24 carati.

di funklou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It was summer. ***
Capitolo 2: *** I hate. ***
Capitolo 3: *** I don't trust them. ***
Capitolo 4: *** 24k. ***
Capitolo 5: *** Bronze blood. ***
Capitolo 6: *** Anger in the stomach. ***
Capitolo 7: *** Where are my 24k? ***
Capitolo 8: *** Drown in the past. ***
Capitolo 9: *** Monster. ***
Capitolo 10: *** A walk. ***
Capitolo 11: *** Don't say it. ***
Capitolo 12: *** Blood on knuckles. ***
Capitolo 13: *** Calm down, Hobbes. ***
Capitolo 14: *** Are you in love with me? ***
Capitolo 15: *** In time. ***
Capitolo 16: *** Like brothers in the dark. ***
Capitolo 17: *** We can't lose each other. ***
Capitolo 18: *** Burning in hell. ***
Capitolo 19: *** Close as strangers. ***
Capitolo 20: *** Malebolge. ***
Capitolo 21: *** The start is the end. ***
Capitolo 22: *** Not sorry for the blood. ***
Capitolo 23: *** Run away! ***
Capitolo 24: *** Be selfish. ***
Capitolo 25: *** My fault. ***
Capitolo 26: *** Good luck. ***
Capitolo 27: *** Becky cried and Michael smiled. ***
Capitolo 28: *** Not today. ***



Capitolo 1
*** It was summer. ***


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A me e al mio grigio,
infilato ed incastrato sotto alle ossa.
A Martina e al suo sorriso,
cucito su labbra che non voglion più sanguinare.
Un grazie a Mostro e ai suoi 24 carati.




 
Agosto 2013.

Dicono che l'estate sia dove accadono le cose.
Era estate quando Michael suonò al mio citofono, salendo poi le scale come se qualcuno gli avesse davvero dato il permesso di farlo. Guardai l'orologio, quello appeso in soggiorno. Erano le 23:30. 
Dalla porta fece capolino la chioma verde di Michael, per poi lasciarmi intravedere anche la sua maglietta più indecente, con la scritta rossa idiot, che spiccava sul petto.
«Non azzardarti a fare rumore» lo minacciai. «Stanno già tutti dormendo.»
Lui alzò le mani, con quel sorriso sghembo, che lasciava trapelare tutta la pazzia e la perversione che caratterizzava per la maggior parte Michael Clifford.
«Andiamo a farci un giro. Ci sono anche alcuni dei miei amici» disse. Camminò fino ad arrivare al divano e ci si sedette sopra. Io lo guardavo dalla mia postazione, ancora sulla soglia del soggiorno. 
«Sei un folle» decretai. «Guarda che ore sono.»
Michael sbuffò. «Che cazzo, Becky, non te n'è mai fregato niente dell'ora. E poi ti devo parlare.»
Egoista e menefreghista fino al midollo, non me ne importava nulla di conoscere i suoi amici. Ma Michael non doveva mai parlarmi di niente, e quella frase mi mise i brividi. All'improvviso ebbi paura, iniziai a vedere il mio migliore amico più lontano. Mi girai, senza dire niente, mi infilai i primi vestiti che trovai sul letto, che erano poi vestiti di Michael che aveva dimenticato nel corso degli anni, restando da me a dormire.
 
Stavamo camminando in assoluto silenzio sul marciapiede che collegava casa mia alla piazza, quello che alcuni pomeriggi mi sembrava infinito. Infilai le mani in tasca e «Dimmi cosa c'è» lo spronai. 
Michael si ostinava ad osservare l'asfalto rovinato ai nostri piedi che avanzavano. D'un tratto tirò su il capo, si accorse che la piazza era ormai davanti a noi. 
«Me ne vado» sbottò. 
Era estate. Lo era stato, forse. Non quella notte. 
Il silenzio parve ansimare e l'aria sembrò volermi strozzare. Dovetti fermarmi e guardare il mio migliore amico. Lo vidi guardarmi, sorridermi e piano piano farsi sempre più piccolo. Volevo ridere, per far apparire la sua frase come uno schifosissimo scherzo, ma sapevo che mi sarebbe uscita solo una risata del tutto incrinata. 
«Che merda stai dicendo?» 
«Quella non è la mia famiglia e quella non è la mia casa. Voglio vivere per conto mio, cambiare scuola.»
Pensavo mi stesse prendendo per il culo. Ma il suo tono era serio, e quello era Michael Clifford, il mio migliore amico di sempre, un perfetto idiota. Non poteva essere la stessa persona a fare un discorso del genere. Pensai che Michael fosse una cosa mia e che non avesse il diritto di ricominciare una vita senza di me, di fare un qualcosa senza di me. Pensavo che Michael mi stesse abbandonando. Cercai di tenere il mio cuore compatto, sperai che nessuna lacrima rigasse le mie guance. Ne valeva del mio orgoglio.
Non ne parlammo più, comunque. Michael avanzò e continuò a camminare, imboccò una stradina verso sinistra, quella tutta in salita e con gli scalini che portavano alla chiesa in cima alla città. Sapeva che l'avrei seguito, anche se io quella volta cercai di non farlo. 
Così mi ritrovai a seguire i suoi passi, fino a quando non lo trovai seduto sulle scalinate della chiesa, giusto per inquinare la casa di Dio. Accanto aveva altri due ragazzi. All'improvviso tirai le somme.
«Te ne vai con loro, eh, stronzo?» gridai, lì in piedi, lontana almeno dieci metri da quella scena.
Tutti e tre alzarono di scatto la testa in mia direzione. «Con chi ce l'hai, ragazzina?» chiese uno dei due ragazzi che io non avevo mai visto. Aveva in mano una cartina ed un filtrino, che io avrei tanto voluto rivoltargli per terra. Mi avvicinai, mi parai davanti loro, incrociando le braccia. 
«Ce l'ho con questo coglione» gli dissi, puntando lo sguardo su Michael. 
Questi sbuffò e «Ne riparliamo poi, Becky. Vai a casa» proferì, con una voce stanca che non gli avevo mai sentito. Mi salì un nervoso pazzesco.
«Col cazzo, Michael, mi hai tirato giù dal letto alle undici e mezza di sera, mi dici che te ne vai e poi mi ordini di andare a casa» sputai acidamente. «E voi chi diavolo siete?»
Entrambi biondi, entrambi vestiti di scuro. Sembravano far parte della notte. 
«Che ne dici se proviamo a mantenere la calma, mh?» A parlare fu quello alla mia sinistra, con in mano la canna, adesso ormai pronta. Nonostante la testa china, gli occhi glieli avevo visti. Squarci di oceano. Mi sembrava di avere dei piccoli mostriciattoli dentro che cercavano in tutti i modi di arrivarmi all'altezza della gola. Mi venne una gran voglia di vomitare, e quella situazione non mi piaceva per niente. 
Avrei voluto dirgli che di calmarmi proprio non mi andava. Invece mi girai e guardai Michael. Gli feci capire di star scappando, forse da me. 
E' stato in quel momento che lo stesso ragazzo di prima si alzò, si sistemò i pantaloni e «Se pensi che ti devi salvare o che puoi farcela senza scappare, non hai capito niente» affermò.
«Finto moralista del cazzo» lo accusai, anche se, a quelle parole, ci pensai su. 
Michael si prese i capelli tra le mani, lo sentii sospirare. Non me ne importai. Feci per andarmene, ma quel ragazzo mi aprì il palmo, posandoci la canna, per poi chiudermi a pugno la mano. 
Lo presi sul serio per un pazzoide. Questa volta me ne andai sul serio, sentendo gli occhi di Michael posarsi sulla schiena e bruciandomi sotto le ossa. La canna me la fumai tornando a casa, calpestando quel marciapiede che non avrebbe più visto le suole di Michael. Pensai a Calum, pensai a me e a Calum senza Michael, poi mi resi conto che forse era meglio dormirci sopra, che il senso di abbandono mi faceva velare gli occhi di lacrime e girare la testa.
 
La mattina seguente, quando mi svegliai stesa sul divano, con le guance incrostate dalle lacrime, lo schermo del mio cellulare riportava un messaggio.
Potremmo scappare insieme.

Ciao alla mia bella gente!
Sono tornata, sono tornata con una nuova fanfiction (cosa che pensavo fosse impossibile). E' proprio un bisogno fisico e mentale, quello di scrivere, pubblicare ogni settimana un capitolo con nuove vicende. Vi ho lasciato con l'amaro in bocca per Two ma, come promesso, sono ancora qui. 
Nuova fanfiction, nuova storia, nuova me. Capitolo corto (e non è da me), ma contenente solo un piccolo incipit. Ho nuove idee, nuovi pensieri, e ho pensato di condividerli con voi. Ecco come è nata questa storia!
Al prossimo capitolo :)
Nali

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Capitolo 2
*** I hate. ***


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Gennaio 2014.

Rebecca: origine ebraica (da ‘Ribqāh’ = trappola, rete)
Rebecca King, un nome spigoloso, che sa il canto suo. Un nome che dalle mie parti non era così diffuso, che rispecchiava ogni piccola scheggia di me stessa. Le persone, nonostante non sapessero il significato di quel nome, erano a conoscenza del fatto che, una volta che si fossero avvicinate, la trappola se la sarebbero fatta da sole. Possessiva, questo ero.
Becky. Così la gente mi chiamava, così mi salutava in giro. Io le guardavo, quelle persone, e dall'altra parte della strada accennavo un saluto con la testa e dentro di me pensavo che fossero tutte rondini con il guinzaglio.
Ero fin da sempre una bambina cattiva, trascinando poi nel tempo questa caratteristica. Trovavo un certo fascino nell'odio, quello che ti scivola dentro alle vene, che ti fa diventare le iridi indemoniate. Michael mi definiva misantropa, perché lui ad odiare proprio non riusciva. Io invece odiavo. Quasi tutto ciò che mi circondava.
Siamo nati in un'epoca buia, così dicevano. Dicevano anche che io rispecchiassi quel buio. Siamo nati nell'epoca in cui la tua città riflette ciò che sei, in cui il rumore delle strade vive te lo senti dentro, in cui il freddo di gennaio te lo senti all'interno. Nell'epoca in cui scappare è la soluzione più facile ed immediata, lasciandosi alle spalle tutto.
Io ero scappata.
Che fossi scappata verso la merda, questo ancora non lo sapevo.


Le camere erano addirittura numerate. La mia, o meglio la mia e quella di Michael, era la 36. Quella in cui saremmo dovuti stare era un'enorme struttura, contenente minimo cento stanze, che sorgeva verso la periferia di Sydney. Davanti c'era un altro edificio, uguale al mio, con altre tante camere. Le aveva messe a disposizione la scuola, la nuova scuola mia, di Michael e di Calum. Si chiamava Sefton High School, distava qualche strada dal mio nuovo alloggio. Il colore rosso mischiato al marroncino delle mura e il bianco che contornava la vetrata delle finestre la faceva sembrare una scuola seria.
Era gennaio quando per la prima volta ci misi piede. Il peso delle ore di viaggio sul treno me lo sentivo tutto addosso. Trascinai all'interno la mia valigia, con a fianco Michael e Calum.
«Saranno tutti a mensa» ipotizzò quest'ultimo, guardandosi intorno per trovare la segreteria. 
Guardai l'orologio enorme appeso e le lancette segnavano mezzogiorno e mezzo. 
«Io vado fuori, ragazzi. Quando avete fatto, venite qua» li avvisai. Il viaggio mi aveva stremato, quei muri bianchissimi mi davano alla testa. Feci retrofront ed aspettai una decina di minuti lì, al freddo, con la mia sigaretta in mano. 
Michael uscì per primo, in mano aveva un paio di chiavi. 
«Andiamo, stronzetta, abbiamo la nostra camera!» 
Improvvisamente mi resi conto dei miei diciassette anni, dei chilometri che stavano in mezzo tra me e la mia casa, di aver lasciato la mia famiglia, la mia vecchia scuola, le strade fredde e silenziose della mia città. Un senso di smarrimento si infilzò dentro al mio petto. Poi vidi Michael, il suo sorriso vero e mi tranquillizzai. Michael adesso era libero.
«Non fidatevi di quello che ho capito io del tragitto che ci ha spiegato quella tizia» avvertì Calum.
«il solito.» Michael rise, seguimmo lui. 
In fin dei conti la strada non era così lunga come temevo. Se nella mia città le persone erano poche, qui sembravano non essere mai esistite. Le macchine non passavano, pensai che se qualcuno avesse voluto spararmi non avrebbe trovato nessun ostacolo.
Arrivammo all'alloggio in poco più di due minuti. Non mi aspettavo niente da quella mia nuova casa, perché qualunque cosa sarebbe stata meglio della mia vecchia abitazione, di forse 60 metri quadrati, raggiungibile solo attraverso delle scale in marmo spaccato, contornate da una ringhiera scorticata dal tempo. Cercammo la porta che riportava il numero 36 e la trovammo al secondo piano. Calum invece aveva la 38 ed era proprio davanti alla nostra. Lo salutammo, lasciai che Michael aprisse la porta e rivelasse la camera. La guardai per un po', inespressiva. Sicuramente era più grande della mia stanza.
«A me piace», commentò il mio migliore amico.
Io alzai le spalle, entrando e accantonando la valigia di fianco all'armadio. Le pareti erano colorate di un azzurro chiaro, mi piaceva. I due letti, posti al centro, erano ad una piazza. Mi sedetti sopra ad uno di essi e -diamine- erano morbidi. Tutto mi sembrava migliore rispetto a ciò che condividevo nella mia casa vecchia. C'era un televisore poggiato sopra ad una mensola che stava in alto, c'erano due armadi abbastanza ampi, una finestra, un bagno. Anche se avessi voluto trovare un pretesto per odiare quel posto, non ci sarei riuscita.
Michael lo sapeva. Per questo aveva quel sorriso da stronzo su quelle labbra che più e più volte avrei voluto far sanguinare, voleva farmi dire che per una volta aveva trovato qualcosa che non detestavo. Poi si buttò a peso morto sull'altro letto e così si stabilirono automaticamente le nostre postazioni e i nostri spazi.
«Bella scelta, Michael» si complimentò da solo con se stesso.
«Sta' zitto, deficiente» lo ammonii io.
Forse ero felice, ma non lo avrei mai ammesso. Poco dopo Michael si alzò, mi lasciò un bacio a stampo e si chiuse in bagno. Lo faceva spesso, soprattutto quando era sereno e tranquillo. Era una cosa normale. Io mi alzai ed uscii per recarmi nella stanza 38. Non bussai, non l'avevo mai fatto a casa di Calum. Lo trovai a petto nudo, seduto sul pavimento alla ricerca di qualcosa dentro alla sua valigia.
«Becky.» Alzò la testa per una frazione di secondo e la affondò tra tutti quei vestiti.
«Che stai cercando?» gli domandai, facendo un giro per quei pochi metri quadrati. Fissai poi il letto che aveva di fianco e mi investì una consapevolezza. «Cal, ma tu con chi sei in stanza?»
Lui si alzò, sbuffò e rinunciò alla sua maledetta ricerca. «Ho chiesto di non avere nessun compagno. Mi trovo male a dividere gli spazi con qualcuno» mi spiegò.
«Allora mi dispiace, perché credo che verrò spesso qui da te a romperti le palle.» Gli mostrai un sorriso arrogante, facendogli alzare gli occhi al cielo. «Però, che corpicino che sta mettendo su Calum Hood! Bravo, continua così, potrei addirittura vantarmi di averti come amico» lo presi in giro, consapevole del fatto che non l'avrei mai fatto, che i miei amici erano quelli e non c'era bisogno di metterli in bella mostra.
Calum arrossì, cercò in tutti i modi di metter su una smorfia cattiva ma non gli riuscì. «Vattene da Michael, scema. Mi stai inquinando la stanza.»
Gli rivolsi un insulto, uno dei tanti che avevo nella mia scorta e me ne tornai nella mia camera.
Quando avevamo chiamato per informarci per la scuola, per l'alloggio, per i costi e tutto il resto, si erano scordati di dirci che i due uffici che ospitavano le camere degli studenti fossero dimenticati persino da Dio. Me ne accorsi lo stesso pomeriggio, quando udii voci femminili e maschili -acute, decisamente troppo- per tutto il corridoio in cui si affacciava la mia porta, quando le risa arrivarono al mio udito, insieme a vari rumori. La musica rap di un certo tizio francese era ciò che più invadeva i corridoi. Guardai Michael.
«Forse è solo oggi così» mi provò a convincere.
Non era solo quel giorno ed io lo sapevo. Sapevo anche che la scuola non avesse responsabilità su questi alloggi, ma un minimo di controllo me lo aspettavo.
Un'altra cosa di cui probabilmente avrei dovuto essere a conoscenza era la tradizione delle feste. Divise per piani, organizzate dai più folli del Sefton, vere e proprie trasgressioni a qualunque legge.
Ne ebbi la prova quella sera stessa.
Avevo appena finito di sistemare alcuni vestiti nell'armadio, quando all'improvviso Michael aprì la porta. Era uscito più o meno un'ora e mezza fa, chissà a fare cosa. Sulle labbra aveva quel suo solito sorriso, quello che precedeva un'idea diabolica. 
«Nella Uno c'è una festa» annunciò. Quando vide la mia espressione confusa, «E' organizzata bene» mi rassicurò.
«Cosa sarebbe la Uno
«La casa che abbiamo davanti» mi informò.
«Quindi noi saremmo la Due
Michael annuì. «Ogni cosa qui ha un nome. Anche tu sei Becky e non Rebecca. Allora?»
Un istante dopo la sua ultima parola, dietro alla testa verde di Michael sbucarono gli occhi vispi di Calum. Stavo per dirgli di non rompermi le palle, ché io di andare ad una festa proprio non ne avevo voglia, dopo il viaggio. Ma il moro avanzò, si avvicinò a me e mise su uno di quei bronci che avevano il potere di far sciogliere anche una stronza come me. In parte mi umiliavano, in parte mi mettevano a disagio. 
Così, «Al diavolo!» sbottai, esasperata. 
Michael e Calum si guardarono e risero, mentre io scuotevo la testa. Odiavo Calum. Ma solo alcune volte.

Avevo passato quasi tutta la giornata a cercare di far diventare mia quella camera. Avevo chiamato anche mia mamma, l'avevo rassicurata un po', e lei sembrava darmi abbastanza fiducia. In realtà era solo disinteresse. 
Le undici erano arrivate presto, senza che io le attendessi. Michael era da almeno mezz'ora in bagno a spruzzare lacca su quei capelli che -io lo sapevo- gli sarebbero caduti tra non meno di cinque anni. Io indossavo un paio di skinny jeans ed una maglia grigia che mi stava enorme. 
«È per caso tua?» gli domandai.
Michael parve pensarci su e con un'espressione dubbiosa mi rispose di non averne idea. 
Lui invece era come sempre alternativo, con quelle sue giacche in pelle e camice rosse e nere. Uscimmo dalla camera e qualche secondo dopo Calum fece lo stesso, salutandoci con un sorriso. Nel nostro piano c'erano due o tre studenti intenti a raggiungere le scale, magari andavano anche loro a quella maledetta festa. Ci guardarono, o forse ci squadrarono, così che io ricambiassi quello sguardo altezzoso. 
Uscimmo dall'edificio, facemmo quegli otto, nove passi che ci dividevano dalla Uno ed entrammo. Uno studente che passò di lì ci disse: “terzo piano!” e se ne andò. 
Seguimmo quell'indicazione e, quando raggiungemmo il posto, un senso di disagio parve strangolarmi. La gente non mi piaceva e mi metteva ansia. E quel corridoio ne era pieno, in ogni centimetro. C'erano piccole luci bianche e rosse sparse per tutto il piano, ed io sapevo che già il mattino dopo non ci sarebbero più state. Respirai profondamente mentre Michael mi prese la mano e iniziò a spintonare di qua e di là. Tutto quel contatto con carne umana mi lasciò sulla pelle una sensazione di puro sporco. Mi girai e Calum non c'era già più. Guardai avanti, allora, e vidi Michael parlare con un biondino. 
«È un po' un casino!» commentò. 
Quell'altro annuì, disse qualcosa che io non capii a causa del volume della musica. Con molte probabilità la cassa mi era molto vicina. Mi voltai a sinistra e riuscii giusto in tempo a placare una ragazza che si stava per schiantare contro di me con due drink in mano. 
«Non ci provare, puttanella!» la minacciai e quella parve o non capire o lasciarmi comunque stare, continuando dritta.
Riportai l'attenzione alla conversazione ma notai che, nonostante il mio migliore amico stesse parlando a quel biondino, quest'ultimo stava rivolgendo tutta la sua attenzione a me. 
Un lampo di luce rossa gli illuminò il viso.
La nostra mente accantona tutte le informazioni, per poi ripescarle in altre situazioni, per vedere se combaciano, creando memoria. Scavai ancora più a fondo in quegli occhi verdi che adesso mi bucavano l'anima e cercai di ripescare quell'immagine, per capire dove miseria potevo averli visti. 
Sgranai gli occhi, lasciai la mano di Michael, gesto a cui lui non diede peso, e senza accorgermene feci un passo all'indietro. Quell'aria seria, quelle labbra serrate e quello sguardo attento e vigile. Quei capelli biondi, quella bandana rossa. Tutto mi stava urlando di ripensare alla sera di mesi fa. Improvvisamente mi ricordai di lui, del suo silenzio e della sua presenza che non si mostrava mai. 
Sapevo che Michael fosse qui soprattutto per lui e per l'altro suo amico. Che cosa il mio migliore amico avesse a che fare con questi due, ancora non lo sapevo. 
«Ash, questa è Becky, la mia migliore amica. Becky, lui è Ashton, un amico di vecchia data» ci presentò Michael ed entrambi facemmo un cenno con la testa, scettici. 
Che fosse di vecchia data, proprio non era credibile. Sono sempre stata appiccicata a lui, da quando eravamo piccoli e a questo Michael avrebbe dovuto pensarci. 
«Devo andare in bagno» lo avvisai, staccandomi il più possibile dal suo corpo. Lui annuì.
Odiavo quando le persone mi mentivano. Ma lo odiavo di più quando a farlo era lui. Avevo difficoltà a dare fiducia addirittura agli amici più stretti, e Michael cercava in tutti i modi di spezzare quella poca fiducia che a stento gli davo. Gli avrei urlato dietro in camera, questo lo sapevo. 
Attraversai il piano a spintonate, insulti e sguardi fulminanti, arrivando alla penultima camera che era vuota, ma soprattutto abbastanza isolata dalla ressa. Di chi fosse, questo non mi importava. 
La porta era già spalancata, così mi fiondai subito nel bagno. Mi lavai ripetutamente il viso per levarmi quel senso di sporco e notai lo specchio spaccato in due all'altezza del mio viso. In quel momento udii dei passi frettolosi fare irruzione nella stanza e, senza una valida motivazione, trattenni il respiro. 
«Dove cazzo l'ha messo...» imprecava a bassa voce, tastava più oggetti nella stanza. Sentii ogni tocco.
Feci combaciare il mio corpo ad ogni mattonella congelata del bagno e osservai quella figura slanciata che adesso alzava coperte, apriva cassetti e si guardava intorno.
«Andiamo, non è possibile che un cellulare sparisca in questo modo!»
Mi girai, guardai a sinistra e vidi un iPhone 5 posato sul lavandino. Pensai che usufruire del bagno di qualcun altro non fosse un reato, così «Cercavi questo?» gli chiesi, entrando in camera e porgendoglielo.
Adesso mi ammazza, pensai. Lui si girò così velocemente che mi fece prendere un colpo. Il mio corpo si gelò e un verso smorzato mi uscì vergognosamente dalla mia bocca. Lo riconobbi, era lo stesso ragazzo con cui parlai l'estate scorsa. Questi mi squadrò, mentre prendeva l'iPhone dalla mia mano.
Mi fermai a guardarlo e qualcosa all'altezza dello stomaco sembrò volermi togliere il respiro. Non era la solita reazione che avevo quando un ragazzo che mi piaceva mi guardava, era qualcosa di più malato. Forse ansia, ma detestavo sentirmi così.
«Cosa ci fai qui?» mi domandò, senza alcun tipo di emozione. Non riuscii a capire se fosse arrabbiato o no. Poi guardò l'aggeggio che gli avevo porto e «Aspetta, stavi usando il mio cellulare?» chiese, questa volta più aggressivo.
«No! Ero solamente andata in bagno e l'ho trovato lì.» 
Quel ragazzo mi stava mettendo a fuoco ed io me ne accorsi. Non mi sfuggiva niente. Stava sicuramente cercando di esaminare il mio viso e metterlo in un contesto. Poi si voltò, aprì l'armadio e prese una bottiglia di Assenzio. E mentre usciva, lo sentii quel bisbiglio.
«Ci si salva scappando, non l'ha capito.»
Non mi piacevano le sue frasi, profonde ed insensate allo stesso tempo. Pensai di odiarlo all'istante, probabilmente per avere uno scudo verso quegli occhi che erano completamente differenti da quelli di Michael, che erano chiari e cambiavano ogni giorno. I suoi, invece, erano di quell'azzurro intenso e mi mettevano in quella situazione di disagio che non avrei più voluto riprovare. 
Me ne uscii anche io da quella camera, intrufolandomi un'altra volta in quella massa di persone, alla ricerca di Calum o di Michael. Alla fine adocchiai il primo, che mi sorrise non appena mi vide.
«Becky! Ti stai divertendo, vedo» ironizzò, con un bicchiere di plastica in mano. Ondeggiava su una musica house e mi domandai come facesse a non morire di vergogna.
«Sei penoso, smettila di fare ciò che stai facendo.» Gli rubai il bicchiere, ne assaggiai il contenuto per poi riporgerglielo con una faccia schifata.
Calum rise, non gliene importava niente dei miei commenti critici e «E' roba pesante» mi disse.
Sbuffai. «Per caso hai idea di chi siano quei due ragazzi che conosce Michael?» 
Il moro scosse la testa, ma era sincero. 
Restammo lì a parlare per un po', mentre io controllavo che non bevesse troppo. Calum quando si ubriacava diventava cattivo ed aggressivo, ricordo ancora il pugno che mi tirò due anni fa dopo diversi bicchieri di vodka. Poi si aggrappò a me, infilando il viso nell'incavo del mio collo. Sentivo il suo respiro farsi sempre più pesante, stava iniziando a sentire la stanchezza del viaggio. 
«Andiamo, non vorrai mica addormentarti addosso a me. Non sei mica leggero!»
Dopo due minuti eravamo già all'interno della due e Calum era sulla soglia della sua camera. Mi sorrise e chiuse la porta. Io entrai nella 36, mi ricordai bene di non chiuderla a chiave perché quel coglione di Michael era ancora fuori. Mi sdraiai, guardai il buio che mi circondava e mi accorsi che quella stanza per una persona fosse davvero troppo grande. Ringraziai mentalmente il sonno che inghiottì tutto quel vuoto e mi addormentai.

Alcuni rumori. La serratura della porta, mani che si appoggiano a tutti i mobili, passi incerti e barcollanti. Il materasso del mio letto che si abbassa sotto al peso di un corpo, odore di alcool sparso nell'aria. Michael si sdraiò di fianco a me, mi circondò con le sue grandi braccia.
«Non toccarmi» biascicai, assonnata.
Posò un bacio sulla mia guancia sinistra. Non mi girai, continuai a rivolgergli la schiena.
«Michael... Puzzi di alcool.» Lo sentii dimenarsi e udii i suoi jeans cadere sul pavimento. Poi tornò ad abbracciarmi, facendomi riempire il corpo di brividi per quel contatto così freddo. L'avrei voluto buttare giù dal letto.
«Sta' zitta, Becky, ho sonno.»
Avrei voluto dirgli che io invece avevo voglia di prenderlo a sberle, perché mi mentiva, perché mandava a puttane la mia fiducia, perché quei due non mi convincevano per niente. Eppure non parlai, lasciai che quelle braccia mi circondassero tutta la notte.



Hei people!
Mi dispiace per le lettrici che pensano che questa sarà una storia di pace, amore e felicità perché, uhm, si vede già che non lo sarà. Vi ho presentato Becky e so che non vi sta poi così simpatica, col suo carattere forte e scontroso, ma spero che lo imparerete ad apprezzare. Penso che servirà un personaggio così, per tenere testa ad un altro personaggio che conoscerete meglio nei prossimi capitoli.
E poi c'è la comparsa del banner, creato da danswtr, diteci cosa ne pensate :)
Per qualunque cosa, questo è il mio nick di twitter funklou
Grazie a chiunque abbia iniziato a leggere questa storia!
Nali xx

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Capitolo 3
*** I don't trust them. ***


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Un respiro pensante sbatteva contro la mia tempia. Percepii il corpo di Michael premuto contro il mio e mi ricordai che non doveva essere così. Mi mossi un po', giusto per uscire da quella trappola che erano le sue braccia, e lui mugugnò qualcosa come un lamento sommesso. Mi lasciò andare. Lo vidi socchiudere gli occhi, per poi spalancarli del tutto. Si alzò immediatamente, ebbe un giramento di testa e quasi cadde. Io rimasi lì a guardarlo, pensavo che gli stesse bene. Si stabilizzò e finalmente prese a correre verso il bagno. Non ci volle molto tempo per sentirlo rigettare tutto lo schifo che la notte prima aveva bevuto. Due conati. Decisi di alzarmi, anche se sapevo di non doverlo fare. Arrivai vicino allo stipite, lo trovai accasciato a terra con la testa persa nel cesso. Terzo conato. Mi avvicinai, mi inginocchiai. Gli spostai i capelli appiccicati sulla fronte. 
«Sto da schifo» biascicò piano.
«Giura?» replicai, ironica.  
Gli feci sparire quelle due lacrime comparse ai lati degli occhi, gli diedi una mano e lo aiutai a tirarsi in piedi. 
«Se hai intenzione di farmi una predica, davvero, Becky, esci dalla camera.»
«Non dirò niente» dissi con un tono neutrale. «Sciacquati la bocca, datti una rinfrescata.»
E invece ti ucciderei con le parole, maledetto.
Vidi il viso perplesso di Michael e uscii dal bagno. Sentii l'acqua scorrere mentre mi preparavo per il mio primo giorno di scuola al Sefton. Controllai i fogli che Calum e Michael avevano ritirato dalla segreteria e notai di essere in classe solo col moro. Pensai che, per quanto mi riguardasse, in quel momento mi stava più che bene.
Presi il mio zaino, mi guardai allo specchio vicino all'armadio ed uscii dalla camera. Bussai alla 38 ed un Calum mezzo addormentato venne ad aprirmi. 
«Buongiorno» esordì, infilandosi una felpa. Ricambiai accennando un saluto col capo, aprii la finestra e «Muoviti, voglio uscire di qua il prima possibile» affermai, per poi accendermi una sigaretta. Non sentii nessuna obiezione. 
Due minuti dopo eravamo già fuori dalla stanza, ed era la prima volta che sentivo il corridoio privo di voci e rumori. Percorremmo la strada che ci portava alla scuola e in quel momento «Come sta Michael?» si informò.
«Come si merita» risposi, atona.
«Cos'ha combinato?»
«Niente, magari chiedilo a lui. O ai suoi amichetti.»
La discussione si chiuse lì. Facemmo il nostro ingresso a scuola, sentii la mia figura con cento occhi appiccicati. Iniziammo a salire le scale. I piani da fare erano due, li odiai subito. 
Cercai quella che adesso era ufficialmente la mia classe e la trovai verso il centro del corridoio. Calum entrò un secondo dopo di me, mi accarezzò il braccio in un modo estremamente leggero, quasi impercettibile. Non lo sapeva che il nervosismo mi veniva da dentro. 
«Ci sediamo lì» proferì il moro, indicando due banchi vuoti e vicini in penultima fila. 
Non fiatai e mi sedetti proprio in quel posto. La classe era semivuota. Guardai l'orario e notai mancassero ancora sette minuti all'inizio della lezione. Calum si guardava intorno, io evitai di farlo. Ma, quando ormai la lezione era quasi iniziata, una chioma bionda varcò la soglia. Quel biondo chiaro, che poteva appartenere solo ad una persona. Lo guardai per meno di due secondi. Attraversò la classe e si sedette nel banco a destra più avanti del mio. Riuscivo a scorgere ogni movimento anche se non volevo, e questo mi mandava in bestia.
Un signore sulla sessantina entrò in classe, ci rivolse un sorriso forzatissimo e rapidissimo e si sedette dietro alla cattedra. Il vociare degli studenti si propagò, così il vecchio si diede una mossa a presentarsi, a raccontarci tutte le cazzate che avremmo dovuto affrontare. Il vecchio, così avevo deciso di soprannominarlo.
«È stata una scelta intelligente, quella di scegliere questa scuola.» 
Mi venne quasi da ridere a quelle parole, perché io non avevo scelto proprio niente. Era stato Michael a sceglierla.
Michael. Strinsi un pugno. 
Guardai il ragazzo che era la maggior causa della mia presenza in questo posto e lo notai estrarre un blocco di fogli, posandolo sul banco. Distolsi l'attenzione da lui quando «Presente» rispose al professore che pronunciò «Luke Hemmings.»
Sapevo anche il suo nome, adesso. 
Chiamò Calum, che fu pronto a dare la sua presenza,
«Rebecca? Rebecca King?»
«Presente.»
Senza farci nemmeno caso, sul registro risultavamo tutti e tre fastidiosamente vicini. 
Scoprii quanto fosse noioso il vecchio. Mi sembrava di assistere ad una messa, mica ad una lezione di chimica. 
«Oh, Becky» Calum mi diede una gomitata sul braccio, «Quello è uno degli amici di Michael» si accorse, come se non fosse stato in classe da venti minuti. 
«Sì» sussurrai, seccata.
«Magari dopo possiamo parlarci.»
«Fai come vuoi, Cal.»
Lo guardai meglio. Disegnava qualcosa con una matita mangiucchiata, qualcosa che assomigliava ad un manga. Si mordeva il labbro inferiore, proprio dove aveva un piercing. Con la testa china, la matita che scorreva sul foglio e quell'espressione concentrata, Luke Hemmings mi sembrava la più interessante incognita da risolvere. C'era qualcosa di affascinante che gli girava attorno, che io mi ostinavo a detestare. 

Le prime ore passarono. Avevo più parlato con Calum che ascoltato le lezioni, avevo dimenticato tutti i nomi dei miei professori e quelli dei miei compagni. Non era niente male. 
La campanella suonò per la quarta volta, tutti gli studenti si stavano dirigendo verso la mensa quando nel corridoio incontrai Michael. 
«Com'è andata?» chiese. 
«Non male» parlò Calum.
Michael mi guardò, senza dire nulla e avanzammo. Entrammo nella mensa che era davvero troppo spaziosa e rumorosa e facemmo la fila per il cibo. Pasta e carne, classico. 
Ci sedemmo ad un tavolo vuoto, anche abbastanza vicino alla finestra.
«Sei andata via senza dirmi niente, questa mattina.»
Tirai su la testa e lo squadrai. 
Ti stai creando un segreto attorno senza dirmi niente, in questi mesi.
Continuammo a mangiare. O almeno, solo io lo feci. Dall'entrata della mensa arrivarono Ashton e Luke. Io non guardavo loro, guardavo le persone che non riuscivano a non seguire quel movimento davanti a loro. Mi venne un nervoso assurdo a vedere la gente dare importanza a quei due. Conficcai con rabbia la forchetta nella carne, squartandola quasi. 
Il peggio arrivò quando Michael fece segno loro di sedersi al nostro tavolo. Ricordo di aver sussurrato un «l'ammazzo...» in quel momento. 
Luke ed Ashton sembrarono quasi sfilare davanti a tutti per raggiungerci. Le gambe fasciate da degli skinny jeans rigorosamente neri, Luke con una canottiera piuttosto lunga con stampato sopra in bianco “you complete me” ed Ashton con una camicia nera e rossa, sotto la quale si intravedeva una maglietta bianca. 
Non tolsi gli occhi dal mio cibo nemmeno per un secondo quando si sedettero davanti a me, di fianco a Michael. Parlarono per massimo cinque minuti, nei quali Calum si presentò.
«Ah, Becky» se ne uscì all'improvviso Michael. «Prima ha chiamato tua madre, hai lasciato il cellulare sul letto. Le ho detto di riprovare a cercarti più tardi.»
Gli feci intendere di aver capito con un gesto della testa. 
«Potresti usare le parole.»
Quella voce bassa. Alzai gli occhi, lasciai stare il cibo. Un silenzio ansimante calò sul tavolo. 
«Scusa?»
«Hai sentito. È maleducazione.»
Guardai sbalordita Michael e poi Luke. «Sei serio? Di sicuro non sei tu quello che deve venirmelo a rinfacciare» sbottai, cattiva. 
«Chi lo dovrebbe fare non lo fa, quindi lo faccio io» disse, stringendosi nelle spalle. 
Mi sembrò che nella mensa fosse calato il silenzio più totale. Pensavo che questo sbruffone stesse scherzando, perché era assurdo che si rivolgesse con me in quel modo. 
«E chi cazzo ti ha detto di parlarmi?» quasi sbraitai, me ne accorsi dalla mano di Calum sul mio braccio. 
«Becky...» provò Michael. 
«Parlo con chi cazzo mi pare, sinceramente» disse Luke e riprese a mangiare. 
Tutti mi fissavano, per vedere la mia prossima mossa. «Fanculo» imprecai e basta, mi alzai, spingendo più in là sul tavolo il mio vassoio. Uscii dalla mensa e quel giorno non rimisi più piede nella scuola. La rabbia mi bruciava addosso.
Così tornai in camera e stetti quasi tutto il pomeriggio seduta sulla sedia nel piccolo balcone che si affacciava su quella città spenta. Mi venne in mente di andarmene, perché quella non la sentivo casa mia. Ma lo sapevo, non ce l'avrei mai fatta. 

La maniglia si abbassò verso le quattro del pomeriggio. «Non ricordo... Sì. Magari più tardi. Sì. Sì...» parlava Michael al telefono mentre chiudeva la porta. 
Mi girai, gli diedi un'occhiata e ritornai a fissare la città da quel secondo piano. 
«Perché? Va bene, te lo prometto.»
Promesse su promesse. Sicuramente stava parlando con suo padre, un avvocato che esigeva una buona condotta dal suo unico foglio.
«Sì. Ci sentiamo, ciao pà.» Chiuse la chiamata. 
Lo sentii avvicinarsi e fermarsi vicino allo stipite. 
«Mi dispiace, Becky» mi disse. Pensai che la sua voce fosse davvero rassegnata e triste. 
«Anche a me» ribattei, rimanendo con lo sguardo puntato in avanti. «Non sto bene qui.»
Lo sentii sospirare e avvicinarsi. «Non voglio che te ne vada.» sussurrò, lasciandomi da dietro un bacio sulla guancia. Mi sentii triste e persa. Allora mi alzai e lo abbracciai. Senza dire niente, senza creare scuse o pretesti. Poi rientrammo in camera e «Stasera io e Cal usciamo a mangiare, andremo al messicano. Vieni o ti portiamo noi qualcosa dopo?»
«Non mi va di uscire, preferisco stare qui.»
Michael annuì.

Per il resto del giorno restai sdraiata sul letto ad ascoltare musica, chiamai anche mia madre e prima che potessi accorgermene mi addormentai poco dopo che Michael e Calum fossero usciti. 

La sveglia fastidiosa di Michael suonò, ma io ero già sveglia. Si ostinò comunque a restare nel letto, imprigionato da quelle lenzuola stropicciate. 
«Svegliati o ti butto giù io» lo intimorii, rintanandomi poi in bagno per sistemarmi. 
Quando uscii erano passati dieci minuti e Michael era ancora lì, disteso, con la bocca semiaperta.
«Porca puttana, Michael!»
Lui sobbalzò, aprì gli occhi e «Non farlo mai più» disse, posandosi una mano sul cuore. «Sei pazza, che paura.»
Alzai gli occhi al cielo, ma per fortuna si decise a prepararsi.
Non appena entrammo a scuola, Calum salutò Michael. 
«Fai la brava e non tirare fuori il tuo lato pazzoide» mi raccomandò poi. Lo guardai con un sorriso storto, perché anche se mi faceva arrabbiare, era la cosa più preziosa che avessi mai avuto.
«Vai in classe, va...» 
Poi Michael si sporse più vicino a me, fino a posare le sue labbra contro le mie, in un bacio dolce ed innocente. E si girò, diretto verso le scale opposte alle mie, quando io e Calum ci affrettammo a raggiungere la nostra classe. 
Però lo vidi. Coi suoi capelli alzati, sempre di quel biondo lucente, e quei suoi occhi che non avevano somiglianze con nessun altri. Mi stava guardando, o meglio, aveva guardato me e Michael. Improvvisamente mi sentii a disagio e non vedevo l'ora di raggiungere il mio banco, e non mi importava se ci fosse stato pure lui, mi sarei sentita più al sicuro con tante altre persone attorno. 
Io e Calum entrammo e la professoressa di matematica era già presente, dietro la sua cattedra, col suo sguardo critico. Ci sedemmo allo stesso posto e mi accorsi di non avere una distrazione, al contrario di ieri. Non c'era una persona e il fatto che l'avessi notato mi dava i nervi. 
Luke Hemmings iniziò a degnarci della sua presenza solo alla seconda ora. E “degnare” era una grande parolona perché, come un copione da seguire, estrasse il suo blocco di fogli e iniziò a tracciare linee che andavano a comporre figure manga. La professoressa di tanto in tanto alzava gli occhi, li puntava su Luke e, accorgendosi della sua distrazione, gli porgeva qualche domanda. Aveva sempre la risposta pronta e corretta.
Mi misi le mani tra i capelli, in preda all'esaurimento. Mi cibavo di ogni suo piccolo dettaglio e odiavo tutta l'attenzione che mi rubava. 
Forse la odiavo perché Luke, al contrario, sembrava non essere nemmeno a conoscenza della mia esistenza. 
Passarono altre due ore in cui cercai di concentrarmi su altro. Lasciai che Luke e il resto dei miei compagni uscissero dalla classe per poi raggiungere la mensa ma, nello stesso momento, intravidi due sagome nel corridoio a destra. Erano Ashton e Luke. Nonostante il vicino vociare degli studenti, le loro voci erano abbastanza distinguibili. Udii solo un «Capirà, te lo dico io!» ed un altro «Non possiamo fidarci di nessuno». Mi tenni nella testa quelle frasi per quasi tutte le ore scolastiche.
A mensa quei due non c'erano. E Luke, le sue ore di lezione, le finì lì. 

Quando uscii dalla classe per l'ultima volta, quella giornata, vidi uno di quei ragazzi che non mi convincevano per niente. Ashton. Ashton e quella sua stupida bandana che mi sembrava l'oggetto più inutile al mondo, appoggiato al muro. 
«Ciao!» esordì Calum, di fianco a me. Spalancai gli occhi. 
Ashton si girò, lo guardò per un tempo che era decisamente troppo, poi «Ciao» lo salutò. 
«Sono Calum.» Gli porse la mano, come solo lui sapeva fare, col suo atteggiamento goffo. 
«Ashton» E gliela strinse, con un'estrema lentezza. Sapevo che stava ridendo sotto ai baffi, perché Calum continuava a presentarsi. «Hai visto Luke? Ho dimenticato le chiavi della camera e le ha lui» sospirò, con un mezzo sorriso sul volto. 
«Non era in classe» gli spiegò Calum.
«Merda, allora si è chiuso dentro e si è addormentato, quel deficiente!» si schiaffeggio la fronte, «Va beh, scusa, vado!» e prese a camminare velocemente verso le scale. 
«Ma tu sei scemo» decretai. 
«E tu permalosa, Becky.»
«Hanno qualcosa, questi. Cristo, guardali. Hanno dei comportamenti strani.»
Calum sbuffò e continuò a provarmi il contrario fino a quando non arrivammo alle nostre camere. Mi salutò alzando gli occhi al cielo e non capivo perché tutti continuassero a nascondere quell'evidente situazione. 
«Ciao, stronzetta» Michael Clifford mi accolse, non appena aprii la porta. Stavo per ribattere quando «Stasera qui dentro non ci stai mica. Esci a cena con me, perché sono la tua persona preferita, e alcuni del piano. È tradizione.» 
La stessa espressione furba, perversa, piena di sorpresa. Sapevo a memoria ogni piccolo pezzo di Michael, non mi sfuggiva niente.
«A cena dove, eh?»
Alzò le spalle, «Quello a pochi passi da qui. Il resort che vediamo dal balcone.»
«Ah, quello a me sembrava più un pub» lo colsi in pieno. 
Il mio migliore amico sbuffò sommessamente e «Senti, stasera stacchi il culo da quel letto e basta. Ieri non hai mangiato ed io non mi dimentico di queste cose» ribatté. 
Non dissi più niente e mi rinchiusi in bagno per farmi una doccia fresca. Sentii Michael uscire, pensai che ci sarebbero stati anche Luke ed Ashton e questo mi metteva una leggera ansia. Ma ci passai sopra e mi vestii, per poi stendermi sul letto e guardare un po' di tv. 
Michael tornò dopo poco con un panino in mano, seguito da Calum. 
«Noi non abbiamo ancora visitato questa città» disse, sdraiandosi quasi addosso a me. Quel moro aveva sempre bisogno di affetto. 
«Ed io non ho intenzione di farlo adesso» affermai. 
«Magari stasera» tentò lui.
Presi ad accarezzargli i capelli. «Ti ricordo che domani abbiamo scuola.» 
Guardai Michael e lo vidi con una faccia arrabbiata. Se c'era una sua caratteristica prevalente, quella era la gelosia. Geloso fino a fare schifo, fino ad uccidere qualcuno. Sorrisi mentre mi puntava gli occhi addosso perché Michael geloso di Calum era una situazione davvero divertente. 
Si portò un pollice al collo e finse una decapitazione, tutto all'insaputa del moro. 
«Calum, andiamo a fumarci qualcosa fuori?» intervenne. 
L'altro scosse la testa e «Dopo, dai, ho sonno» rifiutò.
E dopo pochi minuti si addormentò, ancora attaccato a me, con un'espressione rilassata in viso. 
«Ma chi me lo fa fare, a me, di essere il tuo migliore amico?» esasperò Michael, fingendosi offeso.
«Vai a cagare, geloso.»
Mi squadrò e «Ti odio» ringhiò.

«Io non ci esco con questi capelli» si lamentò Calum. 
Infilai una mano in quella chioma scura e cercai di sistemarglieli meglio, provando al alzarglieli senza usare quello schifo di gel. 
«Sei proprio un rompi cazzo. Guarda ora, direi decisamente meglio.» 
Si osservò attentamente allo specchio e «Al diavolo!» urlò. 
«Muovetevi, voi due» strillò Michael, già fuori dalla porta. 
Ci vollero altri due minuti per essere tutti e tre fuori dalla camera ed uscimmo dalla due. Fuori, appoggiati al muro della uno, Ashton e Luke si stavano passando una sigaretta. Michael li vide e li salutò, senza troppo impegno, e continuammo a camminare fino a raggiungere il posto. Notammo alcuni ragazzi che avevo visto frequentare la nostra scuola, sia più grandi e sia più piccoli. 
Quello era decisamente qualcosa di più malato di un semplice posto in cui mangiare. La musica, il bancone per gli alcolici, l'atmosfera agitata e impregnata di cazzate giovanili. 
Ci sedemmo ad un tavolo vicino al muro, forse l'unico libero. 
«Voglio mangiare ed andarmene da qui, sia chiaro» avvertii. 
I due mi ignorarono completamente, cominciando a leggere i vari pasti da ordinare. Poi sentii chiaramente due sedie strisciare sul pavimento. Alzai lo sguardo e Ashton e Luke si erano appropriati per metà del nostro tavolo. 
«Ciao» disse Luke. 
Credo di aver avuto la faccia più stupida di sempre in quel momento. Sconcertata al massimo, passavo lo sguardo su Calum e poi su Michael. 
«Ehi, voi due!» li salutarono. 
«Non avete ancora ordinato, vero?» chiese Luke.
«No, non ancora» gli rispose Calum, intento a scegliere cosa mangiare. 
Non capivo cosa diavolo ci facessero quei due al nostro tavolo, ma decisi di starmi muta a calma. La presi come una provocazione, anche perché lo vedevo il sorriso di scherno sulle labbra del biondo, quindi decisi di non darla vinta a nessuno. 
Qualche minuto dopo avevamo già davanti i nostri panini e le nostre birre. 
«Allora, cosa ci fate voi nella uno?» esordì Calum. Ashton e Luke si guardarono per quegli istanti che sarebbero sfuggiti a tutti, ma non a me. Poi Luke fece un cenno quasi invisibile con la testa e Ashton cominciò a parlare, raccontando cazzate su cazzate. Io guardavo Luke. Lo fissavo, ecco. Volevo dargli fastidio, volevo che cominciasse a bruciare sotto il mio sguardo di fuoco. Puntò i suoi occhi azzurri nei miei, terribilmente scuri. Voleva capire cosa io avessi capito. In realtà, niente. Ma mi piaceva fargli intendere di sapere tutto, di averlo in pugno. Mi dava fastidio che fosse così indistruttibile e cinico. 
«Sei proprio fastidiosa» sbottò, continuando a mangiare. 
Rimasi sbalordita, non me lo aspettavo. Nessuno, tranne me, lo aveva sentito. 
«Quella parola si addice a te, semmai.» Cercai di rimanere tranquilla, quelle parole non mi toccavano per niente.
Luke rise, risultando disgustosamente bello, e «Hai proprio un carattere di merda» affermò.
Posai pesantemente il gomito sul tavolo. Gli altri continuavano a parlare ad alta voce mentre quel coglione proseguiva con i suoi insulti migliori. 
«Ti strapperei a mani nude quello schifo di piercing. Ridicolo.»
«Questo piace alle ragazze. Fatti qualche domanda» ghignò.
«Mi stai dando del maschio? Stronzo e arrogante, pensi di essere il meglio, ma sappi che anche i tuoi disegni fanno schifo, e anche il tuo modo di vestire e il tuo modo di parlare.» Adesso Michael mi stava guardando e forse aveva anche ascoltato le mie parole. 
Luke si strinse nelle spalle. «Ricordati che coloro che più si lodano, si mostrano e appaio sono quelli che ne hanno bisogno, sono anche i più insicuri» mi spiegò e non trovai nient'altro da dire.




Hei people!

Ok, voi non potete capire cosa mi è successo. Il 27 sono andata a Milano per i 5sos e il 28 per gli One Direction e sapete cosa? Tornata a casa, mi sono completamente dimenticata il continuo della storia. Che panico.
Comunque, come vi sembra stia andando questa storia? Personalmente, a me piace il fatto che non ci siano personaggi con caratteri "deboli". Nel senso, nessuno si lascia completamente sottomettere da qualcuno. Penso che rispecchi molto ciò che vorrei essere nella vita reale. 
Luke e Bekcy sono entrambi forti, con caratteri decisi, determinati. Mi sa continueranno a farsi guerra.
Non so mai cosa dire negli spazi autrice, è quello che il capitolo è, anche se questa frase non ha senso.
Ringrazio chi recensisce e chi mi dà un po' di fducia :) Ciao!
Nali

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Capitolo 4
*** 24k. ***


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Una settimana era passata.
Mi ci stavo quasi abituando, all'idea di vivere in un posto che non fosse casa mia. Iniziavo a sentirmi libera anch'io, senza dare conto a nessuno di ciò che facevo o dovevo fare. Potevo forse anche tollerare la presenza così vicina di Michael, lo sfregamento di ciabatte contro il pavimento al mattino, i suoi boxer sporchi accasciati vicino al letto, il suo armadio grondante di vestiti su cui inciampare. Li avrei visti tutti i giorni e piano piano ci avrei fatto l'abitudine. 
Però poi usciva, diceva di andare con Luke ed Ashton a farsi un giro, e questo mi faceva incazzare. Michael era una cosa mia. Da non condividere con nessuno, da tenere nascosta a tutti. 
«Che cosa fai durante occupazione, oggi?» gli chiesi. 
Michael tolse gli occhi dal suo cellulare e, mentre si stiracchiava, «Mi sa che mi trovo un posto in cui poter fumare in santa pace» mi rispose. 
Uscii dal bagno, con una spazzola in mano, ancora in reggiseno e mutande. «Con...?»
«Luke ed Ashton.»
Sospirai. «Stai con me, oggi.»
Gli imponevo la mia volontà perché sapevo di poter fare solo questo. 
Michael, come ogni volta, sbuffava e si buttava a peso morto sul letto. «Da quando sei così appiccicosa?»
«Ti odio. Sul serio» mi innervosii e tornai a prepararmi in bagno. 
Odiavo quando faceva così. Pensavo che la sua vicinanza fosse una cosa scontata e che mi fosse dovuta. 
«Che palle, Becky. Sei la solita paranoica del cazzo.»
Decisi di non dargli più retta e, quando uscii e lo vidi ancora lì, sdraiato, «Dai, su. Puoi stare con noi» mi concesse. 
Fumavo di rabbia perché non era così che doveva essere, non mi doveva concedere ma dare e basta. Probabilmente ero una persona orribile.
Era il giorno di occupazione per tutta la scuola. Nessuno aveva idea di cosa fare, perché alla nostra vecchia scuola queste cose non capitavano mai. Aspettammo anche Calum e ci dirigemmo verso il Sefton. 
Appena arrivammo, sentimmo una musica in lontananza, sicuramente assordante da vicino, proveniente da chissà quale cassa. Gli studenti andavano in giro con vari megafoni e striscioni ed altri, semplicemente, erano affacciati alle finestre delle classi. 
«Che figata» commentò Calum. 
«Col cazzo che le vedi queste cose al Norwest!» affermò, euforico, Michael. 
Facemmo un giro per tutti i corridoi, esaminando la situazione. Sembrava un'enorme festa per sbandati. Un ragazzo passò correndo, con la maglietta sporca di tempera, e lanciò una bottiglia mezza piena di un qualche alcolico. Riuscii di poco a prenderla al volo e «Ehi!» urlai, squadrando ciò che avevo in mano.
Se qualsiasi personale del posto mi avesse visto con quella bottiglia, una sospensione di qualche settimana me la sarei presa sicuramente. 
Michael e Calum risero.
«Cosa vi ridete? Vi ci faccio la doccia con questa, se non la smettete» li minacciai.
Dal fondo del corridoio vidi arrivare Ashton e Luke. Puntai lo sguardo su di loro, così che anche i miei due amici si girassero e si accorgessero della loro presenza.
«Ciao, belli!» esordì Calum.
Alzai gli occhi al cielo e mi portai alle labbra il boccale, assaporando quel liquido che non era nemmeno tanto male. 
Ormai quei due ragazzi avevano imparato a non salutarmi, se non con qualche cenno con la testa, a cui io rispondevo svogliatamente. Luke mi passò lo sguardo addosso, lo sentii penetrarmi dentro, così come ogni volta. 
«Andiamo in un posto più tranquillo, va bene?» propose Ashton. 
Annuirono tutti, io assistetti passivamente. 
E sapevo che avrei dovuto far prevalere la mia tesi di non seguire quegli stronzi, perché ci ritrovammo ad attraversare il campo da basket, cercando di risultare il più possibile invisibili. Solo il fatto di farmi vedere in giro con loro due mi faceva sentire a disagio. Poi vidi Luke salire sulle gradinate a strisce blu, saltare giù e sparire sotto di esse. Aggrottai la fronte. Calum fece lo stesso, così come Luke. Salii anch'io sulle gradinate, le riscesi dall'altra parte e notai una piccola entrata sotto di esse. Ci misi piede dentro e mi accorsi di quanto segreto fosse quel posto. 
«Come l'avete trovato?» domandai, stupita. 
«Beh, diciamo che quando si vuole fuggire da una interrogazione si provano tutti i nascondigli» disse Luke, sedendosi per terra. 
Notai che sotto ai miei piede c'era erba, erba cresciuta sotto a delle gradinate. La trovai una cosa ridicola. 
C'erano anche mozziconi di sigarette per terra -appartenenti sicuramente ai due ragazzi-, uno zaino, bottiglie di plastica vuote e sporche. La mia faccia non doveva avere una bella espressione. 
«Che cosa fate qui, voi?» domandò Calum, sdraiandosi completamente al suolo, portando le braccia sotto la nuca. 
Ashton si accese una sigaretta, io bevvi un altro sorso dalla bottiglia.
«Ci rilassiamo» spiegò Luke, tranquillo.
Anche il resto di noi si sedette.
«Non solo...» aggiunse Ashton, malizioso.
«Che schifo!» Spalancai gli occhi e feci per alzarmi, quando una risata si espanse nell'aria.
«Scherzavo! Semplicemente, io e Luke parliamo. Non mi chiedere di cosa, alcune volte anche l'argomento più stupido basta» affermò. 
Annuii, perlopiù sconcertata. Le voci, lì sotto, sembravano amplificate il doppio. Poi Michael mi strappò dalla mano la bottiglia e se la sgolò quasi tutta.
«Da quanto tempo state insieme?» chiese Luke. 
Scoppiai a ridere e alzai lo sguardo su di lui. «Non riesco a sopportarlo come amico, figurati come fidanzato!»
Michael mi tirò un pugno leggero. Il biondo rimase con la stessa espressione per un po', senza accennare a nessuna emozione. Sperai che non dicesse niente riguardo al bacio che aveva visto tra me e Michael, perché parlare di quel rapporto malsano che avevo con Michael davanti ad altre persone mi faceva vergognare. E infatti Luke non lo fece, incastrandosi nei suoi pensieri.
Il silenzio calò, in sottofondo c'era solo la lieve musica proveniente dall'istituto. Il freddo di gennaio si era impossessato anche delle mie ossa, rendendomi le labbra violacee. Presi a guardarmi le mani, quando mi resi conto che Luke non aveva ancora smesso di puntarmi gli occhi addosso. L'azzurro che aveva pareva volermi risucchiare, senza volermi più rilasciare. Abbassai velocemente le palpebre, per poi riaprirle velocemente. Bastò un battito di ciglia, e sul suo collo comparve una vena calcata. Pensava, Luke. Io lo sapevo. Pensava a cosa diavolo io potessi sapere di lui, di ciò che si portava dietro, di ciò che lo faceva essere quello che era. L'avrei scoperto, un giorno. E gli dava fastidio.
«A che camera state voi?» chiese il moro. 
«La 73, terzo piano della Uno, penultima camera a sinistra. È il delirio, lì» lo informò Ashton. 
Una smorfia crebbe sul viso di Luke. «Potevi chiederlo direttamente alla tua amica...»
Sussultai sul posto, il freddo sembrò riscaldarsi e raffreddarsi in una frazione di secondo. Tutti spostarono lo sguardo su di me. 
«Ci sono finita lì il primo giorno, senza mia intenzione, stavo cercando un bagno. E tu, pezzo di merda,» indicai Michael «eri scomparso. E tu,» bruciai con lo sguardo Luke «mi hai rotto il cazzo. Come fa la gente a starti vicina?» alzai di un'ottava la voce. Il petto mi si alzava ed abbassava velocemente e cercavo di nasconderlo, vergognandomi di tutta la rabbia che avevo addosso.
Luke rise piano. «Tu sei pazza, ragazzina.» 
«Va bene, va bene» lo liquidai. «Non parlarmi più.»
Si strinse nelle spalle, sollevando di poco il bacino, probabilmente per recuperare il pacchetto di sigarette. Un gesto normale. Doveva essere un gesto normale. Un conato di vomito minacciò di arrivare alla mia gola, ed improvvisamente mi sentii sudata. Un flash, uno dei tanti che mi perseguitavano. 
Poi sollevò il bacino, in cerca delle sigarette. Doveva essere così che si faceva, dopo una scopata. Mentre i tremolii in quella stanza non cessavano...
Respirai più affannosamente, cercando di non far sospettare niente. Nessuno si accorse di nulla, se non forse Luke, che trovava un certo divertimento nel catturare ogni singolo mio movimento. Guardai altrove, con un mal di testa che non cessava.
Avrei voluto lasciarmi il passato alle spalle, chiuderlo col lucchetto, magari. E invece i ricordi alcune volte hanno mani che ti prendono, ti stritolano e ti intrappolano. Non ne esci, dai ricordi. 
Deglutii, cercando di prestare attenzione alla discussione iniziata da Michael. Ashton cominciò a parlare.
«Ho una sorella e un fratello più piccoli, mi aspettano a casa almeno una volta al mese.» Ne parlava con quella voce che urlava affetto da ogni parte. Quel sorrisetto cresciuto sulle labbra morì non appena «E tu?» domandò Michael a Luke.
Quest'ultimo distolse lo sguardo da me, la sua mascella si serrò e parve in una posizione di difesa interiore. Era come vederlo costruirsi attorno enormi muri.
«Ho dei fratelli» affermò, infine. 
«Quanti?» chiese Calum, con fare distratto. 
Ashton si sistemò meglio sul posto, a disagio. 
«Due» decretò, guardandosi le mani. «Più grandi.»
Mi sembrò di aver vissuto quella scena sotto pelle. Il battito del mio cuore era aumentato, senza un apparente motivo. Quel silenzio e quella tensione mi mettevano ansia. Ashton e Luke mi guardarono un secondo dopo, in cerca di qualche traccia. Io misi su un'espressione sprezzante, cercando di intimargli paura, nell'intento di far credere di aver capito tutto ciò che c'era dietro. Speravo davvero di farli ansimare di paura. 

Il giorno dopo, a scuola, Calum non ci venne. 
«Non ne ho voglia, Becky. Lasciami stare» aveva protestato quando avevo bussato alla sua porta. E, dopo tre tentativi, sbuffai frustrata e decisi di andarmene. 
Michael, coi capelli verdi ormai sbiaditi, mi seguiva con una faccia sciupata. Le nostre suole strisciavano sull'asfalto mentre raggiungevamo il Sefton, senza nemmeno preoccuparci di darci una decenza almeno nel camminare. Eravamo stanchi. Un po' come sempre. 
«Scommetto che a me, invece, non avresti permesso di saltare così a caso un giorno di scuola» bofonchiò Michael. 
«Fatti i cazzi tuoi, tu. Non sei Calum.»
«E cosa cambia?»
Lo guardai. Il viso pallido, quegli occhi che prendevano in giro il verde chiaro e l'azzurro cristallino. 
«Cambia. È diverso e basta, non voglio intavolare questa conversazione» chiusi il discorso, tenendo lo sguardo altrove. 
«Sempre strana sei.»
«Ho detto basta. Ed ora andiamo in classe» imposi, una volta entrati. 
Michael annuì piano e mi posò un leggero bacio sulla fronte nello stesso momento in cui suonò la campanella. 
Mi diressi velocemente in aula ed io le potevo notare, tutte quelle teste che si abbassavano al mio arrivo. Probabilmente il problema non lo vedevo solo io perché, semplicemente, il problema ero io. Così diffidente, cinica, cattiva. Ero il ritratto di una persona malvissuta. 
Mi sedetti ad un banco vuoto, sempre in penultima fila. Poggiai lo zaino, estraendo il necessario per subire quella lezione col vecchio. 
«Buongiorno, ragazzi» esordì, con la sua valigetta sempre piena, che venne posata rudemente sulla cattedra. 
Luke Hemmings entrò due minuti dopo, ancora una sigaretta spenta e nuova in una mano.
«Presente» fu appena in tempo a dire, affannato.
Prese posto nella fila a destra dietro di me, senza farci nemmeno caso. Quel giorno non estrasse nessun blocco di fogli. Se ne stava lì con le mani intrecciate, a tormentare il piercing al labbro inferiore. 
Il vecchio parlava di metalli, pregiati e non, di leghe d'oro. La mia mente si assentava, durante quei momenti. Improvvisamente sentii lo sguardo di Luke su di me, me ne accorgevo quando le persone mi osservavano. Mi girai, forse per chiedergli cosa diavolo aveva da guardare.
«24 carati» disse.
Alzai le sopracciglia, perplessa. Avevo imparato ad odiare la sua voce e lui la mia, non capivo cosa volesse. «Sei impazzito per bene, a stare qui dentro, eh.»
Lui non mi ascoltò. «Sei il riflesso del diavolo, ma quello che hai dentro vale 24 carati.»
La mia testa si tirò velocemente indietro, come un riflesso spontaneo. Sul mio viso calò un'espressione confusa, o forse incuriosita. Ci fissammo in silenzio per una ventina di secondi, le mie corde vocali sembravano non assecondarmi. 
«Uhm, i-io...»
«...L'oro di massima purezza è dunque a 24 carati» spiegò il vecchio, concludendo la sua frase. 
Abbandonai quegli occhi oceano, al suono di quelle parole. Mi sentii subito a disagio, anche se ormai era lo stato perenne che avevo quando c'era la presenza di Luke. 
Nessuno me lo aveva mai detto. E sperai che quelle parole venissero cancellate, perlomeno nella mia testa. 
Perché Luke, per aver tratto quella conclusione, doveva aver scavato dentro, sotto tutto lo schifo che ero. E questo mi spaventava da morire. 

Aspettai Michael fuori da scuola e tornammo in camera assieme. 
«Tutto ok?» si premurò di chiedere, anche se sapevo non gli importasse più di tanto. 
«Che cosa intendi, tu, per 24 carati?» ribattei io, senza ascoltarlo. 
Michael rise, facendo scomparire una mano tra quei capelli impazziti. «Probabilmente la collana che mio padre ha regalato a mia madre. Quasi oro puro, una roba fighissima.»
Alzai gli occhi al cielo perché il mio migliore amico era così ottuso. 
«A parte oggetti.»
Rallentò il passo, pensandoci sopra. Infilò le mani nelle tasche e «Quello che ho perso» rispose, infine.
«Che cosa hai perso, Michael?»
«La mia famiglia, credo. Sì.» Il suo tono si abbassò un po' e il suo sguardo non riuscì più a reggere il mio. 
«Ce l'hai una famiglia. Io e Calum siamo sempre qui.»
Un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. «Che cosa voleva dire quella domanda, comunque?»
«Niente di che.» Alzai le spalle. «Mi chiedevo quando una persona possa valere così tanto.»
«Penso quand'è veramente speciale.» 
Annuii, anche se non mi avrebbe visto. 
Dopo pochi minuti che entrammo nella stanza 36, un Calum Hood tutto rilassato fece irruzione nella camera. Capelli scompigliati, canotta ripiegata sulle spalle e skinny jeans neri. Sempre uguale. 
«Buongiorno, pazzoidi!» trillò, mentre io e Michael lo guardavamo scettici. «Mi sono svegliato con l'intento di farmi un tatuaggio. Oggi» annunciò. 
«Cal... Ma le pensi di notte, queste cazzate? Devo ricordarti di quanto ti sei pentito di quella piuma che hai sul petto?» 
Lui si strinse nelle spalle. «Ne sono convinto, questa volta. Per favore, devi solo accompagnarmi. Lo sai che non ci riesco senza di te» mi implorò, mettendo su quel broncio così infantile e odioso. 
«Non sappiamo nemmeno dov'è, un negozio di tatuaggi» gli feci notare. 
«Ashton, quell'amico di Michael, lui lo sa. E ha pure una macchina.»
Mi passai una mano sul viso, esasperata. Non lo si poteva fermare, Calum. 
Mi guardai allo specchio, vedendo i miei capelli scuri ricadermi spettinati lungo la felpa. La carnagione del mio viso più chiara rispetto al solito, le labbra screpolate. Avrei voluto rompere in mille pezzi quello specchio. 
«Divertiti» ironizzò Michael, guardandomi provocatorio. 
Lo ignorai ed uscii con Calum, percorrendo quell'infinito corridoio. Quando ci trovammo nel vialetto sul quale le nostre camere si affacciavano, vedemmo una semplice Golf, con già il motore accesso, che ci aspettava. 
Ashton se ne stava con un braccio fuori dal finestrino, facendoci segno di raggiungerlo. Mi accomodai sui posti dietro e un pungente odore di erba mi fece storcere il naso. 
«Cosa ti farai tatuare?» chiese a Calum, mettendo in moto l'auto. 
«Ahm, ancora non lo so. Sceglierò là.»
Poggiai una mano sulla mia fronte e rimasi così fino alla fine del viaggio.
Appena misi piede sull'asfalto, respirai aria pulita. Squadrai Calum, facendogli capire che tutta quella situazione mi faceva innervosire. Il negozio di tatuaggi lo aspettavo più intimidatorio, sinistro, mentre assomigliava più ad un negozio normale. 
«Buongiorno» salutò un signore tatuato da testa a piedi, dietro al bancone. 
«Il mio amico vorrebbe un tatuaggio, abbastanza semplice» parlò Ashton, indicando Calum, che fu pronto ad annuire. 
Io mi andai a sedere su una delle sedie poggiate al muro del negozio, non appena il signore ordinò al moro di seguirlo. Ashton li seguì, ma pochi minuti dopo lo vidi uscire dalla stanza. Camminò dritto ed uscì dal negozio. Io non commentai. Poi lo avvistai, era ancora fuori, stava solo fumando una sigaretta. Nonostante avessi sperato si consumasse lentamente, due minuti dopo rientrò e prese posto non troppo vicino a me. Abbassò la schiena e la stessa cosa la fece con la testa, prendendo a toccarsi le mani.
Silenzio. Solo questo. 
«Sia chiaro,» esordì. «non voglio iniziare nessun discorso con te.»
«Nemmeno io» ribattei, tranquillamente. 
Girò la testa, ancora bassa, in mia direzione. «Ma devo dirti una cosa.»
Feci cenno col capo. 
«Non ho idea di chi tu possa essere, ma so che io e Luke non vogliamo saperlo.»
Credevo anche io che fosse giusto così. Ma le cose dovevo deciderle io. 
«Mi stai dicendo di non avvicinarmi a voi?» gli domandai con un tono superiore, sprezzante. 
«Può darsi.»
Dalla gola mi salì una risata raschiata, cattiva. «Sei caduto davvero in basso, Irwin. Le cose vanno nascoste silenziosamente.»
Il suo sguardo si incupì e da lì in poi non spiccicò più alcuna parola.
Io lo sapevo bene. Luke diceva di scappare, forse perché non aveva mai provato a nascondere. Nascondere così bene da convincere anche te stessa.

Ma tu, Ashton? Quanto vali? Quanti carati hai, lì dentro?




Ehi, people!
Sì, sono in ritardo e non sarei Annalisa se non lo fossi. Il concerto del 6 a Torino era inaspettato e uhm, mi sono ritrovata lì e non ho avuto molto tempo per scrivere, ci metto un po' a riprendermi dopo eventi di questo tipo. E ieri sono stata per aria per i biglietti di questi quattro dementi, ew. Ma questo non vi interessa, parliamo del capitolo lmao
Ci metto un po' a mostrare il carattere dei personaggi e lo so, però penso che non sarebbe così tanto bello se lo scopriste subito, e forse sì, parlo di Luke ed Ashton.
Finalmente sono apparsi i 24 carari, il cuore della storia. Mi soffermerò sopra, richiamandoli spesso. Lascerò che sarà Becky a ragionarci sopra.
Vi ringrazio perché questa storia è iniziata da poco ed è già nei preferiti di 40 persone e boh, credo di amarvi. 
Al prossimo capitolo! 
Nali

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Capitolo 5
*** Bronze blood. ***


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Posai il mio zaino sulla panca. Pensai bene. Sì, ma bene cosa? 
Mi guardai intorno e gelai sul posto, mentre tutte le mie compagne cominciavano a spogliarsi, pronte per la lezione. Io educazione fisica mica la volevo fare. Non avevo il fisico. 
Mi guardavo in giro, seduta sulla panca fredda e arrugginita, osservando le mattonelle spaccate. Non ci avrei più rimesso piede lì sotto, e avrei chiesto a Michael se anche il suo, di spogliatoio, fosse così terribile. Michael che oggi proprio non voleva saperne di venire a scuola.
Allora mi alzai, mi ripresi il mio zaino e, silenziosa, uscii da lì. Il corridoio umido e poco illuminato era lì ad attendermi, ampliando i miei passi. Passai davanti allo spogliatoio maschile e feci finta di nulla, arrivando alla porta e spingendo la maniglia di emergenza. Raggiunsi la palestra, fredda pure quella, e intravidi il mio professore. Pensai di inventarmi qualcosa e farla franca. Di mettere su un sorrisino e appostarmi sulle gradinate. Ma, non appena mi avvicinai all'uomo, alzò una mano in cielo e la chiuse un secondo dopo, come a catturare qualsiasi parola fosse uscita dalla mia bocca. 
Sbuffai e lo guardai, irritata. 
«Va' a cambiarsi, signorina. Non le sento proprio, le sue parole» disse e cominciò a leggere sul registro. 
Sbattei il piede destro sul pavimento, mostrando la mia rabbia. Io non volevo fare nessun tipo di attività fisica. 
Me ne tornai indietro, irata, capendo che non avrei avuto altre attenzioni. Spalancai la porta, un'altra volta, e fui colpita dal vento odioso che c'era in quel periodo. Sentii poi chiamare il mio nome, un bisbiglio appena udibile. Mi girai, cercando quella voce. 
«Rebecca, sono Luke» mi chiamò. 
Allora capii. Mi sembrò di avere improvvisamente caldo, ma col corpo ricoperto di sudore freddo. Lo raggiunsi, era vicino al muro, il lato della palestra. Un posto mai frequentato da nessuno. 
«Hemmings» constatai. «Cosa c'è?»
Non aveva una bella cera. Era pallido e aveva il viso segnato dalla stanchezza. Ma non gli avrei mai chiesto da quanto non dormisse. E quell'aria stanca pareva dargli quel tocco in più di impassibilità, di freddo. Più freddo delle mattonelle nel mio spogliatoio. 
Non mi avvicinai. Fu lui a farlo. 
Il vento gli faceva diventare le labbra secche e gli occhi più lucidi. Ad un certo punto dalla mano intravidi un coltello. Uno di quelli svizzeri, tascabili, dalla lama non tanto spessa. 
«Luke» mi uscì il suo nome, mentre lui non fermava i suoi passi. 
Mi ammazza, pensai. 
«Luke, Luke. Fermo. Che ti prende?» 
Non mi scansai. E si fermò. Ormai era davanti a me e le sue occhiaie apparivano più calcate. 
Tirò su la manica della sua felpa, impugnò per bene il coltello e no, non mi imposi di fermare quel presunto pazzoide. 
Fallo, gli avrei detto. Solo per il gusto di istigarlo. Ma poi Luke piantò la lama nel suo braccio ed io sussultai un po'. Tirò un breve taglio, abbastanza in superficie e si fermò a guardarmi. 
«Sei completamente fuori» affermai. 
Luke rise, e una striscia di sangue gli colò giù per la mano. 
«Lo sto facendo per te. O meglio, per noi.» E, detto questo, posò la sua mano, ormai insanguina, sul mio viso. L'avrei collegata alla mano di un morto, mi chiesi se ci passasse il sangue ogni tanto, di lì. 
«Che cazzo stai facendo?» sbraitai. Gli strinsi braccio, per scacciare via quella mano dal mio volto, ma sul suo viso comparve una smorfia di dolore e il tessuto della sua felpa si appiccicò alla ferita. Glielo lasciai subito stare. 
«Bene» iniziò. «Sembra proprio che ti si sia appena spaccato un labbro. Ora andiamo dal prof,» tirò giù la sua manica, nascondendo ogni traccia di sangue e «glielo mostri e ti manderà in infermieria, saltando la lezione. E io ovviamente ti accompagnerò» concluse. 
Mi venne voglia di urlare, perché mi aveva usata per scappare dal Sefton. Non dissi niente, però, restando ferma davanti a quella scena e a Luke, sicuro di ciò che stava facendo. E andammo dal professore che, forse un po' scettico, ci mandò a farmi medicare. Mentre quello da curare, forse non solo fisicamente, era il biondo che avevo accanto. 
Ho il sangue di Luke addosso, continuavo a pensare. Ma, già alla fine di quel pensiero, lui non c'era più. Così me ne tornai in camera. Percorsi tutta la strada che c'era tra il Sefton e la mia stanza e corsi. Corsi perché quel sangue, ancora fresco, mi faceva sentire sporca e usata. Corsi perché quello che avevo addosso era di Luke, e non mio. 
Al rientro mi aspettai Michael, ma non c'era. Mi precipitai in bagno, catturando il mio riflesso su quello specchio che stava al di sopra del lavandino. Mi venne voglia di tirarci un pugno e spaccarlo, proprio come quello nel bagno di Luke. A quel pensiero rabbrividii e mi sciacquai il viso fino a quando ogni traccia di sangue non scomparve.

