Dalle proprie ceneri. di MadLucy (/viewuser.php?uid=134704)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Bianco fu il lutto. ***
Capitolo 3: *** Grigio fu il richiamo. ***
Capitolo 4: *** Indaco fu il presentimento. ***
Capitolo 5: *** Amaranto fu il progetto. ***
Capitolo 6: *** Avorio fu il rifiuto. ***
Capitolo 7: *** Giallo fu il riscatto. ***
Capitolo 8: *** Rossa fu la nebbia. ***
Capitolo 9: *** Verde fu il reato. ***
Capitolo 10: *** Celeste fu il rimorso. ***
Capitolo 11: *** Livido fu il panico. ***
Capitolo 12: *** Blu fu l'inferno. ***
Capitolo 13: *** Nero fu il giuramento. ***
Capitolo 14: *** Epilogo. ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Prologo
Prologo.
La notte lo avvolgeva come un mantello. Il ragazzo la percepiva alle
sue spalle, al suo fianco, dentro di
sè, un'entità
possente ed inesorabile che scandiva i battiti del suo cuore. Le foglie
gracidavano in un mormorio sommesso sotto le
zampe del suo lupo, mentre una luna scheggiata dal lucore giallastro
come zolfo seguiva i loro movimenti con silente reverenza. Il vento
attendeva, tratteneva il respiro in tensione fra gli sterpi. Le figure
che seguivano il ragazzo, fantasmi d'una storia dimenticata, erano
profili esili ai bagliori allucinati delle stelle, tanto che il giovane
aveva l'impressione di stare compiendo egli solo quel viaggio -loro
c'erano, c'erano sempre stati ad accompagnarlo, eppure quella notte era
sua, sua e basta.
D'un tratto, il lupo s'arrestò irrigidendo le zampe e
drizzando
le orecchie. Il naso fremette nel cogliere una calda nota olfattiva
nell'aria.
L'uomo che stavano cercando fu annunciato dal
rumore ritmato degli zoccoli del cavallo. Era lui, con un
drappello di pochi uomini; era lui, e il sangue del ragazzo si accese
come un sole nero.
Li aveva visti, parati nel bel mezzo della piccola strada impervia che
lui stava percorrendo per rincasare; il suo cavallo nero
rallentò, fino a
fermarsi a diversi metri da loro.
Probabilmente, l'uomo si stava chiedendo perchè quei
girovaghi non si facessero da parte.
-Roose Bolton.- La voce del ragazzo fendette lo spazio che li divideva,
atona e sferzante come un lampo. Bolton aggrottò le
sopracciglia
diafane, contrariato.
-Che diamine sta succedendo? Chi siete voi?-
Il suo tono era basso e roco, senza nemmeno un'impronta d'incertezza.
In un'altra epoca, in un'altra circostanza, il ragazzo sarebbe stato
intimidito
dal peso dell'autorità che lo invigoriva.
Un'autorità illegittima -un'autorità depredata
con l'inganno.
Gli occhi del ragazzo erano adombrati da una calma arida, di
pietà prosciugata al midollo, di ferita spalancata fino
all'osso.
-Sono venuto per saldare un debito in sospeso.- Quelle parole, soffiate
dal vento, sciuparono la fronte distesa di Roose Bolton. Egli muoveva
lo sguardo dalle tre figure intorno a quella dell'interlocutore, e poi
s'immobilizzò nel riconoscere un lupo. Quel ragazzo stava
cavalcando un lupo. Un
lupo.
-Come sarebbe a dire?-
A quel punto la voce di Jojen, sottile ma vibrante, spezzò
l'equilibrio instabile della situazione come il morso d'un serpente.
-Fallo, Brandon. Ora.-
Bran Stark capì che tutto quel tempo, tutto
quell'addestramento, tutto quel cammino e quella stanchezza e quel
freddo conficcato nella carne erano stati per tendersi a quell'unico,
imprescindibile, assoluto istante. Le sue pupille vennero inghiottite
da uno spasmo feroce e il biancore della cornea s'affacciò
come
il presagio d'una maledizione.
Prima che i suoi soldati, o lui stesso, potessero accorgersi vagamente
di quel che stava succedendo, Roose Bolton si afferrò la
testa
con entrambe le mani; un grugnito faticoso gli raschiò la
gola.
L'uomo, il capo assalito da una potenza estranea e sconosciuta, fu
sbilanciato da contorsioni simili a quelle d'un ragno invischiato nella
propria tela; cadde a terra, dibattendosi, mentre un urlo inarticolato
gli
squarciava la bocca, scoppiando nella gola in un boato lancinante. Le
pallide dita a stringergli le tempie si lordarono di sangue fresco, di
colore talmente vivace da stridere nella cortina della notte. Lunghi
rivoli voraci stillavano dall'orlo delle palpebre contratte, dalle
labbra lacere, a disegnare un fato volubile nella terra polverosa.
L'assedio terminò con un estremo gorgoglìo di
voce
insanguinata -e il cuore si spense, stremato, quasi che nella gabbia
del torace vi fosse morto prigioniero.
Bran aprì gli occhi d'improvviso, con un ansito brusco, ma
non
c'era allarme nelle pupille salde. Aveva percepito il corpo smettere di
combattere, arrendersi sotto pressione come avrebbe potuto fare uno di
quei rami lì attorno. Sotto il pesante mantello, Jojen
sorrise-
in fondo sapeva che ce l'avrebbe fatta. Meera non proferì
parola, incapace di distogliere lo sguardo dal dolce fluire di quei
rigagnoli rossi, e stringeva duramente le labbra come se volesse
imporsi l'evidenza.
Bran seguì con sguardo imperscrutabile i movimenti dei
soldati
che, inorriditi e confusi, si inchinarono davanti a lui senza nemmeno
osar sfoderare la spada. Cosa poteva mai importare, ormai? Cosa poteva
mai valere la vita spanta d'un lord cadavere? Cosa poteva mai
importare, quando, a regnare su quel lungo inverno, era giunto uno
Stark?
Bentornato a casa, sussurrò
il vento ghermendogli i capelli castani ed avvolgendogli le orecchie in
un carezzevole stordimento. Bentornato
a casa, Bran.
Note dell'Autrice: Ebbene sì, sto facendo esattamente quel
che mi ero ripromessa di non fare più: cedere alla
tentazione di cimentarmi in un'altra long. Però,
però, a volte l'ispirazione è così, un
po' bastarda. XD E quindi, che long sia.
Questo è solo il prologo e tendo sempre a scrivere prologhi
brevi; ovviamente preparatevi a capitoli chilometrici! In quanto a me,
non vedo l'ora d'introdurre Rickon nella storia.
Grazie moltissime per avere letto! Mi piacerebbe molto sapere cosa ne
pensate dell'idea. Posterò al più presto il primo
capitolo!
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Bianco fu il lutto. ***
1
I.
Bianco fu il lutto.
-Fatelo entrare.-
Bran contrasse le dita attorno al bracciolo del trono, meditabondo -era
finito il tempo delle domande, per lui, piuttosto le aveva spente tutte
in risposte. Al suo fianco, Meera batteva nervosamente un piede per
terra e quello era l'unico rumore ad affondare nel
silenzio pastoso di disagio. Sua moglie aveva già
la mano
destra puntata al fianco, pronta a sfoderare subitaneamente il pugnale
appeso alla cintura -perchè temeva un inganno, come al
solito. Quella era la Meera del loro primo anno di matrimonio, la Meera
che scattava per difenderlo non appena presentiva una
minaccia, la Meera allegra che sapeva ridere della nuova vita,
a soffocare la sua anima come una tenaglia d'acciaio -la Meera sfiorita
con l'avanzare dell'inverno ed il ritorno del freddo,
perduta per
strada ad un punto che Bran non sapeva nemmeno quale fosse,
forse
consumata un po' alla volta dalle pareti di pietra e dal tepore delle
candele.
Poi due persone comparvero alla soglia. Lei era una donna dai
ricci capelli scuri che si confondevano con il mantello lanoso, dallo
sguardo obliquo e pungente. Lui era il bambino di otto anni che
Bran aveva affidato alla sorte appellandosi alla sua clemenza -solo con
i
capelli più lunghi, gli occhi più bui e le mani
più rosse. Nuove cicatrici sulla sua pelle parlavano, cumuli
di
pellicce pesavano sulla schiena. Gli occhi tagliavano la
realtà
come coltelli.
-Rickon.- Non fu un saluto, ma piuttosto una mera constatazione. A
Grande Inverno, Rickon. Dopo troppi anni, Rickon.
-Ciao, Bran.- La voce di uno sconosciuto, con appena un'intuizione
familiare. Quel ragazzino non era soltanto l'incarnazione d'un
fantasma.
-Maestà.- Osha osservò con nostalgica amarezza il
suo protetto: Bran non era più un
piccolo lord, ormai. La donna volse lo sguardo un po' più a
destra. -Meera. Ne hai fatta di strada, dall'ultima volta che ti ho
visto.-
La regina del Nord sorrise ironica, un barlume scuro e compiaciuto
negli occhi; il re soppesò quell'immagine cara d'infanzia
con
gli occhi irremovibili.
-Vi ho fatto chiamare appena ho potuto.-
Rickon alzò le spalle sotto il mantello logoro, in un gesto
scostante. -Se avessi voluto restare dov'ero, l'avrei fatto. Non sono
venuto perchè mi hai chiamato tu.-
Lo sguardo impossibile di Jojen seguì l'avanzare del giovane
Stark fino ai piedi del trono, quasi un severo avvertimento, un
giudizio nero ossidato nelle pupille
-un giudizio che veniva da lontano, dal giorno dopo o da due anni
più tardi, forse.
Bran strinse la bocca in una smorfia. -Sei venuto qui perchè
vuoi giustizia. Come me. Abbiamo ancora qualcosa in comune, dopotutto.-
-Non si chiama giustizia. Si chiama vendetta. È la stessa
cosa,
soltanto più sincera. Soltanto più cattiva.- Il
fratello
minore sollevò il mento, fino a sfidare con lo sguardo
pallido
come ghiaccio primaverile quello bruno di Bran. Il re serrò
gli
occhi in due schegge che luccicarono d'ossidiana.
-Giustizia. Niente di più, niente di meno di quel che ci
spetta.
Voglio concedere la pace eterna alle anime degli Stark, non scrivere il
mio destino con il loro sangue. Spero che la lontananza non ti abbia
fatto scordare che appartieni al tuo nome. Che appartieni al Nord.-
-Io non appartengo a nulla e nessuno, fuorchè a me stesso.-
sbottò Rickon, stizzito, sputando per terra con malgarbo.
Jojen continuava a
valutarlo con lo sguardo, esplicito, silente, irreparabile. -Ti
conviene impararlo in fretta, se non vuoi combattere questa guerra da
solo.-
Il fratello scosse il capo. -Certe cose che ci riguardano sono vere
da prima della nostra nascita. Molte cose saranno per sempre.-
Le labbra screpolate di Rickon disegnarono un sorriso vagamente
sfrontato. -Molte cose sono cambiate, Bran.-
Esattamente come temevo, pensò Bran gonfiando il petto in un
profondo sospiro.
***
Otto
mesi dopo.
Myrcella tossì. La cenere, ingombrante
e caliginosa come nebbia, impregnava l'aria -una lorda,
viscida tossina a insinuare dita venefiche nella gola, e più
giù, nel plesso solare, e ancora giù, nelle
viscere. Ella
avvertiva al ciglio della spina dorsale la morbosa tentazione di
voltarsi a guardare, ma un presagio alienante come una malattia le
anestetizzava
ogni senso. Le gambe non sarebbero state capaci di fare altro che
piazzare un passo dopo l'altro, in quel momento; il suo collo rigido
come corteccia non ricordava più la sua funzione e il capo
premeva contro il petto, imperterrito, inerme. Alle sue
spalle, se stava bene
a sentire, ella coglieva gli ultimi sghignazzi mormorati dalle fiamme
che,
fino a poco prima, si attorcigliavano forti e selvagge nel cielo
e correvano come creste di comete, seguendo imprevedibili traiettorie,
trasformando una realtà nitida e palpabile in poltiglia nera. Poltiglia nera.
Non può
essere successo sul serio.
Myrcella era inorridita, ma i suoi occhi non sapevano chiudersi,
soltanto raspare il terreno con calma fissa e devastante; aveva
l'infallibile certezza che le sue labbra serrate non si sarebbero mai
più separate l'una dall'altra: di certo non si sarebbero
schiuse
in una supplica. La sua vita oscillante sembrava non appartenerle
più; di certo in quel momento le interessava meno di quanto
avrebbe dovuto, tanto era in bilico nel precipizio, tali erano gli
accadimenti. Myrcella avvertiva persino sul palato quel sapore di
bruciato, acre al punto da indurla a desiderare di sputarlo per terra.
Il debole lume d'un grido diffondeva una sleale nostalgia in quel corpo
chiuso nel suo ribrezzo. Un triste, perforante sconcerto si
faceva strada nella sua mente scoccando fendenti, e quell'apatico
squarcio di stordimento che inghiottiva ogni reazione se ne
impadroniva, lasciando una indefinita, intraducibile rassegnazione.
Fintanto che una corda le mordeva i polsi e la trascinava, ordinandole
da che parte andare, Myrcella avrebbe proseguito a camminare,
aggrappandosi ad
essa come può fare soltanto chi sospetta che il resto del
mondo
si sia completamente dimenticato della sua esistenza. Chissà chi
è morto, pensò, magari tutta la mia famiglia
è stata sterminata.
Fu una constatazione come un'altra, che la sfiorò come
avrebbe
potuto fare un soffio di brezza. L'unica reazione che causava era un
lieve aggrottamento delle sopracciglia, quasi che fosse un nodo in cui
ella era incappata pettinando la propria chioma bionda. Myrcella
comprese, avvilita, che ancora non ci credeva; temette il giorno in cui
la mole di quella rivelazione si sarebbe scaricata completamente sulle
sue spalle. C'era un impedimento roccioso, nella sua gola, ch'ella non
riusciva a sciogliere nemmeno deglutendo.
Myrcella si sentiva sporca ed annerita come un tizzone arso e non
aveva la forza di guardare in che condizioni fosse l'abito che
aveva
addosso, nè di verificare quanto del suo corpo ancora
celasse,
ma
scoprì che, nonostante il suo innato pudore, non le
importava
granchè.
Guardarsi intorno sarebbe stato il principio d'un approccio diretto,
d'una reazione, e Myrcella non voleva affatto reagire,
perchè
reagire
significava accorgersi e colmarsi della verità fino a farla
propria.
Myrcella, quello strano scompiglio di carneficine e urla di soldati,
non lo voleva. La violenza, finora conosciuta da lei soltanto di nome,
quella storpia incomoda di cui la sua famiglia le aveva premurosamente
risparmiato addirittura la vista, aveva fatto capolino nella sua vita
in modo imperdonabile, con l'egocentrico proposito di spazzare
via
tutto
quello che vi si trovava e rimanere l'unica, stonata protagonista. Di
certo, se anche lei fosse morta, sarebbe stato un sollievo abbandonare
quella confusione ingovernabile; le sarebbe stato risparmiato l'onere
di difendere la propria vita e comprendere la calamità che
aveva
mozzato le gambe al suo futuro. Semplicemente svanire, perdere
conoscenza, galleggiare via, senza nemmeno un solo pensiero
da trattenere fra le tempie...
Un rude strattone fece notare a Myrcella di aver
inconsapevolmente accorciato il passo; ella, quasi mortificata, si
affrettò a compiacere il volere della persona che le stava
di
fronte. Non s'azzardava nemmeno ad alzare lo sguardo, conscia che
così avrebbe incontrato la sua schiena; gli
occhi avevano dimenticato l'arte della vista, e comunque la fanciulla
aveva perso fiducia in loro.
Non si ricordava di lui,
ovvio. Erano passati così tanti anni da
quella visita a Grande Inverno di cui tutti avevano avuto modo
di
pentirsi; Myrcella sapeva che v'era anche uno Stark più
piccolo
degli altri, scomparso insieme a quel Bran attualmente sul trono,
però come avrebbe mai potuto interessarle? Quando egli aveva
fatto
irruzione al torneo, era ormai troppo tardi per organizzare qualsiasi
piano di fuga. Con un così breve preavviso, i partecipanti
avevano potuto soltanto udire il numero dei soldati del Nord che stava
per abbattersi su di loro come una tempesta, e poi morire. Myrcella non
aveva capito nulla, dall'inizio alla fine; sapeva solo che d'un tratto
uno squillo di tromba aveva interrotto la musica e il duello dei
cavalieri, che il disordine imperava sulla massa, che le altre lady
sedute accanto a lei sugli spalti bisbigliavano concitate che
sì, erano
gli Stark, erano gli Stark, erano venuti a vendicarsi,
e la tensione aveva trasformato il vento in un cavo d'acciaio. Poi sua
madre l'aveva afferrata per un braccio e l'aveva condotta in cima ad
una torre di vedetta, ordinandole di chiudere il portone con il
chiavistello e non aprire a nessuno, proprio a nessuno. Le aveva detto
che l'amava ed il suo bacio era stato un roseo schiocco radioso di
madreperla. Poi Myrcella non l'aveva più vista. Nel
frattempo aveva avuto modo di pensare: era da un pezzo che suo nonno si
aggirava inquieto per la Fortezza Rossa, dicendo che bisognava prendere
provvedimenti contro Bran Stark lo Spezzato, perchè, visto
che
non s'era ancora fatto sentire, probabilmente stava architettando
qualche sotterfugio. E come sempre aveva avuto ragione, ma troppo tardi
ne avevano avuto la prova. Però,
si chiedeva Myrcella,
dato che
Bran non
può neanche camminare, chi sta dirigendo questo esercito?
Aveva
atteso trepidante che sua madre venisse ad aprirle, dicendo ch'era
tutto finito, che il Nord era stato rimesso al suo posto; dalla
finestra di vedetta lo spettacolo che le si era parato di
fronte era molto diverso. I soldati del torneo, pochi, colti alla
sprovvista, stavano subendo una degradante sconfitta, questo era chiaro
persino ad un'inesperta come lei. Poi erano scoppiati gli incendi, gli
strilli delle donne si erano levati al sole come suppliche, il sangue
arrugginiva l'erba di nero, e ad un certo punto Myrcella non aveva
più osato guardare, temendo che qualcuno potesse adocchiarla
lassù -oppure di rendersi conto che l'ennesima vittima del
massacro era Tommen. Il cuore scandiva concitato una canzone
sconosciuta, e la fanciulla aveva cominciato a preoccuparsi davvero per
la sua incolumità. Ma sua madre sarebbe tornata. Sua madre
non
l'avrebbe mai lasciata lì, abbandonata a se stessa, senza
cibo
nè acqua. Giusto? Il suo più grande timore era
stato
quello di morire dimenticata là; nemmeno immaginava cosa
veramente l'aspettasse, e Myrcella malediva amaramente la
propria ingenuità. Se fosse stata una ragazzina ardimentosa
ed
autosufficiente come Arya Stark, forse la sua sorte sarebbe stata
diversa; invece
non era Arya, era Myrcella Baratheon la principessa reale, ed era
rimasta lì ad aspettare la mamma, come ogni fanciulla
obbediente che si rispetti.
Non c'era stato bisogno d'aprire. Il ragazzo era entrato da
solo, sfondando quel pesante portone in cedro con la sua sola forza. Il
suo aspetto stesso aveva avuto un impatto violento contro le iridi
verdi e
perlate di Myrcella: di corporatura era allampanato ed asciutto come
una lama, con gambe lunghe e mani forti, dal palmo largo e le nocche
spellate; una massa arruffata di capelli rossastri
frustrava le
spalle e azzannava le scapole ad ogni suo movimento, e lunghe ciocche
aguzze scendevano sul volto dai lineamenti duri, quasi a nasconderlo;
il bagliore degli occhi risaltava in maniera impressionante, vincendo e
scostando i ciuffi, e Myrcella rimase
sinceramente colpita -ammaliata ed intimorita insieme- da quel colore
azzurro, tenace come il cielo lacerato dai fulmini e cancellato dai
lampi e slavato dalla pioggia, ma che di quel supplizio ha fatto la sua
potenza. Un lupo di mostruose
dimensioni, dal folto ed ispido pelo nero, così alto da
arrivargli all'anca, lo affiancava sondando l'aria con il naso umido.
Myrcella era in ginocchio, in preghiera, ma quando lo
aveva udito salire le scale aveva chiuso gli occhi e si era abbandonata
alla pietra del pavimento; aveva compreso che non si trattava di sua
madre dal suono di quei passi estranei, pesanti, addirittura furibondi
tant'erano roboanti. Aveva aspettato, fissando dal basso il cielo
sporco di nero fuori dalla finestra, aveva aspettato la morte convinta
che, quand'essa sarebbe calata sul suo collo, non se ne sarebbe nemmeno
accorta. Il frastuono del portone abbattuto l'aveva fatta voltare di
scatto, ed egli l'aveva squadrata, alto, furioso, implacabile.
A quel punto Myrcella aveva realizzato di non poter sostenere quella
pausa dolorosa: aveva esposto il petto candido in modo che la spada del
ragazzo potesse infrangerlo e si era limitata ad intensificare il
contatto con quegli occhi ombrosi, quasi sfidandolo a mettere alla
prova il suo contegno. Se doveva morire, sarebbe morta da
principessa di sangue reale.
Le labbra di lui si erano contorte in un ghigno insinuante,
anche
se nel suo sguardo v'era l'astio, corposo, denso, palpitante; aveva
liberato uno sbeffeggio che sibilò alle orecchie di Myrcella
come una frusta.
-Andiamo, ragazzina, pensi davvero che morire ti sarà
così facile? Alzati.-
Quasi intorpidita dallo sconcerto, tentando di mantenere una fermezza
altezzosa in volto, ella aveva obbedito un po' esitante. C'era una
domanda
confusa nelle sue iridi.
Egli l'aveva afferrata per il polso e l'aveva trascinata via, con la
stessa irruenza con cui avrebbe sradicato un arbusto dal terreno.
Myrcella aveva trattenuto un gemito fra le labbra; il suo giovane
rapitore aveva le mani incrostate di sangue asciutto e rappreso. La
concentrazione per
non scivolare sugli stretti gradini acuminati era stata parecchia,
contando che il ragazzo balzava giù terribilmente in fretta.
Poi, mentre ella veniva accecata dalla luce impietosa dell'uggiosa
giornata e strattonata nel campo di battaglia, i soldati lì
appresso bofonchiavano quello,
quello è uno Stark, è uno Stark. Le
era risultato difficile sovrapporre l'immagine del marmocchio senza
volto visto a Grande Inverno a quella del guerriero che aveva davanti.
Anche lui era sopravvissuto, dunque: in quel momento, Myrcella non
riusciva a rallegrarsene.
Un uomo sulla quarantina, con un'armatura che riportava lo stemma d'una
casata del Nord, l'aveva osservata inquietato per qualche istante e poi
aveva domandato, con il tono di chi teme di conoscere la risposta: -Che
ne farai?-
Il ragazzo aveva rivolto a lui quel suo sguardo vorace, impetuoso,
crudo. La sua voce non aveva ancora un timbro maturo, ma sferragliava
le parole dalle labbra come se desiderasse storpiarle una ad una.
-Tutto quello che vorrò, ser. E perchè
no? Questa qui non è nemmeno una vera nobildonna:
nient'altro che un
piccolo abominio biondo. Ma un abominio davvero grazioso, vero?
Già, proprio così, non si può negarlo.-
L'aveva sfacciatamente esaminata, con derisorio disprezzo, e la
fanciulla stavolta aveva abbassato gli occhi, mentre l'oltraggio le
arrossava le gote -perchè sapeva ch'era quanto lui si
aspettava.
E poi era cominciata la marcia. Myrcella, dopo aver rivissuto i ricordi
della giornata per l'ennesima volta, focalizzò nuovamente
l'attenzione sulle pietre che i suoi occhi afferravano e poi lasciavano
scivolare via. Un drappello compatto e scuro avanzava a passo unanime,
torvo e silenzioso, pregno della morte che avevano donato e della
stanchezza che avevano raccolto, ma confortato della vittoria. Durante
il
cammino, mentre i dubbi di Myrcella svolazzavano impotenti attorno a
quella cupa figura davanti a lei, il silenzio mormorava una nenia
bianca. Il lutto ebbe a disposizione tutto il tempo che credeva per
dilatarsi nel petto di Myrcella, senza nome nè oggetto,
senza
rancore nè consistenza -non ancora. Ella sapeva che da quel
giorno nella sua vita sarebbe mancato qualcosa, ma in pratica non aveva
perso nulla.
La carovana dovette percorrere a ritroso la strada che aveva compiuto
per giungere fino a Runestone: si trattava di un percorso assai
insidioso fra le montagne della luna, durante il quale ogni attimo di
distrazione poteva essere fatale, disseminato di rocce, tronchi
crollati, strapiombi e passaggi talmente stretti da costringere gli
uomini a procedere in fila indiana. Non era un'impresa da poco,
contando il fatto che vi erano molte ore di strada e che i comandanti
dei diversi contingenti urlavano in continuazione di accelerare il
passo, per non trovarsi in ritardo rispetto alla tabella di marcia,
elaborata secondo l'esigenza di non correre rischi quali l'essere
raggiunti da truppe nemiche o finire le provviste -il che avrebbe
significato doversi rifornire presso un villaggio, cosa che l'esercito
assolutamente preferiva evitare. La scelta di quella strada
improvvisata era stata obbligata: percorrendo una via già
tracciata, o -ancora peggio- passando per la valle di Arryn,
sicuramente il loro arrivo sarebbe stato preannunciato al torneo e
l'effetto sorpresa sarebbe andato in malora; c'era anche da dire che
tagliare per le montagne rendeva il viaggio più breve,
seppur
molto più complesso e dispendioso d'energie e rifornimenti.
Ovvio, v'era il pericolo dei clan delle montagne, ma era raro che si
azzardassero ad assalire un esercito così numeroso,
con le
armi rudimentali ch'avevano. Myrcella aveva fatto del suo meglio,
però quelle macchie di boscaglia erano piuttosto diverse dai
saloni della Fortezza Rossa, così come la pietra brulla non
assomigliava proprio ai pavimenti di granito: più volte
aveva
temuto di scivolare e precipitare giù dai pendii scoscesi
dei
passaggi di montagna, di inciampare in qualche intreccio di radici
nodose e rompersi una caviglia, visto che nemmeno le sue scarpine di
tela -logore e consumate dalle troppe ore di cammino- erano
granchè adatte per arrampicarsi e guadare i fiumiciattoli.
Ogniqualvolta ella barcollasse o perdesse l'equilibrio, bastava uno
strattone della fune che la legava per rimetterla in piedi;
così
come i cavalli si lasciavano guidare per le redini dai proprietari,
così Myrcella faceva con la corda. Per il resto, la
fanciulla
era molto prudente ed osservava dove il giovane Stark mettesse i
piedi, per poi imitarlo. La cosa a cui Myrcella invece era
abituata era sottomettersi ad un rispettoso, docile silenzio: e infatti
tacque, senza proferir parola per otto ore e più.
Si accamparono a tarda notte, per mangiare, scaldarsi e recuperare le
forze piuttosto che per dormire: pochi ci sarebbero riusciti, con i
numerosi pericoli in agguato nel bosco -ad ogni modo, v'erano molte
sentinelle. Furono organizzati dei bivacchi e s'accesero dei fuochi;
appena Myrcella si sedette sulla ruvida erba intrisa di fango, le
parve di non aver mai avvertito sotto di sè un giaciglio
così comodo. Le scarpe di tela erano pregne di sangue: tutte
le
vesciche erano scoppiate, in una profusione di sofferenza
talmente
sorda che Myrcella la udì a malapena, troppo provata dalla
stanchezza e dalle emozioni della giornata. Le dita e gli avambracci
erano segnati da graffi che provocavano un pallido ma aspro bruciore,
dal profilo spezzato, sottile e rossastro,
procurati nell'afferrarsi ai rovi ed alle cortecce degli alberi per non
cadere. Ella lanciò un'occhiata al proprio vestito verde,
dalle
maniche
sbrindellate fino al gomito, dai nastri del corpetto aggrovigliati.
Pensando a quanto era stata gongolante all'idea d'indossarlo al torneo,
provò un senso di malinconia vivido e pulsante come il
fuoco.
Il ragazzo Stark, dopo aver evocato le fiamme da una piccola catasta di
ramoscelli, s'era seduto presso il focolare e aveva assicurato la corda
di Myrcella al proprio polso, dimodochè se si fosse
addormentato
avrebbe potuto immediatamente svegliarsi, qualora la prigioniera avesse
tentato la fuga oppure qualcun altro fosse intervenuto per liberarla. I
suoi occhi fissi e concentrati su qualche inesorabile pensiero, tinti
di quell'azzurro terso e bellicoso, riflettevano le ombre delle fiamme
come un'intuizione d'ambra. Ad un certo punto, quando un alfiere giunse
a dargli della carne da arrostire, egli l'accettò senza
nemmeno
guardare l'uomo in faccia e cominciò direttamente a
morsicare
via brandelli con famelica voracità e leccarsi il mento
imbrattato di rosso, con la distratta spontaneità dettata
dall'abitudine. Myrcella fece il possibile per trattenere il disgusto.
Carne
cruda! Sanguinolenta, fibrosa e scricchiolante di nervi! Era qualcosa
d'improponibile. L'alfiere aveva portato per Myrcella dei tozzi di
pane, una ciotola d'acqua e qualche piccolo frutto che
nell'offuscamento della semincoscienza la ragazza non riconobbe;
comunque mangiò, pur faticando ad ingoiare a causa della
siccità della gola.
Del colossale pezzo di carne che gli era stato dato, Stark
lasciò un pezzo al suo metalupo, che vegliava
stringendoglisi al
fianco. L'animale, improvvisamente, alzò il muso al cielo
pesto
ed emise un breve, lugubre ululato, che colmò la radura per
qualche istante. Il giovane sorrise fra sè, quasi che avesse
compreso quanto il lupo aveva detto e lo trovasse spiritoso.
Myrcella, che assisteva alla scena schermando discretamente la propria
presenza, raggiunse una reminiscenza che si era protesa a ghermire per
tutto quel lasso di tempo.
-Rickon! Ti chiami... Rickon?- esclamò
stupita, accorgendosi appena di aver parlato ad alta voce. Era
troppo stordita dalla rivelazione sbocciata nella sua mente per temere
la reazione del ragazzo. Egli volse gli occhi nella sua direzione solo
dopo pochi secondi, quasi gli sembrasse improbabile che a
parlare
fosse stata proprio la sua silente prigioniera; effettivamente, anche
Myrcella udì quella voce acuta, arrochita dalla desuetudine,
sgorgare dalle proprie labbra come se fosse stata la prima volta.
Egli la guardò per bene negli occhi, con aspro livore.
Infine proferì, con un tono secco dal quale però
riaffiorava sempre un presentimento d'incandescente, attivo rancore:
-Non ti ho dato la licenza di parlare.-
Io sono la principessa
Myrcella Baratheon e non ho bisogno della licenza di nessuno per parlare,
pensò ella offesa, ma ingoiò la protesta e
quietò lo stolto moto di ribellione.
Rickon -Myrcella era quasi certa che il nome fosse quello- non le
dedicò nemmeno uno sguardo di più e
ritornò al
fuoco, quasi che agisse su di lui con un magnetico potere. Quelle
fiamme mansuete
ricordarono alla prigioniera gli incendi appiccati alle tende dei
partecipanti del torneo. Nato per distruggere. Cosa le aveva detto, suo
zio Tyrion, diverso tempo prima? Diffida
di ciò che è nato per distruggere.
In un primo momento, quelle parole le erano parse soltanto una formula
altisonante proveniente da qualche vecchio libro; adesso acquisirono
alle sue orecchie un altro sinistro significato. Myrcella
dimostrò di aver imparato la lezione e non osò
aprire
bocca, anche perchè non sapeva cosa avrebbe potuto dirgli,
sebbene fosse istigata dal vigoroso capriccio di parlargli ed
ascoltarlo parlare ancora. Più tardi giunse un altro
alfiere,
per riferire alcune notizie riguardo la marcia e i rifornimenti; Rickon
non diede nemmeno segno di averlo udito. Quando ebbe assolto il suo
compito, l'uomo allungò un'occhiata interrogativa verso
Myrcella
e domandò:
-Questa è la sorella di re Tommen? La figlia dei Lannister?-
Rickon si limitò ad inarcare le sopracciglia, inespressivo.
-E... non hai intenzione di ucciderla?- insistette quello. Quando
Myrcella credeva
che il ragazzo avrebbe sbottato d'essere lasciato in santa pace, Stark
mosse gli occhi a guardarla dritta nelle pupille. Anche nel rispondere
all'uomo proseguì a fissarla, quasi che quelle parole
fossero in
realtà rivolte a Myrcella.
-Ho ucciso suo nonno, sua madre e suo padre. Non m'interessa bere il
suo sangue, ma le sue lacrime.-
La scoperta scatenò un panico diffuso nella prigioniera, che
riflettè con innaturale razionalità. Suo nonno.
Sua
madre. Suo padre- ovvero lo zio Jaime, visto che tutti credevano ancora
a quell'infame calunnia.
Suo nonno, sua madre,
suo zio.
A Myrcella non veniva da piangere -era quasi difficile ammetterlo con
se stessa- e comunque non l'avrebbe mai fatto davanti a lui. Sarebbe
stato un comportamento umiliante ed indecoroso. Lo sguardo ferino del
ragazzo la faceva sentire così stupida. Non
piangerò mai davanti a te, Stark, sappilo, pensò
impegnando tutta l'eloquenza del suo sguardo. Rickon sorrise ancora,
piano, schernendo quel patetico tentativo d'audacia, atrocemente
divertito. Poi l'alfiere se ne andò, evidentemente
perplesso, e
quell'immensa giornata terminò.
Per quanto riguardava Rickon, non riuscì subito ad
assopirsi: il
fuoco danzava ancora davanti ai suoi occhi e l'empio sangue delle
vittime formicolava sulle sue mani, mentre le immagini della vittoria
si susseguivano eccitanti nella sua mente; il sonno lo sorprese a
tradimento, approfittando del primo istante
di distrazione, subdolo e lesto come uno svenimento. A Myrcella invece
pareva inconcepibile la sola idea di
riuscire ad addormentarsi sulla nuda terra, e allo stesso tempo
spaventosa quella di passare la notte insonne; così,
esasperata
dal rimuginare sul destino proprio e della sua famiglia, da
quella giornata incoerente, precipitò con gli occhi fra le
impervie gole della montagna e infilò lo sguardo in ogni
fessura
della roccia, come se cercasse il buio per imprimerselo nella mente e
non ricordare mai più.
Il suo rapitore era addormentato, ma Myrcella non avrebbe mai neppure
cercato di scappare: l'incognita di ciò
che l'aspettava nel bosco, di tutte le ore di corsa a tentoni nel buio
della notte, della fame e della sete e del freddo che in mezzo alla
vegetazione sarebbe stato assai più cruento, e peggio ancora
della disperante solitudine, era sufficiente ad atterrirla.
Dove andare? Indietro? E dov'era indietro? A casa? Ma dov'era casa,
esattamente? E qual era? Nel caso
in cui fosse capitato qualcosa a Tommen, la Fortezza Rossa non sarebbe
stata più casa. Per quanto riguardava Castel Granito, la
fortezza in cui
sua madre e lo zio Jaime erano cresciuti, Myrcella a
malapena ricordava come fosse fatta. Ella sarebbe impazzita,
senza una
strada da seguire, senza una guardia a scortarla, disarmata ed inutile
sotto ogni aspetto. Andare da chi?, osò poi chiedersi,
trattenendosi poi dal realizzare ulteriormente la propria situazione,
perchè non avrebbe potuto sostenere l'effettività
d'essere rimasta sola. Prima era una lady, una principessa, a cui si
dovevano mille rispetti, riguardi e gentilezze, omaggi e riverenze da
ogni parte, ed ora? Ora quanto valeva la sua piccola, flebile vita?
Quanto valevano quei riccioli dorati di cui tanto andava orgogliosa? Lo
stesso sangue Lannister che un tempo era il suo vanto, la sua
inestinguibile salvezza, in quel momento diveniva il motivo
fondamentale della sua rovina? Era rimasto in vita qualcuno a cui
importasse della sua sopravvivenza, qualcuno ancora in grado e
intenzionato a sottrarla alla sciagura? Sua madre, suo zio e suo nonno,
ormai,
erano confinati in una gabbia dalla quale non sarebbero
mai potuti
fuggire, e le loro mani tese verso di lei non avrebbero mai potuto
più interferire nel suo destino. La protezione che finora
l'aveva accerchiata e rincuorata mancava, annullata, annichilita,
neutralizzata. Ora lì, in quel bosco, era soltanto un
patetico
essere umano come chiunque altro -ed a questo non si sarebbe mai
avvezzata.
L'idea di casa richiamò timidamente l'esotico, avvolgente
profumo di Dorne, quel misto inconfondibile di sabbia arroventata dal
sole mattutino e di spezie fiammanti e di frutta succosa il cui sapore
esplodeva in bocca potente e freschissimo, e l'aroma degli unguenti con
cui la principessa Arianne si frizionava il manto di capelli corvini, e
i mille lussureggianti colori degli abiti dorniani, superbi e
squillanti come le piume di un pappagallo. A quell'invasione
concatenante di pensieri, in cui l'uno germogliava dall'altro, Myrcella
s'intristì. Una palizzata invalicabile la separava da quel
passato dolce e mite, sprecato a causa dell'alito fetido d'una malattia
oscura. Ricordava ancora gli ultimi giorni di agonia di Trystane, e
ricordava la maniera ossequiosa e impietosita in cui le serve le
impedivano d'andare a far visita al suo promesso sposo. Non era in
condizione d'essere visto da lei, le dicevano. Myrcella non aveva
potuto constatarlo con i suoi occhi, però durante la notte
udiva
quanto rauchi e disperati fossero i colpi di tosse del moribondo,
sguaiati ed esorbitanti come i latrati d'un vecchio cane. Le era scesa
una lacrima, quando l'avevano seppellito, pensando a quanto fosse
vivace e ardente di vita il corpo di Trystane, prima d'essere
avvelenato irreparabilmente, misurando con lo sguardo la sofferenza
priva di parole che deturpava il viso di quella famiglia che l'aveva
accolta come una figlia. Myrcella rabbrividì nell'aria
tagliente
della sera, perchè la sua vita non sarebbe più
potuta
ritornare quello ch'era prima
-una spenta e tiepida monotonia di banchetti, ricevimenti, cene in
famiglia, lezioni di canto e cucito e buone maniere, sedere nei vasti
giardini della Fortezza Rossa ad ammirare quanto le piante fossero
verdi e i fiori fossero gialli. Non l'aveva chiesta, quella vita di
palazzo, non l'aveva desiderata: ma l'aveva accettata, vi si era
avvezzata, l'aveva apprezzata per il solo motivo ch'era la propria, la
vita che il fato aveva assegnato a Myrcella Baratheon. Tutto questo non
sarebbe stato più, senza nemmeno il permesso di
dirgli
addio; forse un
distacco lento e consapevole sarebbe stato più doloroso, in
fin
dei
conti. Ed ella rabbrividì perchè da quando era
tornata
alla Fortezza Rossa, diversi anni prima,
Dorne non le era mai parsa così distante, quasi un sogno
vecchio che
inizi a deteriorarsi agli angoli come pergamena.
Ai suoi morti, poi, Myrcella non riusciva a pensare: era davvero una
figlia ingrata, una fanciulla senza cuore per
non aver ancora pianto la loro morte. Strizzò le palpebre,
sperando di costringersi, senza alcun risultato; avrebbe dovuto venirle
spontaneo, eppure i suoi occhi erano ancora
asciutti come la cenere che aveva seppellito i cadaveri dispersi nel
fango. No, ancora non ci credeva sul serio.
Il giorno dopo, l' ultimo ricordo che Myrcella recuperò
risaliva a quei momenti in cui
s'arrampicava con lo sguardo fino alle punte svettanti degli abeti e ai
saluti fiochi delle stelle; a quanto pare doveva essersi addormentata,
ad un certo punto. La luce del giorno invadeva e sbiancava la radura.
Rickon
era già sveglio: lo vide informarsi presso i vari alfieri
sui
numeri dei soldati; per il resto, egli la ignorò bellamente.
Subito
si rimisero in marcia. Il giovane Stark slegò il nodo della
corda, e mentre già cominciava strattonarla come aveva fatto
il giorno
precedente un uomo lo fermò.
-La ragazza non può farcela, mio signore. Sarebbe un'impresa
troppo faticosa per lei.-
Importunato dall'intervento, Rickon scoccò uno sguardo
scontroso
all'attendente; Myrcella non capì se fosse infastidito dal
fatto
che un suo inferiore avesse criticato la decisione o semplicemente che
gli avesse rivolto la parola. Ad ogni modo
egli scrutò la giovane da
capo a piedi, con occhi accigliati, quasi che stesse valutando
se
romperle l'osso del collo e buttarla giù da un precipizio
per non
averla più fra i piedi.
-Caricala nel carro delle vivande.- ordinò, prima di
concederle
un'ultima occhiata indagatrice ed essere inghiottito nella moltitudine
dei suoi uomini, con il suo lupo al seguito.
Nel carro delle vivande.
No, Myrcella Baratheon non era mai stata trattata in questo modo da
nessuno, prima d'allora.
***
Le ante della porta sbatterono fragorosamente contro il muro,
spalancandosi con foga.
Dalla sua postazione su un piccolo scranno Margaery Tyrell
s'alzò in piedi, una mano a bilanciare il dolce
peso del ventre vistosamente ingrossato dalla gravidanza
avanzata,
l'altra a stringere l'orlo delle gonne fruscianti. Il volto era
dolcemente turbato, la bocca schiusa in un'espressione allarmata e le
sopracciglia piegate in una domanda senza parole. Sulla soglia,
scompigliato e tentennante, comparve il re dei Sette Regni.
-Mio signore! Marito mio! Che siano ringraziati gli dèi...-
Margaery accorse, mentre le scarpe schioccavano sul granito specchiante.
Tommen incespicò, fino a che potè abbandonarsi al
conforto profumato del petto della ragazza. Quelle braccia
soffici e
immacolate lo avvolsero con trepida, appassionata dedizione. Egli
aveva le guance paonazze dallo spavento e l'elmo stretto al fianco. I
riccioli, d'un timido ed amabile color oro, rimbalzavano schiacciati
sul capo e disordinati attorno al
collo.
-Margaery... mia cara... non puoi neanche immaginare. Un disastro...
una
tragedia... è andato tutto storto.- balbettò
Tommen,
cercando di darsi un tono, raddrizzandosi e portando una mano a
lisciare ansiosamente i capelli all'indietro. Margaery gli strinse
apprensivamente
il viso accalorato fra le mani.
-Marito mio, ero così in pensiero. Quando mi hanno dato la
notizia, il mio cuore si è fermato. Cos'è
successo?
Raccontami tutto, ma prima riprendi fiato, te ne prego...-
-Non pui neanche immaginare...- ripetè Tommen, affranto.
-Mia
madre... Myrcella! Hanno ucciso nonno Tywin e anche mia madre... e lo
zio Jaime rischia la vita... e Myrcella è sparita!- La sua
voce
era affannata, ma soprattutto sgomenta. Lo sconcerto, l'indignazione e
il timore si affacciavano deformando a turno i suoi lineamenti.
Incapace di realizzare stava lì, in piedi, con quel pezzo di
ferro
sottobraccio, a guardarsi intorno, quasi nella speranza di adocchiare
tutti i suoi cari scomparsi e porre fine alle angosce.
-Oh, mio signore, dev'essere stato terribile. La cosa importante
è che tu sei qui adesso, sano e salvo.- esclamò
Margaery, partecipe, carezzandogli l'aureo capo.
-Meno male che non sei venuta anche tu, Margaery!- sbottò il
ragazzo. -Altrimenti, a quest'ora...- Visibilmente sollevato, le
toccò il ventre gonfio con dita
tenere ed incerte, quasi alla ricerca d'una gioia alla quale
aggrapparsi. -Tu e il bambino non avete corso alcun pericolo, e questa
è la cosa davvero importante. Non permetterò loro
di
torcere un capello a mio figlio... e neanche a te, Margaery.-
La regina gli cinse le spalle e gli baciò la fronte
velata di sudore. -Non tenermi ulteriormente sulle spine, ti scongiuro!
Ch'è accaduto?-
Tommen pareva non credere alle sue stesse parole. -Un esercito del Nord
ha fatto irruzione al torneo con un numero esorbitante di soldati. Ci
hanno sbaragliato... eravamo impreparati a una simile catastrofe. Mia
madre è morta, la sua gola... non.... non c'è
stato nulla
da fare.- Si morse il labbro inferiore, trattenendo le lacrime. -Anche
mio nonno è morto. Ho visto la sua testa... la sua testa!
Staccata da corpo, sembrava più... piccola. Assurdo. Poi
abbiamo
trovato lo zio Jaime con il sangue che gocciolava sull'armatura. Era
per terra, esanime... Però è vivo. Almeno lui,
è
vivo. Il Maestro dice che non si sa se sopravviverà, ma una
speranza è meglio di niente. Invece Myrcella... I
miei
uomini l'hanno cercata ovunque, invano. Poi dei testimoni hanno
riferito d'averla vista legata, al seguito dell'esercito, catturata
da... da un certo Rickon. Rickon Stark. È stato
lui:
mia madre, nonno Tywin, zio Jaime... Myrcella. È
stata tutta colpa
sua. Ma chi è, questo qua, e perchè ce l'ha
con mia sorella?! Se è un vero uomo, che venga qui ad
uccidere me,
invece di fare del male alle donne e alle fanciulle indifese!- Il suo
corpo era scosso da potenti tremiti.
Margaery evitò di riferirgli che fare del male ad un
ragazzino
dolce ed inetto come lui sarebbe stato più codardo che fare
del
male a qualsiasi fanciulla del mondo; lo abbracciò,
affondandogli la testa contro la spalla.
-La tua povera mamma... Tywin... l'amabile Myrcella! Che
disgrazia, amore mio.-
Cersei Lannister era morta, allora; Margaery avvertì una
profusione di trionfo inebriarle le vene. Finalmente quella troia
guastafeste era stata eliminata, per giunta senza che lei avesse dovuto
esporsi rischiando d'essere scoperta. Ti devo un favore, Rickon Stark,
pensò.
Ora che le era stato concesso campo libero, Margaery poteva cominciare
ad impostare il suo gioco. Ben presto, l'intera corte di Approdo del Re
sarebbe stata avvinghiata da rovi di rose gialle.
-Cosa vorrà da Myrcella, quel maledetto?! Perchè
l'ha
rapita?! Lei non c'entra nulla. Lei è sempre stata... una
brava sorella. Una fanciulla gentile.-
Tommen si lasciò sfuggire un singhiozzo soffocato, che evase
dalle sue parole; era sempre stato molto legato alla sorella, sua
confidente e migliore amica. Margaery aveva una mezza idea in proposito
al perchè quello Stark l'avesse rapita, ma non
disse nulla e si limitò a baciare il marito sulla bocca con
soffice
delicatezza. Tommen ricambiò stentatamente e poi, con un
sospiro
affaticato, cominciò la scalata fino al Trono di Spade. Vi
si
sedette con incertezza, ben attento a non ferirsi con le lame. Il
pianto premeva ancora contro i suoi occhi verdi e trasparenti.
Non era un vero re, no. Però Margaery era una vera regina:
solo questo importava davvero.
A quel punto, a varcare l'ingresso della sala del trono fu Tyrion
Lannister. Sul suo volto, attraversato da parte a parte da una
cicatrice, era ritratta una rabbia basita.
-Qualcuno mi spiega cosa accidenti è successo?!- Percorse la
vastità della sala con tutta la velocità che
le sue gambe tozze gli permisero.
Tommen chinò il capo, come un bambino che attenda d'essere
rimproverato.
-Sono stati gli Stark, zio Tyrion. Hanno
radunato sotto i loro vessilli tutte le più prestigiose
famiglie
del Nord e hanno guidato un assalto a Runestone. Le vittime sono state
centinaia...-
-Questo lo
so.- Tyrion
serrò le braccia in un movimento di brusca risoluzione. -La
parte che mi è sfuggita è quella in cui un
adolescente
armato di mannaia fa a pezzi la mia dolce sorella e il mio caro padre,
che aveva soltanto... uh... quanti? cinquant'anni di esperienza bellica
alle spalle? Un novellino, in pratica. A quanto pare, l'idiozia della
pubertà e un'accetta affilata sono un connubio esplosivo. Un
bel
colpo e, zac! il fantasma di un bambino morto ha eliminato i due
personaggi più influenti dei Sette Regni e, indovinate un
po',
si è pure procurato una concubina altrettanto Lannister. Che
fausta giornata, eh?-
-Non... non parlare più in questo modo!- Tutto
ciò era
troppo per le orecchie di Tommen Baratheon. Tyrion
riconsiderò
le proprie parole: sì, forse subìre la morte
della madre
e del nonno, il rapimento della sorella, una sconfitta in battaglia e
pure l'umorismo sferzante d'uno zio nano sarebbe stato troppo per
chiunque.
-Ti chiedo perdono, Maestà, però bisogna
considerare le
cose per quel che sono. Nascondersi dietro mezze verità e
vaghe
allusioni non serve a niente.- Tyrion inchiodò gli occhi del
nipote nei suoi. -Parliamoci chiaro. Il Nord non ha dimenticato: c'era
da aspettarselo. Fin da quando abbiamo scoperto della morte di Bolton e
della ricostruzione di Grande Inverno, abbiamo capito che si trattava
soltanto d'una questione di tempo; se non abbiamo attaccato,
è
stato perchè il Nord si è completamente
sottomesso alla
casa Stark e non potevamo avventurarci in quei territori ostili senza
rimetterci la pelle. Lo scontro era inevitabile, e lo è
tutt'ora. Gli Stark ci hanno semplicemente anticipato. Esaminiamo la
situazione: Cersei Lannister è stata trucidata brutalmente,
e
già questo basterebbe per dichiarare guerra. Visto che anche
mio
padre è stato ucciso, poi, siamo quasi obbligati a farlo.
Per
non parlare del rapimento di Myrcella... quello può essere
il
pretesto più convincente. Perciò datti una mossa,
Tommen.
Reagire immediatamente è la cosa migliore che puoi fare, non
lasciarti cogliere alla sprovvista. Sono
appena stato da Jaime... è ridotto in condizioni pietose. Le
prossime ore saranno decisive per stabilire la sua sorte, a quanto mi
hanno detto. Ad ogni modo, devi scegliere nuovi membri per la Guardia
Reale: ne sono morti tre, se non erro. Cercherò un
espediente
per spostare il campo di battaglia in una zona più
vantaggiosa
per noi, anche se non sarà facile... Dovrai essere forte,
Tommen.-
Lo squadrò per
qualche istante, con un pizzico di scetticismo, quasi a dimostrare che
non ci credeva granchè. In effetti, il ragazzo non sembrava
affatto in grado di prendere una qualunque decisione, figurarsi
d'essere forte. Tyrion rammentò di non avere di fronte un
uomo,
e di conseguenza di non poter pretendere così tanto da lui.
Intanto ragionava fra sè. Rickon Stark... aveva
già
sentito parlare di lui, ma soltanto di sfuggita. Si diceva che fosse
stato cresciuto a Skagos, e si sapeva bene quali fossero, i commenti a
proposito delle preferenze alimentari di quell'isola. A giudicare dal
macello che aveva fatto, quel ragazzo aveva la tenerezza d'una scure
bipenne, per cui fra
le sue grinfie Myrcella sarebbe rimasta vergine tanto a lungo quanto la
sua spada era rimasta pulita; c'era quasi da rassegnarsi e considerare
spacciata la povera fanciulla. L'unica cosa certa era che quel Rickon
era un morto che camminava. Non si poteva progettare l'omicidio di
Tywin, Cersei e Jaime Lannister e sperare di sopravvivere.
A che gioco stava giocando Brandon Stark? Dopo anni di silenzio, aveva
mandato contro i Lannister il suo fratellino cannibale a sollazzarsi.
Che il re metamorfo avesse un piano? E gli Arryn, perchè
avevano
permesso il passaggio delle truppe del Nord attraverso le Montagne
della Luna? Tutte domande a cui Tyrion intendeva trovare risposta.
-Adesso è guerra, immagino.-
Tommen strinse le dita; una lama baciò il suo palmo ed il
sangue scivolò dalla stretta,
percorrendo la lunghezza d'una spada, simile al baluginio d'un rubino.
-La guerra non è mai finita, a quanto pare.-
Era l'unica risposta di cui tutti avevano bisogno. Margaery Tyrell
nascose un sorriso. Tyrion Lannister
fissò a lungo suo nipote, con qualcosa di simile alla
compassione negli occhi; infine annuì solennemente. A noi, dunque, Bran Stark, pensò.
E guerra fu.
***
Le piante scorticate dei suoi piedi bruciarono a contatto con il manto
della neve e i suoi occhi si confusero affondando nel candore di quel
mondo cattivo. Myrcella inspirò forte il vento del Nord,
schietto e verace: un mondo cattivo ma onesto, nella sua limpida
austerità, come i miasmi stordenti di Approdo del Re non
avrebbero mai permesso alla città di essere.
Il freddo avvolse Rickon Stark in una cappa, dolcemente, quasi
riconoscendolo; il ragazzo non parve farci caso.
-Muoviti.- le intimò, strappando la fune che la legava dalle
mani d'un attendente. La fanciulla gli scoccò un'occhiata
adirata, ma o il giovane non se ne accorse o
lasciò perdere. Myrcella, durante il lungo viaggio, non
aveva
ancora avuto modo di scoprire cosa Rickon pretendesse da lei: la
maggior parte del tempo, ella l'aveva trascorso nella penombra d'una
cassa chiusa a quattro ruote, trascinata da alcuni servi, insieme ai
rifornimenti di cibo. Il ragazzo si assicurava soltanto al calar della
sera che lei
fosse lì: talvolta, intimidita dalla sua presenza, Myrcella
fingeva di dormire per non dover affrontare il suo sguardo penetrante
ed insolente.
Non aveva idea, per esempio, di cosa egli potesse stare pensando in
quel momento: la fronte era aggrottata, le labbra s'incurvavano talora
in un piccolo e fugace ghigno per poi distendersi e ricomporsi, gli
occhi tallonavano ostinatamente il filo d'un pensiero fisso. Rickon,
dopo aver rivolto con lo sguardo un compunto saluto al sole apatico
e fumoso del Nord, marciò a lunghi passi verso le mura di
Grande
Inverno. Myrcella la ricordava talmente diversa che, non appena la
vide, credette che si trattasse d'un altro luogo. Il fatto era che la
ricostruzione aveva intaccato gravemente la bellezza della roccaforte:
vi rimaneva soltanto una rigorosa, intransigente, piatta
brutalità, nella forma squadrata delle pietre che la
componevano
così come nel disegno sgraziato dei merli e nella statura
rozza
delle torri. Non vi era più quell'antica nobiltà,
quel
tradizionale calore, quella secolare onorevolezza che una volta erano
caratteristici di Grande Inverno, soltanto un fortino, un maniero che
esibiva le sue cicatrici e ringhiando sfidava gli esterni a provare ad
assediarla. Guerriero, tetro, ostile. Quella resurrezione sapeva di
morte, non di sangue.
Rickon si fece riconoscere dalle guardie semplicemente con una lenta
occhiata minatoria. Myrcella doveva come sempre affrettare il passo per
stargli dietro, e i piedi nudi -i sandali stracciati avevano ceduto da
un pezzo- stridevano di dolore stillando proteste dalle ferite. Lievi
impronte rosate di sangue seguivano la sua ombra.
Rickon e il suo metalupo avanzavano con sicurezza nei corridoi semibui
che si
aggiravano nella fortezza fino a condurre al centro, ad un portone a
battenti di pietra alto almeno dieci piedi. Erano quasi giunti alla
meta, quando una voce frenò la loro avanzata.
-Rickon? Sei tornato.- Una donna incedeva dall'altra parte del
corridoio. Vestiva con un umile abito marrone che cadeva a pennello sul
suo corpo snello e una pelliccia sulle spalle. I capelli indomati
s'arruffavano lungo la schiena, in un morbido disordine.
Rickon le lanciò un'occhiata che, per la prima volta, a
Myrcella
parve distendersi d'una certa affabilità. -Speravi d'esserti
liberata di me, Osha?-
La donna avanzò fino a trovarglisi di fronte e gli
assestò una mano sulla spalla, in un gesto burbero ma
chiaramente affettuoso. Infine sorrise orgogliosa.
-Sapevo che sarebbe andato tutto per il meglio. Non ho mai dubitato di
te.- La giovane Lannister non riuscì assolutamente a
decifrare
la natura del bizzarro legame che intercorreva fra loro.
Rickon la fissò con impetuosa, quasi corrucciata
intensità. -Come potresti fare diversamente? Dopo tutti
questi
anni...-
Qualche istante di comunicazione silenziosa scorse nel contatto dei
loro sguardo, poi Osha si congedò. -Su, va'. Lui ti sta
aspettando.-
Fece un cenno con la testa verso la porta. Il giovane
annuì
infastidito; attese che l'amica proseguisse lungo il corridoio fino a
sparire dietro un angolo ed esitò un momento, prima di
girarsi
verso Myrcella; ella,
che non s'aspettava d'essere considerata così d'un tratto,
sussultò.
-Quando entriamo, non dire una sola parola. Stai sempre zitta,
qualsiasi domanda mio fratello ti faccia. Rispondo io al posto tuo.
Capito?-
Myrcella gli lanciò un timoroso sguardo fra le ciglia e
annuì appena oscillando il mento. Quel viscerale, vibrante
rancore
che si faceva strada nelle iridi celesti di lui, quasi squarciandole,
continuava ad
impressionarla ed agire contro di lei, come un'orrenda deformazione,
che la faceva quasi vergognare -come se davvero credesse d'avere una
responsabilità nei confronti della sua rabbia.
Capito? C'era un'aggressività tagliente in quella domanda.
Rickon tirò energicamente la corda e spintonò la
porta
appoggiandovisi con la spalla.
La sala del trono era grande, disadorna e desolata. V'erano due grandi
tavoli di legno addossati ad ambo le pareti, a percorrerle per tutta la
loro lunghezza, qualche candeliere a bracci appeso ai muri ad
equivalente distanza l'uno dall'altro, a reggere lumi dallo stoppino
intatto, e null'altro. In fondo, sopraelevati rispetto alla sala da
cinque gradini, v'erano due scranni di pietra massiccia.
I passi di Rickon risuonavano risoluti in un'eco funerea, disperdendosi
nell'aria inquinata di buio. Myrcella, scostando a fatica le tenebre
con gli occhi, distinse i regnanti del Nord.
Aveva molto sentito parlare di Brandon Stark, il re storpio: eppure,
appena lo vide, si vergognò precipitosamente d'aver anche
solo
udito quell'epiteto sprezzante dalla bocca altrui. Nei suoi brumosi
ricordi, Bran era un ragazzino gracile infagottato nelle coperte del
suo letto, a lottare per la vita, accerchiato da un capannello di
familiari premurosi: non ve n'era più la benchè
minima
traccia. Anche lui, come Grande Inverno, pareva sprofondato in un mondo
infero, sotterraneo -pareva guastato d'ombra, con inchiostro nelle vene
anzichè sangue.
Il volto era allungato, smagrito, scavato, come se su quei lineamenti
fossero state combattute mille battaglie; nei suoi occhi, invece, c'era
l'inesplicabile fermezza della vittoria d'una guerra. Il suo sguardo
era gravoso, opprimente, pregnante, una verità inesorabile
che
abbatteva qualsiasi difesa, un'atroce consapevolezza che non si
può accettare senza venirne schiacciati, un'amarezza
irrefrenabile che evadeva i confini, penetrava nella pelle e privava
brutalmente d'ogni via di fuga, lasciando a mani vuote e mente
disarmata. Le guance completamente glabre erano macchiate di pallore,
come se l'alito del Nord le avesse punte e la pelle non fosse stata in
grado di dimenticare il suo tocco; egli indossava un ampio mantello di
velluto grigio, bordato di pelliccia più scura, trattenuto
al
collo da una spilla ch'effigiava lo stemma della casa Stark. Un anello
di ferro era adagiato fra le sue ciocche castane mogano, che
s'allungavano languide fino alle clavicole; ma in fondo era il potere a
designarlo, il dolore a fregiarlo, l'autorità ad
incoronarlo,
come un diadema non avrebbe mai fatto. Myrcella comprese che in quel
volto, in quella sala, in quella fortezza
s'era cicatrizzato tutto il male ch'era stato compiuto -tutta la
sofferenza ch'era stata bevuta, incorporata, assimilata.
Bran Stark ispirava rispetto: non il commiserevole rispetto suscitato
dalla pietà, ma quello generato dall'attanagliante
sensazione
d'asservita, inconsapevole, sordida inferiorità. Rispetto
regale. Nella sua anima era inciso qualcosa di totale -qualcosa di
annientante. La fanciulla pensò a quello che si diceva di
lui, c'era capace di uccidere
con la sola forza dello sguardo, e d'un tratto non le parve
più
così inverosimile. Bran non guardava lei bensì
quelle iridi, in cui non si riconosceva
più l'oscurità della pupilla, concentravano la
loro
spaventosa attenzione più indietro, dritto nell'anima di
Rickon
Stark.
Il fratello più giovane rispose senza remore. -Ti sembra
questa la maniera di accogliere un vincitore?-
-Parla.- L'ordine risuonò chiaro e lapidario come un sasso
in mezzo alla fronte.
Rickon, serrando appena gli occhi, parve tentato di disobbedire a tutta
quell'autorevolezza. Infine prevalse la soddisfazione
d'elencare i propri trionfi. Ogni parola fu uno stiletto fra le costole
per Myrcella.
-Tywin Lannister l'ho servito per primo, senza che abbia avuto nemmeno
il tempo di amministrare i suoi uomini. Mi sono premurato di staccargli
per bene la testa dal collo. Un lavoro sporco quanto appagante. Poi
la gemella troia. Come ultimo eroico gesto, ha tentato di mettere in
salvo la prole. Tenero, non trovi? Aveva persino un pugnale nel
corsetto, la baldracca. Le ho aperto la gola da parte a parte. A quella
è arrivato Jaime, il paladino ritardatario... cosa credeva
di
fare, con quel moncherino che si ritrova al posto della mano destra?!
Si è lasciato infilzare come un lattante. Sua sorella mi ha
dato
più filo da torcere di lui. Sfigato. Invece il
mostriciattolo
biondo è riuscito a fuggire, grazie alla sua amorevole
madre...
quasi quasi, vorrei che fosse sopravvissuta soltanto per ucciderla di
nuovo.-
-Smettila con questi commenti di cattivo gusto. Limitati ad esporre i
fatti.- tagliò corto Bran, visibilmente infastidito
dalla
tracotanza del fratello.
Rickon non gli diede retta. -Il mostriciattolo è scappato a
cavallo, insieme a quella ragazzina impubere di Loras Tyrell.
La puttana di Altogiardino invece al torneo non c'era:
altrimenti
l'avrei squartata come una scrofa e ti avrei portato il suo bastardo
nella bisaccia.-
Rendendosi conto che si stava riferendo a Margaery, la moglie di suo
fratello, incinta di otto mesi, Myrcella rabbrividì.
-Rickon, per l'amor del cielo!- Bran poggiò pesantemente il
capo nell'incavo del palmo, esasperato.
Quell'altro, indifferente, proseguì. -Nemmeno il Folletto
c'era.
A quanto pare è rimasto alla Fortezza Rossa.
Beh, sarebbe
stato troppo facile, se li avessi eliminati tutti in un sol
colpo: ne rimangono tre. Tommen Lannister. Tyrion Lannister. Il
bastardo nella pancia della Tyrell.- Rickon li numerò uno ad
uno
sulle dita. Poi la sua bocca si storse in un ghigno. -Ah, e poi
c'è lei, naturalmente.-
Indicò Myrcella con un cenno indolente del capo; la
fanciulla,
di riflesso, abbassò la testa come se si aspettasse un
manrovescio. Quanto in fretta s'impara la dottrina della paura,
pensò.
Il re del Nord a quel punto la osservò, le iridi -a celare
egregiamente i suoi pensieri- mosse in un gesto ponderato.
Sorvolò sull'aurea bellezza dei suoi boccoli scomposti,
sull'immacolata dolcezza della sua pelle denudata dall'abito logoro,
sulla soave armonia della sua figurina aggraziata, e
considerò
quella situazione che evidentemente non si aspettava. La scrutava con
lo stesso circospetto, biasimante disappunto con cui s'esamina le
vittime mietute da una calamità.
-Questo succede ad affidare un esercito ad un sedicenne assetato di
sangue.- commentò egli freddamente.
Sorprendentemente Rickon, per quanto fosse permaloso d'indole, si
limitò a sogghignare compiaciuto. Myrcella era quasi
incredula:
sedicenne? Soltanto sedici anni? Egli sembrava più grande
della sua
età, forse era per via dell'altezza. Il re del Nord
proseguì.
-Sarebbe stato meglio se ti fossi attenuto alle disposizioni e avessi
ucciso soltanto Tommen Lannister, ma va bene così. Gli altri
ovviamente non meritavano la morte meno di lui.-
Rickon s'imbronciò. -Allora, se non sei soddisfatto, la
prossima
volta vacci tu a combattere, invece di rifilare il lavoro sporco agli
altri e poi lamentarti!-
-Sai benissimo che se potessi lo farei...- Bran liquidò la
questione con un gesto seccato. -Tornando alla prigioniera, non credo
sia stata una buona idea. Perchè mai l'hai portata
fin qui? Hai intenzione di ricattare Tommen? Sarebbe una vana speranza.
Dopo tutti questi omicidi, è escluso che voglia sentir
parlare
di compromessi. Inoltre non è soltanto lui a prendere le
decisioni: il suo Consiglio gli proibirà tassativamente di
arrendersi ad una pace umiliante, per giunta a caro prezzo, per avere
indietro nient'altro che lei. È la stessa cosa che
avvenne con Arya e
Sansa...-
-C'è un'altra persona che non vuole sentir parlare di
compromessi, e sono io: non lo scordare mai più, Bran.-
ringhiò Rickon. -Niente ricatto, niente oro, niente pace. Me
la
sono presa io, quindi è mia e ci faccio quel che mi pare e
piace. Se muore, lo decido io. Se vive, lo decido io. E' chiaro?-
Il fratello non gradì quell'atteggiamento bellicoso. -Stai
attento a come parli.- lo avvertì a mezza voce.
-Indubbiamente, sei un vero gentiluomo, Rickon.-
Quella voce era nuova
a Myrcella: a parlare era stata la regina. Quando la giovane Lannister
spostò lo sguardo, vide il sorriso malizioso d'una ragazza
con
una nuvola di ricci fitti e castani, vaporosi intorno al viso.
Ciò che confortò appena Myrcella fu il fatto che,
per la
prima volta dopo quegli interminabili giorni, qualcuno la osservasse
senza rancore o diffidenza, o addirittura disgusto. Tutti quegli
sguardi affilati e ostili l'avevano ferita più dolorosamente
dell'accidentato terreno sotto i piedi scalzi. La regina invece la
guardava con indiscrezione, ma senza malevolenza, e per un attimo
Myrcella si ritrovò a sperare che l'avrebbe tolta da quella
situazione orribile. Ma naturalmente era un disperato vagheggiamento.
-Nessuno ha chiesto la tua opinione, mangiaranocchie.-
sibilò
Rickon, lanciando alla ragazza seduta sul trono un'occhiata scorbutica.
-E io te l'ho data lo stesso, vedi che discola?- ironizzò
lei.
Poi il sorriso si freddò in un'espressione più
torva che
le fece luccicare una nuova malinconia negli occhi, come se
un'ombra fosse calata lentamente sul suo viso. -Bran è
sempre il
tuo re, e un atteggiamento come questo gli arreca offesa. Se vuoi,
posso chiarirti il concetto in un altro modo.-
Rickon scoprì i denti: evidentemente non chiedeva di meglio.
Portava ancora la spada alla cintura. -Quando vuoi.-
-Basta, tutti e due!- Bran dischiuse un pugno, sollevando il palmo in
un gesto perentorio: comandò il silenzio ed esso
calò docile.
-Come possiamo pretendere di combattere una guerra, se ci scontriamo in
primo luogo fra di noi? Meera, non devi stare al suo gioco. Se lui ti
provoca, lascia correre. Rickon...- Per qualche istante,
ponderò
le parole sulla lingua. -Ognuno ha un suo ruolo qui, e forse devi
ancora capire qual è il tuo. Per quanto riguarda la
prigioniera,
invece...-
Myrcella, nell'udir scandire quella frase, abbassò il capo
per
evitare il suo sguardo. Quegli occhi le bruciavano la nuca. Quando non
li avvertì più su di sè, Myrcella
osò
alzare la testa; Brandon s'era voltato alla sua sinistra, a
cercare lo sguardo del ragazzo in piedi accanto al trono. Finora
Myrcella non vi aveva fatto caso: egli era alto, slanciato, con
ondulati capelli d'un biondo cenere che si perdeva nel castano miele;
era vestito d'una lunga e ruvida cappa verde, che ammantava la sua
intera figura fino alle caviglie, adagiandosi sulle sue spalle. Il
ragazzo trovò gli occhi del suo re, dove indugiò
per
pochi attimi; infine chinò appena il mento in un assenso
impercettibile.
-È deciso.- dichiarò allora Brandon Stark.
-Era già deciso da prima.- precisò Rickon,
dedicando
un'ultima occhiata minacciosa all'indirizzo del ragazzo vestito di
verde, che da parte sua non battè ciglio.
Myrcella credeva di sapere chi fosse quel giovane, ed
arrossì.
Suo nonno Tywin aveva parlato anche di questo, quando sproloquiava a
proposito del re del Nord: aveva utilizzato il termine sodomita, per
l'esattezza.
Rickon strattonò la fune e Myrcella, con gli occhi vuoti e
il cuore pesante, lo seguì senza azzardare una parola.
Quando il portone si chiuse dietro di loro, Meera si rigirò
sul
sedile di pietra fino a guardare per bene Bran negli occhi.
-È proprio necessario? Avanti, non hai visto com'era
terrorizzata? In
fondo, è soltanto una ragazzina. Che parte vuoi che abbia
avuto
nel complotto contro la tua famiglia? Probabilmente non ha neppure idea
di cosa sia successo...-
-Ciò non è sufficiente ad assolverla.-
replicò
Bran. -Non siamo stati noi a dare inizio a questa faida. Credi che a
qualcuno importasse l'innocenza di Sansa, quando è stata
trattenuta come ostaggio ad Approdo del Re? Credi che qualcuno si sia
fatto il minimo scrupolo nell'eliminare Arya in qualche modo che
nemmeno sappiamo? La moglie di Robb era una donna, era incinta, ed
è morta. Perciò, per quale motivo dovrei graziare
Myrcella? Non m'importa così tanto. Inoltre, non voglio
rischiare di complicare il mio rapporto con Rickon, che già
è quello che è, per colpa d'una Lannister... Se
mio
fratello vuole che Myrcella muoia, o che Myrcella diventi la sua
schiava sessuale, così sia.- Nel notare
l'espressione accigliata di Meera, Bran sospirò. -So che
l'idea
non ti piace, non credere che per me sia diverso. Però non
ho
l'arroganza d'affermare d'avere fatto la
scelta giusta. Solo quella più facile.-
La ragazza proseguì, indispettita. -Almeno non dirmi che sul
serio permetteresti a Rickon di strappare un bambino dal grembo di sua
madre!-
Il marito le rivolse uno sguardo indecodificabile. -Davvero vuoi che un
giorno arrivi un Lannister a Grande Inverno a uccidere
nostro figlio per vendicare suo padre? Io e Rickon siamo la prova
vivente che, quando si vuole sterminare una famiglia, bisogna
accertarsi che non vi sia alcun superstite.-
Meera annuì gravemente; la sua espressione
s'irrigidì
scomodamente all'altezza delle guance. -Capisco. Come vedi, Bran, nella
vita
tutta la sofferenza che elargiamo torna indietro a seppellirci.-
Bran distolse lo sguardo velocemente, quasi inquietato; invece
Jojen
Reed fissò molto a lungo e molto intensamente sua sorella,
senza
dare a vedere se fosse pensieroso o preoccupato, quasi le scavasse la
mente alla ricerca di quella verità ch'aveva omesso.
Intanto, Rickon trascinava Myrcella nelle viscere della Terra. Scendeva
i gradini in fretta, furiosamente, e la fanciulla barcollava
atterrita, incapace nel buio di vedere dove metteva i piedi. Infine la
rampa di scale avvolta su sè stessa terminò e vi
fu solo
il terreno accidentato d'un sotterraneo. D'un tratto il giovane Stark
si fermò e cominciò ad armeggiare, causando un
frastuono
sconclusionato di ferraglia; Myrcella rimaneva con il fiato sospeso, ad
aspettare il suo destino. Poi le braccia forti del suo rapitore la
spinsero in avanti -dentro ad una cella, a quanto sembrava.
Rickon chiuse la porta dietro di sè, in uno
schianto di metallo arrugginito. Rimase
fermo, immobile, quasi ad aspettare qualcosa. Myrcella aveva le viscere
contorte nello stomaco.
Quando il ragazzo si voltò, con un sorriso sospeso sulle
labbra che svelava i canini triangolari, lei capì.
-Dov'è finito l'onore degli Stark?- sussurrò, in
un
soffio di voce esile come un petalo di soffione. Rickon la
afferrò per il fragile pezzo di stoffa che ancora le cingeva
il seno, traendola a sè, saccheggiando il suo fiato.
-Già, dimmelo tu. Dov'è finito? L'avete
calpestato tutti
quanti sotto le scarpe, l'onore degli Stark.- ringhiò
sottovoce.- Non osare ripeterlo, non osare mai più: non
posso
sopportare la
parola onore
sulle labbra d'una Lannister.-
E, proprio come se volesse succhiarle via quella parola di bocca,
strappargliela dalla carne, vi si
avventò con efferato impeto. Fu l'impatto con il fondo d'un
precipizio.
Myrcella realizzò cosa sarebbe successo e deglutì
a
fatica. Non si era mai sentita finora piccola, vulnerabile e sola come
in quel momento, invasa da un calore selvaggio che le scottava l'anima.
A Rickon bastò lasciar scivolare le unghie sul fianco
sinuoso di
lei ed il tessuto sbrindellato cadde a terra, lasciandola completamente
nuda e bianca. Non v'era più nessuna difesa a dividerla -a
preservarla- dalla cruda essenza di quegli occhi diafani. La bocca di
Rickon la possedeva gradatamente, si prendeva tutto il tempo per
gustare il suo corpo e sorbire il suo panico, a leccare via la pelle
d'oca dalle sue braccia, ad azzannare i suoi tremiti per frenarli.
Strofinando le labbra contro di lei, mordendole i capezzoli fino a
farli sanguinare, sorrideva ancora.
-Non ti verrà mica da piangere, vero?- Poco più
d'un
graffio roco, un istante prima di affondare violentemente fra le sue
cosce, tentando di estorcerle un gemito di dolore -sfidandola a
soffrire.
Myrcella non distolse mai gli occhi dai suoi -nemmeno per un istante.
Note dell'Autrice: Salve salve! Ecco qui il primo capitolo. Mi ci sono
impegnata parecchio, quindi spero che sia ben riuscito! Nel caso in cui
Bran sia risultato inquietante, Meera incazzata, Tommen un povero
cucciolino
e Rickon una magnifica, fottuta carogna, allora sì, il
capitolo
è ben riuscito. ^-^ Caspio, quanto amo Rickon. Bran di
più, ma abbastanza anche Rickon.
Come avete avuto modo di osservare, Rickon ha fatto la sua plateale
entrata in scena! XD Nel vero senso della parola, con tanto di porta
sfondata. E questo è l'inizio di tutto, ovvero un certo
torneo
tenuto a Runestone -ho cercato su Internet: è una
città
vicino alla Valle di Arryn dove già in passato si
è
svolto un torneo- che poi è finito in tragedia, almeno in
tragedia per i fan dei Lannister. Per quanto mi riguarda, Starks 'til
death, ragazzi. Cioè. Non è che abbia una
predilezione
per i moralisti, eh, tutt'altro! Però i Lannister sono
noiosi e
si incavolano per niente e sì, se le vanno a cercare col
lanternino. Dài, qualche Lannister doveva morire pur! Della
serie: Rickon passa subito ai fatti (*-* lasciatemi sbizzarrire coi
doppi sensi, per favore!). Allora mi sono sbarazzata dei Lannister che
più mi intralciavano nello svolgimento della storia.
E sì, avete capito bene: Bran e Meera hanno pure un figlio
(piccolino piccolino, eh!), di cui si accennerà meglio nel
prossimo capitolo. Adesso, io ho sentito molti dire cose tipo che Bran
in seguito alla caduta non può più avere figli,
ma dato
che nel telefilm nessuno lo dice chiaramente (e che deve darsi moooolto
da fare con Jojen...) e che non deve essere per forza vero, e che a me
gira così, faccio finta di niente.
Concludo qui. Volevo solo ringraziare chi ha messo questa storia fra le
preferite/ricordate/seguite, chi ha recensito il prologo e chi ha letto
questo lungo capitolo! Vi preannuncio che nel prossimo si
riparlerà ovviamente di Rickon e Myrcella, Sansa
entrerà
in scena e... ci scapperà un pelino di slash. XD
Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate, circa i personaggi e le
vicende o robe del genere! Grazie ancora a tutti, al prossimo
aggiornamento!
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Grigio fu il richiamo. ***
note varie
II. Grigio fu il
richiamo.
A Robin Arryn non era mai piaciuto occuparsi degli affari di corte,
Alayne lo sapeva bene. Però questo era ormai divenuto un suo
obbligo da quando l'esile
bambino dai grandi occhi castani e le spalle gracili, che si
raggomitolava pigramente al fianco di sua madre, era diventato un alto
e
smilzo adolescente di carnagione cerea
e costituzione linfatica.
-E chissene frega di quel che dice uno stupido
architetto! Io voglio un vero
parco degli dei quassù: con gli alberi e tutto. Non mi
importa
come, ma lo
voglio avere. In che maniera lo si debba costruire, sei tu
che te ne occupi. È il tuo lavoro, no? Arrangiati.- Robin
tirò
su con il naso furiosamente, infastidito dall'influenza che gli
inumidiva le narici. -Scommetto che con mio padre non facevate tutte
queste storie, per obbedire ai suoi
ordini...-
Mentre parlava, tormentava con le lunghe dita affusolate gli zaffiri
incastonati sui gemelli della sua giacca; le sue mani bianche e magre
erano perennemente in movimento, in una specie di riflesso nevrotico.
-Nel giardino ci voglio anche una statua in marmo del Cavaliere Alato:
sì, una bella statua. E sulla base dev'esserci scritto: in alto quanto l'onore.-
Robin contemplò l'ipotesi
per qualche istante, poi parve scartarla, aggrottando le sopracciglia
rade. -Che poi, non ho mai capito questo motto. Voglio dire, in alto
cosa? Io? Io sono già in alto. Io sono più in
alto di
tutti quanti. E posso schiacciarli quando mi pare.-
Un lucido ciuffo di capelli neri come la piuma di un corvo gli
carezzava delicatamente l'attaccatura del naso. Il viso d'avorio era
minuto, con lineamenti graziosamente modellati, ma la pelle
membranacea, il profilo vulnerabile e le palpebre -che talvolta
tremavano convulsamente- richiamavano senza
fraintendimenti l'idea della malattia. Il ragazzo era avvolto dalle
spalle ai piedi in un mantello pesante color indaco, dal quale
emergevano i polsi ossuti e le dita agitate. La sua figura elevata sul
trono quasi lampeggiava a intermittenza nel pulviscolo
dell'aria,
poco più d'una apparizione
spettrale; i capelli di bluastra oscurità erano l'unica nota
davvero vivida.
Fu a quel punto che Alayne entrò nella sala.
-Buongiorno, mio signore. Spero che abbiate riposato bene questa notte;
è caduta molta grandine, l'ho udita distintamente.-
Sollevò lo
sguardo ad incontrare quello del marito, seduto sul suo trono di legno
intagliato a forma d'ala d'aquila, a dondolare distratto una delle
gambe snelle. Robin sgranò gli occhi sporgenti, mentre un
sorriso enfatico ed
esclamativo stiracchiava le labbra sottili, ed il suo volto dalle
efebiche fattezze e dall'anemico pallore s'accendeva tutto.
-Giungi a proposito, Alayne! Stavo parlando del parco degli
dèi
da costruire, chè tu possa pregarci come facevi a casa tua.
È
un pezzo che ti aspetto, sai? Stavo proprio crepando di noia
senza di te, e ti perdono solo perchè sei meravigliosa con
quel vestito. Lo sei sempre, in effetti.-
Alayne piegò di rimando le labbra, soavemente, abituata al
petulante modo d'esprimersi del ragazzo -talvolta isterico, talvolta
euforico, ma sempre sul ciglio dell'irragionevolezza. Ella portava un
abito composto da una sottoveste di broccato damascato blu, sopra la
quale s'intrecciava la trama d'un corpetto e scendevano con sinuosa
morbidezza delle ampie maniche a losanga color crema, che pendevano
fino alle ginocchia: blu e crema, i colori della casa
Arryn. Lo scollo esponeva un'abbondante porzione del petto immacolato,
nonchè le delicate clavicole e la curva del collo slanciato.
Alayne sapeva quanto a Robin piacesse quel vestito -che, con la sua
tonalità cobalto, metteva in risalto la nivea
luminosità del viso a forma di cuore, la mitezza degli occhi
chiari, il disegno impeccabile degli zigomi e delle guance.
-Ser Lothor!- s'interruppe Robin di colpo, voltando di scatto la testa
in un'altra direzione. -Non pensi anche tu, che mia moglie sia
meravigliosa con questo vestito?-
Lothor Brune, capo delle guardie, confermò condiscendente.
-Ma certo, mio signore.-
-Vedi che lo pensano tutti? - annuì il lord, soddisfatto.
Infine la
sua fronte s'increspò, al pari della superficie d'un lago
infranta da un sasso, che generi mille cerchi concentrici a disperdersi
uno dopo l'altro. -Quella sciocca grandine non avrà mica
turbato
il tuo sonno?-
-Niente affatto, mio signore, ma è stato davvero premuroso
da
parte tua preoccupartene.- Alayne si avvicinò al trono e
trattenne con una mano le gonne, che frusciavano delineando i movimenti
delle sue cosce. -Cosa ho
interrotto?-
-Niente.- tagliò corto Robin, tediato. -Stavo spiegando a
questi
idioti che devono inventarsi qualche maniera per piantare gli alberi
quassù... Ma credo che a questo punto
rimanderò. Oggi sono stufo. Uscite, avanti! Uscite tutti.
Andatevene. Mi avete stufato.-
Schioccò le dita e tutti gli artigiani fatti convocare,
tutti i
ministri di palazzo si dispersero, rapidi come un nugolo di topolini.
Quando la sala fu colmata soltanto dalla luce che le finestre
ad
arco filtravano limpidamente, Robin le fece cenno con la mano di
raggiungerlo ed ella obbedì lesta e docile, scostando l'orlo
delle voluminose gonne per scoprire i piccoli piedi, calzati in
stivaletti con le stringhe, e salire i gradini: egli
l'attirò a
sè e le
baciò le labbra.
-Ti sei svegliata presto?- domandò, attorcigliando attorno
al
dito una ciocca dei suoi lunghi capelli, castani come la pelliccia
d'una lontra.
-Io mi sveglio sempre presto, mio signore.- La moglie gli si sedette in
grembo, come lui ordinò perentoriamente con un gesto.
-Ti ricordo che dopo pranzo dobbiamo procedere con il giudizio dei
detenuti...-
Tutti nella valle di Arryn erano a conoscenza del fatto che lord Robin
voleva occuparsi personalmente dei condannati, per decidere se
costringerli ad una semplice pena pecuniaria oppure... se farli volare. Gli
occhi di Robin s'animarono ed egli divenne ancora più
raggiante.
-Ma sul serio? Me l'ero persino scordato.- Allungò
sornionamente
le gambe davanti a sè. -Il giudizio è il nostro
gioco
preferito, non è vero, Alayne?-
-È vero, mio signore.- Alayne sorrise complice, poi si prese
qualche secondo prima di cambiare argomento. -Posso porti una domanda
che non ti piacerà?-
Robin storse il naso, irritato da quella premessa. -E quale sarebbe?-
-Perchè non vuoi più che il Maestro Colemon ti
faccia i
salassi? Siamo tutti molto preoccupati per la tua salute, mio signore.
I salassi, sì, sono un po' dolorosi, ma ti fanno guarire...-
-I salassi non servono a niente.- borbottò Robin, con il
tono di
chi ritiene l'argomento chiuso. -Me ne hanno fatti centinaia, nella mia
vita, e mi sono sentito sempre più debole e basta. Odio i
salassi, e odio anche il Maestro Colemon. È un vecchiaccio e
sono
contento che fra un po'
creperà e lo sostituiremo, magari con
qualcuno che non mi dice di fare i salassi...-
Alayne trattenne un sospiro. A volte suo marito si comportava
esattamente come il bambino che era otto anni prima; come prova,
bastava il fatto che adorava infilare il verbo crepare nelle proprie
frasi almeno tre volte al giorno, proferito con sogghignante sprezzo.
-Se non vuoi farlo per il tuo bene, fallo per il mio. Ti supplico, non
farmi passare notti tormentose al pensiero che potresti peggiorare...
Non
facendo i salassi, rischi di stare ancora più male, anche
di...-
-... morire?- completò Robin al posto suo. Il suo viso si
fece
torvo, e Alayne capì di avere usato le parole sbagliate. Con
Robin, era questione di misurare i toni ed azzeccare il termine adatto,
ma non era semplice intuire in anticipo quale potesse essere. -Tutti
gli abitanti di Nido
dell'Aquila hanno pensato almeno una volta che non avrei superato i
dieci anni, Alayne. Invece io sono ancora qui. Io non sono morto! Io
sono vivo! Io sono vivo come tutti voi, e sarò l'ultimo a
morire, te lo giuro. Io sono qui, sono il lord, e sono vivo! Vivo!- Robin
sbattè un pugno contro il bracciolo del trono e la sua voce,
non
tanto potente ma parecchio acuta, s'infranse con gran fragore contro le
pareti di marmo latteo. Il suo volto era irrigidito dalla rabbia e le
mani gli tremavano vistosamente; una realtà deforme
ma
ipnotica, dalla quale egli invano cercava di distogliere lo sguardo,
gli dilatava le pupille come specchi d'ossidiana. Alayne, spaventata,
si
affrettò a prenderle fra le proprie ed a baciarle in fretta.
-Non ti agitare, mio Pettirosso, sai che così ti vengono gli
attacchi! Ti prego, calmati... Dimentica quello che ti ho detto.- si
arrese infine, pur di rasserenarlo. -Non farai i salassi, se non vuoi.
Però adesso respira a fondo e guardami...-
Robin obbedì. I suoi occhi marroni, così teneri e
fragili, sussultavano in quelli della moglie come un cuore in tumulto.
Quando Alayne sorrise, rassicurante, Robin espirò lentamente
e
poi deglutì nervoso.
-Va meglio?- chiese lei sollecita. Come risposta ebbe un debole cenno
affermativo.
La morte aveva giocato a nascondino con Robin dal giorno della sua
nascita. Ogni
tanto, quando gli venivano gli attacchi o la febbre, tutti
bisbigliavano pianissimo il nome di quella, di
quella che lui non aveva mai visto; quando egli chiedeva chi fosse,
nessuno
osava rispondergli. Poi un giorno sua madre gli aveva annunciato
piangendo che quella era
tornata e aveva portato via suo padre, in qualche posto che solo quella conosceva;
quando Robin proponeva di andarla a cercare, tutti inorriditi
scuotevano la testa. Infine Lysa. Era rimasta a letto per giorni e poi,
all'improvviso, la notizia: quella
era passata a prenderla proprio durante la notte. Com'era possibile?
Robin non l'aveva nemmeno sentita
mentre saliva le scale. Ma
se Nido dell'Aquila era inespugnabile, allora quella come aveva fatto ad entrare?
Ancora silenzio, e ancora le stesse parole sussurrate di nascosto, che
presto la morte
avrebbe reclamato anche l'ultimo membro della famiglia.
Ma ogni volta che Robin credeva di essere sul punto d'incontrarla,
assalito da un
attacco terribile, non appena riusciva già ad intravederne
la sagoma
in lontananza, nel momento in cui quelle grinfie avanzavano a
stringergli la mano, allora egli si sentiva meglio e quella
scappava via, senza lasciare tracce. Era talmente timida, talmente
codarda, che non aveva ma avuto il coraggio di presentarsi davvero, ma
solo d'annunciare la sua venuta ogni tanto, di far presagire il suo
arrivo, per poi disdire e rimandare.
A quel punto le porte della sala del trono d'aprirono. Era Petyr
Baelish, un tempo marito di Lysa Tully, rimasto a corte in
quanto
padre di Alayne.
-Perdonate questa deplorevole intrusione, miei cari. È
arrivata una
lettera da parte del re in persona.- Sollevò la busta che
stringeva in mano, chiusa con il sigillo reale. -Robin, sei disposto a
dedicarci un istante d'attenzione?-
Robin lo squadrò dubbioso, non particolarmente
interessato, ma seppur controvoglia annuì. -Sapevo che prima
o
poi sarebbe arrivata. Leggila, lord Ditocorto... per favore.- aggiunse
infine, memore della cortesia che gli doveva.
L'uomo strappò la busta e dispiegò il foglio al
suo
interno; dopo aver tossicchiato con fare d'importanza,
iniziò.
-"A Robin della nobile
casa Arryn,
lord di Nido dell'Aquila, Difensore della Valle,
Protettore dell'Est, da Tommen della nobile casa Baratehon,
primo
del suo nome, Re degli Andali, dei Rhoynar e dei primi uomini, lord dei
Sette Regni"... o meglio, da Tyrion Lannister il
folletto.- precisò Baelish, storcendo la bocca in una
smorfia sarcastica. -"Sua
Maestà il re pretende spiegazioni riguardo il passaggio
dell'esercito di Brandon Stark attraverso i territori di competenza di
lord Robin Arryn e l'attacco a Runestone, anch'essa città
che
lord Robin Arryn, in quanto Protettore della Valle, avrebbe dovuto
difendere. La missione dell'esercito del Nord era uccidere sua
Maestà il re, perciò il permesso di passaggio
può
essere da Sua Maestà inteso come complicità verso
i
traditori della corona e, di conseguenza, come tradimento. A meno che
lord Robin Arryn non esponga valide ragioni rispondendo alla qui
presente lettera entro otto giorni, Sua Maestà il Re
dichiarerà
guerra. Firmato: Tommen della nobile casa Baratheon", eccetera
eccetera.- Ditocorto piegò il foglio a metà e
sorrise.
-Naturalmente, ho già scritto una lettera di risposta...
Posso
sottoportela?-
Robin fece un cenno di sì, continuando a giocare con i
capelli di Alayne.
-"A Tommen della nobile
casa Baratheon," eccetera eccetera, questa parte la
sappiamo tutti a memoria. "Lord
Robin Arryn fa presente a sua Maestà il re che non ci
sarebbe
stato il tempo materiale di riunire un numero sufficiente di
contingenti, tenendo conto delle proporzioni dell'esercito degli Stark,
e che le Montagne delle Luna sono luoghi estremamente difficoltosi da
attraversare. Era impossibile prevedere l'attacco in tempo utile.
È risaputo inoltre che la casata Stark di recente ha
dimostrato di aver sviluppato poteri fuori dal comune di eccezionale
letalità, contro i quali nessun comandante vorrebbe avere a
che
fare,
non conoscendo neanche la loro natura. Lord Robin Arryn non intende
schierarsi dalla parte dei traditori, in quanto fedele al Trono di
Spade, ma nemmeno contro di loro, in quanto
condivide del sangue con la casata Stark. Lord Robin Arryn assicura
inoltre che non prederà parte alcuna alla ribellione in
nessuna
maniera e che la fedeltà della Valle di Arryn
rimarrà a Sua Maestà
il re." Cosa ne pensa?-
Robin sbadigliò. -Va bene così, immagino. Mettici
pure il sigillo, e firmala... Robin
della nobile casa Arryn, lord di Nido dell'Aquila, Difensore della
Valle, Protettore dell'Est. Visto,
Alayne? Abbiamo risolto tutto. Quell'idiota di re pensava davvero che
avrei portato la Valle in guerra?! È davvero così
scemo?-
Ridacchiò sprezzante fra sè. -Non voglio
immischiarmi
nelle loro zuffe. Se ho lasciato passare quei cugini barbari che ho
è stato soltanto perchè me lo hai consigliato tu,
Alayne,
però non intendo alzare un dito per risolvere i guai in cui
si
stanno cacciando... com'è giusto. Io devo pensare al bene
delle
mie terre, e di mia moglie. Ora non verranno più ad
importunarci, e potremmo vivere come abbiamo sempre fatto... solo tu ed
io.-
Alayne fece segno di sì e gli baciò la fronte con
le labbra fresche. -Non potrei chiedere di meglio, mio signore.-
-Sì, invece.- replicò il marito, esitando un
istante. -Un
bambino, per esempio. Che si chiami Artys. Artys, come il Cavaliere
Alato.- decretò, compiaciuto.
La fanciulla arrossì pudicamente ed abbassò il
capo. -Tutto a suo tempo, se gli Dei vorranno.-
-Mi dispiace interrompere questa stucchevole scenetta familiare,-
intervenne Baelish, con un sorriso salace, -ma temo che non proprio
tutto sia risolto. Anche i Royce hanno mandato una lettera, ma molto
più eloquente e minacciosa di quella del re. Chiedono il
motivo
del mancato soccorso, ovvio.-
-Invia una risposta quasi identica, spiega le stesse ragioni anche ai
Royce, e dì che presto manderò degli uomini per
curare i
feriti e riparare i danni.- Robin liquidò la questione con
un
cenno della mano, noncurante. -E fallo al più presto, lord
Ditocorto.-
-Come comandi.- Baelish cercò gli occhi di Alayne. -Potrei
parlarti un secondo, cara? Vieni pure a fare quattro passi con me, dato
che devo spedire la lettera.-
Alayne s'alzò e s'aggiustò le gonne, rassettando
la
stoffa con le dita. -Tornerò al più presto, mio
Pettirosso, promesso. Non ci metterò molto.-
Robin dissimulò il malcontento e seguì la loro
uscita con lo sguardo, con
un'indefinibile presentimento negli occhi. Sapeva, sì, che
quei
due gli avevano sempre nascosto un segreto: ma, data la luminosa
amabilità di Alayne, non poteva che essere un segreto buono.
Appena la porta si chiuse alle loro spalle, Ditocorto
intrecciò le
dita dietro la schiena.
-Hai pensato a cosa hai intenzione di fare?- domandò senza
preamboli.
Sansa Stark sospirò indecisa. -No, non ci ho pensato per
nulla, in verità.-
Temeva il momento in cui avrebbe
dovuto affrontare quella domanda. Da quando, otto anni prima, lord
Baelish aveva salvato lei, ancora tredicenne, dalla prigione ch'era la
Fortezza Rossa, dall'aguzzina ch'era Cersei Lannister e dal marito
Tyrion, la sua vita era stata quell'indolente successione di giornate
uggiose a Nido dell'Aquila; semplicemente, Baelish le aveva chiesto se
desiderava fuggire
con lui lassù, dove egli stava andando per sposare Lysa
Tully, la vedova di Jon Arryn; il trucco sarebbe stato approfittare
dello scompiglio a corte causato dall'accidentale morte di Joffrey,
avvenuta in seguito ad una caduta da cavallo. Sansa aveva accettato e,
dopo essersi
tinta i capelli di castano, era diventata Alayne Stone, la figlia
bastarda di Ditocorto -era stato quello l'espediente grazie al quale
nessuno era riuscito a scoprire dove Sansa si trovasse. Dopotutto,
nessuno degli abitanti di Nido dell'Aquila aveva mai visto la figlia di
Eddard Stark, in modo tale da fare confronti; d'altro canto, chi si
sarebbe avventurato sulla montagna per scoprire quale fosse il volto di
Alayne? Cersei Lannister no di certo. E, se per assurdo la notizia
fosse dilagata per i Sette Regni, Nido dell'Aquila era inattaccabile.
Là, Sansa era stata come in una botte di ferro.
-Ma tu cosa ci guadagni, in tutta questa storia?- aveva domandato la
ragazza, diffidente, incredula davanti a tanta generosità.
-Per la figlia di Cat, questo ed altro.- aveva risposto lui, sibillino.
Alayne Stone aveva sposato Robin Arryn sempre sotto suggerimento di
Ditocorto.
-Se i tuoi fratelli risultassero effettivamente morti, quando si
presenterà l'occasione racconteremo la verità a
Robin e
lo spingeremo a reclamare diritti su Grande Inverno. Così tu
potrai tornare a casa tua e ricostruirla proprio com'era prima. Nel
frattempo, un matrimonio con lui ti proteggerà da qualsiasi
pericolo.- aveva spiegato. Sansa, fidandosi ormai dei consigli di lord
Baelish, commossa da quel pensiero, aveva accettato. Certo, Robin era
malaticcio e molto più giovane di lei, ma -nonostante le sue
innegabili stranezze- non era un ragazzino cattivo. Era ammaliato da
lei come solo un bambino di otto anni può essere e, oltre a
volerla sempre accanto a sè, pendeva dalle sue labbra e la
viziava alla follia. Se soltanto lei l'avesse chiesto, Robin avrebbe
raso al suolo Nido dell'Aquila ed avrebbe eretto un castello di nuvole
al suo posto. Durante i primi due anni, lady Lysa aveva reso dura la
vita ad Alayne, ripetendole continuamente quanto fosse fortunata ad
avere Robin come sposo e criticandola per qualsiasi inezia, quasi
gelosa dell'intesa -da entrambe le parti priva di alcuna malizia- che
s'era venuta a creare fra i due. Poi, purtroppo, una brutta influenza
s'era portata via la povera Lysa, e anche quell'ultimo impaccio era
svanito. Sansa tutto sommato era contenta della sua nuova vita,
ripensando all'inferno ch'era stato la Fortezza Rossa, però
le
sue intenzioni erano quelle di tornare a casa; quando ormai cominciava
a disperare che ciò potesse accadere, successe
l'incredibile:
Brandon Stark tornò al Nord.
-Non vedo che dubbi tu possa avere.- stava dicendo Baelish, a voce
bassa ed affrettata. -Ci inventiamo una scusa qualsiasi
con Robin per scendere a valle e prendiamo la strada del re, prima che
scoppi la guerra e il viaggio diventi molto più pericoloso.-
Sansa scosse la testa, inquieta, quasi che le sue orecchie udissero
mille minacce sottili. -Sai che non me lo permetterà mai.
Non
vuole che abbandoni il suo fianco nemmeno per un secondo.-
-Allora fuggiamo di nascosto! Sarà molto più
facile di
quanto credi.- insistette l'uomo. -Diamo una bella coppa di latte di
papavero a Robin e...-
Fu a quel punto che Sansa sbottò, divorata dai rimorsi,
permettendo alle parole di precipitarle sulla lingua. -Non posso
piantarlo in asso così, capisci? Ho vissuto otto anni
con lui, Petyr. È diventato un po' parte della mia
famiglia...-
Baelish la fissava negli occhi con un'espressione che la ragazza,
sebbene lo conoscesse da un pezzo, non seppe classificare, ma che
assomigliava molto al rimprovero.
-Significa che non vuoi ritornare a Grande Inverno? Che non vuoi
riabbracciare i tuoi fratelli?!- Le sue parole suonarono come
un'accusa.
-Certo che lo voglio!- protestò Sansa, schermandosi con un
cenno
stizzito delle mani. -Ma comunque Robin mi ha accolta, e odio l'idea di
trattarlo in così malo modo. Poi è mio
marito... più o meno, cioè, è il
marito di Alayne,
ma io sono anche
Alayne, non solo Sansa, e quindi ho dei doveri nei suoi confronti.-
La risposta fu velenosa. -Gli stessi che avevi nei confronti del
Folletto, intendi? Non mi sembrasti così riluttante,
però, quando ti proposi di scappare da lui...-
E la replica fu gelida. -Le circostanze erano molto diverse, lo sai.
Fui costretta a sposare Tyrion Lannister contro la mia
volontà.
Invece Robin mi ha concesso una vita serena e un rifugio sicuro, dopo
tutte le cose terribili che sono successe alla mia famiglia.- Sansa
lanciò un'occhiata nostalgica fuori da una finestra, ad
osservare il disegno delle nuvole. -Avevo talmente tanto bisogno di
sicurezza, otto anni fa, che arrivare qui mi alleggerì il
cuore.
Mi sentivo a casa, anche se nel profondo mi rendevo conto che Nido
dell'Aquila non lo era.-
-Allora fai come ti pare. Rimani quassù tutta la vita con il
tuo
Pettirosso, a ripopolare la Valle di tanti piccoli cavalieri alati. Ti
va più a genio così?- ribattè a quel
punto
Ditocorto acidamente, impermalito. Sansa avvampò
furiosamente,
d'imbarazzo e dispetto, ed alzò incautamente la voce.
-Sei un imbecille! Come puoi non capire il mio punto di vista, e per
giunta
proporre un piano tanto infame?! A parte me, Robin è solo al
mondo.- Sansa assunse
un'espressione mesta e i pomelli rosa sulle gote le scaldarono il viso.
-Lui... mi vuole bene. Ed è così fragile. Se lo
abbandonerò anche io, ne sarà
distrutto.-
Fra loro calò il silenzio. Sansa attese trepidante che
l'amico
rispondesse qualcosa, qualsiasi cosa: le dispiaceva litigare con lui,
ma a volte esagerava davvero. Capitava ch'egli si comportasse come se
non avesse un cuore, anche se non era affatto così -e si
capiva
dal semplice fatto che l'aveva salvata da Approdo del Re. Possibile che
non avesse un po' di pietà per quel povero ragazzino, orfano
e
malato? Sansa inoltre era delusa dalla di lui reazione e dalle
offensive parole che le aveva riservato. Non si aspettava di certo che
Baelish si sarebbe infastidito tanto. Dopotutto era legittimo avere dei
sensi di colpa, all'idea di fare un torto ad un benefattore, no? Robin,
poi, le aveva da sempre ispirato molta compassione; forse soprattutto
per il fatto che, benchè facesse i capricci ed urlasse per
farsi
sentire, la sua salute e la sua psiche erano così
cagionevoli.
In quei pochi anni, mentre lei era rinchiusa nell'apatica beatitudine
di Nido dell'Aquila, Bran si era sposato, era diventato re, aveva
generato un figlio. Rickon aveva sterminato i Lannister -oh, Sansa non
riusciva a dispiacersi per nessuno di loro, ormai colpevole o innocente
erano parole false, parole odiose. Queste notizie le avevano causato
una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco, quella di essersi
persa troppe cose. Il solo pensiero di Arya, poi, era un dolore fisico:
era quasi contenta di non aver scoperto quale fine orrenda avesse
fatto, perchè in una realtà ideale la sua
sorellina era
ancora viva, il coraggio era bastato a salvarla. Ma era un'illusione
troppo amara per goderla come una speranza, e Sansa era stanca di
colmarsi la bocca di sabbia.
Baelish sospirò estenuato. Nei suoi occhi scuri s'aggirava
una
malinconia antica, come il riflesso lontano del guizzo d'una candela
spenta da tempo.
-A volte dimentico quanto assomigli a tua madre, da questo punto di
vista.- commentò infine, scuotendo la testa con
disapprovazione.
Poi alzò la testa ed incontrò il suo sguardo,
terso e
angosciato. -Non c'è più tempo per indugiare.
Trova una
risposta
definiva, e bada bene: definitiva significa che varrà per
sempre. Devi decidere, una volta per tutte, se vuoi essere Sansa Stark
o Alayne Stone. Conosci le regole, ora, vero?-
Sansa non annuì nemmeno. -Quando scopri quello che una
persona
vuole,- mormorò, -capisci anche chi è e sai come
farla
muovere.-
Baelish sorrise, uno di quei sorrisi sferzanti che sanno di lama che
penetra nella carne. -Immagino che tu sia pronta. Benvenuta nel mondo
dei giocatori, dunque.-
Lei non rispose al sorriso.
***
Quando Bran finalmente potè scivolare dal dorso di Estate al
letto di Jojen, era ancora incredulo di sollievo all'idea che quella
dannatissima giornata fosse ormai moribonda fuori dalle finestre,
ch'essa stesse tossendo nel cielo le sue ultime gocce di sangue, e che
ormai non fosse più in grado di ghermirlo con i suoi artigli
-perchè egli ormai era con Jojen, e nulla di brutto sarebbe
potuto succedere.
-Non so più che cosa devo fare con lui. Non riesco a
instaurarci
un dialogo: io non capisco le sue ragioni e lui non capisce le mie. A
volte sembra che lo faccia apposta, per aggravare la situazione, o...
per farmi saltare i nervi. Altre volte, sembra che mi odi.-
Dopo aver bofonchiato queste parole Bran s'adagiò fra i
guanciali, che si sformarono dolcemente sotto il suo peso, e
s'abbandonò all'abbraccio serico delle lenzuola. In seguito
ad una
giornata passata su un sedile di pietra, la sensazione era inedita e
deliziosa; ma il silenzio lo distrasse, ed egli sollevò le
palpebre indolenti alle ricerca di Jojen. Il ragazzo sedeva
all'imponente scrivania di mogano posta contro la parete della stanza,
dando le spalle al letto, e -ogni tanto con l'ausilio di una lente
d'ingrandimento- stava trascrivendo la pagina logora di un volume
antichissimo, che scricchiolava pietosamente al solo sfiorarlo. A Bran
bastava guardarlo per sentir dentro di sè passare tutta la
voglia di aprire un altro libro in vita propria. Credeva che il suo
consigliere fosse troppo concentrato nel suo lavoro e che non avesse
udito, ma dopo pochi istanti egli parlò.
-Rickon non ti odia, questo non è altro che un tuo chiodo
fisso.
Tuo fratello prova rabbia: non necessariamente per te, nè
più di tanto per i Lannister. Sente solo un gran bisogno di
distruggere tutto quel che gli si para davanti. Città,
convenzioni... persone. Per dare un senso al suo comportamento si
aggrappa al pretesto della vendetta contro i Lannister, ma in
realtà non gli serve nemmeno un buon motivo. D'altronde, che
buon motivo aveva il destino per radergli al suolo la casa quando aveva
sei anni? Rickon vuole fare del male, Bran. Ma non gli importa a chi.-
Bran soffiò dalle labbra tutta la preoccupazione che gli
comprimeva il petto, salvo poi realizzare che s'era gonfiata ed espansa
di nuovo, come un bolla di sangue da una ferita nuova.
-Se questo era lo scopo, ti avverto che non mi stai consolando
granchè.-
-Qualcosa mi dice che ti sarà più d'intralcio che
d'aiuto, in questa guerra.- commentò Jojen, scorrendo
rapidamente un paragrafo con gli occhi.
-Quel qualcosa lo sta dicendo anche a me.- ribattè Bran,
inquieto, sprimacciando un cuscino. -Ma come potevo prevederlo? Quando
l'ho fatto richiamare a Grande Inverno, non immaginavo certo che
fosse diventato un... un...-
-... folle, animalesco, intrattabile selvaggio?- suggerì
Jojen, apatico. Bran, dopo qualche istante d'esitazione,
annuì; il giovane Reed proseguì, tenendo la piuma
in sospeso sopra la pergamena.
-Io lo vidi in sogno, circa un anno fa, prima che arrivasse; avevo
già assistito alla scena del vostro incontro, anche se non
te ne
accennai. Ad ogni modo, era inevitabile che tu lo richiamassi a corte.
Non saresti mai riuscito a liberarti di lui semplicemente ignorandolo
in eterno e lasciandolo su quell'isola. Il passato ritorna,
perchè i suoi occhi sono nel presente e la sua spada
è già al futuro.-
-Se magari si comportasse ragionevolmente, visto che ormai non
è
più un barbaro su un'isola sperduta, non sentirei la
necessità di mandarlo via. Se magari si sforzasse di
rendermi le
cose più facili, anzichè di complicarle...- Il re
lasciò che la frase librasse nell'aria ed esalasse un
presentimento di malinconia. I suoi occhi, come grandi
cavità
svuotate di dolore fino all'osso, si perdevano a seguire la trama della
semioscurità; la frangia di capelli castani ombreggiava il
volto
diafano alle luce tremante delle candele.
Jojen, con un movimento accurato, intinse la piuma nel calamaio. Non
sollevava lo sguardo dal lavoro a cui era intento. -Credevo che ormai
ti fossi avvezzato all'idea che nella tua vita
probabilmente non ci sarà mai più qualcosa di
facile.-
Bran riprese a seguire il flusso dei suoi pensieri, con le sopracciglia
aggrottate d'indignazione.
-Non è altro che un moccioso arrogante. Arriva qui e
pretende
che tutto venga fatto come dice lui. Ho commesso un errore ad affidare
un esercito vasto come quello ad un ragazzino che non ha mai studiato
nulla circa la strategia militare... Non avrei dovuto prestarmi ai suoi
ricatti, perchè non è degno di tale
responsabilità
nè di così tanta fiducia. Aveva un piano, almeno?
Se per
piano s'intende trucidare tutti coloro che si sarebbero
frapposti sulla sua strada, allora sì, forse aveva un piano...-
-Se permetti, Maestà, quel ragazzino che non ha mai studiato
nulla circa la strategia militare ha ottenuto un risultato non da poco.
Possiamo quasi definirlo un successo.-
-L'obiettivo era uccidere Tommen Lannister, non tutti tranne
Tommen Lannister. Doveva essere una delle sue uniche vittime, invece
Rickon se l'è lasciato sfuggire quando era così
vicino!
Avremmo potuto evitare una guerra al nostro popolo, che ha
già
sofferto troppo.- Bran faticava a trattenere la rabbia. Se Rickon si
fosse impegnato nel cercare Tommen, anzichè delle concubine
da
rinchiudere nelle segrete, forse a quest'ora ci sarebbero stati dei
festeggiamenti a Grande Inverno. Si chiese quanto amaramente avrebbe
rimpianto quell'occasione sprecata in futuro, quando la guerra sarebbe
cominciata sul serio. Il re del Nord tentò ugualmente di
dominarsi. -Pensiamo al lato positivo della faccenda. La ragazza
Lannister potrebbe tornarci utile nel caso in cui Tommen, al termine di
un'ipotetica battaglia, mettesse le mani su qualcuno che voglio
assolutamente riavere indietro. Oppure si vedrà. Un ostaggio
fa
sempre comodo, no?-
Jojen però oppose un'arguta obiezione. -È
altamente
improbabile che Rickon la ceda per liberare qualcuno che è
caro a te. Lui
non ne ricaverebbe alcun vantaggio, perciò accettando si
mostrerebbe debole, sottomesso al tuo volere. Non hai visto come ha
reagito prima? Considera la ragazza di sua proprietà.
È, per
così dire, il suo trofeo di guerra. Ha intenzione di
segregarla
nei sotterranei e violentarla quando gli pare, se non sbaglio.-
-Sì, ha lasciato intendere qualcosa del genere.- Bran chiuse
gli
occhi, affaticato da tali pensieri; quella storia non gli piaceva, era
evidente. Soltanto, l'idea della gracile ragazzina dagli occhi spauriti
che era stata presentata al suo cospetto alla totale mercè
di
quel bruto di Rickon lo metteva a disagio. Approfittarsi dei deboli non
era certo nello spirito degli Stark -però dalle Nozze Rosse
tutto era cambiato, e non si poteva fare finta di niente. Jojen colse
la sua espressione turbata.
-Uno stupro non è nulla, in confronto a quello che tu fai
alle
persone, violando la loro mente. È un'intrusione
infinitamente
più iniqua, più perversa... ed infinitamente
più
dolorosa.-
Bran roteò gli occhi verso il soffitto, esasperato. -Oh,
Jojen, ma tu da parte stai?-
Il suo consigliere lo ignorò. -Fatto sta che non
è
vantaggioso che due fratelli inizino una guerra, quando loro per primi
sono in discordia fra loro. Se posso esprimere la mia opinione, bisogna
che ogni dissidio venga risolto anzitempo. Devi poterti fidare di
Rickon, Maestà. Questo è fondamentale.-
-Rickon non mi ascolta quando parlo. Alla fine, fa sempre di testa sua
a prescindere da quello che gli consiglio o che gli ordino. A questo
punto, a che servirebbe parlargli?!- sbottò Bran, logorato.
-È
un maledetto testardo, e mi odia. Mi odia perchè l'ho
mandato a
Skagos da solo con Osha, mi odia perchè mi sono separato da
lui
quando aveva bisogno di me... Non capisce niente. Non sa niente.-
-Con questo pretesto, Maestà,- intervenne Jojen pacatamente,
-non fai altro che evitare il confronto diretto. A mio parere
è
un atteggiamento da codardi. E tu non sei un codardo.-
Bran si sfregò le tempie, entro le quali si stava generando
un
principio di mal di testa. -Gli parlerò. Prometto che gli
parlerò.-
-Questa è un'ottima notizia, Maestà.- Jojen si
concesse
un istante ancora per osservarlo, con un'espressione vagamente
divertita, prima di chinarsi sulla sua pergamena.
-Ci risiamo. Smettila di chiamarmi Maestà, Jojen! Non farlo.
Non tu.- Bran
scosse la testa affondata nel cuscino.
Jojen scribacchiò qualche parola. -Tu sei il mio re. Nessuno
potrà mai cambiare questo... tantomeno tu.-
Bran tacque, lo sguardo fisso sulla figura del suo consigliere. La
pausa non durò a lungo.
-Ne hai ancora per molto?- domandò, la voce inacidita da una
punta di fastidio.
Jojen trascrisse fino al punto e poi si fermò;
poggiò la
piuma sulla scrivania e sollevò il capo, trovando gli occhi
di
Bran. Infine si alzò e raggiunse il letto a lunghi passi,
senza
distogliere lo sguardo, sempre più vicino a quegli occhi
capaci
di lacerare le anime. Allungò un ginocchio sul materasso e
vi
avanzò carponi, fino ad incontrare le labbra di lui.
Bran non sapeva come tutto ciò fosse iniziato, quando
esattamente fossero cominciati i baci furtivi nel buio confidenziale
del bosco. Soltanto, sera dopo sera, le loro bocche si erano avvicinate
sempre di più ed accostate sempre più
audacemente,
avevano osato fino ad un punto di non ritorno. All'inizio pareva un
sogno frammentario, uno strano delirio
notturno, brandelli d'utopia e velleità: poi era diventato
vero,
grazie alla tranquilla consapevolezza di Jojen. Qualsiasi cosa
accadesse era stata da lui già vista, esaminata, affrontata,
calibrata. Fra le sue mani, sapienti, salde, metodiche, Bran ritrovava
quella sicurezza e quel conforto che il freddo dell'inverno aveva
estirpato dalle sue spalle. Jojen non aveva bisogno di parole per farlo
sentire protetto, nè di dichiarazioni per farlo sentire
amato.
Aveva i suoi occhi, vasti come oceani, antichi come pietra, solenni
come preghiere, e quelle labbra lievi come petali d'una primavera
passata, e quelle mani, sì, quelle mani che conoscevano la
devozione con tanta maestria.
Jojen sapeva Bran a memoria, risolveva i suoi sguardi senza sbagliare,
interpretava quei suoi pensieri che per il proprietario stesso
risultavano arcani. Da Jojen veniva sempre la scelta giusta, il suo
oracolo
onnisciente, tutto quel ch'egli riteneva giusto non poteva
che essere tale -e perciò Bran, pur avvertendo il sottile
presentimento di stare facendo qualcosa di meravigliosamente proibito,
si era abbandonato tremante di freddo e desiderio fra le sue braccia,
in quella splendida notte senza stelle durante la quale s'erano amati
per la prima volta -senza necessità d'una spiegazione, d'un
chiarimento, perchè fra loro tutto era così,
limpido e
immediato ed intuitivo, un amore di attimi e silenzi e sospiri.
Ricordava la bellezza di quell'emozione, vivida, prorompente,
dispotica, che dopo tanto dolore gli aveva sanato l'anima.
In seguito, Bran non riuscì più a negarsi un
sorso di
quel sollievo, un po' al giorno, quel sollievo celestiale come l'unica
dolcezza nella sua vita di guerra, qualcosa che si distaccava e
differiva in tutto e per tutto dalla sordida rozzezza della
realtà. Di giorno egli era il re del Nord, il
castellano di Grande Inverno, ma di notte Jojen lo spogliava dei suoi
pensieri, dei suoi doveri, delle sue
responsabilità e delle sue vesti, e per poche ore lui era di
nuovo
Bran, nient'altro che Bran.
Bran tracciò con l'indice il disegno di quel viso che
conosceva
molto meglio del proprio -quante notti, quante, quante notti aveva
preferito trascorrere insonni, pur di non sognare nulla e di poter
contemplare il suo compagno di viaggio in tutta
tranquillità. Jojen non si mosse, premendo
delicatamente il proprio corpo su quello supino del suo re. I loro
sguardi fusi insieme erano una prova inopinabile di quanto fossero
affascinati l'uno dall'altro.
-Prima, quando parlavo di ostaggi che Tommen potrebbe ipoteticamente
catturare... non mi riferivo a te.- mormorò Bran, cingendo
la
schiena del ragazzo con le braccia, in un placido gesto che pareva
quasi
una rivendicazione di possesso. -Non ti prenderanno mai, Jojen,
fintanto che sei accanto a me... è qui che devi
stare. Lo sai meglio di chiunque.-
Jojen scartò quelle parole con tetra indulgenza. -Io non
sono
altro che una guida, Maestà. Il mio
compito è accompagnarti durante questo tragitto, scortarti,
sorvegliarti. Proteggerti, magari. Impedirti di cadere di nuovo, a
volte.- Gli carezzò le labbra schiuse in un bacio casto. -Io
non
sono così rilevante come credi tu: una delle tante pedine
sacrificabili, piuttosto. Solo una cosa non è mai
cambiata, in tutti questi anni, da quando sei diventato re...- Gli
percorse i fianchi con tocco lieve, fino al petto, fino alle guance.
Bran fremette e le parole seguenti, concitate ed affannose, le
schiacciò contro la pelle del suo consigliere.
-Tu... tu sei la cosa migliore che mi sia capitata, Jojen. Ho
rinunciato
a tutto quello che avevo, in passato e... questo significa che potevo rinunciarvi.
Posso tutt'ora. Nulla di ciò che ho l'ho reso mio, su nulla
rivendico diritti di proprietà. Il destino, così
come me li ha dati, potrà riprenderseli tutti. Meera,
Rickon, mio figlio,
che diamine. Che lo
faccia. Tutto, davvero. Non tu. Non tu. Non ho intenzione
di sopravvivere alla tua assenza, Jojen Reed. Tutto sommato,
la
sopportazione umana ha delle leggi alle quali sottostare.-
Per lui, Jojen non era soltanto Jojen. Era la personificazione di
qualcosa
ch'era speranza, rinascita, fede. Quando tutte le certezze, gli
affetti, gli amori l'avevano
tradito, l'avevano ripudiato, l'avevano abbandonato, mentre egli
brancolava nel vuoto della perdita, era giunto Jojen a prenderlo per
mano ed indicargli la strada, a stringere il suo corpo fra le
braccia ed il suo destino fra le mani. Da quando
erano in due a sostenerla, la sventura non faceva poi così
male.
Perchè
Jojen era
quanto di più vero, categorico ed incontestabile esistesse
al
mondo, un calcolo esatto, una costante di marmo, una legge inderogabile.
-Devi essere pronto a perdere tutto quanto, Maestà. Anche
me.
Soprattutto me.- Jojen slacciò i bottoni della sua camicia
senza
fretta.
-Vero. Tu sei il mio limite. Però, paradossalmente, sei
anche
l'unico motivo che mi spinge a sostenere il peso di quella corona in
testa.-
Si amavano piano, lentamente, scoprendo per l'ennesima
volta quei corpi che conoscevano a memoria come se fosse la prima; era
ormai notte fonda quando giunse l'ora in cui Bran avrebbe dovuto
tornare al letto coniugale, ma egli sorprendentemente si oppose.
-Stanotte voglio restare qui, Jojen. Stanotte voglio impedire al mondo
di convincermi che quel che provo per te sia un errore della natura,
voglio addormentarmi sul tuo petto ascoltandoti il cuore come fanno
tutti gli amanti del mondo, e
all'alba voglio essere svegliato dai tuoi baci. Stanotte voglio
fare finta di avere sposato
il fratello giusto.-
-Come desideri, Maestà.- aveva risposto Jojen, dopo un solo
istante d'incertezza, avvolgendolo fra le lenzuola e cozzando
nuovamente contro il suo corpo caldo. Bran aveva poggiato la testa
nell'incavo del collo di lui, accoccolandosi grato, crogiolandosi
nell'assuefante godimento: tutti i suoi sensi concordavano in un
piacere muto ed obliante, in ogni
parte del corpo echeggiava il riverbero di quel calore e il solo
ricordo, ancora vivido nelle membra, lo rendeva pigro e pesante e
dolente di spossatezza e sazietà.
Non v'era nulla di più rasserenante, per il giovane Reed,
che
osservare il
volto di Bran rapito dal sonno, concentrato sul mondo dietro le sue
palpebre, assorto in un sogno; non v'era nulla di più
distensivo
di scostargli le umide ciocche castane dagli occhi. Il suo viso si
svelava soltanto in quei momenti, dopo aver fatto l'amore,
s'ammorbidiva in un'espressione rabbonita e distolta dalla solita
austera compostezza; egli imparava ogni sera a sorridere di nuovo,
piano, di nascosto, e si scrollava il tedio del potere e la nefandezza
dell'inverno di dosso. Sapeva, Jojen, quanto scorretto fosse tutto
ciò nei confronti di Meera, sua sorella, e del piccolo
Kenned,
che aveva gli occhi uguali a quelli del padre -quelli
prima della caduta, quelli puri d'ogni dolore, integri nella loro
innocenza. Jojen sapeva com'erano perchè l'aveva visto
talmente
tante volte,
in sogno, il ragazzino che scalava con innata agilità le
mura
di Grande Inverno. Bran era elemento intrinseco della sua anima
-condizione necessaria e sufficiente della sua esistenza. Jojen Reed
era nato in funzione di Bran, e se l'unica voluttà che
richiedeva in cambio d'una vita di privazioni era il suo corpo, allora
così sarebbe stato, a costo d'insultare la
sensibilità di
Meera e del bambino: il principe Kenned, sì, che suo padre
ignorava così brutalmente. In effetti, il re di Grande
Inverno
non riusciva a provare sentimenti affettuosi verso suo figlio, e quando
lo teneva in braccio provava persino una sorta di repulsione, di
sgradevolezza, una zavorra nell'anima che egli stesso non si spiegava.
Forse perchè era nato da un'unione sbagliata. Bran aveva
sposato
Meera per onorare la casata Reed, in generale; in particolare,
perchè sperava di trovarsi più a suo agio con al
fianco
una donna che conosceva da un pezzo ed alla quale voleva bene,
piuttosto che con un'estranea. Ma soprattutto l'aveva fatto
perchè si fidava senza remore di lei. Era stata la scelta
più accorta, non c'erano dubbi: ciò non gli aveva
impedito di pentirsene amaramente, a volte. Era così
maledettamente frustrante mordere
quel nome fra i denti quand'era con lei- un nome che non
era Meera, no, e non lo sarebbe stato mai.
Stretto nell'unico abbraccio di cui avesse bisogno, durante il primo
anno del suo regno, Bran talvolta piangeva. Capitava che scoppiasse in
un pianto furibondo, tempestoso, battente, e
io non l'ho mai chiesto, non era così che doveva andare,
doveva
essere Robb, è sempre stato Robb, non io, sono un usurpatore
quanto lo era Bolton, io non ci dovrei stare su quel trono, Jojen, gli
abitanti del Nord non vogliono essere governati da uno storpio, così
gemeva, e Jojen niente, le aveva asciugate una per una, quelle lacrime
-che poi avevano smesso di colare, quando la frustrazione era
diventata una cicatrice.
Al mattino, dopo essersi affrettatamente rivestito con l'aiuto di
Jojen, Bran si aggrappò alla pelliccia di Estate come faceva
sempre e il lupo si diresse verso la porta -ormai era una routine
consolidata.
-Tu sei ancora l'unica cosa che conta.- La voce di Jojen lo raggiunse
quando ormai stava per lasciare la stanza. Bran volse appena lo
sguardo, con un'espressione indecifrabile.
-No,- replicò, -non è vero.-
***
L'universo di Myrcella era diventato quell'uncino sporgente, divorato
dalla ruggine, proprio quello ch'ella non era mai riuscita a scrostare
dalla parete, quello aguzzo che -se attaccato dalla fanciulla in
maniera sconsiderata- le pungeva il polpastrello.
Se le avessero chiesto, ai tempi della sua vita a palazzo, che cosa
fosse il tempo, Myrcella Lannister non avrebbe saputo dare una
risposta. Era sì una fanciulla dolce, posata, mansueta, ma
non
aveva mai brillato d'intelligenza. Ciò non significava
ch'ella
fosse stupida, piuttosto che non aveva mai mostrato interesse verso lo
studio e il sapere; le domande esistenziali non trovavano posto in
quell'aurea vita d'abiti di velluto e fontane zampillanti. Tutto si
spiegava da sè, chiamarlo fato o cognome non faceva troppa
differenza. Eppure, Myrcella in passato non avrebbe mai negato
l'esistenza del tempo. Ci si alza al mattino e il cielo è
rosato, poi diventa azzurro al pomeriggio, arrossisce al tramonto e
s'imbratta di nero durante la notte: come poteva il tempo non esistere?
Il suo scorrere era così evidente.
Nella prigione, Myrcella aveva trascorso tre giorni a
rincuorare
se
stessa, ripetendosi che avrebbe potuto andare peggio; era
ancora
viva, dopotutto, no? Nessuno l'aveva scuoiata, nè frustrata,
nè era entrato nella sua mente; non era nemmeno costretta a
lavorare come sguattera di cucina o inginocchiarsi a
pulire il pavimento. La sua prima punizione era morire di noia, a
quanto pareva. E poi, oh, sì, Rickon veniva a trovarla ogni
giorno ed ogni giorno la prendeva su quel pavimento gelido, sozzo di
polvere e cenere; a Myrcella stessa, durante il suo primo giorno di
reclusione, era stato ordinato dal carceriere di leccare via il sangue
della sua verginità da terra. La fanciulla, cerea di
disgusto e
mortificazione, le lacrime serrate nelle iridi e premute contro le
ciglia con
intollerabile tenacia, aveva pensato ch'era davvero un macabro modo di
eccitarsi. D'un tratto -sarà anche stata colpa dell'oleosa
sostanza nera che, raccolta dal pavimento, le aveva impastato i bei
capelli biondi e le aveva macchiato le guance, sarà stato
perchè non aveva acqua per lavarsi- aveva percepito sporca
ogni
fibra del suo essere. Non soltanto sporca: consunta, corrotta, marcita,
quasi in preda ad un morbo orribile a manifestarsi. Rickon era tornato
anche il giorno dopo e quello dopo ancora, ma Myrcella dopo le sue
visite non aveva mai pianto. Era rimasta ferma, immobile, con gli occhi
sbarrati nelle tenebre, un giglio sradicato che fissa la morte in
attesa. Quei primi tre giorni non erano stati spiacevoli,
perchè
Myrcella nel disastro della sua situazione vi aveva visto una speranza;
erano stati un inseguirsi di pensieri che lampeggiavano e duravano un
istante, un rivivere ricordi inaccessibili, un elenco di preghiere e
maledizioni. Quei primi tre giorni erano stati densi di ragione. Poi il
controllo precipitò e il senno di Myrcella se lo
portò
via il buio.
La fanciulla s'era resa conto con rammarico che il tempo era svincolato
dalle sue mani. Non riusciva più a ricordare quanto durasse
un
secondo, o perchè esistessero distinzioni tra un termine
temporale e l'altro. Che senso poteva avere dire un giorno, o dire tre
minuti? Il tempo era sempre quello, sempre quell'unico ammasso di
poltiglia che la opprimeva ed imprigionava, che l'avvinceva ed
impediva, come un tratto di sabbie mobili. All'inizio non vi aveva
prestato troppa attenzione, preoccupata com'era per molte altre cose,
ma ben presto dovette scontrarsi con quell'amara
effettività:
non aveva idea di quando fosse notte e quando giorno. La sua
mente costretta all'inerzia, intorpidita dal freddo,
infiacchita
dal silenzio, vacillava anch'essa nel buio; non riconosceva
più
una parte o l'altra del corpo della ragazza, identificandola come un
barlume invisibile di coscienza, e non sapeva dichiarare con sicurezza
se Rickon quel giorno non fosse stato lì o se fosse appena
andato via -o cosa fosse un giorno, o cosa fosse una dichiarazione. Nel
momento in cui il macigno gravò sulle sue fragili spalle,
Myrcella entrò nel labirinto del panico e scoppiò
a
piangere di paura, pagando alle lacrime un debito di almeno due
settimane. In quel pianto, Myrcella pianse per il rapimento e per sua
madre e suo zio e suo nonno e per il sonno e per la nostalgia e per gli
abusi e per la vergogna e per il dolore, pianse di disperazione, e quei
singhiozzi dicevano tutto quanto, scoppiavano, protestavano,
imprecavano, si ribellavano, imploravano e s'arrendevano, soffocati fra
le mani di Myrcella. Quei singhiozzi esprimevano un incubo senza volto,
un inferno senza fiamme, una sofferenza senza voce. Quei singhiozzi
parlavano, perchè Myrcella taceva. Fu così che il
tempo
scappò da quella cella, accartocciandosi su se stesso,
allungandosi in una retta oltre l'infinito.
L'universo di Myrcella era diventato quell'uncino sporgente, divorato
dalla ruggine, proprio quello ch'ella non era mai riuscita a scrostare
dalla parete, al contrario di tutti gli altri coaguli di ferro vecchio
e sangue essiccato che si protendevano guastando la compattezza del
muro. In ogni istante si consumava le unghie grattando oppure tastava
il pavimento, chiedendosi perchè ci fosse seduta sopra. Il
buio,
il buio era il vero colpevole: la lordava, la inquinava poco a poco.
Ella era sempre stata una povera anima vulnerabile, sensibile,
impreparata a qualsiasi tipo di violenza fisica e psichica, ignorante
riguardo qualunque genere di dolore e circa il significato della parola
trauma, e quell'esperienza stava devastando il suo organismo e la sua
anima come un pugnale avrebbe scempiato le sue membra -sembrava quasi
che il fato la stesse punendo per la sua antica ingenuità.
Tutto ciò di cui
Myrcella si accorgeva era di stare andando in putrefazione.
Una volta al giorno, dopo che Rickon era stato da lei, giungeva una
serva a darle qualcosa da mangiare, una scodella d'acqua ed una veste
nuova, di semplice tela bianca senza maniche. All'inizio Myrcella non
ci faceva caso e la ignorava impassibile, ma col passare dei giorni
quello divenne il secondo dei due unici legami che aveva con l'esterno,
e perciò preziosissimo quanto l'acqua: ella cercava di
parlare
ma, disabituata alla presenza delle persone, non aveva idea di cosa
dire e dalla sua gola emergevano soltanto suoni malcerti, sconnessi ed
inarticolati. La serva si limitava a ricambiare il suo sguardo per un
momento, piena di compassione.
Alcuni giorni dopo Rickon stentò a riconoscere la
sua
prigioniera, il chiarore dei riccioli appestato di sudiciume, il
candore delle guance violato di sconcezza, e gli occhi rossi e
gonfi come bacche ma dalle pupille vacue d'incoscienza, un'anima
deflorata e deturpata irreparabilmente; dov'era finita la
fierezza, l'orgoglio, l'ardore della ragazzina che non voleva
piangere? Egli fu assalito dal trionfo, crudo come una cadavere pregno
di
sangue fresco, in un'ondata di piacere così vertiginosa che
fece
appena in tempo a penetrarla prima di venire copiosamente dentro di
lei.
Myrcella ormai sapeva come Rickon si comportava. Quando egli era di
cattivo umore, si limitava a strapparle di dosso la veste a morsi, ad
addentarle i seni con violenza e prenderla, per poi andarsene senza
dire una parola, cupo. Se invece era allegro, si prendeva un po'
più di tempo per tormentarla con calma. La chiamava il grazioso abominio biondo e
giocherellava distrattamente i suoi boccoli fra le dita. Diceva: -Vuoi
sapere come ho ucciso i tuoi genitori?- e poi cominciava a raccontare,
rimpinguando la verità di mille particolari che, dalla
versione
precedente a quella successiva, diventavano sempre più
scabrosi.
Affermava di avere scardinato il cuore di Cersei Lannister dal petto e
di averlo divorato, oppure di avere mutilato a Jaime Lannister la mano
sinistra rimanente e di averlo con questa strozzato, e ancora di avere
infilato la spada nella gola di Tywin Lannister e poi di aver
semplicemente tirato uno strattone
per recuperarla. Myrcella ascoltava in silenzio, senza interromperlo,
con in volto l'espressione imperturbabile dei sordi -mentre quelle
parole venivano inoculate nel suo cervello e correvano nel sangue a
deteriorarla dall'interno.
-Sai cosa farò, quando andrò a prendere tuo
fratello?-
raccontava Rickon, lasciando scorrere le unghie sulla sua schiena e
bucando la pelle come faceva con la stoffa. -Lo afferrerò
per quella fluente chioma da bambina che ha, così
simile alla
tua, e tirerò
finchè la sua spina dorsale non uscirà allo
scoperto.
Poi, mentre ancora è vivo, lo darò da mangiare a
Cagnaccio. Ti piace l'idea? A me tantissimo. Però lo
ucciderò per ultimo. Prima dovrà cullare un po'
in
braccio il figlioletto che staccherò dalle viscere della
puttana
Tyrell. Prima dovrà raccogliere le cervella del suo zio
nano,
che dicono che sia tanto furbo. Quindi in quel testone deforme
c'è davvero qualcosa? Visto quant'è grosso,
dev'essere
tutto quel che manca al resto della famiglia. Non sei d'accordo,
piccolo abominio? Che c'è, stai zitta? Su, fammi contento,
piangi un po'. Sai quanto mi piace quando piangi...-
Ogni tanto Myrcella piangeva di freddo, di quel freddo nordico che
superava l'ostacolo delle ossa ed espugnava la sua anima;
piangeva
quando, svegliandosi, avvertiva i topi rosicchiarle le dita, e piangeva
nello scoprire di non ricordare più il volto di suo padre,
nè quanti fratelli avesse. Ma davanti a Rickon no, non
piangeva
mai. Non si trattava nemmeno più di uno sforzo, di una
auto-costrizione: semplicemente gli occhi erano duri, raffermi,
immobili in un dolore cieco.
-Non mi basta uccidere, caro il mio abominio biondo. I Lannister non si
limiteranno a morire. Io masticherò i vostri cuori
finchè
non mi supplicherete di darvi il sonno eterno e mettere fine alla
tortura. Io calpesterò il vostro onore finchè non
andrà a mischiarsi indistinguibile con lo sterco dei porci.
Io
non avrò pace finchè tutte le spade del vostro
trono del
cazzo non vi si conficcheranno nel culo.- Dopo aver sibilato a voce
bassa e vibrante quelle parole, Rickon percorreva le ferite aperte
sulla schiena della prigioniera con la lingua, guidato dall'odore del
sangue; suo malgrado, Myrcella si scopriva a percepire qualcosa di
simile ad una scintilla incalzante scioglierle il ventre, e questo
sì, ch'era un pensiero capace d'indurla al pianto.
Desiderarlo
sarebbe stato il degrado più stomachevole, l'aberrazione
più turpe, l'oltraggio più bieco. Per il resto,
il
rancore verso di lui rimaneva debolezza, senza mai addensarsi in
qualcosa di concreto, di solido, di potenzialmente fattivo, ma soltanto
una triste arrendevolezza a quella forza verso la quale si sentiva
così impotente.
Si rannicchiava su se stessa, Myrcella, cercando calore in quella
misera camiciola di tessuto grezzo che le scopriva le gambe e le
braccia ed il collo, cercando calore nel centro del suo corpo, nel
battito del suo cuore, e trovando soltanto l'inverno. Nella
devastazione nera del suo pozzo senza fondo Myrcella, visto che sia i
pensieri sia i ricordi morivano prima di sbocciare nella sua mente, si
aggrappava alle antiche sensazioni ancora impresse sul proprio corpo:
le mani nodose della septa che le massaggiavano energicamente la cute,
il bacio del lino più pregiato sulla schiena, il sapore
della
carne arrostita con le spezie sul palato. E ancora il sorriso bianco di
sua madre, la maniera in cui il manto di capelli d'oro le
avviluppava i fianchi, il profumo morbido della pelle. Se si
concentrava, poteva immaginarla persino lì con lei, da
qualche
parte nel buio, a carezzarla e stringerla a sè... La
solitudine
risuonava nel suo petto più dolorosa dei lividi che Rickon
le
disegnava sulla carne.
-Sai cosa è successo oggi?- raccontò il
carceriere un giorno,
con le guance rosse di piacere, con gli occhi che brillavano. -Sono
andato nelle prigioni dei condannati a morte, e c'era questa ragazza.
Matta come un cavallo, a quanto pare. Ha bruciato casa sua con dentro i
genitori e i fratelli. Bella. Non quanto te, certo, non essere gelosa,
adesso. Però carina. Così a quel punto non ho
resistito... e ho detto a quei tizi di lasciarla a me.- Sorrise un
sorriso malizioso. -No, non è come pensi. L'ho mangiata. Pezzo
dopo pezzo, l'ho mangiata. Mi piace tantissimo quando se ne accorgono,
e stentano a crederci, e spalancano gli occhi e si dibattono, con
quell'espressione così patetica...
È degradante sentirli strillare come maiali. La fine
dovrebbe essere
più gloriosa. Cosa vuoi che ti dica? A tutti sembra strano,
che
io mangi le persone, ma il fatto è che... non lo so... non
sono
bravo con le parole. Mi inebria. Sfondare la cassa toracica con le
mani, e poi squarciare la pelle del collo, che è soffice, e
le
palpebre... le stacco con le unghie, le palpebre. E i lobi delle
orecchie, sai che consistenza hanno sotto i denti? Come il velluto.-
Invece di parlare, Rickon ringhiava a bassa voce, piano, pianissimo, in
un soffio affilato. Myrcella non aveva compreso il significato di
quelle parole; era rimasta con la testa bassa, a stringersi le
ginocchia scorticate dal pavimento irregolare, senza dire nulla. Quando
aveva inteso, con diversi secondi di ritardo, aveva emesso un lamento
di repulsione, scuotendo il capo pesantemente.
-E tu, piccolo abominio? Tu che sapore hai? Prima o poi lo
scoprirò, immagino...- Le aveva scostato un boccolo
incrostato
di sporcizia da una delle gote, con un sorriso acuminato. -Non
crucciare
quel dolce visetto che hai. Sei ancora la ragazza più bella
che
io abbia mai visto.-
Le aveva strappato la gonna ed aveva abbassato il volto, ad azzannarle
le cosce fino a che non aveva avvertito rivoli tiepidi percorrerne le
linee sinuose; c'era un accanimento di goduriosa gioia distruttiva nel
dilaniare la sua prigioniera, nel profanarla ed ingiuriarla in ogni
maniera possibile. L'idea di aver violato il suo candore con il nero
del dolore, con il rosso del sangue, montava in lui un'estasi
intraducibile, che lo costringeva alla perversa tentazione di infilare
le unghie nelle ferite della ragazza ed allargarle ancora di
più.
-Così sei perfetta. Infranta ed asservita.- le sussurrava
con voce roca.
Ma Myrcella Lannister, nonostante quel vorticoso e delirante
stordimento dovuto alla carenza di cibo, al
buio, all'isolamento, non si sentiva nè
infranta
nè asservita. Nel suo petto il principio d'un urlo
s'intensificava cruento. L'ultima cosa che pensò, prima di
essere risucchiata dalle onde della sua incoscienza malata, fu mi ha chiamata la ragazza
più bella che abbia mai visto. Fu tentata di
urlare di frustrazione, di panico e follia.
***
Osha era sempre stata una donna capace di farsi i fatti suoi. Se c'era
una cosa che davvero non riusciva a soffrire, era quella mania delle
donnette nobili di spettegolare e cicalare spudoratamente sugli affari
altrui, quel circolo vizioso di segretucci a cui le grandi famiglie
erano così affezionate. Alla fin fine, sembrava che la
guerra
dei cinque re fosse stata combattuta a suon di spade ed ingiurie.
Quando era arrivata a Grande Inverno ed aveva visto Meera sul trono
della regina del Nord, Osha non si era stupita poi così
tanto: era
molto probabile che fra lei e Bran, in tutti quegli anni di convivenza,
fosse nato qualcosa. Ma, col passare dei giorni, aveva compreso che la
situazione era un po' più complicata.
Non ci volle molto per scoprire chi avesse veramente rubato il
cuore al suo protetto. Erano piccole cose, ma urlavano assordanti la
verità: occhi che indugiano negli occhi un attimo
più a lungo del necessario, una parola detta in un modo
piuttosto che in un altro, quel viso che si girava sempre dalla
parte sinistra rispetto al suo scranno. In realtà, Osha
l'aveva intuito già
tempo prima, otto anni fa, notando l'inconsueta intimità, la
magnetica attrazione che avvicinava le anime dei due
ragazzi, e che le
provocava insieme gelosia e diffidenza.
Così un giorno ella aveva preso Bran da parte e gli aveva
chiesto, schiettamente: -Sei
innamorato di Jojen?-
Il ragazzo aveva sospirato, con un pizzico di melanconia.
-Molto più di quanto sono disposto ad ammettere.-
Osha aveva scrollato le spalle. Certo, era strano, ma aveva sentito
molto di peggio oltre la Barriera. Se quello strano veggente poteva
rendere Bran felice, che così fosse. E lei poi aveva
guardato
Meera.
Durante il viaggio insieme, aveva finito con l'affezionarsi a quella
ragazza che le somigliava così tanto -sebbene fosse assolutamente
incapace di scuoiare i conigli. Per questo ad Osha era dispiaciuto
vederla... spenta. Spenta
era l'aggettivo giusto. Sbiadita, opaca, inerme, come un ritratto
rovinato dalla polvere che non riesce a fuggire dalla cornice.
Effettivamente l'unico timore che si poteva avere, rendendo regina una
cacciatrice, era quello di soffocarla, di murarla viva nel suo
castello. Nonostante i loro caratteri simili, e per questo discordanti
-erano entrambe molto competitive l'una verso l'altra- Osha non
sopportava di vederla
così sottotono, quando aveva avuto più volte
prova del
suo temperamento impetuoso e dirompente. Fu questo a spingerla, seppur
un po' imbarazzata ed a disagio, ad avvicinarsi a Meera, una sera, dopo
che Estate con Bran in groppa era già svanito nel buio del
corridoio. La regina del Nord sedeva sul suo scranno, la testa reclina
contro una spalla, lo sguardo fisso ad affermare ed ammettere,
astenendosi ad un giudizio, perchè la risposta era la stessa ogni
sera;
i suoi occhi erano soli e segregati nel loro dolore,
eppure un'emorragia aveva prosciugato le pupille di tutta la
luce.
Avvolto in un fagotto di pellicce, stretto al petto della madre, il
principe del Nord Kenned Stark dormiva sonni fragili, che un solo
spiffero di quell'inverno inclemente avrebbe potuto spazzare via.
L'unica interruzione era stata da parte del Maestro, che recava una
notizia: il giorno dopo il lord comandante Snow sarebbe giunto a Grande
Inverno; a parte questo, tutti parvero ricordarsi che ella aveva
bisogno di qualche ora per scostarsi dal brulichio di quella vita
rumorosa. Meera
non si accorse di non essere sola nella stanza, oppure non vi
fece caso.
-Non credevo che il re del Nord fosse talmente impegnato da doversi
occupare degli affari del regno persino di notte.- Osha
avanzò
nella grande dispersiva sala, seguita dal borbottio cavernoso dei suoi
passi. Il volto di Meera non reagì al suono di una voce
esterna,
così che l'espressione della sua concentrata assenza non si
sciupò.
-Infatti non è così.- confermò, a voce
atona,
remota, che sembrò provenire da molto lontano. -La sera
è l'unico
momento libero della sua giornata.-
-E non dovrebbe passarlo forse con sua moglie?-
Meera strinse gli occhi, in un'espressione che voleva essere dura e
appariva più che altro ferita. -Sì, in teoria
sì.
Ma a quanto pare ha di meglio da fare.-
Osha aggrottò le sopracciglia. L'amica era ridotta peggio di
quanto pensasse. Che fosse realmente innamorata di suo marito? Al punto
da desiderare d'essere da lui ricambiata?
-Quindi sai tutto.- dedusse. -Di Bran e tuo fratello...-
-E come potrei non saperlo?!- sbottò la ragazza, sbattendo
il
palmo d'una mano contro il bracciolo destro del trono e protendendo il
capo in avanti,
all'improvviso con un tono graffiante che le era poco usuale; con
l'altra mano premeva saldamente al seno il figlio, quasi per
proteggerlo e risparmiargli il dolore di quelle parole. -Lo sanno
tutti, ormai, dagli Estranei ai cittadini di Dorne. Il pettegolezzo ha
fatto il giro dei Sette Regni. Probabilmente ci inventano sopra delle
canzonette sconce alle taverne di Approdo del Re. Bran si comporta come
se nulla fosse, ma ormai è ridicolo fingere in questo
modo...
Crede forse che io sia una scema, che sia cieca? Che non mi accorga
dell'evidenza, quando è a un palmo dal mio naso?! ...oh, a
volte
persino li sento,
che diamine!-
Osha l'ammirò tristemente per l'ostinazione e la pertinacia
con
cui trattenne le lacrime nelle iridi, impedendo loro di vincerla e
dilagare sulle sue guance. Meera controllava con intransigenza anche il
tono di voce, affinchè non rivelasse un tremito -la
testimonianza della sua battaglia, la prova di quella crepa che la
voleva rompere, la resistenza strenua dei suoi occhi alla pruriginosa
insistenza del pianto.
-Hai provato a discuterne con lui?- azzardò Osha, rimanendo
ai piedi del rilievo ove stava il trono.
Meera strinse le labbra, offesa. -Con Bran parlo di rado. Ci sono poche
occasioni per introdurre argomenti così seri, o che
richiedono
del tempo, perchè tempo per me non ne ha più. Dal
mattino
al tardo pomeriggio ci sono i sudditi da ricevere, e poi un pranzo per
accogliere questa o quella famiglia che è giunta a recare
doni
ed offrire soldati, o cose del genere. Oppure c'è una guerra
da
organizzare, e studiare le mappe, e scrivere lettere di qua e di
là, e Rickon che è sempre che si lamenta per
qualcosa.
Poi, di sera, Bran sparisce come ha fatto adesso. "Non aspettarmi alzata",
mi dice. Sempre, lo dice. Non
aspettarmi alzata.
Ogni singola sera.- Fece una pausa, perchè la sua voce
rischiava
di impastarsi di lacrime. Quando si fu ricomposta, Meera riprese, gli
occhi ossidati d'astio. -Ha sempre una buona scusa da propinarmi, ma si
sa dove va. In genere torna alle tre del mattino, in silenzio, pensando
che io dorma e non me ne accorga. Ma io lo sento lo stesso. Ho il sonno
leggero, se ben ricordi.-
Meera riuscì a tirare un sorriso
desolato, ed una stilettata di pietà fece vacillare
i suoi propositi; d'un tratto, desiderò
non aver sollevato quella questione. Ma in fondo si trattava di un
dolore
con cui Meera conviveva abitualmente, ogni istante della sua vita; ad
ogni modo, per rimediare al passo falso, l'altra cercò in
qualche modo di lenirlo.
-Bran è senza dubbio affezionato a te. Sono certa che non
è sua intenzione farti soffrire... tu gli hai dato un
figlio...- commentò
nervosamente. Inutile, certo.
-Non mi interessa assolutamente nulla di quali sono le sue intenzioni!
So solo che mi sta ricoprendo di vergogna. Non ha nemmeno il tempo di
chiedersi come sta, suo figlio! Se ne frega, Osha, posso rifiutare la
verità quanto voglio, ma lui se ne frega altamente.- Meera
frenò il sussulto del labbro inferiore, serrandolo
violentemente
con quello superiore. -D'altronde,
quando deciderà che Grande Inverno ha bisogno di un altro
erede,
tornerà a dormire nel mio letto. Giusto per il tempo che ci
vorrà a mettermi incinta. E poi daccapo.-
Osha pensò alla ragazza allegra ed energica con la quale
aveva
tante volte bisticciato, tante volte fatto pace, tante volte cacciato
nei boschi, e realizzò quanto infelice l'avessero resa le
subdole e perfide leggi della vita a corte -Meera non ci era tagliata,
non lei, con la sua limpida autenticità, con la sua fame
d'evasione ed adrenalina.
-Senti per caso la mancanza dei bei vecchi tempi?- chiese allora Osha,
sperando di evocare in lei ricordi gradevoli che attenuassero l'orrore
della realtà attuale.
Meera si abbandonò allo schienale del trono, quasi che tutta
la
sua rabbia, dopo aver sbraitato e imperversato, si fosse disgregata
infine in cenere. Iniziò a cullare distrattamente
l'involto
di pellicce da un braccio all'altro, quasi quel gesto fosse in grado di
placare il suo animo e rasserenare la sua mente.
-Se ne sento la mancanza? Ovvio. Qui dentro è un mortorio,
si
fanno sempre le stesse cose, si vedono sempre le stesse facce. Le mie
gambe non sono abituate a rimanere inutilizzate per ore, e a volte
sembra impossibile resistere alla tentazione di alzarsi in piedi e
scappare via. Bran non mi permette quasi mai di uscire,
perchè
dice che è troppo pericoloso, con i tempi che corrono.
Quella
storia d'essere diventata la regina del Nord ha smesso da un pezzo di
essere divertente...- Scosse il capo, come se non riuscisse ancora a
capacitarsi della sua situazione. -Una volta Bran e Jojen mi trattavano
come una loro pari. Una volta, se io non
c'ero, loro morivano di fame. E adesso? Adesso cosa sono diventata? La
loro copertura. Il
loro alibi.-
Meera sputò quelle parole con disgusto, gli occhi offuscati
della polvere della disillusione. -A quanto pare, si sono accorti che
sono solo una stupida donna, e quindi valgo meno della terra sotto le
loro scarpe.... E pensare che ho fatto tutto questo per loro. Per loro
ho attraversato la Barriera e
sono andata dall'altra parte del mondo. Per loro ho rischiato la vita
in tutti i modi possibili ed immaginabili. Avrei preferito morire che
abbandonare la loro causa. E ad ogni costo non vorrei essere qui
a rinfacciare tutto questo, ma... non me lo merito, Osha.
Non merito
il trattamento che mi stanno riservando. Non merito tanto disprezzo.
E sai qual è la cosa più grottesca? Che li amo
ancora.
Che se mi chiedessero di scegliere fra loro e me, sceglierei ancora
loro. Che stupida, eh?-
Un sorriso amaro infranse irreparabilmente le sue difese, mentre Osha
veniva colta da un impeto d'indignazione. Come potevano quei due
egoisti comportarsi in quella maniera vergognosa con Meera, dopo tutti
i sacrifici che lei aveva fatto per stare sempre al loro fianco?! Come
potevano essersi dimenticati di tutti i debiti che avevano nei suoi
confronti? Era Meera che procurava i pasti, era Meera che montava la
guardia di notte, era sempre Meera che accendeva il fuoco e li
difendeva dai potenziali pericoli. Quel doppio tradimento -sia da parte
del suo stesso fratello, sia da parte di Bran- sembrava una cattiveria
troppo sleale e meschina per essere attribuita a quei due. Per quanto
Osha lo conosceva, maltrattare coloro che lo avevano aiutato
gratuitamente non era abitudine di Bran. Egli era stato un
ragazzino
dolce, sorprendentemente intelligente, particolarmente sensibile.
Possibile che fosse stato capace di tanta disonestà?
Perchè aveva sposato Meera, se come fine ultimo aveva
ottenuto
solamente di farla soffrire?
In verità, Meera era gelosa di entrambi. Da una parte,
nessuno poteva pretendere di amare e capire suo fratello più
di
quanto non lo amasse e capisse lei; dall'altra, nessuno poteva scoparsi
impunemente suo marito facendo di lei una cornuta. Mio?, si chiese
Meera. No,
in realtà nessuno dei due è mai stato davvero
mio. Loro
si appartengono soltanto l'un altro. E io sono la terza incomoda.
Qualcosa di superfluo, qualcosa d'ingombrante. Di sgradito. Ormai
una piccola lacrima le solleticava lo zigomo.
-Oh, ti prego, non fare così... E' troppo strano.-
bofonchiò Osha, imbarazzata. -Lasciali perdere, Meera, sono
degli idioti. Sono degli ingrati, sì. Dei fottuti ingrati.
Quando crescono e mettono su la voce grossa, diventano terribili.
Potessero rimanere sempre piccoli...-
Salì i gradini e le diede due pacche sul braccio,
impacciata;
per un attimo, immaginò che Meera le avrebbe gettato le
braccia
al collo ed avrebbe affondato il viso contro la sua spalla, permettendo
ad un pianto dirotto di scaldarla mentre, singhiozzo dopo singhiozzo,
il rancore la abbandonava -rigetto di dolore rifiutato- e lasciava in
lei soltanto un soporifero, stanco torpore -debolezza che, prima o poi,
riemerge sempre.
Osha immaginava che Meera avrebbe pianto, però dimenticava
ch'era giunto l'inverno e, si sa, è il ghiaccio ad
imprigionare
le lacrime delle fanciulle del Nord. Meera sedeva su un trono, ora.
La giovane Reed sollevò la fronte, ad esporre alla luce
delle
candele le guance asciutte senza esultare. Il bambino fra le sue
braccia agitò un piccolo piede nel sonno; si riusciva
appena ad intravederne un ciuffo di lanuginosi capelli castani ed il
bagliore perlaceo della pelle, fra gli strati di coperte.
Perchè mi stanno facendo questo? Perchè? Quelle
parole
non raggiunsero mai le labbra di Meera. Non si sarebbe compatita
più; li avrebbe amati ancora, caparbia, incapace di
dirottare i
propri sentimenti, fedele a se stessa. Osha
s'inchinò al
suo dolore, con uno stoico sospiro, abbassando le palpebre lentamente,
ed era il rispetto ad essere ritratto sul suo volto. Aveva lasciato una
ragazza ed aveva ritrovato una donna.
E partecipò a quel silenzio, Osha, mentre realizzava quanto
potesse, in confronto a quella d'un pugnale sul campo di battaglia, la
violenza d'un bacio al buio.
Note dell'Autrice: Ed ecco a voi -con un po' di ritardo rispetto al
tempo che avevo previsto!- il secondo capitolo. Ecco che fine ha fatto
Sansa! Ovviamente chi ha letto i libri saprà che non
è tutta farina del mio sacco, però ho apportato
qualche modifica circa Joffrey -non voglio fare spoiler, ma i lettori
mi hanno capita, vero?- e circa Robin, e circa Lysa, qua e
là. Nessun cambiamento è stato effettuato a caso,
naturalmente. Cosa deciderà di fare Sansa?
Troverà il modo di raggiungere Grande Inverno prima che
scoppi la guerra?
Qua è stata presentata la situazione a Grande Inverno,
mentre nel prossimo capitolo verrà descritto cosa sta
succedendo ad Approdo del Re, nonchè la visita a Bran da
parte di Jon. Inoltre, non mi sono dimenticata di Theon e Ramsay! Cosa
sarà successo, dopo che Yara si è ripromessa di
salvare il fratello? Saprete pure questo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Mi interesserebbe molto sapere
la vostra opinione a proposito, positiva o negativa che sia! Grazie a
funny1723 e a Loony Moony per avre recensito il prologo, a desmovale
per avere recensito il primo capitolo e a RLandH per averli recensiti
entrambi; grazie a tutti coloro che ricordano/seguono/hanno inserito
fra i preferiti questa fanfiction, ma grazie molte anche ai lettori!
Per il secondo capitolo dovrete attendere più o meno due
settimane, credo.
Quindi grazie a tutti e arrivederci al prossimo capitolo! ^-^
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Indaco fu il presentimento. ***
3
III.
Indaco fu il presentimento.
Quella vertigine. Bran la ricordava
offuscata ed anonima eppure, appena essa gli sfiorò l'anima
con
la punta delle dita, egli l'afferrò
prontamente, con una spasmodica disperazione di derubato, le vene
scosse, la lingua ad umettargli le labbra. Avvertiva qualcosa di fresco
sulle guance, di pregno e buio, vento, vento d'alta quota e- Si stava
arrampicando. Arrampicando. Quella parola. Oh, quella parola lo invase
fino in fondo, a vibrare nelle viscere e gonfiargli la mente d'aria
intrisa, e fu adrenalina. A Bran veniva da ridere, forte,
spietatamente, con gusto pago e completezza assaporata senza fretta,
veniva da ridere con esaltante orrore. I suoi piedi sapevano dove
procedere, sapevano quali pietre erano stabili e quali sdrucciolevoli,
sapevano cosa fare. Le sue mani ricordavano con la precisione di chi
non ha mai smesso, agili, sicure, sensibili, i polpastrelli ad
esaminare ogni fessura ed insinuarsi in ogni crepa, curiose,
circospette, diligenti. Conoscevano ancora le regole, le sue gambe, non
erano affatto morte: scattavano, saltavano, vincevano. Quei muri non
l'avrebbero mai, mai tradito, ed era un ritorno di fiamma ed
accoglienza stringersi alle pietre e toccarle e salutarle una per una.
Esultante, ebbro, il sudore a fiottare sul collo, l'euforia a fremere a
fior di labbra, sussultava il cuore a pompare gioia vecchia, gioia
riscoperta, gioia rinnovata che si scrollava di dosso la veste di
ricordo e fluiva liberamente nelle vene, eccedendo indulgente,
concedendo come un abbraccio avvolgente, ed era un calore
insostenibile, che voleva sfrenare, che voleva liberare, che voleva
realizzare, ed i brividi risalivano le braccia ed attanagliavano il
cuore, essenziali, spinosi, avviluppanti. Le emozioni, troppe a
sovrapporsi, sfociavano fino a renderlo incauto, ma lui lo sapeva che
non sarebbe caduto. L'esperienza, rimasta acquattata dentro di
lui per tutto il tempo, muoveva il suo corpo con ammirevole destrezza.
E poi tutto diventava
più
brutto, più minaccioso, come un'ombra sulla pelle. Due voci
bisbigliate ed affrettate, furtive,
brutte piccole viscide risate. Cos'erano? Qualcosa di infimo, di
abietto. Una finestra, e il sorriso di Jaime Lannister, placido, lungo
e sarcastico, e il brillare pungente dei suoi occhi verdi. Cosa
non si
fa per amore, cosa non si fa.
Mormorava quelle parole già sentite e si avvicinava per
ghermirlo con le mani.
Ma Bran non si lasciò afferrare, questa volta: si
alzò in
piedi, sul davanzale di
pietra della finestra, e dall'alto guardava Jaime Lannister e Cersei,
nient'altro che gatti spauriti che lo fissavano, gli occhi
colmi
di sconcerto. E Bran si sentiva forte, grande -più forte,
più grande.
Erano salde, le sue gambe, e il mondo era quell'ammasso
ignobile e miserevole là in basso. Bastò sgranare
appena
le pupille e il viso di Jaime Lannister si deformò in una
maschera di raccapriccio, la bocca dilatata ed il sangue ad arrossargli
i denti, lacrime rosse a rompere gli occhi, e si afflosciava nel dolore
la sua terribile gemella. Bran non li guardava più; scendeva
dal
davanzale e calpestava i loro cadaveri, sangue vile, carne empia. Oltre
la porta v'era una sala che non c'entrava nulla con Grande Inverno; era
quella del Trono di Spade, nella Fortezza Rossa, o almeno
così
Bran dedusse. Fra le lame sedeva Joffrey, con un
sorriso insolente, la corona reclina sul capo, e fra le
mani strattonava i capelli di suo padre, un pugnale pronto a
squarciargli
la gola. Bran ruppe la sua mente con spiazzante facilità, e
il
trono all'improvviso era così piccolo, così
insulso, e
Joffrey crollava trafitto da tutte le spade, e il suo sangue colorava
il trionfo. Gretto, audace, spudorato, Bran proseguiva più
rapido, il mantello colmo di vento a gonfiarsi alle sue spalle, lo
sguardo fisso, nero, incrollabile, e quella smania ad ansimare nella
sua gola, un crescendo d'irrequietezza come una nube appestata a
mordergli le ossa fino al cranio. Il respiro assecondava i suoi passi
sulla pietra, rapido, a pungolare le labbra per scivolare, il fiato
sfrigolante -una candela all'incuria del vento. La
bramosia sconquassava la nitidezza della realtà
come nebbia
rossa. Poi vi fu il cortile di Grande Inverno, dissestato, attorniato
da rovine crepitanti di fiamme, e l'arroganza di Theon, con
un'espressione nuova e cattiva su quel volto che Bran non aveva mai
imparato ad amare, ed egli stringeva con violenza il braccio di Rickon,
il bambino di sei anni perso per la strada d'un fato iniquo. E
Bran piegò il sorriso di Greyjoy, perchè egli era
grande
ed
irrefutabile, mentre cos'era, quel figlio che nessuno voleva, quel
traditore d'ogni bandiera, quanto poteva valere la sua morte, lenta e
precisa e metodica e concentrata come una preghiera. Nella sala attigua
v'era un tavolo da cerimonia, lungo e
imbandito, con piatti scomposti e boccali rovesciati, a spandere il
contenuto in rigagnoli di vino. Al posto d'onore sedeva un vecchio dal
viso raggrinzito come una prugna marcia, che ghignava becere risate;
poco lontano c'era Roose Bolton, e puntava il coltello al collo di Robb
Stark. Quegli occhi di fratello, grandi e cerulei, aggrappati
spasmodicamente ai suoi, gli scossero il cuore come una corrente
abissale. Il volto di sua madre, trattenuta dalle mani
brusche di un soldato, baluginava lontano come una stella dalla sua
memoria. Bran rivolse lo sguardo a Walder Frey: il potere che gli
fremeva nelle mani schiacciò la debole mente di quell'uomo
come
una bacca. La sala s'inondò di sangue, lingue che
schizzarono
alte fino al soffitto, e questa volta era il sangue giusto quello
versato. Bran tremava forte, e nemmeno serrare le dita in pugni
servì.
