Century Child - II. Temptation di Lady Vibeke (/viewuser.php?uid=32775)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. In Nome di un Ricordo ***
Capitolo 3: *** 2. Verità e Bugie ***
Capitolo 4: *** 3. Approvazione ***
Capitolo 5: *** 4. Valo e Varjo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
This place is paradise
It's the place I call home
The moon on the mountains
The whisper through the trees
The waves on the water
Let nothing come between this and me
– This Is Where I Belong, Bryan
Adams –
Un urlo agghiacciante
riempì i
corridoi deserti del palazzo, facendo vibrare i vetri delle finestre.
Fuori la pioggia
scrosciava
furiosa, abbattendosi su strade, alberi e case come una tempesta di
aghi
d’argento, finissimi e pungenti. Il grigio dominava su tutto,
sbiadendo i
colori, offuscando le luci. Sembrava di essere in una sfera di
cristallo in
bianco e nero. L’acquazzone nascondeva l’ormai
prossima primavera dietro una
giornata cupa come quelle del pieno inverno.
Da qualche parte ai
piani
superiori una porta sbatté violentemente, infrangendo
prepotentemente il
silenzio, in concomitanza con l’esplosione di un tuono.
Due paia di identici
occhi neri
tradirono una risata repressa.
– Adesso la
senti. –
– Stavolta
qualcuno ci lascia le
penne. Anzi, il pelo.
–
Regan gemette e richiuse
svogliatamente
il grosso libro che aveva sulle ginocchia. Sulla sua spalla, Mello si
appallottolò su se stesso, nascondendosi sotto ai capelli.
Era poco più
piccolo di un gatto,
con enormi occhioni neri e minuscole orecchie tonde e sensibili, ed era
una
bestiolina davvero adorabile. Con un’inopportuna passione
smodata per tutto ciò
che luccicava.
Lo afferrò
per la collottola e se
lo strappò di dosso, anche se lui, recalcitrante, tentava in
tutti i modi di
aggrapparsi al suo vestito.
– Cosa diavolo
hai combinato, stavolta,
si può sapere? – sospirò, contando
mentalmente il numero di porte che
sbattevano, sempre più vicine, per avere una stima
approssimativa di quando
iniziare a campare scuse.
– REGAN!
–
Puntuale come un
orologio, sua
cugina Anneli fece irruzione nella stanza, i capelli ondosi sciolti
sulle
spalle e la vestaglia di seta blu drappeggiata addosso in modo
decisamente
approssimativo sopra la camicia da notte.
– Quel tuo
maledetto
mostriciattolo ha di nuovo rubato la mia spilla! –
Mello tremò
in mano a Regan,
gorgogliando pauroso, e le rivolse uno sguardo che implorava
pietà e
misericordia. Era stato lui a scegliere lei, a scegliere di essere suo,
e che lei fosse sua,
e a volte la combinazione entrava
pericolosamente in conflitto, viste soprattutto le folli manie del
piccolo mascalzone.
– Sei proprio
uno sfacciato! –
sbuffò Regan, prima di rivolgersi alla cugina: –
Scusalo, lo sai che non lo fa
di proposito. –
– Non mi
interessa se lo fa di
proposito o no, voglio che tu tenga quel piccolo cleptomane fuori dalla
mia
stanza, lontano dalle mie cose e soprattutto alla larga da me!
–
– Rilassati,
sorellina, ti si
stanno afflosciando i capelli – le disse suo fratello Mariek,
con un gesto
annoiato.
Lui e il gemello Ember
sedevano
di fronte a una partita a scacchi che stavano portando avanti con la
stessa
dedizione con cui avrebbero contato i granelli di polvere adagiati sul
tavolo.
In compenso, sembravano trovare molto più edificante e
costruttivo il vassoio
di biscotti che Donna Melyor, la governante, aveva portato loro pochi
minuti
prima e che era già vuoto per metà.
Anneli scoccò
a Mariek
un’occhiata di sufficienza e tornò a puntare il
dito verso Regan e Mello:
–
Fa’ in modo che la mia spilla
salti fuori, o ti giuro che è la volta buona che nel mio
guardaroba comparirà
all’improvviso un manicotto di pelliccia rossa! –
Ciò detto,
girò sui tacchi e uscì
di gran carriera, scansando appena in tempo Prince, il maggiore dei
suoi
fratelli, che entrava nel salotto sbadigliando, completamente fradicio.
Il suo vero nome era
Tristan,
come il padre, il nonno e il bisnonno, ma per evitare confusioni tutti
lo
chiamavano Prince, perché fin dalla sua nascita, essendo il
primogenito, era
stato un po’ il principino di casa. Regan lo aveva sempre
trovato molto
attraente ed era più che certa che l’accezione con
cui le ragazze lo chiamavano
Prince era ben diversa da quella usata dai suoi fratelli.
Prince si
avvicinò al camino
acceso, prese una sedia e iniziò a depositarvi sopra strati
di vestiti zuppi
che ben presto contribuirono alla formazione di una discreta pozza
d’acqua per
terra.
– Cosa le
prende? – domandò,
riferendosi al malumore della sorella.
– Mello le ha
di nuovo rubato la
spilla dell’Accademia. – ridacchiò
Ember, muovendo un alfiere.
Prince si
girò verso Regan con un
sopracciglio inarcato e lei assunse l’espressione
più contrita che le
riuscisse.
– Non
è colpa sua! –
Prince, che ultimamente
si era
fatto stranamente distratto, scosse la testa e continuò a
svestirsi. Non fosse
stato per Donna Melyor, che entrò a fermarlo, si sarebbe
tolto anche i
pantaloni.
– Screanzato!
– esclamò la donna,
buttandogli addosso una coperta. – Ti sembra decoroso
spogliarti di fronte a
una signora? –
Prince si
guardò intorno,
confuso, presumibilmente cercando la signora in questione. Il suo
sguardo incontrò
Regan e passò oltre, e poi, dopo una breve esitazione,
tornò indietro
perplesso.
– Ma
è solo… mia cugina. –
Regan ormai lo conosceva
abbastanza bene da saper leggere perfettamente tra le righe: era solo
una bambina.
Il che cominciava a seccarla,
perché, da ragazza ormai avviata verso il tramonto
dell’adolescenza, desiderava
essere considerata tutto fuorché una bambina.
Il problema era che il
suo
aspetto non la aiutava: era ancora molto acerba, magra con un giunco,
curve a
malapena accennate, e un visetto tondo e ingenuo che sembrava rubato a
una
bambola di porcellana.
Peccato solo che non
esistessero
bambole con i capelli color del sangue.
– Tua cugina o
tua sorella che
siano, è inappropriato! – berciò
Melyor, spingendolo verso la porta, i vestiti
bagnati ammucchiati su un braccio. – Via, via, andiamo di
là! Ti preparo
qualcosa di caldo. –
Prince si
lasciò sequestrare con
un’espressione di affettuosa sopportazione. Mentre uscivano,
Regan sentì Donna
Melyor che borbottava:
– Questi turni
di notte non mi
piacciono. Se tu avessi famiglia, dovresti lasciare tua moglie e i tuoi
figli
da soli, e con i tempi che corrono… –
La risposta di Prince
finì
inghiottita da fragore di un altro tuono.
Regan si
accoccolò meglio sul
divano e riprese la lettura da dove l’aveva lasciata.
Adorava le giornate di
pioggia,
starsene in casa al caldo e all’asciutto mentre il temporale
imperversava di
fuori, e godersi una buona lettura con il sottofondo rilassante
dell’acqua
battente.
Aveva trascorso tutta la
prima
parte della sua vita tenuta prigioniera da un uomo il cui scopo era
stato solo
e unicamente quello di impadronirsi di un potere oscuro che lei
custodiva, ma
che non aveva mai dato alcun segno di possedere. Almeno fino a che non
aveva
letteralmente distrutto il castello in cui era segregata.
Adesso era libera, e
anche se i
suoi genitori non c’erano più, aveva la fortuna di
avere ancora il resto della
famiglia ad occuparsi di lei: lo zio, Lord Tristan Edelberg, e sua
moglie
Arista, e i loro sei figli, che l’avevano accolta come una
sorella. E poi
c’erano zia Persefone, giovane sorella minore di Tristan,
moglie e madre
realizzata, ma anche importante figura politica, in quanto Coordinatore
della
Terra di Brenner.
Le due persone che
più avevano
aiutato Regan nella sua nuova vita, però, non erano suoi
parenti. Una era Lucius,
il demone che l’aveva trovata e tratta in salvo il giorno in
cui lei, accecata
dal dolore per l’uccisione del suo allora unico amico, aveva
fatto crollare il
castello di Lord Desmond, il suo aguzzino. Lucius era stato molto buono
con
lei: l’aveva accolta in casa sua e si era adoperato per
rintracciare il passato
che lei aveva dimenticato, e la aveva sempre protetta. E poi
c’era Shin, il
giovanissimo angelo capace di sedare qualsiasi turbamento con un
semplice sorriso,
la persona più buona e gentile che lei avesse mai conosciuto.
Tutti loro, adesso,
erano la sua
famiglia.
Un rumore di zoccoli
all’esterno
annunciò il rientro di Lord Tristan e di Aiden, il
più giovane dei figli maschi
di casa Edelberg, poco più grande di Regan. Erano usciti di
prima mattina per
sbrigare una commissione e ritornavano appena in tempo per il pranzo.
–
Chissà dove sono stati tutta la
mattinata – si domandò, mettendosi a sedere in
maniera più composta. Allo zio
piaceva vederla comportarsi in modo consono a una fanciulla del suo
rango,
anche se lei, a tutti gli effetti, non possedeva alcun titolo: suo
padre era
stato diseredato dal nonno Edelberg per essere fuggito con la figlia di
una
famiglia rivale: Aranel, la madre di Regan.
Mariek ed Ember fecero
finta di
niente e si concentrarono sulla loro partita con degli strani
sorrisetti.
Regan
continuò a leggere
indisturbata per un po’.
Il trattato di Storia
che aveva
in grembo era grosso e pesante, ma l’argomento le
interessava, nonostante avesse
saltato di sana pianta alcune parti decisamente troppo boriose. Da due
mesi a
quella parte non aveva quasi fatto altro che divorare libri.
Il fatto era che,
essendo
cresciuta isolata dal mondo, le sue conoscenze in merito ad esso erano
marginali e anche quel poco che sapeva lo doveva solamente a Derian,
l’angelo
che aveva condiviso con lei gli ultimi anni di prigionia, prima che
Lord
Desmond, il loro carceriere, lo uccidesse davanti a lei.
Regan avrebbe sempre
sentito la
sua mancanza.
La parte di Storia che
stava
leggendo al momento era quella che la affascinava di più:
durante un periodo
tumultuoso di carestie e disgrazie, la Monarchia non era stata in grado
di
gestire i disordini delle Sette Terre, allora riunite sotto un unico
reame, e
il popolo, istigato da alcune famiglie potenti, era insorto contro il
re, il
quale, impotente, aveva scelto di destituirsi e lasciare che la sua
gente
risolvesse a modo proprio la crisi.
Così, a furor
di popolo, si era
venuta a creare la Lega: ciascuna delle Sette Terre acquisì
un’autonomia
propria ed elesse una propria guida, i Coordinatori, i quale avrebbero
avuto il
compito di gestire gli affari politici delle rispettive Terre e al
contempo
rispondere al Consiglio. Da lì in avanti, la famiglia reale,
i Leljen, rimase all’apice
della società, non più come simbolo della Corona,
ma come semplice casata
nobiliare, e colui che era stato il Monarca venne premiato per la sua
scelta
con l’elezione a Coordinatore Generale, figura cui tutti gli
altri Coordinatori
avrebbero fatto riferimento.
Regan conosceva di
persona
l’ultima discendente di questa stirpe: Lady Soile Leljen, una
donna bellissima
e altrettanto fredda, che attualmente rivestiva la carica di
Coordinatore della
Terra di Norden.
Norden,
pensò, con una stretta emozionata al cuore.
La terra dei ghiacci e
del
freddo, della neve, delle cavalcate notturne lungo le strade che nel
buio
risplendevano della tenue luminescenza del kival,
la pietra di luna. Anche se non avesse mai scoperto dove risiedessero
le sue
vere radici, Regan non avrebbe comunque avuto dubbi sul fatto che
Norden fosse
casa sua. Se ne sentiva parte come una foglia era parte di un albero:
se
l’avessero portata via, sarebbe appassita.
Macinò tre
capitoli tutti d’un
fiato, poi realizzò che Mello era sparito.
Si guardò
attorno spazientita e
lo scovò in fondo alla stanza, appiattito a terra, che
tentava di sgattaiolare
verso la porta socchiusa. Sfortunatamente, si accorse di essere
osservato e,
con uno scatto fulmineo, fuggì via come un dardo.
– Mello,
maledizione! – esclamò,
arrabbiata, correndogli dietro, e aggiunse un altro paio di improperi
non
proprio signorili nel vedersi del tutto ignorata.
I gemelli ridacchiarono.
Da
qualche parte, invece, si sollevò l’ululato di
protesta di Melyor, che poteva
anche avere una certa età, ma possedeva ancora
l’udito di un segugio:
– Modera il
linguaggio,
impudente! –
Regan si morse la lingua
e
continuò a correre lungo il corridoio. Seguiva alla cieca i
piccoli rumori che
Mello si lasciava indietro, ma non lo vedeva da nessuna parte.
Probabilmente
aveva approfittato della sua momentanea distrazione per correre a
nascondere
meglio la spilla di Anneli. Il che poteva significare che la avesse
lasciata in
un posto abbastanza ovvio da essere trovata, e che quindi esistesse
qualche speranza
di appianare, almeno in parte, il malumore di Anneli prima che il
pranzo fosse
servito.
Era appena arrivata al
terzo
piano quando udì uno scricchiolio propagarsi nel corridoio.
La porta in fondo
era aperta. Sulla pietra scura del pavimento, tuoni e fulmini si
mescolavano
alla calda e pallida luce delle lampade a olio.
Era lo studio personale
dello zio
Tristan e nonostante nessuno avesse mai ricevuto l’esplicito
divieto di
entrarci, era di tacito e comune accordo che nessuno si permettesse di
metterci
piede se non dietro a esplicito invito. Ma se Mello era là
dentro, doveva
portarlo via prima che combinasse qualche guaio serio, o, peggio, prima
che
rubasse qualche oggetto prezioso dello zio.
Entrò di
soppiatto, cercando di
non fare rumore. Anche se in giro non c’era nessuno, era
probabile che Tristan,
appena rientrato, salisse a momenti. La stanza era buia, le pesanti
tende
tirate. Tutto ciò che si poteva vedere erano ombre. Ombre di
scaffali pieni di
libri e mobili austeri, ombre di ritratti appesi alle pareti e pallidi
riflessi
che la luce fioca proveniente del corridoio creava incontrando il vetro
delle
teche in cui erano custoditi i cimeli di famiglia più
importanti. Regan li
aveva visti una volta sola e per lo più ricordava armi,
diari e gioielli.
– Mello? Dove
sei? Vieni fuori,
avanti, prima che qualcuno ci scopra! –
Non si sentiva ancora
del tutto a
suo agio in quel palazzo che ormai chiamava casa,
e quella stanza la metteva in soggezione. Era come se una proiezione di
Tristan
fosse seduta sulla pesante poltrona intarsiata dietro alla scrivania e
la
stesse sorvegliando in segreto.
C’era una
pipa, accuratamente
ripulita, dimenticata sul tavolino di fronte al divano accanto a una
tabacchiera d’argento. E Mello era appollaiato proprio
lì sopra, gli occhioni
neri che luccicavano di tutta l’innocenza del mondo nella
semioscurità.
Regan si
portò le mani ai fianchi
nel modo minaccioso aveva imparato da Donna Melyor.
– Chi
spereresti di ingannare,
per curiosità? –
Le orecchiette di Mello
fremettero di insicurezza.
– Non ti
azzardare a muoverti! –
lo avvertì, mentre si avvicinava. Lui, che invece sembrava
avere esattamente
quell’intenzione, sembrò restringersi in se
stesso, impotente, e rimase
immobile ad attendere che la mano di lei lo sollevasse. Il modo in cui
la
guardò, gorgogliando sommessamente, le fece sciogliere il
cuore.
Sospirò.
– Prima o poi
capirò come si fa a
non lasciarsi incantare dalle tue moine, e allora sarà
peggio per te –
borbottò, puntandogli sconfitta un dito contro il naso umido.
Lui chiuse gli occhi,
sornione,
ed emise un versetto contento.
Regan riportò
la propria
attenzione sulla tabacchiera: il coperchio era storto, leggermente sollevato
perché il suo perimetro non si
incastrava correttamente nel bordo della scatola. Si chinò
per aprirlo: tra il
mucchio di foglie secche e spezzettate dall’intenso aroma
acre individuò
qualcosa che luccicava. Gettò un’occhiatina di
rimprovero alla sua bestiola e
recuperò l’oggetto, scoprendo che era esattamente
ciò che aveva sospettato.
Lasciò andare
Mello, il quale
gemette in segno di protesta per il suo tesoro profanato e si diresse
offeso
verso la porta, ma Regan non gli badò. Ripulì
velocemente l’ovale dorato,
aiutandosi con le unghie per togliere anche i pezzetti più
piccoli che si erano
incastrati tra i raggi della stella a sette punte che vi era incisa,
simbolo
storico delle Sette Terre: sette unità a sé
stanti che condividevano il
medesimo nucleo. Quel nucleo un tempo era stato il re; adesso era la
Lega, i
cui membri, infatti, portavano al collo una stella identica a quella.
Rimise tutto a posto il
più
rapidamente e accuratamente possibile, poi, accertatasi che Mello fosse
andato
via, uscì e chiuse.
Le camere da letto erano
al
secondo piano. Al quarto, l’ultimo, c’erano la
Biblioteca e il salone dove i
ragazzi erano soliti allenarsi durante l’inverno o le
giornatacce come quella.
Arrivata alla stanza di
Anneli,
bussò.
– Avanti.
–
Dal tono svogliato,
capì che la
cugina non sarebbe stata granché bendisposta al dialogo,
né alle sue ennesime
scuse.
Entrò
riluttante. La camera era
illuminata a giorno, lampade e candele sparsi ovunque. Era facile,
guardando le
sue cose, capire che fosse figlia di suo padre: lo stesso gusto per
l’eleganza
sobria, talvolta persino essenziale, e una predilezione per
l’ordine e la
tranquillità. Tutto l’opposto di sua madre Arista
e dei suoi fratelli Ember e
Mariek, estroversi e solari, più propensi a farsi una risata
in compagnia che a
badare all’ordine.
Anneli era davanti alla
grande
specchiera della sua toeletta, seduta in una postura rigida e
perfettamente
eretta che Regan non avrebbe saputo replicare nemmeno con un bustino di
metallo
addosso.
– Ti ho
riportato la spilla. –
Gliela posò
accanto alla
spazzola, su cui lei teneva una mano, anche se i suoi occhi, vuoti e
assenti, erano
assorti a fissare lo specchio, un oggetto che Regan di solito preferiva
evitare.
Anneli, invece, era
piuttosto
vanitosa, e nessuno avrebbe potuto biasimarla: era davvero molto bella.
Lineamenti fini, un corpo femminile, ben tornito, e in lei non restava
più
nulla di una bambina. Spesso, anzi, il suo sguardo era offuscato da un
tormento
interiore fin troppo adulto per una ragazza giovane come lei. Regan
conosceva e
riconosceva parte di quel tormento, perché era qualcosa che
dimorava anche in
lei: la vana speranza di un sentimento che non sarebbe mai stato
ricambiato.
Anneli prese la spilla e
la
appoggiò dentro al portagioie aperto che aveva davanti senza
nemmeno guardarla.
Era triste e irritabile da qualche giorno, e Regan non aveva bisogno di
domandarsi perché, dato che si sentiva allo stesso modo e
per lo stesso motivo.
Un motivo che aveva
occhi di
cielo e muscoli armoniosi.
Lucius.
Non si faceva vivo da
giorni, e
anche se aveva ben avvertito che sarebbe stato assente per un
po’, un velo di
preoccupazione rimaneva sempre. Sapeva badare a sé stesso e,
anzi, di norma era
chi incrociava il suo cammino a doversi preoccupare.
Era un amico di vecchia
data
della famiglia Edelberg, da prima che Regan stessa lo conoscesse, e sia
lei che
la cugina avevano sempre avuto un inconfessato ma altrettanto palese
debole per
lui.
– Ti manca,
vero? –
Anneli aveva parlato con
voce
così bassa e sottile che il temporale l’aveva
quasi cancellata.
Regan non aveva bisogno
di
chiedere di chi parlasse. Lunghi capelli corvini, fisico statuario,
occhi di un
celeste limpido e irriverente, e una pelle chiara rovinata da
più cicatrici di
quante se ne potessero contare: Lucius Henker.
Il suo
Lucius.
Non rispose, ma i denti
che le
affondavano nel labbro lo fecero per lei.
L’altra prese
a spazzolarsi i
capelli.
– Sai,
all’inizio penso di averti
odiata perché lui si occupava di te con molta dedizione, una
tenerezza quasi
famigliare… Ci ho messo un po’ a ricordarmi che
anche con me si comportava
così, una volta. –
Un’ombra di
nostalgia le solcò il
viso per un momento, accompagnata dal sorriso più amaro che
Regan avesse mai
visto.
– Quando ha
capito che per me
qualcosa stava cambiando ha smesso di trattarmi come una bambina e ha
iniziato
a essere più cerimonioso e distaccato. Ho lasciato perdere
le illusioni
inutili, ormai, quindi è inutile che io continui a portarti
rancore per una
colpa che non hai e non avrai mai. –
La verità
nelle sue parole era
dolorosa, ma priva di cattiveria. Ciononostante, Regan scelse di non
vederla.
– Cosa vuoi
dire? –
– Siamo oneste
con noi stesse:
Lucius ha gusti così ambiziosi che tu ed io non siamo
nemmeno contemplate
nell’eleggibile. –
E chi lo era, visto
l’altro
termine di paragone?
– Non hai
già abbastanza problemi
a cui pensare? Custodisci un potere che molti si venderebbero
l’anima per avere
e che qualcun altro invece vorrebbe annientare. In entrambi i casi, la
tua vita
è già sufficientemente complicata, senza che tu
perda il sonno per qualcuno che
non potrà mai darti quello che cerchi. Lo dico per il tuo
bene, credimi. –
Regan poteva capire il
suo punto
di vista: Anneli aveva già passato la maggiore
età e a quel punto molte ragazze
erano già sposate, alcune addirittura avevano dei figli, ma
lei, nonostante le
pressioni del padre, non voleva saperne di accettare la corte di uno
dei suoi
molti pretendenti. I suoi fratelli maggiori, invece, avevano ancora
tempo per
trovarsi una sposa, e non avrebbero avuto che l’imbarazzo
della scelta, anche
se Regan spesso trovava comunque squallido che si dovesse scegliere il
compagno
o la compagna di tutta la vita in base al consenso espresso da qualcun
altro.
Alle loro spalle, la
pendola che
c’era tra la grande finestra in fondo alla stanza e il
piccolo scrittoio
rintoccò il mezzodì preciso.
– Ci staranno
aspettando per il
pranzo. –
Anneli
continuò a spazzolarsi i
capelli, del tutto disinteressata al pranzo.
– Scusati da
parte mia, di’ che
non ho appetito. –
Regan si
voltò indietro appena
prima di uscire:
– Melyor ti
verrà a prendere per
le orecchie. –
Anneli
scrollò le spalle in modo
ben poco signorile.
– Che faccia
pure. Non mi farà
certo tornare la fame. –
Più tardi, a
tavola, mentre
veniva servito il dolce, lo zio si schiarì rumorosamente la
gola. Quando ebbe
avuto l’attenzione di tutta la famiglia, esordì:
– Si stanno
avvicinando le
celebrazioni per l’Equinozio di Primavera. È un
evento mondano a cui
parteciperanno tutti gli esponenti dell’alta
società. Mi rincresce solo che si
terrà a Shjarna. Sarebbe stato più adatta
l’occasione del Solstizio d’Inverno,
dato che gli Edelberg sono fieri figli di Norden, tuttavia non vorrei
attendere
tanto. –
Regan era perplessa. Per
tutta la
durata del pranzo era rimasta chiusa in una dimensione parallela a
sé stante,
vuotando il piatto senza nemmeno badare a cosa le veniva messo sotto il
naso.