Di quell'episodio, non ne parlai con nessuno.
«Papà è tornato in città» mi informò mia madre al telefono, quel pomeriggio. E questo bastò per rovinarmi anche il resto della giornata.
Michael spalancò la porta verso le sei e trenta. Tirò dritto alla finestra, senza nemmeno salutarmi e si appostò lì, con la sua sigaretta. 
Ora vado da lui e lo pesto. È la volta buona che lo faccio. 
Tirai su la testa dal cuscino. «Dove sei stato, eh, stronzo?»
Vidi il fumo uscirgli dalle labbra e «Da mio padre» rispose, atono.
Un verso sorpreso mi risalì dalla gola. «Sei tornato là, oggi?»
«Mi è venuto a prendere» fece. 
«Che cazzo voleva?» 
«Senti» mi apostrofò. «Perché ti piace tanto farmi la guerra, Becky? Cosa c'è in te che non va?»
Questa volta mi misi a sedere sul letto, mentre la rabbia mi comandava di andare da lui e prendergli il viso a schiaffi. 
«È in te che qualcosa non va, Cristo! Che cosa stai facendo, eh? Che cosa stiamo facendo noi, qua? Non mi hai detto che te ne ritornavi là. Non mi dici niente!»
Qualcuno diede un calcio alla porta, per imporci di abbassare i toni. A noi non fregava nulla. 
«Non devo dare conto a te di nulla. Chiaro? Non mi devi più parlare. Non ce la faccio più con te!» Fece un lungo tiro dalla sigaretta e mi guardò. Era la prima volta che Michael mi guardava mentre mi urlava addosso. 
«È così che la pensi?» gli domandai. Ed io non lo so perché, ma mi fece così male che cominciai a sentire le lacrime agli angoli degli occhi e tutto si fece più sfocato. Ma io non piangevo mai.
Michael non rispose. «Sono stanco» mi disse. «Sbollisco la rabbia e torno. Stasera non mi trovi in camera.» Buttò il mozzicone giù dal balcone, si strofinò i palmi delle mani sui jeans neri e mi passò davanti, uscendo dalla stanza 36. 
Mi passai le mani sul viso, frustrata e... Non lo sapevo nemmeno io. Avevo questo macigno nello stomaco, che mi rendeva tremendamente triste e questo lo odiavo. Niente doveva toccarmi così tanto, nemmeno Michael. 

Un'ora dopo sentii dei passi avvicinarsi alla porta e fermarsi davanti ad essa. Era già arrivato e la mia testa girò di scatto.
Poi però quel presunto Michael bussò e questo mi sembrò proprio strano. Michael piuttosto le sfonda, le porte, pensai. 
Le nocche sbatterono un'altra volta contro il legno. 
«Ma che cazzo, Michael, entra e basta!»
«Non sono Michael ma okay, entro.»
La maniglia si abbassò e la porta scricchiolò, rivelando un Luke piuttosto fradicio. Spalancai gli occhi, presa alla sprovvista. 
«Non provarci davvero» lo minacciai. Ma lui ormai era già dentro.
«Dov'è Michael?» domandò. 
Le gocce d'acqua gli partivano dai capelli fradici e gli finivano sul viso, alcune volte tra le ciglia. E le mani erano quasi violacee, segnate dal freddo. 
Io rimasi seduta sulla poltrona, quella davanti alla tv e lo guardavo da lì. 
«Non c'è» sbottai. «Puoi andartene.»
Luke si passò una mano tra i capelli, li strizzò e l'acqua gocciolò sul pavimento. 
«Lo aspetterò qui.» E, detto questo, si buttò a peso morto sul mio letto. 
Chiusi e riaprii lentamente gli occhi, provando a non dare di matto. 
«Cosa vuoi, Luke?» chiesi, un po' abbattuta. 
«Niente. Tornerei nella mia, di camera, ma le chiavi le ha Ash. E sto morendo di freddo.» 
«Non voglio avere nessun problema, di nessun tipo.»
«Devo essere sincerò» esordì. «Pensavo mi aggredissi, invece te ne stai lì così, parlando anche civilmente. T'ha lasciata il diavolo?»
Sbuffai, cambiando canale per la trentesima volta e cercai di sprofondare dentro alla poltrona. Mi sembrava assurdo avere quell'essere sul mio letto. Non lo ascoltai nemmeno, non ero dell'umore giusto e «Mi stai bagnando le coperte» gli feci notare. 
«Si asciugano poi, lo giuro. È successo qualcosa?»
Alzai gli occhi al cielo e respirai profondamente. «Ascoltami, stronzetto. Se vuoi stare davvero qui, te ne stai in silenzio. L'ha detto anche quell'altro coglione, che non volete conoscermi. Io sto lontana da voi e voi da me. Ci sismo capiti?»
Luke rise. L'avrei preso a calci. Così, da un momento all'altro. 
«Tu ce l'hai con me per oggi» affermò. Ancora quel sorriso sulle labbra. 
«Mi hai spaventata e mi hai fatto schifo. Ma non ne voglio parlare.»
Le sue risa si espansero ancora in quella stanza. Battei prepotentemente un braccio sulla poltrona e «Senti, ma che cazzo ti ridi?» urlai. 
Luke si placò ed un brivido gli attraversò tutto il corpo. Lo vidi stringersi di più tra le mie coperte. Poi alzò le spalle.
«Le mie risate mi fanno sentire più al sicuro. Sento solo quelle, mi rimbombano dentro e mi estraniano dai brutti pensieri» si fermò ma io sapevo che ci fosse dell'altro. Ed infatti, «Nascondo molte cose» finì. 
«Smettila con queste cazzate, Luke. Non ce la fai a fare la persona normale» lo accusai, seccata di tutti quei giri di parole. «Dimmi cos'è che non va.»
«Se te lo dicessi non ti servirebbe a molto, perché pochi minuti dopo dovrei trovare un modo per ammazzarti.»
«Va bene, va bene. Ora smettila di parlarmi e aspetta Michael in silenzio.»
Ma questo era scontato, perché Luke si addormentò di lì a poco. 

Michael quando aprì la porta iniziò a dar di matto. Non che a me importasse. 
«Come ti salta in mente di farlo restare qui! Quando io non ci sono, tu sei lì, e lui... E lui è lì!» 
Luke ovviamente si prese un bello spavento ed era quasi balzato fuori dal letto. E Michael continuava. 
«Me ne esco per qualche ora e tutto quello che-che combini è...è questo!» urlò, in preda alla rabbia, senza nemmeno riuscire a creare per bene una frase. 
Luke non mi difese, non gli disse che si era auto-invitato. 
«Parlami, Cristo, Becky! Rispondimi, trovami una scusa» mi spronò.
Ma il mio sguardo era fisso sulla televisione, mentre sentivo lo sguardo dei due ragazzi addosso. Sapevo che Luke si stesse chiedendo perché non mi difendessi. 
«Avevi detto di non parlarmi più, mi pare» gli ricordai, con assoluta calma.
Michael parve ringhiare. «Va bene, va bene. Farlo stare qui è il tuo modo di vendicarti? Ti credevo più intelligente, sai?» Poi si fermò e guardò il biondo. «Tu. Perché sei qua?»
Luke si sedette sul letto, ancora infreddolito e «Ti aspettavo. Ashton ha con sé le chiavi e le mie sono andate perse» gli spiegò. 
A quel punto, Michael «Okay. Sì, andiamo, sennò la ammazzo. Che Dio mi tenga buono» disse e, prima di chiudersi la porta con Luke, mi riservò un'occhiata glaciale, capace di farmi sentire nel torto. 
Mi guardai intorno, quelle quattro mura che mi dividevano dalla città. Sprofondai nel silenzio che sapeva inghiottire e non restituire. Il senso di smarrimento era così forte che dovetti impormi la convinzione che no, Michael non mi avrebbe mai fatto del male. 

Era tardi. Lo capisci quando è il cuore della notte e quelle che hai dormito sono solo poche ore. Però quel rumore non cessava. E quelli che sentivo parevano calci alla porta. 
«Svegliate tutti se continuare così!» una voce gridò, ma forse era proprio quella ad aver svegliato gli altri studenti. 
Poi udii solo alcuni lamenti e mi alzai. «Michael?»
«Sono Luke. C'è un problema.»
Il cuore mi salì in gola. La sua voce era paurosamente seria. 
«Ascoltami, Rebecca. Entrambi sono un po'... Brilli? Sì, diciamo così. Apri poco la porta.»
Mi avvicinai, i piedi nudi a contatto col pavimento freddo, e la aprii cautamente. E so, so di essere arrossita in quel momento, perché Luke era a soli due centimetri dal mio volto. 
«Sono dietro di me.» Annuii. «Non credo sia una grande idea lasciarti sola con loro due» continuò. 
Guardai alle sue spalle e vidi Michael intontito ed Ashton trattenere Calum per i polsi. Poi la situazione precipitò, il moro riuscì a liberarsi. Cominciò a gridare, a imprecare, ed io lo avevo già visto ubriaco. Calum faceva paura. Luke dalla fretta di prenderlo spalancò la porta della mia stanza e, nel giro di pochi secondi, Calum prese a dare pugni a destra e a manca per il corridoio. Alcuni ragazzi urlavano dalle loro camere di andare a fanculo, o comunque in posti di questo genere.
«Smettila, cazzo!» gridava Ashton. Luke invece provava a calmarlo. 
In quel momento quello che sembrava essere un indemoniato puntò gli occhi nei miei. Neri, il mio stesso colore. Una consapevolezza spaventosa mi assalì, prendendomi tutti gli organi interni, facendomi respirare a fatica. Capii di dover scappare. Non feci in tempo a chiudermi in stanza che Calum mi si buttò addosso, facendomi cadere a terra. 
Ashton e Luke tentarono subito di togliermelo di dosso, quando quest'ultimo «Lasciala, adesso!» gli ordinava. 
Sentivo le unghie di Calum conficcarsi nel mio polso, non voleva lasciarmi andare. Irrimediabilmente mi si proiettarono nella testa scene vecchie, scene sporche di ricordi amari, mai cicatrizzati, mai curati. Trattenni un gemito di dolore, socchiusi gli occhi, cercando di non farmi prendere dalla confusione del momento. Poi il peso sul mio corpo sparì e, quando riaprii gli occhi, Ashton era per terra insieme a Calum, lo teneva fermo all'angolo della stanza col suo peso. 
«Non ancora. Non ancora tutta questa merda, Ash. Vomito» disse Luke, con voce lamentosa. «Vomito, Ash. Portalo via. Portalo nella nostra stanza e ti prego...» In quel momento Ashton tolse l'attenzione al moro per darla a Luke. Si guardarono, si capirono. Avrei pagato oro per sapere che cosa si erano detti segretamente.
Io nel frattempo mi misi a sedere e poggiai la schiena, ancora dolorante, al muro. Richiusi gli occhi, massaggiandomi i polsi. Sentii la voce di Michael due o tre volte, udii Luke vomitare per almeno cinque minuti e lo sciacquone del water. Successivamente i passi si fecero sempre più vicini fino a quando non si fermarono davanti a me. Il casino che c'era prima faceva sembrare il silenzio così pesante. 
«Stai bene?» mi chiese Luke. 
Annuii. Poi si guardò indietro, vedendo Michael dormire sul letto e si abbassò alla mia altezza, puntellando sui talloni. Fu l'istante in cui mi accorsi delle sue lacrime e contemporaneamente delle mie. Restai sbigottita. C'era consapevolezza che i ricordi sapessero dominare, che il dolore potesse ancora grattare la corazza che mi ero creata da quel giorno. Entrambi piangevamo per ragioni diverse, per ricordi diversi, lo capimmo subito. Si diede una decenza, nascondendo tra i palmi delle mani quelle lacrime dolorose e parlò. 
«Dove vuoi dormire?» E tutto l'astio lo infilammo sotto, lo nascondemmo, per salvarci. 
«Vado nella camera di Calum» affermai. 
«Va bene» acconsentì e ci alzammo. «Dormo io con Michael.»
Luke mi seguì con lo sguardo fino a quando non scomparvi nella camera 38. Ed io non so come, ma quelle poche ore che mancavano all'inizio delle lezioni riuscii a dormirle. Sognai occhi azzurri indagatori, scettici, curiosi. Occhi che mi penetravano sotto pelle e che scoprivano tutto. E a quel punto mi chiesi se sarebbe stato meglio continuare l'incubo ad occhi chiusi o aperti.
La mattina seguente, mi svegliai verso le 7:20. Mi ci volle un po' a riprendermi dal sogno e a collegare il mio nome alla voce di un'altra persona. Michael. 
«Becky! Ci vuoi andare a scuola o no?» 
Mi districai dalle coperte, con ancora addosso i vestiti di ieri e gli aprii. Probabilmente non se lo aspettava, perché pareva star per richiamarmi, ma richiuse subito la bocca. 
«Oh.»
«Sì, oh, Michael. Potevi semplicemente chiamarmi al cellulare» lo schernii, ancora incazzata dal giorno precedente.
Dalla tasca posteriore dei suoi jeans estrasse un telefono, il mio telefono e me lo consegnò. 
«Direi di no» commentò. «Stai bene?»
«Deficiente.» Lo spinsi più in là, tracciandomi la strada ed entrai nella 36, con fare distratto, senza accorgermi di Calum, seduto sul mio letto. 
«Becky...» 
Tolsi le mani dall'armadio e sussultai sul posto. Sicuramente i miei occhi ebbero paura di uscire dalle orbite. Mi girai, trovandomelo lì, con la faccia sciupata e le labbra violacee. 
«Calum.»
Sperai che restasse lì e non si avvicinasse.
«Mi dispiace, i-io...» buttò fuori l'aria, come se avesse trattenuto il respiro per troppo tempo. Distolse lo sguardo da me, quando mi chiese: «Stai bene?» 
Deglutii. «È la seconda volta, questa.» Non volevo farlo sembrare un rimprovero, però parve uscire proprio con quell'intento. 
Calum si passò le mani sul viso e l'indiano tatuato sul braccio pochi giorni prima spiccò sotto il mio sguardo. «Non lo so che cazzo ha di sbagliato il mio subconscio. Io non ho niente contro di te» provò a rassicurarmi. 
«Lo so» gli dissi a quel punto.
«Hai paura di me?» domandò, alzandosi dal letto. 
Io non risposi. Me ne stavo lì, premuta contro l'anta dell'armadio, incastrata dentro alla paura. 
«Va bene» esordì Michael, entrando nella stanza. «Direi che possiamo ricomporci. Penso tu debba andare, Cal. Ci vediamo dopo?»
Calum lo fece. A testa bassa, con la mascella contratta, se ne uscì dalla camera, sorpassando Michael. Potevo essere anche una stronza per eccellenza, ma quella scena mi fece male. Forse più del dovuto, ripetevo a me stessa.
Poi, un secondo prima che Michael si chiudesse in bagno, si illuminò, tornando indietro.
«Ah!»  fece. «Mi sono ricordato una cosa. Luke ha lasciato questo, prima di andarsene, questa mattina.» Prese dal comodino un piccolo foglio ripiegato su se stesso. L'aveva strappato dal mio quaderno degli appunti, quello sulla scrivania.
«Non l'hai letto, tu?» 
«No. Sono abbastanza terrorizzato dalla minaccia che mi ha riservato» disse scherzando, ma sapevo stesse dicendo la verità. Gli avrei chiesto che diavolo scherzasse, ché non c'era niente di divertente. 
Quando se ne andò lo aprii. 
Non dirlo a nessuno che mi hai visto piangere. Ce li hai, i 24 carati, per tenere questo segreto.
Nessuna firma. Una calligrafia sporca, irregolare. Non l'avevo mai vista, la scrittura di Luke.
Sogghignai perché mi resi conto di avere Luke in pugno. Ché in realta l'oro l'aveva confuso col bronzo e non me lo sarei aspettata da lui. Avevo trovato finalmente la chiave per arrivare al segreto che si celava dietro all'azzurro dei suoi occhi, dietro agli sguardi, ai movimenti calcolati. 
Il ricatto.




Hei people!
Io davvero non lo so perché, ma questo capitolo mi è uscito proprio... cattivo(?). Sarà che ho scritto di notte e uh, la notte dà una brutta influenza ahah
Allora, come va? Come vi sembra stia andando questa storia? Spero che un giorno vi ricorderete di me per questa fanfiction e non solo per Two :) Mi sbrigherò a pubblicare 24 carati anche su Wattpad, ormai uso entrambi i siti! Seguitemi se vi va, se vi viene meglio leggere da lì ((
funklou))
Bronze blood, ora che ci penso, è uno strano titolo. Credo di aver collegato il sangue all'inizio del capitolo con la frase che Becky dici alla fine, riguardo al bronzo. Probabilmente dico solo cavolate e ok, me ne vado.
Anyway, in questi giorni parto e torno verso la fine di luglio, non so se riuscirò a pubblicare qualcosa. Sperem, dai.
Vi lascio, mi ritiro, ci vediamo al prossimo capitolo e buone vacanze!
Mi trovate su twitter per qualunque cosa funklou
Nali

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Capitolo 6
*** Anger in the stomach. ***


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La stanza diventò il delirio più assoluto. Io e Michael non avevamo voglia di fare le persone civili, lasciavamo i vestiti ovunque ci capitasse. Provavo una malsana vittoria a vedere il degrado che macchiava sempre di più Michael, senza me. Perché Michael senza me era il nulla. Io potevo essere qualunque cosa, pure senza la sua presenza al mio fianco. Ma lui no. E allora lo osservavo perso, spaesato, anche nelle piccole cose, come il svegliarsi alla mattina. Dimenticava di postare la sveglia, come spesso capitava, ed io lo lasciavo dormire. Prima ero solita rompergli le palle fino alle sue bestemmie, fino alle secchiate d'acqua. Dovevo farglielo capire, che senza di me, non sarebbe andato da nessuna parte. Che poteva avere Ashton e Luke, ma ero io, quella di cui aveva bisogno. Alcune persone si azzerano senza certe presenze.
Non mi importava di essere egoista, Michael era qualcosa di mio, qualcosa che avevo incastrato nelle costole, che non sarebbe stato più in grado di sgattaiolare fuori.
Per questo, quando quella sera di fine gennaio aveva deciso di assistere alla partita di calcio in cui giocava il Sefton, mi appuntai di restargli a fianco. 
Calum entrò in camera mentre riordinavo i libri di quel giorno. 
«Ciao» salutò, con voce timida. 
«Calum.»
Lo vidi con la coda dell'occhio sedersi sul letto di Michael, e mi sentii delle mani addosso. Ancora. Ormai era un rituale. Chiusi gli occhi, mi imposi di lasciare stare quelle sensazioni che andavano avanti da troppo tempo. 
«Com'è andata oggi?» 
Mi fermai e mi girai. Lo fissai per alcuni secondi e «Non va bene niente, Cal» sbottai. «Lo sai.»
Lui annuì, triste. «Vorrei mi perdonassi per... Capito, no?»
Tirai un calcio ad un paio di calzini di Michael, adagiati sul pavimento e «L'ho già fatto» affermai. 
Lui aggrottò le sopracciglia, nel modo in cui solo lui sapeva fare. 
«Davvero?» 
Alzai le spalle e Calum, di rimando, si mise in piedi e mi abbracciò. Chiusi gli occhi ed immersi il viso tra i suoi capelli. Profumo di casa. 
«Grazie» sussurrò. 
«Smettila di fare il tenero. È imbarazzante.» Eppure inspirai ancora quel profumo, così rassicurante, e Calum lo capì. 
Quando ci staccammo il mondo mi sembrò quasi più vivo. Il moro sorrise e «Ci sei stasera?»
Annuii. «Devo tenere d'occhio Michael.»
«Ahh, Michael... Penso che tutta questa situazione non vi stia facendo per niente bene» mi fece presente, ma io lo sapevo già. 
«Sai come sono fatta. È più forte di me, non ce la faccio a vederlo con quei due. Mi manda fuori di testa.» 
«Resterai sempre la sua Becky, anche se trova nuove amicizie. Non potrai per sempre tenertelo per te.»
La verità mi prese a schiaffi. Mi rabbuiai e sentii il viso andarmi a fuoco. Il respiro mi si fece più pesante e no, non volevo piangere. Abbassai la testa e «Non ne voglio più parlare» gli dissi. «Ci vediamo dopo.» Gli poggia una mano sul petto e feci pressione, per fargli capire di doversene andare proprio in quel momento. 
Calum fu comprensivo e se ne andò.
Il senso di smarrimento ad abitarmi nelle ossa. 

Il calcio è importante al Sefton, così sentii. Che alla fine del campionato con le altre scuole, la vincitrice riceveva addirittura una somma di denaro e grazie a quella la struttura dell'istituto veniva rinnovata. 
A me, del calcio, non importava assolutamente niente. Eppure mi ritrovai lì, su degli spalti infreddoliti, con Michael e Calum.
Ashton giocava. Lo scoprii la sera stessa che lo vidi in campo. Aveva una bandana in testa che tentava di domargli i riccioli biondo scuro, la divisa bordeaux del Sefton col 14 dietro la schiena e un'espressione concentrata sul volto. Lo seguivo con lo sguardo, lo vedevo sputare in campo, muoversi con agilità e ricevere la palla con riflessi pronti. Era forte, lo si poteva capire dalla quantità di muscoli nelle braccia e nelle gambe. E la sapeva dosare, quella forza. Non che io me ne intendessi, certo. 
Il primo tempo si concluse ed il Sefton aveva segnato il suo primo goal. Michael parlava con Calum, ogni tanto mi lanciava qualche occhiata. Io mi annoiavo. Così, presi a guardarmi in giro. Riconoscevo alcune facce, le vedevo nei corridoi. 
Fu in quel momento che notai Luke avvicinarsi a noi. Pareva solo un ammasso di ossa incastonate tra loro, pareva un morto vivente. Sembrava portatore di tristezza, quel ragazzo. 
Poi mi guardò. Lo vidi fermarsi davanti a noi tre. 
«Ciao» esordì. Una roca voce lasciò quelle labbra screpolate. «Stasera, se il Sefton vince, diamo una festa al terzo piano della Uno. Se volete, potete unirvi, invitiamo solo amici dei giocatori.» 
Fece scomparire le mani dentro alle tasche della sua giacca nera in jeans e sbilanciò il peso sulla gamba destra. Mi cibavo dei dettagli delle persone. 
«Va bene, amico!» accettò presto Calum, seguito da Michael.
Ovviamente io non mi espressi e a Luke non importò. 
Il fischio di inizio secondo tempo arrivò fino agli spalti. 
«Bene, a dopo» concluse. 
Lo osservai darci le spalle e avvicinarsi ad un altro gruppo di ragazzi.
«Cosa fai, tu?» mi domandò Michael.
Aveva i capelli fucsia, adesso. E un piercing a spaccargli il sopracciglio, e un'aria persa a girargli attorno. 
«Non lo so.»
«Okay.»
Gli volevo bene. Giuravo di volergliene, ma in quel momento l'avrei ammazzato. Fingeva che la mia presenza gli fosse indifferente, Michael era un orgoglioso del cazzo. 
Un boato si alzò dalle gradinate: il 14 aveva segnato. Ancora. 

Michael uscì dalla stanza alle 23 in punto, con a fianco Calum. Ed io ne ero sicura: quella sarebbe stata la sera. Volevo far sputare a Luke tutta verità, sbattere in faccia a Michael che fanculo, avevo sempre avuto ragione io. Luke non era un comune studente, aveva qualcosa da nascondere. 
Così me ne restai per poco in camera, con in tasca il foglio piegato malamente su cui Luke aveva scritto. Mi sentivo insensatamente potente.
Mi preparai velocemente e mi lasciai indietro la camera 36. Camminai, rapida, salendo e scendendo un'infinità di scalini, fino a quando non udii una musica prepotente arrivarmi nelle orecchie. 
Il corridoio non era stretto, era preciso ed identico al mio. La gente restava, in ogni caso, appiccicata. Rimasi per un po' in disparte, cercando con un occhio attento figure che conoscevo. La festa andava avanti da un'ora e mezza, ma nessuno sembrava stanco. Poi una voce si distinse tra le altre. 
«Un brindisi al giocatore più promettente del Sefton: Ashton Irwin!» 
Nello stesso momento in cui migliaia di bicchieri di plastica si alzavano, intravidi Ashton, circondato da una folla. Rideva, lo faceva con una risata buffa che non gli avevo mai sentito. 
Ridi di più, stupido. Saresti più bello. 
E poi più in là, appoggiato ad una porta, con direttamente in mano una bottiglia, Luke guardava il suo amico ricevere tutta la meritata fama. Aveva un sorrisetto sulle labbra, sembrava divertito da tutta la situazione. 
Io semplicemente mi chiesi come potessero due occhi blu illuminare un intero posto. 
Lo stavo ancora osservando quando Michael, il mio Michael, gli si avvicinò. Parlavano a distanza ravvicinata, si guardavano negli occhi, c'era sintonia tra loro. Mi feci spazio tra la gente, giusto per avere una visione migliore. Michael mi dava le spalle ma lo vedevo gesticolare, sballottando a destra e manca il bicchiere che teneva in mano. 
Un tizio, dagli occhi più rossi dei bicchieri che circolavano in quella festa, mi si piantò di fianco. Mi girai di soppiatto quando «Ciao» mi sussurrò così tremendamente vicino all'orecchio. Aveva uno sguardo animalesco. «Come va?»
Feci una smorfia disgustata e cercai di retrocedere. «Bene» lo liquidai.
«Non ti stai divertendo?» mi chiese allora, ma io ero già stanca di starlo a sentire.
«Sì.»
Fece una risata piuttosto ironica, che mi vibrò dentro. Ne assomigliava distrattamente ad un'altra. Iniziò ad accarezzarmi il fianco destro e il cuore mi prese a martellare. Fu lì che gli strinsi il polso quasi fino a conficcargli le unghie sotto pelle, ritraendoglielo e dirigendomi solo verso una persona. E Luke mi vide arrivare, già in lontananza e smise di ascoltare Michael. In quel momento non capii di chi avessi più bisogno. 
«Becky» affermò Luke. 
Michael si girò di scatto a quel nome. 
«Oh» esalò. «Non eri in camera?»
Scossi la testa, mentre sentivo ogni parte di me tremare, rivivendo sempre la stessa scena di anni fa. 
«Stai bene?» domandò Luke. 
Non so a quel punto cosa mimai, se un sì o un no. Però quei due decisero che per me il tempo in quella festa si era concluso. 
«Vado a cercare Calum. La porti in camera?» parlò Michael. 
Che la camera non fosse la mia ma quella di Ashton e Luke lo capii solo dopo esserci entrata. Il biondo mi seguiva da dietro, perché «Non voglio essere toccata da nessuno» avevo dettato. 
Mi sedetti all'angolo di un letto e non sapevo nemmeno di chi fosse e mi stava bene così. Luke davanti a me continuava a girare per la stanza in silenzio, cercava qualcosa e quel qualcosa alla fine si rivelò una bottiglia di acqua. Tirò una bestemmia che mi fece sussultare e si avviò verso la porta. Prima di uscire, però, si girò e mi puntò l'indice addosso, come a dire “non ti muovere da lì”. Quando tornò, in mano aveva un semplice bicchiere di plastica. Lo riempì e me lo passò. 
Lo accettai, senza dir niente. 
Lo vidi togliersi la felpa e solo in quel momento me ne ricordai. 
«È guarito?»
Luke si osservò il taglio, che aveva preso un aspetto più rassicurante. Si strinse poi nelle spalle.
Mi dispiace, gli avrei voluto dire. Mi dispiace per quello che ti farò di qui a poco. Ma poi Luke mi disse: «Dimenticalo» con un tono che sembrava solo impregnato di arroganza. 
«L'avevo già fatto» mentii. 
Sorrise, lo stronzo, perché sapeva la verità.
«Non so perché, ma ogni volta che ti vedo è in situazioni in cui non sei del tutto normale.»
«Non ci importa nemmeno» puntualizzai, abbracciandomi le ginocchia con le braccia. Mi guardai attorno e vidi un ammasso di fogli sulla scrivania, quella identica alla mia. Erano tutti i disegni a cui si dedicava Luke durante le lezioni. E lui se ne accorse, dirigendo il suo sguardo proprio lì, ma con fare distratto, o forse disinteressato.
La musica arrivava ovattata e il mondo si chiuse solo in quelle quattro mura. 
«Eccoci, scusate» irruppe Michael con appresso Calum. «Che cosa ti è successo, Becky?»
Mi accomodai meglio su quel materasso, a disagio. Ero pronta per parlare? Per buttare fuori ciò che mi impresse cicatrici invisibili su tutto il corpo? Separai di poco le labbra ma niente, non proferii niente. È decisamente più facile fingere che tutto vada bene, sotterrando la verità con mucchi di sorrisi, risate. La realtà, quando vuole, sembra essere nemica dell'uomo. 
Michael sbuffò, uno sbuffo di sconfitta. 
«Non è successo niente. Lo sai, no? Ogni tanto vado fuori di testa» improvvisai. 
Calum rise piano perché, sì, ogni tanto lo facevo. Poi si sedette a terra, in mezzo ai due letti. Michael lo seguì. 
«Cazzo, hai capito?» continuai, non avendo ricevuto nessuna risposta. 
Quei due erano abituati ai miei sbalzi d'umore, ma Luke, lui no. Per questo aggrottò la fronte e si fermò di fronte al comodino. 
«Hai bisogno di qualcuno che ti metta in riga, ragazzina» disse, poi puntò Michael e Calum. «Voi due non dovreste essere così permissivi, è una rompi cazzo.» 
Ed impugnò il telecomando, come se dopo un'affermazione del genere avesse il coraggio di accendere la tv. 
Parvi congelare nel tempo. 
«Guardami negli occhi e dillo ancora.»
Avevo una voce così fredda che faceva paura. 
Si girò. Bastò un attimo per incrociare le mie iridi e piantarcele lì, come se poi il marrone arrugginito dei miei si sarebbe dovuto giustamente incatenare per sempre con l'azzurro macchiato dal blu. 
«Sei una rompi cazzo.»
Lo disse. Lo disse conficcando pezzi di rabbia dentro al mio stomaco. Mi alzai. Se non ti siedi adesso non tornerai indietro, mi dissi. Me ne convinsi e non me ne importai. 
Michael piantò una mano al pavimento, pronto ad alzarsi per ogni mia cazzata. Non vedevo ciò che avevo attorno, avevo solo l'ordine dettato dall'ira di distruggere Luke. In quell'istante udii la porta aprirsi, un rumore che mi parve lontano anni luce. 
Mi buttai su Luke, letteralmente. Perse l'equilibrio, inciampando e cadendo a terra. Il telecomando a scivolare sul pavimento. Infilai una mano tra i suoi capelli così schifosamente biondi e glieli tirai, fino a quando non sentii un gemito di dolore. Non so quanti pugni gli tirai al petto, quanti insulti uscirono dalla mia bocca, quanta ferocia avevo negli occhi. So solo che Luke non si difese, e questo mi mandò in bestia. Mi bloccai solo quando delle braccia mi staccarono da quel corpo che avrei voluto squartare. 
Luke aveva gli occhi svuotati. Se non fosse stato per quelle sopracciglia piegate, non avrei potuto affermare la sua rabbia. Avrebbe voluto prendermi a schiaffi, io lo sapevo. 
Mi girai, sotto quello sguardo, e mi dimenai, quando trovai Ashton davanti a me. Erano sue, le braccia che mi avevano placato. E questo bastava per non fermare quel mio atteggiamento ostile. 
«Ti vuoi calmare, porca puttana?» gridò, direttamente a qualche centimetro dal mio viso. 
«Non mi devi toccare!» replicai, imitando il suo tono. 
Una maschera cattiva abitava il sul volto, il suo mento più esposto in fuori non era rassicurante. Mi scosse, e il mio corpo parve diventare gelatina. Improvvisamente non ebbi più voglia di incazzarmi con Luke ed Ashton. 
«Va bene, va bene. Lasciami andare. Me ne sto calma» alzai bandiera bianca, con un filo di voce. 
Ashton gettò una veloce occhiata a Michael e ricevette assenzio. Così mi lasciò e sulle mie braccia vidi le impronte delle sue mani impresse sulla mia pelle, facendomi provare un senso di fastidio assurdo, come se potessero prendere fuoco da un momento all'altro. 
Mi riaccucciai sul letto. Fu lì che sentimmo in lontananza delle sirene: la polizia. Vidi occhi sgranati e paura bruciare dentro essi. La musica si fermò di botto e lasciò spazio a voci terrorizzate. Mi immaginai tutti gli studenti correre per le loro stanze, senza inciampare nei bicchieri buttati per terra, e un po' mi sembrò di avere una dolce vendetta. 
Poi Michael guardò Ashton, Luke. Luke, Ashton. Passava da uno all'altro. Luke si alzò, si sistemò la maglietta che gli avevo stropicciato e chiuse a chiave la porta. Si girò, si attaccò con la schiena e deglutì. 
«Ash...» mormorò, terrorizzato. «Dimmi che non sono per noi.»
Ashton si sfregò le mani sudate sui pantaloni. «No, sono sicuramente per la festa. Girano brutte cose, qui, ok? Ok. Calmiamoci.»
Luke annuì, ma non era per niente sicuro. Sentii battiti accelerati, paure accendersi come fiamme in grado solo di ustionare. 
«Che cosa avete combinato?» chiesi, allora. 
«State zitti» mi ignorò, Ashton. 
Il silenzio si impossessò della stanza. Luke si staccò dal legno della porta e il resto di noi rimase esattamente nella stessa posizione per quelli che mi sembrarono anni. 
Un rumore di passi echeggiava per tutto il corridoio, seguito ogni tanto dal crack che producevano i bicchieri sotto alle suole degli agenti. Li sentimmo parlare con alcuni ragazzi, giuravano di non aver visto anima viva spacciare. Raccontarono che la festa si era spostata già da un po' di minuti in un'altra struttura e che lì non c'era più nessuno. 
La polizia indugiò ancora a lungo, sentimmo alcune porte aprirsi, ma non la nostra. 
Desiderai non essere lì, ma nella mia stanza. Mi odiai con insistenza, odiai la mia testardaggine, sempre a seguire Michael per ostinarmi a proteggerlo. 
«Mark, penso possiamo andare» annunciò uno di loro, proprio davanti alla nostra porta. 
Luke parve riprendere vita in quell'istante. 
«Fanculo» sbottò Ashton, quando li sentimmo scendere le scale. «Mi hai messo un'ansia del cazzo.»
«Dobbiamo sempre stare attenti. Io non mi fido» replicò Luke che mi passò davanti per andare a sciacquarsi il viso.
«Noi non siamo sospettati» spiegò l'altro, come se con quella frase tutto si sarebbe risolto. 
Luke non disse più niente, ed io avrei voluto intromettermi, Ma che cazzo state dicendo? chiedere, eppure non mi sembrava il caso.
La situazione si calmò, una parola attaccò l'altra e i ragazzi passarono dal parlare del prossimo concerto di una band sconosciuta, alla partita di oggi. Luke, Michael e Calum erano seduti a terra, Ashton sul letto opposto al mio. 
«Sono segreti del mestiere» aveva spiegato, quando Calum gli chiese come diavolo facesse a scartare in un modo così pulito l'avversario.
Quella parola mi fece ricordare il mio scopo di quella serata. 
«Ci avete mai pensato? Le persone sono piene di segreti» incalzai io, iniziando con un tono allegro, finendo poi con fare cospetto. 
«Un'altra delle sue...» commentò Michael.
«Sta' zitto. Beh? Avete mai pensato che senso abbia?»
«Non mi sveglio pensando a questa domanda, sinceramente» rispose Calum, parecchio confuso. 
Guardai Luke, allora. Così racchiuso in se stesso, così protetto dal resto. «Non ce l'ha, un senso.»
«Ah, davvero?»
«Davvero» confermò, sicuro. 
Ero quasi pronta ad estrarre il biglietto dalla mia tasca, quando «E tu? Ti sei mai chiesta perché la gente tenga a camuffare la fragilità dietro ad atteggiamenti aggressivi?»
Ritrassi la mano dalla tasca, d'un tratto col cuore in gola.



Hei people!
Non sono morta, giuro. Ve l'avevo detto che sarei sparita un pochino! Ma eccomi qua.
Questo capitolo non doveva uscire così ma va beh, alla fine mi sono detta: "Okay, Annalisa, se fai passare altri giorni ricevi un premio per l'autrice di efp con più ritardi collezionati" quindi ok, siete voi che mi direte se vi piace lo stesso!
Volevo precisare una cosa che magari alcune di voi hanno frainteso: Luke non si taglia. Cioè, non in quel senso. E' solo un ragazzo con idee bizzarre. 
E' uscito il video di Amnesia e questa notte mentre scrivevo ero un po' scossa quindi capitemi, il risultato di tutto ciò è un po' sadico.
Non ho niente da dire, se non che mi sto divertendo a spargere indizi ovunque per farvi capire quali sono i segreti di questa storia, lol
Quindi penso andrò, Nali vi saluta e vi ringrazia e vi vuole bene. Ciao!
funklou 

 

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Capitolo 7
*** Where are my 24k? ***


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Il professor Richards ormai era solo una lontana voce per me. Concentrata sugli alberi che si intravedevano dalla finestra, la lezione per me non era mai iniziata. Il mio compagno di banco sembrava non avere il dono della parola, così immerso nel suo mondo. Se non per la matita che era in continuo movimento, l'avrei preso per imbalsamato. 
Il mio compagno di banco era Luke Hemmings. 
Non mi dava fastidio, mi dimenticavo anche che ci fosse, a volte. La testa china, le dita che parevano essere fatte per impugnare una matita e disegnare, la maglietta così attillata da far spuntare dal tessuto la forma della spina dorsale. Non mi aveva nemmeno guardata per sbaglio, questa mattina. Ma io lo avevo fatto e sul suo zigomo erano scalfiti due graffi e solo al pensiero di aver marchiato la pelle di Luke mi sentivo forte, al comando di ogni cosa. Trasalii quando «E quali sono i bisogni relazionali, Hemmings?» Richards lo interpellò. 
Luke storse un po' il naso, si passò una mano tra i capelli e ci pensò su un attimo. «Bisogno di affiliazione, bisogno di appartenenza, bisogno di intimità, bis-»
«Stop» lo fermò. 
Allora si chinò un'altra volta, come se niente lo avesse interrotto e riprese a tracciare linee su linee.
«Va' avanti, King.» 
Sgranai gli occhi. Cosa? «Cosa?» diedi voce ai miei pensieri. Poi me ne accorsi. «No, cioè... Intendevo, okay.» C'erano due opzioni:
1) chiedere aiuto a Luke;
2) stare in silenzio e aspettare i commenti di Richards sulla mia impreparazione.
Optai per la seconda, senza nemmeno pensarci due volte. Questi sbuffò, batté non troppo forte la mano sulla cattedra. Vidi Luke di fianco a me ridere e no, non potevo prenderlo a botte anche lì. 
«Io non lo so, tu, ragazzina, che cos'hai in mente di fare quest'anno. Non hai ascoltato niente di questa lezione, non è così?»
Non capii se dovevo rispondere o meno. Se era una domanda retorica o no. Me ne stetti ancora in silenzio, aspettando che la ramanzina finisse. 
«Sei alunna di questa scuola da quanto? Forse tre settimane? Bene, e io non ho mai visto un tuo compito fatto. Ti avverto, continua a non studiare e prenderò dei provvedimenti» concluse, abbassando di un'ottava il tono. 
Calum mi guardava dalla prima fila. Avrei voluto dirgli stai tranquillo, non mi importa niente.
Alla fine Richards smise di guardarmi e, dopo attimi in cui le uniche cose che si udivano erano le voci lontane di studenti che camminavano nel corridoio, ricominciò a parlare. E grazie al cazzo, pensai. Poteva dirli prima, i suoi diavolo di bisogni relazionali. 
Luke sul volto aveva ancora cucito quel sorriso di scherno e a me prudevano le mani, mentre mi convincevo a non farci caso. 
«Da quanto avevi in mente quella sceneggiata?» bisbigliò, sempre concentrato sul suo disegno.
Non mi prese in contropiede, sapevo fosse a conoscenza del mio piano, anche se poi fallito. 
«Un po'.»
Emise un verso, un po' come a dire: lo sapevo. E scosse la testa. «Che tipa che sei.»
«Che tipa che sei? Che vuol dire?»
Richards ci guardò, severo. Strinse le labbra, respirò a fondo. «Quando avete finito, voi due, magari possiamo continuare la lezione, eh?»
Stavo per ribattere che era okay, poteva andare avanti, quando «Rebecca, stavo pensando che non ti farebbe proprio male passare una o due orette in classe, dopo. E forse Hemmings può darti una mano a studiare?» il professore propose o, meglio, impose. 
Calum si era voltato di scatto. Sono sicura di essere sbiancata, in quel momento. Che diciassette anni di vita mi sono passati davanti e ho cercato di trovarci lo sbaglio dentro. Luke lasciò, per la prima volta, la sua matita. 
«Io non ci sto» controbatté. 
«Non era una domanda, la mia. Vi voglio in classe, questo pomeriggio, e lascerò qualcuno a controllarvi.»
Luke posò entrambe le mani sul viso, se lo sfregò, sbuffò. 
«Rebecca King, sei la mia rovina» mi disse.

Michael, appena scoprì la mia, o forse nostra, punizione, cominciò subito a fare il coglione. Coi suoi occhi enormi mi scrutava, cercava qualcosa che non andasse in me. 
«Possibile che ti cacci sempre nei guai?» mi sbraitò addosso. 
«Possibile che sei così stronzo? Basta, non ci voglio più parlare, con te.» Lo sorpassai, ma lo sentii seguirmi. 
«Va bene, okay. Smettiamola di urlare. Fermati, per favore» mi supplicò, diventando più piccolo di non so quanti anni. 
E io mi fermai, perché quello era il mio migliore amico. Nonostante tutto. 
«Non mi vuoi più bene» la buttai giù così. E anche se avevo parlato piano, il corridoio vuoto aveva ampliato le mie parole. 
«Io ti voglio bene, sei tu che non te ne vuoi.»
Sbuffai. 
«Senti, quando ce ne andiamo da qua?» incalzai, guardando fuori dalla vetrata. 
Presi Michael alla sprovvista. «Non.. Non lo so, Becky. Vuoi andartene?»
Volevo andarmene. Tornare da mia mamma e sentirmi dire quanto le fossi mancata, tornare nella mia vecchia scuola e rivedere quelle facce di merda, passare per le vie del centro senza pensare che ci siano altri posti in cui stare. 
«Forse» risposi. 
«Magari ci fai l'abitudine.»
L'ho già fatta, avrei voluto dirgli. L'ho già fatta per i tuoi calzini sparsi in camera, i pantaloni, le magliette stropicciate, il letto sempre sfatto, i tuoi occhi persi, la tua assenza. E fa tutto ancora schifo. 
«Magari, sì. Senti, adesso devo andare. Richards ha detto che ci mandava qualcuno che controllasse.»
«Stasera sei dei nostri? Mangiamo insieme» mi propose, con quell'entusiasmo che ti imponeva di non dire di no. 
Così annuii e Michael, dopo una marea di giorni, mi posò un bacio sulle labbra. 
Mi era mancato da fare schifo. 

Luke Hemmings non era mai in orario. E i motivi dei suoi ritardi non li sapeva neanche lui. 
Ero in classe da almeno venti minuti quando fece il suo ingresso. 
«Non ti scusi nemmeno, vero?»
«No.» 
Posò lo zaino sul banco in prima fila. Proprio dove quella mattina era seduto Calum. 
Dio, la rabbia che mi salì mi investì tutto il corpo. Ma avevo imparato a stare zitta, in quei giorni. Anche perché Luke era alto, almeno una ventina di centimetri in più di me e avrebbe potuto reagire da un momento all'altro e non so quanto illesa ne sarei uscita. Così me ne stetti immobile, seduta sul davanzale della finestra. Vidi Michael uscire dal Sefton, proprio sotto di me, con la sigaretta in bocca e il cellulare in mano. 
«Io non ho intenzione di studiare» misi in chiaro le cose. 
Luke piantò un pugno sulla superficie del banco e mi guardò dritto negli occhi. «Sappi che se siamo qua, è tutta colpa tua. Non dovrei essere qua, mi stai togliendo delle ore che avrei dovuto passare al lavoro. Quindi, per favore, non lamentarti.» 
E' che l'aveva detto con una cattiveria che non sapevo neanche dove tenesse. Era per questo, forse, che stetti lì, così, inerme, senza la forza di controbattere. 
Sembrò soddisfatto, lui. 
Dalla porta entrò il bidello del terzo piano, quello bassino e quasi rachitico. 
«Ah, siete qui» constatò. «Mi raccomando, fate i bravi, ragazzi.»
Mi ricordò mia mamma. Tutto qui? gli avrei domandato. 
Ma pensai che probabilmente era meglio così, senza troppi controlli. Luke non lo guardò nemmeno, aveva una faccia. Una brutta faccia. Le sopracciglia basse e vicine tra loro, il labbro inferiore più sporgente, gli occhi col cielo sereno che si mischiava con quello della notte fonda. Lo zigomo rovinato dalle mie stesse mani.
«Che cosa hai detto, quando ti hanno chiesto come te lo sei fatto?»
Si portò automaticamente una mano sulla ferita. «Che una stronza pazza mi ha aggredito.» 
Era semplice e diretto, Luke.
Misi su quell'espressione di chi aveva tutto in pugno. 
«E i 24 carati? Li ho solo quando ti fa comodo?»
Una risata ironica gli salì dalla gola e mi si infilzò direttamente sotto pelle. Ebbi l'istinto di strappargli il piercing dal labbro e restare lì a guardarlo sanguinare. Poi scosse la testa e guardò a terra. 
«Forse un giorno capirai» mi liquidò così e fece strisciare la sedia sulle piastrelle, per poi sedersi. 
«Non li ho, i 24 carati. Smettila.»
«Sei il diavolo, Rebecca.» 
Sospirai.
Restammo in silenzio per almeno dieci minuti. Poi Luke parlò.
«Dammi il biglietto» sbottò. 
Mi irrigidii sul posto. «Di che parli?»
Adesso era serio. Era incredibile come potesse cambiare stato d'animo in così poco tempo. «Lo sai.»
Lo sapevo ma non avevo intenzione di perdere l'unica prova che avevo di quel ripostiglio in cui Luke nascondeva tutto ciò che lo tormentava. Così «Altrimenti? Tiri fuori un altro coltello e mi fai vedere un'altra volta come si lacera la pelle sotto ad una lama?» risposi. Fu a quel punto che si spazientì. 
«Rebecca. Dove lo tieni?»
Ripensai al mio cassetto e a dove tenevo quel foglio. Pensai al fatto che Luke non ci sarebbe mai arrivato, fin lì. La mia camera.
«Finiamola qua» affermai, guardando da qualsiasi altra parte che non fosse i suoi occhi. Il mio tono non ammetteva repliche. 
«Beh, sai cosa?» Si alzò, con furia. Stava perdendo il controllo. «Io non la finisco qua, perché non ci sei tu al posto mio. Quel biglietto deve sparire.»
Mi ammutolii perché Luke urlò per davvero. Il bidello proprio in quel momento entrò e iniziò ad imporci di fare silenzio e di stare al nostro posto. Io e Luke non ci parlammo più. 
E forse doveva andare così, forse Luke doveva continuare a costruirsi strati su strati di corazze per proteggersi. Forse il trucco restava nel non fidarsi. Che le cose si dicono solo quando ci si sente sicuri, altrimenti ci si tiene tutto lo sporco dentro di sé. È così che si marcisce. 

C'era un locale, in centro, che era un po' la seconda casa della Uno e della Due. Me lo aveva spiegato Michael. 
Lo Spazio era una sorta di rifugio per gli studenti, al sabato sera. Bastava prendere una metropolitana, farsi duecento metri a piedi e ci si arrivava. Michael aveva prenotato un intero tavolo al piano superiore e non c'era da meravigliarsi, suo padre era un avvocato anche piuttosto famoso. 
Arrivarono anche dei compagni di Michael, piuttosto strani. Uno di loro, Daniel dal-cognome-impronunciabile, continuava a buttare giù alcool perché “amico, sono albanese, io” e davvero, avrei voluto chiedergli cosa miseria c'entrasse. Beau, tutto sommato, era un tipo simpatico. Ma strano. Michael mi presentò loro e quando mi dissero: «Tu sei la tipa in classe con Hemmings» restai abbastanza di stucco. 
«Ce ne sono almeno altre dieci, di ragazze, in classe.»
Beau mise su un'espressione di chi non voleva più parlarne, come a dire ho ragione io e basta. 
Ci pensai su un attimo. 
«Come mai non vengono Luke ed Ashton a Lo spazio?» domandai, rivolgendomi a Michael. 
«No, Becky. Ci sono, sono proprio lì.» Alzò la mano e mi indicò un punto in basso, al primo piano, visibile dalla mia postazione perché una grande ringhiera lasciava libera la vista. 
Potevi farti tante idee di una persona, nella vita. E di Luke Hemmings, con quella faccia da stronzo, marchiata da quell'espressione che pare dirti ci sei arrivata ora? io son qui da anni, sei un po' in ritardo, non potevi di certo pensare che potesse fare una cosa del genere. Perché ciò che stava facendo era sicuramente ballare. Lo chiamavano hip hop, quel ballo, no? 
Dove la musica che ti martella scandisce i tuoi passi, i movimenti, il sangue che ti circola nelle vene. 
Ti vien voglia di scendere, di andare lì da Luke e chiedergli cosa diavolo sta facendo, perché non può realmente ballare, uno come lui. 
Ma ballava. Luke ballava e lo faceva sulle note di Lip Gloss di Lil Mama. Roba da matti. Il ritmo è una martellata forte, o lo sai, o diventi un groviglio di passi scoordinati. Eppure Luke era bravo. 
Aveva la faccia cattiva, come se si fosse fatto un giro per mano con la Rabbia e poi fosse venuto lì, a Lo Spazio. Aveva i pantaloni della tuta nera, quelli che usava durante educazione fisica, e una semplice maglietta a maniche corte bianca. Un pazzo.
«Che cosa sta facendo.» Tono piatto. Sguardo assortito.
«Balla» disse Michael. Semplice. 
«Grazie al cazzo, Michael» alzai gli occhi al cielo. «Da quanto?»
«Da sempre, mi sa. Lo fa anche come lavoro, è un insegnante di hip hop.»
«Assurdo» decretai, posando sul tavolo il bicchiere.
Poi Michael disse qualcosa che non capii, udii solo un «È uno dei migliori in zona» e decisi di non parlarne più.
Piuttosto, mi girai ancora una volta a guardarlo, notando anche Ashton proprio di fianco a lui, come se fosse un comune spettatore della scena. Un po' come Luke durante la sua partita di calcio. 
Erano due pilastri, quei due. E che cosa reggessero, questo ancora non lo sapevo.
La cosa strana era che la gente attorno a Luke lo guardava come se non ci fosse l'altro lato, quello del Hemmings in ritardo a lezione, del Luke ricoperto di schegge che facevano male ma che facevano sì che nessuno si avvicinasse, del Luke non dirlo a nessuno che ho pianto
L'avrei urlato, che cos'era in realtà. Ma poi la musica finì, Lil Mama smise col suo beat pieno di colpi da mal di testa. La magia che Luke si era creato da solo finì insieme alla canzone. Accennò un sorriso ad Ashton, tipo: ehi, torno sempre e solo da te. Scomparve. Poi ritornò sotto la mia visuale, lo vidi appoggiarsi al bancone e ordinare qualcosa con Ashton. 
«Non consumarlo, eh» mi distrasse Beau. 
Ebbi uno spasmo indecente e lo incenerii. «I cazzi tuoi?»
Alzò le sopracciglia, creò uno sguardo da uno che non aveva fatto proprio un bel niente. «Luke Hemmings, però! Tipo più strano non potevi scegliere.»
Qui Michael quasi non si strozzò. Tossicchiò un po' e si riprese. 
«Non ho scelto nessuno.»
«Non ha scelto nessuno.»
Sarà perché eravamo migliori amici, ma quella frase la sparammo fuori in sincrono. Il che risultò tremendamente imbarazzante. E Beau non perse tempo a ridere. Rideva a bocca aperta e assomigliava tanto ad una ragazzina. 
«Coglione» lo apostrofai.
Tanto non gli importava. 
Dall'inizio delle scale intravidi Luke ed Ashton e alcune ragazze sicuramente più grandi di minimo due anni. Si avvicinarono e si sedettero al nostro tavolo. Tipico. 
«Scusate se non siamo venuti giù a vederlo, c'era già un casino madornale!»
Ma quale casino, Michael. 
«Non fa niente» dissero. 
Beau nel frattempo si era zittito e parve diventare cupo. 
«Quanto ci guadagni, Luke?» Questo era Calum. 
«Quanto basta.»
Sempre così. Un passo dal dirti la verità e un passo dalla menzogna. E no, non c'era nessun punto di equilibrio. Era snervante. 
Lo guardai un attimo, un'occhiata velocissima. E vederlo avvinghiato a quella ragazza, con quella ferita che prendeva spazio sullo zigomo gonfio, mi sembrò divertente. 
Ovunque andasse, c'ero io, lì con lui. 
Inevitabilmente il cellulare di Michael prese a squillare. Non si capiva niente. Allora si alzò e fece ritorno solo dopo una decina di minuti.
«Domani torno a casa, è domenica» comunicò.
È domenica. Come se questo potesse realmente spiegare. 
Io mica tornavo, in città c'era papà. Michael prese a guardare Luke, seduto in fondo al tavolo. Mi fece un effetto strano, quell'occhiata. Mi passarono davanti tanti di quegli sguardi che si erano dedicati, spargendo parole che avrebbero saputo solo loro. Uno per uno, mi passarono davanti agli occhi. Quasi mi venne da piangere. Luke, seduto in quel modo, col gomito destro sul tavolo, l'altra mano sulla coscia. La schiena ad ubbidire la posizione, gli occhi attenti, in quel modo che solo Luke sapeva fare. Il piercing tormentato dai denti, i capelli che non seguivano un fottuto senso.
«Anche io torno a casa» si aggiunse Ashton.
Io che guardavo la scena. Beau ancora cupo.




Hei people!
Io vorrei davvero avere un quadro generale della storia. Ma non ce l'ho, ed è strano. Nel senso che scrivo, ma non ho idea di che cosa voi leggiate. Va beh, non mi soffermo sulla questione perché mi sento un po' pazza ahah
Primo capitolo a 2000 visualizzazioni. Ogni tanto perdo le motivazioni per scrivere, poi mi accorgo che c'è qualcuno a cui piace ciò che scrivo e seriamente, mi date una vera motivazione. Del tipo: ehi, noi ti leggiamo. Ed è bello.
Quindi niente, son qui, con due giorni di ritardo e mi presento con questo capitolo, con una Becky cattiva e un Luke non da meno. Un Michael mezzo menefreghista e mezzo comprensivo, un Calum perlopiù pacifico. Mi sa che questa storia mi ucciderà. E scusatemi per i Janoskians in questo capitolo, son dei deficienti che amo un tantino.
Che palle, parlo troppo, me ne vado. Ciao!
//Nali

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Capitolo 8
*** Drown in the past. ***


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Sei di mattina. Michael si vestì, lasciando cadere a terra il suo pigiama. Lo sentii. Sentii anche lo scrosciare dell'acqua, il tintinnio delle chiavi, la porta sbattere. Tornava dalla madre. Era davvero così? Affondai il viso nel cuscino. Non riuscivo più a fidarmi di nessuno. Nessuno. 
Cercai di riprendere sonno, ma proprio non ci riuscii. Così poggiai i piedi sul pavimento freddo, rabbrividendo un po', e cercai nel secondo cassetto le chiavi di scorta di Calum. Decisi quindi di entrare nella stanza 38, tentando in tutti i modi di non fare alcun rumore. 
Il buio mi catturò e mi impedì di orientarmi. Tastai qualche mobile e, quando finalmente raggiunsi il letto, mi sdraiai accanto a Calum. C'erano il riflesso dei suoi occhi, ora aperti, il calore della sua pelle, le sue braccia che automaticamente si agganciavano a me. 
«Becky» buttò fuori rocamente. Il sonno ad impastargli la bocca. 
«Shh, dormi.»
Richiuse gli occhi e si sistemò meglio, andando a poggiare il viso sopra la mia spalla. 
C'era la solitudine che in passato avevo scelto che si era armata e aveva preso ad attanagliarmi lo stomaco, ed in quel momento mi accorsi di non star mai bene. Perché se ti senti sola anche fra le braccia di qualcuno, dove pensi di andare? 

Quando mi svegliai, la luce trafiggeva la tapparella che Calum si ostinava a non alzare mai. Dal bagno sentii chiaramente dei rumori, segno che non ero sola. 
«Due e mezza del pomeriggio! Vuoi fare colazione o pranzare?»
Calum Hood. Con un rasoio in mano, l'accento più buffo che un abitante dell'Australia potesse mai avere, l'ironia a scorrergli nelle vene. 
Presi un cuscino e glielo tirai addosso.
«Al mattino sei ancora peggio» affermò, ritornando in bagno. 
«Non è una novità.»
Lui rise e si piazzò davanti a me coi capelli così spettinati che mi fece chiedere a me stessa se se li fosse mai pettinati in vita sua. Non mi fece nessuna domanda riguardo a quella notte, sapeva quanto del mio orgoglio ne avrebbe risentito. Semplicemente, «È una bella giornata, questa» disse, privandomi delle lenzuola. 
Feci una smorfia. «Quindi?»
«Quindi mica restiamo qui» annunciò, con ovvietà.
E cinque minuti più tardi ci trovammo fuori. Fuori. Era una strana parola, in quel periodo. Ero cosciente che al di là delle mura ci fossero nuove facce, una città, nuovi posti. Eppure alcune volte lo dimenticavo. 
Calum letteralmente mi obbligò a metter qualcosa sotto i denti, a scattare centinaia di foto, ad osservare luoghi di quella città che non aveva niente in comune con quella che avevo lasciato. 
Poi arrivammo davanti ad una struttura davvero grande, con parecchi volantini appiccicati alla porta. Sembrava nuova, o perlomeno, ristrutturata da poco. 
«Dovrebbe essere la scuola di danza di Luke» esordì Calum. 
Poi si fece avanti, avvicinò il viso ad una vetrata e «Eccolo là, l'artista!» urlò. 
«Non gridare, coglione.» Mi feci vicina anche io e gli circondai il braccio con la mano. «Lascialo lì.»
«Ha appena finito la lezione.»
Lo guardai, quasi con rimprovero. «Che cosa vorresti dire?»
Calum sorrise e un secondo dopo dalla porta principale uscì Luke Hemmings. Che col sole i suoi occhi parevano perle azzurre e io mi chiesi quanto sarebbe costato quel colore se solo l'avessi messo in vendita. 
«Chi si vede, ballerino!» 
«Che ci fate qua?»
«Allora lo fai davvero come lavoro.» 
Luke mi guardò mentre rise. «Sì, dall'anno scorso. E mi va anche bene! Dove stavate andando?»
«In camera» sbottai io. 
«Anche io.»
A che razza di gioco stava giocando? Sbuffai, infastidita. Ritornammo ai dormitoi, io me ne stetti tutto il tempo zitta. Che se aprivo la bocca poi finivamo sempre per sbranarci. Poi, prima che ci dividessimo, Luke mi passò così vicino che mi sembrò di avergli sfiorato la pelle. 
«C'era un uomo, ieri sera. Ti ha osservata tutto il tempo» mi sussurrò all'orecchio. 
Forse il cambio di temperatura me lo immaginai e basta, forse stavo solo impazzendo. Un tremolio assurdo si impossessò delle mie mani. 
«Se stai scherzando, non è divertente» lo ammonii. 
Guardai Calum, mentre buttava il mozzicone della sigaretta nell'angolo. 
«Sta a te decidere se crederci o meno.»
La metteva sulla fiducia. Non so cosa mi fermò dal lasciargli l'impronta della mia mano sulla sua guancia. 
«Fanculo, Hemmings.»
Luke rise, una risata amara che mi fece uno schifo tremendo. Mi girai e me ne andai. 

Poi il sole sfumò, l'orizzonte se lo catturò e la sera gli prese il posto. Calum non mi aveva lasciata sola neanche un secondo. Aveva ordinato due pizze, mi aveva parlato di qualsiasi cosa che non fosse Michael. Michael e la sua stranezza, Michael che sarebbe arrivato quella notte come se non fosse mai mancato. 
E adesso, che Calum non c'era più, che la paura mi impediva di restare tranquilla, mi venne in mente Luke. E le sue parole sussurrate. In fondo non poteva venirmi a dare avvertenze a caso, senza nessun fondo di verità. 
Indossai una felpa e che fosse di Michael, questo non importava. Sai di star facendo una cosa e che te ne pentirai ma la fai lo stesso. Ti chiudi dietro la porta, la 36. Quella in cui il tuo migliore amico la notte scorsa non ha dormito. Ti spaventi, perché la Due quella sera sembra inabitata e i tuoi passi sono gli unici rumori che si sentono. È il buio, poi, ad incorniciare la situazione. Fuori piove e a te non interessa. La pioggia fa parte di te. Le scendi, quelle infinite scale e senza pensarci apri il portone perché lo vuoi vedere, quello stronzo di Luke, lo vuoi vedere e gli vuoi chiedere che aspetto avesse quell'uomo che ti guardava. E sbatti gli occhi, la cazzata l'hai fatta. È lì. Le supposizioni sono finite. 
«Rebecca.»
Le gambe persero la sensibilità. Da lì a poco avrebbero ceduto, lo sapevo. E quella bocca non voleva rimanermi chiusa, presa dallo stupore. Stupore o terrore? 
Era il mio nome, quello. Me lo aveva dato lo stesso uomo che in quel momento avevo davanti. Capii esattamente a chi si stesse riferendo Luke, quel pomeriggio. E avrei dovuto credergli. 
«Sono venuto solo per parlare» precisò. 
Erano quattro anni che non lo vedevo. I capelli avevano preso un po' di bianco, la barba aveva l'idea di non essere rasata da una settimana. 
«Come mi hai trovata?» mi venne solo da chiedergli. Gli guardai le mani, quelle con cui mi accarezzava il braccio per farmi smettere di frignare ogni volta che si presentava in camera mia. Mi inorridii. 
«Ti cerco da quando sono in città.» 
Mi venne su il vomito. Non riuscii più a dire niente. 
La pioggia mi aveva scurito i vestiti e la felpa di Michael era l'unica cosa in grado di tranquillizzarmi. Restai lì, sulla soglia della porta. Dovevo essere già da Luke. 
«Ci ho riflettuto su, Rebecca. Ho capito che una figlia non può crescere senza l'affetto di un padre. Hai bisogno di me.» 
Fece un passo avanti. 
«Non ti avvicinare» gli intimai con la voce spezzata. Ero un tremolio unico. «Non ne ho bisogno, di te. La mamma lo sa che sei qui?»
«Tu hai semplicemente paura, perché sai che non sarebbe la cosa giusta, però va bene ugualmente, se vuoi mentire davanti alla verità palese...»
La rabbia si affiancò alla paura. Rabbia per tutto ciò che mi aveva fatto, per le notti insonni, per il dolore, per la persona che mi aveva fatto diventare. «Io non mento a nessuno.» 
«A parte a te stessa.»
«Ma ti senti? Sei comico, davvero.» 
Capii quanto fosse ubriaco quando per fare un altro passo inciampò nei suoi stessi piedi e per poco non perse l'equilibrio. Poi alzò un braccio e rimase a fissare la sua mano come se fosse stata la prima volta che la vedesse. Capii che non ero io ad avere bisogno di lui, ma che fosse lui ad averne di me.
Mio padre era vittima di autodistruzione. 
«Vattene» gli ordinai, mentre la pioggia faceva da sottofondo alle parole. 
Dalla finestra del terzo piano della Uno intravidi capelli biondi e disordinati, e sperai vivamente che appartenessero a Luke. Cercai di distogliere immediatamente lo sguardo.
«Torna a casa, Rebecca» scandì lettera per lettera. Il tono che rifiutava qualsiasi replica, autoritario più che mai. La stessa voce che penetrava ormai in ogni mio incubo, che mi seguiva ovunque andassi. Ero stanca di ributtarmi nel passato, di ritrovare ovunque tracce di quell'uomo che non era altro che il creatore dell'odio che c'era intorno a me. 
«Ha detto di andartene.»
Avrei riso, in altre circostanze. Perché Luke faceva tanto Superman in quel momento, quando in realtà era un emerito coglione. 
La porta della Uno si aprì con uno scatto, Luke Hemmings si appoggiò allo stipite. Aveva un'espressione stanca, probabilmente si era svegliato da poco.
«Fantastico, e questo chi è?» mio padre seriamente non riusciva a scandire per bene ogni lettera. 
Trattenni il respiro e il battito del mio cuore parve rimbombarmi nelle orecchie. Senza farsi notare, Luke fece un cenno con la testa, facendomi intendere di avvicinarsi alla porta. 
«Non ha capito? Mi sembra che lei non voglia restare qui a parlare.»
Era tagliente. Quasi quanto lo era con me quando io e lui litigavamo. Feci tre passi cercando di avvicinarmi il più possibile, ma «Dove vai, tu?» mi congelai sul posto. Deglutii. 
Fu a quel punto che Luke uscì e mi si piazzò di fianco, agganciando una sua mano al mio polso. La pioggia non la sentii più, nemmeno il freddo che sembrava mordermi le ossa. 
Mio padre si accigliò. 
«Lei è mia figlia, lo sai, pezzo di merda?»
«E sai quanto me ne frega? Proprio un cazzo. Non mi pare che sua figlia voglia tornare a casa con lei.» 
La presa sul mio polso non mollava, e mi stava bene così, perché l'espressione cupa di entrambi non era per niente rassicurante. Non so chi mi facesse più paura dei due. 
Io lo conoscevo, il limite di pazienza a cui mio padre poteva arrivare, ma Luke... Lui no. Poteva osare, ma non fino a quel punto. 
«Io ti ammazzo, figlio di puttana!» urlò quell'uomo, tirando indietro un pugno e sferrandolo addosso a Luke, che fu pronto a pararlo. 
«Entra dentro, Becky!» gridò il biondo ed io davvero non feci scatto più veloce di quella sera.
Non vidi la scena, il tutto fu così rapido che non me ne accorsi. Luke era dietro di me, chiuse con forza il portone io mi appiattii contro un muro. 
«Stronzo, apri questa porta!» continuava mio padre, sfogando la sua rabbia con calci e pugni contro l'entrata. 
Luke semplicemente si appoggiò di schiena contro il vetro e mi guardò. Respirava male, velocemente, col petto che si alzava ed abbassava vistosamente. Mi guardò come a dire a seguire te, si va sempre in merda. Che poi in realtà era il contrario, ma questo mica gliel'avrei detto. 
«Sali in camera» mi ordinò. 
«No! Rebecca non salirà nella tua camera, apri questa porta!» Pugni, manate, imprecazioni. «Lei deve venire a casa con me.»
Ignorai quella voce, cominciando a salire le scale. Ad ogni scalino la testa mi pulsava sempre di più, ad ogni scalino un pugno nello stomaco pesante come macigni. 
Quando ero ormai al terzo piano, non sentii più nessun rumore, se non quello dei passi frettolosi di Luke. In meno di trenta secondi era lì davanti a me. Si incurvò un attimo, aggrappandosi alla ringhiera e continuando a respirare pesantemente. Tirò su la testa, mi osservò così tanto fino a mettermi disagio. 
«Chi era» disse, finalmente. Era una domanda, ma gli uscì completamente senza intonazione. Il che la faceva assomigliare ad un'affermazione. 
Provai più e più volte a trovare una risposta che non fosse quella che avevo in testa. Ma proferii proprio quella. 
«Mio padre.»
Si staccò dalla ringhiera, fece come se io non avessi detto niente. Mi passò davanti, arrivò fino alla sua camera e «Entra» sibilò. 
Entrammo entrambi in quella stanza che ormai conoscevo bene. Luke mi indicò il letto ed io andai a sedermi. 
«Non può finire così, lo sai» cominciò, aprendosi un pacchetto di sigarette e puntandone una in mia direzione. 
«Non parlare, Luke, per favore.»
«Io invece parlo, eccome se lo faccio. Sai com'è, non è normale che un padre inizi ad urlare sotto le camere di duecento studenti.» Aspirò il fumo ed andò ad aprire la finestra che dava sul vialetto. Poi abbandonò quel tono ironico e «Era lo stesso che ti guardava ieri. Lo sapevo, qualcosa di strano c'era sotto» ragionò, forse più con se stesso. 
«È una storia lunga» tagliai corto io. 
Le solite mura. Lacrime e cemento, e la barriera era già innalzata. 
Luke mi si avvicinò, con passo svelto. Si abbassò alla mia altezza, con le dita mi prese il mento, quasi fino a conficcare le unghie nella pelle.
«Parla» impose, a denti stretti.
Le striature blu su quella distesa azzurra, il fumo ad inebriare le mie narici. Quello sguardo cattivo, quelle labbra rosee sempre screpolate. Luke Hemmings era qualcosa di impensabile.
Così vicino e così lontano.
Il suo fiato mi solleticò le labbra, e quella vicinanza mi fece battere il cuore a mille. La presa si fece ancora più decisa, mi strattonò il viso e «Porca puttana, Rebecca. Io ci sto provando a venirti incontro, sento che è una cosa seria. Devi dirmelo» sbraitò, parlandomi così vicino.
Che fosse terribilmente pauroso, questo era certo. Eppure le parole mi uscirono. 
«Abusava di me.»
Lo dissi. Per la prima volta, in vita mia, quelle parole lasciavano la mia bocca. La frase più pesante che avessi mai detto. A Luke morì la presa e si alzò, facendomi indietreggiare. Mi sentii così scoperta che percepii la prima lacrima squarciarmi una guancia. Così esposta, così insicura, così sfiduciosa. 
«Non frignare. Non c'è niente da piangere. C'è da sbatterlo in prigione» affermò, guardandomi dall'alto, aspirando un'ultima volta dalla sigaretta, buttandola poi dalla finestra. «Chiamo Michael.»
A quel nome trasalii. «No!» urlai. «Lui non sa niente.»
Luke a quella affermazione accasciò la fronte e il braccio contro la superficie dell'armadio, imprecando a bassa voce. «Cazzo!» sbottò, tirando un pugno al legno. «Non lo sa nessuno, vero? Te lo tieni dentro da quanto, eh? Quanti anni?»
Luke era uno stronzo. Non si abbassava a niente, nemmeno ad una notizia del genere. E invece se ne stava lì, nervoso più che mai, ad urlarmi addosso.
«Smettila. Non serve a niente usare questo tono, non ne voglio nemmeno parlare con te.»
Così si zittì per un asso temporale che mi fece impazzire. Il tempo che era bastato per smettere di piangere e iniziare a respirare regolarmente. Non so quante volte Luke si sfregò le mani sul viso o tra i capelli disordinati come mai lo erano stati prima. Sta di fatto che non mi ero mai sentita così male, così schiacciata in me stessa. 
«Tienitelo pure il biglietto» esordì all'improvviso. 
Alzai lo sguardo per ammirare tutto il marcio che Luke Hemmings aveva. Non la capii, quella frase, nemmeno a guardare quegli occhi freddi. 
«Perché?»
Si andò a sedere sul letto davanti al mio. «Che ti importa? Tienitelo» mi rispose. «Tua mamma lo sa che cosa ti faceva?»
«Sì, ma non può fare niente. È in ballo con un altro processo, è una storia lunga.» 
«Dio, Rebecca, è una cosa seria. Ed io potevo arrivarci prima, diamine. C'erano così tanti indizi.» 
Io non lo sapevo perché Luke se la prendesse tanto. Ero io la vittima, ero io quella con il ricordo di scene dolorose impresse nella pelle. 
«Senti, facciamo finta di niente. Non dirlo a nessuno» ordinai, perché tutto ciò mi imbarazzava davvero tanto. E sapere che Luke se lo sarebbe tenuto per sé, mi faceva sentire più protetta. 
Eppure lui a quella condizione si alzò, velocemente, e mi si parò davanti. Come prima. 
«È questo, quello che vuoi?» 
Lo disse con un tono normale. Troppo normale, e alcune volte la normalità in situazioni schifose sa far paura. «Quanto pensi andrà avanti questa storia?» 
«Non lo so. Non so un cazzo, Luke!»
Dalla gola gli salì una risata roca, che apparì più come un verso. Era cattiva. Le labbra si stortarono all'angolo destro, accennando ad un sorriso. 
«Che cazzo ti sorridi!» scoppiai, irata, poggiando le mani sul suo petto e spingendolo il più lontano possibile da me. Nel tutto, Luke mi afferrò il polso, facendomi quasi cadere dal letto. «Cosa diavolo ti passa per la testa?!»
«Se deciderai di far finta di nulla, okay. Ma io non esisterò più per te, non dovrai nemmeno più guardarmi, o insultarmi. La chiudiamo qua, sempre che sia mai iniziata.»
Stringeva ancora forte il mio polso e non si azzardava a guardare da un'altra parte che non fossero i miei occhi. Il che faceva diventare la situazione ancora più difficile. Non sapevo ancora il motivo, ma la prospettiva che mi dava quella opzione mi faceva ribaltare lo stomaco. Odiavo Luke Hemmings, ma nel mio profondo sapevo quanto interessante e particolare fosse.
«Sempre che sia mai iniziata» ripetetti le sue stesse parole.
Scosse la testa, forse rassegnato. Alzò una mano, la incastrò tra i miei capelli, facendola scendere fino alle punte. Glielo avrei chiesto, che cazzo stesse facendo, ma poi «Deve far schifo non riuscire a fidarsi di nessuno» affermò.
Erano le ultime parole che mi disse quella sera, e forse anche le ultime e basta. Dalla porta sentimmo la voce di Michael, chiedeva se mi avesse visto da qualche parte. Era tornato. 




Hei people!
Sono in orario, ce la posso fare. Ho iniziato a scrivere questo capitolo presto, mi andava di farlo, come se anche io avessi dovuto liberarmi del segreto di Becky. E' come se ognuno dei personaggi vivesse realmente dentro di me. 
Io penso che quando condividi un segreto con qualcuno, è inutile: ci resti legata a quella persona. Becky se ne accorgerà, magari anche Luke. Anche se sembrano lontani più che mai, ormai sono attaccati da questo filo che si basa unicamente sulla fiducia e sulla paura.
E credo sia un grande passo per la storia. 
Questo capitolo in fondo si commenta da solo, ci ho messo dentro frasi che mi sono state dette e parte del mio carattere. Per questo non riesco a fare un vero commento.
Quiiiindi vi saluto e me ne vado. Se ne avete voglia, recensite :) 
Bye!
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Capitolo 9
*** Monster. ***


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Luke's POV.

Visto da lontano, il «mostro» appariva perfin aggraziato, con quella piramide a gradoni di un colore che stava tra il mattone e l'arancione caldo. Ma quando entravi nel suo ventre, dribblando cocci di bottiglie rotte, erbacce e cespugli che crescevano più velocemente della volontà di tenerli regolati, la sua incompiuta maestosità metteva soggezione. Benvenuti nel Palababele, il palasport che questo sobborgo di Sydney forse non avrebbe visto mai ultimato, dopo che da tredici anni lo aspettava invano e dopo che da otto i lavori erano fermi. Probabilmente a causa delle forti piogge, si era verificato il crollo del pavimento dando luogo, così, ad una voragine di quasi 20 metri di lunghezza, proprio al centro. È per questo che non ci mettemmo mai piede, lì in mezzo. Lo attraversavamo camminando sulle gradinate sporche, spaccate in alcuni tratti. 
«Fai attenzione qui» mi avvisò in tempo Ashton, indicando una siringa adagiata a terra. 
Imboccammo la rampa di scale che portava alla sala principale, la nostra sala. I muri appartenevano ai writers, che la notte si divertivano ad imbrattare come pazzi. E la puzza di umido diventava sempre più forte man mano che ci si avvicinava all'interno. Ashton col tempo lo fece diventare «Pala», mentre per me restava sempre e solo il «mostro». 
Pensavo che mi rispecchiasse, quel posto. Mostro ero io. Lo sporco, il silenzio, la desolazione. Così mostro da non poter tornare più indietro, così macchiato da smettere di ripudiarmi e non pensarci più a me. 
«Che ore sono?»
«Le ventidue e otto minuti» mi rispose Ashton, con in sottofondo il rumore delle nostre suole che venivano a contatto con bottiglie di plastica, o lattine, o accendini. O qualsiasi cosa che fosse abbandonata lì. 
«Siamo in tempo, non ti preoccupare.»
In realtà non lo eravamo affatto. Mio padre aveva l'aria di essere lì da parecchi minuti. Varcammo la soglia, che a dirla tutta mancava di una porta vera e propria. Non dovevamo scambiarci con il buio, era da noi stessi che dovevamo nasconderci. «Pensavo non veniste più» esordì. 
«Dicci cosa volevi» tagliai corto io. 
Ashton intanto si rigirava tra le mani una sigaretta e sembrava pensare ad altro. 
«Hanno riaperto le indagini» disse, molto velocemente. Un flusso di parole che uscì dalla sua bocca senza nessun intralcio. 
Fu a quel punto che il ragazzo di fianco a me tornò cosciente e si irrigidì. Io restai inerme, tanto che sentii il mio corpo raffreddarsi. 
«Pensavo che-»
«Sì, lo pensavamo tutti, qua. Ma andrà tutto bene. Abbiamo la situazione sotto controllo» affermò mio padre. Quarantacinque anni di fermezza. 
Non avevamo niente sotto controllo. Non le puoi fermare, queste anime spietate, non puoi dirlo di tenerle in mano. Avevo paura di me stesso. Di quando scendevo nel nulla, di quando perdevo la sensibilità nel toccare la vita. 
Deglutii, con mio padre non si scherzava. Delle gocce scivolavano giù da un tubo vecchio, rotto, dimenticato, e si andavano a scontrare all'interno di un secchio malandato. 
«Torno a casa, io. Sbrigherò un po' di cose. Ashton, porta Michael il prossimo fine settimana. Mettiamo tutto a posto.»
Ashton annuì, silenzioso. A me non chiedeva di tornare, non lo faceva da quella notte dello scorso inverno. 
Poi l'uomo si affacciò ad una finestra, che era un onore ad essa definirla così, con quelle sbarre arrugginite, e «Potete andare. State attenti» proferì, con gli occhi attaccati all'orizzonte. 
Nessuna parola. Semplicemente, io ed Ashton ricominciammo a trascinare i piedi su quelle cianfrusaglie e provammo ad andarcene. In realtà da queste cose non si riusciva ad andarsene e noi di certo mica ci illudevamo. 
Io non mi facevo filmini mentali. La realtà, schifosa, lo era. 
Dall'angolo interno del Palababele sentimmo dei grugniti misti a delle grida. Non era una novità, a dirla tutta. Mio padre non si impegnava molto in queste cose, non calcolava chilometri per ordinare un'esecuzione. Quel posto ne aveva viste, di scene raccapriccianti. 
«Deve essere Matthew quello. Penso sia il figlio del proprietario di quel negozio di telefonia in centro. Ha arretrati di non so quanti mesi» mi spiegò Ashton. 
Ci avvicinammo, passando per le gradinate. I visi neutri, la camminata tranquilla, le mani in tasca. 
Due dei nostri -in tutto lì erano tre- si voltarono e ci fecero un cenno col capo come saluto.
«Dice che i soldi li porta lunedì, il coglione» disse uno di quelli. Il nome nemmeno me lo ricordavo. 
«E quando avrebbe dovuto, invece?» chiesi. La mia voce rimbombò per un tempo che mi sembrò troppo, troppo lungo. Che mi parve che quelle parole mi lasciarono la gola e poi ci rientrarono di nuovo. 
«Un mese e mezzo fa.»
Matthew, schiacciato contro il muro putrido, mi puntò gli occhi addosso. Li aveva di un verde scuro che non aveva copie. Distolsi lo sguardo due secondi dopo e «Capisco» mi sentii di dire. «Vi lascio, noi andiamo.»
Detto ciò, ci girammo. Mentre ci allontanavano, Ashton si accese la sigaretta ed io mi girai. Matthew era steso a terra, con la faccia spiaccicata al suolo. Un calcio lo colpì direttamente allo stomaco, un altro allo stinco e poi un altro, e un altro ancora. Gli guardai il viso. Dalla fronte un rivolo di sangue pretendeva di scendere fino al sopracciglio. 
Mi stava ancora guardando.

