Dalle proprie ceneri.

di MadLucy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Bianco fu il lutto. ***
Capitolo 3: *** Grigio fu il richiamo. ***
Capitolo 4: *** Indaco fu il presentimento. ***
Capitolo 5: *** Amaranto fu il progetto. ***
Capitolo 6: *** Avorio fu il rifiuto. ***
Capitolo 7: *** Giallo fu il riscatto. ***
Capitolo 8: *** Rossa fu la nebbia. ***
Capitolo 9: *** Verde fu il reato. ***
Capitolo 10: *** Celeste fu il rimorso. ***
Capitolo 11: *** Livido fu il panico. ***
Capitolo 12: *** Blu fu l'inferno. ***
Capitolo 13: *** Nero fu il giuramento. ***
Capitolo 14: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo
Prologo.









La notte lo avvolgeva come un mantello. Il ragazzo la percepiva alle sue spalle, al suo fianco, dentro di sè, un'entità possente ed inesorabile che scandiva i battiti del suo cuore. Le foglie gracidavano in un mormorio sommesso sotto le zampe del suo lupo, mentre una luna scheggiata dal lucore giallastro come zolfo seguiva i loro movimenti con silente reverenza. Il vento attendeva, tratteneva il respiro in tensione fra gli sterpi. Le figure che seguivano il ragazzo, fantasmi d'una storia dimenticata, erano profili esili ai bagliori allucinati delle stelle, tanto che il giovane aveva l'impressione di stare compiendo egli solo quel viaggio -loro c'erano, c'erano sempre stati ad accompagnarlo, eppure quella notte era sua, sua e basta.
D'un tratto, il lupo s'arrestò irrigidendo le zampe e drizzando le orecchie. Il naso fremette nel cogliere una calda nota olfattiva nell'aria. 
L'uomo che stavano cercando fu annunciato dal rumore ritmato degli zoccoli del cavallo. Era lui, con un drappello di pochi uomini; era lui, e il sangue del ragazzo si accese come un sole nero.
Li aveva visti, parati nel bel mezzo della piccola strada impervia che lui stava percorrendo per rincasare; il suo cavallo nero rallentò, fino a fermarsi a diversi metri da loro.
Probabilmente, l'uomo si stava chiedendo perchè quei girovaghi non si facessero da parte. 
-Roose Bolton.- La voce del ragazzo fendette lo spazio che li divideva, atona e sferzante come un lampo. Bolton aggrottò le sopracciglia diafane, contrariato.
-Che diamine sta succedendo? Chi siete voi?-
Il suo tono era basso e roco, senza nemmeno un'impronta d'incertezza. In un'altra epoca, in un'altra circostanza, il ragazzo sarebbe stato intimidito dal peso dell'autorità che lo invigoriva.
Un'autorità illegittima -un'autorità depredata con l'inganno. Gli occhi del ragazzo erano adombrati da una calma arida, di pietà prosciugata al midollo, di ferita spalancata fino all'osso.
-Sono venuto per saldare un debito in sospeso.- Quelle parole, soffiate dal vento, sciuparono la fronte distesa di Roose Bolton. Egli muoveva lo sguardo dalle tre figure intorno a quella dell'interlocutore, e poi s'immobilizzò nel riconoscere un lupo. Quel ragazzo stava cavalcando un lupo. Un lupo.
-Come sarebbe a dire?-
A quel punto la voce di Jojen, sottile ma vibrante, spezzò l'equilibrio instabile della situazione come il morso d'un serpente. -Fallo, Brandon. Ora.-
Bran Stark capì che tutto quel tempo, tutto quell'addestramento, tutto quel cammino e quella stanchezza e quel freddo conficcato nella carne erano stati per tendersi a quell'unico, imprescindibile, assoluto istante. Le sue pupille vennero inghiottite da uno spasmo feroce e il biancore della cornea s'affacciò come il presagio d'una maledizione.
Prima che i suoi soldati, o lui stesso, potessero accorgersi vagamente di quel che stava succedendo, Roose Bolton si afferrò la testa con entrambe le mani; un grugnito faticoso gli raschiò la gola.
L'uomo, il capo assalito da una potenza estranea e sconosciuta, fu sbilanciato da contorsioni simili a quelle d'un ragno invischiato nella propria tela; cadde a terra, dibattendosi, mentre un urlo inarticolato gli squarciava la bocca, scoppiando nella gola in un boato lancinante. Le pallide dita a stringergli le tempie si lordarono di sangue fresco, di colore talmente vivace da stridere nella cortina della notte. Lunghi rivoli voraci stillavano dall'orlo delle palpebre contratte, dalle labbra lacere, a disegnare un fato volubile nella terra polverosa. L'assedio terminò con un estremo gorgoglìo di voce insanguinata -e il cuore si spense, stremato, quasi che nella gabbia del torace vi fosse morto prigioniero.
Bran aprì gli occhi d'improvviso, con un ansito brusco, ma non c'era allarme nelle pupille salde. Aveva percepito il corpo smettere di combattere, arrendersi sotto pressione come avrebbe potuto fare uno di quei rami lì attorno. Sotto il pesante mantello, Jojen sorrise- in fondo sapeva che ce l'avrebbe fatta. Meera non proferì parola, incapace di distogliere lo sguardo dal dolce fluire di quei rigagnoli rossi, e stringeva duramente le labbra come se volesse imporsi l'evidenza.
Bran seguì con sguardo imperscrutabile i movimenti dei soldati che, inorriditi e confusi, si inchinarono davanti a lui senza nemmeno osar sfoderare la spada. Cosa poteva mai importare, ormai? Cosa poteva mai valere la vita spanta d'un lord cadavere? Cosa poteva mai importare, quando, a regnare su quel lungo inverno, era giunto uno Stark?
Bentornato a casa, sussurrò il vento ghermendogli i capelli castani ed avvolgendogli le orecchie in un carezzevole stordimento. Bentornato a casa, Bran.
 



































Note dell'Autrice: Ebbene sì, sto facendo esattamente quel che mi ero ripromessa di non fare più: cedere alla tentazione di cimentarmi in un'altra long. Però, però, a volte l'ispirazione è così, un po' bastarda. XD E quindi, che long sia.
Questo è solo il prologo e tendo sempre a scrivere prologhi brevi; ovviamente preparatevi a capitoli chilometrici! In quanto a me, non vedo l'ora d'introdurre Rickon nella storia.
Grazie moltissime per avere letto! Mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensate dell'idea. Posterò al più presto il primo capitolo!
Lucy

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Capitolo 2
*** Bianco fu il lutto. ***


1
I. Bianco fu il lutto.






-Fatelo entrare.-
Bran contrasse le dita attorno al bracciolo del trono, meditabondo -era finito il tempo delle domande, per lui, piuttosto le aveva spente tutte in risposte. Al suo fianco, Meera batteva nervosamente un piede per terra e quello era l'unico rumore ad affondare nel silenzio pastoso di disagio. Sua moglie aveva già la mano destra puntata al fianco, pronta a sfoderare subitaneamente il pugnale appeso alla cintura -perchè temeva un inganno, come al solito. Quella era la Meera del loro primo anno di matrimonio, la Meera che scattava per difenderlo non appena presentiva una minaccia, la Meera allegra che sapeva ridere della nuova vita, a soffocare la sua anima come una tenaglia d'acciaio -la Meera sfiorita con l'avanzare dell'inverno ed il ritorno del freddo, perduta per strada ad un punto che Bran non sapeva nemmeno quale fosse, forse consumata un po' alla volta dalle pareti di pietra e dal tepore delle candele. 
Poi due persone comparvero alla soglia. Lei era una donna dai ricci capelli scuri che si confondevano con il mantello lanoso, dallo sguardo obliquo e pungente. Lui era il bambino di otto anni che Bran aveva affidato alla sorte appellandosi alla sua clemenza -solo con i capelli più lunghi, gli occhi più bui e le mani più rosse. Nuove cicatrici sulla sua pelle parlavano, cumuli di pellicce pesavano sulla schiena. Gli occhi tagliavano la realtà come coltelli.
-Rickon.- Non fu un saluto, ma piuttosto una mera constatazione. A Grande Inverno, Rickon. Dopo troppi anni, Rickon.
-Ciao, Bran.- La voce di uno sconosciuto, con appena un'intuizione familiare. Quel ragazzino non era soltanto l'incarnazione d'un fantasma.
-Maestà.- Osha osservò con nostalgica amarezza il suo protetto: Bran non era più un piccolo lord, ormai. La donna volse lo sguardo un po' più a destra. -Meera. Ne hai fatta di strada, dall'ultima volta che ti ho visto.-
La regina del Nord sorrise ironica, un barlume scuro e compiaciuto negli occhi; il re soppesò quell'immagine cara d'infanzia con gli occhi irremovibili.
-Vi ho fatto chiamare appena ho potuto.-
Rickon alzò le spalle sotto il mantello logoro, in un gesto scostante. -Se avessi voluto restare dov'ero, l'avrei fatto. Non sono venuto perchè mi hai chiamato tu.-
Lo sguardo impossibile di Jojen seguì l'avanzare del giovane Stark fino ai piedi del trono, quasi un severo avvertimento, un giudizio nero ossidato nelle pupille -un giudizio che veniva da lontano, dal giorno dopo o da due anni più tardi, forse.
Bran strinse la bocca in una smorfia. -Sei venuto qui perchè vuoi giustizia. Come me. Abbiamo ancora qualcosa in comune, dopotutto.-
-Non si chiama giustizia. Si chiama vendetta. È la stessa cosa, soltanto più sincera. Soltanto più cattiva.- Il fratello minore sollevò il mento, fino a sfidare con lo sguardo pallido come ghiaccio primaverile quello bruno di Bran. Il re serrò gli occhi in due schegge che luccicarono d'ossidiana.
-Giustizia. Niente di più, niente di meno di quel che ci spetta. Voglio concedere la pace eterna alle anime degli Stark, non scrivere il mio destino con il loro sangue. Spero che la lontananza non ti abbia fatto scordare che appartieni al tuo nome. Che appartieni al Nord.-
-Io non appartengo a nulla e nessuno, fuorchè a me stesso.- sbottò Rickon, stizzito, sputando per terra con malgarbo. Jojen continuava a valutarlo con lo sguardo, esplicito, silente, irreparabile. -Ti conviene impararlo in fretta, se non vuoi combattere questa guerra da solo.- 
Il fratello scosse il capo. -Certe cose che ci riguardano sono vere da prima della nostra nascita. Molte cose saranno per sempre.-
Le labbra screpolate di Rickon disegnarono un sorriso vagamente sfrontato. -Molte cose sono
cambiate, Bran.-
Esattamente come temevo, pensò Bran gonfiando il petto in un profondo sospiro.
***
Otto mesi dopo.