Rimuginava sul proprio imminente futuro: era debole, rispetto a ogni
altro
demone della sua età, e non aveva la minima dimestichezza
con i propri poteri;
non sapeva invocarli né gestirli, e se voleva essere in
grado di badare almeno
un minimo a se stessa avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche e darsi da
fare per
imparare.
– Padre, ti
spiacerebbe venire al
dunque? – soggiunse Ember, alla prima pausa. – Ho
programmi per la serata. –
– Porta
rispetto, impertinente! –
berciò Donna Melyor, allungandogli uno scappellotto sulla
nuca mentre serviva
la torta alle mele. Era stata la balia dei ragazzi
quand’erano piccoli, e
tuttora aiutava Arista a crescere ed educare la piccola Luce.
Gli altri fratelli se la
risero
sotto i baffi.
La torta fu servita a
tutti
tranne che a Ember, che stava sicuramente provando per la prima volta
nella sua
vita qualcosa di vagamente simile alla contrizione, a giudicare dalle
occhiatine invidiose che gettava ai piatti degli altri.
Approfittando delle
bocche
impegnate a masticare, Tristan riprese parola:
– Prima di
essere interrotto,
stavo per parlare di qualcosa di importante. Regan è parte
integrante della
famiglia, ora, e vorrei ufficializzare la questione al più
presto. Siamo una casata
in vista, la gente sta già chiacchierando e speculando, e
non mi sta bene.
Voglio che Regan sia presentata in società come si deve e
che tutti sappiano
chi è. –
La diretta interessata
inghiottì
a fatica un boccone di torta e dovette prendere un paio di sorsi
d’acqua per
liberarsi dalla sensazione di soffocamento che questo le
lasciò.
– Quindi, per
tutelare la buona
reputazione degli Edelberg, andremo davanti a tutta la
nobiltà delle Sette
Terre e annunceremo pubblicamente che Regan è la figlia
illegittima di due
rampolli di famiglie storicamente rivali che sono fuggiti insieme
coprendosi di
disonore? –
La battuta di Ember si
conquistò
un ceffone da parte di Donna Melyor, che, purtroppo per lui, era ancora
negli
immediati paraggi.
– Non
è una figlia illegittima –
sottolineò Tristan, severo. – Ardal
sposò Aranel prima che si stabilissero ad
Aurin. Ho parlato con la donna che li accolse in casa propria, ha detto
che
portavano entrambi un anello nuziale. Regan è una Edelberg
tanto quanto lo
siete voi. –
– Una Edelberg
diseredata –
borbottò Mariek sottovoce.
Donna Melyor, che era
stava
servendo una porzione di torta ad Arista, dall’altro lato del
tavolo, lo
trafisse con un’occhiataccia che lo fece ritrarre nelle
spalle.
– Faccio da
solo – bisbigliò, e
si portò una mano dietro la testa per punirsi
spontaneamente, risparmiando a
Melyor la seccatura di aggirare l’intero tavolo.
– Non
posso cambiare ciò che mio
padre stabilì a suo tempo – riprese Tristan,
ignorando le schermaglie di
sottofondo in corso. – Ma io e Persefone abbiamo ereditato
gli averi che
sarebbero spettati ad Ardal, e in seguito anche quelli di Malissa. Se
è un
patrimonio che manca a Regan, glielo possiamo tranquillamente fornire.
–
Malissa e Ardal,
rispettivamente
zia e padre di Regan, erano i due fratelli di mezzo della penultima
generazione
degli Edelberg ed erano entrambi morti da anni. Almeno in via
ufficiale, perché
non molto tempo prima, in circostanze alquanto singolari, lei aveva
avuto il
piacere di incontrare in gran segreto colei che sarebbe dovuta essere
la
defunta Malissa, e la aveva trovata decisamente in salute, per essere
pubblicamente deceduta.
– Voglio che
abbia un futuro
sereno e avrà la stessa dote che spetta alle mie figlie,
benché non ritenga le
serva un patrimonio per attirare l’attenzione di eventuali
pretendenti. –
Regan arrossì
a quell’ultima
frase, non per l’imbarazzo, ma perché
sentì del calore paterno in un
complimento che prima d’ora non aveva mai ricevuto. Le faceva
piacere sapere
che lo zio la considerasse meritevole di attenzioni maschili, anche se
lei era
abbastanza realista da sapere che ciò che i ragazzi
cercavano in una ragazza
lei non lo aveva. Non ancora. Ma non faceva che ripetersi che prima o
poi
sarebbe cresciuta anche lei.
– Un momento,
perché adesso
stiamo parlando di matrimonio? – intervenne Aiden,
accigliato, scostandosi due
ciuffi di capelli biondi dal viso cesellato.
– Regan
è in età da marito –
disse Anneli, sprezzante. Era stata costretta a presenziare al pranzo,
anche se
non aveva intenzione di toccare cibo, e il suo umore era ulteriormente
peggiorato. – È tempo che trovi un ragazzo
rispettabile e si sistemi. –
Il solo pensiero fece
inorridire
Regan: al momento gli affari di cuore erano l’ultima cosa di
cui voleva
preoccuparsi.
– Ma io
non… –
–
C’è tempo per questo – tagliò
corto Tristan, in un tono gentile ma che non ammetteva repliche.
– Per ora mi
preme che tu faccia come si deve il tuo debutto in società.
E affinché questo
avvenga, dovrai prima presentata ai tuoi nonni materni, Lord e Lady
Dresden. –
Regan si
sentì sprofondare nella
sua sedia. Come al solito, stava succedendo tutto troppo in fretta, e
senza che
lei si sentisse pronta per affrontarlo.
Si era discusso spesso
di come e
quando lei avesse dovuto incontrare i Dresden, ed era sempre stato in
termini
così fumosi e vaghi che non aveva mai preso seriamente in
considerazione
l’eventualità.
– Domani
Lucius verrà ricevuto a
casa loro e cercherà di spiegare come stanno le cose. Ho
pensato che fosse
saggio mandare qualcuno di neutrale
per comunicare loro la… novità. –
La mascella di Tristan
si
contrasse impercettibilmente. I Dresden erano una di quelle casate
ritenute
responsabili della Grande Rivolta che aveva messo fine alla Monarchia,
e gli
Edelberg, invece, erano sempre stati tra le più fedeli alla
Corona, e i secoli
non erano riusciti a cancellare questa storica rivalità. Era
quindi
comprensibile che il più anziano degli uni fosse
tutt’altro che lieto di
condividere una nipote con il più anziano degli altri.
Regan era furiosa, ma
troppo
sconvolta per reagire. Si sentiva una marionetta mossa dai fili di
volontà
altrui: ancora una volta era stato deciso tutto senza che lei fosse
interpellata. Avrebbe voluto avere Shin accanto, adesso, con la sua
calma e la
sua razionalità, il suo innato potere rasserenante.
– Naturalmente
spetta solo a te
decidere quando incontrarli – si affrettò ad
aggiungere Arista con tatto,
gettando al marito uno sguardo di ammonimento. – Quando ti
sentirai pronta. Non
è vero, caro? –
– Ma certo
– annuì lui in fretta.
– Devi capire che era necessario metterli al corrente della
situazione al più
presto, perché se per disgrazia lo venissero a scoprire da
altri, ne verrebbe
fuori una guerra. Ci accuserebbero di tramare alle loro spalle, di
voler tenere
loro nascosta la loro unica nipote… –
Dalla tensione nella sua
voce e
nella sua espressione, Regan capì che i suoi timori erano
sinceri, e la cosa la
spaventò. Non voleva mettere nei guai nessuno, e ancor meno
finire contesa su
due fronti rivali. Non conoscendo i nonni materni, non aveva mezzi per
fare
paragoni, ma vivere a casa Edelberg le piaceva ed era stato soprattutto
grazie
ai suoi cugini che si era ambientata così bene e in fretta.
Non voleva nemmeno
pensare di dover essere strappata a quell’ambiente famigliare
che si era
duramente conquistata.
Per tutto il pomeriggio
ebbe solo
l’incontro di Lucius con i Dresden in testa. Persino il suo
libro non riuscì a
distrarla, tanto che alla fine, dopo aver sfogliato tre pagine senza
aver
assorbito niente, decise di lasciar perdere.
Riuscì a
calmarsi un poco solo
quando, verso il calar del sole, un grosso gufo bruno si
presentò alla finestra
della sua stanza stringendo qualcosa tra gli artigli. Era Libra, la
Guardiana
del suo amico Shin.
La fece entrare. Anche
se ormai
non pioveva più, le sue ali gocciolavano, così
come le piante e i tetti delle
case, e sparsero gocce d’acqua su tutto il pavimento, ma
Regan non se ne curò.
Ringraziò piuttosto che Mello non fosse nei paraggi,
perché la sua esuberanza
infastidiva spesso il carattere schivo di Libra.
Per la
verità, nemmeno Regan
stessa stava granché simpatica al rapace, che vedeva in
chiunque si avvicinasse
al suo protetto una minaccia incombente, anche se quel chiunque sarebbe
morto
piuttosto che fare del male a Shin. La gelosia, evidentemente, non era
una
prerogativa solo delle persone.
Libra le cedette con
riluttanza
la busta che aveva portato. Era un messaggio da parte di Shin.
Libra non attese che lei
lo
aprisse: le scoccò un’occhiatina malevola e
spiccò il volo nel mosaico di
nuvole e sprazzi di cielo limpido che il temporale aveva lasciato
dietro di sé.
Sollevata di essersela
cavata con
così poco ed essere scampata a uno dei soliti attentati
mordaci, Regan aprì la
busta e lesse le poche righe vergate sul foglietto che vi era stato
riposto:
“Scusa per l’assenza di
questi giorni. Sono stato impegnato a Medilana
e ogni volta che avrei voluto scriverti alla fine c’era
sempre qualcosa che me
lo impediva. Sono appena tornato a Kauneus e pensavo che forse ti
piacerebbe
uscire un po’ e distrarti, fare quattro
chiacchiere.”
Regan sorrise. Ancora
una volta,
anche da lontano, Shin sapeva capirla meglio di chiunque altro.
“Passerò domani in
mattinata a vedere come stai. Spero che sia tutto a
posto. A presto. Shin.”
Fu più facile
addormentarsi,
quella notte, sapendo che aveva qualcosa di positivo ad attenderla il
giorno
dopo. Sentiva molto la mancanza di Shin e parlare con lui le avrebbe
fatto
bene. Inoltre era sicura che lui potesse soddisfare le sue
curiosità riguardo
ai Dresden e a cosa sarebbe potuto accadere a lei se questi ultimi
avessero
deciso di avanzare pretese su di lei e la sua tutela.
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A/N: ed eccomi qui, dopo mille mila anni, a iniziare a pubblicare anche Temptation. :) Ci ho messo tantissimo e me ne scuso, ma tra lavoro, vagabondaggi vari e un periodo di ispirazione scarsa, ho faticato a ingranare con questo nuovo capitolo della saga. Adesso, a metà stesura, mi sento abbastanza sicura da poter iniziare a pubblicare. La frequenza di aggiornamento sarà di circa una volta alla settimana, dato che parecchi capitoli sono già pronti. Spero che mi seguirete ancora, dopo Innocence, e che vorrete continuare a recensire e aiutarmi con i vostri consigli.
Alla prossima!
P.S. se qualche lettrice avesse un blog letterario e fosse interessata a organizzare interviste e/o giveaway, alla sottoscritta farebbe molto piacere, quindi contattatemi pure, se avete idee o proposte! :)
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Capitolo 2 *** 1. In Nome di un Ricordo ***
1. IN NOME DI UN
RICORDO
When you’ve loved and
you’ve lost someone close to you You know what it feels
like to lose
– Not Like The Other
Girls, The Rasmus –
C’era
il mare, lì a Falassar,
pacifica cittadina agli estremi limiti meridionali della Terra di
Astereis che
sorgeva, in effetti, proprio in prossimità di una delle
spiagge più belle di
tutte le Sette Terre.
L’odore
salmastro e lo
spumeggiare delle onde arrivavano fin lì, in cima
all’altura dove sorgeva, ben
isolato, il palazzo imponente dei Dresden.
La
giornata soleggiata illuminava
generosamente la facciata di pietra bruna attraverso sprazzi di nuvole
bianco
latte che fluttuavano nel blu del cielo sospinte da un piacevole
venticello
tiepido. C’era tutto un altro clima, al Sud: mentre a Norden
l’inverno ancora
non aveva del tutto ceduto il passo alla primavera, lì
sembrava già estate.
Lucius
smontò da cavallo e si
fermò davanti ai cancelli sbarrati. Dall’altra
parte, una sentinella
sorvegliava il passaggio, come se i residenti si aspettassero attacchi
da parte
di orde nemiche da un momento all’altro.
–
Fatevi riconoscere! –
La
guardia aveva usato un tono
perentorio, e la sua mano era preventivamente accostata
all’elsa della spada
agganciata alla cinta. Indossava una livrea nera e gialla, i colori dei
suoi
signori.
Lucius
rizzò il collo, cosicché
la Stella che portava potesse brillare alla luce del sole, poi sorrise
cortese:
–
Lucius Henker di Kauneus.
Presumo di essere atteso. –
La
guardia attenuò subito
l’atteggiamento ostile. Lo fece entrare, ma non disse niente.
Lucius
attraversò il viale che
conduceva all’ingresso rispolverando una a una le differenze
con lo stile dei
palazzi del Nord: i Dresden erano marchesi, o lo sarebbero stati se i
titoli
nobiliari fossero stati ancora ufficialmente in vigore, ma le
tradizioni erano
dure a morire e loro, come quasi tutti gli altri, ci tenevano a
comportarsi e
ad essere trattati come tali, e la loro dimora era un degno vessillo
della loro
condizione di privilegiati.
Le
piogge erano scarse e lievi,
da quelle parti, quindi i tetti erano semplici e lineari, privi delle
pendenze
aguzze e dei pinnacoli che ornavano quelli delle Terre settentrionali.
La
ricchezza, tuttavia, aveva trovato altre vie d’espressione:
nei rivestimenti
mosaicati dei tetti, ad esempio, e negli stucchi lavorati che facevano
da
decorazione alle ampie facciate, che al Nord sarebbero stati
irrimediabilmente
rovinati dalla prima gelata. L’uso dei ballatoi e delle
terrazze, inoltre, era
strettamente limitato ai piani inferiori, preferendo, in quelli
superiori,
finestre strette chiuse da scuri pesanti, che aiutassero a mantenere la
frescura nei periodi più caldi.
C’era
una fontana ad accogliere i
visitatori nello spiazzo antistante le porte della casa,
com’era in uso nelle
aree più calde, un gesto di benvenuto nei confronti dei
cavalli che conducevano
fin lì gli ospiti lungo strade arse dal sole e spesso
lontane da ogni risorsa
d’acqua potabile.
Lucius
diede una pacca
incoraggiante a Freyr e lo legò a uno degli anelli di ferro
che spuntavano dal
bordo di marmo della vasca rotonda. Il cavallo nitrì
riconoscente e subito
tuffò il muso nella fresca acqua zampillante.
–
Augurami buona fortuna, amico.
–
Quando
bussò al portone, gli
venne aperto quasi subito. A dargli il benvenuto c’era una
ragazzetta ossuta con
il naso a punta e una folta massa di ricci scuri che si
esibì in un inchino
proverbiale.
–
Milord, accomodatevi. I signori
vi stavano aspettando. –
Lucius
le sorrise:
–
Non c’è bisogno di tutte queste
cerimonie. Non sono un lord né lo sarò mai.
–
Lei
arrossì lievemente.
–
Perdonatemi, signore, ma il
vostro aspetto è quello di un principe, non di un popolano.
–
Quello
era vero. Si era messo in
ghingheri perché, conoscendo Lord e Lady Dresden, sapeva che
avrebbe dovuto
puntare tutto sulla prima, fatidica impressione per riuscire ad
ottenere da
loro l’attenzione e la disponibilità necessarie a
spiegare loro la complicata
situazione. Già il fatto che avrebbe dovuto riferire che la
loro preziosa unica
figlia era morta lo rendeva nervoso: non avrebbe mai voluto essere nei
propri
panni.
Dopo
avergli preso il mantello, la
ragazza, che si presentò come Fanie, lo scortò
personalmente verso il retro del
palazzo, introducendolo in un ampio salotto luminosissimo che si
affacciava
direttamente sul mare.
– Milord, milady – Fanie fece
una riverenza frettolosa e si tirò da parte per permettere a
Lucius di farsi
avanti. – Il vostro ospite è arrivato. –
Lord
e Lady Dresden sedevano su
due ricche poltrone davanti a un tavolino da the. Il primo era basso e
tarchiato, con pochi capelli ispidi e grigi sulla testa e
un’espressione
tutt’altro che bendisposta sulla faccia larga da rospo; la
seconda era pingue,
ma conservava ancora qualcosa di quella che in giovinezza doveva essere
stata
un bellezza davvero incantevole, tuttora rintracciabile nei begli occhi
blu e
nella linea delicata del profilo. I due guardarono Lucius esattamente
come
avrebbero guardato una mosca che entrava per caso nella stanza.
–
Lord Herne, Lady Fabel – Lucius
accennò un inchino rispettoso del rivolgere loro il proprio
saluto. – Vi
ringrazio per avermi ricevuto. Il mio nome è Lucius Henker.
–
–
Sappiamo chi siete – bofonchiò
il vecchio Herne, burbero proprio come lo volevano i pettegolezzi.
– Venite al
dunque in fretta, e poi tornate da dove siete venuto. –
Lucius
non si scompose. Era
arrivato preparato a quell’ostilità e di certo non
sarebbe stata una tale
piccolezza a mettere in difficoltà le sue doti di mediatore.
–
Sono qui perché vorrei parlare
di vostra figlia Aranel. –
Si
era aspettato stupore, da
parte loro, ma non ce ne fu. Lady Fabel, invece, interruppe per un
secondo il
suo lavoro di ricamo e lo guardò con il gelo negli occhi:
–
Aranel è morta. Qualsiasi cosa
vogliate sapere di lei, non ha più alcuna importanza.
–
Questo
Lucius non lo aveva
previsto. Non lasciò tuttavia intendere il suo stupore, sia
perché non era da
lui, sia perché in ogni caso il suo scopo era un altro, e se
loro avessero
saputo qualcosa di più, sicuramente la tomba di Aranel non
sarebbe rimasta ad
Aurin.
Fece
un passo in avanti, il mento
sollevato per mettere in chiaro che, nonostante il loro atteggiamento,
lui era
lì per discutere da pari a pari, e sarebbe stato meglio per
loro ascoltare ciò
che aveva da dire.
–
A onor del vero, signori, non
sono venuto per fare domande, ma per darvi delle risposte. –
Regan
era alla finestra quando arrivò
Shin.
Stava
tentando – senza alcun
successo – di terminare il ricamo di un fiore su una tela
ormai tutta
sgualcita, quando lo vide apparire a cavallo di fronte ai cancelli in
un
fluttuare di capelli argentei e falde nere di mantello.
Sorrise.
Ogni volta che lo
rivedeva le sembrava più alto e più magro, un
giunco bianco accarezzato dal
vento.
Mollò
all’istante il lavoro di
ricamo che Donna Melyor le aveva ingiunto di terminare entro la fine
della settimana
e si precipitò verso l’ingresso, mancando per poco
di travolgere l’ignaro
Tjeren, marito di Melyor, che stava barcamenando un carico di legna da
buttare
nelle stufe. Il sole faticava ancora a riscaldare il palazzo attraverso
le
spesse mura di solida pietra.
–
Fa’ attenzione, perbacco! Sei
peggio di quei due scavezzacollo messi insieme! – lo
sentì borbottare, ma lei
aveva già spalancato il portone, precipitandosi fuori di
corsa. Mariek ed
Ember, comunque, i due scavezzacollo in questione, avrebbero avuto da
ridire su
quell’affermazione.
Le
pantofole leggere
attraversarono incuranti le pozzanghere che costellavano il viale,
residuo del
temporale del giorno precedente. L’aria era fresca, profumata
di verde, e con
il sole a brillare nel cielo era più facile vedere la
primavera nelle gemme
timide sui rami degli alberi, nei fili d’erba che si
rianimavano e colorivano
nuovamente dopo i mesi trascorsi sotto alla spessa coltre di neve che
ancora
indugiava su Norden. Qua e là nei prati spuntavano mazzolini
di elleboro nero –
la rosa delle nevi, com’era tradizionalmente chiamata.
Shin
non ebbe quasi il tempo di
sorriderle: Regan gli gettò le braccia al collo con tale
trasporto da fargli
muovere un passo indietro per non perdere l’equilibrio. Era
esattamente come lo
ricordava: spigoloso e profumato di tranquillità.
Lui
ricambiò gentilmente
l’abbraccio, ridendo di quell’entusiasmo
probabilmente inaspettato, ma lei
aveva sentito molto la sua mancanza, in quelle settimane che era stato
lontano,
e adesso ritrovare il tepore dei suoi occhi neri stava lentamente
sopendo
quell’inquietudine sorda che dal giorno prima la stava
logorando.
–
Suppongo che a questo punto sia
inutile domandarti se ti sono mancato. –
Regan
lo lasciò andare e gli
diede una gomitata nel fianco.
–
Non si può dire che tu non ti
sia fatto attendere, vero? –
La
battuta si smarrì nel vuoto.
Shin stava guardando in alto davanti a sé e improvvisamente
si era fatto serio,
quasi guardingo. Regan seguì il suo sguardo: dietro una
delle finestre del
secondo piano, i riflessi di luci e ombre sul vetro occultavano solo
parzialmente i contorni immobili dello zio Tristan.
Regan
sapeva che Shin non era
benvisto dagli Edelberg a causa dei vantaggi che le sue innate doti
straordinarie gli avevano sempre garantito, ma non le importava di
quello che
pensavano loro. Era un suo amico, e tanto bastava.
Incurante
della severa incombenza
dello zio, Regan gli prese il polso e lo trascinò verso il
portone d’ingresso,
ancora spalancato.
–
Su, vieni dentro. Voglio sapere
che cosa hai fatto in tutto questo tempo. –
–
Regan, aspetta. –
Shin
non si era mosso da dov’era,
gli occhi ancora rivolti alla finestra a cui Tristan, però,
non era più
affacciato.
–
Preferisco non entrare. Non
sono stato invitato. –
–
Non dire sciocchezze, ti ho appena
invitato io! –
Ma
lui scosse la testa.
–
Non sta a te, è questo il punto
– rimarcò. – Sarebbe una mancanza di
rispetto verso il capofamiglia se io
adesso varcassi quella porta. La casa è sua e senza un suo
invito diretto
sarebbe un affronto, e io ho già una pessima nomea, in
questa casa. –
Non
faceva freddo come in pieno
inverno, benché e si sarebbero potuti sedere su una delle
tante panchine del
parco, o sotto qualche padiglione, ma a quel punto avrebbero dovuto
sopportare
qualche improvvisa ispirazione di giardinaggio da parte di Tjeren, o
l’impellente necessità di Donna Melyor di mettersi
a pulire proprio le finestre
che davano su quella porzione di giardino.
A
Regan venne la pelle d’oca a
pensare a cosa ne avrebbero detto quei due se per caso la avessero
vista
abbracciare Shin in quel modo indecoroso e smaccatamente
fraintendibile. Le
ripercussioni, immaginò, avrebbero previsto una tirata
d’orecchie memorabile e
una reclusione casalinga a tempo indeterminato, per lei. Lui, invece,
sarebbe
stato semplicemente bandito a vita dalla proprietà.
–
Benvenuto, Shin. –
La
voce di zia Arista.
Era
comparsa sull’uscio, le
maniche arrotolate fino ai gomiti e un grembiule identico a quelli
delle
domestiche a proteggerle l’abito verde scuro. Aveva le mani
puntellate sui
fianchi morbidi, ma sorrideva. Era così diversa da suo
marito che Regan si era
chiesta spesso come loro due potessero essere felicemente sposati da
così tanto
tempo.
Shin
si affrettò a porgerle i
propri ossequi.
–
Lady Edelberg. –
In
quello stesso istante
sopraggiunse anche lo zio Tristan, alto e imponente e vagamente
inquietante a
causa delle due vistose cicatrici parallele che gli sfregiavano il viso
di
sbieco.