Il mattino seguente già non c'era più traccia di niente, già non sentivo più niente. Dall'altra parte del cortile del Sefton Michael Clifford stava avanzando verso me ed Ashton. Si era tinto un'altra volta i capelli. Adesso un rosa piuttosto tenue primeggiava su quelle ciocche sparate all'aria. 
«Ehi, come va?» 
Era strano. Sembrava di fretta. 
«Hanno riaperto le indagini» Ashton cantilenò quella frase che il giorno prima ci era stata detta. La stessa che per tutta la notte mi aveva tenuto sveglio. 
Michael dischiuse le labbra, ci osservò per un po'. Aveva un'aria tormentata. 
«Cazzo, amico. Che casino» commentò, come se noi non lo sapessimo. «Immagino che questo cambierà parecchie cose.»
«Le cambierà, sì. Arriveranno a me e ad Ash. Devi tenere lontana Rebecca.»
Michael a quel nome parve sussultare. Era un punto debole, quella ragazza, per lui. Forse lo era un po' per tutti. Poggiò una mano sulla sua maglietta e la tirò, con fare angoscioso, come se proprio in quel momento si fosse sentito incredibilmente soppresso. 
«Becky non è stata bene stanotte» buttò lì la frase. «Mi ha picchiato per almeno un'ora. Nel senso, non mi ha fatto male, anche perché non era questo ciò che voleva. È solo che-»
«Dio santo, Michael» lo interruppi. «È solo che cosa? Eh? Quella ragazza ti farà impazzire.» 
«Ha pianto quasi tutta la notte. È la mia migliore amica, penso che le permetterei anche di farmi impazzire pur di vederla un po' più felice.»
Ashton sbuffò. Io lo sapevo, che cos'avesse Rebecca. Avevo un'idea di come potesse sentirsi, dopo che le avevo rubato una piccola parte dei suoi 24 carati. Così nascosti. Così suoi. 
«Dov'è ora?»
«In camera, forse con Calum. Cosa devo fare?»
«Costringila a venire a scuola. Piangersi addosso non servirà.»
Michael non ce la faceva proprio ad essere duro con quella ragazza. Mi chiedevo che cosa gli succedesse, in sua presenza, dove stava la trappola. Sospirò, sconfitto. 
«Hai ragione» mi appoggiò. «Ci vediamo a mensa.»
Quando salii in classe capii che Michael fosse riuscito ad imporre le sue regole perché Rebecca era lì. In ultima fila, dove non aveva mai preso posto. Non feci scorrere il mio sguardo sulla sua figura perché questo era il nostro accorto. Lei non c'era più per me.

La mensa era uno dei luoghi che preferivo. In quella scuola non avevo un aspetto rassicurante per il resto degli studenti, a quanto pareva. Per questo mi lasciavano per la maggior parte del tempo da solo, senza nessun tipo di disturbo. Odiavo il fatto di dover stare in allerta mentre parlavo con qualcuno che non fosse Ashton, di impegnarmi per nascondere la mia stranezza. Semplicemente si limitavano ad osservare, a passare gli occhi su ogni singolo centimetro del mio corpo. Ogni tanto mi chiedevo davvero che cosa pensassero di me. 
Io ed Ashton ci andammo a sedere al solito nostro tavolo spostato verso sinistra, quasi non ce ne rendevamo conto. 
"Allora, Luke?» incalzò Ashton. 
Alzai il viso dal mio piatto e «Cosa?» domandai. 
Con la forchetta ancora in mano mi indicò e, mentre masticava ancora, «Rebecca. Intendo, che le hai fatto?»
Ashton era un fottuto genio. Non si doveva parlare con lui: si faceva quattro conti in mente, traeva le sue conclusioni e poi sganciava la bomba.
Mi strinsi nelle spalle. «Io niente. Suo padre, forse, qualcosa sì.»
«Mh. La violentava?»
«Parecchio, direi. Non l'ha mai detto a nessuno, nemmeno Michael lo sa.»
«Era palese, a dire il vero. L'ho capito già tempo fa» dichiarò, mandando giù un altro boccone. 
«Non dire niente, per ora. Ho in mente una cosa.» 
Ashton posò la forchetta nel piatto e mi si fece più vicino. «Non metterti nei guai, Lukey» mi ordinò, con quel suo tono autoritario, ma al contempo gentile. «Stanno arrivando, comunque.»
Dall'entrata della mensa Calum, Michael e Rebecca fecero il loro ingresso. Due minuti dopo furono al nostro tavolo, era un rituale, ormai. Rebecca sedeva il più lontano possibile da me e non parlava. Rebecca King che non parlava. Pensavo alla sua faccia se solo avesse saputo che ora non ero l'unico ad essere a conoscenza del suo segreto. Ché ad essere onesti non mi importava, mi sentivo cuore e mente anestetizzati.
«Che cosa fate stasera?» intervenne Calum. 
«Lui balla, io lo seguo» gli rispose Ashton, mentre allontanava il piatto da sé. 
«Cavolo, amico, tu balli sempre. Non ti stanchi?»
Glielo avrei detto che il ballo era l'unica cosa che mi distoglieva dall'essere un mostro, ma che a volte avrei preferito solo starmene in camera a disegnare. Che non avevo il pieno controllo della mia vita, ma c'era chi stava ai piani alti. E mio padre era il proprietario de Lo Spazio. 
«Mi piace ballare» mi difesi, dicendo in parte la verità. 
Gettai una velocissima occhiata a Michael e Rebecca e li vidi scambiarsi qualche parola sommessamente. 
Nel giro di venti minuti tutti avevamo finito di mangiare e la campanella che segnava l'inizio della penultima ora parve suonare addirittura con anticipo. Salutai Michael ed Ashton ed entrai in classe. 
Richards era già presente, ad incasinare fogli dietro la cattedra. Calum varcò la soglia con a fianco Rebecca ma, a mia sorpresa, venne a sedersi al posto vicino al mio. Il moro mi sorrise ed io non capii nemmeno la reazione che ebbi. Probabilmente restai composto. Frugai nel mio zaino alla ricerca del mio blocco di fogli e lo trovai dopo due tentativi. Sfogliai parecchi fogli, tutti quelli già macchiati dalla mina della mia matita, quando finalmente ne trovai una libero.
«Disegni?» domandò Calum. 
Impugnai la matita, studiai lo spazio che avevo a disposizione per trovare le giuste misure. 
«Quando capita.»
Quaranta minuti più tardi la matita aveva dato vita ad un angelo, uno di quelli in stile manga. Mi affascinavano parecchio. I capelli lunghi, la frangia che ricadeva sugli occhi e che quasi offuscava la vista. Due occhi grandi, impeccabili. Uno sguardo arrabbiato, forse un po' vendicativo. In mano una spada che occupa gran parte del foglio. Pronto a combattere. Due ali giganti che fanno capolino dalla schiena, sono il punto forte del disegno. 
Poi ci pensai su. C'era qualcosa che non andava, me ne convincevo una volta di più appena lo osservavo meglio. Dopo capii.
Ri-impugnai la matita, adesso con più foga e cominciai a colorare quelle ali di nero, dandogli le sembianze di un angelo caduto. Esiliato dal Paradiso, una delle punizioni più atroci.
Che cosa gli mancava dall'essere un demone? 
Che cosa mi mancava dall'essere un demone? Un'anima malvagia e fredda. Un mostro.
I mostri sono mostri e basta. Non hanno scuse né scusanti, non hanno il diritto nemmeno di pensare al Paradiso. Non ne hanno il tempo. Devono concentrarsi nel non dimenticare la luce, perché non possono vederla. I mostri devono accontentarsi del buio e l'unica regola è quella di affogarci dentro. Devono essere rinchiusi, messi in esilio, soffocare in una stanza piena di sensi di colpa. Devono mangiarsi le unghie fino alle nocche, devono osservare quel sangue che sprigiona rivoli di rimorso. Non hanno nemmeno il diritto di richiedere la chiave per uno squarcio di paradiso, i cancelli restano chiusi, per loro. I mostri sono soli e soli resteranno.
Che cosa si prova a leccarsi le ferite? Patire era l'unica cosa concessa.

Ashton era una piccola parte di me che la natura si era dimenticata di incorporarmi. Ci sono legami che non si possono definire, sono belli così come sono, così inconcepibili. Ashton era casa, il rumore della sua risata lo era, con quella avrebbe saputo rallegrare un'intera stanza vuota. Per questo, appena quella sera tornò in camera, d'istinto accartocciai il disegno di poche ore prima e lo imboscai nel cassetto.
«Ehi» salutò, chiudendosi dietro la porta. 
«Ciao.»
Posò la borsa da calcio a terra e mi fissò per alcuni secondi. Aveva i capelli umidi, reduci di una doccia, e sprigionava profumo da ogni parte. 
«Dimmi.»
«Non so...» cominciò, un po' esitante. «Hai mai pensato di ribellarti a tutto questo?»
«A tutto questo, Ashton? Preferisco non morire con un pallottola conficcata in testa.» 
Ashton rise sommessamente, quando in realtà lo sapevamo entrambi. Non c'era niente da ridere. «Sei così stupido, Lukey. So che ci hai già pensato ma ti fa paura solo il pensiero di aver trasgredito ai piani alti.» Ancora quella faccia, quella col marchio “Ashton”, che sembrava conoscere ogni singola parte nascosta delle persone. 
«Ogni tanto sei davvero rompi cazzo, Ash» mi lamentai, alzandomi dal letto e andando a recuperare la borsa contenente i vestiti di hip hop. 
Lui si appoggiò col fianco al muro e «Un giorno ce ne andremo da qui» affermò, con decisione. 
«Ok, ora pensiamo ad andare a Lo Spazio, sono le dieci passate» lo rimbeccai, camminandogli di fianco per raggiungere la porta. 
Ashton non rispose più, ormai sapevamo che la conversazione fosse finita lì.
Andammo così al locale, era una regola da rispettare, quella di arrivare prima delle dieci e mezza. A me, ogni volta che mettevo piede lì dentro, sembrava di fare un passo nell'inferno. Appena varcavo la soglia, di fianco al bancone degli alcolici, uno scagnozzo di mio padre tirava su la manica della sua giacca e controllava l'orario. Ashton salutò il personale, a me non fregava di nulla. Ci dirigemmo nel ventre de Lo Spazio, quello in cui nessuno, a parte coloro che ci lavoravano all'interno, sarebbe mai passato per la mente cosa ci fosse. 
Era inevitabile. Il corridoio era uno solo, non si poteva di certo arrivarci in un altro modo, al mio camerino. Io lo preferivo chiamare Tunnel dei Morti, perché, davvero, cosa eravamo, se non quelli? Sulla destra ci si poteva affacciare nella stanza in cui molte ragazze, che non avranno avuto più di venti anni, si preparavano per la serata. C'era chi tirava coca per rilassarsi e arrivare fino alla fine, chi cercava continuamente una sigaretta, chi scostava borsoni e vestiti per trovare le proprie scarpe vertiginose. Avevo sentito che alcune di loro poi tornavano a casa con i clienti e il mattino dopo nella tasca avevano due banconote in più. 
Quando ci passai a fianco, un coro di «Ciao Ash, ciao Luke» si alzò e ricambiai velocemente. 
Infine, c'era una penultima stanza. Da lì non si innalzava nessun tipo di coro e, se proprio si udiva un vociare, esso era così fitto che nessuna parola risultava decifrabile. Era la loro stanza. Mio padre si chiudeva lì la maggior parte del tempo e con lui anche il padre di Ashton e altri uomini che nello sguardo avevano una spietatezza capace di far tremare chiunque, ma non me. 
Entrai nel mio camerino, aspettai che Ashton entrasse per chiudere la porta. Mi cambiai e «Che fai oggi?» mi domandò. 
«Hype» risposi, gettando a terra i pantaloni. 
Lui annuì ed uscimmo. L'atmosfera era già cambiata: le luci basse impedivano una visione limpida del locale e adesso sulle pareti sbattevano contro delle luci blu. Alzai il viso, constatando la situazione al piano di sopra, e notai che gli occhi di tutti fossero puntati su di me. 
«Vai, Luke, tutto per te» mi incoraggiò e congedò il mio migliore. Lo seguii con la coda dell'occhio, e lo vidi andarsi ad appoggiare con la schiena al muro. Come sempre, lui era lì. 
Mi posizionai al centro della sala, quella rivestita di parquet, dove ogni passo aveva il suo rimbombo. Tre delle ballerine presero posto dietro di me, avevano una coreografia tutta loro. Il solito silenzio pre-show calò e proprio in quel momento sentii la mia mente staccata da tutto il resto. Il primo minuto era di sola musica, era per questo che ordinai di eliminare quel pezzo. Wiz Khalifa con When I'm Gone si espanse per tutto Lo Spazio, eppure a me sembrava stesse cantando solo per me. Nell'hip hop non vale chiudere gli occhi, lo sguardo deve essere duro, la tua espressione deve essere sicura.
I'm gonna spend it all why wait for another day
I'ma take all this money I own and blow it all away
Cause I can't take it when I'm gone, gone, gone, gone
No I can't take it when I'm gone, gone, gone.

Qui gambe e braccia non sembrarono nemmeno più controllate da me. Me le cantavo in testa, quelle parole, e subito dopo si affiancavano a quelle di Ashton.
Un giorno ce ne andremo da qui.
La coreografia andava avanti, mentre nella mia testa adesso non c'erano più Lo Spazio, quelle luci blu, la gente, mio padre, il mostro. C'ero solo io, con le ali bianche e non più nere.
Live for today, it's not like my father.
Mi riscossi, alla fine della canzone, e mi parve che qualcuno mi avesse riportato in quel posto. Tutto era ancora storto, ma all'apparenza normale. Guardai più a sinistra, allora, e la vidi. Sola, con nessuno a fianco, Rebecca se ne stava lì con le braccia conserte e gli occhi nei miei. 
Che cosa c'è, Rebecca? 
Ti affascinano i mostri, quelli con le vite che accarezzano i dolori?
I mostri sono mostri e basta, non possono fare spazio nella loro vita per farci entrare qualcuno.





Hei people!
Come prima cosa: questo non è il segreto di Ashton e Luke, è solo una parte di esso. O, meglio, il contesto. 
Questo capitolo credo sia il più importante per Luke, e non so perché ho deciso di inserire proprio adesso il suo pov. E' solo che sentivo come il bisogno di far cadere anche voi dentro al vuoto di Luke.
Vi volevo avvisa che USCIRà IL TRAILER DI 24 CARATI. Io e Martina abbiamo già iniziato a lavorarci su e spero che uscirà qualcosa di carino.
Non posso metterci tanto con questo spazio autrice perché, diamine, sono in ritardo, quindi niente, lascio a voi i commenti.
Grazie di cuore.



Questo, per chiarirvi le idee, è il Palababele fuori e dentro:

//Nali

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Capitolo 10
*** A walk. ***


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Becky's POV
Ci sono cose che non hanno bisogno di essere dette. Si capiscono così come sono, sospese tra l'ombra e la luce. Sono così, le vedi ma nessuno ne parla, le capisci, vengono nascoste dannatamente male.
Durante l'ora di filosofia, tra una parola e l'altra della professoressa, la bidella del nostro piano bussò alla porta. 
«Luke Hemmings. E' atteso fuori» comunicò, tranquillamente. 
Luke, al suo nome, tirò su la testa, ma non si scompose. Si alzò dalla sedia, con quanta più calma possibile, senza nessuna traccia di preoccupazione o curiosità.
L'avevo visto a Lo Spazio, la sera prima. Aveva l'aria di uno che il mondo non se lo volesse gustare. Che quando mi aveva puntato gli occhi addosso qualcosa era esploso e tutto da lì in poi sarebbe cambiato. 
Nel frattempo, Luke non tornava in classe. Erano passati dieci minuti e la parte imprevedibile di me mi consigliava di uscire, di vedere cosa avesse combinato questa volta quel maledetto. Così alzai la mano e, quando ricevetti l'attenzione della professoressa, «Potrei andare in bagno?» chiesi.
Trattenne lo sguardo sulla pagina del libro, sembrò pensarci. Poi «Va bene. Sto per dare i compiti, dopo fatteli passare» mi concesse.
«Certo.»
Mi alzai ed uscii dalla classe. Andai dalla parte opposta dei bagni, assicurandomi che nessuno mi vedesse. Ma, mentre attraversavo il corridoio, quello con le vetrate che davano sul cortile, delle figure mi incuriosirono. Avvicinai il viso al vetro e aguzzai la vista. Intravidi Ashton. Ashton in una camicia grande due volte se stesso, il che lo faceva passare per uno che quel mattino non aveva avuto poi così tanta voglia di metter piede giù dal letto. 
C'era un uomo, di fronte a lui. Un uomo più alto di lui, dall'espressione seria, con in mano un'agenda su cui continuava a scrivere. Poi lo vidi, quel distintivo. Polizia. 
Il cuore parve volermi fracassare la gabbia toracica. 
Da dietro una macchina sbucò anche Luke, seguito anche lui da un agente. Si passò una mano fra i capelli biondi e si prese tra l'indice e il pollice il labbro. Rispondeva alle domande che gli venivano poste, senza scomporsi. Pochi istanti più tardi, i due uomini posarono le proprie agende e cominciarono a perquisire Ashton e Luke. 
Quella scena mi fece innescare qualcosa all'altezza del petto, perché mi resi conto che c'erano mani sul corpo di Luke, Luke era toccabile. Lo era senza dover picchiarlo, senza lasciargli per forza il segno. Questo pensiero, così assurdo, mi destabilizzò. 
Cominciai a scendere le scale, fino ad arrivare al piano terra e mi bloccai davanti all'entrata. Mi girai, osservandomi intorno, accertandomi che non ci fosse nessuno in segreteria, e mi appostai appena fuori dalla scuola. 
Adesso avevo una visuale nettamente migliore, rispetto a prima, e potevo scorgere le espressioni quasi impercettibili sul volto di Luke. Era dura da ammettere, ma ormai conoscevo a memoria quel ragazzo. Aveva paura, me lo raccontavano quelle due pieghette sulla forte. E non era a proprio agio, perché il piede destro era appoggiato sul sinistro. 
Gli agenti si allontanarono dai due, si consultarono per alcuni secondi e «Va bene, ragazzi» annunciò uno di loro. «Abbiamo finito. Tornate pure in classe.»
Ashton annuì. I due uomini salirono sulla macchina ed uscirono dal parcheggio del Sefton, e tutti noi la guardavamo andare via. Quando Ashton e Luke presero a camminare verso l'entrata e mi videro, non sembrarono sorpresi. Come se fossi una loro scia e ci fossi sempre stata.
«Stai diventando inquietante» sbottò Luke. «Sei ovunque.»
Si accese una sigaretta.
«Pensavo non dovessimo parlare, noi due» gli ricordai. 
«Beh, perché sei qui?»
«Non posso?»
Luke sbuffò e tirò dal filtro. «Sono già incazzato di mio, non ti ci mettere pure tu.»
«Luke» Ashton lo riprese, con uno sguardo severo. «Smettila di fare lo stronzo, fatti dire cosa vuole e poi andiamo in presidenza.»
Restai immobile sul posto, spettatrice di una scena che pensavo non sarebbe mai accaduta nemmeno in una vita intera. Ashton che assomigliava ad un umano
Luke buttò fuori il fumo, stette zitto al suo rimprovero e se lo tenne tutto dentro. Fece un cenno con la testa, in mia direzione, e «Spara» mi spronò. 
«Lo sai.»
«Pensavo in qualcosa di più intelligente.»
«Sei odioso, Cristo santo. Dimmi se è normale che la polizia vi abbia appena perquisiti, dimmelo perché, davvero, forse quella con problemi sono io.»
Luke si cimentò in un silenzio così pesante da poterlo inghiottire, e la consapevolezza che lui avesse il mio passato racchiuso in una mano, mi terrorizzava. Avevo paura che in quei momenti stesse pensando a ciò che gli avevo confessato, e mi veniva una gran voglia di iniziare a correre via da lui. Sempre più lontani. 
«Mh» si riscosse. «Era solo un accertamento. Come vedi, se ne sono andati.»
Passai il peso da un piede all'altro e «Come mai un accertamento proprio a voi, su così tanti studenti?»
«Rebecca, per favore. Sembra che ti importi seriamente di me. Il che non ha senso.»
Sentii il calore espandersi sul mio viso e immaginai già la porpora sulle mie guance. Stavo sul serio prendendo Luke Hemmings come una cosa mia da risolvere. 
«Mi stai remando contro, te ne accorgi?»
«Io non-»
«Tu un cazzo, adesso mi fa finire» lo interruppi. «Io sono cattiva con le persone, lo capisci? Lo sono e basta. Con te adesso sto provando a controllarmi, a venirti incontro, ma a te non frega nulla. Siamo su due mondi diversi, e sta diventando insopportabile il fatto di sbatterci odio addosso quando siamo solamente nella stessa stanza» le parole mi uscirono così velocemente che sentii il fiato corto. 
Luke buttò via il mozzicone e mise le mani in tasca. «Venirmi a chiedere perché ho appena avuto una perquisizione non è il modo per venirmi incontro. Dovremmo accettare il fatto che non ci sappiamo fare con le persone, noi.»
Smisi di guardare Luke perché stava diventando troppo. Spostai lo sguardo su Ashton, allora. Si strinse nelle spalle come a dire ma sì, lascialo perdere, è fatto così. 
Mi resi conto che io quel fatto così volevo cambiarlo. Volevo che Luke buttasse via il tormento che lo mangiava all'interno, volevo che non dovesse spostare il marcio che aveva dentro per riuscirsi a vedere. Era una consapevolezza tanto strana quanto paurosa. 
Rebecca: origine ebraica (da ‘Ribqāh’ = trappola, rete)
Luke era in trappola. 
«Magari ci vediamo dopo, Rebecca» si intromise Ashton, cercando di riparare. E già quello era abbastanza strano e fuori luogo. 
«Va bene» acconsentii. 
«Dai, entriamo, dobbiamo per forza andare dal preside. E tu torna a lezione» continuò. 

Calum, appena suonò la campanella, mi si affiancò, con un cipiglio sul viso. 
«Dove sei stata tutto quel tempo, prima?»
Ci dirigemmo verso la mensa, ed io nel tragitto guardai ancora fuori dalle vetrate, in quel punto in cui c'erano Ashton e Luke due ore fa. 
«Cose da femmine» lo liquidai, entrando.
«Non pensare che io ti creda, eh.»
Alzai gli occhi, individuando il tavolo che Michael aveva già occupato. Calum restò a prendere il vassoio, quando io invece avevo la garanzia che il mio migliore amico l'avesse già fatto al posto mio. Infatti, appena gli fui vicina, vidi il mio vassoio di fianco al suo. 
«Grazie» gli dissi, sedendomi vicino a lui. 
Michael smise di parlare con Luke ed Ashton in quel momento e mi rivolse un piccolo sorriso. 
«Non glielo hai detto» esordì Luke. 
Lo guardai, perplessa. «Detto cosa a chi?»
Il biondo si girò verso Michael, abbastanza scosso. «Oh. No, niente. Ero sicuro che saresti andata a riferirgli tutto subito dopo averci visto» mi spiegò.
«Ma non l'ho fatto.»
«Esatto, non l'hai fatto.»
«In realtà, in questo momento, ho voglia di prenderti a schiaffi perché mi stai sottovalutando un po' troppo» sbottai, ma con un tono calmo, cominciando a mangiare. 
«Non iniziate, voi due» ci ammonì Michael. 
Alzai il viso dal mio piatto e lo guardai. «Sai cosa, Michael, ogni tanto la gente ti butta addosso 24 carati e poi si li riprende.»
Lanciai un'occhiata a Luke, per vedere se mi stava guardando e sì, lo stava facendo. Un'espressione neutrale. 
«Ciao ragazzi» arrivò Calum, che prese posto. 
Improvvisamente calò il silenzio sul nostro tavolo. Calum non sapeva niente. 

Erano le quattro del pomeriggio quando il mio cellulare cominciò a squillare. Michael non c'era, era uscito con Calum perché, a quanto pareva, a loro quella città piaceva.
Mi alzai dal letto, quindi, e vidi sullo schermo un numero che non avevo salvato sul mio cellulare. Quando risposi, una voce elettronica sopraggiunse il mio udito e okay, avrei conosciuto quel timbro ovunque. 
«Rebecca, non ti muovere» mi disse Luke, serio. 
La mia mano cominciò a tremare visibilmente. 
«Cos'è successo?» chiesi, allarmata.
Sentii qualcosa spostarsi, Luke non era fermo. «C'è tuo padre, giù. Non affacciarti, è chiaro?» Ebbi l'istinto di vomitare tutto il cibo che avevo mangiato a mensa. «Lui non sa dove abiti.»
Mi accucciai sotto la finestra, con lo stomaco in subbuglio e «Ho paura» confessai, con la voce tremante. Me ne accorsi dopo delle mie stesse parole, ma il danno era già ormai stato fatto. Non era la prima volta che Luke mi vedeva così scoperta, che mi faceva sputare fuori la mia vulnerabilità. 
«Sta osservando le finestre. Stai immobile» ordinò, e quelle parole mi davano un senso di protezione. Ed era così sbagliato, perché non poteva esserlo davvero, non poteva farmi sentire sicura la stessa persona da cui scappavo. 
«Credo ci abbia rinunciato. Dove sono Calum e Michael?»
«Non lo so, Luke.»
«Stai piangendo, Rebecca?»
«Vieni qui.»
Ci mise tre minuti. Li contai, ed era la prima volta che aspettavo Luke Hemmings. Mi alzai ad aprirgli e mi riaggomitolai sul letto. 
«Ho detto ad Ashton che andavo a farmi un giro. Vedi cosa mi fai fare, mi fai pure mentire al mio migliore amico» affermò, andandosi a sedere sulla poltrona davanti a me. 
«Chiamo mia madre e le racconto tutto» dissi.
Luke fece un cenno col capo, sempre col suo sguardo neutrale. Aspettai almeno cinque squilli. 
«Pronto?»
«Oh, mia figlia si fa risentire!» Sentii lo scrosciare dell'acqua e il rumore provocato dalla ceramica dei piatti che si sfiorava.
«Stai lavando i piatti?»
«Sì, ma che cos'è questo tono così triste?»
Mia madre era una tipa strana. Usava questo tono così famigliare, così affettuoso, che faceva a botte con il suo menefreghismo da mamma impegnata. 
«C'è una cosa che devo dirti» la buttai giù così. «Promettimi che resterai calma.»
Sentii l'acqua fermarsi e un piatto posarsi, segno che adesso avevo tutta la sua attenzione. Mi morsi il labbro, puntando lo sguardo su Luke. Passarono un'infinità di secondi, prima che quest'ultimo si fosse alzato. Lo vidi venire verso di me, prendermi il cellulare e «Voleva dirle che va tutto bene, sua figlia. E ciò di cui voleva parlarle sono io» dirle. 
Parve che l'aria non volesse più scorrere dentro di me. Spalancai gli occhi, osservando quella scena assurda. 
«Luke» lo richiamai. 
Lui scosse la testa, zittendomi, ed io mi misi una mano sul viso. 
«Aveva paura che lei potesse avere un giudizio negativo su di me. Quindi, mi presento: sono Luke e frequento anche io il Sefton. Sua figlia è in classe con me, è un piacere conoscerla.» 
Mi chiesi seriamente dove Luke stesse andando a parare. Sentii la voce elettronica di mia madre dall'altra parte della linea e «Non si preoccupi» la rassicurò. «Adesso dobbiamo proprio andare, però. Rebecca non è un genio in psicologia, provo a metterle qualcosa in testa! Sì, certamente. Gliela saluto. Stia bene!»
Quando Luke finì quella conversazione, la mia testa era ormai affondata nel cuscino. 
«Che cos'era quello?» 
«Ho avuto una delle mie idee» spiegò, rigirandosi il cellulare tra le mani. 
«Hai appena detto a mia mamma di essere il mio ragazzo. Potremmo finire all'inferno.»
Luke rise, guardando il pavimento e «Ho deciso che non dovrai dire niente a nessuno. Ci penserò io a risolvere tutto» proferì. 
Capii subito che non fosse una buona idea. Le decisioni di Luke avevano sempre un non so che di allarmante. Lo capii subito. 
«Ah sì? E come farai? Sentiamo.»
«Questo mica te lo dirò» mi rispose, con ovvietà. 
«Non ho intenzione di finire in dei casini.»
«Sei troppo permalosa.»
«E tu troppo poco rassicurante.»
Luke rise, per la seconda volta, in quella giornata. Glielo avrei chiesto, che diavolo si ridesse, però mi resi conto che era okay. Luke che rideva era meglio che vederlo incazzato o pensieroso. 
Poi tirò su la testa e mi guardò ed era la prima volta che aveva quello sguardo. Serenità. Spensieratezza. Con gli angoli delle labbra alzati e un'espressione che solo Luke sarebbe riuscito a fare. Sembrava quasi un misto tra imbarazzo e felicità. 
Mi venne da accennare un sorriso e, sempre con quello, scuotere la testa. «Sei una persone imprevedibile, Hemmings» affermai. 
Lui alzò le spalle. «Anche tu. Perché non mi stai gridando addosso.»
C'era un qualcosa di strano, nell'aria, qualcosa che era l'insieme di me e Luke. Metà io e metà lui. Strano perché il risultato era così lontano e così paurosamente vicino. 
«Lo faccio solo se mi istighi» mi difesi. 
«È che sei troppo prepotente e hai uno strano schema in testa. Le cose devono andare come ce le hai tu in testa, ma la tua mente è così malata che ti esce fuori un comportamento assurdo.» 
«Oh dio» sbuffai, alzando gli occhi. «Mi spaventi quando fai così.»
Luke si metteva a fare una fottuta analisi a qualsiasi persona gli capitasse a tiro. Ed io mi sentivo incredibilmente giudicata, osservata. 
«Comunque, a mensa non intendevo ciò che hai capito» cambiò discorso, sistemandosi meglio sulla poltrona.
«Di cosa parli?»
«No, niente.»
Era un continuo turno. Quando smettevo di chiudermi io, incominciava a farlo Luke. 
«Piuttosto, tu cosa ci facevi a Lo Spazio ieri sera?»
L'atmosfera era cambiata e adesso sembrava più una gara a chi colpiva più a fondo. 
«Ero nei paraggi» risposi, tranquillamente, anche se era forse la cazzata più grossa che fosse mai uscita dalla mia bocca. Io volevo vedere Luke Hemmings per davvero
Gli uscì un «Mh» indeciso e lanciò il mio cellulare sul letto. 
Non mi disse di non tornare più, non mi disse che nei paraggi di quel locale nessuno ci passava. Semplicemente, Luke si alzò. «Va beh, io vado. Spero che tuo padre non tornerà più, io cercherò di risolvere.» Poi, prima di chiudere, «Psicologia contemporanea, comunque» affermò. «Leggo quella, per evitare di studiare le cose di Richards.» E aprì la porta.
Mi chiesi quanti passi avanti avevo fatto con Luke e quanti indietro. 
«A domani» disse. E se ne andò. 
A domani. 
Improvvisamente mi sembrò di avere una risposta a tutte le mie domande. Io e Luke avevamo fatto un'intera camminata. 
A domani è una promessa. 
E le promesse si fanno quando speri che ti venga data fiducia. 

Non me ne accorsi subito. Ultimamente, il nostro professore di educazione fisica sembrava sempre più svogliato e dava sempre meno indicazioni. L'unica regola era: i ragazzi sul campo da basket e le ragazze in palestra. In realtà, mi andava più che bene. Soprattutto adesso, che le classi si erano riunite nella stessa ora, avevamo davvero poco controllo. Le mie compagne di classe erano perlopiù silenziose e non cercavano più di tanto di instaurare un qualche tipo di relazione con me. Ci si faceva gli affari propri. Spesso giocavamo a pallavolo e io segnavo i punti sul tabellone. 
Michael se ne stava sul campo da basket e quasi sempre si ritrovava sotto le gradinate con Ashton o Luke, che sfuggivano alle lezioni. Ultimamente io e Luke non urlavamo più. Ci scambiavamo due o tre parole, oppure facevamo prima a non parlarci.
Quel giorno, dalle vetrate della palestra, vidi Michael stare inerme, seduto sulla gradinata. Guardava i suoi compagni passarsi la palla, compreso Calum, e non faceva nient'altro. A dire il vero, non riuscii a preoccuparmi sul serio. Pensavo fosse normale, perché Michael non amava stare insieme agli altri. Quando poi due delle mie compagne stavano facendo dei passaggi di fianco a me, sentii chiaramente ciò che si erano dette. 
«Non vedremo Michael Clifford in campo per un po', a quanto pare» cominciò Julia, mentre si legava i capelli. Subito, a quel nome, il mio corpo si mise in allerta. 
«Dicono che l'abbia prese sul serio, questa volta.»
Io non avevo idea di che cosa stessero parlando, quelle due. Continuavo a palleggiare di fianco a loro, lanciando qualche occhiata di tanto in tanto. Mi girai, guardai Michael. Non capivo. 
«Stai zitta, oh. Guarda chi abbiamo vicino.»
«Dio, non l'avevo vista.»
Misi su una faccia schifata e «Mi sposto, continuate pure a parlare» sputai con un tono tagliente. 
Le vidi diventare di un colore scarlatto e poi distogliere lo sguardo. Spinsi la porta di emergenza ed uscii dalla palestra. Non mi ero mai sentita così piena di adrenalina. Camminavo velocemente, camminavo e non pensavo a ciò che sarebbe successo dopo. Ero infuriata. Percorsi il campo da basket e, quando finalmente mi trovai davanti a Michael, incrociai le braccia. 
«Che cosa ti è successo, eh?» urlai. 
Michael corrugò la fronte e guardò alle mi spalle, assicurandosi che nessuno mi avesse sentita. 
«Che hai?» mi domandò.
«Che ti hanno fatto, maledetto?» 
Aveva paura di me, alcune volte. Io mi incazzavo ancora di più. 
«Non so di cosa tu stia parlando» mi rispose. 
«Alzati e vai a giocare. Dai» lo provocai e sì, ero una stronza. Quel tono che usai era schifosamente cattivo. 
Si stava rialzando, lo stava facendo sul serio. Poggiò una mano sulla gradinata e, con una smorfia di dolore sul viso, provò a tirarsi su. Poggiai una mano sulla spalla e lo feci risedere malamente. 
«Che cazzo fai, deficiente! Guardati, guardati come sei ridotto.» 
«Ahia, Becky!» urlò dal dolore e io mi avvicinai al suo viso. Infilai una mano tra i capelli e glieli tirai, fin quando la testa non gli andò un po' indietro. 
«Dimmi chi è stato» ringhiai, quasi sulla sua bocca. 
«Lasciami.»
C'erano così tante cose al mondo che mi facevano incazzare, ma questa le batteva tutte. Mi dissi che avrei potuto strozzarlo e tutto sarebbe finito lì. Ma alcuni istanti dopo sentii delle mani cingermi i fianchi e tirarmi via da Michael. 
Era Luke. 
«Non mi toccare» gridai, in preda all'ira. Quando mi girai, davanti ebbi un centinaio di occhi puntati su di me. Tutti mi stavano guardando, sbalorditi.
«Stai calma, Rebecca» continuava a ripetere Luke.
Parve una cantilena che poteva benissimo sembrare una tortura. Così lenta, così fastidiosa. Mi voltai verso Michael, ancora lì, e cercai di imprimergli addosso tutta la mia rabbia. 
«Smettila di guardarlo, andiamo via» mi ordinò Luke, con ancora le sue mani a tenermi stretta. Come un animale. 
Dalla palestra vedemmo uscire il professore, che osservò per bene la scena. Inutile dire che pochi minuti dopo mi ritrovai nell'ufficio del preside.

Me ne tornai quasi subito in camera con due giorni di sospensione sulle spalle. Né Michael, né Calum si fecero vedere per tutto il giorno. Ma la sera doveva arrivare, non potevano girovagare per la città come due barboni senza una meta. 
La rabbia era scemata, ma il rancore si faceva ancora sentire. Solo il pensiero che qualcuno avesse anche solo sfiorato il corpo di Michael mi faceva venire voglia di spaccare qualsiasi cosa. E il fatto che lui non mi avesse detto niente, e che io non me ne fossi accorta, completavano il tutto.
Michael non mi apparteneva più.





Hei people!
Oddio, mi è sembrata la settimana più lunga della mia vita. Sto pubblicando con un giorno di ritardo per un'infinità di motivi: partendo dal fatto che ho avuto un episodio di pressione bassa, dal fatto di essere dovuta andare dal medico, poi in ospedale a farmi gli esami del sangue, scoprire di avere un'infezione renale, prendermi febbre e raffreddore e finendo col fatto che adesso sono qua a scrivere col collare per essermi presa uno strappo. In realtà non vi frega, però io ci tengo a farvi sapere i motivi dei miei ritardi lol
Comunque è arrivato il momento. Becky e Luke, intendo. Ci sono voluti 10 capitoli per avvicinarli così poco. Io, sinceramente, sono felice così. Sono felice anche per Ashton che prova a fare il compresivo. Lo sono sopratutto per Becky.
Il problema, in realtà, è questo: come farà Luke a metter a posto la questione del padre di Becky? Mh. 
Vi lascio con questa domanda.
Vado a provare a farmi la doccia con questo dannato torcicollo! 
Ps: come avrete notato, ho cambiato la descrizione della storia, ditemi se era meglio quell'altra o questa!
Ciao gente :)

//Nali

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Capitolo 11
*** Don't say it. ***


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Michael, quando quella sera rientrò, mi trovò ancora sveglia, con in sottofondo un programma sconosciuto di cucina. Appena varcò la porta, mi girai di scatto e lo osservai come se fosse stato la mia preda preferita. Non camminava dritto, quello stronzo. E quella giacca in pelle che gli avrei volentieri bruciato ci mise il doppio degli anni che aveva per sfilarsela di dosso. Provava a non mostrare di star patendo dolore, perché dentro in quella stanza c'ero io, ma glielo si leggeva in faccia.
«Beh? Che cazzo ti guardi?» sbottò, sedendosi sul letto per togliersi i jeans. 
Presi il telecomando e spensi la televisione. Il silenzio cominciò a regnare, quindi «Ciò che mi pare. Guardo questo» gli diedi come risposta. 
«Okay, dovevo immaginarlo: hai intenzione di litigare» si lagnò, con quel tono che ti indiceva a sgozzarlo in quel preciso istante. 
Ero seria. Questo lo ricordo perfettamente. Il mio viso non ammetteva nessun tipo di emozione, anche se ero incazzata da morire. 
«Smettila di usare quella voce da bambino del cazzo» sputai, osservandolo alzarsi e andare in bagno sbattendo i piedi. 
Lo sentii lavarsi i denti e tornare in camera dopo pochi secondi. Si fermò proprio davanti al mio letto e mi dissi mentalmente di non alzarmi e prenderlo a botte proprio lì, davanti a me. Michael, senza proferire niente, avvolto dal silenzio, si tolse la maglietta che aveva indossato per tutto il giorno. Ci mise più del normale perché quel corpo gli doleva da matti, ma non commentai niente. Adesso era così, davanti a me, spogliato e privo di qualsiasi scudo. 
Sul pettorale sinistro c'era una ferita da arma da taglio, era perfettamente riconoscibile. Il sangue che c'era sopra probabilmente la faceva sembrare più profonda di quello che era. All'altezza dello stomaco c'erano parecchi lividi, che andavano dal violaceo al bluastro. E poi ancora chiazze di sangue incrostato sparse qua e là, la pelle marchiata da graffi sia di piccole dimensioni che più estesi. 
Michael sembrava stare lì di fronte a me come a dire guarda, queste sono le ferite, sei contenta?
Avevo visto cose peggiori, nella vita. Ma vederle su Michael era tutt'altra cosa. Quel corpo così bianco latteo, segnato dalle botte, proprio non mi andava giù. Mi si seccò la gola e poi lo guardai in faccia. 
«Sei un povero stronzo. Guardati» gli dissi. 
Lui non aprì bocca. Io a quel punto mi alzai e «Ti conviene stringere i denti» lo avvertii, afferrando il suo polso e tirandolo verso il bagno. Lo feci sedere sulla tavola del cesso e Michael continuò a stare zitto. Recuperai il cotone e il disinfettante, quello che mia mamma mi aveva rifilato il giorno stesso della partenza, e mi sedetti in ginocchio davanti a lui. Mi sentivo io, la povera stronza, inginocchiata di fronte a un disgraziato, a curargli le ferite. 
Posai il cotone imbrattato di disinfettante sul taglio sul petto e, nonostante il dolore, Michael non mi disse di fare piano. Ogni tanto gemeva, perché bruciava da morire, ma non si lamentava. Gli ripulii il sangue, facendolo smettere di sembrare un aggredito terminale e, nel mentre, «Mi dispiace» snocciolò, piano. 
Mi salì un pianto che parve starmi incastrato dentro da un'intera giornata. Presto le mie lacrime si scontrarono con le gambe di Michael, eppure continuai quella sottospecie di tortura col disinfettante. Continuavo e lo facevo col viso sporco di lacrime, continuavo nonostante Michael mi guardasse insistentemente. 
«Mi dispiace. Io... Non volevo. Becky, non volevo» mormorò, e sembrava che nella sua gola ci fosse un qualcosa che impediva alla voce di uscire per intera. 
«Okay» dissi soltanto, tra i singhiozzi, osservando i graffi che stavo disinfettando. Perché qualcosa dovevo pur dire.
Michael mi prese il polso e me lo bloccò. «Smettila. Non è okay.»
Non era okay. Niente lo era. 
«Lasciami finire!» lo pregai, per distrarmi, per propagare tutto quello schifo che si era creato in quel maledetto bagno. 
Michael mi scacciò via il braccio ed io mi rannicchiai contro il lavandino, portando avanti quel pianto che quasi mi faceva male il petto. Poi lui attorcigliò le dita tra i capelli e rimase con la testa bassa, a fissare le mattonelle bianche. 
«Sto prendendo strade diverse, Becky. Voglio che tu smetta di preoccuparti per me.»
Respirai a fondo, col marmo freddo attaccato alla schiena. «Che cosa vuol dire che stai prendendo strade diverse?»
Michael scosse la testa, io non capivo più niente. «Gente diversa. Nuove compagnie. Sto cambiando, Becky» mi spiegò. Faceva così male. Metteva una rabbia incredibile. 
Ringhiai. Lo feci seriamente, dovevo smaltire tutta l'incazzatura che quell'essere mi metteva dentro. Era solo che mi sentivo umiliata, immersa in quel miscuglio di sentimenti contrastanti, ma io non volevo essere così. Non volevo che Michael mi vedesse in quello stato. 
«Evidentemente è una compagnia di merda» gli feci notare. «Guarda un po' come stai messo.»
Finalmente mi alzai, mentre lui rimase ancora lì, seduto, a testa china. «Lo so» ammise. «Ma tu stanne fuori.»
Mi asciugai le lacrime e strinsi i pugni per non fargli male perché lo guardai e capii di avergliene già fatto abbastanza. «Arriverà il giorno in cui ti lascerò davvero stare, e osserverai la tua lenta autodistruzione. Senza me.»
Era strano. Perché, di solito, tra gli amici, si prometteva il per sempre. Invece, io, a Michael, lo nascondevo e glielo facevo sognare. Glielo martoriavo, quel per sempre, e lo calpestavo con la suola delle mie scarpe.
«Sei una rompi palle» si lamentò. «Lasciami fare qualcosa da solo. Stanne fuori, per una buona volta.»
«Fatti una doccia» dissi, secca, e lasciai il bagno, con il peso di quelle parole sopra le spalle. 
Mi misi sotto le coperte e aspettai il sonno. Sentii l'acqua scorrere per un quarto d'ora e subito dopo i passi di Michael arrivare dritti verso il mio letto. Si sdraiò accanto a me, cautamente, senza far troppo rumore. Il materasso si abbassò al suo peso e percepii il suo corpo a contatto col mio. Trattenni il respiro e mi abbracciò da dietro. Era gelido. E non dissi nemmeno una parola. Anche se Michael sapeva che fossi sveglia e che quel contatto non mi sarebbe stato indifferente. 
Michael Clifford era la mia malattia.

Restai per i due giorni successivi in camera, ad oziare, se non per quei venti minuti in cui la sera uscivo per comprare la cena a Michael e a Calum. In fondo, non me la presi molto per la sospensione. Anche perché mia madre non poteva fare assolutamente nulla, a chilometri di distanza. 
Il terzo giorno vidi dal balcone Luke uscire dalla Uno, con una sigaretta in bocca, e scesi velocemente le scale per raggiungerlo. 
«Luke!» urlai a squarciagola, chiudendo il portone. 
Vidi quella chioma bionda girarsi, dal fondo della strada, e intravidi l'espressione perplessa sul suo volto. Lo raggiunsi e vidi l'azzurro dei suoi occhi ancora più chiaro sotto al sole. 
«Non mi guardare in quel modo. Devo parlarti.»
Luke rise e «Oh Cristo, Rebecca» esclamò. «Sembri una stalker.»
Gli tirai un pugno sul braccio, senza l'intenzione di fargli male e lo guardai male. «Mamma mia, come siamo simpatici.»
Lui non sembrò nemmeno sentire le mie parole e «Andiamo in centro» affermò. Non replicai.
Camminare al fianco di Luke Hemmings mi faceva decisamente strano. Camminava in un modo così svogliato che quasi ti veniva voglia di dirgli di svegliarsi fuori. E non ce l'avevo, il coraggio di guardare la faccia dei passanti nel vederci insieme. 
Poi Luke mi indicò una panchina. «Ci sediamo lì.» 
Con lui non c'erano proposte ma semplicemente affermazioni. Era già tutto deciso da lui. Ed era una cosa odiosa.
«Ti ascolto se non mi addormento» mi avvertì. 
Lo fulminai e poi lo osservai meglio. «Da quanto non dormi?»
Lui si guardò intorno, si mise più comodo sulla panchina e «Non mi serve dormire» mi rispose.
«Grandioso, allora sei un uomo proprio duro» ironizzai. 
Luke fece un sorriso storto e scosse la testa. «Lascia stare le mie occhiaie e dimmi cosa vuoi.»
«Beh, speravo di avere da te alcune risposte su Michael.» Aggrottò le sopracciglia, forse perplesso, e mi fece segno di andare avanti. «L'altro giorno, quando era tornato in camera, mi ha mostrato tutti i segni che qualche pezzo di merda gli ha lasciato. Volevo sapere di chi fossero quelle mani che me l'hanno quasi ammazzato, ma si ostina a dirmi di starne fuori. Perché ha preso altre strade e, a quanto pare, io non sono in nessuna di quelle» spiegai e, nel pronunciare quell'ultima frase, dovetti calmarmi e deglutire. 
È orribile vedere le persone lasciarti la mano e andare avanti, proprio sotto ai tuoi occhi, e non aspettarti. Senza poter far nulla. 
«Vorrei... Vorrei sapere se, almeno tu, sai qualcosa. So che non siamo grandi amici, che se potessimo ci uccideremmo a vicenda, ma Michael sembra più vicino a te che a me in questo periodo.»
Luke si plasmò ancora di più contro la panchina e parve rifletterci su. «Mi stai chiedendo un favore, in teoria» esordì. 
In quel preciso momento mi venne lo scatto di stringergli la maglietta e buttarlo a terra. Non si poteva essere civili con Luke Hemmings. 
«Non menarmela su, rispondi e basta.» 
«Oookay, comunque non so niente. Con noi è normale, non ci ha detto nulla» affermò, prendendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e cominciando a scrollare tutti i messaggi di Whatsapp. 
Rimasi allibita per qualche secondo e «Sei serio? Io ti parlo di cose serie e tu guardi il cellulare?» sbottai. 
Pensai di alzarmi ed andarmene. Ma Luke «Aspetta» mi disse e mi piazzò davanti la conversazione con Michael.

Stanotte ci siamo addormentati mentre l'abbracciavo. È l'unica cosa che ho. È per questo che voglio che stia al sicuro.

Lo lessi almeno tre volte. Tanto che «Ma ti sei addormentata o cosa?» mi riprese Luke. 
«No, è solo che Michael ha uno strano modo di proteggere le persone. Sembra che abbia quasi paura di se stesso.»
«Ogni tanto mi domando se non abbia scambiato amicizia per amore.»
Restai completamente immobile, con gli occhi spalancati e il battito cardiaco accelerato. «Che cazzo dici?»
«Tu non lo vedi come lo vedo io. Hai la tua prospettiva e nessuno ti distoglie da quella.» Bloccò lo schermo del cellulare e se lo rifilò in tasca. «Michael non ne esce più, dal vostro rapporto malato.»
Malato. Rimuginai su quella parola per davvero tanto tempo.
«Non dirlo più.»
Luke rise, ma non perché qualcosa lo divertisse. «Va bene, Rebecca» mi concesse.
Mi vidi passare davanti quindici anni di amicizia, le risate, gli abbracci, i litigi, le botte, le grida, i sorrisi. Tutto. 
La versione di Luke non mi andava giù. Mi faceva arrabbiare. Mi faceva paura. Allora mi alzai, senza aggiungere altro, e camminai velocemente verso la Due. Feci due rampe di scale con una rapidità che sorprese anche me stessa e, arrivata davanti alla porta, non pensai a niente. Quando poi aprii la porta della 36, con decisamente troppa foga, Michael era sul mio letto, col viso poggiato sul mio cuscino. Era appena tornato. Ed io non riuscii più a dire neanche una parola.

Calum si era convinto di uscire, quella sera. Michael, conciato come si ritrovava, gli rispose che non ne aveva voglia, perché vestirsi per lui era la cosa più odiosa da fare in quei giorni. 
A me, invece, andava più che bene. Avevo passato tre giorni quasi rinchiusa nella Due. 
Quando poi il moro «Dai, vengono anche Luke ed Ashton e altri loro amici» provò a convincerlo, Michael si rizzò in piedi e guardò male prima Calum e poi me. 
«Che cazzo guardi così?» 
«Niente, niente» borbottò e si chiuse in bagno. Io lo odiavo con tutta me stessa quando faceva così. Che Michael sarebbe morto o di vecchiaia o per mano mia. 
Si decise ad uscirci solo venti minuti dopo e finalmente bussò alla camera 38, dove io e Calum nel frattempo ci eravamo rintanati. 
«Andiamo» proferì, spossato.
Mi alzai, senza neanche guardarlo in faccia, ed uscimmo. Ci recammo in silenzio al "Cimi", così lo chiamavano, quel parco non troppo lontano dal cimitero. 
I lampioni in tutto erano solo tre, che illuminavano il buio con quelle luci arancioni, che più odiose non esistevano. Attraversammo il prato, per poi raggiungere la piccola piazzetta spostata verso la fine del parco, ed intravedemmo alcune figure nere. Riconobbi subito quella di Luke, in piedi e, solo quando ci avvicinammo, quella di Ashton. C'erano quattro panchine, e quest'ultimo era sdraiato su una di esse. Il resto delle persone, che erano più o meno sei maschi e una sola femmina, non lo avevo mai visto. 
Si girarono, al nostro arrivo, e il silenzio si impossessò di tutto per secondi lunghissimi. 
«Beh, buonasera» si fece avanti uno di loro, stringendomi la mano. «Mef.»
«Becky.»
E sentii una carrellata di altri nomi così strani. «Sono soprannomi» si intromise Luke.
«Che c'hai in mano, tu?» gli chiesi. 
Lui alzò la mano, come per dire sei cieca o cosa? e ricominciò a rollare la canna. 
«Vai, rincoglionisciti ancora di più» ironizzai, andandomi a sedere di fianco a Mef, che teneva in mano una piccola radio. Cercava di farla funzionare ma, beh, con poco successo. 
Anche Calum si presentò, e presto si postò di fianco a Val, l'unica femmina, mentre Michael si avvicinò a Luke. Si parlavano, lo si vedeva, ma così fittamente che non capii neanche una misera parola. Michael non sembrava tranquillo. Lo conoscevo a memoria, quel ragazzo, per capire che qualcosa non andasse, e purtroppo non ero io la persona con cui voleva parlarne. 
«Quindi sei tu, la famosa Becky» affermò Mef, concentrato su quel rottame.
«Se vuoi metterla così...»
D'un tratto sentii due braccia alzarmi dalla panchina e, in un solo secondo, mi ritrovai seduta sulle gambe di... Mi voltai, sconcertata, e «Luke!» lo richiamai. 
Lui girò il viso a destra, per non buttarmi il fumo in faccia e «Che ti urli?» domandò, calmissimo. Mi guardai intorno e vidi tutte le panchine occupate, perfino Michael si era seduto vicino a Calum. 
«Coglione» lo ammonii, e Luke rise. 
Poi mi circondò la pancia col suo braccio e mi irrigidii. 
«Cosa stai facendo?» ringhiai, a bassa voce, anche se Mef capì perché sghignazzò sotto i baffi. 
«Non rompere i coglioni, Rebecca.» 
Semplicemente mi chiesi perché diavolo dovessi trovarmi nella stessa città di Luke Hemmings. Perché diavolo doveva condividere sempre la mia stessa aria. 
«Staccati, fammi alzare» intimai. E mi accorsi di avere il cuore a mille e un calore espanso per tutto il viso. 
«Guarda Michael» ordinò, per poi aspirare dal filtro. 
Io lo assecondai e probabilmente maledissi quel momento nella mia testa per tante e altre volte. Perché, se prima Michael non era tranquillo, adesso sembrava il ritratto della rabbia.
Mi stava guardando o, meglio, ci stava guardando. Che Michael fosse geloso, io questo già lo sapevo. Ma non in quel senso. 
Mi girai verso Luke, allora, e lo vidi con quel sorrisetto che stava a ribadirmi ogni volta che arrivava prima lui di me, ed io lo odiavo. Lo odiavo in un modo così profondo che quasi mi facevo paura. 
«Luke, togliti quella merda di sorriso sulla faccia e fai il serio. Perché io non ci credo.»
«Ognuno crede quello che vuole, ma in fondo la sappiamo solo noi stessi, la verità. Ce la sentiamo dentro ma, ovviamente, c'è chi l'ascolta e chi no.»
Mef si voltò, il suo ciuffo così biondo da sembrare ossigenato gli ricadde sugli occhi blu. Ci scrutava con un'espressione inquietata e davvero, potevo capirlo.
«Ci risiamo. Sei ripartito con le tue cazzate, fammi un fischio quando hai smesso.» 
Nel frattempo, Michael si era alzato e mi si era parato davanti. Luke si ammutolì. «Tutto ok?» gli domandai. 
«Sì, tu?»
«Michael» mi soffermai sul suo nome, facendolo scivolare sui miei denti, puntando gli occhi su di lui. 
«Che minchia ti prende adesso?» scoppiò, e vidi la pelle del suo viso, di solito bianca, che alcune volte pareva un fantasma, colorarsi e capii di non avere torto. Michael era fuori di testa. 
Sobbalzai e Luke mi strinse più forte. Ma io mi alzai, avendolo quasi contro il petto e «Fanculo, cosa prende a te, piuttosto! La smetti di fare lo stronzo?» 
Non lo sfiorai. Non lo feci perché in quel momento stava messo come se una macchina gli fosse passata sopra. 
«Me ne vado» annunciò. 
Tutti gli altri si facevano i fatti propri. Come se fosse normale. Come se Michael ed io lo fossimo. 
«Dopo ne riparliamo» gli dissi e sembrò più una minaccia che un avviso. 
«Non parleremo proprio di un cazzo, dopo, me ne vado a dormire.» 
E se ne andò. E capii che non ci si perde per ritrovarci, perché io proprio non volevo ritrovarlo, Michael, volevo solo non rivederlo più quando faceva così. E che alcune volte va in questo modo e non ci puoi far niente, ci sono scelte da fare e la maggior parte delle volte non ricadono su di te.
Successivamente il cellulare di Luke prese a suonare e non capii molto di quella strana conversazione. 
«Non fa niente, ascoltami... Sì, sì, però devi fare le cose con calma».
Ashton si alzò e si mise a sedere, osservando Luke, che mentre parlava lo guardava di rimando.
«Sono sicuro. Suo figlio sta bene, anche la scuola, certo. E' in camera con Rebecca, sì, però ha capito? Mi faccia sapere ogni singola novità.»
Rimasi in ascolto, anche quando «Luke» Ashton pronunciò il suo nome, come un rimprovero. Ed io gli avrei strappato il cellulare di mano, perché non ero in camera con nessuno, perché Luke era un bugiardo di merda.
«Andrà tutto bene, ne sono sicuro» concluse.
«Non andrà niente bene, Luke, tu andrai all'inferno.»




Hei people!
Michael è il centro di questo capitolo, stavolta. Ed è un po' strano, per me, perché solitamente lo lascio stare, lo lascio per le sue, perché Michael è lui e basta, sta a chi legge decidere cosa pensare su di lui. Ma l'ho fatto, ed ho abbastanza sconvolto la storia con ciò che pensa Luke. Michael è strano, non si sa mai bene ciò che pensa lui, e probabilmente Becky non vuol nemmeno sapere se al posto dell'amicizia lui abbia messo l'amore.
Vi direi di fare attenzione alla chiamata che ha concluso al capitolo ma sarebbe troppo scontato!
Cambiando discorso, il trailer di 24 carati è in corso e credo che vedendolo capirete di più della storia, anche quella che verrà avanti. 
Vi ringrazio per le 100 recensioni e per le 3000mila e passa visite al primo capitolo :) 
ps: mi dispiace per eventuali errori di battitura nei capitoli, giuro che un giorno li correggerò ahah
Ciao gente!
//Nali
come sempre,

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Capitolo 12
*** Blood on knuckles. ***


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Questa va a Mef
gli occhi blu notte
la erre moscia oscenamente calcata
i capelli assurdamente biondi
Così strampalato, così Mef


 
Io non volevo che fosse così. Non volevo che Luke avesse ragione, perché l'amore fa uno schifo tremendo, è un desolante panorama umano, e non volevo che Michael ci fosse caduto dentro. Per colpa mia. Si può solo odiare, una come me, mica amare. 
Non mi parlava più, era questo il problema. Ci provavo a far finta che non mi facesse star da schifo, eppure era così evidente. Perché le persone che più sembrano indistruttibili sono proprio quelle che hanno il bisogno di mostrarsi tali, nascondendo la loro fragilità, per la paura. Era difficile ammetterlo. Ogni tanto non capivo più, la mia corazza si mischiava con la mia vera pelle, e non sapevo più quale fosse la vera me. 
Michael me lo ricordava. 
Me lo ricordò anche quel mattino, perché al mio fianco c'era solo Calum e di lui nemmeno la traccia. Mi chiesi dove potesse andare, uno come lui, senza di me. Nella merda. Era questa la risposta. 
Passai un'intera mattinata a fissare il parcheggio del Sefton, domandandomi a che ora della notte fosse uscito Michael, e camminai per i corridoi come se avessi due tonnellate di merda compressa sulle spalle. 
«Allora?» Sobbalzai, chiudendo l'armadietto e girandomi di scatto. 
«Luke, per Dio. Allora cosa?»
«Ho visto che non hai risposto nemmeno oggi durante psicologia. Non segui i miei consigli.»
Sbuffai, incamminandomi verso l'uscita, sentendo i passi di Luke seguire i miei. 
«Levati» dissi, secca. 
Se ne stava davanti la porta di ingresso, impedendomi l'uscita, ed era abbastanza irritante. 
«Cosa stai facendo?» gli chiesi, incrociando le braccia. 
Ormai la scuola si era svuotata, di studenti non c'era più traccia. 
«Volevo avvisarti che nella Uno c'è una festa al primo piano, stasera» mi informò, anche se sapevo non fosse quella la frase che sarebbe dovuta uscirgli. 
«Per favore, togliti, fammi andare in camera.»
Luke si girò, controllò a destra e a sinistra, come in cerca di qualcosa o qualcuno. Rivolsi l'attenzione a dove puntava il suo sguardo e quei capelli così biondi potevano appartenere solo ad una persona. Mef. Lo vidi varcare il cancello del parcheggio del Sefton, con una camminata veloce, e giurai di non essermelo solo immaginato.
«Va bene, puoi andare.»
«Luke, quello era Mef. L'hai visto anche tu? Cosa ci faceva qua?»
Lui mi guardò con uno sguardo perso, come se non avesse idea di ciò che stessi dicendo e «Non ho visto nessuno» mi rispose. 
«Smettila di sfondarti di canne, guarda come ti rincoglioniscono» sbuffai, esaminando ancora il percorso tracciato da Mef. Restai ferma a rimuginare su quella scena, ma decisi di lasciar perdere. Luke si spostò, lasciandomi finalmente uscire. Gli lanciai un'occhiata, girandomi un'ultima volta verso di lui.
«Ci vediamo, Rebecca King» mi disse. 
Lui non mi seguì. Restò lì, sulla soglia, col cielo negli occhi tormentati. 

Michael in camera tornò verso le 22, proprio mentre mi stavo facendo una doccia, perché quando uscii lo ritrovai steso sul letto. Stava già dormendo e, anche se non l'avesse fatto, sarebbe stata la stessa merda, perché non mi avrebbe degnata nemmeno di uno sguardo. Mi avvicinai, abbassandomi e facendo pressione sui talloni. Lo osservai, mi persi dentro ad ogni dettaglio, lo feci con un peso nel petto, come se avessi dovuto farlo di nascosto. Eppure Michael era il mio migliore amico. Gli scostai un ciuffo che gli era scivolato su un occhio e mi alzai. Mi convinsi di non guardarlo, di non infierire di più. Più guardi una cosa che non hai e più ti uccide. 
Uscii così sul balcone, accedendomi una sigaretta, osservando le finestre che avevo davanti della Uno. Si intravedevano già le luci e i tavoli con i bicchieri in plastica al primo piano per la festa, avvistavo gli studenti attraversare il corridoio. 
Pensavo fosse una serata come le altre. Io mi aspettavo sempre la monotonia. Eppure, capii ci fosse qualcosa di diverso quando dall'ultima finestra, completamente spalancata, vidi i capelli mossi di Ashton. 
Strisciai la sedia sul pavimento, con uno scatto quasi involontario, spegnendo la sigaretta nel posacenere. Osservai la scena per altri secondi: Ashton stringeva tra le mani la stoffa della maglietta di un ragazzo, da lontano si intravedevano le nocche quasi bianche, e l'espressione cattiva ad abitargli il volto. Lo strattonava, quel povero ragazzo, come se non fosse stato di carne ed ossa. Pareva davvero inferocito, e aveva qualcosa negli occhi che non era nemmeno paragonabile a tutta la rabbia del mondo raggruppata in una sola volta. La mascella contratta, i muscoli delle braccia che guizzavano fuori, la bocca che articolava frasi incomprensibili. Lo sbatté al muro. E la musica partì. 
Mi alzai ed entrai in camera, facendo in fretta e «Michael!» gridai.
Ricordo di aver avuto la gola secca e le mani sudate, in quel momento.
Michael si stese su un altro fianco, infastidito dalla mia voce e «Cristo! Svegliati» continuai, provando a strappargli via la coperta. 
«Non rompermi il cazzo» si limitò a dirmi, con una voce roca, scomparendo sotto al lenzuolo. 
Al diavolo, pensai. Uscii dalla stanza, attraversai il corridoio, accompagnata dai suoi soliti rumori provenienti da tutte le camere. Corsi, col cuore a mille, come se la vita di quel ragazzo dipendesse realmente dalla velocità dei miei passi. Non pensai a cosa stesse facendo Ashton. Volevo solo fermarlo. 
Mi precipitai dentro la Uno, sbattendo il portone alle mie spalle e producendo un gran casino. Spintonai a destra e a manca, trovandomi davanti la faccia di alcuni studenti che vedevo solo di sfuggita al Sefton, e pensai di starci mettendo troppo. Mi mordevo il labbro, quasi a sangue, e sentivo quella orrenda canzone entrarmi dentro, confondendomi la mente. 
«Ashton!» gridai a squarciagola quel nome, sentendo poi un bruciore salirmi su per la gola. 
Ashton si girò con una rapidità assurda. Lasciò cadere a terra il corpo del ragazzo. All'improvviso una consapevolezza si fece strada dentro di me, e a guardare quel viso spiaccicato contro il pavimento mi venne paura. Paura di Ashton, perché quello a terra era Mef. Mef dagli occhi blu, che quasi potevi vederci attraverso la notte, il ciuffo liscio e biondo, biondissimo, adesso sporco di sangue. 
Rimasi in piedi, col respiro accelerato, spettatrice di quella scena. Ashton guardava dietro di me, per accettarsi che nessuno avesse visto niente. Deglutì a vuoto, vidi il pomo d'Adamo salirgli e scendergli velocemente. Mi accorsi delle mie mani tremanti e le gambe così deboli. Mef emise un gemito di dolore e tossì, con un rivolo di sangue a percorrergli fin sotto il mento. 
«Chiamo un'ambulanza» spaccai quel silenzio, avvicinandomi a Mef. 
«No!» urlò Ashton, placandomi con le mani sulle spalle. 
«Non mi toccare, stronzo!» Lo scansai, abbassandomi vicino al biondo. 
«Non... Rebecca, fammi spiegare» mi supplicava la sua voce alle mie spalle quando aspettavo una risposta dall'altra parte del telefono. 
«Pronto?»
«Non ho idea di cosa sia successo, ma c'è un mio amico per terra, è stato aggredito e non si alza e-»
«Signorina, da dove chiama?» 
Dietro di me sentivo solo Ashton urlare a tutti di andarsene, di sgomberare, con una voce strascicata di chi ha lasciato inghiottire i propri pensieri dall'alcol. 
«Da Sefton. Poco distante dalla scuola» risposi, cercando di rimanere il più razionale possibile. 
«Manderemo un'ambulanza. Lei si chiama...?» domandò la signora. 
«Rebecca. Rebecca King e ho diciassette anni.»
«Perfetto, arriverà un'ambulanza entro sette minuti. Nel frattempo, è in grado di spiegarmi le condizioni del suo amico?»
Guardai Mef, e un secondo dopo anche lui fece lo stesso. Aveva gli occhi socchiusi, le ciglia quasi incollate dal sangue incrostato. La faccia era piuttosto ammaccata, ma non avevo idea di come fosse messo sotto. «Mef. Mef, cosa ti fa male?»
Socchiuse lentamente le labbra e «Le costole» sibilò, piano. 
«Gli fanno male le costole» riferii. «Ha il sangue, in faccia, sembra avere solo quello.» 
«Okay, è tutto a posto. Adesso dovrebbe parcheggiare proprio davanti a dove siete un'ambulanza.»
«Grazie.» Lasciai il telefono a terra e mi alzai dal pavimento. 
La musica si era spenta e tutti gli studenti non c'erano già più. Ashton era ancora lì. «Vai» ordinai, dura, con un cenno del capo. 
Ashton si passò una mano sul viso e «Grazie, Rebecca» mi disse. 
Tirai un pugno alla vetrata del portone e una scarica di dolore mi si irradiò per tutta la mano. «Fanculo!»
L'ambulanza parcheggiò e tre medici uscirono a passo svelto con una barella. Spalancarono il portone e «Destra o sinistra?» mi chiesero, senza nemmeno guardarmi in faccia. 
«A destra. In fondo» proferii. 
Corsero a recuperare il corpo tumefatto di Mef, adagiandolo con cura sulla barella rigida. Me lo vidi passare davanti con lo sguardo rivolto verso il soffitto, la testa bloccata da un collare che gli partiva dal collo. 
«È giusto così» mormorò, con un filo di voce, facendomi spalancare gli occhi. Seguii i medici e, quando uscii dalla Uno, Michael era lì. Non appena mi vide sospirò, come se si fosse tolto un peso, e si avvicinò piano, per poi allargare le braccia e chiudermici dentro. Non ricambiai l'abbraccio, rimasi lì, inerme, a tremare per il freddo, con lo sguardo puntato sulle luci dell'ambulanza.
«Grazie a Dio, grazie a Dio» continuava a mormorare Michael, stringendomi stretta. «Stai bene, cazzo. Mi sono spaventato da morire.»
Io me ne stavo zitta. E poco dopo si staccò, poiché «Avete un numero dei genitori?» chiese uno dei tre uomini, caricando la barella all'interno. 
«Sono lontani» spiegò Michael. «Potete comunque trovare nella rubrica del suo cellulare il numero degli zii. Più tardi passeremo io e i miei amici.» 
Le porte vennero chiuse e l'ambulanza sfrecciò via. 
È giusto così mi rimbombava nella testa. 
«Becky...»
«È stato Ashton» esordii. Michael mi guardò, serio come non lo era mai stato. Fu come se si spense per una manciata di secondi e poi si riaccese, inciampando fuori dai suoi pensieri. Alcuni studenti si affacciarono alle loro finestre, incuriositi dalle sirene. Fissavano me e Michael, ma io guardavo solo lui. Guardai il terrore nei suoi occhi, che adesso la notte aveva scuriti e ci aveva messo dentro tutto il marcio che gli era uscito fuori, ed assomigliava così tanto a quello di Luke che quasi non mi fece impazzire, e guardavo il pallore della sua pelle, il leggero strato di sudore, l'agitazione che emanava ogni sua singola cellula. 
«Michael» mi uscì fuori, e quel nome mi parve strano, lontano, sconosciuto, che lo pronunciai dopo essermi scivolato tra i denti, assaporandolo tutto. Michael
Chiuse gli occhi, con una lentezza capace di farti impazzire, e fu in quel momento che iniziai a correre verso il portone della Uno. 
«Becky!» gridò Michael, che mi seguiva, ma io quegli scalini li salivo senza neanche accorgermene. I passi facevano tremolare le scale, sentivo il respiro pesante di Michael dietro di me, e mi catapultai verso la stanza di Ashton e Luke. 
Aprii la porta con foga e c'era solo Luke. Rimasi a fissarlo con una faccia sgomentata, lui semplicemente mi guardava, perplesso. 
«Beh, buonasera?» fece lui, seduto sul letto, con in mano una rivista. Sicuramente di psicologia moderna. 
«Buonasera un cazzo, dov'è Ashton?» 
«Cosa vuoi che ne sappia io?» 
«Ha quasi ucciso Mef, e io l'ho lasciato andare, è un mafioso del cazzo, e siete tutti dei pezzi di merda, io questo l'ho sempr-» Sentii il palmo della mano di Michael tapparmi la bocca, facendomi uscire dei versi privi di senso. Percepii il suo corpo alle mie spalle, e Dio solo sa quanto male gli avrei fatto in quell'istante. Era inutile dimenarsi, Michael era più forte di me. L'avrei ridotto come Mef, se sono avessi avuto la forza. Guardai Luke, io, e lui puntava lo sguardo verso Michael. 
«Scusala» asserì, allontanandomi dalla porta. 
Avevo una rabbia nel corpo, quando qualcuno provava a farmi stare zitta tirava sempre fuori il peggio di me. 
«Dopo ne parliamo, Luke» continuò Michael. «Davvero, non è successo niente.»
«Ho visto un'ambulanza prima, ma non mi andava di scendere, a dire il vero.»
«Infatti, è stato male uno alla festa. Adesso porto Becky da Val, poi torno qua.»
Non provai a sforzarmi di parlare; le scale, le urla, le corse mi avevano affaticata. Gli occhi di Luke affondarono nei miei, ed era palese che avesse capito che qualcosa di grande fosse successo. 
Michael chiuse la porta e «Adesso ti calmi, mh? Promettimelo» sussurrò. 
Non risposi, ma mi lasciò andare lo stesso. Scendemmo le scale, fermandoci al primo piano. 
«Giurami che non dirai a Luke ciò che hai visto fare da Ashton stasera. Becky, è tutto una merda. Non hai idea di quanto potresti creare casini dicendoglielo» affermò, accarezzandomi i capelli. Solo il pensiero che Michael potesse essere innamorato di me mi fece fare un passo indietro. 
«Okay» gli concessi. «Ma solo se mi dirai la verità.»
«La verità su cosa?» 
«È in brutti giri, Ashton?» domandai, con l'ipotesi che mi aleggiava nella testa da quando avevo visto Michael di fianco all'ambulanza. 
Fece un sospiro enorme e «Dipende cosa intendi» mi rispose. 
«Mafia, Michael. Quella.» Alla sola pronuncia di quella parola mi venne paura. Vidi Michael tremare, un po' come me, e la risposta mi arrivò da sola. Mi salì un groppo in gola, con le immagini delle sue nocche sporche di sangue ad annebbiarmi la vista. Non avevo più speranza negli occhi. Ashton era un mafioso. Una vita mezza vissuta, così pochi anni macchiati dalla criminalità. Ci avevo messo così tanto, per scavare e cercare risposta a tutti i suoi gesti, ad ogni allarme, ed ora desideravo così tanto non sapere niente. Faceva uno schifo abominevole dover aver paura di Ashton. Mi chiesi chi lo sapesse da sempre e chi no, mi chiesi perché avesse scelto quella strada. Ed ora si spiegavano i poliziotti addosso a lui e a... Luke. 
Al pensiero mi venne quasi da disperarmi. 
«C'entra anche Luke?» chiesi, allarmata, in preda all'ansia di sapere se quella con cui avevo parlato fosse una persona o un mostro. 
«No» disse, senza nemmeno pensarci. Ed io ci credetti semplicemente perché doveva essere così, perché volevo crederci, dovevo aggrapparmi a quella risposta.
«Faremo finta di niente, Becky. Come abbiamo sempre fatto, io e te, ricordi?»
E mi baciò sulle labbra e mi sentii così triste. Non volevo che Michael mi amasse, e che il suo amore si nascondesse dietro a questi semplici gesti. Non lo volevo e basta. 
Annuii, con la vista appannata, e «Ti va di restare a dormire con Val?» mi propose. 
Mi strinsi nelle spalle, indifferente, mentre Michael mi guidava verso una stanza. Nel frattempo gli suonò il cellulare, ed era così palese che fosse Calum che non me ne importai nemmeno. Forse Calum non sapeva. Bussò ad una porta ed una Val piuttosto confusa aprì la porta. Aveva i capelli rosso mela, lisci e lunghi, e gli occhi ambrati contornati dall'eye-liner leggermente sbavato. Michael mi strinse la mano e «Ciao Val, so che per domani devi studiare una carrellata di pagine di filosofia ma ho un enorme bisogno di te» spiegò. 
Val si portò un ciuffo rosso dietro all'orecchio e si aprì in un sorriso. «Ho finito di studiare. Che c'è Mikey?» domandò lei, guardando prima lui e poi me.
«Potrebbe stare qui Becky, solo per una notte? É successo un po' un casino, io adesso corro in ospedale per Mef. Mi scuso in anticipo per qualsiasi cosa che Becky farà.»
Val rise piano e si spostò dall'entrata, come per invogliarmi a varcare la soglia. Lasciai stancamente la mano a Michael ed entrai, sentendo dietro di me il mio migliore amico che «Becky?» mi richiamava. 
«Cosa vuoi adesso?»
«Mi raccomando.» Sbuffai. «Comunque, grazie Val.»
Mi allontanai da quei due, squadrando quella stanza che era la copia identica della mia, con le pareti azzurrine e i due letti al centro. 
«Fa schifo e c'è puzza di umido ma è okay, è casa.» Sentii la voce di quella ragazza poco distante da me e non mi girai. 
«La mia sembra un enorme armadio disordinato, devi fare spazio tra i vestiti per passare» affermai, atona, dando un'occhiata fuori dalla finestra. Si vedeva la Due, da lì. 
Val scoppiò in una risata, limpida e spontanea, mi ricordò vagamente quella di Calum. «Io non ho compagni di stanza, meglio così.»
Mi girai, allora, e «Perché non sei preoccupata per ciò che potrebbe essere successo a Mef?» le chiesi. 
«Perché è così quasi ogni settimana, quei deficienti ne combinano di ogni. Non mi preoccupo più.»
Val era una persona bizzarra. Circondata da amici maschi, con vizi e comportamenti assurdi, non poteva che diventare anche lei come loro. Eppure era serena, la vita le andava bene così com'era. 
«Comunque sono fighi, i tuoi capelli» esordì, con una smorfia simpatica. 
«Considerando il fatto che io non li curi e non li tagli da due anni, ti ringrazio.» 
Si sdraiò sul letto e anche io lo feci, senza nemmeno cambiarmi i vestiti. Val spense la luce e prese il suo cellulare. «Mi ha scritto Luke» avvisò. «Mi ha detto di dirti che se mi lascerai viva fino a domani, sarà davvero orgoglioso di te.»
Storsi il muso, nascondendo il viso nel cuscino. «Digli di andare a dormire, che ha già abbastanza rotto i coglioni.»
«Va bene» mi assecondò. 
«Aspetta, ma secondo te quanti carati ha Luke?» La domanda mi uscì così inaspettata che subito dopo sentii il cuore battere più velocemente. Era una cosa mia e di Luke, appartenente al nostro mondo, quello storto, e non pensai minimamente che sarebbe risultata così illogica e irrazionale, quella domanda, davanti agli altri. Restai inerme, sentendo caldo e poi freddo e poi solo un «I carati li ha solo l'oro».