Myrcella tossì. La cenere, ingombrante e caliginosa come nebbia, impregnava l'aria -una lorda, viscida tossina a insinuare dita venefiche nella gola, e più giù, nel plesso solare, e ancora giù, nelle viscere. Ella avvertiva al ciglio della spina dorsale la morbosa tentazione di voltarsi a guardare, ma un presagio alienante come una malattia le anestetizzava ogni senso. Le gambe non sarebbero state capaci di fare altro che piazzare un passo dopo l'altro, in quel momento; il suo collo rigido come corteccia non ricordava più la sua funzione e il capo premeva contro il petto, imperterrito, inerme. Alle sue spalle, se stava bene a sentire, ella coglieva gli ultimi sghignazzi mormorati dalle fiamme che, fino a poco prima, si attorcigliavano forti e selvagge nel cielo e correvano come creste di comete, seguendo imprevedibili traiettorie, trasformando una realtà nitida e palpabile in poltiglia nera. Poltiglia nera.
Non può essere successo sul serio. Myrcella era inorridita, ma i suoi occhi non sapevano chiudersi, soltanto raspare il terreno con calma fissa e devastante; aveva l'infallibile certezza che le sue labbra serrate non si sarebbero mai più separate l'una dall'altra: di certo non si sarebbero schiuse in una supplica. La sua vita oscillante sembrava non appartenerle più; di certo in quel momento le interessava meno di quanto avrebbe dovuto, tanto era in bilico nel precipizio, tali erano gli accadimenti. Myrcella avvertiva persino sul palato quel sapore di bruciato, acre al punto da indurla a desiderare di sputarlo per terra. Il debole lume d'un grido diffondeva una sleale nostalgia in quel corpo chiuso nel suo ribrezzo. Un triste, perforante sconcerto si faceva strada nella sua mente scoccando fendenti, e quell'apatico squarcio di stordimento che inghiottiva ogni reazione se ne impadroniva, lasciando una indefinita, intraducibile rassegnazione. Fintanto che una corda le mordeva i polsi e la trascinava, ordinandole da che parte andare, Myrcella avrebbe proseguito a camminare, aggrappandosi ad essa come può fare soltanto chi sospetta che il resto del mondo si sia completamente dimenticato della sua esistenza. Chissà chi è morto, pensò, magari tutta la mia famiglia è stata sterminata. Fu una constatazione come un'altra, che la sfiorò come avrebbe potuto fare un soffio di brezza. L'unica reazione che causava era un lieve aggrottamento delle sopracciglia, quasi che fosse un nodo in cui ella era incappata pettinando la propria chioma bionda. Myrcella comprese, avvilita, che ancora non ci credeva; temette il giorno in cui la mole di quella rivelazione si sarebbe scaricata completamente sulle sue spalle. C'era un impedimento roccioso, nella sua gola, ch'ella non riusciva a sciogliere nemmeno deglutendo.
Myrcella si sentiva sporca ed annerita come un tizzone arso e non aveva la forza di guardare in che condizioni fosse l'abito che aveva addosso, nè di verificare quanto del suo corpo ancora celasse, ma scoprì che, nonostante il suo innato pudore, non le importava granchè. Guardarsi intorno sarebbe stato il principio d'un approccio diretto, d'una reazione, e Myrcella non voleva affatto reagire, perchè reagire significava accorgersi e colmarsi della verità fino a farla propria. Myrcella, quello strano scompiglio di carneficine e urla di soldati, non lo voleva. La violenza, finora conosciuta da lei soltanto di nome, quella storpia incomoda di cui la sua famiglia le aveva premurosamente risparmiato addirittura la vista, aveva fatto capolino nella sua vita in modo imperdonabile, con l'egocentrico proposito di spazzare via tutto quello che vi si trovava e rimanere l'unica, stonata protagonista. Di certo, se anche lei fosse morta, sarebbe stato un sollievo abbandonare quella confusione ingovernabile; le sarebbe stato risparmiato l'onere di difendere la propria vita e comprendere la calamità che aveva mozzato le gambe al suo futuro. Semplicemente svanire, perdere conoscenza, galleggiare via, senza nemmeno un solo pensiero da trattenere fra le tempie...
Un rude strattone fece notare a Myrcella di aver inconsapevolmente accorciato il passo; ella, quasi mortificata, si affrettò a compiacere il volere della persona che le stava di fronte. Non s'azzardava nemmeno ad alzare lo sguardo, conscia che così avrebbe incontrato la sua schiena; gli occhi avevano dimenticato l'arte della vista, e comunque la fanciulla aveva perso fiducia in loro.
Non si ricordava di lui, ovvio. Erano passati così tanti anni da quella visita a Grande Inverno di cui tutti avevano avuto modo di pentirsi; Myrcella sapeva che v'era anche uno Stark più piccolo degli altri, scomparso insieme a quel Bran attualmente sul trono, però come avrebbe mai potuto interessarle? Quando egli aveva fatto irruzione al torneo, era ormai troppo tardi per organizzare qualsiasi piano di fuga. Con un così breve preavviso, i partecipanti avevano potuto soltanto udire il numero dei soldati del Nord che stava per abbattersi su di loro come una tempesta, e poi morire. Myrcella non aveva capito nulla, dall'inizio alla fine; sapeva solo che d'un tratto uno squillo di tromba aveva interrotto la musica e il duello dei cavalieri, che il disordine imperava sulla massa, che le altre lady sedute accanto a lei sugli spalti bisbigliavano concitate che sì, erano gli Stark, erano gli Stark, erano venuti a vendicarsi, e la tensione aveva trasformato il vento in un cavo d'acciaio. Poi sua madre l'aveva afferrata per un braccio e l'aveva condotta in cima ad una torre di vedetta, ordinandole di chiudere il portone con il chiavistello e non aprire a nessuno, proprio a nessuno. Le aveva detto che l'amava ed il suo bacio era stato un roseo schiocco radioso di madreperla. Poi Myrcella non l'aveva più vista. Nel frattempo aveva avuto modo di pensare: era da un pezzo che suo nonno si aggirava inquieto per la Fortezza Rossa, dicendo che bisognava prendere provvedimenti contro Bran Stark lo Spezzato, perchè, visto che non s'era ancora fatto sentire, probabilmente stava architettando qualche sotterfugio. E come sempre aveva avuto ragione, ma troppo tardi ne avevano avuto la prova. Però, si chiedeva Myrcella, dato che Bran non può neanche camminare, chi sta dirigendo questo esercito? Aveva atteso trepidante che sua madre venisse ad aprirle, dicendo ch'era tutto finito, che il Nord era stato rimesso al suo posto; dalla finestra di vedetta lo spettacolo che le si era parato di fronte era molto diverso. I soldati del torneo, pochi, colti alla sprovvista, stavano subendo una degradante sconfitta, questo era chiaro persino ad un'inesperta come lei. Poi erano scoppiati gli incendi, gli strilli delle donne si erano levati al sole come suppliche, il sangue arrugginiva l'erba di nero, e ad un certo punto Myrcella non aveva più osato guardare, temendo che qualcuno potesse adocchiarla lassù -oppure di rendersi conto che l'ennesima vittima del massacro era Tommen. Il cuore scandiva concitato una canzone sconosciuta, e la fanciulla aveva cominciato a preoccuparsi davvero per la sua incolumità. Ma sua madre sarebbe tornata. Sua madre non l'avrebbe mai lasciata lì, abbandonata a se stessa, senza cibo nè acqua. Giusto? Il suo più grande timore era stato quello di morire dimenticata là; nemmeno immaginava cosa veramente l'aspettasse, e Myrcella malediva amaramente la propria ingenuità. Se fosse stata una ragazzina ardimentosa ed autosufficiente come Arya Stark, forse la sua sorte sarebbe stata diversa; invece non era Arya, era Myrcella Baratheon la principessa reale, ed era rimasta lì ad aspettare la mamma, come ogni fanciulla obbediente che si rispetti.
Non c'era stato bisogno d'aprire. Il ragazzo era entrato da solo, sfondando quel pesante portone in cedro con la sua sola forza. Il suo aspetto stesso aveva avuto un impatto violento contro le iridi verdi e perlate di Myrcella: di corporatura era allampanato ed asciutto come una lama, con gambe lunghe e mani forti, dal palmo largo e le nocche spellate; una massa arruffata di capelli rossastri frustrava le spalle e azzannava le scapole ad ogni suo movimento, e lunghe ciocche aguzze scendevano sul volto dai lineamenti duri, quasi a nasconderlo; il bagliore degli occhi risaltava in maniera impressionante, vincendo e scostando i ciuffi, e Myrcella rimase sinceramente colpita -ammaliata ed intimorita insieme- da quel colore azzurro, tenace come il cielo lacerato dai fulmini e cancellato dai lampi e slavato dalla pioggia, ma che di quel supplizio ha fatto la sua potenza. Un lupo di mostruose dimensioni, dal folto ed ispido pelo nero, così alto da arrivargli all'anca, lo affiancava sondando l'aria con il naso umido. Myrcella era in ginocchio, in preghiera, ma quando lo aveva udito salire le scale aveva chiuso gli occhi e si era abbandonata alla pietra del pavimento; aveva compreso che non si trattava di sua madre dal suono di quei passi estranei, pesanti, addirittura furibondi tant'erano roboanti. Aveva aspettato, fissando dal basso il cielo sporco di nero fuori dalla finestra, aveva aspettato la morte convinta che, quand'essa sarebbe calata sul suo collo, non se ne sarebbe nemmeno accorta. Il frastuono del portone abbattuto l'aveva fatta voltare di scatto, ed egli l'aveva squadrata, alto, furioso, implacabile.
A quel punto Myrcella aveva realizzato di non poter sostenere quella pausa dolorosa: aveva esposto il petto candido in modo che la spada del ragazzo potesse infrangerlo e si era limitata ad intensificare il contatto con quegli occhi ombrosi, quasi sfidandolo a mettere alla prova il suo contegno. Se doveva morire, sarebbe morta da principessa di sangue reale.
Le labbra di lui si erano contorte in un ghigno insinuante, anche se nel suo sguardo v'era l'astio, corposo, denso, palpitante; aveva liberato uno sbeffeggio che sibilò alle orecchie di Myrcella come una frusta.
-Andiamo, ragazzina, pensi davvero che morire ti sarà così facile? Alzati.-
Quasi intorpidita dallo sconcerto, tentando di mantenere una fermezza altezzosa in volto, ella aveva obbedito un po' esitante. C'era una domanda confusa nelle sue iridi.
Egli l'aveva afferrata per il polso e l'aveva trascinata via, con la stessa irruenza con cui avrebbe sradicato un arbusto dal terreno. Myrcella aveva trattenuto un gemito fra le labbra; il suo giovane rapitore aveva le mani incrostate di sangue asciutto e rappreso. La concentrazione per non scivolare sugli stretti gradini acuminati era stata parecchia, contando che il ragazzo balzava giù terribilmente in fretta. Poi, mentre ella veniva accecata dalla luce impietosa dell'uggiosa giornata e strattonata nel campo di battaglia, i soldati lì appresso bofonchiavano quello, quello è uno Stark, è uno Stark. Le era risultato difficile sovrapporre l'immagine del marmocchio senza volto visto a Grande Inverno a quella del guerriero che aveva davanti. Anche lui era sopravvissuto, dunque: in quel momento, Myrcella non riusciva a rallegrarsene.
Un uomo sulla quarantina, con un'armatura che riportava lo stemma d'una casata del Nord, l'aveva osservata inquietato per qualche istante e poi aveva domandato, con il tono di chi teme di conoscere la risposta: -Che ne farai?-
Il ragazzo aveva rivolto a lui quel suo sguardo vorace, impetuoso, crudo. La sua voce non aveva ancora un timbro maturo, ma sferragliava le parole dalle labbra come se desiderasse storpiarle una ad una.
-Tutto quello che vorrò, ser. E perchè no? Questa qui non è nemmeno una vera nobildonna: nient'altro che un piccolo abominio biondo. Ma un abominio davvero grazioso, vero? Già, proprio così, non si può negarlo.-
L'aveva sfacciatamente esaminata, con derisorio disprezzo, e la fanciulla stavolta aveva abbassato gli occhi, mentre l'oltraggio le arrossava le gote -perchè sapeva ch'era quanto lui si aspettava.
E poi era cominciata la marcia. Myrcella, dopo aver rivissuto i ricordi della giornata per l'ennesima volta, focalizzò nuovamente l'attenzione sulle pietre che i suoi occhi afferravano e poi lasciavano scivolare via. Un drappello compatto e scuro avanzava a passo unanime, torvo e silenzioso, pregno della morte che avevano donato e della stanchezza che avevano raccolto, ma confortato della vittoria. Durante il cammino, mentre i dubbi di Myrcella svolazzavano impotenti attorno a quella cupa figura davanti a lei, il silenzio mormorava una nenia bianca. Il lutto ebbe a disposizione tutto il tempo che credeva per dilatarsi nel petto di Myrcella, senza nome nè oggetto, senza rancore nè consistenza -non ancora. Ella sapeva che da quel giorno nella sua vita sarebbe mancato qualcosa, ma in pratica non aveva perso nulla.
La carovana dovette percorrere a ritroso la strada che aveva compiuto per giungere fino a Runestone: si trattava di un percorso assai insidioso fra le montagne della luna, durante il quale ogni attimo di distrazione poteva essere fatale, disseminato di rocce, tronchi crollati, strapiombi e passaggi talmente stretti da costringere gli uomini a procedere in fila indiana. Non era un'impresa da poco, contando il fatto che vi erano molte ore di strada e che i comandanti dei diversi contingenti urlavano in continuazione di accelerare il passo, per non trovarsi in ritardo rispetto alla tabella di marcia, elaborata secondo l'esigenza di non correre rischi quali l'essere raggiunti da truppe nemiche o finire le provviste -il che avrebbe significato doversi rifornire presso un villaggio, cosa che l'esercito assolutamente preferiva evitare. La scelta di quella strada improvvisata era stata obbligata: percorrendo una via già tracciata, o -ancora peggio- passando per la valle di Arryn, sicuramente il loro arrivo sarebbe stato preannunciato al torneo e l'effetto sorpresa sarebbe andato in malora; c'era anche da dire che tagliare per le montagne rendeva il viaggio più breve, seppur molto più complesso e dispendioso d'energie e rifornimenti. Ovvio, v'era il pericolo dei clan delle montagne, ma era raro che si azzardassero ad assalire un esercito così numeroso, con le armi rudimentali ch'avevano. Myrcella aveva fatto del suo meglio, però quelle macchie di boscaglia erano piuttosto diverse dai saloni della Fortezza Rossa, così come la pietra brulla non assomigliava proprio ai pavimenti di granito: più volte aveva temuto di scivolare e precipitare giù dai pendii scoscesi dei passaggi di montagna, di inciampare in qualche intreccio di radici nodose e rompersi una caviglia, visto che nemmeno le sue scarpine di tela -logore e consumate dalle troppe ore di cammino- erano granchè adatte per arrampicarsi e guadare i fiumiciattoli. Ogniqualvolta ella barcollasse o perdesse l'equilibrio, bastava uno strattone della fune che la legava per rimetterla in piedi; così come i cavalli si lasciavano guidare per le redini dai proprietari, così Myrcella faceva con la corda. Per il resto, la fanciulla era molto prudente ed osservava dove il giovane Stark mettesse i piedi, per poi imitarlo. La cosa a cui Myrcella invece era abituata era sottomettersi ad un rispettoso, docile silenzio: e infatti tacque, senza proferir parola per otto ore e più.
Si accamparono a tarda notte, per mangiare, scaldarsi e recuperare le forze piuttosto che per dormire: pochi ci sarebbero riusciti, con i numerosi pericoli in agguato nel bosco -ad ogni modo, v'erano molte sentinelle. Furono organizzati dei bivacchi e s'accesero dei fuochi; appena Myrcella si sedette sulla ruvida erba intrisa di fango, le parve di non aver mai avvertito sotto di sè un giaciglio così comodo. Le scarpe di tela erano pregne di sangue: tutte le vesciche erano scoppiate, in una profusione di sofferenza talmente sorda che Myrcella la udì a malapena, troppo provata dalla stanchezza e dalle emozioni della giornata. Le dita e gli avambracci erano segnati da graffi che provocavano un pallido ma aspro bruciore, dal profilo spezzato, sottile e rossastro, procurati nell'afferrarsi ai rovi ed alle cortecce degli alberi per non cadere. Ella lanciò un'occhiata al proprio vestito verde, dalle maniche sbrindellate fino al gomito, dai nastri del corpetto aggrovigliati. Pensando a quanto era stata gongolante all'idea d'indossarlo al torneo, provò un senso di malinconia vivido e pulsante come il fuoco.
Il ragazzo Stark, dopo aver evocato le fiamme da una piccola catasta di ramoscelli, s'era seduto presso il focolare e aveva assicurato la corda di Myrcella al proprio polso, dimodochè se si fosse addormentato avrebbe potuto immediatamente svegliarsi, qualora la prigioniera avesse tentato la fuga oppure qualcun altro fosse intervenuto per liberarla. I suoi occhi fissi e concentrati su qualche inesorabile pensiero, tinti di quell'azzurro terso e bellicoso, riflettevano le ombre delle fiamme come un'intuizione d'ambra. Ad un certo punto, quando un alfiere giunse a dargli della carne da arrostire, egli l'accettò senza nemmeno guardare l'uomo in faccia e cominciò direttamente a morsicare via brandelli con famelica voracità e leccarsi il mento imbrattato di rosso, con la distratta spontaneità dettata dall'abitudine. Myrcella fece il possibile per trattenere il disgusto. Carne cruda! Sanguinolenta, fibrosa e scricchiolante di nervi! Era qualcosa d'improponibile. L'alfiere aveva portato per Myrcella dei tozzi di pane, una ciotola d'acqua e qualche piccolo frutto che nell'offuscamento della semincoscienza la ragazza non riconobbe; comunque mangiò, pur faticando ad ingoiare a causa della siccità della gola.
Del colossale pezzo di carne che gli era stato dato, Stark lasciò un pezzo al suo metalupo, che vegliava stringendoglisi al fianco. L'animale, improvvisamente, alzò il muso al cielo pesto ed emise un breve, lugubre ululato, che colmò la radura per qualche istante. Il giovane sorrise fra sè, quasi che avesse compreso quanto il lupo aveva detto e lo trovasse spiritoso.
Myrcella, che assisteva alla scena schermando discretamente la propria presenza, raggiunse una reminiscenza che si era protesa a ghermire per tutto quel lasso di tempo.
-Rickon! Ti chiami... Rickon?- esclamò stupita, accorgendosi appena di aver parlato ad alta voce. Era troppo stordita dalla rivelazione sbocciata nella sua mente per temere la reazione del ragazzo. Egli volse gli occhi nella sua direzione solo dopo pochi secondi, quasi gli sembrasse improbabile che a parlare fosse stata proprio la sua silente prigioniera; effettivamente, anche Myrcella udì quella voce acuta, arrochita dalla desuetudine, sgorgare dalle proprie labbra come se fosse stata la prima volta.
Egli la guardò per bene negli occhi, con aspro livore. Infine proferì, con un tono secco dal quale però riaffiorava sempre un presentimento d'incandescente, attivo rancore:
-Non ti ho dato la licenza di parlare.-
Io sono la principessa Myrcella Baratheon e non ho bisogno della licenza di nessuno per parlare, pensò ella offesa, ma ingoiò la protesta e quietò lo stolto moto di ribellione.
Rickon -Myrcella era quasi certa che il nome fosse quello- non le dedicò nemmeno uno sguardo di più e ritornò al fuoco, quasi che agisse su di lui con un magnetico potere. Quelle fiamme mansuete ricordarono alla prigioniera gli incendi appiccati alle tende dei partecipanti del torneo. Nato per distruggere. Cosa le aveva detto, suo zio Tyrion, diverso tempo prima? Diffida di ciò che è nato per distruggere. In un primo momento, quelle parole le erano parse soltanto una formula altisonante proveniente da qualche vecchio libro; adesso acquisirono alle sue orecchie un altro sinistro significato. Myrcella dimostrò di aver imparato la lezione e non osò aprire bocca, anche perchè non sapeva cosa avrebbe potuto dirgli, sebbene fosse istigata dal vigoroso capriccio di parlargli ed ascoltarlo parlare ancora. Più tardi giunse un altro alfiere, per riferire alcune notizie riguardo la marcia e i rifornimenti; Rickon non diede nemmeno segno di averlo udito. Quando ebbe assolto il suo compito, l'uomo allungò un'occhiata interrogativa verso Myrcella e domandò:
-Questa è la sorella di re Tommen? La figlia dei Lannister?-
Rickon si limitò ad inarcare le sopracciglia, inespressivo.
-E... non hai intenzione di ucciderla?- insistette quello. Quando Myrcella credeva che il ragazzo avrebbe sbottato d'essere lasciato in santa pace, Stark mosse gli occhi a guardarla dritta nelle pupille. Anche nel rispondere all'uomo proseguì a fissarla, quasi che quelle parole fossero in realtà rivolte a Myrcella.
-Ho ucciso suo nonno, sua madre e suo padre. Non m'interessa bere il suo sangue, ma le sue lacrime.-
La scoperta scatenò un panico diffuso nella prigioniera, che riflettè con innaturale razionalità. Suo nonno. Sua madre. Suo padre- ovvero lo zio Jaime, visto che tutti credevano ancora a quell'infame calunnia.
Suo nonno, sua madre, suo zio.
A Myrcella non veniva da piangere -era quasi difficile ammetterlo con se stessa- e comunque non l'avrebbe mai fatto davanti a lui. Sarebbe stato un comportamento umiliante ed indecoroso. Lo sguardo ferino del ragazzo la faceva sentire così stupida. Non piangerò mai davanti a te, Stark, sappilo, pensò impegnando tutta l'eloquenza del suo sguardo. Rickon sorrise ancora, piano, schernendo quel patetico tentativo d'audacia, atrocemente divertito. Poi l'alfiere se ne andò, evidentemente perplesso, e quell'immensa giornata terminò.
Per quanto riguardava Rickon, non riuscì subito ad assopirsi: il fuoco danzava ancora davanti ai suoi occhi e l'empio sangue delle vittime formicolava sulle sue mani, mentre le immagini della vittoria si susseguivano eccitanti nella sua mente; il sonno lo sorprese a tradimento, approfittando del primo istante di distrazione, subdolo e lesto come uno svenimento. A Myrcella invece pareva inconcepibile la sola idea di riuscire ad addormentarsi sulla nuda terra, e allo stesso tempo spaventosa quella di passare la notte insonne; così, esasperata dal rimuginare sul destino proprio e della sua famiglia, da quella giornata incoerente, precipitò con gli occhi fra le impervie gole della montagna e infilò lo sguardo in ogni fessura della roccia, come se cercasse il buio per imprimerselo nella mente e non ricordare mai più.
Il suo rapitore era addormentato, ma Myrcella non avrebbe mai neppure cercato di scappare: l'incognita di ciò che l'aspettava nel bosco, di tutte le ore di corsa a tentoni nel buio della notte, della fame e della sete e del freddo che in mezzo alla vegetazione sarebbe stato assai più cruento, e peggio ancora della disperante solitudine, era sufficiente ad atterrirla. Dove andare? Indietro? E dov'era indietro? A casa? Ma dov'era casa, esattamente? E qual era? Nel caso in cui fosse capitato qualcosa a Tommen, la Fortezza Rossa non sarebbe stata più casa. Per quanto riguardava Castel Granito, la fortezza in cui sua madre e lo zio Jaime erano cresciuti, Myrcella a malapena ricordava come fosse fatta. Ella sarebbe impazzita, senza una strada da seguire, senza una guardia a scortarla, disarmata ed inutile sotto ogni aspetto. Andare da chi?, osò poi chiedersi, trattenendosi poi dal realizzare ulteriormente la propria situazione, perchè non avrebbe potuto sostenere l'effettività d'essere rimasta sola. Prima era una lady, una principessa, a cui si dovevano mille rispetti, riguardi e gentilezze, omaggi e riverenze da ogni parte, ed ora? Ora quanto valeva la sua piccola, flebile vita? Quanto valevano quei riccioli dorati di cui tanto andava orgogliosa? Lo stesso sangue Lannister che un tempo era il suo vanto, la sua inestinguibile salvezza, in quel momento diveniva il motivo fondamentale della sua rovina? Era rimasto in vita qualcuno a cui importasse della sua sopravvivenza, qualcuno ancora in grado e intenzionato a sottrarla alla sciagura? Sua madre, suo zio e suo nonno, ormai, erano confinati in una gabbia dalla quale non sarebbero mai potuti fuggire, e le loro mani tese verso di lei non avrebbero mai potuto più interferire nel suo destino. La protezione che finora l'aveva accerchiata e rincuorata mancava, annullata, annichilita, neutralizzata. Ora lì, in quel bosco, era soltanto un patetico essere umano come chiunque altro -ed a questo non si sarebbe mai avvezzata.
L'idea di casa richiamò timidamente l'esotico, avvolgente profumo di Dorne, quel misto inconfondibile di sabbia arroventata dal sole mattutino e di spezie fiammanti e di frutta succosa il cui sapore esplodeva in bocca potente e freschissimo, e l'aroma degli unguenti con cui la principessa Arianne si frizionava il manto di capelli corvini, e i mille lussureggianti colori degli abiti dorniani, superbi e squillanti come le piume di un pappagallo. A quell'invasione concatenante di pensieri, in cui l'uno germogliava dall'altro, Myrcella s'intristì. Una palizzata invalicabile la separava da quel passato dolce e mite, sprecato a causa dell'alito fetido d'una malattia oscura. Ricordava ancora gli ultimi giorni di agonia di Trystane, e ricordava la maniera ossequiosa e impietosita in cui le serve le impedivano d'andare a far visita al suo promesso sposo. Non era in condizione d'essere visto da lei, le dicevano. Myrcella non aveva potuto constatarlo con i suoi occhi, però durante la notte udiva quanto rauchi e disperati fossero i colpi di tosse del moribondo, sguaiati ed esorbitanti come i latrati d'un vecchio cane. Le era scesa una lacrima, quando l'avevano seppellito, pensando a quanto fosse vivace e ardente di vita il corpo di Trystane, prima d'essere avvelenato irreparabilmente, misurando con lo sguardo la sofferenza priva di parole che deturpava il viso di quella famiglia che l'aveva accolta come una figlia. Myrcella rabbrividì nell'aria tagliente della sera, perchè la sua vita non sarebbe più potuta ritornare quello ch'era prima -una spenta e tiepida monotonia di banchetti, ricevimenti, cene in famiglia, lezioni di canto e cucito e buone maniere, sedere nei vasti giardini della Fortezza Rossa ad ammirare quanto le piante fossero verdi e i fiori fossero gialli. Non l'aveva chiesta, quella vita di palazzo, non l'aveva desiderata: ma l'aveva accettata, vi si era avvezzata, l'aveva apprezzata per il solo motivo ch'era la propria, la vita che il fato aveva assegnato a Myrcella Baratheon. Tutto questo non sarebbe stato più, senza nemmeno il permesso di dirgli addio; forse un distacco lento e consapevole sarebbe stato più doloroso, in fin dei conti. Ed ella rabbrividì perchè da quando era tornata alla Fortezza Rossa, diversi anni prima, Dorne non le era mai parsa così distante, quasi un sogno vecchio che inizi a deteriorarsi agli angoli come pergamena.
Ai suoi morti, poi, Myrcella non riusciva a pensare: era davvero una figlia ingrata, una fanciulla senza cuore per non aver ancora pianto la loro morte. Strizzò le palpebre, sperando di costringersi, senza alcun risultato; avrebbe dovuto venirle spontaneo, eppure i suoi occhi erano ancora asciutti come la cenere che aveva seppellito i cadaveri dispersi nel fango. No, ancora non ci credeva sul serio.
Il giorno dopo, l' ultimo ricordo che Myrcella recuperò risaliva a quei momenti in cui s'arrampicava con lo sguardo fino alle punte svettanti degli abeti e ai saluti fiochi delle stelle; a quanto pare doveva essersi addormentata, ad un certo punto. La luce del giorno invadeva e sbiancava la radura. Rickon era già sveglio: lo vide informarsi presso i vari alfieri sui numeri dei soldati; per il resto, egli la ignorò bellamente. Subito si rimisero in marcia. Il giovane Stark slegò il nodo della corda, e mentre già cominciava strattonarla come aveva fatto il giorno precedente un uomo lo fermò.
-La ragazza non può farcela, mio signore. Sarebbe un'impresa troppo faticosa per lei.-
Importunato dall'intervento, Rickon scoccò uno sguardo scontroso all'attendente; Myrcella non capì se fosse infastidito dal fatto che un suo inferiore avesse criticato la decisione o semplicemente che gli avesse rivolto la parola. Ad ogni modo egli scrutò la giovane da capo a piedi, con occhi accigliati, quasi che stesse valutando se romperle l'osso del collo e buttarla giù da un precipizio per non averla più fra i piedi.
-Caricala nel carro delle vivande.- ordinò, prima di concederle un'ultima occhiata indagatrice ed essere inghiottito nella moltitudine dei suoi uomini, con il suo lupo al seguito.
Nel carro delle vivande. No, Myrcella Baratheon non era mai stata trattata in questo modo da nessuno, prima d'allora.
***
Le ante della porta sbatterono fragorosamente contro il muro, spalancandosi con foga.
Dalla sua postazione su un piccolo scranno Margaery Tyrell s'alzò in piedi, una mano a bilanciare il dolce peso del ventre vistosamente ingrossato dalla gravidanza avanzata, l'altra a stringere l'orlo delle gonne fruscianti. Il volto era dolcemente turbato, la bocca schiusa in un'espressione allarmata e le sopracciglia piegate in una domanda senza parole. Sulla soglia, scompigliato e tentennante, comparve il re dei Sette Regni.
-Mio signore! Marito mio! Che siano ringraziati gli dèi...- Margaery accorse, mentre le scarpe schioccavano sul granito specchiante.
Tommen incespicò, fino a che potè abbandonarsi al conforto profumato del petto della ragazza. Quelle braccia soffici e immacolate lo avvolsero con trepida, appassionata dedizione. Egli aveva le guance paonazze dallo spavento e l'elmo stretto al fianco. I riccioli, d'un timido ed amabile color oro, rimbalzavano schiacciati sul capo e disordinati attorno al collo.
-Margaery... mia cara... non puoi neanche immaginare. Un disastro... una tragedia... è andato tutto storto.- balbettò Tommen, cercando di darsi un tono, raddrizzandosi e portando una mano a lisciare ansiosamente i capelli all'indietro. Margaery gli strinse apprensivamente il viso accalorato fra le mani.
-Marito mio, ero così in pensiero. Quando mi hanno dato la notizia, il mio cuore si è fermato. Cos'è successo? Raccontami tutto, ma prima riprendi fiato, te ne prego...-
-Non pui neanche immaginare...- ripetè Tommen, affranto. -Mia madre... Myrcella! Hanno ucciso nonno Tywin e anche mia madre... e lo zio Jaime rischia la vita... e Myrcella è sparita!- La sua voce era affannata, ma soprattutto sgomenta. Lo sconcerto, l'indignazione e il timore si affacciavano deformando a turno i suoi lineamenti. Incapace di realizzare stava lì, in piedi, con quel pezzo di ferro sottobraccio, a guardarsi intorno, quasi nella speranza di adocchiare tutti i suoi cari scomparsi e porre fine alle angosce.
-Oh, mio signore, dev'essere stato terribile. La cosa importante è che tu sei qui adesso, sano e salvo.- esclamò Margaery, partecipe, carezzandogli l'aureo capo.
-Meno male che non sei venuta anche tu, Margaery!- sbottò il ragazzo. -Altrimenti, a quest'ora...- Visibilmente sollevato, le toccò il ventre gonfio con dita tenere ed incerte, quasi alla ricerca d'una gioia alla quale aggrapparsi. -Tu e il bambino non avete corso alcun pericolo, e questa è la cosa davvero importante. Non permetterò loro di torcere un capello a mio figlio... e neanche a te, Margaery.-
La regina gli cinse le spalle e gli baciò la fronte velata di sudore. -Non tenermi ulteriormente sulle spine, ti scongiuro! Ch'è accaduto?-
Tommen pareva non credere alle sue stesse parole. -Un esercito del Nord ha fatto irruzione al torneo con un numero esorbitante di soldati. Ci hanno sbaragliato... eravamo impreparati a una simile catastrofe. Mia madre è morta, la sua gola... non.... non c'è stato nulla da fare.- Si morse il labbro inferiore, trattenendo le lacrime. -Anche mio nonno è morto. Ho visto la sua testa... la sua testa! Staccata da corpo, sembrava più... piccola. Assurdo. Poi abbiamo trovato lo zio Jaime con il sangue che gocciolava sull'armatura. Era per terra, esanime... Però è vivo. Almeno lui, è vivo. Il Maestro dice che non si sa se sopravviverà, ma una speranza è meglio di niente. Invece Myrcella... I miei uomini l'hanno cercata ovunque, invano. Poi dei testimoni hanno riferito d'averla vista legata, al seguito dell'esercito, catturata da... da un certo Rickon. Rickon Stark. È stato lui: mia madre, nonno Tywin, zio Jaime... Myrcella. È stata tutta colpa sua. Ma chi è, questo qua, e perchè ce l'ha con mia sorella?! Se è un vero uomo, che venga qui ad uccidere me, invece di fare del male alle donne e alle fanciulle indifese!- Il suo corpo era scosso da potenti tremiti.
Margaery evitò di riferirgli che fare del male ad un ragazzino dolce ed inetto come lui sarebbe stato più codardo che fare del male a qualsiasi fanciulla del mondo; lo abbracciò, affondandogli la testa contro la spalla. -La tua povera mamma... Tywin... l'amabile Myrcella! Che disgrazia, amore mio.-
Cersei Lannister era morta, allora; Margaery avvertì una profusione di trionfo inebriarle le vene. Finalmente quella troia guastafeste era stata eliminata, per giunta senza che lei avesse dovuto esporsi rischiando d'essere scoperta. Ti devo un favore, Rickon Stark, pensò.
Ora che le era stato concesso campo libero, Margaery poteva cominciare ad impostare il suo gioco. Ben presto, l'intera corte di Approdo del Re sarebbe stata avvinghiata da rovi di rose gialle.
-Cosa vorrà da Myrcella, quel maledetto?! Perchè l'ha rapita?! Lei non c'entra nulla. Lei è sempre stata... una brava sorella. Una fanciulla gentile.-
Tommen si lasciò sfuggire un singhiozzo soffocato, che evase dalle sue parole; era sempre stato molto legato alla sorella, sua confidente e migliore amica. Margaery aveva una mezza idea in proposito al perchè quello Stark l'avesse rapita, ma non disse nulla e si limitò a baciare il marito sulla bocca con soffice delicatezza. Tommen ricambiò stentatamente e poi, con un sospiro affaticato, cominciò la scalata fino al Trono di Spade. Vi si sedette con incertezza, ben attento a non ferirsi con le lame. Il pianto premeva ancora contro i suoi occhi verdi e trasparenti.
Non era un vero re, no. Però Margaery era una vera regina: solo questo importava davvero.
A quel punto, a varcare l'ingresso della sala del trono fu Tyrion Lannister. Sul suo volto, attraversato da parte a parte da una cicatrice, era ritratta una rabbia basita.
-Qualcuno mi spiega cosa accidenti è successo?!- Percorse la vastità della sala con tutta la velocità che le sue gambe tozze gli permisero.
Tommen chinò il capo, come un bambino che attenda d'essere rimproverato.
-Sono stati gli Stark, zio Tyrion. Hanno radunato sotto i loro vessilli tutte le più prestigiose famiglie del Nord e hanno guidato un assalto a Runestone. Le vittime sono state centinaia...-
-Questo lo so.- Tyrion serrò le braccia in un movimento di brusca risoluzione. -La parte che mi è sfuggita è quella in cui un adolescente armato di mannaia fa a pezzi la mia dolce sorella e il mio caro padre, che aveva soltanto... uh... quanti? cinquant'anni di esperienza bellica alle spalle? Un novellino, in pratica. A quanto pare, l'idiozia della pubertà e un'accetta affilata sono un connubio esplosivo. Un bel colpo e, zac! il fantasma di un bambino morto ha eliminato i due personaggi più influenti dei Sette Regni e, indovinate un po', si è pure procurato una concubina altrettanto Lannister. Che fausta giornata, eh?-
-Non... non parlare più in questo modo!- Tutto ciò era troppo per le orecchie di Tommen Baratheon. Tyrion riconsiderò le proprie parole: sì, forse subìre la morte della madre e del nonno, il rapimento della sorella, una sconfitta in battaglia e pure l'umorismo sferzante d'uno zio nano sarebbe stato troppo per chiunque.
-Ti chiedo perdono, Maestà, però bisogna considerare le cose per quel che sono. Nascondersi dietro mezze verità e vaghe allusioni non serve a niente.- Tyrion inchiodò gli occhi del nipote nei suoi. -Parliamoci chiaro. Il Nord non ha dimenticato: c'era da aspettarselo. Fin da quando abbiamo scoperto della morte di Bolton e della ricostruzione di Grande Inverno, abbiamo capito che si trattava soltanto d'una questione di tempo; se non abbiamo attaccato, è stato perchè il Nord si è completamente sottomesso alla casa Stark e non potevamo avventurarci in quei territori ostili senza rimetterci la pelle. Lo scontro era inevitabile, e lo è tutt'ora. Gli Stark ci hanno semplicemente anticipato. Esaminiamo la situazione: Cersei Lannister è stata trucidata brutalmente, e già questo basterebbe per dichiarare guerra. Visto che anche mio padre è stato ucciso, poi, siamo quasi obbligati a farlo. Per non parlare del rapimento di Myrcella... quello può essere il pretesto più convincente. Perciò datti una mossa, Tommen. Reagire immediatamente è la cosa migliore che puoi fare, non lasciarti cogliere alla sprovvista. Sono appena stato da Jaime... è ridotto in condizioni pietose. Le prossime ore saranno decisive per stabilire la sua sorte, a quanto mi hanno detto. Ad ogni modo, devi scegliere nuovi membri per la Guardia Reale: ne sono morti tre, se non erro. Cercherò un espediente per spostare il campo di battaglia in una zona più vantaggiosa per noi, anche se non sarà facile... Dovrai essere forte, Tommen.-
Lo squadrò per qualche istante, con un pizzico di scetticismo, quasi a dimostrare che non ci credeva granchè. In effetti, il ragazzo non sembrava affatto in grado di prendere una qualunque decisione, figurarsi d'essere forte. Tyrion rammentò di non avere di fronte un uomo, e di conseguenza di non poter pretendere così tanto da lui.
Intanto ragionava fra sè. Rickon Stark... aveva già sentito parlare di lui, ma soltanto di sfuggita. Si diceva che fosse stato cresciuto a Skagos, e si sapeva bene quali fossero, i commenti a proposito delle preferenze alimentari di quell'isola. A giudicare dal macello che aveva fatto, quel ragazzo aveva la tenerezza d'una scure bipenne, per cui fra le sue grinfie Myrcella sarebbe rimasta vergine tanto a lungo quanto la sua spada era rimasta pulita; c'era quasi da rassegnarsi e considerare spacciata la povera fanciulla. L'unica cosa certa era che quel Rickon era un morto che camminava. Non si poteva progettare l'omicidio di Tywin, Cersei e Jaime Lannister e sperare di sopravvivere.
A che gioco stava giocando Brandon Stark? Dopo anni di silenzio, aveva mandato contro i Lannister il suo fratellino cannibale a sollazzarsi. Che il re metamorfo avesse un piano? E gli Arryn, perchè avevano permesso il passaggio delle truppe del Nord attraverso le Montagne della Luna? Tutte domande a cui Tyrion intendeva trovare risposta.
-Adesso è guerra, immagino.-
Tommen strinse le dita; una lama baciò il suo palmo ed il sangue scivolò dalla stretta, percorrendo la lunghezza d'una spada, simile al baluginio d'un rubino.
-La guerra non è mai finita, a quanto pare.-
Era l'unica risposta di cui tutti avevano bisogno. Margaery Tyrell nascose un sorriso. Tyrion Lannister fissò a lungo suo nipote, con qualcosa di simile alla compassione negli occhi; infine annuì solennemente. A noi, dunque, Bran Stark, pensò.
E guerra fu.
***
Le piante scorticate dei suoi piedi bruciarono a contatto con il manto della neve e i suoi occhi si confusero affondando nel candore di quel mondo cattivo. Myrcella inspirò forte il vento del Nord, schietto e verace: un mondo cattivo ma onesto, nella sua limpida austerità, come i miasmi stordenti di Approdo del Re non avrebbero mai permesso alla città di essere.
Il freddo avvolse Rickon Stark in una cappa, dolcemente, quasi riconoscendolo; il ragazzo non parve farci caso.
-Muoviti.- le intimò, strappando la fune che la legava dalle mani d'un attendente. La fanciulla gli scoccò un'occhiata adirata, ma o il giovane non se ne accorse o lasciò perdere. Myrcella, durante il lungo viaggio, non aveva ancora avuto modo di scoprire cosa Rickon pretendesse da lei: la maggior parte del tempo, ella l'aveva trascorso nella penombra d'una cassa chiusa a quattro ruote, trascinata da alcuni servi, insieme ai rifornimenti di cibo. Il ragazzo si assicurava soltanto al calar della sera che lei fosse lì: talvolta, intimidita dalla sua presenza, Myrcella fingeva di dormire per non dover affrontare il suo sguardo penetrante ed insolente.
Non aveva idea, per esempio, di cosa egli potesse stare pensando in quel momento: la fronte era aggrottata, le labbra s'incurvavano talora in un piccolo e fugace ghigno per poi distendersi e ricomporsi, gli occhi tallonavano ostinatamente il filo d'un pensiero fisso. Rickon, dopo aver rivolto con lo sguardo un compunto saluto al sole apatico e fumoso del Nord, marciò a lunghi passi verso le mura di Grande Inverno. Myrcella la ricordava talmente diversa che, non appena la vide, credette che si trattasse d'un altro luogo. Il fatto era che la ricostruzione aveva intaccato gravemente la bellezza della roccaforte: vi rimaneva soltanto una rigorosa, intransigente, piatta brutalità, nella forma squadrata delle pietre che la componevano così come nel disegno sgraziato dei merli e nella statura rozza delle torri. Non vi era più quell'antica nobiltà, quel tradizionale calore, quella secolare onorevolezza che una volta erano caratteristici di Grande Inverno, soltanto un fortino, un maniero che esibiva le sue cicatrici e ringhiando sfidava gli esterni a provare ad assediarla. Guerriero, tetro, ostile. Quella resurrezione sapeva di morte, non di sangue.
Rickon si fece riconoscere dalle guardie semplicemente con una lenta occhiata minatoria. Myrcella doveva come sempre affrettare il passo per stargli dietro, e i piedi nudi -i sandali stracciati avevano ceduto da un pezzo- stridevano di dolore stillando proteste dalle ferite. Lievi impronte rosate di sangue seguivano la sua ombra.
Rickon e il suo metalupo avanzavano con sicurezza nei corridoi semibui che si aggiravano nella fortezza fino a condurre al centro, ad un portone a battenti di pietra alto almeno dieci piedi. Erano quasi giunti alla meta, quando una voce frenò la loro avanzata.
-Rickon? Sei tornato.- Una donna incedeva dall'altra parte del corridoio. Vestiva con un umile abito marrone che cadeva a pennello sul suo corpo snello e una pelliccia sulle spalle. I capelli indomati s'arruffavano lungo la schiena, in un morbido disordine.
Rickon le lanciò un'occhiata che, per la prima volta, a Myrcella parve distendersi d'una certa affabilità. -Speravi d'esserti liberata di me, Osha?-
La donna avanzò fino a trovarglisi di fronte e gli assestò una mano sulla spalla, in un gesto burbero ma chiaramente affettuoso. Infine sorrise orgogliosa.
-Sapevo che sarebbe andato tutto per il meglio. Non ho mai dubitato di te.- La giovane Lannister non riuscì assolutamente a decifrare la natura del bizzarro legame che intercorreva fra loro.
Rickon la fissò con impetuosa, quasi corrucciata intensità. -Come potresti fare diversamente? Dopo tutti questi anni...-
Qualche istante di comunicazione silenziosa scorse nel contatto dei loro sguardo, poi Osha si congedò. -Su, va'. Lui ti sta aspettando.-
Fece un cenno con la testa verso la porta. Il giovane annuì infastidito; attese che l'amica proseguisse lungo il corridoio fino a sparire dietro un angolo ed esitò un momento, prima di girarsi verso Myrcella; ella, che non s'aspettava d'essere considerata così d'un tratto, sussultò.
-Quando entriamo, non dire una sola parola. Stai sempre zitta, qualsiasi domanda mio fratello ti faccia. Rispondo io al posto tuo. Capito?-
Myrcella gli lanciò un timoroso sguardo fra le ciglia e annuì appena oscillando il mento. Quel viscerale, vibrante rancore che si faceva strada nelle iridi celesti di lui, quasi squarciandole, continuava ad impressionarla ed agire contro di lei, come un'orrenda deformazione, che la faceva quasi vergognare -come se davvero credesse d'avere una responsabilità nei confronti della sua rabbia.
Capito? C'era un'aggressività tagliente in quella domanda. Rickon tirò energicamente la corda e spintonò la porta appoggiandovisi con la spalla.
La sala del trono era grande, disadorna e desolata. V'erano due grandi tavoli di legno addossati ad ambo le pareti, a percorrerle per tutta la loro lunghezza, qualche candeliere a bracci appeso ai muri ad equivalente distanza l'uno dall'altro, a reggere lumi dallo stoppino intatto, e null'altro. In fondo, sopraelevati rispetto alla sala da cinque gradini, v'erano due scranni di pietra massiccia.
I passi di Rickon risuonavano risoluti in un'eco funerea, disperdendosi nell'aria inquinata di buio. Myrcella, scostando a fatica le tenebre con gli occhi, distinse i regnanti del Nord.
Aveva molto sentito parlare di Brandon Stark, il re storpio: eppure, appena lo vide, si vergognò precipitosamente d'aver anche solo udito quell'epiteto sprezzante dalla bocca altrui. Nei suoi brumosi ricordi, Bran era un ragazzino gracile infagottato nelle coperte del suo letto, a lottare per la vita, accerchiato da un capannello di familiari premurosi: non ve n'era più la benchè minima traccia. Anche lui, come Grande Inverno, pareva sprofondato in un mondo infero, sotterraneo -pareva guastato d'ombra, con inchiostro nelle vene anzichè sangue.
Il volto era allungato, smagrito, scavato, come se su quei lineamenti fossero state combattute mille battaglie; nei suoi occhi, invece, c'era l'inesplicabile fermezza della vittoria d'una guerra. Il suo sguardo era gravoso, opprimente, pregnante, una verità inesorabile che abbatteva qualsiasi difesa, un'atroce consapevolezza che non si può accettare senza venirne schiacciati, un'amarezza irrefrenabile che evadeva i confini, penetrava nella pelle e privava brutalmente d'ogni via di fuga, lasciando a mani vuote e mente disarmata. Le guance completamente glabre erano macchiate di pallore, come se l'alito del Nord le avesse punte e la pelle non fosse stata in grado di dimenticare il suo tocco; egli indossava un ampio mantello di velluto grigio, bordato di pelliccia più scura, trattenuto al collo da una spilla ch'effigiava lo stemma della casa Stark. Un anello di ferro era adagiato fra le sue ciocche castane mogano, che s'allungavano languide fino alle clavicole; ma in fondo era il potere a designarlo, il dolore a fregiarlo, l'autorità ad incoronarlo, come un diadema non avrebbe mai fatto. Myrcella comprese che in quel volto, in quella sala, in quella fortezza s'era cicatrizzato tutto il male ch'era stato compiuto -tutta la sofferenza ch'era stata bevuta, incorporata, assimilata.
Bran Stark ispirava rispetto: non il commiserevole rispetto suscitato dalla pietà, ma quello generato dall'attanagliante sensazione d'asservita, inconsapevole, sordida inferiorità. Rispetto regale. Nella sua anima era inciso qualcosa di totale -qualcosa di annientante. La fanciulla pensò a quello che si diceva di lui, c'era capace di uccidere con la sola forza dello sguardo, e d'un tratto non le parve più così inverosimile. Bran non guardava lei bensì quelle iridi, in cui non si riconosceva più l'oscurità della pupilla, concentravano la loro spaventosa attenzione più indietro, dritto nell'anima di Rickon Stark.
Il fratello più giovane rispose senza remore. -Ti sembra questa la maniera di accogliere un vincitore?-
-Parla.- L'ordine risuonò chiaro e lapidario come un sasso in mezzo alla fronte.
Rickon, serrando appena gli occhi, parve tentato di disobbedire a tutta quell'autorevolezza. Infine prevalse la soddisfazione d'elencare i propri trionfi. Ogni parola fu uno stiletto fra le costole per Myrcella.
-Tywin Lannister l'ho servito per primo, senza che abbia avuto nemmeno il tempo di amministrare i suoi uomini. Mi sono premurato di staccargli per bene la testa dal collo. Un lavoro sporco quanto appagante. Poi la gemella troia. Come ultimo eroico gesto, ha tentato di mettere in salvo la prole. Tenero, non trovi? Aveva persino un pugnale nel corsetto, la baldracca. Le ho aperto la gola da parte a parte. A quella è arrivato Jaime, il paladino ritardatario... cosa credeva di fare, con quel moncherino che si ritrova al posto della mano destra?! Si è lasciato infilzare come un lattante. Sua sorella mi ha dato più filo da torcere di lui. Sfigato. Invece il mostriciattolo biondo è riuscito a fuggire, grazie alla sua amorevole madre... quasi quasi, vorrei che fosse sopravvissuta soltanto per ucciderla di nuovo.-
-Smettila con questi commenti di cattivo gusto. Limitati ad esporre i fatti.- tagliò corto Bran, visibilmente infastidito dalla tracotanza del fratello.
Rickon non gli diede retta. -Il mostriciattolo è scappato a cavallo, insieme a quella ragazzina impubere di Loras Tyrell. La puttana di Altogiardino invece al torneo non c'era: altrimenti l'avrei squartata come una scrofa e ti avrei portato il suo bastardo nella bisaccia.-
Rendendosi conto che si stava riferendo a Margaery, la moglie di suo fratello, incinta di otto mesi, Myrcella rabbrividì.
-Rickon, per l'amor del cielo!- Bran poggiò pesantemente il capo nell'incavo del palmo, esasperato.
Quell'altro, indifferente, proseguì. -Nemmeno il Folletto c'era. A quanto pare è rimasto alla Fortezza Rossa. Beh, sarebbe stato troppo facile, se li avessi eliminati tutti in un sol colpo: ne rimangono tre. Tommen Lannister. Tyrion Lannister. Il bastardo nella pancia della Tyrell.- Rickon li numerò uno ad uno sulle dita. Poi la sua bocca si storse in un ghigno. -Ah, e poi c'è lei, naturalmente.-
Indicò Myrcella con un cenno indolente del capo; la fanciulla, di riflesso, abbassò la testa come se si aspettasse un manrovescio. Quanto in fretta s'impara la dottrina della paura, pensò.
Il re del Nord a quel punto la osservò, le iridi -a celare egregiamente i suoi pensieri- mosse in un gesto ponderato. Sorvolò sull'aurea bellezza dei suoi boccoli scomposti, sull'immacolata dolcezza della sua pelle denudata dall'abito logoro, sulla soave armonia della sua figurina aggraziata, e considerò quella situazione che evidentemente non si aspettava. La scrutava con lo stesso circospetto, biasimante disappunto con cui s'esamina le vittime mietute da una calamità.
-Questo succede ad affidare un esercito ad un sedicenne assetato di sangue.- commentò egli freddamente.
Sorprendentemente Rickon, per quanto fosse permaloso d'indole, si limitò a sogghignare compiaciuto. Myrcella era quasi incredula: sedicenne? Soltanto sedici anni? Egli sembrava più grande della sua età, forse era per via dell'altezza. Il re del Nord proseguì.
-Sarebbe stato meglio se ti fossi attenuto alle disposizioni e avessi ucciso soltanto Tommen Lannister, ma va bene così. Gli altri ovviamente non meritavano la morte meno di lui.-
Rickon s'imbronciò. -Allora, se non sei soddisfatto, la prossima volta vacci tu a combattere, invece di rifilare il lavoro sporco agli altri e poi lamentarti!-
-Sai benissimo che se potessi lo farei...- Bran liquidò la questione con un gesto seccato. -Tornando alla prigioniera, non credo sia stata una buona idea. Perchè mai l'hai portata fin qui? Hai intenzione di ricattare Tommen? Sarebbe una vana speranza. Dopo tutti questi omicidi, è escluso che voglia sentir parlare di compromessi. Inoltre non è soltanto lui a prendere le decisioni: il suo Consiglio gli proibirà tassativamente di arrendersi ad una pace umiliante, per giunta a caro prezzo, per avere indietro nient'altro che lei. È la stessa cosa che avvenne con Arya e Sansa...- 
-C'è un'altra persona che non vuole sentir parlare di compromessi, e sono io: non lo scordare mai più, Bran.- ringhiò Rickon. -Niente ricatto, niente oro, niente pace. Me la sono presa io, quindi è mia e ci faccio quel che mi pare e piace. Se muore, lo decido io. Se vive, lo decido io. E' chiaro?-
Il fratello non gradì quell'atteggiamento bellicoso. -Stai attento a come parli.- lo avvertì a mezza voce.
-Indubbiamente, sei un vero gentiluomo, Rickon.-
Quella voce era nuova a Myrcella: a parlare era stata la regina. Quando la giovane Lannister spostò lo sguardo, vide il sorriso malizioso d'una ragazza con una nuvola di ricci fitti e castani, vaporosi intorno al viso. Ciò che confortò appena Myrcella fu il fatto che, per la prima volta dopo quegli interminabili giorni, qualcuno la osservasse senza rancore o diffidenza, o addirittura disgusto. Tutti quegli sguardi affilati e ostili l'avevano ferita più dolorosamente dell'accidentato terreno sotto i piedi scalzi. La regina invece la guardava con indiscrezione, ma senza malevolenza, e per un attimo Myrcella si ritrovò a sperare che l'avrebbe tolta da quella situazione orribile. Ma naturalmente era un disperato vagheggiamento.
-Nessuno ha chiesto la tua opinione, mangiaranocchie.- sibilò Rickon, lanciando alla ragazza seduta sul trono un'occhiata scorbutica.
-E io te l'ho data lo stesso, vedi che discola?- ironizzò lei. Poi il sorriso si freddò in un'espressione più torva che le fece luccicare una nuova malinconia negli occhi, come se un'ombra fosse calata lentamente sul suo viso. -Bran è sempre il tuo re, e un atteggiamento come questo gli arreca offesa. Se vuoi, posso chiarirti il concetto in un altro modo.-
Rickon scoprì i denti: evidentemente non chiedeva di meglio. Portava ancora la spada alla cintura. -Quando vuoi.-
-Basta, tutti e due!- Bran dischiuse un pugno, sollevando il palmo in un gesto perentorio: comandò il silenzio ed esso calò docile. -Come possiamo pretendere di combattere una guerra, se ci scontriamo in primo luogo fra di noi? Meera, non devi stare al suo gioco. Se lui ti provoca, lascia correre. Rickon...- Per qualche istante, ponderò le parole sulla lingua. -Ognuno ha un suo ruolo qui, e forse devi ancora capire qual è il tuo. Per quanto riguarda la prigioniera, invece...-
Myrcella, nell'udir scandire quella frase, abbassò il capo per evitare il suo sguardo. Quegli occhi le bruciavano la nuca. Quando non li avvertì più su di sè, Myrcella osò alzare la testa; Brandon s'era voltato alla sua sinistra, a cercare lo sguardo del ragazzo in piedi accanto al trono. Finora Myrcella non vi aveva fatto caso: egli era alto, slanciato, con ondulati capelli d'un biondo cenere che si perdeva nel castano miele; era vestito d'una lunga e ruvida cappa verde, che ammantava la sua intera figura fino alle caviglie, adagiandosi sulle sue spalle. Il ragazzo trovò gli occhi del suo re, dove indugiò per pochi attimi; infine chinò appena il mento in un assenso impercettibile.
-È deciso.- dichiarò allora Brandon Stark.
-Era già deciso da prima.- precisò Rickon, dedicando un'ultima occhiata minacciosa all'indirizzo del ragazzo vestito di verde, che da parte sua non battè ciglio.
Myrcella credeva di sapere chi fosse quel giovane, ed arrossì. Suo nonno Tywin aveva parlato anche di questo, quando sproloquiava a proposito del re del Nord: aveva utilizzato il termine sodomita, per l'esattezza.
Rickon strattonò la fune e Myrcella, con gli occhi vuoti e il cuore pesante, lo seguì senza azzardare una parola.
Quando il portone si chiuse dietro di loro, Meera si rigirò sul sedile di pietra fino a guardare per bene Bran negli occhi.
-È proprio necessario? Avanti, non hai visto com'era terrorizzata? In fondo, è soltanto una ragazzina. Che parte vuoi che abbia avuto nel complotto contro la tua famiglia? Probabilmente non ha neppure idea di cosa sia successo...-
-Ciò non è sufficiente ad assolverla.- replicò Bran. -Non siamo stati noi a dare inizio a questa faida. Credi che a qualcuno importasse l'innocenza di Sansa, quando è stata trattenuta come ostaggio ad Approdo del Re? Credi che qualcuno si sia fatto il minimo scrupolo nell'eliminare Arya in qualche modo che nemmeno sappiamo? La moglie di Robb era una donna, era incinta, ed è morta. Perciò, per quale motivo dovrei graziare Myrcella? Non m'importa così tanto. Inoltre, non voglio rischiare di complicare il mio rapporto con Rickon, che già è quello che è, per colpa d'una Lannister... Se mio fratello vuole che Myrcella muoia, o che Myrcella diventi la sua schiava sessuale, così sia.- Nel notare l'espressione accigliata di Meera, Bran sospirò. -So che l'idea non ti piace, non credere che per me sia diverso. Però non ho l'arroganza d'affermare d'avere fatto la scelta giusta. Solo quella più facile.-
La ragazza proseguì, indispettita. -Almeno non dirmi che sul serio permetteresti a Rickon di strappare un bambino dal grembo di sua madre!-
Il marito le rivolse uno sguardo indecodificabile. -Davvero vuoi che un giorno arrivi un Lannister a Grande Inverno a uccidere nostro figlio per vendicare suo padre? Io e Rickon siamo la prova vivente che, quando si vuole sterminare una famiglia, bisogna accertarsi che non vi sia alcun superstite.-
Meera annuì gravemente; la sua espressione s'irrigidì scomodamente all'altezza delle guance. -Capisco. Come vedi, Bran, nella vita tutta la sofferenza che elargiamo torna indietro a seppellirci.-
Bran distolse lo sguardo velocemente, quasi inquietato; invece Jojen Reed fissò molto a lungo e molto intensamente sua sorella, senza dare a vedere se fosse pensieroso o preoccupato, quasi le scavasse la mente alla ricerca di quella verità ch'aveva omesso.
Intanto, Rickon trascinava Myrcella nelle viscere della Terra. Scendeva i gradini in fretta, furiosamente, e la fanciulla barcollava atterrita, incapace nel buio di vedere dove metteva i piedi. Infine la rampa di scale avvolta su sè stessa terminò e vi fu solo il terreno accidentato d'un sotterraneo. D'un tratto il giovane Stark si fermò e cominciò ad armeggiare, causando un frastuono sconclusionato di ferraglia; Myrcella rimaneva con il fiato sospeso, ad aspettare il suo destino. Poi le braccia forti del suo rapitore la spinsero in avanti -dentro ad una cella, a quanto sembrava.
Rickon chiuse la porta dietro di sè, in uno schianto di metallo arrugginito. Rimase fermo, immobile, quasi ad aspettare qualcosa. Myrcella aveva le viscere contorte nello stomaco.
Quando il ragazzo si voltò, con un sorriso sospeso sulle labbra che svelava i canini triangolari, lei capì.
-Dov'è finito l'onore degli Stark?- sussurrò, in un soffio di voce esile come un petalo di soffione. Rickon la afferrò per il fragile pezzo di stoffa che ancora le cingeva il seno, traendola a sè, saccheggiando il suo fiato.
-Già, dimmelo tu. Dov'è finito? L'avete calpestato tutti quanti sotto le scarpe, l'onore degli Stark.- ringhiò sottovoce.- Non osare ripeterlo, non osare mai più: non posso sopportare la parola onore sulle labbra d'una Lannister.-
E, proprio come se volesse succhiarle via quella parola di bocca, strappargliela dalla carne, vi si avventò con efferato impeto. Fu l'impatto con il fondo d'un precipizio.
Myrcella realizzò cosa sarebbe successo e deglutì a fatica. Non si era mai sentita finora piccola, vulnerabile e sola come in quel momento, invasa da un calore selvaggio che le scottava l'anima.
A Rickon bastò lasciar scivolare le unghie sul fianco sinuoso di lei ed il tessuto sbrindellato cadde a terra, lasciandola completamente nuda e bianca. Non v'era più nessuna difesa a dividerla -a preservarla- dalla cruda essenza di quegli occhi diafani. La bocca di Rickon la possedeva gradatamente, si prendeva tutto il tempo per gustare il suo corpo e sorbire il suo panico, a leccare via la pelle d'oca dalle sue braccia, ad azzannare i suoi tremiti per frenarli. Strofinando le labbra contro di lei, mordendole i capezzoli fino a farli sanguinare, sorrideva ancora.
-Non ti verrà mica da piangere, vero?- Poco più d'un graffio roco, un istante prima di affondare violentemente fra le sue cosce, tentando di estorcerle un gemito di dolore -sfidandola a soffrire.
Myrcella non distolse mai gli occhi dai suoi -nemmeno per un istante.

















Note dell'Autrice: Salve salve! Ecco qui il primo capitolo. Mi ci sono impegnata parecchio, quindi spero che sia ben riuscito! Nel caso in cui Bran sia risultato inquietante, Meera incazzata, Tommen un povero cucciolino e Rickon una magnifica, fottuta carogna, allora sì, il capitolo è ben riuscito. ^-^ Caspio, quanto amo Rickon. Bran di più, ma abbastanza anche Rickon.
Come avete avuto modo di osservare, Rickon ha fatto la sua plateale entrata in scena! XD Nel vero senso della parola, con tanto di porta sfondata. E questo è l'inizio di tutto, ovvero un certo torneo tenuto a Runestone -ho cercato su Internet: è una città vicino alla Valle di Arryn dove già in passato si è svolto un torneo- che poi è finito in tragedia, almeno in tragedia per i fan dei Lannister. Per quanto mi riguarda, Starks 'til death, ragazzi. Cioè. Non è che abbia una predilezione per i moralisti, eh, tutt'altro! Però i Lannister sono noiosi e si incavolano per niente e sì, se le vanno a cercare col lanternino. Dài, qualche Lannister doveva morire pur! Della serie: Rickon passa subito ai fatti (*-* lasciatemi sbizzarrire coi doppi sensi, per favore!). Allora mi sono sbarazzata dei Lannister che più mi intralciavano nello svolgimento della storia.
E sì, avete capito bene: Bran e Meera hanno pure un figlio (piccolino piccolino, eh!), di cui si accennerà meglio nel prossimo capitolo. Adesso, io ho sentito molti dire cose tipo che Bran in seguito alla caduta non può più avere figli, ma dato che nel telefilm nessuno lo dice chiaramente (e che deve darsi moooolto da fare con Jojen...) e che non deve essere per forza vero, e che a me gira così, faccio finta di niente.
Concludo qui. Volevo solo ringraziare chi ha messo questa storia fra le preferite/ricordate/seguite, chi ha recensito il prologo e chi ha letto questo lungo capitolo! Vi preannuncio che nel prossimo si riparlerà ovviamente di Rickon e Myrcella, Sansa entrerà in scena e... ci scapperà un pelino di slash. XD
Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate, circa i personaggi e le vicende o robe del genere! Grazie ancora a tutti, al prossimo aggiornamento!
Lucy 

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Capitolo 3
*** Grigio fu il richiamo. ***


note varie
II. Grigio fu il richiamo.