Gelido,
quasi sulla difensiva,
Shin si accostò il pugno destro al lato sinistro del petto e
si inchinò anche
per lui, alla maniera dei gentiluomini delle Sette Terre.
–
Lord Edelberg. –
Lui
e Tristan si studiarono a
lungo l’un l’altro e per la prima volta Regan si
accorse di quanto Shin, pur
così esile e aggraziato, sapesse apparire imponente.
–
Zio – mosse un passo in avanti,
timida ma sicura. – Stavo per venire a domandarvi il permesso
di invitare Shin
a entrare. –
Se
Tristan avesse saputo
sorridere, quello sarebbe stato il momento giusto per farlo. Ma, da che
lo
conosceva, Regan non lo aveva mai visto sorridere una volta ed era
ormai
arrivata a pensare semplicemente ne fosse incapace. Solo Arista
sembrò cogliere
il tentativo di umorismo e assecondarlo:
–
Non è proprio il caso di
restarsene chiusi in casa con una giornata così bella.
Potreste fare un giro in
città, piuttosto. A cavallo, magari – aggiunse,
rivolgendo al consorte un
sorriso esortativo.
–
Se Lord Edelberg non ha nulla
in contrario, sarei lieto di provvedere personalmente alla sicurezza di
vostra
nipote – disse Shin.
Regan
sogguardò lo zio,
titubante. Andava spesso in città insieme ai suoi cugini e
non c’era alcun
pericolo: Kauneus era sicura, tanto frequentata quanto protetta, e se
Shin da
solo non fosse bastato come garanzia, ci sarebbero state guardie
ovunque pronte
a intervenire in un improbabile caso di attacco.
Tristan,
tuttavia, non sembrava
incline ad accordare il suo permesso e il modo in cui scrutava Shin
parlava di
una diffidenza che non voleva conoscere ravvedimenti. Ma poi Arista gli
toccò
il braccio, dolcemente, senza aggiungere altro che una lieve pressione
delle
dita, e qualcosa nello sguardo di lui si ammorbidì:
–
Molto bene – si schiarì la
voce, a disagio. – Intendevo aspettare che fossimo tutti
presenti, ma visto che
si presenta l’occasione… –
Regan
corrugò la fronte,
perplessa e curiosa al tempo stesso.
–
Di cosa state parlando? –
Le
scuderie di trovavano nella
parte posteriore degli immensi giardini della tenuta. Ospitavano una
dozzina di
cavalli ed erano l’indiscusso luogo preferito di Regan: se
avesse potuto, vi avrebbe
trascorso ogni singolo momento delle sue giornate. Amava stare in
compagnia
degli animali, più sinceri e affidabili delle persone, e per
i cavalli, in
particolare, nutriva una vera e propria venerazione.
I
suoi cugini, armati di buone
speranze e tanta volontà, le avevano dato personalmente
qualche lezione di
autodifesa nei loro giorni liberi, e i risultati non erano stati poi
tanto
migliori dei vari tentativi precedenti a cui Regan si era dedicata: non
c’era
verso di insegnarle a usare i poteri magici che possedeva e la spada
riusciva a
malapena a maneggiarla, ma in compenso aveva un qualche mediocre
talento con i
pugnali, che se non altro erano abbastanza piccoli e leggeri da poter
essere adoperati
anche senza un vero e proprio stile. Un talento, però, aveva
scoperto di
possederlo, ed era quello per l’equitazione. Fin dalla prima
volta che le era
stato permesso di montare un cavallo da sola aveva dato prova di essere
un’ottima amazzone e la gioia che aveva provato a galoppare
alla velocità del
vento nei prati innevati di Norden era stata inimmaginabile.
Ciascuno
dei membri della
famiglia Edelberg possedeva un destriero personale, oltre a quelli
destinati
alle due carrozze, e ogni volta che i suoi cugini la portavano fuori
per una
cavalcata, a Regan era permesso di prendere in prestito Nashira, la
bella roana
scura di zia Arista, con cui aveva stabilito un rapporto accettabile.
Con il
tempo aveva notato una cosa: il carattere di ciascuno di quei cavalli
era
simile a quello dei rispettivi padroni.
Quando
entrarono, tutto era
pulito e ordinato. Gli stallieri iniziavano a lavorare di prima mattina
e si
assicuravano che alle bestie non mancassero mai né cibo
né acqua fresca.
Shin
camminava in coda al gruppo,
osservando con modesta curiosità gli ambienti.
–
Non capisco – mormorò Regan,
sempre più confusa, seguendo gli zii lungo il corridoio
interno delle scuderie.
Si sentivano i borbottii sommessi dei cavalli e qualche sbuffo di
protesta per
il disturbo inaspettato. Faceva sempre caldo, là dentro, e
l’odore del fieno
saturava l’aria.
Senza
concederle risposta,
Tristan continuò ad avanzare fino a che non ebbe raggiunto
l’ultimo cubicolo,
l’unico che era sempre rimasto vuoto. Tolse il gancio che
teneva chiuso lo
sportello e lo spalancò, facendo cenno a Regan di
avvicinarsi a dare
un’occhiata.
Lei
guardò prima la zia, poi
Shin, il quale sollevò le spalle come invitandola a farsi
avanti. Regan obbedì,
pervasa da una crescente sensazione di euforia. Non osava sperare, ma
poteva
esserci solo una cosa in quello scompartimento. Quando vide,
le sue mani scattarono a coprire la bocca, soffocando
un’esclamazione di puro stupore: il cavallo che aveva di
fronte era quanto di
più magnifico i suoi occhi avessero mai ammirato.
Muscoli
vigorosi ed eleganti si
scolpivano in linee nette sotto al manto di un nero corvino, lustro e
corposo
come l’inchiostro, che sotto certi raggi di luce acquisiva
impalpabili
sfumature di bronzo. Le bastò incontrare il suo sguardo
fiero per un solo
istante per capire che sarebbe stato impossibile stabilire chi avrebbe
domato
chi.
–
Non è splendida? – esordì
Tristan, compiaciuto. – Arriva direttamente da Brenner. Per
te, da parte mia e
di Persefone. –
Regan
riusciva a malapena a
respirare. Zia Persefone, sorella minore di Tristan, era il
Coordinatore della
Terra di Brenner e possedeva quindi un vasto palazzo dotato di
altrettanto
vaste scuderie in cui venivano allevati i destrieri delle
più alte cariche
politiche e militari.
–
È… è mia?
– balbettò, disorientata dalla bellezza
dell’animale. Aveva
sognato così a lungo un momento come quello che adesso le
riusciva quasi
impossibile crederci.
Lo
zio Tristan, che si era sempre
comportato affettuosamente con lei, ma sempre con un certo distacco,
per la
prima volta, ora, arrivò quasi a sorriderle:
–
Ci tenevamo a farti un regalo
che tu desiderassi davvero, e dato che non c’è
oggetto che sembri riscuotere il
tuo interesse, i ragazzi hanno pensato che questa fosse
l’idea migliore. –
Regan
gli saltò al collo
d’impulso, soverchiandolo con una raffica di ringraziamenti
sconclusionati.
Alla fine Tristan la allontanò da sé,
imbarazzato, ma visibilmente soddisfatto
che lei avesse gradito tanto il dono.
–
Posso prenderla per fare un
giro? – supplicò lei, gli occhi sgranati e
scintillanti mentre le mani
continuavano ad accarezzare il muso della bestia, adoranti.
–
Suppongo che sarebbe una gita
gradita ad entrambe – disse Arista. La giumenta, infatti,
aveva preso a
raschiare il pavimento con gli zoccoli anteriori, smaniosa di muoversi.
Regan
adocchiò una sella e delle
briglie appoggiate in un angolo della cella, nuove di zecca e finemente
lavorate, e dimenticò definitivamente di preoccuparsi per
l’incontro che Lucius
aveva con i Dresden quella mattina.
–
Dovrai trovarle un nome – osservò
lo zio, mentre ritornavano verso il palazzo.
Regan
ci rifletté su mentre si
cambiava, aiutata da Donna Melyor. I vecchi vestiti da equitazione di
Anneli
non le erano mai calzati proprio a pennello, ma almeno sarebbe stata
comoda.
Quando fu pronta, si guardò allo specchio orgogliosa:
treccia, giacca e
pantaloni di pesante velluto nero, stivali e una morbida sciarpa bianca
a
proteggerle il collo. Sembrava molto più matura,
così. Più donna.
Scendendo,
trovò Shin ad aspettarla
nell’ingresso, da solo.
–
Come sto? – gli chiese,
compiendo una giravolta su sé stessa nel scendere
l’ultimo scalino.
–
Molto a tuo agio, si direbbe –
approvò lui, ma lei non lo stette quasi a sentire.
–
Su, avanti, sbrighiamoci! –
Lo
spinse fuori impaziente,
mentre dal piano di sopra la voce isterica di Donna Melyor strillava:
–
E vedi di comportarti da
signora, una buona volta! –
La
porta sbatté sull’ultima metà
della frase.
Gli
sembrava quasi di essere
tornato là dove da ragazzino si era sentito in trappola. Il
cielo che sembrava
non conoscere nuvole, le terre riarse dal sole, i venti caldi e deboli
che
spiravano dai deserti di Asante: l’estremo sud di Astereis
era fin troppo
simile alle zone meridionali di Sonnerg, e a Kemaras, il suo villaggio
di
origine.
L’ultimo
luogo al mondo in cui
avrebbe voluto tornare.
–
Come sapete che è morta? –
Le
mani inanellate di Lady Fabel
Dresden si contrassero l’una sull’altra, sintomo
della schiettezza forse
eccessiva della domanda. Il pallore conferiva alla carnagione olivastra
della
donna un colorito malsano, quasi malato, ma forse era quello il
legittimo
aspetto di qualcuno che si trovava a parlare della morte della propria
figlia.
–
Quando nasce un nuovo membro nella
nostra famiglia viene accesa una candela nella nostra cappella, ed essa
arde
fintanto che arde la vita di chi essa rappresenta – rispose
Lord Herne, senza
un accenno di inflessione. – Quella di Aranel si spense un
paio d’anni dopo che
fu rapita. –
Lucius
si accigliò.
–
Rapita? –
Il
silenzio all’interno della
casa era quasi fastidioso. Tutt’intorno, oro e colori caldi
dominavano
l’ambiente, pesanti tendaggi bianchi a filtrare la luce che
bussava alle grandi
finestre affacciate sul mare. C’era una tetra ironia nel
discorrere di morte in
una giornata piena di vita come quella.
–
Fu quel maledetto ragazzo
Edelberg – esordì Lady Fabel, la voce inibita da
un groppo alla gola. – Era
ancora una bambina… –
Lucius
serrò le labbra suo
malgrado. Preferiva non disquisire su quel punto. Non ancora, almeno.
Sarebbe
tornato sull’argomento al momento giusto, quando le barriere
di odio dei Dresden
si fossero allentate a sufficienza da poterli far ragionare. In anni e
anni
trascorsi a stretto contatto con i più grandi maestri
dell’inganno e della
persuasione, aveva imparato a giocare le parole come carte in una mano
vincente, e per questa partita avrebbe dovuto usare tutta la
delicatezza e tutta
l’astuzia di cui era capace. Puntò sulla
diplomazia:
–
Vi direi che mi dispiace per la
vostra perdita, se non sapessi che la vostra risposta sarebbe che non
posso
capire ciò che si prova. –
La
mancanza di una risposta
immediata denotò una discreta sorpresa da parte dei suoi
ospiti.
–
Voi… voi sapete cosa successe
ad Aranel? – balbettò Fabel, sempre più
terrea.
–
Un incidente – rispose
immediatamente Lucius, attenendosi alla versione concordata come
ufficiale. –
Un incidente che si portò via anche il giovane Ardal
Edelberg. –
La
notizia che anche Ardal fosse
morto parve in qualche modo rasserenare almeno in parte
l’animo della coppia.
–
Venite al dunque, giovanotto. –
Lo sguardo sgarbato di Lord Herne lo colpì, ma senza
scalfirlo. Ci voleva ben
altro per disturbare l’animo impermeabile di Lucius Henker.
–
Poche settimane fa mi trovavo a
Cittanuova assieme a una ragazza che tempo fa salvai dalle rovine della
Corte –
spiegò, e l’uomo annuì.
–
La ragazza dai capelli di
sangue. Abbiamo sentito parlare di lei. –
–
Al mercato abbiamo incrociato
per caso una vostra anziana serva che faceva acquisti per voi assieme
al nipote.
–
–
Bethil e Brennan – intervenne
Lady Fabel, con un accenno di impazienza. – Non vedo come
questo possa… –
–
Quando ha visto la ragazza – la
interruppe Lucius con tutta l’educazione che gli fu
possibile. – La donna si è
rivolta a lei chiamandola Aranel. –
–
Bethil era molto affezionata ad
Aranel, era la sua balia. Non è più stata la
stessa, da che lei scomparve –
affermò Lord Herne, asciutto.
–
Per lei è come se fosse ancora
qui – soggiunse la moglie in un sussurro – Le
prepara sempre un posto a tavola,
fa prendere aria alla sua stanza ogni mattina, rassetta i suoi
vestiti… –
La
voce le si spezzò sull’incrinarsi
dei primi accenni di commozione.
Lucius
lasciò alla coppia qualche
istante per smaltire la tensione accumulata. Dalla rigidità
di entrambi
comprese che si sentivano a disagio per il momentaneo cedimento emotivo
e, per
rispetto, prese ad ammirare il mobilio con improvviso, vividissimo
interesse.
Si azzardò a guardarli di nuovo in faccia e riprendere la
conversazione solo
quando fu sicuro che si fossero ricomposti.
–
Questa volta la situazione
potrebbe essere diversa. –
–
Spiegatevi. – La voce del
vecchio Herne suonò leggermente più rauca del
normale. Qualcosa si accese nel
suo sguardo, trattenuto da reti di orgoglio e ostinazione.
Lui
non batté ciglio. Sapeva che
a questo punto una sola parola sbagliata avrebbe compromesso il buon
esito
dell’incontro e l’indole schiva e sospettosa dei
Dresden non era da
sottovalutare, men che meno in un frangente come quello.
Inspirò ed espirò,
pensando agli occhioni di Regan sgranati dall’ansia.
Chissà se Shin era
riuscito a distrarla.
–
So che è una notizia difficile
da apprendere, ma… la ragazza in questione è
vostra nipote. –
Lucius
non aveva figli e dubitava
ne avrebbe mai avuti, ma pensò che, trovandosi al posto dei
Dresden, la sua
reazione sarebbe stata esattamente identica alla loro: sconcerto,
dapprima, e
poi, naturalmente, incontenibile collera.
–
Come osate? – Lady Fabel balzò
in piedi con insospettabile agilità, molto rossa in viso,
gli occhi
fiammeggianti, una mano premuta sul petto. – Con quale cuore
osate venire a
prendervi gioco di una madre consumata dal dolore? –
Dalla
porta in fondo alla stanza
si affacciò una domestica, richiamata dalla voce acuta della
padrona, ma un
cenno rapido di Lord Dresden la rispedì immediatamente da
dove era venuta.
Sicuramente sarebbe rimasta ad origliare di nascosto.
Lucius
avrebbe preferito evitare
di parlare se c’erano orecchie indiscrete
all’ascolto, ma suggerire ai padroni
di casa come tenere a bada la propria servitù sarebbe stato
scortese.
–
Mi rendo conto che sia
traumatico, per voi, milady, ma vi prego di non dubitare della mia
buona fede. –
Si alzò in piedi a sua volta e sostenne con fermezza lo suo
sguardo accusatorio
della nobildonna. – Ho fatto delle indagini e questo
è quanto ho scoperto.
Ritenevo giusto che ne foste informati. –
Incontrò
gli occhi congelati di
Herne, il quale, muovendosi appena, prese la mano della moglie nella
propria e
la invitò a risedersi.
–
Mia cara, ti prego. –
Lei
obbedì, ma l’ira bruciava
ancora sulle sue guance, nelle iridi lucide. Quando ebbe ripreso il
proprio
posto, il marito continuò a tenerle la mano; la sua
attenzione, tuttavia, non
aveva mai lasciato Lucius:
–
State insinuando che questa
fanciulla sarebbe il frutto delle violenze subite da Aranel? –
La
durezza nel suo tono non
riuscì a mascherare un tremito di emozione repressa che rese
il compito di
Lucius ancora più delicato.
–
No, milord. Il frutto
dell’amore che lei condivideva con un giovane che non le era
nemmeno permesso
di incontrare. –
Lady
Fabel fremette, sempre più
oltraggiata:
–
Questo è un insulto alla
memoria di mia figlia! Aranel sapeva bene a che tipo di gente
apparteneva quel
ragazzo, non gli avrebbe mai nemmeno rivolto la parola! –
Quante
volte Lucius era stato
testimone di scene come quella: dolore che rubava
obiettività, covato per anni
e lasciato a logorare l’anima in silenzio, cancellando
progetti, bruciando
speranze. Non c’era niente di analizzabile nella devastazione
interiore
lasciata da un lutto.
–
Nemmeno a un ballo mascherato
in cui le sarebbe stato impossibile indovinare chi lui fosse?
–
–
Questa ragazza di cui parlate –
balbettò la donna, deglutendo a fatica dietro alle lacrime.
– Qual è il suo
nome? –
–
Regan, milady. –
Lady
Fabel serrò gli occhi come
se un pugnale le avesse appena trafitto il cuore. Anche suo marito
chiuse gli
occhi, in una manifestazione di dolore più contegnosa, ma
non meno intensa.
–
Aranel aveva chiamato così
tutte le sue bambole, da bambina. –
Tra
le sua braccia, la sua
consorte era sbiancata. Tremava, orfana di tutto il nobile contegno
finora
ostentato, e tracce lucide lungo il viso tradirono la caduta di due
lacrime
silenziose.
–
Dov’è, ora? Possiamo vederla? –
domandò, accorata.
Era
la domanda più spinosa della
situazione.
–
Si trova a Kauneus, adesso.
Presso la famiglia Edelberg, prima che lo chiediate. –
Un
odio intimo e viscerale
insorse nelle pupille ridotte a spilli di Lord Herne, andandosi a
mescolare con
l’odio ancestrale maturato dalla sua stirpe in secoli di
rivalità con gli
Edelberg.
–
Gli Edelberg mi hanno già
privato di una figlia. Non lascerò che si prendano anche
nostra nipote! –
esclamò Lady Fabel, ma il marito la zittì con un
cenno brusco.
–
Per tutti Aranel è morta il
giorno della sua scomparsa. L’ultima cosa che voglio
è uno scandalo sulla
nostra famiglia. –
Terrea,
Fabel chinò il capo con
occhi lucidi, ma mormorò:
–
Vorrei solo conoscerla, vederla
almeno una volta... –
Era
quasi possibile sentire la
mortificazione della donna corrodere lentamente l’impeto
rabbioso di Lord
Dresden, fino ad appianarlo quasi del tutto. Doveva amarla molto,
nonostante
tutto.
–
E sia. Incontreremo questa
fanciulla. Il resto si deciderà poi. –
Lucius
non sapeva come prendere
quella dichiarazione. Gli suonava strano che un Dresden si tirasse
indietro di
fronte alla possibilità di sottrarre qualcosa a un Edelberg,
ma decise di stare
al gioco.
–
Vi prego solo di concedermi un
po’ di tempo per preparare Regan a questo incontro.
–
Non
specificò quanto tempo.
Mantenere le promesse era alla base dei principi di un uomo
d’onore e lui non
prometteva mai niente, se non era più che certo di poterlo
ottenere, e quando
c’era Regan di mezzo niente era mai prevedibile.
Uno
degli infiniti motivi per cui
Shin amava Norden era che lì, nonostante tutto, riusciva
quasi a passare
inosservato: di ragazzi alti, biondi e con la pelle nivea ce
n’erano tanti e
difficilmente qualcuno badava a lui, vedendolo passare, a meno che non
lo
riconoscesse esplicitamente. Non gli importava granché
dell’opinione della
gente, ma era a conoscenza delle chiacchiere che circolavano su di lui
e sul
nome che portava, e non gli erano gradite. La sua casata, i Montress,
era stata
una delle più vicine alla Corona, godendo di lustro e
rispetto, ma con il tempo
gli sperperi e l’indolenza delle varie generazioni avevano
consumato il vasto
patrimonio che gli antenati si erano guadagnati con onore al servizio
dei re e
oggi tutto ciò che rimaneva di queste antiche glorie era un
castello lasciato
cadere in rovina e un lord in delicato stallo tra la
lucidità e la follia, inaridito
dall’inclemenza del fato.
Shin
si sentì tra le labbra il
sapore amaro che accompagnava sempre le riflessioni sulla sua famiglia.
In
sella a Vento, il suo fidato destriero, chiuse gli occhi per un attimo
e quando
li riaprì davanti a lui non c’era altro che la
strada costeggiata da alberi, e
Regan che spronava la sua puledra ad aumentare la velocità.
Shin riusciva a
sentire ogni goccia della sua euforia, la stessa che le aveva
illuminato il
volto quando lo zio le aveva spalancato di fronte il cubicolo nelle
scuderie.
Immaginò
che era così che sarebbe
stata, che sarebbe stata quella l’esatta espressione che
avrebbe avuto la Regan
bambina nel vedersi regalare una bambola a lungo desiderata. Un
pezzetto di
quell’infanzia che le era stata negata, se non altro, lo
stava vivendo adesso.
–
Muovetevi, o la mia polvere
arriverà in città prima di voi! –
urlò Regan, voltandosi indietro.
Lui
scosse la testa e rise fra
sé, poi sfidò Vento a fare onore al suo nome.
Kauneus
era un giglio in piena
fioritura sotto al sole tiepido di marzo. Le strade ampie e gli edifici
bianchi
sembravano un prolungamento delle montagne dell’estrema area
settentrionale
della Terra, dove le nevi erano perenni e d’inverno il sole
incontrava i
ghiacci dando vita agli straordinari spettacoli naturali noti come Luci
del
Nord.
–
Dovremmo cercare un posto in
cui fermarci a pranzare. La cavalcata mi ha messo appetito. –
Regan era appena
smontata da cavallo e stava guidando la puledra, ancora senza nome,
verso una
delle tante fontane che popolavano le vie trafficate. Shin la
imitò, ma non
accolse la proposta con grande entusiasmo.
–
Potremmo comprare qualcosa in
Via del Mercato e mangiare per strada – suggerì
invece.
Lei,
accaldata, si scostò una
nuvola di ciuffi rossi disordinati dalle guance accese di un rosa
intenso.
–
Che stai dicendo? Voglio
sedermi comodamente a un tavolo e godermi le pietanze con calma!
Andiamo alla Quercia d’Argento,
ormai dovrebbero
avere allestito i tavoli in giardino. Sarà bellissimo!
–
Shin
non ne dubitava, ma aveva
comunque le sue riserve in merito. Non c’era niente di
sconveniente in un ragazzo
e una ragazza che pranzavano insieme e lui non aveva scuse credibili da
accampare.
–
Non so se sia il caso… –
–
Perché no? – brontolò lei.
Una
guardia decorata con gli
stemmi della Lega e della Terra di Norden passò loro accanto
e rivolse a Shin
un cenno distratto. Era un soldato semplice, più anziano di
Shin di diversi
anni, ma i cavalieri ai comandi di Soile, a differenza di quelli delle
altre
Terre, non osavano mai mancargli di rispetto, ben consapevoli di quanto
lui
fosse vicino alla loro signora. Ironico che fosse proprio quella la
ragione
principale per cui tutti sembravano disprezzarlo tanto.
–
Agli occhi della maggior parte
dei cittadini di Kauneus sono un raccomandato buono a nulla…
finirebbero per
guardare male anche te. –
A
Regan tuttavia di rado
importava qualcosa di quel che il resto del mondo pensava di lei o di
chiunque
altro: faceva ciò che voleva, entro i limiti
dell’accettabile, e a volte anche
oltre, e difficilmente si soffermava a pensare alle conseguenze. La sua
espressione, infatti, non avrebbe potuto essere più
indifferente mentre,
afferrandolo per una manica, scrollava le spalle e lo trascinava verso
la Quercia d’Argento.
