo!» insistette Ravenna. «Mi hai rubato il mio frutto!»

Adrian fu sul punto di replicare, ci andò tanto vicino che aprì addirittura la bocca.

Ma poi ripensò alla melagrana che si era mangiato in un angolo del mercato, solo per dispetto a lei. Forse un po' cattivo lo era stato.

«Sei proprio antipatica» disse infine, in tono notevolmente più basso di prima.

«Non importa» affermò Ravenna altezzosa. «Tanto domani partirai e non dovremo vederci più».

«Me lo auguro» ribatté Adrian piccato.

Entrambi incrociarono le braccia al petto e girarono la faccia dall'altra parte. Poi la voltarono lentamente incrociando di nuovo gli sguardi, ma non appena accadde si rigirarono di nuovo. Alla fine, sbuffando, stesero i pugni lungo i fianchi e marciarono in due direzioni opposte, allontanandosi.

Ma erano ben lontani dal non rivedersi mai più.

 

◄►

 

Oggi

 

Nonostante fosse solo metà pomeriggio, la taverna era già straripante di vecchi ubriachi e giovani che cercavano un passatempo, per lo più marinai che attendevano di partire con le navi della sera.

Adrian e Ravenna avevano trovato un tavolo libero solo in fondo alla stanza, vicino ad un gruppo di marinai appena tornati dalla Costa Meridionale che bevevano, ridevano, bevevano, ricordavano alcuni aneddoti di viaggio e bevevano ancora.

Anche loro due ridevano, ogni tanto, e di sicuro avevano molto da raccontarsi. Diciassette anni di vita non erano facili da esporre in una conversazione all'interno di una chiassosa taverna, ma la verità era che le loro vite non erano state così dense di eventi da dopo lo scoppio della Guerra del Ferro. Entrambi i loro padri erano stati chiamati al fronte, entrambi non avevano fatto ritorno. Ma se a casa di Adrian era arrivata la missiva di condoglianze per la caduta del soldato Hill, il padre di Ravenna era semplicemente sparito nel nulla.

Per questo lei si trovava a Port Gale, quel giorno, così come giorni prima era stata in un'altra città e in un'altra prima ancora. Una città dopo l'altra, un villaggio dopo l'altro. Per due anni. Due anni alla ricerca del proprio padre.

«Credi davvero che sia ancora vivo?» le domandò Adrian, grave.

«Non so cosa credo. Ma se fosse la fede ciò a cui mi ispiro, mi sarei fermata molto tempo fa.»

«E allora a cosa ti ispiri?» 

«Alla speranza. Fin tanto che non avrò la certezza che sia morto significa che potrebbe essere vivo, e questo mi basta.»

Ci fu un attimo di silenzio, come c'era stato appena Adrian aveva rivelato che il padre era morto durante la guerra. Un silenzio di solidarietà e rispetto, per Gran e per Merrytt, per la speranza che ovunque si trovassero in quel momento fosse meglio di un campo di battaglia.

«E dove sei stata prima? Voglio dire, prima di iniziare a cercare tuo padre. Io e Rhonon siamo tornati al villaggio per altri cinque stagioni a vendere le pelli, prima che anche lui venisse reclutato e io iniziassi a fare il marinaio. Mi era stato detto che tuo padre ti aveva mandata in una città non lontana a stare con dei suoi parenti. Ti ho raccontato la mia storia: raccontami la tua.»

Sì, Adrian le aveva raccontato la sua storia. Dopo il reclutamento di suo fratello aveva abbandonato la carriera di mercante di pelli, ansioso di andarsene dalla sua città. Aveva lasciato la madre insieme a sua zia e i suoi cugini, imbarcandosi sulla prima nave disponibile. Ogni tanto tornava indietro e le consegnava una buona parte dei suoi guadagni, ma ripartiva subito dopo con una nuova marea. Aveva viaggiato da costa a costa, sempre in movimento, finché la guerra finì, finché suo fratello tornò e di suo padre non rimase altro che una lettera di cordoglio. Ma anche allora, dopo averlo pianto, dopo aver riabbracciato Rhonon e consolato sua madre, aveva alzato un'altra vela. Aveva incontrato migliaia di persone senza conoscerne nemmeno una.

Almeno fino a quel momento.

«Ah» Ravenna raddrizzò la schiena e schioccò la lingua, sistemandosi meglio sullo sgabello. «Tocca a me, quindi.» Attese alcuni istanti prima di proseguire, facendo ruotare il boccale che teneva tra le mani. «Non c'è granché di interessante da dire. Sono rimasta con i parenti di mio padre fino a due anni fa, quando è arrivata la notizia che la guerra era finita e i soldati avevano iniziato a rientrare. Quando ho scoperto che mio padre non era tornato insieme agli altri ma non era ufficialmente morto, ho deciso di iniziare a cercarlo. Così eccomi qui.»

Adrian la guardò di traverso, sospettoso. I conti non tornavano.

«E quand'è che avresti imparato ad immobilizzare un uomo grosso il doppio di te?»

Lei sorrise con un tocco di malizia, il che poteva significare tanto che stava nascondendo qualcosa quanto che volesse solo risultare il più enfatica possibile.

«In due anni si imparano molte cose, se incontri le persone giuste.»

Un'improvviso scoppio di risate al tavolo vicino li fece voltare entrambi in quella direzione, distraendoli. Un uomo aveva appena appoggiato – con molta poca grazia – il boccale sul tavolo, col viso rosso e lo sguardo brillante di chi aveva davvero bevuto troppo.

Adrian tornò a guardare Ravenna, domandandosi quali e quante persone avesse incontrato durante il suo viaggio e per quanto tempo sarebbe andata avanti a cercare suo padre. Chiedendosi se, non trovandolo, prima o poi avrebbe rinunciato, o se avrebbe continuato la sua ricerca finché le forze glielo avrebbero concesso. Se si fosse rovinata la vita in cerca di quello che poteva essere solo un fantasma.

«E ora dove andrai?» le chiese solo.

«In effetti... stavo pensando di andare a Vessa» gli rivelò lei, causando l'istintiva tensione di tutti i muscoli di Adrian.

Non rispose.

«Vuoi... venire con me?» azzardò lei.

Lui rimane ancora immobile, senza accennare alcuna altra razione.

«Da quanto tempo non torni a casa, Adrian?»

Ravenna era sempre stata quella delle domande scomode.

Era da parecchio tempo che Adrian non si ritrovava più nelle condizioni di dover ripensare alla sua famiglia. Non li aveva dimenticati, non li aveva abbandonati, aveva solo deciso di allontanarsene. Aveva deciso di prendere la sua strada, di cavalcare le onde invece che trascinare un carretto di pelli. Col ritorno di suo fratello non aveva più nemmeno dovuto occuparsi della madre, così dall'ultima volta che era partito non aveva più fatto ritorno.

Ravenna cercava ciò che rimaneva della sua famiglia da due anni.

Lui scappava dalla propria da altrettanto tempo, sebbene senza avere un reale destinazione.

«Senti, puoi prendere una nave e partire alla volta della Costa Meridionale, nessuno te lo impedisce, ma prima o poi dovrai tornare. Prima o poi vorrai tornare, anche solo per un giorno. Sarebbe tanto sbagliato farlo in questo momento?»

Il suo tono era fermo, senza traccia d'incertezza o almeno un vago senso di colpa per l'essersi intromessa. Una cosa che Adrian ricordava bene di lei era che non aveva le mezze misure tipiche di una persona equilibrata: o ignorava ciò che non le piaceva o non le interessava, o insisteva fin quasi allo sfinimento per ottenere ciò che voleva o far valere la propria opinione. 

«Non lo so, Ravenna. Non lo so» rispose infine, sapendo di doverle dare una risposta. «Fino a poco fa avevo in programma di passare due settimane su una nave e di sbarcare dall'altra parte del mare, adesso sono seduto in una taverna con una persona che non credevo avrei mai più rivisto. È già abbastanza per un giorno solo» si giustificò, improvvisamente esausto.

La routine poteva essere letale. Più passava il tempo più ci si adagiava nella costante ripetizione delle stesse azioni, vivendo sempre gli stessi giorni finché persino i pensieri stessi diventavano sempre più uguali gli uni agli altri. Finché persino le belle sorprese diventavano quasi spaventose.

Ravenna non avrebbe insistito, non avrebbe spinto Adrian fuori dalla sua normalità. Aveva appena bucato la sua bolla, la cosa migliore da fare era lasciarle il tempo di sgonfiarsi. E forse, prima o poi, sarebbe diventata troppo stretta per lui.

«Prenditi del tempo per pensarci. Domattina, al primo quarto della meridiana, mi troverai alla porta nord della città. Se non verrai saprò cos'hai deciso.»

Adrian ci pensò su per diversi secondi, sorpreso di quella proposta che pareva essere davvero una mezza misura. Gli sembrava un buon compromesso, in fondo, ma la prospettiva di svegliarsi l'indomani mattina con quella questione in sospeso lo faceva sentire in colpa. Esisteva la concreta possibilità che mentre lei lo aspettava appena fuori dalla città lui si trovasse a tirare delle cime su una nuova nave. E mentre lui avrebbe fissato per l'ennesima volta una corda al suo sostegno, lei sarebbe stata in viaggio con un'ultimo ricordo di lui come un eterno fuggiasco o, peggio ancora, un codardo.

Ravenna udì la porta della taverna aprirsi e le diede una sbirciata furtiva, l'ennesima da quando si era seduta a quel tavolo. Controllò rapidamente i volti dei nuovi avventori e, quella volta, le parve di riconoscerne uno. Due. Tre. Era meglio andarsene.

«Al primo quarto» ripeté, cercando di nuovo lo sguardo di Adrian e posando una mano sulla sua. «Per me è ora di andare. Spero di rivederti, Adrian.»

Così dicendo si alzò, lasciandolo solo e confuso. Lui la osservò uscire dalla taverna con di nuovo il cappuccio in testa, confondendosi tra i clienti fino a raggiungere l'uscita. Appena la porta si chiuse alle sue spalle si prese la testa tra le mani e pensò, pensò, pensò fino a farsi venire l'emicrania. Di certo la taverna non era il posto più adatto per prendere quel genere di decisioni, ma c'era davvero un posto giusto che ispirasse la scelta giusta?

Se anche fosse esistito, si rese conto Adrian, non sarebbe altresì esistita una decisione corretta o una sbagliata, né una facile o una difficile. Perché la verità era che non aveva proprio nessuna decisione da prendere, eccetto su quale nave prestare servizio. 

 

Ringrazio nuovamente tutti coloro che si siano gettati nella lettura di questa storia, dandole la possibilità di attirare la vostra curiosità. Una menzione speciale va alle tre meravigliose ragazze che mi hanno scritto delle parole bellissime, che mi hanno riempita di entusiasmo. Aveno due storie in corso d'opera non è facile trovare il tempo per dedicarsi a questa in particolare, ma la loro fiducia mi ha (passatemi in francesismo) messo veramente il pepe nel culo. In un lampo ho scritto il secondo capitolo dopo essermi arenata per giorni. Meritano almeno un pubblico ringraziamento.
Vi aspetto al prossimo capitolo o, se vorrete lasciarmene una, alla casella delle recensioni. Intanto, spero vi siate godute il primo capitolo :)

Au revoir,
Astrid

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Capitolo 3
*** Al primo quarto di meridiana ***




#2. Al primo quarto di meridiana


Quando, più cinquanta anni prima, era stato firmato il trattato di libero scambio con tutte le città della Costa Meridionale, Port Gale aveva spalancato i propri cancelli d'ingresso, permettendo l'entrata e l'uscita di uomini e merci senza necessità di controlli serrati o permessi firmati dal governatore della città. Le tre porte d'accesso erano giornalmente attraversate da mercanti e visitatori di ogni genere, ognuna di esse segnata da un grande arco che permetteva il passaggio sotto le imponenti mura di cinta.

Adrian osservava la porta nord da chissà quanto tempo, continuando a cambiare idea. Un momento prima avanzava deciso verso l'arco, un momento dopo gli dava le spalle e si avviava di nuovo verso il porto.

Aveva preso una decisione, la sera prima: imbarcarsi e conservare il felice ricordo dell'incontro del giorno prima, niente di più. Invece, quella mattina si era svegliato di soprassalto sentendo impellente il desiderio di controllare la meridiana. Si era vestito, aveva saldato il conto alla locanda e si era precipitato fuori, fino alla piazza centrale, giusto per constatare che era in estremo anticipo. Si era quindi avviato con calma verso il porto, deciso più che mai a prendere una maledetta nave, poi aveva fatto dietro front ed aveva camminato verso la porta nord. La stessa operazione l'aveva ripetuta innumerevoli volte, finché non era giunto in prossimità dell'ingresso all'avvicinarsi del primo quarto.

No, doveva imbarcarsi.

No, doveva andare a Vessa.

Doveva imbarcarsi.

Vessa.

Imbarcarsi.

Ravenna.

Si bloccò proprio sotto l'arco voltato verso la città e la vide avvicinarsi con passo tranquillo, i capelli biondi  solo in parte raccolti a metà testa con due fini bacchette di metallo  che risplendevano nel sole invernale. Si passò una mano sul viso, conscio che era la sua ultima possibilità di andarsene; se lei avesse alzato gli occhi e lo avesse visto, con quale coraggio avrebbe potuto dirle che non intendeva andare con lei?

Stava per compiere un passo, un passo verso la struttura più vicina che avrebbe potuto nasconderlo alla vista, quando lei intercettò il suo sguardo e sorrise.

Nel centro della città, l'ombra dello gnomone raggiunse il primo quarto di meridiana, mentre Ravenna raggiungeva Adrian.

«Ottima scelta, marinaio» si congratulò. «Ti offenderebbe sapere che credevo non saresti venuto?»

La schiettezza di Ravenna era qualcosa che Adrian aveva sempre faticato a sostenere, fin da quando erano bambini. Non erano solo le parole che usava, era il tono tranquillo con cui le pronunciava a dar loro una connotazione tanto intollerabile. Ma era pur vero che non aveva avuto torto a dubitare di lui, e probabilmente era proprio questo a rendere tutto ancora meno sopportabile.

«Offendermi? Nha» mentì, minimizzando il problema con lo sventolio di una mano. «Cosa ti ha fatto credere che non sarei venuto?» Aggiunse ansioso.

Era stato così palese? Si era fatto sfuggire un'espressione colpevole o era stato il suo silenzio dopo la proposta di Ravenna a gridare “non verrò”?

«Non lo so. Intuito, immagino. Una sensazione» accennò vaga, muovendo i primi passi per oltrepassare l'arco d'ingresso. «Forse il fatto che sei andato avanti e indietro per la strada per mezza mattinata» concluse senza cambiare intonazione.

Adrian chiuse gli occhi e si morse la lingua, sentendosi braccato. Era stato colto sul fatto senza possibilità di replica. A parte una.

«Aspetta... mi hai spiato?»

Nella sua voce c'era una nota d'accusa. Ravenna si fermò e scrollò le spalle, apparentemente molto lontana dal sentirsi in colpa.

«Volevo darti il tempo di prendere una decisione.»

«Mmh no, non puoi aspettarti che ci creda» le rispose quasi immediatamente, senza darsi il tempo di valutare se quella di Ravenna fosse davvero una bugia o solo una veritò scomoda.

«Perché, ti ho mai mentito?»

Quella domanda posta con tanto candore ebbe il potere di far vacillare la sicurezza di Adrian. Le ricordò il timbro che lei possedeva quando era solo una bambina, morbido e squillante, con cui l'aveva sempre sentita dire solo la verità. Era terribilmente sincera, forse per il fatto che non combinasse mai nulla che dovesse tenere nascosto. Ma, e lui lo sapeva meglio di molti altri, nella vita si cambia.

«C'è sempre una prima volta.»

Ravenna alzò un sopracciglio con aria scocciata. «La prossima volta, invece di darti libertà di scelta fino all'ultimo secondo, ti stordirò, ti legherò e ti metterò su un carro.»

Poco importava che ci fosse della chiara ironia nella sua voce, perché in realtà era stato qualcos'altro ad attirare l'attenzione di Adrian. Tre semplici parole su cui rimuginò per diversi secondi, mentre lei aveva già ripreso a camminare in direzione della foresta.

«Quale prossima volta?»

Ravenna si limitò a voltarsi e lanciargli un sorriso sfuggente.

Adrian si voltò per un attimo verso la città, scorgendo in lontananza la vela di una nave allontanarsi dal porto, immergendosi in una totalità blu e azzurra su cui non aveva mai desiderato tanto di trovarsi. Né mai lo aveva desiderato meno.

Si voltò e iniziò la marcia vero casa.

 

◄►

 

Tre giorni. Non c'erano voluti più di tre giorni per raggiungere Vessa, mentre il sole calava dietro il crinale roccioso sotto cui era arroccata. Accamparsi nella foresta era stata una totale novità per Adrian, che negli anni trascorsi a vendere le pelli aveva sempre alloggiato in qualche locanda economica. Il suolo boschivo era orribilmente scomodo e gli aveva impedito di dormire per buona parte della notte, ma a detta di Ravenna avrebbero risparmiato mezza giornata di viaggio evitando di deviare per Elo, il villaggio di pastori ad est della foresta.

Giunti alle porte della città Adrian ebbe l'istinto improvviso di ruotare i piedi e, un rapido passo dopo l'altro, tornarsene a gambe levate a Port Gale. Istinto che si ripresentò con ancor più irruenza quando si fermò di fronte alla porta di casa sua.

«Prenditi il tempo che ti serve» gli consigliò Ravenna, posandogli una mano sulla spalla. «Io vado a vedere cosa trovo.»

Lo lasciò solo senza aspettare una sua risposta. Dopo averlo quasi trascinato fino a lì lo aveva appena lasciato solo. Ma sapeva cosa lei avrebbe detto se lui glielo avesse fatto notare: “non ti ho trascinato da nessuna parte, ci sei venuto con le tue gambe”. Se lo immaginava con una chiarezza allarmante.

Alzò il braccio e chiuse la mano a pugno, avvicinandola alla porta, ma la fermò a mezz'aria. La tirò indietro. La riavvicinò. La tirò indietro di nuovo. Proprio come la mattina precedente non sapeva decidersi se raggiungere l'ingresso nord di Port Gale o tornare al molo.

«Maledizione!» berciò esasperato, prendendosi la testa fra le mani.

Girò su sé stesso, allontanandosi di qualche passo e voltandosi di nuovo verso la porta, solo per prendere a calci un sasso che aveva tra i piedi per sfogare la sua frustrazione. Il sasso prese il volo e atterrò di nuovo sul suolo, ma non prima di aver sbattuto contro il legno della porta. Quando si rese conto di ciò che era appena avvenuto il suo volto si fece terreo e i suoi battiti accelerarono, eppure rimase ad aspettare che qualcuno aprisse. Forse bloccato dall'apprensione, forse dal cuore.

Con un cigolio la porta si socchiuse. Un millimetro dopo l'altro la figura di una donna anziana divenne sempre più completa e riconoscibile. Tutto, di lei, parlava ad Adrian di anni di sgridate, di abbracci imbarazzanti in pubblico e strette ricercate nelle notti piene di incubi. Si ritrovò a guardare i suoi stessi occhi, la sua stessa fronte ampia, le sue stesse labbra sottili, dei capelli un tempo neri come i suoi e ora diventati bianchi.

«Adrian» sussurrò sua madre dalla soglia, meravigliata.

Adrian dischiuse le labbra, certo di dover dire qualcosa, ma non pronunciò parola alcuna. Annuì trattenendo un sospiro, lo stesso che Jolene liberò dal petto mentre copriva la distanza e si gettava tra le braccia del figlio.

Spiazzato dal gesto, gli ci volle qualche secondo per rispondere alla stretta e toccarle la schiena, un semplice contatto che sciolse una tensione fino a quel momento palpabile. La paura che aveva provato nell'essere vicino a rivedere la sua famiglia era innegabile, ma lo era altrettanto l'improvviso calore che inondò ogni angolo del suo corpo. C'erano marinai che consideravano l'equipaggio la propria famiglia, ma lui non aveva mai dimenticato dove fosse davvero la sua.

Quando si sperarono, Adrian stava finalmente sorridendo.

Ma Jolene no.

«Adrian Hill!» sbraitò in modo del tutto inaspettato. «Due anni! Due anni senza nemmeno una lettera, una singola riga per far sapere che fossi almeno ancora vivo!»

Il marinaio inorridì e fece un passo indietro, alzando la mano aperta come a voler fermare la furia della madre.

«Mamma, non...»

«Esatto, mamma! Sono tua madre, scapestrato, e non ti sei mai preso la briga di ricordartelo!»

Scapestrato. Andava per caso di moda?

«Lo so, mamma, ma...»

«Cos'avrai mai avuto da fare che ti impedisse di venire a trovare la tua famiglia, ogni tanto, eh?» Lo accusò. «Cosa c'è di così incredibile su una nave che ti ha fatto diventare un completo idiota?»

«Mamma...» tentò di nuovo, iniziando a spazientirsi.

«Per quanto ne so potresti avere una moglie, o persino dei figli!»

«Mamma!» esclamò allibito.

«Potevi essere naufragato chissà dove e non lo avremmo mai saputo!» continuò lei, implacabile.

«Mamma?»

Quella volta non fu la voce di Adrian a parlare. Fu una non troppo dissimile, sostenuta dall'espressione confusa del suo portatore. Rhonon, immobile a pochi passi da loro, appena apparso da dietro l'angolo di un'abitazione, spostò lo sguardo dalla madre al fratello e, nel riconoscerlo, per poco non fece cadere i due secchi d'acqua che teneva in mano, completamente basito.

«Adrian?» domandò incredulo, come se non fosse sicuro di aver visto bene.

Per il amrinaio fu come passare dalla padella alla brace. Sua madre non aveva ancora finito di strigliarlo come si doveva che ci si sarebbe aggiunto anche lui, il suo ligio e coscienzioso fratello.

Sospirò e si diede uno schiaffo in fronte, completamente rassegnato.

«Purtroppo, sì» rispose esausto.

Rhonon gli si avvicinò, depose a terra i secchi e si eresse in tutta la sua notevole statura, osservandolo con sguardo indecifrabile.

Poi gli tirò uno scappellotto.

Il gemito di Adrian fu più di sorpresa che di dolore, ma passò comunque una mano a carezzare la parte lesa della sua nuca. Fece appena in tempo a raddrizzare la testa che gli arrivò un secondo colpo identico al primo. Poi un terzo. Quando vide il braccio di Rhonon alzarli la quarta volta si tirò indietro e alzò le mani per proteggersi, ma il fratello gli afferrò il polso e lo tirò verso di sé, schiacciandolo contro il proprio petto mentre gli dava delle forti pacche sulla schiena.

«Ci sei mancato» ammise.

«Quindi vuoi soffocarmi per dimostrarlo?» ironizzò Adrian, ma era felice di aver sentito finalmente quelle parole. Nonostante sapesse che fossero vere prima ancora che venissero pronunciate, udirle rendeva più reale anche la mancanza che aveva sentito lui di loro, come quando veniva ingaggiato per una traversata ma non ne sentiva l'eccitazione finché non era sul ponte della nave.

Rhonon ridacchiò e lasciò andare il fratello, senza tuttavia togliere la propria mano dalla sua spalla come se avesse ancora bisogno di sentire la sua reale presenza fisica.

«Allora, cosa ti ha portato qui proprio adesso?»

Ahi. Adrian sapeva che quella domanda sarebbe arrivata, prima o poi, ma non aveva mai pensato a come rispondere. Poteva prevedere la reazione che avrebbero avuto i suoi familiari se avesse rivelato che a convincerlo era stata Ravenna, che la proposta non era partita da lui e che la decisione era stata più travagliata del dovuto, ma mentire? Mentire gli sembrava cento volte peggio. Forse, al massimo, avrebbe potuto rendere la realtà meno amara.

«Che ne dite di entrare in casa? Vi racconterò tutto quello che volete, promesso.»

Rhonon strizzò l'occhio e gli diede un'altro paio di pacche sulla spalla, precedendolo verso l'ingresso, seguito immediatamente dalla madre che gli concesse finalmente il suo sorriso radioso. Adrian guardò per qualche istante ancora la facciata della casa, quindi prese un bel respiro e attraversò la soglia chiudendosi la porta alle spalle.

 

◄►

 

Gli Hill non erano gli unici amici del padre di Ravenna. Lei era stata in molte atre città, visitando le case di molti altri mercanti che erano soliti recarsi al mercato di Cerys e chiedendo loro se, da due anni a quella parte, avessero saputo niente di Gran il fabbro. Le risposte negative erano le stesse che riceveva in qualsiasi altro luogo dove la conducessero le sue ricerche.

Per questo, in fondo, non si aspettava responsi positivi nemmeno a Vessa, e fu col cuore rassegnato che bussò alla porta di casa Hill dopo aver fatto l'intero giro della città, appena uscita dalla locanda dove aveva affittato una stanza per la notte.

Ad aprirle fu un ragazzo alto e perfettamente pettinato che riconobbe istintivamente come Rhonon, il maggiore dei due figli di Merrytt. Anche lui era notevolmente cambiato dall'ultima volta che lo aveva visto, ma ormai trentaquattrenne non aveva perso la sua aria sempre così seria da far credere che non avesse mai imparato a ridere.

«Posso esserle utile?» le domandò questi.

Ravenna sorrise, affatto sorpresa di non essere stata riconosciuta. Aprì la bocca per presentarsi esattamente come aveva fatto ventidue anni prima, la prima volta che Merrytt e Gran avevano messo l'uno di fronte all'altra, ma non ebbe occasione di proferire alcunché. La figura di Adrian fece capolino da una porta alle spalle di Rhonon e si avvicinò all'ingresso, fermandosi alle spalle del fratello.

«Rhonon» lo richiamò. «È Ravenna.»

Rhonon, che si era voltato verso Adrian, tornò a guardarla totalmente stupefatto, le labbra dischiuse su una frase che non pronunciò, gli occhi sgranati che sembravano guardare al passato senza riuscirne a trovarne traccia nel presente.

«Rhonon, per l'amor del cielo, falla entrare!» lo incitò Adrian.

«Non serve» lo contraddisse Ravenna. «Volevo solo salutare.»

«Miei Dei...» esalò il maggiore dei fratelli, e forse avrebbe addirittura completato la frase se ne avesse avuta l'occasione. Invece fu interrotto dalla madre, apparsa da dove poco prima era emerso lo stesso Adrian.

«Perché ci state mettendo così tanto?» domandò con ingenua curiosità.

I fratelli si voltarono al suono della sua voce, colti di sorpresa, e aprirono una fessura di spazio che permise alla donna di vedere la bionda ragazza appena fuori dalla porta. Di colpo la sua espressione di fece turbata, di quell'incredulità tipica di chi vede un volto familiare come se provenisse da un'altra vita. Di chi vede qualcosa di impossibile, eppure terribilmente reale.

«Saoirse...» mormorò in un soffio appena udibile.

«Mamma» cercò di richiamarla Adrian. «Mamma, è...»

«Signora Hill» lo interruppe Ravenna, il tono morbido più simile che mai a quello di quand'era bambina. «Sono Ravenna, si ricorda?»

«Ravenna...» ripeté Jolene, facendo qualche passo avanti. «Ravenna... Oh, Ravenna! Per tutti gli Dei, sei identica a tua madre!» esclamò, raggiungendola sulla soglia per stringerla in un abbraccio.

Non erano pochi a pensarla così. Chi aveva conosciuto Saoirse era assolutamente certo dell'estrema somiglianza tra madre e figlia, mitigata solo dal verde degli occhi di Ravenna che non aveva mai avuto niente a che fare col castano delle iridi dei suoi genitori. Ravenna non ricordava bene il volto della madre, ma ogni volta che vedeva la propria immagine riflessa le sembrava in qualche modo di poterla guardare.

Jolene si fece indietro dandole finalmente modo di respirare, ma non abbandonò la presa sulle sue mani.

«Vieni dentro cara, possiamo sistemarti nella camera di...»

«No» la fermò Ravenna. «Non è necessario. Ho già prenotato una stanza in una locanda, sono passata solo per un saluto» spiegòdi nuovo con tutti il garbo possibile.

La signora Hill parve dispiaciuta della risposta, ma non la contestò né cercò di convincerla a cambiare idea. Le sorrise comprensiva, quasi materna.

«Almeno permettimi di ringraziarti per aver riportato Adrian fin qui.»

Ravenna non era particolarmente d'accordo nemmeno su quel punto, ma dopo un profondo respiro si decise ad annuire. Non riteneva di aver ricondotto Adrian a casa, lo aveva solo messo di fronte ad una scelta che comunque, prima o poi, si sarebbe posto lui stesso.

«Se non vi dispiace, vorrei parlare un momento con Adrian» annunciò dopo qualche istante di silenzio.

Nessuno ebbe da obiettare, ma prima di poter ottenere un colloquio privato dovette prestarsi a tutti gli addii del caso, un rito convenzionale che faticava a sostenere fin da quando, appena undicenne, aveva detto addio a suo padre, domandandosi per anni perché non si fossero rivolti un arrivederci.

«Riconosco quella faccia. È la faccia di uno che non è intenzionato a restare» esordì non appena lei e Adrian furono rimasti soli.

«Non ne ho mai fatto segreto» le fece notare lui.

«Glielo hai già detto?» gli domandò, facendo cenno alla porta di casa.

«Non direttamente, ma sono sicuro che lo abbiano capito.»

Per Ravenna, quell'impressione era opinabile. Una madre che vede tornare un figlio dopo anni di assenza non pensa a quando lui ripartirà, pensa a quanto resterà sperando che lo faccia a lungo. Tuttavia non lo mise a parte del suo scetticismo, altrettando convinta che Adrian non si sarebbe fatto trattenere da nessuna preghiera.

«Tornerai al porto?»

«È la mia intenzione, sì. Ma non andrò a Port Gale, il porto di Valenia è più vicino.»

Ravenna annuì, già quasi certa di quale sarebbe stata la risposta.

«Io andrò a Serlas, non è distante da Valenia. Per un giorno di viaggio la strada è la stessa» lo informò con una chiara nota allusiva.

Una nota che Adrian non sembrò avere alcuna difficoltà a cogliere, vista la sua replica pressoché immediata.

«Quando?» domandò, andando dritto al punto.

Ravenna fu impietosa quando gli rispose: «Domani mattina.»

Adrian ebbe un momento di esitazione. Anche più di uno, mentre la sua mente elaborava l'idea che il suo tempo fosse già scaduto.

«Possiamo restare un giorno in più?» chiese infine.

E così, nonostante tutto, l'impenitente marinaio sperava di passare un po' di tempo in più con la sua famiglia. Per Ravenna non fu una sorpresa, ma questo non rendeva meno lapidaria la risposta che gli avrebbe dato.

«Puoi restare anche due giorni in più, una settimana in più, un mese in più. Puoi restare anche tutta la vita, Adrian. Io parto domattina.»

La sua non era mai stata una domanda. Come non lo aveva obbligato a venire a Vessa non lo avrebbe obbligato ad andarsene, ma se Adrian avesse preferito stare con la famiglia era giusto che accettasse, allo stesso modo, che lei dovesse continuare a cercare la propria.

«Forse è...» balbettò Adrian, ancora incerto. «Probabilmente è...» si corresse, «... meglio così. Immagino che rimandare l'inevitabile renda solo più complicato il momento della resa dei conti.»

Ravenna si astenne dal commentare la scelta del termine “inevitabile”, nonostante non la condividesse affatto. Crescere era inevitabile, morire era inevitabile; scegliere dove andare o con chi stare aveva il pregio significativo di essere, per l'appunto, una scelta.

Il suo prolungato silenzio indusse Adrian a riprendere la parola.

«Perciò...» cercò di incoraggiarla in tono vago, «domattina...»

«Sei sicuro di volertene andare così presto?»

Adrian emise uno sbuffo esasperato.

«Sì, lo sono» tagliò corto.

Ravenna si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu.»

«Ravenna» grugnì lui impaziente. Non era il caso di farla tanto lunga.

«Appena fuori dalla città» si affrettò a dire lei, non poco infastidita da tutta quella insistenza. «Al...»

«Primo quarto di meridiana» concluse lui, anticipandola.

«Se ti vedo fare avanti e indietro come un'anima in pena ti lascio qui, te lo giuro.»

Adrian dilatò le narici e strinse le labbra, offeso.

«Tu mi lasci qui? Mi muovo con le mie gambe, Ravenna, non sei tu a portarmi in giro. Non puoi lasciarmi proprio da nessuna parte.»

«Questione di semantica» replicò lei con disinteresse. «Non fare il precisino.»

Ironicamente, Ravenna sapeva che Adrian era tutto fuorché precisino, ma quello che lui aveva appena fatto era inequivocabilmente una puntualizzazione.

«E tu non fare la presuntuosa» ribatté lui.

«Tu non prendermi alla lettera» controbatté prontamente lei.

«Va al diavolo.» Adrian fece un passo avanti.

«Prima le signore.» Ravenna lo imitò.

Si stavano fronteggiando come due ragazzini permalosi. Ravenna già percepiva qualcosa di infantile nel loro stoico confronto verbale, ma niente fu più infantile del dito che Adrian le premette contro il petto mentre scandiva la sua risposta parola per parola.

«Prima-i-bambini».

Con un sorrisino, gli rispose nel tono più sarcastico di cui fosse capace. «La prossima mossa è buttarmi nel fango?»

Adrian, che sera sempre stato il meno paziente dei due, si lasciò sfuggire un gemito esasperato.

«All'inferno tu e la tua meridiana» sbuffò.

Fu uno sbuffo strano. O, per meglio dire, uno sbuffo così tipico, così familiare, così normale che alle sue orecchie suonò bizzarramente anomalo; perché era lo sbuffo di un undicenne con gli stessi occhi blu e la stessa espressione innevorsita dell'uomo che aveva davanti in quel momento, come se il bambino di un tempo avesse improvvisamente preso le sembianze di un adulto. Ma le cose non stavano così, quell'improvvisamente corrispondeva in realtà a quasi vent'anni di tempo durante il quale erano serviti quasi tre anni, tre assurdi anni, perché Ravenna smettesse di domandarsi se quell'odioso sbruffone avesse trovato la sua strada come lei aveva trovato la sua. Chiedendosi se stesse bene. Chiedendosi se e quanto fosse cambiato. Chiedendosi se il suo unico amico pensasse alla sua unica amica perduta.

«Ci vediamo domattina» concluse, quindi si allontanò con passo svelto senza voltarsi indietro.

Ma non poteva negare, almeno a sé stessa, che avrebbe litigato con lui anche tutta la vita, perché essere mandata all'inferno da un'amico era meglio che essere trattata con gentilezza da un estraneo.

 

◄►

 

«Antipatica. Tu sei veramente antipatica».

Ravenna, che camminava qualche passo avanti ad Adrian, guardò circospetta le vicinanze e proseguì come se nulla fosse.

«Mi rimangio tutto, non sei antipatica, sei apatica

Adrian strinse gli occhi per cogliere anche il più impercettible spasmo di una mano, qualcosa – qualsiasi cosa – che indicasse un fremito di rabbia o quanto meno di nervosismo da parte della sua impassibile compagna di viaggio. Niente.

«Sono le mie opinioni ad essere irrilevanti o è la tua suscettibilità ad essere affogata in mare dopo che hai quaso rotto un braccio al capitano Rhodes?»

Quanto era probabile che lei fosse diventata sorda nell'ultima ventina di passi?

«Ravenna» la richiamò, sforzandosi si mantenere un tono di voce neutro con scarsi risultati.

Era, da quanto... due ore? Era da quasi due ore che lei era piombata in un mutismo fastidiosamente ermetico, quando il sole era a metà della sua discesa verso il tramonto. Per un po' Adrian vi si era adattato, in parte per il fiatone in parte per la mancanza di argomenti, ma la noia del viaggio aveva rapidamente preso possesso della sua lingua, letteralmente costringendolo a parlare.

«Rav...»

«Vuoi stare zitto?»

Ravenna si voltò rapidamente, finalmente con quell'espressione esasperata che iniziava a credere di non riuscire a causare. Adrian stava già per sorridere trionfante e brindare all'inizio di una sana litigata che riempisse il silenzio, ma lei lo anticipò parlando svelta e risoluta, concentrata su problemi ben più gravi del suo insiste tentativo di ottenere una reazione.

«Hai mai incontrato dei pirati?» gli domandò, alludendo a qualcosa che Adrian non riuscì ad afferrare.

Attese qualche istante per rispondere, sospettando che qualsiasi cosa avesse detto si sarebbe ritorta contro di lui. «No» articolò infine, cauto.

«Lo immaginavo. In breve, quale sarebbe la procedura in caso di attacco da parte di una nave pirata?»

Adrian si passò la lingua tra i denti, indeciso su come rispondere. Conosceva bene la prassi nell'eventualità di un'incursione pirata, ma qualcosa gli diceva che fargli ammettere di conoscerla era esattamente ciò che voleva lei.

«Evitare l'abbordaggio virando in modo analogo ai movimenti dell'imbarcazione pirata, così da offrirle sempre la poppa. Se l'attaco avviene frontalmente, pregare di non essere a bolina o superarli indenni è impossibile.»

Forse pregare non era esattamente una procedura ufficiale, ma se eri a bolina tutto quello che potevi fare era caricare i cannoni.

«Riassumi» gli ordinò Ravenna.

Adrian strinse i denti, ma se aveva capito che lei cercava di portarlo su una strada precisa ancora non aveva intuito dove, con precisione, volesse effettivamente andare a parare. L'unico modo per scoprirlo era stare al gioco.

«Evitare l'abbordaggio.»

«Stringi.»

Non era ancora sufficiente? Non c'era modo per sintetizzare ulteriormente la spiegazione. A parte, forse, uno.

«Evitarli.»

In fondo, non esisteva modo più efficace per non essere attaccati del non essere affatto presi di mira.

«E per evitarli la condizione fondamentale è...»

Non aveva ancora finito di pensarlo che Ravenna gli stava chiedendo di dirlo ad alta voce.

Quando lo disse lo fece tra i denti. «Non farsi beccare.»

«Centro!» Esclamò lei, estremamente soddisfatta. «Non farsi beccare. Alla luce di questa rivelazione, potremmo presumere che questo stesso atteggiamento valga per qualsiasi situazione in cui esista il rischio di essere aggrediti. Due persone sole su uno dei sentieri più pericolosi della Costa Settentrionale ti sembra che siano abbastanza a rischio?»

Il sarcasmo nella sua voce era mordace, volutamente impossibile da ignorare. Ma se quello era il sentiero più pericoloso della Costa Settentrionale allora ad Adrian era sfuggito qualcosa: non si era mai parlato di correre il rischio di essere assaliti.

«Scusa, puoi... puoi ripetere?» Chiese circospetto, con quel filo di fastidio nella voce che minacciava di tramutarsi in un'imprecazione a pieni polmoni.

«D'accordo, non è il più pericoloso» ritrattò lei, «ma non è un passo sicuro come quello per Port Gale. Quindi, se la smetti di parlare, abbiamo qualche possibilità di non farci beccare

Che fosse stata cristallina era fuori da ogni dubbio, ma avrebbe potuto accennare a quel minuscolo dettaglio della probabilità di finire preda di un qualche genere di assalitori un po' prima. Prima di partire, ad esempio.

«E lo dici solo adesso?» Le chiese allibito, divenuto immediatamente irrequieto.

«Credevo lo sapessi» si giustificò lei.

Sembrava sincera, ed era questo che irritò Adrian ancora di più.

«No, Ravenna, non conosco l'esatta concentrazione di banditi su ogni sentiero del regno, non te lo spiegano quando ti insegnando a manovrare le drizze!» Esclamò, risultando più infervorato che sarcastico.

«I banditi ci sono tanto in mare quanto a terra, dovresti saperlo tu che hai viaggiato con un carro di pelli per anni!» Ribatté lei con la stessa aggressività.

Adrian alzò ulteriormente la voce per rispondere, ma nel mezzo della sua brillante ed ennesima accusa Ravenna girò la testa, assumendo un'aria allarmata di cui lui nemmeno si accorse.

«Zitto» gli intimò sbrigativa, alzando una mano come a volerlo fisicamente fermare.

«Non dirmi di...»

«Zitto» ripeté, ma non c'era più traccia di rabbia nel suo tono.

Guardava i dintorni con attenzione, concentrata. Adrian vedeva i suoi denti stretti dalla preoccupazione dietro le labbra socchiuse, mentre cauta provava a fare i primi passi. Doveva aver udito qualcosa che a lui era sfuggito, troppo occupato a fare polemica. Si immobilizzò al punto da smettere persino di respirare, ma tutto quello che udiva era il battito del proprio cuore nelle orecchie. Ravenna, invece, alzava e abbassava il petto a intervalli regolari e profondi, completamente tesa nello sforzo di percepire anche il più misero fruscio.

Lentamente le sue spalle si sciolsero, allentando la tensione, ma fu nel momento in cui si voltò verso di lui che una freccia sibilò ad un palmo dal viso di Adrian, conficcandosi nel tronco di un albero con un colpo secco.