A Robin Arryn non era mai piaciuto occuparsi degli affari di corte, Alayne lo sapeva bene. Però questo era ormai divenuto un suo obbligo da quando l'esile bambino dai grandi occhi castani e le spalle gracili, che si raggomitolava pigramente al fianco di sua madre, era diventato un alto e smilzo adolescente di carnagione cerea e costituzione linfatica. 
-E chissene frega di quel che dice uno stupido architetto! Io voglio un vero parco degli dei quassù: con gli alberi e tutto. Non mi importa come, ma lo voglio avere. In che maniera lo si debba costruire, sei tu che te ne occupi. È il tuo lavoro, no? Arrangiati.- Robin tirò su con il naso furiosamente, infastidito dall'influenza che gli inumidiva le narici. -Scommetto che con mio padre non facevate tutte queste storie, per obbedire ai suoi ordini...-
Mentre parlava, tormentava con le lunghe dita affusolate gli zaffiri incastonati sui gemelli della sua giacca; le sue mani bianche e magre erano perennemente in movimento, in una specie di riflesso nevrotico. -Nel giardino ci voglio anche una statua in marmo del Cavaliere Alato: sì, una bella statua. E sulla base dev'esserci scritto: in alto quanto l'onore.- Robin contemplò l'ipotesi per qualche istante, poi parve scartarla, aggrottando le sopracciglia rade. -Che poi, non ho mai capito questo motto. Voglio dire, in alto cosa? Io? Io sono già in alto. Io sono più in alto di tutti quanti. E posso schiacciarli quando mi pare.-
Un lucido ciuffo di capelli neri come la piuma di un corvo gli carezzava delicatamente l'attaccatura del naso. Il viso d'avorio era minuto, con lineamenti graziosamente modellati, ma la pelle membranacea, il profilo vulnerabile e le palpebre -che talvolta tremavano convulsamente- richiamavano senza fraintendimenti l'idea della malattia. Il ragazzo era avvolto dalle spalle ai piedi in un mantello pesante color indaco, dal quale emergevano i polsi ossuti e le dita agitate. La sua figura elevata sul trono quasi lampeggiava a intermittenza nel pulviscolo dell'aria, poco più d'una apparizione spettrale; i capelli di bluastra oscurità erano l'unica nota davvero vivida.
Fu a quel punto che Alayne entrò nella sala.
-Buongiorno, mio signore. Spero che abbiate riposato bene questa notte; è caduta molta grandine, l'ho udita distintamente.-
Sollevò lo sguardo ad incontrare quello del marito, seduto sul suo trono di legno intagliato a forma d'ala d'aquila, a dondolare distratto una delle gambe snelle. Robin sgranò gli occhi sporgenti, mentre un sorriso enfatico ed esclamativo stiracchiava le labbra sottili, ed il suo volto dalle efebiche fattezze e dall'anemico pallore s'accendeva tutto.
-Giungi a proposito, Alayne! Stavo parlando del parco degli dèi da costruire, chè tu possa pregarci come facevi a casa tua. È un pezzo che ti aspetto, sai? Stavo proprio crepando di noia senza di te, e ti perdono solo perchè sei meravigliosa con quel vestito. Lo sei sempre, in effetti.-
Alayne piegò di rimando le labbra, soavemente, abituata al petulante modo d'esprimersi del ragazzo -talvolta isterico, talvolta euforico, ma sempre sul ciglio dell'irragionevolezza. Ella portava un abito composto da una sottoveste di broccato damascato blu, sopra la quale s'intrecciava la trama d'un corpetto e scendevano con sinuosa morbidezza delle ampie maniche a losanga color crema, che pendevano fino alle ginocchia: blu e crema, i colori della casa Arryn. Lo scollo esponeva un'abbondante porzione del petto immacolato, nonchè le delicate clavicole e la curva del collo slanciato. Alayne sapeva quanto a Robin piacesse quel vestito -che, con la sua tonalità cobalto, metteva in risalto la nivea luminosità del viso a forma di cuore, la mitezza degli occhi chiari, il disegno impeccabile degli zigomi e delle guance.
-Ser Lothor!- s'interruppe Robin di colpo, voltando di scatto la testa in un'altra direzione. -Non pensi anche tu, che mia moglie sia meravigliosa con questo vestito?-
Lothor Brune, capo delle guardie, confermò condiscendente. -Ma certo, mio signore.-
-Vedi che lo pensano tutti? - annuì il lord, soddisfatto. Infine la sua fronte s'increspò, al pari della superficie d'un lago infranta da un sasso, che generi mille cerchi concentrici a disperdersi uno dopo l'altro. -Quella sciocca grandine non avrà mica turbato il tuo sonno?-
-Niente affatto, mio signore, ma è stato davvero premuroso da parte tua preoccupartene.- Alayne si avvicinò al trono e trattenne con una mano le gonne, che frusciavano delineando i movimenti delle sue cosce. -Cosa ho interrotto?-
-Niente.- tagliò corto Robin, tediato. -Stavo spiegando a questi idioti che devono inventarsi qualche maniera per piantare gli alberi quassù... Ma credo che a questo punto rimanderò. Oggi sono stufo. Uscite, avanti! Uscite tutti. Andatevene. Mi avete stufato.-
Schioccò le dita e tutti gli artigiani fatti convocare, tutti i ministri di palazzo si dispersero, rapidi come un nugolo di topolini. Quando la sala fu colmata soltanto dalla luce che le finestre ad arco filtravano limpidamente, Robin le fece cenno con la mano di raggiungerlo ed ella obbedì lesta e docile, scostando l'orlo delle voluminose gonne per scoprire i piccoli piedi, calzati in stivaletti con le stringhe, e salire i gradini: egli l'attirò a sè e le baciò le labbra.
-Ti sei svegliata presto?- domandò, attorcigliando attorno al dito una ciocca dei suoi lunghi capelli, castani come la pelliccia d'una lontra.
-Io mi sveglio sempre presto, mio signore.- La moglie gli si sedette in grembo, come lui ordinò perentoriamente con un gesto. -Ti ricordo che dopo pranzo dobbiamo procedere con il giudizio dei detenuti...-
Tutti nella valle di Arryn erano a conoscenza del fatto che lord Robin voleva occuparsi personalmente dei condannati, per decidere se costringerli ad una semplice pena pecuniaria oppure... se farli volare. Gli occhi di Robin s'animarono ed egli divenne ancora più raggiante.
-Ma sul serio? Me l'ero persino scordato.- Allungò sornionamente le gambe davanti a sè. -Il giudizio è il nostro gioco preferito, non è vero, Alayne?-
-È vero, mio signore.- Alayne sorrise complice, poi si prese qualche secondo prima di cambiare argomento. -Posso porti una domanda che non ti piacerà?-
Robin storse il naso, irritato da quella premessa. -E quale sarebbe?-
-Perchè non vuoi più che il Maestro Colemon ti faccia i salassi? Siamo tutti molto preoccupati per la tua salute, mio signore. I salassi, sì, sono un po' dolorosi, ma ti fanno guarire...-
-I salassi non servono a niente.- borbottò Robin, con il tono di chi ritiene l'argomento chiuso. -Me ne hanno fatti centinaia, nella mia vita, e mi sono sentito sempre più debole e basta. Odio i salassi, e odio anche il Maestro Colemon. È un vecchiaccio e sono contento che fra un po' creperà e lo sostituiremo, magari con qualcuno che non mi dice di fare i salassi...-
Alayne trattenne un sospiro. A volte suo marito si comportava esattamente come il bambino che era otto anni prima; come prova, bastava il fatto che adorava infilare il verbo crepare nelle proprie frasi almeno tre volte al giorno, proferito con sogghignante sprezzo.
-Se non vuoi farlo per il tuo bene, fallo per il mio. Ti supplico, non farmi passare notti tormentose al pensiero che potresti peggiorare... Non facendo i salassi, rischi di stare ancora più male, anche di...-
-... morire?- completò Robin al posto suo. Il suo viso si fece torvo, e Alayne capì di avere usato le parole sbagliate. Con Robin, era questione di misurare i toni ed azzeccare il termine adatto, ma non era semplice intuire in anticipo quale potesse essere. -Tutti gli abitanti di Nido dell'Aquila hanno pensato almeno una volta che non avrei superato i dieci anni, Alayne. Invece io sono ancora qui. Io non sono morto! Io sono vivo! Io sono vivo come tutti voi, e sarò l'ultimo a morire, te lo giuro. Io sono qui, sono il lord, e sono vivo! Vivo!- Robin sbattè un pugno contro il bracciolo del trono e la sua voce, non tanto potente ma parecchio acuta, s'infranse con gran fragore contro le pareti di marmo latteo. Il suo volto era irrigidito dalla rabbia e le mani gli tremavano vistosamente; una realtà deforme ma ipnotica, dalla quale egli invano cercava di distogliere lo sguardo, gli dilatava le pupille come specchi d'ossidiana. Alayne, spaventata, si affrettò a prenderle fra le proprie ed a baciarle in fretta.
-Non ti agitare, mio Pettirosso, sai che così ti vengono gli attacchi! Ti prego, calmati... Dimentica quello che ti ho detto.- si arrese infine, pur di rasserenarlo. -Non farai i salassi, se non vuoi. Però adesso respira a fondo e guardami...-
Robin obbedì. I suoi occhi marroni, così teneri e fragili, sussultavano in quelli della moglie come un cuore in tumulto. Quando Alayne sorrise, rassicurante, Robin espirò lentamente e poi deglutì nervoso.
-Va meglio?- chiese lei sollecita. Come risposta ebbe un debole cenno affermativo.
La morte aveva giocato a nascondino con Robin dal giorno della sua nascita. Ogni tanto, quando gli venivano gli attacchi o la febbre, tutti bisbigliavano pianissimo il nome di quella, di quella che lui non aveva mai visto; quando egli chiedeva chi fosse, nessuno osava rispondergli. Poi un giorno sua madre gli aveva annunciato piangendo che quella era tornata e aveva portato via suo padre, in qualche posto che solo quella conosceva; quando Robin proponeva di andarla a cercare, tutti inorriditi scuotevano la testa. Infine Lysa. Era rimasta a letto per giorni e poi, all'improvviso, la notizia: quella era passata a prenderla proprio durante la notte. Com'era possibile? Robin non l'aveva nemmeno sentita mentre saliva le scale. Ma se Nido dell'Aquila era inespugnabile, allora quella come aveva fatto ad entrare? Ancora silenzio, e ancora le stesse parole sussurrate di nascosto, che presto la morte avrebbe reclamato anche l'ultimo membro della famiglia. Ma ogni volta che Robin credeva di essere sul punto d'incontrarla, assalito da un attacco terribile, non appena riusciva già ad intravederne la sagoma in lontananza, nel momento in cui quelle grinfie avanzavano a stringergli la mano, allora egli si sentiva meglio e quella scappava via, senza lasciare tracce. Era talmente timida, talmente codarda, che non aveva ma avuto il coraggio di presentarsi davvero, ma solo d'annunciare la sua venuta ogni tanto, di far presagire il suo arrivo, per poi disdire e rimandare.
A quel punto le porte della sala del trono d'aprirono. Era Petyr Baelish, un tempo marito di Lysa Tully, rimasto a corte in quanto padre di Alayne.
-Perdonate questa deplorevole intrusione, miei cari. È arrivata una lettera da parte del re in persona.- Sollevò la busta che stringeva in mano, chiusa con il sigillo reale. -Robin, sei disposto a dedicarci un istante d'attenzione?-
Robin lo squadrò dubbioso, non particolarmente interessato, ma seppur controvoglia annuì. -Sapevo che prima o poi sarebbe arrivata. Leggila, lord Ditocorto... per favore.- aggiunse infine, memore della cortesia che gli doveva.
L'uomo strappò la busta e dispiegò il foglio al suo interno; dopo aver tossicchiato con fare d'importanza, iniziò.
-"A Robin della nobile casa Arryn, lord di Nido dell'Aquila, Difensore della Valle, Protettore dell'Est, da Tommen della nobile casa Baratehon, primo del suo nome, Re degli Andali, dei Rhoynar e dei primi uomini, lord dei Sette Regni"... o meglio, da Tyrion Lannister il folletto.- precisò Baelish, storcendo la bocca in una smorfia sarcastica. -"Sua Maestà il re pretende spiegazioni riguardo il passaggio dell'esercito di Brandon Stark attraverso i territori di competenza di lord Robin Arryn e l'attacco a Runestone, anch'essa città che lord Robin Arryn, in quanto Protettore della Valle, avrebbe dovuto difendere. La missione dell'esercito del Nord era uccidere sua Maestà il re, perciò il permesso di passaggio può essere da Sua Maestà inteso come complicità verso i traditori della corona e, di conseguenza, come tradimento. A meno che lord Robin Arryn non esponga valide ragioni rispondendo alla qui presente lettera entro otto giorni, Sua Maestà il Re dichiarerà guerra. Firmato: Tommen della nobile casa Baratheon", eccetera eccetera.- Ditocorto piegò il foglio a metà e sorrise. -Naturalmente, ho già scritto una lettera di risposta... Posso sottoportela?-
Robin fece un cenno di sì, continuando a giocare con i capelli di Alayne.
-"A Tommen della nobile casa Baratheon," eccetera eccetera, questa parte la sappiamo tutti a memoria. "Lord Robin Arryn fa presente a sua Maestà il re che non ci sarebbe stato il tempo materiale di riunire un numero sufficiente di contingenti, tenendo conto delle proporzioni dell'esercito degli Stark, e che le Montagne delle Luna sono luoghi estremamente difficoltosi da attraversare. Era impossibile prevedere l'attacco in tempo utile. È risaputo inoltre che la casata Stark di recente ha dimostrato di aver sviluppato poteri fuori dal comune di eccezionale letalità, contro i quali nessun comandante vorrebbe avere a che fare, non conoscendo neanche la loro natura. Lord Robin Arryn non intende schierarsi dalla parte dei traditori, in quanto fedele al Trono di Spade, ma nemmeno contro di loro, in quanto condivide del sangue con la casata Stark. Lord Robin Arryn assicura inoltre che non prederà parte alcuna alla ribellione in nessuna maniera e che la fedeltà della Valle di Arryn rimarrà a Sua Maestà il re." Cosa ne pensa?-
Robin sbadigliò. -Va bene così, immagino. Mettici pure il sigillo, e firmala... Robin della nobile casa Arryn, lord di Nido dell'Aquila, Difensore della Valle, Protettore dell'Est. Visto, Alayne? Abbiamo risolto tutto. Quell'idiota di re pensava davvero che avrei portato la Valle in guerra?! È davvero così scemo?- Ridacchiò sprezzante fra sè. -Non voglio immischiarmi nelle loro zuffe. Se ho lasciato passare quei cugini barbari che ho è stato soltanto perchè me lo hai consigliato tu, Alayne, però non intendo alzare un dito per risolvere i guai in cui si stanno cacciando... com'è giusto. Io devo pensare al bene delle mie terre, e di mia moglie. Ora non verranno più ad importunarci, e potremmo vivere come abbiamo sempre fatto... solo tu ed io.-
Alayne fece segno di sì e gli baciò la fronte con le labbra fresche. -Non potrei chiedere di meglio, mio signore.-
-Sì, invece.- replicò il marito, esitando un istante. -Un bambino, per esempio. Che si chiami Artys. Artys, come il Cavaliere Alato.- decretò, compiaciuto.
La fanciulla arrossì pudicamente ed abbassò il capo. -Tutto a suo tempo, se gli Dei vorranno.-
-Mi dispiace interrompere questa stucchevole scenetta familiare,- intervenne Baelish, con un sorriso salace, -ma temo che non proprio tutto sia risolto. Anche i Royce hanno mandato una lettera, ma molto più eloquente e minacciosa di quella del re. Chiedono il motivo del mancato soccorso, ovvio.-
-Invia una risposta quasi identica, spiega le stesse ragioni anche ai Royce, e dì che presto manderò degli uomini per curare i feriti e riparare i danni.- Robin liquidò la questione con un cenno della mano, noncurante. -E fallo al più presto, lord Ditocorto.-
-Come comandi.- Baelish cercò gli occhi di Alayne. -Potrei parlarti un secondo, cara? Vieni pure a fare quattro passi con me, dato che devo spedire la lettera.-
Alayne s'alzò e s'aggiustò le gonne, rassettando la stoffa con le dita. -Tornerò al più presto, mio Pettirosso, promesso. Non ci metterò molto.-
Robin dissimulò il malcontento e seguì la loro uscita con lo sguardo, con un'indefinibile presentimento negli occhi. Sapeva, sì, che quei due gli avevano sempre nascosto un segreto: ma, data la luminosa amabilità di Alayne, non poteva che essere un segreto buono.
Appena la porta si chiuse alle loro spalle, Ditocorto intrecciò le dita dietro la schiena.
-Hai pensato a cosa hai intenzione di fare?- domandò senza preamboli.
Sansa Stark sospirò indecisa. -No, non ci ho pensato per nulla, in verità.-
Temeva il momento in cui avrebbe dovuto affrontare quella domanda. Da quando, otto anni prima, lord Baelish aveva salvato lei, ancora tredicenne, dalla prigione ch'era la Fortezza Rossa, dall'aguzzina ch'era Cersei Lannister e dal marito Tyrion, la sua vita era stata quell'indolente successione di giornate uggiose a Nido dell'Aquila; semplicemente, Baelish le aveva chiesto se desiderava fuggire con lui lassù, dove egli stava andando per sposare Lysa Tully, la vedova di Jon Arryn; il trucco sarebbe stato approfittare dello scompiglio a corte causato dall'accidentale morte di Joffrey, avvenuta in seguito ad una caduta da cavallo. Sansa aveva accettato e, dopo essersi tinta i capelli di castano, era diventata Alayne Stone, la figlia bastarda di Ditocorto -era stato quello l'espediente grazie al quale nessuno era riuscito a scoprire dove Sansa si trovasse. Dopotutto, nessuno degli abitanti di Nido dell'Aquila aveva mai visto la figlia di Eddard Stark, in modo tale da fare confronti; d'altro canto, chi si sarebbe avventurato sulla montagna per scoprire quale fosse il volto di Alayne? Cersei Lannister no di certo. E, se per assurdo la notizia fosse dilagata per i Sette Regni, Nido dell'Aquila era inattaccabile. Là, Sansa era stata come in una botte di ferro.
-Ma tu cosa ci guadagni, in tutta questa storia?- aveva domandato la ragazza, diffidente, incredula davanti a tanta generosità.
-Per la figlia di Cat, questo ed altro.- aveva risposto lui, sibillino.
Alayne Stone aveva sposato Robin Arryn sempre sotto suggerimento di Ditocorto.
-Se i tuoi fratelli risultassero effettivamente morti, quando si presenterà l'occasione racconteremo la verità a Robin e lo spingeremo a reclamare diritti su Grande Inverno. Così tu potrai tornare a casa tua e ricostruirla proprio com'era prima. Nel frattempo, un matrimonio con lui ti proteggerà da qualsiasi pericolo.- aveva spiegato. Sansa, fidandosi ormai dei consigli di lord Baelish, commossa da quel pensiero, aveva accettato. Certo, Robin era malaticcio e molto più giovane di lei, ma -nonostante le sue innegabili stranezze- non era un ragazzino cattivo. Era ammaliato da lei come solo un bambino di otto anni può essere e, oltre a volerla sempre accanto a sè, pendeva dalle sue labbra e la viziava alla follia. Se soltanto lei l'avesse chiesto, Robin avrebbe raso al suolo Nido dell'Aquila ed avrebbe eretto un castello di nuvole al suo posto. Durante i primi due anni, lady Lysa aveva reso dura la vita ad Alayne, ripetendole continuamente quanto fosse fortunata ad avere Robin come sposo e criticandola per qualsiasi inezia, quasi gelosa dell'intesa -da entrambe le parti priva di alcuna malizia- che s'era venuta a creare fra i due. Poi, purtroppo, una brutta influenza s'era portata via la povera Lysa, e anche quell'ultimo impaccio era svanito. Sansa tutto sommato era contenta della sua nuova vita, ripensando all'inferno ch'era stato la Fortezza Rossa, però le sue intenzioni erano quelle di tornare a casa; quando ormai cominciava a disperare che ciò potesse accadere, successe l'incredibile: Brandon Stark tornò al Nord.
-Non vedo che dubbi tu possa avere.- stava dicendo Baelish, a voce bassa ed affrettata. -Ci inventiamo una scusa qualsiasi con Robin per scendere a valle e prendiamo la strada del re, prima che scoppi la guerra e il viaggio diventi molto più pericoloso.-
Sansa scosse la testa, inquieta, quasi che le sue orecchie udissero mille minacce sottili. -Sai che non me lo permetterà mai. Non vuole che abbandoni il suo fianco nemmeno per un secondo.-
-Allora fuggiamo di nascosto! Sarà molto più facile di quanto credi.- insistette l'uomo. -Diamo una bella coppa di latte di papavero a Robin e...-
Fu a quel punto che Sansa sbottò, divorata dai rimorsi, permettendo alle parole di precipitarle sulla lingua. -Non posso piantarlo in asso così, capisci? Ho vissuto otto anni con lui, Petyr. È diventato un po' parte della mia famiglia...-
Baelish la fissava negli occhi con un'espressione che la ragazza, sebbene lo conoscesse da un pezzo, non seppe classificare, ma che assomigliava molto al rimprovero.
-Significa che non vuoi ritornare a Grande Inverno? Che non vuoi riabbracciare i tuoi fratelli?!- Le sue parole suonarono come un'accusa.
-Certo che lo voglio!- protestò Sansa, schermandosi con un cenno stizzito delle mani. -Ma comunque Robin mi ha accolta, e odio l'idea di trattarlo in così malo modo. Poi è mio marito... più o meno, cioè, è il marito di Alayne, ma io sono anche Alayne, non solo Sansa, e quindi ho dei doveri nei suoi confronti.-
La risposta fu velenosa. -Gli stessi che avevi nei confronti del Folletto, intendi? Non mi sembrasti così riluttante, però, quando ti proposi di scappare da lui...-
E la replica fu gelida. -Le circostanze erano molto diverse, lo sai. Fui costretta a sposare Tyrion Lannister contro la mia volontà. Invece Robin mi ha concesso una vita serena e un rifugio sicuro, dopo tutte le cose terribili che sono successe alla mia famiglia.- Sansa lanciò un'occhiata nostalgica fuori da una finestra, ad osservare il disegno delle nuvole. -Avevo talmente tanto bisogno di sicurezza, otto anni fa, che arrivare qui mi alleggerì il cuore. Mi sentivo a casa, anche se nel profondo mi rendevo conto che Nido dell'Aquila non lo era.-
-Allora fai come ti pare. Rimani quassù tutta la vita con il tuo Pettirosso, a ripopolare la Valle di tanti piccoli cavalieri alati. Ti va più a genio così?- ribattè a quel punto Ditocorto acidamente, impermalito. Sansa avvampò furiosamente, d'imbarazzo e dispetto, ed alzò incautamente la voce.
-Sei un imbecille! Come puoi non capire il mio punto di vista, e per giunta proporre un piano tanto infame?! A parte me, Robin è solo al mondo.- Sansa assunse un'espressione mesta e i pomelli rosa sulle gote le scaldarono il viso. -Lui... mi vuole bene. Ed è così fragile. Se lo abbandonerò anche io, ne sarà distrutto.-
Fra loro calò il silenzio. Sansa attese trepidante che l'amico rispondesse qualcosa, qualsiasi cosa: le dispiaceva litigare con lui, ma a volte esagerava davvero. Capitava ch'egli si comportasse come se non avesse un cuore, anche se non era affatto così -e si capiva dal semplice fatto che l'aveva salvata da Approdo del Re. Possibile che non avesse un po' di pietà per quel povero ragazzino, orfano e malato? Sansa inoltre era delusa dalla di lui reazione e dalle offensive parole che le aveva riservato. Non si aspettava di certo che Baelish si sarebbe infastidito tanto. Dopotutto era legittimo avere dei sensi di colpa, all'idea di fare un torto ad un benefattore, no? Robin, poi, le aveva da sempre ispirato molta compassione; forse soprattutto per il fatto che, benchè facesse i capricci ed urlasse per farsi sentire, la sua salute e la sua psiche erano così cagionevoli.
In quei pochi anni, mentre lei era rinchiusa nell'apatica beatitudine di Nido dell'Aquila, Bran si era sposato, era diventato re, aveva generato un figlio. Rickon aveva sterminato i Lannister -oh, Sansa non riusciva a dispiacersi per nessuno di loro, ormai colpevole o innocente erano parole false, parole odiose. Queste notizie le avevano causato una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco, quella di essersi persa troppe cose. Il solo pensiero di Arya, poi, era un dolore fisico: era quasi contenta di non aver scoperto quale fine orrenda avesse fatto, perchè in una realtà ideale la sua sorellina era ancora viva, il coraggio era bastato a salvarla. Ma era un'illusione troppo amara per goderla come una speranza, e Sansa era stanca di colmarsi la bocca di sabbia.
Baelish sospirò estenuato. Nei suoi occhi scuri s'aggirava una malinconia antica, come il riflesso lontano del guizzo d'una candela spenta da tempo.
-A volte dimentico quanto assomigli a tua madre, da questo punto di vista.- commentò infine, scuotendo la testa con disapprovazione. Poi alzò la testa ed incontrò il suo sguardo, terso e angosciato. -Non c'è più tempo per indugiare. Trova una risposta definiva, e bada bene: definitiva significa che varrà per sempre. Devi decidere, una volta per tutte, se vuoi essere Sansa Stark o Alayne Stone. Conosci le regole, ora, vero?-
Sansa non annuì nemmeno. -Quando scopri quello che una persona vuole,- mormorò, -capisci anche chi è e sai come farla muovere.-
Baelish sorrise, uno di quei sorrisi sferzanti che sanno di lama che penetra nella carne. -Immagino che tu sia pronta. Benvenuta nel mondo dei giocatori, dunque.-
Lei non rispose al sorriso.
***
Quando Bran finalmente potè scivolare dal dorso di Estate al letto di Jojen, era ancora incredulo di sollievo all'idea che quella dannatissima giornata fosse ormai moribonda fuori dalle finestre, ch'essa stesse tossendo nel cielo le sue ultime gocce di sangue, e che ormai non fosse più in grado di ghermirlo con i suoi artigli -perchè egli ormai era con Jojen, e nulla di brutto sarebbe potuto succedere.
-Non so più che cosa devo fare con lui. Non riesco a instaurarci un dialogo: io non capisco le sue ragioni e lui non capisce le mie. A volte sembra che lo faccia apposta, per aggravare la situazione, o... per farmi saltare i nervi. Altre volte, sembra che mi odi.-
Dopo aver bofonchiato queste parole Bran s'adagiò fra i guanciali, che si sformarono dolcemente sotto il suo peso, e s'abbandonò all'abbraccio serico delle lenzuola. In seguito ad una giornata passata su un sedile di pietra, la sensazione era inedita e deliziosa; ma il silenzio lo distrasse, ed egli sollevò le palpebre indolenti alle ricerca di Jojen. Il ragazzo sedeva all'imponente scrivania di mogano posta contro la parete della stanza, dando le spalle al letto, e -ogni tanto con l'ausilio di una lente d'ingrandimento- stava trascrivendo la pagina logora di un volume antichissimo, che scricchiolava pietosamente al solo sfiorarlo. A Bran bastava guardarlo per sentir dentro di sè passare tutta la voglia di aprire un altro libro in vita propria. Credeva che il suo consigliere fosse troppo concentrato nel suo lavoro e che non avesse udito, ma dopo pochi istanti egli parlò.
-Rickon non ti odia, questo non è altro che un tuo chiodo fisso. Tuo fratello prova rabbia: non necessariamente per te, nè più di tanto per i Lannister. Sente solo un gran bisogno di distruggere tutto quel che gli si para davanti. Città, convenzioni... persone. Per dare un senso al suo comportamento si aggrappa al pretesto della vendetta contro i Lannister, ma in realtà non gli serve nemmeno un buon motivo. D'altronde, che buon motivo aveva il destino per radergli al suolo la casa quando aveva sei anni? Rickon vuole fare del male, Bran. Ma non gli importa a chi.-
Bran soffiò dalle labbra tutta la preoccupazione che gli comprimeva il petto, salvo poi realizzare che s'era gonfiata ed espansa di nuovo, come un bolla di sangue da una ferita nuova.
-Se questo era lo scopo, ti avverto che non mi stai consolando granchè.-
-Qualcosa mi dice che ti sarà più d'intralcio che d'aiuto, in questa guerra.- commentò Jojen, scorrendo rapidamente un paragrafo con gli occhi.
-Quel qualcosa lo sta dicendo anche a me.- ribattè Bran, inquieto, sprimacciando un cuscino. -Ma come potevo prevederlo? Quando l'ho fatto richiamare a Grande Inverno, non immaginavo certo che fosse diventato un... un...-
-... folle, animalesco, intrattabile selvaggio?- suggerì Jojen, apatico. Bran, dopo qualche istante d'esitazione, annuì; il giovane Reed proseguì, tenendo la piuma in sospeso sopra la pergamena.
-Io lo vidi in sogno, circa un anno fa, prima che arrivasse; avevo già assistito alla scena del vostro incontro, anche se non te ne accennai. Ad ogni modo, era inevitabile che tu lo richiamassi a corte. Non saresti mai riuscito a liberarti di lui semplicemente ignorandolo in eterno e lasciandolo su quell'isola. Il passato ritorna, perchè i suoi occhi sono nel presente e la sua spada è già al futuro.-
-Se magari si comportasse ragionevolmente, visto che ormai non è più un barbaro su un'isola sperduta, non sentirei la necessità di mandarlo via. Se magari si sforzasse di rendermi le cose più facili, anzichè di complicarle...- Il re lasciò che la frase librasse nell'aria ed esalasse un presentimento di malinconia. I suoi occhi, come grandi cavità svuotate di dolore fino all'osso, si perdevano a seguire la trama della semioscurità; la frangia di capelli castani ombreggiava il volto diafano alle luce tremante delle candele.
Jojen, con un movimento accurato, intinse la piuma nel calamaio. Non sollevava lo sguardo dal lavoro a cui era intento. -Credevo che ormai ti fossi avvezzato all'idea che nella tua vita probabilmente non ci sarà mai più qualcosa di facile.-
Bran riprese a seguire il flusso dei suoi pensieri, con le sopracciglia aggrottate d'indignazione. 
-Non è altro che un moccioso arrogante. Arriva qui e pretende che tutto venga fatto come dice lui. Ho commesso un errore ad affidare un esercito vasto come quello ad un ragazzino che non ha mai studiato nulla circa la strategia militare... Non avrei dovuto prestarmi ai suoi ricatti, perchè non è degno di tale responsabilità nè di così tanta fiducia. Aveva un piano, almeno? Se per piano s'intende trucidare tutti coloro che si sarebbero frapposti sulla sua strada, allora sì, forse aveva un piano...-
-Se permetti, Maestà, quel ragazzino che non ha mai studiato nulla circa la strategia militare ha ottenuto un risultato non da poco. Possiamo quasi definirlo un successo.-
-L'obiettivo era uccidere Tommen Lannister, non tutti tranne Tommen Lannister. Doveva essere una delle sue uniche vittime, invece Rickon se l'è lasciato sfuggire quando era così vicino! Avremmo potuto evitare una guerra al nostro popolo, che ha già sofferto troppo.- Bran faticava a trattenere la rabbia. Se Rickon si fosse impegnato nel cercare Tommen, anzichè delle concubine da rinchiudere nelle segrete, forse a quest'ora ci sarebbero stati dei festeggiamenti a Grande Inverno. Si chiese quanto amaramente avrebbe rimpianto quell'occasione sprecata in futuro, quando la guerra sarebbe cominciata sul serio. Il re del Nord tentò ugualmente di dominarsi. -Pensiamo al lato positivo della faccenda. La ragazza Lannister potrebbe tornarci utile nel caso in cui Tommen, al termine di un'ipotetica battaglia, mettesse le mani su qualcuno che voglio assolutamente riavere indietro. Oppure si vedrà. Un ostaggio fa sempre comodo, no?- 
Jojen però oppose un'arguta obiezione. -È altamente improbabile che Rickon la ceda per liberare qualcuno che è caro a te. Lui non ne ricaverebbe alcun vantaggio, perciò accettando si mostrerebbe debole, sottomesso al tuo volere. Non hai visto come ha reagito prima? Considera la ragazza di sua proprietà. È, per così dire, il suo trofeo di guerra. Ha intenzione di segregarla nei sotterranei e violentarla quando gli pare, se non sbaglio.-
-Sì, ha lasciato intendere qualcosa del genere.- Bran chiuse gli occhi, affaticato da tali pensieri; quella storia non gli piaceva, era evidente. Soltanto, l'idea della gracile ragazzina dagli occhi spauriti che era stata presentata al suo cospetto alla totale mercè di quel bruto di Rickon lo metteva a disagio. Approfittarsi dei deboli non era certo nello spirito degli Stark -però dalle Nozze Rosse tutto era cambiato, e non si poteva fare finta di niente. Jojen colse la sua espressione turbata.
-Uno stupro non è nulla, in confronto a quello che tu fai alle persone, violando la loro mente. È un'intrusione infinitamente più iniqua, più perversa... ed infinitamente più dolorosa.-
Bran roteò gli occhi verso il soffitto, esasperato. -Oh, Jojen, ma tu da parte stai?-
Il suo consigliere lo ignorò. -Fatto sta che non è vantaggioso che due fratelli inizino una guerra, quando loro per primi sono in discordia fra loro. Se posso esprimere la mia opinione, bisogna che ogni dissidio venga risolto anzitempo. Devi poterti fidare di Rickon, Maestà. Questo è fondamentale.-
-Rickon non mi ascolta quando parlo. Alla fine, fa sempre di testa sua a prescindere da quello che gli consiglio o che gli ordino. A questo punto, a che servirebbe parlargli?!- sbottò Bran, logorato. -È un maledetto testardo, e mi odia. Mi odia perchè l'ho mandato a Skagos da solo con Osha, mi odia perchè mi sono separato da lui quando aveva bisogno di me... Non capisce niente. Non sa niente.-
-Con questo pretesto, Maestà,- intervenne Jojen pacatamente, -non fai altro che evitare il confronto diretto. A mio parere è un atteggiamento da codardi. E tu non sei un codardo.-
Bran si sfregò le tempie, entro le quali si stava generando un principio di mal di testa. -Gli parlerò. Prometto che gli parlerò.-
-Questa è un'ottima notizia, Maestà.- Jojen si concesse un istante ancora per osservarlo, con un'espressione vagamente divertita, prima di chinarsi sulla sua pergamena.
-Ci risiamo. Smettila di chiamarmi Maestà, Jojen! Non farlo. Non tu.- Bran scosse la testa affondata nel cuscino.
Jojen scribacchiò qualche parola. -Tu sei il mio re. Nessuno potrà mai cambiare questo... tantomeno tu.-
Bran tacque, lo sguardo fisso sulla figura del suo consigliere. La pausa non durò a lungo.
-Ne hai ancora per molto?- domandò, la voce inacidita da una punta di fastidio.
Jojen trascrisse fino al punto e poi si fermò; poggiò la piuma sulla scrivania e sollevò il capo, trovando gli occhi di Bran. Infine si alzò e raggiunse il letto a lunghi passi, senza distogliere lo sguardo, sempre più vicino a quegli occhi capaci di lacerare le anime. Allungò un ginocchio sul materasso e vi avanzò carponi, fino ad incontrare le labbra di lui.
Bran non sapeva come tutto ciò fosse iniziato, quando esattamente fossero cominciati i baci furtivi nel buio confidenziale del bosco. Soltanto, sera dopo sera, le loro bocche si erano avvicinate sempre di più ed accostate sempre più audacemente, avevano osato fino ad un punto di non ritorno. All'inizio pareva un sogno frammentario, uno strano delirio notturno, brandelli d'utopia e velleità: poi era diventato vero, grazie alla tranquilla consapevolezza di Jojen. Qualsiasi cosa accadesse era stata da lui già vista, esaminata, affrontata, calibrata. Fra le sue mani, sapienti, salde, metodiche, Bran ritrovava quella sicurezza e quel conforto che il freddo dell'inverno aveva estirpato dalle sue spalle. Jojen non aveva bisogno di parole per farlo sentire protetto, nè di dichiarazioni per farlo sentire amato. Aveva i suoi occhi, vasti come oceani, antichi come pietra, solenni come preghiere, e quelle labbra lievi come petali d'una primavera passata, e quelle mani, sì, quelle mani che conoscevano la devozione con tanta maestria. Jojen sapeva Bran a memoria, risolveva i suoi sguardi senza sbagliare, interpretava quei suoi pensieri che per il proprietario stesso risultavano arcani. Da Jojen veniva sempre la scelta giusta, il suo oracolo onnisciente, tutto quel ch'egli riteneva giusto non poteva che essere tale -e perciò Bran, pur avvertendo il sottile presentimento di stare facendo qualcosa di meravigliosamente proibito, si era abbandonato tremante di freddo e desiderio fra le sue braccia, in quella splendida notte senza stelle durante la quale s'erano amati per la prima volta -senza necessità d'una spiegazione, d'un chiarimento, perchè fra loro tutto era così, limpido e immediato ed intuitivo, un amore di attimi e silenzi e sospiri. Ricordava la bellezza di quell'emozione, vivida, prorompente, dispotica, che dopo tanto dolore gli aveva sanato l'anima.
In seguito, Bran non riuscì più a negarsi un sorso di quel sollievo, un po' al giorno, quel sollievo celestiale come l'unica dolcezza nella sua vita di guerra, qualcosa che si distaccava e differiva in tutto e per tutto dalla sordida rozzezza della realtà. Di giorno egli era il re del Nord, il castellano di Grande Inverno, ma di notte Jojen lo spogliava dei suoi pensieri, dei suoi doveri, delle sue responsabilità e delle sue vesti, e per poche ore lui era di nuovo Bran, nient'altro che Bran.
Bran tracciò con l'indice il disegno di quel viso che conosceva molto meglio del proprio -quante notti, quante, quante notti aveva preferito trascorrere insonni, pur di non sognare nulla e di poter contemplare il suo compagno di viaggio in tutta tranquillità. Jojen non si mosse, premendo delicatamente il proprio corpo su quello supino del suo re. I loro sguardi fusi insieme erano una prova inopinabile di quanto fossero affascinati l'uno dall'altro.
-Prima, quando parlavo di ostaggi che Tommen potrebbe ipoteticamente catturare... non mi riferivo a te.- mormorò Bran, cingendo la schiena del ragazzo con le braccia, in un placido gesto che pareva quasi una rivendicazione di possesso. -Non ti prenderanno mai, Jojen, fintanto che sei accanto a me... è qui che devi stare. Lo sai meglio di chiunque.-
Jojen scartò quelle parole con tetra indulgenza. -Io non sono altro che una guida, Maestà. Il mio compito è accompagnarti durante questo tragitto, scortarti, sorvegliarti. Proteggerti, magari. Impedirti di cadere di nuovo, a volte.- Gli carezzò le labbra schiuse in un bacio casto. -Io non sono così rilevante come credi tu: una delle tante pedine sacrificabili, piuttosto. Solo una cosa non è mai cambiata, in tutti questi anni, da quando sei diventato re...- Gli percorse i fianchi con tocco lieve, fino al petto, fino alle guance. Bran fremette e le parole seguenti, concitate ed affannose, le schiacciò contro la pelle del suo consigliere.
-Tu... tu sei la cosa migliore che mi sia capitata, Jojen. Ho rinunciato a tutto quello che avevo, in passato e... questo significa che potevo rinunciarvi. Posso tutt'ora. Nulla di ciò che ho l'ho reso mio, su nulla rivendico diritti di proprietà. Il destino, così come me li ha dati, potrà riprenderseli tutti. Meera, Rickon, mio figlio, che diamine. Che lo faccia. Tutto, davvero. Non tu. Non tu. Non ho intenzione di sopravvivere alla tua assenza, Jojen Reed. Tutto sommato, la sopportazione umana ha delle leggi alle quali sottostare.-
Per lui, Jojen non era soltanto Jojen. Era la personificazione di qualcosa ch'era speranza, rinascita, fede. Quando tutte le certezze, gli affetti, gli amori l'avevano tradito, l'avevano ripudiato, l'avevano abbandonato, mentre egli brancolava nel vuoto della perdita, era giunto Jojen a prenderlo per mano ed indicargli la strada, a stringere il suo corpo fra le braccia ed il suo destino fra le mani. Da quando erano in due a sostenerla, la sventura non faceva poi così male.
Perchè Jojen era quanto di più vero, categorico ed incontestabile esistesse al mondo, un calcolo esatto, una costante di marmo, una legge inderogabile.
-Devi essere pronto a perdere tutto quanto, Maestà. Anche me. Soprattutto me.- Jojen slacciò i bottoni della sua camicia senza fretta. 
-Vero. Tu sei il mio limite. Però, paradossalmente, sei anche l'unico motivo che mi spinge a sostenere il peso di quella corona in testa.-
Si amavano piano, lentamente, scoprendo per l'ennesima volta quei corpi che conoscevano a memoria come se fosse la prima; era ormai notte fonda quando giunse l'ora in cui Bran avrebbe dovuto tornare al letto coniugale, ma egli sorprendentemente si oppose.
-Stanotte voglio restare qui, Jojen. Stanotte voglio impedire al mondo di convincermi che quel che provo per te sia un errore della natura, voglio addormentarmi sul tuo petto ascoltandoti il cuore come fanno tutti gli amanti del mondo, e all'alba voglio essere svegliato dai tuoi baci. Stanotte voglio fare finta di avere sposato il fratello giusto.-
-Come desideri, Maestà.- aveva risposto Jojen, dopo un solo istante d'incertezza, avvolgendolo fra le lenzuola e cozzando nuovamente contro il suo corpo caldo. Bran aveva poggiato la testa nell'incavo del collo di lui, accoccolandosi grato, crogiolandosi nell'assuefante godimento: tutti i suoi sensi concordavano in un piacere muto ed obliante, in ogni parte del corpo echeggiava il riverbero di quel calore e il solo ricordo, ancora vivido nelle membra, lo rendeva pigro e pesante e dolente di spossatezza e sazietà.
Non v'era nulla di più rasserenante, per il giovane Reed, che osservare il volto di Bran rapito dal sonno, concentrato sul mondo dietro le sue palpebre, assorto in un sogno; non v'era nulla di più distensivo di scostargli le umide ciocche castane dagli occhi. Il suo viso si svelava soltanto in quei momenti, dopo aver fatto l'amore, s'ammorbidiva in un'espressione rabbonita e distolta dalla solita austera compostezza; egli imparava ogni sera a sorridere di nuovo, piano, di nascosto, e si scrollava il tedio del potere e la nefandezza dell'inverno di dosso. Sapeva, Jojen, quanto scorretto fosse tutto ciò nei confronti di Meera, sua sorella, e del piccolo Kenned, che aveva gli occhi uguali a quelli del padre -quelli prima della caduta, quelli puri d'ogni dolore, integri nella loro innocenza. Jojen sapeva com'erano perchè l'aveva visto talmente tante volte, in sogno, il ragazzino che scalava con innata agilità le mura di Grande Inverno. Bran era elemento intrinseco della sua anima -condizione necessaria e sufficiente della sua esistenza. Jojen Reed era nato in funzione di Bran, e se l'unica voluttà che richiedeva in cambio d'una vita di privazioni era il suo corpo, allora così sarebbe stato, a costo d'insultare la sensibilità di Meera e del bambino: il principe Kenned, sì, che suo padre ignorava così brutalmente. In effetti, il re di Grande Inverno non riusciva a provare sentimenti affettuosi verso suo figlio, e quando lo teneva in braccio provava persino una sorta di repulsione, di sgradevolezza, una zavorra nell'anima che egli stesso non si spiegava. Forse perchè era nato da un'unione sbagliata. Bran aveva sposato Meera per onorare la casata Reed, in generale; in particolare, perchè sperava di trovarsi più a suo agio con al fianco una donna che conosceva da un pezzo ed alla quale voleva bene, piuttosto che con un'estranea. Ma soprattutto l'aveva fatto perchè si fidava senza remore di lei. Era stata la scelta più accorta, non c'erano dubbi: ciò non gli aveva impedito di pentirsene amaramente, a volte. Era così maledettamente frustrante mordere quel nome fra i denti quand'era con lei- un nome che non era Meera, no, e non lo sarebbe stato mai.
Stretto nell'unico abbraccio di cui avesse bisogno, durante il primo anno del suo regno, Bran talvolta piangeva. Capitava che scoppiasse in un pianto furibondo, tempestoso, battente, e io non l'ho mai chiesto, non era così che doveva andare, doveva essere Robb, è sempre stato Robb, non io, sono un usurpatore quanto lo era Bolton, io non ci dovrei stare su quel trono, Jojen, gli abitanti del Nord non vogliono essere governati da uno storpio, così gemeva, e Jojen niente, le aveva asciugate una per una, quelle lacrime -che poi avevano smesso di colare, quando la frustrazione era diventata una cicatrice.
Al mattino, dopo essersi affrettatamente rivestito con l'aiuto di Jojen, Bran si aggrappò alla pelliccia di Estate come faceva sempre e il lupo si diresse verso la porta -ormai era una routine consolidata.
-Tu sei ancora l'unica cosa che conta.- La voce di Jojen lo raggiunse quando ormai stava per lasciare la stanza. Bran volse appena lo sguardo, con un'espressione indecifrabile.
-No,- replicò, -non è vero.-
***
L'universo di Myrcella era diventato quell'uncino sporgente, divorato dalla ruggine, proprio quello ch'ella non era mai riuscita a scrostare dalla parete, quello aguzzo che -se attaccato dalla fanciulla in maniera sconsiderata- le pungeva il polpastrello.
Se le avessero chiesto, ai tempi della sua vita a palazzo, che cosa fosse il tempo, Myrcella Lannister non avrebbe saputo dare una risposta. Era sì una fanciulla dolce, posata, mansueta, ma non aveva mai brillato d'intelligenza. Ciò non significava ch'ella fosse stupida, piuttosto che non aveva mai mostrato interesse verso lo studio e il sapere; le domande esistenziali non trovavano posto in quell'aurea vita d'abiti di velluto e fontane zampillanti. Tutto si spiegava da sè, chiamarlo fato o cognome non faceva troppa differenza. Eppure, Myrcella in passato non avrebbe mai negato l'esistenza del tempo. Ci si alza al mattino e il cielo è rosato, poi diventa azzurro al pomeriggio, arrossisce al tramonto e s'imbratta di nero durante la notte: come poteva il tempo non esistere? Il suo scorrere era così evidente.
Nella prigione, Myrcella aveva trascorso tre giorni a rincuorare se stessa, ripetendosi che avrebbe potuto andare peggio; era ancora viva, dopotutto, no? Nessuno l'aveva scuoiata, nè frustrata, nè era entrato nella sua mente; non era nemmeno costretta a lavorare come sguattera di cucina o inginocchiarsi a pulire il pavimento. La sua prima punizione era morire di noia, a quanto pareva. E poi, oh, sì, Rickon veniva a trovarla ogni giorno ed ogni giorno la prendeva su quel pavimento gelido, sozzo di polvere e cenere; a Myrcella stessa, durante il suo primo giorno di reclusione, era stato ordinato dal carceriere di leccare via il sangue della sua verginità da terra. La fanciulla, cerea di disgusto e mortificazione, le lacrime serrate nelle iridi e premute contro le ciglia con intollerabile tenacia, aveva pensato ch'era davvero un macabro modo di eccitarsi. D'un tratto -sarà anche stata colpa dell'oleosa sostanza nera che, raccolta dal pavimento, le aveva impastato i bei capelli biondi e le aveva macchiato le guance, sarà stato perchè non aveva acqua per lavarsi- aveva percepito sporca ogni fibra del suo essere. Non soltanto sporca: consunta, corrotta, marcita, quasi in preda ad un morbo orribile a manifestarsi. Rickon era tornato anche il giorno dopo e quello dopo ancora, ma Myrcella dopo le sue visite non aveva mai pianto. Era rimasta ferma, immobile, con gli occhi sbarrati nelle tenebre, un giglio sradicato che fissa la morte in attesa. Quei primi tre giorni non erano stati spiacevoli, perchè Myrcella nel disastro della sua situazione vi aveva visto una speranza; erano stati un inseguirsi di pensieri che lampeggiavano e duravano un istante, un rivivere ricordi inaccessibili, un elenco di preghiere e maledizioni. Quei primi tre giorni erano stati densi di ragione. Poi il controllo precipitò e il senno di Myrcella se lo portò via il buio.
La fanciulla s'era resa conto con rammarico che il tempo era svincolato dalle sue mani. Non riusciva più a ricordare quanto durasse un secondo, o perchè esistessero distinzioni tra un termine temporale e l'altro. Che senso poteva avere dire un giorno, o dire tre minuti? Il tempo era sempre quello, sempre quell'unico ammasso di poltiglia che la opprimeva ed imprigionava, che l'avvinceva ed impediva, come un tratto di sabbie mobili. All'inizio non vi aveva prestato troppa attenzione, preoccupata com'era per molte altre cose, ma ben presto dovette scontrarsi con quell'amara effettività: non aveva idea di quando fosse notte e quando giorno. La sua mente costretta all'inerzia, intorpidita dal freddo, infiacchita dal silenzio, vacillava anch'essa nel buio; non riconosceva più una parte o l'altra del corpo della ragazza, identificandola come un barlume invisibile di coscienza, e non sapeva dichiarare con sicurezza se Rickon quel giorno non fosse stato lì o se fosse appena andato via -o cosa fosse un giorno, o cosa fosse una dichiarazione. Nel momento in cui il macigno gravò sulle sue fragili spalle, Myrcella entrò nel labirinto del panico e scoppiò a piangere di paura, pagando alle lacrime un debito di almeno due settimane. In quel pianto, Myrcella pianse per il rapimento e per sua madre e suo zio e suo nonno e per il sonno e per la nostalgia e per gli abusi e per la vergogna e per il dolore, pianse di disperazione, e quei singhiozzi dicevano tutto quanto, scoppiavano, protestavano, imprecavano, si ribellavano, imploravano e s'arrendevano, soffocati fra le mani di Myrcella. Quei singhiozzi esprimevano un incubo senza volto, un inferno senza fiamme, una sofferenza senza voce. Quei singhiozzi parlavano, perchè Myrcella taceva. Fu così che il tempo scappò da quella cella, accartocciandosi su se stesso, allungandosi in una retta oltre l'infinito.
L'universo di Myrcella era diventato quell'uncino sporgente, divorato dalla ruggine, proprio quello ch'ella non era mai riuscita a scrostare dalla parete, al contrario di tutti gli altri coaguli di ferro vecchio e sangue essiccato che si protendevano guastando la compattezza del muro. In ogni istante si consumava le unghie grattando oppure tastava il pavimento, chiedendosi perchè ci fosse seduta sopra. Il buio, il buio era il vero colpevole: la lordava, la inquinava poco a poco. Ella era sempre stata una povera anima vulnerabile, sensibile, impreparata a qualsiasi tipo di violenza fisica e psichica, ignorante riguardo qualunque genere di dolore e circa il significato della parola trauma, e quell'esperienza stava devastando il suo organismo e la sua anima come un pugnale avrebbe scempiato le sue membra -sembrava quasi che il fato la stesse punendo per la sua antica ingenuità. Tutto ciò di cui Myrcella si accorgeva era di stare andando in putrefazione.
Una volta al giorno, dopo che Rickon era stato da lei, giungeva una serva a darle qualcosa da mangiare, una scodella d'acqua ed una veste nuova, di semplice tela bianca senza maniche. All'inizio Myrcella non ci faceva caso e la ignorava impassibile, ma col passare dei giorni quello divenne il secondo dei due unici legami che aveva con l'esterno, e perciò preziosissimo quanto l'acqua: ella cercava di parlare ma, disabituata alla presenza delle persone, non aveva idea di cosa dire e dalla sua gola emergevano soltanto suoni malcerti, sconnessi ed inarticolati. La serva si limitava a ricambiare il suo sguardo per un momento, piena di compassione.
Alcuni giorni dopo Rickon stentò a riconoscere la sua prigioniera, il chiarore dei riccioli appestato di sudiciume, il candore delle guance violato di sconcezza, e gli occhi rossi e gonfi come bacche ma dalle pupille vacue d'incoscienza, un'anima deflorata e deturpata irreparabilmente; dov'era finita la fierezza, l'orgoglio, l'ardore della ragazzina che non voleva piangere? Egli fu assalito dal trionfo, crudo come una cadavere pregno di sangue fresco, in un'ondata di piacere così vertiginosa che fece appena in tempo a penetrarla prima di venire copiosamente dentro di lei.
Myrcella ormai sapeva come Rickon si comportava. Quando egli era di cattivo umore, si limitava a strapparle di dosso la veste a morsi, ad addentarle i seni con violenza e prenderla, per poi andarsene senza dire una parola, cupo. Se invece era allegro, si prendeva un po' più di tempo per tormentarla con calma. La chiamava il grazioso abominio biondo e giocherellava distrattamente i suoi boccoli fra le dita. Diceva: -Vuoi sapere come ho ucciso i tuoi genitori?- e poi cominciava a raccontare, rimpinguando la verità di mille particolari che, dalla versione precedente a quella successiva, diventavano sempre più scabrosi. Affermava di avere scardinato il cuore di Cersei Lannister dal petto e di averlo divorato, oppure di avere mutilato a Jaime Lannister la mano sinistra rimanente e di averlo con questa strozzato, e ancora di avere infilato la spada nella gola di Tywin Lannister e poi di aver semplicemente tirato uno strattone per recuperarla. Myrcella ascoltava in silenzio, senza interromperlo, con in volto l'espressione imperturbabile dei sordi -mentre quelle parole venivano inoculate nel suo cervello e correvano nel sangue a deteriorarla dall'interno.
-Sai cosa farò, quando andrò a prendere tuo fratello?- raccontava Rickon, lasciando scorrere le unghie sulla sua schiena e bucando la pelle come faceva con la stoffa. -Lo afferrerò per quella fluente chioma da bambina che ha, così simile alla tua, e tirerò finchè la sua spina dorsale non uscirà allo scoperto. Poi, mentre ancora è vivo, lo darò da mangiare a Cagnaccio. Ti piace l'idea? A me tantissimo. Però lo ucciderò per ultimo. Prima dovrà cullare un po' in braccio il figlioletto che staccherò dalle viscere della puttana Tyrell. Prima dovrà raccogliere le cervella del suo zio nano, che dicono che sia tanto furbo. Quindi in quel testone deforme c'è davvero qualcosa? Visto quant'è grosso, dev'essere tutto quel che manca al resto della famiglia. Non sei d'accordo, piccolo abominio? Che c'è, stai zitta? Su, fammi contento, piangi un po'. Sai quanto mi piace quando piangi...-
Ogni tanto Myrcella piangeva di freddo, di quel freddo nordico che superava l'ostacolo delle ossa ed espugnava la sua anima; piangeva quando, svegliandosi, avvertiva i topi rosicchiarle le dita, e piangeva nello scoprire di non ricordare più il volto di suo padre, nè quanti fratelli avesse. Ma davanti a Rickon no, non piangeva mai. Non si trattava nemmeno più di uno sforzo, di una auto-costrizione: semplicemente gli occhi erano duri, raffermi, immobili in un dolore cieco.
-Non mi basta uccidere, caro il mio abominio biondo. I Lannister non si limiteranno a morire. Io masticherò i vostri cuori finchè non mi supplicherete di darvi il sonno eterno e mettere fine alla tortura. Io calpesterò il vostro onore finchè non andrà a mischiarsi indistinguibile con lo sterco dei porci. Io non avrò pace finchè tutte le spade del vostro trono del cazzo non vi si conficcheranno nel culo.- Dopo aver sibilato a voce bassa e vibrante quelle parole, Rickon percorreva le ferite aperte sulla schiena della prigioniera con la lingua, guidato dall'odore del sangue; suo malgrado, Myrcella si scopriva a percepire qualcosa di simile ad una scintilla incalzante scioglierle il ventre, e questo sì, ch'era un pensiero capace d'indurla al pianto. Desiderarlo sarebbe stato il degrado più stomachevole, l'aberrazione più turpe, l'oltraggio più bieco. Per il resto, il rancore verso di lui rimaneva debolezza, senza mai addensarsi in qualcosa di concreto, di solido, di potenzialmente fattivo, ma soltanto una triste arrendevolezza a quella forza verso la quale si sentiva così impotente.
Si rannicchiava su se stessa, Myrcella, cercando calore in quella misera camiciola di tessuto grezzo che le scopriva le gambe e le braccia ed il collo, cercando calore nel centro del suo corpo, nel battito del suo cuore, e trovando soltanto l'inverno. Nella devastazione nera del suo pozzo senza fondo Myrcella, visto che sia i pensieri sia i ricordi morivano prima di sbocciare nella sua mente, si aggrappava alle antiche sensazioni ancora impresse sul proprio corpo: le mani nodose della septa che le massaggiavano energicamente la cute, il bacio del lino più pregiato sulla schiena, il sapore della carne arrostita con le spezie sul palato. E ancora il sorriso bianco di sua madre, la maniera in cui il manto di capelli d'oro le avviluppava i fianchi, il profumo morbido della pelle. Se si concentrava, poteva immaginarla persino lì con lei, da qualche parte nel buio, a carezzarla e stringerla a sè... La solitudine risuonava nel suo petto più dolorosa dei lividi che Rickon le disegnava sulla carne.
-Sai cosa è successo oggi?- raccontò il carceriere un giorno, con le guance rosse di piacere, con gli occhi che brillavano. -Sono andato nelle prigioni dei condannati a morte, e c'era questa ragazza. Matta come un cavallo, a quanto pare. Ha bruciato casa sua con dentro i genitori e i fratelli. Bella. Non quanto te, certo, non essere gelosa, adesso. Però carina. Così a quel punto non ho resistito... e ho detto a quei tizi di lasciarla a me.- Sorrise un sorriso malizioso. -No, non è come pensi. L'ho mangiata. Pezzo dopo pezzo, l'ho mangiata. Mi piace tantissimo quando se ne accorgono, e stentano a crederci, e spalancano gli occhi e si dibattono, con quell'espressione così patetica... È degradante sentirli strillare come maiali. La fine dovrebbe essere più gloriosa. Cosa vuoi che ti dica? A tutti sembra strano, che io mangi le persone, ma il fatto è che... non lo so... non sono bravo con le parole. Mi inebria. Sfondare la cassa toracica con le mani, e poi squarciare la pelle del collo, che è soffice, e le palpebre... le stacco con le unghie, le palpebre. E i lobi delle orecchie, sai che consistenza hanno sotto i denti? Come il velluto.-
Invece di parlare, Rickon ringhiava a bassa voce, piano, pianissimo, in un soffio affilato. Myrcella non aveva compreso il significato di quelle parole; era rimasta con la testa bassa, a stringersi le ginocchia scorticate dal pavimento irregolare, senza dire nulla. Quando aveva inteso, con diversi secondi di ritardo, aveva emesso un lamento di repulsione, scuotendo il capo pesantemente.
-E tu, piccolo abominio? Tu che sapore hai? Prima o poi lo scoprirò, immagino...- Le aveva scostato un boccolo incrostato di sporcizia da una delle gote, con un sorriso acuminato. -Non crucciare quel dolce visetto che hai. Sei ancora la ragazza più bella che io abbia mai visto.-
Le aveva strappato la gonna ed aveva abbassato il volto, ad azzannarle le cosce fino a che non aveva avvertito rivoli tiepidi percorrerne le linee sinuose; c'era un accanimento di goduriosa gioia distruttiva nel dilaniare la sua prigioniera, nel profanarla ed ingiuriarla in ogni maniera possibile. L'idea di aver violato il suo candore con il nero del dolore, con il rosso del sangue, montava in lui un'estasi intraducibile, che lo costringeva alla perversa tentazione di infilare le unghie nelle ferite della ragazza ed allargarle ancora di più.
-Così sei perfetta. Infranta ed asservita.- le sussurrava con voce roca.
Ma Myrcella Lannister, nonostante quel vorticoso e delirante stordimento dovuto alla carenza di cibo, al buio, all'isolamento, non si sentiva nè infranta nè asservita. Nel suo petto il principio d'un urlo s'intensificava cruento. L'ultima cosa che pensò, prima di essere risucchiata dalle onde della sua incoscienza malata, fu mi ha chiamata la ragazza più bella che abbia mai visto. Fu tentata di urlare di frustrazione, di panico e follia.
***
Osha era sempre stata una donna capace di farsi i fatti suoi. Se c'era una cosa che davvero non riusciva a soffrire, era quella mania delle donnette nobili di spettegolare e cicalare spudoratamente sugli affari altrui, quel circolo vizioso di segretucci a cui le grandi famiglie erano così affezionate. Alla fin fine, sembrava che la guerra dei cinque re fosse stata combattuta a suon di spade ed ingiurie. Quando era arrivata a Grande Inverno ed aveva visto Meera sul trono della regina del Nord, Osha non si era stupita poi così tanto: era molto probabile che fra lei e Bran, in tutti quegli anni di convivenza, fosse nato qualcosa. Ma, col passare dei giorni, aveva compreso che la situazione era un po' più complicata.
Non ci volle molto per scoprire chi avesse veramente rubato il cuore al suo protetto. Erano piccole cose, ma urlavano assordanti la verità: occhi che indugiano negli occhi un attimo più a lungo del necessario, una parola detta in un modo piuttosto che in un altro, quel viso che si girava sempre dalla parte sinistra rispetto al suo scranno. In realtà, Osha l'aveva intuito già tempo prima, otto anni fa, notando l'inconsueta intimità, la magnetica attrazione che avvicinava le anime dei due ragazzi, e che le provocava insieme gelosia e diffidenza.
Così un giorno ella aveva preso Bran da parte e gli aveva chiesto, schiettamente: -Sei innamorato di Jojen?-
Il ragazzo aveva sospirato, con un pizzico di melanconia. -Molto più di quanto sono disposto ad ammettere.-
Osha aveva scrollato le spalle. Certo, era strano, ma aveva sentito molto di peggio oltre la Barriera. Se quello strano veggente poteva rendere Bran felice, che così fosse. E lei poi aveva guardato Meera.
Durante il viaggio insieme, aveva finito con l'affezionarsi a quella ragazza che le somigliava così tanto -sebbene fosse assolutamente incapace di scuoiare i conigli. Per questo ad Osha era dispiaciuto vederla... spenta. Spenta era l'aggettivo giusto. Sbiadita, opaca, inerme, come un ritratto rovinato dalla polvere che non riesce a fuggire dalla cornice. Effettivamente l'unico timore che si poteva avere, rendendo regina una cacciatrice, era quello di soffocarla, di murarla viva nel suo castello. Nonostante i loro caratteri simili, e per questo discordanti -erano entrambe molto competitive l'una verso l'altra- Osha non sopportava di vederla così sottotono, quando aveva avuto più volte prova del suo temperamento impetuoso e dirompente. Fu questo a spingerla, seppur un po' imbarazzata ed a disagio, ad avvicinarsi a Meera, una sera, dopo che Estate con Bran in groppa era già svanito nel buio del corridoio. La regina del Nord sedeva sul suo scranno, la testa reclina contro una spalla, lo sguardo fisso ad affermare ed ammettere, astenendosi ad un giudizio, perchè la risposta era la stessa ogni sera; i suoi occhi erano soli e segregati nel loro dolore, eppure un'emorragia aveva prosciugato le pupille di tutta la luce. Avvolto in un fagotto di pellicce, stretto al petto della madre, il principe del Nord Kenned Stark dormiva sonni fragili, che un solo spiffero di quell'inverno inclemente avrebbe potuto spazzare via. L'unica interruzione era stata da parte del Maestro, che recava una notizia: il giorno dopo il lord comandante Snow sarebbe giunto a Grande Inverno; a parte questo, tutti parvero ricordarsi che ella aveva bisogno di qualche ora per scostarsi dal brulichio di quella vita rumorosa. Meera non si accorse di non essere sola nella stanza, oppure non vi fece caso.
-Non credevo che il re del Nord fosse talmente impegnato da doversi occupare degli affari del regno persino di notte.- Osha avanzò nella grande dispersiva sala, seguita dal borbottio cavernoso dei suoi passi. Il volto di Meera non reagì al suono di una voce esterna, così che l'espressione della sua concentrata assenza non si sciupò.
-Infatti non è così.- confermò, a voce atona, remota, che sembrò provenire da molto lontano. -La sera è l'unico momento libero della sua giornata.-
-E non dovrebbe passarlo forse con sua moglie?-
Meera strinse gli occhi, in un'espressione che voleva essere dura e appariva più che altro ferita. -Sì, in teoria sì. Ma a quanto pare ha di meglio da fare.-
Osha aggrottò le sopracciglia. L'amica era ridotta peggio di quanto pensasse. Che fosse realmente innamorata di suo marito? Al punto da desiderare d'essere da lui ricambiata?
-Quindi sai tutto.- dedusse. -Di Bran e tuo fratello...-
-E come potrei non saperlo?!- sbottò la ragazza, sbattendo il palmo d'una mano contro il bracciolo destro del trono e protendendo il capo in avanti, all'improvviso con un tono graffiante che le era poco usuale; con l'altra mano premeva saldamente al seno il figlio, quasi per proteggerlo e risparmiargli il dolore di quelle parole. -Lo sanno tutti, ormai, dagli Estranei ai cittadini di Dorne. Il pettegolezzo ha fatto il giro dei Sette Regni. Probabilmente ci inventano sopra delle canzonette sconce alle taverne di Approdo del Re. Bran si comporta come se nulla fosse, ma ormai è ridicolo fingere in questo modo... Crede forse che io sia una scema, che sia cieca? Che non mi accorga dell'evidenza, quando è a un palmo dal mio naso?! ...oh, a volte persino li sento, che diamine!-
Osha l'ammirò tristemente per l'ostinazione e la pertinacia con cui trattenne le lacrime nelle iridi, impedendo loro di vincerla e dilagare sulle sue guance. Meera controllava con intransigenza anche il tono di voce, affinchè non rivelasse un tremito -la testimonianza della sua battaglia, la prova di quella crepa che la voleva rompere, la resistenza strenua dei suoi occhi alla pruriginosa insistenza del pianto.
-Hai provato a discuterne con lui?- azzardò Osha, rimanendo ai piedi del rilievo ove stava il trono.
Meera strinse le labbra, offesa. -Con Bran parlo di rado. Ci sono poche occasioni per introdurre argomenti così seri, o che richiedono del tempo, perchè tempo per me non ne ha più. Dal mattino al tardo pomeriggio ci sono i sudditi da ricevere, e poi un pranzo per accogliere questa o quella famiglia che è giunta a recare doni ed offrire soldati, o cose del genere. Oppure c'è una guerra da organizzare, e studiare le mappe, e scrivere lettere di qua e di là, e Rickon che è sempre che si lamenta per qualcosa. Poi, di sera, Bran sparisce come ha fatto adesso. "Non aspettarmi alzata", mi dice. Sempre, lo dice. Non aspettarmi alzata. Ogni singola sera.- Fece una pausa, perchè la sua voce rischiava di impastarsi di lacrime. Quando si fu ricomposta, Meera riprese, gli occhi ossidati d'astio. -Ha sempre una buona scusa da propinarmi, ma si sa dove va. In genere torna alle tre del mattino, in silenzio, pensando che io dorma e non me ne accorga. Ma io lo sento lo stesso. Ho il sonno leggero, se ben ricordi.-
Meera riuscì a tirare un sorriso desolato, ed una stilettata di pietà fece vacillare i suoi propositi; d'un tratto, desiderò non aver sollevato quella questione. Ma in fondo si trattava di un dolore con cui Meera conviveva abitualmente, ogni istante della sua vita; ad ogni modo, per rimediare al passo falso, l'altra cercò in qualche modo di lenirlo.
-Bran è senza dubbio affezionato a te. Sono certa che non è sua intenzione farti soffrire... tu gli hai dato un figlio...- commentò nervosamente. Inutile, certo.
-Non mi interessa assolutamente nulla di quali sono le sue intenzioni! So solo che mi sta ricoprendo di vergogna. Non ha nemmeno il tempo di chiedersi come sta, suo figlio! Se ne frega, Osha, posso rifiutare la verità quanto voglio, ma lui se ne frega altamente.- Meera frenò il sussulto del labbro inferiore, serrandolo violentemente con quello superiore. -D'altronde, quando deciderà che Grande Inverno ha bisogno di un altro erede, tornerà a dormire nel mio letto. Giusto per il tempo che ci vorrà a mettermi incinta. E poi daccapo.-
Osha pensò alla ragazza allegra ed energica con la quale aveva tante volte bisticciato, tante volte fatto pace, tante volte cacciato nei boschi, e realizzò quanto infelice l'avessero resa le subdole e perfide leggi della vita a corte -Meera non ci era tagliata, non lei, con la sua limpida autenticità, con la sua fame d'evasione ed adrenalina.
-Senti per caso la mancanza dei bei vecchi tempi?- chiese allora Osha, sperando di evocare in lei ricordi gradevoli che attenuassero l'orrore della realtà attuale.
Meera si abbandonò allo schienale del trono, quasi che tutta la sua rabbia, dopo aver sbraitato e imperversato, si fosse disgregata infine in cenere. Iniziò a cullare distrattamente l'involto di pellicce da un braccio all'altro, quasi quel gesto fosse in grado di placare il suo animo e rasserenare la sua mente.
-Se ne sento la mancanza? Ovvio. Qui dentro è un mortorio, si fanno sempre le stesse cose, si vedono sempre le stesse facce. Le mie gambe non sono abituate a rimanere inutilizzate per ore, e a volte sembra impossibile resistere alla tentazione di alzarsi in piedi e scappare via. Bran non mi permette quasi mai di uscire, perchè dice che è troppo pericoloso, con i tempi che corrono. Quella storia d'essere diventata la regina del Nord ha smesso da un pezzo di essere divertente...- Scosse il capo, come se non riuscisse ancora a capacitarsi della sua situazione. -Una volta Bran e Jojen mi trattavano come una loro pari. Una volta, se io non c'ero, loro morivano di fame. E adesso? Adesso cosa sono diventata? La loro copertura. Il loro alibi.- Meera sputò quelle parole con disgusto, gli occhi offuscati della polvere della disillusione. -A quanto pare, si sono accorti che sono solo una stupida donna, e quindi valgo meno della terra sotto le loro scarpe.... E pensare che ho fatto tutto questo per loro. Per loro ho attraversato la Barriera e sono andata dall'altra parte del mondo. Per loro ho rischiato la vita in tutti i modi possibili ed immaginabili. Avrei preferito morire che abbandonare la loro causa. E ad ogni costo non vorrei essere qui a rinfacciare tutto questo, ma... non me lo merito, Osha. Non merito il trattamento che mi stanno riservando. Non merito tanto disprezzo. E sai qual è la cosa più grottesca? Che li amo ancora. Che se mi chiedessero di scegliere fra loro e me, sceglierei ancora loro. Che stupida, eh?-
Un sorriso amaro infranse irreparabilmente le sue difese, mentre Osha veniva colta da un impeto d'indignazione. Come potevano quei due egoisti comportarsi in quella maniera vergognosa con Meera, dopo tutti i sacrifici che lei aveva fatto per stare sempre al loro fianco?! Come potevano essersi dimenticati di tutti i debiti che avevano nei suoi confronti? Era Meera che procurava i pasti, era Meera che montava la guardia di notte, era sempre Meera che accendeva il fuoco e li difendeva dai potenziali pericoli. Quel doppio tradimento -sia da parte del suo stesso fratello, sia da parte di Bran- sembrava una cattiveria troppo sleale e meschina per essere attribuita a quei due. Per quanto Osha lo conosceva, maltrattare coloro che lo avevano aiutato gratuitamente non era abitudine di Bran. Egli era stato un ragazzino dolce, sorprendentemente intelligente, particolarmente sensibile. Possibile che fosse stato capace di tanta disonestà? Perchè aveva sposato Meera, se come fine ultimo aveva ottenuto solamente di farla soffrire?
In verità, Meera era gelosa di entrambi. Da una parte, nessuno poteva pretendere di amare e capire suo fratello più di quanto non lo amasse e capisse lei; dall'altra, nessuno poteva scoparsi impunemente suo marito facendo di lei una cornuta. Mio?, si chiese Meera. No, in realtà nessuno dei due è mai stato davvero mio. Loro si appartengono soltanto l'un altro. E io sono la terza incomoda. Qualcosa di superfluo, qualcosa d'ingombrante. Di sgradito. Ormai una piccola lacrima le solleticava lo zigomo.
-Oh, ti prego, non fare così... E' troppo strano.- bofonchiò Osha, imbarazzata. -Lasciali perdere, Meera, sono degli idioti. Sono degli ingrati, sì. Dei fottuti ingrati. Quando crescono e mettono su la voce grossa, diventano terribili. Potessero rimanere sempre piccoli...-
Salì i gradini e le diede due pacche sul braccio, impacciata; per un attimo, immaginò che Meera le avrebbe gettato le braccia al collo ed avrebbe affondato il viso contro la sua spalla, permettendo ad un pianto dirotto di scaldarla mentre, singhiozzo dopo singhiozzo, il rancore la abbandonava -rigetto di dolore rifiutato- e lasciava in lei soltanto un soporifero, stanco torpore -debolezza che, prima o poi, riemerge sempre.
Osha immaginava che Meera avrebbe pianto, però dimenticava ch'era giunto l'inverno e, si sa, è il ghiaccio ad imprigionare le lacrime delle fanciulle del Nord. Meera sedeva su un trono, ora.
La giovane Reed sollevò la fronte, ad esporre alla luce delle candele le guance asciutte senza esultare. Il bambino fra le sue braccia agitò un piccolo piede nel sonno; si riusciva appena ad intravederne un ciuffo di lanuginosi capelli castani ed il bagliore perlaceo della pelle, fra gli strati di coperte.
Perchè mi stanno facendo questo? Perchè? Quelle parole non raggiunsero mai le labbra di Meera. Non si sarebbe compatita più; li avrebbe amati ancora, caparbia, incapace di dirottare i propri sentimenti, fedele a se stessa. Osha s'inchinò al suo dolore, con uno stoico sospiro, abbassando le palpebre lentamente, ed era il rispetto ad essere ritratto sul suo volto. Aveva lasciato una ragazza ed aveva ritrovato una donna.
E partecipò a quel silenzio, Osha, mentre realizzava quanto potesse, in confronto a quella d'un pugnale sul campo di battaglia, la violenza d'un bacio al buio.


