–
Che guardino. Io ho fame e
voglio mangiare come si deve. –
–
Per un paio di settimane sono
stato nella Terra di Asante. Il Coordinatore Foyer stava indagando su
una banda
di ladruncoli che ha saccheggiato le miniere di Cristallo Eterno,
lasciandosi
dietro solo due testimoni ridotti a poco più che vegetali.
Si sono presi le
loro anime. I Liberatori aspettavano me per… –
Lasciò
cadere la frase a metà.
Aveva recuperato i vaghi ricordi nelle menti apatiche di quei due
poveretti con
i pianti strazianti delle loro mogli in sottofondo e gli era stato
più
difficile di quanto avesse immaginato, poi, riuscire a comunicare al
Coordinatore Foyer i pochi elementi utili che i due erano riusciti a
notare. Se
n’era andato prima che i Liberatori potessero purificare
completamente il corpo
dei due malcapitati, perché quello che sarebbe successo dopo
non lo avrebbe
potuto sopportare. Del resto non c’era molta scelta, quando
un’anima veniva
trafugata: o si lasciava la vittima a sé stessa,
permettendole così di
trasformarsi in un mostro affamato di anime altrui, oppure si stroncava
quel
che restava della sua misera esistenza e si concedeva alla Madre di
riprendersi
ciò che di diritto le spettava.
–
Li hanno presi, poi, i ladri? –
gli chiese Regan in tono assolutamente casuale, tanto che sarebbe stato
difficile per chiunque sospettare che lo avesse fatto di proposito, per
risparmiargli quella parte che non aveva nessuna voglia di raccontare.
Ma Shin
non era chiunque.
–
Li hanno presi, sì. Ma il
bottino era già sparito e non sapevano nemmeno loro per
conto di chi avessero
lavorato. Hanno preso i soldi e basta. –
Vide
la curiosità scintillare
repressa negli occhi di lei, le sue labbra dischiuse come in procinto
di fare
altre domande, che però non vennero.
–
Poi mi hanno convocato a
Medilana – riprese allora lui. – In
realtà è stato per una sciocchezza, ma tra
una cosa e l’altra sono passate altre due settimane.
Intendevo scriverti,
davvero, ma non mi sembrava di avere niente di interessante da
raccontare,
quindi… –
Regan
sbuffò e il suo respiro
divenne una nuvoletta evanescente. Il clima era ancora freddo, anche se
non
come in pieno inverno, e il cortile della Quercia
d’Argento era stato disseminato di alti bacili
pieni di tizzoni ardenti che
fiammeggiavano vivacemente per riscaldare i temerari che sceglievano di
mangiare all’aperto.
–
Un giorno ti nomineranno
Coordinatore Generale e io lo verrò a sapere per caso, e tu
mi verrai a dire
che non ti sembrava una cosa interessante da raccontarmi. –
Shin
rise e riempì di birra i due
boccali che aveva davanti.
Il
giardino della taverna era
piccolo, quadrato, circondato da un muretto in pietra alto poco
più di una
persona su cui l’edera proliferava libera e che tratteneva
all’interno dello
spiazzo che circoscriveva una vivace sinfonia di chiacchiere e
stoviglie in
movimento. C’era una grande quercia al centro del giardino,
solida e
rigogliosa, che con le sue fronde ombreggiava la dozzina di tavoli
sparsi
tutt’intorno. Nessuno sapeva esattamente quanto fosse
vecchia, ma era già lì
quando, ancora all’epoca dei Monarchi, era stata costruita la
prima taverna, e
tutti sostenevano che il suo tronco rugoso fosse sempre stato di quello
strano
colore slavato, un grigio quasi argenteo, in onore del quale la locanda
era
stata battezzata. E c’era anche una gabbia, costruita proprio
attorno a uno dei
rami più bassi dell’albero, in cui si agitavano
degli uccellini piccoli e tondi
come mele selvatiche, di colori che variavano dal bruno a un bianco
azzurrino.
Il loro canto era meraviglioso, ma terribilmente malinconico.
–
Usignoli di Almaris – spiegò
Shin, notando che Regan li fissava. – Una specie che non
esiste più, allo stato
selvatico. –
Regan
non distolse lo sguardo.
Sembrava improvvisamente triste, dimentica del piatto colmo di
leccornie che
aveva davanti. Non occorse domandarsi il perché.
–
Non abbiamo mai avuto modo di
parlare di quello che è stato di te durante la tua clausura
alla Corte, io e
te. –
Regan
smise di rimestare la sua
zuppa, i suoi muscoli si irrigidirono.
–
Lucius non ti ha detto niente?
–
–
Le cose hanno un valore
diverso, recepite tramite intermediari. –
Non
glielo stava chiedendo per
curiosità. Sapeva già tutto quello che
c’era da sapere. Voleva solo che fosse
lei a raccontarglielo, perché era giusto così e
voleva sentire la storia così
come la aveva vissuta lei.
–
Non c’è granché da raccontare.
Non ero tanto diversa dagli oggetti che c’erano con me in
quella stanza: me ne
stavo lì ad aspettare che il tempo passasse e…
non so, prima dell’arrivo di
Derian non ho nemmeno dei ricordi precisi. –
Un’alzata di spalle accompagnò la
ripresa dei movimenti circolari del cucchiaio nella ciotola mezza
piena. – Tutti
i giorni erano uguali, le stesse solite tre facce: Isabel che mi
portava da
mangiare, Desmond che passava a controllare se per caso da un giorno
all’altro
io non dessi segno di possedere qualche potere, e quel ragazzo dagli
occhi
spietati… Samael. Lui si fermava sempre sulla porta con aria
annoiata,
aspettava che Desmond si accertasse che io fossi ancora del tutto
inutile e poi
se ne andava con lui senza dire una parola. –
Shin
rimase impressionato da come
lei gli parlò di quelle persone: due di loro non erano che
un nome; l’altro,
invece, doveva averle lasciata impressa una sensazione più
profonda, anche da
lontano, senza alcun contatto diretto.
“Quel ragazzo dagli occhi
spietati.”
–
Non so perché Desmond non abbia
mai tentato di sottrarmi il potere che c’è
racchiuso in me, se era davvero per
quello che mi teneva prigioniera. A volte era così frustrato
che temevo mi
avrebbe fatta sgozzare pur di non perdere altro tempo con me.
–
Shin
non era sicuro che
l’incuranza con cui Regan parlava del suo potere
fosse un fattore positivo. La conosceva bene, ormai, e non lo
rassicurava
vedere con quanta leggerezza citava quella che a tutti gli effetti era
un’essenza di male puro incastonata dentro di lei, confinata
dalla sua
innocenza.
Non
sarebbe rimasta tale ancora a
lungo, purtroppo.
–
A volte mi sarebbe piaciuto.
Essere sgozzata, intendo, o morire in qualunque altro modo. Non per
disperazione, dato che non conoscevo altra vita al di fuori di quella,
ma solo
per… sai, solo per non dover vedere un altro giorno uguale a
tutti gli altri.
Ma poi… – L’accenno di un sorriso
nostalgico le stiracchiò le labbra. – Poi
è
arrivato Derian, e tutto è diventato più
sopportabile. –
Anche
di lui Shin sapeva tutto:
il suo sangue era stato immune ai veleni e per questo il suo stesso
padre, a
corto di denaro, lo aveva venduto a Desmond in cambio di una cospicua
somma, e
infine, dopo anni di reclusione e sevizie, era stato ucciso per motivi
ancora
oscuri, morendo tra le braccia impotenti di Regan, che assieme al suo
ultimo
respiro aveva raccolto anche il suo dono
dell’immunità ai veleni.
–
Anche nella sua vita libera,
Derian non aveva visto molto del mondo. I suoi orizzonti erano molto
ristretti:
suo padre gli stava insegnando a fare il mercante. A lui non piaceva,
ma lo
faceva comunque, perché la sua famiglia aveva bisogno di
soldi. E l’hanno
ringraziato svendendolo come una partita di lana al miglior offerente.
–
Shin
deglutì un sorso di birra.
–
Ti rincresce per lui più che
per te stessa. –
Non
era una domanda e quindi non
necessitava di una risposta.
Regan
spinse via la sua zuppa
senza finirla e si appoggiò con il viso ai palmi,
sconsolata. Donna Melyor le
avrebbe urlato dietro per ore se solo la avesse vista con i gomiti
appoggiati
alla tavola.
–
Non so perché… –
Shin
sorrise. Anche il suo piatto
non era ancora rimasto vuoto.
–
Lo so io. Per quanto misera, la
sua vita al di fuori della Corte aveva un suo scopo, le sue piccole
gioie. Tu,
invece, eri proprio come quelle povere bestiole – fece un
cenno con il capo
verso la gabbia degli Usignoli. – Non avevi mai conosciuto
altro che la
cattività, le tue quattro pareti. Non avresti mai saputo
cosa ti stavi
perdendo. –
Erano
parole strane da ascoltare.
Dette da un altro, le sarebbero parse brutali, forse addirittura
crudeli, quasi
chi le aveva pronunciate trovasse irrisorio il fatto che lei avesse
trascorso
gran parte della sua vita segregata in una stanza. Eppure sulla voce
pulita di
Shin avevano un suono meno amaro.
–
Il mondo che ho conosciuto
attraverso i ricordi di Derian ha reso la prigionia più
amara, ma almeno
qualcosa ha acquisito un senso. Non ero niente prima che arrivasse lui,
capisci? – Sollevò lo sguardo e nei suoi occhi
neri trovò un bagliore di
comprensione. – Non sapevo niente di quel che c’era
là fuori, non potevo sviluppare
delle mie idee, delle opinioni… accettavo tutto
così com’era, perché non sapevo
che ci potesse essere una vita diversa da quella. –
Le
venne un groppo alla gola e
ricordare quanto vuoti e sterili fossero stati quei giorni. Quegli anni. Era stata una bambina, eppure non
ne aveva memoria. Non ricordava come ci si sentisse ad essere piccoli,
come
fosse l’infanzia. Dopotutto non poteva nemmeno dire di averne
avuta una.
–
È ironico che io mi sia resa
conto di quanto sola fossi sempre stata solo quando ho avuto qualcuno
al mio
fianco, vero? – sospirò.
–
Come ho detto prima: non può
mancarti qualcosa di cui ignori l’esistenza. –
Regan
non era del tutto convinta
che fosse vero, ma non disse niente. Non aveva voglia di discorsi
così
impegnativi.
–
Come credi che stia andando il
colloquio di Lucius con i Dresden? –
Nonostante
Shin fosse un maestro
dell’impassibilità, avvertì comunque in
lui un accenno di disagio.
–
I Dresden non sono famosi per
la loro ragionevolezza – ammise. – Puoi star certa
che dal momento in cui
sapranno della tua esistenza il loro scopo sarà averti con
sé. Probabilmente le
cose sarebbero più semplici, se tuo padre non fosse stato un
Edelberg. –
Regan
gli fu grata per la
schiettezza, per averle risparmiato delle rassicuranti bugie che non le
sarebbero
state di alcun aiuto. Era una cosa che aveva imparato presto ad
apprezzare, in lui:
diversamente da Lucius, che cercava sempre di proteggerla da qualunque
cosa, Shin
le concedeva la possibilità di affrontare la
realtà e imparare a sostenerla da
sola.
–
Non possono decidere al mio
posto, vero? Voglio dire, ho compiuto la maggiore età, sono
formalmente adulta.
–
Qualcosa
di simile alla paura le
tremava nelle mani. Strapparla a Norden avrebbe significato portarla
via a
luoghi che aveva imparato a conoscere e amare, alle amicizie che vi
aveva
trovato. Sarebbe stata lontana da tutto ciò che amava.
Da Lucius…
–
Ufficialmente fino al
matrimonio sarai sotto la tutela della tua famiglia –
puntualizzò Shin. – Senza
contare che ti fai chiamare Edelberg, adesso, ma
c’è anche sangue Dresden nelle
tue vene e i tuoi nonni probabilmente si batteranno perché
tu porti il loro
cognome. –
Dresden.
Gente del Sud. Regan si
sforzò di immaginarsi a passeggiare su una spiaggia
assolata, la sabbia rovente
e le onde tiepide del mare ad accarezzarle i piedi, ma non ci
riuscì.
–
Possono davvero portarmi via da
qui? –
Più
che una domanda, suonò come
una preghiera. Shin, tuttavia, non le mentì, anche se la
risposta non era
quella che lei avrebbe voluto sentire.
–
In mancanza di prove concrete
di un legame matrimoniale tra i tuoi genitori, sì.
Passeresti sotto la loro
tutela fino al giorno in cui ti sposerai. –
–
Non voglio lasciare Norden. Non
possono costringermi! –
Si
alzò. La gabbia degli Usignoli
era vicina al loro tavolo; la raggiunse in pochi passi, portando con
sé un
pezzo di pane che iniziò a sbriciolare per gettarlo oltre le
fessure tra una
sbarra di metallo lavorato e l’altra. Subito gli uccellini
accorsero a
contendersi il pasto inaspettato e lei li compianse esattamente come
una volta
compiangeva sé stessa. La gabbia era davvero splendida,
riccioli di metallo e
spirali che si intrecciavano e dividevano segnando un invalicabile
confine tra
il ristretto spazio che custodivano e la libertà.
C’era solo un minuscolo
chiavistello a sigillare quel sottile confine. Lo sfiorò con
le dita, meditando
su chi si fosse assunto il pretenzioso diritto di decidere che quelle
creature
dovessero stare lì dentro.
Shin
soggiunse alle sue spalle,
silenzioso come un felino. Non lo vedeva, ma poteva avvertire la sua
presenza,
la sua ombra sulla schiena.
–
Non è il caso di preoccuparsi
adesso. Lucius saprà gestire la situazione, e comunque non
dipende solo da lui,
né dai Dresden – la rassicurò.
Regan
gettò le ultime briciole agli
uccellini, ascoltando i loro cinguettii entusiasti, poi finalmente si
decise a
seguire Shin verso l’uscita. Pagarono tre corone a testa
all’oste dietro al
bancone nella sala interna e furono salutati con ossequi degni di re,
infine
abbandonarono i profumi speziati della locanda per ritornare
all’aria aperta. I
loro cavalli erano legati alla rastrelliera all’ingresso, a
riposare pacifici
all’ombra del tetto di paglia.
Quando
Regan slegò la puledra,
questa si ribellò, strattonando le briglie fin quasi a
fargliele sfuggire di mano.
Shin rise mentre lei la rimproverava.
–
Avete lo stesso carattere. –
Regan
lo fulminò con un’occhiataccia.
–
Cosa staresti insinuando,
esattamente? –
Shin
ebbe il buonsenso di montare
in sella senza rispondere. Lei fece lo stesso.
–
Sai, stavo pensando di
chiamarla Morrien. –
–
Come la prima stella della
sera? Sì, le dona. –
–
Morrien – si ripeté Regan,
accarezzando il collo caldo dell’animale. La puledra
accennò un’impennata prima
di incamminarsi al seguito di Shin e del suo Vento. –
Sì, direi che le piace. –
Si avviarono a passo
tranquillo verso il
mercato sotto a un cielo turchino e un sole tanto luminoso da ferire
gli occhi.
Alle
loro spalle, nel giardino
sul retro della locanda, una folata di vento spalancò lo
sportello della gabbia
degli Usignoli di Almaris che qualcuno, accidentalmente, aveva
dimenticato
aperta.
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Capitolo 3 *** 2. Verità e Bugie ***
2. VERITÁ E BUGIE
You believe, but what
you see?
–
Amaranth,
Nightwish –
Ogni
domenica, come ogni vedova
che si rispettasse, Madame Carlyle si recava al cimitero appena fuori
Medilana
per onorare la memoria del defunto marito.
Portava
sempre con sé un mazzo di
fiori freschi e una moneta d’argento da consegnare al figlio
del custode
affinché si premurasse nella settimana successiva di tenere
in ordine le aiuole
che circondavano la cappella. Non possedeva il titolo di lady,
poiché né nelle
sue vene né in quelle del suo povero marito c’era
mai stata una sola goccia di
sangue nobile, ma si compiaceva ogni volta di vedere che non
c’era tomba di
famiglia nobile che reggesse il confronto con quella dei Carlyle.
Il
capo coperto da un velo scuro,
la donna girava la chiave nella serratura che chiudeva il piccolo
cancello di
ferro e si inginocchiava dinnanzi alla lapide del suo Hathol e lo
compiangeva
in silenzio, e tutti coloro che passavano di lì provavano
ammirazione e
compassione quella moglie così devota.
Era
una triste storia, la sua,
perché il suo amato consorte, ormai quarant’anni
addietro, era stato
incarcerato sotto accuse gravissime e, dopo un processo lampo,
giustiziato di
fronte a tutta la città.
Madame
Carlyle aveva presenziato
all’esecuzione e aveva ascoltato il marito professarsi
innocente fino al suo
ultimo istante di vita e mai per un solo istante lo aveva abbandonato.
Mai lo
aveva creduto colpevole.
Agli
occhi di tutti era una donna
forte, nobile, se non nel sangue, almeno nello spirito, e tutte le
matrone di
Medilana concordavano che era stato ammirevole da parte di una vedova
ancora
relativamente giovane, per di più così ricca e
piacente, non cercarsi un nuovo
marito.
Madame
Carlyle, dal canto suo,
sminuiva assiduamente tutte queste lodi e, anzi, cercava di spiegare
che non
era uno sforzo virtuoso, per lei, restare fedele al suo primo e unico
sposo,
bensì qualcosa che le imponeva il cuore.
Con
un sospiro affranto, proprio
mentre due anziane nobildonne passavano di lì, si
portò le dita alle labbra e le
posò sull’ovale di vetro in cui era stato impresso
il volto di Hathol e si
lasciò sfuggire un piccolo singhiozzo.
–
Povera creatura – sentì
sussurrare una delle due vecchiette. – Un amore
così saldo e genuino, niente
figli che la consolino… –
–
Se solo quella megera di mia
nuora mostrasse la metà di questa devozione per il mio
ragazzo… – borbottò
l’altra, e a Madame Carlyle parve quasi di vederle scuotere
tristemente la
testa mentre la compativano.
Stava
per mormorare, come di
consueto, qualche parola di cordoglio, quando avvertì
un’improvvisa sensazione
di calore alla mano sinistra.
Ritrasse
la mano di scatto e se
la nascose al di sotto della cappa scura. Si alzò
rapidamente, tanto da
suscitare un’esclamazione di sorpresa nelle due signore che
la osservavano da
fuori.
–
Ve ne andate presto,
quest’oggi, cara – disse una delle due,
evidentemente incapace di tenere
qualsivoglia pensiero per sé.
Madame
Carlyle le riconobbe
entrambe: facevano parte della vecchia nobiltà terriera di
Corterra e le aveva
incontrate spesso in città. Due pettegole senza ritegno.
Sorrise
cordialmente e chinò il
capo mesta.
–
Purtroppo impegni urgenti mi
chiamano altrove. –
–
Che genere di impegni? –
Il
sorriso sulle labbra di Madame
Carlyle si pietrificò mentre lei si sforzava di tenere a
bada l’impazienza.
–
Mi sono iscritta a un circolo
del cucito – inventò su due piedi. –
Sapete, per ingannare la solitudine… il
mio Hathol mi manca terribilmente. –
Sui
volti delle due apparve
immantinente un’espressione solidale:
–
Come vi capisco! Il mio Meldon
è mancato da quasi mezzo secolo, ormai, e ancora
non… –
–
Vogliate perdonarmi, signore,
ma ho una certa premura – tagliò corto lei e le
due, benché piuttosto stranite,
si affrettarono a congedarsi e allontanarsi parlottando sottovoce.
–
Circolo del cucito? Sul serio?
–
La
donna si voltò nell’udire
quella voce dalla cadenza insopportabilmente flemmatica e sfacciata e
non si
stupì affatto quando, nell’ombra tra la cappella e
i cipressi che la
contornavano, intravide una figura maschile appoggiata al muro a
braccia
conserte e due occhi verdi che scintillavano divertiti.
–
Molto toccante la scenata della
vedova affranta – proseguì lui, imperterrito.
– Davvero, mi sono commosso. – Finse
di asciugarsi una lacrima inesistente e lei, dopo essersi accertata che
non ci
fosse nessuno a guardare, gli sferrò un calcio sugli stinchi.
–
Chiudi quella tua maledetta
bocca e spiegami cosa diavolo ci fai tu qui! –
Lui
sollevò le spalle. Considerò
brevemente la distesa non esattamente ordinata di lapidi e croci
alternata a
strisce di prato verde che costituiva il cimitero
–
Niente di che, mi divertivo a
spiarti. È interessante vedere fino a che punto una donna
riesca a fingere per
un uomo di cui non le è mai importato nulla. –
Lei
digrignò i denti, ma si
costrinse a mantenere la calma. Avevano altro a cui pensare, per il
momento.
–
Dobbiamo sbrigarci. Siamo stati
convocati – sbottò, assicurandosi con
circospezione che nessuno fosse nelle
vicinanze.
–
Oh, sì – annuì lui e sollevò
la
mano sinistra per osservare con vago interesse l’anello
d’oro che portava
all’anulare. Lei ne aveva uno identico. – Me ne
sono accorto. –
Si
incamminarono verso l’uscita
del cimitero, l’uno a una certa distanza
dall’altra, come se non si
conoscessero e non avessero alcunché a che vedere
l’uno con l’altra. Lei aveva
la sua carrozza ad attenderla, lui le passò accanto mentre
saliva, diretto
verso la periferia.
–
A più tardi, Niamh. –
Lei
lo maledisse interiormente,
giurando a sé stessa che avrebbe trovato il modo di fargli
passare quel suo
atteggiamento insolente, poi diede segno al cocchiere che poteva
partire.
E
comunque Arith si sbagliava:
non era vero che a lei non importava nulla del suo defunto marito. Gli
era
profondamente grata per essersi fatto giustiziare per un crimine che
era stata
lei a commettere.
L’infuso
sapeva di erbe amare e
il suo retrogusto acre bruciava giù per la gola in modo
davvero sgradevole. Era
un intruglio da bere a occhi chiusi, perché il solo aspetto
denso ed eterogeneo
del liquame che riempiva la tazza sarebbe bastato a ribaltare lo
stomaco anche
dell’animo più crudo.
Una
smorfia nauseata storse la
bocca coraggiosa che aveva appena bevuto.
–
Assolutamente disgustoso. Vi
ringrazio. –
Labbra
rosse sorrisero di rimando
con modestia.
–
È un piacere, Lucius. –
Geira
sembrava una bambina,
accoccolata sulla poltrona a gambe incrociate, la veste bianca che
sembrava
tutt’uno con lei. I capelli sciolti le gocciolavano acqua
sulle spalle, ma la
temperatura era talmente mite non c’era alcun bisogno di
preoccuparsene.
Per
quanto giovane potesse
essere, la Somma Sacerdotessa sosteneva a pieni meriti il suo ruolo e
talvolta
faceva anche più del dovuto. Come nel caso di Lucius, a cui
di tanto in tanto
preparava un filtro che lei stessa consacrava per aiutare il suo corpo
a recuperare
meglio le energie quando lui faceva ritorno da missioni particolarmente
impegnative. Era un loro piccolo segreto e non era necessario che terzi
ne
venissero a conoscenza.
–
Sei più provato del solito –
osservò la sacerdotessa. – Forse è il
caso che te ne prepari dell’altro –
aggiunse, accennando al boccale vuoto.
Lui
fece un gesto incurante.
–
Non è il caso, mi sento già
meglio. Il Coordinatore Blackthorne ci sta prendendo gusto a
coinvolgere il
sottoscritto per certe operazioni. –
Geira
sembrava scettica.
–
Blackthorne che chiede la tua
collaborazione? Per che genere di operazione,
se mi è concesso chiederlo? –
Oh, nulla di che… quel genere di
operazioni in cui ne esci sfinito e
malconcio, ma soddisfatto. Se ne esci. Lo pensò,
ma evitò di esternarlo.
–
Questioni leggere, tipo
sterminare bande di sicari o penetrare in qualche covo di Ladri di
Anime… nulla
di che. – Si gettò un’occhiata alle
braccia piene di contusioni e bruciature e
scrollò allegramente le spalle. – Penso stia
cercando di uccidere me, in realtà.
–
Lo
disse per scherzare, ma il
guizzo che ebbero gli occhi di Geira gli comunicò che per
lei la faccenda era
molto più seria.