Tutti i membri della sua
famiglia erano vivi, all'improvviso, ed
erano accanto a lui. Vivi e veri e gli sorridevano, e lo ringraziavano
e tendevano le mani verso di lui, un viso familiare e un altro e un
altro ancora...
Ma Bran non voleva
affatto che si
avvicinassero. Basta un istante -ormai non è più
difficile. Gli occhi di Robb caddero dalle orbite come biglie e non
appena Arya aprì la bocca vi scaturì un getto di
sangue
gorgogliante, la testa di Catelyn s'infranse come
se all'interno
un demone urlasse. La pelle di Sansa pioveva a brandelli, dilaniata da
artigli invisibili; suo padre affogava invischiato, la carne intrisa,
le labbra grondanti. Bran rise; un suono spezzato, rauco, affilato come
schegge, e quel rumore di lama a sfregare sulla pelle, quel nucleo di
potere pulsante che scandiva imperturbato un suono tondo ed
ottuso
-gli riempì il corpo dai polpastrelli al basso ventre. Il
petto,
sotto le vesti di broccato, palpitava strenuo e incrollato. Solo una
figura emerse dal buio ai suoi piedi: era Rickon, carponi a terra, in
ginocchio davanti a lui, e lo sfrontato adolescente che tanto lo faceva
arrabbiare continuava a confondersi con l'immagine del bambino dai
riccioli arruffati e gli occhi increspati di lacrime, che sussurrava
suppliche incomprensibili. Bran smise di ridere lentamente, gli
sghignazzi si calmarono in maniera progressiva lasciando il posto ad
una tensione logorante; egli guardò il fratello minore in
quegli
occhi imploranti. Lo guardò. E lo guardò ancora.
Finchè da una delle narici non stillò una densa
goccia di
sangue.
E ridere, ridere,
ridere, e il suo
trono era una catasta di cadaveri, il Folletto e Tommen e Margaery
Tyrell e Meera, e quel figlioletto con gli occhi come i suoi, catasta
talmente gremita che ormai Bran
aveva perso il conto -no, Bran non c'era più, c'era quella
sete
sguaiata e quel potere, quel potere che l'aveva assuefatto fino a
soffocarlo -sì, stava soffocando, la sua gola si chiudeva,
egli
scivolava sempre più giù fra i cadaveri e il
sangue lo
divorava colmandogli i sensi e non riusciva a repirare, non riusciva
a respirare...
-Si sta svegliando?!- Una voce veloce ed enfatizzata dalla
preoccupazione.
-Maestà?- Un'altra voce. Confortevole, morbida.
-Maestà? Riesci a sentirmi?-
Sì, riusciva a sentirlo. Bran spalancò gli occhi
precipitosamente e la luce travolse le sue pupille disorientate come un
manrovescio; il ragazzo gemette e abbandonò le palpebre,
arreso.
Voleva dire qualcosa, ma la voce s'impastava nella gola chiusa e
riaffondava nel petto. Avvertì la presenza di Jojen come si
percepisce il sole sulla pelle e il suo respiro si
regolarizzò.
Il sudore gli inumidiva la nuca; un vago, tossico sentore di sangue era
incollato al suo palato come viscoso bitume. La spossatezza gli
pervadeva i muscoli, e le sue gambe non rispondevano al minimo impulso
nervoso -come al solito; non c'era stato nemmeno il tempo di illudersi
del contrario, del resto.
-Mi vedo costretto a chiederti di guardarmi, Maestà.-
proseguì la voce salda e liscia di Jojen. Riluttante, Bran
obbedì, questa volta più cautamente: quel che
vide fu la
luce aranciata delle candele danzare sulle pareti e due sagome scure
incombere su di lui. Riconobbe i ricci indomati di Meera, poi gli occhi
accigliati di lei; e Jojen, inginocchiato vicino al letto, che gli
stringeva delicatamente il polso fra le mani misurando il battito
cardiaco, ad esaminarlo con attenzione. Scrutò i suoi occhi
alla
ricerca di qualcosa, infine contrasse le labbra ed annuì fra
sè.
-Si è rotto soltanto qualche capillare oculare. Nulla di
grave. Come ti senti?-
Bran ci pensò prima di rispondere. -Stanco.-
confessò
infine. Capitava spesso, d'altronde, che al risveglio da un sogno
durante il quale aveva compiuto uno sforzo fisico egli provasse i
sintomi d'un reale affaticamento. La moglie, sul viso ritratte le
prove d'un brutale risveglio, lividi viola di sonno sotto lo sguardo
infuocato -ma con l'indefessa risolutezza di chi è sempre in
allerta, pronto a scattare al segnale e mobilitarsi all'improvviso- gli
aveva sollevato il cuscino poggiandolo contro la testiera del letto e
gli aveva premurosamente frizionato la fronte accaldata con un panno
umido. Il contatto della stoffa bagnata aveva il
balsamico effetto
d'un niveo bacio contro la pelle bollente, e Bran si permise il lusso
di godere di quel momentaneo refrigerio. Il sogno a cui aveva assistito
era
inciso a sangue nelle sue pupille come un marchio a fuoco.
-Hai visto anche tu...?- chiese agitato a Jojen, lasciando la domanda
in sospeso. Il suo consigliere lo osservò a lungo ed infine
annuì gravemente.
-Che cosa è successo?- intervenne Meera, incrociando le
braccia
al petto, disapprovando la propria esclusione dalla discussione. Jojen
la ignorò e porse al re un calice colmo d'acqua fino
all'orlo.
Bran pensò che, se qualsiasi altra persona -Rickon incluso-
l'avesse fatto, egli l'avrebbe invitata a bere per prima; mentre, anche
se il suo consigliere gli avesse offerto un liquido verde
dichiarandolo vino, non avrebbe avuto alcun dubbio a
proposito.
Sorseggiò; nella gola v'era un buco di dolore lancinante,
disgustoso, simile ad
una ferita riaperta, che il liquido freddo accese in uno stridore
acuto. L'inclemenza dell'acqua attenuò il sapore del sangue,
sciogliendolo un po' dal palato di Bran.
-Ti sei morso la lingua nel sonno.- osservò Jojen. -Hai
persino
rischiato di inghiottirla. Se si verificherà di nuovo
un'esperienza onirica del genere, potresti perdere la vita.-
Bran aggrottò la fronte; certo, si sentiva piuttosto male,
però mai avrebbe potuto immaginare che il pericolo fosse
tale.
Gli formicolavano fastidiosamente le dita, mentre i palmi erano madidi
di sudore.
-Ma insomma, cos'hai visto?- insistette Meera, visibilmente sconcertata
dalle parole del fratello, l'apprensione accalcata contro lo specchio
delle iridi scure come mani supplichevoli. Il marito si
limitò a
lanciarle uno sguardo penetrante ed indecifrabile.
-Perchè è stato così... diverso dagli
altri?
Così sconvolgente?- domandò infine a Jojen,
stringendo le dita
attorno al calice.
-Non credo esista una risposta esatta a questa domanda, e in tal caso
io non te la saprei fornire. Assisto ad eventi che non sono ancora
accaduti, partecipo ai tuoi sogni, ma non sempre so spiegarmi quello
che vedo. Le mie conoscenze circa i sogni verdi le ho
acquisite
soltanto tramite l'esperienza, perchè nessuno in effetti mi
ha
insegnato nulla in proposito. Comunque, immagino che questo sogno sia
stato così difficile da affrontare, sia psicologicamente che
fisicamente, perchè i tuoi poteri stanno crescendo.
Può
essere un vantaggio per te, però allo stesso tempo un
ostacolo,
perchè anche la loro influenza aumenta. Diventano
ingombranti, per così dire, in ogni senso. Tanto grande
è
il loro potenziale, tanto essi pretendono di essere sfruttati.- Jojen
gli ravvivò i capelli sulla fronte. -Non ci sono
certezze
circa il rapporto tra l'intensità emotiva dei tuoi sogni e
la
reazioni fisiche del tuo corpo, perchè il tuo caso
è
unico e probabilmente irripetibile. L'unica cosa di cui sono sicuro
è che usufruirne ti stanca moltissimo; è
paragonabile
alla somma di uno sforzo mentale quale una lettura di tre ore e uno
sforzo fisiologico quale una corsa ininterrotta di quaranta minuti.
Sarà quindi necessario
vigilarti più costantemente, e con maggior perizia,
affinchè non accada qualche fatale incidente. Una forma
precauzionale utile potrebbe essere, per esempio, accertarsi che tu sia
digiuno da almeno dieci ore prima di utilizzare i poteri, in modo da
impossibilitarti ad andare oltre
il tuo obiettivo quando essi si manifestano.- spiegò il
ragazzo, moderando sapientemente il tono di voce e le parole.
Bran deglutì; il precipizio di dolore della gola
protestò.
-Che cosa significa ciò che ho fatto in questo
sogno, Jojen?-
Aveva posto la domanda che davvero gli stava a cuore. Era ancora
allucinato da quelle grottesche sequenze che danzavano come lampi, dal
suono estraneo di quelle risate sguaiate che non riconosceva proprie, e
il sapore del
sangue richiamava alla memoria quello che esplodeva dalla testa di sua
madre, che scrosciava dalla bocca di Arya, che gocciolava dal naso di
Rickon... e la fame, quella fame che soltanto sotto la pelle di Estate
solitamente provava. Lo atterriva il fatto che Jojen l'avesse visto in
tali orribili condizioni -e c'era anche Meera, in quella catasta di
cadaveri, gettata alla rinfusa come una bambola di pezza, con il sangue
che colava dagli occhi sfondati.
-Che se non impari a dominare i tuoi poteri, i tuoi poteri impareranno
a dominare te.- fu l'asciutta e lapidaria risposta. Bran
avvertì
una fitta di spavento accendersi ed espandersi nella cassa toracica.
D'un tratto, quella che per tutti gli ultimi anni aveva ritenuto la sua
unica arma di difesa gli parve una specie di intelligenza aliena ed
oscura, ad invaderlo ed impossessarsi di lui.
-Come stai adesso, Maestà?- proseguì Jojen,
carezzandogli
delicatamente il palmo con il pollice, in un gesto discretamente
ponderato ma significativo che fece esplodere nelle vene di Bran la
prepotente esigenza
di baciarlo, lì, così, adesso, cogliendo un
attimo
terribilmente giusto; una follia che Bran Stark sapeva osare, ma che il
re del Nord non poteva permettersi.
-Sto bene.- confermò rapidamente. -E ho parecchie cose da
fare
quest'oggi, perciò non posso stare qui a perdere tempo.
Meera,
mi aiuteresti a vestirmi, per favore?-
Nel frattempo, Osha arrestò la propria caduta avanzando le
mani
e poggiandosi sui palmi aperti contro le lastre di pietra consunta.
Socchiuse le labbra ed ansimò.
-Niente male, piccoletto.- bofonchiò fra i denti. -Davvero
niente male.-
-Oh, lo so, mia lady.- Rickon
le piantò lo stivale sulla schiena, di modo che ella non
potesse
rialzarsi; Osha, nonostante la veemenza del colpo, non si
lasciò
sfuggire un lamento ed anzi alzò gli occhi al cielo, quasi
richiamando a sè tutta la pazienza di cui non era
prodiga.
-Avanti, dì che ti arrendi e ammetti la tua
inferiorità.-
la incalzò il ragazzo, premendo compiaciuto il piede contro
la spina
dorsale di lei. La donna sbuffò e si rigirò a
pancia in
su, lanciandogli un'occhiata di traverso.
-Va bene, va bene, mi arrendo. Contento adesso?-
Decisamente no. -Dì che sono il guerriero più
capace del
mondo.- proseguì Rickon, capricciosamente, con un sarcastico
sorriso -sapeva bene di stare punzecchiando il punto debole di Osha,
ovvero l'orgoglio, altrimenti non si sarebbe divertito in quel modo.
Osha assunse un'espressione solenne. -Sei il guerriero più
imbecille del mondo.-
-Risposta errata!- Rickon
si
gettò con giocosa frenesia ad afferrarle la gola con una
mano ed
i capelli con l'altra, nello stesso momento in cui la donna lo
prendeva per i fianchi ed invertiva le posizioni, inchiodandolo a terra
e conficcandogli un ginocchio nello stomaco. Rickon, furibondo e
deliziato, affondò i denti nel braccio di Osha ma lei non
attenuò la pressione contro il petto del ragazzo, a tal
punto
ch'egli dovette morderle la gola prima di riuscire a liberarsi, tirarle
un pugno, schiantarla al suolo e bloccarle ambo i polsi sopra la testa,
in una presa ferrea.
-Adesso dillo!- ordinò petulante, accompagnando ogni sillaba
con uno strattone ai suoi capelli. -Me lo sono meritato. Lo sai.-
Osha infine sorrise. -Vaffanculo. E adesso scrostati, piccoletto...
Rispetto per chi ti ha imbeccato come un uccellino di nido, quando
tutti gli altri volevano squartarti.-
-L'allievo ha superato la maestra da un pezzo.- precisò
Rickon,
sogghignando, però indietreggiò per permetterle
di
alzarsi in piedi.
-A proposito... come va con la prigioniera?- domandò Osha,
mentre si tastava la guancia per constatare i danni. Rickon
alzò
le spalle e disegnò dei solchi con la punta dello stivale
sulla
ghiaia, distrattamente.
-Dici il mio piccolo abominio biondo? Bene. Mi diverte. A volte tace e
fa la sdegnosa, a volte si trattiene a stento dal frignare, a volte le
vengono
degli attacchi di rabbia... Mi sa che sta perdendo qualche
rotella
là sotto. E questo mi eccita ancora di più.
È come
insidiare ogni giorno una parte diversa di lei.-
Osha annuì noncurante. L'idea che Rickon stuprasse una
ragazza
non la indignava affatto -anzi, era qualcosa che riusciva a
comprendere, riguardo il quale arrivava persino a trovarsi d'accordo-
però
lui aveva quella sua maniera particolare di violentarla, sottoponendola
perlopiù ad attacchi psicologici, assediando la sua mente di
stimoli, rinchiudendo il suo corpo nel buio, scomponendola pezzo per
pezzo e divertendosi a scombinare i tasselli e portarne via qualcuno
con sè, così che fosse impossibile ricreare
l'immagine
iniziale. Osha non aveva più visto Myrcella, dopo quello
sporadico
incontro fuori dalla porta della sala del trono, però dalle
chiacchiere concitate delle servette riusciva già a
visualizzare
il ritratto di quel bel visetto assottigliato dagli stenti,
schiaffeggiato dal
destino, annerito dalle tenebre, una creatura infera dalla voce lacera
e le caviglie incatenate, che ride folli risate e piange folli lacrime,
capelli bianchi e carne nera, occhi verdi non più come la
giada,
ma come una luna malata. La piccola leonessa di Castel Granito spaccata
di botte e prosciugata d'integrità.
-Immagino che ti spetti di diritto. Ma un giorno dovrai decidere se
tenertela
viva lì per sempre oppure ucciderla. Dubito che, se la
lasciassi libera, avrebbe un qualche genere di futuro.-
Rickon calciò la ghiaia, indispettito.-Io non la
libererò
mai. A che scopo, poi? Lei è una
Lannister. Non merita nè di vivere nè di morire.-
Alzò lo sguardo al cielo plumbeo che lo sovrastava, mentre
un
soffio di vento -come una gelida goccia di rugiada- s'insinuava sotto
la casacca intrisa di sudore, staccandola dalla pelle, e percorreva la
schiena umida con tocco fresco. -Solo
di soffrire.-
Scoprì di non avere voglia di raccontare ad Osha quel che
era
successo il giorno precedente; non era nulla d'importante,
però
gli procurava qualcosa di simile al disagio. Era accaduto questo:
Rickon era andato a trovare la prigioniera come al
solito, l'aveva fottuta senza riguardi e l'aveva lasciata lì
per terra, il respiro incerto fra le labbra spaccate, i capelli spanti
fra la cenere come sangue. Quella bellezza non gli era ancora venuta a
noia: verdi erano i maledetti occhi, che lo sfioravano con intimorita
cautela, come un fiore che schiuda appena la corolla facendo presentire
la sua immane delicatezza; era candido, il petto di Myrcella, sotto i
brandelli di stoffa sgualcita ch'ella insisteva a premersi
pudicamente al seno. Con indosso tutto il male del mondo, unica erede
d'un debito schiacciante, incrostata di quel sangue che non aveva
versato, teneva le cosce impolverate oscenamente serrate l'una contro
l'altra, quasi che esistesse ancora decoro, ancora dignità,
ancora diritto per quella creatura immonda e gentile, con gentile
respiro e gentili guance.
-Ci vediamo domani, mio piccolo abominio di una Lannister.-
aveva canticchiato, dopo aver chiuso con il lucchetto la porta della
sua cella; si era allontanato, pago, tronfio, rallegrato.
Quando era ormai presso la scala a chiocciola che lo avrebbe condotto
al piano superiore, quella voce l'aveva raggiunto come un sasso
scagliato nel buio.
-Io mi chiamo Myrcella.- Egli aveva posato il piede sul primo scalino
senza proseguire,
interdetto, sbalordito dal solo suono della sua voce, incuriosito suo
malgrado.
Ella, non avvertendo più il rumore dei passi, aveva
continuato, ogni parola a tremare fra le labbra.
-Io non mi chiamo abominio. Non chiamo nemmeno Lannister. Mi chiamo
Myrcella. Myrcella, non è così difficile da
pronunciare.
Persino tu ce la puoi fare. Myr-cel-la.
E, senti? non sto piangendo. Io non piango. Io non sto
ancora piangendo, Rickon Stark! Ricordatelo!-
In quelle poche parole c'era l'urgenza d'una gola chiusa da troppi
giorni, la durezza della pietra sotto la nuca durante il sonno e
l'inerme rancore d'un'anima detronizzata dal corpo. Myrcella Lannister
urlava per farsi ascoltare, urlava per ascoltarsi, ed urlava
perchè voleva accertarsi d'essere ancora viva. La voce
dilaniata
inseguiva disperatamente Rickon ed era l'energia esasperata della
volontà a farsi largo fra le tenebre, e la stanchezza, la
vergogna, la confusione soffocavano il furore, furore come una
fiammella attizzata fra le ceneri dell'onore arso. Ella era in quello
stato di struggimento in cui, rendendosi conto che la sua forza scemava
in un'emorragia irrefrenabile, si aggrappava all'altisonante potenza
del suo nome, affidandosi alla forza di qualcun altro nella speranza
che potesse sostenerla. Perchè una Lannister rimane
principessa
anche nelle segrete, con le catene ai polsi.
Rise bonariamente di quelle pallide minacce, di quell'imprudenza
inutile, Rickon, rise di quel dolore che chiamava aiuto senza
preoccuparsi di chi udisse l'appello. In un primo momento
pensò
ch'ella aveva bisogno d'una bella lezione, poi decise che non si
trattava altro che d'un frastornamento momentaneo, che se fosse stata
padrona di sè la ragazza non l'avrebbe fatto, e
lasciò
correre. Fatto sta che quel ricordo era sistemato scomodamente nella
sua testa, come se non ci dovesse essere, oppure come se dovesse essere
diverso.
Mentre Rickon rimuginava fra sè, giunse un attendente ad
avvertirlo: -Lord Stark chiede di prepararti per accogliere
adeguatamente il lord comandante, che sarà qui fra meno di
un'ora.-
Il principe annuì svogliato, calciando di nuovo la ghiaia.
-Preferirei mille volte stare qui ad allenarmi con te, piuttosto che
andare a fare l'amicone con quel bastardo.-
Osha scosse la testa. -Non siamo più a Skagos, Rickon.
Bisogna
che tu ti assuma le tue responsabilità, così come
ha
fatto Bran. Odio doverti sciorinare queste manfrine, ma sai anche tu
che è così. Sopporta per qualche ora tutti quei
discorsi
rognosi e poi, quando il tipo se ne tornerà da dove
è
venuto, vai dalla tua ragazzina bionda e vedi come ti si illumina la
giornata.-
Rickon sorrise fra sè e sè. -Questo è
parlare.
Bene, allora vado ad agghindarmi come una fottutissima damina di corte.-
Agghindarsi come una fottutissima damina di corte, per lui, significava
cambiarsi la casacca degli allenamenti, indossare un mantello di
velluto ed infilarsi un paio di stivali che non fossero lordi di fango.
Quando si presentò al cospetto di Bran, davanti al trono, il
fratello maggiore sospirò.
-Non puoi fare niente per quei capelli?!- domandò,
esaminando
con un sopracciglio inarcato la chioma rossastra e scompigliata ad
imbrattargli le spalle.
-Proprio niente.- confermò Rickon bellicosamente.
Jon Snow giunse a Grande Inverno persino in anticipo. L'ultima volta
che Bran l'aveva visto era stato due anni prima, quando egli era giunto
alla
Barriera per tornare a ricostruire Grande Inverno; il fratellastro era
rimasto
più o meno uguale, soltanto che i ricci corvini erano
divenuti
più lunghi e più folti e sul suo volto erano
ritratti un
orgoglio e una fiducia in sè stesso gradatamente
più
saldi.
Finalmente, dopo tanti anni di incertezze e tentennamenti, aveva saputo
dirigere il proprio destino sulla strada giusta e trovare il proprio
posto nel mondo -un ruolo che non avrebbe potuto essere interpretato da
nessun altro, se non da lui.
-Maestà.- Jon appoggiò il ginocchio per terra, in
segno
di rispetto, ma quando sollevò la testa una scintilla
d'intenerito divertimento gli scaldava gli occhi castani.
-Lord comandante.- ribattè Bran, abbozzando un sorriso,
mentre
con un gesto della mano lo invitava a rialzarsi. -Avresti dovuto
giungere a farmi visita molto prima. Sai che qui sarai sempre il
benvenuto. Com'è andato il viaggio?-
-Bene, ti ringrazio. È caduta poca neve, quindi non abbiamo
incontrato
difficoltà.- Jon scostò lo sguardo alla destra
del re.
-Non ho avuto tempo fa l'onore di presentarmi adeguatamente, mia
signora. Sono Jon Snow, lord comandante dei Guardiani della Notte, e
umile
servitore di tuo marito.-
Meera ricambiò il sorriso. -Mettiamo da parte le
formalità, dunque: la famiglia è famiglia, e sua
Maestà mi ha parlato così spesso di te. Chiamami
pure
Meera.-
-Che poi, lei è una lady soltanto di nome.-
rivelò Rickon
con un sorriso storto, uscendo dalle file dei ministri ed avanzando
verso Jon, con Cagnaccio al fianco. -Per fortuna.-
Il lord comandante esaminò il ragazzo, con crescente
perplessità; quando il suo sguardo ricadde sul metalupo, le
sue
iridi si dilatarono rapidamente per lo stupore.
-... Rickon?- domandò, non senza una punta d'esitazione.
-Sei davvero tu?!-
-Sono davvero io.- sogghignò Rickon. -È
passato molto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti, io e te.-
-Dieci anni.- puntualizzò Jon, cercando di riconoscere nel
viso
spigoloso ed allungato del ragazzo qualche traccia del bimbo che gli si
aggrappava ai pantaloni chiedendogli di giocare. Infine esplose un
sorriso incredulo, a metà fra l'emozione dell'incontro e la
consapevolezza dell'assurdità della situazione. -Ho spesso
sentito parlare di te. Tuo fratello stesso a suo tempo mi disse che
vivevi a Skagos, e come potrei ignorare che hai decapitato Tywin
Lannister con un colpo solo? Eppure, inconsciamente, ho sempre
associato a tutte queste notizie il vago ricordo di te bambino. Adesso
guardati, sei così incredibilmente... grande.-
Non aveva altre parole sulla punta della lingua per descrivere quel che
vedeva, la spalle larghe, il fisico asciutto ma chiaramente delineato
sotto il mantello, le gambe lunghe e la spada appesa alla cintura, e...
quanto accidenti era alto?!
Almeno
come lui. Intanto, Spettro stava osservando Cagnaccio con altero
sospetto; ad un certo punto parve placare i suoi dubbi, oppure perdere
interesse, perchè distolse gli occhi iniettati di sangue e
tornò a sfregare le gambe di Jon con la coda.
-E tu parli come i vecchi.- commentò Rickon, sbadigliando.
-Quand'è che si mangia?-
-Giusto, sarai provato dal viaggio, lord Snow.- rammentò
Bran, lanciando
un'occhiataccia al fratello minore. -Prendiamo dunque posto a tavola.-
Jon riconobbe anche l'amico che aveva accompagnato Bran oltre la
Barriera, il figlio di Howland Reed.
-Mio fratello se lo fa una sera sì e l'altra pure.- gli
bisbigliò Rickon all'orecchio, appena intercettò
il suo
sguardo. -Se lo sbatte talmente spesso che ormai Meera ha un palco di
corna in testa peggio dei Baratheon.-
Quell'uscita aveva lasciato Jon parecchio sconvolto, e non volle
crederci. Gli parve una cosa troppo balzana, troppo stravagante e di
cattivo gusto per uno Stark, e decisamente Bran non era un
depravato. Ad ogni modo, il banchetto incominciò e la
conversazione giunse subito al punto.
-La guerra ormai non è più alle porte.
È già
dentro di noi, sotto la nostra pelle. I Lannister stanno richiamando
tutti i loro vassalli, poi probabilmente attaccheranno: e noi li
anticiperemo, anche questa volta.- Bran dispiegò la mappa
dei
Sette Regni sul tavolo, spostando il piatto di carne da cui aveva
mangiato a malapena tre bocconi. -Farman, Kenning, Crakehall, Garner,
Marbrand, Swyft,
Prester, Lefford, Clegane, Spicer, Payne. Questi sono i più
temibili.
Ah, e poi ci sono gli alfieri dei Tyrell... Ashford, Bulwer,
Florent, Oakheart, Fossoway, Hightower, Crane, Merryweather, Redwyne,
anche i Tarly. Mi rendo conto
che sembrano molti, ma la maggior parte dipendono dai
Lannister e dai Tyrell anche economicamente.-
A quel punto fu interrotto dall'arrivo della balia, che stringeva al
petto il piccolo principe. -Immagino che reclamasse voi, mia signora.-
Meera annuì e lo prese fra le braccia, accomodandolo al
braccio
destro. Il bambino aveva dolci riccioli tondi ad ammorbidirgli il capo
e decorare le guance paffute, rosate come madreperla, e minuscole mani
vellutate e puntellate di fossette; egli cominciò subito a
giocherellare con il medaglione appeso ad una catenina al collo di sua
madre, che effigiava un coccodrillo, emblema di casa Reed.
-Vostro figlio...- mormorò Jon, con tono di voce
indefinibile,
osservando con sorridente nostalgia quella piccola creatura.
-È
davvero strano, Br... Maestà. Come si chiama?-
Bran sorrise. -Kenned.-
-Kenned?- Il ragazzo trasalì. -Se posso domandare, hai
scelto questo nome perchè...-
-Sì, perchè può essere abbreviato in
Ned.-
confermò il re, abbassando lo sguardo sul calice di vino
ancora
colmo, quasi per una sorta di riverente pudore a quell'accenno.
Alla tavola calò un silenzio commosso e tutti si resero
conto di
quanto fosse impareggiabile l'omonimo con cui il bambino avrebbe dovuto
confrontarsi -come un'ombra che l'avrebbe seguito per il resto della
vita. In quegli occhi castani ed inconsapevoli era scritta la storia
d'una stirpe, che per giungere in ogni dove tanto prediligeva il sangue
all'inchiostro.
Bran si schiarì la voce. -Dicevamo, gli eserciti. Beh, anche
noi non siamo mal accompagnati.-
-Significa che tutte le famiglie del Nord hanno acconsentito a tornare
vassalle di casa Stark?- si stupì Jon.
-Direi di sì. Hornwood, Ryswell, Flint, Cassel, Umber,
Glover,
Cerwyn, Dustin, Locke, loro hanno accettato immediatamente. Stessa cosa
per i Mormont ed i Tallhart.- Mano a mano che nominava le varie
casate, indicava con il dito la loro posizione geografica
sulla
carta; nel citare i Tallhart, il suo indice si soffermò su
Piazza di Torrhen. Poi lo spostò su Forte Terrore. -I Bolton
sono una questione a parte. Visto che il bastardo di Roose è
scomparso nel nulla e non c'è stato modo di rintracciarlo,
ho
posto al comando un lontano cugino di terzo grado affinchè
il
popolo non scatenasse qualche rivolta. In teoria non è una
minaccia per noi, sembra essersi arreso, anche perchè non
avrebbe più nessuno al Nord disposto a schierarsi dalla sua
parte, nè un ipotetico attacco a Grande Inverno riuscirebbe
con
successo. Se gli chiederò un esercito, me lo
fornirà. E poi ci sono i Manderly.- Il dito
scivolò
più in basso, fino a Porto Bianco. -Loro sono piuttosto
ricchi,
forniranno un aiuto prezioso. Per quanto riguarda i Karstark... Il
figlio di lord Rickard, Harrion, ha compreso gli errori di suo padre e
ha acconsentito di buon grado a dimenticare ogni antico rancore. Mi ha
assicurato tramite lettera che le truppe sono pronte ed attendono
soltanto un mio ordine per partire per Grande Inverno.-
-Notevole.- affermò Jon, esaminando la cartina e roteando
distrattamente il vino rosso contenuto nel suo bicchiere. -Ma non
sufficiente, temo.-
-Dimentichi che anche noi abbiamo i nostri alleati al Sud.- lo
contraddisse Bran, attirando l'attenzione del fratellastro
più
in basso sulla carta. -Mio zio Edmure è stato il primo a
schierarsi dalla mia parte. Non vedeva l'ora di potersi vendicare
contro i Lannister, in realtà.- Edmure Tully era
fortunatamente
riuscito a scampare alla prigionia presso alle Torri Gemelle grazie al
tempestivo intervento di suo zio Brynden e, attualmente, regnava su
Delta delle Acque con al fianco il suo giovane erede, un simpatico
ragazzino dai capelli rossi di nome Miles. -Tully significa Blackwood,
Bracken, Mallister, Mooton, Went, Smallwood, Vance... Jojen, ricordami
dove ha residenza la casata Vance, per favore.-
Il consigliere si allungò dal suo posto a tavola, affianco a
Bran, verso la cartina.
-Ci sono due residenze, entrambe nelle terre dei fiumi. Una
è ad
Atranta, l'altra a Wayfarer’s Rest.- Nell'indicare le due
zone,
il suo dito sfiorò accidentalmente quello del re, mentre
invece
lo stava ritraendo. Bran non riuscì a reprimere il baleno
d'un
sorriso, che lasciò, come unica testimonianza di
sè, un
fioco rossore all'altezza degli zigomi, e che egli si
affrettò a
sformare sulle labbra.
-... grazie. L'unico problema è che, se casa Martell scende
in
campo, questa situazione di parità tornerà a
sbilanciarsi. Non possiamo permetterci un simile pericolo, quindi la
guerra deve essere breve e decisiva: impedire ai Lannister anche solo
di pensare ad una riscossa. Ovvero uccidere Tommen, e, nelle mie
speranze più rosee, il Folletto; il che non è
fondamentale, ma almeno esclude qualsiasi possibilità di
vendetta. Meno Lannister rimangono in circolazione, meglio
è.-
Jon esaminò la mappa per qualche istante, rimuginando;
quando
sollevò lo sguardo, scuro e lustro, esso era rilucente di
determinazione quanto una spada neonata.
-Credo di avere la soluzione.-
-Vale a dire?- Bran non si aspettava una risposta del genere.
Jon protese il viso verso di lui e colpì la superficie del
tavolo con la mano aperta. -Stannis Baratheon.-
A quel punto, il giovane fratellastro era assolutamente in confusione.
-Cosa intendi?-
-Stannis Baratheon giunse alla Barriera diversi anni fa. Gli mancava un
esercito numeroso, nessuno nei Sette Regni era disposto a prestargli
fiducia, e quindi cosa fece? ebbe l'idea di armare ed allenare i bruti.
Sì, i bruti. Può suonare strano, ma loro stanno
fuggendo
per via della discesa degli Estranei e chiedono asilo al Castello Nero.
Pur di sopravvivere, le
donne hanno accettato di svolgere qualche mansione per aiutare gli
attendenti, mentre gli uomini sono stati addestrati da Stannis per
calibrare la mera forza fisica in tecnica, rapidità,
destrezza.
L'allenamento ha ottenuto risultati sconcertanti: io li ho visti con i
miei occhi.
Persone che prima tenevano a malapena un'ascia in mano sono diventate
spadaccini niente male. Guarda: questa l'ho portata in dono per te.
L'ha costruita proprio un bruto, ma non lo diresti mai, esaminandone la
fattura.-
A quel punto un attendente accorse, porgendo al re una lunga lancia
scintillante, di buon legno pregiato, con la punta eccellentemente
affilata, l'asta maneggevole e dinamica e il padiglione ben
intagliato. Appena i
suoi occhi intercettarono il bagliore scoccato al bacio che la luce
delle fiaccole alle pareti diede alla punta aguzza, Meera
s'animò. Fu una bellezza ammirare il ravvivarsi di quello
spirito sopito: Jon si stupì stranamente di non aver notato
fino
a quel momento quanto fosse graziosa, ma probabilmente fu proprio
l'improvvisa vitalità che scoppiettò nel suo
sguardo a
restituire al suo aspetto i doverosi meriti. Questo dimostrò
il
fatto che Meera Reed non era morta; annoiata dalla
quotidianità,
sfiancata dall'inerzia, schiacciata dalla corona, ma non morta. Prigioniera.
-È stupenda... Che legno hanno usato? Quanto può
misurare
l'affondo? Posso vederla??- Persino il bambino parve notare
l'improvvisa esaltazione della madre e tese una mano ad aggrapparsi ad
un suo morbido boccolo. Bran si astenne dal sospirare, con
un'espressione da "sempre la stessa
storia", però gli piacque quell'improvvisa
vivacità. Si
vide costretto a richiamarla all'ordine, davanti agli ospiti.
-Meera.-
La moglie gli lanciò un'occhiata svelta e furba, quasi
divertita
ed addirittura compiaciuta, come se l'idea di essersi comportata in maniera irriguardosa avesse
un fascino segreto.
-Chiedo perdono.-
-Prego, lord Snow. Continua.- lo invitò Bran allora,
aggrottando la fronte.
Jon riprese il suo racconto da dove s'era interrotto. -Ho vissuto al
suo fianco per tutto questo tempo, e te lo posso assicurare. Stannis
è un grande comandante, sa il fatto suo. Rigoroso, severo,
sì, ma giusto. Vedi, lui ha bisogno di alleati,
perchè il
numero dei guerrieri è sì cospicuo, ma non
può
competere con le truppe
dei Lannister e dei Tyrell, e inoltre che rispetto potrebbe suscitare
se si presentasse a reclamare il trono insieme a dei selvaggi irsuti?
Metto la mano sul fuoco anche circa la sua fedeltà alla
parola
data: se diventerete alleati, è certo che non ti
tradirà.
È uno dei pochi uomini d'onore rimasti. Pensaci,
Maestà:
lui
è il legittimo sovrano dei Sette Regni, in quanto fratello
di re
Robert, e se siederà sul Trono di Spade prenderà
provvedimenti circa il Nord attendendosi ai tuoi interessi. Avrai
ancora una volta la ragione dalla tua parte. Se sarete in due ad
affermare le vere origini di Tommen, sarete più credibili e
magari il popolo vi darrà retta.-
Fu Rickon, dopo diversi minuti di silenzio che aveva trascorso
concentrato sul cibo, ad intervenire nella conversazione, con voce
aspra e ruvida.
-Il Trono di Spade non è di chi lo eredita, ma di chi se lo
va a
prendere. E se non te ne sei ancora reso conto, vuol dire che le
temperature della Barriera non ti hanno giovato. Noi non abbiamo
bisogno di nessuno, nè di Arryn nè di
Stannis, e non facciamo la carità a nessuno. Ce
l'abbiamo fatta da soli fino adesso, e così continueremo.
Fidarsi di se stessi è già tanto, con i tempi che
corrono.-
-Non tollero ulteriormente questa scurrile mancanza di cortesia. O
moderi il linguaggio, con una persona che è nata qualche
giorno
prima di te e dalla quale non hai altro che da imparare, o esci di qui
immediatamente.- lo avvertì Bran, reprimendo a fatica il
fastidio.
Rickon ghignò sprezzante. -Non serve scaldarsi
così,
fratellino. Era solo una battuta. Non ti sei mica offeso, vero, Jon?- I
suoi occhi respingevano al solo sguardo.
Bran lo ignorò. -Ho sentito dire cose che non mi piacciono
circa
Stannis Baratheon, in particolare a proposito di una certa donna rossa.
Un'eretica.-
Il viso di Jon Snow si storse in una smorfia di disappunto. -Parli di
Melisandre. Sì, fino all'anno scorso è rimasta al
fianco
di Stannis a riferirgli le sue visioni fra le fiamme, ma un giorno ha
annunciato che il suo Signore della Luce le ha indicato un terribile
nemico di Stannis, perchè lei lo crede la reincarnazione di
qualche eroe
della sua religione, e quindi deve trovare questo gran nemico
e sopprimerlo prima che sia
troppo tardi, e che deve farlo lei sola. Così è
partita
per il continente orientale. Ogni tanto ci giungono sue notizie, che il
viaggio prosegue ma non ha ancora raggiunto il suo scopo. Stannis non
è un idiota: sa che introdurre strani dèi di
Asshai non
è il modo più adatto per ingraziarsi il popolo e
farsi
accettare come re. Non parlerà d'introdurre nuovi culti, su
questo non c'è dubbio.-
Bran tacque.
-Non ce ne facciamo niente di questa stupida alleanza. Lasciamo
perdere.- tagliò corto Rickon, allungando un pezzo di
bistecca a
Cagnaccio, sdraiato comodamente sotto il tavolo.
-Se lasciamo perdere o no lo decido io.- gli rammentò il
fratello maggiore, a denti stretti. -E a me non sembra una cattiva
idea.-
Il ragazzo si voltò verso di lui, con furibonda sorpresa.
-Stai scherzando, mi auguro!-
-Se i Martell scendono in campo, siete in guai grossi.-
rincarò
Jon. -Le loro truppe dispongono almeno di... a occhio e croce...
ventimila spade.-
-Se ventimila guerrieri si schiereranno di fronte a me,-
canterellò Rickon con voce dolce, -significa che ventimila
guerrieri mo-ri-ran-no.-
-Taci una volta per tutte, Rickon!- esplose Bran,
indispettito
da tanta impudenza. -Non ne posso più di te e i tuoi
commenti
presuntuosi. Io... sarei anche d'accordo. Jojen, tu cosa suggerisci?-
Il suo consigliere soppesava lo stelo di un calice fra le dita. La sua
espressione era imperscrutabile. Quando parlò, la voce si
dispiegò scura.
-Stannis Baratheon ha una conoscenza dei Sette Regni, della morfologia
di Westeros e dell'arte bellica che ti tornerà utile,
Maestà. È un uomo politico, prima di tutto. Io
dico che
ne vale la pena, se vuoi accettare.-
Rickon scostò malamente la sedia. -Ha parlato il
burattinaio.
Bene, adesso accogliamo tanti sconosciuti qui dentro e facciamoci
ammazzare tutti come pecore! Le Nozze Rosse non ti hanno insegnato niente, Brandon
Stark? Non lo sai che non puoi fidarti nemmeno dei tuoi cari
mangiaranocchie? Non lo sai che non puoi fidarti nemmeno di me?!-
-Vattene fuori di qui e vedi di non ripresentarti al mio
cospetto finchè non ti darò il permesso di
farlo!- La
voce di Bran fece calare il gelo. -Tu non c'eri, al tempo
delle Nozze Rosse. Tu non hai visto. Tu non sai niente, Rickon, niente
di niente! Taci e sparisci.-
Rickon lanciò un'ultima occhiata stizzita a Bran, poi a Jon,
poi
a Jojen. Suo fratello gli richiamava alla memoria la sensazione di quel
muro
d'assenza, quel vuoto abissale che talvolta ci si para davanti,
suscitando quell'umile timore che pare dovuto a ciò
ch'è
insormontabile ed alienante -e proprio questo lo spingeva a bramare
un'infantile rivincita.
-Andiamocene, Cagnaccio. Questi qua vogliono morire tutti.-
Quando uscì, si premurò di sbattere per bene la
porta. Lo sdegno ardeva nel suo corpo come acido ribollente;
girovagò come un'anima tormentata: prima di potersi
congedare doveva offrire uno sbocco alla sua frustrazione. Attese
dunque che poco dopo le porte si spalancassero, segno che il pranzo era
terminato, e gli ospiti uscissero in uno sciame disordinato.
Quando vide Jojen svoltare l'angolo, ammantato di verde dalle spalle ai
piedi, gli si parò davanti. -Quanta fretta. Sembra quasi che
ti
stiano correndo dietro... Quali grandi impegni avrai mai, poi, non lo
so.-
Jojen strinse gli occhi color muschio, distaccato. -Che cosa vuoi,
Rickon?-
-Stai pur sempre parlando con il principe di Grande Inverno.
Cos'è, adesso bisogna portare rispetto solo a Bran? Beh,
certo
che lui ti obbedisce come un cagnolino.-
-Io esprimo soltanto la mia umile opinione, che Sua Maestà
può decidere di considerare valida oppure no. Dare consigli
è il mio compito. Questo significa consigliere.-
Rickon colse la nota d'ironia nella sua voce e
s'infastidì.
-Non farmi passare per un idiota. Tu credi di poter fare quello che
vuoi qui dentro soltanto
perchè ti scopi il re, non è vero? Su,
avanti, non
facciamo i moralisti. Sappiamo entrambi la verità.
Sappiamo
entrambi che lui ti vuole a vivere qui soltanto per chiavarti. Ti dici
tanto
consigliere,
ma si sa quali generi di servizi
pretende mio fratello... Qualcosa in cui la bocca
è implicata, ma non esattamente per parlare.- Il volto
di Rickon si distese in un ghigno atroce.
-Perchè non ne offri un po' anche a me, mangiaranocchie? Con
Bran
non ti tiri mai indietro. Non vorrai mica offendermi, vero?-
Con una mano, il principe di Grande Inverno bloccò il
ragazzo
contro la parete, esercitando pressione sul petto; l'altra
scostò i lembi del lungo mantello e si infilò fra
le
pieghe, a scendere fino al cavallo dei calzoni, e a stringere. Jojen
mantenne un'espressione di stoica intransigenza, gli occhi fissi in una
severità adulta, sostenuta, austera, persino un po'
disgustata
da quel comportamento, che denotava insieme bassezza morale e
sciocchezza puerile.
-Questi non sono affari che ti riguardano. Te lo dico chiaramente,
Rickon, senza sotterfugi: non mi piace il tuo modo di fare. Fintanto
che rimani pressochè innocuo, lascerò correre; ma
in
futuro non posso permettere che tu sia d'ostacolo a Sua
Maestà.
Se cercherai ancora di interferire con i suoi piani, sarò
costretto a prendere provvedimenti.-
Rickon esplose in una risata acuminata, come intrisa d'aghi. -E che
cosa vorresti fare?! Uccidermi? Ti posso spezzare la spina dorsale con
un dito, Reed. Non bluffare.-
Jojen parlò, limpido, chiaro ed impassibile. -Ho visto cose,
riguardo te e la ragazza Lannister, che non mi sono
affatto piaciute. O inizi a capire che il vero nemico contro
il
quale combattere è là fuori, e non è
Bran, o la
tua permanenza a Grande Inverno potrebbe essere più breve di
quanto credi.-
-La Lannister?- esclamò Rickon, stupefatto, scuotendolo per
la
maglia. -Che cosa hai visto? E cosa c'entra la Lannister?! Parla,
maledetto figlio di puttana!-
Ma dopo aver sussurrato quelle parole, Jojen non rispose e
scivolò dalla sua presa con un movimento fluido e si
allontanò a passo svelto, seguito dall'ombra svolazzante del
mantello, rapido com'era apparso. Rickon era talmente sconcertato e
furibondo che l'unico rimedio fu scendere a trovare Myrcella; da un po'
di tempo, era il modo più efficace per scaricare la
tensione. Così
s'abbandonò alle tenebre umide delle segrete come un bambino
s'abbandona fra
le braccia della balia.
***
Un clangore metallico gemette sul terreno, baluginando fra l'erba
rigogliosa dei lussureggianti cortili della Fortezza Rossa. L'inverno
non s'era avventato su Approdo del Re: il sole era un gioiello di cui
la città non avrebbe fatto a meno, a sfoggiarlo con
arrogante,
annoiata alterigia, l'ennesimo inganno d'oro corrotto a cullare i suoi
abitanti d'un senso di protezione spesso come la carta, e l'afa
appesantiva la brezza compiacendosi della vittoria. I fiori sgargianti
si spintonavano nelle aiuole, come se desiderassero affrettare una vita
tranquilla per evitare la morte brutale che la lama del freddo soleva
procurare loro. C'era qualcosa in agguato, ma era mimetizzato
così bene fra la vegetazione di rubini e i miasmi stordenti
che
l'estate poteva ancora illudersi di cantare in eterno.
-Non così, Maestà.- Loras Tyrell
scrollò il capo,
coronato d'un corredo di boccoli flessuosi ed inanellati, mentre la
luce svolazzava indugiando per un istante sul pelo delle iridi dei suoi
occhi, animati di turchino chiarore, per poi appendersi alle sue
ciglia. -La guardia è troppo bassa.-
-Oh.- farfugliò Tommen, mortificato dalla propria
inettitudine,
abbassando intimidito lo sguardo. Raccolse la spada e
ritentò di
mettersi in posizione da combattimento, stavolta più
titubante.
Loras avanzava con le movenze agili e sicure di chi ha un'innata
padronanza del proprio corpo; mentre si avvicinava al re, i suoi
riccioli rigogliosi, avvinti fra loro in una fantasiosa trama e
scomposti ad arte dall'allenamento, dondolavano e vorticavano su se
stessi in paffute spirali. -Solleva il braccio come sto facendo io. Non
serve che lo irrigidisci... rimani rilassato. Morbido. Ecco, in questo
modo.-
Loras spostò dolcemente il braccio del giovane re
nell'angolatura corretta, aggiustando la presa delle sue dita
sull'elsa; infine gli sorrise per confortarlo. Tommen rispose
debolmente, abbacchiato. Gli sarebbe tanto piaciuto essere abile come
ser Loras, ma per le armi era proprio negato -se fosse stato capace di
maneggiare una spada come si deve, forse sua madre non sarebbe morta e
Myrcella non sarebbe stata, in quel momento, tanto, troppo lontana da
lì... Era un pensiero amaro che rimaneva coagulato come
sangue
nella sua gola, ed egli non riusciva ad inghiottirlo. A quel punto i
due
incrociarono le spade e ricominciarono a duellare; intanto che si
allenavano, qualcuno li stava osservando. Seduta sul latteo davanzale
d'un fontana di marmo, Margaery Tyrell carezzava la superficie
dell'acqua con le dita disegnandovi cerchi distratti e disgregandoli
con un imperioso gesto del palmo; un abito di taffettà
glicine le
scopriva completamente le braccia affusolate e la schiena pallida,
stringendo i seni gonfi ed adattandosi alla
circonferenza del
grembo. Così, con il ventre turgido come una corolla
rinchiusa
nel bocciolo, la chioma fiorente a riversarsi sulle spalle esili, il
volto radioso dagli occhi stellati, rosato sulle guance, il sorriso
leggiadro che si accomodava sulle labbra carnose, sembrava
l'incarnazione della Madre, in un gioioso, bucolico ritratto della
fecondità. Il suo sguardo intenerito soffiava dal volto
paonazzo
ed aggrottato dalla concentrazione dello sposo, alla sinuosa figura
ammantata di bianco del fratello. Quel combattimento sembrava poco
più che un gioco nell'aria aurea, profumata, velenosa di
quell'estate mentitrice, mentre le risate zampillanti della fontana
ammorbavano la mente d'una lieve inerzia, vuota come una splendida
caverna d'oro, in sospeso come l'ultimo istante prima del lampo.
Quando Tommen parò una stoccata particolarmente
poderosa, Loras lo ricompensò con un cenno
d'approvazione.
-Bravo, mio signore. Vedo che inizi a prenderci la mano.-
Tommen sorrise speranzoso, arrossendo d'entusiasmo -era quasi sempre
rosso in volto, lui, perchè talmente tante erano le sue
emozioni, e talmente vulnerabile era la sua soffice anima ad esse, che
bastava terribilmente poco per commuoverlo ed imbarazzarlo;
ciò
era risultato della scarsa stima che aveva sempre nutrito per se stesso
-crescere con un fratello maggiore come Joffrey l'aveva segnato molto
da questo punto di vista. Se fosse diventato abbastanza bravo, poi,
magari sarebbe riuscito a sconfiggere addirittura Rickon Stark, ed a
salvare Myrcella...
Del resto, Loras non aveva nemmeno mentito di
sana pianta: rispetto a qualche mese prima, quando faticava persino a
tenere la spada dritta davanti a sè, egli era
già
decisamente migliorato. Il giovane re udì un applauso
levarsi
alle sue spalle e si voltò.
-Mio signore, non posso crederci! Stai diventando bravissimo.-
esclamò Margaery, con quel suo sorriso fremente e partecipe
che
pareva davvero vivere quell'idea con tutto se stesso e faceva sentire
Tommen come circondato in un abbraccio. -Attento, Loras, che fra poco
sarà mio marito a doverti dare qualche consiglio...-
scherzò inoltre lei.
-Hai perfettamente ragione, sorella.- rispose Loras divertito. -Fa
progressi a vista d'occhio. Diventerà un avversario da non
sottovalutare!-
Tommen rise insieme a loro: non la considerava come una presa in giro.
Sapeva benissimo che i due stavano esagerando, ma lo facevano con le
migliori intenzioni. E poi gli piaceva molto questa maniera speciale
che la moglie aveva, di farlo apparire straordinario, invincibile, come
il personaggio d'una ballata. Di farlo apparire unico al mondo. Per
Cersei Lannister era sempre stato il principe di riserva,
per Robert Baratheon un bambinetto smidollato, per Joffrey un fratello
indegno di lui. Soltanto lo zio Tyrion, Margaery e Myrcella sembravano
davvero convinti che anche Tommen avesse qualcosa da dire all'universo.
Oh, Myrcella:
quanto gli
mancava... Cercò di distrarsi da quel pensiero al
più
presto possibile. Era una ferita troppo fresca per non dolere al minimo
sfioramento.
-Margaery, tu...- Il ragazzo si perse nei suoi occhi, mentre le parole
incespicavano adorabilmente sulla punta della lingua, -... sei
bellissima.-
-Ti ringrazio, ma questo è soltanto lo stretto
indispensabile
per non farti sfigurare.- ribattè Margaery, la voce sciolta
d'affetto. Tommen era un giovane goffo nell'esprimersi, impacciato
nell'andatura, e nel suo atteggiamento nulla ricordava
l'autorità, la solennità, la maestà: era
evidentemente privo d'una certa voce intransigente, d'una certa
presenza regale, d'una certa superba eleganza che magari avevano
caratterizzato Joffrey, e di certo era mille volte più
arrendevole. Però il suo animo era squisito, il suo cuore
bianco
come soltanto quello d'un fanciullo senza pensieri nè
preoccupazioni può essere, il suo sorriso etereo quanto il
primo
bacio fra l'alba ed il mare, ed i popolo lo amava come un
figlio,
sconsideratamente. Se in passato era stato semplice manovrare Joffrey
per la sua smania di prepotenze e di conquiste, in quel momento era
l'accondiscendenza docile e mansueta di Tommen a permettere ad ogni
ministro d'influenzarlo. Questo era dovuto sempre ad una continua
richiesta d'approvazione e consenso del giovane Lannister, generata
dalla scarsa sicurezza in se stesso; Tommen finiva inevitabilmente per
apparire incompetente, se era il primo a pensare di esserlo. Margaery
ringraziava ogni sera i Sette Dei d'essere diventata la moglie del
fratello più piccolo di Joffrey: ripensando al volubile
carattere di quello smorfioso prepotente, se lui fosse diventato re,
probabilmente lei sarebbe stata soltanto la prima d'una sfilza di mogli
condannate ad un triste destino.
Un servitore accorse, percorrendo i graziosi viali bianchi,
costeggiati da siepi d'ogni forma. -Maestà! Lord Lefford
chiede
umilmente d'essere ricevuto. Attende nella sala del trono. Puoi
dedicargli qualche minuto, o gli riferisco di ripassare?-
Tommen esitò un momento, poi dissentì. -Va bene
adesso.
Io e ser Loras stavamo giusto concludendo la sessione di allenamento.
Mia cara Margaery, se vuoi scusarmi...-
Il ragazzo trotterellò via, scortato dal servitore, mentre
il
sole pomeridiano giocava fra i suoi capelli simili a filigrana, fino a
che fu impossibile decretare con certezza dove finisse la luce e dove
iniziassero i
riccioli. I fratelli Tyrell lo seguirono affabilmente con lo sguardo
finchè non sparì, inghiottito dalla gola
scarlatta della
Fortezza Rossa.
-Rimane sempre fedele a se stesso, vero?- commentò Loras,
offrendo galantemente il braccio alla ragazza. Margaery sorrise
maliziosa.
-Fortunatamente. E nemmeno tu ti smentisci mai, Cavaliere di Fiori...
stai attento a come guardi il mio piccolo maritino innocente! Che gli
occhi non indugino dove non dovrebbero... Me lo consumi se continui
così!- Si esibì in una risatina estasiata, mentre
Loras
ostentava indignazione.
-Ma su, lo conosco fin da quand'era bambino. Non potrei mai pensare a
lui in un quel certo senso che intendi tu, pervertita che non sei
altro! Comunque si è fatto carino, su questo non ci piove.-
I fratelli passeggiavano per il labirinto di siepi e statue, a passo
sostenuto e cadenzato, concedendosi del tempo per ispirare la
fragranza pungente e vigorosa dei gelsomini rampicanti, per abbeverarsi
dei raggi solari che si posavano come impalpabili farfalle sulle loro
palpebre. Margaery cingeva la pancia rotonda fra le braccia, in un
gesto affettuoso ed allo stesso tempo nervosamente istintivo, quasi che
la percepisse, quella minaccia acquattata fra i miraggi di calma
apparente. Erano tempi rischiosi per mettere al mondo un figlio di re.
-Oggi è una giornata talmente bella che sarebbe stato un
peccato
rimanere confinata in camera.- raccontò la sorella. -Ero
nauseata dal sonno. Questa notte il bambino ha scalciato a tutte le
ore, non appena ero sul punto di assopirmi... Si muove parecchio, in
effetti.-
-La levatrice ha detto che dovrebbe mancare poco, no?-
domandò Loras, carezzando amorevolmente con lo sguardo il
ventre
dilatato di lei.
-Venticinque giorni.- confermò Margaery, -però
non si
può mai dire. Secondo me non riuscirà a
pazientare per
così tanto tempo ancora. Non che mi dispiaccia: non vedo
l'ora
di stringerlo fra le braccia...- Taque per qualche istante, poi riprese
vivacemente. -So che bisognerebbe auspicare che il primogenito sia
maschio eccetera, però mi piacerebbe moltissimo che fosse
una
bambina. L'ho sognata, stanotte...- S'interruppe e corrugò
la
fronte, come se la sua mente avesse incontrato un ostacolo nel libero
flusso dei pensieri.
-Sul serio?- si stupì Loras. -In che senso?-
Per l'esattezza, Margaery aveva sognato di entrare nella camera da
letto, di accostarsi sorridente alla culla, di scostare le tendine di
seta -e di scoprire che sua figlia non
era lì. Figlia,
sì, una femmina: quando si girava di scatto, sconcertata,
vedeva
un fagotto di panni rosa fra le braccia di Rickon Stark. Egli non aveva
mai un volto, era soltanto un'ombra acuminata come un pugnale, la
personificazione stessa dell'incubo: sorrideva, Rickon Stark, come
sorridono i lupi, e diceva: -Com'è carina tua figlia,
Margaery
Tyrell.-
-Ho sognato che gli Stark me la portavano via. Che Rickon Stark...-
D'un tratto, Margaery aveva la gola arida.
Loras strinse i denti. -Gli Stark non riusciranno neanche a vedere la
Fortezza Rossa da lontano, e se quel maledetto Rickon si mette in testa
di volersi avvicinare gli farò passare la voglia di giocare
al
guerriero. La mia
unica ragione di vita è proteggere te e il piccolo. Sarete
al
sicuro, e questa è una promessa.- Il viso si contrasse
dolorosamente. -Una promessa che manterrò.-
Margaery gli sfiorò una spalla con la punta delle dita, nel
timore di vederlo infrangersi sotto il proprio tocco. -Lo sai
che punirai Stannis per quello che ha fatto, vero? Lo sai che
vendicherai la morte di Renly?-
-È l'unica certezza che mi rimane.- bisbigliò il
fratello, gli
occhi a vagare molto più lontano. L'aria si rarefece fra
loro,
ed all'improvviso fece un po' più freddo. Margaery
tentò
di cambiare discorso, aggrappandosi al primo pensiero che
scovò.
-Cosa stavo dicendo? Oh, sì, questo pomeriggio avevo una
gran
voglia di sgranchirmi le gambe, sebbene, se fosse per Tommen, rimarrei
sempre distesa a letto... è molto ansioso, in questo
periodo, e
non può nemmeno godersi questa gioia come avrebbe il diritto
di
fare.-
Loras fu grato alla sorella per il tempistico salvataggio, che lo
trasse al momento giusto dal ciglio del baratro dei ricordi.
-Tommen, come tutti, combatte sfogando le frustrazioni soffocate nella
sua anima. Il rapimento della principessa Myrcella è stato
un
duro colpo per lui. La cita in continuazione, quasi che il solo
nominarla potesse incentivare le probabilità di vederla
comparire all'improvviso all'orizzonte.- Loras sospirò
furtivamente, abbassando lo sguardo all'orlo delle gonne di lei, che
volteggiavano aggraziate come onde di seta liquida. -Questi lutti lo
hanno già sfiancato, non ha più energie, le armi
lo
spaventano. Mi domando come potrà mai affrontare una
guerra...-
-E perchè mai dovrebbe, quando ci siamo noi a farlo per
lui?-
replicò Margaery, enigmatica, con un sorriso complice. -Ad
ogni
modo, passiamo ai fatti. Gli Stark si stanno muovendo?-
-No, non ancora. Stanno richiamando i vassalli, come noi del resto.
Forse aspettano altri
rinforzi, oppure vogliono che sia Tommen a sferrare il primo attacco.
Impossibile dirlo.- scrollò le spalle lui. -Ad occuparsi
delle
strategie militari, comunque, è il Folletto.-
-Il Folletto.- ripetè Margaery meditabonda. -Beh,
indubbiamente non è uno sprovveduto. Sa quello che fa.-
-È parecchio furbo.- annuì Loras. -Bisogna
sperare che, arrivati a questo punto del gioco... sia sufficiente.-
Proseguirono a camminare, lenti e lieti, stretti l'uno al fianco
dell'altra, uniti contro l'intera scacchiera com'erano sempre stati,
mentre il più piccolo erede di sangue Lannister dormiva
sereno,
ancora inconsapevole della partita di cui stava per diventare una
fondamentale pedina.
Nello stesso momento, soltanto pochi piani più in alto,
Jaime
Lannister aprì gli occhi. Appena individuò il
fratello
presso la sponda del letto, li richiuse.
-Vai a casa, Tyrion.- Chissà dove aveva ritrovato la voce:
forse
nello stesso precipizio dove aveva perduto tutto il resto.
Cinque giorni fa aveva per la prima volta ripreso conoscenza dopo il
torneo, e da allora gli capitava di ferirsi con schegge di
realtà in quella fanghiglia mordace, insidiosa ed obliante
ch'era diventata esistenza. Non aveva bisogno che qualcuno glie lo
dicesse, per capire che Tyrion non si era mai allontanato dalla sua
stanza. Lo leggeva in quegli occhi impotenti di fratello, che, fin dal
momento in cui giocavano nella remota isola dell'infanzia, aveva visto
invecchiare insieme ai propri per tutte le nefandezze ch'erano
costretti a riflettere.
-Smettila di dirmi che cosa devo fare. Non so il perchè, ma
fin
da quand'eravamo piccoli ti sei messo in testa che comandi tu. Il che
è fuori discussione.-
-Shae si starà chiedendo se sei ancora vivo. Hai una figlia
che ti aspetta a casa. Vai via.-
Tyrion sospirò impaziente. -Senza offesa, ma ti sei guardato
allo specchio? Sei un cadavere che
parla. Non posso lasciarti solo, con il pericolo che mi resti stecchito
da un momento all'altro. Il tuo estremo desiderio non è
forse
quello di ammirare il mio angelico viso per l'ultima volta, e portare
con te in cielo questa ammaliante visione?-
-Dov'è Cersei?-
Non v'era silenzio in grado di colmare l'affossamento di quella pausa.
Tyrion era molto intelligente, aveva letto tanti libri, ma esistono
domande per le quali la risposta rimarrà uno spettro di
sangue
versato, un artiglio affondato nella carne, un verso di nauseabonda
agonia -rimarrà la resa.
Deglutì a disagio e scosse la testa, quasi fra
sè. -Ti
prego, Jaime. Non...-
-Vattene via, Tyrion.- ripetè Jaime. La sua voce era abrasa
in
un modo in cui il petto, seppur memore delle ferite dell'intera vita di
un cavaliere, non era mai stato.
Questa volta il Folletto non protestò e si alzò,
per
dirigersi alla porta. Sul suo volto c'era una distesa di deserto -c'era
la pietà, cruda e spiazzante ed elementare, e se Jaime
avesse
scorto la propria immagine nello specchio dei suoi occhi avrebbe visto
un buco nero. Ma non lo fece. Aveva smesso di avere importanza, appena
prima che cominciassero quelle miriadi di leghe di dolore.
La consapevolezza, infallibile, lo ridusse capricciosamente al
silenzio,
per asservire ogni fibra del suo corpo e costringerlo a
prestarle
il più dedito ascolto. E Jaime rimase a sentire,
finchè
non riuscì più a distinguere i confini disciolti
della
sua anima in quella coltre di sangue raggrumato e acqua gelida che
impregnava le lenzuola.
***
-Porca puttana.- annaspò Yara.
Fu esattamente la prima cosa che pensò, e l'imprecazione le
sbragò le labbra con la violenza d'un coltello. -Porca
puttana.-
Scagliò a terra le lenzuola ruvide, annodate alle sue gambe,
si
liberò dagli ultimi granelli di sonno sulle palpebre
strofinandosi ferocemente gli occhi e vi strappò i veli del
torpore esponendoli alla luce senza pietà. Si
precipitò
fuori dalla stanza a gambe levate, l'aria a sfrigolare nelle sue
orecchie come uno stridulo canto luttuoso. La luce esuberante delle
torce delineava correttamente tutti i tratti delle sue membra, sotto la
garza trasparente della pallida sottana, lunga fino alle ginocchia,
sbottonata per metà.
Un servo le stava porgendo una vestaglia. -Mia signora...-
-Non c'è tempo! Dov'è?!- urlò Yara,
trattenendosi
dal gettargli le mani al collo.
-All'ultimo piano... un balcone dell'ala est...- balbettò
quello, imbarazzato.
-Merda, merda, merda!- ruggì la ragazza.
Yara si slanciò fino in fondo al corridoio, in direzione
delle
scale, colta da uno stritolante istinto di scoraggiamento iniziale; per
qualche
istante, l'impotenza la travolse come le onde del mare non avrebbero
mai fatto. Dalle
finestre che si aprivano sulle mura l'impeto del vento la
investì, spazzandole i
capelli dietro le spalle, rendendole le braccia ruvide di pelle d'oca,
ma Yara
non arretrò; con i piedi scalzi, prese ad esaurire i gradini
saltandoli a tre a tre e
permise alla pioggia, deviata dal vento, di infradiciarle la sottana ed
appiccicargliela alla pelle, gravosa, scomoda, vincolante. Fredda e
viscida. Yara ignorò impazientemente le intemperie,
sibilando
sottovoce, e dopo aver terminato una rampa di scale ve n'era un'altra
ed un'altra; la corrente impetuosa e
sferzante le tagliuzzava le guance, avvampandole di sangue, e distraeva
la sua mente ancora ebbra dei vapori del sonno, e bagnava la pietra
rischiando di farla scivolare. La gonna scendeva piatta e pesante, come
una
zavorra contro le sue gambe. La burrasca scrosciava aggressiva,
pervicace, incattivita contro di lei, quasi che gli artigli del vento
volessero striare la sua pelle di rosso.
Finalmente lo vide. Quella figura era così gracile e
diafana, in
piedi sul davanzale del balcone, in sospeso sopra la vorace bocca del
mare ruggente, stagliato contro l'eterno e prepotente cielo
nero di guerra,
da scomparirvi come fra le fauci di una fiera. La vista era
così
miserevole e
patetica da comprimere il respiro nel petto. Yara non gridò,
temendo di spingerlo a qualche movimento inconsulto; la
notte inghiottiva quella fraterna preoccupazione di cui, alla luce del
giorno, si sarebbe vergognata così tanto, celava quella
nefasta
onta ch'erano i sentimenti e che una donna di ferro non si poteva
concedere. All'improvviso la sua mano, spaventosamente bianca e
bagnata,
artigliò la caviglia
ossuta di Theon Greyjoy con tutta la forza impiegata per arrivare fin
lì, tutta insieme.
-Theon.- sbottò, con incollerita esasperazione, con iroso
rimprovero.
Lo trasse in salvo dalla parte del balcone; la missione fu compiuta
soltanto quando ella
udì il rumore del corpo magro contro la pietra. Infine,
sfiatata, grondante, stordita di sonno e
fatica, china contro la mole della pioggia, trascinò il
fratello all'interno del castello,
all'asciutto. Yara provò un sollievo
così possente da inebriarla di gratitudine verso se stessa e
la
propria prontezza, e verso qualsiasi maledetto dio l'avesse sostenuta
in quel salvataggio improvvisato, impedendole di mancare un gradino, di
perdere l'equilibrio o lasciarsi rallentare dalla furia
dell'acqua. Dopo essersi presa qualche istante per riassestarsi, per
tornare in sè, per sfregarsi le mani paralizzate del freddo,
Yara verificò il respiro del fratello, supino
sul pavimento. Gli occhi erano chiusi e l'espressione spiegazzata,
smunta, patita, un cencio intriso strizzato troppo forte.
-Theon.- sussurrò. -Theon, svegliati. Svegliati, che cazzo.-
Il ragazzo riprese conoscenza, poco a poco, sbatacchiando le ciglia
scompigliate: il suo sguardo vagò stanco senza
comprendere, a riflettere lo smarrimento della sua coscienza. Infine si
soffermò confuso su un elemento inaspettato che
identificò, gli occhi della sorella, e con
voce fioca
farfugliò:
-Cosa accidenti... dove siamo?-
-Ala est.- L'espressione di lei era insondabile.
Theon arricciò la fronte, notando stupito la tempesta ad
esplodere nel cielo notturno. -E perchè mai?-
-Non riesci proprio ad indovinare?- sbuffò Yara,
sgocciolando i
capelli con gesti stizziti. -È successo di nuovo. Stavi
per... buttarti giù da quel
terrazzo. Non ti dico cosa sarebbe rimasto di te, se avessi
realizzato il tuo intento.- Yara sollevò lo sguardo duro al
fratello e gli
prese il mento fra le dita, con un'espressione ferma, risoluta ed
inderogabile. -Adesso guardami e giuramelo, Theon: giurami
che eri sonnambulo. Ti prego, giuramelo. Ho bisogno di saperlo.-
-Lo giuro. È vero. Come le altre volte.- ribattè
Theon, debolmente. -Se volessi davvero suicidarmi,
troverei una maniera più veloce, più
indolore e meno
plateale.-
Se volessi davvero
suicidarmi, ci sarei già riuscito, pensò
tristemente. Ma questo non lo disse. La sorella era confortata dalla
risposta, e lo si intuiva dalla maniera in cui le spalle rigide ed il
collo si rilassarono, però non lo diede troppo a vedere; il
suo
tono di biasimo rimase tagliente.
-In ogni caso, bisogna smetterla con questa storia. È
l'ultima volta che mi sveglio nel mezzo della notte per
salvarti la pellaccia, capito? Non posso sempre starti appresso come
una balia.-
I problemi erano cominciati da quando Yara aveva assediato Forte
Terrore, da quando Theon era tornato a casa. I suoi episodi di
sonnambulismo avevano messo in allarme l'intera fortezza: spesso egli
rischiava incidenti di quel genere, più di una volta era
stato
sul punto di suicidarsi (e probabilmente l'avrebbe fatto, se non ci
fosse stato nessuno a fermarlo) e questo induceva Yara a credere che la
sua incolpevolezza fosse soltanto una scusa gettata là, per
non
assumersi l'onere di spiegare il motivo per cui aveva azzardato quel
gesto. Ella comprese che sarebbe stato inutile parlare con il fratello
in piena notte, mentre lui era in tali condizioni, perciò
avvolse in una coperta quel corpo intirizzito e lo
accompagnò
nella sua stanza, continuando a borbottare: -Se non mi è
venuta
la polmonite adesso, non mi verrà mai...-
Mentre Theon giaceva inerme sul materasso, senza nemmeno tentare di
chiudere gli occhi, Yara se ne tornò in camera tossendo;
tolse
la sottana fradicia e la
calciò a terra con fastidio, per indossare invece una
casacca e
un paio di
calzoni. Quando scivolò nel letto, si rese conto che, per
suo
grande disappunto, Tris era
sveglio.
-... ma che ora è?... che cosa è successo?-
-Theon.- bofonchiò in risposta lei, seccata all'idea di
dover
spiegare tutto l'avvenuto a quella testa bacata di suo marito,
tagliando il più corto possibile. -Ha fatto il pazzo come al
solito. Ma adesso stai zitto e dormi.-
Tristifer Botley sospirò. Era sempre stato un ragazzo dal
cuore
gentile -fin troppo gentile per essere un abitante delle isole di
ferro, fino a sfociare nello stucchevole, per
quanto riguardava Yara. Da quando Theon era venuto ad abitare a Pyke,
come un tempo, egli non era riuscito a nascondere quanta pena
gli
suscitasse quel povero ragazzetto dissestato, dagli occhi pieni di
paura.
-Non pensi che dovresti farlo visitare? Magari qualche Maestro
può consigliarti un decotto, o qualcosa di simile...
Altrimenti
finirà per farsi davvero male.-
-Già, peccato che non siano affari tuoi.- mugugnò
Yara,
tirandosi la coperta fin sopra la testa, quasi per schermare le sue
chiacchiere. -Stai zitto e dormi: obbedire a due ordini allo stesso
tempo è uno sforzo troppo faticoso, per caso?-
-La tua dolcezza fa cariare i denti, come al solito.-
bisbigliò sottovoce Tristifer, con un sarcasmo
più intenerito che contrariato.
Ella si rigirò innervosita nel letto. Estenuata dall'intero
universo, in quel momento voleva soltanto cedere all'insistenza del
sonno e piombare nell'incoscienza, mentre la detestabile voce di
Tristifer proseguiva imperterrita a molestare le sue orecchie.
-Te li spacco, i
denti, se non chiudi quella fottuta bocca.- minacciò.
-Sono tuo marito.- implorò lui, mestamente. -Potresti almeno
farmi la gentilezza di ascoltare ciò che dico, no? Tutte le
mogli lo fanno.-
-Stai cercando di elemosinare obbedienza, per caso?- Yara
roteò gli occhi esasperata. -Dormi, Tris.-
Suo padre prima di morire le aveva confessato senza giri di parole che
l'unica possibilità che lei aveva, se voleva governare, era
sposarsi, possibilmente con l'erede di qualche famiglia prestigiosa di
Pyke -possibilmente con l'erede di casa Botley e dunque di Lordsport,
ovvero Tris, suo amico di vecchia data. Ovviamente Yara avrebbe avuto
qualcosa da ridire al
riguardo, ma aveva deciso che era un prezzo equo da pagare, pur di
poter regnare sulle Isole di Ferro. Inoltre Tris, essendo pazzamente
innamorato di lei, le lasciava fare più o meno tutto quello
che
voleva e non la intralciava nel governo, senza imporre la propria
autorità in quanto marito, il che era davvero più
di
quanto Yara avesse osato sperare per il proprio avvenire. L'aveva
sposato tre anni prima, subito dopo aver riportato Theon a casa -subito
dopo che fu a tutti manifesto il fatto che l'unico erede maschio dei
Greyjoy non era in condizione di regnare, perchè -come si
raccontavano i bambini ridacchiando- era pazzo. In
verità non aveva perso del tutto le facoltà
d'intendere e
di volere, però capitava spesso che nel bel mezzo delle
discussioni il suo occhio si facesse vacuo, o che scoppiasse ad urlare,
o che -assalito da un invisibile aguzzino- supplicasse d'essere
liberato gettandosi in ginocchio. Yara non era molto sorpresa: a
giudicare da quel poco che aveva visto, durante l'assedio di Forte
Terrore, Ramsay Snow era un sadico; era già incredibile
che il fratello fosse sopravvissuto, dopo essere stato suo prigioniero
per anni.
Ella ricordava il giorno del salvataggio di Theon come si ricorda il
primo schiaffo, il primo
addio. Rammentava con orribile verosimiglianza quell'assalto d'emozioni
prorompenti: la bocca aspra e sussultante che pareva volesse
vomitare fuori il cuore da un momento all'altro, l'odore acre e
doloroso del sudore di panico, le urla selvagge della ferita alla
gamba. Sì, perchè quando durante una battaglia si
viene
colpiti l'impatto non è nulla, a malapena lo si percepisce,
attutito dall'adrenalina. Il peggio viene dopo, quando il corpo
metabolizza il colpo, si accorge del trauma, impara
quell'irregolarità, e subito inizia a pulsare orribilmente,
come
un organo a parte, inizia a lamentarsi e gemere forte, a singhiozzare
come un bambino. Yara stava premendo a forza il ginocchio contro il
pavimento e si ripeteva incessantemente che non doveva guardare, non
doveva, non doveva. Non
guardare il sangue. Non guardare. Guarda dopo, quando la situazione
è sotto controllo. Dopo. Così,
quando Theon aveva cominciato a piangere fra sè,
sommessamente,
la sua lingua s'era sciolta involontariamente in un dopo, dopo mormorato
a stento. Rammentava di aver pensato parecchio a quei pomeriggi perduti
di tante storie prima, quando i loro fratelli maggiori li cercavano
giocando a nascondino -quando
i loro fratelli maggiori erano ancora vivi- e la piccola
Yara cacciava una mano sulla bocca di Theon per farlo stare in
silenzio, dicendo non
preoccuparti, che non ci trovano. Se fai quello che dico io, vinci
sempre. Quanto
avrebbe voluto poter assicurare una cosa simile a Theon, in quel
momento, inginocchiati ad un angolo del labirintico intreccio di
corridoi
di Forte Terrore. Ma
se quello là ci sgama, non ci sarà più
nessuna
partita da poter giocare, nessuna rivincita da riscattare. Ci
farà a pezzi. Moriremo. Lei non doveva
pensarci, no, doveva rimanere lucida, razionale, attiva, cosciente del
mondo circostante, non poteva rinchiudersi fra i pensieri, doveva
combattere il freddo. Il trucco stava solo in questo: combattere il
freddo.
Aveva una possibilità di riuscire. Una sola. Una
soltanto. Se la sua mano avesse ceduto, se le sue forze fossero
mancate, se l'esitazione si fosse prolungata per più di
quell'infinitesimale attimo salvifico, per il tempo dello stordimento
della coscienza, se tutte queste casualità e
fatalità
avessero preso la strada sbagliata, la sua vita si sarebbe esaurita
senza scampo fra le mani di Ramsay Bolton. Affidarsi a tale
imprevedibilità era uno scempio; affidarsi a tale
imprevedibilità era tutto quel che le rimaneva. La gamba
faceva
così male, male, male,
malissimo, perchè faceva così orrendamente ed
esplicitamente male?!
ma non aveva il tempo per prestarci attenzione. La vista s'offuscava di
dolore, però niente, bisognava perseverare, trattenere il
respiro,
sfigurare le labbra fra i denti, e urlare dopo tutte le urla invisibili
sospese nella sua gola come debiti arretrati.
Se vinci, puoi urlare.
Se vinci, puoi soffrire.
Ben poca consolazione le sarebbe parsa, questa, in altre circostanze,
ma in quel momento era tutto quel che voleva sentirsi promettere, e
bastava per appagare i desideri d'ogni anima al mondo. Con la mano a
cercare sicurezza nella dolce impugnatura del suo pugnale, il corpo
scosso dal ritmo del battito cardiaco, Yara Greyjoy attendeva che la
sorte le scrivesse un
futuro, capitolo successivo o epilogo che fosse. Bastava soltanto che
amputasse quegli attimi di tragica transizione, di rovinosa incertezza.
Poi l'aveva sentito arrivare. Lo scherno nella sua voce le
aprì la carne.
-Su, non fare la timida... che c'è? Avanti, stiamo solo
giocando. Non ti farò mica paura?-
Yara inghiottì a fatica la frustrazione. No, la paura non
doveva
nemmeno azzardarsi ad avvicinarsi. Non doveva essere lei a temere la
paura, quanto la paura a temere lei. Doveva combattere il freddo.
Ramsay
Bolton, giocherellando un lungo coltello fra le dita con
destrezza, lanciò un'occhiata ad una cella vuota che si
affacciava sul corridoio. Nel vedere il mucchio di casse che poco prima
Yara aveva frettolosamente gettato le une vicine alle altre, i suoi
occhi
azzurri si dilatarono, palpitanti di trionfo. -Devi
costringermi a
venire a stanarti?-
Yara non si permise di sorridere. Non ancora. Non era fatta, no, no,
non ancora... mancava poco, pochissimo, e quell'imbecille sarebbe
caduto nella trappola ed avrebbe pensato che loro fossero
lì, dietro quelle casse... il rumore di tali sventati passi
dentro la cella furono la musica più soave ch'ella
avesse mai udito. Con una velocità che le sue gambe non
conoscevano, con una forza che le sue mani impararono istantaneamente,
sbattè la porta della cella e la fermò con il
chiavistello. Le tremavano le ginocchia, le ardevano gli occhi, ma la
sua bocca si spalancò in una risata di scherno.
-Magari un'altra volta.- disse infine. -Oggi non ho tempo di stare qui
a giocare.-
Giusto il tempo di comprendere l'avvenuto e il volto di Ramsay si
contrasse nello sdegno. -Non vorrai mica rubarmelo.-
-Io non rubo niente a nessuno.- chiarì Yara
schiettamente. -Questo sacco d'ossa è mio fratello. E me lo
riprendo. Sei tu che l'hai rubato, casomai, bastardo.-
-Bastardo è solo quel disgraziato che ti ha concepita,
troia.- ringhiò il ragazzo,
accostando il volto alle sbarre, -e il tuo è un
madornale errore. Nessuna dannata puttana spocchiosa può
derubare un Bolton di Forte Terrore. Oh, tu non sai, tu non sai in che
guaio ti stai cacciando! La caccia finisce soltanto quando la preda muore, Yara
Greyjoy.-
Così le aveva detto, il bastardo di Bolton. Dopo aver
pensato
vagamente che quella era la maniera di fissare più
sgradevole che avesse mai visto, Yara si era
gettata con malgrazia Theon su una spalla, aveva strappato un brandello
del mantello per stringerselo alla coscia ferita ed infine gli aveva
indirizzato un ultimo sorriso, ironico e sghembo -e Ramsay Bolton aveva
pensato che quella era la maniera di sorridere più
sgradevole
che avesse mai visto.
-Ci puoi scommettere.-
Riflettendo per l'ennesima volta su tutto questo, Yara sorrise
distrattamente nel buio. Se voleva tentare di riprendersi Theon, Snow
poteva benissimo farlo; però doveva tenere presente che la
morte della vittima non è l'unico modo per concludere una
caccia. Un cacciatore
astuto sa quanto affilate sono le zanne della sua preda, caro il mio
bastardo, rimuginò fra sè, e tu non ne hai idea.
Note dell'Autrice: Ehilà, popolo di Efp! Sì, lo
so, non guardate lo schermo così. Sono in imperdonabile
ritardo. Mi flagellerò per penitenza... Più di
due settimane, vero? Caspiterina, poveri lettori! In compenso questo
è un capitolo luuuuuuungo. Spero che nessuno si sia
scoraggiato nell'aprire la pagina! ^-^" Il punto è che mi
aspettavo di scrivere la parte su Grande Inverno più breve e
la parte sui Lannister più lunga. Poi, sì, la mia
predilezione per gli Stark ha avuto la meglio! XD Mi riprometto di
scrivervi una parte bella lunga su Jaime e un'altra su Tyrion, nel
prossimo capitolo. Promesso promesso promessissimo! Sì, nel
prossimo capitolo prevedo grandi sconvolgimenti... ma proprio GRANDI.
GIGANTENORMI.
Intanto, Jojen ha rischiato di essere stuprato da Rickon (che ormai
stupra chiunque XD), Tyrion ha una figlia e Yara ha fatto la sua
mirabolante comparsa. Vi sembra poco? XD
Per inciso: Melisandre non è affatto scomparsa nel nulla. Il
viaggio non era solo un espediente qualunque per liquidarla. La
rivedremo, fra un po'...
(hurrààààà. Che
gioia, eh? -.-)
Me ne vado, prima di essere malmenata per tutte le boiate che sto
dicendo. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi informiate
circa le vostre opinioni a proposito! Per me sono molto importanti i
suggerimenti dei lettori! A presto, spero -farò del mio
meglio!
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Amaranto fu il progetto. ***
4
IV.
Amaranto fu il progetto.
A Bran Stark bastò guardare il volto di Stannis Baratheon
per
capire che qualsiasi nozione di dialettica, politica e convenzioni
sociali, buone per zittire qualche stolto lord, adeguate per cavarsela
in presenza dei Lannister, non sarebbero servite a nulla.
Perchè
l'aspetto di Stannis aveva imparato senza inganni l'intransigenza d'un
acciaio che non voleva nascondersi, che non provava vergogna della
propria natura, che non cercava d'essere nient'altro che se stesso. Fu
in quel volto temprato dai debiti delle vicissitudini e dal furto dei
diritti,
che Bran si accorse di quanto fosse irta e vasta la ragnatela dei
Lannister. Aveva invischiato ogni cuore, impedito ogni anima; si
protendeva in ogni meandro della mappa toccandone gli apici al Nord ed
al Sud, e non esisteva terra nè mare in grado di assicurare
la
salvezza. Quello per il trono non era più un gioco
-perchè in un
gioco c'è chi vince e c'è chi perde. In quella
partita,
invece, tutti i partecipanti avevano incassato la loro sconfitta.
-Decisamente giovane, per essere diventato re.- La sentenza di Stannis
fu lapidaria, ma non v'era accusa in quella voce tagliente
d'indefinibile inquisizione. Non si fidava, oh, no: e perchè
mai
avrebbe dovuto farlo? Bran strinse gli occhi, contraendo le dita
attorno al bracciolo; quel Baratheon non era la prima persona ad
esprimere un simile commento, a paragonare tale campagna militare a
quella del Giovane Lupo, Robb Stark, e -proprio perchè
guidata
da un re ragazzo- ugualmente destinata al fallimento; ma di certo la
sua situazione era diversa. Bran non aveva ancora vent'anni,
però aveva superato il trauma della caduta dalla torre e
della
perdita delle gambe, era sopravvissuto nelle foreste oltre la Barriera,
aveva sviluppato poteri straordinari. Era più saggio,
più
prudente, più letale
di Robb, da questo punto di vista.
In quel momento non sedeva sul trono bensì al tavolo dei
banchetti, in modo da poter parlare a quattr'occhi con
l'ospite -parlargli dall'alto del suo scranno sarebbe potuto essere
inteso come segno di alterigia.
-Decisamente vecchio, per non essere ancora diventato re.-
replicò con calma devastante. Per un istante
pensò
d'avere osato con troppa impertinenza, però notò
la
smorfia di franca amarezza che fletté la bocca dura
dell'uomo
-quasi ad ammettere:
touchè- e
comprese che l'approccio più conveniente era quello
dell'incontaminata, schiacciante onestà, e che fossero i
Tyrell
a perseverare con i vagheggiamenti della retorica e la frivolezza della
bella parola.
-Desideri mangiare qualcosa? Hai fatto molta strada per arrivare fin
qua.-
osservò il re del Nord, indicando con un ampio cenno le
vivande ordinate sul tavolo. Stannis lo ignorò, come se
non avesse udito.
-Perchè allearmi con te dovrebbe essere la scelta giusta?-
domandò, senza preamboli, pronto ad esaminare con
analitica
inclemenza e soppesare con mordace pedanteria ogni parola del ragazzo,
senza che il suo sguardo lo abbandonasse mai, privo di schermi, fiero
delle sue ferite e troppo consapevole per ritenerle motivo di vanto.
Nostra è la furia, già: c'era tanta
furia in Stannis
Baratheon, furia patita, furia assaporata, furia fomentata, furia di
cui s'era ammantato e nella quale aveva scommesso, furia asciutta che
portava il fuoco sulla pelle senza più bruciare -calpestare,
piuttosto.
-Questa domanda, mio lord, dovrei portela io. Hai perso tutto
quello ch'era possibile perdere, quindi non hai che da guadagnarci.-
Bran giocherellò una pedina a forma di testa di lupo fra le
dita, osservando le buie fessure degli occhi, intagliate nel legno.
-Ma, in definitiva, dovresti allearti con me perchè il
nostro
è un obiettivo comune, un nemico comune, che in questo caso
implica motivazioni
differenti. Motivazioni differenti, cioè più
reati da
annoverare sul piatto della bilancia dei nostri avversari.-
-Bilancia di chi, e di cosa?- Stannis scosse la testa, contrariato.
-Ormai il re è chi uccide nella menzogna, non chi muore
nella
giustizia.-
Bran immobilizzò la pedina del lupo contro il palmo e
tornò a guardare Stannis dritto negli occhi.
-Allora parliamo di ciò che t'interessa: la bilancia del
ferro.
Noi possediamo l'esercito di cui hai bisogno, composto da truppe
provenienti da tutte le nobili case del Nord e delle Terre dei Fiumi.-
Il
ragazzo poggiò gli avambracci e intrecciò le
dita,
chinando appena il mento. -Io
voglio la giustizia, re Stannis: tu concedimela con il tuo appoggio, ed
io ti
offrirò le armi in cambio. Equo, dato che a questo punto la
giustizia è tutto ciò che avere da offrire, e
sono ben in
pochi a richiederla.-
-L'esperienza mi suggerisce di diffidare di offerte così irrinunciabilmente vantaggiose.-
obiettò Stannis, con una smorfia piccata. Era risaputo che
il
fatto che finora non aveva voluto stringere alleanze, poichè
riteneva tutti spregevoli usurpatori. -Ma quel che t'interessa non
è soltanto la nobile consapevolezza d'essere nel giusto, non
è così? Miri anche a qualcosa di meno spirituale,
se non
sbaglio. Ho sentito che vuoi uomini in più perchè
temi
che i Martell mandino in fumo i tuoi piani. Di conseguenza, io sarei
una specie di tappabuchi?-
-Se ti aggrada pensarla così, fai pure. Io la intendo in un
altro modo. Entrambi preferiremmo evitare quest'alleanza,
perchè
non possiamo essere del tutto certi della reciproca buona fede,
però siamo
giunti ad un punto in cui proseguire ognuno per la propria strada non
è conveniente.- spiegò Bran, seguendo
una logica
irreprensibile. -Io ti considero un alleato, niente di più,
niente di meno. Se credi che arrivare a chiedere il nostro aiuto
sarebbe denigrante, oppure ritieni che si tratti di un complotto
contro di te, oppure mi consideri l'ennesimo re indegno, l'accordo
si dissolve... così come la tua speranza di salire al Trono
di Spade, certo. Ma non sei obbligato a fare nulla, in
fondo.- Egli esibì un sorriso discreto, intimidito, quasi a
chiedere scusa per le ragionevoli conclusioni che si potevano trarre da
quella situazione. -Desideri un po' di tempo per pensarci?-
Stannis sospirò un sospiro gravido, gravido di tutte le
volte
che aveva fatto l'errore di credere che fosse quella, la soluzione.
-Di tempo non si può dire che me ne sia mancato, e anzi ne
è già stato sprecato troppo. Piuttosto, come hai
intenzione di muoverti?-
Bran e Jojen avevano discusso ampiamente di questo già da
prima
che venisse sferrato l'attacco contro Runestone; da parte sua, il re
del Nord non aveva avuto dubbi a riguardo.
-Quando tutti gli alfieri avranno inviato le loro truppe e l'esercito
sarà nuovamente pronto, assalteremo il luogo in cui
qualsiasi
peggior pronostico si è miseramente realizzato. La patria
della
nostra vendetta, per così dire.- Bran allungò il
dito
verso la mappa distesa sul tavolo di fronte a lui; esso scese
lentamente lungo la Strada del Re, fino ad interrompersi appena
superata l'Incollatura.
-Le Torri Gemelle.- decretò Stannis, senza ombra di stupore
in
volto. -Capisco. Hai già un'idea di come attaccarle?-
Il ragazzo trattenne un sorriso e ribattè con tono allusivo
e
volutamente enigmatico. -Preferirei parlarne più avanti,
quando
tutti i dettagli saranno definiti e le truppe saranno qui,
cioè quando avremo stillato uno schema di guerra preciso.
Per
ora, non è necessario che tu sappia altro.-
Stannis rimase per un attimo interdetto davanti a quella risposta,
però non era poi così importante e
lasciò perdere.
Piuttosto sollevò una questione che riteneva fondamentale:
-Oltre che onorare la sacra memoria dei vostri cari,
avete intenzione di fare qualche passo avanti?- C'era un sarcasmo
pietroso e privo d'umorismo nella sua voce.
Bran aggrottò la fronte, offeso da quelle parole che
suonavano derisorie alle sue orecchie. -Quando i Frey saranno
messi fuori gioco, il passaggio sarà libero e si
provvederà a scendere progressivamente.-
-E questa... chiamiamola progressione, quanto lenta sarà, di
preciso?- domandò l'uomo aspramente, esasperato.
L'espressione di Bran si fece quasi severa. Aveva una bella faccia
tosta, quel dannato Baratheon, a venire lì e comportarsi in
maniera così arrogante, a dettare legge e criticare a tutto
spiano, e a fare pure il sostenuto circa le proposte di Bran -come se
potesse permettersi di rifiutare, come se accettando facesse un favore
al Nord, anzichè il contrario. Era Stannis quello che
avrebbe
dovuto supplicare e Bran quello che avrebbe avuto motivo di farsi
pregare, casomai.
-Con la fretta non si vincono le battaglie, mio lord.-
-E con la procrastinazione non si vince la guerra, direi.-
sbottò Stannis, alzandosi in piedi e cominciando a
percorrere
nervosamente la sala da destra a sinistra, a passo marziale, con le
mani rigidamente strette dietro la schiena. Il re del Nord lo
seguì con lo sguardo, un po' seccato da quella brama ingorda
di
tutto e subito.
-Dipende tutto da quanto numeroso sarà l'esercito che Tommen
deciderà di scagliarci contro, da quanti saranno i morti e
quanti i sopravvissuti da ambo le parti, dalla possibilità
che
avremo di liberare un passaggio piuttosto che un altro.- Le
contò sulle dita, una per una. -È impossibile
stabilire tutto
in anticipo, ragionando per ipotesi. Anche se lo dubito, potrebbe
addirittura accadere che Tommen sia presente, che qualcuno riesca ad
ucciderlo, e la guerra sarebbe finita lì. È una
previsione un po' utopistica, ma non escludiamo a priori questa
eventualità. Onestamente, se potessi evitare che scorra
altro
sangue...-
-La guerra è sangue, Stark, e chi inizia una guerra chiama
sangue.- lo interruppe Stannis, scacciando quelle parole con un cenno
sbrigativo, giudicandole troppo sprovvedute per essere prese in
considerazione. -Piuttosto, accompagnerai il tuo esercito oppure no?-
Anche questo era stato oggetto di dibattito, diverse settimane
addietro. Visto che senza dubbio
Rickon sarebbe partito, -Deve sempre rimanere uno Stark a Grande
Inverno.- aveva decretato Meera con fermezza. -Sarai più al
sicuro qui, piuttosto che in una tenda poco distante dall'accampamento
nemico. La tua salvezza dev'essere salvaguardata ad ogni costo. Ti
basti pensare che, se muori,
tuo fratello sarà il re del Nord.-
Bran però era di diversa opinione. -Non posso chiedere ai
miei
uomini di rischiare la vita contro un esercito immane e restarmene
tranquillamente qui. Sarebbe non soltanto scorretto verso il mio
popolo, ma anche indice di debolezza; sarebbe come ammettere con i
Lannister che io non sono altro che uno storpio vigliacco. Devo
dimostrare
ai miei sudditi di essere un re forte, capace, meritevole. Di essere in grado di
governare il Nord.-
Stranamente, Jojen non aveva azzardato parola in
proposito e aveva taciuto sull'argomento. Poi Bran aveva aggiunto: -Uno
Stark rimarrà comunque a Grande Inverno. Ci sarà
Kenned.-
-Kenned non ha ancora compiuto un anno!- esclamò Meera,
irritata.
-Oh, ma non dovrà fare altro che mangiare e
dormire. A
proteggere lui e Grande Inverno ci penserai tu.- ribattè il
re.
La moglie scattò, rivolgendogli uno sguardo inorridito.
-Non credere di poterti liberare così di me. Io ti
seguirò ovunque andrai, Brandon Stark.-
-Niente affatto.-
Ella s'indispettì, piantando i pugni contro i fianchi. -In
battaglia sarei indubbiamente utile, perciò
teoricamente ne
ho il diritto molto più di te!-
-Proprio per questo rimarrai qui. Perchè sei abile a
combattere
e hai un grande coraggio: ce ne sarà bisogno, se dei nemici
cercheranno di assediare Grande Inverno.- La voce di Bran si
addolcì e, quando la ragazza precipitò in quegli
occhi
castani, comprese di essere perduta. -Solo di te mi fido completamente,
Meera. Non puoi rifiutarmi questo. Io devo avere la certezza che mio
figlio e la mia casa sono in buone mani. Te lo chiedo per favore.-
-Ma... ma io voglio difendere anche te.- obiettò Meera,
riluttante ed amareggiata. -Voglio starti sempre accanto come faccio
adesso, così che nessuno possa farti del male. Credi di
essere
l'unico a necessitare di certezze?-
-Con me verrà Estate, che mi ha già salvato la
vita
più di una volta.- insistette il marito. -La tenda dove
dormo
sarà circondata perennemente di guardie, e Rickon
resterà
a portata di voce. E poi... io non sono assolutamente indifeso. Te lo
sei dimenticata?-
A quel punto Meera s'era vista costretta ad accettare: non esistevano
più ragioni da opporre.
Così, memore delle decisioni prese in precedenza, Bran
rispose con
voce ferma: -Ebbene, lo accompagnerò: l'annuncio
è
già stato fatto pubblicamente. Così le truppe non
si
dimenticheranno per chi e per cosa stanno combattendo. I soldati hanno
bisogno di continua motivazione, d'assidui incentivi, e senza un re
a mantenere l'ordine non so quanto positivo potrebbe essere l'esito
della guerra.
Affiderò Grande Inverno a mia moglie Meera,
affinchè
provveda alle esigenze del popolo ed amministri il Nord in mia assenza,
detenendo i pieni poteri regi.-
Dal presentimento di sfiducia che si manifestò discretamente
nella sua espressione, fu facile comprendere che Stannis non era molto
convinto che fosse stata una grande idea.
-Una donna? Governare il Nord?- ripetè, quasi che volesse
far
sentire al ragazzo quanto sciocco apparisse alle orecchie altrui.
-In mia vece e soltanto temporaneamente.- puntualizzò Bran,
infastidito dall'osservazione. -Comunque, sono sicuro che
sarà
assolutamente all'altezza dell'oneroso compito che le ho assegnato.
C'è altro?-
Finalmente Stannis interruppe il suo passo nervoso e si
chinò verso la sedia su cui sedeva poco prima, poggiando le
mani
sullo schienale.
-Ho soltanto due condizioni da sottoporti. La prima
è quella di poter organizzare gli schemi di guerra ed i
movimenti dell'esercito, e in cambio mi impegno a tenerti informato di
ogni cosa e di sottoporla al tuo benestare prima di ordinarla alle
truppe. Dopotutto si tratta dei tuoi alfieri...-
Bran annuì con la testa, sollevato. -Accetto ben
che
volentieri. Avremo bisogno della tua esperienza, mio lord. Non
l'ho mai negato.-
Prima di parlare di nuovo, Stannis attese qualche istante; pareva
stranamente a disagio.
-In secondo luogo, chiedo di suggellare quest'alleanza in maniera
irreversibile. Una specie di precauzione, giusto per sicurezza.-
concluse, rapido e brusco. Bran aggrottò la fronte, poco
convinto.
-Cosa hai in mente?-
-Un matrimonio, come si suole in questi casi.- rispose l'uomo,
contraendo infastidito la piega della bocca. -Mia figlia Shireen ha
ormai l'età per prendere marito. Se voglio conquistare il
trono
è anche per assicurarle il futuro che merita,
com'è suo
diritto di nascita. -
-Ti ricordo che io sono già sposato.- osservò
Bran. Stannis inarcò le sopracciglia con eloquenza.
-Vostro fratello no.-
Il ragazzo sussultò. Rickon? Rickon? Davvero quell'uomo
voleva
che Shireen Baratheon sposasse Rickon Stark? Sicuramente non l'aveva
mai visto, allora, e non aveva udito quelle certe voci su di lui:
altrimenti non si spiegava perchè stesse proponendo di
concedergli la propria figlia vergine. Poi Bran cercò
di ragionarci razionalmente, e si accorse con rammarico ch'era
infattibile. Rickon non
accetterà mai, fu il primo pensiero; ma sono io a dover accettare,
adesso, fu il secondo, inquietante ma disperatamente vero.
Era più giusto comportarsi da fratello o da re, in quella
circostanza? Una guerra è una questione universale, riguarda
più di un popolo ed il futuro di un regno, perciò
bisogna
pensare in
grande e mettere da parte l'egoismo; dall'altra, avrebbe dovuto essere
Rickon a prendere una decisione così importante per
sè.
Però non avrebbe mai, mai detto di sì, questo era
altrettanto chiaro. Era troppo puerile, orgoglioso e testardo per agire
in nome di un bene collettivo e superiore. Non avrebbe mai fatto
nemmeno il più piccolo dei sacrifici per qualcuno che non
fosse
lui stesso.
Bran non sapeva cosa fosse più giusto, se rispettare il
volere
del fratello o concludere un'alleanza vantaggiosa, però di
certo
non poteva riservargli un trattamento di favore soltanto
perchè
era suo parente... proprio per il fatto ch'era il principe aveva dei
doveri nei confronti del popolo. Poi ci fu un altro pensiero, meno
assennato e quasi meschino: si
merita una bella
lezione, quel marmocchio, così impara che un principe di
Grande
Inverno non può fare tutto quello che gli pare.
Così come
io appartengo al Nord, così anche lui. Forse che io amavo
Meera, quando l'ho sposata? Certo,
lui Meera l'aveva scelta, la conosceva già, le voleva bene,
però... però la situazione era completamente
diversa, e
bisognava dare una risposta. Subito.
Allora Bran alzò la testa e, la mente in subbuglio, non ben
consapevole di quel che stava facendo, disse: -Acconsento.-
Stannis annuì grave, con una sorta d'austera rassegnazione
nello
sguardo inquietato, quasi che avesse sperato fino all'ultimo in un
rifiuto. Era evidente quanto fosse affezionato a Shireen.
-Naturalmente, un giorno mia figlia salirà al trono e suo
marito
con lei.- aggiunse atono. -A patto che il
cognome dei loro figli possa rimanere Baratheon, e che quindi alla
nostra dinastia rimanga il diritto al trono.-
Il ragazzo avvertì un moto di panico scompigliargli le
viscere, quasi spinto nel suo corpo da uno stantuffo; cercò
di visualizzare l'immagine di Rickon seduto sul
Trono di Spade, con le gambe gettate con malagrazia l'una sull'altra e
le mani grondanti di sangue, e del popolo inchinato davanti a lui, ma
era qualcosa di così delirante
che la sua mente la rifiutò con repulsione. Rickon, re dei
Sette Regni?
Una buona idea soltanto nel caso in cui si presentasse un problema di
sovrappopolamento.
-È una richiesta assolutamente lecita. Non abbiamo alcun
interesse al Trono di Spade. Vogliamo soltanto che al Nord venga
riconosciuta l'indipendenza e tutti i diritti che essa comporta.-
rispose Bran, cercando di dissimulare le proprie irruente emozioni.
-Sarà fatto.- acconsentì Stannis distrattamente.
-Fra un
giorno o due, giungerà qui un convoglio insieme a mia moglie
Selyse e a Davos Seaworth, il mio Primo Cavaliere, per celebrare il
matrimonio. Capirai che dovrà avvenire il più
presto
possibile, prima della partenza per il Sud.-
Il più presto
possibile. Quando l'esercito sarebbe partito da Grande
Inverno, Rickon sarebbe stato un uomo
sposato.
L'idea era assurda e raccapricciante quanto tutti i crimini che aveva
perpetrato e che Bran non ci teneva a conoscere. Rickon aveva ormai
sedici anni, però nel profondo era ancora il bambino pieno
di
rabbia bandito da casa sua: non aveva la maturità, la
stabilità emotiva e la padronanza di sè
imprescindibili
per creare una vera famiglia. Se poi si veniva ad aggiungere che si
trattava di un matrimonio combinato, da Bran per
giunta, senza chiedere l'opinione del diretto interessato, con una
ragazza mai vista prima, che magari non gli piaceva nemmeno, c'erano
tutti gli elementi per rendere l'unione fra Stark e Baratheon
la
meno felice e la più breve dopo quella di Robb
Stark e Talisa Maegyr. Bran si consolava al solo pensiero che non tutto
è come appare: il promettente matrimonio tra Sansa e
Joffrey,
molti anni prima, era partito con buoni presupposti e concrete
speranze, alimentate dall'apparente reciproco interesse, e poi
inaspettatamente era andata a finire in maniera peggio che tragica.
Magari questa volta, essendo le condizioni di partenza così
avvilenti, non avrebbe potuto far altro che funzionare meglio del
previsto. Se una numerosa serie di fortuite coincidenze si fosse
intersecata come una catena, non era da escludere che tutto potesse
risolversi nelle risate anzichè nel pianto.
Intanto, Meera e Jojen attendevano che il colloquio si concludesse;
sedevano nella sala dei ricevimenti adiacente, uno di fronte all'altro
ad un tavolo rotondo sistemato in disparte. C'era un silenzio precario
ma saporito, quasi che fossero i pensieri concitati dei due meditabondi
commensali ad impregnarlo di significato. Il piccolo Kenned s'era
assopito al seno della madre, un ditino fra le labbra, le palpebre
distese in un sonno vivido d'immagini meravigliose; Jojen lo vegliava
in silenzio, gli occhi ridotti a due fessure, lo sguardo rivolto
altrove. Era da tanto tempo che lui e la sorella non discutevano come
si deve, anche a causa del tradimento che si frapponeva tra loro come
un muro d'incomprensione. Era un peccato: avevano avuto davvero un bel
rapporto d'intima intesa e segreta complicità, durante tutti
quegli anni. D'un tratto Meera, che sembrava determinata a prolungare
quel silenzio carico fino alla fine, lo interruppe invece senza alcun
preavviso, sollevando di scatto il mento.
-Mi manca casa. Torre delle Acque Grigie, intendo. Mi manca il clima e
i volti e mamma e papà. A volte mi sveglio, tengo gli occhi
chiusi ed immagino di essere nel mio letto laggiù, immagino
che
basti allungare la mano per toccare la lancia sul comodino e che sopra
la mia testa ci sia quella finestra da cui si vedevano tutte le terre
dell'Incollatura.- La sua voce rimase in sospeso, immobilizzata dal
gelo opprimente dell'effettività incombente. Tutte quelle
illusioni facevano male agli occhi, perchè Meera Reed non
avrebbe mai più occupato quel letto di vergine a casa di suo
padre, nè Kenned avrebbe conosciuto la loro palude dove si
potevano inventare tanti giochi divertenti -era sufficiente un po' di
fantasia- ma ella sarebbe rimasta nel talamo nuziale, così
ampio
e così vuoto,
e suo
figlio avrebbe imparato soltanto quanto sa essere freddo l'inverno. Poi
Meera riprese, più lentamente, rinfrancata nell'avvertire le
pupille del fratello in intenso contatto con le proprie, e
parlò
in nome di quel legame che un tempo c'era stato e poteva esserci
ancora. -Ti ricordi quando tu mi raccontavi le storie che leggevi nei
libri e finivamo per stare svegli tutta la notte, perchè io
volevo sentirle e risentirle?-
Meera aveva sempre preferito ascoltare
che narrare, e Jojen era così bravo, con quella bella voce
che
era in grado di arrestarsi, rallentare, aggravarsi e carezzare nei
momenti giusti, per far intendere agli uditori che tipo di scena stava
per giungere. Il fratello chinò lentamente le palpebre, e
quando
le sollevò v'era un più caldo lucore nei suoi
occhi.
-Sì, Meera, mi ricordo.- rispose semplicemente.
-E ti ricordi,- proseguì Meera, incalzata dal familiare
sentimento che si faceva strada nel suo cuore dopo anni
d'assenza,
-quando andavamo a cacciare le rane e tu finivi sempre con la faccia
giù nell'acqua? E quella volta che tu mi hai predetto che i
nostri genitori non mi avrebbero mai regalato un cane, e io ti ho
chiuso a chiave in biblioteca per vendicarmi?- La ragazza rise. -Non
hai fatto una piega. Al mattino, quando tutti erano terrorizzati
perchè non ti trovavano e io, pentita, sono andata a
recuperarti, eri lì al tavolo a leggere tranquillissimo, e
anzi
sembrava quasi che ti seccasse che ti avessi liberato... Poi mamma e
papà mi hanno tenuta in castigo per due settimane!- La
risata si
affievolì gradatamente, fino a che ne rimase soltanto un
sorriso
amaro. -Ti ricordi quando li abbiamo salutati? Nostro padre era triste,
ma capiva che non poteva essere altrimenti... Per nostra madre
è
stato tutto più difficile. Aveva già rischiato di
perderti una volta, quando ti eri ammalato... lei credeva che fossimo
troppo giovani e troppo indifesi per un viaggio del genere, e aveva
ragione... quale genitore accetterebbe di mandare i figli oltre la
Barriera, da soli?! E adesso c'è la guerra...-
Jojen non rispose. -Dove vuoi arrivare?-
Lei sospirò. -Li rivedremo mai?-
-Perchè me lo chiedi? Hai troppa paura di quel che potrei
risponderti per volerlo davvero sapere.-
Meera annuì sconfortata. -Forse hai ragione... ma non era
esattamente dove volevo arrivare. Ecco, io e te eravamo felici,
insieme, vero? Ne abbiamo passate così tante... Quando
eravamo
piccoli ti trascinavo con me in qualsiasi spericolata follia, anche se
non volevi, e poi... tutte le peripezie per trovare Bran.-
Nel momento in cui tale nome prese forma nello spazio fra loro,
acquisì anche consistenza ed il silenzio seppellì
nuovamente gli animi in un solenne, tragico, definitivo ammutolimento.
A quel punto la crepa s'era profilata, a quel punto s'era spalancata in
uno squarcio. Tutte le risposte erano condensate in quelle poche
lettere.
Dopo molti istanti d'esitazione e tentennamento, -Lui è
tuo.-
rispose Meera in un soffio. -Questa è una guerra che non
posso
vincere.-
Jojen, di nuovo dopo tanto tempo, la guardò negli occhi.
-Non
c'è mai stata una guerra, Meera. Non ho mai preteso da
Brandon
più di quanto non fosse indispensabile. Io e lui siamo
legati da
qualcosa di più forte della mera, volubile
volontà di due
esseri umani: il desiderio sfugge, si deforma, si snatura, annoia. Il
desiderio è quanto di più mortale ci sia in noi.
Ciò che ci avvince è il destino. Il destino non
cede
nè concede, non scende a patti, non temporeggia, non
sbiadisce,
non muore. Il destino ordina.- Jojen fece una pausa, mentre nei suoi
occhi l'insanabile verità si propagava come sangue
su candide bende; quando riprese, la voce era in esatto
equilibrio
fra l'apatia ed il rammarico. -Io appartengo a tuo marito, su questo
non c'è nulla da ridire. Ma lo sanno gli Dèi,
quanto
è vero che Brandon non mi apparterrà mai.-
Il suo volto non si concesse lo sgarro di un'inflessione, o forse Jojen
Reed era sul serio arrivato a quel traguardo di consapevolezza nei
pressi del quale il cuore, disgustato, non acconsente più a
partecipare ai sentimenti. Meera non ebbe l'ardire di rispondere:
perchè, anche se il proprio sovrasta sempre quello altrui,
il
dolore si annida ovunque, e non serve far altro che aguzzare lo
sguardo- non soltanto per riconoscerlo, ma anche per realizzare a che
stadio di corrosione è giunto. Per la prima volta in vita
sua,
la regina del Nord non ebbe coraggio di spingersi nell'oltre
in cui Jojen viveva da sempre e si limitò a condividere quel
silenzio esplicativo, alla luce delle candele, senza che il freddo
intervenisse a disturbarli.
Più tardi, Bran chiese a Osha di discutere lei con Rickon
circa
il matrimonio combinato, visto che era a lui più vicina, e
di
cercare di convincerlo ch'era la cosa migliore da fare; e (soltanto
Osha, ragionava Bran con un sorriso,
sapeva ancora permettersi di parlargli così) quel che si
sentì rispondere fu:
-Ma Rickon ha banchettato di recente con il tuo cervello, oppure
è stato il tuo amico veggente a ridurti così?!
Credevo
che con tuo fratello volessi fare pace, non farlo incazzare sempre di
più!- La donna, indignata, lo guardava con orrore. -Non
tradirlo
in questo modo così... orrendo e subdolo, Bran. Non te lo
perdonerà mai. Mai. E avrà perfettamente ragione!-
-Rickon deve capire che non esistono soltanto lui ed i suoi capricci a
questo mondo.- rispose Bran, freddamente. Certo, Osha era di parte
perchè voleva molto bene a Rickon ed inoltre condivideva lo
stesso carattere indomito e focoso, quindi lei non poteva evitare di
mettersi nei suoi panni. -Se glie ne parlassi io,
ovvio, non mi darebbe mai ascolto. Però forse tu potresti...-
-Oh, no, no, no. Adesso te la cavi da solo. Tu hai combinato questo
casino, tu ti esponi alla sua furia. Io me ne tiro fuori.- aveva
sghignazzato la donna, scuotendo la testa con decisione. Poi aveva
fissato Bran negli occhi con una scura, limpida franchezza di cui tutto
il resto del mondo era incapace, perchè c'era da avere paura
di
quello sguardo che squartava le menti. -Mi dispiace,
Bran, ma non ti aiuterò. Devi guardare tuo fratello in
faccia,
come sto facendo io adesso con te, e dirgli che
fra venti giorni si sposerà per interesse con una ragazza
che
non conosce. E nessun altro lo può fare al posto tuo.-
Con crescente disagio, il re del Nord si rese conto quanto tristemente
vere fossero quelle parole.
***
Ignaro di quanto irrimediabilmente al piano superiore si stesse
manipolando il suo destino, Rickon scendeva i gradini delle segrete con
la solita fervida aspettativa, la solita brulicante trepidazione, lieto
di poter sgravare la mente rannuvolata ed il furore sottopelle in
pioggia, lampi, tuoni e pace. Anzichè il semplice
divertimento
occasionale che il ragazzo era inizialmente convinto a trovare in
Myrcella, la prigioniera era divenuta una valvola di sfogo, un
risarcimento per tutte le privazioni del passato e le preoccupazioni
del presente che Rickon era obbligato ad affrontare, un debito pagato
profumatamente. Soltanto con lei il mondo era un vortice turbinoso di
libertà sbrigliata, una miniera inesauribile di godimento,
un
poderoso assalto all'anima, un vertiginoso subbuglio delle viscere,
inebriante e catartico come affondare la spada nella carne ed udirla
sfrigolare nel fremente ribollimento del sangue, un'assoluzione
indulgente che lo proscioglieva dagli oneri della vita sociale, dalle
norme dei rapporti umani, dall'etichetta di corte. Con Myrcella
l'istinto non andava limitato, arginato, represso, ma scatenato nella
maniera più appagante e deliziosa. Quella ragazza sfiancata
dalla prigionia, scavata dalla denutrizione e tremante di freddo era
per lui l'incarnazione stessa della vita nel suo aspetto essenziale.
Davanti alla preda, il cacciatore non deve fingere: solo attaccare, e
Rickon era diventato terribilmente bravo in questo. Il ragazzo era
tediato dalle noiose raccomandazioni di Bran, dai suoi imperterriti
avvertimenti, e doveva sempre mettere il becco sugli affari suoi: il
giorno precedente, gli aveva addirittura chiesto che cosa avrebbe fatto
se Myrcella fosse rimasta incinta. Rickon ci aveva riso su parecchio.
Non era certo quello ad interessargli, nè ci pensava mentre
stava con lei, semplicemente egli adempiva ai propri capricci con
generosa benevolenza. Era una questione
così stupida e
sgradevole che non gli era neanche passata per la testa: era una
non-questione, insomma. Se davvero fosse accaduto, Rickon non aveva la
benchè minima esitazione circa ciò che avrebbe
fatto; un
puro germoglio Stark non sarebbe mai potuto crescere in un ventre empio
e lurido come quello di una maledetta, aberrante Lannister,
così
come un fiore non sarebbe stato in grado di sbocciare nel fango
più putrido. Rickon le avrebbe fatto vomitare il bambino a
calci, in modo tale che il piccolo non dovesse soffrire la sciagura e
l'infamia d'avere un abominio per madre e un sangue corrotto,
vituperevole, peccaminoso nelle vene. Cosa sarebbe mai potuto nascere
dal grembo di una Lannister? Rovina, scelleratezza, disonore: un
ignobile ibrido, com'era già accaduto.
E Myrcella? Ormai Myrcella era in quello stato fisico e psichico in cui
si è
dimenticato cosa significa provare benessere, dove immaginare qualcosa
di diverso da quel che si sta provando in quel momento è
inconcepibile, e i nervi sono solo un groviglio di fili di ferro che
vibrano senza rompersi, e la carne accoglie dolore, freddo, privazioni
come un nuovo mantello di miseria, e se ne può accumulare
all'infinto perdendone la concezione, inebetiti, assuefatti,
inghiottiti da un male nero e fuligginoso, si partecipa al male, si
vive nel male e per il male, lo si morde e stringe fra i denti e vi si
aggrappa per non morire, si soffre per vivere, perchè
è quando si smette di
soffrire che bisogna allarmarsi.
Myrcella si era già rannicchiata nell'alienante cratere
della
follia, intenta ad
esplorare con infervorata frenesia, con appassionato impeto l'unica
fuga che
le sarebbe stata concessa, frugando con le dita nell'accogliente buio
della sua mente spenta. Una fuga facile, in fin dei conti, e felice, se
penetrata soltanto in superficie. Una fuga più che
legittima,
forse obbligatoria per mantenere la coscienza confinata nella mente ed
il
cuore nel petto, perchè al termine del dolore c'è
un
limite in cui l'anima arretra atterrita e chiede soltanto ovatta
attorno a sè, per lenire le sue ferite, per imbrattarle di
rosso
e soffocare nel proprio sangue. Perchè, anche se il corpo
stava
subendo tale tortura, l'anima non tollerava di rimanere segregata in
quella realtà di cemento e muffa e di lasciarsi schiacciare.
Nei
suoi occhi inariditi, l'incapacità di comprendere diventava
incapacità d'esprimere.
Ad un punto qualunque di quell'agonia immobile, uguale a se stessa in
ogni sua dimensione, una figura divise le tenebre scostandole al
suo passaggio, vincendole senza combattere. Cersei era preziosa, dorata
e
bellissima, eterea e leggiadra nel suo corpo d'armonia come la figlia
sapeva di non poter più essere. Ella si
chinò su Myrcella -qualsiasi cosa fosse rimasto di lei, un
grumo
di fango nero o uno scheletro scavato da artigli- la
contagiò
con il suo tiepido, baluginante chiarore e le disse che lei poteva
uscire di lì -doveva uscire di lì. C'era un modo.
Sì, c'era. Myrcella, forte di quel morbido lume di ragione,
aprì gli occhi e vide il viso di sua madre. Ella non
sorrideva,
nè sembrava arrabbiata. Ma i suoi occhi parlavano -stoici,
saldi, eloquenti. Inclementi. Irremovibili. Myrcella capì, e
d'un tratto nel pastoso squilibrio del suo inferno senza colore
nè dolore comparve qualcosa
di
distinto, di definito, di determinato; una matassa di filo, un intento,
un progetto. L'inizio di un percorso, l'impostazione di uno schema. Un'idea. Che, per una
volta, sapeva più di vita che di morte.
Non è troppo
tardi. Guarda. La tua pelle è ancora bianca sotto la cenere.
Cersei
percorse con il polpastrello dell'indice la lunghezza del braccio nudo
della figlia. Immediatamente, una sinuosa linea candida prese vita
sotto il suo dito, come un rivolo di latte, una goccia di neve.
Myrcella, attonita ed incantata, seguiva con lo sguardo i suoi gesti.
Perchè sì, il nero si poteva violare altrettanto
rapidamente del bianco. Il
tuo cuore è ancora illibato sotto questa cenere. Myrcella
avvertì lacrime d'emozione ravvivare i suoi occhi rugginosi,
in
uno spasmo d'emozionante vivacità. Era vero. Era ancora
vero.
C'era la vita sotto quegli stracci, fra quelle catene, che lei lo
volesse riconoscere o no. Finchè
si respira non è mai troppo tardi per sopravvivere, Myrcella.
E Myrcella ritrovò il suo respiro.
Perchè quando
una linea divide, niente è più come prima
-perchè
quando una linea viene cancellata, non si può negare che sia
esistita.
Il giorno successivo, Rickon dovette trattenere lo stupore nel vedere,
sul nero viso della sua prigioniera, un sorriso
mite e benevolo come il primo soffio di primavera, piccolo e casto come
la più fresca corolla d'un bucaneve. Un sorriso che il
ragazzo
associò ad una lacerazione -ad una resa. Ad uno sbocco in nuove
acque.
-Buongiorno, mio piccolo abominio. Spero che durante la notte tu abbia
ricordato il linguaggio umano, perchè è una gran
noia non
sentirti più spiccicare una parola.- Ad un gesto brusco
delle
sue mani, le sbarre sbottarono arrugginite dietro di loro.
Myrcella perseguiva con quel sorriso strano, carezzevole quanto
malsano. La luce della candela feriva la giada deteriorata dei suoi
occhi sgranati e ancora belli, ancora odiosi nonostante tutto.
-L'ho ricordato, mio signore.-
Rickon inarcò un sopracciglio, interrogativo.
-Cos'è
questa novità? Da quando in qua sono il tuo signore?-
La risposta della prigioniera fu pronta, limpida, e fu quella giusta.
-Da sempre. Soltanto che ci ho impiegato parecchio tempo
a capirlo.-
Myrcella avvertì un premeditato rossore imporporarle le gote
e
storse le labbra in una pudica dissimulazione dei sentimenti -intanto
fra i denti consumava la frustrazione di quelle parole a cui si
costringeva brutalmente, quasi che, dopo essere stata violentata nel
corpo e nell'anima da Rickon, lo stesse facendo lei stessa con il
proprio orgoglio. Prima che il ragazzo potesse ribattere qualcosa, il
mostruoso lupo dal folto pelo nero che lo accompagnava ovunque fece per
avvicinarsi a Myrcella, fissandola con degli occhi spaventosamente
espressivi -addirittura consapevoli, e la prigioniera si
ritrovò
a fantasticare assurdamente che l'animale avesse fiutato il suo
inganno. La fanciulla indietreggiò strisciando sulle
ginocchia, le sue esili spalle sussultarono e il capo si
chinò in una schiva manifestazione d'allarme; ma il lupo si
accostò nuovamente a lei fino a che le fu impossibile
retrocedere. Myrcella rispondeva sbalordita e timorosa a quello sguardo
fisso ed insostenibile; Rickon non diceva nulla e rimaneva ad osservare
cosa stava accadendo, con espressione insondabile. Allora il lupo si
allungò fino a raggiungere il volto di Myrcella e le
leccò una guancia con la lingua rasposa, con imperturbabile
tranquillità, come se la conoscesse da tempo. Da parte sua,
Rickon avvampò di sdegno.
-Ma cosa fai, Cagnaccio?! Passi dalla parte del nemico?!- lo
sgridò, con la fronte corrucciata; Myrcella, presa in
contropiede, allentò la tensione con una risata imbarazzata
e
giocosa, di protesta e solletico, una risata fresca ed esuberante che
la scosse nel profondo. Da quanto tempo non lo faceva? Come poteva
essersi dimenticata la liberazione che si prova quando si ride, come se
la vita all'improvviso fosse qualcosa di facile, da non prendere troppo
sul serio? Ella affondò una mano nella pelliccia scura del
lupo
e gli accarezzò la testa, allietata da quell'imprevisto.
Fu allora che gli occhi della prigioniera e del carnefice
s'incontrarono. Myrcella racchiuse la risata di un attimo prima in un
sorriso mite, pacato, contegnoso, ma sincero; le sue lunghe
ciglia
sussurrarono abbassandosi in una dolce curva e minimizzando
l'ilarità in tenera, incerta curiosità circa la
bizzarra
atmosfera che vibrava fra loro quel giorno, quasi che anche lei fosse
confusa e stupita quanto lui, ma piacevolmente, e provasse una qualche
certa inaudita emozione. Rickon replicò con uno sguardo
tagliente ed acutizzato di sospetto.
-Volevo chiedervi perdono per il mio comportamento, che finora
è
stato un po'... scostante.- confidò Myrcella, con un filo di
voce intimidita, distogliendo gli occhi con ritegno, riguardosamente.
-Scostante è dire poco.- confermò lui,
esaminandola, senza esprimere alcuna impressione.
-Voi mi avete trattato con indulgenza, mentre io sono stata davvero
scorbutica e... e villana. Mi rincresce incredibilmente.- Myrcella
deglutì a fatica, ostentando incertezza e soggezione, la
gola
rappresa per tutte le spudorate atrocità che stava
pronunciando.
-Se potessi farmi perdonare, in qualche modo...-
-Non piangi più per i tuoi poveri genitori squartati?- La
voce
di Rickon tradiva ludico sarcasmo, ma anche un pizzico di diffidenza;
la fanciulla si rese conto di dovergli fornire l'estrema conferma, in
seguito alla quale egli non avrebbe pensato più a niente, e
tutto sarebbe andato come previsto. La cosa più importante
era
mostrare di non essere turbata da questo genere di affermazioni; quindi
ella si sporse verso di lui e gli circondò il collo con le
braccia, sempre guardando per terra per reverenziale ritrosia.
-Il dolore di una Lannister sarebbe un insulto al tuo,-
bisbigliò ossequiosamente
al suo orecchio, stando ben attenta a sfiorargli il lobo con le labbra,
-mio signore.-
All'udire ciò, Rickon reagì esattamente come
pronosticato: fremette e si slanciò contro di lei, la
scagliò sul pavimento e la bloccò lì
gettandovisi
sopra.
-Finalmente hai capito cosa deve fare una donna intelligente,
ovvero sottomettersi e tacere.- sibilò, con un sorriso
feroce, prima di addentarle le labbra con foga.
Myrcella lo lasciò fare senza opporsi, ed anzi gli cinse il
bacino e reclinò docilmente la testa all'indietro, in modo
da
esporre il collo al percorso dei baci e dei morsi di Rickon. Sì,
ho capito cosa deve fare una donna intelligente, ma ti assicuro che non
è nè sottomettersi nè tacere, pensò
fra sè. È
fingere.
Non era mai stata brava a fingere, Myrcella; eppure aveva
imparato tante cose, in quel vuoto che racchiudeva il principio primo
della vita a cui aggrapparsi spasmodicamente e quello della morte in
cui sperare tante volte per qualche istante. Il buio è una
questione di abitudine; e Myrcella, nel buio, stava cominciando a
vedere tante cose -un nuovo mondo a delinearsi fra le tenebre, dove un
tempo non c'era che il panico.
Ella non pensò quale fosse quella pelle che stava sfiorando
con
le
labbra, nè quante carni avesse dilaniato quella
bocca
così impetuosamente avventata sulla sua,
nè a chi
appartenesse il sangue che aveva bagnato quelle braccia che la stavano
traendo violentemente contro di sè. Non ci pensò,
altrimenti il furore
l'avrebbe lacerata per emergere da sotto la polvere. In compenso, non
appena le mani di lei scivolarono al bacino, Myrcella non
riuscì ad evitare
di conficcargli le unghie nei fianchi -e per qualche istante si
spaventò della propria imprudenza, del proprio azzardo, e
temette rigida la reazione di lui. Ma, contro ogni aspettativa, Rickon
ansimò contro la sua pelle e premette impazientemente il
corpo
contro quello di lei, fino a farla arrossire sul serio per
ciò
che percepì. Sulle sue labbra ruvide, si faceva strada un
sorriso spregiudicato.
-Tutto sommato, ti sono rimasti gli artigli.- ringhiò egli,
prima di leccare avidamente il sangue estirpato da una ferita sul petto
di lei. Myrcella sorrise, chiuse gli occhi ed attese. Oh, sì. Non ti rendi
nemmeno conto di quanto sia vero.
Dare all'aguzzino quello che vuole: ecco l'unico modo per la
prigioniera di tentare una fuga. Indurlo a fidarsi di lei abbastanza da
abbassare le difese e poi, quando meno se lo aspetta, colpire. Forse
era soltanto un sogno, però nei suoi piani lei stessa
riusciva a
sottrarre la spada al ragazzo e trafiggerlo prima che potesse
realizzare l'accaduto -sebbene si rendesse conto di quanto Rickon fosse
più forte, più cosciente, più
guardingo,
più agile di lei, e di quanto breve sarebbe stata la sua
ipotetica fuga. Non era così sciocca da credere davvero di
scappare, dato che c'era il lupo, visto quante guardie c'erano a Grande
Inverno in ogni corridoio, però il solo fatto di uccidere
Rickon
sarebbe stata una vendetta sufficiente a farla morire con il cuore in
pace -perchè fortunatamente, lassù, non ci
sarebbe stato
più nessuno a volerla viva per il proprio divertimento, ma
senza
troppe cerimonie l'avrebbero ammazzata con un colpo di spada, e poteva
esistere fuga più rapida ed indolore, più
struggente,
poetica e gloriosa? I posteri avrebbero scritto ballate su di lei,
l'intrepida principessa Myrcella che, pur di sfuggire dalle grinfie del
suo carceriere e riscattare la morte dei suoi familiari,
rubò
una spada e si gettò fra le braccia confortanti della
morte...
Mille, mille e ancora mille volte meglio morire subito e senza
più soffrire, dopo aver rivisto per l'ultima volta la luce
del
sole, piuttosto che soffocare per anni d'inedia, stenti e follia in una
cella buia e claustrofobica sottoterra, fino a sputare l'ultimo respiro
fra la cenere. Mi
riprenderò il mio mondo, Rickon Stark. Non ti
darò la soddisfazione di avermi rubato la vita.
No, Myrcella non voleva morire, voleva Tommen, voleva sua madre, voleva
suo zio Tyrion e suo zio Jaime... ma volere serviva a meno che a
niente. Tacere, obbedire,
fingere: e poi il destino avrebbe deciso per lei.
Quando Rickon si rivestì e riprese la scalata verso la vita
in
superficie, riflettè che lo eccitava parecchio prima l'idea
di
prenderla contro la sua volontà, di vincere le sue vane e
fragili difese, però quella sua nuova maniera di toccarlo,
di
baciarlo, di concedersi, di mormorargli pianissimo mio signore con
la voce distorta dal piacere, era lo stesso estremamente gratificante;
in definitiva, il suo piccolo abominio biondo aveva la
capacità
di non farlo mai annoiare.
Il principe di Grande Inverno decise di tornare nelle sue stanze, per
evitare scomodi incidenti quali incontrare Bran; gli pareva che quel
mattino il fratello gli avesse detto qualcosa a proposito di ospiti che
sarebbero dovuti arrivare, ma non poteva importare di meno. Si
avviò su per le scale, fischiettando fra sè, e
varcò ignaro la porta della camera. Però
interruppe il
passo alla soglia basito, perchè, seduta al tavolo adiacente
alla finestra, c'era una fanciulla. Rickon ne vedeva soltanto il
profilo, quindi non la riconobbe come una figura familiare: i capelli
ricadevano appena a metà della schiena ed
erano lisci, d'un castano vacillante fra chiaro e scuro, mentre la
carnagione era rosea. Il naso
aveva una forma aquilina ed i lineamenti erano ordinari,
però tutto
sommato le fossette, il colorito e la morbidezza delle gote le
attribuiva un'infantile, romantica dolcezza, che la faceva
automaticamente apparire graziosa. Indossava un abito piuttosto
semplice ma non umile, di velluto color amaranto, che fasciava una
figura minuta, le spalle compostamente drizzate da una nobile
educazione.
-E tu cosa ci fai qui dentro?! Evapora!- sbraitò il ragazzo,
irascibile
com'era, bellicosamente in attesa di ricevere delle sentitissime e
terrorizzatissime scuse. Ma la fanciulla non pareva
avere l'intenzione di gettarsi ai suoi piedi invocando clemenza in
lacrime. Senza scomporsi si voltò e, quando anche l'altra
parte
del suo viso fu esposta, Rickon si rese conto di due cose. La prima era
che ella non pareva essersi offesa per quanto le era stato detto -non
pareva quasi aver sentito- perchè sorrideva imperturbata e i
suoi occhi, d'un turchese forte e scuro, baluginavano vispi ed
intelligenti. La seconda era che metà del viso era divorata
da
irregolari e frastagliate scaglie di pelle grigia, dura e ruvida, a
scendere fino allo scollo dell'abito ed alla spalla destra. Grottesca,
forse. Spaventosa, per qualcuno. Ma decisamente non era una servetta,
non con quel vestito, non se osava a tal punto. La ragazza sorrise
mesta.
-Mi dispiace, non era mia intenzione introdurmi qui così di
soppiatto come una ladra, Rickon. È un vero piacere
conoscerti. Perchè sei Rickon, non è vero?-
-In persona.- sbottò lui, innervosito. -Ma sono io ad avere
il diritto di fare domande. Insomma, si può sapere chi
accidenti sei o aspetti un invito scritto?!-
Lei ridacchiava fra sè, trovando spiritosa la meschina,
spavalda
franchezza del ragazzo. -Rickon Stark.-
ripetè con tenerezza fra sè, rivolgendogli una
lunga
occhiata penetrante e concentrata ch'egli non comprese. -Avremo davvero
molto di cui parlare, tu ed io.-
***
Catelyn era bella. Petyr Baelish la ricordava così come si
ricordano le preghiere, con la stessa devozione -e lo stesso distacco.
Perchè, per quanto egli si fosse avvicinato a lei, di
più, sempre di più, per quanto l'avesse baciata
ed avesse
scorto il proprio riflesso distorto nelle sue pupille, in tutti i loro
ricordi v'era qualcosa che s'opponeva, che sfumava e cancellava.
Catelyn era sempre al di là, abbastanza vicina per essere
ammirata, mai a sufficienza per essere raggiunta. Gli sorrideva, a
quella maniera condiscendente e malinconica ed insopportabilmente
dolorosa, e il suo sorriso si deformava in un ghigno beffardo nella
contaminazione di ricordi che Baelish, con l'andare del tempo,
cominciava a sospettare di starsi inventando. Perchè Catelyn
non
era mai stata così bella come nella sua mente -nemmeno nella
mente di Brandon Stark, nemmeno nella mente di Eddard. Loro l'avevano
avuta, l'avevano conquistata, s'erano appropriati di lei. Lui no. Lui
era sempre così lontano. E gli veniva spesso voglia di
prendere
una spada e smembrare quell'ostacolo, quell'impedimento, quella nebbia,
quelle remore, e sorgeva spesso l'impeto di supplicare, urlare,
sbraitare, fare rumore, rompere lo schermo impenetrabile di quella
mente senza segreti eppure così ardentemente desiderata,
prenderle il cuore fra le mani e diventare -per un istante- il centro
gravitazionale del suo universo. Un secondo. Un momento soltanto di
sguardi veri, sorrisi veri. Amore vero, in un istante. Amore e basta,
perchè Catelyn non s'era mai nemmeno costretta a fingere con
lui. Non ti amo. Frivolo
era stato quel rifiuto, niente meno che un bacio respinto e rossore di
disagio sulle guance, però
non era stata frivola quell'infatuazione che non ebbe mai l'occasione
di sbocciare in un sentimento più profondo. Avrebbe dovuto
crederci, Catelyn, perchè se ne avesse avuto la
possibilità egli le avrebbe concesso la vita ch'ella davvero
meritava -meno sontuosa e più felice, meno emozionante e
più serena. Non
ti amo. Era
bastato poco per annullare la speranza nel biancore devastante del
cimitero dei sogni, e d'un tratto quella gioia che a lui era sembrata
un diamante aveva rivelato la sua natura, nient'altro che un sasso, e
lo aveva colpito in mezzo alla fronte. Ma la cosa peggiore sopra tutte
le altre, il difetto fatale del suo rancore, lo scoglio insolubile del
suo dolore, era che Catelyn, in tutta questa storia, aveva la ragione dalla sua
parte. Cosa le si poteva rimproverare, in fondo?
E visto che
nella vita le umiliazioni sono schiaffi che scacciano rimasugli di
sogni e lezioni di fantasia, Petyr aveva compreso con vacua lentezza
che le parole dominano il mondo -però il mondo
può
imparare a dominare le parole. Un
giorno pronuncerò questa sentenza davanti ad una donna,
Catelyn Stark, e
quando lo farò la colpa sarà unicamente tua,
stupida
anima innocente ed atrocemente sincera -ma non lo sai che ciascuno di
noi durante la sua esistenza ha diritto ad una bugia?
Catelyn non lo sapeva, e molti
anni dopo Baelish sussurrò al capezzale di Lysa Tully quelle
tonde, sporche parole, fomentate nell'animo come conti in sospeso. Non ti amo. Servì
soltanto a fargliele odiare ancora di più.
Sansa era una fanciulla posata, graziosa; mai, se la sua esistenza
avesse percorso il dolce sentiero delle storie già lette e
delle
ripercussioni tipiche, avrebbe dovuto sentire quei disarmonici suoni
orribilmente connessi fra loro. Però eccola là,
vulnerabile, disillusa, rifiutata dagli agi di una vita comoda e
dall'amore d'un principe dal mantello macchiato di sangue, inerme
davanti a quel giudizio che l'avrebbe rotta in frantumi. E qual era
l'unica persona a poterla salvare dal suo tragico destino?
Sansa non era come sua madre. Sansa era fragile, apatia fuori ed
emorragia nel petto, Sansa aveva l'appassionato istinto di
sopravvivenza della giovinezza, tremava sotto la neve senza cedere al
sonno, teneva gli occhi aperti anche se non voleva più
guardare.
Sansa era adorabile, bianca, fiduciosa, e fra le sue mani. Sansa
era la rivincita -il riscatto, e a quel punto il ricordo di Cat si
poteva sciogliere dai vincoli d'un sentimento vano e lasciare andare.
Adesso era Baelish ad avere la responsabilità dei sentimenti
di
qualcuno, l'onore di poter decretare la salvezza e la rovina in un
debole organismo di nervi e vene. Adesso era Baelish ad essere armato
di quelle letali parole, rese accessibili da un solo schiocco di lingua
-così come fa la corda di un arco nel liberare una freccia.
Perchè Sansa non aveva chi l'amasse nella Fortezza Rossa, e
ricercava sorrisi e benevolenza come indotta da un'inedia pressante,
elargendo fiducia con il panico delle bestie negli occhi smarriti.
Poi, come sempre nei momenti in cui la sua vita stava andando proprio
come egli desiderava, Petyr Baelish aveva rovinato tutto, dandola in
sposa a quel verme di Robin Arryn -che aveva passato le precedenti due
ore e mezza a fargli la ramanzina per questo e quel motivo, per il solo
gusto di strillare.
-Buongiorno, Petyr.- La ragazza era china sulla piccola scrivania di
cedro intagliata, nella sua stanza; l'uomo sapeva quanto le piacesse
quel posto, perchè sollevando un poco la testa ella poteva
rimirare l'azzurro incontaminato del cielo e gli arabeschi lattiginosi
delle nuvole, attraverso una piccola finestrella pentagonale. Baelish
non potè fare a meno di notare quanto fosse bella, anche
nella
mite noncuranza della quotidianità: una treccia lieve e
sottile
come lo stelo d'una margherita le carezzava una gota rosata dal vento
acuto e lambiva il foglio su cui ella stava scrivendo, mentre il resto
dei capelli le ammantavano la schiena, lasciata scoperta da un abito
rosa perlato. Il turchese terso e vivace degli occhi stava in
equilibrio
su ogni lettera che la mano affusolata tracciava -non era
più
il celeste limpido d'un tempo, ma non per questo aveva perso il suo
splendore. Sì, c'era decisamente Catelyn nei suoi
lineamenti,
così morbidi ed arrotondati e fini, raffinatezza modesta e
senza
arroganza, quella bellezza un po' timida ma fresca come un
giglio, priva della drastica austerità dei geni Stark;
soltanto il suo
pallore diafano rievocava in qualche modo il Nord.
-Buongiorno a te, Alayne.- rispose Baelish affabilmente, avanzando
nella stanza a lunghi passi. -Che cosa stai facendo di così
appassionante?-
Alayne si voltò, in uno svolazzo di merletti ricamati e
ciocche
castane, un sorriso scherzoso a fior delle labbra carnose. -Mi sembra
che sia evidente anche ad una mente meno brillante della tua.-
-Hai sviluppato un sarcasmo sorprendentemente efficace.-
commentò l'uomo, senza fare una piega. Qualcosa di simile ad
un
taglio sardonico rovinò la franchezza del suo sorriso. La
voce
suonò quasi indifferente, quando disse: -È un
peccato che
Robin non riesca mai a coglierlo. Se così fosse, ti
apprezzerebbe anche di più di quanto già non
faccia.-
La ragazza non smise di sorridere. -Robin è un'anima
ingenua.-
-Robin ha lo sviluppo cerebrale di una stella marina.-
tagliò
corto Baelish, annoiato. -L'ultimo ospite che è salito a
Nido
dell'Aquila ti ha scambiata per la sua balia.-
-Cosa che non succederà più, quando
stringerò fra
le braccia suo figlio.- precisò Alayne, lanciando un ultimo
sguardo per verificare la reazione di Ditocorto. Egli non le diede
motivo di sogghignare e si limitò ad inarcare un
sopracciglio,
in segno di lieve e disinteressato stupore.
-Significa che sei incinta?-
-Forse sì.- La fanciulla si girò a soffiare
delicatamente
sul suo foglio, dove l'inchiostro si stava asciugando ed imprimendo
sulla carta. -Forse no.-
-Lo dici soltanto nello sfrontato tentativo di farmi innervosire.-
insinuò Baelish, gettando là quell'accusa con
disinvoltura. Col passare del tempo i loro ruoli non s'erano
definitivamente invertiti, ma piuttosto equiparati: questo
perchè Alayne, così come Catelyn al suo
tempo, aveva cominciato ad esercitare un certo potere su di
lui, più o meno consapevolmente, pur non riconoscendo
appieno la natura del sentimento che legava Baelish a lei,
confondendolo talvolta per l'amore verso la madre morta
anzichè verso sè stessa. Da quando Alayne aveva
scoperto quanto fastidio gli desse l'idea di lei e Robin
insieme, fraintendendo quella gelosia come paterna, non mancava di
punzecchiarlo spesso e volentieri.
-Non vedo perchè dovrebbe farti innervosire.-
replicò melliflua. -Ma insomma, Petyr, sei venuto qui
soltanto
per insultare il mio sposo?- Impossibile non decodificare la risatina
che percorse le sue parole e contagiò la sua bocca.
-Prima che quel ridicolo lattante riesca ad ingravidarti, qualcuno
dovrebbe insegnargli come
si fa.- malignò Petyr, con un movimento misurato e
sprezzante
della mano dall'alto verso il basso, quasi a scacciare quelle ridicole
considerazioni. Poi si rianimò e sorrise a sua volta. -Ad
ogni
modo... lo ammetto, mi hai
fornito
su un piatto d'argento
l'occasione perfetta per divagare. La discussione è
cominciata
perchè mi stavo informando circa ciò che fino ad
un
attimo fa scrivevi con tanto entusiasmo.- Il suo sguardo
scivolò
sul foglio.
-Effettivamente, sono abbastanza soddisfatta.- confermò
Alayne,
rimirando la propria opera con compiaciuta ed ammiccante approvazione.
-Chi è il destinatario?- chiese Baelish, ancora una volta
con tono assolutamente privo d'inflessioni.
La ragazza si chinò ad aggiungere qualcosa, brandendo la
piuma
con maestria, poi rispose. -È re Tommen. Ma ciò
su cui ti
invito a prestare attenzione è l'identità del
mittente.-
Baelish ispezionò rapidamente il foglio con gli occhi, la
fronte distesa.-Tu?-
-Damon Marbrand di Ashemark, alfiere dei Lannister.- lo corresse
Alayne, imperturbabile, indicando la firma con la piuma. -Sta
annunciando
che le truppe si rifiutano di combattere per un re che intende
sbarrarsi nel suo castello, appena la guerrà avrà
inizio... un re codardo, o almeno questo si desume fra le righe.-
Un sorriso divertito e po' sinistro incurvò le labbra
dell'uomo. -Hai intenzione di stanare il leone e gettarlo fra le fauci
dei lupi, Alayne?-
-Precisamente. Se Tommen prende atto della propria situazione e delle
diffamazioni che minacciano di scagliarlo giù dal trono,
scende
in campo. E se scende in campo, per mio fratello Bran sarà
più facile ucciderlo avendolo a vista d'occhio, piuttosto
che
andandolo a cercare nei meandri della Fortezza Rossa.- La sua voce,
inesorabile e compassata fino al cinismo, e l'austera freddezza del suo
ragionamento dimostravano appieno quanto le tragedie del suo passato ed
il tempo che aveva avuto per assimilarle l'avessero cambiata: la sua
freddezza non era apparenza, finzione, ma il prevedibile risultato di
un graduato logoramento. Il volto aveva perso lo splendore
della sua innocenza, adombrandolo, ma il dolore l'aveva levigato,
scolpito, cesellato d'una fiera alterezza, d'una calma
benchè funesta risolutezza, e la sua volontà era
così manifestamente aguzza nei tratti perchè era
stata scritta dai pugnali.
Baelish portò una mano al pizzetto sul mento, com'era solito
fare. -Astuto, ma se il re decide di rispondere a questo presunto
alfiere,
oppure viene in qualche maniera a scoprire che la lettera è
un
falso, come la mettiamo?-
-È molto difficile che sorga questo dubbio. In fondo,
perchè non dovrebbe essere quel che sembra? Se ogni volta
che
giunge una lettera si pensasse che non è autentica, questo
sistema di comunicazione avrebbe vita breve.- osservò
Alayne. -E comunque non ci sarebbe
abbastanza tempo per chiarire la questione ed ipotizzare la
verità. Sarebbe già troppo tardi.-
-Come credi. Ti stai mobilitando per venire in soccorso alla tua
famiglia, vedo.- disse Baelish. Era un buon segno: magari presto
avrebbe espresso il desiderio di ricongiungersi con la sua famiglia, e
allora loro due avrebbero potuto lasciare il castello di quel
pidocchietto antipatico di Robin.
-Famiglia, dovere,
onore, ricordi?
Questo,- e Sansa toccò una busta gonfia e già
sigillata,
-è il resoconto di una ragazzetta al seguito dell'esercito
che
ho pagato in forma anonima per aggiornarmi circa l'umore dell'esercito
e gli spostamenti delle truppe. Certo, non è molto, contando
che
quanto una giovane schiava può sapere è soltanto
il giro
delle chiacchiere e i movimenti vengono segnalati solamente nel momento
in cui avvengono, però è meglio di niente: fare
altrimenti sarebbe stato troppo pericoloso. Se la beccheranno intenta a
scrivermi una lettera, perlomeno non potrà confessare nulla
nemmeno se vorrà. L'unica cosa che deve fare è
inviare le
lettere a una torre abbandonata a qualche lega da qui, e provvede un
servo a portarmele. È un piano semplice, ma conto sulla sua
complessiva efficacia.-
-Non hai imparato da te stessa a non fidarti delle lettere? Non sei la
sola a poter gabbare il mittente, Alayne...- obiettò
Ditocorto a quel punto.
Sansa si mostrò scettica circa quell'eventualità.
-Una schiava non ripone fedeltà in nulla, se non nel denaro
che
la ripara dal freddo e le riempie la pancia. A che pro dovrebbe
decidere di dare false informazioni ad una persona che non conosce?-
Baelish sorrise. Questa
non è
più tua figlia, Cat. Questa ragazza l'ho addestrata io. E
guarda, se ancora da lassù puoi rivolgere
lo sguardo alle
miserie umane, che cosa è diventata.
-Tempo fa mi dicesti che Tommen, Myrcella e Margaery erano
gli unici ad averti trattata con gentilezza, alla Fortezza Rossa.
È solo grazie alla giovane Tyrell, inoltre, se non hai
sposato quell'orribile ragazzino, Joffrey. E tu adesso stai
complottando alle loro spalle? Sleale da parte tua...-
Il viso di Sansa si rabbuiò. Quando parlò, la sua
voce era piatta e monocorde. -Non m'importa più di chi
è la colpa, Petyr. Non è mai importato a nessuno.
Perchè dovrebbe importare a me?! So chi sono le persone che
devo amare, qual è la fazione in favore della quale mi devo
schierare. Tutto il resto è relativo. Io sono una Stark, ed
a mio tempo ho pagato per questo. È venuto il giorno che
anche i Lannister lo facciano. Non sono più una bambina,
Petyr, e ho imparato a fare distinzioni fra chi sarà sempre
al mio fianco e chi sprecherà soltanto parole. Questo
è tutto.-
Era davvero tutto. Lo sguardo di Sansa era ancora fisso sulla lettera,
ma gli occhi non leggevano più, immobili in un silenzio
irrevocabile. Baelish notò che un singulto le scosse la gola
bianca, mentre le labbra si serravano -quasi a costringersi a non
concedere più pietà a nessuno.
Bealish capì ch'ella aveva bisogno di stare un po' sola e si
congedò con poche parole inascoltate. Mentre scendeva le
scale, l'idea del rapporto di reciproca necessità che lo
univa a Sansa gli parve un superamento del punto dolente ch'era sempre
stato il rifiuto di Catelyn; però non riusciva ancora a
dissolvere quel fantasma con un sincero, tagliente, noncurante non ti amo, e
Catelyn Tully continuava a seguirlo impassibile, confondendosi con la
sua ombra, respirando sul suo collo -sempre troppo lontana.
***
Sicuro della sua esperienza di otto anni passati insieme, nel bene e
nel male, Tyrion -nella sua evidente e riprovevole
ingenuità-
era convinto d'essere in grado di prevedere le reazioni ed i
comportamenti di Shae, perciò s'armò d'una
ventina
di risposte che dall'umorismo tragicomico sfociavano
nell'autoironia e della sua più commovente espressione da:
"oh-Shae-per-gli-dèi-quanto-mi-sei-mancata-non-ci-crederai-è-stato-un-inferno-non-vedevo-l'ora-di-riabbracciarti"...
servì a ben poco, dal momento che la donna di fronte a lui,
dopo
alcuni istanti di accusatorio silenzio, gli mollò un ceffone
che
gli girò letteralmente la faccia.
-Lo sai cosa stavo facendo, stamattina?- sibilò con voce che
non si sarebbe potuta definire in altro modo, se non oscura. -Stavo
meditando su come dire a nostra figlia che d'ora in poi avrebbe vissuto
senza padre.-
Ella indossava un pesante cappuccio di lana blu sopra il capo, ad
ombreggiarle il volto perlaceo. La notte si dispiegava rossastra nei
bassifondi di Approdo del Re, riflettendosi sinistra nelle pozze
d'acqua torbida come l'anima di quella città, graffiando i
muri
e carezzando con dita fredde le schiena dei passanti.
-E sai cosa stavo facendo io,
stamattina? Stavo appresso al letto di mio fratello moribondo.-
bofonchiò Tyrion. -Da come mi hai apostrofato, sembra che
abbia
passato il tempo ad ubriacarmi in osteria in braccio alle tue
amichette.-
Il che, pensò,
non significa che non
sia ciò che avrei tanto voluto fare in realtà.
Shae non parve neppure per un attimo pentita dei proprio
modi
bruschi. -Neanche. Un. Messaggio. Neanche un misero "Hey, tanto per
avvertire, sono ancora vivo". Lo sai che nottatacce mi hai fatto
trascorrere?!-
Per un istante, quella maschera di rabbia s'incrinò,
lasciando trasparire la sua apprensione.
-Ohh, quanto sei dolce,
Shae.
Davvero, nessuno ti impedisce di perseverare nella... solitudine in mia
assenza. Anzi. Lo sai che voglio soltanto la tua felicità.-
Tyrion le sorrise pigramente ed ella lo ricompensò con
un'occhiata fulminante. -Per una volta che cercavo di... che pensavo...
che mi stavo davvero... ahh, lascia stare.- S'imbronciò.
-Sei
l'essere più laido che io conosca.-
-Non credo proprio, purtroppo. Allora, andiamo dalla piccola oppure
rimaniamo qui a parlare della tua... come definirla? astinenza di compagnia?-
Dette quelle parole, Shae gli fece secco cenno di seguirlo e
cominciò a camminare a passo affrettato davanti a lui,
ritirando
le mani sotto il lungo mantello. Tyrion era impaziente di rivedere sua
figlia. L'ultima volta che era andato a trovarla era stato quasi un
mese prima; egli non aveva avvertito Shae che non sarebbe partito per
Runestone, perciò, quando la donna aveva sentito dello
sterminio
di Lannister consumatosi là e da quel momento non aveva
avuto
più sue notizie, era legittimo ch'avesse temuto ch'egli
fosse
morto. Tyrion si era sentito in dovere di stare accanto a Jaime, non
soltanto
per la gravità delle ferite ma soprattutto
perchè, al
risveglio, il fratello avrebbe dovuto confrontarsi con un trauma molto
più grave: la morte della gemella. Però, per
adempiere a
quel fraterno dovere, aveva trascurato quello paterno. Il fatto era che
non aveva mai potuto assegnare a Shae ed alla piccola una casa soltanto
loro, per paura che Cersei finisse con lo scoprire tutto e mandasse
qualche suo scagnozzo, perciò le due erano costrette a
cercarsi
ogni due settimane un luogo diverso in cui dormire, che come requisito
fondamentale presentasse una via di fuga sempre accessibile. Per questo
Tyrion doveva ogni volta chiedere a Shae dove recarsi, non sapendo in
che
posto alloggiassero in un determinato periodo, e non poteva
semplicemente andare a trovarle quando aveva un po' di tempo a
disposizione. Tale era uno dei problemi che la scomparsa di Cersei
aveva risolto. Mentre continuavano a camminare spediti, Tyrion si
guardò intorno circospetto: Fondo delle Pulci non
gli
pareva un luogo sicuro, nè il più adatto per
portarci una
bambina.
-Ha fatto qualche progresso?- s'informò egli ad un certo
punto,
incuriosito. Shae contrasse le labbra imbarazzata, come se stesse per
annunciare qualcosa di sgradevole.
-Ha imparato definitivamente a leggere.- confessò infine,
turbata. Tyrion inarcò le sopracciglia, sorpreso.
-Naturale, ha sei anni. Più lodevole è il fatto
che da
sola abbia deciso di applicarsi, e che abbia studiato da autodidatta...-
-Ha imparato a leggere prima
di me.- protestò la donna con sdegno,
contrariata all'idea di dover misurare la propria intelligenza con
quella di sua figlia.
-Mi sembra ovvio, lei è mia figlia. Mentre tu...-
cominciò Tyrion, prima di rendersi conto
dell'enormità
del guaio in cui si stava cacciando.
Shae serrò gli occhi, battagliera. -Mentre tu...?!- lo
incalzò a proseguire, minacciosamente.
-... mentre tu sei la mia piccola dolce Shae.- rispose egli, giulivo,
con un amabile sorriso. -Dai, su, lo sappiamo che il tuo talento si
manifesta in altri campi...-
-Mi fai più schifo ogni minuto che passa.-
borbottò lei.
-Sì, anch'io ti amo. E per inciso, se anche ci fossero dei
doppi sensi nascosti fra le mie parole, li hai intesi solo tu.-
Fra una frecciata e l'altra accelerarono progressivamente il passo;
Shae svoltò ad un vicolo, scansando i gorgoglianti rigagnoli
d'acqua che gocciolavano da una vecchia grondaia, e fu subito avvolta
dalla penombra. Tyrion lanciò un'occhiata agli edifici
che vi si affacciavano: muri anneriti dal tempo, compatti ed
uniformi, perchè soltanto due o tre finestre erano visibili
-e
tutto quel che si poteva intravedere era una vacua, disabitata assenza.
-Lo sai che ad essere davvero nascosto non è chi si isola,
ma
chi si confonde fra la folla?- commentò. Per tutta risposta,
Shae bofonchiò qualche insulto improponibile. All'improvviso
la
sua mano trovò una ringhiera e vi si aggrappò,
mentre
scendeva un paio di gradini ricoperti di muschio verdastro; Tyrion la
seguì. Proprio lì, in quella
nicchia sette o otto
piedi sotto il livello del suolo, v'era una porta di legno pesante e in
parte marcio, come il Folletto notò -persino al buio.
Shae bussò energicamente. -Tesoro? Sono io. Mi apri?-
-Qual è l'unica verdura che io non voglio mangiare?-
replicò una vocina petulante, in tono quasi beffardo. La
donna
alzò lo sguardo al ritaglio di cielo che si poteva scorgere
da
lì.
-I broccoli sono quelli che odi più di tutto,
però non sono le
uniche verdure che non mangi, signorina. Cosa mi dici
delle melanzane e dei piselli?-
Seguì un silenzio interdetto, addirittura deluso, e subito
dopo
un rumore sferragliante di chiavistelli strattonati da una parte, di
catenacci slegati, di paletti rimossi e spranghe levate e poggiate sul
pavimento; soltanto allora la porta s'aprì, sempre un po'
cautamente.
Anche se il giudizio di Tyrion non avrebbe mai potuto essere
completamente obiettivo, egli riteneva senza dubbio vero il
fatto
che Cailee Waters era una bambina adorabile. I lineamenti del viso,
più tipici delle città libere che di Westeros, li
aveva
ereditati dalla madre: gli occhi dolcemente allungati, scuri e densi
come vino aromatico, gli zigomi alti e un po' pronunciati, il naso
dritto e la piccola bocca. I capelli invece erano Lannister,
biondi, pallidi come i primi raggi dell'alba ma squillanti
come
grano esposto al sole battente; Shae glie li tagliava corti,
all'altezza del collo, ed una scriminatura centrale li divideva,
facendo sì che due ciocche ricadessero sulla fronte, una a
sfiorare l'occhio destro e l'altra il sinistro. La pelle non era
nè diafana nè olivastra, ma un buon compromesso
fra le
tonalità. Di corporatura era gracile e mingherlina, anche
troppo, ma il padre sapeva quanto fossero scattanti quei piedi
minuscoli all'occorrenza.
Vedendo la madre sulla soglia, Cailee aggrottò la fronte
accigliata. -Avevi detto che venivano le guardie a prendermi,
però! L'avevi detto! E allora perchè non vengono
mai?-
-Ti piacerebbe forse che venissero qui?- ribattè lei,
sorridendo. La bimba mise il broncio.
-Io voglio vedere le guardie. E anche le spade.-
-E non hai paura che ti portino via da me e non ti restituiscano mai
più?- la stuzzicò Shae. -Le guardie non ti
preparerebbero
mica il pane con la marmellata a merenda come faccio io.-
La bambina non parve molto impressionata dalle minacce. -Guarda che non
mi faccio rapire. Io le guardie le mordo!-
-Che gli Dèi ce ne scampino!-
Appena Cailee vide la figura di suo padre comparire da dietro Shae, il
suo visetto minuto s'illuminò come una stella. Al grido di
"papà!", balzò ad abbracciarlo con impeto. Non si
poteva
certo dire che fosse nana: Tyrion si rese conto che era quasi alta come
lui.
-Sai che adesso leggo veloce come te?- annunciò fiera,
scostando
distrattamente un ciuffo biondo dietro l'orecchio. Il padre scosse la
testa.
-Ne dubito. Scommetto che sei molto più veloce di me.
Aspetta, cos'è questa storia delle spade?-
Cailee lo prese per mano e lo strattonò nel cuore della sua
casupola; l'interno era squallido -le pareti erano spoglie, le assi del
pavimento accidentate e la mobilia consisteva in una credenza, un
tavolo e pochi sgabelli- eppure accogliente allo stesso tempo, ed era
sorprendente come, in così poco tempo, le due inquiline
fossero
riuscite a renderlo tanto familiare.
Probabilmente
erano l'innata allegria e l'entusiasmo di Cailee a riscaldare
così tanto anche la più sciatta manifestazione
della
miseria. Quando sedettero al piccolo tavolo al centro della stanza,
-Ho deciso che da grande farò il cavaliere, come lo zio
Jaime.-
annunciò solennemente la bambina, gonfiando il petto, con
fare
cerimonioso.
-Chi ti ha messo in testa questa balzana idea? No, no, tu non devi fare
il cavaliere, luce dei miei occhi... e non devi chiamare lo zio Jaime
"zio Jaime", capito? Mai.-
-E allora come?- ribattè la bambina, confusa.
Effettivamente, per quanto le precauzioni fossero state molteplici,
Jaime aveva finito per insospettirsi, seguire il fratello e scoprire
dell'esistenza di Cailee, nonchè di Shae. Tyrion non se
n'era
preoccupato, perchè sapeva di potersi fidare di lui: a dirla
tutta, egli era stato piuttosto contento d'essere diventato zio e aveva
preso la nipotina in simpatia. "Ha un bel caratterino, proprio come
te", aveva commentato ridendo con Tyrion.
Il Folletto ci pensò un po' su. -In realtà non lo
devi chiamare per
niente. Evita di nominarlo e tutto andrà al meglio.-
L'idea che per Approdo del Re si spargesse la voce che Tyrion Lannister
aveva generato una figlia bastarda non lo entusiasmava
granchè,
a prescindere dal fatto che Cersei fosse morta. Finchè
nessuno
avesse scoperto le sue origini, la piccola sarebbe stata al sicuro;
altrimenti sarebbe stato fin troppo facile rapirla per ottenere un
riscatto, consegnarla a qualcuno o, ancora peggio, ucciderla per
semplice ripicca verso la tirannia dei Lannister. La cosa che per
Tyrion era più dolorosa era il fatto di non poterla tenere
con
sè alla Fortezza Rossa, sempre sott'occhio, perennemente
sotto
la sua vigile ala protettiva. Prima della nascita della figlia non
credeva davvero che ci si potesse affezionare così ad un
moccioso, però diventare genitori -esattamente come dice
quel
barboso luogo comune- fa cambiare la prospettiva da cui si guarda il
mondo. D'un tratto tutto l'amore che gli era stato impedito -per un
motivo o per un altro- di provare per Cersei e Tywin e Joanna, il
tenero sentimento adolescenziale nei confronti di Tysha, la passione
tutt'ora vitale per Shae s'era riversata nell'unica, straziante,
insopportabile necessità di vedere le labbra di quel piccolo
esserino incurvarsi ed esplodere in un sorriso che parlasse di gioia,
che ignorasse le lacrime, che varcasse i confini. Perchè un
genitore non è un dio, può, deve dare soltanto la
vita
alla sua creatura -perchè l'ombra di Tywin Lannister non
poteva
essere così lunga da insidiare anche l'infanzia di sua
nipote.
Mentre Cailee, dalla saccoccia che conteneva tutti gli averi suoi e
della madre, arraffava uno dei fogli che utilizzava per imparare a
leggere ed un calamaio d'inchiostro nero, canticchiando adesso disegno lo zio Jaime con
il cavallo e la spada, Shae sedette accanto a Tyrion e
gli toccò la spalla, sollecita.
-A proposito di Jaime, come sta?- sussurrò piano. Dopo tanti
anni insieme, aveva scoperto la tacita solidarietà e
l'intensità segreta del rapporto fraterno che intercorreva
fra i
due. Il Folletto si limitò a lanciarle un'occhiata
sconfortata.