Note dell'Autrice: Ed ecco a voi -con un po' di ritardo rispetto al tempo che avevo previsto!- il secondo capitolo. Ecco che fine ha fatto Sansa! Ovviamente chi ha letto i libri saprà che non è tutta farina del mio sacco, però ho apportato qualche modifica circa Joffrey -non voglio fare spoiler, ma i lettori mi hanno capita, vero?- e circa Robin, e circa Lysa, qua e là. Nessun cambiamento è stato effettuato a caso, naturalmente. Cosa deciderà di fare Sansa? Troverà il modo di raggiungere Grande Inverno prima che scoppi la guerra?
Qua è stata presentata la situazione a Grande Inverno, mentre nel prossimo capitolo verrà descritto cosa sta succedendo ad Approdo del Re, nonchè la visita a Bran da parte di Jon. Inoltre, non mi sono dimenticata di Theon e Ramsay! Cosa sarà successo, dopo che Yara si è ripromessa di salvare il fratello? Saprete pure questo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Mi interesserebbe molto sapere la vostra opinione a proposito, positiva o negativa che sia! Grazie a funny1723 e a Loony Moony per avre recensito il prologo, a desmovale per avere recensito il primo capitolo e a RLandH per averli recensiti entrambi; grazie a tutti coloro che ricordano/seguono/hanno inserito fra i preferiti questa fanfiction, ma grazie molte anche ai lettori! Per il secondo capitolo dovrete attendere più o meno due settimane, credo.
Quindi grazie a tutti e arrivederci al prossimo capitolo! ^-^
Lucy

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Capitolo 4
*** Indaco fu il presentimento. ***


3

III. Indaco fu il presentimento.



Quella vertigine. Bran la ricordava offuscata ed anonima eppure, appena essa gli sfiorò l'anima con la punta delle dita, egli l'afferrò prontamente, con una spasmodica disperazione di derubato, le vene scosse, la lingua ad umettargli le labbra. Avvertiva qualcosa di fresco sulle guance, di pregno e buio, vento, vento d'alta quota e- Si stava arrampicando. Arrampicando. Quella parola. Oh, quella parola lo invase fino in fondo, a vibrare nelle viscere e gonfiargli la mente d'aria intrisa, e fu adrenalina. A Bran veniva da ridere, forte, spietatamente, con gusto pago e completezza assaporata senza fretta, veniva da ridere con esaltante orrore. I suoi piedi sapevano dove procedere, sapevano quali pietre erano stabili e quali sdrucciolevoli, sapevano cosa fare. Le sue mani ricordavano con la precisione di chi non ha mai smesso, agili, sicure, sensibili, i polpastrelli ad esaminare ogni fessura ed insinuarsi in ogni crepa, curiose, circospette, diligenti. Conoscevano ancora le regole, le sue gambe, non erano affatto morte: scattavano, saltavano, vincevano. Quei muri non l'avrebbero mai, mai tradito, ed era un ritorno di fiamma ed accoglienza stringersi alle pietre e toccarle e salutarle una per una. Esultante, ebbro, il sudore a fiottare sul collo, l'euforia a fremere a fior di labbra, sussultava il cuore a pompare gioia vecchia, gioia riscoperta, gioia rinnovata che si scrollava di dosso la veste di ricordo e fluiva liberamente nelle vene, eccedendo indulgente, concedendo come un abbraccio avvolgente, ed era un calore insostenibile, che voleva sfrenare, che voleva liberare, che voleva realizzare, ed i brividi risalivano le braccia ed attanagliavano il cuore, essenziali, spinosi, avviluppanti. Le emozioni, troppe a sovrapporsi, sfociavano fino a renderlo incauto, ma lui lo sapeva che non sarebbe caduto. L'esperienza, rimasta acquattata dentro di lui per tutto il tempo, muoveva il suo corpo con ammirevole destrezza.