Il marinaio, totalmente fuori dal suo elemento, indietreggiò d'impulso e in modo scomposto, rischiando per la troppa foga di cadere. Riuscì a mantenere l'equilibrio grazie agli anni passati a camminare sui ponti ondeggianti delle navi anche durante le più violente burrasche, ma restare in piedi non bastava; spinto dall'istinto di sopravvivenza avanzò di corsa e afferrò Ravenna per un polso, trascinandola con sé nella fuga.

«Adrian, no!» Gridò lei, cercando invano di fermarlo.

Una seconda freccia fischiò a breve distanza dalla loro posizione, portando Adrian a cambiare direzione e inoltrarsi nella foresta. Era certo che ci fosse una cittadina appena fuori dalla vegetazione, la ricordava perché vi faceva spesso scalo durante il viaggio di ritorno a casa dopo ogni giro di mercati per vendere le pelli. Se fossero riusciti ad arrivarci si sarebbero salvati, poco importava che fosse dalla parte opposta rispetto a Valenia.

Ravenna, alle sue spalle, gli stava urlando qualcosa, ma era come se lui non riuscisse a capire; percepiva solo il battito accelerato del suo cuore, che premeva in ogni angolo del suo corpo. Lo sentiva nella mano stretta intorno al polso di Ravenna, nel petto che sembrava voler scoppiare da un momento all'altro, nello stomaco contorto dalla paura, nelle orecchie sorde a qualsiasi altra cosa.

Non avrebbe saputo dire da quanto stesse correndo, ma dopo quelle che gli parvero ore la vegetazione iniziò a diradarsi e lì, tra rami contorti e copiosi cespugli, in cima ad una verdeggiante collina, vide la città priva di mura, aperta come a volerli invitare tra le sue strade per trovare protezione.

Per un secondo, un solo secondo, si concesse di sperare. In quel secondo sentì un violento colpo alla nuca, che improvvisamente rabbuiò la sua vista e lo portò a sprofondare nell'incoscenza.

Ad accompagnarlo fu un'ultimo suono: il grido di Ravenna che pronunciava il suo nome.

 

Ammetto che questo capitolo era già pronto da più di una settimana, ma ho avuto davvero poche occasioni di entrare su Efp dall'ultimo aggiornamento e, quando potevo, volevo prima rispondere a tutte le recensioni che mi avete lasciato, per farvi sapere che ero viva e che vi sono davvero tanto grata. Non mi aspettavo ben 11 recensioni in soli due capitoli :3 So che ci sono storie molto più seguite, ma per me è la prima volta che tante persone apprezzano il mio lavoro e me lo fanno sapere. Vi devo un grazie immenso. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto come i precedenti e mi auguro che anche in questo caso vogliate dirmi quali sono state le vostre impressioni, sia positive che negative. Per il momento vi saluto e ringrazio ancora tantissimo voi che mi avete sostenuta, ma anche voi che siete appena arrivati su questa storia e, chissà, volete darle una chance di stupirvi.

Au revoir,
Astrid

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Capitolo 4
*** Non esistono porte chiuse ***




#3. Non esistono porte chiuse


C'era così tanto silenzio da dare l'impressione che, persino se si fosse provato a urlare a pieni polmoni, non una singola sillaba sarebbe riuscita ad infrangere quella quiete assoluta.

Lentamente, a poco a poco che la coscienza tornava, Adrian si accorse che il silenzio era nella sua testa, e questa immediatamente prese a riempirsi di pensieri confusi. Un insistente e ritmico pulsare alla nuca gli riportò alla mente ricordi sbiaditi e confusi, mentre dall'esterno giungevano voci soffocate e inafferrabili.

Ma all'esterno di cosa?

Aprì gli occhi, spaventato prima ancora di vedere il soffitto di quella stanza sconosciuta. Girò il viso e si ritrovò ad osservare delle brande tutte uguali, una di fianco all'altra nella penombra, delle quali solo una era occupata da un'uomo addormentato. Provò a muoversi nonostante il fastidio alla testa, sforzandosi di tirare su la schiena per riuscire a vedere meglio il luogo in cui si trovava, ma nel farlo attirò l'attenzione di un terzo uomo seduto su un'ulteriore fila di brande, disposte contro la parete opposta. Questi alzò lo sguardo da un libro, gli spessi occhiali che riflettevano la debole luce filtrata dalle imposte chiuse, e gli sorrise con fare rassicurante.

«Non temere, il disorientamento passerà presto. Hai preso un bel colpo» disse alzandosi, iniziando ad avanzare verso di lui con passi lenti e silenziosi.

«Dove...»

Dove sono? Come ci sono arrivato? Dov'è Ravenna?

«Sei a casa mia. Sono il guaritore di Hyssen, Tavish. La tua amica ti ha portato qui ieri poco prima del tramonto» rispose l'altro immediatamente, come se gli avesse letto nel pensiero.

Probabilmente, immaginava Adrian, un guaritore doveva sapere perfettamente quali potessero essere le domande di un ferito in casi come quello e, sebbene ancora confuso, non aveva motivo di dubitare delle sue parole. Con movimenti calcolati riuscì a mettersi a sedere in una posizione il più comoda possibile, la testa ancora sgradevolmente pulsante.

«Lei dov'è?» Chiese, la voce roca.

«Non saprei dirti. È uscita questa mattina presto, da allora non l'ho più vista.»

Quella mattina presto?

«Che ore sono?»

«Quasi mezzodì» gli comunicò paziente il guaritore.

Adrian si sforzò di rimettere un po' d'ordine nella sua mente, cercando di dare un filo logico al proprio tentativo di ragionamento. Tutto ciò che riusciva a pensare con chiarezza era di essere rimasto incosciente per l'intera notte dopo essere stato colpito alla testa durante la fuga dai banditi, ed ora si trovava nella dimora di un guaritore ad Hyssen. Nonostante sentisse che ci fosse qualcos'altro da dover mettere a fuoco, non riusciva a concentrarsi abbastanza. Per il momento doveva farsi bastare quello che aveva, e tutto quello che aveva era la consapevolezza di dover necessariamente trovare Ravenna.

Reggendosi con le braccia provò ad alzarsi, gettando le gambe oltre il bordo della branda. Appena fu in piedi venne colto da un capogiro che gli fece perdere momentaneamente l'equilibrio; Tavish scattò solerte per aiutarlo a ritrovare la stabilità, suggerendogli di tornare a sedersi.

«No, sto bene. Mi serve solo qualche minuto.»

Qualche minuto dopo, in effetti, il mondo aveva smesso di girare, ma ogni passo gli dava uno strano senso di nausea che non riusciva a combattere.

«Passerà» lo rassicurò il guaritore. «Ma sarebbe più saggio se tu restassi sdraiato.»

Quasi sicuramente aveva ragione lui, ma Adrian non era in vena di starsene a letto come un malato mentre Ravenna era in giro chissà dove. Forse lo aveva abbandonato lì e aveva ripreso la strada da sola, decidendo che aspettare la sua ripresa fosse una perdita di tempo. Doveva accertarsi che non se ne fosse andata, voleva sapere da lei cos'era successo dopo che aveva perso i sensi, come era riuscita a trascinarlo fino alla città quando i briganti li stavano ancora inseguendo.

«Non hai torto, ma ho problemi più importanti da risolvere» replicò infine, riprendendo a camminare verso la porta in fondo alla stanza.

«Più importanti della tua salute?»

Adrian dovette ammettere a sé stesso che le sue priorità sarebbero dovute essere diverse, ma finché si reggeva in piedi significava che era sufficientemente in forze. Gli servivano risposte più di quanto gli servisse riuscire a camminare in linea retta. Era un marinaio: si sarebbe adattato ad un po' di sbandamento temporaneo.

«Ho tutto sotto controllo» si risolse di dire. «Quanto le devo per le cure?»

Pose quella domanda quasi con circospezione, temendo di dover sborsare un patrimonio semplicemente per aver dormito in una di quelle brande. I guaritori di alcune città portuali erano più cari del conto di un'intera settimana per una stanza nella miglior locanda della Costa Settentrionale. Fu proprio quando pensò al denaro che il dubbio lo colse con uno spaventoso attacco di panico; si tastò il petto per assicurarsi che il sacchetto in cui teneva i propri soldi, cucito nella parte interna del suo gilet, fosse ancora pieno. Lo era.

«Ci ha già pensato la tua amica» gli assicurò Tavish.

Questo lo sorprese piacevolmente, ma quasi si sentì in colpa per l'essersi stupito. Aveva davvero una ragione per dubitare così tanto di lei?

«Bene, allora... la ringrazio.»

Il guaritore gli sorrise e lo scortò fino all'uscita. La luce ferì gli occhi di Adrian quando passò repentinamente dalla semioscurità all'intensa luminosità del sole; si schermò la vista con un braccio e prese ad avanzare sulla strada, senza nemmeno sapere da dove cominciare a cercare.

Per primo si fermò da un fabbro che, sotto il piccolo portico della sua umile casa, batteva strenuamente un pezzo di ferro dalla forma ancora indefinita. Gli chiese se per caso avesse visto passare una forestiera bionda e non troppo alta, vestita con pantaloni di pelle e una casacca munita di ampio cappuccio. Il fabbro negò di aver visto alcuna donna rispondente a una tale descrizione, ma lo indirizzò ad una vicina taverna – la più frequentata della città – dove forse avrebbe potuto trovare qualcuno che l'avesse incrociata. Adrian ringraziò e non perse tempo. Mano a mano che procedeva si sentiva sempre più saldo sui piedi e il suo incedere diveniva più stabile, ma ancora avvertiva le ginocchia tremare quando faceva un passo più lungo del dovuto o provava ad aumentare la velocità.

Giunto alla tarverna si diresse senza esitazioni dall'oste, nella speranza che Ravenna si fosse fermata lì almeno per un momento. La fortuna, però, ancora una volta non girò dalla sua parte, costringendolo a rivolgersi ad ogni avventore che fosse sufficientemente sobrio. Si accostò ad un tavolo occupato da una compagnia di costruttori, o almeno così gli parve di capire dai loro borbotii circa i continui ritardi nell'edificazione causati dall'indecisione del governatore. Quando li interruppe, con tutto il garbo di cui era capace, questi gli lanciarono delle occhiatacce ostili, affermando che se avessero visto una bella biondina vestita di pelle se la sarebbero sicuramente ricordati.

Sull'orlo dell'esasperazione, Adrian grugnì e si allontanò dal gruppo, ma proprio in quell'istante fu richiamato da una voce che giungeva dal tavolo vicino.

«Ehi, tu!» Gli gridarono, facendogli cenno di avvicinarsi.

Erano delle guardie tutte perfettamente infilate nelle loro uniformi ufficiali, recanti lo stemma della città. Adrian si maledisse per non averci pensato prima: le guardie, almeno in teoria, avevano il compito di mantenere l'ordine in città, tenendo sotto controllo le sue strade. Se c'era qualcuno che avesse ottime probabilità di aver visto Ravenna erano loro.

«La donna che cerchi... ha gli occhi verdi e calza stivali stretti da larghe fibbie?»

Adrian si rianimò improvvisamente; non ricordava con esattezza che genere di calzature indossasse Ravenna, ma aveva importanza? Quante altre donne bionde, con gli occhi verdi e vestite con dei pantaloni potevano esserci in quella piccola cittadina?

«Sì, esatto. L'avete vista?»

Le guardie non risposero direttamente. Il loro portavoce – un'uomo alto, stempiato e vicino alla quarantina – ribattè alla sua domanda con un'altra domanda: «sei un suo compagno?»

Per un'istante Adrian fu stranito da quella richiesta, ma cos'altro avrebbe potuto fare se non corrisponderla? Non era esattamente un suo compagno, ma viaggiavano insieme. Probabilmente era solo una questione di interpretazione.

«Sì, perché?»

L'uomo annuì e fece un cenno ai suoi compagni, che rapidi si mossero verso di lui cogliendolo di sorpresa. Prima che potesse comprendere cosa stava accadendo si ritrovò entrambe le braccia strette nella presa di due diverse paia di mani; le guardie lo strattonarono in avanti e lui, già ostacolato dalla sua se pur lieve infermità, non riuscì in alcun modo a contrastarli. A nulla valsero le sue esclamazioni, dapprima stupite e confuse poi sempre più oltraggiate, né l'energia che impiegò per liberare i propri arti dalla cattura. I due uomini lo trascinarono in avanti finché non si trovò di fronte a quello che, ormai poteva intuirlo, doveva essere il loro capitano.

Il suo tono era ilare e minaccioso al tempo stesso quando gli disse: «perché allora vieni con noi.»

 

◄►

 

La porta della cella si aprì con uno schiocco e una guardia la spalancò; Adrian vi fu spinto dentro con malagrazia, ruzzolando a terra nell'incapacità di mantenere l'equilibrio. La visibilità, permessa solo dalle torce appese alle pareti del corridoio che fiancheggiava le celle, era appena sufficiente per rischiarare il fondo della sua, estremamente piccola. La serratura scattò una seconda volta, risuonando nel corridoio di pietra come un'annuncio: Adrian Hill era appena stato imprigionato.

Senza motivo.

Imprecando a denti stretti di rialzò in piedi, guardando in cagnesco le guardie allontanarasi, una delle quali si fermò in fondo al corridoio per rimanere di vedetta.

«Adesso mi spieghi come diavolo sei finito qui» sentenziò una voce vicina e impossibile da non riconoscere.

Adrian si voltò di scatto, guardando oltre le sbarre per osservare la persona rinchiusa nella cella adiacente alla propria. Un'improvviso – ma non inaspettato – moto di rabbia risalì dalla sua pancia, riversandosi nelle parole sarcastiche che non sarebbe riuscito a trattenere nemmeno volendo.

«Dimmelo tu: ho fatto il tuo nome e mi hanno braccato, trascinandomi fino a qui come se fossi un criminale.»

Era sempre stato assolutamente contrario alla violenza sulle donne, ma quando vide affiorare quel sorrisetto impertinente sul viso di Ravenna gli venne proprio voglia di prenderla a schiaffi.

«Ops» fu tutto quello che disse lei, senza nemmeno tentare di giustificarsi.

«Ops» ripetè Adrian, spazientito. «Ops. Siamo rinchiusi in una cella per colpa tua e tutto quello che sai dire è ops

«Non scaldarti tanto, usciremo di qui prima che tu te ne accorga» lo redarguì lei seccata, come se il legittimo sdegno di Adrian fosse solo estremamente noioso.

Il marinaio fu sul punto di rispondere in malo modo, le mani strette a pugno per trattenere almeno in parte l'ira che sentiva crescere dentro di lui. Invece inspirò profondamente, trattenne il fiato per qualche istante e poi soffiò l'aria fuori dalla bocca in una volta, rilassando i muscoli. D'un tratto tutta la sua ira si era raffreddata, era uscita dal suo corpo come se al suo interno si fosse ritrovata troppo stretta e avesse deciso di liberarsi in spazi più ampi. Checché ne dicesse Ravenna, Adrian non vedeva modo di uscire da quella prigione, perciò non gli restava altro che scoprire il perché ci fosse finito.

«Bene. Va bene. Almeno mi faresti la gentilezza di dirmi perché diavolo siamo finiti qua dentro?»

Ravenna, seduta in un angolo della sua cella, sospirò.

«Sono accusata di aver derubato il governatore della città» ammise senza remore.

No, non era possibile. Ravenna era stata la bambina più onesta che avesse mai incontrato, non poteva essersi trasformata in una ladra. Eppure... eppure era troppo calma per poter essere innocente. Ed era passato troppo tempo per poter essere certi di cosa fosse possibile e cosa no.

«È la verità?» Finì col chiederle, cauto.

La risposta arrivò immediata e cristallina.

«Sì.»

Per un attimo fu come se lei non avesse detto niente, come se Adrian stesse ancora aspettando una conferma o una smentita. La consapevolezza lo raggiunse gradualmente, strisciante come la più velenosa delle serpi. E, in effetti, Adrian iniziò a sentirsi un po' come se avesse appena ingoiato del veleno.

«Ti prego, dimmi che scherzi» espirò con un filo di voce, sgomento.

Ravenna non rispose, ma quel silenzio suonò tale e quale ad una confessione di colpevolezza.

«No» mormorò Adrian, cercando di negare a sé stesso l'evidenza dei fatti, sebbene non dubitasse affatto della verità. «No» ripetè, a voce un po' più alta. «No no no no no.... oh! Per tutti gli Dei, Ravenna!» Sbottò infine, allargando le braccia con un gesto di sdegno. «Almeno per un secondo, un solo dannato secondo, ti è mai passato per la testa che avessi il diritto di saperlo?»

Il suo nuovo scatto d'ira non ebbe alcun effetto su di lei, che si limitò ad alzare lo sguardo su di lui come a sfidarlo a continuare con la sua invettiva. Una sfida che Adrian accettò all'istante.

«Siamo in cella, Ravenna! Siamo rinchiusi qui, da criminali, da ladri, ci taglieranno le mani per questo!»

«Nessuno taglierà niente a nessuno» lo contraddisse lei, perfettamente calma.

Una calma che ebbe il preciso effetto di incrementare ulteriormente il furore di Adrian. «Smettila di essere così tranquilla!» Berciò. La voleva vedere spaventata, contrita per il disastro in cui li aveva cacciati, o almeno arrabbiata di riflesso alla propria stessa collera. Voleva una reazione, perché quel suo essere serafica lo stava facendo impazzire. Era come se non le importasse. Era come se...

«Oh, per i Quattro Mari... ti è già successo, vero?» Azzardò in un soffio.

Ravenna abbassò lo sguardo; si alzò in silenzio, pulendosi le mani e sistemando il bordo della casacca di pelle.

«Sì, e come vedi ho ancora entrambe le mani.»

Adrian aveva pensato che avere conferma del suo sospetto lo avrebbe fatto infuriare ancora di più; invece, con sua somma sorpresa, si scoprì rasserenato dall'idea che, se lei era già riuscita a salvarsi una volta, poteva riuscirci ancora. E lui con lei.

Privato nuovamente della sua ira, Adrian si sentì improvvisamente stanco, per molti versi rassegnato. Si appese alle sbarre che dividevano la sua cella da quella di Ravenna, sospirando esausto, la nuca che pulsava insistentemente. Era confuso, tutta quella faccenda era un maledetto casino. Tutta quella mattinata era stata un maledetto casino. Tutti quei dannati giorni fin da quando lei era sbucata sul ponte della Sposa Tradita erano stati dei maledetti casini, e iniziava a sentirne le conseguenze. In quel momento si sarebbe dovuto trovare su una nave diretta alla Costa Meridionale, a cazzare funi e ruotare pennoni, bere sidro e regolare le vele. Rilassato. Pagato. Libero.

«Okay, senti: puoi farci uscire?» Domandò sfinito.

«Sì.»

«Allora fallo.»

Ravenna annuì, ma non si mosse dalla posizione in cui era.

«Che aspetti?» Insistette lui, impaziente.

«Il momento giusto» replicò lei.

Adrian non poté fare a meno di guardarla storto: per come la vedeva lui, qualsiasi momento era giusto per sfuggire ad una mutilazione.

Il silenzio regnò sovrano per un tempo indefinito, impossibile tenerne il conto. Le celle erano senza finestre, il sole non poteva essere loro d'aiuto per capire se fossero trascorse ore o minuti quando la guardia fece un giro di ricognizione nel corridoio, percorrendolo avanti e indietro e lanciando strane occhiate ai due prigionieri. Sia Adrian che Ravenna si erano di nuovo seduti appoggiati alle sbarre, schiena contro schiena, ma se il movimento del secondino non destò sufficiente interesse per intaccare il velo di noia dentro cui era avvolto il marinaio, parve invece attirare l'attenzione della ladra; Ravenna attese che il loro sorvegliante oltrepassasse le loro celle, quindi si alsò, si spazzolò i pantaloni e si posizionò sul fondo, contro la parete, in un atteggiamento studiatamente distaccato.

«Adesso reggimi il gioco. Se vuoi uscire di qui non contraddirmi e non parlare di tua iniziativa» lo avvertì a voce bassa e svelta.

Adrian stava per ribattere, ma la sua replica fu stroncata sul nascere dall'apparizione di una seconda guardia, diversa dalla precedente. La guardò fermarsi di fronte alla cella di Ravenna, lanciare a lui solo un'occhiata rapida e poi tornare svelta a concentrarsi sulla ladra.

«Non volevo crederci quando me l'hanno detto» esordì, allibendo Adrian. Stava parlando a Ravenna come se la conoscesse. Era possibile?

Inspirò piano, realizzando la verità: certo che era possibile. Lui non sapeva niente di lei e della vita che aveva condotto negli ultimi diciassette anni, ogni giorno che passava lo dimostrava con crescente evidenza. Ma il ragazzo non poteva essere più che ventenne e, a quanto pareva, era un giovane membro della guardia cittadina: come aveva fatto una ladra quasi trentenne a divenire amica di una persona simile?

«Liven Hywel» scandì Ravenna, sorridente. «O dovrei dire ser Liven Hywel?» lo canzonò.

«Sono una guardia, non un cavaliere» ammise questi con una smorfia. «E tu non saresti dovuta tornare qui.»

«Cause di forza maggiore» ribattè lei evasiva. «L'ultima volta che ti ho visto avevi deciso di andare nella capitale, com'è che sei rimasto qua?»

«Non cambiare argomento. Ti taglieranno le mani, Ravenna.»

Ad Adrian sfuggì un cinico schiocco di lingua che fece convergere momentaneamente l'attenzione su di lui. Incrociò per primo lo sguardo del secondino, poi quello di Ravenna che gli risultò estremamente eloquente.

Non parlare di tua iniziativa.

Non capiva bene la necessità di un silenzio del genere, ma non aveva altra scelta se non quella di fidarsi di lei; poteva iniziare a dubitare della lealtà dell'amica, ma non avrebbe mai dubitato del suo desiderio di conservare entrambe le sue mani. Se non intervenire era il prezzo necessario per poter sperare di sfuggire alla punizione, lo avrebbe pagato volentieri.

Fece spallucce e abbassò lo sguardo al suolo, iniziando ad osservare il gioco di ombre proiettato dalle fiamme delle torce sulla pietra.

«Vero» riprese Ravenna. «Lo faranno, se potranno. E io preferirei evitarlo.»

Il sorriso di Hywel non era bieco come quello della guardia che aveva catturato Adrian, pareva invece compassionevole, quasi empatico.

«E come speri di fare? Eri stata brava a non farti prendere, l'ultima volta, ma ora sei imprigionata.»

«Vero anche questo. Ma guarda caso la mia zelante sentinella è un vecchio amico che mi deve un favore.»

La frase di Ravenna ebbe effetto: il secondino esitò, inspirando a fondo, prendendosi troppo tempo per rispondere perché il suo potesse passare come freddo distacco.

«Non siamo mai stati amici» precisò.

«Questo non toglie che tu mi debba un favore.»

Lo scambio di battute era d'improvviso divenuto estremamente interessante per Adrian, che con gli occhi fissi sul pavimento non perdeva una sola parola che veniva pronunciata. Era questo il piano di Ravenna? Indurre Hywel a liberarli in nome di un vecchio debito?

«Troverò un modo per sdebitarmi, ma adesso non posso fare niente per te.»

Il tentativo di razionalizzazione di Hywel non sarebbe andato a buon fine, Adrian lo sapeva. E se la guardia conosceva Ravenna almeno la metà di quanto dava a vedere, ne era consapevole anche lui.

«Curioso che tu lo dica, perché io un modo l'avrei già trovato. Non devi liberarmi, ma potresti, ecco... potresti andare a parlare col governatore. Digli che gli restituirò ciò che gli ho sottratto e che mi pento di ciò che ho fatto.»

«Non ti crederà mai. E, onestamente, non ti credo nemmeno io.»

Ravenna increspò le labbra e si strinse nelle spalle, come se l'essere stata scoperta a mentire in modo tanto evidente non la turbasse minimamente.

«Ho esagerato, vero?» domandò retorica, senza nemmeno tentare di difendere la sua menzogna.

Lentamente, però, il calore della sua impertinenza divenne più freddo, l'estate nei suoi occhi divenne inverno e l'aria stessa intorno a lei parve congelarsi in una morsa di tristezza. La sua espressione si fece via via più assorta; il sorriso che la animava sempre scomparve, lo sguardo acuto e penetrante si riempì di indecisione e, quando puntò per un'istante lo sguardo su Adrian, a lui parve di scorgervi anche del senso di colpa.

«Non... per favore...» balbettò, cercando le parole giuste. Il profondo cambiamento che aveva subito immobilizzò i due uomini, in attesa di capire quali pensieri si fossero fatti strada nella sua mente conducendola a quella cupa desolazione. «Per favore, Liven. Va' dal governatore...»

«Non ti lascerà mai andare, Ravenna» la interruppe lui, insistendo su quella semplice verità con più gentilezza, quasi con pietà.

«Lo so. Lo so, ma... chiedigli di rilasciare almeno lui. Ti prego.» La sua voce tremava lievemente mentre faceva cenno col capo in direzione di Adrian. «Lui non ha fatto niente. Sì è solo trovato nel posto sbagliato con la persona sbagliata.»

Il marinaio alzò rapido lo sguardo su di lei, smarrito. Fino a pochi minuti prima le avrebbe gridato che era giusto, che lui aveva più diritto di lei d'essere risparmiato. Ma in quel momento, quando lei aveva pregato che lui venisse graziato, sfruttando la sua unica possibilità di fuga per concergli la speranza di essere liberato, non gli sembrava più così giusto. Dalle sue labbra dischiuse non uscì una sola parola, la voce intrappolata nella gola serrata dove il cuore batteva in preda all'angoscia, ma il suo stomaco di contorceva in preda al timore, combattuto.

«Ravenna...» tentò Liven, ma al pari di Adrian non sembrava sapere cosa dire.

«Ti prego» ripetè lei, alzando lo sguardo per svelare tutta la determinazione che lo animava e la supplica che lo spegneva.

Liven sospirò e, incapace di reggere quel contato visivo, fu il suo turno di cedere e posare gli occhi sul pavimento, sconfitto.

«Va bene» disse infine. «Ci proverò.»

Ravenna riuscì ad aprirsi in un mesto sorriso. «Grazie» disse prima di abbassare la testa e stringersi le braccia intorno al corpo, afflitta e sollevata al tempo stesso. Liven si allontanò e si guardò indietro una sola volta, avvilito, poi scomparve alla vista lasciando dietro di sé una quiete tormentata, carica di gravità.

«Deve esserci un altro modo, deve...» tentò Adrian di slancio, guardandosi febbrilmente intorno nell'estremo tentativo di vedere qualcosa che gli fosse sfuggito prima, qualsiasi cosa che avesse potuto dare una speranza ad entrambi.

«Certo che c'è» affermò Ravenna in tono d'ovvietà.

Adrian si arrestò, lo sguardo fisso su una delle torce appese alla parete.

«Pensi davvero che voglia farmi tagliare le mani?»

Era tornata l'estate, torrida e afosa.

«Che... cosa...» balbettò Adrian confuso, voltando la testa nella sua direzione con estrema lentezza. «Cosa... stai dicendo?»

Ora che la vedeva di nuovo in viso notò che tutto lo sconforto della sua espressione era svanito, rimpiazzato da un pratica neutralità che sembrava non essere mai svanita.

«Aspetta, non avrai...» Ravenna sembrò capire solo in quel momento che Adrian, a differenza sua, non aveva recitato. Il marinaio vide il suo volto attraversato da un'accozzaglia di emozioni diverse prima che tornasse impenetrabile; lei accorse rapida alla porta della cella per controllarne la serratura, lasciano la propria frase incompleta, ma nessuno avrebbe avuto difficoltà a capire come si sarebbe conclusa.

«È chiusa, nel caso non l'avessi notato» commentò sarcastico, ancor più stizzito nel constatare che lei non avesse pensato, nemmeno per un secondo, che lui avrebbe potuto crederle ed essere ferito dalle sue menzogne.

«Oh, no» lo contraddisse. «Non esistono porte chiuse.»

Si sfilò i due bastincini di metallo dai capelli, che le ricaddero disordinatamente sulle spalle; concentrata sul suo lavoro non si accorse del controverso interesse con cui Adrian osservava i suoi movimenti, quel continuo girare e spingere con cui lei stava cercando di forzare la serratura tramite i due lunghi aghi. Per quanto fosse offeso non poteva negare di trovare affascinanti quei gesti, né di pensare al contempo a come e quando potesse averli imparati. Quante volte aveva eseguito lo stesso procedimento? Da quanto tempo era la ladra che aveva appena scoperto che fosse?

Uno scatto improvviso lo fece sobbalzare e lo riempì di stupore quando Ravenna aprì la porta e uscì dalla cella, libera. Si affrettò alle sbarre della propria mentre lei compiva la stessa azione, iniziando ad armeggiare con la serratura che ancora lo teneva prigioniero.

«Dovevo farlo allontanare. Lo capisci, vero?» disse lei inaspettatamente, remissiva.

Adrian non rispose. Non era certo di cosa sarebbe uscito dalle sue labbra se solo le avesse aperte, e per il momento voleva solo uscire da quella dannata cella e scappare via, il più lontano possibile da quella condanna a mutilazione.

Un secondo scatto avvertì che anche quel blocco era stato forzato; Adrian si spinse fuori di slancio mentre Ravenna apriva la porta, incamminandosi svelto lungo il corridoio malamente illuminato. Lei lo seguì immediatamente e lo superò, limitandosi ad ordinargli di seguirla. Lui tutto avrebbe voluto meno che assecondarla ancora, ma non era certo di conoscere la strada per giungere all'esterno della prigione, posta nei sotterranei del piccolo palazzo del governatore.

Dopo una serie di curve arrivarono alla porta che conduceva al cortile interno del palazzo, lo stesso da cui erano entrambi passati quand'erano stati catturati e che certamente era disseminato di guardie. Ravenna la socchiuse, dando una sbirciata all'esterno.

«E adesso cosa facciamo, genio?» sbuffò Adrian prima di riuscire a trattenersi.

«Adesso corriamo» rispose lei, apparentemente ignorando l'ironia nella sua voce. «Ci sono tre cavalli a poca distanza: corri, prendine uno e cavalca dritto fuori dal cancello. Cercheranno di chiuderlo, quindi fai in fretta.»

Dunque era quello il grande piano? Correre a gambe levate e cavalcare pregando che il cancello non gli piombasse in testa mentre cercavano di attraversarlo?

«Pronto?»

Dubitava che sarebbe mai stato pronto per una fuga del genere. Se fino a poco prima credeva che Ravenna avesse quanto meno un piano, si rese conto che in realtà si stava affidando all'improvvisazione e alla fortuna. Una fortuna che non sembrava assisterlo da diversi giorni.

Ma non potè che annuire, sconfitto.

Ravenna spalancò la porta ed entrambi uscirono alla luce del tardo pomeriggio, correndo rapidi verso la meta. Le grida risuonarono immediatamente in tutto il cortile, tra urli di spavento e ordini di chiudere il cancello d'ingresso; Adrian si aggrappò alla sella del cavallo più vicino a lui, issandosi con una poderosa spinta delle gambe, e diede di redini non appena fu in posizione, spronando il destriero ad una folle corsa verso la libertà. Il rumore degli zoccoli si sovrappose a quello metallico del cancello, di millimetro in millimetro sempre più vicino al suolo.

Fu un attimo: Adrian si abbassò, udì la coda del cavallo colpire l'inferriata e lanciò un grido di esultanza, spronando ulteriormente il destriero. Si voltò e vide Ravenna cavalcare di fianco a lui, i capelli scossi dal vento e un sorriso sulle labbra; mai come quella volta si sentì tanto libero né tanto grato di esserlo.

Per le strade della città uomini e donne si spostavano svelti al loro passaggio, guardando i due fuggiaschi con occhi curiosi. Superarono le ultime case e si ritrovarono a cavalcare sulla prateria che li separava dalla foresta, euforici, e Adrian diede aria ai polmoni prorompendo in un nuovo grido d'entusiasmo. Rideva ancora quando smontò di sella, ormai nella foresta, mentre il sole tramontava oltre le cime degli alberi, dimentico di qualsiasi ostilità verso la donna al suo fianco.

«È stato... incredibile» esclamò inebriato.

«Lo so» concordò Ravenna. «La libertà sembra ancora più dolce quando hai provato la prigionia, non importa quanto breve.»

«Miei Dei... ma è sempre così?» Il rossore causato dal vento sulle sue guance risaltava ancora di più accostato al suo ampio sorriso.

«Be', di solito non mi catturano» rispose lei, ugualmente arrossata, trattenendo le redini del suo cavallo mentre questo si impennava nitrendo.

La nuova risata di Adrian fu naturale e vigorosa; non sapeva esattamente perché trovasse la cosa tanto divertente, ma avvertiva distintamente che dopo tutto quello che era appena successo ridere fosse l'unica cosa giusta da fare. Si sentiva come se in quell'esatto momento avesse potuto fare suo il mondo intero, come se niente avesse potuto fermarlo. Si sentiva potente e pervaso da un'eccitazione che mai aveva provato in egual misura, pronto a rimontare in sella e cavalcare ancora per andare ovunque avesse voluto andare, per fare qualsiasi cosa avesse voluto fare. Si sentiva senza limiti. Non era importante capire il perché il suo sangue ribolliva e i suoi sensi erano tanto accesi che ogni colore gli sembrava più intenso, come il verde degli occhi di Ravenna che parevano di nuovo portare l'estate in quella grigia foresta d'inverno. Intorno a lui era tutto più vivo e reale, era nitido e definito, era, pensò Adrian, il modo in cui un cieco avrebbe visto il mondo se avesse potuto guardarlo per un solo secondo.

Era la pioggia dopo la siccità, era il sole dopo la tempesta, era il ritorno in superficie dopo troppo tempo sott'acqua.

Era qualcosa di noto ma mai davvero conosciuto, visto come per la prima volta dopo che il velo che lo oscurava era caduto. Era la libertà, la libertà dopo la prigionia. Un unico istante di libertà assoluta dopo un'intera vita, che in quel momento gli appariva come se fosse sempre stata striata da lunghe sbarre di scuro metallo. 

 

Capita raramente che io lo dica, ma questo capitolo mi piace XD Non era stato progettato per venire esattamente così, ma mentre lo scrivevo l'ispirazione ha avuto uno dei suoi rari picchi di intensità e quindi... be', ecco qui! Il fianale è stato il problema maggiore, ho faticato davvero ha trovare le parole, ma ne sono abbastanza soddisfatta.
Non mi resta che chiedere a voi cosa ne pensate, se vi è piaciuto, se vi ha delusi, se vi ha fatti ridere o se anche voi, come Adrian, avete avuto per un momento la voglia irrefrenabile di strangolare Ravenna.
Ringrazio come sempre tutti quelli che mi sono stati vicini, che mi hanno spronato e dato fiducia con le loro parole. Non ho ancora capito se la mia è insicurezza o eccessiva autocritica (più probabilmente un mix di entrambe le cose) ma i vostri apprezzamenti mi risollevano il morale e mi gasano. 
Concludo con un grazie anche a chi semplicemente si ferma qui per leggere, augurandomi che nonostante il loro silenzio la storia gli stia piacendo!

Au revoir,
Astrid

 

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Capitolo 5
*** I rovi di more ***




#4. I rovi di more


19 anni prima

 

Quell'autunno le foglie avevano iniziato a cadere molto tardi, come se avessero tentato invano di rimanere appigliate ad un'estate ormai giunta al termine. I rami si spogliavano lentamente, il suolo si ricopriva delle tonalità del giallo e del bruno, mentre le piogge stagionali cadevano leggere creando un sottile velo di fango tra le strade di Cerys.

Su quel fango, Ravenna saltellava di primo mattino diretta al roveto appena fuori dal villaggio, salutando con l'allegria e l'innocenza tipica dei suoi nove anni tutti i mercanti che preparavano i propri banchi per la fiera. Ignara dello sguardo curioso di un bambino completamente spettinato, avanzava reggendo un cestino di vimini appeso al suo avambraccio e canticchiando una canzoncina:

 

Il bambino solitario che era nato a mezzodì,

se ne stava tutto solo sull'erba a singhiozzare,

mentre gli altri gli gridavano “via di qui! Via di qui!”

Ma stava fermo senza alcuno che l'andasse a consolare.

 

Passo dopo passo si lasciò alle spalle le case e le strade del villaggio, procedendo lungo il sentiero sterrato che conduceva al piccolo frutteto della comunità. Si fermò di fronte ad un imponente rovo, dove more grandi quasi come ciliege crescevano rigogliose come in nessun altro luogo di tutta la Costa Settentrionale.

 

Per i campi verdi al sole egli correva a perdifiato

e sugli alberi si arrampicava verso le nuvole nel cielo.

Finché un giorno, tra le fronde, scorse un prato incantato

dove fate danzavano allegre volando di stelo di stelo.

 

Il cestino giaceva a terra mentre Ravenna raccoglieva i frutti più vicini a lei, accogliendo ogni piccola manciata dalle sue piccole mani già sporche di succo.

Adrian la osservava, nascosto dietro un albero, mentre era era costretta a spingere le sue dita sottili sempre più a fondo tra i rovi, graffiandosi fino ai polsi. Non un lamento usciva dalla sua bocca; al contrario, continuava a cantare con voce infantile quella filastrocca che lui non aveva mai udito.

 

Così egli andò verso il verde smeraldo di quella brughiera,

dalle fate fu chiamato per unirsi al loro canto,

e con loro rimase tra le luci, i colori, i fiori in vasta schiera

il bambino solitario che non ebbe mai più pianto.

 

Adrian si avvicinava silenzioso tra un verso e l'altro; se avesse preso qualche mora dal cestino Ravenna non avrebbe di certo fatto storie, erano solo dei piccoli frutti di cui ce n'erano a centinaia nel roveto. Il rumore prodotto dalle mani della bambina mentre spostavano i rovi coprì il suono nei suoi passi, permettendogli di arrivarle alle spalle senza che lei si accorgesse di nulla; ma, proprio mentre si piegava e infilava le dita ladre nel cestino, Ravenna si voltò per scaricarvi un'altra manciata di frutti, cogliendolo sul fatto. Per un attimo la situazione si congelo, mentre lei realizzava cosa stava accadendo e Adrian cercava una via di fuga. Alla fine, con movimenti goffi e frettolosi, lui afferrò il manico e si voltò, correndo a perdifiato proprio come il bambino solitario della filastrocca.

Ravenna si lanciò all'inseguimento. «Adrian!» Gridò. «Adrian!» Urlò ancora. Ma, sebbene svantaggiato dall'ingombro del cestino, Adrian era più veloce di lei, che non era mai stata particolarmente rapida della corsa. Ben presto il bambino scomparve alla vista insieme alle more che con tanta fatica lei aveva raccolto, ma per Ravenna la partita era ancora tutt'altro che chiusa. Le ci volle tutta la mattina – una mattina trascorsa a infilare la testa nei vicoli più stretti del villaggio, sotto ogni tavolo del mercato e in ogni anfratto del granaio comune, persino al vecchio mulino dove nessuno andava mai perché tutti sapevano che fosse pericolante – prima di riuscire a trovare il ladro. Vide solo un baluginio di stoffa blu spuntare da sotto un tavolo della via del mercato, nello spazio lasciato aperto dai tessuti esposti che pendevano oltre il bordo. Stoffa blu grezza tra sete rosa e dorate, verdi velluti e pizzi bianchi e ocra. Sorrise soddisfatta e si avvicinò con piccoli saltelli, quindi scostò la tenda di seta e guardò Adrian con occhi di fuoco, mentre il volto di lui si trasfigurava in preda all'orrore dell'essere stato trovato.

«Tu» sbraitò, la rabbia nella sua voce in netto contrasto, quasi ridicolo, col timbro dolce e cristallino. «Sei cattivo, sei cattivo, sei cattivo!»

Adrian alzò un braccio per poteggersi dalla tempesta di pugni che Ravenna iniziò a tirargli, pugni che non avrebbero fatto male nemmeno alla più delicata delle creature.

«Ehi, ti vuoi calmare?» Grugnì lui.

«Calmare?» Ravenna lo guardò incredula, gli occhi spalancati ma le labbra tirate dallo sdegno. Portò entrambe le braccia davanti agli occhi di Adrian, aprendo le dita e mostrandogli palmi e dorsi delle mani. «Guarda!» Strillò. A lei sembrava una ragione più che sufficiente per essere arrabbiatissima, una ragione che non necessitava di spiegazioni.

E Adrian non ne ebbe bisogno. «Dovevi stare più attenta» constatò distaccato, senza un briciolo di senso di colpa.

Ravenna gonfiò le guance a dismisura, aggrottando le sopracciglia con una furia che aveva un qualcosa di singolare sul suo viso dai tratti così dolci. Allungò una mano per prendere il cestino, che tirò a sé con inusuale aggressività, sebbene ormai fosse irrimediabilmente vuoto.

«Spero che ti facciano stare male!» gli augurò Ravenna, quindi se ne andò sbattendo i piedi per terra tanto che il fango schizzò di qua e di là da sotto le sue scarpette. Glial'avrebbe fatta pagare, di questo ne era sicura, ed era l'unica cosa che le impediva di mettersi a piangere.