–
Lady Soile è a conoscenza di
questo particolare? –
Lucius
si stiracchiò le braccia
sopra la testa, sgranchì il collo e la spina dorsale, infine
prese una sedia e
vi prese posto al contrario, avvolgendo lo schienale con le braccia.
–
Non è necessario. –
Sapeva
che la sacerdotessa non si
sarebbe lasciata ingannare dall’apparente leggerezza del suo
tono. L’ultima
cosa che lui voleva era che Soile scoprisse tutto e gli proibisse
esplicitamente di partecipare alle operazioni organizzate da
Blackthorne o,
peggio ancora, che vietasse direttamente a Blackthorne di coinvolgerlo.
Avrebbe
senz’altro apprezzato che lei si preoccupasse per lui, ma non
avrebbe mai
potuto sopportare l’umiliazione.
–
Come sta Regan? – gli domandò
allora Geira. Si era portata le ginocchia al petto e lo scrutava
attenta con i
suoi occhioni verde scuro.
Lucius
le era molto affezionato:
l’aveva vista il giorno della sua investitura, una ragazzina
sparuta ma dallo
sguardo determinato, e l’aveva guardata crescere mentre lui
stesso stava
crescendo, da ragazzino a giovane uomo, e spesso aveva cercato il suo
consiglio
durante i suoi primi anni nella Lega, quando la sua vita di Ladro di
Anime era
ancora una ferita fresca sulla sua pelle e tutto ciò che lui
voleva era pagare
il suo debito verso colei che lo aveva sottratto alla pena di morte.
Geira era
stata il suo aiuto più prezioso in quei momenti, una
confidente e consigliera
che gli aveva permesso di raggiungere dei compromessi con sé
stesso che lui
temeva non avrebbe mai trovato.
Ricordava
ancora le sue parole,
ora come dieci anni prima, come se gli fossero state incise
direttamente nel
cuore.
– Non devi temere per i tuoi peccati,
poiché senza peccato l’anima non
ha modo di temprarsi e imparare ciò che è giusto
e sbagliato. La vera forza non
appartiene a chi non sbaglia mai, ma a chi, avendo sbagliato, sa
riconoscerlo e
porvi rimedio. –
Prese
dal tavolo un bicchiere di
liquore ai frutti di bosco per scacciare il cattivo sapore del filtro e
se lo
scolò mentre rifletteva su ciò che gli aveva
chiesto Geira: non vedeva Regan da
un po’, ma si era premurato di informarsi regolarmente su di
lei e sapeva che,
nel bene e nel male, stava imparando a costruirsi una sua
quotidianità. Era
molto affezionato a lei, anche se talvolta era lui il primo a
stupirsene, e
quella piccola impertinente gli mancava. Si era ripromesso che, non
appena
avesse avuto un briciolo di tempo, sarebbe passato a trovarla. Solo gli
sarebbe
piaciuto farlo senza troppi lividi addosso.
–
Regan sta bene, suppongo. –
La
giacca di Lucius era
abbandonata su una sedia, le maniche della camicia che indossava
arrotolate
fino ai gomiti.
Sarebbe
stato divertente spiegare
la situazione, se qualcuno fosse per caso entrato proprio in quel
momento: non
c’era niente di più sconveniente di un uomo dalla
reputazione ambigua
infiltrato di nascosto nelle stanze di una sacerdotessa vergine. A una
qualsiasi delle consorelle di Geira sarebbe venuto un colpo, a vederli
così,
lei un veste da camera, lui decisamente a suo agio, e avrebbe
sicuramente
gridato alla scandalo, facendosi sentire fino al villaggio
più vicino. Gli
alloggi delle sacerdotesse ordinarie e delle novizie, per fortuna, si
trovavano
in un edificio separato da quello della Somma Sacerdotessa e sebbene
alcune di
esse dimorassero nel piccolo palazzo di Geira, nessuna si sarebbe
sognata di
salire fino ai piani superiori a disturbare il sacro riposo della loro
superiora.
Non
era stata Geira a scegliersi
quella vita e Lucius aveva spesso l’impressione che
adempiesse ai propri doveri
con una sorta di pesantezza nel cuore, perché
c’era una vita, al di fuori del
Tempio della Luna, che non le era concesso vivere. Se nei reami degli
umani le
forme di potere politico avevano indotto la gente a crearsi
divinità su misura
per le proprie necessità – déi che si
potessero pregare, che dessero conforto e
guidassero, che si potessero comprare
con sacrifici e voti di qualsivoglia tipo – il Mondo Occulto
restava un
territorio di isolata consapevolezza che non c’era preghiera
che potesse mutare
il corso degli eventi se non la forza di volontà personale.
Il libero arbitrio
era un dono e una condanna e non lasciava capri espiatori a cui
addossare le
colpe dei mali del mondo, se non i singoli individui.
Talvolta,
tuttavia, la Madre
stessa sceglieva di intervenire per aiutare il suo creato a non
soccombere nei
suoi stessi errori. C’erano segni e avvertimenti che inviava
nei più svariati
modi, moniti che bisognava saper leggere e accogliere, come i marchi
naturali
con cui venivano elette le guide spirituali, segni impressi nella loro
pelle
che comparivano inaspettatamente quando la Madre stessa riteneva giunto
il
momento e che li designavano come legittimi eredi dei Sommi Sacredoti
che li
avevano preceduti.
Il
marchio di Geira – una voglia
simile a una luna crescente dietro all’orecchio sinistro
– era apparso quando
lei era ancora giovanissima. Poco più che bambina, era stata
portata alle
Vergini della Luna affinché venisse istruita e preparata a
diventare quel che
la Madre aveva scelto per lei.
Ora
e era vincolata al suo voto,
e lo sarebbe stata fino a che una nuova prescelta non avesse ricevuto
il
marchio ed era pressoché impossibile prevedere quando
ciò sarebbe successo.
C’erano state Somme Sacerdotesse la cui carica era durata per
tutta la vita,
altre, invece, che avevano ricoperto il ruolo solo per pochi anni.
Geira
aveva dato gran parte dei
suoi anni migliori alla Madre e Lucius iniziava a domandarsi se mai la
Madre le
avrebbe dato qualcosa in cambio.
–
Desidererei parlare con lei –
disse Geira, d’un tratto pensosa, lo sguardo perso fuori
dalla finestra, dove
la notte era chiara e la luna alta nel cielo. – Indagare nel
suo profondo,
capire se c’è qualcosa che possiamo fare.
–
La
prima volta che Geira e Regan
si erano incontrate era stato pochi mesi prima, in circostanze
tutt’altro che
liete. Era stato quando, dopo un attacco che li aveva messi tutti in
pericolo,
avevano scoperto qual era il segreto legato a Regan e alla gente
mascherata che
le dava la caccia, il motivo per cui Lord Desmond la aveva tenuta
segregata in
segreto nella sua dimora per tanti anni.
Il
nucleo di Male che lei
custodiva.
L’aria
che entrava dalla finestra
era mite e piacevole da sentirsi sulla pelle, ma un brivido
formicolò lungo la
schiena di Lucius.
–
Il testo parla chiaramente –
disse, accennando al tomo che troneggiava al centro del tavolo, e
trovò le sue
stesse parole insopportabili. – L’Incarnazione deve
morire affinché il male che
custodisce possa essere estirpato. È rinchiuso
all’interno della sua anima, non
c’è altro modo. –
Era
una magia antica di secoli e
fino ad ora, nonostante gli sforzi, non erano riusciti a venire a capo
di una
soluzione che non prevedesse la morte dello scrigno vivente che
custodiva la
pericolosa essenza di male puro, ossia Regan, nel caso del secolo
corrente.
–
Permettetemi comunque di avere
qualche colloquio con lei, se lo consentirà. Forse
c’è altro che potrei capire.
–
Se suo zio lo consentirà,
corresse mentalmente lui.
–
Gliene parlerò, ma non adesso.
Non voglio turbarla più di quanto già non lo sia.
La sua vita è fin troppo
frenetica, al momento. –
Un
mondo da conoscere,
comportamenti da imparare, una storia da ricostruire…
decisamente non aveva
bisogno di altri grilli per la testa. Una volto sciolto qualche nodo,
si
sarebbero occupati del resto.
Un
grosso gatto rosso balzò in
grembo a Geira, spuntando da chissà dove. La ragazza lo
accolse con un piccolo
sobbalzo di stupore. Le sue dita si immersero nella morbidezza della
pelliccia
e subito il felino iniziò a fare le fusa, offrendo il muso
alle sue carezze.
Quando lei tornò a guardare Lucius, sorrideva.
–
È molto nobile da parte tua preoccuparti
tanto per lei. –
Lui,
che non riusciva a ricordare
una sola cosa che in vita sua avesse fatto per puro spirito di
nobiltà, non
riuscì a trattenere una piccola risata.
–
La gente è troppo abituata ad
attribuirmi virtù che non mi appartengono, Venerabile Geira.
–
–
O forse, Lucius, sei tu a non
volerne portare il peso. –
Le
vide un’insinuazione nello
sguardo, qualcosa di simile a una beffa amichevole, ma non priva di una
nota di
rimprovero.
–
Mi biasimereste, per questo? –
La tranquillità in cui lui costrinse quella risposta era
venata da un rivolo di
angoscia. – Conoscete la mia storia, e siete una dei pochi.
Sapete quanto siano
ricurve le spalle della mia anima. –
Un
alito di vento passò ad
accarezzare le molte candele che ardevano ovunque nella stanza. Le loro
fiamme
oscillarono dolcemente, spingendo le ombre a fare lo stesso.
L’aria sapeva di
erba umida e incenso.
–
Abbiamo tutti le nostre colpe.
Solo chi non ha coscienza non risente del loro peso. –
Lucius
tacque. Non sapeva come
spiegarle che non erano le colpe in sé ad angustiarlo,
bensì l’immagine che esse
potessero dare di lui. Infinite volte si era chiesto se Soile si fosse
mai
pentita di aver risparmiato la vita a un assassino come lui –
perché, anche se
non aveva ucciso che anime corrotte, sempre un assassino restava
– e che cosa
potesse mai vedere, lei, quando lo guardava.
Forse
lo stesso assassino di un
tempo, passato da un lato all’altro degli schieramenti, forse
un pentito che si
dedicava anima e corpo a scontare le sue pene.
Il
fatto era che non c’era alcuna
azione di cui Lucius si fosse mai pentito. Se adesso era lì,
a dare la caccia a
quelli che una volta erano stati i suoi compagni, era solo
perché qualcuno,
senza un apparente motivo se non la personale pietà, aveva
voluto concedergli
una possibilità.
Gettò
uno sguardo al libro sul
tavolo – Ontologia del Male
– e
sospirò.
–
Che cosa ne devo fare di
questo? –
–
Serbalo – rispose Geira senza
alcuna esitazione. – Nel luogo più sicuro che
conosci. Distruggerlo non
servirebbe a niente. Solo uno sciocco distruggerebbe un simbolo privo
di
essenza nel tentativo di eliminare l’essenza stessa. Forse
c’è ancora qualcosa
che possiamo imparare da queste pagine. –
Le
sue dita magre si allungarono
verso le pagine gialle del tomo come se avessero voluto sfiorarle, ma
non lo
fecero.
–
Lo posso affidare a voi? Le
terre del Tempio sono consacrate. Non c’è mano
empia che possa violare questo
luogo. –
Lei
soppesò la proposta e Lucius
si chiese se non fosse stato inopportuno da parte suggerire qualcosa
del
genere. Il Tempio della Luna, dopotutto, era un luogo sacro, che
onorava e
celebrava la Madre e i suoi prodigi, e quel manoscritto immondo era
quanto di
più dissacrante si potesse immaginare. La decisione della
sacerdotessa,
tuttavia, lo stupì:
–
Lo conserverò nelle mie stanze
personali. Lascerò a te la chiave del suo scrigno.
–
–
A me? – fece lui, spiazzato.
–
Le mie consorelle non devono
nemmeno immaginare cosa c’è custodito in questo
libro. La virtù non è che un
mero ideale: forte nelle parole e debole nella carne. Non voglio
esporre
nessuno a inutili tentazioni. Nemmeno me stessa. –
Lucius
la ammirò per l’umiltà che
ancora una volta dimostrava. Conosceva dozzine di persone meno
influenti di lei
che non avrebbero avuto la stessa disinvoltura nel confessarsi timorosi
di
qualche debolezza.
–
Certo, lo comprendo. Vi ringrazio.
–
Un’ombra
comparve sul davanzale
della finestra, così nera che sembrava essersi generata
direttamente
dall’oscurità del cielo. Rok, il corvo di Lucius,
piegò la testa di lato, un
topo esanime stretto tra gli artigli. Il gatto tra le braccia di Geira
lo
considerò con scarso interesse.
–
Il tuo Guardiano è tornato
dalla caccia, vedo. –
–
Il che mi ricorda che si è
fatto veramente tardi ed è ora che io vi lasci riposare
– Lucius si alzò e
iniziò a srotolarsi le maniche lungo le braccia. –
Avrete ancora molto da
organizzare per le celebrazioni dell’Equinozio. –
C’erano
quattro festività
maggiori osservate nelle Sette Terre e corrispondevano alle quattro
stagioni di
cui la Madre si vestiva durante l’anno. Per tradizione,
l’Equinozio di
Primavera veniva festeggiato di giorno, con grandi banchetti, giochi e
danze
all’aperto, e nelle campagne sacerdoti e sacerdotesse
consacravano i campi e i
corsi d’acqua che li avrebbero irrigati.
Per
il Solstizio d’Estate, le
feste duravano tutta la notte e le famiglie usavano recarsi al tempio
con due
monete: una da far benedire simbolicamente affinché la
prosperità dei mesi più
caldi si prolungasse anche in quelli più freddi,
l’altra da offrire in elemosina
per chi di monete non ne aveva affatto.
L’Equinozio
d’Autunno era
dedicato alla vendemmia e alla raccolta delle provviste per il periodo
invernale e veniva festeggiato in modo più rilassato
rispetto alle altre
ricorrenze: la gente si incontrava nelle piazze e nelle taverne e
brindava alla
salute dei propri cari con fiumi di vino e sidro e da tutti i focolari
le
castagne arrostite spargevano il loro profumo per le città.
Infine,
il Solstizio d’Inverno
era forse la data più importante e più attesa
dell’anno: durante la Vigilia le
famiglie si riunivano per tradizione sotto al tetto del capostipite
più anziano
e dopo la cena tutti si scambiavano doni in segno di buon augurio per
il nuovo
anno che presto sarebbe giunto; il mattino seguente era di rito la
visita al
tempio per onorare la Madre e affidarle i propri desideri per il nuovo
anno.
C’era
un desiderio, in
particolare, che Lucius aveva covato negli ultimi anni, ma non aveva
mai osato
portarlo fino ai piedi dell’altare di un tempio,
poiché sapeva bene che c’erano
desideri che, semplicemente, non avrebbero mai potuto incontrare la
realtà.
–
Porterai da me la piccola
Regan? – gli disse Geira quando, infilata la giacca, fu
pronto ad andarsene.
Rok gli volò sulla spalla e lui si avvicinò alla
porta.
–
Appena mi sarà possibile, lo
prometto – aggiunse poi.
Fuori
i corridoi erano bui,
perché nessuno si aspettava che qualcuno potesse aggirarvisi
nella notte
inoltrata in cui avevano finora chiacchierato. Le lampade spente, le
porte
chiuse, il silenzio disteso come una morbida coperta ovunque
l’orecchio
riuscisse a tendersi: per fortuna lì le pareti non erano
d’acqua come quelle
del Tempio.
Fece
per uscire e i suoi passi
non produssero alcun rumore. All’occorrenza, se qualcuno per
sbaglio fosse
uscito da qualche stanza, sarebbe anche stato in grado di celarsi nelle
ombre e
fondersi con esse fino all’invisibilità, ma sapeva
che non sarebbe stato
necessario.
–
Stai ancora cercando la terza
copia e le parti mancanti di quel manoscritto? –
Lucius
si bloccò con la mano
sulla maniglia. La prima copia, incompleta, la aveva ottenuta
attraverso canali
non esattamente leciti e non aveva mai avuto modo di scoprire da dove
fosse
stata recuperata; la seconda, invece, era arrivata da nientemeno che il
covo
della sua amica Angina, un tempo rifugio dei Veglianti, la setta che
aveva reso
Regan ciò che era. Chiunque possedesse il resto era un
potenziale nemico.
–
Sono più che convinto che Lord
Desmond sia in possesso dell’una o dell’altra cosa.
Resta da capire dove si
trovi il resto. –
–
Possibilità che sia in possesso
della Lega? –
–
Nessuna. In un modo o
nell’altro sarei riuscito a scoprirlo. –
–
E sono sicura che hai già avuto
modo di fare le tue ricerche negli Archivi di Restrizione di Medilana,
dico
bene? –
Lui
si limitò ad arricciare
furbamente le labbra.
–
Hai pensato di cercare al
Tempio del Sole? –
–
Il Tempio del Sole? –
–
È lì che all’epoca della
Monarchia venivano raccolti i testi proibiti requisiti alle sette.
–
Lucius
aggrottò le sopracciglia,
arretrò di un passo e accostò la porta.
–
Credevo venissero bruciati. –
–
Ufficialmente. Ma non penserai
davvero che la Corona possa aver fatto incenerire le armi
più potenti che
avesse contro i suoi nemici, vero? È un’arrogante
ingenuità che ci si potrebbe
aspettare dal Coordinatore Generale Reis, ma non certo dai Leljen.
Negli
archivi sono conservati ancora tutti i registri delle confische e delle
persone
indagate. –
C’erano
scarse probabilità che
riuscisse a trovare qualcosa: le radici dell’Ordine dei
Veglianti risalivano a più
di un millennio prima ed erano state così ben insabbiate che
nemmeno i più
autorevoli storici della Lega e della Domus Aurea ne avevano mai
sentito
parlare, ma poteva esserci qualche indizio, da qualche parte, che a un
occhio
ignaro sarebbero facilmente sfuggiti.
–
Come posso avere accesso a quei
volumi? –
–
Non puoi – replicò ovviamente
Geira nel più neutrale dei toni. – Nessuno
può: il Sommo Sacerdote custodisce
la sola chiave che apre le segrete e ha la severa consegna di non
consentire a
nessuno di accedervi. – Il suo sguardo, però, si
accese di una luce misteriosamente
sorniona. – Ma forse sarà disposto a scendere a
compromessi… –
Sprofondato
nella poltrona più
comoda e lussuosa su cui avesse mai avuto il piacere di sedere, Arith
si
rigirava il suo pugnale tra le dita, annoiato, e ascoltava i passi
nervosi che
il Priore Genesis disseminava lungo tutta la discreta lunghezza della
sala.
Pensò
che non c’era da
sorprendersi se Niamh fosse una tale spina nel fianco: abituata a
quella casa
principesca e alla sua bella vita comoda, doveva essere una bella
seccatura,
per lei, scontrarsi con gente che non era disposta ad assecondarla in
qualunque
cosa.
Si
riunivano quasi sempre lì,
ormai, dato che la loro base nelle catacombe di Medilana era stata
ormai
scoperta. Bisognava ammetterlo: Luciferus – o Lucius,
come preferiva farsi chiamare adesso – poteva sembrare uno
sprovveduto, ma lui e soci erano più in gamba di quel che i
Veglianti avessero
stimato. Arith, naturalmente, si chiamava fuori da quel giudizio
affrettato.
Era un Ladro di Anime da metà della sua vita e su di lui ne
aveva sentite tante,
di storie, e una cosa in comune la avevano tutte: lo dipingevano come
il più
scaltro dei furfanti, abilissimo su molti piani, ma in particolare a
fare il
proprio interesse.
No,
decisamente Arith non aveva
mai commesso l’errore di sottovalutare Luciferus.
La
proprietà di Niamh era immersa
in una macchia di vegetazione a due passi dalla capitale di Corterra,
isolata
quando bastava per accogliere una manciata di ospiti di eterogenea
estrazione
che in una zona densamente abitata avrebbero sicuramente dato
nell’occhio.
La
casa, al momento, sembrava
deserta. La servitù era stata congedata per
l’intera giornata e la strada era
troppo lontana perché qualche rumore potesse giungere fin
lì. C’era solo il
silenzio, e il ticchettio metallico di una pendola nella stanza attigua.
–
Alla luce delle peculiari
condizioni in cui ci troviamo a dover operare – stava dicendo
Genesis, e dalla
tensione delle sue parole si riusciva a intuire quella dei suoi nervi.
– È
necessario elaborare una strategia diversa da quelle adottate dai
nostri
confratelli nei secoli che ci hanno preceduto. –
Frustrazione
e rabbia.
Comprensibilmente, pensò Arith, dato che non era mai
accaduto prima di allora
che qualcuno interferisse con l’operato del loro Ordine.
Avevano ormai la
certezza che Lord Ganus Desmond avesse messo le mani su informazioni
abbastanza
rilevanti da aver compreso che cosa fosse la ragazzina dai capelli
rossi. Ne
sapeva abbastanza, anzi, da essere riuscito ad appropriarsi di lei
appena prima
che potessero farlo loro stessi.
I
quattro compagni di Arith
davano la colpa a Sharlit e al suo tradimento se avevano fallito nel
loro
compito di eliminare la bambina, e forse era anche così, ma
Arith aveva la
netta sensazione che Desmond sarebbe comunque riuscito ad appropriarsi
di lei,
in un modo o nell’altro.
Già
il fatto che non l’avesse
semplicemente uccisa per impossessarsi del potere che lei serbava la
diceva
lunga su quanto lui effettivamente sapesse.
–
Perché ci stiamo dando tanta
pena per una ragazzina? –
–
Perché, Arith, in caso non te
ne fossi ancora reso conto è un pericolo per il mondo intero
– berciò Niamh con
il suo solito fare superiore.
Arith
non ne fu affatto
impressionato.
–
Che male ha fatto? Ha distrutto
la Corte, d’accordo. Anziché ucciderla, dovremmo
darle una medaglia. –
–
Deve essere distrutta, prima
che sia lei a distruggere noi! –
–
Mi chiedo se valga veramente la
pena… –
Alioth
sollevò lo sguardo dal suo
calice di vino e l’occhio destro, l’unico che gli
restava, saettò verso il
ragazzo.
–
Se non lo facessimo, il Male
dominerebbe il mondo e sarebbe il caos. –
–
E come lo sappiamo, se da mille
anni nessuno ha mai provato a fare diversamente? –
Il
pugno di Genesis si abbatté
con violenza sul tavolo, facendo sobbalzare tutto ciò che vi
era posato sopra.
–
Stai esagerando, ragazzo! –
sibilò in faccia ad Arith. – Non dimenticare che
cosa hai giurato quando ti
abbiamo scelto! –
Dimenticare…
Arith
avrebbe riso, se solo la
situazione non fosse stata così tesa. Aveva barattato la sua
vita per pura
arroganza: per un’occasione di approfondire le sue
conoscenze, per poter aver
accesso a fonti di cultura che la sua povertà non gli aveva
mai concesso, e non
c’era stato un singolo momento in cui se ne fosse pentito.
–
Perdonate l’interruzione,
sapete che sono un polemico. –
–
Non c’è alcunché da
polemizzare: il destino di tutti è nelle nostre mani e non
c’è prezzo che non
valga la pena di essere pagato. –
Arith
non ne era del tutto
sicuro, ma decise che la cosa non lo riguardava. Era curioso per natura
e fin
da piccolo aveva sempre messo in discussione qualsiasi cosa. Non era
uno di
quelli che si accontentavano di una spiegazione nero su bianco: lui
voleva
vedere le sfumature di grigio, tutte
le sfumature di grigio, ed era abbastanza testardo da non mollare
finché non le
aveva scovate tutte.
Per
stavolta, però, accantonò la
questione e non ne fece più parola, in nome della pace
comune e del suo stesso
benestare.
Non
aveva importanza, comunque:
uccideva persone da tutta la vita e una in più o una in meno
non avrebbe fatto
alcuna differenza.
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Capitolo 4 *** 3. Approvazione ***
3. APPROVAZIONE
You're
sure it’s the only way
But why can’t I
Why can’t I be me?