E poi tutto diventava più brutto, più minaccioso, come un'ombra sulla pelle. Due voci bisbigliate ed affrettate, furtive, brutte piccole viscide risate. Cos'erano? Qualcosa di infimo, di abietto. Una finestra, e il sorriso di Jaime Lannister, placido, lungo e sarcastico, e il brillare pungente dei suoi occhi verdi. Cosa non si fa per amore, cosa non si fa. Mormorava quelle parole già sentite e si avvicinava per ghermirlo con le mani. Ma Bran non si lasciò afferrare, questa volta: si alzò in piedi, sul davanzale di pietra della finestra, e dall'alto guardava Jaime Lannister e Cersei, nient'altro che gatti spauriti che lo fissavano, gli occhi colmi di sconcerto. E Bran si sentiva forte, grande -più forte, più grande. Erano salde, le sue gambe, e il mondo era quell'ammasso ignobile e miserevole là in basso. Bastò sgranare appena le pupille e il viso di Jaime Lannister si deformò in una maschera di raccapriccio, la bocca dilatata ed il sangue ad arrossargli i denti, lacrime rosse a rompere gli occhi, e si afflosciava nel dolore la sua terribile gemella. Bran non li guardava più; scendeva dal davanzale e calpestava i loro cadaveri, sangue vile, carne empia. Oltre la porta v'era una sala che non c'entrava nulla con Grande Inverno; era quella del Trono di Spade, nella Fortezza Rossa, o almeno così Bran dedusse. Fra le lame sedeva Joffrey, con un sorriso insolente, la corona reclina sul capo, e fra le mani strattonava i capelli di suo padre, un pugnale pronto a squarciargli la gola. Bran ruppe la sua mente con spiazzante facilità, e il trono all'improvviso era così piccolo, così insulso, e Joffrey crollava trafitto da tutte le spade, e il suo sangue colorava il trionfo. Gretto, audace, spudorato, Bran proseguiva più rapido, il mantello colmo di vento a gonfiarsi alle sue spalle, lo sguardo fisso, nero, incrollabile, e quella smania ad ansimare nella sua gola, un crescendo d'irrequietezza come una nube appestata a mordergli le ossa fino al cranio. Il respiro assecondava i suoi passi sulla pietra, rapido, a pungolare le labbra per scivolare, il fiato sfrigolante -una candela all'incuria del vento. La bramosia sconquassava la nitidezza della realtà come nebbia rossa. Poi vi fu il cortile di Grande Inverno, dissestato, attorniato da rovine crepitanti di fiamme, e l'arroganza di Theon, con un'espressione nuova e cattiva su quel volto che Bran non aveva mai imparato ad amare, ed egli stringeva con violenza il braccio di Rickon, il bambino di sei anni perso per la strada d'un fato iniquo. E Bran piegò il sorriso di Greyjoy, perchè egli era grande ed irrefutabile, mentre cos'era, quel figlio che nessuno voleva, quel traditore d'ogni bandiera, quanto poteva valere la sua morte, lenta e precisa e metodica e concentrata come una preghiera. Nella sala attigua v'era un tavolo da cerimonia, lungo e imbandito, con piatti scomposti e boccali rovesciati, a spandere il contenuto in rigagnoli di vino. Al posto d'onore sedeva un vecchio dal viso raggrinzito come una prugna marcia, che ghignava becere risate; poco lontano c'era Roose Bolton, e puntava il coltello al collo di Robb Stark. Quegli occhi di fratello, grandi e cerulei, aggrappati spasmodicamente ai suoi, gli scossero il cuore come una corrente abissale. Il volto di sua madre, trattenuta dalle mani brusche di un soldato, baluginava lontano come una stella dalla sua memoria. Bran rivolse lo sguardo a Walder Frey: il potere che gli fremeva nelle mani schiacciò la debole mente di quell'uomo come una bacca. La sala s'inondò di sangue, lingue che schizzarono alte fino al soffitto, e questa volta era il sangue giusto quello versato. Bran tremava forte, e nemmeno serrare le dita in pugni servì.
Tutti i membri della sua famiglia erano vivi, all'improvviso, ed erano accanto a lui. Vivi e veri e gli sorridevano, e lo ringraziavano e tendevano le mani verso di lui, un viso familiare e un altro e un altro ancora...
Ma Bran non voleva affatto che si avvicinassero. Basta un istante -ormai non è più difficile. Gli occhi di Robb caddero dalle orbite come biglie e non appena Arya aprì la bocca vi scaturì un getto di sangue gorgogliante, la testa di Catelyn s'infranse come se all'interno un demone urlasse. La pelle di Sansa pioveva a brandelli, dilaniata da artigli invisibili; suo padre affogava invischiato, la carne intrisa, le labbra grondanti. Bran rise; un suono spezzato, rauco, affilato come schegge, e quel rumore di lama a sfregare sulla pelle, quel nucleo di potere pulsante che scandiva imperturbato un suono tondo ed ottuso -gli riempì il corpo dai polpastrelli al basso ventre. Il petto, sotto le vesti di broccato, palpitava strenuo e incrollato. Solo una figura emerse dal buio ai suoi piedi: era Rickon, carponi a terra, in ginocchio davanti a lui, e lo sfrontato adolescente che tanto lo faceva arrabbiare continuava a confondersi con l'immagine del bambino dai riccioli arruffati e gli occhi increspati di lacrime, che sussurrava suppliche incomprensibili. Bran smise di ridere lentamente, gli sghignazzi si calmarono in maniera progressiva lasciando il posto ad una tensione logorante; egli guardò il fratello minore in quegli occhi imploranti. Lo guardò. E lo guardò ancora. Finchè da una delle narici non stillò una densa goccia di sangue.
E ridere, ridere, ridere, e il suo trono era una catasta di cadaveri, il Folletto e Tommen e Margaery Tyrell e Meera, e quel figlioletto con gli occhi come i suoi, catasta talmente gremita che ormai Bran aveva perso il conto -no, Bran non c'era più, c'era quella sete sguaiata e quel potere, quel potere che l'aveva assuefatto fino a soffocarlo -sì, stava soffocando, la sua gola si chiudeva, egli scivolava sempre più giù fra i cadaveri e il sangue lo divorava colmandogli i sensi e non riusciva a repirare, non riusciva a respirare...
-Si sta svegliando?!- Una voce veloce ed enfatizzata dalla preoccupazione.
-Maestà?- Un'altra voce. Confortevole, morbida. -Maestà? Riesci a sentirmi?-
Sì, riusciva a sentirlo. Bran spalancò gli occhi precipitosamente e la luce travolse le sue pupille disorientate come un manrovescio; il ragazzo gemette e abbandonò le palpebre, arreso. Voleva dire qualcosa, ma la voce s'impastava nella gola chiusa e riaffondava nel petto. Avvertì la presenza di Jojen come si percepisce il sole sulla pelle e il suo respiro si regolarizzò. Il sudore gli inumidiva la nuca; un vago, tossico sentore di sangue era incollato al suo palato come viscoso bitume. La spossatezza gli pervadeva i muscoli, e le sue gambe non rispondevano al minimo impulso nervoso -come al solito; non c'era stato nemmeno il tempo di illudersi del contrario, del resto. 
-Mi vedo costretto a chiederti di guardarmi, Maestà.- proseguì la voce salda e liscia di Jojen. Riluttante, Bran obbedì, questa volta più cautamente: quel che vide fu la luce aranciata delle candele danzare sulle pareti e due sagome scure incombere su di lui. Riconobbe i ricci indomati di Meera, poi gli occhi accigliati di lei; e Jojen, inginocchiato vicino al letto, che gli stringeva delicatamente il polso fra le mani misurando il battito cardiaco, ad esaminarlo con attenzione. Scrutò i suoi occhi alla ricerca di qualcosa, infine contrasse le labbra ed annuì fra sè.
-Si è rotto soltanto qualche capillare oculare. Nulla di grave. Come ti senti?-
Bran ci pensò prima di rispondere. -Stanco.- confessò infine. Capitava spesso, d'altronde, che al risveglio da un sogno durante il quale aveva compiuto uno sforzo fisico egli provasse i sintomi d'un reale affaticamento. La moglie, sul viso ritratte le prove d'un brutale risveglio, lividi viola di sonno sotto lo sguardo infuocato -ma con l'indefessa risolutezza di chi è sempre in allerta, pronto a scattare al segnale e mobilitarsi all'improvviso- gli aveva sollevato il cuscino poggiandolo contro la testiera del letto e gli aveva premurosamente frizionato la fronte accaldata con un panno umido. Il contatto della stoffa bagnata aveva il balsamico effetto d'un niveo bacio contro la pelle bollente, e Bran si permise il lusso di godere di quel momentaneo refrigerio. Il sogno a cui aveva assistito era inciso a sangue nelle sue pupille come un marchio a fuoco.
-Hai visto anche tu...?- chiese agitato a Jojen, lasciando la domanda in sospeso. Il suo consigliere lo osservò a lungo ed infine annuì gravemente.
-Che cosa è successo?- intervenne Meera, incrociando le braccia al petto, disapprovando la propria esclusione dalla discussione. Jojen la ignorò e porse al re un calice colmo d'acqua fino all'orlo. Bran pensò che, se qualsiasi altra persona -Rickon incluso- l'avesse fatto, egli l'avrebbe invitata a bere per prima; mentre, anche se il suo consigliere gli avesse offerto un liquido verde dichiarandolo vino, non avrebbe avuto alcun dubbio a proposito. Sorseggiò; nella gola v'era un buco di dolore lancinante, disgustoso, simile ad una ferita riaperta, che il liquido freddo accese in uno stridore acuto. L'inclemenza dell'acqua attenuò il sapore del sangue, sciogliendolo un po' dal palato di Bran.
-Ti sei morso la lingua nel sonno.- osservò Jojen. -Hai persino rischiato di inghiottirla. Se si verificherà di nuovo un'esperienza onirica del genere, potresti perdere la vita.-
Bran aggrottò la fronte; certo, si sentiva piuttosto male, però mai avrebbe potuto immaginare che il pericolo fosse tale. Gli formicolavano fastidiosamente le dita, mentre i palmi erano madidi di sudore.
-Ma insomma, cos'hai visto?- insistette Meera, visibilmente sconcertata dalle parole del fratello, l'apprensione accalcata contro lo specchio delle iridi scure come mani supplichevoli. Il marito si limitò a lanciarle uno sguardo penetrante ed indecifrabile.
-Perchè è stato così... diverso dagli altri? Così sconvolgente?- domandò infine a Jojen, stringendo le dita attorno al calice.
-Non credo esista una risposta esatta a questa domanda, e in tal caso io non te la saprei fornire. Assisto ad eventi che non sono ancora accaduti, partecipo ai tuoi sogni, ma non sempre so spiegarmi quello che vedo. Le mie conoscenze circa i sogni verdi le ho acquisite soltanto tramite l'esperienza, perchè nessuno in effetti mi ha insegnato nulla in proposito. Comunque, immagino che questo sogno sia stato così difficile da affrontare, sia psicologicamente che fisicamente, perchè i tuoi poteri stanno crescendo. Può essere un vantaggio per te, però allo stesso tempo un ostacolo, perchè anche la loro influenza aumenta. Diventano ingombranti, per così dire, in ogni senso. Tanto grande è il loro potenziale, tanto essi pretendono di essere sfruttati.- Jojen gli ravvivò i capelli sulla fronte. -Non ci sono certezze circa il rapporto tra l'intensità emotiva dei tuoi sogni e la reazioni fisiche del tuo corpo, perchè il tuo caso è unico e probabilmente irripetibile. L'unica cosa di cui sono sicuro è che usufruirne ti stanca moltissimo; è paragonabile alla somma di uno sforzo mentale quale una lettura di tre ore e uno sforzo fisiologico quale una corsa ininterrotta di quaranta minuti. Sarà quindi necessario vigilarti più costantemente, e con maggior perizia, affinchè non accada qualche fatale incidente. Una forma precauzionale utile potrebbe essere, per esempio, accertarsi che tu sia digiuno da almeno dieci ore prima di utilizzare i poteri, in modo da impossibilitarti ad andare oltre il tuo obiettivo quando essi si manifestano.- spiegò il ragazzo, moderando sapientemente il tono di voce e le parole.
Bran deglutì; il precipizio di dolore della gola protestò.
-Che cosa significa ciò che ho fatto in questo sogno, Jojen?-
Aveva posto la domanda che davvero gli stava a cuore. Era ancora allucinato da quelle grottesche sequenze che danzavano come lampi, dal suono estraneo di quelle risate sguaiate che non riconosceva proprie, e il sapore del sangue richiamava alla memoria quello che esplodeva dalla testa di sua madre, che scrosciava dalla bocca di Arya, che gocciolava dal naso di Rickon... e la fame, quella fame che soltanto sotto la pelle di Estate solitamente provava. Lo atterriva il fatto che Jojen l'avesse visto in tali orribili condizioni -e c'era anche Meera, in quella catasta di cadaveri, gettata alla rinfusa come una bambola di pezza, con il sangue che colava dagli occhi sfondati.
-Che se non impari a dominare i tuoi poteri, i tuoi poteri impareranno a dominare te.- fu l'asciutta e lapidaria risposta. Bran avvertì una fitta di spavento accendersi ed espandersi nella cassa toracica. D'un tratto, quella che per tutti gli ultimi anni aveva ritenuto la sua unica arma di difesa gli parve una specie di intelligenza aliena ed oscura, ad invaderlo ed impossessarsi di lui.
-Come stai adesso, Maestà?- proseguì Jojen, carezzandogli delicatamente il palmo con il pollice, in un gesto discretamente ponderato ma significativo che fece esplodere nelle vene di Bran la prepotente esigenza di baciarlo, lì, così, adesso, cogliendo un attimo terribilmente giusto; una follia che Bran Stark sapeva osare, ma che il re del Nord non poteva permettersi.
-Sto bene.- confermò rapidamente. -E ho parecchie cose da fare quest'oggi, perciò non posso stare qui a perdere tempo. Meera, mi aiuteresti a vestirmi, per favore?-
Nel frattempo, Osha arrestò la propria caduta avanzando le mani e poggiandosi sui palmi aperti contro le lastre di pietra consunta. Socchiuse le labbra ed ansimò.
-Niente male, piccoletto.- bofonchiò fra i denti. -Davvero niente male.-
-Oh, lo so, mia lady.- Rickon le piantò lo stivale sulla schiena, di modo che ella non potesse rialzarsi; Osha, nonostante la veemenza del colpo, non si lasciò sfuggire un lamento ed anzi alzò gli occhi al cielo, quasi richiamando a sè tutta la pazienza di cui non era prodiga.
-Avanti, dì che ti arrendi e ammetti la tua inferiorità.- la incalzò il ragazzo, premendo compiaciuto il piede contro la spina dorsale di lei. La donna sbuffò e si rigirò a pancia in su, lanciandogli un'occhiata di traverso.
-Va bene, va bene, mi arrendo. Contento adesso?-
Decisamente no. -Dì che sono il guerriero più capace del mondo.- proseguì Rickon, capricciosamente, con un sarcastico sorriso -sapeva bene di stare punzecchiando il punto debole di Osha, ovvero l'orgoglio, altrimenti non si sarebbe divertito in quel modo.
Osha assunse un'espressione solenne. -Sei il guerriero più imbecille del mondo.-
-Risposta errata!- Rickon si gettò con giocosa frenesia ad afferrarle la gola con una mano ed i capelli con l'altra, nello stesso momento in cui la donna lo prendeva per i fianchi ed invertiva le posizioni, inchiodandolo a terra e conficcandogli un ginocchio nello stomaco. Rickon, furibondo e deliziato, affondò i denti nel braccio di Osha ma lei non attenuò la pressione contro il petto del ragazzo, a tal punto ch'egli dovette morderle la gola prima di riuscire a liberarsi, tirarle un pugno, schiantarla al suolo e bloccarle ambo i polsi sopra la testa, in una presa ferrea.
-Adesso dillo!- ordinò petulante, accompagnando ogni sillaba con uno strattone ai suoi capelli. -Me lo sono meritato. Lo sai.-
Osha infine sorrise. -Vaffanculo. E adesso scrostati, piccoletto... Rispetto per chi ti ha imbeccato come un uccellino di nido, quando tutti gli altri volevano squartarti.-
-L'allievo ha superato la maestra da un pezzo.- precisò Rickon, sogghignando, però indietreggiò per permetterle di alzarsi in piedi.
-A proposito... come va con la prigioniera?- domandò Osha, mentre si tastava la guancia per constatare i danni. Rickon alzò le spalle e disegnò dei solchi con la punta dello stivale sulla ghiaia, distrattamente.
-Dici il mio piccolo abominio biondo? Bene. Mi diverte. A volte tace e fa la sdegnosa, a volte si trattiene a stento dal frignare, a volte le vengono degli attacchi di rabbia... Mi sa che sta perdendo qualche rotella là sotto. E questo mi eccita ancora di più. È come insidiare ogni giorno una parte diversa di lei.-
Osha annuì noncurante. L'idea che Rickon stuprasse una ragazza non la indignava affatto -anzi, era qualcosa che riusciva a comprendere, riguardo il quale arrivava persino a trovarsi d'accordo- però lui aveva quella sua maniera particolare di violentarla, sottoponendola perlopiù ad attacchi psicologici, assediando la sua mente di stimoli, rinchiudendo il suo corpo nel buio, scomponendola pezzo per pezzo e divertendosi a scombinare i tasselli e portarne via qualcuno con sè, così che fosse impossibile ricreare l'immagine iniziale. Osha non aveva più visto Myrcella, dopo quello sporadico incontro fuori dalla porta della sala del trono, però dalle chiacchiere concitate delle servette riusciva già a visualizzare il ritratto di quel bel visetto assottigliato dagli stenti, schiaffeggiato dal destino, annerito dalle tenebre, una creatura infera dalla voce lacera e le caviglie incatenate, che ride folli risate e piange folli lacrime, capelli bianchi e carne nera, occhi verdi non più come la giada, ma come una luna malata. La piccola leonessa di Castel Granito spaccata di botte e prosciugata d'integrità.
-Immagino che ti spetti di diritto. Ma un giorno dovrai decidere se tenertela viva lì per sempre oppure ucciderla. Dubito che, se la lasciassi libera, avrebbe un qualche genere di futuro.-
Rickon calciò la ghiaia, indispettito.-Io non la libererò mai. A che scopo, poi? Lei è una Lannister. Non merita nè di vivere nè di morire.- Alzò lo sguardo al cielo plumbeo che lo sovrastava, mentre un soffio di vento -come una gelida goccia di rugiada- s'insinuava sotto la casacca intrisa di sudore, staccandola dalla pelle, e percorreva la schiena umida con tocco fresco. -Solo di soffrire.-
Scoprì di non avere voglia di raccontare ad Osha quel che era successo il giorno precedente; non era nulla d'importante, però gli procurava qualcosa di simile al disagio. Era accaduto questo: Rickon era andato a trovare la prigioniera come al solito, l'aveva fottuta senza riguardi e l'aveva lasciata lì per terra, il respiro incerto fra le labbra spaccate, i capelli spanti fra la cenere come sangue. Quella bellezza non gli era ancora venuta a noia: verdi erano i maledetti occhi, che lo sfioravano con intimorita cautela, come un fiore che schiuda appena la corolla facendo presentire la sua immane delicatezza; era candido, il petto di Myrcella, sotto i brandelli di stoffa sgualcita ch'ella insisteva a premersi pudicamente al seno. Con indosso tutto il male del mondo, unica erede d'un debito schiacciante, incrostata di quel sangue che non aveva versato, teneva le cosce impolverate oscenamente serrate l'una contro l'altra, quasi che esistesse ancora decoro, ancora dignità, ancora diritto per quella creatura immonda e gentile, con gentile respiro e gentili guance.
-Ci vediamo domani, mio piccolo abominio di una Lannister.- aveva canticchiato, dopo aver chiuso con il lucchetto la porta della sua cella; si era allontanato, pago, tronfio, rallegrato.
Quando era ormai presso la scala a chiocciola che lo avrebbe condotto al piano superiore, quella voce l'aveva raggiunto come un sasso scagliato nel buio.
-Io mi chiamo Myrcella.- Egli aveva posato il piede sul primo scalino senza proseguire, interdetto, sbalordito dal solo suono della sua voce, incuriosito suo malgrado.
Ella, non avvertendo più il rumore dei passi, aveva continuato, ogni parola a tremare fra le labbra. -Io non mi chiamo abominio. Non chiamo nemmeno Lannister. Mi chiamo Myrcella. Myrcella, non è così difficile da pronunciare. Persino tu ce la puoi fare. Myr-cel-la. E, senti? non sto piangendo. Io non piango. Io non sto ancora piangendo, Rickon Stark! Ricordatelo!-
In quelle poche parole c'era l'urgenza d'una gola chiusa da troppi giorni, la durezza della pietra sotto la nuca durante il sonno e l'inerme rancore d'un'anima detronizzata dal corpo. Myrcella Lannister urlava per farsi ascoltare, urlava per ascoltarsi, ed urlava perchè voleva accertarsi d'essere ancora viva. La voce dilaniata inseguiva disperatamente Rickon ed era l'energia esasperata della volontà a farsi largo fra le tenebre, e la stanchezza, la vergogna, la confusione soffocavano il furore, furore come una fiammella attizzata fra le ceneri dell'onore arso. Ella era in quello stato di struggimento in cui, rendendosi conto che la sua forza scemava in un'emorragia irrefrenabile, si aggrappava all'altisonante potenza del suo nome, affidandosi alla forza di qualcun altro nella speranza che potesse sostenerla. Perchè una Lannister rimane principessa anche nelle segrete, con le catene ai polsi.
Rise bonariamente di quelle pallide minacce, di quell'imprudenza inutile, Rickon, rise di quel dolore che chiamava aiuto senza preoccuparsi di chi udisse l'appello. In un primo momento pensò ch'ella aveva bisogno d'una bella lezione, poi decise che non si trattava altro che d'un frastornamento momentaneo, che se fosse stata padrona di sè la ragazza non l'avrebbe fatto, e lasciò correre. Fatto sta che quel ricordo era sistemato scomodamente nella sua testa, come se non ci dovesse essere, oppure come se dovesse essere diverso.
Mentre Rickon rimuginava fra sè, giunse un attendente ad avvertirlo: -Lord Stark chiede di prepararti per accogliere adeguatamente il lord comandante, che sarà qui fra meno di un'ora.-
Il principe annuì svogliato, calciando di nuovo la ghiaia. -Preferirei mille volte stare qui ad allenarmi con te, piuttosto che andare a fare l'amicone con quel bastardo.-
Osha scosse la testa. -Non siamo più a Skagos, Rickon. Bisogna che tu ti assuma le tue responsabilità, così come ha fatto Bran. Odio doverti sciorinare queste manfrine, ma sai anche tu che è così. Sopporta per qualche ora tutti quei discorsi rognosi e poi, quando il tipo se ne tornerà da dove è venuto, vai dalla tua ragazzina bionda e vedi come ti si illumina la giornata.-
Rickon sorrise fra sè e sè. -Questo è parlare. Bene, allora vado ad agghindarmi come una fottutissima damina di corte.-
Agghindarsi come una fottutissima damina di corte, per lui, significava cambiarsi la casacca degli allenamenti, indossare un mantello di velluto ed infilarsi un paio di stivali che non fossero lordi di fango. Quando si presentò al cospetto di Bran, davanti al trono, il fratello maggiore sospirò.
-Non puoi fare niente per quei capelli?!- domandò, esaminando con un sopracciglio inarcato la chioma rossastra e scompigliata ad imbrattargli le spalle.
-Proprio niente.- confermò Rickon bellicosamente.
Jon Snow giunse a Grande Inverno persino in anticipo. L'ultima volta che Bran l'aveva visto era stato due anni prima, quando egli era giunto alla Barriera per tornare a ricostruire Grande Inverno; il fratellastro era rimasto più o meno uguale, soltanto che i ricci corvini erano divenuti più lunghi e più folti e sul suo volto erano ritratti un orgoglio e una fiducia in sè stesso gradatamente più saldi. Finalmente, dopo tanti anni di incertezze e tentennamenti, aveva saputo dirigere il proprio destino sulla strada giusta e trovare il proprio posto nel mondo -un ruolo che non avrebbe potuto essere interpretato da nessun altro, se non da lui.
-Maestà.- Jon appoggiò il ginocchio per terra, in segno di rispetto, ma quando sollevò la testa una scintilla d'intenerito divertimento gli scaldava gli occhi castani.
-Lord comandante.- ribattè Bran, abbozzando un sorriso, mentre con un gesto della mano lo invitava a rialzarsi. -Avresti dovuto giungere a farmi visita molto prima. Sai che qui sarai sempre il benvenuto. Com'è andato il viaggio?-
-Bene, ti ringrazio. È caduta poca neve, quindi non abbiamo incontrato difficoltà.- Jon scostò lo sguardo alla destra del re. -Non ho avuto tempo fa l'onore di presentarmi adeguatamente, mia signora. Sono Jon Snow, lord comandante dei Guardiani della Notte, e umile servitore di tuo marito.-
Meera ricambiò il sorriso. -Mettiamo da parte le formalità, dunque: la famiglia è famiglia, e sua Maestà mi ha parlato così spesso di te. Chiamami pure Meera.-
-Che poi, lei è una lady soltanto di nome.- rivelò Rickon con un sorriso storto, uscendo dalle file dei ministri ed avanzando verso Jon, con Cagnaccio al fianco. -Per fortuna.-
Il lord comandante esaminò il ragazzo, con crescente perplessità; quando il suo sguardo ricadde sul metalupo, le sue iridi si dilatarono rapidamente per lo stupore.
-... Rickon?- domandò, non senza una punta d'esitazione. -Sei davvero tu?!-
-Sono davvero io.- sogghignò Rickon. -È passato molto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti, io e te.-
-Dieci anni.- puntualizzò Jon, cercando di riconoscere nel viso spigoloso ed allungato del ragazzo qualche traccia del bimbo che gli si aggrappava ai pantaloni chiedendogli di giocare. Infine esplose un sorriso incredulo, a metà fra l'emozione dell'incontro e la consapevolezza dell'assurdità della situazione. -Ho spesso sentito parlare di te. Tuo fratello stesso a suo tempo mi disse che vivevi a Skagos, e come potrei ignorare che hai decapitato Tywin Lannister con un colpo solo? Eppure, inconsciamente, ho sempre associato a tutte queste notizie il vago ricordo di te bambino. Adesso guardati, sei così incredibilmente... grande.-
Non aveva altre parole sulla punta della lingua per descrivere quel che vedeva, la spalle larghe, il fisico asciutto ma chiaramente delineato sotto il mantello, le gambe lunghe e la spada appesa alla cintura, e... quanto accidenti era alto?! Almeno come lui. Intanto, Spettro stava osservando Cagnaccio con altero sospetto; ad un certo punto parve placare i suoi dubbi, oppure perdere interesse, perchè distolse gli occhi iniettati di sangue e tornò a sfregare le gambe di Jon con la coda.
-E tu parli come i vecchi.- commentò Rickon, sbadigliando. -Quand'è che si mangia?-
-Giusto, sarai provato dal viaggio, lord Snow.- rammentò Bran, lanciando un'occhiataccia al fratello minore. -Prendiamo dunque posto a tavola.-
Jon riconobbe anche l'amico che aveva accompagnato Bran oltre la Barriera, il figlio di Howland Reed.
-Mio fratello se lo fa una sera sì e l'altra pure.- gli bisbigliò Rickon all'orecchio, appena intercettò il suo sguardo. -Se lo sbatte talmente spesso che ormai Meera ha un palco di corna in testa peggio dei Baratheon.-
Quell'uscita aveva lasciato Jon parecchio sconvolto, e non volle crederci. Gli parve una cosa troppo balzana, troppo stravagante e di cattivo gusto per uno Stark, e decisamente Bran non era un depravato. Ad ogni modo, il banchetto incominciò e la conversazione giunse subito al punto.
-La guerra ormai non è più alle porte. È già dentro di noi, sotto la nostra pelle. I Lannister stanno richiamando tutti i loro vassalli, poi probabilmente attaccheranno: e noi li anticiperemo, anche questa volta.- Bran dispiegò la mappa dei Sette Regni sul tavolo, spostando il piatto di carne da cui aveva mangiato a malapena tre bocconi. -Farman, Kenning, Crakehall, Garner, Marbrand, Swyft, Prester, Lefford, Clegane, Spicer, Payne. Questi sono i più temibili. Ah, e poi ci sono gli alfieri dei Tyrell... Ashford, Bulwer, Florent, Oakheart, Fossoway, Hightower, Crane, Merryweather, Redwyne, anche i Tarly. Mi rendo conto che sembrano molti, ma la maggior parte dipendono dai Lannister e dai Tyrell anche economicamente.-
A quel punto fu interrotto dall'arrivo della balia, che stringeva al petto il piccolo principe. -Immagino che reclamasse voi, mia signora.-
Meera annuì e lo prese fra le braccia, accomodandolo al braccio destro. Il bambino aveva dolci riccioli tondi ad ammorbidirgli il capo e decorare le guance paffute, rosate come madreperla, e minuscole mani vellutate e puntellate di fossette; egli cominciò subito a giocherellare con il medaglione appeso ad una catenina al collo di sua madre, che effigiava un coccodrillo, emblema di casa Reed.
-Vostro figlio...- mormorò Jon, con tono di voce indefinibile, osservando con sorridente nostalgia quella piccola creatura. -È davvero strano, Br... Maestà. Come si chiama?-
Bran sorrise. -Kenned.-
-Kenned?- Il ragazzo trasalì. -Se posso domandare, hai scelto questo nome perchè...-
-Sì, perchè può essere abbreviato in Ned.- confermò il re, abbassando lo sguardo sul calice di vino ancora colmo, quasi per una sorta di riverente pudore a quell'accenno.
Alla tavola calò un silenzio commosso e tutti si resero conto di quanto fosse impareggiabile l'omonimo con cui il bambino avrebbe dovuto confrontarsi -come un'ombra che l'avrebbe seguito per il resto della vita. In quegli occhi castani ed inconsapevoli era scritta la storia d'una stirpe, che per giungere in ogni dove tanto prediligeva il sangue all'inchiostro.
Bran si schiarì la voce. -Dicevamo, gli eserciti. Beh, anche noi non siamo mal accompagnati.-
-Significa che tutte le famiglie del Nord hanno acconsentito a tornare vassalle di casa Stark?- si stupì Jon.
-Direi di sì. Hornwood, Ryswell, Flint, Cassel, Umber, Glover, Cerwyn, Dustin, Locke, loro hanno accettato immediatamente. Stessa cosa per i Mormont ed i Tallhart.- Mano a mano che nominava le varie casate, indicava con il dito la loro posizione geografica sulla carta; nel citare i Tallhart, il suo indice si soffermò su Piazza di Torrhen. Poi lo spostò su Forte Terrore. -I Bolton sono una questione a parte. Visto che il bastardo di Roose è scomparso nel nulla e non c'è stato modo di rintracciarlo, ho posto al comando un lontano cugino di terzo grado affinchè il popolo non scatenasse qualche rivolta. In teoria non è una minaccia per noi, sembra essersi arreso, anche perchè non avrebbe più nessuno al Nord disposto a schierarsi dalla sua parte, nè un ipotetico attacco a Grande Inverno riuscirebbe con successo. Se gli chiederò un esercito, me lo fornirà. E poi ci sono i Manderly.- Il dito scivolò più in basso, fino a Porto Bianco. -Loro sono piuttosto ricchi, forniranno un aiuto prezioso. Per quanto riguarda i Karstark... Il figlio di lord Rickard, Harrion, ha compreso gli errori di suo padre e ha acconsentito di buon grado a dimenticare ogni antico rancore. Mi ha assicurato tramite lettera che le truppe sono pronte ed attendono soltanto un mio ordine per partire per Grande Inverno.-
-Notevole.- affermò Jon, esaminando la cartina e roteando distrattamente il vino rosso contenuto nel suo bicchiere. -Ma non sufficiente, temo.-
-Dimentichi che anche noi abbiamo i nostri alleati al Sud.- lo contraddisse Bran, attirando l'attenzione del fratellastro più in basso sulla carta. -Mio zio Edmure è stato il primo a schierarsi dalla mia parte. Non vedeva l'ora di potersi vendicare contro i Lannister, in realtà.- Edmure Tully era fortunatamente riuscito a scampare alla prigionia presso alle Torri Gemelle grazie al tempestivo intervento di suo zio Brynden e, attualmente, regnava su Delta delle Acque con al fianco il suo giovane erede, un simpatico ragazzino dai capelli rossi di nome Miles. -Tully significa Blackwood, Bracken, Mallister, Mooton, Went, Smallwood, Vance... Jojen, ricordami dove ha residenza la casata Vance, per favore.-
Il consigliere si allungò dal suo posto a tavola, affianco a Bran, verso la cartina.
-Ci sono due residenze, entrambe nelle terre dei fiumi. Una è ad Atranta, l'altra a Wayfarer’s Rest.- Nell'indicare le due zone, il suo dito sfiorò accidentalmente quello del re, mentre invece lo stava ritraendo. Bran non riuscì a reprimere il baleno d'un sorriso, che lasciò, come unica testimonianza di sè, un fioco rossore all'altezza degli zigomi, e che egli si affrettò a sformare sulle labbra.
-... grazie. L'unico problema è che, se casa Martell scende in campo, questa situazione di parità tornerà a sbilanciarsi. Non possiamo permetterci un simile pericolo, quindi la guerra deve essere breve e decisiva: impedire ai Lannister anche solo di pensare ad una riscossa. Ovvero uccidere Tommen, e, nelle mie speranze più rosee, il Folletto; il che non è fondamentale, ma almeno esclude qualsiasi possibilità di vendetta. Meno Lannister rimangono in circolazione, meglio è.-
Jon esaminò la mappa per qualche istante, rimuginando; quando sollevò lo sguardo, scuro e lustro, esso era rilucente di determinazione quanto una spada neonata.
-Credo di avere la soluzione.-
-Vale a dire?- Bran non si aspettava una risposta del genere.
Jon protese il viso verso di lui e colpì la superficie del tavolo con la mano aperta. -Stannis Baratheon.-
A quel punto, il giovane fratellastro era assolutamente in confusione. -Cosa intendi?-
-Stannis Baratheon giunse alla Barriera diversi anni fa. Gli mancava un esercito numeroso, nessuno nei Sette Regni era disposto a prestargli fiducia, e quindi cosa fece? ebbe l'idea di armare ed allenare i bruti. Sì, i bruti. Può suonare strano, ma loro stanno fuggendo per via della discesa degli Estranei e chiedono asilo al Castello Nero. Pur di sopravvivere, le donne hanno accettato di svolgere qualche mansione per aiutare gli attendenti, mentre gli uomini sono stati addestrati da Stannis per calibrare la mera forza fisica in tecnica, rapidità, destrezza. L'allenamento ha ottenuto risultati sconcertanti: io li ho visti con i miei occhi. Persone che prima tenevano a malapena un'ascia in mano sono diventate spadaccini niente male. Guarda: questa l'ho portata in dono per te. L'ha costruita proprio un bruto, ma non lo diresti mai, esaminandone la fattura.-
A quel punto un attendente accorse, porgendo al re una lunga lancia scintillante, di buon legno pregiato, con la punta eccellentemente affilata, l'asta maneggevole e dinamica e il padiglione ben intagliato. Appena i suoi occhi intercettarono il bagliore scoccato al bacio che la luce delle fiaccole alle pareti diede alla punta aguzza, Meera s'animò. Fu una bellezza ammirare il ravvivarsi di quello spirito sopito: Jon si stupì stranamente di non aver notato fino a quel momento quanto fosse graziosa, ma probabilmente fu proprio l'improvvisa vitalità che scoppiettò nel suo sguardo a restituire al suo aspetto i doverosi meriti. Questo dimostrò il fatto che Meera Reed non era morta; annoiata dalla quotidianità, sfiancata dall'inerzia, schiacciata dalla corona, ma non morta. Prigioniera.
-È stupenda... Che legno hanno usato? Quanto può misurare l'affondo? Posso vederla??- Persino il bambino parve notare l'improvvisa esaltazione della madre e tese una mano ad aggrapparsi ad un suo morbido boccolo. Bran si astenne dal sospirare, con un'espressione da "sempre la stessa storia", però gli piacque quell'improvvisa vivacità. Si vide costretto a richiamarla all'ordine, davanti agli ospiti.
-Meera.-
La moglie gli lanciò un'occhiata svelta e furba, quasi divertita ed addirittura compiaciuta, come se l'idea di essersi comportata in maniera irriguardosa avesse un fascino segreto.
-Chiedo perdono.-
-Prego, lord Snow. Continua.- lo invitò Bran allora, aggrottando la fronte.
Jon riprese il suo racconto da dove s'era interrotto. -Ho vissuto al suo fianco per tutto questo tempo, e te lo posso assicurare. Stannis è un grande comandante, sa il fatto suo. Rigoroso, severo, sì, ma giusto. Vedi, lui ha bisogno di alleati, perchè il numero dei guerrieri è sì cospicuo, ma non può competere con le truppe dei Lannister e dei Tyrell, e inoltre che rispetto potrebbe suscitare se si presentasse a reclamare il trono insieme a dei selvaggi irsuti? Metto la mano sul fuoco anche circa la sua fedeltà alla parola data: se diventerete alleati, è certo che non ti tradirà. È uno dei pochi uomini d'onore rimasti. Pensaci, Maestà: lui è il legittimo sovrano dei Sette Regni, in quanto fratello di re Robert, e se siederà sul Trono di Spade prenderà provvedimenti circa il Nord attendendosi ai tuoi interessi. Avrai ancora una volta la ragione dalla tua parte. Se sarete in due ad affermare le vere origini di Tommen, sarete più credibili e magari il popolo vi darrà retta.-
Fu Rickon, dopo diversi minuti di silenzio che aveva trascorso concentrato sul cibo, ad intervenire nella conversazione, con voce aspra e ruvida.
-Il Trono di Spade non è di chi lo eredita, ma di chi se lo va a prendere. E se non te ne sei ancora reso conto, vuol dire che le temperature della Barriera non ti hanno giovato. Noi non abbiamo bisogno di nessuno, nè di Arryn nè di Stannis, e non facciamo la carità a nessuno. Ce l'abbiamo fatta da soli fino adesso, e così continueremo. Fidarsi di se stessi è già tanto, con i tempi che corrono.-
-Non tollero ulteriormente questa scurrile mancanza di cortesia. O moderi il linguaggio, con una persona che è nata qualche giorno prima di te e dalla quale non hai altro che da imparare, o esci di qui immediatamente.- lo avvertì Bran, reprimendo a fatica il fastidio.
Rickon ghignò sprezzante. -Non serve scaldarsi così, fratellino. Era solo una battuta. Non ti sei mica offeso, vero, Jon?- I suoi occhi respingevano al solo sguardo.
Bran lo ignorò. -Ho sentito dire cose che non mi piacciono circa Stannis Baratheon, in particolare a proposito di una certa donna rossa. Un'eretica.-
Il viso di Jon Snow si storse in una smorfia di disappunto. -Parli di Melisandre. Sì, fino all'anno scorso è rimasta al fianco di Stannis a riferirgli le sue visioni fra le fiamme, ma un giorno ha annunciato che il suo Signore della Luce le ha indicato un terribile nemico di Stannis, perchè lei lo crede la reincarnazione di qualche eroe della sua religione, e quindi deve trovare questo gran nemico e sopprimerlo prima che sia troppo tardi, e che deve farlo lei sola. Così è partita per il continente orientale. Ogni tanto ci giungono sue notizie, che il viaggio prosegue ma non ha ancora raggiunto il suo scopo. Stannis non è un idiota: sa che introdurre strani dèi di Asshai non è il modo più adatto per ingraziarsi il popolo e farsi accettare come re. Non parlerà d'introdurre nuovi culti, su questo non c'è dubbio.-
Bran tacque.
-Non ce ne facciamo niente di questa stupida alleanza. Lasciamo perdere.- tagliò corto Rickon, allungando un pezzo di bistecca a Cagnaccio, sdraiato comodamente sotto il tavolo.
-Se lasciamo perdere o no lo decido io.- gli rammentò il fratello maggiore, a denti stretti. -E a me non sembra una cattiva idea.-
Il ragazzo si voltò verso di lui, con furibonda sorpresa. -Stai scherzando, mi auguro!-
-Se i Martell scendono in campo, siete in guai grossi.- rincarò Jon. -Le loro truppe dispongono almeno di... a occhio e croce... ventimila spade.-
-Se ventimila guerrieri si schiereranno di fronte a me,- canterellò Rickon con voce dolce, -significa che ventimila guerrieri mo-ri-ran-no.-
-Taci una volta per tutte, Rickon!- esplose Bran, indispettito da tanta impudenza. -Non ne posso più di te e i tuoi commenti presuntuosi. Io... sarei anche d'accordo. Jojen, tu cosa suggerisci?-
Il suo consigliere soppesava lo stelo di un calice fra le dita. La sua espressione era imperscrutabile. Quando parlò, la voce si dispiegò scura.
-Stannis Baratheon ha una conoscenza dei Sette Regni, della morfologia di Westeros e dell'arte bellica che ti tornerà utile, Maestà. È un uomo politico, prima di tutto. Io dico che ne vale la pena, se vuoi accettare.-
Rickon scostò malamente la sedia. -Ha parlato il burattinaio. Bene, adesso accogliamo tanti sconosciuti qui dentro e facciamoci ammazzare tutti come pecore! Le Nozze Rosse non ti hanno insegnato niente, Brandon Stark? Non lo sai che non puoi fidarti nemmeno dei tuoi cari mangiaranocchie? Non lo sai che non puoi fidarti nemmeno di me?!-
-Vattene fuori di qui e vedi di non ripresentarti al mio cospetto finchè non ti darò il permesso di farlo!- La voce di Bran fece calare il gelo. -Tu non c'eri, al tempo delle Nozze Rosse. Tu non hai visto. Tu non sai niente, Rickon, niente di niente! Taci e sparisci.-
Rickon lanciò un'ultima occhiata stizzita a Bran, poi a Jon, poi a Jojen. Suo fratello gli richiamava alla memoria la sensazione di quel muro d'assenza, quel vuoto abissale che talvolta ci si para davanti, suscitando quell'umile timore che pare dovuto a ciò ch'è insormontabile ed alienante -e proprio questo lo spingeva a bramare un'infantile rivincita.
-Andiamocene, Cagnaccio. Questi qua vogliono morire tutti.-
Quando uscì, si premurò di sbattere per bene la porta. Lo sdegno ardeva nel suo corpo come acido ribollente; girovagò come un'anima tormentata: prima di potersi congedare doveva offrire uno sbocco alla sua frustrazione. Attese dunque che poco dopo le porte si spalancassero, segno che il pranzo era terminato, e gli ospiti uscissero in uno sciame disordinato.
Quando vide Jojen svoltare l'angolo, ammantato di verde dalle spalle ai piedi, gli si parò davanti. -Quanta fretta. Sembra quasi che ti stiano correndo dietro... Quali grandi impegni avrai mai, poi, non lo so.-
Jojen strinse gli occhi color muschio, distaccato. -Che cosa vuoi, Rickon?-
-Stai pur sempre parlando con il principe di Grande Inverno. Cos'è, adesso bisogna portare rispetto solo a Bran? Beh, certo che lui ti obbedisce come un cagnolino.-
-Io esprimo soltanto la mia umile opinione, che Sua Maestà può decidere di considerare valida oppure no. Dare consigli è il mio compito. Questo significa consigliere.-
Rickon colse la nota d'ironia nella sua voce e s'infastidì.
-Non farmi passare per un idiota. Tu credi di poter fare quello che vuoi qui dentro soltanto perchè ti scopi il re, non è vero? Su, avanti, non facciamo i moralisti. Sappiamo entrambi la verità. Sappiamo entrambi che lui ti vuole a vivere qui soltanto per chiavarti. Ti dici tanto consigliere, ma si sa quali generi di servizi pretende mio fratello... Qualcosa in cui la bocca è implicata, ma non esattamente per parlare.- Il volto di Rickon si distese in un ghigno atroce. -Perchè non ne offri un po' anche a me, mangiaranocchie? Con Bran non ti tiri mai indietro. Non vorrai mica offendermi, vero?-
Con una mano, il principe di Grande Inverno bloccò il ragazzo contro la parete, esercitando pressione sul petto; l'altra scostò i lembi del lungo mantello e si infilò fra le pieghe, a scendere fino al cavallo dei calzoni, e a stringere. Jojen mantenne un'espressione di stoica intransigenza, gli occhi fissi in una severità adulta, sostenuta, austera, persino un po' disgustata da quel comportamento, che denotava insieme bassezza morale e sciocchezza puerile.
-Questi non sono affari che ti riguardano. Te lo dico chiaramente, Rickon, senza sotterfugi: non mi piace il tuo modo di fare. Fintanto che rimani pressochè innocuo, lascerò correre; ma in futuro non posso permettere che tu sia d'ostacolo a Sua Maestà. Se cercherai ancora di interferire con i suoi piani, sarò costretto a prendere provvedimenti.-
Rickon esplose in una risata acuminata, come intrisa d'aghi. -E che cosa vorresti fare?! Uccidermi? Ti posso spezzare la spina dorsale con un dito, Reed. Non bluffare.-
Jojen parlò, limpido, chiaro ed impassibile. -Ho visto cose, riguardo te e la ragazza Lannister, che non mi sono affatto piaciute. O inizi a capire che il vero nemico contro il quale combattere è là fuori, e non è Bran, o la tua permanenza a Grande Inverno potrebbe essere più breve di quanto credi.-
-La Lannister?- esclamò Rickon, stupefatto, scuotendolo per la maglia. -Che cosa hai visto? E cosa c'entra la Lannister?! Parla, maledetto figlio di puttana!-
Ma dopo aver sussurrato quelle parole, Jojen non rispose e scivolò dalla sua presa con un movimento fluido e si allontanò a passo svelto, seguito dall'ombra svolazzante del mantello, rapido com'era apparso. Rickon era talmente sconcertato e furibondo che l'unico rimedio fu scendere a trovare Myrcella; da un po' di tempo, era il modo più efficace per scaricare la tensione. Così s'abbandonò alle tenebre umide delle segrete come un bambino s'abbandona fra le braccia della balia.
***
Un clangore metallico gemette sul terreno, baluginando fra l'erba rigogliosa dei lussureggianti cortili della Fortezza Rossa. L'inverno non s'era avventato su Approdo del Re: il sole era un gioiello di cui la città non avrebbe fatto a meno, a sfoggiarlo con arrogante, annoiata alterigia, l'ennesimo inganno d'oro corrotto a cullare i suoi abitanti d'un senso di protezione spesso come la carta, e l'afa appesantiva la brezza compiacendosi della vittoria. I fiori sgargianti si spintonavano nelle aiuole, come se desiderassero affrettare una vita tranquilla per evitare la morte brutale che la lama del freddo soleva procurare loro. C'era qualcosa in agguato, ma era mimetizzato così bene fra la vegetazione di rubini e i miasmi stordenti che l'estate poteva ancora illudersi di cantare in eterno.
-Non così, Maestà.- Loras Tyrell scrollò il capo, coronato d'un corredo di boccoli flessuosi ed inanellati, mentre la luce svolazzava indugiando per un istante sul pelo delle iridi dei suoi occhi, animati di turchino chiarore, per poi appendersi alle sue ciglia. -La guardia è troppo bassa.-
-Oh.- farfugliò Tommen, mortificato dalla propria inettitudine, abbassando intimidito lo sguardo. Raccolse la spada e ritentò di mettersi in posizione da combattimento, stavolta più titubante.
Loras avanzava con le movenze agili e sicure di chi ha un'innata padronanza del proprio corpo; mentre si avvicinava al re, i suoi riccioli rigogliosi, avvinti fra loro in una fantasiosa trama e scomposti ad arte dall'allenamento, dondolavano e vorticavano su se stessi in paffute spirali. -Solleva il braccio come sto facendo io. Non serve che lo irrigidisci... rimani rilassato. Morbido. Ecco, in questo modo.-
Loras spostò dolcemente il braccio del giovane re nell'angolatura corretta, aggiustando la presa delle sue dita sull'elsa; infine gli sorrise per confortarlo. Tommen rispose debolmente, abbacchiato. Gli sarebbe tanto piaciuto essere abile come ser Loras, ma per le armi era proprio negato -se fosse stato capace di maneggiare una spada come si deve, forse sua madre non sarebbe morta e Myrcella non sarebbe stata, in quel momento, tanto, troppo lontana da lì... Era un pensiero amaro che rimaneva coagulato come sangue nella sua gola, ed egli non riusciva ad inghiottirlo. A quel punto i due incrociarono le spade e ricominciarono a duellare; intanto che si allenavano, qualcuno li stava osservando. Seduta sul latteo davanzale d'un fontana di marmo, Margaery Tyrell carezzava la superficie dell'acqua con le dita disegnandovi cerchi distratti e disgregandoli con un imperioso gesto del palmo; un abito di taffettà glicine le scopriva completamente le braccia affusolate e la schiena pallida, stringendo i seni gonfi ed adattandosi alla circonferenza del grembo. Così, con il ventre turgido come una corolla rinchiusa nel bocciolo, la chioma fiorente a riversarsi sulle spalle esili, il volto radioso dagli occhi stellati, rosato sulle guance, il sorriso leggiadro che si accomodava sulle labbra carnose, sembrava l'incarnazione della Madre, in un gioioso, bucolico ritratto della fecondità. Il suo sguardo intenerito soffiava dal volto paonazzo ed aggrottato dalla concentrazione dello sposo, alla sinuosa figura ammantata di bianco del fratello. Quel combattimento sembrava poco più che un gioco nell'aria aurea, profumata, velenosa di quell'estate mentitrice, mentre le risate zampillanti della fontana ammorbavano la mente d'una lieve inerzia, vuota come una splendida caverna d'oro, in sospeso come l'ultimo istante prima del lampo.
Quando Tommen parò una stoccata particolarmente poderosa, Loras lo ricompensò con un cenno d'approvazione. -Bravo, mio signore. Vedo che inizi a prenderci la mano.-
Tommen sorrise speranzoso, arrossendo d'entusiasmo -era quasi sempre rosso in volto, lui, perchè talmente tante erano le sue emozioni, e talmente vulnerabile era la sua soffice anima ad esse, che bastava terribilmente poco per commuoverlo ed imbarazzarlo; ciò era risultato della scarsa stima che aveva sempre nutrito per se stesso -crescere con un fratello maggiore come Joffrey l'aveva segnato molto da questo punto di vista. Se fosse diventato abbastanza bravo, poi, magari sarebbe riuscito a sconfiggere addirittura Rickon Stark, ed a salvare Myrcella...
Del resto, Loras non aveva nemmeno mentito di sana pianta: rispetto a qualche mese prima, quando faticava persino a tenere la spada dritta davanti a sè, egli era già decisamente migliorato. Il giovane re udì un applauso levarsi alle sue spalle e si voltò.
-Mio signore, non posso crederci! Stai diventando bravissimo.- esclamò Margaery, con quel suo sorriso fremente e partecipe che pareva davvero vivere quell'idea con tutto se stesso e faceva sentire Tommen come circondato in un abbraccio. -Attento, Loras, che fra poco sarà mio marito a doverti dare qualche consiglio...- scherzò inoltre lei.
-Hai perfettamente ragione, sorella.- rispose Loras divertito. -Fa progressi a vista d'occhio. Diventerà un avversario da non sottovalutare!-
Tommen rise insieme a loro: non la considerava come una presa in giro. Sapeva benissimo che i due stavano esagerando, ma lo facevano con le migliori intenzioni. E poi gli piaceva molto questa maniera speciale che la moglie aveva, di farlo apparire straordinario, invincibile, come il personaggio d'una ballata. Di farlo apparire unico al mondo. Per Cersei Lannister era sempre stato il principe di riserva, per Robert Baratheon un bambinetto smidollato, per Joffrey un fratello indegno di lui. Soltanto lo zio Tyrion, Margaery e Myrcella sembravano davvero convinti che anche Tommen avesse qualcosa da dire all'universo. Oh, Myrcella: quanto gli mancava... Cercò di distrarsi da quel pensiero al più presto possibile. Era una ferita troppo fresca per non dolere al minimo sfioramento.
-Margaery, tu...- Il ragazzo si perse nei suoi occhi, mentre le parole incespicavano adorabilmente sulla punta della lingua, -... sei bellissima.-
-Ti ringrazio, ma questo è soltanto lo stretto indispensabile per non farti sfigurare.- ribattè Margaery, la voce sciolta d'affetto. Tommen era un giovane goffo nell'esprimersi, impacciato nell'andatura, e nel suo atteggiamento nulla ricordava l'autorità, la solennità, la maestà: era evidentemente privo d'una certa voce intransigente, d'una certa presenza regale, d'una certa superba eleganza che magari avevano caratterizzato Joffrey, e di certo era mille volte più arrendevole. Però il suo animo era squisito, il suo cuore bianco come soltanto quello d'un fanciullo senza pensieri nè preoccupazioni può essere, il suo sorriso etereo quanto il primo bacio fra l'alba ed il mare, ed i popolo lo amava come un figlio, sconsideratamente. Se in passato era stato semplice manovrare Joffrey per la sua smania di prepotenze e di conquiste, in quel momento era l'accondiscendenza docile e mansueta di Tommen a permettere ad ogni ministro d'influenzarlo. Questo era dovuto sempre ad una continua richiesta d'approvazione e consenso del giovane Lannister, generata dalla scarsa sicurezza in se stesso; Tommen finiva inevitabilmente per apparire incompetente, se era il primo a pensare di esserlo. Margaery ringraziava ogni sera i Sette Dei d'essere diventata la moglie del fratello più piccolo di Joffrey: ripensando al volubile carattere di quello smorfioso prepotente, se lui fosse diventato re, probabilmente lei sarebbe stata soltanto la prima d'una sfilza di mogli condannate ad un triste destino.
Un servitore accorse, percorrendo i graziosi viali bianchi, costeggiati da siepi d'ogni forma. -Maestà! Lord Lefford chiede umilmente d'essere ricevuto. Attende nella sala del trono. Puoi dedicargli qualche minuto, o gli riferisco di ripassare?-
Tommen esitò un momento, poi dissentì. -Va bene adesso. Io e ser Loras stavamo giusto concludendo la sessione di allenamento. Mia cara Margaery, se vuoi scusarmi...-
Il ragazzo trotterellò via, scortato dal servitore, mentre il sole pomeridiano giocava fra i suoi capelli simili a filigrana, fino a che fu impossibile decretare con certezza dove finisse la luce e dove iniziassero i riccioli. I fratelli Tyrell lo seguirono affabilmente con lo sguardo finchè non sparì, inghiottito dalla gola scarlatta della Fortezza Rossa.
-Rimane sempre fedele a se stesso, vero?- commentò Loras, offrendo galantemente il braccio alla ragazza. Margaery sorrise maliziosa.
-Fortunatamente. E nemmeno tu ti smentisci mai, Cavaliere di Fiori... stai attento a come guardi il mio piccolo maritino innocente! Che gli occhi non indugino dove non dovrebbero... Me lo consumi se continui così!- Si esibì in una risatina estasiata, mentre Loras ostentava indignazione.
-Ma su, lo conosco fin da quand'era bambino. Non potrei mai pensare a lui in un quel certo senso che intendi tu, pervertita che non sei altro! Comunque si è fatto carino, su questo non ci piove.-
I fratelli passeggiavano per il labirinto di siepi e statue, a passo sostenuto e cadenzato, concedendosi del tempo per ispirare la fragranza pungente e vigorosa dei gelsomini rampicanti, per abbeverarsi dei raggi solari che si posavano come impalpabili farfalle sulle loro palpebre. Margaery cingeva la pancia rotonda fra le braccia, in un gesto affettuoso ed allo stesso tempo nervosamente istintivo, quasi che la percepisse, quella minaccia acquattata fra i miraggi di calma apparente. Erano tempi rischiosi per mettere al mondo un figlio di re.
-Oggi è una giornata talmente bella che sarebbe stato un peccato rimanere confinata in camera.- raccontò la sorella. -Ero nauseata dal sonno. Questa notte il bambino ha scalciato a tutte le ore, non appena ero sul punto di assopirmi... Si muove parecchio, in effetti.-
-La levatrice ha detto che dovrebbe mancare poco, no?- domandò Loras, carezzando amorevolmente con lo sguardo il ventre dilatato di lei.
-Venticinque giorni.- confermò Margaery, -però non si può mai dire. Secondo me non riuscirà a pazientare per così tanto tempo ancora. Non che mi dispiaccia: non vedo l'ora di stringerlo fra le braccia...- Taque per qualche istante, poi riprese vivacemente. -So che bisognerebbe auspicare che il primogenito sia maschio eccetera, però mi piacerebbe moltissimo che fosse una bambina. L'ho sognata, stanotte...- S'interruppe e corrugò la fronte, come se la sua mente avesse incontrato un ostacolo nel libero flusso dei pensieri.
-Sul serio?- si stupì Loras. -In che senso?-
Per l'esattezza, Margaery aveva sognato di entrare nella camera da letto, di accostarsi sorridente alla culla, di scostare le tendine di seta -e di scoprire che sua figlia non era lì. Figlia, sì, una femmina: quando si girava di scatto, sconcertata, vedeva un fagotto di panni rosa fra le braccia di Rickon Stark. Egli non aveva mai un volto, era soltanto un'ombra acuminata come un pugnale, la personificazione stessa dell'incubo: sorrideva, Rickon Stark, come sorridono i lupi, e diceva: -Com'è carina tua figlia, Margaery Tyrell.-
-Ho sognato che gli Stark me la portavano via. Che Rickon Stark...- D'un tratto, Margaery aveva la gola arida.
Loras strinse i denti. -Gli Stark non riusciranno neanche a vedere la Fortezza Rossa da lontano, e se quel maledetto Rickon si mette in testa di volersi avvicinare gli farò passare la voglia di giocare al guerriero. La mia unica ragione di vita è proteggere te e il piccolo. Sarete al sicuro, e questa è una promessa.- Il viso si contrasse dolorosamente. -Una promessa che manterrò.-
Margaery gli sfiorò una spalla con la punta delle dita, nel timore di vederlo infrangersi sotto il proprio tocco. -Lo sai che punirai Stannis per quello che ha fatto, vero? Lo sai che vendicherai la morte di Renly?-
-È l'unica certezza che mi rimane.- bisbigliò il fratello, gli occhi a vagare molto più lontano. L'aria si rarefece fra loro, ed all'improvviso fece un po' più freddo. Margaery tentò di cambiare discorso, aggrappandosi al primo pensiero che scovò.
-Cosa stavo dicendo? Oh, sì, questo pomeriggio avevo una gran voglia di sgranchirmi le gambe, sebbene, se fosse per Tommen, rimarrei sempre distesa a letto... è molto ansioso, in questo periodo, e non può nemmeno godersi questa gioia come avrebbe il diritto di fare.-
Loras fu grato alla sorella per il tempistico salvataggio, che lo trasse al momento giusto dal ciglio del baratro dei ricordi.
-Tommen, come tutti, combatte sfogando le frustrazioni soffocate nella sua anima. Il rapimento della principessa Myrcella è stato un duro colpo per lui. La cita in continuazione, quasi che il solo nominarla potesse incentivare le probabilità di vederla comparire all'improvviso all'orizzonte.- Loras sospirò furtivamente, abbassando lo sguardo all'orlo delle gonne di lei, che volteggiavano aggraziate come onde di seta liquida. -Questi lutti lo hanno già sfiancato, non ha più energie, le armi lo spaventano. Mi domando come potrà mai affrontare una guerra...-
-E perchè mai dovrebbe, quando ci siamo noi a farlo per lui?- replicò Margaery, enigmatica, con un sorriso complice. -Ad ogni modo, passiamo ai fatti. Gli Stark si stanno muovendo?-
-No, non ancora. Stanno richiamando i vassalli, come noi del resto. Forse aspettano altri rinforzi, oppure vogliono che sia Tommen a sferrare il primo attacco. Impossibile dirlo.- scrollò le spalle lui. -Ad occuparsi delle strategie militari, comunque, è il Folletto.-
-Il Folletto.- ripetè Margaery meditabonda. -Beh, indubbiamente non è uno sprovveduto. Sa quello che fa.-
-È parecchio furbo.- annuì Loras. -Bisogna sperare che, arrivati a questo punto del gioco... sia sufficiente.-
Proseguirono a camminare, lenti e lieti, stretti l'uno al fianco dell'altra, uniti contro l'intera scacchiera com'erano sempre stati, mentre il più piccolo erede di sangue Lannister dormiva sereno, ancora inconsapevole della partita di cui stava per diventare una fondamentale pedina.
Nello stesso momento, soltanto pochi piani più in alto, Jaime Lannister aprì gli occhi. Appena individuò il fratello presso la sponda del letto, li richiuse.
-Vai a casa, Tyrion.- Chissà dove aveva ritrovato la voce: forse nello stesso precipizio dove aveva perduto tutto il resto.
Cinque giorni fa aveva per la prima volta ripreso conoscenza dopo il torneo, e da allora gli capitava di ferirsi con schegge di realtà in quella fanghiglia mordace, insidiosa ed obliante ch'era diventata esistenza. Non aveva bisogno che qualcuno glie lo dicesse, per capire che Tyrion non si era mai allontanato dalla sua stanza. Lo leggeva in quegli occhi impotenti di fratello, che, fin dal momento in cui giocavano nella remota isola dell'infanzia, aveva visto invecchiare insieme ai propri per tutte le nefandezze ch'erano costretti a riflettere.
-Smettila di dirmi che cosa devo fare. Non so il perchè, ma fin da quand'eravamo piccoli ti sei messo in testa che comandi tu. Il che è fuori discussione.-
-Shae si starà chiedendo se sei ancora vivo. Hai una figlia che ti aspetta a casa. Vai via.-
Tyrion sospirò impaziente. -Senza offesa, ma ti sei guardato allo specchio? Sei un cadavere che parla. Non posso lasciarti solo, con il pericolo che mi resti stecchito da un momento all'altro. Il tuo estremo desiderio non è forse quello di ammirare il mio angelico viso per l'ultima volta, e portare con te in cielo questa ammaliante visione?-
-Dov'è Cersei?-
Non v'era silenzio in grado di colmare l'affossamento di quella pausa. Tyrion era molto intelligente, aveva letto tanti libri, ma esistono domande per le quali la risposta rimarrà uno spettro di sangue versato, un artiglio affondato nella carne, un verso di nauseabonda agonia -rimarrà la resa.
Deglutì a disagio e scosse la testa, quasi fra sè. -Ti prego, Jaime. Non...-
-Vattene via, Tyrion.- ripetè Jaime. La sua voce era abrasa in un modo in cui il petto, seppur memore delle ferite dell'intera vita di un cavaliere, non era mai stato.
Questa volta il Folletto non protestò e si alzò, per dirigersi alla porta. Sul suo volto c'era una distesa di deserto -c'era la pietà, cruda e spiazzante ed elementare, e se Jaime avesse scorto la propria immagine nello specchio dei suoi occhi avrebbe visto un buco nero. Ma non lo fece. Aveva smesso di avere importanza, appena prima che cominciassero quelle miriadi di leghe di dolore.
La consapevolezza, infallibile, lo ridusse capricciosamente al silenzio, per asservire ogni fibra del suo corpo e costringerlo a prestarle il più dedito ascolto. E Jaime rimase a sentire, finchè non riuscì più a distinguere i confini disciolti della sua anima in quella coltre di sangue raggrumato e acqua gelida che impregnava le lenzuola.
***
-Porca puttana.- annaspò Yara.
Fu esattamente la prima cosa che pensò, e l'imprecazione le sbragò le labbra con la violenza d'un coltello. -Porca puttana.-
Scagliò a terra le lenzuola ruvide, annodate alle sue gambe, si liberò dagli ultimi granelli di sonno sulle palpebre strofinandosi ferocemente gli occhi e vi strappò i veli del torpore esponendoli alla luce senza pietà. Si precipitò fuori dalla stanza a gambe levate, l'aria a sfrigolare nelle sue orecchie come uno stridulo canto luttuoso. La luce esuberante delle torce delineava correttamente tutti i tratti delle sue membra, sotto la garza trasparente della pallida sottana, lunga fino alle ginocchia, sbottonata per metà.
Un servo le stava porgendo una vestaglia. -Mia signora...-
-Non c'è tempo! Dov'è?!- urlò Yara, trattenendosi dal gettargli le mani al collo.
-All'ultimo piano... un balcone dell'ala est...- balbettò quello, imbarazzato.
-Merda, merda, merda!- ruggì la ragazza.
Yara si slanciò fino in fondo al corridoio, in direzione delle scale, colta da uno stritolante istinto di scoraggiamento iniziale; per qualche istante, l'impotenza la travolse come le onde del mare non avrebbero mai fatto. Dalle finestre che si aprivano sulle mura l'impeto del vento la investì, spazzandole i capelli dietro le spalle, rendendole le braccia ruvide di pelle d'oca, ma Yara non arretrò; con i piedi scalzi, prese ad esaurire i gradini saltandoli a tre a tre e permise alla pioggia, deviata dal vento, di infradiciarle la sottana ed appiccicargliela alla pelle, gravosa, scomoda, vincolante. Fredda e viscida. Yara ignorò impazientemente le intemperie, sibilando sottovoce, e dopo aver terminato una rampa di scale ve n'era un'altra ed un'altra; la corrente impetuosa e sferzante le tagliuzzava le guance, avvampandole di sangue, e distraeva la sua mente ancora ebbra dei vapori del sonno, e bagnava la pietra rischiando di farla scivolare. La gonna scendeva piatta e pesante, come una zavorra contro le sue gambe. La burrasca scrosciava aggressiva, pervicace, incattivita contro di lei, quasi che gli artigli del vento volessero striare la sua pelle di rosso.
Finalmente lo vide. Quella figura era così gracile e diafana, in piedi sul davanzale del balcone, in sospeso sopra la vorace bocca del mare ruggente, stagliato contro l'eterno e prepotente cielo nero di guerra, da scomparirvi come fra le fauci di una fiera. La vista era così miserevole e patetica da comprimere il respiro nel petto. Yara non gridò, temendo di spingerlo a qualche movimento inconsulto; la notte inghiottiva quella fraterna preoccupazione di cui, alla luce del giorno, si sarebbe vergognata così tanto, celava quella nefasta onta ch'erano i sentimenti e che una donna di ferro non si poteva concedere. All'improvviso la sua mano, spaventosamente bianca e bagnata, artigliò la caviglia ossuta di Theon Greyjoy con tutta la forza impiegata per arrivare fin lì, tutta insieme.
-Theon.- sbottò, con incollerita esasperazione, con iroso rimprovero. Lo trasse in salvo dalla parte del balcone; la missione fu compiuta soltanto quando ella udì il rumore del corpo magro contro la pietra. Infine, sfiatata, grondante, stordita di sonno e fatica, china contro la mole della pioggia, trascinò il fratello all'interno del castello, all'asciutto. Yara provò un sollievo così possente da inebriarla di gratitudine verso se stessa e la propria prontezza, e verso qualsiasi maledetto dio l'avesse sostenuta in quel salvataggio improvvisato, impedendole di mancare un gradino, di perdere l'equilibrio o lasciarsi rallentare dalla furia dell'acqua. Dopo essersi presa qualche istante per riassestarsi, per tornare in sè, per sfregarsi le mani paralizzate del freddo, Yara verificò il respiro del fratello, supino sul pavimento. Gli occhi erano chiusi e l'espressione spiegazzata, smunta, patita, un cencio intriso strizzato troppo forte.
-Theon.- sussurrò. -Theon, svegliati. Svegliati, che cazzo.-
Il ragazzo riprese conoscenza, poco a poco, sbatacchiando le ciglia scompigliate: il suo sguardo vagò stanco senza comprendere, a riflettere lo smarrimento della sua coscienza. Infine si soffermò confuso su un elemento inaspettato che identificò, gli occhi della sorella, e con voce fioca farfugliò:
-Cosa accidenti... dove siamo?-
-Ala est.- L'espressione di lei era insondabile.
Theon arricciò la fronte, notando stupito la tempesta ad esplodere nel cielo notturno. -E perchè mai?-
-Non riesci proprio ad indovinare?- sbuffò Yara, sgocciolando i capelli con gesti stizziti. -È successo di nuovo. Stavi per... buttarti giù da quel terrazzo. Non ti dico cosa sarebbe rimasto di te, se avessi realizzato il tuo intento.- Yara sollevò lo sguardo duro al fratello e gli prese il mento fra le dita, con un'espressione ferma, risoluta ed inderogabile. -Adesso guardami e giuramelo, Theon: giurami che eri sonnambulo. Ti prego, giuramelo. Ho bisogno di saperlo.-
-Lo giuro. È vero. Come le altre volte.- ribattè Theon, debolmente. -Se volessi davvero suicidarmi, troverei una maniera più veloce, più indolore e meno plateale.-
Se volessi davvero suicidarmi, ci sarei già riuscito, pensò tristemente. Ma questo non lo disse. La sorella era confortata dalla risposta, e lo si intuiva dalla maniera in cui le spalle rigide ed il collo si rilassarono, però non lo diede troppo a vedere; il suo tono di biasimo rimase tagliente.
-In ogni caso, bisogna smetterla con questa storia. È l'ultima volta che mi sveglio nel mezzo della notte per salvarti la pellaccia, capito? Non posso sempre starti appresso come una balia.-
I problemi erano cominciati da quando Yara aveva assediato Forte Terrore, da quando Theon era tornato a casa. I suoi episodi di sonnambulismo avevano messo in allarme l'intera fortezza: spesso egli rischiava incidenti di quel genere, più di una volta era stato sul punto di suicidarsi (e probabilmente l'avrebbe fatto, se non ci fosse stato nessuno a fermarlo) e questo induceva Yara a credere che la sua incolpevolezza fosse soltanto una scusa gettata là, per non assumersi l'onere di spiegare il motivo per cui aveva azzardato quel gesto. Ella comprese che sarebbe stato inutile parlare con il fratello in piena notte, mentre lui era in tali condizioni, perciò avvolse in una coperta quel corpo intirizzito e lo accompagnò nella sua stanza, continuando a borbottare: -Se non mi è venuta la polmonite adesso, non mi verrà mai...-
Mentre Theon giaceva inerme sul materasso, senza nemmeno tentare di chiudere gli occhi, Yara se ne tornò in camera tossendo; tolse la sottana fradicia e la calciò a terra con fastidio, per indossare invece una casacca e un paio di calzoni. Quando scivolò nel letto, si rese conto che, per suo grande disappunto, Tris era sveglio.
-... ma che ora è?... che cosa è successo?-
-Theon.- bofonchiò in risposta lei, seccata all'idea di dover spiegare tutto l'avvenuto a quella testa bacata di suo marito, tagliando il più corto possibile. -Ha fatto il pazzo come al solito. Ma adesso stai zitto e dormi.-
Tristifer Botley sospirò. Era sempre stato un ragazzo dal cuore gentile -fin troppo gentile per essere un abitante delle isole di ferro, fino a sfociare nello stucchevole, per quanto riguardava Yara. Da quando Theon era venuto ad abitare a Pyke, come un tempo, egli non era riuscito a nascondere quanta pena gli suscitasse quel povero ragazzetto dissestato, dagli occhi pieni di paura.
-Non pensi che dovresti farlo visitare? Magari qualche Maestro può consigliarti un decotto, o qualcosa di simile... Altrimenti finirà per farsi davvero male.-
-Già, peccato che non siano affari tuoi.- mugugnò Yara, tirandosi la coperta fin sopra la testa, quasi per schermare le sue chiacchiere. -Stai zitto e dormi: obbedire a due ordini allo stesso tempo è uno sforzo troppo faticoso, per caso?-
-La tua dolcezza fa cariare i denti, come al solito.- bisbigliò sottovoce Tristifer, con un sarcasmo più intenerito che contrariato.
Ella si rigirò innervosita nel letto. Estenuata dall'intero universo, in quel momento voleva soltanto cedere all'insistenza del sonno e piombare nell'incoscienza, mentre la detestabile voce di Tristifer proseguiva imperterrita a molestare le sue orecchie.
-Te li spacco, i denti, se non chiudi quella fottuta bocca.- minacciò.
-Sono tuo marito.- implorò lui, mestamente. -Potresti almeno farmi la gentilezza di ascoltare ciò che dico, no? Tutte le mogli lo fanno.-
-Stai cercando di elemosinare obbedienza, per caso?- Yara roteò gli occhi esasperata. -Dormi, Tris.-
Suo padre prima di morire le aveva confessato senza giri di parole che l'unica possibilità che lei aveva, se voleva governare, era sposarsi, possibilmente con l'erede di qualche famiglia prestigiosa di Pyke -possibilmente con l'erede di casa Botley e dunque di Lordsport, ovvero Tris, suo amico di vecchia data. Ovviamente Yara avrebbe avuto qualcosa da ridire al riguardo, ma aveva deciso che era un prezzo equo da pagare, pur di poter regnare sulle Isole di Ferro. Inoltre Tris, essendo pazzamente innamorato di lei, le lasciava fare più o meno tutto quello che voleva e non la intralciava nel governo, senza imporre la propria autorità in quanto marito, il che era davvero più di quanto Yara avesse osato sperare per il proprio avvenire. L'aveva sposato tre anni prima, subito dopo aver riportato Theon a casa -subito dopo che fu a tutti manifesto il fatto che l'unico erede maschio dei Greyjoy non era in condizione di regnare, perchè -come si raccontavano i bambini ridacchiando- era pazzo. In verità non aveva perso del tutto le facoltà d'intendere e di volere, però capitava spesso che nel bel mezzo delle discussioni il suo occhio si facesse vacuo, o che scoppiasse ad urlare, o che -assalito da un invisibile aguzzino- supplicasse d'essere liberato gettandosi in ginocchio. Yara non era molto sorpresa: a giudicare da quel poco che aveva visto, durante l'assedio di Forte Terrore, Ramsay Snow era un sadico; era già incredibile che il fratello fosse sopravvissuto, dopo essere stato suo prigioniero per anni.
Ella ricordava il giorno del salvataggio di Theon come si ricorda il primo schiaffo, il primo addio. Rammentava con orribile verosimiglianza quell'assalto d'emozioni prorompenti: la bocca aspra e sussultante che pareva volesse vomitare fuori il cuore da un momento all'altro, l'odore acre e doloroso del sudore di panico, le urla selvagge della ferita alla gamba. Sì, perchè quando durante una battaglia si viene colpiti l'impatto non è nulla, a malapena lo si percepisce, attutito dall'adrenalina. Il peggio viene dopo, quando il corpo metabolizza il colpo, si accorge del trauma, impara quell'irregolarità, e subito inizia a pulsare orribilmente, come un organo a parte, inizia a lamentarsi e gemere forte, a singhiozzare come un bambino. Yara stava premendo a forza il ginocchio contro il pavimento e si ripeteva incessantemente che non doveva guardare, non doveva, non doveva. Non guardare il sangue. Non guardare. Guarda dopo, quando la situazione è sotto controllo. Dopo. Così, quando Theon aveva cominciato a piangere fra sè, sommessamente, la sua lingua s'era sciolta involontariamente in un dopo, dopo mormorato a stento. Rammentava di aver pensato parecchio a quei pomeriggi perduti di tante storie prima, quando i loro fratelli maggiori li cercavano giocando a nascondino -quando i loro fratelli maggiori erano ancora vivi- e la piccola Yara cacciava una mano sulla bocca di Theon per farlo stare in silenzio, dicendo non preoccuparti, che non ci trovano. Se fai quello che dico io, vinci sempre. Quanto avrebbe voluto poter assicurare una cosa simile a Theon, in quel momento, inginocchiati ad un angolo del labirintico intreccio di corridoi di Forte Terrore. Ma se quello là ci sgama, non ci sarà più nessuna partita da poter giocare, nessuna rivincita da riscattare. Ci farà a pezzi. Moriremo. Lei non doveva pensarci, no, doveva rimanere lucida, razionale, attiva, cosciente del mondo circostante, non poteva rinchiudersi fra i pensieri, doveva combattere il freddo. Il trucco stava solo in questo: combattere il freddo.
Aveva una possibilità di riuscire. Una sola. Una soltanto. Se la sua mano avesse ceduto, se le sue forze fossero mancate, se l'esitazione si fosse prolungata per più di quell'infinitesimale attimo salvifico, per il tempo dello stordimento della coscienza, se tutte queste casualità e fatalità avessero preso la strada sbagliata, la sua vita si sarebbe esaurita senza scampo fra le mani di Ramsay Bolton. Affidarsi a tale imprevedibilità era uno scempio; affidarsi a tale imprevedibilità era tutto quel che le rimaneva. La gamba faceva così male, male, male, malissimo, perchè faceva così orrendamente ed esplicitamente male?! ma non aveva il tempo per prestarci attenzione. La vista s'offuscava di dolore, però niente, bisognava perseverare, trattenere il respiro, sfigurare le labbra fra i denti, e urlare dopo tutte le urla invisibili sospese nella sua gola come debiti arretrati.
Se vinci, puoi urlare. Se vinci, puoi soffrire. Ben poca consolazione le sarebbe parsa, questa, in altre circostanze, ma in quel momento era tutto quel che voleva sentirsi promettere, e bastava per appagare i desideri d'ogni anima al mondo. Con la mano a cercare sicurezza nella dolce impugnatura del suo pugnale, il corpo scosso dal ritmo del battito cardiaco, Yara Greyjoy attendeva che la sorte le scrivesse un futuro, capitolo successivo o epilogo che fosse. Bastava soltanto che amputasse quegli attimi di tragica transizione, di rovinosa incertezza.
Poi l'aveva sentito arrivare. Lo scherno nella sua voce le aprì la carne.
-Su, non fare la timida... che c'è? Avanti, stiamo solo giocando. Non ti farò mica paura?-
Yara inghiottì a fatica la frustrazione. No, la paura non doveva nemmeno azzardarsi ad avvicinarsi. Non doveva essere lei a temere la paura, quanto la paura a temere lei. Doveva combattere il freddo. Ramsay Bolton, giocherellando un lungo coltello fra le dita con destrezza, lanciò un'occhiata ad una cella vuota che si affacciava sul corridoio. Nel vedere il mucchio di casse che poco prima Yara aveva frettolosamente gettato le une vicine alle altre, i suoi occhi azzurri si dilatarono, palpitanti di trionfo. -Devi costringermi a venire a stanarti?-
Yara non si permise di sorridere. Non ancora. Non era fatta, no, no, non ancora... mancava poco, pochissimo, e quell'imbecille sarebbe caduto nella trappola ed avrebbe pensato che loro fossero lì, dietro quelle casse... il rumore di tali sventati passi dentro la cella furono la musica più soave ch'ella avesse mai udito. Con una velocità che le sue gambe non conoscevano, con una forza che le sue mani impararono istantaneamente, sbattè la porta della cella e la fermò con il chiavistello. Le tremavano le ginocchia, le ardevano gli occhi, ma la sua bocca si spalancò in una risata di scherno.
-Magari un'altra volta.- disse infine. -Oggi non ho tempo di stare qui a giocare.-
Giusto il tempo di comprendere l'avvenuto e il volto di Ramsay si contrasse nello sdegno. -Non vorrai mica rubarmelo.-
-Io non rubo niente a nessuno.- chiarì Yara schiettamente. -Questo sacco d'ossa è mio fratello. E me lo riprendo. Sei tu che l'hai rubato, casomai, bastardo.-
-Bastardo è solo quel disgraziato che ti ha concepita, troia.- ringhiò il ragazzo, accostando il volto alle sbarre, -e il tuo è un madornale errore. Nessuna dannata puttana spocchiosa può derubare un Bolton di Forte Terrore. Oh, tu non sai, tu non sai in che guaio ti stai cacciando! La caccia finisce soltanto quando la preda muore, Yara Greyjoy.-
Così le aveva detto, il bastardo di Bolton. Dopo aver pensato vagamente che quella era la maniera di fissare più sgradevole che avesse mai visto, Yara si era gettata con malgrazia Theon su una spalla, aveva strappato un brandello del mantello per stringerselo alla coscia ferita ed infine gli aveva indirizzato un ultimo sorriso, ironico e sghembo -e Ramsay Bolton aveva pensato che quella era la maniera di sorridere più sgradevole che avesse mai visto.
-Ci puoi scommettere.-
Riflettendo per l'ennesima volta su tutto questo, Yara sorrise distrattamente nel buio. Se voleva tentare di riprendersi Theon, Snow poteva benissimo farlo; però doveva tenere presente che la morte della vittima non è l'unico modo per concludere una caccia. Un cacciatore astuto sa quanto affilate sono le zanne della sua preda, caro il mio bastardo, rimuginò fra sè, e tu non ne hai idea.





