-Male, Shae. Fisicamente, molto meglio di quanto i medici vogliano
farmi credere. Interiormente, molto peggio di quanto egli riesca a
farmi intendere. La ferita al petto è quasi guarita, senza
troppe complicazioni, ma la riabilitazione è lenta proprio a
causa della sua... totale mancanza di collaborazione.- Tyrion aveva
esitato, prima di pronunciare quelle parole: in effetti, il termine
esatto da adoperare sarebbe stato disperazione,
inteso nella sua
accezione meno banale, cioè mancanza di speranza. Jaime
Lannister non sperava più, e questo era sostanzialmente
l'ostacolo insormontabile. Non sperava più che il mondo
avrebbe
smesso di deluderlo. Non sperava più che il fuoco l'avrebbe
scaldato e la luce avrebbe sbrogliato le tenebre. Non sperava
più che un respiro potesse diventare un passo verso il futuro piuttosto
che l'ennesimo istante
dopo Cersei. Non
sperava nemmeno più nel vuoto, perchè il nulla si
colmava
sempre di più ad ogni istante, ed ormai faceva male pure
quello.
Ogni cosa era in grado di ferirlo, in un circolo vizioso di specchi e
strazio -povera piccola anima forte che voleva cedere alle lusinghe
dell'oblio e trovava la porta sprangata.
-Non vuole guarire, capisci? Non ha intenzione di alzarsi da quel
letto. E io non trovo le parole giuste per spingerlo a farlo.- ammise
Tyrion. Lui, che non trovava le parole giuste? Visto ch'era l'unica
cosa che avrebbe sempre saputo fare meglio degli altri, la situazione
era piuttosto critica.
-Il pensiero di farla pagare al responsabile, magari.- propose Shae,
che conosceva il sapore della vendetta più di quanto avrebbe
desiderato.
-Se gli si piazza ancora una volta avanti, quel
responsabile gli farà pentire d'essere sopravvissuto. E
farà in modo di non ripetere lo stesso errore.- fu la tetra
risposta. Quando Rickon Stark avrebbe scoperto che lo Sterminatore di
Re era ancora vivo, si sarebbe di certo infuriato: più
lontano
lui e Jaime fossero rimasti l'uno dall'altro, meglio sarebbe stato.
-Mettere in castigo un bambino cattivo non ridarà un senso
alla
sua esistenza. Il piccolo Stark ha compiuto un delitto di cui non
può conoscere la portata, non nella sua effettiva interezza.
Ha
combinato un guaio più grande di lui, che finirà
inevitabilmente per ripercuoterglisi contro... ma non ora. Ci vuole
tempo. Al momento, Jaime deve pensare soltanto a riposare.-
Shae lasciò trascorrere qualche momento, prima di
aggiungere:
-Mi dispiace per tuo fratello, sì, però se ti
dicessi che
la morte della sua affabile gemella mi addolora...-
-... mentiresti spudoratamente. Siamo in due.- concordò
Tyrion,
impassibile. -Proprio per questo, mia cara, mi sembra il caso di
discutere circa il vostro futuro... Ora che la minaccia di Cersei non
incombe più, vi procurerò una casa che vi
appartenga. Una
casa decente, niente a che vedere con queste bettole. Una casa grande,
bella e sicura.
È una promessa.-
Tyrion sorrise, e Shae non potè fare a meno di imitarlo.
-... è fantastico.- concluse in soffio.
-Voi siete fantastiche.- la corresse lui, prendendole una mano e
fissandola negli occhi. E le parole divennero futili come pulviscoli
d'aria.
-Papà?- La voce acuta di Cailee interruppe bruscamente
quell'idilliaca sospensione.
Tyrion si rivolse a lei. -Dimmi.-
La bambina aveva sollevato lo sguardo dal suo disegno: teneva il palmo
della mano disteso premuto sul foglio con fermezza, la mano che reggeva
la piuma incerta a mezz'aria. Sul suo visino v'era un'espressione
pensosa.
-Ho sentito il ragazzo delle mele al mercato che diceva: la guerra sta arrivando. La
guerra arriva sul serio?-
Anche Shae guardò il marito, quasi che la risposta la
interessasse. Egli osservò prima l'una, poi l'altra.
Ovvio che stava arrivando, la guerra. Gli Stark si erano premurati
d'avvertirli piuttosto esplicitamente. L'avevano portata
loro, insieme al vento del Nord, insieme alla spada dei
vendicatori ed il lutto dei Lannister. La guerra era arrivata nel
momento in cui il giovane regno di Tommen aveva cominciato a piegarsi
su se stesso, sotto la pressione dell'inverno, a dare segni di
cedimento, a cigolare e gemere; ed adesso che quel regno brancolava
nell'indeterminatezza, ecco la guerra a derubare tutte le tasche per
saldare i debiti non pagati.
Tyrion era già piuttosto impegnato e preoccupato, per via
dei
numerosi oneri che gli venivano dal titolo di stratega, occupato a fare
bilanci per le spese militari e mandare corvi ai vari alfieri e
trattare per il numero delle truppe ed esaminare la mappa, tentando di
indovinare la prossima mossa di Brandon Stark; tutto ciò non
era
poco, e se poi ci si aggiungeva i deliri di Tommen, allora le
circostanze diventavano ingestibili. I guai cominciarono a causa di una
lettera, giunta da Ashemark, che affermava che le truppe si sarebbero
rifiutate
di combattere per un re che faceva altrettanto; a quanto pare, tale
moto di ribellione era stato fomentato dal fatto che il Re Metamorfo
aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe partecipato alla campagna
militare. Se aveva il coraggio di farlo uno storpio, i soldati del Sud
si sentivano insultati all'idea di combattere sotto l'insegna d'un re
vile a tal punto. Tyrion poteva anche comprendere un ragionamento di
questo tipo, ma c'erano due cose da tenere a mente: la prima era che
Bran Stark non per niente era il Re Metamorfo, e tanto vulnerabile
dunque non pareva; la seconda era che chiunque sarebbe stato capace di
fare lo spavaldo, con al fianco una macchina da guerra come Rickon.
Però Tommen aveva sedici anni, che diavolo, e quella lettera
l'aveva punto nell'orgoglio. Per quanto temperante e sensibile
d'indole, era pur sempre un Lannister. Perciò, dopo aver
sbottato "posso andarci benissimo anch'io, non c'è alcun
problema" aveva ordinato di riferire il suo assenso al popolo intero
tramite un editto. -Così andrò a riprendermi
Myrcella, e
gli farò pentire di averla sfiorata con un dito, a quel
Rickon
Stark!-
Inutilmente Tyrion aveva cercato di farlo ragionare, esponendogli tutte
le buone ragioni per cui non dare retta a tale provocazione
-perchè, se non una provocazione, cos'era la lettera?- e
starsene sereno alla Fortezza Rossa: ormai il danno era irreparabile.
In verità il problema c'era, e non da poco. Tommen sapeva
maneggiare sì una spada in maniera passabile, grazie agli
insegnamenti di Loras Tyrell, ma da qui a definirlo un combattente ci
passava
il mare dothraki. Era un ragazzo dall'animo dolce, impressionabile,
compassionevole: la guerra, e qualsiasi altra forma di violenza, non
facevano per lui. Non sarebbe mai stato in grado di dare la morte ad
una persona, nemmeno ad un nemico -forse nemmeno a Rickon Stark stesso,
però, come il bambino ch'era, parlava senza rendersi conto
dell'impresa che stava intraprendendo, spinto soltanto dall'impeto
della giovinezza, da un'ingenua speranza di gloria, dal desiderio di
fare qualcosa di
concreto per
riavere Myrcella con sè, anzichè starsene
lì con
le mani in mano. Di certo Rickon Stark aveva sfiorato la ragazza
con ben più che con un dito, però era altrettanto
vero
che avrebbe potuto uccidere il giovane Lannister con un pugno.
Tyrion era del tutto contrario a questa decisione, ma Tommen era il re
e, costringendolo a cambiare idea, avrebbe
dimostrato quanto egli fosse debole e smidollato e gli avrebbe tolto
autorità davanti agli occhi al popolo, sminuendo ancora di
più la
sua immagine di re giovane, incapace ed inesperto. Persino le suppliche
di Margaery, che gli aveva ricordato quanto bello sarebbe stato se
Tommen avesse visto suo figlio nascere e l'avesse preso in braccio per
primo, erano state vane; Tyrion avrebbe faticato a dimenticare quella
scena, Margaery quasi inginocchiata davanti al marito, ad aggrapparsi
alle sue ginocchia come se volesse impedirgli fisicamente di andarsene,
ed aveva parlato con un filo di voce:
-Non puoi farmi questo, Tommen...- Con estrema delicatezza, ella gli
aveva preso una mano e l'aveva poggiata sul proprio ventre prominente,
al che il ragazzo potesse avvertire il bambino scalciare. -Non puoi
farci questo.- aveva aggiunto dolcemente ella, le ciglia imperlate di
lacrime, gli occhi intensi come cieli pronti a disciogliersi. Il
silenzio aveva tremato come l'ultima foglia autunnale d'un nudo ramo, e
sembrava che l'appello di Margaery avesse avuto la meglio sulla
testardaggine del re. Ma quella speranza era stata spazzata via dal
cuore della fanciulla non appena l'espressione di lui s'era contratta
dolorosamente.
-Lo devo a Myrcella. Non posso fare altrimenti. Tornerò,
Margaery, quant'è vero che ti amo con tutto il cuore.-
Non abbastanza,
sospiravano
senza muoversi le labbra di Margaery Tyrell, lo sguardo rivolto alla
nuvola di polvere che avrebbe seguito l'esercito nella sua marcia verso
l'inferno. Non
abbastanza.
-Sì, bambina mia, la guerra sta arrivando.- risposte Tyrion,
pacatamente. -Ma non qui.- Non
per te, grazie agli dèi.
Sono altri quelli che devono iniziare ad avere paura.
Note dell'Autrice: Ed eccomi qua. Che dire? Ormai non so più
come farmi perdonare i miei ritardi, perciò abbandono
l'impresa in anticipo. u.u
Adesso è esploso il pandemonio. Come reagirà
Rickon alla notizia del matrimonio? Eheh. Non tanto bene, a quanto
pare. E voi, ce lo vedete più con Shireen o con Myrcella?
(curiosità personale!) A proposito di Myrcella, anche lei
come Sansa trama alle spalle del nemico. Ho dato più spazio
a lei e Baelish, siete contenti?
So che molti avrebbero preferito vedere Meera ammazzare Jojen a colpi
di sedia, ma loro non sono tipi da litigare. Si vogliono troppo bene. E
la figlia di Tyrion? Vi sta simpatica? E' una tipetta un po' strana
-d'altronde non poteva essere altrimenti, con Shae e Tyrion come
genitori!
Lo so, lo so, vi starete chiedendo: e dov'è il pezzo
lunghissimo su Jaime? ... arriverà, abbiate
fede. Arriverà.
Grazie mille per avere letto fin qui, e un ringraziamento particolare
va a Talia_Federer, Resha Stark e yoyobiship, che hanno recensito il
terzo capitolo, nonchè a coloro che hanno messo la storia
fra le preferite/seguite/ricordate! Grazie millissime! Mi piacerebbe
molto sapere cosa ne pensate. ^-^
Al prossimo capitolo dunque!
Lucy
ps: l'amaranto citato nel titolo del capitolo è un
riferimento al colore dell'abito di Shireen. Che complicazioni, eh?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Avorio fu il rifiuto. ***
5
V. Avorio fu il
rifiuto.
-Morti.- ripetè il capitano delle guardie. -Affogati, tutti.-
-Tutti?- Yara Greyjoy, le mani puntate sui fianchi, esaminò
con
occhio critico la scena che le si presentava davanti. I relitti di
tante piccole imbarcazioni erano stati trascinati sulla costa durante
la notte, miseri, scarni e patetici, spuma rossa di vite lasciate
indietro. Purtroppo non era difficile valutare le proporzioni del
naufragio: le
carcasse di almeno sette barche erano incagliate profondamente nella
sabbia come unghie nella carne, ferite dall'irruenza del mare, e si
poteva scorgere diverse
assi di legno galleggiare sulla superficie increspata ed inquieta
dell'acqua, in balia delle onde.
-Erano sentinelle, mia signora.- spiegò l'uomo, aggrottando
la
fronte. -A turno, durante la notte, circumnavigano l'isola divisi in
gruppi per accertarsi che dei malintenzionati non approdino di
nascosto.
Finora, sono stati trasportati a riva dalla corrente ventidue cadaveri.
Ci sono ancora dei dispersi, che però presumibilmente non
sono
andati incontro ad un destino diverso. Non abbiamo la benchè
minima idea di cosa possa essere successo, nessuno di noi riesce a
spiegarselo...-
-A me non sembra un mistero così insolubile.-
replicò
Yara, contraendo la mascella. -Se il loro compito è tenere
alla
larga gli invasori, chi sarà mai stato a distruggere le loro
barche? Perchè è abbastanza evidente che non
è
stata una tempesta: visto che non si allontanano tanto dalla costa, se
si fosse verificata, noi ce ne saremmo accorti e questi
poveracci non avrebbero avuto la brillante idea di salire sulle barche.
E poi, non è un po' strano che siano morti proprio tutti?
Non erano dei pivelli, insomma. Navigare era il loro mestiere. Quindi,
invece di perdere tempo, per quale maledettissimo motivo non
hai
mandato le pattuglie a setacciare l'isola?!-
Il capitano delle guardie scrollò il capo. -Non ho mancato
di
farlo, mia signora. Il resto dei miei uomini è impegnato a
cercare tracce dei presunti nemici... ma finora niente.-
-Nel caso in cui questi nemici ci fossero, sarebbero in pochi,
perchè altrimenti non avrebbero potuto far passare
inosservato
il loro arrivo, e sarebbero arrivati da meno di dieci ore. E' ovvio che
non hanno ancora attaccato. Non vogliono mica il comitato di
accoglienza.- brontolò Yara, chiedendosi
perchè accidenti avesse dei simili citrulli al suo servizio.
-Continuate ad ispezionare Pyke, e più
accuratamente di
quanto non stiate già facendo. Concentratevi soprattutto nei
dintorni del palazzo... sarebbe sensato che il loro obiettivo fossi
io.- Non molto
avveduto, ma sensato, pensò con un ghigno.
-Agli ordini, mia signora.- rispose il capitano, lanciandole uno
sguardo seccato. Gli uomini di ferro acconsentivano di malavoglia ad
obbedire ad una donna, ed era sotto certi versi comprensibile,
però Yara non tollerava di vedersi mancare di
rispetto.
Quel pregiudizio salava il suo sangue da prima che nascesse, come i
geni dei Greyjoy, macchiava le sue mani come calce ed ustione di sole.
Yara guardava se stessa nel riflesso della propria spada, e
così
sarebbe stato finchè non sarebbe stata calpestata
così
forte da poter soltanto evitare l'immagine distorta negli occhi degli
altri.
A
quel punto si allontanò dalla spiaggia, lasciando i suoi
uomini
intenti a quei macabri ritrovamenti, e pensò al da farsi.
L'idea
di allarmare l'intera Pyke, magari inutilmente, non l'allettava
granchè: meglio evitare il panico generale. Però,
allo
stesso tempo, era prudente che tutti stessero all'erta, per reagire
prontamente ad un eventuale attacco. E non era forse necessario
organizzare dei turni di pattuglia per le città? Beh,
sì,
ma il problema persisteva.
Yara aveva un presentimento, riguardo questi ipotetici nemici:
esponenti di famiglie nobili delle altre isole, che -come era
già successo- si ribellavano al suo dominio e cercavano di
conquistare la roccaforte, anche ricorrendo alla violenza -e anche
circa questo v'erano dei precedenti. Ma come speravano di assediare
Pyke con pochi uomini? Se si fosse presentato un esercito, sarebbe
stato impossibile nasconderlo. Quindi qual era il bandolo della matassa?
-Yara!- La voce di Tristifer la riscosse da quei tetri pensieri. Yara
sbuffò; la consapevolezza di tutte le vite sprecate
invano
l'opprimeva di tristezza, e la tristezza -essendo un sentimento che
tende ad indebolire l'animo- le procurava fastidio ed
irascibilità alla
prima occasione. Con Botley, poi, ogni scusa era buona per sbottare e
sfogare il proprio malumore.
Il ragazzo era a cavallo, perchè invece di scendere a
controllare l'accaduto con lei aveva preferito galoppare fino a
Lordsport e tornare indietro.
-Hai scoperto che cosa è successo?- domandò
preoccupato, scendendo
con un balzo dalla groppa del destriero ed avvicinandosi alla moglie,
le briglie attorcigliate ad un polso.
Yara dissentì scontrosamente con il capo. -Non proprio. So
solo
che alcune barche sono state rinvenute sfracellate sulla riva e tutti
gli uomini addetti alla sorveglianza sono annegati. Escludendo
l'eventualità di una tempesta, l'unica soluzione possibile
è che degli invasori li abbiano tolti di mezzo per approdare
a
Pyke. Ora si tratta di scoprire se è così, chi
sono e
perchè l'hanno fatto. E di prenderli a calci in culo.-
concluse
cupa.
-Questo è lo spirito giusto.- sorrise Tristifer. Poi
s'impensierì. -Mi stai dicendo che a Pyke ci sarebbero degli
stranieri con cattive intenzioni? Non sarà troppo difficile
riconoscerli. Dovranno per rifornirsi in qualche modo: allora, o si
daranno alle scorrerie, o acquisteranno qualcosa per dare meno
nell'occhio, ma saranno lo stesso riconoscibili. Voglio dire, avranno
un altro accento, un altro aspetto, no? Qua si capisce subito se uno
è isolano o no. E c'è diffidenza verso gli
estranei.-
Yara la trovò un'affermazione inusualmente ragionevole. -...
può darsi. Però aspettare non è la
scelta
migliore. Ho già mobilitato le pattuglie, e si
vedrà cosa
combineranno.-
Attorno a loro, i soliti coloriti schiamazzi del mercato del pesce
erano scemati in un silenzio strattonato dalla tensione. La tragedia
consumata ieri notte aveva colpito parecchie famiglie della
città, per non parlare del fatto che quel luogo era
terribilmente vicino alla costa dei ritrovamenti. Yara
avvertì
una dolorosa nausea prenderle la gola -c'era nell'aria qualcosa di
sbagliato, qualcosa che sovrastava e diluiva l'inebriante profumo del
sale, perchè della dimensione ultrasensibile non si vedono
gli
artigli, ma i graffi- e d'un tratto preferì essere molto
lontano
da lì. Era come se, giungendo lì quel mattino,
avesse
accettato il carico d'un destino infausto, la cognizione d'una insidia
che spalancava sospetti e malfidenze come crepacci, e di cui quindi
sarebbe stato meglio rimanere all'oscuro. Se fosse stata una comune
cittadina, nessuno l'avrebbe chiamata in causa ed ella avrebbe potuto
sguazzare serena nella propria lieta ignoranza; invece era la regina, e
doveva sobbarcarsi il problema in tutta la sua mole sulle spalle. E
Yara percepì distintamente gli occhi dei morti fissi sulla
propria nuca, in una pretesa perentoria, in un'accusa inarticolata, in
un responso crudele.
-Torniamo a casa.- ordinò la ragazza. -Non abbiamo
più
niente da fare. Sarò più utile a Pyke piuttosto
che qui.
Se gli intrusi cercheranno d'impossessarsi del potere, è
là che
attaccheranno.-
Tristifer soppesò il suo sguardo per qualche istante, forse
valutando l'umore della moglie e tentando d'interpretare
quell'intimorita confusione così inedita sul suo volto duro;
infine decise di tacere per ora sull'argomento, montò in
sella e
le fece segno di salire dietro di lui.
Tristifer aveva sempre qualche disagio a parlare di quella cosa con
Yara, allora quando lo voleva fare usava molti giri di parole, non
facendo intenere di voler dirottare il discorso su quella cosa e
facendo sì che fosse Yara stessa a fare l'ovvio
collegamento, e che tutto sommato la colpa sembrasse sua.
-Lo sai che la moglie di mio fratello ha partorito un'altra figlia?-
buttò lì. -Una femmina. Symond non ha parlato
d'altro per
tutta la lettera che mi ha inviato...-
-Buon per loro.- fu l'atona risposta. Tristifer espirò
lentamente. Perchè accidenti con lei era tutto
così
complicato?
-In realtà, ecco, io cercavo di dirti che... non trovi che
sarebbe bello... cioè... un giorno moriremo, no?... e allora
Pyke chi la erediterà? Bisogna, ehm....-
-Ancora con questa storia.- imprecò Yara. Oggi non era
proprio
giornata: ci mancava soltanto la sviolinata sui figli. -Senti, Tris, io
non voglio marmocchi che mi si appendano alle tette e piangano tutto il
giorno. Questo tu lo sai da molto tempo, anche da prima che ci
sposassimo. Eri consapevole del fatto che avresti dovuto rinunciare a
figli, annessi e connessi. Quindi le soluzioni sono due: o ti trovi una
puttana più disposta ad assecondare il tuo desiderio di
paternità, o rimani a bocca asciutta. Intesi?-
Tristifer, nella sua candida innocenza, s'indignò. -Una
puttana?
Ma Yara, che dici? Credi che io accetterei di fare un bambino con la
prima che capita? Io non voglio un figlio a caso, voglio nostro figlio.
Perchè quando si ama una persona, funziona
così... e io ti amo, Yara!- esclamò con
partecipazione.
La ragazza alzò gli occhi al cielo. -Non vedo in conseguenza
a cosa la mia risposta dovrebbe cambiare.-
Egli ritentò. -Tu... tu parli così
perchè non sai cosa significa. Ma se
lo provassi, magari, capiresti che... che è una bella cosa,
a
parte il fatto che i neonati piangono. Prima o poi smettono, immagino.
Dovresti pensare alle Isole di Ferro. Non puoi lasciarle senza un
Greyjoy al comando!- ribadì Tristifer. La moglie
sbuffò
impaziente.
-Prima che io muoia, speriamo, ce ne vorrà ancora un po'. E
chissà quante cose potrebbero succedere. Per esempio,
potrebbe
presentarsi a palazzo una qualche troietta con un bastardo di Theon,
risalente al periodo in cui si dava ancora alla pazza gioia,- sorrise
Yara maligna, -oppure tu potresti scoprire che in definitiva non mi ami
poi così tanto come pensi...-
-Questo non lo puoi dire, Yara.- protestò il ragazzo, con
impeto. -Questo mai.-
-Concentrati sulla strada, se non vuoi mandare il cavallo
giù da
un crepaccio.- lo derise Yara, con un cenno indolente del mento. Egli
abbassò lo sguardo sulle proprie mani e tacque, rassegnato.
Discutere con Yara era producente come discutere con i sassi. Se in
partenza aveva un'opinione riguardo qualcosa, era quasi inconcepibile
che giungesse a cambiarla, perchè avrebbe significato
ammettere
d'essersi basata su erronee convinzioni fino a quel momento.
Quando finalmente -dopo aver visto per un bel pezzo in lontananza il
profilo delle torri nere, svettanti e slanciate verso il cielo-
giunsero a varcare l'arco di pietra, furono accolti precipitosamente da
un attendente dall'espressione ansiosa.
-Mia signora.- ansimò con affanno. -Il principe Theon...
lui... non si sente bene.-
Yara aggrottò la fronte e saltò giù in
fretta da
cavallo, avvicinandosi ad ampi passi all'uomo. -Come sarebbe a dire?
Cos'ha?!-
-Ecco, ha avuto un attacco di... di panico, penso, urla e non vuole che
nessuno gli venga vicino...-
-E questo perchè diamine è successo?!
Sarà stato
provocato da qualcosa!- ruggì Yara, scuotendo violentemente
l'attendente per le spalle.
Lui deglutì. -Non saprei, forse... forse la mancanza della
luce? Oggi il cielo è piuttosto nuvoloso...-
-Sì, e il cazzo di mio marito è così
lungo che mi entra per la figa e mi esce per il culo. Ho chiesto la verità!- latrò
lei, battendo un piede per terra con impazienza. Alle sue spalle,
Tristifer mosse gli occhi a disagio.
-... lui ci ha chiesto perchè voi non c'eravate, e noi glie
l'abbiamo detto, che c'era stato un naufragio, che erano morte delle
persone... e così...-
-Spostati!- sbottò Yara, scostandolo con un gesto stizzito.
Aveva già abbastanza pensieri, senza che quegli incapaci
glie ne
procurassero altri; possibile che con Theon nessuno sapesse combinarne
una giusta?! A dire la verità, nemmeno lei era in grado di
capire cosa potesse essere detto o no in presenza del fratello, cosa
facesse scattare le sue crisi, però quella situazione era
ingestibile.
-Aspettami qui. Torno fra un po'.- bofonchiò all'indirizzo
di Tristifer. Il ragazzo l'afferrò per il braccio.
-Stai calma, Yara.- proferì lentamente, carezzandole una
mano. Lei si sottrasse imbarazzata, con un gesto infastidito.
-Non dirmi di stare calma,
Tristifer Botley! Sono stata capace di badare a me stessa fino al
giorno prima di sposarti, per cui comprendimi, se non ti ritengo
indispensabile per la conservazione della mia persona.-
commentò
con acido sarcasmo. In tutta risposta, Tristifer la seguì
apprensivo con lo sguardo finchè non fu impedito dal
raggiungerla.
Yara aveva salito le scale fino a trovare la stanza di Theon. Era
contaminata da una penombra umida, a causa del maltempo, e i servi non
avevano nemmeno acceso il fuoco lì dentro, così
il
risultato era che il freddo strisciava sulle pietre squadrate delle
pareti. Hanno paura di
lui, dedusse Yara contraendo le labbra. Pensano che sia posseduto da uno
spirito maligno. Pensano che sia matto...
Suo fratello era rannicchiato in un angolo, le ginocchia
appuntite compresse convulsamente al petto, la faccia premuta fra le
vesti troppo larghe per il suo corpo, in un tentativo di nascondersi
dal mondo, o forse d'essere confortato da un grande, libero buio senza
disegni. Ogni tanto, le spalle erano scosse da vigorosi sussulti che
pretendevano lo sfruttamento dell'ultima fiacca energia che gli
restava. Egli sottovoce sputava soltanto un monotono, sordo
lamento, troppo fievole per superare l'ostacolo delle ginocchia e
raggiungere la realtà.
-Theon.- azzardò Yara, compiendo un cauto passo in avanti,
fissando con occhi dubbiosi e corrucciati la gracile figura contorcersi
nell'udir pronunciare il proprio nome, quasi che fosse stato pungolato
con una spada. La sorella non temeva lui in sè, ma invece
l'idea ch'egli potesse agitarsi e rimettersi a sbraitare e terrorizzare
gli abitanti dell'intero maniero.
-Non dirlo.- biascicò Theon, alzando la testa. Pareva che
con la
sua voce avessero banchettato i corvi: ne rimaneva soltanto un suono
atono, spolpato, prosciugato.
Niente più flutti marini, soltanto un'aspra incrostazione di
sale. -Non... dirlo. Se lo dici ti
sente.-
-Chi mi sente?- Oh, Yara sapeva perfettamente chi Theon
aveva timore che l'udisse, però voleva che il fratello lo
ripetesse un'altra volta, per dimostrare l'assurdità delle
sue
parole. Ma si
può davvero dimostrare qualcosa ad un pazzo? si
domandò per la prima volta, tristemente. Theon non è pazzo, si
rispose seccamente. Ha
solo... bisogno di dimenticare.
-Lui.- bisbigliò Theon pianissimo,
così piano che
Yara comprese la sua risposta soltanto affidandosi ai ricordi delle
volte precedenti. -Lui!-
e fu
un urlo, spezzato da un'urgenza febbrile. Nella sua voce, l'istinto di
fuga lottava contro una debolezza assuefante. Infine non gli rimase
altro da fare che stringersi ancora di più su se stesso,
strizzare gli occhi e tremare.
-Non riesci nemmeno più a pronunciare il suo nome, adesso?-
Yara
avanzò ancora, lo sguardo chino e fisso inesorabilmente su
quel
mucchio di stoffa, la voce brutale. -Lo sai che così,
avendoti lasciato incapace
di vivere, ha vinto due volte? Ed è successo
perchè tu
glie l'hai permesso. Perchè glie lo stai permettendo, di
entrare
nella tua testa, di rovinare le tue giornate, di impedirti di dormire.
Perchè pensi a lui e soltanto a lui. Ma non può
sentirti,
e sai perchè? Perchè è molto lontano
da qui, e
probabilmente è morto. Perchè non
verrà mai
più ad importunarti. E il suo nome- scandì Yara,
con
lenta audacia, -è Ramsay.
Ramsay Snow. Ramsay
Bolton, o come accidenti vuoi chiamarlo. Ramsay. Su, avanti,
dillo! O hai troppa paura anche per fare questo?!-
-Padron Ramsay.- rantolò Theon, scuotendo la testa
intrappolata
fra le ginocchia. -Vuole essere chiamato... no! Non dirlo, non dirlo,
lui non vuole che si dica... Snow.
Non vuole! Se
lo fai, lui poi...-
-Io lo chiamo come cazzo mi pare e piace, primo perchè non
ho
paura di nessuno, secondo perchè non mi sentirà
mai.- lo
rimbeccò Yara. -Lui non
ti sente, Theon! Come farebbe a sentirti?! Devi piantarla
con questa ossessione.-
Theon sollevò il capo. Il suo volto, scavato dal tempo,
aveva la
carnagione macchiata e la fronte segnata dalle cicatrici di mille
dolori. Le labbra morse a sangue pendevano quasi a brandelli. Sotto le
palpebre lise, gli occhi sporgevano dilatati e bulbosi; una luce
abbagliante aveva rotto le pupille. Gli stenti avevano divorato la sua
antica bellezza, lasciando soltanto ossa e giusto quella pelle
necessaria per tenerle insieme.
-Lui è qui.- boccheggiò, come se gli mancasse il
respiro. -Lui è qui, adesso.-
-Ma davvero?
E dove,
nell'armadio?- Yara non resistette ulteriormente alle insistenze della
delusione, che ruppe la diga e le soffocò la voce. -Non so
più che cosa fare con te.- ammise
stancamente.
-È arrivato qui stanotte.- insistette Theon, esagitato.
-Ecco
perchè le persone iniziano a morire. E moriranno ancora... e
ancora... E lui è qui, adesso, Yara! Tu mi devi credere!-
-Ma io ti crederei,- replicò la sorella, tranquilla, -se tu
mi
fornissi una prova. Visto e considerato che le persone non muoiono
soltanto se le uccide il tuo
amico, hai qualcosa di più
convincente da propormi?-
Appena terminò la frase, l'anta di legno dell'armadio
sbattè fragorosamente, a causa del vento che spirava dalla
finestra. Theon sgranò gli occhi ed emise un gemito pietoso.
Nei
suoi occhi sbarrati d'animale braccato non era rimasto niente di quel
che era stato, non una goccia di presunzione, non una stilla
d'orgoglio.
Yara rise davanti a quel fagotto di vestiti, e una strana nausea la
colse nel provare la compassione, la vergogna. Non si compatisce, un Greyjoy.
Non deve farsi compatire, un Greyjoy. Quale legge aveva
ancora valore?
-Oh, andiamo! Adesso
questo
Ramsay è un'entità soprannaturale?- Persino
aggredirlo a
parole sembrava più di quanto il fuscello ch'era il suo
corpo
potesse sopportare, quindi la sorella ci rinunciò. -Senti,
fratello,
ascoltami. Io ti voglio bene, ma non si può continuare
così. O ci dai un taglio, oppure ti devo portare da qualche
altra parte. Siamo intesi? Non resterai a vivere qui ancora a lungo, se
si ripeteranno queste sceneggiate. Datti una regolata. E mangia di
più, chè sembri uno spaventapasseri.-
Quando Yara uscì, non potè fare a meno di notare
lo
sguardo disperato di Theon inseguirla finchè non
sparì
nella tromba delle scale. C'era anche qualcosa di simile alla
compassione nelle sue iridi tagliate, ma la ragazza non
riuscì a
spiegarsi il perchè.
Il responso, che quella sera durante la cena le
riportarono gli
attendenti, fu piuttosto allarmante. A quanto pare, era certo che
l'avvenuto non fosse stato un incidente, ma un vero e proprio omicidio
premeditato. Infatti gli uomini, oltre che molta acqua di mare nei
polmoni, avevano segni di strangolamento sul collo e di colluttazione
sul capo -ovvero qualcuno aveva tentato di immobilizzarli e stordirli,
prima di annegarli. Le barche, poi, presentavano delle falle nella
parte inferiore, ma in maniera piuttosto circoscritta: dei fendenti
troppo precisi perchè potessero essere stati assestati dalle
creste degli scogli. Gli assassini quindi avevano ucciso i marinai, per
poi distruggere le barche con le proprie armi.
-Che senso ha, se l'intento era l'omicidio?- aveva replicato Yara.
-Soltanto quello d'inscenare un naufragio.- fu la sinistra risposta.
Adesso non c'erano più dubbi: dei criminali avevano ucciso
le
sentinelle di vedetta per approdare di nascosto a Pyke. Ma dov'erano,
in quel preciso momento, e quali erano le loro intenzioni? Yara
decretò che ci avrebbe pensato ancora su il giorno
successivo e
se ne andò a letto, provata dalle emozioni della giornata.
Durante la notte fece un sogno strano, indistinto, che mal
ricordò in seguito; ma nel dormiveglia, un solo barlume di
coscienza acceso nella mente, le parve d'udire una voce sussurrare
qualcosa. Yara fu tentata di sgridare Tristifer intimandogli di
lasciarla dormire, ma era davvero troppo insonnolita per farlo. Dopo un
po' non la sentì più, e poi di nuovo, e poi no.
Yara
dedusse di stare ancora sognando. Poi quei suoni bassi ed inarticolati
assunsero una forma, e le parve di distinguere Yara Greyjoy.
-Cosa?- borbottò, ancora immersa nell'incoscienza. Yara, Yara, ripetè
la voce. Poi svanì ancora, e questa volta la regina delle
Isole
di Ferro scivolò in un sonno incontrastabile.
Al mattino, aveva già dimenticato ogni cosa.
***
-E questo era l'ultimo suddito a richiedere udienza.-
L'annuncio di
Jojen, così tanto ardentemente sperato, raggiunse Bran da
sotto
tutti gli strati d'apatia che lo avevano seppellito, diverse ore prima,
in un depresso silenzio. Il re del Nord lasciò scivolare il
capo
contro lo schienale del trono, abbassando le palpebre, mentre un
sospiro scuoteva il petto sotto la pelliccia. Estate,
accovacciato ai suoi piedi, spalancò le fauci in un
colossale sbadiglio, quasi condividendo la stanchezza del ragazzo. Il
re del Nord aveva passato una pessima nottata: nei suoi sogni, la
catasta di cadaveri dall'alto della quale egli dominava i Sette Regni
era sempre più gremita. Jon Snow, Theon Greyjoy, Robin
Arryn, tutti morti.
Stannis Baratheon giaceva ai suoi piedi con il liquido cerebrale a
ruscellare sul petto, così come sua figlia. E Bran
continuava a ridere, un suono basso e singhiozzante che non conosceva,
e c'era tanto sguaiato
ludibrio nella maniera in cui si leccava il sangue dalle
dita, ancora ed ancora; almeno fino a che non aveva calciato
con un piede l'ultimo corpo inerte a terra. Gli occhi erano sprofondati
nelle cavità delle orbite, il petto era aperto fino
a svelare la ritorta cassa toracica, ma era assolutamente
riconoscibile. Bran conosceva a memoria ogni linea di quel corpo
dilaniato, perchè era quello di Jojen. S'era svegliato con
un acre sentore di ferro a riecheggiare nella gola e l'immagine di
quegli eloquenti spiragli scavati. Il suo consigliere aveva assistito
senza commentare, l'adempimento d'un'intuizione abbozzata in tutta
l'oscenità dei suoi dettagli.
Come se non bastasse, Selyse Florent era giunta a Grande Inverno per
organizzare il matrimonio della figlia e Stannis, anzichè
essere affacendato nelle questioni belliche, lo era di più
nel cercare una stanza che fosse di suo gradimento. Era Davos Seaworth
ad avere preso in mano le mappe per primo, ed in quel momento lui ed il
suo re discutevano presumibilmente di questo.
-Era ora.- bofonchiò Bran. -Perchè tutte
le faine
del mondo hanno deciso di mangiarsi le galline proprio la notte
scorsa? Cosa posso farci io, poi... che si prendano il risarcimento che
vogliono e se ne vadano, per l'amor del cielo. Ti prego, andiamo in
camera tua e mettiamo fine a questa giornata...-
Ma Jojen non diede segno di muoversi, imperturbabile. -Temo che non sia
ancora giunta al termine, Maestà.-
Prima che Bran facesse in tempo a replicare qualcosa di mesto ed
esasperato, una fragorosa esplosione annunciò che le grandi
porte erano state sbattute con inaudita violenza contro i muri. Dietro,
due guardie impotenti lanciavano sguardi preoccupati al re, quasi a
dire noi ci abbiamo
provato, a
trattenerlo, ma poi ci siamo accorti che gli anni di vita che ci
rimangono valgono la pena di essere vissuti.
Rickon avanzò. Le unghie erano conficcate nel
palmo, la
pelle delle nocche tesa, bluastra e crepata dal freddo, la chioma
crepitava alle sue spalle come una fiamma viva e le labbra contratte
stentavano a celare le zanne. Salì i gradini del trono. Un
istante più tardi, fu di fronte a Bran. Non più
ai piedi
dello scranno, non più suddito asservito: un istante
più
tardi, era il principe di Grande Inverno.
-Fino a quando pensavi di tenermelo nascosto?- domandò
infine,
in un ringhio basso e gutturale che gli raschiò la voce,
più che un'accusa, meno che una minaccia incombente.
Bran sostenne con i suoi occhi nitidi di buio quello sguardo palpitante
di furore, sbiancato da un fulmine, con la formale e composta saldezza
dei re dell'inverno.
-Poco. Sarebbe stato comunque troppo poco. Non volevo che fosse oggi,
Rickon, soltanto posticipare di...-
-Le voci corrono a palazzo. Non hai idea di quante cose interessanti si
vengono a scoprire, bighellonando per i corridoi... di quante persone
si possono conoscere.- Il tono di Rickon era l'acido che deteriora la
pietra e storpia i volti, insinuante come veleno in gola. -Per esempio,
io ho incontrato una fanciulla che afferma di essere la mia fidanzata.
Eppure ero assolutamente convinto di non essere fidanzato proprio
con nessuno. Sbalorditivo,
vero?-
Bran schermò quelle parole con un sospiro, sostenendo la
fronte
con una mano, come se si sentisse emotivamente e fisicamente troppo
debole, in quel momento, per poter affrontare degnamente uno
scontro verbale faticoso come quello che si prospettava in arrivo. La
sua voce procedeva impedita da una viscosa spossatezza.
-Senti, Rickon, adesso sei abbastanza grande e abbastanza sveglio, o
almeno lo spero, per capire il motivo delle mie...-
-Mi hai promesso sposo, Bran. Promesso sposo. Ti rendi conto? Non
sono
una tua fottuta figlia femmina! Non puoi fare quello che ti pare con la
mia vita, per realizzare i
tuoi scopi!-
Un impeto ferino s'era avventato contro quelle parole, scandendo il
ritmo d'un delirio affannoso, quasi che esse stessero già
minacciando il confine della ragione e stridessero in bilico su
quell'orlo, e il vacuo lampo ceruleo degli occhi del ragazzo era
annullato sulla dimensione cieca e nefanda della sua rabbia senza
origine, senza fulcro, senza criteri, oltre l'ineccepibile ordine e i
severi ranghi della civiltà; rabbia che scoppia alla stregua
dei
temporali estivi, una calamità furibonda che abbatte ad
occhi
chiusi, scroscia implacabile, attacca come pioggia battente, affamata
benchè fine a se stessa. Non c'era stata un'evoluzione nel
suo
rancore, non una crescita progressiva, ma soltanto un urto, una
spaccatura irreversibile, assoluta. La triviale compulsione degli
animali pungolati imbrattava come sangue il suo sguardo, crudo,
esposto, efferato,
che tanto
violentemente artigliava l'anima di chi ne rimanesse vittima. Sembrava
che fosse un demone ad agitarsi fra quelle parole, divincolandosi,
torturando per svincolare. Il disgusto che egli provava nei confronti
del proprio onore calpestato si rifletteva talvolta negli occhi di
Rickon, come l'ombra d'una razionalità messa da parte.
Jojen valutava ogni aspetto della situazione come sempre, con furtiva
ponderatezza, con silente circospezione: gli occhi gravi si
soffermavano dapprima sull'espressione di Bran, contratta ed
impreparata a quei rumorosi disordini e scompigli, soltanto
la linea della bocca a testimoniare una sofferta lesione; poi
scorrevano, come concentrate gocce d'inchiostro, ad incontrare ed
esaminare la sovraeccitata confusione sul volto di Rickon, devastato
dalle tracce d'un grido inespresso, la posizione del corpo
offensiva e prevaricatoria: il petto era palpitante, i respiri troppo
brevi e trafelati, quasi che il furore stesse logorando i suoi nervi e
saccheggiando le sue forze. Taceva, Jojen: sapeva perfettamente quale
era il suo posto -sapeva perfettamente quando ed in che circostanze
intervenire. Ed ascoltava.
-Quelli che tu chiami i
miei scopi sono
le scelte più appropriate per il regno.- protestò
Bran,
sentendosi accusato ingiustamente d'egoismo. -Io sono il re e tu sei
il principe, e ciò comporta automaticamente che...-
-Per il regno?!
Non farmi
ridere. Non abbiamo bisogno di questa stupida alleanza, e tu lo sai
benissimo!- Rickon sputò con foga sul pavimento, la bocca
storta in una
smorfia stomacata, quasi che quei discorsi avesse un sapore
nauseabondo. -Se quello spaccacazzi di Snow non fosse venuto ad
intromettersi nei fattacci altrui, tu non avresti stipulato il
maledetto patto e noi saremmo partiti per il Sud contro i Lannister
ugualmente. Non ci serve quel saccente megalomane di Stannis,
nè
quel pitocco ammasso di infelici che ha la presunzione di chiamare
esercito. Sono sicuro che, anche se non assoldiamo l'ultimo barbone che
mangia a sbafo alla Barriera, vinciamo la guerra lo stesso.-
-Quel che è necessario o meno per la vittoria lo decido io,
non
tu.- sbottò Bran, esausto. -Perchè accidenti non
cerchi
di capire la scomodità della mia posizione e, per la prima
volta
in vita tua, non fai quello che ti chiedo io? Sarebbe poi
così
tremendo? Si tratta di sposare una ragazza, non di subire
un'evirazione, insomma.-
Rickon era sbalordito dall'indignazione. -Tu non mi hai chiesto
assolutamente nulla, Bran! Tu hai organizzato
il matrimonio alle mie spalle, senza nemmeno disturbarti a
farmelo
sapere. Se questa è la considerazione che hai di me,
perchè io dovrei averne anche solo un briciolo di
più per
te? Come puoi pretendere rispetto da un fratello che
disprezzi?-
Scosse la testa, azzardando un passo avanti. -No, certo, questo
matrimonio non mi danneggerebbe per niente. Dovrei
soltanto andare a vivere al Sud e dare ai miei figli il nome della loro
madre. Della loro
madre! Cos'altro
esigono, che partorisca io?!- Il suo sarcasmo era decisamente troppo
aspro per strappare una risata; egli ghignò. -Questa
è
un'umiliazione bella e
buona. Avresti dovuto sposarla tu, quella Shireen, se ci tieni tanto
all'alleanza: lo Storpio e la Sfregiata, pensa che spasso nei ritratti
di famiglia.-
Il volto di Bran si fece torvo, intransigente come la pietra, e tutto
il senso di colpa che in parte avvertiva per ciò che aveva
fatto
parve freddarsi in raggrumato biasimo.
-È questo il motivo per cui non la vuoi sposare? Per la
cicatrice che ha sul volto?- chiese, serio e tagliente.
Rickon parve messo a disagio da quella domanda, ma dallo sguardo si
poteva percepire l'onestà della sua risposta.
-Per chi mi prendi? No, non è per questo. Più che
altro,
è stata l'idea che tutto fosse
già calcolato e
concluso e che io non ne fossi a conoscenza, ricordi?-
La risposta di Bran fu un tracollo di sbrigative confessioni. -Non ho
avuto il tempo di consultarmi con te, Rickon! È successo
tutto così in fretta, e io dovevo dire sì o no,
subito.
Non potevo permettermi d'esitare. I miei doveri di re mi impongono
di...-
-Tu sei re di Grande Inverno soltanto quando ti fa comodo esserlo.-
sbraitò Rickon, incapace per indole di trattenere
ciò
che andrebbe trattenuto.
-Soltanto quando dài il consenso per farmi sposare questa e
quest'altra. Ma non sei il re di Grande Inverno, e non hai nessun
dovere verso il tuo popolo, vero? quando ti sbatti il fratello di tua
moglie...- La sua voce divenne un sibilo acuto come un ago. Jojen non
battè ciglio, e nulla lasciava intendere che fosse stato
chiamato in causa. Bran s'irrigidì, ma non osò
storcere
un muscolo per dimostrare il proprio dispetto, temendo di scatenare
ulteriori litigi inutili.
-Come al solito, parli di ciò che non sai. Tu non capisci, e
non
capirai mai, a che cosa sto rinunciando a causa di questa corona.-
Però l'allusione era stata troppo indelicata per passare
inosservata, senza nemmeno rispondere con una frecciata,
perciò
Bran non potè evitare di aggiungere: -Tu
non ti ricordi cosa significhi amare, e l'unica cosa a cui stai
pensando in questo momento è la prigioniera Lannister che
non
potrai più andare a trovare nelle segrete. Sempre e
soltanto la perversione domina il tuo animo, il resto è mera
tracotanza e l'ottuso egoismo di un bambino che pesta i piedi.-
Tra l'altro, negli amplessi fra lui e Jojen non c'era mai stata furia
passionale o impeto concupiscente. Si amavano con lenta
solennità, quasi svolgessero un rituale, perchè
si
trattava di realizzare i loro sguardi intensi, di suggellare
un'affinità irreversibile, di consacrare un sentimento
etereo
sul piano della realtà, di avanzare il passo risolutivo per
onorare, coronare, innalzare l'amore ad una pienezza completa, ad un
significato più alto, di modo che la loro unione fosse
inconfutabile ed incondizionata. Non era una corsa, uno spasimo, una
fame: era un cammino, un processo, il naturale compimento di qualcosa
che già esisteva a livello emotivo, una transizione non
priva di
fervente sacralità, la cui meta non era però il
piacere,
quanto l'adempimento del loro personale culto e la contemplazione
dell'effetto che l'uno esercitava sull'altro.
Invece quella fra Rickon e Bran, ormai, era soltanto una gara a chi
faceva più male all'altro. Il
re del Nord invidiava un po' il magistrale contegno delle emozioni di
Jojen, ma specialmente il fatto che non gli richiedesse alcuno sforzo:
invece lui fremeva letteralmente dall'impulso di dare un pugno sul muso
di quel suo dannatissimo fratello, sebbene sapesse benissimo di non
poterlo fare.
Solitamente Bran guardava i suoi interlocutori dall'alto, assumendo
inevitabilmente una posizione d'inattaccabilità; invece in
quel
momento Rickon era di fronte a lui, terribilmente vicino -entrambi
avrebbero potuto darsi reciprocamente la morte in pochi istanti, ed in
tal caso sarebbe stata soltanto una questione di chi ci sarebbe
riuscito prima.
La voce di Rickon suonò fredda, immobile. -Dimmi cosa
dovrebbe trattenermi dal tagliarti la gola nel sonno,
gettare tua moglie in pasto ai soldati, scagliare tuo figlio
giù
dalla torre più alta e prendere il controllo di Grande
Inverno
al posto tuo.-
Bran non reagì. Aveva sentito di peggio, visto di peggio.
L'insolenza d'un ragazzino non sapeva più scalfirlo, non
dopo
che l'empietà nella sua forma più primordiale
l'aveva
storpiato.
-Tu sei pazzo, Rickon. Sei completamente impazzito. E, sappilo, non mi
fai paura.- scandì con voce rallentata e chiara. -L'unica
cosa che mi interessa sentire adesso è che
andrai da Stannis Baratheon a chiedergli che giorno sposerai sua
figlia...-
Allora Rickon gonfiò il petto, infuriato all'idea che la sua
provocazione non avesse fatto breccia nell'autocontrollo del fratello,
assunse l'espressione terribile
di quando si sta per giungere ad un punto di non ritorno e
sbottò: -Io non prendo ordini da un rotto in culo.-
Bran sorrise un sorriso imbestialito. Ancora. Ancora. E ancora. Come
diamine si permetteva quello stupido idiota?! Cosa ne sapeva, lui?!
-Oh sì, che lo farai.- Il tono era fermo, ma si
trattava solo del freddo involucro di un nucleo incandescente. Oppure te lo spacco io, il culo.
-Non mi puoi obbligare, nè tu nè nessuno al
mondo!- urlò Rickon, forsennato.
-Dici sul serio? Ne sei proprio certo?- Bran protese il volto in
avanti, con un sorriso scellerato a fior di labbra. Una luce
sconosciuta fendeva i suoi occhi come una lama. La sua voce era calma e
terribile, e c'era una sottile esaltazione di natura indefinibile. -O
sposi Shireen con le buone,
oppure durante la cerimonia entrerò nella tua mente e ti
muoverò come una marionetta. Hai afferrato il concetto?-
Istintivamente, Rickon fece un passo indietro, scartando, mentre
l'ombra del dubbio spegneva la sua spavalderia. -Non ne saresti capace.-
Bran artigliò i braccioli del trono con tutte le dita, si
sporse
ancora e rimase ad un soffio dal viso del fratello. Poteva percepire il
suo fiato sulle guance, decifrare la minuta esitazione della sua fronte
aggrottata, mentre la certezza più elementare -che Bran non avrebbe mai, mai
saputo fare quello a lui- vacillava
incerta.
-Vuoi vedere?- Il re del Nord affondò lo sguardo nelle iridi
chiare del fratello, come avrebbe potuto fare in uno specchio d'acqua
sorgiva. Percepì distintamente la resistenza delle difese,
ma
furono poco più che ridicole: Rickon aveva una forza fisica
notevole, ma non sapeva dominare le proprie emozioni nè
difendere in maniera adeguata la propria mente. Sconfisse l'impotente
opposizione e percepì di starsi facendo spazio, di
starsi
assestando dentro di lui, mentre egli non reagiva, incredulo,
sconcertato, perso ormai il controllo d'ognuno dei suoi sensi...
-Maestà.- A quel
punto Jojen interruppe il contatto visivo spostandosi di fronte a lui e
prendendo possesso dei suoi occhi con dolce fermezza.
-Maestà. Adesso basta. Mi senti? Maestà.-
Le ciglia di Bran frullarono di disorientamento. Il ragazzo
osservò Jojen confuso, che ricambiò con stoica
sollecitazione, poi si accorse di quel ch'era successo e
aprì la
bocca, intenzionato a dire qualcosa, qualsiasi cosa, per
far intendere a Rickon che, nonostante sembrasse così, le
sue intenzioni non erano affatto...
quelle.
Suo fratello era scivolato in ginocchio. Non aveva
riportato
alcun danno, però la sola intrusione di Bran nella mente era
un'esperienza angosciante. Seppur per pochi istanti, la consapevolezza
aveva abbandonato il suo corpo, dilaniato, mutilato e mortificato da
una presenza estranea, scomoda ed imprevedibile, capace di scavare fino
a raggiungere il fulcro stesso della sua essenza e violare anche
quello... Rickon si alzò, non del tutto saldo sulle gambe,
le
mani tremanti. Gli occhi fissavano in basso, senza parlare. Scese i
gradini, uno ad uno, con toccante cautela, seguito dallo sguardo
costernato di Bran.
-Rickon... io... mi dispiace. Non...-
Rickon non si fermò. Si voltò indietro soltanto
una volta, giunto alla porta, e, lo sguardo affollato di
fantasmi, pronunciò con lento astio: -Lo sapevo che non
sarei
dovuto tornare qui.-
Poi uscì; il re del Nord continuò a guardare la
porta,
con lontana nostalgia. C'era il grigio di quell'inverno nei suoi occhi.
Quando cominciò a parlare, la sua voce era un mormorio
funereo.
-Quando ho ricostruito questo castello, quando ho visto Rickon entrare
da quelle stesse porte, credevo che tutto stesse per aggiustarsi. Che
sarebbe stato come
prima. Che finalmente fosse stata fatta giustizia e ci sarebbe stata
restituita la nostra vita, la nostra
vera
vita, quella di un tempo.- Sospirò, appesantito dalla mole
delle
proprie speranze. -Un'utopia, ovviamente. Gli Stark sono tornati,
dicono tutti: e invece non è vero. Non siamo
più una
famiglia. Gli Stark sono morti, Jojen, e non torneranno
finchè
l'inferno non si spalancherà. Siamo morti. Questo
è un
castello morto, e noi abbiamo il sorriso triste dei sopravvissuti.
Niente, e dico niente, può tornare com'era. Da adesso
è
definitivamente vero.-
Con il suo desolato assenso, il silenzio aggravò la
veridicità di quell'affermazione. La landa gelata del vuoto
restò sospesa nell'aria, uccidendo il respiro, come un
laccio
alla gola.
Bran si voltò a destra, leggendo la propria colpevolezza
negli occhi cupi di Jojen.
-A cosa pensi?- domandò, quasi timidamente. Il
fatto che
Jojen sapesse sempre che cosa fare per aiutarlo, che fosse perennemente
al suo fianco in caso di necessità, era una delle ragioni
per
cui Bran lo amava così tanto, però allo stesso
tempo
trovava triste che il ragazzo dovesse vedere perennemente il peggio di
lui, stargli accanto e non abbandonarlo per tutta la durata del suo
stato, proprio quando il re avrebbe preferito nascondersi ed evitare
che una persona amata assistesse a tale orrore. Temeva che, a lungo
andare, questo avrebbe potuto influenzare l'idea che Jojen aveva di
lui. Il consigliere mosse gli occhi verso di lui, spazzando via
quell'impressione d'assenza e deconcentrazione che dava la sua
espressione pensosa.
-Penso che un momento fa tu ci sia andato troppo vicino.-
decretò infine, imperturbabile, e Bran avvertì
una fitta
al petto: l'aveva deluso.
-Lo so.- mormorò.
-Stavi per fargli del male sul serio, e molto più
irreparabilmente di quanto tu non immagini.- sottolineò
Jojen. -Gli esercizi di continenza non
hanno dato i risultati sperati. Il tuo potere cresce di giorno in
giorno, più celermente di quanto mi aspettassi, se devo
essere
sincero.- concluse, inquieto.
Bran si strinse nelle spalle. -Oh, avanti, Jojen. Sai che non avrei mai
ferito Rickon davvero. Volevo solo...-
-Intimidirlo? Fargli prendere un po' di paura? Cercare il suo rispetto
con la forza, dato che non riesci ad importi su di lui a parole?- Il
ragazzo non aveva un tono di rimprovero, ma di spietata
effettività: niente di più e niente di meno di
quel che
era, senza sfumature che lasciassero presagire la sua opinione.
-Così suona peggio di quanto non sia.- si lamentò
Bran,
piccato. -Hai sentito che cosa mi ha detto?! Io mi dovrei lasciare
insultare gratuitamente dal mio fratellino minore, e poi andare a
comandare eserciti?!-
-Non è una novità il fatto che Rickon usi la
lingua con
la stessa delicatezza con cui usa la spada, però tu hai
avuto
prova che non saresti mai riuscito a trattenerti.
Appena hai varcato la soglia della sua mente, hai continuato ad
infierire.- osservò Jojen. -Sai benissimo che quando entri
nel
corpo di qualcuno i poteri prevalgono e la tua volontà
soccombe,
perciò, qualsiasi sia il tuo intento di partenza, finisci
comunque per perdere il controllo...-
-Sì, sì.- Bran non vedeva l'ora di sviare il
discorso da
quella questione; l'instabilità della sua presa, come se i
poteri gli sfuggissero irrimediabilmente dalle mani, lo metteva
incredibilmente a disagio. L'ambiguità di quella situazione
lo
atterriva. -Ad ogni modo Rickon
sposerà Shireen, che lo
voglia o no. L'idea che il
destino dell'esercito e l'esito della guerra debbano dipendere dalle
beghe infantili di un sedicenne è semplicemente
inaccettabile.-
Jojen scosse la testa, quasi fra sè, mentre aiutava Bran ad
issarsi su Estate. -Questo matrimonio non avverrà,
Maestà.-
-E io invece lo farò avvenire.- replicò il
ragazzo, colto
da un impeto d'insofferenza. Rickon avrebbe fatto quello che doveva
fare, non l'avrebbe avuta vinta ancora una volta. Bran non l'avrebbe
permesso, no.
-Temo che non ci sia niente che tu possa fare.- fu l'incolore risposta.
Bran trovò il suo sguardo, angustiato. C'era esasperazione
nella
sua voce, quando esclamò: -Come fai ad esserne
così
sicuro?!-
Jojen, che teneva rapidamente il passo di Estate, si
fermò
soltanto per richiudere le porte del salone dietro di loro.
-Perchè ho visto...-
-Cos'hai visto?- lo incitò Bran, impaziente.
Jojen esitò, quasi che titubasse all'idea di rivelare
ciò
che aveva in mente. Una veloce valutazione attraversò i suoi
occhi.
-... ho visto che non avverrà.- Non si sbilanciò
altrimenti, stringendo le labbra.
Bran non s'accontentò di quella risposta: -Il fatto che tu non abbia visto un
evento verificarsi non significa necessariamente che esso...-
-Maestà.- lo interruppe Jojen, con gentile fermezza, posando
una
mano sulla sua spalla e costringendo Estate a fermarsi. I suoi occhi
toccavano intimamente quelli di Bran. -Ti fidi di me?-
Il ragazzo sbuffò e distolse lo sguardo, arrossendo. -Che
razza
di domanda è? Se il tuo intento non è insultarmi,
non
pormela più.-
-Dunque credimi.- ribadì Jojen.
-E allora io cosa dovrei fare? Disdire tutto? Avvertire Stannis? O...-
-Lascia che il destino segua il suo corso.- si limitò a
suggerire il consigliere, criptico com'era spesso.
Bran diede un colpetto alla groppa di Estate, che riprese a percorrere
il corridoio verso le scale.
-Bene. Adesso però smettiamola di parlare di Rickon,
perchè sono già sufficientemente di malumore.-
ordinò a voce spenta. -Volevo
affrontare invece una questione in sospeso... la tua partecipazione, o
meglio non-partecipazione, alla campagna militare. Sarai più
al
sicuro qui a Grande Inverno piuttosto che a portata dei Lannister, e
questo è tutto.-
Jojen Reed inarcò un sopracciglio, intanto che saliva i
gradini.
-Se è per questo, lo stesso discorso vale per te.-
-Io sono un re. Ho dei doveri, non posso deludere le aspettative del
mio popolo. È diverso.- argomentò Bran, annoiato.
Il consigliere parlò con efficace trasparenza e logica
invincibile. -Sei un re, e il tuo compito è fare quanto ti
sembra più
giusto per tuoi sudditi e per l'esito favorevole della guerra. Io sono
il tuo consigliere, e il mio compito è suggerirti
ciò che
mi sembra più conveniente e più assennato fare.
Se
entrambi dobbiamo adempiere alle nostre funzioni, lasciandomi qui mi
impedisci di svolgere il mio lavoro.-
Bran affondò il mento nella pelliccia di Estate. Non aveva
energie per discutere anche con Jojen, quella sera: come aveva potuto
venirgli in mente di intraprendere quell'impresa?
-Mi rifiuto, Jojen. Questo è un ordine. Non posso correre
un rischio simile...- s'oppose. Jojen lo seguiva impettito
e la sua fronte era attraversata da increspature sempre più
marcate.
-Se puoi correre il rischio di perdere la vita, perchè non
puoi
correre quello di perdere me? È assurdo, Maestà,
permettimi di confessarlo.- affermò egli. -Tu sei
insostituibile ed io sono soltanto un alfiere, al pari degli altri.-
Bran sollevò la testa ed incise gli occhi nei suoi.
-Tu sei soltanto un alfiere al pari degli altri, ed io ti amo.- Nella
sua voce non c'era dolcezza nè pietà, e Jojen non
sorrise.
-Non basta più, Maestà.- dedusse a voce bassa.
-Non c'è mai stato posto per un noi. Nemmeno adesso. Tantomeno adesso.-
Il silenzio calò ad annuire per la seconda volta,
implacabile,
facendo rabbrividire Bran nelle vene; il ragazzo cercava inutilmente di
dimostrargli ciò che provava, la nociva consapevolezza di
dipendere dall'umana mortalità di un individuo, che
perciò doveva
essere perennemente sotto il suo controllo -e trascinare il proprio
regno allo stesso destino, il freddo che l'idea di quel
distacco
scavava nel suo corpo, il panico per quella divorante e sconclusionata
solitudine di cui portava ancora le cicatrici, la frustrazione che
soffriva all'effettività di non poter impedire il male di
Jojen
soltanto con le proprie mani, con le proprie forze, con i denti e le
unghie... Se guardava alla realtà con sguardo obiettivo,
Bran
vedeva il vuoto d'un mondo che non aveva più torti da
infliggergli. Nessuno... eccetto uno. L'unico che Jojen gli stava
suggerendo di rischiare.
-Non ti rendi conto che se tu muori, per me è finita?- fu
tutto
quel che riuscì a dire, mentre nulla di convincente giungeva
alle sue stesse orecchie. Non era abbastanza bravo con le parole, non
sufficientemente da piegare Jojen con i propri argomenti.
Perchè
non soltanto questo, non era così poco: non era finita per
Bran
e basta, per l'esercito era finita, per la guerra era finita, per il
Nord era finita. Per un popolo intero, era finita. Come poteva
permettersi di correre un pericolo del genere?
-Significa che baderò alla mia incolumità.-
s'avvide
Jojen, come se non vi fosse nulla di più ovvio. Bran, seppur
controvoglia, avvertì le labbra costringersi ad un sorriso
sconsolato.
-Tu? Che non sai nemmeno tenere un coltello in mano?-
-Chi si occuperà di moderare i tuoi attacchi, se io non ci
sarò?- rincarò Jojen. A quel punto il re strinse
le
labbra, disarmato, e abbassò gli occhi. Carezzò
Estate in
mezzo alle orecchie, distrattamente, e si chiese perchè
dovesse
sempre essere egli stesso il suo peggior nemico.
-A proposito della guerra, Maestà,- Jojen cambiò
argomento, notando il suo turbamento, -sarà bene che prima
di
partire per un viaggio lungo come questo, la cui durata
è
ancora sconosciuta, tu... passi le notti con la tua legittima consorte.
Comunque vada, bisogna assicurarsi che non manchino
eredi a Grande Inverno. Capisci cosa intendo dire, vero?-
-E come potrei non capirlo? Sei stato piuttosto esplicito.-
arrossì Bran, imbarazzato. -Immagino che tu
abbia ragione... So che devo farlo, e lo farò. Non temere.
Anche
tu, al ritorno dalla guerra, dovrai pensare a prendere moglie.-
aggiunse, con studiata noncuranza. L'idea lo infastidiva un po', certo,
però non poteva essere così egoista da pretendere
che
Jojen rinunciasse a tutto per lui. Il suo consigliere aveva il diritto,
come tutti, di sposarsi, avere dei figli, amministrare le terre che gli
appartenevano per eredità. Il suo incarico non doveva
annullare qualsiasi altra cosa.
Jojen, al contrario di quanto Bran si aspettava, scosse la testa con
sussiego. Il suo sorriso era remoto, come se l'ingenuità di
tale
proposta lo divertisse.
-Io non mi sposerò mai, Maestà. Il mio posto
è
accanto a te, perchè ho un sacro obbligo soltanto
verso il
mio re.-
Non c'era tristezza nella sua voce, quanto l'autoritaria consapevolezza
d'avere un compito che avrebbe portato a termine soltanto dopo aver
chiuso gli occhi per l'ultima volta.
-Non pensi che tuo padre sarà deluso? Sei il suo unico
figlio.
Se non ti sposerai, alla tua morte casa Reed si
estinguerà.- obiettò Bran; la risposta non
potè
fare a meno di rallegrarlo, indipendentemente da tutto il
resto.
-Mio padre sa chi sono.- ribattè Jojen, sibillino, -e sa
cosa
devo fare. Oltre a questo, niente è davvero
importante.-
Effettivamente, egli avrebbe potuto avere una vita all'infuori della
corte, avrebbe potuto andarsene e non tornare mai più,
avrebbe
potuto curarsi d'una persona che non fosse Bran... e allo stesso tempo
non poteva. Io sono il
suo destino, pensò Bran. Gli sono stato imposto, gli
risulto inevitabile. Lui è nato per me. E quel
pensiero lo attraversava in un brivido d'emozione.
Fatto sta che raggiunsero la camera e si prepararono per la notte.
Esausto, incapace di sorreggere le palpebre, il re del Nord
appoggiò la testa sulla spalla di Jojen e si strinse giusto
un
altro po' al suo fianco.
-Verrai con me, alla fine, giusto?- mugugnò nel dormiveglia,
contrariato.
Jojen sorrise. -Sì.-
-Non serve che io dica altro, allora.-
Il consigliere attese che il suo re prendesse sonno; accadde piuttosto
in fretta, perchè utilizzare i poteri lo aveva sfiancato
ulteriormente. Mentre contemplava il viso del suo amato, il ragazzo non
trovò nulla di più lecito che chiedere al mondo
intero di
lasciarlo dormire, di camminare in punta di piedi, di non fare troppo
rumore. Ma Bran non era nato per vivere la vita facile d'un re dalla
corona
d'oro, che al mattino dimentica i propri sogni, che può
permettersi la serenità per più di una notte. Era
nato
per gloria e dolore, stenti e vittorie, sconquassi e traguardi, per
regolare i conti -pagando tributi e riscuotendo debiti, per iniziare
una guerra che avrebbe premiato la perdita con la fama. Per
farsi
del male in nome del bene altrui, sempre in bilico fra due mondi troppo
vicini. Sia vendicatore, sia vittima sacrificale. Brandon Stark, come
tutti coloro che avevano portato quel nome prima di lui, era nato per
non morire mai, eternato dalle parole delle leggende e dal ricordo dei
posteri.
Jojen carezzò la fronte di Bran, un sentimento inesprimibile
acceso nello sguardo come un'antica stella. Oltre a questo, niente
è davvero importante.
***
La stanza ch'era stata concessa a Shireen era una delle più
belle del palazzo. Di forma circolare, molto spaziosa, con tre finestre
e tende di broccato viola così lunghe da spandersi in una
pozza
di stoffa sulla piastrelle di pietra scura; su una delle pareti dipinte
d'oro, si poteva ammirare un vivido affresco raffigurante una
fanciulla dai lunghi capelli mossi al vento ed una ghirlanda di rose
blu fra le mani. Delle piccole servette indaffarate s'affrettavano a
sistemare gli abiti della principessa nei cassettoni e nel grande
armadio a due ante; non erano vestiti sontuosi come quelli che di
solito le dame del Sud sfoggiavano, bensì più
austeri,
sebbene non
mancassero di una loro singolare raffinatezza. Era povera, la corona
dei Baratheon, ma
assolutamente carica di dignità.
-Entra pure, Rickon. Non mi aspettavo un'altra tua visita, dopo
così breve tempo.-
Shireen sorrise, le ombre delle fiamme a dipingerle la chioma di
riflessi scarlatti. Infatti v'era un focolare
acceso, in fondo alla stanza, presso il quale sedeva la principessa,
tendendo le mani alla benevolenza del suo calore. Morbidi e sinuosi
spettri incandescenti avviluppavano i ceppi in un bacio mortale,
districandosi e congiungendosi in una danza vorticosa di primitiva e
superba bellezza, inaccessibile e ritrosa nel suo mistero, e dita
fievoli come note musicali tastavano, percorrevano, assalivano la
corteccia della legna come avrebbero fatto quelle d'un amante, ed
inoculavano scintille fino a che i ceppi gemevano pietosamente
arrendendosi in sbuffi di cenere, insediati, contaminati, divorati
dall'interno da un morbo inarrestabile, e la morte giungeva lenta,
languida, un incantesimo di selvaggia malinconia. Shireen, abbastanza
vicino da avere le guance e la fronte arroventate da un calore
pungente, rimirava con mesta tenerezza il fuoco, quasi alla vista
d'un figlio amorevolmente accudito; non le faceva paura, e la parte
destra del suo volto nemmeno lo percepiva.
Rickon avanzò senza parlare, ed il suo sguardo rivolto
al caminetto era cupo: era penoso per lui vedere
quella suprema espressione di potere e d'affermazione così
blandamente ammansita, imprigionata, svilita.
-Nemmeno io credevo che mi sarei mai ripresentato al tuo cospetto in
vita mia.- ammise Rickon. -Eppure, eccomi qui.-
Shireen non domandò nulla. Quando si voltò verso
di lui,
il suo viso si dorò d'una curiosità puerile,
tonda e
limpida, a trasparire pulsando e spaccando le scaglie di ferro ad
arrampicarsi lungo le linee dei suoi tratti. Non c'erano schermi
-non c'erano maschere.
-Perchè porti i capelli così? Sono quasi lunghi
come i
miei.- commentò vivace, con una voce talmente inconsapevole
ed
esente da ogni contaminazione esterna da rendere impossibile
un'eventuale reazione di fastidio.
-Perchè... mi piacciono.- borbottò
Rickon.
-Sono qualcosa di cui non mi posso disfare... il passato non si deve
rinnegare mai.-
In effetti raccontavano una parte della sua vita, quella che nessuno
voleva ascoltare, e lo rappresentavano, in un certo senso.
Sì,
parlavano di lui ancora prima ch'egli potesse aprire bocca.
-Nemmeno la propria famiglia, però.- osservò
Shireen pensosa. Il suo sguardo non lasciava spazio a dubbi.
Rickon strinse i denti. Possibile che ovunque si voltasse gli altri
cercavano di fargli la predica?!
-Lascia perdere. Non ho voglia di litigare anche con te.-
liquidò sbrigativo.
-Già.- Le labbra di Shireen si curvarono in un sorriso
mite. -Nessuno ha mai voglia di alzare la voce con la principessa
sfregiata.-
Non era un'accusa, la sua, quanto una triste constatazione, quasi
un'amichevole rassegnazione di cui non attribuiva nessuna
responsabilità all'interlocutore. Nei suoi occhi v'era una
malinconia rappresa che il ragazzo non seppe come gestire.
-Io non faccio elemosina a nessuno.-
tagliò corto Rickon, seccamente. Non voleva compatirla,
perchè in fin dei conti non era una fanciulla
così
debole da guadagnarsi quel disprezzo, eppure gli risultava inevitabile.
La bugia crepitò innocua, in coro con le fiamme del camino.
-Allora sei il primo.- Attorno a Shireen gravitava un'atmosfera
d'innaturale beatitudine e la triste, sincera immensità dei
suoi
occhi provocava in Rickon la tediosa sensazione d'essere sciocco,
ignaro d'una consapevolezza più alta, superiore alla sua
esperienza, del dolore
e dell'esistenza. -Non tutti sono capaci di comprendere la mia
fortuna. Ho un padre e una madre che mi amano e vogliono il meglio per
me. Ho degli amici su cui contare. Ho una vita serena ed
agiata
che non tutti possono permettersi. È davvero molto di
più
di
quanto mi meriti, non credi?-
Il ragazzo credeva di capire dove lei volesse andare a parare, e
latrò una risata. -Se tutto ciò è un
discorsetto atto a convincermi che in fondo la vita è bella
e io
devo ritenermi un ragazzo fortunato,
risparmia il fiato.-
Shireen inarcò un sopracciglio, perplessa. -Ma tu sei un ragazzo
fortunato. Dopo tutto quello che certe persone hanno tentato di fare
per sterminare la tua famiglia, tu sei ancora qui. A te sembra poco, e
invece è l'unica cosa che conta.-
-L'unica cosa che conta...- ripetè Rickon, salace. Il
silenzio
fu impreziosito dallo scoppiettio del fuoco, ed i pensieri zampillavano
come le scintille a levarsi dal camino, compiendo archi aggraziati fino
ai loro piedi. Sapeva, Shireen, a che punto d'esasperazione la
sopravvivenza diventa una maledizione, anzichè un miracolo?
Lo sguardo del ragazzo, alla ricerca d'una distrazione, si
posò su un manichino
ricoperto interamente da un lenzuolo. Senza che domandasse
nulla,
-Lavorano già al mio abito da sposa.- spiegò
Shireen, con
voce indecifrabile, indicando le serve con un cenno della mano.
-Pensavano che fosse di cattivo auspicio che tu lo vedessi prima del
gran giorno, ma... Su, lasciate che lo guardi.-
Intimidite, le ragazze scostarono il lenzuolo. L'abito ch'era rimasto
celato fino a quel momento era qualcosa che Rickon non aveva mai visto
prima d'allora. Il corpetto aderente era dorato, trapuntato di
minuscole perle bianche, decorato d'un complesso d'arabeschi e
pietruzze di quarzo rosa pallido, e la scollatura a cuore era
impreziosita di pizzi antichi; la vasta, immensa gonna, a dilatarsi
sempre di più come una corolla, era di splendente e pregiato
raso cangiante, ed il suo orlo ricamato richiamava le
guarnizioni
del petto. Applicate sopra v'erano ruches di tulle arricciato, vaporose
ed eteree, divise in bande che parevano petali di fiore. Gli abiti
erano probabilmente l'ultimo interesse di Rickon, eppure gli fu
impossibile non ammettere che quello era un vero capolavoro.
Shireen lo esaminava con sguardo assorto, distante, come da un'altra
epoca. -È troppo bello per me, me ne rendo conto. Farei una
misera figura.-
Pochi sgradevoli secondi galleggiarono fra loro, in attesa di sapere
come si sarebbe risolto il silenzio.
-Io non ti sposerò, Shireen.- Non c'era severità
nella
voce, nell'espressione di Rickon, ma solamente un'impassibile
intransigenza. Lo sapeva. Lo sentiva, chiaro come il flusso del proprio
sangue nelle vene. Il giovane Stark osservò la ragazza:
Shireen aveva il
portamento e la fierezza della sovranità di diritto,
l'impronta
del potere sul viso, la durezza ad ammorbarle la pelle. Nata per
regnare, questo sì. Ma non al suo fianco.
La fanciulla sorrise gentilmente, senz'ombra di delusione o rammarico.
In effetti, c'era troppa acquiescente gentilezza in Shireen Baratheon,
troppo placido amore per
la vita, dopo che essa le aveva rubato, oltre al diritto di nascita,
quanto rende più fiera una donna: la propria bellezza.
-A dire la
verità, l'ho capito dal primo momento in cui ti ho guardato
dritto negli occhi.- confessò ella. -Tu ami quella
prigioniera che tieni nel
sotterraneo, vero? Myrcella.- I suoi occhi brillavano di malizia,
adesso. Rickon ghignò
senza allegria, incerto se stesse deridendo lei o se stesso.
-Amore? Tu quello
lo chiami amore...- commentò aspro. -Non si osa amare una
persona, dopo aver superato certi limiti.-
Non sapeva nemmeno lui di quali limiti stesse parlando.
Quelli
della dignità, della decenza? Perchè guardando
negli
occhi di Myrcella aveva visto quel guasto, quel cedimento, quello
squarcio, e troppe volte se ne era rallegrato.
-Dicono che è bellissima.- proseguì Shireen,
raggiante
d'entusiasmo, come se stesse sfogliando le pagine d'un libro di fiabe.
-Lo è.- si limitò a replicare Rickon laconico,
mentre gli
pareva quasi di percepire fra le dita quei boccoli biondi, d'avvertire
le sue labbra tenere sotto i denti.
Shireen sorrise insinuante. Era un'anima cosciente, lei, oltre
l'inganno, oltre l'invidia. -Scommetto che Myrcella starebbe molto
meglio di me con questo vestito.-
Egli incrociò le braccia. -Se stai cercando di strapparmi
una confessione...-
-La parola confessione
l'hai pronunciata tu, non io.- gli fece notare la ragazza, divertita.
-... sappi che non c'è niente da confessare.- concluse
Rickon,
convinto che fosse irritazione quel rossore che balenò sulle
sue
guance, confondendosi con il riflesso del fuoco.
Shireen lo contemplò, perchè il suo sorriso era
come uno
specchio, e gli altri spesso riuscivano a trovarci quanto era sempre
rimasto dentro di loro, rannicchiato in un buio meandro della
coscienza. Anima vecchia, sì, e corpo di fanciulla, sorriso
di
miele e pelle di pietra, lievità nella voce
e sconforto
negli occhi. Forse una contraddizione, la sua. C'era una saggezza
troppo pesante nel suo sguardo, ed inconciliabile con la
vitalità delle sue labbra. Perchè poche volte il
destino
l'aveva schiaffeggiata, poca sofferenza aveva raggiunto il suo animo,
ma la sua condanna era consumarsi lentamente, e in quel piccolo dolore
di bambina Shireen era sola.
-Secondo te lo sa, il fuoco, che quando finirà di consumare
il
suo pasto morirà con lui?-
Gli occhi di lei si riempirono di
fiamme fino a dimenticare il proprio colore. Ma le riflettevano, e
basta: un'anima contemplatrice, che non conosceva l'arte della
devastazione. Gli occhi di Rickon lo inghiottivano, il
fuoco.
-Non può fare a meno di consumarlo.- rispose egli, dopo
qualche istante.
-È un predatore talmente nocivo- iniziò Shireen,
in un filo di voce ispirata, -da non limitarsi alla
distruzione di tutto ciò che lo circonda, ma, non
soddisfatto,
anche di se stesso.- Allora cercò Rickon con lo sguardo,
sollecita. -Non distruggerti, te ne prego. Non farlo.-
Per un attimo il suo sorriso fu così inestimabile da
offuscare
l'imperfezione del suo viso -da renderla bella quanto
Myrcella.
Peccato, Shireen
Baratheon. Magari in
un'altra circostanza, in un altro momento, in un'altra
realtà,
avrei detto di sì. Rickon sorrise beffardo. Si
alzò ed annullò la distanza che lo divideva dalla
porta a lunghi passi. Prima di lasciare la stanza,
-Alcuni vanno incontro alla distruzione per destino.-
proferì a voce alta.
-Mentre altri per scelta, non è così?-
sussurrò
Shireen, troppo piano per essere udita. Ed allora cominciò a
cantare, a mezza voce, parole sconosciute: the stones crack open, the water
burns; the shadows come to dance, my love, the shadows come to play;
the shadows come to dance, my love, the shadows come to stay,
mentre la legittima regina
dei Sette Regni assisteva all'agonia del fuoco con occhi inscalfibili;
e Rickon trattenne un ringhio fra le labbra, pensando ch'era vero -che
Myrcella sarebbe stata dannatamente splendida con quel
vestito.
***
-E questa,-
sussurrò
Myrcella, mentre il polpastrello dell'indice percorreva con tocco
fievole il disegno della cicatrice che attraversava il petto di Rickon,
-questa come
te la sei procurata?-
-Una pantera ombra.- rispose il ragazzo, noncurante, con voce roca.
-Avevo undici anni e faceva freddo, quella notte. Me lo ricordo...
faceva freddo. Io e Osha cercavamo di accendere il fuoco, ma il vento
soffiava e soffiava...-
Invischiati nella massa fuligginosa del buio, nell'appagamento
frastornante del loro piacere, giacevano ebbri e torpidi godendo della
nera pace di quella cella. Imbrattati di bitume erano i loro corpi, ma
ammorbate irrimediabilmente le loro anime, senza via di scampo. Gretta
s'era consumata la passione -quella passione impura che aveva
riecheggiato stridula nelle loro viscere, come una saetta, fino a che
non era scoppiata chiassosa, e la viscosa testimonianza di quel ch'era
stato s'essiccava nell'intreccio della cenere.
La
prigioniera riusciva a malapena a distinguere morbidi profili soffusi
della luce ibrida d'una candela esitante, poggiata a terra; la figura
imponente di Rickon era poggiata al muro, le gambe distese davanti a
sè con insolente negligenza, ed il corpo della fanciulla si
sosteneva al suo, le braccia violate di sangue annerito a cingerlo con
dolcezza.
Rickon lasciò ricadere il capo nel grembo di Myrcella, con
lenta
pigrizia. Il languore dell'orgasmo l'aveva lasciato stordito, quasi
sopraffatto, impastato in una densa voluttà simile ad una
ragnatela d'indolente sonnolenza.
-Non ho voglia di andarmene.- bofonchiò a fatica, affondando
le
unghie nelle sue cosce, nell'ennesima riaffermazione inutile d'un
potere già consolidato. -Non ne ho voglia. Lassù
sono...
bah, sono tutti così stupidi.
Nessuno capisce. Voglio rimanere qui.-
-Allora rimani.- bisbigliò Myrcella, accondiscendente,
infilando le dita in quella chioma rossastra come sangue raggrumato.
-Compiresti la tua volontà, ed allo stesso tempo recheresti
un
grande omaggio alla tua umile schiava.- Affondò le labbra
nell'incavo del suo collo, sfiorando la pelle e stuzzicandola con la
lingua. -E io ho così tanto bisogno di compagnia...-
mormorò suadente, una nota dolente ad alterarle la voce.
Lo spettro stanco del solito ghigno s'aprì come una
ferita. -Oh, sì. Hai tanto
bisogno di compagnia.-
Era così facile mentire, che Myrcella stessa si stupiva
della
naturalezza con cui pronunciava certi spregiudicati azzardi,
senza che il pudore la frenasse; e facile, spaventosamente facile era
concedersi: aveva smesso di fare male -era bastato ammorbidire
i muscoli e rilassare le spalle, convincersi
di desiderarlo, per superare qualsiasi remora. Era ruvida,
la
bocca di
Rickon, e la esplorava senza riguardo, ma ormai la prigioniera ci aveva
fatto l'abitudine, e la considerava soltanto la costante riprova
d'intima familiarità che quella nuova vita le stava
offrendo.
Dopo tanti indugi, una certezza. Ormai persino le serve avevano smesso
di portarle da mangiare, perchè voleva essere sempre lui a farlo, ed
era dunque diventato il suo unico contatto umano.
Mentre seguitava a carezzare i capelli al proprio carceriere, Myrcella
ricordò d'un tratto il suo primo arrivo a Grande Inverno: a
quel
tempo aveva nove anni, voleva sposare un lord bello ed
aitante che la servisse e la riverisse in un castello pieno di sfarzo.
Guardava Robb Stark, grande, carismatico ed ammirato, non
certo
quel
bambino di sei anni che lanciava a tutti gli ospiti sguardi d'intrepida
sfida. E la testa di Robb Stark, dopo essere rotolata nella rossa mensa
delle Torri Gemelle, era marcita nella carne putrescente di un lupo;
era morto, e molti, troppi insieme a lui. Myrcella pensò poi
a
Trystane Martell,
rapito da una fulminante ed impietosa malattia orientale. Cosa sarebbe
successo se fosse sopravvissuto, quel principe allegro e gentile?
L'avrebbe sposata, e lei sarebbe stata la regina di quelle opulente
terre dove il sole splendeva in tutta la sua maestà;
l'avrebbe
baciata, e non sarebbe stata ruvida la sua bocca, nè brusca.
L'avrebbe venerata con adorazione, l'avrebbe maneggiata come se fosse
stata di cristallo. Sarebbe
stato diverso. Diverso.
Ma ora tutto era andato, tutto passato, perduto, ripensarci faceva solo
male, e lei non era altro
che una prigioniera di lusso vestita dalla luce di una candela, la
dignità
strappata di dosso così come dilaniate erano state le vesti;
principessa che in quell'ammaliante profusione di menzogne stava
cedendo al
suo aguzzino frammenti di sè, uno ad uno, fino a che non
avrebbe
smarrito l'integro ricordo della propria immagine, e tutti gli specchi
si sarebbero rifiutati di rifletterla. Quella realtà subdola
la
stava sradicando da se stessa -la stava derubando della sua anima.
Forse anch'essa era divenuta -come tutto il resto- buio.
Dopo una lunga pausa, Rickon trovò la carica per parlare
ancora.
La sua voce era tagliente, atona, quasi discutesse di un argomento di
vago interesse.
-Mi hanno organizzato un matrimonio combinato.-
-... matrimonio?- La prigioniera era a tal punto stupita, che smise di
carezzargli i capelli; quella parola sdrucciolò strana sulla
sua
lingua. L'idea che si era fatta di Rickon era assolutamente
incompatibile con quella di un marito, ed i consequenziali obblighi e
doveri che questo ruolo implica. In verità, sembrava
incompatibile con qualsiasi genere di dovere. Figuriamoci se si
trattava di andare incontro ad una donnetta emozionata e restarle
fedele per tutta la vita.
-Perchè?- Fu la prima domanda che sorse spontanea
alle labbra di Myrcella.
-E che diavolo ne so, io!- tuonò Rickon, stizzito. -Per le
alleanze, per i soldati...-
La fanciulla, dopo qualche istante di frastornato turbamento negli
occhi, riprese a scorrere le dita fra quei capelli scarlatti e
scompigliati.
-Chi è lei?- domandò alla fine, incuriosita,
mostrandosi
il più mesta possibile -perchè, visto che a
Rickon quella
storia pareva non piacere per niente, non doveva piacere nemmeno a lei.
Con lui l'unica soluzione era assecondarlo ciecamente.
-Shireen Baratheon.-
Myrcella rimase sconcertata da tale risposta. -Mia cug...-
Rickon sollevò la testa di scatto, incollerito: -Non dirlo,
maledizione, Lannister! Lei non è tua cugina. Tu hai
un solo cognome, ricordatelo. Insomma, che cazzo, ti sei mai
guardata?! Sei assolutamente, orribilmente Lannister in
tutto e per tutto.-
A quel punto si zittì, placato dal flusso
furibondo di parole. Allungò un dito verso un boccolo,
adagiato
sullo zigomo della ragazza, e se lo rigirò intento,
arricciandolo su un
dito e traendolo a sè distrattamente, quasi per mostrarle di
non
essere più arrabbiato. -Oggi è stata davvero una
giornata
scalognata.- proferì infine.
-Non vorrei che il mio aspetto, ricordandoti i Lannister, avesse
contribuito a peggiorare il tuo umore. Se così è
stato,
mi dispiace molto, mio signore.-
Myrcella abbassò lo sguardo, in segno di subordinazione, e
per
diversi istanti la sua stessa bugia le compresse il cuore; ci credette,
in qualche modo, ed il timore di averlo davvero infastidito la punse
nella più tenera sensibilità del suo animo. Tanta
passione
fomentava dentro di lei, che le emozioni acquisivano essenza sanguigna.
È solo una
menzogna, sibilò
la voce di sua madre, ritta in piedi in un angolo della cella. I suoi
occhi erano fissi ed implacabili come la notte. Una
menzogna, Myrcella. Una menzogna. Tu non sei angosciata all'idea di
avergli rovinato l'umore. Tu lo odi. Tu lo vuoi morto. Tu lo
scorticheresti con quelle stesse mani con le quali lo stai cullando.
Stai mentendo, te lo ricordi ancora?
Certo che se lo ricordava. C'erano notti solitarie in cui la sua rabbia
era un coltello ad
affondare nelle tenebre, la voce le mancava ma le urla si contorcevano
nella gola, e quella cella era troppo piccola per la
sua furia; ma, appena lo vedeva, poche ore dopo, si calava
automaticamente nella parte e le menzogne scivolavano dalle labbra come
acqua da una roggia, e non c'era più rancore, di alcun tipo.
Non
riusciva più ad essere arrabbiata, non lo era, il suo cuore
non
era scosso da tremiti nè tratteneva il furore, ma taceva
mansueto, mite, pacificato, quasi nell'inconscio timore di tradirsi se
avesse svelato tutto il rancore, ma non era vero, perchè il
rancore lo beveva l'alba, e asciutta era la sua sete di sangue.
Rickon sorrise con sprezzo davanti a quella dolce sottomissione e le
morsicò la gola, forte. Myrcella non emise un gemito; la sua
pelle aveva imparato il dolore a memoria, ormai.
-Cara la mia Lannister, ma tu non devi chiedermi scusa per chi sei.
Devi pagare,
e basta. Dov'ero rimasto, prima che i tuoi occhioni verdi me lo
facessero scordare? Ah, sì- proruppe sarcastico, -il fatto
che
questa giornata ha fatto schifo. Mio fratello ha tentato di uccidermi,
per esempio. Poi ovviamente non ha avuto i coglioni di farlo, ma in
fondo è soltanto uno storpio ricchione. Cosa ci si
può
aspettare da lui? E poi, sì, ha contribuito un tuo parente,
tanto per rimanere in argomento di palle al piede.- concluse, come se
nulla fosse.
Myrcella inarcò la schiena, di modo che il ragazzo lasciasse
scendere la bocca oltre il suo collo. -Tommen, dici?-
-No, non Tommen. Lui gioca a fare il re per i fatti suoi.-
Myrcella aggrottò la fronte. Suo fratello era un re
distratto.
Non cattivo: sbadato, incapace di concentrarsi sulle faccende del
regno, innamorato della propria infanzia e di tutte le frivolezze
che capitavano ai suoi occhi. Più amato di Joffrey, certo.
Ma ugualmente indegno.
La fanciulla pensò allora a Tyrion, ma preferì
chiedere senza ulteriori indugi. -Chi, dunque?-
Rickon strinse i denti. Era evidente quanto gli costò quel
che
disse. -Jaime. Sì, è così. Tuo padre
si è
salvato. Lui... è vivo.-
Zio Jaime. Myrcella
sgranò gli occhi nel buio e le sue ciglia incrostate di nero
scricchiolarono. Zio
Jaime è vivo. Forse, in fin dei conti, non sono poi
così
sola. Forse, in fin dei conti, c'è davvero ancora qualcuno
per
cui combattere. Sollevò il capo, mentre la
meraviglia le piegava le labbra in un sorriso euforico. Lui può aiutarmi.
Anzi, di certo mi salverà. Perchè non dovrebbe
farlo? Magari sta già venendo qui.
-Io... So che la mia gioia ti infastidisce ancora di
più, ma non posso fare a meno di...-
-Lascia stare.- borbottò Rickon. -Stai zitta. Ho bisogno
di...-
Poi tacque, interdetto, incapace di spiegare a parole di che cosa
avesse bisogno esattamente. Abbandonò nuovamente la testa
nel
grembo di lei e chiuse gli occhi, mentre la sonnolenza di poco prima
prendeva il sopravvento. Ho
bisogno di silenzio, riflettè Rickon,
espirando tutta la stanchezza annidata nel suo petto. Silenzio.
Myrcella non sapeva per quanto tempo lui fosse rimasto
lì, inerme come un bambino, però i pensieri non
tardarono
a susseguirsi nella sua mente, in una certa determinata direzione.
Uccidilo, mormorava
Cersei Lannister dal suo cantuccio, adesso
che faticherebbe a reagire. Hai ottenuto quel certo potere su di lui,
tale da permetterti d'essere avvantaggiata a fuggire, proprio come
volevi. Devi farlo, Myrcella, e devi farlo ora. Le occasioni non si
ripresentano ogni giorno. Per un istante, un furore
incontenibile scosse le mani della ragazza. Un lampo, una folgore.
Sì, perchè Rickon Stark aveva rovinato tutto, tutto, e
meritava la peggiore fine possibile. Se fossero state quelle deboli
mani di fanciulla ad ammazzarlo, poi, l'infamia sarebbe stata di gran
lunga più disonorevole. Myrcella, con un solo fendente,
aveva la
possibilità di togliergli la vita e la gloria, quanto di
peggio
possa accadere ad un principe.
Cosa aspetti? insisteva
sua
madre, concitata. Ma Myrcella, non appena sfiorò la daga
ch'egli
portava appesa alla cintura, ritrasse la mano repentinamente, quasi che
si fosse scottata. Non poteva farlo. Era una pazzia. E se Rickon si
fosse svegliato d'un colpo e le avesse aperto la testa a
metà?
Non era prudente. Come avrebbe potuto una ragazzina gracile come lei
trafiggere un corpo simile? Non ne aveva la forza. Era lenta, fiacca,
impacciata. Sarebbe stato un suicidio, anzichè un omicidio.
Allora la candela, sibilò
sua madre. Accosta la
fiamma ai suoi capelli e brucialo. Un
gesto altrettanto stupido, ribattè ella prontamente: e se le
fiamme, dilagando, avessero raggiunto anche lei? Quello era uno spazio
angusto. Inoltre era un'utopia immaginare che Rickon sarebbe rimasto
fermo e tranquillo ad ardere vivo.
Secondo questo
ragionamento, figlia, non uscirai mai da qui.
Myrcella non l'ascoltò. Sarebbe evasa, invece, ma non in
quel momento. Più avanti. Quando sarebbe stato più sicuro.
Più sicuro, sospirava
Cersei. Sei
già morta, Myrcella. Perchè è
così che si muore, lo sai?
Myrcella non gradì quel commento.
Chinò il viso su
quello di Rickon: l'odore della cenere impregnava la sua pelle come
acqua -forse in
memoria della sua anima andata a fuoco, della sua fanciullezza arsa
troppo presto. Il sentore della distruzione lo seguiva ovunque, come se
una stella cattiva vegliasse il suo cammino, ammantandolo con la
propria
ombra. La ragazza smarrì ancora una volta le dita fra i suoi
capelli e restarono così, sospesi in quell'interruzione di
vita
senza morte, concordi in quei piacevoli istanti di nonsenso. Era
talmente facile fingere e talmente doloroso svelare i propri reali
sentimenti, che Myrcella non aveva dubbi riguardo ciò che
preferiva. Era talmente facile volergli bene in quella cella, in quel
buio, in quel silenzio, nascondere la sofferenza fra le pieghe del
mantello delle tenebre e lasciarsi prendere per mano, dopo tanto tempo
d'ostinata solitudine. Sarà stato a causa della sua
educazione
da lady, ma obbedire ed annuire e compiacere risultava molto meno
faticoso, e lei era stanca, e anche lui era
stanco.
Cersei continuava a fissarla,
imperterrita, dall'angolo della cella.
Ad un certo punto, che poteva essere giunto dopo un'ora come dopo
dodici secondi, Rickon si ridestò con un sospiro, che
schioccò fra le sue labbra socchiuse.
-Devo andare, adesso.- annunciò funereo. L'idea non lo
esaltava per nulla.
-No.- sussurrò Myrcella di rimando. -Non... ecco... ti
prego, no. Ancora un poco. Fa così freddo... così
terribilmente
freddo.-
Rickon invece era caldo, piacevole, come se una fiamma perpetua
crepitasse nel suo petto e fosse cera bollente a scorrere nelle vene.
Le bastò immaginare la notte nella cella senza quel
rinfrancante
tepore, per gemere con voce sottile. I brividi la assediavano,
perchè il ghiaccio s'era insinuato dentro di lei,
attanagliando
il midollo stesso delle ossa: il freddo del Nord l'aveva avvelenata.
Lei voleva tenerlo stretto tutta la notte e percepire ancora il profumo
del fuoco otturarle le narici.
Il ragazzo derise sottovoce quella debolezza e la squadrò
con un
sorriso. Infine parve arrendersi ad una decisione insolita.
-Sono stufo di sentirti pigolare come una quaglia con l'ala rotta.-
dichiarò, lasciandosi scivolare dalle spalle la vasta cappa
di
velluto blu foderata d'ermellino. -Tieni qua.-
Cinse il suo corpo snello con la stoffa, avvolgendolo nel mantello,
mentre la prigioniera lo fissava con gli occhi gonfi di sconcerto.
-Non posso accettare.- balbettò, presa in contropiede.
-È... è troppo. Voglio dire, è il tuo
mantello!
Non devi privartene per darlo a me...-
-Come se ne avessi necessità.- replicò Rickon,
spavaldo. -Io non ho mai
freddo. Comunque, io faccio quello che mi pare, perciò se mi
gira di darti il fottuto mantello tu te lo tieni. Chiaro?-
Il suo tono era aspro, ma Myrcella sorrise. -... non so davvero come
ringraziarti.-
-Non mi ringraziare.- borbottò lui. -Domani te ne
farò passare la voglia, credimi.-
Fu con queste minacciose parole che se ne andò, quasi
indignato
dalla propria stessa generosità; però era invano
che
Myrcella lo attendeva, aspirando intensamente l'odore impresso sulla
pelliccia, perchè il giorno dopo il suo carceriere non
arrivò. E nemmeno quello dopo. E quello dopo ancora.
***
Garlan, fratello mio,
ci siamo. Il mio dolce marito ha deciso che partirà per la
guerra, ebbene sì, nel caso in cui l'avessi sentito dire da
altri, ti confermò che è così:
però questo
è l'unico imprevisto. L'idea di non poterlo tenere sotto
controllo, qualora la situazione precipitasse, mi spaventa,
però
non c'è verso di dissuaderlo. Troverò la maniera
più indiretta per convincere Tyrion Lannister che la cosa
migliore da fare è seguire nella campagna militare il
giovane
re, per consigliarlo e sorvegliarlo, data la sua inesperienza. E,
quando l'esercito partirà da Approdo del Re, non ci
sarà
più un solo Lannister alla Fortezza Rossa. Ebbene, ormai
è certo: anche Jaime se ne andrà.
Perciò il nostro
piano è quasi compiuto.
Attenderò con impazienza il tuo arrivo. Quanti anni sono che
non
ci vediamo? Troppi, fratello mio. Troppi. Andrà tutto bene,
vedrai. Questo castello sarà nostro -questo regno
sarà
nostro.
La tua affezionata sorella,
Margaery
Note dell'Autrice: Eccomi qui! Spero di non aver postato troppo tardi!
^-^
Nella speranza di non aver deluso le vostre aspettative, il quinto
capitolo. Con il prossimo, avremo la partenza per la guerra e il
chiarimento d'un po' di questioni irrisolte lasciate qua!
Perchè Rickon non torna da Myrcella? I sogni di Bran
porteranno forse a qualcosa di ancora più terribile di un
tentato omicidio? Cosa sta combinando Margaery? Cosa diamine sta
succedendo a Pyke? Possibile che Theon abbia ragione? Eheh.
So che dopo aver letto questo capitolo siete nauseati da Rickon: era in
ogni singolo pezzo! La prossima volta si parlerà della
Fortezza Rossa e di
Jaime, se i Sette Dei vorranno. Solo io posso scrivere che
Bran è uno storpio ricchione ed indignarmi allo stesso tempo
con il personaggio che lo dice... -.- facepalm.
La canzone che Shireen canta è quella che compare anche nel
telefilm, non è affatto farina del mio sacco!
Grazie mille alle sette persone che hanno messo questa storia nelle
preferite, le due che l'hanno messa nelle ricordate e le diciotto che
la seguono! (diciotto?! Wow!) E ovviamente un ringraziamento speciale
va a SherlockLady, Talia_Federer, RLandH e yoyobigship, per avere
recensito il capitolo precedente! Per me è incredibilmente
costruttivo.
Grazie anche a chi continua a leggere, nonostante la lunghezza
esorbitante dei capitoli! Ci vediamo nelle prossime note dell'autrice!
^-^
Lucy
ps: per chi si chiedesse quando compariranno Arya e Gendry, ebbene
sì, quel momento sta per arrivare... abbiate fede!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Giallo fu il riscatto. ***
6
VI. Giallo fu il
riscatto.
-Alzati.-
Pur investito dalla portata torrenziale della luce diurna, l'uomo non
stropicciò il viso. Brienne di Tarth gli
lanciò uno
sguardo raffreddato di severità. Stringeva in una mano il
lembo
della tenda che aveva appena scostato violentemente e fissava spietata
la figura compostamente seduta sul letto, le coperte a coprirgli le
gambe, la testa appoggiata sulla spalliera.
Non è morto,
pensò. Me lo
devo ricordare, se ho intenzione di ottenere qualche risultato.
-Ho detto alzati.- ripetè a voce più
alta. Gli
occhi dell'uomo non avevano uno sguardo -o meglio, non lo volevano
avere.
-Adesso smettila. Cominci ad infastidirmi.- aggiunse Brienne, che non
annoverava la pazienza fra le sue qualità. La faceva
arrabbiare
soprattutto perchè era Jaime Lannister l'uomo che le veniva
negato di incontrare. Negato da chi? Da quel pretesto paralizzante, che
aveva catturato la persona ch'ella amava di più al mondo e
la
divorava dall'interno, larva di un maleficio dal sapore buono ed il
potere annichilente.
-Alzati,- insistette Brienne, -alzati. La stai deludendo. Fino adesso
non hai fatto altro che deluderla. Non ti sembra il caso di smetterla?-
Il nervo scoperto del demone venne pungolato, ed egli infatti
parlò, una voce fiacca fra labbra come d'impedimento,
aggredite
da medicine amare.
-È morta.-
-Ti vede su questo letto e ti sputa in faccia. Lo sai
quant'è forte. La disgusti.-
-È morta.-
-Si vergogna di assomigliare così tanto ad un codardo come
te.-
-È morta.-
-Lei ti sta urlando nelle orecchie, ma tu non la ascolti.
Perchè non la ascolti?-
La voce del demone era esaurita: era troppo pigro per rispondere di
nuovo.
-Voglio che liberi Jaime,
adesso. Perchè Jaime non è stupido
come te. Jaime ascolta quello che
lei gli sta dicendo, e vuole obbedire. Vuole farla felice.
Perchè accidenti glie lo stai impedendo?-
Il demone sollevò una mano, ma persino quel gesto parve
affaticarlo. Era talmente sciocco che scivolò giù
sul
materasso, finchè le coperte non lo sommersero.
Brienne di Tarth era davvero esasperata. Prese le lenzuola e le
strappò dal letto, prese il cuscino e lo gettò a
terra,
con rabbia. Il demone ricadde come un corpo esanime, ed il suo sguardo
vacuo parve quasi insultante agli occhi di Brienne.
-Jaime vuole prendere la spada e combattere. Ha il diritto di farlo, il
dovere di farlo. Tu non sei nessuno per influenzarlo in questo
modo. Tu non sei nessuno per credere di poterlo sopraffare. Jaime
è troppo forte per lasciarsi piegare da te.-
Una lacrima dolorosa, dopo diversi istanti di tentennamento,
rovinò dall'orlo della palpebra e cercò di
comunicare un
pensiero inesprimibile.
-Oh, Brienne. Non ti merito.- Fu un soffio che Brienne infranse irata.
-Tu puoi vincere, Jaime. Svegliati. Ti devi svegliare. A lei questa
lacrime non serve. Vuole essere vendicata, Jaime. Il demone la ripugna
e basta. Tu devi vincere, altrimenti amarti non le sarà
servito
a niente.-
Svegliati, Jaime, ti
devi svegliare... Era
da tempo che Jaime Lannister tentava di ignorare lo sguardo fisso della
sua gemella, in piedi in un angolo della stanza. Egli l'aveva
supplicata di portarlo via con sè, s'era trascinato fuori
dal
letto soltanto per raggiungere quella visione, per abbracciarle le
ginocchia, si era stretto alla sua veste. Aveva singhiozzato e s'era
umiliato come da bambino non avrebbe mai fatto. Aveva cercato di
afferrare un disegno sciolto nell'acqua, di trovare disegni di stelle
scomparse. Aveva affidato all'inutilità la
sua esistenza.
Ma Cersei non voleva ascoltarlo, non voleva accogliere le sue
suppliche. Lo scacciava con sgarbo, lo guardava con altri occhi e lo
aveva scalciato via come un cane malato. Un'ira informe le alterava il
viso. Allora Jaime non s'era più mosso ed era rimasto a
subire i
fendenti di quello sguardo, con la pazienza immemore delle montagne,
mentre il dolore perdeva identità e diventava tutto,
diventava
lui stesso, diventava Cersei. Cersei non era più bella, non
era
più l'amore, il sogno di una vita incompiuta. Solo dolore.
Dolore. E nella banalità del dolore, Jaime non necessitava
di
altro. Nemmeno dei ricordi. Nemmeno di Brienne. Nemmeno di Cersei. Il dolore non è un
demone,
è l'unica compagnia di cui posso tollerare l'esistenza.
L'unica
che mi troverà ovunque andrò.
Svegliati, Jaime, ti devi svegliare. Perchè?
Per cosa?
Per chi? Per uccidere il bambino-lupo che nessuno è
sopravvissuto per piangere? Per provare la fugace sensazione di veder
compiuta una giustizia persa fra le pagine di questa storia, di aver
riscosso il debito della morte di Cersei? La vita di Rickon Stark non
ne avrebbe potuto pagare nemmeno un istante. Non avrebbe compensato il
vuoto,
non avrebbe scagliato il tempo indietro. La vita di nessuno al mondo,
neanche di
tutti quanti insieme potrebbe pagarla: perchè per Jaime
esisteva
solo lei. Non c'è più un fulcro, non
c'è
più un nucleo in questa esistenza d'acqua torbida. Non
c'è più una meta, per cui Jaime si è
fermato in
mezzo al sentiero e ha permesso al dolore di raggiungerlo, di colmare
quel vuoto e scavarlo ancora più in profondità.
Il mondo
era il suo sorriso, la sua risata, i suoi baci ed il suo amore
incostante ma sincero. Il mondo non c'è più.
Il demone ti ripugna,
Cersei,
è così? Ma cosa ne sai, tu, del demone? Non ci
devi
convivere come faccio io. Tu giudichi quel che non conosci. Se fossi al
posto mio, saresti forte, invece? Oh, forse ti costringeresti ad
esserlo per la vendetta. Avere un pretesto per fare del male
è
sempre piaciuto più a te che a me. Ma questo non
è un mio
limite, è un tuo difetto: scopriresti, tanto sangue e tanta
morte più tardi, che non è servito a niente, se
non ad
aggravare le colpe della tua anima e farti sentire ancora
più
stanca di prima.
-Vai via, Brienne, a parlare a chi ha ancora orecchie per
ascoltarti.- Una constatazione, più che una richiesta.
-O da chi ha ancora un cuore per comprendere.- rimbeccò
Brienne. -Triste scoprire che non l'hai amata tanto come dicevi.
Nè tua sorella, nè tua figlia.-
Appena pronunciò la parola figlia, gli occhi
di Jaime Lannister recuperarono uno sguardo.
-Cosa le è successo?- Confusione nella voce. Un
brivido velenoso sulla pelle. Nessuno gli ha parlato di
Myrcella. Nessuno glie
l'ha detto.
E Brienne capisce che Jaime lo farà, che
aiuterà suo figlio ad essere re, che sarà al
fianco di suo fratello in questa guerra, che salverà sua
figlia imprigionata nel ghiaccio d'un'altra realtà. Che
d'ora in poi avrà sia orecchie per udirla, sia un cuore per
comprenderla. Che Jaime vincerà, che il demone
perderà ed il loro sarà un congedo a lungo
termine, forse momentaneo, forse definitivo, non è dato a
lei saperlo. La donna fa poi una promessa all'anima di quella donna che
negli anni aveva imparato a conoscere, a Cersei Lannister, vissuta per
se stessa e morta per i suoi figli: che porterà sulla sua
tomba la testa mozzata di Rickon Stark, che le offrirà una
libagione con sangue di lupo, tant'è vero che si
chiama Brienne di Tarth.
***
Il loro era un rituale le cui leggi non erano mai state decretate e
trascritte, ma solamente apprese dall'esperienza e consolidate
dall'abitudine: prima di tutto s'avvertiva il rumore delle zampe di
Cagnaccio sulla pietra, un picchiettio ronzante e furtivo, e poco dopo
i passi pesanti e placidi di Rickon assestati come percosse ad ogni
gradino, che annunciavano con tonante esuberanza il suo arrivo; poi la
luce del mozzicone di candela ch'egli portava sempre con sè
sbocciava timida nell'irruenza delle tenebre, che si scostavano per
lasciarle posto, e l'ombra del metalupo si profilava dietro le sbarre
-contro la parete, un ritaglio più buio del buio stesso- e
vi
insinuava il muso alla ricerca delle sue mani, per leccarle
affabilmente. Ma l'indizio più caratteristico che Rickon
dava di
sè, prima d'apparire, era il respiro. Myrcella lo conosceva
molto meglio del proprio: irregolare, fremente, vibrante, accelerato da
quella continua foga impetuosa e veemente che lo possedeva in qualsiasi
momento della giornata. Nell'oscurità, quella
brevità
sporadica e pregna d'impulsivo fervore aveva un colore, un aspetto, un
peso, una consistenza per Myrcella. E la solitudine si congedava per
qualche tempo, concedendole qualche ora di vita, ch'ella consumava
precipitosamente aggrappandosi al suo strascico, senza sprecarne un
istante.
Questo, finchè Rickon non smise di venire a trovarla.
Myrcella aveva perso la concezione del tempo, questo sì, ma
comunque ella sapeva che prima o poi
finiva e arrivava Rickon. Dopo quell'ultima volta ch'egli
era sceso da lei, il tempo durò per sempre.
Fu un'era quella che si spalancò in quel punto della sua
prigionia; un secolo, uno squarcio che si affacciava su un'altra
immobile realtà, simile alla solita ma inerte, uguale a
sè stessa dall'indefinito principio all'inqualificabile
termine.
E a Myrcella sembrava di avere passato tutta la vita e tutto il tempo
prima e dopo ad aspettare, che il tempo esistesse in funzione di
quell'attesa, che quell'attesa fosse il tempo: e ormai era attesa di
frustrazione, e frustrazione, ed ulteriore frustrazione, si trattava di
nutrire, puntellare e consolare speranze moribonde, senza
più un
motivo per sopravvivere in quanto tali; si trattava di stringere in un
pugno e soffocare fra le lacrime ogni istante, concluso e smarrito
nelle fauci del passato. E il silenzio urlava, sbraitava, chiamava,
gemeva, e il silenzio era diventato troppo grande, così
immenso
ed inespugnabile che a Myrcella veniva da piangere. Ma non lo faceva,
perchè era stanca.
All'inizio la sua era l'arrendevolezza delle margherite i cui petali
fremono al tocco del vento messaggero d'una tempesta imminente:
statica, arida, stazionaria. Poi non bastò più.
Ad un certo punto, il suo corpo cominciò a deplorare
l'immobilità e ad opporsi. Probabilmente fu mentre ella
girovagava senza pace da una parte all'altra della cella, mentre le sue
mani sanguinavano picchiando i muri e pestando le sbarre, mentre la
gola spiegata cigolava all'insistenza delle sue grida, probabilmente fu
allora che la sua mente marcì -contagiata da un germe, matrice e
causa prima del contagio. E quel germe era il ricordo di Rickon Stark.
Aveva assediato la sua mente -no,
non soltanto la sua mente. Myrcella
percepiva ogni fibra di sè satura di Rickon, intrisa della
sua
presenza, magari per mezzo di una cicatrice o di un graffio o di un
bacio che le aveva dato lì piuttosto che qui. Era ricolma di
lui, sotto ogni aspetto. La sua memoria era una voragine dalle pareti
ripide, nulla v'era rimasto aggrappato, tutto col tempo era stato
divorato dall'oblio: soltanto lui, tenace, grandioso, onnipotente,
restava. Allora cosa poteva fare, Myrcella, se non immergersi a
capofitto nell'unica immagine che la sua mente riflettesse d'una vita
smarrita nella cenere?
La rabbia vigorosa del suo aguzzino era ciò che
l'aveva
mantenuta in vita -il solo sentimento ch'ella potesse masticare, contro
l'apatia della solitudine. Il suo corpo stesso esisteva solamente per
ricordare l'impronta d'un altro, per recarne le tracce, per indicarne
il passaggio.
Come aveva potuto credere di odiarlo?
Myrcella piangeva, piangeva, e non sapeva se fossero lacrime di dolore
o di felicità per quella subitanea e magnifica rivelazione.
Lei non odiava Rickon. No. Non l'aveva odiato quando aveva decapitato
suo nonno, quando aveva scavalcato il corpo di sua madre. Non l'aveva
odiato quando l'aveva relegata in una cella, nè quando
l'aveva
stuprata aprendole il collo a morsi. E mai ci sarebbe riuscita. No, no,
meglio ancora: non ci aveva mai provato
davvero, ad odiarlo. E perchè? La soluzione era di
sbalorditiva,
lineare, imprescindibile evidenza. Asciutta, eppure essenziale. Perchè
Rickon aveva bisogno di lei. Perchè lei aveva bisogno di
Rickon.
E loro, loro due, si sarebbero bastati per sempre.
Rickon non l'aveva rapita per farle del male,
perchè
voleva farle un torto. Assolutamente non era così! L'aveva
fatto
proprio
perchè l'amava.
Era così evidente, come aveva fatto a non capirlo subito?
Ogni
prova lo dimostrava. Il giovane Stark scendeva le scale per trovare
conforto, per trovare carezze, per trovare il suo amore. La
voleva avere sempre accanto a sè e soltanto per
sè, era
per questo che l'aveva rinchiusa lì, sotto, lontano dai
lascivi
sguardi altrui. Rickon la stava proteggendo dal mondo esterno, che era
turpe, malvagio e li voleva separati.
Myrcella aveva compreso la
verità
tutta in una volta, in un unico istante. E quegli istanti erano
diventati belli, caldi e scintillanti. E poi di nuovo orribili, man
mano che il tempo scorreva e Rickon non arrivava.
Tornerà, si
ripeteva Myrcella, tornerà.
È certo. Certo come questo mio cuore che pulsa ancora,
questo
respiro che non si stanca di gonfiarmi il petto. Tornerà.
Perchè io gli sono necessaria, e lui mi è
necessario. E
piangeva, questa necessità, strillava, implorava, come
l'incavo
dove un tempo v'era il cuore e, non appena era stato scardinato, il
torace protestava contro quell'ingiustizia. Allora Myrcella affondava
il viso in quel mantello, quel mantello che lui le aveva lasciato,
d'inestimabile valore, e si detestava ogni volta che, accidentalmente,
permetteva ad una lacrima d'evadere dalla ragnatela delle ciglia e di
gocciolare sulla stoffa. Perchè quella cappa doveva rimanere
pura, incontaminata, impregnato del
suo odore, di quel sentore di cenere così
lieve, che l'olfatto doveva tendersi in uno sforzo struggente per
agguantare...
Quando le sue orecchie udirono,
Myrcella credette che si trattasse di voci sporcate dalla sua
immaginazione, ad infrangersi in mille echi nella mente bramosa
d'inganni, propensa al sogno, e cercò di combattere la
sabbia
che l'accecava nell'instabile coscienza che ancora le rimaneva, ovvero
quella condizione che le permetteva di comprendere di non essere
affatto consapevole; in fondo, la ragazza pensava di non essere
più in grado di distinguere un suono reale da uno
immaginario.
Invece era vero. Vero,
Vero. Vero. Vero
il picchiettio di zampe sulla pietra, veri i passi sui gradini, vera la
sensazione solleticante della lingua di Cagnaccio sulle dita. Vero il suo respiro. Vibrante, un po' accelerato,
come se fosse sempre arrabbiato per uno stesso, imperscrutabile motivo.
-Lannister?- Vera la sua voce. Vera e bellissima. E quando
la
fanciulla lo vide il ricordo, tanto logorato dal continuo volgersi a
contemplarlo, ebbe sangue e prese ossa.
Come aveva potuto non
accorgersi di quanto bello fosse? Il
suo volto, delineato nell'esattezza d'ogni tratto perchè
bagnato
dal chiarore della candela, provocò nell'interezza del suo
corpo
una sensazione d'appartenenza, di riconoscimento.
Myrcella s'era alzata sulle ginocchia, per poi drizzarsi in piedi e
scivolare a causa dello sfinimento; allora
ritentò, e un secondo prima di cadere s'aggrappò
alle
sbarre.
-... perchè?- bisbigliò soltanto, la voce
grattata dalle troppe urla.
Il ragazzo la osservò attentamente, notando un qualche
cambiamento in lei, forse nel suo sguardo o forse nel suo
atteggiamento.
-Ho avuto da fare con i preparativi dell'esercito. Allenamenti,
esercitazioni e robe del genere. Non che io debba renderne conto ad una
prigioniera, ovvio...- concluse acido, prima di chiudersi la porta
della
cella alle spalle. Myrcella si appigliò dunque al suo petto,
fissandolo negli occhi, e Rickon -che istintivamente la resse in piedi-
si accorse di quanto magra fosse. Pesava quanto un fuscello.
-È stato terribile senza di te.- mormorò,
realizzando di aver detto
troppo poco,
di non aver detto niente. Esistevano
parole per spiegare l'eternità che s'era sgranata sotto i
suoi
piedi? No, dunque poteva esprimere i suoi sentimenti in un solo modo.
Con un impeto inaspettato, s'allungò fino a sfiorare le
labbra
di Rickon e s'abbandonò ad un bacio sventato. Appena
riscoprì il profumo della cenere, il contatto di quel corpo
contro il suo, il mondo ricominciò a girare.
Rickon era sconcertato come se quello fosse il suo primo bacio in
assoluto. La presa d'iniziativa di Myrcella l'aveva spiazzato. Come
reagire? Fece quanto gli venne più istintivo, ovvero
afferrò i fianchi di Myrcella e la strinse a sè.
Anche se
non l'avrebbe mai ammesso, aveva sofferto amaramente il fatto di non
poterla andare a trovare. Tutte le tensioni della settimana ebbero
sfogo in quel bacio, in quell'amore urgente che arse fra la fuliggine,
e Myrcella potè prendere ancora il capo di Rickon in grembo
e
cullarlo e carezzarlo come aveva già fatto.
-Non ti avevo mai vista... così.- commentò
Rickon,
incapace di chiarire quel comportamento inusuale. Sì,
Myrcella
si era dimostrata di recente molto più bendisposta verso di
lui,
ma non gli era mai saltata con le braccia al collo, e non l'aveva mai
baciato prima che lo facesse lui.
-Così innamorata, vorrai dire.- Myrcella districava i suoi
capelli con le dita, beata, sfinita di gioia. Rickon le
lanciò
uno sguardo interrogativo.
-In che senso?!-
-Già, è proprio così.-
dichiarò la
fanciulla prontamente, dopo avergli rivolto un sorriso quasi
trionfante. -Io ti amo. Hai capito? Ti amo.-
-Mi ami.- ripetè Rickon, una nota d'ironia scettica nella
voce.
-Esatto.- sottolineò Myrcella, senza incertezza. -E anche tu
mi
ami. Ma non ti preoccupare, adesso: mi preoccupo io, di tutto. Adesso
devi solo rilassarti e pensare a dormire e dimenticare le cose
brutte. Va tutto bene. Ci sono io qui con te.- cantilenò,
disegnando le linea della sua guancia. Trascorsero così le
ore,
in un silenzio morbido ed esplicativo, fino a che Myrcella non
trovò il coraggio di parlare ancora, pur senza essere
interpellata.
-Sai, quando mi accorsi che non tornavi, mi venne il dubbio che fossi
partito per la guerra senza avvisarmi...- affermò, quasi
imbarazzata. Sperava così anche di scoprire qualcosa in
più, per esempio quando se ne sarebbero andati, e per quanto
tempo.
E la risposta di Rickon non fu certo quella che si aspettava.
-Impossibile, dato che tu verrai con me.-
Il giorno dopo, per la prima volta da tempo immemore, Myrcella vide
altri due esseri umani; erano due servette, delle ragazzine giovani,
dai capelli chiari e le mani spellate dal lavoro. Quando aprirono la
cella e le si avvicinarono, con una coperta e un candeliere in mano, la
prigioniera indietreggiò con ritrosia finchè non
avvertì il muro premere contro la sua schiena.
-No.- boccheggiò. -Non voglio.-
Ma la loro voce era gentile e lusinghiera. -Non vogliamo farti del
male. Siamo qui per ordine di lord Rickon. Lui
ha detto che tu lo sapevi già, che saremmo venute...-
Myrcella ci pensò un attimo, e in effetti
acchiappò un
ricordo che forse coincideva con quanto loro stavano dicendo.
-Quindi...-
-Ti porteremo da lui.- rispose una delle servette. Dopo qualche istante
d'esitazione, con la fronte aggrottata, Myrcella avanzò e
permise alle due ragazze di sostenerla fino al corridoio, pur
rifiutando la coperta -mai avrebbe rinunciato alla cappa d'ermellino
che Rickon le aveva lasciato. Fu terribilmente strano uscire di
lì, camminare in quella galleria un tempo tanto agognata ed
irraggiungibile, necessario passaggio per raggiungere la meta finale,
la libertà. Ma la libertà non era
la meta finale, e questo lei l'aveva capito soltanto in seguito. Il
primo istinto di Myrcella fu di divincolarsi e tornare indietro, nella
cella, al sicuro, dove Rickon sarebbe tornato a trovarla e sarebbero
potuti stare insieme da soli, staccati dal mondo intero;
però
poi riflettè che, se il fatto che lei uscisse era il volere
di
Rickon, significava ch'era la cosa migliore da fare e bisognava
obbedire senza discutere.
Salire i gradini delle scale era atrocemente difficile, in parte per
l'aborrimento verso il mondo reale, in parte per
l'instabilità
delle sue gambe; le ragazze la sostennero pazientemente, accostando la
candela agli scalini per aiutarla a non inciampare. Era assurda la
maniera in cui la sua dimensione, dalla claustrofobica ristrettezza
serrata nelle sue tenebre eterne, si stesse dilatando smisuratamente
accogliendo tutto questo. Prima non c'era niente, e adesso stava per
esserci tutto, e tutto in
una volta.
Appena le scale si conclusero affacciandosi sull'arioso corridoio del
castello, Myrcella avvertì i propri occhi tremare, le iridi
sgranarsi cieche al cospetto della luce, poi un dolore perforante che
le trafiggeva la nuca e sfibrava i nervi, come un dardo avvelenato.
Emise un lungo verso animale e schermò il
volto con le mani, precipitosamente, avvolgendosi in un buio
confortante. Non ricordava che la luce fosse così cruda, violenta. Cattiva. Come
aveva potuto anelare a qualcosa di tanto abietto?
-Rickon? Dov'è Rickon?- gemette Myrcella, tentando di
divincolarsi. Sentiva più che mai la necessità di
aggrapparsi a lui, d'essere cinta dalle sue braccia, ch'erano
così forti e sicure...
-Fra un po' ti ci porteremo.- rispose una delle serve gentilmente. -Ma
prima dobbiamo sistemarti.-
Un tempo, una schiava che avesse avuto la sfrontatezza di darle del tu
sarebbe stata frustata a morte e le sarebbe stata mozzata una mano per
punizione. Ma la principessa Myrcella non era più tale, non
lì al Nord, dove Bran il Metamorfo era re, Meera Reed regina
e
il loro figlio principe. Non aveva diritto ad alcun
riconoscimento
di nobiltà, una Lannister.
Myrcella non riuscì a sollevare il volto dal mantello che la
avvolgeva, lasciandosi guidare quasi inerme. Quando era bambina, ad
Approdo del Re, aveva sempre creduto che le schiavette che le
obbedivano così deditamente lo facessero perchè
le
volevano bene, le erano affezionate; non ci aveva messo molto per
scoprire che, nello stesso modo in cui le cucivano le vesti, le
accendevano il fuoco e le preparavano manicaretti d'ogni tipo,
sarebbero state altrettanto disposte a strangolarla nel suo letto, se
solo fosse stato loro ordinato.
Le serve la condussero da qualche parte, senza che lei vedesse dove,
finchè:
-Adesso dobbiamo toglierti il mantello.- annunciò una delle
ragazze. Myrcella tentennò, ma finì
per acconsentire
ad abbandonare la carezza morbida del velluto dalle spalle. Giusto un
secondo prima di tapparsi gli occhi, scorse indistintamente il riflesso
su un vasto specchio di liquido splendore, sostenuto da due piedi di
ferro battuto: le servette reggevano fra le braccia qualcosa di nero,
pesto e ritorto su se stesso, ch'ella riconobbe distrattamente come il
proprio corpo. Le due la spogliarono di tutto ciò che aveva
indosso, con gesti abili e rapidi; Myrcella scostò le mani
dal
viso per aggrapparsi alle sponde della vasca da bagno, ma tenne le
palpebre ostinatamente strizzate.
La sensazione del calore dell'acqua sulla carne la atterrì:
una
morsa implacabile, che provocava un dolore sconosciuto, frenetico,
annullante. Gridò ancora, in preda a quella trappola
rovente, e
quasi non udì i propri lamenti. Nonostante le proteste,
venne calata
nella vasca e l'ustione si propagò, aggredendo l'intero
tessuto
della sua pelle; Myrcella credette che sarebbe morta bruciata viva.
Lì dove una volta gli artigli del dolore avevano infierito,
v'era quella cosa strana che lei non riusciva ad identificare: che un
tempo avrebbe chiamato benessere, ma adesso era troppo diversa per
risultare piacevole. Avvertiva la crosta della sporcizia rammollirsi,
sciogliersi e gocciolare via dal suo corpo, piano piano, scavando fino
a riscoprire l'antico candore della pelle. Districarono i suoi capelli,
ciocca per ciocca; dolci erano quelle mani sulla nuca, ma tale
stucchevole sensazione di mitezza e benevolenza, tali moine inutili e
smancerose, tali carezze che il destino le stava concedendo, non erano
inoffensive: erano atte a demolire la sua difesa, a farle abbassare le
armi, a succhiare la sua forza insieme allo sporco. Il profumo
che
inondava le sue narici era qualcosa
di delicatissimo e soave, esotico quanto lo sarebbe stata un'essenza
proveniente da Essos o da Volantis, eppure era un unguento qualsiasi,
tale quale a quello con cui una volta le sue sguattere la detergevano
ogni giorno. Il sapone portava via la cenere, sbrogliava il dolore fino
ai muscoli, scuciva il lavoro che la prigionia aveva composto in giorni
e giorni. Il freddo saliva fino al soffitto, evaporato dalla sua pelle:
non più peculiarità della sua carne, non
più
abitudine del suo cuore. Il risultato della sua resistenza le scorreva
giù dal corpo, precipitando, gorgogliando, insieme al getto
d'acqua che una delle ragazze lasciava scrosciare da una brocca sul suo
capo. Forse che anche quella forza così faticosamente
guadagnata
fuggisse celere? No, non era possibile. Nonostante la temperatura
dell'acqua avesse scaldato la pelle, il buio aveva impresso le
sue
cicatrici in quegli occhi dolenti. Quel potere sconosciuto al quale
s'era appellata per sopravvivere pulsava come acciaio nuovo, e ci
avrebbe pensato il vento del Nord ad irrobustirlo.
-Abbiamo finito.- sospirò una servetta, mentre l'altra
accorreva
con un telo ad avvolgere il corpo di Myrcella. La fanciulla si
arrischiò ad aprire gli occhi, e quel che vide le fece
socchiudere le labbra dallo stupore.
Il mondo era diventato... bianco.
Tutto
era così chiaro e definito... ma davvero la
realtà aveva sempre
avuto quella limpidezza, anche prima della sua reclusione? Da sempre
gli occhi potevano cogliere quei dettagli, quelle minuzie, di cui aveva
dimenticato l'esistenza? Davvero i colori erano così
festosamente vividi, s'affermavano con tanta prepotenza agli occhi? E
davvero osservare il mondo attentamente costava così tanta
energia? C'erano troppe cose che s'accalcavano e s'imponevano alla
vista.
Poi Myrcella guardò allo specchio. Una fanciulla di latte
v'era
disegnata, diafana ed eterea come un pensiero sfuggente, e le ci volle
un secondo di troppo per identificarla come se stessa. Aveva occhi
troppo chiari, d'un verde pallido, ed ella si chiese se per caso
l'acqua saponata non l'avesse diluito; le braccia e le gambe erano
lunghe, sottili, affusolate, aggraziate come la septa aveva sempre
provveduto che fossero, e luccicavano imperlate di gocce d'acqua.
Solamente il viso aveva un po' di colore sulle guance, ed era quello
sbagliato. Rosso carminio, dolce e tranquillo. Myrcella
scoprì
che senza la sua maschera di cenere si sentiva vergognosamente esposta
allo sguardo del mondo. E i capelli? Non avrebbe mai creduto che i suoi
capelli potessero essere
così belli. Lievi volute auree ricadevano morbidamente sulle
sue
spalle, ed erano così scoloriti e deboli che c'erano quasi
da
temere che il primo soffio d'aria li strappasse via, come petali di
soffione.
Non si capacitava d'essere quella; non ci capacitava d'essere ancora quella.
D'essere ancora così. E per un attimo ebbe paura,
perchè quella assomigliava troppo all'altra Myrcella,
la Myrcella pre-Rickon, pre-prigionia, la Myrcella che
chiacchierava con Margaery e rideva con Tommen. Un tempo andava
piuttosto fiera del proprio aspetto, seppur senza vantarsene: adesso
vedeva soltanto una bambina vulnerabile che rispondeva preoccupata al
suo sguardo inquieto, sotto ciglia bionde -e non nere. Le sembrava di
trovarsi di fronte una vecchia conoscenza, che riportava alla memoria
tanti ricordi, ma che avrebbe preferito non incontrare di nuovo.
Scoprì di non riuscire più a sorridersi, e
pensò
che in fin dei conti non era una gran perdita. Era un sorriso
compiacente, il suo. Un sorriso come tanti.
Era quanto di più grazioso avesse mai visto. Non di
più bello, di più grazioso.
Graziosa come un ninnolo inservibile, un accessorio superfluo. E quelle
labbra -labbra spaccate dai morsi- si piegarono in una smorfia
scontenta.
-Voglio vedere Rickon.- ripetè, questa volta a voce
più
alta, e le serve riconobbero in quel tono tagliente l'imperio di chi
è abituato a farlo dalla nascita.
-Ci sarebbe un abito per te. Non preferisci indossarlo, prima?-
domandò una, un po' più in soggezione.
La ragazza annuì con un cenno annoiato. Il vestito era
semplice,
più da meretrice che da principessa, ma aveva il suo
fascino: le
sottili spalline si allargavano gradualmente, fino a dividersi nelle
due bande del profondo scollo a v, la sua linea era sinuosa e
la
gonna ampia. Era di colore giallo, squillante come un tulipano, con una
cinta e intarsi sul petto color del bronzo, e il tessuto di cui era
fatto era increspato, forse organza; lo sfolgorio del vestito
attraversava i suoi boccoli, facendoli sembrare di vetro. Fu mentre le
serve le stavano acconciando i capelli, che la porta si
spalancò
in maniera così irruenta da lasciar intendere che il
colpevole
potesse essere solo uno.
-Me l'avete trattata bene?- latrò quella voce, che tanto
disperatamente la sua mente aveva cercato di riprodurre e trasmettere
all'udito. E qualcosa d'inaudito accadde dentro di lei, uno spasmo, una
tensione, una fitta, e lo riconobbe
più prontamente di quando non avesse
riconosciuto se stessa, sicuro
e limpido così com'era nella cella, unico scoglio in quel
mare
burrascoso. Udire la sua voce risvegliò mille istinti in
lei,
che poi erano due, quello d'essere protetta e quello di proteggere;
contraddittori, forse, ma dualità divina di quel sentimento
che
prorompeva dal suo cuore come un urlo insopprimibile.
Myrcella s'alzò in piedi e la gonna ruotò a
ventaglio
attorno alle sue ginocchia, con destrezza. E nei lineamenti, nel
ghigno, nello sguardo di Rickon ritrovò se stessa, quella
parte
di sè di cui tanto aveva sofferto la mancanza, tremando nuda
davanti allo specchio, la fanciulla che non aveva mai pianto di fronte
a lui, che aveva avuto il terribile coraggio di dirgli ti amo, senza
riuscire a capire come fosse possibile. Era strano. Era tutto
tremendamente strano, ma spontaneo come il sorgere del sole. Quando la
videro, gli occhi di Rickon rimasero per qualche istante ammaliati dal
brillio riscoperto della sua carnagione, della sua chioma. Era
preziosa, la piccola Lannister, quasi s'era scordato quanto. Un regale
diadema le aveva adornato il capo per tanti anni, in fondo.
E non era solo preziosa, era bella da far male: soltanto occhi duri ed
implacabili come i suoi potevano reagire davanti a quell'assalto.
-Rickon...- La fanciulla si precipitò contro il suo petto,
premendovi la testa in segno di rifiuto, come se potesse
così
cancellare la realtà non solamente dalla propria vista, ma
dalla
propria vita.
-Non affezionarti troppo al vestito, mi raccomando. Tanto te l'ho fatto
mettere per il gusto di strapparlo e basta.-
-Riportami giù.- sussurrò Myrcella con voce
fievole. -Non mi piace qui.-
Rickon la strinse a sè, e anche questo era ormai un gesto
immediato, opportuno. Così era, così doveva
essere.
-Giù? Vuoi tornare giù?-
-Torniamo giù, io e te. Io e te, da soli. Come prima.-
ripetè Myrcella, scostandogli un ciuffo dalla fronte e
guardandolo negli occhi con infantile intensità.
Rickon scrollò le spalle. -Non si può. Adesso
dobbiamo
andare alla sala del trono, per parlare con una persona. Poi verrai a
dormire nella mia stanza. Con me.- spiegò conciso.
-Parlare...- sospirò Myrcella, al pensiero di incontrare
altre
persone che l'avrebbero giudicata con i loro occhi indiscreti.
-Persino a Bran uscirà sangue dal naso quando
vedrà quella
scollatura.- sghignazzò il ragazzo; quando Myrcella
arrossì, aggiunse: -Avanti, era quello che volevi che ti
dicessi, no? Che stai bene. E infatti stai benissimo, non
c'è
bisogno che te lo ribadisca, perchè lo sai. Però
ti
preferisco di gran lunga senza.-
La fanciulla rise e lanciò una veloce occhiata
alle
schiave, quasi a verificare la loro reazione. -Ma Rickon, cosa dici...-
Rickon la trasse ancora contro il proprio corpo, cingendo i suoi
fianchi, finchè non aderirono quasi completamente. -Non fare
la
santarellina, adesso, tu!-
Un momento più tardi, le loro risate erano confuse l'una
nell'altra. Allora Myrcella si accorse che qualcosa era davvero
cambiato in lei, rispetto a prima: si accorse delle proprie cicatrici.
Lunghi sfregi a percorrerle i fianchi, a deturparle la schiena, a
decorarle le braccia come tatuaggi color del sangue, e che -Myrcella lo
sapeva- scendevano anche più in basso, arrampicati
sull'interno
delle cosce. E il suo collo non più intatto, non
più
immacolato, ma violato dai denti di un lupo. Queste non le aveva, la
Myrcella di prima, puntualizzò trionfante. I suoi erano
timori infondati. A prescindere dall'apparenza,
dall'aspetto, in quel petto v'era la Myrcella di Rickon. L'acqua
bollente non l'aveva lavata via.
Si presero poco meno d'un istante per realizzare cosa stesse
succedendo, cosa si fosse sviluppato fra loro, e poi il giovane Stark
le porse la mano, a lei, una Lannister.
-Andiamo?-
Myrcella l'afferrò fiduciosa. Un nuovo entusiasmo irrompeva
nel suo sguardo. -Andiamo.-
Mentre si perdevano nei corridoi labirintici di Grande Inverno, assorti
in un silenzio quasi trasognato, una voce li arpionò fermi
dov'erano:
-Cosa ci fa lei qui?-
Dall'altra parte del corridoio Osha li fissava, indugiando sulla mano
che Rickon aveva serrato al braccio di Myrcella e poi sulla prigioniera
stessa, luminosa, calma, serena.
Sul
vestito nuovo che sostituiva gli stracci, sull'incarnato candido
riemerso dalle croste di sangue e cenere. E ancora su quella mano.
Rickon le fece un cenno di saluto sbrigativo. -Siamo di fretta, andiamo
da Bran. Devo dirgli che Myrcella viene in guerra con me.-
-Myrcella.-
ripetè
aspramente Osha, quasi con disprezzo, scoccandogli un'occhiata
caustica. -Una volta era l'abominio biondo, e adesso è
diventata
Myrcella.-
Per qualche secondo, Rickon non rispose e parve quasi preso in
contropiede, rendendosi conto di quel dettaglio -che tanto dettaglio non era- soltanto
dopo che glie lo era stato fatto notare. Fortunatamente, un'altra
persona giunse a salvarlo da tale imbarazzo.
-E così, tu sei Myrcella.-
La giovane Lannister si voltò, meravigliata. Non aveva mai
avuto
modo di conoscere personalmente quella che aveva sempre ritenuto -e
continuava a ritenere- sua cugina, Shireen Baratheon, ma ovviamente
aveva sentito parlare di lei e del suo aspetto. L'impatto fu
sconvolgente: quello che gli occhi delicati della principessa Myrcella
videro fu pelle guasta, squamosa, rattrappita, uno scempio
irrimediabile che rendeva il suo viso mostruoso ed il suo
sorriso un triste, grottesco scherzo del destino; ma fu con lo sguardo
inscalfibile della prigioniera che la valutò, e non
percepì altro che un'anima vittoriosa -che da quel destino
infausto non s'era lasciata schiacciare.
Shireen avanzava con un'andatura quasi saltellante, e ad ogni passo le
lunghe maniche a losanga dell'abito rosa salmone danzavano, in armonia
con i gesti vivaci delle mani. I capelli mulinavano dietro le spalle,
lisci e fini come una pioggia primaverile che l'alba baciava di rosso,
di giallo, e trattenuti dietro la nuca da un cerchietto intarsiato -non
cercava di nascondere quelle scaglie, la cui evidenza sarebbe rimasta
lo stesso ineccepibile, ed anzi ancora più imbarazzante. La
sua
era una strana eleganza, ed il suo era un sorriso offuscato -come una
flautata menzogna a cui, nonostante la disperante volontà di
farlo, non si riusciva a credere mai del tutto. Shireen si
fermò
soltanto quando fu ad un passo da Myrcella, e il suo sorriso si fece
ancora più largo.
-Mi avevano detto ch'eri bella, ma non immaginavo così
tanto.
Sei davvero stupenda!- considerò deliziata, un luccichio
d'ammirazione nello sguardo, mentre le prendeva delicatamente una mano,
la sollevava in alto e la invitava a fare una piroetta su se stessa.
Myrcella sorrise incerta. -Molte grazie...-
A quel punto intervenne Rickon. -Stupenda,- concordò,
sciogliendo le mani intrecciate delle due fanciulle ed impossessandosi
nuovamente di quella della giovane Lannister, -ma non condivisibile.-
concluse con un ghigno, mentre la attirava a sè. Il sorriso
di
Shireen non s'affievolì: piuttosto guardò il
ragazzo con
un'espressione eloquente, quasi gongolasse che ti avevo detto?
-Oh, non erano queste le mie intenzioni. Non mi permetterei mai.- lo
rassicurò briosamente. -Soltanto, sono lieta d'incontrarla
qui
con te. Temevo che l'avresti tenuta là sotto per sempre.
Perdonate la mia maleducazione. Ad ogni modo, io sono Shireen...-
-... principessa
Shireen.- precisò Myrcella. -A questo mondo, bisogna avere
ben chiaro il proprio posto.-
Si voltò speranzosa a cercare la reazione di Rickon con lo
sguardo, sorseggiando l'approvazione come nettare, e si strinse
sollecita al suo fianco -per mostrarglielo, guarda dov'è, il mio
posto.
Forse fu allora che iniziò il cammino di Rickon verso quel
perdono senza assoluzione, perchè in fondo doveva essere
egli
stesso a concedersi il permesso di farlo.
Quando si girò verso il corridoio in cerca di Osha,
però, soltanto il vuoto rispose ai suoi occhi turbati.
***
Alayne Stone non aveva onerosi impegni durante la giornata, per cui
avrebbe potuto benissimo prendersela comoda al mattino ed alzarsi
tardi, però l'ora che le era più congeniale per
alzarsi, vestirsi e passeggiare per Nido dell'Aquila era proprio
l'alba. Probabilmente era una vecchia abitudine ereditata da Sansa,
alla quale venivano imposti, per svegliarsi e compiere le consuete
occupazioni mattutine, orari rigidi come il clima del Nord; ad ogni
modo alle sei il sonno aveva già abbandonato le sue
palpebre, e lei poteva alzarsi in punta di piedi, lavarsi nel catino in
camera con brocche d'acqua calda preparate per lei dalle serve,
posizionarsi davanti all'armadio per scegliere uno fra i suoi abiti di
pacata, leziosa sobrietà, pettinare di buona lena e con
metodo la lunga chioma del colore delle foglie autunnali, acconciarla
in morbide trecce allentate e languide, ed infine uscire, sempre senza
fare il minimo rumore sulla piastrelle di pietra, fresca e leggiadra
come un'ombra.
Quel mattino le sue intenzioni erano le stesse. Appena pronta, voleva
andare a controllare che le fosse stata recapitata la lettera con gli
aggiornamenti circa l'esercito di re Tommen e ragionare sul da farsi;
però a quanto pare il fruscio che produsse scostando le
coperte fu un po' più rumoroso del solito, o forse era il
suo sposo a dormire un sonno più leggero. Robin contrasse le
palpebre e le sue sopracciglia scattarono ad incontrarsi, poi schiuse
le labbra e mugugnò.
-Alayne...-
La moglie sorrise. -Sono qui, mio signore. Come ti senti quest'oggi?-
-Non lo so.- brontolò il ragazzo. Dormiva sempre a pancia in
su, spesso senza vestiti, perchè la sera si lamentava di
avere caldo; poi durante la notte gli veniva freddo, quindi si
stringeva addosso le lenzuola. -Rimani con me, Alayne. Passiamo la
giornata qui.-
Alayne ridacchiò. -Qui? Ma ci sono delle cose da fare...-
-Al diavolo le cose da fare! Sono il lord qui dentro, oppure no?- Tese
il braccio, agguantò la sua sposa e la spinse di nuovo
giù, sul materasso, accanto a lui. Poi, con un sospiro
voluttuoso, si appoggiò al suo petto e riabbassò
le palpebre. -È talmente bello stare con te. Molto meglio
che parlare con quell'ammasso di idioti. A proposito, volevo parlarti
di... di un certo argomento.- concluse titubante, slacciandole i primi
bottoni della camicia da notte. Le guance di Alayne s'imporporarono
appena.
-Dimmi pure, Pettirosso.-
-Tuo padre ti ha mai detto cose strane? Oppure ha espresso propositi
balzani nei tuoi confronti?- domandò Robin, con grande
sorpresa della moglie.
-Non capisco.- ammise. -Cosa intendi per strani e balzani?-
Robin rinunciò ai giri di parole. -Ha mai abusato di te?-
chiese con calma piatta, mentre i suoi polpastrelli proseguivano ad
armeggiare con i bottoni.
Alayne scoppiò a ridere incredula. -Che cosa? No, certo che
no. Cosa te lo fa pensare?-
Petyr Baelish era decisamente un uomo troppo intelligente e raffinato
per fare certe cose, e lei... lei non era più una ragazzina
indifesa ed inerme. Non era più un uccelletto canterino. Che
Robin avesse intuito l'attrazione che Ditocorto provava nei confronti
di sua moglie?
-Le tette.- ribattè Robin. -Ti guarda di continuo le tette.
Probabilmente lo fa così spudoratamente perchè
pensa che io sia un cretino e non me ne accorga, ma ne ne accorgo eccome. Ogni volta
che lo fa, mi viene una gran voglia di staccargli gli occhi.-
borbottò, infilando una mano nella sua camicia da notte.
Alayne sorrise fra sè, simulando scetticismo. -Ti devi
essere sbagliato, per forza... Mio padre è una persona
perbene, non lo si può mettere in dubbio. D'altronde aveva
sposato tua madre.-
Si era accorta delle attenzioni di lord Baelish dopo circa un anno di
convivenza a Nido dell'Aquila. Era innegabile che provasse qualcosa nei
suoi confronti, probabilmente per via della somiglianza con Catelyn:
era un po' inquietante, anche un po' triste, però non poteva
fare a meno di esserne lusingata. La timidezza la lasciava a Sansa
Stark, quella ragazzina sempre pudica e vergognosa. Alayne era una
donna, ed in quanto tale la corte degli uomini, così come la
loro lussuria facile, non la spaventava più.
-Anche tu mi dai del cretino, allora?- s'offese Robin, lanciandole
un'occhiata indispettita. -Non erano certo occhiate fraintendibili. Mi
stupisco che non te ne sia accorta tu stessa... Però tu sei
mia, solo mia, e nessuno ti deve guardare, a parte me. Ormai non sei
più di tuo padre. Non ne ha il diritto.-
Dopo quel petulante ribadimento, il lord di Nido dell'Aquila
cominciò a percorrere maliziosamente l'indice lungo la linea
dei suoi seni.
-Sì,- sussurrò Alayne, docilmente, socchiudendo
gli occhi al suo tocco, -mio signore.-
Robin sorrise, con aria d'approvazione. I suoi occhi castani
ammiccarono d'un lucore umido. -Ti tengo quassù nascosta, al
sicuro, eppure mi chiedono lo stesso di te. Come ieri...-
Alayne cercò di rimanere lucida abbastanza per porre la
domanda che in quel momento le stava a cuore, anche se suo marito le
stava strofinando un capezzolo tra le dita.
-... ie... ieri? Non mi... non mi hai detto nulla, mio Pettirosso...-
Lui non parve molto interessato alla questione e tagliò
corto. -Un artista, abbastanza famoso nella Valle, chiedeva di poterti
fare un ritratto. Un ritratto! Che sfrontatezza! E non un ritratto che
rimanesse qui, a decorare il nostro salone, ma da portare
giù, a mostrarlo a tutti... La tua bellezza andrebbe
celebrata, sono d'accordo, ma sono troppo geloso di te per permetterlo.
Ho fatto bene a mandarlo via, vero?- Sollevò lo sguardo fino
ad incontrare quello di Alayne, che si affrettò ad annuire.
-Ma ce... certo, mio signore...-
Intanto ragionava fra sè: le pareva strano che un artista
qualunque venisse così dal nulla a chiedere di poterla
ritrarre. Di solito i pittori bisogna ingaggiarli. Che ci fosse dietro
lo zampino di qualcuno? Beh, il pericolo era stato comunque scampato,
per fortuna. Finchè Robin avesse rifiutato di far dipingere
il volto di sua moglie, nessuno, fra le poche persone che l'avevano
vista o conosciuta in quell'altra vita, poteva ricondurre la misteriosa
lady Protettrice della Valle alla fuggitiva figlia di Eddard Stark.
Però era angosciante l'idea che qualcuno potesse
interessarsi a svelare la sua identità... In tal caso, cosa
sarebbe potuto succedere?
-Dicono che la guerra è incominciata. Che i preparativi sono
conclusi e gli eserciti stanno per scontrarsi.- commentò
Robin, pigramente. -Quelle donnine scalognate sono lì, a
rischiare che i loro figli e mariti non tornino a casa e che i loro
villaggi vengano rasi al suolo dal nemico, a patire la fame, e tu sei
qui con me in questo grande castello, e avremo un bel bambino che si
chiamerà Artys Arryn, come il Cavaliere Alato. Siamo
fortunati ad averci l'uno per l'altra, vero Alayne?-
La ragazza sorrise, intenerita da quelle parole. -Naturalmente, amore
mio.-
Sentirsi chiamare amore
mio doveva piacergli davvero molto, perchè
affondò le dita nei suoi capelli e la baciò con
impeto. Alayne, mentre lo circondava con le braccia, si chiese quanto
si sarebbe infastidito Baelish a vederli, in quel momento, ed una
strana eccitazione la pervase. Povero
il mio piccolo maritino inconsapevole, pensò
-e non poteva immaginare che Robin, alla luce delle nuove
considerazioni, cominciava effettivamente a sospettare che le origini
di Alayne non fossero quelle che gli erano state riferite.
E non poteva immaginare nemmeno che quel rifiuto del ritratto, che a
suo parere era stato la sua salvezza, l'aveva calata in un nuovo tunnel
di guai.
***
-Questa è la parte più diverte dell'architettare
strategie contro il nemico.- Tyrion Lannister giocherellò
lieto con un
calice di vino. -Valuti il suo esercito, e scopri che
potrebbe essere più numeroso del tuo. Indaghi le sue
capacità, e scopri che è un metamorfo dallo
sguardo
assassino. Sbirci nel suo letto... e per lui è finita.-
Aveva sempre saputo che la prima debolezza di un uomo è
quella della
sua carne, ma non avrebbe mai immaginato che anche gli Stark potessero
essere soggiogati dalle grazie della concupiscenza. Gli Stark, che
adempiono sempre al loro dovere con lo
stesso zelo con cui pregano i loro dèi senza dolcezza. Ma
avrebbe
dovuto aspettarselo: tutto era cambiato, tutti erano cambiati. Nella
luce obliqua di quel pomeriggio nervoso, era ancora più
vero.
Era stata Shae a rivelargli quello che nelle bettole si raccontava del
Re Metamorfo, e gli era stato sufficiente approfondire un po' la
questione per avere un chiaro quadro della situazione. Tyrion non aveva
mai imparato dall'esempio di Tywin Lannister: se il padre al posto suo
si sarebbe concentrato su schemi bellici e previsioni lungimiranti
quanto inutili, il Folletto preferiva studiare l'avversario ed indagare
i suoi punti deboli, smontando l'epicità della sua figura
pezzo
per pezzo.
-A quanto pare, il nostro tenero re del Nord si fa il cognato che,
guarda un po', si dice abbia doti profetiche. Sono piuttosto scettico
al riguardo, certo, però se esistono loschi individui che
uccidono con la forza della mente, esisteranno anche gli indovini. In
tal caso sarà necessario scoprire quanto efficaci siano,
questi
poteri, perchè se arrivasse a prevedere le nostre mosse
saremmo
nei guai fino al collo. Intanto, ciò che conta è
screditare Stark e rovinarlo agli occhi del popolo, magari levandogli
anche qualche alfiere qua e là, il che non sarebbe affatto
male...-
Tommen Baratheon si agitò scomodamente sullo scranno che gli
era
riservato nel Concilio Ristretto, tormentando con le dita il lungo orlo
d'una manica di seta cruda. Lo sapevano i Sette Dèi, quanto
odiasse rimanere confinato in quelle mura muffose a parlare di efferati
omicidi e brogli strategici, circondato da vecchi avidi e menti
calcolatrici. Una strana gravità buia s'opponeva
al suo buonumore, come se la sola decisione di andare alla guerra
volesse invecchiarlo, comprimerlo al suolo, violarlo, privandolo d'una
verginità morale che aveva mantenuto fino a quel
momento. Ma a lui non interessavano per nulla i dissapori e i
complotti, voleva soltanto
riavere indietro Myrcella: pensando ad un'eventuale vendetta, era
l'acuta stizza verso Rickon Stark a punzecchiarlo, perchè
contro
Bran Stark
non aveva nulla; anzi, ricordava bene quando all'epoca il piccolo Stark
aveva avuto quel
brutto incidente, quanta pena egli aveva provato per quel bambino
inchiodato
a letto, avvolto fra le lenzuola come in un sudario. Ridatemi mia sorella e vi
lascerò in pace, avrebbe
voluto urlare Tommen, a voce così alta da farsi udire
dall'altra
parte
dei Sette Regni; la sua era forse vigliaccheria? Non era la
paura per la sorte che l'attendeva a frenarlo, quanto l'idea
di
stare
trascinando la propria famiglia in una faida dalla quale era appena
uscita, vincitrice ma zoppicante, di danzare invocando la pioggia non
appena s'intravede il sole all'orizzonte. Aveva già vissuto
una
guerra, sebbene dietro paraventi d'oro, e ricordava cosa significa
per il popolo: tasse ingenti, quindi miseria, quindi fame e morte.
Famiglie decimate, donne obbligate a prostituirsi, frotte di orfani che
si contorcevano per i crampi allo stomaco. Non era a queste condizione
che voleva regnare, Tommen.
-Non capisco cosa possa importarci, zio,- ammise infine, quasi
tristemente, -e cosa possa importare a tutti gli altri.-
Tyrion incise gli occhi limpidi di suo nipote, e si chiese quanti morti
avrebbe dovuto seppellire per scoprire che cos'è l'odio. Non
capiva, il giovane Tommen: il problema era proprio questo. Non
concepiva l'iniquità perchè non si era mai
trovato nella
situazione di doverla assoldare per i propri servigi, sfruttare per i
propri fini, generare per al propria salvezza. Se il popolo non si era
accorto che a sedere sul Trono di Spade era un grazioso soprammobile di
porcellana, era soltanto per merito di Tyrion. Ma chi potrebbe mai
riconoscere i meriti di un nano deforme?
Mi detesterà.
Devo traviare
una delle poche persone disposte a volermi bene, e per di
più
indurla a detestarmi con tutte le sue forze, perchè l'ho
derubata d'un sogno.
-Lo sai come si definisce l'operazione che ho intenzione di mettere in
atto? Detrazione, e ha uno scopo ben preciso, che è quello
di
persuadere la folla a disconoscerlo come sovrano. Come
possono gli uomini del Nord farsi guidare da un piccolo frocetto
rachitico? Come si può ritenerlo degno del suo trono? Come
si
può ascoltare le sue proteste, accogliere la sua rivolta? Queste
sono le domande con cui verrà assillato il popolo dei Sette
Regni, da adesso in poi. Vedremo con quanta baldanza
irromperà
ai
tornei e sguinzaglierà il suo fratellino mangiauomini, dopo
che
nessuno potrà schierarsi dalla sua parte senza beccarsi
l'accusa
di portarselo a letto.- concluse,
inarcando un sopracciglio.
-Non sono d'accordo. Mi sembra una cattiveria inutile.-
confessò Tommen, a disagio.
-Lo so, è strano che Stark preferisca un maschio a sua
moglie... ma
cosa c'entra? Ciò non significa per forza di cose sia
inferiore
agli altri. Io, poi, non mi sento in diritto di dir nulla a nessuno...-
Tyrion dovette trattenersi dallo sbuffargli sonoramente in faccia. Quel
ragazzino non aveva la più pallida idea di cosa fosse non
solo
l'astuzia opportunistica, ma persino la dignità reale, la
fierezza della corona. Dovette prendere un bel respiro, prima di
iniziare il discorso con tono pacato e conciliante.
-Caro nipote, sono assolutamente d'accordo con te. Non è in
base
a chi
ci portiamo a letto che viene determinato il nostro valore.
Però
tu non devi pensare più di tanto al contenuto della missiva,
quanto al destinatario. Il popolo è ignorante,
tradizionalista,
restio ad accettare la diversità, limitato nelle
sue anguste convinzioni plebee, e soprattutto suggestionabile. Si
lascia influenzare da qualsiasi cosa un regnante affermi: è
irrilevante ciò che tu pensi di te stesso, perchè
il
popolo ha già una precisa opinione, cioè che,
oltre a
vantare tutti quei graziosi riccioletti dorati, hai sangue di re nelle
vene e per questo hai sempre ragione, a prescindere dal messaggio che
comunichi. Se tu screditerai apertamente la sua condotta amorale e
perversa, di conseguenza tutti saranno portati a screditarla a loro
volta, o almeno a prendere in considerazione la faccenda. Insistendo su
questo punto riusciremo sicuramente ad
ottenere dei risultati, anche perchè tutti sanno che non si
tratta di calunnie ma della pura verità.- Non appena
notò
l'espressione confusa di Tommen, niente affatto confortato da quelle
parole, Tyrion sbattè i palmi delle mani con un tonfo su
tavolo,
per dare enfasi a ciò che stava per dire, con voce
spazientita.
-È fondamentale che tu capisca questo: l'obiettivo non
è
rispettare la sensibilità di Bran e
comportarsi onestamente, non è spargere petali di pace e
solidarietà e dichiarare ciò ch'è
giusto. Non
siamo bravi bambini che giocano insieme.
Brandon Stark non vuole fare soltanto un po' di rumore, abbattere
qualche soldatino a cui erigere un monumento, per poter essere
dimenticato senza troppi rimpianti. Vuole scaraventarti giù
dal
trono, stuprare tua moglie, sbrindellare tuo figlio e annegare nel
sangue la tua stirpe. Davvero pensi che sarebbe proponibile ignorarlo,
dargli un contentino, firmare un accordo e spedirlo a casa?! Ormai
è troppo tardi per la diplomazia! L'unica cosa che puoi fare
è difenderti
attaccando, perchè è questo che
fanno i re. Bisogna
vincere a qualsiasi costo, Tommen, annientarlo in qualunque
modo. Calunniarlo senza riguardi. Spargeremo la voce che si fotte anche
il fratello cannibale, se servirà a distruggerlo.- Pur
essendo quasi senza fiato, per ultimo Tyrion fece leva
su ciò che sapeva stargli più a cuore. -Insomma,
vuoi che Myrcella venga liberata, sì o no?-
Vide l'espressione angosciata di Tommen e i suoi sospetti si
avverarono: quelle proteste erano alibi qualunque. Era alle fauci dello
spettro della guerra che il giovane re si stava negando. In fondo, era
ben determinato a non farselo strappare così, quel sogno.
Quando
egli parlò ancora, la sua voce era diversa: pallida,
sfibrata.
-Fra poco avrò un figlio, zio Tyrion. Per lui e Margaery
voglio
la pace, non la guerra. Voglio essere felice con loro e basta.
È
chiedere davvero
troppo?-
Supplicante era quello sguardo, e Tyrion s'apprestò a
piegarlo sotto la calma crudele della sua pronta risposta.
-No, non è chiedere troppo, in effetti.- asserì
meditabondo, annuendo fra sè, quasi che valutasse seriamente
la
situazione per la prima volta. -Se sei un fabbro, un falegname,
beninteso. Per un re?- Gli occhi di Tyrion calarono come una
scure
sul viso sconsolato di Tommen, con inesorabile lentezza. -Per un re,
è chiedere l'impossibile.-
Nel frattempo, nelle proprie stanze, Margaery Tyrell attendeva un
responso. Coricata sul vermiglio letto a baldacchino dove quello stesso
erede era stato concepito, osservava con visibile inquietudine ogni
movimento eseguito dalle mani della levatrice, che l'avrebbe
assistita quando avrebbe dato alla luce suo figlio; la donna le palpava
garbatamente il ventre,
cercando d'indovinare con le dita la forma del piccolo.
-Vi riposate a sufficienza?- domandò infine.
-Ovvio.- rispose la regina, sentendosi quasi insultata dal fatto che
potesse essere insinuato il contrario.
-Mangiate abbastanza?-
-Ma certamente. E anche con grande varietà.-
-Mi sembra che sia tutto regolare, mia signora.- decretò
infine
la levatrice, perplessa. Margaery battè le ciglia,
contrariata.
-Come può essere tutto regolare? Provo dei dolori
particolarmente forti, quando scalcia, che mi tolgono il respiro, a
volte mi fanno urlare. E lo fa così rapidamente... in
successione, senza fermarsi. È un dolore anomalo, che non
avevo
mai provato durante il resto della gravidanza. Eppure non ho perdite di
sangue, nulla che lasci presagire una... complicazione.-
-Tutto va come deve andare.- la rassicurò la donna, con un
sorriso. -È naturale che, a così breve distanza
dal
parto, il bambino si agiti come mai prima. I dolori che avvertite sono
soltanto un buon auspicio, indicano che è forte. Sta
assumendo
la posizione più opportuna per venire al mondo. Rilassatevi,
Maestà: tutta quest'ansia non può che
danneggiarvi.-
Nonostante le consolanti parole, Margaery s'accorse che c'era qualcosa
che non convinceva del tutto la levatrice.
-Non posso provvedere in nessun modo?- insistette.
-Muovervi il meno possibile e prendere qualche decotto per rilassarvi,
sono le uniche raccomandazioni che mi sento di rivolgervi.-
Detto questo, la donna l'aveva lasciata sola con le sue ancelle.
Margaery si alzò faticosamente in piedi, puntando di
riflesso
una mano sulla schiena per stabilire l'equilibrio, l'altra con
precauzione sulla cima del ventre alto e sodo, a colmare l'abito
marrone, impreziosito da arabeschi in oro.
-Voglio che mi vengano confezionati almeno due vestiti più
larghi:
questi sono già diventati troppo scomodi.
Preparatemi un
infuso di tiglio, biancospino e lavanda, come ieri, e... un bagno
caldo.- decise sospirando. Aveva dovuto fare gli onori di casa e
partecipare ad un banchetto, quella mattina, sforzo che si era rivelato
fin troppo spossante per lei. Ma non avrebbe potuto mancare: una brava
giocatrice non abbandona mai l'attenzione dalla scacchiera,
specialmente quando sa che si presenterà l'occasione di
tramare
qualche sviluppo. Il suo bambino non glie l'aveva perdonato,
però. Un
giorno capirai, pensò Margaery, dando un
buffetto affettuoso alla pancia, e
sarai tu a partecipare a questo gioco al posto mio.
Prima che le serve potessero correre per obbedire agli
ordini,
-Maestà, lord Varys chiede d'essere ricevuto da voi. Siete
in condizione di farlo?- domandò una ragazza.
Margaery chiuse gli occhi e si massaggiò velocemente le
tempie.
Assolutamente no, che non ne era in condizione, ma sapeva bene che
rifiutando avrebbe perso l'occasione d'un colloquio molto interessante.
-Fallo entrare, Millicent.-
Il Maestro dei Sussurri fu annunciato come al solito dal sospiro delle
sue babucce di seta sul pavimento di marmo.
-Permesso. Salve,
Maestà: siete sicura che la mia visita non vi abbia
importunata?-
-Come potrebbe?- si limitò a sorridere Margaery, con un
ampio
cenno della mano. -Siediti, ti prego. Voi sapete cosa dovete fare.- si
rivolse poi alle ancelle, che uscirono in gran fretta.
Quando rimasero soli, Varys intrecciò le dita sotto i vasti
orli
ricamati della tunica; il suo viso liscio aveva un'espressione bonaria,
serafica, appena un po' ironica.