– Why
Can’t I Be Me, The Cure –
I
vetri vibravano sotto alle
percosse del vento che si scagliava con violenza tra le chiome degli
alberi,
strappando foglie e spezzando rami. Il cielo era ammantato di nuvole
nere che
più a nord stavano vessando le montagne con una tempesta di
quelle che Regan
non si sarebbe mai stancata di vedere. Dalle stanze più alte
della dimora degli
Edelberg si riuscivano a vedere fulmini e saette squarciare
l’oscurità a miglia
e miglia di distanza, uno spettacolo che faceva venire la pelle
d’oca.
La
soffitta era immensa, vuota e
polverosa, e la stasi che la dominava sembrava il respiro silenzioso di
un
pacifico sonno.
La
pendola dello studio al piano
di sotto rintoccò la Seconda mattutina. Il suono
riecheggiò per i corridoi
vuoti del castello fino a giungere a lei come un avvertimento sbiadito.
Lo zio
si sarebbe arrabbiato molto se l’avessero scoperta di nuovo
in piedi a
quell’ora, abbarbicata nello stretto vano della finestra
aperta che si
affacciava su nient’altro che il nulla. Ci aveva provato a
rimanere a letto, ma
l’insonnia era stata inclemente e non appena aveva avvertito
il cambiamento del
tempo non era proprio riuscita a resistere. Adorava passeggiare di
notte per il
palazzo: ogni ombra, ogni scricchiolio del mobilio antico erano un
brivido
lungo la schiena; ormai conosceva ogni angolo a memoria, ma continuava
a
divertirsi a vagabondare di stanza in stanza. Mariek ed Ember le
avevano
raccontato che c’erano dei passaggi segreti in tutti i
castelli antichi e da
qualche parte ce ne dovevano essere anche in casa loro, ma nessuno li
aveva mai
scoperti. Lei si era ripromessa che prima o poi ne avrebbe scovato
almeno uno.
Era
un toccasana starsene seduta lì
a sentire l’aria fresca, profumata di pioggia, che le lambiva
il viso.
Le
doleva la testa, satura di
pensieri come il cielo all’orizzonte era saturo di
elettricità. Gli stessi
lampi che rimbombavano nel nero della notte erano uno specchio perfetto
di quello
che Regan aveva nella sua mente: luci e ombre a brandelli, riflessioni
a pezzi,
subito interrotte da altre riflessioni, ciascuna più
impellente della
precedente, più pesante. Aveva creduto che, una volta
rivelata la sua identità,
tutto sarebbe stato più facile, e invece no: tutto, giorno
dopo giorno, non
faceva che complicarsi. Il che era tutto un dire, visto che la
situazione per
lei era stata complicata fin dall’istante in cui era venuta
al mondo, portatrice
di un’essenza di male pura che una magia antica di secoli le
aveva inculcato
nell’anima. Ora, naturalmente, i custodi di questa magia
avevano il compito di
ucciderla. Tra i pochi che erano a conoscenza di questo piccolo
particolare – e
tra essi i suoi zii ancora non erano inclusi – era diffusa
opinione che lei
fosse assolutamente terrorizzata da questo pericolo che incombeva su di
lei, ma
che tacesse per personale contegno; in concreto, invece, e talvolta si
dava
della sciocca per questo, lei rimaneva indifferente al riguardo, forte
di
un’incoscienza che, diceva sempre Lucius, le derivava dalla
mancanza di
esperienze dirette. In effetti questo punto non era del tutto
sbagliato: per
merito di Derian, che le aveva trasmesso ciò che nella vita
aveva appreso,
Regan sapeva tutto del mondo, eppure non conosceva niente. Di tutte le
nozioni
presenti nella sua memoria, aveva vissuto solo
un’infinitesimale parte, ed era
davvero strano, ogni volta che sperimentava qualcosa, associare la
reale
sensazione che ne traeva al concetto pregresso che già ne
possedeva. Vedere una
cascata, toccare la neve, gustare more e mirtilli, annusare il profumo
dei
mughetti sulla terrazza di zia Persefone, ascoltare le vibrazioni delle
corde
di un violino… tutto era una sorpresa infinita. E in certi
momenti, quando
vedeva un ragazzo e una ragazza passare a braccetto per strada, di
nascosto
quasi anche da se stessa, si chiedeva quando avrebbe vissuto il sapore
di un
bacio.
Non
appena quel pensiero la
sfiorò, chiuse gli occhi e scosse la testa, tentando di
scrollarselo di dosso
come un’insidiosa ragnatela. Non aveva voglia di mettersi a
rimuginare su
Lucius adesso. Del resto, lui non si era nemmeno preso il disturbo di
andare al
parlare con lei del suo colloquio con i Dresden.
Senza
aspettare che lei
rientrasse da una passeggiata con la zia e la piccola Luce, era andato
dritto
da Tristan e aveva riferito tutto a lui. Al suo ritorno, Regan si era
trovata
davanti agli accordi già presi: sarebbe stata ufficialmente
presentata come
Lady Regan Edelberg, legittima figlia di Lord Ardal Edelberg e Lady
Aranel
Dresden. Nessuno avrebbe mai menzionato il fatto che suo padre era
stato
diseredato e che lui ed Aranel avevano coperto le rispettive famiglie
di
vergogna fuggendo insieme come due sguatteri qualsiasi. Ma nessuno
avrebbe
potuto sospettare la verità: lui, cancellato dagli alberi
genealogici e dai
ritratti di famiglia, era stato dichiarato morto dal proprio padre il
giorno
stesso in cui la sua famiglia aveva scoperto cosa aveva fatto e, in
quanto a
lei, i suoi genitori avevano semplicemente denunciato la sua scomparsa,
ma
nessuna ricerca aveva mai prodotto alcun frutto. La versione ufficiale
prevedeva che si fossero sposati in segreto e che, dopo la morte di
lui, lei
avesse abbandonato la creatura che aveva dato alla luce e si fosse
gettata in qualche
fiume per seguire il suo amato nel ritorno alla Madre. Questo avrebbe
salvato
la reputazione di tutti, vivi e defunti, e soddisfatto la sete di
pettegolezzi
delle comari di tutte le Sette Terre. Se poi il tutto soddisfacesse
anche
Regan, nessuno si era premurato di chiederlo.
Lasciò
che le palpebre si
chiudessero mollemente. Le carezze del vento erano seducenti, premurose
come
fresche mani affettuose scese a lenire una febbre interiore. Regan ne
era
rapita al punto tale che si domandò se non potesse
arrischiarsi ad abbandonarsi
alle loro blandizie, cedere a quelle brezze che sembravano chiamarla,
per
vedere se l’avrebbero raccolta tra le loro braccia e
sostenuta nel vuoto.
Riusciva
a vedere il lago appena
al di fuori delle proprietà di famiglia: senza luna o stelle
a farlo
scintillare, era un drappo di velluto nero sconvolto in mille pieghe
nervose, e
mentre lo ammirava poteva quasi avvertire il sentore delle acque gelide
agitarsi sotto alle dita assieme ai nastri di vento.
Sospirò,
e il mondo sospirò con
lei.
Da
qualche parte nelle foreste i
lupi stavano ululando, turbati dalla rapidità dei
cambiamenti atmosferici.
–
Parlano con il vento. –
Regan
sussultò, premendosi una
mano sul cuore che batteva impazzito. Voltandosi, trovò il
maggiore dei suoi
cugini sulla soglia della soffitta.
–
Non intendevo spaventarti. –
Lei
scosse la testa e si raccolse
le ginocchia al petto mentre lui si avvicinava per sederle accanto.
–
Ero solo molto assorta. –
–
Si direbbe che tu subisca il
richiamo della tempesta quasi quanto loro –
osservò Prince, sulla scia di un
altro coro di ululati. Il cuore di Regan batteva un po’
più forte ogni volta
che una di quelle voci selvagge si sollevava nel vento, mescolandosi al
ruggito
della pioggia. In momenti come quello, tutto ciò che lei
avrebbe voluto era
poter mutare forma, essere lupo come loro, e correre a perdifiato verso
la
foresta, incurante dell’acqua e dei tuoni. Semplicemente
libera.
–
Hai uno spirito irrequieto –
Prince fece un sorriso obliquo studiandola di sottecchi. – Il
che non è
esattamente un pregio, per i canoni Edelberg, ma ammiro e un
po’ anche invidio
la tua spontaneità. –
Regan
provò un moto di affetto
verso di lui. La prima impressione che ne aveva avuto era stata di un
giovane
uomo altero ed estremamente posato e quest’impressione non
era cambiata poi di
molto, imparando a conoscerlo, ma una cosa di lui l’aveva
capita in fretta:
l’alterigia non era un suo tratto innato, ma una sorta di
distintivo che aveva
imparato a indossare e smettere a seconda delle occasioni.
Prince
era visibilmente stanco.
Indossava ancora la divisa da Cacciatore con lo stemma dorato della
Lega – la
Stella a sette punte – appuntato al petto, il medesimo
simbolo che, in argento,
con un nucleo rosso rubino, pendeva dalla catenella che gli cingeva il
collo.
Nei suoi occhi provati, tuttavia, c’era un bagliore che Regan
solo di recente
aveva notato.
–
Da qualche tempo sembri più
rilassato. A volte addirittura distratto. –
Il
ricciolo vago che apparve in
un angolo della bocca di Prince denotò che
l’osservazione non lo aveva
infastidito. Considerò il cielo tempestoso, perdendovisi per
qualche istante.
–
Sì, può darsi. –
Regan
stava per domandargli cosa
fosse cambiato, perché anche lei sentiva un profondo bisogno
di sentirsi più
rilassata – anche se a Donna Melyor sarebbe potuto venire un
crollo di nervi se
solo si fosse dimostrata appena più distratta di quanto
già non fosse di suo –
ma Prince si alzò e con un cenno della testa la
invitò a fare lo stesso.
–
Meglio andare a dormire,
adesso, figlia dei lupi. È così tardi che
potrebbe benissimo essere presto,
ormai. –
Le
voltò le spalle e fece per
uscire, ma lei non si mosse.
–
Prince? –
Lui
si fermò sull’uscio.
– Sì? –
Gli
occhi di Regan accarezzarono
le montagne su a Nord, le cime perennemente imbiancante vessate dalle
piogge,
con un affetto quasi anelante.
–
Credi che sia possibile fare
una gita lassù, qualcuno di questi giorni? –
Lui
rimase immobile, fissandola
senza un’espressione, come a cercare di capire se lo volesse
o meno prendere in
giro, poi, una volta appurata la serietà della domanda,
rovesciò indietro la
testa e scoppiò a ridere di gusto.
–
Una gita sulle montagne?
– Lo disse con assoluta ilarità, nemmeno gli
fosse appena stata chiesta la luna. – Regan, tu non hai idea
di quanto siano
basse le temperature lassù, vero? – Si
portò una mano agli occhi per asciugarsi
lacrime divertite. – Sono luoghi a malapena tollerabili in
piena estate,
figuriamoci in primavera quasi nemmeno iniziata! –
Mentre
lui rideva ancora, lei gli
si accostò per appioppargli un ceffone sul braccio. Non
avrebbe mai osato
farlo, prima, ma in quel momento le sembrava di avere a che fare con un
Prince
diverso, più accessibile.
Per
tutta risposta lui le elargì
uno sguardo pieno di tenerezza.
–
Sei una vera Edelberg, non c’è
che dire. –
–
In che senso? –
–
Non lo sai? La nostra famiglia
discende dalle genti che abitavano quei picchi inospitali di cui mi hai
appena
chiesto. Edelberg significa nobili di
montagna. –
Regan
si sentì accendere le
guance di un orgoglioso tepore rosato mentre suo cugino, ancora in vena
ridanciana, la sospingeva fuori, strappandola a quello spettacolo
naturale che
lei avrebbe volentieri ammirato fino alla fine
dell’eternità.
–
Regan? Regan? Regan! –
Non
c’era traccia di lei nelle
stanze da letto, né nella biblioteca, né nella
stanza dei bagni, e nemmeno
dabbasso, nelle cucine. Come svanita nel nulla.
Era
la seconda volta che Donna
Melyor perquisiva l’intero palazzo, ma della ragazza non
c’era proprio traccia
da nessuna parte. Paonazza, i capelli scarmigliati davanti al viso,
impugnò le
sottane e si accinse a ricominciare a setacciare le stanze per la terza
volta.
–
Benedetta Madre, dove si sarà
cacciata quella bambina? –
Era
ancora abbastanza presto, la
mattina era fresca e limpida dopo la nottata ventosa, ed era
pressoché
preoccupante che Regan non fosse ancora sepolta sotto le sue amate
coperte. Di
certo, pensò Melyor, raccattando i vestiti sparsi nelle
stanze dei ragazzi,
aveva scelto il giorno sbagliato per sparire nel nulla.
Spalancò
le persiane di tutte le
camere da letto e chiamò un paio di cameriere
perché rassettassero, poi scese
fino alla sala da pranzo, dove i signori Edelberg e alcuni dei loro
figli si
stavano già godendo una sostanziosa colazione.
Normalmente,
la domenica, la
colazione veniva consumata al Bottondoro,
rinomata sala da the del centro di Kauneus in cui solevano per
tradizione
riunirsi le famiglie più in vista. Era un evento mondano che
tutti trovavano
molto piacevole, ma quella mattina la situazione richiedeva
diversamente: alle
undici in punto Regan sarebbe stata ricevuta da Madame Ilyalisse, la
sensale
che si occupava di valutare le giovani fanciulle e approvare il loro
ingresso
ufficiale in società, e tutti quanti, in casa, avevano la
netta sensazione che
non sarebbe stato un colloquio semplice.
Donna
Melyor ebbe il tempo di far
fluttuare uno sguardo di amorevole soddisfazione verso Mariek ed Ember
– che si
stavano rimpinzando come se non avessero toccato cibo da settimane
– prima di
accorgersi del cipiglio nuvoloso di Lord Tristan.
–
Ebbene? –
–
Non so più dove cercarla,
signore – gemette lei, desolata, con un cumulo di vestiti che
le traboccava tra
le corte braccia pingui. – Tjeren è andato a
guadare nelle scuderie, forse… –
–
Non si trova lì. –
Anneli
era comparsa sulla soglia,
sudata e leggermente rossa in viso, reduce dalla sua cavalcata
mattutina domenicale.
Alle sue spalle apparve Prince, anch’egli in tenuta da
equitazione.
–
Che succede? –
–
Abbiamo perso Regan – gli
comunicò Ember, masticando una badilata di uova strapazzate.
–
Di nuovo – pensò bene di
puntualizzare Mariek.
Aiden,
seduto di fronte a loro,
volse gli occhi al soffitto. Anneli, invece, si lasciò
scappare un sorriso
beffardo.
–
Perché la cosa non mi sorprende?
–
–
Siediti, pettegola – la zittì
Prince, spingendola verso il tavolo. Una cameriera che stava entrando
con un
vassoio di dolcetti si fermò per cedere loro il passo con un
piccolo inchino
nervoso.
–
Proprio oggi doveva mettersi a
giocare a nascondino… – borbottò Lord
Tristan fra sé mentre il suo coltello scricchiolava
spiacevolmente contro la porcellana del piatto, causando sibili
infastiditi da
parte dei ragazzi.
Anneli
si fece servire del the
bollente e non prese altro. Per contro, Donna Melyor prese un piatto,
lo riempì
di pietanze e glielo piazzò davanti con
un’occhiata tagliente che dissuase la
ragazza da qualsivoglia protesta. Solo quando Anneli iniziò
a mangiucchiare una
frittella di malavoglia la governante si degnò di
allontanarsi, supervisionando
la situazione in attesa di nuove istruzioni.
Lady
Arista, che teneva la
piccola Luce sulle ginocchia e la aiutava a mangiare, fece per alzarsi.
–
Forse è meglio che la vada a
cercare io. Melyor, vorresti pensare tu a Luce, per favore? –
–
Lasciala a me, mamma – disse
Prince, allungando le braccia verso la sorellina. – Melyor
non ha ancora
toccato cibo. Siediti – aggiunse, Luce aggrappata al collo,
facendo cenno alla
donna di prendere posto.
La
cameriera che aveva portato i
dolcetti se ne andò con un’espressione risentita.
Melyor e suo marito Tjeren
godevano di un trattamento di favore da parte dagli Edelberg, in quanto
servivano fedelmente la famiglia da ben tre generazioni e lei aveva
aiutato le
ultime due padrone a crescere i loro ragazzi con lo stesso amore di una
madre
naturale.
Arista
lasciò quindi Luce a Prince,
si passò il tovagliolo sulla bocca e poi lasciò
la tavola, seguita dagli occhi
severi del marito.
Era
difficile dire se il
frenetico scalpiccio che si sentiva echeggiare tra le pareti umide
appartenesse
a Mello che saettava qua e là in preda
all’incontenibile gioia di scoprire un
posto nuovo oppure se fossero semplicemente i topi che dimoravano
là sotto, ma
non era importante.
Regan
rigirò un paio di volte la
mappa che aveva in mano e corrugò la fronte. Non aveva idea
che i sotterranei
di casa Edelberg fossero così vasti.
Dopo
averla ripresa svariate
volte a causa dei suoi vagabondaggi notturni, lo zio le aveva detto che
avrebbe
fatto meglio a smetterla o avrebbe finito per smarrirsi da qualche
parte. Il
che era credibile, perché il castello era veramente enorme e
tutti i corridoi
si somigliavano tra di loro, ma durante una delle numerose incursioni
in
biblioteca durante le lunghe, cupe giornate invernali Regan era
riuscita a
scovare quella cartina ammuffita in mezzo a una dozzina di libri di
araldica e,
non senza un bel po’ di fatica, aveva imparato ad usarla.
I
sotterranei, secondo il
disegno, all’alba dei loro tempi avevano svolto la funzione
di prigione, e in
effetti lungo il vasto corridoio centrale si aprivano numerosi varchi
chiusi da
pesanti grate arrugginite che avevano tutta l’aria di essere
celle. Da qualche
parte ci doveva essere anche una ghiacciaia, un deposito per le armi e
una
grande stanza ottagonale che apparentemente non serviva a nulla.
Da
quelle parti era abbastanza
freddo e umido perché ogni respiro si trasformasse in bianca
condensa davanti
al viso. Era anche molto buio, tanto che la candela che Regan si era
portata
appresso bastava appena a farle vedere poco più in
là del suo naso. Oltre
l’alone di luce gialla, l’oscurità si
infittiva progressivamente fino a
perdersi in distanza in un occhio cieco.
Regan
era elettrizzata
dall’atmosfera di quel luogo, ma sapeva anche che atti turpi
si erano consumati
dietro alle porte chiuse che incontrava, cose risalenti a ere ormai
concluse in
cui intrighi, tradimenti e omicidi erano stati all’ordine del
giorno,
soprattutto tra le casate nobiliari. Dopotutto un motivo
c’era se gli Edelberg
si erano fatti il nome di Scudo del Re.
Trasalì
quando vide qualcosa di
nero attraversarle inaspettatamente il cammino.
–
Attento! – disse la grosso
ragno che, scampato il pericolo, se la svignava in fretta e furia in
una
fessura nel muro. – Potevo calpestarti! –
Le
pantofole avevano suole
morbide che non producevano alcun rumore contro il pavimento di pietra
e questo,
se possibile, rendeva tutto ancora più sinistro.
Si
era svegliata di buonora e non
aveva perso del tempo prezioso a cambiarsi. Peccato solo che ora la sua
camicia
da notte fosse umida e non troppo pulita e che la sua treccia avesse
raccolto
qualche ragnatela di troppo nel discendere la vertiginosa scala a
chicciola che
conduceva laggiù. Non aveva avuto altra scelta, comunque,
perché l’accesso
principale ai sotterranei era stato sbarrato e probabilmente anche
protetto con
qualche sigillo e non ci sarebbe stato verso di forzarlo.
Il
passaggio che aveva usato lei
lo aveva scovato per caso nella dispensa delle cucine, nascosto dietro
uno
scaffale pieno di mazzi essiccati di piante aromatiche, ed era stato
grazie
alla piantina che aveva capito che cos’era. Non si trattava
propriamente di un
passaggio segreto di quelli che avrebbe voluto svelare lei, ma per
adesso
poteva accontentarsi.
Scrutava
gli spazi angusti che la
circondavano con avida curiosità – quella
curiosità che così spesso le veniva
rimproverata – e acuiva la vista per riuscire a vedere anche
negli angoli più
nascosti, dietro a statue decrepite e dentro a nicchie polverose. Anche
se non
stava cercando niente di particolare, non le sarebbe dispiaciuto
trovare
qualche oggetto vagamente interessante da potersi tenere.
Un
alito gelido sul collo la fece
rabbrividire e pentire di non essersi coperta meglio. Prese appunto
mentale di
portarsi almeno uno scialle, la prossima volta.
Una
goccia d’acqua le cadde sul
naso mentre cercava di scavalcare indenne una pozzanghera che si era
formata al
centro del passaggio. Sapeva che i suoi capelli dovevano essere un
disastro e
sentiva le ciocche sfuggite alla treccia che si increspavano per la
troppa
umidità. Una vocina fastidiosa nella sua testa
borbottò qualcosa a proposito di
un appuntamento importante e dell’assoluta
necessità di essere impeccabile, ma
lei non la sentì, perché i suoi pensieri
galoppavano altrove, liberamente
sguinzagliati in fantasie che fluttuavano verso la storia antica di
quei
sotterranei e l’incredibile quantità di segreti
che avevano raccolto nei
secoli.
Qualcosa
di soffice le sfiorò le
caviglie. Guardò in giù e nel cono di luce
intravide gli occhioni neri di Mello
che la fissavano pieni di aspettativa. Vide che tra le zampette teneva
un coccio
di vetro.
–
Mettilo giù, stupido, finirai
per tagliarti! –
Dopo
un istante di silenzio, il
rumore del vetro che cadeva a terra echeggiò per il
sotterraneo, seguito dalla
scia della fuga ovattata della bestiola, probabilmente alla ricerca di
altri
tesori.
Regan
si domandò come mai quel
piccolo furfante fosse disposto a darle retta solo quando sgraffignava
di
oggetti senza alcun valore.
Uno
spiffero fece vibrare la
fiamma della candela fin quasi a spegnerla. La protesse con la mano,
temendo di
non riuscire a riaccenderla con il solo ausilio dei propri poteri, in
caso si
fosse spenta. Aveva ancora qualche difficoltà, da quel punto
di vista.
Si
volse verso la propria destra.
Le era sembrato che l’alito di aria avesse spirato proprio da
lì, ma si era
sicuramente sbagliata. Non c’era un corridoio ad aprirsi, da
quella parte: il
muro di pietra era solido e compatto.
Aveva
già allungato la mano a
cercare un’eventuale punto di fuga, quando
qualcos’altro attirò la sua
attenzione. Era a una decina di passi da lei, vicino a una delle statue
dalle
sembianze di cavalieri che adornavano il corridoio: un’ombra,
o qualcosa che di
un’ombra aveva la consistenza, più nera del nero
stesso che la circondava, come
se nemmeno i bagliori della candela potessero farla impallidire.
Tenebra pura e intoccabile.
Regan non si mosse. Le sue
labbra si schiusero
di un soffio mentre la testa si inclinava leggermente di lato. La
fiamma della
candela fremette angosciosamente.
Le
spalle di Regan vennero
lambite da un intenso sentore di gelo che penetrò fino alle
ossa.
La
cosa era immobile davanti a lei e
appariva più densa dell’aria in
cui indugiava, impossibile guardarvi attraverso, perché
sembrava assorbire e
neutralizzare anche il più piccolo raggio di luce che
cercava di raggiungerla.
I
battiti del cuore di Regan
acquisirono una velocità folle senza che lei se ne
accorgesse. Le sue gambe si
erano fatte pesanti come piombo e non sarebbe riuscita a muoverle anche
se
l’idea l’avesse sfiorata. Ma non era
così.
Avrebbe
potuto benissimo fare
dietrofront e tornare da dov’era venuta, chiudersi dietro
tutte le porte e
sbucare nella profumata sicurezza della cucina, eppure se ne restava
lì, come
in trance, a dirsi che quello sarebbe stato un buon momento per
mostrare un po’
di sano buonsenso e mettersi a tremare di paura. Benché se
lo stesse ripetendo
ormai da un po’, tuttavia, non funzionava.
D’altra
parte era solo un’ombra…
che male avrebbe potuto farle?