 

◄►

 

Ravenna non era veloce nella corsa né rapida nei movimenti, ma era furba.

Il giorno successivo al furto delle more non tornò al roveto; passeggiò invece per la via del mercato, sorridendo come se fosse la più splendida delle giornate e non ci fosse mai stata alcuna ruberia ai suoi danni. Quando finalmente vide Adrian aggirarsi tra le bancarelle, continuò con la sua finta facendo ben attenzione a non perderlo mai di vista. Il momento propizio giunse quando il fornaio – un uomo sulla cinquantina che regalava spesso le piccole pagnotte avanzate ai bambini del villaggio – donò al bambino un pezzo di pane di segale. Ravenna si avvicinò furtiva, nascondendosi ovunque ci fosse un riparo sufficiente a coprire la sua esile corporatura, ma fu così precisa e accorta che Adrian non ebbe il tempo di fare nemmeno un morso; gli sfrecciò di fianco, strappò il pane dalle sue dita e si fermò a qualche metro di distanza sorridendogli vittoriosa. Un attimo dopo stava di nuovo correndo per scappare da lui, che tuttavia la rincorse per breve tempo fino a quando lei riuscì a nascondersi così bene che non potè più trovarla. In quello, almeno, era molto più brava di lui.

Il giorno successivo, sebbene secondo Ravenna fossero pari, Adrian decise di vendicarsi della vendetta; rubò di nuovo le more, rendendo vane le numerose attenzioni che la bambina aveva prestato per evitare che l'episodio si ripetesse. Dovette di nuovo andare a cercarlo per quasi tutto il villaggio, trovando quella volta in un vicolo molto stretto tra due botteghe, il cestino già completamente svuotato. Passò un'altra notte e lei pensò che, se invece di ripagarlo con la stessa moneta avesse abbandonato quell'assurdo gioco, forse anche lui avrebbe smesso di tormentarla. Ma si sbagliava: il cestino sparì per la terza volta, e per la terza volta lei lo ritrovò vuoto tra le mani di Adrian. Era così arrabbiata da avere le guance rosse e il fiato corto, ma nessuno degli improperi che gli riversò contro la faceva sentire meglio, né riusciva a calmare la furia che sentiva trasudare dalla propria pelle.

«Perché lo hai fatto? Perché fai così, Adrian?» gridò, fuori di sé.

Adrian scrollò le spalle, spiazzato dalla domanda ed incapace di darvi una risposta. Questo non fece che esasperare Ravenna ancora di più, portandola ad un punto cui non era mai giunta prima.

«Ti odio, Adrian!»

Quelle parole, pronunciate con una tale rabbia da far tremare tutto il corpo di Ravenna, furono per lui come uno schiaffo in pieno volto, violento e inaspettato. Aprì la bocca per ribattere anche se non aveva in mente nulla da dire, la voce rimasta impigliata al groppo che si era formato nella sua gola e che aveva il sapore del pentimento e della mortificazione, ma lei si stava già allontanando con delle lacrime agli occhi che lui non poteva vedere.

L'afflizione non era una cosa che si addicesse ad un bambino del suo genere, eppure era proprio così che si sentiva: afflitto. Mentre lentamente si rendeva conto di aver oltrepassato il limite, il pensiero di come farsi perdonare cercava di farsi strada tra il suo orgoglio e il suo rammarico. Non poteva restituire le more che le aveva rubato, non poteva guarire i graffi che lei si era procurata nel coglierle. Poteva chiederle almeno scusa, ma nemmeno in quello era mai stato molto bravo.

La notte non gli portò alcun consiglio; quella mattina si svegliò molto presto senza alcuna idea, oppresso solo dalla persistente coscienza di aver fatto qualcosa di brutto a cui doveva rimediare. Una sensazione che non lo abbandonò nemmeno quando iniziò a girovagare per le strade di Cerys, nella speranza di trovare una qualche distrazione che gli risollevasse il morale. D'un tratto, colto dall'esasperazione, si fermò di colpo in mezzo ad una via e calciò un sasso contro il muro di una casa: dunque era questo il senso di colpa? Era così che ci si sentiva quando ci si rammaricava per un'azione compiuta, per uno sbaglio commesso quando ancora non si credeva di essere in errore? Ne aveva sentito parlare, ma non l'aveva mai sperimentato sulla propria pelle. Era orribile, era angosciante, era... sbagliato. L'istinto di Adrian fu quello di correre, scappare lontano dalla propria coscienza; un'impulso che per un attimo venne assecondato dai suoi piedi, improvvisamente rivolti verso la boscaglia fuori dal villaggio, e dalla sua testa, anch'essa girata verso la via di fuga più vicina. Il sentiero lo avrebbe condotto fuori da Cerys, lontano da Ravenna e dal senso di colpa, dritto verso...

L'idea lo colpì fulminea, attraversando la sua mente con una rapidità sconcertante. Adrian si concentrò per non lasciarsela sfuggire, scivolare via lasciandolo di nuovo senza una soluzione al problema. Sapeva – ne era intimamente convinto per chissà quale ragione al mondo – che doveva far sorridere Ravenna per potersi liberare di quel famigerato senso di colpa. Un suo semplice sorriso, ne era certo, avrebbe potuto riparare ogni cosa. Così corse, corse veloce verso la sua meta, deciso più che mai a tornare vittorioso.

 

Quando Ravenna si svegliò il suo umore era nero, così nero che, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a rilassare le sopracciglia, costantemente piegate l'una verso l'altra. Nemmeno le sue labbra volevano saperne di incresparsi, congelate in un cipiglio decisamente contrariato. Non volle uscire, non volle fare il solito giro per il mercato né, tanto meno, andare a raccogliere le more; l'unica cosa che desiderava era essere lasciata in pace, smettere di sentirsi chiedere dal padre cosa turbasse la sua piccolina. Per questo fu per lei una liberazione quando Gren uscì di casa, lasciandole un bacio sulla fronte e lo sguardo bonario colmo di tenerezza. La pace, però, non durò a lungo; l'insistente bussare di un pugno contro il legno la distolse dai suoi cupi e inconcludenti pensieri, innervosendola al punto che spalancò la porta d'ingresso come se ad aprirla fosse stato un uragano al pieno della sua potenza.

Di fronte a lei, Adrian se ne stava sconvolto e speranzoso, mostrandole sulla mano piena di graffi una singola mora. In reltà, i graffi erano ovunque: sui polsi, sulle braccia, persino sul viso e sui vestiti. Sembrava essere caduto dentro i rovi e, forse, era proprio ciò che era successo. L'immagine si scolpì pezzo per pezzo nella mente di Ravenna, mentre valutava l'esatto significato della scena che le si parava davanti.

«Per... per te» balbettò il bambino, insicuro.

Ravenna abbassò nuovamente lo sguardo sulla mora solitaria al centro del suo palmo, il cui senso ora le parve chiaro, quasi ovvio.

«Volevo prenderne di più, ma... sono caduto, e... però ho preso questa.»

Il suo impaccio era un segno evidente dello sforzo che stava compiendo; non era da lui chiedere scusa, il solo fatto che stesse tentando di farlo poteva definirsi una dimostrazione concreta del suo rammarico. A Ravenna per poco non scappò un sorriso, che nascose prontamente stringendo le labbra: non voleva ancora dargli quella soddisfazione. Con un gesto rapido prese la mora e se la infilò in bocca, facendo un passo indietro e chiudendo la porta con una spinta. Incapace di trattenersi ancora si appoggiò alla porta prorompedo in una risatina infantile: Adrian Hill che le portava un'offerta di pace, che cercava il suo perdono trovandosi costretto ad ammettere di aver fatto una cosa sbagliata. Se non l'avesse visto non ci avrebbe creduto, ma lui era stato proprio davanti ai suoi occhi fino ad un attimo prima. L'espressione contrita, speranzosa, insicura e impaziente; la mano aperta a porgerle quella mora, quel piccolo graffio proprio sulla guancia destra, i vestiti rovinati da minuscoli ma numerosi squarci. Quegli occhi grandi, azzurri, che per una volta non la stavano prendendo in giro ma pregando per una seconda possibilità. All'improvviso la risata divenne un sorriso affettuoso, comprensivo, indulgente. Il sapore di quella mora divenne più dolce e intenso: ne aveva mangiate a centinaia, ma non era sicura di averne mai asseggiata una dal gusto migliore.

Riaprì la porta fissando Adrian con sguardo truce, lui che era rimasto immobile fuori dall'uscio a fissare il suolo vicino ai suoi piedi, demoralizzato. Rapida come una lepre gli saltò al collo, stringendolo in un abbraccio commosso che nascondesse ciò che realmente il suo viso voleva mostrare; gli schioccò un bacio sulla guancia, improvvisamente dimentica di tutto l'odio che aveva provato nei suoi confronti.

E se anche Adrian si allontanò di un passo, si pulì la guancia e poco mancò che rabbrividisse per l'orrore di quella dimostrazione di affetto tipica delle femmine, non poté evitare ai propri zigomi di diventare più rossi di una mora quando incrociò il sorriso che Ravenna gli stava finalmente rivolgendo.

 

◄►

 

Oggi

 

Il fuoco crepitava mentre grigiastre volute di fumo salivano oltre le chiome degli alberi, guidando lo sguardo di Adrian attraverso le fronde fino al cielo cosparso di stelle.

Ravenna aveva insistito per liberare i cavalli, asserendo che in questo modo avrebbero depistato degli eventuali inseguitori e avrebbero dato meno nell'occhio una volta giunti ognuno alla propria meta. Adrian non aveva saputo cosa obiettare, eppure seduto di fronte al fuoco si domandava se non sarebbe stato meglio tenere le due cavalcature ancora per un po', almeno il tempo di uscire dalla foresta.

«Senti... non so se saperlo ti farà sentire meglio o peggio, ma dicevo sul serio nella cella» esordì lei all'improvviso, distogliendo Adrian dai suoi pensieri. «Avevo un piano, ma se non l'avessi avuto... non ti avrei mai fatto punire per una colpa che era solo mia.»

Il marinaio, indotto dalle parole dell'amica, rivide ciò che era avvenuto nelle celle di Hyssen come se appartenesse ad un'altra vita, privato del rancore che aveva iniziato ad avvertire nei suoi confronti. Seduto sul moncone di un tronco caduto, si domandò quanto diritto avesse di scagliarsi contro di lei ben sapendo che ciò che aveva fatto era stato solo per salvare entrambi; la verità era che si era sentito tradito senza sapere realmente il perché, conscio solo di aver dato fiducia a parole in cui Ravenna non gli aveva mai chiesto di credere. Per questo non si stupì quando non avvertì alcun sollievo a quella confessione. Si rese conto che se aveva creduto alla sua farsa era perché già sapeva che sarebbe potuta essere vera. L'onesta bambina di Cerys poteva esseri trasformata in una fuorilegge, ma la slealtà era un comportamento che non le sarebbe mai appartenuto: tutto si sarebbe potuto dire di lei tranne che non fosse leale verso chi amava, che fosse un vecchio amico ritrovato per caso o un padre scomparso da anni.

«Lo so. O almeno credo» ammise. «Mi sono arrabbiato parecchie volte nelle poche ore che abbiamo trascorso in cella, ma ora non so più quante di quelle volte avessi ragione di farlo.»

«Tutte e nessuna» rispose ambiguamente Ravenna. «Avevi i tuoi buoni motivi, ma solo perché non conoscevi tutta la verità.»

«E qual è la verità?» ribattè immediatamente Adrian, voltandosi verso di lei.

«La verità è che ho derubato il governatore, come ho derubato molte altre persone.» Non c'era rimpianto della sua voce, solo la calma di chi è colpevole e accetta la propria colpevolezza senza rimorsi. «Sono una ladra.»

Era una ladra.

Per alcuni istanti avvertì nuovamente quell'infondato senso di tradimento, come se negli ultimi diciassette anni lei non sarebbe dovuta cambiare. Era un pensiero così sciocco... lo sapeva. Era cresciuta, così com'era cresciuto lui. Era stata pura questione di fortuna se lui era diventato un marinaio e non un pirata, ma sarebbe potuto accadere. Erano cresciuti diventando persone che mai nessuno avrebbe immaginato potessero diventare, ma l'avevano fatto.

Era una ladra.

Era una donna.

Era cresciuta.

Si passò una mano sul volto e decise che non aveva forze sufficienti per districarsi tra quei pensieri, non in quel momento, né più per affrontare un simile argomento.

«Cos'era successo?» domandò quindi, esausto, cambiando discorso. «Ricordo che stavamo scappando e che qualcosa mi ha colpito in testa. Sono svenuto e mi sono svegliato in casa del guaritore.»

Che ha pagato lei, ricordò con una fitta di fastidiosa riconoscenza.

Lei schioccò la lingua, un gesto che le aveva già visto fare quando c'era qualcosa che avrebbe preferito tacere. «Non fare domande di cui non ti piacerebbe la risposta.»

Come in ossequio ad un istinto primordiale, le orecchie di Adrian si tesero e la sua curiosità si affilò, ma anche la sua parte razionale risuonò di un allarme che lo avvertiva di fare attenzione; se lei aveva detto che non gli sarebbe piaciuto, probabilmente lo avrebbe del tutto odiato.

«Quello che mi piace o non mi piace lascialo decidere a me. Rispondi» sentenziò comunque, benché l'apprensione che provava avesse radici molto profonde.

Lei lo osservò accuratamente, come se volesse valutare l'onestà delle sue parole e quanto, davvero, Adrian desiderasse conoscere la verità. Increspò le labbra, indecisa. «Come vuoi» gli concesse infine, inarcando entrambe le sopracciglia. «Non la smettevi più di correre. Se fossimo usciti dalla foresta saremmo stati bersagli facili, ed era proprio quello che stavi cercando di fare tu. Un sasso mi è sembrato meglio di una freccia.»

Per un momento le sue parole rimasero sospese tra i pensieri di Adrian, che aggrottò la fronte mentre tentava di decifrare il messaggio. Furono necessari diversi secondi perché la cognizione del loro significato affiorasse nella sua coscienza, aggredendola come un animale feroce. Il ringhio della consapevolezza diventò il ringhio che uscì dalla sua gola, attraversò i denti serrati ed esplose in una rabbia sdegnata.

«Sei stata tu?» berciò, alzandosi per allontanarsi in modo istintivo e quasi sputando le ultime due lettere, impossibile stabilire se più arrabbiato o più sconvolto.

«Ti avevo detto che non ti sarebbe piaciuto.»

«Avevi detto che non mi sarebbe piaciuto, non che sarebbe stato...»

Si rese conto di non saper bene come concludere la propria replica. Com'era stato scoprire che era stata lei a colpirlo tanto forte da fargli perdere i sensi?

«Stato come?» Lo incalzò Ravenna, alzandosi a sua volta per fronteggiarlo e sfidandolo ad accusarla di nuovo.

«Atroce» si risolse Adrian, per nulla intimorito. Forse non era nemmeno quella la parola esatta, ma usare dei sinonimi più precisi non lo avrebbe reso meno atroce.

«Più o meno atroce del farci ammazzare entrambi con una freccia nella schiena?» Ringhiò lei sarcastica, decisamente al di là del numero di biasimi che potesse sopportare in una sola giornata. Aveva fatto decine di cose per cui, senza dubbio, meritava una condanna; l'aver salvato la vita di entrambi non le sembrava una di queste, e se Adrian fosse stato meno ottuso l'avrebbe capito.

«Oh, quindi è colpa mia? Perché, ovviamente, avrei dovuto conoscere a memoria il manuale su come sfuggire a dei banditi» ribattè lui con altrettando sarcasmo. Gli sembrava l'unico modo per mantenere il tono della conversazione abbastanza basso da non farsi sentire anche da Liven Hywell, o come diavolo si chiamava.

«Avresti dovuto ascoltarmi, ma hai preferito correre come un disperato.»

«Sai com'è, scappare mi era sembrato il modo migliore per evitare di farci derubare!»

Lo stesso pensiero attraversò le loro menti in quel momento: possibile che non capisca perché l'ho fatto?

«Ma almeno non ci avrebbero uccisi!»

Adrian grugnì al limite della sopportazione. «Io non lo so come agiscono i banditi, io non sono un ladro!» Gridò.

Se in quel preciso istante la neve avesse iniziato a cadere, spegnendo il fuoco e riempiendo l'aria del gelo più penetrante, lo sguardo di Ravenna sarebbe comunque parso la cosa più fredda.

Il marinaio ansimava come se avesse corso per chilometri, ma ad ogni ansito le sue labbra si piegavano sempre un po' di più mentre si rendeva conto di ciò che aveva detto. Non intendeva offenderla, ma sapeva che le spiegazioni che avrebbe potuto darle non sarebbero valse a nulla; era stato sleale, sleale e meschino, proprio come quella volta, tanti anni prima, in cui le aveva rubato le more per le quali lei si era graffiata fino ai polsi, accusandola persino di essere stata sbadata.

«Ringrazia gli Dei che io lo sono, Adrian, o a quest'ora saremmo morti.» Se il suo sguardo era gelido, la sua voce era puro ghiaccio tagliente.

Mortificato, Adrian abbassò lo sguardo e rimase in silenzio. Mentre Ravenna tornava a sedersi sul tronco, la postura ingannevolmente rilassata tradita dall'espressione impenetrabile, lui ripercorse i fatti dal punto di vista dell'amica. Lo aveva tramortito per impedirgli di uscire allo scoperto, fuori dalla foresta, offrendo così un bersaglio facile all'arciere; lo aveva trascinato fino ad Hyssen, chissà come, dov'era stata catturata perché aveva commesso un reato verso il governatore della città. Al pensiero sentì una strana inquietudine localizzata da qualche parte nello stomaco; si sforzò di trasformarla in consapevolezza, ma l'unica cosa che ottene fu una domanda. Si chiese, turbato, se Ravenna fosse stata consapevole, quand'era entrata in città, di cosa vi avrebbe trovato. Aveva paura della risposta. Aveva paura di una risposta positiva.

«Sapevi chi fosse il governatore di Hyssen? Sapevi a cosa andavi incontro?» Azzardò con voce roca.

«Sì.»

«Ma ci sei andata lo stesso.»

«Sì.»

Inspirò bruscamente l'aria serale, che odorava di erba e terra bagnata. Era lì, la verità, tanto vicina quanto le fronde dei pini e gli arbusti spogli, ridotti a cumuli di rami nodosi, palpabile come il duro terreno sotto i loro piedi e innegabile come il nero del cielo sopra le loro teste. Lei lo aveva colpito sapendo perfettamente quali sarebbero state le conseguenze, non era più possibile non accorgersene. Lo aveva colpito per impedirgli di mettere a rischio entrambe le loro vite, ma l'aveva portato in salvo in una città dove sapeva che lei non lo sarebbe stata. Se solo avesse riflettuto lo avrebbe capito prima.

«Per me.»

Il silenzio che precedette la risposta fu già sufficientemente eloquente.

«Sì.»

Adrian chiuse gli occhi, cercando inutilmente di fermare il fiume di maledizione che aveva già iniziato a rivolgere a sé stesso. La pazienza non era una virtù che gli appartenesse, ma rare volte come in quell'istante ne sentì la mancanza. Sarebbe bastato aspettare un minuto. Un minuto e non si sarebbe trovato in piedi, in mezzo ad una foresta, sentendosi come il più permaloso dei bambini e il più stupido degli uomini.

Si rese conto, nel modo peggiore possibile, che loro due erano molto più diversi di quanto avesse creduto all'inizio; che lei era cambiata, profondamente cambiata, mentre lui era essenzialmente rimasto lo stesso, limitandosi a scambiare la terra per il mare; che se da bambini erano più simili di quando immaginassero, ora c'era un divario così ampio che era diventato impossibile intendersi. O, almeno, per lui era diventato impossibile comprendere lei. Ma una cosa aveva finalmente capito: il problema non era che lei fosse diventata una ladra, che fosse cresciuta.

Il problema era che lei fosse cresciuta senza di lui

 

Capitolo forse noioso, lo ammetto, specialmente se confrontato al precedente, ma assolutamente necessario. E poi, tra qualche capitolo rimpiangerete la calma di adesso ;) 
Vi informo che domani parto e starò via per tutta la settimana, quindi se qualcuno di voi volesse lasciarmi una recensione gli risponderò non appena rientrata. Nel frattempo, con l'ispirazione del mare tanto odiato e tanto amato da Adrian conto di scrivere il prossimo capitolo, che ho già iniziato. 
Ora vi lascio sperando che il capitolo vi sia tutto sommato piaciuto e ringraziandovi per l'attenzione che mi riservate leggendo la mia storia, ognungo di voi.

Au revoir,
Astrid

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Capitolo 6
*** La scacchiera senza Re ***




#5. La scacchiera senza Re


«Non è che mi dispiace, ma forse ammetto di aver... lievemente... esagerato.»

Ravenna arrestò la sua camminata, alzando un sopracciglio in chiaro senso di dissenso.

«Forse» gli fece eco carica di scetticismo, quando Adrian si voltò. «Lievemente.»

Il marinaio si strinse nelle spalle. «È quello che ho detto» confermò.

Un mezzo sorriso – in parte sarcastico in parte, quasi, indulgente – affiorò sulle labbra della ladra, subito prima che replicasse: «di' che ti dispiace e basta.»

Non c'era ostilità o insistenza nella sua voce, quanto una pazienza del genere che le madri hanno coi figli quando questi combinano uno dei loro sciocchi disastri.

«Se lo dico» ribatté Adrian, calmo, «voglio che sia annotato sul diario di bordo che non è ciò che penso davvero.»

A Ravenna sfuggì un grugnito esasperato mentre alzava gli occhi al cielo, incapace di trattenersi.

«Non voglio che tu lo dica perché io voglio che tu lo dica, voglio che tu lo dica perché so' che è quello che vorresti dire ma per orgoglio preferisci dire che sia io a volere che tu lo dica.»

Le labbra storte nello sconcerto, le sopracciglia appiattite e gli occhi ridotti a due fessure, Adrian aveva dipinta in volto un'espressione perplessa tanto quanto irritata, in uno strano miscuglio quasi ridicolo.

«Ti è tanto difficile essere chiara ed evitare i giri di parole?»

«Non è che tu sia un campione di trasparenza» ribatté lei, piccata. Fu il turno di Adrian di grugnire, una reazione che ebbe il solo effetto di esasperare Ravenna ancora di più. «Sei troppo orgoglioso» precisò lei, tagliando corto.

«Lo dici come se tu non lo fossi» fu la pronta risposta del marinaio.

Dalla posizione delle loro mani, strette a pugno, e dei denti serrati per impedirsi di parlare a sproposito, sembravano entrambi sul punto di saltarsi alla gola.

«Vuoi giocare alle ammissioni?» Domanò lei, sarcastica. «Va bene: sono orgogliosa. Tocca a te.»

Adrian ci pensò un attimo prima di rispondere ostentando naturalezza, deciso a non dargliela vinta.

«Ammetto di essere sexy.»

Ravenna spalancò gli occhi incredula, indecisa se fidarsi o meno delle proprie orecchie. Una parte di lei gridava che lui non l'avesse detto davvero, che era stato uno scherzo della propria mente a trasformare un'ammissione di colpevolezza in una stoccata pungente e cocciuta. Ma un'altra parte, e se fosse quella più razionale o quella più istintiva era impossibile da capire, le sussurrava incessantemente che quelle parole erano davvero uscite dalla bocca di Adrian. Spostò lo sguardo verso le mura della città in lontananza, sperando inconsciamente di leggere una soluzione nel paesaggio o, forse, semplicemente cercando di digerire quanto appena sentito.

All'improvviso inspirò bruscamente dalla bocca e sbattè le palpebre, come se le fosse appena venuta in mente un'idea clamorosa. Tornò a guardare Adrian con calma innaturale e gli si avvicinò con un incedere che lo mise subito in allarme. Eppure, sebbene sospettasse fortemente delle intenzioni dell'amica, non si mosse di un passo; una sorta di curiosità malata lo tenne ancorato al suolo, andando contro ogni suo istinto all'autoconservazione persino quando lei sorrise insidiosa, confermando i suoi cupi presagi. Ma per quanto fosse, in fondo, atteso, quando arrivò riuscì comunque a coglierlo di sorpresa: una scoppola perfettamente piazzata.

Barcollò di lato, più per un maldestro e ritardatario impulso alla fuga che per il colpo in sé.

«Sei impazzita?» Si ritrovò a domandarle sconvolto, una mano premuta sulla nuca per puro istinto.

«Se dico di esserlo» rispose lei, imitando tono e parole usate da lui poco prima, «voglio che sia annotato sul diario di bordo che non è ciò che sono davvero.»

Forse, pensò Adrian, irritarlo era facile: ma lei aveva un dono naturale. E fu il suo ultimo pensiero razionale.

Digrignò i denti, tentò – senza convinzione – di trattenersi e, non riuscendoci, la raggiunse con due brevi falcate per resituirle il favore.

La situazione degenerò in pochi istanti; gli schiaffi quasi indolori divennero calci, spallate, gomitate, ginocchiate, portando la discussione su un piano puramente fisico dove ogni colpo da parte di uno corrispondeva una reazione da parte dell'altro. Ringhi e grugniti orchestravano un concerto di schianti, tonfi, schiocchi e strappi in sempre più rapida successione, finché la superiorità di Ravenna iniziò ad emergere: trascinata dal ritmo sempre più incalzante alzò la guardia e abbandonò i modi caotici e impulsivi dettati dalla semplice stizza nervosa, in favore di movimenti più articolati e precisi, impossibili da contrastare per un marinaio del tutto a digiuno di tecniche da combattimento. Per avitare un'amara, bruciante sconfitta che, sapeva, lo avrebbe fatto sentire umiliato fino alla fine dei suoi giorni, Adrian capì che la sua unica possibilità era quella di usare la testa: si piegò in avanti e caricò Ravenna, gettandosi su di lei e centrandola in pieno petto con una testata tanto forte da farli finire entrambi a terra.

Sdraiato sopra di lei, ancora stordita dall'impatto con suolo, ansimò contro la sua gola, ingoiando un odore di pelle e sudore che non sapeva affatto di vittoria; esausto rotolò su un fianco e si stese supino accanto a lei, il petto che si alzava e abbassava a ritmo serrato, senza sosta.

Mentre entrambi riprendevano fiato non una mosca volò tra di loro, difficile dire se per l'eccessiva stanchezza o perché, semplicemente, si erano già detti tutto un ringhio alla volta.

«Be'» esordì lei parecchi istanti dopo, «mi pare che siamo stati entrambi abbastanza chiari

Per una volta, la punta di sarcasmo in quella frase trovò Adrian completamente d'accordo.

«Trasparenti» approvò. «Ora capisco il significato di “discussione accesa”.»

Si misero entrambi a sedere sull'erba, massaggiandosi l'uno la testa l'altra la schiena. Sulla pianura si stava alzando un vento proveniente da ovest, che scompigliava loro i capelli e trasportava dense nubi grigiastre cariche di pioggia. Ravenna le guardò con preoccupazione; ovest era la loro destinazione, dove la città di Serlas sorgeva cinta da alte mura ben visibili dalla loro posizione. Non dovevano più perdere tempo, o l'acquazzone li avrebbe colti prima che trovassero riparo in una delle locande dell'abitato.

«Sei sicuro di voler venire con me?» Domandò, raddrizzando la schiena e piegando le gambe per potervi appoggiare gli avambracci.

Adrian sospirò. «Te l'ho già detto» mormorò duramente. «Ti devo un favore.»

Ravenna annuì, memore del discorso di quella mattina; sebbene non le avesse fatto delle scuse ufficiali o ammesso di sentirsi in colpa per l'eccesso di rabbia avuto la sera prima – quando aveva fatto quel commento totalmente a sproposito – le aveva promesso di accompagnarla fino a Serlas per dimostrarle il proprio pentimento. Era tipico di Adrian non saper chiedere scusa, preferendo esprimere il proprio rimorso con un'azione rappresentativa. Un tempo le aveva portato una mora guadagnata a caro prezzo, ora le offriva una spalla lungo il tragitto fino alla sua prossima destinazione.

Ma, in quel momento come alcune ore prima, non era del tutto convinta che la sua decisione avesse a che fare esplusivamente col rammarico. C'erano altre centinaia di gesti che avrebbero potuto avere lo stesso significato, ma solo quello gli avrebbe permesso di continuare il viaggio per un giorno in più.

«Guarda che puoi dirlo» lo incoraggiò, confondendolo.

«Dire cosa?»

Lei sorrise. «Che inizi a prenderci gusto.»

Adrian fu svelto a negare tutto, forse troppo svelto, squotendo energicamente la testa. «Ad essere imprigionato? Non direi proprio.»

Ma lei aveva visto la luce nei suoi occhi il giorno prima, subito dopo la loro sfrenata corsa a cavallo, la stessa che aveva quand'erano bambini e scappavano nel bosco nonostante fosse loro vietato andarci.

«Ad essere libero» lo corresse con semplicità.

Questo lo zittì per qualche secondo, ma dal suo sguardo corrucciato non era difficile capire che non lo avrebbe ammesso. Probabilmente nemmeno a sé stesso.

«Ero molto più libero prima di venire trascinato in tutta questa storia» ribatté stoico.

Ravenna, ed era certa che in fondo Adrian fosse dello stesso parere, non pensava affatto che prestare servizio su una nave mercantile fosse libertà. C'era quella discrepanza, invisibile ai più, per cui non avere una dimora fissa non equivaleva al potersi muovere liberamente, ma se Adrian non l'aveva mai notata prima ora ne era certamente diventato consapevole, che lo volesse o meno.

Tuttavia la ladra accolse di buon grado l'obiezione dell'amico, perché se il suo stile di vita aveva per molto tempo rasentato la libertà assoluta, da due anni a quella parte non era più nemmeno in grado di sfiorarla. Almeno non per sé stessa.

«Allora dovresti tornare su una nave, perché il mio non è un viaggio di piacere, è una ricerca: devo trovare mio padre.»

«No, non devi» affermò Adrian a sorpresa, stupendo entrambi. «Voglio dire... lo vuoi. Non devi, ma vuoi farlo.»

Per un attimo Ravenna sembrò sinceramente colpita, più profondamente di quanto lui si fosse aspettato di raggiungerla, tanto da guardare il marinaio come se non lo avesse mai visto prima. Ma non durò che pochi istanti: scrollò le spalle, riacquistando un'aria allo stremo dell'indifferenza.

«Non fa differenza.»

La fa, pensò Adrian. Faceva quel genere di differenza tra l'essere davvero liberi e l'essere costantemente incatenati ad una speranza, ormai più dimile ad un'ossessione.

«E comunque» riprese lei, alzandosi e spazzolandosi i vestiti con le mani, «faremmo meglio a muoverci se non vogliamo finire nel pieno di una tempesta. Dunque: sud o ovest?»

Adrian la imitò, ma a quella domanda aggrottò le sopracciglia, confuso.

«Serlas è ad ovest, laggiù» spiegò lei, con un cenno del capo nella direzione delle mura in lontananza. «Valenia è a Sud.»

Capendo la situazione, il marinaio la guardò negli occhi nel tentativo di cogliervi un desiderio, tra l'essere lasciata sola o continuare il viaggio con lui. Gli stava lasciando una scelta, come aveva sempre fatto da quando si erano incontrati a Port Gale, ma per una volta voleva capire cosa volesse lei.

«Non pensare a fare un favore a me, pensa a quello che vuoi tu» lo esortò.

Adrian aprì gli occhi un po' di più, cogliendo al volo l'opportunità di dirle quello che pensava. «E quello che vuoi tu? Non pensare ai miei desideri, pensa ai tuoi» la incalzò, e sebbene non fosse sua intenzione suonò in parte come un'accusa.

«Mi stai chiedendo se vorrei che tu venissi con me?» Lo provocò lei alzando un sopracciglio.

«Ti sto chiedendo di fare quello che tu continui a chiedere a me: una scelta» fu la sua pronta ribattuta e, al contrario di lei, era completamente serio.

A quel punto lo divenne anche lei. Si rese conto che si trovavano ad un bivio, più serio dei precedenti: non era più questione di aspettare una risposta per lei o decidere se imbarcarsi oppure stare con la propria famiglia per lui. Non era questione di quando o di dove, di come o di perché, era questione di chi. Uno dei due avrebbe dovuto prendere l'iniziativa e svelare il proprio desiderio.

«Va bene» soffiò. «Ma chi sarà il primo a rischiare?»

 

◄►

 

La pioggia la colse poco prima che entrasse nella locanda, scrosciante e irruenta.

Il cappuccio calcato sulla testa le si inzuppò in breve, così come il resto degli abiti, mentre camminava svelta sulla strada già fangosa, da sola.

Aveva provato. Fin da quando aveva mosso il primo passo all'interno delle musa di Serlas – una delle le più piccole tra le città in cui si fosse recata – non aveva fatto che cercare e porre domande in lungo e in largo con un solo obiettivo. Aveva visto decine di teste scuotersi come avevano fatto prima di loro altre centinaia, tanto da divenire un'immagine che ormai associava alla sua crescente disperazione. Adrian navigava in un oceano di acqua e sale, lei in uno di dissensi e “mi dispiace” di circostanza.

Al suo ingresso nella locanda fu accolta dal calore del fuoco e dei corpi ammucchiati intorno ai tavoli. La luce delle fiamme dipingeva la stanza di tonalità dal rosso al bruno, conferendole un'atmosfera quasi intima nonostante il gran numero di avventori. Non riconobbe nessuno dei volti illuminati dalle vampe, e si augurò che nessuno riconoscesse lei: Serlas era a solo un giorno di cammino da Hyssen e le notizie, da quelle parti, circolavano in fretta. Sopratutto se trattavano di una ladra sfuggita di prigione.

Non appena la vide passare, fermò una cameriera dall'aria esausta che reggeva un vassoio di legno, sul quale tre boccali di birra erano tanto pieni che la schiuma era colata oltre i bordi fino alla base.

«Perdonami, sto cercando una persona.»

Cercò di spiegarsi come meglio poteva, descrivendo l'uomo che voleva trovare forse più nei modi che nell'aspetto. In risposta ricevette un semplice cenno del capo che indicava un tavolo lontano dal fuoco, dove un uomo parzialmente avvolto nell'ombra se ne stava seduto con un che di annoiato nella postura dimessa, appoggiato allo schienale di una sedia. Vi si avvicinò, lasciando impronte di fango sul pavimento già lurido, sforzandosi di non tremare per i brividi di freddo che sentiva nelle ossa.

Adrian alzò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia nell'esatto istante in cui intercettò la figura di Ravenna fermarsi di fronte a lui.

«Sei fradicia» constatò.

«Scommetto che ti mettevano sempre di vedetta, occhio di falco» commentò lei, ironica e vagamente scocciata.

«Ah-ah» bofonchiò lui, ma invece di rispondere a tono si alzò con un sospiro. «Vieni, ti accompagni alla camera.»

La “camera” era uno spazio quadrato chiaramente pensato per una sola persona; la branda – all'apparenza non molto stabile – era appoggiata alla parete di destra, dalla parte opposta rispetto ad un braciere rotondo in cima ad una struttura a tre piedi di un metallo scadente, dentro il quale dei carboni ardenti emanavano un piacevole calore e un fastidioso lezzo di fumo e legno bruciato. Una sedia e un comodino se ne stavano in un angolo a completare il quadro, polverosi e malmessi. Su quest'ultimo Adrian appoggiò la lanterna, sufficiente a rischiarare quando bastava l'ambiente ristretto.

«Era l'unica libera» si giustificò lui, ben cosciente di quali pensieri potessero aver attraversarsato la mente di Ravenna.

«Ho visto di peggio» minimizzò lei, varcando la soglia, «ma ero da sola» aggiunse, fermandosi di fronte alla branda. «Se volevi venire a letto con me c'erano modi più romantici per farmelo capire».

«Non fai ridere» borbottò Adrian. «E comunque dubito che su quell'affare si possa fare qualsiasi cosa, nemmeno dormirci: sembra sul punto di sfondarsi solo a guardarla.»

Ravenna si trovò costretta ad assentire. Avrebbe mai retto il peso di due corpi? Nessuno dei due, di certo, aveva alcuna intenzione di dormire per terra, ma si sarebbero potuti trovare costretti a farlo lo stesso. Non sarebbe stata la prima volta per lei, ma Adrian si lamentava persino quando dormiva sul terreno relativamente morbido della foresta, non osava immaginare i brontolii se avesse domito su delle assi di duro legno.

Fece spallucce, abbassando il cappuccio e iniziando a slegare le grosse fibbie della casacca di pelle zuppa di pioggia.

«Che stai facendo?» la redarguì immediatamente Adrian, colto alla sprovvista.

«Evito la febbre» rispose lei serafica, spostando la sedia vicina alle braci e appendendo la casacca allo schienale.

«Sì, geniale. E poi cosa pensi di metterti addosso?»

Ravenna si sedette sulla sedia e, iniziando a slaciarsi gli stivali, fece schioccare la lingua. «La tua giacca.»

«La mia... oh no» negò lui.

«Oh, sì» lo contraddisse lei, appoggiando gli stivali sul pavimento uno dopo l'altro.

Si alzò di nuovo in piedi e prese a sciogliere i numerosi lacci del corpetto di cuoio, sotto il quale una camicia bianca di lino mostrava già le proprie maniche, strette sugli avambracci da due bracciali di cuoio. Tolse anche quelli e poi si sfilò la camicia dalla testa, senza dare il tempo ad Adrian di capire che anche il lino era bagnato laddove non era protetto dal cuoio. La pelle della casacca doveva essere di fattura scadente per essersi permeata tanto d'acqua.

Lo sguardo del marinaio era attonito quando constatò che Ravenna non indossava alcun corsetto intimo, benché se lo sarebbe dovuto aspettare; portava solo una fascia di panno stretta sul seno, rigirata più volte e sgualcita in numerosi punti. La pancia le rimaneva completamente scoperta, come le spalle e le braccia; sotto la sua pelle si indovinavano i profili dei muscoli che aveva sviluppato negli anni, probabilmente allo stesso modo di come aveva imparato a combattere e, inutile ignorarlo, a rubare.

Non era la prima volta che Adrian vedeva una donna con così pochi vestiti addosso, ma in quelle occasioni era stato lui a toglierglieli, e nessuna di quelle signorine era la sua dannata amica d'infanzia a cui era davvero spuntato il seno.

Il passo successivo sarebbero stati i pantaloni, e lui non era certo di poter sopportare dell'altro.

Si levò la giacca e gliela lanciò addosso mentre le mani di lei raggiungevano la cintura, dove due scarselle erano ben assicurate in corrispondenza dei suoi fianchi. Per un attimo era tornato bambino, spaventato dal corpo delle donne come se si trattasse di qualcosa di innaturale.

«Molto gentile» lo canzonò lei, apparentemente a proprio agio, e questo fece sorgere in Adrian il dubbio che quella non fosse la prima volta che una cosa del genere accadeva. Ma l'idea lo abbandonò in fretta quando vide che lei non accennava ad indossare la giacca; al contrario, le sue mani avevano già tolto la cintura e si apprestavano a slacciare i bottoni dei pantaloni.

«Vuoi proprio mettermi in imbarazzo?» La accusò, forse solo per dire qualcosa che rompesse quello scomodo silenzio.

«Puoi anche voltarti» gli fece notare lei, liberando l'ultimo bottone dalla sua asola, «e poi non pensavo ti desse così fastidio.»

«La domanda è come fa a non dare fastidio a te» replicò lui, sbigottito. Stava scalpitando.

«Sono cresciuta con persone che non hanno mai dato peso a sciocchezze del genere. È solo un corpo, ed è coperto dove serve.»

«Ma non abbastanza» borbottò lui in un sussurro quasi inafferrabile, ma Ravenna non mancò di sentirlo.

«Ripeto: puoi anche voltarti» disse di nuovo, appendendo i pollici al bordo dei pantaloni in un gesto scocciato.

«Non puoi spogliarti di fronte a me e chiedermi di non guardare. È contro la natura maschile.»

Si rendeva conto che la sua affermazione suonasse contraddittoria se paragonata alle sue lamentele precedenti, ma era proprio questo il problema: Adrian si sentiva combattuto, combattuto tra il desiderio di guardare il corpo di una donna innegabilmente attraente e la sensazione che farlo fosse una cosa assolutamente sbagliata.

Ma Ravenna questo non poteva capirlo.

«Che diavolo ti prende?»

«È disgustoso» sputò Adrian. «Voglio dire, tu sei meravigliosa, ma questo è disgustoso. È come vedere semi nuda la propria sorella.»

Per un attimo furono entrambi troppo occupati a capire il significato delle parole del marinaio, se un significato c'era, per avere una qualsiasi altra razione.

«Grazie, credo» disse per prima Ravenna, fortemente incerta.

«Sì, insomma... mettiti quella giacca» tagliò corto Adrian, sentendosi assurdamente esausto.

Fece per sedersi sulla branda, ma nell'istante in cui si allungò e fece il primo passo Ravenna compì un movimento molto simile, stringendo le dita sopra giacca di Adrian gettata sul materasso. Lui si arrestò all'istante, tirandosi leggermente indietro come a volerle lasciare spazio. Si schiarì la gola – piuttosto secca – e si voltò di lato, deglutendo mentre aspettava che lei si coprisse.