-Come sta il nostro tanto sospirato erede? In città non si
parla
d'altro che della sua nascita. Si mormora che per festeggiarla
verrà indetto il banchetto più sontuoso a memoria
d'uomo,
che verrà dimenticato lo stato di guerra e la
difficoltà
economica, che non si baderà a spese. Ormai la guerra
è
alle porte della città e di ciascuna delle nostre case.-
-Così pare, mio buon Varys. Non si può
più fare
finta di non vedere cosa sta accadendo. Ci hanno trascinati sul
patibolo d'un conflitto inevitabile. Ora che il
nostro buon sovrano vuole partire, poi, le preoccupazioni aumentano
giorno per giorno. - commentò Margaery,
mostrando in volto una costernazione che non provava. -Comunque l'erede
gode d'ottima salute, e ben presto tutti
potranno ammirare il banchetto con i loro occhi. Non sarà un
banale ricevimento per aristocratici: la festa dev'essere tale per
tutti gli abitanti di Approdo del Re, e ugualmente il banchetto.-
-Nessuno dubita della vostra innata generosità,
Maestà.
Nonostante il riposo a cui siete costretta per via del vostro stato,
però, non mi sembra che abbiate cessato d'ordire nuove trame
per
questo nostro tribolato regno. O mi sbaglio?- Varys la rivolse quel suo
sguardo di caustica, carezzevole, benevola beffardaggine. -Certi
uccellini mi hanno riferito che avete
inviato una lettera, di recente, ad Alto Giardino... a vostro fratello
Garlan, magari?-
Margaery esaminò l'ameno sorriso di Varys, imprecando
mentalmente. Come accidenti aveva fatto a saperlo? Quell'eunuco a volte
la esasperava sul serio. Come sempre, nascose impeccabilmente il
proprio allarmato sconcerto dietro una maschera di sogghignante
tranquillità: l'importante
non è avere perennemente la situazione sotto controllo, ma
far credere agli altri di averla, così le aveva
insegnato sua nonna Olenna.
-Sono stata a dir poco sciocca a credere di poterti tenere nascosto
qualcosa.- replicò con voce leggera e divertita. -Ebbene
sì, Garlan ci farà questa sorpresa. Ci
verrà a
trovare e mi starà accanto, durante l'assenza di mio
marito...
È stato un bel gesto da parte sua.-
Varys scosse la testa, con un'espressione quasi intristita. -Mia cara
regina, non temete per la vita di vostro figlio? Come tutti i giochi a
cui giocate, questo è pericoloso, ed in particolar modo.
Potreste essere accusata di cospirazione, di tradimento, potreste
essere addirittura ripudiata. Credete forse che non desterà
sospetti l'arrivo di un esercito proveniente da Alto Giardino che non
partirà con re Tommen, ma si stabilirà ad Approdo
del Re?-
-L'esercito ci serve, obiettivamente.
Sì, sono necessarie tutte le truppe a disposizione per
questa
guerra, non lo metto in dubbio, però anche la capitale va
protetta. La sede del potere dev'essere premunita adeguatamente. La
venuta di mio fratello verrà interpretata come un servizio a
favore del re.- argomentò Margaery, inquieta, ed entrambe le
sue
mani corsero a cullare il ventre prominente. -Il mio bambino
starà benissimo. Non permetterò che gli accada
alcunchè, soprattutto non per colpa mia. Sono sua madre.
È crudele da parte tua credere che farei qualcosa per
metterlo
in pericolo.-
Sarebbe stato un insediamento graduale, subdolo. Prima uno dei loro
uomini sarebbe diventato Capo delle Guardie, poi un cugino Maestro del
Conio, un altro Maestro della Flotta, e infine Garlan Mano del re. Le
loro intenzioni non sarebbero state comprese, se non troppo tardi: alla
Fortezza Rossa non sarebbe rimasto un solo Lannister.
-Non era assolutamente mia intenzione offendervi.- ribattè
Varys, condiscendente, con un sorriso affabile. -Il mio voleva essere
un avvertimento. Mi stavo accertando che voi sappiate quel che state
facendo, ma a quanto pare vi ho sottovalutata, perchè come
sempre è così. Mi sta a cuore la vostra salvezza,
mia
regina. Sarebbe un vero peccato se mandaste in fumo tutto quanto per
l'ambizione della vostra famiglia.-
Margaery
incontrò suo
marito alcune ore dopo. Tommen aveva gli occhi cerchiati di nero e le
pupille arrossate, un bambino costretto a sostenere sulle spalle tutta
la consapevolezza mancata negli anni in una volta, aggrappato ai
brandelli di una scenografia bucata,
attraverso la quale la realtà si faceva largo come un mostro
da
sotto il letto.
-Quando?- domandò la regina.
-Fra tre giorni. Mi dispiace.-
-Lo so.-
Secondo il volere di Tyrion, che ritenne ovviamente indispensabile
seguire il nipote, Margaery sarebbe stata regina reggente durante la
loro assenza, affiancata però -così che la poverina
non si stanchi troppo- da
Podrick Payne, come sostituto ufficiale della Mano del Re, in assoluto
una delle persone di cui Tyrion si fidava di più. Certo,
non è provvisto di quella furbizia malevola che permette di
avere il potere qui dentro, ma proprio perchè non l'ha so
che mi
posso fidare. Salutando il Folletto, Margaery gli rivolse
un
meraviglioso sorriso: d'altronde, a Margaery Tyrell non serviva che il
proprio sorriso per odiare. Me
lo rigiro come un calzino, il tuo amichetto, bisbigliavano
le sue labbra incurvate.
E tre giorni dopo, un elmo dorato calato sul volto per non mostrare gli
occhi colmi di lacrime, rallentato dall'urna delle ceneri del suo
paradiso bruciato, Tommen Lannister venne inghiottito da quel mondo
vorace che, là fuori, non aspettava altro che di poterlo
divorare.
***
Rickon osservò per bene i volti di tutti i presenti, quello
corrucciato ed altero di Selyse Florent, quello truce ed adombrato di
Stannis Baratheon, quello guardingo e compassato di Jojen Reed e quello
aggrottato ed impensierito di Meera, fino a soffermarsi su suo fratello.
Fece un passo in avanti. -Sposerò Shireen Baratheon.-
scandì a voce alta e chiara.
Gli occhi di Bran sussultarono e la sua espressione rimase sospesa in
uno stupore immobile. -Siano ringraziati gli dèi...-
-... ma non prima del nostro ritorno dalla guerra.- Rickon
completò la frase, quasi compiaciuto all'idea di strappare
dalle
mani di Bran una falsa speranza.
Il re del Nord subito s'afflosciò sotto il peso di
quell'ultima
affermazione. -C'era da aspettarselo. Ho cantato vittoria troppo
presto.- deplorò sè stesso con una smorfia di
disapprovazione.
Stannis Baratheon scattò, impermalito, avanzando di qualche
passo. -Gli accordi non erano questi!- sbottò d'un fiato.
-Gli accordi li stabilisce chi ha l'esercito, quindi, se non ti sta
bene, ti conviene rivolgerti a quell'altro re disposto ad allearsi con
te, offrirti un milione di uomini e piazzarti sul Trono di Spade...-
Rickon assunse un'ironica espressione di sorpresa, come rammentasse
qualcosa all'improvviso. -Oh, aspetta, non esiste.-
-Gli accordi li stabilisce chi ha l'esercito,- ripetè Bran,
digrignando i denti, -e l'esercito ce l'ho io, non tu.-
Rickon s'irrigidì e battè un piede sul marmo del
pavimento con impazienza. -Quindi stiamo parlando del mio
matrimonio, e non dovrei avere nemmeno voce in capitolo?! Che cosa vi
costa accettare l'unica condizione che chiedo?- s'esasperò.
-Il matrimonio fra te e Shireen mi dimostrerà che mi posso
fidare
a scendere in campo dalla vostra parte.- tagliò corto
Stannis,
sferzante. -E non sono disposto ad accettare nessuna condizione su
questo punto.-
-Anche se la cerimonia verrà celebrata al termine della
guerra,
sarà la stessa cosa.- insistette Rickon. -Adesso Shireen
rimarrà a Grande Inverno come ospite, e le nostre famiglie
saranno lo stesso legate dal vincolo del fidanzamento. Uno Stark non
infrangerà mai le leggi dell'ospitalità. Per chi
diamine
ci avete preso, per i Frey?!-
Stannis Baratheon ridusse gli occhi a due fessure. La sua espressione
era imperscrutabile; impossibile ipotizzare cosa pensasse a
proposito.
-Allora ti rivolgo la stessa domanda. In che modo dovrebbe fare
differenza, per te, sposare mia figlia adesso o dopo la guerra?-
domandò freddamente.
Rickon parve già aver pensato all'eventualità di
tale
richiesta e ad una replica appropriata. -Innanzitutto, sarebbe un
matrimonio organizzato alla bell'e meglio, in tutta fretta, e non ci
sarebbe nemmeno il tempo per festeggiare come si deve, così
come
non ce ne sarebbe per adempiere ai nostri doveri coniugali. Come si
può brindare e fare bisboccia, all'idea che il giorno dopo
partiremo per una guerra? È di pessimo gusto. Il principe di
Grande Inverno e la regina dei Sette Regni meritano qualcosa di meglio
che uno stringato ricevimento imbandito in preda alla malinconia
generale, non
credete?-
Lo sguardo di Rickon si fermava su Selyse, perchè egli la
sapeva la più riluttante da questo punto di vista. Essendo
la madre
della sposa, avrebbe naturalmente desiderato per la sua unica
figlia un matrimonio straordinario, in pompa magna, carico di fasto e
lusso, e avrebbe desiderato progettarlo con calma e dovizia di
particolari, curarlo sotto ogni aspetto, invitare lord e lady da tutti
e sette i regni, e soprattutto avrebbe voluto che per Shireen fosse il
giorno più bello della sua vita, non un ansioso rituale
recitato
a voce bassa e frenetica, l'ombra della guerra a sibilare il suo fiato
gelido sulla nuca degli invitati, essa stessa ospite e commensale. E
quale madre avrebbe sopportato l'idea che la figlia venisse sposata,
sverginata e abbandonata per mesi, nella peggior ipotesi per anni?
Rickon rincarò la dose, con un sorriso subdolo. -Non sarebbe
inoltre significativo se il matrimonio fosse celebrato nella Fortezza
Rossa, anzichè in questo vecchio maniero pieno di spifferi,
dimenticato dagli dèi, per dimostrare al popolo che la vera
dinastia dei Baratheon ha conquistato il trono e che il palazzo di
Approdo del Re è la sua casa? Per farsi acclamare ed
osannare
dalla folla? Per bene augurare quest'unione e coloro che vi regneranno
dopo di noi?-
Selyse Florent era incantata dall'immagine che le parole del ragazzo
stavano proiettando nella sua mente. La Fortezza Rossa, grande,
magistrale, e Shireen che ne percorreva la navata, con quel vestito
dorato indosso e la cappa con ricamato il cervo dei Baratheon sulle
spalle...
Evidentemente, Stannis aveva inteso il gioco del giovane Stark; stava
contraendo la
mascella in una maniera tale, da evidenziare il fatto che tutti quei
trastulli non l'avevano smosso di un centimetro dalle sue convinzioni.
Anche Bran dal suo scranno pareva piuttosto scettico.
-Bene, e adesso abbi il coraggio di dire con la stessa sfacciataggine
qual è il vero motivo per cui vuoi sposarti dopo invece che
adesso.- ribattè, lo sguardo torvo. Lo sapeva benissimo,
lui,
qual era. Rickon accolse la sfida e sorrise.
-Se proprio ci tieni. Fatela entrare.- ordinò, voltandosi
verso
le guardie schierate davanti alla porta. Quando le due ante si
socchiusero, la sagoma di Myrcella si stagliò sulla soglia e
la
fanciulla procedette nel salone riecheggiante. Pur essendo visibilmente
debilitata dalla prigionia, il forme del suo corpo colmavano il vestito
giallo come avrebbero dovuto fare, e c'era qualcosa di morbido nella
sua figura sinuosa, nella linea dei fianchi e persino nella distensione
del viso. Camminava come in stato d'incoscienza ed il suo
sguardo s'orientava fisso su un'unica persona, senza degnare
della
minima attenzione tutti gli altri. La sua presenza lì
sembrò a tal punto inverosimile da paralizzare i presenti,
come
un'apparizione spettrale. Il vento del Nord rese ghiaccio i loro
respiri.
-Come hai potuto portare al nostro cospetto questa sgualdrina?-
strillò Selyse, indispettita, evitando bellamente di
guardare Myrcella e rivolgendosi furibonda a Rickon.
-Non è una sgualdrina qualsiasi.- replicò lui,
beffardo.
-È la mia sgualdrina. Mia e mia soltanto. È stata
con me
e nessun altro, in fin dei conti. E il motivo per cui
sposerò
Shireen dopo la guerra è che per tutta la durata della
campagna
militare voglio sbattermi la qui presente a piacimento, senza che mi
rompano le scatole.-
Per quanto riguarda Myrcella, quando fu stretta al fianco di Rickon,
sfiorò appena con gli occhi verdi la corte ed
affondò il
viso contro il mantello di lui, con un lamento sottile, senza dir nulla
nè dar segno d'ascoltare quel che si stava dicendo.
Bran inclinò pesantemente il capo sulla spalla destra.
-Significa che hai intenzione di portartela dietro?-
Le labbra denudarono il bagliore rossastro dei canini triangolari.
-Certamente.-
Il re del Nord tacque. Non gli sembrava una grande idea,
perchè
sarebbe stato per Tommen un ulteriore incentivo ad attaccare i loro
accampamenti, però discutendone con Rickon avrebbe ottenuto
il
solo risultato di farlo arrabbiare ancora di più. La
fanciulla
notò lo sguardo di Bran scivolare sulla sua pelle, contando
le
cicatrici: erano forse abbastanza? Sempre
troppo poche, fu il verdetto ch'ella lesse in quello
sguardo, scuro come sangue asciutto.
Stannis non battè ciglio, ignorando il rossore furioso che
investì il viso della moglie. -E quando la guerra
sarà
vinta e dovrai sposarti, che ne sarà di lei?-
-La sacrificherò agli dèi sulla pira funebre di
suo
fratello e suo nipote e suo zio e suo padre.- rispose Rickon,
senza
alcuna esitazione, con un sorriso così godurioso ch'era
evidente
quanto fosse fiero della propria idea; la fanciulla non
reagì
nemmeno, piccola ed immobile, accasciata sulla spalla del suo aguzzino
come se avesse perso i sensi.
Senza riuscire a trattenersi ulteriormente, la regina Selyse
s'alzò in piedi con uno scatto nervoso. Si rivolse a
Stannis,
con un'ostilità difficoltosamente controllata
perchè
infiammabile.
-Mio signore, non ho nessuna intenzione di dare nostra figlia in pasto
a questo barbaro del Nord che si accoppia
con i Lannister. Non permetterò che condividano il talamo
dopo che lui ha toccato quella... quella...
cosa.-
Una smorfia altezzosa le arricciò le labbra in maniera
sgradevole e la donna sputò quell'ultima parola come una
bestemmia. -Ho sentito
dire in giro che, dopo aver ammazzato le persone, il futuro re di Westeros le
divora intere...
con le viscere, l'intestino e tutto.- Selyse indicò Rickon
con
l'indice e lo guardò con occhi spalancati dall'iracondia.
-Osi
forse negarlo?- lo incalzò stridula, graffiante. Il ragazzo
sorrise saldo, come se vi potesse cogliere un umorismo agli altri
sconosciuto.
-Lo nego. Di solito, quando le mangio, sono ancora vive.-
Bran contrasse le labbra. Se
questo era il tuo intento, Rickon, bel tentativo. Ma non
servirà a nulla.
-Basta così!- proruppe infatti Stannis, un
lampo
d'irritazione ad intaccare la freddezza dello sguardo. -Selyse, non
tollero d'udire una parola di più su questo argomento.
Shireen
lo sposerà, barbaro o non barbaro. Lo sposerà...-
La
frase rimase sospesa nell'aria, come se l'incertezza la trattenesse
ancora con dita fragili.
-A qualsiasi condizione?- s'incaponì Rickon, con un sorriso
soddisfatto.
-Rickon, andiamo via.- irruppe all'improvviso Myrcella, con voce acuta,
scuotendo la testa premuta al petto del ragazzo. Nella sala
calò
un silenzio scontroso.
Stannis fissò il principe di Grande Inverno con i suoi
impietosi, distaccati occhi marroni. -Quel che mi stai costringendo a
rammentarti è che non è certo che tu sopravviva,
Stark.
Anche per questo, sarebbe auspicabile che sposassi Shireen ora.-
Rickon liberò una risata sfrontata, agguantando Myrcella.
Mentre
procedeva verso la porta, le parole esplodevano stridendo dalle sue
labbra come frammenti affilati.
-In tal caso il matrimonio
sarebbe l'ultimo dei tuoi pensieri. Perchè se io non
sopravvivrò, allora nessuno in questa stanza avrà
speranza di farlo.-
Appena le ante si richiusero alle loro spalle, Myrcella tirò
un
sospiro di sollievo. Quel rumore in sottofondo era così
fastidioso, le incuteva un timore viscerale, come se quel ronzio
incombesse per ghermirla e strapparla dal suo rifugio. Voleva
silenzio, lei, il silenzio esatto del suo isolamento senza eccezioni;
voleva che soltanto la voce roca di Rickon sfiorasse il suo collo,
indistinguibile dalla carezza delle sue zanne, e voleva che il buio
richiudesse il loro piccolo mondo segreto che nessuno poteva violare.
-Dì un po', non sei contenta, che ritroverai tutti i tuoi
familiari su una pira?- ironizzò Rickon. Le unghie nella sua
carne affondavano con bonaria vivacità, senza risentimento,
come
se stesse punendo un piccolo animale domestico. Voleva che si
spaventasse, almeno un po'.
-L'inverno prende ma non restituisce.- Il sorriso di Myrcella, una
promessa insonnolita dal buio, era sicuro come il sole d'un mondo
eletto. Gli artigli del lupo rasparono con l'avidità ingorda
della sua rabbia senza lenimento, quella stizza sogghignante che
esplodeva negli occhi con la follia dei cicloni. La morsa del
predatore, meno di un monito, un'esibizione ingloriosa.
-Attenta, Lannister. È un dio volubile, quello a cui ti stai
votando.-
La sua voce, strascicata d'irrisoria minaccia, era un'altra lama a
toccarle la gola piano, piano, io
posso ucciderti quando voglio. La
fanciulla non capì se l'aguzzino si stesse riferendo alla
buona
sorte, al presente, all'infatuazione, al proprio umore o a se
stesso, ma di certo quelle parole erano vere.
Da allora, Myrcella Lannister potè scordarsi la cella.
Dormiva
nell'ampio letto del principe di Grande Inverno, i loro corpi
intrecciati l'uno all'altro fino a risultare indistinguibili, dove il
rosso ferino affluiva nel biondo argenteo, le cicatrici s'incontravano
in un unico dolore senza nome; le giornate avevano la farneticante
ebbrezza del ludibrio e la consistenza di caduchi fiori, sfogliate con
impeto, sprecate con noia, e la loro follia, mascherata con il nome di
cupidigia, stava nel rotolare sempre più in basso, ridere
sempre
più forte per sovrastare il fragore delle armi. La loro
scelleratezza osava senza sosta, e ogni giorno c'era seta da sbranare,
gioielli da indossare, vino rosso di Dorne a fiottare nella gola e sul
mento e sul materasso, ad innaffiare la carne, dissolutezza grassa ed
opulenta dal sapore del Sud fra quelle mura, a racchiudere sempre lo
stesso violento profumo di essenze oleose e gemiti soffocati.
Myrcella la prigioniera passava le ore come una regina, ad attenderlo
ed accoglierlo, lieta della propria insignificante utilità,
colma d'un iniquo senso del dovere, purchè quelle lenzuola
rimanessero calde del sudore dell'empia comunione dei loro corpi.
Rickon a volte era disposto a dedicarle intere giornate, a volte poco
più di un'ora: però sempre, inevitabilmente,
un'espressione vinta e rancorosa nei lineamenti distorti dal desiderio
a mascherare quel
dubbio, finiva
per ritrovarsi in camera a cercare quella ragazza di latte spanta sul
materasso di piume e precipitare rovinosamente fra le sue braccia, in
impaziente attesa di un piacere che avrebbe potuto avere da altre, in
un altro modo, ma che non era più capace di godere se non
con lei, così.
Per la prima volta dopo tanto tempo, Myrcella non
avvertiva una lastra di ghiaccio o frammenti di vetro sotto le dita dei
piedi.
Il giorno della partenza li sorprese ancora abbracciati, nell'alba di
quelle mattine ch'erano proiezioni di notti insonni. I preparativi
furono frettolosi, quasi che uno stordimento generale avvincesse tutti
i protagonisti. Myrcella sapeva che in futuro avrebbe rimpianto il
comodo lusso di quelle giornate vissute in stato d'incoscienza, e se ne
convinse quasi dolorosamente quando il vento del Nord la
schiaffeggiò con rabbia alle porte del castello.
La fanciulla rabbrividì intimorita sotto il mantello che
avvolgeva anche Rickon, il viso premuto contro il calore martellante
nel suo petto, l'udito concentrato sul ritmo dei suoi respiri, il
gorgoglio del suo sangue, risparmiandosi la troppo cruenta vista della
cattiveria di quell'asettico mondo in bianco e nero, dove
l'abnegazione dell'esistenza si affacciava su un crepaccio che aveva
l'ammutolente peculiarità dell'assoluto. Rickon Stark,
stante e
silenzioso come l'ombra d'una malinconia che non gli apparteneva,
fissava senza pietà, con occhi cupi, la casa che stava
abbandonando per la seconda volta. Era diverso dal solito. Osha lo
scrutava sospettosa; era dall'altra parte dello schieramento, quello
che s'era radunato fuori dalle mura per salutare i soldati.
-Questa è la tua guerra, non la mia,- aveva spiegato a
Rickon
senza scomporsi. Eppure in quel momento, i grumi d'acqua gelida
impigliati nei capelli come una canizie precoce, non avrebbe chiesto
altro che guidarlo e sorvegliarlo come aveva fatto per tanto tempo.
-Vi guardo e vedo soltanto disgrazie.- La sua voce cadde fra
loro, piatta come una ghigliottina.
Rickon serrò i denti. -Non è come credi. Ho tutto
sotto controllo, non preoccuparti.-
Ho tutto sotto
controllo. Questa l'ho già sentita,
pensò Osha con un triste sorriso. -Buona fortuna, dunque.-
-Grazie.- Il ragazzo rimase lì, incerto se fare l'eroe o
concedersi pochi istanti di tregua dalle proprie aspettative; la donna
scelse per lui, scompigliandogli rapidamente la chioma incolta.
-Non serve che ti saluti come si deve,- chiarì bruscamente,
-perchè tanto tornerai presto.-
Rickon sorrise, rispondendo alla flebile richiesta di quegli occhi
abissali che conosceva così bene. -Puoi scommetterci.-
E Osha capì perchè Rickon si portava appresso la
giovane
Lannister. Lei gli aveva carezzato i capelli, lo aveva rassicurato, gli
aveva
detto che sarebbe andato tutto bene. Aveva incoraggiato, vezzeggiato,
accolto a braccia aperte la fragilità, imponendosi la sua
stabilità interiore come una missione. Aveva fatto
ciò che Catelyn
Stark non aveva più avuto occasione di fare, ciò
di cui
Osha non sarebbe mai stata capace. Rickon, riconoscendo una specie di
figura materna
in lei, si sentiva accudito, protetto. Amato, in
quella maniera sollecita, premurosa e tipicamente femminile, in quella
maniera così terribilmente esplicita e calorosa, con cui
l'introversa scontrosità di Osha non poteva competere.
Così terribilmente differente
e discordante con la sua indole. Così
terribilmente necessaria.
Myrcella
Lannister credeva di poter addomesticare un lupo. Meritava perlomeno un
sorriso di compassione, ma la fanciulla era perduta in quel mantello e
nessun avvertimento ormai l'avrebbe raggiunta.
Intanto, Shireen prendeva le mani guantate del padre fra le sue. -Mi
raccomando, stai attento a te. Non mi sposerò, se non ci
sarai
tu ad accompagnarmi all'altare.-
Le rughe attorno agli occhi di lui si contrassero, viso di padre
invecchiato: ogni anno che passa grava come cento sulle spalle di un
re, e quei tentativi avevano lasciato un loro segno su quel volto
incorruttibile, in quegli occhi duri che -proprio come quelli della
figlia- sapevano sognare, anche se non lo davano a vedere. Non era
più preoccupato all'idea di lasciare Shireen in balia della
neve; ormai lei chiamava casa quel mondo di ghiaccio scabro e creste
affilate.
La neve sdrucciolava nel vento. Le dune bianche e farinose sfavillavano
come materia di favola, cozzando e spintonandosi con
l'oscurità,
in un paesaggio d'immobile ostilità.
Meera Reed sospirò piano e una nuvola di vapore, sospinta
dal
suo fiato, soffiò aggraziata, valicando l'impedimento del
collo
di pelliccia del mantello, aggrappandosi alla crudeltà
impassibile del vento -in equilibrio soltanto per pochi attimi, il
tempo di disfarsi nel buio netto del cielo.
-Ti ho messo nei bagagli le erbe, sai, quelle che devi masticare dopo
aver avuto le visioni, per far passare la nausea. Pensavo che ne avrai
bisogno, molto probabilmente.- Voce senza calore, senza distacco. Le
pareva quasi stupido stare lì, in piedi, di fronte a
quell'impudica verità, ad interpretare un ruolo che le
avevano
cucito addosso, suo malgrado.
Jojen
la fissò con così tanta intensità, che
la sorella
non potè fare a meno di scorgervi dentro un'infanzia di
piccole
gioie e grandi avventure, l'origine d'un amore struggente che l'aveva
più volte indotta a desiderare il dolore per sè,
pur di
risparmiarlo a quell'esile creatura; eppure non era mai stato debole,
Jojen Reed. Era forte anche in quel momento, davanti a lei, a sventrare
la sua anima senza giudicare quanto vi scorgeva, senza alcun rimorso.
Vicino, eppure già troppo lontano.
-Grazie.- rispose solennemente, in tono talmente pregnante che non
poteva starsi riferendo soltanto alle erbe.
Meera inarcò le sopracciglia e le aggrottò di
nuovo, rapidamente. -Non c'è di che.-
Era a disagio. Avrebbe voluto sferrargli un pugno, spaccargli il naso,
cadere fra le sue braccia. Se era lei quella che meritava delle scuse,
perchè si sentiva tremendamente in torto? Il loro
arrivederci
non avrebbe dovuto essere così apatico, scialbo, ufficiale. Così.
Fu allora che il fratello si chinò su di lei e la
baciò
sulla fronte, con quella sua caratteristica delicatezza, e il contatto
delle sue labbra sulla pelle fu come quello della rugiada sui
polpastrelli.
-Prenditi cura di lui.- Un sussurro. Si odiò per averlo
detto:
ma, se non l'avesse fatto, si sarebbe odiata per non averne avuto il
coraggio.
-Prenditi cura di te.- fu la replica. Meno di un ordine, più
di una speranza. Un vaticinio.
Poi venne il momento di salutare lui.
Brandon Stark, a cavallo di uno stallone nero, le
rivolgeva uno sguardo indecifrabile.
-Mio padre salutò mia madre esattamente qui, prima di
partire
per il Sud.- rivelò infine, a voce asciutta. -Di lui
tornarono
indietro soltanto le ossa.-
-Gli dèi non vogliono mai ascoltare le stesse storie, mio
signore.- Non era mai esistita affermazione più falsa, Meera
stessa ne aveva avuto la prova; ma in quella corrente artica
suonò esatta.
Bran si soffermò per qualche istante sul piccolo capo
impellicciato del suo erede, in braccio alla nutrice.
-Tornerò
prima che diventi in grado di pronunciare il mio nome.-
Potrebbe già
aver imparato a farlo, che tanto tu non te ne saresti accorto. -Come
dite, Maestà.-
Si guardarono un'ultima volta, stanchi, sopraffatti, quasi sconfitti da
quel destino che, dopo tanti anni di fedele amicizia, li voleva
separare. La primavera non era mai sembrata così lontana.
Il loro ultimo bacio fu una formula, una convenzione, arido come un
campo sterile; per un solo istante, la moglie lo trattenne contro le
sue labbra, come se bastasse questo per impedirgli di staccarsi dal
calore della sua bocca, per andare incontro all'inverno in una bufera
di sangue, in una mattanza ineluttabile. Per salvarlo.
La regina innamorata che saluta il suo re dalle porte del maniero
sventolando un fazzoletto, gli occhi umidi di lacrime, il cuore
rigonfio di speranza. Meera tese un sorriso amaro, infranto, ma
nell'aria cinica di quel lungo inverno la sua storia non faceva
più ridere.
La carovana cominciò la sua lenta marcia, i tonfi ovattati
degli
zoccoli dei cavalli nella neve croccante, le urla dei soldati deviate e
raccolte da quel vento di spada, le perfide risate delle stelle nella
notte livida; giunto nei pressi dei primi alberi Bran Stark si
voltò, per vedere il rango dei castellani ben disposto ed
allineato, Shireen la principessa di pietra, Osha la bruta e Meera la
regina del Nord ad attendere ferme ed inscalfibili nel freddo,
imprimersi quell'immagine nella mente come se dovesse dirle addio. Bran
percepì un sussulto nel petto, seguito da una valle di
secchezza
nella gola: Meera Reed se n'era già andata, il buco della
sua
assenza come la falla fatale d'una fortificazione, e la sua
dignità stracciata svolazzava nel vento dietro di lei, come
un
tetro monito, un rimprovero sottile, giunto troppo tardi, troppo forte.
Nel momento sbagliato.
Note dell'Autrice: Sesto capitolo! Credo sia un po' più
lungo del solito. Spero vi sia piaciuto. ^-^ È comparsa
Brienne, che ha resuscitato Jaime! Siete contenti? So che ha molti fan,
sia lei che la coppia Jaime/Brienne.
Dunque, per Sansa le cose stanno per mettersi male. Chi mai
starà indagando su di lei? A Myrcella è accaduto
qualcosa di sbalorditivo. È impazzita. Per chi trovasse
troppo strano quel che le è successo, digiti su Google sindrome di Stoccolma. Ha
qualcosa a che vedere con questo, anche se ogni mente umana
è unica e reagisce in modo differente.
Ormai gli eserciti sono partiti. Cosa accadrà alle Torri
Gemelle? Qual è il piano di Bran? E Margaery
riuscirà a mettere in atto il suo?
Tutto questo nel prossimo capitolo, miei cari lettori. Mi raccomando,
se avete qualche domanda o qualche commento da fare, non esitate! Sono
molto curiosa di sapere le vostre opinioni!
Lucy
ps: Ebbene sì, Robin fa il pervertito. o.o
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Rossa fu la nebbia. ***
7
Myrcella sapeva di non conoscere ancora Rickon, almeno non tanto quanto
avrebbe desiderato. Aveva imparato cosa era meglio fare quand'era
arrabbiato, per esempio, o come distoglierlo dai cattivi pensieri: e
allo stesso tempo, i giorni di marcia che trascorse sempre al suo
fianco le avevano insegnato che talvolta il giovane Stark aveva bisogno
di alcuni momenti di silenzio, durante i quali nessuno doveva
rivolgergli la parola nè scostarlo dalle sue riflessioni. Il
suo
sguardo s'incupiva, la sua espressione si rabbuiava e d'un tratto non
aveva più intenzione di ascoltare nessuno. Allora Myrcella
lo
lasciava al suo passato, alla sua malinconia, e si limitava a
carezzarlo piano, senza disturbarlo. Non sapeva bene come amarlo: tutto
ciò che avrebbe potuto offrirgli, egli se l'era
già preso
da solo. Però avvertiva la pressante esigenza di fargli
presente
in continuazione quanto gli voleva bene e quanto gli era grata, per
tutto quel che aveva fatto. Non riusciva più a distinguere
Rickon dall'idealizzazione nella sua mente. Perchè lui aveva
perso qualsiasi colpa agli occhi di Myrcella: era la vittima, soltanto
la vittima, non il carnefice. Ogni volta ch'ella lo pensava, in
passato, scacciato dalla propria casa, privato della sua famiglia,
costretto a vivere nei boschi di un'isola di cannibali, le veniva da
piangere penosamente, all'idea di tutto il dolore ch'egli doveva aver
provato, di tutti i traumatici ricordi che doveva aver conservato, e
avrebbe voluto strapparglieli via tutti dalla mente con le proprie
mani, concedergli un pizzico di quella felicità che Rickon
stesso aveva portato nella sua vita. Qualsiasi efferatezza egli avesse
compiuto, le appariva assolutamente giustificata, quasi legittima. Non
avrebbe fatto tutte quelle cose orribili, se la mia famiglia non avesse
sterminato la sua. È successo tutto a causa loro. Ha perso
suo
padre, sua madre, le sue sorelle e suo fratello, eppure il suo cuore
è ancora così puro e gentile che si è
innamorato
di me
lo stesso. Questo era inspiegabile per lei, eppure
incontestabile al tempo stesso. Rickon l'amava come i principi dei suoi
sogni, i lord della sua infanzia non avrebbero mai potuto fare. Le
aveva fatto riscoprire una nuova gioia di vivere, una
capacità
più vivida e sincera di apprezzare ciò che la
circondava
-dal misero lusso di una tavola apparecchiata ai giochi di luce fra le
foglie irrigidite di brina- e un sentimento inedito, perchè
mai
prima d'ora aveva sul serio amato qualcuno più di se stessa.
Rickon voleva lei e soltanto lei, tutta per sè, e non
permetteva
a nessuno di avvicinarsi, e non si stancava mai della sua presenza,
come se la sua bellezza potesse rinnovarsi ogni giorno e riservargli
sempre una sorpresa. La toccava e le parlava in un modo che
prima
le era completamente sconosciuto -anche questo era un dato di fatto
abbastanza importante, che aveva determinato l'esclusiva, straordinaria
singolarità del loro rapporto, perchè per una
fanciulla
come lei sarebbe stato impossibile considerare irrilevante il fatto che
Rickon era stato il primo uomo della sua vita. A quel misto di
violenza, possessività e voracità, ch'egli
dimostrava
nelle avide attenzioni che dedicava al suo corpo, ormai Myrcella ci
aveva fatto piacevolmente l'abitudine, divertita ed indulgente. Le sue
maniere rudi, anzichè darle fastidio, le erano care. Insieme
a
questo sentimento per Rickon, aveva preso forma in Myrcella anche
un'intrinseca ostilità verso tutti gli altri: tutti gli
altri
non intesi singolarmente, ma in quanto folla, estranei, altri.
L'amore fra loro era talmente contestato e ostacolato universalmente,
da spingerla a provare un risentimento generale verso gli esterni,
esclusi dall'entità ch'era il loro rapporto, incapaci di
comprendere cosa fosse e quanto indispensabile
fosse ad entrambi. Era da loro che Rickon la voleva proteggere, quando
l'aveva chiusa nelle segrete, da quelle persone malvagie che non
capivano niente. E ancora Myrcella non poteva fare a meno di guardarli
con sospetto, tutti, e di aggrapparsi saldamente a Rickon, come a dire provate a separarci, se ci
riuscite quand'erano in pubblico.
Rickon, dal canto suo, aveva sviluppato una dipendenza nei
suoi
confronti non tanto più sana di quanto lo era quella di
Myrcella. Da quando l'aveva rapita, non era mai andato a letto
con nessun altra -il che lo stupiva parecchio. Non aveva voluto
farlo, questo lo preoccupava sul serio. Riusciva a pensare soltanto a
Myrcella, a quanto la sua bellezza lo ammaliasse sia in quanto tale,
sia perchè rievocava lo spettro dei Lannister, odioso eppure
misteriosamente conturbante -perchè era proprio il contrasto
fra
l'attrazione dei sensi e la repulsione dello spirito ad essere
eccitante.
Myrcella sapeva di non conoscere ancora Rickon, almeno non tanto quanto
avrebbe desiderato, però aveva imparato che quando Rickon
diceva
sarà davvero
divertente, con quel suo sorriso aguzzo e sfrontato,
c'era da avere paura. Davvero
divertente, per Rickon, era soltanto scorticare le
persone vive per poi arrostire i nervi e divorarle a zannate. Davvero divertente era
saccheggiare i villaggi e staccare le teste a mani nude.
Così, quando il giovane Stark descrisse l'attacco alle Torri
Gemelle come divertente,
Myrcella aggrottò la fronte preoccupata.
-Non sarà niente di troppo pericoloso, vero?- si volle
assicurare, stringendo gli occhi sospettosa; immaginava che dovessero
essere coinvolte le catapulte che seguivano l'esercito, però
niente più di questo. Rickon ridacchiò.
-Sarà pericoloso, sì, ma non per noi, piccola
Lannister.
Se ne pentiranno, oh, quanto se ne pentiranno! Correrebbero a cercare
il cadavere di mio fratello per ricomporlo e resuscitarlo, se sapessero
cosa li attende...-
Myrcella sbuffò e picchiettò le dita contro la
sua nuca.
-Avanti, raccontami! Non tenermi sulle spine. Cosa avete intenzione di
fare?-
-Vedrai, vedrai.- fu l'enigmatica risposta. -Tutti vedranno, fino a
Dorne lo vedranno, e non dimenticheranno. Così come noi non
abbiamo dimenticato.-
-Ho così paura per te.- sospirò Myrcella. -Tu non
hai nemmeno un po' di paura?-
Non si aspettava certo un sì come risposta, però
voleva
essere rassicurata dalla tracotante spavalderia che il ragazzo
sfoggiava ben volentieri.
-Paura?- ripetè Rickon, con una smorfia aspra. -Un tempo
avevo
tanta paura, Myrcella Lannister, come te. Paura ogni giorno, per
qualsiasi motivo. Tutto mi faceva paura. Ora no. Ora l'unico pensiero
che mi fa paura è quello di avere paura di nuovo.- Il suo
tono
era indecifrabile, ma la fanciulla capì di dover cambiare
argomento.
-Promettimi che non rischierai troppo. Guarda che, così come
tu
sei spaventato all'idea di perdermi, ugualmente è per me.
Non
hai più bisogno tu di me che io di te.-
Rickon fece un sorrisetto arrogante. -Ah, è così?
Tu credi che io sia addirittura
spaventato all'idea di perderti, piccola Lannister?-
Myrcella gli lanciò un'occhiata sollecita e premurosa da
sotto
le ciglia, denudando amorevolmente la sua fronte dai ciuffi spettinati.
-Io non lo credo, Rickon Stark, io lo
so. Tu sei terrorizzato
all'idea di perdermi. E mi ami perchè hai un costante ed
urgentissimo bisogno della mia presenza. Perchè hai bisogno
di
qualcuno che ti adori indiscutibilmente, come faccio io, qualunque cosa
accada... qualcuno che capisca.-
Allora Myrcella tacque e rimase a fissarlo negli occhi,
emozionata. Non precisò cosa intendesse con capire, ma
Rickon non obiettò nè pretese spiegazioni.
Anch'egli la
osservò, con una nuova curiosità, come se la
vedesse
sotto una luce diversa. Quelle parole parvero confonderlo. Qualcuno che capisca.
Poi si riscosse, tirando nuovamente un ghigno, e la spinse con la testa
sul giaciglio. -Io non ti amo, ti possiedo. Perchè
dovrei
desiderarti ancora, se ti ho già?!-
Ma era proprio questo il punto. Egli continuava ad avvertire
un'inappagata sete di lei, come se la sua conquista, nonostante i
risultati, non fosse ancora definitiva. Continuava a necessitare di
quell'odio senza più dolore, di quell'amore troppo crudele,
come
uno sprono. Questo
perchè Rickon non sapeva distinguere fra il possedere e
l'essere posseduti.
-Perchè non siamo ancora uniti per sempre.- rispose invece
Myrcella, apprensiva.
-Tommen potrebbe cercare di recuperarmi... potrebbe attaccare... di
certo tenterà...-
Questo era l'unico timore che aveva, al pensiero di seguire Rickon in
guerra: che l'esercito di Tommen potesse riportarla ad Approdo del Re e
sottrarla a Rickon.
-Che tentino pure. Nessuno ti ruberà.- replicò
subito, con l'arroganza inamovibile dell'ossidiana. Mi hanno rubato già
troppo, pensò
con rimpianto, anche se non lo disse. Ad ogni modo, quel breve dialogo
fra lui e la ragazza lo stava inducendo a prenderla in
considerazione sotto un altro aspetto. Con queste promettenti premesse,
a Myrcella non restava che sperare che Rickon sapesse quel che stava
per fare.
Intanto il re del Nord aveva radunato, nella tenda in cui alloggiava, i
suoi alleati finalmente al completo: infatti, quando avevano raggiunto
l'Incollatura, Edmure Tully li aveva raggiunti con il suo esercito. Gli
anni e le sventure che la sua famiglia aveva subìto avevano
contribuito
a segnare il suo volto, ma non aveva perso il sorriso:
la giovane
moglie e i due figli, Myles ed Elyn, che aveva lasciato al
sicuro
a Delta delle Acque, erano la luce dei suoi occhi. Era sembrato molto
contento d'incontrare i suoi nipoti sopravvissuti: aveva sorriso
rispettosamente a Bran (aveva udito le chiacchiere che giravano su di
lui, e aveva notato il ragazzetto vestito di verde che lo seguiva
ovunque, ma non ci aveva dato troppa importanza) e aveva strizzato
l'occhio a Rickon, con un'aria complice che aveva fatto corrucciare il
viso del nipote di disappunto, specialmente per la lunga ed esplicita
occhiata che
aveva rivolto poi a Myrcella. In quel momento Edmure osservava il
nipote con un'espressione assolutamente concentrata ed un po' inquieta,
perchè sapeva qual era l'attacco che stavano per progettare.
Stannis, con al fianco il fedele Davos Seaworth, sedeva composto al
fianco di Bran ed attendeva ch'egli svelasse quei piani che da tanto
tempo teneva segreti, con un'espressione più torva che
curiosa,
però come sempre il suo viso severo non lasciava trasparire
granchè i suoi pensieri. Davos tamburellava nervosamente le
dita sul tavolo, perchè era al corrente di quanto astio
provasse
il re del Nord nei confronti della famiglia Frey e temeva al pensiero
di udire quegli stessi piani che Stannis attendeva invece con
impazienza: spesso, nelle faide di sangue fra casate, mentre si
architetta la punizione per i colpevoli, è facile
dimenticare
quanti innocenti possono finire coinvolti. In verità era da
un
pezzo che Davos non riusciva a darsi pace, fin da quando Stannis, prima
ancora di partire per Grande Inverno, lo aveva messo al corrente dei
propri piani: offrire Shireen in sposa a Rickon Stark. Stannis poteva
anche non prestare ascolto alle voci che giravano riguardo quel
ragazzo, però lui lo faceva: e non aveva gradito affatto
ciò che aveva sentito.
-Non puoi sacrificare tua figlia in questo modo per scopi politici! Se
vuoi recuperare il Trono di Spade per tornarle la vita che merita, se
il tuo obiettivo ultimo è renderla felice, così
sarà tutto inutile.-
-Se non sarà lei a lamentarsi, Seaworth, non vedo
perchè dovresti farlo tu.- era stata la lapidaria risposta.
-È perfido approfittare della sua indole docile, del
rispetto e
della grande obbedienza che ti riserva, per sfruttarla come un capo di
bestiame.- aveva insistito Davos, ansioso per la sorte della bambina
-bambina? ragazza, ormai- che amava come la figlia che non aveva avuto.
Era stato tutto inutile, naturalmente, perchè quell'ostinato
di
Stannis aveva voluto fare a modo suo.
Quando in seguito aveva incontrato Shireen a Grande Inverno, Davos le
aveva chiesto cosa ne pensasse del suo promesso sposo.
-Lo so che sembra un pazzo, però in realtà non
è
cattivo. Credo che nasconda un'indole molto sensibile.- aveva
commentato Shireen, e il Cavaliere delle Cipolle si era fidato del suo
giudizio, visto che spesso la ragazza dimostrava un gran talento nel
decifrare l'anima delle persone, svelandone i segreti più
nascosti.
-Ma sei felice di sposarlo?- aveva domandato ancora.
Shireen non aveva risposto per qualche istante. -Non mi dispiacerebbe.-
aveva concluso. -Se con il tempo iniziasse a fidarsi di me, tutto
andrebbe benissimo. Però dubito che andrà
così, in
tutta onestà.-
-Che vuol dire?-
-Che questa storia avrà un finale diverso,
suppongo.- aveva
sorriso lei, e non c'era stato verso d'estorcerle una parola di
più. Con questi dubbi, Davos era poi partito per
accompagnare
nella campagna militare il suo re, e aveva dovuto affidare Shireen alle
cure di sua madre ed alla protezione della regina del Nord, Meera
Stark, una giovane donna che gli ispirava fiducia.
Ma torniamo a quel concilio che si stava svolgendo nella tenda. Bran,
dispiegata la cartina dei Sette Regni davanti a sè, vi
poggiò le mani ed intrecciò le dita, per poi
rivolgere un
ampio sguardo a tutti gli uomini riuniti al tavolo.
-Innanzitutto vi ringrazio molto per essere qui, miei lord. La vostra
presenza non è soltanto formulare, ma fondamentale per la
buona
riuscita dell'iniziativa. Voi siete degli uomini esperti ed io
solamente un ragazzo che oserà approfittarne,
perciò vi
prego di farmi notare qualsiasi errore di valutazione rileviate. Se
avete delle domande, prima di cominciare, non esiterò a
rispondere in maniera più esauriente possibile.-
Edmure parve piuttosto lusingato dalle parole del nipote e gli
indirizzò un sorriso che pareva quasi incoraggiante;
Stannis, al
contrario, arricciò la bocca un po' disgustato e
parlò.
-Mi sembra di capire che procederemo attraverso la Strada del Re, sia
ora, sia al termine della, ehm, spedizione
punitiva contro i Frey.-
Bran esaminò per un istante le sue intenzioni, circospetto,
infine annuì con il capo, protendendosi appena in avanti sul
tavolo. -Sì, esatto.-
-Posso chiedere perchè?- chiese l'uomo, inarcando appena le
sopracciglia. Davos seguiva lo scambio con sguardo preoccupato.
Il re del Nord fu più tentato di tirargli una sediata in
testa,
che di spiegargli la motivazione della sua scelta. Ragazzino alle prime
armi o no, Stannis Baratheon era restio a concedere la sua fiducia fino
a portare all'esasperazione. Mi
sono
preso in casa tua figlia, ti ho dato le armi, ti ho concesso il comando
delle truppe, ma così vuoi di più? Una
dichiarazione
d'amore?!
Comunque prese fiato e si accinse ad esporre i suoi argomenti con
chiarezza e cortesia, come Jojen gli ripeteva sempre ch'era necessario
fare, nè troppo boriosamente, nè in maniera
sconclusionata.
-Perchè non abbiamo niente da nascondere. Tutti crederanno
che
la nostra destinazione sia Approdo del Re. Non possono immaginare che
attaccheremo le Torri Gemelle: questo perchè
pensano che,
se avessimo voluto farlo, l'avremmo già fatto prima, quando
Rickon ha fatto irruzione al torneo di Runestone.-
Stannis non parve per nulla impressionato da quella risposta. -E se
veniamo attaccati all'improvviso, c'è un piano?-
-Non ci serve un piano.- replicò Brandon, cercando di
trattenere
l'impazienza. -Siamo ancora nei territori del Nord, subito adiacenti a
quelli sotto la supervisione di Edmure, quindi non ci sono casate
nemiche nei dintorni. E anche
se
avessero deciso di tenderci un agguato marciando verso il Nord,-
aggiunse in fretta, prima che Stannis potesse
interromperlo con
quell'obiezione, -ebbene anche questo sarebbe impossibile,
perchè, come tra l'altro ho intenzione di fare da qui a
sempre,
ho mandato degli esploratori in avanscoperta a ispezionare la zona
prima di avanzare con l'esercito. Tutto sotto controllo, come
vedi.-
-Me lo auguro.- s'arrese Stannis, fortunatamente evitando di avanzare
l'ipotesi che gli esploratori fossero stati corrotti dai Lannister
(come
Bran malignava fra sè), lanciando un'ultima occhiata
indagatrice
alla mappa, quasi nella speranza di cogliere un dettaglio per
incastrarlo. -Adesso puoi esporci il tuo famigerato piano, direi.-
Bran annuì gravemente. -Molto bene. Ma prima ancora,
permettetemi di dimostrarvi come questo potrà essere
attuabile.
Jojen ha qualcosa da riferirci.-
Gli sguardi degli uomini scivolarono nella direzione del consigliere
del re. Jojen Reed li sostenne senza vacillare.
-Questa notte, ho avuto delle visioni.- annunciò. -Fra le
altre
cose, ho visto l'esercito di Tommen. Non ho dubbi a proposito: ricordo
l'insegna, con il cervo ed il leone. Non so con precisione dove fosse,
ma c'era un fiume, il corso di un fiume...-
Edmure s'allungò verso la cartina. -Dando per scontato che
stava
percorrendo la Strada del Re, perchè non può
essere
altrimenti, si trattava forse della Forca Rossa?-
Jojen scosse il capo. -La Forca Rossa ha un andamento orizzontale.
Quello che ricordo aveva un andamento verticale, ne
sono certo;
quindi, più probabilmente, era la Forca Verde. Alla destra
del
fiume, in lontananza, s'intravedevano in lontananza le luci di una
città. Penso che fosse Seagard.-
-Quando?- chiese Stannis.
-Il cielo era buio.- esitò Jojen. -Visto che il loro
esercito
è in marcia da pochi giorni, pur non essendo informato
riguardo
il ritmo che tiene, ritengo più verosimile che
avverrà
domani notte. Ciò significa che soltanto domani notte
l'esercito
giungerà vicino alle Torri Gemelle, e che
quindi abbiamo
tutto il tempo per mettere in atto il piano che Sua Maestà
esporrà immediatamente.-
-Possiamo venire al dunque?- sospirò Stannis. Ora anche
Edmure sembrava incuriosito.
Brandon era a disagio; aveva rimandato quel momento il più
possibile, ma non avrebbe potuto farlo ancora a lungo.
Doveva svelare il piano. Così raccontò tutto,
dalla prima
all'ultima parola, senza trascurare nulla, con stoico raziocinio.
Mentre proseguiva a parlare, l'atmosfera nella tenda raggelò.
Davos era impallidito; non riuscì a trattenersi e si
alzò
in piedi di scatto, così rapidamente da urtare la sedia, che
arretrò con uno stridio lamentoso.
-È una follia! Il maniero è pieno di donne, di
bambini...
Moriranno tutti della peggior morte immaginabile!- Si voltò
verso Stannis, in cerca di supporto, quasi supplicandolo con lo sguardo
d'essere ragionevole. -Signore, non si può permettere una
strage
così... abominevole!-
Bran Stark non reagì. Il suo sguardo era fisso, quasi
vitreo.
Assente. Sapeva che ci sarebbero state proteste, dissensi, opposizioni,
e sapeva anche che nessuno lì dentro avrebbe potuto capire
cosa
l'avesse spinto ad una decisione così estrema. Ma non si
sarebbe
mosso dalla propria posizione, non circa quello.
-Peccato che nessun Frey abbia pronunciato queste stesse parole per
impedire che le Nozze Rosse venissero messe in atto.-
commentò, con un sarcasmo pregno d'amarezza. -Ad ogni modo
è troppo tardi, cavaliere. Jojen l'ha visto accadere.-
Davos ricadde sulla sedia, come una marionetta alla quale taglino i
fili. Rivolse un'ultima occhiata disperata a Stannis, appellandosi a
quel cuore duro ma onesto, che intimamente non approvava nessun tipo
d'ingiustizia.
-Questa è la vostra vendetta.- concluse però
l'uomo,
impassibile. -Affari che non mi riguardano. Vostri diritti, vostra
responsabilità.-
Davos, che lo conosceva bene, colse il bagliore di tristezza nel suo
sguardo - meno di una lacrima, ma non più indifferenza.
Anche Edmure sembrava incerto eppure, quando Bran lo
interrogò
silenziosamente, annuì in fretta -quasi per sgravarsi della
pericolosità della sua decisione. La ferita inferta dalla
morte
invendicata di sua sorella Catelyn era rimasta aperta e gli aveva
infettato l'anima, una piccola piaga fastidiosa nella sua vita
finalmente felice.
Così il concilio fu sciolto, e quell'ultima irrevocabile
decisione ufficialmente presa, mentre i presenti uscivano dalla tenda,
seguiti da un silenzio di morte.
La sera prima dell'attacco,
Bran
si ritirò presto per la notte. Per tutto il giorno era stato
assillato dalle manie di persecuzione di Stannis, che giudicava la
sorveglianza alle proprie tende inadeguata, e che l'aveva costretto a
sbottare io non ci
guadagnerei assolutamente niente a tradirti o ad ucciderti, dai
discorsi d'esortazione che aveva tenuto a tutte le truppe,
dalla
precisa organizzazione dell'intero piano, dettaglio per dettaglio, e
dalle disposizioni che di conseguenza aveva impartito a tutti i
comandanti. Ormai, il re del Nord riteneva di conoscere la pianta
delle Torri Gemelle meglio di casa propria, tanto ci aveva
riflettuto su. Per la buona riuscita del piano, non doveva essere fatto
alcun errore di calcolo.
La verità era che egli aveva bisogno del conforto di Jojen.
Durante la giornata non poteva mai cercarlo, non davanti a tutta quella
gente che aspettava soltanto di vederli un po' più vicini
del
consentito per spettegolare di quanto il re del Nord amasse darsi alla
pazza gioia persino nel bel mezzo di una guerra, quindi poteva farlo
soltanto in quelle ore, sporadicamente. Jojen solitamente non era
prodigo di effusioni, però la sola sensazione di quello
sguardo
rasserenante su di lui e di quelle mani a carezzargli la testa era
già più di quanto sperasse.
-Il piano è stato accolto bene, tutto sommato. Non hanno
contestato troppo.- commentò, ricadendo sui guanciali del
letto
su cui Jojen, seduto con il manico lavorato di un portacandela fra le
dita, ripassava gli schemi dell'attacco.
-Quella dei Frey non è una casata granchè amata.-
ammise
il suo consigliere. -E tu stai acquisendo autorità ai loro
occhi, Maestà. Stanno imparando a rispettarti.-
-Non vedo l'ora che tutta questa storia sia finita. Il nostro esercito
già inventa nuovi nomi strambi, per l'attacco alle Torri di
domani, però io non trovo
definizione pià adatta di
massacro di massa.- confessò Bran.
-Sarà un massacro di massa, niente da ridire.-
annuì
Jojen, serio. -Ma un massacro necessario. Non avresti potuto agire
altrimenti. Fin da quando tu sei tornato a Grande Inverno, i Sette
Regni immaginano il compimento di questa vendetta ed i Frey raddoppiano
le misure di sicurezza della loro fortezza. Sei il loro incubo,
Maestà, soprattutto da quando hanno scoperto dei tuoi
poteri.
Era tuo dovere riparare quest'onta, e lo stai facendo.-
Bran sapeva ch'egli parlava così soltanto per farlo sentire
meglio, e glie ne fu intimamente grato. -Nessuno
sopravvivrà,
non è vero?-
Non sapeva quale risposta avrebbe gradito di più udire, in
quel momento d'esitazione.
La voce di Jojen era piatta come una lama. -Li ho sentiti urlare in
sogno, uno per uno. Moriranno tutti, Maestà.-
Il re del Nord capì ch'era più saggio cambiare
argomento,
prima di essere aggrediti dai rimorsi. Si concentrò su un
altro
pensiero che lo assillava instancabilmente da un pezzo.
-Rickon mi ha chiesto di guidare l'attacco, anche questa volta. Dato il
successo della sua impresa precedente, glie l'ho accordato:
dopotutto, è quasi un suo diritto. È normale che
sia arrabbiato. Poi,
ovvio, lui esagera in tutto ciò che fa, quindi persino il
suo
stato di rancore perenne è innaturale. Se riuscissi a
trovare
qualcuno... beh, non pretendo capace di mettergli un freno, ma che
almeno sapesse zittirlo quando parte per la tangente...-
Jojen sorrise, senza alzare lo sguardo dai fogli. -A questo ci
penserà Levenna.-
Bran aggrottò la fronte all'udire quel nome, ignoto alle
proprie orecchie. -E chi sarebbe?-
-Tua figlia.- ribattè il suo consigliere, con tutta la
disinvoltura del mondo, come se nulla fosse, continuando a lambiccarsi
con quelle sue mappe e schemi. Il ragazzo avvertì
una strana fitta al petto. Una figlia? Allora avrebbe avuto anche una
figlia? I pensieri gli affollarono la mente, e si rese conto che
avrebbe voluto chiedere una miriade di cose.
-Quando nascerà?- riuscì a domandare, dopo
qualche istante. Jojen sbattè le palpebre, pensoso.
-Fra circa otto mesi e mezzo.-
Bran sgranò gli occhi, stupito. -Significa che...-
-Sì, certo, però Meera non ha avuto il tempo di
accorgersene. Fra qualche settimana ti manderà un
corvo, immagino.- mormorò Jojen, scarabocchiando un appunto
in
un angolo di una pergamena.
-Sapevi della sua esistenza, e non me l'hai mai detto prima d'ora?-
bofonchiò Bran, contrariato. L'idea di non essere messo al
corrente di tutto ciò che Jojen sognava era ancora motivo di
disappunto, ed oggetto delle poche discussioni che talvolta avevano i
due. Insomma, in un caso del genere, che lo riguardava in prima
persona, avrebbe potuto anche fare un'eccezione. Di sicuro nessun dio
avrebbe mandato un fulmine per punirlo.
-In effetti è da un pezzo che compare nelle mie visioni.-
osservò Jojen, tagliando una didascalia con la piuma e
scribacchiando qualcos'altro. -Parliamo, a volte.-
L'idea sconvolse Bran assolutamente. Parlavano?! Jojen parlava
in sogno con sua
figlia?! Voleva
dire che la incontrava quando lei era già grandicella, forse
addirittura adulta. E che, di conseguenza, lei sapeva come era andata a
finire la guerra attualmente in svolgimento, e che quindi Jojen avrebbe
potuto chiederglielo e saperlo... Oltre a questi dettagli puramente
formali, Bran si ritrovò ad immaginare una sua ipotetica
figlia
ed a ritrovarsi nello smarrimento più totale. Come poteva
mai
essere?
-Parlate? Sul serio? E di cosa?- esclamò intanto, sperando
di
ottenere qualche informazione sulla guerra o su Grande Inverno. Chi
sarebbe stato al trono del Nord, a quel tempo? Ancora lui? Kenned?
Rickon? O forse... un alfiere dei Lannister?
Jojen gli lanciò un'occhiata ammonitrice da sopra la
pergamena. -Questo non te lo posso dire. Sai come funziona,
Maestà.-
Il re sospirò. Sì, lo sapeva, anche se se ne
dimenticava
molto volentieri. -E lei... com'è?- aggiunse esitando,
impacciato, rivolgendogli uno sguardo quasi intimidito.
Allora l'espressione di Jojen s'ammorbidì ed il ragazzo gli
concesse un piccolo sorriso.
-Levenna è... qualcosa di meraviglioso.- rivelò,
con voce
bassa ma vibrante di un'emozione inusuale, che non era soltanto
affetto, ma un'indistinguibile amalgama di rispetto ed ammirazione.
Bran avvertì una strana gelosia aggredirgli il cuore, con un
morso feroce e subitaneo. Non aveva mai sentito Jojen utilizzare
l'aggettivo meraviglioso.
Non
era da lui, semplicemente. Non tendeva a mostrare le proprie emozioni
nè ad assoggettarsi a forti turbamenti, e proprio per questo
Bran lo idealizzava come un'entità superiore, distante,
infallibile ed onnisciente. E adesso quel meravigliosa gli
aveva fatto crollare la terra sotto i piedi.
Jojen non doveva definire nessuno meraviglioso.
Nessuno, se non il suo re. La missione della sua vita era
stata cercare, accompagnare ed aiutare Brandon Stark, non
quell'altra. Quell'altra doveva stare al suo posto nel futuro e non
impicciarsi. Bran stava proprio per chiedere cosa la rendesse tanto
meravigliosa, questa Levenna, ma poi decise che non glie ne importava
un ben nulla, e che Jojen probabilmente non glie l'avrebbe detto, e che
era ora di dormire. Fece distrattamente cenno al suo consigliere di
liberarsi di quelle scartoffie e spegnere la candela. Jojen
obbedì, per poi rimboccargli le coperte fino al mento.
Un altro motivo per cui Bran s'era innamorato di lui era la tacita
adorazione che aveva per il suo corpo, quello stesso corpo
spezzato a causa del quale tutti avevano additato il proprietario come
debole ed inutile,
quello stesso corpo che rompendosi aveva infranto i sogni e le speranze
di un bambino di dieci anni. Lo toccava con
deferenza, con premurosa delicatezza, come se fosse qualcosa di
inestimabilmente bello e fragile. Perchè
Jojen lo aveva onorato e rispettato fin da prima che diventasse il
potentissimo Re Metamorfo del Nord, fin da quando era soltanto un
piccolo storpio spaventato in mezzo al bosco.
-Dormi bene, Maestà. Domani sarà una giornata
lunga.- gli
augurò, prima di sfiorargli la bocca con un bacio fugace.
Le sue parole svuotarono Bran di
tutto il resto e lo colmarono come il calore del fuoco, come il
sole in uno specchio.
-Buonanotte, Jojen.- sussurrò piano, carezzandogli appena
una
guancia, sistemando poi la mano sotto il cuscino e chiudendo gli occhi.
Si addormentò quasi immediatamente, sfinito, i pensieri
perduti
in un pozzo dal fondo irraggiungibile, e di certo non si aspettava
quanto brusco sarebbe stato il suo risveglio.
S'accorse d'essere di nuovo cosciente quando un urlo prese forma e gli
sconquassò la mente, fino a fargli tremare le vene. Non ci
mise
troppo a capire che si trattava di Jojen ma, quando si
sollevò
precipitosamente dal materasso e si strofinò gli occhi
impastati
di sonno, scostando le coperte, il grido s'era già
affievolito
nel silenzio. Bran cercò il suo consigliere con lo sguardo,
allarmato, e lo trovò seduto a terra, la schiena poggiata
contro
il letto e gli occhi sbarrati.
-Jojen? Che succede?- tentò il re, inquietato, allungando
una
mano per toccargli la spalla destra. Il ragazzo però si
mosse:
il suo petto si gonfiò, assecondando il respiro concitato,
le
iridi si dilatarono a contatto con la luce del giorno e la bocca si
schiuse in un ultimo gemito soffocato. In fretta allungò le
mani
sotto il letto, afferrò il pitale e ci vomitò
copiosamente dentro.
Bran era atterrito. -Cosa c'è? Cos'hai? Jojen...-
Quando l'aveva
sentito urlare, i peggiori presentimenti lo avevano assalito. Per
qualche angosciante secondo, le disgrazie più terribili si
erano
susseguite nella sua mente: torture, rapimenti, interrogatori, ma anche
l'immagine di una sola spada conficcata in quel petto sul quale tante
volte aveva trovato conforto...
Jojen sollevò la testa. Il suo viso era cereo e provato,
come se
avesse visto l'inferno e fosse tornato indietro in una sola notte.
Infine riuscì ad aprire la bocca. -L'ha mangiata...-
Bran corrugò le sopracciglia, finchè non
realizzò, in un'ondata di mortificazione. -Chi?-
-Si è mangiato... si mangerà la figlia minore dei
Frey.-
I suoi occhi erano frantumati dall'immagine delle fauci di Rickon,
impastate di rosso, che frugavano ingorde nel ventre squartato e
straziato di una ragazzina esanime.
Si mangerà la
figlia minore dei Frey. Bran scosse la testa,
appoggiandosi con il braccio al materasso. Avrebbe potuto forse fare
qualcosa per impedirlo? Voleva
forse fare qualcosa per impedirlo?
-Che gli dèi abbiano pietà di lei.-
ribattè
stancamente, e tutto quello che c'era nella sua voce era soltanto la
logorata freddezza d'una compassione esausta.
***
-Yara.-
Durante la notte, una notte che, fino al momento di spegnere la
candela, sembrava destinata ad offrire soltanto il tepore negligente
delle coperte, la dolcezza antica della luna.
-Yara.-
Durante la notte, ancora.
-Yara Greyjoy...-
La Regina del Mare sollevò le palpebre,
lottando contro
il bruciore della sonnolenza, affrontando la vivida oscurità
della stanza con le sue pupille indolenzite ed impreparate. Nonostante
la difficoltà che avrebbe dovuto affrontare per
riaddormentarsi
-sia a causa dell'inquietudine, sia di quel sofferto risveglio dei
sensi- ispezionò l'intrico delle tenebre come se volesse
fenderne l'immunità e penetrarne il mistero, strappando quei
drappi neri che impedivano il suo sguardo, ed andare oltre la difensiva
apparenza di quei segreti. Il silenzio era piatto, spietato, apatico.
Le ombre della stanza, indifferenti e boriose nella loro ragionevolezza
-era ovvio che, se là in fondo c'era un armadio,
lì ci
fosse una grande chiazza nera, no? Assolutamente logico- sembravano
schernire annoiate i suoi indistinti timori; ma Yara non si fidava
certo della loro statica finzione. Sapeva quel che aveva sentito.
Inquieta, lanciò un'ultima occhiata circolare alla stanza,
attenta a cogliere qualsiasi piccolo rumore. Benchè l'idea
fosse
poco allettante, si sporse anche giù dal letto per
controllare
che non ci fosse nessuno sotto di esso, così come presso il
comodino.
Infine, lo sguardo di Yara scivolò sulla figura sdraiata nel
letto accanto a lei. Tristifer, fasciato dalle lenzuola, dormiva con
un'espressione assorta ed il viso affondato nel cuscino, inconsapevole
delle preoccupazioni della moglie. Lei continuò a fissarlo
per
qualche secondo, cercando una risposta alle sue domande, e poi
sospirò. Forse, per mettersi l'animo in pace, avrebbe dovuto
setacciare il castello corridoio per corridoio: ma aveva già
assegnato alle guardie quel compito, e sicuramente sarebbe stato tutto
inutile. Allora, sebbene scossa ed incerta, si arrese a sprofondare nel
materasso e chiudere gli occhi, alla ricerca del sopore perduto,
incapace
di svuotare la mente come avrebbe dovuto per riposare al meglio.
Il giorno successivo, proprio come sospettava, furono rinvenute altre
due guardie morte.
Ancora. Era
da una settimana a quella parte che si ripeteva la stessa, ineluttabile
tragedia, senza che il colpevole venisse colto con le mani nel sacco.
-Si tratta di veri esperti nell'arte dell'omicidio, mia signora.- era
tutto quello che il capo delle guardie aveva saputo dirle. E intanto
gli uomini continuavano a morire, stroncati come foglie su rami
autunnali, e le voci si diffondevano per le Isole di Ferro: un
mercenario attenta alla vita della regina, e lei è
così
incompetente che lo permette, ma in fondo c'era da aspettarselo,
è solo una donnetta, e tutti si chiedevano chi
potesse
essere il mandante, e si ipotizzava questa o quella famiglia nobile ed
influente, ma erano meri pettegolezzi da mercato. Gli abitanti di Pyke
tremavano nei loro letti all'idea che la prossima vittima potesse
essere un loro familiare, amico, conoscente, o loro stessi. Non si
capiva cosa stesse cercando di ottenere, questo assassino misterioso,
perchè finora non aveva mai tentato di prendersi la vita
della
regina, benchè ella sembrasse il bersaglio più
logico,
benchè egli paresse invincibile ed il suo successo una
spaventosa certezza. Anche Yara non aveva dubbi: se il killer avesse
deciso di ucciderla, sarebbe morta. Se questo tipo riusciva a trucidare
guardie armate fino ai denti in gruppo, per lei non c'erano speranze.
Confidava nella propria forza e nelle proprie capacità, non
si
sottovalutava in quanto donna a prescindere, però era anche
dotata di grande obiettività, ed obiettivamente
quello era un nemico ch'ella non era affatto sicura di poter eliminare
in uno scontro fisico: però certo non lo evitava per
codardia.
Aveva fatto tutto il necessario, il possibile; aveva
rafforzato la sicurezza, innalzato nuove fortificazioni alla bell'e
meglio, assoldato nuove guardie sia come scorta personale, sia come
sentinelle di vedetta. Tutto era stato inutile. Ogni volta che Yara
faceva un passo avanti per scampare all'assassino seriale, egli la
sbeffeggiava vanificando i suoi sforzi e mietendo il doppio delle
vittime. Era un fenomeno terrificante, inarrestabile, a tal punto che
Tristifer le aveva proposto di trasferirsi.
-Potremmo chiedere asilo in un'altra isola e trovare un nascondiglio
nelle segrete, o qualche altro posto di massima protezione.- aveva
insistito, sollecito.
-Oh, molto astuta l'idea di chiedere asilo alle stesse persone che
probabilmente ci hanno messo un assassino alle calcagna.- aveva
replicato lei acidamente. -Non possiamo fidarci di nessuno, Tris,
men che meno degli abitanti delle altre isole. Mi odiano e, anche se
non
fossero loro ad aver architettato tutto questo, non vedono l'ora che il
tipo riesca a uccidermi, così si sarebbero liberati di me
senza doversi nemmeno sporcare le mani. E non guardarmi
così,-
aveva aggiunto, squadrando l'espressione allibita e disincantata del
marito, -perchè non tutti sono buoni e scemi come te. Apri
gli
occhi, maledizione! Il mondo è pieno di brutta gente, e tu
lo
scopri adesso? Scendi dalle nuvole, per l'amor del Cielo.-
Un po' deluso, egli non aveva insistito sull'argomento.
-Però
non possiamo nemmeno rimanere qui a farci ammazzare.- le aveva fatto
notare, ansioso.
Yara aveva scosso la testa, sconfortata. -Non esiste un maniero
più protetto di Pyke.-
Era vero, ma ormai Pyke era la scacchiera sulla quale l'assassino
muoveva le proprie pedine e faceva le proprie mosse, indisturbato, come
uno spettro. Era incredibile come facesse ad agire così
silenziosamente, rapidamente ed efficacemente, senza mai mancare
l'obiettivo. Il mare assisteva imperturbabile, ruggendo e scrosciando,
manifestando una rabbia intraducibile e cantando il dolore di un popolo
intero.
Avvenne durante un pomeriggio in cui la gradine s'era alleata con la
pioggia battente per impedire a Yara di uscire da Pyke; di solito, lei
preferiva fare un giro a cavallo fino ai villaggi per prendere un po'
d'aria, testare il clima che c'era e rassicurare la gente (il che non
le riusciva particolarmente bene, in parte perchè la
situazione
era davvero disastrosa come sembrava, in parte perchè il
carattere scontroso di Yara non l'agevolava granchè nei
rapporti
umani). Mentre percorreva un corridoio in direzione dello studio dove
teneva la contabilità, per controllare un importo
proveniente
dalle Città Libere, lo sguardo della ragazza -pronto e
vigile
per necessità- cadde su un minuscolo frammento di stoffa
rossa,
che una volta raccolto ed esaminato parve il lembo di un mantello. Le
guardie a Pyke non vestivano di rosso, e non erano venuti ospiti di
recente: tranne uno, non molto desiderato. Ma la cosa più
interessante era il luogo del ritrovamento; si trattava di una porta
che conduceva ai sotterranei, una serie di gallerie scavate appena
sopra il livello del mare, come ce n'era in quasi tutti i vecchi
castelli, d'altronde. Significava che l'assassino si serviva di quei
passaggi per muoversi per il castello, dato che esistevano quattro
accessi dislocati in diverse parti del maniero. Yara non ricordava
d'avere ordinato alle guardie d'ispezionarli, ma probabilmente lo
avevano fatto, senza però ottenere risultati. Utilizzare
quelle
gallerie per spostarsi significava anche conoscerle benissimo, a tal
punto da sapere dove nascondersi, in che punto v'era il collegamento
con il castello, eccetera. Possibile che l'intruso le avesse studiate?
Yara non perse altro tempo e decise di prendere un po' di guardie con
sè per ispezionarle daccapo, personalmente. Anche se magari
non
avessero trovato proprio il responsabile, almeno ci sarebbero state
tracce del suo passaggio: resti di cibo, mozziconi di candela, coperte.
Altrimenti cosa se ne faceva, dopo averne usufruito?
Yara andò in cerca del capitano delle guardie, per
riferirgli la
sua scoperta e le sue intenzioni, e le venne detto che lord Tristifer
l'aveva mandato a chiamare, perchè desiderava fare un'uscita
a
cavallo. Infastidita, la ragazza si diresse quindi alle stanze del
marito. Giunta alla porta, l'aprì e varcò la
soglia in
tutta fretta.
-Tris, dov'è Orkwood? Devo parlargli il prima po-
La voce le morì in gola. Tristifer Botley la fissava un po'
sconcertato, con gli occhi sgranati in un'espressione appena
allarmata; dalla bocca socchiusa colava una stilla di sangue che
sembrava una lacrima. Una grossa spada si faceva largo fra le sue
viscere, conficcata nello stomaco fino all'elsa, e lo teneva sollevato
da terra di pochi centimetri. Attorno a lui soltanto sangue, sul muro,
sul pavimento, sui vestiti pregni ed appesantiti. Le pupille vacue di
Tristifer erano fisse sulle sue, come una lenta, inconsolabile accusa.
L'urlo che salì alle labbra di Yara venne incompreso e
rifiutato
dalle labbra, che lo respinsero nella gola, al punto di rischiare di
strozzarla. Non riuscì a muoversi, a parlare, a chiamare
aiuto. Sapevi che
sarebbe potuto succedere. Lo sapevi. Soltanto
diversi minuti più tardi le guardie, svolgendo la
loro
abituale ronda, la ritrovarono incapace di reagire, l'odore del sangue
ad otturarle le narici. In seguito, furono fatte delle analisi a mente
lucida: secondo un esperto la spada non era stata
forgiata nelle
Città Libere, ma nemmeno nelle Isole di Ferro. Ma fu un
altro,
il dettaglio che venne indicato a Yara e che le fece accapponare la
pelle. Il dito mignolo era stato del tutto scorticato -quando
Tristifer era già morto, presumibilmente, dato che nessuno
l'aveva sentito urlare. Dunque il motivo per cui quel lembo di pelle
gli era stata rimosso, se non per torturarlo, non poteva essere che un
avvertimento, no? Scorticato.
-Domani mattina partiremo.- fu tutto quel che Yara
riferì
alle guardie, prima di uscire da quella stanza. Giusto il tempo per
seppellire quel disgraziato.
Voleva soltanto avere dei figli.
Voleva soltanto avere una famiglia, pensò
Yara, ingoiando dolorosamente il nodo di lacrime che le opprimeva la
gola. Non l'aveva amato, è vero, però erano amici
fin da
quando erano bambini. Gli aveva voluto del bene; c'era sempre stato
rispetto fra di loro. In fondo, grazie a lui, Yara aveva potuto
amministrare le Isole di Ferro come aveva voluto, pur essendo donna,
senza interferenze da parte sua. Quella piccola ingiustizia, soltanto
una microscopica goccia del mare d'ingiustizie che al mondo erano
avvenute, avvenivano e sarebbero avvenute, la ferì
più
profondamente di quanto avrebbe immaginato. Non aveva mai realmente
ipotizzato che Tristifer potesse morire; Tristifer, che viveva con la
spensieratezza e l'allegria che a lei erano sempre mancate. Pareva
troppo felice
d'essere al
mondo per poter essere ucciso. E, pur rimanendo ferma e fedele alle
proprie motivazioni, iniziò a percepire un infimo senso di
colpa
per avergli negato quelli che per convenzione erano i diritti d'un
marito; per averglieli negati, oltretutto, prima della fine.
Chi avrebbe mai immaginato che sarebbe potuta arrivare così
in fretta?!
Quella sera Yara prese sonno molto tardi, dopo aver trascorso il
pomeriggio ad organizzare un funerale in fretta e furia, senza invitare
nessuno se non i parenti di Tristifer; fu una cerimonia patetica, in
cui il terrore scuoteva l'aria ed il panico friniva attorno a loro,
sotto la cappa d'un cielo gravido di pioggia, ferito dagli squarci dei
tuoni. Persino gli sguardi dei suoceri erano taglienti, inclementi,
come se stessero silenziosamente accusando Yara di tutto quel ch'era
successo, dalla morte del figlio alla mancanza di eredi. E hanno ragione, rifletteva
lei, in parte hanno
ragione.
Quando si svegliò di soprassalto, nel cuore della notte,
Yara si
accorse che il buio attorno a lei era diverso dal solito, e la carenza
d'aria glie lo confermò: aveva la testa infilata in un
cappuccio
lanoso e ruvido. Immediatamente fece per gridare, ma una mano spinse la
stoffa nella sua bocca. Emettendo un verso rantolante e smorzato, Yara
scalciò, si divincolò e tentò di
sottrarsi in ogni
maniera, rendendosi conto di stare lottando per la propria vita. Il
cuore le martellava nel petto. E poi un dolore acutissimo esplose sul
suo braccio, acido e lacerante come il morso di denti d'acciaio
rovente, una sofferenza ustionante che colmò la sua mente e
dilaniò i suoi pensieri, distraendola persino dal pericolo
imminente. Dopo un'era interminabile finì, così
come
s'affievolì la presa inamovibile che impediva il corpo di
Yara
fino a svanire. Quando la ragazza si strappò il cappuccio
dal
volto, la sua stanza era già vuota. Fece per balzare in
piedi ed
inseguirlo, ma il dolore la frenò accecandola e togliendole
le
forze: ella lanciò un'occhiata al suo braccio, ricoperto di
sangue che continuava a scorrere da grossi tagli aperti. Soltanto una
mezz'ora più tardi, dopo che Yara chiamò le
guardie e
venne soccorsa, pulito il suo braccio ed esaminate le sue ferite, si
potè rilevare che gli sfregi incisi sulla carne erano stati
tracciati in modo da formare grossolanamente delle lettere. Le nostre lame sono affilate.
Il suo intento non era stato ucciderla, perchè
altrimenti l'avrebbe fatto, ma dimostrarle che poteva colpire
chi, quando, come e dove voleva, che nessuno lo poteva fermare.
Dopotutto, lei se andava anche con il sollievo di non lasciare Pyke nei
guai, di non venire meno ai suoi doveri di regina: ciò
che Ramsay Bolton voleva non era nè l'isola, nè
il castello,
nè lei. Era Theon.
Yara si presentò in camera di suo fratello, senza
attendere l'alba; la stanza veniva controllata costantemente da dei
piantoni.
-Andiamo.- esclamò appena entrata. Theon non dormiva,
com'era
prevedibile. Aveva saputo della morte di Tristifer, dopotutto. Il suo
sguardo era esplicativo, penetrante, e Yara non riuscì a
sostenerlo.
-Avevi ragione,- continuò nervosamente, -ma non abbiamo
tempo
per questo. Dobbiamo fare in fretta. Lui potrebbe arrivare da un
momento all'altro...-
-Dove andremo?- La voce di Theon era calma, per una volta.
Yara sospirò. -Immagino che lo scopriremo soltanto vivendo.
E
per vivere, l'unica cosa che dobbiamo fare è andarcene.
Ovunque
sarà meglio che qui.
Le nostre lame sono
affilate. Ho afferrato il concetto, ma non aspettarti che ripeta lo
stesso errore.
***
Un messaggero, dietro il codazzo di persone radunate nella tenda del
re, attendeva di essere ricevuto. Appena Bran lo adocchiò,
fece
un cenno con il capo dandogli il permesso di avvicinarsi.
-I Frey hanno intuito il nostro attacco e sono in stato d'allerta. Si
sono barricati dietro le mura, Maestà.- annunciò
con voce
ansante.
Gli occhi del re del Nord baluginarono di trionfo. -Perfetto.
Assolutamente perfetto. Rickon, sei pronto?-
Il fratello minore annuì con il capo e subito due
ragazzetti,
che non avevano più di undici anni, gli tesero una grossa
spada
e una mazza da guerra. Egli infilò nel fodero appeso alla
cintura l'una e strinse saldamente in mano l'altra.
-Dove hanno inviato le loro truppe?- domandò bruscamente al
messaggero.
-Nord-est rispetto alla Forca Verde.- bisbigliò lui,
intimidito.
Rickon lo squadrò con sufficienza, quasi chiedendosi se ci
fosse
di che fidarsi, ed avanzò oltre, seguito dai comandanti
delle
truppe.
-Mi raccomando. Sai che cosa devi fare. Tempismo e precisione.-
esclamò Bran, osservando il fratello che si dirigeva verso
l'uscita. -Alle posizioni delle catapulte provvederà
Edmure... e
stai attento.-
Rickon fece una smorfia e non gli diede troppo retta. -Sono
sopravvissuto senza le tue manfrine fino adesso, fratello. Scommetto di
poterlo fare ancora per un bel po'.-
L'unica persona che gli interessava davvero salutare era Myrcella, che
si era gettata fra le sue braccia con gli occhi lucidi. Torna, era stato
tutto quello che gli aveva bisbigliato all'orecchio, torna. E
era a quelle due sole sillabe che Rickon si sarebbe aggrappato, se
fosse sopraggiunto un momento di disperazione e sconforto. Solo per lei
gli importava tornare. Gli altri erano superflui, accessori. Gente che
prima non c'era, senza che lui ne sentisse la mancanza. Invece, in
fondo, l'assenza di una persona come Myrcella aveva sempre lasciato un
vuoto dentro di lui, che egli aveva sempre cercato di colmare nel modo
sbagliato.
-Ah, Rickon?- Le parole di Bran lo frenarono quando ormai era
già all'uscio della tenda. Si voltò, senza
curiosità. Negli occhi di Bran Stark, egli vide appiccato
l'incendio d'una frenesia nuova, come una gioia finora negata che
scoppi senza rigore, un contegno eluso e violato. -Non
tollererò
di vedere nessun supestite.-
E, per la prima e l'ultima volta in vita sua, Rickon
s'inchinò
solennemente sulle ginocchia, con il suo folle sorriso sulle labbra.
-Ai tuoi ordini, Maestà.-
Per pochi istanti non fu il sangue nè il dolore
ad
unirli, ma solamente l'ebbrezza di quella vendetta che nulla poteva
rimediare, nulla poteva restituire, nulla poteva concedere, se non una
felicità peritura d'indicibile bellezza.
Dopo una lunga marcia fino alle Torri Gemelle, che iniziò
all'alba, una parte dell'esercito guidata da Stannis andò a
combattere contro le truppe inviate dai Frey per respingere gli
invasori, mentre il grosso delle forze del Nord accerchiò le
Torri stesse; immediatamente, i soldati cominciarono a caricare le
catapulte con barili incendiati, contenenti olio, resina, pece ed altre
misture infiammabili e gli arcieri, armati di archi e balestre,
scagliarono frecce dai pennacchi fiammeggianti; quando finirono le
munizioni, si cominciò a scagliare torce, pezzi di legno
cosparsi di sostanze infiammabili. Le pietre del castello si fondevano,
rompendosi e causando il crollo di tetti e fortificazioni; i materiali
infiammabili all'interno delle torri propagavano l'incendio. Un'altra
parte dell'esercito si occupò di scavare buche ai piedi
della
muraglia, di modo da scoprire le fondamenta di legno ed appiccare il
fuoco anche lì, grazie all'ausilio di combustibili, per
provocare il collasso delle strutture sovrastanti, e quella precauzione
era stata presa anche per distruggere eventuali tunnel sotterranei
delle fortezze. Il resto degli uomini si curava che nessuna ala del
castello venisse lasciata incustodita e che quindi coloro che erano
all'interno non potessero fuggire in alcun modo, costretti a bruciare
vivi nelle torri oppure ad essere uccisi nel tentativo di evadere da
quella trappola mortale. Dopo tre ore di lanci, l'incendio divampava
alto fino al cielo e le Torri Gemelle, come avvolte nelle spire di un
serpente mastodontico, erano accolte dalle braccia della morte. Le urla
non si udivano già più. L'aria era rappresa di
fumo, un
fumo che anneriva la volta celeste ed impediva ai soldati di
distinguersi l'un l'altro, ma soltanto una cosa importava: il piano era
riuscito. Le truppe di Stannis, dopo aver sconfitto quelle dei Frey, si
diressero verso l'incendio; Davos Seaworth si sentì
stringere il
cuore a quella vista terrificante.
Soltanto sul far della sera Myrcella riuscì finalmente a
convincere gli attendenti, ai quali era stata data in custodia, ad
accompagnarla sul luogo della strage. Scesa dal carro, andò
a
cercare Rickon con occhi ansiosi nella folla dei soldati esultanti; lo
trovò di fronte alle Torri incendiate, a guardare con occhi
sgranati. Come se si trattasse d'un'immensa pira sacrificale, teneva un
ginocchio a terra, quasi in segno di rispetto -non tanto verso i morti,
ma verso la morte stessa. Poi s'alzò e chiuse gli occhi,
chinando il mento contro il petto, in torva e religiosa adorazione,
perchè quella del fuoco era l'unico culto che gli fosse
rimasto;
ascoltava il berciare stridulo e distorto delle mura che crollavano
progressivamente ed il canto limpido e cristallino delle fiamme,
perchè quella era l'unica verità che avesse mai
accettato.
-Rickon!- Mai vedere qualcuno aveva provocato tanto sollievo alla sua
anima. Le preoccupazioni dell'intera giornata erano evaporate alla luce
di quel sole crudele, quando Myrcella avvolse il corpo di Rickon con le
braccia, da dietro. Gli appoggiò la testa sulla curva del
collo,
prima di baciargli la nuca. Rickon si voltò e la
guardò
negli occhi, mentre un sorriso incurvava le sue labbra.
-Abbiamo vinto.- disse, quasi sconcertato dall'euforia. -Abbiamo vinto!-
Prese Myrcella fra le braccia senza la benchè minima fatica,
come se fosse uno spiritello d'aria, nonostante il sudore che gli
colava dalla fronte alle guance; cominciò a girare su se
stesso,
finchè la fanciulla non scoppiò a ridere. C'era
follia
nell'aria, insieme alla fuliggine ed alle scintille incandescenti; e
Myrcella si sentiva inguaribilmente, innegabilmente felice. Abbiamo vinto. Erano
parole dolci, parole sapide, parole di cui si colmarono la bocca fra un
bacio e l'altro, ubriachi ed insaziabili. E Myrcella
partecipò
appieno a quell'abbiamo
vinto, senza
timore, senza esitazione, non più. Forse quello contro il
petto
di Rickon non era il suo posto, in fin dei conti, però lei
voleva che lo fosse, e per una volta il destino non avrebbe dovuto
intromettersi.
-Sei stato molto valoroso.- sussurrò lei, con un sorriso
commosso.
Rickon inarcò un sopracciglio, beffardo. -Più
valoroso dei tuoi cavalierucci dall'armatura scintillante?-
-Molto, molto di più.- assicurò Myrcella
divertita, baciandolo di nuovo.
L'esercito del Nord rimase tutta la notte presso le macerie delle Torri
Gemelle, mentre i soldati penetravano nelle fortezze e cercavano di
fare un vago calcolo delle vittime, in quei corridoi dove la cenere dei
suppellettili s'univa a quella delle fanciulle. L'unica vera superstite
ch'era stata miracolosamente rinvenuta era una ragazzina minuta, di
circa quattordici anni, che invano aveva finto di essere morta; a lei
Rickon aveva rivolto un sorriso giulivo, sussurrando adesso vediamo cosa posso
farmene di te. Oh, forse mi è venuta un'idea.
Fu al mattino che giunse l'esercito di Re Tommen. Lo
scontro fu
evitato per il fatto che l'unico ponte che avrebbe permesso di accedere
all'una o l'altra sponda era sotto il controllo degli uomini del Nord,
e perchè il pericolo dell'incendio che ancora imperversava
non
era scampato. L'unico che ebbe l'ardire di attraversare il ponte e
spingersi quasi fino all'altra sponda fu Rickon, con Myrcella al suo
fianco; il motivo fu presto spiegato.
Quando i suoi uomini fecero notare a Tommen l'arrivo del giovane Stark
con la prigioniera, il re non riuscì a trattenere
l'entusiasmo. Me la
vuole restituire,
fu il primo, ingenuo pensiero. La sua mente lavorava febbrile,
inebriata da inaspettate e vivaci speranze, ed il pensiero di
ciò ch'era accaduto alle Torri Gemelle era già
stato
accantonato. Quindi quello Stark aveva portato Myrcella in guerra con
sè... poteva averlo fatto solo per una ragione, no?
Altrimenti
l'avrebbe tenuta al sicuro, nelle segrete di Grande Inverno. Magari
chiedeva uno scambio, un compromesso... Tommen gli avrebbe dato
qualsiasi cosa, pur di riavere sua sorella al fianco. Qualsiasi? Anche la pace? sussurrò
una vocina sibilante al suo orecchio. Tommen lo scartò a
disagio: ci avrebbe pensato a tempo debito, casomai quella
situazione si fosse presentata. Myrcella, Myrcella! Chissà
quanto aveva sofferto! La sua povera e fragile Myrcella non si meritava
tutto questo. Ma stava per finire, sì, Tommen aveva il
fraterno
dovere di proteggerla. Non se la sarebbe fatta sfuggire dalle mani di
nuovo.
-Come sta? L'avete vista? È ferita? Rispondete!- aveva
subito chiesto ai soldati, impaziente.
-Sembra incolume, Maestà.- era stata l'incerta risposta.
-Stark
chiede un colloquio privato con te, concedendoti di portare una scorta,
per dimostrare d'avere buone intenzioni. Ad ogni modo,
rimarrà sul ponte e non ti raggiungerà.-
Ma Tommen avrebbe preferito uno scontro a singolar tenzone, piuttosto
che un colloquio. Come si permetteva, quello, di trattarlo come un
bambino?! Forse che lui non aveva il suo rancore, la sua brama
di
vendetta? Forse che lui non desiderava cancellare Rickon Stark dalla
faccia della Terra, più di quanto il nemico non desiderasse
cancellare lui?
-Io non ho niente da dirgli, ho soltanto una sorella
da recuperare e una spada per trafiggergli il cuore.- aveva risposto,
spavaldo. Era l'affetto di fratello, la nostalgia verso Myrcella a
farlo parlare in questo modo
-ed anche il fatto di non aver mai visto Rickon in azione,
già.
Non aveva idea di chi fosse l'avversario che affermava di voler sfidare.
Dopo aver udito la proposta ed aver valutato la questione, Tyrion
persuase il nipote ad accettare, sebbene non fosse affatto certo delle
buone intenzioni del giovane Stark. Se
chiede un colloquio, non è per trattare la pace,
sicuramente;
quindi le alternative sono che lo vuole ferire o umiliare, aveva
concluso fra sè. Sarebbe stato comunque interessante
scoprire cosa Rickon Stark avesse da dire -o da mostrare. Ma
forse che Tommen aveva scelta? Si sarebbe svergognato agli occhi del
proprio schieramento e di quello avversario, se si fosse rifiutato.
Fu così che Tommen scelse chi portare con sè,
senza avere troppi dubbi:
-Ser Loras.- decretò immediatamente, -zio Jaime, lady
Brienne.-
Si fece consigliare per nominare altri quattro guerrieri, poi non
esitò a partire il prima possibile, smanioso e scalpitante
al
pensiero di riabbracciare Myrcella.
Il drappello abbandonò l'accampamento, posto nei pressi di
Seagard, e si diresse fino al ponte che connetteva il Nord al Sud.
Rickon era là, proprio sul ponte, a portata di voce ma
abbastanza distante da essere avvolto dalla nebbia arrossata di fuoco;
stava osservando gli uomini a cavallo avvicinarsi, sogghignando. Quando
il rumore degli zoccoli si placò improvvisamente e le figure
rimasero immobili davanti a lui, il ragazzo parlò, con una
voce
aspra e aguzza come Tommen non aveva mai sentite.
-Guarda guarda, e questo sarebbe il piccolo leone. Ma lo sai che
assomigli incredibilmente a tua sorella? Anzi, potrei
fottervi entrambi senza rendermi conto di chi è chi.-
Il giovane Baratheon avanzava e cercava di mostrarsi impavido allo
sguardo dei suoi uomini e di quelli del Nord. L'aspetto di Rickon Stark
gli fece correre un brivido lungo la schiena, coperta dal mantello
reale: era addirittura sinistro,
con quei lunghi ciuffi rossi, asimmetrici e diseguali, che ricadevano
sulla spalla sinistra come un rivolo di sangue, e la grossa
pelliccia striata di grigio adagiata sulle spalle, estremamente pesante
a vedersi; e poi il volto era impressionante, segnato da una lunga
cicatrice che dallo zigomo scendeva oltre il collo, dove le vesti
impedivano di sbirciare, e gli occhi erano accesi come braci
di fuoco azzurro. Il suo sorriso, a snudare lunghi canini acuminati,
aveva qualcosa di
predatorio, di tagliente. Tommen ignorò l'insulto gratuito
con
dignità, evitando sdegnosamente di rivolgersi a quello
strano
barbaro dalla voce roca. Non c'era nulla di Stark in lui.
-Vedo che ti sei portato dietro quella checca di Tyrell. Le sue
braccine non sarebbero buone nemmeno arrostite, da mettere sotto i
denti, figuriamoci per tirare di spada...- continuò
sferzante, lanciando un'occhiata di scherno a ser Loras, che -se il
soldato di fianco a lui non gli avesse tirato una gomitata per
zittirlo- chissà che spergiuro avrebbe sbottato.
E Myrcella?
-Myrcella!- urlò Tommen, la voce contrastata dal vento, i
riccioli
biondi arcuati e solleticati fino a creare diafani arabeschi nella
cenere. -Myrcella!-
Quando la vide, il suo cuore fece una capriola nel petto. Era lei, era
lì, pallida e bellissima nell'aria glaciale, come una
flessuosa
statua di neve calda, esile ed estremamente graziosa. Il fratello non
la ricordava così bella. Era piccola ed indifesa fra le
grinfie
di quello Stark, fasciata di stoffa celeste e lucente, le spalle nude e
lasciate in balia dell'aggressività del vento. Soltanto le
gote
erano punzecchiate d'un dolce color cremisi.
Ma c'era qualcosa che non andava. Tommen non se ne accorse subito,
però dopo averla chiamata a gran voce fu impossibile
negarlo:
lei non sembrava altrettanto impaziente di ritrovarlo. Sua sorella era
aggrappata al braccio
del rapitore e non diceva nulla, tenendo lo sguardo a terra;
quando udì il proprio nome,
lanciò una breve occhiata timorosa al fratello, come se non
lo
riconoscesse nemmeno. Forse che Rickon le avesse ordinato di non dargli
retta ed ignorarlo? Eppure sarebbe stato molto più
divertente
per lui, a rigor di logica, sentirla supplicare e singhiozzare e
chiamare il fratello vanamente, e conficcare quella voce implorante nel
cuore di Tommen, e mettergli davanti agli occhi quel grande dolore....
-Myrcella...- sbraitò Tommen. -Myrcella, mi senti?-
Infine puntò lo sguardo accusatore contro Rickon.
Perchè Myrcella non parlava, quindi? Perchè non
rispondeva?
Perchè non strillava e piangeva pregando d'essere liberata?
Egli si aspettava di certo un altro genere di accoglienza, come un
sorriso contento, una lacrima sulla guancia, una traccia di quel
sollievo ch'ella avrebbe dovuto provare, nel vedere i tanto amati volti
dei suoi parenti dopo tanto tempo...
-Che cosa le hai fatto?-
lo apostrofò, indicando Myrcella con il capo.
Il giovane Stark sorrise dolcemente. -La questione non è che
non
ti sente. Non ti vuole ascoltare. Sei contento, Lannister? La vostra
depravazione è riuscita ad inorridirla.-
-Che cosa stai dicendo?!- Tommen guardò dalla parte di sua
sorella. Sembrava davvero stare bene, almeno fisicamente. Indossava un
vestito di raso bianco senza spalline, con una sottoveste azzurro
fiordaliso ricamata a fiori ed inserti turchesi anche nel bustino; dei
cristalli luccicanti ne decoravano lo scollo e i fianchi. Un abito da principessa del
Nord, anzichè del Sud,
pensò egli. Il viso di Myrcella era intatto, chiuso nel
suo niveo candore, e le sue labbra rimanevano serrate in un'espressione
di sostenuta negazione. Egli cercò il suo sguardo, senza
successo; più la richiamava, più si esponeva,
più
ella s'imbarazzava ed indietreggiava.
-Le ho raccontato tutta la verità.- rispose Rickon,
gustosamente. -Su di voi e le empietà che avete commesso
indisturbati. E adesso vi disprezza, com'è giusto che sia.
Ma
diglielo tu, Myrcella, altrimenti non mi crede.-
Myrcella schiuse le labbra, come per rispondere, ma poi parve cambiare
idea e scosse la testa stordita. -Io parlo solo con te. Non voglio
parlare con... nessun altro.-
D'un tratto, proprio quando era riuscita ad abituarsi e ad apprezzare
la sua nuova condizione, la realtà d'un tempo si parava
davanti
a lei e la chiamava. Myrcella era estremamente confusa e, all'idea di
ciò che presto avrebbe dovuto fare, tremava e cercava il
calore
del corpo di Rickon sotto il mantello.
-Sentito? Nessun altro.-
Il
ghigno del ragazzo si allargò, mentre tendeva un braccio per
circondarle la vita. Tommen emise un singulto. Il gesto non era certo
passato inosservato.
-La stai costringendo a
dire così. La
stai obbligando. Non
sta parlando di sua volontà! È così
evidente... Myrcella, ti prego, ascoltami.-
Poi fece l'errore di scendere dal cavallo e d'avanzare di qualche
passo. Myrcella spalancò
gli occhi vitrei, scossa da uno spasmo, e si nascose dietro
la figura di Rickon. Non era certa di nulla, ma l'unica cosa che sapeva
era che non voleva tornare indietro. Non voleva tornare a prima. Non
voleva vivere ad Approdo del Re a chiacchierare con Margaery e guardare
i fiori che sbocciano, con il sole sulla pelle. Quella non era vita
vera, vita pura, vita apprezzabile; soltanto una pseudo-esistenza senza
timori nè speranze, senza gioia nè dolore, un
limbo
indefinito e neutro, dove la passione e l'adrenalina non l'avrebbero
mai colta. Lei, per la prima volta, voleva correre,
gridare, farsi
sentire; lei voleva Rickon.
Il grande metalupo che seguiva Stark ovunque si parò davanti
ai
due e mostrò i denti, terribilmente simili a quelli del
padrone,
ringhiando. Il ragazzo strinse la fanciulla più
forte.
-Non ti preoccupare, è troppo lontano per poterci
raggiungere. Non ti prenderà.- assicurò a voce
bassa.
Rassicurando? Rickon la stava rassicurando? Perchè lei
aveva...
paura di Tommen? Non ti prenderà. Le uniche parole che
Myrcella
voleva sentire...
-No.- biascicò Tommen. -No, è tutto un inganno.
Lei non
può davvero... insomma! Myrcella, sono io! Sono Tommen...-
Sono Tommen.
È proprio questo il punto.
Tu rappresenti tutto ciò che sto fuggendo, tutto
ciò che
minaccia la mia felicità in questo momento. Tu sei l'altro,
l'oppositore, il nemico. Tu sei colui che abbiamo vinto. Perchè Rickon ti
odia, tu odi Rickon, quindi adesso voi due mi state costringendo ad
odiarti. Come fai a non capirlo?! Myrcella
tentò di nascondere il viso nel suo mantello, ma Rickon
si scostò in tempo per impedirglielo. Si chinò su
di lei,
e c'era quasi indulgenza nella sua voce, insieme ad una pericolosa,
carezzevole beffardaggine.
-C'è
un'altra cosa che vuoi dire in presenza di questi signori. Non
è
vero, Myrcella?-
La fanciulla strizzò gli occhi, quasi per scacciare quel
pensiero. Quando in precedenza il ragazzo glie l'aveva proposto, la sua
prima
reazione era stata l'orrore. Devi
darmi un'ultima prova del tuo amore, era stata la
premessa, ma Myrcella dapprima s'era rifiutata. Non posso farlo, aveva
mormorato. Non posso. Allora
Rickon le aveva sfiorato le labbra con un bacio lieve come brina. Davvero non puoi? Io credo di
sì.
Myrcella sollevò la testa. Non guardava
nessuno,
soprattutto non Tommen. Non avrebbe sopportato di vedere un miraggio
disgregarsi nei suoi occhi, la disillusione distorcergli i lineamenti,
una debole eco di dolore in gola. Dopotutto, anche se adesso stava
rifiutando lui e tutto ciò che comportava, l'aveva amato
molto,
e c'era la possibilità che gli volesse ancora del bene, da
qualche parte nel suo cuore abbagliato. Il suo sguardo era vacuo,
perduto, mentre parlava.
-Volevo dire
che... io e mio fratello... siamo frutto di un incesto. Ciò
significa che nostro padre non è Robert Baratheon, e che...
la
pretesa del trono di Tommen... non ha alcun valore.-
La voce suonò atona e monocorde, ma nelle orecchie di Tommen
fu assordante come l'ultimo battito cardiaco di un moribondo,
affilata ed impietosa come una lingua di quel ghiaccio
che sembrava aver contaminato Myrcella. No. No. No. Non poteva averlo
detto sul serio.
-... la sta costringendo. La sta costringendo.- Ormai suonava
più come una supplica che come un'affermazione; lui
conosceva
-aveva conosciuto- Myrcella, e sapeva quant'era
coraggiosa, sapeva che non avrebbe mai ceduto a dei subdoli ricatti,
che non avrebbe mai calunniato la sua famiglia, nemmeno se c'era di
mezzo la sua stessa vita...
Jaime Lannister mosse le labbra in una parola senza suono. Brienne di
Tarth strinse in pugno una mano; il suo sguardo non aveva mai
abbandonato il giovane Stark, dritto ed implacabile come una lama,
concentrato in un odio aspro e disgustato, come se stesse esaminando
criticamente il divario che c'era fra loro.
Rickon aveva l'aria di starsi divertendo un mondo. -E come fai a
saperlo? Forse tua madre te l'ha confessato, prima di morire?-
Myrcella chiuse gli occhi, le ciglia umide di lacrime. Ormai era troppo
tardi per fare marcia indietro. -... sì.-
-Bugiarda!- E fu in quel preciso momento che la voce di Tommen,
dall'accomodante incertezza iniziale, si ruppe. -Bugiarda!-
La sorella non lo ascoltò nemmeno; crollò fra le
braccia
di Rickon, come se fosse esausta. Il ragazzo si voltò
trionfante
verso Jaime Lannister.
-Lo vedi, Lannister? Non puoi più nascondere la
verità, adesso. Per quanto credevi di passarla liscia,
ancora? La mia ragazza ha parlato.-
-Io non ho niente da dimostrare, Stark, e sicuramente non a te.-
rispose, con una fiera compostezza, una fredda calma che Rickon non
aveva immaginato potesse mantenere. -Sei arrivato tardi. Questa diceria
hanno già cercato di sfruttarla in troppi, quando tu ti
pisciavi ancora a letto.-
-Ho smesso giusto in tempo per farci entrare tua figlia e sbudellarti
al primo colpo, in effetti.- sibilò Rickon. -Adesso che
persino Myrcella ammette quanto eravate disgustosi, oltre che la mera
evidenza, che prove speri di trovare per convincere i Sette Regni del
contrario?!-
Jaime fece una smorfia. -Se fossi in te, mi preoccuperei più
di dire addio alla testa che di dare aria alla bocca.-
Rickon scoppiò a ridere. -Oh, chiedilo alla mia ragazza,
quanto sa essere persuasiva
la mia bocca...-
La gola di Tommen era arida; la voce si scagliò oltre le
labbra
quasi con violenza. -Lei non
è la tua ragazza, e gli Dèi
sanno quanto le farò rimpiangere queste calunnie, che
sicuramente tu le hai ordinato di dire. Se tu non ti fossi
comportato come un codardo rimandendo laggiù, se avessi
avuto il
fegato di affrontarmi, a quest'ora te l'avrei tagliata io, la testa. Ma
ben presto succederà, e-
-No.- Myrcella afferrò la mano di Rickon e la
portò alle
labbra, per poi baciarla. La sua voce era pregna di lacrime. -No.
Tommen, basta.-
Il cielo si stava frammentando in mille pezzi e precipitava addosso a
Tommen, perchè adesso si chiariva nella sua mente quel basta. Basta
credere che io sia ancora la Myrcella che hai lasciato, basta
ingannare ed umiliare te stesso in questo modo davanti a tutti, basta
sperare che io stia ancora dalla tua parte. Basta. Lasciami andare alle
mie colpe, alle mie scelte. Lasciami andare.
Era imbrattata del sangue
della loro madre, quella mano che Myrcella baciava con
tanta devozione.
-Traditrice.- Tommen sputò quella parola come
un bolo di
sangue. Il suo petto era scosso dal respiro incalzante. Un pianto
rabbioso gli inondava le iridi smeraldine.
Jaime Lannister, dall'alto del cavallo gli poggiò la mano
sulla
spalla. -Andiamo, Tommen. È inutile rimanere qui a farci
deridere
ancora.-
Myrcella intercettò il suo sguardo per la prima volta, da
quando
erano arrivati. Negli occhi di Jaime non c'era risentimento, solo una
fioca delusione. Perchè,
Myrcella, perchè? Lei distolse gli occhi,
imbarazzata dall'enormità della sua colpa, riflessa negli
occhi degli altri. Lo
sai perchè. Non è molto più nefanda
della tua, in fondo.
Se credeva davvero alle parole che Rickon le aveva chiesto
di
pronunciare? No, no, non voleva. Preferiva rimanere salda nella sua
convinzione che, almeno in quello, la famiglia Lannister non fosse
proprio così
depravata.
Rickon godeva assistendo alla disperazione del ragazzo biondo. -La mia
voleva essere
soltanto una dimostrazione del fatto che tu, che voi non potrete
prendere
più nulla di ciò che è mio. Non a me.-
-E chi
saresti, tu?- replicò Tommen, infastidito dalla sua
arroganza.
-Sono il tuo incubo, piccolo Lannister,- ribattè Rickon
rivolgendogli un sorriso sferzante, -e vedrai che quando
vorrò prendermi la tua
piccola testolina riccioluta da cherubino
e il tuo
dolce cuoricino infranto non sarà un ponte a fermarmi. Su,
non
guardarmi così: il mio è un gesto
compassionevole. Voi
Lannister farete una bella riunione di famiglia all'inferno.-
Dopo queste parole, si voltò con uno scatto che raccolse il
vento pungente sotto il suo mantello, gonfiandolo, e svanì
nella
rossa nebbia come uno spettro, e Myrcella -la piccola traditrice- stretta
a lui, con così tanta sfacciata impudenza.
L'esercito del Nord ritornò all'accampamento e lì
si
celebrò un banchetto come si deve per rifocillare i soldati
e
festeggiare il primo successo. Bran, nonostante sapesse che avrebbe
dovuto essere tormentato dai sensi di colpa, per la prima volta da
quando era partito si sentiva allegro, in qualche modo. Il trionfo
sulle Torri Gemelle gli aveva dimostrato che la vittoria non era
impossibile: era soltanto questione di fare del proprio meglio per
raggiungerla. Bran aveva inoltre udito con molto stupore di
ciò che Myrcella aveva detto in faccia a suo fratello e a
suo
padre; non la credeva sul serio innamorata di Rickon, o comunque capace
di fare una cosa del genere. Durante i festeggiamenti Rickon si
alzò in piedi,
sovrastando il brusio generale, il boccale alla mano.
-Propongo un brindisi in onore della nostra amica,- urlò,
indicando Myrcella con un cenno, -che ci ha dimostrato che ormai
nemmeno i Lannister sopportano più i Lannister!-
L'affermazione venne accolta da un boato di feroce giubilo ed
entusiasmo. Myrcella sorrise debolmente: si sentiva ancora un po'
scossa dalle forti emozioni di quella giornata, però
avvertiva
che il legame fra lei e Rickon era cambiato. Prima, il giovane Stark
continuava ad essere ai suoi occhi una figura algida, scostante ed
imprevedibile: adesso percepiva una nuova vicinanza alla sua anima,
quasi le bastasse allungare le dita per toccarla; una
comprensione limpida e reciproca, priva di ostacoli e
fraintendimenti. Aveva raggiunto la lunghezza d'onda dei suoi
sentimenti, aveva ottenuto il libero accesso alla sua vita, era entrata
a far parte della sfera dei suoi rari affetti. Non era più
una
serva costretta al silenzio ed all'obbedienza, ma era riuscita
faticosamente a guadagnarsi un valore nel cuore gravemente malato del
suo aguzzino. Il loro era diventato un equilibrio, un'armonia
-un'alleanza, un'unione più sacra e tangibile persino di
quella
che un matrimonio avrebbe potuto offrire. Rickon si sedette di nuovo,
si voltò verso di lei e sorrise; fissandola negli occhi, le
sollevò il mento timidamente chino con l'indice.
-Ho apprezzato molto quello che hai fatto oggi per me,-
bisbigliò, -sai?-
Myrcella arrossì. -Non riuscirò mai a sdebitarmi,
rispetto a ciò che tu
hai fatto per me.-
Il ragazzo parve avere avuto una delle sue strane idee,
perchè sgranò gli occhi.
-Sai che cosa facciamo adesso? Ci ubriachiamo di brutto e stanotte ci
impegnamo a distruggere la tenda. Che ne dici?-
La fanciulla ridacchiò alla vista della sua espressione
maliziosa. -Non credo che tuo fratello sarebbe d'accordo...-
-Da quando in qua si fa quello che vuole Bran?- ironizzò
Rickon,
scrollando le spalle. Poi rimase qualche istante in silenzio, le prese
il viso fra le mani e la baciò -fu un bacio caldo ma non
ardente, intenso ma non violento, e Myrcella capì che tutto
era
diverso, più incredibile eppure più vero -che d'ora in
poi non sarebbe stata coraggiosa soltanto per se stessa, ma anche per
lui. Non voglio essere
la sua debolezza, pensò, ma la sua forza.
Gli uomini del Nord non erano certo intenzionati a limitare
l'esuberanza del loro tripudio: il vino scorreva a fiumi, a tal punto
che Bran mise il palmo aperto sul bicchiere di Rickon, dicendo con un
sorriso al coppiere:
-Direi che lui per stasera è a posto così.-
-E perchè mai? Non fare il guastafeste, Bran!-
sbottò Rickon, rosso quanto i suoi capelli in volto.
-Tu sei pericoloso, da ubriaco.- osservò il fratello
giudiziosamente.
Da parte sua, Jojen stava in disparte. Le feste e la confusione non gli
piacevano molto, e stava piluccando uno stufato con non troppo
interesse. Bran lo osservò e sorrise: era così
tipico da
parte sua starsene zitto e lontano mentre tutti facevano
baldoria. Accostò il volto al suo, per poter farsi
sentire
in mezzo al trambusto dei calici, delle posate e delle risa.
-Non ti stai divertendo granchè, vedo.-
-Non particolarmente.- confermò Jojen, piegando un angolo
della
bocca in una sorta di mezzo sorriso. -Però ciò
che conta
è che la missione abbia avuto un esito soddisfacente.-
-Non ho mai avuto dubbi, e non ne avrei avuti nemmeno se il messaggero
fosse giunto a riferirmi il contrario. Mi fido di te.-
dichiarò
Bran, senza interrompere il contatto visivo fra loro.
Jojen esaminò con attenzione le profondità
più
recondite dei suoi occhi, quasi potesse strapparvi qualunque segreto.
-Ne sei sicuro? Ti fiderai sempre di me, Maestà? Qualsiasi
cosa
accada?-
Bran aggrottò la fronte; quelle parole suscitarono una
strana
sensazione alla bocca del suo stomaco, come un lieve fastidio.
-Qualsiasi cosa accada, ovviamente.-
Jojen gli rivolse un'ultima occhiata meditabonda, prima di riabbassare
lo sguardo sul suo piatto. -Buono a sapersi. Ah, penso che ti convenga
stare attento a Rickon... è riuscito a farsi riempire il
bicchiere un'altra volta.-
Gli uomini del Nord festeggiavano acclamando il loro re, inconsapevoli
del fatto che presto gli spettri delle Torri Gemelle avrebbero preteso
il loro tributo.
***
-Mio signore, sono tornati.- lo avvisò un attendente, al
quale
egli stesso aveva dato proprio quel compito. Tyrion Lannister
sollevò subito il capo dalla mappa sulla quale era chino da
ore,
ormai; aveva passato la notte precedente in bianco, armato di piuma,
inchiostro e dell'immancabile bottiglia di vino dorniano.
-Grazie, Thorn.- Congedò il ragazzo con un cenno distratto;
effettivamente dopo pochi istanti Tommen Baratheon varcò la
soglia della tenda, rapido e furibondo come una folata di vento
invernale.
-Nipote,- lo chiamò Tyrion circospetto, seguendolo con uno
sguardo interrogativo, visto che gli sembrava piuttosto scosso.
-Com'è andata?-
Non ottenne risposta; Tommen strinse le labbra in un'espressione
addolorata e cacciò le unghie nel palmo, digrignando i
denti.
Alle sue spalle comparve Jaime, anch'egli piuttosto abbacchiato, che
lanciò al fratello un'occhiata eloquente, quasi a dire: dopo
ti
spiego.
Sorprendentemente, invece di sparire sotto un cumulo di cuscini e di
rosicchiare uva come faceva sempre quand'era di cattivo umore,
Tommen sedette di fronte allo zio, al tavolo dove egli stava
progettando la
marcia, scostando uno sgabello con un rumore sordo.
-Ti è venuta qualche idea?- disse solamente. Tyrion
inarcò
le sopracciglia, sorpreso, perchè tutto questo interesse per
gli
affari bellici da parte del nipote gli risultava nuovo; però
non
commentò.
-Certo che mi è venuta qualche idea. Non starai mica
sottovalutando il mio
acume? Guarda un po'. E' l'unica cosa di cui mi posso vantare, e pure
lo mettono in discussione...-
-Non sono in vena di scherzare.- tagliò corto Tommen, con
una
freddezza inedita per lui, che quasi stonava con il suo viso di solito
aperto in un sorriso.
Tyrion pose la piuma nel calamaio e gli rivolse uno sguardo che
sperò apparisse autoritario, ma anche partecipe e premuroso.
-Io
non lo sono mai, perciò voglio sapere che cosa è
successo con Stark. Avanti, non costringermi a strapparti le parole di
bocca... ha fatto qualcosa di male a Myrcella?- osò
ipotizzare,
dato il furore del ragazzo.
Tommen chiuse gli occhi, come se la realtà fosse davvero
troppo
orribile per essere guardata nella sua interezza, da quegli occhi
troppo chiari e giovani.
-Oh, sì. Non gli è bastato
prendersi mia madre e mio nonno. Si è portato via anche
Myrcella.- rivelò, con voce intinta d'amarezza, che
s'incrinò appena nel pronunciare il nome della sorella.
-Cosa intendi?- domandò lo zio, preoccupato, avvertendo un
pizzicorino di preoccupazione ai palmi delle mani.
Tommen attese diversi istanti prima di rispondere, con voce tagliente.
-Che mia sorella non c'è più. Al suo posto,
c'è
un'estranea che ha appena annunciato pubblicamente la mia origine
bastarda e l'infondatezza della mia pretesa al Trono di Spade.-
A quelle parole, Tyrion ammutolì. Com'era possibile? Le
sembrava
assurdo che Myrcella, che teneva a suo fratello più di ogni
altra cosa, avesse affermato un'ingiuria del genere, anche se sotto
ricatto. Era una fanciulla troppo tenera e gentile. E poi, che scopo
aveva avuto quella pantomima?! Era stata architettata soltanto per far
soffrire Tommen, oppure davvero qualcuno avrebbe dato retta alla
confessione estorta alla giovane Myrcella? Sarebbe stata davvero
considerata una fonte così autorevole? Sarebbe bastato
spiegare
ch'era stata costretta a farlo dal suo aguzzino per chiudere la storia
una volta per tutte ed evitare danni all'immagine della famiglia.
-Che risvolto... inaspettato.- considerò infine.
Lanciò
un'occhiata a Tommen: ora la sua crisi gli pareva giustificata.
Myrcella era uno dei pochi membri della famiglia che gli restavano, e
quella a cui era più affezionato. Dopo aver tanto penato per
la
sua assenza, quel colpo di scena doveva essere stato una vera batosta
per lui. -Che hai intenzione di fare?-
-La prima volta che Rickon Stark e mia sorella capitano nelle mani
delle mie guardie,- cominciò il ragazzo con voce spezzata,
-voglio che li uccidano
entrambi.-
Il Folletto sussultò; suo nipote aveva perso davvero il
senno.
-Tommen, ragiona! So che sei arrabbiato, adesso, ma è
proprio il
rancore ad offuscarti la mente. Quando passerà, ti
renderai conto della scemenza che hai detto...-
Tommen lo interruppe furioso. -Sono il tuo re. Non sei autorizzato ad
accusarmi di dire scemenze nemmeno quando le dico.-
Per quelle parole, Tyrion gli avrebbe volentieri girato la faccia con
una sberla, come faceva senza problemi con Joffrey, d'altronde;
però vide una
piccola lacrima scintillare sulla sua guancia e preferì
lasciarlo stare. Il ragazzo non sapeva quel che diceva; schiumava
d'astio e dolore, conteso fra i due sentimenti, sfinito da entrambi. Le
cose da affrontare e da accettare erano state davvero troppe per lui, e
tutte in un lasso di tempo così breve...
A quel punto, Thorn irruppe nuovamente nella stanza; dopo aver lanciato
una breve occhiata perplessa alla figura di Tommen, accartocciato su se
stesso, si rivolse a Tyrion.
-Mi dispiace disturbare ancora, mio signore, ma sono giunte ben tre
lettere.-
-Tre? Addirittura?- Eppure il Folletto non sembrava troppo sorpreso,
quando tese una mano per prenderle. Esaminò le buste: due
provenivano dalla Valle di Arryn, proprio coem sperava, e una da
Approdo del Re. Non vedeva l'ora di leggerne il contenuto.
-Puoi andare, ragazzo.- Fece un cenno a Thorn, che si
dileguò.
Mentre Tommen rimaneva lì seduto, rinchiuso nel suo
silenzio, la
testa fra le mani e lo sguardo sulla superficie del tavolo, Tyrion
aprì la prima lettera inviata dalla Valle. Il mittente era
un
pitttore piuttosto famoso, a cui aveva chiesto un piccolo favore -in
cambio di una generosa ricompensa, s'intende. La seconda era la
risposta del septon addetto agli archivi anagrafici della Valle, ad una
domanda che Tyrion gli aveva fatto. La terza... la terza era la prova
lampante che la sua intuizione era esatta.
-Invece io ho due buone notizie per te, Tommen.- annunciò al
nipote. -Primo, so dove attaccheremo adesso, cioè a Delta
delle
Acque. In secondo luogo... so dove si è nascosta Sansa Stark
per
ben otto anni.-
Tommen, benchè il suo umore non fosse granchè
migliorato,
sollevò il capo. -Sansa? Davvero? E come hai fatto a
scoprirlo?-
Tyrion fissò la lettera apparentemente
proveniente
da Approdo del Re, con un ghigno allegro. -Beh, a quanto pare
lei
non è mai riuscita a dimenticarsi di me. Abbiamo persino
mantenuta attiva la corrispondenza, anche se me ne rendo conto soltanto
adesso...-
***
Neve illibata ed
incorrotta tutt'intorno, il Giardino degli Dèi di
Grande
Inverno. Una fanciulla molto giovane, con una lunga e morbida treccia
castana lungo la schiena a raggiungere i fianchi, prega inginocchiata
davanti agli occhi rossi e lacrimanti di resina, al tronco rugoso e
biancastro di un albero del cuore. Poi si rende conto di essere
osservata e solleva il capo, sorpresa. Si volta e lo guarda con occhi
supplicanti -color del muschio, gemelli dei suoi.
-Ti prego, Jojen,- mormora, afferrandogli le spalle con l'impeto della
disperazione, -ti prego, ho bisogno di te. Non puoi lasciarmi sola ad
affrontare tutto questo. Io... non ce la faccio.-
È difficile rifiutarle l'aiuto che chiede: il suo
viso
è tremendamente simile a quello di Bran, nei tratti, nella
fronte, nella linea del naso. Ed è strano vedere la
riproduzione
perfetta dei suoi occhi sul volto di un'altra persona. Con un po' di
fantasia, la si potrebbe scambiare per una figlia loro; però
chi
la conosce sa che c'è troppo di Meera in lei.
Jojen sospira, irremovibile. -Mi dispiace, ma questa è una
strada che devi intraprendere da sola. Non posso essere io ad aiutarti.
Non sta nella natura delle cose. Lo capisci, non è vero?-
Lei tace, lo sguardo colmo d'angoscia, ma infine annuisce sconfortata.
-Quello che vedo... quando dormo. È tutto reale. Non si
tratta
di semplici sogni. Però io cosa dovrei farmene, adesso?
Cercare
di cambiare il futuro sembra una follia, ma non c'è altro
scopo... vedo tutte queste cose per un motivo, me lo sento. Sai cosa
significa sentirsi impotenti in questa circostanza.-
Jojen le carezza una guancia con l'indice, cogliendo la piccola lacrima
che le sta scivolando sul viso. -Tu ce la puoi fare, Levenna... Non
perdere mai la fiducia in te stessa.-
L'immagine cambia. Un esercito che irrompe in una fortezza, la
distruzione, sangue, urla, morte. Una porta si apre ed una figura si
volta di scatto. Cambia ancora. Una ragazza dai lunghi riccioli dorati
stringe una spada con entrambe le mani, goffamente, ma c'è
desiderio di uccidere nei suoi occhi verdi. Il baluginio della lama che
fende l'aria. I contorni dell'immagine sbiadiscono e si distorcono fino
a disgregare il soggetto. Fiamme. Un mare di fiamme sommerge la sua
vista, una pira, e c'è qualcuno al di sopra di essa...
qualcuno...
Jojen spalancò gli occhi, nel buio della notte.
Nessuno
era ancora sveglio per udire il suo respiro concitato. Chinò
la
testa a guardare le proprie mani tremanti afferrate al lenzuolo. Allora è
così che andrà. Ne aveva sempre
avuto il presentimento, dopotutto.
Si alzò dal letto e si vestì in silenzio,
lanciando
talvolta qualche occhiata al volto assopito ed immobile di Bran sul
cuscino, nascosto dalle coperte fino al mento. Non si sveglierà, lo
sai già. Non deve svegliarsi. È assolutamente
cruciale che non lo faccia. Jojen
si allacciò il lungo mantello verde sotto il mento e si
chiese
se gli servisse dell'altro: lo sguardo cadde su un corto pugnale,
facile da nascondere, che Bran teneva sempre su un tavolinetto accanto
al letto, in caso di emergenza. Lo lasciò scivolare con
noncuranza in una delle numerosa tasche interne del mantello.
Si chiese se il suo re sarebbe mai stato capace di perdonarlo.
Affinchè egli potesse farlo, Jojen avrebbe dovuto
raccontargli,
dimostrare, spiegare cos'era stata la vita per lui dopo quel risveglio
dalla febbre grigia, a partire dal quale il mondo aveva spesso di
stupirlo; non
c'è tempo,
sussurrava il dovere con voce fievole, occhi inclementi e mano di marmo
sulla sua spalla. Non c'è tempo, concordò Jojen
stancamente. Sorrise, pensando a quanto difficile era stato fingere con
Bran che Jojen Reed non fosse capace di dolore, incertezze e
turbamento. Se anche il suo scoglio avesse avuto una
precarietà
potenziale, infatti, il giovane Stark non avrebbe più voluto
crederci. Buona notte,
che questa sia una buona notte, come tutte quelle a venire. Buonanotte,
Brandon.
Dopo avergli concesso un ultimo, lungo sguardo, Jojen
scostò i lembi della tenda e si espose all'intemperanza
dell'aria notturna. Presto
tutto gli sarà chiaro, fu
l'ultimo pensiero che gli dedicò. Salutandolo non lo aveva
chiamato Maestà: un vero peccato, che Bran non fosse sveglio
per
farglielo notare.
Jojen percorse l'accampamento fino a trovare la tenda di Edmure Tully.
Alle guardie che la sorvegliavano:
-Devo parlare con lord Tully, adesso.- disse. -Si tratta di
un'emergenza.-
Dapprima gli uomini erano titubanti, ma poi lo riconobbero e lo
lasciarono passare: se il veggente diceva ch'era un'emergenza, doveva
per forza esserlo.
Edmure fu svegliato da dei cortesi ma insistenti colpetti sulla spalla.
-Chi diamine...?!- bofonchiò fra sè. Quando
aprì
gli occhi, Jojen Reed era in piedi accanto al suo letto.
-Chiedo venia per il risveglio improvviso, ma ho avuto una visione.
Dobbiamo partire subito.- decretò senza preamboli. Edmure si
passò una mano fra i capelli scarmigliati, smarrito.
-E perchè non vai a riferirlo a Bran?-
-Perchè è tua la casa che i Lannister hanno
intenzione di
incendiare. Proprio così, la loro prossima meta è
Delta
delle Acque. Se partiamo adesso avremo un vantaggio di almeno una
giornata su di loro.- spiegò, ma non fece nemmeno in tempo a
finire. Edmure era già balzato in piedi.
-Partiamo? Significa che verrai con me?-
-Io e almeno duecentocinquanta dei tuoi uomini.- precisò
Jojen.
-Non posso fare altrimenti, mio signore. Se non venissi, non potrei
aggiornarti in tempo sugli spostamenti dei Lannister, nè
sulle
direzioni da cui hanno intenzione di attaccare.-
-Non dire altro, ho capito.- si affrettò a fermarlo Edmure,
concitato, infilandosi frettolosamente un farsetto. -Aspetta un
momento, Bran lo sa?-
-Non c'è tempo.- ripetè il ragazzo, cupo. -No,
non lo sa.- Ed
è proprio per questo, pensò, che il piano riuscirà.
Note dell'Autrice: Buon primo dell'anno a tutti! Eccomi qua con il
nuovo capitolo, stracolmo di novità. Come vedete, i Frey
hanno fatto proprio una brutta fine...
Edmure e Jojen partono per una spedizione in salvataggio di Delta delle
Acque, all'insaputa di Bran. Ci riusciranno, oppure i Lannister avranno
la meglio? Tyrion ha scoperto forse dove si trova Sansa? E che cosa
farà? E dove andrà Yara con Theon per fuggire
dalla follia di Ramsay? Spero di poter postare presto il prossimo
capitolo per soddisfare le vostre curiosità!
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Verde fu il reato. ***
8
VIII.
Verde fu il reato.
-Dov'è?-
Il giovane attendente che era giunto a portargli la colazione, carne
arrostita e una fetta di formaggio, non aveva idea di che cosa
rispondere; indugiò, fissando timorosamente il riflesso dei
propri occhi in un boccale ricolmo d'acqua.
-Chi, mio signore?- domandò infine, titubante,
temporeggiando.
Bran lo fulminò con un'occhiata impaziente, che fece
trasalire
il povero ragazzo di spavento.
-Jojen, e chi altri... Dov'è?-
Quando s'era svegliato, quella
mattina, s'aspettava come al solito di sollevare le palpebre ed
incontrare gli occhi verdi e cogitabondi del suo consigliere, chino su
di lui e pronto a presentargli il piano della
giornata; così non
era stato. Bran aveva esaminato l'intera stanza assolata con lo sguardo
offuscato di sonno, però non l'aveva visto da nessuna parte.
Era
inconsueto; non c'era nessun altro posto in cui Jojen dovesse -o
volesse- andare, che non fosse perennemente al fianco del suo re. Bran
aveva atteso pazientemente che tornasse, casomai avesse voluto l'idea
di farsi quattro passi; ma non era mai arrivato.
L'attendente si chiese perchè mai quel compito ingrato
toccasse
proprio a lui. Quella mattina avevano fatto a botte, fra la
servitù, per passarsi a vicenda l'incarico.
-Maestà,- cominciò a voce bassa, -Jojen Reed
è partito... questa notte.-
Il re del Nord sbattè le palpebre, stordito, come se
qualcuno
avesse picchiato violentemente, molto vicino al suo volto, i palmi
delle mani l'uno contro l'altro.
-... che cosa?- fu tutto ciò che disse. -Che...-
-Per Delta delle Acque.- sussurrò ancora l'altro,
desiderando
vivamente di scomparire sotto gli occhi sempre più
sconcertati
del ragazzo.
Bran cominciava a comprendere ch'era
tutto vero, e che sul serio Jojen era partito, lontano,
non lì, era andato... andato...
-Ma che senso ha? Cosa vuol dire... che è andato a Delta
delle Acque?
Come? Perchè?- Le parole gli sfuggirono dalle
labbra, incalzate
da un'irritazione sbalordita, come se il suo intelletto non potesse
accettare tante stramberie. -Chiamami lord Stannis e lord Edmure, subito.-
L'attendente si umettò le labbra con la lingua,
terrorizzato. -Maestà, lord Tully è partito
insieme a
Reed...-
-Oh, fammi indovinare, ci sto andando anch'io in un attacco di
sonnambulismo patologico?!- sbottò Bran, con sarcasmo
pungente,
furibondo. Poi si
strofinò il volto, confuso, e sospirò.
La stanchezza
gli fece bruciare l'interno delle palpebre e il collo indolenzito.
-Scusami. È
che tutto ciò mi sembra assurdo... Ti prego, chiamami
Stannis.-
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e corse via. Appena pochi
minuti più tardi, quando
l'ultimo rimasto della nobile casa Baratheon varcò la soglia
della sua tenda, fu accolto da un:
-Cosa è successo stanotte, si può sapere?-
Stannis contrasse la mascella, rivolgendo un'occhiata di biasimo fredda
e sprezzante alla scomposta irritazione del ragazzo, seduto sul letto
di fronte a lui.
-Ne so quanto te. Mi è stato
riferito da Seaworth che il veggente ha avuto una visione di Delta
delle Acque assediata dai Lannister e si è precipitato a
svegliare Tully, così sono partiti insieme ad un numero non esiguo dei suoi
uomini.-
Bran non udì quel preoccupante non esiguo. Tutto
ciò che gli importava di sentire era che quella rivoltante
situazione non era soltanto ragionevole e logica, ma anche rimediabile.
L'incolumità di Jojen non poteva essergli sfuggita dalle
mani in
modo così stupido, ignaro, passivo, senza che potesse avere
almeno la possibilità di opporsi, che diamine! Gli spettava
almeno l'occasione di sistemare tutto.
-E perchè io non sono stato... non dico interpellato, ma
nemmeno informato di
tutto ciò?- domandò con stizza; la preoccupazione
si
faceva strada dentro di lui come un coltello nelle carni.
-Perchè Reed credeva che non ci fosse tempo da perdere... e
che
non avresti dato il tuo consenso.- rispose Stannis, con impietosa
franchezza.
-Aspetta un attimo, mi stai dicendo che sono stato bellamente scavalcato?!-
Bran era esterrefatto dalla rabbia; il suo interlocutore non rispose,
ma gli
rivolse uno sguardo lungo, fisso e un po' annoiato. Le parole di Bran
si inseguirono in tracollo vertiginoso, sopraffacendosi l'un l'altra.
-Se c'è una
cosa che Jojen mi ha insegnato sulle visioni, che riguardino presente,
passato o futuro, è che nulla di ciò che appare
al
sognatore può essere cambiato. Che intenzioni ha?! Gli
è
andato di volta il cervello?! Che senso ha partire per salvare un
palazzo destinato alla rovina e al saccheggio?!- Bran
cominciò a
slacciarsi la camicia bianca e spiegazzata dal sonno, e si accorse che
gli tremavano le dita. -Chi? Chi ha permesso a quel pazzo di agire
contro la mia volontà?-
-Si tratta di una spedizione a tua insaputa, non contro la tua
volontà.- lo corresse Stannis, incrociando le braccia, mal
tollerando quell'agitazione di cui conosceva l'estrema ragione,
deprecandola profondamente. Il re del Nord gli scoccò
un'occhiata furiosa.
-Io avevo chiesto, anzi, avevo preteso
che a Jojen Reed non fosse mai permesso di allontanarsi dalla mia
vista! Lui deve rimanere costantemente sotto la mia, la nostra
protezione, capisci? Prova ad immaginare cosa succederebbe se cadesse
nelle mani dei Lannister!- Il suono delle sue stesse parole lo
inorridì. Non era possibile che Jojen ci fosse davvero già
così vicino, non era possibile, era troppo schifosamente
spaventoso per stare avvenendo...
Stannis si fece scettico. -Credi davvero che sarebbe capace di
tradirti?-
-Non mi riferivo a ciò che succederebbe a noi,-
ribattè Bran indignato, -ma a ciò che
succederebbe a lui! Gli
estorceranno le nostre mosse con i ferri roventi! Gli strapperanno gli
occhi dalle orbite!-
L'uomo non parve particolarmente impressionato. -Bando alle paranoie
inutili, Stark. I Lannister sono appena partiti, mentre Edmure e la sua
truppa sono in viaggio dalle prime ore della notte. Avranno tutto il
tempo per mettersi in salvo prima che i Lannister li raggiungano a
Delta delle Acque.-
-E se così non fosse?!- Bran lasciò scivolare le
braccia
sul materasso, debilitato, come se non riuscisse a sostenere tanto
tormento nel corpo già troppo spesso provato.
-In teoria, potresti ancora andare incontro ai Lannister ed attaccare
il loro esercito in marcia, prima che possano raggiungere Delta delle
Acque.- aggiunse Stannis, torvo in volto. Il re del Nord
sgranò
gli occhi, incredulo.
-Davvero non è troppo tardi? Davvero potrei?-
-Sì, certo, se volessi mandare a morte tutti i tuoi
uomini
e costringerli ad una marcia logorante che li decimerebbe.- Stannis
inarcò un sopracciglio. -Nemmeno Joffrey Lannister sarebbe
stato
capace di una cosa simile, quindi mi auguro che non ti sia passato
neanche per la testa.-
Solo in quel momento Bran si accorse di quanta perfidia ci fosse nella
giustizia. Non poteva far rischiare la
vita ad un esercito di più di ventimila persone... ma, nel
momento stesso in cui rifiutava di andare a salvarlo, gli veniva
spontaneo chiedersi: davvero
la vita di Jojen aveva un prezzo, e davvero egli si stava rifiutando di
pagarlo?! Loro erano i suoi uomini, lui doveva essere un buon re, si
fidavano di lui, avevano delle famiglie che li
aspettavano a casa. E tutto questo era così vero, e buono, e
sensato, e giusto. Ma... Jojen? Come poteva permettere che facessero
del
male a Jojen?
Quanta perfidia c'è nella lista dei doveri d'un re, pensò
Bran con tristezza. Quanta
perfidia c'è nella mia scelta.
-No.- bisbigliò, distogliendo lo sguardo. -Neanche passato
per la testa.-
Quello sarebbe stato il momento meno appropriato del mondo per mettersi
a piangere, ed allo stesso tempo quello in cui Bran provò
più l'urgenza di farlo. Stannis parve quasi un po'
impietosirsi
della sua misera bugia.
-Se posso intromettermi in una faccenda che non mi riguarda, cosa che
non mi
è affatto solita, non mi preoccuperei troppo per Reed. Per
quel
che ho potuto capire, progettando gli schemi bellici insieme a lui per
una ventina di giorni, è un ragazzo sveglio. Di certo non si
sarebbe gettato allo sbaraglio in un'impresa suicida, se non ci fosse
qualcosa da prevenire o da ottenere.-
-Jojen ha disobbedito alle mie disposizioni, e verrà punito
quanto prima per questo.- replicò Bran, con voce dura e
temprata
dal rimpianto. -Ma ordino che mi vanga fatta recapitare all'istante una
lettera in cui mi spiega i motivi della sua partenza e le strategie che
ha intenzione di mettere in atto. Vieni, Estate.- chiamò
poi,
tendendo una mano oltre il materasso per chiamare il suo metalupo.
Quando uscì dalla tenda sulla sua groppa, contraendo
infastidito
le palpebre alla pressione dell'uggiosa luce di quella giornata, i
capelli scompigliati a scendergli sulle spalle, la prima persona che
gli venne incontro fu Rickon.
-Il tuo concubino ti ha piantato perchè aveva voglia di
sperimentare con un uomo più maturo, ho sentito dire.- lo
sbeffeggiò con un ghigno allegro che fece prudere le mani di
Bran dal desiderio di atterrarlo, con un bel manrovescio.
-C'è poco da ridere. Perchè accidenti hanno
concesso a Jojen di andarsene dal mio
accampamento, con i miei
soldati, intromettendosi nella mia guerra?
Tutto ciò è semplicemente pazzesco. Sono o non
sono il
maledetto re?! Se dico una cosa voglio che sia quella, non che si
attenda bramosamente la prima occasione per fare tutto il contrario!-
Era quasi esasperante, per Bran, quella situazione. Gli sembrava che il
destino si fosse divertito ad illuderlo con certezze di vittoria e
salvezza fino a quel momento, proprio per rendere poi più
amara
la sua disfatta, che si fosse coalizzato con tutti i moti intrinseci
dell'universo per realizzare l'irrealizzabile. Perchè i
Lannister
avevano deciso di attaccare Delta delle Acque, e soprattutto,
perchè Jojen l'aveva messo gratuitamente e scientemente nei
guai, gravandolo anche di quella preoccupazione? È in casi come questi
che avverto l'impellente esigenza di avere un consigliere al mio fianco,
pensò, quindi
peccato che mi abbia appena scaricato per andare a salvare i castelli
altrui. Un'irragionevole
gelosia lo punse al cuore. Se Jojen lo riteneva un buon re,
perchè faceva di testa sua e gli giocava questi tiri
mancini?!
Rickon scrollò le spalle, portandosi alle labbra un lungo
osso
sottile di cui Bran preferì non indagare l'origine, e lo
mordicchiò distrattamente.
-Nessuno ha avuto il coraggio nè l'autorità di
fermare
zio Edmure. Come dargli torto? Era ovvio che desiderasse la buona
riuscita del piano, gli era appena stato predetto che gli sarebbe
andata in malora la casa... e per la buona riuscita del piano aveva
bisogno del mangiaranocchie. Perciò fai due più
due,
fratellino. Cosa avrebbero dovuto fare, le nostre guardie?-
-Svegliarmi.- sbuffò Bran. -Ecco cosa avrebbero dovuto fare.
Altrimenti va a finire che sono l'unico a non sapere le cose, come
oggi. Se non può cambiare il futuro, cosa è
andato a fare
Jojen a Delta delle Acque?! Non capisco, io vorrei soltanto che lui
fosse qui adesso. Mi viene male soltanto a pensare a quanto lontano
è. Fintanto che non è più sotto la mia
custodia
può accadergli di tutto, e non va bene, non va per niente
bene...-
Non si era reso conto di stare parlando ancora con Rickon; s'interruppe
e gli lanciò una breve occhiata imbarazzata. Ma, al
contrario di
quanto si aspettasse, il fratello non lo derise.
-Non fasciarti la testa prima di averla rotta. Vedrai che
andrà
tutto bene. Quell'idiota di Reed avrà un piano per cavarsela
anche questa volta, di sicuro ce lo ritroveremo di nuovo fra le
scatole...- commentò Rickon, e questo si poteva quasi
interpretare come una sorta di... rassicurazione fraterna?
-La tua Lannister ti sta sciogliendo come un pupazzo di neve in
primavera, Rickon.- riuscì a sorridere Bran, in parte
rasserenato da quelle parole che suonavano così
adorabilmente
fiduciose ed assennate, ed egli si accorgeva di stare man mano
recuperando la lucidità, dopo lo sconvolgimento iniziale.
Non
era
il caso di darsi al pessimismo cosmico, effettivamente. Sì,
anche
Stannis gli aveva detto una cosa del genere, che Jojen sapeva quel che
stava facendo, eppure...
Ne sei sicuro? Ti fiderai sempre di me, Maestà? Qualsiasi
cosa accada?Quelle
parole riecheggiarono nella sua mente, e suonarono ancora
più inquietanti della sera prima. Un atroce sospetto prese
forma. Che Jojen... sapesse già dal giorno
precedente tutto
ciò che sarebbe accaduto? Di Delta delle Acque, il
risveglio di Edmure, la partenza? Però ciò
implicava che
avesse volutamente tenuto nascosto e taciuto fino a notte
fonda
l'intera faccenda, anzichè avvertire fin dall'ora di cena
dell'assalto, il che non aveva senso. O forse sì?
Rickon grugnì. -Prova a ripeterlo, e ti
assicuro che al suo ritorno il tuo crannogman dovrà trovarsi
un altro culo da spaccare.-
Bran alzò gli occhi al cielo. -Ah, Rickon, Rickon, cosa me
ne devo fare di te...-
Un messaggero interruppe il loro dialogo. Per un secondo, l'idea che
portasse notizie di Jojen ed Edmure gli fece sussultare il cuore nel
petto, ma poi fu deluso dalle parole che seguirono.
-È stato avvistato un fuoco d'accampamento nei pressi di
Seagard,
dov'erano le truppe dei Lannister, Maestà. Vuoi che mandi
qualcuno a controllare che non sia una spia?-
Il ragazzo ci riflettè un secondo. -Rickon, vuoi andarci tu?-
Lui alzò le spalle. -Per me va bene. Se è un
alfiere dei
Lannister, non aspettatevi che ve lo riporti indietro tutto intero.-
Fatto sta che, mentre Bran rimase all'accampamento a inveire contro le
guardie, Rickon si assicurò che Myrcella nella sua tenda
dormisse serena, prese un cavallo e s'avviò nella direzione
indicatagli dal messaggero. Al suo fianco, come sempre, v'era
Cagnaccio, che con tutto il trambusto dell'incendio non andava a caccia
da un pezzo. Durante il tragitto, che durò diverso tempo, il
giovane Stark rivolse i suoi pensieri alla discussione che aveva avuto
poche ore prima con Myrcella. Allora Rickon ancora sonnecchiava, in
stato di dormiveglia, una mano infilata sotto il guanciale su cui
posava la testa e l'altro braccio a cingere il corpo esile della
fanciulla, rannicchiata sul suo petto. Dopo aver assecondato per vari
minuti quel silenzio intorpidito e pastoso, la voce di Myrcella aveva
raggiunto, fievole ma melodiosa, le orecchie del ragazzo.
-Sai, pensavo... quando attaccheremo Approdo del Re...
perchè
prima o poi la attaccheremo, no? Quello è l'obiettivo
finale.-
-Giusto.- concordò Rickon, sorridendo compiaciuto nell'udire
quel noi dolce
come il miele.
-So che non posso chiederti di risparmiare... mio fratello,-
continuò, omettendo persino il nome di Tommen, imbarazzata,
-o
Margaery, o i miei zii. Però... però il
bambino... per
allora sarà già nato, quindi non bisogna
ucciderlo per
forza...-
-Tutti i Lannister devono essere sterminati.- replicò
Rickon, quasi apatico. -Tutti. Tutti significa tutti.-
-Mio
fratello è
innegabilmente un pericolo, Margaery è un'arrivista
cospiratrice
e i miei zii si sono macchiati delle peggiori infamie,-
sussurrò
Myrcella, addolorata più di quanto ella stessa credesse da
quelle parole, perchè
non la convincevano fino in fondo, -ma quel piccolino che colpa ha?!
Quella di nascere?-
-Tutti significa tutti, indistintamente dalla responsabilità
o
meno, tutti coloro che portano il nome Lannister.- ribadì
lui,
pigramente. -Sì, credo che la sua colpa sia proprio nascere.
Oh,
avanti, Myrcella, non fare la drammatica. Non
soffrirà
nemmeno. Non si renderà neanche conto di morire, o di essere
esistito. Sarà come se non ci fosse mai stato.-
tentò
goffamente di consolarla e, notando che l'unico risultato che aveva
ottenuto era stato quello di farla fremere di sdegno,
cercò un'altra strada. -Tu non vuoi che la storia si ripeta,
vero? Che qualche ragazzino inferocito venga ad ucciderci
perchè
abbiamo sterminato la sua famiglia? È quello che
succederà, se lasciamo il bambino in vita. Non è
adesso
che è una minaccia, ma quando avrà quindici,
vent'anni,
non sarà più un piccolo frugoletto indifeso, ma
più probabilmente uno sterminatore armato di mazza. Il
sottoscritto è la prova vivente di quel che ti sto
spiegando.
Effettivamente, Greyjoy avrebbe dovuto uccidermi un po' meglio.-
ironizzò, lasciando scivolare le dita nella lunga chioma
aurea
della ragazza.
Myrcella parlò d'impulso, senza ragionarci troppo. -Allora
lascia che lo
cresca io! Quando i suoi genitori saranno morti, lo potrei prendere ed
accudire ed educare per farlo diventare una brava persona. Un
filo-Stark, per così dire. Sono sua zia, dopotutto.-
Quello che il giovane Stark non sapeva era che delle voci avevano
perseguitato la fanciulla nel sonno. Traditrice, traditrice,
dicevano, e c'era Cersei con un'espressione stomacata che bisbigliava tu non sei più mia
figlia. Traditrice, traditrice,
e Myrcella avrebbe voluto mettersi le mani sulle orecchie per non
sentire più nulla. Nessuno di loro capiva? Nessuno di loro
riusciva ad amarla senza ricatto, senza condizioni? Hai fatto la tua scelta, sussurravano
le voci, hai preferito
morire con lui che vivere con noi. Ma
Myrcella non credeva di essere una traditrice. Era rimasta fedele a
ciò che provava nel cuore, senza cedere ad un odio facile
nè lasciarsi corrompere dalle invocazioni di Tommen, senza
rinnegare nè sopprimere quel sentimento, senza fingere.
Myrcella
Lannister era rimasta fedele a se stessa, e ne andava fiera. Se
soltanto non ci fossero state quelle voci, quelle maledette voci...
-Non è funzionato con Theon, e non so quanto potrebbe
funzionare
con un Lannister. È sangue cattivo.- sputò con
disgusto.
-Anche io sono sangue cattivo.- obiettò Myrcella, un po'
irritata, -eppure sono qui adesso. Avanti, Rickon, per una volta nella
tua vita non puoi avere un po' di pietà?-
Quella parola fece scattare Rickon come una fiammella sul combustibile.
-C'è forse stata pietà per Bran, quando
è stato
gettato da una finestra?! C'è forse stata pietà
per me?!
Se loro mi avrebbero voluto vedere volentieri morto, perchè
io
dovrei comportarmi diversamente?!-
Myrcella cercò i suoi occhi nel buio, fermandoli nei suoi,
tristi ma saldi. -Perchè tu sei una
persona migliore di
loro.-
La sua voce era forte, questa volta, e senza esitazione. Dopo diversi
istanti di silenzio, con la stessa compunta serietà,
-Myrcella, io dei bambini non solo li ho già uccisi, io li
ho mangiati.
Sai che cosa significa? Tu non puoi davvero ancora ostinarti a credere
che io sia la persona magnanima che vorresti. Essere migliori degli
altri conduce al patibolo, di questi tempi.-
aveva commentato freddamente Rickon, incontrando le labbra della
ragazza per sedare quella conversazione così sgradevole ed
assopire il rancore. Rickon,
povero caro, non può fare a meno di pensare che la colpa sia
sua e si sente un mostro, rimuginava intanto lei, ma
non sa che deriva tutto dal male che gli hanno fatto, e che in
realtà lui è buono, lui è nobile, e io
ho visto,
ho percepito quanto lo è. Non mi resta che cancellargli
dall'anima questa idea, poco per volta, altrimenti
continuerà a
renderlo infelice ed insoddisfatto di sè per il resto dei
suoi
giorni. Poco più tardi, Rickon l'aveva lasciata
a riposare ancora un po' nella tenda borbottandole all'orecchio il battito del tuo cuore mi ha
fatto venire fame.
Riflettendoci su in seguito, egli scosse la testa. La proposta di
Myrcella era fuori discussione. Rickon non avrebbe mai accettato di
crescere nella sua casa un piccolo, infido Lannister con i capelli
biondi e gli occhi verdi. Non se lo meritava, quella famiglia che gli
aveva strappato tutto ciò che aveva. Non si meritava la pietà, nemmeno
nei confronti di quel bambino. Era Myrcella che aveva un cuore troppo
tenero. D'altra parte, però, deprecò quella
maledetta
abilità della fanciulla di metterlo sempre in
difficoltà,
di persuaderlo con poche parole, d'ammansirlo con una sola carezza.
Quando giunse al punto di vedere poco distante ergersi fra le chiome
degli alberi un sottile filo di fumo, Rickon diede un colpetto alla
groppa di Cagnaccio.
-Tu va' pure a caccia. Io ho qualche faccenda da sbrigare con l'alleato
ritardatario dei Lannister. Non preoccuparti, me la caverò.-
Non c'era bisogno di pronunciare ad alta voce tutto ciò,
perchè il suo lupo come sempre aveva inteso.
Abbandonò il
fianco del ragazzo e svanì in una chiazza di vegetazione,
dalla
parte opposta; Rickon invece si avviò verso il fumo, per
cercarne l'origine.
Quel che trovò, proseguendo a camminare e lasciando il
cavallo
legato poco lontano per non annunciare troppo rumorosamente il suo
arrivo, contando sull'effetto sorpresa, fu una radura: al centro
v'era allestito un fuoco da campo, ormai quasi morto, ed il fumo
proveniva dalle sue braci roventi. Però, valutò
Rickon
con occhio esperto, risaliva a più o meno un'ora e mezza
prima.
I responsabili non potevano essere andati molto lontano. Inoltre,
intorno
v'erano un paio di coperte e una bisaccia -colma di provviste, si
poteva indovinare ad intuito. Ma proprio mentre Rickon si avvicinava
per perquisirla, qualcuno si avventò contro di lui con
incredibile rapidità.
Il ragazzo era abituato agli attacchi a tradimento, dopo una vita
trascorsa a Skagos, e sbattè il nemico che gli era balzato
sulla
schiena a faccia a terra; ma quello non era uno sprovveduto, e gli
tirò un calcio sulla mascella che lo costrinse a lasciare la
presa sulle sue spalle. L'aggressore era minuto di corporatura ed
incredibilmente agile, veloce nei movimenti come pochi. Dopo diversi
minuti di corpo a corpo, durante i quali si rotolarono sul terreno
invertendo continuamente le posizioni e si morsero, presero a calci e a
pugni, l'avversario riuscì a tirare un calcio nello stomaco
a
Rickon ed arretrare; ma, anzichè fuggire come sarebbe stato
saggio fare, sguainò una spada dal fodero. Solo allora il
ragazzo si rese conto che quella era una femmina. Aveva
i capelli scuri e corti, tagliati malamente in ciuffi irregolari, forse
con quella stessa spada, un viso dai lineamenti affilati ma non
spiacevoli e occhi volitivi, grigio-azzurri.
-Ti do la possibilità di arrenderti.- sibilò con
voce
sferzante. Rickon sogghignò con disprezzo, un po'
indispettito
all'idea di essersi lasciato tenere testa da una ragazza in un corpo a
corpo.
-Succhiami il cazzo.- replicò, mentre lei, visibilmente
offesa, scoccò un fendente che -sebbene Rickon fosse quasi
certo di averne potuta prevedere la traiettoria, gli ferì il
braccio. Così cercò di farle cadere la spada di
mano
sferrandole un colpo al polso dal basso, ma lei volse il braccio
dall'altra parte e gli puntò la lama alla nuca. Egli le
afferrò le caviglie, con l'intento di farla cadere a terra,
ma
la ragazza gli sferrò una gomitata che gli colmò
la bocca
di sangue, lo prese per i capelli e lo scaraventò a terra
senza
troppe cerimonie.
-La possibilità di arrendersi è ancora valida, se
adesso
t'interessa.- lo sbeffeggiò lei, e Rickon
immaginò che
stesse sorridendo. Ma
come diamine fa? si domandò sconcertato. Come diamine fa ad atterrare un
ragazzo con il doppio della sua forza?! Era sinceramente
umiliato dalla piega che gli eventi stavano assumendo.
-E la mia offerta pure.- rispose annaspando, ingoiando il sangue e
rotolando di lato, per poi rialzarsi e morderle ferocemente il braccio
con cui reggeva la spada. Lei però non mollò la
presa e
gli sferrò un colpo alla spalla -superficiale,
sì, che
però ad aggiungersi a quello al braccio era ulteriore sangue
versato. Rickon capì che la ragazza non lo voleva uccidere,
bensì ferire ed indebolire fino al punto di impedirgli di
combattere ancora, però lasciandolo in grado di rivelare
perchè fosse venuto lì; altrimenti avrebbe avuto
tutte le
occasioni di sferrargli un colpo fatale.
Fu a quel punto che Rickon vide Cagnaccio comparire fra gli alberi, e
provò un'ondata di sollievo. Finalmente, pensò,
mi chiedevo dove fossi
finito.
E qui fu uno shock, perchè il lupo non gli si
avvicinò nè tentò di aggredire la
sconosciuta, ma
fiutò il suo odore nell'aria e si sdraiò a terra,
come se
non ci fosse proprio nulla da fare. Ma cosa cazzo gli prendeva, pure a
lui? Rickon si chiese se non stesse sognando qualcosa di strampalato. Azzannala, insomma! rivolse
il pensiero al suo lupo, ma Cagnaccio sbadigliò e si
leccò il muso sporco di sangue con tutta la
serenità del
mondo. La ragazza approfittò della sua disattenzione per
puntargli la lama al collo, ma Rickon trovò il momento
giusto
per afferrarle la mano e -presumibilmente dal rumore- romperle una o
due dita, facendole cadere sonoramente la spada a terra, e prenderla
per il collo. Gli occhi di lei lampeggiarono furibondi. Gli
tirò
una ginocchiata allo stomaco e un pugno in faccia che, se Rickon non si
fosse spostato giusto un po', gli avrebbe spaccato il naso e lo fece
cadere per terra, per poi scagliarvisi sopra e bloccargli le mani al
suolo, ansimando. Poi accadde qualcosa di altrettanto inaspettato: un
altro metalupo fece irruzione nella radura. Ma com'è possibile?
si chiese Rickon incredulo. Aveva la pelliccia bianca sul ventre e sul
muso, mentre sulle orecchie e sul dorso il colore era ramato e grigio.
Appena incontrò gli occhi del lupo, Rickon
realizzò: un
ricordo lontano lo pugnalò al cuore, fugace ma preciso,
affilato, infraintendibile. Questo significava che...
Rickon guardò la sua assalitrice negli occhi, con completo
sconcerto, e dalle sue labbra scivolò, effimero e sottile
come
la sabbia: -Arya.-
All'udire quel nome, la ragazza aggrottò le
sopracciglia guardinga e un po' allarmata. -Come...-
Il ragazzo sentì le labbra tumefatte flettersi e la bocca
ferita
si spalancò in un sorriso sbigottito. Allora lei si
voltò
a guardare il grande lupo nero che la osservava indolente, e
poi di nuovo il ragazzo bloccato sotto di lei. Notò con
stupore
crescente gli occhi azzurri, i capelli rossi, come se una sua azzardata
fantasticheria trovasse troppi riscontri nella realtà.
-... Rickon?- concluse, allibita.
Per alcuni istanti non poterono fare altro che fissarsi meravigliati,
quasi temendo che tutta la scena scomparisse come un miraggio da un
momento all'altro.
-No, non è possibile. Non puoi essere tu.- concluse egli a
bassa voce, corrugando la fronte
ed esaminandola, ancora non del tutto consapevole di quel che stava
accadendo. -Arya è morta. Io... pensavo che tu fossi morta!- Una
strana rabbia lo invase, e d'un tratto di chiese davvero se tutto il
dolore che gli artigli dei ricordi gli avevano estirpato dalle fessure
dell'anima, se tutte le lacrime che erano sanguinate dai suoi occhi
fossero stato la stolida leggerezza d'un malinteso.
Arya scrollò le spalle. -Lo pensavi semplicemente
perchè
era quello che io volevo che si pensasse. Sarei potuta
tornare. Non l'ho fatto.-
Si alzò in piedi e rinfoderò la spada,
tendendo una mano per aiutare il ragazzo a rialzarsi; egli la
ignorò con piccata dignità. Non riusciva a
credere che
quella strana ragazza scostante fosse Arya, proprio Arya, la loro Arya.
Non le somigliava. La nuova maturità su quel viso
assomigliava
molto alla sua, ma gli risultava estranea; la crudeltà
dei suoi lineamenti la rendeva lontana, quasi insensibile.
-E perchè mai? Grande Inverno è anche casa tua.
Avresti potuto avvertirci da subito.- l'accusò quasi. Avresti potuto far tornare le
nostre vite come prima, pensò,
ma avrebbe mentito. L'Arya che avrebbe fatto tornare le loro vite come
prima era stata decapitata ad Approdo del re molti anni prima,
probabilmente.
-Dovevo aspettare il momento giusto.- replicò Arya,
sedendosi presso il focolare spento. -Quando ho scoperto
che voi eravate sopravvissuti, che eravate tornati a Grande Inverno, la
tentazione di
anticipare questo momento c'è stata... ma fortunatamente non
è andata così.-
Rickon verificò lo stato delle sue ferite, tastandosi
prudentemente il braccio e la spalla. -Perchè, dove sei
stata
per tutto questo tempo?-
Lo sguardo di Arya raspava fra le ceneri. -Fino a
due giorni fa, ero a Braavos. Sono partita subito dopo le
Nozze Rosse. Quando hanno ucciso la mamma e Robb, io c'ero.-
Rickon distolse lo sguardo e decise di non approfondire l'argomento,
perchè riusciva già ad immaginare che fosse una
storia
lunga, e le storie lunghe non gli erano mai piaciute. Io c'ero. Bastava.
Quanto dolore può annidarsi in due sole parole?
-Come hai fatto a scoprire del nostro ritorno? Chi te l'ha detto?-
indagò invece, accigliato.
Sul viso allungato di Arya balenò quasi l'accenno di un
sorriso
furbesco. -Diciamo che... ho i miei contatti. Degli alleati, per la
verità.-
Alleati? si
chiese stupito. Cosa
significa alleati? Che intenzioni hai? Ma c'era un'altra
domanda che gli premeva ancora di più.
-Hai per caso notizie di Sansa?- Quell'illuminazione giunse come un
fulmine a ciel sereno nella sua mente; se era viva Arya,
perchè
non avrebbe dovuto esserlo anche la sua sorella maggiore? Il solo fatto
di averne incontrata una significava che i miracoli esistevano, che in
quel casino di mondo tutto era possibile. Un secondo più
tardi si diede dell'idiota. Arya e Sansa erano state divise, le loro
sorti erano state completamente differenti, in luoghi diversi, anni
diversi.
Arya liquidò la domanda in maniera quasi sbrigativa, come se
fosse
una questione di minima importanza. -Sansa è viva come me e
te,
ma ci
sono talmente tante cose da raccontare, che cercare di fare un
riassunto sarebbe
stupido.-
Rickon sbattè le palpebre e schiuse le labbra, ma le parole
che
aveva intenzione di formulare si dissolsero. Sansa era soltanto un nome
nei suoi ricordi, aveva l'effimera consistenza dei personaggi delle
storie della vecchia Nan, era uno spettro fluttuante dal manto di
capelli rossi, dal bel sorriso d'altezzosa, ingenua civetteria. Nella
sua vita Sansa non era un'assenza, come poteva essere sua madre o suo
padre, però era una privazione, una curiosità
insoddisfatta, un diritto negato. Rickon Stark, per natura e legge,
avrebbe potuto avere una bella sorella dagli occhi azzurri come i suoi,
ma glie
l'avevano portata via. Come tutti i membri perduti della sua famiglia,
ciò di cui sentiva la nostalgia era una sagoma senza
volto.
Sansa era soltanto un nome, ma un nome terribilmente importante. Era
Stark, quel nome, il nome più agognato del mondo. Tutto
ciò che Rickon voleva attorno a sè era gente che
gli
assomigliasse, gente dal sangue come ghiaccio disciolto e pelle
d'algida neve, occhi di pietra scurita senza pace.
Non si era mai sentito così emozionato, in
difficoltà
eppure estasiato, inebriato da tutte le rivelazioni. Quante
volte aveva sognato quel momento, da bambino,
rannicchiandosi fra le pellicce di Osha e cercando il tepore del fuoco,
e quante volte al risveglio aveva pianto amaramente la propria
dabbenaggine?
-Devo portarti da Bran.- fu tutto ciò che riuscì
a farfugliare. -Il nostro accampamento
è presso le Torri, ma qualcosa mi dice che lo sai
già.
Sarà
contentissimo di sapere che sei viva!-
Arya scosse il capo con veemenza, sempre affetta da quell'irrequietezza
quasi innata nella sua piccola scattante persona.
-Adesso no, non possiamo permetterci un'eventuale fuga di notizie.
Nessuno deve
ancora venire a scoprire del nostro arrivo. Ma Bran lo
rivedrò
presto, prima di quanto credi, non preoccuparti. Tutto bene con quel
braccio?-
Rickon fece una smorfia, sfiorandolo ancora. -Non proprio grazie a te,
ma sì, abbastanza. Avresti potuto riconoscermi un attimo
più in fretta, ad ogni modo.-
-Sei cambiato un pochino, rispetto all'ultima volta che ti ho visto, se
permetti.- commentò Arya, squadrandolo da capo a piedi con
un
sopracciglio inarcato. In realtà ciò che vedeva
le
piaceva più di quanto sarebbe stata disposta ad ammettere.
-In tua assenza sono diventato un cattivo ragazzo.- la
informò lui sogghignando.
-Mai quanto me.- fu la risposta, tetra soprattutto perchè
arida
d'umorismo. -Sarebbe stato umiliante farmi sconfiggere dal mio
fratellino.-
-Ah, è a Braavos che hai imparato a combattere
così?-
borbottò l'altro, spolverandosi i pantaloni con
gesti affrettati. -Comunque non mi hai sconfitto, sappilo!-
-Certo, come ti pare.- replicò lei, con un ghigno un po'
diabolico.