Hei people!
Risponderò ad ogni recensione domani perché adesso devo scappare!
Anyway, è iniziata la scuola e questa cosa mi terrorizza da morire perché divento una pazza sclerotica e ho paura che questo infierirà sui miei capitoli, rendendoli ancora più strani. Va beh, quindi, buon ritorno a scuola.
Okay, questo potrebbe essere o non essere il capitolo in cui Becky si affaccia davvero sul disastro che è la vita di quei due ragazzi, ma credo sia solo l'inizio. Solo l'inizio perché Luke per lei è Luke e basta e non una copia di Ashton, solo l'inizio perché dalle labbra di Mef è uscito quel "E' giusto così", e solo l'inizio perché "
Giurami che non dirai a Luke ciò che hai visto fare da Ashton stasera". Dietro a questa frase si cela il mostro che Luke ha dentro. E lo capirete, il perché.
Sono felice perché appena Martina toglierà le stampelle e riuscirà a salire le scale per andare in soffitta e usare il pc, il trailer sarà ufficialmente finito, manca solo il montaggio. Oddio sto scrivendo troppo, me ne vado, vi ringrazio per le recensioni e per le letture e boh, basta, ciao ciao :)
//Nali

twitter: funklou
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Capitolo 13
*** Calm down, Hobbes. ***


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«Che c'ha Luke per non valere niente?»
Ero ancora seduta su quel materasso duro e pieno di polvere. La notte pareva non passarmi attraverso. Val scrollò le spalle, e mise su una faccia da è palese, ma non mi frega affatto
«Se i mostri ti si infilano dentro, non te ne sbarazzi più. Avrai sempre una fila di fantasmi che ti seguirà.» 
«Cazzo, ce la fai a dirmi qual è il suo problema?» sbottai, al limite dell'esasperazione. In sottofondo c'era un film degli anni '80, e le immagini riflettevano dritte sul viso di Val. 
«Luke ha un fratello in coma» affermò, tirando più in su le coperte. Fissai il muro, e adesso quell'azzurrino mi faceva salire i conati di vomito, e quel film si era trasformato in un horror che non mi andava più di avere in sottofondo. 
«Non me l'ha mai detto, quello stronzo» constatai, più a me stessa che a lei. 
«Perché non lo dice a nessuno. E dall'accaduto sembra un ammasso di ossa e carne messo lì a caso, avresti dovuto vedere il Luke di due anni fa. Niente a che vedere con questo.» 
Resistetti fino alla fine del film. E poi il buio si fece più opprimente, e il materasso mi urlava di sdraiarmi e dormire e non pensarci più. 
«Senti, ma tu come lo sai?» tagliai il silenzio, con una lama così affilata che mi fece abbassare il tono di voce sull'ultima parola. 
Vidi Val scoprirsi il volto, girandosi un po' più verso di me e «Eravamo insieme, fino all'anno scorso. Poi mi sono resa conto che a stare coi mostri si diventa tali» mi disse. 
A quel punto mi chiesi che cosa sarebbe successo se le due persone che stavano insieme fossero state entrambe dei mostri. Magari si sarebbero sentite meno sole, magari capite, o forse sarebbero annegate nelle loro pozzanghere di bava, troppo dense per uscirci, troppo macabre per chiunque altro.
A stare con uno come Luke si poteva solo colorarsi di tonalità così scure, così traballanti sulla penombra, da non poter più uscire alla luce. Che se si doveva morire, allora lo si doveva fare insieme. 
Ma Val non voleva morire.
A me, invece, la morte non avrebbe cambiato niente.

La mattina, fu Michael a bussare alla porta e a venirmi a prendere. Ci furono solo dei “grazie”, “meno male che sei ancora intera” e “ci vediamo, allora” da parte di Michael, e poi solo il rumore dei nostri passi che rimbombavano per tutto il corridoio. Guardai Val per un'ultima volta, sul volto aveva un'espressione incoraggiante. Forse aveva capito più di quanto lo avessi fatto io. 
Michael aveva addosso quel maglione gigante anche per lui, quei jeans più strappati che intatti, e se ne andava in giro con quelle occhiaie che lo rendevano più brutto. 
«L'hai chiuso almeno un occhio stanotte?» gli chiesi. 
«Sono stato per un po' da Mef» si difese, con un tono basso di voce. Spalancammo il portone della Due e ce lo richiudemmo alle spalle. Le solite scale. Lo stesso corridoio.
«Beh? Che ha combinato per essere stato massacrato in quel modo?» 
Michael si prese qualche secondo per rispondere, e poi disse solo: «Se sei in un giro come quello di Ashton, basta poco per ricevere un ordine di quel genere.»
Aprimmo la porta della 36. La nostra stanza, ma dentro c'era già Calum, che allo scattare della serratura si girò rapidamente. Aveva i capelli arruffati, gli occhi così assonnati, e quando pronunciò quel «Ehi» la voce gli uscì piuttosto roca. 
«Che ci fai qua?» 
«Sapevo che saresti arrivata tra poco, me lo dai un abbraccio?» 
Restai lì, in piedi, a fissarlo con la faccia più perplessa che avessi mai avuto. «Sto scherzando, Becky!» mi rassicurò, «Volevo chiederti come stessi.»
Scossi la testa, perché Calum che si interessava del mio stato emotivo era a dir poco comico. «Sto» gli risposi. 
Michael ed io cominciammo a mettere i libri nello zaino, quando «Quanti fratelli ha detto che ha, Luke?» domandai. 
«Che ti frega?» tagliò corto Michael. 
«Oh, ma che hai le palle girate, oggi? Era solo per sapere» gli ringhiai contro. Odiavo vederlo così. 
«Ce ne ha due, lo stronzo.» 
Allora Luke aveva due fratelli, uno dei quali se la spassava più di là che di qua. Pensavo che gli era anche andata bene, perché gliene restava uno ancora a posto. Però, se una determinata cosa aveva fatto diventare Luke in quel modo, allora volevo saperne ogni piccolo dettaglio. 
«Ce l'hanno, un nome?»
«Te lo giuro, preferisco quando ti stai zitta e non mi parli» sputò Michael, issandosi lo zaino sulle spalle. 
«Oh, vaffanculo. Sei insopportabile!»
«Quando non dorme fa sempre così, lascialo stare» intervenne Calum. 
A me però non andava di lasciarlo stare. Mi faceva incazzare, perché Michael non era nessuno senza di me, ma si ostinava comunque a trattarmi come se gli pesasse il fatto di avermi tra i piedi. 
«Vado a scuola» sbottò. 
«Bravo, levati dai coglioni!» gli urlai dietro, mentre stava per sbattere la porta. 
C'era Calum, davanti a me, e non faceva altro che guardarmi. «Non te la devi prendere, sai com'è fatto, poi gli passa» provò a sistemare la situazione. 
Lanciai le chiavi al moro, prima di «Sì, ma deve ricordare che passo anche io, Cal» dirgli.
Calum sbuffò, era lui il muro in mezzo che si prendeva tutti i colpi.


Luke's POV
Sociologia alla prima ora era una delle poche cose che mi facevano partire bene la giornata. Ma se Rebecca King entrava in classe con quindici minuti di ritardo, con una sigaretta spenta in mano e la faccia di una che vorrebbe trovarsi da tutt'altra parte, allora la giornata poteva partire decisamente al meglio. Dopo la ramanzina della professoressa e le risposte poco educate di Rebecca, finalmente prese posto nel banco in prima fila. La sedia strisciò sul pavimento, provocando un rumore stridulo, e lo zaino venne lanciato direttamente a terra, senza preoccupazioni. Provavo una sorta di divertimento nell'osservare le giornate storte delle persone. Forse perché così potevo davvero capire come risultassi io davanti agli altri.
«Hobbes credeva, quindi, che l'uomo fosse nemico dell'uomo» sintetizzò la professoressa. «Chi è d'accordo?»
Rebecca non aveva idea di cosa stessimo parlando, era ovvio. Eppure, alzò la mano, col suo fare altezzoso, perché okay, era la sua giornata no. Le venne chiesta una spiegazione, alla quale rispose: «Egoismo e paura. Hanno tutti il terrore di finire da soli. E lo so che lo fanno, perché sono un'osservatrice, e non hanno capito che, prima di tutto, bisogna imparare a bastarsi. La solitudine non fa paura.»
Mi venne quasi da ridere, per la sua mentalità così chiusa. Lasciò la professoressa con stampata in faccia un'espressione di totale smarrimento, e poggiò una mano sotto al mento. Probabilmente doveva dirla, questa cazzata, perché le stava dentro da troppo, lo si capiva. 
«Va bene, questa è la tua opinione. Qualcun altro la pensa come Rebecca?»
Nessuno fiatò. Chi diavolo osava parlare dopo una stronza del genere?
«Nessuno, prof. È molto più razionale pensarla come Aristotele, ai giorni nostri. L'uomo è un animale sociale. Sente il bisogno di relazionarsi, mica lo fa per forza per scavalcare gli altri» ribattei io. 
Becky posò la matita sul banco, con una certa violenza, e si girò indietro per fulminarmi. Stava per dire qualcosa, quando «Penso siano presenti entrambe le teorie, oggigiorno» spiegò la donna. 
Il che era molto più pensabile. Ma a Rebecca ovviamente non andava bene, e restò seduta al posto senza più degnare la professoressa, credendo di farle un torto.

Le ore passarono, riuscii quasi a terminare un manga che avrei appeso alla mia parte del muro in camera. Tanto ad Ashton manco importava. Durante il pranzo a mensa, notai come anche Michael fosse messo da parte da Rebecca, e di come quest'ultima fosse completamente immersa nei suoi pensieri. 
«Che hai?» le chiesi, attento a non farmi sentire da nessuno. Rebecca, davanti a me, smise di masticare e con la forchetta indicò la sua destra, dove c'era Michael. E, come se niente fosse, ricominciò a mangiare. 
«Come mai?» 
Si strinse nelle spalle e «E' scazzato» mi spiegò. 
Ripensai alla notte precedente, al Michael scombussolato che era entrato in camera e mi aveva detto che sarebbe andato tutto bene. E poi ad Ashton, che stamattina nemmeno aveva avuto la forza di alzarsi, al suo «Non ho voglia di parlarne», che mi fece più star sveglio che dormire. 
«Se vuoi dopo ne parliamo» tentai, guardando poi verso Michael, accertandomi che non avesse sentito. 
Rebecca non mi disse di no, e questo mi fece capire quanto realmente stesse male. Semplicemente, mise su una faccia da come cazzo ti pare, e poggiò la forchetta nel piatto. Appoggiai la schiena contro la sedia, osservando quegli occhi marroni, decisamente troppo marroni. Rebecca alzò le sopracciglia, facendomi una domanda implicita. «Andiamocene» esordii. Corrugò la fronte, e tra la confusione sul suo viso notai anche un pizzico di divertimento. Pensavo che una creatura come Rebecca King avesse il diritto di appartenere ad un mondo che valesse la pena di essere vissuto. Lo sapevamo, che la scuola fosse il trampolino per la vera vita, che fosse il nostro unico biglietto di sola andata, ma a quel tempo mica ci importava. Vivere tra le mura della scuola equivaleva essere in gabbia. Noi volevamo essere liberi.
Così mi alzai e «Vado a fumarmi una sigaretta» annunciai, per poi lanciare un'occhiata a Rebecca. 
Uscii dalla porta di emergenza della mensa, che dava direttamente sul giardino del Sefton. Non passarono più di tre minuti che vidi sbucare da lì anche Rebecca, chiusa in una delle sue enormi felpe. Non ci dicemmo nulla. Solo, guardammo attentamente attorno, scorgendo anche il minimo movimento, camminando con passo felpato verso il cancello dell'entrata secondaria. Rebecca mi si affiancò, guardava davanti a sé, con gli occhi spenti di chi manco avrebbe voluto svegliarsi, quella mattina. Mi accesi una sigaretta, nel frattempo, e di riflesso ci dirigemmo il più lontano possibile dalla Uno e la Due. 
«Val mi ha detto che stavate insieme» mi disse, atona. 
Mi chiesi come fosse venuto in mente a Val di dire una cosa del genere ad una come Rebecca, col diavolo dentro. Però, «E' vero» confermai. 
«L'amavi?»
«L'amavo.»
«E' strano.»
«Perché?»
«Perché adesso non ne saresti più capace.»
Feci un sorriso amaro, osservando come le strade a quell'ora fossero completamente deserte. «Ci vuole cura a togliere le schegge, Rebecca King. E le mani che me le hanno tolte non l'hanno avuta. Le cicatrici sanguinano.»
Lei sbuffò, come sempre, e potetti immaginarmi anche i suoi occhi rivolti verso l'alto. «Non avrei molta voglia di ascoltare frasi di questo gen-»
«Pensi che nella vita avremo tutti una persona in grado di medicarci?» Feci un altro tiro dal filtro, per poi soffermarmi su come il fumo si disperdesse nell'aria.
Rebecca sembrò cominciare a stare al mio gioco e a darmi retta. «La maggior parte delle volte la persona che ti ferisce è la stessa che ti medica. Gli umani non hanno un fottuto senso.»
«Io non ci voglio stare, in un mondo in cui ciò che ti salva poi ti uccide» riflettei, buttando a terra il mozzicone. Pensai a quanto con Rebecca si finisse a vedere il lato più negativo della vita. Era così assurdo. 
«E Val? Ti ha ucciso anche lei?» mi domandò. Mi girai ad osservarla, e la trovai ancora fissata con l'orizzonte. Amavo stare così a stretto contatto con i suoi 24 carati, ne potevo percepire ogni sfumatura, ogni angolo nascosto. 
«L'ha fatto, per un bel po'. Ma il suo era il minimo male.»
C'era il Palababele, in lontananza. C'era la casa in cui i miei mostri si rifugiavano, lo stesso posto in cui ogni speranza veniva bruciata e dispersa. Gliel'avrei detto, o forse urlato, a Rebecca, che io lì dentro ci ero nato e morto, così come Ashton.
«Luke» mi richiamò. 
«Che c'è?» 
«Da quanto Ashton fa il pezzo di merda in giro?» A primo impatto non capii. Cercai di indovinare a cosa si riferisse, con già l'ansia a scandirmi il respiro. Perché non poteva essere. Rebecca non poteva sapere. «Ho paura che arrivi a me, o, peggio, che gli altri arrivino anche a me» continuò. 
Dovetti deglutire a vuoto, sentendomi per la prima volta nella vita senza difese. La realtà, quella era e quella dovevo affrontare. Mi iniziarono a sudare le mani e lei «Oh, ma mi stai ascoltando?» chiese. 
Mi sentii male, perché in quegli “altri” che intendeva c'ero io, e inconsapevolmente Rebecca era spaventata da me, e la sensazione del mostro che mi viveva dentro si fece così viva che quasi mi si mozzò il fiato. 
«Chi te l'ha... Detto?» domandai a mezza voce, senza più il coraggio di guardarla. 
«L'ho visto» affermò, con risolutezza. «Mi chiedevo perché, diamine, tu non provi a salvarlo.»
Perché sono tale e quale a lui. 
Mi vennero su i conati di vomito, e cercai a stento di trattenermi. 
«Senti, torniamo indietro?» All'improvviso la vicinanza col Palababele sembrava scottare sempre di più, e i 24 carati di Rebecca parevano volerlo respingere, creando un contrasto che faceva così male. 
«Che fai, eviti la questione? Non fare il codardo senza palle!» 
«Non rompermi il cazzo, ti prego.» 
La vidi scuotere la testa, ma ormai io mi ero voltato e avevo cominciato a camminare dalla parte opposta. 
«Sai cosa?» la sentii dire. «Tu e quello stronzo di Michael fate una bella coppia. Odio entrambi allo stesso modo.»
Decisi di non risponderle più, perché con Rebecca bisognava fare così. Scaricava la sua dose di rabbia, e poi poteva cominciare a trattarti da essere umano.
Percorremmo la strada a ritroso e restammo zitti per tutto il tempo. Quando poi arrivammo al nostro quartiere, aprii il portone della Uno, lasciandomi dietro Rebecca, intenta a rovistare nel suo zaino. Salii tutte le rampe di scale e, appena misi piede nella stanza, udii un «Luke!» che proveniva da sotto. Sbuffai, avvicinandomi alla finestra e trovando Rebecca ancora lì. «Che ti prende?»
Lei si lasciò cadere le braccia attorno ai fianchi e «Ho lasciato le chiavi a Calum» mi spiegò. 
Feci scorrere una manciata di secondi e le feci un cenno con la testa, per invogliarla a salire. 
Aprì la porta e se la richiuse alle spalle con tanto di imprecazioni. «Se una giornata inizia male, va in merda fino alla fine.» e si sedette sul letto che si abbassò sotto il suo peso. 
«Oggi non ti stai proprio zitta, Hobbes» l'apostrofai. 
Ebbi il tempo di allontanarmi, di posare lo zaino sulla scrivania e di voltarmi. Rebecca era stata progettata per infiltrarsi nella mia vita e stravolgermela come i peggiori tsunami. In mano aveva quei fogli, li stessi che io ed Ashton fissavamo la sera per ricordarci che la vita che volevamo non era quella. 
«Tribunale di Sydney. 
ATTO DI CHIAMATA IN CAUSA»
recitava Rebecca. Ed io rimasi fermo, ancora in piedi, come ad ascoltarlo per la millesima volta, tanto che lo sapevo a memoria. Avevo quasi voglia di infliggermi ancora più male, scavando sempre più tra quelle parole. 
«Luke Hemmings, nato il 16 luglio 1996 a Sydney, rappresentato e difeso dall'Avv., è tenuto a comparire innanzi al Tribunale di Sydney, per le seguenti caus-»
Mi ero già avvicinato a metà discorso, e poi semplicemente agii d'istinto. E' che ci sono alcune azioni che non hanno il tempo per essere pensare, le si fa e basta. Mi fiondai sulle labbra di Rebecca, il primo sfioramento fu così confuso che non me ne resi davvero conto. Le posai la mano sotto il mento, e il suo corpo parve congelarsi all'istante. Volevo che smettesse di parlare, di incidermi sulla pelle quelle parole sanguinanti. Le sfilai i fogli dalla mano, come ad allontanare lo schifo che mi aspettava fuori, e le chiesi l'accesso che non mi venne negato. Non era uno di quei baci perfetti, pieni di apprensione e dolcezza. Rebecca pareva volermi strappare le labbra, sentire il sapore metallico del sangue sui denti. C'era rabbia, in quella stanza, rabbia che voleva essere consumata. E le nostre lingue non volevano incontrarsi, ma solo stabilire chi avesse il controllo. Sentii le labbra premute contro le sue e, nonostante fosse così strano, il mostro in me sembrò annullarsi. Percepii i nostri respiri affannarsi e le sue unghie conficcarsi sul mio petto. Mi allontanai, quindi, e presi un respiro profondo. Incontrai subito gli occhi marroni di Rebecca, adesso con delle sfumature più scure, come se un po' di male se lo fosse preso e nascosto dentro di lei. 
Inutile dire che dei fogli ce ne dimenticammo all'istante.





Hei people!
Sto facendo il possibile per pubblicare ad un orario decente e mi dispiace davvero tanto per l'attesa.
Questo capitolo è davvero una cattiveria. Solitamente i primi baci accadono sempre tra le due persone che iniziano a piacersi, mentre lo scopo di Luke è quello di togliere i fogli di mano a Rebecca. Ma in fondo bisogna vederlo anche come un gesto di "protezione", dai. 
Rebecca affacciata sulla vita di Luke sarà una crociata. Tra Val, tribunali, e Michael, questa storia sta degenerando. Mi sento una pazza, va bene.
Grazie a Martina ed Ilaria per avermi aiutata.
Me ne vado perché sono stanca e domani non mi ricorderò nemmeno ciò che ho scritto nello spazio autrice ahah
Ciao, buonanotte, buongiorno, non lo so, e grazie! :)

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Capitolo 14
*** Are you in love with me? ***


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Hei people!
Non ho mai fatto delle note inziali, ma questa volta le faccio solo per dirvi che questo è il trailer di 24 carati, e spero che vi piaccia! https://www.youtube.com/watch?v=_w_wXIrsr7g
Non commento oltre, buona lettura :)


Becky's POV
Pensai a quanti pezzi della mia corazza mi fossero stati tolti in così pochi secondi. Pensai alle mie mani tremanti, premute contro il petto di Luke, alle parole che avevo letto io stessa, al fatto che quelle labbra appartenessero al ragazzo che più riuscivo ad odiare bene. E ce l'avevo fatta anche alla grande, a chiudermi come un riccio sotto il suo sguardo, eppure Luke Hemmings mi aveva baciato. Suonava così strano, così assurdo. Mi sentivo proveniente da un altro pianeta, in cui le cose sembravano più strane. Avevo tanti problemi, a quel tempo, e nonostante ciò, mi parve che quel bacio avesse superato tutto il resto e si fosse messo in cima. 
Luke mi guardava, forse più spaventato di me. Spaventato da se stesso, da ciò che aveva fatto. Fissava i miei occhi, poi le mie labbra, in un continuo movimento degli occhi. Io, dalla mia paura, me ne uscii con una delle mie azioni che non avevano il tempo di collegarsi con la mente. Fu veloce, lo schiaffo che mirò dritto sulla guancia destra di Luke. Veloce, ma anche rumoroso. Passò un secondo e sentii quasi la mano andarmi a fuoco, e nel frattempo Luke si passava il palmo sulla parte colpita. 
Aveva gli occhi spalancati, mentre lo faceva, e «Che cazzo, Rebecca!» sbraitava. 
Non volevo abituarmi a nessun sorriso, a nessun profumo, labbra, passi, o abbraccio. Io non volevo. 
«Che cazzo fai?!» gli urlai io, dandogli un'altra spinta. 
«Ciò che mi pare!» ribatté, gonfiando il petto, colpito nell'orgoglio. 
Restai in silenzio, sempre seduta sul letto, con Luke ancora ad una vicinanza soffocante. Sottovoce, poi «Devi stare lontana da queste cose, Rebecca» sussurrò. «Non indagare nella merda, che sennò poi ci resti.»
Probabilmente aveva anche ragione e, ancora probabilmente, questo non avrebbe cambiato niente. Non si poteva morire due volte. 
Mi alzai, districandolo da me, e «Stammi lontano per un po'» pronunciai. Il che dentro di me risultò così patetico, perché le persone possono esserti tremendamente vicine anche non fisicamente. 
«Non aprire quella porta, non farlo.» A me non importava, sentivo un bisogno quasi fisico di andarmene, con ancora la sensazione delle sue labbra sulle mie. «L'ho fatto per te» mi disse. 
Era una guerra incerta, cruenta, quella che stavo combattendo con Luke Hemmings. Sempre sospesi in bilico, e ogni volta uno dei due buttava giù dall'altra parte l'altro. Quella volta lo feci io. E me ne andai, sbattendo la porta e provocando un trambusto che avrebbero sentito anche al terzo piano. Più mettevo distanza tra di noi, più mi sentivo addosso il sapore di Luke. 
C'era qualcosa di malato e morboso, dentro di me. Perché solo un pazzo vorrebbe andare contro l'ignoto, contro il buio, anche a costo di affogarci dentro.


«Come sta Mef?» domandai a Michael, la sera stessa. 
«Cos'hai fatto, questo pomeriggio?» ribatté lui. 
Eravamo appena tornati dalla pizzeria, quella che stava proprio di fronte a noi. Non avevamo parlato molto, era stata più una sfida a chi ignorava di più l'altro. Una cosa tipica di me e Michael. 
«Sono stata con Luke» gli risposi, senza curarmene. 
Sentii solo un sospiro e un silenzio che si protrasse per almeno quaranta secondi, che potevano sembrare un tempo infinito, al buio, con Michael nel letto proprio di fianco al mio. Decisi di girarmi, allora, e lo vidi col viso coperto dalla sua mano. Lo conoscevo, quel gesto. Voleva dire controllare la rabbia, controllarsi, dominarsi, per non sbranarmi viva. 
«Allora? Mef come sta?»
Lasciò cadere a peso morto il braccio sul materasso e «Che Cristo te ne frega, di quel pezzo di merda, eh? Lo sai chi è stato a menarmi la settimana scorsa? Mef» sbraitò, questa volta guardandomi. Me lo sentivo, il suo sguardo addosso, me lo sentivo sempre, anche se ero girata. 
Avevo una spia rossa, così fastidiosamente lampeggiante, che mi diceva che tutto stava diventando troppo pericoloso. Che attorno avevo solo stronzi, che mi avrebbero mangiata viva. Partendo da Michael, finendo con Ashton. E poi Mef, e Luke. E che l'unica di cui potevo realmente fidarmi era solo me stessa. Come sempre. Le persone non se ne rendono davvero conto. Dovrebbero pensarci, ogni tanto, che mal che vada, hanno loro stesse. Siamo assicurati, dopo tutto. 
«Gli avrai fatto qualcosa, coglione come sei.»
Non lo guardai mai in faccia, perché la verità sarebbe arrivata troppo presto. Io volevo che rallentasse, che se la prendesse con comodo, per avere più tempo per rendermi più indistruttibile. 
«Non gli ho fatto niente e sai cosa? Non ho nemmeno voglia di costringerti a credermi. Fai quel che ti pare» sputò Michael, con la cattiveria a delineare le parole. 
Cattiveria. Ecco di cosa eravamo fatti. 
La sapevo a memoria, la voce di Michael quando diceva la verità, e purtroppo quella volta era esattamente uguale. Non stava mentendo, non gli importava più sul serio. 
«E' per questo che Ashton gli è saltato addosso?» tirai ad indovinare. 
E «Ci hai azzeccato, Becky» mi disse. 
Non c'era nulla di lontanamente sano e umano in tutta quella situazione. Eravamo un branco di adolescenti allo sbaraglio, ormai non più in grado di essere salvati. Magari pensavamo di poter reggerci a qualcuno, ma senza la consapevolezza di tirar giù anche lui. Cadevamo, sempre più giù, e non ce ne rendevamo conto. Non volevamo farlo.
«E' schifoso, Michael.»
«E' la vita, invece.»
Fissai il lampione attraverso la finestra, che illuminava la maggior parte della stanza. Improvvisamente mi sembrò triste, così come la maggior parte delle cose che mi accadevano intorno. 
«Guarda dove siamo andati a finire» affermai, con un certo timbro sconsolato. 
«Io proprio da nessuna parte. Tu, piuttosto, che fai apparire normale il fatto di essere stata con Luke» puntualizzò, rigirandosi tra le coperte. 
«Non deve fregartene» lo schernii. 
«Dio, quanto mi fai star di merda, Becky.»
Era un idiota capace di colpirmi nel punto più dolorante, nel modo più doloroso. 
«Non lo dire così.»
«E come dovrei dirlo?»
«Non lo so» sospirai, sconsolata. Quando usava quel tono e mi diceva quelle cose, sentivo gli occhi sempre più lucidi. Mi faceva uno strano effetto. «Michael» lo richiamai. 
«Mh.»
Adesso l'atmosfera non era più carica di rabbia, ma solo di tristezza. E lo giurai a me stessa, che avrei preferito mille altre volte urlargli addosso, che percepire la tristezza attaccarmisi sulla pelle. 
«Sei innamorato di me?» 
Un morso parve addentarmi lo stomaco, quasi a sbranarmi, e mi ripetei mentalmente che sarebbe andata bene. E che la prossima volta mi sarei cucita le labbra, pur di non dar voce ai miei tormenti. 
«Rebecca» pronunciò con voce sconvolta il mio nome per intero, come ad essere distanti anni luce. 
«Che cosa?»
Michael bestemmiò e «Che cazzo ti ha ficcato per la testa quel pezzo di merda?» domandò, sempre con un tono alto. 
«Senti, se urli ancora di più ci vengono su tutti gli altri studenti.» 
«Sai quanto me ne frega!»
«Mi rispondi a questa cazzo di domanda o vuoi una mano?» lo ripresi, non badando ai suoi lamenti da bambino. 
A quel punto si calmò. Sembrò anche immobilizzarsi nel letto, non udii più alcun tipo di rumore proveniente dalle coperte. 
«Non sono innamorato di te» affermò, atono, finalmente senza urlare. 
Mi convinsi che fosse così. Così e basta, e me la feci bastare, quella frase. Non volevo commenti, o altre parole che giravano attorno. 
«Va bene» dissi. 
Michael stette zitto. Sentii quasi il vociare degli altri studenti delle camere accanto, il respiro di Calum nella 38, i passi delle persone sul marciapiede della nostra via. Un silenzio così forte non mi sembrò mai così assordante. 
«Michael...»
«Stai zitta e dormi, Becky.»
«Lo sai che n-»
«Ho detto: dormi, Rebecca. Non mi va di parlare» scandì, duramente.
E a quel punto rinunciai a qualsiasi tipo di conversazione con Michael, perché alcune volte se diceva che una cosa era così, lo era e basta.


Superai la soglia del cancello con Michael, quella mattina. Calum se ne stava chiuso in camera, con un febbrone che pareva averlo distrutto. Faceva un freddo cane, e la mia giacca non teneva nemmeno un po' di caldo. Pensai che la mano in cui reggevo la sigaretta si sarebbe atrofizzata da un momento all'altro.
La notte scorsa avevo chiesto a Val di farsi trovare nel retro del Sefton, anche se lei a scuola manco ci andava più. Per questo, lasciai entrare Michael e il resto degli studenti, per poi raggiungerla. 
Val era seduta sul muretto più spaccato che integro. Mi accolse con un sorriso. 
«Vuoi un tiro?»
Lei annuì ed io le porsi la sigaretta. «Tienila pure.»
«Allora? Che succede in questa testolina?»
Mi sedetti anche io, di fianco a lei, con le mani nelle tasche. Sbuffai e poi mi decisi. 
«Luke mi ha baciato» esordii. Un certo effetto lo aveva ancora, quella frase.
«Ok, quindi?»
«Quindi cosa?»
«Beh, in realtà pensavo l'avesse già anche fatto.»
Il tono normale con cui lo diceva era davvero inquietante. 
«Val, non hai ancora capito.»
Si sedette meglio sul muretto, gettando il mozzicone e girandosi a gambe incrociate verso di me. 
«Il problema è che sei tu, quella a non avere capito.»
Mi passai una mano tra i capelli, cercando le parole giuste per descrivere la vera situazione. «Luke è la mia rovina.»
A Val venne da ridere, fissando il Sefton, probabilmente ripensando a tutti i ricordi che aveva avuto con Luke. «Gli ci vuole una come te, a quel disgraziato.»
«E perché? Come sono io?»
«Sei cattiva, sei tosta, una che ne ha viste e sentite tante. Una che lo riuscirebbe a metter in riga.»
«Sei totalmente fuori di testa, Val.»
Eppure aveva quel sorriso stampato su quella faccia che non era levigata dal degrado, che risaltava tra tutti quei volti cupi e spenti. «So che adesso Luke ti sembra solo un ragazzo su brutte strade, ma lo vedi così perché non ci sei dentro. Non lo vivi. E probabilmente ti sembrerà ancora peggio, una volta che ti sarai messa in gioco, perché Luke è sporco dentro. Nonostante questo, ci sarà un qualcosa che ti farà restare. Ci scommetto.»
Val partiva, divagava e non si fermava più. Anche quando smetteva di parlare, nella sua testa il flusso di pensieri continuava a vagarle dentro. E forse erano quelli, i pensieri che più mi spaventavano. Quelli nascosti. Quelli non detti.
«Ma non ti senti un po' anormale a dirmi queste cose quando Luke è un tuo ex?» domandai a quel punto.
Val si strinse nelle spalle e «Non ci pensiamo nemmeno più, a quella storia» disse. 
In quel momento mi alzai e cominciai a camminare avanti e indietro davanti al muretto. Il freddo mi stava mordendo le ossa. 
«Non ti assicuro niente, comunque» asserì, poi. 
«Riguardo a cosa?»
«A ciò che diventerai» mi spiegò. 
«Spero tu stia scherzando.»
Val parve farmi una radiografia, passandomi lo sguardo dalla testa ai piedi. 
«Perché?» chiese, semplicemente. 
«Insomma, mi hai vista?» domandai, retoricamente, indicandomi. 
«Al peggio non c'è mai fine» proferì. «Comunque», si alzò, «Ti conviene tornare a scuola.»
Pensai ad una me messa peggio di come già era. E proprio non ci riuscii, perché sapevo di essere al limite dello schifo. 
Annuii, in ogni caso, e Val mi prese sotto braccio. Camminammo verso l'entrata e tirai fuori il cellulare per vedere che ore fossero. 8:15. 
«Mica mi fanno entrare a quest'ora» le feci notare. 
«Smettila, entra e non rompere. Ci vediamo, magari?»
«Va bene, ciao Val.»
«Alla prossima!» 
E la sua chioma rossa piano piano sbiadì verso la fine del cancello. Io varcai la soglia enorme del Sefton, passando di fianco alla segreteria, in cui c'era una donna che aveva raggiunto i cinquanta, ma aveva ancora voglia di guardare male gli studenti in ritardo. 
Salii le rampe di scale, maledicendole una per una e, quando finalmente aprii la porta della mia classe, la trovai vuota. Mi abbandonai ad uno sbuffo, cercando di capire perché diavolo capitassero tutte a me. Una bidella mi avvistò all'inizio del corridoio e «4ªF?» mi chiese. 
Annuii. 
«Laboratorio di biologia!» mi indicò. 
Feci almeno altre quattro rampe di scale, quella mattina. E quando mi presentai davanti alla porta, lo sguardo della donna che assisteva le classi nel laboratorio mi incenerì. A scuola la chiamavano Desideria la Dea della Notte, l'avevo sentito dire da alcuni studenti, a quanto pare per la sua voce decisamente profonda. Giravano su di lei alcune storie piuttosto macabre.
La professoressa mi squadrò ma non si azzardò a dire niente perché Desideria avrebbe fatto scenate ancora più assurde. «Vai al tavolo tre» mi disse, risoluta. 
Guardai il resto dei tavoli, in totale ce n'erano sei, occupati da gruppi di quattro persone. Il terzo sembrava richiamare il mio nome. Attraversai l'aula e mi andai a sedere, attenta a non incontrare lo sguardo di Luke. Gli altri tre compagni erano esattamente tre ragazzi, nerd fino al midollo. Facevano a turno per guardare dal microscopio, regolandolo continuamente. «Stiamo osservando le cellule di una cipolla» mi spiegò uno di quelli. 
«Mh» feci io. 
«E' interessante, te lo posso giurare.»
«Ci credo, spappolare una cipolla e poi osservarla da un microscopio deve essere una figata.» 
«Chi è che parla?!» sbraitò Desideria la Dea della Notte.
Il mio compagno sbiancò e si risistemò gli occhiali sul naso, mentre io mi abbandonai sulla sedia. Istintivamente, mi voltai a destra, verso il tavolo quattro. 
C'era Luke. 
Luke che provava ad essere normale, che ce la metteva tutta a dimostrarsi interessato, a calibrare il microscopio ma, soprattutto, a sorridere. Perché lo stava facendo, anche se il sorriso non riusciva ad arrivare fino agli occhi. E poi, mentre era ancora coinvolto nella conversazione con i suoi compagni di tavolo, si girò a cercare i miei occhi. E li trovò, perché forse li avrebbe trovati sempre. Il sorriso si spense lentamente, lasciando che l'espressione si modellasse in base alla realtà, e quella faccia sembrava sottomessa, a quella realtà, portandone tutti i segni. Alzò il viso, facendo un cenno, come a dire ciao, alla mia più grande disgrazia. 
Gli risposi allo stesso mondo, accennando col capo. Si faceva così. Ci si faceva la guerra e poi si nascondeva tutto in tempo, alla svelta, prima di incontrare gli occhi. 
L'istante successivo una compagna lo richiamò e Luke si girò, tornando a biologia. 
Me lo immaginai in un tribunale, o con delle manette ai polsi, e l'immagine si contrapponeva distintamente con la scena che avevo davanti. Luke doveva vivere così, i suoi diciassette anni. Ma non poteva di certo farlo con un migliore amico mafioso ed un fratello in coma.


Il laboratorio di biologia era situato al piano sotterraneo e per questo, quando alzai la mano e chiesi alla professoressa di andare in bagno, dovetti per forza recarmi a quello del primo piano. Uno dei piani più silenziosi, rispetto al mio, dal quale provenivano i peggiori rimproveri delle insegnanti e, ovviamente, le peggiori risposte degli studenti. Attraversai il corridoio e mi diressi verso il bagno, senza far caso a niente. Mi sciacquai il viso almeno tre volte, per far andare via quell'espressione di una che non dormiva da mesi. Risposi poi ad un messaggio di Calum, che mi augurava una buona giornata. Dopo alcuni minuti decisi che mi sarebbero venuti a cercare se non fossi tornata nell'arco di un tempo ragionevole, così uscii. E okay che il mio stato psicologico era discutibile, e che avevo delle ore di sonno arretrato che erano spaventose, ma quel singhiozzo lo sentii. Proveniva dal bagno maschile. Feci retro front e cercai di rendermi il più possibile silenziosa, mentre tentavo di sbirciare dentro. I miei problemi si racchiusero tutti nella scena che mi si presentò davanti. C'era Michael, in quel bagno che si trascinava dietro il peggiore odore di sempre, col pavimento lurido e le mattonelle che si staccavano dal pavimento. C'era Michael e teneva le mani incollate al lavandino, e si fissava in quello specchio arrugginito agli angoli e macchiato dalle dita che aveva visto in tutti quegli anni. C'era Michael, era ancora lì, che respirava a fondo. C'era Michael e quel riflesso apparteneva ad un ragazzo che stava piangendo le lacrime più amare di un'intera vita. Sentii che la mia anima prese il sapore dei sensi di colpa, e il mio cuore affondare sempre di più. Sempre più giù. 
Decisi così di entrare, piano, piazzandomi accanto allo stipite. 
«Si può sapere che ti prende?» gli chiesi. 
Non gli fece scalpore, la mia presenza. Non mi chiese che cazzo ci facessi là, non si voltò nemmeno. Nella sua testa c'era solo la sua faccia bianco latte, pallida, quella che mi divertivo spesso a paragonarla ad uno zombie. In quel momento non mi divertiva. Mi faceva male. 
Tirò su col naso, aprì il rubinetto e si passò ripetutamente le mani sul viso. Come a togliere tutto il male, fino a scorticarsi. Ma la faccia che c'hai ti rimane, non la scordi, come io non scorderò mai quegli occhi rossi e lucidi che ebbi davanti quella mattina. 
«No» mi rispose. 
Non mi diceva più niente. Faceva un male cane. Sentii pizzicarmi gli occhi, presi un respiro enorme e «Vuoi che resti con te?» proposi. 
Con una mano mi fece il segno di andarmene. Chinò la testa, prima di abbandonarsi ad un altro pianto silenzioso. «Supero anche questa» disse. 
Quale cosa, avrei voluto chiedergli. Ma mi venne solo da avvicinarmi per abbracciarlo, quando Michael fece un passo indietro. «No.»
Mi allontanai anche io, sentendomi quasi pericolosa. 
«Va bene, Michael.» E, mentre lo dicevo, si asciugava il viso nella maglietta e non mi sembrò mai così fragile come quella volta. 
«Sto bene» cercò di camuffare il tutto. «Torno in classe, dovresti farlo anche tu.»
Eppure le parole gli si incastravano tra un respiro e l'altro, e quegli occhi rispecchiavano solo un essere distrutto. Michael. Il mio Michael. 
Decisi di non dire niente. Perché non mi voleva, e mi faceva sentire nociva e pericolosa. Un po' come un mostro. Un po' come Luke. 
Stavo diventando come lui.


Durante l'intervallo non avevo nemmeno la voglia di alzare il culo dalla sedia e uscire dalla classe. Ma poi mi tirarono su quasi di peso, per andare a prendere quelle maledette merende al distributore. 
Avevo una faccia di merda. Lo sapevo. Nonostante questo, non avevo idea del perché mi stessero guardando in quel modo, come se fosse morto il gatto a metà scuola. Ero diventata abbastanza popolare, al Sefton. La maggior parte mi conosceva come “l'amica di Hemmings”, il che era già terribile di suo. Non mi fregava niente se la gente passava il tempo a fissarmi. Ma quel giorno, quelle facce erano seriamente inquietanti. 
«Che cazzo succede?» sbottai, continuando a camminare. E a quel punto tutti abbassarono lo sguardo. 
Il distributore era al primo piano, così scesi le odiose scale, tranquillamente. E quella tranquillità mi abbandonò di colpo. Ero all'inizio del corridoio, lo ero. Anche se mi sembrava di essere da tutt'altra parte. Al mio arrivo sentii solo «cazzo» «è arrivata» «questa la devo filmare!». 
Fissai la fine del corridoio. Pareva che mezzo Sefton si fosse riunito lì. Mi avvicinai, davvero troppo velocemente, col cuore a battermi furiosamente. Non dovetti nemmeno farmi spazio o spingere, mi vedevano e mi facevano passare. Me lo dovevano. 
Perché al centro di tutto quello c'erano Michael e Luke. Solo loro.

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Capitolo 15
*** In time. ***


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Una mattina, quando avevo sì e no otto anni, aprii gli occhi e vidi davanti a me mia mamma mentre spolverava le mensole su cui poggiavamo una quantità infinita di peluche. Me lo ricordo benissimo. Aprii la bocca per darle il buongiorno, ma non emisi nessun suono. Ci riprovai più volte, ma le corde vocali parevano essermi state tranciate via. Mi venne quasi il panico, quasi da frignare. Il resto non me lo ricordo, la mia testa l'ha completamente dimenticato. 
Mi venne in mente questo, mentre fissavo quella scena. Mi sentii incapace di far qualsiasi cosa. Era come se avessi calpestato il cemento e si fosse asciugato lì, così in fretta, sotto i miei piedi.
C'era Luke a terra, sovrastato da Michael. Le ginocchia puntate a terra, sul pavimento gelido, ai lati del bacino di Luke. Lo teneva fermo, lo stronzo. I capelli, ora tinti di rosso, a scendergli davanti agli occhi chiari, che si muovevano in corrispondenza ai colpi. Le nocche bianche. Manco un pezzo di merda con l'epatite ce le avrebbe avute così. E poi Luke decise di non farsi massacrare, strattonandolo. Adesso erano a terra entrambi, come animali, bestie inferocite, pronte a sbranarsi. Luke gli strinse tra le dita i capelli sudati, portandogli indietro il viso, quando gli affondò un pugno nello stomaco. Michael lo guardava. Lo fissava, ma sembrava come se non lo vedesse. Mi parve quasi che fossi stata io, quella a prendersi la botta. Trattenni il respiro, e quei due, cercando di alzarsi, andarono a scontrarsi contro la parete del corridoio, quella con le finestre che davano sul parcheggio. Luke emise un gemito di dolore: era la sua schiena ad esserci andata addosso. 
Michael era messo meglio di lui. Nel senso che un minimo di muscoli lo aveva, il fisico lo aveva, lui. Luke no. Era una stecca. Le sue gambe lo erano. Eppure il mio migliore amico era stato pestato una settimana prima da Mef, il corpo ce lo aveva ancora dolorante. Come a ricordargli dove finisse, ogni volta.
Pensai che Luke non ne sarebbe uscito vivo, da lì. Michael gli strinse il viso in una mano, lo aveva così vicino che era una cosa assurda. Lo voleva morto. Gli ringhiò qualcosa contro, qualcosa come «Figlio di troia» e lo lasciò andare, bruscamente. Luke pestò la testa contro il muro. Un altro colpo che mi sentii sotto pelle. 
E poi ancora botte, Michael che stringeva la sua maglia e lo alzava dal pavimento, Michael che fece scontrare le sue nocche sullo zigomo destro di Luke. Fu a quel punto che Luke reagì. Dopo aver incassato il colpo, si rialzò, con una calma paurosa. Lo guardava con neutralità.
«Non ci giochi, con quelli come me» disse. 
E, detto questo, cominciò la sua sessione, prendendo in contropiede Michael. Arrivò il primo pugno destro, poi quello sinistro, il montante sotto il mento e, senza dargli il tempo di prendere coscienza della situazione, gli sferrò l'ultimo, quello al fegato. Non sapevo quanto i tessuti turgidi dei muscoli di Michael avessero potuto attendere prima di strapparsi dalla pelle. Fu a quel punto che mi staccai dalla folla, gridando il suo nome. Quello di Luke. 
Ci fu silenzio. Solo quello. Solo i miei passi che raggiungevano quei due stronzi. La prima cosa che feci fu staccare il corpo di Luke da quello del mio migliore amico. Ci ficcai quasi le unghie nel bicipite, senza guardarlo in faccia. Lo staccai come se si fosse attaccato al suo, come se si fossero appiccicati. E poi osservai Michael. Aveva quella bava mista a sangue che gli scendeva dalla bocca, uno scenario così schifoso che mi dissi che si sarebbe incrostato, quel sangue, e che io non ci avrei mai dovuto avere a che fare, con quello. Non mi piaceva, il sangue di Michael. 
«Michael» pronunciai. Aveva gli occhi socchiusi, mi vedeva. 
Attorno avevamo così tante persone che mi veniva mal di testa. Così tanti occhi puntati, ma io volevo solo i suoi. Quel colore odioso, mezzo verde, mezzo azzurro, che sembrava prenderti in giro. 
«Becky» sussurrò. 
«Senti,» iniziai io «adesso ci alziamo da qua, e non ti do altre botte perché ne hai avute già abbastanza, e andiamo in infermieria.»
Non rispose. Non si mosse. 
«Michael?»
«Spostati. Lo tiro su io» esordì Luke dietro di me. 
Mi girai di scatto. «Tu non lo tocchi.»
«Non rompere i coglioni, Rebecca, non lo riesci a spostare manco di un centimetro.»
Stetti zitta. Guardai un'altra volta Michael, sul suo viso c'era la solita espressione che significava dolore, dolore, dolore. Non spiccicai parola, e mi spostai. Luke lo prese da sotto le ascelle e piano piano lo fece alzare. Gli mise il braccio attorno al collo e mi fece capire con un cenno di aiutarlo. 
Era quasi, quasi divertente il fatto che prima lo avesse massacrato di botte e poi lo avesse aiutato ad alzarsi. 
«Levatevi dal cazzo. Giuro che se non lo fate proprio in questo momento tiro su un casino» annunciai, rivolgendomi agli studenti che avevano formato un cerchio attorno. Come a creare un ring. Uno schifo, da vomitarci sopra. Lo fecero immediatamente.
«Poi ti spiego» affermò Luke. 
Michael pesava davvero tanto, mi stava mandando a puttane il braccio. E non contribuiva. Giocava a fare il morto. 
«Stai zitto, non voglio sentire niente.»
Ero incazzata nera. Non lo sapevo perché ancora non avessi lasciato cadere a terra quell'ammasso di carne umana mischiata a delle ossa e non avessi strangolato Luke. Non lo sapevo. 
Andammo in infermieria. C'era questa porta bianca, che doveva essere di quel colore, ma appariva solo un insieme di ditate sporche, impronte di suole di scarpe, che mi fece schifo anche aprirla. C'era un odore pungente, odore di chiuso, di umido. 
Una signora sulla quarantina stava lì dentro, non la salutai nemmeno, fu Luke a farlo. Io inquadrai solo il lettino per liberarmi di dosso il corpo di Michael. Lo accompagnai lì, gli alzai le gambe e potette finalmente sdraiarsi. 
«Cos'è successo, ragazzi?» s'informò la donna, avvicinandosi a Michael. 
«L'ho pestato» rispose, semplicemente. 
L'infermiera si girò, fu solo un istante, e aveva una faccia terrorizzata. 
«Hai la mano pesante» commentò, allora. 
Gli tirò via la maglietta. La sua pelle bianca. I lividi bluastro. 
«Io me ne andrei» sbottai. 
Forse fu solo in quel momento che la donna mi notò. Si girò a guardarmi. 
«E' un tuo amico?»
«Sì, ma fosse per me, gliene avrei date così tante che non ci sarebbe nemmeno arrivato qui.»
Pensò sicuramente che io e Luke fossimo uno peggio dell'altro, che avessimo qualche malattia mentale. 
Andò a prendere una strana crema-gel, per poi spalmarla sulle parti lese.
«Dimmi quanto ti fa male da uno a dieci se ti tocco qua.»
«Sette» disse Michael.
«Se vuole le dico un po' come sono andati i fatti» intervenne Luke. Se ne stava appoggiato al muro, col ciuffo scombinato, la maglia stropicciata. All'improvviso mi ricordai che il mio migliore amico non fosse l'unico ad averle prese.
«Prima di tutto: ha iniziato lui. E' venuto proprio a cercarmi, non-»
«Controlli anche lui, quando ha finito con quello stronzo» dissi.
E me ne andai, lasciandomi dietro quella porta che non avrei più voluto vedere.


Camminai fino al piano superiore. Proprio sulle scale incontrai Ashton, le scendeva come se fossero state una strada in discesa. Appena mi vide mi saltò quasi addosso, agganciando le mani alle mie spalle e «Dov'è?» chiese solo. 
Sapevamo chi. Senza dire niente. 
«In infermieria. Toglimi le mani di dosso» ordinai, dura, fissandolo negli occhi. 
Dall'alto sentimmo una voce profonda, una voce vecchia, di quelle che staranno sempre sopra di te. Quella del preside. 
«Siete voi, eh?» andava in giro dicendo. Tentò di scenderle veloce, quelle scale, ma non gli riuscì per niente. 
«Scusi?» fece Ashton. 
«Voglio i ragazzi che si sono picchiati nel mio ufficio. E tu» mi indicò «Non mi scappi. So che sei stata te.»
Mi venne su un nervoso che avrei tirato giù tutto il Sefton. Non mi diede neanche il tempo di protestare che «E' lui, uno dei ragazzi?» chiese. 
Aspettai un po', volevo sentire Ashton. Ma, a quanto pareva, era lui ad aspettare me. 
«No» risposi infine. 
«Allora è Hemmings, di sicuro. Voglio tutti i complici tra 10 minuti nel mio ufficio. Quelli come voi devono essere tenuti d'occhio.»
Ashton mi guardò, un ultimo sguardo, prima di finire in merda.


Seguii il preside. Il suo ufficio non era molto grande, ma sicuramente era la parte messa meglio del Sefton. C'era tanto bianco. Tutto bianco, tutto messo lì con un ordine maniacale. Me ne stavo seduta dietro al tavolo, di fianco a me altre due sedie. Vuote. Erano passati venti minuti, li contavo dall'orologio bianco che c'era appeso in alto davanti a me. 
Non mi stavano ferme le mani. Era la rabbia a tenermele sveglie. Ce l'avevo nel petto, questa rabbia, che quasi me lo sentivo scoppiare. Volevo che mi uscisse, che se ne andasse. Era una cosa che mi mandava a fanculo l'auto controllo. 
La maniglia scattò. Potevo girarmi e guardare dalla vetrata se Michael e Luke fossero arrivati, ma non lo feci. Bastarono quei passi, li avrei riconosciuti ovunque. Il preside distolse lo sguardo dallo schermo del suo cellulare e «Prego» cominciò. 
Non mi girai manco in quel momento. Puntavo lo sguardo fuori dalla finestra. Si sedettero di fianco a me, capii che fosse Michael quello accanto perché aveva un profumo tutto suo. Tutto marchiato Michael. 
«Bene» fece l'uomo, «primo guaio per Clifford, ventesimo..ventunesimo? per Hemmings. Chi di voi vuole spiegare?»
Sperai con tutta me stessa che nessuno di loro cominciasse a parlare, non la volevo sentire, la spiegazione. E non lo fecero. Udivo il respiro irregolare di Michael, Luke gliene aveva date di santa ragione. 
«Va beh, allora chiediamo alla signorina.»
Signorina un cazzo, avrei voluto ribattere. Ero una con due palle che gli avrebbe sfasciato la casa di merda che si ritrovava. 
Sorrisi falsamente. «Hanno iniziato entrambi nello stesso momento.»
Il preside rise, divertito dalla mia cazzata, e alcune vene sulla sua testa priva di capelli si mossero. Facevano un po' impressione. 
«Ho due ragazzi davanti: uno che pare essere uscito dalla seconda guerra mondiale, e l'altro da un centro benessere. Chi vuoi prendere in giro?»
Sentii Luke sistemarsi meglio sulla sedia. Aveva capito la sua fine. 
«Rebecca non c'entra niente» affermò Michael. 
«Nessuno me ne dà la conferma. Lei era lì. E non mi far cambiare idea, Clifford, ho intenzione di lasciarti fuori dalla questione.»
Michael si lasciò andare contro lo schienale, almeno ci aveva provato. Almeno aveva tentato di alleviare la mia incazzatura. 
Poi il preside si avvicinò, puntò i gomiti sulla superficie del tavolo e annodò le mani sotto al mento. «Quanto a voi due» puntò lo sguardo su me e su Luke, «ho un lavoretto per voi.» Ancora le mie mani che andavano per i cazzi loro. Ancora i miei piedi che sembravano essere sotto ad una crisi epilettica. Aspettavamo tutti il verdetto col fiato sospeso. Roba da malati. 
«Volontariato» annunciò. Fu a quel punto che guardai Luke. Ce ne restammo zitti, ma gli sguardi erano quelli che erano. «Volontariato al carcere nel sobborgo qua di fianco. Avete presente, no? Hanno in corso un progetto, a cui possono partecipare solo i detenuti chiusi dentro per problemi con la droga. Voi dovrete passare almeno 5 ore, divise in cinque giorni, con queste persone scelte, loro parleranno a voi delle loro storie, voi ascolterete, magari scambierete qualche chiacchiera. Giusto per riportarli un po' nel mondo reale, la loro psichiatra dice che li farà bene.»
Avevo la faccia di una che stava su un altro pianeta. Stavo facendo finta di non ascoltare quelle parole. 
L'espressione bastarda del preside, quel sorriso di scherno, le vene esposte che ti facevano salire su i conati. E poi Michael mezzo tumefatto di fianco, e poi ancora Luke. 
Strisciai la sedia sul pavimento e mi alzai. «Io vado» annunciai, risoluta.
Camminai verso la porta e me la richiusi dietro. Proprio in quel momento, sentii lo stesso rumore stridulo di prima, lo strisciare sulle mattonelle. Qualcuno si era alzato. Proseguii per il corridoio deserto, gli studenti stavano a lezione. E poco dopo c'erano dei passi dietro di me, e «Aspetta, Rebecca» diceva Luke. 
Non me ne fregava un cazzo. Tiravo dritta. «Non fare la stronza, dai.»
«Continua a seguirmi e ti segno una volta per tutte. Ti sfiguro, Luke.»
Eppure mi stava sempre appiccicato. Sentivo i miei capelli lunghissimi sbattermi contro la schiena con tutta quella convinzione del camminare decisa e spedita. Uscii da scuola, nessuno mi fermò. 
«Vedrai che non ti farà così tanto schifo, questa cosa» provò a risanare. Questa cosa. Non sapeva nemmeno lui che diavolo fosse. Io non ero incazzata per quello, c'erano altri mille motivi. Passarono diversi secondi in cui mi ero impuntata di ignorarlo, ma poi «Scusa» udii. Così piano, così lontano. 
Mi bloccai. Guardai Luke e anche lui si fermò. Un po' come quando si osserva una cosa nuova, e sei curioso, vuoi scorgerne tutti i dettagli. «Ho sentito bene?» domandai. 
Luke sbuffò, distolse lo sguardo e «Sì, ti ho chiesto scusa» confermò.
Non me lo aveva mai detto. Era una parola che pensavo gli avessero stracciato via dal dizionario, un qualcosa di raro. Però non gli dissi niente, non volevo che credesse che fosse tutto tornato a posto. 
Un migliore amico sfregiato e quasi rotto a metà ce l'avevo ancora.



I due giorni seguenti non spiccicai parola con Michael e nemmeno con Luke. Ogni volta che i nostri sguardi si incontravano mi veniva su una rabbia tremenda, roba da prendere a pugni la prima porta che mi fossi trovata davanti. Gli studenti del Sefton trovavano un certo gusto nel commentare il mio comportamento e la rissa di due giorni prima. Mi avevano insegnato a stare zitta in queste situazioni, e così facevo. Il problema era Michael. Lui se li sarebbe mangiati vivi, quei coglioni. L'avevo addirittura visto sputare addosso ad uno di terza, il giorno dopo, ed era così patetico che quasi mi veniva voglia di prenderlo e dirgli “Dai, torna alla Due, non ti lascio mica il diritto di perdere in questo modo la tua fottuta dignità”. Ma l'avevo lasciato lì. 
In camera si alzava ogni secondo per andare in bagno e sciacquarsi il labbro per poi sputare sangue misto ad acqua. Lo avevo visto. Luke ci era andato giù pesante, non avevo mai visto un'agilità simile nelle risse. Come se lo facesse tutti i giorni.
Il giorno di merda era arrivato. Era l'una, la lezione era terminata. Io e Luke ci alzammo per ultimi, il professore ci lanciò un'occhiata e uscimmo dalla classe. Luke mi stava a fianco, senza dire niente, non osavamo spaccare il muro di vetro che si era creato tra di noi. Avevamo paura delle schegge. 
La gente ci guardava ma a noi non fregava affatto. Uscimmo con passo tranquillo, dirigendoci alla fermata del bus. Ci facemmo un viaggio di minimo 45 minuti, diretti verso il Lithgow Correctional Centre. Continuavo solo a pensare che tutto questo fosse causato da Luke e Michael, mentre guardavo fuori dal finestrino. Che a me non importava un cazzo dei drogati, la strada te la scegli tu, e se la scegli di merda, non puoi dar la colpa a nessuno se non a te stesso. 
La fermata bus era proprio davanti al carcere. Io non ne avevo mai visto uno in vita mia, e la sua grandezza mi lasciò senza parola. Immaginavo quanti stronzi potesse contenere una struttura del genere. Roba da pazzi. Luke, appena scese, abbassò la testa e se ne andò per i fatti suoi, raggiungendo l'entrata. Io lo seguii poco dopo. 
Le porte. Furono queste a farmi più impressione. Sbarrate nella maniera più maniacale possibile. Ma non una o due. Ne contai minimo quattro. Ci fecero lasciare qualsiasi cosa avessimo in una stanza custodita, scortati da tre uomini. Passammo dieci minuti ad aspettare davanti ad un bancone, circondati dalle mura grigie illuminate da delle luci gialle, davvero troppo gialle, artificiali. E poi finalmente arrivò la psicologa, che ci accolse con un sorriso abnorme. 
«Buon pomeriggio, ragazzi! Siete i due del Sefton, non è così?»
«Sì» confermai io. 
Luke se ne stava nel suo mondo. 
«Allora seguitemi.»
Porte. Sbarre. Scale. Muri. Luci. Vedevo solo questo. C'erano altri corridoi vicini a dove passavamo noi, gente normale, con la fedina penale pulita, ed erano proprio quelli che mi interessavano. Volevo vederle, io, quelle persone che avevano sputato sulla libertà. Ma la donna ci condusse da tutt'altra parte. Vidi per la prima volta una porta che non fosse sbarrata, assomigliava più a quella che c'era in infermieria nella mia scuola. La aprì e ci trovammo davanti quindici uomini seduti a semicerchio su delle sedie, e dietro come sfondo tre guardie. 
Non avevo paura, io. Questi stavano metà di qua e metà di là, con quel colore sul viso che era un miscuglio tra il bianco e il giallo. 
La donna cominciò a parlare del progetto e di cazzate varie, per poi far dire a tutti i presenti in quella stanza il proprio nome. 
«Perfetto» sentenziò lei. «Vi va di presentarvi?» chiese a me e Luke.
Mi guardavano. Mi guardavano e avevano quegli occhi che sembravano strapparti l'anima, cercando di assaporarla. Un'anima libera. Una testimonianza che la realtà là fuori esistesse ancora. 
«Mi chiamo Rebecca. Non sono di qua, io. Mi sono trasferita da poco. Ho diciassette anni e studio.» Non seppi più cosa dire, così mi fermai. Calò il silenzio, toccava a Luke.
«Luke...» feci io, sottovoce.
«Scusatemi, sì, sono Luke. Ne ho diciassette anche io. Sono qui da due anni. Studio, più o meno. E la ragazza qui di fianco mi ha finalmente rivolto la parola.»
I detenuti ci rimasero rincoglioniti per qualche secondo, poi capirono e sorrisero, storcendo la bocca. Alcuni non avevano qualche dente, altri erano così sciupati che parevano essere morti e poi resuscitati. Altri ancora era un miracolo che stessero seduti senza cascare giù. 
Finalmente io e Luke ci sedemmo di fianco alla psicologa e restammo zitti e fermi quando quest'ultima chiese ad uno di loro di raccontare, nel caso se la sentisse, la sua storia. 
Aveva sì e no trent'anni, la voce profonda e gli occhi ancora puntati su di me. Aveva iniziato a dodici anni con l'hashish e poi non s'era fermato più. Stava dentro da tre mesi, gli davano ancora il metadone. Voleva cambiare, aveva detto. Sentii Luke sussurrare un «Cazzate», a cui nessuno diede peso. Ad un certo punto, sottovoce, mi disse: «Non ce la faccio, Rebecca.» Non sapevo a cosa si stesse riferendo, sta di fatto che due minuti fu scortato fuori con la scusa di dover andare in bagno. Andammo avanti a parlare per minimo quindici minuti. A quel punto entrò nella stanza una biondina, avrà avuto sui ventuno anni. Era minuta, con gli occhi verdi simili a quelli di Michael. Si affiancò ad uno dei detenuti per dirgli qualcosa, e successivamente mi si avvicinò. 
«Avril» si presentò. Le strinsi la mano.
«Rebecca.»
«Lei assiste i detenuti con problemi di tossicodipendenza da più o meno due anni. Non si sa come, ma riesce a somministrare metadone come se niente fosse. Sono felice di averla vicino» mi spiegò la psicologa, mentre quelle due si sorridevano. 
Avril aveva modi aggraziati, la faccia pulita, il contrario di me. 
«Penso sia perché il mio ultimo ragazzo fosse uno di loro» commentò la biondina. 
Che cazzo ci facesse una come lei con un drogato. Solo questo mi passò per la testa. 
«Non state più insieme?» domandai. 
«No» rispose. «È morto quando avevamo diciotto anni.» Avrei voluto avere di fianco Luke, in quel momento. Perché lui c'era ancora, e non se ne sarebbe mai andato prima che tutto si fosse sistemato. «Non fare quella faccia, non ti preoccupare» mi disse, ma le mani in cui teneva dei fogli le tremavano. 
Quella fu forse la scena che più mi fece paura nell'intero carcere.
L'ora che mi era stata imposta di trascorrere nel Lithgow passò abbastanza veloce. Scendemmo nell'aria, un cortile di cemento di 15m per 10m circa, circondato da muri alti che ti permettevano di vedere solo il cielo e le guardie armate che passeggiavano sul muro esterno, e dalle finestre sbarrate si affacciarono tante teste, tutte puntate su di noi. E poi una guardia uscì dalla struttura e mi scortò fino all'uscita. Mi ripresi tutti i miei oggetti, aspettai che tutte le porte si aprissero e si chiudessero dietro di me. E poi vidi Luke proprio davanti all'entrata e rimasi a guardarlo, in silenzio, fino a quando non abbassò lo sguardo. 
Luke c'era. Ero ancora in tempo. Per fare cosa, questo ancora non lo sapevo. 
«Dai, andiamo» dissi.
Lui annuì, trascinando svogliatamente le suole delle vans sull'asfalto. 
«Perché te ne sei andato?»
«Non mi piacciono le prigioni.»
«E a chi diavolo vuoi che piacciano?»
«Senti, non iniziare a rompere i coglioni. Guarda, sta arrivando il bus. Andiamo a casa.»


Erano le quattro del pomeriggio quando mi trovai di fronte alla Due. Luke si portava dietro una scia di fumo che scompariva piano piano, passo dopo passo. Aveva quella camminata da trasandato che era una cosa odiosa, roba da dargli una spinta e dirgli di muoversi. Lentamente ci distaccammo, io a destra e lui a sinistra. Io alla Due e lui alla Uno. Buttò a terra il mozzicone, lo vidi con la coda dell'occhio, per poi richiudersi dietro il portone. A quel punto iniziai a salire le scale, fino ad arrivare alla 36. Pensai di trovare Michael in bagno, alle prese col labbro che continuava a mordersi, o magari sul balcone a fumare. Invece aprii la porta ed era lì, ci sarebbe sempre stato. Eppure era sul suo letto, lo sguardo felino ed incazzato addosso al mio. In mano i fogli sui quali spiccava ATTO DI CHIAMATA IN CAUSA e poi il mio nome. Il mio, non quello di Luke.
«L'avevo detto, io, di restarne fuori, Rebecca» disse Michael.



Hei people!
E' domenica. Questo vuol dire che sono in tempo, oggi mi sono studiata velocemente filosofia solo per pubblicare ahah
Prima cosa: io lo so che il Luke di Avril è morto e che direte "Nali a furia di scrivere si è fottuta il cervello", ma dovete prendere in considerazione il fatto che Two e 24 carati sono due storie diverse, e per 24 carati non è nemmeno esistita Two e viceversa. Spero che questa cosa abbia un po' di senso lol
Seconda cosa: l'accenno ad Avril serviva per far capire a Becky che il suo Luke c'è ancora, che le possibilità per salvarsi ci sono ancora. 
La prossima settimana saprete perché Becky è stata chiamata in Tribunale. State tranquille.
Vi ringrazio perché il primo capitolo ha raggiunto le 4000mila visite e perché amo le vostre recensioni e niente, adesso vado e vi lascio in pace.


trailer: http://www.youtube.com/watch?v=_w_wXIrsr7g
wattpad: funklou
twitter: 
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Capitolo 16
*** Like brothers in the dark. ***


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Dovevo avvicinarmi, leggere ogni singola parola stampata su quei fogli. Dovevo farlo ma, in quel momento, colui che da sempre era il mio migliore amico mi faceva paura. Ero io quella che rompeva le palle per il disordine, per le chiavi dimenticate, per i rientri in stanza che non erano quelli dettati da me. Michael subiva, soprattutto. E non mi aveva mai fatto così tanta paura in tutti quegli anni che ci tiravamo alle spalle. 
«Che cosa è successo?» 
Respirò a fondo, si alzò. Adesso era alto almeno quindici centimetri più di me. Rise, Michael. Una risata schifosa, una di quelle che fanno più male dei pianti, che ti si incastra nella testa e poi ti rimbomba per anni. Michael era il mio eco. 
«Ci sei caduta dentro anche tu» disse. Sembrava un pazzo, uno di quelli che si vedevano in tv nei film in cui uno dei protagonisti è un matto sadico che gli sorride la faccia e gli scoppia la testa dentro da quanti modi sta pensando per ucciderti. 
Istintivamente feci un passo indietro. Non avevo ancora chiuso la porta. 
«Senti, che cazzo stai dicendo? Dimmelo e basta.»
Nella sua mano i fogli si stavano accartocciando. I suoi passi arrivavano sempre più vicini a me. 
«Che quel pezzente ti ha coinvolta in un grande casino, e io non ci voglio avere a che fare con questa cazzata. Sto cercando di mantenere il controllo. Sto cercando di non ammazzarti qua.»
Tremai, all'ultima parola. 
«Passameli.»
«Sai chi cazzo è l'avvocato, Rebecca? Lo sai?» quasi urlò. La voce si propagò per tutto il corridoio, ma ormai gli studenti erano abituati. Ci facevamo riconoscere.
«Che cazzo vuoi che ne sappia, io! Non sto capendo niente!»
Michael si arpionò al mio polso e cominciò a camminare, ed io come una maledetta non dicevo niente. Aspettavo solo che smettesse di scorticarmi la pelle.
La porta restò aperta.

Michael quasi prese a pugni il citofono. Non seppi nemmeno io come fece a non sfasciarlo e a farlo cadere a terra, sull'asfalto. «Vieni giù, figlio di troia!» andava dicendo.
«Cosa.» rispose la voce meccanica. Il tono svogliato di Luke, quello che non ti faceva capire se quella fosse una domanda o un'affermazione.
«Apri.»
Il portone scattò e si aprì leggermente. Michael si catapultò dentro all'istante, iniziando a salire le scale. Una rampa, un'altra rampa, girare a destra, penultima stanza. Conoscevo quel percorso a memoria. Michael parve buttare giù la porta a furia di calci e manate.
«E un attimo!» si lamentò Luke. 
Quando la porta si spalancò i loro sguardi si incontrarono. Freddi. Così come erano cresciuti. Poi Luke fissò il mio polso ancora rinchiuso tra le dita di Michael e «Lasciala. Le fai male» ordinò.
E a quel punto il mio migliore amico lo fece, ma un'altra sessione di risate gli lasciò la bocca. E un secondo dopo divenne immediatamente serio. Gli sbatté i fogli al petto, e Luke fece appena in tempo ad afferrarli prima che gli scivolassero a terra. Non si scompose, mentre lesse l'atto di chiamata in causa. Non era preoccupato né niente. 
«Beh?» esordì. 
«Non sono qua a farmi pigliare per il culo. Dimmi che cazzo c'entra mio padre e, soprattutto, lei.» 
Tirai su un respiro che mi si bloccò in gola. Luke che si stringeva nelle spalle, non lo sfiorava niente. 
«Fattela dire da lei la storia» disse. 
E a quel punto, Michael si girò verso me, con un'espressione grave ad imbruttirgli la faccia. Adesso sì che il panico mi si conficcava dentro e si espandeva velocemente, nello stesso modo con cui lo avrebbero fatto delle cellule staminali. Deglutii. I secondi passavano. 
«Parla, Rebecca. Parla.» 
Guardai Luke, in cerca di spiegazioni, ma un certo sesto senso mi diceva di starmene zitta. Ché qualcosa sarebbe successo, di lì a poco, e sarebbe cambiato tutto. 
«Lei è roba mia, Luke. Ci sono tante cose che puoi rovinare, tante persone, ma non lei.»
Silenzio. 
«Rovinare non è sinonimo di fare giustizia.»
Michael impallidì. «Giustizia per cosa?»
«Dalla mia bocca non uscirà niente. Sarà lei a raccontare, se le va.»
«Cristo santo, non voglio essere preso per il culo, te lo devo scrivere il faccia?»
«Sei tu che sei venuto qua a fare il matto.»
«Aspetta, aspetta. Becky, stai bene? Stai piangendo?» 
Michael si abbassò un po', mi scostò i capelli dal viso. I singhiozzi mi facevano tremare anche il costato, me li sentivo rimbombare dentro. Luke aveva raccontato tutto alla polizia, voleva farmi testimoniare contro mio padre. L'aveva fatto. Per me. Perché se non ti crei giustizia non ne esci dal passato, ti si incolla addosso, te lo porti dietro, e pesa come macigni. Luke me li voleva togliere, quei macigni, voleva che io vivessi senza più tormenti. 
Mi venne così. Mi scostai da Michael e corsi da Luke, e chiusi gli occhi, nascondendo il viso nel suo petto. Luke mi passò il braccio attorno alla schiena, nulla di più. E mi stava bene così, volevo solo rimanere lì, e rifiutare il presente anche soltanto per così poco. Prese ad accarezzarmi la schiena, posando il mento sulla mia testa. 
«Grazie» sussurrai. 
«Shh.»
Aveva ragione, non c'era niente da dire. Col suo profumo tra le narici, il maglione a sfiorarmi la guancia, il mondo mi sembrò meno stronzo. 
Profumo di sigarette lasciate a metà, di matite temperate, di fogli e pagine nuove. 
Profumo di un nuovo rifugio, di una nuova perdizione.


Luke's POV.
Lo spogliatoio de Lo Spazio quella sera sembrava più impregnato di un odore acre, forte. Odore di cocaina. 
Controllavo i messaggi ricevuti, in cui erano scritti migliaia di orari. Orari per trovarsi al Palababele, orari per contattare il padre di Michael, per presentarmi alla scuola di danza. La mia vita era scandita da una serie di numeri infiniti. 
Appena Ashton entrò, posai il cellulare nel borsone e lo guardai con fare annoiato. Ma lui non lo sembrava, affatto. Aveva le sopracciglia rivolte verso l'interno, la bocca dritta. Ashton era stizzito, rabbioso. Chiuse dietro di sé la porta con forza e ci poggiò il palmo della mano. 
«Ho saputo» attaccò, risoluto.
«Mh» feci io. 
«Luke.»
«Cosa vuoi?»
Mi puntava gli occhi addosso, non me li lasciava mai. Era un suo vizio, ed io non lo tolleravo. 
«Non c'è da fidarsi di te. Seriamente, Luke? Il padre di Michael doveva pararci il culo per altro. Ma a te non fotte niente, ché tanto in gattabuia già ci sei stato. Gli affidi il caso di una ragazzina, facendo la scenata della brava persona. Ma non lo sei. Non lo siamo. Non siamo nati per questo, te lo vuoi ficcare in questa cazzo di testa?» Si era ormai avvicinato, mi stava così vicino che mi sentivo il suo respiro addosso. 
E adesso la rabbia corrompeva anche il mio affanno, e volevo solo prenderlo a calci. 
«Che cazzo mi stai dicendo? Cosa c'entra il mio passato con ciò che faccio adesso?» sbraitai, alzandomi dalla panca. Ero più alto di lui, ma questo non pareva cambiargli niente. 
Ashton tirò giù una bestemmia e poggiò le mani sulle mie spalle, scuotendomi. «Ti ha fottuto il cervello, quella. Si tratta della tua famiglia, di Jack, del tuo futuro. Io non ci voglio andare in galera, Luke» inveì, scandendo parola per parola, con quell'ambra negli occhi ad inchiodarmi nel posto. 
«Tu non lo devi nemmeno nominare Jack!» urlai, spingendolo e scansandomelo di dosso. «Non ha niente a che fare la mia famiglia, ci siamo solo noi due in mezzo.»
«Vuoi restare dentro per altri mesi? Prego, fai pure. Fai l'altruista, apri un'accusa contro un padre pedofilo di cui non te ne frega un cazzo di niente e lascia nella merda noi.» Adesso era lui a spingere me, a prendermi per la maglia. 
Ci furono istanti di silenzio. Poi «Levati» dissi, deciso.
«Finisce qui, quindi? Fai il pezzo di merda in questo modo?»
«Se ci scopriranno, ci sconteremo i nostri giorni» affermai. E stavo per andarmene, volevo tornarmene a casa e dormire. Ma Ashton mi riprese dalle spalle, mi spinse contro il muro e potetti sentire le nocche scontrarsi contro il mio zigomo. Quasi mi sentii cadere, stordito, girai il viso. Non mi sentii la faccia per almeno cinque secondi. Poi cercai di muovere la mascella, percependo il dolore misto ad un informicolamento irradiarmisi nella parte destra del volto. Guardai Ashton, adesso con una mano tra i capelli, incredulo delle sue azioni. 
«Non volevo» mi disse.
«Lascia stare.» Non mi sarei mai vendicato contro Ashton, fratello non di sangue. Sarebbe stato come colpire me stesso. «Fammi andare a dormire, sono stanco.»
Ashton non si decideva a lasciarmi andare, se ne stava lì di fronte a fissarmi con quegli occhi assortiti. «Scusami, davvero» continuò. «Sei mio fratello, non vorrei mai farti del male. E' solo che mi fa incazzare il fatto che essere tra le mani della polizia non ti faccia paura. Vorrei solo uscire da tutta questa merda. Vorrei uscirne insieme.»
Glielo avrei detto, che dalla merda non ci esci manco a morire, che prima o poi qualche stronzo ci avrebbe presi. Ma era okay, io non ero incazzato con Ashton. Volevo solamente che smettesse di fare il paranoico, perché aveva paura, perché l'altruismo non sapeva nemmeno cosa fosse, e vedermi alle prese con esso per Rebecca lo aveva terrorizzato. 
«Va bene, va bene. Non fa niente per il pugno, la botta passerà. Andiamo a casa» annunciai, e finalmente Ashton si mosse e mi lasciò prendere il borsone. 
Uscimmo da Lo Spazio, il freddo gelido a ghiacciarci il sudore. Come due persone normali, che un minuto prima non avevano rischiato quasi di ammazzarsi.