«Sei un bambino» le sentì dire serafica, coprendo il fruscio prodotto dall'indumento che le scivolava sulla pelle. Ravenna dovette rigirare le maniche diverse volte per avere le mani libere, e solo allora chiuse tutti i bottoni coprendo finalmente ogni centimetro del suo corpo fino alle ginocchia. Adrian azzardò un'occhiata: sembrava ancora più piccola avvolta in quella giacca davvero troppo grande per lei. Si voltò di nuovo, immediatamente, quando la vide armeggiare per sfilarsi i pantaloni; per distrarsi si sedette sulla branda e iniziò a slacciare i propri stivali, togliendoli con una calma infinta. Li poggiò entrambi a terra mentre lei si avvicinava alle braci e lì si fermava, le braccia strette intorno al corpo, a fissare il rosso intenso del carbone surriscaldato.

Sapendo di non essere visto si passò una mano tra i capelli, improvvisamente tanto stanco da faticare a tenere gli occhi aperti. Ma aveva come l'impressione che, se avesse abbassato le palpebre, non sarebbe più riuscito a contenere lo strano miscuglio di emozioni che gli si agitavano nello stomaco. Ricordare lo scontro di quel pomeriggio, le sue mani su di lui – anche se di certo non lo stavano accarezzando – il momento in cui si era trovato sdraiato sopra di lei... e associare quelle sensazioni alla visione del corpo di Ravenna tanto scoperto era qualcosa di difficile da tollerare, anche se non ne capiva il motivo.

«Hai trovato niente?» Domandò distrattamente, conscio solo di dover continuare a parlare.

«No.»

Sembrava una risposta definitiva, che non chiudeva solo l'argomento appena iniziato, ma più in generale qualsiasi discorso della giornata. Come spegnere le luci prima andare a dormire.

Nella bruna penombra della stanza, non c'era più niente che impedisse alla stanchezza di insinuarsi tra le sue ciglia e appesantirgli le palpebre. Si posizionò meglio sulla branda, tirandosi indietro per appoggiare la schiena alla parete; non voleva dormire, non ancora, ma non si sarebbe potuto addormentare se avesse chiuso gli occhi solo per qualche istante. Il tempo di constatare se ritrovarsi completamente al buio avrebbe davvero scatenato strane reazioni nella sua testa, condizionate dall'inisieme di esperienza della giornata. Inspirò nel buio, piano, quell'odore di fuoco e pioggia che permeava la stanza, stranamente rilassante. Era un profumo già sentito, qualcosa di familiare quanto e più del suono delle onde del mare. Qualcosa di antico e nuovo, come perso e ritrovato, che lo accompagnò in un sonno privo di sogni prima che lui potesse fare qualcosa per evitarlo.

Quando Ravenna si voltò, sentendosi finalmente abbastanza calda e asciutta, lo trovò addormentato, le spalle rilassate contro le assi di legno dure. Con indosso la sua giacca, pregna del vago odore di mare che lui si portava sempre addosso come una seconda pelle, gli si sedette accanto, lasciandosi cullare dal suono del suo respiro leggero e regolare; in pochi minuti tutto il suo corpo si adattò a quel ritmo, distendendosi mentre il battito rallentava, i pensieri si facevano meno intricati e la sua mente si annebbiava. Percepì distintamente il buio farsi più intenso mentre le braci si consumavano, ma il sonno l'avvolse molto prima che potessero spegnersi definitivamente.

 

◄►

 

Dal piano di sotto giungeva un gran trambusto; voci concitate discutevano animatamene, inafferrabili e confuse, tanto da penetrare il dormiveglia di Adrian e riportarlo gradualmente alla coscienza.

La luce filtrava dalle imposte chiuse illuminando la stanza di strane linee chiare, che parevano tagliare a strisce l'esiguo spazio della camera altrimento avvolta nell'oscurità. Prima ancora che la consapevolezza prendesse il pieno controllo delle sue facoltà, il marinaio sentì la schiena dolere, mentre il braccio – da qualche parte inarrivabile del suo corpo – formicolava fastidiosamente.

Spostò la mano libera cercando a tentoni un appoggio stabile, in modo da poter far leva per raddrizzarsi, ma lentamente si accorse che le sue dita stavano toccando una superficie troppo irregolare per poter essere il materasso. Anche la consistenza era ben diversa, ma di cosa si trattasse rimaneva un mistero ai suoi sensi intorpiditi.

«Quando hai finito avverti.»

La voce risuonò in un punto spaventosamente vicino a quello dove supponeva si trovasse la sua mano. Per un attimo si immobilizzò, domandandosi stupidamente se i materassi parlassero. Turbato dal proprio assurdo pensiero cercò di fare mente locale; mosse piano le dita provando a definire ciò che stavano toccando, finché non sfiorarono una sporgenza dalla forma familiare. Si rese preoccupatamente conto che quello aveva tutte le probabilità di essere un naso e, orrore, quelle di fianco dovevano certamente essere delle labbra.

All'improvviso divenne molto più consapevole di ogni parte del proprio corpo: non solo della mano spalmata sul viso di Ravenna, ma anche della propria testa sulla sua pancia e del fianco cinto da un braccio di lei. Erano singolarmente incastrati i una posizione scomoda ad entrambi, che gli Dei soli sapevano come avevano fatto a trovare. Si tirò indietro di scatto, picchiando la schiena contro la parete.

«E per la cronaca» riprese Ravenna, «hai davvero la testa dura.»

Adrian borbottò qualcosa di incomprensibile mentre lei si raddrizzava, piegando il collo a destra e sinistra per tentare di recuperare la mobilità dei muscoli irrigiditi.

Diverse imprecazioni e grugniti dopo entrambi avevano di nuovo indosso i propri abiti, sebbene quelli di Ravenna fossero ancora umidi, e lo stesso cipiglio di chi aveva dormito male. Ma, se lei sembrava solo aver trascorso una notte poco riposante, lui aveva tutta l'aria di chi si fosse ridestato in una trincea della Guerra del Ferro.

Le voci, fino a quel momento un semplice sottofondo, divennero più forti e distinguibili non appena aprirono la porta, ma ancora l'argomento di discussione rimaneva inafferrabile nei discorsi che si sovrapponevano l'un l'altro. Giunti in fondo alle scale li accolse un anomalo quantitativo di avventori, specie per quell'ora del mattino. Erano tanti, troppi, si accalcavano intorno ai tavoli e in ogni spazio libero della sala. Era tutto confuso, dai corpi accalcati gli uni contro gli altri ai veri e propri dibattiti che avevano luogo in ogni angolo.

Ravenna intercettò uno dei numerosi presenti che, in quel momento, passò davanti a loro per trasferirsi da un capannello all'altro; lo fermò, afferrandogli un braccio con un gesto inquieto.

«Cos'è successo?» Domandò, gli occhi che saettavano da un punto all'altro della stanza con ansia nervosa.

L'ultima volta che aveva assistito a tanta agitazione era stato per l'arrivo in città di un cacciatore di taglie, uno dei pochi ancora in circolazione da quando la maggior parte di loro era stata reclutata per il fronte. Se la notizia della loro fuga si fosse diffusa in fretta, se il governatore avesse deciso di volerli riprendere ad ogni costo...

«Non avete sentito?»

L'uomo li guardò incredulo, eppure pareva eccitato dall'idea di poter essere il primo ad informare qualcuno della novità.

«È successo un paio di giorni fa, la notizia è arrivata stamattina: il Re è morto.»

Mentre il marinaio aggrottò le sopracciglia, turbato dalla notizia, Ravenna parve visibilmente rilassarsi tanto da sospirare di sollievo, suscitando lo sconcerto dei due uomini a lei vicini.

«Il principe Lachlan è il legittimo erede, ma sembra che suo fratello, il Bastardo, non voglia dargliela vinta tanto facilmente» continuò lo sconosciuto, quasi a spiegare il motivo per cui la morte del Re non potesse essere una notizia sollevante. Subito dopo se ne andò, liberando il braggio dalla presa e unendosi ad uno dei tanti gruppi immersi in accese discussioni.

«Guarda che non è una buona notizia» le fece notare Adrian.

«Eh? Ah, no, lo so» rispose lei, distratta.

«Ravenna, se il principe e il Bastardo non trovano un accordo e uno dei due non rinuncia alla corona, ci sarà una guerra civile» chiarì lui, parlando come se dovesse spiegare un concetto estremamente difficile ad una persona estremamente stupida.

«Lo so» rispose lei con indifferenza, coe se non lo avesse affatto ascoltato, iniziando ad avanzare nella massa in direzione dell'uscita.

Adrian si affrettò a starle dietro, ma nel farsi strada tra i corpi non riucì a continuare la conversazione. Dovette aspettare che furono entrambi fuori per riprendere la parola.

«E quindi...» la incitò, cercando di cavarle di bocca il motivo del suo apparente disinteresse, mentre lei si calcava il cappuccio in testa con un gesto naturale. Non le vide più il viso, ma la sentì sospirare.

«Vediamo se riesco a fartelo capire: di solito, quando la gente si riunisce nelle locande o nelle taverne in questo modo, è perché in città è arrivato qualcuno di... insolito. E, per questo, interessante. A volte è il Re, a volte è uno straniero di un'altro popolo... a volte è un cacciatore di taglie.»

Ravenna lasciò all'amico il tempo di arrivare da solo al punto della situazione, ma lui sembrava ancora confuso. In parte se l'era aspettato: lui non era abituato a quelle faccende da ladri.

«Coincidenza delle coincidenze, due giorni fa noi siamo scappati da una prigione. Non ci sono più molti cacciatori su piazza, ma uno potrebbe bastare e avanzare se stesse cercando noi. Ora ti è chiaro?»

La comprensione si fece largo nelle iridi di Adrian, estendendosi rapidamente all'espressione del suo volto.

«Temevi che uno di loro fosse qui» constatò, annuendo a sé stesso.

«Ma bravo.»

Il marinaio ignorò il sarcasmo nella sua voce. «Be', comunque non so quale delle due cose sia peggio: un cacciatore di taglie in città o una guerra civile in tutto il paese.»

«Date le circostanze, un cacciatore di taglie sarebbe molto peggio.»

Adria sgranò gli occhi, sconvolto.

«Stai scherzando?»

Ravenna non doveva essersi aspettata una replica tanto irrequieta, perché parve rimanere sorpresa dalla sua reazione. Con la fronte aggrottata sbatté le palpebre, smarrita.

«Perché te ne preoccupi tanto?» Chiese, sinceramente confusa.

«Perché...» boccheggiò Adrian, incredulo. «Una guerra civile, Ravenna! Siamo appena usciti da un altro conflitto e dovremmo iniziarne un altro?»

Ma lei era ancora disorientata. Sembrava davvero non comprendere le preoccupazioni del marinaio, come se ad essere assurda fosse l'ansia di lui invece del disinteresse di lei. Abbassò lo sguardo, facendo scattare le pupille a destra e sinistra come se stesse leggendo rapidamente qualcosa. I suoi stessi pensieri, forse, in un tentativo di comprensione. D'un tratto li rialzò sul petto di Adrian, sui bottoni della giacca scura, e la sua espressione di distese visibilmente. Era giunta ad una conclusione, come sempre. In un modo o nell'altro, capiva sempre tutto.

Lo inchiodò con lo sguardo da sotto il suo maledetto cappuccio, ogni traccia di incertezza svanita.

«Conosci le nostre leggi. Non possono costringerti ad arruolarti, non per una guerra civile. Né te né Rhonon.»

Adrian sbuffò.

«Non è questo il problema...»

Fu interrotto.

«No, il problema è che tu sia convinto che ogni città e ogni villaggio si trovino costretti a giurare fedeltà all'uno o all'altro pretendente, e che due eserciti si scontrino per conquistare i territori avversari uccidendo o obbligando alla fuga migliaia di civili. Be', non accadrà niente di tutto questo: la battaglia sarà privata, fatta di sabotaggi e tentativi di denigrazione. L'hai detto anche tu, Adrian, siamo appena usciti dalla guerra: non c'è un solo soldato che abbia intenzione di riprenderne un'altra. Non troveranno mai due eserciti abbastanza forti da scontrarsi sul campo, né credo abbiano così tanta voglia di distruggere la metà del regno che vogliono governare. Sarà tutta una questione politica, e la politica non ci riguarda. Nella peggiore delle ipotesi la capitale si spaccherà a metà e rimarremo senza un vero sovrano per qualche mese, forse qualche anno. Ma, per quello che faceva di utile il Re per la comunità, non sarebbe una grande differenza. Quindi, marinaio, sì, preferisco una guerra civile ad un cacciatore di taglie che mi sta alle costole. Chiamalo egoismo, se vuoi, ma le mie preoccupazioni sono un po' più pratiche e immediate delle tue. Non sono ancora viva e in libertà perché mi aspetto l'apocalisse ogni volta che un paio di aritocratici gonfiano il petto.»

Senza attendere alcuna risposta, Ravenna riprese la marcia lungo la via; nonostante Adrian rimase fermo per pochi secondi, irritato dalla sua testardaggine e ancora più dal fatto che non potesse darle torto, si trovò costretto a correre per arrivare ad affiancarla, tanto veloce e deciso era il suo passo.

«Spero che tu abbia ragione» commentò aspramente. «Lo spero davvero.»

«Allora spera, invece che essere fatalista. Se non sei capace di sperare tanto vale che ti siedi qui e aspetti la fine del mondo.»

La voce improvvisamente ridotta ad un mormorio, non c'era frase più sincera che lei avrebbe potuto pronunciare. Era la sua speranza che stava muovendo i loro mondi. La sua speranza di ritrovare il padre, la speranza che aveva avuto quando gli aveva chiesto di partire con lei da Port Gale, la speranza di riuscire ad evadere da quella cella.

La speranza di arrivare da qualche parte e lì, finalmente, potersi fermare.

 

È successo davvero: durante i giorni di mare ho riempito decine di pagine, scrivendo questo intero capitolo e anche una parte del prossimo. Tornata a casa ho solo dovuto ricopiare e fare tutti gli aggiustamenti del caso, operazione che odio a morte. Quando scrivo devo farlo di getto, mi infastidisce trascrivere interi blocchi di testo, motivo per cui ci ho messo così tanto.
Detto questo, torno al tema prossimo capitolo: sarà, in un certo senso, l'ultimo capitolo "isolato", che pur riprendendo gli avvenimenti del precedente e formando una tappa fondamentale per l'arrivo del successivo, non è strettamente connesso agli altri per una questione di continuità di scene. Per essere più chiara, dal 7° capitolo in avanti accadranno tutta una serie di eventi e situazioni allacciati l'uno all'altro, e potremo scordarci la relativa calma che abbiamo avuto fino ad adesso. 
Chiudo con i soliti ringraziamenti, verso tutti voi che state praticamente leggendo la mia mente. Siete sempre di più a seguire questa storia, anche se paradossalmente sono sempre meno quelli che mi fanno sapere realmente cosa ne pensano. A questo proposito voglio dire a tutti quanti che sono un po' lenta nelle risposte alle recensioni, perché da quando pubblico un capitolo poi ho poco tempo per entrare su Efp e non voglio scrivere due righe in croce di fretta. Ci tengo a dare a tutti una risposta completa - spero non noiosa - anche se questo significa quasi sempre un ritardo nel darla. Ma, e questo ve lo assicuro, rispondo sempre, non disperate.

Au revoir,
Astrid

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Capitolo 7
*** Lostris ivi ***




#6. Lostris ivi


La foresta era calma, ma Adrian sapeva ormai per esperienza che non fosse necessariamente un buon segno.

Memore delle recenti disavventure si guardava bene dal parlare a vanvera, limitandosi ad avanzare nella vegetazione preceduto da una Ravenna incappucciata e silenziosa. Sarebbe stato curioso di vedere come se la sarebbe cavata sul ponte di una nave. Sarebbe stata ancora così spavalda e sicura di sé quando le oscillazioni dell'imbarcazione le avrebbero causato i primi conati? Tutti passavano per quella fase. Col tempo ci si faceva l'abitudine, ma chi non fosse solito viaggiare per mare trovava assai arduo trattenere i pasti in fondo allo stomaco.

Perso nell'immagine di Ravenna che correva verso il bordo dello scafo, si piegava in avanti e dava il peggio di sé – una volta tanto impreparata nel gestire le circostanze – per poco non andò a sbattere contro il braccio steso della ladra; prima di imprecare rifletté, cercando di dare una spiegazione al nuovo scenario in cui era immerso, valutando la situazione per comprendere come dover agire. Ormai l'aveva capito: sbottare significava peggiorare la situazione, ricevendo numerosi ribrotti e finendo col trovarsi totalmente sprovveduto. I fatti dicevano che Ravenna si era fermata bruscamente e si stava guardando intorno con circospezione: qualcosa non andava.

Adrian fece un silenzioso passo indietro, si guardò alle spalle, si sforzò di non farsi prendere dal panico come l'ultima volta. Aguzzò la vista per intercettare qualsiasi minimo movimento intorno a sé, ma ancora una volta il suo cuore lo tradiva battendo ansioso nelle sue orecchie. A nulla valevano i tentativi di normalizzare la respirazione: stava già iniziando ad avere il fiato pesante.

Ravenna si abbassò lentamente, estraendo da uno stivale un pugnale lungo che non le aveva mai visto. Rialzandosi assunse una posizione felina, pronta a scattare al primo segno di pericolo; Adrian, incerto, preferì non essere da meno e recuperò il proprio coltello, come sempre incastrato nel doppio strato di cuoio degli stivali.

Con un movimento calcolato, Ravenna rigirò l'impugnatura dell'arma nel proprio palmo, in modo da avere il piatto della lama a contatto con l'avambraccio. Sembrava sapere esattamente cosa stesse facendo, sembrava non avere timore di affrontare il pericolo che soffiava tra le fronde come il vesto stesso. Adrian lo percepiva sulla pelle, attraverso gli strati di pelle e lino grezzo, nonostante quello fosse il giorno più caldo degli ultimi mesi.

Non capì né come né quando, ma d'un tratto Ravenna si voltò e il pugnale le abbandonò la mano, ruotando svelto fino a sparire oltre un cespuglio.

E questo dove l'ha imparato? Si domandò Adrian per l'ennesima volta. Ma, se anche avesse voluto chiederglielo ad alta voce, non ne abbe il tempo: in un secondo cinque frecce erano puntate su di loro da una distanza molto ravvicinata, incoccate in archi spuntati dal nulla tesi da altrettante persone incappucciate.

«Non dirlo: meglio non mettersi a correre» commentò Adrian sarcastico, senza sapere da dove gli venisse la voglia di fare dell'ironia. Di riflesso strinse più saldamente il manico del coltello: di loro due, era rimasto l'unico ad essere armato.

Erano in trappola. Accerchiati, schiacciati l'uno contro l'altra. Immobili. Il fatto di essere l'unico a volto scoperto fece sentire il marinaio quasi a disagio: se fosse uscito vivo da quell'attacco si sarebbe comprato una casacca col cappuccio. Sapeva che non erano il genere di pensieri che avrebbe dovuto avere in quel momento, ma era meglio che riflettere su quante probabilità ci fossero che una freccia lo centrasse in gola.

«Getta l'arma» intimò qualcuno alla sua destra.

Sentì la mano di Ravenna scivolare sulla sua e stringerla lievemente: si voltò verso di lei, che fece cenno di no con la testa.

«Mi hai sentito?» Insistette l'uomo.

«Ti ha sentito, Leight» si intormise una seconda voce, laconica, con uno strano accento. «Ma non è lui che devi convincere.»

Adrian sentì l'amica serrare la presa sulla propria mano in reazione al commento del secondo uomo, alla sua sinistra. Non impiegò molto a capire che lui dovesse aver intercettato il silenzioso scambio avvenuto tra loro due, ma non capì se Ravenna avesse aumentato la stretta per la preoccupazione o per qualche altro motivo. Non l'aveva mai vista preoccupata in quel genere di situazioni: forse la faccenda era addirittura più grave del previsto.

«Leight, perché non abbassi tu il tuo arco? E magari mi recuperi il pugnale, credo sia da qualche parte di fianco alla tua testa.»

Se la frase in sé suonò completamente folle alle orecchie del marinaio, era niente in confronto al tono usato per pronunciarla: qualcosa di incomprensibilmente vicino all'amichevole.

Ma Leight, al contrario, tese ancora di più la corda e si preparò a scoccare.

«Leight, fermo!» gridò il secondo uomo in tono d'urgenza, abbassando la propria arma e facendo un passo avanti mentre si toglieva il cappuccio. Adrian non guardò, troppo concentrato sulla freccia che stava per lasciare la sua sede e conficcarsi in una delle loro teste.

Leight si fermò. Non abbassò l'arco, ma non lasciò nemmeno partire il colpo. Rimane immobile, e dalla piega delle sue labbra – l'unica parte visibile del suo volto – sembrava confuso.

«Fermatevi tutti, abbassate le armi» continuò l'altro.

Ravenna lasciò la presa mentre tutti eseguivano l'ordine, Leigh compreso seppure visibilmente riluttante. Adrian, ancora sul chi vive, fece scorrere lo sguardo su tutti e cinque gli uomini per assicurarsi di non avere più alcuna freccia puntata addosso. Lo fermò sull'uomo con lo strano accento, osservandolo guardingo mentre si avvicinava a loro. No, non a loro: a Ravenna. Per quanto lo riguardava sembrava che Adrian nemmeno esistesse. La cosa avrebbe anche potuto assurdamente infastidirlo, ma l'irritazione che sentì baluginare in fondo allo stomaco ebbe vita breve.

«Lostris ivi» mormorò l'uomo, allungando un braccio ad afferrare il bordo del cappuccio di Ravenna. Lo tirò indietro con un colpo secco e un istante dopo sul suo volto comparve un sorriso che gli illuminò il volto. Allargò le braccia con una risata, subito imitata da Ravenna mentre si stringevano in un abbraccio carico di cameratismo. Sì, l'irritazione si era già disintegrata, formando un campo fertile per la nascita di un sentimento simile ma molto meno preciso, che si lamentò da qualche parte nel suo petto.

Aveva sbagliato tutto. Ravenna non aveva stretto la sua mano più saldamente per la preoccupazione: l'aveva fatto per la sorpresa. La sorpresa nel riconoscere la voce di qualcuno che evidentemente conosceva bene.

L'intimità, almeno apparente, di quel gesto, suscitò in Adrian l'istinto di voltarsi come se guardarli fosse da maleducati. Se ci fosse riuscito si sarebbe tirato uno schiaffo per quel pensiero ridicolo, ma era immobilizzato dallo sbalordimento più di quanto lo fosse stato dalla paura.

Quando i due si separarono potè vedere bene il viso del bandito; un maledetto Vanair, fu il suo primo pensiero, per quanto lo sapesse essere improbabile. Eppure i suoi occhi sottili, gli zigomi alti bilanciati dalla mascella quadrata, il naso leggermente schiacciato e le labbra spesse... tutto, dai capelli lunghi fino alle spalle, di un castano ramato completamente spettinato, alla pelle abbronzata nonostante fosse appena finito l'inverno, parlava di luoghi lontani nel profondo dell'est, là dove fino a due anni prima era stata combattuta la Guerra del Ferro. I suoi tratti non appartenevano alle loro terre. Poteva sembrare impossibile, ma solo un Vanair avrebbe potuto avere quell'aspetto.

Tale considerazione non fece che accrescere quel sentimento formatosi nel basso ventre, che quasi si mise a ringhiare. Lo sentì ribollire in gola, tanto che arrivò a serrare le labbra per evitare che si liberasse.

Poi li notò: tre minuscoli nei uno in fila all'altro, che formavano una sorta di curva a partire dall'angolo esterno del suo occhio sinistro. Erano diversi sotto molteplici punti di vista da quelli di Ravenna, molto più distanti tra loro e posizionati a triangolo, ma erano tre come i suoi, erano sul viso come i suoi. Si ritrovò a fissarli incosciamente, iniziando a dare ragione a qualsiasi cosa gli si agitasse in fondo alla gola.

«Adrian?» lo richiamò Ravenna con una certa instistenza, come se non fosse stata la prima volta. Forse aveva già provato ad attirare la sua attenzione senza successo.

«Eh?» proferì lui dopo aver deglutito, senza staccare gli occhi da quei tre nei. In qualche modo, con la coda del'occhio, riuscì a vedere che lui stava sorridendo.

«Lui è Uriel» lo presentò lei, ma quando questi fece un passo nella direzione di Adrian, alzando il braccio per stringergli la mano, il marinaio fece istintivamente un passo indietro.

«È un'amico» lo rassicurò Ravenna, interpretando la sua come diffidenza.

«Ah-ah» fu la sua risposta. Quello l'aveva capito. Era un suo amico.

Non aveva ancora spostato lo sguardo.

«Potete lasciarci soli qualche istante?» Propose lei, guardandolo impensierita.

Uriel annuì e fece cenno ai suoi di seguirlo.

«Poco più avanti di qui, verso sud, c'è una radura: ci troverai lì» la informò prima di allontanarsi, il cappuccio di nuovo calcato in testa.

Ravenna sorrise e attese che il piccolo gruppo si fosse allontanato prima di tornare a guardare Adrian. Lui era rimasto immobile, osservando Uriel sparire tra la vegetazione senza riuscire ad afferrare con precisione le sensazioni causategli da quel volto esotico. Aveva le viscere strette in una morsa, e per qualche ragione l'unico modo per scioglierle gli sembrava di non rivederlo mai più, prendere Ravenna e allontanarsi il più possibile da quella radura.

«Adrian» lo richiamò lei, gentile.

«Eh?» Rispose lui di nuovo, il tono del tutto invariato, come se la sua voce si fosse inceppata sulla stessa, ripetitiva musica stonata.

«Ti spiace guardarmi?»

Glielo stava chiedendo come un favore. Forse fu quello a farlo capitolare; molto lentamente si voltò, fino ad incontrare i suoi occhi e lì fermarsi.

«Smettila di stare sulla difensiva. E metti via quell'affare, non siamo in pericolo.»

Solo in quel momento Adrian si accorse di stringere ancora l'impugnatura del coltello, tanto forte da avere le dita indolenzite dallo sforzo. Nonostante questo non accennò ad allentare la presa.

«Spiegati meglio» scandì senza inflessione.

«Solo se la smetti di brandire quel coltello come se fossi sul punto di piantarmelo in gola.»

Le parole gli uscirono d'istinto, impossibili da trattenere: «ne ho in mente un'altra.»

Ravenna grugnì esasperata e lo raggiunse con uno slancio, tanto veloce che lui si accorse della vicinanza solo quando la sentì strappare l'arma dalla sua presa. Un gesto rapido e scocciato a cui non seppe ribellarsi.

«Non essere sciocco» lo redarguì. «Uriel non è un nostro nemico, né lo sono i suoi compagni.»

Attese qualche istante prima di proseguire, una pausa che fece irrigidire il marinaio più di quanto già non fosse. «I miei compagni» concluse.

Nessuna sorpresa attraversò i suoi occhi. Pareva rassegnato, di quella rassegnazione molto più vicina all'arrendevolezza che alla conciliazione. Era arrabbiato, ma era anche come se fosse stufo di esserlo. La cosa certa era che non fosse stato colto alla sprovvista: aveva incassato il colpo come se lo stesse aspettando.

«Kasyan» disse, senza nessun nesso logico apparente col discorso in corso. «Kasyan e Lora, due marinai con cui ho lavorato sulla Rotta Argento, una delle prime navi su cui ho prestato servizio. Alti, occhi scuri, capelli rossi... una volta mi hanno chiamato dovre arri, “fodero bucato”. Avevo appena fatto ruotare il pennone rischiando di falciare metà dell'equipaggio.» Si fermò.

Non occorsero dettagli più specifici perché Ravenna comprendesse ciò che Adrian voleva lasciarle intendere. Eppure lui proseguì.

«Non ho mai capito se per loro fosse una vera e propria inguria o una semplice presa in giro. Ma avevo capito quale fosse il loro migliore complimento, quando si rivolgevano a qualcuno che consideravano un compagno inseparabile.»

Ravenna non aveva più dubbi che Adrian avesse capito la verità molto prima che lei andasse anche solo vicino a spiegarla. Ci era arrivato, o almeno aveva avuto il sospetto, fin da quando Uriel si era avvicinato a lei per toglierle il cappuccio. Nel momento esatto in cui aveva usato quelle parole che non avrebbe mai creduto Adrian potesse conoscere, nell'istante in cui, senza neanche pensarci, l'aveva chiamata Lostris Ivi. “Mia spada”. Così i Vanair appellavano i propri compagni d'armi più stretti, coloro che gli coprivano il fianco in ogni occassione, combattendo con loro ogni tipo battaglia e su qualsiasi campo.

Non c'era niente di romantico in quella definizione, anche senza contare che per i canoni di Uriel lei fosse decisamente brutta: pelle troppo chiara, occhi troppo chiari, capelli troppo chiari, lineamenti troppo morbidi. Era una donna dell'ovest, ma aveva vissuto spalla a spalla con un uomo dell'est da quando aveva tredici anni, e per tredici anni con lui era cresciuta. Era stata la sua spada, la sua Lostris.

Per un attimo si perse nei ricordi dell'adolescenza, quando aveva imparato tutto ciò che le aveva permesso di sopravvivere in un mondo e in un'epoca di guerra che non era fatta per delle ragazzine senza né padre né madre. Ma era fatta per i ladri. Per i ladri e per le spade.

«Va bene, Adrian...» esordì, tentando di rispondere alle domande che lui non le aveva ancora posto, domande che lui aveva sempre esitato a farle. Da quanto tempo fosse una ladra. Dove e come avesse imparato. Come ci si fosse ritrovata. Con chi era stata.

Ma lui la interruppe.

«No. Lo so. Me l'aspettavo. O meglio, ho sempre saputo che non potevi essere rimasta sola per diciassette anni, che da qualche parte, in qualche momento, con qualcuno, sei diventata quello che sei. Ma non ero certo di volerlo sapere. Ora, be'... ora non ho più scelta. Come quando ci siamo incontrati: mi hai chiesto se non sarei venuto a cercarti se avessi saputo di averti ad un passo da me, ma io non ho avuto quella scelta. L'hai avuta tu. Sei arrivata all'improvviso... e adesso all'improvviso è arrivato lui, e con lui parecchi dati di fatto che non posso più scegliere di evitare.»

La tensione nelle spalle di Adrian si allentò come se stesse dichiarando una resa; le sue braccia stavano abbandonate lungo i fianchi, il peso del corpo sostenuto da una gamba sola. Appariva scoraggiato, mentre Ravenna era titubante. Sollevata dal fatto che lui si fosse calmato, non aveva fatto in tempo a rasserenarsene che si era trovata a fare i conti con una cupa dichiarazione. Era così che si sentiva? Intrappolato, impossibilitato a prendere una decisione propria? Era così che aveva percepito il loro incontro a Port Gale, come qualcosa che non aveva avuto l'opportunità di scegliere?

Provò a negare a sé stessa di sentirsi ferita, ma non era semplice come immaginava. Nasconderlo, d'altro canto, era molto meno difficile, ed era meglio che permettere ad Adrian di intravedere cosa stava pensando, di leggerle negli occhi o nella voce il timore che provava.

«Stai rimpiangendo di avermi incontrata.»

Sarebbe dovuta essere una domanda, ma suonò come una constatazione. Questo era ciò che temeva, scoprire che la prima menzogna tra di loro non fosse stata quella sul passato di Ravenna, ma quel “sì” pronunciato da Adrian quando le aveva detto che, se fosse stato nei suoi panni, anche lui sarebbe andato da lei per rivederla.

Il marinaio sembrò essere stato appena colpito da una freccia in pieno petto.

«No» sussurò a fior di labbra. «Miei Dei, no... come puoi pensare una cosa del genere?» Ora sembrava lui ad essere ferito. «Aspetta...» Strinse gli occhi, concentrandosi per trovare le parole più giuste. In quel frangente era fondamentale non fraintendersi, una cosa che a loro capitava con una frequenza allarmante.

«Reincontrarti è stato... strano, senza subbio, e inaspettato, ma sono felice che sia successo. Sei Ravenna dopotutto, giusto? L'amica che non ho mai voluto eppure l'unica che ho avuto. Ma tu sei questo, per me. Sei una persona che ho ritrovato dopo quello che ormai ho capito essere troppo tempo. Questo momento, questo... incontro... rappresenta tutto l'abisso che c'è tra me e te. Fin'ora ho potuto guardarti e vedere qualcuno che conoscevo. Ora ti guardo, ti guardo e non ti conosco.»

Fece una pausa, gli angoli della bocca piegati verso il basso in un'espressione a metà tra il nostalgico e il rassegnato. Non come se rivolesse indietro qualcosa che sapeva di non poter più ritrovare, ma come se avesse appena perso qualcosa che si era reso conto non essere mai esistito.

«Riesci a capirmi?»

Ravenna impiegò parecchi secondi a rispondere, incurante del tremito impovviso delle sue ciglia.

«Sì» disse debolmente, sentendo la sillaba raschiarle la gola. Distolse lo sguardo.

L'ennesima pausa tra di loro sancì definitivamente il distacco ampliatosi in quegli ultimi minuti. Un progressivo allontanamento iniziato, paradossalmente, nel momento esatto in cui si erano ricongiunti; ed ora, così distante da casa o da una nave su cui salpare, aver perso l'unico elemento familiare su cui aveva potuto contare faceva sentire Adrian terribilmente isolato, più di quanto non si fosse sentito quando da bambino, seduto al molo di Port Gale, guardava il mare e non riusciva ad immaginare nulla di peggiore dell'essere soli in mezzo a tutto quel nulla.

 

◄►

 

L'acqua.

Pensare all'acqua sembrava, per Adrian, l'unico modo per non sentirsi completamente fuori luogo. Non c'erano dubbi sul fatto che la sua sola presenza fosse del tutto sbagliata tra quegli alberi, tra quelle persone che non conosceva e che sembravano ignorarlo, come se lui stesso fosse solo un altro albero in mezzo ad un'infinità di sfumature di verde.

Subito dopo aver raggiunto la radura erano ripartiti, inoltrandosi nuovamente nel bosco; Adrian aveva costantemente provato l'istinto di andarsene, allontanarsi da quegli sconosciuti e tornare sulla propria rotta. Ma dove sarebbe andato? Non c'erano rotte in mezzo ai boschi. Si sarebbe sicuramente perso, forse incappando in altri fuorilegge. Allora non avrebbe avuto un'altra Ravenna al suo fianco. Vedeva solo una soluzione, ed era procedere contro ogni sua volontà insieme a quel gruppo di nessuno. Ognuno di loro, dal primo all'ultimo, era nessuno. Sotto quei loro cappucci non c'era nessuno. C'era solo l'acqua, una nave che la solcava e Adrian che la governava. Doveva sentire di avere un controllo che gli era del tutto sfuggito.

Non bastò. Non c'era abbastanza acqua nel mare che tentava di riportare alla mente, non abbastanza per affogare tutto il resto. Poteva affogare Uriel. Poteva affogare Leight. Poteva affogare gli altri tre uomini e con loro gli altri cinque che avevano appena incontrato, altri cappucci a coprire visi sconosciuti. Ma non poteva affogare Ravenna. Lei sapeva nuotare, rimaneva a galla e sembra dirgli “tuffati”. Smettila di stare su quel parapetto, dietro a quel dannato timone. Smettila di alzare quella vela. Entra in acqua, smettila di guardarla e basta. Anche tu sai nuotare, ne sono sicura.

Uno dopo l'altro tutti salutarono Ravenna, chi con un abbraccio chi solo con un cenno. Poi uno di loro mostrò il proprio volto; era visibilmente più vecchio degli altri, che imitarono il suo gesto liberandosi delle loro maschere di stoffa e ombra. Ora Adrian poteva guardare negli occhi tutti quanti, ma questo non cambiava il modo in cui li vedeva: nessuno.

Ma quell'uomo, quel vecchio era qualcuno. Si avvicinò a Ravenna e la accolse tra le sue braccia con un entusiasmo tale che parve di botto avere dieci anni di meno. Una stretta ancora più affettuosa di quella datale da Uriel, che non risvegliò nulla nel suo stomaco di quelle sensazioni percepite nel primo caso. Al contrario: lo rassicurò, in qualche modo gli diede il sollievo di sapere che chiunque fosse quell'uomo non fosse solo un bandito o un compagno di battaglia, non era il genere di persona che forse ti manca, forse vorresti rivedere, forse vuole rivedere te. Era il genere di persona da cui tornare, perché ti avrebbe atteso. Come Rhonon e sua madre per lui. Lateef, questo era il suo nome.

«Ravenna, Ravenna, non pensavo di incontrarti di nuovo. È bello rivederti» disse lui con dolcezza, allontanandosi quanto bastava per poterla vedere in faccia.

«Doveva succedere, prima o poi. La Costa Settentrionale non è abbastanza grande per noi» scherzò lei con un sorriso.

Doveva essere una specie di scherzo ricorrente o un qualche tipo di gioco tra loro, perché Lateef non fu il solo a ridacchiare a quelle parole.

«Non per noi, no» confermò. «Ma per te sola? Hai trovato quello che cercavi?»

Il volto di Ravenna si fece un po' più scuro. «No, non ancora. Ma ho trovato qualcos'altro.»

Lateef si voltò verso Adrian un istante dopo che l'ebbe fatto lei, incrociando il suo sguardo e fermandovisi in osservazione. Lo scrutò, tentò di capire. Ci riuscì. Sul suo viso apparve una sorta di antica comprensione, come se avesse riconosciuto qualcuno che aveva già visto, un tempo, e mai completamente dimenticato.

Gli si avvicinò. Il modo in cui continuava a guardarlo gli suggeriva che non lo considerava uno sconosciuto come tutti gli altri: pareva curioso. Curioso ed eccitato, nel modo in cui lo sarebbe stato qualcuno che stava per scoprire un segreto su cui per anni si era arrovellato senza successo. Questo impedì ad Adrian di fare un passo indietro. Lo spinse a stringere la sua mano quando gliela porse, lo fece sentire un po' meno superfluo, un po' meno parte della foresta e un po' più parte di quella realtà, un po' meno perso in un bosco e un po' più orientato su una distesa di acqua.

«È un piacere conoscerti, Adrian» disse Lateef.

Come sapeva il suo nome? Adrian cercò di ricordare se Ravenna l'avesse pronunciato, se uno qualunque dei presenti l'avesse detto ad alta voce, ma era sicuro che non fosse così. Ripescò la voce dal fondo della sua gola, dove l'aveva lasciata subito dopo aver terminato la conversazione con Ravenna.

«Come...» mormorò esprirando, rauco per il troppo silenzio mantenuto.

«Parleremo, Adrian. Parleremo» gli assicurò Lateef. «Ora, però, scommetto che avrete bisogno di una scorta. Vi accompagneremo fino ai confini della foresta, ci sono altre bande qui intorno» continuò, alzando la voce per farsi sentire distintamente da tutti quanti. Poi tornò a concentrarsi solo su di lui. «Lasciami qualche momento con Ravenna, poi parleremo. Dobbiamo proprio parlare.» Gli diede una pacca sulla spalla e si allontanò, invitando tutta la compagnia a muoversi. Adrian, stordito, incontrò per un istante gli occhi dell'amica senza riuscire a laggervi nulla. Troppo poco tempo. Ma ora non sentiva più il desiderio di andarsene.

 

◄►

 

Lateef fu di parola; trascorse diverso tempo parlando con Ravenna, sorridendo, ridendo, scuotendo la testa divertito, gesticolando, sfiorandola. Ma poi andò da Adrian.

Lui, rimasto nelle retrovie da solo e in silenzio ad osservarli discutere, notò immediatamente che Uriel prese il posto di Lateef e non riuscì a distogliere lo sguardo. Provò a concentrarsi sull'uomo al suo fianco, ma vide le dita di Uriel accarezzare i capelli di Ravenna e subito dopo tirarle una leggera e giocosa spallata, cui lei rispose con una risata. Uriel sorrideva, guardandola, e parlava. Parlava, parlava, parlava. E lei sorrideva e parlava a sua volta. E gli tirava degli innoqui pugni sul braccio e sorrideva ancora. Un sacco di sorrisi. Adrian non sorrideva.

«Tredici anni» esordì Lateef, attirando la sua attenzione. «Erano due ragazzini quando si sono incontrati. Ravenna era con noi già da due quando abbiamo trovato Uriel. Erano i più piccoli della compagnia, per cui hanno cercato di darsi una mano a vicenda. L'hanno fatto per tredici anni.»

Adrian inspirò bruscamente, lo sguardo ancora fisso sulla coppia diversi passi più avanti a lui.

Quattro anni. Due volte l'anno per una settimana. Un mese e mezzo. Un mese e una settimana, a dire il vero. Noi abbiamo avuto solo questo, diciassette anni fa. Loro hanno avuto tredici anni, due anni fa.

«Capisco» fu tutto quello che riuscì a dire.

«Non ne sono sicuro.»

Uriel usò l'indice per pizzicare uno per uno i nei sulla guancia di Ravenna.