Seguì un fruscio ed all'improvviso un ragazzo alto,
imponente,
dal fisico atletico e molto
sviluppato, emerse fra gli alberi; aveva gli occhi chiari come stille
di sorgente, i capelli
corvini e vestiva soltanto con un paio di calzoni rattoppati, una
casacca sgualcita ed un mantello che gli arrivava ai fianchi.
Nell'avvertire una presenza estranea aveva sguainato la spada.
Lanciò un'occhiata preoccupata ad Arya ed una ostile a
Rickon.
-E questo chi sarebbe? Ho sentito dei rumori. E' tutto a posto?-
domandò con diffidenza,
rivolgendosi a lei. Arya gli scoccò un'occhiata beffarda,
incrociando le braccia e calciando un sassolino nella sua direzione.
-Che tempismo, Gendry. Proprio quando abbiamo finito di scannarci... Ti
presento mio fratello.- esclamò, con voce assolutamente
casuale,
come se nulla fosse. Il ragazzo di nome Gendry tacque:
esaminò
il suo volto alla ricerca d'una traccia di sarcasmo, ma non
trovandola scosse arreso il capo. Il suo sguardo cadde sul
sangue
che macchiava il mantello di Rickon.
-E vi siete presi a botte, giusto?-
-Se non ci fossimo presi a botte, non sarebbe mio
fratello.-
precisò Arya. Gendry sospirò paziente,
rinfoderò
la spada ed acconsentì a sedere vicino a lei, continuando a
rivolgerle uno sguardo di rimprovero.
-Ti avevo detto di non accenderlo, il maledetto fuoco.-
affermò,
con l'espressione di chi sa bene di stare ripetendo la stessa cosa per
la millesima volta. Ottenne soltanto una smorfia e un paio di scettici
ed arroganti occhi grigio-azzurri conficcati bellicosamente nei suoi.
-Nessuno può fare del male a noi, Gendry.
E comunque non sono io l'imbecille che si è sbragato la
coscia
cercando la cena.- rimbeccò lei, guardandolo in cagnesco.
-Hai
ragione, avrei dovuto lasciare che la ferita si infettasse e tu andassi
all'altro mondo senza aver visto la corona nemmeno da lontano...-
Rickon cominciava a non capirci più niente e decise di
chiarire la situazione.
-Chi sarebbe questo, il tuo ragazzo? E cosa c'entrano le corone?-
Arya si fece paonazza. -Non è il mio ragazzo, è
Gendry. Lui ha intenzione di sedere sul Trono di Spade, e fino a pochi
giorni fa pensavo che fossero i Lannister i suoi nemici più
temibili, non le volpi del sottobosco. Ho dovuto ricredermi.- lo prese
in giro, tirando non casualmente una gomitata alla gamba del ragazzo di
fianco a lei.
-Racconta la storia bene,
se
la vuoi raccontare.- bofonchiò Gendry, al suo fianco. Poi si
rivolse a Rickon, serio. -Io sono il figlio bastardo di re Robert.
Avrei potuto continuare a vivere come prima, ma poi ho scoperto che la
mia pretesa al trono sarebbe più valida di quella dei
ragazzetti
biondi e smidollati che muoiono come mosche. Avrei potuto continuare a
vivere come prima, ma poi... ho incontrato tua sorella.- si corresse
con un sorriso. Arya sbuffò in silenzio, calciando ancora la
ghiaia per terra. L'inquietudine era caratteristica intrinseca del suo
volto contratto.
Rickon era poco convinto e squadrava Gendry quasi con derisione.
-Quindi credete di presentarvi in due dai Lannister e chiedere
gentilmente il trono?-
-Abbiamo intenzione di sollevare il popolo contro i Lannister.-
intervenne Arya, infervorata. -Abbiamo la ragione dalla nostra parte.
Gendry è il legittimo erede e sarà un buon re...
sì, è un idiota, ma sarà un buon re lo
stesso.
Questo te lo posso assicurare. Con un solo colpo di mano ci
vendicheremo con i Lannister per nostro padre, nostra madre, Robb, per
Bran e tutte le altre ingiustizie che hanno commesso...-
-Per mio padre.- aggiunse Gendry, stringendosi nelle larghe spalle.
-Sì, lo conoscevo solamente di nome, e per quel poco che
sapevo
di lui non ne avevo esattamente stima. Però era pur sempre
mio
padre, e i Lannister sono sospettati d'aver giocato un ruolo nella sua
morte.-
-I Lannister sono sospettati d'aver giocato un ruolo in più
o
meno tutte le tragedie e le controversie più truculente
degli
ultimi cento anni.- replicò Rickon sarcastico. -Ma non so
quante
probabilità di successo avrà il vostro piano.
Che, tra
parentesi, qual è?-
-Meglio che tu lo venga a sapere a conti fatti.- rispose Arya. -Non
siamo soli in questo progetto. Abbiamo pianificato tutto quanto insieme
a un'altra persona, ma non è necessario che ti dica chi
è. Anche gli alberi hanno orecchie, di questi tempi.-
Conclusi le doverose spiegazioni, i tre mangiarono tutti insieme
ciò che Gendry aveva cacciato, e Rickon diede subito prova
delle
sue abitudini alimentari sbranando una coscia di capriolo senza
cuocerla, grondante di
sangue fresco.
-Soltanto un individuo simile potrebbe essere tuo fratello...-
commentò Gendry senza troppa ironia, contraendo il viso
pieno di
disgusto nel vedere i denti inusualmente grossi del ragazzo affondare
nella consistenza spugnosa fino a spolpare e graffiare le ossa. Arya
sorrise quasi orgogliosa, come se fosse suo il merito di quella
selvatichezza; intanto raccontò di come avesse rincontrato
Nymeria, non appena era sbarcata nel continente occidentale, di come si
fosse mantenuta a Braavos grazie a piccoli lavori di giornata, di come
Gendry fosse andato a cercarla per attuare la sua, la loro vendetta. Fu
il turno di Rickon, che raccontò brevemente di Skagos, della
guerra, di Bran, tralasciando un unico aspetto della storia:
Myrcella. Soltanto quando Arya, dopo essersi steccata alla bell'e
meglio due dita della mano, gli tamponò le ferite del
braccio
per fermare il flusso sanguigno, Rickon si alzò per tornare
all'accampamento.
-Bran si chiederà che fine ho fatto.- si
giustificò, un
po' contrariato all'idea di dover salutare la sorella non appena
s'erano ricongiunti. Avevano ancora moltissime cose da dirsi, dopotutto.
-Ci rivedremo presto.- fu il brusco saluto di Arya, -molto prima di
quanto credi. E verrò a fare i miei omaggi al re.-
-Lunga vita al re.- ripetè Rickon, con una smorfia
malinconica. Infine
schioccò le dita per attirare l'attenzione di Cagnaccio e
tornò a cercare il cavallo, chiedendosi come avrebbe fatto a
tacere le novità di quella giornata.
Arya è viva,
Sansa è
viva, Jojen Reed se n'è andato. Cosa sta succedendo al
mondo, in
questi ultimi giorni? E cosa succederà a noi? L'idea
dei
complotti di Arya, per mettere al trono un qualche bastardo di re
Robert, lo impensieriva. Sperava che in questo modo non sarebbero
venuti a contesa anche con Stannis, oltre che con i Lannister.
Quell'uomo iniziava a stargli un po' simpatico, dopotutto. Ma le sue
sorelle erano vive, vive,
vive, non riuscì a pensare ad altro
per tutta la cavalcata di ritorno, e gli sfuggì persino una
risata di sollievo ed euforia, una risata liberatoria in mezzo al
silenzio, a cui gli alberi replicarono con un prolungato tramestio di
foglie tremanti nel vento.
***
-Manca meno di un'ora all'arrivo, mi dicono.- annunciò
Tyrion,
sedendo sul piccolo divano di velluto rosso della carrozza in cui
Tommen stava consumando il pranzo.
Nonostante il giovane re fosse solitamente accusato di pigrizia
cavalcare gli piaceva, quindi stava al fianco dei suoi uomini
quasi sempre, ad
eccezione dei momenti del pasto, come quello. Non aveva
granchè
voglia di vedere qualcuno, tantomeno suo zio, però strinse i
denti ed abbassò gli occhi sul piatto senza dir nulla.
Era ancora molto turbato
dalla confessione pubblica di Myrcella, e questa interna sofferenza lo
aveva corroso dall'interno per tutti quei giorni, procurandogli
stanchezza, malumore e persino una febbre leggera, che si era abbassata
progressivamente con il tempo. Nemmeno le lettere di sua moglie, lady
Margaery, riuscivano a tirarlo su di morale; anzi, non appena le
riceveva le scartava con rabbia, senza togliere il sigillo di
ceralacca. Era di questo che Tyrion era venuto a parlargli.
-Che intenzioni hai a proposito di tua moglie?- domandò,
esaminando cautamente la sua espressione. Non voleva farlo arrabbiare
di nuovo, però la questione andava affrontata e l'ultima
parola
spettava proprio al re.
-Che genere di intenzioni dovrei avere?- replicò lui, cupo,
punzecchiando i pezzi di pomodoro nel suo piatto, con non troppa
convinzione.
Tyrion sospirò. -Per quanto tempo hai intenzione di fare
finta
di niente? Ti sta fregando il palazzo sotto il tuo regale naso, e tu
che fai? Lo sposti dall'altra parte? Su, nipotino mio, non
giochiamo al reuccio immusonito e cerchiamo di comportarci con fermezza
e risoluzione. Questa vigliaccheria non serve a niente.-
Infastidito dal suono delle sue parole, Tommen
sollevò il capo con un'espressione scocciata.
-L'hai detto tu
che la lettera da Approdo del Re l'ha scritta Sansa Stark e che
è un falso, no? E allora
perchè dovrei preoccuparmi e credere che quel che scrive sia
vero? È soltanto un espediente per farmi tornare ad Approdo
del
Re e mettere a repentaglio la guerra.-
Tyrion attese diversi istanti prima di proseguire; intanto il ragazzo
si portò alla bocca la forchetta, inghiottendo un pezzo di
pane
intinto nel sugo.
-Non lo ritengo del tutto esatto. Io credo che ci sia
anzi una discreta percentuale di verità nella lettera.
Dopotutto, avvertirti avrebbe comunque avuto lo stesso effetto che
inventarselo, no? È il risultato che conta, per Sansa. Se
può
aiutare gli Stark, bene, ma se può aiutare gli Stark e
mettere
zizzania fra Lannister e Tyrell, ancora meglio. Non sei d'accordo?-
Tommen picchiò la superficie di legno con il pugno. La voce
cominciava a fremere di rabbia. Possibile che Tyrion non capisse?!
-È mia moglie. Ti sembra
così assurdo che voglia fidarmi di lei? Io voglio bene a
Margaery, e voglio crederle. Di sicuro, non baderò alle
stupidaggini che dice quella là. Io amo Margaery, capito?
Lei non mi farebbe mai questo.-
Lei non mi farebbe mai
questo. Parole
dolorose al momento sbagliato. L'aria che gli gonfiava i polmoni
fuggì in uno sbuffo estenuato. Socchiuse la bocca per
permettergli di evadere, ferito da se stesso.
Tyrion si chiese se potesse rimandare quella rivelazione, si
rimproverò per tutte quelle remore rimbrottandosi che il
ragazzo
doveva crescere. Prese
un bel respiro e si buttò.
-Ho inviato una lettera a Podrick, non appena mi è arrivato
il
falso di Sansa, e gli ho chiesto se avesse l'impressione che la regina
stesse tramando qualcosa. Mi ha risposto... che stava indagando proprio
su questo,
perchè aveva sentito delle chiacchiere fra le spie di Varys.
Mi
dispiace tanto, Tommen, ma non si può ignorare...-
-Bene.- La voce di Tommen stridette di lacrime. -Allora fai
direttamente quello che ti pare ed ignorami come sempre! La mia
opinione vale meno dei fichi secchi, vero?!- Guardarlo negli occhi, lui
e i suoi calcoli e la sua logica infallibile, era più
difficile
di quanto pensasse. Faceva male. Non più male del resto,
comunque. La sua fu una supplica a qualche dio in cui, in quel momento,
avrebbe avuto bisogno di credere, ma non ci sarebbe mai più
riuscito. -L'ho sposata! Ha mio figlio
nella pancia! Cosa dovrei fare?! Dimmelo! Dovrei farla ammazzare e
facilitare la vita agli Stark?! Dovrei... dimmelo tu, visto che sai
sempre tutto!-
Con un ultimo gesto stizzito, scaraventò il piatto con il
resto
del pranzo a terra, insieme alla tovaglia che si sformò ed
arricciò sotto le sue mani, ai cocci della ceramica che
strillarono contro il pavimento, al piagnucolio metallico delle
stoviglie. Aveva il fiatone senza avere corso. Le sue mani erano rosse,
furiose, quasi pulsanti del sangue sottopelle.
Tyrion assistette senza battere ciglio alla sua violenza innocua, di
bambino deluso. C'era qualcosa di patetico, in quello sfogo, e qualcosa
di atrocemente drammatico insieme. Il Folletto sembrava avere spento la
propria
ironia, per una volta.
-Sto salvaguardando il tuo trono, non il mio. Quel che faccio, lo
faccio per te. Perchè voglio il tuo bene.- rispose
pacatamente,
come se volesse contrastare con la ragionevolezza della diplomazia la
puerilità del suo gesto sciocco ed inconsulto. Infine,
quando si
accorse che il ragazzo lo stava ascoltando, concluse. -Visto che i
nostri movimenti dipendono attualmente soltanto da
quelli degli Stark, propongo di far rinchiudere Margaery in prigione,
ma
soltanto dopo aver partorito. Se ti sembra una scelta appropriata...-
-Va bene.- sussurrò Tommen in un bisbiglio infranto. -Va
bene.-
Non riusciva a capire come fosse stato possibile che Margaery, la sua
Margaery dal sorriso bello e i fiori fra i capelli, avesse potuto
trasformarsi in una traditrice. Anche lei. Il mondo sembrava volergli
essere ostile a tutti i costi, all'improvviso, prendendo possesso del
cuore delle persone che amava, sottraendogli le uniche che avrebbero
potuto difenderlo. In Margaery non c'era nulla di male, solo conforto,
gioia, luce. E adesso questo, sorrisi che diventano ghigni, mani che
diventano artigli. Forse un giorno un giullare di corte avrebbe cantato
una ballata in cui le fanciulle diventavano mostri, ma a chi sarebbe
mai potuta piacere? Va
bene,
rinchiudetela, uccidetela, fatele del male, tanto non è
più giusta, non è più lei,
è corrotta,
è inquinata. Tanto non riuscirei mai ad amarla come prima.
La menzogna crollò non appena cercò di stringerla
a sè.
***
Ogniqualvolta Meera avesse tentato di dargli un'arma, aveva poi dovuto
requisirgliela ridendo. Ti
tremano le mani, diceva
in tono di divertito rimprovero. Jojen Reed rammentò tutto
ciò, mentre lui ed Edmure salivano a rapidi passi la scala a
chiocciola che conduceva agli appartamenti della famiglia. Il lord di
Delta delle Acque era estremamente agitato; dopo aver fatto estenuanti
domande per venti giorni di viaggio, nel corso degli ultimi trascorsi
aveva smesso di aprire bocca e da allora non spiccicava parola,
probabilmente a causa del nervosismo. Teneva lo sguardo perduto da
qualche parte, in un punto davanti a sè, sfregandosi le mani
di
tanto in tanto. I suoi passi erano talmente concitati ed irrequieti che
Jojen faticava a stargli dietro.
-Non serve lasciarsi prendere dal panico in questo modo, lord Tully.-
mormorò Jojen. -È tutto sotto controllo.-
L'uomo non rispose, come se non avesse il tempo nè la
pazienza
di trovare una replica adeguata, ed annaspò confuso fra i
suoi
pensieri. Appena varcarono l'arco di pietra che divideva le scale dagli
alloggi, una donna venne loro incontro: aveva lunghi capelli fulvi,
raccolti solo in parte sulla nuca e per il resto lasciati sciolti fino
alla vita, grandi occhi caldi e castani e un viso dolce, emotivo, con
labbra carnose.
-Edmure, mio signore? Che cosa sta succedendo? Appena mi hanno
avvertita del tuo arrivo, ho temuto il peggio...-
La sua voce era
sottile e un po' tremula. Il marito s'illuminò, a vederla, e
dopo tanto tempo distese il volto in un largo sorriso; strinse con le
mani le esili spalle della moglie e la baciò delicatamente
sulle
labbra. Lei si alzò appena sulle punte dei piedi,
rinfrancata
per un attimo, ed arrossì sulle gote. Però Edmure
non
prolungò quel contatto e fissò sua moglie, con
una nuova
gravità negli occhi gonfi d'ansia ed insonnia.
-Stanno arrivando i Lannister, Roslin. Vogliono assediare il
castello. Ho lasciato il grosso delle truppe a rallentarli, ma non so
quanto potrà servire... La maggior parte degli uomini
è
ancora con mio nipote. Perciò dobbiamo fare il possibile per
difendere Delta delle Acque con le forze che abbiamo, prima che sia
troppo tardi.-
-I Lannister?- farfugliò Roslin, smarrita. -Come fai a
saperlo?-
-Per merito suo.- Edmure indicò con un cenno Jojen, che
attendeva pazientemente alle sue spalle. -È il consigliere
di Brandon...
l'indovino.-
-Oh.- sussurrò la donna, osservandolo come avrebbe fatto con
un
piccolo animale esotico particolarmente singolare, e con quel pizzico
d'intimidita venerazione che le persone ingenue provano verso
ciò che non conoscono. Jojen, pur non apprezzando
l'appellativo indovino (già
veggente gli
stava un po' scomodo), fu costretto a ricordare ad Edmure che dovevano
affrettarsi e non c'era tempo per i convenevoli.
Un bambino che non dimostrava più di otto anni
uscì dalle
sue stanze e, non appena riconobbe il padre, gli balzò fra
le
braccia.
-Padre! Sei tornato!- strillò con una vocina acuta. Era
sorprendentemente simile alla madre: i suoi capelli erano tenere fiamme
vive, la sua carnagione bianca come porcellana e gli occhi castani e
tondi; nei suoi tratti, comunque, c'era anche qualcosa del padre.
Edmure lo abbracciò più stretto che
riuscì,
stringendoselo al petto come se cercasse un tepore tanto agognato,
trattenendolo intensamente fra le sue braccia ed affondando grato il
mento nella sua spalla, gli occhi appena umidi.
-Miles... sono così contento di rivederti, ragazzo mio.-
Anche la sua bambina, Elyn, era uscita di soppiatto, silenziosa come
un'ombra, dal temperamento meno vivace di quello del fratello;
stringeva la mano di Roslin, con lo sguardo chino a terra. Visto che
aveva solo cinque anni la sua treccia era
ancora corta, del color castano
ramato del padre, ed i suoi occhi limpidi e cristallini erano quelli
dei Tully.
-Bentornato, padre.- bisbigliò. Edmure si chinò a
baciare
anche lei sulla piccola guancia vellutata, tempestata d'efelidi color
nocciola.
-Quanto mi siete mancati, tesori miei... ma adesso sbrighiamoci, dovete
mettervi in salvo.- Si alzò e si rivolse a Jojen. -Cosa
faranno
i Lannister appena giunti qui?-
Il ragazzo indicò il lato opposto dell'edificio con
l'indice.
-Ho visto la Torre Nord in fiamme, quindi sappiate che sarà
la
prima ad essere attaccata; per limitare i danni, potete evitare di
posizionare là i vostri uomini, piuttosto, e risparmiare
loro
una morte indegna. Non ho visto nulla circa la vostra famiglia, e
questo mi fa sperare il meglio. Propongo di far fuggire tutti i suoi
cari al più presto, lord Tully... magari sotto la protezione
di
suo zio Brynden e di alcuni uomini fidati? Potranno raggiungere la
fortezza del loro alfiere più vicino e rifugiarsi
lì fino
a che il pericolo non sarà scampato. Dopotutto, i Lannister
non
si avventureranno più a Sud nelle Terre dei Fiumi, se il
loro
scopo ultimo è quello di ritrovare la Strada del Re, e
comunque
il loro obiettivo non sono i suoi familiari, fortunatamente.-
Edmure annuì rapidamente con la testa. -Molto bene. Allora,
Ryger, vai ad avvertire Brynden e digli di portarli dove egli ritenga
più opportuno. Roslin, seguilo.- Fissò la moglie
negli
occhi e le sorrise debolmente. -Verrò a prendevi il prima
possibile, quando tutta questa brutta storia sarà finita...-
Lei cercò di rispondere al sorriso e lo baciò con
dolcezza sulle labbra. -Fai attenzione.- raccomandò in un
soffio, prima di prendere in braccio i bimbi a turno per permettere
loro di salutare il padre, e di congedarsi con un ultimo sguardo
preoccupato.
Jojen richiese una pianta di Delta delle Acque, e quando gli venne
fornita tentò di fare mente locale.
-Nella visione la torre Nord era completamente abbattuta, e il fumo si
intravedeva anche da questa fila di finestre... tutte queste, fino alla
Torre di guardia. Ciò significa che tutta l'ala sud-est,
compresa la torre sud-ovest, verranno lasciate per ultime. Quanti
uomini ci sono a
disposizione?-
-Cento rimangono di quelli che ho portato con me, duecento erano
rimasti a proteggere il castello.- calcolò Edmure pensieroso.
Jojen scosse la testa. -Troppo pochi. Dubito che possiamo fare qualcosa
per impedire la rovina della fortezza, ma perlomeno la vostra famiglia
non subirà lutti, e so per certo che i Lannister non si
fermeranno qui a lungo. La sorte di queste terre dipenderà
unicamente dalla sorte della guerra. La meta dei nemici è
un'altra.-
Poi un'intuizione parve baluginargli nello sguardo color del muschio,
subitanea e preziosa.
-Allora?- insistette Edmure impaziente.
-Non è importante, lord Tully. Adesso mi ascolti
attentamente: i
Lannister arriveranno da nord-ovest, quindi attaccheranno quest'ala del
castello e s'introdurranno nel maniero tramite l'ingresso minore. Se
piazzerai i tuoi uomini a difesa delle zone che ho visto illese,
probabilmente tutto andrà per il meglio per le prime ore, e
il
numero delle vittime sarà notevolmente più basso.
Penserò io al
resto.- aggiunse, e queste parole stupirono Edmure.
-Cosa intendi dire? Cosa significa
il resto?-
-Non temete. Tutto è già stato decretato.- si
limitò
a rispondere, i pensieri a vagare e procedere fin molto lontano da
lì.
Lui ed Edmure scesero poi le scale per impartire gli ordini ai soldati,
in gran fretta. Dopo aver dato tutte le disposizioni ed indicato le
posizioni esatte, lord Tully si chiese cosa avrebbe dovuto fare lui.
-Non vi ho visto nè prigioniero nè morto, quindi
immagino
che possiate scegliere.- rispose laconico Jojen. Edmure decise dunque
di guidare i suoi uomini nella difesa, per non fare la figura del
codardo quand'era la sua fortezza ad essere in pericolo.
-Ma tu, ragazzo, ho sentito dire che non hai mai indossato un'armatura
in vita tua.- aggiunse. -Puoi fuggire insieme ai castellani
là dove mio zio sta portando i bambini e Roslin, e
sarai assolutamente al sicuro. Hai già fatto fin troppo per
noi.-
Ma Jojen non abbandonò ancora la posizione al fianco di
Edmure:
ricordava che armi aveva visto nella visione e quindi spiegava qual era
il luogo ottimale per sistemare i balestrieri, gli arcieri, gli addetti
ai pentoloni di pece bollente, da riversare sulle teste di
coloro che
avessero tentato di scalare le mura. Quando terminò di dare
tutto l'aiuto possibile, l'esercito era già
quasi alle porte.
-Devi scappare immediatamente,- gli raccomandò Edmure,
-prima che arrivino. Forza, corri!-
Il ragazzo obbedì ed imboccò il corridoio che,
all'interno del maniero, avrebbe dovuto portarlo nei piani inferiori,
verso l'uscita posteriore;
ma non scese affatto come gli era stato ordinato. Strinse con
più forza la pergamena che aveva nel palmo della mano e si
avviò in direzione della Torre Nord, quella che nelle sue
visioni era ridotta ad un cumulo di macerie. Non lo faceva
insensatamente, anche se può sembrare: aveva una missiva
molto
urgente da inviare e i corvi si trovavano soltanto nella torre di
vedetta a Nord. Salì le scale; nessuno cercò di
fermarlo
nè udì i suoi passi, perchè era
completamente
vuota, dato che aveva impartito egli stesso l'ordine di sgomberarla.
Giunto in cima, si apprestò a legare il rotolo ad una zampa
del
corvo, quando una voce alle sue spalle lo immobilizzò
lì
dov'era: era quella affilata ed un po' beffarda di Tyrion Lannister.
-Guarda guarda chi si vede. Il guastafeste. Chi ti ha autorizzato a
rubarmi le idee geniali, prima ancora che mi vengano?-
Stava sulla soglia, circondato dai suoi soldati, che avevano
già
puntato le armi contro la schiena di Jojen. Il ragazzo, con uno scatto
furtivo, nascose il foglio all'interno del mantello, senza farsi vedere
perchè appunto di spalle.
-Voltati.- ordinò Tyrion placidamente. Il consigliere del re
del
Nord fece come gli era stato detto e gli rivolse un mezzo sorriso amaro.
-Dunque tu sei il Folletto. Ti ammiro molto, sai. Desideravo da un
pezzo
fare la tua conoscenza... anche se magari non proprio a queste
condizioni.-
-Sono un po' critiche, vero?- confermò Tyrion. -Che bello,
ho un
fan. Peccato che lo debba uccidere appena l'ho incontrato. Le persone
intelligenti scarseggiano, di questi tempi, e quelle poche che ci sono
stanno dalla parte sbagliata... Anche se trovarti qui mi ha sorpreso.
Dimmi un po', cosa avevi intenzione di fare?-
Jojen scosse il capo. -Immagino che ora non abbia più
importanza. Comunque, permettimi di dubitare che tu voglia uccidermi.
Un bravo giocatore sa sfruttare al meglio le carte che ha, e per
sfruttare al meglio me non bisogna mettermi a tacere per sempre, ma
farmi parlare, piuttosto.
Dico bene?-
-Hai presto indovinato il tuo triste destino, mio povero amico.-
sospirò Tyrion, anche se non era poi così
addolorato.
-Prendetelo e portatelo via.- Schioccò le dita.
Ma prima che i suoi uomini potessero scattare, Jojen Reed
infilò
la mano nel mantello ed estrasse un corto pugnale, la cui lama era
percorsa da un sottile filamento di luce, proveniente dalla finestra.
Tyrion Lannister aggrottò la fronte, stupito da
quell'imprevisto; sotto suo ordine, le guardie rimasero dov'erano.
-Sarebbe bello prendermi in ostaggio e ricattare Brandon,-
cominciò Jojen, con voce calma, puntandosi il coltello alla
giugulare, minacciando la vena pulsante ad un soffio da essa, -sarebbe
bello immergermi nell'olio bollente, scuoiarmi pezzo per pezzo davanti
ai suoi occhi, finchè non getta la corona ai vostri piedi.
Sarebbe bello, soprattutto perchè sarebbe efficace.-
Ormai i suoi propositi erano manifesti. Tyrion Lannister si rese conto
che la situazione era più problematica di quanto fosse
apparsa a prima vista:
bisognava intervenire subito.
-Questa è pusillanimità, Reed, non coraggio. Di'
le cose
per come stanno, hai paura di quel che potrebbe accaderti e preferisci,
come dire, spegnere l'interruttore. Davvero un gesto compassionevole
nei confronti della persona che ucciderebbe i suoi uomini uno ad uno,
se servisse a salvarti la vita... Il tuo egoismo dovrebbe essere
considerato un reato.-
Jojen sorrise di nuovo. -A parlare sei veramente bravo come dicono. Sai
qual è la prima visione che ho avuto, Folletto? Quella della
mia
morte. Nessuno sa meglio di me ciò che sta per succedere.
Tutto
qui ha avuto inizio, tutto qui avrà fine. Sarà
così com'è stato detto.-
D'altronde, nessun poteva capire cosa significava non avere segreti con
il futuro, vivere una vita perennemente due passi avanti a lui, senza
la gioia della scoperta, il privilegio dello stupore. Nessuno poteva
capire quanto nel profondo egli si fosse inoltrato nei
misteri di quella realtà folle ed incongrua. Nessuno, tranne
Levenna Stark, naturalmente.
-Grazie, Reed. Stai privando il tuo re della sua arma migliore, davvero
una bella mossa.- rise Tyrion, imbevendo ogni parola di sarcasmo,
quando in realtà tutto il suo piano stava andando a rotoli.
-Distruggerlo psicologicamente lo aiuterà di certo ad
affrontare
una guerra, che ne dici? Ci stai facendo un favore talmente enorme, che
inizio a sospettare che tu stia voltando gabbana.-
-Tutto ciò che ho fatto nella mia intera esistenza
è
stato per il re
del Nord. La mia vita è stata votata alla sua prima che
nascessimo. Gli sto semplicemente rendendo ciò che gli
appartiene.- replicò Jojen, con voce pacata ma ferma.
Ciò
che Tyrion diceva non era del tutto errato: Jojen era ben
consapevole che non avrebbe resistito a tenere la bocca
chiusa, se
lo avessero sottoposto a tutte quelle torture di cui conosceva
l'orrore. Aveva sempre avuto un fisico debole, incapace di adeguarsi ad
eccessivi sforzi o sofferenze, di salute più o meno
cagionevole.
Ecco perchè non voleva correre il rischio di svelare
ciò
che non andava svelato. Ma era anche vero il resto. Era anche vero che
Bran avrebbe sofferto.
Ancora.
Quando ti ho incontrato per la prima volta, eri un ragazzino smarrito
nel bosco con il lutto negli occhi e le ali inchiodate al suolo; quando
ti ho lasciato, eri un re al capo del suo esercito, con la vendetta
negli occhi e un onere di ferro sul capo. Non piegavi più la
testa come un tempo, però l'anima che trovai e congedai era
sempre la stessa.
Fu allora che Tyrion Lannister si rese conto che nulla
ch'egli
potesse dire, o fare, sarebbe servito a qualcosa. Lasciò
pendere
le braccia lungo i fianchi.
-Strumentalizzare la sua ira è la cosa più
perfida e meno
romantica che io abbia mai sentito fare da un innamorato nei confronti
dell'altro.- dichiarò, intuendo le intenzioni dell'altro.
-Siete stati voi a creare il Re Storpio, Lannister. Voi e la vostra
empietà.- Jojen serrò le dita intorno
all'impugnatura del
pugnale. Le mani non
gli tremavano, per
una volta. Ci sarebbe riuscito, per una volta. -Siete stati voi a
creare il Re Metamorfo. E adesso state a
guardare mentre vi schiaccia sotto il debito delle conseguenze.-
Presto capirai, Brandon,
presto
capirai tutto quanto, e forse troverai il coraggio di perdonarmi,
così come hai trovato il coraggio di alzarti in piedi da
solo.
Tu ancora non lo sai, ma non hai più bisogno di me.
Il pugnale punse e gli carezzò il
collo, da una
parte all'altra. Jojen Reed non ebbe nemmeno il tempo di avvertire la
ferita bruciare.
Tyrion arricciò il naso davanti alla fontana di sangue che
ruscellò sul farsetto verde del ragazzo, fino a spandersi
sul
pavimento e propagarsi in fretta, come un morbo. Ha avuto fegato, dovette
riconoscere con una smorfia. Peccato
che sia stato tutto inutile.
-Avanti, perquisitelo. Stava per inviare un messaggio, non ve ne siete
accorti? Crede che sia così scemo da non aver visto che lo
stava
legando ad un corvo? Sono nato qualche giorno prima di lui. Su,
muovetevi.-
La lettera fu presto trovata. Un soldato la trasse dal mantello, in
parte intrisa di sangue. -Ecco, mio signore.-
Tyrion la prese con la punta delle dita e l'aprì, la fronte
corrugata. Scorse rapidamente le righe, scoprendo con sollievo che era
praticamente tutta leggibile nonostante le macchie. Man mano che
proseguiva nella lettura, il suo sconcerto cresceva a dismisura:
possibile che...? Afferrò parola per parola, avidamente, ed
al
termine sollevò lo sguardo sbalordito. Dalla porta alle sue
spalle fece irruzione Bronn, un mercenario che aveva stretto
inaspettatamente una sorta di legame d'amicizia con lui, nonostante il
fatto che la lealtà dei mercenari la si paga con l'oro.
-Stanno per distruggere la torre, nano, sono venuto ad avvertirti. Cosa
è successo qui?- Lanciò un'occhiata perplessa al
cadavere
dallo spaventoso sfregio sulla gola, ancora disteso a terra.
-Quello è l'amante di Stark. Il veggente. Si è
suicidato
per non rischiare di svelare niente all'interrogatorio, a quanto pare.-
spiegò in fretta.
L'uomo alzò un sopracciglio. -La regina del Nord ha deposto
la corona.- commentò con ironia.
Tutto ciò che Tyrion riuscì a dire fu: -Quel che
importa è che abbiamo vinto, Bronn. Era questo che Jojen
Reed voleva proteggere a costo della vita. Abbiamo vinto.- Sventolò
il foglio con esultanza.
Maestà,
so che in questo momento sei estremamente arrabbiato e deluso dalla mia
disobbedienza. Ti chiederai perchè ti ho lasciato da solo e
sono
partito senza nemmeno avvertirti, senza spiegarti le mie ragioni. Non
devi assolutamente credere che io abbia ignorato i tuoi ordini per
strafottenza, o perchè non rispetto la tua
regalità,
mettendo in discussione il tuo potere. Non c'è uomo del Nord
che
ti possa servire ed onorare più di quanto ho fatto io. Con
questa lettera voglio spiegarti il motivo del mio gesto, che a te
potrebbe sembrare avventato ed incosciente. Sono partito senza indugio
per salvare Delta delle Acque e la famiglia Tully non perchè
li
ritenga più importanti di te, non perchè riponga
in loro
la mia fedeltà, e nemmeno, lo ammetto senza vergogna, per un
eroico slancio di coraggio: ma perchè non riesco a
sopportare
l'angoscia del mio fallimento. Sì, hai capito bene, ho
fallito,
Maestà. Proprio la notte della mia partenza l'esito della
guerra
mi è stato svelato dal crudele fato senza occhi.
L'esercito del Nord è destinato alla sconfitta, mentre
invece i
Lannister trionferanno ancora. Re Tommen rimarrà sul trono e
la
lady sua moglie darà alla luce un figlio, la cui vita
sarà lunga e felice. Lo so che queste parole ti sembrano
incredibili, scioccanti, ma non sono altro che l'atroce
verità.
Avrai dei seri dubbi, dato che il nostro esercito è forte e
motivato, ma posso spiegarti anche questo. Tutto avverrà per
una
reazione a catena. È con il cuore dolente che mi viene
costretto a
rivelarti che nessuno dei comandanti di questa spedizione
sopravvivrà. Tuo fratello Rickon morirà, trafitto
con la
sua stessa spada dalla ragazza Lannister che si è portato
nel
letto. Ma quello che più mi rincresce è che la
missione
della mia vita, salvarti, proteggerti e sostenerti in modo che tu
potessi
regnare sul Nord fino all'estrema vecchiaia, è fallita
miseramente proprio quando aveva più speranze di successo.
Tu
morirai, mio re, morirai su una pira non appena giunto alla capitale.
L'ho visto. A questo punto, non mi resta che morire prima di te:
perdona la mia codardia, ma non rimarrò in vita per
ascoltare le
tue grida mentre ardi vivo fra le fiamme. Ti ho udito urlare in sogno,
ed è stata l'esperienza più terribile della mia
breve ma
intensa esistenza. Il tuo dolore, la tua morte causata dalla mia
incompetenza mi perseguiteranno fino in fondo all'inferno. La tua
sarà un'agonia lenta e lunga, probabilmente interminabile;
non
voglio più mentirti, Maestà. Dopo aver letto
tutto
questo, penso che non ti sembrerà più assurdo che
io
voglia fare un tentativo per salvare i pochi che hanno la
possibilità di sopravvivere.
Non c'è speranza di salvezza nè per Rickon,
nè per
te. Se si fosse stata, io l'avrei trovata. Ma qualsiasi cosa tu faccia,
dal tornare indietro verso Grande Inverno al raddoppiare il numero dei
soldati, sarà vana. Meera vivrà, se te lo stai
chiedendo,
ma a costo di fuggire da Grande Inverno, portando con sè
Kenned
e tua figlia non ancora nata. Quale sarà il loro destino, io
non
lo so, non ho avuto occasione di vederlo. Magari un giorno gli Stark
torneranno di nuovo a casa, e questa è l'unica speranza che
potrebbe risparmiarti un dolore altrimenti assoluto, e ugualmente
intollerabile. Il salvataggio degli abitanti di Delta delle Acque
è
stata soltanto una scusa come un'altra per cercare di fare del bene con
i miei poteri, per scampare al madornale disastro che attende dietro
l'angolo le truppe del Nord. Speravo che con le mie abilità
avrei potuto cambiare le cose, fare la differenza, beneficare il Nord
ed il nostro popolo. Ma sono soltanto un illuso, Maestà. Ho
deluso Meera, mio padre, me stesso, e forse sarei riuscito ad
accettarlo, ma ho deluso te, e questo non riuscirei mai a perdonarmelo.
Non voglio più vivere nel mondo che dimostrerà
per
l'ennesima volta quanto sia indegno di te.
Mi dispiace, per quel che può servire a priori: tu lo sai,
che non sono parole a vuoto le mie.
Jojen Reed
***
-Cazzo.-
Rickon
espirò rumorosamente, in uno sbuffo furibondo, e
frugò il
messaggio fra le sue mani come se sperasse di vedere le parole
deformarsi, sciogliersi, scombinarsi fino a scrivere un verdetto
diverso, diverso da quell'orribile avversità che si
stagliava
all'orizzonte minacciosa come un banco di nubi tempestose. Infine, dopo
alcuni istanti di adirata, immobile, inerte contemplazione,
squartò la carta con furia crescente, scagliando i frammenti
al
vento con gesti incontrollati, ed affondò le sue lunghe
unghie
nei palmi della mano. Chinò la testa. Avvertiva il cuore
sconquassargli il petto in un ritmo frenetico, martellante, doloroso;
chiuse gli occhi e realizzò che l'interno delle sue palpebre
era
rosso. Invocò l'aiuto dei suoi dèi troppo
lontani,
cercò la loro voce nell'aria torpida ed arida del Sud. Ma
non si
trovava nelle lande di ghiaccio che gli avevano dato i natali, non
era l'austera compostezza di Grande Inverno nè l'atroce
imprudenza di Skagos quella che strisciava sulla sua pelle, non era il
vento glaciale che gli recava i sussurri del suo oracolo quello che gli
avvolgeva le orecchie: soltanto la melma viscida di paesi placidi. Il
volto di Rickon, le cui cicatrici venivano percorse con discrezione dal
tatto impalpabile di una luna pavida, si contorse appena a quel
pensiero. Il calore del Sud era opprimente, alieno, estraneo, lo
rendeva nervoso, irrequieto. Soltanto cose terribili erano successe,
soltanto cose terribili sarebbero potute succedere lì. La
morte
di suo padre, di sua madre e Robb, la precedente sconfitta del Nord. E
adesso questo. Era
davvero più di quanto la pazienza di Rickon -già
molto
esigua- potesse tollerare.
Quasi non udì i passi di Myrcella, morbidi e cadenzati su un
manto d'erba secca. Mani piccole e delicate gli toccarono il collo e
quelle braccia dal profumo inconfondibile lo avvolsero, senza stringere
troppo, ma abbastanza da permettergli di percepire il suo calore.
-Rickon. Rickon, luce dei miei occhi, dimmi che cosa succede...-
Rickon scattò d'improvviso, ma ella non arretrò.
-Quel
dannatissimo veggente è morto! È crepato! Che
all'inferno possa
essere rinnegato da quella puttana di sua madre e fottuto dai demoni!-
L'espressione di Myrcella si fece seria e decorosamente turbata; la sua
fronte s'increspò. -Ti prego, calmati, cuor mio. Spiegami.
Non
capisco. È... morto? E perchè?-
-Ma non capisci?! Adesso mio fratello darà di matto!
Abbandonerà la guerra, ci manderà tutti a fare in
culo!-
Rickon pressò con le sue le pupille di Myrcella, indignato,
come se
volesse trasmettere senza veli il suo completo aborrimento. -Come glie
lo dirò a Bran, eh? Con che faccia mi
presenterò davanti a lui a dirgli che il suo veggente si
è sgozzato come un vitello al mattatoio?!-
Myrcella era ancora una Lannister, anche se magari non ne andava
più fiera come prima; spostò con gentilezza una
ciocca
dei capelli fiammeggianti del ragazzo dietro l'orecchio e
domandò, con voce tranquilla e composta: -Mi stai dicendo
che si è ucciso da solo?-
-... tuo zio lo voleva fare prigioniero e lui si è tagliato
la
gola per non cadere nelle sue mani. Questo mi è stato
riferito,
e in realtà ci credo. Ma la colpa è solamente
sua! Se non
fosse andato di persona a Delta delle Acque, tutto questo non sarebbe
successo. Non ci ritroveremmo in questa situazione di merda... Per
salvare chi, poi? Una zoccola Frey e due mocciosi!-
La fanciulla gli prese le mani fra le sue e sorrise pacatamente. -A
volte le persone, quando sanno che la vita altrui dipende da loro, si
comportano in modo strano, anche folle. Ma tu non fare così,
ti
prego. Finchè io e te siamo insieme, niente di male
può
succederci... Vedrai che tuo fratello non farà altro che
arrabbiarsi ancora di più, quando lo scoprirà, e
chiederà vendetta di nuovo. Dovrai stargli vicino.-
Rickon la fissò per qualche secondo, infine si concesse un
piccolo sorriso. -Come al solito parli a proposito, ragazza. Hai
ragione. Sistemeremo tutto quanto. Adesso vieni qui...-
La trasse a sè e la baciò senza fretta, mentre
quel vento
senza impeto smuoveva pigramente i loro capelli fino ad intrecciarli.
-Anche tu devi stare vicino a me.- Fu un sussurro così fioco
che
Myrcella credette di averlo udito soltanto nella sua mente, e tacque;
dopo un ultimo sospiro, Rickon abbandonò il conforto della
sua
spalla d'alabastro e si avviò verso la tenda del fratello,
con una determinazione diversa.
Bran lo capì subito, allo stesso modo in cui Estate fiutava
i
temporali e le menzogne, senza l'ombra di quel dubbio che gli avrebbe
salvato la vita.
-No.- disse, non appena lesse lo sguardo del fratello, artigliando i
braccioli del suo sedile come un sacerdote che non tollera d'essere
strappato dal suo altare. -No.- Non
dirlo.
Fintanto che non l'avesse detto, Bran non sarebbe stato
costretto a crederci.
Fintanto che non l'avesse detto, Bran non sarebbe stato costretto a
crederci?
-Bran.- La voce di Rickon non voleva introdurre una conversazione,
nè tentare di dire alcunchè. Affermava da sola.
Poche
lettere, una verità così gravosa che sembrava non
riuscire a trattenere sulla lingua. Disse solo Bran.
Il resto, il re del Nord lo sapeva già.
Cercò di aprire la bocca e negarlo di nuovo, ma il mondo
intero
stava immobile ad attendere la sua vigliaccheria, e nell'aria c'era
già scherno, malinconia. C'era già tutto.
Impossibile
rinnegare il futuro, ormai, impossibile chiudergli la porta in faccia:
era già lì. Lì. Di fronte a lui.
Inesorabile,
onnipotente. Fatale. S'era insinuato nel suo presente prima ch'egli
potesse rendersene conto. A
soffrire non si impara mai, pensò Rickon
osservandolo. Sebbene
familiare, il dolore è sempre nuovo. La morte è
la
faccenda più naturale di tutte, l'unica certezza che abbiamo
in
questo schifo di mondo, eppure le riserviamo sempre l'accoglienza
più indignata e sconvolta, come se il suo potere su di noi
non
avesse il diritto d'essere esercitato, come se il nostro universo
personale fosse una sfera a parte, con proprie regole, che merita una
pace perpetua quanto utopistica.
L'aria divenne una massa compatta, rovente, insostenibile
che costrinse Bran, pressandolo da ogni parte, e l'ossigeno
divenne fuoco. La
realtà circostante lo aggredì vorace. Egli
tremava sul
suo trono. Le mani convulsamente aggrappate ai braccioli non lo
reggevano già più. Il mondo sfrigolò
confondendosi
davanti ai suoi occhi.
E cadde davanti a lui, fremendo atroce nell'aria, un attimo di
stordente e terrificante follia.
-Maestà!- Le guardie gli si fecero appresso, preoccupate,
notando il tremore concitato delle mani ed il capo reclino contro il
petto. Fu allora che Bran alzò la testa ed urlò.
Urlò finchè l'aria nella sua gola non fu
esaurita, e
ancora, finchè il palato non sanguinò, e ancora,
verso la
fine del delirio. Le labbra livide ardevano come i lembi di una ferita.
Si accorse del sangue, ch'era schizzato fino a lordargli il viso,
soltanto quando i suoi occhi impastati si
spalancarono, intenti alla partecipazione dello stesso folle lutto; le
guardie erano esanimi, corpi morti a terra, e lui era ancora
lì
ed urlava.
Rickon tentò di avvicinarsi al fratello, a quei cadaveri
dalla
testa spaccata in cocci, anche se non sapeva esattamente per fare cosa.
Voleva
fermare Bran e l'emorragia di quel dolore di cui si sentiva in parte,
inconsciamente, responsabile; uno dei loro uomini lo afferrò
per
il braccio e lo trattenne.
-State indietro, mio lord.- lo supplicò. -E' meglio...
aspettare.-
Rickon era sconcertato: anzi, no, era atterrito. Quel
potere lì
non era il solito che Bran utilizzava per giustiziare i loro nemici,
era qualcosa che non aveva mai visto in vita sua, e avrebbe preferito
non vedere mai. Aveva ucciso più persone contemporaneamente.
Involontariamente, pensò ancora, e fu ancora più
terrificante.
-Uscite.- riuscì solamente ad ordinare agli uomini sgomenti.
-Via di qui!-
Non appena uscirono tutti e si chiusero la porta alle spalle, la prima
cosa che Rickon disse fu:
-Tutto ciò deve rimanere segreto. Ci libereremo dei cadaveri
e
faremo sapere alle famiglie che sono morti in battagli. Nessuno
dovrà sapere che...-
Che il re del Nord
è
impazzito? Che probabilmente non sarà più in
grado di
guidare un esercito? Che i suoi poteri sono incontrollabili e possono
uccidere inavvertitamente tutti coloro che gli stanno accanto? Non
avrebbero dovuto saperlo, perchè... altrimenti chi avrebbe
continuato a sostenere un re che stermina i suoi uomini?
Fu così che il re Metamorfo fu lasciato a consumare da solo
la
sua sofferenza colpevole, il suo dolore illegittimo. Dopo un lasso di
tempo incalcolabile, Bran si rese conto di essere caduto dal trono, di
stare strisciando a terra, trascinandosi con la sola forza delle
braccia, le mani artigliate al grosso tappeto che percorreva la
lunghezza della stanza. L'odore -il sapore- del sangue dei morti era
forte, ferrigno, come un pugno sui denti; ma il dolore dentro di lui
era aspro, acido, corrosivo. Bran si chiese confuso come fosse finito
lì, perchè si fosse mosso, dove stesse andando.
Quel
pensiero lo sconfortò a tal punto che smise di lottare e
giacque
a terra. Alzò la testa e urlò ancora, un suono
distorto e
malsano che stridette fra le labbra arrossate di sangue. Poi l'urlo
venne inghiottito da una dimensione altra, parallela, e la
realtà masticò la sua voce, si avventò
su di essa,
che continuò a vibrare senza emettere alcun suono.
Seppellito
sotto strati di silenzio, ascoltò il pianto sulle sue guance
divampare incandescente, ferendogli la carne senza pietà.
L'ultimo ricordo furono le mani gentili di un septon che non riconobbe.
-Bevi, Maestà, bevi. Hai bisogno di dormire...-
Bran non ricordava di avere una bocca, ma a quanto pare bevve quello
che non era altro che latte di papavero, perchè poi, vasta
ed
insperata, vi fu soltanto la pace.
***
-Però, a conti fatti, lo hai rubato.- canticchiò
Robin
Arryn con un sorrisetto esultante e malizioso, come se desiderasse
soltanto ottenere una confessione confidenziale dal detenuto tremante
di fronte a lui. L'indulgenza leggera nella sua voce era soltanto un
inganno. -Lo hai rubato.-
L'uomo deglutì a fatica, retto in piedi dalle braccia
energiche
di due piantoni, implorandolo disperatamente con gli occhi. Alayne
pensò che dovesse avere fame, perchè era a
digiuno almeno
da tre giorni, quando l'avevano incarcerato, e molto freddo, dato che
le guardie reali avevano già spalancato la Porta della Luna.
Il
che non era un indizio granchè fausto, rimuginò
la
ragazza, nè una prospettiva allettante.
-Sì, mio lord, io... io l'ho rubato. Ma, come vi stavo
dicendo,
mia moglie... i miei figli... soffrono la fame. Io non sapevo cosa
fare, io non... non volevo, non...-
-Per guadagnare i soldi bisogna
lavorare.- replicò Robin, sprezzante, con tono
saccente. -Tu hai un lavoro?-
-N... no, mio lord...-
-Ecco! Sei uno scansafatiche, insomma. E non provare a negarlo. Quindi
sei un ladro, e sei pure scansafatiche. Guardate un po' voi se non
è una grande prova di ingratitudine, la sua,- si rivolse poi
alla corte radunata nella sala, -che io mi sottragga continuamente alle
dispute del regno ed alle contese fra famiglie per il bene del popolo,
per dare loro una vita agiata e confortevole, e loro se ne fanno un
baffo del mio pensiero. Beh, non pretenderete mica che tenga nella
Valle un tale rifiuto della società, vero?-
-No!- pigolò l'uomo, volgendo gli occhi prima intensamente
verso
Robin, poi verso Alayne, appellandosi alla tipica, pia compassione
femminile. -Pietà!-
Robin seguì lo sguardo dell'uomo. -Tu che cosa ne dici, cara
Alayne? Graziato o condannato?-
La moglie fissò con distacco l'uomo, scivolato in ginocchio
sul
pavimento di marmo, che congiungeva le mani in segno di supplica. Non
sembrava un vero delinquente, ma lei non avrebbe mai privato
il maritino malaticcio del suo piacere più cruento.
-Condannato.- disse infine, dopo aver finto di pensarci un po' su.
L'uomo ululò ancora qualche preghiera intraducibile; gli
occhi
di Robin sfavillarono d'esaltata, fanatica estasi omicida, quasi
liquefacendosi di voluttà.
-Allora fatelo volare.-
sussurrò,
distendendo pigramente le gambe davanti a sè, pronto a
godersi
lo spettacolo con un sorriso eccitato sulle labbra. E così
era
stata cantata la canzone preferita del lord della Valle, come ogni
settimana. Quelle specie di processi non erano altro che farse mal
organizzate, perchè effettivamente si contavano sulle dita
di
una mano coloro che si erano salvati, dopo essere stati giudicati da
lui ed Alayne. La storia doveva essere davvero commovente e verace per
toccargli il cuore. Robin non era cinico, anzi era piuttosto emotivo,
ma mancava assolutamente d'empatia e solitamente anteponeva il proprio
godimento e divertimento personale a tutto il resto.
-Mio lord!- Fu allora che un messaggero irruppe trafelato nel salone.
Le guardie, che stavano trascinando il prigioniero verso la Porta della
Luna, si fermarono, e una folata di vento andò quasi a
chiamarli. Robin, che detestava essere interrotto in simili occasioni,
storse il naso e ordinò alle guardie di stare lì
dov'erano allungando verso di loro la mano destra, bianca e magra,
decorata da un grosso e pesante anello con una pietra di zaffiro, d'un
blu avvolgente, in cui gli occhi annegavano così come
avrebbero
fatto nelle acque del Mare del Tramonto.
-Cosa c'è adesso?- domandò infastidito.
-Le truppe del re, di re Tommen, sono qui... hanno un mandato reale,
vogliono inviare un portavoce a Nido dell'Aquila... a costo di
dichiarare guerra in caso di rifiuto.-
Robin si alzò in piedi di scatto, indispettito, serrando i
pugni
e contraendo la bocca, come se avvertisse un sapore aspro sul palato.
-Perchè sono venuti?! Cosa vogliono da me?!-
Il messaggero tacque per qualche secondo, incerto. Infine rispose:
-Vogliono vedere lady Alayne.-
Gli occhi di Robin si strabuzzarono. -Co... cosa?!-
-Cosa?!- gli fece eco la moglie, stranita, mentre un brivido le
percorreva le braccia nel midollo stesso delle ossa. Come, volevano
vedere lei? A che scopo, a che pro? Perchè mai un esercito
intero, durante una guerra spietata perdipiù, dovrebbe
dirigersi
in un maniero, fare un lungo e rischioso viaggio, perdere tempo ed
energie soltanto per vedere la moglie insignificante di un lord che
nella guerra non era coinvolto per nulla?! C'era una sola agghiacciante
possibilità: se questo esercito avesse scoperto la
verità
sulla tutt'altro che insignificante lady di Nido dell'Aquila.
-No, Robin.- bisbigliò a bassa voce. -Io non voglio vedere
nessuno... Fai qualcosa, ti prego.-
-E io non voglio che nessuno ti veda!- ribattè Robin con
forza,
stringendo la mano della ragazza. Si leccò rapidamente le
labbra
asciutte, riflettendo. -Possiamo... possiamo inventare una scusa, che
sei malata, che hai la febbre ed è meglio che rimani a
riposo e
non ricevi ospiti...-
-Non sarà una febbriciattola a schiacciare un decreto
reale.-
Petyr Baelish parve comparire per incanto dalla folla di ministri; lui
non assisteva mai al gioco preferito di Robin, quindi Alayne non si
aspettava di trovarlo lì. Naturalmente doveva essere stato
informato della novità e doveva essere accorso. -Non credo
che
qualcuno di voi abbia presente che cosa si intende, per decreto reale. Viene
rilasciato nelle situazioni di estrema emergenza, soprattutto
quand'è questione di vita o di morte. Re Tommen non si
farà fermare dalle vostre scuse inventate allo sbaraglio
all'ultimo
minuto...-
Robin non parve molto impressionato nè sollecitato da quelle
parole. -E quindi cosa proponi di fare, visto che parli tanto?-
sbottò, sostenuto.
-Non dubito che qualche idea giungerà, ma propongo fino a
quel
momento di portare Alayne ai piani superiori, dove il fantomatico
portavoce reale non la potrà vedere.-
Baelish era molto più nervoso di quanto desiderasse mostrare
a
Robin, che sospirò ed annuì. -Io lo
tratterrò... guadagnerò tempo... ma tu intanto
fatti venire
un'idea, perchè se succederà qualcosa di
spiacevole a causa della
tua incompetenza sarai il prossimo a volare! Siamo intesi?!-
L'uomo inarcò un sopracciglio in un'espressione di garbato
scetticismo. -Non escludo che in questo castello l'incompetenza
abbondi, ma la mia cara Alayne è nelle migliori mani,
fortunatamente. Andiamo ora, non c'è tempo da perdere...-
Prese la ragazza per mano e la condusse nelle sue stanze, percorrendo i
corridoio e le gradinate del castello con fervente rapidità.
La lasciò nella camera insieme ad alcune ancelle, che la
circondavano in attesa di ricevere il permesso per spazzolarle i
capelli o distrarla con vanesie chiacchiere.
-Adesso devi aspettarmi qui e non uscire per nessun motivo. Risolveremo
tutto, te lo prometto.- la rassicurò in fretta. -Ti fidi di
me, non è così?-
Alayne attese qualche istante, infine annuì timorosa.
Ditocorto si era dimostrato l'unica persona a tenerci veramente a lei,
in quegli anni bui, e non soltanto a parole.
-Sì.- concluse, aggrottando la fronte. Il pensiero di
lasciare il proprio destino nelle mani altrui, soprattutto in quelle
incaute di Robin, la spaventava.
Baelish sorrise, compiaciuto dalla risposta. -Significa che non
resterai delusa.-
Quando scese nuovamente nella sala, vi scoprì con grande
sorpresa -ma neanche troppa, in realtà: chi altri avrebbe
potuto
mandare re Tommen?- una persona di sua conoscenza.
-Tyrion Lannister.- lo accolse, spalancando le braccia in gesto di
saluto, con un mezzo sorriso graffiante a fior di labbra. -Vedo che
abbiamo visite. Come sta il nostro amato re?-
-Il Folletto.- sibilò Robin, lanciando un'occhiata vivace
d'astio all'ospite. Tyrion Lannister, nonostante fosse piuttosto a suo
agio, tese un sorriso un po' stropicciato: brutti ricordi erano
rievocati da quella sala, da quel portale spalancato sul
vuoto celeste del cielo aperto.
-Ma guarda un po', Robin... chi non muore si rivede, e a quanto pare
questo proverbio è tristemente attendibile.-
commentò,
guardandosi rapidamente intorno ed ignorando bellamente Ditocorto;
avrebbe avuto modo di vedersela di lì a poco con lui.
Il lord di Nido dell'Aquila s'imbronciò. -Infatti avrei
dovuto
liberarmi di te subito, non appena ne ho avuto
l'opportunità, invece che costringermi a sopportare
nuovamente
la tua
importuna persona, piccolo uomo.- Dopo essersi così lagnato,
protese il capo in avanti e mostrò un sorriso derisorio.
-Vedo che non sei cambiato granchè, dall'ultima volta che
sei
stato qui.-
Lui invece era diventato uno stangone, ma Tyrion diede una risposta
diversa. -Anche per me è commovente ritrovare l'amabile
dialettica del bambino seienne schizofrenico che mi stava tanto
simpatico, Arryn, non dubitarne neanche per un secondo.-
Il ragazzo, esitante se considerarlo un complimento o meno,
battè le palpebre. -Uh... senz'altro. Ma cosa accidenti ci
fai
qui?-
Tyrion intrecciò le dita dietro la schiena e
cominciò a
percorrere il salone a grandi passi. Non sapeva se quel ragazzino
facesse il finto tonto, oppure -come gli pareva- fosse tonto e basta,
però l'avrebbe capito di lì a poco.
-Effettivamente c'è una
ragione ben precisa. Anche se ti suonerà
strano, non mi
sono fatto tutta questa salita soltanto per udire di nuovo la
tua
amabile voce... Sono venuto in cerca di
una fanciulla di buona famiglia, con begli occhi azzurri, che un tempo
a quanto pare era mia moglie. Si chiama Sansa Stark.- Sorrise affabile.
-Dove posso trovarla?-
Robin contrasse il viso, accigliato. -Molto lontano da qui, presumo,
perchè a Nido dell'Aquila non
abita nessuna Sansa Stark.-
Tyrion inarcò le sopracciglia. -No, davvero? Eppure mi pare
di
capire che l'hai sposata pure tu. Non dirmi che ha cambiato marito di
nuovo...-
-L'unica donna che io abbia mai sposato è Alayne Stone, e
nessun
altra.- ribadì il ragazzino, ostinato. Schioccò
stizzosamente le dita per farsi versare del vino in una coppa. Dopo
aver portato il calice alle labbra ed aver bevuto a lenti sorsi,
lentamente, concluse: -Sansa Stark è stata dichiarata
scomparsa
da parecchio
tempo. Ormai sarà morta.-
Fu a quel punto che Petyr Baelish decise di intervenire
tempestivamente. -Perdona la mia sconveniente curiosità,
caro
lord Tyrion, ma una domanda sorge spontanea. Perchè tu ed il
tuo
re la state cercando, e urgentemente al punto da emanare un editto
reale e recarvisi qui con l'intero esercito? Devi ammettere che questa
situazione desta qualche perplessità.-
-Non siamo nè io nè il mio re a cercare Sansa,
lord
Baelish, te lo posso assicurare. È lei che cerca noi.-
Baelish inarcò un sopracciglio. -Forse sarà a
causa del mio intelletto non fino come il tuo, ma temo di non seguirti.
Potresti spiegarti meglio?-
-Lo farò anzi ben volentieri.- Tyrion osservò la
gelida cortesia sul suo volto e quasi sorrise. Quell'uomo mi vuole morto
all'incirca quanto io voglio morto lui, pensò,
eppure non ho mai
sentito una discussione civile come questa... -Sansa
mi manda dei massaggi, a volte. Certo, all'inizio ho fatto un po'
fatica a capire ch'era lei la mittente, visto che ha usato qualcuno dei
suoi numerosi nomi nel firmarsi, ed è stato un peccato.
Fortunatamente sono riuscito a capire che il suo nome non era
nè
lord Mallister, nè Podrick Payne, sebbene così
dicesse. Come ho
fatto? È molto più semplice di quanto pensi.
Quando ho parlato
con Mallister in persona, che mi ha assicurato di non aver mandato
nessuna missiva ad Approdo del Re... beh, ormai era troppo tardi per
rimandare re Tommen al sicuro a casa sua, però ho deciso di
scoprire se il mittente fosse chi sospettavo. Insomma, lord Baelish, il
solo fatto che subito dopo la tua partenza Sansa Stark sia sparita e
Robin Arryn si sia sposato con una figlia di nessuno offre di chi
meditare. Dicevano che la nuova lady della Valle non soltanto non
volesse mostrarsi ai suoi sudditi, ma non tollerasse nemmeno di essere
ritratta; voce che mi è stata confermata da un pittore che
ho
ingaggiato e che lord Robin certamente ricorda. Ora, qui le ipotesi
sono due: o sua moglie è una racchia da far paura, oppure
per
qualche ragione non si vuole che si venga a conoscere il suo aspetto.
Perchè? A questo punto mi sembra quasi scontato aggiungere
che
nei registri anagrafici della Valle non risulta nessuna Alayne
bastarda, nonostante il suo cognome sia Stone, e che per verificare
l'autenticità delle future lettere che sarebbero giunte al
re da
corte ho chiesto ad un mio funzionario di scriverle tutte con
l'inchiostro rosso, e che l'ultima lettera proveniente dalla capitale
era nera che più nera non si può. Può
essere stato soltanto qualcuno che conosce Approdo del Re, influente al
punto da poter avere contatti fra le spie di Varys e scoprire del piano
di Margaery... Volete
aggiungere qualcosa oppure mi portate subito la ragazza? O come minimo
fatemi le vostre scuse, dato che ho dovuto affrontare tutta questa
salita soltanto per arrivare quassù.-
Baelish gli rivolse un ghigno debitamente, raffinatamente limato.
-Allora temo che tu debba proprio accontentarti della vista del dolce
viso del nostro giovane lord Robin, Lannister, perchè qui,
come
il mio signore ha già puntualizzato, Sansa Stark non si
è
mai fatta vedere. D'altronde, come avrebbe mai potuto salire fin
quassù? Gli unici inservienti che hanno i mezzi per aiutare
gli
ospiti a salire obbediscono soltanto sotto ordine di lord Robin.-
-Il ragionamento non fa una grinza, lord Baelish,- ammise Tyrion
mellifluo, -dunque lady Sansa non può essere giunta qui in
altra
maniera, se non accompagnata da qualcuno piuttosto ben accetto, che vi
si recò proprio... ecco, sì, otto anni fa.
Così
come otto anni fa lei è sparita misteriosamente. Una vera
coincidenza, non c'è che dire.- Senza dare il tempo a
Baelish di
replicare, il Folletto si voltò verso Robin. -Ritieni di
avere
un buon rapporto con tua moglie?-
Robin assunse un'espressione di disappunto. -Ma certamente. Che razza
di domande sono queste? Stiamo progettando di
generare un erede al più presto, in tutta
onestà.- aggiunse
compiaciuto.
Tyrion fece una smorfia, evidentemente inorridito da quella
prospettiva. -Così potrai staccarle il bambino dalle tette
ed
attaccartici tu?
Ho il vago sospetto che tu ti sia sposato solo per quello...
perchè, per il resto, non vedo cosa tu te ne possa fare, di
una
moglie mentitrice come quella.-
Robin Arryn impallidì e si fece cianotico come un morto.
Aprì la bocca in una "o" indispettita e furibonda,
evidentemente
intenzionato ad urlare uno spergiuro, ma poi parve demordere. Strinse
le labbra ed alzò una mano, come per indicare ai suoi uomini
la
Porta della Luna, ma riuscì nuovamente a tornare padrone di
sè. Ricadde sconfitto dalla propria stessa furia sul sedile;
dopo qualche istante trascorso a fissarlo con astio, Robin si
chinò in avanti e sillabò:
-Mia moglie si chiama Alayne Stone, non Sansa Stark.-
-Tu la chiami Alayne e io la chiamo Sansa, ma stiamo parlando della
stessa persona.- dichiarò il Folletto tranquillamente.
-Ecco,
vedi, visto che siamo in guerra con la sua famiglia lei potrebbe farci
comoda.- Sollevò un dito, come a raccomandargli di fare
attenzione. -Però la mia non è una richiesta, e
ti prego
di non fraintenderla come tale. La tua montagna è circondata
dagli uomini di Tommen, Arryn. Se io non
tornerò dabbasso entro tre ore, oppure se tornerò
con un
diniego, il re ti taglierà i viveri. Quindi, cosa ne dici di
portarmi la ragazza, offrirmi un bicchiere di vino possibilmente non
avvelenato e salutarci come i vecchi amici che siamo, invece di
costringermi a dire a Tommen di farti del male?-
Robin Arryn serrò gli occhi in due fessure. -Va' in malora,
Folletto.-
Tyrion sospirò tristemente, e dopo pochi istanti
ritentò.
-Secondo te vale la pena di iniziare una guerra e devastare la tua
Valle per una stupida ragazzina bugiarda, come te ne potrai trovare
tante altre? Consegnamela, Arryn. È la cosa migliore che tu
possa fare. Arrenditi.-
Robin picchiò la mano contro il bracciolo del suo scranno e
sgranò gli occhi ancora di più, se possibile.
-No. Ho detto di
no. Lei si chiama Alayne ed è mia. Capito? Non
potete portarmi via anche lei. È mia!-
Baelish tirò un sorriso amaro. Sì,
probabilmente
Alayne Stone apparteneva a Robin. Era la sua favola, la sua fantasia,
la sua chimera; una promessa non mantenuta, come mille altre. Il
giovane lord però non aveva più alcun diritto su
di lei:
si stava già disintegrando, per lasciar posto a Sansa Stark.
E
Sansa Stark non apparteneva affatto a Robin. Sansa apparteneva a
Baelish, che non aveva certo intenzione di sprecare quest'occasione. E
fu ben lieto di scoprire che l'idea tanto attesa era arrivata.
Tyrion scosse il capo. -Va bene, ho capito che il senno sta andando a
donnine allegre in questo maledetto castello... Probabilmente dovrei
ordinare a Tommen di ridurlo in macerie non appena scendo da qui...-
-No.- La voce di Ditocorto s'intromise nuovamente nella discussione.
-Lord Robin, mi sembra arrivato il momento di smetterla con questa
farsa. Ebbene, metti da parte la tua risaputa gelosia e mostriamo lady
Alayne al Folletto qui presente, così che possa capacitarsi
con
i suoi occhi del fatto che tua moglie non è altri che chi
dice
di essere. Posso spiegarti tranquillamente perchè il nome di
Alayne non compare nei registri della Valle: perchè non l'ho
registrata alla sua nascita. Volevo che rimanesse segreta, in
realtà, per avere assicurato il mio posto a corte... un po'
sleale, dirai tu, però è così. Adesso
posso andare
a chiamare la mia figliola, non è così, lord
Robin?-
-No!- strillò Robin infuriato. -Mai e poi mai!-
Baelish trattenne una smorfia; ovvio che quel piccolo idiota doveva
sempre intralciarlo con la sua stupidità.
-La tua gelosia è assolutamente insensata in questa
occasione,
mio caro, perciò ora, che sia tu volente o nolente,
porterò Alayne a cospetto del qui presente, così
che
possa riferire al nostro re ciò che noi gli stiamo
assicurando.
Con permesso.-
Quando il ragazzino tentò di obiettare, Baelish gli
lanciò di sfuggita un'occhiata eloquente, spazientito.
Appena giunto alle stanze dove Sansa era nascosta, attendendo
novità con molta apprensione, l'uomo esclamò
subito:
-Non
c'è tempo da perdere. Voi,- e indicò Sansa e la
sua
cameriera personale, -scambiatevi gli abiti.-
Alayne era scioccata. -Scambiarci cosa?!-
-C'è qui il Folletto che vuole vedere Alayne Stone. Dunque
noi
gli presenteremo Alayne Stone... soltanto che passeremo la parte ad una
nuova attrice.- Indicò con un cenno di scherno la povera
ragazzina, che ignara di tutto lanciava occhiate smarrite all'uno ed
all'altro. All'udire che Tyrion era giunto lì, Alayne
rabbrividì di stupore: costretta da una pavida angoscia, si
nascose dietro un paravento per togliersi gli abiti ed indossare quelli
smessi e macchiati di sporco della servetta. La cameriera invece si
ritrovò con un ingombrante abito di broccato azzurro, con
pesanti ornamenti di pizzi e perle sulla gonna, scarpe alte ed una
sontuosa collana al collo; venne aggiunta da parte di Alayne una
cuffietta ricamata di merletti per nascondere il fatto che i capelli
fossero in disordine. Baelish prese poi entrambe per il braccio,
indicando loro la strada; quando giunse nei pressi delle cucine,
bisbigliò qualcosa all'orecchio di una delle cuoche, che
annuì in fretta e si affaccendò a cercare
qualcosa.
Ditocorto si rivolse ad Alayne.
-Ora ti farò portare a Valle, qui non è
più un
posto sicuro per te. Il Folletto potrebbe decidere di andare in fondo a
questa storia e perquisire Nido dell'Aquila, grazie al mandato reale.
Starai dentro le casse vuote dei rifornimenti per i viveri,
così
nessuno si accorgerà di te... e lì ti condurranno
da
qualcuno con il quale sarai al sicuro, Alayne, credimi.-
La ragazza lo guardò, il volto adombrato. -Io non voglio
essere al sicuro... io voglio essere al sicuro con te.-
Baelish liquidò il discorso con un cenno
affrettato.
-Adesso non c'è tempo per questo. Ascoltami, io ti
raggiungerò... ma non adesso. Desterei troppo i sospetti. Ci
ritroveremo presto, ma adesso devi andare, subito.-
Sansa esitò, infine si allungò verso
di lui e gli lasciò un bacio leggero a fior di labbra.
-Questo, perchè sei stato così meschino da farmi
sentire
di nuovo una lady indifesa.- dichiarò, con un sorriso mesto.
Baelish non si scompose, si limitò a sorridere di sottecchi.
In fondo, era
così che doveva andare. Era così che sarebbe
dovuto andare, quella volta. Mentre la cuoca aiutava Sansa
a nascondersi nella cassa,
-Addio, mia cara Alayne. Non potrò mai più
chiamarti a
questo modo.- sospirò, sotto lo sguardo sconcertato di
quella
disgraziata cameriera che, fra presunti padri baciati da presunte
figlie ed abiti sfarzosi, quel giorno le pareva di vaneggiare. Appena
venne presentata al cospetto del Folletto, egli storse il naso.
-Questa non è Sansa Stark.- rilevò, irritato
all'idea di
dover fare una ricerca accurata e sicuramente lunga e noiosa in tutto
il castello.
Baelish sorrise. -Lieto che finalmente tu l'abbia capito, amico mio...-
Robin lanciò un'occhiata intristita oltre i vetri delle
grandi
finestre, perdendo lo sguardo nel disegno delle nuvole sfilacciate che
serpeggiavano fra le pareti rocciose, drappeggiate sui monti come
festoni, adagiate sulle macchie selvose, in eterei anelli di vapore
bianco.
Arrivederci, cugina, pensò,
mentre l'anima crollava grave nel petto come piombo. Il lord di Nido
dell'Aquila comprese di essere di nuovo solo.
***
Meera Reed non era nata per regnare, e lo sapeva benissimo. Quando, nel
rivolgersi a lei, i servitori la chiamavano mia signora, non
poteva evitare di aggrottare la fronte con disappunto. La faceva
sentire a disagio, perchè non si sentiva di certo superiore
a
nessuno. Fin da bambina non aveva avuto grandi ambizioni per il futuro:
figlia di una casata minore, di un crannogman,
lady
soltanto in teoria, la cui massima aspirazione nella vita sarebbe stata
ereditare quattro pezzi di terra paludosi nell'Incollatura, seconda a
suo fratello. Non poteva certo immaginare cosa il destino avesse in
serbo per lei. Negli ultimi tempi aveva avuto tutto il tempo di
meditare circa ciò che rende tale una vera regina, e lei era
assolutamente convinta che comprendesse anche quella gamma di codici,
di cerimoniali e di formalità di corte che lei non riusciva
proprio a sopportare: gli ospiti che portano i doni, che recitano le
benedizioni a memoria, che chiacchierano a vanvera sul proprio viaggio
e sulla guerra e che passano direttamente ad ingozzarsi al banchetto;
le sciocche damine che le erano state presentate, l'una dopo l'altra,
nel vano tentativo di distrarla; i bei discorsi che le facevano
imparare a memoria per questo e quell'altro lord. Tutto ciò
era
sempre meglio della noia, comunque, la noia che la inseguiva per i
corridoi, la soffocava nell'acqua ustionante del bagno e la
attanagliava nei grandi saloni vuoti, che non c'era più
nessuno
a riempire. L'unico modo per farla svagare sarebbe stata
ridarle
il suo arco e la sua lancia, pensò con rimpianto.
-Volete ancora dello spezzatino, lady Meera?- La voce argentina e
sonora di Shireen Baratheon la strappò improvvisamente ai
suoi
pensieri.
Meera scosse la testa, rivolgendole l'espressione
più
benevola che le riuscì. -No, ti ringrazio. Io... credo di
non
avere più fame.-
-Non avete quasi toccato cibo.- le fece notare la ragazzina, con
un'espressione d'interrogativo stupore che da quella constatazione
parve più intristita che accusatoria.
-E' vero.- rilevò la regina, trattenendo un sospiro fra le
labbra. Shireen non indagò oltre la questione e si
limitò
a sorriderle.
A Meera quella ragazzina stava simpatica. Nonostante il suo animo fosse
evidentemente molto limpido e vulnerabile, era sempre allegra e pronta
a dispensare saluti e parole gentili per tutti, dai ricchi lord ai
garzoni della cucina, dai vecchi ai bambini; però non era
sciocca e vanesia, bensì riflessiva e riservata a tal punto
da
sapere quando tacere, quando parlare e che cosa dire. La sua gentilezza
e sensibilità la rendevano una coinquilina davvero amabile
e,
benchè non avessero molto in comune, i pomeriggi
più
interessanti per Meera erano quelli che trascorreva conversando con
lei. Una volta le aveva persino confessato quanto amasse cacciare. È ciò che
mi fa sentire viva, aveva detto. Shireen l'aveva
osservata a lungo e infine aveva detto, scandendo chiaramente ogni
sillaba: un'anima come
la vostra non dovrebbe permettere agli altri di sopprimerla. Io
credo che voi dobbiate respirare di nuovo.
-Che gli dèi ti fulminino. Questo è
lo spezzatino
più buono che io abbia mai mangiato.- bofonchiò
Osha,
leccandosi avidamente le labbra unte di sugo rosso. Meera
roteò
gli occhi, esasperata.
-Ti supplico, Osha, usa le posate. Non è difficile.
Altrimenti fai passare la fame a tutti gli altri...-
La bruta replicò con un'occhiata truce. -Non ti dico che
cosa
dovresti fartene, delle posate... io le schifo, le tue dannate posate.
Quando sono venuta qui, ho messo subito le cose in chiaro: resto a
corte soltanto a patto di non mettere i vestiti da deficente e di non
avere niente a che fare con i vostri gingilli da persone perbene.
Quindi non venirmi a fare la morale con le tue posate, adesso!-
Shireen scoppiò in una risatina. -Oh, Osha, sei davvero una
persona spassosa. Dici sempre cose divertenti.-
Osha assunse un'espressione perplessa. Fissò a lungo
Shireen,
con un cipiglio inquisitore, infine voltò lo sguardo verso
Meera
e si picchiettò la tempia con il dito indice, con eloquenza,
come a dire questa non
ci sta proprio con la testa. Dopo un'attenta
osservazione, la bruta aveva in generale approvato Shireen come moglie
di Rickon. Sembra
moscia e ignara, però in realtà ha un animo di
ferro. Io le intuisco, queste cose, aveva dichiarato con
aria d'importanza. È
una ragazza forte, temprata, sveglia. Sempre meglio di quella
sgualdrinella biondina.
-E quello?- Osha fece un cenno con la testa verso Meera,
che
stava giocherellando distrattamente fra le dita il ciondolo appeso ad
una sottile catenina d'argento. Era un prisma adamantino, con una
miriade di sfaccettature di struggente perfezione, che bevevano bramose
la luce rosata delle torce, assumendone la dolce tonalità.
Lei
lo fece tintinnare, sfiorandolo appena con l'unghia.
-Un regalo di Bran, prima di partire.- rispose con disinvoltura, a voce
atona. -Finora non l'ho mai messo, però oggi me lo sono
ricordato.-
Osha lo esaminò soltanto per qualche istante, poi scosse la
testa cupamente. -Se pensa di comprare il tuo sorriso con i gioielli,
vuol dire che non ha la più pallida idea di chi tu sia.-
Shireen assistette al loro scambio con un po' di disagio,
però, dato che lo pensava sul serio, aggiunse educatamente:
-È molto grazioso.-
Meera annuì, abbassando lo sguardo su di esso. -Inutile, ma
grazioso. Le cose inutili sono quasi sempre graziose, per compensare la
loro inutilità.-
Dopo alcuni istanti di silenzio, sul quale gravò lo spettro
impalpabile ma immancabilmente presente della guerra, Osha
manipolò la conversazione per portarla su temi
più
leggeri.
-Ma dov'è lady Selyse?- Era stato uno strazio per Meera
convincerla almeno a chiamare lord
e lady chi
di dovere, almeno per non finire stecchita prima del tempo.
-Stasera ha deciso che si fa portare il cibo in camera.- rispose
Shireen, alzando le spalle. -Dice che la sua fede è in crisi
e
che ha bisogno di Melisandre.-
-Melisandre?- Meera aveva già sentito quel nome, ma non
riusciva a ricordare in che contesto.
-La sacerdotessa rossa che sostiene mio padre.- spiegò
Shireen,
per poi portare la forchetta alla bocca, pensosa. Dopo una pausa per
deglutire, proseguì. -Mia madre crede molto in lei e la
voleva
accanto a sè qui, a Grande Inverno, ma Melisandre
è
dovuta partire per l'oriente, alla ricerca di un tale alleato delle
tenebre... ogni tanto ci fa sapere per lettera come procede. Non mi
sembra che abbia ottenuto grandi risultati, però mia madre
confida incredibilmente in lei.-
Osha fece una smorfia. -Questi strani culti orientali del fuoco mi
hanno sempre ispirato diffidenza, sarà perchè-
Meera si piegò sul tavolo e si aggrappò con le
mani al
bordo, incerta, annaspando. Le altre commensali si girarono subito a
guardarla, allarmate.
-Cosa ti succede, lady Meera?- chiese Shireen, preoccupata. Dopo pochi
secondi di spaventata immobilità lei abbozzò un
sorriso
impacciato, sollevando faticosamente le palpebre sugli occhi velati di
smarrimento.
-Sto bene, grazie. Dev'essere il corpetto... probabilmente me l'hanno
allacciato troppo stretto. È tutto a posto, davvero.-
Shireen annuì, la fissò ancora per qualche
istante e poi
si portò il calice alla bocca. Osha lanciò a
Meera uno
sguardo indicativo, un presentimento che la attraversò fin
nelle
membra. In effetti, non era proprio verosimile che le allacciassero il
corpetto troppo stretto tutti
i giorni. In effetti, quello non era da
escludere: almeno, se così
fosse stato, avrebbe avuto un pensiero nuovo a tenerla
occupata. Sarebbe stato bello.
-Meera vacilla perchè ha bevuto troppo vino, quindi per
stasera
è meglio che smetta.- annunciò Osha astutamente,
allungandosi ad afferrare la coppa della regina e scolandosene il
contenuto in un sorso. Meera assunse un'espressione indignata.
-Ne ho bevuto pochissimo! Era praticamente pieno, il bicchiere che hai
tracannato fino all'ultima goccia! Però è vero
che
portiamo a tavola troppo vino. Quando Bran tornerà, mi
farà la predica...-
-Quando il gatto non c'è, i topi ballano.-
ribattè placidamente Osha, colmandosi il calice di nuovo.
-Dovremmo prendere esempio da lady Shireen e bere acqua.- aggiunse
Meera, indicando la giovane Baratheon.
Osha esibì un ghigno allegro. -Ti conviene abituarti ad
attaccarti alla bottiglia fin da subito, ragazza, se nel prossimo
futuro sposerai Rickon...-
-Perchè?- domandò ingenuamente Shireen, guardando
prima
l'una e poi l'altra con sorridente aspettativa. Entrambe scoppiarono a
ridere. A quel punto s'udì bussare.
-Avanti.- esclamò Meera, cercando di darsi un contengo.
Entrò il Maestro di corte, con un'espressione di affranta
cautela.
-Mia regina,- cominciò con voce fioca, -ci sono notizie da
parte del re.-
Meera lo fissò, la forma delle risate precedenti ancora a
fior di labbra. -Ebbene?-
Le bastò guardare l'uomo in volto per un secondo ancora, per
capire che una calamità si stava per abbattere sulla sua
casa,
che una voragine si sarebbe spalancata sotto i suoi piedi per
inghiottirla.
Note dell'Autrice: sì, sì, lo so. WTF?! Che
accidenti è questo capitolo?! Avete ragione, però
dovevo metterci un sacco, e ci ho messo... un sacco di cose. Un sacco
di cose orribili.
Ho ucciso Jojen, ho davvero ucciso Jojen! Ancora io non posso crederci.
O.O Come ho potuto fare una cosa simile?! Beh, certo che ha
l'atteggiamento di un personaggio che morirà in modo
tragico, però potevo avere un po' di pietà. Le
fan del pairing sappiano che l'ho fatto contro la mia stessa
volontà, perchè io li amo più di
qualsiasi altra cosa, e che mi perdonino! Piazzerò qualche
flashfic traboccante di fluff per farmi perdonare! Le fan dei Lannister
invece staranno gongolando alla grande per la famosa lettera... quindi
non vi resta che scoprire come andrà a finire! L'unica cosa
che aggiungo è che non tutto è come sembra.
Sansa ha baciato Baelish... mmh. Vabbè. Ci stava. Non
è che loro mi piacciano molto, ma in questa situazione ci stanno.
Spoiler per il prossimo capitolo: ci saranno degli
sviluppi che coinvolgeranno Margaery... Grazie a tutti coloro che sono
riusciti -più o meno sani- ad arrivare fin qui! Vorrei tanto
sapere cosa ne pensate! ^-^
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Celeste fu il rimorso. ***
9
IX.
Celeste fu il rimorso.
Quando giunse a far visita alla tenda di suo fratello, Rickon era
reduce negli ultimi tre giorni da ben due esperienze che l'avevano
scosso.
La prima era stata la totale e distruttiva perdita del
controllo dei suoi poteri da parte di Bran, naturalmente, mentre le
seconda risaliva a solo poche ore prima. Era accaduto che una sera,
quasi
casualmente, Rickon s'era lasciato sfuggire qualcosa a proposito del
fatto ch'egli si dilettava, spesso in modo alquanto sconveniente, in
vagheggi mentali nei quali Myrcella era la protagonista -e fin qua
nulla di strano. Ciò che davvero aveva reso depravata quella
confessione era che la giovane Lannister, nel corso di quelle fantasie,
era intenta a scellerati atti di cannibalismo estremo, quali scuoiare
una vittima viva con i denti e mordicchiarne le corde vocali dopo aver
dilaniato la giugulare; ad ogni modo, quelle rivelazioni erano
sopraggiunte senza impegno alle labbra di Rickon, ma non era quello che
Myrcella recepì. Ella infatti, vincolata da un senso
d'obbedienza, d'obbligazione ed idolatria verso il ragazzo,
sfrenatamente ed ansiosamente desiderosa di compiacerlo e di non
annoiarlo mai, decise di tenere fede alla propria sottomissione
volontaria ed incondizionata, e così di dimostrarla e
ribadirla
per l'ennesima volta, accondiscendendo -seppur non proprio bendisposta,
e quindi solo in parte- a quegli obbrobriosi capricci. Per fargli una
sorpresa non lo informò dei propri propositi ed
approfittò della sua assenza, durante il pomeriggio, per
procurarsi ben quattro catini di sangue umano. Non scarseggia di certo, di
questi tempi, si
era ritrovata a pensare tristemente. Si assicurò che non
fosse
prelevato da corpi morti per malattia, per timore che potesse essere
infetto, ma soltanto da ferite di guerra o -cosa che non poteva fare a
meno di impressionarla terribilmente- da cadaveri deceduti da un giorno
o due. Quando richiese ciò che le serviva, venne guardata
con
sbalordito orrore e sgomenta diffidenza da tutti, ma le
bastò
nominare Rickon e le sue esigenze
per
vedere tutti scattare sull'attenti, disposti a procurarle quanto
domandato senza fare troppe domande. Meno si sapeva, del principe-lupo
e del re Metamorfo, meglio era: questa lezione si imparava in fretta,
fra le truppe del Nord.
Così Myrcella trascorse il pomeriggio ad esercitarsi, a
prendere
familiarità con ciò che le sarebbe toccato fare
quella
sera. Non appena portò alle labbra il primo boccale di
sangue
della giornata, con mano esitante, il solo odore intenso e penetrante
la spinse ad allontanarlo con ribrezzo dal viso. Ma dopo pochi istanti
ci riprovò: doveva farlo per Rickon, si ripeteva, per Rickon.
Questa volta resistette stoicamente al fetore che emanava e
riuscì a bagnarsi la lingua con il liquido scuro,
però
non ne inghiottì nemmeno una goccia; lo sputò a
terra
tutto, assolutamente disgustata non solo nella gola, ma anche
nell'animo. A prescindere dall'influenza inevitabile della
consapevolezza, il suo stesso corpo si rendeva conto che c'era qualcosa
di sbagliato in quello ch'ella cercava di fare e respingeva
violentemente tale empietà. Tutta sconvolta e tremante,
Myrcella
non si diede per vinta e tornò a colmare il bicchiere
daccapo.
Inizialmente si limitò a sciacquarsi la bocca con il sangue,
per
abituarsi al pesante sapore acre, turpe e ferrigno, e infine ad
ingoiarlo prudentemente, a piccoli sorsi; dopo un paio d'ore
scoprì che il suo palato se n'era avvezzato e le sue narici
distinguevano appena il fastidioso pizzicore aspro che esalava. Fu
così che quando, calata ormai la notte, Rickon fece ritorno
alla
tenda, esausto ed assonnato, venne salutato da una Myrcella
inusualmente
allegra e sorridente, perchè l'incontro con Tommen l'aveva
lasciata nostalgica e rattristata dalla piega degli eventi, dalla
tremenda scelta che le era stata imposta e dal conseguente esito. La
fanciulla gli offrì un bicchiere, ma Rickon non dovette
nemmeno
portarlo alla bocca per realizzare che quello non era vino, ma sangue;
sollevò gli occhi, per chiedere spiegazioni, e in tutta
risposta
Myrcella sorbì il contenuto del suo boccale in tutta fretta;
un
po' troppo in fretta, perchè lunghi rivoli cremisi
scivolarono
dalle sue labbra avide e gocciolarono sulla pelle immacolata del collo,
a macchiare il corpetto. Cos'altro avrebbe dovuto fare lui,
ritrovandosi Myrcella con la bocca lorda di sangue umano, le vesti
discinte e i suoi grandi occhi verdi spalancati, in giubilante attesa
d'approvazione? In seguito, alcune ore dopo, la ragazza
decretò
che ne era valsa davvero la pena.
La mattina seguente, Rickon si presentò dunque per
verificare le
condizioni di Bran, mezzo stordito dai ricordi della sera prima.
-Posso vedere mio fratello senza rischiare che mi esploda il cranio?-
Septon Gilliard, che si era preso cura di sua Maestà il re
fin da
quand'era crollato nel sonno asettico del latte di papavero, scosse la
testa con mestizia. -È troppo debole anche solo per alzarsi
in
piedi, e quindi inoffensivo. Il suo stato sembra cosciente, tiene gli
occhi aperti e a volte si muove, ma non ha ancora pronunciato una sola
parola. La sua presenza potrebbe donargli un po' di conforto, mio
principe. Può stare tranquillo: da quel punto di visto, lei
non
corre nessun rischio.-
Rickon fissò l'ingresso della tenda per qualche istante,
prima
di liberare un lungo sospiro sofferto. Il suo era un compito ingrato,
lo sapeva, ma improrogabile, che soltanto lui poteva assolvere:
bisognava sperare che non fosse troppo tardi per salvare Bran. L'aveva
visto come mai prima, come se si fosse spezzato per la seconda volta.
Erano passati due giorni interi e nessuno aveva avuto ancora l'ardire
d'avvicinarsi al re Metamorfo, non dopo l'innominabile abominio che si
era consumato in quella stessa tenda, quando il sangue dei soldati del
Nord aveva macchiato i vessilli degli Stark, dopo che quello di Jojen
Reed aveva imbrattato le mani dei Lannister.
-Vado, allora.- bofonchiò, afferrando il lembo della tenda
con
una mano. Dopo un ultimo istante, la strattonò con forza.
Nonostante in quell'opprimente spazio angusto facesse un gran caldo,
Bran era sommerso da una catasta di pellicce; il capo era avviluppato
dalla federa di un gigantesco cuscino ed i capelli colavano sulle
sue spalle, opachi e scompigliati, incollandosi alla sua pelle rovente.
Piccole gocce di sudore erano disegnate in controluce, sulla sua fronte
paonazza. La carnagione aveva un colorito effettivamente insano, come
se una febbre feroce lo stesse divorando dall'interno. Eppure, sebbene
apparisse esanime, non era statica la sua sofferenza; era fremente,
nervosa, irrequieta, vibrava sotto la sua pelle, formicolava nelle
fibre dei suoi muscoli, nella sensibilità dei suoi nervi.
Rickon rimase lì in piedi, ad aspettare, sentendosi un po'
stupido ed un po' inutile -perchè era Bran a dover fare
tutto da
solo- ma non fuori posto. Rimase a fissarlo con lo sguardo aguzzo e le
palpebre chine in un'espressione distaccata, superiore.
Bran aprì gli occhi. Avvenne in modo repentino, in un
frullio di
ciglia nere. I suoi occhi erano dischi di tenebre, come portali su un
mondo d'ingenua, vellutata, casta oscurità. Le ombre degli
abissi vi si erano annidate come ragni che nidificassero nelle fessure
delle roccaforti; lo sguardo rimase immobile, implacabile, mentre la
sua anima si dibatteva urlando. Il fuoco aveva invecchiato la sua
tristezza di duecento anni.
-Chi?- La sua voce si fece strada come uno stridio fra pareti
arrugginite, combattendo contro il dolore. Dalle labbra morsicate,
uscì così rauca che Rickon provò un
deplorevole,
triste turbamento. -Chi è stato?-
Voleva sentirlo, voleva saperlo. Voleva sapere chi aveva spento la luce
negli occhi che amava, chi lo aveva strappato dalle sue braccia troppo
deboli per difenderlo, a chi si poteva ricondurre quel panico che gli
serrava lo stomaco. Voleva sapere.
La sua calma apparente era soltanto stanchezza, uno sfinimento simile a
quello delle ultime scintille che non riescono ad appiccare fiamme fra
le braci. La sua voce era soltanto un'estrema supplica. Rickon distolse
lo sguardo, storcendo il naso, mentre il sinistro malessere che provava
quando vedeva Bran vacillare gli avvinceva le membra.
-Si dice si sia suicidato.- riportò a voce fredda.
La risata
di suo fratello fu quanto di più atroce le sue
orecchie
avessero mai percepito, un gemito sotto mentite spoglie.
-Oh, ma certo.-
Il sarcasmo era aspro come sangue malato.
-Effettivamente ha un senso.- insistette Rickon, cercando di
dissimulare il disagio che provava. -Tyrion Lannister non è
un
idiota,
non l'avrebbe mai... hai capito. Probabilmente voleva che gli
snocciolasse qualche previsione, e lui...- Lo struggente panico
raggrumato nello sguardo fisso del suo re lo innervosì non
poco.
-Senti, Bran. Non ti puoi
permettere di reagire così.- sbottò con veemenza.
Bran schiuse le labbra e, faticosamente, emise un rantolo che aveva lo
stesso sapore delle alte grida di pochi giorni prima, inarticolato ed
arido, prosciugato di tutto il suo furore ma ancora pregno di
desolazione. -Rickon.-
-Sta' attento a quello che stai per dire.- lo interruppe subito lui,
alzando il palmo verso di lui. -Dimmi che vuoi tornare a
casa, e ti darò un cazzotto. Dimmi che vuoi ucciderti, e ti
darò un cazzotto.- lo avvertì poi, con tono
minatorio.
Bran gli rivolse un'occhiata vitrea, quasi distratta, senza guardarlo
davvero. La sincerità dolente delle sue parole fu pacata,
riflessiva e così razionale da far paura. -Voglio uccidervi
tutti.-
Rickon alzò gli occhi al cielo e sbattè le mani
contro i
fianchi, in un gesto esasperato. -Oh, è una risposta
così
idiota che
non era nemmeno contemplata.-
Il fratello rivolse di nuovo il volto al cuscino, quasi a cercare il
buio. Tutta quella coscienza e razionalità lo stavano
uccidendo.
Aveva bisogno d'intorbidire la propria mente, confondere i propri
sensi, perdere la concezione di tempo, spazio e realtà.
L'evasione gli era necessaria per avere l'empietà di
gonfiare il
petto nell'ennesimo, doloroso respiro.
Una domanda premeva contro le sue labbra serrate.
-Quanti uomini?- Parole inutili d'un ricordo frammentario, tentativo
fallito e tardivo d'un desiderio di espiazione che non provava.
Rickon contrasse il volto ad una rigida severità. -Sette.-
pronunciò a voce alta, senza schermi. -Avevi mai ucciso
più di un uomo contemporaneamente?-
Le labbra di Bran si contrassero come se stessero torcendosi sotto i
colpi d'una tortura, fino a mimare un sorriso senza speranza di
sopravvivenza, senza allegria di sorta.
-Non ci sono mai riuscito.- ricordò a voce fioca e rauca.
Gli
parve un'altra epoca quella in cui si addestrava nella caverna di
Bloodraven per diventare una sistematica arma di distruzione, in cui
uccideva i prigionieri Bolton in fila nella sala di Grande Inverno;
quella in cui lui ed il suo consigliere facevano l'amore nel buio
soffuso dei loro gemiti soffocati. -Jojen diceva che non mi ci
impegnavo, che non mi concentravo, che non ci credevo veramente.... che
non ero motivato abbastanza.-
Era ironico dirlo, dopo tutto quel ch'era successo. Ecco cos'era stato
quel suicidio, un modo per motivarlo,
per attivare quei maledettissimi poteri, per far scoppiare Bran in
tutta la sua potenza. Jojen Reed aveva osato ciò che nemmeno
la
brutalità dei Lannister aveva potuto infliggergli, dolori di
cui
non conosceva nemmeno l'esistenza prima di quel momento. Jojen Reed
aveva il suo cuore in mano e l'aveva sacrificato in nome di qualche
losco intrigo, in nome del gioco del trono.
Jojen Reed sapeva, come nessun altro sapeva, quanto disperatamente Bran
fosse aggrappato a lui. E se l'era scostato di dosso con indifferenza.
Questo non era amore. Era odio, un odio nero, perverso ed efferato, in
nessun modo paragonabile all'odio per i Bolton, all'odio per i Frey,
all'odio per i Lannister. Era un odio ancora più spregevole
perchè immotivato. Questo
non era amore.
Jojen Reed non l'aveva mai amato in vita sua, probabilmente nemmeno per
un fugace istante, nemmeno per un secondo. Aveva approfittato della sua
debolezza per rendersi indispensabile, e perchè l'aveva
salvato?
Per il Nord. Era sempre stato il Nord. La salvezza del Nord era il suo
obiettivo, tutto era il resto era secondario, accessorio, sacrificabile -Bran
per primo.
Jojen Reed non aveva mai amato Bran Stark -casomai aveva servito il re
del Nord. Era un concetto talmente diverso da sconcertarlo.
L'idea che quando Jojen scivolava nel suo letto stesse obbedendo ad un ordine, quando
gli carezzava i capelli stesse intanto progettando di calpestargli
l'anima, era quell'idea a devastarlo.
Le promesse, le parole, i baci... menzogne.
Menzogne. Il
compito era riportare gli Stark a Grande Inverno,
dare un sovrano al Nord, e il resto non lo riguardava.
Bran si sentiva come se ciò che gli stava accadendo fosse la
sequenza successiva di quella spaventosa situazione di molti anni
prima, quand'era abbandonato in quel bosco -come
se Jojen, dopo essersi accostato a lui per qualche tempo, fosse
scomparso fra gli alberi, lasciandolo all'incuria della
notte,
nel totale smarrimento e scoramento precedente.
Se Jojen Reed avesse condiviso anche solo un granello
dell'amore che
Bran provava per lui, non si sarebbe permesso di morire per niente al
mondo. E invece era
andato dritto nelle fauci dei leoni, a farsi inghiottire.
Jojen aveva potuto scegliere se spezzare il cuore al suo re o mettere
in pericolo il suo esercito. Aveva scelto la
prima opzione. La coltellata che aveva inferto alla propria gola in
realtà era indirizzata all'anima di Bran. Non c'era
nient'altro
da aggiungere.
-Ma adesso lo sei, adesso sei riuscito a valicare il limite dei tuoi
poteri, e quindi hai le armi per vendicarti.- stava ribattendo Rickon
con energia.
Bran lasciò cadere gli occhi a terra, mentre l'amarezza
gocciolava come sangue dalle sue labbra schiuse. -L'unica persona di
cui voglio vendicarmi è morta.-
Come poteva piangere la vittima se allo stesso tempo era anche
l'aguzzino? Come poteva piangere quell'orrore? In realtà
piangeva se stesso, mosso a compassione dalla propria stessa vita come
se la stesse guardando con gli occhi di un estraneo.
-Reed è stato indotto al suicidio, e il motivo per cui l'ha
fatto è stata la lealtà verso...-
-Reed era a Delta delle Acque in quel momento, quando non avrebbe dovuto essere
a Delta delle Acque.- sibilò Bran, infuriato da quel
tentativo
di discolparlo. -Vorrei che fosse ancora vivo soltanto per poterlo
uccidere con le mie
mani.-
Rickon indietreggiò istintivamente, nel vedere
le iridi
del fratello fremere di furore. Ma quei pensieri tormentosi e quello
sbalzo d'ira dovevano essergli costati molta fatica, perchè
nuovi rivoli di sudore impastarono l'attaccatura dei suoi capelli e gli
rigarono la fronte. Il suo viso si fece scarlatto. Il dolore gli
circondava il capo come una corona di zanne, pressandogli la fronte.
-Vado a chiedere a septon Gilliard di portarti dell'altro latte di
papavero.- dichiarò Rickon, lanciando un'ultima occhiata
inquieta a Bran. In realtà, i suoi piani all'inizio
comprendevano anche l'annunciargli il fatto che il corpo di Jojen era
stato trovato nelle macerie di una torre di Delta delle Acque e che lo
avrebbero condotto all'accampamento, affinchè Bran decidesse
in
seguito quale fosse la sua ultima destinazione; ma evidentemente non
era nello stato fisico ed emotivo adatto per udire parole simili.
Il fratello lasciò ricadere il capo sul
cuscino, esanime.
-Non voglio dormire.- mentì. Perdere conoscenza sembrava
l'unico
modo per sopravvivere. Traditi due volte gli Stark, dunque, traditi di
nuovo, e Bran non potè fare altro che chiedersi perchè,
perchè.
***
Alayne Stone ebbe soltanto sette ore per tornare ad essere Sansa Stark;
recuperare la sua identità era però l'ultima
raccomandazione che Petyr le aveva impartito, prima di chiudere sopra
la sua testa il coperchio del baule, quindi indubbiamente era
importante che ciò avvenisse.
Ci mise un po' di tempo a fare mente locale, a disfare senza
pietà il lavoro di integrazione, creazione, rimozione, la
tessitura composta pazientemente in otto anni di lacrime asciugate in
tutta fretta ed in nome di un'autoconvinzione inesistente: e
tornò ai primordi. Eddard Stark ed il suo sorriso benevolo,
che
nonostante avesse sangue del Nord nelle vene la faceva sentire
così protetta e al caldo. Catelyn Tully ed il suo tenace,
intrepido affetto, il suo profumo di casa, la sensazione delle sue mani
fra i capelli. Robb, che nascosto dietro alla diligenza ed
alla
risolutezza degni di un vero lord aveva un animo sensibile e
coraggioso. Arya, quella peste di Arya, sempre con gli stivali
incrostati di fango e un'aggrottata irrequietezza in viso, i suoi
scherzi e le sue marachelle. Bran e Rickon, il suono delle
loro
risate che allietavano i pomeriggi a Grande Inverno. Sì,
Grande
Inverno, la sua casa. Casa. La sua stanza, il comò
dove
riponeva spazzole e piccoli monili, la sala dove si tenevano i
banchetti, il cortile dove un tempo avevano accolto re Robert...
L'arrivo dei Lannister. E qui i suoi pensieri s'incrinavano e il
pallido celeste dei suoi occhi si scioglieva in lacrime. Ancora non era
capace d'indifferenza, di fronte a quel ricordo, in special modo
lì, al buio, dove non poteva distrarsi con nulla e quelle
immagini dardeggiavano senza posa la sua mente; così poco ci
sarebbe voluto, per non precipitare in quel baratro di folle dolore,
così poco.
Alayne recuperò le sue emozioni una per una,
l'euforia di
quella prima, ora empia ed inenarrabile infatuazione per Joffrey, la
vergogna che bruciava sulla sua guancia dopo che era stata colpita,
alla quale assisteva la corte intera, osservando la sua veste
squarciarsi al tocco della lama di una spada; raccolse il febbrile
panico che si propagava celere come il sangue scuro di suo padre sul
palco dell'esecuzione, le fantasie di fiamme e demoni sbocciate nella
sua mente come un fiore velenoso nell'apprendere della distruzione di
Grande Inverno; richiamò alla mente ed al cuore la soffice
speranza di potersi stringere al fianco di ser Loras con un abito
nuziale, l'ebbrezza fugace delle confidenze di Margaery, della fiducia
nel realizzare di non essere sola in quella guerra silenziosa;
scavò nel profondo delle proprie ossa fino a trovare le
impronte
delle mani degli uomini che l'avevano aggredita ad Approdo del Re,
l'immagine del volto orribilmente deturpato del Mastino che la traeva
in salvo; rievocò il sapore nauseabondo della delusione,
fiele
nelle vene mentre Tyrion Lannister le posava un mantello nuziale sulle
spalle, e la puntura di lacrime acide come la realtà, come
il
vituperio quando il Folletto berciava ubriaco la sera della prima
notte; lustrò nella memoria e disegnò
sulle palpebre
il viso angelico e distorto di Cersei Lannister, da alleata a nemesi,
il terrore oscuro di quelle ore passate con lei durante la battaglia di
Blackwater, la gioia selvaggia nell'apprendere della sua morte... no,
no, tutto ciò apparteneva già ad Alayne. Andava
tracciata
una linea di confine ben definita, se davvero voleva
abbandonare
quelle spoglie ormai inutili, se voleva recuperare il diritto di sangue
e portare il nome di Stark. Alayne Stone era soltanto una bastarda
d'umili origini che aveva sposato un lord per pura fortuna, astuta ma
passiva e condiscendente. Alayne Stone non serviva più a
nulla.
E infine, inevitabilmente, i ricordi di ciò ch'era accaduto
poche ore prima sopraggiunsero prepotenti. No, no, no, non doveva, non
poteva, bisognava concentrarsi su Sansa, solo su Sansa... ma
perchè tornava ad essere Sansa esattamente quando avrebbe
voluto
essere Alayne ancora per un po'? Non riusciva assolutamente a capire
con che sfrontatezza avesse potuto baciare Petyr. Lui era un uomo
maturo, non gli interessavano le ragazzine... oh, invece sì, una
ragazzina in particolare
sì, sussurrò una vocina nella sua mente. S'impose
nuovamente di non pensarci, ma la mente vi ritornò
inevitabile.
Con che slancio eroico aveva osato accostare le labbra alle sue? E
perchè, poi? Si era lasciata trasportare dall'emozione, dal
timore di non vederlo mai più? Non credeva più
negli
arrivederci, non dopo i troppi che si erano rivelati addii. Sarebbe
forse successo lo stesso? E lui come aveva reagito? Non l'aveva
considerata una sgualdrinella, o peggio, una bambina capricciosa? Smettila di pensarci, smettila di pensare come Alayne!
strillò
quella voce nella sua testa. A Sansa non piacevano gli uomini adulti,
casomai gli stupidi cavalierini infiorellati e i principi viziati ed
odiosi con manie omicide... Ma certo che no, anche Sansa era cresciuta,
non poteva essere esattamente la stessa di otto anni prima. Sansa non è
innamorata di Petyr Baelish, rammentò
a se stessa aspramente, perchè
Sansa non è Alayne. Ma Alayne è anche la figlia
di Petyr... ma a me
piace Petyr. Quell'ultimo
pensiero le fece scoppiare il cuore in gola, in un'esplosione forse di
gioia o forse di paura. Alla fine, chi era Alayne? Chi era Sansa? Che
differenza c'era esattamente fra i loro sentimenti, e chi era lei?
Quando, un'eternità di pensieri più
tardi, il
coperchio del baule si levò in alto, Sansa Stark
aprì gli
occhi contro la luce del giorno.
Una sagoma lunga e scura incombeva su di lei, ritagliata sul bagliore
informe ed indefinito alle sue spalle. Sansa si strofinò gli
occhi, confusa, ed aguzzò lo sguardo. Lo scenario era una
specie
di agglomerato di tende e viavai di uomini. La ragazza di fronte a lei
non era dotata di particolare bellezza, ma aveva l'espressione
carismatica ed attraente dei caratteri impetuosi; aveva una crocchia
frettolosa di capelli scompigliati, ingrigiti da un velo di polvere, e
la fissava con uno strano sguardo beffardo, sorridendo un sorriso un
po' storto, come se sogghignasse. Vestiva come uno stalliere, con
calzoni sdruciti e una camicia di garza a quadri, che le cingeva giusto
il seno poco abbondante e ricadeva logora e sfibrata sui fianchi magri.
-Sempre la solita espressione scioccata,
come se ti avessi macchiato il vestito.- motteggiò storcendo
un
angolo della bocca. Furono molteplici i dettagli che Sansa
notò,
di conseguenza a quelle strane parole: gli alti stivali di cuoio
marrone, incrostati di
fango essiccato, la lunga spada appesa alla cintura e
quegli occhi, quegli occhi color del mare tempestoso... quegli occhi.
Quel nome non osò nemmeno giungerle alle
labbra: la
ragione le impediva di pronunciarlo. Temeva che il destino potesse
beffarla nel modo peggiore possibile, sopprimendo la sua ultima
speranza, quella folle caduca speranza...
A quel punto, il viso della ragazza si contrasse in un'espressione
imbronciata. -Non dirmi che non mi riconosci. Oh, su, avanti! Ci
è riuscito Rickon e non ci riesci tu? C'è di che
vergognarsi...-
Fu a quel punto che Sansa balzò in piedi e la strinse con
tutta
la forza di cui le sue braccia erano capaci. La sua anima l'aveva
riconosciuta, finalmente. Non c'erano più schermi,
più
barriere che le dividessero, che impedissero il ricongiungimento.
Adesso Sansa era riuscita a distinguere quel bagliore così
prezioso, ch'ella credeva perduto nei meandri della propria memoria, a
scorgere oltre il viso un po' diverso e le sofferenze così
tempranti.
-Sorella.- Fu poco più che una supplica, mentre il sollievo
dopo
un'agonia di otto, nove anni si scioglieva nel felice delirio
dell'avverarsi d'un miracolo. Era lei -la sua fantasia non avrebbe mai
avuto tanta presunzione da formulare un'ipotesi simile, eppure
l'evidenza si stagliava di fronte a lei come troppe volte si erano
stagliate le sventure, le disgrazie, le tragedie. Mai aveva percepito
una persona più intima, vicina e cara, più sorella di
quella bambina che non vedeva da tempo, di quella ragazza che non
conosceva.
Anche Arya l'abbracciò, con l'appassionato impeto e lo
scalpitante furore ch'erano sempre stati suoi. La felicità
scombinò i pensieri di Sansa come tasselli di un mosaico.
-Sei viva! Tu sei viva! Io non ci posso credere. Come... dove... cosa?-
Rise, perchè al momento non aveva assolutamente importanza.
Si
sentiva così contenta che si chiedeva come quella gioia
così grande potesse starci, in un cuore angusto come quello
umano.
-È una storia lunga. Quel che importa è che
Baelish ha rispettato i piani e ti ha portato dove avevamo
stabilito, quando
avevamo stabilito. Quell'uomo ha la tragica abitudine di fare di testa
sua...- Arya le piazzò le mani sulle spalle e la
squadrò
per bene; si conteneva molto più di lei, però il
suo
sorriso era vivace come una fiamma, le guance paonazze di gioia e la
sua emozione era evidente. -Ti dico la verità: non credevo
che
saresti sopravvissuta. Ero convinta di tornare a Westeros e scoprire
ch'eri morta... uccisa da Joffrey o da chiunque altro. Invece ti sei
rimboccata le maniche e hai preso in mano il tuo destino, a giudicare
da quanto mi è stato detto. Volevo dirti che sono orgogliosa
di
te, anche perchè il tuo nuovo stile mi piace di
più.-
concluse, indicando il grembiule sporco di cenere che Sansa aveva
scambiato con la serviciattola.
La ragazza si asciugò gli occhi umidi: Sansa Stark era
sempre
stata molto emotiva. Alayne di meno, ma non esisteva
più,
ormai. O no?
-E io? E io, quanto sono orgogliosa di te? Tu... sei fuggita, sei
sopravvissuta, hai fatto perdere le tue tracce... sei fuggita da
Westeros... hai ritrovato Rickon, hai ritrovato me! Oh, Arya, mi hai
trovata! Ma tu... dove sei stata, esattamente? E... tu e Petyr eravate
d'accordo?- Aveva le idee piuttosto confuse.
Arya annuì. -Si è messo in contatto con me,
perchè
qualcuno da Braavos l'ha avvertito della mia presenza.
Così abbiamo discusso per corrispondenza. All'inizio credevo
che
fosse solo un imbroglione e volesse fregarmi, ma poi mi ha parlato di
te, di come ti ha salvata e ti ha portata a Nido dell'Aquila; mi ha
raccontato tutto quel che succedeva a corte, dalla morte di Joffrey al
matrimonio di Tommen con una Tyrell. Mi ha raccontato di Bran, poi
anche di Rickon. La mia fiducia se l'è
guadagnata. Mi ha
detto anche che per prima cosa, appena arrivata qui, avrei potuto
rincontrare te.-
-Perchè Petyr ti cercava? E... che interesse ha ad aiutare
me e
te e la nostra famiglia? Credevo che odiasse gli Stark.- Sansa
aggrottò la fronte pallida. Non riusciva a crederci, che
quell'uomo stesse facendo tutto questo soltanto per rispetto verso il
ricordo di sua madre. Se prima lo trovava improbabile, ora che poteva
affermare di conoscerlo lo riteneva impossibile. Era intelligente,
scaltro, e molto egoista: non faceva nulla che non gli recasse un
tornaconto personale. Allo stesso tempo, le sembrava frivolo pensare
che Baelish lo facesse per
lei...
Arya alzò le spalle. -Questi sono affari suoi,
ma da quel
che ho capito crede che il regno dei Lannister sia ormai troppo fragile
per resistere ancora a lungo. Poi di sicuro spera di ottenere qualche
vantaggio, di ricoprire qualche carica importante qualora la rivolta
avesse successo.-
Sansa sbattè le palpebre. -Scusa, quale rivolta? Vuole far
salire te, sul Trono di Spade?-
Lei scoppiò a ridere. -Non io, cretina! Gendry. Gendry
è
fondamentalmente il motivo per cui mi cercava. Sapeva che, arrivando a
me, sarebbe arrivato a lui. E arrivare a lui significa avere il Trono
di Spade a portata di sedere.-
-Chi sarebbe questo Gendry?- chiese ancora Sansa.
Arya ghignò. -L'unico figlio bastardo sopravvissuto, e naturale, del fu re
Robert.-
La sorella scosse la testa, sempre più esterrefatta. -Come
accidenti sei finita ad andare in giro con il figlio di re Robert?!
Perchè nessuno ad Approdo del Re lo ha mai cercato?!-
-La risposta alla tua prima domanda è che... ci siamo
conosciuti
e basta, chiamala fatalità del destino.- Arya fece un cenno
scorbutico con il capo, chiudendo la questione. -E in passato qualcuno
gli ha pure dato la caccia, ma è riuscito a sbarazzarsi di
loro
o comunque a scappare. Lui è uno forte. Adesso credo che
nessuno
sia al corrente della sua esistenza, ad Approdo del Re.-
Sansa si morse il labbro inferiore, pensosa. -Che prove avete a
sostegno del fatto che lui è il figlio naturale di re
Robert?-
-Intanto, la somiglianza innegabile. Quando re Robert aveva la sua
età, dicono che fosse pressochè identico a lui, e
chiunque abbia una certa età lo può confermare.
In
secondo luogo, lui stesso. Nessuno può dubitare che sia un
Baratheon, anche Stannis l'ha detto... Te lo farò
conoscere più tardi.- Arya sorrise
fra sè, quasi intendesse un segreto umorismo. Sansa
inarcò le sopracciglia.
-Se voi due vi conoscete... e c'è tutta questa storia del cercava-me-perchè-trovare-me-significa-trovare-lui....
significa che è il tuo ragazzo?-
-Non è il mio ragazzo!- esplose Arya, arrossendo
furiosamente.
-Ma perchè ne siete tutti convinti?! Siamo solo
amici. Amici.
E alleati.- aggiunse sdegnosamente.
Sansa represse una risata. -Va bene, va bene. Oh, Arya, mi sei mancata
così tanto... mi devi raccontare tutto! Come hai vissuto in
questi anni, e cos'hai fatto, e... dobbiamo recuperare il tempo
perduto. Dopotutto, adesso abbiamo molto più in comune di
quanto
ne avessimo un tempo, giusto?-
Arya le rivolse una smorfia addolorata. -Sì, ma non so se si
possa considerare un bene... Comunque sappi che non abbiamo molte ore
per sollazzarci. Fra poco dovremo metterci in marcia.-
-Dovremo
inteso in che senso? Io, te, questo Gendry e chi altri?-
-I rivoltosi che Baelish ha radunato prima del nostro arrivo.
Non
sono molti, ma d'altronde i Lannister ci noterebbero subito al loro
seguito, se fossimo un grande esercito. Contiamo sul fatto che, appena
giunti ad Approdo del Re, il favore del popolo sarà dalla
nostra
parte.-
Sansa sospirò: erano davvero troppe emozioni in una volta.
Arya
parve comprendere la sua stanchezza -aveva viaggiato per ore dentro una
cassa non propriamente comoda e nemmeno particolarmente larga, e le
fece
cenno di seguirla. Le due sorelle Stark si avventurarono fra le tende
dell'accampamento, dove gli uomini si preparavano a partire; i vessilli
che sventolavano al vento frizzantino del tardo pomeriggio
raffiguravano il mata-lupo degli Stark e il cervo dei Baratheon. Per un
istante, osservandoli, Sansa si chiese che razza di regina sarebbe
stata sua sorella, ma l'idea era un pelino inquietante e decisamente estranea,
fuori dalla portata della sua immaginazione, così la
scacciò. Le era molto più facile immaginarla a
cavallo,
con la spada sguainata, pronta a fare a pezzi i suoi nemici che seduta
su un trono, ammantata di sete e broccato. Arya la condusse presso una
tenda che per nulla si distingueva dalle altre, grigiastra e
rattoppata, che però doveva essere la sua, perchè
ne
prese una bisaccia ed offrì alla sorella frutta, carne e
persino
qualche pagnotta di pane, sebbene un po' raffermo. Ma Sansa aveva una
fame nera e divorò tutto con una smania che si
placò
soltanto quando la sacca delle provviste fu vuota; rammentò
che
avrebbe dovuto vergognarsi della scarsa femminilità che
aveva
dimostrato, visto che la Sansa Stark di un tempo l'avrebbe fatto,
però realizzò di non averne nè il
tempo nè
la voglia. Arya la osservò mangiare con una sorta di ghigno,
quasi che pensasse la stessa cosa.
Quando finalmente ebbe ingoiato l'ultimo boccone, Sansa potè
porle una domanda che le stava a cuore.
-Prima hai accennato al fatto di avere parlato anche con
Rickon... in che occasione?-
-Io e Gendry abbiamo fatto sosta presso Seagard, venendo per di qua.
Avevamo acceso un fuoco e lui era stato mandato in esplorazione da Bran
per accertarsi che non avessimo cattive intenzioni. Per poco non mi ha
ammazzato.- commentò Arya, spiluccando una salsiccia.
Sansa sorrise. -Com'è diventato?-
-Non lo puoi neanche immaginare.- fu la lugubre risposta, accompagnata
però dall'accenno di un sorriso divertito.
-Si raccontano storie terribili su di lui.- raccontò Sansa,
pensosa. -Che sia cresciuto in un'isola di cannibali, che abbia
sbranato pezzi di carne dal corpo di Myrcella Lannister...-
-Allora non hai ancora sentito quello che dicono su di me.-
replicò Arya, infilzando con rabbia la salsiccia, che
continuava
a svincolare dalla presa dei quattro denti di ferro, per poi stufarsi
ed afferrarla con le mani.
Sansa non sapeva se la sorella stesse scherzando o no, ma ad ogni modo
ridacchiò poco convinta.
-Quando ci ricongiungeremo con Bran e Rickon? Non possiamo aspettare il
loro esercito e poi fare irruzione nella capitale tutti insieme?-
-Non è saggio dare il tempo ai Lannister di organizzarsi, ed
eventualmente di fuggire. Dobbiamo batterli sul tempo.- rispose Arya,
con voce secca.
-E allora la nostra famiglia sarà quasi come prima.-
mormorò Sansa, pensando che effettivamente la vecchia Sansa
avrebbe detto proprio così -e comprendendo la reale
entità di quei suoi pensieri.
-Quasi come prima.- ripetè Arya. Il sangue che grondava
dalla
sua salsiccia gocciolava sulle sue mani, correndo lungo l'ossatura
sottile dei polsi e le falangi delle dita. Per qualche istante, non
potè far altro che fissarlo con inquietudine.
***
Uno, due, tre, quattro: compiendo passi a larghe falcate, Yara Greyjoy
attraversava la sala del trono di Grande Inverno con innata
spudoratezza, lo sguardo arrogante alto davanti a sè. Il
rumore dei suoi alti stivali contro le piastrelle del pavimento
scandivano i secondi, il ritmo d'una strana tensione.
Meera Reed stava ancora pensando a cosa significasse davvero essere
regina, quando la vide entrare dal suo scranno di pietra. Non si
aspettava certo di ricevere ospiti. Indossava un abito in faille di
seta
nero, con una mantellina a frange di ciniglia lungo le spalle; sopra le
sottovesti scure la gonna era grigia, con ricami di fiori ed arabeschi
neri. Un lieve velo di seta, intessuti di fili fini come tessuto di
ragnatela, le oscurava il viso cereo. Gli occhi, appena intuibili,
erano gonfi e ancora liquidi di lacrime arrestate con violenza.
-Ho dato esplicito ordine di non presentare nessuno al mio cospetto.-
La voce tuonò potente ed insfaldabile nella grande sala,
colmandola senza sforzo. Il dolore non era mai stato sinonimo di
debolezza per Meera Reed.
Yara Greyjoy sogghignò. -Io e la mia scure l'abbiamo chiesto
per favore.-
Meera la riconobbe. Non l'aveva mai vista di persona, ma il sigillo
inciso sulla corazza era infraintendibile: infraintendibile ed odioso.
-Qui non ci piacciono i voltagabbana.- replicò con astio,
protendendosi verso di lei con il capo e reggendosi con le mani ai
braccioli del trono. -E nemmeno le sorelle dei voltagabbana.-
Il ricordo di Theon Greyjoy e del suo imperdonabile tradimento era
ancora vivo nella secolare memoria del Nord. Rickon aveva espresso la
sua intenzione di dichiarare guerra anche alle isole di Ferro, ma non possiamo inimicarci tutti e
sette i regni, aveva risposto Bran con raziocinio, altrimenti rischiamo di non
essere all'altezza del numero d'avversari che ci procuriamo. Le
sue intenzioni erano quindi quelle di non adottare una politica
offensiva verso i Greyjoy, a meno che non fossero loro a costringerli a
farlo. Era la guerra contro i Lannister la priorità, non
l'abbattimento definitivo di quel mucchietto d'ossa ch'era rimasto di
Theon.
-Ah, certo.- la motteggiò l'altra. -Voi siete i Reed, quelli
perennemente fedeli. Una casata di servi.- Yara Greyjoy non distoglieva
dal suo lo sguardo bieco e torbido, come una lama rugginosa. Il suo
ghigno era lungo e distorto come una cicatrice e gli occhi, dalle
estremità lievemente piegate verso il basso, avevano una
fissità obliqua e sofferta; i corti capelli arruffati
avevano il
colore dell'ottone invecchiato, un castano potenziale soppiantato da
un'ombra, ed avevano un'aria così trascurata che sembrava li
avesse lavati con l'acqua di mare. Il volto aveva tratti rudi, duri,
grossolani, ed esprimeva una pericolosità quasi oscura.
Vestiva
per l'appunto con una corazza leggera dal colore rossastro del rame, ma
presumibilmente di ferro consunto, un paio di calzoni da uomo ed una
cintura di pelle a cui era appeso il fodero di una grossa spada, oltre
che quattro o cinque piccoli pugnali e stiletti. Un pesante e
trasandato giaccone da marinaio, d'un ambiguo colore tendente dal verde
al grigio, ammantava l'intera figura ed era rimboccato all'altezza
delle maniche per scoprire le mani guantate di cuoio.
La regina del mare non
porta conchiglie fra i capelli, pensò Meera
con sarcasmo, e la sua
voce sembra più avvezza a mettere in riga i rematori che ad
ammaliare i naviganti.
I suoi abiti erano spartani ed il suo aspetto lasciava
decisamente a desiderare, però era impossibile non percepire
l'imperiosa aura di regalità che la sua figura esprimeva, e
che
probabilmente aveva spinto i suoi uomini a darle retta e seguirla per
mare.
-Noi dell'Incollatura siamo gente modesta, ma non ritiriamo la parola
data. A quel viscido traditore è stata offerta la
possibilità di sopravvivere e in futuro diventare principe,
è stato accolto con i riguardi dell'ospitalità, e
non ha
fatto altro che sputare sulla clemenza concessagli. Adesso in tutta
Westeros siete considerati una famiglia di spergiuri, mentecatti e
sacrileghi. Perlomeno dei Reed di Torre delle Acque Grigie non si
dirà mai che hanno abbandonato il loro re.-
Yara scoppiò a ridere, sfrontata. -Dei Reed di Torre delle
Acque Grigie non si dirà mai più niente,
cara la mia regina delle paludi. Cosa ci hai guadagnato, con la tua
lealtà? Un letto vuoto, un marito in guerra
chissà dove,
un fratello sgozzato chissà perchè e un paio di
corna che
le si vede da qui a Volantis. Dunque, fra me e te, credi di essere
ancora la più furba?-
Meera Reed la squadrò con disgustato disprezzo. -Dimmi cosa
sei
venuta a fare qui, oltre che ad insultarmi, oppure
soddisferò la
curiosità della mia daga nei confronti delle tue viscere,
figlia
del kraken. Cosa pretende ancora la tua famiglia dalla mia?-
Yara si rese conto di essere partita decisamente con il piede
sbagliato: non aveva certo preparato il terreno per una richiesta
d'aiuto, dicendo quelle cose, però la colpa era di quella
fastidiosa ragazza, che aveva tirato fuori la storia di Theon.
-Ramsay Bolton è vivo.- proferì a voce piatta.
Meera aggrottò le sopracciglia, perplessa.
-A me avevano raccontato una storia diversa, ovvero che era stato
ucciso nell'assedio di Forte Terrore dai vostri uomini...-
-... una storia tristemente falsa.- concluse Yara sbrigativa. -Messa in
giro per dissipare il panico. Il fatto è che dopo aver
liberato
Theon ero praticamente disarmata, e sono stata costretta a rinchiuderlo
in una cella con un espediente per avere la possibilità di
fuggire. Quando ho indicato ai miei soldati il luogo in cui trovarlo
per finirlo, le segrete erano completamente disabitate. Deve aver
utilizzato un qualche passaggio segreto, dato che conosce Forte Terrore
meglio di chiunque altro... ad ogni modo, dopo tre anni, a Pyke
sono stati commessi alcuni omicidi inspiegabili. Prima le sentinelle di
ronda dell'isola, poi le guardie del castello. Poi mio marito.-
Meera pensò che avrebbe pure provato un soffio di
compassione,
se solo glie ne fosse rimasta per qualcun altro che non fosse se
stessa. Aveva sentito dire anche questo, ovvio. Se n'era parlato, della
morte di lord Botley, l'attuale governante delle Isole di Ferro,
però le ipotesi che erano state formulate al proposito erano
poco romantiche.
-Giravano voci... voci che dicevano ch'era stato fatale, per Botley,
sposare una Greyjoy, perchè si sa che da tempo immemore la
tua
famiglia non condivide il Trono del Mare con nessuno. La tua
sanguinaria ed omicida ambizione era già pronta per essere
cantata nelle ballate.- commentò Meera, imperscrutabile in
volto.
Yara fece un cenno di diniego, secco e rapido. -Non sono stata io ad
uccidere Tristifer, non l'avrei mai fatto nè avrei avuto
motivo
di farlo. Non c'era amore da parte mia nei suoi confronti, ma non
volevo il suo male. Eravamo amici, e-
-Eravate amici.-
proruppe
Meera, la voce pregna d'improvviso rancore e sarcasmo. -Già,
interessante questa storia dell'amicizia, no? Ve la cavate sempre
così. Con l'amicizia. Così non sembrate troppo
disonesti.-
-Meera.- La voce di Osha, che finora era rimasta in silenzio ad
assistere allo scambio, interruppe con fermezza ma senza sgarbo il
torrente di parole. La donna, seduta su un sedile
qualche gradino più in basso, teneva Kenned sulle ginocchia
ed
oscillava una massiccia zanna di pantera-ombra, appesa ad un
cordoncino di iuta, poco più in alto della piccola testa
rotonda
del bambino, attirando la sua attenzione. Il piccolo allungava invano
le piccole manine paffute, nel tentativo di afferrarla, e Osha aveva
tutta l'aria di divertirsi un mondo a sottrargliela un istante prima
che le piccole dita la toccassero.
Meera si rese conto di essersi fatta trasportare oltre il lecito e
tacque per qualche istante, per riprendere il controllo di
sè.
Era assolutamente convinta di avere ragione, comunque. Da quando in qua
gli amici si sposano? Ti
tradisco ma ti voglio bene lo stesso, perchè sei mia amica,
questo è il discorso?
-Domando scusa.- disse infine, con un sorriso freddo e forzato.
-Soltanto che so cosa significa stare dall'altra parte, essere l'amica di
turno. Ma torniamo a noi. A questo punto viene da chiedersi come fai a
stabilire con sicurezza che l'assassino di tuo marito è
Bolton.-
Yara, che aveva ascoltato il suo sfogo con un'espressione d'implacabile
intransigenza, si lasciò scivolare di dosso la giacca e
sollevò la manica della casacca che portava sotto la
corazza.
Senza parlare, tese il braccio in modo che Meera potesse guardarlo
bene. Sulla carne bianca v'erano quelli che a prima vista sembravano
graffiti sconclusionati, i fendenti furiosi ed arruffati degli artigli
d'un felino inferocito. Prima di poter pronunciare una sola parola, la
ragazza capì: quei tagli erano lettere con un senso logico,
ed
era scritto qualcosa...
Sollevò lo sguardo, turbata. Yara scrollò le
spalle. -Il
cadavere di Tristifer aveva un dito scuoiato.- aggiunse, a mo' di
conclusione, per non lasciare spazio a dubbi di sorta.
-Non mi hai ancora detto cosa vuoi da me, Yara Greyjoy.-
obiettò Meera.
Lei fece un passo avanti. -Pyke non è più un
posto sicuro
per me e per Theon. Bolton non ci ha uccisi perchè il suo
obiettivo è farci capire che non ci teme, che può
colpirci in qualsiasi momento, che siamo prede alla sua
mercè.
Vuole Theon, perchè si diverte a torturarlo e straziarlo
come ha
fatto prima che io venissi a liberarlo. Ce l'ha a morte con me,
perchè ho assediato Forte Terrore e gli ho scombinato i
piani,
quindi probabilmente vuole cuocermi a fuoco lento e poi riservarmi una
fine obbrobriosa. Io sono giunta fin qui... per chiedere asilo a Grande
Inverno.-
Meera battè le palpebre, interdetta; infine sorrise.
-Ma certo.
Qualche preferenza per la stanza? No, perchè ne ho una
davvero
fantastica a Nord-Est, vista Foresta del Lupo, che farebbe proprio al
caso tuo... sveglia! Ma ti pare?! Ciao
serviciattola, la tua casata non esiste più, sei cornuta,
torna
nelle tue paludi del cazzo, ah sì posso dormire a casa tua?
Inverti la rotta, amica mia. Ma hai svaligiato le cantine di Grande
Inverno di tutte le bottiglie di vino prima di venire qui?! Quando ti
ho vista entrare mi sono salite in mente tante assurde teorie su quali
fossero le tue intenzioni, ma non ho una fantasia così
paradossale da andare a pensare che tuo fratello sia giunto a chiedere
alloggio nella stessa casa che ha devastato, sterminandone gli abitanti
e cacciandone i proprietari a calci nel deretano. Questo castello non
è una locanda nè un rifugio per profughi, per tua
informazione. Solo perchè per qualche tempo a governare il
Nord
c'è una regina anzichè un re, non significa che
io provi
una qualche donnesca pietà per la tua malasorte, sai? Non
credevo che saresti caduta così in basso da venire a
supplicare
per una cosa del genere. Hai una bella faccia tosta, figlia del kraken!-
Yara Greyjoy non parve molto stupita nè offesa da nessuna
delle
sue parole, e mantenne un'espressione imperturbabile. Impossibile
stabilire se stesse solo dissimulando.
-Primo, nessuno qui sta supplicando nessuno, Reed.- cominciò
calma. -Secondo, non sono mica venuta qui confidando nel tuo buon
cuore, tantomeno perchè sei una donna. Io e te ci somigliamo
molto più di quanto credi. So come gira il
mondo, che
nessuno dà niente per niente... infatti non mi hai lasciato
finire di parlare.-
Meera rise di cuore. -Beh, allora stupiscimi. Dimmi una sola buona
ragione per la quale dovrei ospitare a Grande Inverno la persona che ha
tentato di assediarla, attirando di conseguenza qui un assassino
assetato di sangue e rischiare di essere uccisa nel mio letto.-
-In realtà ce ne sarebbe più di una.-
annunciò
Yara. -Combattere contro Bolton rientra anche nei tuoi interessi, prima
di tutto, visto che logicamente il suo secondo obiettivo, dopo essersi
ripreso Theon, sarebbe espugnare Grande Inverno e tornare a capo del
Nord, e se potesse fare le due cose contemporaneamente ne sarebbe
più che contento. Oppure, per esempio, io potrei offrirti
qualcosa in cambio. Le nostre truppe. Le nostre navi. Che dici, a
tuo marito tornerebbero comode?-
Meera inarcò le sopracciglia. -Non comode al punto
da
accogliere Theon Greyjoy sotto lo stesso tetto dove dorme suo figlio,
temo.-
Yara seguì il suo sguardo fino al bambino, poco
più che
un infante, che metteva in bocca il dente di pantera-ombra.
-È tuo figlio?- domandò a Meera, ricevendo in
risposta un
breve cenno affermativo. -Davvero un bel bambino.- commentò
dunque. -Sarebbe un vero peccato se Bolton lo trafiggesse con una forca
grondante del tuo sangue e lo esponesse fuori dalle mura di Grande
Inverno.-
La ragazza cercò di non esternare le sue emozioni, ma Yara
colse
ugualmente il movimento convulso delle dita, che arpionarono
spasmodicamente il bracciolo del trono, e l'irrigidirsi delle spalle.
-Ed è una vera fortuna che non avverrà.-
sibilò.
-Invece sì, se Bolton non sarà
fermato in tempo.- insistette Yara, battendo il tacco dello stivale a
terra con enfasi. Il suo sguardo era salace come il sangue che le
scorreva nelle vene. -Lui non vede l'ora di fottere il trono a tuo
marito,
non te ne rendi conto?! Adesso che non c'è, poi, l'occasione
è ideale. Io non ti chiedo di farmi la carità, ma
ti
propongo di unire le forze per sconfiggere un nemico comune.
Perchè, diciamocela tutta, io e Theon siamo nella merda fino
al
collo, però tu non sei messa tanto meglio. Innanzitutto, non
hai abbastanza uomini per difenderti. Non puoi permetterti
che Ramsay scateni una rivolta del Nord, a partire dalla riconquista di
Forte Terrore, specialmente adesso che ci sei tu al comando. Non
sto mettendo in dubbio le tue capacità, dico solo che il
popolo
sarà più bendisposto ad appoggiare la rivolta di
un uomo
piuttosto che rimanere fedele ad una donna. O no?-
La domanda era retorica, e infatti Meera era in difficoltà.
Cominciava a sorgerle qualche dubbio. Non aveva tutti i torti, in
effetti, il discorso filava alla perfezione. Cos'altro avrebbe potuto
volere, un Bolton, se non ripristinare la supremazia di qualche anno
prima? Già il fatto di essere stata informata della sua
ricomparsa la avvantaggiava, vanificando l'eventuale effetto sorpresa,
però non fare nulla per affrontarlo e respingerlo avrebbe
significato sprecare quella possibilità. Non doveva farsi
trovare impreparata. Quelle navi, poi... l'abilità bellica
marittima dei Greyjoy era famosa in tutta Westeros e la loro flotta era
molto
temuta ed invidiata. Meera si rendeva conto di non poter commettere
scelte azzardate, visto che qualsiasi cosa avesse deciso sarebbe stato
determinante per il futuro del Nord. Nel frattempo, Yara seguitava a
parlare, stavolta con toni più moderati.
-Ho sentito dire che Jojen Reed è morto da poco. Se
potessi tornare indietro nel tempo ed impedirlo, non lo
faresti
forse a qualsiasi costo? Non saresti disposta a tutto pur di
proteggerlo? Se in cambio avessi un'opportunità per salvare
tuo
fratello, non riterresti forse un esiguo prezzo correre dai tuoi rivali
a supplicare un'alleanza?- Yara fece ancora un passo avanti, senza
interrompere il contatto visivo con la regina del Nord. Il suo
sguardo era di sale, ma la sua determinazione era di ferro. -Tu sai
come mi sento io, Meera Reed, non fare finta di non
capire. Conosciamo entrambe quella sofferenza. A prescindere dagli
errori o dalle colpe di cui un consanguineo si può
macchiare, a
prescindere dalle angosce e dai dolori che può procurarci,
è impossibile lasciarlo al suo destino e smettere di
preoccuparsi per la sua incolumità. Siamo quasi nella stessa
situazione... l'unica differenza
è che stavolta tu, solo tu, puoi impedire che la storia si
ripeta.-
Meera abbassò gli occhi, mentre una lacrima fremeva dal
desiderio bruciante di raggiungere la sua guancia; ma mai, mai avrebbe
pianto di fronte a Yara Greyjoy, lo sapeva. Come avrebbe potuto non
capire? Aveva votato la propria vita alla causa di Bran, ma ancora
prima alla causa di Jojen. Sola fra tanti aveva creduto alle visioni
del fratello, che molti nei pressi dell'Incollatura ritenevano fuori di
senno, aveva prestato fede all'importanza di quella missione ed aveva
acconsentito ad accompagnarlo, armata di un'unica certezza: la parola
di Jojen. Difenderlo, sostenerlo ed aiutarlo nei suoi alti scopi erano
stati gli obiettivi più importanti che si era prestabilita.
Grazie a Jojen era divenuta regina del Nord, a causa di Jojen aveva
perso la possibilità di guadagnarsi con il tempo l'amore di
suo
marito. Adesso che Meera ci pensava, ovunque ella
guardasse nella propria esistenza, non vedeva altro che Jojen.
Con
tanta irriducibile fermezza l'aveva amato, con tanta silenziosa
discrezione lui era morto, e adesso tutto pareva aver perso il suo
originario significato. Forse che il suo inconsapevole rancore era il
motivo del di lui suicidio? Forse che, con la propria presenza, avrebbe
potuto evitarlo? Una
famiglia di servi, i Reed, le tornò in mente. Sembra
che non siamo serviti ad altro che ad aiutare gli Stark a riprendersi
il trono, per poi inchinarci a Bran e scaldargli il letto per tutto il
resto della vita. Jojen credeva che fossimo nati per questo? Jojen
credeva che dovessimo morire per questo? Il nostro unico, implacabile
destino era Bran?
E se non siamo nati in sua funzione, perchè è
quello che tutti si aspettano da noi?
Temeva da un lato di lasciarsi
raggirare dalle parole di Yara, che magari erano per l'appunto solo
parole, atte a persuaderla unicamente secondo il tornaconto dei
Greyjoy, dall'altro di farsi sfuggire un'opportunità di
salvezza
e di rimpiangerla in seguito, magari nel momento in cui Bolton avesse
sollevato le folle e avesse marciato contro Grande Inverno. Cosa
avrebbe fatto Bran al suo posto?
-Se solo Bran fosse qui.- sospirò quindi, sfiorandosi la
fronte
per scostare i riccioli castani. Osha, dal basso del suo scranno,
sollevò lo sguardo dal piccolo Kenned per lanciarle
un'occhiata
sinistra.
-Non credevo che saresti diventata quel tipo di donna che dice se solo Bran fosse qui.-
commentò con voce un po' pungente, sapendo quanto quelle
parole
fossero in grado di colpire l'amica nell'intimo. Meera si
voltò
verso di lei, con un'espressione indecifrabile. Quel tipo di donna che dice "se
solo Bran fosse qui". Aveva
tanto deprecato quelle ragazzette incapaci che si aggrappavano al
mantello dei mariti, nascondendosi dietro la loro ombra, fino a che era
diventata come loro. Quel
tipo di donna che dice...
-Basta.- Il suo sussurro fu così fievole che
solo lei
stessa lo udì. Fremette del calore d'una sola lacrima.
-Basta.-
E stava dicendo basta a quel destino che, negli ultimi giorni, sembrava
ostinato ad accanirsi contro di lei come una calamità. Stava
dicendo basta alla passività del suo subire immobile ed
impotente. Dopo tanto, troppo tempo, si stava alzando in piedi di
nuovo. Non avrebbe permesso alla sua casa di crollarle addosso,
piuttosto ne avrebbe sorretto il tetto sopra le spalle.
Ed in quel momento comprese che una regina non è quella che
si
fa il re. Regina è colei che difende i suoi sudditi, che
protegge i suoi territori, che combatte fino all'ultimo respiro a costo
di concederlo agli altri. Guardò dunque quella ragazza dalle
mani spellate dalle corde delle navi e la pelle scottata dal sole
riflesso nel mare.
-Io accetto, Yara Greyjoy.- Le rivolse uno sguardo saldo e determinato.
Lei non era come loro. Lei non sarebbe mai stata come
loro.
Osha sorrise fra sè. Le parole che aveva pronunciato, con
l'obiettivo di scuoterla, erano andate a segno a dovere. Adesso Meera
era la Meera che conosceva lei, non la pallida ragazza dagli occhi
vacui che non aveva saputo accettare la morte di Jojen.
-Bene.- si limitò a dire Yara, con uno dei suoi inquietanti
sorrisi curvi e spiacevoli, tendendo la mano salda e forte verso di
lei. Meera scese i pochi gradini che le separavano e rispose con una
stretta non meno vigorosa.
-Invierò una missiva a Pyke stasera stessa,
affinchè i
miei uomini preparino la flotta e la inviino in aiuto a tuo marito: una
promessa è una promessa. Avrà i migliori dei
capitani al
suo servizio. Qui, invece, bisognerà stare all'erta, nel
caso in
cui si tratterà di sedare una rivolta o prepararsi ad un
assedio. Lo sai, vero? Potrebbero esserci dei massacri...-
-Per quanto sarà possibile, il sangue umano non
verrà
versato.- precisò Meera, adombrandosi. Nonostante amasse
cacciare, aveva sempre avuto grande
rispetto della vita.
Yara tese un ghigno. -Quanti uomini hai ucciso, Meera Reed?-
La ragazza sollevò il mento con fierezza. -Nessuno, per
grazia degli dèi.-
-Allora questo sarà un battesimo di sangue.- Dopo averle
lanciato un ultimo sguardo derisorio ed acuminato insieme, Yara Greyjoy
si voltò e tornò sui suoi passi, mentre Meera
dava ordine
a due schiave e ad un soldato di scortarla fino ad una stanza al piano
superiore. All'ultimo momento, però, la regina del Nord
realizzò d'avere ancora una domanda da porle.
-Aspetta, Yara.- richiamò la sua attenzione, alzando di un
registro il tono di voce ed aggrottando le sopracciglia. -Quanto vi
fermerete a Grande Inverno, tu e... tuo fratello?-
Lei la fissò per qualche istante con grave
intensità,
prima di rispondere. -Fino a che Ramsay Bolton non esalerà
l'ultimo respiro. Ma non temere di dovermi sopportare troppo a lungo:
ti assicuro che il bastardo si farà vivo molto prima di
quanto
credi. E quando succederà, lo ucciderò. Buonanotte,
Meera Reed.-
Meera, pensosa ed incupita, osservò la sua ospite lasciare
la
sala. La voce di Osha la richiamò alla realtà
soltanto
pochi istanti più tardi.
-Una tipa strana, manesca e un po' buzzurra. Andrete d'accordo.-
Meera alzò gli occhi alle crepe del soffitto. -Sentirti
accusare
qualcuno di buzzurraggine è spassoso più o meno
come
sentire i Lannister accusare Bran e Rickon di incesto, direi. A parte
gli scherzi, che te ne pare della Greyjoy? Secondo te ci possiamo
fidare?-
Osha alzò le spalle, indifferente, mentre Kenned riusciva
finalmente a stringere la zanna di pantera-ombra fra le minuscole dita
e ridacchiava gorgogliando.
-Mi è sembrato che facesse un po' la furba, ma non metterei
in
dubbio la sua sincerità.- ammise francamente. -Quel che mi
preoccupa è il guaio in cui ti sei cacciata, che a mio
parere
non hai valutato con la dovuta accortezza. Comunque,- aggiunse subito,
prima che Meera potesse interromperla infastidita, -penso che tu abbia
fatto la scelta giusta. Bran ti ha lasciata a Grande Inverno per
difendere il castello in caso di necessità, e agendo di
conseguenza non puoi essere accusata di contrastare la sua
volontà. Però ascoltami bene, Meera: devi stare
attenta.
Attenta, capito? Non ti chiedo di non immischiarti in questa faccenda,
perchè ormai è troppo tardi, nè di
mancare ai tuoi
doveri di regina eccetera eccetera, ma devi promettermi che starai
attenta. Anche se quella creatura non ha ancora una voce per farsi
sentire, non significa che sei autorizzata a mettere in pericolo la sua
incolumità. Siamo intesi?-
Meera represse un sorriso sulle labbra, chiedendosi perchè
accidenti Osha volesse convincere il mondo di essere scontrosa, del
tipo degli-altri-non-me-ne-importa-niente-penso-solo-a-me-stessa,
quando in realtà passava tre quarti della sua giornata a
fare la
baby-sitter a Kenned e il resto a dispensare consigli e farle compagnia.
-Intesi.- promise, facendo scivolare appena la mano per sfiorarsi il
ventre piatto, dove il lume fievole di una piccola vita maturava in
segreto. Questo non significava nemmeno che si sarebbe astenuta da
qualsiasi scontro, però: se si sarebbe trattato di difendere
Grande Inverno avrebbe fatto tutto il possibile, a costo di prendere le
armi lei stessa. La prudenza che doveva avere nei confronti del proprio
corpo a causa del suo stato era una limitazione, ma allo stesso tempo
la gravidanza era un pensiero in più a distrarla da quello
insostenibile della morte di Jojen. Non poteva permettersi di morire,
condannando automaticamente il bambino, ma non poteva neanche
permettere al figlio di Roose Bolton di conquistare Grande Inverno di nuovo, consegnandogli
di conseguenza il Nord in assenza di Bran; Meera non volle pensare che
cosa avrebbe scelto, nel caso in cui fosse stata chiamata a decidere,
anche perchè al momento altre questioni avevano la
priorità. Un
battesimo di sangue, ricordò inquieta, sperando
vivamente che lo scontro che la attendeva non lo sarebbe stato.
Ad ogni modo, innegabilmente, quella era guerra.
***
-Giusto un'ora fa è giunta una missiva che segnalava la
partenza
dei
Lannister da Nido dell'Aquila, evidentemente senza successo. Non
sappiamo perchè si fossero recati lì, quale fosse
il loro
obiettivo, ma
probabilmente speravano di convincere Robin Arryn a stringere
un'alleanza. È l'unico motivo plausibile che possa spiegare
una
sosta
così esosa di tempo ed energie nella Valle di Arryn. Ad ogni
modo sono
appena ripartiti, verso Bloody Gate, per ritrovare la Strada del Re.-
Il dito di Stannis percorse quel tratto sulla mappa, sotto gli occhi
attenti di Davos Seaworth; il suo signore gli rivolse un'occhiata
penetrante. Il suo re scrollò le spalle, per poi sbattere i
palmi sul tavolo, arcigno in volto. -Ma questa non è l'unica
stranezza. Tutto
lascia intendere
che l'esercito stia ripiegando verso Approdo del Re. La domanda
è...
perchè? Che sia una tattica, che vogliano sfiancare il
nostro
esercito?
Non vedo altre buone motivazioni per giustificare una simile, bislacca
scelta, anche perchè si tratta di un momento
cruciale.-
Bran annuì con il capo, senza parlare. I suoi occhi bui si
limitavano ad osservare la mappa, inespressivi. Stannis lo
fissò
per qualche istante, meditabondo, poi chinò nuovamente il
capo a
contemplare la carta e proseguì. -Tully mi ha informato che
ci
attende all'incrocio del Tridente. Le truppe che aveva portato con
sè sono state decimate, ovviamente, ma ha portato con
sè
i pochi uomini superstiti. L'ultima cosa che mi voglio farti presente
è che un drappello di uomini si sta dirigendo verso
l'accampamento. Una trentina di uomini, più o meno. Si
direbbe
una scorta, piuttosto che uno schieramento. Le loro intenzioni non
appaiono bellicose, perciò non ho preso provvedimenti a
proposito. D'altronde, così come sono, non potrebbero
danneggiarci nemmeno se fossero il triplo. Sono più propenso
a
credere che si tratti del messaggero di una casata minore, o qualcosa
di simile.-
-Molto bene.- Il re si rivolse poi ad un attendente che taceva dritto
al suo fianco. -La lettera di questa mattina?-
Egli scattò sull'attenti, porgendogli la pergamena
arrotolata.
-Il sigillo è di Grande Inverno, Maestà. Notizie
da parte
della regina, a quanto sembra.-
Bran la prese senza dire una parola e lacerò la ceralacca
grigia. Lesse in silenzio, facendo scorrere gli occhi fra le righe. Le
parole di Meera erano piuttosto fredde e formali, e ciò non
lo
stupiva. Era chiusa nel suo dolore. Ho il forte presentimento, e
solo per scaramanzia non parlo di certezza, d'essere in procinto di
darti un altro erede. Bran inarcò le
sopracciglia e non commentò -nella sua mente risuonava
ancora quell'insopportabile meravigliosa
di cui non riusciva a liberarsi. Levenna La Non Nata
meritava un meravigliosa,
Bran
Stark il Metamorfo nemmeno un addio. Quella gelosia senza destinatario
lo stava opprimendo come un dilemma la cui soluzione sia sul fondo d'un
pozzo, e l'unico modo per raggiungerla precipitare nelle
tenebre.
Per un attimo, Bran desiderò con struggente, avida
prepotenza
che quella maledetta bambina non nascesse affatto, che soffocasse nel
ventre in cui si sviluppava senza far rumore, che non venisse al mondo
per sfoggiare tutte quelle qualità che evidentemente la
rendevano tanto meravigliosa...
Poi
si vergognò di quegli atroci pensieri. Lui non era il Re
Folle,
lui non poteva permettersi d'impazzire, e quella di cui si stava
augurando la morte fino ad un istante prima era sua figlia. Doveva
rimanere all'erta,
vigile, pronto. Passò al resto della lettera. So
che pretenderai giustamente molte spiegazioni che non ho il tempo per
fornirti nei dettagli, ma Grande Inverno subirà presto un
assalto e mi sto preparando a respingerlo, insieme a Yara Greyjoy. Fu
a quel punto che Bran rischiò di cascare da Estate.
Respingere un assalto...
insieme a Yara Greyjoy?
Ma che diamine voleva dire? Delirava, per caso?
-È successo qualcosa?- domandò Stannis,
inquietato dalla
reazione ritratta sul volto del ragazzo, mentre il suo pensiero correva
a Grande Inverno ed a Shireen.
Bran proseguì a leggere, sempre più sconcertato.
-Meera
ha dichiarato guerra... a Ramsay Bolton. Ma Bolton non era morto? Yara
Greyjoy è venuta a chiederle aiuto per liberarsi di lui... e
questa folle le ha pure dato ascolto?!- Dopo aver sospirato con rabbia,
continuò innervosito. -Hanno stretto una coalizione per
ucciderlo, quando cercherà di assediare Grande Inverno.
Assediare Grande
Inverno? E con cosa,
per amor degli dèi?! Con chi? Questa ragazza è
completamente pazza. Si è alleata con una Greyjoy... per
sconfiggere un fantasma.- Scosse la testa, confuso.
-Quanto pericoloso potrebbe rivelarsi tutto ciò?-
domandò Stannis, aggrottando le sopracciglia.
-Non ne ho la più pallida idea. Dice che in cambio la
Greyjoy ci
concede la sua flotta.- continuò Bran, sbalordito. -E dice
anche che sarà
sua competenza difendere il maniero e tutti i suoi abitanti, come
stabilito prima della partenza. Continuo
a vederci poco chiaro, in questa storia.- concluse. Seaworth, accortosi
dell'espressione torva di Stannis, cercò di tranquillizzarlo.
-Non vedo motivo di preoccuparsi prima del tempo, mio signore. La
regina Meera ti ha assicurato che Shireen sarà al sicuro, e
sono
certo che manterrà la promessa. Da quanto è
scritto, si
tratterà di respingere un nemico esterno alle mura di Grande
Inverno, e a giudicare dalla reazione di re Brandon non particolarmente
temibile. Non è necessario allarmarsi inutilmente.-
ripetè, avvertendo l'urgenza di rasserenare innanzitutto se
stesso.
-Lascia che sia io a decidere cosa è
necessario fare e cosa
no, Seaworth.- borbottò Stannis, intimamente un po'
confortato
da quelle parole -anche se mai l'avrebbe dato a vedere.
Bran schioccò le dita ed Estate si voltò,
pronto a condurlo fuori dalla tenda. Stannis lanciò una
rapida
occhiata a Davos, infine, corrugando la fronte, trovò il
coraggio per esclamare:
-Un momento, Stark. Ci sarebbe un'altra cosa.-
Il ragazzo scosse la testa. -Qualsiasi sia, può
aspettare. Devo andare a cercare Rickon...-
La voce di Stannis giunse fredda ed inaspettata come un colpo di spada.
-Un messaggero dei Tully ha portato il corpo qui questa mattina.-
Bran percepì quelle parole raggiungere ed avvolgere la sua
mente
senza fretta, come un vapore venefico. Dovette battere le palpebre un
paio di volte prima di figurarsi ciò che lo aspettava. Non
Jojen, no, lui mai più. Un corpo. Gelido.
Insanguinato. Immobile. Morto.
Il suo peggior incubo a portata di sguardo.
Il suo peggior incubo a portata di sguardo, l'unica cosa che in quel
momento desiderasse. Perchè
quello non era Jojen, ma un corpo; e non era un corpo qualsiasi. Era il
suo corpo,
il corpo che tante volte -forse più del consentito- aveva
rimirato, baciato, posseduto. Sfigurato dalla morte, lordato dal
sangue, ma presente,
solido come i suoi ricordi non sarebbero mai potuti
essere. L'estremo desiderio esaudito per un cuore assetato: colmarsi la
gola di cenere.
-Dov'è?- La lingua strappò con violenza le parole
dal
palato. Stannis strinse le labbra, incerto, ma Davos fu più
celere.
-Con tutto il rispetto, lord Stark, non credo che sia il caso che tu
lo veda. Sono stato io a coricarlo nella tenda del guaritore in attesa
del tuo responso, e l'ho visto. Non pensi che sarebbe più
bello serbare un ricordo di lui quand'era ancora vivo? Quel che
vedresti avrebbe l'unico effetto di turbarti e rovinare-
-Con tutto il rispetto, ser Davos, non credo di aver chiesto la tua
opinione. Io ho bisogno
vederlo.- Bran s'interruppe e, dopo aver lanciato loro un'ultima
occhiata inquieta, abbandonò la tenda per dirigersi a quella
dove le infermiere da campo ed i guaritori si occupavano dei feriti.
Onde di panico s'innalzavano sempre più possenti dentro di
lui,
scompigliandogli le viscere, ma non poteva fermarsi a riflettere
abbastanza da considerare meglio il partito opposto. Non ora che Jojen
era così vicino -e così lontano.
Uno stuolo di guardie era accalcato all'ingresso, ma non appena videro
il loro re gli uomini si scostarono immediatamente. Bran
percepì
la loro compassione così come l'olezzo di ferite infette che
aggredì le sue narici, non appena varcò la
soglia. Una
vampata di calore risalì il collo fino alle guance.
A terra c'erano molte stuoie, ma Bran comprese subito dove Jojen fosse.
Tutti i feriti erano scoperti in volto ed erano immersi in un sonno
profondo, e un solo corpo era avvolto in ampie stoffe bianche dalla
testa ai piedi. Un nodo scorsoio avvinse la gola di Bran in una morsa
infallibile, rapprendendo il fiato, ed egli emise un singulto che
nessun suono fu in grado di riprodurre. Tutto quel che rimaneva del
ragazzo che aveva amato era lì dentro. Nonostante Bran
l'avesse
spronato con un cenno, fu con un certo riserbo ed una inaudita
circospezione che Estate si avvicinò al corpo, fiutando
l'aria,
con le orecchie abbassate. Il re del Nord chinò una mano.
Tremava. Con un gesto secco che gli valse due lacrime,
scostò il
panneggio.
La prima impressione fu una vertiginosa euforia, la seconda l'orrore
più ignobile. Bran non ricordava che cosa avesse provato
mentre
precipitava dalla Torre Spezzata, però doveva essere
più
o meno un'emozione simile a quella che investiva la sua anima in quel
momento: lo smarrimento vacuo ed inconsapevole
dell'incredulità,
la confusa sospensione prima del trauma.
La pelle di una guancia era disgregata in grumi di sangue,
lasciando un vuoto rossastro e frammenti d'ossa rotte; evidentemente
dei frammenti delle macerie dovevano averlo colpito di striscio. Un
occhio era ridotto soltanto in poltiglia e fango, ma l'altro era
perfettamente distinguibile, intatto, la palpebra delicata calata
sull'iride che Bran sapeva preziosa come uno smeraldo -qualcuno doveva
avergliela abbassata, forse Edmure, forse Davos stesso. Il taglio sul
collo era terribile come Bran sospettava: un lungo squarcio che per un
pelo non gli aveva reciso l'intero capo, che esponeva empiamente allo
sguardo altrui la spina dorsale e la trachea. Il re del Nord si rese
conto del perchè il Cavaliere delle Cipolle lo avesse
supplicato
di non guardare. Nessuna persona al mondo vorrebbe sopravvivere
abbastanza a lungo per vedere in quelle condizioni chi ama.
Bran recuperò il contegno molto prima di quanto credeva. I
suoi
occhi, esperti di molti mali e sazi di sangue, si abituarono presto a
quello scempio; riuscì persino ad arginare il dolore. Bran
Stark
si sentiva troppo stanco persino per piangere, quando si
chinò
ancora a sfiorare quelle labbra schiuse in un ultimo, indecodificabile
sussurro. Sapevano di carne, carne
morta, carne
in decomposizione, ma Bran dedusse che non glie ne
importava affatto. Quando
aveva lasciato la sua tenda, quella notte, sapeva già che
non
sarebbe tornato mai più. Non l'aveva nemmeno svegliato. Era
fuggito come un ladro, privandolo di un ultimo saluto, un ultimo
sguardo, un ultimo sorriso. Probabilmente il suo
corpo si stava già putrefacendo.
Una
voce tagliente fendette il suo silenzio. Allora,
Bran, a te la scelta. Preferisci bruciarlo o seppellirlo? Preferisci
bruciare o seppellire l'ultima persona che ti eri concesso di amare e
che reggeva il filo della tua coscienza fra le dita, la carcassa del
tuo cuore sul palmo della mano? Lo darai in pasto alle fiamme o
getterai terra sopra il suo viso? E Bran
capì che per un giorno solo era troppo, per una vita sola
era troppo. La
testa gli ricadde fra le mani.
La voce di un soldato lo riscosse. -Maestà, c'è
una persona che chiede di vedervi.-
Bran non si mosse. La sua voce era già umida di pianto. -Una
persona chi?-
-Dice di volerlo spiegare a voi solo.- fu la bizzarra
risposta.
Il ragazzo alzò il viso giusto per urlargli che al momento
era
occupato e che non gli fregava di nessuno, nessuno al mondo, e che
potevano andare tutti a crepare per quanto lo riguardava, e per
cacciare via chiunque ci fosse.
E fu allora che lei
entrò. Bran rimase interdetto: comprese immediatamente che
si
trattava di una donna. Non vestiva nemmeno abiti maschili; aveva un
vestito di leggera ed umile garza di colore verde, che le lasciava
scoperte le spalle bianche e formava morbide pieghe sul petto, mentre
uno scialle di raso marrone le drappeggiava le braccia. Doveva avere
all'incirca quarant'anni, ma era ancora piuttosto graziosa. Aveva una
fluida e docile chioma di capelli castani, pettinati a dovere, che
scivolavano ondulati fino alle scapole, ed una frangia abbastanza
regolare le copriva in parte la fronte. Ma quel che davvero sconvolse
Bran furono gli occhi, che rilucevano miti e quieti in un viso diafano
a forma di cuore.
Occhi verdi. Verdi, color del muschio, preziosi come smeraldi.
-Se vi ho arrecato disturbo perdonatemi, Sua
Maestà. Sono Jayna Reed, di Torre delle Acque Grigie.-
La donna si inchinò solennemente, rimanendo all'ingresso
della
tenda, con un'espressione ferma e compunta in volto. Un enigmatico velo
di cortesia e freddezza caratterizzava la sua voce.
Jayna Reed. Bran
avvertì la voce affievolirsi sulle sue labbra, ma
cercò di darsi un tono.
-Lei...? Oh. Non... non mi aspettavo la sua visita, mi ha colto di
sorpresa. Io non... avete ricevuto il messaggio?- riuscì a
balbettare.
Lei annuì con il capo. Le sue labbra erano una linea di
sofferenza. -Sono partita appena ho saputo. Lui è
lì?-
Parlava con estrema calma e serenità, come se il suo tono di
voce fosse dolce e mesto per non urtare i sentimenti del re. Bran
lasciò scivolare ancora una volta gli occhi sulle lenzuola.
-... sì. Mi dispiace doverla conoscere in queste
circostanze,
lady Jayna, ma... l'accaduto lo impone. Se lo vuole vedere...-
Non servì dire altro. La donna si avvicinò
lentamente,
quasi che tentasse di prolungare il più possibile la pausa
che
la divideva da quello scempio. Il suo sguardo incontrò il
viso
di Jojen senza infrangersi; si limitò ad inginocchiarsi
accanto
a lui e a cercare la mano destra sotto le lenzuola. La trasse
e la strinse
alla sua, forse nel pallido tentativo di infonderle un po' di calore.
Il cratere rosso sul volto del ragazzo tonava insostenibile, come se vi
fosse ancora imprigionato un estremo grido. Non c'era traccia di
lacrime negli occhi di Jayna Reed, mentre Bran lasciava gocciolare il
doloroso pianto lungo le guance,
senza asciugarlo nè frenarlo.
-Sono giunta fin qui per farvi una proposta, Maestà.-
affermò la donna, esaminando con avvilita tenerezza lo
strazio
delle carni di suo figlio. -Chiedo umilmente il tuo permesso per poter
portare via con me Jojen e farlo riposare per sempre insieme ai suoi
predecessori, sotto il suo tetto, nella casa che gli ha dato i natali.