La suoneria del cellulare di Ashton prese a spaccarmi i timpani verso le quattro di notte. Aveva quella suoneria da quasi tre anni, accompagnata da quella vibrazione che provocava un rumore assurdo. Tentai di aprire gli occhi, riuscendo a tenerli socchiusi, e lo vidi scostarsi le coperte di dosso per prendere il cellulare. 
«Pronto?» La sua voce risultò bassissima, impastata dal sonno. «Sì, mi hai svegliato tu. Si può sapere che ore sono?» Ci furono alcuni istanti di silenzio, e «Cristo, dobbiamo proprio adesso?» chiese, scocciato. In quel momento si girò a guardarmi e mi vide sveglio, mandandomi un'occhiata esasperata. «E dopo dove nascondiamo il tutto?»
Mi districai dalle coperte, sentendo il freddo arrivarmi fino alle ossa, e rabbrividii. 
«Se non siamo coperti, giuro che faccio andare nei casini anche gli altri.»
E la chiamata terminò. Ashton gettò il cellulare sul letto e si alzò, andando verso l'armadio. 
«Che voleva?» chiesi. 
«Vestiti» mi disse lui.

Poco meno di dieci minuti dopo eravamo già per la via che conduceva verso l'imbocco per l'autostrada. Le macchine non passavano, la notte era solo per noi. Erano pochi, i lampioni funzionanti, ma io ed Ashton conoscevamo a memoria ogni angolo di quella città. 
«Mi deve chiamare al cellulare, quel coglione. Alcune volte mi chiedo che ci sta a fare, ai piani alti, uno che se ti vuole far trasportare tonnellate di soldi sporchi te lo dice per telefono. Roba da matti. Questo si è dimenticato delle intercettazioni, la polizia non è mica scema» andava dicendo Ashton, ma io non riuscivo nemmeno a seguire un discorso per intero. 
Avevo ormai perso la sensibilità delle mani quando avvistammo il parcheggio. Proprio in quel momento, una macchina accese il motore e sfrecciò via. 
«Quello era Mef, ci scommetto. Solo lui potrebbe guidare in quel modo di merda» commentò. 
«Da quanto l'avrà messo come guardia? Poverino, magari si è fatto tutta la notte.»
«Secondo me stava lì da nemmeno dieci minuti» controbatté, con una certa rabbia. 
Entrammo nel parcheggio e avvistammo la macchina. 
«Potevi anche non menarlo davanti a Rebecca» lo rimproverai.
«E chi l'aveva vista quella? Non l'avrei fatto se me ne fossi accorto prima.»
Sbuffai. Durante la notte Ashton era più rompi cazzo del solito. Aprimmo gli sportelli e ci infilammo all'interno. Senza dirci niente, con assoluta naturalezza, ci girammo a controllare che le valige ci fossero ancora tutte e poi tornammo a fissare la strada. Fece partire il motore ed uscimmo dal parcheggio, mentre io tirai giù il finestrino per fumarmi una sigaretta. Volevo solo non pensarci, volevo riavere la paura che mi padroneggiava durante i primi tempi, quando anche rubare un piccolo oggetto mi fotteva la coscienza. 
Ashton fece inversione, cominciando a guidare verso la mia gabbia.
Arrivammo al Palababele che erano le quattro e mezza inoltrate, e a malapena mi reggevo in piedi. Parcheggiammo esattamente lì di fianco, e appena scesi misi piede nelle piante troppo cresciute, scordate anche da Dio, e nel terriccio umido che se non avessi fatto abbastanza attenzione mi avrebbe fatto scivolare come un dannato. 
Ashton fece una fatica assurda ad aprire il portabagagli, pareva essere incollato da quanto tempo non lo si apriva. I soldi non erano nelle valigette, quelle che si vedevano nei film. Erano alternativi, loro. Li lasciavano in degli scatoloni enormi, che pesavano un quintale, sui quali stava scritto “fragile”, giusto per confondere ancora di più. 
«Madonna se pesa!» si lamentò Ashton, cominciando a dirigersi verso l'interno. 
«Stai zitto, va» lo ammonii io. Tirai giù lo scatolone, chiusi il bagagliaio e lo seguii dentro. 
Camminavamo nel buio, e se ci andava male rischiavamo di prenderci una bella storta. 
Non era una vera porta, quella con cui entravamo nel Palababele. Una porta non ce l'aveva mai avuta, ci infiltravamo all'interno attraverso del muro spaccato, l'avevamo buttato giù io ed Ashton due anni e mezzo prima. Imboccammo la rampa, la stessa di sempre, e questa volta non ebbi il tempo di perdermi a leggere le scritte sui muri, bisognava impegnarsi a non inciampare da nessuna parte. 
«Mi prende un colpo di sonno a momenti» borbottò, varcando la soglia.
La luce lunare illuminava precariamente e «Io lo lascio nell'angolo» annunciai, posandolo a terra. 
Ashton fece lo stesso e, proprio in quel momento, sentii un vociare provenire dall'altra parte del Palababele. Probabilmente arrivava da dove c'era la voragine nel terreno, lì le voci rimbombavano sempre. 
«C'è qualcuno» dissi. 
Ashton rimase qualche secondo in silenzio e «Secondo te chi è?» mi chiese.
«Non ne ho idea.»
Detto questo, uscimmo dalla stanza e ci dirigemmo verso quelle voci. C'erano sempre persone, lì, non era mai completamente vuoto. Gente che spacciava, che si faceva di eroina, che si menava fino ai traumi cranici. Quella notte, invece, ciò che vedemmo stravolse ogni aspettativa. Eravamo abituati ad incontrarci con mio padre, alcune volte doveva solo darci delle dritte. Nel Palababele, quella notte, il padre di Ashton stava discutendo col mio. Erano mesi che girava lontano da Sefton. E, quando quei due si facevano vedere insieme, qualcosa sicuramente non andava per il verso giusto. 
«Ci mancava questo» commentò Ashton. 
«Non iniziare a fare il paranoico.»
Due teste si girarono verso di noi. Gli stessi nostri occhi, e i lineamenti più duri di quelli che ci caratterizzavano. Ci scrutammo, come animali che vogliono prevedere la prossima mossa, ed io me ne stavo sulla soglia, mentre i nostri padri presero a camminare verso di noi. 
«Ce l'avete fatta» esordì il mio, con un sorriso che dava più fastidio che incoraggiamento. 
«Come mai siete qua entrambi?» domandai io. 
Sul loro viso calò un'espressione dura, decisa. «Clifford a quanto pare ha rifiutato il suo incarico.» Sentii ghiacciarmi il sangue. Io lo sapevo già. 
«Come stanno andando le indagini?» si intromise Ashton. Adesso non gli andava più di fare lo stronzo. 
«Non mi sono arrivate informazioni. Ma dobbiamo affrettarci a trovare un nuovo avvocato che ci tiri fuori da questa merda» rispose suo padre. 
Avevamo delle facce da morto. Immaginavano già come sarebbe finita, e Ashton me l'avrebbe fatta pagare cara. 
Poi l'uomo che aveva il mio stesso sangue mi fissò. «Se tuo fratello non tiene duro, andrà comunque tutto bene. Te lo prometto.»
Non volevo più sentire niente. 
«I soldi sono al loro posto, dobbiamo andare» avvisò Ashton, afferrandomi per il braccio. 
Lui mi conosceva, aveva idea di come sarei scattato se fossi rimasto lì per altro tempo. Jack era un argomento che intoccabile. 
«Va bene, ragazzi. Rendeteci orgogliosi.»
Non me ne fregava niente di loro e del loro insignificante senso d'onore. Non erano uomini d'onore, venivano dalla strada, lo stesso posto da cui sarebbe provenuta la nostra intera generazione. Una generazione di mostri. 
Io ed Ashton ce ne andammo, senza dire una parola. Salimmo in macchina, lui alla guida ed io nei miei pensieri. 
«Non lo devi ascoltare, quando fa così» cominciò Ashton, senza distogliere lo sguardo dalla strada. 
«Non lo ascolto, infatti.» 
«No, certo» rispose, ironicamente. «Lo so che non siamo così noi.»
Non replicai niente, non volevo contraddirlo, volevo che almeno uno dei due rimasse convinto di non essere un mostro.


Il giorno dopo bisognava già nascondere tutto, fare il cambio di faccia, apparire più normale. A scuola non trovai il viso di Rebecca, e nemmeno quello di Michael. Probabilmente la verità era venuta a galla. Durante la pausa pranzo incontrai Calum, pimpante come al solito. 
«Ehi, amico!»
«Ciao, Cal.»
«Dio mio, hai due occhiaie tremende!» osservò. 
«Lascia perdere, l'insonnia è una brutta bestia. Comunque, stasera ci sei a vedere il Sefton giocare?»
«Solo se riesco a convincere anche quei due, altrimenti non c'è gusto» affermò, sorridendo, e d'istinto lo feci anche io. 

Ma Rebecca e Michael quella sera non si fecero vedere da nessuno, così come il giorno dopo e quelli successivi. Ce ne eravamo accorti tutti, ma nessuno osava parlarne o chiedere qualcosa. Michael ogni tanto lo vedevi che camminava per la via, usciva dal quartiere per prendersi qualcosa, mica poteva morire di fame. E, come era uscito, non lo si vedeva più. Potevo corrergli dietro, urlargli di fermarsi, ma ci andava di mezzo il mio orgoglio. 
Quel giorno, però, io e Rebecca avevamo un conto in sospeso, il carcere di Lithgow ci aspettava. E, se non fosse uscita da quella camera che era poi diventata il suo bunker, la sarei andata a prendere io.



Hei people!
So che non dovrei esaltarmi così tanto, ma oggi è domenica e questo significa che sono un'altra volta in tempo ahah
Prima di tutto: Luke e Rebecca. Io lo so di essere una persona estremamente cattiva, che alcune volte le cose che scrivo fanno sentire male pure me, ma quell'abbraccio ve lo dovevo. Se lo meritano, quei due.
E il rapporto tra Ashton e Luke mi sembra di averlo interpretato nel modo che volevo, da una parte fraterno, dall'altro segnato dalla mafia.
E infine l'aspetto più triste: Michael. Mi dispiace. Sì, perché alcune volte la fortuna non sta dalla tua parte, e lui ne è un esempio.
Non devo dire nient'altro, solo che il pc mi si è spento mentre scrivevo e mi si sono cancellate un sacco di cose, quindi mi dispiace se troverete degli errori :)
Ciao belle, Nali.

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Capitolo 17
*** We can't lose each other. ***


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Che cosa si fa, quando le persone ti strappano le armature di dosso, e ti scorticano la pelle, fino a vedere cosa c'è sotto? Che cosa si fa quando le facce che vedi attorno non sono quelle di cui ti fidi? Io proprio non lo sapevo. Non avevo nemmeno la forza necessaria per pensarci sul serio. 
Era accaduto così, qualche giorno prima. Era successo che Michael fosse sparito, quella notte dell'Atto di chiamata in causa. Ed io me lo ero andata a riprendere. L'avevo cercato al parco del cimitero, e l'avevo trovato lì, sdraiato su una panchina, col viso rivolto verso le stelle. 
«Che fai, pure il barbone ora?» avevo incalzato.
«E' la perdizione, Becky, la perdizione...» borbottò, assortito.
A quel punto mi avvicinai e lo strattonai fino a metterlo seduto.
«Andiamo a casa, ché fa un freddo cane.»
Il problema era ciò che sarebbe accaduto, in quella casa. E a pensarci mi viene quasi da ridere, osavamo dare quell'appellativo a due camere messe in croce. Ma ci bastavano, questo era ciò che contava.
Alla fine le parole mi uscirono un po' uguali alle stesse che avevo pronunciato a Luke, tempo prima. 
Mio padre abusava di me.
Michael per poco non ci restò secco, e poi iniziò a piangere come un bimbo col moccio al naso. Non sapevo cosa fare di preciso. Gli dicevo di smetterla, ché tanto non l'avevano mica fatto a lui. Che era stato tempo fa, e che non avevo avuto il coraggio di dirlo a qualcuno. Poi era arrivato il momento in cui mi abbracciò forte, con possessione. Come a marchiare il territorio. Come a marchiarlo per l'ultima volta.


Alle cinque di mattina, Michael, sette giorni più tardi, si svegliò di scatto, facendomi prendere un colpo. Non era suonata nessuna sveglia, aveva fatto tutto da solo. Aveva dormito con una sola canottiera, eppure pareva essersi fatto un viaggio nel deserto in pieno giorno. Col viso perlato di sudore, se ne stava seduto sul letto, imbambolato a fissare qualcosa di non identificabile davanti a sé. 
«Michael, che c'è?» gli chiesi. 
Si girò subito, spaventato della mia voce. Aveva un affanno incredibile, manco avesse fatto una maratona, e il petto che si alzava e abbassava velocemente. Gli occhi sgranati, la bocca semiaperta, le mani scivolose per il sudore. Michael stava diventando un pazzo. 
«Oh, ma ci sei?»
«Ho fatto un brutto sogno» spiegò. 
«Alzati, bevi un po' d'acqua. Cazzo, hai svegliato anche me.»
Annuì impercettibilmente, tirò su la tapparella e uscì in balcone. Provai a richiudere gli occhi, ma l'odore di fumo che mi invadeva le narici mi teneva sveglia. 
Dal balcone poi comparve Michael e «Ti ho sognata, Becky» mi disse.


Non avevo idea di quanto tempo fosse passato, sapevo solo di essermi addormentata un'altra volta. E, quando riaprii gli occhi, Michael era seduto sulla poltrona che stava davanti al televisore. 
«Che ore sono?»
«Le sette e mezza.»
Mi tirai su e fissai il mio migliore amico.
«Come stai?» gli chiesi. 
Se ne stava ancora lì in canottiera e boxer, nonostante il freddo che ti ghiacciava. 
«Sto» rispose. 
«Mettiti qualcosa addosso ché sennò ti prendi un malanno» provai ad avvertirlo, alzandomi dal letto. Entrai poi in bagno e, quando uscii, Michael era ancora lì, ad osservare chissà cosa. 
«Ho sognato che ti venivano a prendere. Di notte.»
«Michael...»
«No, aspetta» mi interruppe. «Io dormivo, ma riuscivo a vedere tutto. Eppure non ero in grado di muovermi, di mandarli via. Ti hanno presa, ma giuro, io ci ho provato a fermarli.»
Adesso Michael sembrava un bambino indifeso, a cui bisognava spiegare che i sogni erano sogni e basta e non appartenevano alla realtà. 
«Smettila di fare il pazzo» tagliai corto io, andando a preparare lo zaino. 
Dieci minuti dopo, Michael si era fatto altri mille giri della stanza, probabilmente aspettava che io gli dicessi di fermarsi, ma volevo vedere fino a quanto avrebbe continuato. 
«Che fai, non vieni a scuola?» gli domandai. 
«No, non mi va.»
Cercai di chiudere gli occhi, di respirare e levarmi quella rabbia di dosso. Cercai di strapparmi dal petto quel peso che sapeva di odio e di tristezza, ma non ci riuscii. 
Allora mi risedetti sul letto, lanciando a terra lo zaino. L'impotenza che avevo su di lui faceva male, ma non importava, si soffriva insieme. 
«Allora resto con te.»



Era pomeriggio quando sentimmo il citofono suonare. Eravamo estraniarti dalla vita sociale, così tanto che quel suono ci fece sobbalzare. Mi alzai e risposi. 
«Sono Luke, esci» disse, deciso. 
Risentire la sua voce dopo una settimana faceva uno strano effetto. 
«Cosa stai dicendo?»
«Dobbiamo andare al carcere, se ti ricordi.»
«Vai tu, io non ne ho voglia.»
«Rebecca, scendi.»
Mi appoggiai al muro, posando una mano sulla fronte. Luke era fastidioso, quel modo di imporre ciò che voleva mi faceva incazzare. 
Poi dalla strada, proprio sotto la mia finestra, «Vai sul balcone!» si mise ad urlare. 
Michael si girò a guardarmi, confuso. «Lascia stare» gli dissi ed uscii. 
Luke era lì, in mezzo alla strada, col viso rivolto verso l'alto. Verso me. 
«Se non vieni giù, ti vengo a prendere io!»
Mi chiesi che cazzo si gridasse, perché dovesse essere così coglione, mentre alcuni studenti si affacciavano alle finestre. 
«Cosa diamine vuoi?»
«Che tu esca da quella stanza. Dai, che facciamo tardi» mi spronò. «Ok, salgo.»
A quel punto mi riscossi e «Va bene, va bene. Scendo, stai lì, adesso arrivo» dovetti accontentarlo. Non volevo che vedesse Michael, mi sarei sentita male al posto suo. Che anche se non me l'avevano detto, avevo un'idea vaga del perché si fossero pestati. 
Così rientrai in stanza e dovetti comunicarlo al mio migliore amico, che adesso era più vigile e attento di quanto non lo fosse stato in quegli ultimi giorni. «Te ne vai con lui?» s'informò, con fare accusatorio. 
«Devo andare a volontariato. Non voglio sentire niente» chiusi il discorso, col mio solito atteggiamento da arrogante. 
Ero sulla soglia della porta. Stavo aspettando la frase di Michael, quella che avrebbe continuato la discussione, la stessa che ci avrebbe portati a litigare. Invece non sentii niente, se non un «Perfetto» che usciva piano da quelle labbra quasi rosse. 
Non riuscii a voltarmi, perché mi avrebbe uccisa e tirata giù, sempre più giù. Chiusi la porta, con la mano tremante. 
Il silenzio faceva paura.


Non ci salutammo, non ci parlammo. Luke si limitava a fissarmi, mentre raggiungevamo la fermata dell'autobus. Ovviamente mica lo pagavamo il biglietto, facevamo finta di timbrarlo. Il viaggio non lo sentii nemmeno, il traffico sembrava essersi dimezzato. Quando arrivammo, Luke non fece una piega appena vide il carcere. Aspettai che finisse di fumare la sigaretta, e poi entrammo. Stesse procedure, ma questa volta senza nessuna psicologa accompagnatrice. 
«Che facciamo?» intervenne Luke.
«Io direi di chiedere a qualche guardia. Ci siamo decisamente persi.»
Sbuffò, dirigendosi verso una guardia, e poco dopo ci condusse verso il bancone dell'altra volta. Ad aspettarci lì, c'era già una signora abbastanza giovane, sulla trentina, e minuti dopo scoprimmo essere la psichiatra. Si chiamava Margherita, un nome italiano, ed aveva due smeraldi al posto degli occhi.
Stavamo salendo le scale quando «Sta bene il tuo amico?» mi chiese, sottovoce. 
«Tranquilla, è proprio così» le dissi. 
Rise, Margherita, senza sapere che in realtà ci sarebbe stato da piangere per quel ragazzo senza nessun tipo di ideali. Mi girai per dargli un'occhiata, e quella guardia dietro di lui fu una scena che mi fece quasi stringere lo stomaco. Cercai di far finta di niente, entrando in una stanza enorme, con una serie infinita di tavoli. La mensa. 
Imbucammo poi una porta più piccola, connessa alla mensa, ritrovandoci direttamente nella cucina. Giurai di non averne mai vista una così grande in vita mia. Gli stessi detenuti dell'altra volta si trovavano già lì, con due guardie a girovagarli intorno e le cuoche ad insegnar loro qualche piatto. 
«Ciao Becky» mi salutarono. Sembravano felici di rivedermi lì, e questo mi lasciò perplessa. Ricambiai con un sorriso e «Come possiamo aiutare?» domandai.
«Vorremmo provare a cucinare delle lasagne!» affermò Margherita. 
Non avevo mai preparato niente prima d'ora, non avevo idea di come si prendesse in mano una sola padella e non era mia intenzione dare fuoco all'intero carcere. Ma annuii. 
Prendemmo delle teglie enormi e cominciammo il nostro lavoro. Eravamo come delle squadre, e tre detenuti aspettavano di fianco a me che io dettassi la ricetta per iniziare. In realtà, ciò che in fin dei conti feci, fu copiare spudoratamente i gesti che Luke, a qualche metro di distanza, stava facendo. Luke ai fornelli faceva ridere: qualcosa di stranamente irripetibile.
«Sei brava!» mi disse il ragazzo che mi aiutava. Non mi ricordavo il suo nome, e non riuscivo nemmeno ad immaginarmi come avesse potuto ridursi così. 
«Grazie.» Mi presi il merito, anche se non avevo idea di cosa avessi cucinato. 
Mi distrassi per qualche secondo e, quando mi girai per osservare l'ultimo passaggio, le lasagne di Luke non c'erano più. Già in forno. Guardai la mia lasagna e mi sembrava finita, eppure qualcosa bisognava pur fare prima di metterla a cuocere. 
I tre detenuti che in teoria avrebbero dovuto darmi una mano erano messi peggio di me, quindi pensai di aggiungere un ingrediente a caso, quando «Faccio io» intervenne Luke. 
Prese il formaggio, cospargendolo sopra, mentre io lo osservavano scioccata. Feci un passo indietro, lasciando a lui il compito di finire tutto e, dopo che la mise in forno, «Fai un po' schifo come cuoca» commentò. 
«Ti ringrazio.» Lo guardai irritata, ma in realtà ero ancora sorpresa per il gesto di prima. Non riuscii a ringraziarlo sul serio, non lo si riusciva a fare con le persone come Luke.
Un'ora dopo, quando le nostre lasagne erano pronte, le cuoche ci aiutarono a dosarle e a distribuirle. In mensa c'eravamo solo io, Luke, la scorta, la psichiatra e una decina di detenuti. 
Gran bella cena di famiglia, pensai. 
Luke, senza dire niente, tirò indietro la sedia che stava davanti a me e ci si sedette. Quel giorno non avevo voglia di fare nessuna domanda, così non dissi niente. Ma il fatto che cercassimo di starci il più lontano possibile e poi ci ritrovassimo sempre vicini mi lasciava un po' stranita. 
Si mise il vassoio davanti e cominciò a mangiare. Io feci lo stesso. 
«Dove sei sparita in questo ultimo periodo?» chiese, senza alzare la testa. 
«Non sono sparita. Stanza 36, secondo piano, Due. Ero lì» risposi, con noncuranza. 
«Se ti sembra normale...»
«Non mi andava di uscirmene da lì. Preferivo stare con Michael.»
A quel punto, Luke alzò la testa e mi guardò, con quello sguardo da stronzo patentato. «Ma Michael usciva dalla stanza.»
Sbuffai, senza rispondergli, continuando a mangiare. Ogni tanto annuivo alla psichiatra, chiacchieravo con i detenuti, ma Luke restava lì e la sua presenza era tremendamente ingombrante. 
Tra una parola e l'altra, «Gliel'hai detto?» sentii Luke domandarmi. 
Mi raddrizzai subito, restando con la forchetta a mezz'aria. «Cosa?»
Luke mi lanciò un'occhiata d'intesa, facendomi capire che la risposta non poteva essere detta. Un po' per noi, un po' per le persone intorno a noi. 
«A Michael, intendi? Beh, sì.»
«Come ha reagito?»
Mi strinsi nelle spalle. «Ha pianto un po'. Poi l'ho calmato.»
Lui non rise, non la prese con leggerezza. Rimase serio. 
«Mi dispiace che sia saltato fuori così, in fondo te lo tenevi dentro da un po'...» ragionò, più tra sé e sé che con me. 
«Doveva comunque venire fuori la realtà.»
«Ragazzi, avete finito?» Ci girammo, rendendoci conto che non ci fosse più nessuno, e che l'unica presenza lì fosse Margherita. 
Ci perdevamo anche da soli, tra di noi.

Gli ultimi minuti li passammo giocando a calcio. O almeno, io stetti in disparte, Luke si era proposto di coprire il mio ruolo. Non era lontanamente bravo, infatti «Ci sarebbe dovuto essere Ashton qui» aveva detto. Ma tanto i detenuti non avevano neanche un po' di forza in quelle gambe, l'eroina ti mangiava anche le ossa. 
«Non c'è oggi Avril?» chiesi alla psichiatra. 
In un primo momento mi guardò, un po' confusa. «Non pensavo l'avessi già conosciuta! Comunque no, ogni tanto resta qualche giorno a Melbourne, poi torna.»
Annuii, distrattamente, pensando che Melbourne fosse parecchio lontana. Poi, proprio mentre Luke s'impossessò della palla, «E' un bravo ragazzo, Luke» affermò Margherita. 
Non volevo fare nessuna smorfia che contraddicesse quella sua frase, così rimasi completamente immobile. «Perché dici questo?»
«Non saprei, si presenta come se fosse un ragazzaccio, e poi fa di tutto per farti sentire a tuo agio. Siete per caso fidanzati?»
Per poco non mi andò giù di traverso la saliva. Sentii un calore salirmi in faccia e «No, no» mi sbrigai a rispondere. «Siamo solo in classe insieme.» Proprio mentre dicevo quella frase, mi accorsi di aver mentito. Io e Luke condividevamo sguardi, segreti, parole mai dette, una notte passata a piangere uno davanti all'altro.
Margherita sorrise. «Sono sicura che col tempo riuscirai a tirargli fuori allo scoperto la parte buona.»
Il suono di una campanella si espanse per tutto il Lightow, le teste si ritrassero dalle finestre, la palla si fermò. Luke camminò verso di me.
Appena uscimmo dal carcere, ci dirigemmo verso la fermata e salimmo sull'autobus una manciata di minuti più tardi. Non appena ci fermammo in centro, Luke prenotò la fermata, mi afferrò il braccio, cogliendomi di sorpresa e mi tirò giù -letteralmente- dall'autobus. 
«Cosa Cristo ti prende?!» gli urlai addossò, attirando gli sguardi dei passanti. Non eravamo nel vicolo della Uno e della Uno. Eravamo in centro, era ovvio che le persone non fossero abituate. A Luke venne da ridere e, di conseguenza, risi anche io. 
«Non vedi? Viene da ridere anche a te per i tuoi attacchi di rabbia!» disse, cominciando a camminare e a guardarsi intorno. 
Scossi la testa, un po' a marchiare quanto fossimo cretini. Gli arrivai di fianco, ricordandomi di esserci stata solo due volte, in quel centro. Ed entrambe le occasioni con Luke.
«Seriamente, dove stiamo andando?»
Nel frattempo si accese una sigaretta, attraversando la piccola piazza e imboccando la via a sinistra. «C'è la fiera di Sefton, oggi. Tirarti fuori da quel buco di camera e portarti qua ti farà bene.»
Non dissi niente, cominciando ad intrufolarmi nella folla, in quella strada contornata da bancarelle che vedevano una quantità svariata di prodotti. Quando mi stavo per perdere, sfumata tra tutte quelle persone, Luke mi strinse la mano. C'era una differenza allucinante tra la sua mano calda e la mia congelata, ma fece finta di niente, stringendo la presa. La fiera continuava fino alla parte bassa della città, attraversava le vie illuminandole e riempiendole di profumi tutti differenti. Luke sembrava sereno, lì con me, per una volta lontano dalla realtà. 
Io volevo bene a Luke. Me ne accorsi quel pomeriggio. Me ne accorsi perché mi rendeva felice mentre rideva, mentre mangiava caramelle comprate in una bancarella, mentre diceva che bere birra per accompagnare il gusto dolce delle caramelle era un segreto culinario fantastico. Me ne accorsi perché, nonostante sapessi che fosse una cazzata, lo assecondavo. Mano nella mano. Che se ci perdevamo noi, in mezzo a tutta quella merda, allora era finita. Ma no, noi due c'eravamo, non ci perdevamo. Noi combattevamo.
Riuscimmo ad uscire dalla folla solo quando arrivammo nella parte bassa e, passo dopo passo, lasciandoci dietro la musica, il vociare, i profumi. Col tramonto davanti a noi, camminavamo verso casa. Tra un sorso di birra e l'altro, «Le feste di paese sono terribilmente scadenti, l'ho fatto solo per te» mi confessò. 
«Vorrei che fossi sempre così» ammisi, invece, io. 
«Io sono sempre così. Ma se tu mi urli addosso mi viene un po' difficile.» Si allontanò un attimo per lasciare la bottiglia di vetro al bordo della strada e mi raggiunse. 
«Perché la maggior parte delle volte fai delle cose che mi fanno incazzare. Sei una testa di cazzo, e non hai il diritto di controbattere. Non dare tutta la colpa me» mi difesi. 
Luke mise su un'espressione da sto zitto e ti assecondo, ché tanto vuoi sempre averla vinta tu.
Camminammo fino a quando non vedemmo la Uno e la Due, due edifici che stonavano con tutto il resto della città. Tutto sembrava essere fuori posto con loro, tranne quella struttura enorme più in là, a forma piramidale, con dei gradoni enormi e con l'arancione spento a padroneggiare. 
«Un giorno voglio andare là» annunciai a Luke, indicandogliela.
Si fermò un attimo sul posto e poi tirò dritto. Io lo seguii. «Non ci pensare nemmeno» mi avvertì. «Devi lasciare perdere, lì non ti devi manco avvicinare. Me lo devi promettere, Rebecca.»
«Va bene, te lo prometto, ma stai calmo!»
«Sono calmissimo, eh. Dai, vai in stanza, Michael si starà preoccupando.»
Sbuffai e «Mi dici almeno se ce l'ha un nome quella cosa?» chiesi.
Luke ci pensò su un attimo. «“il mostro”, così la chiamiamo.»
*
Avevo salutato Luke. Avevo inserito la chiave nel portone ed ero entrata, ché tanto ad aspettare Michael che mi aprisse sarei rimasta lì ad invecchiare. Due rampe di scale, una più irritante dell'altra. Ad ogni piano, diversi rumori, diverse voci. La solita camera sulla destra con la musica di un rapper francese, la solita camera con la telecronaca di una partita di calcio che penetra la parete e si diffonde per tutto il corridoio. 
E poi la camera 36. 
Quella più silenziosa quando la sottoscritta non c'era. Ma quel giorno, troppo silenziosa. Impugnai la maniglia, spinsi e la trovai chiusa. Così la aprii con le chiavi che non avevo ancora rimesso in borsa e... Nessuno. Non c'era nessuno. 
In quell'istante iniziò a squillarmi il cellulare. Guardai chi fosse: mia madre. Rifiutai la chiamata e cominciai ad incazzarmi. Aprii la porta del bagno, guardai in balcone e Michael non c'era. Magari aveva iniziato a fare come tempo fa, che spariva in continuazione. Magari sarebbe tornato di lì a poco, sì. Mi sedetti sul suo letto, e vidi il suo comodino completamente vuoto. Niente cellulare, niente calze sporche, nessuna boccetta di profumo. Immediatamente, guardai il pavimento. Il panico mi salì quando non vidi i suoi vestiti a terra.
Adesso si trattava solo di fare l'unica cosa che avrebbe messo fine a tutto: guardare nell'armadio. Se le cose di Michael ci fossero ancora state, tutto ciò sarebbe stato solo un'inutile mia paranoia. Mi alzai, tremante. Ricordo che restai davanti a quell'armadio per un altro po', per accumulare più sicurezza, per essere certa che avrei assorbito anche questa cattiveria. Ma poi dovetti per forza aprire le ante.
E dentro vidi solo i miei vestiti. Tra le costole mi si aprì una voragine. Nel ripiano sopra c'era una sua maglietta, quella con la scritta idiot in rosso, la stessa che aveva indossato quel giorno d'estate in cui tutto era cambiato. Come a lasciarmi un qualcosa di lui, l'ultimo pezzo. So solo che la presi, quella maglietta, e me la portai al viso. Per allontanare un po' il momento in cui mi sarei dimenticata del suo profumo, per consolare il mio corpo tremante. So anche che la mia schiena strisciò contro il legno dell'armadio e mi accasciai al pavimento. Rimasi così per tanto tempo, forse troppo.
Michael se ne era andato. 




Hei people!
Nali is back, again.
Come state? Dopo una settimana sono ancora qua, giusto per rompervi ancora un po'. Sono contenta dell'amore per 24 carati che state mostrando, vi ringrazio tantissimo.
Passando al capitolo: è spaccato in due, c'è la parte "felice" e quella "triste". Va un po' così. I passi in avanti con Luke, quelli indietro con Michael. Non mi dilungo, nel prossimo capitolo ci sarannno delle conseguenze in base alla fine del capitolo. 
Vado ringraziandovi, alla prossima! :)
//Nali

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Capitolo 18
*** Burning in hell. ***


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C'era buio. Un buio che inghiottiva e non restituiva, ed io desiderai tanto restarci, lì dentro, senza vedere niente. Non avevo la vera consapevolezza che stessi esistendo ancora, senza una parte che mi si era incastrata dentro. Michael. E adesso quel pezzo bruciava, anche se non c'era, ed io volevo solo soffocare le urla. Alcune volte va così, ci fa più male l'assenza delle cose. 
Poi ciò che sentii furono delle braccia intorno a me, braccia che mi sollevavano dal pavimento e che mi facevano solo venire voglia di piangere. Ma non era mia intenzione farlo. Mi sentii sospesa per un altro po', vidi con gli occhi socchiusi la luce lontana e opaca del corridoio, e poi ancora buio. Le braccia impegnarono poco tempo ad armeggiare con porte e serrature, perché mi sembrarono passati solo alcuni secondi, prima di sentire una superficie soffice sotto di me. 
«Vuoi qualcosa da bere?»
Io quella voce la conoscevo. Apparteneva a Calum e quella notte mi metteva solo una gran voglia di frignare e non finire più. 
Annuii debolmente e tentai di vederci qualcosa, in mezzo a quell'oscurità. Era davanti a me, con le mani premute sul materasso, e cercava di scorgermi più dettagliatamente. Captò il mio cenno, andando a prendermi qualcosa. Mi porse una bottiglietta d'acqua, e bevendo mi accorsi di quanto la mia gola fosse secca. Che quasi mi bruciò, quel liquido così fresco. A quel punto, tentai un'altra volta di guardare Calum. 
«È tardi» affermò. Ma io lo sapevo già. «Hai bisogno di dormire.»
Se avessi avuto un po' di forza, gli avrei detto di smetterla di parlare. Perché era fottutamente triste, il tono di voce che usava.
La voce di uno che ha appena perso qualcosa. 
Ed io non volevo sentirla, non volevo che quei vestiti mancanti nell'armadio concretizzassero il loro significato. Volevo tenerlo per me. Michael se n'era andato solo nella mia testa. 
Gli porsi la bottiglietta e mi rannicchiai sul letto. Come a proteggermi da tutto il resto, perché ogni cosa, quella notte, mi sembrava volermi uccidermi. Non dovevo fidarmi di niente e nessuno. 
Poco dopo percepii delle mani che mi posavano le coperte sul corpo, coperte gelate che mi fecero tremare. E poi il materasso si abbassò e Calum si sdraiò accanto a me. 
«Buonanotte» disse. Mi girai un attimo, piantandogli gli occhi addosso: il braccio piegato che finiva sotto la testa, lo sguardo rivolto verso il soffitto, la mente altrove. 
«Cal.»
«Non dirlo, lo so già, non-»
«Abbracciami, stanotte.»
Allora si fermò. Sbloccò quello sguardo appiccicato al soffitto e si voltò verso di me. Non glielo avevo mai chiesto. 
Con dei colpi di reni mi si avvicinò e subito mi strinse a sé. Ancora quelle braccia che mi facevano bene e male allo stesso tempo. Ma io volevo restare viva, quella notte, volevo provare qualcosa. Che fosse dolore, questo non mi importava. 
E poi ancora buio, le palpebre pesanti, le lacrime agli angoli degli occhi, il respiro di Calum sul collo e lui no. 
Michael no, non c'era in questa serie infinita di cose.


La lotta dei contrari. Così Eraclito la chiamava, quella guerra che avveniva tra due elementi che volevano sopraffarsi. Uno nasceva, l'altro moriva. E poi ricominciava tutto da capo. Il giorno aveva sopraffatto la notte, me lo confermava lo spiraglio di luce che cercava di farsi strada dalla finestra.
Era successo così un po' anche a me: la rabbia aveva sopraffatto la tristezza. Aprii gli occhi, provai a stiracchiarmi e controllai alla mia destra. Calum era ancora lì, che dormiva ancora. Probabilmente durante la notte era riuscito ad allentare la presa e ad allontanarsi.
Mi misi seduta sul materasso e andai nella camera 36 per recuperare il cellulare, per poi tornare nella 38. Guardai l'orario ed erano le 10:37 di un sabato privo di senso.
La prima cosa che feci fu uscire sul balcone per chiamare mia madre. Con lei non bisognava mai arrendersi, nemmeno dopo dieci squilli. Bisognava insistere fino alla fine, ché ormai i suoi cinquantatré iniziavano a farsi sentire e ci metteva parecchio ad accorgersi della chiamata.
«Pronto?» finalmente rispose. 
«Ciao, mamma. Sei al lavoro?»
«Dio mio, quant'è che non ci sentiamo, Rebecca? E no, non sono al lavoro, ma ci sto andando. Tu, piuttosto? Che stai combinando?» 
Puntai lo sguardo sulla Uno. Le finestre mezze aperte e mezze chiuse, il muro che quasi si sbriciolava.
«La scuola va un po' così. Non mi è mai piaciuto studiare.»
Non le interessava sul serio. Non le era mai importato. 
«E quel ragazzo? Come sta?»
Gli occhi mi si fermarono su quella stanza. Quella di Luke.
«Sta bene. Tutto a posto.»
Riuscii ad udire la portiera della macchina che si chiudeva. Me la immaginai mentre si allacciava la cintura e dava un'occhiata allo specchietto.
«Senti, ma che ci faceva ieri Michael in quartiere? L'ho visto attraversare la piazza da solo.»
Mi sentii una totale deficiente ad aver provato a rifiutare la realtà. Michael non era più qui. Era tornato a casa. Deglutii piano, cercando di tenere salda la presa al cellulare. 
«Che ne so, gli sarà venuta voglia di tornare. Chi se ne frega.»
Sentii mia mamma sospirare. Alcune cose le capiva bene, sapeva che la mia rabbia fosse una copertura per dissolvere il dolore. D'altronde, mi aveva fatta lei. 
«Adesso devo andare, non voglio rischiare nessuna multa. Mi ha fatto piacere risentirti, qui in paese mi chiedono tutti di te. Ci sentiamo appena puoi, eh?»
Chi cazzo se ne frega di quelli in paese. Fu questo ciò che pensai, prima di «Va bene, ciao mà» dirle. 
E poi lo sguardo mi ricadde nelle chiamate recenti, in cui il nome di Michael non c'era. Semplicemente perché prima era qui, e non c'era bisogno di usare uno stupido cellulare. 
Così mi decisi e lo cercai nella rubrica. Mi dissi che solo un coglione sarebbe rimasto nel silenzio solo per orgoglio. E, con questo pensiero nella testa, feci partire la chiamata. Non contai gli squilli. So solo che ad ognuno di essi sentivo sempre di più il mio stomaco accartocciarsi. Poi, con la voce assonnata, rispose. 
«Oh.»
Sempre così. Con il fare di uno che è nato e cresciuto in strada, e le maniere le ha imparate solo da lì. 
«Dove cristo sei.» Quel tono lo avevo imparato da Luke. La domanda senza la vera intonazione, carica e piatta allo stesso momento.
Lo sentii schiarirsi la voce, e poi «A casa» rispose. 
«A casa» ribadii io, ridendo fintamente. Lo stavo prendere per il culo alla grande. «Anche io sono a casa e oh, non dirmi, mi sembra di non averti visto.»
«La Due non è la mia casa» affermò, atono. Scontato e cattivo. 
Avevo un difetto ed era quello di non saper gestire la rabbia. Così cominciai a camminare ripetutamente sul balcone, con la mano che sudava attaccata al telefono. 
«Non me ne frega un cazzo di ciò che hai da dire. Ti ho chiamato solo per vedere se fossi ancora vivo, giusto per sapere che potrò ammazzarti io. Perché appena ti vedo ti spacco il culo, Michael, e non me ne importa delle difese che prenderai, io non voglio sentire niente. Stavolta non te la perdono. Lo so che gli stronzi ci nascono così e ci rimangono, ma non pensavo arrivassi a tanto. Arriverà il giorno in cui non me ne fregherà più, perché te lo meriti. Te lo meriti.» 
E attaccai. E non piansi. Non lo feci per me stessa, perché mi imposi di uscirne viva da tutto ciò. 
«Dai, torna dentro.» 
Mi girai e trovai Calum appoggiato allo stipite della finestra che dava sul balcone. Non l'avevo mai visto così assonnato. Ci guardammo in silenzio, sperando che nessuno accennasse a niente. Ma poi cedette. 
«E' inutile prendersela tanto e urlargli addosso» disse. 
«Lo so» proferii, convinta. 
«E allora torna dentro.»
Rientrai in camera e mi resi conto di quanto fossi incazzata. Perché non stavo urlando e fuori ero apparentemente calma. 
«Andiamo a fare colazione al bar qua vicino?»
Annuii e andai nella mia camera, quella che un tempo era anche di Michael, e mi preparai. Dieci minuti dopo io e Calum eravamo già in strada, con le mani nelle tasche e i tratti del viso duri. Ce n'erano capitate, a me e a Cal. Ma mai avevamo perso così tanto. 
Afferrò la maniglia della porta vetrata del bar e aspettò che anche io entrassi per richiudersela alle spalle. Un campanello che segnava il nostro arrivo suonò. 
«Buongiorno» trillò il signore che stava dietro al bancone. 
C'erano Luke, Ashton, Mef e Val in un tavolo all'angolo del bar. Io e Calum non rispondemmo al saluto dell'uomo e non ce la sentimmo di salutare quei quattro. Ci dirigemmo al bancone e capii ancora di più quanto stessi di merda quando ordinai un cappuccino e una brioche. Perché solitamente, quando Michael me ne faceva una, non ci riuscivo proprio a mangiare. E questa volta invece lo feci, forse per dimostrare che io volessi essere più forte. Volevo sapere che non mi potesse distruggere a tal punto. 
Il moro non disse niente, non voleva rovinarmi questa convinzione. 
«Pensi che tornerà?» gli chiesi, mentre sorseggiava il suo caffè. 
Poggiò la tazzina nel piattino e «Quando si renderà conto che senza di te non ci sa stare» rispose. 
Lo sapeva anche lui.
«E secondo te perché l'ha fatto?»
Smise di guardarmi in faccia, a quel punto. Fissava le vetrate del bar e la gente che camminava per la strada. «Dovresti chiederlo a lui. Io ne so quanto te.»
«Va bene, fatti suoi. Si arrangia.»
Calum era buono e non ce l'avrebbe mai fatta a rispondere ad un'affermazione simile a quella. Non voleva infamare nessuno, né darmela vinta. Poi una figura si affiancò al moro. Piantò i gomiti sul bancone, intrecciò le dita delle mani e voltò il capo per guardarmi. Era Luke, anche lui aveva saltato la scuola e a me non importava niente.
«Che si dice?» esordì, tranquillamente. 
Anche Calum si girò a guardarlo e «Giorno di merda» lo informò. 
«Ahia» fece Luke, intuendo il nostro o, meglio, il mio stato d'animo. «Che fa, Michael dorme ancora o fa il buon ragazzo e va a scuola?»
«Michael fa il figlio di puttana e ci manda a fanculo tutti quanti» precisai io. 
Il biondo corrugò la fronte. 
«Michael se n'è andato» gli spiegò Calum. 
A quel punto Luke capì e mi guardò meglio e probabilmente ci vide tutta la rabbia mischiata alla tristezza e «Dove?» domandò.
«A casa. Stanotte.» 
«Bisogna capirlo, però» disse. 
Indurii lo sguardo. «Non c'è da capire proprio un cazzo.»
«Rebecca, noi lo sappiamo ciò che aveva dentro. Non fare la stronza» mi riprese Luke. 
«Non voglio sentire niente. Voglio solo il silenzio. Cal, andiamocene.»
«Cos'ho fatto, stavolta?» quasi urlò, esasperato.
«Niente, Luke. Non ce l'ho con te. E' solo un momento no.»
Sospirò, forse dandola vinta a me. «Ok, ma tieni d'occhio il tuo cellulare.»
Annuii. Desideravo solo uscirmene da lì. Poi, quando io e Calum ce ne stavamo andando, mi sentii uno sguardo bruciarmi addosso. Mi voltai, cercando di non attirare troppe attenzioni, e incontrai uno sguardo. 
Quello di Mef.

Io e Calum avevamo provato a stare lontani dalla Due il più possibile. Restammo metà pomeriggio sdraiati sul prato del parco del cimitero, sembravamo confonderci coi morti che avevamo dall'altra parte della strada. In realtà c'eravamo anche addormentati, avevamo fumato una quantità indefinita di sigarette e poi, ad un certo punto, mi ero alzata e avevo detto: «Alziamoci, sembriamo due rincoglioniti». 
Allora ce ne tornammo in camera, ma nella 38. Non nella 36, che sapeva ancora di Michael e della sua maglietta poggiata sulla poltrona. 
Fu lì che ci facemmo portare due pizze e che mi arrivò questo messaggio.
Stasera ti va di trovarci a Lo Spazio? Ci saranno anche tutti gli altri, se ti va porta anche Calum.
Guardai il moro, con uno sguardo scocciato. 
«Luke ci ha invitati ad andare a Lo Spazio. Abbiamo seriamente voglia di prendere la metro e immischiarci là dentro?» gli domandai. 
Calum si strinse nelle spalle e «Potrebbe distrarci un po'. Ma dipende da ciò che vuoi fare tu» asserì, alzandosi e andando a buttare il cartone della pizza.
Ripresi il cellulare e “Ci saremo, ma a patto che tu riesca a tenere sobrio Calum. Io non ho voglia di stargli dietro tutta la sera” digitai.


Non avevo mai visto così tanta gente a Lo Spazio. Ad entrare fu già un disastro, Luke dovette avvisare il proprietario per farci passare senza morire asfissiati lì in mezzo. Di sotto c'erano già i ballerini, quelli che si sfidavano a colpi di passi di hip hop. Luke non era lì. 
Mi aggrappai al braccio di Calum per non perdermi, sperando avesse intravisto qualcuno di familiare e mi affidai a lui. Salimmo le scale, con la musica così alta da non sentire nient'altro, e improvvisamente mi venne in mente la prima volta, quando con me c'era ancora Michael. Con sotto la musica martellante di Lip Gloss, seduti al tavolo che adesso potevo anche vedere. Lo guardai, proiettando nella mia testa la scena di quei giorni fa. 
Non è vero che fece male. 
Allargò solo un po' di più la voragine che mi si era aperta nel petto. 
«Ciao, diavolo!» Mi girai, sentendomi strattonare dalla manica della felpa. 
Adesso Michael non c'era più, nella testa c'erano solo gli occhi vispi di Luke e le sue labbra lucide dall'alcool che aveva appena ingerito. 
«Ma sei coglione?» lo apostrofai, dovendo per forza urlare per farmi sentire.
Non ci badò e si spostò più a sinistra per farmi spazio. Calum si sedette davanti a Luke e tirò un sospiro di sollievo. 
«Se non avessi chiesto di farti passare, saresti ancora laggiù a morire» mi fece presente, con la faccia stronza e consapevole. 
«Deficiente, non afferrarmi così, la prossima volta. Mi fai spaventare.»
Al tavolo c'erano tante persone. Tra quelle, anche Beau e Daniel, i compagni di classe di Michael. 
Mi imposi di non alzarmi e di non chiedere loro niente, riguardo a lui. Se magari a loro avesse detto qualcosa, se magari fosse risultato strano in quegli ultimi giorni. Lo dovevo fare per me stessa. 
Luke fece scivolare il suo bicchiere sul tavolo e me lo mise davanti. «C'hai la faccia da morto, bevi un po'.»
Glielo ripassai e «No, grazie» rifiutai. 
«Hai la testa altrove. Che ti prende?»
«Luke, non mi prende niente. Non rompere il cazzo. Non devi ballare stasera?» gli domandai, acidamente, poggiando una mano sulla tempia.
Luke si sgolò il bicchiere e «Vieni. Andiamo a ballare io e te» disse. 
Sgranai gli occhi. «Io rimango col culo attaccato qui, tu non hai capito.»
«Sei così monotona. Dai, scendiamo.» Letteralmente, mi afferrò saldamente il polso e prese a correre come uno che aveva la polizia a rincorrerlo. Ci provai, a liberarmi. Ma, anche se ci fossi riuscita, sarei sicuramente caduta. Mentre scendevamo le scale, al penultimo scalino, inciampai e potetti già sentire il sapore del pavimento in bocca. Invece tutto ciò che feci fu sentire il profumo forte di Luke e le sue braccia attorno a me.
«Ma tu, l'equilibrio l'hai lasciato a casa?» mi prese in giro, scostandomi i capelli dal viso. 
Dovevamo vederla dal lato positivo: eravamo in piedi. Cercai di risistemarmi e di districarmi dalla sua presa, ma la voglia di guardare i suoi occhi da così vicino prese il sopravvento. Alzai il viso, e il mondo si spense, dipingendosi di un grigio tristissimo, e i suoi occhi erano i soli a fare giustizia ai colori. Un oceano sporco. Un oceano che avrei voluto che appartenesse solo a me, desiderai vederli solo io, quegli occhi. Mi accorsi di averlo fissato per troppo tempo, e mi accorsi anche che Luke non avesse fatto una piega. Non mi chiese niente, non mi disse niente. Aveva solo ricambiato il mio sguardo. 
«In realtà io l'equilibrio ce l'ho, è il momento in cui mi faccio dieci scalini correndo tra mille persone che diventa un po' precario» ribattei, facendo un passo indietro. 
Luke sorrise storto, mettendo in risalto il piercing al labbro, e riprese a farsi spazio tra la gente. Lo salutavano tutti, sembravano portargli rispetto. 
«Io la amo, questa canzone!» esordì, gridandomi nell'orecchio per sovrastare la musica. 
Io manco l'avevo mai sentita quella canzone e non era nemmeno bella. Perciò lo guardai male e lui scoppiò a ridere. E io lo so, che quella risata l'avrei sentita in mezzo alla musica a massimo volume, tra la folla, dall'altra parte del mondo. 
Cominciò ad essere impossessato da quel ritmo, ed io semplicemente me ne stavo in piedi a guardarlo con un sorriso ebete. Piano piano attorno a lui si aprì uno spazio e Luke continuò a ballare, fino alla fine della canzone, con gli occhi di tutti puntati addosso. Lo faceva senza neanche accorgersene, ballava e lo sapeva fare senza impegnarsi. Quando si fermò, dalla sua espressione mi accorsi di quanto tutto questo lo rendesse felice, di quanto lo facesse sentire vivo. 
Un applauso prolungato si espanse per tutto Lo Spazio e, quando tornò da me, gli occhi di tutti si soffermarono anche su di me e Luke non se ne vergognò. «Non ti preoccupare, da queste parti si fanno tutti i cazzi loro» mi rassicurò.
«Tranquillo, non mi importa.»
Restammo lì sotto per altro tempo, tanto che riuscii a scambiare due chiacchiere con alcuni del posto, e dovetti spiegare minimo dieci volte come avessi conosciuto Luke. 
Ad un certo punto, Luke afferrò la mia mano e mi avvicinò a lui. Eravamo sudati, frastornati dalla musica e dai tanti corpi con cui venivamo in contatto di continuo. Senza dire niente, senza dover spiegare nulla, Luke aveva avvicinato il suo viso al mio ed ora i nostri respiri affannati si unirono e aumentarono di più quando appoggiò le labbra sulle mie. Fu uno sfioramento prepotente, che durò pochi istanti, perché poi si allontanò per «Fermami, se vuoi» dirmi. 
Io non risposi. Sentivo la musica ovattata, le orecchie pulsarmi e il cuore impazzire. Allora Luke mi baciò un'altra volta, facendo scontrare le nostre lingue, e continuai a ripetermi che io e Luke saremmo andati all'inferno, ma che le fiamme non mi avrebbero spaventata. Perché c'era lui con me, e andava bene così. 
Quando ci staccammo dovetti riprendere fiato, e non me ne andai come la prima volta. Ebbi il coraggio di guardare Luke con gli altri, e sentii quell'oceano un po' più mio. 
«Vieni con me» mi disse, e ci dirigemmo verso una porta bianca. Entrammo in un corridoio dalle pareti sporche, e finalmente mi sentii meno stordita. «Ho bisogno di fumare» annunciò, continuando per quelle mura in cui si affacciavano delle camere. 
«Il Tunnel Dei Morti» biascicò Luke.
«Cosa?» feci io. 
«E' il Tunnel Dei Morti, questo. Eppure adesso noi non lo siamo.»
«Me le ero dimenticate, le tue frasi da pazzo psicopatico» commentai, entrando in una stanza. 
«E' il mio camerino» mi spiegò. Da un borsone che era scaraventato a terra tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne estrasse una. 
Stavo lì a guardarlo fumare, con una musica in testa che non cessava, e mi sentivo più leggera. 
«Ti devo dire una cosa» cominciò Luke.
Mi appoggiai al muro, incrociando le braccia e facendo un cenno con la testa per dirgli di continuare. Si fece più serio e si passò una mano tra i capelli biondi. 
«Io lo so perché Michael se n'è andato» annunciò. Pregai Dio che non avesse visto il mio indecente spasmo a quel nome. «L'ha fatto per te.»
La musica che prima si faceva strada nella mia testa si bloccò e il freddo prese a farmi tremare.
«Non dire cazzate, Luke. E' già uno schifo di suo, questa situazione.»
Buttò fuori il fumo. «Me l'aveva detto. Era arrivato a non farcela più, non ce la faceva a vederci. Sapeva del bacio e credo di averlo ripagato con le botte che mi ha rifilato in corridoio. L'amore lo corrodeva.»
«E allora perché cazzo oggi mi hai chiesto dove fosse andato?»
«Perché non pensavo avesse trovato davvero il coraggio.»
«Non ci voglio credere, Luke. Non lo voglio fare...»
«E' andata così» tagliò corto lui. Mi si avvicinò e mi strinse a sé, tenendo il braccio dietro al mio collo, attento a non bruciarmi con la sigaretta. «Hai gli occhi lucidi, non voglio che piangi. Poi non mi si toglie dalla testa la scena.»
E infatti non piansi. Cercai di strapparmi di dosso l'immagine di Michael e di sostituirla con quella di me e Luke in quel camerino, sentendomi una stronza senza rivali. In quel momento non m'importò. Il dolore dopo un po' anestetizza.

Quando tornammo al tavolo, metà della gente se n'era già andata a casa. Calum era seduto e parlava con Val, discutevano e ridevano e ringraziai il cielo che qualcuno l'avesse distratto dal bere. Non volevo nemmeno immaginare cosa sarebbe successo questa volta se si fosse ubriacato. 
«E' l'una, ragazzi. Andiamo via?» propose Luke. 
Ashton, al sentire la sua voce, si girò e lo salutò. Poi annuì e Luke andò a parlare con Calum. Non avevo idea di cosa stessero dicendo, ma speravo solo che si muovessero. Poco dopo si alzarono tutti dal tavolo ed uscimmo da Lo Spazio, osservando come la città si fosse spenta sotto l'effetto della notte. 
«Ti portiamo a casa io e Ashton» m'informò Luke. Io non obiettai nulla, salutando tutti e dirigendomi nel parcheggio. Entrai in macchina. La solita Golf con cui eravamo andati dal tatuatore con Calum, lo stesso odore pungente di erba. 
«Ma è tua 'sta macchina?» chiesi. 
Ashton sorrise, furbo. «Più o meno.»
«Dai, coglione. Parti» lo schernì Luke. 
Io semplicemente scossi la testa. 

Quando arrivammo davanti alla Uno e alla Due, Ashton non uscì dalla macchina. Restò alla guida e ci salutò con un colpo di clacson che come minimo svegliò metà degli studenti rintanati nelle camere. 
«Dove va una testa di cazzo del genere a quest'ora?»
«Son fatti suoi, lascialo fare.»
Era tardi, ero stanca e non volevo discutere con Luke. Ma entrambi avevamo idea di cosa facesse di notte uno che c'entrava con la mafia. Però volevo farglielo dire e ammettere. 
«Codardo» commentai. 
«Ma sai fare la stronza anche di notte? Non ti spegni ad una certa ora?»
«Senti, vaffanculo e basta, fammi andare in camera ché così la finiamo.»
«Aspetta,» fece. «sei proprio fuori di testa se pensi che ti lasci dormire da sola nella Due.»
Mi bloccai e strinsi nella mano le chiavi del portone. Il buio ci oscurava la visuale, ma quegli occhi gli avrei sempre trovati. «Che stai dicendo?»
«Dormi con me, stanotte» affermò.
«Luke.»
«Non sto alludendo a niente. Voglio solo che tu non rimanga sola.» 
Eravamo passati dal farci male al proteggerci. Un ciclo perpetuo che speravo non finisse mai. Ferirci per poi medicarci, e poi tutto daccapo.  
Alla fine non spezzammo quel circolo vizioso: entrammo nella Uno e, senza un motivo preciso, ci facemmo le scale quasi correndo e ci ritrovammo davanti alla porta col petto che si abbassava ed alzava velocemente. Luke aprì la porta con rapidità e finalmente entrammo, percependo la differenza di temperatura. Sospirai, lasciandomi cadere di peso sul letto.
«Dove dorme Ashton?» domandai.
«Molto probabilmente con Calum» rispose, togliendosi la maglietta e sparendo in bagno. Aveva la pelle chiara. Ordinai a me stessa di non paragonarla a quella di Michael, che a volte mi faceva pensare che fosse in punto di morte. Cominciai a fissare ciò che avevo intorno, i disegni appesi al muro, il casino in stanza, i pacchetti di sigarette sparsi ovunque.
«Dai, mettiti a dormire» esordì Luke, uscendo dal bagno, ancora senza maglietta. Era completamente diverso il suo corpo rispetto a quello di Michael. Era segnato dagli allenamenti di hip hop, dalle botte che si prendeva spesso cacciandosi nei guai. 
«Non hai freddo a stare così?»
«No. Ma se ti dà fastidio, mi metto qualcosa addosso.»
«Lascia stare» conclusi. Mi rintanai sotto alle coperte e respirai a fondo un profumo da uomo. Apparteneva ad Ashton, questo era il suo letto.
Luke spense la luce ed io chiusi gli occhi. Sentivo di non essere nel mio letto. Sentivo che una parte di me non c'era. Mi rigirai tra le coperte e tentai di addormentarmi. Ma niente.
Le mancanze a tenermi sveglia. Volevano essere sentite.
«Luke» lo richiamai.
«Mh.»
Ancora con gli occhi chiusi, «Devi promettermi una cosa» asserii.
«Che c'è?»
«Devi promettermi che non mi stai nascondendo niente. Che sei una brava persona.»
«Ma come fanno a venirti in mente 'ste stronzate a quest'ora?»
«Rispondimi e basta.»
«Non ti sto nascondendo niente, e mo smettila di rompere.»
Mi sedetti e respirai a fondo. Sapevo di essere fastidiosa, a volte. Ma era un periodo in cui ogni certezza mi aveva abbandonata. «E perché ti hanno perquisito quei poliziotti e sei stato chiamato in Tribunale?» 
Luke sbuffò, si girò dalla mia parte e intravidi i suoi occhi su di me. «Lo sai, vero, che se ti bucassi uscirebbe solo veleno, da te?»
Cercai di bloccare quell'insieme di pensieri che si era impossessato della mia testa e tentai di dare un senso a quella fottuta frase.
«Io ti ho fatto delle domande, non iniziare con le tue cazzate.»
«E sai cosa, ancora?» riprese. «Ho scelto di avvelenarmi.» 
Aprii la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa. Ma non avevo più nemmeno un filo di voce. So solo che il mio stupido cuore prese a battermi, manco volesse sfondarmi la cassa toracica. Forse per la paura, forse perché quella frase era uscita dalla bocca di Luke.
«Fregatene di ciò che siamo, di ciò che abbiamo alle spalle e di ciò che abbiamo perso. Fallo anche tu, smettila con le domande, avvelenati con me.»
Mi risdraiai e non mi importò delle coperte, il freddo non lo sentivo nemmeno.
Era l'Inferno a non avere paura o noi a non averne di lui?




Hei people!
Okay, questo capitolo mi è uscito un po' strano. Non ho capito nemmeno io fino in fondo se predomini l'amore o l'odio. So solo che mi sono divertita a scriverlo e non volevo smettere più ahah
L'assenza di Michael si fa sentire, ma riuscirà Luke e colmarla? Il punto è che Michael è Michael e anche se non c'è non se ne andrà mai, ci sono pezzi suoi dentro Becky ed è davvero complicato sostituirlo. Col tempo, con nuovi capitoli, la situazione potrà o sistemarsi o peggiorare del tutto. Non voglio sembrare cattiva o sadica o pessimista, sia chiaro!
Spero di non aver dipinto Becky e Luke come una semplice coppia perché, seriamente, quelli lì sono due malati fuori dagli schemi. Spero vi sia arrivata la "diversità".
Passo ai saluti, e ringrazio tutte le persone che mi stanno dietro, seguendo questa storia e dandomi una motivazione per continuare.
Al prossimo capitolo!
//Nali


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Capitolo 19
*** Close as strangers. ***


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Every night I'm losing you in a thousand faces
Now it feels we're as close as strangers.


 
L'odore dell'asfalto caldo mi raggiunse non appena uscii dal Sefton. Era una bella giornata, quella, nonostante fosse la fine di febbraio. Luke, appena varcammo il cancello e sbucammo in strada, si accese una canna e l'odore dell'asfalto surriscaldato venne mischiato con quello dell'erba. 
«Che palle, odio quando fumi. Poi capisci meno del solito, il che è drammatico» dissi, sistemando la borsa perlopiù vuota sulla spalla. 
«Stai sempre a lamentarti» si lagnò lui. 
Erano passati otto giorni da quando Michael se n'era andato. Otto giorni in cui io e Luke attuammo un'autodistruzione reciproca, che profumava di vita e che consisteva nel baciarci quando non ci sopportavamo più, nell'accettare il mondo che a lui faceva tanto schifo: quello in cui la persona che ti salvava poi ti uccideva. 
Iniziai anche a far finta di fidarmi di lui, ed era un gran passo. Lo facevo quando la notte restava a dormire nella mia camera, non più quella mia e di Michael. Adesso apparteneva solo a me, l'avevo deciso. Lo facevo quando fingevo di addormentarmi e lo guardavo mentre restava sveglio, con gli occhi sbarrati, fissando il nulla. Lo facevo anche quando lo seguivo nel camerino de Lo Spazio, quando portavo Calum con me in presenza di Luke.
E Luke sembrava per davvero essersi avvelenato, perché non gli fregava assolutamente nulla di uccidersi con me. Gli piaceva, il nostro legame malato. 
Dalla borsa estrassi il cellulare, e notai subito un messaggio e tre chiamate perse. 
Tuo padre questa mattina è stato arrestato, richiamami appena puoi
Rallentai col passo, per poi fermarmi definitivamente. Col cellulare ancora in mano, il viso stravolto, «Hanno arrestato mio papà» proferii. Con un tono calmissimo, tanto che non giurai che Luke avesse sentito. Ma lui si fermò e si girò a guardarmi. 
Col viso baciato dal sole, l'azzurro degli occhi ancora più chiaro, vidi per la prima volta Luke Hemmings come la mia ultima e unica salvezza.


L'avevano detto al telegiornale e io dovetti per forza confidarlo a Calum. Non pianse, come Michael. Non si arrabbiò nemmeno come Luke. Così semplice e così efficace, Calum mi si sdraiò accanto, sul letto, e rimase in silenzio per un bel po'. Gli accarezzai i capelli, e lui se lo lasciò fare. Mi restò appiccicato per quasi tutta la giornata, giusto per farmi capire che lui c'era per me e che, se ero pronta, poteva esserlo anche lui, per riuscire a stropicciare i fogli su cui era scritto il mio passato. 
A scuola, invece, nessuno poteva davvero sospettare qualcosa. Per questo camminavo tra quei corridoi ancora con fierezza, senza abbassare lo sguardo, e questo Calum lo sapeva. 
«Vieni, ci andiamo a sedere là» annunciò, a mensa. 
Era il giorno successivo. Era esattamente il giorno prima del processo di mio padre.
Lo seguii, camminando in mezzo ai tavoli, prendendo posto in quello più isolato. Luke non c'era, quella mattina. Mi aveva detto di non sentirsi così bene da presentarsi a lezione, ed io non avevo protestato, siccome ero piuttosto in ritardo. 
Calum, appena ci trovammo uno davanti all'altra, «Beh, è strano, senza Luke» esordì.
Inarcai un sopracciglio e lo squadrai. «Senza Michael, vorrai dire.»
Il moro cominciò a mangiare. Lo stesso feci io. «Io sì, vorrei dire così. Ma tu, Becky? Lo vorresti dire?»
«Dove vuoi arrivare?»
«Non lo so, non lo so. Per me sì, è strano senza Michael. E vorrei che fosse così anche per te, anche se c'è Luke.»
A quel punto capii. Guardai attraverso la vetrata che si affacciava sul giardino del Sefton, scorgendo tutti i motorini parcheggiati. «Cal, io non sto sostituendo Michael con Luke» chiarii. 
Lui chinò la testa, proseguendo col suo pranzo da quattro soldi, senza dare nessuna risposta. Un silenzio non mi fece mai così male come quella volta. In quel momento osservai meglio Calum: le mani secche, le labbra screpolate, le occhiaie pronunciate sotto gli occhi. E poi ancora quel maglione striminzito che aveva decisamente abbandonato il suo compito di tenere caldo, i capelli disordinati, senza alcun senso. Mi resi conto, studiando i suoi dettagli, di quanto l'assenza di Michael fosse marchiata su Calum. 
«Hai capito?» 
Tirò su il capo, finalmente mi guardò. Non aveva paura di puntare gli occhi nei miei, a differenza di quel bastardo di Michael. «Penso che tu lo stia facendo inconsapevolmente, perché vuoi far vedere a quella merda del tuo migliore amico che hai vinto una volta di più. Ma perdendo non si vince, Becky. Non si vince.»
«Perdendo cosa?»
«Michael.»
Cercai di nascondere in tutti i modi quanto quella frase mi avesse ferito. Non volevo sembrare così sensibile, non lo ero nemmeno così tanto. Tentai di mangiare, ma sentivo che avrei vomitato se avessi mangiato qualcos'altro. Calum non giustificò niente, non commentò il silenzio che era iniziato. Pensava me lo meritassi. 
Non appena finimmo e la campanella suonò, mi bloccò e restammo fuori dalla porta della mensa. «Te la devo dire, questa cosa» iniziò, con voce seria e bassa. 
E già l'ansia cominciò a sbranarmi.
«Dimmi.»
Un gruppo di studenti ci vide e commentò qualcosa che non capii.
«Non sono una persona che fa pregiudizi. Mi fanno davvero schifo. Ma ho paura di aver visto una cosa, Becky, che quasi mi tiene sveglio la notte.» Una mano andò ad infilarsi tra i capelli mori e divennero ancora più disordinati. «L'altra notte, quando Ashton ha dormito nella mia stanza, prima di sdraiarsi, ho visto uno luccichio rapidissimo nella tasca dei suoi pantaloni. C'era buio, ma filtrava un po' di luce lunare.»
Col cuore in gola e una confusione assurda, «E cosa pensavi che fosse?» gli domandai. 
Calum deglutì, parve quasi voler soffocare. Gli occhi fissavano una cosa, poi l'altra, poi l'altra ancora. «Non- io...»
«Calum, cosa cazzo era!»
«Una pistola, Becky. Una fottutissima pistola.»
Gli studenti di prima si girarono e ci guardarono. Io non riuscivo a staccare gli occhi da Calum, vedevo solo lui e il suo terrore. 
«Non dire cazzate» sbottai.
In realtà avevo una paura fottuta e le gambe debolissime. 
«Non ti sto pigliando per il culo. Io l'ho vista.»
Quello fu il giorno in cui capii che bisognasse farsi il segno della croce, con Ashton. Un diavolo intrappolato nel corpo di un adolescente. 
«Glielo chiederò, a Luke» dissi, decisa. E stavo per andarmene, ma Calum aveva un'espressione da cane bastonato, doveva dire l'ultima cosa. Così restai ancora e «Cosa?» lo spronai. 
Abbassò lo sguardo, solo per un piccolo istante. «Ho paura che c'entri anche lui.»
«Cosa?» Eppure avevo capito benissimo ciò che aveva detto.
«Sarò paranoico, ma Luke sembra proprio star dietro ad Ashton.»
Allora iniziai ad articolare delle frasi che servivano a convincerlo, come «Me l'ha promesso, Cal, dobbiamo iniziare a fidarci di qualcuno, non abbiamo più nessuno». 
Tra il silenzio ansimante dei corridoi, le luci artificiali troppo luminose, i passi veloci degli studenti, mi chiesi chi stessi convincendo. E una piccola, piccolissima voce, urlava il mio nome.


Era martedì. 
Luke aspettava quel giorno da un mese, me lo aveva detto. Io, semplicemente, da tutta una vita. E mia madre compresa.
Non era cambiata, la mia mamma. Il trucco forse la rendeva più bella, meno tirata, e quell'abito che usava per le cene con le sue colleghe la faceva sembrare più sofisticata. In realtà proveniva dalla strada, come me. Di polvere ne aveva respirata tanta, e cercava in ogni modo di nasconderlo. 
Era martedì e mia madre aveva preso la sua macchina e aveva guidato fino al sobborgo di Sefton. Senza sostare, solo col piede attaccato all'acceleratore. Questo perché in Tribunale, per testimoniare contro mio padre - suo marito - doveva esserci anche lei. 
Appena scese dall'auto ci scrutammo, come a scorgere anche il minimo cambiamento, e poi solo accennammo ad un sorriso. Niente abbracci: noi li odiavamo. 
«Ciao, mà.»
«Ciao» ricambiò, passando successivamente lo sguardo sulla persona che avevo di fianco. 
Luke si mosse di lì, si fece avanti e «Piacere, Luke» si presentò. 
Dalle labbra tinte di rossetto rigorosamente rosso si intravidero i denti bianchi di mia madre. 
«Sì, mi ricordo di te.» Gli strinse la mano. «Non ti immaginavo biondo» fu ciò che commentò. 
Mi fece strano presentare la mia piccola e privata opera umana che mi aveva stravolto le giornate alla donna che mi aveva cresciuta. Così, tra sguardi e strette di mano, mia madre capì quanto io e quel ragazzo avevamo condiviso. 
Luke rise, alla sua affermazione, e un po' anche io. 
«Ragazzi, sto morendo di fame. Vi va se andiamo a mangiare?»
Andammo in un umile ristorante piuttosto vicino e, solo quando me la ritrovai seduta di fronte, la realtà mi piombò addosso. Era lei, ancora lei. Il mio mondo, quello reale, esisteva ancora. Lei ne era la prova. La mia casa, quella di sessanta metri quadrati, con il legno delle persiane marcio e la ringhiera scorticata, c'era ancora. 
Ordinammo una semplice pizza, non potevamo permetterci oltre. Aspettai con ansia logorante il momento in cui la vera conversazione fosse iniziata. Luke ogni tanto mi guardava, mentre mia madre ci chiedeva come andasse la scuola, ed io ricambiavo. Poi, la sua voce si fece spazio tra tutte le altre e «Insomma, dove l'avete trovato, un avvocato?» incalzò.
Luke tossì e si sistemò meglio sulla sedia. Cosa Cristo stai facendo, gli avrei voluto chiedere. 
«Beh, in realtà, l'avvocato è il padre di Michael.»
«Ah» fece lei. 
«Sì, mio padre ci ha parlato e hanno trovato un accordo» spiegò, sempre più a disagio.
Quando lo disse, mi accorsi che quello non lo sapessi manco io. Mia madre annuiva, ascoltandolo, poi «Grazie» disse. 
«Se lo merita, sua figlia.»
Lei sorrise, io gli tirai un calcio sotto il tavolo. 
«Dove lavora tuo padre?» chiese, curiosa. 
«In un'azienda, ripara computer, roba di questo genere...»
«Ah, bene! E cosa ci fai in periferia, tu?»
Io non sapevo perché, ma tutte quelle domande mi davano sui nervi. Probabilmente il problema si celava dietro al fatto che io le rispose mica le sapevo.
«Uhm, è stata una decisione mia e di un mio amico. Volevamo essere più indipendenti» affermò, prendendo un bicchiere d'acqua. 
«Dai, mà. Adesso basta» intervenni. 
«Mi sto solo facendo un quadro generale della situazione» si difese.
«No, stai solo-»
«E dimmi, Luke,» mi interruppe. Luke raddrizzò la schiena. «Potrò mai incontrare tuo padre per ringraziarlo?»
Lo stronzo accennò un sorriso. Falsissimo. «Certo, perché no?» rispose.
Bugiardo, gli avrei detto. Bugiardo perché non lo faresti mai, perché ti piace rimanere inchiodato nelle periferie perché c'è oscurità. L'oscurità ti piace, ti fa confondere col buio. Lo schifo che sei lo nasconde meglio. E mia madre le sa, queste cose, perché è come noi. Sta solo cercando uno spiraglio di luce. Pensa che esso porti il tuo nome. Ma il tuo è solo Bugiardo.