Adrian deglutì.

«Aveva un amico, un compagno, un complice. Tredicenni, quattordicenni, quindicenni... ventenni, ventunenni, ventiseienni» proseguì Lateef.

Ravenna usò l'indice per pizzicare uno per uno i nei sullo zigomo di Uriel.

Adrian fremette.

«Tredici anni. E dopo tredici anni era ancora Adrian, Adrian, Adrian.»

Adrian si voltò di scatto verso Lateef.

«L'abbiamo trovata quando aveva undici anni. Le chiedemmo da dove veniva e dove potevamo riportarla. Siamo ladri, ma siamo uomini» riprese lui, quasi a voler evitare che Adrian si facesse l'idea sbagliata su di loro. L'unica cosa che mai aveva messo in dubbio era che essere ladri non significasse anche non essere persone d'onore, l'aveva imparato da lei. Si poteva essere fuorilegge senza essere spietati e sleali. Si poteva essere fuorilegge e persone oneste allo stesso tempo. Paradossale, ma reale quant'era reale Ravenna che derubava il governatore di una città e salvava Adrian mettendo a rischio sé stessa.

«Ci disse che suo padre era in guerra, ma che forse Adrian l'avrebbe accolta. Adrian, diceva. Adrian, ripeteva. Dov'è Adrian? Io non lo so dov'è, possiamo raggiungerlo? Adrian.»

Lateef si interruppe. Il marinaio desiderava ardentemente che continuasse, ma non sapeva come chiederglielo. Alzò di nuovo lo sguardo su Uriel, che ora stava facendo il solletico a Ravenna dietro l'orecchio. Lei alzava la spalla per poteggersi e gli tirava dei pizzicotti sul fianco, sotto una casacca di pelle molto simile a quella che indossava lei.

«Poi è arrivato Uriel. Lei era contenta di non essere più la sola ragazzina in una compagnia di adulti. Si facevano il solletico, si pizzicavano. Ridevano e imparavano ciò che noi insegnavamo loro. E poi veniva da me. Secondo te dov'è Adrian? Si sarà preoccupato per me? Magari è tornato al mio villaggio, non mi ha più trovata e c'è rimasto male. O magari non gli importa nulla. Secondo te ogni tanto mi pensa?»

Altra pausa. Adrian guardò Ravenna gesticolare mentre raccontava ad Uriel qualcosa che lui non riusciva a sentire, non da quella distanza.

«L'hai pensata, Adrian?»

Il marinaio inspirò profondamente. «L'ho persino sognata.»

Non vide Lateef annuire, come se non si aspettasse una risposta diversa da quella.

«Col tempo ha iniziato a fare meno domande. Ti nominava di meno, e come sempre lo faceva solo con me. Come se tu fossi il suo segreto. Come se nominandoti troppo avrebbe lasciato pezzi dei suoi ricordi di te in giro e non avrebbe più potuto ritrovarli. L'ultima volta aveva ventisei anni. Non si chiedeva più dove fossi o se pensassi a lei già da molto tempo. Ma venne da me, poco prima che scoprissimo che la guerra era finita e l'esercito stava rientrando dal fronte, e me lo chiese: secondo te starà bene? Non capii subito. Chi? Le chiesi.»

Adrian trattenne il respiro.

«Adrian

Interminabili attimi di silenzio gli permisero di sentire il proprio cuore battere contro le costole. Ora non vedeva più Uriel. Vedeva Ravenna, davanti a lui. Le sue spalle, la sua schiena, i suoi capelli biondi, uno scorcio della sua mascella chiara, un angolo delle labbra piegate in un sorriso.

«Quand'è stata l'ultima volta che ti sei chiesto se lei stava bene?»

Adrian non ebbe il coraggio di rispondere. Non se lo ricordava nemmeno. Da quando non l'aveva più trovata, quell'autunno a Cerys, aveva pensato a lei così frequentemente che perfino i suoi sogni l'avevano avuta come protagonista. Sogni che non ricordava, in quel momento, perché erano troppo distanti. Gli anni erano passati. La bambina era rimasta nella sua memoria, ma memoria sarebbe sempre e solo stata. Ogni tanto mangiava una mora e le tornava in mente lei, ma poi scompariva di nuovo. Gli anni erano passati e c'era un'altra nave da prendere.

Almeno fino a qualche giorno prima.

«Questo è il suo mondo, il mondo in cui né tu né suo padre siete potuti essere. Mi ha detto che sei un marinaio: quante altre persone hai conosciuto su una costa e sull'altra? Il tuo mondo è su un ponte in mezzo al mare. Cosa credi, Adrian? Che una ladra non possa salire su una nave o che un marinaio non possa camminare nei boschi? Guarda dove ti ha trovato lei e guarda dove sei tu ora.»

«Non...» la voce gli graffiò la gola. La schiarì. «Non è questo. È il tempo. È... troppo tempo.»

Ma iniziava ad esserne meno convinto anche lui.

«Diciassette anni sono tanti» concordò Lateef, grave. «Vi hanno separato, portato su direzioni quasi opposte.»

Adrian aggrottò le sopracciglia, confuso. Fino ad un momento prima Lateef sembrava stesse cercando di fargli vedere le cose da una prospettiva diversa, di fargli capire che i suoi malesseri erano, se non infondati, certamente curabili, che le mille differenze tra lui e Ravenna non potevano soffocare anche un solo alito di armonia. E che il tempo, alla fine, aveva scalfito ma mai distrutto i legami del passato. All'improvviso, invece, sembrava voler confermare che non ci fosse più alcun punto d'incontro. Non aveva senso.

«Siete stati lontani. Lo siete anche adesso. Vi guardate, ma siete su due piani diversi. Le vostre divergenze sono un fatto innegabile. Hai provato ad ignorarle, forse anche a combatterle, non so. Ora ti ci sei semplicemente arreso. È così che fanno i marinai? O combattono, o ignorano o si arredono? I marinai non accettano mai niente così per com'è?»

Adrian riflettè. I marinai accettavano gli ingaggi che trovavano, così come gli venivano proposti. Accettavano gli ordini del capitano, così come gli venivano comandati. No, pensò. I marinai si arrendevano agli ordini. Si arrendevano agli ingaggi. Non potevano fare altro per poter salire su una nave. Cos'accettavano i marinai?

I marinai accettano il vento. Non vi si arrendono, lo sfruttano. Non lo combattono né lo ignorano, gli serve per gonfiare le vele che li spingono avanti.

Ad Adrian non arrivavano mai illuminazioni improvvise. Ogni qual volta realizzava qualcosa lo faceva con calma, come se la consapevolezza gli venisse versata nella testa goccia a goccia. Le sentì cadere come pioggia sul terreno, filtrare attraverso il suolo e raggiungere le profondità della coscienza, scivolando in un vuoto che di secondo in secondo andava riempiendosi.

Accettare tutte le differenze frutto di diciassette anni di separazione era possibile? Non erano troppe? Sentiva che avrebbero potuto farlo scoppiare.

Una giocca, un'altra goccia.

Non poteva assimilare quelle divergenze al vento del mare. Non erano propulsori per il loro rapporto, erano freni stridenti e terribilmente tenaci. Far uscire i remi non sarebbe bastato, lui era un uomo solo.

Un'altra goccia.

Cosa, esattamente, avrebbe dovuto accettare? Un'intera vita. Un'intera vita e tutto ciò che la riguardava. Lei aveva vissuto, era questo ad essere tanto inaccettabile? Vissuto e pensato a lui. Lui l'aveva quasi dimenticata, alla fine. Mai del tutto, ma c'era andato molto vicino.

Un'altra goccia.

Non poteva biasimarla per aver vissuto e non poteva biasimare sé stesso per aver fatto altrettanto. Poteva, dunque, biasimare il distacco a cui li aveva portati? Se solo avesse guardato quelle differenze invece che vederle come ostacoli, forse avrebbe conosciuto qualcosa in più di lei.

Un'altra goccia.

La conoscenza. Sapere non tutto, ma sapere di più. Sapere che persino lei avesse qualcuno da cui tornare, qualcuno che la aspettasse, qualcuno che non fosse mai sparito nel nulla lasciandola sola al mondo, gli permetteva di rendersi conto di quella verità che era andato vicino a scoprire fuori dalle mura di Serlas, quando si erano guardati per interminabili istanti prima che Adrian cedesse per primo e dicesse “voglio venire con te”. In un modo o nell'altro lei gli aveva strappato un'ammissione che lui, invece, non era ancora riuscito ad ottenere.

Un'altra goccia.

Non gli era più necessaria alcuna ammissione.

Aveva pensato che Ravenna desiderasse solo una compagnia, nulla di più. Che gli anni di solitudine alla ricerca del padre scomparso le avessero fatto sentire il bisogno di una presenza familiare al proprio fianco. Non era così. Non c'era presenza più familiare del proprio lostris nell'affrontare quel genere di battaglia. Lui, tra tutti, era la persona che Ravenna avrebbe dovuto desiderare al proprio fianco, eppure quand'era partita l'aveva fatto da sola. E per tredici anni al suo fianco aveva continuato a chiedersi cosa ne fosse stato di Adrian.

Un'altra goccia.

Ora Adrian era lì e lo sapeva: tanto lui desiderava stare con lei quanto lei desiderava stare con lui. Se accettava le loro divergenze, le divergenze dei loro due mondi, poteva vedere attraverso di esse che avevano entrambi una vita da vivere l'uno senza l'altra. Eppure, grazie a quelle vite si erano trovati di nuovo.

Un'altra goccia.

Eppure, nonostante quelle vite non volevano separarsi di nuovo.

 

◄►

 

Giunsero al limitare della foresta.

Lateef aveva lasciato Adrian da solo a riflettere senza aggiungere altro, e Adrian aveva riflettuto.

Incessantemente, in silenzio, aveva pensato e ripensato, aveva cercato delle falle nel suo ragionamento e non ne aveva trovate. Il sole calava e lui rimuginava. Il cielo si tingeva di arancione e lui rimuginava.

Avon, la città in cui erano diretti, distava meno di un'ora di cammino: ci sarebbero arrivati di certo dopo il tramonto, ma avrebbero camminato nell'oscurità solo per un breve tratto, in campo aperto e in prossimità di un centro abitato. Ma dovevano ripartire in fretta.

Osservò Ravenna salutare tutti i suoi compagni, attardandosi con Uriel. Strinse la mano di Lateef preferendo ignorare quell'ennesima dimostrazione d'affetto tra i due. Quello non l'avrebbe mai accettato davvero, ma non l'avrebbe nemmeno combattuto.

Per lei non fu così difficile allontanarsi di nuovo dai suoi compagni. Forse perché l'aveva già fatto, forse perché sapeva che li avrebbe incontrati di nuovo. Forse per entrambe le cose.

Rimasero soli. Sembrava passata una vita dall'ultima volta.

Una vita dall'ultima volta in cui avevano parlato, invece era stata solo quella mattina. Quando lui aveva detto che non la conosceva. Quando lei aveva detto che lo capiva.

Il cielo era completamente rosso, il sole in agonia. La foresta era alle loro spalle, il freddo tutto intorno. Come il silenzio. Camminarono fianco a fianco, vicini abbastanza che ad Adrian sarebbe bastato allungare le dita per fiorare i polsi di Ravenna. Avrebbe voluto, ma non lo fece.

Non parlarono finché non arrivarono in città. Trovarono una locanda, una stanza di poco migliore a quella affittata a Serlas. Il letto, quanto meno, non minacciava di sfondarsi. Adrian era teso, Ravenna indecifrabile. La notte era arrivata. Lui avrebbe voluto abbracciarla, tanto per essere certo che da quello foresta erano realmente usciti insieme. Ma non lo fece.

Si tolsero le giacche e le appoggiarono sull'unica sedia presente. Ancora in silenzio, si stesero sul letto cercando una posizione comoda. Passarono i minuti. Entrambi si chiedevano se l'altro stesse dormendo.

Ma Adrian non riusciva a dormire. Sentiva di avere qualcosa da dire, anche se per parlare avrebbe dovuto liberare la voce da quella stretta allo stomaco che non lo aveva più abbandonato. Lo fece.

«Ti conosco» esordì flebilmente nel buio.

Ravenna non reagì in alcun modo. Continuava a respirare regolarmente, poteva sentire il suo corpo gonfiarsi e sgonfiarsi accanto al proprio. Forse era addormentata. No, inspirava troppo velocemente.

«So chi sei» proseguì lui, deglutendo con forza per evitare che gli si formasse un nodo in gola. «Ignoro tante cose, è vero, adesso meno di quante ne ignorassi prima, ma so chi sei. So che sei la persona che mi ha riportato a casa dalla mia famiglia e la persona che mi ha salvato dai banditi» Si interruppe.

Ravenna continuò a non reagire. Poteva significare sia che fosse in attesa sia che non le importasse. Era troppo difficile da capire. Adrian dovette ricorrere a tutta la sua forza di volontà per non chiederle di dire qualcosa, di fare almeno il minimo sospiro.

«Ho deciso che mi basta.»

Ancora niente. Il marinaio alzò una mano e la sfregò sul volto; era stanco, ma dormire gli sembrava ancora impensabile.

«Tu mi conosci?»

Nessuna risposta. Adrian non potè più trattenersi.

«Parlami» mormorò.

Silenzio.

«So chi sei.» La voce di Ravenna suonò spezzata, graffiata per colpa del prolungato mutismo. «So che sei la persona che mi ha seguita quando non gli ho dato alcun vero motivo per farlo. So che sei la persona che si è arrabbiata con me più volte di quante mi abbia sorriso, ma ha continuato a seguirmi quando non gli ho dato alcun vero motivo per farlo.»

Adrian assorbì ogni parola, lasciando che entrasse da ogni sua più piccola terminazione nervosa.

«Ce l'avevo, un motivo» disse subito.

«Quale?»

Sapeva che gli sarebbe arrivata quella domanda. E sapeva la risposta.

«Lo stesso per cui tu mi hai portato ad Hyssen.»

Non ebbero bisogno di ulteriori spiegazioni per capirsi.

«Credo che questo sia classificabile come punto in comune» scherzò Ravenna per distendere un po' l'atmosfera, ad ogni istante più elettrica, carica di un'energia sconosciuta e al contempo nota.

Adrian sorrise.

«E ce ne sono altri?» Tentò. Lei aveva sempre visto più in là di dove invece il suo sguardo riusciva ad arrivare. «Io ho visto tutte le differenze. Tu vedi altri punti? Aiutami» la pregò.

Ravenna rimase in silenzio per qualche secondo.

«Il viaggio» disse in un soffio. «Per un motivo o per un altro, né io né te ci fermiamo mai. Non stiamo nello stesso posto troppo a lungo, e non è solo perché tu devi lavorare e io devo cercare mio padre. Non siamo capaci di fermarci: se lo fossimo, tu torneresti a casa più spesso e io avrei rinunciato alla mia ricerca. O almeno avrei rallentato.»

L'ultima goccia di consapevolezza.

Non c'era niente di più vero. Come aveva fatto a non vederlo? Probabilmente era questo che li univa più di qualsiasi altra cosa. Oltre Uriel, oltre il mare o la terra; oltre ogni difficoltà si erano trovati così bene a viaggiare insieme perché entrambi non riuscivano a fermarsi. Come non si fermava il cuore di Adrian, nonostante avesse appena perso un battito.

«Secondo te perché non ce la facciamo?» Si ritrovò a chiedere, avvertendo la propria domanda come un azzardo. C'era qualcosa di tremendamente pesante nei loro rochi mormorii.

La sentì stringersi nelle spalle. Ruotò il corpo per poterla vedere meglio, anche se al buio i contorni erano indistinti. Seguì la sua voce per orientarsi. Continua a parlare.

«Non lo so» rispose lei. «Forse quello che ci manca è solo un'opportunità. Se abbiamo entrambi viaggiato così tanto è stato per motivi diversi, io in cerca e tu in fuga. E nonostante questo, forse, l'unico problema è che non abbiamo ancora trovato il posto giusto, o la persona giusta.»

Un brivido gli percorse la schiena. Le sue dita furono sfiorate da qualcosa, altre dita che si ritrassero immediatamente come se fossero state scottate. Adrian allungò le proprie e lambì il dorso della mano di Ravenna, finalmente. 

«Forse quello che ci manca è solo qualcuno che ci chieda di restare.»

Uno spasmo involontario gli fece serrare la presa; si rese conto, ascoltandola, di essersi avvicinato più del previsto. Piegò leggermente il collo e sentì i suoi capelli sfiorargli un lato del viso. Se avesse sospirato il suo fiato sarebbe arrivato dritto sulla sua guancia; lo fece, accorgendosi del proprio tremito. Altri brividi, ora anche lungo le spalle, lungo la linea dal ventre all'incavo del collo. 

Nel momento in cui Ravenna percepì il suo alito sulla pelle si voltò di lato, sorpresa, e allora anche Adrian potè sentire ogni suo respiro dalla punta del naso a quella del mento, passando per le labbra socchiuse a lasciar uscire l'aria, improssivamente troppa e troppa poca. Troppa nei polmoni, non stava più espirando. Troppa poca fuori, non riusciva a respirarla.

Si sollevò leggermente e non riuscì più a resistere, si sentiva soffocare; avvertì il fiato di Ravenna sulle proprie labbra e capì dove fossero le sue; espirò bruscamente, di colpo, perché aveva poco tempo. Non c'era più tempo. Non c'era più spazio. La stava già baciando.

Non riuscì a provare sorpresa quando lei non lo respinse, troppo pieno di qualcos'altro, interamente pervaso dal calore, dal desiderio, dalla confusione. Altri brividi. Non capiva più niente, procedeva tutto troppo velocemente, inarrestabile. Ma non erano le sue mani quelle strette al suo collo? E non erano le proprie quelle che le accarezzavano il viso, le spalle, le braccia, di nuovo il viso? 

Aveva smesso di pensare, sapeva solo che vestiti gli impedivano di toccarle la pelle.

Troppa distanza.

Basta distanze.

Non poteva guardare cosa stava facendo, tutta la sua concentrazione era in quel bacio; trovò i lacci del corpetto, ma era assurdamente difficile slegarli.

Troppa distanza.

Basta distanze. Trovò il fiocco e lo snodò, tirò, tirò, tirò.

Le sue mani, dov'erano le sue mani? Non erano più sul suo collo. Dov'erano le sue mani? Il suo gilet era aperto. Lo tolse.

Tirò, tirò, tirò. Anche il corpetto di Ravenna era aperto. Glielo tolse.

Le camicie.

Troppa distanza.

Continuò a baciarla. Doveva staccarsi per riprendere fiato, oppure lo faceva lei. Respiravano per un istante, ma era troppo lungo e allora uno dei due tornava sulle labbra dell'altro. Il tempo correva e li trascinava entrambi, precipitosamente.

Le maniche erano difficili da togliere. Adrian fece più in fretta che poté. E i pantaloni! Troppo difficili. Già ansimava per lo sforzo. Lei ci riuscì, glieli tolse, e lui le tolse i suoi; era più facile sfilarli dalle sue gambe.

Ancora troppa distanza.

Era impossibile baciarsi tra gli ansimi. E allora le diede piccoli baci sulla mascella, la linea del viso, il collo, la curva delle spalle. Un bacio, aria. Un bacio, aria. Lei gliela stava rubando tutta. A lui stava bene così, preferiva la sua pelle. 

I gemiti gli attraversarono i muscoli, le costole, si conficcarono nel cuore che batteva troppo, troppo veloce. Le mani di lei gi stringevano le spalle, il busto, stringevano. Sembravano dirgli resta qui, non ancora, aspetta, aspetta.

Nessuna distanza.

La baciò come per dirle resta qui, non gridare, aspetta, aspetta.

Non c'è nessuna distanza.

 

Di nuovo in ritardo, maledetta me. Mi sono impantanata su questo capitolo per settimane, e ora che l'ho finito non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che sia terribilmente posticcio. Tutto accade molto rapidamente e questa rapidità avrà delle conseguenze, nei capitoli successivi, ma il timore che sia eccessivamente rapido sta diventando per me una certezza. Mai come adesso ho bisogno di un vostro riscontro, se avrete voglia di darmi una mano.
Per ora ringrazio invece tutti quelli che stanno leggendo questa storia, come sempre. Come le Navi Seguono il Vento esiste per me, ma è su questa piattaforma per voi. Quindi grazie per essere qui ad accoglierla. 

Au revoir,
Astrid

 

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Capitolo 8
*** Vela Cremisi ***




#7. Vela Cremisi


Diciassette anni prima

 

Ravenna leggeva seduta sotto un albero, lontano dalla strada che stava ospitando il primo giorno di mercato per quella stagione. Era una primavera mite, più calda delle precedenti, l'ideale per starsene in pace all'ombra di un leccio.

Era ben consapevole del fatto che la quiete non sarebbe durata a lunga. Ormai Merrytt il mercante doveva già aver finito di preparare il proprio banco, e questo significava che Adrian era libero di gironzolare per Cerys. Quasi sicuramente l'avrebbe cercata per infastidirla, visto che sembrava l'unico divertimento che avesse quando veniva nel suo piccolo villaggio.

Guardò il sentiero, quasi aspettandosi di vederlo arrivare solo perché aveva pensato a lui, ma la via era vuota e silenziosa. Anche troppo.

Il grido la spaventò tanto che si alzò in piedi di scatto, lasciando cadere il libro sul terreno umido. Adrian rideva mentre Ravenna riprendeva fiato e gli lanciava un'occhiataccia che lui non si premurò di notare.

«Avresti dovuto vedere la tua faccia» esordì il ragazzino ormai undicenne, continuando a ridacchiare.

«Dovrai vedere la tua quando ti avrò conciato per le feste» lo minacciò lei, recuperando il libro da terra con un gesto secco.

Adrian le fece la linguaccia e scappò via, sapendo che quel gesto l'avrebbe fatta infuriare; Ravenna fu sul punto di lanciargli contro il libro, ma i libri non si dovevano mai lanciare.

Ricordava le raccomandazione di sua madre, quando sei anni prima aveva voluto insegnarle a leggere. All'epoca la malattia l'aveva già indebolita, gli eccessi di tosse la coglievano mentre le spiegava come si pronunciavano le lettere, gli insiemi di lettere e le intere parole. Ma si schiariva la voce e andava avanti ad istruirla, raccomandandole di avere sempre riguardo per le pagine fragili e le copertine sgualcite, perché un libro rovinato è conoscenza rovinata, un libro perso è verità persa.

Così ripose il libro nella grande tasca del grambiule che indossava, con cura e assicurandosi che non potesse scivolare fuori, e si mise a correre dietro Adrian-Insopportabile-Hill.

 

◄►

 

«Non lo faccio, non lo faccio, non lo faccio!» Si lamentò Adrian, battendo i piedi sul terreno e stringendo le braccia al petto mentre le sue guance si gonfiavano. Ravenna gliele sgonfiò con le dita.

«Allora rimarrai stupido per sempre.»

«Io non sono stupido!»

La bambina non rispose, tornando sulle pagine del suo libro.

«Non mi va di imparare a leggere» si impuntò, ma lei lo stava ignorando. «Mi hai sentito? Non ho voglia di imparare. È noioso.»

Ravenna era stufa. Nei loro incontri precedenti lui l'aveva sfidata a chi arrivava primo all'ultima bancarella, e lei aveva perso. Poi l'aveva sfidata a chi riusciva a mangiare più velocemente la propria metà del panino che il fornaio aveva regalato loro, e lei aveva perso. L'aveva sfidata a chi si arrampicava più in alto, a chi riusciva a catturare una lucertola, a chi costruiva la fionda migliore. Lei non sapeva nemmeno come si costruiva una fionda. Ogni volta aveva perso e ogni volta lui aveva proposto qualcos'altro che sapevano entrambi lui essere molto più bravo a fare.

Ora toccava a lei.

«Hai solo paura di non riuscirci» lo canzonò.

«Posso riuscirci benissimo» ribatté lui piccato. «Non ci vuole niente.»

«Sì, sì» lo assecondò Ravenna fingendo indifferenza. Non ci sarebbe voluto molto perché Adrian capitolasse e raccogliesse la sfida.

«Sì» confermò lui. «E te lo dimostrerò.»

La figlia del fabbro chiuse il libro di scatto e saltò in piedi: finalmente la sua occasione.

«Bene, allora. Se in questa settimana imparerai a leggere decentemente avrai vinto tu, altrimenti vincerò io.»

Adrian fu troppo precipitoso quando disse: «ci sto.»

Non aveva idea in cosa si fosse appena cacciato.

Ravenna sorrise soddisfatta e con una certa malizia che aveva da poco acquisito, certa che Adrian fosse troppo maschio per riconoscere la luce nei suoi occhi. Gli tese la mano come aveva visto fare tante volte a suo padre quando stringeva accordi con i clienti o i commercianti del mercato. Lui la strinse con una sicurezza che per poco non la fece ridere, perché sapeva che presto sarebbe crollata. Si sarebbe presa la sua rivincita, ne era certa, e non voleva aspettare un solo istante per vedere l'espressione sconfitta di Adrian al posto del suo sorriso tronfio.

«Iniziamo subito» affermò impaziente, riaprendo il libro alla prima pagina.

 

◄►

 

Erano seduti l'uno accanto all'altra. Adrian reggeva il libro con entrambe le mani, Ravenna era protesa verso di lui per poter vedere ogni parola che provava a leggere.

Durante la settimana Adrian aveva senza alcun dubbio fatto dei progressi, imparando la pronuncia di ogni lettera dell'alfabeto. Pronunciare intere parole, però, gli richiedeva uno sforzo che tendeva i suoi lineamenti in una costante smorfia di concentrazione. Gli era rimasto solo quel giorno per riuscire a leggere una pagina intera, obiettivo che Ravenna aveva fissato perché sapeva che non lo avrebbe mai raggiunto. Pregustava già la vittoria.

«Il ca-cava...li, lie...liere...» si interruppe, faticando a leggere la parola successiva. Aggrottò le sopracciglia.

«Acquistò» lo aiutò Ravenna. «La “c” e la “q” si leggono insieme.»

Adrian sbuffò. «Acquistò» ripetè, deciso a non darsi per vinto nonostante dovesse ammettere che leggere fosse più difficile del previsto. «Piu fi...» fu interrotto.

«Più» lo corresse Ravenna «Con l'accento».

«Più» ripeté lui, scocciato. «Fi...du... fidu... fiducìa.»

«Fiducia. La “i” non si legge.»

Il bambino trattenne l'ennessimo sbuffo, sapendo che così avrebbe solo dato soddisfazione alla sua nemica. Quella era una vera guerra e non poteva mostrarsi debole di fronte all'avversario.

«Fiducia. Nele p...p...pr...»

«Nelle, Adrian, la “l” è doppia.»

«Sei troppo precisina!» Scoppiò lui, incapace di trattenersi oltre.

«E tu sei negato. Ammetti che non ce la fai e almeno te ne andrai con un po' di dignità.»

L'ultima cosa che lui avrebbe fatto sarebbe stato ammettere una sconfitta, o ammettere di non sapere cosa significasse la parola dignità.

«Pretendi troppo. Sono diventato abbastanza bravo» insistette con tenacia.

«Ma se ancora non sei capace di leggere gli accenti!»

Adrian scattò in piedi.

«Ma sono inutili, chi se ne frega!»

Ravenna lo imitò.

«Inutili? Allora perche non parli cosi con tutti, signor piu fiducìa

Adrian era al limite. Tanto arrabbiato da boccheggiare, anche se forse la sua, più che rabbia, era una vergogna che non voleva ammettere.

«Basta, mi sono stufato. Ho letto quasi tutta la pagina, ma tu continui a trovare errori stupidi!»

«Se tu fai errori stupidi non è colpa mia

Rosso in volto e sul punto di dire qualcosa di terribilmente spiacevole, Adrian tornò a guardare il libro e finì di leggere la pagina, arrancando e sbagliando. Voleva solo arrivare al punto.

«Ecco, ho finito, tieniti questo coso. Ho vinto.»

«Non hai vinto per niente» lo contraddisse Ravenna, afferrando il libro che lui le aveva scaraventato contro.

«Dovevo leggere una pagina intera e l'ho fatto, quindi ho vinto» persistette lui, stoico fino all'ultimo secondo.

«Quello non era leggere, era ripetere ad alta voce le lettere che vedevi. Quindi hai perso.»

«Adrian!»

La voce di Rhonon li raggiunse da qualche parte sul sentiero che si trovava pochi metri più avanti a loro, in piedi sotto un leccio.

«Adrian!» Richiamò il maggiore dei fratelli Hill, ormai diciassettenne. Era praticamente un uomo e Gren non perdeva occasione di ricordarlo a Ravenna, così come Merrytt trovava ogni scusa per ripetere al primogenito che si avvicinava il giorno in cui avrebbe dovuto trovare moglie... e che la piccola Ravenna stava diventando una graziosissima ragazza. “Ancora qualche anno” ripetevano entrambi i padri.

«Dovresti andare.»

«Non mi muovo finché non ammetti che ho vinto.»

«Allora rimarrai qui per sempre, perché te lo ripeto: hai perso.»

Piantandosi le mani sui fianchi Ravenna lo guardò con una fierezza che non le aveva mai visto prima. Adrian sapeva fin dal principio di avere torto, ero solo troppo orgoglioso per ammetterlo, ma la sicurezza in quello sguardo che lo stava trapassando lo fece arrendere: non avrebbe mai vinto quel confronto come non aveva vinto quella sfida.

«Non finisce qui» capitolò. «La prossima volta che veniamo qui ti farò vedere che posso leggere.»

«La prossima volta?» Ripeté lei incalzante.

«Fidati.»

Ravenna esitò un istante, poi emise un soffio convinto.

«Va bene» accordò, più adulta che mai. «Mi fido.»

 

Diciassette anni dopo

 

Alla luce del giorno, Avon pareva ancora più angusta di quanto non fosse apparsa la sera precedente. Le strade erano strette, le case ammassate le une contro le altre e spesso alte più di tre piani. Ogni via sembrava volerti ingoiare, sensazione amplificata dalla composizione quasi labirintica delle strade.

Ma il passo di Adrian era incerto per un altro motivo.

Quella mattina si era svegliato nudo e con un sorriso sereno, con la sensazione della pelle di Ravenna a diretto contatto con la propria, il suo calore, il battito del suo cuore contro il braccio steso su di lei. Era tutto perfetto, nonostante gli spifferi e il sole molesto, perché era immobile: non c'era un futuro, un domani, un dopo. Non c'era un quando saremo entrambi svegli.

Poi i rumori della vita. Perché c'era una vita fuori da quel letto, da quella stanza, da quella locanda. Il mondo continuava a girare, il tempo a scorrere. L'incertezza strisciava sotto le coperte e sussurrava, sussurrava una domanda che Adrian si era trovato costretto ad affrontare: cosa succederà adesso?

Avrebbe voluto essere più fiducioso. In un'altra situazione e con un'altra persona sdraiata al suo fianco non si sarebbe posto tanti dubbi, ma l'imprevedibilità di ciò che era successo di rifletteva in ciò che sarebbe potuto succedere da lì in avanti. Erano statai affrettati, spinti dal desiderio di rilasciare la tensione e sentire di essersi lasciati alle spalle ogni barriera. Allora perché si sentiva come se ne avessero appena alzata una ancora più resistente?

Mentre camminava al fianco di Ravenna si stava facendo un'idea piuttosto precisa. Non poteva leggere nei suoi pensieri, non era capace di decifrare le sue espressioni o il suo tono di voce. Aveva appena iniziato a capirla, ed ora era come tornato al punto di partenza. Ancora a chiedersi cosa le passasse per la testa e come avesse vissuto i suoi giorni fino a quel momento. O le sue notti.

Cos'ha provato stanotte? Cosa prova quando ci ripensa? Ci ripensa?

C'è stato qualcun altro, prima?

Avrebbe voluto provare a prenderla per mano, ma era un gesto così infantile. Solo per tastare il terreno, vedere la sua reazione, capire se il contatto le avrebbe fatto piacere. Il dubbio lo torturava anche se non lo dava a vedere. E se torturava anche lei era altrettanto brava a nasconderlo. Cosa lo frenava dal chiederle a cosa stesse pensando? Era stato il silenzio a portarli così vicini a separarsi.

Ma quando? Lei domandava in continuazione se qualcuno avesse visto suo padre, descrivendolo e ricevendo sempre la stessa risposta negativa. Sempre più frustrato, Adrian iniziava a dare segni di insofferenza, ritrovandosi a sperare che Avon si richiudesse completamente su di loro per lasciarli soli almeno un momento.

«No, non credo di averlo mai visto.»

Ma come poteva parlare di quella notte quando vedeva la sua ennesima espressione delusa? Probabilmente non era il momento adatto. Doveva lasciarla libera di fare le indagini e magari, quella sera, sarebbero stati di nuovo soli in una stanza.

«Io sì.»

Ravenna alzò gli occhi di scatto, incontrando quelli di un vecchio appesantito dall'età che stava seduto su una seggiola. L'artigiano, a cui Ravenna aveva appena chiesto informazioni, si girò a sua volta.

«Padre, non è il caso di far perdere tempo alla signorina» lo ammonì quest'ultimo, col tono di chi è abituato a prendersi cura di qualcuno con la testa un po' dura.

«Ma io l'ho visto» insistette il vecchio. «Passano molti pochi forestieri da Avon, e io non ho altro da fare che guardarli.»

Ravenna ignorò l'artigiano e si inginocchiò di fronte all'anziano genitore, concendendogli tutta la propria attenzione.

«La prego, me ne parli.»

«Oh, è passato di qui diversi mesi fa, ma se n'è andato quasi subito. Un reduce dalla Guerra del Ferro, di sicuro, li becchi al volo quelli lì. Anche il mio Torren è stato al fronte, sapete.»

Adrian lanciò un'occhiata all'artigiano che ascoltava con curiosità, senza però dar segno di condividere i ricordi del padre.

«Ricordo che andava in giro chiedendo la direzione per Valenia, come quasi tutti quelli che capitano da queste parti.»

Ravenna ebbe un fremito che la immobilizzò per diversi istanti. Adrian posò una mano sulla sua spalla, gesto che lei non parve nemmeno notare. Si alzò lentamente, l'espressione tipica di chi sta pensando freneticamente a qualcosa: non solo concentrata, ma del tutto persa in sé stessa.

«La ringrazio» disse infine, dopo aver preso un respiro profondo. «Buona giornata.»

Prima ancora che il marinaio si rendesse conto che la conversazione era finira Ravenna si era già incamminata, spedita come se sapesse perfettamente dove stava andando. E forse lo sapeva.

«Ravenna!» La richiamò Adrian, affrettandosi a raggiungerla.

Ma lei non rispose, completamente chiusa, insensibile al mondo esterno, proiettata verso la sua destinazione.

«Ravenna» la chiamò ancora inutilmente. Si decise ad afferrarle il braccio per fermarla; il contatto la riportò improvvisamente alla realtà.

Lo guardò con muta richiesta, aspettando che lui le spiegasse perché l'aveva fermata. Nei suoi occhi c'era un fervore che non aveva mai visto, un'emozione tale, una convinzione tale che cancellò in lui ogni obiezione. All'improvviso non sapeva cosa dirle, forse non l'aveva mai saputo.

«...Cos'hai intenzione di fare?» Chiese infine, ingoiando qualsiasi obiezione.

Aveva bisogno di un momento per per poter ritrovare un po' dell'intimità che avevano condiviso e quella complicità che, da un'istante, sembrava del tutto scomparsa, soppiantata dalla foga della ladra ora che, per la prima volta in anni, la speranza a lungo conservata si era trasformata in una possibilità concreta, in quell'occasione che le era sempre mancata e in quella certezza in cui aveva sempre confidato: suo padre era vivo. Vivo e da quella parte.

Magari questa sera, aveva pensato.

«Se ci sbrighiamo possiamo arrivare a Valenia prima di sera.»

Potresti non trovare niente.

Non lo disse. Non poteva dire niente. Non poteva offuscare la sua fiducia solo perché lui non ne aveva abbastanza, non poteva chiederle di pensare a lui, a loro due insieme, quando non era mai stata tanto vicina a trovare ciò che cercava da così tanto tempo. Non quella sera, forse nemmeno la successiva. Non azzardò previsioni più lontane.

«D'accordo, allora.»

La attirò a sé e le appoggiò una mano dietro la testa, dandole un bacio sui capelli che valeva tutto e non valeva niente: era una prova, la prova che non aveva già dimenticato la notte appena trascorsa; era una richiesta, la richiesta che la ricordasse anche lei nonostante i nuovi sviluppi; era una garanzia, la garanzia che lui sarebbe andato ancora con lei; era l'ultimo tentativo, il tentativo di farle capire che poteva andare ovunque desiderasse, ma non per questo non sarebbe potuta restare con lui. Restare semplicemente conservando un angolo della sua mente per lui, invece che abbandonarlo per inseguire qualcosa di altrettanto reale ma non altrettanto certo, né altrettanto vicino. Aveva ogni diritto di andare verso suo padre, ma sperava che avrebbe fatto attenzione a non perdere tutto il resto durante la strada.

E Ravenna si staccò, si voltò e si incamminò a ritmo spedito, afferrando la mano di Adrian per non lasciarlo indietro.

 

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Valenia era grande solo la metà di Port Gale, ma non c'era città in tutta la Costa Settentrionale che costruisse navi più belle e resistenti.

Le sue strade erano ampie e accoglienti, piene di vita e di luce; i sorrisi erano ovunque, a Valenia, persino il sole sembrava felice di illuminare una città tanto bella e rigogliosa. Di sera il paesaggio cambiava le proprie tonalità ma non la propria indole, come se fosse un'essere vivente pulsante e carico di energia. A Valenia c'erano ombre, ma non tenebre. C'era il buio, ma non l'oscurità. Dopo il tramonto toccava alla luna vegliare sulla grande statua al centro della piazza, ma anche lei era lieta di poter portare un po' di chiarore su un luogo che reclamava d'essere vissuto. Il mare stesso pareva più brillante sulle sue sponde.

Avevano camminato senza sosta per raggiungerla, fermandosi a mala pena per mettere qualcosa sotto i denti. Le energie di Ravenna sembravano inesauribili, alimentate dalla sua impazienza e dal suo entusiasmo.

Impazienza ed entusiasmo che si riflettevano sul suo volto anche in quel momento, ferma di fronte al fabbro locale che aveva intercettato mentre riordinava tutti i suoi attrezzi in previsione dell'imminente chiusura. L'uomo si era fatto pensieroso appena Ravenna gli aveva posto la fatidica domanda, come raramente si erano dimostrate le altre persone cui lei si era rivolta.

«Si chiama Gren, Gren Maerian.»

La bocca del fabbro si spalancò immediatamente e il suo sguardo di accese di vittoria; l'illuminazione fulminante lo lasciò a corto di parole per alcuni secondi in cui Adrian poté vedere la tensione entusiastica di Ravenna in ogni centimetro del suo corpo.

«Gren! Ma certo, certo! Mi ha dato una mano con un lavoro impossibile. Un gran fabbro, davvero un gran fabbro.»

La ladra trepidante lo esortò a dire se sapesse dove poteva trovarlo. Il marinaio non l'aveva mai vista così eccitata, ogni suo muscolo vibrante, ogni sua parola densa di aspettativa.

«Oh, non saprei proprio, ha preso una nave per la Costa Meridionale mesi fa.»

Bum.

Il cuore di Ravenna era appena caduto, privato improvvisamente delle sue ali.

La sua espressione si congelò, lei stessa – che aveva sempre emanato il calore dell'estate – parve irradiare il gelo più insopportabile. Rimase immobile, sotto shock, come se avesse appena visto qualcosa di agghiacciante. Non c'era più energia, non c'era più eccitazione, più nessuna aspettativa.

«Grazie dell'aiuto» intervenne Adrian improvvisando un sorriso, prendendo in mano la situazione.

Passò una mano sulla schiena di Ravenna e la sospinse delicatamente di lato, trovandola remissiva e completamente in balia del suo tocco. Avanzarono di poco, quando bastava per trovarsi fuori dalla portata dello sguardo sconcertato del fabbro.

«Ehi» provò a richiamarla col tono più morbido di cui fosse capace. Ma la sua voce non era mai stata morbida, e l'unica cosa che ottenne fu un rantolo rauco e così lieve che lei non lo avrebbe mai sentito se non fossero stati così vicini.

Spostò la mano per poterla portare sul suo volto, che fosse per una carezza o solo per darle una leggera spinta verso l'alto e poter vedere quanto fosse estesa l'ombra nei suoi occhi, fissi e spalancati. Non fece in tempo neanche a sfiorarla: Ravenna reagì d'istinto appena percepì il movimento con la coda dell'occhio, afferrandogli il polso e torcendolo come gli aveva già visto fare una volta, col capitano della Sposa Tradita, quel primo giorno sul ponte della nave. Gli bloccò la testa premendogli il proprio avambraccio sul collo, mantenendo ferra la presa sul suo braccio incastrato dietro la schiena. Non poteva muoversi né tentò di farlo.

«Sai cosa significa? Lo sai, Adrian?»

Adrian non la assecondò, ma non provò nemmeno a fermarla.