Sono moltissimi anni che non lo vedo. Nove, per la precisione. Per nove
anni una madre ha dovuto vivere priva di suo figlio, e le viene
permesso di ricongiungersi soltanto con il suo cadavere. Non l'ho
potuto avere al mio fianco da vivo, Maestà, per cui mi
appello
alla tua bontà e ti imploro di lasciarlo a me almeno da
morto.-
La sofferta compostezza del suo discorso lasciò Bran senza
fiato. All'idea di doversi separare da quel corpo tanto accanitamente
amato e venerato il suo cuore ebbe un singhiozzo, un sussulto, e fu
tentato di stringerlo forte a sè per impedire che gli fosse
portato via di nuovo; avrebbe voluto potergli destinare un posto
d'onore nella cripta degli Stark, accanto alle ossa di Eddard, protetto
dalle spade e dai metalupi di pietra che facevano guardia al
sotterraneo, affinchè il re del Nord potesse fargli visita
ogni
volta che desiderava e porgergli gli stessi ossequi che i mariti
rivolgevano alle spoglie delle loro consorti. Ma Jojen non era uno
Stark, e Bran sapeva qual era la cosa giusta da fare.
-Il permesso ti è concesso, lady Jayna.- rispose a mezza
voce,
irrigidendo la mandibola, compresso dal dolore. Alla fine, il destino
aveva deciso per lui: Jojen Reed non sarebbe stato dato in pasto alle
fiamme nè gli sarebbe stata gettata terra in volto, ma il
fango
l'avrebbe inghiottito, trascinandolo nel ventre di quelle stesse paludi
nelle quali era nato.
Lady Jayna chinò il capo con deferenza. -Vi ringrazio
infinitamente. So che potete comprendere il mio dolore. Ho sentito dire
che voi due eravate molto legati, che lo amavate teneramente.-
Bran contrasse la bocca in una smorfia. -Così è
stato.
Suo figlio è morto da eroe, mia signora. Ha sacrificato la
sua
vita per salvare la moglie di mio zio Edmure, i suoi bambini, per non
parlare di tutti i castellani ed i guerrieri che abitavano Delta delle
Acque... Il suo gesto non sarà dimenticato.-
-No, sono sicura di no.- mormorò la donna. -Come sta Meera?-
Bran si morse il labbro inferiore. Non gli parve il momento migliore
per spiegarle esattamente la situazione: allarmare ed elargire in
maniera gratuita un'angoscia in più a quella povera donna
sarebbe stato stupido e controproducente.
-Meera è al sicuro a Grande Inverno, insieme a Kenned. Sta
bene.
Questo è un momento un po' complicato per il Nord, ma ad
ogni
modo sua figlia è una tosta, lei lo sa.-
Jayna si lasciò sfuggire un sorriso, e Bran notò
che
assomigliava incredibilmente a quello di Meera. -Ovvio che lo so.
Mi ha scritto di essere di nuovo incinta.-
-Una buona notizia.- bisbigliò lui, atono.
-E a questo punto esprimo la mia seconda richiesta.- La donna
sollevò il
mento fino ad incontrare gli occhi di Bran. -A me e a mio marito
farebbe molto piacere se, quando i nostri nipoti saranno cresciuti, ne
mandaste uno a Torre delle Acque Grigie per un certo lasso di tempo...
a farci compagnia. Consideratelo come il periodo d'affidamento che
tutti i giovani rampolli
trascorrono presso le altre casate.-
Vogliono un rimpiazzo,
pensò Bran con una strana, infastidita amarezza, io
ho sottratto Jojen ai suoi genitori e loro chiedono in cambio uno di
quei poveri mocciosi infelici che nasceranno sotto la stella di
un'unione sbagliata. Che non potranno mai prendere il suo
posto.
-Così sia.- rispose, apatico.
Jayna Reed annuì. -Vi sono grata. Un po' di
felicità non
guasterebbe, dopo tutte queste inaudite disgrazie...-
Allungò la
mano a sfiorare la guancia integra di Jojen, mentre l'angoscia
s'affacciava nello specchio del suo sguardo. -Adesso devo andare. Non
posso permettermi di attardarmi, non in un momento di dolore
così atroce per il popolo delle nostre terre.-
Con evidente sforzo, riuscì a distogliere gli occhi dal
volto
martoriato del figlio e ad alzarsi in piedi; alcuni soldati, alle sue
spalle, si avvicinarono e ricoprirono il corpo di Jojen, per poi
sollevarlo.
Bran rivolse un'occhiata interdetta alla donna. -Avrei ancora
così tante cose da chiederle... avremmo ancora
così tante
cose di cui parlare.-
Dopo qualche istante, Jayna sorrise. -È vero. Spero tanto di
potervi rivedere, sano e salvo, al più presto. Magari in
occasione della nascita del mio secondo nipote.-
-Magari.- concordò lui, cupo. Se la guerra sarà
finita, naturalmente. Se sarà finita bene.
La donna fece un ultimo inchino, prima di voltarsi ed uscire dalla
tenda scortata dai suoi uomini; la sua malinconia lasciò un
presentimento nell'aria che assuefece Bran come una droga.
Andare a stanare i Lannister ad Approdo del Re, combattere, disseminare
le strade di cadaveri, vincere o morire. E, nel caso in cui si
vincesse, tornare a Grande Inverno. Poi? Un vuoto cavernoso si
spalancò davanti a lui, dentro di lui. Scoprì di
avere paura, e non di quel futuro che sapeva di fuoco e sangue: ma di
quello subito successivo, quello desolante e silenzioso dei respiri
aridi e troppo lunghi che avrebbe dovuto esalare, abbandonato a se
stesso in una foresta. Vincere, trionfare. E dopo? Nessuna risposta
giunse in suo soccorso.
Ricorda cosa si prova a
comandare, condannare e giustiziare, ricorda cosa si prova a sentirsi
chiamare Maestà. Quando e se siederai di nuovo sul Trono del
Nord, ricorda bene questi istanti, cerca di starci comodo.
In fondo, Jojen ci ha
speso una vita per farti arrivare fin lassù.
***
Brienne di Tarth era sempre stata una donna salda nei
propositi, ferma nelle proprie convinzioni. Da quando, bambina, aveva
compreso che il mondo non è un gran bel posto in cui vivere,
se n'era fatta una ragione ed aveva impugnato una spada. Anche nei
momenti più cruciali, quando si trattava di uccidere o di
risparmiare, non aveva mai dubbi su quale fosse la cosa migliore da
fare. In quel momento, però, un certo tramestio confondeva i
suoi pensieri.
Jaime non faticò ad accorgersi che Brienne era combattuta;
ormai erano anni che, dopo essere tornato alla Fortezza Rossa, l'aveva
convinta a rinunciare alla sua impresa -ritrovare le figlie di Catelyn
Stark e condurle in salvo- e le aveva offerto di che vivere ad Approdo
del Re, proponendo a Cersei di prenderla nella sua scorta. La gemella
le aveva rivolto qualche frecciatina acida, l'aveva tormentata per un
po', com'era nel suo carattere, ma era ben lungi dal provare una reale
gelosia nei suoi confronti -in quanto riteneva che Jaime, da sempre
estimatore delle belle donne, non potesse averci provato con lei nemmeno se l'alternativa fosse
stata Tyrion- e aveva finito per apprezzare il riserbo e
la durezza di Brienne. Erano completamente diverse, eppure erano giunte
ad una strana e tacita intesa, probabilmente a causa del rapporto
conflittuale che entrambe avevano nei confronti della propria limitante
natura di donne, al punto che era stata proprio Brienne a spronare
Cersei a trovare dentro di sè la forza di amare ancora la
vita, alla morte di Joffrey. Jaime non sapeva esattamente cosa ci fosse
di diverso in ciò che provava per Cersei e ciò
che provava per Brienne, però aveva realizzato di
necessitare della presenza di entrambe.
Proprio perchè Jaime aveva imparato ad interpretare il
comportamento di Brienne, s'era reso conto che qualcosa non andava. La
donna sedeva un po' in disparte, più assorta che triste,
fissando gli arabeschi lattiginosi delle nuvole con la fronte
aggrottata. I suoi occhi esaminavano la tersa distesa del cielo, e
l'azzurro delle iridi baciava la volta celeste.
-Ho il braccio sinistro un po' intorpidito, ma sono certo che se me le
suoni tornerà come prima.- dichiarò in tono
divertito, infrangendo il suo silenzio.
Brienne scosse la testa, abbacchiata. -Magari più tardi.-
Jaime la osservò per qualche istante. Tirare di spada era la
cosa che lei amava fare di più, quindi doveva esserci per
forza qualche problema.
-Nostalgia di casa?- domandò. Era da tempo che Brienne non
faceva visita a suo padre, a Tarth.
Lei dissentì di nuovo con il capo. -No, no... stavo solo
pensando.-
-Ma non mi dire.- scherzò Jaime, guadagnandosi un'occhiata
in cagnesco. -E a cosa, si può sapere?- aggiunse in fretta.
Brienne riabbassò gli occhi al terreno, dove, seduta su un
tronco abbattuto, stava disegnando linee spezzate nella polvere con la
punta dello stivale. -Non so se è il caso che te lo dica.-
-Oh, su, avanti. Se non lo dici a me, a chi altro?- la
incoraggiò Jaime.
Lei contrasse le labbra screpolate. -Ti rovinerei la giornata.-
L'amico scrollò le spalle con indifferenza. -Il cuoco me
l'ha già rovinata servendomi una costola di maiale
praticamente cruda e tu l'hai già rovinata a te stessa,
quindi tanto vale.-
Brienne sospirò pesantemente, prima di decidersi. -Pensavo a
Rickon Stark.-
Vide Jaime irrigidirsi al suo fianco e si maledì per aver
pronunciato quelle parole. Lo sapeva, che non avrebbe dovuto farlo, ma
quell'imbecille riusciva sempre a persuaderla. Dal giorno in cui
avevano incontrato Stark di persona, insieme a quel che rimaneva di
Myrcella, per Jaime si trattava di argomento tabù.
-E perchè mai?- chiese infine l'uomo, a voce piatta ed
impassibile. Brienne mosse la e punta dello stivale e
tracciò una linea curva un po' sbilenca.
-Mi risulta odioso quanto risulta a te, te lo assicuro. La sua condotta
è veramente abominevole e le voci che circolano riguardo a
lui sono agghiaccianti... quello che ha fatto a Myrcella, poi, non lo
voglio nemmeno immaginare. Però... io avevo promesso a
Catelyn di proteggere i suoi figli, e adesso sto facendo questo...
È solo che, quando mi sono trovata davanti a lui, l'ho
guardato è mi parso talmente
giovane... poco più che un bambino.-
S'interruppe bruscamente, corrucciata.
Jaime replicò subito. -Tu avevi promesso a Catelyn di
proteggere le sue figlie, ovvero delle povere ragazzine innocenti di...
quanti? Dodici, tredici anni? Le cose sono cambiate, Brienne. Quelle
disgraziate sono morte. Oggi ne hai avuto la prova: Tyrion s'illudeva
di aver trovato quella Sansa, però ovviamente non era
lì. Rickon Stark non è una femminuccia indifesa, non è un
bambino ed è abbastanza grande da potersi prendere la
responsabilità delle sue azioni.-
-La sua famiglia è stata sterminata...- obiettò
debolmente Brienne.
-Se tutti coloro la cui famiglia è stata sterminata
diventassero cannibali, io e te non saremmo cui a discuterne.-
sbottò Jaime. -C'è modo e modo di pretendere
vendetta e di sfogare la propria rabbia. Rickon Stark è un
pazzo ed è assolutamente incontrollabile. Non ha ricevuto
un'istruzione civile e non sa adeguarsi ai costumi della nostra
società. Si comporta come un barbaro e, ovunque vada,
dissemina morte senza un buon motivo. Finora ha ucciso una miriade di
innocenti e ben pochi colpevoli... se di colpevoli si può
parlare. I crimini di cui si è macchiato sono
diventati imperdonabili, troppo gravi per essere tollerati con
il pretesto della sua povera
infanzia infelice. Basti pensare che fra tutti se
l'è presa con Myrcella. Non solo non è uno Stark,
ma non è nemmeno un uomo. Non devi lasciarti ingannare dalla
sua età: quello è un demonio, senza alcun
rispetto per il mondo in cui vive.-
Brienne tacque. Tutti vedevano crudeltà e perfidia nei suoi
occhi, a quanto pare, ma quando lei aveva incrociato il suo sguardo
aveva visto solo dolore. Conosceva il dolore, Brienne, e la rabbia che
come un'infezione germina rapida in un cuore ferito, annerendolo ed
avvizzendolo ma senza ucciderlo, e la follia che corrode la mente per
cancellare i ricordi e spegnere gli incubi. Però l'aveva
capito, Brienne, che per Rickon Stark poteva non essere troppo
tardi.
Che cosa avrebbe fatto, se si fosse trovata con una spada in mano
davanti a lui? L'avrebbe trafitto per l'amore che provava per Jaime,
per vendicare Cersei e la famiglia Lannister, oppure l'avrebbe
risparmiato in nome della sofferenza che, in qualche incomprensibile
modo, li accomunava, in nome della speranza senza la quale vivere
sarebbe uno spreco di pazienza?
Brienne di Tarth non era un'assassina, ma nemmeno una dea. Sapeva
soltanto che poteva contare sul proprio intuito e si augurò
che la soluzione raggiungesse il suo cuore al momento giusto,
perciò quella sera accettò di tirare di spada con
Jaime e dimenticare i suoi dilemmi.
***
Margaery Tyrell era in ansia e, benchè sapesse
quanto potesse nuocere al piccolo, non riusciva a farne a meno. Aveva
cercato di distrarsi con la lettura, ma le lettere si scardinavano
dalle parole e volteggiavano di qua e di là, scappando fra
le
righe ed evadendo dai loro schemi, sfuggendo al suo sguardo frenetico e
distratto; aveva preso in mano un fazzoletto da ricamare, sebbene quel
genere di lavori era quanto odiasse di più in assoluto, e
non
aveva ottenuto altro che pungersi tutte le dita. Inutile: il
presentimento d'una catastrofe incombente la schiacciava dall'alto,
comprimendola al suolo come se volesse spezzarla. Torcendo le mani in
grembo, Margaery sperava: si trattava di qualcosa di puro, qualcosa di
etereo, qualcosa di irrimediabilmente ingenuo ed innocente, ovvero
qualcosa di cui non si sentiva più in grado, non
più
degna nemmeno di quella minuta, bianca forma di bontà
inconsapevole.
Quando percepì i passi avvicinarsi alle sue stanze fuori dal
portone, balzò in piedi dal letto troppo in fretta e
percepì di rimando un dolore rancoroso in corrispondenza
dell'addome; dovette affrettarsi a carezzare il ventre con ambo le mani
per placarlo un po'. Si sentiva così piena, così
colma,
così ingombra che pareva non ci fosse più spazio
per quel
bambino che protestava e sgomitava, tentando di farsi posto
nell'ambiente angusto. Ma adesso era troppo intenta a pensare a colei
che stava per varcare la sua soglia.
Si trattava di septa Idelyne, servitrice della corte di Alto Giardino
condotta ad Approdo del Re, fedele alla Regina di Spine dalla notte dei
tempi. Margaery fece per venirle incontro, ma la donna fu
più
svelta e le afferrò le mani, gli occhi rigonfi d'ansia.
-Allora, cara septa? Non farmi soffrire ancora in questo modo, dimmi
cosa sta accadendo! Dove si trovano Garlan ed il suo esercito ora?
L'ultima missiva che mi ha mandato risale a l'altro ieri ed assicura
che le truppe procedono secondo i piani...-
-L'esercito è stato ostacolato e ricacciato indietro, mia
regina, pena la scomunica imperiale e la condanna in quanto traditori
della corona.- svelò d'un fiato septa Idelyne, con
un'espressione angosciata. -È tutto finito. Ci hanno
scoperti... hanno
scoperto i vostri piani! Sua Maestà è venuto a
saperlo, a quanto pare
ha lasciato delle spie a corte, o forse è stato per colpa di
quel Payne... Non siamo ancora risaliti esattamente al colpevole.-
Margaery era sbiancata dal terrore. -Scoperti...?! Come può
essere...? Vuol dire che Tommen sa quali sono le mie intenzioni? E
allora... ha contattato la corte? Ha dato disposizioni?! Cosa vuole
fare di me?!-
La septa scosse il capo e le carezzò una gota. -No, non ci
ha
contattati, mia regina, però si sta dirigendo qui per
riaffermare il potere centrale, quindi probabilmente intende
occuparsene di persona... Non c'è motivo di andare nel
panico
prima del tempo. Si può ancora fare un tentativo. Dovete
fuggire
adesso, mia regina, adesso o mai più... affrettiamoci,
dunque!
Ditemi quel che volete portare con voi, giusto il necessario per
riempire
due bisacce, ed andiamo. Ci sono alcuni soldati ancora fedeli alla
casata dei Tyrell che ci aiuteranno, però non possiamo
indugiare. È per la vostra vita che stiamo combattendo!-
Quelle parole infusero in Margaery la forza di reagire. Subito
cominciò a snocciolare qualche disposizione, cioè
di
prendere un mantello pesante per il viaggio, e svelò il
nascondiglio di un piccolo bottino d'oro che teneva da parte da un
pezzo, in caso di situazioni d'emergenza; cambiò le scarpe
in un
paio di stivaletti che le avrebbero permesso di camminare
più
abilmente e prese con sè altri capi di vestiario
più
spessi, casomai fosse capitato di viaggiare di notte. Ma fu proprio
mentre si apprestava ad imbracciare un fagotto di sottane di lana, che
una
fitta lancinante al ventre le mozzò il fiato e la costrinse
a
boccheggiare, con le ginocchia incerte ed una mano a cercare un
sostegno. Il panico le causava dolori da ore, ma adesso
la loro intensità era diventata eccessiva per essere
spiegata solamente come un effetto collaterale dell'ansia.
-Mia regina...- Septa Idelyne la fissò preoccupata, una mano
già sulla maniglia della porta.
-Non è niente.- bofonchiò Margaery, stringendo i
denti con tenacia e raddrizzandosi piano, -andiamo.-
Non avrebbe permesso al suo stato di rallentarla, non in un momento
cruciale come quello. Fu in un certo senso sollevata dal fatto che
quella sofferenza tagliente non si presentasse più, ma stava
cantando vittoria troppo presto, perchè mentre scendeva le
scale
una stilettata poderosa al ventre la costrinse a piegarsi su se stessa,
gemendo. A quel punto la septa capì che nessuna delle due
sarebbe fuggita dalla Fortezza Rossa quel giorno.
-Dobbiamo chiamare immediatamente il Maestro e ritornare nella vostra
stanza, altezza. Presto.- sospirò la donna, mettendole un
braccio attorno alle spalle e sostenendola. Margaery
protestò
vivacemente.
-Ma non possiamo rimanere qui! Dobbiamo scappare prima che l'esercito
arrivi! Io non voglio-
-Maestà, voi state per partorire.- dichiarò la
vecchia
septa, con voce calma e ferma. -E vi assicuro che partorire in piedi
è assolutamente improponibile. Voi non potete camminare e
sforzarvi ancora, dovete riservare le forze per il momento in cui
darete alla luce la creatura... Se faticherete troppo, potrebbero
esserci gravi conseguenze per il bambino.-
Suo malgrado, benchè combattesse per non versarle, Margaery
avvertì gli occhi velarsi di lacrime. Vacillava persino
l'onore,
che l'aveva sempre spinta a camminare a testa alta malgrado le sue
colpe ed i suoi delitti, che le aveva impedito di supplicare e
rinnegare se stessa; a gridare ed assordarla era soltanto il ritmo del
suo cuore galoppante, stravolto dalla prospettiva di ciò che
stava per succedere e dalla scoperta della fuga di notizie.
-E... Tommen?
Come possiamo fare? E se vorrà ripudiarmi, se
vorrà...
uccidermi? Cosa possiamo fare, cara septa?!-
La donna le rivolse un sorriso dolce e un po' mesto. -Pregare, mia
regina. Pregare...-
Per sottolineare quanto imminente fosse il momento del parto, nel
risalire le scale Margaery avvertì chiaramente qualcosa
dentro
di lei non funzionare più come prima, qualcosa d'incrinato
che
si strappava come seta, un rumore acuto ed agghiacciante che solo il
suo
corpo percepì e che la lasciò stordita di paura,
e quel
qualcosa d'irrimediabilmente spezzato palesò presto la sua
natura. Pochi istanti dopo, Margaery percepì i fiotti
d'acqua
calda bagnarle le cosce; le sembrava di stare scivolando in una gola
ripidissima e priva di appigli, in una voragine buia ed ignota di non
ritorno, di stare precipitando senza
possibilità di scampo. La septa si accorse del suo
turbamento e
la strinse più forte, quasi per infonderle coraggio.
Quando giacque supina sul letto vermiglio, Margaery si chiese quale
fosse il tormento più atroce: il pensiero che Tommen sarebbe
arrivato di lì a poco per giustiziarla oppure il dolore che
cresceva incessante
ad ogni sferzata. Il Maestro che l'aveva esaminata assicurava che ci
sarebbe voluta almeno un'ora abbondante prima del travaglio, se non
due. Le
contrazioni erano diventate così potenti e vigorose che
stringere le federe con le dita e mordersi la lingua non serviva
più a niente, e la regina liberava aspri strilli che
scucivano
le sue labbra a forza per esplodere nell'aria, che le ancelle
s'affrettavano a speziare bruciando incensi in bracieri d'ottone.
Quelle fragranze orientali e penetranti nauseavano un po' Margaery, ma
ella al momento era troppo distratta da tutto il resto per farci caso.
Le serve detergevano inoltre la fronte della fanciulla con panni
intrisi d'acqua calda, levavano il sudore dagli zigomi e dal collo
contratto, nel tentativo di offrirle un po' di sollievo e rilassamento.
Septa Idelyne continuava a sussurrarle consigli e parole di conforto,
per distogliere la sua mente dal pensiero del dolore e
delle preoccupazioni, perchè al momento il buon esito del
parto
aveva la precedenza su qualsiasi altro problema -ma Margaery riusciva a
stento ad udirla. Il tempo
procedeva pigro come mai era stato, consumandosi piano piano ed
evaporando lentamente insieme all'essenza nei bracieri, logorando la
pazienza, gonfiando i cuori d'aspettativa.
Nel momento in cui venne esortata a spingere, Margaery si accorse
all'improvviso che in realtà avrebbe voluto che Tommen fosse
lì, alla sponda di quel letto, ad attendere con lei, a
contagiarla con il suo instancabile ottimismo; avevano perso importanza
le tribolazioni, le macchinazioni, gli intrighi, tutti quei piani
inutili e vanificati, quell'ambizione che era solo sabbia a
scivolare fra le dita, perchè stava per nascere suo figlio e
il
giovane re, anche se infuriato con lei, anche se consapevole della
slealtà della moglie, di sicuro avrebbe voluto esserci, e
anche
Margaery all'improvviso lo voleva, infuriato e consapevole e tutto, ma
sarebbe bastata la sua presenza a rendere completamente diversi quegli
attimi.
All'inizio del loro matrimonio non aveva amato Tommen, è
vero, e
anzi
credeva che non l'avrebbe amato mai, che avrebbe provato per lui quel
tiepido affetto e quella sprezzante compassione che i piccoli
ingenui suscitano. Invece il tempo le aveva dato modo di conoscerlo per
quel che era veramente, con i suoi difetti e qualità: non
come
pedina in una grande scacchiera di cacciatori ed interessi
contrastanti, ma come persona.
Fatto sta che Tommen non c'era, e che la speranza del suo arrivo era
irrealizzabile. Quando percepì che la strenua lotta con il
proprio corpo era terminata, Margaery affondò il capo madido
di
sudore nel cuscino, mentre un vagito infantile risuonava nella stanza;
allora lei cercò il figlio con lo sguardo, la
curiosità
vinta da una stanchezza colossale e mista al sapore di una sofferenza
sanguigna. Il solo suono energico e vitale di quella vocina le faceva
capire che il piccolo stava bene e non c'erano pericoli.
-Scoppia di salute, Maestà,- la informò infatti
septa Idelyne, commossa, -ed è un maschietto!-
Margaery avvertì il cuore frullare di gioia nel petto:
durante
la gravidanza aveva temuto di rimanere delusa dalla nascita di un
bambino piuttosto che di una bambina, ma invece così non
avvenne. Un grande senso di appartenenza e di riconoscimento si
radicarono nel cuore della puerpera, come se in fondo in fondo l'avesse
sempre saputo. E poi così avrebbe potuto ereditare il trono,
un
giorno, e non essere venduto al miglior acquirente come sarebbe toccato
ad una fanciulla. Tanto dolore gli sarebbe stato risparmiato.
Margaery adocchiò appena qualcosa di piccolo e paonazzo che
le
ancelle maneggiavano, e vide che lo stavano pulendo del sangue con un
panno intinto dell'acqua di un catino, che poi lo avvolgevano in una
copertina per darglielo in braccio. Ma proprio mentre tendeva le mani
emozionata
per prendere il piccolo fagotto, un dolore violento all'interno del suo
ventre la richiamò a quella realtà di sofferenza
rossa.
Il suo primo, orribile pensiero fu che ci fosse qualche complicazione e
che lei stesse per avere un'emorragia dovuta al parto; il panico la
assalì, perchè lei non voleva morire, non adesso
che
aveva messo al mondo quella piccola creatura e che la voleva conoscere,
com'era diritto di ogni madre. Il ricordo della storia di Joanna
Lannister balenò nella sua mente come un monito minaccioso,
e
d'un tratto le parve che tutto questo fosse un incubo.
Poi realizzò che quel dolore non sembrava anomalo,
imprevisto,
ma... spontaneo, naturale, come quello che aveva provato finora. E
perchè? Perchè c'era ancora qualcosa dentro di
lei.
Ancora qualcuno.
A quella
rivelazione si toccò la pancia, sgomenta, e sotto il suo
palmo
disteso percepì distintamente un movimento.
-Ce n'è ancora uno, Maestà.- esclamò
la septa, ripetendo le parole del Maestro.
-Ancora uno?!-
La voce di
Maegery suonò stridula, strozzata forse dallo sconcerto o
forse
dalla tremenda prospettiva di ripetere quel calvario di nuovo, subito. Incredula
ed incapace di rendersi conto che cosa comportasse quel responso, la
regina di Westeros si limitò ad imitare ciò che
aveva
fatto fino a quel momento, a riprendere il respiro profondo e le
spinte, a stritolare le mani delle ancelle. Significava che lei aveva
aspettato due gemelli? E com'era possibile che nessuno l'avesse
avvertita prima, che nessuno l'avesse previsto in anticipo, durante una
delle numerosissime visite di controllo che aveva fatto?! Proprio
quando giunse allo stremo delle forze, il secondo neonato
sgusciò dalle sue cosce sdrucciolevoli di sangue e la septa
recise il cordone ombelicale. Un'altra voce irruppe, sonora e
squillante quando la prima, e venne annunciato che si trattava ancora
una volta di un maschio; Margaery non ebbe nemmeno la forza di aprire
gli occhi. Il suo corpo, ormai appesantito dall'esaurimento e
prosciugato d'ogni capacità fisica e cognitiva, non
rispondeva
più alla sua volontà fiaccata e rimaneva inerme
per
costrizione, mentre l'ossigeno accorreva precipitoso alle sue labbra
schiuse dalla fatica.
Le ancelle provvidero a lei, legandole i capelli fradici in una lunga e
stretta treccia intermezzata da un nastro, affinchè non le
dessero fastidio, e le offrirono acqua e frutta fresca per rimettersi
in sesto; nel frattempo i gemelli venivano lavati e sistemati, di modo
che la madre potesse vederli. Finalmente Margaery avvertì un
soffice peso sul petto ed aprì gli occhi.
Due minuscole testoline rosse e rotonde erano poggiate contro di lei,
mentre i piccoli corpi erano nascosti da panni sontuosi, riccamente
decorati. Non c'era traccia di capelli, ancora; era un buon segno,
significava che sarebbero diventati belli biondi come il padre. Le
ciglia di Margaery s'inumidirono, mentre tenere lacrime raggiungevano
il suo sorriso. Ricordandosi di cosa i piccoli avessero bisogno, la
madre si scoprì i seni turgidi.
Septa Idelyne le si fece appresso e le parlò a bassa voce.
-Come
avete intenzione di chiamarli, mia regina? Voi e sua Maestà
il
re avevate concordato un nome solo, immagino.-
Margaery annuì. -Sì, però so
già come si chiameranno. Saranno Nathaniel e Lionel
Baratheon.-
Nathaniel e Lionel
Lannister, pensò fra sè.
La settimana seguente al parto fu idilliaca. Margaery rimase a letto
per recuperare le forze, e i bambini le venivano portati
quattro volte al giorno per le poppate, di cui aveva richiesto
di
potersi occupare personalmente, almeno per il primo mese di vita dei
piccoli. Ormai la regina s'era abituata all'idea di aver dato alla luce
due eredi, e di conseguenza di ritrovarsi a gestire due figli
anzichè uno: non le era mai passata per la testa
quell'eventualità, che in fondo non era nemmeno
così
remota, dato che la famiglia Lannister era geneticamente predisposta a
generare gemelli, però le piaceva moltissimo quella sorpresa
che
le era stata riservata. A parte il travaglio, era davvero contenta di
avere due piccolini identici ai quali dispensare il suo amore. Era una
prospettiva molto interessante. Le venne riferito che era stato mandato
un corvo a Tommen per informarlo dei frutti del parto della regina,
della nascita di due gemelli maschi perfettamente sani e vispi, i cui
nomi erano Nathaniel e Lionel; la risposta non si era fatta attendere
ed era stata mandata dal Folletto, che riferiva che il re,
nell'apprendere tale lieta novella, aveva pianto di felicità
e
non vedeva l'ora di poter stringere fra le braccia i propri figli, cosa
che sarebbe avvenuta molto presto. Anche Tommen era rimasto sbalordito
di fronte alla prospettiva di due neonati al posto di uno, come finora
s'era figurato, però la nuova immagine che aveva preso forma
nella sua mente non era meno attraente, ed anzi prometteva un avvenire
ancora più roseo. Tutti si erano congratulati con il re, fra
l'esercito, avevano rivolto i loro auguri ed omaggi per i principini
appena nati, e Tommen aveva ringraziato i suoi uomini con gli occhi
lucidi, sorridendo fra i singhiozzi grazie, grazie! Margaery
s'era intenerita leggendo quelle righe, e per pochi attimi
riuscì ad illudersi che fosse tutto a posto, che non ci
fossero
impedimenti a quella felicità così immensa ed
ideale,
così struggentemente accessibile. Era tutta colpa sua, lo
sapeva, però troppo tardi aveva capito che c'era qualcosa di
molto più importante che delle ambizioni della famiglia
Tyrell:
qualcosa che cresceva silenziosamente dentro di lei, ed a cui
perciò Margaery non aveva riservato le attenzioni che
meritava.
Poteva soltanto piangere se stessa per gli errori che aveva commesso.
C'era forse un modo per riscattarsi? L'avrebbe scoperto solamente al
ritorno di Tommen.
Accadde una mattina apparentemente tranquilla come al solito. Margaery
s'era svegliata presto ed attendeva l'arrivo della septa con i bambini,
che al sorgere del sole erano terribilmente affamati- come se non
avessero mangiato rispettivamente appena la madre prendeva sonno di
sera e nel bel mezzo della notte- e che giorno per giorno erano sempre
più voraci. Ma stranamente, anzichè septa
Idelyne,
entrarono nella sua stanza da letto due guardie
armate. Margaery
s'allarmò e alzò il capo dai guanciali, in
allerta.
-Cosa vi porta qui? È per caso capitato qualcosa a Tommen?-
li apostrofò spaventata.
-No, mia regina.- rispose uno dei due, con voce grave. -Però
mi
vedo costretto a dichiarare il vostro stato di fermo. Margaery Tyrell,
siete
accusata di cospirazione contro la corona. Vi chiedo di
seguirci
di vostra volontà e di non costringerci ad usare altre
maniere.-
Margaery era paralizzata dal panico: quelle parole, poi, la riscossero.
-Stato di fermo? Mi state per caso arrestando?! Ma è
assurdo!
Voi... voi non potete! Sono la vostra regina, non avete assolutamente
nessun diritto...-
-Ordini di sua Maestà il re.- ribattè la guardia.
-Vi prego, altezza, seguiteci.-
Margaery picchiò il pugno contro il materasso,
rabbiosamente,
reprimendo la disperazione che affiorava. -No! No, io non posso
seguirvi! Non posso andare in
prigione! Devo occuparmi dei miei figli! I miei figli...
cosa ne sarà dei miei figli?! Cosa ne sarà?!-
Non risposero alle sue domande, ma la presero per la braccia cercando
per quanto possibile di non farle male. Nonostante la foga delle sue
urla, Margaery non si oppose. Rimase pressochè inerme mentre
veniva portava nei piani superiori, su una delle torri. In effetti, la
sua non era una vera e propria prigione, bensì una camera
dotata
di tutte le comodità, di suppellettili e mobilia.
Le lenzuola del suo letto erano di seta e c'erano libri da leggere che
l'avrebbero tenuta impegnata per una decina di vite intere,
però
Margaery ci fece caso a malapena. Ogni volta che le venne portato di
che mangiare -piatti d'oro e porcellana con ricche carni annaffiate di
vino e sugo, contorni di verdure lussureggianti, dolci ripieni di crema
e ricchi di zucchero insieme a calici del miglior vino-
supplicò
le inservienti di ritornarle i suoi bambini, fece domande circa le loro
condizioni, ma non ottenne nessuna risposta.
-Ci è stato vietato di dirvi alcunchè,
Maestà.- si
giustificavano le ragazze quando la regina prometteva ricchezze e
ricompense in cambio, mortificate dal dolore della donna e
dall'impossibilità di recarle aiuto, perchè a
quelle
visite assistevano sempre le intransigenti guardie. Margaery non
riusciva più a pensare a se stessa, ma soltanto al destino
di
quei piccoli esserini indifesi alla mercè di gente
senza
cuore, e si tormentava incessantemente.
La regina assistette al ritorno di Tommen dalla stretta finestra della
sua torre: un lungo corteo cremisi che innalzava gli stendardi del
cervo e del leone, procedendo a passo marziale. Quando il marito si
presentò alla sua porta, guardandola attraverso una fessura
sbarrata, sputò la domanda che da giorni la perseguitava.
-Come stanno?-
L'espressione di Tommen era abbattuta. Delusa. Rigida nella sua
fragilità. -Perchè, Margaery? Perchè
l'hai fatto?-
-Come stanno?-
Egli sospirò. -Stanno bene. Non permetterei mai
che
venisse loro fatto del male. Perchè mai qualcuno dovrebbe
fargliene? Sei tu quella nei guai, Margaery, non loro. Loro non hanno
complottato alle mie spalle, non hanno tradito la mia fiducia. Loro
sono ancora i principi legittimi, anche se tu forse non sarai
più regina. Sarebbe più indicato
preoccuparti per quello che sta per succedere a te.-
Margaery poggiò la fronte alla superficie di
ferro della porta, esausta. -Voglio vedere i miei figli.-
mormorò.
-Non è possibile.- obiettò Tommen, apatico.
Lei s'impossessò imperiosamente dei suoi occhi,
riaffacciandosi alla fessura sbarrata con un nuovo, sferzante rancore.
-Tu puoi ripudiare tua moglie, puoi levare dal capo la corona ad una
regina e puoi imprigionare Margaery Tyrell,- cominciò, con
voce
appena sfrigolante d'astio, digrignando i denti, -ma non puoi privare
una
madre dei suoi figli. Questo non lo puoi fare, Tommen Baratheon. Non
puoi nemmeno immaginare che cosa significhi per me...-
-Ah, adesso sei solo tu quella che
soffre, non è vero?- Tommen la interruppe,
indispettito da quella rabbia ingiustificata che
scatenò la sua, investendola violentemente con parole
velenose. Fece una smorfia disgustata. -Sei
ridicola, Margery. Ti dò una notizia dell'ultima ora: la
colpa è tua e
di nessun altro.
Se ti fossi comportata come ogni moglie perbene, se mi
fossi rimasta fedele, a quest'ora avresti i nostri figli in braccio e
nulla di tutto ciò starebbe accadendo. Non sai quanto mi
renderebbe felice scoprire che è frutto della mia
immaginazione.
Prima era fantastico, meraviglioso e perfetto, e adesso...- La
voce di Tommen si spezzò, ma il ragazzo non volle darlo a
vedere
e scosse la testa, furioso. -Hai
rovinato tutto, Margaery, e di questo non posso perdonarti. Io credevo
che i miei nemici fossero là fuori, non sotto il mio stesso
tetto! Come mi dovrei sentire, secondo te? Se tu fossi nei miei panni, cosa faresti? Dovrei
perdonarti o farti penzolare da una forca come continuano a ripetermi?
E io... io non so più nemmeno chi tu sia. Non so cosa
pensare.-
Tommen le rivolse un'occhiata penetrante, inorridita e scoraggiata.
Prima di parlare di nuovo Margaery riprese fiato, chinando il capo a
quelle accuse, quasi fossero pietre. -Non ti sto chiedendo di
liberarmi, nè di fidarti di me, nè di riprendermi
al tuo
fianco. Non ti sto nemmeno chiedendo di fare qualcosa perchè
sono io a domandarlo, ma soltanto per il bene dei miei, dei tuoi, dei nostri bambini.
Hanno bisogno della loro madre! Non puoi negarci questo diritto.
Nè a me, nè a loro.-
-Risparmia il fiato per il processo, Margaery.- la congedò
Tommen, freddamente. Margaery si aggrappò alle sbarre,
terrorizzata.
-No! No, Tommen, aspetta! Tommen, ti supplico...-
Fu quando suo marito scomparve nella tromba delle scale, che Margaery
si asciugò le lacrime sulle
guance con gesti rabbiosi, confortata almeno dal pensiero che i suoi
piccoli sarebbero stati sani e salvi; ma erano comunque vulnerabili,
visto che lei non era lì a proteggerli: e la bufera -lo
presagiva nell'aria- si sarebbe abbattuta su Approdo del Re fin troppo
presto.
Note dell'Autrice: Che gli dèi mi aiutino, posto sempre
più in ritardo. u.u Però il capitolo è
bello lungo, quindi potete essere contenti, miei lettori!
E quindi abbiamo scoperto che il piano di Baelish era mandare Sansa da
Arya, che Meera e Yara fanno comunella (qualsiasi accenno di femslash al
proposito è puramente casuale) e che Margaery
ha partorito due gemelli. ^-^ Per poi finire dritta dritta in
gattabuia. o.o Ah sì, per non parlare della carriera di
Myrcella come cannibale in erba! XD No, no, tranquilli, non
diventerà cannibale anche lei. XD
Comunque, spero che abbiate apprezzato il capitolo e che perdonerete il
mio ritardo. La quarta stagione sta per arrivare, gente, è
sempre più vicina!
Grazie a tutti coloro che hanno letto, aspetto impaziente di scoprire
le vostre opinioni!
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Livido fu il panico. ***
10
X. Livido fu il panico.
-Quello che ti sto proponendo,- annunciò Gendry Waters, con
impeto, -è un cambio di programma.-
Allestita per un banchetto di ben cinquanta persone, fra cui gli
alfieri del Nord e delle Terre dei Fiumi, gli Stark, Stannis ed i suoi
fedeli, la tenda era la più vasta di cui l'esercito
disponesse
ed era stata preparata con una certa rustica raffinatezza. Per la prima
volta, dopo mesi di guerra, veniva utilizzato il servizio di
posate d'argento e di piatti di porcellana; benchè la
tragedia
di Delta delle Acque fosse ancora abbastanza recente e impressa
nell'anima dei presenti, l'atmosfera era piuttosto allegra. Rickon
Stark aveva preteso ad ogni costo che si festeggiasse, anche arrivando
ad insultare il dolore che piegava ancora suo fratello.
-Non capita tutti i giorni di riunire la famiglia, insomma!- aveva
esclamato, battendo le mani e pretendendo sfarzo, buon cibo, botti di
vino. La verità era che il giorno delle scontro si
avvicinava ed
il giovane Stark aveva bisogno di mille distrazioni per tenere a bada
l'ansia, che non soltanto s'impossessava di lui, ma ancora di
più di Myrcella.
Per l'occasione, egli s'era adoperato in modo che una
septa fornisse la fanciulla d'un bell'abito in raso di seta,
d'un
brioso e frivolo verde menta che metteva in risalto i suoi occhi, con
un bustino trapuntato di piccoli quarzi rosa, e chiffon color salmone
sia arricciato vistosamente sullo scollo rotondo sia a sboccare
all'altezza delle maniche; nonostante fosse vestita con grande
eleganza, Myrcella aveva un'espressione inquieta e per tutta la durata
della cena non aveva fatto altro che stare accanto a Rickon e tacere,
rigirando distrattamente il vino nel bicchiere, lanciando di tanto in
tanto occhiate sospettose all'indirizzo di Arya e Sansa. Com'era
accaduto che la famiglia si riunisse? Quel pomeriggio una guarnigione
di uomini, guidati da Gendry e, al suo fianco, da Arya, aveva raggiunto
il loro accampamento. Il riconoscimento non era stato particolarmente
commovente, però, sotto due frangenti.
Il primo, e di sicuro il più deludente, era stato Bran. Egli
stesso aveva spesso sognato un ricongiungimento con le sorelle, e nella
sua immaginazione quello sarebbe stato l'apice della
felicità;
questo, prima di perdere Jojen. In quello specifico momento, invece,
tutto gli scivolava addosso e lo lasciava indifferente in maniera
spiazzante. Appena aveva scoperto la verità, aveva sperato
d'essere travolto da un'ondata d'irresistibile gioia che vincesse la
pressione della sofferenza nel suo petto. Inutile dire che nulla di
tutto ciò era avvenuto. La scena era stata persino un po'
patetica. Bran le aveva salutate con una regale, solenne freddezza
tanto asettica da risultare ridicola, e le sorelle s'erano ritrovate
così a disagio da non poter esprimere la felicità
che,
loro sì, provavano nel rivederlo dopo tanto tempo. Erano
state
avvertite della morte di un tale consigliere, ma di certo nessuno aveva
ancora svelato loro la natura del rapporto che legava il re al defunto,
quindi a buon diritto Sansa fu offesa dalla sua
impassibilità,
lei che tante peripezie aveva superato alla Fortezza Rossa e a Nido
dell'Aquila, pur di avere il suo lieto fine! Arya s'era stupita del
cambiamento che aveva visto in lui: certo, non era tanto più
radicale di quello di Rickon, però Rickon aveva sei anni
l'ultima volta che lei l'aveva visto, e dunque non aveva ancora quel
che si definirebbe un carattere ben definito: era solo un moccioso
molto vivace e un po' irascibile. Con Bran invece aveva condiviso
allenamenti, giochi, passeggiate e in generale la vita a Grande
Inverno, dato che erano vicini d'età, e lo ricordava come un
ragazzino socievole, tranquillo, silenzioso, un po' malinconico ma
entusiasta. Invece s'era trovata davanti un ragazzo smilzo, buio come
l'abisso più recondito, con capelli lunghi e scompigliati,
occhi
di pietra e un viso dai lineamenti crudeli, come se l'avessero
intagliato a colpi di lama, con le mani sporche di sangue. Non l'aveva
messa in soggezione, perchè ci voleva ben altro per mettere
in
soggezione Arya Stark: però le aveva fatto molta impressione.
-Sei cambiato.- gli aveva detto, temendo di ricadere nella solita
banalità.
-Chi di noi non lo è?- era stata la lapidaria risposta.
Il secondo frangente disastroso era stato Rickon, ovvio. S'era
presentato per primo ad accoglierle ma, nella sua grande furbizia, la
prima cosa che aveva fatto era stata provarci con Sansa. La sorella
maggiore cavalcava un po' più indietro -non le era mai
piaciuto,
quindi manteneva una velocità limitata- e, quando Arya
l'aveva
aiutata a smontare, senza prima pensare per un secondo cosa potesse
implicare il fatto che Arya glie la volesse far conoscere, senza
nemmeno immaginare che potesse trattarsi di Sansa, aveva domandato:
-Non mi presenti questa gran sventola, Arya?-
Ma, a giudicare dalla direzione del suo sguardo, voleva più
che altro fare una conoscenza ravvicinata con le sue tette.
-Sì: è tua sorella!- s'era indispettita Arya,
pestandogli
un piede con tutta l'indignazione di cui fu capace. Il momento di defaillance di
Rickon non durò più di tre secondi, poi
imprecò:
-Possibile che tutte quelle che me lo fanno venire duro siano mie
sorelle? Che strazio... Comincio a comprendere il povero Jaime
Lannister.-
Arya era rimasta senza parole dalla ripugnanza, Sansa era scoppiata a
ridere, per poi abbracciare il fratello un po' rossa in viso, e
Myrcella, finora silenziosa figura al suo fianco, s'irritò
oltremodo.
-Questa notte dormi solo come un cane, Rickon Stark!- aveva dichiarato,
con una smorfia di disappunto. Rickon s'era affrettato a rimediare,
prodigandosi in complimenti ed apprezzamenti verso la sua deliziosa
concubina, perchè di sfogare i propri bollenti spiriti da
solo
proprio non se ne parlava.
Insomma, Gendry aveva proposto di discutere su tutto ciò che
c'era da discutere al banchetto e ad un certo punto annunciò
che
si trattava di fare un cambio di programma.
Bran Stark lo fissò ancora per qualche istante, prima di
schioccare le dita ed ordinare al coppiere di colmare il boccale del
suo
ospite, per prendere tempo. Gendry scosse la testa sbrigativo, a far
intendere che
voleva rimanere concentrato su quel che stava accadendo. Per quando
riguarda Stannis, non riusciva a credere alla piega che
stavano assumendo gli eventi. Finora era rimasto zitto, a seguire
soltanto ciò che veniva detto, ma si stava decisamente
superando
la misura. Quel suo nipote fuggito molti anni prima
era vivo, e non solo -voleva rivendicare il trono. Il suo
trono. Ma con che diritti un bastardo del genere si presentava
lì, e soprattutto, come gli erano venute quelle idee in
testa?
Un figlio illegittimo non vale niente, figuriamoci se può
andare
lì a pretendere. Surclassando senza troppi ripensamenti il
Baratheon legittimo della famiglia, poi!
-I cambi di programma non ci interessano.- rimbeccò infatti.
-Tutto è già stato stabilito. Io e Stark ci siamo
accordati di conseguenza.-
Gendry gli rivolse un'occhiata fredda: non aveva certo dimenticato il
trattamento riservatogli in passato, nè aveva intenzione di
farlo. Sapeva bene che, se fosse stato per Stannis, lui a quell'ora
sarebbe stato morto e sepolto.
-Ti ricordo che i nostri piani ti
includono, lord Stannis. Avresti una posizione di rilievo a
corte,
per non parlare del fatto che, se io morissi senza eredi, saliresti al
trono.-
Stannis schioccò la lingua, irritato, chiedendosi come si
permetteva quel ragazzetto di prendersi gioco di lui. -Quante
probabilità ci sono che tu muoia prima di me?-
Arya Stark, fino ad ora intenta a saccheggiare la carne dal piatto di
Rickon, perchè a lui cotta non piaceva, s'intromise.
-Quel che Gendry vuole
dire,- intervenne a voce alta, irosa, -è che lui ha
intenzione di
sposare sua cugina Shireen, così da non privarla di un suo
diritto di sangue.-
Una serie di brusii venne scatenata ed attraversò le file
dei
conviviali, mentre un chiacchiericcio generale s'intensificava, simile
al ronzio di un formicaio.
-Hai intenzione di mantenere questo proposito?- domandò
bruscamente Stannis, sorpreso. All'improvviso, quella precisazione gli
faceva piacere l'idea già di più. Certo, lui non
era
più giovane e vigoroso come un tempo, ed i Sette Regni
avevano
bisogno di un sovrano nel pieno delle forze; e nemmeno immortale,
perciò -a meno che, ipotesi poco probabile, non avesse avuto
altri figli- tutto l'onere del regno sarebbe ricaduto sulle spalle di
Shireen, di una povera fanciulla fragile ed innocente, che, nonostante
fosse saggia ed assennata, di certo non sapeva nulla circa le faccende
dello stato e gli intrighi di corte, e non sarebbe mai riuscita a
prevalere in un mondo così spietato. Quel Gendry al trono,
tra
l'altro con sangue Baratheon nelle vene e coraggio da vendere, e
Shireen come sua regina, a vivere alla Fortezza Rossa
anzichè
nel maniero freddo ed inospitale ch'era Grande Inverno, insieme ad un
bruto selvaggio... Se
così fosse stato, tutto cambiava di prospettiva.
Gendry incontrò lo sguardo di Arya, penetrante ed eloquente,
che
quasi lo sfidava a contraddire quanto aveva detto: tante volte ne
avevano discusso, giungendo alla conclusione che non esisteva altro
modo per ottenere l'approvazione di
Stannis Baratheon e di legittimare ancora di più la pretesa
al
trono, per essere accettato dal popolo.
Gendry aveva cercato di ribellarsi diverse volte, spiegando che non era
strettamente necessario e che Shireen era già promessa a
Rickon,
però Arya non aveva voluto sentire ragioni.
-Tu fai la proposta, poi si vedrà. Sono quasi certa che
Stannis
approverà ma, anche se così non fosse, almeno non
avrai
lasciato nulla di intentato.- aveva insistito.
La verità era che Gendry, quando si figurava re, si era
sempre
figurato Arya al suo fianco, semplicemente perchè non
riusciva
ad immaginare di sposare un'altra donna. Il sentimento che provava per
lei andava oltre l'affetto, la solidarietà e la muta
comprensione, fino a raggiungere un'ammirazione che diventava spesso e
volentieri adorazione; pur scherzando e trattandola con molta ironia,
Gendry la riteneva una delle persone migliori che avesse mai
conosciuto. La combinazione di volitività, ostinazione,
carisma
e pragmatismo era vincente e la rendeva non soltanto un'eccellente
comandante, ma la salvava anche in qualsiasi situazione. Gendry era
assolutamente convinto di non voler sposare Shireen Baratheon: e non
è che ci fosse qualcosa che non andava in Shireen in quanto
tale, perchè lo stesso sarebbe stato per qualsiasi altra
persona
eccetto Arya. Però la sua opinione a quanto pareva era
irrilevante. Il suo sangue, lo stesso che aveva imbrattato la
scacchiera di Westeros e aveva generato tanti scompigli, stava
diventando più potente di lui.
-Ci stavo per arrivare, se non fossi stato interrotto.- concluse, dopo
una beve esitazione. -La mia proposta comprendeva appunto il mio
matrimonio con Shireen, per rinsaldare il legame con l'altro ramo
della famiglia Baratheon e fare giustizia. Sono al corrente del suo
attuale fidanzamento con Rickon Stark, però avevo anche
sentito
dire che era stato siglato contro la volontà del principe
e...
pensavo che, quando la guerra sarà finita, un matrimonio fra
Myrcella Lannister e lord Stark sarebbe un ottimo espediente per
stipulare la pace fra il Nord e il Sud.-
Bran valutava la situazione in silenzio, seguendo lo scambio con occhi
impassibili. Effettivamente, così l'accordo fra lui e
Stannis
sarebbe saltato e Rickon avrebbe potuto sposare chi voleva, e allo
stesso tempo non sarebbe diventato re dei Sette Regni, cosa che
chiunque avesse un po' di buonsenso si auspicava. Quel Gendry era
sicuramente un temerario, però di certo non lo si poteva
definire sconsiderato; era giunto lì ben armato, non di
spada ma
di argomenti. Inoltre, per quel poco che aveva potuto vedere, a Bran
sembrava una persona
a posto, e comunque non erano da mettere in dubbio le sue origini come
figlio di re Robert, visto che pure Stannis l'aveva confermato; come
aveva detto Rickon una volta, però, ormai il Trono di Spade
non
era di colui a cui spettava, ma di chi se lo sarebbe conquistato.
Gendry ce l'avrebbe fatta? Se Arya si era schierata dalla sua parte e
si era votata alla sua causa, Bran si
fidava. Certo, se lì con lui ci
fosse stato Jojen, l'avrebbe consigliato al meglio. Ma Jojen non
c'era. Non aveva voluto
esserci.
-Tu pensavi un po' troppe cose, Waters.- lo stuzzicò Rickon,
sarcastico, scolando un lungo sorso di vino. -Mi propongono di
sciogliere un matrimonio combinato per combinarmene un altro... Non
sono neanche la tua
fottuta
figlia femmina, bastardo. Io non mi sposerò mai, e non
perchè non ci tenga a prendermi legalmente questa bellezza,
ma
perchè non ci credo. Non penso che un rito sotto uno
stupido albero in un arcimaledetto bosco possa decretare in qualche
modo ciò che ho, o ciò che sono, e di certo non
dev'essere un septon del cazzo a dirmi chi posso scoparmi e chi no.-
Gendry sorrise a denti stretti. Quel Rickon stava mettendo a dura prova
la sua pazienza, ma probabilmente lo faceva apposta per provocarlo.
Bisognava mantenere una compostezza regale ed ufficiosa: ne andava dei
suoi stessi interessi.
-Era un'eventualità proposta con
l'intento di farti un piacere, lord Stark, ma ovviamente era soltanto
un'idea come un'altra. Quel che mi importa è recuperare il
trono
di mio padre.-
-Bene, ho preso la mia decisione.- Bran s'intromise, sospirando e
leccandosi le labbra, dopo aver sorseggiato del vino. Lungo la tavola
imperiale calò un silenzio carico d'aspettativa. Il re del
Nord
lasciò vagare gli occhi stanchi fra quei volti familiari,
estranei, vecchi, nuovi, giovani, intristiti, sfregiati dalla guerra.
Per un istante, provò un disgusto così
nauseabondo, un
ribrezzo così viscerale, un rifiuto così
sdegnoso, che
desiderò quasi trasfigurarsi nel vapore del proprio fiato.
In quei brevi, deprecabili, indissolubili istanti comprese fino in
fondo quanta sconcertante irrilevanza avesse assunto quell'arazzo dai
colori troppo violenti, troppo vivaci, troppo fastidiosi; comprese fino
in fondo la sua ormai completa estraneità a quel gorgo di
inganni, strategie ed omicidi, e quanta indifferenza accompagnasse
l'azzuffarsi di quegli eventi precipitosi e concitati. Si sentiva lo
spettro di un morto, invisibile ed inafferrabile, che girovaga per il
mondo dei vivi senza più appartenervisi. Jojen lo aveva
provato
di qualsiasi cosa fosse rimasta al terribile saccheggio a cui
già il destino lo aveva sottoposto; lo aveva derubato di
quell'ultima, intollerabile speranza, quell'ultimo fragile attaccamento
alla vita, quell'ultimo interesse per le tribolazioni proprie ed
altrui.
Ma Bran non
era invisibile, e tutti lo stavano guardando: quindi parlò.
-Questo è un momento molto delicato per la nostra guerra.
Non
possiamo permetterci passi falsi. Mi è stato riferito che
Margaery Tyrell ha partorito non un solo bambino, ma due. Due maschi.-
Un coro di fischi seguirono quelle
parole; soltanto Myrcella nascose un piccolo sorriso dietro il
tovagliolo di stoffa. Rickon ghignò, esponendo i canini
triangolari. Il sovrano attese che tornasse il silenzio.
-Ciò
significa che ora Tommen ha una discendenza assicurata. Inutile dire
che i recenti avvenimenti rendono ancora più fondamentale
espugnare la Fortezza Rossa. Detto questo, avremo bisogno di tutto il
contributo ed il sostegno possibile... anche da parte di alleati
insospettati. Quindi il mio è un sì, Gendry
Waters.- Bran
incrociò lo sguardo del ragazzo. La sua voce calò
secca
come il rumore d'ossa spezzate. -Propongo un brindisi, alla
nuova alleanza fra
Baratheon e Stark.-
Tutti alzarono le coppe, cozzandole una contro
l'altra in una risata di bronzo.
Nel frattempo, dopo aver prestato attenzione alle parole del fratello,
Sansa si rivolgeva alla fanciulla seduta al suo fianco. Aveva le
sembianze di Myrcella, ma l'espressione era febbrile e gli occhi
avevano un'altra luce: evidentemente non era più
così. Se
prima, nonostante quella sua certa bellezza, in una sala piena di gente
sarebbe parsa insignificante, ora era una fiamma. Come me, d'altronde, pensò
la giovane Stark.
-Dopo tanto tempo, Myrcella... Chi l'avrebbe immaginato che ci saremmo
incontrate di nuovo, vive,
e che per di più che ti saresti innamorata di mio fratello.-
Lei tacque. Nel suo sguardo era sopito un dolore vago, lontano,
inafferrabile, come un sospiro di cenere. Gli occhi verdi, talvolta,
fuggivano in quelli di Rickon con la precipitosa
inevitabilità
delle emorragie, mentre il labbro inferiore cedeva sotto il peso di una
notte insonne.
Sansa sorrise affabile del suo silenzio. Se ne sarebbe accorta presto,
Myrcella Lannister, che non vale la pena di celebrare il dolore. Nel
frattempo, la guerra scalpitava nel rumore degli zoccoli dei cavalli
bardati e nei sibili di metallo delle armi ancora appese alla
rastrelliera; la guerra viveva
nel
fervore con cui Rickon Stark squartava un pezzo di carne e urtava il
proprio boccale con quello degli alfieri. La guerra, ormai, era
permeata nella loro pelle come l'odore dei morti.
Gendry sorrideva, con audace e ponderata sapienza. Arya Stark serrava
gli occhi alla luce delle candele. Il Nord banchettava insieme ai
propri timori più orridi.
***
-Domani andrai.-
Non era una domanda. Era una constatazione, sfiancata come se avesse
attraversato vallate, scalato burroni e guadato fiumi prima di
affiorare a quelle labbra rosee. Rickon sospirò a bassa
voce,
affondando una mano fra i suoi capelli, sollevandoli e poi lasciandoli
scivolare come sabbia fra le sue dita, in un prezioso sfavillio dorato
dalla luce di una timida candela.
Per l'inenarrabile magia di quegli istanti, la sublime calma che lo
pervadeva come un narcotico aromatico, quasi si commosse. Il viso di
lei, simile ad un medaglione di madreperla anticato, con quei superbi
zigomi che cesellavano morbidamente le linee preziose delle guance,
pennellate di rosa dalla luce delle candele; la maestà della
fronte ampia ed alabastrina, il ricamo flessuoso della chioma,
arricciolata con la forza delicata della cresta dell'onda marina, che
barbagliava d'oro nudo come sangue di stella. La potenza misteriosa e
benevola dello sguardo... degli occhi verdi,
verdi come giada di Norvos, verdi come quella genia demoniaca che aveva
assediato sia i sogni che gli incubi di Rickon fin da prima ch'egli
avesse memoria.
-Visto e considerato tutto quel che è successo, rimani
ancora la
ragazza più bella che io abbia mai visto.- fu tutto
ciò
che disse, contemplando il modo in cui le ciocche di capelli di
Myrcella che le scivolavano sul petto, lambendole i seni, assumessero
al tocco della luce la candida traslucenza della spuma di cristallo.
Le labbra di lei non si abbandonarono in un sorriso radioso, come
avrebbe fatto in altre circostanze.
-Domani andrai.- ripetè atona.
-Domani andrò.- confermò Rickon, soffiando quelle
parole
sul suo
viso. La fanciulla gli stava rannicchiata sul petto, soltanto il collo
inarcato affinchè potesse guardarlo negli occhi. Una coperta
avviluppava i loro fianchi: stava giungendo l'inverno anche per il Sud.
Le stelle crepitavano a gran voce nel cielo notturno che sovrastava la
loro tenda, disegnate sulla tela logora e sottile.
Myrcella aggrottò la fronte. L'unica cosa che portava
indosso
era un'ametista grossa come un pugno, appesa ad un laccio
insignificante che le cingeva il collo esile e rotondo; il ragazzo
cominciò a giocherellarci, distrattamente.
-Perchè?-
Rickon socchiuse gli occhi e godette del caldo peso della fanciulla
sopra di lui, avvertendo la sua pelle liscia e tiepida contro il petto,
la massa aurea e profumata dei capelli intrecciata alle braccia. Il
giorno successivo l'esercito sarebbe entrato trionfalmente ad Approdo
del Re, dove inaspettatamente i Lannister avevano ripiegato, per
chissà quale motivo che di sicuro avrebbero inteso troppo
tardi.
La strinse
a sè un po' più forte.
-Perchè amo la guerra da prima di quanto amassi te.-
rivelò, con un pizzico d'ironia e molta più paura
di
quanto non volesse ammettere a se stesso.
Myrcella gli scoccò un'occhiata obliqua. -Più di
me?-
Rickon sorrise della sua reazione e le baciò la bocca.
-È... diverso.-
-Ma se dovessi scegliere? Perchè è quello che ti
verrà chiesto di fare domani. Ed è una scelta
letale.-
insistette
la ragazza, toccandogli una guancia. Detestava questa situazione
d'impotenza, d'impraticabile inavvicinabilità. Non voleva
supplicare, non l'avrebbe mai fatto, però non si era mai
sentita
così tentata di farlo.
-Anche tu sei letale.- osservò egli, con un ghigno.
-Più di qualsiasi altra cosa.-
Myrcella si scosse via dal suo abbraccio, con sgarbo e fastidio,
sgomitando e alzandosi seduta, rivolgendogli la schiena. Non la stava
ancora prendendo sul serio, e questo la faceva andare in bestia. Rickon
Stark non dava peso a nulla: nè alla vita delle persone,
nè alla propria; nè all'angoscia delle persone,
nè
alla propria.
Quei giorni erano
stati quanto di più angoscioso avesse mai dovuto sopportare,
più delle segrete buie, più del freddo del Nord,
più dei volti che si deterioravano nella sua memoria.
Ogni mattina apriva gli occhi e cercava Rickon nell'ombra, con
le mani e le labbra e l'olfatto, consapevole che magari ben presto
l'avrebbe
fatto inutilmente; ogni sera chiudeva gli occhi giacendo al suo
fianco, il fiato a solleticarle il collo, e pensava che dovevano
approfittare di ogni minuto delle ultime ore a loro concesse. Faceva
l'amore con lui con l'affanno rappreso fra le labbra e la disperazione
affissa nel cuore, chiedendosi fra quanto tempo le sarebbe stato dato
modo soltanto di rievocare nella mente quegli istanti di tonda,
elementare, nitida
esattezza. Non riusciva a credere che Rickon, al contrario, fosse
così indifferente a quel che stava per succedere, alla
battaglia
che forse li avrebbe divisi per sempre. Myrcella non si ingannava
più, non da quando era stata rinchiusa in una cella per
mesi:
Rickon non soltanto ne aveva combinate troppe, non solo era l'ennesimo
Stark scomodo ancora in vita, ma, essendo estremamente pericoloso, era
il primo obiettivo di tutti i soldati, là fuori.
Probabilmente
chi l'avesse ucciso sarebbe stato ricompensato da Tommen molto
profumatamente. Mentre menti ciniche stavano là fuori ad
architettare indisturbate piani per uccidere Rickon, lei poteva solo
stare lì, disarmata, inutile, femmina, e poi consegnarlo al
sogghignante nemico come un agnello sacrificale... Quei pensieri le
impedivano il sonno. Si rigirava inquieta, alla ricerca di un ordine
perduto, di una serenità stracciata. Non esistevano appigli
in
grado di ostacolare la sua caduta, così come balsami per
lenire
le sue preoccupazioni. Il cuore doveva soffrire e il corpo doveva
seguirlo in un lento ed inevitabile processo di degenerazione, fino
alla
fine. Così smise di trattenersi e vomitò tutte le
tribolazioni della sua anima, di getto.
-Perchè
accidenti non
vuoi tenerti stretta quella vita che così duramente hai
preservato?! Perchè la devi rischiare così, senza
motivo?! Vuoi combattere per nulla, per... la gloria, che è
inconsistente, che non la toccherai mai, poco più di un
sogno e
quattro parole. O cos'altro?!- sbraitò. -Rimani qui, come fa
tuo fratello.
Rimani nell'accampamento e non gettarti in quella mischia di spade, e
soldati, e sangue, e... Quelli là ti odiano, Rickon, lo
capisci?
Ti vogliono fare del male.-
Rickon contrasse il viso in un'espressione accigliata, con fare
indisponente.
-Questa è la guerra.- tagliò corto, come se
stesse spiegando una banalità ad un bambino un po' tonto.
-Non cercare di menarmi per il naso!- sbottò Myrcella. -Tu
potresti sottrarti, caro, e a maggior
ragione dovresti farlo, visto quel che è successo di
recente. La
paura della morte non è sopraggiunta nemmeno un po'?-
Il dolore di Bran Stark l'aveva terrorizzata; pensava a cosa avrebbe
fatto se si fosse trovata nella stessa condizione, e vedeva il vuoto
d'una via così impervia che non viene nemmeno intrapresa, ma
solo rinnegata con orrore. La scomparsa di Jojen Reed, tra l'altro, le
aveva ricordato che tutti gli uomini sono odiosamente mortali
-Rickon non faceva eccezione, anche se si comportava in maniera che
lasciava intendere tutt'altro.
-Paura per qualcosa che giungerà comunque, adesso o fra due
anni
o fra cinquanta?- Rickon Stark scosse la testa. -No, Myrcella. Esistono
almeno un'infinità di cose peggiori della morte, e potrei
elencartele tutte, visto che le ho provate una ad una. Morire, e cosa
vuoi che sia? Quando sei morto, non ti rendi mica più conto
di
esserlo.-
-Ma non adesso!
Perchè mai dovresti accettare di morire adesso,
con una vita davanti ancora da vivere? Bran è confuso,
esasperato e soffre come una bestia moribonda, e tu hai intenzione di
lasciarlo ad affrontare tutto questo da solo? Dovresti stargli accanto,
aiutarlo ed evitare tranquillamente ogni pericolo. Però non
lo
vuoi fare, nemmeno per me... Cosa ne sarà, di me, se tu
morirai?
A questo almeno hai pensato? Se hai troppa vergogna per il tuo onore, a
non presentarti sul campo di battaglia, pensa a me.- Myrcella si
aggrappò al suo petto, come una supplice stretta all'altare
del
suo dio. -Pensa al modo in cui il tuo esercito mi venderà ai
Lannister, oppure a come i vostri uomini mi stupreranno, o a come
getteranno la mia testa ai piedi di Tommen...-
-Stai cercando di spaventarmi?- Rickon le immobilizzò i
polsi con dolce fermezza, una
severa rigidità in volto.
Myrcella sbuffò. -Sto cercando di farti ragionare, che non
vuol
dire la stessa cosa. Non vedo come tu possa essere tanto...
caparbio, e... cieco, ecco. Perchè mai dovresti rischiare di
morire, quando puoi rifiutarti senza problemi? Spiegamelo.-
-Questa è la
mia
guerra.- Il ragazzo precisò la sua affermazione precedente,
mentre l'immensità di quelle parole lo sopraffaceva. -Nessun
altro può combatterla per me.-
A quella, Myrcella non seppe cosa ribattere. Tacque, sconfitta e
prostrata, mentre il vano tentativo delle sue parole si discioglieva
senza fare breccia. Desistette, strofinandosi gli occhi arrossati, e
si voltò dall'altra parte.
-Ho paura.- ammise piano.
Rickon inarcò un sopracciglio, interrogativo.
Ammirò
ancora quel volto tenero, plasmato dall'umana natura per essere
ritratto con i colori ad olio, per adornare gli arazzi e le pagine dei
libri riguardo le genealogie reali: quel volto che però egli
sapeva capace di funeste passioni, di supremo dolore, di iracondia e
violenza, di fragile umanità ed animalesca ferocia. Un viso
sfregiato dalla realtà e fregiato d'onore, ormai. Myrcella
Lannister non era più il grazioso gingillo di una reggia,
non
era più la principessa sorridente e silenziosa.
-Di me?-
La voce di Myrcella giunse lenta e musicale come la risacca. -Di noi.-
Rickon sorrise. Era una risposta saggia, ma giunta in ritardo, nel
posto sbagliato, al momento sbagliato.
-Non serve. Ormai noi due siamo, e saremo fino alla fine.-
Era vero. Era tremendamente vero. Nella sua vita Myrcella c'era, aveva
un posto ben preciso, un'importanza ben precisa, come quella della luna
e della stella polare. Nella sua vita Myrcella doveva esserci.
Il silenzio calò di nuovo.
Rickon parve riscuotersi. -Quasi dimenticavo... voglio regalarti una
cosa.-
Nonostante la malinconia ed il vago astio, lo sguardo di
Myrcella
non potè fare a meno d'accendersi di rapita
curiosità.
-Cosa?-
Lui frugò in una sacca e ne trasse un fodero di pelle nera e
squamosa, presumibilmente di un rettile. Da esso, con un movimento
abile da prestigiatore, sguainò una lama di notevole
lunghezza:
l'estremità che Rickon impugnava era circolare, ma lungo
tutta
la sua estensione andava assottigliandosi fino ad una punta
affilatissima, a tal punto che Myrcella non riusciva a vedere
esattamente fin dove proseguisse la punta, perchè pareva
raggiungere una dimensione invisibile all'occhio umano. Aveva una
sfumatura azzurrina, come un sogno, però alla luce della
candela
balenò di riflessi iridescenti e fulminei, che dardeggiavano
a
turno e ripetutamente la lama.
Myrcella era strabiliata: le pareva di non aver mai visto un prodigio
simile.
-E' stupendo! Ma cos'è?- cinguettò deliziata,
sfiorandola
cautamente con il polpastrello, quasi nel timore di mandarlo in
frantumi. Al tatto, era liscio come vetro.
Rickon sorrise enigmatico. -Non hai mai sentito dire che a Skagos
vivono gli unicorni?-
Gli occhi di Myrcella si spalancarono di meraviglia, subito
però sostituita da un'ombra di timoroso sospetto.
-... ti prego, Rickon, non dirmi che hai ucciso un unicorno!-
piagnucolò, scuotendo la testa con disapprovazione.
Il ragazzo s'imbronciò. -Figurati. Ovvio che non l'abbiamo
fatto. Io e Osha l'abbiamo trovato già morto...
probabilmente
una ferita inferta in qualche scontro con le pantere-ombra. Poi
è fuggito ed è stramazzato a terra lì.
Era enorme,
devono essere servite almeno cinque pantere-ombra per attaccarlo. Aveva
zoccoli imponenti come macine di mulino e un muso più grosso
di
quello di un toro, ma era davvero bello. Aveva un manto bianco che
più bianco non si può. Abbagliante. Sembrava
diffondere
luce propria, nella radura. Sotto la luna piena, con tutto il sangue
attorno, era uno spettacolo da mozzare il fiato.-
Myrcella ascoltò, incantata. Quando Rickon narrava le sue
avventure, si sentiva tornare bambina, con sua madre e la balia che
raccontavano leggende, soprattutto riguardo le imprese dei Lannister...
Adorava quelle storie. La voce di Rickon, poi, le speziava d'un sapore
inimitabile.
-Il manto era così magnifico che Osha quasi quasi se lo
voleva
prendere, ma poi scuoiarlo le parve un oltraggio troppo ignominioso, e
non l'ha fatto.- proseguì Rickon. -Poi ce ne siamo mangiato
un
po'.-
-Rickon!- gemette Myrcella, disgustata dall'idea e inorridita dal
crimine al tempo stesso.
-Che c'è! Tanto era morto, la carne non gli serviva
più.-
si giustificò lui, laconico. -Però ascoltami,
adesso ti
dico perchè ti regalo questo corno. E' l'oggetto
più
prezioso che ho, perchè non soltanto è
estremamente raro
e quindi costoso in maniera esorbitante, ma è anche un'arma
infallibile. La pietra di cui è fatto, a dispetto delle
apparenze, non la distrugge nemmeno l'acciaio di Valyria. Inscalfibile,
ti dico. Ci ho provato mille volte, e non si è fatto neanche
un
graffio. Penso che solo temperature pari al respiro di un drago
potrebbero liquefarlo. Poi è lungo, perciò se lo
affondi
nello stomaco di qualcuno lo trapassi da parte a parte. Con un po' di
fortuna, lo ammazzi sul colpo. Rompe qualsiasi osso, qualsiasi tessuto
muscolare, qualsiasi corazza di metallo... se al colpo impartisci la
necessaria forza fisica, s'intende. Allora, che te ne pare?-
Myrcella prese il corno fra le dita e lo rigirò sotto la
luce,
affascinata. -Sei tu quello che va in battaglia e ne avrebbe
più
bisogno.-
-Tu intanto sarai da sola con le guardie qui, e sei una preda piuttosto
ambita. Girare armata, da queste parti, di questi tempi, non
è
una cattiva idea. Se poi è una buona arma, ancora meglio.-
-No, non hai capito. Hai detto che è la cosa più
preziosa che hai. Perchè me la regali? E' tua.-
Rickon la fissò negli occhi. -La cosa più
preziosa che ho, per difendere la persona più preziosa che
ho.-
Non c'era un pizzico di stucchevolezza o di romanticismo nelle sue
parole, eppure Myrcella avvertì un tuffo al cuore. Le
tornarono
in mente le sue fantasie di bambina, il suo ricco lord, il suo prode
cavaliere, il suo bellissimo principe. Le parve che tutto
all'improvviso coincidesse, si riconoscesse e concordasse in un ordine
perfetto, simmetrico, alchemico. Le parve di essere di nuovo all'inizio
della storia. Il cerchio si chiuse e completò.
Si adagiò sul cuore del ragazzo che amava, infiammata,
inebriata, assordata da quella passione gravida di parole e silenzio.
Si chiese perchè la vita non potesse essere solo questo, solo e
soltanto questo,
per sempre, fino alla fine dei tempi. Si sentì al sicuro. Si
sentì a casa.
-Domani andrò,- ripetè Rickon, torvo, -ma non
piangere, quando partirò. Altrimenti potresti riuscire a
muovermi a compassione.-
Myrcella sorrise triste, scaldata dal lieve tepore di un ricordo. -Io
non piangerò mai davanti a te, Rickon Stark. Non ho cambiato
idea.-
Risero, ma fu breve. Quella notte durò
un'eternità ed
un istante, sofferta come una ferita da taglio, amata come una
benedizione, e come tutte le cose -sofferte o benedette che siano-
terminò.
All'alba, Myrcella Lannister non pianse.
***
-Cosa sarebbe a dire, che c'è
in arrivo una flotta?!-
Ecco, ce l'hanno fatta,
pensò Tommen. Mi
hanno trasformato nel re che volevano. Aveva
il fiato corto, gli occhi gonfi ed arrossati e la stanchezza sulle
guance: non si era mai sentito meno piccolo di
così, addirittura quasi invecchiato
in quelle poche ore. All'improvviso, l'imperativo di
gestire tutto quel che stava
accadendo gli succhiava la vita fin nel midollo delle ossa, come se
tutte le armi del mondo gli venissero gettate sulle spalle.
Era rimasto sbalordito, quando suo zio gli aveva riferito che sarebbero
tornati ad Approdo del Re. Sarebbe stato come autorizzare gli Stark ad
espugnarla! Non sembrava certo una strategia vincente. Avrebbero fatto
la figura dei codardi. Solo a quel punto Tyrion gli aveva fatto leggere
l'ultima lettera vergata dal pugno di Jojen Reed. Una vittoria
già predestinata, il trionfo in tasca, il trono ancora suo.
Un
futuro limpido.
-Andremo ad Approdo del Re, per il semplice motivo che Brandon Stark morirà
ad Approdo del Re.- aveva spiegato lo zio semplicemente. -Quindi
è lì che dobbiamo essere. Diamo una mano al
destino,
insomma.-
Tommen non era assolutamente convinto di tutto ciò, ed una
strana inquietudine proseguiva a perseguitarlo. Anche se si ripeteva
senza sosta ch'era immotivata, non c'era modo di scacciarla. Si fidava
ciecamente di suo zio Tyrion e, se lui credeva che questo l'avrebbe
condotto alla vittoria, voleva crederci.
Stava gestendo tre conversazioni nello stesso momento: lo scudiero che
gli stava domandando cosa ne avrebbe fatto delle Guardie Reali, un
messaggero che gli riferiva l'avanzata dell'esercito del Nord ed una
guardia che aveva un messaggio da parte della regina Margaery.
Perciò, in quel momento non aveva nemmeno un secondo da
concedere a suo zio; almeno, non lo aveva avuto finchè
Tyrion
non aveva preso fiato e urlato, per sovrastare il chiacchiericcio
generale: c'è
una flotta in arrivo al Golfo!
Tommen, ansante, si morse il labbro inferiore. Ti prego, fa' che abbia sentito
male. Fa' che abbia detto lotta. Oppure... calotta. O magari...
-Comandata dai Greyjoy.- precisò Tyrion,
cupamente. -A
quanto pare, la regina del Nord si è data da fare... ha
stretto
alleanze a destra e a manca. Mi sono permesso di dare ordine di
imbastire le navi, ma è comunque troppo tardi. L'attacco
è imminente... Siamo incalzati sia per mare che per terra.
Una fortuna, l'aver già
provveduto ai viveri per i prossimi mesi, perchè altrimenti
sarebbe un bel problema.-
Tommen agitò una mano con veemenza, per richiamare l'ordine.
In
mezzo a quel guazzabuglio, le voci si fondevano in un unico canto
disarticolato che discorreva in una lingua senza senso.
-Vi
prego, vi prego, non parlate tutti insieme! Non capisco nulla! Kurtis,
prima tu.- sospirò infine.
Lo scudiero abbassò lo sguardo.
-Ser Jaime chiedeva di essere
ricevuto, Vostra Grazia, e così ser Loras. L'ho impedito
loro,
dato che voi avete categoricamente ribadito di non voler vedere nessun
altro. Cosa dovrei...-
-D'accordo, d'accordo, che entrino.-
Tommen non riusciva proprio a
stare fermo sul trono. Scivolò giù da quell'irto
sedile
di lame e si liberò con stizza dallo scomodo abbraccio delle
spade; scese i gradini del trono, per poi cominciare nervosamente a
passeggiare avanti ed indietro, posseduto da un'irrequietezza
tormentosa. Quella gente voleva che lui prendesse delle decisioni... ma
non si rendevano conto, gli altri, di chi era il loro re? Un ragazzino
privo di qualsiasi esperienza, di qualsiasi erudizione bellica?
Perchè non si accorgevano di starsi affidando a mani
incompetenti? Era Tommen stesso che avrebbe voluto strillare vi prego, fate qualcosa! e
cedere ad un sonno centenario, lasciando tutto alla
responsabilità altrui. Erano due adesso le notti che aveva
passato in bianco, insieme a suo zio Tyrion, indicando alle guardie i
punti dove rafforzare le mura, posizionare le macchine anti-assedio e
le catapulte, schierare le file più esperte... Aveva potuto
dormire soltanto per sporadiche ore pomeridiane, sullo scranno di legno
del Concilio Ristretto, con il capo abbandonato sul tavolo. Il tempo
gli era assolutamente mancato: sbraitare ufficialmente rassicurazioni
ed esortazioni di fronte al popolo, apportando pure l'ulteriore impegno
d'apparire convincente, quando lui per primo si sentiva smarrito e
travolto dal corso degli eventi, lo aveva privato della
lucidità
e dell'ottimismo. Era ridotto ad un fascio di nervi e non riusciva a
tenere gli occhi aperti. Gli bastava distrarsi un attimo per mettere
alla prova la propria eroica resistenza e vedere la realtà
vorticare e confondersi ai suoi occhi. Mai aveva bramato il sonno, di
solito così largamente dato per scontato, come in quel
momento.
Avrebbe ucciso pur di permettersi il lusso di chiudere gli occhi, solo
per qualche minuto...
Jaime e Loras entrarono discutendo animatamente fra sè,
fianco a fianco. Era evidente che stavano litigando.
-... è fuori discussione. Rischia troppo. Deve partire
insieme ai suoi figli, subito.-
-Tommen non può permettersi la tua assenza. La
sua
incolumità è la prima cosa.
Il resto viene dopo, soprattutto la mogliettina fedifraga.-
tagliò corto Jaime, interrompendolo. Il Cavaliere di Fiori
aggrottò il viso ed il rancore lo attraversò come
uno
spasmo. Trattenersi dal portare la mano alla spada fu più
difficile del previsto.
-Cosa succede?- li apostrofò Tommen, impaziente.
Gli occhi azzurri di Loras lampeggiavano d'indignazione.
-Altezza, sono
dell'opinione che i vostri figli debbano lasciare immediatamente la
capitale, prima che sia troppo tardi... e con loro Margaery. Nonostante
i suoi errori,- sbottò, stroncando sul nascere la battuta
pugnace che Jaime stava per rivolgergli, -lei è ancora la
regina
dei Sette Regni e non possiamo permettere che le venga fatto del male.
La Fortezza Rossa è l'obiettivo del nemico. Lei e i suoi
figli
non possono restare nell'occhio del ciclone... Concordate con me, non
è vero, Maestà?- concluse ansiosamente,
rivolgendogli uno
sguardo così disperatamente affranto che per un istante
Tommen
percepì le proprie difese vacillare.
-Lo ritengo sconsigliabile.- tossicchiò Jaime,
affilando lo sguardo sarcastico. -La tua Fortezza è
esattamente la meglio difesa di tutti i regni. Non per niente si trova
nella capitale dei Sette Regni. In quale altro posto saranno
più
protetti, i tuoi figli, se non a portata di sguardo? Farli evadere dal
tuo controllo potrebbe rivelarsi un passo falso. Ti ricordo inoltre
che la regina Margaery è tutt'ora in arresto. Se la
liberassi,
potrebbe benissimo scappare e non farsi vedere mai più.
Visto
ciò che è successo, non mi sembra la
persona adeguata in cui riporre fiducia...-
Tommen fece un cenno della testa, svogliato. -Credete che non ci abbia
già pensato? Abbiate la cortesia di aspettare un attimo.
Come
procede l'esercito?-
Il messaggero si fece avanti. -Fra meno di un'ora saranno presso le
mura, Maestà. I suoi alfieri chiedono se i piani sono stati
cambiati o...-
-I piani non sono affatto cambiati.- Tommen misurò a lunghi
passi il pavimento di marmo fulvo, nervoso. -Che gli schieramenti
rimangano dentro la città e ne circondino le fortificazioni.
La
difesa di Approdo del Re è la nostra priorità...
se la
città cade nelle loro mani, è finita.-
Così lui
e Tyrion avevano stabilito. O meglio, lo zio lo aveva
stabilito ed
il nipote aveva dato l'ordine.
-Quindi i nostri uomini devono provvedere soltanto alla difesa?-
-Ed anche a sterminare l'esercito del Nord, fino a che gli Stark non
saranno costretti a ripiegare.- precisò Tommen.
Però ci
credeva sempre di meno. I suoi avversari avevano un numero sterminato
di truppe, sia delle Terre dei Fiumi sia delle regioni
settentrionali... per non parlare della flotta dei Greyjoy. Ma come avevano fatto
ad impossessarsene?! Ci mancava solo questo.
Solo allora la guardia si fece avanti, timidamente, intuendo il cattivo
umore del sovrano.
-Vostra Maestà... la regina vorrebbe parlarvi...-
-Quali sono le sue richieste?- sbuffò Tommen.
Egli esitò per un istante. -Chiede di poter fuggire con i
principini ad Alto Giardino. E poi-
Tommen rise. Non gli rimaneva altro da fare. Lo trovava atrocemente
spassoso. Fin a che punto avrebbe osato, Margaery? Davvero aveva una
così bassa opinione di lui?
-Ad Alto Giardino. Prima progetta di ammazzarmi, di soffiarmi il trono,
e poi vuole tornare ad Alto Giardino spensieratamente! Come se nulla
fosse! Con i miei figli!
Non
può davvero sperare che accetterò. Se lo chiede
ser
Loras, lo capisco. Le vuole bene. E' sua sorella. Non si smette mai di
amare le proprie sorelle.- La sua bocca si storse in una smorfia
dolorosa. -Ma lei stessa! Implorare salvezza per sè, dopo
tutto
quello che ha fatto! Che sia la regina, ha ben poca importanza. Lei ha
complottato alle mie spalle. Questo è alto tradimento. A
quale
prigioniero accusato di alto tradimento al mondo viene permesso di
tornarsene a casa?! Di' alla regina Margaery che la sua
volontà
ha smesso d'importarmi. So prendermi cura dei miei bambini, e lo
farò da solo. Quando tutto questo sarà finito,
allora, e
solo allora, glie li farò rivedere. Forse. Sono stato
chiaro?!-
La guardia balbettò ch'era chiarissimo e schizzò
via
dalla sala in tutta fretta. Tommen, estenuato dalle troppe emozioni, fu
costretto a sedersi di nuovo su quello stupido trono di spade. Proprio
come Jaime aveva predetto, stava cominciando ad odiarlo.
Congedò tutti, fuorchè i suoi zii e ser Loras.
Quando la porta sbattè alle spalle dell'ultimo uomo, Tommen
si rivolse a Tyrion.
-Cosa possiamo fare per contrastare la flotta?- domandò,
poggiando il peso della testa su una mano.
Tyrion scrollò le spalle. -Far sgozzare capretti dai septon,
immagino. La nostra flotta è già schierata, ma
non
è abbastanza numerosa nè fornita di uomini o
armi.
Imbastita troppo alla svelta. Non perdere la speranza, Tommen...
Approdo del Re ha resistito a molti assedi. Lo farà di
nuovo.-
cercò vagamente di confortarlo, a disagio. Il problema era
che
anche la sua fiducia nel futuro esitava. Bran Stark sarebbe presto
morto: quell'unica certezza gli permetteva di intravedere la fine di
quella guerra.
Loras fece un passo avanti. -Vostra Maestà, non vorrei
sembrare
insolente, ma vi prego di prendere una decisione circa mia sorella e i
gemelli. Io sono disposto ad accompagnarli al sicuro, ovunque voi
riteniate giusto. Vi supplico...-
Tommen arrestò il flusso delle sue preghiere con un gesto di
salda fermezza. -Ho ascoltato la sua proposta, ser, e ho preso una
decisione. La regina mia moglie resterà qui, nelle segrete
del
castello, come si confà ad una traditrice; ed allo stesso
tempo,
farò in modo che abbia a disposizione un passaggio segreto
tramite il quale fuggire, in situazione d'emergenza. I miei figli
invece non rimarranno qua. Devo soltanto decidere a chi affidarli. No,
ser Loras, è fuori discussione. Ho bisogno delle mie guardie
più fidate e valenti in questa guerra.- aggiunse
precipitosamente.
Loras sospirò; evidentemente non era ciò che
sperava di
ottenere, non era soddisfatto del responso, ma tacque. Jaime sorrise.
-Mi proporrei io, ma ho un conto in sospeso con Rickon Stark che ci
tengo a saldare.-
-No, anche tu mi servirai.- decretò il giovane re. -Ci
penserò su...-
Tyrion alzò la mano. Sul viso attraversato dalla cicatrice,
aveva uno dei suoi tipici ghigni furbeschi.
-Lascia che me ne occupi io. Ho già in mente tutto
il piano
bell'e predisposto.-
-Zio Tyrion? Credi davvero che riusciresti a portarli via, sani e
salvi?-
Tommen non era molto convinto, ma suo zio dissentì con
il capo. Sapeva benissimo che un nano come lui non sarebbe mai stato
all'altezza del compito. Primo, era assai ben riconoscibile; secondo,
non avrebbe potuto difenderli con la spada, in caso di
necessità.
-Non io, nipote. Sarà Podrick Payne a farlo.-
Tommen inarcò le sopracciglia stupito. -Payne?-
La partenza fu stabilita per quello stesso pomeriggio.
Era uggioso, umido, irritante a fior di pelle; con gli occhi
invasi dalle lacrime, per colpa della luce d'un biancore pungente,
Podrick Payne faticava a sostenere lo sguardo di Tyrion Lannister. Il
Folletto lo attendeva nelle scuderie della Fortezza Rossa, sotto una
tettoia, con uno sguardo imperscrutabile e, come sempre, assorto in
qualche cupo e grave pensiero. Al suo fianco, due figure -una
più alta, una simile a Tyrion- si stagliavano silenziose al
suo
fianco, il viso celato da un mantello.
Podrick esaminò i due sconosciuti, incuriosito. -Mio
signore, posso chiederti che cosa...?-
-Ti voglio incaricare d'un compito della massima importanza.-
annunciò il Folletto, senza distogliersi dalla sua strana
apatia. Dopo tanti anni passati insieme, al suo servizio, Podrick aveva
imparato che quando egli diceva così c'era da preoccuparsi.
-E... cioè?-
Sotto il suo sguardo trepidante, le due figure si scrollarono i
cappucci dal volto. Quella più alta era una donna, di
bellezza
esotica, con allungati occhi umidi e scuri, i capelli neri acconciati
frettolosamente in una treccia scompigliata; quella minuta
era una
bambina, dalla chioma chiara come il sole ed il sorriso furbo, acceso
d'intelligenza, vestita di una tunica sbrindellata.
Podrick rimase senza parole. -Cosa...-
-Ti presento la mia donna e mia figlia.- esordì Tyrion,
saltando i preamboli. -Belle, vero?-
Il ragazzo lanciò un'occhiata incredula alla piccola: si
accorse
con sconcerto che effettivamente l'espressione astuta era quella del
Folletto, tale e quale.
-Ciao! Io mi chiamo Cailee. Tu come ti chiami?- chiese con una voce
cristallina e melodiosa. Prima che potesse rispondere,
-E questi due giovanotti li conosci già.- aggiunse Tyrion,
facendo un cenno verso la donna, che stringeva fra le braccia due
fagotti: l'uno avvolgeva Nathaniel Lannister, l'altro il suo gemello
Lionel, saporitamente ed appassionatamente addormentati. Podrick
avvertì un brivido impalarlo dalla testa ai piedi. Merce
pericolosa, quella.
Cercò vanamente una via di fuga. -Mio signore, io cosa mai
potrei...-
Tyrion gli rubò la parola, indifferente. -Ti affido i due
lattanti più importanti di Westeros e le due
donne più importanti della mia vita. E lo faccio esattamente
perchè sei l'unica persona di cui io mi fidi al mondo. Vedi?
Sei
l'unico ad avere un primato assoluto...-
-Io non penso di esserne in grado, signore. Dove le dovrei portare?
Cosa accadrà se ci tendono un'imboscata strada facendo? Ci
sono
tanti altri cavalieri migliori di me che-
-Non voglio nessun fottuto cavaliere, Pod. Ti sbagli: tu sei proprio l'unico ad
esserne in grado. In che posto le potresti mai portare, se non a Castel
Granito?
Una capatina a casa, in parole povere. Starete lì per tutta
la
durata della guerra, e... se la situazione non si evolverà
come spero...
ti contatterò e darò indicazioni in seguito. Per
non
correre il rischio di imbattersi in qualche carovana che vi fermi, vi
ho portato mantelli con i colori degli Stark. Se fosse gente dei nostri
a beccarvi, non dovete far altro che farvi riconoscere grazie a questo
foglio, che ho siglato per te. Nel caso in cui qualcuno ti chieda
qualcosa sui bambini, sono i figli tuoi e della tua, ehm, concubina,
cioè Shae. Invece farete passare Cailee per una cugina nata
nei
bassifondi. E' tutto chiaro?-
Podrick capì che quella non era una semplice richiesta,
bensì un ordine. Chinò il capo ed
annuì
solennemente.
-Come desideri, mio signore.-
Il tono di Tyrion si fece più allegro. -Non preoccuparti,
Pod,
Shae non è una sprovveduta. Usa la daga niente male.-
-Meglio di voi di sicuro.- ghignò lei.
Tyrion le dedicò una lunga occhiata di rimpianto. In
effetti,
quando lei si era presentata alla Fortezza Rossa chiedendo di lui,
tutta scompigliata ed atterrita, con Cailee per mano, aveva provato
davvero il sapore del panico in bocca. Shae era preoccupata per
l'incolumità della loro figlioletta: se gli uomini del Nord
fossero penetrati in città, cosa che non era purtroppo da
escludere, magari avrebbero saccheggiato le case e fatto del male agli
indifesi, come accadeva sempre durante gli assedi. Tyrion sapeva
infatti che Bran e Rickon sarebbero morti, ma non sapeva quando, se
prima o dopo aver procurato tutti quei guai. Non poteva permettere alla
piccola di correre quel pericolo.
Come mantenere l'anonimato di loro due e metterle in salvo
contemporaneamente? E così gli era venuta in mente l'idea di
prendere due piccioni con una fava, e salvare sia i gemelli che Cailee.
Odiava l'idea di doversi staccare da Shae per molto tempo,
però
perlomeno sarebbe stata al sicuro. Una sola costante in quell'oceano di
dubbi e forse. Sì, era necessario: a costo di rinnegare il
primo
dei desideri che aveva espresso riguardo la sua morte, ovvero,
più precisamente, il modo
in cui avrebbe voluto morire.
-Su, presto, andate. Fra poco sarà impossibile allontanarsi
da
qui.- Tyrion cercò di non drammatizzare; il sarcasmo era
sempre
stato il rimedio migliore a qualsiasi ferita il destino gli avesse mai
imposto, e non l'avrebbe ripudiata nemmeno adesso.
Si voltò verso
la figlia e la osservò con affetto. Sì, in
effetti gli
somigliava, per il brillio nei loro occhi e qualcosa d'indefinibile nel
viso; per il resto, aveva preso ciò che c'era di meglio da
sua
madre. Era una bambina molto sveglia, e avrebbe imparato tutto quel
ch'era di dovere per sopravvivere a questo mondo. Ce l'avrebbe fatta
anche senza di lui, nel caso in cui... no, non voleva pensarci.
-Devi fare la brava, capito? Obbedisci alla mamma, e tutte quelle cose
che si dicono di solito.- ordinò, passando una mano fra i
suoi fini capelli biondi.
Cailee tirò su col naso. -Anche mangiare i broccoli?-
Tyrion la rassicurò. -No, i broccoli puoi anche lasciarli
stare.-
La bimba si guardò i piedi, le sopracciglia aggrottate in
un'espressione contrita. Al Folletto si spezzava il cuore, a vederla
così.
-Perchè dobbiamo andare via, papà? E dove
andiamo?-
-Vai con questo signore, lo vedi?- Tyrion indicò Podrick,
che
sorrise ed accennò un saluto poco convinto con la mano. La
bambina lo esaminò, riluttante ed ancora un po' angosciata.
-Ha
una faccia simpatica, vero? Ecco,
lui è un mio amico, e ti porta in vacanza.- Il padre prese
quelle piccole mani fra le sue e le strinse
forte, guardandola negli occhi. -Tu scrivimi tante
lettere, visto che hai imparato, e raccontami tutto quello che fai. Ne
voglio due al giorno, capito?-
Cailee sorrise dietro un lieve velo di lacrime che le inumidiva gli
occhi. -E io te ne scrivo tre.-
-Tre, bene.- Tyrion fece di tutto e di più per non cedere
anch'egli all'emozione e si limitò a trarla a sè,
percependo quanto mai prima il significato della propria impotenza.
Ricordò quando Cersei, un
tempo, gli diceva che non esisteva amore paragonabile a quello di un
genitore per un figlio... ebbene, su questo doveva darle pienamente
ragione. Schioccò un ultimo bacio sulla fronte della figlia,
prima di rivolgersi a Shae.
Era giunto il momento di salutare anche lei. Non potè fare a
meno di pensare a Joanna, a Tysha, a Sansa, a tutte le donne che in
qualche modo avevano preso parte alla grottesca messa in scena ch'era
la sua vita e che, in qualche altro modo, il destino aveva revocato con
il suo potere insindacabile. Non potè fare a meno di pensare
che quello, se tutto fosse andato storto, sarebbe stato l'ennesimo
addio.
-Stai attenta a non innamorarti di Pod. Lui è mio, chiaro?-
-Farò quel che posso.- rispose Shae, con un sorriso.
-Finalmente ti sei liberata di me.- aggiunse Tyrion, mentre la madre
caricava la figlia sul suo cavallo e Podrick assicurava la propria
sella.
Shae salì in groppa a propria volta e raccomandò
la
figlia di starle aggrappata; poi, dall'alto, lanciò
un'ultima
occhiata staffilante all'uomo che amava. Ancora molte parole rimanevano
fra di loro: stai
attento, stai attenta, fa' che nostra figlia si ricordi di me, tornaci
a prendere, mi dispiace. Rimasero lì, a
mezz'aria, come spettri sgraditi.
-Non mi libererò mai di te, Folletto.- dichiarò
Shae. Un alito
di vento infido la ghermì la lunga treccia
inframmezzata da un nastro, ed il velo prezioso del suo mantello blu
s'inarcò voluttuoso nell'aria limpida di freddo.
Tyrion, scambiandosi uno sguardo penoso e preoccupato con Podrick,
osservando scomparire progressivamente le sue donne dal proprio
orizzonte, credeva di avere raggiunto il vertice dello sconforto.
L'unica cosa che poteva sperare era l'arrivo d'un notizia,
cioè
che Rickon Stark era stato pugnalato nel suo letto da Myrcella,
cioè il segnale che le profezie del veggente avevano
cominciato
a realizzarsi.
E infatti una notizia giunse, il giorno seguente, ma ben
differente da quella che aspettava.
***
-È un cervo, quello?-
-Ci sono solo lupi e trote, Maestà. Quella che vedete
dev'essere
l'insegna di Stannis Baratheon... patetico.- commentò Jaime.
Tommen strizzò gli occhi, cercando di focalizzare lo sguardo
sull'immensa massa di corpi umani che avanzavano là in
basso. In
realtà, non sembravano nemmeno persone. Le loro armature
rispondevano ai raggi del sole con ammiccamenti abbacinanti, come se si
trattasse d'un nugolo di grossi scarabei grigiastri, che camminavano
con un ritmo imperterrito e sempre uguale a se stesso. Ta-ta-tam,
ta-ta-tam, ta-ta-tam. Tommen si ritrovò quasi a
fischiettarlo
fra sè; poi, nel timore che qualcuno potesse sentirlo,
tacque.
Le dita fradice del vento correvano a carezzare la porzione di pelle
scoperta, fra l'elmo e la cotta di maglia: un brivido raggiunse la
fibra stessa dei suoi muscoli, ma lui non ci fece troppo caso. Era
impegnato a prendere coscienza di tutto ciò che lo
circondava.
Era tutto nuovo, per lui: i trombettieri di guerra, le schiere massicce
e compatte, le urla che si levavano selvagge ad infrangere la tensione
di cui l'aria era permeata. Il cielo, gravido di pioggia, palpitava un
colore ibrido fra quello della rena e della noia. La natura stessa
pareva in sospeso, lungimirante, in attesa del putiferio che di
lì a poco si sarebbe scatenato, violando l'asettica
atmosfera di
schizzi rossi. Da lassù, fra i merli delle alte mura di
Approdo
del Re, spazzare via tutti quegli omuncoli pareva terribilmente facile.
Il respiro degli uomini che gli stavano al fianco vibrava impaziente.
Suo zio Jaime aveva un'espressione torva, quasi che si immaginasse di
veder spuntare Rickon Stark dalle prime file, con un sorriso malvagio;
con indosso la fiammante corazza dei Lannister, adornata di leoni
rampanti, sembrava personificare qualche demone della mitologia antica.
La sua inquietudine per un attimo adombrò la fremente
eccitazione di Tommen. Loras Tyrell era più tranquillo;
sedeva
comodamente sulla sella intarsiata d'uno stallone bianco ed aveva
attorcigliato alle dita le redini di cuoio morbido, lo sguardo perso da
qualche parte fra i suoi pensieri, a scivolare con serena competenza da
una parte all'altra dell'esercito all'orizzonte. Le labbra erano
schiuse in un'espressione assorta e un piede, calzato nello stivale,
ondeggiava pigro fuori dalla staffa. Egli portava un'armatura
d'argento, con scolpito lo stemma della rosa in lamine d'oro sul
pettorale e un elmo riccamente decorato, non ancora calato sul volto.
Altri valenti cavalieri della Guardia Reale, fra cui un Hightower ed un
parente Lannister, rimanevano algidi e statuari nel loro silenzio ed
immobilità.
Proprio perchè tutti loro non protestavano, Tommen non
osò lamentarsi per il terribile carico che l'armatura gli
gravava addosso. Faceva persino un po' fatica a muoversi, ed era
contento che ci fosse il cavallo a correre per lui. Altrimenti mi ammazzerebbero in
un istante, pensò. Adesso
non aveva intenzione di fare i capricci e lamentarsi, non era il
momento giusto, però per il giorno successivo promise che se
ne
sarebbe fatta forgiare una più adatta.
Lo stemma del matalupo avanzava in testa. Anche se ancora non riusciva
a distinguere nemmeno un viso, Tommen sapeva già che il Re
Metamorfo non c'era: la guerra non è di competenza degli
storpi,
dopotutto. In un certo senso, l'idea lo tranquillizzava; tante volte
aveva cercato di visualizzare quegli occhi assassini, capaci di dare la
morte con il solo sguardo, ed aveva sempre sperato di non poter
constatare quanto la sua fantasia s'avvicinasse al vero. Per quanto
riguarda Rickon, ancora gli bruciava l'infamia d'averlo avuto di fronte
e di non essersi battuto con lui. In questo modo aveva dato corda a
quelle dicerie che lo volevano inetto, codardo e spaventato, poco
più che un bambinetto: ma lui era cresciuto, e i Sette Regni
se
ne sarebbero presto resi conto.
-Ecco Stannis. Lo vedo.- annunciò Loras, con voce funerea,
digrignando i denti.
-Bello come sempre.- concordò Jaime, asciutto. Tommen
rivolse
un'occhiata circospetta alla figura ancora alta ed imponente di suo
zio. Rammentava quando, ancora piccolo, aveva fin da subito notato la
differenza fra quell'uomo austero e rispettabile e suo padre, che non
avrebbe intimorito neanche un furetto; a quell'epoca, quando gli veniva
chiesto di salutare Stannis, s'inciampava sempre nelle parole per
l'emozione. Ma adesso era un uomo, maledizione, e aveva il diritto di
guardare in faccia chi voleva.
-Chi c'è al suo fianco?- domandò Hightower. Jaime
aguzzò lo sguardo.
-Non ne ho idea. Chiunque sia, ha una bella stazza. Magari una guardia
personale?-
-Nessuna guardia indossa armature simili.- rimbeccò Loras,
che
aveva accostato una mano al viso per scorgere meglio i diretti
interessati.
Tommen seguì il suo sguardo. Accanto al cavallo baio di
Stannis,
un giovane cavalcava uno stallone non meno maestoso; e il re
capì l'insinuazione di Loras riguardo l'armatura,
perchè
in effetti il ragazzo indossava un elmo sontuoso, con scolpito
lateralmente il muso del cervo dei Baratheon.
-Un parente Baratheon? Possibile?- si stupì a sua volta.
-No.- tagliò corto Jaime. -Mi sembra poco probabile. Se
Stannis
avesse avuto un figlio maschio, oltre che quella sventurata ragazzetta,
lo avrebbe sfruttato a iosa per la sua rivendicazione al trono.-
-È pericoloso stare qui, Maestà.- lo interruppe
Loras,
lanciando un'occhiata truce agli arcieri che si avvicinavano. -Meglio
ritirarsi al riparo.-
Tommen annuì svogliato e lo seguì, tornando
così
nell'accogliente ventre della città dov'era nato. Gli era
sembrato di affacciarsi su un mondo completamente diverso, distante dal
suo come quello terrestre lo è da quello marino. Il fragore
delle armi, gli strepiti dei soldati, gli stendardi che tagliano
l'aria, schiaffeggiati con veemenza dal vento... Tutto ciò
risultava nuovo, ma non per questo inconciliabile. Questo avrebbe
potuto essere anche il suo, di mondo -avrebbe dovuto esserlo,
s'era ancora intenzionato a diventare re.
E poi, un silenzio quasi tragico calò con la rapida fretta
d'un
lampo fuori posto. Fu come istintivamente Tommen percepì a
fior
di pelle: cadde il tuono.
-Piegatevi a Gendry Baratheon, primo del suo nome, re degli Andali e
dei Primi Uomini!-
Tommen irrigidì le spalle, come se la brezza di quella
giornata
fosse finalmente riuscito a penetrargli nella carne ed immobilizzarlo.
Jaime Lannister tornò sui suoi passi, salendo rapido le
scale
della fortificazione, con il cuore in gola. Quel che vide, quando si
affacciò nuovamente ai merli, lo
atterrì.
Una donna si era fatta avanti, insieme al ragazzo dalle spalle larghe e
i capelli neri; tutto l'esercito li circondava a diversi metri, quasi
nell'intento di non sottrarre ai protagonisti l'attenzione che
meritavano. Al fianco del cavallo su cui sedeva il giovane, lei
s'ergeva con le tracce d'una febbrile esaltazione sul
viso. Una
massa
di capelli scuri come l'ebano ricadeva riccia e gonfia sulle sue spalle
esili, le guance leggermente erano un po' incavate ed il volto
allungato; gli occhi, grigi ed affilati, erano affogati in peste ombre
buie. Non indossava nemmeno un'armatura, ma solo una casacca di pelle e
una grossa pelliccia d'animale drappeggiata sulle spalle come un
trofeo.
-No.- biascicò Jaime. -Non può essere.-
Invece era proprio la piccola degli Stark; o meglio, quel che ne
restava. Ma perchè accidenti questi Stark avevano
l'abitudine di
resuscitare dal mondo dei morti?! Era quasi un paradosso: Cersei un
tempo l'aveva fatta cercare per mari e monti, nella convinzione che la
bambina fosse miracolosamente sopravvissuta, senza successo; ed ora
rieccola lì, con qualche anno in più e una spada
alla
cintura.
Arya afferrò la mano del ragazzo che vestiva i
colori dei Baratheon, molto più grande della sua, e la
sollevò in alto. Scandì le parole con lapidaria
chiarezza, rivolgendo un'occhiata quasi severa alla fortificazione
della città.
-Arrendetevi
all'erede al trono, oppure subite l'assedio e morite. Questo
è
il vostro legittimo sovrano. Spodestate il vostro ragazzino e deponete
le armi. È la vostra ultima possibilità.-
La sua voce risuonò al di sopra delle teste, delle nuvole.
Parve
un grido di guerra. Il sorriso placido di quella ragazza dimostrava
ch'ella sperava
vivamente che non l'avrebbero fatto.
Il presunto principe le rivolse un'occhiata così
dannatamente reverente che Jaime intuì all'istante. Ecco come se li trovano, gli
alleati, gli Stark... Quando il ragazzo prese la parola,
persino il vento parve trincerarsi in un silenzio rispettoso.
-Popolo di Approdo del re, il mio nome non è Baratheon:
è
Waters. Tristemente conosciuto, da queste parti. Ebbene, io non sono un
principe. Non sono cresciuto in quella fortezza- allungò una
mano ad indicare la Fortezza Rossa, le cui torri affilate si
stagliavano contro il cielo, -e mio padre non mi ha mai chiamato
figlio. Nonostante ciò, la mia pretesa al trono è
attualmente la più valida. Tommen Lannister, dinnanzi al
quale
vi inchinate, è frutto dell'incesto fra Cersei Lannister e
suo
fratello. I complotti per portarlo dov'è ora hanno mietuto
molte
vittime, ma sto per mettere fine a tutto ciò.- Prese un
respiro
profondo. Era evidentemente allarmato, ma in lui non c'era agitazione o
incertezza: era solamente posseduto da un furore acquiescente, dominato
con destrezza. -Non voglio uccidere gli innocenti, nè
distruggere la
città, nè serbare rancore. Non sono venuto a
portarvi la
guerra, ma la pace, e non posso che augurare la prosperità
del
nostro regno. In nome del mio sangue, il
sangue del vostro amato sovrano, sono venuto a reclamare
ciò che è mio e che mi spetta, e che al momento
è
caduto in mani empie ed immeritevoli. Non chiedo vendetta:
riconoscete i miei diritti e non verrà versata nemmeno una
goccia di sangue. Il regno
dei leoni è durato fin troppo a lungo!-
Quelle parole furono seguite da un boato di approvazione da parte
dell'esercito del Nord. L'insegna del cervo, contrapposta a quella del
cervo e del leone di Tommen, sventolò sollevata in alto. Viva re Gendry, lunga vita a re
Gendry Baratheon.
Jaime avrebbe pure riso, se la situazione non si fosse fatta
così drammatica. Un bastardo di Robert? Come aveva fatto a
sopravvivere? Joffrey aveva ordinato di ucciderli tutti... possibile
che quello fosse sfuggito al proprio destino? Eppure non c'erano dubbi:
bastava guardarlo per capire quale fosse la sua origine. Era tutto un
complotto degli Stark, appariva piuttosto evidente: per essere un
bastardo cresciuto ad Approdo del Re, parlava come un lord. Lo aveva
addestrato per benino. Quell'armatura, quel discorso... tutto molto
toccante e commovente. Giusto per smuovere i cuori dei cittadini.
Cosa avrebbe potuto fare, a quel punto, il piccolo Tommen? In
verità, Jaime cominciava a pensare che la fuga fosse la loro
ultima soluzione.
Fu allora che una freccia corse a squarciare la gola di Arya Stark. Lei
la
strinse fra le dita, afferrandola a mezz'aria, e la spezzò
con un
movimento fluido ed un suono secco. Gendry contrasse la mascella ed
aggrottò la fronte.
Fu l'inferno. L'esercito si scagliò contro le mura, come un
predatore che fiuti il sangue; la pece bollente cominciò a
colare rapida come inchiostro sulle mura, una pioggia di dardi e frecce
precipitò fitta e le spade si scontrarono in uno stridio
assordante. I cittadini, rintanati all'interno della fortificazione,
assistevano sconvolti e sgomenti. Alcuni avevano abbandonato la
città da diversi giorni, ma era difficile sia trovare una
nuova
sistemazione sia scappare con tutta la famiglia.
Jaime si affrettò a raggiungere Tommen. Suo figlio aveva lo
sguardo fisso davanti a sè, con il braccio cercava qualcosa
a
cui appoggiarsi. Loras lo sorreggeva: negli occhi del Cavaliere di
Fiori c'era solo il nero presentimento d'una fine funesta.
-Dobbiamo portarlo via.- tagliò corto Jaime, mentre un
panico incalzante gli pungolava le ginocchia, gridandogli di correre e correre e correre.
Tommen d'un tratto contrasse le palpebre, smarrito, quasi
che si
destasse da una strana allucinazione. -Ma io devo combattere, devo dare
l'esempio ai soldati...-
-I soldati si daranno l'esempio da soli.- bofonchiò lui. Il
giovane re non ribattè; balzò sul suo destriero e
schioccò le redini, seguendo ser Loras, che lo stava
conducendo
in salvo -non verso la battaglia, dove c'era bisogno di loro, ma dalla parte opposta.
Tommen aveva voglia di urlare. Un pianto amaro, che nulla aveva a che
fare con la paura dei vili o con la stizza dei bambini,
minacciò
le sue iridi smeraldine; dovette tormentare il labbro inferiore con i
denti per trattenerlo.
Quello era il suo popolo, e Tommen in quel momento avrebbe dovuto
essere là, a difendere la città, e pronunciare un
discorso per stornare quelle calunnie... sempre le solite calunnie.
Perchè quella gente non si stancava, una volta per tutte, di
ingiuriare il ricordo della sua povera madre? Perchè tutti
avevano compassione del povero
Rickon Stark, quando Cersei Lannister era stata sgozzata come una cagna
solo diversi mesi prima?! Tutto tramontava, lento ed inesorabile. Prima
lo sterminio a Runestone, i funerali, l'espressione severa di Tywin
Lannister, coricato nel feretro imbottito di velluto cremisi, i boccoli
di Cersei baciati dal sole per l'ultima volta; l'assenza abissale di
Myrcella, il suo tradimento, che era stata una fonte di dolore ancora
peggiore; la scoperta del complotto di Margaery, delle sue bugie. Ormai
la vita di Tommen era diventata un castello di carte, di cui il destino
stava perfidamente sezionando i tasselli, per svelarne l'intima
precarietà. Lo
vedi, ragazzo? Nessuno ti ama e tu non sei felice, sei solo. Non te
n'eri accorto, vero? E questo a partire dalla morte di
Joffrey.
-Che se lo tenga, quel Gendry, il Trono di Spade. Io non lo voglio.-
Non si trattava del piagnisteo di un bambino. Tommen aveva sedici anni.
I suoi occhi erano ormai freddi come quelli di sua madre, ed allo
stesso tempo saggi come quelli di suo padre. Sulle sue labbra giaceva
la disillusione. La corona sul suo capo non riluceva più. Che se lo tenga, quel Gendry,
il Trono di Spade.
No, quella che aveva appena espresso era una rivelazione, dedusse
Jaime. Era un peccato. Avrebbe preferito che la
vita concedesse a
suo figlio di scoprire la verità più avanti. Io non lo voglio.
-Temo che sia troppo tardi.- dichiarò con un sospiro.
-Troppo tardi per cosa?-
-Troppo tardi per qualsiasi
cosa.-
La battaglia imperversò fino a che non sopravvenne il buio,
quando le trombe annunciarono la ritirata dell'esercito del Nord ai
propri accampamenti. Quello fu il primo giorno. Ce ne sarebbe stato un
altro, e un altro; quello successivo, tutto
sarebbe ricominciato
da capo. Approdo del Re tratteneva il respiro, lorda di sangue, in
attesa che il verdetto venisse proclamato ed il vincitore aggiungesse
una spada alla collezione del Trono.
***
Quella sera, Tyrion aveva trovato Tommen nella sua stanza che, aiutato
da un servo, stava
levandosi di dosso un'armatura decisamente troppo pesante per il suo
corpo. Eppure non aveva protestato per tutto il tempo, il giovane re,
stando a quanto si raccontava: si era limitato a stringere i denti e
sostenere le mole delle grosse
piastre di ferro sulle spalle. Non aveva combattuto al pari degli altri
guerrieri, era rimasto in disparte circondato dai suoi cavalieri,
però s'era presentato sul campo di battaglia -ch'era
più
di quanto avesse fatto Brandon lo Storpio.
Ebbene sì, anche lui sta cambiando, questo fu
il pensiero che attraversò la mente di Tyrion. Cersei sarebbe forse stata
orgogliosa di lui?
-Spiegatemi esattamente cos'è successo.- ordinò,
ricordando di aver già vissuto un momento simile, quando il
giovane re era tornato reduce dalla disfatta di Runestone.
Lo sguardo di Tommen aveva un'espressione vagamente vacua. Bucava il
pavimento con una fissità un po' inquietante. -Significa che
non
hai saputo?-
-Non nei dettagli. Ho sentito parlare di un tale Gendry, ma non capisco
cosa-
-Il veggente non parlava di bastardi reali in giro per Westeros,
giusto?- domandò il ragazzo, senza rabbia nè
livore. I suoi occhi erano lividi
d'insonnia, le palpebre tremavano leggermente. Il Folletto era
completamente disorientato.
-Parla chiaro.-
-Gli Stark si sono procurati un tale Gendry Waters chissà
dove. Un
figlio illegittimo di mio padre, che crede di avere più
diritto
al trono di me. Che vuole
il
trono.- Tommen allargò le braccia e le lasciò
ricadere
contro i fianchi. -Quando dovrebbe arrivare questa famosa disfatta
degli Stark? Ogni ora che passa, trovano un nuovo alleato, a quanto
sembra.-
Tyrion avvertì il cuore pulsargli fra le tempie.
-Un figlio
bastardo di Robert Baratheon... E perchè mai qualcuno
dovrebbe
prestar fede a queste dicerie? Se fosse così facile
reclamare
diritti al trono...-
-A quanto pare, è identico a lui da giovane. In pratica, sto
per
essere ripudiato per una questione genetica: lui ha i capelli neri ed
io no.- osservò lui. -L'unica cosa che mi rasserena,
è
che... i gemelli sono al sicuro. Che non capiterà nulla,
almeno
a loro.-
Fu a quel punto che Tyrion capì che, da quella guerra,
nessuno
ne sarebbe uscito vivo. La realtà si smascherò
sotto i
suoi occhi con un'evidenza strabiliante e spaventosa allo stesso tempo.
Come può un
veggente arrivare
in ritardo? Come può arrivare in ritardo per inviare una
lettera? Come può scrivere che Tommen Lannister
avrà un
figlio quando era ormai evidente che ne aveva due?
Jojen Reed l'aveva mosso come una pedina. L'aveva condotto dove voleva
condurlo, aveva manipolato i suoi pensieri e le sue strategie. L'aveva
mandato dritto dritto nelle fauci dei lupi. Proprio lì
dov'era
per gli Stark più conveniente che finisse. Era proprio vero,
che
le guerre le vincono quelli che non impugnano le armi.
Il terreno gli mancò sotto i piedi. Per un attimo, fu la
fine.
Quello successivo, il suo cuore scandì un battito. No,
assolutamente no. Questo voleva il nemico, fargli perdere
l'orientamento, farlo impazzire. Bisognava mantenere i nervi saldi...
C'era ancora qualche speranza, in fondo. Fintanto che Tommen sarebbe
sopravvissuto, nulla era perduto.
La mente di Tyrion, come faceva sempre nei casi più
disperati,
cominciò a lavorare, a comporre, a macchinare. Un piano
prese
forma, con l'inclemenza dei calcoli che devono salvare la vita. L'unica
speranza del regno dei Lannister. L'unica speranza dell'intera
famiglia...
-Rickon Stark ci truciderà come ha fatto con mia madre e mio
nonno, vero?- La voce di Tommen era piatta, tagliente.
-Lo sai perchè Rickon Stark non sopravvivrà a
questa
guerra?- ribattè Tyrion, lentamente. -Perchè non
ha paura
di niente.-
-E quindi?-
Tyrion alzò gli occhi, fino ad incrociare gli occhi del
nipote.
-E quindi sta' a sentire. Forse possiamo rimediare a tutto questo
scempio e a tutti i danni che il maledetto Baratheon è
venuto ad
arrecarci.-
Il tempo stringeva: il Folletto cominciò ad esporre, svelto
ed
affrettato, mentre la guerra taceva, in attesa di scatenarsi alle prime
ore dell'alba.
***
-Ed ecco che è giunta al termine un'altra giornata da
sballo, in questo posto da sballo.-
Lingue affilate di luce sfrigolavano sulle pareti buie di pietra
consunta, asciugandone l'umidità; il sepolcrale silenzio che
vigeva era disturbato soltanto dal mite borbottio delle posate e dal
sospiro del vino che scorreva lungo il collo della brocca fino alla
coppa.
Yara Greyjoy vuotò l'ennesimo boccale e poi
continuò a
giocherellarlo fra le dita, con le sopracciglia irosamente ravvicinate
e lo sguardo d'ossidiana fisso da qualche parte fra le candele di un
lampadario. Ella teneva la sedia molto discosta dal tavolo e le gambe
distese accavallate con indolenza sulla superficie di legno grezzo.
Nessuno aveva avuto voglia di rimproverarle quelle maniere, di prestare
attenzione a cose simili. Tutte sembravano troppo intente a questioni
più grandiose ed importanti.
Shireen, dopo una breve occhiata circospetta, s'era accorta d'essere
l'unica a portare la gonna. Yara non sembrava conoscere il significato
di quella parola, Osha aveva ripiegato su uno dei suoi vecchi abiti,
"perchè erano più comodi", e persino Meera aveva
preferito vestirsi in maniera da non essere impedita, casomai avesse
dovuto combattere. La principessa dei Sette Regni non si sentiva
intimorita o a disagio: tutt'altro, le sembrava d'avere il privilegio
d'essere protetta costantemente dal più efficiente corpo di
guardia del
creato. Sorrideva a tutte e chiacchierava con una certa
vivacità.
L'unico dettaglio a rovinare l'atmosfera, ad inquietare le commensali,
era il pensiero
quasi imminente dell'arrivo di Ramsay Bolton.
-Quando arriverà, saremo pronti a riceverlo.- O almeno
questo
ripeteva Meera, ostentando una sicurezza che non provava. Onestamente,
Shireen non si curava affatto di tutte quelle storie. Si fidava
ciecamente delle sue coinquiline e sapeva che, qualunque nemico si
fosse abbattuto su di loro, quelle donne impavide avrebbero saputo come
respingerlo. Provava un grande rispetto nei loro confronti,
però
non era invidiosa della loro abilità con le armi: le era
bastato
un giorno soppesare una spada, per decidere che era un po' troppo
faticoso per lei.
-Se l'alloggio non ti aggrada, puoi sempre tornare nel tuo idilliaco
pezzo di paradiso.- ironizzò Meera, rimescolando la minestra
senza appetito. Durante quelle due settimane, il ricordo di suo
fratello aveva
assunto un'esigenza pressante, insaziabile e faticosissima: la
indignava l'idea che non avrebbe potuto rivederlo mai più.
Provava una rabbia in corpo che non lasciava spazio alla paura; anzi,
non vedeva l'ora che quel Bolton si facesse sotto e le permettesse di
infilzargli la spada nelle budella, perchè una curiosa brama
omicida s'era svelata al suo cuore e presentata in maniera chiara e
comprensibile, senza inganni, tanto che Meera non riusciva a trovarlo
strano. Era la prima volta che le accadeva, ed allo stesso tempo
quell'emozione non aveva nulla di sconosciuto.
-Non ti scaldare, Reed, stavo solo scherzando.
In compenso, il cibo è fantastico.- aggiunse
Yara, agitando pigramente la punta di uno stivale.
-Vorrai dire che il vino è fantastico,- la corresse Osha,
mugugnando, -visto che hai finito la riserva per i prossimi sei mesi.-
-Sono l'ospite, giusto?- E, per rimarcare il fatto che lei era l'ospite, la
ragazza si versò un'altra abbondante coppa di vino.
-E sentiamo, cosa ti manca della tua isola, figlia del kraken?- la
punzecchiò Meera. Lei prese tempo, strofinandosi le labbra
con
un tovagliolo.
-Il mare.- concluse. -A casa lo sentivo sempre. Ci nuotavo, anche. Mi
ci immergevo spesso, persino d'inverno. L'acqua è sempre
fredda uguale.-
Aveva il bacio imperituro del sale ancora impresso sulle
labbra. Il suo sapore le avvinceva aspro e sublime la gola, annodandole
la lingua, divorandole il cuore. E il silenzio, il silenzio che vigeva
sotto quella superficie levigata ed arruffata al tempo stesso, il
silenzio sospeso e beato degli abitanti del mare, in contrasto con le
strida dei gabbiani e il tumulto dei cavalloni e i tuoni del vento...
Infine Yara
puntò i grandi occhi scuri su Shireen, come un gatto che
contempli un topo per decretare se vale la pena di divorarlo.
-E tu,
principessa? Non ci allieti con qualche chiacchiera reale?-
Shireen non colse il suo sarcasmo. -Che significa chiacchiera reale?-
Yara alzò gli occhi al soffitto. -Pettegolezzi. Non
è di
questo che s'interessano le donne tutto il giorno? Te la faccio io,
qualche domanda. Il tuo paparino ti scrive come procede l'assedio?-
Shireen si chiedeva che razza di pettegolezzo fosse, però
cercò comunque di rispondere esaurientemente alla domanda.
-Dice che tutto sta andando come previsto. Che l'esercito dei Lannister
è decimato, il
popolo terrorizzato e gli alleati stremati dal prezzo di questa
guerra... Spera di riuscire a
conquistare la Fortezza Rossa, e di conseguenza di imprigionare la
famiglia Lannister e mettere fine alla guerra.-
-E' una parola!- latrò Yara in una risata beffarda. -I
Lannister
non staranno là fermi, in cima alle torri, a far svolazzare
i
loro capelli di platino, in attesa che Rickon Stark venga a trucidarli.
Comunque, sognare non costa niente.-
Shireen
proseguì. -Sono rimasti molto impressionati dall'arrivo di
Gendry. Non
si aspettavano che un figlio illegittimo di zio Robert fosse
rimasto in
vita.-
-Non basta essere figli di Robert Baratheon per avere il diritto di
regnare, soprattutto non ora.- s'accigliò Yara.
Meera
rimaneva in silenzio. Ad aggiungersi al dolore per la morte di Jojen,
v'era anche la preoccupazione per Bran; ormai -forse perchè
non ne era
in grado, o forse perchè non glie ne importava nulla- non le
scriveva
nemmeno più. Rickon riferiva che ormai il fratello s'era
ridotto a
giustiziare meramente i prigionieri, ad uccidere e basta, fino a
ridursi allo stremo delle forze, all'annullamento dei pensieri ed alla
perdita di coscienza, superando ogni limite. Non aveva suscitato in lui
la minima reazione nemmeno l'incontro con le sue sorelle
perdute, Arya
e Sansa, per le quali tanto s'era disperato. Che Bran stesse
impazzendo? Rickon scriveva inoltre di avergli chiesto come si
sentisse, e di essersi udito rispondere: Il punto è questo. Io
non sento. Non sento nostalgia,
non sento il dolore. Non sento niente. Non vedo niente. Brancolo nel
buio senza cercare più niente. Non voglio niente, Rickon.
Niente. Sono stanco di fare, essere e soprattutto volere. Volere le
cose è troppo impegnativo. Toglie tempo, toglie energia,
toglie
il respiro. Allora Rickon l'aveva esortato a resistere
per Jojen, perchè era quello che lui avrebbe voluto. Non sento più nemmeno
lui. E' perduto. E' tutto perduto. Non si può tornare
indietro, era stata la confusa replica. Meera non sapeva
davvero più cosa pensare.
In quel
momento, la voce chiara e acuta del piccolo Kenned attirò la
loro attenzione. La donna dei bruti mollò l'osso che stava
spolpando con i denti e, dopo aver strofinato le mani su un canovaccio,
s'affrettò a prenderlo in braccio dalla culla di legno in
cui
giaceva, in fondo alla sala. Il bambino era sano e forte proprio come
il popolo del Nord si auspicava: cresceva sotto l'occhio vigile di chi
lo amava e riceveva tutte le cure di cui aveva bisogno -e veniva
persino viziato un po'. I suoi riccioli erano quelli della madre,
castani, inanellati ed elastici, ma gli occhi, come ripeteva sempre
Osha, erano inconfutabilmente di Bran, vellutati e purificati d'ogni
tristezza, limpidi come dovevano essere stati quelli del padre ai tempi
in cui si arrampicava sulle mura di Grande Inverno. Se il suo animo
fosse Reed o Stark, invece, era ancora impossibile dirlo: ci sarebbero
voluti degli anni. Quando il piccolo gorgogliò sonoramente
ed
allungò una manina per strattonarle una ciocca di capelli,
Osha
non potè trattenersi dal piegare le labbra in un sorriso;
poi,
con reverenziale cautela, lo lasciò fra le braccia di Meera.
La
regina del Nord indugiò con le labbra sulla fronte del
figlio
per diversi istanti, quasi sospendendo tutti i suoi dolori, i suoi
dubbi e le sue sofferenze in quel solo gesto; intercettò lo
sguardo di Shireen.
-Rubano tutto il tuo tempo e ti fanno diventare terribilmente
sentimentale,- confessò sorridendo, -ma sono la cosa
migliore
che possa capitarti nella vita. Diventano... un punto di riferimento.
Così come tu ti prendi cura di loro, loro si prendono cura
di
te. Ti impediscono di affondare.-
E, giusto per rovinare la commovente grazia di quel momento,
-Il matrimonio è una beffa, Altezza. Non lasciarti
abbindolare,
sii più furba.- sbuffò Yara, sgocciolando
irritata la
bottiglia vuota nella propria coppa. Meera le rivolse un'occhiata
staffilante.
-Quasi dimenticavo che anche lady Greyjoy è stata una donna sposata. Chissà
perchè, ma non riesco ad immaginarti come una brava massaia,
circondata dai marmocchi...-
-Niente marmocchi.- La ragazza rabbuiò in volto.
Quell'allusione
le aveva fatto tornare in mente Tristifer e la sua vita troppo breve,
troppo vuota. -Sono
stanca, me
ne vado a dormire. Passo a fare un saluto a Theon, giusto per
controllare che non l'abbiate avvelenato di nascosto. Buonanotte.-
-Buonanotte.- le fece eco Meera, seguendola con gli occhi con
un'espressione intensamente inquisitoria. Non appena sparì
sulle
scale a chiocciola,
-Non raccontiamo balle. Se ne è andata perchè
è
finito il vino.- brontolò Osha, allungando un piccolo pezzo
di
mollica di pane a Kenned.
Yara misurava i gradini consumati sotto i suoi stivali, contando quanti
ancora la separavano dal fratello. Malgrado le grosse mura di Grande
Inverno, malgrado il pugnale appeso alla cintura, continuava a provare
l'irrequieta e fastidiosa sensazione d'essere nuda, disarmata ed
impotente, una ragazzina inerme che chiunque poteva derubare
indisturbato. Theon era diventato il suo bene più prezioso,
da
quando anche suo padre era morto. Non appena l'aveva conosciuto l'aveva
considerato solamente come un presuntuoso buono a nulla, borioso ed
incapace, e quasi s'era fatta beffe delle sue disfatte; ma il sangue
è sangue, e quando Theon era stato rapito Yara se ne era
resa conto fino
in fondo. Si trattava di qualcosa di atavico, e molto più
grande
di lei. Un amore inesorabile, talvolta annientante, che la piegava ad
azioni che la sua volontà non avrebbe mai potuto formulare.
Bussò alla porta. -Theon? Posso entrare?-
Non ebbe alcuna risposta. Yara sospirò; suo fratello, oltre
che
attraversare un periodo difficile, soffriva fra quelle mura che
rievocavano tanti dolorosi ricordi. Lì riviveva con il
pensiero
la sua disfatta, la conquista del castello, il rimorso del tradimento.
Quando non teneva gli occhi sbarrati nel buio, cedeva ad un sonno
appestato e confusionario in cui annegava miseramente.
Yara spinse la porta ed entrò. Entrò e
guardò la stanza.
Entrò e, per qualche secondo, mantenne un contegno rigido,
immobile, quasi severo. Al gancio dove, in teoria, avrebbe dovuto
essere legato Theon, v'era appeso il guinzaglio di un grosso cane nero
dal muso feroce e le gengive scoperte. Yara e il cane si scambiarono un
lungo sguardo; poi, sgranati gli occhi iniettati di sangue, l'animale
spalancò le fauci e ringhiò.
Un grido ferino squarciò l'anima di Yara Greyjoy.
-Maledetto... maledetto...
bastardo!-
Improvvisamente udì dei passi dietro di sè e
sguainò il pugnale in fretta: e pur sempre troppo tardi. Tre
uomini, con indosso un'armatura che recava lo stemma dei Bolton, l'uomo
scuoiato, le puntarono delle lunghe spade alla gola. La ragazza
imprecò con tutta la furia che le riuscì. I
soldati si scostarono subito, per mettersi sull'attenti di fronte alla
figura che stava sopraggiungendo, con la tranquillità d'un
frequentatore di giardini.
Ramsay Bolton non sembrava affatto provato dagli avvenimenti; indossava
un farsetto riccamente decorato di granati, sorrideva il sorriso pigro
di chi si crogiola in una giornata d'ozio e i suoi occhi erano ancora
chiarissimi, chiari come ghiaccio trafitto dalla luce.
-Finalmente possiamo conoscerci di persona, lady Yara. Per tutto questo
tempo, ho avuto quasi la strana impressione che stessi cercando di
evitarmi... ma non capisco il perchè. Ogni sorella di Reek
è anche mia sorella.-
Il suo tono amenamente beffardo la mandò in bestia. Come
accidenti aveva fatto ad entrare?!
-Che tu possa crepare fottendo quella cagna di tua madre e maledicendo
quel coglione di tuo padre!- sbraitò, cercando inutilmente
di recuperare il proprio pugnale, mentre le spade dei soldati premevano
sulla gola fino ad arrossarla.
Ramsay sorrise di nuovo, imperturbabile. -Però la tua
sorellina non l'hai ammaestrata tanto bene, Reek. Dice un sacco di
parole indegne nella bocca di una lady. Mi sa che le serve un corso
accelerato di buone maniere... non lo pensi anche tu?-
Theon stava in piedi al suo fianco, inerte come un fascio di paglia.
Teneva la testa bassa e gli occhi non riflettevano nulla.
-Sì, mio lord.-
Yara lo fissò con disgusto. La verità si fece
strada nella sua mente come una scimitarra fra la vegetazione incolta.
-Tu.- fu
quel che riuscì a dire. Dopo tutto quel che aveva fatto per
lui, dopo tutto quel che aveva dimenticato per amor suo, dopo tutto, lui...
Ramsay fece un cenno alle guardie. -Di lei mi
occuperò più tardi. Incatenatela lì
dentro, dov'era Reek... Claire sarà felice di avere un po'
compagnia. Dopo ci sarà tutto il tempo per insegnarle le
buone maniere.-
I soldati la afferrarono per le braccia e Yara tentò senza
successo di slanciarsi contro Ramsay. -Se solo provi a toccarmi con
quel cazzo di coltello, sarò l'ultima cosa che farai in
tutta la tua miserabile vita!-
Lui la ignorò. -Adesso ho cose più importanti di
cui occuparmi, come prendere il castello. Questi re del Nord non
imparano mai... tutti abbandonano Grande Inverno alle cure amorevoli
della mia famiglia. Andiamo, Reek. C'è ancora qualche
signorina da rimettere al suo posto, al piano di sotto.-
Theon lanciò solo un'occhiata fugace alla sorella, prima di
distogliere lo sguardo e avviarsi a testa bassa dietro il suo signore.
Nel frattempo, Shireen era scivolata fra le lenzuola per prendere
sonno. Come ogni sera, rimuginava sul suo futuro. Le era giunta ormai
da due settimane la lettera che annunciava un nuovo fidanzamento,
quello fra lei e Gendry Baratheon. La lady sua madre ne era stata molto
più felice: non aveva mai tollerato l'idea che Rickon
diventasse il suo sposo. Lei invece non sapeva cosa pensare. Che tipo
poteva essere, questo Gendry? Un ragazzo gentile, premuroso? Oppure un
individuo scorbutico e scostante? D'altronde, lei aveva la grande
capacità di stringere amicizia un po' con tutti. Si
rivolgeva alle persone in maniera limpida, onesta, franca, e questo
attirava la simpatia di tutti. Shireen non riusciva ancora ad
immaginare lo sfarzo che l'avrebbe attesa alla Fortezza Rossa, il
trono, i sudditi, le cerimonie... d'altronde, la guerra non era ancora
vinta. Lei era bendisposta verso qualsiasi pretendente e qualsiasi
destino, pur di rendere orgoglioso suo padre, che aveva fatto tanti
sacrifici per lei. Avrebbe trovato la felicità in ogni caso,
ne era sicura: eppure, nella sua vita il futuro era sempre stato una
caverna buia, di cui era impossibile intuire l'interno o la fine,
impervia proprio perchè poteva nascondere incredibili
pericoli così come formidabili gioie- e quel momento non
faceva eccezione.
Non si sarebbe mai innamorata, lo sapeva già. L'amore era
arrivato e passato come una stagione peritura, come un sospiro di
vento. Devan Seaworth, figlio del buon Davos, suo compagno di giochi
fin dalla prima infanzia, le aveva dato un ultimo bacio quando ancora
alloggiava presso la Barriera.
-So che sposerai un altro e che forse non ci vedremo mai più
da soli,- aveva sussurrato, -ma giurami che non ti dimenticherai di me.-
Lei aveva giurato. Una promessa facile da mantenere: non avrebbe potuto
dimenticarlo neanche se l'avesse voluto, in effetti. Era molto in pena
per lui; Devan era lo scudiero di Stannis, partecipava alle battaglie,
lottava e combatteva, ma era ancora molto giovane, soltanto di un anno
più grande di lei. Avrebbe potuto perdere la vita in
qualsiasi momento, però Shireen sapeva con certezza che
ciò non era ancora successo: se fosse accaduto, suo padre o
Davos l'avrebbero avvertita in una lettera. A volte, il
ricordo del tocco esitante e delicato della mano del ragazzo sulla sua
guancia -quella deturpata-
era ancora capace di tenerla desta e malinconica per tutta la notte.
D'un tratto, un rumore di passi allarmò i suoi sensi. Si
trattava di una vera e propria marcia, di stivali che picchiavano sul
pavimento, e con sommo orrore ella udì persino il tintinnio
del ferro. Lo conosceva molto bene: aveva vissuto alla Barriera per
anni. Trattenne il respiro e si fece più piccola possibile
fra le coperte, come se ciò contribuisse a renderla
invisibile. Ad ogni modo, i passi sproseguirono fino a scemare e
dissolversi nelle scale. Dopo qualche istante ancora, Shireen
osò scostare le coperte e scendere a piedi nudi dal letto:
avanzò di soppiatto fino alla porta, la socchiuse con gran
cautela e sbirciò fuori. V'era un gran silenzio e il
corridoio era deserto, come sospettava. Allora indossò
velocemente una vestaglia color tortora e scivolò fuori, in
punta di piedi. Procedendo con il palmo aperto premuto sul muro,
affiancando la parete, camminò piano piano fino al termine
del pianerottolo, con il cuore che martellava nel petto dall'emozione:
ormai, anche sulle scale non v'era più nessuno.
Indugiò lì ferma, riflettendo sul da farsi.
Pensò se fosse il caso di scendere, di avvisare qualcuno di
quel che aveva sentito; era assolutamente certa di non esserselo
sognato. I rumori erano così distinti e nitidi, che ancora
risuonavano nella sua mente, nella loro spaventosa evidenza...
Fu allora che sobbalzò: sentì quella che sembrava
proprio una voce. Paralizzata dalla paura, il suo primo istinto fu
quello di tornare in camera, sbarrare la porta e nascondersi sotto le
coperte in trepidante attesa del mattino; poi, rimanendo in ascolto,
scoprì ch'era una voce di donna... una donna che oltretutto
conosceva. Si lasciò guidare fino ad una porta, che
riconobbe come quella del prigioniero, e dopo qualche istante
d'esitazione la spalancò.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi era piuttosto
bizzarro: un cane, che dalle dimensioni avrebbe potuto essere un
mastino, abbaiava furibondo, mentre Yara Greyjoy era intenta a tenerlo
lontano da sè ed allo stesso tempo ad allungarsi verso il
gancio che la legava. Appena la vide entrare, si distrasse al punto che
il cane per un pelo non le staccò una mano.
-Cosa ci fai tu qui?- si meravigliò, ma non le
lasciò nemmeno il tempo per rispondere. -Il Bastardo
è nel castello.- aggiunse.
Shireen corrugò la fronte. -Ho sentito i soldati scendere al
piano di sotto.-
Yara si preoccupò. -Ti hanno vista?-
Lei scosse la testa. -Da dove possono essere entrati?-
L'erede di Balon Greyjoy fece una smorfia, come se avvertisse una
ferita dolere. -Dai sotterranei, naturalmente. Come hanno fatto a
Pyke... Peraltro, quel lurido traditore di mio fratello li conosce
benissimo. Non dev'essere difficile, per lui, condurli da qualsiasi
parte del castello vogliano andare. Ma adesso non c'è tempo
per le chiacchiere, dammi una mano. Dobbiamo andare a salvare il culo
alla regina delle paludi.-
Shireen si affrettò a staccare dall'anello affisso alla
parete la catena che assicurava la prigioniera al muro. -Le guardie li
avranno visti, no?-
-Il problema non è se li hanno visti o meno.-
replicò Yara, torva, -ma se sono riusciti a fermarli.-
A questo, la principessa dei Sette regni non seppe replicare.
***
Ciò che faceva sorridere Sansa, di indulgente tenerezza, era
l'abitudine ormai consolidata di Myrcella, che, non appena vedeva
Rickon fare ritorno all'accampamento dopo una giornata passata sul
campo di battaglia, gli veniva incontro correndo e gli si appendeva al
collo, abbracciandolo con fervida dedizione e baciandolo con una
passione vorace di cui nessuno l'avrebbe creduta capace. Rickon
l'accoglieva sempre con una risata ricca di gusto e colori,
contemplando le sue concitate premure con un sorriso acuminato e un po'
gretto, ma autentico -perchè, con il capo affondato nei
riccioli
profumati di lei, con la sua carne tenera sotto le dita, la sua voce
nell'orecchio, sentiva di aver trovato il proprio equilibrio, di essere
di nuovo parte
di un tutto. Ogni giorno si presentava con nuovi squarci, che
eruttavano fiotti di sangue annerito dalla polvere, che incidevano la
pelle fino all'osso; una volta era una lacerazione sulla coscia,
un'altra volta dalla spalla al fianco, poi a striargli la fronte. La
fanciulla reagiva sempre cacciando un grido d'orrore, per poi
cominciare a maneggiare catini d'acqua e bende improvvisate.
-Ma cosa combini! Ma cosa fai! Perchè ti fai ridurre in
questo
modo?- gemeva, calcolando i danni con crescente apprensione.
Rickon rasserenava l'ansia spropositata di Myrcella con una nenia
ininterrotta di sbuffi e carezze, soffiando delicatamente sulle sue
palpebre e morsicandole le labbra come gli era sempre piaciuto fare.
-Non è niente.- si scherniva con noncuranza, orgoglioso
delle
sue ferite come lo avrebbe potuto esserlo dei suoi figli, -robe da
nulla...-
Quando poi Myrcella finiva per preoccuparsi davvero troppo ed eccedere,
ridotta pallida e tremante come se avessero ferito lei stessa -ma quanto devi soffrire, povero
amore mio, quanto devi soffrire ancora- il ragazzo le
sollevava il mento con un dito, la fissava serio negli occhi e
bofonchiava:
-Ascoltami, piccola bionda: è tutto a posto. E se dico che
è tutto a posto, mi devi credere. Va bene?-
Lei annuiva timidamente, arrossendo. Poi Rickon s'avventurava a
descrivere il modo in
cui si era procurato tutti quegli sfregi; si trattava di storie
mirabolanti, popolate di soldati armati fino ai denti e sciabole di
Essos dalla lama letale e ricurva. Myrcella non sapeva quali fossero
vere, quali inventate per divertirla e quali esasperate per nutrirsi di
gloria.
-A quel punto mi avevano circondato in otto. Sì, proprio in
otto!- esclamava, mentre la fanciulla estraeva frammenti di pietra
dalle sue ferite con un paio di pinze.
-Otto?- rideva lei, attenta a non perdere la concentrazione su
ciò che stava facendo.
-Non uno di meno! Cosa c'è, non mi credi, forse?!-
sbraitava, e
se gli veniva quel dubbio poi si offendeva a morte.
Sansa notava con stupore anche la fortissima empatia che
intercorreva in ogni sguardo, che trapelava da ogni gesto; c'erano
sempre poche parole fra loro, ma questo perchè parevano
terribilmente superflue. Parevano cogliere intuitivamente qualsiasi
emozione dominasse l'altro; e si davano reciprocamente conforto
sfiorandosi con le dita, sussurrandosi qualche parola in un linguaggio
sconosciuto, oppure limitandosi a starsi accanto senza fare nulla. I
loro corpi, anche in seguito a quell'esordio conflittuale e doloroso,
avevano raggiunto un'affinità alchemica, tanto che, denudati
di
tutti i segreti e le remore, potessero risolversi l'uno fra le braccia
dell'altra in un abbandono di sguaiata, selvaggia bellezza.
Rickon trascorreva la notte conteso fra la brama incandescente di
sfogare l'irruenta adrenalina delle battaglie e l'imperativo biologico
di riservarsi qualche ora di sonno; Myrcella si divertiva ad irretirlo,
ma alla fine gli prendeva il capo in grembo e gli passava le dita fra i
capelli fino a che il sopore non aveva la meglio su di lui. La
stanchezza avrebbe potuto essergli fatale, in uno scontro.
-Hanno uno strano modo di amarsi.- commentò Sansa, mentre
Rickon, affondato in un cumulo di pellicce, si faceva medicare una
ferita al braccio e chiacchierava speditamente circa la propria ultima
prodezza.
Arya abbattè la scure sul pezzo di tronco che aveva di
fronte,
ricavandone due grossi ceppi ed alzando una nuvola di ghiaia. Si
strofinò gli occhi irritati.
-Hanno avuto uno strano modo di innamorarsi.- ribattè a sua
volta. -Sempre che di amore si possa parlare.-
-Mi piacerebbe credere che staranno insieme per tutta la vita.- La voce
di Sansa era quasi divertita. -Che si sposeranno e saranno felici.-
Arya le lanciò un'occhiata quasi infastidita. Poi
sospirò
e la fissò. -No, non è vero. Non ti piacerebbe
crederlo.
Al contrario, sei contenta di poterlo non credere mai più. I
paraocchi non piacciono a nessuno.-
-Soprattutto se ci si rende conto di averli sempre indossati soltanto
quando non ci sono più.-
Sansa si rannicchiò nella coperta che le copriva le spalle e
guardò il cielo notturno. La volta celeste offriva una
dimensione immobile, prigioniera nel proprio silenzio e
nell'immortalità, spettatrice sempiterna, ammantata della
propria gloria. Pensò a ciò che era accaduto quel
mattino: una schiera di truppe era giunta ad aggiungersi al
già
considerevole esercito del Nord. Proveniva da Nido dell'Aquila. In
questo modo, gli Stark si trovavano nettamente in maggioranza.
-Ma cosa sta succedendo?- si era sbalordito Rickon. -Com'è
possibile? Sembra quasi che per una volta ce ne vada una dritta.-
In questo modo, anche il lord della Valle si era inequivocabilmente
schierato dalla loro parte, destinato a vincere con loro o morire con
loro.
Grazie, Robin, aveva
sorriso
Sansa fra sè, commossa, ricordando di quanto il ragazzo
fosse
stato inizialmente terrorizzato all'idea di sbilanciarsi a favore
dell'uno o dell'altro, e di come quindi avesse accantonato i propri
indugi per aiutarla; e poi ci aveva riflettuto ancora un istante: grazie, Petyr, aveva
precisato, intuendo che ci fosse anche lo zampino di qualcun altro
dietro quell'inaspettata decisione. Si chiese se Baelish l'avesse fatto
solo per sostenere Arya e Gendry, dei quali pianificava il ritorno da
anni, oppure se anche il pensiero di Sansa avesse influenzato le sue
scelte... Non sperare
più in nulla, rimproverò se stessa,
mai avanzare aspettative
su nulla. L'idea di non potergli parlare dopo
quell'ultimo, maledetto bacio la stava tormentando.
I Lannister non sapevano ancora che lei era viva, ma prima o poi
l'avrebbero scoperto. E alla fine della guerra, quale sarebbe stato il
suo destino? Dipendeva tutto dal vincitore, in fin dei conti. Se
avessero vinto Gendry e suo fratello Bran, avrebbe potuto fare quello
che voleva. Ma se avesse vinto Tommen? Sansa era ancora legalmente
sposata a Tyrion Lannister. Avrebbe forse dovuto passare la vita al suo
fianco, di nuovo schiava, di nuovo segregata nella Fortezza Rossa, di
nuovo schernita, disprezzata ed odiata? Sarebbe ricominciato l'incubo
che s'era lasciata alle spalle fuggendo da Approdo del Re, otto anni
prima? No, non poteva permetterlo.
D'altro canto, Alayne Stone era sposa di Robin Arryn. Certo, ormai
Alayne era morta, svanita, sepolta, però... come abbandonare
per
sempre una delle uniche persone che davvero le avevano voluto del bene,
in quegli anni difficili, che l'aveva ospitata e trattata come una
regina? Sapeva di dovere molto a Robin, e, anche se non lo amava, s'era
affezionata a lui, così come se fosse un altro fratello
minore.
Tanto era assorta nei suoi pensieri, che Sansa quasi non si era resa
conto che Gendry s'era avvicinato a lunghi passi alla loro tenda. Non
indossava più l'armatura; aveva indossato un paio di comodi
pantaloni di iuta e una camicia di garza bianca. I capelli neri, lavati
pochi minuti prima, gocciolavano fradici sulle sue spalle.
-Lady Sansa. Milady.- esclamò, con l'accenno d'un inchino,
un
sorriso allegro a fior di labbra. Sansa rispose con un regale cenno del
capo -Arya non alzò lo sguardo dal fuoco che cercava di
accendere.
-Come ci si sente ad essere re?- disse soltanto. Nell'accampamento,
egli era già chiamato Maestà e gli venivano
rivolti tutti
gli onori, a cui certamente, dopo una vita spartana, non era abituato.
Spesso gli capitava invece di scostarli con un cenno imbarazzato, di
schermirsi con qualche parola brusca, prima di realizzare che avrebbe
dovuto iniziare a considerare quel trattamento come dovuto,
anzichè come una stravaganza.
Gendry inarcò le sopracciglia scure. -Non lo sono ancora.
Non
cantiamo vittoria troppo presto. Vorrei... parlarti, se hai un po' di
tempo per me.-
Il giovane re avrebbe dovuto dire
voglio anzichè vorrei, d'ora
in poi, ma non con Arya. Con lei, queste formalità sarebbero
suonate vili come menzogne. Avevano condiviso qualsiasi cosa, da un
giaciglio di terriccio alle lepri selvatiche mezze crude, dalle
tormente di grandine ai tramonti insanguinati, dalle lotte con i
briganti di passaggio alle reminiscenze di nostalgie lontane davanti al
fuoco.
-Tutti ne avranno, d'ora in poi.-
Arya si sfregò le mani sporche di cenere sui pantaloni e si
alzò per seguirlo. Sansa li osservò allontanarsi,
mentre
il fuoco si specchiava vivido nei suoi capelli ramati, con un sorriso
insinuante. Mi
piacerebbe credere che staranno insieme per tutta la vita. Che si
sposeranno e saranno felici... Scintille di legno
scoccarono rumorose fra le fiamme, con impietosa eloquenza, quasi in
risposta.
La notte era tiepida e confortevole come un mantello di velluto,
nonostante il clima fosse diventato solitamente rigido. Arya abbassava
gli occhi sull'erba che stava calpestando: piccoli fiori bianchi
ergevano le loro fragili corolle fra gli steli, i grilli gracidavano da
qualche parte nell'intreccio delle tenebre. Il mare, in lontananza,
bisbigliava qualcosa nella sua lingua senza parole.
Gendry continuò a camminare in ostinato silenzio, almeno
finchè il vocio ed i tramestii dell'accampamento non furono
attutiti dalla distanza, dal vento e dal buio; un pensiero si dibatteva
nel suo sguardo, azzurro e tenace ed incorrotto, pur dopo tutti quelli
anni di stenti ed attesa. Il ragazzo pose un piede su un masso in
rilievo dal terreno e liberò un sospiro dal torace possente.
-Bella battaglia, oggi.- commentò Arya, decisa a stornare
l'esitazione di quella lunga pausa.
Gendry annuì, assestando il sasso sotto lo stivale. -Bella
davvero. I Lannister non si sono fatti vedere... nè Jaime,
nè Tommen. Tutto ciò che li rappresentava era lo
stemma.-
-Jaime è tutto malandato e Tommen è un moccioso
viziato. Non saprebbe uccidere nemmeno un uomo legato.-
bofonchiò Arya.
-Come fai a dirlo? Sono molti anni che non lo vedi.-
-Le voci girano... Dimmi come regni e ti dirò chi sei, e io
so perfettamente come combattono le persone come lui.-
-E come?-
-Non
combattono.-
Gendry trattenne una risata. -Sempre la solita gentildonna.-
-La propria identità è l'unica costante che
ognuno dovrebbe ricercare nella vita... l'unica costante che abbia un senso
ricercare.- Arya si voltò a cercare gli occhi del ragazzo.
-I
Lannister non si sono presentati per un motivo ben preciso, Gendry.
Hanno paura di te. Sono
letteralmente terrorizzati. Hai mandato in fumo tutti i loro piani...-
-... abbiamo
mandato in fumo.
Noi. Io e te.- Il ragazzo trattenne il suo sguardo con
un'intensità quasi impudente, come se avesse abbrancato la
sua
anima e intendesse stringerla fra le dita più a lungo
possibile.
-Non ci sarebbe stato nessun Gendry Baratheon senza di te. Solo un
Gendry Waters...-
Arya si concesse un ghigno. -E quale sarebbe la differenza?-
-Gendry Waters era solo, ma... aspetta, non basta dire così.
Era... scontroso. Non gli piacevano molto le persone. Non si fidava
della vita. Non sognava, non vedeva nulla che fosse oltre le pareti
della sua officina. Gendry Baratheon...- Gli scappò una
risata.
-... beh, è più coraggioso. A volte
più stupido,
ma immagino che si tratti di un effetto collaterale. Crede in se
stesso, crede in una causa... crede in te.- Soffiò l'ultima
parola come se desiderasse che solamente le lucciole la udissero. Arya
si sporse nell'immensità dei suoi occhi ed
avvertì un
brivido percorrerle la nuca.
-Dimentichi la differenza più importante.-
sussurrò. -Gendry Waters era un fabbro. Tu sei un re.-
-Un re che, come tanti altri, sarebbe facile scagliare giù
dal trono.- La voce di Gendry era impassibile.
-Nessuno lo mette in dubbio.- rispose Arya, cupa. Non riusciva a capire
dove il ragazzo volesse andare a parare. -Cosa mi volevi dire, Gendry?-
-Volevo ricordarti che l'uomo che hai davanti, che vorresti elevare
alla guida di un regno, l'hai reso tu quello che è ora.-
esordì Gendry con fermezza.
-Sì, svelandoti la verità riguardo le tue origini
e
donandoti la fede nella vita. Davvero divertente...- La ragazza
affondò lo sguardo nella densa, liscia distesa
dell'oscurità, come se volesse penetrarla. -A me
è
avvenuto esattamente il contrario. Approdo del Re mi ha insegnato che
nulla nella vita è come l'hai sognato... nulla come l'hai
sempre
impunemente creduto, nella convinzione di avere tutto il diritto di
farlo. Sono cresciuta pensando che la felicità
fosse un mio
diritto, che il destino me lo sarei scritto da sola. Disprezzavo le
ballate di Sansa, mentre ero colpevole d'ingenuità tanto
quanto
lei. E ho smarrito me stessa... per molto, molto tempo.-
Fu presto assalita dai ricordi. Il giorno della decapitazione di suo
padre, il sangue che precipitava ovunque, lo sguardo inorridito di
Sansa... e tutto quel che ne conseguiva. Le notti in cui credeva che
non ce l'avrebbe fatta e le mattine che le avevano fatto cambiare idea,
i viaggi per mare durante i quali era costretta a lavorare come mozzo,
il variopinto spettacolo del Continente Orientale, i suoi mercati
fragorosi e maleodoranti, la folla di gente che urla e strepita e ti
soffoca, ti spinge giù, ancora più
giù... Aveva
avuto paura di dimenticare, di dimenticarsi.
Aveva ripetuto i nomi dell'odio fino a far sanguinare la lingua fra i
denti. Aveva pronunciato il proprio nome e quello dei propri familiari
ogni giorno, da qualsiasi parte si trovasse; l'avevano ascoltata i
porti, le spiagge, le locande, le taverne, i fienili, le botteghe.
L'aveva ascoltata il sole, la luna, la pioggia. Aveva imparato molte
lingue e scordato la maggior parte. Era morta e rinata diverse volte.
Aveva perso ed acquisito, non sempre in egual misura. Aveva riso e
pianto e riso di nuovo. Era viva, però. Era lì,
in quel
momento, e le parve quasi buffo, quasi assurdo, inconcepibile. La sua
morta era così prevedibile -lei, orfana, sola, povera,
disarmata, afflitta, sperduta- che non era avvenuta.
Arya sospirò e sedette sul masso, accanto a Gendry. Le sue
mani
erano intrecciate sulle ginocchia, lì dove i pantaloni erano
tutti strappati; il corpo pulsava, intento alla dolce, indolenzita
sofferenza che seguiva la battaglia. Le ferite gemevano piano sotto la
stoffa, lenite dalla freschezza della brezza. Gendry alzò lo
sguardo, cercando la stella che Arya stava contemplando.
-Posso chiederti una cosa? Hai perso una casa, hai perso una famiglia,
hai perso la vita che avevi.- La voce del ragazzo suonò
distinta, forte, senza patetismi. -Che t'importa di chi sale al
maledettissimo trono di questi maledettissimi Sette Regni, che sono la
causa di tutto il tuo dolore? Che t'importa delle dinastie, del potere,
degli inganni, delle alleanze?-
Che t'importa di me?, stava per chiedere, ma si morse la
lingua.
Voleva sapere, Gendry, il perchè; il perchè di
quel
sostegno, di quell'abnegazione, di quell'amicizia gratuita offerta a
piene mani nel bel mezzo dell'inferno. Arya aspirò un po' di
quell'aria pregna di terra, di sali, di profumi silvestri.
-Perchè voglio che ci sia un po' di giustizia. Voglio
tornare a
sperare che al mondo possa esserci anche qualcosa di buono, Gendry. Da
quando è morto mio padre, ne ho sempre dubitato.- Fece una
smorfia. -Voglio
ricredermi. Voglio vedere il bene che trionfa ed il male che decade. E
capisco... che non è più facile capire chi è
il bene e chi è
il male.-
Specialmente da quando aveva scoperto che Rickon divorava i cadaveri e
Bran dilaniava con lo sguardo. Gendry annuì con il capo,
solennemente, per un paio di volte.
-Far trionfare la giustizia... Un altruismo ammirabile, davvero. Il
mondo ti toglie tutto e tu rispondi con la giustizia...- Il tono di
quell'affermazione aveva una sfumatura interrogativa.
Arya gli scoccò un'occhiata piccata. -Mi stai prendendo in
giro,
per caso? Voglio che ci sia giustizia per
chi amo, non per gente qualunque.- Si preparò a ponderare le
parole che da tempo insistevano sopite alle labbra. Fuggirono
così com'erano, eludendo la sorveglianza, in tutta la
pregnante
gravità del loro significato. -Tu sei l'unica
possibilità
di
riscatto che mi rimane. Non posso restituire le gambe a Bran, non posso
restituire l'infanzia a Rickon, non posso restituire le ballate a
Sansa. Però posso restituire il regno a te.-
Non si era mai ritenuta una bella ragazza: disprezzava intimamente la
bellezza. Era bella Cersei, era bello Jaime Lannister, e avevano
portato soltanto morte nelle loro vite. La bellezza è
subdola,
infida.
Non perdona nè chi ne è ammorbato, nè
chi ne
è attratto. Non si era mai ritenuta una fanciulla graziosa,
però... però, quando Gendry la guardava in quel modo, le
pareva quasi di sì.
Il ragazzo si chinò verso di lei, scandendo le parole una
per
una. -Io ti amo, Arya Stark. Non voglio sposare nessun altra.-
Arya voltò la testa, punta sul vivo. -Non vuoi, ma lo farai
lo stesso.-
Egli scosse il capo, sconsolato, e si rivolse alle stelle come se si
appellasse agli dei, antichi o nuovi che fossero.
-Perchè il destino è così
detestabilmente severo,
così estremista? O questo o questo, senza compromessi, senza
vie
di mezzo?-
-Non lo so, Gendry.- Lei cominciò a torturare i polsini
della
sua casacca. -Ho sentito parlare in maniera molto lusinghiera di
Shireen Baratheon. Sarà una buona moglie.-
-Non sarà mai
te.- ribattè Gendry, freddo.
-Meno male, che non lo sarà.- Arya tirò un
sorriso
stentato. -Sarei la moglie più pessima del mondo. Io non mi
sposerò mai: per me le cose non funzionano come per tutte le
altre. Non avrò un marito a cui obbedire, nè
figli da
accudire. Tu meriti tutto ciò che non potrei mai darti.-
Gendry, per un attimo, fu tentato di alzarsi in piedi e gridare.
Gridare che in realtà lei poteva, poteva benissimo, ma non
voleva; non voleva rinunciare a se stessa, a quel che le era rimasto, a
quella sopravvivenza bruciata che ormai era diventata vita,
all'irruenza del proprio carattere indomito, alla libertà
che
l'esenzione dalle responsabilità comporta. Gridare che lui,
Gendry, l'amava alla follia, e lei, Arya, non riusciva nemmeno ad immaginare
quanto. Gridare che si stava opponendo al suo, al loro sogno, che gli
stava facendo un dono sottraendogli qualcosa di ancora più
importante, che stava realizzando un sogno distruggendone un altro.
Invece l'abbracciò. La avvolse e strinse al suo petto prima
che
lei potesse escogitare di scappare. Non avrebbe urlato tutto questo
perchè capiva.
La capiva. Sapeva. Sapeva tutto quanto.
Sapeva che Arya pensava anche a lui, compiendo questa scelta.
Shireen era la persona sbagliata, nel bel mezzo della scelta giusta.
Gendry avrebbe sposato Shireen Baratheon, ma in quel momento, nell'aria
notturna intrisa del canto dei grilli e delle lacrime delle stelle, non
aveva la benchè minima importanza. Affondò una
mano nei
capelli di lei, li carezzò. La sentì irrigidirsi
e poi
fremere piano sotto le sue mani, come un gatto riottoso.
-Sono troppo lunghi. Devo tagliarli.- mormorò Arya,
riferendosi alla propria capigliatura.
Gendry sospirò sulla pelle delicata del suo collo.
-Perchè? Io li trovo belli.-
-Altrimenti mi scambiano per Rickon.- spiegò la
ragazza, abbozzando un sorriso.
Per qualche lungo istante, davanti all'onnipotenza del destino, furono
inermi; poi non furono altro che insieme,
insieme in quel gran dolore, insieme in quella grande
gioia.
-Arya?-
Lei deglutì a vuoto. -Cosa?-
-Guardami.-
Nel loro bacio non vi fu futuro, nè passato; persino il
presente mancava. Fu quasi un inno alla disperazione, un'eco di
terrore, una
supplica che sfociò nella pazzia.