16:20. 
Dieci minuti, solo dieci. Guardavo davanti a me da una vita, e davanti sempre i banchi vuoti della giuria. Luke mi posò una mano sulla coscia nell'esatto momento in cui un giudice - piuttosto anziano - prese posto davanti a me. Da lì partirono una serie di pensieri nella mia testa, tutti sconnessi, stai calma, cazzo, che freddo. Dal fondo del Tribunale entrò anche mio padre, scortato da due agenti. Senza manette, così come lo avevo visto l'ultima volta. La barba e la vecchiaia sul suo volto, e poi solo astio, orgoglio. 
Luke tolse la mano dalla gamba e la intrecciò alla mia. La mia era piuttosto sudata, e infatti «Stai calma» mi sussurrò. 
Stetti zitta. Guardai solo ancora quegli occhi, uguali ai miei, che non dovevano più farmi paura. 
Mia madre, alla mia sinistra, si irrigidì subito. 
Il giudice fece la sua prima ruotata e aprì il caso. L'inquisitore presentò velocemente il caso, ed il mio cuore quasi mi saliva in gola. Un silenzio tombale, quello nell'aula. Le panche vuote, a chi diavolo importava? 
Mi persi via, mi persi nelle iridi di mio padre che restavano incatenati alle mie. Guarda che hai fatto, dicevano.
La stretta presa di Luke mi riportò in aula e «Devi alzarti» bisbigliò. Mi alzai, mani tremanti, labbra violacee, raggiunsi il banco degli imputati. Il microfono a puntarmi contro: qualunque cosa detta, sarebbe echeggiata tra tutte quelle mura. Guardai mia madre, aveva uno sguardo incoraggiante. E mi soffermai su Calum e anche su Luke, e capii di starlo facendo anche per lui. 
Era la rivincita dei perdenti. 
Cominciai a parlare, a descrivere, a un certo punto intrecciai le mani sul banco per calmarmi. Non mi fu liberatorio, fu solo un incubo. 
Un incubo perché ci sono cose che non se ne vanno, quando le concretizzi con la voce. Sono le cose che ci sono entrate sotto pelle, come schegge, quelle di cui dobbiamo avere paura. Quelle indelebili, che segnano, che togliertele di dosso significa solo ricalcarle. 
Raccontai di mani grandi e prepotenti, unghie che mi si ficcavano nella carne, di paure infernali consumate in una camera. Di schiaffi e botte, di dolore bruciato nelle notti più fredde e tristi. 
E davanti a me avevo ancora Luke. E mi sarei messa a piangere più per quello, che per il passato. Perché adesso Luke mi era abbastanza vicino da avere il potere di farmi male.
La cosa si protrasse a lungo. Anche mia madre testimoniò e, tra una domanda del giudice e l'altra, tra un'obiezione e chiarimenti, la giuria si era ritirata per deliberare.
Luke si alzò, per sgranchire le gambe. 
«Sei andata bene» affermò. Aveva in viso una soddisfazione che non gli avevo mai visto. 
Ero seria, io. Lo ero e non mi passava nemmeno per l'anticamera del cervello di cantare vittoria. Non stavo vincendo un cazzo di niente.
«Rebecca» mi richiamò. Si inginocchiò e mi prese il mento tra la mano, voleva che lo guardassi. Lo feci, e mi sentii così cupa, così segnata dal nero, che mi faceva schifo inquinare il suo azzurro. 
«Adesso si risolverà tutto, vedrai. Gliela mettiamo in culo, a quel pezzente.»
Annuii perché non volevo più sentirlo parlare. Non ci capivo più niente, mi sembrava tutto un labirinto di cui non riuscivo a trovare l'uscita. 
Mia madre non faceva altro che fissarmi, infondermi coraggio. Ma a me non serviva quello. 
A me serviva solo un anestetico potente.
Il giudice rientrò. Le persone si diedero più contegno. 
«Dopo aver ascoltato le varie testimonianze ed averle analizzate...»
Mi girai. Mi accorsi che quel verdetto servisse più alle persone che avevo attorno, che a me stessa. Vidi Luke, di fianco, ricurvo su se stesso, la testa bassa, le mani tra i capelli. 
Riuscii quasi a sentire il respiro di Calum bloccarsi. 
«Dichiaro, dunque, l'imputato Robert King colpevole e lo condanno a scontare una pena di anni nove, presso il carcere di Lightow.»
Fu così. C'era confusione, attorno a me. Tutti si alzarono, io non ero sicura di aver reagito in qualche modo. Ci fu la gioia di mia madre, la felicità di Calum, la sua bocca spalancata e le piccole rughe ai lati dei suoi occhi. 
«Sì, cazzo!» esultò Luke. 
Luke che mi abbracciò, io che posai il mento sopra la sua spalla e che vedevo mio padre, dall'altra parte dell'aula, venire ammanettato. 
Ci vidi tutta la rabbia del mondo, impressa nei suoi occhi. Quelle manette gliele avevo messe io. Di preciso, non so perché iniziai a piangere mentre Luke mi stringeva. So solo che me le asciugava una per una, quelle lacrime, e nel frattempo mi diceva che i fantasmi del mio passato se ne sarebbero andati, da quel giorno. 
«Ti voglio bene» gli dissi. 
L'aveva sentito solo lui. Mia madre stava ancora parlando con il padre di Michael. Luke si bloccò, per un solo attimo. 
«Anche io, Rebecca. Anche io.» 
Osservai come quell'uomo col mio stesso sangue veniva portato via. Così come aveva portato via la mia infanzia. 
«Sei felice?» mi chiese. 
«Lo sono.» 
«E allora smettila di piangere.» 
Calum dietro di noi rise. Nel voltarmi, intravidi una figura, seduta all'ultima panca.
Michael, la mia condanna. Se ne stava lì, a scrutarmi. Serio come non mai. Indifeso, senza nessuno se non i miei occhi sporchi addosso. Il pallore, lo stesso di sempre. Quel giorno faceva più male. Spoglio. Non aveva niente senza me.
«Non fare scene» mi ordinò Luke. La sua mano si posò sul mio braccio. Non fare scene. E andava bene. Bisognava reprimere la rabbia, giusto per aumentarla un po'. 
Allora me ne uscii, dal Tribunale, con mia madre, Luke a fianco e Calum più avanti. C'è bisogno di barriere, il male non deve riuscire a penetrare fino in fondo. 
La luce. C'era quella. La luce, un padre in prigione, un migliore amico col DNA stronzo. 
«Ce ne andiamo» annunciò Luke. Non voleva stare lì. 
«No, aspetta» ribattei. Perché la verità va sputata in faccia e deve castigare. 
Luke ritentò a fermarmi, ma io non volevo sentirne. Lo aspettai. Aspettai Michael di fuori, perché lo sapevo che mi avrebbe sempre seguita. E infatti uscì dall'ingresso, scese le scale e quei due metri di distanza parlavano per noi. Bruciavano. Urlavano quanta paura quello stronzo avesse di me. Come animali, ci passavamo lo sguardo addosso, quasi a squartare la pelle. 
«Ce l'hai fatta, allora» esordì lui. Così freddo, schifosamente lontano. La sua voce, una lama affilata. 
«Già» mormorai io. E non era una vera risposta. 
E poi silenzio e occhi spenti. 
«Senti, che cazzo tu ci faccia qua, io non lo so. Non hai niente da dire, quindi tornatene da dove sei venuto.»
E quasi, ma solo quasi, mi si incrinò la voce. Perché l'origine di Michael portava il mio nome. 
Teneva gli occhi socchiusi, il poco sole gli dava fastidio. «Sono qua solo perché mio padre era l'avvocato. Mi ci ha portato lui.»
Sembrava quasi difendersi. Ed io lì risi, amaramente, solo per reprimere il senso di nausea. 
«Va bene, va bene» gli concessi. 
Stavo girandomi per lasciarmi dietro tutta quella merda. Poi sentii il mio nome uscire dalle sue labbra, due squarci di rosso, e mi fermai. «No» lo ammonii. «Sei un orgoglioso del cazzo, non voglio sentire niente.»
Michael sbuffò, stringendosi nella sua giacca di pelle che non lo difendeva dal freddo.
«Non le vuoi nemmeno sentire, le mie spiegazioni» affermò, con tono affranto. 
«Appunto, allora l'hai capito, eh.»
Non le volevo sentire perché spaventavano e volevo rimandare sempre più avanti il momento in cui i suoi sorrisi sarebbero diventati suoi e basta, in cui i nostri occhi non si sarebbero più incontrati perché non coraggiosi di farlo. 
«Vuoi che me ne vada?» mi chiese. 
Non voglio, mi dissi. Perché poi ti azzeri, ed io non voglio avere sulla coscienza un bastardo come te. E non ce la faccio nemmeno adesso ad ammettere che me ne andrei anche io, senza te. Mi uccide, l'idea di me senza te. 
«Vai, Michael. E' meglio per entrambi.» Poi il vento si fece prepotente, e decisi che l'avrei pagata, quella verità, ma che gliel'avrei detta. «E' meglio per... Te
Forse aveva capito di non essere riuscito a nascondere tutto. Perché eravamo migliori amici, contaminati più che mai, e prima o poi sarebbe uscito tutto allo scoperto. 
Michael abbassò la testa. Un fremito lo colpì e sembrò così debole e senza difese. 
«Dai, andiamocene» si intromise Luke. La sua voce mi risvegliò. Le sue mani sulle mie spalle. Michael seguì quel movimento, manco dipendesse da esso. E probabilmente era sul serio così, perché la sua schiena perse la sua rigidezza e adesso non aveva più voglia di fronteggiarmi. 
«Sì» annuii a Luke.
E piano piano ce ne andammo. E sentii delle corde spaccarsi, slegarsi, sfregare contro la pelle e Michael dall'altra parte della strada. Poi ancora sangue che sgorgava da ferite aperte da un legame che ci aveva intrappolati, troppo stretti, troppo. E ritornare liberi ci fece guardare come se io e Michael ce ne fossimo accorti solo ora. Solo ora.
Ci eravamo allontanati per mancarci.


Alla fine della giornata, guardai la macchina di mia madre allontanarsi sempre di più, fino a diventare un punto indefinito. 
Era tardi, tardissimo. Mi sentivo la faccia segnata dal sonno, volevo solo salire in camera e dormire. Guardai Luke, per capire le sue intenzioni. Lui non mi diede una vera risposta, semplicemente si limitò a seguirmi. Mentre stavamo attraversando la strada, ripensai a tutta la giornata, al viso di mia madre, alle manette di mio padre, alla schiena stanca di Michael. E poi una pistola. 
Infilai le mani nelle tasche e vidi la scena proiettarsi sull'asfalto illuminato da un lampione solitario. Di fianco alla mia figura, quella di Luke. 
«Te l'ha mai detto, Ashton, cosa fa di preciso?» irruppi, distruggendo il silenzio. 
«Eh?»
Si accese una sigaretta. 
«Che combina di preciso? Ashton, intendo» ripetei. 
Con la coda dell'occhio vidi il fumo espandersi nell'aria. 
«Che cazzo ne so, farà qualche piccolo lavoretto non pericoloso.»
«Tipo?» 
Imboccammo la via sulla quale si affacciavano la Uno e la Due.
«Ma boh, qualche furto veloce, robe così» mi spiegò. 
«Non puoi entrare con quella» dissi, alludendo alla sigaretta. Luke rise e «Da quando in qua seguiamo le regole?» domandò.
«Dai, smettila. Voglio andare in camera, ho sonno.» 
Allora mi passò una mano tra i capelli, con un mezzo sorriso, per poi buttare a terra il mozzicone e calpestarlo. 
Quando fummo in camera, Luke si rifugiò sul balcone e ci restò per un bel po' di tempo. «Mi rilassa» si era giustificato.
E io me ne restai nel letto, in quella camera che non vedeva la presenza di Michael da una decina di giorni. Mi alzai. Mi appoggiai allo stipite e osservai Luke, perso nei suoi pensieri. Mi piaceva guardarlo, in silenzio, mi sembrava al suo stato più puro.
«Luke» lo chiamai. 
Si voltò e, una volta esaminata la mia figura, si rigirò. Sapeva che il discorso non fosse chiuso. 
«Io c'ho un po' di paura di Ashton» confessai. 
«E perché?»
«Boh, mi spaventa. Pensi che potrebbe mai farci del male?»
Lo vidi irrigidirsi, e a quel punto decisi che avrei messo a tacere qualsiasi mio dubbio. 
«Ashton non potrebbe mai farci del male. Riuscirebbe solo a difenderci.»
«Non ha nessuna pistola, quindi?»
Si girò, di scatto. Era piuttosto arrabbiato, stavo scavando in un punto che non mi era concesso. 
«Che cazzo ti passa per la testa?» chiese, incazzato.
«Rispondi» ordinai.
«Tu sei tutta pazza, tuo padre ti ha rincoglionita per bene. Ashton non ha nessuna pistola.»
Strinsi le mani a pugno, quasi a conficcarmi le unghie nella pelle. «Non osare dirlo mai più. Non devi mettere in mezzo mio padre. Sei proprio uno stronzo» sbraitai e nella mia testa mi dissi di non alzargli le mani addosso.
Allora rientrai nella stanza e mi rintanai sotto alle coperte. Alcuni minuti dopo, sentii la finestra venir chiusa e i suoi passi farsi sempre più vicini. D'impulso, strinsi forte gli occhi. 
«Rebecca» sussurrò. 
Non risposi. 
«So che non stai dormendo.»
Con le dita mi sfiorò le guance, il naso, le labbra. Il suo respiro che si infrangeva sul mio viso, il suo sguardo a scorticarmi l'anima. Passarono altri secondi, e poi lo sentii. 
«Mia» disse. 
Mia. Le gambe parvero squagliarmisi. E Luke lo sapeva, che fossi sveglia, e forse l'aveva detto apposta. 
E nel silenzio compresi la violenza devastante dell'amore, che aggrediva, disperdeva. Che avvelenava. 
Sempre che quello fosse amore, e non odio.




Hei people!
What's uppp? Scrivere questo capitolo durante l'ora di religione non ha avuto prezzo. Devo dire che ormai scrivo ovunque per lo scarso tempo che ho. Non mi considero più normale da un bel po'.
Ma comunque, non mi sembra di aver mai scritto così di getto un capitolo. Nel senso, 24 carati mi sta entrando dentro, e probabilmente non lo sapete, ma non è affatto una bella cosa. Ho seriamente paura di lasciar me stessa dentro a questa ff.
In ogni caso, anche se il capitolo è triste/cattivo, il padre è stato arrestato e dai, non potete dire che Luke "preso" da Becky non vi faccia una tenerezza assurda. Sembra alle prime armi con l'amore, non ha nemmeno idea di cosa sia, e questo mi piace parecchio. 
Però va beh, adesso torno a studiare. Risponderò il più presto possibile alle recensioni, mi diverto seriamente a leggere ciò che pesate ahah Grazie, come sempre, e al prossimo capitolo. ((Che sarà il ventesimo ed è assurdo, mi sembra ieri aver iniziato questa storia))
Ciao gente :)
//Nali

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Capitolo 20
*** Malebolge. ***


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Luke's POV 
Di notte i disperati non dormono. Era questo, ciò che pensai, mentre nel buio cercavo di non andare addosso a niente. Sulla soglia della porta, mi girai e osservai, un'ultima volta, Rebecca. Dormiva e sarei stato lì a guardarla un altro po', se solo non fossi stato così incazzato. Chiusi delicatamente la porta e poi giù a correre per quelle scale come un dannato. Appena uscii in strada, la pioggia cominciò ad avventarsi su di me. Nel frattempo, chiamai Ashton. Cinque squilli. Cinque maledetti squilli.
«Dove cazzo sei?» sbottai. 
«In macchina, sto tornando da Chester.» E, nel dirlo, sentii chiaramente il rumore dell'asfalto schiacciato dai pneumatici. 
«Cosa cazzo stavi facendo lì?»
«Una macchina. C'era da prendere una fottuta macchina, ma Mef era completamente fatto, e abbiamo rimandato a domani» rispose Ashton, con risentimento nella voce. 
«E dov'è adesso?»
La pioggia ad annebbiarmi la vista. I vestiti pesanti..
«Chi? Mef? L'ho lasciato là.»
«Ashton, tu sei fuori di testa. Come ci torna a Sefton?»
Dall'altra parte del telefono risuonò una risata maligna. «Così imparerà la lezione.»
Sbuffai, perché quel coglione era il mio migliore amico e un pazzo. Il ciuffo, ormai fradicio, mi ricadde sulla fronte. «Dai, vienimi a prendere in piazza. Mi sto congelando. Muovi il culo» intimai ed attaccai. 
Le strade erano deserte, Ashton non ci mise tanto a raggiungermi. Coi fari spenti e i tergicristalli spaccati, la sua macchina pareva buio nel buio. Non appena mi si affiancò, aprii la portiera e mi ci catapultai dentro. Gli misi subito le mani addosso, questa volta lo feci. Le mie mani andarono ad afferrargli il colletto della felpa e tiravano più che mai. In faccia gli vidi la sorpresa iniziale e poi solo confusione. 
«Dove cazzo è!» sbraitai. 
I vetri sì appannavano. La pioggia si scaraventava prepotentemente sul tettuccio. 
«Ehi, Luke, che diamine ti prende?»
La presa aumentò. Digrignai i denti e «La pistola, Cristo!» inveii. «Dimmelo.»
Ashton allora si dimenò, tanto che adesso era lui quello addosso a me. «C'hai il ciclo, eh, stronzo?!»
Me lo allontanai. Fissai il parabrezza, perché non si riusciva a vedere cosa ci fosse oltre a quello. «Parti. Andiamo al mostro.» 
Dopo un primo momento in cui si limitò a fissarmi, con la faccia incazzata, assecondò la mia richiesta, guidando fino al Palababele. 
Le piante schiacciate, quella notte, erano scivolose. Ci mettemmo più del dovuto, per arrivare all'entrata. Percorremmo la rampa che ci portò alla nostra stanza, trovandola vuota. Fissai le crepe di quel posto, l'acqua infiltrata, la muffa, le scritte sui muri. Sentii i passi di Ashton dietro di me. 
«Perché te la porti appresso?» domandai. La mia voce risuonò per tutta quella struttura mai finita di costruire. 
«Non c'è da fidarsi di nessuno» disse lui. Quasi ne sembrava convinto. «Un giorno o l'altro a questi gireranno i coglioni e ci vorranno fare fuori. Ma non ci riusciranno.» 
Poi si sedette su una sedia che era un miracolo che non si sfasciasse e si accese una sigaretta, con le mani nervose. 
«Rebecca te l'ha vista» lo avvisai, allora. 
«E tu che le hai detto?» 
«Che non è vero. Che diavolo avrei dovuto dirle?» sbuffai, appoggiandomi al muro. 
Calò il silenzio per alcuni secondi. E poi la discussione continuò con un «No, Luke, lei non sa ancora niente di te». 
Colto in fragrante. Ashton sapeva capire silenziosamente, sapeva assaporare le tue paure, i tuoi tormenti, senza farti sapere nulla. 
«Non lo so, Ash. Quella è una tagliata, non è mica scema.»
«L'ho scoperto prima di te, lo sai. Il problema non è se lo scoprirà, il problema è quanto importa a te di lei.»
Ashton buttò fuori il fumo. Il silenzio cominciò a divorarmi i pensieri, lo suo sguardo a fottermi l'anima. Aprii gli occhi forse per la prima volta da quando vidi Rebecca. Mi sentii addosso ogni suo marchio, ogni segno che portava il suo nome. Le sue dita, le sue labbra, gli occhi scuri. 
«Io non...»
«Lo sapevo» asserì Ashton. 
Vagai con lo sguardo oltre le sbarre della finestra, trovandoci solo la distesa di erbacce bagnate, una strada desolata, un parcheggio mai completato. 
«Non ci sono del tutto cascato. Rebecca è quella che è: una stronza senza pietà, lo sappiamo entrambi. E' solo che mi piace pensare di poterla distruggere.»
Ashton rise, alzandosi e «Dove ti porterà tutto questo?» mi chiese. 
«Lei dice all'Inferno» dissi, con un sorriso ironico. 
Camminammo verso il centro del mostro e potemmo ammirare la desolante voragine nel pavimento, le gradinate degradate dal tempo e, come ogni volta, mi sentii esattamente come quel posto. 
«Io penso che non sarai tu a distruggere Rebecca. Sarà lei stessa a farlo.»
Un tossico se ne stava sdraiato per terra, dormiente, con la schiena appoggiata al muro. Una siringa di fianco alla sua gamba sembrava dare senso alla scena.
«E come lo farà?»
«Amandoti.»
Deglutii. Ashton cominciò a dirigersi verso quell'uomo mezzo vivo mentre io facevo i conti con le mie ansie. Io non volevo essere amato. I mostri non sanno cos'è l'amore, non sanno cosa farci. Sono solo capaci di osservarlo in silenzio, troppo sommersi dallo schifo che sono. Non lo puoi amare, un mostro.
«Rebecca non è una tipa di queste cose» affermai, restandogli a distanza. La voce si propagò tra le mura e mi scoprii geloso, di quel nome così cattivo, assorbito dal Palababele. Quel nome così mio. Quel nome che non volevo si affacciasse mai sul disastro che era la mia vita. 
Ashton si avvicinò al drogato, lo scosse un po' e quello non si svegliò manco a morire. Allora ci tirò un calcio alla gamba, spostandogliela un po'.
«Vattene» ordinò. 
Il tossico aprì gli occhi, di scatto. Gli occhi iniettati di sangue lo facevano sembrare più rincoglionito. 
«Dev'essere che mi sono add-»
«Non ci frega un cazzo delle tue scuse, porta il tuo culo via da qui» articolò Ashton, facendo un passo indietro. «Prima che ti facciano a pezzi i nostri domani mattina, trovandoti qui.»
L'uomo si alzò. A fatica, ma lo fece. Raccolse la siringa e la fece sparire nella tasca. Non ero sicuro che sapesse realmente dove fosse, però poi scese le gradinate e si diresse verso l'uscita. 
A quel punto, Ashton si girò.
«L'amore è una forza oscura, Luke. Se ti prende, ti mangia vivo» disse.


Varcai la soglia della porta della classe, con fare distratto, e mi riscossi presto non appena vidi il volto scuro di Rebecca. Superai le prime file di banchi, raggiungendola. Posai lo zaino e «Che è 'sta cera?» feci. 
Non era nemmeno un minimo truccata, quella mattina. Ma il colorito restava sempre lo stesso, manco prendesse il sole tutti i giorni. Udii solo un ringhio da parte sua e mi sedetti di fianco. 
«Beh?»
«Dove sei stato?»
Ci furono secondi in cui distolsi lo sguardo e lo posai sul resto della classe. Calum mi guardò e mi salutò. A quel punto mi ridestai e «Non riuscivo a prendere sonno e sono tornato nella Uno a guardare un po' di tv. Non volevo svegliarti» inventai. Cercai di essere il più credibile possibile e probabilmente ci riuscii perché «Non andartene più così» mi riprese lei. 
Sbuffai, con un sorriso, e annuii. 
Richards entrò in classe e una serie di “Buongiorno” si innalzò per tutta l'aula. Prese subito a fare l'appello, mentre osservava distrattamente la disposizione dei banchi, soffermandosi un po' di più su di me e Rebecca. Risposi con un sorriso beffardo. 
Per tutta la prima mezz'ora, se ne stette col culo sul bordo della scrivania a parlare del comportamento aggressivo e di tutte le sue cazzate, mentre io disegnavo persone, luoghi a caso. 
Fu quando «King» interpellò il professore, che posai la matita. Rebecca rizzò la schiena e dalle sue labbra uscì un'imprecazione.
«Ci puoi spiegare come può essere in psicologia l'aggressività?» domandò. 
Sul suo viso comparve un'espressione totalmente persa e confusa che mi divertì parecchio. 
«Pensa a te stessa. Ce la fai a rispondere» le suggerii, prendendola per il culo. 
«Sei un pezzo di merda» disse, a denti stretti. 
«Allora, King?» la spronò. 
«Strumentale, per raggiungere un fine» le suggerii bisbigliando. 
«Strumentale, per raggiungere un fine.»
«E ostile, fine a se stessa» sussurrai, nascondendomi dietro ad un nostro compagno. 
«E ostile, fine a... Che cazzo hai detto
«Se stessa.»
«Se stessa» ripeté.
A quel punto scoppiai definitivamente a ridere e in cambio ricevetti una gomitata al fianco. Il professore parve soddisfatto e si annotò qualcosa sul registro.
«Ti odio» sbottò. 
E nel mio profondo sapevo stesse mentendo e che in realtà stesse soltanto cercando di nascondere la sua gratitudine. Perché per persone come Rebecca, dire anche un solo grazie significava mostrarsi deboli. 
Allora le sorrisi, le feci capire di averla in trappola: la conoscevo come le mie tasche. Un qualcosa di assimilato, un'indole facile da comprendere, perché uguale alla mia.


Michael era uno di noi, lo è stato fin dal primo giorno. Rebecca non lo sapeva. Mi guardava e non lo sapeva. Michael era parte della famiglia sin dalla prima sera d'estate in cui lo incontrai. 
Suo padre per qualche soldo in più si era reso disponibile per coprire degli sporchi affari di mafiosi, per coprire me ed Ashton. Il mio vecchio sapeva dove andare a prendere i pezzi duri, gli avvocati disposti alla corruzione. E aveva trovato il padre di Michael: uomo indaffarato, incline all'illegalità per mettere sul conto qualche cifra più alta. 
Fu così che conobbi Michael. Lo trovai puro, ma instabile. C'era qualcosa che lo divorava. Col tempo, poi, scoprii che non fosse una cosa, ma una persona: Rebecca. La prima volta che gli misi in mano una pistola fu durante i primi giorni di gennaio. Ricordo il terrore nei suoi occhi, l'ansia, ma doveva farlo. Doveva confermarsi, affermarsi in mezzo a pezzi di merda che altrimenti lo avrebbero schiacciato. Capii quanto fosse contaminato da Rebecca quando, dopo aver conficcato una pallottola nel tronco di un albero, scappò.
E corse verso Rebecca. 
Adesso lei mi stava guardando, ignorando bellamente la partita davanti a noi, quella in cui Ashton correva per tutto il campo in cerca di possesso palla. 
«Dopo torniamo in camera, devo studiare letteratura» mi avvisò. 
«Ho lezione di hip hop, ti accompagno però.»
Sbuffò. «Che palle, ma almeno quanto ti sganciano per fare lezione a dei bimbi mocciosi?» 
«400, 450 al mese. Ma non me ne frega un cazzo, a me piace farlo.»
«Che fregatura» commentò. 
Davanti a noi il Sefton perdeva 1 a 0. Le gradinate su cui sedevamo congelavano cosce e culo, ma non ci potevamo lamentare. 
«Sto pensando a Michael» esordii, per evitare che mi esplodesse la testa.
Rebecca sembrò paralizzarsi. Il movimento monotono che faceva coi piedi si bloccò. «A che pensi?»
«Al rapporto che avevate prima che metteste piede qua.»
Si strinse nelle spalle, mantenendo le mani nelle tasche e lo sguardo fisso sul campo. «E' sempre stata la stessa storia» proferì, adesso con un tono che pareva rimpiangersi addosso tutti i mali della terra. 
«Eravate... Particolari.»
Vidi sul suo viso nascere un piccolo sorriso. 
«L'ho sempre odiato e amato al tempo stesso. L'ho preso a calci e poi me lo sono curata. Intendi questo per particolari?»
«Intendo malati» sottolineai. «Mi chiedevo quanto la mia presenza abbia ucciso di voi.»
Rebecca rispose solo dopo alcuni istanti di silenzio. «Non hai ucciso niente, Luke. Le brutte bestie non muoiono mai. Non puoi uccidere me e Michael, ho provato io stessa a farlo. C'è sempre un qualcosa che si slega, ma mai del tutto.»
Non era che io fossi geloso di quel rapporto. Era solo che avevo paura che Rebecca prendesse spunto da quello per il nostro e no, io non volevo soffocare in quel modo. 
«Vi fa bene, questa distanza» dissi. 
«Può starsene anche tutto il tempo che vuole a fanculo» appesantì lei, con un tono rabbioso, quasi scorticando con gli occhi la scena che aveva davanti per non andare indietro nel passato. Il loro passato. 
«Vieni qua, vieni qua.» L'avvicinai a me e feci rintanare il suo viso tra le mie braccia, sul mio petto. Le lasciai un bacio tra i capelli, sfregai la mano sul suo braccio per riscaldarla un po'. «Non pensiamoci più.»
E ci conveniva. Perché se Michael avesse parlato di ciò che stava sotto, non sarebbe più bastato il dolore come scudo.


Dal balcone della stanza si vedevano i panni stesi, roba lavata sicuramente il pomeriggio stesso. Ashton era tornato. Poi dalla finestra vidi sbucare la sua faccia stanca. «Sali, ti vogliono al telefono» urlò per farsi sentire. Feci due scalini alla volta e mi ritrovai presto nella camera. 
Non aveva una bella faccia, Ashton. Come se un camion gli fosse passato sopra. Cristo, pensai. 
«E' tua mamma» mi disse. 
Non mi congelai sul posto, semmai il contrario: sentii un calore pervadermi il corpo, fino a sentirlo quasi bruciare, fino al mal di testa. Era un passato che pesava come macigni, il mio. E mamma io la collegavo solo ad esso. 
Ashton mi passò il telefono e «Pronto» iniziai. 
«Ciao, Luke.»
Non mi chiamava mai. Non aveva idea di cosa stessi studiando, di quante sanzioni penali avessi in lista, di come si chiamasse la città in cui dormivo la notte. 
«E' successo qualcosa?» chiesi. 
Un silenzio pesante, pesantissimo, calò. 
«No» affermò, con voce rotta. 
«Stai piangendo, mamma?» 
Lo assaporai, quel nome. Lo scandii bene, lo sentii crearmisi dentro e passare le corde vocali. Mi faceva sentire meno abbandonato a me stesso e messo in un mondo a caso, pronunciarlo. 
«No, non sto piangendo» tentò di convincermi. «Ma a te le cose come vanno?» provò a cambiare discorso. 
«Bene. Sempre tutto bene» confermai. E non mi sentii mai così male. 
«Mi fa piacere sentirti.» Un singhiozzo. «Mi manchi.»
Mi sedetti sul letto, perché la carica emotiva di tutta quella situazione mi stava togliendo anche la forza di reggermi in piedi. Ashton mi stava guardando, cercando di capire. 
«Vogliono staccare la spina a tuo fratello» mi comunicò poi, sbottando dal nulla. 
Sentii qualcosa incrinarsi dentro di me. Il respiro venire meno, diventare sempre più affannato. Sempre più difficile respirare. I singhiozzi di mia madre come sottofondo a quel panorama così triste. Qualcosa dentro di me si mosse, o forse si bloccò e mi provocò un dolore lancinante. 
Tuo fratello, disse. Perché prima di essere Jack, era mio fratello. Il mio stesso sangue.
«Mi dispiace, Luke» proseguì, come un lamento impregnato dalle lacrime. «Io non voglio che lascino andare il mio bambino.»
La mia mente, nel frattempo, proiettava delle immagini macabre, dove c'erano schizzi di sangue su un marciapiede, l'ansia a divorarmi lo stomaco, la notte e il suo buio a fare da spettatori. 
L'ennesimo attacco di panico mi investì.


Becky's POV
Ashton entrò nella mia camera verso le undici passate. Aveva un braccio sulle spalle di Luke e non riuscii a capire chi fosse quello messo peggio. 
«Che cazzo è successo?»
«Niente, niente. Non iniziare a fare la pazza, ha solo avuto un episodio.»
Rimasi in piedi a fissare quei due disgraziati, vedendoli come i miei peggiori castighi. 
«Entrate» decretai infine.
«No, io devo uscire. E' per questo che lo lascio a te, vedi di non rimbambirlo ancora di più.»
Capii lo stato d'animo di Luke quando non ribatté a quell'offesa, decidendo di subirla. Annuii e «A domani» mi salutò. «Ciao, stronzo» si rivolse poi verso l'altro. 
Vidi Luke rimanere sulla soglia, così gli afferrai il polso e lo portai dentro, chiudendo la porta. «Che cosa vuol dire un episodio?»
«Lo dice per non farmi sembrare uno psicopatico. In realtà sono puri attacchi di panico» mormorò, così debole, così rassegnato. 
Avevo visto Luke in tanti modi, in quei mesi. L'avevo visto anche piangere, ma mai così sottomesso alla vita di merda che conduceva. 
«Dai, vai a farti una doccia» lo spronai, usando il tono più dolce possibile. 
Mi sentii cambiata. Perché non mi adattavo mai alle situazioni, non me ne fregava nulla di capire lo stato d'animo di una persona per modellare il tipo di approccio che avrei dovuto usare. Ma con Luke mi ritrovai a farlo, e mi riscoprii comprensiva. 
«Sì» disse soltanto. E sparì, chiudendosi dentro al bagno.
Io volevo che Luke si incazzasse allo schifo che gli capitava. Volevo, volevo e volevo. Accettavo il mio, di dolore, ma non il suo. 
Udii ogni singolo rumore. Sentii i vestiti posarsi a terra, lo sportello della doccia aprirsi, i suoi piedi sul pavimento. La cosa più rilassante mai provata. Sentirlo vivere, proprio accanto a me, proprio Luke. E probabilmente dovevo iniziarmi a preoccupare, per questi dettagli che nessun altro, tranne me, avrebbe notato. 
Stette sotto il getto d'acqua per un tempo infinito, tanto che riuscii a vedermi quasi un intero show in tv. 
«Ci sei annegato, dentro la doccia?» domandai a quel punto, alzando la voce per far sì che mi sentisse. Non udii nessuna risposta. I rumori adesso si erano placati e regnava solo il silenzio, nemmeno l'acqua scendeva più. «Luke!» ritentai. «Se non mi rispondi...» lasciai la frase in sospeso, sperando che anche con una mezza minaccia mi rispondesse. E invece no. Allora mi alzai dal letto, avvicinando alla porta. «Se non mi rispondi, entro dentro.»
Lo dissi con tono serio, dicendomi che non l'avrei fatto in ogni caso. Poi però mi rispose solo col silenzio e mi ritrovai costretta ad abbassare la maniglia e ad entrare. 
Luke c'era, era ancora vivo. Stava davanti allo specchio, si fissava la faccia, appoggiando le mani al lavandino. Era assorto, quasi sembrava stesse trovando una cura per l'anima. Ed era nudo. 
Mi sentii inizialmente avvampare, senza riuscire a dire nemmeno una sola parola. Non riuscii a scusarmi, a chiedergli cosa stesse facendo. Vidi Luke per la prima sotto un punto di vista fisico, e provai una vergogna spropositata. Mi soffermai sulla sua pelle pallida, ricoperta di segni, che parevano anche bruciature. Cicatrici. C'erano queste. Aveva questo torace magro, stretto, con il segno di una lama che in passato non l'aveva risparmiato. Sul bicipite destro spiccava forse la cicatrice più infernale: una voragine nella carne. Il sangue non c'era più, ma il chiaro marchio di una pallottola era ben visibile. Deglutii, sentendomi male. 
«Chi te li ha fatti?» domandai, a bassa voce, cercando di stoppare il tremore delle mie mani.
L'avevo già visto Luke senza maglietta, il problema era che non ci avevo mai cercato i dettagli, sopra quella pelle. Sono quelli che fottono. 
«La strada» mi rispose lui. 
«Smettila di guardarti» inveii, perché mi dava fastidio vederlo osservarsi tutti quei difetti senza pudore, con l'espressione seria. 
«Sono un mostro» disse. 
Per alcuni istanti non respirai e non seppi cosa dire. C'erano solo quei segni, quegli occhi, quella carne, quella nudità. 
«Cristo, smettila» sbottai, scuotendolo dalla spalla. Luke mi vide per la prima volta da quando ero entrata in quel bagno, mi guardò con una disperazione che mi sentii sotto pelle, che si tatuò nella mia testa.
E poi mi baciò, e io gli posai le mani sui bicipiti e non volevo che qualsiasi altro essere umano catturasse tutti i suoi difetti, volevo farli miei. Aggiungerli alla mia lista, perché non mi avrebbero fatto tanto male quanto lo stessero facendo a lui. 
Mi baciò e andava bene così. Volevo inumidirle, quelle labbra secche, volevo che quelle cicatrici smettessero di sanguinare. 
Quando mi allontanai, la sua nudità mi ritornò in mente e me ne vergognai. Carne viva, carne giovane, carne segnata. E Luke rise, consapevole, e «Mi vesto» affermò. 
Il viso distrutto e ancora il coraggio di sorridere. 
Così me ne uscii, da quel bagno, e mi misi le mani tra i capelli, tanto la situazione era assurda. Mi sistemai a letto, aspettai minuti e minuti. Quando finalmente uscì, era vestito. Cercò una sigaretta sul piccolo tavolo, quello vicino all'armadio e se l'accese. 
«Non fumare dentro, che poi puzza tutto» lo ammonii. 
«Mia mamma oggi mi ha chiamato.»
Ciò che facemmo fu guardarci, mentre io mi districavo dalle coperte e mi mettevo seduta. 
«Non la sentivo da mesi. Tanti mesi. Pensa che io faccia l'economico-sociale, non ha idea che l'indirizzo che ho scelto è psicologia» continuò, dando una boccata alla sigaretta. Un sorriso triste gli si accennò sul viso. 
«Perché siete così distaccati?» mi limitai a chiedere, paurosa di toccare tasti a me proibiti. 
«Ho un fratello in coma, io.» Rimasi in silenzio, perché già lo sapevo e non mi potevo permettere di farglielo capire. «Da quando ci è entrato, mia madre non ha più levato il culo da quella clinica privata. Vede solo lui, solo lui. Jack, Jack, Jack. Ma Jack non c'è più, non come lo vorrebbe lei. Non capisce un cazzo, è più di là che di qua. Il suo coma l'ha riversato su mia madre, macchiando anche me e l'altro mio fratello. Oggi mi ha chiamato per dirmi che gli vogliono staccare la spina» si fermò. La cenere della sigaretta ormai stava diventando troppa e cadde a terra. Luke nemmeno la vide. Guardava davanti a sé, sembrava solo vedere qualcosa, mentre tutto il resto si era allontanato. «Se gliela staccano, io avrò un fratello in meno, Rebecca.»
Era un calcolo matematico ovvio, e quella ovvietà probabilmente era ciò che più lo distruggeva. Perché in quel momento ebbi paura che Luke, con tutte le crepe che gli si stavano aprendo, si sgretolasse e sul pavimento restassero solo pezzi non ricomponibili. 
«Non si riprenderà mai?» domandai. 
Scosse la testa. «Mia madre non se n'è accorta, di averne persi due, di figli.»
Dei brividi mi percorsero la schiena e mi fecero accapponare la pelle. Mi sentivo in una parte della vita di Luke in cui non c'erano impronte di altre persone, semplicemente perché nessuno ci era mai stato. 
«Puoi sempre recuperare il rapporto che avevi con lei.»
Aprì la finestra e gettò il mozzicone. Restò poi lì affacciato, a pensare a chissà cosa, mentre la stanza si congelava ed ebbi la sensazione che il freddo ci facesse bene. 
«Non posso» decretò infine, tornando da me. 
Era la reincarnazione della sofferenza. 
Credetti dovesse finire la frase, c'era qualcosa che non lo lasciava in pace ma che ancora non era pronto per dire. 
Per un tempo indefinito della mia vita avevo pensato che la personalità e il carattere di una persona fossero innati, qualcosa di ereditato, di biologico, basato sul temperamento. Quella sera mi credetti. Capii che c'era un periodo della nostra vita in cui dovevamo per forza fermarci, prendere il controllo della situazione e decidere davvero cosa voler essere. Smetterla di essere ciò che biologicamente ci era stato donato, perché semplicemente in quel modo saremmo stati il risultato di ciò che non volevamo, ciò che non avevamo chiesto di essere. 
Scoprii il cambiamento. 
Bisognava guardarsi allo specchio, fare i conti con se stessi e decidere se quello che eravamo ci andasse bene. E Luke lo fece proprio quella sera, fidandosi di me e regalandomi le sue cicatrici. Ed io mi ritrovai ad essere felice, nell'assistere a quel momento che lo avrebbe cambiato per sempre.
Andò a spegnere la luce e a chiudere la finestra. Successivamente udii i suoi passi nel buio farsi sempre più vicini, fino a trovare destinazione davanti al mio letto. Forse la confusione del momento, o forse le cose preziose lo spinsero ad alzare le coperte e a sdraiarsi sul mio stesso materasso. 
Cicatrici indelebili, occhi impenetrabili, carne viva, pelle fredda. 
Cose preziose. 
Labbra screpolate, passi riconoscibili, baci prepotenti, manga su fogli stracciati. 
Cose preziose.
Ero finita nell'Inferno e lo sapevo. Buio, fiamme, senza una via d'uscita. 
Ma anche un fiammifero batte le tenebre.*




Hei people! 

*E' una frase che trovate in 24 carati, canzone di Mostro.
Ok, Annalisa è qui dopo 20 capitoli. Mi sono accorta che solo dopo così tanto tempo Becky e Luke hanno iniziato a conoscersi sul serio. E mi sono anche accorta di aver tirato per le lunghe questa ff per arrivare a ciò che accadrà nel 21° capitolo. Vivete in pace, non allarmatevi. Forse.
Malebolge comunque è il nome dato all'ottavo cerchio dell'Inferno da Dante, nella Divina Commedia. 
Grazie a chi legge questa storia su EFP e anche a chi la legge su Wattpad. A chi sente il bisogno di contattarmi e chiedermi dettagli, a chi recensisce/commenta. A chi legge silenziosamente, a chi non è convinto che questa storia sia un granché ma che è arrivato fino al capitolo 20. 
Ci vediamo al 21°, al momento in cui Luke è diventato un mostro.
Bye!
Nali :)


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=_w_wXIrsr7g
Twitter: funklou
 

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Capitolo 21
*** The start is the end. ***


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Luke's POV

Tra un casino e l'altro, tra costole incrinate e lividi violacei, una porta scassata e una macchina rubata, arrivammo a marzo. Non faceva ancora caldo, ma il clima era accettabile. Ovviamente, però, Rebecca aveva sempre da lamentarsi per tutto. E mi faceva ridere, quella stronza, e se ne accorgeva e forse per questo continuava a lagnarsi. 
Quel giorno, mentre il cielo aspirava i colori della sera, ci radunammo tutti a cenare nella mia stanza.
«Alla fine ci troviamo sempre a mangiare spazzatura» affermò Calum, dando un morso al suo panino. 
«Beh, non ti aspettare mica che io mi metta a cucinare» puntualizzò Ashton. «Luke lo faceva, un tempo.»
Mi guardò. Ci guardammo. 
«Potevo immaginarlo, al carcere ha sfornato delle lasagne manco le facesse tutti i giorni» disse Rebecca. 
«Sì...» mormorai. 
«Quella sera ci misi anni per convincerti a farti cucinare» rimembrò Ashton, con lo sguardo perso. Se la stava immaginando, quella scena. Ed io feci lo stesso.


Agosto 2012.
L'aria che tirava quel giorno di metà agosto era umida e calda al tempo stesso. La verità era che a Gosford non faceva mai il caldo madornale che ci sarebbe dovuto essere d'estate, essendo affacciata sul mare. Ci prendevamo tutto il vento che Dio ci mandava. 
Ashton, quella sera, rimase con me in taverna a cenare, non gli passava nemmeno per la testa di attraversare metà città per raggiungere la sua, di casa. Pareva un morto di fame da come mangiava, con la bocca a masticare maleducatamente il cibo e la forchetta tenuta malamente. 
«La prossima volta cucini tu» lo avvisai.
Fece una smorfia ironica e «Col cazzo» si rifiutò.
«Alla fine va sempre a finire così» mi lamentai. 
«Almeno prima si occupava Jack di queste cose.»
Alzai lo sguardo dal piatto e fissai Ashton. «Non credo che avrà voglia di tornare in questa casa.»
L'aria si fece tesa. In sottofondo si udiva il telegiornale sul primo canale. 
«Dai, vedi che gli passerà.»
Sbuffai e «Tu non hai ancora capito un cazzo di tutta questa situazione. Se noi accettiamo la proposta di mio padre, Jack farà anche finta di non conoscermi.»
Ashton buttò con forza la posata nel piatto in ceramica, provocando un rumore fastidioso. Lo sguardo gli si fece cattivo. «Lo vogliamo fare sì o no, tutto questo?»
Tacqui. La voce della giornalista mi si insidiò nella testa, confondendomi. 
«Ce li hai sì o no i coglioni?!»
Mi riscossi, perché quella frase proprio la gridò. Deglutii, respirai a fondo, mentre le mani continuavano a strofinarsi in un gesto continuo e monotono sulla stoffa dei pantaloni.
«Cristo, sì che ce li ho» risposi, infine. 
Sedici anni, una piccola vittima e un gran bastardo allo stesso tempo.

Mio padre, da quel giorno, scomparve per due settimane. Rimasi quattordici giorni nella mia stanza, ad invecchiare prima del tempo, a riempirmi di convinzioni che non riuscivano a confortarmi, a mangiarmi le unghie e ad evitare mia madre. Era stato chiaro: o tutto o niente. O convinti, o niente. Ed io ed Ashton
decidemmo di essere convinti, non che lo fossimo sul serio. Ma quel pomeriggio, mio padre si fece rivedere, suonò direttamente al citofono e «Scendi» ordinò. Guardai mia mamma chiedendole implicitamente scusa, per tenerla allo scuro di tutto, oppure semplicemente perché gli ero capitato io come figlio. Scesi in fretta le scale. Col SUV nero parcheggiato davanti a casa, aspettava con la faccia incazzata e il braccio fuori che gettava il mozzicone. 
Aprii la portiera e «Muoviti, non ho tutta la giornata» inveì.
Non risposi e feci aderire la schiena al sedile. Quando mi accorsi di non star percorrendo la strada che portava alla casa di Ashton, «Dove stiamo andando?» chiesi.
E lo feci con un tono normale, come se quello che stavo facendo ce lo avessi nel sangue. 
Non rispose. 
«Non passiamo a prendere Ashton?» domandai, ancora. 
«Per ora conto solo su di te. Sul mio stesso sangue» spiegò. «La pistola non è un giocattolo.»
La pistola. Sentii le mani cominciare a sudarmi e il cuore sbattere contro la gabbia toracica in un movimento veloce, quasi doloroso.
Mi piglia un infarto, pensai. Stetti in quello stato per altri venti minuti, con l'ansia e la paura a divorarmi e a devastare ogni pensiero razionale. Correva un tempo in cui la sentivo anche io, la paura. La sentivo e quasi mi cibavo di essa. 
Arrivammo in una zona collocata fuori dalla città, in cui regnavano la quiete e la calma. L'inferno stava più in là. 
Il SUV parcheggiò malamente sul marciapiede, mio padre prese un borsone nero e se lo issò in spalla. Ricordo il sentiero in discesa, la terra, i sassi che se li prendevi male ti portavano al capolinea col culo. E poi davanti a noi comparve un enorme capannone, macchiato dal bianco sporco.
«E' un capanno di un'industriale che sono riuscito a truffare con uno schiocco di dita. Roba facile» affermò, con una punta di fierezza. 
Cercai di contenere qualsiasi emozione, di non far trapelare la sorpresa che mi colse. Volevo sembrare forte, all'altezza, anche se quel mondo mi terrorizzava e mi faceva sentire così piccolo. 
Entrammo all'interno e vidi una serie di tavoli posti alla fine del capanno ed una fila di lattine sopra di essi. Mi sentii soffocare, lì dentro. Potevo ritirarmi, potevo fuggire a gambe levate e non lo feci. Mio padre aprì il borsone e solo il rumore della cerniera mi fece saltare in aria.
Che Cristo ti prende, pensai dentro di me. 
Impugnò due pistole ed era la prima volta che ne vedevo una dal vivo. 
«Quando hai una pistola in mano, puntala verso il basso. Calibro 22» dettò e me la mise in mano. Un brivido mi percorse tutto il corpo e si trasformò in adrenalina.
«Ogni volta che prendi un'arma, verifica se è carica. Togli la clip e tira il carrello all'indietro per controllare che la camera di sparo sia vuota.»
Lo feci. Le mani mi tremavano e bestemmiai un numero indefinito di volte dentro di me. Lo stesso fece lui con la sua. 
«Tieni le dita lontane dal grilletto, distendile ai lati e appoggiale. Ora tienila in posizione di sparo.»
Mi sentivo male. Avevo la netta sensazione di non riuscire a capire del tutto quei comandi, poiché il mio cervello si rifiutava. Più avanti, compresi il perché.
«Con il pollice da un lato dell'impugnatura, tieni il dito medio, l'anulare e il mignolo piegati intorno all'altro lato, sotto il guardamano del grilletto.»
Aveva la voce di uno che quella lezione l'aveva data così tante volte che ormai si era stancato di ripeterla. Eppure mio padre doveva avere un successore, uno che, se lo avessero ucciso, avrebbe preso il suo posto. Ed io ero proprio quella persona. Stringevo la pistola così forte da farla tremare. Cercai di rilassarmi e «Distendi questo e piega l'altro» ordinò, toccandomi il gomito. «Mira.»
Mirai. 
«Indice sul grilletto.»
Lo misi.
«Spara.»
Il colpo me lo sentii dentro. Una vibrazione che mi arrivò fino alle ossa, una potenza inverosimile che mi fece trattenere il respiro. Il proiettile si andò a schiantare contro la gamba del tavolo e si conficcò dentro. Rimasi esattamente nella posizione iniziale in cui ero, pietrificato. Decisi che se la paura avesse avuto un suono, sarebbe stato quello di una pistola.

Col tempo, al capanno incominciò a venirci pure Ashton. La mira migliorava, il suono divenne qualcosa di normale. L'udito si abituava, la mente anche. L'equilibrio, la postura e tutto il resto si perfezionavano continuamente. Le lattine cadevano come birilli, quasi ci prendevo gusto a massacrarle in quel modo. 
Ashton pareva esserci nato, con una pistola. Già il primo giorno, al terzo tentativo, buttò giù il suo bersaglio. Rimase a guardare il punto vuoto del tavolo, ed io con lui. 
«Cristo, che tiro» dissi. 
«Se l'avesse visto tuo padre, mi avrebbe spedito ad ammazzare qualcuno» affermò lui, sghignazzò. 
«Sta' zitto» replicai, rimettendomi in posizione per sparare.


Era il 16 agosto. 
Credevamo di essere sporchi, io ed Ashton. Ci sentivamo tali. Cominciammo ad uscire solo la sera tardi, ad andare a scuola un giorno sì e l'altro no. Evitavamo di guardarci tra di noi, per paura di concretizzare per davvero ciò che stavamo diventando. 
Ci appostavamo fuori dalla scuola a vendere grammi di marijuana, qualche volta anche qualcosa di più pesante, e riuscivamo a portare a casa sui 100, 150. Ci facemmo anche una notte in galera e ci uscimmo più segnati che mai. In tutto questo, mio fratello ci perdeva la testa. Dava di matto e non voleva più tornare in quella che era a tutti gli effetti la sua casa. Mio padre aveva proposto anche a lui di entrare nei suoi giri d'affari, ma si era rifiutato categoricamente. Andava contro i suoi ideali, contro la ragione, la razionalità. Io lo capivo, eppure i miei sedici anni non mi permettevano di ragionare come avrei dovuto. Era tutto così nuovo, così movimentato, così vivo. Avevo solo voglia di vivere, di sfuggire alla monotonia di Gosford. E lo feci nel modo sbagliato. 
Quel 16 agosto mi resi conto che non ero mai stato davvero sporco. Lo divenni quel giorno.
Ero in camera, mi guardavo allo specchio. Avevo la pelle abbronzata, una piccola scheggiatura sul sopracciglio sinistro e credevo anche che mi stesse bene. La canotta sbiadita che indossavo mi lasciava i pettorali quasi del tutto scoperti, e gli skinny jeans mi soffocavano le gambe da quanto erano stretti. 
Scesi le scale, soffermandomi a guardare l'orario e «Ci vediamo dopo!» urlai a mia madre. Dalla cucina spuntò il suo viso. «Dove vai?»
«In giro, con Ashton. Mi sta aspettando.»
E, se solo avessi saputo che quello sarebbe stato l'ultimo sguardo d'affetto sincero da parte sua, mi sarei avvicinato, le avrei lasciato un bacio sulla guancia e l'avrei salutata per bene. 

La mia mamma.

Uscii nel viale e trovai Ashton già sul motorino, senza casco. 
«Lo vuoi muovere quel culo?»
«E un attimo!»
Lo accese e il piccolo faro illuminò un pezzo di asfalto. Saltai in sella e cercai di sistemarmi il meglio possibile. 
«Ci facciamo un giro al bar di fronte alla piazza?» domandai, sfrecciando tra le vie di Gosford. 
«Che due coglioni, ci siamo già andati due giorni fa!»
«E allora vai dove ti pare» sbottai. 
Alla fine Ashton me la diede vinta e ci portò al bar della piazza, dove ci prendemmo una bella sbronza. Bicchiere dopo bicchiere, finimmo per annebbiarci la mente e a ridere per ogni cosa. Poi optò per un pub che si nascondeva in una via non troppo lontana dal centro. Si chiamava
Hipster, e già il nome diceva tutto. Quel giorno anche quel nome ci faceva ridere. I tipi lì erano sommersi dai tatuaggi, si muovevano con le bottiglie in mano e sorridevano convenzionalmente. Probabilmente tempo prima ne avrei avuto paura e ci sarei stato alla larga, ma non in quel momento. Non ora che ero diventato un uomo. 
Ashton lasciò il motorino nelle grinfie di tutti, parcheggiandolo di fronte al pub. Camminammo sballottando un po' ovunque, tirandoci delle spallate amichevoli. Ma io manco ci entrai, lì dentro. Perché davanti, proprio sulla soglia dell'entrata, c'era colui che era mio fratello, la persona con cui ero cresciuto, con cui avevo litigato, fatto a botte e poi pace. 
La sensazione fu più o meno come quella del primo sparo. Uno sparo, e poi il corpo perse tutte le emozioni e si svuotò. La figura fisica c'era, io c'ero, ma dentro niente. Una fottuta statua.
Sorrideva, Jack. Sorrideva, con la bottiglia in mano, mentre parlava con un suo amico. 
«Mi sembra di conoscerlo, quello» annunciò Ashton, indicandolo, tanto era ubriaco. 
«E' mio fratello» dissi. 
Jack mi vide. Ci guardò, smise di sorridere e lo sparo si fece più rumoroso.
Sei un uomo, adesso, mi dissi. Vai lì e lo affronti. Gli dici di tornare a casa, perché la mamma sta male, senza di lui. Perché in fondo ti manca. 
Eppure non fu esattamente quello che feci. 
L'amico con cui parlava se ne andò, con molte probabilità era stato proprio Jack a dirgli di lasciarlo solo. Perché si fidava del suo fratellino Luke, cazzo, lo faceva.
Ci avvicinammo, prendendo un po' di lucidità. Salimmo sul marciapiede su cui stava lui e «Che ci fate qui?» esordì lui, con freddezza. 
Diciannove anni e la capacità di dire no alla corruzione. Gli occhi di ghiaccio, i capelli biondi. La mia copia sputata. 
«Tu, che ci fai qua» ribattei. 
Si strinse nelle spalle. «Cos'è, non siete a fare una rapina nella banca della città? Dove sono i vostri passamontagna?»
Non ci piaceva la sua ironia, ci faceva solo incazzare. «Smettila di fare l'adolescente incazzato, torna a casa. Mamma ti aspetta.»
Rise. «Io non ci torno, in una casa di mafiosi.»
Mi salì quella rabbia che immobilizzava, che ti stordiva e che ti lasciava fermo per paura di ciò che avresti fatto. Il non saper cosa fare. 
«Non siamo mafiosi, che cazzo ti passa per la testa?» risposi, a denti stretti. 
Prese un altro sorso di birra e «Io non sono più tuo fratello» pronunciò. 
Lo afferrai per le spalle e lo sbattei al muro. La bottiglia cadde sull'asfalto e si frantumò in tanti piccoli pezzi di vetro. 
«Che cazzo hai detto?!»
«Hai sentito!» bestemmiò e lo lasciai. Lui si risistemò i vestiti e mi guardò in cagnesco. «Fate il cazzo che vi pare, ma io non vi conoscerò quando sentirò i vostri nomi al telegiornale.»
A quel puntò scattai. Caricai il pugno destro e glielo scagliai sullo zigomo, barcollando poco dopo. Jack si portò la mano sulla parte lesa e imprecò. Quando si riprese, rispose con un pugno, sicuramente più forte del mio, data l'età. Sentii il niente per i primi secondi e poi il dolore più atroce che avessi mai provato. Sentii del sapore metallico in bocca e cominciai a sputare sangue. Caddi a terra, appoggiando una mano al muro. Ricordo di aver provato ad alzarmi e non ci riuscii, troppo ubriaco. 
Ashton prese ad attaccarlo, vidi davanti a me la ginocchiata che gli tirò nello stomaco, la bocca semiaperta di mio fratello, il dolore sulla faccia. 
«Bastardo!» gli urlò. 
Da lì in poi, la confusione più totale. Sembravano una cosa sola, attaccati, appallottolati, a graffiarsi e ad affondare pugni e calci. Il problema è che vidi la scena che mi si ripeté per anni nella testa. Un pugno sotto al mento, la testa che sbatte contro il bordo del marciapiede, gli occhi che si chiudono. Un urlo anomalo, roco. Poi me ne accorsi: era stato mio. La gola prese a bruciarmi e si aggiunse al dolore al viso. 
Ashton si immobilizzò, lo contemplò per un paio di secondi e «Jack» lo chiamò. «Jack!»
Avevo il respiro irregolare e le gambe molli. Però trovai la forza di alzarmi e mi accovaccia lì a fianco. 
«Togliti» ordinai ad Ashton. 
Gli presi il mento e lo scossi. «Jack, Jack. Per favore.» Mi resi conto di star tremando e di star affannando. «Chiama un'ambulanza. Una fottuta ambulanza!» gridai. 
Iniziai a pregare e a dondolarmi su me stesso, per confortarmi, mentre gli passavo una mano sui capelli biondi. Io lo sentivo, il suo respiro. Stava diventando anche il mio, stavo cominciando a dipendere da esso. E iniziai a sussurrare frasi sconnesse, «Se non smetti di respirare, giuro, torno a casa e lascio stare tutta la questione di papà. Ti prego, Jack, ti prego...» e i singhiozzi mi strapparono il respiro. 
Dal pub cominciarono ad uscire gruppi curiosi di persone, e in poco tempo tutto il marciapiede si riempì, eppure io vedevo solo me e Jack. Arrivarono poi i tremori, i sospiri. Sentivo di starmene andando con lui. 
L'ambulanza arrivò in sette minuti, e Ashton smise di infilarsi le mani nei capelli e di tirarseli come un dannato. «Porca puttana, porca puttana...» se ne andava dicendo. 
Misero Jack su una barella, facendo salire anche me ed Ashton sull'ambulanza e partirono. Le domande, la paura, la confusione, i semafori, l'ossigeno, le chiamate. 
Quando accanto a me ci furono Ben e mia madre, in quell'ospedale ci dissero la verità. Ed era che stava nel terzo stadio, nel coma profondo. Nessuna reazione motoria, anomalie respiratorie, movimenti degli occhi. Fu lì che mi coprii il viso con le mani e mi lasciai andare alla disperazione. E fu quando Ashton mi abbracciò, che capii davvero di essere diventato un mostro. Perché il tacito accordo che ci scambiammo con quel gesto, era che ce lo saremmo tenuta per noi, quella verità. 
Verità che poi si era trasformata in incubi, insonnolenza, paranoie. La consapevolezza di essere qualcosa da far soffrire, perché lo avevamo quasi ucciso, lo avevamo fatto insieme. Perché i sensi di colpa si nutrono della mente umana, perché faceva così male da voler aggiungere altro male, una montagna di dolore. Perché il coraggio di andarlo a trovare non lo ebbi mai più, perché un mostro ormai lo ero diventato e tale sarei rimasto. Perché lo sguardo mi si incupì, diventò più cattivo e davanti a me vedevo solo persone che erano carri armati e mi volevano solo far soffrire tanto quanto Jack. 
Perché il giorno dopo ero già al capannone a sparare, perché Ashton parve diventare di pietra ed eravamo spaventati. Perché mia madre sembrò entrarci pure lei, in coma, e perché la polizia non aveva ancora un colpevole.
Perché, due anni dopo, nella lista degli indagati due nomi c'erano, ed erano quello mio e di Ashton. I mostri che erano sempre stati nascosti nel buio, e a cui adesso la luce faceva bruciare gli occhi.



«Ti avevo detto che dalla prossima volta avresti cucinato tu» mormorai, mangiucchiando le patatine fritte. 
Avevo gli occhi lucidi, me lo sentivo. Ma non potevo permettere di far trapelare così tanta debolezza.
«E non l'ho fatto» puntualizzò Ashton. 
«Infatti siamo qua a mangiare schifezze» affermò Rebecca.
Inspirai a fondo, sentendo però il respiro bloccarmisi a metà. Avevo davanti la faccia di mio fratello ancora su quel marciapiede, la mia stessa faccia, quasi identica. Il suono strillante delle ambulanze in testa, il rumore delle rotelle della barella a contatto con l'asfalto. Le botte che avevo dato ad Ashton nei giorni successivi, il suo viso tumefatto, e poi i pianti insieme.
Smisi di mangiare e mi accartocciai su me stesso in una parte del letto. Ashton se n'era accorto, non si perdeva niente. Così «Va beh, ormai abbiamo finito di mangiare. Andiamo nella stanza di Val, ché lei c'ha il televisore al plasma. 'Sta stronza!» disse. 
E dopo una manciata di minuti, dopo aver sistemato la stanza, «Non viene, lui?» domandò Calum. 
«Nah, lascialo lì. L'erba ogni tanto lo stende» rispose Ashton. 
«Io resto qui» avvisò Rebecca.
«No, vai pure tu» protestai. 
Indurì lo sguardo. «Luke, ho detto che resto qui.»
«Dio, ma che t'ho fatto di male? Sempre in mezzo ai coglioni.»
Calum ed Ashton se ne erano già andati, avevano capito come si sarebbe conclusa quella discussione. 
«Ma lo vedi come fai? Stai lì, come un verme, sei pallido peggio di un bucomane, e appena qualcuno si offre di aiutarti fai così. Bella merda che sei.»
Sospirai, percependo il mal di testa aumentare. «Non la capisci, questa cosa del voler rimanere da solo per avere un po' di pace.»
«Mi dà fastidio che quando hai qualcosa te la tieni per te e ti fai vedere così. Vorrei che tu me lo dicessi e basta, che cos'hai. Lo sai che mi incazzo subito.»
Ci zittimmo. Rebecca si mise il pigiama, senza vergogna, mettendo in mostra quel corpo abbronzato. Così, «Resti?» le chiesi, togliendomi la maglietta. 
«Resto.»
Mi sdraiai sul letto e Rebecca mi si accovacciò di fianco. Dopo minuti in cui regnò il silenzio assoluto, cominciò a far vagare le dita sul mio petto, accarezzando ogni cicatrice, più e più volte, in modo distratto. La pelle mi si ricoprì di brividi, lei li vide, ma non si fermò. Proseguì con quei movimenti, fino ad arrivare alla cicatrice sul braccio, quella di una proiettile. La osservava, impassibile, ripassandoci sopra il dito e, ad un tratto, «Ti fa male?» mi domandò. 
Avrei voluto risponderle che sì, che faceva male, ma non fisicamente. «No.»
Ogni tanto mi capitava di sentire ancora il rumore assordante di quello sparo, conclusosi nella mia carne. Il fiato corto, la debolezza, la paura di non arrivare in tempo... Quelli sì, che facevano male. Una vendetta tra clan che si era consumata su di me. 
Rebecca rimase in silenzio. Piano piano i suoi tocchi si fecero sempre più deboli, sempre più lenti, fino a quando non la guardai e vidi il suo viso completamente rilassato. Si era addormentata, con la guancia appoggiata sul mio petto e il corpo appoggiato al mio. Riuscì a farmi scattare un moto di tenerezza e di protezione che quasi mi vergognai anche solo di pensarli. lei non era di queste cose, lo sapevo, eppure a me quel «Credo di starmi innamorando di te, Rebecca» uscì così spontaneamente che non me ne meravigliai.
Sperai che il silenzio portasse via velocemente le sfumature delle mie parole e che la mia frase smettesse di rimbombarmi nella testa. Paura e vergogna si mischiarono, lasciandomi in un turbine di confusione. Intrappolato in me stesso, sperai solo di dimenticarmi presto quella piccola confessione.
Due secondi dopo, Rebecca mosse le palpebre.




Hei people!
E' strano, perché adesso la storia non è più solo in un piccolo angolo della mia testa. Adesso la sapete anche voi, sapete cosa si nasconde dietro a Luke, mi sento un po' più leggera
L'ultima parte nemmeno la commento, perché spero che abbiate capito e basta. E' così intenso, il rapporto tra quei due, che mi lascio trascinare pure io da loro.
Passare di fianco all'Hipster (bar della mia città) d'ora in poi mi impressionerà, cercherò di non immaginarmi troppo la scena, ok...

Vi voglio dire che non sono una pazza che usa tutti i giorni pistole, mi sono solo informata ahah
Grazie a Martina per aver supportato sin dal primo giorno questa storia.
Vado e vi saluto, lascio a voi la parola!
Nali :)

twitter: funklou

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Capitolo 22
*** Not sorry for the blood. ***


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Abbiamo visto l'alba, perso la calma
fatto di uno sbaglio un dramma e dell'amore un'arma
La puntavi su di me, piangevi
Ero la cosa più bella che avevi


 

Ci sono cose che si vedono e che vengono nascoste da noi stessi. Le vediamo, o forse le sentiamo. Ci illudiamo che non siano successe, cerchiamo di fingere, di nascondere, di negare. E alla fine ci rendiamo conto di star facendo tutto per noi stessi, ci prendiamo per il culo da soli. Come quando uno stronzo ti tratta da schifo, ti fa un male cane, se ne va e poi torna. E quando lo fa, non ce la fai a far finta di niente. Quelli sono i suoi capelli, quello è il suo naso, quelle le sue labbra. 
La realtà è quella che è. E io non potevo nascondere Luke, lui c'era, era proprio incastrato nelle costole. E quella frase l'aveva detta, l'avevo sentita e poi l'avevo soppressa. Bruciava, nella mia testa. Un pensiero letale, quello. Un tormento che era da annientare e basta. 
Lo nascosi già il mattino dopo e anche lo stesso pomeriggio, quando tornammo dal carcere. Eravamo scesi dal pullman -ovviamente senza aver pagato il biglietto- e insieme a noi anche altre persone. Luke si appostò dietro di me, mentre camminavamo sul marciapiede, e mi afferrò dai fianchi. La sua risata echeggiò per tutto il quartiere, un suono acuto quanto dolce. Le sue mani si agganciarono al mio bacino e la sua guancia sfiorò il mio collo. 
Fai finta di niente. Non sta succedendo nulla.
«Dai, ma scollati un po'!» mi lamentai io, senza fare sul serio. 
Luke mi pizzicò giocosamente il fianco e i passanti non potettero che posarci lo sguardo addosso, anche solo di sfuggita. Mi lasciò un bacio giocoso sul collo e «Guarda che stronza che mi sono andato a pescare!» disse. 
La realtà è quella che è, a volte fa paura. A me, quel pomeriggio, metteva un'angoscia tremenda. Io non volevo che andasse a finire così, non volevo che Luke credesse davvero che due persone come noi potessero innamorarsi. 
«E smettila di fare il cretino, guarda che ti strappo quel piercing che ti ritrovi.» 
Era strano, forse un po' tanto, perché da quel giorno non riuscii più a fare la stronza fino in fondo con Luke. C'era l'ansia di fargli male, di ferirlo, perché adesso mi sentivo in mano il potere di ucciderlo. L'amore distruggeva, provocava una scissione interiore che io non volevo vedere in quegli occhi che azzurro limpido erano e così sarebbero dovuti rimanere. 
«Mica mi levo di mezzo così, io» affermò, allentando però la presa e prendendo una sigaretta. «Sennò poi chi ti tira fuori da quel buco di camera alla sera?»
«Taci, ti dai troppe arie» lo ammonii io, allontanandomi. 
Lo osservai, così magro, così vissuto e così inconcepibile. Tante stranezze, tanti pezzi ancora da scoprire. Luke Hemmings non era solo da vivere, ma anche da far vivere.


Era dura da ammettere, ma senza Luke mi annoiavo parecchio. Parlare con Calum equivaleva parlare col nulla, preso com'era dalle sue cuffie e dalla sua stremante musica. Sempre la stessa, sempre. Per questo, quando un pomeriggio di quella stessa settimana Luke tornò da un allenamento di hip hop, quasi sospirai. Odiavo cadere definitivamente nei miei pensieri, in tutto ciò che era me stessa. Troppo me stessa. 
Aprì la porta qualche minuto dopo che Calum se ne fosse andato. Aveva una faccia sciupata che quasi ti veniva voglia di tirargli due schiaffi per farlo riprendere. Posò goffamente la borsa a terra e cadde a peso morto sul letto di Michael. 
«Ciao, eh» esordii. 
«Sono distrutto» fece lui. 
Mi avvicinai e gli passai le dita fra quei capelli disordinati e sudati. «Dormi, allora.»
Luke annuì, debolmente, chiudendo gli occhi. Probabilmente lo stetti a guardare per minuti, ore. Il tempo di osservare ogni particolare, ogni ombra. Qualsiasi cosa gli appartenesse, adesso era mia.
Non seppi quando si svegliò. Sapevo solo che dietro alla nostra porta qualche fuori di testa aveva organizzato una festa, una di quelle che da sempre avvenivano sui piani della Uno e della Due. Quella volta, capitò a noi poveracci. Con molte probabilità Luke aprì gli occhi mentre io ero in doccia già da una decina di minuti. Quando aprii la porta del bagno, con i capelli ancora gocciolanti, lui era lì. In piedi, appoggiato con un fianco all'armadio. Aveva in mano qualcosa, qualcosa di bianco. 
«Ti sei svegliato» constatai, spazzolandomi i capelli. 
«Sì» disse, con la voce roca di chi si è appena svegliato, ma anche di chi ce l'ha col mondo. 
«Che ti prende?»
Si strinse nelle spalle e «Mah, nulla di che» proferì, girandosi. Non l'avesse mai fatto. 
Gli occhi resi piccoli dal sonno rendevano il tutto un po' più raccapricciante. Luke era incazzato, lo potevi capire anche a un chilometro di distanza. Mi fissava e i suoi tratti rimanevano duri. 
«Che cazzo è questa?» chiese, alzando ciò che aveva in mano. 
Per poco non soffocai. Era la maglietta di Michael. 
Ricoprii la distanza che ci separava e gliela strappai di mano. «Dove l'hai presa, eh?»
«Chi se ne frega dove l'ho presa. Te la tieni qui, allora?»
«Hai problemi al riguardo?» inveii, stringendo sempre più possessivamente il tessuto. La realtà era che solo in quel momento ammisi a me stessa che sì, che me la tenevo lì perché la volevo, e non perché me l'avesse lasciata Michael. 
Luke non ci pensò minimamente, di tenere alta la sua dignità. «Ho dei problemi, sì.»
«Cristo, tu sei malato» dissi io, allontanandomi. 
Lui mi riprese dal polso e mi riavvicinò. Gli occhi piccoli, troppo piccoli, un azzurro che non era il suo. Le sopracciglia corrugate, un brutto segnale. 
«Cosa sono io, scusa?» domandò, eccessivamente calmo. 
«Insomma, che vuoi, Luke?» chiesi, risoluta, senza voglia di rimanere lì a litigare con quella sua personalità scontrosa. 
«La devi buttare» decretò, infine. 
Era l'unica cosa che mi rimaneva di Michael. L'unica cosa materiale, l'unica cosa che mi confermasse di non essermi inventata tutto, che qualcuno su di me ci avesse lavorato davvero sopra. 
«Sei assurdo.»
La presa al polso aumentò e, forse non accorgendosene, o forse facendolo di proposito, mi fece sbattere la testa contro l'anta in legno dell'armadio. Nessuna smorfia di dolore si fece strada sul mio viso. 
«Te ne devi disfare, di Michael. Tu non hai nemmeno idea di chi sia realmente» affermò, fissandomi, cattivo. 
«E chi è? Sentiamo, dai» lo provocai. 
«Non ti è sembrato meno Rebecca e più Michael, negli ultimi tempi?»
Sentii lo stomaco accartocciarsi e il viso prendere fuoco. 
«Non ti è sembrato sempre più assente, sempre più lontano?»
Gli occhi cominciarono a pizzicarmi. Non qui, non per Michael. Non di nuovo.
Un'espressione di rancore sul viso il secondo prima di parlare e, poi, semplicemente, «Michael è esattamente come Ashton» disse.
Un po' lo sentii, un dolore lancinante all'altezza del petto. Un male al cuore, manco mi avessero pugnalato di sorpresa. 
«Vai a dirle a qualcun altro, 'ste stronzate» inveii io, stringendo i denti per le sue dita premute sul mio polso. 
«Che scopo avrebbe mentirti?» domandò, ma non la voleva sentire, la risposa. Eppure io gliela diedi lo stesso. 
«Perché sei geloso.»
Il suo respiro non era un granché regolare. Il petto gli si alzava e abbassava vistosamente, stava andando fuori di testa. Questo mi ammazza, pensai. 
«Ascoltami bene, brutta stronza» esordì, sempre più cattivo «Non ti sei accorta del suo lento degradare solo perché non volevi vederlo. Perché non hai il coraggio di ammettere che l'hai perso, che per una volta nella tua vita non sei riuscita a tener per bene chiusa la gabbia in cui lo tenevi rinchiuso.»
Non so quante volte mi dissi mentalmente di non piangere, di restare forte. 
«Non ho perso proprio un cazzo di nessuno, e tu sta' fuori da tutto questo» ribattei, mostrando tanta rabbia solo per coprire il dolore. 
Luke rise, una risata di scherno. L'avrei ammazzato, avrei voluto vedergli il sangue uscirgli dal naso. «L'hai perso esattamente quando è diventato come Ashton.»
«Michael è troppo debole, non ne sarebbe mai capace.»
«Faresti di tutto per sfuggire ad un amore soffocante.»
A quel punto la mano mi tremò. Mi dissi di respirare profondamente, di controllare la rabbia che adesso mi stringeva lo stomaco. E non ce la feci. «Io non ho soffocato nessuno!» Liberai velocemente il polso e con una forza che non avevo idea da dove avessi preso gli lasciai uno schiaffo sulla guancia sinistra. La sua testa seguì il movimento e girò. 
Un silenzio tremante si nutrì di tutta la stanza. Restò con la faccia girata per secondi, che sembravano anni, tutti quelli in cui io e Michael eravamo una sola persona. 
Senza accorgermene, mentre pensavo se eravamo stati più Rebecca o più Michael, sentii le sue nocche contro il mio zigomo. Vidi nero per un tempo breve, brevissimo, e avrei voluto il nero ancora di più, perché subito dopo davanti mi ritrovai quella faccia, la sua. Percepii il sangue scendermi dal naso, e poi me lo sentii anche in bocca. Lui non disse niente, io nemmeno. Ce ne stavamo uno di fronte all'altra a guardarci, a sbranarci con lo sguardo. Apparentemente non reagii, ebbi solo l'istinto di fissarlo e vedere quanto avrebbe retto l'idea che quel sangue stesse scendendo per mano sua. Sentivo il suo fiato infrangersi contro il mio viso, vedevo il suo volto impallidirsi e i suoi occhi diventare lucidi. Non ero sicura che stesse vedendo me, che stesse vivendo quella scena. La sua mente era da un'altra parte.
«Ti do un fazzoletto» esordì, poi, mentre il sangue non voleva fermarsi e adesso mi solleticava il collo. 
Io gli strappai di mano la maglietta di Michael e me la portai al naso. Non lo volevo il suo cazzo di fazzoletto.
Volevo fargli vedere quanto ci volessi sputare sangue su quel rapporto che probabilmente non era nemmeno più lo stesso, ma ci tenevo a sbattere in faccia a Luke che il resto passava, tutto cambiava, ma Michael sarebbe sempre stato un qualcosa che mi si era cucito addosso. Che avrei combattuto, che mi sarei presa tutti i pugni di 'sto mondo per lui, senza dare la soddisfazione a nessuno di vedermi soffrire. 
Luke restò impassibile, a quella vista. Decisi di entrare in bagno e sputare il sangue che mi si era accumulato in bocca. 
«Non voglio sentire niente» lo avvisai, vedendolo vicino allo stipite della porta. 
«Guardati allo specchio» rispose lui. 
Non so perché, ma lo feci. E vidi una me che non ero io, una visione mostruosa, terrificante, così tanto che mi feci schifo. La stanchezza aveva trovato posto sul mio viso, insieme al sangue, insieme alla pelle sfregiata sullo zigomo e tutto il violaceo intorno. Ma, soprattutto, vidi Luke.
«Adesso, ovunque andrai, mi porterai con te.»
Strinsi le mani attorno al bordo del lavandino. L'acqua si mischiava al sangue e riproduceva una scena raccapricciante. Mi ci volle tutta la volontà di questo mondo per non stringergli le mani al collo e soffocarlo. Luke era fuori di testa, una contorsione ai limiti della sanità. 
«Esci da questa stanza, fatti un giro. Non ci voglio finire dietro alle sbarre» pronunciai, con una freddezza di cui non mi pentii. 
Luke rimase lì, immobile, a fissarmi. La sua presenza iniziò a farmi male, e l'acqua scorreva, ed io volevo solo dormire e far cessare il dolore. 
«Ho detto di andartene.»
Silenzio. 
«Vattene, Cristo!» sbraitai, con la bocca impastata dal sangue e dalla saliva, dando di matto, con un tono che ora era più disperato. Chiusi l'acqua, mi appoggiai completamente al bordo del lavandino e abbassai la testa. Due gocce di sangue, solitarie, caddero sul marmo bianco. Fu in quel momento che iniziai a piangere. 
«Devi tenere la testa alta e guardare all'insù, sennò non lo blocchi» affermò Luke, come se lui non c'entrasse niente. Ed io lo lasciai fare quando mi posò una mano dietro alla nuca e mi fece guardare il soffitto. Lo lasciai fare anche quando prese il suo dannato fazzoletto e mi ripulì il viso, anche quando passò delicatamente due dita sulla pelle lesa. 
E io nel frattempo piangevo e forse non lo facevo nemmeno per quello, forse solo per Michael, perché i pugni li tiri quando vuoi far prevalere ciò che dici e ne sei convinto. Allora mi immaginai Michael nelle vesti di un criminale e continuai a singhiozzare come una povera disgraziata, di fronte a Luke che faceva finta di niente e non chiedeva nulla. 
Avevo trovato un fondo di verità in ciò che mi aveva detto e lui lo capì. Così mi lasciò nel mio dolore perché aveva idea di quanto una sofferenza sorda e intensa facesse male. Perché quando qualcosa si rompe, è per sempre. Eppure ciò che legava me e Michael prendeva colpi, si sfilacciava, si sbiadiva ma no, non riusciva mai a rompersi definitivamente.
E questo faceva un male cane. 
Perché significava essere migliori amici.


Quando finalmente io e Luke ci calmammo e la stanza si ammutolì, la festa sembrava così lontana. Eppure ce l'avevamo dietro la porta. Eravamo come isolati, immersi in un mondo a parte. 
Nel momento in cui uscii sul balcone mi accorsi di quanto freddo facesse a quell'ora. Mi sedetti sulla sedia in plastica e mi accesi una sigaretta, mentre sbloccai il mio cellulare. Produceva una luce quasi accecante, in mezzo a quel buio. 
Luke mi chiamò dalla stanza ed io non risposi. Ero occupata a scorrere i nomi nella rubrica e ad arrivare alla lettera M. 
«Hai le labbra viola, entra dentro prima di morire congelata» esordì lui, apparendo di fianco alla finestra. 
Aspirai dal filtro e fissai lo schermo. Con i movimenti rallentati dal freddo, il rancore e la rabbia addosso e senza nessun pentimento, premetti un tasto. E quello bastò per eliminare il suo numero.
Mi alzai, spensi la sigaretta mezza fumata nel posacenere e bloccai il cellulare. «Arrivo» gli dissi.