Note dell'Autrice: Ehilà, popolo di Efp! Sì, lo so, non guardate lo schermo così. Sono in imperdonabile ritardo. Mi flagellerò per penitenza... Più di due settimane, vero? Caspiterina, poveri lettori! In compenso questo è un capitolo luuuuuuungo. Spero che nessuno si sia scoraggiato nell'aprire la pagina! ^-^" Il punto è che mi aspettavo di scrivere la parte su Grande Inverno più breve e la parte sui Lannister più lunga. Poi, sì, la mia predilezione per gli Stark ha avuto la meglio! XD Mi riprometto di scrivervi una parte bella lunga su Jaime e un'altra su Tyrion, nel prossimo capitolo. Promesso promesso promessissimo! Sì, nel prossimo capitolo prevedo grandi sconvolgimenti... ma proprio GRANDI. GIGANTENORMI.
Intanto, Jojen ha rischiato di essere stuprato da Rickon (che ormai stupra chiunque XD), Tyrion ha una figlia e Yara ha fatto la sua mirabolante comparsa. Vi sembra poco? XD
Per inciso: Melisandre non è affatto scomparsa nel nulla. Il viaggio non era solo un espediente qualunque per liquidarla. La rivedremo, fra un po'... (hurrààààà. Che gioia, eh? -.-)
Me ne vado, prima di essere malmenata per tutte le boiate che sto dicendo. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi informiate circa le vostre opinioni a proposito! Per me sono molto importanti i suggerimenti dei lettori! A presto, spero -farò del mio meglio!
Lucy

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Capitolo 5
*** Amaranto fu il progetto. ***