Poi il tempo tornò. Arya gli sfuggì dalle dita,
come un
fantasma alle prime luci dell'aurora; e scappò quasi, da
quella
speranza a metà, da quel sussulto interiore, mentre lo
spauracchio della debolezza si profilava come l'ombra d'un estraneo
dietro l'angolo. Gendry non sapeva se avesse dovuto lamentare una
sconfitta o celebrare una vittoria; solo, non gli sembrava possibile
desiderare altro, se non questo,
questo che sfuggiva, questo che scappava.
E il giorno dopo, la guerra tornò.
***
Nonostante le tristi circostanze che l'avevano condotta lì,
Myrcella non poteva fare a meno d'amare quelle terre gentili.
Sì, gentili: oltre i miasmi di Approdo del Re, con il suo
delirio infinito, le terre della corona avevano una grazia speciale, a
dispetto dei sanguinosi conflitti a cui erano costrette ad assistere.
Myrcella passeggiava nei dintorni dell'accampamento, sollevando i lembi
della gonna per non sporcarli, contemplando la natura intirizzita al
freddo di quell'inverno fugace; passava il tempo a pagare in sospiri il
fio dell'assenza di Rickon, annegando nelle pozze d'acqua a cui si
affacciava ogni volta che udiva un urlo d'agonia, inaridendo nella
siccità ogni volta che versava una lacrima, ammorbata di
freddo ogni volta che si levava il vento. Di tanto in tanto,
fantasticava circa il suo avvenire, il loro avvenire: se solo avessero vinto
la guerra, allora cosa sarebbe accaduto? Rickon l'avrebbe forse...
sposata? A lui non piacevano, però, queste cerimonie, questi
riti inutili. Ad ogni modo, loro due avrebbero vissuto ugualmente come
se fossero sposati? Oppure Rickon le avrebbe preferito un'altra donna,
che non avesse vile sangue Lannister nelle vene? Un tempo, egli aveva
giurato che a termine di tutto questo l'avrebbe uccisa, però
non riusciva più a crederci. Ormai -ne era certa- lui
l'amava. E lei amava lui, quindi Myrcella non sapeva cos'altro avrebbe
potuto impedire la loro felicità. Sarebbero tornati a Grande
Inverno, per restarci tutta la vita? Sarebbe ricominciato
quell'idillio, quello precedente alla guerra, quei giorni di turbolenta
ed illegittima voluttà? Avrebbero potuto giacere nell'ozio
per ore, senza essere disturbati dalle interferenze del mondo esterno,
senza più essere guardati con disapprovazione? E dopo
ancora, avrebbero avuto dei figli? Myrcella se lo augurava di cuore.
Potergli dare un erede che ne avrebbe ereditato la forza, il coraggio,
la spavalderia, potersi concedere a lui fino a questo punto, poter
eternare a loro unione in tal modo, sarebbe stato quanto di
più l'avrebbe resa felice. Ma si trattava di meri
vagheggiamenti di un'anima fatua e romantica: poi cadeva un corpo,
s'udiva un grido, echeggiavano le armi, e allora tutte quelle storielle
si disgregavano nella tragicità dell'inascoltato,
diventavano futili e sciocche, e tutto ciò che Myrcella
implorava con tutta se stessa era che non fosse lui,
quello appena morto, non lui, ma chiunque,
chiunque altro.
Quel mattino, il timore vinse su ogni altra cosa. Rickon s'era
svegliato all'alba, accanto a lei; aveva indossato l'armatura, aveva
preso tutto quel che doveva prendere, aveva consumato una frugale
colazione che consistenza in latte acido e pane secco. Aveva grandi
speranze, per quella giornata: visto che ormai erano riusciti ad
entrare nella città, prendere la Fortezza Rossa sarebbe
stato relativamente facile. Myrcella a quel punto s'era destata, forse
a causa d'un movimento troppo rumoroso della spada infilata nel fodero.
Rickon l'aveva udita invocare il proprio nome, farfugliato nel sopore
del sonno, e le aveva sorriso, le aveva baciato le palpebre calate.
-Dormi, piccola bionda.-
Lei, nel suo stato di semincoscienza, aveva preteso che rimanesse,
appendendosi al suo collo. Rickon aveva riso e si era liberato dalla
sua presa.
-Ci rivedremo stasera, e stasera faremo tutto quello che vorrai.- le
aveva promesso, rimboccandole le coperte e uscendo dalla tenda il
più silenziosamente possibile.
Però, appena pochi istanti dopo la sua partenza, Myrcella
s'era sentita completamente desta e lucida, al punto che aveva
sollevato il busto dal giaciglio e si era chiesta che fare. Tornare a
dormire era la scelta più saggia, ma era fuori discussione.
Non ce l'avrebbe più fatta. Il pensiero d'una giornata di
spasmodica attesa, d'altro canto, era praticamente invalicabile,
faticoso come un digiuno di venti giorni, di spasmodica sopportazione.
Così si rifiutò eroicamente di piegarsi a quel
destino.
Indossò una veste fra le più umili ch'aveva, e
non si recò alla tenda in cui solitamente consumava la
colazione insieme a Sansa: eludendo la sorveglianza delle guardie,
salì su un carro che faceva la spola fra l'accampamento ed
Approdo del Re, e viceversa, con rifornimenti, armi, infermiere da
campo pronte a prestare soccorso ai feriti. Myrcella smontò
poco lontano dal trambusto della battaglia; invece prese una viuzza
secondaria, memore del fatto che l'avrebbe condotta nei pressi del
Grande tempio di Baelor, così da poter assistere alla
battaglia da una postazione sicura. Cosa sperava di fare? Nulla, in
realtà: voleva soltanto vedere Rickon, vederlo vivo, sapere che
stava bene, che nessuno era in grado di fargli del male. Era allo
stesso tempo decisa a non farsi scorgere da nessuno che l'avrebbe
potuta riconoscere: se fosse venuto a saperlo, Rickon si sarebbe
arrabbiato moltissimo con lei.
E lo stava ancora cercando con lo sguardo, da qualche parte, nel
pandemonio delle spade e della miriade di soldati che combattevano
-come aveva mai potuto sperare di distinguerlo in quell'inferno?-
quando un pezzo di stoffa le scivolò in bocca e le morse il
capo in una tenaglia. Myrcella cercò di gridare, ma il
fazzoletto soffocava la sua voce. Immediatamente, il suo aggressore le
immobilizzò le mani dietro la schiena. Pazza di terrore, non
riuscì a pensare a nulla finchè,
sorprendentemente, non si ritrovò faccia a faccia con l'uomo.
-Shhh.- mormorò Jaime Lannister. -Sono io. Sono io. Non
avere paura. E non urlare, per favore: promettimi che non urli.-
Avrebbe voluto abbracciarla, chiamarla bambina mia, dirle
quanto s'era dato pena per lei, quanto amore le donava ancora quella
famiglia che lei aveva ripudiato così spietatamente... ma
non era il momento giusto. Lui
non era la persona giusta per farlo.
Myrcella lo fissò, piena di stupore; d'un tratto, le
mandibole indolenzite percepirono l'assenza dal bavaglio e
potè tirare un lungo respiro.
-Ma cosa... cosa... zio Jaime?- Poi rivolse un'occhiata attonita agli
altri due uomini armati che la stavano immobilizzando.
-...perchè?-
-Perchè ti riportiamo a casa.- tagliò corto
Jaime, facendo segno di caricarla su un cavallo.
La figlia lo fissò sgomenta, poi lentamente comprese. -No.-
disse subito. -Oh, no. No, zio Jaime, non puoi farmi questo...-
-Prima o poi capirai che lo faccio per il tuo bene.- precisò
lui, voltandole le spalle per salire sul suo cavallo.
-No! Ti prego... non voglio tornare a casa! Io voglio stare con lui,
stare con lui per sempre... Io lo amo!- gridò Myrcella,
percependo un principio di mal di testa pulsare nelle tempie. Tutto era
troppo assurdo, troppo incredibile, non poteva stare succedendo sul
serio...
Jaime sospirò. Era un tormento sentirla urlare
così, ma non si poteva fare altrimenti. Oh, no, lei non lo
amava, e le sarebbe bastato stargli lontano per qualche
giorno, per tornare in sè e realizzare l'incubo ad occhi
aperti in cui era vissuta, in uno stato di shock confusionale. Un
giorno l'avrebbe ringraziato, per quel che stava facendo: ma quel giorno,
Myrcella l'avrebbe soltanto maledetto.
E, senza nemmeno il tempo di rendersene conto, Myrcella fu prigioniera
per la seconda volta.
***
-Andata.-
Quella parola si formò sulle labbra di Bran in maniera
curiosa, ed egli quasi ne rise. Quella stessa maledetta parola che
l'aveva atterrito, perseguitato, schiaffeggiato, inorridito per giorni,
quell'andato che
s'era detto di Jojen, ripetuto un'altra volta -per tormentare suo
fratello, anzichè lui.
Sapeva quanto male facesse. Sapeva quanto si provasse la tentazione di
ripeterla e ripeterla, andata,
andata, andata, andata, quasi nel tentativo di annullarsi
nell'eco delle sue sillabe, oppure di venire trascinati in quell'andata e venire
contagiati, miracolosamente trasportati in quell'andare.
Così lo disse semplicemente com'era, senza agghindarlo di
parole inutili, sovraccaricarlo di scuse poco plausibili, addolcirlo
con il miele della retorica, senza pizzi e merletti, solo
così, incisivo, tonante, autentico:
-Andata.-
Rickon gli rivolse un'occhiata minacciosa. -Andata dove?-
Questa è la domanda che si pongono tutti, fratello mio,
pensò Bran. Gli venne di nuovo da ridere, ancora
più di prima, e l'istinto fu quasi pruriginoso, non poteva trattenere
quella risata copiosa: ma pensò che se avesse continuato
così sarebbe diventato matto, perciò si contenne.
-Stamattina ha lasciato l'accampamento subito dopo l'esercito. Non
l'abbiamo più vista da allora. Sansa ha detto ch'era strano
che non si fosse presentata a colazione, così l'ha cercata
nella sua tenda... e non c'era. Non c'è da nessuna parte. E
questo perchè, molto probabilmente, è partita a
cercare te ad Approdo del Re-
-Che cosa?!- Rickon era basito. -Ma è inconcepibile. E' una
cosa troppo stupida. Perchè mai avrebbe dovuto farlo?-
-e i Lannister hanno approfittato per rapirla.- concluse Bran, con una
calma piatta che si sarebbe potuta definire solo che vacua.
Rickon rimase immobile dov'era per almeno un minuto buono, lo sguardo
fisso in qualche esatto punto sul terreno, pietrificato in un
terrificante silenzio; e Bran ipotizzò che l'avesse presa
abbastanza bene, almeno finchè il ragazzo non si
alzò in piedi e si avviò verso l'uscita.
-Dove stai andando?- domandò il fratello maggiore,
lentamente, intento a sfogliare con distrazione i risultati della
giornata di battaglia, trascritti dai generali.
-A riprendermela.- tagliò corto Rickon, in un ringhio.
Bran chiuse gli occhi. -Fermatelo.-
Le guardie all'ingresso sbarrarono il passaggio con le spade.
-Fatemi passare, se non volete che questo sia il vostro ultimo minuto
di vita!- sbottò Rickon.
-Tu_ non puoi _andare_ da nessuna parte.- scandì Bran, con
granitica pazienza, senza alterare la voce nemmeno di un filo.
-Io devo
andare a salvare Myrcella! Lei è mia, e quelli non hanno nessun
diritto di prendersi ciò che è mio.- Rickon era
rosso in viso come se avesse appena compiuto una carneficina.
Bran scartò i suoi messaggi con un gesto della mano,
spingendoli sul tavolo, per poi rivolgere al fratello l'attenzione.
-E va bene, tu vai a salvare Myrcella. E come fai, me lo spieghi?-
Rickon lo guardò, e nei suoi occhi era riflessa
l'ostinazione del ghiaccio del Nord. -Noi abbiamo un piano...-
-Un piano che va realizzato più tardi. Fra una settimana, o
due, magari.- gli ricordò Bran, inflessibile.
-Il piano dev'essere anticipato.-
-Il piano non può rischiare di andare a monte a causa della
tua stupida ragazzina Lannister!-
Lo sguardo di Rickon non s'intaccò nemmeno di un soffio.
Bran si accorse di stare progressivamente cambiando tono, quindi
respirò a fondo. Sapeva quanto poteva essere fatalmente
pericolosa, la sua rabbia, in quel periodo. Si dominò come
riuscì, anche se con Rickon non era sempre facile.
-Il piano dev'essere anticipato.- ripetè Rickon. -Io voglio
Myrcella qui, e se la voglio qui
ora, me la andrò a prendere ora.-
Non fa una piega, pensò Bran, sarcastico.
-Ma così rischia di fallire. Hai bisogno di un certo numero
di uomini...-
-Bene, allora li prenderò con me.- Rickon non capiva dove
stesse il problema.
-Anche Arya deve prenderne parte.-
-Sì, esatto, e allora?- s'infastidì il fratello
minore.
Bran contò fino a dieci mentalmente prima di rispondergli.
-E allora, se per colpa della tua impazienza il piano fallisce, non
solo metti in pericolo te stesso, ma anche tutti gli altri e la tua
stessa sorella. Sei pronto ad assumerti una responsabilità
simile?-
Rickon non esitò nemmeno un istante. -Se il piano avesse
funzionato fra una settimana, non vedo perchè non dovrebbe
funzionare adesso.-
Il re del Nord mantenne gli occhi fissi nei suoi ancora
per qualche momento, infine annuì gravemente con il capo. Se
questa era la scelta di suo fratello, che vi andasse incontro e la
portasse avanti fino in fondo, allora. Non aveva nessun diritto di
impedirgli di compiere i suoi errori, o di dimostrargli quanto avesse
ragione. Però volle essere sincero, così da non
doversene pentire in futuro, così da poter dire di aver
fatto tutto il possibile per trattenerlo.
-Vuoi sapere come la penso, a questo riguardo?- chiese retoricamente.
Rickon ghignò. -Credo di averlo già capito, ma
sospetto anche che tu me lo stia per ripetere.-
-La Fortezza Rossa non è così facile da espugnare
come pensi. Se ti presenti là, ti uccideranno.-
In realtà, Bran non aveva quasi dubbi a proposito. Magari
sarebbe riuscito davvero ad abbattere le porte e far affluire una
miriade di soldati dentro la Fortezza, però non sarebbe
sopravvissuto.
Rickon parlò con impeto. -Me ne frego del futuro. Che ne so
io, che ne sai tu, del futuro?
Potrebbe cascarci in testa un fulmine in questo preciso istante, ma non
è lo stesso un buon motivo per non vivere. Avrei potuto
morire
di freddo a Skagos, essere divorato da una pantera ombra, essere
strangolato nel mio letto da una spia. Lo sapevo, l'ho sempre saputo,
ma se sono ancora qui l'unico motivo è che non me ne
è
importato niente. So soltanto che andare là è
quello che voglio, adesso.
Quando sarò morto, avrò tutto il
tempo per procrastinare e piangere e perdere tempo come fai tu. Quel
che voglio fare adesso è agire.-
Bran questa volta si lasciò travolgere da una
risata tragica, quasi empia. Contagiò le labbra e si diffuse
fino allo sterno. Egli rise e rise e rise finchè non gli
mancò il fiato.
Poi gli si rivolse con amarezza. Lo sapeva già. Il destino
non avrebbe potuto più coglierlo impreparato.
-Morirai, Rickon.-
pronunciò con voce dura ed indulgente al tempo stesso, come
se dovesse spiegare una cosa molto facile ad un bambino.
Rickon gli lanciò un ultimo sguardo, che trasmise nuovamente
l'artico vento del Nord, come se i suoi occhi l'avessero imparato a
memoria.
-No, invece non morirò. Nessuno morirà
più.-
Dopo che fu uscito di lì, furioso quanto il metalupo accanto
a lui, Bran si limitò a fare un cenno ai suoi servitori.
-Adesso portatemi la cena ed andate via. Non voglio vedere nessuno.
Cacciate via chiunque chieda di me. Ho sonno.- mentì
seccamente.
Gli uomini annuirono con un umile cenno del capo e si dileguarono. Bran
si sforzò di non pensare più a niente: la
realtà era diventata davvero troppo pressante, cercava di
infiltrarsi nella sua testa in ogni modo, di gravare la sua anima di
mille dolori altrui. Era stanco di tutto questo.
Ma nonostante quell'esaurimento delle forze e dell'energia, non sarebbe
mai riuscito a prendere sonno. Non appena chiudeva gli occhi, la sua
mente si colmava del rumore della lama che apre la pelle, che spalanca
la gola, che svela il sangue e le ossa, e poi del tonfo del corpo
esanime che crolla a terra. La morte di Jojen lo destabilizzava come un
cancro, giorno per giorno, mentre ormai le chiacchiere sibilavano
crudeli le peggiori menzogne, nient'altro che deturpate
verità: a loro parere, a parere del mondo, il re avrebbe
dovuto smettere di disperarsi da un pezzo. Questo lutto infinito era
visto di pessimo occhio. E a Bran non importava più niente:
nè della guerra, nè del trono, nè
delle chiacchiere. Ora c'era solo silenzio. Non so quando esattamente tutto
ha cominciato a morire, pensò, nè quando io ho
cominciato a uccidere. Ma sembra che da allora non sia rimasto altro.
Una serva entrò con una brocca di vino e un
pezzo di carne arrostita. Mangiò senza appetito qualche
boccone e sorseggiò mezza coppa, poi lasciò il
resto sul tavolo.
A quest'ora, probabilmente, Rickon stava già radunando le
truppe, Arya stava indossando la sua armatura... e poi, avrebbero dato
inizio al piano.
Se avesse funzionato, la guerra sarebbe stata vinta.
Se avessero fallito, la guerra sarebbe stata persa.
In entrambi i casi, Bran non avrebbe battuto ciglio. Era oltre la
vittoria, oltre la gioia, oltre l'ebbrezza. Oltre l'estate.
D'un tratto, inaspettatamente, la serva parlò.
-Ci sono accorgimenti che un re non dovrebbe mai trascurare.-
Bran si voltò verso di lei, allibito. Era balzano che una
schiava aprisse bocca senza che fosse stata interpellata.
-Prego?-
-Per esempio, avere sempre con sè un coppiere personale.- Le
labbra della donna s'incurvarono sotto il cappuccio. -Non si sa mai
cosa possa celarsi, dentro una coppa di vino.-
Il re del Nord le rivolse un'occhiata smarrita, prima di irrigidirsi,
tentare di sorreggersi al tavolo e perdere i sensi, cadendo sul
pavimento. Melisandre scostò il cappuccio, permettendo alla chioma cremisi di scivolarle sulle spalle come un manto.
-Finalmente l'ho trovato, Mio Signore.- rivelò a mezza voce,
con un lieve sorriso, esaminando il corpo inerte di Brandon Stark con
serafica serenità.
Note dell'Autrice: Ed eccomi, dopo
mesi e mesi di assenza. Ormai vi sarete dimenticati della
mia esistenza! Credevate che non mi sarei più fatta sentire,
vero? Ebbene, mai perdere la speranza! XD Quel che leggete l'ho scritto
praticamente tutto in una settimana. La quarta stagione mi ha fatto
tornare l'ispirazione giusta per continuare. Tanto per informazione, il
prossimo capitolo sarà l'ultimo, e poi ci sarà un
epilogo.
E' un capitolo infinito, ma volevo ripagarvi dell'attesa! Grazie mille
a tutti quelli che hanno letto...
...nella speranza che qualcuno lo abbia fatto. XD Grazie a tutti,
davvero! Chi volesse lasciarmi una recensione... *strofina un piede per
terra e poi si dilegua*
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Blu fu l'inferno. ***
11
XI.
Blu fu l'inferno.
Tutto iniziò con un suono.
Era lieve, timido, incerto, quasi non volesse turbare l'oblio del
silenzio; però si definiva sempre di più,
arricchendosi
di sapori e colori, quasi ritratto dal pennello di un pittore. Pian
piano, visione si srotolò davanti a Bran in un arazzo -dai
colori scuri d'un sudario.
Era la voce delle foglie d'un albero del cuore, livide come le dita dei
morti ed il vino essiccato, che frusciavano scambiandosi baci effimeri.
Il vento soffiava il proprio fiato a pelo dell'acqua, tracciando
traiettorie incomprensibili che s'inarcavano mortificate e sfregiando
l'esattezza della superficie, levigata come vetro. L'acqua dello
stagno, torbida e chiazzata di foglie autunnali, esalava una nebbiolina
impalpabile ed odorosa di linfa; la geometria dei rami dell'albero del
cuore, pallido ed imponente come un sovrano fra i suoi sudditi, vi si
stagliava in un gioco d'ombre ed inganni, facendo cadere i
frequentatori nell'errore di credere che esistesse un'altra dimensione,
parallela a quella, alla rovescia ed immersa nel buio degli abissi. La mestizia di quella giornata,
plumbea ed uggiosa, trovava il proprio paradosso in un sole rigoglioso
ed un cielo puro.
La riva dello stagno,
leggermente in
rilievo rispetto al prato che la circondava, era solcata di radici
simili a vene e foderata di umido muschio verde. Due giovani, un
ragazzo ed una ragazza, vi erano accomodati, le ginocchia ritratte al
petto e le braccia a cingerle. Lei dimostrava all'incirca sedici anni,
e la cosa davvero formidabile era la sua somiglianza con Bran, che -da
mero spettatore qual era- non poteva fare altro che contemplarla
incredulo. Aveva lo stesso viso allungato, le stesse labbra piene, lo
stesso profilo diritto ma sgraziato del naso, le
stesse guance affilate, lo stesso taglio degli occhi. Persino i capelli
erano i suoi, d'un castano mogano e torvo, dalle fibre spesse, e
scrosciavano fino alle cosce della ragazza. Indossava un abito di raso
rilucente, avorio ma ricco di bagliori rosati, che si allargava attorno
alle sue gambe come una pozza adamantina; le maniche erano interamente
di pizzo, sul petto v'erano decorazioni di rame e in vita portava una
cinta di minuti fiori d'ambra. In definitiva aveva un'aria molto
virginale, ma anche parecchio triste. Nei suoi occhi risiedeva un
tormento indefinibile.
Il ragazzo, Bran lo conosceva benissimo, perchè era Jojen
Reed.
Fu a quel punto che il re del Nord si rese conto di starsi affacciando
alla vita di Levenna Stark, sua figlia.
-Questo è vento d'autunno, ormai.- Il sussurro di Jojen si
disgregò nello spazio fra loro, diffondendo un sentore di
pericolo.
Levenna ghermì la brezza con i palmi delle mani, come
un'assetata che attinge ad una fonte. Chiuse gli occhi. La sua bocca
aveva la piega sofferta di chi ha vissuto i dolori di chiunque le sia
vicino; Bran pensò che le analogie fra loro stavano
diventando
sempre più inquietanti.
-La nostra era un'estate bugiarda.- commentò Levenna, con
una
voce chiara e melodiosa che mal s'addiceva al suo sguardo
intransigente. -Ma non so se le preferisco la sincerità
dell'inverno.-
-Nessuno lo sa meglio di te.- la contraddisse Jojen, con la
solennità che gli era propria.
La fanciulla serrò gli occhi in due fessure. La bluastra e
surreale atmosfera del parco degli dèi la faceva somigliare
ad
un'apparizione spettrale.
-La consapevolezza paga.-
-Troppo, ma mai quanto vale.-
Il discorso annegò nello stagno. Il silenzio si
dilatò
come una ragnatela di brina. Levenna esitò; sembrava
perseguitata da un pensiero.
-C'è qualcosa che mi preoccupa da molto più
vicino, Jojen, e non riesco a capire...-
Bran avrebbe voluto opporsi a quella visione: lo infastidiva sempre di
più. Quella non
aveva nessun diritto di parlargli così, di consultarlo in
quel
modo, di... di fare le stesse cose che anche Bran aveva fatto. Jojen
era il suo
consigliere, e
quindi doveva aiutare solo lui. La loro confidenza gli risultava
intollerabile. Cosa ci faceva, Jojen, proiettato nel futuro con
quella, quando era Bran
ad avere un gran bisogno di lui? Era profondamente ingiusto.
Jojen, aggrottando le sopracciglia, esortò Levenna
a proseguire.
Lei tentennò. -... se le visioni non possono cambiare,
ciò che mi appare... è già stabilito?
Irrevocabile? Non c'è speranza di... rimediare?-
Il ragazzo riflettè. -Per quanto ho potuto dedurre
è così, ma la nostra non è una
scienza esatta. Cos'hai visto, Levenna?-
Il petto della fanciulla s'alzò ed abbassò in un
respiro
affranto. -Non... non ne voglio parlare. Il solo fatto di dirlo ad alta
voce me lo
farebbe sembrare più vero, ed è l'ultima cosa che
desidero.-
Jojen la
fissò negli
occhi, con quella delicata premura, quella sollecita partecipazione che
Bran era solito scorgere solo quando il greenseer parlava con lui.
-Siamo qui per affrontare le
cose insieme, non per fare finta che non esistano finchè non
ci
travolgono.- mormorò piano, con voce morbida, sfiorandole
una
mano con le dita.
Bastò un simile effimero contatto per velare di rosso la
visuale
di Bran, offuscata di rabbia. Perchè la toccava?
Perchè
era lì? Perchè quell'insieme così infido, lasciato
così impunemente in una frase? Insieme... che fosse
possibile?
Levenna cominciò a scuotere la testa, quasi stesse
arretrando di fronte all'imponente dolore di quel destino.
-Non in questo caso. Non a queste condizioni. No, non ci sto. No...-
-Levenna, Levenna, ti prego, mantieni la calma.- Le
prese i polsi senza violenza, spingendola a guardarlo negli occhi. Solo
allora Bran si accorse ch'erano identici, quelli di lei e quelli di
lui: verdi come il muschio ai loro piedi.
La principessa di Grande Inverno ansimò. -Kenned... lui...
non...-
-Kenned
è un buon re.- sussurrò Jojen, meditabondo.
-Solo, è privo di qualsiasi esperienza. È per
questo che ha
bisogno di te, ad aiutarlo, a sorreggerlo, a consigliarlo.-
Levenna strappò all'improvviso una manciata d'erba, mentre
una
smorfia di dolore le attraversava il volto, come se un arbusto le
avesse sfregiato una guancia.
-Come faccio a dare consigli, se io per prima non ho idea di che cosa
fare?! Ho visto cose, cose...- S'interruppe, come se il dolore
la soffocasse, sopraffatta. Continuò a voce più
bassa.
-Ho visto la capitale nello scompiglio. Ho visto quei due maledetti
gemelli devastare il Sud con le loro eterne lotte fratricide. Ho visto
una ragazza bionda e bellissima baciare mio fratello sulle labbra,
estrarre un pugnale e conficcarglielo nel petto...-
Un'ombra calò sul viso di Jojen, che chinò il
capo. La
consapevolezza palpitò lenta e silenziosa sui suoi
lineamenti,
come un'ustione. Il dolore non era altro che un ricordo sbiadito; ce ne
erano stati tanti, prima di questo, Bran lo sapeva. Egli, intento
all'impatto visivo che quella visione esercitava su di lui,
faticò vagamente ad accorgersi che stavano preannunciando la
morte del suo primogenito. Il greenseer riprese a parlare in modo
talmente sommesso, che il bisbiglio dell'acqua quasi lo sovrastava.
-Gli Stark sono perseguitati dalla maledizione del primogenito. Prima
Brandon, fratello di tuo nonno. Poi tuo zio Robb e suo figlio, ancora
in grembo alla madre. Ora Kenned... Dovrai essere forte, Levenna. Lo
sai.-
Lei si scostò, come se si fosse scottata. L'indignazione le
storceva le labbra in un urlo soppresso.
-Io non voglio essere
forte, Jojen. Io voglio rannicchiarmi fra le
braccia di qualcuno più forte di me e piangere. Voglio
nascondermi e lasciare agli altri queste dannate
responsabilità. Tu eri un eroe, mio padre era un
eroe. Io
no. Non voglio esserlo. Non posso esserlo.- Il respiro che le dilatava
la carotide era spasmodico.
-Il destino ha in serbo molte sorprese per te, anche se adesso non ti
sembra affatto.- esordì Jojen con calma circospetta. -Gli
dèi ti hanno concesso questo dono per un
motivo.-
-Giusto, per salvare il Nord!- Sulle labbra di Levenna tuonò
un sorriso amaro. -Non so nemmeno salvare mio fratello, e
dovrei pretendere di salvare il Nord intero.-
-Non il Nord.- Ormai la voce di Jojen era un soffio. -Tutti e sette i
regni.-
Levenna fremette. Schiuse le labbra e non ne uscì alcun
suono,
quasi fosse la corolla d'un fiore. Le parole, perdute, volteggiarono
nell'inanità del vuoto caliginoso che li avvolgeva.
I loro sguardi erano così persi l'uno nell'altro da parere
indistinguibili. Verde nel verde, fermezza e dolore coniugati in un
unico vibrante respiro. Silenzio.
Bran percepiva il cuore battergli sempre più rapido,
frenetico,
pungolato da un presentimento oscuro. Aveva paura. Riusciva quasi a fiutare
nell'aria
ciò che stava per succedere. E aveva paura, fottutamente
paura,
ancora più paura di quando Jaime Lannister gli aveva sorriso
dolcemente scagliandolo giù da quella torre -ancora
più
paura di quando aveva scoperto che Theon Greyjoy era un traditore. E
Bran ebbe la certezza che, in quel preciso momento, anche il cuore di
sua figlia stesse pulsando all'impazzata, sotto i finimenti di rame del
vestito candido che indossava.
D'un tratto, non volle assistere fino alla fine.
-Jojen, tu... devi
aiutarmi...
aiutarmi a...-
Levenna precipitò sulle labbra di Jojen come se si
stesse lanciando in una voragine senza ritorno.
Quei brevi, infiniti istanti furono in apnea per Bran. Ciò
che
davvero lo ferì non fu lo sconcerto,
l'incredulità; al
contrario, la cosa più terribile era quella sorta di ironica
accettazione, di mesta rassegnazione, come se in fondo l'avesse sempre
sospettato.
E l'aveva sempre sospettato. Levenna è...
qualcosa di meraviglioso. Non
aveva forse detto così? Qualcosa di
meraviglioso... Quelle
parole gli morsero la nuca. Il
silenzio si fece insopportabile come una cappa di piombo rovente, e
quel bacio parve non finire mai, sospeso nella dimensione
dell'eternità dell'orrore.
Poi, dopo l'infinito, l'inferno e tutto quel che lo segue, Jojen la
scostò.
Con dolcezza, con riguardo, certo, ma la scostò.
-Levenna, no. Ti prego. Non costringermi a dire quel non vuoi sentire.-
pronunciò scadendo le parole, le mani ancora sulle sue
spalle. I
suoi occhi erano velati d'una fermezza stoica come il metallo e pallida
come le lacrime. Non parve avere intenzione di dire altro.
-Che ami soltanto lui? Lo so.- La ragazza si limitò a
fissarlo,
con un sorriso beffardo sulle labbra e una cicatrice nello sguardo. -Lo
so già. Mi viene ostinatamente impedito di scordarlo ogni
singolo giorno, dopotutto.-
-Non ho mai amato nessuno prima di lui,- asserì Jojen,
lentamente, -non mi è stato dato di sopravvivergli per amare
dopo. L'ho amato, lo amo ancora.-
Levenna annuì con il capo, una volta, due, tre. Nelle sue
pupille, il vuoto. Sul suo viso, d'un tratto, v'era la stessa tristezza
che minacciava di sfregiare il volto di Meera Reed.
-È questo il motivo per cui io e Brandon Stark non siamo mai
riusciti ad essere padre e figlia. Come potrei dimenticarlo?-
E Bran, spettatore impotente, pensò che era vero.
Pensò
che quell'inspiegabile risentimento che aveva provato nei suoi
confronti, nel momento aveva udito il suo nome per la prima volta,
sarebbe rimasto fino a che non avrebbe esalato l'ultimo respiro.
Pensò, semplicemente, che la detestava. Una brace
sconosciuta
gli aggredì il cuore come se volesse arderglielo, ancora
pulsante, nel petto.
Sua figlia rabbrividì, quasi che il vento, in vece di
araldo, avesse soffiato sino a lei quello spiffero d'odio.
-Non mi voglio svegliare mai più, Jojen. Non voglio tornare
alla vita reale.- Le sue parole dolevano come ferite.
-Alla fine ci si sveglia sempre,- ribattè lui.
-fortunatamente.-
-Kenned morirà?-
La linea delle labbra di Jojen s'inasprì. -C'è
ancora qualcosa che tu puoi fare.-
Levenna schiuse le labbra. Nelle sue iridi, tonda, elementare ed
inestimabile, la speranza.
-Qualsiasi cosa.-
***
I polsi morsicati da una tagliente corda di fibre
vegetali, i
piedi scalzi a causa delle minute scarpette smarrite nel cammino,
fecero rivivere a Myrcella quello ch'era ormai un frammento del suo
passato. Ricordava vividamente quel giorno lontano, in cui aveva posato
le piante dei piedi sulla neve illibata del Nord, in cui si era
presentata al cospetto di Brandon Stark, in cui Rickon l'aveva condotta
per la prima volta nelle segrete e le aveva detto che la parola onore
è offensiva, sulle labbra di un Lannister... Solo che adesso
era
tutto alla rovescia. Era tutto sbagliato.
Suo zio Jaime le fece salire molte scale, senza più
pronunciare
una parola. Si chiese, vagamente disinteressata, dove volessero
rinchiuderla: realizzò che probabilmente l'avrebbero
condotta
nella torre più alta, perchè così per
Rickon
sarebbe stato eventualmente più difficile raggiungerla,
senza
farsi cogliere in flagrante. Sorrise, e provò quasi
compassione
per i suoi familiari. Non avevano idea del nemico che stavano per
affrontare. Non sapevano com'era fatto Rickon, non conoscevano
l'ostinazione con cui egli si impuntava quando desiderava qualcosa. Non
si sarebbe lasciato scoraggiare davanti a nulla, lui; se l'avesse
voluta di nuovo al suo fianco, cosa
più che ovvia, l'avrebbe recuperata, e basta.
La fanciulla, attenta a non attirare l'attenzione,
tastò
prudentemente la federa nascosta cucita all'interno del suo vestito: ne
aveva fatta applicare una in ciascuno, in modo da poter portare sempre
con sè l'arma che Rickon le aveva donato, il prezioso corno
proveniente da Skagos. Si accertò che fosse ancora
lì
riposta, intuendone con i polpastrelli la sagoma lunga ed affusolata, e
si sentì rassicurata. Non aveva avuto il tempo di estrarlo
quando Jaime era sopraggiunto, perchè l'aveva fatto alle sue
spalle, all'improvviso -e lei mancava dei riflessi della guerriera- per
poi bloccarle le mani dietro la schiena, vanificando ogni
possibilità di recuperare l'arma dal nascondiglio. Invece
che
insistere per cercare di sguainarla, Myrcella aveva ritenuto
più
furbo attendere pazientemente di rimanere sola, o comunque di vedere la
sorveglianza allentarsi attorno a lei, e solo allora trovare il momento
giusto. Continuava ad avere le mani legate, in fondo. L'importante era
che il corno fosse ancora lì e che nessuno sapesse della sua
esistenza.
Quando finalmente giunsero sulla cima di quella che a Myrcella parve la
torricciola più alta della Fortezza Rossa, ai loro occhi si
presentò soltanto una piccola stanza circolare, disadorna,
dalle
pareti acciottolate di grossi mattoni squadrati. Era talmente
insignificante che lei non l'aveva neppure mai vista, in tanti anni che
aveva trascorso lì. Però era in alto e, cosa
altrettanto
importante che non mancò di notare, v'era al centro una
botola
protetta da sbarre di ferro: l'ideale per una fuga improvvisata. Per il
resto, nemmeno una finestra o una traccia di mobilia.
-Un bel cambiamento, rispetto agli appartamenti che avevo prima di
andarmene.- commentò Myrcella, con voce leggera ma non
esente da
un pizzico di asprezza.
Un bel cambiamento,
rispetto al temperamento che avevi prima che Rickon Stark ti fottesse, pensò
Jaime con tristezza. Altrettanto odioso gli suonava quell'andarmene,
come se fosse stata fin dall'inizio una sua scelta libera e
consapevole, e non un lurido rapimento consumato da un bruto selvaggio
e forsennato.
-Spero sia ugualmente di tuo gradimento.- rispose, con voce monocorde.
-È solo un alloggio temporaneo. Quando l'assedio
sarà
finito...- Esitò.
-... se vincerete.-
aggiunse la fanciulla, con placido sarcasmo, sorridendo fra
sè. Vincete.
Se voi Lannister vincete.
-... sarà re Tommen a decidere il tuo destino.- concluse
Jaime,
con voce ferma e sguardo imperscrutabile, in cuor suo a disagio. Questa
nuova Myrcella lo spiazzava, gli impediva di reagire, di provare un
sentimento chiaro e comprensibile come rabbia o delusione, ma solo un
groviglio di debolezza e malinconia bizzarro ed ingovernabile. Non
sapeva se voleva abbracciarla o metterla in punizione. Non sapeva se
era felice del suo cambiamento, che l'aveva resa più donna,
o se
fosse indiscutibile l'imperativo dell'indignazione e della
costernazione per quel radicale tradimento. Come tutti i figli suoi e
di Cersei, anche Myrcella era oggetto del suo affetto, odio ed
indifferenza contemporaneamente, sporadicamente ed enigmaticamente. Non
riusciva a riconoscerla come qualcosa di proprio, su cui esercitare un
potere, un giudizio, una condanna. Non riusciva a decifrarla, a
classificarla.
Jaime indicò alla figlia il pavimento, per farle intendere
di
sedersi; accidentalmente, l'occhio gli scivolò sulle braccia
di
lei.
All'interno dei gomiti, lunghe strisce blu e nere come inchiostri
tracciavano il racconto d'una storia macabra ed irreparabile sulla sua
pelle candida. Risalivano agguantando la spalla, possedendo il petto,
aggredendo il collo, invadendo la nuca. Più Jaime
nè
cercava, più ne trovava, sconvolto ed atterrito dall'orrore.
Non potè trattenersi dall'allungare una mano e scostarle la
gonna del vestito, incredulo; Myrcella lo lasciò fare,
noncurante, quasi assorta nelle proprie meditazioni.
Sul fianco e
sulle cosce di lei, come sospettava, si allungavano chiazze
viola
merlettate
di verde, manifestandosi a macchie e puntini come un morbo pestifero,
inerpicandosi sul suo corpo come una bizzarra pianta
rampicante.
-Questi,- biascicò, concitato, indicandoli uno ad uno,
-è stato lui a farteli?-
La fanciulla non si scompose; non lo guardò nemmeno, come se
desiderasse ignorare la sua presenza.
-Sì. Risalgono a tre mesi fa. Allora eravamo solo
all'inizio.
Questi sono vecchi. Questi invece sono nuovi.- spiegò,
sfiorandoli con il dito indice. Con la serenità con cui
diceva
tutto ciò, pareva sfidarlo a protestare, a controbattere, ad
infuriarsi. La sua voce era di velluto. -Lui mi ama, mi desidera.
Desidera ogni
parte di me. Ci tiene a
marchiarmi. A ribadire che sono sua.-
-Rickon
Stark è pazzo.- replicò Jaime, scuotendo la testa
con una smorfia di disprezzo.
La fanciulla lo fulminò con lo sguardo, scontrosa.
-Non capisci, zio Jaime. Nessuno di voi capisce. Lui ha bisogno di amore.-
Accentò quell'ultima parola con un vigore quasi rabbioso.
Jaime fece una smorfia stomacata. -L'unica cosa di cui ha bisogno
è una spada nelle budella. Ti ha stuprata, Myrcella.
Sai cosa significa?- Fissò la figlia negli occhi, con
gravosa
intensità, sillabando quelle parole con astio faticosamente
trattenuto; e lei sostenne il suo sguardo senza vacillare, con chiusa
ostinazione. -Significa che ti ha costretto a fare sesso con lui contro la tua volontà.
Un uomo simile non ti ama, ed evidentemente non merita di essere amato.
Tutto questo, a partire dai lividi fino alla tua malata ossessione per
lui, è frutto di un tragico, traumatico stupro, che, a
quanto sembra, non sei stata in grado di affrontare.-
-Io mi sono innamorata di lui, zio Jaime.- La risposta di Myrcella fu
fredda ed un po' scostante. -Il fatto che non sappia
spiegarti come è potuto succedere, non significa che non sia
vero.-
-Non ci si innamora in sette mesi.- proferì il padre,
con respingente scetticismo.
-A me è capitato in un istante.- rimbeccò la
ragazza, seccamente.
-Tu credi di amarlo,- la corresse lui, -ma è solo
un'illusione dettata dall'eco del
potere che lui ha esercitato su di te finora. Una specie di inganno che
stai giocando a te stessa.-
-In questo momento, è l'unica cosa di cui io sia davvero
sicura.-
-Spiacente di aver mandato a monte la tua farsa, allora.- Jaime
sospirò, passandosi una mano sul viso. Il fatto che la
figlia
non riuscisse a vedere ad un palmo dal suo naso, che persistesse ad
essere così cieca,
che si rifiutasse di ammettere l'evidenza da un lato lo infastidiva,
dall'altro gli comprimeva il cuore di compassione. -Ragiona, Myrcella.
Non puoi
esserti innamorata di un uomo che ti ha fatto violenza...-
Myrcella, arrossendo, scattò come una biscia.
-Come puoi sapere, tu, come puoi capire?! Tu non c'eri. Tu non hai
vissuto niente di tutto ciò.- lo accusò con voce
stridula, vibrante di stizza. -Ma io c'ero, e posso assicurarti
che quello che dici tu
era
solo nei primi tempi. Ero ancora molto stupida e molto confusa. Poi
tutto all'improvviso è diventato chiaro, e ho capito. E mi
sono
concessa a lui, come qualsiasi fanciulla innamorata farebbe.- Distolse
lo sguardo, intimidita all'idea di ritrovarsi a parlare di cose simili
con suo zio.
Jaime sorrise senz'allegria. -Dopo che lui aveva già fatto i
suoi porci comodi in ogni maniera, vorrai dire.-
-Stai zitto, zio Jaime.- esclamò Myrcella a quel punto,
furibonda, avvampando
di sdegno. Così, con quell'espressione indispettita sulle
labbra e gli occhi serrati in due fessure, assomigliava quasi
brutalmente a Cersei. Beh,
anche l'atteggiamento è più o meno lo stesso,
pensò Jaime con ironia.
Stava probabilmente per aggiungere qualcosa, quando Tommen Lannister
entrò nella stanza a passo di carica. Al suo fianco e alle
sue
spalle, un drappello di guardie con lo stemma dei Lannister e dei
Baratheon insieme lo seguiva silenzioso. Myrcella squadrò il
re
dei Sette Regni, senza sorridere. Gli parve diverso, ma probabilmente
era per via dei capelli un po' più lunghi e della peluria
dorata
che egli aveva lasciato crescere sopra il labbro e sulle guance. E la
sua espressione, anche, irremovibile in una disapprovazione che non si
curava di nascondere. Mascherare i propri sentimenti non era abitudine
di Tommen. Egli continuò a guardare la sorella,
però,
quando parlò, si rivolse a Jaime.
-Vedo che hai portato a compimento il tuo incarico.-
osservò, lapidario. -Hai riscontrato difficoltà?-
-Nessuna.- assicurò il padre, aggrottando la fronte. -Era
sola.
Non c'è stato bisogno di versare sangue. Gli Stark non lo
verranno a sapere prima che l'esercito si ritiri.-
Myrcella era irritata: si parlava di lei come se non fosse stata
presente. -Quindi sei stato tu a dare l'ordine ti portarmi qui...-
Fu come se non avesse aperto bocca.
-Quel che importa non è quando. È sufficiente che
Rickon Stark, nel momento in cui lo saprà, si
precipiti a salvarla.- proseguì Tommen, indifferente.
-Stavamo
discutendo su chi dovesse farle la guardia, e io avevo proposto che
fossi tu... però zio Tyrion dice che sei indispensabile per
la
mia difesa, che non mi devi abbandonare un attimo. Stessa cosa per ser
Loras. Voi dovrete proteggere me, e io... beh, io ho cose
più
importanti da fare che stare qui. Io, te e ser Loras attenderemo il
maledetto ai piani inferiori, così che, con un po' di
fortuna,
chi fa la guardia alla prigioniera dovrà soltanto annoiarsi.
Vorrei che fosse ugualmente una persona di fiducia. Hai qualche
proposta, zio?-
-Brienne.- disse Jaime, prontamente, senza esitare neppure un attimo.
-Le affiderei la vita di chiunque. È un'eccellente
spadaccina e
la donna più coraggiosa che abbia mai conosciuto.-
Tommen annuì, approvando una per una le parole dello zio.
-Molto
bene. Vado ad avvertire lady Brienne: raggiungimi non appena lei ti
dà il cambio.-
Si voltò e fece per uscire, impassibile, seguito da tutti i
suoi
uomini. Myrcella non riuscì a trattenersi, ancora risentita
per
essere stata ignorata.
-Hai commesso un terribile errore. Lui verrà a riprendermi e
vi ucciderà tutti. Tutti.-
Una strana nota trionfante storpiò l'ultima parola.
Proprio come la sorella sperava, Tommen s'immobilizzò: non
riuscì a far finta di nulla. Quando si girò
nuovamente,
nei suoi occhi c'era uno squarcio quasi repellente alla vista.
-Queste parole potrebbero essere punite molto severamente, Myrcella.
Non hai più i diritti di prima. Non sei qui in vece di
principessa, ma di prigioniera. Per quel che mi riguarda, sei una
Stark, adesso.- La sua voce non era solo dura e potente, ma diritta,
solida, compatta, senza crepe. Apparentemente, immune al dolore: in
realtà,
nient'altro che dolore. Myrcella lo sapeva.
Percepì un ghigno sventato disegnarlesi sulla bocca. Le
parole suonarono insolenti alle sue stesse orecchie.
-Lieta di sentirlo. Lo prendo come un riconoscimento d'onore.-
Tommen serrò i pugni; evidentemente, compiacerla non era il
suo
scopo. Sputò acido, cercando di impregnare le proprie parole
di
tutto il male che aveva subito per colpa sua- di tutto il male che
voleva restituirle, in un vizioso circolo a cui l'imperfetta umana
natura costringeva.
-O, per meglio dire, la puttana
di Rickon Stark.- precisò fra i denti. La sorella,
però,
non si scompose affatto. Quell'insulto così volgare, che un
tempo l'avrebbe fatta sussultare dallo sgomento e dall'imbarazzo
-soprattutto se proferito dal fratello- non la toccò per
nulla.
A giudicare da quel sottile ghigno scellerato, i capelli sciolti e il
viso proteso in avanti, pareva che il sangue le si fosse acceso nelle
vene. Possibile che avesse aspettato di mettersi contro i Lannister,
per diventare a tutti gli effetti una di loro?
-Meglio essere la puttana di Rickon Stark che la regina legittima di un
re debole e incapace come te.- obiettò, inarcando le
sopracciglia. -Rickon è un uomo. Tu sei un
lattante che non sa nemmeno tenersi fedele la moglie.- Lo
squadrò da sotto in su, con un sorriso carico di derisione e
disprezzo. -Non ho mai visto al fianco di Rickon una sola guardia, e
guardando te, circondato di uomini come una fanciulletta di dieci anni,
mi viene da ridere.-
-Non osare mai più paragonarmi a quell'animale!-
Tommen non riuscì a credere di averla schiaffeggiata con
tutte le
sue forze, fino ad aprire un taglio sul suo labbro inferiore; quando
vide un rivolo di sangue colare sul pavimento, inorridì
della sua stessa inconsulta violenza e
deprecò quel gesto impulsivo, e per un attimo fu quasi
tentato
di chiederle scusa. Myrcella rimase a capo chino, con il collo piegato
come la corolla d'un giglio morente, i
capelli sporchi di cenere come una cortina a nasconderle il viso. Le
sue spalle bianche e belle fremettero.
-Sei un vigliacco.- sentenziò, ancora una volta senza
lasciarsi
travolgere dall'ira, ma pervasa solo da una superiorità
quasi
altezzosa, come una fedele che guardi agli spergiuri con
commiserazione. -E non sai nemmeno tirare un manrovescio come si deve.-
Tommen recuperò il respiro, scosso dagli ansiti.
Un'espressione
di pena gli arricciava la fronte, sciupando l'aureo barbaglio della sua
adolescenza. Quandò parlò, lo fece estorcendo
alla
propria gola una sillaba dopo l'altra, con una fatica riottosa che
sapeva di ruggine.
-Rickon Stark stacca la carne umana dai corpi vivi, divora le interiora
delle persone, beve sangue invece che vino. E tu, mostrando la tua
devozione per lui, non fai altro che renderti
complice dei suoi crimini. Gioisci, Myrcella: magari morirete insieme.-
La linea della sua bocca era severa come mai prima d'ora, quasi
estranea a lui stesso.
Myrcella scosse lentamente la testa, sollevandola con gran
dignità, come una regina che raddrizza il proprio diadema.
Il
suo sguardo era lontano, teso a contemplare l'orizzonte. Il
suo
culto incrollabile le ossidava di certezza gli occhi verdi.
Così
sembrava molto più saggia di quanto effettivamente fosse.
-Sei un povero illuso, Tommen. Ma non voglio sprecare altre parole con
te: lui sta arrivando.-
Tommen non raccolse quell'ulteriore provocazione; il fruscio del suo
mantello vermiglio fu la sua replica. Pochi secondi dopo, la stanza era
vuota.
Jaime fu quasi contento di andarsene. La strana ragazza sconosciuta che
aveva preso il posto di Myrcella era oltre il suo aiuto, oltre le
parole di chiunque. La salutò con poche parole; lei parve
non
accorgersene neppure. Stava riflettendo pienamente, ma senza doversi
sforzare, come un astronomo che si bea della luce della propria stella
e si crogiola nella soddisfazione di averla trovata.
Non esiste l'amore contro natura, semplicemente
perchè non esiste nemmeno un amore secondo natura. L'amore
è la
potenza che si oppone alla natura, non intrinseca alla
realtà in
cui gli uomini vivono ma
intrinseca a loro stessi. È l'unica arma che i poveri
mortali
hanno contro la schiacciante inclemenza della fatalità. Se
quello che Myrcella provava fosse stato qualcosa di sbagliato, non
avrebbe sentito quel calore, quell'ardore
che la spingeva fra le braccia di Rickon, quella sensazione di
benessere
così imperiosa ed irrinunciabile. Se aveva bisogno di lui,
se
lui era l'unico a
saziare il suo cuore e manipolare la sua anima, era perchè
Rickon
era giusto, per lei, sotto tutti gli aspetti.
All'improvviso, a strapparla ai suoi pensieri fu l'arrivo di una donna
molto alta e dai corti capelli biondi.
-Brienne.- salutò Myrcella, atona.
-Principessa.- mormorò lei, muovendo gli occhi azzurri in
un'altra direzione, a disagio. La giovane Lannister notò
che, se
prima aveva provato una spontanea simpatia nei suoi confronti, ora
tutto questo s'era essiccato in un'apatia quasi patologica. Solo la
visione di Rickon avrebbe suscitato una reazione in lei. Nonostante non
avesse motivi per volere il bene nè il male di Brienne,
Myrcella
realizzò che, se qualcuno l'avesse assassinata sotto i suoi
occhi in quel preciso momento, ella non avrebbe provato altro che una
pallida, acerba, pigra curiosità, senza che lo stato di noia
catatonica in cui si trovava venisse guastato.
-Mi dispiace.- aggiunse Brienne, aggrottando le sopracciglia folte e
sedendosi con la schiena contro la parete opposta, di fronte a lei.
Myrcella non riuscì a sorridere. -Anche a me.-
Non parlarono più. L'inquietudine della notte
calò lenta,
senza che le palpebre della giovane Lannister cedessero al sonno.
Arriverà, era
il
pensiero a cui tutte le altre sue vaghe, sformate riflessioni
sfociavano, grate, esultanti e pacifiche, in un getto di luce calda e
morbida, arriverà.
Mi salverà.
***
Poco prima che la serata crollasse e soffocasse fra le proprie
macerie, come un irrecuperabile incubo, Meera Stark stava pensando al
proprio matrimonio, proprio quello che l'aveva fregiata d'un nome
così solenne e potente. Non era stata una vera festa: una
cerimonia ufficiale, più che altro, una formalizzazione a
cui
spettatori silenti come ombre avevano assistito con occhi di marmo e
cuore freddo. L'ultimo matrimonio celebrato dai vicini della casa Stark
era stato una carneficina; dopo le Nozze Rosse, nessuno aveva
più voglia di festeggiare. Si erano sposati proprio
lì, il
re del Nord e sua moglie: nella sala del trono, di fronte ad un septon,
la cui voce erano l'unico pallido rumore che si potesse intuire fra
le buie pareti caliginose della pietra. L'atmosfera era
rarefatta
come lava. L'unione di Brandon Stark e Meera Reed fu stipulata al modo
di un funerale, in un silenzio attanagliante; al punto che lei fu quasi
sollevata, quando Bran si scrollò di dosso il manto di
broccato
grigio con ricamato sopra il metalupo, e la sposa dovette
inginocchiarsi davanti al suo scranno affinchè egli potesse
sistemarglielo sulle spalle: la stoffa pesante aderì alla
sua
schiena parzialmente nuda e le cinse le braccia in una carezza
rinfrancante, e il gelo punse un po' meno crudelmente. Nella sua anima,
però, rimase il buio.
Al resto della serata, i sovrani assistettero da sopra i loro nuovi
troni. Meera valutava il peso della propria corona sul capo, il cuore
in gola, consapevole che non sarebbe mai stata in grado di stimarlo
davvero, mentre con lo sguardo esaminava il sordido spettacolo di quei
commensali tristi, la testa china sul piatto, seduti in fila sulle
panche a quei lunghi tavoli scuri, il frastuono delle stoviglie ad
assordare l'udito. Le piogge di Castamere risuonavano invisibili
nell'aria, le pareti celavano chiazze di sangue, la morte di Robb
impregnava l'aria come fumo. Nessuno parlava.
Il vuoto sterminato dell'immenso salone disadorno,
all'improvviso, aveva sopraffatto e divorato ogni cosa. Bran non
fingeva neppure di mangiare: fissava quella messinscena con occhi
inclementi, crepati come i mattoni del suo castello, e di tanto in
tanto lanciava fugaci occhiate a Jojen, quasi supplicandolo di dargli
la forza per proseguire quel gioco infimo e necessario. Eppure Meera
non l'aveva ancora compreso, il dramma che l'attendeva oltre le porte
di Grande Inverno, non l'aveva ancora intuito. La regina di Grande
Inverno ricordava di non aver mai partecipato ad un matrimonio triste
come il proprio; d'altronde, esso aveva suggellato un'unione che aveva
portato ad entrambi soltanto dolore. Bran soffriva per averle dovuto
raccontare così tante bugie, Meera soffriva per averle
dovute
ascoltare. Eppure, non riusciva ad avercela sul serio con suo marito,
per l'amore che provava per il di lei fratello. Lo capiva, semmai.
Meera stessa era sempre stata stregata da Jojen, dai suoi occhi che
sembravano contenere tutta la saggezza del mondo. L'aveva
protetto, quel piccolo fratello debole, e non aveva mai sofferto per
questo. Le sembrava un compito così importante, un ruolo di
cui
andare fiera. Per lei difendere Jojen era sempre stato più
che
un dovere: una missione.
Fin
da quando l'aveva visto per la prima volta contorcersi, per via degli
spasmi che l'aggredivano durante le visioni, aveva ripromesso a se
stessa che non l'avrebbe mai lasciato solo, ad affrontare quella
maledizione. Meera ci teneva a fargli sentire la propria vicinanza;
s'impegnava a non farlo crollare in una solitudine elitaria ed
inoppugnabile, che avrebbe rischiato di estraniarlo dal mondo stesso,
per rilegarlo nella promessa fittizia d'un futuro incompiuto. Gli
stringeva la mano, gli mormorava sono
qui. Era il loro modo di volersi bene.
Sempre insulso, sempre irrisorio, se paragonato a quello fra Jojen e
suo marito, ad ogni modo. Lei, per Jojen, non era mai stata una
priorità. Un affetto relativamente rilevante, forse. Nulla
di
che. Forse c'era persino del vero in questo, forse davvero Meera non
meritava d'avere un posto speciale nel suo cuore: aveva
fallito.
Jojen era morto solo, dopotutto, senza nessuno che gli stringesse la
mano. Si era tagliato la gola,
da solo. Lei non c'era. Lei non l'aveva salvato. Lei
l'aveva abbandonato.
Stava ormai per alzarsi da tavola insieme a Osha, oppressa da quei
pensieri insostenibili, quando irruppero le guardie.
-Maestà, intrusi nel castello!-
Meera avvertì un tuffo al cuore. Si sentì d'un
tratto
come se le fosse stata gettata una secchiata d'acqua gelata addosso.
-Come sarebbe a dire?! Le mura sono sorvegliate e le sentinelle non-
-Vogliamo consultare anche l'oroscopo o possiamo darci una mossa?!- la
interruppe Osha, sguainando la spada che portava nascosta sotto la
pelliccia e afferrando la regina per il braccio. La giovane
cercò di riordinare i pensieri, smarrita. Prima di tutto, Kenned.
-Dobbiamo portare il principe al sicuro.-
dichiarò. -Date l'allarme e fate entrare nel
castello tutti
i nostri soldati. Sappiamo quanti invasori ci sono, qui dentro?-
-Una cinquantina, Maestà.- rispose il capo delle Guardie.
Meera era perplessa.
-Come sperando di assediare Grande Inverno con cinquanta soldati? Sono
pazzi?-
Tra l'altro, attualmente non sapeva nemmeno se Ramsay Snow era o no fra
questi; poteva essere rimasto all'esterno per sicurezza, oppure poteva
aver deciso di entrare per comandare di persona l'assedio e riprendersi
Theon.
-No, sono furbi.- bofonchiò Osha. -Apri gli occhi, amica
mia!
Loro vogliono che tu faccia esattamente quello che stai per fare,
cioè indebolire la difesa all'esterno, di modo che il grosso
delle truppe possa avere l'accesso libero senza problemi. Lascia le
sentinelle lì dove stanno, a respingere le truppe: di questi
qui
dentro, ce ne occuperemo noi.-
Meera si stupì del cinismo di quel ragionamento, del sangue
freddo che Osha era riuscita a mantenere, pur in una situazione
così difficile; lei non aveva di certo quella prontezza. La
bruta era cresciuta in un mondo diverso dal suo, dopotutto, dove la
propria sopravvivenza spesso viene preservata solo mettendo a
repentaglio quella altrui, dove la morte è una consuetudine
quotidiana e le armi sono ancora più indispensabili delle
pellicce e delle provviste. Anche Meera, in quanto regina del Nord,
avrebbe dovuto cercare di riflettere con scrupolo e criterio: ne andava
della vita del suo bambino -dei
suoi bambini.
-Ricapitoliamo, ce
ne occuperemo noi. Tu, io e dieci guardie?-
domandò scettica.
-Possiamo andare a reclutare la principessa dei calamari.- propose
Osha, lanciando un'occhiata circospetta alle scale, quasi temendo di
veder correre giù all'improvviso un drappello di uomini dei
Bolton. Meera annuì distrattamente, poi il pensiero si fece
strada con più violenza nella sua mente.
-Yara...- mormorò. -Qual è il primo posto in cui
si recherebbe Ramsay Snow? La cella di Theon... e Yara era andata a trovare Theon!-
Le due non persero altro tempo.
-Venite con me.- tagliò corto Meera, rivolta ai soldati.
-Osha,
prendi Kenned. L'unico posto attualmente sicuro in cui può
stare
è con noi.-
Esaurirono i gradini in gran fretta: la regina del Nord era convinta di
trovare Yara riversa in una pozza di sangue e Theon sparito nel nulla.
D'altronde era quello l'obiettivo di Ramsay.... ma la speranza che
Bolton non si fosse premurato di agire così in fretta v'era
comunque: dopotutto, non voleva forse anche prendere Grande Inverno?
Meera sperava vivamente che Yara fosse ancora viva -sì, era
una
ragazza presuntuosa e spesso sarcastica fino ad apparire detestabile,
però, dopo due settimane insieme, aveva iniziato a provare
una
sorta di affetto per lei -forse per via dello sfortunato
destino
che condividevano, di donne e sorelle.
Mentre loro salivano, le truppe dei Bolton stavano giust'appunto
scendendo. Meera strinse i denti.
-Osha...-
-Lo so, lo so. Non te lo toccherà nessuno, il tuo bambino,
puoi starne certa.- udì rispondere alle proprie spalle.
La regina del Nord, confortata, estrasse la spada dal fodero: appena
ricostruita Grande Inverno, Bran aveva chiamato un maestro d'armi
affinchè istruisse la moglie con la spada; lei infatti fino
ad
allora era stata capace di combattere soltanto con l'arco, la lancia e
la daga. Meera imparava in fretta, quando si trattava di armi, ed in
quel momento ebbe modo di felicitarsene. Lanciò
un'occhiata ai soldati: fra essi, nessuno era Ramsay Snow. Non l'aveva
mai visto di persona, certo, però era convinta che, qualora
si
fosse parato sul suo cammino, l'avrebbe riconosciuto immediatamente.
Non era il genere di persona che passava inosservato, a quanto pareva.
Meera si sentì invadere da quel furore febbricitante e
vivido
che da un paio di giorni la rendeva irrequieta, ed agì come
un
combustibile sulla sua rabbia repressa, sul suo dolore snervante.
Alzò la spada e disarmò senza
difficoltà l'inetto
che le stava davanti, presumibilmente rompendogli un polso, e gli
strappò la gola con un solo fendente, dove la carne fra
l'elmo e
il pettorale era scoperto. Il sangue schizzò fino a bagnarle
le
mani ed imbrattare gli scalini, rendendoli sdrucciolevoli. Meera non
ebbe nemmeno il tempo di rimanere sconvolta da ciò che aveva
fatto: dovette parare l'attacco d'un nuovo nemico, un po'
più
rapido nei riflessi. Più che il gesto in sè,
ciò
che era davvero incredibile era l'istintiva spontaneità con
cui
l'aveva compiuto, con la schietta abilità di una mercenaria
consumata. Non provava nè rimorso, nè pena,
nè
afflizione: soltanto uno sgomento inebriato, sbrigliato, estasiato. Perchè
le era piaciuto.
Aveva tolto la vita ad un essere umano, e le era piaciuto. Con
qualche affondo nello stomaco dell'uomo, imprudentemente privo
d'armatura, finì il secondo nemico; e poi ve ne fu un terzo,
e
un quarto, e poi Meera perse il conto. Il sangue di quanti uomini si
stava essiccando sulle sue dita? Lanciando una fugace occhiata al
proprio completo, lo vide impiastricciato di macchie che quasi la
spaventarono, e le fecero vorticare pericolosamente la testa.
Preferì non pensarci, e concentrarsi solo sulla propria mano
che
colpiva ed uccideva, con la letale celerità della coda d'uno
scorpione. Perchè, in effetti, era divertente volteggiare da
un
gradino all'altro, ed era addirittura gradevole il calore
palpitante del liquido vitale fra le sue dita, che gocciolava e le
mordeva il polso.
Sapeva ch'era rischioso abbandonarsi così alle proprie
sensazioni, che avrebbe dovuto rimanere più guardinga e
lucida,
ma era una tentazione irresistibile. Quando, grazie all'aiuto delle sue
guardie e della lancia di Osha, il drappello di uomini che li avevano
ostacolati stramazzava esanime sulla pietra, Meera corse al piano
superiore, lasciando agli altri i pochi rimasti.
Una sentinella le venne incontro. -Maestà, la battaglia
fuori
dalle mura è tremendamente feroce. Gli uomini dei Bolton
eguagliano il nostro numero.- ansimò.
Meera si affacciò alla finestra, ansiosa: riusciva
a vedere poco e nulla, però non potè fare a meno
di
notare lo sciamare impetuoso ed abbondante di tutti i soldati nemici,
ad abbattersi ancora ed ancora contro le mura, come tante piccole
formiche nere; tanto che la regina, suggestionata da quella visione, si
ritrovò davvero a temere per la salvezza di Grande
Inverno
e dei suoi abitanti. Ma
non può essere espugnata di nuovo,
cercò di convincersi,
Bran ha preso delle precauzioni in merito. Questo non
accadrà.
Mentre era assorta in quelle meditazioni, non si
accorse di
un guerriero che sopraggiungeva: una lama squarciò senza
difficoltà la trama leggera della sua cotta di maglia,
così come la pelle e la carne del braccio sinistro. Meera
cacciò un urlo, ma prima che potesse reagire l'uomo la
disarmò, e ormai nulla gli impediva di trafiggerla al petto.
Non
fece altro che alzare l'arma: la testa venne spiccata da un colpo
rapido e precisissimo, che la fece letteralmente saltare via, fino ad
urtare con un rumore disgustoso la parete e rotolare in una scia di
sangue quasi melmoso. Meera, ripresasi dal raccapriccio, il viso lordo
di rosso, fissò con stupore la responsabile.
-Yara!- esclamò, senza trattenere la sorpresa ed anche un
certo
sollievo. Era ancora più contenta di averla incontrata
viva...
sia perchè altrimenti le sarebbe dispiaciuto, sia
perchè
senza il suo tempestivo intervento sarebbe stata spacciata.
Yara sorrise quasi con ferocia: i capelli erano indistinguibili dai
grumi di sangue e le vesti ne erano intrise.
-Lo so che ci ho messo tanto, però cercavo questa.-
Brandì la scure che stringeva fra le mani, e la cui
lama
ricurva era ormai macchiata. Era grossa fino all'inverosimile ed aveva
l'aria di pesare straordinariamente. -L'ho presa in prestito dalla
vostra armeria. Non avrei mai potuto combattere degnamente, senza.-
Meera avrebbe voluto chiederle se era proprio sicura di
saperla maneggiare così bene, perchè era davvero mostruosa,
però ne aveva appena avuto la riprova, e bastava rivolgere
lo sguardo alla testa mozzata per accertarsene.
-Come mai questa predilezione?- domandò invece.
Il ghigno di Yara si fece più ampio ed aguzzo. -Alle Isole
di Ferro, ad ogni ricevimento che si rispetti, si balla la danza delle dita.-
Meera aggrottò la fronte. -La danza di che?-
-Te lo racconterò un'altra volta.- rimbeccò
l'altra. D'un
tratto, Shireen fece capolino alle sue spalle. Sopra la camicia da
notte, portava un mantello di morbida lana color fragola.
-Principessa, non dovreste stare qui!- si spaventò Meera.
-È troppo pericoloso...-
-Potrei dire lo stesso a te!- ribattè la ragazza.
-È una
vera fortuna, a proposito, che mia madre sia in visita dai Karstark.
Altrimenti avrei dovuto preoccuparmi anche per lei.-
-L'ho trovata mentre venivo in vostro soccorso. Non c'è
stato
modo di convincerla a rimanere in camera sua.- spiegò Yara.
-Dove sono Osha e le tue guardie?-
-Stavano combattendo contro dei soldati, sulle scale.-
-Devi raggiungerli e farti medicare quanto meglio si può
questa
ferita.- Yara fece un cenno ad indicare il suo braccio. -Sembra
piuttosto brutta. Sei stata davvero un'incosciente. Non potevi stare un
po' più attenta?!-
Meera fece una smorfia; bruciava insopportabilmente, come se il sangue
fosse all'improvviso diventato rovente, e solo l'idea di muovere la
spalla l'atterriva; ma non l'avrebbe mai ammesso davanti a Yara.
-Hai ragione, ma sul serio, non è nulla di grave. Giusto una
benda per fermare l'emorragia...-
-... a meno che l'osso non sia rotto.- borbottò l'altra.
-Su, muoviti, non abbiamo tutto il giorno.-
Shireen attirò la loro attenzione. -Scusatemi, ho una cosa
da
chiedervi.-
-Giusto, dobbiamo trovarti un posto dove tu possa trascorrere le
prossime ore.- rammentò Meera. Shireen strinse le labbra.
-Se foste disposte a tenermi con voi, giuro che non vi
infastidirò nè vi rallenterò.
Farò la brava
e cercherò di non essere d'impiccio. Solo, vi prego, non
rinchiudetemi in qualche torretta come se fossi l'unica principessa sul
pisello della comitiva. Voglio venire con voi.-
Meera e Yara si rivolsero uno sguardo, infine annuirono all'unisono.
Anche s'era piuttosto esile e delicata, la principessa dei Sette Regni
era una fanciulla dal cuore nobile e l'animo coraggioso. Aveva
trascorso metà della propria vita sulla Barriera, circondata
da
bruti e guardiani della notte, fra i ceffi più loschi di
Westeros. Sapeva badare a se stessa.
-Sei abbastanza grande da decidere per te.- tagliò corto
Yara.
-Non possiamo proibirti nulla. Solo, non cacciarti nei guai.-
Mentre proseguivano per il corridoio, squadrò le mani e le
impronte rosse sull'elsa della spada di Meera.
-Il battesimo di sangue è avvenuto, a quanto vedo, ed in
pompa magna.- commentò, ironica.
-Puoi ben dirlo.- sospirò Meera. Shireen avvertì
un
leggero brivido sulla spina dorsale: le sembrava una ragazza troppo
gentile e cordiale, e non riusciva proprio ad immaginarla uccidere.
Osha venne loro incontro, circondata dai soldati; teneva fra
le
braccia il fagotto di pelliccie che le era stato affidato, in cui
Kenned s'era svegliato ed aveva cominciato a piagnucolare con voce alta
e squillante. Gli occhi della donna scivolarono subito sulla manica
strappata e la profusione di rosso che vi sgorgava impressionante.
-Cosa ti sei fatta?!- sbraitò, storcendo il naso.
La regina del Nord sorrise stancamente. -Sei la bambinaia di Kenned,
non la mia.-
-Io non sono la bambinaia di nessuno.- puntualizzò Osha, pur
senza riuscire a mantenere un atteggiamento scontroso,
perchè
troppo in pensiero. -Ti hanno attaccata?-
Lei annuì con il capo. -Mi hanno teso un agguato alla
finestra.-
-Così impari ad allontanarti da sola. Devi stare attenta, Meera, te
lo ricordi?-
Lo sguardo di Osha era così eloquente, così perforante, che la
ragazza avvertì tutta la gravità di quell'accusa
e il sapore infimo del pentimento.
-Sì che me lo ricordo!- protestò, seccamente,
chinando il
capo ed arrossendo. -Ho commesso soltanto... ecco... è stata
soltanto una distrazione. Non succederà più,
vedrai.-
La donna brontolò fra sè e, reggendo il bambino
con un
braccio, strappò una manica del proprio mantello con
l'altra.
Con gesti pratici ed affrettati, l'avvolse strettamente alla ferita.
-Spero per te che non sia infetta.- replicò, sbrigativa. -Ad
ogni buon conto, te la controllerò più tardi,
quando
sarà tutto finito. Per ora può bastare
così...-
Meera, Osha, Yara, Shireen ed i soldati proseguirono nell'intrico dei
corridoi. La regina del Nord si stava giusto chiedendo dove accidenti
si fossero cacciati gli altri invasori, quando:
-Maestà!- gridava un sottoposto, accorrendo trafelato.
-Ramsay Bolton sta salendo sulla Torre Spezzata!-
Le tre donne si scambiarono uno sguardo inquieto. L'unica spiegazione
logica era che, da lì, avrebbe potuto assistere all'intera
battaglia.
-Devono esserci sfuggiti da qualche strana scala secondaria.-
sbuffò Yara, irritata. -Su, andiamo a sbudellare lui e quel
verme di Theon.-
-Cos'ha fatto Theon?- Osha inarcò le sopracciglia scure.
L'erede dei Greyjoy s'incupì. -Lasciamo perdere, che
è meglio.-
Quando cambiarono strada per avviarsi verso la Torre Spezzata,
trovarono un drappello cospicuo di
piantoni armati a rallentarle. Le guardie di Grande Inverno sguainarono
le spade
quasi all'unanimità, in una risata lunga e tagliente.
Yara strinse il manico della sua scure, sorridendo. -Bene, ne vogliono
un altro po'. Che ne dite di-
Nel momento stesso in cui cercò di sfoderare la spada, Meera
si
piegò in due con un gemito acuto.
Shireen rabbrividì, come se quell'urlo le avesse trapassato
il cuore. -Meera!-
***
Nel frondoso sottobosco che costeggiava le alte fortificazioni di
pietre scabre, la luna scostava i rami e cercava i piccoli funghi umidi
che, anemici e minuti, crescevano lenti fra le radici nodose delle
querce. Tre sagome procedevano fra i tronchi, aggrappandosi con le dita
alle fessure nelle cortecce, rapide e furtive; i lembi dei loro
mantelli fluttuavano attorno alle caviglie, annodandosi e districandosi
dai rovi che li ghermivano, come artigli rattrappiti. Masso dopo masso,
calpestando uno strato di erba secca e croccante, le figure avanzavano
in una marcia silenziosa. Il sentore odoroso degli aghi di pino pungeva
le narici, giungendo di soppiatto come l'apprensione. Poco distanti da
loro, un drappello di uomini li seguiva senza levare un fiato nell'aria
irrigidita dalla brezza notturna.
La sagoma più alta, il capo velato da un manto azzurro,
s'affrettò fino a che non raggiunse la pedana di piastrelle
smaltate. Non appena vi mise cautamente piede, producendo rumore
discreto, aguzzò la vista e sfogliò il buio con
attenzione; quando vide una guardia farle un cenno col capo, il suo
viso adombrato s'illuminò in un sorriso rasserenato.
-Venite.- sussurrò in fretta alle due figure che attendevano
appunto un suo segnale, guardinghe come animali selvatici. I cappucci
vennero scostati soltanto quando giunsero all'ombra dello stipite
dell'uscio, nascosti a sguardi indiscreti. La più alta era
una
bella ragazza dai capelli ramati e i tratti alteri, arrossita sugli
zigomi.
-Non troverete sentinelle da qui ai prossimi dieci metri.- la
rassicurò la guardia, a mezza voce. -Lì
c'è
qualcuno che vi indicherà come giungere agli ingressi
principali. Anche nella Sala del Trono.-
-Grazie mille.- bisbigliò Sansa, con un sorriso quasi
euforico.
Rickon era impaziente: non rilassava mai la fronte. La sorella
intuì cosa gli passasse per la mente e si rivolse di nuovo
alla
guardia. -... e Myrcella Lannister? Ne sapete qualcosa?-
domandò.
L'uomo scosse il capo. -No. Nulla. Sono informazioni troppo riservate.
Le guardie incaricate di sorvegliarla sono fidatissime.-
-Capisco.- Sansa fece un cenno cortese con il capo.
-È davvero incredibile il modo in cui quel Baelish si
prodiga per
te.- commentò Rickon, tentando inutilmente di stemperare la
tensione che gli opprimeva il petto.
La ragazza sorrise, quasi compiaciuta. -Petyr ha uomini ovunque. Non ha
dovuto prodigarsi
quasi per niente, in realtà, solo dare qualche
disposizione...
un po' di aiuto gratuito ci fa comodo, di questi tempi.-
-Gratuito? Non direi, cara sorella.- ghignò lui. -Nessuno fa
niente per niente. Soprattutto non il gestore d'un bordello.-
-Smettetela di fare gli idioti!- esplose Arya, mantenendo
però
un
tono di voce basso e lanciando occhiate inquiete qua e là.
-Pensate a cose più serie. Avete qualche confessione di cui
liberarvi? Potremmo benissimo essere morti, da qui a due ore.-
-Il che, lo ammetterai, non è una gran novità.-
replicò la sorella maggiore, strofinando nervosamente le
mani.
-In realtà ci sarebbe una cosa.- intervenne Rickon,
voltandosi verso
Sansa e guardandola negli occhi, quasi con un certo suo strano stupore,
come se lui stesso per la prima volta se ne rendesse conto. Le parole
suonarono bizzarre, troppo inusuali per la sua indole. -Mi piace la tua
voce.-
Le sue guance s'imporporirono e la fanciulla schiuse le labbra,
interdetta.
-... per quale motivo?- chiese infine, il cuore gonfio d'uno strano
sentimento d'affetto, che finalmente cominciava ad assomigliare a
quello che un tempo doveva aver provato per lui.
-Mi sembra di ricordarla.- raccontò il fratello, corrugando
la
fronte nel tentativo di rivangare un passato infestato dal fango dei
ricordi deteriorati. Il verdetto fu quasi stupefacente nella sua
singolarità. -... di averla ascoltata mentre cantava una
canzone,
molto tempo fa.-
Sansa si domandò ancora per quanto tempo il paragone con
Catelyn
Stark avrebbe dovuto invadere la sua vita, ma non volle mostrare il
lieve disappunto che quell'affermazione aveva scatenato nei suoi
pensieri. Per quanto riguarda Rickon, il profumo dei capelli di sua
madre aleggiava ancora come lo spettro familiare dell'infanzia, che
pareva quasi sognata una notte. Ma Catelyn non c'era più nel
suo
cuore. Solo Myrcella, c'era. Solo Myrcella capiva. Gli altri no. Nessun
altro.
-Davvero, davvero commovente.- commentò Arya, nervosamente.
-Dopo questo, direi che possiamo procedere. Vi ricordate tutto quel che
dovete fare, vero?-
Sansa alzò gli occhi al cielo. -Arya, stai calma.-
-Ce lo ricordiamo.- intervenne Rickon, scandendo per bene le parole.
-Ci ricordiamo ogni cosa.-
Arya annuì, torva. Pensava alla responsabilità
che Gendry
le aveva affidato, incaricandola di assalire la Fortezza Rossa
dall'interno e far penetrare l'intero esercito del Nord di nascosto:
non poteva fallire. Non ne andava soltanto della propria vita, ma anche
della corona di Gendry. Tutto ciò che aveva imparato, dopo
il colpisci con la
parte appuntita di
Jon, era teso a quel solo scopo. La responsabilità della
vita di
molte più persone di quante riuscisse ad immaginare gravava
sulla sua testa.
Riuscì a sorridere a Rickon, ma solo flebilmente. -Attento a
non
andare incontro ad una morte lenta e dolorosa, fratellino.-
-Quando ti troverò stecchita dal moncherino di Jaime
Lannister,
prometto che non riderò.- ribattè candidamente il
ragazzo.
Per qualche istante, si fissarono negli occhi con la fiducia reciproca
che solo chi condivide il sangue può spartire.
Arya, insieme ad un manipolo di uomini, a Cagnaccio e Nymeria,
proseguiva per il corridoio
che, secondo l'uomo di Baelish, l'avrebbe condotta da chi le avrebbe
dato le informazioni che cercava. Sansa avanzava verso il nucleo stesso
della Fortezza, nella stanze da letto; Rickon, invece, sarebbe andato a
cercare Myrcella. Ognuno di loro aveva un compito ben preciso -e il
giovane Stark era ben determinato a portare a compimento il proprio
senza intoppi. Il rapimento di Myrcella l'aveva fatto infuriare come
nient'altro prima d'ora; sembrava quasi che i Lannister volessero di
nuovo trascinarlo in quella condizione d'impotenza in cui versava
prima, quella in cui loro gli sottraevano tutto ciò che
aveva e
lui rimaneva a guardare. Ma adesso Rickon non era più un
ragazzino. Sapeva come farsi strada per ottenere quel che voleva. Aveva
i mezzi per farlo. E loro avrebbero pagato cara quell'impudenza.
Myrcella, Myrcella... Myrcella e il suo sorriso esultante quando lo
accoglieva la sera, tutto ciò che di lei era rimasto di
innocente; Myrcella e le sue labbra profumate di sangue, che curavano
le sue ferite e si strappavano sotto i suoi denti come petali. Rickon
scosse la testa, istintivamente, ombroso. La doveva riavere con
sè. Il pensiero di lei, nelle mani di un altro... Che Tommen
Lannister non osasse prendere le abitudini di suo padre! Quell'idea lo
fece imbestialire ancora di più, al punto che
sputò per
terra dal nervosismo. Ma avrebbe dovuto essere più discreto,
più silenzioso... si stava comportando come un idiota, si
rimproverò aspramente. Se non avesse mantenuto i nervi
saldi,
presto l'avrebbero scoperto e davvero non avrebbe mai recuperato
Myrcella. Stava avanzando in un corridoio laterale, quando
udì
il rapido suono dei passi sulla pietra. Subito si ritrasse dietro un
muro attiguo, immobilizzandosi; soltanto quando la figura lo
oltrepassò in fretta, senza sorprenderlo, Rickon si permise
di
cercare d'identificarla -magari era una guardia che avrebbe potuto
minacciare...
E invece era una donna: i suoi capelli erano boccoli lunghi e sontuosi,
simili a spirali di velluto. Un'ampia gonna color vinaccia frusciava
fra le sue gambe. E Rickon realizzò.
Prima che fosse troppo tardi, la raggiunse con un balzo, la spinse
contro la parete, le conficcò un ginocchio fra le scapole ed
estrasse la spada, tutto ciò quasi contemporaneamente.
Il viso che si presentò al suo sguardo non fu una vera e
propria
sorpresa: aveva visto dei ritratti della regina Margaery,
per riconoscerla, ancora al tempo del torneo di Runestone, e poterla
uccidere. Era una bellezza, non si poteva negarlo, e l'espressione
apprensiva che le squarciava le pupille la rendeva ancora
più
appetibile.
-Urla, e scoprirai cosa significa affogare nel proprio sangue.- Rickon
attese con un ghigno lento che la donna la riconoscesse. Lo smarrimento
della regina dei Sette Regni non durò a lungo: l'affanno che
le
schiuse le labbra, così come la potente vampa rossa che le
infiammò le guance, la fece apparire deliziosa.
-Guarda guarda... La nostra regina prigioniera gironzola
per il
castello tutta sola. Non te l'ha mai detto nessuno, che le donne che
passeggiano di notte senza un accompagnatore rischiano di fare brutti
incontri?-
Margaery Tyrell si riprese in maniera ammirabile.
-Brutti incontri, certo,- rispose, portandosi una mano all'altezza del
viso e scostando un ricciolo, -oppure incontri interessanti. Era
da tempo che desideravo fare la tua conoscenza, Rickon Stark.-
-Non trovo una sola buona ragione per cui qualcuno debba desiderare di
fare la mia conoscenza.- replicò il ragazzo, risentito che i
segni dell'effetto sorpresa si fossero già volatilizzati sul
suo
volto. -Dove stavi andando, Maestà? Magari possiamo fare un
pezzo di strada insieme.-
Il filo della spada le carezzava il collo e la punta era delicatamente
premuta contro la sua spalla, fino ad arrossarla con gran grazia. Era
un peccato che non ci fosse un pittore, lì, ad
immortalare
una tonalità così preziosa; Rickon
pensò che il
fine disegno delle ossa, tutt'ora sotto la pelle -che proprio
lì
era traslucida e liliale come un'ala di libellula- sarebbe stato ancora
più suggestivo... Al pensiero della consistenza sapida e
fibrosa
della carne sotto i denti, dell'aspra carezza del sangue sul palato,
sentì la bocca colmarsi di saliva. Dopo, si
sgridò, dopo.
Le labbra di Margaery s'incurvarono in un esitante sorriso
ironico. -Potrei farti la stessa domanda.-
Rickon premette la lama contro il suo collo. -Potresti, è
vero, ma prima risponderai alla mia.-
La donna percepì il respiro mozzarsi in gola, e
faticò a deglutire. -I miei figli...-
-Non preoccuparti, dopo andiamo insieme a cercarli.- La voce del suo
aggressore era quasi morbida, mentre, senza allontanare la spada,
lasciava scivolare l'altra mano lungo il suo fianco, palpando
rapidamente l'abito con le dita. Margaery seguì il suo gesto
con
lo sguardo solo per qualche istante; un occhio meno attento non avrebbe
notato il simultaneo lampo di paura che era balenato sull'espressione
delle sue labbra. Rickon esibì un ghigno allegro,
indovinando i
suoi timori.
-So che sembra che io stia facendo qualcosa di perverso, ma in
realtà sto controllando che tu non sia armata.-
Inarcò le
sopracciglia con eloquenza. -Solo un idiota sottovaluterebbe una donna
vedova per due volte.-
Margaery Tyrell trattenne il respiro, mentre la mano di Rickon
perquisiva prudentemente il corpetto. Ovvio che, ad ogni modo, gli
faceva un certo effetto. Era bella. Ed era spaventata. Per Rickon, non
esisteva nulla di meglio.
O almeno, lo aveva creduto, fino a che non aveva incrociato lo sguardo
di giada e piombo di Myrcella Lannister. Che non si era spezzato sotto
il suo. Che non si era infranto nel buio, nè nel freddo,
nè nel sangue, nonostante lei non conoscesse nessuna di
queste
tre cose.
Rickon non riuscì a trattenersi. Con un gesto languido,
senza
distogliere gli occhi da quelli della sua vittima, calò le
dita
lungo la sua coscia, trovò l'orlo della gonna, vi si
insinuò sotto e salì.
-No, sei assolutamente indifesa.- concluse candidamente.
Margaery ebbe un singulto e strizzò le palpebre, trattenendo
un gemito.
-Questo era decisamente
qualcosa di perverso.- osservò.
-Sì, forse lo era.- sogghignò Rickon, ritirando
la mano
con disinvoltura. -Ma adesso non posso perdere altro tempo. Se mi
porterai dove tengono Myrcella, magari avrai l'occasione di rivedere i
tuoi figli vivi per un'ultima volta, prima di schiattare.-
La regina dei Sette Regni scandagliò il suo volto, mentre
chissà quali pensieri si aggiravano per la sua mente. Pareva
stare seguendo un filo d'intuizioni a catena. I calcoli scorrevano nei
suoi occhi come perle di una collana. I secondi rintoccavano, sospesi,
sordi.
Infine, un sorriso solcò le labbra di Margaery. La sua voce
era piana, serena, come un mare piatto assediato dal sole.
-Io non morirò adesso, Rickon Stark. Morirò a
novant'anni, circondata
da nipoti che trameranno terribili congiure e indosseranno vestiti
rosa. Morirò come muoiono tutte le donne della mia famiglia,
a
casa, ad
Alto Giardino. Ma tu...- Scosse la testa, ostentando una completa
disapprovazione. -...perchè sei qui? Mi deludi. Dopo tutto
quello che hai fatto, pensavo che nulla e nessuno sarebbe riuscito a
metterti una catena al collo. E invece, è bastato l'amore di
una
donna,
come sempre, come per tutti quanti gli uomini...- La dolce amarezza
della sua voce si dissolse nello struggente sapore di quelle parole,
per poi calare di nuovo nel buio. -In questo castello c'è
solo morte per te, Rickon Stark.-
Rickon rimase lì, a precipitare
confuso nei suoi occhi, per qualche istante. Le iridi di Margaery,
argentee, erano tiepide d'un sentimento accorato, intenso, simile alla
compassione più intenerita e partecipe. Dopo un momento, vi
esplose una
scintilla di orrido, cruento trionfo.
Rickon
percepì la furia montargli nel petto. Allontanò
il ginocchio dal suo
stomaco, solo per colpirla più forte, tanto che
sentì vibrare il grido
di dolore che Margaery stava ingoiando.
-Coloro che ritengono che fare del male ad una donna sia più
disonorevole che picchiare un uomo, sono dei luridi maschilisti.-
decretò, piano, con una superficiale calma apparente che
velava
una minaccia. -Chiunque dovrebbe avere il diritto di darle e di
prenderle, indiscriminatamente. Seguo questa corrente di pensiero anche
nella vita di tutti i giorni. Per esempio, una volta ho stuprato una
ragazza con un coltello.- La sua voce la sfiorò come faceva
la
lama della spada, sottile ed affilata. -Esistono diversi modi per
garantirsi collaborazione.-
Margaery trattenne il respiro. Il suo sguardo era alto, solenne di
dignità, e l'inquietudine era tradita solo
dall'atteggiamento
del viso. -Cerchi di farmi paura?-
-Non ce n'è bisogno. Ne hai già a sufficienza.-
I due si sfidarono vicendevolmente con lo sguardo, a lungo,
finchè la donna cedette con un sospiro. Ricordò
che, in
un giorno lontano e diverso, aveva pensato di essere in debito con lui
di un favore.
-Va bene, ti aiuterò. Ma solo se-
-Non sta a te dettare le condizioni.- la interruppe Rickon,
bellicosamente. -Sono io quello con la spada in mano.-
-Sono io quella che sa dove si trova Myrcella. Ti servo.-
-Almeno finchè non saremo là. Poi non
più.-
Margaery socchiuse gli occhi, ed una risata carezzò la sua
voce.
-Però non è detto che io ti porti proprio
là.-
Rickon era davvero esausto di lei e le sue provocazioni: doveva salvare
Myrcella, mica sprecare tempo a giocare! D'un tratto, gli venne persino
in mente che quella stronza avesse adottato come strategia quella di
fargli perdere tempo, in attesa di essere soccorsa da qualcuno. Con un
furore terribile, le compresse il volto contro il muro: un chiodo
confitto in un mattone le graffiò la fronte.
-Se cercherai di fregarmi, divorerò quei piccoli bastardi
sotto
i tuoi occhi e ti costringerò a guardare. Ci siamo capiti?!-
ringhiò Rickon, iracondo, conficcando le unghie nei suoi
polsi.
-E adesso parla.-
Margaery singhiozzò senza emettere un suono, mentre una
ferita
s'apriva sulla pelle, svelando l'oscurità del sangue. -Ho
sentito le guardie parlare della Torre Ovest...-
-Allora sbrigati.-
-Cosa ne farai di me, quando non ti servirò?- si
ritrovò a chiedere, in un bisbiglio.
Il ragazzo mentì con estrema serenità.
-Dipende.- Dipende, se
ti aprirò la gola in un lampo o ti farò
dissanguare senza fretta. -Dipende da te.-
Il viaggio fu lungo: imboccare i corridoi più secondari e
meno
frequentati era difficile, soprattutto perchè, se l'intento
era
evitare i passaggi principali, la struttura della Fortezza Rossa si
faceva molto più labirintica. Margaery sapeva benissimo di
non
poter imbrogliare Rickon; se avessero incontrato qualcuno, lui per
prima cosa l'avrebbe sgozzata. Da questo punto di vista, si
rendeva conto di fungere anche da ostaggio. Quel che più
premeva
alla regina era scoprire dove fossero Nathaniel e Lionel: non era
riuscita a scoprirlo da suo marito nè dalle guardie,
nonostante
le insistenze. Questo avrebbe potuto rivelarsi un problema. Senza
sapere dove i piccoli fossero, non poteva neppure tenere Rickon il
più lontano possibile da loro; magari, inconsapevolmente,
avrebbe potuto addirittura condurre il nemico dai suoi piccoli, dolci
figli. L'unica speranza era che Tommen avesse provveduto alla sicurezza
dei gemelli con perizia e responsabilità, che li avesse
tenuti
sotto vigile controllo... doveva averlo fatto. Margaery riusciva
già ad immaginare le empie mani rosse di sangue di
Rickon sulle bianche carni dei bambini, a deturparle e
divorarle.
Cominciò la salita delle scale. Il giovane Stark andava
decisamente troppo veloce, scavalcando i gradini con ampie falcate, e
per Margaery, che indossava molte gonne lunghe, era impossibile stargli
dietro. Ansimava a pieni polmoni e boccheggiava di tanto in tanto,
puntellandosi la milza con le mani.
-Non potremmo-
-Più veloce, Tyrell! Quando si tratta di fare l'arrivista
sei un fulmine, e adesso arranchi? Oh, puoi fare meglio di
così...-
La donna, però, non capiva. Pur essendo dei passaggi
secondari
del castello, era strano che non avessero incrociato nemmeno una
guardia. Cominciò a lanciarsi furtive occhiate intorno,
inquieta: non presentiva nulla di buono. Cosa poteva essere successo?
Rickon rise del suo smarrimento. -Dove sono finiti tutti quanti? Questo
ti chiedi? Mentre noi siamo qui a gironzolare per la Fortezza, mia
sorella la sta conquistando con gli uomini del Nord e dei Baratheon.
Cos'è quel faccino spaventato? Non ti starà mica
cascando
sulla testa qualche sogno di gloria? Quanto mi dispiace... Un vero
peccato che i soldati non potranno accorrere per impedire il rapimento
della principessa Myrcella, vero? Beh, pazienza. Lei preferisce stare
con me che con voi.-
Margaery era troppo incredula per farsi venire in mente qualcosa
d'arguto da dire. Gli Stark stavano conquistando la Fortezza Rossa,
insieme al figlio bastardo di re Robert? Era finita. Era finita per
lei, per Tommen, per i Lannister, per chiunque... Che fare? Quelle
parole parvero perdere qualsiasi significato e potere. Che fare?... era
un po' tardi per cominciare a pregare, in effetti.
A quel punto, si rese conto di essere giunta a destinazione.
Battè le ciglia.
-... è qui. Questa. Mi auguro sia qui.-
-Me lo auguro anch'io.- replicò Rickon, sottovoce. -Me lo
auguro per te.-
Senza smettere di trattenerla per il braccio, salì di
soppiatto
gli ultimi gradini, con la schiena al muro. Anche lui, come Arya,
percepiva chiaramente l'onere di quella missione. Myrcella... d'un
tratto, salvarla era d'importanza struggente. E Rickon seppe che non
voleva uscire da lì senza di lei. Fare piano, non fare
rumore,
non farsi scoprire. Fare piano. Non fare rumore. Non farsi scoprire.
Fare piano, non fare rumore...
Scattò come una pantera-ombra, tirando una pedata
così
poderosa contro il portone che nel legno s'aprì un gran
varco
frastagliato. Rickon disintegrò con le mani il chiavistello,
abbattendo quel poco che restava in piedi, e si sporse nella stanza.
***
Tyrion tracciò con la piuma una lunga linea da est a ovest,
indicando una via verso il Mercato delle Pulci.
-... qua l'esercito va decisamente riorganizzato. Quando ieri mi
è stato riferito il totale insuccesso che abbiamo riportato
qui,
quando ho scoperto il numero delle vittime, mi sono chiesto che razza
di idiota avesse disposto le truppe... prima di rendermi conto di
essere stato io. Come stavo dicendo, penso che quella nuova schiera che
gli Swann ci hanno così cortesemente inviato stiano alla
perfezione qui, a difendere la zona est, mentre per quanto riguarda gli
arcieri-
-Tyrion.- Jaime non si curò di quanto violentemente avesse
sbattuto la porta, nè di aver fatto sussultare
metà delle guardie nella stanza, l'ufficio della Mano del
re. -È scoppiato
l'inferno.-
Il fratello tirò un sorriso scontento. -Sono così
assuefatto dai suoi miasmi che non riesco più a
distinguerli.
Intendi che siamo finiti in una situazione peggiore di quella in cui
siamo adesso, cioè con la città sotto assedio, i
familiari decimati e un branco di lupi inferociti alle calcagna?-
Jaime spalancò le braccia e le lasciò ricadere
contro i fianchi.
-Vedi tu. Il castello è sotto assedio, i nostri soldati sono
decimati e un branco di lupi inferociti mette a ferro e fuoco casa
nostra.- Inarcò le sopracciglia con sarcasmo. -Che te ne
pare?-
Il Folletto tacque per una decina di secondi, lo sguardo fisso su un
punto indefinibile della superficie della sua scrivania. Lentamente,
aggrottò la fronte. Quando sollevò lo sguardo,
sorrideva di nuovo amenamente.
-Se il tuo intento era riscuotermi dal torpore del mio sarcasmo di
mezzanotte, ci sei riuscito.- annunciò, riponendo la piuma.
-Cos'è successo? Rickon Stark?-
Jaime fece una smorfia. -Più che altro, Arya Stark. Lei e
quel fottuto Gendry Waters si
sono introdotti nella fortezza, presumibilmente con qualche
stregoneria, visto che sono passati pressochè inosservati,
fino
a quando non hanno fatto irruzione nella sala del trono.-
-E la torre di Myrcella? È stata attaccata?- Il suo tono si
era già fatto rapido e competente, mentre egli era intento
nei suoi ragionamenti silenziosi.
-Non abbiamo avuto modo di appurarcene.- confessò Jaime,
dopo una pausa, abbassando lo sguardo e mettendosi sulla difensiva.
-Con che faccia posso dare
ordini, in questo momento? Tutti combattono per la vita, e per
nient'altro. Nessuno mi ascolterebbe.-
Tyrion scosse la testa, sbalordito. Era sdegnato all'idea che suo
fratello non si fosse mobilitato fin da subito per la difesa della
torre, e quindi per l'efficacia del loro piano.
-Non ti rendi conto che è un diversivo?! Rickon Stark ha
voluto
calamitare tutto il grosso delle nostre forze lì dove gli
pareva
e piaceva, ovvero lontano dalla torre, così da poter
recuperare
Myrcella in tutta tranquillità! Ti prego, Jaime, non dirmi che non
te n'eri reso conto...-
-E se così fosse? Ah,
è un diversivo, bene, allora possiamo stare tranquilli...!- Jaime
rivolse un'occhiata truce a Tyrion: era facile parlare, da dietro una
scrivania. -Anche
sapendolo, non possiamo farci niente. Raggiungere la torre è
praticamente impossibile. Là fuori c'è un
putiferio da
non crederci... Anche consapevoli del fatto che quella di Rickon Stark
è una tattica per raggiungere i suoi scopi, non possiamo lo
stesso fermarlo.- L'uomo sospirò e fece scorrere una mano
fra i capelli, preoccupato. -Credevamo che Stark sarebbe venuto da
solo, per non
attirare l'attenzione. Invece tutti i soldati al completo stanno
assediando l'intero castello. I
nostri uomini non riusciranno a resistere. Quei due bastardi
di
Arya Sark e il suo amico hanno abbattuto le porte e l'esercito del
Nord si è riversato qui dentro... Hai idea di cosa
significa?- Jaime fissò il fratello negli occhi e fece una
breve pausa, senza però lasciargli il tempo di rispondere.
-Significa che l'unica cosa che possiamo fare è
scappare. È per questo che sono qui. Andiamo via, Tyrion, e
il
più in fretta possibile, prima che sia troppo tardi. Prendi
quello che può servirti e tiriamo la corda.-
-Tommen? Dov'è?- domandò Tyrion, cautamente,
quasi temesse la risposta.
-L'ho lasciato a Loras. Scapperemo tutti insieme, ci siamo
già accordati.- spiegò Jaime in fretta, indicando
alle guardie di controllare l'ingresso. -Avanti, non c'è un
secondo da perdere.-
A Tyrion l'idea di scappare non piaceva troppo. Certo, suonava
più allettante che diventare
la prima simpatica decorazione della sala del trono di re Gendry
Baratheon, però non aveva dubbi: nel momento in
cui i Lannister avessero lasciato la Fortezza Rossa, sarebbero scesi
dal trono, per non risalirvi mai più. Era una fortuna che
sua sorella Cersei, che tanto si era data pena per diventare regina
reggente, non fosse lì ad assistere a quella sconfitta.
Tyrion non era mai stato ambizioso, o meglio quasi per nulla, se messo
a confronto con gli altri membri della famiglia; eppure, sentiva un po'
d'amaro in bocca per quel finale così sconfortante. Fuggire,
poi... fuggire dove? Le truppe del Nord erano ovunque, sia nella
Fortezza Rossa che ad Approdo del Re. Dove rifugiarsi, per non essere
catturati e giustiziati? Ma erano pensieri troppo lontani: innanzitutto
era fondamentale trovare Tommen -trovare Tommen vivo- e magari
Myrcella, anche se ormai Tyrion ne dubitava, e tutto il resto sarebbe
venuto da sè.
Mentre il Folletto sistemava nel fodero una daga dall'impugnatura di
rubini, finora tenuta nascosta in un forziere per ogni evenienza, ed un
sacchetto d'oro nel mantello -che faceva sempre comodo-
Jaime parlò di nuovo.
-C'è anche un'altra cosa.- raccontò. -Una notizia
un po' più lieta. Le spie all'accampamento degli Stark
mi hanno riferito che Brandon lo Storpio è stato
rapito.-
Tyrion si voltò di scatto, sbigottito.
-Rapito? Quando? Da chi? I nostri sono implicati in qualche modo? Mi
sono perso qualche puntata, evidentemente...-
Jaime scosse la testa, perplesso. -Poche ore fa. Da chi, non ne ho
idea. Per quanto ne so, nessuno dei nostri alleati ha preso iniziative
del genere. Stannis Baratheon sta sguinzagliando
i pochi uomini che sono rimasti con lui all'accampamento per trovarlo,
ma finora invano. Piuttosto, le spie mi hanno riferito di aver trovato
il
luogo in cui è stato portato, da dagli strani uomini
incappucciati, apparentemente privi di qualsiasi vessillo.-
-E dove, per amor degli dèi, dove?- sbottò
Tyrion, alzando gli occhi al soffitto. -Non farti strappare le parole
dalla lingua, stellina mia! Che non si dica che anche nell'interloquire
i Lannister
sono avari!-
-Poco fuori città, ma non è questo il dettaglio
interessante.- Jaime sorrise enigmatico. -Nei pressi delle tende di
quegli uomini, è stata
preparata una pira.-
Il Folletto era dubbioso. -Non capisco la logica di tutto questo.
Intendono bruciarlo vivo?-
Il fratello fece un gesto vago con la mano sinistra. -Vivo, morto, non
fa differenza.-
-Invece sì... invece è questo che fa precisamente la
differenza.- Tyrion fu colto da un'illuminazione folgorante: folle,
sì, ma d'altronde come tutte le idee geniali. -Se Brandon
Stark muore, siamo perduti.-
Jaime rimase interdetto. -Aspetta un attimo, hai detto che se muore siamo
perduti?-
-Esatto, fratellino, non è stato un attimo di defaillance.- confermò
il Folletto, allacciandosi il mantello. -Pensaci. Cosa rischiamo, se
scappiamo?-
-Di essere catturati.-
-E se veniamo catturati?-
Jaime scrollò le spalle. -Ci ammazzano tutti quanti.-
-E qual è la nostra unica speranza?- lo incalzò
Tyrion, paziente come un insegnante che ripete la lezione all'alunno
distratto.
-Non saprei. La grazia?-
-Ma la grazia ce la dobbiamo procurare, caro il mio Jaime. Per la
precisione, tu ce la devi procurare.-
-Ma cosa...- bofonchiò Jaime, sconcertato. -Cosa stai
cercando di indurmi a fare, Tyrion?-
-A salvarci il culo, in parole povere. Ma dobbiamo muoverci, ti
spiegherò più tardi!-
I due fratelli abbandonarono l'ufficio, mentre Jaime cominciava ad
inquietarsi per il guaio che Tyrion stava per fargli passare. In
qualche inspiegabile maniera, gli sembrava quasi che egli gli stesse
proponendo di aiutare
Bran Stark...
Il Folletto si accorse di cosa intendesse il fratello,
dicendo che i corridoi erano impraticabili; folle di armati si
spintonarono l'un l'altro in scontri all'ultimo sangue, mentre il
sangue schizzava sulle pareti e le guardie faticavano a proteggerli con
gli scudi. I due Lannister procedettero verso la direzione che
Jaime indicava come quella che li avrebbe condotti al punto di ritrovo
stabilito con Loras e Tommen.
Tyrion era ancora assorto a pensare a Bran Stark e la pira, quando
urtò violentemente contro una figura che, strano a dirsi,
non portava un'armatura. Alzò lo sguardo, quasi
nell'automatico tentativo di scusarsi, e le parole gli s'inaridirono
sulla punta della lingua. Quella persona indossava un lungo mantello
blu, indubbiamente femminile, che le adombrava il viso: però
fu impossibile ignorare il bagliore d'un ricciolo cremisi come un
fiamma, che scivolò al crudo contatto della luce delle
lampade. Tyrion percepì una sensazione simile ad un pugno
nello stomaco, e per qualche secondo non riuscì a respirare.
La figura, senza neppure chinarsi a guardarlo, svincolò
agilmente fra la massa, in un guizzo di vivace turchese.
Tyrion deglutì. -Aspetta, Jaime. Io... mi è
sembrato...-
-Tyrion? Cosa c'è?- ribattè la voce di Jaime,
alle sue spalle. Il Folletto ebbe poco tempo per ragionarci su: nel
timore di lasciarsi sfuggire la donna in azzurro, riuscì
solo a gettare là qualche parola.
-Tu va' a prendere Tommen. Ci vediamo nelle stalle fra mezz'ora,
chiaro?-
-Tyrion!-
Le proteste di Jaime si confusero subito con il fragore metallico delle
armi. Tyrion si fece largo fra i soldati, quasi posseduto da un'ansia
concitata che gli toglieva persino la paura dal petto, suscitando
soltanto una curiosità vorace che pretendeva d'avere
soddisfazione. In realtà, era assolutamente certo
dell'identità di chi stava inseguendo.
All'inizio non riuscì a capire cosa stesse cercando di fare:
la figura salì le scale che conducevano agli appartamenti
reali, disabitati a causa della battaglia che infuriava ai piani
inferiori. Era assurdo che il suo scopo fosse il furto. Infatti, ella
evitò le sfarzose camere del re, così come
ignorò gli uffici e gli studi d'amministrazione; si
fermò soltanto quando riconobbe le stanze della regina.
Allora Tyrion comprese, e fu terribile.
La figura in blu entrò, lasciando la porta socchiusa alle
spalle. Procedette fino alle due culle gemelle che Margaery aveva
provveduto a procurare subito dopo il parto, dei piccoli capolavori con
decorazioni in oro di leoni rampanti e arricciate tende di broccato
rosso, che disponevano di piccoli carillon di alabastro lavorato. Nel
vedere i posti vacanti, le lenzuola intatte, le culle vuote, la
figura esitò, fissandole, quasi ragionando sul da farsi.
-Credevi davvero che saremmo stati così idioti da lasciarli
lì, incustoditi, alla vostra mercè?-
La donna sussultò appena, ma ebbe la dignità di
non mostrare il proprio allarme. Dopo qualche istante, si
voltò.
Il cappuccio ricadde con un morbido fruscio, svelando una chioma ramata
e algidi, artici occhi cerulei. Il suo viso, ora adulto, libero di
qualsiasi intuizione di fanciullezza, sembrava intagliato nel marmo. La
durezza della sua bocca immobile storse l'espressione di Tyrion in una
smorfia di stupore ed amarezza.
-Ben ritrovata, Sansa.-
***
La prima cosa che Rickon vide non gli piacque molto. Era una donna
troppo alta
e troppo robusta, con indosso un'armatura da uomo, una spada enorme e
un ciuffo di capelli che sembravano paglia sulla fronte, che lo
scrutava con allarmati occhi azzurri e limpidi. La seconda cosa che
vide, fu anche la più bella che avesse mai scorto in vita
sua.
Era piccola, bianca e fragile, proprio come ricordava, e sporca di nero
sul viso e dalla gonna sdrucita, proprio come piaceva a lui. Sembrava
plasmata di neve e carbone.
I loro occhi si catturarono imperiosamente, e il lungo silenzio che
seguì fu pregno d'incredulo, sbalordito, tremante sollievo.
Myrcella soffiò il suo nome, senza nemmeno pronunciarlo a
voce,
quasi che la riverenza che provava fosse troppa. Le sue guance
avvamparono, poi tornarono pallide. Prima che Rickon potesse gridare
qualcosa, qualsiasi cosa, che
diamine aveva fatto ma era diventata scema tutto d'un colpo,
perchè aveva rischiato così tanto, ben le stava
che
l'avessero rapita, cosa credeva di fare di prendere la spada e
combattere anche lei, era pazza era una folle, era proprio uscita di
testa, disobbedirgli in quel modo ma come si era permessa,
perchè, stupida, stupida ragazza Lannister, stupida biondina
dalla testa vuota, che cazzo sperava di fare, perchè,
andarsene
in giro quel modo, pazza, forse che voleva davvero tornarsene dalla sua
famigliola, avrebbe dovuto rimanere in quella cazzo di tenda e non- la
lama della donna bionda per poco non gli staccò un braccio
di netto.
-Vostra grazia! State bene?- Brienne rivolse un'occhiata preoccupata a
Margaery Tyrell, che sorrise debolmente alle spalle di Rickon.
-Come vedi, sono ancora viva.-
Myrcella
s'alzò in
piedi: un'espressione strana, diversa, quasi invasata, possedeva il suo
volto. Gli occhi verdi sembravano stregati da una nebbia alienante. Un
tormento maniaco, inusitato, le aveva inciso cicatrici d'inedia sulla
fronte e sulla guance. Nel suo sguardo, si rifletteva la luce d'un faro.
-Te l'avevo detto!- urlò, esultante. -Te l'avevo detto! Rickon...-
Parve bere ogni inflessione della propria voce, mentre lo pronunciava,
assaporandola dolorosamente sul palato. Fece lunghi passi avanti,
incurante di tutto il resto, quasi sedotta dal canto d'un sirena; fu
soltanto la spada di Brienne ad impedirle d'avanzare.
-E infatti eravamo qui ad aspettarti.- dichiarò la donna,
freddamente.
Rickon inarcò un sopracciglio. Distogliere lo sguardo dal
viso
di Myrcella risultò faticoso. La sua bellezza gli appariva
talmente nuova, talmente fulgida...
meravigliosa, com'era sempre stata, ma al tempo stesso mai come in quel
momento. Perchè doveva essere così bella?! Gli
sconvolgeva la mente, gli impediva di pensare.
È bastato
l'amore di una donna... Le
parole di Margaery Tyrell rimanevano un'eco beffarda e sferzante, a
ronzare nelle sue orecchie. Lui, che si era sempre sentito distaccato
dal mondo e superiore a tutto, a tutti, come se ogni desiderio ed ogni
ricchezza ed ogni valore terreno gli apparissero miseri, banali e poco
desiderabili, come se fosse in grado di guardare l'umanità
con
gli occhi di un dio... ridotto a rischiare la sorte di una guerra per
una ragazza dai capelli biondi. Come
sempre, come tutti.
Prima che Myrcella comparisse nella sua vita,
Rickon non
aveva bisogno di nulla, ed era davvero imbattibile. Niente aveva,
niente poteva essergli sottratto, nessun torto poteva essergli
arrecato. Ma adesso...
debole era
l'unico aggettivo che gli veniva in mente per descriversi. Tutto
ciò, naturalmente, non traspariva. Rickon Stark aveva
imparato
molto bene che l'avversario teme ciò che i suoi stessi occhi
lo
inducono a temere.
-Un comitato d'accoglienza piuttosto esiguo, direi.-
commentò,
squadrando Brienne di Tarth con un'occhiata derisoria. -Mi
sottovalutate a tal punto?-
Brienne si parò davanti a Myrcella, in posizione da
combattimento. -Potresti restare sorpreso.-
-E tu senza testa. Vale la pena rischiare?-
Prima di ottenere risposta, Rickon sferrò un fendente per
farle
abbassare la guardia. Lo scontro che seguì sarebbe stato
molto
interessante per chiunque se ne intendesse di armi e arte militare;
Brienne era più alta e più esperta, con alle
spalle anni
ed anni di pratica, per non parlare di una precisione micidiale e di
una tecnica sbalorditiva. In compenso Rickon era più forte,
e
-se ogni suo colpo fosse andato a segno- di Brienne non sarebbe rimasto
nemmeno lo scheletro. Anche la prestanza fisica, in questo caso,
aiutava. La sua rivale, man mano che il tempo passava, si accorgeva di
quanta resistenza quel ragazzino fosse in grado di opporre, e se ne
meravigliò. Alla sua età, era sconcertante che si
potesse
combattere in quel modo. Certo, non aveva ricevuto un'istruzione da
qualche spadaccino provetto, e questo si notava benissimo: i suoi colpi
erano vigorosi ma piuttosto prevedibili, mancavano di quell'arguzia e
di quel metodo che tornano sempre utili, come le finte. Anche la mira
era un po' imprecisa. In compenso, quello non era di sicuro uno dei
suoi primi scontri; aveva la prontezza di un guerriero ben
più
attempato. Era avvezzato a lottare, e non per ferire: Rickon Stark
lottava per uccidere, sempre, in qualsiasi situazione. Doveva aver
affrontato molti più aggressori di quanti ricordasse, e
anche
nei corpo a corpo. Sapeva come muoversi, sapeva come colpire, come
schivare all'ultimo secondo, cosa fare nelle situazioni di
difficoltà; metterlo con le spalle al muro era
pressochè
impossibile.
Brienne provò ad immaginare quanti pericoli e quanti dolori
Rickon avesse dovuto sopportare, a quante peripezie avesse dovuto
sopravvivere per aquisire un simile livello di abilità -le
cicatrici che recava sulla pelle erano testimoni sufficienti- e ancora
una volta avvertì una fitta al cuore all'idea che presto
l'avrebbe ucciso. Solo un bambino, giusto poco più che un
bambino. Figlio di Catelyn Stark...
Lo scontro, appunto, sarebbe parso molto interessante per chiunque se
ne intendesse di armi e arte militare, ma Myrcella non rientrava certo
fra questi. Il suo tentativo di raggiungere Rickon, inizialmente
mandato a monte da Brienne, andò definitivamente in fumo.
Cosa
poteva fare? Solo rimanere lì, aspettare che Rickon
uccidesse
quella donna, e poi scappare, stringersi a lui e lasciarsi portare via,
lontano, dove i Lannister non avrebbero più potuto trovarla,
mai
più... Già quelle scarse ore di prigionia le
avevano dato
un assaggio di cosa avrebbe significato essere costretta a vivere senza
Rickon. L'avrebbe impedito, al costo di conficcarsi il corno di
unicorno nel petto, a costo di conficcarlo nel petto di chiunque...
Quel pensiero le fece tornare in mente ch'era armata. Certo! Aveva
ancora la lama nascosta nelle vesti! Adesso era il momento migliore per
colpire Brienne alle spalle, mentre era distratta nel combattimento!
Con il cuore che accelerava ansioso, Myrcella corse con la mano alla
piega fra le gonne. Ma, proprio in quel momento,
-Myrcella?- La voce di Margaery sibilò nelle sue orecchie,
facendola sussultare di spavento. Si voltò di scatto. La
ragazza
aveva attraversato la stanza, rimanendo addossata alla parete, e adesso
s'era inginocchiata carponi vicino a lei. Myrcella non l'aveva mai
vista ridotta in quelle condizioni: aveva gli occhi cerchiati
d'insonnia e le unghie morsicate a sangue, ridotte a carne viva. Nei
suoi occhi, c'era quel panico incontrollato che lei stessa aveva
percepito vibrare nelle mani.
-Mar...gaery? Cos'hai fatto alle tue mani?- Myrcella le rivolse
un'occhiata inquieta.
La regina dei Sette Regni le sogguardò, distrattamente, come
se fosse la prima volta che le vedeva.
-Non lo so. Mi sentivo morire. Ero arrabbiata. Ero in pensiero... Ma
lasciamo perdere, non ha alcuna importanza. Adesso ascoltami, devo
chiederti una cosa, una cosa...- s'interruppe, Mordendosi il labbro
inferiore e fissandola intensamente, disperatamente, quasi si stesse
chiedendo se potesse davvero fidarsi di lei.
-I miei figli.- s'arrese alla fine, cedendo, le lacrime appese alle
ciglia. -Tu lo sai dove sono? I miei bambini? Ti supplico, Myrcella,
per amor degli Dèi... se mai mi hai voluto del bene, se mai
c'è stato un momento in cui io e te eravamo amiche,
complici, e
ci fidavamo l'una dell'altra... anche se le cose sono cambiate, se io e
te siamo cambiate... i tuoi nipoti, sangue del tuo sangue! Loro non
hanno colpa. Dove sono i miei figli, Myrcella? Se lo sai, ti prego di-
-Non lo so.- si affrettò a rispondere Myrcella, scoprendosi
commossa da quelle parole così accorate, così sincere
sulle labbra di una persona come Margaery, una giocatrice che di solito
non svelava mai le proprie carte. Questa confessione a cuore aperto era
la dimostrazione di quanto fosse angosciata per la sorte dei suoi
figli, al punto da dimenticare la cautela, dimenticare gli
inganni, dimenticare le regole del gioco. -Non lo so, dico davvero. Se
lo sapessi, te lo direi. Sono la terza, dopo te e Tommen, a desiderare
soltanto il bene di quei poveri piccoli. E questo te lo posso giurare.-
Percepì gli occhi ardere delicatamente, a quelle parole, ma
le
asciugò battendo le palpebre un paio di volte. Non poteva
permettersi nulla, in quel momento.
Margaery annuì con il capo. -Non importa. Ti credo. Voglio
crederti. Non so esattamente chi sei, ma so chi eri, e ho abbastanza
storia alle spalle da avere appurato che il passato è spesso
in
parte presente.-
Myrcella sorrise con tristezza. Rivedere Margaery, parlare con lei, le
aveva fatto pensare a com'era prima di Rickon. Non erano ricordi
nè tanto brutti nè tanto belli: specchi vuoti, in
cui si
rifletteva la luce del sole di un'estate fittizia. Per distrarsi, si
sforzò di ricordare qualcosa che potesse essere utile a
Margaery.
-Prima, quando mio fratello è venuto qui, ha discusso con
zio
Jaime su chi dovesse fare la guardia a me e chi a lui stesso, ma non ha
nemmeno nominato i bambini.- riflettè ad alta voce. -Ed
è
impossibile che li abbia lasciati incustoditi, quindi... probabilmente
li ha fatti portare in un posto sicuro, quando si è accorto
che
Approdo del Re era minacciata. Ad ogni modo, non mi preoccuperei
troppo, se fossi in te. Tommen sarà anche un molle e un
imbecille, ma ama il suo sangue. Avrà sicuramente provveduto
affinchè i vostri figli godano della massima protezione
possibile...-
-Non ti preoccuperesti
troppo.-
ripetè Margaery, amaramente. -Ne riparleremo quando sarai
madre.
Non esiste peggior frustrazione, peggior sofferenza al mondo di vedersi
strappare dalle braccia i frutti del proprio grembo, impotenti, senza
poter fare nulla... vederli piangere e non poterli cullare. Ti auguro
di non provare mai questa sensazione, Myrcella.-
Myrcella avvertì una strana sensazione di disagio, come se
all'improvviso nella stanza facesse più freddo, e non seppe
cosa
rispondere. Intuizioni presaghe ed inarticolate le gravarono sulla
lingua, ma le era impossibile esprimerle.
E fu allora -Rickon e Brienne stavano ancora incrociando le spade- che
la porta si spalancò un'altra volta. Il cuore di
Myrcella balzò in gola: il pensiero che si
trattasse di una
scorta reale, che avrebbe incatenato Rickon, che l'avrebbe reso
prigioniero come lei -che l'avrebbe trafitto con una
miriade di spade sotto i suoi occhi- le attanagliò le membra
in un gelo mortale.
Non era una scorta reale. Era una sola persona. Un ragazzino biondo,
alto come lei, con un mantello vermiglio.
-... Tommen?-
Il tono della sua voce era più interrogativo che preoccupato.
Tommen aveva il fiato corto, ma pareva essersene dimenticato. Sulla
soglia della porta, non guardava Myrcella; non guardava Brienne, che
stava perdendo sangue da una spalla; non guardava sua moglie, riversa a
terra, in quella stanza quando invece avrebbe dovuto essere chiusa in
una prigione. Guardava Rickon. Come se fosse tutto ciò
ch'esisteva al mondo.
Nel suo sguardo, sanguinava una ferita spalancata all'occhio della luce
obliqua. Cosa provava in quel momento? Rabbia, dolore, paura? Aveva
poca importanza. Ad inchiodarlo lì, davanti alla porta, era
l'inevitabilità salda e precisa degli scontri segnati dal
destino, con sangue vivo, sulla polvere dei campi di battaglia. A
magnetizzarlo era l'attraente lucore nello sguardo del predatore, che
lo chiamava, che lo lusingava, che lo impalava lì.
Quel confronto doveva avvenire, e tale imperativo s'esprimeva
nell'espressione di Tommen, schiusa ad una meraviglia nuova, abbacinata
dalla realtà a cui i suoi pensieri più frequenti,
i suoi
desideri più respinti, i suoi timori più
allettanti si
erano convertiti.
Erano lì. Dovevano essere lì. Il silenzio taceva,
quasi
spaventato. I respiri s'imbrinarono a mezz'aria, senza osare
dissolversi. Le pietre delle pareti parvero sul punto di sciogliersi.
Rickon non lo vide: lo fiutò.
Invece
di girarsi, temendo un attacco alle spalle, indietreggiò,
così d'avere una visione d'insieme. Quando i suoi occhi
azzurri
incontrarono quelli gonfi di rabbiosa timidezza di Tommen, le pupille
si dilatarono. Una strana eccitazione lo pervase. Un sorriso godurioso
piegò le sue labbra.
-... adesso ci siamo proprio tutti. Giusto in tempo per morire, re Tommen.-
Tommen deglutì. Il modo in cui riusciva a dominarsi, in cui
riusciva a mantenere gli occhi confitti nei suoi, era ammirevole.
-In tempo per ucciderti, Stark. Quello che intendo fare.-
Myrcella ridacchiò fra sè: nel suo sguardo
splendeva una
stella rossa, simile ad un araldo di morte. Uccidere...?
Permise alla
propria risata di diventare più impudente.
Rickon si avvicinò a grandi passi, solleticando il suo
sguardo come avrebbe fatto con una daga.
-Speravo che venissi, sai? Il nostro primo incontro è stato
un
po' sbrigativo, quando invece io ci tenevo a prendermi la tua vita con
calma. Ma sei qui, perciò ogni problema è
risolto.
Permettimi di ammirare la tua illibata
fanciullezza...- Sollevò la punta della spada e,
inaspettatamente, gli sfiorò soltanto un lungo boccolo
sinuoso,
aureo come filigrana. Lasciò che la luce lo baciasse e lo
rimirò, soppesandolo, con un'espressione imperscrutabile.
-Forse
mi ci accanisco così tanto perchè la invidio. Me
la
strapparono presto.- Sorrise, con una nostalgia cattiva che
ripassò i contorni neri delle sue cicatrici. -Ha i suoi lati
positivi, è graziosa e pulita... ma ti intrappola
in
così tante menzogne.-
Tommen parò il colpo che tentò di decapitarlo
direttamente, facendo un passo indietro a causa della potenza
dell'impatto fra le lame, che si unirono con uno stridio. Era
allarmato, ma la determinazione di tutti quei giorni d'odio impellente
s'intuiva nella durezza delle labbra serrate.
-Menzogne, come quelle che hai raccontato a mia sorella per plagiarla?-
-Al contrario, piccolo re. Le ho raccontato la verità, solo
la
verità, ed è stato questo a... destarla.- Rickon
gli
girava intorno, come un avvoltoio che senta odore di sangue. -Le ho
raccontato quanto fa schifo la vostra piccola famiglia perversa. Le ho
raccontato quanto faceva schifo quella puttana di tua madre e
quanto è valoroso
quel
menomato di tuo padre. - La sua voce, ormai, era un filo di seta. -Le
ho mostrato quanta merda è seppellita sotto il vostro oro
del
cazzo. Lei è una creatura troppo pura per amare delle
carogne
come voi.-
-Pura?! Pura?!- Queste furono le paraole giuste per far esplodere il
rancore compresso nell'anima di Tommen, che menò un fendente
contro l'avversario. -Detto da te! Detto da te e la tua
empietà!
Un cannibale
che parla di purezza!- sbraitò, le guance congestionate. -Tu
che definisci mia sorella pura...
dopo averla disonorata senza pietà!-
-Che ne sai di che cosa è successo al Nord?- Rickon
parò
il colpo di Tommen e allo stesso tempo di Brienne, che lo aveva
attaccato alle spalle. -Vuoi che te lo racconti?- aggiunse con un
ghigno. -O sei troppo geloso?-
Tommen tentò di affondare la spada nel suo petto. Ansimava.
-Sei un mostro.-
-Che ne sai, tu, di chi sono io?- rincarò Rickon.
-Io so chi sei tu.- La voce del giovane Lannister divenne sempre
più scabra, più affilata, quasi intagliata.
-E io so chi sei tu. Una
graziosa fanciullina dalla chioma dorata che non sa
tirare una stoccata come si deve.- Rickon parò un colpo di
Brienne e, allo stesso tempo, sferrò un fendente a Tommen.
-E
che, se non vuole pagare i suoi debiti con le buone, lo farà
con
le cattive.-
Il ragazzo arretrò e tossì. La sua voce era
distorta da una nota esasperata.
-Pagare i miei
debiti? Io non ho fatto...-
-Io_non ho fatto_niente_di male.- Le parole di Rickon suonarono quasi
cantilenanti. Un colpo. -Conosco queste parole. Le ripetevo in
continuazione, come una preghiera. Come fai tu. Io_non ho
fatto_niente_di male.
Io_non ho fatto_niente_di male.
Io_non ho fatto_niente_di male.-
Un colpo. -E lo sai qual è unico modo per accettare il
proprio
destino senza la sensazione di stare subendo un sopruso?- Un colpo. -Fare qualcosa di
male.-
Si nutriva della paura dell'avversario come in passato gli altri
s'erano nutriti della sua. Cercava l'occasione per ridurre in polvere
la stoica tenacia di
Tommen, lo attaccava dove sapeva esserci i punti dolenti. Intanto, lo
costringeva lentamente ed inevitabilmente al muro.
-È doloroso alzarsi al mattino e scoprire che non tutte le
persone del mondo ti vogliono bene, vero, Tommen?- Avanzò,
avanzò ancora. -È doloroso rendersi conto che la
vita non
è rose e fiori come credevi quando tua madre ti cantava la
ninnananna.-
Con un gesto fulmineo, Rickon sferrò un fendente
potentissimo al
polso di Brienne, che con un gemito strozzato vide la spada caderle di
mano. Rickon mise subito un piede sull'elsa. Intanto,
disarmò
Tommen ed afferrò anche la sua spada. Infine, si
lasciò andare ad una risata denigratoria. Tommen Lannister
non
si mosse: si limitò a fissare gli occhi di Rickon, in
silenzio.
Il suo avversario gli sfiorò il mento con la lama. -Re... ma
di cosa pretenderesti di essere re,
esattamente?-
A quel punto, Myrcella aggrottò la fronte. Si era resa conto
di
quel che stava per succedere. Per quanto avesse aperto gli occhi su
quanto suo fratello fosse stupido ed incapace, ciò non
significava che voleva vederlo morto. Lì, in quel momento,
poi; in quel modo...
No, si pentiva di ogni maledizione che gli aveva rivolto,
all'improvviso riconosceva in lui il bambino con cui aveva condiviso
tanti giochi, tante piccole giornate assolate e felici.
Cercò le
parole giuste, inutilmente.
-Rickon... credo che prima, insomma, non vorrai...-
Tommen guardò il suo avversario come se desiderasse
estirpargli l'anima dagli occhi. Chi
si brucia, non teme più il fuoco.
-Cosa stai aspettando, Stark? Non è quello che
più
desideri? Darmi la morte non è ciò che
più ti
renderebbe felice? Allora avanti.
Fallo.-
Almeno, così, sarebbe morto con onore: Margaery
e
Myrcella e Brienne, in seguito, avrebbero raccontato di come lui si
fosse strenuamente difeso, prima di soccombere. Non sarebbe stato
ucciso mentre implorava pietà -Rickon Stark non glie
l'avrebbe
mai concessa, ma anzi, si sarebbe divertito ancora di più ad
ascoltare i suoi piagnucolii, avrebbe reso la sua agonia ancora
più lunga e dolorosa. Invece, in questo modo, sebbene Tommen
fosse stato ugualmente sconfitto, la morte sarebbe giunta per mano di
un guerriero temibile e potente com'era Rickon Stark, quindi nessuno
avrebbe avuto di che schernirlo; sarebbe stato difficile per chiunque
sopravvivere ad un avversario simile, anche a spadaccini molto
più esperti di Tommen.
Così, forse, suo zio Jaime sarebbe stato orgoglioso di lui;
così suo padre, dall'alto dei cieli, si sarebbe pentito di
non averlo degnato d'alcuna attenzione, quand'era in vita, e avrebbe
dovuto riconoscere che Tommen aveva il coraggio di un vero Baratheon.
Così, magari, in futuro Nathaniel e Lionel avrebbero
dichiarato
con fierezza di essere figli
di Tommen. Oh,
i gemelli: quasi gli vennero gli occhi umidi dal sollievo, al pensiero
ch'erano al sicuro, lontanissimo da lì, da quella guerra, da
quella catastrofe, da quel mare di sangue...
Nel frattempo Margaery, con le spalle al muro, incrociò lo
sguardo di Brienne, attirando imperiosamente la sua attenzione.
Inarcò le sopracciglia, poi allungò lo sguardo
fino alla
grossa catena avviluppata su se stessa, sul pavimento, come un serpente
di
ferro. Brienne sgranò gli occhi, interdetta, comprendendo
quel
che veniva invitata a fare; la regina dei Sette
Regni si limitò ad annuire impercettibilmente, e nei suoi
occhi
chiari c'era l'autorità incontrastabile delle regine di sangue,
anzichè di forma. Brienne seppe di non potersi sottrarre.
Chiuse
gli occhi, affranta in cuor suo, raccogliendo tutta la concentrazione
di cui il suo animo era capace.
-Questa è una partita senza regole, piccolo leone. Puoi
imporne
quante ne vuoi, ma non c'è modo di costringere il destino a
seguirle.- Rickon fece dondolare ancora la spada a fior della sua
pelle, sorridendo con insolenza. -Una fottuta partita senza regole...
Addio, piccolo Tommen. Porta all'inferno un messaggio per la tua cara
mammina e il tuo caro nonnino. Dì che...-
L'ultima cosa che Rickon rilevò fu che, negli occhi del
ragazzino di fronte a lui, era riflessa la propria stessa rabbia. La
stessa, solo imprigionata in iridi verde smeraldo anzichè
azzurre.
Quel che seguì, avvenne molto velocemente. Brienne,
afferrata
l'estremità della catena fra le dita, balzò
contro
Rickon. Glie la
avvolse stretta attorno al collo, trascinandolo giù e
facendogli
picchiare la nuca contro il pavimento, e strinse strinse strinse,
fino a che gli anelli non incisero la
carne e gli strozzarono il respiro in gola. Tommen Lannister
sussultò dallo stupore, ritraendosi contro la parete;
Myrcella
Lannister s'irrigidì come se una freccia le avesse trafitto
la
trachea, prima di cominciare a gridare a gola spiegata.
Brienne issò Rickon al suolo, appellandosi disperatamente
alla
propria forza. Tenerlo fermo non era facile. La spada
gli era scivolata dalle dita, ma continuava a divincolarsi come un
demonio, tentando vanamente di vincere la morsa che gli strappava il
fiato. Sembrava posseduto da una maledizione: scalciava e si
sbracciava, con un vigore frenetico, mentre il suo viso si faceva
sempre più infiammato. Le labbra si contraevano in respiri
corti
e veloci, sempre più radi.
Così come Rickon soffocava,
anche Myrcella sembrava farlo insieme a lui. Fine. Fine. Fine. Fine. Cosa
stavano facendo al suo Rickon? Cosa stava succedendo? No, era tutto
così sbagliato. Questa
non è una bella storia, Myrcella, diceva
sempre così, lui. Questa
non è una bella storia. Rickon, Rickon il
guerriero che rideva sprezzante d'ogni nemico, Rickon il
bambino che s'abbandonava nel suo grembo per dormire... Rickon con il
mento che gocciolava di sangue fresco e Rickon che permetteva, seppur
mettendo il broncio, che Myrcella infilasse un pettine nella sua chioma
selvatica. Rickon a sei anni, con i riccioli infantili al vento, e
Rickon a sedici, che le sorrideva con crudeltà sulla cima
della torre di vedetta di Runestone. Quel giorno pieno di
terribile bellezza. Andiamo,
ragazzina, pensi davvero che morire ti sarà così
facile? Alzati. La prima volta che l'aveva presa, nelle
segrete di Grande Inverno. Non
ti verrà mica da piangere, vero? La
confusione, la speranza, il dolore, la perdita, la promessa, non piangerò mai
davanti a te, Rickon Stark. Il sapore del fuoco sulla sua
pelle, quel penetrante, acre odore di fiamme che impregnava il mantello
di ermellino che le aveva regalato, e il modo in cui l'aveva guardata
dopo, quando indossava quell'abito giallo, il braccio che le aveva
avvolto attorno alla vita alle Torri Gemelle, di fronte a Tommen, e
quel bacio così pienamente bello e appassionato che le aveva
concesso, il calore del suo corpo contro il rigore dell'inverno, il
calore del loro amore contro il resto del mondo. Ci rivedremo stasera, e stasera
faremo tutto quello che vorrai, le aveva promesso, quel
sorriso, quell'ultimo sorriso, l'ultima carezza, la fine, fine, fine. E
più niente.
Niente. Tutto_questo_stava
morendo. Rickon stava morendo, l'aguzzino che tanto aveva
detestato stava morendo, l'uomo che tanto aveva amato stava morendo.
Rickon, forte com'era, indifeso com'era.
Niente. Prima il mondo, la vita. Poi niente. Fine.
Fi-ne.
Prima che potesse
slanciarsi per soccorrerlo, le palme delle mani che strisciavano
graffiando la pietra, Margaery la afferrò per le braccia.
-No, Myrcella. No.- le sussurrò all'orecchio. Poi rivolse
uno
sguardo alla figura di Rickon, che si contorceva a terra. Un sorriso
sinuoso arcuò le sue labbra. Quando parlò, lo
fece quasi
inconsapevolmente.
-Una regola c'è, Rickon Stark. Chiunque può morire.-
Brienne attese affranta la morte del ragazzo ancorato al
suolo;
le mani impugnavano la catena fino a tremare dallo sforzo. Si chiese
quanto tempo ci sarebbe voluto, affinchè i suoi occhi si
spegnessero della luce vitale e smettessero di sgranarsi furiosi contro
la luce delle lampade. Non osò alzare lo sguardo dalla
propria
vittima, quasi temendo che proprio allora egli avrebbe potuto scampare,
però riuscì a visualizzare la scena: al suo
orecchio,
giungevano distintamente i folli latrati di Myrcella Baratheon e la
risata sguaiata e spezzata della regina Margaery.
Poi, giunse qualcos'altro. Un lungo, efferato grido di guerra, che
tonava nella tromba delle scale laggiù in basso. E comprese:
la
Fortezza Rossa era caduta.
-Dobbiamo andarcene, Vostre Altezze- ansimò. -Stanno
arrivando.
Uomini del Nord... invasori. Non possiamo passare per le scale.-
-La botola.- ribattè prontamente Tommen. -Usciremo da
lì... Prima, lascia che sia io ad ucciderlo.-
Nei suoi occhi, balenò la stessa scintilla di freddo, oscuro
raziocinio che aveva dominato quelli di Cersei.
-Non c'è tempo!- Margaery faticava a trattenere Myrcella.
-Ormai
non respira più, mio re! Dobbiamo scappare al sicuro!
Aiutami,
te ne prego, non riesco ad immobilizzare tua sorella da sola...-
Il corpo esanime di Rickon sul pavimento. No, il corpo morto di Rickon sul
pavimento. Labbra sgranate nell'ultimo respiro. E il pensiero? A
cosa avrà pensato, alla fine? Cosa sostituiranno alla sua
testa? Quella di Cagnaccio? Myrcella cercò il
fondo a quel pozzo d'orrore, sempre più giù,
sempre più dolore, nulla, basta, Rickon dove sei,
perchè, perchè, vienimi a salvare, ti prego, ti
prego ti prego NO ti prego Si contorceva come sotto
strumenti di tortura, strappando disperatamente tutti ciò
che riusciva ad afferrare.
La regina dei Sette Regni spostò la grata con un calcio e
Tommen, seppur riluttante, afferrò la sorella per i polsi,
calandola nel
passaggio segreto. Brienne guardò il ragazzo. Non si muoveva
più. Aveva smesso di agitarsi. I suoi occhi erano
irreparabilmente fissi e vacui, le sue labbra esangui, quasi bluastre.
Ormai, i segni della catena al collo erano diventate escoriazioni
sanguinanti. Era morto? Così sembrava. Per buona misura,
avrebbe
potuto tagliargli la testa...
Le mancò il coraggio. Il volto di Catelyn Stark apparve di
nuovo
nella sua mente, chiaro nel suo pacato splendore. Brienne, quasi
disgustata da quel che lei stessa aveva fatto, rinfoderò la
propria spada e si affrettò a seguire il re e la regina
nella
botola. Se gli dèi lo volevano, Rickon Stark non era
più
il flagello dei Sette Regni. Se non lo volevano... beh, probabilmente
Brienne avrebbe avvertito il cuore meno pesante.
Brienne era indietro, Tommen e Margaery eccitati e sconvolti e
distratti da ciò ch'era accaduto. Era quello, il momento
giusto. Myrcella non pensava più a niente.
Esplose, soltanto. Sfoderò il corno che nascondeva fra le
gonne
e, sopraffatta da quell'urlo che le fischiava nelle orecchie no
no no no no no no no no no no no no no non può essere
successo
non può stare succedendo oh no no no no ti prego no
nocom'è possibile cosa è successo
perchè no non voglio ti prego no, la
puntò alla gola di suo fratello.
La galleria era buia, angusta. Lo sfavillio della lama
tagliò la cortina di tenebre.
Tommen sobbalzò. -Myrcella, cosa... che stai facendo?-
Tutti Lannister vi
ucciderò tutti tutti maledetti demoni vi ucciderò
uno per uno berrò il vostro sangue e mangerò la
vostra carne vi ucciderò vi ucciderò vi uccido
tutti adesso vi uccido vi uccido tutti
-Ti uccido, Tommen.- Udì la propria voce scivolare estranea
dalle labbra.
***
Arya Stark irruppe nella torre, il petto scosso dagli ansiti. Gendry
Baratheon le guardava le spalle, circondato dai soldati.
La ragazza s'immobilizzò alla soglia della stanza,
inorridita. -Oh, no.-
-Cosa...?- Gendry lanciò un'occhiata, e nessun altra parola
raggiunse le sue labbra, se non -Arya, tu non sai quanto-
-Rickon!-
Arya Stark cadde sulle ginocchia, come se una mazza da
guerra glie le avesse tranciate. -Un Maestro... chiamate un Maestro!-
Gendry le pose una mano sulla spalla, delicatamente. Si
chinò a baciarle la nuca.
-Mi dispiace. Mi dispiace, amore mio...-
-Vivrà.- La voce della ragazza fendette la luce, sibilando
come un fendente di spada. Le sue labbra tremarono. -Lui
vivrà. È sempre sopravvissuto. Vivrà.-
Gendry Baratheon non rispose.
***
La notte era ormai fonda come una fossa, tanto che le stelle riposavano
nell'oscurità come gocce di rugiada ad imperlare una
ragnatela. L'umidità dell'erba bagnata soffiava dallo
spiraglio della
tenda che s'era venuto a formare, facendo rabbrividire le fiammelle
delle candele, allineate ordinatamente su ogni superficie disponibile.
La donna sospirò impercettibilmente, infastidita
dall'intrusione, senza darlo troppo a vedere.
Il frate rosso attendeva impazientemente che lei parlasse: la fissava
con un'insistenza quasi sgarbata. Melisandre decise di ignorarlo
finchè non si fosse stancato. Non aveva nulla da dirgli, e
comunque non voleva essere disturbata per questioni futili come quelle
che stavano per esserle sottoposte.
-Quando hai intenzione di procedere?- domandò infine l'uomo,
dopo lunghi minuti di silenzio.
Il giovane prigioniero giaceva lì, nella tenda, mollemente
abbandonato su una branda da campo dalle federe bianche e traforate. Il
suo viso aveva ceduto ad un languore tormentato; i lineamenti distesi,
di tanto in tanto, si contraevano appena in un riflesso involontario,
per poi quietarsi di nuovo. Melisandre osservò le sue
palpebre
chiuse, le fitte ciglia scure in contrasto con il deperito pallore
degli zigomi smunti. Una vena del collo martellava pulsazioni
rapidissime, quasi che nel suo inconscio il ragazzo si rendesse conto
dell'insospettabile condizione di pericolo in cui versava.
-All'alba.- rivelò infine la donna, senza distogliere lo
sguardo
dal volto assopito del suo prigioniero. -Il sole di un nuovo giorno si
nutrirà del fumo delle sue ceneri, e da domani
splenderà
più fulgido. Un altro passo verso la Luce sarà
stato
compiuto.-
L'uomo non parve soddisfatto dalla risposta.
-Presto i suoi alleati verranno a cercarlo. Per questioni di prudenza,
il momento migliore per agire sarebbe adesso.- le fece notare,
contrariato.
Melisandre lisciò le coperte, che avvolgevano il corpo di
Bran
Stark fino al petto. Le sue unghie cremisi catturarono il luccichio
ambrato di quella flotta di candele accese, un esercito schierato
contro il buio che imperversava all'esterno, con il compito di
scacciare il freddo dell'inverno.
-Il momento migliore per agire è all'alba.-
ribadì, senza
che la sua voce s'alterasse dalla propria liscia fermezza. -O forse che
noi non siamo tenuti ad eseguire i precetti di Rh'llor?-
Il frate non protestò; quasi intendendo ch'era una perdita
di tempo, uscì senza dire altro.
Melisandre pensò a Stannis: era l'unica minaccia che avrebbe
potuto
profilarsi all'orizzonte. Magari avrebbe tentato di fermarla per
questioni di lealtà, per tenere
fede alla parola data, ed era
ovvio che lei non avrebbe mai fatto nulla per danneggiare Stannis. Era
bene
che lui rimanesse fuori da questa storia e non venisse a sapere niente,
fino a che la questione non fosse stata chiusa una volta per tutte. Non
mancava molto, in realtà.
Dopo un quarto d'ora, fu nuovamente disturbata mentre pregava. Questa
volta era un'ancella ad importunarla. Portava una brocca d'acqua e un
piatto di bronzo, carico di frutta succosa.
-Per voi, mia signora.- sussurrò, evidentemente agitata. Era
solo una novizia: ancora non portava il mantello rosso, ma soltanto un
velo di tulle fra i capelli, ad intrecciarsi con la semplice
pettinatura della chioma nera.
-Ti ringrazio, bambina.- Melisandre le rivolse un sorriso di
circostanza e le fece cenno di appoggiarlo su un tavolo. La ragazza
obbedì.
In quel momento, le labbra di Brandon Stark si mossero in una smorfia
d'inconsapevole smarrimento. Dopo qualche istante, le palpebre
fremettero. L'approssimarsi del risveglio indurì i suoi
tratti,
come se tutto il dovere del mondo si riversasse di nuovo sulle sue
spalle.
Melisandre reagì con estrema tranquillità;
allungò
il braccio verso la coppa, che aveva precedentemente preparato e messo
a portata di mano. La manica del mantello, scoprendole il braccio,
rivelò un'ossatura fine ed un'incarnato bianco come il
latte. Il
prigioniero, intanto, cercava di scuotersi di dosso l'eco del sopore.
-Jojen...- invocò in un roco bisbiglio, contraendo le
guance, impedito nello sforzo dell'orientamento.
Melisandre sollevò delicatamente la testa del
ragazzo con una mano, mentre l'altra stringeva lo stelo della coppa.
-Dormi.- sussurrò in risposta, piano. -Adesso devi riposare.
Tutto si risolverà.-
Non appena l'orlo del bicchiere gli sfiorò le labbra, Bran
le
schiuse docilmente; la giovane ancella assisteva, rapita e spaventata
allo stesso tempo da quello che vedeva. Egli sorseggiò il
decotto senza fretta, il peso del capo abbandonato completamente
nell'incavo del palmo della donna. Non appena la coppa fu vuota,
Melisandre lo riadagiò sul cuscino.
L'ancella guardò Melisandre con un po' esitazione, prima di
parlare, quasi cercasse le parole giuste per non sembrare impertinente.
-... ma è proprio necessario che muoia? E in un modo
così orribile?-
Melisandre sorrise della sua ingenuità; ad altri non avrebbe
perdonato un simile abbaglio, ma lei era ancora molto inesperta e stava
imparando, quindi non vide nessun motivo per non risponderle con
sincerità.
-Sembra un'idea atroce, vero?- concordò, lanciando un'ultima
occhiata al volto addormentato del re del Nord, che anche l'ancella
stava contemplando con malinconia. -Eppure è l'unico modo
per
liberarlo dalla dannazione che ammorba il suo spirito. A te appare
soltanto un tuo coetaneo, un giovane innocente, eppure non lo
è
affatto. È uno strumento del Dio Estraneo, adesso.-
-Come è potuto succedere?- si sbalordì lei.
-Il sangue che scorre nelle sue vene è antico.-
spiegò
Melisandre, un vago bagliore a distrarre le sue iridi. -E spesso il Dio
Estraneo approfitta dei momenti di debolezza e di dolore degli uomini
per impossessarsi della loro anima. Colui che vedi di fronte a te ha
ceduto se stesso all'oscurità, permettendole di avere la
meglio
su di lui ed acquisendo poteri che nessun mortale dovrebbe mai
sperimentare. Poteri nefasti, d'inarrestabile letalità, di
sconfinata depravazione.- La mano di Melisandre andò ad
accarezzare il mento di Brandon, lieve come quella di uno spettro.
-Ormai per la sua vita non c'è nulla da fare, ma il suo
spirito
non è condannato per sempre: può guarire,
infatti.
Può essere purificato delle sue colpe, attraverso la Luce.
Il
nostro è un Dio magnanimo, Viviette, che concede sempre una
seconda
possibilità.-
Viviette era confusa. -Ma... non è giusto che muoia. Se
è
stato il Dio Estraneo ad avvelenarlo con questi crudeli poteri,
perchè deve pagare con la vita?-
-Non devi essere in pena per lui, mia cara.- la rabbonì la
donna, con un sorriso enigmatico, passando le dita immacolate fra le
ciocche scure del prigioniero. -La sua anima soffre con grande
angoscia, costretta in questo corpo perverso dal Buio, e le
è
impossibile trovare la pace. Quando giungerà la liberazione,
per
mezzo della Luce, - (per mezzo del fuoco,
pensò Viviette) -Brandon Stark raggiungerà la
beatitudine.
La sua morte sarà soltanto l'inizio di una vita
più
bella.-
Viviette annuì, anche se non troppo convinta. Non vedeva
l'ora di
lasciare quella tenda, per la verità. Melisandre la
spaventava,
e anche quel suo grosso rubino che portava sempre appeso al collo e che
sembrava nutrirsi della luce del mondo intero, lasciando
l'umanità ad annegare nel buio.
-Perchè la notte è scura e piena di terrori.-
recitò speditamente, chinando a testa.
-Perchè la notte è scura,- Melisandre
levò lo
sguardo a contemplare le fiamme che si arricciavano e dibattevano
funeste nel caminetto, quasi intenta a rimirare qualcosa di
estremamente lontano, -e piena di terrori.-
Il pelo scuro di Estate, che giaceva in terra al fianco del suo
protetto, lampeggiò del colore del rame. La notte
perseverò nel suo buio, come un impudico peccatore, e
Melisandre
attese l'alba ad occhi socchiusi.
Note dell'Autrice: Come potete vedere, ci sarà ancora un altro capitolo prima
dell'epilogo. Spero che abbiate ancora il tempo di sopportarmi per un
mesetto! ^-^
Abbiamo un nuovo squarcio su Levenna e le sue dis-avventure amorose con
lo zietto innamorato del padre. Ma che è, Beautiful??? XD
(www.sputtaniamolanostrastessafanfiction.it)
Ahi ahi, per Rickon si mette maluccio. E la Fortezza Rossa?
Cadrà davvero nelle mani dei Baratheon? E che fine
farà Tommen? E che fine farà Bran?
Spero che mi farete sapere la vostra opinione, è molto
importante per me! Grazie per aver letto questo mastodontico capitolo,
Lucy
ps: episodio 5, stagione 4.
"Bran, sei sicuro di voler andare a vivere una bella vita, sicura,
felice e serena con tuo fratello Jon, anzichè sperderti in
qualche landa desolata oltre la Barriera alla ricerca di un pennuto
geneticamente modificato???"
"... adesso che mi ci fai pensare, Jojen..."
OH, Jojo, VAFFANCULO. La
gelosia ti gioca brutti scherzi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Nero fu il giuramento. ***
12
XII.
Nero fu il giuramento.
C'era molta più luce: innanzitutto, Bran prese atto di
questo.
Era ancora nel Parco degli Dèi -non c'erano esattamente
indizi
che facessero manifestamente intendere ciò, ma lui ne era
quasi
certo- eppure la visione era diversa da quella a cui aveva assistito,
in un punto non meglio precisato del prima rispetto a quel lungo ed
incomprensibile che adesso stava vivendo, respirando. Gli
alberi, tutti
i begl'alberi del cuore che aveva sempre potuto ammirare, non c'erano
più: forse era proprio questo il motivo di tanta luce. I
colori
parevano definirsi a fatica, vinti dall'opalescente tendenza ad un
chiarore annientante -quasi accidentali e pallidi riflessi d'un
diamante crudo, esposto alla pienezza dei raggi del sole.
Il secondo dettaglio che stupì sinceramente Bran fu la sua
stessa presenza. Non aveva fatto altro che contemplare passivamente la
visione precedente, che si presentava come disegnata sulla pagina di un
libro; in quel momento, invece, Bran era lì. Si
portò una
mano alla testa e la passò fra i capelli; le sue gambe,
inutili
come sempre, erano solo un peso inerte di fianco a lui. Poi si
guardò intorno, senza che i suoi occhi riuscissero a
soffermarsi
su qualcosa: nemmeno Grande Inverno era all'orizzonte.
La scena era pervasa da un senso di sospensione, come se lì
l'immobilità cangiante d'ogni elemento impedisse all'anima
di
misurare il tempo, confondendo gli spettatori in un torpore tranquillo.
V'era persino qualcosa di minaccioso, nell'aria, e forse l'allarme era
suscitato proprio dall'apparente assenza di qualsiasi rischio, dalla
quiete stagnante che si profilava in un presente-passato-futuro
indistinguibile. Tutto era troppo fermo -fermato. Tutto era troppo
luminoso -illuminato. Una presenza impalpabile presidiava a tutto
quanto, ma Bran, nonostante formulasse con assoluta lucidità
tali riflessioni, non aveva paura.
Al posto del consueto stagno v'era un ruscello, dal corso lento e
placido, senza fretta nè violenza. Era scarsamente profondo,
tanto che Bran sarebbe riuscito a contare tutti i ciottoli rotondi
disseminati sul fondale limaccioso, se solo glie ne fosse venuto il
capriccio. A
questo punto, chissà mai per quale motivo era ancora
convinto
di essere al Parco degli Dèi.
Non ebbe il tempo di pensarci, perchè la sua attenzione
venne
attirata: gli era sembrato di vedere qualcosa nell'acqua. Bran
aguzzò lo sguardo e si sporse dalla riva verso
la superficie, affondando i palmi delle mani nell'erba e facendo leva
con le braccia. Quel qualcosa che aveva visto non era un oggetto,
bensì un barbaglio di luce colorata, ammiccante, che prese
forma
fino a delineare delle immagini.
E, fra le lievi onde della corrente del fiume, Bran vide
una tavola imbandita a festa. Scorse Robb, con i suoi ricci ramati e la
barba folta sulle guance, più adulto rispetto all'ultima
volta ch'egli
l'aveva salutato. Sedeva al fianco d'una donna dall'aria esotica, con
la pelle ambrata e lunghi capelli corvini, di cui
però Bran
non avrebbe saputo indovinare precisamente la provenienza. Era la
consorte di suo fratello, e questo si comprendeva facilmente dal tenero
modo in cui le loro mani si toccavano sul tavolo. Theon Greyjoy,
arrogante e vigoroso com'era anni prima -non quello scheletro spolpato
che dicevano fosse divenuto- stava ridendo sguaiatamente per una
battuta sconcia, che di sicuro era stato lui a raccontare, e intanto
lanciava sguardi laidi alla moglie di Robb. C'erano anche Eddard Stark,
con i capelli ingrigiti dal tempo ma sempre con il solito sorriso saldo
e pacato, e Catelyn: gli occhi azzurri accesi di gioia rendevano il suo
viso incredibilmente bello e giovane, nonostante le rughe e i segni
degli anni. Bran riconobbe addirittura se stesso, un adolescente che
dimostrava metà dell'età che aveva e stava
appollaiato sul ramo di un
albero lì vicino, intento ad evitare le mele che Arya gli
stava
lanciando contro. I suoi occhi erano puliti di quasiasi dolore, proprio
come quando aveva dieci anni, ed egli stava dondolando le gambe con
indolenza: gambe che funzionavano. Nel
frattempo a tavola un'irriconoscibile Meera, vestita come una vera
lady, stava rispettosamente ascoltando Benjen Stark, che raccontava
della sua ultima escursione al di là della Barriera: era
evidentemente annoiata a morte, però non aveva il coraggio
di
liquidarlo. Jon Snow, intanto, si divertiva a scompigliare i capelli di
un
bambino di all'incirca cinque o sei anni; il piccolo si
divincolò, scese con un balzo dalle sue ginocchia e corse a
strattonare il mantello del nonno, per farsi prendere in braccio.
-Ned! Cosa fai? Comportati da bravo!- esclamò Talisa Maegyr
al
figlio, arrossendo ed evitando lo sguardo del suocero, dal quale pareva
messa in soggezione.
-Non c'è problema.- rideva Eddard Stark, sollevando il
bambino.
-È legittimo che sia un po' viziato, non è vero,
giovanotto?-
Robb scuoteva la testa, divertito. -Quando gli nascerà il
fratellino, dovrà spartirsi le attenzioni di suo nonno...
sarà geloso come un matto.-
-Bran, scendi da quell'albero, una volta per tutte! Arya, piantala di
lanciare il cibo!- rimbrottava intanto Catelyn, alzando gli occhi al
cielo. Il Bran appeso all'albero replicò con uno sguardo
malizioso, mentre Arya si gettava all'attacco, tentando di trascinarlo
giù per i piedi. A quel punto, Meera si voltò a
guardarlo
e si complimentò a gran voce con lui per i suoi riflessi.
Bran
avvampò in una maniera in cui egli credeva di non essere
più capace.
-Fagli mangiare la polvere, Arya!- ridacchiava un ragazzino che Bran a
prima vista non identificò. I boccoli bronzei gli si
arricciolavano dolcemente all'altezza delle orecchie, e i suoi occhi
erano uguali a quelli di Catelyn, d'un celeste diafano e gentile.
L'intuizione che si trattasse di Rickon fu al pari di un pugno nello
stomaco. Nessuna cicatrice sfigurava quel viso bianco e giovane, e lui
sorrideva sereno -sorrideva, non sogghignava- vicino ad una fanciulla dalle
trecce verdi come l'erba fresca, elegantemente acconciate sul capo.
E dietro di loro c'erano altre persone, il maestro Luwin, la vecchia
Nan tutta accartocciata su se stessa, Hodor che trascinava un tronco
canticchiando Hodor hodor hodor hodor, e Robb e sua moglie che si
scambiavano un bacio fra i fischi di Theon e sotto lo sguardo
intenerito di Jon...
Bran percepì una lacrima tiepida tagliargli lo
zigomo.
Basta, basta, stava implorando una voce nella sua mente, basta. Era una
tortura. Non avrebbe guardato nemmeno per un istante di più,
altrimenti gli sarebbe venuta la tentazione di allungarsi verso quella
felicità irraggiungibile fino ad affogare. Quanto dolore
sarebbe
stato risparmiato. A lui, a Rickon, a Robb e Arya e Meera...
All'improvviso, provò la sgradevole sensazione d'essere
osservato. Quando Bran voltò il capo verso sinistra, si
accorse
d'un tratto di non essere solo: stagliata contro il cielo terso, una
fanciulla era come lui affacciata alle acque del ruscello. Il suo viso
era molto grazioso, ma l'espressione era così austera da
lasciare interdetti. Sembrava rinchiusa nella freddezza di un dolore
esclusivo quanto intransigente, che nessun altro al mondo avrebbe
potuto comprendere nè condividere. Le labbra erano piene e
carnose, gli occhi scuri come il carbone e gli zigomi alti e
pronunciati; il disegno dei capelli era un complesso, morbido scorrere
di arabeschi e spirali, abbandonati con incuranza sulla
schiena, a
crescere come importuni rampicanti. La sconosciuta era appunto china
sullo specchio d'acqua,
proprio come lui; aveva le ginocchia a terra, a schiacciare l'erba e
sporcarle la gonna, e il viso chino verso il basso, a sfiorare il petto
flettendo il lungo collo. Bran si chiese cosa vedesse. Sulla superficie
dell'acqua galleggiavano, lenti e pigri, avvizziti petali blu, dai
margini frastagliati, deteriorati dal tempo, chiazzati di macchie
giallastre.
-È quello che sarebbe stato.- La voce della ragazza
risuonò alta e sferzante come il vento del Nord. -Quello che
non
avrebbe mai potuto essere.-
Bran la guardò, ma lei non alzò il capo. Non
diede
nemmeno segno di starsi rivolgendo a lui, però erano gli
unici ad essere lì,
quindi non c'era possibilità di fraintendimento.
-Come hai detto?- domandò lui.
-Anche io lo vedo spesso. Cosa sarebbe successo, intendo.- La ragazza
s'ostinava a non sollevare il mento. Il suo sguardo vagava nelle
profondità più recondite del torrente, ma le sue
parole
erano piatte ed asciutte. -Vediamo
storie diverse, io e te, eppure il nostro dolore è lo
stesso.
Siamo destinati ai medesimi rimpianti. Il passato non ci
lascerà
mai andare.-
L'orlo blu della sua veste si protendeva largo nell'erba, stoffa
sontuosa del colore del cielo estivo. Una corona di nudi sterpi, di
spine aggrovigliate, giaceva di traverso sulla sua nuca.
Bran si accorse che, gradatamente, l'acqua prima cristallina aveva
assunto una tinta rosata. Ben presto, il feroce odore del sangue giunse
netto, definito ed inconfutabile alle sue narici. I suoi occhi
scrutarono la superficie, per poi rivolgersi di nuovo al volto della
donna, ponderatamente guardinghi.
-Tu sei mia zia Lyanna,- chiese cautamente, -vero?-
Impossibile non riconoscere quei tratti, quelle
caratteristiche;
impossibile non riconoscere la ragazza che aveva fatto dipingere in una
delle sale di Grande Inverno. Il fantasma di suo padre, un personaggio
di fiaba.
Lei non reagì. Rimase algida, impassibile, l'ombra bianca
dell'amarezza calata sul viso e una fissità lontana nello
sguardo scuro.
-Molti anni fa rispondevo a questo nome.- ammise a voce bassa,
insondabile. -Amai un uomo, anche. La nostra
non fu una storia che si racconta volentieri. Sono state tramandate
molte bugie... ma ormai è troppo tardi.-
Lyanna immerse una mano nell'acqua, fino al gomito: quando la
estrasse stringeva fra le dita un rubino dal colore abbagliante, in cui
il sole si specchiò impunemente. Bran era sbalordito: lo
stupore
che gli colmava il petto lo fece sentire più leggero,
più
libero, più giovane, e gli ricordò di
più il
ragazzino che aveva visto nelle acque del ruscello anzichè
il re
del Nord ch'era diventato.
La fanciulla lasciò ricadere la pietra nell'acqua, con un
fioco
schiocco. Una tristezza inossidabile le pietrificava le iridi.
-Io sono morta, Brandon Stark. Quel che vedo in queste acque mi
perseguiterà fino alla fine dei miei giorni. Ma tu sei
vivo... e
puoi ancora fare pace con il tuo presente. Puoi ancora perdonargli di
non essere il futuro che volevi.-
D'un tratto, a pelo d'acqua affiorò qualcosa che
inizialmente
Bran non seppe riconoscere: sembravano argentei gambi di fiore. Poi
Lyanna si chinò e la trasse fino a poggiarla in grembo. Il
ragazzo inorridì nel realizzare che si trattava d'una testa:
sì, una testa umana, il bianco viso d'un uomo dai fluenti
capelli d'argento, dalle palpebre calate in un sonno eterno. Lyanna
raccolse con una mano alcune ciocche dei capelli bagnati di Rhaegar
Targaryen, le lisciò, le arrotolò, le
lisciò
ancora. Una tenerezza tristissima ed inesprimibile le inumidiva le
ciglia.
-Puoi ancora ringraziare il cielo di averlo, un futuro.-
Bran fuggì lo sguardo struggente di sua zia, quasi
spaventato da
quel dolore. Lanciò un'occhiata al ruscello, quasi
disperatamente, bramando per un'ultima volta quell'idillio da cui era
inevitabilmente escluso. Le acque s'erano infrante e non mostravano
più nulla, se non l'espressione angosciata di Bran.
Per la prima volta, lo sguardo di Lyanna e quello di Bran
s'incrociarono.
-Se il fato ti vuole morto, devi morire. Ma se il fato ti vuole vivo...
allora tu devi vivere, Brandon.- Qualcosa di simile ad un malinconico
sorriso le incurvò le labbra. -Adesso sai cosa fare.-
Bran provò una specie di calore all'altezza del
petto.
-Credo di sì.-
Lyanna scomparve, in una nuvola di petali blu, mentre le note della
melodia d'un'arpa si disperdevano nelle nebbie del tempo, riecheggiando
nella polvere dei secoli. La risata di Rickon Stark annegò
nelle
acque del ruscello, che spazzavano via il passato come fa il vento con
le foglie d'autunno.
***
Tyrion aveva sempre provato una strana titubanza di fronte a Sansa,
anche se non era mai riuscito a spiegarselo. Aveva dovuto ammetterlo
con sè stesso.
La sua opinione aveva un'inusuale rilevanza per il Folletto;
inconsapevolmente, si era ritrovato spesso a chiedersi cosa
la ragazza Stark pensasse di lui, per poi ricordarsi che non avrebbe
dovuto importargli affatto. Al tempo in cui l'aveva sposata, si
guardava con i suoi occhi e si vedeva tozzo, deforme, grottesco come un
guitto, e -al contrario di come succedeva nella stragrande maggioranza
delle volte- si sentiva in colpa di questo nei suoi confronti. Sansa
meritava di meglio, solo questo riusciva a pensare: poco importava se
non era stato lui a decidere tutto ciò. La
razionalità
aveva poco a che fare. E Tyrion riteneva che non esistesse nulla di
peggio di vergognarsi
di sè.