«Quanti porti ci sono sulla Costa Meridionale? Tu dovresti saperlo. E quante città ci sono nell'entroterra, quanti villaggi? C'è un'intero continente a sud del mare.»

Il suo tono, dapprima freddo e violento, colò a picco solo nell'ultima frase, tremando come se il ghiaccio si fosse trasformato in acqua corrente. Un tono disperato, un tono sconfitto e stremato.

Adrian si aspettò di sentire le presa allentarsi, eppure non fu così. Non riusciva a capire se Ravenna, in quel momento, fosse forte o debole, ancora reattiva o vicina a lasciarsi andare. Forse entrambe le cose. Forse così forte che ci sarebbe voluto tempo prima che le crepe finissero di spaccarla mandandola in frantumi.

Non capì quale movimento lei ebbe compiuto, ma da quella posizione piegata in avanti si ritrovò dritto con la schiena e di nuovo di fronte a lei, la sua mano che gli accarezzava i capelli e l'altra ancora stretta intorno al polso.

«Sai cosa significa, Adrian?» C'era una muta supplica nella sua voce, ma niente in confronto a quella nei suoi occhi.

Non c'erano lacrime tra le sue ciglia.

Adrian sapeva perfettamente cosa significava la partenza di Gren per la Costa Meridionale, ma cosa avrebbe ottenuto dicendole di sì? Cosa le avrebbe dato dicendole che sapeva, se non poteva dirle che capiva?

Poteva quasi sentirla incrinarsi millimetro dopo millimetro sotto il proprio sguardo e le proprie mani insufficienti, un declino lento, invece di un crollo immediato, dove la speranza lottava contro il tempo per ricomporsi prima della frana, e forse così riuscire ad arginarla.

Speranza. Ciò che lei aveva sempre avuto e a lui era sempre mancata. Avrebbe potuto darle qualcosa che non aveva? Forse non era questione di donargliene una nuova, forse era solo questione di farle ritrovare la propria, mostrarle la strada giusta che lei non poteva vedere perché portava al di là dei suoi confini. Portava nel mare, portava oltre il mare, dove da strada diventava una rotta navale: e se Adrian non aveva mai saputo come tenere alta la speranza sapeva da tempo come tenere alta una vela.

Le mise una mano dietro il collo e si morse le labbra, conscio che se le avesse offerto quella possibilità l'avrebbe solo allontanata da sé spingendola verso un padre fantasma, ma nessuno poteva essere così egoista da tacere in quel momento. Tanto meno poteva esserlo lui con lei, in qualsiasi istante della loro esistenza.

«Non ero l'uomo adatto a te nelle celle di Hyssen, non lo ero nella foresta e gli Dei soli sanno se lo sono stato ad Avon» deglutì con uno sforzo, saliva e pietre, «ma lo sono ovunque ci sia bisogno di attraversare il mare.»

Parole sospese, parole fluttuanti, parole dense che minacciavano di cadere da un momento all'altro se non avesse continuato a parlare. Ravenna lo sapeva e aspettava, un guizzo negli occhi a sottolineare che già percepiva quello che iniziava a capire, quello che lui cercava di dirle.

«Vuoi fidarti di me adesso? Io l'ho fatto con te.»

L'esitazione di lei lo intimorì per lunghi istanti, prima di scoprire che non era dovuta all'indecisione.

«L'ho già fatto, Adrian» mormorò. «Mi sono sempre fidata di te.»

 

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Il porto era ormai immerso nell'oscurità, ma non era quella la loro destinazione. Lo superarono, attraversando la banchina dove i suoni lenti e aritmici del dondolio della navi ormeggiate sembrava fare da ninna nanna alla città stessa.

«Lo conosco da anni. Per lungo tempo ho seguito solo le tratte da e per Valenia, prima di spostarmi a Port Gale. Ha dei registri per tutto, uomini e merci: se tuo padre ha preso una nave lui saprà quale e per dove» spiegò Adrian, procedendo a passo spedito.

«È da maniaci» constatò Ravenna, ritrovando un po' della sua schiettezza per tenere a bada l'agitazione.

«Ti stai lamentando?» Ridacchiò il marinaio, a suo agio in un luogo a lui tanto familiare.

«Suonava come una lamentela?» Ribatté lei.

Adrian scosse la testa divertito. «Ti consiglio comunque di essere più garbata se vuoi il suo aiuto. È piuttosto... suscettibile.»

«Non sono nuova agli uomini suscettibili» affermò Ravenna, lanciandogli un'occhiata allusiva.

«Non sono suscettibile» la rimbeccò lui.

«Ti stai lamentando?»

Al diavolo. Come facesse a rigirare in quel modo ogni conversazione era un mistero, ma forse per una volta conosceva un modo per contrattaccare.

«C'è un modo, sai?»

La spiazzò.

«Per cosa?»

«Per farmi smettere di lamentarmi.»

Ravenna assottigliò lo sguardo, scrutando il volto di Adrian in cerca di una risposta.

«Quale?»

Questo lui non l'aveva previsto. Non era certo di volerlo dire ad alta voce, aveva dato per scontato che lei ci sarebbe arrivata subito: ma o così non era stato o voleva obbligarlo ad una dichiarazione.

«Lo stesso per farmi smettere di parlare del tutto» continuò, sperando di non essere costretto a dare spiegazioni dirette.

«Quale?» Insistette lei.

«Lo stesso per immobilizzarmi completamente.»

O per fermarmi il cuore. Potrebbe succedere se tu lo facessi come l'hai fatto stanotte.

«Quale?»

Adrian ebbe un moto di frustrazione.

«Darmi una botta in testa» borbottò sconfitto.

Si fermò e alzò lo sguardo sul capannone di fronte a loro.

«Ma non ora che siamo arrivati.»

Ravenna osservò la costruzione di legno e pietra di fronte a lei, la facciata rovinata dalle intemperie e i due grandi battenti chiusi dove due finestrelle bloccate da inferriate lasciavano uscire la luce, segno che dentro ci fosse ancora qualcuno sveglio.

Adrian non bussò, aprì con cautela e fece un circospetto passo avanti dopo averle lanciato uno sguardo d'intesa. Non appena l'ebbe fatto alle orecchie di entrambi giunsero suoni e voci provenienti dall'interno.

«...Entro domani mattina, nel caso te lo fossi scordato!»

L'esclamazione tonante e graffiata aveva qualcosa in comune col tono che Ravenna aveva sentito usare al capitano della Sposa Tradita. Doveva essere una prerogativa dei marinai abbastanza importanti da dare ordini quella di avere un timbro sgradevole e dei modi di fare tanto rudi.

«Il porto è chiuso, imbecilli, non avete notato che è quasi notte fonda?»

La stessa voce, ora rivolta a loro. Ravenna fece un passo all'interno del capannone e poté notare da chi provenisse: un uomo più vicino ai cinquanta che ai quaranta se ne stava ritto sulle gambe e li guardava con un'aria a dir poco infastidita. Non era particolarmente alto – meno di Adrian – e i suoi capelli brizzolati erano lunghi, persino più di quelli di Ravenna. Un dettaglio che non toglieva virilità ai suoi tratti duri spolverati da una barba ispida, come scolpiti grossolanamente nella roccia allo stesso modo delle spalle larghe e del torace ampio, coperto da vari strati di pelle e tessuto.

«Aspetta, io ti conosco...» scrutò Adrian con intensità, studiandolo in cerca di un ricordo.

«Settimo...» esordì lui pacatamente, spostandosi in avanti di qualche metro, ma l'uomo non lo lasciò continuare.

Settimo, che nome idiota.

«Hill! Bastardo, pensavo fossi morto in mare.»

Ravenna alzò un sopracciglio con sconcerto, ma il commento non sembrò turbare Adrian. Dopotutto che ne sapeva lei di come si comportavano tra di loro i marinai?

«C'ho provato, un paio di volte.»

Difficile dire se stava scherzando o diceva sul serio.

«Strano che non sia successo con le navi di merda che costruiscono a Port Gale.»

Ora la ladra poteva dire di capire cosa si intendesse con orgoglio nautico valeniano. Si chiese per quanto sarebbero andati avanti a chiacchierare di navi e naufragi prima che uno dei due si decidesse a sottolineare la sua presenza.

Adrian si strinse nelle spalle, lasciando cadere l'argomento.

«Non dirmi che ti sei sposato e hai mollato» continuò quindi Settimo, alludendo con un cenno a Ravenna.

Non era esattamente questo che aveva in mente lei, ma era meglio che niente.

«No, lei è la mia compagna di viaggio. Mi sono preso una piccola pausa dal mare.»

«Capisco... chi vi ha detto di smettere di lavorare?» Tuonò l'altro, girandosi con uno scatto verso le altre sei persone affaccendate intorno a delle casse, quasi tutte ancora aperte. Ebbero tutte un sussulto e si affrettarono a riprendere le proprie mansioni, fino a quel momento abbandonate per ascoltare il dialogo in corso.

«E ha un nome la tua compagna di viaggio

A Ravenna non era mai piaciuto che qualcuno parlasse per conto suo, ma Adrian la anticipò nel rispondere senza nemmeno darle il tempo per aprire la bocca.

«Ravenna.»

«Nome curioso» fu l'immediata risposta.

«Perché Settimo è perfettamente normale» ribatté prontamente lei.

«Lo è, se sei il settimo di sette fratelli e tua madre è arcistufa di dare nomi a tutti i figli che ha cagato a ripetizione. La tua scusa qual'è?»

Adrian si tirò indietro con le spalle; l'ansia iniziale per la possibile reazione di Settimo al commento di Ravenna si era trasformata in curiosità di sapere chi l'avrebbe spuntata. Nessuno dei due era famoso per demordere facilmente, e lui li conosceva entrambi abbastanza bene da sapere che avevano sempre la risposta pronta. Chi sarebbe rimasto a corto di parole per primo?

«Chiedilo a mio padre. Oh, no, lui è sparito, salpato verso la Costa Meridionale. Aiutami a scoprire dov'è andato così posso chiederglielo: ti terrò informato.»

Se lo sarebbe dovuto aspettare, come ogni altra volta. Non importava quale fosse il discorso in corso, in un modo o nell'altro lei trovava sempre la via per centrare il punto che le interessava di più.

«Che vuoi che ne sappia di dove sia finito tuo padre? Fossi in te lo lascerei dov'è, dopo il nome che ti ha scaricato non gli devi proprio niente.»

«Settimo» intervenne nuovamente Adrian, per evitare che la discussione procedesse allontanandosi dal nodo principale, degenerando in una lotta verbale. «È partito da qui, da Valenia. Probabilmente l'hai segnato su uno dei tuoi registri.»

Settimo aggrottò le sopracciglia.

«È davvero per questo che siete qui? Per cercare questo...tizio?» Sembrava sorpreso, e non era difficile capirlo. Quella di Ravenna poteva apparire come una semplice provocazione all'orecchio di qualcuno che non fosse al corrente dei fatti.

«Sì» confermò Adrian. «Puoi darci una mano?»

«Se è partito da qui l'ho sicuramente segnato. Ma ho bisogno di più informazioni: quand'è passato di qui e come diavolo si chiama. Di sicuro avrà un altro nome stupido.»

«Quindi ci aiuterai?» Domandò il marinaio.

Una cosa che ricordava perfettamente di Settimo era che non bisognava mai cercare di capire le sue intenzioni basandosi sulle sue parole. Meglio avere una risposta chiara e impossibile da fraintendere.

«Lei no» borbottò, lanciando un'occhiata a Ravenna. «Ma te sì, e da quanto ho capito non c'è molta differenza. Ma sappi che ci sono modi più facili per andare a letto con una donna.»

Adrian si sentì colpito in pieno, un pugno che si incastrò nella sua gola. Deglutì nel tentativo di ingoiarlo e ritrovare le parole, ma quando riprese dovette comunque tossire per schiarirsi la voce.

«Bene, grazie» blaterò. «Si chiama Gren, Gren Maerian. Dovrebbe essere partito alcuni mesi fa.»

«Qualcosa di più preciso?» Si lamentò Settimo, ignorando volontariamente la reazione impacciata di Adrian. Quest'ultimo preferì non voltarsi per guardare l'espressione di Ravenna.

«No, mi dispiace.»

Settimo alzò gli occhi al cielo e sbuffò infastidito.

«Mi sei sempre piaciuto, Adrian, bastardo e testardo al punto giusto. Ma ho un lavoro da fare qui, non ho tempo per cercare un nome su migliaia di tutti quelli partiti alcuni mesi fa

«Lo farò io» si propose.

«Nessuno tocca i miei registri.»

Adrian arrischiò una sbirciata rapida verso Ravenna, cercando una soluzione, giusto il tempo per vederla mimare maniaco con le labbra.

«Allora lavorerò al posto tuo. Non è la prima volta che preparo un carico per la partenza.»

Questa seconda offerta parve solleticare Settimo molto più della precedente. Grattandosi la barba spinosa riflettè sul da farsi, passando lo sguardo da Adrian ai suoi uomini impegnati nelle operazioni di approntamento.

«D'accordo» dichiarò, riportando le braccia lungo i fianchi. «Affare fatto. E tu» continuò, indicando Ravenna, «gli devi davvero una notte indimenticabile.»

L'ho avuta pensò Adrian, ma nessun pensiero in proposito lasciò le sue labbra. Questa volta incontrò volontariamente gli occhi di Ravenna per vedere quale reazione avrebbe animato il suo volto: un mezzo sorriso ambiguo, ma gli occhi bassi di chi ricorda qualcosa con nostalgia.

E la vorrei di nuovo.

 

◄►

 

«Metra» annunciò Settimo.

Ci aveva messo parecchio tempo a tornare indietro. I suoi sei uomini se n'erano già andati dopo aver finito il lavoro: l'operazione di carico sarebbe stata effettuata l'indomani mattina, quando la nave da trasporto sarebbe approdata a Valenia. Adrian era seduto a terra, la schiena appoggiata alla parete del capannone, le gambe distese e la testa pesante, gli occhi tenuti aperti a fatica. Ravenna era accanto a lui con le ginocchia piegate, altrettanto vicina ad addormentarsi. Chissà da quanto erano così, con le mani che si sfioravano di nascosto quasi istintivamente mentre entrambi erano troppo concentrati a combattere contro il sonno.

La voce di Settimo li risvegliò; si alzarono entrambi a fatica, le braccia doloranti per i pesi trasportati: alla fine anche Ravenna aveva dato una mano, incapace di restare in disparte mentre qualcun altro faticava al posto suo.

«Non c'è nessun Gren Maerian, ma c'è un Gren Valerious, partito sei mesi fa per Metra a bordo della Nova Meridia.»

«Il nome di famiglia di mia madre» confermò immediatamente Ravenna. «È lui.»

«Ottimo, allora potete levare le tende.»

Fece per andarsene, ma Adrian lo fermò.

«Aspetta, Set...»

«Oh, giusto, figurarsi se non aveva anche bisogno di una nave» sbuffò parlando a sé stesso, intuendo immediatmente quale richiesta stesse per ricevere. «Domattina parte la Vela Cremisi verso Metra. È il viaggio inaugurale, quindi nessuno ci vorrà salire nel caso cada a pezzi, cosa che non succederà perché l'abbiamo costruita noi. Troverete un posto.»

Ad Adrian scappò un'immediato sorriso di lieta sorpesa.

«La Vela Cremisi

«Stanno demolendo la vecchia signora, così in suo onore hanno deciso di chiamare la nuova bambina come lei, che porta le sue vele.»

Il sorriso di Adrian divenne nostalgico; la Vela Cremisi faceva parte dei suoi ricordi di bambino e delle sue prime esperienze da marinaio, una nave che nella sua mente sarebbe sempre stata senza tempo. Ed ora un'altra Vela Cremisi lo avrebbe trasportato ancora una volta, sarebbe stata la speranza di cui Ravenna aveva bisogno.

«Ti ringrazio, Settimo.»

«Fatti ringraziare dalla tua compagna di viaggio. E ora fuori di qui, devo chiudere» replicò questi, burbero fino in fondo.

Adrian e Ravenna obbedirono immediatamente, uscendo nell'aria fredda della notte. Rimasti soli, lui aguzzò la vista nell'oscurità rischiarata solo dalla luce della luna fino a trovarla lì, ormeggiatatra tra due navi più grandi ma non altrettanto belle. Nessuna di loro aveva quella vela rossa, quasi nera a causa del buio, né quella linea sinuosa tipica di un'imbarcazione fatta per volare sull'acqua. Condusse Ravenna fin sotto lo scafo, dove il rumore delle onde era più forte e la Vela Cremisi appariva più imponente.

«Ti porterà da lui. Se è là, lei ci porterà dovre potrai trovarlo.»

Sentendo una pressione sull'avambraccio abbassò lo sguardo, ritrovandosi a guardare le dita di Ravenna che lo stringevano con delicatezza per indurlo a voltarsi nella sua direzione.

«Non te lo chiederò, Adrian. Non sono un marinaio, ma so che si tratta di un viaggio di due settimane fino all'altra sponda. E poi di chissà quante altre se da Metra si è spostato in un'altra città. Non ti chiederò di imbarcarti in questo casino.»

La serietà del suo sguardo era mitigata solo dalla grazia della sua voce, in un'insieme di inquietudine e insicurezza sfiancanti.

«Sono giorni che aspetto di imbarcarmi» ironizzò lui, ma lei non sembrava intenzionata a scherzare. La crucialità del momento era quasi dolorosa, forse perché faceva male pensare che Ravenna non avesse ancora iniziato a desiderare senza esclusioni la presenza di Adrian, forse perché faceva male pensare che nonostante la desiderasse volesse dargli comunque l'occasione, eterna e ripetitiva, di essere libero di seguire la propria strada.

Sospirò.

«Non me l'hai mai chiesto, Ravenna. Ho sempre scelto per conto mio.»

«L'ho sempre fatto, Adrian. Solo, non sempre ho usato le parole.»

Cosa doveva dirle? Come spiegarle che non l'avrebbe lasciata sola, non in quel momento, non dopo tutto... tutto quello che era successo? Non dopo che si erano ritrovati, avevano viaggiato insieme, si erano salvati a vicenda, in modo o nell'altro, e avevano quasi rischiato di separarsi di nuovo, comprendendo che nessuno dei due lo avrebbe voluto. Non dopo essere stati così vicini da non potersi più distinguere, anche se per una sola notte.

«Ti ho già fatto questa domanda, Ravenna, e tu non hai risposto. Poi me la sono ripetuta, credendo di aver trovato una risposta. Sono ancora convinto di aver scoperto quella giusta. Ma ora devi essere tu a dirmelo: vuoi che venga con te? Non devi chiedermi niente, devi solo rispondere.»

Le onde riempirono il silenzio, placide e costanti. Molto diverse dal battito del suo cuore, altrettanto ininterrotto ma non altrettando calmo.

«Sì.»

«Sì?»

«È quello che ho detto.»

Adrian tirò un silenzioso sospiro di sollievo, odiando il modo in cui continuava ad aver bisogno di conferme per essere sicuro di non averla fraintesa. Sarebbe mai stato certo di qualcosa, con lei?

Guardò la Vela Cremisi, dove finalmente sarebbe stato lui il padrone della situazione, a suo agio e senza paura. Forse in un ambiente tanto familiare avrebbe trovato più forza e più sicurezza. Se lo augurava, perché ne aveva estremo bisogno.

«Allora non abbiamo molto di cui discutere.»

In realtà avevano quasi troppo di cui discutere, ne erano entrambi consapevoli; ma non era il momento adatto né lo sarebbe stato finché la Vela Cremisi non li avesse riportati indietro, vincenti o sconfitti, ancora stretti da un legame che il viaggio avrebbe potuto definire tanto quanto recidere.

E nell'attesa sarebbero rimasti i ricordi, i ricordi e le speranze: perché anche Adrian, per la prima volta, sperava in qualcosa.

 

Non credo ci sia bisogno di sottolinearlo, ma a scanso di qualsiasi equivoco "Maerian" si legge "Merian". E sì, come avrete ben capito è proprio il "nome di famiglia" di Ravenna, praticamente il suo cognome.
Come sempre mi auguro che anche questo capitolo vi sia piaciuto, che vi abbia emozionati almeno un po' come ha emozionato me. Abbiamo visto Ravenna in una veste molto diversa, scoprendo che tutto sommato anche lei può essere ferita. E abbiamo scoperto che Adrian sa essere un uomo di valore, un valore non misurato tramite le armi. Ad ogni capitolo vi porto sempre più a fondo delle loro anime, spero che leggere vi permetta di sentirle.
Grazie, grazie alle fantastiche persone che sono intervenute per darmi il loro supporto con le loro recensioni, lunghe o brevi che siano. Grazie anche tutti gli altri che silenziosamente non saltano un appuntamento.
Il grazie più grande fa senza alcun dubbio alla fantastica Enide, che trova sempre il tempo di parlare direttamente al mio cuore di scrittrice.
Alla prossima!

Au revoir,
Astrid

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Capitolo 9
*** Fuori rotta ***




#8. Fuori rotta

Lo sciabordio delle onde contro lo scafo della nave pareva più cupo sotto coperta. L'aria viziata che si respirava dava l'idea di trovarsi in una prigione, e forse Ravenna lo avrebbe preferito. Non vedeva alcuna differenza tra l'essere chiusa nella pancia della Vela Cremisi piuttosto che dietro una soffocante serie di sbarre ben conosciute, eccetto il fatto che in prigione non aveva mai avuto la nausea come in quella prima settimana di viaggio.
Era stato l'unico compromesso che il capitano aveva accettato: in qualità di mercantile, la Vela Cremisi non era adatta al trasporto passeggeri, ma con una generosa somma di denaro e la promessa che Ravenna non avrebbe messo piede sul ponte erano riusciti a trovare un accordo.
Così, in mancanza di qualsiasi altra mansione da svolgere, durante il giorno la ladra dormiva; solo a sera, quando i marinai scendeva sotto coperta e iniziavano a bere sidro, accompagnati dalle deboli lampade a olio che illuminavano solo una parte dello spazio, si svegliava e montava la guardia per sé stessa contro i più ubriachi dell'equipaggio. Fino ad allora nessuno di loro l'aveva ancora infastidita, forse perché scoraggiati dal piantonamento di Adrian sull'amaca di fianco alla sua o dal fatto che, immobile nel suo angolino, Ravenna non aveva l'espressione di una che fosse bene importunare.
Anche in quel momento, attorniata dalla confusione di diciassette persone schiamazzanti, se ne stava in disparte aspettando che tutti si addormentassero, così da sgattaiolare sul ponte e respirare un po' d'aria pulita.
«Quel bastardo mi ha rubato anche le mutande!» Esclamò un marinaio. «Mi sarei incazzato come un maledetto kraken se non fosse stato dannatamente bravo. Fottuti ladri, loro sì che sanno come va la vita!»
L'ennesimo sorso di sidro affogò le sue parole. Ravenna avrebbe volentieri dissentito sulla sua affermazione, ma probabilmente non era il caso di sottolineare come si guadagnasse da vivere.
«Lo sanno davvero» borbottò Adrian, a voce tanto bassa che lei non era sicura di averlo realmente udito. Eppure, a giudicare dall'attenzione che tutti rivolsero su di lui, non era stata l'unica a sentirlo.
«Qualcuno qui ha avuto brutti incontri» commentò qualcuno.
«Brutti?» Adrian alzò incautamente lo sguardo su Ravenna. «No, non brutti.»
Qualcosa, nella mancanza di un suo sorriso o nella tensione dei suoi lineamenti, non rasserenò Ravenna come le parole avrebbero dovuto fare. E quello sguardo azzardato, per quanto breve e oscurato dalla scarsa luminosità in cui erano immersi, fu notato.
«Ma non mi dire, l'hai salvata da un fuorilegge? Il prossimo passo è uccidere il drago, Hill?» Bofonchiò il marinaio che aveva introdotto il discorso, palesemente sarcastico e già mezzo ubriaco.
Benché Ravenna preferisse parlare da sé di ciò che la riguardava in prima persona, in quel caso decise di aspettare e vedere quale risposta avrebbe fornito Adrian: se avesse spiegato cosa realmente intendeva dire con la sua frase a mezza voce o se si sarebbe limitato a negare. O se, magari, non avrebbe risposto affatto.
Lui parve pensare la medesima cosa, perché si appellò a lei con un secondo sguardo più lungo del precedente. Questo le riversò addosso la curiosità di tutti i presenti, finché ogni paio di occhi fu puntato sul suo viso semi nascosto dall'ombra, contratto nell'indecisione. Si distese solo dopo parecchi secondi, quando capì che se non avesse parlato nessun altro lo avrebbe fatto. Lui le stava lasciando la possibilità di scegliere quale versione raccontare, cosa ammettere e cosa tacere: a farle decidere le parole da usare fu la coscienza che il silenzio di Adrian non fosse un favore quanto un timore. Il timore di mandare in pezzi il precario equilibrio in cui versava il loro rapporto solo dicendo una cosa sbagliata.
Lo conosceva bene, perché era il motivo per cui lei stessa non aveva dato voce ad alcuno dei suoi pensieri. Il motivo per cui da giorni si parlavano a mala pena.
«No» disse infine, scegliendo la soluzione più definitiva. «La fuorilegge sono io.»
Per alcuni secondi il silenzio palesò il dubbio dei marinai mentre riflettevano su quanto fosse attendibile la sua rivelazione. Poi una prevedibile risata spezzò la quiete, segno che nessuno era disposto così facilmente a credere a quella che poteva sembrare solo una teatrale presa in giro.
Né Adrian né Ravenna ebbero reazione. Si limitarono ad attendere che l'ilarità scemasse, che le loro semplici espressioni per nulla divertite mostrassero quanto lontani fossero dallo scherzare.
«Pool, mi sa che sti due fanno sul serio.»
Basso, biondo e rosso in faccia, il marinaio che aveva appena parlato era forse il più stupido dell'equipaggio, quello che tutti chiamavano solo per sollevare i pesi perché persino legare una corda sarebbe stato troppo difficile per lui. Dicevano che era stata una botta in testa a ridurlo così, anni prima, quanto l'albero maestro della nave con cui era appena salpato gli era crollato addosso. Lo chiamavano Finn il Fortunato: era stato un miracolo che ne fosse uscito vivo.
Ma a volte i più stupidi erano i primi a raggiungere la verità, liberi del peso di inutili speculazioni e privi di cronico scetticismo.
«Cosa, esattamente, vi fa credere che non stia dicendo sul serio?» Domandò Ravenna, sporgendosi leggermente in avanti per permettere a tutti di vedere nitidamente il suo volto.
«Be'» esordì Pool, «non hai l'aria da fuorilegge.»
La risposta fece dubitare Ravenna su chi fosse realmente lo stupido dell'equipaggio.
«Certo, perché i fuorilegge non desiderano altro che sembrare dei fuorilegge» commentò sarcastica.
Nessuno notò lo sguardo di Adrian rivolto a Pool, con cui sembrava volerlo pregare di non ribattere per evitare una discussione che, lui lo sapeva bene, aveva perso in partenza. Non tanto perché Ravenna stava effettivamente dicendo la verità, sarebbe stata in grado di convincere qualcuno persino che il kraken era solo un cucciolo che desiderava essere abbracciato, ma perché la sua caparbia dote oratoria era paragonabile ad una tempesta in alto mare: anche se sopravvivi non la oltrepassi indenne.
«Sembri una ragazzina! Cos'hai, quindici anni?»
«Ventotto.»
«Sì, e io sono il maledetto capitano della Regina del Mare
«Ma Pool, il capitano della Regina del Mare è l'ammiraglio della Marina del Re, non tu» si intromise Finn, interrompendo il botta e risposta appena iniziato.
Pool si voltò molto lentamente verso di lui, trattenendo un moto di stizza.
«Appunto.»
Finn aggrottò le sopracciglia, confuso, ma non replicò ulteriormente.
Quando l'attenzione di tutti tornò a focalizzarsi su Ravenna, la trovò con la testa bassa e un sorriso divertito che solo Adrian riuscì ad associare alla giusta causa, di cui gli arrivò conferma quando lei rialzò il mento e fece schioccare la lingua. Qualsiasi cosa stesse per dire, o fare, avrebbe spazzato via ogni dubbio, e probabilmente non era qualcosa a cui la maggior parte di loro avrebbe voluto assistere.
Si alzò e li raggiunse vicino alle lampade, dove senza chiedere nulla si allungò e afferrò la bottiglia da dove Pool l'aveva lasciata, vicino alle proprie gambe, per prenderne un lungo sorso indolente.
«Parliamone, capitano» disse con un sorriso.
«Va bene, parliamone» assentì lui, strappandole la bottiglia dalle mani.
«No, non vuoi parlarne» si inserì Adrian, rivolto a Pool.
«Sì che ne voglio parlare.»
«No, non lo vuoi» insistette.
«Voglio parlarne, Hill, sta zitto.»
«Okay, forse lo vuoi, ma non te lo consiglio davvero» tentò ancora.
«Ficcati il tuo consiglio...»
«Pool» si intromise una terza voce.
«...Su per il culo, e poi...»
«Pool.»
«...Buttati dalla coffa, di testa...»
«Pool.»
«Sta un po' zitto Finn!»
Finn, che fino a quel momento aveva dondolato sul posto, si fermò di botto e rimase immobile per qualche secondo.
«Va bene» fu tutto quello che aggiunse facendo spallucce.
Pool lo guardò storto ancora per un po', sebbene il Fortunato non parve curarsene.
«Tornando al principio» riprese con più calma, «parliamone, ragazzina.»
Alzò lo sguardo pensando di ritrovare Ravenna ancora in piedi di fianco a lui, ma lei si era seduta tra alcuni marinai dall'altra parte del cerchio. E aveva ripreso la bottiglia.
«Ho cambiato idea, non ho voglia di parlarne.»
A quell'affermazione Adrian osservò la sua postura rilassata, la malizia sul suo volto e la piega leggera delle sue labbra, tutti indizi che gli avevano insegnato a riconoscere il momento in cui Ravenna aveva già vinto. Fece rapidamente due più due – la nuova postazione della ladra, la sua calma, i volti divertiti e curiosi degli altri marinai – e giunse ad una conclusione che, come aveva previsto, a qualcuno non sarebbe piaciuta affatto.
«Avevi ragione, Pool. Era meglio se ne parlavate» commentò, arrendendosi. La piccola dimostrazione di Ravenna gli sarebbe costata una settimana di ripicche da parte di uno dei marinai più arcigni dell'equipaggio.
«Eh?» Pool aveva l'aria sconcertata e il tono spazientito, ma il modo in cui aveva arricciato il naso rendeva l'insieme più buffo che minaccioso. «Che diavolo state dicendo?»
Il suo timbro grave e roco non bastava a mascherare il timore che lo stava lentamente abbindolando, il sospetto di essere preso in giro da tutti quanti. Ognuno dei presenti sembrava trattenere qualcosa, che fosse una risata, un commento o uno sguardo un po' troppo insistente.
«Hill, apri quella dannata bocca!» Berciò.
«Ravenna?» La chiamò in causa Adrian, esortandola a rispondere al posto suo.
«Evitiamo di farla tanto lunga, quindi iniziamo direttamente con l'inventario» disse lei senza esitazioni.
Allungò un braccio dietro la schiena e portò davanti a sé una piccola scarsella quadrata di pelle chiara, con un’unica fibbia a chiuderla frontalmente. La aprì senza difficoltà e infilò una mano all'interno; al primo oggetto che apparve nella sua mano Pool sgranò gli occhi, finalmente pieni di comprensione, e iniziò a tastarsi i fianchi freneticamente.
«Ma che...»
«Il disegno di una donna,» iniziò ad elencare Ravenna, «un anello di ferro, un acciarino... a che diavolo ti serve un acciarino su una nave di legno? Un coltello a serramanico...»
Pool, che già si era alzato in piedi furente, la raggiunse con due falcate e le strappò la scarsella di mano, raccogliendo gli oggetti che lei aveva ordinatamente poggiato sul pavimento. Il suo volto era rosso di rabbia e alcol.
«Dei degli inferi, come hai fatto a prenderla? Era legata alla mia cintura!» Sbraitò, senza minimamente impressionarla. «Maledettissima...»
«Ladra?» Lo anticipò lei. Una domanda chiara anche senza l'uso di quel tono allusivo che per diversi attimi fece perdere la parola al marinaio.
Lo vide combattere contro sé stesso, le labbra che tremavano e lo sguardo incendiato. Forse la sua era stata una soluzione un po' drastica, ma in pochi minuti aveva convinto Pool e il resto dell'equipaggio che non stava mentendo. Restava solo di ascoltare la sua ammissione.
«Dannatissima...» borbottò ancora, bloccato tra la voglia di insultarla e il rifiuto di darle ragione.
«Prendila con filosofia, capitano: sarebbe stato molto peggio se avessi dovuto dimostrare di essere un'assassina.»
Mentre Ravenna restava salda nella sua calma imperterrita, gli occhi bassi a guardare le proprie dita tamburellare sul pavimento mentre aspettava la resa di Pool, Adrian vide l'uomo muovere la mano che reggeva il coltello. Prima ancora di pensarlo era già scattato in piedi e aveva compiuto il primo passo, sentendo la testa girare a causa dell'alcol e dell'eccessiva velocità del movimento.
Mentre tentava di non cadere di lato, allargando le braccia per riprendere l'equilibrio, tutte e due le mani destre di Pool completarono il movimento e rimisero il coltello nella scarsella. Ormai in piedi si accorse che tutti gli sguardi erano di nuovo su di lui; la sua reazione, per nulla passata inosservata, era stata immediata e goffa, come se persino il suo istinto fosse stato ubriaco. Per qualche motivo, ogni volta che si ergeva a protezione di Ravenna finiva solo col peggiorare le cose o fare un'immensa figura da sempliciotto.
Resistendo all'impulso di tirarsi uno schiaffo, prese la bottiglia da terra e bevve un altro sorso mentre le risate a suo discapito distendevano nuovamente l’aria.
«Dannatissima ladra» riconobbe infine Pool. «Ti butterei in mare se non fossi maledettamente brava!»

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Finn il Fortunato si aggrappò alla cintura di Adrian, con l'unico risultato di farlo rovinare a terra insieme a lui.
Mentre tentava di rimettersi in piedi, operazione molto più complicata di quanto avrebbe dovuto essere, notò uno scampolo di capelli biondi dileguarsi oltre la scala che conduceva al ponte. Affilò lo sguardo vagamente annebbiato, ma la macchia chiara in quel mare di teste scure era già sparita. Fece però in tempo a notare una seconda persona, difficile stabilire chi, appendersi alla scala e iniziare a salire con evidenti difficoltà. Spinto da un sentimento d'allarme non meglio definito avanzò per pedinare quella che senza dubbio era Ravenna e chiunque la stesse seguendo.
L'aria, più fredda di quanto avesse immaginato, non lo infastidì come si sarebbe aspettato, ma ebbe il potere di portargli una ventata di lucidità che fece giusto in tempo a fargli notare due persone avvolte nell'ombra – vicino al parapetto, una dei quali portava un cappuccio – prima di sparire rapida com'era arrivata. Li raggiunse con passi pesanti, ma nessuno dei due parve notarlo. Lui, invece, notava perfettamente l'atteggiamento lascivo dell'uomo e la totale indifferenza della donna. Una scarica di fastidio gli fece prudere le mani e intorpidì la sua mente, lasciandola preda di un senso di disturbo nitido quanto di origine imprecisabile. Molto prima che i suoi pensieri dessero forma alle sue intenzioni, queste si manifestarono con un movimento della mano che andò a sollecitare la spalla dell'uomo; ottenuta l'attenzione desiderata caricò il braccio con più energia del necessario e liberò il colpo dritto sul suo naso. L'uomo cascò a terra privo di sensi mentre Adrian si scuoteva la mano dolorante.
«Ma che cavolo!» Esclamò Ravenna soffocando la voce.
«Oh, non si ricorderà niente domattina» la liquidò Adrian.
«Neanche tu» constatò lei, guardandolo bene in viso.
Il marinaio alzò lo sguardo: «tu neppure» rilevò, osservando le sue guance rosse e lo sguardo lucido.
Questo la fece ridere; dapprima una risata trattenuta, fermata dall'avambraccio davanti alla bocca, ma presto un'esplosione aperta e liberatoria, probabilmente anche un po' folle. Ma impossibile da non seguire.
«Oh cavolo» ansimò Adrian dal troppo ridere, «ora tutti i miei compagni d'equipaggio mi vorranno affogare.»
«Allora, se devi morire a breve...»
Ravenna non completò mai la frase; si porse in avanti, un movimento che attrasse Adrian come se entrambi fossero stati le due ganasce di una stessa pinza. Si aggrappò con le labbra a quelle di lei, in procinto di cadere da sé stesso e non essere mai più Adrian Hill, ma solo un marinaio di passaggio su un mare a cui di lui non era mai importato niente. Improvvisamente Ravenna, con quel bacio, dava senso al mare e alle onde, alle navi e alle vele, perché se ogni viaggio premetteva l'esistenza di una meta ultima, conscia o inconscia che fosse, approdare sulla sua bocca e sulle sue braccia valeva la pena di traversare interi oceani.
Sentì il mondo cedere sotto di lui, le gambe fluttuare e dissolversi finché non smise di percepirle. Poi l'impatto col pavimento, i piedi di Ravenna poco più in là che aveva appena fatto in tempo a scansarsi mentre Adrian cadeva in avanti.
«Oh, Dei» esclamò lei, abbassandosi con una velocità eccessiva per i suoi riflessi indeboliti dall'alcol. Perse l'equilibrio e atterrò sul petto di Adrian, che proprio in quel momento stava tentando invano di rialzarsi.
«Sei...» iniziò stizzito, dimenticandosi immediatamente cosa stesse per dire. Era di sicuro un insulto, ma poteva insultare gli occhi verdi che lo guardavano innocenti? Poteva insultare quel viso che avrebbe voluto veder crescere senza averne avuta la possibilità? O forse la avrebbe avuta, se solo avesse provato a cercarla invece di lasciare che il suo ricordo scivolasse via. L'avrebbe baciata, quando entrambi avrebbero avuto sedici anni e lei fosse stata corteggiata da altri ragazzini? L'avrebbe baciata, quando entrambi avrebbero avuto vent'anni e lei avrebbe rischiato un matrimonio che sicuramente non avrebbe desiderato, forse proprio con suo fratello maggiore come avrebbero voluto i loro genitori? L'avrebbe baciata in un altro mondo, in un altro tempo, dove il suo viso sarebbe stato lo stesso ma forse lei non sarebbe stata la stessa?
«Qui» disse infine. «Adesso. Così.»
«Grande spirito d'osservazione» lo canzonò lei.
Il suo sorriso sarebbe stato identico, ma per ragioni diverse. Non avrebbe voluto un altro sorriso.
«E sei tu» realizzò con strana sorpresa.
Vide lo sguardo accigliato, confuso e un po' esasperato di lei. I suoi occhi sarebbero stati identici, ma non quello sguardo. Non avrebbe voluto un altro sguardo.
Non avrebbe voluto un'altra Ravenna.

◄►

«Devo fare una cosa» esordì Ravenna, spalla a spalla con Adrian mentre sbarcavano sul molo di Metra.
«Non dirmela, scommetto che non la voglio sapere» replicò lui imperturbabile, ormai assuefatto a quel genere di situazioni. L’allarmismo che lo coglieva ogni qual volta Ravenna esordiva con frasi simili lo aveva abbandonato, in qualche momento di qualche giorno, senza che se ne accorgesse, lasciando il passo ad una poco sana abitudine.
«Non prenderti in giro, Adrian, lo sai a cosa mi riferisco. Io ho dovuto pagare per il viaggio, ricordi?»
Il marinaio di passò la lingua sul labbro inferiore, costretto ad ammettere che aveva un’idea ben precisa riguardo a cosa dovesse fare una ladra in una situazione come quella.
«Verrò pagato tra poco, non serve…»
«Serve» lo interruppe Ravenna. «Non ti lascerò pagare niente per me.»
Adrian arrestò il passo, fermandosi appena oltre l’inizio della banchina.
Sto già pagando per te. Il pensiero lo colse ben prima che ne formulasse l’intenzione. Non aveva cercato né di spiegare né tanto meno di definire la sua scelta di seguire Ravenna anche oltremare, benché sapesse perfettamente che il principale motore delle sue azioni fosse il cuore e non la testa. Ma aveva messo da parte i propri desideri per dare la priorità a quello che animava Ravenna da più di due anni; non era questo, forse, il prezzo che stava pagando? Tenersi paradossalmente a distanza per non farla allontanare, ma soffrire di quel distacco perché sapeva come ci si sentiva ad essere tremendamente vicini e sapeva, con altrettanta amarezza, che forse non sarebbero più tornati ad esserlo. E, mentre l’alba che tingeva di rosa la vasta baia di Metra, tutta strutture basse e larghe, strade ampie che portavano al centro città e lunghi moli che si incuneavano nel calmo mare meridionale, si chiedeva se anche lei se ne rendesse conto e in quale misura se ne preoccupasse.
«Ci rivediamo qui, d’accordo?» Riprese lei, all’apparenza estranea ai pensieri di Adrian.
«Sì… ma cerca di tornare presto» la pregò, una richiesta che aveva un significato molto più profondo di quanto lui per primo non tenesse ad esprimere, ma non meno di quanto sperava lei riuscisse a capire.
«Farò in fretta» lo rassicurò Ravenna. «Tornerò prima che tu te ne accorga.»
Se solo fosse vero.