4

IV. Amaranto fu il progetto.



A Bran Stark bastò guardare il volto di Stannis Baratheon per capire che qualsiasi nozione di dialettica, politica e convenzioni sociali, buone per zittire qualche stolto lord, adeguate per cavarsela in presenza dei Lannister, non sarebbero servite a nulla. Perchè l'aspetto di Stannis aveva imparato senza inganni l'intransigenza d'un acciaio che non voleva nascondersi, che non provava vergogna della propria natura, che non cercava d'essere nient'altro che se stesso. Fu in quel volto temprato dai debiti delle vicissitudini e dal furto dei diritti, che Bran si accorse di quanto fosse irta e vasta la ragnatela dei Lannister. Aveva invischiato ogni cuore, impedito ogni anima; si protendeva in ogni meandro della mappa toccandone gli apici al Nord ed al Sud, e non esisteva terra nè mare in grado di assicurare la salvezza. Quello per il trono non era più un gioco -perchè in un gioco c'è chi vince e c'è chi perde. In quella partita, invece, tutti i partecipanti avevano incassato la loro sconfitta.
-Decisamente giovane, per essere diventato re.- La sentenza di Stannis fu lapidaria, ma non v'era accusa in quella voce tagliente d'indefinibile inquisizione. Non si fidava, oh, no: e perchè mai avrebbe dovuto farlo? Bran strinse gli occhi, contraendo le dita attorno al bracciolo; quel Baratheon non era la prima persona ad esprimere un simile commento, a paragonare tale campagna militare a quella del Giovane Lupo, Robb Stark, e -proprio perchè guidata da un re ragazzo- ugualmente destinata al fallimento; ma di certo la sua situazione era diversa. Bran non aveva ancora vent'anni, però aveva superato il trauma della caduta dalla torre e della perdita delle gambe, era sopravvissuto nelle foreste oltre la Barriera, aveva sviluppato poteri straordinari. Era più saggio, più prudente, più letale di Robb, da questo punto di vista.
In quel momento non sedeva sul trono bensì al tavolo dei banchetti, in modo da poter parlare a quattr'occhi con l'ospite -parlargli dall'alto del suo scranno sarebbe potuto essere inteso come segno di alterigia.
-Decisamente vecchio, per non essere ancora diventato re.- replicò con calma devastante. Per un istante pensò d'avere osato con troppa impertinenza, però notò la smorfia di franca amarezza che fletté la bocca dura dell'uomo -quasi ad ammettere: touchè- e comprese che l'approccio più conveniente era quello dell'incontaminata, schiacciante onestà, e che fossero i Tyrell a perseverare con i vagheggiamenti della retorica e la frivolezza della bella parola.
-Desideri mangiare qualcosa? Hai fatto molta strada per arrivare fin qua.- osservò il re del Nord, indicando con un ampio cenno le vivande ordinate sul tavolo. Stannis lo ignorò, come se non avesse udito.
-Perchè allearmi con te dovrebbe essere la scelta giusta?- domandò, senza preamboli, pronto ad esaminare con analitica inclemenza e soppesare con mordace pedanteria ogni parola del ragazzo, senza che il suo sguardo lo abbandonasse mai, privo di schermi, fiero delle sue ferite e troppo consapevole per ritenerle motivo di vanto. Nostra è la furia, già: c'era tanta furia in Stannis Baratheon, furia patita, furia assaporata, furia fomentata, furia di cui s'era ammantato e nella quale aveva scommesso, furia asciutta che portava il fuoco sulla pelle senza più bruciare -calpestare, piuttosto.
-Questa domanda, mio lord, dovrei portela io. Hai perso tutto quello ch'era possibile perdere, quindi non hai che da guadagnarci.- Bran giocherellò una pedina a forma di testa di lupo fra le dita, osservando le buie fessure degli occhi, intagliate nel legno. -Ma, in definitiva, dovresti allearti con me perchè il nostro è un obiettivo comune, un nemico comune, che in questo caso implica motivazioni differenti. Motivazioni differenti, cioè più reati da annoverare sul piatto della bilancia dei nostri avversari.-
-Bilancia di chi, e di cosa?- Stannis scosse la testa, contrariato. -Ormai il re è chi uccide nella menzogna, non chi muore nella giustizia.-
Bran immobilizzò la pedina del lupo contro il palmo e tornò a guardare Stannis dritto negli occhi.
-Allora parliamo di ciò che t'interessa: la bilancia del ferro. Noi possediamo l'esercito di cui hai bisogno, composto da truppe provenienti da tutte le nobili case del Nord e delle Terre dei Fiumi.- Il ragazzo poggiò gli avambracci e intrecciò le dita, chinando appena il mento. -Io voglio la giustizia, re Stannis: tu concedimela con il tuo appoggio, ed io ti offrirò le armi in cambio. Equo, dato che a questo punto la giustizia è tutto ciò che avere da offrire, e sono ben in pochi a richiederla.-
-L'esperienza mi suggerisce di diffidare di offerte così irrinunciabilmente vantaggiose.- obiettò Stannis, con una smorfia piccata. Era risaputo che il fatto che finora non aveva voluto stringere alleanze, poichè riteneva tutti spregevoli usurpatori. -Ma quel che t'interessa non è soltanto la nobile consapevolezza d'essere nel giusto, non è così? Miri anche a qualcosa di meno spirituale, se non sbaglio. Ho sentito che vuoi uomini in più perchè temi che i Martell mandino in fumo i tuoi piani. Di conseguenza, io sarei una specie di tappabuchi?-
-Se ti aggrada pensarla così, fai pure. Io la intendo in un altro modo. Entrambi preferiremmo evitare quest'alleanza, perchè non possiamo essere del tutto certi della reciproca buona fede, però siamo giunti ad un punto in cui proseguire ognuno per la propria strada non è conveniente.- spiegò Bran, seguendo una logica irreprensibile. -Io ti considero un alleato, niente di più, niente di meno. Se credi che arrivare a chiedere il nostro aiuto sarebbe denigrante, oppure ritieni che si tratti di un complotto contro di te, oppure mi consideri l'ennesimo re indegno, l'accordo si dissolve... così come la tua speranza di salire al Trono di Spade, certo. Ma non sei obbligato a fare nulla, in fondo.- Egli esibì un sorriso discreto, intimidito, quasi a chiedere scusa per le ragionevoli conclusioni che si potevano trarre da quella situazione. -Desideri un po' di tempo per pensarci?-
Stannis sospirò un sospiro gravido, gravido di tutte le volte che aveva fatto l'errore di credere che fosse quella, la soluzione.
-Di tempo non si può dire che me ne sia mancato, e anzi ne è già stato sprecato troppo. Piuttosto, come hai intenzione di muoverti?-
Bran e Jojen avevano discusso ampiamente di questo già da prima che venisse sferrato l'attacco contro Runestone; da parte sua, il re del Nord non aveva avuto dubbi a riguardo.
-Quando tutti gli alfieri avranno inviato le loro truppe e l'esercito sarà nuovamente pronto, assalteremo il luogo in cui qualsiasi peggior pronostico si è miseramente realizzato. La patria della nostra vendetta, per così dire.- Bran allungò il dito verso la mappa distesa sul tavolo di fronte a lui; esso scese lentamente lungo la Strada del Re, fino ad interrompersi appena superata l'Incollatura.
-Le Torri Gemelle.- decretò Stannis, senza ombra di stupore in volto. -Capisco. Hai già un'idea di come attaccarle?-
Il ragazzo trattenne un sorriso e ribattè con tono allusivo e volutamente enigmatico. -Preferirei parlarne più avanti, quando tutti i dettagli saranno definiti e le truppe saranno qui, cioè quando avremo stillato uno schema di guerra preciso. Per ora, non è necessario che tu sappia altro.-
Stannis rimase per un attimo interdetto davanti a quella risposta, però non era poi così importante e lasciò perdere. Piuttosto sollevò una questione che riteneva fondamentale:
-Oltre che onorare la sacra memoria dei vostri cari, avete intenzione di fare qualche passo avanti?- C'era un sarcasmo pietroso e privo d'umorismo nella sua voce.
Bran aggrottò la fronte, offeso da quelle parole che suonavano derisorie alle sue orecchie. -Quando i Frey saranno messi fuori gioco, il passaggio sarà libero e si provvederà a scendere progressivamente.-
-E questa... chiamiamola progressione, quanto lenta sarà, di preciso?- domandò l'uomo aspramente, esasperato.
L'espressione di Bran si fece quasi severa. Aveva una bella faccia tosta, quel dannato Baratheon, a venire lì e comportarsi in maniera così arrogante, a dettare legge e criticare a tutto spiano, e a fare pure il sostenuto circa le proposte di Bran -come se potesse permettersi di rifiutare, come se accettando facesse un favore al Nord, anzichè il contrario. Era Stannis quello che avrebbe dovuto supplicare e Bran quello che avrebbe avuto motivo di farsi pregare, casomai.
-Con la fretta non si vincono le battaglie, mio lord.-
-E con la procrastinazione non si vince la guerra, direi.- sbottò Stannis, alzandosi in piedi e cominciando a percorrere nervosamente la sala da destra a sinistra, a passo marziale, con le mani rigidamente strette dietro la schiena. Il re del Nord lo seguì con lo sguardo, un po' seccato da quella brama ingorda di tutto e subito.
-Dipende tutto da quanto numeroso sarà l'esercito che Tommen deciderà di scagliarci contro, da quanti saranno i morti e quanti i sopravvissuti da ambo le parti, dalla possibilità che avremo di liberare un passaggio piuttosto che un altro.- Le contò sulle dita, una per una. -È impossibile stabilire tutto in anticipo, ragionando per ipotesi. Anche se lo dubito, potrebbe addirittura accadere che Tommen sia presente, che qualcuno riesca ad ucciderlo, e la guerra sarebbe finita lì. È una previsione un po' utopistica, ma non escludiamo a priori questa eventualità. Onestamente, se potessi evitare che scorra altro sangue...-
-La guerra è sangue, Stark, e chi inizia una guerra chiama sangue.- lo interruppe Stannis, scacciando quelle parole con un cenno sbrigativo, giudicandole troppo sprovvedute per essere prese in considerazione. -Piuttosto, accompagnerai il tuo esercito oppure no?-
Anche questo era stato oggetto di dibattito, diverse settimane addietro. Visto che senza dubbio Rickon sarebbe partito, -Deve sempre rimanere uno Stark a Grande Inverno.- aveva decretato Meera con fermezza. -Sarai più al sicuro qui, piuttosto che in una tenda poco distante dall'accampamento nemico. La tua salvezza dev'essere salvaguardata ad ogni costo. Ti basti pensare che, se muori, tuo fratello sarà il re del Nord.-
Bran però era di diversa opinione. -Non posso chiedere ai miei uomini di rischiare la vita contro un esercito immane e restarmene tranquillamente qui. Sarebbe non soltanto scorretto verso il mio popolo, ma anche indice di debolezza; sarebbe come ammettere con i Lannister che io non sono altro che uno storpio vigliacco. Devo dimostrare ai miei sudditi di essere un re forte, capace, meritevole. Di essere in grado di governare il Nord.-
Stranamente, Jojen non aveva azzardato parola in proposito e aveva taciuto sull'argomento. Poi Bran aveva aggiunto: -Uno Stark rimarrà comunque a Grande Inverno. Ci sarà Kenned.-
-Kenned non ha ancora compiuto un anno!- esclamò Meera, irritata.
-Oh, ma non dovrà fare altro che mangiare e dormire. A proteggere lui e Grande Inverno ci penserai tu.- ribattè il re. La moglie scattò, rivolgendogli uno sguardo inorridito.
-Non credere di poterti liberare così di me. Io ti seguirò ovunque andrai, Brandon Stark.-
-Niente affatto.-
Ella s'indispettì, piantando i pugni contro i fianchi. -In battaglia sarei indubbiamente utile, perciò teoricamente ne ho il diritto molto più di te!-
-Proprio per questo rimarrai qui. Perchè sei abile a combattere e hai un grande coraggio: ce ne sarà bisogno, se dei nemici cercheranno di assediare Grande Inverno.- La voce di Bran si addolcì e, quando la ragazza precipitò in quegli occhi castani, comprese di essere perduta. -Solo di te mi fido completamente, Meera. Non puoi rifiutarmi questo. Io devo avere la certezza che mio figlio e la mia casa sono in buone mani. Te lo chiedo per favore.-
-Ma... ma io voglio difendere anche te.- obiettò Meera, riluttante ed amareggiata. -Voglio starti sempre accanto come faccio adesso, così che nessuno possa farti del male. Credi di essere l'unico a necessitare di certezze?-
-Con me verrà Estate, che mi ha già salvato la vita più di una volta.- insistette il marito. -La tenda dove dormo sarà circondata perennemente di guardie, e Rickon resterà a portata di voce. E poi... io non sono assolutamente indifeso. Te lo sei dimenticata?-
A quel punto Meera s'era vista costretta ad accettare: non esistevano più ragioni da opporre.
Così, memore delle decisioni prese in precedenza, Bran rispose con voce ferma: -Ebbene, lo accompagnerò: l'annuncio è già stato fatto pubblicamente. Così le truppe non si dimenticheranno per chi e per cosa stanno combattendo. I soldati hanno bisogno di continua motivazione, d'assidui incentivi, e senza un re a mantenere l'ordine non so quanto positivo potrebbe essere l'esito della guerra. Affiderò Grande Inverno a mia moglie Meera, affinchè provveda alle esigenze del popolo ed amministri il Nord in mia assenza, detenendo i pieni poteri regi.-
Dal presentimento di sfiducia che si manifestò discretamente nella sua espressione, fu facile comprendere che Stannis non era molto convinto che fosse stata una grande idea.
-Una donna? Governare il Nord?- ripetè, quasi che volesse far sentire al ragazzo quanto sciocco apparisse alle orecchie altrui.
-In mia vece e soltanto temporaneamente.- puntualizzò Bran, infastidito dall'osservazione. -Comunque, sono sicuro che sarà assolutamente all'altezza dell'oneroso compito che le ho assegnato. C'è altro?-
 Finalmente Stannis interruppe il suo passo nervoso e si chinò verso la sedia su cui sedeva poco prima, poggiando le mani sullo schienale.
-Ho soltanto due condizioni da sottoporti. La prima è quella di poter organizzare gli schemi di guerra ed i movimenti dell'esercito, e in cambio mi impegno a tenerti informato di ogni cosa e di sottoporla al tuo benestare prima di ordinarla alle truppe. Dopotutto si tratta dei tuoi alfieri...-
Bran annuì con la testa, sollevato. -Accetto ben che volentieri. Avremo bisogno della tua esperienza, mio lord. Non l'ho mai negato.-
Prima di parlare di nuovo, Stannis attese qualche istante; pareva stranamente a disagio.
-In secondo luogo, chiedo di suggellare quest'alleanza in maniera irreversibile. Una specie di precauzione, giusto per sicurezza.- concluse, rapido e brusco. Bran aggrottò la fronte, poco convinto.
-Cosa hai in mente?-
-Un matrimonio, come si suole in questi casi.- rispose l'uomo, contraendo infastidito la piega della bocca. -Mia figlia Shireen ha ormai l'età per prendere marito. Se voglio conquistare il trono è anche per assicurarle il futuro che merita, com'è suo diritto di nascita. -
-Ti ricordo che io sono già sposato.- osservò Bran. Stannis inarcò le sopracciglia con eloquenza.
-Vostro fratello no.-
Il ragazzo sussultò. Rickon? Rickon? Davvero quell'uomo voleva che Shireen Baratheon sposasse Rickon Stark? Sicuramente non l'aveva mai visto, allora, e non aveva udito quelle certe voci su di lui: altrimenti non si spiegava perchè stesse proponendo di concedergli la propria figlia vergine. Poi Bran cercò di ragionarci razionalmente, e si accorse con rammarico ch'era infattibile. Rickon non accetterà mai, fu il primo pensiero; ma sono io a dover accettare, adesso, fu il secondo, inquietante ma disperatamente vero.
Era più giusto comportarsi da fratello o da re, in quella circostanza? Una guerra è una questione universale, riguarda più di un popolo ed il futuro di un regno, perciò bisogna pensare in grande e mettere da parte l'egoismo; dall'altra, avrebbe dovuto essere Rickon a prendere una decisione così importante per sè. Però non avrebbe mai, mai detto di sì, questo era altrettanto chiaro. Era troppo puerile, orgoglioso e testardo per agire in nome di un bene collettivo e superiore. Non avrebbe mai fatto nemmeno il più piccolo dei sacrifici per qualcuno che non fosse lui stesso.
Bran non sapeva cosa fosse più giusto, se rispettare il volere del fratello o concludere un'alleanza vantaggiosa, però di certo non poteva riservargli un trattamento di favore soltanto perchè era suo parente... proprio per il fatto ch'era il principe aveva dei doveri nei confronti del popolo. Poi ci fu un altro pensiero, meno assennato e quasi meschino: si merita una bella lezione, quel marmocchio, così impara che un principe di Grande Inverno non può fare tutto quello che gli pare. Così come io appartengo al Nord, così anche lui. Forse che io amavo Meera, quando l'ho sposata? Certo, lui Meera l'aveva scelta, la conosceva già, le voleva bene, però... però la situazione era completamente diversa, e bisognava dare una risposta. Subito.
Allora Bran alzò la testa e, la mente in subbuglio, non ben consapevole di quel che stava facendo, disse: -Acconsento.-
Stannis annuì grave, con una sorta d'austera rassegnazione nello sguardo inquietato, quasi che avesse sperato fino all'ultimo in un rifiuto. Era evidente quanto fosse affezionato a Shireen.
-Naturalmente, un giorno mia figlia salirà al trono e suo marito con lei.- aggiunse atono. -A patto che il cognome dei loro figli possa rimanere Baratheon, e che quindi alla nostra dinastia rimanga il diritto al trono.-
Il ragazzo avvertì un moto di panico scompigliargli le viscere, quasi spinto nel suo corpo da uno stantuffo; cercò di visualizzare l'immagine di Rickon seduto sul Trono di Spade, con le gambe gettate con malagrazia l'una sull'altra e le mani grondanti di sangue, e del popolo inchinato davanti a lui, ma era qualcosa di così delirante che la sua mente la rifiutò con repulsione. Rickon, re dei Sette Regni? Una buona idea soltanto nel caso in cui si presentasse un problema di sovrappopolamento.
-È una richiesta assolutamente lecita. Non abbiamo alcun interesse al Trono di Spade. Vogliamo soltanto che al Nord venga riconosciuta l'indipendenza e tutti i diritti che essa comporta.- rispose Bran, cercando di dissimulare le proprie irruente emozioni.
-Sarà fatto.- acconsentì Stannis distrattamente. -Fra un giorno o due, giungerà qui un convoglio insieme a mia moglie Selyse e a Davos Seaworth, il mio Primo Cavaliere, per celebrare il matrimonio. Capirai che dovrà avvenire il più presto possibile, prima della partenza per il Sud.-
Il più presto possibile. Quando l'esercito sarebbe partito da Grande Inverno, Rickon sarebbe stato un uomo sposato. L'idea era assurda e raccapricciante quanto tutti i crimini che aveva perpetrato e che Bran non ci teneva a conoscere. Rickon aveva ormai sedici anni, però nel profondo era ancora il bambino pieno di rabbia bandito da casa sua: non aveva la maturità, la stabilità emotiva e la padronanza di sè imprescindibili per creare una vera famiglia. Se poi si veniva ad aggiungere che si trattava di un matrimonio combinato, da Bran per giunta, senza chiedere l'opinione del diretto interessato, con una ragazza mai vista prima, che magari non gli piaceva nemmeno, c'erano tutti gli elementi per rendere l'unione fra Stark e Baratheon la meno felice e la più breve dopo quella di Robb Stark e Talisa Maegyr. Bran si consolava al solo pensiero che non tutto è come appare: il promettente matrimonio tra Sansa e Joffrey, molti anni prima, era partito con buoni presupposti e concrete speranze, alimentate dall'apparente reciproco interesse, e poi inaspettatamente era andata a finire in maniera peggio che tragica. Magari questa volta, essendo le condizioni di partenza così avvilenti, non avrebbe potuto far altro che funzionare meglio del previsto. Se una numerosa serie di fortuite coincidenze si fosse intersecata come una catena, non era da escludere che tutto potesse risolversi nelle risate anzichè nel pianto.
Intanto, Meera e Jojen attendevano che il colloquio si concludesse; sedevano nella sala dei ricevimenti adiacente, uno di fronte all'altro ad un tavolo rotondo sistemato in disparte. C'era un silenzio precario ma saporito, quasi che fossero i pensieri concitati dei due meditabondi commensali ad impregnarlo di significato. Il piccolo Kenned s'era assopito al seno della madre, un ditino fra le labbra, le palpebre distese in un sonno vivido d'immagini meravigliose; Jojen lo vegliava in silenzio, gli occhi ridotti a due fessure, lo sguardo rivolto altrove. Era da tanto tempo che lui e la sorella non discutevano come si deve, anche a causa del tradimento che si frapponeva tra loro come un muro d'incomprensione. Era un peccato: avevano avuto davvero un bel rapporto d'intima intesa e segreta complicità, durante tutti quegli anni. D'un tratto Meera, che sembrava determinata a prolungare quel silenzio carico fino alla fine, lo interruppe invece senza alcun preavviso, sollevando di scatto il mento.
-Mi manca casa. Torre delle Acque Grigie, intendo. Mi manca il clima e i volti e mamma e papà. A volte mi sveglio, tengo gli occhi chiusi ed immagino di essere nel mio letto laggiù, immagino che basti allungare la mano per toccare la lancia sul comodino e che sopra la mia testa ci sia quella finestra da cui si vedevano tutte le terre dell'Incollatura.- La sua voce rimase in sospeso, immobilizzata dal gelo opprimente dell'effettività incombente. Tutte quelle illusioni facevano male agli occhi, perchè Meera Reed non avrebbe mai più occupato quel letto di vergine a casa di suo padre, nè Kenned avrebbe conosciuto la loro palude dove si potevano inventare tanti giochi divertenti -era sufficiente un po' di fantasia- ma ella sarebbe rimasta nel talamo nuziale, così ampio e così vuoto, e suo figlio avrebbe imparato soltanto quanto sa essere freddo l'inverno. Poi Meera riprese, più lentamente, rinfrancata nell'avvertire le pupille del fratello in intenso contatto con le proprie, e parlò in nome di quel legame che un tempo c'era stato e poteva esserci ancora. -Ti ricordi quando tu mi raccontavi le storie che leggevi nei libri e finivamo per stare svegli tutta la notte, perchè io volevo sentirle e risentirle?-
Meera aveva sempre preferito ascoltare che narrare, e Jojen era così bravo, con quella bella voce che era in grado di arrestarsi, rallentare, aggravarsi e carezzare nei momenti giusti, per far intendere agli uditori che tipo di scena stava per giungere. Il fratello chinò lentamente le palpebre, e quando le sollevò v'era un più caldo lucore nei suoi occhi.
-Sì, Meera, mi ricordo.- rispose semplicemente.
-E ti ricordi,- proseguì Meera, incalzata dal familiare sentimento che si faceva strada nel suo cuore dopo anni d'assenza, -quando andavamo a cacciare le rane e tu finivi sempre con la faccia giù nell'acqua? E quella volta che tu mi hai predetto che i nostri genitori non mi avrebbero mai regalato un cane, e io ti ho chiuso a chiave in biblioteca per vendicarmi?- La ragazza rise. -Non hai fatto una piega. Al mattino, quando tutti erano terrorizzati perchè non ti trovavano e io, pentita, sono andata a recuperarti, eri lì al tavolo a leggere tranquillissimo, e anzi sembrava quasi che ti seccasse che ti avessi liberato... Poi mamma e papà mi hanno tenuta in castigo per due settimane!- La risata si affievolì gradatamente, fino a che ne rimase soltanto un sorriso amaro. -Ti ricordi quando li abbiamo salutati? Nostro padre era triste, ma capiva che non poteva essere altrimenti... Per nostra madre è stato tutto più difficile. Aveva già rischiato di perderti una volta, quando ti eri ammalato... lei credeva che fossimo troppo giovani e troppo indifesi per un viaggio del genere, e aveva ragione... quale genitore accetterebbe di mandare i figli oltre la Barriera, da soli?! E adesso c'è la guerra...-
Jojen non rispose. -Dove vuoi arrivare?-
Lei sospirò. -Li rivedremo mai?-
-Perchè me lo chiedi? Hai troppa paura di quel che potrei risponderti per volerlo davvero sapere.-
Meera annuì sconfortata. -Forse hai ragione... ma non era esattamente dove volevo arrivare. Ecco, io e te eravamo felici, insieme, vero? Ne abbiamo passate così tante... Quando eravamo piccoli ti trascinavo con me in qualsiasi spericolata follia, anche se non volevi, e poi... tutte le peripezie per trovare Bran.-
Nel momento in cui tale nome prese forma nello spazio fra loro, acquisì anche consistenza ed il silenzio seppellì nuovamente gli animi in un solenne, tragico, definitivo ammutolimento. A quel punto la crepa s'era profilata, a quel punto s'era spalancata in uno squarcio. Tutte le risposte erano condensate in quelle poche lettere.
Dopo molti istanti d'esitazione e tentennamento, -Lui è tuo.- rispose Meera in un soffio. -Questa è una guerra che non posso vincere.-
Jojen, di nuovo dopo tanto tempo, la guardò negli occhi. -Non c'è mai stata una guerra, Meera. Non ho mai preteso da Brandon più di quanto non fosse indispensabile. Io e lui siamo legati da qualcosa di più forte della mera, volubile volontà di due esseri umani: il desiderio sfugge, si deforma, si snatura, annoia. Il desiderio è quanto di più mortale ci sia in noi. Ciò che ci avvince è il destino. Il destino non cede nè concede, non scende a patti, non temporeggia, non sbiadisce, non muore. Il destino ordina.- Jojen fece una pausa, mentre nei suoi occhi l'insanabile verità si propagava come sangue su candide bende; quando riprese, la voce era in esatto equilibrio fra l'apatia ed il rammarico. -Io appartengo a tuo marito, su questo non c'è nulla da ridire. Ma lo sanno gli Dèi, quanto è vero che Brandon non mi apparterrà mai.-
Il suo volto non si concesse lo sgarro di un'inflessione, o forse Jojen Reed era sul serio arrivato a quel traguardo di consapevolezza nei pressi del quale il cuore, disgustato, non acconsente più a partecipare ai sentimenti. Meera non ebbe l'ardire di rispondere: perchè, anche se il proprio sovrasta sempre quello altrui, il dolore si annida ovunque, e non serve far altro che aguzzare lo sguardo- non soltanto per riconoscerlo, ma anche per realizzare a che stadio di corrosione è giunto. Per la prima volta in vita sua, la regina del Nord non ebbe coraggio di spingersi nell'oltre in cui Jojen viveva da sempre e si limitò a condividere quel silenzio esplicativo, alla luce delle candele, senza che il freddo intervenisse a disturbarli.
Più tardi, Bran chiese a Osha di discutere lei con Rickon circa il matrimonio combinato, visto che era a lui più vicina, e di cercare di convincerlo ch'era la cosa migliore da fare; e (soltanto Osha, ragionava Bran con un sorriso, sapeva ancora permettersi di parlargli così) quel che si sentì rispondere fu:
-Ma Rickon ha banchettato di recente con il tuo cervello, oppure è stato il tuo amico veggente a ridurti così?! Credevo che con tuo fratello volessi fare pace, non farlo incazzare sempre di più!- La donna, indignata, lo guardava con orrore. -Non tradirlo in questo modo così... orrendo e subdolo, Bran. Non te lo perdonerà mai. Mai. E avrà perfettamente ragione!-
-Rickon deve capire che non esistono soltanto lui ed i suoi capricci a questo mondo.- rispose Bran, freddamente. Certo, Osha era di parte perchè voleva molto bene a Rickon ed inoltre condivideva lo stesso carattere indomito e focoso, quindi lei non poteva evitare di mettersi nei suoi panni. -Se glie ne parlassi io, ovvio, non mi darebbe mai ascolto. Però forse tu potresti...-
-Oh, no, no, no. Adesso te la cavi da solo. Tu hai combinato questo casino, tu ti esponi alla sua furia. Io me ne tiro fuori.- aveva sghignazzato la donna, scuotendo la testa con decisione. Poi aveva fissato Bran negli occhi con una scura, limpida franchezza di cui tutto il resto del mondo era incapace, perchè c'era da avere paura di quello sguardo che squartava le menti. -Mi dispiace, Bran, ma non ti aiuterò. Devi guardare tuo fratello in faccia, come sto facendo io adesso con te, e dirgli che fra venti giorni si sposerà per interesse con una ragazza che non conosce. E nessun altro lo può fare al posto tuo.-
Con crescente disagio, il re del Nord si rese conto quanto tristemente vere fossero quelle parole.
***
Ignaro di quanto irrimediabilmente al piano superiore si stesse manipolando il suo destino, Rickon scendeva i gradini delle segrete con la solita fervida aspettativa, la solita brulicante trepidazione, lieto di poter sgravare la mente rannuvolata ed il furore sottopelle in pioggia, lampi, tuoni e pace. Anzichè il semplice divertimento occasionale che il ragazzo era inizialmente convinto a trovare in Myrcella, la prigioniera era divenuta una valvola di sfogo, un risarcimento per tutte le privazioni del passato e le preoccupazioni del presente che Rickon era obbligato ad affrontare, un debito pagato profumatamente. Soltanto con lei il mondo era un vortice turbinoso di libertà sbrigliata, una miniera inesauribile di godimento, un poderoso assalto all'anima, un vertiginoso subbuglio delle viscere, inebriante e catartico come affondare la spada nella carne ed udirla sfrigolare nel fremente ribollimento del sangue, un'assoluzione indulgente che lo proscioglieva dagli oneri della vita sociale, dalle norme dei rapporti umani, dall'etichetta di corte. Con Myrcella l'istinto non andava limitato, arginato, represso, ma scatenato nella maniera più appagante e deliziosa. Quella ragazza sfiancata dalla prigionia, scavata dalla denutrizione e tremante di freddo era per lui l'incarnazione stessa della vita nel suo aspetto essenziale. Davanti alla preda, il cacciatore non deve fingere: solo attaccare, e Rickon era diventato terribilmente bravo in questo. Il ragazzo era tediato dalle noiose raccomandazioni di Bran, dai suoi imperterriti avvertimenti, e doveva sempre mettere il becco sugli affari suoi: il giorno precedente, gli aveva addirittura chiesto che cosa avrebbe fatto se Myrcella fosse rimasta incinta. Rickon ci aveva riso su parecchio. Non era certo quello ad interessargli, nè ci pensava mentre stava con lei, semplicemente egli adempiva ai propri capricci con generosa benevolenza. Era una questione così stupida e sgradevole che non gli era neanche passata per la testa: era una non-questione, insomma. Se davvero fosse accaduto, Rickon non aveva la benchè minima esitazione circa ciò che avrebbe fatto; un puro germoglio Stark non sarebbe mai potuto crescere in un ventre empio e lurido come quello di una maledetta, aberrante Lannister, così come un fiore non sarebbe stato in grado di sbocciare nel fango più putrido. Rickon le avrebbe fatto vomitare il bambino a calci, in modo tale che il piccolo non dovesse soffrire la sciagura e l'infamia d'avere un abominio per madre e un sangue corrotto, vituperevole, peccaminoso nelle vene. Cosa sarebbe mai potuto nascere dal grembo di una Lannister? Rovina, scelleratezza, disonore: un ignobile ibrido, com'era già accaduto.
E Myrcella? Ormai Myrcella era in quello stato fisico e psichico in cui si è dimenticato cosa significa provare benessere, dove immaginare qualcosa di diverso da quel che si sta provando in quel momento è inconcepibile, e i nervi sono solo un groviglio di fili di ferro che vibrano senza rompersi, e la carne accoglie dolore, freddo, privazioni come un nuovo mantello di miseria, e se ne può accumulare all'infinto perdendone la concezione, inebetiti, assuefatti, inghiottiti da un male nero e fuligginoso, si partecipa al male, si vive nel male e per il male, lo si morde e stringe fra i denti e vi si aggrappa per non morire, si soffre per vivere, perchè è quando si smette di soffrire che bisogna allarmarsi.
Myrcella si era già rannicchiata nell'alienante cratere della follia, intenta ad esplorare con infervorata frenesia, con appassionato impeto l'unica fuga che le sarebbe stata concessa, frugando con le dita nell'accogliente buio della sua mente spenta. Una fuga facile, in fin dei conti, e felice, se penetrata soltanto in superficie. Una fuga più che legittima, forse obbligatoria per mantenere la coscienza confinata nella mente ed il cuore nel petto, perchè al termine del dolore c'è un limite in cui l'anima arretra atterrita e chiede soltanto ovatta attorno a sè, per lenire le sue ferite, per imbrattarle di rosso e soffocare nel proprio sangue. Perchè, anche se il corpo stava subendo tale tortura, l'anima non tollerava di rimanere segregata in quella realtà di cemento e muffa e di lasciarsi schiacciare. Nei suoi occhi inariditi, l'incapacità di comprendere diventava incapacità d'esprimere.
Ad un punto qualunque di quell'agonia immobile, uguale a se stessa in ogni sua dimensione, una figura divise le tenebre scostandole al suo passaggio, vincendole senza combattere. Cersei era preziosa, dorata e bellissima, eterea e leggiadra nel suo corpo d'armonia come la figlia sapeva di non poter più essere. Ella si chinò su Myrcella -qualsiasi cosa fosse rimasto di lei, un grumo di fango nero o uno scheletro scavato da artigli- la contagiò con il suo tiepido, baluginante chiarore e le disse che lei poteva uscire di lì -doveva uscire di lì. C'era un modo. Sì, c'era. Myrcella, forte di quel morbido lume di ragione, aprì gli occhi e vide il viso di sua madre. Ella non sorrideva, nè sembrava arrabbiata. Ma i suoi occhi parlavano -stoici, saldi, eloquenti. Inclementi. Irremovibili. Myrcella capì, e d'un tratto nel pastoso squilibrio del suo inferno senza colore nè dolore comparve qualcosa di distinto, di definito, di determinato; una matassa di filo, un intento, un progetto. L'inizio di un percorso, l'impostazione di uno schema. Un'idea. Che, per una volta, sapeva più di vita che di morte.
Non è troppo tardi. Guarda. La tua pelle è ancora bianca sotto la cenere. Cersei percorse con il polpastrello dell'indice la lunghezza del braccio nudo della figlia. Immediatamente, una sinuosa linea candida prese vita sotto il suo dito, come un rivolo di latte, una goccia di neve. Myrcella, attonita ed incantata, seguiva con lo sguardo i suoi gesti. Perchè sì, il nero si poteva violare altrettanto rapidamente del bianco. Il tuo cuore è ancora illibato sotto questa cenere. Myrcella avvertì lacrime d'emozione ravvivare i suoi occhi rugginosi, in uno spasmo d'emozionante vivacità. Era vero. Era ancora vero. C'era la vita sotto quegli stracci, fra quelle catene, che lei lo volesse riconoscere o no. Finchè si respira non è mai troppo tardi per sopravvivere, Myrcella.
E Myrcella ritrovò il suo respiro. Perchè quando una linea divide, niente è più come prima -perchè quando una linea viene cancellata, non si può negare che sia esistita.
Il giorno successivo, Rickon dovette trattenere lo stupore nel vedere, sul nero viso della sua prigioniera, un sorriso mite e benevolo come il primo soffio di primavera, piccolo e casto come la più fresca corolla d'un bucaneve. Un sorriso che il ragazzo associò ad una lacerazione -ad una resa. Ad uno sbocco in nuove acque.
-Buongiorno, mio piccolo abominio. Spero che durante la notte tu abbia ricordato il linguaggio umano, perchè è una gran noia non sentirti più spiccicare una parola.- Ad un gesto brusco delle sue mani, le sbarre sbottarono arrugginite dietro di loro.
Myrcella perseguiva con quel sorriso strano, carezzevole quanto malsano. La luce della candela feriva la giada deteriorata dei suoi occhi sgranati e ancora belli, ancora odiosi nonostante tutto.
-L'ho ricordato, mio signore.-
Rickon inarcò un sopracciglio, interrogativo. -Cos'è questa novità? Da quando in qua sono il tuo signore?-
La risposta della prigioniera fu pronta, limpida, e fu quella giusta. -Da sempre. Soltanto che ci ho impiegato parecchio tempo a capirlo.-
Myrcella avvertì un premeditato rossore imporporarle le gote e storse le labbra in una pudica dissimulazione dei sentimenti -intanto fra i denti consumava la frustrazione di quelle parole a cui si costringeva brutalmente, quasi che, dopo essere stata violentata nel corpo e nell'anima da Rickon, lo stesse facendo lei stessa con il proprio orgoglio. Prima che il ragazzo potesse ribattere qualcosa, il mostruoso lupo dal folto pelo nero che lo accompagnava ovunque fece per avvicinarsi a Myrcella, fissandola con degli occhi spaventosamente espressivi -addirittura consapevoli, e la prigioniera si ritrovò a fantasticare assurdamente che l'animale avesse fiutato il suo inganno. La fanciulla indietreggiò strisciando sulle ginocchia, le sue esili spalle sussultarono e il capo si chinò in una schiva manifestazione d'allarme; ma il lupo si accostò nuovamente a lei fino a che le fu impossibile retrocedere. Myrcella rispondeva sbalordita e timorosa a quello sguardo fisso ed insostenibile; Rickon non diceva nulla e rimaneva ad osservare cosa stava accadendo, con espressione insondabile. Allora il lupo si allungò fino a raggiungere il volto di Myrcella e le leccò una guancia con la lingua rasposa, con imperturbabile tranquillità, come se la conoscesse da tempo. Da parte sua, Rickon avvampò di sdegno.
-Ma cosa fai, Cagnaccio?! Passi dalla parte del nemico?!- lo sgridò, con la fronte corrucciata; Myrcella, presa in contropiede, allentò la tensione con una risata imbarazzata e giocosa, di protesta e solletico, una risata fresca ed esuberante che la scosse nel profondo. Da quanto tempo non lo faceva? Come poteva essersi dimenticata la liberazione che si prova quando si ride, come se la vita all'improvviso fosse qualcosa di facile, da non prendere troppo sul serio? Ella affondò una mano nella pelliccia scura del lupo e gli accarezzò la testa, allietata da quell'imprevisto.
Fu allora che gli occhi della prigioniera e del carnefice s'incontrarono. Myrcella racchiuse la risata di un attimo prima in un sorriso mite, pacato, contegnoso, ma sincero; le sue lunghe ciglia sussurrarono abbassandosi in una dolce curva e minimizzando l'ilarità in tenera, incerta curiosità circa la bizzarra atmosfera che vibrava fra loro quel giorno, quasi che anche lei fosse confusa e stupita quanto lui, ma piacevolmente, e provasse una qualche certa inaudita emozione. Rickon replicò con uno sguardo tagliente ed acutizzato di sospetto.
-Volevo chiedervi perdono per il mio comportamento, che finora è stato un po'... scostante.- confidò Myrcella, con un filo di voce intimidita, distogliendo gli occhi con ritegno, riguardosamente.
-Scostante è dire poco.- confermò lui, esaminandola, senza esprimere alcuna impressione.
-Voi mi avete trattato con indulgenza, mentre io sono stata davvero scorbutica e... e villana. Mi rincresce incredibilmente.- Myrcella deglutì a fatica, ostentando incertezza e soggezione, la gola rappresa per tutte le spudorate atrocità che stava pronunciando. -Se potessi farmi perdonare, in qualche modo...-
-Non piangi più per i tuoi poveri genitori squartati?- La voce di Rickon tradiva ludico sarcasmo, ma anche un pizzico di diffidenza; la fanciulla si rese conto di dovergli fornire l'estrema conferma, in seguito alla quale egli non avrebbe pensato più a niente, e tutto sarebbe andato come previsto. La cosa più importante era mostrare di non essere turbata da questo genere di affermazioni; quindi ella si sporse verso di lui e gli circondò il collo con le braccia, sempre guardando per terra per reverenziale ritrosia.
-Il dolore di una Lannister sarebbe un insulto al tuo,- bisbigliò ossequiosamente al suo orecchio, stando ben attenta a sfiorargli il lobo con le labbra, -mio signore.-
All'udire ciò, Rickon reagì esattamente come pronosticato: fremette e si slanciò contro di lei, la scagliò sul pavimento e la bloccò lì gettandovisi sopra.
-Finalmente hai capito cosa deve fare una donna intelligente, ovvero sottomettersi e tacere.- sibilò, con un sorriso feroce, prima di addentarle le labbra con foga.
Myrcella lo lasciò fare senza opporsi, ed anzi gli cinse il bacino e reclinò docilmente la testa all'indietro, in modo da esporre il collo al percorso dei baci e dei morsi di Rickon. Sì, ho capito cosa deve fare una donna intelligente, ma ti assicuro che non è nè sottomettersi nè tacere, pensò fra sè. È fingere.
Non era mai stata brava a fingere, Myrcella; eppure aveva imparato tante cose, in quel vuoto che racchiudeva il principio primo della vita a cui aggrapparsi spasmodicamente e quello della morte in cui sperare tante volte per qualche istante. Il buio è una questione di abitudine; e Myrcella, nel buio, stava cominciando a vedere tante cose -un nuovo mondo a delinearsi fra le tenebre, dove un tempo non c'era che il panico.
Ella non pensò quale fosse quella pelle che stava sfiorando con le labbra, nè quante carni avesse dilaniato quella bocca così impetuosamente avventata sulla sua, nè a chi appartenesse il sangue che aveva bagnato quelle braccia che la stavano traendo violentemente contro di sè. Non ci pensò, altrimenti il furore l'avrebbe lacerata per emergere da sotto la polvere. In compenso, non appena le mani di lei scivolarono al bacino, Myrcella non riuscì ad evitare di conficcargli le unghie nei fianchi -e per qualche istante si spaventò della propria imprudenza, del proprio azzardo, e temette rigida la reazione di lui. Ma, contro ogni aspettativa, Rickon ansimò contro la sua pelle e premette impazientemente il corpo contro quello di lei, fino a farla arrossire sul serio per ciò che percepì. Sulle sue labbra ruvide, si faceva strada un sorriso spregiudicato.