Acuì
ogni singolo senso nel
tentativo di percepire di più. Chiuse gli occhi e si mise in
ascolto, non solo
con le orecchie, ma con tutta sé stessa.
Sentì
il freddo strisciare lungo
il pavimento e salirle sulle caviglie nude. Un’immagine, come
un lampo, le
balenò dietro alle palpebre chiuse, schizzi di un rosso
familiare, che si
frantumarono nel vuoto assieme al risuonare distante di un urlo
straziante.
–
Regan! –
Il
portacandela precipitò a terra
con un assordante schianto metallico. Il tronco di cera si
spezzò, la fiamma
morì. L’odore pungente del fumo entrò
nella gola di Regan, causandole una
sgradevole sensazione di asfissia.
Si
voltò, una mano premuta sul
cuore e l’altra aggrappata alla parete, e vide che in fondo
al corridoio, da
dove era venuta lei, c’era qualcosa di luminoso che si stava
muovendo nella sua
direzione.
–
Regan? Va tutto bene? –
La
voce premurosa di zia Arista
la raggiunse e avvolse come una carezza. Riaprì gli occhi di
scatto e si guardò
indietro: l’ombra, o qualunque cosa fosse, non
c’era più, tanto che si chiese
se non se la fosse solo immaginata.
La
zia la raggiunse, una lampada
a olio in mano, e la esaminò accuratamente. A giudicare dal
sospiro
sconfortato, non le erano sfuggite né le ragnatele
né lo stato disastroso dei
capelli e chissà che altro.
–
C’era qualcosa… un’ombra…
–
farfugliò, ma la zia non badò a lei. E poi che
cosa le avrebbe potuto dire? Era
ovvio che dove c’era luce ci fossero anche delle ombre.
–
Oh, tesoro… era proprio
necessario che ti mettessi a fare l’esploratrice proprio
stamattina? Melyor è
impazzita a cercarti, tuo zio ha i nervi a fior di pelle…
–
Regan
era felice di vederla, ma
non si spiegava come fosse arrivata fin lì.
–
Come hai fatto a…? –
–
Pensi di poter spostare un solo
granello di farina nella dispensa di Nella senza che lei se ne accorga?
Come
hai fatto tu, piuttosto, a trovare
quel passaggio? –
Arrossendo
fino alla punta dei
capelli, Regan sollevò la mappa che aveva in mano a
mo’ di spiegazione. L’aveva
ridotta a un cartoccio informe senza accorgersene.
Dando
prova di grande saggezza,
la zia evitò di fare commenti; prese Regan per mano e se la
portò via. Non
sembrava tanto arrabbiata, e questo contribuì solo a far
sentire Regan ancora
più in colpa.
Si
sentì miserabile ed egoista
per tutto il tragitto di ritorno. Arista era sempre fin troppo gentile
con lei,
ma una tirata d’orecchie da parte di Donna Melyor niente e
nessuno gliela
avrebbe risparmiata, senza contare il terrore di quel che avrebbe
potuto dire
lo zio Tristan.
Il
fatto era che davvero non si
era resa conto che fosse così tardi. Si accorse
dell’ora solo quando, passando
dalla dispensa alla cucina, vide il sole già alto e
splendente nel cielo.
–
La Nona passata! – ululò Donna
Meloyr quando la vide arrivare nell’anticamera della sala da
pranzo. A un
secondo sguardo più attento, poi, inorridì del
tutto: – Che cosa ti è successo?
Sei… sembri… – Non trovò
parole abbastanza raccapriccianti per definire la
tragicità della situazione, e fu un bene, perché
più tardi, mentre spediva
Regan dritta filata a immergersi in una vasca da bagno piena di acqua
gelata (–
Sarebbe stata calda, se tu la avessi usata quando dovevi! –
), ebbe modo di
dare sfogo a tutte le frustrazioni represse durante la difficile
mattinata.
–
Incosciente, ecco cosa sei! E
se ti fosse successo qualcosa e la cuoca non si fosse accorta del
disordine in
dispensa? E se fossi morta laggiù, come un povero ratto
smarrito? O, peggio
ancora, se tu avessi tardato ancora a tornare e milord e milady fossero
stati
costretti a presentarti in quelle condizioni al cospetto di quella
vecchia
bisbetica? –
Regan
soprassedette sul
discutibile concetto di priorità della donna.
Meloyr
le lavò i capelli e,
finito il bagno, la trascinò davanti al camino
affinché asciugassero più in
fretta mentre glieli pettinava con un’energia tale che lei
temette che glieli
avrebbe strappati tutti.
Venne
imbrattata di cipria – a
che scopo, poi, dato che si considerava già sufficientemente
smorta, non lo
avrebbe mai capito – e profumata per bene, ingioiellata in
modo sobrio e
consono alla sua giovane età. Pensò che i cavalli
dovevano sentirsi esattamente
come si sentiva lei adesso quando venivano strigliati e agghindati per
una parata
ufficiale: immensamente impotenti e altrettanto ridicoli.
Più
di un’ora dopo, infagottata
in un abito oscenamente vezzoso che le faceva venire il prurito solo a
vederlo,
con lo stomaco vuoto e di pessimo umore, fu piazzata su una carrozza
assieme
allo zio e alla zia alla volta della città.
–
Mi raccomando, cuginetta, sii
docile e mansueta come un agnellino e andrà tutto bene!
– le urlò uno dei
gemelli dall’alto dell’ingresso del palazzo.
–
In poche parole, andrà tutto a
rotoli – concluse l’altro gemello, sghignazzando
mentre la sua voce echeggiava
all’interno del cortile.
Regan
sospirò, depressa, e si
accasciò contro il sedile a braccia conserte.
Tenne
gli occhi chiusi, sia per
non vedere il vestito, sia perché continuava a pensare a
quella specie di ombra
nera e il paesaggio la distraeva. Avrebbe potuto chiedere a Lucius se
sapesse
qualche cosa in merito, se solo lui si fosse degnato di farsi vivo o di
dare
almeno qualche notizia. Era troppo orgogliosa per ammetterlo con
qualcuno, sé
stessa per prima, ma odiava essere diventata solo un particolare
trascurabile
delle vita di Lucius, dopo essere stata al centro delle sue attenzioni
tanto a
lungo.
A
metà strada, però, fu costretta
a tornare alla realtà, perché Arista le prese una
mano e se la strinse tra le
sue:
–
Regan – la zia la guardò
intensamente, con una velata supplica nel tono e nello sguardo.
– Questo
incontro che stiamo per fare è molto importante. So che hai
già partecipato a
qualche festa e sai già come funzionano, ma adesso hai un
nome e uno stato
sociale ed è quindi necessario che si facciano le cose come
si deve. Madame
Ilyalisse ha il compito di esaminare le giovani donne e stabilire se
sono
pronte a fare il loro ingresso in società. Noi non
intendiamo privarti della
libertà di goderti gli eventi mondani, ma tu questa
libertà te la dovrai
guadagnare. – Scambiò con il marito
un’occhiata ansiosa. – Qualunque cosa
dirà
Madame Ilyalisse, tu non replicare. Si rivolgerà a me a tuo
zio e saremo noi a
rispondere. Tu devi fingere di non sentire e di non saper parlare,
qualunque
cosa lei dica. Promettimelo. –
Regan
trovava l’intera questione
del tutto insensata. Se era a lei a dover essere presa in esame, allora
avrebbe
avuto senso che fosse lei a parlare con quella donna.
–
Io… –
–
Regan! –
C’erano
ancora un’infinità di
cose che lei non sapeva, dopotutto. Imparare le buone maniere era stato
un
requisito fondamentale per la sua nuova posizione, ma non era
sufficiente.
Forse, ripensandoci, lasciar parlare gli zii era davvero la cosa
migliore. Non era
più stata a una festa o a un evento mondano da quando aveva
scoperto chi era e
non aveva nessuna voglia di continuare a restarsene chiusa in casa
mentre tutti
gli altri andavano a divertirsi. Non si poteva dire che amasse le
cerimonie, ma
era sempre meglio che annoiarsi.
–
D’accordo, promesso. –
Madame
Ilyalisse riceveva gli
ospiti in un salottino della propria sontuosa abitazione e un
segretario
dall’aria poco amichevole si occupava di gestire gli ingressi
nella stanza
accanto, dove avveniva il colloquio effettivo.
Tutto
era sui toni caldi del
rosso e dell’oro, grasse poltrone erano sistemate lungo le
pareti e un grande
tavolino basso al centro esponeva un intero servizio da the con tanto
di
vassoio colmo di bignè dall’aspetto molto
invitante.
Lo
stomaco di Regan brontolò.
Stavano
per accomodarsi, quando la
porta che dava sull’altra stanza si aprì e ne
uscì una ragazzina, accompagnata
dal padre, un uomo alto e robusto che scambiò con lo zio
Tristan un saluto
cerimonioso e offrì invece ad Arista un profondo inchino. La
ragazzina, che
doveva essere sua figlia, a vedere quanto si somigliavano, fece lo
stesso.
Era
indubbiamente più piccola di
Regan ed le indirizzò un’occhiata in tralice che
scese immediatamente alla
spilla che le fermava il mantello su una spalla. La sconosciuta dovette
riconoscere il blasone degli Edelberg – una spada incastonata
verticalmente nel
fianco di un monte – perché la sua bocca assunse
una piega rigida e ostile e,
nasino all’insù, tirò dritto a
braccetto con il padre.
Regan
la guardò andare via con
una punta di invidia: si muoveva con un’eleganza
incredibilmente naturale ed
era molto graziosa, con forme molto sviluppate, per la sua
età.
–
Prego, signori, entrate – disse
il segretario, distendendo teatralmente un braccio verso la porta.
La
prima cosa che Regan vide,
entrando, furono occhi metallici che la fissavano da dietro un paio di
lenti
rettangolari. Non avevano alcuna espressione e forse era questo a
renderli così
inquietanti. Appartenevano a una donna dai capelli ingrigiti ma ancora
scuri,
raccolti in una crocchia in cima alla testa. Le labbra rugose erano
contratte
su una prominente dentatura cavallina che si accompagnava perfettamente
al viso
lungo e scarno e alle dita nodose, che teneva incrociate davanti a
sé al di
sopra della bellissima scrivania di mogano.
Lo
zio e la zia fecero una breve
reverenza, cosa che Regan trovò strana, poiché,
in quanto nobili, erano a lei
socialmente superiori.
–
Madame Ilyalisse. Questa è
nostra nipote Regan. –
La
zia le diede una piccola
spinta discreta e lei mosse un passo in avanti. Si esibì a
sua volta
nell’inchino più studiato e impeccabile che le
fosse mai riuscito e quando si
risollevò la donna parve non avere nulla da rimproverarle.
Non ancora.
La
fissò a lungo, invece, e Regan
sapeva esattamente perché: occhi troppo verdi, capelli di un
rosso impossibile.
Colori pericolosi, che richiamavano alla memoria le antiche leggende su
Lucifero, con cui lei aveva molto più in comune che un paio
di banali tratti
fisici, ma questo era un suo piccolo segreto.
Poi,
senza dire una parola,
Madame Ilyalisse fece garbatamente cenno loro di occupare le tre sedie
intarsiate che le stavano di fronte. Quella di mezzo, presumibilmente
destinata
a Regan, non possedeva imbottitura.
C’erano
targhe e quadri con
blasoni appesi alle pareti, alcuni dei quali talmente lisi e scoloriti
da dover
essere veri e propri cimeli storici. Sulla parete in fondo, alle spalle
della
sensale, erano affissi dei ritratti di coppie che a Regan sembravano
più o meno
tutte uguali: ricchi abiti ed espressioni fiere. Una di queste
catturò la sua
attenzione: l’uomo era avvenente, ma era la donna a
interessarla – bionda e
regale – perché i suoi occhi verde ghiaccio erano
molto familiari.
–
Lord Edelberg, Lady Edelberg, è
un piacere rivedervi. Lady Regan, benvenuta. –
Regan
trattenne una sbuffata.
Madame Ilyalisse non l’aveva nemmeno considerata nel
pronunciare il suo nome e,
osservandola mentre si sistemava gli occhiali sul naso facendo
oscillare la
loro catenella dorata, iniziò a intuire perché la
zia avesse tanto insistito a
farle promettere di stare zitta in qualsiasi caso.
–
Figlia di un Edelberg e di una
Dresden… non si può certo dire che non sia unica
nel suo genere. – Le labbra
della donna si corrugarono sottintendendo un certo disappunto.
– Vostro
fratello fu diseredato, milord, quindi la ragazza formalmente non ha
patrimonio. Avete già preso accordi con Lord e Lady Dresden
circa la dote della
ragazza? –
–
Non ancora, ma sarei più che
lieto di provvedere personalmente alla questione. –
–
Dato che sostenete che vostro
fratello e Lady Aranel erano sposati, la vostra famiglia e la famiglia
Dresden
sono legate e non spetta esclusivamente a voi stabilire una dote per la
ragazza. –
–
Non c’è alcuna fretta, da
questo punto di vista, Madame. Sistemeremo tutto a suo tempo, con
calma, quando
Regan sarà pronta ad affrontare un’altra ondata di
novità. –
Madame
Ilyalisse corrugò le
labbra ma non questionò oltre.
Si
alzò in piedi e fece alzare
anche Regan, iniziando a esaminarla come se fosse stata una partita di
seta in
cui riscontare eventuali difetti di fabbricazione.
–
È acerba, per la sua età. –
Andò
aventi con una imbarazzante
serie di domande fin troppo intime e personali che, secondo il modesto
parere di
Regan, non si sarebbero mai dovute discutere in presenza di un uomo,
soprattutto uno zio. Era sempre Arista, infatti, a rispondere.
Poi,
senza preavviso, la donna le
afferrò la gonna e gliela sollevò sopra le
ginocchia, scoprendo la biancheria
intima.
–
Gambe secche, fianchi troppo
stretti, petto quasi completamente piatto. L’età
è adatta, ma… santo cielo, non
spererete che qualcuno possa vedere in lei una potenziale nuora, mi
auguro. –
–
Il motivo della nostra premura
di presentarla in società è evitare che si
spargano dicerie infondate e
sconvenienti. Regan è ancora una bambina, non
c’è alcuna fretta di accasarla. –
–
Come anni fa non c’era alcuna
fretta di accasare vostra figlia Anneli, del resto. –
–
Non siamo qui per discutere di
Anneli – puntualizzò Tristan asciutto, prendendo
parola per la prima volta.
La
donna, allora, afferrò in malo
modo le mani di Regan, le ricacciò indietro le maniche che
le sfioravano il
dorso e prese ad studiarle da vicino, polpastrello per polpastrello.
–
Molto bene, se non altro ha
delle mani da signora. Niente calli, graffi e unghie rovinate.
–
La
descrizione era così precisa e
mirata che Regan non poté non cogliere
l’allusione: Anneli, che abitualmente
maneggiava armi e briglie da equitazione quanto e forse più
dei suoi fratelli,
aveva delle mani così.
Le mani di una lavoratrice, non certo di una nobile.
Quelle
di Regan, invece, erano
morbide e nivee, prive di qualsiasi tipo di segno, e in quel momento,
mentre le
fissava, capì di non volere delle mani così,
bianche e vuote. Voleva mani che
parlassero di una vita vissuta.
Alla
fine, dopo un tempo che a lei
parve interminabile, la tortura giunse al termine e Madame Ilyalisse,
aggiustandosi gli orribili occhialetti sul naso, pronunciò
la sua sentenza:
–
Potete presentare vostra nipote
la sera dell’Equinozio di Primavera, signori. Provvedete
perlomeno a darle una
parvenza di femminilità. –
Nell’indecisione
tra arrossire e
infuriarsi, Regan optò per la seconda, sebbene sentisse
comunque un certo
calore iniziare a concentrarsi attorno al suo viso. Enumerò
mentalmente una
lunga serie di epiteti a mascella contratta, concentrandosi con tutte
le sue
forze sulla promessa che aveva fatto alla zia, ma si accorse che Madame
Ilyalisse la stava fissando, gli occhi severamente assottigliati, le
narici
dilatate.
–
Ragazza, modera i tuoi
pensieri, se non sei in grado di tenerli occultati. –
Regan
si strinse la testa nelle
spalle, sentendo le nocche dello zio scricchiolare attorno al suo
bastone da
passeggio.
–
Perdonatela, Madame. È orfana
da sempre ed è cresciuta lontana da noi, non ha potuto
essere educata
convenientemente – intervenne la zia con una prontezza
stupefacente.
La
sensale sollevò il naso in un
modo che a Regan fece solo venire voglia di romperglielo.
Madame
Ilyalisse si tolse gli occhiali,
richiuse le asticelle con una calma più che ostentata e le
li appoggiò al
petto.
–
Questa scusa è accettabile ora,
milady – dichiarò infine, a voce molto bassa.
– Ma fate in modo di non averne
più bisogno prima che abbia perso credibilità.
Lasciate che vi dia un
consiglio, signori: mantenete una presa salda su questa ragazza.
Un’indole
indomita attira solo guai e disgrazie e accompagnata a questi colori
funesti –
e fece un cenno vero Regan e i suoi capelli scarlatti. – Non
può certo essere
sottovalutata. Disciplinatela, finché... –
–
Disciplinatela, finché è ancora
malleabile! –
–
Cugina, dimmi che non è vero
che mi sono perso una scena madre del genere, ti supplico! –
–
Hey, Mariek, dovremmo comprare
un guinzaglio a questa piccola Edelberg selvaggia, non credi?
–
–
Forse anche una museruola. –
Regan
si strinse la sciarpa
intorno a collo, paonazza.
Passeggiava
assieme ai cugini per
le vie del centro di Kauneus e si faceva bene attenzione a tenersi
qualche
passo avanti a loro, perché Ember e Mariek ridevano di lei
ormai da dici minuti
filati e non volevano saperne di smetterla di farsi beffe di lei.
Anneli, a
braccetto con Aiden, le camminava accanto e di tanto in tanto la
occhieggiava
con qualcosa di simile alla compassione nello sguardo.
–
Mi chiedo che cosa ci sia nel
sangue delle donne della nostra famiglia – si stava
domandando Mariek,
asciugandogli gli occhi. – Voglio dire, zia Malissa era una
tosta: si ribellò
al marito violento… –
–
Lo uccise – sottilizzò Aiden. –
E fu condannata a morte. –
Condanna che non fu mai eseguita,
pensò Regan, a cui sarebbe
piaciuto poter condividere con gli altri quell’informazione,
ma non poteva. Era
un Segreto e lei, anche se avesse voluto, non avrebbe mai potuto
rivelarlo.
Mariek
ignorò il commento:
–
Zia Persefone è stata la prima
donna della famiglia ad andare alla Domus Aurea e, non paga,
anziché limitarsi
a fare la mogliettina e mammina perfetta, è diventata
Coordinatore e se ne va
in giro a prendere a calci i criminali. Anneli è sulla buona
strada per
seguirla… –
–
Anche se, al posto dei
criminali, preferisce prendere a calci i suoi spasimanti – si
intromise Ember.
–
E adesso – proseguì l’altro
imperterrito. – Si scopre che la nostra piccola, dolce,
ingenua Regan ha
bisogno di essere domata. Mi
domando
quali sorprese ci riserverà Luce! –
Rovesciò indietro la testa e si abbandonò
all’ennesima risata.
–
Ricordatemi di non fare figlie
femmine, fratelli! –
–
Ignorali – disse Anneli. – Sono
solo una coppia di… –
Regan
non seppe mai quale
sentitissimo complimento Anneli intendesse rivolgere ai gemelli,
perché uno
strillo abbastanza acuto da ferirle l’orecchio si diffuse per
la strada. Non fu
difficile riconoscere la tipologia di strillo, i livelli di isteria
erano
inconfondibili: tipica reazione da zitella che aveva avvistato un
succoso
scapolo a piede libero. O, per meglio dire, tre
succosi scapoli.
–
Mariek, Ember, Aiden, che magnifica
sorpresa! –
Regan
identificò immediatamente
la ragazza che attraversava la strada di tutta fretta, facendo
sobbalzare la
generosa scollatura: Adora Shephard, ricca figlia di mercanti alla
caccia di un
titolo nobiliare. Non che i titoli nobiliari avessero avuto alcun
valore
ufficiale negli ultimi secoli, ma possederne uno, seppur per pure
questioni di
immagine, era un gran prestigio.
Anneli,
che non era nemmeno stata
inclusa nei saluti, accolse la ragazza nel gelo più
completo, ma quest’ultima
era talmente presa dai tre ragazzi che nemmeno ci fece caso.
Regan
lasciò i suoi cugini a
vedersela con l’esuberante fanciulla e andò poco
più avanti a curiosare nelle
vetrine delle botteghe chiuse.
La
sua preferita era quella del
fornaio: esponeva una quantità di pagnotte e dolci che
riuscivano a rallegrare
l’animo solo a guardarli. Sapevano di caldo e di casa. A
Regan ricordavano i
giorni trascorsi a casa di Lucius, a sfornare torte assieme a Eleonora
per poi
divorarle assieme a suo figlio Calien.
Eleonora
era un’umana e il padre
di Calien un demone. Quando lui era morto, Lucius gli aveva promesso di
avere
cura di Eleonora e del suo bambino e così li aveva portati
via dal mondo degli
umani, in cui Calien, che cresceva due volte più lentamente
dei bambini umani,
sarebbe stato guardato come un mostro. Madre e figlio ora vivevano
insieme
nella casa adiacente a quella di Lucius e spesso Regan aveva sofferto
la loro
mancanza.
La
bottega successiva era quella
dello speziale e anche in quella c’era da perderci ore
intere. Erbe, spezie e
ingredienti per i filtri erano solo la parte più
irrilevante; quello che
piaceva a Regan era l’enorme vetrina che c’era
sulla sinistra, sempre lustra e
impeccabile, piena di boccette e fiale di profumi i cui prezzi non
erano mai
esposti. Non aveva mai sentito l’odore di uno solo di quei
profumi, ma adorava
i piccoli capolavori di vetro in cui erano custoditi, colorati e delle
forme
più inusuali, decorati con finissimi ghirigori
d’oro e d’argento, lasciati in
bella vista a scintillare sotto i raggi del sole che penetrava dalle
ampie
vetrine. La bottega vendeva anche cosmetici, candele profumate, carta
finissima, anch’essa profumata, e molte altre cose, tra cui i
preziosi colori
di cui si servivano i pittori: erano in polvere, conservati in
sacchetti di
iuta su un tavolo grezzo, in cui ancora si vedevano le forme e i nodi
del legno
da cui era stato ricavato, ed erano tinte così belle e
sgargianti, così vive,
che Regan aveva più volte avuto la
tentazione di affondarci le dita per sentirli.
Stava
cercando la forza di
staccarsi da lì e tornare dagli altri quando scorse nel
vetro un fugace
riflesso nero alle proprie spalle.
Si
voltò, ma non c’era nessuno. Sull’altro
lato della strada due bambini si rincorrevano rumorosamente,
litigandosi un
pezzo di focaccia.
Una
carrozza le passò davanti.
Cercò di riconoscere lo stemma che portava impresso,
perché lo zio ci teneva
che lei imparasse a conoscere le famiglie più importanti: un
corvo e tre stelle
neri su fondo giallo.
–
Cassel – sussurrò una voce
bassissima al suo orecchio, prima che potesse anche solo rifletterci su.
La
reazione fu strana: l’istinto
comandava allungare una gomitata all’indietro per il dispetto
mentre il
cervello elaborava rapidamente il timbro e la cadenza maliziosa della
voce,
facendole esplodere un fiotto di calore nel cuore. Il risultato fu che
si
accartocciò maldestramente su sé stessa nel
voltarsi di scatto e perse l’equilibrio,
finendo per atterrare in un paio di braccia robuste. |
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Capitolo 5 *** 4. Valo e Varjo ***
4. VALO E VARJO
Where am I meant to be?
I feel I'm lost in a dream
Yearning again only to be myself
–
Unleashed, Epica –
– Lucius! –
Regan
sprofondò nel suo abbraccio
tra le sue risate. Ritrovò quel suo profumo di polvere e
pioggia che di lui
amava tanto.
Lucius
la strinse e le accarezzò
i capelli con tutto l’affetto che le aveva fatto mancare
durante la sua
imperdonabile assenza.