◄►

Ravenna camminò tranquilla lungo il lastricato, le monete appena acquisite ben nascoste in una cucitura interna del corpetto.
Non si era aspettata che Adrian la lasciasse andare così facilmente; benché certa che si fosse ormai abituato all’idea di lei come fuorilegge, sapeva bene che convivere con una consapevolezza fosse ben diverso dall’accettarne tutti gli aspetti. Eppure Adrian aveva opposto solo una debole resistenza prima di capitolare, con una rassegnazione molto simile alla delusione. Ma se anche aveva percepito una certa amarezza nel suo comportamento era troppo concentrata sulla propria missione per rendersi conto di cosa l’avesse scatenata, convinta che fosse solo la fiacca opposizione di quella parte di lui che non approvava il suo stile di vita. Inconsapevole del proprio stesso egoismo camminava al fianco del marinaio, guardando ogni viso di ogni persona cui passava accanto come se, saltandone uno soltanto, avrebbe potuto perdere proprio lo sguardo di suo padre.
Attraversarono una strada ampia e acciottolata, brulicante di vita come poche città della Costa Settentrionale potevano essere persino nei giorni di festa. Le case stesse erano ammassate le une sulle altre come se non ci fosse spazio per tutte, eppure la sensazione che si aveva era del tutto diversa da quella percepibile ad Avon; Metra, invece che schiacciarti, sembrava volerti dire che non saresti mai stato solo tra le sue mura.
La locanda in cui Adrian la guidò era colma delle più diverse personalità, da marinai ad artigiani a forestieri a cavalieri, uomini, donne e bambini, gruppi nutriti e individui solitari, sobri e ubriachi, tristi e allegri. Non una persona era simile all’altra, una disomogeneità che dava uno strano effetto nel momento in cui vi ci si immergeva. Ravenna l’avrebbe definito rassicurante: come un sasso non spicca in una distesa di ghiaia, così la diversità di una persona non spicca nella diversità di una folla intera. Ma per Adrian, lo si poteva intuire facilmente dalla sua espressione, la sensazione doveva essere molto simile a quella del soffocamento. Dava l’impressione di qualcuno senza più fiato, sull’orlo dell’asfissia, che annaspa disperato in cerca di aria che non trova.
«Vuoi aspettarmi fuori?» Gli domandò lei, posando una mano sulla sua spalla mentre entrambi sostavano appena oltre l’ingresso, in cerca di una fessura di spazio per potersi fare largo nel marasma.
«Odio Metra» borbottò Adrian in risposta, e fu tutto quello che disse prima di voltarsi e tornare all’esterno.
Ravenna rimase sola a trattenere un ghigno divertito, chiedendosi come fosse possibile che un marinaio, abituato a vedere i più disparati generi di persone e a rimanere schiacciato sottocoperta con un pugno di uomini altrettanto variegato, faticasse a sopportare di stare in quel piccolo universo caleidoscopico.
Ma poi… poi pensò a quanto difficile sarebbe stato trovare una persona nella vivace confusione di Metra. Come poteva scorgere un volto in particolare quando ce n’erano così tanti intorno a lei? A chi poteva chiedere, chi poteva aver visto suo padre? Chi era fermo abitante della città e chi invece solo un forestiero? Metra era grande, era piena, era multiforme. C’era da impazzire solo a pensarla una tale enormità. Le prese qualcosa che non era paura, non era ansia, non era incertezza, era la mancanza d’aria di chi è stato troppo a lungo sott’acqua. Era il bisogno di tirare il fiato, il bisogno di sapere che oltre i milioni di sfumature di blu del mare, sopra la superficie irradiata dal sole, c’è tutto quello che ti serve per sopravvivere e che potrai smettere di cercare. Ma doveva uscire dall’acqua. Doveva uscire dalla locanda. Forse doveva uscire da Metra, forse dal mondo, ma l’istinto la guidava solo un passo alla volta ed era il passo per tornare sulla strada, dove forse avere una visuale più libera sarebbe stato come riaprire gli occhi dopo un’immersione.
«Ravenna?»
Il tono perplesso di Adrian non raggiunse le orecchie sorde della ladra, né la prima né le successive tre volte in cui si fece meno esitante e più inquieto. Aumentando il passo per star dietro alla marcia serrata di Ravenna, la raggiunse e dovette afferrarle il braccio per costringerla a fermarsi o, almeno, a notare la sua presenza.
«Si può sapere che ti prende?»
Lei sentì la domanda, ma non riuscì a capirla. Fu come se Adrian avesse parlato in un’altra lingua, una a lei totalmente sconosciuta e mai udita prima. Lo sguardo che gli rivolse forse esprimeva quello stesso sconcerto, forse no, ma non se lo domandava né le importava. Un solo concetto attraversava la sua mente, nitido e pulito: come lo trovo qui in mezzo?
«Ravenna, parla» la incoraggiò il marinaio, ma a quel punto sembrava solo spazientito. «È successo qualcosa?» Tentò ancora, a corto di ipotesi cui poter attribuire quell’improvviso e anomalo comportamento.
Lei si guardava intorno, ma non era come se stesse cercando qualcosa. L’irrequieto guizzare dei suoi occhi era quello di un una persona perseguitata da antichi fantasmi che sembravano farsi più vicini di secondo in secondo; l’agitazione di Ravenna, invece che scemare, si intensificò finché non iniziò a girarsi da una parte all’altra, guardandosi alle spalle, ai fianchi, di fronte e di nuovo alle spalle.
«Ehi, fermati, Rav…» Adrian tentò di contenerla posandole le mani sulle braccia, ma lei si muoveva troppo scompostamente perché lui riuscisse ad avere una presa salda senza farle male.
«Per tutti gli Dei, Maerian!» Gridò, attirando l’attenzione di molte delle persone a loro più vicine. E, finalmente, anche la sua.
Ravenna si immobilizzò all’istante. Lo guardò, gli occhi immersi in una riflessione intima sebbene, dal modo in cui lo guardava, sembrava riuscire perfettamente a mettere a fuoco il marinaio. Lui che, stupito dal fatto che il suo urlo avesse davvero funzionato, non aveva previsto come procedere da lì in avanti.
«Maerian! Gren Maerian!» urlò lei, ricominciando a girare su sé stessa.
Questa volta, però, si muoveva con più calma, più consapevolezza; si stava rivolgendo a tutti coloro che li stavano ascoltando, fermatisi lungo la strada ad osservare quel bizzarro sipario.
«Qualcuno lo conosce? Qualcuno ne ha mai sentito parlare? Gren Maerian! È un fabbro della Costa Settentrionale, forse lo avete conosciuto come Gren Valerious!» Annunciò ancora, cercando volti che esprimessero un riscontro.
Ma nessuno si fece avanti e la fiumana riprese il suo corso sul lastricato.
«Dove diavolo sono finita, Adrian?» Domandò, le grida di poco prime divenute ora un flebile mormorio.
Non ebbe bisogno di dare ulteriori dettagli perché tutto per lui acquistasse un senso. Forse ne era sempre stato consapevole, senza accorgersene. Forse lo sapeva da quando l’aveva incontrata e stava solo aspettando quel momento.
Il momento in cui Ravenna avrebbe improvvisamente guardato il mondo e si sarebbe accorta di quanto lontano si fosse spinta da casa.

◄►

«Non ho avuto un attacco di panico» precisò Ravenna, facendo scivolare il dito lungo il bordo del boccale che stringeva con l’altra mano.
«Certo, come no.»
Il sarcasmo di Adrian le fece assottigliare lo sguardo mentre immaginava di tirare un lieve colpetto alla sedia su cui stava dondolando, così da farlo finire col culo a terra.
«Ho avuto una passeggera perdita del senso d’orientamento. Mi sono trovata un po’ spaesata, ecco tutto.»
«Sì, ovvio.»
«Adrian…»
«Ravenna.»
La ladra sollevò un sopracciglio, il piede che le prudeva fastidiosamente nello stivale dalla voglia di dare una spintarella alla gamba della sedia.
«Stai per fare un bel volo, marinaio» lo avvertì, stoppando il movimento del dito.
«Ah-ah.»
Era una sfida. Il suo tono tronfio e beffardo era un invito bello e buono. Che non dicesse di non esserla andata a cercare.
Rapida come ogni qual volta doveva essere imprevedibile, sebbene in quel caso gli avesse dato un certo preavviso, allungò la gamba sotto il tavolo e infilò il piede sotto la sua sedia, tra le due gambe sollevate da terra. Adrian fu rapido ad afferrare i bordi del tavolo con un sorrisino, dimostrando di essere preparato. Ma lei non aveva ancora fatto niente, e quando il marinaio si accorse di non aver subito alcuno scossone guardò in basso, cercando una spiegazione. Ravenna colse l’attimo e gli tirò addosso il contenuto del suo boccale; le mani di Adrian si alzarono all’istante a proteggergli il viso, guidate da un fugace istinto controproducente: appena perse la presa sul suo sostegno, il piede di Ravenna diede il colpo di grazia e lui perse totalmente l’equilibrio, cadendo all’indietro con un’imprecazione allibita.
«Tu. Sei. Diabolica.» Grugnì lui, spuntando da sotto il tavolo mentre si rialzava dal pavimento.
Risollevò la sedia e la sistemò ben piantata a terra, ignorando le risate di metà degli avventori della taverna.
«Sono solo ancora un po’ frastornata dall’attacco di panico» lo prese in giro Ravenna.
«Tu sei frastornata e basta» mugugnò lui, accarezzandosi la nuca con la mano zeppa di sidro.
«Io so dov’è.»
Lo scambio di sguardi tra i due fu bruscamente interrotto quando entrambi alzarono di scatto il proprio, immediatamente sulla difensiva, in direzione di una voce profonda troppo vicina perché potesse non essere rivolta a loro.
«Ti ho sentita prima, in strada. Gren Valerious. Io so dov’è.»
Ravenna era seria, nessuna emozione parve incrinare la maschera solida con cui fissava lo sconosciuto avventore, ma gli occhi di Adrian corsero immediatamente ai suoi nell’udire quelle parole. E poterono scorgervi, accuratamente nascosta nell’immobilità delle sue pupille, lo stupore per quell’inaspettata notizia e l’angosciosa trepidazione che ne conseguiva.
«Dove» disse solo, e non suonò affatto come una domanda.
Era concentrata, interamente rivolta al proprio obiettivo. C’era qualcosa di inarrestabile nella tensione del suo corpo.
«Perché lo cerchi?» Indagò l’uomo.
Una mossa decisamente sbagliata, Adrian lo sapeva bene. Si alzò in piedi, pronto a intervenire, nello stesso momento in cui lo fece Ravenna, già munita del suo pugnale che aveva estratto chissà quando.
«Dove» ripeté, ed ora c’era una nota rabbiosa nel tono forzatamente basso.
«Woah, calmati. Pensavo solo che potessimo farci un favore a vicenda, io ti dico quello che vuoi e tu dai un ragionevole prezzo all’informazione.»
Sebbene le sue mani si fossero portate in posizione di difesa, a palmi aperti di fronte a sé, l’uomo non sembrava particolarmente impressionato dalla reazione della ladra. Forse Ravenna avrebbe dovuto stare attenta. O forse era lui che stava sottovalutando la persona che aveva davanti.
Lei non si fermò a pensare a cosa stava per fare o alle conseguenze che ciò avrebbe avuto, sembrava completamente estranea al resto del mondo, compreso Adrian. Era l’unica spiegazione per la pazzia che commise: con un braccio contro il suo petto spinse l’uomo, troppo sorpreso per opporre resistenza, contro il muro, facendo appello a tutta la propria forza. Lo schiacciò contro la parete sfruttando tutto il proprio peso e gli puntò l’avambraccio sotto al mento. Le bastava fare un po’ più di pressione per iniziare a soffocarlo.
«Dove» Abbaiò.
Il tutta la taverna il chiasso si stava affievolendo mentre l’attenzione veniva calamitata dalla scena in corso in quell’angolo. Adrian era vigile ma immobile, consapevole che qualsiasi sua mossa sarebbe stata colta come una minaccia dall’amica, in quel momento molto più simile alla disperata donna in cerca di fantasmi che aveva incontrato che alla bambina in cerca di more che aveva conosciuto. Lui doveva mantenere la calma che lei non aveva più.
«Puttana» fu l’unica risposta che ottenne prima che lui gli sputasse in faccia.
Adrian trattenne il fiato, facendo un passo avanti quando vide il volto di Ravenna indurirsi ulteriormente, i lineamenti contratti in un tentativo – l’ultimo – di serbare la pazienza rimasta.
«Ravenna… » la richiamò, ma lei non lo degnò di uno sguardo. Difficile stabilire se lo avesse almeno sentito.
«Dove» ringhiò per la terza volta.
Ogni centimetro del suo corpo diceva ad Adrian che sarebbe anche stata l’ultima.
«Putt…»
Prima che terminasse l’insulto, Ravenna lo afferrò per il bavero e lo spinse contro il tavolo, schiacciandogli la faccia sulla superficie di legno che scricchiolò sotto la forza dell’impatto. Con un braccio dolorosamente piegato dietro la schiena, stretto nella salda presa della ladra, e la punta del pugnale a solleticargli minacciosamente la guancia, l’uomo capitolò.
«Al porto, va bene? L’ho incontrato al porto, diceva di chiamarsi Vaughan, ma ho visto la sua richiesta di sbarco e c’era scritto Gren dannato Valerious» borbottò, quasi le parole si rifiutassero di uscire dalla sua bocca.
«Adesso. Voglio sapere dov’è adesso» insistette lei, aumentando la pressione.
«Non lo so! Cosa vuoi che ne sappia, eh? So solo che è sbarcato, ma dubito che sia andato molto lontano.»
«Perché?» A stento il tono di Ravenna poteva essere definito interrogativo.
«Perché quel bastardo è quasi del tutto cieco.»
Nonostante nulla – nella posa, nell’espressione – fosse cambiato, Adrian riusciva distintamente a sentire che in Ravenna fosse appena successo qualcosa. C’era qualcosa di granitico, ora, nella sua immobilità, più interiore che fisica. Se prima esprimeva vibrante energia nella sua semplice staticità, ora il terremoto si era placato e nemmeno il vento soffiava più.
Improvvisamente Ravenna liberò l’uomo, facendosi da parte, solo per avviarsi a grandi passi verso la porta. Sulla soglia sembrò ripensarci e tornò indietro, questa volta dirigendosi dall’oste che guardava la scena basito, uno straccio e un boccale ancora in mano.
«Per il disturbo» asserì, lasciando sul banco qualche moneta.
Fece nuovamente marcia indietro e sparì oltre la porta.
Tutti, nella taverna, fissavano il punto da cui era uscita. Tutti eccetto l’uomo che aveva appena interrogato e che a quel punto fissava Adrian come se fosse una valida alternativa al vendicarsi direttamente su quella pazza che lo aveva minacciato.
«Ha appena avuto un attacco di panico» buttò lì con casualità, a mo’ di giustificazione, fingendo di sistemargli la camicia sulle spalle. «Be’, buona… continuazione» gli augurò con un sorriso tirato. «Addio.»
Non aveva nemmeno terminato la parola che si stava già affrettando verso l’uscita. Con un piede dentro e uno fuori si fermò, rifletté, valutò l’accaduto e tornò indietro, aggiungendo qualche moneta a quelle lasciate da Ravenna. Fece un cenno all’oste e, per la milionesima volta, seguì la sua compagna di viaggio – amica, amante, estranea – fuori da un casino e dritto verso il prossimo.

◄►

Adrian aggrottò le sopracciglia, rendendosi conto che aveva già visto quella scena.
No, meglio: l’aveva vissuta. Su una strada di Vessa, poche settimane prima, di fronte ad una porta dove non importava più quanti anni avevi o quante esperienze avessi vissuto. Lì tornavi bambino.
«Sicura che sia qui?» Domandò a Ravenna.
«Sì.»
Il silenzio era calato più volte da quando si erano fermati in quella stessa posizione parecchi minuti prima. Adrian non aveva voluto forzare Ravenna a fare un passo avanti, ricordava ancora bene la propria indecisione di fronte alla porta di casa sua. Voleva lasciarle il tempo di trovare la sicurezza necessaria a compiere quel passo, perché se per lui era stato difficile gestire l’idea di rivedere la sua famiglia dopo una manciata di anni, per lei doveva essere pressoché impossibile metabolizzare l’idea di essere riuscita, finalmente, a trovare il padre mai più rivisto da quando aveva undici anni. Un padre che era scomparso, si era imbarcato verso la Costa Meridionale e aveva cambiato nome, invece che cercare la figlia perduta.
Nessuno dei due ne aveva fatto parola, ma Adrian era certo che l’esitazione di lei fosse dovuta ad una paura che entrambi tacevano.
«Non hai un pochino esagerato, prima?» Le chiese, solo per distrarla.
Da quando erano usciti dalla taverna, Ravenna era stata troppo concentrata nello scoprire dove abitasse Gren – Vaughan – per discutere di qualsiasi altra cosa.
«Non secondo la definizione di “esagerato”. Com’è che non sapevo esistessero i permessi di sbarco? Avremmo potuto controllare al porto, avremmo fatto prima e non avrei dovuto esagerare» rispose lei, rimbalzandogli la palla con un’altra domanda che evitasse alla conversazione di morire di nuovo.
Aveva bisogno di allentare la tensione più di quanto non si rendesse conto.
«Colpa mia, non ci ho… non ci ho pensato. I permessi non servono ai marinai, solo ai passeggeri. E io ho prestato servizio solo su navi mercantili. A te non è servito perché tecnicamente non eri a bordo, perciò in pratica sei qui illegalmente. Cosa dovrebbe significare che non hai esagerato in base alla definizione di esagerare?»
«Esagerare significa fare più del necessario, giusto? Io ho fatto lo stretto necessario ad avere la risposta che mi serviva. Quindi se mi beccano qui potrei essere arrestata?»
«No, ti sbatterebbero sulla prima nave di ritorno alla Costa Settentrionale. Non è che minacciare un essere umano sia definibile come strettamente necessario
«Quel tipo è vivo e in salute, non gli ho fatto neanche un graffio. Anche se probabilmente ho ucciso il suo orgoglio.»
«Se morirai nel sonno saprò il perché.»
Non ci fu un solo istante in cui Ravenna avesse staccato gli occhi dalla porta chiusa. Avrebbero potuto divagare per giorni, il sole sarebbe potuto sorgere ancora su quella calda sera e poi tramontare di nuovo, sorgere e tramontare, senza che Ravenna si sarebbe spostata di un millimetro o avrebbe trovato il coraggio di farsi avanti. Poche cose spaventavano quella ladra così testarda e determinata, ma probabilmente nulla poteva fare paura come realizzare il proprio obiettivo.
Senza preavviso Ravenna deglutì rumorosamente e prese un sospiro tremante, riflesso del brivido che corse sul suo viso e nei suoi occhi. Preso alla sprovvista, Adrian realizzò solo in quel momento di non aver davvero capito quanto quella situazione fosse tremenda per lei. Si sbagliava, non aveva già vissuto quella situazione tanto quanto lei non aveva bisogno di distrarsi. Aveva solo bisogno che qualcuno le ricordasse quanta strada aveva fatto e le stringesse la mano in quell’ultimo passo, e Adrian aveva percorso parte di quel viaggio con lei solo perché quella mano potesse essere la propria.
«Ehi» sussurrò, girandosi verso di lei e posandole una mano sul gomito. Guardò nei suoi occhi e vide l’ombra di un pianto che non si sarebbe mai liberato. Non seppe che altro fare, o forse non c’era altro che volesse fare: la attirò a sé e la strinse con la stessa forza con cui lei ricambiò, stringendogli la casacca di pelle tra le dita sorprendentemente ferme nonostante il suo respiro tremasse.
«Non ti ho mai ringraziato abbastanza. Sei venuto fin qui con me. Sei qui con me, adesso» mormorò lei. Adrian sentì il suo sussurro come fiato caldo sul collo, mentre guancia contro guancia inclinava il viso un po’ di più per sentire il profumo dei suoi capelli biondi. «Ma devo…»
«Devi andare da sola. Lo so» la anticipò lui. «Lo capisco.»
«Sai… dovevo ritrovare mio padre, ma una parte di me non riusciva a non cercare anche te tra i volti di ogni città che attraversavo.»
Adrian chiuse gli occhi, infilando le dita tra i suoi capelli e sfiorandole la nuca, sospirando silenziosamente. Il cielo sapeva come avrebbe voluto poterla stringere più forte, in quel momento.
Da quando si erano rincontrati era successo tutto sbalorditivamente in fretta: si erano visti, si erano seguiti, si erano separati nel cuore per ritrovarsi ancora più vicini. Si erano conosciuti di nuovo, si erano capiti, si erano amati per una notte. Avevano attraversato il mare e oltrepassato le differenze. Non si erano fermati un solo istante.
Ma in quel momento, ne era certo, il tempo era fermo per loro.
«Mi hai trovato, alla fine.»
«No, Adrian, te l’ho detto. Mi sei capitato all’improvviso, inaspettatamente. Sarei dovuta ripartire il giorno prima da Port Gale, ma ero stanca. Stufa di correre di città in città senza trovare niente. E in un momento ho pensato “perché tutte le persone a cui abbia voluto bene sono così lontane, adesso?” “Sono io che sbaglio?” Invece tu eri più vicino di quanto non fossi mai stato da diciassette anni. In fondo alla strada, su una nave. Pronto ad andartene un’altra volta, ma non ancora. Non an-»
Le parole furono interrotte dal bacio che Adrian non poté più trattenere; le sue labbra trovarono istintivamente la via verso quelle di lei, rapide nell’approdarvi quanto calme nel solcarle. Non aveva fretta, Adrian, di porre fine a quel contatto. Voleva sentire ogni secondo, l’umido calore della presenza di Ravenna bocca contro bocca. Eppure fu lui ad allontanare per primo il proprio volto, spaventato dai propri stessi sentimenti che, dormienti, si risvegliavano ogni volta che superavano l’invisibile linea tra amicizia e qualcosa di più intimo.
«Va da tuo padre, ora» la incoraggio ad occhi bassi. Si fece coraggio e li puntò nei suoi, prendendo il suo viso tra le mani: «ma ricordati di tornare.»
Con un bacio sulla fronte la lasciò andare, fuggendo dalla confusione delle proprie emozioni e dall’evidenza del proprio egoismo: perché la verità era che detestava l’idea di essere arrivato alla fine di quel viaggio, ora che non sarebbe più stato la sua spalla, il suo unico compagno.
Perché la verità era sempre stata una: di quel viaggio, lui non era mai stato l’obiettivo. Ed ora pregava di non essere stato solo una parentesi.

Non ci credete, eh? Stento persino io. Mi dispiace tremendamente di aver interrotto la pubblicazione per un intero anno e non cercherò giustificazioni in proposito. Grazie a Dio ho trovato lavoro e, purtroppo e per fortuna, questo occupa buona parte del mio tempo. Non chiederò scusa né per questo né per il fatto che nei miei momenti liberi cerchi di mantenere una vita sociale e mi occupi anche di altri progetti.
Ciò non toglie che non ho mai avuto l'intenzione di fermare la storia e che per tutto il tempo ho provato a continuare, perché ci tengo da morire. Farò di tutto per non lasciar passare ancora così tanto tempo prima del prossimo capitolo.
Tornando alla storia, siamo davvero ad una svolta come non ve la immaginate; il viaggio della ricerca è finito? Sembra di sì. Ma durante la traversata si sono messi in moto meccanismi più complessi e, anche se Ravenna è arrivata al proprio porto, le rotte da seguire sono ancora molte. Fuori rotta è il momento in cui la destinazione inizia a cambiare: stiamo girando il timone verso l'ignoto.

Au revoir,
Astrid

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Capitolo 10
*** Sottocoperta ***




#9. Sottocoperta

A notte fonda, Adrian era steso sulla propria branda ancora vestito e con gli occhi spalancati.
Ravenna non si era ancora fatta viva; aveva pensato che la gioia euforica del ricongiungimento le avesse fatto perdere la cognizione del tempo, così aveva tenuto a bada la preoccupazione. Ma più l’oscurità si infittiva e la luna procedeva nel suo percorso, più difficile diventava porre dei freni all’apprensione che sentiva svilupparsi al centro del petto.
Forse si era già dimenticata di lui. Aveva ottenuto ciò che desiderava, a cos’altro le serviva un marinaio scapestrato e assolutamente inaffidabile?
Ricordò il giorno in cui si erano incontrati di nuovo per la prima volta, cresciuti e irriconoscibili. Allora i ricordi avevano bussato prepotentemente alla sua mente, ora quello stesso momento era diventato un ricordo che rischiava di tormentarlo molto più di quanto avessero fatto i precedenti. Il loro viaggio avrebbe preso il posto della loro infanzia, i pericoli avrebbero sostituito i dispetti e le more non avrebbero più avuto alcun valore se confrontate con gli abbracci, i baci, gli ansiti. Era stato capace di lasciarsi alle spalle la bambina di Cerys, ma non era certo che sarebbe mai più riuscito a lasciarsi alle spalle la donna delle foreste.
Si rigirò sullo scomodo materasso puntellandosi sui gomiti, reggendosi la testa con le mani come a volerle fare da barriera contro i deleteri influssi di paranoia. Ma la verità era che la paranoia era nata all’interno stesso della sua mente, dove nessuno scudo poteva difenderlo.
Si stava lasciando condizionare dalla paura che lo aveva accompagnato per tutta la traversata da una costa all’altra, il timore che giungere alla meta avrebbe fatto scordare a Ravenna tutta la strada fatta per raggiungerla e ciò che aveva trovato lungo il cammino. 
In realtà potevano esserci decine di spiegazioni per giustificare il suo ritardo, se solo si fosse preso la briga di vagliare le ipotesi: poteva essersi fermata da Gren per la notte con l’intenzione di tornare da lui il mattino successivo, per dirgli che andava tutto bene e che sarebbero tutti tornati sulla Costa Settentrionale; poteva essere sulla strada del ritorno in quello stesso momento in cui lui si accoltellava il cervello; poteva esserle successo qualcosa mentre era là fuori da sola, al buio, in una città che non conosceva. L’ultima volta in cui aveva pensato che lei lo avesse abbandonato aveva scoperto che non era potuta tornare da lui perché era stata arrestata. Non era il caso di agitarsi troppo.  Quindi si alzò di scatto dal letto e saettò verso la porta, aprendola di slancio e senza curarsi di richiuderla.
La notte di Metra era persino più calda di quanto la ricordasse, cosa che non gli fece rimpiangere di aver dimenticato giacca e gilet nella stanza alla locanda. Mentre si avvicinava alla casa di Gren, furono le sue orecchie a captare i primi segnali, molto prima di quando gli occhi riuscirono ad intravedere la figura seduta a lato della strada.
 
Nelle mie braccia dormirai
Finché il sole sorgerà
E tu sola mai sarai
Finché la mamma ti proteggerà
 
Bambina mia, dormi serena,
Chiudi gli occhi al canto della sirena.
 
Già domani crescerai
Finché la luna sorgerà
Ma sempre bambina resterai
Finché il papà ti proteggerà
 
Bambina mia, dormi serena,
Chiudi gli occhi al canto della sirena.
 
Se distinguere le sagome nell’oscurità non era un compito semplice, al contrario riconoscere quella voce era facile come prendere un respiro, per Adrian. Così come lo era riconoscerne le sfumature che da bambino sapeva a menadito, recentemente tornate ad essergli familiari come i colori di un passaggio già visto e ritrovato.
Dopo aver udito le prime note rimase ad ascoltare abbastanza a lungo da rendersi conto che le tinte di quella ninna nanna erano tristi, le note trasparenti come lacrime.
Ciò che avrebbe dovuto essere rassicurante diveniva doloroso in quel canto non solo malinconico, non solo mesto, non solo sconsolato: quello… quello era il suono di un cuore spezzato.
 
◄►
 
Ravenna aveva bussato tre volte.
La prima, con mano quasi tremante, fu in un gesto furtivo e forse troppo lieve.
La seconda, con qualche secondo di scarto, dopo aver deglutito per inghiottire il piombo che le invadeva la gola.
La terza, con le sopracciglia aggrottate, persino un po’ scocciata: non aveva fatto anni di ricerche e cambiato continente per poi non trovare nessuno in casa.
«Sì, sì, arrivo» aveva borbottato una voce anche più infastidita dall’altro lato della porta.
La ladra ebbe un tuffo al cuore improvviso e, sebbene non del tutto inaspettato, ancor più sconvolgente delle sue previsioni; con la testa che girava per la trepidazione si preparò al momento in cui la porta sarebbe stata aperta, nonostante sapesse che non sarebbe mai stata davvero pronta: se il solo suono di una voce poteva farle mancare un battito, la vista del viso che aveva tanto a lungo cercato avrebbe potuto fermarle il cuore.
I cardini aveva cigolato nei propri sostegni e una lama di luce aveva fenduto l’oscurità, espandendosi e riempiendosi di un’ombra dai contorni umani; Ravenna trattenne il fiato.
«Chi è là?» L’aveva esortata l’uomo appena apparso sulla soglia.
Non assomigliava affatto a Gren Maerian.
Ravenna aveva sempre creduto che non avrebbe avuto dubbi, che avrebbe riconosciuto suo padre tra mille non appena avesse visto il suo viso, anche solo di sfuggita. Eppure il vecchio di fronte a lei non aveva nulla dell’uomo che ricordava.
Gli occhi lattiginosi l’avevano guardata senza vederla, le rughe sul volto segnato dalla fatica erano profonde e gli rigavano la pelle come crepe. I capelli, canuti ma ancora folti, erano disordinati e visibilmente sporchi, nulla a che vedere con la lucida capigliatura del fabbro di Cerys.
Quella figura grigia e raggrinzita non era suo padre.
Eppure…
Eppure la voce era la sua. Le mani – macchiate dall’età – erano quelle dell’uomo abituato a battere sul ferro caldo dalla mattina alla sera, instancabilmente. Il modo in cui le sue labbra erano contratte dal disappunto era lo stesso che rivolgeva alla sua unica figlia quando scappava nel bosco senza autorizzazione, facendolo spaventare a morte.
Suo padre era diventato cieco, ma lei vedeva… vedeva ancora tutto.
«Dannati ragazzini» aveva borbottato il vecchio, preparandosi a richiudere la porta.
«Aspetta.»
Gren Maerian aveva aspettato.
Cosa dire? Come iniziare? La mente di Ravenna era azzerata, ma lui stava aspettando. Forse l’aveva sempre aspettata. Il desiderio di ricongiungersi a lui aveva rapidamente superato la paralisi senza che lei ne fosse realmente consapevole, trovando l’accesso alle sue labbra per pronunciare ciò che per anni aveva sperato di poter ripetere una volta ancora.
«Padre…» aveva mormorato con un filo di voce. Aveva alzato una mano come per toccarlo, ma a metà della via l’aveva lasciata ricadere sul fianco. Non voleva spaventarlo. «Padre» aveva così ripetuto, ora con più forza. «Sono… sono Ravenna.»
Il vecchio aveva aggrottato le sopracciglia, difficile dire se per la sorpresa o lo sconcerto. Le sue palpebre si erano aperte un po’ di più, la sua postura statica si era fatta ancor più immobile, le labbra erano diventate un’unica linea tesa in quella che pareva più paura che gioia.
«Chi sei? Io non ho figli, signorina. Non conosco nessuna Ravenna.»
All’istante, Ravenna aveva sentito il suo intero corpo congelarsi.
Non era possibile. Non poteva essersi sbagliata, gli anni erano passati e i segni del tempo avevano sfigurato il panorama un tempo familiare, ma non poteva essersi sbagliata. Era lui. Doveva essere lui. Poteva non essere lui?
Il dubbio già spontaneamente sorto nella sua fede aveva trovato terreno fertile per crescere e mettere radici; forse aveva visto quello che voleva vedere. Forse era così disperata da trovare similitudini dove non ce n’erano. Un pensiero terrificante… ma non così impossibile.
«Cerco Gren Valerious» aveva ripreso a stento. «Mi è stato detto che abita qui.»
Aveva forzato un contegno che a stento riusciva a mantenere. Le urla di frustrazione che premevano per uscire erano ardue da contenere, ma si era costretta a esibire una precaria diplomazia di superficie.
«Mi dispiace, ha sbagliato casa» l’aveva liquidata il vecchio, esordendo nuovamente nel gesto di chiudere la porta.
«Aspetti» aveva ripetuto lei, ma non seppe perché l‘avesse fermato. La delusione le era già entrata in circolo nel sangue, eppure la sua mente continuava imperterrita a tentare di rifuggire una consapevolezza che non bastava a far fronte alla disperata speranza. Aveva bisogno del Gren Maerian che era stato fabbro di Cerys, marito di Saoirse, padre di una bambina che l’aveva perduto troppo presto.
«Ascolti signorina, per me è ora di far riposare le mie vecchie ossa. Mi dispiace di non poterle essere utile, ma nemmeno conosco qualcuno che risponda al nome di Gren Maerian. Buonanotte.»
Ma mentre la porta si chiudeva, gli occhi di Ravenna si erano spalancati.
Si era sentita soffocare, com’era accaduto nella pancia della nave che l’aveva condotta fino a lì. Forse aveva vissuto tutta la vita sottocoperta, strozzata dalla propria stessa speranza. 
Aveva indietreggiato finché la sua schiena si era trovata a contatto con un muro, impedendole la ritirata, inorridita dall’atrocità che aveva appena realizzato. Le era bastato un secondo, una parola sbagliata e l’inganno in cui era cascata si era dissolto come fumo, lasciandola intossicata ma crudelmente consapevole.
“Cerco Gren Valerious”, aveva detto lei, perché era così che suo padre aveva deciso di farsi conoscere, lì.
“Non conosco nessun Gren Maerian”, aveva risposto lui, dimentico del fatto che lei non avesse mai pronunciato ad alta quel cognome che un semplice anziano di Metra non avrebbe mai potuto conoscere.
Aveva provato a respingere l’idea, un tentativo di autoprotezione destinato a fallire che non aveva neanche avuto il pregio di farle guadagnare tempo. Ravenna era sempre stata troppo sveglia, i suoi occhi erano raramente in grado di chiudersi di fronte a ciò che non voleva vedere; quella volta non fecero eccezione. Non c’era spiegazione che reggesse, nessuna argomentazione in grado di far fronte alla verità; l’innaturale reazione del vecchio alla sua presentazione aveva acquistato un senso, la necessità di viaggiare addirittura oltremare per seguire le sue tracce aveva trovato infine una spiegazione. Aveva sentito distintamente il proprio cuore rompersi mentre scivolava contro il muro fino a terra, ed era stato un rumore come non ne aveva mai sentiti prima: un silenzio sordo, infinito, totale; il silenzio del più grave dei lutti, quando ogni gioia, ogni speranza, ogni amore muore; il silenzio che accompagna la verità assassina travestita da crudele menzogna.
Annaspò in cerca d’aria, ma non ce n’era abbastanza. Era sottocoperta e non c’era via d’uscita, non c’era mai stata.
Ravenna aveva davvero avuto di fronte il padre atteso e cercato per sedici lunghi anni, e lo aveva sentito mentire e tradirsi con uno sciocco errore.
Rivelandole, quasi per sbadataggine, che non aveva mai voluto essere trovato.
 
◄►
 
Immobile a poca distanza dalla sorgente di quel canto, Adrian dovette aprire e richiudere la bocca diverse volte prima di trovare fiato con cui pronunciarsi.
«Ravenna…» mormorò, quasi temendo di interrompere la solennità di una musica così straziante da essere ipnotizzante.
Con inquietante lentezza, la ladra sollevò il viso e attese lunghi istati prima di rimettersi in piedi, avvicinandosi a lui con l’atroce grazia di un fantasma. Gli sfiorò il viso con le dita di una mano e con calma lo baciò, spiazzandolo e confondendolo. Adrian si lasciò trascinare dal desiderio per pochi, gloriosi secondi, prima che alla sua coscienza si affacciasse la sensazione che fosse ancora uno spettro a lambire le sue labbra con le proprie di carne inconsistente. Non c’era calore in quel contatto, e quello che si generava nel suo petto veniva risucchiato dal vuoto gelo dei gesti di lei.
«Ferma. Fermati, ti prego» scandì, allontanandosi di un passo. Tentò di leggere l’espressione sul suo volto, ma il buio lo rendeva impossibile. «Cos’è successo? Ravenna, cos’è successo?» indagò, trovandosi ad insistere come se già sapesse che non sarebbe stato facile ottenere una risposta.
Ma, invece, questa arrivò con una tremenda semplicità.
«Non mi vuole. Non mi ha mai voluta.»
Non c’era solo dolore nelle note che componevano quella frase; c’era un senso vibrante di umiliazione, il degradante rimbombo di una prostrazione tale da ridurre in cenere qualsiasi barlume di speranza. E fu quello, forse più della frase in sé, a condurre Adrian sulla via della comprensione, benché la parole non avessero lasciato spazio a fraintendimenti
Non ebbe il tempo di esprimere alcun tipo di cordoglio prima che il secondo bacio lo cogliesse impreparato esattamente come il primo, ma questa volta ebbe un sapore ancora più aspro; corrispose solo per un breve lasso di tempo prima di ritrovare nuovamente la lucidità, afferrando le spalle di Ravenna e costringendola ad indietreggiare.
«Aspetta! Aspetta. Cosa stai facendo?» Si ritrovò a domandare, tra mille quesiti informi che gli mulinavano in testa.
«Ti sto baciando, Adrian. Non lo vuoi?»
Il marinaio abbassò lo sguardo e scosse la testa, provando con tutte le sue forze a raccapezzarsi.
«Perché? Ravenna, perché ti comporti così?»
Perché lo baciava? Dopo quello che le era appena successo, perché cercava le sue labbra invece delle sue braccia, o della solitudine con cui fino a quel momento aveva affrontato ogni sofferenza?
«Perché non mi resta nient’altro.»
Il pesante martello della delusione lo colpì in pieno petto, gli parve quasi di sentire le costole cedere sotto lo schianto e perforargli lo stomaco, i polmoni, il cuore. Lasciò ricadere le braccia lungo i propri fianchi, perdendo la presa sulle braccia di Ravenna mentre la guardava con orrore.
Il suo paradossale egoismo non era più una novità per Adrian, il modo in cui lei pensava alla sicurezza degli altri prima che alla sua ma ai propri sentimenti prima che a quelli di chiunque altro. Eppure c’era qualcosa di tremendamente crudele in quella tortura, nell’onestà con cui l’aveva appena pugnalato al cuore pronunciando quelle poche parole. Perché benché lui sapesse da tempo di essere l’affetto collaterale, aveva sempre rifiutato di credere d’essere nulla più che una riserva. 
Indietreggiò, instabile sui suoi stessi piedi, ingoiando l’acido che sentiva invadergli la gola. Non sarebbe stato il contenitore in cui lei potesse riversare il relitto dell’amore verso suo padre. Non sapeva che rotta avesse preso il loro rapporto da quella notte ad Avon né fino a che punto sarebbero arrivati, ma aveva sempre messo da parte pulsioni e sentimenti perché non era il momento giusto, perché il cuore di Ravenna era diviso e il suo troppo confuso.
Ma non sarebbe stato il premio di consolazione, l’unica alternativa ad un’altrimenti inevitabile solitudine. Si era morso la lingua per non renderle più difficile la situazione, ma non sarebbe arrivato a farsi torturare per darle un sollievo che non sarebbe durato.
Perché non mi resta nient’altro.
Non si sarebbe lasciato trascinare sul fondo dell’oceano dall’amore per una sirena e il tormento per il suo canto disperato, solo per essere l’unico marinaio che ancora osava solcare quelle acque.
«Perché… Ra… mi dispiace. Perdonami, non ce la faccio, io non… perdonami» balbettò, finché l’eco dell’ultima parola strozzata accompagnò la sua uscita. Si voltò quasi con riluttanza, eppure il passo era rapido e sicuro quando si allontanò da quella strada, da quell’aria opprimente, da lei. Lei che rimase immobile alle sue spalle ad osservare le ombre dei suoi passi sulla strada, mormorando.
 
Bambina mia, non devi temere,
non sarai sola anche nelle notti più nere.
 
Bambina mia, dormi serena,
Chiudi gli occhi al canto della sirena.
 