I giorni al fianco della sua giovanissima moglie erano stati
insostenibili per entrambi. Lei masticata dalle mandibole di un dolore
devastante, lui costantemente vincolato dal proprio imbarazzo. Quando
Sansa era fuggita, era stato quasi un sollievo: e Tyrion, segretamente,
aveva proseguito a pensare che l'avesse fatto a causa sua, a causa del
disgusto che provava per il suo marito nano. E anche se fosse stato?
Sansa era solo una sciocca, frivola, sprovveduta ragazzetta di
sedici anni. Il suo giudizio non avrebbe dovuto nemmeno sfiorarlo.
Il tempo era trascorso, la giovane Stark era diventata una donna. Il
Folletto aveva spesso vagheggiato riguardo il suo destino, s'era
chiesta dove fosse, come stesse... per
poi ricordarsi che non avrebbe dovuto importargli affatto.
Aveva temuto quel confronto per molto tempo, e allo stesso tempo aveva
sempre saputo che prima o poi sarebbe avvenuto. Invece, ora che stava
realmente accadendo, Tyrion provava soltanto una sorta di
imprudente astio, di derisoria rabbia. La strana umiliazione che lo
aveva sempre afflitto, per modo di dire a causa sua,
riaffiorò
come una vecchia ferita stuzzicata.
Fissò la ragazza di fronte a sè, serrando gli
occhi in due fessure.
-Voi Stark dovreste cambiare il nome della vostra casata in A volte ritornano.
Fra un po', arriverà anche tuo padre senza testa a chiedere
vendetta. Ce n'è almeno uno, della tua famiglia, che sia
morto
sul serio?- Quel salace sarcasmo inasprì le labbra della sua
interlocutrice in una smorfia rigida.
-A volte ritornano,
sicuramente non grazie ai Lannister.-
Sansa lo corresse con freddezza. -Non prenderti gioco di me. L'avete
già fatto troppe volte. Non posso più tollerarlo.-
Persino la sua voce era diversa da come la ricordava -ovvio che era
diversa. Era più simile al graffiante stridio del ferro
sugli
scudi, alle dita dell'inverno lungo la spina dorsale. Una
crudeltà che non le era mai appertenuta -che non le sarebbe
mai
dovuta appertenere- s'era impossessata di lei come un morbo.
Tyrion parlò come se non avesse udito. -A Nido dell'Aquila,
Ditocorto ti ha nascosta così bene che non
sono riuscito a trovarti. Dov'eri? Lo chiedo così, per
curiosità
intellettuale.-
Sansa scosse il capo, gli occhi ancora affilati. -Tutto questo non ha
più la minima importanza, Folletto.-
-Oh, adesso non sono più "il tuo lord"?- Tyrion
scoppiò a
ridere, e le sue stesse orecchie riconobbero quel suono come un
concentrato d'amarezza. -Adesso sono il Folletto.-
La fanciulla rispose con una fermezza che, un per solo istante, parve
intristirla e velarle le iridi, in un breve ma appassionato conflitto
fra il dolore dei ricordi e la necessità di quella forza che
non
doveva abbandonarla.
-Adesso, e per sempre, sarai un Lannister. Tanto mi basta.-
Il silenzio era tremendamente ostile.
-Cosa volevi fare ai miei nipoti, Sansa Stark?- domandò
Tyrion,
mentre il suo sguardo inquisiva gli occhi della ragazza con una
franchezza crudele.
Ma Sansa non si lasciò prendere alla sprovvista
così
facilmente, nonostante quell'accusa fosse funesta ed implacabile come
solo l'autentica espressione della verità può
essere.
-La stessa cosa che tuo fratello voleva fare al mio dieci anni fa.-
proferì prontamente, senza distogliere lo sguardo.
-Sangue innocente per sangue innocente? È così
che vuoi
giocare questa partita?- Tyrion era disgustato. -Vuoi rimediare ad
un'ingiustizia con un'ingiustizia doppiamente spietata?-
-Solo ed esclusivamente la vittima di un'ingiustizia ha una qualche
motivazione per volerne compiere una.- osservò lei, a voce
piatta.
Il Folletto sogghignò beffardo. -Quindi, in fondo, non sei
tanto
migliore di mia sorella Cersei. Perchè stai facendo proprio
quello che faceva lei, no? Uccidere indiscriminatamente ogni minaccia
per la propria famiglia... anche nel caso in cui questa minaccia sia
rappresentata da un bambino in fasce.-
-Non cercare di rifilarmi il tuo moralismo da quattro spicci,
Folletto!- Sansa scattò come una fiera a cui fosse stata
pestata
la coda. Il suo viso avvampò di dispetto. -Sappiamo entrambi
perfettamente che tipo
di
minaccia può essere un bambino in fasce. Io sto
semplicemente
vendicando il sangue dei miei familiari. Quello che tutti a questo
mondo fanno!- Tentò di controllarsi, sebbene il suo cuore
martellasse fervido d'indignazione. Assunse l'espressione
più
altera che le riuscì. -Se il tuo intento è farmi
credere
di essere dalla parte del torto, sei rimasto con il pensiero a otto
anni fa. Non sono più la bambina che voi Lannister vi
rigiravate
fra le mani come vi andava comodo.-
Quasi a sottolineare la veridicità di quelle parole, uno
stuolo
di soldati avanzò alle spalle di Tyrion, impedendogli di
retrocedere.
-Vendetta dopo vendetta, neonato dopo neonato, dove arriveremo?- Il
Folletto
sospirò, ignorando i nuovi venuti. -Lionel e Nathaniel non
sono
qui. Si trovano fuori
città, al sicuro dalle vostre grinfie. Cosa intendi farmi
ora,
Sansa? Avanti, sono un arcimaledetto Lannister, sono solo ed indifeso.
È il momento perfetto. Cosa aspetti, liberati di un
problema e fammi tagliare dal collo questa brutta testa deforme.- Non
si era
nemmeno accorto di come la sua voce si fosse progressivamente caricata
di rabbia.
Sansa lo fissò a lungo, quasi stesse valutando l'intera sua
figura. Nel suo sguardo non c'era nè esitazione
nè
subbuglio, nè pentimento nè commozione, solo una
lapidaria calma. I soldati attesero trepidanti i suoi ordini, pronti a
sfoderare le spade. Prima che lei parlasse passono istanti lunghi,
quasi infiniti.
-Il Nord non dimentica. Allo stesso modo, io non dimentico.
Nè
coloro che mi hanno fatto soffrire, nè chi è
stato
gentile con me. Per questo ti concedo dieci minuti per sparire dalla
Fortezza,
prima che arrivi mio fratello Rickon e ti faccia fuori.-
-Mi concedi dieci minuti?
Ma che gentile.- Tyrion la sfregiò con
lo sguardo. -Io farei un po' più attenzione a quel che
succede
a quell'altro
tuo fratello, piuttosto che cercare di uccidere i figli infanti
degli altri.-
Secondo ordine di Sansa, gli uomini lo lasciarono passare. Mentre
usciva dalla stanza e si allontanava nel corridoio, egli non
udì nulla. La voce di lei squillò sospettosa
soltanto quando Tyrion ormai
era sulle scale.
-Aspetta, cosa intendi?-
Nel frattempo un furioso Loras, i riccioli follemente
spiegazzati dietro la nuca e la fronte luccicante di sudore,
insanguinato da capo a piedi dalle viscere dei nemici che aveva
squartato, s'era imbattuto in una bizzarra comitiva: Tommen, scosso ma
illeso, sua sorella Margaery, infiammata dall'adrenalina, e Brienne di
Tarth, che come al solito resisteva stoicamente agli eventi: servivano
gli sforzi congiunti di tutti e tre per immobilizzare una ragazzina che
si dimenava come una bestia in trappola, e che Loras, non senza
impegno, identificò infine e con sconcerto come Myrcella
Lannister.
-Come ti è saltato in mente di scappare via di nascosto
dalla
mia sorveglianza?! Mio re, la tua vita è immensamente
preziosa,
ed la tua è stata una pazzia!- lo apostrofò,
atterrito
all'idea del pericolo che il suo sovrano aveva corso, ed allo stesso
tempo sollevato all'idea che tutti sembrassero illesi. -Cosa diamine
è successo?-
Tommen s'era effettivamente staccato dal fianco di Loras ed era fuggito
senza dirgli nulla, per poter andare nella torre ad avere la sua
rivincita su Rickon.
Margaery gli sorrise, illuminandosi a vederlo. -Bello vederti,
fratellino.-
-E tu cosa ci fai qui?!-
-Pensavi sul serio che me ne sarei rimasta buona buona in cella?- fu la
risposta che da lei ottenne, accompagnata da un'occhiata scettica.
-Rickon Stark è morto.- rivelò Tommen, tutto d'un
fiato, euforico. -Brienne l'ha ucciso.-
Loras rimase senza parole per qualche istante.
-Morto?
Davvero... morto?- Era tentato di scoppiare a ridere, ma sarebbe stata
una risata decisamente isterica. Uno dei loro avversari più
temibili era fuori gioco, e così non avrebbe più
potuto
far male a nessun Lannister e nessun Tyrell... però il
castello
era sotto assedio, perciò cos'altro si poteva comunque fare?
-Dobbiamo scappare, Maestà.- gli ricordò
precipitosamente
il Cavaliere di Fiori. -Ho promesso a tuo zio Jaime che ci saremmo
incontrati e saremmo fuggiti insieme, con lui e Tyrion.-
-Myrcella non potrà andare lontano.- intervenne Brienne,
cupa. -Credo che stia male.-
Tommen rivolse lo sguardo alla sorella, che nel frattempo era scivolata
a terra. Myrcella stava ansimando rumorosamente, le mani paonazze colte
da un tremito convulso, piantate sul pavimento come sostegno; il capo
oscillava, scuotendo i lunghi capelli sporchi di polvere, e dalle
labbra sgranate dai gemiti febbrili sgusciavano parole altissime e
disarticolate.
-Voi... io vi ucciderò tutti. Tutti. Vi
ucciderò...
tutti. Dov'è?! Dov'è? Voi! Ancora del male, gli
avete
fatto ancora... del male... non
gli avevate fatto abbastanza male?! Dovevate... dovevate
anche... siate maledetti!-
Tommen sfiorò inavvertitamente il sottile graffio, ancora
orlato
da un filo di sangue vivo, che Myrcella aveva aperto sul suo petto, e
provò ad immaginare cosa sarebbe stato se Brienne non avesse
disarmato la fanciulla in tempo. Myrcella aveva tentato di ucciderlo...
e quando l'aveva fatto, c'era la follia di Rickon Stark nei suoi occhi
animati di furore.
Margaery aggrottò la fronte. -Ho ancora dei soldati di mio
padre, che so rimarranno fedeli alla nostra causa. Non appena usciremo
di qui, io e Myrcella potremmo rimanere nei loro accampamenti, mentre
voi trovate un modo per fuggire da Approdo del Re.-
-Non appena usciremo di qui.- ripetè Loras, beffardo.
-È una parola...-
-Fuggire da Approdo del Re? Impossibile, temo, mia signora.-
commentò Brienne, rigidamente. -Se fosse così
semplice,
non saremmo nei guai. Scommetto che la prima cosa a cui il Re Metamorfo
ha provveduto è assicurarsi che nessun componente della
vostra
famiglia sopravviva all'assedio, e che quindi abbia messo sotto
controllo tutte le uscite.-
Ma furono le parole di Tommen quello che ferirono la donna
più a
fondo. -E poi, per quale motivo dovrei fidarmi di te? Tutto quello che
è successo non mi ha certo fatto dimenticare che tu sei
stata
la prima a tradirmi, Margaery.-
Lei abbassò lo sguardo, quasi vergognandosi di fronte a
quella
verità. -Non posso negarlo. Però davvero, marito
mio...
forse non mi presterai fede, però... da quando sono nati i
bambini, mi sembra che sia passato un secolo. Tenerli fra le braccia mi
ha fatto capire molte cose... O meglio, ha ridimensionato
molte cose. Finalmente mi sono resa conto di quanto irrisorio fosse-
-Mi dispiace interrompere un discorso così commovente, ma
dobbiamo assolutamente raggiungere Jaime.- sbuffò Loras,
facendo
loro segno di darsi una mossa. Aveva la netta impressione che Margaery
stesse solo recitando, come al solito: era troppo inusuale sentirla
parlare così. La sua redenzione
gli
pareva un bluff. La spiegazione, l'unica che avesse un senso, era che
la sorella semplicemente aveva valutato quale posizione sarebbe stato
più vantaggioso assumere e si era comportata di conseguenza.
Controvoglia, Tommen annuì e fece cenno alle due donne di
seguirli. Non sapeva se fidarsi di Margaery fosse saggio,
però
voleva farlo così disperatamente che magari avrebbe potuto
anche
cascarci di nuovo.
Che razza
di re è, quello che si lascia abbindolare dalla sua regina,
pendendo dalle sue labbra e obbedendo come una marionetta?
Già prima si era comportato da sciocco, quando Margaery gli
aveva afferrato devotamente le mani e gli aveva chiesto dove fossero i loro figli, e lui
era rimasto così folgorato dalla bellezza di quel nostri da
arrossire di gioia e cinguettare una risposta, come se nulla fosse,
come se non avesse dei buoni motivi per odiarla. Si era fatto incantare
da lei come un cretino, ma... non doveva accadere più.
Ignorò gli occhi gonfi di supplica di sua moglie e
avanzò, confuso. D'un tratto, deprecò il fatto
che sua
madre non fosse accanto a lui, a indicargli la strada giusta. Sentiva
un tremendo bisogno di aggrapparsi ad uno scoglio -ed attorno a
sè vedeva solo il mondo andare alla deriva.
***
Tyrion ricordava le ultime parole che aveva rivolto a suo fratello
Jaime; così, dopo
aver attraversato nuovamente la calca della battaglia, scese fino ai
piani inferiori e finalmente, un moto di sollievo ad avvincergli il
respiro, pose la mano sulla porta dell'ingresso secondario delle stalle.
Quando entrò, molti sguardi scattarono verso di lui. Jaime
fu il
primo a parlargli, alzandosi dal mucchio di selle impilate l'una sopra
l'altra.
-Dov'eri finito?! Non ci speravo più, ormai...-
-Pagavo un debito, come un vero Lannister.- Tyrion si limitò
ad
un sorriso sghembo, senza dare ulteriori spiegazioni, nonostante lo
sguardo esplicativo di Jaime lo incalzasse da questo punto di vista.
-Myrcella è qui...? Rickon Stark non è salito
sulla
torre?-
Tommen raggiunse lo zio a rapide falcate e lo abbracciò,
felice
di vederlo. Sorrise trionfante. -È salito, invece. Ed
è
anche morto.-
Un gemito prolungato e cruento, dal sapore del sangue e
della
cenere, squarciò la bocca di Myrcella, mentre lei sollevava
il
capo, esponendo la gola. Poi s'abbandonò di nuovo al suolo,
mentre i singhiozzi le percuotevano la gola, risuonando come una
supplica ormai monocorde e lamentosa.
Il Folletto spostò lo sguardo dalla nipote al re, troppo
distratto da quella notizia per prestare attenzione al triste
spettacolo, e sgranò gli occhi sgomento.
-Come hai detto?! E chi è stato?!-
-Brienne. Sapevo che metterla come guardia per Myrcella era una buona
idea.- replicò Jaime, lanciandole un'occhiata di
approvazione.
Tyrion sentì il cuore accelerare sotto il farsetto. Rickon
Stark, tolto di mezzo per sempre... il suo sangue, spanto per asciugare
quello di Tywin e Cersei Lannister. Era il meglio che potesse capitare
loro. Myrcella incolume, ancora lì, e quel piccolo bastardo
fuori
dalle scatole... adesso bisognava soltanto far sì che la
seconda
parte del suo piano avesse successo.
Tommen rinsaldò la presa sulle spalle dello zio. -Come
faremo a
scappare dalla città? Brienne dice che è
impossibile...-
-Infatti è così. Insieme siamo una comitiva che
attira
troppo l'attenzione, da soli moriremmo dispersi. È per
questo che non fuggiremo.-
Margaery s'indignò. -Il fermento della guerra ti ha forse
fatto
perdere il senno, lord Tyrion? Stai consigliando di lasciarci morire
qui?!-
-Anche se non è granchè, ci tengo alla mia
miserabile
vita.- ribattè Tyrion, intimandole di ascoltare. -Stavo
dicendo
che anch'io ho una notizia per voi. Brandon Stark è stato
rapito.-
-Cosa?- esclamò Tommen.
-E Jaime lo salverà.- aggiunse suo zio.
-Cosa?- gli
fece eco Loras, sbalordito.
-L'unico modo per sopravvivere è ottenere il perdono dal
nostro
nuovo re bastardo, e di conseguenza dal suo alleato.- spiegò
il
Folletto. -Se Jaime salverà il re del Nord, lui in
seguito si
sentirà in dovere nei suoi confronti e lo
risparmierà...
e c'è da supporre che lo stesso farà con tutti
noi.
D'altronde, sappiamo dove lo storpio è tenuto prigioniero.-
Tommen lo interruppe. -Perchè deve farlo lo zio Jaime?! Non
posso occuparmene io?-
Si sentiva un po' offeso dal fatto che nessuno avesse pensato di
includerlo, che non l'avessero nemmeno preso in considerazione, che non
si fossero disturbati a chiedergli se avesse voglia di farlo.
Dopotutto, suo zio era più esperto, ma anche più vecchio. Si
fidavano così poco del suo coraggio e del suo valore?
Sì,
forse non era il combattente migliore dei Sette Regni,
però...
però odiava l'idea che tutti, così come Myrcella
aveva
detto, lo considerassero un re ottuso ed incapace.
-È molto pericoloso, Tommen.- s'azzardò a dire
Jaime,
cautamente. -Non sappiamo nemmeno esattamente con chi abbiamo a che
fare. Forse è meglio se lasci fare a me e Brienne. Se noi
morissimo, infatti, voi ci piangereste un po' e basta. Se tu morissi,
sarebbe la fine per tutti noi. Hai sedici anni, sei l'erede dei
Lannister, padre di due creature appena nate... Non possiamo
farti
correre un rischio simile.-
Tommen esitò per pochi istanti, poi annuì
timidamente.
-Certo, zio. Scusa se ho parlato come un bambino capriccioso.-
Decise di tacere e tenere per sè i propri tentennamenti, ma
Tyrion intuì ugualmente la sua delusione.
-Se proprio ci tieni a renderti utile, nipote, potresti sempre offrire
il culo a Bran Stark e diventare il consigliere
numero due.- gli propose affabilmente. -Dopotutto, sei un bel
ragazzino. Ed ecco, sarebbe l'ennesimo dei miei problemi risolto con la
prostituzione...-
Tommen avvampò sulle guance ed abbassò lo
sguardo, imbarazzato. -Zio Tyrion, non essere sgradevole.-
Il Folletto chiese venia con un ghigno. Loras era dubbioso.
-Dunque quali saranno le nostre prossime mosse?-
-Io, Tommen, Margaery e Myrcella raggiungeremo gli accampamenti dei
soldati Tyrell, e lì rimarremo. Loras, tu ci scorterai: non
si
è al sicuro da nessuna parte, in questa dannata
città. In
quanto a voi, vi dirigerete al luogo dove tengono Brandon Stark
rinchiuso. Brienne, Jaime e i pochi uomini che ci restano
attenderanno il momento
propizio per salvare il ragazzo... e poi si vedrà.-
Tyrion, dopo aver pronunciato quelle parole, pensò a Shae e
Cailee, lontane a Castel Granito. Chissà se sentivano la sua
mancanza come lui sentiva la loro, e chissà se le avrebbe
riviste... tutto sarebbe dipenso dall'esito di quell'impresa. Chi
avrebbe immaginato che sarebbero arrivati a quel punto? A dover salvare
i propri stessi nemici per sopravvivere? Come gli era già
capitato un'ora prima, immaginò lo sprezzante moto
d'orgoglio
che avrebbe impedito a Cersei di agire in maniera ragionevole. Lei non
si sarebbe mai piegata a salvare uno Stark, a chiedere pietà
strisciando sotto il trono del bastardo d'un uomo indegno. Avrebbe
preferito morire ammazzata dai soldati del Nord nel tentativo di
evadere dalle mura di Approdo del Re, o, ancora meglio, fermata mentre
alzava un pugnale contro Arya e Sansa. Cersei non avrebbe mai smesso di
combattere. Cersei si sarebbe comportata come una vera leonessa. E
Cersei sarebbe morta.
Invece
Tyrion e Jaime sarebbero rimasti vivi, avrebbero usato l'ingegno al
servizio della spada. Avrebbero salvato Tommen e Myrcella e i due
piccoli gemelli. La dolcezza di quella speranza rammentò a
Tyrion fino a che punto fosse stanco: le palpebre erano quasi cascanti.
Quanto tempo era che non prendeva sonno?
-Dobbiamo agire in fretta.- lo riscosse Jaime. -Non cincischiamo.-
Myrcella cacciò un urlo intriso di panico. -No! No! Non
potete...! Lui vi ucciderà! Vi ucciderà tutti...
lui deve
uccidervi tutti... Lui è forte. Più forte di
chiunque
altro. Perchè volete fargli ancora del male?!-
Portò le
ginocchia al petto, rannicchiata, sdraiata sul fianco contro la paglia.
-Vi ucciderò tutti... vi ucciderò...-
-Fatela tacere.- sbottò Tommen. -Non ne posso più
dei suoi balbettii senza senso. Andiamo, prima che ci trovino.-
Brienne non incontrò alcuna resistenza quando prese Myrcella
fra
le braccia; la ragazza era ormai troppo debilitata per difendersi. Se
prima scalciava e graffiava alla rinfusa, selvaggiamente, ora il dolore
l'aveva stremata ed aveva preso il sopravvento su una mente
suggestionabile ed un corpo già debole. La sua fronte, rossa
e
palpitante, era bagnata di febbre. Le labbra parevano d'un tratto
inaridite, così come gli occhi erano liquidi d'incoscienza.
Brienne ricordò l'estrema espressione sul volto di Rickon
Stark,
quello strano, incredulo stupore per la fine, quasi che mai avesse
immaginato che potesse toccare anche a lui. Come hai potuto essere
così ingenuo, proprio tu? si chiese la donna. Come hai potuto ignorare
l'evidenza che il male che hai fatto ti si sarebbe ritorto contro?
Era solo un bambino, fu la risposta che si diede. Ma non
contribuì a farla sentire meglio. Forse, salvare Bran Stark
avrebbe potuto minimamente assolverla dal suo delitto?
Rickon Stark se lo meritava, si ripetè. Ma dovette smettere
subito: ogni volta che lo faceva, nella sua mente lampeggiavano i fieri
occhi azzurri di Catelyn Stark.
Myrcella gemeva a lutto. Tyrion meditava in silenzio. Tommen, il cuore
in gola, sperava. Jaime correva a cercare l'elsa della spada con la
mano sinistra.
***
Arya sapeva che avrebbe ricordato
per tutti i giorni a venire, fino all'estrema vecchiaia, il momento in
cui lei e Gendry avevano fatto irruzione nella sala del trono -come il
più glorioso della sua vita. Sembravano i protagonisti di
un'epica leggenda, di una vecchia fiaba capace per
l'eternità di
ammaliare i bambini, mentre spalancavano le porte e si facevano largo
fino ai famigerati gradini sferrando fendenti a destra e a manca;
l'attonita euforia sui volti dei soldati diede loro ad intendere che
quella storia avrebbe vissuto per secoli di bocca in bocca. Era stato
come riconquistare il
posto che le spettava nella sua vita, come effigiarsi nuovamente del
nome di Stark. Di più: era stata la sua vendetta contro
quella
fortezza tanto detestata, teatro di sciagure aspre oltre ogni
immaginazione, fossa di vaghe fantasie che, delineandosi sempre
più distintamente, si erano rivelate mostri.
Annaspando nel sangue fino alle ginocchia, amputando teste, trafiggendo
scudi e gridando affannosamente parole di una lingua che non
conoscevano, Arya e Gendry erano giunti ai piedi del Trono di Spade.
L'avevano guardato dal basso verso l'alto, come i bambini fanno alle
pendici delle montagne. All'improvviso, proprio quando i pericoli erano
scomparsi all'orizzonte e il traguardo era così vicino, era
quasi sorto il dubbio se non fosse meglio scappare via.
Perchè
Arya lo sapeva, in fondo, che i pericoli non erano affatto scomparsi,
bensì cominciavano in quel preciso istante. Gendry piangeva,
senza schiudere la bocca nè liberare un singhiozzo,
lasciando
soltanto che le lacrime disegnassero sfregi bianchi sulle sue guance
annerite di cenere, salando il sangue secco sulle sue labbra e sul
collo. Arya non l'aveva fatto, però riusciva a capire come
egli
si sentisse, e non aveva commentato. Alle loro spalle, la battaglia che
infuriava era soltanto un brusio indistinto. Il cuore nei loro polsi
era un tamburo di guerra. D'un tratto tutto il sangue che avevano
versato ritornava sangue, tutte le vite che avevano strappato
ritornavano vite, paradossalmente nel momento in cui non lo erano
più.
Era costata cara l'ambizione, prima di scoprirla come un desiderio nel
proprio cuore si aveva dovuto perdere molto, quasi tutto. Era costato
caro il tragitto, dall'intenzione di percorrerlo alla determinazione
nel perseverare, e denti e artigli di molte fiere avevano lasciato il
segno su quella pelle che ormai recava incisa la loro storia. Era
costato caro il trionfo, solo allora se n'erano accorti. Ma non
importava. All'improvviso, non importava. Andava bene così.
Un principe più avido -un ragazzo più stupido- si
sarebbe
precipitato a sedersi su quello scranno, come se mille nemici
invisibili potessero minacciarlo, se non avesse fatto presto. Ma Gendry
non era un principe, non era avido, non era più un ragazzo e
non
era stupido, perchè sapeva che per regnare sui Sette Regni
non
era mai bastato sedersi sul Trono di Spade -per regnare su qualsiasi
regno non sarebbe mai bastato sedersi su un trono.
Gendry aveva voltato il viso verso Arya, senza nemmeno cercarla: la
sapeva lì. Arya aveva fatto lo stesso. Per qualche istante,
la
consapevolezza non aveva necessitato di parole.
A quel punto, forse lei aveva sorriso -i ricordi cominciavano
già a diluirsi.
-Ci sei arrivato, alla fine.- Le era quasi parso di prenderlo in giro.
Le era quasi parso sciocco cercare di palesare qualcosa che nessun
idioma avrebbe mai potuto esprimere.
-Ci siamo
arrivati. Ti sbagli
sempre.- Gli occhi di Gendry, in mezzo al fumo e alla polvere e al
sangue, sembravano folgori. Per un istante -uno solo- Arya aveva
percepito un brivido di reverenza percorrerle la spina dorsale.
-Diventa la mia regina, Arya Stark.-
Era stato difficile sottrarsi a quello sguardo -a quell'ordine,
decisamente il primo vero ordine del Lord dei Sette Regni. Un po'
maleaugurante. Il primo ordine impartito era anche il primo disatteso.
Arya aveva deciso di rivelare la verità.
-Il potere rovina le persone, Vostra Grazia.-
Gendry aveva piegato le labbra in un sorriso triste, nell'udire
quell'appellativo. -Significa che vuoi rovinarmi?-
-Significa che sono sicura che non ti lascerai rovinare.- La ragazza
cercò le tracce del sangue di tutti i re che erano stati
trafitti dal loro stesso scranno. Vide quello di Aerys Targaryen,
quello di Robert Baratheon, quello di Joffrey Lannister. -Per quanto
riguarda me, non posso affermarlo con la stessa sicurezza.-
Gendry studiò la sua espressione assorta, le sopracciglia
scure
ed aggrottate sopra gli occhi amari, le cicatrici ramificate come vene
sul suo collo.
-Ti amo anche per questo, milady.-
-Se mi chiami di nuovo così, fra poco non avrai
più un cuore per farlo.-
Nel bel mezzo dell'inferno, nel bel mezzo del fuoco e del sangue,
l'aveva baciata. Arya aveva pensato che Sansa l'avrebbe trovato romantico, e che a
lei sembrava solo rivoltante.
Aveva pensato pure di insultarlo e tirargli un cazzotto, ma poi si era
dimenticata di farlo. Le piaceva, Gendry, in fondo. Le piaceva quasi
tutto, di Gendry. Le piaceva pure il suo odore, anche
se non avrebbe saputo spiegare esattamente quale fosse. Si trattava di
un connubio particolare, che innescava una sensazione di benessere e
rievocava ricordi remoti; qualcosa che le rammentava il muschio
balsamico, le rocce scaldate al sole, e... e altre cose che non
è necessario specificare. E quando lui l'aveva baciata, si
era sentita come in cima al mondo.
Prima di abbandonare la sala, a battaglia terminata, mentre i cadaveri
venivano raccolti e le armature depredate, Arya aveva lanciato
un'ultima occhiata fiduciosa al Trono di Spade. Il sangue di Gendry non
avrebbe mai bagnato quelle lame. Come certezza era sufficiente, anche
per una vita intera.
In quel momento, Arya e Gendry sedevano alle sponde del letto dove
Rickon Stark era stato coricato. Gli avevano levato farsetto e camicia,
lasciandolo a torso nudo; in questo modo la ferita alla gola era ben
esposta e risaltava in una maniera quasi disturbante. Tutti gli anelli
della catena avevano calcato impronte di sangue sulla sua pelle,
incidendola fino alle vene. Lì la carne era particolarmente
delicata, e di sicuro Brienne di Tarth lo sapeva, quando gli era
saltata addosso. Al solo pensiero che qualcuno avesse aggredito suo
fratello per ucciderlo intenzionalmente, Arya sentiva il cuore
ardere di sdegno e i pugni tremare, come le era accaduto molti
anni prima, alle Torri Gemelle, il giorno della morte di Robb e sua
madre. Un suo caro in pericolo e lei che non era riuscita a
proteggerlo... una storia già sentita. Da quel poco tempo
che
Arya si era ricongiunta con Rickon, l'aveva visto sempre forte,
spudorato, arrogante, quasi intoccabile: di certo non bisognoso di
protezione. E per questo aveva dimenticato di essere la sua sorella
maggiore, di avere il dovere di stargli sempre accanto e di non fargli
correre rischi... era stata così stupida, a permettergli di
attuare quel piano così pericoloso. E adesso, per colpa
della
sua leggerezza, era così.
Con lividi lì dove le dita del ferro l'avevano strangolato,
orribili chiazze rosse prossime a diventare viola e nere... con
quell'espressione assopita di bambino intento ad un lungo sogno.
Non poteva fare niente. Non aveva mai potuto fare niente. Inutile
viaggiare tutto intorno al mondo, e non si trova davvero ciò
che
si sta cercando. Arya credeva di avere raggiunto il suo obiettivo ma,
non appena aveva visto il corpo martoriato di Rickon, ogni altra cosa
s'era ridotta in cenere. L'umana debolezza di un'identità di
cui
non si sarebbe liberata mai la esasperò di nuovo.
Invidiò
Jaquen H'gar, capace di assumere mille visi, mille nomi, mille passati;
invidiò il suo antico maestro Syrio e sua madre e suo padre
e
suo fratello maggiore, finalmente in pace, esonerati dal tramestio di
quel gioco senza regole. Perdere coscienza del proprio cuore l'avrebbe
aiutata a ritrovare se stessa, a ritrovare la propria forza? Avrebbe
raccolto abbastanza coraggio per la vendetta? Si sentiva stanca di
tutto, nauseata dal sangue, disgustata dalla morte. La
crudeltà
d'un silenzio privo d'aiuto e conforto la circondava come una crisalide
di solitudine.
Gendry, di fronte a lei, capiva di essere escluso da quella sofferenza
e non osava proferire parola. Era tentato di carezzarle il viso, di
baciarla e sussurrarle che tutto sarebbe andato per il meglio, che
erano insieme adesso e per tutta la vita, e che lui avrebbe fatto
andare tutto come lei voleva, che si sarebbe adoperato per risolvere
ogni suo desiderio: però Arya era Arya, e sicuramente
avrebbe
frainteso quel tentativo di conforto come un'accusa di
fragilità
femminile e si sarebbe offesa. Quando si parlava di sentimenti, la
ragazza che amava non era capace di quella cruda franchezza che
adoperava per qualsiasi altra cosa. Così il nuovo re dei
Sette
Regni si limitava a starle vicino con la propria concreta presenza. Di
tanto in tanto, un attendente o un messaggero accorreva riferirgli
qualche novità di poco conto, che lui accoglieva con un
cenno
del capo. Aveva davvero molto da fare -era o non era il re, adesso?-
però di lasciare la giovane Stark da sola, in un momento
simile,
non se ne parlava. Di notizie riguardo i Lannister, poi, ancora non ne
erano arrivate: eppure, non potevano essere andati troppo lontano.
Nymeria urtava la mano di Arya con il proprio muso umido e la
leccava con la lingua rasposa, tentando di distrarla ed attirare la sua
attenzione, ma la ragazza la ignorava. Cagnaccio era sdraiato ai piedi
del letto e vegliava il suo padrone con i grandi occhi verdi, lanciando
a volte sguardi foschi ad Arya, quasi a dirle: se mi avessi lasciato andare con
lui, niente di tutto questo sarebbe successo.
Come accadeva puntualmente allo scadere di ogni mezz'ora, un Maestro
gli s'accostò e verificò rapidamente le sue
condizioni.
Posò il palmo sul petto del ragazzo, esaminò le
ferite
sul collo e gli sollevò una palpebra con due dita. Arya,
quando
era entrato, l'aveva a malapena notato; ma ad un certo punto dovette
insospettirsi, perchè l'uomo, nonostante i minuti
passassero,
era ancora lì.
-Ci sono progressi?- domandò allora, mentre il calore della
speranza le gonfiava il petto. Ma quando l'uomo si voltò,
vedendo la sua espressione impietosita, Arya percepì
soltanto
qualcosa di nero ed indistinto farsi largo nel torace, come il fumo
caliginoso d'un incendio devastatore.
-Ormai è incosciente da molto tempo. Le funzioni vitali
stanno
rallentando. La catena potrebbe avergli causato un'emorragia interna.
Signora, non sono affatto sicuro che si riprenderà.-
Arya tacque. Gendry e il vecchio si scambiarono una breve occhiata.
-Non c'è proprio nulla che possiamo fare per lui?-
domandò il re, lentamente. Il Maestro si strinse nelle
spalle.
-Pregare i Sette, suppongo. Ad ogni modo, se fossi in voi, mi
preparerei a lasciarlo... sì, insomma, a lasciarlo...-
-... morire?- La voce di Arya cadde rapida e tagliente come una
ghigliottina. Gendry sospirò. Fece il giro del letto e le si
avvicinò.
-Arya, ascolta-
-Ho ascoltato abbastanza.- La ragazza fissava il collo di Rickon come
se volesse affondare un coltello nelle pieghe della sua carne. -Ho
ascoltato tutto quello che mi importava ascoltare.-
-Arya.-
-È finita. Non mi interessa. Non mi deve interessare.-
Gendry le girò la faccia con uno schiaffo, che avrebbe rotto
senza problemi lo zigomo d'un viso più delicato. Arya
rispose
ferocemente con una sberla, che il ragazzo incassò ed a cui
replicò con un pugno. Lei, gli occhi accesi come braci
incandescenti, gli allungò di rimando un altro pugno, che
però Gendry schivò. Ed Arya ci provò
ancora, ed
ancora, ed ancora, finchè lui non avvolse la mano serrata di
lei
nel proprio palmo striato da vecchie cicatrici -tanto grande da far
scomparire completamente il pugno della ragazza. I loro sguardi
s'incontrarono e rimasero così, fissi l'uno nell'altro come
una
freccia in un bersaglio, e tanto fremente era quello di Arya quanto
severamente fermo e saldo quello di Gendry. Fu un confronto
lungo
e necessario.
La giovane Stark non sapeva esattamente quanto tempo dopo era ricaduta
sul petto di Gendry, senza forza, senza dolore, senza rabbia, non
sapeva quanto tempo dopo la sua anima aveva trovato la dolcezza del
riposo; il Maestro se n'era andato, lasciandoli soli, e Gendry le stava
accarezzando ritmicamente la nuca, bisbigliando parole di cui nessuno
dei due conosceva il significato, ma che li faceva sentire parte della
stessa anima.
Arya non pianse fra le sue braccia. Rimase inerte,
ignorante, cieca, finalmente distante da tutto quell'ammasso di
cadaveri e macerie. Si permise la stanchezza e il perdono, ma si
risparmiò l'arsura dolorosa ed inutile del pianto. Avrebbe
solo
consumato la sua resistenza. Gendry era ancora lì, e tutto
andò a posto per un po'.
Quando si risollevò, Arya lo fece solo perchè il
richiamo
alla vita era ormai imprescindibile. Le sue ossa erano vuote, le sue
labbra asciutte. Il corpo di Rickon era ancora lì, come un
peso
da riaddossarsi alla coscienza, un pensiero da riaccogliere nella
propria mente. Ma adesso Arya sapeva che avrebbe potuto farcela. Non
sapeva cosa fosse cambiato, ma il buio non c'era più
-quell'istinto di sopravvivenza che le aveva insegnato ad avanzare
sotto qualsiasi intemperia le aveva impartito una nuova lezione. Senza
comprendere bene il suo stesso gesto, allungò il braccio e
toccò la mano di Rickon, carezzandone il dorso con i
palpastrelli, disegnando piccoli cerchi attorno alle nocche. Era
impregnata di sudore, gelido come le lacrime della Barriera.
-Uccideremo tutti i Lannister. Te lo prometto. Dal primo all'ultimo.-
borbottò. Dopo qualche lungo istante, si voltò
verso
Gendry.
-Sansa era andata a cercare i gemelli, ma mi sembra di capire che non
li ha trovati.-
-No. Adesso non è più qui. Quando ho ordinato di
andare
ad avvertirla... di Rickon, mi è stato riferito che era
già partita per tornare all'accampamento di re Brandon.
Immagino
che volesse informarlo di com'è andata.-
-Dovremo subito mandare un messaggero lì.-
Gendry scrollò le spalle. -Non è facile.
C'è una
confusione infernale là fuori, e gli ultimi focolai della
battaglia devono ancora essere soppressi. Le comunicazioni sono tutte
intralciate, sia da qua a là sia viceversa. C'era da
aspettarselo.-
-Significa che-
Prima che potesse alzarsi dalla sua posizione, con le ginocchia a
terra, un gemito di dolore le strappò la voce. Solo dopo un
istante di assoluto smarrimento, si accorse che delle lunghe unghie
affilate si erano conficcate nel suo polso.
***
Il dolore al basso ventre
inghiottì il respiro di Meera e la lasciò
soffocare, a labbra
socchiuse. Era come se il suo centro gravitazionale fosse cambiato,
abbassandosi, degradandosi, e d'un tratto fosse quel nucleo
di sofferenza, e null'altro. Aveva anche un colore, Meera lo scorgeva
distintamente: era nero, un piccolo buco nero, che divorava
progressivamente tutto quel che c'era di fronte a lei, come una goccia
d'inchiostro, come un parassita. Pulsava orribilmente, insistentemente,
come un organo marcio, scandiva un dolore regolare e per questo
insopportabile. Si portò le mani al ventre, mentre le sue
dita
premevano cercando disperatamente di sanare tutto ciò, ma
quel
che riuscì a fare fu attenuare la sofferenza per la finzione
di
pochi istanti.
Osha la soccorse precipitosamente, mettendole un braccio attorno alle
spalle. -Meera, mi senti? Non svenire, sai, non provarci neppure...-
Cercava di nasconderlo malamente, ma era terrorizzata a morte. Yara le
lanciò un'occhiata torva.
-Cosa le prende?- sbottò, conficcando la scure nelle budella
dell'uomo che le stava di fronte.
Osha parlò con voce secca, quasi scorbutica. -È
incinta.-
Udendola, Meera mugolò; la consapevolezza della propria
responsabilità la travolse. Ecco cosa stava accadendo: suo
figlio la stava rimproverando
aspramente. Quello
era il dolore che anche lui provava. Era il dolore di entrambi -ma la
colpa era solo di Meera. Quello era il dolore che lei aveva imposto, inferto a
suo figlio.
Intanto, Yara imprecava.
-Porca troia, non potevate dirmelo prima?- esclamò
rabbiosamente, mozzando la testa di un soldato che si stava
avvicinando.
Meera riuscì a trovare fiato a sufficienza per domandare, a
voce stentata: -E che differenza avrebbe fatto?!-
-Ti avrei impedito di andare a fare la spaccona in giro con la tua
spada da reginetta guerriera, sciocca!- replicò Yara,
furente.
La regina del Nord, ancora aggrappata ad Osha e Shireen,
sbuffò
forte dalle narici.
Il dolore scavava sapientemente dentro di lei, lento e curioso ed
insaziabile, fino a che Meera non si ritrovò a mordere i
gemiti
pur di non lasciarli sfuggire dalle labbra, che li articolava
sconcertata; sembrava intenzionato a farsi largo fra le sue viscere con
una daga, fino a squarciare il suo ventre stesso. Com'era possibile che
la ragazza Greyjoy s'infervorasse tanto per questa storia?
-E da quando ti importa della mia incolumità?-
mugugnò Meera.
Yara fece una pausa e non parlò per un po', fingendosi
troppo
impegnata a respingere i soldati con la scure, menando fendenti a
destra e a manca. Rivelare la verità risultò
faticoso, ma
sentì quasi il dovere di liberarsi di quel peso scomodo.
-Da quando hai accettato di accogliermi nella tua
casa e di fidarti di me, anche se nessun altro l'avrebbe fatto.-
ammise, chinandosi sulle ginocchia per recuperare il respiro, e quando
si rialzò la fissò negli occhi con gravosa
intensità. Infine esibì un sogghigno. -E
perchè mi hai offerto quel vino celestiale.-
-Ah, ecco.- Ritrovato il sorriso, Meera percepì una forza
nuova
affluirle nelle vene. Il dolore non s'era affievolito, però
non
sembrava ingestibile come un istante prima.
D'un tratto, seppe cosa doveva fare. Si raddrizzò,
respirò a pieni polmoni per qualche istante e
sentì di
aver recuperato il controllo delle proprie emozioni.
-Osha,- esalò piano, -prendi Kenned e vattene via.-
La bruta trasalì, come se le fosse appena stato sferrato un
pugno. -Come?-
-Ascoltami attentamente. Quando ricostruì Grande Inverno, in
previsione di calamità analoghe a quella già
accaduta,
Bran aggiunse un... passaggio segreto, dietro l'arazzo di Eddard Stark.
Ci sono delle lastre di pietra che possono essere spostate: da
lì si scende delle scale e si accede ad una galleria che
conduce
fuori di qui, dietro il Parco degli Dèi. Visto che risale
alla
riedificazione della fortezza Theon non può essere al
corrente della sua esistenza, quindi
non troverai nessuno a sbarrarti la strada. Conosci bene i territori
circostanti. Saprai dove trovare rifugio.-
Osha la ascoltò sbalordita. -Mi stai liquidando in questo
modo
perchè tu, nel frattempo, cosa avresti intenzione di fare?!-
-Andare a riprendermi ciò che è mio.- concluse
Meera, andando a sfiorare di nuovo l'elsa della spada.
La donna la squadrò. -Non ti reggi nemmeno in piedi. Come
accidenti speri di fermare Ramsay Snow?-
-Non sono da sola. Ho un sostegno armato,- ed indicò Yara
con un
gesto, -e un sostegno morale.- Indicò Shireen.
-Perciò,
cosa mi manca?-
-Perchè devo essere io a portare Kenned in salvo, e non puoi
farlo tu?- replicò Osha, indignata. -Io combatterei molto-
Meera spazzò via le sue proteste con il solo suono della
propria
voce. -Perchè mi fido di te più che di me stessa.-
Lo sapeva, non poteva arrogarsi l'onere della vita di suo figlio, in
quel momento. Nemmeno della propria, in verità. Tutto era
tremendamente rosso e confuso... e lei, in mezzo a quel putiferio,
voleva solo librarsi nella consolatoria certezza che Kenned sarebbe
stato bene, che -qualsiasi cosa fosse successa- avrebbe continuato a
dormire indisturbato fra le sue pelliccie marroni, senza che nessuno
turbasse i suoi sogni. Non avrebbe saputo perdonarselo, altrimenti. Non
avrebbe tollerato da se stessa altri errori. Confidare negli altri era
tutto ciò che le rimaneva da fare.
Osha era dilaniata dai dubbi. La voce di Bran le risuonava ancora nella
mente, limpida e forte: non
perderla mai di vista.
-Non posso abbandonarti qui!- tentò ancora, combattuta.
-Devi
abbandonarmi qui.-
ringhiò Meera. Non c'era più tempo per rimanere a
discutere. -E non perchè te lo sto ordinando, ma
perchè
ti sto supplicando.-
E Osha la vide, quella supplica, nei suoi occhi, così come
si
scorgono i lampi nel cielo notturno: inestinguibile, fredda e
straziante.
-Odio recitare la parte della bambinaia numero due, però ci
sono
pur sempre io con lei.- aggiunse Yara, con una smorfia.
-Perciò,
suppongo
che se si trovasse nei guai potrebbe
venirmi voglia di darle una mano.-
La bruta sospirò. -Hai vinto, contenta? Saluta tuo figlio.
Tornerò soltanto quando capirò che è
tutto finito.-
Meera avanzò, fino ad affondare il naso nei riccioli di
Kenned e
schioccare un bacio sulla sua fronte. Inspirò la sua
innocenza
con voluttà. La invidiava, ma per nulla al mondo avrebbe
desiderato attingerla dagli occhi del bambino. Aveva ancora bisogno di
tutta la sua ingenuità, lui.
-Scappate.- sussurrò. -Scappate via di qui.-
-E tu vedi di sopravvivere, Reed.-
Dopo averle rivolto un ultimo sguardo scontroso, Osha le
voltò le
spalle rapidamente, impedendole di intravedere gli occhi arrossati, e
si avviò spedita verso l'Ala Ovest del castello.
Yara si rivolse a Meera con tono perentorio. -Sei sicura di sentirti
meglio?-
-Ha importanza?- ribattè lei, con fermezza. -Ti prego,
ammazziamo quel fottuto bastardo adesso.-
-Certo che ha importanza!- esclamò Shireen,
d'un tratto.
Aveva udito la notizia della gravidanza di Meera con lo stesso
sconcerto di Yara, e riteneva intollerabile che lei si sentisse in
dovere di combattere persino in quella situazione. Se ne intendeva
molto poco di queste cose, però era piuttosto ovvio che se
una
donna incinta avverte crampi alla pancia non è proprio un
buon
segno. -Meera, tu non vorrai-
-Sei quella che aveva promesso di non dare fastidio, o sbaglio?!-
Meera e Yara scesero una rampa di scale a passo rapido; seppur
inquieta, Shireen non potè fare altro che seguirle, le
sopracciglia aggrottate.
Dopo aver trovato l'uscita dal labirintico intreccio dei corridoi, che
conducevano da una torre all'altra e da un piano all'altro, il cortile
di Grande Inverno comparve ai loro occhi, sbiancato solo da una luce
lunare che appariva particolarmente sinistra, come ossa di scheletro.
Lì, gli uomini del Nord si predisponevano ad utilizzare
tutte le
armi antiassedio di cui erano provvisti, dalle pentole d'olio bollente
alle seghe per rompere le scale; non rimanevano molti uomini, in
verità, e Meera immaginò che la maggior parte
fosse
caduta all'esterno delle fortificazioni, cercando di respingere gli
invasori. Provò un moto di pena per tutta quella povera
gente.
Le sue disgrazie non le facevano scordare che quelle del popolo,
sebbene meno note, non per questo erano meno drammatiche e degne di
commiserazione e riconoscimento. Io
mi lamento perchè la vita dei miei figli è in
pericolo e
perchè mio fratello è morto, ma chissà
quanto
spesso capita, ai poveri, di perdere figli e fratelli. Loro quasi
riderebbero di tutta l'importanza che i nobili danno a questi lutti. Meera
però non riuscì a spingersi ulteriormente con il
pensiero
e giungere a Jojen: non era decisamente il momento adatto.
Il dolore è sempre diverso, eppure uno soltanto.
È da
quando esiste il mondo che gli uomini soffrono per le stesse cose.
Nessuno farà un'eccezione per me. Si riscosse e
si concentrò sul da farsi.
-La Torre Spezzata è dall'altra parte.- Meera
avvertì
Yara, indicando il retro del maniero. -Sicuramente Bolton non
è
solo. Come speriamo di attaccarlo? Le guardie basteranno?-
Yara annuì. -La
mia scure
basterà. Non perdiamo altro tempo. Per arrestare
un'alluvione,
bisogna sempre risalire alla sorgente. Se gli uomini di Bolton si
ritroveranno senza generale, scioglieranno i ranghi e non
sapranno
più che fare.-
Procedettero, percorrendo l'esterno del maniero per tutta la sua
circonferenza.
-Questa.- Meera fece un cenno col mento, quando la vide. -Da
lassù si sta godendo lo spettacolo, il Bastardo.-
A Yara prudettero subito le mani dal desiderio di spiccargli la testa
dal collo. Prima che potesse proporre di andare a spaccargli il culo,
si udì un terribile boato, che parve scuotere le
fortificazioni
della fortezza. Una fiumana di soldati dagli elmi calati sul volto,
armati fino ai denti, si riversarono all'interno delle mura: grazie a
delle macchine d'assedio, gli uomini dei Bolton erano
riusciti ad abbattere un portone secondario. Tutto ciò che i
guerrieri di casa Stark avevano cercato di fare per difendere
l'ingresso, si vanificò in sangue e schegge di legno.
Inorridita, Meera fece un rapido calcolo. Le guardie che la
circondavano non erano
più di quindici uomini, più lei e Yara faceva
diciassette: gli invasori erano ad occhio e croce una sessantina, anzi,
ne entravano sempre di più, e di più... ed ormai
era
troppo tardi persino per pentirsi di non essere fuggiti dal passaggio
segreto insieme ad Osha.
Tutto inutile,
è stato tutto inutile, pensò con
orribile, insospettato raziocinio. Se
fossi scappata, il castello sarebbe perduto e noi saremmo vive. Ma sono
rimasta, e così il castello sarà perduto e noi
saremmo
morte. Io, Yara, Shireen. Shireen che doveva sposarsi con il nuovo re.
Tutti i piani di Bran in fumo. Difendi Grande Inverno, mi aveva detto mio marito. Prenditi
cura di te, mi aveva
detto mio fratello. Non ho fatto nessuna delle due cose. Il regno, in
fumo. Il Nord, di nuovo piegato. Colpa mia.
La
delusione nei propri confronti fu così torbida e pungente da
procurarle l'ennesimo spasmo allo stomaco, ma non ci fece
più
nemmeno caso. Bolton si
prenderà il maniero, si prenderà il Nord, e
Kenned?...
almeno Kenned starà bene... lui e Osha si salveranno...
possono farcela...
-Dobbiamo filare via da qui!- Yara la scrollò
impaziente
per un braccio. -Non possiamo restare un minuto di più!
Meera?
Mi senti? Meera...-
-Preferisco morire adesso che essere scorticata viva con il rasoio da
Ramsay Bolton.- sibilò la regina del Nord. -Lasciami qui.-
Yara Greyjoy strinse i denti. -Se sento un'altra cazzata del genere, ti
uccido io e la facciamo finita subito. Se non scappiamo-
-Non capite?! Scappare, scappare... è tutto inutile.
Inutile...-
Meera sentì le ginocchia cedere ed urtare contro il
pavimento di
granito. Non percepì alcuna sofferenza, solo la gelida landa
dell'inverno che la circondava.
Yara stava riprendendo fiato per urlare, urlare che cazzo
non potevano dargliela vinta così, dovevano salire ed
ucciderlo
e poi scappare, scappare via, non costringermi a lasciarti qui, vieni
con me e non parliamone più, tanto non è mica una
tragedia, li stermineremo, li stermineremo tutti, ce le faremo, in
qualche modo ce la faremo, non sono poi così tanti, e-
Un sorriso incredulo curvò le labbra di Shireen. Il suo
sguardo,
che saettava rapido per il cortile di Grande Inverno, rimirava
esterrefatto ed estasiato qualcosa che Yara non riusciva a vedere.
Subito la principessa dei Sette Regni scosse le
spalle della regina, tentando di farla rinsavire, ridendo.
-Sono qui! Loro sono qui! Lady Meera, non stiamo affatto per morire!
Siamo salve!-
La principessa Greyjoy le rivolse un'occhiata scettica e si
girò a sua volta. -Cosa diavolo stai dicendo?!-
Shireen tese il braccio ed indicò qualcuno. -Sono arrivati i
nostri!-
Tanto in fretta come erano entrati gli uomini dei Bolton, altri
invasori stavano irrompendo dall'ingresso, forti e rapidi come un fiume
in piena, tanto numerosi da parere inarrestabili. Estratta la spada dal
cadavere di un soldato dei Bolton, un uomo in
nero ne impalò subito un altro, voltandosi con uno
scatto fulmineo. Attorno a lui, anche tutti gli altri uomini vestivano
di nero, e stavano ugualmente combattendo contro le truppe dei Bolton.
La verità, nonostante fosse evidente, era così
meravigliosamente piacevole da parere inaccessibile.
Meera, ancora a terra, faticava a credere ai suoi occhi. I Guardiani
della Notte? I Guardiani
della Notte?! Potevano davvero essere loro?! Dovevano
esserlo per forza.
Erano giunti in loro soccorso... ed era davvero un
avvenimento eccezionale, perchè mai era capitato prima che
le
sentinelle della Barriera abbandonassero la loro postazione per
interferire con le faccende di Westeros. Non erano stati nemmeno
contattati...
Non riuscì nemmeno a muoversi, tale fu la sorpresa. Prima
che
potesse decidersi ad intervenire, in qualche modo, un ragazzo si
avvicinò loro rapidamente, rinfoderando la propria spada;
portava un pesante mantello nero puntellato di fiocchi bianchi, aveva
grandi occhi castani e neri ricci lunghi fino alle spalle.
-Maestà? Siete ferita?-
Con riguardo, offrì la mano a Meera per aiutarla a
riassestarsi
in piedi, esaminandola preoccupato. Lei lo riconobbe immediatamente,
con sollevato entusiasmo.
-Lord comandante Snow! Lei qui?! È... è... un
tempismo
perfetto.- balbettò.
Jon sorrise del suo stupore. -Siamo partiti non appena siamo stati
informati delle intenzioni dell'esercito di Bolton. Chiedo venia per il
ritardo: era mia intenzione giungere qui prima che Grande Inverno
venisse attaccata. Maestà, voi avete una benda insanguinata
al
braccio.- insistette, facendo cenno a qualcuno dei suoi di avvicinarsi.
-Una ferita superficiale, niente di grave...-
tagliò corto Meera,
imbarazzata, minimizzando sebbene il taglio le procurasse ancora un
dolore lancinante. Non voleva fare una figura così magra, da
vera nobile viziata. Si sentiva ancora molto frastornata, sia a causa
dello stordimento per i crampi sia per l'irrealtà della
situazione. -Come avete fatto...
come...?-
-Non credevo che ti avrei rivisto così presto, Jon.-
intervenne
Shireen, rivolgendogli un saluto caloroso. Egli s'inchinò
appena.
-Principessa. È sempre un onore.-
Una freccia sfiorò la guancia della regina del Nord:
andò
a conficcarsi nel petto di un soldato dei Bolton che si avvicinava
dietro di lei. Meera prima si girò a guardare il cadavere
crollare a terra, poi cercò l'arciere; si trattava di
un'arciera, una ragazza dai capelli fulvi e scompigliati, vestita di un
mucchio di pellicce.
-Bel colpo.- si complimentò la regina del Nord, ringraziando
con
un sorriso titubante. La rossa si limitò ad annuire placida.
Jon si affrettò a presentarla, avvampando e rimproverando la
ragazza per le sue maniere con un'occhiata: -Lei è Ygritte.
La
mia luogotenente.-
La fanciulla di nome Ygritte inarcò le sopracciglia,
spavalda. -Avevamo stabilito che eri tu, il mio luogotenente.-
-Certo, come vuoi.- Egli alzò gli occhi al cielo,
esasperato,
fino a che non lo raggiunse proprio chi attendeva. -Eccoti, Sam:
Maestà, lui è un Maestro.- Jon
circondò con un
braccio il busto d'un ragazzo corpulento, dallo sguardo vivace, le
guance paffute e l'espressione timida. -Potrà prestarvi un
primo soccorso, intanto che finiamo il lavoro qui. Direi di portarvi in
un luogo dove possiate stare più tranquilla...-
-Non serve. Non serve. Posso cambattere di nuovo.- borbottò
Meera, malcerta, cercando di drizzarsi in piedi troppo in fretta e
ripiegandosi a metà con un gemito soffocato.
Shireen la sorresse, allarmata. -Spero che tu stia scherzando, lady
Meera. Nelle tue condizioni... Sam, devi subito occuparti di lei.
Non solo è ferita, ma aspetta anche un bimbo. Non
può
assolutamente compiere altri sforzi.-
-Non li compirà, principessa.- assicurò Sam,
inchinandosi
anch'egli goffamente. Fece un segno ad un confratello. -Brytes, mi
aiuteresti a prenderla in braccio? Se permettete, Maestà, vi
condurremo nelle scuderie laggiù. Mi rendo conto che non
è il massimo della comodità, però
è il
posto più vicino e più tranquillo che mi viene in
mente...-
Meera assunse un'espressione combattuta. -Non... prima, dovrei uccidere
Bolton. Lui è in cima alla Torre Spezzata, e... pensavo di
dovermene occupare io...-
-Risolveremo io e Ygritte la situazione in nome tuo e del re tuo
marito, se me lo concedete. - propose Jon, con fermezza.
-Avete
detto che il Bastardo è sulla torre?-
-Sì, e Yara probabilmente vorrà accompagnarti per
recuperare suo fratello Theon...- Meera si guardò intorno,
confusa. -Dov'è finita Yara? Era qui fino a un attimo fa...-
Shireen la cercò con lo sguardo nel cortile, fino a che i
suoi occhi non si spostarono lentamente.
-Credo che abbia avuto la tua stessa idea, Jon.- sussurrò,
indicando le scale a chiocciola che s'inerpicavano fino a condurre
all'ultimo piano della Torre Spezzata. Ygritte sbuffò.
-Ci conviene muoverci, Jon Snow, se non vogliamo perderci tutto il
divertimento. A squartamenti conclusi, qualsiasi assedio diventa una
noia.-
Nel frattempo, Yara non era certo rimasta lì ferma a
guardare.
Non appena si era accorta che Meera e Shireen erano al sicuro, se l'era
svignata di nascosto ed era sgattaiolata su per le scale: non aveva
bisogno dell'aiuto di nessuno, e nessuno avrebbe potuto comunque
aiutarla. L'avrebbe fatto anche per Meera, in fondo, e per il bene del
Nord, ma innanzitutto l'avrebbe fatto per recuperare Theon. E ucciderlo con le mie stesse
mani, pensò,
mentre l'ira le pulsava nelle palme. Il tradimento del
fratello, così terribilmente ingrato ed ingiustificato, la
faceva fremere di dispetto. Dopo tutto quello che aveva fatto per
salvarlo, per tenerlo al sicuro, quel piccolo irriconoscente si era
gettato ai piedi di Bolton, alla prima occasione... quel verme vile ed
ignobile. Gli Stark avevano ragione. Era solo un codardo. Non meritava
una sorella come lei, nè tantomeno la sua clemenza.
Poco prima di raggiungere l'ultimo piano, Yara
esitò e si
chiese quale potesse essere la tattica più prudente. Con le
spalle al muro, lanciò una fugace occhiata al pianerottolo:
due
piantoni armati la difendevano. Prese un bel respiro, il petto che si
sollevava e riabbassava lentamente sotto la casacca di iuta,
socchiudendo gli occhi solo per qualche istante. Quando
risollevò le palpebre, vi regnava una determinazione di
ferro.
Con una rapidità di cui non sapeva d'essere capace,
balzò
superando tre gradini e, con uno slancio che le costò tutta
la
forza delle braccia, tranciò la testa del primo uomo, che
non
ebbe nemmeno il tempo di gridare; all'altro aprì la gola,
senza
però poter impedire che cacciasse un grido. Yara
pregò
soltanto che nessuno ci avesse prestato attenzione; visto che nel
cortile sotto v'era in corso una battaglia, udire lo strepito di un
uomo morente non sarebbe parso così strano, o almeno questo
la
ragazza sperava. Rimase in ascolto per qualche momento: dall'interno
della stanza proveniva un gran fragore di ferro -spade ed armature.
Ciò significava che, con un po' di fortuna, lì
v'erano
moltissimi soldati, facendo di essa il luogo ideale per passare
inosservati. Yara strappò ad un cadavere il mantello e se lo
drappeggiò sulle spalle, assestando il cappuccio sulla
testa, di
modo che le celasse parzialmente il viso; se avesse tenuto il mento
chino, nessuno l'avrebbe riconosciuta. Appurato questo, spinse la porta
con una mano, aprendo un solo spiraglio; s'insinuò
all'interno,
silenziosa come un'ombra e quatta come un ratto.
Si confuse subito in una massa di soldati dal mantello identico al suo,
che recava lo stemma dell'uomo scuoiato. Presso la finestra -quella
attraverso la quale, a quanto si diceva, Brandon Stark era precipitato
di sotto a causa di Jaime Lannister- Ramsay Bolton sogguardava la
battaglia distrattamente, le dita intinte di sangue. I suoi strani
occhi di inusitato chiarore -tanto inumano da poter essere paragonato
soltanto a quello che, nelle tenebre della notte, animava lo sguardo
dei predatori silvestri- si soffermavano serafici prima su una porta
delle
fortificazioni, poi sull'altra. Al suo fianco, Theon s'ergeva mesto,
pallido e sbiadito come l'umile fantasma d'uno scudiero. Portava
docilmente tutte le armi del padrone, la spada macchiata di sangue alla
cintura, l'arco alla spalla e varie daghe e coltelli appesi ad una
cinghia, e persino quel peso sembrava troppo per lui.
Ramsay non sembrava preoccupato per le sorti della battaglia:
evidentemente,
ancora non s'era accorto, nel viavai, dell'arrivo dei Guardiani delle
Notte, disseminati per tutta la circonferenza della fortificazione.
-C'è ancora moltissimo da fare.- stava commentando in quel
momento, tamburellando le dita sul davanzale della finestra. -Appendere
la pelle di Meera Stark come stendardo in cima a questa torre, per
esempio. Sciagurata ragazza, cosa sperava di fare? Credeva veramente di
essere al sicuro?
Durante una
guerra, non esiste un posto sicuro: soltanto luoghi dove ci sono meno
probabilità di morire. E Grande Inverno non è
decisamente
fra questi. Ma per avere la sua pelle, bisogna prima toglierla. Dov'è,
adesso? Avevo ordinato di portarmela subito qui.-
sbuffò imperiosamente.
Theon strinse le labbra. -E i tuoi uomini hanno tentato di fare
ciò che hai ordinato, mio lord. Ma è stato
più
difficile del previsto. La ragazza è circondata di guardie e
sa
usare la spada...-
-La ragazza è una
ragazza.- dichiarò Ramsay, accigliato. -Non
posso tollerare che le forze armate di Forte Terrore vengano messe in
crisi da una donna. Ma
a quanto pare, visto che sono così brave a combattere,
dovrò reclutarmi una guardia tutta in gonnella. Non credi
anche
tu, Reek?- Non gli diede il tempo di rispondere. -Ah, e la giovane
Baratheon sarà un ostaggio perfetto. Così quel
matusalemme di Stannis ci penserà due volte prima di
rimanere
fedele al suo giuramento di alleanza, dico bene? Ovvio che dico bene.-
concluse, inarcando le sopracciglia e facendo un gesto ampio con la
mano, che andò vagamente ad indicare le terre del Nord, che
si
stagliavano bianche ed immobili fuori dalla finestra. Per qualche
secondo, rimase in silente contemplazione.
-E adesso sarò il padrone di tutto questo... Mio padre lo
riterrebbe paradossale, immagino. Io, il figlio malvoluto. Il figlio Snow.-
Fece una smorfia disgustata, quasi che quel nome avesse un
sapore
asprigno sul suo palato. -Snow, diceva il caro vecchio Roose... Sono
una miriade di volte più Bolton di lui. Non mi sono fatto
uccidere dagli occhietti magici di uno storpio, io.-
Yara si vide costretta ad ammettere con se stessa che
Ramsay
aveva quasi uno strano fascino, in quell'atmosfera lugubre, con il
vischioso liquido rossastro ad imbrattargli le mani e ciocche di ricci
capelli bruniti ad arricciarglisi sulla fronte. La linea rigida della
mascella si tendeva e rilassava, a seconda dei dardeggianti pensieri
che gli affollavano la mente. Seppur così pallidi, i suoi
occhi
erano indecrittabili. Un rufolo di vento faceva tremare il suo vasto
mantello rosso, adorno di granati, e lo strusciava contro il pavimento
di pietra.
-Sarai il re del Nord migliore che ci sia mai stato, mio lord.-
balbettò Theon, abbassando lo sguardo. Ramsay gli rivolse un
ghigno un po' storto.
-Non m'interessa per niente essere il migliore. Mi basta essere quello
che vivrà più a lungo.- Però era
evidentemente
compiaciuto. -Adesso io e te dobbiamo occuparci di colui a cui davvero
volevo fare visita, Reek. Come, non sai a chi mi sto riferendo? Kenned
Stark, naturalmente, il principe ereditario. Insomma, ereditario...
almeno finchè non gli staccherò la piccola testa
dal
collo e non la manderò in dono a Brandon lo Storpio. Una
bella
riunione di famiglia. Commovente, vero? Su, muoviti, non posso
aspettare i tuoi comodi.-
-Sì, mio lord.-
Fu a quel punto che Yara si rese conto ch'era il momento d'agire.
Facendosi largo un po' più avanti, aquattata fra i soldati,
rivolta con il viso al muro, attese che Ramsay Bolton passasse dietro
di lei, con quel dannato mantello ricamato di pietre rosse. Molte
immagini sfilarono davanti ai suoi occhi in quel momento: le guardie di
Pyke che morivano una dietro l'altra, il terrore, le notti in bianco,
la ferita sanguinante ed incisa a pelle sulla carne viva, e Tristifer,
il suo povero sventurato marito. Senza dare nell'occhio, lo
seguì dietro a Theon mentre uscivano dalla stanza. Prima che
il
fratello potesse chiudere la porta alle loro spalle, scattò.
Ramsay si ritrovò con l'ascia di Yara sul collo; Yara si
ritrovò con il coltello di Ramsay sulla giugulare. Lei
ansimò, colta di sorpresa; non immaginava che avesse un'arma
nascosta da qualche parte, ma che fosse solo Theon a portarle. Il
giovane
Bolton sorrise in risposta.
-Non è buona educazione origliare le conversazioni altrui.-
sibilò, sferrando un nuovo affondo e mirando allo stomaco di
Yara, che lo parò abilmente con la lama della scure.
-Non è buona educazione introdursi senza invito in casa
degli altri.-
ribattè la ragazza, scagliando un fendente dal basso verso
l'altro, con l'intento di fargli perdere la presa sul coltello, invano.
Theon mise mano alla spada, con l'intento di portare aiuto al proprio
padrone, ma Ramsay gli fece un cenno.
-Fermo là.- ringhiò. -Credi che non sappia tenere
testa
da solo alla tua sorellina? Le uniche spade di cui dovrebbero
occuparsi le femmine non sono fatte di metallo.-
Yara fece per colpirlo alle ginocchia ma, visto ch'egli
scartò,
fu obbligata a balzare pericolosamente sul gradito inferiore per
scampare all'arma di Ramsay, che per un pelo non la decapitò.
-Sai com'è, tu ti occupi dei cazzi così bene che
non
vorrei sfigurare al confronto.- ironizzò, fulminando Theon
con
lo sguardo. Il fratello non battè ciglio.
Il giovane Bolton esibì un ghigno sardonico. -Cosa vuoi da
me,
Yara Greyjoy? Il mio Reek? Ebbene, lui non vuole tornare con te.-
-Tientelo pure e, per quanto mi frega, fottitelo e scorticatelo come ti
pare, il tuo Reek.- sputò Yara a stento, congestionata in
volto.
-Alla malora tu, Reek e tutti i tuoi cazzo di amichetti.-
-Tutto bene con quell'affare? Sei sicura che riuscirai reggerti in
piedi per un tempo sufficiente a mandarmi all'altro mondo?- la
sbeffeggiò Ramsay, scoccando un fendente dal quale ella si
difese a fatica. Yara non era un'idiota: sapeva benissimo di essere
svantaggiata. La sua scure, benchè fosse assai utile ed
efficace
nel campo di battaglia, era d'ostacolo lì, dove c'era
così poco spazio per muoversi, e dove anzi c'era il rischio
di
precipitare già dalle scale; tentò diverse volte
di far
scivolare giù Ramsay, costringendolo fra la sua ascia e
l'orlo
di un gradino, ma il ragazzo non si lasciava imbrogliare e manteneva un
equilibrio più che straordinario. Inoltre l'arma di Yara era
pesante, al punto di farle indolenzire le braccia, dopo un po' di
tempo; era difficile calibrare la precisione dei fendenti. Con un
coltello, sarebbe stato molto più facile. Proprio mentre
stava
cogitando fra sè di rubarne uno dalla cintura di Theon, si
distrasse quel poco che bastò a Ramsay per approfittarne
indegnamente. Infatti, dopo un'accanita lotta all'ultimo sangue,
l'erede dei Bolton aprì un taglio profondo al fianco della
sua
avversaria.
Yara affondò i denti nel labbro inferiore per non gridare e
cercò di respirare, mentre iniziava a vedere doppio. Il
dolore
velò il suo sguardo di una patina rossa ed opprimente.
-Cosa c'è, lady Yara?- Alla
vista del sangue, lo sguardo di Ramsay baluginò sotto la
luce
d'una torcia, affissa alla parete, come quello di una pantera-ombra.
-Qualcosa non va? Ohh, è questa, vero? Ti fa male, vero? Ti fa male?-Con
la punta del robusto stivale, inflisse un calcio poderoso alla
ferita sul suo fianco. Yara grugnì e, con tutta la rabbia
frustrata che le rimaneva in corpo, alzò per l'ultima volta
la
scure e tentò un colpo alla gamba di lui. Ramsay non dovette
far
altro che spostarsi, per evitarlo; poi afferrò la lama con
una
mano, e la mantenne così, ferma, sospesa. Sorrise ancora,
lentamente, guardandola fissa negli occhi. Nelle sue iridi trasparenti,
Yara vide chiaramente la propria fine, quasi fosse riflessa in uno
specchio d'acqua.
-Cerchi di uccidermi, Yara Greyjoy? Attenti alla mia vita facendo
appello al tuo ultimo soffio vitale? Sono così importante
per te, da valere una morte indegna in una torre disgraziata, una
traversata dalle Isole di Ferro a Grande Inverno, una sottomissione ai
tuoi peggiori nemici? Mi sento onorato.-
Un altro taglio di lama, esattamente lì sopra il ginocchio
dove
un attimo prima Yara aveva puntato con l'ascia, si spalancò
facendo fiorire un'ampia macchia di sangue scuro sulla stoffa dei
pantaloni di lei.
-Vaffanculo.- imprecò Yara, farneticante dal dolore.
-Vaffanculo, bastardo.-
Il suo tentativo di recuperare la scure fu stroncato sul nascere.
Ramsay ridacchiò. Con un calcio, la spinse più
giù
sulle scale, facendole sbattere la nuca sullo spigolo acuminato di un
gradino inferiore.
-Credevi davvero di farcela, vero? Ci hai sperato. Eri molto sicura di
te stessa. Eri convinta di potermi fare la pelle... Chissà
che
delusione dev'essere, per te, la
sconfitta. Perchè ti renderai conto che
è questo che sei, giusto? Sconfitta. Hai perso.-
Si inginocchiò su uno scalino sopra di lei,
avvicinando
il suo volto estasiato a quello sudato e paonazzo di Yara.
-È
una brutta sensazione, vero? La delusione, la vergogna,
l'umiliazione... La consapevolezza di stare per morire in modo
atrocemente lento
e atrocemente miserevole?-
Yara ansimò, colta da un furore terribile.
Allungò le
mani con un movimento inconsulto, come se volesse cavargli gli occhi.
-Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo!-
La lama le trafisse le mani da parte a parte, tante volte quante si
protesero verso Ramsay, facendole grondare di sangue.
-La figlia di Balon Greyjoy, la valorosa pirata spadaccina, la regina
delle Isole di Ferro, in cui s'erano riposte tutte le speranze per la
continuità del vostro nome... un fallimento.
Non riesco nemmeno ad immaginare quanta sofferenza tu stia provando, in
questo momento. Si dice che tuo padre ti amasse quanto un figlio
maschio. Sarebbe orgoglioso di te, adesso? Dimmelo. Dimmelo.-
Yara urlò straziata. Ricadde a terra, contro i gradini, ma
poi
si rialzò ancora e provò a sferrargli un pugno.
Ormai, le
sue forze erano ridotte agli sgoccioli. Tutto quel che ottenne fu
crollare addosso a Ramsay, come una marionetta senza fili.
Cadde il silenzio e l'immobilità. La ragazza giacque inerme
in
grembo all'aguzzino, incapace di risollevarsi. Il suo respiro era
incontrollabile e difficoltoso. Le mani di Ramsay scivolarono fra i
suoi capelli, intrisi di sangue e sudore: per un unico, delirante
secondo, a Yara parve quasi ch'egli la stesse cullando.
-Sei stanca, Yara Greyjoy? Vorresti che ti permettessi subito di
dormire per l'eternità? Oh, no, abbiamo appena cominciato a
giocare.- Chinò il volto fino sfiorare il padiglione del suo
orecchio con le labbra, e sussurrò in un soffio: -Che ne
dici di
cominciare a correre?-
Lo sguardo di Theon era vitreo, implacabile, come se
stesse
assistendo al martirio della sorella di qualcun altro. La mano di Yara,
trafitta e dilaniata, corse alla cintura di Ramsay e cercò a
tentoni, tastando faticosamente, il manico del coltello.
-Crepa, figlio di cagna!- mugugnò, la voce stridente fra le
labbra spaccate. Non si sarebbe mai degradata in quel modo. Non si
sarebbe mai abbassata a diventare il suo diletto, il suo gingillo. Se
doveva morire, l'avrebbe fatto nel tentativo di ammazzarlo, non di
scappare vilmente, per poi farsi acchiappare e finire. Non sarebbe
morta facendolo divertire.
Il giovane non la prese molto bene. Le afferrò i capelli con
violenza e la strattonò senza clemenza, veemente,
digrignando i
denti. Sbattè la faccia della ragazza tre volte contro
l'orlo
aguzzo di un gradino, con rabbia.
-Reek, la tua stupida sorella non vuole proprio morire. Significa che
farò un'eccezione per lei e salterò i
preamboli... Reek,
il mio rasoio, quello speciale.-
Dalla gola straziata, Yara emise una risata ruvida e gutturale.
-Rasoio?! Vuoi scuoiarmi, maledetto bastardo? Non pensare... non
pensare che te lo permetterò... Provaci e-
-Farò molto di più che provarci, te lo
garantisco. Quasi
mi dispiace mettere fine a tutto ciò, sai? Iniziavo a
spassarmela davvero.- Ramsay si voltò verso Theon, irritato.
-Reek, il rasoio, ho detto.-
Il volto del ragazzo era duro come la roccia. Una strana espressione
aveva preso il posto dell'apatia e dell'indifferenza.
-Il mio nome- scandì con rancore, -è Theon Greyjoy.-
Prima che Ramsay potesse reagire, estrasse una lunga lancia e la
frantumò
con una potenza decisamente inaspettata sulla sua testa; lo
afferrò
per il mantello e lo sorresse in piedi ancora per qualche istante, il
tempo di mormorargli: -Cosa
provi in questo momento, Ramsay?-
L'erede di Forte Terrore sbiancò e cadde a terra, privo di
sensi, liberando dalla presa il corpo martoriato di Yara. Theon
soccorse immediatamente la sorella.
-Yara? Dobbiamo andarcene di qui. Devo trovarti un Maestro, subito...-
Le labbra di lei si smossero in un sorriso insanguinato, ma appagato.
-Era ora, che ti decidessi.-
Egli si stupì. -Come l'hai capito?-
-Nemmeno tu
potevi essere così vile ed iniquo da commettere una
carognata del genere. Non l'ho proprio capito... diciamo che l'ho sperato.-
Yara
gemette. Theon alzò la spada di nuovo, ed i suoi occhi
s'infiammarono. -Gli taglio la testa e poi ce ne
andiamo.-
-Non ucciderlo.- lo fermò la sorella, biascicando.
-Cosa?-
-Non qui. Noi...
dobbiamo portarlo... a Pyke. Tutti vedranno in faccia chi è
l'assassino che ha sterminato... le loro famiglie.-
La ragazza cominciò a tossire convulsamente, così
Theon
si limitò a legare le mani di Ramsay, per poi prestarle
immediato soccorso.
Quando Jon Snow giunse in cima alla Torre Spezzata, trovò
l'uomo
ch'era venuto ad uccidere esanime ed immobilizzato, e la ragazza che
era venuto a soccorrere moribonda.
-Che diamine è successo qui?- esclamò, stupefatto.
Theon fece una smorfia. -Sempre un piacere vederti, Snow. È
lunga
da spiegare, e non credo che Yara farebbe in tempo ad ascoltare il
riassunto di nove anni di vita.-
Jon, sconcertato, scosse la testa. Con un lieve moto di sorpresa,
capì che l'assedio di Grande Inverno poteva considerarsi
sedato.
-Te l'avevo detto, che saremmo arrivati in ritardo.-
brontolò Ygritte. -Non sai proprio niente, Jon
Snow.-
***
-La donna rossa di Stannis.- Quando Jaime riuscì a carpire
quel
vago ricordo dalla propria memoria, non seppe se rallegrarsene o meno.
-Cosa?- domandò Brienne a voce bassa.
Si trovavano all'ala estremamente ovest di Approdo del Re, dove la
cinta di mura presentava grosse fenditure sbarrate che permettevano
tranquillamente di scivolare all'esterno; all'esterno, sì,
però soltanto su una sottile striscia di spiaggia chiara,
affacciata sul mare aperto. L'unica ipotetica via di fuga sarebbe stata
quella, ma solo nell'eventualità d'avere una barca a
disposizione -e lì non c'era nessuna barca. Jaime e Brienne
non
erano così sprovveduti da non essersene resi conto: infatti
erano lì non per fuggire, bensì per salvare Bran
Stark.
Una scura chiazza di vegetazione nascondeva delle ampie tende cremisi,
i cui lembi oscillavano leggiadri al soffio dell'alito del mare,
odoroso di salsedine. Jaime, che valutava la situazione da dietro degli
arbusti, ipotizzò che si trattasse degli accampamenti degli
sconosciuti rapitori. Dopo qualche istante d'appostamento, a sostegno
della sua teoria, un paio di ancelle dalle tuniche vermiglie uscirono,
reggendo grandi ampolle dai colori sgargianti e coppe di smalto ricolme
di sabbie aromatiche, e le portavano... dove? Vicino al bagnasciuga,
dove però c'era un trambusto tale da rendere impossibile
scorgere che uso ne venisse fatto.
-C'è decisamente troppo rosso qui intorno, non credi?- aveva
chiesto Jaime, giusto qualche minuto prima. Brienne non aveva risposto.
Solo adesso l'uomo aveva capito cose fosse quel vago presentimento che
continuava a ronzargli in mente.
-Avevo sentito dire che Stannis Baratheon si portasse ovunque una
sacerdotessa rossa di Asshai. Potrebbe avere qualcosa a che fare?-
-Che motivo avrebbe Stannis di far rapire Brandon Stark? È
suo
alleato.- gli fece notare Brienne, torva. Non presentiva nulla di buono.
Jaime scosse il capo, arreso. -Non ne ho la minima idea. Ho solo detto
la prima cosa che mi è passata per la testa.-
-Dovremmo avvicinarci.- affermò la donna, indicandogli la
spiaggia con il mento. -Se vogliamo salvare il ragazzo, almeno. Stanno
già portando la legna.-
Era vero. Uomini vestiti di lunghi abiti legati in vita da una corda
-frati?- stringevano fra le braccia cataste di ramoscelli e cioppi,
procurati nel bosco, e si dirigevano tutti in silenzio verso la
spiaggia. Nel frattempo, la foschia bluastra della notte era stata
lacerata come stoffa vecchia e lasciava trasparire chiazze di calda
luce mattutina, che si diffondevano rapide come sangue.
Jaime e Brienne, cercando di muoversi fra gli sterpi nel modo
più silenzioso possibile, avanzarono di albero in albero,
finchè la scena non si presentò di fronte a loro.
Su
un'impalcatura di legno, un nugulo di sacerdoti rossi s'affannava,
simile ad uno stuolo di formiche; gli uomini sistemavano la legna, le
donne spargevano polveri bisbigliando parole incomprensibili e
accendevano bacchette d'incenso dal profumo pungente. Jaime si
sentì attraversare da un brivido d'inquietudine. Ma in che
razza
di casino l'aveva trascinato, Tyrion? In una dannato, ambiguo
sacrificio mistico di una banda di eretici.
-Lo vedi?- chiese Brienne, rammentandogli il motivo per cui erano
lì. Jaime cercò il giovane Stark con lo sguardo:
non lo
vide. Certo, aveva un ricordo appena abbozzato del suo aspetto,
però era sicuro che un ventenne storpio dalle gambe rotte
non
sarebbe passato inosservato. Eppure, lì non c'era nessuno
che
non vestisse quello stramaledetto colore.
-No.- ammise sbuffando. -Cosa facciamo?-
-Aspettiamo.-
-Quanto
dovremmo aspettare?! Questa situazione non mi piace per nulla.-
Brienne lo rimproverò con lo sguardo. -Perchè, a
me
sì, forse? Lo stiamo facendo per Tommen e Tyrion e i
gemelli.-
L'uomo, dopo qualche istante, annuì. -Per Tommen, Tyrion e i
gemelli.- ripetè meditabondo.
-Allora abbi pazienza.- ribadì Brienne, appoggiandosi con il
braccio ad un masso. Per diversi minuti, non spiccicarono parola. Jaime
era troppo intento a pensare alla fiducia negli occhi del Folletto,
mentre gli affidava la sorte della famiglia, e Brienne sentiva
all'orecchio le parole di Cersei, so
che tu proteggerai i suoi figli -i nostri figli- i miei figli, e che
sarà necessario che tu lo faccia... se mi dovesse accadere
qualcosa.
La loro attesa non fu vana. Il sole cominciava
già a
farsi largo fra le azzurre cortine dell'alba, macchiandole ormai d'un
rosa slavato, quando uno dei preti rossi si voltò verso la
fitta
vegetazione ed esclamò: -È ora. Stai aspettando
forse che
Stannis Baratheon ci trovi?!-
Una donna avanzò fra gli alberi, con movimenti leggiadri e
morbidi come acqua corrente, maestosa al pari di una regina fra i suoi
sudditi; ed infatti tutti i presenti parvero segretamente in
soggezione. Portava una veste di velluto, tempestata di granati, che le
fasciava il busto e aderiva perfettamente ai fianchi ed alle gambe,
delineandone ogni curva, e le scopriva le braccia diafane. Al lungo
collo aveva appeso un rubino ottagonale, grosso come un uovo, ma di
certo molto più pesante; era scuro come il sangue essiccato,
ma
quando la luce lo trafiggeva svelava la vivacità delle
fiamme.
Una cascata di guizzanti e tempestosi capelli cremisi le lambivano le
cosce. Il suo grande potere vibrava in un'aura quasi palpabile. Jaime
pensò che non poteva essere la donna rossa di Stannis: di
quella
aveva sentito parlare molti anni prima, ai tempi della Guerra dei
Cinque Re, mentre quella era troppo giovane per essere effettivamente
la stessa persona.
-Possiamo procedere.- confermò graziosamente la donna,
rivolgendo lo sguardo dietro di sè. Due fanciulle, novizie
rosse, reggevano una persona priva di sensi.
-È lui.- confermò rapidamente Jaime. Brienne
corrugò la fronte, ma non proferì parola. Dietro
quelle
due ragazze, ne venivano altre: e lo Sterminatore di Re
sussultò
di stupore, costatando ch'era il suo lupo. Dovevano portarlo in tre,
perchè le sue dimensioni erano davvero impressionanti.
Morto?
Impossibile affermarlo con certezza, tanto più che non
sembrava
presentare ferite. Forse solo addormentato, come il giovane Stark.
Perchè Jaime aveva capito subito che lui non era morto. Il
respiro gli sollevava ed abbassava il petto, e le sue guance erano
appena colorite dal vento.
Lo sguardo di tutti i frati era puntato sul prigioniero. La donna
vestita di rosso indicò la pira con un distratto gesto della
mano, e le ancelle obbedirono. Poggiarono Brandon Stark fra i pezzi di
legno, e il metalupo vicino a lui. Poi la donna cominciò a
spargere sopra entrambe le vittime delle strane gocce, che Jaime
immaginò fossero un liquido infiammabile. Lo stesso fece su
tutta la legna.
-Bisogna sbrigarsi.- intimò un frate, nervosamente. La donna
sorrise languida.
-Affatto. Un sacrificio che non sia consacrato a R'hllor è
solo
un crimine. Dobbiamo richiedere che quest'anima sia liberata da tutto
il male che ha commesso e possa ottenere la redenzione. Solo allora la
minaccia costituita dai poteri conferiti dal Dio Estraneo
sarà
scongiurata. Altrimenti, il suo spirito contaminato dal Male
continuerà a perseguitare i deboli di questo mondo. Vogliamo
permettere una cosa del genere?-
-Melisandre, la cerimonia-
-Cercherò di fare più in fretta che
potrò.-
La donna di nome Melisandre, dopo aver esalato un profondo respiro,
cominciò a pronunciare parole in una lingua a Jaime
sconosciuta,
composta di suoni melodiosi ma straordinariamente sciolti l'uno
nell'altro, fino a apparire impronunciabili. Brienne, nel frattempo,
aveva dato segno ai loro uomini, rimasti nel folto della boscaglia, di
avanzare, tenendosi nascosti dietro delle rocce.
-Attacchiamo?-
Jaime annuì con il capo. -Non possiamo attendere ancora.-
Nel frattempo, un frate aveva acceso una lunga torcia e l'aveva
consegnata a Melisandre. La donna sciorinò ancora quelle
parole
incomprensibili, e così facendo strinse le dita attorno al
legno
ed ammirò il fuoco, che baluginò feroce nelle sue
iridi
chiare.
-Signore della luce, perdonalo e salva la sua anima, nella tua infinita
misericordia.- pronunciò, nella lingua comune. Fece un passo
in
avanti.
Prima che potesse accostare la fiamma alla catasta, lucente di alcol,
Jaime Lannister le aveva fatto cadere la fiaccola di mano e le aveva
puntato la spada alla gola. Inaspettatamente, la donna non
reagì
con violenza: quando lo Sterminatore di Re la pungolò con la
lama, si limitò a rimanere immobile. Che si fosse accorta
della
spoporzione fra la loro forza fisica?
Con un gesto celere, Jaime si scrollò il mantello sulle
spalle e
lo calpestò sulla fiamma. Alle sue spalle, sentiva Brienne e
i
soldati minacciare i frati affinchè non intervenissero.
-Mi dispiace, ma temo di dover interrompere la festa.-
dichiarò
Jaime. -E sì che i falò in spiaggia mi sono
sempre
piaciuti... ma quando li facevo io non arrostivo le persone,
effettivamente.-
Con suo grande stupore, sentì Melisandre ridere.
-La volontà di R'hllor si compie sempre, ser Jaime,-
mormorò, quasi beffarda, -e chi gioca con il fuoco finisce
per
scottarsi.-
Jaime non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi perchè diavolo
quella donna sapesse il suo nome: l'unica cosa su cui la sua attenzione
fu calamitata fu la fiamma che aveva improvvisamente preso vita sulla
catasta. Come aveva fatto?! Quella donna rossa era una specie di
strega? Aveva acceso il fuoco solo con l'ausilio della propria
volontà... Sulla catasta
coperta di liquido
infiammabile, cazzo! Jaime
spintonò Melisandre di lato e calcolò rapidamente
quanta
legna avrebbe dovuto scostare, per liberare il ragazzo. Troppa. Ad ogni
buon conto, senza ormai ragionare più, si lanciò
sulla
pira. Brienne urlò qualcosa alle sue spalle, ma lui non
l'udì. L'unica
speranza per
salvare la famiglia... Tyrion si fida di te... La vita di
Tommen e
dei suoi bambini dipende da questo... Con
le braccia
scagliò via pezzi di legno alla rinfusa, senza
badare alle
cortecce ruvide, alle lunghe schegge, ai cioppi che rovinavano sopra la
sua testa. La pira era alta, la vittima all'improvviso pareva
irraggiungibile, e le narici di Jaime colsero un presentimento. Fuoco.
Odore di fuoco. Di legna bruciata. Ancora, ancora scostare, ancora
farsi largo. I suoi movimenti erano goffi, troppo lenti seppur
frenetici: colpa dell'agitazione, della fretta, del panico, di quella
maledetta mano mancante. Un altro odore, ancora più molesto.
Il
fumo cominciava a levarsi, come il pennacchio impolverato d'un elmo, e
Jaime poteva scorgerlo, perchè sentiva gli occhi lacrimare
dall'irritazione... Odore
di carne bruciata. No. No.
Poi, l'insperato: afferrò il braccio di Brandon
Stark. Lo
percepì sotto il palmo. Il suo cuore esultò per
meno di
un istante. Arrivò il fuoco, Jaime lo vide. Fece solo quello
che
l'istinto lo portava a fare, lo stesso che avrebbe fatto se fosse stato
in bilico su una scogliera. Si aggrappò a ciò che
stringeva e si lasciò precipitare -anche se non sapeva di
preciso dove. Non ce l'avrebbe mai fatta, quello fu l'ultimo,
sconsolato pensiero che gli esplose
nella testa... e poi tutto attorno a lui scoppiò.
***
-Dov'è?! La voglio
uccidere!-
Arya Stark strappò con la spada un ramo che, pendendo, si
frapponeva fra lei ed il suo obettivo. Le mani tremavano dalla
furia. Lo stava facendo di nuovo, quella.. -La ucciderò! Giuro
che la
ucciderò!-
Quel che vide non era esattamente ciò che si
aspettava.
Brienne di Tarth stava domando un incendio, aiutata da alcuni uomini
che recavano lo stemma dei Lannister sul petto; ai piedi di una
mastodontica pira avvolta dal fumo, giaceva il corpo di suo fratello,
inerme -morto o ferito?- e, al suo fianco, un uomo che
stentò a
riconoscere come Jaime Lannister. In effetti entrambi erano neri di
cenere, dagli abiti sbrindellati al volto. Ma Arya non si
preoccupò di nessuno di loro -non adesso, non era importante.
-Dov'è?
Voglio farla annegare
nel suo sangue. Dov'è
Melisandre di Asshai?!- La sua arma luccicò al
sole dell'alba,
eloquente.
Incrociò lo sguardo azzurro e freddo di Brienne. La donna
strinse le labbra. -Scomparsa. Volatilizzata, sotto i miei stessi
occhi. La stavo tenendo bloccata per i polsi... e un secondo dopo non
più. Sparita.- ribadì con durezza.
Le braccia di Arya ricaddero lungo i suoi fianchi, mentre lo
smarrimento prendeva forma sul suo viso.
Dopo tutto questo, Jaime Lannister tossì
sonoramente.
***
Manca qualcuno, pensò
Tommen. E non intendeva qualcuno della propria famiglia
-Margaery era al suo fianco, ostentando una stoica
impassibilità, e suo zio Tyrion fischiettava guardandosi
intorno
con sincera curiosità- bensì qualcuno della loro
famiglia. Bran Stark, sul suo scranno in alto, era solo. Non sembrava
affatto reduce dal rogo di una setta di preti rossi fanatici, ed era
spaventoso quasi come Tommen se lo era sempre immaginato. Proprio come
gli era stato raccontato, aveva incolti capelli castani sulle spalle ed
il viso ostentava il pallore della morte -però nessuna
descrizione avrebbe mai potuto rendere i suoi occhi,
come varchi spalancati sull'oblio, pronti ad abbrancare chiunque vi si
fosse sporto troppo. Eppure, sebbene intimamente intimorito, Tommen
aveva realizzato di saper sostenere quello sguardo -forse
perchè
era un pericolo che lo affascinava in un modo misterioso, forse
perchè durante quei mesi era molto cambiato.
Accanto al trono di Brandon il Metamorfo, c'era quello di Gendry il
Bastardo. Più precisamente, il Trono di Spade. Il mio trono,
non potè fare a meno di pensare Tommen, con un pizzico di
stizza, sebbene avesse ormai capito che era meglio perderlo che
trovarlo. Doveva ammettere che quel Gendry aveva la carisma di un vero
re -così imponente e fiero e massiccio, però
anche Robert
Baratheon da giovane era tale e quale, e si sapeva com'era andata a
finire. Non bastava affatto assomigliare
ad un sovrano, per esserlo davvero.
C'erano tutti, insomma, o
quasi tutti. Dov'erano finite le sorelle Stark? Tommen Lannister,
Margaery Tyrell, ser Loras, Tyrion, Brandon Stark, Gendry Baratheon.
Nella sala del trono, dove fino a pochi giorni prima s'era
scatenata una furibonda battaglia, non c'era nessun altro. A ricordare
il macello che era stato consumato, solo ferite di spada sui muri ed un
odore di sangue rivoltante.
Ad un certo punto, le alte porte si spalancarono. Jaime Lannister
entrò. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso distratto,
quasi si
compiacesse d'un segreto; i capelli erano più corti di
prima, in
quanto le serve, lì dove i grumi di cenere erano
più
ardui da rimuovere o dove il fuoco aveva bruciacchiato ciocche
asimmetriche, li avevano tagliati. Le superficiali ustioni del fuoco,
sulle braccia e su un fianco, erano celate dalla stoffa di un camicia
bianca. Tommen fu incredibilmente orgoglioso di lui: in quanto a
fierezza, non era certo da meno rispetto ai presenti. Seppe che la
riunione avrebbe finalmente avuto
inizio. Tutta la tensione che aveva accumulato si librò
nell'aria in un sospiro pesante.
Jaime Lannister procedeva scandendo i
secondi con i propri passi, sul marmo. Bran Stark lo seguiva
attentamente, senza mai distogliere da lui gli abissali occhi di
pietra. Tommen notò, quasi sovrappensiero, che non sbatteva
mai
le palpebre. Il re del Nord pareva star silenziosamente ragionando su
qualcosa di inindovinabile, senza fretta, esaminando Jaime con tutta la
calma del mondo, quasi provasse il vivo desiderio di studiarlo. Infine,
l'uomo si fermò ai piedi dei loro troni. Ancora silenzio. Le
labbra di Gendry Waters erano serrate.
Quando ormai Tommen cominciava a chiedersi, con un certo smarrimento,
cosa diamine sarebbe successo -la sua mente intanto elaborava fantasie
farneticanti, secondo le quali un manipolo di soldati del Nord
sarebbero entrati all'improvviso compiendo un massacro- allora Brandon
il Metamorfo parlò.
-Ci rincontriamo di nuovo, ser Jaime. Quasi dieci anni fa hai cercato
di togliermi la
vita, adesso me la salvi. Da cosa deriva tutta questa indecisione?-
Il sarcasmo nella sua voce -leggera, appena un po' arida, ma
sorprendentemente giovane,
più
di quanto Tommen avrebbe creduto- era così lieve da
permettere a
Jaime Lannister di occultarlo con abilità, rivolgendogli un
sorriso storto.
-Non saprei. Magari mi sono redento. Le persone cambiano, in fondo.-
-Le persone cambiano.- confermò il ragazzo. -E tu,
precisamente... come
saresti cambiato?-
Jaime sorrise. -La domanda mi mette in difficoltà. Forse ho
soltanto cambiato opinione a proposito della tua sopravvivenza. Non
è più tanto scomoda.-
Bran Stark lo fissò e basta per ancora qualche secondo.
-Temo
che dovrai ricrederti, perchè io, al contrario, non ho affatto cambiato
l'opinione che avevo di te.-
-Un po' irriconoscente da parte tua, non credi?- Jaime
inclinò
la testa di lato. -Detto da uno che ho appena trascinato giù
da
una pira, e che se avesse aspettato i suoi fratelli a quest'ora sarebbe
ridotto in cenere, intendo.-
Tommen vide le guance di Bran Stark prendero fuoco dalla rabbia. Per
trattenere il proprio potere, dovette chiudere gli occhi e massaggiarsi
le tempie per qualche secondo.
-Stai
osando più di quanto tu possa permetterti, Sterminatore di
Re.
Se continuerai a parlare in questo modo, la mia riconoscenza ti
arriverà dritta dritta nel cuore, così come la
spada di
Roose Bolton è arrivata in quello di mio fratello. A
proposito
di fratelli,-
Tommen udì uno schiocco: voltandosi, si accorse che Arya
Stark era entrata nella sala.
-quale pensi che sia stato l'ultimo pensiero di Robb, sorella?-
concluse Bran, senza distogliere lo sguardo da Jaime Lannister.
Arya indossava ancora la parte superiore dell'armatura. I capelli scuri
e scompigliati, così come l'espressione ostilmente
selvatica, la
facevano assomigliare alla sua metalupa -che la fiancheggiava
silenziosa come un'ombra- in maniera stupefacente.
-Un pensiero d'odio.- La ragazza salì i gradini che la
distanziavano dal fratello, e si pose al fianco del suo trono,
inchiodando anche lei i propri occhi a quelli di Jaime. -Di vendetta.-
E una è
arrivata, riflettè Tommen.
A quel punto, Tyrion Lannister si rese conto che la situazione stava
precipitando in una maniera a loro sfavorevole, così
intervenne.
-Posso disturbare per un attimo il vostro colloquio?-
domandò a
Bran, con un gesto d'ossequio più condiscendente che
rispettoso.
Lui inarcò le sopracciglia.
-È una questione fra me e Jaime Lannister, Folletto. Che
cosa vuoi?-
-Ti sbagli a parlare con lui, invece.- lo avvertì Tyrion.
-Certo, l'errore è comprensibile, visto che finora non sono
mai
stato io a
condannare la famiglia alla rovina. Però, questa volta...
volevo scoprire come ci si sente, e così...-
Bran era confuso. -Spiegati.-
Il Folletto frugò in una tasca del farsetto rosso, fino a
che
non estrasse un foglio ripiegato molte volte, che lui lisciò
con
le mani, prima di salire i gradini ed allungarlo a Bran.
-Tieni questa. Io non la voglio, rievoca tristi ricordi.-
svelò, facendo una smorfia. -Non vedevo l'ora di
liberarmene.-
Brandon Stark riconobbe la grafia al primo sguardo: Tyrion se ne
accorse, dallo spasmo di dolore che storse il labbro inferiore del
ragazzo. Il re del Nord lesse la prima riga, poi alzò lo
sguardo, perplesso ed accigliato.
-Il destinatario sono io?-
-Niente affatto. Sono io.- Tyrion sospirò seccamente. -Se
avessi
lasciato che giungesse nelle tue mani prima, quando Jojen Reed la stava
legando alla zampa di un corvo, probabilmente in questo momento tu
saresti crollato in disgrazia, il tuo esercito sarebbe disperso e
decimato nelle Terre dei Fiumi e sarei io a dover concedere la grazia a
te, non il contrario.-
Bran gli rivolse un lungo sguardo velato di minacce, prima di
riconcentrarsi sul foglio che aveva fra le mani. Lentamente, turbato,
lesse riga per riga. Le staffilate di sofferenza che lo coglievano
ad ognuna di esse erano lasciate presagire dalla tensione fremente dei
suoi lineamenti irrigiditi. La fatica con cui portò a
compimento
la lettura era
evidente. I suoi occhi parevano addirittura più scuri di
prima,
come baratri spalancati sull'oblio dell'eternità.
Appena terminato, il ragazzo guardò il nano, pieno di dubbi,
e sventolò il foglio, scettico.
-Perchè mai Jojen avrebbe scritto tutte queste cose? Non si
sono
avverate sul serio...-
-Per manovrarmi ed indurmi a fare tutto quello che gli andava comodo.-
rispose Tyrion. -Gli andava comodo che io credessi che tu saresti morto
ad Approdo del Re, proprio perchè così mi sarei
diretto
ad Approdo del Re...
dove poi c'è stato
tutto questo.
Gli andava comodo che io credessi che Rickon sarebbe stato ucciso da
Myrcella, perchè così ci saremmo fidati di lei.
Fortunatamente, mi sono accorto della verità prima che
potessi
cadere in un simile errore. Ma non abbastanza presto, a quanto vedi.-
Bran Stark tacque. Ciò che finora lo aveva assillato, abbandono, si
sostituì a qualcos'altro, sacrificio: sacrificio, che
forse era ancora peggio -ma almeno adesso aveva la certezza che Jojen
non aveva mai smesso di servirlo, e non aveva mai smesso di amarlo,
nemmeno durante la morte -tantomeno durante la morte. Morto per
determinare le sorti di questa guerra. Morto per lui. Nessuno dimenticherà
questo, pensò, non permetterò che
alcuno lo dimentichi. E poi: lui ha fatto qualsiasi cosa per
me, ma non mi ha concesso l'occasione di fare mai nulla per
lui.
-Involontariamente, mi hai dato una grande gioia, lord
Tyrion.-
dichiarò, mantenendo compostezza per quanto gli fu
possibile.
-Magari non così involontariamente, ragazzo.-
Dopo avergli rivolto un'ultima, obliqua occhiata sarcastica da sotto in
su, il Folletto accennò un mezzo inchino ed
arretrò, fino
a tornare al fianco di Tommen.
-Sei stato fantastico.- gli sussurrò lui, entusiasta.
-Oh, stai un po' zitto.- lo redarguì lo zio, sebbene sul suo
viso vi fosse un sorriso compiaciuto.
-Possiamo continuare.- Gendry Waters riportò il silenzio.
-Dovete ancora decidere che cosa ne sarà dei Lannister.-
La porta si aprì di nuovo, e adesso Tommen sapeva
già chi
fosse entrato: non ebbe bisogno di girarsi. Sansa Stark avanzava con
molta più sinuosa eleganza della sorella, però
con non
meno maestà. Il manto dei suoi capelli ricordò al
giovane
Lannister la coda della cometa di sangue, che aveva visto viaggiare nel
cielo molti anni addietro, quand'era ancora bambino. Sansa portava un
vestito di velluto celeste chiaro, con inserti di candida pelliccia
d'ermellino, nelle maniche come lungo gli orli delle ampie gonne;
reggendole con la punta delle dita, giunse fino al trono, ponendosi
alla sinistra del trono di Bran Stark.
E due, pensò Tommen. Con un brivido, si accorse
che non
sfigurava affatto. L'intransigenza sul suo volto non era differente
rispetto a quella di Arya e della sua furia a stento contenuta, a
quella del re del Nord: era stata la stessa lama a sfregiarli, in
fondo. I due metalupi erano ai loro piedi, vigili, le orecchie ritte,
le loro pupille bestiali come coltelli nella carne. E i ragazzi
sembravano personificazioni dell'inverno, con il freddo negli occhi e
il supplizio sulle labbra. E stavano guardando Jaime, tutti e tre.
-Non meritano un processo. Nemmeno uno informale come questo.- Sansa
fissò lo Sterminatore di Re e vide Cersei, Cersei e il suo
sorriso bugiardo, Cersei e tutte le umiliazioni a cui aveva sempre
tramato di sottoporla, anche quando fingeva di esserle amica. Cersei e
il suo sangue dannato.
-Non meritano la speranza
di salvarsi.-
Jaime la ignorò. Per alcuni istanti di silenzio, attese che
il
re del Nord gli facesse un cenno e gli permettesse finalmente di
parlare.
-Io e te abbiamo molto in comune, hai notato? Entrambi storpi. Entrambi
ugualmente affermatisi, nonostante i pregiudizi della gente. Entrambi
provenienti da famiglie che si sono fatte molto male a vicenda, che
hanno sterminato donne e disseminato lutti...- Esitò,
chiedendosi se proseguire fosse un azzardo, ma concluse ugualmente,
sondando la reazione del ragazzo con lo sguardo. -... entrambi privi
della persona che abbiamo amato. Ed entrambi, come mi sembra di
desumere, stanchi di questa guerra.-
-Sono molte più cose in comune di quante mi piacerebbe avere
con
un Lannister.- commentò Bran, acidamente, con spiccato
sarcasmo.
Jaime interpretò il fatto di non essere stato smentito come
una
conferma, e continuò con più fermezza.
-Stanchi di questa rivalità continua che si sta nutrendo con
il
nostro sangue e le nostre carni, e che stiamo fomentando senza tregua.-
rincarò. -Sai quando la faida avrà fine? Quando
saremo
tutti morti, quando ci saremo ammazzati a vicenda fino all'ultimo.
È questo che vuoi? È questa la scelta migliore,
il
destino che vuoi per tua moglie, per i tuoi figli? Omicidio dopo
omicidio, l'odio reciproco sarà un serpente che si morde la
coda, un circolo vizioso che non finirà finchè non saremo noi
stessi a finire.-
Bran Stark rimaneva in silenzio, osservandolo con quel suo sguardo buio
di riprovazione. Impossibile decifrare i suoi pensieri.
-Anzichè vendicare morti che sono i nostri medesimi torti a
condannare, possiamo impedire piuttosto che i membri delle nostre
famiglie continuino a morire, e mettere fine ad un eterno ciclo di
vendette. Non ci deve essere per
forza bisogno
di guerra e sangue... Però dobbiamo essere noi a decretarlo,
e
dobbiamo farlo adesso.- Jaime guardò anche Arya Stark, il
suo
disprezzo così terribilmente ostentato, e l'infrangibile
scudo
ch'era il viso d'avorio di Sansa. -Per quanto difficile, giriamo
pagina. Lasciamo riposare in pace i nostri morti, da entrambe le parti,
e non permettiamo che altri cari perdano la vita a causa di
questo
odio. La casa Lannister perdonerà la casa Stark, e la casa
Stark
perdonerà la casa Lannister. Nessuno dimentica, ma nessuno
impugna più le armi.- Jaime Lannister tornò a
rivolgersi
a Bran. -Questa vendetta non ci sta portando da nessuna parte. Te ne
sei reso conto anche tu, vero?-
Il re del Nord scosse il capo. -Perchè mai dovrei temervi
ancora? Voi siete tutti qui, in nostro potere. Basterebbe impartire un
ordine per farvi sgozzare senza troppe cerimonie, così come
basterebbe mettere in palio un titolo di lord per scoprire dove si
trovano i gemelli. Potreste benissimo smettere di esserci soltanto voi,
e risolvere il problema. Quindi perchè dovrei prendermi il
disturbo di risparmiarvi?-
-Ti ho salvato la vita.- argomentò Jaime.
Bran si concesse una breve risata amara. -Su, andiamo, non prendiamoci
in giro. L'hai fatto solo ed unicamente per rinfacciarmelo, come stai
facendo proprio ora. L'hai fatto per ottenere la grazia. Se fosse stato
per te, avresti acceso a quella donna la torcia per bruciarmi.-
-I Lannister hanno pagato i loro debiti. Avevano ucciso Eddard Stark,
Catelyn Stark e Robb Stark.- Mentre li nominava, lo Sterminatore di Re
sollevava un dito della mano sinistra. -Sono morti Tywin Lannister,
Cersei Lannister... e la terza vita che ti ho restituito io oggi,
Brandon Stark, è la tua.-
Quando sollevò anche il medio, fissando Bran con eloquenza,
il
ragazzo sospirò pesantemente. Si voltò verso le
sorelle,
che incrociarono il suo sguardo quasi con tristezza.
-I Lannister sono una famiglia grande, e ricca. Se uccidessi i qui
presenti, i parenti di Lannisport sarebbero praticamente costretti a
dichiararmi guerra. Guerra... ancora guerra, ancora morte, ancora denaro.
Invece di difendere il Nord, oltre che averlo abbandonato, non farei
altro che impoverirlo fino a sfinire i suoi abitanti con tasse troppo
ingenti. Saremmo daccapo, come ai tempi di Robb. Quindi, quanto ci
conviene inimicarci metà del Sud? Quanto ci conviene
rimanere
ancora qui?-
Fu Sansa a parlare, dopo aver scambiato una breve occhiata con la
sorella minore. -Sei tu il re. La decisione sta a te.-
-So che farai una scelta per il bene del tuo regno... ma soprattutto
per il bene della tua famiglia.- ammise Arya, infine, con un sorriso
flebile che per Bran rappresentò la prima, vera presa di
coscienza: aveva sul serio ritrovato le sue sorelle. Erano sul serio
insieme, dopo tanto,
dopo tutto. Le ringraziò sommessamente per la
loro fiducia.
-Prometto che prenderò la decisione che mi sembra migliore, adesso. Certo, non
posso pretendere di trovare la soluzione giusta in assoluto...-
-... certo, non senza di me.-
Quando Tommen udì quella
voce, fu come se tutti gli inferni si fossero congelati; come se tutti
i paradisi andassero in fiamme. Fu come se il mondo di fosse rotto e
ricomposto in modo bizzarro e grottesco. Fu come se lui si fosse
accorto di essere dentro un'enorme clessidra, nel momento in cui era
stata rovesciata.
Rickon Stark spalancò le porte con l'irruenza di un ariete
da
guerra. La sua voce era ancora più gutturale rispetto a
quella
che Tommen conservava nei propri ricordi, anche se era
infraintendibilmente la stessa; colpa del tentato strangolamento, di
cui rimanevano ancora segni incisi sulla pelle, lasciati ben scoperti
-come se il giovane Stark stesse esibendo un trofeo. Il lungo mantello
accompagnava i suoi movimenti, che tutti seguivano con lo sguardo. Il
silenzio nella sala era sconcertato. Margaery aveva gli occhi
strabuzzati, Loras Tyrell imprecava fra sè.
Come aveva fatto? Come poteva essere ancora così... vivo?!
Tommen sentì il cuore precipitare fin nei meandri dello
sconforto più irrimediabile. Niente vendetta per sua madre.
Niente vendetta per suo nonno. Niente punizione per il tradimento di
Myrcella. Niente di niente.
-Tu eri morto!- Non realizzò di aver parlato ad alta voce,
finchè non sentì l'eco delle sue stesse parole.
-Tu
eri... morto. Era
accaduto davvero!-
Rickon Stark conficcò i suoi maledetti occhi
azzurri in
quelli verdi e sgomenti di Tommen. -Non mi piace che le cose accadano.
Preferisco farle accadere.-
Bran rimproverò il fratello,
interrompendo il loro scambio. -Ti stavo aspettando. Ce ne hai messo di
tempo.-
-Non è la puntualità, la peculiarità
per cui mi
celebreranno in eterno.- ribattè Rickon, asciutto. Per un
attimo, cercò Myrcella fra i presenti; non vedendola, si
affrettò ad ostentare indifferenza.
-A meno che non incappi in qualche altra fanciulla armata di spada,
s'intende.- bisbigliò Margaery. Tommen però non
era
dell'umore giusto per farsi una risata.
Bran attese che il fratello salisse i gradini e affiancasse Arya, prima
di proseguire. Quando parlò, la sua voce colmò la
sala.
-Voglio un giuramento.-
A quelle parole, Rickon inorridì.
-Bran!- sbottò, indispettito. Il fratello non diede segno
d'averlo udito.
-Un giuramento solenne, che vincoli noi e i nostri successori fino alla
fine dei tempi.- aggiunse, guardando solo Jaime. -Ci stai, Sterminatore
di re?-
-Ho scelta?- domandò l'altro, ghignando.
Bran valutò la sua figura per qualche istante, chinando il
capo.
-A meno che non sia già successo, non è mai
troppo tardi
per morire.-
Jaime sorrise affabilmente. -Poco male. Un patto è esattamente quello
che mi auguravo.-
Rickon guardò prima l'uno, poi l'altro, incredulo.
-Ma si può sapere quale fottuta miseria state fottutamente
progettando?!- sbraitò.
Tyrion intervenne, ruotando gli occhi al soffitto. -Ah, questi giovani,
non si capisce mai quel che dicono. Vediamo se parlare la tua lingua
servirà. Visto che voi volete fottutamente ucciderci ed
appenderci ad una fottuta forca, noi fottutissimi Lannister stiamo
cercando di salvarci il fottuto culo e non fare una fottuta brutta
fine. Afferrato il fottuto concetto?-
-Mi prendi per il culo, nano?- Rickon strinse gli occhi e lo
guardò con sospetto.
-E come potrei?- ghignò Tyrion. -Mi smaschereresti subito,
se lo facessi.-
-Dev'essere un giuramento fra i più sacri ed inviolabili che
esistano.- stava intanto dicendo Bran, rivolto a Jaime. -Dev'essere un
giuramento irreversibile.-
-Un giuramento di sangue.- concluse l'altro.
-Cosa stai facendo, Bran?!- protestò Rickon, a gran voce.
-Perchè?! Non
lo fare. Voglio che loro muoiano, che muoiano tutti. E poi che
risorgano, soltanto per morire di nuovo. E poi che-
-Sì, abbiamo capito. Adesso chiudi la bocca.-
borbottò Tyrion.
Brandon Stark, senza distogliere lo sguardo da quello di Jaime,
estrasse con un rapido gesto una daga dalla cintura, sollevò
la
manica e lasciò scorrere la lama lungo l'avambraccio,
disegnando
un lungo squarcio dal gomito al polso. La sua espressione rimase
imperturbabile.
Jaime Lannister salì i gradini. Appena allungò il
braccio
per ricevere la daga a sua volta, Rickon -al fianco del fratello
maggiore- sfoderò la spada. Tommen trasalì.
Tyrion per un
attimo strizzò le palpebre.
-Rickon.- lo riprese Bran, atono, come se si rivolgesse ad un cucciolo
troppo vivace. Lui scrollò le spalle, con un ghigno leggero.
-La prudenza non è mai troppa.-
Tommen pensò che, casomai, per lui le occasioni buone per
cercare di trafiggere un Lannister non sono mai troppo poche, ma
tacque. La loro vita era salva; avrebbe dovuto rallegrarsene.
Brandon Stark accostò il braccio a quello di Jaime
Lannister,
mentre re Gendry mormorava qualche parola per siglare il giuramento.
-Se mai un membro della nobile casa Stark toglierà mai la
vita
ad un membro della nobile casa Lannister,- proclamava, -allora io
dichiaro che sia condannato a morte. Che lo stesso accada nella
situazione opposta. Brandon Stark, lo giuri, in nome degli
dèi
antichi e nuovi, in nome del re Gendry Baratheon, primo del suo nome?-
Bran socchiuse gli occhi. -Lo giuro.-
-Jaime Lannister, lo giuri?-
-Lo giuro.- replicò lo Sterminatore di Re, sottovoce.
Gendry annuì. -Che dunque il giuramento venga rispettato,
finchè le vostre nobili case avranno vita.-
Rickon Stark chinò il capo. Suo fratello gli aveva appena
legato
le mani, e in quel momento era troppo offuscato da quella ustionante
consapevolezza: non aveva nessuna intenzione di rendersi conto che Bran
l'aveva fatto per lui, per loro. E poi la porta si aprì, per
l'ennesima volta.
-Lasciami andare...
Lasciami, dannazione!-
Myrcella Lannister si divincolava con foga, sgomitando con stizza
contro il petto di Brienne -Rickon avvertì un gemito
imperioso
premergli le labbra, e le lacrime che gli pizzicarono astiose gli occhi
non erano di dolore, eccezionalmente. Si colmò gli occhi
della
sua immagine, ricavandone un sollievo fisico ed escluso da qualsiasi
paragone. Credeva che
non l'avrebbe mai più vista.
I lunghi capelli, ridotti ad un groviglio di nodi neri, erano stati
selvaggiamente strappati a ciocche senza il minimo criterio; Rickon si
chiese indignato chi potesse averlo fatto, prima di indovinare che non
non c'era altro colpevole, fuor che lei stessa. Sul viso sporco di
cenere, il sangue dei capillari rotti nei suoi occhi risaltava come in
un campo di battaglia. Lunghi graffi rossi -graffi che non era stato
Rickon ad incidere- si allungavano sulle sue braccia come crepe.
Brienne di Tarth varcò la soglia, mantenendo saldamente la
presa
sulla principessa, ed incrociò lo sguardo di Jaime. Quando
l'uomo le fece segno di sì, sciolse la presa.
-Lasciami!- ribadì Myrcella, rifilandole una gomitata
furibonda
nello sterno e svincolando dalle sue braccia. Alzò la testa.
Appena vide Rickon, la speranza sbocciò trionfante.
Un
chiarore radioso ravvivò presso gli zigomi.
Null'altro si mosse: soltanto Myrcella, che si slanciava da un estremo
all'altro della sala, inseguita dal rumore affrettato e disperato dei
suoi passi sul marmo. Silenzio.
Si accasciò contro il petto di lui, vi
affondò il
viso, singhiozzando a gran voce. Il sapore salato delle sue lacrime
punzecchiò l'olfatto fino di Rickon. A malapena si accorse
che
era la prima volta. Percepiva solo Myrcella piangere con passione,
fremente, piegata fra le sue braccia -di nuovo al sicuro. Quegli alti
gemiti, che scuotevano il suo fragile corpo, li ascoltarono anche gli
dèi. Bran e Jaime assistettero senza guardarli, impassibili.
Rickon nascose il volto fra i capelli di lei, muto e straziato da una
felicità senza parole.
La guerra era finita.
***
Meera Stark contemplava con una nuova gioia il cortile di Grande
Inverno, quel mattino. La neve aveva già ripreso la sua
danza,
instancabile, ed assolveva con lenta grazia il peccato di tutto il
sangue scuro degli invasori, versato appena otto giorni prima; quel
mattino, quando s'era affacciata alla finestra di camera sua ed aveva
appurato ciò, se n'era vivamente rallegrata. Le porte
sfondate
di Grande Inverno, che all'inizio la spaventavano così
tanto,
adesso le parevano soltanto l'ennesima prova di quanto fosse potente la
loro casa: aveva resistito a questo, ed avrebbe resistito a qualsiasi
altro attacco. Lì tutti erano al sicuro.
Il sole dipanava pallide trame di luce nebbiosa, offuscata di bianco, e
si rifletteva sulle colline purificate ed adamantine, colorando mille
schegge opalescenti. Il vento era dolcemente fresco ma non tagliente, e
Meera lo trovava bizzarramente concorde al proprio umore. Stava a viso
scoperto, lasciando che il Nord soffiasse il suo fiato sulle sue
guance, arruffandole i capelli. Sopra ad un abito di broccato
scomodissimo ma d'estrema eleganza, verde muschio, indossava
spesse pellicce marroni. Era il primo giorno che usciva all'aperto, e
il caso aveva voluto che fosse proprio quello ideale. Osha gironzolava
nelle vicinanze, stringendo le manine del principe Kenned nelle sue e
sostenendolo nel compiere piccoli, incerti passi nella neve. Le sue, di
guance, più tenere e delicate, erano punte furiosamente dal
gelo, eppure il piccolo non si lagnava. Era sangue del Nord quello che
gli scorreva nelle vene, dopotutto. La madre sorrise a quella scena.
Vedere i soffici riccioli inanellati del suo bambino vorticare nella
brezza della sua terra, sentire la voce di Osha che borbottava burbere
esortazioni e le risatine deliziate di lui, le spalancava il cuore a
metà come un frutto maturo. Le ricordava che, fino a poco
prima,
non era più riuscita a sperare in tutto questo; l'aveva
considerato già perduto. E invece era lì, c'era
ancora.
Era vero.
Era suo. Le spettava. Le
spettava, un po' di felicità.
-Una splendida giornata per la partenza.- esclamò una voce
alle sue spalle. Meera si voltò con un sorriso.
-Mi avete letto nel pensiero, lord Snow... Vi stavo
aspettando.-
-Presto saranno tutti pronti a partire.- annunciò il
ragazzo; poi assunse un'espressione solerte. -Voi e il bambino come state?-
-Molto meglio. E tutto grazie al tuo amico Maestro.- rispose lei, con
gratitudine,
sfiorandosi appena il ventre protetto dal mantello. L'avevano rischiata
grossa, lei e suo figlio, però sorprendentemente tutto era
andato per il meglio. Passato il panico e l'offuscamento dovuto
all'attacco dell'esercito di Bolton, una volta coricata sulla paglia
nelle stalle, Meera era
stata assalita da un nuovo timore, che soltanto in quel momento
riusciva a valutare in tutto il suo peso e gravità: di avere
ucciso il bambino con la propria
temerarietà. Quella povera creatura innocente, sacrificata a
causa del suo stupido orgoglio... Non avrebbe saputo perdonarselo.
Molti decotti e un'infinità di ore di sonno dopo, quando le
sue
membra contratte avevano smesso d'essere torturate da stillate
prepotenti, si era sentita sollevata fino alle lacrime.
Jon attirò la sua attenzione, facendole notare che gli altri
ospiti in partenza stavano varcando l'arco d'ingresso: Theon e Yara.
-Ecco la sopravvissuta.- ghignò Meera. Yara fece una
smorfia, aggiungendoci un'occhiata salace nella sua direzione. In
effetti, Ramsay Bolton non era stato esattamente delicato con lei:
impossibile indovinare cosa le facesse più male, se le
costole incrinate, le mani fasciate in bendaggi dal polso alla punta
delle dita o la gamba che la costringeva a zoppicare. Era ridotta
peggio di qualsiasi persona che Meera avesse mai visto, però
un sorriso trionfante le incurvava le labbra.
-Hai poco da prendere per il culo, reginetta delle paludi. Se non fosse
arrivato mister corvo, a quest'ora Ramsay Bolton ti starebbe scuoiando
le cosce, come fai tu con le ranocchie.-
-Delle rane non si butta via niente.- ribattè Meera,
divertita. Al fianco della sorella, Theon taceva. La sua espressione
era atrocemente seria ed il suo pallore quasi grigiastro, ma non aveva
più l'aspetto miserabile di pochi giorni prima. Dire
definitivamente addio al fantasma del suo passato pareva avergli messo
l'anima in pace. Non c'era più tormento nei suoi occhi, solo
una vaga tristezza.
-Non vedo l'ora di tornare a casa.- dichiarò Yara, lanciando
un'occhiata quasi stizzita al profilo di Grande Inverno, che pareva
acciaio opaco contro il cielo evanescente. -Partirei anche a costo di
nuotare fino a Pyke.-
-Sei certa che portare Bolton con voi sia una buona idea?-
obiettò Meera, che, a dire la verità, si sentiva
molto inquieta da questo punto di vista. Temeva che il bastardo ne
avrebbe approfittato per scappare, in qualche modo. -Cosa
succederà, se riuscirà a liberarsi?-
Yara tagliò corto, sbrigativa. -Non ci riuscirà,
fidati. E non voglio aspettare che tuo marito faccia il suo bel
lavoretto veloce con la spada, no. Ramsay Bolton dev'essere sottoposto
alla giustizia del Dio Abissale.- E poi esibì quel
suo sorriso obliquo, che sarebbe riuscito a mettere a disagio chiunque.
Meera si strinse nelle spalle. -Come preferite. In questo modo,
assumendovi la responsabilità della sua morte, vi assumete
anche quella della sua custodia. A parte questo...- Le sorrise, e
cercò di conferire solennità alle proprie parole.
-Hai salvato la vita di mio figlio, Yara Greyjoy. Non lo
dimenticherò.-
-Spero che, in futuro, i monarchi del Nord saranno informati del fatto
che mi devono un favore.- si limitò a dire la ragazza.
-Senz'altro.-
Dopo qualche istante di esitazione, Yara le tese la mano,
così come aveva fatto per suggellare la loro alleanza. Meera
la strinse con vigore.
Intanto, tutti i Guardiani dell Notte erano pronti per la partenza.
Maestro Sam, al momento di salutarla, snocciolò le ultime
indicazioni alla regina.
-Mi raccomando, Maestà. Niente sforzi, niente duelli, niente
armi... e
tanto riposo. Sì, tanto riposo.- ripetè
puntigliosamente.
Meera chinò il capo in un gesto di assenso, sentendosi una
bambina rimproverata per una marachella. -Prometto.-
-In ogni caso, ci sarò io a tenerla d'occhio.-
bofonchiò Osha, vicino a lei, che aveva preso in braccio
Kenned, così che Jon potesse salutarlo. Intanto, Meera gli
rivolgeva un'ultima osservazione.
-Mi spiace che voi non possiate trattenervi di più, fino a
che
mio marito non tornerà al Nord. Ci terrebbe con tutto il
cuore,
a ringraziarvi di persona.-
-Ci vorrebbero giorni, e non mi è possibile lasciare
ulteriormente la Barriera incustodita.- spiegò Jon. -I
ringraziamenti personali del
re non sono assolutamente necessari. Proteggere la sua persona, e la
vostra, è un dovere per me e i confratelli. Sappiate che,
qualsiasi cosa accada, troverete sempre in noi dei fidatissimi alleati.-
-Oh, lo so perfettamente, lord Snow.- mormorò Meera. Non
osava nemmeno immaginare cosa ne sarebbe stato di lei, se Bolton avesse
preso il castello. A quel punto, la ragazza dai capelli rossi che aveva
combattuto al fianco dei Guardiani della Notte affiancò Jon.
-Smettila di flirtare con le donne impegnate, Jon Snow, altrimenti vado
a dire in giro che mi porti a letto, capito?-
Lui sospirò, esasperato: però sorrideva.
-Sì, Ygritte, certo.-
-Certo, certo...- Ygritte puntò lo sguardo sospettoso su
Meera; uno sguardo tutt'altro che deferente, eppure questo rese la
regina del Nord ancora più di buonumore. -Non sai niente,
Jon Snow.-
Yara scoppiò in una risata fragorosa e lanciò
un'occhiata maliziosa a Meera, che arrossì.
-Sai che ti dico? A volte è meglio non sapere.-
***
Myrcella Lannister si disse che a volte la vita era proprio strana.
Attorno a lei, i preparativi della partenza da Approdo del Re erano in
fermento: gli uomini del Nord erano intenti a caricare sui carri le
provviste, le tende, le armi, e la voce autorevole di Bran
sovrintendeva all'operazione. I Lannister ancora non s'erano visti,
perciò c'era da supporre che non si sarebbero presentati, ma
che invece fossero a loro volta impegnati in un'altra partenza: quella
alla volta di Castel Granito, di cui Tommen sarebbe diventato il
signore.
Myrcella non era riuscita a rimanere là, in mezzo alla
confusione ed al disordine: aveva bisogno di pensare. Non si trattava
di un nodo problematico da sbrogliare, o di un germe d'idea, d'un
focolaio da sviluppare per bene, ma solo di una serie di parole, suoni,
colori, immagini e ricordi che si sovrapponevano fino a figurare una
storia che Myrcella non era più così sicura
essere fedele alla realtà dei fatti. La vita era proprio
strana. Fino al giorno prima, scottava di febbre in un sudario di
lenzuola intrise di sudore acre, biascicando la lingua dei moribondi,
mentre già sulle palpebre si marchiavano a fuoco le visioni
del mondo dei morti -e lei tossiva l'ultimo respiro che le era rimasto,
cercava di scavarsi il petto per estrarne il cuore, gemeva il proprio
delirio, arresa di fronte all'evidenza che non esistevano note per
riprodurlo, e il suo corpo s'essiccava d'ogni liquido come un fiore
dimenticato fra le pagine d'un libro. Di lei non era rimasto che uno
spettro rosso di sete ed inedia, che s'agitava sotto gli artigli della
Morte. Tremava, percependo il suo alito freddo sul collo, eppure si
sentiva così stanca di urlare, così stanca di
sudare, così stanca di avere caldo e soffrire. Di vivere
quegli istanti così... grotteschi, innaturali, abnormi e
mostruosi. Sbagliati.
Vivere così, che le pareva assurdo quanto vivere senza
testa. Qualcosa di incomprensibile, disgustoso ed irrazionale.
Respirare nella piena, sferzante, netta coscienza che Rickon non lo
stava più facendo. Sbagliato.
Doveva essere morta anche lei. Voleva essere morta. Voleva morire
dimenticando che lui era morto. Voleva morire, per annullare la propria
perdita nell'annullamento di se stessa. Far calare il silenzio.
Spegnere quell'orrore di pensieri. Strappare le pagine di quella storia
così ignobile. Le ballate tristi l'avevano sempre commossa,
quando aveva sedici anni -ed adesso si accorgeva che potevano aveva
qualche fascino solo per chi non ne fosse protagonista.
E poi quella voce. Myrcella,
svegliati, Myrcella, lui è vivo. Vivo. Lui
è vivo. Lui è vivo? Ad un certo punto, non sapeva
esattamente quando, aveva smesso di precipitare. Perchè quel
filo di voce era più saldo di una catena di ferro,
perchè lui
è vivo. L'equilibrio si era ristabilito, e lei
aveva ritrovato il senso, il proprio senso. Era proprio strana, la vita.
Udì i suoi passi, l'udito raffinato da quell'esperienza
passata -eredità dei suoi mesi nelle segrete, aveva imparato
quel ritmo a memoria.
-Ho perso.- osservò fra sè, mentre il vento
faceva oscillare i suoi capelli, di nuovo biondi e splendenti, dietro
le orecchie. -Mi hai vista piangere.-
Rickon ridacchiò, un suono che scaldò il cuore di
Myrcella come facevano un tempo le carezze di Cersei, i sorrisi di
Arianne, e ancora di più.
-Abbiamo vinto,- la corresse, -entrambi.-
La fanciulla si permise di sorridere, si voltò. Si
alzò sulle punte a baciargli le labbra.
-Siamo insieme.- bisbigliò contro la sua bocca.
-Siamo vivi.- precisò Rickon, alzando un
sopracciglio.
-E questo significa vincere?-
-Sempre.- Il ragazzo fece una smorfia, come se si fosse punto con una
spina. -O quasi.-
Myrcella sapeva a cosa si stesse riferendo. Dopotutto, la vendetta
contro i Lannister era stato l'unico pensiero capace di tenerlo in vita
per anni, nelle più improbabili situazioni... l'unico
pensiero che gli aveva impedito di impazzire, che gli aveva permesso di
sopportare il dolore. E lo avevano appena privato di questo. Myrcella
sapeva com'era fatto Rickon, e temeva gesti avventati da parte sua,
sollecitati proprio dal divieto -che per lui non era altro che una
provocazione. Così, con voce morbida, parlò.
-Tu un giorno pretendesti da me una prova d'amore. Mi chiedesti di
rinnegare apertamente la mia famiglia. Di scegliere te a loro.-
Myrcella carezzò la guancia di Rickon con l'indice. -Lo
feci. Non mi costò dolore: mi sembrava la cosa
più giusta. Tu eri, tu sei
più importante di tutto il resto.- A questo punto lo
fissò negli occhi, con intensità. Rickon la stava
ascoltando attentamente, ma era evidente che ciò che sentiva
non gli piaceva troppo.
-Adesso sono io che ti chiedo una prova d'amore.- proseguì
Myrcella, con risoluzione. -Risparmia la mia famiglia. Non spero in una
riconciliazione, non spero che il tuo odio per loro si plachi. Nemmeno
io so più cosa provo per i Lannister, se devo essere
sincera. Quello che volevo dire, è... tu continua pure a
maledirli, ma lasciali in vita. Non li rivedremo mai più,
non sentiremo mai più parlare di loro. Partiremo. Andremo
lontano, ovunque tu voglia.- si affrettò a precisare, gli
occhi che brillavano. -Ti stringerò la mano e mi
affiderò a te. Portami in qualsiasi posto, purchè
possiamo essere io e te e
basta, in un luogo dove nessuno voglia dividerci, dove
nessuno voglia giudicarci o ostacolarci.- Riprese il respiro, fremente
d'emozione. -So che ti sto chiedendo molto, ma ti assicuro che lo
faccio perchè ti amo. Non voglio più guerra nella
tua, nella nostra
vita. Non voglio più rischiare di perderti. Ti prometto che
sarai felice, Rickon.- I suoi occhi erano di nuovo umidi. -Ma tu...
dimostrami che mi ami. Dimostrami che vuoi mettere noi davanti a
qualsiasi altra cosa. Dimostrami che rinunceresti a tutto per me.
Dimostrami che mi ami più di quanto ami la tua guerra.-
E lì, Myrcella ebbe paura di avere esagerato, di sentirsi
opporre un rifiuto, di avere chiesto qualcosa di inconcepibile. Ebbe
paura anche che si arrabbiasse. Rickon infatti era piombato in un
silenzio terrificante, indissolubile, insondabile. Chissà
perchè, pensò a Osha: forse perchè era
a lei che di solito si rivolgeva, quando si trovava di fronte ad un
dilemma, quando trovava un bivio sul suo cammino. Era sempre stata lei
a mettere ordine nella sua vita disastrata. Imamginò di
esporre ad Osha la situazione, e la scelta. Era una donna molto
pragmatica, che non si perdeva troppo in ciance e seghe mentali, che
andava subito al punto. Immaginò cosa gli avrebbe detto, se
fosse stata lì.
Poche storie, ragazzo.
Che cosa volevi, quando sei tornato a Grande Inverno?
Vendetta, si rispose Rickon.
E cosa vuoi,
adesso?
Di nuovo, egli non ebbe dubbi. Myrcella, pensò,
voglio Myrcella.
Osha l'avrebbe mandato a quel paese. E allora, che domande fai...
Rickon richiamò alla memoria le notti insonni
che avevano trascorso nell'accampamento, prima dell'inizio dell'assedio
di Approdo del Re, con Myrcella che gli prendeva il capo nel grembo e
gli carezzava i capelli. Se ogni sera fosse stata così, lui
sarebbe stato felice. Felice.
Gli sarebbe bastato questo. Gli sarebbe bastato fino alla
fine dei suoi giorni.
-Ti ho vista piangere, Myrcella Lannister,- disse a quel punto, -e ti
giuro che sarà la prima e l'ultima volta. Non
permetterò che il mondo ti faccia mai più
piangere. Non permetterò che io ti faccia mai
più piangere.-
Arrotolò su un indice la curva elastica d'uno dei suoi
riccioli. Myrcella aveva socchiuso le labbra di pesca, schiuse di
fanciullesco stupore.
-Significa che...-
-Andremo lontano. Lontano. Via di qui. Dove nessuno potrà
più mettersi in mezzo. Dove nessuno potrà farti
del male.- La baciò con furia, con impeto. Quando si
staccò dalla sua bocca, era senza fiato. -Myrcella, noi
torneremo a casa.- sbottò.
-Casa? A Grande Inverno?-
E Rickon sorrise. -No, non a Grande Inverno. Nella mia vera casa.-
Myrcella si sentì attraversare da un brivido.
***
Nonostante tutto, proprio quando il convoglio stava per avviarsi, la
folla si spaccò in due, permettendo a qualcuno di passare e
giungere fino alla testa dell'esercito: i Lannister erano venuti a dire
addio a Myrcella. Jaime era stato il primo. Aveva baciato le guance di
sua figlia.
-Posso capirlo.- le aveva bisbigliato. -Posso accettarlo.-
-Non ho bisogno del tuo consenso.- fu la gelida risposta; ma Myrcella,
dopo qualche istante d'indecisione, gli baciò una guancia
con riluttanza.
Margaery fece per farsi avanti, ma lo sguardo omicida che la ragazza le
riservò la indusse a tenersi da parte. Fu il turno di
Tyrion. Lui rivolse qualche parola gentile alla nipote, che nessuno
udì, poi inaspettatamente si rivolse a Rickon.
-Una domanda che mi perseguita di notte. Perchè diamine hai
chiamato il tuo lupo Cagnaccio?-
La bestia rivolse al suo volto quei grossi, famelici occhi giallo
zolfo, denudando le zanne, quasi stesse ringhiando che cosa avesse contro il suo
nome.
Rickon sorrise. -Avevo sei anni. Ero incazzato con il mondo.-
-Da quella volta non hai fatto molti progressi, a quanto vedo...
comunque. Sposerai questa figliola?- domandò.
-No.- rispose lui, tagliente. -Odio i matrimoni.-
Il Folletto aveva sorriso, ironico. -Vedi, che almeno una cosa in
comune l'abbiamo? Addio, Rickon Stark. Il nostro incontro è
stato... breve ma intenso, come si suol dire.-
Lui replicò imprecando.
Per il ultimo, avanzò Tommen, che parlò a Rickon
con freddezza e cortesia.
-In occasione di un addio, propongo di sospendere le nostre reciproche
avversioni. Myrcella è una traditrice, ma è mia
sorella. Non riesco ad augurarmi il male per te, adesso che so che
sarete una famiglia.-
Rickon, dopo avergli rivolto uno sguardo truce, sputò per
terra. -Fottesega.-
Tommen ignorò la sua totale mancanza di civiltà e
si girò verso Myrcella.
-Io e te condividiamo lo stesso sangue, che ti piaccia o no. Spero che
un giorno tu potrai conoscere i miei figli, e io i tuoi. Nostra madre
avrebbe voluto così.-
Silenzio. Myrcella fissò suo fratello negli occhi.
Trascorsero infiniti secondi.
Infine, lasciando tutti i presenti sgomentati, sputò per
terra.
-Fottesega.- sentenziò. Rickon espresse la sua approvazione
ridendo.
-Ben detto.-
Alla risata s'unì Tyrion, poi Jaime, infine anche Tommen ne
fu trascinato.
-Chi l'avrebbe mai detto...? Una principessa reale come lei... Si
comporta come una traditrice, parla come una bruta... Ohh, se ci fosse nostra madre a
vederla.-
L'ultima cosa che Myrcella scambiò con suo
fratello, infine, quasi con timidezza, fu un sorriso -che non era
esattamente un accordo, un perdono. Era... un armistizio.
***
-Sono una Stark.- sussurrò Arya. -Il Nord ha
bisogno di me, ma mai quanto io ho bisogno del Nord.-
Gendry annuì rigidamente con il capo.
-Tornerai?-
Arya aggrottò la fronte. -Naturalmente.-
Il ragazzo chinò lo sguardo. Quando lo sollevò,
sorrideva piano.
-Ti aspetterò, milady.-
-Cretino.-
-Hai ragione, solo un cretino come me può trascinarsi dietro
una cretina come te.-
-Ti amo.-
-E io di più, Arya. Disgraziatamente, io di più.-
**
-Alayne!- Robin balzò in piedi, quando la vide. I suoi occhi
baluginarono d'una luce quasi esaltata. -Alayne! Lord Baelish,
è tornata Alayne!-
Sansa abbracciò il suo giovane sposo con trasporto -casa sua.
Mentre ancora stringeva Robin a sè,
aprì gli occhi. Petyr era in piedi poco distante, e le stava
sorridendo. Avevano vinto, in fondo. Casa sua.
-Bentornata, Alayne.-
***
Ogni lega verso Grande Inverno, per Bran, fu una sofferenza interna
paragonabile ad un'emorragia. Ogni lega verso Grande Inverno era una
lega verso una fortezza senza Jojen -una vita senza Jojen.
Quando ci pensava, uno spasmo di panico gli contraeva la bocca dello
stomaco, ed era tentato di fermare il dannato cavallo e gridare con tutte
le forze che gli erano rimaste.
Quando vide Meera, però, qualcosa cambiò.
All'improvviso, una strana gioia lo pervase. Credeva che sarebbe stata
arrabbiata, che lo avrebbe tempestato di rimproveri, che lo avrebbe
accusato della morte di suo fratello. Gli venne incontro correndo; lo
abbracciò, forte come mai aveva fatto.
Bran sentì il suo respiro sulla nuca, il suo profumo nelle
narici.
-Mi sei mancata.- E si era accorto di quant'era vero solo ritrovandola.
-Anche tu, Bran. Anche tu.-
La comprensione li rese, dopo anni di silenzio, di nuovo complici.
Quando si sciolse dal suo abbraccio, Bran scosse il capo.
-Cosa diavolo è successo qui, mentre non c'ero?-
Osha incrociò le braccia. -Mentre tua moglie sperimentava
qualche modo fantasioso per abortire, dici?-
Teneva Kenned per mano: suo figlio camminava già. Gli
rivolse un timido sguardo da sotto le lunghe ciglia setose. Bran,
guardando quella minuscola creatura, vide il suo futuro. Da re e da
marito, ma anche da padre -non ci aveva mai pensato troppo, impedito da
quella sensazione d'estraneità che provava sempre in sua
presenza. Kenned era solo un bambino, e i bambini non hanno mai colpa
di niente. Suo figlio.
Si era mai davvero reso conto di cosa significasse? Poi
guardò Meera.
Bran capì che la vita non sarebbe stata quella che l'avrebbe
reso felice, nemmeno
per sogno -ma sarebbe stata. Sarebbe dovuta essere. Tu sei vivo... e
puoi ancora fare pace con il tuo presente. Puoi ancora perdonargli di
non essere il futuro che volevi. E se sarebbe stata,
quella vita sarebbe stata solo grazie
a loro.
Se il fato ti vuole
vivo...
allora tu devi vivere, Brandon. E Bran accettò
che avrebbe vissuto.
Poche ore dopo, un giovane dai capelli rossi e una fanciulla dai
capelli biondi partirono. Avevano una barca da prendere.
La destinazione era Skagos.
Note dell'Autrice: Pufff, che fatica! Mamma mia, ma davvero ho letto e
revisionato questo mostruoso capitolo??? Abbiate pietà,
lettori.
Che ne dite? Sono veramente esausta. Spero che come finale vi abbia
soddisfatto. Mi sembra che tutti se la siano passati decisamente bene.
Per precisare: nella visione del torrente, per chi se lo chiedesse, la
presenza di Talisa è inspiegabile (se non ci fosse stata la
guerra, come avrebbe fatto Robb a conoscerla??) però
pazienza. La ragazza con le trecce verdi è Wylla Manderly.
Il secondo personaggio con cui shippo Rickon dopo Myrcella. <3
Che dire? Attendo impaziente i vostri parere. Il prossimo capitolo
sarà l'epilogo finale! Grazie per avere letto tutto questo.
Lucy
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Epilogo. ***
Epilogo
Epilogo.
Sedici anni dopo.
Una figura procedeva nella neve, farinosa
nella consistenza e croccante sotto il peso dei suoi
stivali impellicciati. Il candore del cielo sgorgava
fioccando, fino a trapuntare il suo cappuccio di piccole perle
di ghiaccio. La direzione obliqua del vento la costringeva
ad opporsi, puntando il capo in avanti. La tempesta turbinava,
ovattata, ululante, con la fierezza e la discrezione del Nord. Mano a
mano che si faceva strada nell'illusione ottica d'una distesa
illimitata, una striscia scura violava l'integrità illibata
della crosta superficiale del manto. Il sole era azzurro, e
anzichè scaldare soffiava un alito artico. Ombre celesti ed
affilate disegnavano sulla pianura innevata la rotta del suo viaggio,
da
oriente ad occidente. Con la maestosa lentezza e la vezzosa grazia di
un'ospite a cui piace farsi attendere, indugiava ad ogni passo, seguiva
i movimenti dei propri stivali con lo sguardo. Le gonne ondeggiavano
accondiscendendo ai
movimenti delle sue gambe. Il cappuccio di velluto turchese le celava
il volto, però non riusciva a nascondere lo sfavillio biondo
di qualche boccolo che sfuggiva e turbinava, danzando al fischio del
vento. Con sguardo
serafico, regalmente soddisfatto, la figura ispirò l'odore
del
Nord.
Finalmente, un grande palazzo grigio si profilò davanti a
lei
-Grande Inverno. La figura continuò ad avanzare, senza
esitazioni. Ancora, e ancora, fino a che non giunse alle porte delle
fortificazioni. Dei piantoni le vigilavano, ma fu sufficiente che la
figura pronunciasse poche parole affinchè, con
un'espressione
attonita, i soldati si facessero da parte.
Quando giunse alla sala del trono, aveva le cosce e le ginocchia
indolenzite, per via dei troppi grumi di neve ghiacciata che aveva
spaccato con gli stivali, però un sorriso compiaciuto era
accomodato sulle sue labbra. Proseguì, un passo per volta,
come aveva sempre fatto. Con calma. Sono in cinque, aveva
detto suo padre.
Mentre avanzava, all'improvviso, un viso minuto si sporse
dalle
file dei cortigiani per osservarla, con gli occhi sgranati. Tutti si
scostarono immediatamente per fargli spazio, e la figura
capì.
Brandon Stark, il più giovane. Inaspettatamente,
Brandon aveva le fattezze di un Tully: il sangue di
Catelyn aveva avuto delle ripercussioni fin nella generazione
successiva. Era un bel bambino, con occhi grigio-azzurri e capelli
color dei germogli di barbabietola, chiaro di pelle e molto curioso
d'indole.
-Cos'hai tanto da guardare, moccioso?- domandò.
Il piccolo assunse allora un atteggiamento cospiratorio, parlando a
bassa voce, con un misto di titubante timore e puerile eccitazione.
-Ma è vero che mangi le persone?-
Il sorriso della figura s'allargò. -Non saprei. Secondo te
è vero?- rigirò la domanda, affabilmente.
A quel punto un ragazzo di qualche anno più grande, forse
undicenne, prese il bambino per il polso e lo trattenne.
-Vieni qui, Brandon. Non essere impertinente.- ordinò, senza
riuscire a dissimulare il proprio nervosismo. Alla figura rivolse
soltanto un brevissimo sguardo, pregno d'inquietudine. Howland Stark, pensò
la figura. Lui era un piccolo Stark fatto e finito, invece, scuro di
occhi e capelli, cupo e serio e contegnoso come un lord in miniatura.
Un'espressione torva, tra l'altero, il triste ed il preoccupato,
dominava il suo volto fin dalla prima età.
La figura, finalmente, raggiunse i gradini sbreccati che conducevano al
trono. Dall'alto di esso, un ragazzo la stava fissando. I suoi capelli
erano castani, molto scuri, e avvolti in mille ricci che gli
ammorbidivano la nuca. Gli occhi erano sempre quelli di suo padre, ma
nei lineamenti, come brontolava sempre Osha, assomigliava
inequivocabilmente a Meera. Quando parlò, la sua voce fu
secca
come una frusta. Kenned
Stark.
-Benvenuta a Grande Inverno, cugina.-
-Vedo che non ci sarà bisogno di presentazioni.-
esclamò la ragazza, sollevando il mento. I due fratelli
più piccoli s'era schierati al fianco degli altri, quasi a
formare uno squadrone compatto e invincibile, per difendersi
dall'interferenza esterna. I suoi cugini erano lì per
giudicarla.
Kenned non distolse lo sguardo da lei nemmeno per un istante, come
tenendosi pronto ad anticipare il repentino movimento di un serpente.
-Mia sorella ti ha visto arrivare.- rispose semplicemente. La figura
notò che vicino al trono del Re del Nord vi era un altro
scranno, di poco più piccolo, di norma riservato alla
regina.
In quel momento, vi sedeva una fanciulla dall'espressione di spietata
durezza. Una benda insanguinata le cingeva la fronte. Quello che di
primo acchito aveva scambiato per un mantello, che la avvolgeva fino ai
piedi, in realtà erano i capelli spropositatamente
lunghi, spessi come
velluto. Lo sguardo dei suoi occhi verdi, puntato contro di lei come
una lancia, era il più ostile che la figura avesse mai
percepito
su di sè. L'ospite non invitata sorrise. Ma certo, poi c'era
lei. Levenna Stark.
Quella che morirà per prima.
-E quindi tu sei mia cugina, quella con la vista dell'oltre.- scelse
invece di dire. -Gli dèi sono stati generosi con te.-
Le persone come noi
invecchiano più in fretta, diceva Jojen. Scoprono cose che non
dovrebbero scoprire. Sapere troppo è nocivo quanto non
sapere nulla. La principessa storse un sorriso caustico. A
guardare meglio, marchiata sulla benda
sporca di sangue, c'era la forma dei suoi occhi. -Credi?-
Con le
dita, Nesmera fece
scivolare via il proprio cappuccio. La chioma aurea
lampeggiò
sotto la luce sinistra delle torce, e molti sguardi la esaminarono con
sospetto. Il suo viso pallido era estremamente attraente, e Levenna
notò con fastidio che Kenned era arrossito. Era bella,
sì. Forse persino più di Elyn Tully, considerata
la
fanciulla più graziosa dei Sette Regni. E i suoi occhi... i
suoi occhi erano cristallizzati nell'azzurro perlaceo della brina. Occhi azzurri. Gli occhi di Rickon Stark,
pensò Osha con rimpianto, riguardosamente nascosta fra le
file dei cortigiani. Aveva cresciuto tutti i figli di Bran, uno per
uno. Li aveva estratti dal grembo della loro madre e li aveva posati
sul seno di Meera. Li aveva visti compiere i primi passi e pronunciare
le prime parole. Li aveva assistiti quando piangevano e li aveva curati
quando s'ammalavano. Li aveva amati come fossero stati suoi. Vedere
adesso Kenned così cresciuto, ormai un uomo, le provocava un
moto d'orgoglio nel petto. Però... però era
sempre rimasta quella nostalgia, al pensiero del ragazzino con cui
aveva condiviso tanti anni di pellegrinaggi e peripezie. Si era sempre
chiesta cosa il futuro avesse riservato a Rickon ed alla sua Lannister
biondina. E la risposta era l'adolescente scaltra e smilza involta in
quel mantello.
-Perchè Bran il Metamorfo non è qui, ad
accogliere la sua unica nipote?- chiese. Come se non lo sapesse! pensò
Levenna, stizzita.
-I miei genitori non sono a Grande Inverno, in questo momento.- rispose
Kenned, freddamente. -Si trovano a Torre delle Acque Grigie,
all'Incollatura, a fare visita a mio fratello Robben.-
Non c'era voluto molto, a Bran e Meera, per comprendere che Robben era
in realtà un crannogman, destinato all'Incollatura e a
nient'altro, e che restare al Nord avrebbe avuto il solo effetto di
farlo soffrire. Era un Reed in tutto e per tutto, e nessuno aveva il
coraggio di contestare questo, nemmeno Osha che vedeva i
caratteri degli Stark dappertutto. Non appena aveva compiuto sette
anni, Meera l'aveva spedito all'Incollatura veloce come un fulmine,
affinchè crescesse nella dimora dei suoi nonni materni.
Robben Stark. E siamo a cinque.
Robben Stark, e poi il trono del Nord rimarrà senza eredi.
-Perchè sei qui?-
proseguì Kenned. Levenna
si augurò che suo fratello avesse il buonsenso di mantenere
le
difese perennemente innalzate, e di non lasciarsi distrarre. Aveva
visto quella ragazza in sogno più di una volta, sapeva
quanto
potesse essere pericolosa. E l'insidia consisteva proprio nel fatto che
non lo sembrava per niente.
Nesmera sorrise. -Non ho bisogno di un motivo. Sono una Stark, e questa
è casa mia.-
-Una Snow.- precisò il principe, che evidentemente non
apprezzò la sua tracotanza. -I tuoi genitori non si sono mai
sposati.-
-Per quel che ne sai tu.- obiettò la ragazza, inarcando un
sopracciglio. -Si sono sposati, invece. Con un rito skaagosiano.-
Kenned cercò di trattenere la propria impazienza. -I riti
skaagosiani non valgono nulla, se non c'è un septon e non ci
sono dei testimoni.-
Nesmera lo ignorò. -Intendi cacciarmi, allora?-
Il ragazzo fece una pausa.
-Se quella che vai cercando è una casa, sarai benvoluta ora
e
sempre. Ma se quello che speri di ottenere è un trono, non
posso
prometterti lo stesso. Comunque sia, a Grande Inverno
riceverai il trattamento che meriti. Niente di più,
niente di meno.-
Levenna sospirò. Erano parole altisonanti, ma, appunto,
erano
parole. Kenned avrebbe saputo comportarsi di conseguenza, se fosse
stato necessario? Il problema era che mancava di polso. Era facilmente
manipolabile da chi avesse avuto cattive intenzioni e tante belle
paroline a fior di labbra... come la lì presente.
-Mio padre dice che il Trono di Spade non è di chi lo
eredita,
ma di chi lo conquista.- dichiarò Nesmera. -A mio
parere,
per il Trono del Nord vale lo stesso.-
Che sfacciataggine, pensò
Levenna con disgusto. Non
ha nemmeno la decenza di fare finta.
-È questo che sei giunta fin qui a chiedere?
Del tempo
per conquistare il trono?- La voce di Kenned era indurita di avversione.
-Mi hai forse sentita pronunciare queste parole?-
Nel momento in cui Nesmera sorrise di nuovo, con scanzonata malizia, il
principe del Nord abbassò lo sguardo. Lei ragionò
che
aveva ancora un po' di tempo, prima che Bran Stark tornasse, per
lavorarsi l'erede. Era
un piano folle, un piano avventato, il suo. Brandon Stark. Howland Stark.
Robben Stark. Levenna Stark. Kenned Stark. Però
aveva ancora nella testa quel che suo padre le aveva detto.
Chi sia di sangue Stark, può regnare sull'intero Nord. Chi
sia
di sangue Lannister, può regnare sull'intero Sud. Ma chi sia
di
sangue Stark e di sangue Lannister, può regnare su Westeros.
-Questa è Grande Inverno, cugina.- le
rammentò
Kenned, aspramente, quasi rimproverandosi della debolezza cui aveva
ceduto poco prima. -Territorio di caccia di un branco. Non la si
può invadere così facilmente.-
La fanciulla rispose con l'amabilità che sua madre le aveva
insegnato. -Non ho dubbi.-
Il metalupo ai piedi di Levenna, di piccole dimensioni, dalla
pelliccia completamente nera come la notte, aveva cominciato a
ringhiare sommessamente, i canini bianchi scoperti. La mano della
ragazza corse a carezzarle il naso umido e blandirla, ma il suo viso
non infranse la propria rigida, intransigente impassibilità.
-Sta' buona, Kendra.-
La metalupa riposò il muso in mezzo alle zampe, ancora
un'espressione di guardingo sospetto negli occhi diafani come la neve.
Quando Nymeria aveva partorito una cucciolata, di cui Kendra era
l'unica superstite, Bran -per evitare noiosi litigi fra i figli- aveva
decretato che fosse il piccolo metalupo appena nato a scegliere il
proprio protetto: non appena aveva visto Levenna, Kendra non aveva
esitato un attimo ad accoccolarsi nel suo grembo, con indolente,
spontanea e quasi noncurante naturalezza, come se quello fosse stato il
suo posto da sempre.
Nesmera l'osservò, indolente. Le piacevano, i metalupi.
Quando
era molto piccola, suo padre si divertiva a caricarla in groppa a
Cagnaccio e spedirli a fare una passeggiata, fra gli urli atterriti di
Myrcella.
-Sembra che la bestia senta la tua paura, e quindi cerchi di
proteggerti. Davvero leale da parte sua.- La velata insinuazione era
stata scoccata con molta maestria, ma Levenna aveva sempre detestato i
giochi di parole.
-Non ho
paura di te, Nesmera
Snow.- proferì con voce arida e solenne. -Si teme soltanto
ciò che non si conosce. Ti ho vista nascere e crescere e
piangere e morire: io ti conosco.-
Lei è la mia
vera avversaria, qui dentro, pensò Nesmera. Con
gli altri sarà una passeggiata, ma Levenna si
dimostrerà
un ostacolo. Per questo devo toglierla di mezzo subito.
-Chi lo sa, che il futuro non ti riservi ancora qualche segreto.-
replicò, pungente.
-D'altronde, come vi piace dire spesso, l'inverno sta arrivando.-
Le ragazze si fissarono negli occhi per diversi istanti,
sfidandosi a vicenda ad abbassare lo sguardo, ma entrambe lo
sostennero. Era evidente che a Grande Inverno non c'era abbastanza
spazio per due
principesse.
Fu Kenned a spezzare quell'incantesimo.
-Se vuoi rimanere qui, lo dovrai fare secondo le nostre regole. Noi non
mangiamo le persone, per esempio. Prova a fare una cosa simile e ti
faccio decapitare, chiaro? Non permetterò simili
depravazioni in casa nostra.-
Nesmera sbadigliò, forse per deridere gli avvertimenti del
cugino, forse per reale stanchezza.
-Penso che andrò a riposare. Il viaggio è stato
lungo e faticoso, anche se nessuno si è premurato di
chiederlo. Ragazzo, portami nelle mie stanze. Ho bisogno di dormire.-
Fece un cenno a Howland. Lui lanciò un'occhiata
interrogativa a Kenned, che annuì, così il
fratello minore fece segno a Nesmera di seguirlo. Prima di scivolare
fuori dalla sala del trono, la fanciulla rivolse un ultimo sguardo
intenso al principe ereditario.
Il tonfo delle porte che restituivano alla sala la sua quiete
strappò a Kenned uno sbuffo sollevato.
-Maledizione. È appena arrivata, e già la vorrei
fuori di qui il più in fretta possibile.-
confessò, inquieto. -Saperla nel castello, insieme ai nostri
fratelli... non mi farà dormire di notte.-
Levenna non rispose. -L'unico modo per vivere in pace è
tagliarle la gola mentre dorme, fratello.-
Ma lui non era affatto d'accordo: subito s'incupì.
-No, Levenna. Noi non siamo assassini, tantomeno di consanguinei. E
poi, vuoi davvero scatenare una guerra fratricida da nostro padre e
nostro zio? Attualmente, non abbiamo nessuna vera prova che lei
è un pericolo per noi.-
-I miei sogni non sono
nessuna prova!- sbottò Levenna, infervorandosi.
-Tu non hai idea di
quello che le visto fare. Se lo sapessi, sguaineresti la spada e la
andresti a cercare.-
Kenned tacque. Conosceva il temperamento di sua sorella, e allo stesso
tempo sapeva quanto di lei gli fosse precluso di conoscere. Abitava una
realtà molto diversa dalla loro. Tutti avevano finito per
considerarla una strana creatura, alcuni la chiamavano pazza. Altri si
limitavano a detestarla, come il suo stesso padre.
-Fra Nesmera Snow e il potere ci sono cinque eredi legittimi.-
mormorò, tentando di far suonare la propria voce autoritaria
quanto quella di Bran Stark. La voce di chi è assolutamente
sicuro di ciò che dice. Levenna aveva lo sguardo vacuo,
perso nel vuoto, e colmo di risentimento.
-Fra Nesmera Snow e il potere c'è un tappeto di velluto
rosso.-
Kenned avvertì l'angoscia serrargli lo stomaco. Si
augurò con tutto il cuore che sua sorella si sbagliasse. Ad
ogni modo, presto suo padre sarebbe tornato ed avrebbe risolto tutto
quanto. Se noi saremo
ancora vivi, per allora, gli giunse in mente. I gemelli Lannister spaccano il
Sud a metà per farsi guerra, re Gendry fa finta di niente, e
adesso lei...
cosa sta succedendo ai Sette Regni?
Levenna si alzò dal suo scranno. Le vennero in
mente le parole di una conversazione ormai lontana, quando Jojen le
aveva stretto le mani nelle proprie e le aveva parlato con la sua
tipica pacatezza. Io
appartengo ad un'altra vita... e sono morto. Invece tu sei giovane,
Levenna, così giovane. Io ti ho insegnato quello che sapevo,
e
non è molto. Il resto, lo devi imparare da te. Non hai
più bisogno di me, anche se adesso credi il contrario. Tu
hai un
ruolo da interpretare, io un passato a cui tornare. Le nostre strade si
separano.
Il panico l'aveva sopraffatta: lui non poteva abbandonarla
così. Jojen era l'unica persona che la capiva. Se se ne
fosse andato per sempre, l'avrebbe lasciata completamente sola, in
balia di un mondo che detestava. Levenna aveva negato, gridato e
supplicato. Levenna si era
aggrappata al suo mantello e si era gettata in ginocchio. Levenna aveva
pianto stretta a lui per l'ultima volta. Jojen le aveva detto questo,
in sogno, più di sette mesi prima. Da allora, non l'aveva
più visto.
-Che cosa dovrei fare, secondo te?-
Levenna avanzò fino alla porta. Posò una mano
sulla maniglia. Kendra procedeva al suo fianco, e
lei percepiva la pelliccia strusciare contro i polpacci.
Si voltò a guardare il fratello.
-Quando il caso ti coinvolge nel gioco del trono, Kenned... l'unica
cosa che si può fare è iniziare a giocare.-
Sorrise. Kenned non lo fece. Forse l'inverno stava tornando.
Fine.
Note
dell'Autrice: Ebbene sì. Fine. u.u
E qui scatta il cambio generazionale XD Non credo che ve
l'aspettaste, ma spero che sia risultato di vostro gradimento. Visto
che ho praticamente nella testa ogni singolo figlio di ogni singola
casata, mi sarebbe tanto piaciuto dilungarmi, ma sarebbe stato inutile
e noioso. E comunque, no, non scriverò nessuna
continuazione. Lascio alla vostra immaginazione ciò che
verrà dopo. Nesmera riuscirà ad ammazzare tutti e
cinque i cugini, oppure Levenna riuscirà a mandare in fumo i
suoi piani? XD Se amassi trollare quanto Martin, vi direi che muoiono
entrambe trafiggendosi a vicenda con due spade. XD Ma non lo sono,
fortunatamente.
Grazie per aver letto questa fanfiction fin qui. ^-^ Grazie soprattutto
a quelli che hanno messo questa storia fra le
seguite/ricordate/preferite, e in special modo ai recensori.
È tutto! Grazie ancora e buone vacanze!
Lucy
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2225385
|