–
La mia cerbiattina... –
sussurrò la sua voce, vicina all’orecchio,
attraverso un sorriso. La allontanò
da sé per guardarla meglio. – Come stai? Hai un
aspetto… –
Lei,
che quella mattina era meno
propensa del solito accettare complimenti, gli diede un colpetto di
avvertimento sul braccio.
–
Oh, sta’ zitto. Come stai tu,
piuttosto! Sono settimane che non ti
fai vivo! –
Il
rimprovero, troppo blandito
dalla gioia di rivederlo, finì per passare inosservato.
–
Ho avuto da fare qua e là –
rispose Lucius, in tono vago e distratto. – Sai, le solite
cose. –
“Come cercare di restare vivo.”
Regan
aggrottò la fronte
perplessa: Lucius aveva chiuso la bocca, ma lei aveva sentito lo stesso.
Lo
avrebbe tempestato di domande,
se gli altri non li avessero raggiunti, fortunatamente senza Adora
Shephard
alle calcagna.
Appena
lo vide, Mariek gli
allungò una sonora pacca su una spalla.
–
Guardate un po’ chi non ha
ancora tirato le cuoia! –
A
Regan non sfuggì la fugace
smorfia che passò sul viso di Lucius, ma fece finta di
niente.
–
Hey, ragazzaccio! – interloquì
Ember con una gomitata. – Si può sapere che fine
avevi fatto? Le ragazze di
Kaunes potranno finalmente smettere il lutto. Avevano iniziato a temere
che tu
ti fossi fatto ammazzare. O, peggio, sposare. –
–
E nel secondo caso tua moglie
non avrebbe avuto vita lunga. – Anneli rivolse a Lucius un
sorriso che non le
raggiungeva gli occhi. Lui, invece, ricambiò con calore.
–
In ogni caso, entrambe le
eventualità mi sembrano alquanto improbabili. –
Combattevano
la stessa guerra
senza speranza, Lucius e Anneli: lei per avere lui, lui per avere
un’altra.
Si
spostarono a chiacchierare
nella prima osteria che incontrarono e con un boccale di sidro e
qualche fetta
di pane imburrato davanti le lingue si sciolsero facilmente.
Lucius
snocciolò racconti
insolitamente scoloriti, dedicandosi più che altro a bere,
ma la sala era
talmente chiassosa che quasi non si notava la sua mancanza di
entusiasmo. Il
che era strano, perché la sua arte oratoria in genere sapeva
stregare folle
intere.
Regan
a stento badava alle
parole. Ascoltava solo il suono, la cadenza della sua voce,
quell’esatto timbro
che, in un sussurro, la prima volta le aveva chiesto di resistere. Di
non
morire.
Non
erano passati che pochi mesi,
da allora, e già sembravano lunghi anni. Troppe cose erano
cambiate, e troppo
in fretta, e Regan stava ancora cercando di aggiustare le crepe nella
sua
sicurezza interiore, anche se, mentre Lucius parlava, aveva la
sensazione che
alcune non sarebbe mai riuscita a sanarle. Si impose di non pensarci,
poiché di
pensieri per la testa ne aveva già più che a
sufficienza, e si sforzò quindi di
partecipare ai discorsi.
Il
tempo trascorse così bene che
quando Tristan e Arista entrarono a cercarli si stupirono tutti quanti
di
quanto si fosse fatto tardi.
–
Scusate, colpa mia – disse
Lucius, alzandosi per andare a salutare entrambi, salutato a sua volta
con il
medesimo trasporto. Era sempre stato trattato come un figlio dagli
Edelberg.
–
Dov’è Prince? –
–
Ha detto che aveva un impegno a
Torresco – rispose Tristan. – Il che significa che
abbiamo un posto vacante per
il pranzo, Lucius, se vorrai unirti a noi. –
Lui
rise.
–
Amico mio, il mio appetito è
tanto e tale che non fingerò nemmeno di fare complimenti.
–
Regan
fu contenta di sapere che
sarebbe rimasto ancora per un po’. C’erano tante
cose che dovevano dirsi e capì
che lui pensava la stessa cosa quando, alzandosi, le strizzò
Mentre
uscivano – chi per salire
in carrozza, chi per raggiungere il proprio cavallo – Anneli
si lamentò della
maleducazione che aveva mostrato Prince a non avvertire prima che non
ci
sarebbe stato per il pranzo.
–
Almeno avrebbe potuto dirmelo
che sarebbe andato a Torresco, avevo dei libri da restituire a
Lisandra. –
Donna
Melyor fu così contenta di
rivedere Lucius, e tutto intero, che per poco non lo soffocò
in un abbraccio di
grande trasporto e a tavola lo costrinse a servirsi di una doppia
porzione per
ciascuna delle sei portate. Non che lui apparisse in alcun modo
deperito, ma il
buon cibo sembrava essere la risposta di Melyor a qualunque cosa, anche
quando
non c’era un bel niente a cui rispondere.
Quando
anche le ultime briciole
del dolce furono spazzolate e Tristan gli ebbe offerto un bicchiere di
liquore
digestivo, Lucius chiese il permesso di poter fare una passeggiata nei
giardini
assieme a Regan.
Anneli,
che sembrava aver perso
la voglia di lasciarsi offendere dalle preferenze manifestate da
Lucius, li
guardò uscire senza battere ciglio.
Camminarono
per un po’ in
silenzio, così Regan ebbe modo di osservarlo. Le
sembrò di vederlo stanco, un
po’ sciupato. Ogni volta che il vento gli soffiava sul viso
chiudeva gli occhi
e inspirava profondamente, come se da tempo gli mancasse
l’aria.
–
Non sai quanto sono felice di
essere di nuovo a Norden, cerbiattina. –
Non
c’era bisogno di
chiedergliene il motivo.
–
Casa è dove è il cuore, giusto?
– mormorò Regan, ricordando quanto lui stesso le
aveva detto tempo prima.
Lucius
le piaceva, forse in modo
più spiccato del dovuto, e per un certo periodo si era quasi
illusa di poter
avere qualche speranza. Poi aveva conosciuto la vera ragione per la
quale lui
considerava Norden – e Kauneus, nella fattispecie –
la propria casa, e non le era
rimasto altro che la
rassegnazione.
–
Mi dispiace di essere stato
così assente ultimamente – riprese lui, ignorando
il suo commento. – Ho
lavorato gomito a gomito con il Coordinatore Blackthorne per un
po’ ed è stato
un periodo tutt’altro che gradevole. –
–
Gomito a gomito tu e Blackthorne?
– fece Regan, scettica. Lo sapevano anche i sassi che quei
due non si potevano
sopportare l’un l’altro. – E siete
entrambi ancora interi? –
–
Interi non è esattamente la
parola giusta, ma siamo sopravvissuti. Era il solo modo che avessi per
indagare
senza dare nell’occhio su una questione importante.
–
–
Parli del furto nella miniera
di Cristallo Eterno? –
Lucius
aprì la bocca per la
sorpresa.
–
E tu che ne sai di quel furto?
–
–
Non molto – replicò lei,
soddisfatta di aver attirato la sua attenzione. – Me ne ha
accennato Shin.
Credevo fosse stato commissionato da qualche banda di Ladri di Anime.
–
Lucius
la fissò, evidentemente
colpito, poi le diede un pizzicotto sul naso.
–
Molto bene, cerbiattina, dopotutto
non sei svampita come sembri a volte. Ma non credo ci siano dei Ladri
di Anime
dietro, e non lo crede nemmeno la Lega. I cristalli che usano loro sono
molto
piccoli e quelli che sono stati trafugati invece erano piuttosto grossi
di
dimensione. –
–
Li vogliono polverizzare e
usarli per forgiare delle armi di Vetro Eterno? –
ipotizzò lei.
–
Ci vogliono artigiani molto
esperti per plasmare il Vetro Eterno, maestri di una tecnica che solo
pochi
eletti posso apprendere. Non puoi andare al mercato e chiedere al
Mastro
Vetraio. – Parve ragionarci sopra ancora un po’,
fino a che, sorridendo, non si
riscosse. – Mi stai facendo parlare di cose di cui non dovrei
discutere, con
te. –
La
leggera nota di rimprovero non
disturbò affatto Regan. Era abituata ad essere stuzzicata e
presa in giro da
lui, per cui glissò elegantemente e prese Lucius
sottobraccio.
Stavano
passando vicino alle
serre, all’interno delle quali l’aria rarefatta
sfocava i contorni di fiori dai
colori fulgidi e grandi foglie smeraldine. C’erano un paio di
cesoie appese
alla maniglia interna della porta di vetro e, poco lontano, qualche
cespuglio
di rododendri rosa e viola era stato depredato.
–
Insomma, mi vuoi dire la vera
ragione della tua miracolosa ricomparsa? –
La
primavera conservava qualche
sfumatura ghiacciata nell’odore del suo vento placido, che
però già parlava di
fioriture rigogliose a prati tornati al pieno del loro splendore dopo
aver
dismesso i severi manti di neve invernali. Il cielo era dello stesso
azzurro
degli occhi pensosi di Lucius.
–
Diciamo che presto ti farò
evadere un po’ dalla noia domestica. –
Lei
lo guardò con aria
interrogativa.
–
Te ne parlerò a tempo debito.
Per adesso preoccupati del tuo imminente incontro con la
società e tutti suoi smorfiosi
membri ficcanaso. –
Il
solo pensiero faceva venire a
Regan la pelle d’oca, ma non si scompose.
–
Sono già stata ad altre feste,
ricordi? –
–
Ma prima eri solo una ragazzina
qualsiasi. Ora invece sei Lady Regan Edelberg, figlia di due casate
storicamente rivali, senza contare il colore insolito dei tuoi capelli.
Fidati
di me: sarai letteralmente assediata. –
Lei
sbuffò.
–
Che notizia magnifica. –
–
E non dimenticare che
conoscerai i tuoi nonni, la sera del ballo. –
–
Cosa? – Regan sgranò gli occhi
allarmata. – Così presto? Ma io…
–
Lucius
la zittì chiudendole la
bocca con un dito.
–
Rifletti, è la cosa migliore:
sarà molto più semplice incontrarli in mezzo a un
gran folla piuttosto che in
un intimo salotto privato. Potranno parlare con te liberamente e al
tempo
stesso tutti noi potremo tenerti d’occhio e,
all’occorrenza, venirti in aiuto.
–
–
Se voialtri voleste aiutarmi,
mi risparmiereste tutto questo. –
–
A te piace stare in compagnia.
–
–
Come faccio a godere della
compagnia di qualcuno se devo fingere di essere una gentildonna mentre
sono
bardata come un cavallo da parata? –
Lucius
scoppiò a ridere. Due
leggere fossette apparvero ai lati della sua bocca e i suoi occhi si
assottigliarono in due mezzelune scintillanti.
–
Paragone efficace, lo devo
ammettere! –
–
Quelle sono cose per Anneli,
non per me – borbottò Regan senza starlo a
sentire. Stava per salire i gradini
di marmo del gazebo lì accanto, ma lui le afferrò
il mento e la fece voltare.
Il celeste dei suoi occhi era tutt’uno con il cielo.
–
Quanto poco devi conoscere tua
cugina per affermare qualcosa del genere? –
La
sua voce, un sussurro di
insolita serietà, le suscitò un formicolio dietro
la nuca. Regan lo maledisse
per l’incuranza che costantemente mostrava in gesti e parole
che rivolgeva a
lei, pieni di tenerezze troppo ambigue per non ferire là
dove la speranza
lasciava debolezza in uno scudo già fin troppo sottile.
–
Ho detto fingere –
ribatté, più fredda del necessario, strappandosi
a lui. –
E non puoi negare che lei sia molto più brava di me a farlo.
–
Ma
lui non perse la sua
leggerezza di spirito. Era difficile farlo arrabbiare, scalfire anche
solo di
un poco la sua invulnerabile corazza.
–
Devi imparare a moderare questa
tua causticità, o non troverai mai marito. –
–
Non ti ci mettere anche tu,
adesso! –
–
Comunque tu limitati a
comportarti bene e, se farai la brava, ti prometto che ti
ricompenserò. –
Regan
sedette su uno dei gradini
del gazebo e si lasciò studiare per qualche secondo fingendo
di non
accorgersene. Quando finalmente Lucius guardò altrove, fu
lei a studiare lui.
Il suo sguardo verso l’orizzonte era distante, proteso verso
pensieri a cui lei
non avrebbe mai avuto accesso.
–
Quindi al ballo ci sarai anche
tu? –
–
Naturalmente. –
Lei
sorrise sarcasticamente fra
sé.
Non ne dubitavo.
Si
alzò, mossa da un istinto
improvviso, si rassettò la gonna e scese i pochi gradini che
la separavano dal
sentiero.
–
Forse è meglio rientrare. Mi
devo preparare per il the da zia Persefone. –
Era
il rituale di ogni domenica
pomeriggio, e se all’inizio Regan aveva temuto che a lungo
andare se ne sarebbe
annoiata, adesso, con qualche piccolo incentivo, il sorprendente estro
della
zia le aveva fatto cambiare idea.
Lucius
rimase semplicemente
incredulo.
–
Mi stai dicendo che, tra me e
un the, sceglieresti un the? –
Regan,
che già si stava avviando
nella direzione opposta, si volse indietro con un’espressione
perfettamente
neutra:
–
La cosa ti disturba? –
Non
aspettò che Lucius riuscisse
a trovare una risposta.
Lezioni
di buone maniere: era
questo che la famiglia dava per scontato che lei facesse con Persefone,
benché
nessuna delle due lo aveva mai dichiarato esplicitamente. Lo avevano
semplicemente presunto nel notare i miglioramenti nella postura e nel
portamento della nipote.
Lady
Persefone Westert era Coordinatore
della Terra di Brenner e questo faceva di lei una delle
personalità più
influenti delle Sette Terre. Regan sognava di diventare come lei, un
giorno:
bella e indipendente, sicura di sé, con una vita appagante e
completa e un
marito devoto accanto. Peccato solo che ciascuna voce di quella lista,
per il
momento, le sembrasse del tutto utopistica.
–
Sei distratta. –
La
voce musicale di Persefone
risuonò nel corridoio fino a perdersi nella sua lunghezza.
Regan si abbandonò a
un lungo sospiro di frustrazione.
–
Mi dispiace. Non so cosa mi
prenda. –
Si
tamponò la fronte con una
manica della camiciola mentre con l’altro braccio riabbassava
la spada, quella
che un tempo era appartenuta ad Anneli.
Persefone,
la cui spada puntava
direttamente al cuore della nipote, rilassò la posa e
sorrise.
–
Penso che per oggi possa
bastare. –
Si
trovavano in un corridoio di
servizio, inutilizzato persino dalla servitù. Ampio e
lontano da occhi e
orecchie indiscreti, era stato eletto teatro ideale dei loro
allenamenti
segreti. Uno die tanti motivi per cui Regan adorava la giovane zia era
che, a
differenza di Tristan, lei capiva i suoi disagi e le sue paure e
cercava sempre
un modo per farla sentire meglio. In effetti, anche se non poteva dirsi
esattamente brava, Regan aveva imparato in fretta a cavarsela con le
armi,
scoprendosi anche particolarmente portata per l’uso dei
pugnali, che maneggiava
con molta più confidenza delle spade.
Persefone
si complimentava spesso
con lei per i suoi progressi e di tanto in tanto insisteva ad allenarla
anche
all’uso dei suoi poteri, cosa che puntualmente si rivelava un
perdita di tempo.
Per qualche motivo, a Regan riusciva quasi impossibile entrare in
contatto con
le proprie forze interiori e capire come manovrarle. Il che era una
vera
scocciatura, visto che a chiunque altro sembrava riuscire
così naturale, ma
secondo pareri autorevoli la causa di questa difficoltà
veniva dall’altro potere
che lei custodiva, così ben
sigillato in lei che aveva finito per bloccare anche tutto il resto.
Abbandonarono
il corridoio e si
trasferirono in una saletta attigua a cambiarsi, poi salirono agli
appartamenti
privati di Persefone per la merenda. Trovarono già tutto
apparecchiato e Yalin,
la cameriera personale della zia, le stava aspettando assieme ai
bambini.
Hemel
era una piccola bambola,
rosea e perfetta come la madre, e stava giocando sul soffice tappeto di
fronte
all’ampia finestra che dava sulla terrazza. Il suo fratellino
Shedar, ancora
troppo piccolo per prendere parte ai suoi giochi, succhiava un lembo di
coperta
nella sua culla. Era incredibile quanto fosse cresciuto. Somigliava in
tutto e
per tutto al padre, tranne che in un particolare: come tutti coloro che
avevano
sangue Edelberg nelle vene, aveva gli occhi neri come
l’ossidiana.
Tutti, tranne me, non poté
evitare di pensare Regan, non senza una
punta di dispiacere. Era una sciocchezza, ma in qualche modo la faceva
sentire
come se ci fosse una sottilissima linea che la separava dal resto della
famiglia, come se fosse rimasta esclusa da un dono che accomunava tutti
gli
altri.
Yalin
servì il the e, come di
consueto, si congedò.
–
Sei nervosa per il tuo debutto
– osservò Persefone, deponendo nel piattino di
Regan un paio di grassi
pasticcini glassati di rosa che lei non aveva nessuna voglia di
mangiare. –
Mandali giù con un po’ di the – la
spronò la zia, leggendo senza alcuna
difficoltà la sua espressione. – Hai bisogno di
energia. E comunque non è il
caso di stare in ansia. –
–
Non sono in ansia – precisò
Regan, punzecchiando con la forchetta la cima di un pasticcino.
– Sono arrabbiata.
–
–
Perché sei arrabbiata? – le
chiese Hemel, avvicinatasi per reclamare qualche leccornia.
Un
cenno di Persefone accordò a
Regan il permesso di porgerle un bignè al limone.
–
Perché a nessuno interessa
quello che penso io. –
Un’occhiata
severa da parte della
zia la fece pentire di aver parlato.
–
Scusami. Il fatto è che… –
Hemel
si avvicinò alla madre e si
fece prendere sulle sue ginocchia. Persefone le versò del
the e lo raffreddò
con un goccio di latte.
–
Il fatto è che, anche se in
apparenza sei identica ad Aranel, sei una Edelberg: ribelle, cocciuta,
orgogliosa, e ben poco incline a piegarti a qualsivoglia tipo di
sottomissione.
–
Stranamente,
non suonava affatto
come un rimprovero. C’era anzi un accenno di orgoglio in
quelle parole,
nell’aria vagamente colpevole che Persefone assunse subito
dopo. Forse fu per
quello che aggiunse:
–
Che tu lo creda o meno, so come
ti senti in questo momento, Regan. Non riesci a sentirti te stessa nei
panni
che sei costretta a vestire. Ti senti soffocare nella tua stessa
immagine e
vorresti solo cancellare tutto quello che sei e riscriverti daccapo.
–
Regan
la fissava immobile, gli
occhi sgranati. La zia le sorrise mentre accarezzava i capelli della
bambina.
–
Se vuoi essere quella che senti
di essere davvero, dovrai guadagnartene la possibilità. Mio
padre mi concesse
il permesso di frequentare la Domus Aurea solo perché fin da
piccola mi ero
impegnata a imparare tutto ciò che una fanciulla di buona
famiglia dovrebbe
sapere: arte, musica, letteratura, danza, buone maniere…
sapevo persino cucire
e ricamare, all’epoca, benché ora io abbia perso
ogni abilità. – Una breve
risata alleggerì i toni del discorso. – Tristan
non ti negherà di seguire le
tue inclinazioni, entro i limiti della rispettabilità, e se
dovesse farlo, ti
prometto che metterò in gioco tutta la mia influenza per
persuaderlo, ma tu
prima devi dimostrargli di essere degna di un tale premio. –
–
E se io dovessi morire domani e
non avere mai la possibilità di essere come vorrei?
–
–
Suvvia, che sciocchezza.
Nessuno di noi permetterà mai che ti accada qualcosa.
–
–
Ma quello che sono… –
–
Sei una ragazza come tutte le
altre e come tale noi tutti ti consideriamo. – Regan non
aveva mai sentito la giovane
zia così secca e categorica. – Nascondi un segreto
e non credere che chi ne è a
conoscenza faccia semplicemente finta di niente. Sono convinta che
esista un
modo per separare la tua essenza da quel nucleo estraneo che risiede in
te, ma
fino a che non lo avremo scoperto, puoi star certa che nessuno ti
dispenserà dall’assolvere
i quotidiani doveri di una fanciulla per bene della tua età.
–
A
quel punto Regan non poté
trattenere un minuscolo sorriso rincuorato.
–
Quando parli così sei identica
allo zio Tristan. –
Non
era esattamente un
complimento, ma fece comunque sorridere Persefone.
–
Il bello di essere la sorella
minore è che hai tutto il tempo per apprendere dai fratelli
maggiori ogni
miglior pregio e ogni peggior difetto. Tristan mi ha insegnato ad
affrontare le
cose sempre a testa alta, con dignità e orgoglio. Tuo padre,
al contrario, mi
ha trasmesso il valore della libertà, e probabilmente se non
fosse stato per
lui ora non sarei dove sono adesso, e sicuramente non altrettanto
felice. Ma
noto con piacere che a te non mancano né
l’orgoglio, né la dignità. –
Regan
consumò i suoi pasticcini
in silenzio, servendosene un altro paio senza quasi rendersene conto.
Quando
ebbe posato la sua seconda tazza di the, svuotata fino
all’ultima goccia, la
zia la stava scrutando pensosa, le mani intrecciate sotto al mento in
quel suo
tipico modo da ragazzina che la distaccava così tanto dal
solenne ruolo di
Coordinatore che vestiva in pubblico.
–
Che c’è? –
–
Pensavo all’Equinozio di
Primavera. –
–
Non ci stavo pensando da quasi
cinque minuti… grazie per avermelo rammentato. –
L’aria
assorta di Persefone
evaporò per lasciare spazio a un sorrisetto sornione.
–
Ho una cosa che cambierà il tuo
modo di vedere la serata. Un regalo che sarà il nostro
piccolo segreto. –
Si
alzò, lasciò che Hemel
tornasse ai suoi giochi e scomparve oltre la porta, ritornando poco
dopo con
una scatola di legno consumato, lunga e piatta, chiusa da un
chiavistello
annerito. La porse a Regan e la invitò ad aprirla. Lei
obbedì e quando ebbe
sollevato il coperchio fittamente intarsiato, i suoi occhi brillarono.
Erano
daghe. Due daghe gemelle,
una nera e una bianca, lunghe quasi quanto un suo avambraccio e
adagiate su un
drappo di velluto rosso che ne risaltava la bellezza in ogni minimo
dettaglio.
L’elsa era sottile, fatta di spire avvolte su sé
stesse dalla finissima guardia
crociata fino al pomolo, su cui erano incastonati due diversi simboli
su
ciascuna delle due armi: un sole dorato stilizzato ornava infatti la
daga
bianca, mentre su quella nera risplendeva una falce di luna
d’argento.
Regan
le prese in mano e le
studiò da vicino. Il filo era tagliente come un rasoio e
poco ci mancò che
saggiandolo non si ferisse un dito.
Non
erano semplici lame. Erano
due piccole opere d’arte.
–
Valo e Varjo – disse Persefone,
indicando ora la lama bianca, ora quella nera. – Vetro Eterno
forgiato nelle
fucine reali di Hazar più di mezzo millennio fa. Le ho avute
in dono da mio
nonno quando entrai nella Lega. Sono state per me delle compagne
infallibili.
Ora è tempo che servano una nuova Edelberg. –
Regan
non era sicura di aver capito.
Era davvero possibile che la zia stesse donando quelle daghe a lei? Si
sentiva
vergognosamente prossima alla commozione, soprattutto perché
non riteneva di
meritare un regalo così prezioso.
–
Non so cosa dire… sono
meravigliose. Ma non riuscirò a portarle con me molto
spesso, visti gli abiti
che sono costretta a indossare. –
Proprio
come se avesse previsto
quell’obiezione, Persefone si sporse in avanti e
scostò il drappo rosso sul
fondo della custodia: da sotto di esso fecero capolino dei lacci di
cuoio nero tenuti
insieme da piccole borchie metalliche.
–
Credi che io giri disarmata
solo perché i miei abiti sono un po’ scomodi?
–
Regan
sollevò interrogativamente
lo sguardo e vide che la zia stava sorridendo senza sforzarsi di celare
una
nota di malizia.
–
Ora viene la parte che
preferirai. –
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