◄►
 
Le assi di legno del grezzo soffitto a cassettoni non avevano nulla di così interessante, eppure Adrian le fissava da un’infinità di tempo. Si concentrava sulle venature che riusciva a vedere alla luce della lampada ad olio, provando a condensarle in forme familiari: il pennone di una nave, lo scafo, una vela scossa dal vento, le labbra di Ravenna.
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, passandosi una mano sul viso prima di riaprirli. Il pennone di una nave, lo scafo, una vela scossa dal vento, un timone che puntava a dritta, una prua che lasciava una lunga scia, il triangolo formato dai nei di Ravenna.
Si alzò dal letto di scatto, prendendosi la testa tra le mani mentre si spostava con l’incedere di un ubriaco verso la finestra. Si appoggiò alla parete con malagrazia, osservando il buio all’esterno e le poche stelle che popolavano lo scorcio di cielo che gli fosse concesso di vedere da quella prospettiva.
Si stava costringendo a restare, a non muoversi da quella stanza cedendo all’istinto di andare a cercarla, ma era come trattenersi dall’annaspare sott’acqua quando l’ossigeno veniva meno. Aveva vagato per la città, era tornato alla locanda, si era sdraiato e aveva provato a obbligarsi in un sonno che di certo sarebbe stato funestato dagli incubi, ma gli incubi li aveva anche stando ad occhi aperti. Vedeva tutti i peggiori scenari con cui quella storia si sarebbe potuta concludere, e più peggioravano più l’irrefrenabile bisogno di andare di nuovo a cercarla aumentava. Almeno per una notte, solo una notte. Poi avrebbero parlato, o forse no. Forse si sarebbero solo guardati e avrebbero capito che era il momento di prendere strade diverse, ma non giovava a nessuno dei due rimanere soli e insonni, quella notte. L’avrebbe trovata, l’avrebbe portata in quella camera e avrebbe permesso a entrambi di addormentarsi.
Almeno per quella notte. Aveva una vita per lasciarsi logorare dal pensiero di ciò che era stato, poteva essere e non era mai diventato.
Per la seconda volta dimenticò i vestiti sul letto e corse fuori dalla locanda, andando a cercarla nell’ultimo posto in cui l’aveva vista. In fondo sapeva che non l’avrebbe trovata ancora lì. Attraversò le strade, fendendo il buio senza una luce a illuminare i suoi passi, guidato solo dalla luna e dall’ormai feroce urgenza di trovarla. Più avanzava e più lo strisciante timore che se ne fosse andata si avviluppava al suo cuore in spire di ferro; lui, che era sempre stato in fuga, avrebbe capito meglio di chiunque altro se alla fine lei avesse deciso di scappare. Rifiutata due volte in una notte dalle due persone che già una volta, in modi diversi, l’avevano abbandonata, andarsene senza un addio poteva esserle sembrata l’unica soluzione. Aveva un posto in cui tornare, dopotutto. Persone che l’avrebbero accolta e consolata.
Senza accorgersene aveva iniziato a correre, come fosse stato in un labirinto di cui non trovava l’uscita. Il porto apparve in fondo ad una larga strada, il mare che rifletteva pozze di luce irregolari alla stregua di un faro per un marinaio che cercava la costa.
Dalla banchina guardò le navi ormeggiate, dandosi dello stupido per aver pensato che anche solo una sarebbe potuta partire a quell’ora della notte. Questo non acquietava completamente l’allarme nella sua testa, ma almeno era certo di avere ancora tempo.
«Ravenna!» Gridò.
La sua voce, grave e piena, suonava come una tempesta quando gridava: potente come un tuono e graffiante come la pioggia.
«Ravenna!»
Dove sei? Rispondimi. Ti sto chiamando, non mi senti chiamare il tuo nome?
«Ravenna!»
Non poteva controllare tutta la città, neanche tutto il porto soltanto. Come la trovava? C’erano così tanti posti, Metra era così grande, ma lei la conosceva così poco…
«Ravenna!»
Scorse un movimento dietro l’angolo del magazzino di fronte cui si era fermato, per riprendere aria nei polmoni affaticati. Una vaga perturbazione nell’ombra al limite del suo campo visivo, ma i suoi sensi erano così all’erta che sospettava avrebbe notato anche l’aria incresparsi.
Continuò a osservare in quella direzione, se non altro per accertarsi della natura della propria impressione. Ci vollero alcuni secondi perché l’anomalia si ripresentasse, questa volta accompagnata dal suono di un passo incerto.
«Chi c’è?» Domandò. La figura che intravedeva a malapena non sembrava né di una donna né, a dirla tutta, di un uomo. Era bassa, minuta. Era la sagoma appena accennata di un bambino.
Il ragazzino si fece avanti con titubanza, una scelta comunque coraggiosa per un esserino così piccolo che girovagava da solo durante la notte.
«Io… cerchi una donna?» Domandò, decidendo di fermarsi abbastanza lontano da avere lo spazio per scappare, ma abbastanza vicino da non aver bisogno di alzare la voce.
«Sì» fu la sola risposta di Adrian a fior di labbra.
Nella silhouette immersa nell’oscurità riusciva ad indovinare la forma di abiti logori e stracciati, che inevitabilmente facevano sorgere altre numerose domande nella mente già sovraccarica del marinaio. Non riusciva a concentrarsi.
«Forse io l’ho vista.»
Quelle poche parole rianimarono Adrian, che si fece avanti con uno scatto forse sconsiderato.
Il bambino indietreggiò all’istante; Adrian capì e si fermò, mostrandogli le mani alzate della speranza di rassicurarlo.
«Non voglio farti del male. Voglio solo sapere cos’hai visto, ti prego.»
«Voglio… voglio qualcosa in cambio» riprese il bambino dopo diversi secondi, cercando di dare un tono deciso alla sua voce incerta.
Adrian aggrottò le sopracciglia, ancor più disorientato. Di cosa parlava? Cosa poteva volere un ragazzino, solo, da un uomo adulto incontrato per caso? E perché era solo, all’apparenza ridotto così male?
Lo sguardo di Adrian sussultò per la rivelazione e si addolcì quasi all’istante, una dolcezza triste che gli colmò il cuore molto più di quanto avrebbe dovuto. Forse, pensò, anche Ravenna era stata così, a undici anni. Quando suo padre era partito ed era rimasta sola, prima che si unisse alla banda di fuorilegge che l’aveva resa la donna forte e impavida che aveva incontrato.
Forse anche lei era stata una bambina isolata nel buio con abiti stracciati, alla disperata ricerca di un aiuto o almeno di un modo per sopravvivere.
Il marinaio si piegò sulle ginocchia ed estrasse il sacchetto con le monete dalla scarsella, versandosene una generosa quantità nella mano sinistra. Le appoggiò a terra e si rialzò, allontanandosi di qualche passo. Il bambino esitò; guardava Adrian e le monete a terra a intermittenza, valutando l’affidabilità di quel gesto e le proprie chance di fuga in caso fosse stato solo un tranello. Con uno scatto fulmineo si fece avanti, raccolse fino all’ultimo conio e tornò alla propria posizione di partenza, stringendo il bottino nelle manine sporche.
«Era proprio lì, prima» rivelò infine, indicando con un dito il bordo della passeggiata.
Adrian sentì la speranza invaderlo. Non aveva pensato potesse essere tanto calda.
«E sai dov’è andata?»
Sentiva il cuore battergli forte nel petto, era vicino, era così vicino…
«Un uomo l’ha presa in braccio e l’ha portata su quella nave lì.»
Il respiro gli si spezzò all’istante, molto prima che i suoi occhi sgranati trovassero la lucidità necessaria a guardare dove indicato. La nave era di medie dimensioni, una di quelle da carico provenienti dalla Costa Settentrionale, non diversa da molte altre su cui aveva prestato servizio. Perché un uomo avrebbe dovuto trasportarla lì dentro? Forse non era lei, non poteva essere lei, non aveva alcun senso. Lei neanche si sarebbe lasciata prendere in braccio, giusto? Potevano averla costretta con la forza. No, aveva visto di cosa era capace, non l’avrebbe mai permesso. Non era lei. Ma se era lei?
«L’hai… l’hai vista bene? Sai descrivermela?» Tentò, senza sapere esattamente cosa si augurasse. Non avrebbe saputo dove altro cercarla se non fosse stata lei, ma se lo era temeva che fosse finita in qualche guaio.
«Era buio… io non lo so… aveva un cappuccio, ma quando le è scivolato ho visto che aveva i capelli lunghi, però io non so…»
Il bambino balbettava, arretrando lentamente, tanto che capire le sue parole diventava sempre più difficile.
«Va bene, va bene» lo interruppe Adrian, più gentilmente. Qualcosa nella sua espressione o nel tono di voce dovevano aver spaventato quell’innocente ragazzino, ma terrorizzarlo non avrebbe fatto stare meglio nessuno. «Non ti ricordi nient’altro?» Riprovò, questa volta costringendosi a un approccio più delicato.
«N-no…»
«Va bene» ripeté.
Si passò le mani, stranamente fredde, sul viso, cercando di raccapezzarsi. Doveva andare comunque, se non altro per assicurarsi che non fosse lei. Anche se non trovava una spiegazione logica per quanto aveva sentito, non poteva lasciare nulla di intentato.
«Grazie. Grazie» rimarcò, indietreggiando sempre più velocemente prima di voltarsi e correre verso l’attracco.
Senza alcun piano. Senza alcun buonsenso. Senza alcuna sicurezza. Irrimediabilmente scapestrato. Irrimediabilmente innamorato.
 
◄►
 
A passo leggero sulle assi di legno scricchiolanti, Adrian scese sottocoperta immergendosi nel buio assoluto. Giunto alla fine dei gradini, sul solido pavimento appena oscillante, non aveva idea di come muoversi su quella superficie sconosciuta, né sapeva se e da cosa si sarebbe dovuto guardare. Avanzava in tutti i sensi alla cieca, con cauta quanto snervante lentezza; l’urgenza gli scorreva ardente nelle vene, facendolo sudare e corrompendolo a una sempre maggiore impazienza. Le braccia stese in avanti lo protessero quando andò quasi a sbattere contro una paratia; gli anni trascorsi sul mare gli avevano conferito un considerevole senso dell’orientamento e una certa conoscenza della struttura interna di una nave da trasporto, perciò era certo che quel tramezzo non sarebbe dovuto essere lì. Provò a seguirlo in lunghezza, ma aveva fatto solo pochi passi quando dei suoni anomali raggiunsero il suo orecchio teso e, in quel frangente, particolarmente sensibile.
Distinguere il brusio dal rumore del mare diveniva più facile mentre procedeva radente la paratia, finché non arrivò all’altezza di un solco che gli suggerì di aver trovato una porta chiusa, finché non fu in grado di capire che quelle che sentiva fossero voci. Trattenne il fiato per ascoltarle, cercando con la mano la serratura.
«…imprevedibile. Dev’essere sorvegliata, per tutta la durata del viaggio. Quando arriveremo alla Costa Settentrionale, se avrai fatto bene il tuo lavoro, ti ricompenserò lautamente.»
«Non sembra così pericolosa.»
Uno sbuffo. No, una risata sommessa.
«Se ti fai ingannare dal suo aspetto sei uno stolto. Questa è la donna che ha eluso la cattura per tre anni, è scappata da una prigione e ha messo al tappeto sei guardie addestrate. Se ne avrà l’occasione sta pur certo che troverà un modo per fuggire di nuovo.»
«Una volta che saremo salpati non potrà scappare da nessuna parte.»
«Questo non significa che non possa fare del male a qualcuno. Se non sono ancora stato chiaro, non è una persona a cui piaccia essere incatenata.»
«Come vuoi. La terrò d’occhio, ma non c’è modo che riesca a liberarsi da quelle corde. I miei nodi la terranno al suo posto.»
«Lo spero per te, marinaio. Ora resta qui finché non torno: se si sveglia… ti consiglio di prestare attenzione.»
La mente di Adrian elaborava freneticamente tutto ciò che stava incamerando, trovando corrispondenze che di parola in parola lo convincevano sempre di più sull’identità dell’ostaggio oggetto della discussione e, in seconda analisi, sul motivo della sua cattura. Le circostanze andavano districandosi, assumendo una forma che non era del tutto nuova per lui, non più. Non aveva più dubbi che lì dentro ci fosse Ravenna, e se ancora non riusciva ad afferrare chi fosse l’uomo che l’aveva imprigionata, di sicuro aveva capito che la cattura era da imputare alle attività di Ravenna.
L’appassionata riflessione ebbe però la sgradevole controindicazione di distrarlo dal rumore di passi che si approssimavano alla sua posizione; fu solo per un soffio che riuscì a scattare dall’altro lato della porta e rimanere nascosto da questa quando si aprì, lasciandone uscire il misterioso assalitore. La lama di tremolante luce che si disegnò sul pavimento era ingombrata da un’ombra massiccia che si trasformò in una sagoma altrettanto robusta quando lo sconosciuto apparve oltre il bordo della porta, la schiena illuminata coperta da un mantello troppo pesante per la Costa Meridionale. Veniva dal nord.
L’oscurità si rivelò infine una preziosa alleata per Adrian; nonostante quell’uomo sembrasse non avere difficoltà a muoversi al buio, non parve notare il suo stazionamento immobile in quell’angolo irrilevante. Ciononostante il marinaio liberò il fiato solo quando sentì le ante della botola chiudersi, segno che la persona in nero se n’era definitivamente andata.
Solo allora, di nuovo nel silenzio totale, Adrian  sentì che il proprio cuore stava battendo a un ritmo infernale. Lo sentiva nei polsi, nelle orecchie, nella gola. La paura l’aveva colto, sì, ma non si era reso conto di quanto fosse effettivamente agitato.
Perché il responsabile del rapimento voleva riportare Ravenna sulla Costa Settentrionale? Sembrava conoscerla bene in veste di fuorilegge, anche meglio dello stesso Adrian. Lui non sapeva che fosse ricercata da tre anni. Per quale crimine? L’unico di cui lui fosse a conoscenza per il quale fosse stata condannata era il furto ai danni del governatore di Hyssen, lo stesso per cui si era trovata costretta ad evadere da una cella. Non sapeva nulla neanche di quelle sei guardie, erano coinvolte sempre nella stessa storia? O era stata un’altra volta, un altro furto, un’altra città? Sapeva ancora ben poco della vita da bandita di Ravenna, forse troppo poco. Avrebbero dovuto parlarne di più. Ora lei era di nuovo prigioniera, e se anche lui fosse riuscito a liberarla era comunque ad un passo dal perderla. Di nuovo.
Aveva rischiato di lasciarla andare più volte di quante fossero perdonabili; ma se c’era una cosa che non avrebbe mai perdonato a sé stesso era permettere che le fosse portata via.
Doveva entrare in quella stanza. Doveva trovare il modo di mettere fuori gioco il secondo aguzzino e liberarla, portarla fuori di lì prima che rientrasse l’uomo col mantello e condurla dove sarebbe stata al sicuro.
Adrian non era un combattente: se voleva uscirne rapidamente e illeso doveva escogitare una soluzione pratica adatta. Gli serviva qualcosa di pesante. O forse…
Si affrettò di nuovo verso le scale, questa volta a memoria del percorso fatto in precedenza; invece di salirle, però, controllò i sacchi stipati dietro di esse, frugando con smania tra coperte di riserva, amache in eccesso, rotoli per i bendaggi e… bottiglie di sidro nascoste.
Un colpo secco alla nuca. L’aveva visto fare centinaia di volte, in ogni rissa che scoppiava tra l’equipaggio. Anche lui stesso era svenuto un paio di volte per una cosa del genere. Forse più di paio. Dopo un po’ aveva perso il conto. Il vetro era così spesso e resistente che, se esercitavi una forza sufficiente, la botta che ne risultava non aveva niente da invidiare alle sedie per le risse nei bar.
Ne prese tre e tornò alla propria posizione dietro la porta, poggiandone a terra due – di riserva – e preparandosi a scaricare tutta la propria frustrazione della serata sulla testa del marinaio che di lì a poco sarebbe uscito. Avvicinò piano la mano per bussare, ma prima di farlo guardò la bottiglia di sidro: nessuno se ne sarebbe voluto se prima di fracassare la bottiglia ne avesse bevuto un sorso
Richiusa la bottiglia la guardò ancora, la riaprì, prese un altro sorso, la richiuse, prese un bel respiro e batté tre volte.
Forse dovevo bere di più.
Non dovette attendere a lungo; insospettito dal rumore, il sorvegliante si avvicinò alla porta e l’aprì quanto bastava per dare un’occhiata all’esterno. Troppo poco per Adrian, che aveva bisogno di più spazio per avere una speranza di coglierlo di sorpresa. Attese che il marinaio rientrasse e, con qualche secondo di scarto, ci riprovò; questa volta l’uomo, scocciato, fece qualche passo avanti, aguzzando la vista per osservare meglio i dintorni. Pentendosi di non aver direttamente svuotato la bottiglia, Adrian si sporse in avanti e caricò il colpo, abbattendo la propria arma improvvisata sulla nuca del malcapitato con tutta la forza di cui disponesse.
L’uomo barcollò in avanti, accompagnato dai pezzi del vetro in frantumi, ma non cedette; rapidamente il marinaio agguantò le restanti due bottiglie e, senza dare all’avversario il tempo di riprendersi, lo colpì una seconda e una terza volta: questi cadde in avanti, e a quel punto non sembrava più tanto intenzionato a muoversi.
Senza attendere oltre ora che aveva la strada libera, Adrian si precipitò nella stanza credendo di essere preparato alla vista che lo avrebbe accolto.
Si sbagliava.
Nella modesta stanza illuminata da due lampade a olio, Ravenna era semisdraiata a terra, priva di sensi; aveva i polsi legati dietro la schiena da spesse funi, fissate ad un palo di legno originariamente adibito a sostegno per amache. Il volto era girato di profilo, completamente abbandonato, il collo scoperto come bersaglio a chiunque avesse voluto farle del male. Era completamente indifesa. Inerme. Vulnerabile al punto da ferire la vista di chi l’aveva sempre guardata combattere con fierezza.
Ne rimase così impressionato che per un attimo non riuscì a muoversi, a stento respirare, guardando con occhi sgranati l’immagine più innaturale su cui il suo sguardo avesse mai avuto la sventura di posarsi. Gli appariva quasi blasfema mentre ricordava che persino nelle celle di Hyssen Ravenna non era mai parsa realmente imprigionata, solo momentaneamente ostacolata da un imprevisto. E ricordava quando aveva pensato che le uniche catene intorno ai suoi polsi fossero quelle che lei stessa stringeva tra le dita mentre si lasciava trainare da una speranza più grande di lei, una speranza ora distrutta accompagnata da corde che la costringevano, immobilizzandola.
Era una vista che non riusciva a sopportare.
Scattò in avanti e si accucciò accanto a lei, posandole delicatamente le mani ai lati del viso.
«Ravenna…» la chiamò, accarezzandole uno zigomo con estremo riguardo. Le scrollò le spalle, controllò il respiro, il polso, la richiamò di nuovo, ma nonostante sembrasse stare bene lei non rispose.
Le sollevò la schiena per raddrizzarne la posizione, le resse la testa con una mano e le avvolse un fianco per sostenerla, avvicinando a sé il suo viso e portando la sua fronte a contatto con le proprie labbra. Avrebbe trascorso tutta la notte a sussurrare il suo nome nell’attesa del suo risveglio, a lisciarle i capelli con le dita ed accarezzarle le spalle per confortare il suo sonno forzato, ma il suo tempo si avvicinava sempre più alla scadenza concessagli per liberarla.
«Ora ti porto via di qui» mormorò con un filo di voce.
Si staccò da lei con l’impressione che qualcosa dentro di lui stesse precipitando, ma a denti stretti fece forza sul nodo che stringeva saldamente la fune intorno ai polsi di Ravenna. Si graffiò le dita sulla ruvida canapa, cercando di crearsi uno spazio per allentare la pressione, ma la legatura era così rigida e sapientemente eseguita che per quanto spingesse riusciva solo a graffiarsi di più. Con movimenti affrettati, maledicendosi per non averci pensato prima, estrasse il proprio pugnale dallo stivale, ma la lama non arrivò mai neanche vicina a compiere il proprio compito.
«Detesto gli impiccioni.»
Riconobbe quella voce con un solo secondo di ritardo, ma fu comunque un secondo di troppo. Cadde in avanti in preda ad un immediato e lancinante dolore che oscurò ogni cosa intorno e dentro di lui.
Il coltello, rimasto inutilizzato, gli scivolò di mano e tintinnò quando atterrò sul pavimento, distorta eco morente dell’ultimo pensiero di Adrian: io non ti abbandono.
 
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C’era troppo rumore.
Adrian voleva dormire, gli faceva male la testa e si meritava un po’ di riposo, anche se non sapeva perché. Eppure da qualche parte qualcuno faceva casino, suoni che gli rimbombavano nelle orecchie penetrando la cortina dell’incoscienza.
Per primo si accorse che i suoni erano stranamente attutiti, come se tra lui e la loro fonte ci fosse un significativo ostacolo. Poi si rese conto che la posizione in cui si trovava non era tra le più comode, ma quando tentò di muoversi scoprì che i suoi movimenti erano limitati da qualcosa. Provò a portare una mano a strofinarsi il viso, ma questa non rispondeva ai suoi comandi. O meglio: non riusciva a rispondere.
Quando, infine, realizzò che qualcosa di ruvido era stretto intorno ai suoi polsi, ogni tassello tornò a disporsi nel puzzle che la perdita di coscienza aveva disfatto.
«Ravenna!» Gridò, raddrizzando di scatto la schiena e spalancando gli occhi, neppure troppo feriti vista la scarsa luminosità della stanza.
«Non urlare» gli rispose una voce familiare alla sua destra, laconica.
Laconica.
Il marinaio di voltò verso di lei, per la prima volta stranito nel sentirle usare quel tono normalmente così ordinario. Era un sollievo vedere che stava bene, sveglia e apparentemente del tutto in sé, ma allo stesso tempo non capiva come potesse essere così… così normale.
«Ravenna…» ripeté a voce più bassa, e anche il suo tono subì una notevole variazione, facendosi più consapevolmente apprensivo che goffamente spaventato.  «Stai bene?» Azzardò.
«Sono stata meglio, Adrian» rispose lei in tono d’ovvietà, senza alzare lo sguardo.
Sembrava… controllata. Una buona cosa, in teoria… ma se fosse stata sull’orlo di un pianto disperato, scalciante e con gli occhi gonfi, il marinaio si sarebbe allarmato di meno.
C’era qualcosa di anomalo nella tipicità di quell’atteggiamento che impediva ad Adrian si sentirsi rassicurato dall’inaspettato ritorno alla calma di Ravenna. Era avvenuto troppo in fretta, e anche se immaginava che la ladra stesse sforzandosi di trattenere il proprio dolore per far fronte al problema più imminente, simili sbalzi di comportamento non suggerivano nulla di buono.
«Ravenna…»
«So come mi chiamo» Lo interruppe subito lei. «Se vuoi dirmi qualcosa, dilla e basta.»
Non c’era cattiveria nel suo tono, né impazienza. C’era solo la sua solita alacre schiettezza. Qualcosa con cui Adrian aveva imparato a scendere a patti ma che in quel momento non sapeva come gestire. Rimase in silenzio.
«Non ti interessa neanche un po’ sapere perché siamo finiti legati nella pancia di una nave in partenza per la Costa Settentrionale?» Lo punzecchiò lei.
«Ho altre preoccupazioni, al momento...» rivelò lui con un attimo di esitazione.
«Non dovresti.»
Ed eccola lì: nonostante preoccupazione, dispiacere e paura, sentì chiaramente l’irritazione risalire dal fondo dello stomaco appesantito e premere contro i denti serrati. Perché, perché, perché… perché diamine doveva essere sempre così altèra?
Adrian si trattenne, non senza una certa fatica.
«Quello che è succ…»
«Dacci un taglio.» Ancora, lei lo interruppe. «Sappiamo tutti cos’è successo e questo non è né il luogo né il momento giusto per ricordarlo. Dobbiamo filarcela di qui prima che la nave parta: a che punto sei?»
Il marinaio aggrottò le sopracciglia. Lei aveva ragione, non era la situazione adatta, ma… a che punto doveva essere di cosa?
«Le corde, Adrian, le corde» scandì Ravenna, decifrando l’espressione confusa dell’amico. Sospirò rassegnata. «Non stai neanche provando a liberarti, vero?»
Adrian forzò un sorriso palesemente tirato.
«Va bene, lascia stare» si arrese lei.
Non sapendo cosa rispondere, il marinaio approfittò del silenzio per capire quanto male fossero messi: Ravenna era nelle stesse condizioni della notte prima, ma sveglia – che di per sé era un gran passo avanti – mentre lui aveva presto il posto d’onore alla sua sinistra, legato al secondo dei quattro pali disposti in fila, immobilizzato su polsi e caviglie e con un pulsante fastidio alla nuca.
Chissà se avevano usato una bottiglia anche loro. Loro… chi?
«Chi erano? Quei due uomini… cosa vogliono da te?»
La ladra, concentrata sui movimenti delle proprie dita, sempre più indolenzite dallo sforzo apparentemente inutile che stavano compiendo, sembrò non averlo neanche sentito, se non che all’improvviso interruppe il proprio armeggiare con uno sbuffo spazientito.
«Credevo ci saresti arrivato. Dopotutto ti avevo avvertito, una volta» gli rispose nervosamente, ma il motivo della sua irrequietezza risiedeva interamente nella frustrazione per la resistenza di quei nodi.
Adrian, però, era troppo attento alle parole di lei per accorgersene.
«Non ricordo che tu mi abbia mai avvertito che qualcuno avrebbe potuto tramortirci e imprigionarci su una nave, ma potrei essermelo perso in uno dei tanti discorsi dove tu mi ragguagliavi sul perché diamine c’è sempre qualcuno che vuole rinchiuderti!»  
Ravenna, per nulla impressionata dall’aumento di tono di Adrian o dal suo sarcasmo, alzò gli occhi al cielo.
«Ti ricordi di Serlas?»
L’irritazione che il marinaio aveva sentito crescere rapida e imperterrita si sospese all’improvviso, ancora presente eppure momentaneamente accantonata dalla curiosità. Cosa c’entrava Serlas?
«Be’, sì, ma…»
«Credevi fossi pazza perché non ero preoccupata dalla notizia della morte del re e dallo spettro di una guerra civile. Ricordi cosa ti spiegai all’epoca?»
Adrian fece mente locale. Ricordava piuttosto bene quel momento, quando aveva pensato che lei non si rendesse conto della gravità della situazione solo per essere, una volta di più, zittito dal suo inattaccabile ragionamento.
«Sì, credo. Dicesti che la guerra sarebbe stata su un piano più politico che militare, che dopo la Guerra del Ferro l’esercito non…»
«Non mi riferivo a quello» intervenne lei, impedendogli di proseguire. «Prima. Quando ti spiegai quale fosse la mia preoccupazione maggiore in quel momento, molto più verosimile e molto più immediata.»
Di nuovo, Adrian recuperò il filo dei ricordi e cercò di riavvolgerlo. Di cosa aveva avuto paura, quel giorno? Un pericolo, un pericolo che per loro – per lei – sarebbe stato molto più grave.
«Cacciatore di taglie. Temevi che fosse arrivato in città un cacciatore di taglie sulle nostre tracce.»
«Mi dai sempre grandi soddisfazioni, marinaio» lo canzonò lei, confermando la correttezza della sua epifania.
«Stai dicendo che quell’uomo è un cacciatore di taglie?» Indagò Adrian, senza nemmeno far caso al suo sarcasmo.
«Sì. Lo chiamano Nox, non so quale sia il suo nome completo. Mi sta addosso da circa un anno, da quando il suo predecessore ha abbandonato il compito dopo due anni di fallimenti.»
«È per quello che hai fatto a Hyssen?»
 Ravenna alzò lo sguardo su di lui, sorpresa. Non si aspettava quella domanda così repentinamente, anche se forse avrebbe dovuto prevederla: oltre quel crimine specifico, Adrian non sapeva quasi nulla delle sue scorribande.
«No. Hyssen è un’altra storia. Diciamo che il governatore non è l’unico signorotto a cui ho dato un po’ di grane, e qualcuno si è arrabbiato molto più di lui.»
«Le sei guardie che hai messo fuori gioco?»
La ladra tornò ad osservare i lineamenti di Adrian, l’attenzione e la sete di notizie che animavano il suo sguardo inquisitore. Se non si era aspettata la domanda precedente, quest’altra era l’ultima che pensava di sentirsi rivolgere.
«Come fai a saperlo?»
«L’ho sentito parlare, stanotte. Ero venuto qui per liberarti e li ho ascoltati, capendo che qui dentro c’eri tu.»
Ravenna sospirò.
«Gran bel salvataggio, marinaio.»
«Non divagare.»
«A proposito, come ci sei arrivato fin qua?»
«Non divagare!»
«Erano le guardie della persona che mi ha messo il cacciatore di taglie alle costole, non ho ucciso nessuno a parte il loro orgoglio, se è questo che ti turba. Tu però dovresti imparare che quando non mi trovi saresti più saggio a non venire neanche a cercarmi.»
Adrian arricciò il naso allargando le narici, infastidito in un modo che gli fece dimenticare completamente perché fino a un momento prima fosse stato in ansia per lei.
«Non preoccuparti, non credo che lo farò mai più» grugnì seccato.
Ravenna lasciò cadere l’argomento, abbassando la testa.
Mentre i suoni dell’equipaggio a lavoro sulla nave tornavano a regnare nel bugigattolo in cui erano chiusi, la ladra intensificò i suoi sforzi per allentare il nodo che la bloccava. Si accanì sulla canapa, ma sopportare il bruciore ai polsi diveniva sempre più difficile a ogni millimetro che la corda le scavava nella carne. Le dita, dolenti, faticavano a trovare ancora spazi di manovra, i muscoli che si stavano pericolosamente irrigidendo a causa dei movimenti innaturali cui li costringeva.
«Merda!» Esclamò, quando la frustrazione raggiunse l’apice.
«Ci metti troppa forza. Quello è un nodo fatto per resistere alle peggiori tempeste in alto mare, un kraken potrebbe distruggere l’intera nave ma quel nodo rimarrebbe intatto.»
La voce di Adrian, parca d’intonazione, non ebbe una singola esitazione.
Così non sei d’aiuto, pensò Ravenna. E, come se le avesse letto nel pensiero, lui tenne lo sguardo fisso sulle mani di lei e riprese la parola.
«Devi essere gentile. Precisa. È un nodo di giunzione, senti che ha quattro estremità? È intrecciato con due corde diverse, non puoi semplicemente scioglierlo, devi prima capire quale coppia di estremità compone una stessa corda. Ce la fai?»
Ravenna esitò. Solo per pochi istanti si concesse di osservare di sottecchi il viso di Adrian, all’apparenza più annoiato che concentrato. Quello era il suo campo, le sue conoscenze. Poteva non essere in grado di liberare sé stesso, ma poteva suggerire a lei come muoversi. Una bizzarra collaborazione tra ladra e marinaio, per una volta entrambi essenziali alla risoluzione del problema: senza proferire alcunché, Ravenna fece quanto lui le aveva detto.
Facendo scivolare le dita sulle corde con attenta lentezza, provò a seguirne i percorsi intrecciati come aveva già fatto in precedenza. Allora non sapeva di preciso cosa stava cercando, voleva solo farsi un’idea della forma del nodo per trovarne i punti deboli, ma si era accorta di non riuscire a trovare neanche un punto di riferimento. Ora sapeva dove aveva sbagliato, e concentrandosi sulle percezioni del proprio tatto arrivò a farsi una mappa mentale della disposizione delle due corde, invece che sforzarsi di immaginarne una sola in grado di compiere un simile giro.
«Ci sono» dichiarò ad alta voce.
«Bene. La corda che ti avvolge il polso destro ha una sola curvatura, ma se tenti di tirarla farai solo stringere la prima curvatura dell’altra corda, che ne ha tre. Per riuscire a liberarti devi avere spazio tra la seconda curvatura della seconda corda e quella singola della prima. Ora, il problema è questo: non puoi creartelo lavorandoci direttamente. Senti il pezzo di corda che ti passa tra i polsi? È la parte finale della terza curvatura, quella che devi riuscire ad allentare. All’altra estremità è legata al palo, quindi se vuoi guadagnare la lunghezza che ti serve devi avvicinartici di più.»
«Se mi avvicino di più non avrò spazio per muovere le dita» obiettò Ravenna, che non senza difficoltà aveva ascoltato il suo discorso, riempiendo i buchi delle sue spiegazione con l’intuito e la propria personale esperienza. Se non avesse capito per logica cos’era una curvatura, non sarebbe mai riuscita a seguire le istruzioni.
«Avrai quello che ti basta, dovrai fare dei movimenti minimi» ribatté immediatamente lui.
Rassegnata, Ravenna si schiacciò il più possibile contro il palo.
«Adesso ruota il polso sinistro verso l’altro. Con almeno un dito devi raggiungere la curvatura.»
Ravenna strinse i denti, preparandosi a lanciare una buona dose di imprecazioni interiori. Mentre infieriva sull’irritazione alla pelle che già si era trasformata in una bruciante ferita circolare, una smorfia di dolore le sfuggi sul viso quando dovette imporre al muscolo di andare oltre i propri limiti. Ma almeno aveva raggiunto l’obiettivo.
«Brava. Adesso infila il dito sotto la curvatura che senti, è l’unica che riesci a toccare. Senti che riesci ad avere un po’ di movimento? Creati una fessura il più larga possibile. Bene. Ora, spingi verso l’esterno col polso destro, dovresti riuscire a guadagnare qualche millimetro.»
Ancora, la ladra obbedì. E scoprì che davvero la morsa intorno al suo polso era diminuita.
«Ora, accanto al polso destro c’è il punto cruciale del problema, dove le corde si incastrano l’una con l’altra rendendo impossibile che possano sciogliersi senza un intervento preciso. Non puoi ancora sfilare tutta la mano, ma puoi fare al contrario: spingere il braccio più avanti, così potrai piegare completamente il polso. Riesci?»
«Questo è il massimo» rispose Ravenna, nascondendo la fatica dietro il tono più fermo che riuscisse a esternare. Le faceva male tutto, e più andava avanti peggio era. Se non fosse stata certa che quello era l’unico modo per scappare, avrebbe già mandato all’inferno Adrian e tutti i marinai, in particolare quelli che avevano ideato quei maledetti nodi.
«Piega il polso e cerca di arrivare ad afferrare l’estremità della corda. Dovresti sentirne due che appartengono alla stessa, quella con la curvatura singola. Devi tirare verso di te… no, non quella. Ecco, quella. Tira.»
Ravenna tirò, e percepì la tensione allentarsi anche intorno al polso sinistro.
«Ci sei quasi. A questo punto riporta il destro dov’era prima e rifai al contrario quello che hai fatto prima: devi riuscire a stringere le corde il più possibile intorno al polso. Più sarà stretto quello, più libero sarà il sinistro.»
La ladra imprecò silenziosamente contro tutta la marina, dal primo uomo che progettò una barca al più incapace dei mozzi sulla più avanguardistica delle navi, e strinse, strinse fino a poter quasi sentire la circolazione bloccarsi, muovendo in circolo il polso sinistro che sentiva sempre meno oppressato. Strinse e tirò, strinse e tirò in contemporanea finché la curva del pollice oltrepassò la corda: era libera.
Le corde, ora in lunghezza superflua, si afflosciarono permettendole di sfilare anche il destro martoriato senza fatica; il cacciatore di taglie le aveva sottratto il suo pugnale, sentiva lo spazio vuoto nello stivale, ma non aveva toccato quello nascosto nella doppia suola: ne era certa perché, in effetti, quella suola ce l’aveva ancora.
Si piegò in avanti e con gesti rabbiosi staccò la suola inferiore dello stivale sinistro, lasciando cadere con un tintinnio il piccolo coltello non più bloccato.
«Ma da dove ca… lasciamo perdere.»
Per quanto Ravenna lo stava ascoltando a quel punto, Adrian avrebbe anche potuto urlare che lei non se ne sarebbe accorta.
Con la piccola lama ora stretta in pugno, la ladra recise le corde che le stringevano le caviglie e fu finalmente del tutto libera.
«Loro dove sono?» Domandò Adrian, mentre Ravenna armeggiava con le sue costrizioni.
«Nox è andato a contrattare col capitano, era previsto un solo passeggero in più, non due. Il marinaio che lo aiuta suppongo stia facendo il suo lavoro sul ponte.»
Mentre Adrian si massaggiava i polsi, Ravenna passò alle sue caviglie.
Sul ponte… il ponte
«Non abbiamo molto tempo» realizzò all’improvviso. «Questi rumori… li senti, sul ponte? Si preparano alla partenza, salperemo tra poco, sempre che non siamo già partiti e non ce ne siamo accorti. Aspetta, che…»
Adrian abbassò lo sguardo sui propri piedi quando li sentì liberi, scorgendo così per un istante i polsi di Ravenna, prima che questa si rialzasse. Con uno scatto si rimise in piedi a sua volta e le afferrò un gomito, mentre lei si girava per dirigersi alla porta. Senza esitazione le prese una mano e le sollevò la manica, quanto bastava a scoprire la rossa ferita simile a un grottesco bracciale.
«Io lo ammazzo» furono le parole che uscirono incontrollate dai suoi denti digrignati.
Con uno strattone, Ravenna ritrasse il braccio.
«Andiamocene e basta» decretò, guardandolo dritto negli occhi.
Senza attendere un secondo di più corse verso la porta e la spalancò di malagrazia, sparendo nella zona adiacente della pancia della nave.
«Hai presente come siamo scappati dalle celle di Hyssen?» Riprese lei quando Adrian la raggiunse.
Lei per prima e lui per secondo, salirono le scale fino alla botola che li avrebbe portati di nuovo alla luce del sole.
«Correndo come disperati?»
«Precisamente. Lo tieni ben aggiornato il tuo diario di bordo, non è vero? Be’, questa volta non dovremo fare nulla di diverso. Corriamo come disperati fino alla passerella, scendiamo da questa dannata nave e spariamo nella città» dettò la ladra.
Il piano meno organizzato della storia.
«Brillante, davvero brillante» borbottò il marinaio, sarcastico. «Al tuo tre?»
«Se preferisci. Uno, due…»
«Aspetta! Non così rapidamente, si conta più piano.»
«Sulla base di cosa?»
«È così e basta. Si fa: uno… due…»
«Tre!»
Senza un vero e proprio preavviso, Ravenna spalancò la botola e saltò sul ponte, inseguito da un irritatissimo Adrian che, quando guardò oltre il parapetto, sentì gli insulti morirgli in gola mentre realizzava che erano già salpati. Il molo non era troppo distante, ma la passerella era stata ritirata e non c’era più modo di scendere dalla nave. A parte…
Si sentì tirare la manica e fu trascinato da Ravenna proprio verso il parapetto, già consapevole di quale idea avesse attraversato la mente della ladra. Una pessima, pessima idea.
«Fermateli!» gridò qualcuno, e quando i due alzarono lo sguardo videro il cacciatore di taglie sporgersi dalla balaustra del ponte di comando.
Nessuno mosse un dito. Colti alla sprovvista da quell’improvvisa piega degli eventi, i marinai si guardarono confusi tra loro, cercando di raccapezzarsi. Tutti tranne uno: lo stesso uomo che Adrian aveva atterrato a colpi di sidro ora avanzava a grandi passi verso di loro, furente.
«Non sono un esperto di fughe impossibili, ma questo mi sembra un enorme passo indietro, sbaglio?» Esclamò Adrian, ma quando si voltò si rese conto che Ravenna non c’era più. Si stava già issando rapida sul bordo del parapetto, reggendosi a una sartia che ondeggiò sotto la sua presa.
Mentre la imitava, allungandole un braccio dietro le spalle per potersi reggere ai cavi, non riuscì a trattenersi: «voglio che sia annotato sul diario di bordo che io non condivido l’idea!»
«Annotato» affermò di rimando Ravenna, quindi abbandonò la presa e si lanciò in avanti, trascinandolo con sé.
Per pochi, gloriosi istanti si sentì quasi volare, il suono dell’aria come unico compagno in quel bizzarro silenzio che solo le sue orecchie percepivano. Il tempo parve rallentare dopo la frenesia degli ultimi minuti, quasi fermarsi. C’era pace.
Poi fredda, soffocante, infinita, implacabile acqua.

Buon anno!
Avrei voluto postare prima, e ce l'avevo quasi fatta. Avevo il capitolo pronto e finito il 31 dicembre, poi... non andava bene. L'ho riletto e qualcosa non quadrava. Era vuoto, era spento. Così ci ho rimesso mano dopo capodanno e ho tagliato, spostato, ricucito, tessuto nuove trame: il capitolo che vedete adesso c'entra poco o niente con quello che stava per essere pubblicato. Ora sono più soddisfatta, anche se mi restano terribili dubbi che spero qualcuno di vuoi possa confermare o fugare, così da togliermi dall'incertezza.
Avviso: ho spostato la storia nella sezione romantica per una questione di tagli. Ho eliminato la parte della storia che la rendeva effettivamente fantasy perché era alquanto superflua, ma l'ambientazione resta decisamente non reale. 
Non voglio strafare con le NdA, indi perquindi passo ai ringraziamenti - a chi ha scoperto la storia di recente e ha deciso che valesse la pena di non perderla di vista, chi è tornato con me su queste pagine dopo più di un anno, chi ha speso due, tre, mille parole per parlare alla scrittrice nenche tanto silenziosa che per la decima volta ha sfiorato le vostre vite per alcuni minuti. Non potrei esserne più fiera.

Au revoir,
Astrid

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