Non mi andò di parlare con Luke, nei giorni seguenti. Ero abituata agli schiaffi seguiti poi dalle carezze, ma i suoi si rivelarono più dolorosi degli altri. Odiavo quella sua faccia, mi ricordava il suo riflesso nello specchio del bagno quando ancora il sangue non si era fermato. La odiavo così tanto che non ce la facevo a parlargli, a guardarlo e a far finta di niente. Nemmeno durante le lezioni, nemmeno a casa, nemmeno a mensa. Per un po' la sopportò, questa cosa. Luke non era uno che amava mostrare quanto qualcosa lo infastidisse. 
Ma quel pomeriggio proprio non ce la fece più. 
Era appena suonata la campanella dell'intervallo quando strisciai la sedia sul pavimento e mi alzai. Furtiva, senza guardarmi alle spalle, uscii dalla classe e percorsi il corridoio, che si stava sempre più affollando. Da dietro sentii prendermi il polso e poi un «Rebecca, fermati».
Lo feci. Mi girai e, nel momento in cui lo guardai, rividi la scena di qualche sera prima. «Dove stai andando?»
«Fuori, a fumare.»
«Aspetta, vengo anche io.»
Scossi la testa e mi districai dalla sua presa. Lui non si oppose. 
«Vado da sola, tranquillo.»
Lo vidi sbuffare, e poi un'espressione rassegnata sul volto. Così gli diedi le spalle e camminai verso le scale. Proprio mentre stavo per scendere il primo gradino, «Rebecca!» urlò, tanto che gli studenti si voltarono verso di lui.
«Che cazzo vuoi, Luke?» gridai pure io, e per qualche secondo il corridoio parve fermarsi, per poi riprendere lo stesso caos di sempre. 
Fece qualche passo verso di me, raggiungendomi e «Mi stai evitando» constatò. 
«Che importa? Tanto, in un modo o nell'altro, ti porto ovunque io vada» risposi, e il suo sguardo cadde involontariamente sulla botta sullo zigomo. 
«Ascoltami, io-»
«Avevi detto di starti innamorando di me» sbottai. Proprio non ci riuscii a trattenermi. 
Luke si immobilizzò all'istante. Gli occhi spalancati, la bocca socchiusa, il puro panico dipinto sul volto. In mezzo a quel corridoio, con decine di studenti attorno, sentii per la prima volta di aver potere su di lui. 
«Mi hai sentito?» chiese, adesso a bassa voce, che quasi mi fece pena. 
Annuii. «Non stavo dormendo.»
Buttò fuori un respiro profondo e si passò una mano sul viso con fare disperato, per poi mordicchiare nervosamente il piercing al labbro. 
«Non siamo fatti per queste cose, possiamo fare finta di niente.»
«Rebecca» pronunciò, perché Becky non ci era mai riuscito a chiamarmi. «Non era una cazzata.»
«No, Luke, sta' zitto. Ti prego. Non ce la faccio a sentirmi dire queste cose.»
A Luke diventò la faccia cattiva. La stessa della scorsa notte. Forse per non spaccarmi di nuovo la faccia, tirò un pugno al muro, attirando di nuovo l'attenzione su di sé. 
«Cristo, uno ti viene a dire che sta iniziando ad amarti e tu gli rispondi così!»
«Uno che ti ama non ti spacca la faccia!» ribattei io, alzando a mia volta la voce.
«Uno che ti ama ti fa soffrire, Rebecca.» 
Dalla classe in fondo al corridoio comparve una professoressa che pareva essere uscita per la prima volta dopo anni. Si avvicinò sempre di più a me e a Luke e «Che avete da urlare, voi due?» sbraitò. 
«Niente» intervenne lui. 
E, proprio mentre lo disse, mi rassegnai. Perché una disgrazia come Luke me la sarei tenuta sempre e comunque nella mia vita. Perché niente, per me, non lo era stato affatto.


Non riuscivo a starmene da sola in camera. Non avevo nessuno con cui andare a farmi un giro, qualcuno con cui tornare a ridere come ai primi tempi. Calum c'era e non c'era, viveva perché respirava. Così. Non ci potevi parlare più di tanto, si stava piano piano sbiadendo. Un degradare che non volevo vedere, da fermare, e così decisi di poterlo fare.
Calum doveva tornare a casa.
Provai ad aprire la camera 38 e la trovai chiusa. Allora bussai e nessuno rispose. Imprecai, cercando di capire dove si fosse andato a cacciare e uscii dalla Due. Vidi il portone della Uno socchiuso, così optai per entrarci e salire fino alla stanza di Ashton e Luke. Aprii la porta senza pensarci, quelli come me non erano stati abituati alle buone maniere. 
Mi aspettavo di trovare Calum o Ashton, ma la stanza era buia e silenziosa. 
«Ash?»
Non c'era. Mi avvicinai alla finestra e alzai la tapparella. Sembrava il bunker di due latitanti rinchiusi lì dentro da mesi. C'era un odore quasi nauseabondo, e mi chiesi come facessero a viverci. 
Fu nel momento in cui mi voltai che la vidi. Sul comodino, poggiata su una vecchia agenda, di fianco al telecomando, c'era una pistola. Quella di cui Calum mi aveva avvertita e la stessa che adesso vidi io con i miei occhi. Probabilmente quello che mi passò negli occhi fu simile ad una marea improvvisa. Mi sedetti sul letto, apparentemente calmissima. Chiusi in me stessa tutto ciò che quel misero oggetto mi fece provare e ascoltai il silenzio. L'unica medicina. 
Presi in mano la pistola, me la raggirai tra le dita. Non me la sarei mai immaginata così pesante, nemmeno così detentrice di potere. Pensai che con quella io avrei potuto uccidere Luke, che sarebbe bastato un click ed io l'avrei ammazzato. Una roba facile. Eppure non lo avrei fatto, non l'avrei ucciso. Io avevo deciso di farlo vivere.
Stetti con quella pistola in mano per tanto tempo, osservandola, chiedendomi se fosse passata anche tra le mani di Michael. Aspettai, non feci altro. 
La luce si tramutò nel buio della sera e qualcuno abbassò la maniglia ed entrò. 
«Cazzo, s'è dimenticato di chiuderla» borbottò una voce ed era quella di Luke. Accese la luce e, quando alzò lo sguardo, si ritrovò la pistola puntata in faccia. Lo vidi sbiancare e alzare le mani. 
«Cristo, che paura, che cazzo stai facendo, Rebecca?» Abbassò le mani quando si accorse che ero io. 
«Dovreste chiudere la porta a chiave» dissi io. 
«Posa quella maledetta pistola. Tu sei fuori di testa.»
«E' di Ashton, vero?» proseguii, senza nessuna voglia di starlo a sentire. 
«Quando ne hai in mano una devi tenerla puntata verso il basso. Ascoltami.»
«E come mai sai queste cose, eh?»
«Ti scappa il morto se non abbassi questa cazzo di pistola!»
«E cosa ti dice che io non voglia ucciderti?»
«Non hai tolto la sicura, Rebecca.» 
Luke si avvicinò piano, consapevole che non gli avrei mai fatto così tanto male fisico. Mi tirò via dalle mani la pistola e si sedette di fronte a me, mettendola sul comodino. 
Mi guardò così forte che credetti di sgretolarmi.
«Si può sapere che ti è preso?» domandò, poggiando una mano sul lato del mio collo. Era gelida, come se il sangue avesse smesso di scorrergli. 
«Mi hai mentito. Mi hai detto che non ce l'aveva.»
«L'ho fatto perché se te l'avessi detto avresti tirato su un casino. Ti conosco. E Ashton non ne ha bisogno, di casini.»
«L'hai mai usata?»
«No.»
Io gli credevo. Dovevo farlo, perché mi resi conto di avere solo lui. 
Mi stampò un bacio leggero sulle labbra scure per il freddo e la dolcezza con cui lo fece mi innescò ancora quel sentimento di protezione nei suoi confronti. 
Sei malata, Becky, diceva una voce nella mia testa. 
«Ashton questa notte non torna, stai qua» asserì, alzandosi e togliendosi la maglietta. Poi, mentre se ne andava in bagno, «Puoi prendere una maglietta nell'armadio. O una felpa. Hai freddo?» proseguì.
«Faccio io.»
Luke sparì per qualche minuto ed io trovai una felpa grigia piuttosto grande, ma comunque comoda. Assomigliava vagamente a quella di Michael. 
Mi infilai sotto le coperte e dopo mi si affiancò Luke. Ormai eravamo abituati ai nostri corpi, ciò che c'era da contaminare era stato contaminato. Si sporse per spegnere la luce e «Nascondila» gli ricordai, riferendomi alla pistola. 
«Ci pensa Ash domani. Tanto ho chiuso a chiave la porta.»
Non dissi niente, restai solo a guardarlo. C'era qualcosa che scattava quando incontravo i suoi occhi. Luke mi svuotava. 
Passarono alcuni secondi muti e poi «Mi dispiace avertelo detto così, ma non stavo mentendo quando t'ho detto di Michael» dichiarò. 
Forse era la sera che lo faceva parlare. Io non lo sapevo.
«Non dirmelo però che cosa ha fatto. Dimmi solo se ha fatto del male a qualcuno.»
«No. Solo a se stesso.»
Annuii. E sentii la presenza ingombrante di chi se n'era andato.
Luke prese ad accarezzarmi il braccio ed io volevo solo stare bene. Ci baciammo, sempre come la prima volta, sempre con una cattiveria che ci veniva da dentro, che avevamo alimentato da una vita. Il freddo venne spazzato via e ci fu solo la pelle nuda e sfregiata di Luke. Le sue labbra, i suoi occhi, le sue dita che si intrufolavano sotto la mia felpa. Le cose preziose. Ed io lo lasciavo fare perché ormai non ci sembrava nemmeno più così strana, quella cosa di distruggersi per poi curarsi. 
Corpi peccatori. 
Baci violenti. 
Amore cicatrene. 
Anche se sapevamo non fosse amore ma sesso, io e Luke, quella notte, finimmo davvero per ammazzarci. Toccammo il fondo, ci graffiammo, volevamo imprimerci addosso il male che ci veniva da dentro. 
Una gara a chi s'ammazzava per primo.




Ehi people! 
Sono stata male in questa settimana e solo dopo aver finito questo capitolo mi sono accorta che è meglio se non scriva quando sono in queste condizioni. E' uscita una cosa proprio malata. 
Probabilmente qualcuno penserà che questa storia abbia dei pezzi senza senso, oppure che sia troppo contorta. Ecco, accetterei qualsiasi critica, ma non queste. Perché mi viene da dentro, perché ho capito di dover scrivere per liberarmene. E ho deciso di condividere tutto questo con voi. 
Lasciando stare questo, è un capitolo basato solo su Luke e Becky, tranne per quell'accenno a Michael e quello a Calum in cui si rende conto di doverlo riportare a casa. A casa, forse da Michael. 
E' solo che dovreste ricordarvi che più c'è amore, e più c'è odio. E penso che entrambi l'abbiano capito. 
E volevo farvi sapere che non sono pronta al 23º capitolo. Sembrerà la fine, ma non lo sarà. 
Grazie per aver letto, ci vediamo domenica 
//Nali


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Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=_w_wXIrsr7g

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Capitolo 23
*** Run away! ***


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Il vero unico motivo perché non riusciamo a toglierci dall'ombra
e non riusciamo a portare un po' di luce nella nostra vita
è che noi siamo quell'ombra,
lo siamo diventati a furia di vivere nel peccato.
Mondo Marcio - Morendo

 

C'erano luci psichedeliche, che ti facevano rincoglionire, che disorientavano e ogni tanto dovevi fermarti per capire bene dove stessi andando. Lo Spazio al sabato sera era sempre così. C'erano soprattutto dei domenicani, avevo notato. Amavano il tipo di musica che veniva passata. 
Quella sera volevo solo che Luke ballasse e che poi mi riportasse a casa il più fretta possibile. 
La botta sullo zigomo era completamente sparita, e di quel giorno non ne parlammo più. Ne eravamo solo consapevoli. Era stato proprio lui ad insegnarmi a scappare da tutto. E come io avessi potuto credere che fosse la cosa migliore, questo proprio non lo sapevo. 
Ashton premette una mano dietro la mia schiena per farmi strada tra tutta quella gente, perché ormai mi ci ero abituata alla sua pistola, alle nottate fuori, a suicidarsi da solo. C'era un qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di felino, qualcosa che ti diceva che sì, lui era fottuto, ma che prima di tutto eravamo noi, quelli fottuti da lui. 
«Mi prendo una birra. Aspetta» mi avvertì, avvicinandosi al bancone. Io rimasi lì di fianco. 
Ashton, capelli ribelli, lineamenti nemmeno definiti, occhi che andavano oltre a tutto. Ashton sapeva ogni cosa prima di chiunque altro. Ashton, quello capace di diventare un tumore se solo ti affezionavi a lui.
Aspettò la sua birra, la prese, se la portò alle labbra e «Andiamo» disse. 
Non aveva paura di niente, lui. Se non di se stesso, a volte. Me lo aveva confidato. 
Lo vidi osservare i volti delle persone, uno per uno, e poi spuntargli un sorriso sul volto. Stava pensando di averli tutti tra le mani, perché, a differenza sua, gli altri erano spenti. Invece Ashton viveva, lo faceva in un modo brutale, malato, insano. Ashton viveva uccidendo. 
«Luke scende in pista tra dieci minuti, se vuoi salutarlo è nel camerino» mi avvisò. «Stai attenta.»
Me lo ripeteva da una settimana, quel stai attenta. Perché non me l'aveva detto, ma mi voleva bene. Se Luke voleva bene ad una persona, allora anche Ashton lo faceva. 
«Ci vediamo dopo» lo liquidai, spingendo qua e là. 
Percorsi il corridoio, arrivando davanti al camerino. Quando ci entrai, Luke si stava infilando i pantaloni della tuta. 
«Ciao, stronzetta» incalzò, sorridendomi. 
«Muoviti, dai» lo spronai io, sedendomi sulla panca. 
Si tolse la maglietta, e come ogni volta chiusi involontariamente gli occhi per una piccola frazione di secondo. Non mi ci ero ancora abituata, a tutti quei segni. 
«Sei sempre di fretta» borbottò, infilandosi una maglietta nuova. 
«E' che voglio andare in camera. Son stanca, ho sonno. Mi hai fatto leggere quasi metà libro di psicologia contemporanea.»
Luke rise, dando vita ad una fossetta al lato destro della bocca. Mi alzai, picchiettando a terra il piede, aspettando che finisse di sistemarsi. 
Quando fu pronto, mi si avvicinò e mi lasciò un leggero bacio sulle labbra. Non l'aveva mai fatto. Rimasi interdetta, a fissarlo, e Luke prese tempo per ribaciarmi, questa volta più convinto. 
Quando ci staccammo, «Che è? Improvviso bisogno di affetto?» lo presi in giro, andando verso la porta. «Dai, sbrigati! Ti staranno aspettando.»
Mi raggiunse ma, una volta usciti, appoggiò i palmi delle mani alla porta, rinchiudendomi tra il suo corpo e la superficie. Ancora quella risata, quella fossetta, quel moto di felicità che mi riempiva. Mise le mani sul mio collo, leggere, delicate, e fece scontrare un'altra volta le nostre bocche. Del tipo, posso ammazzarti, ho tutte le carte in regola, eppure son qui a baciarti. 
A quel punto risi anche io nel bacio e «Cretino!» ebbi il tempo di dire. 
Amavo quella parte di Luke, quel piccolo pezzo della mia vita. Amavo quando era spensierato, quando la solita disperazione dipinta in volto lasciava posto alla serenità. 
E poi si fermò a guardarmi, ed io mi lasciavo guardare. Piena di difetti, di cose inutili dentro di me, di un'oscurità troppo profonda. Ma Luke riusciva a vederla, la luce. 
«Cristo, Rebecca, sei la cosa con più valore che io abbia mai avuto» disse.
Il che implicava che io gli appartenessi, e forse era davvero così ma io cercavo di non renderlo così ovvio a me stessa. 
«Smettila con 'sta storia» lo rimbeccai, a bassa voce. 
«Tu proprio non te ne accorgi di questi 24 carati.»
Scossi la testa, convinta che i suoi fossero dei momenti così, in cui tutto ciò che pensava doveva dirlo. 
Posò le labbra sulla mia fronte e mi strinse forte contro il suo petto, e io lo lasciai fare. Sentivo la musica lontana, il tremore del pavimento sotto le suole, il cuore che pareva battermi nel collo. 
Poco dopo, udimmo la voce di un uomo farsi sempre più vicina e ci staccammo immediatamente. Ci girammo, vedendo all'inizio del corridoio questa figura ben messa, sui cinquant'anni. Gli occhi azzurri anche a metri di distanza.
«Fa' veloce, abbiamo già le tracce in riproduzione. La tua è la terza» lo avvisò, e poi si rese conto di me.
Ci scrutammo, una cosa silenziosa, veloce, ed io decisi. Quel tipo non mi piaceva, già dal modo in cui aveva parlato a Luke, dal modo in cui stava, e dai suoi occhi, che parevano il riflesso dell'odio.
«Chi è?» chiese, rivolgendosi a Luke. 
«Una compagna di classe.»
Allora si avvicinò e mi porse la mano, che strinsi.
«Andrew, il proprietario.»
«Rebecca.»
Le mani fredde. Terribilmente fredde. Come quelle di Luke.
«Bene, dai, in pista» fece, ed io non mi persi quell'attimo in cui si fermò ad osservarmi un po' di più. A cercare qualcosa che non andasse dietro ai miei occhi scuri.

Rimasi insieme ad Ashton ad aspettare che Luke finisse di ballare. Avevamo una piccola area riservata, esattamente dietro alla pista. Non c'era luce, solo quella che veniva riflessa dal centro de Lo Spazio. Quella sera, quel piccolo grande dilettante aveva addirittura messo assieme tre pezzi di New Style, Hype e Breakdance. Non che io me ne intendessi, era stato lui ad informarmi. Ce li aveva nel sangue, quei passi, quei modi di muoversi, quel ritmo che seguiva senza mai sbagliare. 
L'hip hop lo faceva vivere. Ed io, da brava dannata, lo osservavo prendere vita. 
«Dov'è Calum?» mi domandò Ashton ad un certo punto. 
Mi girai, per assicurarmi che l'avesse posta sul serio quella domanda, ma non mi stava guardando.
Mi strinsi nelle spalle e risposi lo stesso. «In camera. Penso stia dormendo.»
«Luke mi ha detto che presto torna a casa.»
«Sì. Ha il treno lunedì.»
E allora mi si strinse il cuore, perché capii. Ad Ashton importava. S'era abituato ad esser circondato da qualcuno, e non più solo dalla sua stessa ombra. Qualcosa che gli dicesse che tutto ciò stava accadendo, avendo degli effetti sugli altri. Effetti che Calum portava su pelle.
Così incrociai le braccia e «Magari ci viene a trovare, qualche volta» affermai. 
Gli vidi comparire in faccia un tremendo sorriso, piccolo, ma contenente la cattiveria più fitta.
«Non credo proprio, perché te ne andrai anche tu.»
Luke finì la sua esibizione, un boato di applausi s'innalzò. Il sudore sulla fronte, l'unica conferma che avesse vissuto per quella decina di minuti.

Tornammo alla Uno e alla Due verso ad un orario indecente. La metro risultava abbastanza inquietante, a quell'ora. Ashton e Luke erano piuttosto taciturni, probabilmente stanchi, con due occhi iniettati di sangue che facevano impressione. 
Salimmo le scale, tornando in superficie. Percorremmo la stessa strada di sempre poco illuminata, con un passo trasandato, il sonno faceva brutti scherzi. Ashton forse era quello che si salvava di più, perché non poteva abbassare la guardia. Verso chi, questo nessuno l'avrebbe mai saputo. 
Luke pareva un morto che camminava, non aveva manco un briciolo di voglia di parlare. Avevo l'impressione che se solo avesse detto una parola, avrebbe perso qualsiasi forza.
Quando arrivammo alla nostra via, «Dammi le tue chiavi, vado io nella 36» esordì Ashton.
Annuii, mentre vidi Luke aprire il portone della Uno e salire. Cercai nella borsa le chiavi e gliele porsi. Mi guardò di sfuggita, con le sopracciglia un po' corrucciate, ma non troppo visibilmente. Il poco che bastava per farmi capire che non fosse tranquillo.
«Guarda che se vuoi stare con Luke me lo puoi dire. Al massimo vado a rompere a Calum» lo avvertii.
Ashton scosse la testa. «Ma va, non mi cambia. Vai a dormire, Becky.»
«Va bene, allora buonanotte.»
Si girò e scomparve dietro al portone della Due. La schiena mai dritta, il modo scoordinato di camminare, gli occhi che hanno visto tanto e non sanno raccontare.
Appena entrai in camera, Luke era già disteso sul letto. Quello vicino alla finestra, perché lo faceva sentire meno oppresso. L'avevo imparato. 
Mi appropriai di una sua felpa e, quando mi sistemai per dormire, mi avvicinai al suo letto, per poi accarezzargli una guancia sulla quale era percepibile un sottile strato di barba di qualche giorno. 
«Perché dormi così poco, la notte?» domandai, osservandogli il viso. Luke non si ribellò al mio tocco, anzi, chiuse piano gli occhi. «Ecco, vedi? Non stai mai così. Hai sempre 'sti occhi aperti che guardando il soffitto. Ti pare che io non ti abbia mai visto?» aggiunsi. 
Gli comparve una smorfia sul volto, un misto tra un sorriso e la sofferenza più profonda di questo mondo. 
«Magari, se adesso mi lasci dormire, ci riesco» disse. 
«Bella scusa, questa» commentai, per poi andarmi a sdraiare sul letto di Ashton. «A che pensi, quando stai sveglio?»
Lo sentii muoversi tra le coperte. E il silenzio tombale. 
«Penso alla mia mamma.»
«Un giorno andiamo insieme a trovarla, allora. Mi fai vedere anche la tua casa, ci facciamo un giro nella tua città, com'è che si chiama? Mi pare Gosford. Me l'hai detto l'altra volta.»
A quel punto, Luke rise. Con la voce assonnata, «Non la vedo da tanto, tantissimo tempo, non mi presenterò da lei così dal nulla» affermò. 
«E perché non vai ogni tanto da lei?»
«Non abbiamo un buon rapporto» spiegò solamente. 
Io mi girai dall'altra parte, coprendomi fino al viso. Mi immaginai la faccia della donna che aveva messo al mondo Luke Hemmings, come l'avesse educato, quali atteggiamenti avessero in comune. 
«Ha gli occhi chiari?»
«Ce li ha blu.»
«Ecco da chi li hai presi!»
«No, anche mio padre li ha azzurri. Ma adesso fammi dormire, non reggo più.»
«Va bene, va bene. Però un giorno ci andiamo.»
Lo sentii sbuffare e «Buonanotte» pronunciò. 
«Buonanotte, Luke.»
Mi addormentai pensando di voler sempre più pezzi di Luke. Mi addormentai sentendomi con una nuova piccola parte debole di me, quella di cui si era appropriato il disgraziato che per la prima volta chiudeva gli occhi senza tormenti. E mi resi conto che mi piaceva, quella debolezza. Che mi sarei presa anche dieci coltellate al fianco, per lui. Che probabilmente io lo amavo, quello stronzo. E non mi sembrava nemmeno così tardi, per ammetterglielo. Per ammetterlo a me stessa.


C'era un rumore incessante. Mi dava un fastidio allucinante, mi penetrava le orecchie e rimbombava nella testa. C'era un numero che girovagava continuamente, lo sentivo, volevo che smettesse di tormentarmi. Desideravo solamente dormire. Era il numero 73, mi tartassava il sonno, insieme a dei rumori che si facevano sempre più forti. 
Aprii gli occhi. 
Adesso il chiasso era più vivo, più reale. Qualcuno bussava alla porta, manco volesse buttarla giù. La 73, la nostra. Urlavano di aprire, erano più di uno. Mi girai verso Luke, e lo trovai sveglio, seduto, con la coperta a tenergli scoperto il busto. 
Quelli in cui mi guardò furono i secondi che come chiodi mi entrarono sotto pelle. 
«Mi dispiace» mi disse. 
Ed io iniziai a tremare. 
La serratura venne scassinata e presto la camera venne riempita da tre poliziotti, con le divise blu notte. Sbarrai gli occhi, mi rigirai verso Luke, cercai qualcosa a cui appendermi, e non trovai nessuno. Scivolai nel terrore più assoluto. 
La luce che venne accesa mi accecò.
«Fermi, polizia!» disse uno di loro, puntandoci contro due pistole. «La ragazza no. Portatela fuori dalla stanza» ordinò. 
Non ebbi nemmeno il tempo di rendermi conto della situazione che delle mani strinsero le mie braccia e mi ritrovai nel corridoio. Lo stesso delle serate in festa, lo stesso che percorrevo quando al mattino andavo a scuola. Quella notte, mi sembrò solo un risucchio nero, solo nero, freddo, uno degli incubi peggiori. 
Guardai attraverso la porta. Nessun cazzo di rituale, nessun “Ha il diritto di rimanere al silenzio, ha diritto ad un avvocato”. Me lo portarono via come un animale. 
Lo sbatterono con violenza alla parete della stanza, la sua guancia premuta al muro. Un grido roco gli abbandonò la bocca. Ricorderò per sempre la sua espressione sofferente, i muscoli delle braccia che guizzavano per non farsi troppo male, quelle manette, un semplice oggetto che gli toglieva la libertà. 
Ero spaventata. Le mani e le gambe non mi stavano ferme, prese da un tremore che odiai con tutta me stessa. Odiai quel buio, quelle labbra screpolate, quel freddo. 
Lo strattonarono per farlo staccare dal muro e lo scortarono fuori dalla stanza. 
«Luke» mi uscì dalle labbra. E mi accorsi di quel nome solo adesso, mi accorsi di non aver mai voluto scoprire fino in fondo cosa si nascondesse dietro a quel ragazzo. Scappavo così tanto dal dolore che capii che le cose che nascondiamo adesso faranno il male doppio domani. 
«Scusami» proferì, con il tono più piatto che gli avessi mai sentito. 
«No, ascoltami, dimmi che cazzo succede!» gridai, seguendo i poliziotti che percorrevano il corridoio e portandomelo via. 
Luke stette zitto, ed io decisi di odiarlo. Più di quanto avessi mai fatto. 
«Vaffanculo, Luke! Cosa significa?!» 
Gli uomini in divisa non accennavano parola. Il loro compito consisteva solo nell'arrestarlo e ficcarlo in macchina. Non interessava a nessuno se una fottuta stronza li seguiva. 
«Promettimi che un giorno riuscirai a perdonarmi, Rebecca.»
Scendemmo le scale, vedendo già come gli studenti fossero usciti per tutto quel baccano. 
«Sei come Ashton, eh, brutto infame?!» continuavo a chiedere, con un fare disperato che mi tolse l'ultimo grammo di dignità che avevo. 
Luke abbassò la testa, lasciandosi accompagnare con la mano di un agente poggiata sulla schiena. Appena uscimmo dalla Uno, vedemmo due macchine della polizia posteggiate nella via. Ciò che alimentò la rabbia che avevo dentro fu lui, Ashton, che veniva fatto salire in macchina. Lo osservai per pochi istanti dal finestrino, sentendo il vuoto dentro di me allargarsi sempre di più. 
«Promettimelo.»
«No, non ti prometto un cazzo di niente. Mi stai lasciando sola, mi stai abbandonando!» sbraitai, perché non l'accettavo, quella scena. Non le volevo vedere, quelle manette. 
La pattuglia sulla quale era stato fatto salire Ashton accese il motore. 
Luke aveva una faccia da morto. Gli occhi piccoli per il sonno, l'espressione stanca, il viso marcato dal pallore. 
«Per me sei morto!» continuai, in mezzo a tutto quel casino. Anche se esso era solo nella mia testa, perché effettivamente nessuno parlava. Non c'erano luci. Le sirene erano spente. C'ero solo io, io con il mio odio che macchiava e veniva alimentato secondo dopo secondo. Quando arrivammo alla macchina, lo forzarono ad entrare posandogli una mano sulla testa. E io gli vidi la faccia e vi lessi tutta la tristezza che in quei mesi in mia presenza si era risparmiato, l'aveva nascosta. Luke si era nascosto da me. 
Mi abbassai verso il finestrino, presa da una fretta che mi stava martoriando lo stomaco e «Io ti amo, Luke!» confessai, in piena notte, ad uno stronzo che mi veniva arrestato sotto agli occhi. 
A quel punto mi allontanai dalla vettura e mi rizzai in piedi, incredula delle mie stesse parole. Il casino, forse solo presente nella mia testa, cessò. Luke sembrò prender vita solo in quel momento, arrampicandosi quasi al sedile per sporgersi verso di me.
«Anche io, Rebecca. Anche io. Vai via con Calum, adesso» esortò, rimettendosi seduto. 
Adesso la sua faccia la potevo vedere solo dietro ad un finestrino. Mi dissi che probabilmente non l'avrei nemmeno più rivista, che dovevo accontentarmi di quella.
Poi, senza nessun rumore, le luci blu e rosse si accesero e rifletterono sui muri della Uno e della Due. E Luke se ne andò, in un silenzio letale, un rumore sordo. Una sofferenza soffocata. E io fissai la macchina che più si allontanava e più mi faceva sprofondare in me stessa. 
In mezzo al nulla, mi resi conto di quanto l'amore devastasse. Di quanto distruggesse e facesse rimanere solo il niente. 
Alzai il viso, vidi Calum sulla soglia del portone. Ci scrutammo, facendo in modo tacito i conti di quanto avevamo perso, e ci ritrovammo ad avere solo noi. Così camminai verso di lui, e la prima cosa che mi disse mi fece quasi salire il vomito. 
«Il problema, adesso, sarà rimanere sani in mezzo a questa merda.»


Non c'era niente di poetico, in tutta quella situazione. Niente di affascinante, nonostante il dolore interessasse le persone. La realtà è che fa schifo dover fare i conti con il dolore vero e proprio, con l'abbandono di una persona.
Questa fu la prima cosa che io e Calum stabilimmo. 
«Senti, ormai sono le cinque. Non ci riusciamo, a dormire. Vai a farti una doccia» asserì lui, una volta che fummo nella stanza 36. 
La porta era rimasta aperta. La polizia non si era degnata di chiuderla. C'era un letto disfatto, con le coperte stropicciate, mezze sul letto e mezze a terra. Mi chiesi in che modo adesso Ashton potesse pensare di fottere il mondo, perché in verità era stato proprio lui quello ad essere fottuto. 
Uscii in balcone e mi fumai una sigaretta, immaginandomi l'interrogatorio che avrebbero fatto a Luke. E all'avvocato che gli avrebbero assegnato, e tutto quello schifo vario. 
Il punto era che mi veniva da piangere, anche mentre fumavo quella maledetta sigaretta. Mi trattenevo, però, cercavo a tutti i costi di non cedere. Allora la buttai giù dal balcone, rientrai e «Sai per cosa sono accusati?» chiesi a Calum, forse con un tono troppo duro. 
Era seduto sul letto, mentre muoveva le gambe in un modo quasi snervante. Scosse la testa, mordendosi il labbro. «Però una persona che potrebbe saperlo penso ci sia.»
«E chi cazzo è?»
«Michael, credo.»
In quel momento mi salì una rabbia improvvisa che mi venne da scaricarla scagliando un pugno al muro. Poco mi importava che mi fossi fatta un male cane, volevo solo mettere a tacere tutte le mie supposizioni. 
Così mi andai a fare quella dannata doccia, ma mi accorsi di come tutta quella me mi togliesse il respiro. Uno spazio troppo piccolo, il vapore, una me senza Luke. Contaminati fino all'osso, la sua assenza mi stordiva. La sua ipocrisia, le sue cazzate, la sua tristezza nascosta. Mi accasciai contro le mattonelle della doccia, improvvisamente senza nemmeno la forza di odiare. Era una cosa così schifosa che ti toglieva anche la voglia di combattere. Percepivo il calore dell'acqua farsi sempre più invadente, fino a portarmi quasi all'asfissia. 
L'attimo dopo, il nero.


«Becky» diceva qualcuno. «Becky!» e la sua mano credevo volesse sprofondare nel mio mento per quanto lo stringeva forte. 
«Ti sei ripresa?» 
Socchiusi gli occhi e vidi Calum che mi porgeva un bicchiere. Quello di plastica, sicuramente fregato al distributore di bevante al primo piano. 
«Che cazzo è questo freddo?» chiesi io, afferrando il bicchiere e sorseggiando l'acqua contenuta. «Ma c'hai messo lo zucchero!»
Calum diventò paonazzo. Si allontanò un po' dal letto e guardò da un'altra parte. «Credo che tu sia svenuta in doccia. E, beh, in pratica... Insomma, mi stavo preoccupando perché ci stavi mettendo troppo, allora sono entrato in bagno e ti ho trovata lì. Mi hai fatto crepare di paura, Becky. Spero non mi odierai, ma ti ho tirata fuori dalla doccia e-»
«E mi stai per giurare di non avermi guardata, giusto?»
Calum si grattò la nuca, adesso più rosso di prima. «Esatto. E ti ho messo questa coperta. Quindi, uhm, deduco che tu sia ancora nuda» concluse, con un sorriso nervoso. 
Allora mi alzai, tenendomi stretta la coperta, e raccattai qualche vestito. Calum guardò ovunque ma non il mio corpo, quando mi vestii. Poi, dal nulla «Lo andrai a trovare?» mi domandò. 
«Non sappiamo ancora che fine faranno, quei due. Non sappiamo se li sbatteranno in riformatorio e non ce ne fregherà. Ma, in ogni caso, io ho chiuso.»
Calum annuì e si prese un attimo per pensare. «Cosa abbiamo intenzione di fare noi?»
Poggiai la valigia al pavimento, andando ad aprire l'armadio. «Domani andiamo a parlare con la segreteria della scuola e con il proprietario delle camere. Chiamiamo a casa, disdici il tuo treno di lunedì.» Alzai lo sguardo, lo puntai nei suoi occhi, adesso sperduti. «Ce ne andiamo, Cal.»
Perché sai sempre cosa lasci, quando te ne vai. Ma mai cosa trovi.


Il giorno dopo eravamo già sul treno. Calum era nel sedile davanti a me, guardava fuori dal finestrino con l'espressione dura. Lui manco ci voleva venire, a Sefton. 
Dove cazzo ti sei andata a cacciare, pensai. Credevi di scappare e c'è chi l'ha fatto prima di te. Credevi di scappare, ma sei scappata verso la merda. C'era ancora la sua felpa in bagno, l'hai vista, lo sai. Hai girato la faccia e hai fatto finta di niente. Non è così che va. Raccoglierai ogni ricordo sparso in quei mesi e lo butterai. Sei stata addestrata per questo. Hai lasciato la stanza senza guardarti in dietro, non le volevi vedere, quelle sigarette spente nel posacenere lasciate a lui. 
Lui che adesso non avrà più un nome. 
Lui con quegli occhi che d'ora in poi saranno uguali agli altri.
Si confonderà con gli altri, fino a quando non sparirà definitivamente e il ricordo sarà sbiadito.
Le ferite si rimargineranno e non ti servirà l'aiuto di nessuno.
Te lo sei immaginato con le manette alle mani, quello stronzo. E non puoi negare di averci tratto un po' di piacere, a quel pensiero. Perché, se volessi ucciderlo, lui non potrebbe far niente. Niente.


Schiacciai con il piede destro la linea gialla e tirai giù dai gradini la valigia che sembrava contenesse un cadavere. Sospirai, girandomi dietro per accertarmi che anche Calum fosse sceso. Allora presi a camminare, aprii la porta e non guardai nemmeno di striscio gli sportelli in cui venivano pagati i biglietti. 
Pensai di trovare mia mamma, lì con la macchina, ad aspettare il mio arrivo. Invece c'era Michael. Adesso ci ammazziamo, ci sbraniamo davanti a tutti. Ma ciò che successe non fu esattamente così. 
Michael attraversò la strada, non disse niente. La faccia neutrale. Mi tolse dalle mani la valigia e mi abbracciò forte. Quando mi strinse troppo stretta al petto, ebbi la sensazione che più che affetto mi volesse morta.




Hei people!
Dovete vederla così: perlomeno, non ho fatto morire nessuno. So che siete terrorizzate da questa cosa ahah
A dire il vero, mi sono accorta del disastro colossale che questa storia è. Quando scrivo mi ripeto Annalisa non farla troppo tragica, non farla troppo tragica. E alla fine escono sempre questi capitoli. Non so come facciate a leggere 24 carati, davvero. Vi farei un applauso solo per questo, perchè io se fossi stata una lettrice avrei già preso a martellate la scrittrice, Beh, dai, mi voglio proprio bene.
Vi posso dire che non è la fine, che quindi dovrete soffrire ancora di più. No, dai, scherzo. Non è semplicemente la fine e basta. E, quando lo sarà, preparerò i fazzoletti perché mi mancherà tutto questo.
Bon, dai, anche il capitolo 23 è andato. Di merda, ma è andato. 
Quindi direi che ci vediamo domenica prossima, se non sarò a Roma per quegli altri cinque cretini.
Ciao gente! Thank you :)
//Nali


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(vi romperò sempre mettendoli, it's just a reminder)

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Capitolo 24
*** Be selfish. ***


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Penso che uno di questi giorni ci diremo
che effetto fa sentire che le cose che hai,
le cose che sei o credevi di essere,
stanno appoggiate su un inganno.

Tutta questa vita


No metropolitane, no tram, no strade illuminate. No persone in giacca e cravatta, no braccialetti 18 carati ai polsi delle signore. Solo scritte su muri che probabilmente un giorno o l'altro sarebbero pure venuti giù, solo facce incazzate e inconsapevoli che la fregatura stesse proprio lì. Volevano che noi stessi diventassimo il riflesso di quella città buia, ci volevano morti. Invece noi eravamo solo incazzati. 
Li riconoscevo tutti, quei volti. Dal primo all'ultimo, la stessa incazzatura nutrita dalla voglia di evadere, di diventare qualcuno. Ci avevo provato anche io, a dire il vero. E non ci ero riuscita, ero tornata nel posto in cui ero nata e vissuta, senza nessuna differenza, solo con una gran voglia di incendiare il mondo. Potevo andare lontano, togliermi il marchio della mia città dalla pelle, ma con Lui a divorarmi l'anima non potevo andare da nessuna parte. Era una fastidiosa presa per il culo, ora che era ovunque. Probabilmente ero diventata più Luke che Becky, in quei mesi, e adesso ero il nulla. Non ci sono vie d'uscita, quando riesci a bastarti solo fondendoti con un'altra persona. Poteva essere la fine dell'inizio, o l'inizio della fine.

La mamma, gli amici, i conoscenti. I parenti, le signore anziane della città, i negozianti. Erano tutti felici, tutti contenti di rivedermi. C'era un'atmosfera che conoscevo bene, c'erano i palazzi popolari da cui si affacciavano migliaia di teste, tutte pronte ad ascoltare ogni notizia. 
Loro sapevano. Sapevano dell'arresto di mio padre, di due ragazzi destinati alla malavita che si diceva mi avessero portata su una brutta strada. Mi chiesi quanto questa potesse essere brutta rispetto a quella su cui ero prima di andarmene. 
C'erano ancora l'oratorio, la piazza, il parco di fronte alla fermata del bus. E poi, in una piccola via, si apriva un cortile che manco aveva l'asfalto, nessuno si era preso la briga di farlo. C'erano solo sassi, le macchine scassinate, i condomini appiccicati. Tra quelli, la mia casa, quella col muro verniciato per metà e le travi che un giorno o l'altro ci sarebbero cadute in testa.
Tutto storto e all'apparenza normale.*


C'era un'aria strana in salotto. La televisione, a tutto volume, trasmetteva una partita di calcio. Mia madre, seduta al tavolo, parlava con quella di Michael. E la stranezza veniva proprio da quest'ultimo, appoggiato al lavello di fianco alla portafinestra che dava sul balcone. 
Se ne stava con la schiena curva, con una felpa tanto larga che le maniche gli arrivavano fino alle mani. La tinta rossa, che qualche settimana prima si era fatto, adesso si era schiarita e i capelli sembravano non essere sistemati da giorni. Le labbra screpolate per il vento, il pallore in viso e gli occhi pesti. Michael in quel momento mi parve così sciupato che quasi mi venne voglia di strattonarlo e buttarlo sotto una doccia. 
Ma, ovviamente, io mica ci parlavo, con quel pezzo di merda. Era già tanto che lo tenessi in casa mia quel giorno e che gli avessi concesso di toccarmi fuori dalla stazione. Da quel momento in poi, un'enorme e spessa barriera era caduta tra di noi.
Così mi alzai, dirigendomi in camera, perché di sopportare quello schifo di visione non ne volevo più sapere. Quando poi qualcuno bussò alla porta, stetti zitta e finsi di non sentire. Ché tanto lo sapevo, Michael entrò lo stesso. Si sedette di fronte a me, sulla scrivania, ed io non lo degnai di uno sguardo. In lontananza, le voci delle nostre madri. 
«Non ce la faccio più, Becky» esordì, con una stanchezza che mi chiesi come facesse a stare sveglio. 
Continuai a guardare il mio cellulare e ad ignorare la sua voce. 
«E' uno schifo assurdo, e tu non aiuti standotene senza dire niente.» Poi si fermò, girò il viso e puntò lo sguardo su una nostra foto vecchia appesa in casa. «Sai cosa? Se Luke adesso è dentro, è solo colpa tua» sputò fuori, facendo dondolare le gambe che penzolavano dalla scrivania. 
Allora il cellulare mi scivolò dalle mani e strabuzzai gli occhi. Percepii le mani informicolarsi e una voglia di gridare assurda. 
«Non nominarlo nemmeno» scandii, quasi spaventandolo. 
Si ricompose e «Non pensare mica che la giustizia venga da qualcosa di ben fatto. Luke è riuscito ad aprire il tuo processo per tuo padre e ad ottenere un avvocato solo rinunciando al suo» disse, guardandomi dritto negli occhi. 
Puntai i pugni nel materasso e mi alzai, inferocita, arrivando davanti a Michael. Sempre così vicini, perché non riuscivamo a parlarci come due persone civili. 
«Ascoltami bene» iniziai. «Non ho intenzione di stare a sentire nessuna parola che uscirà dalla tua bocca. Ipocrita.» Michael assottigliò lo sguardo ma io non mi fermai. «Sei esattamente come loro. Che cazzo ci fai ancora qua, eh? Dovresti già essere dietro alle sbarre, con loro.»
Aveva un voglia matta di tirarmi uno schiaffo fino a farmi uscire sangue, ma cercava di controllarsi. Lo vidi prendere un respiro enorme e «Tu mi vuoi morto» esalò. 
Non come una constatazione, non come una domanda. Come una verità, una consapevolezza. 
«Ti sbagli, sai? Io non ti voglio morto solo per un misero motivo. Vuoi sapere quale?»
«Dimmelo.»
«Perché voglio che tu stia bene, per me
Il pugno che tirò alla scrivania mi fece sobbalzare. Il suo sguardo si fece truce e il suo petto prese ed alzarsi ed abbassarsi irregolarmente. «Sei una schifosa egoista!» sbraitò. «Non vuoi che io muoia solo perché poi moriresti pure tu. Non è così che ci si salva, non hai capito un cazzo.» Scese dalla scrivania e mi si parò davanti. «Ti odio, Rebecca. Ti odio!»
«Ti odio anche io, Michael. Non sai quanto» dissi io, quasi sulla sua bocca. Ci furono secondi in cui respirammo l'uno sulle labbra dell'altra, in cui ci scrutammo a fondo, dopo tutti quei giorni in cui eravamo stati così lontani. 
«E' troppo forte» sussurrò lui, dopo un po', adesso con la voce debole. 
«Che cosa?» chiesi. 
«Questo dolore.»
Gli appoggiai una mano sul petto e la testa sotto al suo mento. Michael mi accarezzò i capelli e poi mi strinse di più contro di sé. 
«Non ce la faccio più, non ce la faccio più» continuò con la voce rotta ed io non mi azzardai ad alzare gli occhi perché non ci volevo credere, che Michael stesse per piangere. 
«Mandalo via, questo dolore» mormorai, fissando le nostre foto sulla parete. 
«Non posso, se sei tu che continui a crearmene sempre di più.» Un brivido lo scosse e potetti immaginare i suoi occhi lucidi. «Ci sei stata, con lui. Lo sento, lo sento ovunque. Ti ha toccata, mentre io non c'ero. E tu non ci hai mai pensato, a me.»
«Michael, ti prego...»
«Lo so, lo so. Non va bene, è sbagliato. Sei la mia migliore amica. Ma per favore, Becky, non te ne andare. Anche se non mi vuoi nel modo in cui ti voglio io, non andare. Non pensare a come starò, io voglio solo che tu resti. Sei abbastanza egoista da potermi fare anche questo, ed è solo quello che ti sto chiedendo.»
Tremavo. Per la paura, forse. Perché il corpo che adesso mi teneva stretta apparteneva alla persona che più stavo distruggendo. Michael sapeva reggere tutto, l'avevo visto con gli anni. L'unica cosa che non sapeva gestire era il male che gli facevo io. 
«Ma sei un Cristo di criminale, Michael. E hai continuato a tenermelo nascosto per mesi. Guarda quanto male ci stiamo facendo a vicenda.»
«Non dirlo in questo modo, per favore. Sembra un addio. Ed io... Io mi sento morire senza te» proferì, così sincero che sentii tutto il dolore sbattermi contro al petto, così potente che sembrava voler conficcarsi sotto pelle. «Non sono un criminale, te lo giuro. Non ho fatto male a nessuno.» Si staccò, mi alzò il mento e mi fissò. «Te lo giuro. Si trattava solo di rubare oggetti di scarso valore, schifezze che nessuno si è mai filato. Cazzate di questo genere.»
Con la manica della felpa si asciugò la minima traccia di lacrime e tirò su col naso. 
«Pensavo di averti tenuto stretto, io. Lo pensavo davvero. E invece guarda dov'eri finito...»
«Mi dispiace, Becky. Possiamo cancellare questi mesi, dimenticarci Sefton per sempre» affermò, con la speranza che gli si dipingeva in faccia. 
«Le cose non andranno a posto così. Non se non so perché quei due stronzi ora stanno chiusi in un carcere.»
Michael si rese conto che non potevo dimenticare Sefton se scalfito dentro come l'opera più brutta di tutti i tempi avevo Lui. Allora vacillò ed io sul suo viso ritrovai tutti i suoi orrendi dettagli che lo rendevano così sciupato. 
«Ho paura di dirtelo, ho paura che mi faranno fuori» disse, prendendo a camminare per la stanza. 
Io rimasi in silenzio perché nella vita avevo imparato che meno si insisteva, più si riceveva. 
«Però, se mi giuri di farti i cazzi tuoi...»
«Te lo giuro» risposi, prontamente.
Respirò profondamente e iniziò a parlare, come se gli costasse uno sforzo immane. «Quei due sono la causa del coma di Jack, il fratello di Luke. E' stato due anni fa, ma non ci stavano con la testa. Non pensavano che la situazione sarebbe degenerata fino a tal punto. Poi se ne sono andati da Gosford e si sono trasferiti a Sefton perché il senso di colpa li stava uccidendo. Non so se ricordi i primi tempi, la notte in cui Calum per poco non ti faceva fuori sotto l'effetto dell'alcol. Luke era diventato uno straccio proprio per quello. Non l'ha mai superato.»
La stanza adesso si era trasformata, aveva i muri irregolari, deformata, e continuava a girare, fino ad arrivare ad un turbine nero. C'era il Suo viso, nitidissimo, e la peggior cosa è che sorrideva. Mi diceva che ero la cosa più importante che avesse mai avuto, poi ritornava serio e mi rassicurava che l'Atto di chiamata in causa non era niente. E dopo ancora diceva di starsi innamorando di me, per poi incupirsi e affermare che no, lui mica c'entrava qualcosa con gli affari di Ashton. E il suo viso piano piano sbiadiva, si faceva sempre più lontano, si avvicinava al turbine nero e ne veniva risucchiato. 
Una schifosa immagine che ti rimane nel subconscio, che ti viene a ritrovare anche a distanza di anni, che ti blocca le vie aeree e ti fa sembrare di non essere più capace di respirare. 
«Cazzo, Becky, stai sbiancando. Stai bene?» si preoccupò Michael, afferrandomi il braccio. 
«Tutto bene» lo rassicurai, deglutendo. «Va bene così, va bene così. Se lo meritano, quindi, di marcire in galera» commentai, tentennante, con gli occhi in fissa sul niente. 
Michael non parve tanto convinto ma non aggiunse niente. 
«Voglio solo sapere se davvero ha rinunciato a tuo padre come avvocato per il mio processo.»
«E' andata così. Purtroppo io lo sono venuto a sapere più tardi, ma in ogni caso credo che sia il minimo» replicò, immergendo una mano tra quei capelli che più disordinati di così non glieli avevo mai visti. 
Rimasi zitta per un po' di tempo e Michael rispettò quel silenzio. Mi domandai come facessi ancora a reggermi in piedi, come il mio corpo potesse contenere una dose così alta di dolore tra le ossa senza marcire. 
«Michael, io li voglio vedere al processo, quei due. Io devo essere l'ultima persona che vedranno che ricorderà loro di aver potuto scegliere quale strada prendere e di aver preso quella sbagliata. Perché nella merda ci vai per caso, ma poi scegli tu se uscirci.»


Luke's POV
Lo conoscevo bene, un carcere. O più che altro conoscevo il riformatorio, che ti dicevano che uno serviva a punire e l'altro a rieducare, solo per salvare il culo al controllo sociale. Ricordo bene quando mi presero per la prima volta, colto in fragrante a rubare rame alla ferrovia. Col processo direttissimo e un avvocato furbo da testa a piedi, me l'ero cavata con due mesi. 
Ma adesso, con un reato sulle spalle che pesava come macigni, ciò a cui potevo pensare erano solo anni passati a marcire qua dentro. Come bestie da far dormire e nutrire, solo questo, perché a noi di laurearci e fare tutte quelle cazzate che passavano in televisione mica ne avevamo voglia. Ma la situazione era diversa quel giorno. A casa avevo qualcuno che mi aspettava, non ero più solo come un cane. C'era Rebecca, ed io lo sapevo: quella stronza capì solo vedendomi passare davanti a lei con delle manette, chi fossi veramente. 
E quelle manette adesso si scontravano con la mia pelle e parevano volerci scavare dentro fino al sangue. Allora strinsi i denti e lasciai alla mia mente il pensiero che presto me le avrebbero tirate via. 
Mi persi tutto il percorso che facemmo, mi tolsero le manette e mi ritrovai ad essere sbattuto dietro alle sbarre luride. 
«Avrai diritto ad un avvocato che ti verrà assegnato da noi» spiegò l'uomo in divisa e chiusi gli occhi, perché io un avvocato ce l'avevo e avevo lasciato che fosse assegnato a Rebecca.
La mia libertà per un po' di amore.
«Se rilasci poi il consenso, potrai anche incontrare un componente della tua famiglia.»
«Non posso vedere qualcun altro al di fuori della mia famiglia?» domandai, aggrappandomi a quelle sbarre fredde come la morte, come se fossero il mio unico appiglio per non morire affogato.
L'agente scosse la testa e «Solo visite famigliari. Abbiamo appena contattato telefonicamente tua madre, perché non siamo riusciti a rintracciare tuo padre. Devono essere informati del tuo stato di fermo» ribadì, mettendosi in tasca le chiavi e tenendo sul viso l'espressione formale che era ritenuto ad avere. 
Abbassai il viso e «Va bene, voglio incontrare mia madre» annunciai, cupissimo, improvvisamente consapevole di dover affrontare anche la vita che avevo messo da parte. 
L'altro annuì e se ne andò ed io sprofondai. Si sentivano solo rumori di ferro che si scontrava con altro ferro, porte che si aprivano e che si chiudevano. E c'era freddo, il che molto probabilmente mi veniva da dentro. 
Mi girai e trovai altri tre ragazzi, più o meno della mia età, che aspettavano il giudizio della loro condanna. Mi passai le mani sul viso e andai a sdraiarmi su un letto che non era mio e a cui mi sarei presto abituato. 
L'avevo sempre fatto.

La notte non era stata insonne del tutto. Il mio corpo non poteva reggere tutta quella stanchezza.
Vennero a prendermi di mattina, prestissimo, erano in due. Mentre mi scortarono verso una stanza, vidi Ashton, accompagnato anche lui da due guardie verso un altro corridoio. Ci guardammo, in silenzio. Non ci confortammo con lo sguardo, non ci dicemmo assolutamente niente. Il suo viso scomparve poi dalla mia visuale ed io inghiottii tutta quell'ansia che mi sbranava.
«Avete dieci minuti» mi dissero mentre aprivano la stanza. 
La mia mamma era lì. Dall'altra parte di un vetro perché adesso ero ritenuto pericoloso, ma era lì. Mi avvicinai e mi sedetti di fronte a lei, improvvisamente senza la più pallida idea di cosa dire. 
Deglutii, di fronte a quella donna che adesso mi fissava. Non era cambiata affatto, l'aspetto giovanile restava sempre lo stesso. Erano cambiati i suoi occhi, più cupi, più tristi, con un velo drammatico che ti faceva solo venir voglia di piangere. 
«Seconda volta» esordì lei. Ed io abbassai lo sguardo. «Ma io non ci voglio credere, Luke. Non puoi essere stato tu, non si ammazza ciò che è sangue del tuo sangue
Il silenzio calò. Riuscivo quasi a sentire il terrore che proveniva dalla guardia che ci osservava all'interno della stanza. 
Mi vennero in mente così tante scuse che me ne stetti zitto. Lo sguardo di mia madre su di me bruciava, mi faceva morire di vergogna, non voleva farmi alzare gli occhi. Mi sentii così orrendo, così lurido, così mostro. 
La donna davanti a me iniziò a piangere, scossa dai singhiozzi e io mi ritrovai a pensare che non ci fosse pena più crudele che vedere la propria madre piangere a causa mia. Così mi alzai, dopo un silenzio scandito solo da un pianto disperato, e con gli occhi lucidi feci segno alla guardia di portarmi fuori. Prima di andarmene, mi girai a guardarla un'ultima volta. 
E mi resi conto che io, una famiglia, non l'avevo più.


«L'indagine preliminare tra carabinieri e giudice non ha fatto proprio un cazzo. Hanno solo ribadito ciò che sapevamo già, e poi mi hanno assegnato un avvocato che pare rincoglionito dalla nascita» affermò Ashton, conficcando la forchetta con forza nella carne. Si guardò in giro e scosse la testa. 
«Io il mio invece manco l'ho visto» dissi, coi gomiti piantati sul tavolo. «Ma tanto che ti credi? Di qui ci usciremo quando nemmeno ne avremo più voglia.»
«Lo sapevamo entrambi che prima o poi sarebbero risali a noi, ma tu hai fatto di testa tua. Potevamo tenerci il padre di Michael e tutto sarebbe andato bene.»
Ashton stava parlando a caso. Diceva cose per non dirne altre, si incazzava per non deprimersi. Allora mi strinsi nelle spalle e «Io Rebecca l'amavo» ribattei, guardandolo mentre continuava a mangiare. 
«Lo so» mormorò e da quel momento non parlammo più. 
Ultimamente solo il silenzio riusciva a guarirci, perché di parole non ne avevamo più. 
Rimasi per tutto il resto del tempo a noi concesso per pranzare a guardare Ashton che aveva ancora voglia di mangiare, mentre il mio stomaco era chiuso da due giorni. Era l'ultima mia ancora, l'unico che mi aveva seguito anche nello schifo più assoluto. L'unico di cui potevo ancora fidarmi, l'ultimo squarcio di affetto. 
Quando sentii la sirena che scandiva i nostri orari, mi alzai dal tavolo e stetti per dire ad Ashton che ci saremmo visti al campo quel pomeriggio, ma lui mi precedette.
«Aspetta, Luke» fece. 
Gli altri intorno a noi se ne stavano già andando. 
«Muoviti, che c'è?»
Si alzò anche lui e la sua mano si aggrappò al mio polso. Come un gioco psichedelico, le sue iridi erano incastonate nelle mie e continuavano a muoversi da un mio occhio all'altro. Il mio cuore prese a battere così forte, ogni battito determinato dalla paura. 
«Ti devo dire una cosa.»
«E dimmela, che mi stai facendo cagare addosso dalla paura, Cristo.»
Fu l'esatto momento in cui per la prima volta vidi Ashton vacillare e avere paura insieme a me. 
«L'ho chiamata io, la polizia» decretò. 
In una frazione di secondo, sentii il sangue raffreddarsi nelle vene e poi riprendere a scorrere. La testa mi prese a girare vorticosamente e si fermò quasi subito. Il giusto per farmi distaccate dalla realtà e poi ributtarmici dentro con una spinta violenta. 
Aprii la bocca per parlare, per chiedere il motivo. Ma non mi uscì niente. Ci riprovai, allora, e «Perché?» domandai, semplicemente, quasi a fiato corto. 
Ashton rimase lì, immobile, con gli occhi che non avevano paura di niente, se non di perdere me. 
«Perché, cazzo?» richiesi, con un tono di voce più alto, faccia a faccia con lui. 
Ashton scosse la testa, guardò a terra, poi di nuovo me. 
Quel giorno, una risposta non la ebbi. Smarrito e col tradimento che mi bruciava sulla pelle, ritornai in cella. 
E ringraziai Dio di non averlo avuto con me chiuso dietro alle sbarre perché sarei stato capace di commettere un reato per il quale non mi sarebbero bastati solo pochi anni per scontarlo. Nemmeno una vita.

Dopo due giorni, l'avvocato si fece vivo. Non mi interessava niente di lui, volevo solo che riuscisse a trovare un compromesso per farmi rivedere Rebecca il prima possibile. 
Seduti ad un tavolo in una stanza in cui filtrava solo la luce del sole quasi spento, l'avvocato mise sul tavolo una serie di fogli che avrebbero determinato la mia vita. 
«Hai una fedina penale che farebbe spaventare chiunque, onestamente» iniziò. 
Io sbuffai, sedendomi scompostamente e infilandomi una mano tra i capelli. «Ok, quindi?»
«Quindi, fammi un po' vedere...» Sfogliò un libretto per un tempo indefinito e «Ashton Irwin era con te, giusto?» chiese.
«Sì.»
«E' questione di fiducia. Se ammetterete entrambi, sconterete pressappoco tre anni qua dentro. Se lui non ammette, ti prendi sette anni tu e se tu non ammetti si prende sette anni lui.»
Spalancai gli occhi al sentire quelle cifre e iniziai a sudare. «I-io... Cazzo.»
«Ma c'è quasi sempre una soluzione a tutto. Sceglieremo il rito abbreviato, perché è chiaro che qualcosa avete commesso. Così evitiamo altri giorni agonizzanti come quelli che stai passando e ovviamente uno sconto della pena. Il processso si farà l'8 aprile. Per ora starai nel regime di misure cautelai.»
Tutto ciò che in quel momento vedevo era solo il volto di Rebecca. Mi immaginai di scontare davvero sette anni qua dentro e mi resi conto che da qui ci sarei uscito ventquattrenne e che lei probabilmente di me non si sarebbe più ricordata. Strinsi le mani a pugno e decisi che no, questa volta non avrei lasciato che il mostro che ero mi portasse via l'unica cosa che avevo.
«Pensi che Irwin ammetterà?» mi domandò l'avvocato.
«Penso che sarà l'unico che lo farà» risposi, fissandolo negli occhi.
L'uomo, per la prima volta, distolse lo sguardo dai fogli e lo puntò su di me. 




Hei people!
So che il 90% di voi non legge lo spazio autrice ma io mi ostinerò sempre a scriverlo.
Oddio, allora. Come sapete, non è passata una settimana ma due. Motivi: viaggio a Roma, scuola, tempo e un'ultima ragione che sento il bisogno di dirvi. Mi sono accorta che per tutto questo tempo ho fatto esattamente ciò che non devo fare. L'ho notato solo due settimane fa, di aver descritto il rapporto tra Michael e Rebecca come quello che io avevo con una persona di cui non riesco più a pronunciare il nome. E questo è stato ed è un grandissimo problema per me, perché quella persona deve stare completamente fuori dalla mia vita. Perché Rebecca fa soffrire Michael, lo tortura, e lui vuole che lei resti. Io invece ho deciso di smettere, smettere davvero, e di trascinare fuori dalla mia vita questa persona. 
Non so quanto influirà questa cosa sulla storia, ma ci tenevo ad essere sincera. Sincera con me stessa, con le persone che mi hanno aiutata e tirata fuori da quel rapporto malato che adesso ho ritrovato addirittura in una storia che io stessa ho scritto.
Mi scuso ancora per il ritardo e per il monologo, in ogni caso. 
Per creare il discorso tra Michael e Rebecca ci ho messo anni, davvero. Per scrivere quel Non pensare a come starò, io voglio solo che tu resti, oddio, non vi dico.
Comunque, nel capitolo 25 si svolgerà il processo e saprete cosa succederà a Luke ed Ashton. 
Tutto ciò che trovate scritto riguardo il sistema carcerario e giudiziario non è frutto di un qualcosa studiato, io non me ne intendo assolutamente, quindi perdonatemi se alcune cose non corrispondono alla realtà.
Spero non ve la siete presa troppo per il ritardo e ci vediamo tra una settimana! 
Ciao gente :)
ps: un ringraziamento particolare a Ilaria e Martina per la realizzazione di questo capitolo!

*Sfoghi di una vita complicata pt.2 - Low Low

 
Poi Martina ha fatto questa cosa perché è evidentemente pazza, quindi ve la posto lmao


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Capitolo 25
*** My fault. ***


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Questo va a Rachele,
che non si è mai presa la sua colpa,
che dopo due anni la realtà scortica solo la nostra consapevolezza.
Che con solo una mia parola, 
saprei distruggerle tutti i passi avanti che le ho lasciato fare. 
Ma l'egoismo non basta.
A te, Rachele, e alla tua coscienza sporca che ti ammazzerà.


 
Il 27 marzo staccarono la spina a Jack. 
Stava soffrendo più la famiglia che lui, così dicevano, e che ciò che faceva era solo occupare una stanza e un letto. Nessuno poteva incazzarsi, perché era la verità. Non importava quanto tutto questo fosse orribile, bisognava farsene una ragione e basta. 
Quel 27 marzo era un giorno come gli altri, in cui c'era il sole, in cui i pullman viaggiavano regolarmente e in cui gli studenti alle otto del mattino erano entrati a scuola. Era questa la cosa che fotteva: la normalità. Perché non te l'aspetti che a chilometri di distanza il fratello dell'amore più marcio della tua vita se ne va definitivamente. Per sempre, senza più cazzate su cazzate per coprire ma realtà. 
Ricevetti una telefonata mentre mi stavo dirigendo verso la fermata del pullman per andare a consegnare il mio curriculum al centro per l'impiego, e risposi continuando a camminare velocemente. 
«Pronto?» feci io. 
«Rebecca King?» chiese la voce di una donna. 
«Sì» risposi. «Sono io.»
«Ho bisogno di un favore. Un grande favore» affermò, e nel frattempo nella mia testa si creò la confusione più totale. 
«Scusi, credo che lei abbia sbagliato numero» l'avvertii. Cercai di allungare il passo, attraversando la strada, vedendo già il pullman arrivare. 
«Sono la madre di Luke» disse. 
Il mio passo rallentò, fino a fermarsi. Il bus mi passò davanti.


Il costo del biglietto per il treno era la mia preoccupazione minore. Erano i passi in quella stazione, in quelle vie che avevano vissuto solo grazie a noi, che mi assillavano.
La paura di rivedere certe facce, di scontrarmi con gli occhi di Mef o di Val. L'ansia di essere riconosciuta, di essere etichettata e ricollegata a quei due.
La paura della compassione, che mi faceva bruciare di vergogna.
Le strade erano deserte, un po' come sempre, ma quel giorno mi facevano più paura perché non erano più mie. Quando scesi dal pullman, il carcere di Lightow faceva più ribrezzo rispetto a quando con me c'era Lui. E la cosa che più mi faceva schifo è che stava lì dentro. L'interno aveva assunto un'altra prospettiva, come se in passato fosse stato un'altra cosa.
Fui scortata fino ad una stanza e quando varcai la soglia la trovai vuota, se non per una guardia che controllava che tutti gli incontri si svolgessero legalmente. Allora mi sedetti, senza fare troppo rumore, fissando la barriera che avevo davanti. 
Luke si fece vivo qualche minuto dopo, con le manette ai polsi e due guardie che lo accompagnavano dentro. Mi imposi di non abbassare lo sguardo, perché in quel momento io ero più forte di lui. Rivederlo dopo venti giorni fu più o meno come rivederlo dopo venti anni. Ci stavo soffrendo come un cane, ma questo lui non doveva in alcun modo saperlo. Doveva rimanere solo e sentirsi tale. 
Mi si sedette di fronte e appoggiò i gomiti sul ripiano. Il fatto che avesse un accenno di barba sul volto mi destabilizzava, così come il fatto che il suo piercing al labbro fosse sparito. 
«Ciao» disse. 
Non sapevo se fosse la barriera che ci divideva ad aver attutito la sua voce o se semplicemente non avesse avuto il coraggio di parlarmi. 
«Ciao.» 
Rivederlo mi faceva sia male che bene. Nonostante tutto, io quello stronzo lo amavo. E questa era la mia condanna. 
«Come stai?» domandò e a me per poco non si spalancò la bocca dallo stupore. Come cazzo voleva che stessi, vedendolo ridotto in quel modo in un carcere?
«Bene, tu? Come ti trattano qua dentro?» chiesi, fingendo che non fosse successo nulla. Che nessun bacio ci fosse stato tra di noi, che non avessimo passato appiccicati per mesi interi, che lui non mi avesse mentito su tutto, che adesso non fosse rinchiuso in prigione. 
Si strinse nelle spalle e «Abbastanza bene, anche se queste» disse, alzando i polsi per mostrarmi le manette «mi fanno un male cane.»
Cercai di essere il più normale possibile, ma sapevo che sarei scoppiata da un momento all'altro. Così come lo sapeva lui. 
Poggiai anche io un gomito sul ripiano, abbassai la testa e incastrai una mano tra i capelli. Inspirai ed espirai profondamente, provando a concentrarmi. 
«Becky...» soffiò, ed era la prima volta che mi chiamava così. 
«No, aspetta» feci io, riprendendomi. «Io non sono qua per te. Sono qua perché ti devo dire una cosa.»
Luke si mise in allerta, raddrizzando la schiena e aprendo poco di più gli occhi. Che non fossi là per lui, questo era chiaro. Poi sembrò capire, prendere coscienza della situazione, restando inerme e zitto. 
«E' morto, non è vero?»
Annuii, aspettando una sua reazione, mentre mi saliva un'ansia che non sapevo nemmeno da dove venisse. Fu proprio in quel momento che Luke capì perché non gli avessi urlato addosso, perché non mi fossi infuriata dopo tutto quello che mi aveva fatto. Dovevo dirgli che suo fratello era morto. 
Gli vidi passare sul viso una sofferenza allucinante, manco gli avessero ricoperto il corpo di squarci, ma fu solo un lampo. Come era arrivato, se n'era pure andato, quel dolore, e i suoi occhi diventarono grigi. Una sofferenza sorda, uno sparo, un tonfo e poi la desolazione. 
Certi mali non fanno rumore, ti si insinuano dentro, silenziosamente, ti si attaccano e te li porti dietro per anni. Va così.
Dopo un silenzio pesante, «Quando?» domandò.
«Ieri, di mattina. Il funerale è dopodomani.»
«Mi hanno lasciato il permesso?»
«Sì» risposi. «Sarai scortato, ed Ashton non potrà venire.»
Luke si tirò indietro, distaccato come non lo era mai stato, e si appoggiò allo schienale. All'improvviso sembravamo due che non c'entravano niente, che erano lì solo per quello. Come se fossimo stati sconosciuti. 
«Hanno mandato te a dirmelo perché non ci vogliono più avere a che fare con me, giusto?» chiese. 
Ed io «Giusto» gli confermai. 
«Devi andartene, Rebecca.»
A quel punto mi sentii gli occhi della guardia addosso, quasi dipendesse da quello che avrei detto. 
«Lo so» gli dissi.
«E allora che stai aspettando?»
«Me ne sono già andata, Luke» chiarii. «Ma sono io che l'ho deciso. Sono io che me ne sono andata, e solo per me stessa. Perché non me lo meritavo» borbottai quell'ultima frase, percependo le mie difese creparsi, troppo colme di dolore.
Luke si alzò, si avvicinò al vetro spesso ed io non mi mossi. 
«Scappa via, finché sei in tempo. Non basta dirlo, fallo sul serio.» Lo pronunciò facendolo quasi sembrare un ordine, ed io gli ordini non potevo tollerarli. La mia testa mi diceva che quello fosse solo vittimismo, che in realtà volesse che io restassi. Ma quel grigio nei suoi occhi sembrava urlare tutt'altro, pareva seriamente volere che io gli stessi lontana. 
Allora mi alzai anche io e la guardia si mise in allerta. 
Gli dedicai uno sguardo sdegnato e mi girai di spalle. Quando stetti per andarmene, «Non illudere Michael» proferì. «Non se lo merita, ti ama sul serio.»
Non ce la feci, a voltarmi. Non ne avevo la forza. 
«Stai chiuso qui dentro e non mi lasci nemmeno andare avanti, Luke.»
«Non lo sto dicendo per questo, perché tu Michael non lo amerai mai un briciolo di quanto ti ama lui. E' tempo di mettere da parte questo tuo egoismo che ti corroderà.»
«Smettila, cazzo» sbottai, dirigendomi verso la porta. 
«Signorina, deve essere accompagnata da un agente» mi avvertì la guardia. 
«E mandatemela, questa cazzo di guarda. Lasciatemi uscire» quasi lo pregai, perché stare lì dentro adesso mi faceva soffocare e una morsa lenta allo stomaco mi lasciava agonizzante.
Prima di metter fine a quell'angoscia, «Ciao, Rebecca. Ci vediamo il 9 aprile» mi salutò, ed io per poco non corsi per quel corridoio che mi avrebbe portata fuori di lì. E quando mi ritrovai all'esterno di quelle porte che continuavano ad aprirsi e chiudersi, mi piegai su me stessa e tentai di calmarmi. 
La sua immagine, seduto dietro al vetro che ci divideva, col viso provato e stanco, e gli occhi grigi, mi spezzava.
Ci vediamo il 9 aprile.


Due giorni dopo, a Gosford si svolse il funerale di Jack Hemmings. Tirava un vento che non si vedeva da anni, e la gente, vestita da capo a piedi di nero, era stata silenziosa sin dal primo momento. Avevano portato la bara fino in chiesa, e tutti avevano seguito la macchina. 
Durante il funerale, furono il fratello e la madre di Luke a parlare, con una tale sofferenza che metà dei presenti si era ritrovata costretta a singhiozzare. 
Questo lo so perché io c'ero. In fondo alla chiesa, seduta sulla penultima panca, mi concessi di entrare nella vita di Luke, senza il suo permesso. Gli strappai pezzi del suo passato fregandomene di quanto mi avrebbe odiata, ché tanto io l'avrei fatto di più di lui in ogni caso. 
Non incontrai i suoi occhi nemmeno un secondo, avevo visto solo due carabinieri e sapevo che fossero per lui. Quando poi «C'è anche una persona che ha diritto di parola» irruppe il prete, mi si congelò il sangue nelle vene. Pregai Dio che non fosse così, ma non mi diede ascolto. «Dio è pronto a perdonare tutti e oggi, così come ogni giorno della nostra vita, siamo invitati a mettere da parte ogni pregiudizio e accogliamo il fratello di Jack.»
Nella chiesa si innalzò un fitto vociare, ognuno sapeva a chi appartenesse la colpa. E non ce lo volevano lì il bastardo che aveva ucciso il povero cristo che adesso doveva pure fare da spettatore a colui che l'aveva ammazzato.
Trattenni il fiato quando Luke salì le scale e si ritrovò davanti ad un leggio. Con gli occhi bassi e una svogliatezza senza precedenti, si avvicinò il microfono. 
«Io in chiesa non ci vengo da quando ho fatto la cresima» esordì, e il prete assunse un'espressione indecifrabile sul volto. «In realtà, fosse per me, questa cosa non si farebbe nemmeno. E' a mia mamma, è a me e a mio fratello che importa, siamo noi che abbiamo perso qualcosa. Il resto di voi sta qui perché è così che si fa, è la cortesia che vi fa stare seduti qua dentro. 
Io non lo so dove vanno le persone che muoiono, però so che restano. Jack non sarà la macchia di sangue su quel marciapiede, nemmeno il corpo freddo qua davanti a me che vi siete ostinati a tenere in taverna. E' una cosa da malati, solo un pazzo si terrebbe in casa il proprio figlio morto. E voi non lo sapete, ma Jack resterà nei libri di psicologia contemporanea che lasciava aperti sulla scrivania e che non mi faceva mai leggere, nelle sigarette che lasciava metà accese nel posacenere fuori in balcone, nei vestiti rimasti stropicciati e accartocciati sulla sedia nella sua camera. Resterà in tutte queste piccole cose che nemmeno uno di voi saprà mai, perché non ve ne frega nulla. E' importato solo ad una persona, indirettamente, interessandosi di me. Solo capendo me, avrebbe capito cosa mi legava a mio fratello. Ci ha sputato il sangue, si è spaccata la schiena per starmi vicina, per tirarmi fuori il mostro che mi divorava. Anche se adesso sarà lontana, volevo ringraziarla davanti a lui. Grazie perché ha deciso di farmi sentire meno solo, di uccidersi con me, di ricevere il veleno anziché niente. Ci stavo affogando, nel mostro che ero diventato, ma grazie, Rebecca. Perché mi hai odiato così tanto che mi hai spinto ad amarmi.»
La sua voce rimbombò per tutta la chiesa e il silenzio più atroce a cui io avessi mai partecipato calò. Luke scese le scale, senza guardare in faccia a nessuno, e se ne andò. Con un magone ripugnante, seguii il suo tragitto con lo sguardo e deglutii. Ero io. Ero io quella Rebecca, quella stronza che lo aveva odiato fino a farlo amare. Ero sicura di avere l'espressione più seria e cupa che in tutta la mia vita avessi mai avuto, e me ne stavo lì, seduta su una panca ad un funerale in cui non c'entravo niente. 
Luke si riconsegnò alla polizia e se ne uscì dalla chiesa. Il prete, ancora scosso da quel discorso che nella chiesa di Dio non ci sarebbe dovuto essere, si riavvicinò al leggio e «Scusate» disse. 
Scusate un cazzo, avrei voluto replicare io.

La parte più raccapricciante e più crudele fu la fine, quella in cui si lasciavano passare prima i famigliari e poi le altre persone presenti al funerale per uscire dalla chiesa. 
C'era un'enorme macchina nera fuori sulla quale caricarono la bara, contornata da tutte le persone che conoscevano Jack. 
C'era poi la madre, quella che io non avevo mai visto, e il fratello di Luke. L'uno teneva sottobraccio l'altra e parevano confortarsi a vicenda. Fu quando chiusero l'auto che la donna cominciò il suo pianto disperato, fu lì che realizzò sul serio che suo figlio non sarebbe più tornato. 
Ma non gridava il nome di Jack. Gridava quello di Luke.


Luke's POV
Come programmato, l'8 aprile io ed Ashton fummo chiamati in aula. Gli agenti ci portarono nella stanza con le sbarre dalle quali si poteva assistere al processo. 
Ashton ed io non ci guardavamo. Il fatto che fosse stato lui ad aver chiamato la polizia, che mi avesse distrutto la poca serenità di cui godevo, mi faceva venir voglia di ammazzarlo di botte proprio lì, davanti a tutti. Ma non potevo concedermelo. 
Ci sedemmo sulla panca, a debita distanza, ed aspettammo. Non osservai l'aula, non cercai gli occhi di nessuno che potessi conoscere. Non volevo davvero perforare così a fondo la verità. 
Non appena il giudice entrò, il mio avvocato, seduto in prima fila, mi lanciò un'occhiata e il processo iniziò. Ciò che più mi sconvolse furono i testimoni. Ragazzi di Gosford che probabilmente avevo visto ma di cui non ricordavo il volto, che erano stati chiamati a testimoniare, affermavano di aver visto Jack e Luke Hemmings a terra ed Ashton Irwin vicino a loro. In piedi. 
Raccontavano senza fretta, senza lo scopo di sbattere uno di noi in prigione per un tempo predefinito. 
Il giudice ascoltò ogni singola parola, con una mano poggiata sotto al mento, e analizzando la situazione. Il mio cuore che martellava nel petto come un pazzo mi faceva brutti scherzi. Sudavo come un dannato ma avevo un freddo tremendo. 
«Era ferito Luke Hemmings?» domandò ad un certo punto il giudice. 
Mi feci così tante domande che il mio cervello andò a puttane, mi chiesi dove volesse arrivare e che tipo di pena stesse per darci. Al solo pensiero, mi veniva da mettermi le mani tra i capelli. 
Avevo solo diciassette anni. A quell'età non sai cosa ti possa riservare il futuro, ma di sicuro non degli anni in galera. 
«Non ricordo, al momento. Era piuttosto buio, so solo di averlo visto vicino a suo fratello. Forse voleva analizzare le sue condizioni» rispose il ragazzo ed Ashton si mosse di fianco a me. 
Cercai di tenere lo sguardo fisso di fronte a me, di non guardare i suoi movimenti, ma mi fu inevitabile quando si alzò, si avvicinò alle sbarre e «Luke Hemmings era ferito, sì» esordì. 
«Ashton, cosa Cristo...» sussurrai, ma lui mi bloccò.
«E l'ho ferito io.»
Non poteva parlare in quel momento. Non poteva intervenire, nessuno lo aveva interpellato, eppure il giudice si girò verso di noi e parve assorto dalle sue parole. «Sono stato io» decretò infine e non mi sentii male. Ero semplicemente sorpreso, con la faccia impassibile. All'improvviso, me ne resi conto: era stato lui. Non a ferirmi, ma ad ammazzare di botte mio fratello. 
«E' la prima volta che ammette il suo reato, Irwin» constatò il giudice.
L'avvocato di Ashton iniziò a sfogliare con isteria un'agenda, a grondare di sudore e «Obiezione, signore» sbottò, con la merda fino al collo e gli occhi spalancati. 
«Obiezione respinta. Continui, Irwin.»
Ashton strinse tra le mani le sbarre e, con la testa che quasi sporgeva da esse, «Ho fatto tutto da solo, quella sera» disse. «Prima ho ferito Luke Hemmings e dopodiché il fratello. Non avevo delle ragioni valide, avevo solo troppo alcol che mi circolava nel corpo.»
Calò il silenzio. Il giudice perse dei secondi interminabili a fissare gli occhi di colui che adesso si autoaccusava di un reato. 
«Come avvocato di Luke Hemmings» intervenne l'uomo in prima fila, «ritengo che questa sia una possibilità più che accreditata. Infatti, Irwin, come raccontano i testimoni, era l'unico in piedi, quella notte. Luke Hemmings, invece, non ha mai ammesso le sue colpe. E forse dovremmo chiederci il perché.»
L'avvocato di Ashton non spiccicò parola. Con una faccia cadaverica, capì di aver perso il caso e che il ragazzo a cui era stato assegnato fosse un pazzo. 
Pochi minuti dopo, il giudice uscì dall'aula e i presenti cominciarono a parlare. 
«Che cazzo ti è saltato in mente?» gli domandai subito.
«Fatti una nuova vita, appena esci. Lascia stare Sefton, vattene da lì» ordinò, restando ancora di spalle, attaccato alle sbarre. 
«Non so che gioco tu stia...»
«Non avresti ammesso niente lo stesso, Luke. Lo sappiamo entrambi. L'ho picchiato io» affermò, sputando quella verità che per anni era stata sepolta da strati di polvere che toglierli sarebbe stato come squarciarci la nostra stessa pelle.
Quello agonizzante, però, fu solo lui.
Quando il giudice rientrò, abbassai la testa. Ashton si era seduto di nuovo di fianco a me e lo sguardo lo teneva alto. 
«In nome del popolo australiano, per l'udienza Pubblica è stata presa la seguente decisione: dopo aver analizzato tutte le testimonianze, la giuria assolve l'imputato Luke Hemmings perché il fatto non sussiste, dichiarandosi innocente dal reato ascrittogli. Viene ordinata l'immediata liberazione.
Il Codice di Procedura Penale dichiara l'imputato Ashton Irwin colpevole del delitto di Jack Hemmings, condannandolo a scontare una pena di anni tre di reclusione. 
L'udienza è tolta.»
La squadra di calcio di Sefton non avrebbe più avuto un capitano e la maglia 14 sarebbe andata a qualcun altro. La stanza 73 della Uno non avrebbe più visto per almeno tre anni l'ingresso di colui che ci aveva vissuto per troppo tempo e Lo Spazio non avrebbe più avuto nessuno che aspettasse nell'angolo la fine della mia esibizione. Per tre anni, non avrei più dovuto nascondere i disegni che creavo a nessuno, non avrei più dovuto spronare qualcuno a non lamentarsi per il pavimento del Palababele. 
Per tre anni, Ashton Irwin sarebbe rimasto un animale in gabbia. 
Perché non aveva ucciso solo una persona ammazzando Jack, ma due. E la seconda era proprio quella seduta di fianco a lui, con gli occhi spalancati di chi si vede la realtà per la prima volta sbattuta in faccia. La seconda ero io.
Perché se ero diventato un mostro, questo lo dovevo solo ad Ashton.
In aula tutti si misero in piedi. Il mio avvocato alzò un pugno in segno di vittoria, e sul viso aveva un'espressione di orgoglio. Quello di Ashton, invece, chiuse l'agenda e se ne andò, così come il giudice e tutta la giuria. Sotto il mio sguardo, ammanettarono Ashton e per tutto il tempo i nostri occhi non smisero di guardarsi. Pensai di crollare, di sbottare proprio lì e prendermi delle colpe che effettivamente non avevo. Perché era il mio migliore amico, perché nella merda ci si va insieme. E invece, mentre si allontanava sempre di più, mi sentivo più giusto. 
E capii non fosse egoismo, ma solo pietà per me stesso. 
Non appena sparì dietro la porta e mi girai, la trovai in fondo alla stanza. Ci vediamo il 9 aprile, le avevo detto, e invece Rebecca era lì. Forse perché non voleva perdersi nessun mio passo verso il buio, o semplicemente perché di scappare non ne aveva più voglia. Perché scappando da me, sarebbe scappata anche da se stessa.
E quando le nostre iridi si incontrarono, ciò che le lessi in faccia fu solo stupore. Ma invece che buttarsi tra le mie braccia, finalmente libere, Rebecca se ne andò. Ed io rimasi lì, a guardarla fuggire da se stessa. 



Hei people! 
Ci stiamo avvicinando alla fine. Ve lo dico con un'angoscia orribile perché 24 carati mi sta segnando in un modo assurdo e finirla diventerà un trauma perché capisco che traumatizzerà di più a voi se non vi avviso che siamo vicini alla fine. 
Allora, parlando del capitolo, potrebbe risultare più corto degli altri semplicemente perché da dire erano solo le cose che ho scritto. La morte di Jack e la condanna di Ashton erano gli argomenti che erano previsti in questo capitolo e ok, credo di averli trattati come volevo. Spero siate contente della scarcerazione di Luke ma, tipo, preoccupatevi al contempo. Non troppo, abbastanza. 
Come sempre: grazie. In fondo grazie anche a Rachele, che se non fosse per lei io adesso tutta questa rabbia non l'avrei e quindi 24 carati non sarebbe affatto ciò che è adesso.
Siccome aggiornerò domenica prossima, vi faccio adesso gli auguri, buon natale a tutte voi!
Nali :)

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Capitolo 26
*** Good luck. ***


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Per la prima volta nella mia vita
ebbi la percezione precisa e lacerante 
che le cose finiscono 
e finiscono per davvero.
-Il bordo vertiginoso delle cose

 

Becky's POV
In mezzo a tutta quella gente, potevo sembrare una normalissima diciassettenne in ritardo. In ritardo forse con la vita, con me stessa. Tra le mani un biglietto per il treno, nella testa gli occhi azzurri di chi è stato innocente ma non l'ha mai ammesso. Camminavo velocemente ed ogni passo verso la stazione mi faceva sentire di essere sempre più al sicuro. Allora andavo più veloce, e non mi importava di niente se non di raggiungere il binario. 
«Cazzo, la vuoi guardare la strada?!» mi sbraitò addosso un passante, ma a me non fregava. Salii sulle scale mobili, arrivai in superficie e guardai il tabellone con gli orari di partenza. 
Ora che ci pensavo, ero sempre stata pronta a partire e mai a tornare. Me l'aveva insegnato Luke, era stato lui a dirmi che nella vita si va avanti scappando. Che si fa prima così, ma che dietro di noi si lasciavano tante macerie da cui nessuno sarebbe stato più capace a costruire. Bisognava essere egoisti a fare una cosa simile, ed io lo ero. 
Lo fui fino a quando non sentii chiamare il mio nome dietro di me. Distolsi lo sguardo dal tabellone, e in quel momento non mi importò più sapere il numero del binario. Mi voltai e trovai Luke. Gli attimi che passammo a fissarci li utilizzai per pensare al fatto che quel ragazzo che adesso mi sembrava così indifeso stesse tradendo il suo stesso principio. Scappare per salvarsi. Non lo stava affatto facendo, Luke stava tornando. Da me. 
«Ti ho detto che ci saremmo visti il 9 aprile» esordì. 
«Luke...»
«Un secondo. Lo so che sei confusa, che ti senti presa per il culo e riempita di cazzate. E io non sono qua per smentire, perché è vero. Io in carcere ci dovrei restare, ma non per mio fratello. Perché ho scassinato macchine, le ho rubate, ho rubato nei negozi, ho sparato con pistole non registrate, ho contribuito ai traffici illeciti. E ci vuole coraggio a dirlo così, sai, Rebecca? Ma lo sto facendo, perché niente di tutte queste puttanate mi sono pesate così tanto come mentire a te.» Luke finalmente riprese fiato, probabilmente aveva corso per tutta la città per arrivare fino a qua. Distese le braccia lungo i fianchi, rendendosi così innocuo come mai prima di quel giorno. Ed io non potetti che guardare il foglio bianco che aveva in mano. 
«Cos'è quello?» domandai, sconfitta dal fatto che Luke mi avrebbe sempre fatto un effetto a cui non potevo reagire. 
«Il biglietto che mi porterà con te a casa.»
Rimasi in piedi, stremata. Perché un po' di felicità me la meritavo, perché avevo lottato così tanto che pensavo di dover stare solo bene adesso. E vedere quel Luke, il mio, di fronte a me con quel biglietto, mi fece vedere uno spiraglio di felicità. Bastò solo quello, per farmi crollare. 
E' una sensazione strana, quella che ci prende quando dopo mesi di nero si riesce a trovare anche un piccolo raggio di bianco. Come quando lasci la tua casa e dopo troppe settimane anche solo vederne la porta e sentire la voce della tua famiglia da fuori ti fa sentire debole. 
Non avevo mai perdonato qualcuno in vita mia. Il fatto che mi avesse mentito per così tanto tempo non mi andava giù, ma capii che andando avanti in quel modo avrei solo fatto del male anche a me stessa. Decisi che forse non avevo perdonato nessuno perché non mi era mai sembrato che valesse la pena di farlo. Così feci segno a Luke di avvicinarsi a me, e lui lo fece. Ci abbracciammo come mai lo avevamo fatto, mai con un bisogno così disperato. Ed io che non piangevo da troppo tempo, quel giorno lo feci. Allora Luke mi strinse più forte, appoggiò una mano sulla mia testa e mi premette la guancia contro il suo petto. Ogni mio singhiozzo, moriva sulla sua pelle. Ogni mio respiro, si confondeva col suo.
Così contaminati, non lo fummo mai.
Così completi, neppure.


C'era un'abitazione di qualche metro quadrato appiccicata alla mia casa. Nessuno se n'era mai fregato, nessuno aveva mai pensato di farci quattro soldi. Io e Luke potevamo seriamente incominciare a vivere proprio lì, ma le sue idee erano completamente contrarie. 
«Mi sono rotto il cazzo di campare nell'illegale. Voglio poter vivere senza preoccuparmi di avere una bomba sotto al culo che ci faccia saltare tutti in aria» aveva detto, ed io avevo alzato le spalle. 
Così, per i primi giorni, dormimmo nella mia camera con mia mamma per la casa che storceva il naso alla nostra vista. Dopo tutta la storia del processo, non ci credeva più al fatto che potesse cambiare. Allora lo metteva alla prova, lasciandogli in bella mostra le chiavi della macchina, alcuni gioielli, o i soldi nel barattolo sul davanzale per vedere se avesse il coraggio di rubarli. Ma Luke se ne fregava altamente, manco ci faceva caso. E piano piano mia madre iniziò a fidarsi di lui. 
Quando scendemmo dal treno e ci dirigemmo verso la mia abitazione, sapevamo di avere tante cose di cui parlare. Mia madre fu inizialmente accogliente, era contenta di avermi ancora tra i piedi dopo tutti quei mesi.
«Filate in camera, lasciate stare tutto, ci penso io» ci avvisò e noi, stanchi morti, ubbidimmo senza fare storie. Non ci dicemmo niente, solo ci sistemammo e ci mettemmo a dormire. Luke incastrò le sue gambe con le mie e mi strinse a sé, ed io non ebbi da ridire niente. 
Ne avevo bisogno.

Qualcosa dentro di me non andava. Stare così vicina a Luke mi faceva credere di star facendo contemporaneamente qualcosa di dannatamente sbagliato. Solo il mio subconscio sapeva però cosa fosse.
Continuai a rigirarmi nel letto, provocando dei piccoli grugniti e sbuffi da parte di Luke, fino a quando non allungai il braccio e presi la svegliai. 
Erano le cinque e mezza di mattina e ogni traccia di stanchezza era scomparsa. Mi sedetti sul materasso e mi girai ad osservare Luke. Mentre dormiva, non te lo potevi immaginare che uno così avesse portato avanti una vita da criminale in totale silenzio. Ma poi aprì gli occhi, di scatto, fissi su di me. A primo impatto cattivi, resi blu del buio in camera, e ad un secondo sguardo solo indagatori. Luke aveva ancora il terrore che lo venissero a prendere. 
«Cosa fai?» mi domandò con una voce roca e bassa. 
«Niente, torna a dormire. Io non riesco.» 
«Vieni qui» disse, ed io mi distesi con la testa sul suo petto nudo e le gambe piegate. Cominciò ad accarezzarmi i capelli lentamente ed io chiusi gli occhi, allacciando il mio braccio attorno ai suoi fianchi come per abbracciarlo. 
«Guarda che hanno finito con te» ruppi quel silenzio, sentendolo un po' agitarsi.
«Non ne voglio parlare, Rebecca» troncò il discorso, senza smettere di accarezzarmi. 
«E' solo che non voglio vederti preoccupato per ogni rumore che senti la notte. Davvero, forse fa più male a me che a te. Mi piace vederti sereno» affermai, ascoltando il suo battito cardiaco che piano piano accelerava. 
Creare dipendenza ad una persona mi faceva sentire qualcuno. E il fatto che io fossi riuscita a far sentire a Luke il bisogno di starmi vicino mi rassicurava, mi faceva credere che per ogni cazzata lui, con me, ci sarebbe stato. Allora strinsi più prepotentemente quel corpo segnato da innumerevoli cicatrici e pensai di voler stare per sempre così. 
«Sto pensando ad Ashton» soffiò, con il tono così flebile da riuscire a sentirlo solo in un totale silenzio. 
«Cosa pensi?»
«Che io adesso sono qua e lui in una cella fredda, isolata, silenziosa. Il silenzio fa male quando non hai nessuno con cui condividerlo. Lui non ha nessuno.»
«Non ti ha fatto del male quella sera, vero?»
Luke sospirò, il suo petto si alzò vistosamente. E poi «No» buttò fuori insieme a tutti i sensi di colpa. 
«E allora che cazzo gli è saltato in mente?» chiesi io, questa volta alzando la testa e guardandolo in faccia. 
«Cristo, Rebecca, ne so meno di te. L'ha chiamata lui, la polizia. Quando me l'ha detto, ti giuro, non c'ho visto più» raccontò, visibilmente agitato, con la rabbia che piano piano gli risaliva in corpo. «L'avrei ucciso.»
«Gli hai voluto troppo bene» sentenziai io. Luke buttò fuori un sospiro enorme, chiuse gli occhi per calmarsi o forse perché ormai non poteva fare altro. «Smettila di fare così, Luke. Tu Jack non l'hai mica ucciso. E' giusto così.»
«Io l'ho istigato» continuò ad incolparsi, ed io non seppi più dove andare a prendere gli ultimi residui di calma.
«Chi cazzo se ne frega, ok? Ashton si è preso le colpe che aveva. Giuro che se ti vengono su delle paranoie al riguardo, mi incazzo.»
«Va bene, stai zitta, Rebecca» fece lui, sistemandosi nel letto e rifacendo combaciare la mia guancia al suo petto. «Sono le cinque e mezza, non mettiamoci a svegliare il vicinato.»
«Come se ti importasse» lo rimbeccai io. «Non è smettendo di parlare di qualcuno che il dolore verrà meno» proseguii. «Anzi, farà più male, ché tutto lo schifo ti rimane incastrato dentro. E avrai il tempo di esaminarlo, quello schifo, di rimuginarci sopra e di amplificare il dolore. Ed io non ho intenzione di prendermi pure quello.»
Luke lasciò andare pesantemente il braccio sul materasso. Sbuffò, girò la testa. Lo faceva quando lo infastidivo. Allora, «Buonanotte» mi liquidò così. 
Non era buonanotte perché era mattino. Perché non ci saremmo più addormentati e avremmo finto solo per sentirci respirare a vicenda. 
E soprattutto perché, due minuti dopo che finsi chiudendo gli occhi, li dovetti spalancare di nuovo. Boccheggiai, ripensando alle mie parole, alla sensazione che stare vicino a Luke fosse in parte sbagliato. Sbagliato per una persona.


Michael's POV
Becky era con Luke. Era un dato di fatto, perché era stato assolto e se l'era svignata con quella stronza. Lo sapevo anche perché non ero tranquillo e mi bruciava il viso e imponevo a me stesso di non saper piangere. 
Essere a conoscenza del fatto che la persona che ami è con un altro ti fa contorcere lo stomaco. Ti sale una stupida ansia, perché non c'è motivo di averla: non hai nemmeno il gusto di poterla perdere, quella persona. Ti fa chiudere le mani a pugno, ti fa tremare il corpo e hai paura di star impazzendo. Ti sale una voglia matta di urlare, ma ti limiti a ringhiare. Manco fossi un animale. Ma lo fai, perché hai 'sta rabbia che dentro ti corrode e tenerla dentro fa male. Troppo male. Ti spaventano, queste reazioni, perché ti rendi conto di quanto l'amore è merda. 
Io Becky la odiavo così tanto da poterla amare il doppio. Era questo l'intoppo. Lei non mi pensava. Io non le mancavo e dirglielo a voce era stato peggio di una coltellata conficcata nella carne, perché era stata zitta, la stronza. Mi aveva solo implorato di smetterla. 
Erano troppi i pensieri che non mi facevano dormire da settimane. Puntualmente mi svegliavo, mi facevo i miei dannati giri per la casa e poi forse, forse, Dio me la dava buona e mi faceva dormire. 
Ma quella notte Becky era con Luke. Pensai di uscirne pazzo, da tutta quella situazione. Mi tirai su dal letto, col viso sudato e i capelli scompigliati e andai giù a bermi un bicchiere d'acqua. Più volte temetti di andare addosso a qualche mobile, ma riuscii a tornare in camera. Dovetti accendere la luce, sedermi e calmarmi. Guardai la finestra che dava sul balcone. Becky mi stava distruggendo, il suo amore mi stava soffocando. Osservai ciò che avevo intorno, vedendo solo nostre foto, le felpe a terra che usava più lei che io, il suo profumo in stanza, la sua assenza intossicante. Mi rialzai, riadocchiai la finestra e presi il cellulare. Il nulla. Cercai in tutti i modi di distrarmi, e con le mani tremanti cominciai a mettere a posto i vestiti, anche se erano le cinque di notte. Non mi importava. Dovevo solo far cessare quel groviglio enorme di pensieri che mi attanagliavano la testa. 
Ad un certo punto mi stufai. Ma mi stufai sul serio. Come se stessi per morire soffocato, corsi verso la finestra, la aprii ed uscii in balcone. Una ventata di freddo gelido sbatté senza alcuna pietà contro il mio corpo e ogni mio muscolo si irrigidì. Attaccai le mani alla ringhiera e non guardai giù, ma il campanile della chiesa che c'era in piazza. Era proprio lì che era iniziato tutto, quella sera di agosto. Era lì che avevo iniziato a perdere Becky. 
Iniziai a tremare perché irrigidire i muscoli non servì più. Decisi di cancellare ogni abitudine. Ogni abitudine alla sua voce sempre piena di rancore, ai suoi occhi attenti e indagatori, al suo profumo marchiato dal suo nome. Io Becky me la dovevo scollare di dosso. Non si può vivere con appresso un amore a senso unico, con addosso gli anni passati ad uccidersi con un rapporto malato. Perché a furia di infliggersi del male, a furia di conficcarsi coltellate, la carne si squarta. Un corpo mica ce lo hai più. 
Lo capii solo quella notte, che il dolore sarebbe cessato solo se uno dei due si fosse staccato dall'altra. Ché se due corpi appiccicati non riescono ad andare avanti, uno si deve staccare per forza. Bisogna andare avanti, bisogna mettere da parte la paura e farlo. E con Becky non ci si riusciva, a staccarsi definitivamente, un po' di male te lo passava lo stesso. L'unico modo per togliersela di dosso, era andarsene. Nel vero senso della parola. 
Così, per la prima volta, guardai sotto. C'era il cortile di casa mia. Pensai di farlo, lo pensai davvero. Ma il mio cellulare squillò proprio in quel momento, mentre il sole iniziava ad innalzarsi per dare vita ad una giornata che io non avrei voluto vivere. Ringhiai, lo stesso ringhio animalesco di quelle settimane che si faceva spazio in mezzo a tutta quella rabbia. E quasi ci trovai compiacimento nel pensare che se mi fossi buttato, lei mi avrebbe concesso qualche attenzione in più.
Ricordo di aver alzato lo sguardo, di aver guardato il cielo e di aver chiesto a Dio che cosa volesse da me, che cazzo gli avessi fatto per meritarmi una disgrazia come Rebecca.
Perché era lei, al telefono. Era lei e mi chiedeva cosa stessi facendo. 
Dormendo, Becky. Cosa pensavi?
Come sempre, mi pestava a sangue, mi lasciava agonizzante e poi, negli attimi prima della fine, mi salvava.


Faceva un cazzo di freddo. Era tardi, tardissimo. Le macchine non passavano più e la faccia mi si era congelata. Bestemmiai, tra quelle strade così solitarie, e abbottonai il cappotto. 
Becky non ci pensava mai a me e questo non implicava il fatto che fossi io a doverci pensare, a me. Andavo in giro così, con questa frase nella testa, che lentamente mi perforava ogni pensiero sano. Ero arrabbiato, ero affranto e triste. Disperatamente triste. 
Allora avevo contattato il padre di Luke, quella mattina in cui mi aveva chiamato Becky, ma sapeva già tutto. Quelli come lui le cose le sapevano forse prima che accadessero. Gli dissi di volermene andare, gli chiesi di aiutarmi ad uscire da tutto questo e mi resi conto di non sapere nemmeno cosa fosse tutto questo. E lui mi rispose di non preoccuparmi, che era felice di avermi risentito dopo tutto quel tempo. Che Luke gli aveva detto che il mestiere l'avevo imparato bene, e poi immediatamente mi domandò dove fosse suo figlio. Avevo un'insensata rabbia verso Luke, volevo che lo trovassero e che gli martoriassero il corpo. Subito dopo, mi resi conto che, se glielo avessi svelato, con lui avrebbero anche trovato Becky. E anche se se lo meritava, «Non lo so» dichiarai. 
«L'ho messo al mondo, quel coglione, e guarda come mi ripaga!» si era lamentato. «Se il caso fosse stato affidato a tuo padre, adesso Ashton sarebbe fuori. Invece fa sempre di testa sua.»
Ma io lo sapevo già. E proprio quando «Se trovo Luke, gli sparo» annunciò, mi spaventai. Sparando a Luke, avrebbe ucciso anche Becky, e di conseguenza pure me.
Fu lì che decisi di proteggerla, di proteggerli. A modo mio. 
«Potrei parlare con mio padre e convincerlo a riaprire il caso» l'avevo messa giù lì così. 
E immancabilmente qualcosa si era incrinato.
Il freddo, in ogni caso, quella notte non mi abbandonò. Allungai il passo fino ad intravedere la macchina mezza scassata di Mef, che si era fatto tutti quei chilometri sotto l'ordine del padre di Luke. Sorrisi, dentro di me, pensando di poter mettere fine ai miei brividi. 
«C'hai una faccia da morto» mi accolse lui, mentre girava le chiavi.
«Che ti frega, accendi il riscaldamento. Mi sto congelando il culo» lo spronai io, appoggiando la testa al finestrino.
«A Sefton non fa così tanto freddo» valutò, corrugando la fronte e partendo. «Comunque» proseguì, «qui c'è la roba.» Spostò mazzi di chiavi, minimo tre pacchetti di sigarette mezzi aperti e finalmente si intravidero due pacchetti di polvere bianca. 
Era facile vendere droga. Arrivava come sempre un camion pieno, il tutto si scaricava in magazzino, dove veniva smistata con camion più piccoli per altri magazzini. Da questi, poi, veniva portata dai rappresentanti ai venditori. E Mef, a cui venivano assegnati i lavori più sporchi, si era subito il contratto a voce con il Boss. Io non ce l'avrei mai fatta, fino a quella notte. Perché ci sono i rischi, tra questi anche quello di morire sparato, al porta a porta invece quello di venire accoltellato, se non direttamente quello di essere sbattuto in prigione, magari pure senza manco più una parte del corpo dopo uno scontro a fuoco con la polizia. A quel pensiero, rabbrividii e strinsi i denti. 
Il narcotraffico era così. Nulla di inspiegabile. 
«Sono per lo zio di un mio amico, pensa te» proseguì, accendendosi una sigaretta e guidando con solo una mano.
«Mef» lo chiamai. 
«Mh?» fece lui. I suoi capelli biondissimi risaltavano in mezzo a quel buio pesto, così come i suoi occhi chiari. 
«No, niente.»
Si tolse la sigaretta dalla bocca e si strinse nelle spalle. «Hai più sentito Luke?» se ne uscì così. 
Dal gelo di prima, mi salì un colpo di caldo che mi fece deglutire. «No. So solo che è uscito dalla gattabuia qualche giorno fa.»
«Quel pezzo di merda potrebbe anche farsi sentire, eh!»
«Guarda che è meglio così. Suo padre potrebbe rintracciarlo, ma non lo fa. E, se lo facesse, lo ammazzerebbe.»
Mef si zittì per qualche minuto e per un po' sentii solo il rumore delle frecce che metteva saltuariamente. 
«E' con Becky, non è vero?» esordì, con un tono più calmo. 
Mi limitai a girarmi e a guardare fuori dal finestrino le strade buie. Volevo urlargli di sì, volevo sfogarmi con qualcuno, ma dovevo proteggerla. 
«Non è intraprendendo questa via che te ne dimenticherai» affermò, come se fossimo amici da una vita, come se avesse capito tutto già da tempo prima e me l'avesse sbattuto in faccia solo in quel momento.
«Non so di cosa tu stia parlando» mentii lo stesso, sfuggendo al suo sguardo e alla verità che ormai era palese. 
A quel punto, Mef si arrese. Sbuffò e accelerò. Quando arrivammo alla casa dello zio del suo amico, fortunatamente nessuno ci accoltellò. Trovammo solo un uomo sui quaranta, più addormentato che sveglio e «Porca puttana, sapete che ore sono?» ci accolse così. 
Io e Mef dicemmo di no perché effettivamente non ne avevamo idea. «Le quattro» ci informò. Poi, siccome non aveva ricevuto una nostra reazione, «Le quattro!» enfatizzò. Dopodiché scosse la testa e ci fece semplicemente entrare. E quella notte, dormimmo in una stanza anonima, coi muri bianchi sporchi, segnati da ditate nere e impronte di suole. Non ci lamentammo dei materassi duri, semplicemente ci mettemmo a dormire. Ma, qualche minuto prima che chiudesse definitivamente gli occhi, «Buona fortuna» mi disse Mef.
Avrei dovuto chiedergli il motivo, ma mi zittii perché forse lo sapevo già e non volevo che fosse così evidente. 
Buona fortuna per una vita fatta di illegalità, per il coraggio che dovrai avere.
Buona fortuna per le scene a cui dovrai fare da spettatore, per le morti di cui non ti farai mai carico.
Buona fortuna per gli spari, per l'adrenalina da controllare, per la paura.
Buona fortuna per il sangue.



Non ci vollero molti giorni prima che il Boss ci trovò una sistemazione. Non troppo lontano. Sempre nei paraggi, vicino a tutte le diramazioni dei clan. C'era la cucina, il bagno e una camera. Mef non si lamentava, io neppure. Mangiavamo, dormivamo e facevamo quello che dovevamo fare. 
Sapevo che quella non fosse la cosa giusta. Lo sapevo, una morale ce l'avevo ancora. Ma, in quel periodo, cercavo di farmi andare bene tutto. Cercavo di rimandare i conti con me stesso, con ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Fino a quando non ci pensai più e tutto divenne indifferente. Sarei finito all'inferno, secondo Dante, dritto negli ignavi. E non riusciva ad importarmi nulla. 
Gira tutto così. All'inizio fa un male cane, fa tutto uno schifo tremendo. E poi subentra l'apatia, l'indifferenza, e forse fa più schifo ancora. Ma non te ne accorgi, perché ti sta tutto indifferente. Sei anestetizzato e speri solo che l'anestesia continui, che si protragga nel tempo. Non sapresti come reagire al mondo senza quell'apatia che è diventata il tuo scudo.
Cancellai il numero di Becky, ma sotto ad uno sconosciuto continuò ad assillarmi durante tutte le giornate. Così, cambiai direttamente numero. Io quella stronza la volevo fuori dalla mia vita. Fuori dalla merda in cui mi ero cacciato.
Ma il giorno arrivò verso inizio maggio. Stavo lavorando ad una vendita di prodotti con marchi contraffatti e me ne andavo in giro per la casa con dei vestiti che parevano inghiottirmi. Avevo in mano così tante scartoffie che credetti di aver perso tutti i dati e tutti i conti. Mi infilai una mano tra i capelli, mi fermai di fianco al tavolo e poggiai i fogli. 
«Che cazzo c'è scritto!» sbottai.
Dalla camera si alzò un «Che c'hai da lamentarti?» di Mef.
«Non viene nemmeno citata l'azienda produttrice. Che lavoro di merda che hanno fatto 'sti quattro scemi» mi lamentai, avvicinandomi al frigorifero per prendere qualcosa da mettere sotto i denti.
«'Sti quattro scemi» mi riprese lui, alzando la voce per farsi sentire, «sono riusciti a truffare più persone di quante tu ne conosca al mondo.»
Sbuffai nell'esatto momento in cui udii delle voci salire per le scale. Era l'una di pomeriggio e a quell'ora nessuno dei vicini che ci circondava rientrava a casa. E ogni rumore, per noi, poteva essere sospetto. 
«E' qui, è qui. Me lo sento» diceva una voce femminile. Mi fermai, col frigorifero ancora aperto e adocchiai la pistola sulla mensola. 
Adesso ci buttano giù la porta. Prima ci urlano addosso che sono dei poliziotti, poi ci sparano addosso.
Un bussare frenetico si unì al mio battito cardiaco. 
«C'è qualcuno?» chiese una voce. La sua voce. Il sangue mi si raggelò nelle vene, il cuore cominciò una sessione di battiti accelerati all'inverosimile. Chiusi le mani a pugno e conficcai le unghie nella carne. 
Rebecca mi aveva trovato. 
«Cristo, manco un campanello c'è. Michael!» strillò e percepii il sangue salirmi nelle orecchie, facendomele diventare bollenti, facendomi male. Da lì in poi, il mio udito venne meno. 
Mef comparve di fianco a me, avendo sentito quelle urla. 
Becky non si trattenne dal continuare a battere le mani sulla porta, fino a tirare un calcio. Pregai Dio che la porta tenesse, perché non volevo vederla. Io e Mef restammo completamente in silenzio, facendo quasi attenzione nel respirare piano.
«Michael, apri questa maledettissima porta. So che sei lì dentro!» continuò a sbraitare.
Iniziai a sudare freddo, stando inerme, aspettando che la smettesse. 
Qualcuno da lontano dovette dirle qualcosa perché «Sta' zitto, Luke, io lo so che quel figlio di puttana è qua» disse.
Luke era con lei. Me lo immaginai appoggiato alla ringhiera delle scale, non curante della situazione, a pregarla di smettere di fare tutte quelle scenate. 
Dall'altra parte calò il silenzio. Mi avvicinai alla porta, mi ci appoggiai con la mano e cercai di regolarizzare il respiro. Becky era di fronte a me, dopo più di un mese in cui non vedevo traccia di un qualcosa che appartenesse alla mia vecchia vita. Regnò la quiete più totale per alcuni secondi, e poi un ennesimo calcio venne tirato contro il legno della porta. Sobbalzai, facendomi più in dietro, con gli occhi sgranati. 
«Maledetto» pronunciò a denti stretti. Vattene, vattene, vattene. «Fino a qualche tempo fa eri tu a supplicarmi di restare, e adesso...» Lasciò la frase in sospeso mentre sentivo le vie aeree bloccarsi. La gola cominciò a bruciarmi mentre quel fastidioso battito cardiaco mi rimbombava nelle orecchie.
«Andiamo, Rebecca» la incitò Luke. 
«Stai lontano. Stai lontano, non mi toccare. Me ne vado da sola.»
Da sotto la fessura vidi la sua ombra posizionata davanti alla porta. Mi riavvicinai e restammo uno davanti all'altra senza fiatare, consapevoli. Consapevoli che quello fosse il nostro addio. Ero rimasto per così tanto tempo a subire il suo modo di amarmi che in quel momento mi sentii un povero cristo a pensare a quanto avessi sopportato. Adesso basta, mi ripetevo. Anche se ci sarebbe sempre stata una parte di Becky che faceva capolino nella mia testa, giusto per non farmi stare del tutto bene. Un po' mi fece pena, perché io lo sapevo, che cosa volesse dire vedere le persone andarsene. Per poco non mi scappò un singhiozzo e dovetti allontanarmi dall'ingresso, fino a chiudermi in camera, sedendomi sul letto e abbracciandomi le ginocchia con le braccia. 
Qualche minuto dopo, Mef aprì la porta. Senza accennare nessuna parola, posò sul letto una maglietta. La mia maglietta, quella che avevo lasciato nell'armadio della stanza della Due, con la scritta idiot
Sporca di sangue.



Hei people!
Ciao belle, vi devo avvisare di una cosa. Questo era il capitolo 26, ci sarà il 27 e poi l'epilogo. Non ho mai saputo con certezza quanti capitoli fossero, ma facendo due calcoli sarà così.
Da come avrete capito, per la prima volta Becky mette da parte l'orgoglio e perdona Luke. Capisce che ne vale la pena (possiamo tranquillamente salutare i 24 carati). 
E poi il pov di Michael. Ho scritto tre storie sui 5sos in tutta la mia vita e quello era il mio primo pov di Michael. E' stato piuttosto strano riuscire a mettere dentro tutta quella disperata e concentrata tristezza. E' stato cattivo da parte mia trattarlo in quel modo per tutta la storia, lo so. Ma avere come migliore amica Becky ed esserne innamorato non può comportare cose diverse. 
Quindi, Michael scappa da Rebecca e si rifugia nella mafia. Cristo, ok, che tristezza. 
Comunque, spero che abbiate passato un buon Natale, che anche se non sentite più l'atmosfera, che anche se non avete ricevuto quello che volevate, l'importante è riuscire a sentire l'affetto della famiglia. Io l'ho capito quest'anno.
Quindi, beh, buon anno dalla vostra Nali!
Al prossimo capitolo :)

twitter: /funklou

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Capitolo 27
*** Becky cried and Michael smiled. ***


Luke andò a trovare Ashton in prigione per due mesi. Non erano grandi discorsi, i loro. Si trattava più di intese, di gesti, di occhiate. Si chiedevano a vicenda le condizioni di salute, si lasciavano andare a dei sospiri e poi il silenzio li inghiottiva. Si volevano bene, nonostante tutto, nonostante fosse stato lui a chiamare la polizia. Non puoi smettere di amare tuo fratello, d'altronde. Ashton gli raccontava di come si mangiasse di merda, lì al carcere, e di come i suoi compagni di cella fossero troppo attivi. A lui piaceva starsene calmo, in quelle situazioni. Luke, invece, cercava di parlare di tutto, tranne di Rebecca. Ashton non gli confessò mai di aver fatto quella telefonata alla centrale di polizia per il suo bene. Perché si sarebbe preso le colpe, tutte lui, e finalmente Luke sarebbe stato libero. Libero di essere sereno.
Poi arrivò il giorno in cui Luke compì diciotto anni e il pomeriggio, invece che stare a casa per festeggiare con Rebecca, tornò al carcere per parlare con Ashton. Fu lì che quest'ultimo ammise che, una volta fuori di lì, avrebbe continuato a fare quello che faceva prima. 
Luke non tornò più a trovarlo. 


Calum riprese ad andare a scuola. Addosso non aveva nessuna traccia di ciò che aveva passato a Sefton, lui le cose sapeva nasconderle bene. Un po' cresciuto alla cazzo, ma si impegnava per risultare normale. Aveva insistito a far tornare a scuola Becky, ma lei proprio non ne aveva voglia. Al contrario, Luke accettò e si ritrovarono con gli stessi corsi. Gli piaceva vedere i miglioramenti in quel ragazzo, gli piaceva vedere anche Rebecca contenta per lui. 
Calum era indisturbatamente felice. 
Anche se ogni tanto Michael non lo faceva dormire bene.


In Australia le vacanze sono una merda. Seriamente, non ce ne sono di definitive. Ci sono dei periodi in cui fanno delle pause, e poi tutto riprende. Era frustrante e Luke e Calum lo sapevano e se ne lamentavano sempre. 
Stavano così uscendo da scuola, stanchi, spossati, volevano solo tornare a casa e dormire. Ciò che non si aspettavano di vedere era Becky seduta sui gradini. 
«Che ci fai qua?» domandò Luke. 
Lei alzò le spalle e «Niente in particolare» spiegò. «Mi annoiavo.»
Allora Luke alzò gli occhi al cielo e si accese una sigaretta. 
«Ciao, Cal» si rivolse verso il moro, lasciandogli un bacio sulla guancia. «Vieni a casa con noi.»
Calum era abituato al suo ordinare e non chiedere. Non gli dava fastidio, da tanto tempo aveva capito che Becky non sarebbe cambiata. Perlomeno, era sincera. Così non si oppose, seguendoli verso casa.
Quand'erano insieme non facevano molto. Perlopiù, Luke si sedeva di fronte alla scrivania, leggendo i suoi libri di psicologia contemporanea. Capitava anche le volte che spostava tutti i mobili, si creava uno spazio e si metteva a ballare hip hop. Quando poi tornava a casa la madre di Becky, erano urla e insulti. Ed era okay, perché poi facevano un casino assurdo a rimettere a posto tutto e i vicini facevano su polemiche inutili. 
Calum, invece, se ne stava sdraiato sul letto insieme a Becky. Lei gli infilava la mano tra i capelli corti e ripeteva il gesto fino a quando lui non chiudeva gli occhi. A Luke non fregava, quei due lo facevano spesso. Più che altro, era felice a vedere Rebecca calma. 
Anche quel pomeriggio la situazione era identica. Il moro, dopo aver passato parecchio tempo appiccicato a Becky sul letto, venne riscosso dal suono del suo cellulare. A rompere le palle era un compagno di classe, che conosceva bene Luke, che lo supplicava di andare ad una festa del quartiere insieme a lui. Calum accettò, distrarsi dalla scuola non poteva che fargli bene. 
Quando attaccò, «Era Brad. Ci ha invitati ad andare alla festa nel bar vicino a casa sua» esordì. «Io ci vado, venite voi?»
Luke e Becky si guardarono e sbuffarono. Fu lei a parlare. «Noi passiamo per stavolta.»
Calum si strinse nelle spalle e guardò l'orario. «Io vado, allora. Son le sei. Ci vediamo domani a scuola, se mi riprenderò.» 
«Domani c'è il compito, eh. Voglio vedere che riuscirai a fare!» lo schernì Luke. 
Calum gli colpì il braccio senza intenzione di fargli male. Fece per alzarsi dal letto, ma Becky grugnì e aggrottò le sopracciglia. 
«Ero comoda!»
«Lascialo andare» disse Luke, con un mezzo sorriso sulle labbra. 
Lei sbuffò e lo lasciò. 
Becky non aveva mai fatto così.  


Calum, quella sera, uscì di casa indossando una maglietta dei Green Day e un paio di skinny jeans neri strappati sulle ginocchia. Non faceva né caldo né freddo. 
Entrò nel bar e subito sorrise per tutto quel casino. Conosceva ogni singola faccia presente, tutti ragazzi nati e cresciuti lì. I tavoli circondati dai divanetti erano completamente occupati e il bancone non si riusciva nemmeno a scorgere per le troppe persone. Amava quelle feste, senza uno scopo preciso, solo per sentirsi parte di qualcosa. 
Brad presto gli si affiancò, tutto risate e parole e gli ficcò in mano un bicchiere. Si avvicinarono poi ad gruppo di ragazzi, quelli che stavano sempre in giro tra le vie con gli skate e cominciarono a parlare. Qualche ora dopo, con in corpo una alta quantità di alcol, Calum vedeva le luci più accecanti rispetto al solito. Più che fare le cose, pareva vedere la sua figura farle. Quando poi tra la gente intravide una faccia familiare, che gli provocò una strana sensazione, si alzò. Gli amici non ci fecero tanto caso. Proseguì la sua traiettoria e si fermò davanti al ragazzo. Calum lo sapeva che qualcosa non andasse, forse solo nella sua testa. Perché quello che aveva davanti gli sembrava proprio Michael, ma Michael se n'era andato, l'aveva lasciato, aveva lasciato un po' tutti e-
«Michael» sputò fuori, probabilmente non troppo forte per sovrastare la musica. 
Il presunto Michael aveva comunque gli occhi spalancati e una fottuta paura sul viso. Ogni suo dettaglio urlava terrore. D'improvviso si girò e prese a spingere gente per allontanarsi. Calum capì in quell'istante che fosse Michael. Allora lo seguì, nonostante ogni suo movimento lo facesse vacillare e tutto d'un tratto la sua corsa si fermò e quello che aveva sotto alla guancia era il pavimento. Lurido, duro, freddo pavimento. Non seppe come, ma qualche secondo dopo si sentì sollevare e ciò che aveva attorno vorticò fastidiosamente, così chiuse gli occhi.
«Usciamo, usciamo. Lui è con me.»


Calum aprì gli occhi, quella mattina. E già questa fu una manna dal cielo. Ma non appena lo fece, sentì un'irrefrenabile bisogno fisico di vomitare. Davvero, non si degnò nemmeno di correre in bagno, nemmeno di controllare dove fosse, si sporse a malapena col viso fuori dal letto e rigettò sulle mattonelle. Il suo corpo tremò completamente e non fece in tempo a riprendersi che lo investì un secondo conato, più tremendo del primo. Lo sforzo fu tale che Calum si portò una mano alla gola, maledicendo quel bruciore. Ancora ansante, tentò di sedersi e guardarsi intorno. Il panico gli salì quando si rese conto di non avere la più pallida idea di quale fosse il pavimento sul quale aveva appena sparso il suo vomito.
«Cristo» imprecò qualcuno. «Questo ci ha vomitato l'anima in casa.»
Calum si girò immediatamente e per poco non ci rimase secco a vedere Mef sulla soglia della porta. 
«Cosa cazzo-»
«Porca troia, alzati da lì, vai a darti una sciacquata» lo interruppe Mef, con una faccia perlopiù disgustata. 
Calum non si mosse. Se ne restò ancora lì, spaesato, perché se Mef era lì qualcosa di sbagliato c'era.
«Michael!» gridò a quel punto. Gli occhi del moro si spalancarono. «S'è svegliato ma è più di là che di qua. Parlaci tu.»
Vicino allo stipite della porta fece capolino anche Michael. Michael. Parve guardare la chiazza a terra, storse il muso e «Alzati» disse, schietto. Aveva la faccia di uno incazzato, e il tono con cui pronunciò quella misera parola fu una mossa da stronzo. Michael parve davvero cattivo. Ma Calum si limitò a fissarlo, e quell'ordine dentro gli fece un male allucinante. 
Però rise. Seriamente, Calum rise. Una risata falsissima, all'inverosimile, che non c'entrava niente. Tagliente, canzonatoria. Lo fece sentire potente. E Michael era ancora lì a guardarlo. 
«Stiamo scherzando?» sbottò poi. «Dove cazzo sono? Che cazzo sta succedendo?» 
«Dovresti solo ringraziarmi» affermò Michael, incrociando le braccia al petto. 
«Ah sì? E per quale motivo?»
Calum era incazzato con lui. Indiscutibilmente incazzato perché erano stati amici per tredici pesantissimi anni, nel bene e nel male, nonostante tutto e tutti, nonostante Becky. E poi Michael se n'era andato ed era finito a fare il pezzo di merda. Senza pensare a nessuno, se non a se stesso. Anzi, manco a quello, ché tanto conducendo quella vita s'era dato in pasto ai cani da solo. 
«Ieri sera eri completamente ubriaco e ti ho portato a casa mia.»
«A casa tua» ripeté Calum, assaporando per bene quell'espressione. «Quindi adesso ti nascondi qua, per di più con Mef.» Doveva essere un'affermazione, ma si avvicinò più ad un'accusa.
«Tra dieci minuti sii pronto, fatti una doccia. Ti riaccompagno a casa» decretò, scostandosi da lì e andando in un'altra stanza. 
Calum, preso da tutto l'orgoglio di questo mondo, si alzò, facendo attenzione a non metter piede in quello schifo prodotto da lui stesso e non se la fece, una doccia. Si limitò a sciacquarsi la bocca e il viso. Poi, senza realmente pensarci, si diresse verso la stanza in cui era sparito Michael e scoprì fosse la cucina. E Mef e Michael erano lì, uno in piedi, l'altro seduto, di fronte alla tv. Sul tavolo erano sparse pigne e pigne di scartoffie, una scodella, dei piatti sporchi. Il disordine più totale. Mef aveva una penna in mano e «I conti non tornano» sbuffò, passandosi una mano tra i capelli. 
Michael si accorse di lui, staccò la schiena dalla superficie del mobile e non rispose. Allora anche Mef si girò verso di lui e calò il silenzio più totale. 
Calum li ignorò e sorpassò la cucina, andando verso la porta e «Dove vai, eh?» gli risuonò nelle orecchie, non appena mise la mano sulla maniglia.
«Vado da solo» li informò.
«Col cazzo, ti ho detto che ti ci porto io» ribadì Michael.
«Non ti importa una beata minchia di me, lasciami prendere quel fottuto pullman alla fermata. Ok?» Doveva essere una frase normale, calmissima, ma non lo fu affatto. Calum le pronunciò tra i denti, quelle parole, e quando «No» sentì dire dall'altro, abbassò le spalle e aprì la porta. «Fai il cazzo che ti pare» borbottò. Poi si girò, fu una frazione di secondo, ma lo vide. Michael si infilò una pistola in tasca e lo seguì per le scale. Al moro vennero i brividi.
Non appena scesero e si trovarono nel parcheggio davanti alla casa, si rese conto di quanto quella zona fosse malfamata. Di quanto Michael stonasse in mezzo a quella città andata a male. Aprì la portiera, senza dire niente, e si ficcò in macchina. Anche Michael si sedette a fianco e all'improvviso la rabbia scemò in una tristezza desolante. 
Michael l'aveva tradito. Aveva tradito tredici anni di amicizia.
Invece che puntualizzare il fatto che non avesse la patente, «Abito sempre nella stessa casa» biascicò. Lo disse senza prestare molta attenzione ma, appena quelle parole gli abbandonarono le labbra, vide le mani di Michael stringersi forte sul volante. 
Non rispose. 
Calum capì la sua debolezza, nonostante quella cattiveria che si era impossessata di lui. Dopo dieci minuti di viaggio, chiuse gli occhi, si morse la guancia fino a sentire il sapore metallico in bocca. Il tanto che riuscì a distrarlo da quello che avrebbe dovuto dire di lì a poco. 
«Rebecca sta bene, sai.»
Le nocche gli diventarono bianche e lo vide sfiorare la riga bianca della strada con la ruota.
«Mh» fece. 
Michael era pazzo. Senza ombra di dubbio, perché lo logorava il fatto di non avere influenze sullo stato d'animo su Becky. Perché significava che non importasse abbastanza, che la sua assenza stesse iniziando a sfumarsi. Non gli importava farle bene o male, voleva solo farle qualcosa. Nonostante il fatto che fosse stato lui stesso ad andarsene. Calum lo fece apposta, per vedere se fosse il Michael di sempre, ma quest'ultimo mica poteva saperlo. 
«Michael» lo richiamò. 
«Non me ne fotte un cazzo, Calum. Lasciami stare» sibilò, accendendosi una sigaretta. 
«Dio, se solo vedessi la tua faccia in questo momento. Stai soffrendo come un cane, e non freghi uno che ti è stato attaccato al culo per così tanti anni. Potessi guardarti, ti metteresti a piangere. E piangi, Michael. Piangi, perché è tutto vero!»
Michael tirò un pugno al volante e la macchina sbandò. Tirò dal filtro e «Dici questo perché è a te che importa. E non capisci che quando qualcosa si rompe, è per sempre.»
Era un bugiardo. Bugiardo, schifosissimo bugiardo. Calum avrebbe voluto vederlo tornare strisciando. Perché stava mentendo, perché Michael amava Rebecca da impazzire. 
Calum guardò Michael come se fosse un vaso che da un momento all'altro si sarebbe sgretolato.
Michael guardò Calum come se stesse per prendere quel vaso e scaraventarlo a terra.
Un cellulare prese a squillare nella macchina. Non era quello del moro. Il ragazzo a fianco recuperò il telefono e biascicò debolmente un «Pronto?»
Presto il suo corpo si tese e spinse meno il piede sull'acceleratore. «Ascolta, ascolta. Qui si fa come dico io, ché sennò ti rispedisco il culo in gattabuia. Sono in macchina, io. Dov'è che sei? Ah. Sentimi bene, non voglio nessuno con te.» Calum si sistemò sul sedile e capì quanto in quei mesi Michael fosse diventato cattivo quando «Non ce l'ho, una cazzo di pistola. Te lo giuro su Dio» disse. 
Stava mentendo, gliel'aveva vista. E mentì anche quando gli rassicurò che «Non c'è nessuno in macchina con me. Dobbiamo parlare solo io e te.»
Poi attaccò e, maledicendo Dio, rimise il cellulare in tasca. 
«Chi era?» domandò. 
«Ashton» rispose Michael, spazientito.
Sulla faccia di Calum passò l'espressione più sbigottita della storia. Il suo cuore prese a battere incessantemente. Non sapeva perché.
«Cos- Io, io... Pensavo che-»
«È fuori da ben 11 giorni, il figlio di troia» affermò, guardando la strada davanti a sé. «E solo grazie a me e a mio padre, l'ho convinto ad aiutarlo e mi sono messo nella merda da solo.»
Calum annaspava. Ad un certo punto non volle più stare lì e sentì un bisogno mentale di uscire dalla macchina. 
«Cosa- cosa vuol dire?» riuscì a chiedere. 
«Che si è accorto che chi resta dentro perde il posto. Che sono io ora che dirigo la maggior parte delle cose, e ad Ashton questa situazione non sta bene. Stiamo andando da lui per questo.»
Calum ingoiò la saliva come gesto nervoso e guardò fuori dal finestrino. Era ansia. Assassina, criminosa, bastarda ansia. 
«Aspetta, fermati qua. Non ci voglio venire, io.»
E Michael fece come gli fu ordinato, rallentò e svoltò in un grande parcheggio, occupato solo da tre macchine. I pneumatici a contatto con la ghiaia producevano uno scricchiolio fastidioso. Quando però parcheggiarono e Michael tirò il freno a mano, Calum vide Ashton. Era appoggiato al cofano di una macchina, senza bandana e con i capelli decisamente più lunghi e mossi. Ed era più magro. Vistosamente più magro, e con la canottiera bianco opaco che aveva addosso quasi lasciava intravedere le costole, se solo lo si avesse guardato di lato. Calum incassò la testa nelle spalle. Poteva davvero impazzire, la situazione si faceva sempre più assurda.
«Di quello che vedrai, non dirai niente a nessuno. Omertà. Altrimenti ti sparo.» Il modo con cui pronunciò quella frase fece accapponare la pelle al moro. «Azzardati a scendere dalla macchina e...» non finì la frase. Calum semplicemente annuì, lo sguardo che gli rifilò gli fece intendere tutto.
Michael scese dalla macchina, chiuse la portiera e lentamente si avvicinò ad Ashton. Quest'ultimo invece guardava Calum e lui, ancora in auto, impotente, sentiva la ferita nella guancia che si era procurato lui stesso bruciare. Ma erano tante le cose che bruciavano. Lo guardo di un assassino, bruciava. Le verità non assolute, i tradimenti, la gola dopo una serie di conati. Il tatuaggio che si era fanno mesi prima con Ashton.
Arpionò le mani al sedile.
Adesso i due erano uno davanti all'altro e si parlavano. I sorrisi di scherno sulle loro labbra non annunciavano nulla di buono. Ashton fece un passo, Michael gli sussurrò qualcosa a due centimetri dal viso. E poi semplicemente gli sguardi si fecero felini e parvero trasformarsi in due animali che volevano marchiare il territorio. Michael saltò addosso ad Ashton, gli piantò una ginocchiata allo stomaco e l'altro, ansimando, si attaccò ai suoi capelli e gli sferrò un pugno al naso. Michael, che di botte nella vita ne aveva prese tante, non ci fece nemmeno caso al fatto che il sangue gli prese a scendere a fiotti fino in bocca, fino al collo. Rispose tirano una serie di pugni sconnessi, scosso com'era dalla botta incassata, e boccheggiò quando Ashton gli colpì con un calcio lo stinco, facendolo cadere a terra. 

Luke e Becky, in quel momento, a chilometri di distanza, si stavano guardando negli occhi.

E poi un altro calcio gli arrivò direttamente in faccia e sentì chiaramente il labbro aprirsi e la guancia interna lacerarsi. I colpi che gli furono assestati alle costole gli fecero vedere nero per alcuni istanti. E poi un crack gli tolse il respiro. Il male che fa una costola che si incrina lo si ricorda per anni ed anni. 
Manco si accorse dei passi che piano piano si facevano sempre più vicini, fino a quando «Lascialo stare» non disse Calum. 
Ashton si fermò, alzò la testa e «Vai via» gli intimò. 
«Ashton, per favore. Lo stai uccidendo.»
Michael appoggiò una mano a terra, dei sassolini gli si conficcarono nella pelle e si mise lentamente in piedi. Sputò e una chiazza di sangue comparve sulla ghiaia. 
Ashton non lo stava nemmeno a sentire. Anzi, «Devi andartene dalla mia zona, altrimenti...» lo minacciò, prendendolo dal colletto, per poi spingerlo indietro. «Ti uccido.»
«La prossima volta ti impegni a non ammazzare il fratello del tuo migliore amico» lo schernì Michael.
Fu un attimo, e il biondo ebbe in mano la sua pistola. Un sorriso furbo gli comparve sul viso, ma anche Michael tirò fuori la sua. Se la puntarono entrambi addosso e il primo che sparò fu Ashton. La pallottola attraversò la canna esattamente nel momento in cui Calum si parò davanti a Michael. E poi cadde sulle ginocchia, con la bocca semiaperta, l'ossigeno che non gli arrivava più. Non disse niente, forse voleva neppure farlo, forse non ci riuscì. 

Luke e Becky, nel frattempo, si stavano sorridendo a vicenda. 

Calum cadde poi a terra, completamente. In quello sputo di città parve calare un silenzio assordante, il suono dello sparo a Michael rimbombava ancora nelle orecchie. Si chinò, privo di forze, guardò Calum. Aveva gli occhi spalancati, guardava il cielo. Gli posò una mano sul torace, nel punto in cui sgorgava ancora il sangue. Non fece in tempo a far niente, che risentì un altro sparo, e poi un dolore straziante al bicipite destro. Il più lancinante di tutti, imparagonabile con la costola incrinata e con le botte che fino a quel giorno si era preso. Alzò lo sguardo, Ashton se ne stava andando con passo svelto. Prese il cellulare, cercò di non far caso al fatto che lo stesse imbrattando di sangue -forse suo, forse di Calum- e chiamò aiuto con un filo di voce. Si guardò il braccio: la pallottola l'aveva solo fregiato. Ringraziò Dio.
Il momento dopo, svenne. 

Luke e Becky stavano facendo l'amore. 


Michael durante il viaggio in ambulanza non sentì niente. Si accorse dei dossi, delle mani sul suo corpo, del sangue che macchiava ovunque. Quando arrivò in ospedale, lo capì solo dalle pareti bianche. E non udì mai così tanto silenzio in tutta la sua vita e non seppe perché, ma si sentì solo. Pensò che fosse brutto sentirsi soli, così. Proprio mentre lo toglievano dalla barella. Le bocche delle persone che aveva attorno si muovevano, però Michael pensava solo che in quel modo non si era mai sentito. Nella testa aveva ancora le immagini di Calum steso a terra, con una pallottola conficcata nel torace, gli occhi spalancati verso il cielo. Abbassò le palpebre, ma la scena era ancora lì. Il suo corpo, freddissimo, iniziò a tremare. Un' infermiera lo guardò e gli accarezzò la fronte. Michael restò inerme.
E passò davvero tanto, prima che potesse sentire qualcosa. Era un pianto lontano, isterico, fradicio di singhiozzi e respiri mozzati. E lui lo riconobbe e sorrise e sentì sangue proveniente dal labbro colargli sul mento. 
Quando lo trasportarono fuori dalla stanza, probabilmente per andare in sala operatoria, nel corridoio avvistò i suoi occhi. Lo osservò così, con il viso impregnato di sangue, le labbra tumefatte, il naso irriconoscibile, i vestiti sgualciti, un braccio completamente ricoperto di un rosso scuro e Calum sulla coscienza. 
Michael guardò Rebecca.
Rebecca guardò Michael.
E non videro nient'altro che due mostri.


Hei people! 
Sto scrivendo questo angolo autrice due minuti prima di pubblicare e, sinceramente, la mia intenzione è quella di scappare. 
Se non trovate senso a questa fine, mi dispiace. Il senso ce l'ha, ma dipende da come avete interpretato la storia fino adesso. 
Far morire Calum è stata decisamente una cosa orribile, lo posso capire, perché lui è forse l'unico giusto, l'unico che davvero si impegnava per non far vedere che era cresciuto di merda, che non aveva fatto niente di male. Fino all'ultimo respiro, Calum è stato altruista, pacifista. Ma chi è così, in quel mondo spietato che ti sputa in faccia, non sopravvive. 
A dire il vero mi dispiace anche per Ashton, che nel buio era e nel buio rimarrà. Perché non ha più avuto nessuno che lo tirasse fuori da se stesso, Ashton è e sarà solo.
Se da una parte c'è chi vive, dall'altra c'è chi muore. Per ogni sorriso di una persona, dall'altra parte ce n'è un'altra che ne paga il prezzo.
Me ne vado. Tornerò domenica e sarà davvero finita. 
Cazzo.


//Nali

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Capitolo 28
*** Not today. ***


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"Tanto o io o te prima o dopo ci ricerchiamo.
Giorni, settimane, mesi o anni. 
Lo so."
"Quando lo capirai che 
io e te un futuro lo abbiamo solo malato?
Ci facciamo male, Nali."



Gennaio 2015.
La televisione è accesa ad un volume improponibile. La stanza è completamente riempita dalla voce di un conduttore di uno show che Luke odia. Me l'ha detto un po' di tempo fa. Ha detto anche che prima o poi i vicini ci butteranno giù la porta a furia di calci e pugni, perché i muri sono troppo sottili e di là si sente tutto. Non siamo ancora abituati a seguire le regole e a rispettare qualcosa o qualcuno.
Qui a Londra bisogna essere civili. Non frega a nessuno se sei nato nella merda, se ti hanno campato su le grida, le botte e i pianti. Devi essere civile e basta. In un modo o nell'altro siamo riusciti ad acquistare un appartamento venduto all'asta. Non in periferia, non ai margini della città. A Londra, sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi di chi è normale.
Il programma finisce e sullo schermo compare una donna, in uno studio. Telegiornale. Se ci fosse qua Luke, adesso prenderebbe il telecomando e, impassibile, cambierebbe canale. Non gli si può dire niente quando fa così, non vuole sentire nulla. 
Però Luke stasera non c'è, ha lezione di hip hop fino alle 21:30. E quando, «Notizia dell'ultima ora riguardante l'associazione mafiosa che va espandendosi in questi tempi» annuncia la conduttrice, un po' mi sento in colpa. Luke non vorrebbe che io ascoltassi. Sullo schermo compare un inviato che «Sì, si tratta di Michael Gordon Clifford, un giovane rampante, anche se non è già capo e suo padre gli ha dato un'ampia delega di rappresentanza del mandamento» dice. Dietro ha uno sfondo che mi sembra di conoscere, e quasi mi viene voglia di cambiare canale quando mi accorgo che quella è la via della Uno e della Due. «Le ultime tracce del latitante risalgono qui a Sefton -a detta di un testimone-, un quartiere alla periferia di Sydney. La polizia, nel palazzo dietro di me, sta esaminando il posto perché pare che sia proprio lì dentro che Clifford sia andato. Non abbiamo ancora nessun accertamento, non sappiamo ancora quale sia il motivo. Le forze dell'ordine, comunque, credono di poter avere sue notizie grazie a questo avvistamento. Non certificato ma probabile, il latitante non avrebbe viaggiato da solo ma accompagnato da Matthew Jenkins-» Non fa in tempo a finire il collegamento che la conduttrice del telegiornale gli parla sopra e richiede la linea. Annuncia un nuovo servizio e due secondi dopo davanti agli occhi ho la foto di Michael. Ha i capelli rossi, sparati all'aria, un sorriso stampato in faccia e la sua felpa grigia preferita. È la stessa foto che fanno vedere ogni settimana, la più recente. 
Gliel'avevo scattata io ed ora tutto il mondo ce l'ha. 
«Michael Gordon Clifford, classe 1995, è stato inserito nella lista dei latitanti ricercati più pericolosi dell'Onorata Società» spiega una voce, mentre sullo schermo passano filmati di macchine incendiate, zone delimitate da transenne, corpi stesi a terra, coperti dalla scientifica, con attorno una macchia di sangue che si espande. Ogni suo crimine. «Di lui non sappiamo molto, ma possediamo informazioni sulla scuola frequentata, sui posti che frequentava, sulla madre che giura di non saper nulla sulla latitanza di suo figlio. L'ultima sua apparsa risale all'estate scorsa, un medico dichiarò infatti di averlo operato al braccio in seguito ad una lite sfociata in una guerra con armi da fuoco con Ashton Fletcher Irwin, non rintracciabile anche quest'ultimo ormai da tempo, ma quasi sicuramente appartenente alla Banda di Carlton, organizzazione criminale italo-australiana di Melbourne. Da allora Clifford si rese irreperibile, dando inizio alla sua latitanza: nei suoi confronti venne emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, traffico di stupefacenti ed estorsione. Non si può d-»
La televisione si spegne. Non mi sono accorta della sua entrata, né della porta che si apriva. Luke non dice niente, dopo aver messo giù il telecomando oltrepassa il salotto, senza nemmeno guardarmi in faccia e, con ancora addosso i vestiti di hip hop, si reca in camera. E' tornato prima.
Sarebbe bello ripensare al passato e ridere. Forse un giorno, ma non adesso. Non adesso, che solo vedere la sua faccia di merda in tv mi fa stare da schifo. Non adesso, che la sua assenza si è trasformata in qualcosa che fa più male. In qualcosa di spietato, che uccide e non guarda in faccia. 
Ogni tanto penso a quando lo vidi sulla gradinata del campo di basket. Quando Mef l'aveva riempito di botte, e a me non stava bene. L'avevo preso dai capelli, gli avevo urlato di dirmi chi era stato. L'avrei ucciso, l'avrei ammazzato con le mie stesse mani. Oggi penso che non mi sarei dovuta fermare, che avrei dovuto farlo, fino all'ultimo respiro. 
Perché era stato proprio lì, che avevo iniziato a perderlo. 
Io a Michael ho voluto bene. L'ho fatto con tutta me stessa, nel modo in cui sapevo fare io. Perché nessuno mi è mai venuto a dire come si dovesse fare. E mi toglie il respiro pensare che non rivedrò più Michael. Mai più. Forse qualche volta come prima notizia al telegiornale, su internet, su dei fogli di carta riciclata. Ma non sarà più lui. È una sensazione troppo schifosa da capire, da comprendere e da accettare. Nonostante sia un criminale, Michael era il mio migliore amico. Ci ho speso così tanto tempo dietro a lui che ora c'è solo da piangere.
Perché Michael me la sta facendo pagare. Le vedo, tutte quelle persone che mi osservano. Sono ovunque. Mi guardano, con sguardo disinteressato per non far smascherare niente, ma Michael non mi frega. C'è lui, dietro a tutte quelle spie, è lui che me le manda. Vuole sapere tutto, ogni mossa mia e di Luke. Ci giriamo, e ce ne troviamo uno all'angolo. Eppure si riconoscono, quei pezzi di merda che non sono altro che la diramazione di Michael: hanno gli occhi lontani, lo sguardo disinteressato e attento allo stesso tempo, i lineamenti duri, le mani che son capaci di strangolare. Sono tutti dei mostri, dal primo all'ultimo. 
Ci stanno attaccati al culo, quasi in ogni posto. Ci studiano, si cibano di ogni nostra mossa per vomitarla poi davanti a Michael. 
Ed è una bella vendetta, una bella punizione. Perché ogni volta che ne vedo uno, è un gesto involontario, quello di tremare e voler ritornare a casa. Luke mi dice di non farci caso. Ma siamo destinati all'eterno, io e Michael, se lui non si staccherà mai da me. Gira voce che si sia fidanzato, che lei sia una bella della Russia, che presto si sposeranno. E Michael pensa a me. È disgustoso, mi impongo di odiarlo e in quell'odio tra le crepe si insidia sempre un po' di quell'amore malsano e consumato. 
È consumato, Michael, quell'amore. Non c'è più. Ti sta mangiando vivo, non sa più dove andare, e non devi farmi tutto questo male. Mi devi lasciare andare. 
Davanti a casa, nella cassetta della posta, tramite chiamate anonime: non importa. Sotto ogni forma, le minacce che arrivano a me e a Luke sono chiare. Nonostante questo, siamo ancora vivi. Ci viene detto che ci spareranno a una tempia e che del nostro corpo non ci sarà più traccia, eppure a me sembra sempre più che Michael lo faccia per convincere se stesso.
E che più che ucciderci, ci voglia proteggere.

Mi alzo dal divano, vado in camera e vedo Luke disteso sul letto, con il piumone a coprirgli il corpo. Faccio piano, mi sdraio a fianco a lui. Lo guardo e penso di avere il mio piccolo premio tra le mani. 
«È andato a Sefton» esordisco, senza dire chi perché semplicemente lo sappiamo. 
Luke tiene gli occhi chiusi, ma so riconoscere quando in realtà non sta dormendo. 
Mugugna un «Mh» e si rigira nel letto. 
«Secondo te perché?»
«Che cazzo ne so, ormai è fuori di testa. Immaginati la faccia di Val se l'ha visto» strascica, con le palpebre ancora abbassate e un sorriso ironico sulle labbra. 
Magari anche io riuscirò a riderne, a prenderla alla leggera. Oggi no. 
«Luke» lo riprendo io. 
A quel punto si fa serio. Serra la mascella e «Stavi guardando il telegiornale, Rebecca. Ancora» constata, forse con un po' di cattiveria. «Vedere quella merda ti fa male. Lo sento anche a distanza che stai tremando, e stanotte non dormirai. E ci ripenserai, a quel figlio di puttana, ed io non voglio stare qua a consolarti se la causa è di Michael.»
È sempre stato così. Non siamo cambiati e magari mai lo faremo. 
«Ti odio» sussurro, spegnendo la luce e girandomi dall'altra parte.
All'inizio c'è solo un silenzio tombale, accompagnato dai nostri respiri. Poi però sento un suo sbuffo, le coperte scostarsi e il viso di Luke nell'incavo del mio collo. Le sue braccia strette attorno al mio bacino, il petto contro la mia schiena e le sue gambe intrecciate alle mie. 
Farci male è solo un pretesto per curarci. E quando la notte mi stringe forte, solo in quel momento capisco il significato dei 24 carati.


Non appena due giorni più tardi arriviamo al Sydney International Terminal e posiamo le valige a terra, la scritta Benvenuti a Sydney! appare come uno schiaffo in faccia. Luke perderà quattro giorni di scuola, ma ha promesso che in qualche modo li recupererà. Dopotutto, quattro giorni per riprendersi interi anni di silenzio mi sembrano il minimo.
Il viaggio dall'aeroporto a Gosford dura una mezz'oretta. Non dico a Luke che andrà tutto bene, forse perché sono quasi del tutto convinta che la situazione non cambierà. Piuttosto, gli rassicuro che, qualunque cosa succederà, ce ne andremo da lì e torneremo a Londra. Continueremo a disfarci della nostra gabbia. 
Dopo aver suonato il campanello di casa Hemmings e aspettato qualche minuto, una donna sorridente ci viene ad aprire. Ci guarda, manca poco che si metta a piangere. Mi sposto, lascio che si renda conto. Passano solo altri due secondi, prima che stringa tra le braccia suo figlio e che capisca che i morti sono morti, non torneranno. E non bisogna lasciare che distruggano i vivi. 
E appena si lasciano andare, Luke mi stringe la mano. Fortissimo. Ed io mi rendo conto che, piuttosto che una rassicurazione, quella di tornare a Londra sarà più una sofferenza per lui.


Gosford non è lontana da Sefton, lo sappiamo. È solo un'ora di viaggio, ma sappiamo anche che andarci sarebbe come intingere le ferite nel sale. Ricorderemo le scale della Uno e della Due, le feste sui piani, gli studenti. Ricorderemo il Sefton, la nostra classe e ogni volta che mi ricadrà l'occhio sulla cicatrice sul polso di Luke, ricorderò anche la palestra, la gradinata sul campo di basket. Ogni tanto chiudo gli occhi e penso che sarebbe bello poter essere ancora lì sotto, a fuggire dalle lezioni, noi cinque, ad odiarci e volerci bene. E poi il Cimi, il parco vicino al cimitero, Lo Spazio, chiuso ormai da settimane perché sì, alla fine Luke è riuscito a dirmi chi fosse davvero suo padre, e non c'entrava assolutamente con un riparatore di computer. E ricorderò il mostro, quella costruzione mai portata a termine, abbattuta in pochi giorni. Lì, al suo posto, presto sorgerà un palazzetto di basket. Lì, lo stesso posto in cui -Luke è riuscito a confessarmelo solo pochi mesi fa- è cresciuto e anche marcito insieme ad Ashton.
Ma non ci andremo più, in quella periferia. 
Non ci andremo soprattutto perché ci ricorderà Calum, i suoi modi buffi di fare, il suo voler restare da solo nella stanza 38, la sua voglia di vivere; il suo sorriso sincero, le pieghette attorno agli occhi; il suo altruismo, la sua incoscienza, la sua non consapevolezza, il suo buonismo. Calum era troppo buono per un mondo stronzo come questo, che appena si accorge della tua debolezza, se ne nutre e ti uccide. 
Calum quel giorno doveva tornare a casa, e il giorno dopo svolgere il compito in classe di scienze con Luke. Non di sicuro morire, assassinato in un parcheggio da Ashton, che adesso non è nient'altro che un corpo che uccide per vivere. E non si ferma. Non lo fa probabilmente perché sa che gli potrebbe tornare in mente Luke. Ma si sa, certe facce non le si scorda.

Ho l'impressione che nessuno capirà mai. Calum era mio amico, era cresciuto insieme a me, mi aveva distolta spesso dalla voglia di ammazzare Michael, mi aveva consolata la notte e il mattino faceva finta di niente. Era il mio amico, non quello di Luke. Che anche se mi dice che capisce il mio vuoto, ho la sensazione che dentro a certi dolori non si possa entrare. Sono nostri, forse perché siamo proprio noi a voler tenerceli per noi. Ci sembra quasi l'unico modo per non perdere definitivamente le persone. 
A Sefton non ci torneremo mai più.


Quattro giorni dopo, in seguito a ore e ore di volo, io e Luke sospiriamo vedendo il portone del nostro palazzo. 
«Cristo, sono sfinito» si lagna, trascinando la valigia, ma con in testa la consapevolezza di riavere una famiglia. «Non vedo l'ora di mettermi a dormire.»
«Ti ricordo che domani la scuola ti attende» lo provoco, tirando fuori dalla tasca le chiavi. 
«Ah! Stai zitta.»
Poi mi giro, guardo nella cassetta delle lettere. C'è una busta. 
«Dai, non puoi aprirla quando saliamo?» sbuffa Luke.
Non lo ascolto nemmeno, la apro ed estraggo un foglietto. Dal dietro mi ricorda vagamente uno di quelli che usavo per gli appunti a scuola. Lo giro e quasi mi sento le gambe cedere, alla possibilità che quel biglietto esista ancora.
Non dirlo a nessuno che mi hai visto piangere. Ce li hai, i 24 carati, per tenere questo segreto.
Mi volto verso Luke. Lo riconosce anche lui quel pezzo di carta, l'ha scritto lui stesso un anno fa. Mi chiedo solo se Calum, salvando Michael, abbia ucciso o salvato anche me. So per certa però che la corda che mi unisce a Michael non si strapperà mai del tutto, si sfilaccerà, ci scorticherà la pelle e lo sapremo solo noi. Sapremo che non ci libereremo mai l'uno dell'altra, anche se sarà il dolore a tenerci insieme, il desiderio irrefrenabile di poter riportare al presente l'amore che prima c'era.
Perché dalla busta Luke estrae qualcosa. E tra le mani ha due proiettili.


Ciao.
Sono sempre io, sono Annalisa. Oggi piuttosto triste, vuota, come se qualcuno mi avesse strappato sette mesi di vita. Inutile dire che tutto questo mi mancherà, che metter fine a questa storia sarà un po' come privarmi di un qualcosa che mi dava motivazione. Per far cosa, questo non lo so. So solo che mi faceva bene.
24 carati per me è stata importante. Non ho idea di cosa ne rimarrà, di Rebecca King, di Luke, di Michael o dei loro rapporti strani. Come piacciono a me. 
Spero di essere riuscita a trasportarvi in questo spazio della mia vita, perché sono una persona strana e questo mio interesse nella mafia, nelle periferie, nel degrado, nell'amore consumato, graffiante e cattivo volevo che lo conosceste anche voi. 
Probabilmente tornerò e mi farò sentire con qualcosa, qualche storia. Probabilmente tra un bel po'.
Vi ricordo per l'ultima volta il trailer della storia, https://www.youtube.com/watch?v=_w_wXIrsr7g
Me ne devo andare, però. Portandomi via 24 carati.

Prima, però, volevo lasciare qui dei ringraziamenti alle persone che più mi sono state vicine, anche solo scrivendomi da qualche parte o facendosi particolarmente sentire. Probabilmente avrò dimenticato tantissime di voi e chiedo scusa in partenza. Saranno tante persone e le ho divise così: 
-Lettrici che mi hanno supportata da Twitter: xFeltonhug, anvxiety, hemmvo96, aliconsumate, Andre_Gene_, WHITESIDEVS97, xmjstake_, lukelamiancora, louistrength, tocktockitsme, MirkoTrovatoFC, Luke96s_, letsrockashton, 5secondsofbana, xhugmemichaelx, joshlabret, vaffanchood, lukesmijle, shadowoueh, hovistolouis, hemmoiji, Afterlum, fletchersorridi, weirdylrh, awfulkitz, PageAmnesia, indavidesarms, ilysmickey, MOCKINGZAYNx, Shinehar_ 
-Su EFP: greyskyscrapers, Lol9393, Rebeccoc, maybepunky, xxcamixx, 5sosgirl, ashton_irwin94, HZLNL_1D, teenagerunaway13 (aka Alex!)
-Su Wattpad: Hayley_Cohen, cacciatricedifate, Ashismyboyfriend, CateHemmings, Directionina, giulia_clifford, margheritaas, ilcappellaiomatto, puttanhemmo, 5secondsofruggero, _Meris_, irelucchese.

Oltre a queste ragazze, ovviamente, ce ne saranno molte altre di cui mi sarà sfuggito il nome. Inoltre, ringrazio chiunque abbia commentato\recensito, messo nei preferiti, seguito o semplicemente letto la mia storia.
Grazie a Ilaria. Grazie a Martina, creatrice della copertina e del trailer.
Grazie a R.
Grazie a Mostro.


Ciao belle, alla prossima!
Nali. (twitter: funklou)

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