-Tutto sommato, ti sono rimasti gli artigli.- ringhiò egli, prima di leccare avidamente il sangue estirpato da una ferita sul petto di lei. Myrcella sorrise, chiuse gli occhi ed attese. Oh, sì. Non ti rendi nemmeno conto di quanto sia vero. Dare all'aguzzino quello che vuole: ecco l'unico modo per la prigioniera di tentare una fuga. Indurlo a fidarsi di lei abbastanza da abbassare le difese e poi, quando meno se lo aspetta, colpire. Forse era soltanto un sogno, però nei suoi piani lei stessa riusciva a sottrarre la spada al ragazzo e trafiggerlo prima che potesse realizzare l'accaduto -sebbene si rendesse conto di quanto Rickon fosse più forte, più cosciente, più guardingo, più agile di lei, e di quanto breve sarebbe stata la sua ipotetica fuga. Non era così sciocca da credere davvero di scappare, dato che c'era il lupo, visto quante guardie c'erano a Grande Inverno in ogni corridoio, però il solo fatto di uccidere Rickon sarebbe stata una vendetta sufficiente a farla morire con il cuore in pace -perchè fortunatamente, lassù, non ci sarebbe stato più nessuno a volerla viva per il proprio divertimento, ma senza troppe cerimonie l'avrebbero ammazzata con un colpo di spada, e poteva esistere fuga più rapida ed indolore, più struggente, poetica e gloriosa? I posteri avrebbero scritto ballate su di lei, l'intrepida principessa Myrcella che, pur di sfuggire dalle grinfie del suo carceriere e riscattare la morte dei suoi familiari, rubò una spada e si gettò fra le braccia confortanti della morte... Mille, mille e ancora mille volte meglio morire subito e senza più soffrire, dopo aver rivisto per l'ultima volta la luce del sole, piuttosto che soffocare per anni d'inedia, stenti e follia in una cella buia e claustrofobica sottoterra, fino a sputare l'ultimo respiro fra la cenere. Mi riprenderò il mio mondo, Rickon Stark. Non ti darò la soddisfazione di avermi rubato la vita. No, Myrcella non voleva morire, voleva Tommen, voleva sua madre, voleva suo zio Tyrion e suo zio Jaime... ma volere serviva a meno che a niente. Tacere, obbedire, fingere: e poi il destino avrebbe deciso per lei.
Quando Rickon si rivestì e riprese la scalata verso la vita in superficie, riflettè che lo eccitava parecchio prima l'idea di prenderla contro la sua volontà, di vincere le sue vane e fragili difese, però quella sua nuova maniera di toccarlo, di baciarlo, di concedersi, di mormorargli pianissimo mio signore con la voce distorta dal piacere, era lo stesso estremamente gratificante; in definitiva, il suo piccolo abominio biondo aveva la capacità di non farlo mai annoiare.
Il principe di Grande Inverno decise di tornare nelle sue stanze, per evitare scomodi incidenti quali incontrare Bran; gli pareva che quel mattino il fratello gli avesse detto qualcosa a proposito di ospiti che sarebbero dovuti arrivare, ma non poteva importare di meno. Si avviò su per le scale, fischiettando fra sè, e varcò ignaro la porta della camera. Però interruppe il passo alla soglia basito, perchè, seduta al tavolo adiacente alla finestra, c'era una fanciulla. Rickon ne vedeva soltanto il profilo, quindi non la riconobbe come una figura familiare: i capelli ricadevano appena a metà della schiena ed erano lisci, d'un castano vacillante fra chiaro e scuro, mentre la carnagione era rosea. Il naso aveva una forma aquilina ed i lineamenti erano ordinari, però tutto sommato le fossette, il colorito e la morbidezza delle gote le attribuiva un'infantile, romantica dolcezza, che la faceva automaticamente apparire graziosa. Indossava un abito piuttosto semplice ma non umile, di velluto color amaranto, che fasciava una figura minuta, le spalle compostamente drizzate da una nobile educazione.
-E tu cosa ci fai qui dentro?! Evapora!- sbraitò il ragazzo, irascibile com'era, bellicosamente in attesa di ricevere delle sentitissime e terrorizzatissime scuse. Ma la fanciulla non pareva avere l'intenzione di gettarsi ai suoi piedi invocando clemenza in lacrime. Senza scomporsi si voltò e, quando anche l'altra parte del suo viso fu esposta, Rickon si rese conto di due cose. La prima era che ella non pareva essersi offesa per quanto le era stato detto -non pareva quasi aver sentito- perchè sorrideva imperturbata e i suoi occhi, d'un turchese forte e scuro, baluginavano vispi ed intelligenti. La seconda era che metà del viso era divorata da irregolari e frastagliate scaglie di pelle grigia, dura e ruvida, a scendere fino allo scollo dell'abito ed alla spalla destra. Grottesca, forse. Spaventosa, per qualcuno. Ma decisamente non era una servetta, non con quel vestito, non se osava a tal punto. La ragazza sorrise mesta.
-Mi dispiace, non era mia intenzione introdurmi qui così di soppiatto come una ladra, Rickon. È un vero piacere conoscerti. Perchè sei Rickon, non è vero?-
-In persona.- sbottò lui, innervosito. -Ma sono io ad avere il diritto di fare domande. Insomma, si può sapere chi accidenti sei o aspetti un invito scritto?!-
Lei ridacchiava fra sè, trovando spiritosa la meschina, spavalda franchezza del ragazzo. -Rickon Stark.- ripetè con tenerezza fra sè, rivolgendogli una lunga occhiata penetrante e concentrata ch'egli non comprese. -Avremo davvero molto di cui parlare, tu ed io.-
***
Catelyn era bella. Petyr Baelish la ricordava così come si ricordano le preghiere, con la stessa devozione -e lo stesso distacco. Perchè, per quanto egli si fosse avvicinato a lei, di più, sempre di più, per quanto l'avesse baciata ed avesse scorto il proprio riflesso distorto nelle sue pupille, in tutti i loro ricordi v'era qualcosa che s'opponeva, che sfumava e cancellava. Catelyn era sempre al di là, abbastanza vicina per essere ammirata, mai a sufficienza per essere raggiunta. Gli sorrideva, a quella maniera condiscendente e malinconica ed insopportabilmente dolorosa, e il suo sorriso si deformava in un ghigno beffardo nella contaminazione di ricordi che Baelish, con l'andare del tempo, cominciava a sospettare di starsi inventando. Perchè Catelyn non era mai stata così bella come nella sua mente -nemmeno nella mente di Brandon Stark, nemmeno nella mente di Eddard. Loro l'avevano avuta, l'avevano conquistata, s'erano appropriati di lei. Lui no. Lui era sempre così lontano. E gli veniva spesso voglia di prendere una spada e smembrare quell'ostacolo, quell'impedimento, quella nebbia, quelle remore, e sorgeva spesso l'impeto di supplicare, urlare, sbraitare, fare rumore, rompere lo schermo impenetrabile di quella mente senza segreti eppure così ardentemente desiderata, prenderle il cuore fra le mani e diventare -per un istante- il centro gravitazionale del suo universo. Un secondo. Un momento soltanto di sguardi veri, sorrisi veri. Amore vero, in un istante. Amore e basta, perchè Catelyn non s'era mai nemmeno costretta a fingere con lui. Non ti amo. Frivolo era stato quel rifiuto, niente meno che un bacio respinto e rossore di disagio sulle guance, però non era stata frivola quell'infatuazione che non ebbe mai l'occasione di sbocciare in un sentimento più profondo. Avrebbe dovuto crederci, Catelyn, perchè se ne avesse avuto la possibilità egli le avrebbe concesso la vita ch'ella davvero meritava -meno sontuosa e più felice, meno emozionante e più serena. Non ti amo. Era bastato poco per annullare la speranza nel biancore devastante del cimitero dei sogni, e d'un tratto quella gioia che a lui era sembrata un diamante aveva rivelato la sua natura, nient'altro che un sasso, e lo aveva colpito in mezzo alla fronte. Ma la cosa peggiore sopra tutte le altre, il difetto fatale del suo rancore, lo scoglio insolubile del suo dolore, era che Catelyn, in tutta questa storia, aveva la ragione dalla sua parte. Cosa le si poteva rimproverare, in fondo?
E visto che nella vita le umiliazioni sono schiaffi che scacciano rimasugli di sogni e lezioni di fantasia, Petyr aveva compreso con vacua lentezza che le parole dominano il mondo -però il mondo può imparare a dominare le parole. Un giorno pronuncerò questa sentenza davanti ad una donna, Catelyn Stark, e quando lo farò la colpa sarà unicamente tua, stupida anima innocente ed atrocemente sincera -ma non lo sai che ciascuno di noi durante la sua esistenza ha diritto ad una bugia? Catelyn non lo sapeva, e molti anni dopo Baelish sussurrò al capezzale di Lysa Tully quelle tonde, sporche parole, fomentate nell'animo come conti in sospeso. Non ti amo. Servì soltanto a fargliele odiare ancora di più.
Sansa era una fanciulla posata, graziosa; mai, se la sua esistenza avesse percorso il dolce sentiero delle storie già lette e delle ripercussioni tipiche, avrebbe dovuto sentire quei disarmonici suoni orribilmente connessi fra loro. Però eccola là, vulnerabile, disillusa, rifiutata dagli agi di una vita comoda e dall'amore d'un principe dal mantello macchiato di sangue, inerme davanti a quel giudizio che l'avrebbe rotta in frantumi. E qual era l'unica persona a poterla salvare dal suo tragico destino?
Sansa non era come sua madre. Sansa era fragile, apatia fuori ed emorragia nel petto, Sansa aveva l'appassionato istinto di sopravvivenza della giovinezza, tremava sotto la neve senza cedere al sonno, teneva gli occhi aperti anche se non voleva più guardare. Sansa era adorabile, bianca, fiduciosa, e fra le sue mani. Sansa era la rivincita -il riscatto, e a quel punto il ricordo di Cat si poteva sciogliere dai vincoli d'un sentimento vano e lasciare andare. Adesso era Baelish ad avere la responsabilità dei sentimenti di qualcuno, l'onore di poter decretare la salvezza e la rovina in un debole organismo di nervi e vene. Adesso era Baelish ad essere armato di quelle letali parole, rese accessibili da un solo schiocco di lingua -così come fa la corda di un arco nel liberare una freccia. Perchè Sansa non aveva chi l'amasse nella Fortezza Rossa, e ricercava sorrisi e benevolenza come indotta da un'inedia pressante, elargendo fiducia con il panico delle bestie negli occhi smarriti.
Poi, come sempre nei momenti in cui la sua vita stava andando proprio come egli desiderava, Petyr Baelish aveva rovinato tutto, dandola in sposa a quel verme di Robin Arryn -che aveva passato le precedenti due ore e mezza a fargli la ramanzina per questo e quel motivo, per il solo gusto di strillare.
-Buongiorno, Petyr.- La ragazza era china sulla piccola scrivania di cedro intagliata, nella sua stanza; l'uomo sapeva quanto le piacesse quel posto, perchè sollevando un poco la testa ella poteva rimirare l'azzurro incontaminato del cielo e gli arabeschi lattiginosi delle nuvole, attraverso una piccola finestrella pentagonale. Baelish non potè fare a meno di notare quanto fosse bella, anche nella mite noncuranza della quotidianità: una treccia lieve e sottile come lo stelo d'una margherita le carezzava una gota rosata dal vento acuto e lambiva il foglio su cui ella stava scrivendo, mentre il resto dei capelli le ammantavano la schiena, lasciata scoperta da un abito rosa perlato. Il turchese terso e vivace degli occhi stava in equilibrio su ogni lettera che la mano affusolata tracciava -non era più il celeste limpido d'un tempo, ma non per questo aveva perso il suo splendore. Sì, c'era decisamente Catelyn nei suoi lineamenti, così morbidi ed arrotondati e fini, raffinatezza modesta e senza arroganza, quella bellezza un po' timida ma fresca come un giglio, priva della drastica austerità dei geni Stark; soltanto il suo pallore diafano rievocava in qualche modo il Nord.
-Buongiorno a te, Alayne.- rispose Baelish affabilmente, avanzando nella stanza a lunghi passi. -Che cosa stai facendo di così appassionante?-
Alayne si voltò, in uno svolazzo di merletti ricamati e ciocche castane, un sorriso scherzoso a fior delle labbra carnose. -Mi sembra che sia evidente anche ad una mente meno brillante della tua.-
-Hai sviluppato un sarcasmo sorprendentemente efficace.- commentò l'uomo, senza fare una piega. Qualcosa di simile ad un taglio sardonico rovinò la franchezza del suo sorriso. La voce suonò quasi indifferente, quando disse: -È un peccato che Robin non riesca mai a coglierlo. Se così fosse, ti apprezzerebbe anche di più di quanto già non faccia.-
La ragazza non smise di sorridere. -Robin è un'anima ingenua.-
-Robin ha lo sviluppo cerebrale di una stella marina.- tagliò corto Baelish, annoiato. -L'ultimo ospite che è salito a Nido dell'Aquila ti ha scambiata per la sua balia.-
-Cosa che non succederà più, quando stringerò fra le braccia suo figlio.- precisò Alayne, lanciando un ultimo sguardo per verificare la reazione di Ditocorto. Egli non le diede motivo di sogghignare e si limitò ad inarcare un sopracciglio, in segno di lieve e disinteressato stupore.
-Significa che sei incinta?-
-Forse sì.- La fanciulla si girò a soffiare delicatamente sul suo foglio, dove l'inchiostro si stava asciugando ed imprimendo sulla carta. -Forse no.-
-Lo dici soltanto nello sfrontato tentativo di farmi innervosire.- insinuò Baelish, gettando là quell'accusa con disinvoltura. Col passare del tempo i loro ruoli non s'erano definitivamente invertiti, ma piuttosto equiparati: questo perchè Alayne, così come Catelyn al suo tempo, aveva cominciato ad esercitare un certo potere su di lui, più o meno consapevolmente, pur non riconoscendo appieno la natura del sentimento che legava Baelish a lei, confondendolo talvolta per l'amore verso la madre morta anzichè verso sè stessa. Da quando Alayne aveva scoperto quanto fastidio gli desse l'idea di lei e Robin insieme, fraintendendo quella gelosia come paterna, non mancava di punzecchiarlo spesso e volentieri.
-Non vedo perchè dovrebbe farti innervosire.- replicò melliflua. -Ma insomma, Petyr, sei venuto qui soltanto per insultare il mio sposo?- Impossibile non decodificare la risatina che percorse le sue parole e contagiò la sua bocca.
-Prima che quel ridicolo lattante riesca ad ingravidarti, qualcuno dovrebbe insegnargli come si fa.- malignò Petyr, con un movimento misurato e sprezzante della mano dall'alto verso il basso, quasi a scacciare quelle ridicole considerazioni. Poi si rianimò e sorrise a sua volta. -Ad ogni modo... lo ammetto, mi hai fornito su un piatto d'argento l'occasione perfetta per divagare. La discussione è cominciata perchè mi stavo informando circa ciò che fino ad un attimo fa scrivevi con tanto entusiasmo.- Il suo sguardo scivolò sul foglio.
-Effettivamente, sono abbastanza soddisfatta.- confermò Alayne, rimirando la propria opera con compiaciuta ed ammiccante approvazione.
-Chi è il destinatario?- chiese Baelish, ancora una volta con tono assolutamente privo d'inflessioni.
La ragazza si chinò ad aggiungere qualcosa, brandendo la piuma con maestria, poi rispose. -È re Tommen. Ma ciò su cui ti invito a prestare attenzione è l'identità del mittente.-
Baelish ispezionò rapidamente il foglio con gli occhi, la fronte distesa.-Tu?-
-Damon Marbrand di Ashemark, alfiere dei Lannister.- lo corresse Alayne, imperturbabile, indicando la firma con la piuma. -Sta annunciando che le truppe si rifiutano di combattere per un re che intende sbarrarsi nel suo castello, appena la guerrà avrà inizio... un re codardo, o almeno questo si desume fra le righe.-
Un sorriso divertito e po' sinistro incurvò le labbra dell'uomo. -Hai intenzione di stanare il leone e gettarlo fra le fauci dei lupi, Alayne?-
-Precisamente. Se Tommen prende atto della propria situazione e delle diffamazioni che minacciano di scagliarlo giù dal trono, scende in campo. E se scende in campo, per mio fratello Bran sarà più facile ucciderlo avendolo a vista d'occhio, piuttosto che andandolo a cercare nei meandri della Fortezza Rossa.- La sua voce, inesorabile e compassata fino al cinismo, e l'austera freddezza del suo ragionamento dimostravano appieno quanto le tragedie del suo passato ed il tempo che aveva avuto per assimilarle l'avessero cambiata: la sua freddezza non era apparenza, finzione, ma il prevedibile risultato di un graduato logoramento. Il volto aveva perso lo splendore della sua innocenza, adombrandolo, ma il dolore l'aveva levigato, scolpito, cesellato d'una fiera alterezza, d'una calma benchè funesta risolutezza, e la sua volontà era così manifestamente aguzza nei tratti perchè era stata scritta dai pugnali.
Baelish portò una mano al pizzetto sul mento, com'era solito fare. -Astuto, ma se il re decide di rispondere a questo presunto alfiere, oppure viene in qualche maniera a scoprire che la lettera è un falso, come la mettiamo?-
-È molto difficile che sorga questo dubbio. In fondo, perchè non dovrebbe essere quel che sembra? Se ogni volta che giunge una lettera si pensasse che non è autentica, questo sistema di comunicazione avrebbe vita breve.- osservò Alayne. -E comunque non ci sarebbe abbastanza tempo per chiarire la questione ed ipotizzare la verità. Sarebbe già troppo tardi.-
-Come credi. Ti stai mobilitando per venire in soccorso alla tua famiglia, vedo.- disse Baelish. Era un buon segno: magari presto avrebbe espresso il desiderio di ricongiungersi con la sua famiglia, e allora loro due avrebbero potuto lasciare il castello di quel pidocchietto antipatico di Robin.
-Famiglia, dovere, onore, ricordi? Questo,- e Sansa toccò una busta gonfia e già sigillata, -è il resoconto di una ragazzetta al seguito dell'esercito che ho pagato in forma anonima per aggiornarmi circa l'umore dell'esercito e gli spostamenti delle truppe. Certo, non è molto, contando che quanto una giovane schiava può sapere è soltanto il giro delle chiacchiere e i movimenti vengono segnalati solamente nel momento in cui avvengono, però è meglio di niente: fare altrimenti sarebbe stato troppo pericoloso. Se la beccheranno intenta a scrivermi una lettera, perlomeno non potrà confessare nulla nemmeno se vorrà. L'unica cosa che deve fare è inviare le lettere a una torre abbandonata a qualche lega da qui, e provvede un servo a portarmele. È un piano semplice, ma conto sulla sua complessiva efficacia.-
-Non hai imparato da te stessa a non fidarti delle lettere? Non sei la sola a poter gabbare il mittente, Alayne...- obiettò Ditocorto a quel punto.
Sansa si mostrò scettica circa quell'eventualità. -Una schiava non ripone fedeltà in nulla, se non nel denaro che la ripara dal freddo e le riempie la pancia. A che pro dovrebbe decidere di dare false informazioni ad una persona che non conosce?-
Baelish sorrise. Questa non è più tua figlia, Cat. Questa ragazza l'ho addestrata io. E guarda, se ancora da lassù puoi rivolgere lo sguardo alle miserie umane, che cosa è diventata.
-Tempo fa mi dicesti che Tommen, Myrcella e Margaery erano gli unici ad averti trattata con gentilezza, alla Fortezza Rossa. È solo grazie alla giovane Tyrell, inoltre, se non hai sposato quell'orribile ragazzino, Joffrey. E tu adesso stai complottando alle loro spalle? Sleale da parte tua...-
Il viso di Sansa si rabbuiò. Quando parlò, la sua voce era piatta e monocorde. -Non m'importa più di chi è la colpa, Petyr. Non è mai importato a nessuno. Perchè dovrebbe importare a me?! So chi sono le persone che devo amare, qual è la fazione in favore della quale mi devo schierare. Tutto il resto è relativo. Io sono una Stark, ed a mio tempo ho pagato per questo. È venuto il giorno che anche i Lannister lo facciano. Non sono più una bambina, Petyr, e ho imparato a fare distinzioni fra chi sarà sempre al mio fianco e chi sprecherà soltanto parole. Questo è tutto.-
Era davvero tutto. Lo sguardo di Sansa era ancora fisso sulla lettera, ma gli occhi non leggevano più, immobili in un silenzio irrevocabile. Baelish notò che un singulto le scosse la gola bianca, mentre le labbra si serravano -quasi a costringersi a non concedere più pietà a nessuno.
Bealish capì ch'ella aveva bisogno di stare un po' sola e si congedò con poche parole inascoltate. Mentre scendeva le scale, l'idea del rapporto di reciproca necessità che lo univa a Sansa gli parve un superamento del punto dolente ch'era sempre stato il rifiuto di Catelyn; però non riusciva ancora a dissolvere quel fantasma con un sincero, tagliente, noncurante non ti amo, e Catelyn Tully continuava a seguirlo impassibile, confondendosi con la sua ombra, respirando sul suo collo -sempre troppo lontana.
***
Sicuro della sua esperienza di otto anni passati insieme, nel bene e nel male, Tyrion -nella sua evidente e riprovevole ingenuità- era convinto d'essere in grado di prevedere le reazioni ed i comportamenti di Shae, perciò s'armò d'una ventina di risposte che dall'umorismo tragicomico sfociavano nell'autoironia e della sua più commovente espressione da: "oh-Shae-per-gli-dèi-quanto-mi-sei-mancata-non-ci-crederai-è-stato-un-inferno-non-vedevo-l'ora-di-riabbracciarti"... servì a ben poco, dal momento che la donna di fronte a lui, dopo alcuni istanti di accusatorio silenzio, gli mollò un ceffone che gli girò letteralmente la faccia.
-Lo sai cosa stavo facendo, stamattina?- sibilò con voce che non si sarebbe potuta definire in altro modo, se non oscura. -Stavo meditando su come dire a nostra figlia che d'ora in poi avrebbe vissuto senza padre.-
Ella indossava un pesante cappuccio di lana blu sopra il capo, ad ombreggiarle il volto perlaceo. La notte si dispiegava rossastra nei bassifondi di Approdo del Re, riflettendosi sinistra nelle pozze d'acqua torbida come l'anima di quella città, graffiando i muri e carezzando con dita fredde le schiena dei passanti.
-E sai cosa stavo facendo io, stamattina? Stavo appresso al letto di mio fratello moribondo.- bofonchiò Tyrion. -Da come mi hai apostrofato, sembra che abbia passato il tempo ad ubriacarmi in osteria in braccio alle tue amichette.- Il che, pensò, non significa che non sia ciò che avrei tanto voluto fare in realtà.
Shae non parve neppure per un attimo pentita dei proprio modi bruschi. -Neanche. Un. Messaggio. Neanche un misero "Hey, tanto per avvertire, sono ancora vivo". Lo sai che nottatacce mi hai fatto trascorrere?!-
Per un istante, quella maschera di rabbia s'incrinò, lasciando trasparire la sua apprensione.
-Ohh, quanto sei dolce, Shae. Davvero, nessuno ti impedisce di perseverare nella... solitudine in mia assenza. Anzi. Lo sai che voglio soltanto la tua felicità.-
Tyrion le sorrise pigramente ed ella lo ricompensò con un'occhiata fulminante. -Per una volta che cercavo di... che pensavo... che mi stavo davvero... ahh, lascia stare.- S'imbronciò. -Sei l'essere più laido che io conosca.-
-Non credo proprio, purtroppo. Allora, andiamo dalla piccola oppure rimaniamo qui a parlare della tua... come definirla? astinenza di compagnia?-
Dette quelle parole, Shae gli fece secco cenno di seguirlo e cominciò a camminare a passo affrettato davanti a lui, ritirando le mani sotto il lungo mantello. Tyrion era impaziente di rivedere sua figlia. L'ultima volta che era andato a trovarla era stato quasi un mese prima; egli non aveva avvertito Shae che non sarebbe partito per Runestone, perciò, quando la donna aveva sentito dello sterminio di Lannister consumatosi là e da quel momento non aveva avuto più sue notizie, era legittimo ch'avesse temuto ch'egli fosse morto. Tyrion si era sentito in dovere di stare accanto a Jaime, non soltanto per la gravità delle ferite ma soprattutto perchè, al risveglio, il fratello avrebbe dovuto confrontarsi con un trauma molto più grave: la morte della gemella. Però, per adempiere a quel fraterno dovere, aveva trascurato quello paterno. Il fatto era che non aveva mai potuto assegnare a Shae ed alla piccola una casa soltanto loro, per paura che Cersei finisse con lo scoprire tutto e mandasse qualche suo scagnozzo, perciò le due erano costrette a cercarsi ogni due settimane un luogo diverso in cui dormire, che come requisito fondamentale presentasse una via di fuga sempre accessibile. Per questo Tyrion doveva ogni volta chiedere a Shae dove recarsi, non sapendo in che posto alloggiassero in un determinato periodo, e non poteva semplicemente andare a trovarle quando aveva un po' di tempo a disposizione. Tale era uno dei problemi che la scomparsa di Cersei aveva risolto. Mentre continuavano a camminare spediti, Tyrion si guardò intorno circospetto: Fondo delle Pulci non gli pareva un luogo sicuro, nè il più adatto per portarci una bambina.
-Ha fatto qualche progresso?- s'informò egli ad un certo punto, incuriosito. Shae contrasse le labbra imbarazzata, come se stesse per annunciare qualcosa di sgradevole.
-Ha imparato definitivamente a leggere.- confessò infine, turbata. Tyrion inarcò le sopracciglia, sorpreso.
-Naturale, ha sei anni. Più lodevole è il fatto che da sola abbia deciso di applicarsi, e che abbia studiato da autodidatta...-
-Ha imparato a leggere prima di me.- protestò la donna con sdegno, contrariata all'idea di dover misurare la propria intelligenza con quella di sua figlia.
-Mi sembra ovvio, lei è mia figlia. Mentre tu...- cominciò Tyrion, prima di rendersi conto dell'enormità del guaio in cui si stava cacciando.
Shae serrò gli occhi, battagliera. -Mentre tu...?!- lo incalzò a proseguire, minacciosamente.
-... mentre tu sei la mia piccola dolce Shae.- rispose egli, giulivo, con un amabile sorriso. -Dai, su, lo sappiamo che il tuo talento si manifesta in altri campi...-
-Mi fai più schifo ogni minuto che passa.- borbottò lei.
-Sì, anch'io ti amo. E per inciso, se anche ci fossero dei doppi sensi nascosti fra le mie parole, li hai intesi solo tu.-
Fra una frecciata e l'altra accelerarono progressivamente il passo; Shae svoltò ad un vicolo, scansando i gorgoglianti rigagnoli d'acqua che gocciolavano da una vecchia grondaia, e fu subito avvolta dalla penombra. Tyrion lanciò un'occhiata agli edifici che vi si affacciavano: muri anneriti dal tempo, compatti ed uniformi, perchè soltanto due o tre finestre erano visibili -e tutto quel che si poteva intravedere era una vacua, disabitata assenza.
-Lo sai che ad essere davvero nascosto non è chi si isola, ma chi si confonde fra la folla?- commentò. Per tutta risposta, Shae bofonchiò qualche insulto improponibile. All'improvviso la sua mano trovò una ringhiera e vi si aggrappò, mentre scendeva un paio di gradini ricoperti di muschio verdastro; Tyrion la seguì. Proprio lì, in quella nicchia sette o otto piedi sotto il livello del suolo, v'era una porta di legno pesante e in parte marcio, come il Folletto notò -persino al buio.
Shae bussò energicamente. -Tesoro? Sono io. Mi apri?-
-Qual è l'unica verdura che io non voglio mangiare?- replicò una vocina petulante, in tono quasi beffardo. La donna alzò lo sguardo al ritaglio di cielo che si poteva scorgere da lì.
-I broccoli sono quelli che odi più di tutto, però non sono le uniche verdure che non mangi, signorina. Cosa mi dici delle melanzane e dei piselli?-
Seguì un silenzio interdetto, addirittura deluso, e subito dopo un rumore sferragliante di chiavistelli strattonati da una parte, di catenacci slegati, di paletti rimossi e spranghe levate e poggiate sul pavimento; soltanto allora la porta s'aprì, sempre un po' cautamente.
Anche se il giudizio di Tyrion non avrebbe mai potuto essere completamente obiettivo, egli riteneva senza dubbio vero il fatto che Cailee Waters era una bambina adorabile. I lineamenti del viso, più tipici delle città libere che di Westeros, li aveva ereditati dalla madre: gli occhi dolcemente allungati, scuri e densi come vino aromatico, gli zigomi alti e un po' pronunciati, il naso dritto e la piccola bocca. I capelli invece erano Lannister, biondi, pallidi come i primi raggi dell'alba ma squillanti come grano esposto al sole battente; Shae glie li tagliava corti, all'altezza del collo, ed una scriminatura centrale li divideva, facendo sì che due ciocche ricadessero sulla fronte, una a sfiorare l'occhio destro e l'altra il sinistro. La pelle non era nè diafana nè olivastra, ma un buon compromesso fra le tonalità. Di corporatura era gracile e mingherlina, anche troppo, ma il padre sapeva quanto fossero scattanti quei piedi minuscoli all'occorrenza.
Vedendo la madre sulla soglia, Cailee aggrottò la fronte accigliata. -Avevi detto che venivano le guardie a prendermi, però! L'avevi detto! E allora perchè non vengono mai?-
-Ti piacerebbe forse che venissero qui?- ribattè lei, sorridendo. La bimba mise il broncio.
-Io voglio vedere le guardie. E anche le spade.-
-E non hai paura che ti portino via da me e non ti restituiscano mai più?- la stuzzicò Shae. -Le guardie non ti preparerebbero mica il pane con la marmellata a merenda come faccio io.-
La bambina non parve molto impressionata dalle minacce. -Guarda che non mi faccio rapire. Io le guardie le mordo!-
-Che gli Dèi ce ne scampino!-
Appena Cailee vide la figura di suo padre comparire da dietro Shae, il suo visetto minuto s'illuminò come una stella. Al grido di "papà!", balzò ad abbracciarlo con impeto. Non si poteva certo dire che fosse nana: Tyrion si rese conto che era quasi alta come lui.
-Sai che adesso leggo veloce come te?- annunciò fiera, scostando distrattamente un ciuffo biondo dietro l'orecchio. Il padre scosse la testa.
-Ne dubito. Scommetto che sei molto più veloce di me. Aspetta, cos'è questa storia delle spade?-
Cailee lo prese per mano e lo strattonò nel cuore della sua casupola; l'interno era squallido -le pareti erano spoglie, le assi del pavimento accidentate e la mobilia consisteva in una credenza, un tavolo e pochi sgabelli- eppure accogliente allo stesso tempo, ed era sorprendente come, in così poco tempo, le due inquiline fossero riuscite a renderlo tanto familiare. Probabilmente erano l'innata allegria e l'entusiasmo di Cailee a riscaldare così tanto anche la più sciatta manifestazione della miseria. Quando sedettero al piccolo tavolo al centro della stanza,
-Ho deciso che da grande farò il cavaliere, come lo zio Jaime.- annunciò solennemente la bambina, gonfiando il petto, con fare cerimonioso.
-Chi ti ha messo in testa questa balzana idea? No, no, tu non devi fare il cavaliere, luce dei miei occhi... e non devi chiamare lo zio Jaime "zio Jaime", capito? Mai.-
-E allora come?- ribattè la bambina, confusa.
Effettivamente, per quanto le precauzioni fossero state molteplici, Jaime aveva finito per insospettirsi, seguire il fratello e scoprire dell'esistenza di Cailee, nonchè di Shae. Tyrion non se n'era preoccupato, perchè sapeva di potersi fidare di lui: a dirla tutta, egli era stato piuttosto contento d'essere diventato zio e aveva preso la nipotina in simpatia. "Ha un bel caratterino, proprio come te", aveva commentato ridendo con Tyrion.
Il Folletto ci pensò un po' su. -In realtà non lo devi chiamare per niente. Evita di nominarlo e tutto andrà al meglio.-
L'idea che per Approdo del Re si spargesse la voce che Tyrion Lannister aveva generato una figlia bastarda non lo entusiasmava granchè, a prescindere dal fatto che Cersei fosse morta. Finchè nessuno avesse scoperto le sue origini, la piccola sarebbe stata al sicuro; altrimenti sarebbe stato fin troppo facile rapirla per ottenere un riscatto, consegnarla a qualcuno o, ancora peggio, ucciderla per semplice ripicca verso la tirannia dei Lannister. La cosa che per Tyrion era più dolorosa era il fatto di non poterla tenere con sè alla Fortezza Rossa, sempre sott'occhio, perennemente sotto la sua vigile ala protettiva. Prima della nascita della figlia non credeva davvero che ci si potesse affezionare così ad un moccioso, però diventare genitori -esattamente come dice quel barboso luogo comune- fa cambiare la prospettiva da cui si guarda il mondo. D'un tratto tutto l'amore che gli era stato impedito -per un motivo o per un altro- di provare per Cersei e Tywin e Joanna, il tenero sentimento adolescenziale nei confronti di Tysha, la passione tutt'ora vitale per Shae s'era riversata nell'unica, straziante, insopportabile necessità di vedere le labbra di quel piccolo esserino incurvarsi ed esplodere in un sorriso che parlasse di gioia, che ignorasse le lacrime, che varcasse i confini. Perchè un genitore non è un dio, può, deve dare soltanto la vita alla sua creatura -perchè l'ombra di Tywin Lannister non poteva essere così lunga da insidiare anche l'infanzia di sua nipote.
Mentre Cailee, dalla saccoccia che conteneva tutti gli averi suoi e della madre, arraffava uno dei fogli che utilizzava per imparare a leggere ed un calamaio d'inchiostro nero, canticchiando adesso disegno lo zio Jaime con il cavallo e la spada, Shae sedette accanto a Tyrion e gli toccò la spalla, sollecita.
-A proposito di Jaime, come sta?- sussurrò piano. Dopo tanti anni insieme, aveva scoperto la tacita solidarietà e l'intensità segreta del rapporto fraterno che intercorreva fra i due. Il Folletto si limitò a lanciarle un'occhiata sconfortata.
-Male, Shae. Fisicamente, molto meglio di quanto i medici vogliano farmi credere. Interiormente, molto peggio di quanto egli riesca a farmi intendere. La ferita al petto è quasi guarita, senza troppe complicazioni, ma la riabilitazione è lenta proprio a causa della sua... totale mancanza di collaborazione.- Tyrion aveva esitato, prima di pronunciare quelle parole: in effetti, il termine esatto da adoperare sarebbe stato disperazione, inteso nella sua accezione meno banale, cioè mancanza di speranza. Jaime Lannister non sperava più, e questo era sostanzialmente l'ostacolo insormontabile. Non sperava più che il mondo avrebbe smesso di deluderlo. Non sperava più che il fuoco l'avrebbe scaldato e la luce avrebbe sbrogliato le tenebre. Non sperava più che un respiro potesse diventare un passo verso il futuro piuttosto che l'ennesimo istante dopo Cersei. Non sperava nemmeno più nel vuoto, perchè il nulla si colmava sempre di più ad ogni istante, ed ormai faceva male pure quello. Ogni cosa era in grado di ferirlo, in un circolo vizioso di specchi e strazio -povera piccola anima forte che voleva cedere alle lusinghe dell'oblio e trovava la porta sprangata.
-Non vuole guarire, capisci? Non ha intenzione di alzarsi da quel letto. E io non trovo le parole giuste per spingerlo a farlo.- ammise Tyrion. Lui, che non trovava le parole giuste? Visto ch'era l'unica cosa che avrebbe sempre saputo fare meglio degli altri, la situazione era piuttosto critica.
-Il pensiero di farla pagare al responsabile, magari.- propose Shae, che conosceva il sapore della vendetta più di quanto avrebbe desiderato.
-Se gli si piazza ancora una volta avanti, quel responsabile gli farà pentire d'essere sopravvissuto. E farà in modo di non ripetere lo stesso errore.- fu la tetra risposta. Quando Rickon Stark avrebbe scoperto che lo Sterminatore di Re era ancora vivo, si sarebbe di certo infuriato: più lontano lui e Jaime fossero rimasti l'uno dall'altro, meglio sarebbe stato. -Mettere in castigo un bambino cattivo non ridarà un senso alla sua esistenza. Il piccolo Stark ha compiuto un delitto di cui non può conoscere la portata, non nella sua effettiva interezza. Ha combinato un guaio più grande di lui, che finirà inevitabilmente per ripercuoterglisi contro... ma non ora. Ci vuole tempo. Al momento, Jaime deve pensare soltanto a riposare.-
Shae lasciò trascorrere qualche momento, prima di aggiungere: -Mi dispiace per tuo fratello, sì, però se ti dicessi che la morte della sua affabile gemella mi addolora...-
-... mentiresti spudoratamente. Siamo in due.- concordò Tyrion, impassibile. -Proprio per questo, mia cara, mi sembra il caso di discutere circa il vostro futuro... Ora che la minaccia di Cersei non incombe più, vi procurerò una casa che vi appartenga. Una casa decente, niente a che vedere con queste bettole. Una casa grande, bella e sicura. È una promessa.-
Tyrion sorrise, e Shae non potè fare a meno di imitarlo. -... è fantastico.- concluse in soffio.
-Voi siete fantastiche.- la corresse lui, prendendole una mano e fissandola negli occhi. E le parole divennero futili come pulviscoli d'aria.
-Papà?- La voce acuta di Cailee interruppe bruscamente quell'idilliaca sospensione.
Tyrion si rivolse a lei. -Dimmi.-
La bambina aveva sollevato lo sguardo dal suo disegno: teneva il palmo della mano disteso premuto sul foglio con fermezza, la mano che reggeva la piuma incerta a mezz'aria. Sul suo visino v'era un'espressione pensosa.
-Ho sentito il ragazzo delle mele al mercato che diceva: la guerra sta arrivando. La guerra arriva sul serio?-
Anche Shae guardò il marito, quasi che la risposta la interessasse. Egli osservò prima l'una, poi l'altra.
Ovvio che stava arrivando, la guerra. Gli Stark si erano premurati d'avvertirli piuttosto esplicitamente. L'avevano portata loro, insieme al vento del Nord, insieme alla spada dei vendicatori ed il lutto dei Lannister. La guerra era arrivata nel momento in cui il giovane regno di Tommen aveva cominciato a piegarsi su se stesso, sotto la pressione dell'inverno, a dare segni di cedimento, a cigolare e gemere; ed adesso che quel regno brancolava nell'indeterminatezza, ecco la guerra a derubare tutte le tasche per saldare i debiti non pagati.
Tyrion era già piuttosto impegnato e preoccupato, per via dei numerosi oneri che gli venivano dal titolo di stratega, occupato a fare bilanci per le spese militari e mandare corvi ai vari alfieri e trattare per il numero delle truppe ed esaminare la mappa, tentando di indovinare la prossima mossa di Brandon Stark; tutto ciò non era poco, e se poi ci si aggiungeva i deliri di Tommen, allora le circostanze diventavano ingestibili. I guai cominciarono a causa di una lettera, giunta da Ashemark, che affermava che le truppe si sarebbero rifiutate di combattere per un re che faceva altrettanto; a quanto pare, tale moto di ribellione era stato fomentato dal fatto che il Re Metamorfo aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe partecipato alla campagna militare. Se aveva il coraggio di farlo uno storpio, i soldati del Sud si sentivano insultati all'idea di combattere sotto l'insegna d'un re vile a tal punto. Tyrion poteva anche comprendere un ragionamento di questo tipo, ma c'erano due cose da tenere a mente: la prima era che Bran Stark non per niente era il Re Metamorfo, e tanto vulnerabile dunque non pareva; la seconda era che chiunque sarebbe stato capace di fare lo spavaldo, con al fianco una macchina da guerra come Rickon. Però Tommen aveva sedici anni, che diavolo, e quella lettera l'aveva punto nell'orgoglio. Per quanto temperante e sensibile d'indole, era pur sempre un Lannister. Perciò, dopo aver sbottato "posso andarci benissimo anch'io, non c'è alcun problema" aveva ordinato di riferire il suo assenso al popolo intero tramite un editto. -Così andrò a riprendermi Myrcella, e gli farò pentire di averla sfiorata con un dito, a quel Rickon Stark!-
Inutilmente Tyrion aveva cercato di farlo ragionare, esponendogli tutte le buone ragioni per cui non dare retta a tale provocazione -perchè, se non una provocazione, cos'era la lettera?- e starsene sereno alla Fortezza Rossa: ormai il danno era irreparabile. In verità il problema c'era, e non da poco. Tommen sapeva maneggiare sì una spada in maniera passabile, grazie agli insegnamenti di Loras Tyrell, ma da qui a definirlo un combattente ci passava il mare dothraki. Era un ragazzo dall'animo dolce, impressionabile, compassionevole: la guerra, e qualsiasi altra forma di violenza, non facevano per lui. Non sarebbe mai stato in grado di dare la morte ad una persona, nemmeno ad un nemico -forse nemmeno a Rickon Stark stesso, però, come il bambino ch'era, parlava senza rendersi conto dell'impresa che stava intraprendendo, spinto soltanto dall'impeto della giovinezza, da un'ingenua speranza di gloria, dal desiderio di fare qualcosa di concreto per riavere Myrcella con sè, anzichè starsene lì con le mani in mano. Di certo Rickon Stark aveva sfiorato la ragazza con ben più che con un dito, però era altrettanto vero che avrebbe potuto uccidere il giovane Lannister con un pugno.
Tyrion era del tutto contrario a questa decisione, ma Tommen era il re e, costringendolo a cambiare idea, avrebbe dimostrato quanto egli fosse debole e smidollato e gli avrebbe tolto autorità davanti agli occhi al popolo, sminuendo ancora di più la sua immagine di re giovane, incapace ed inesperto. Persino le suppliche di Margaery, che gli aveva ricordato quanto bello sarebbe stato se Tommen avesse visto suo figlio nascere e l'avesse preso in braccio per primo, erano state vane; Tyrion avrebbe faticato a dimenticare quella scena, Margaery quasi inginocchiata davanti al marito, ad aggrapparsi alle sue ginocchia come se volesse impedirgli fisicamente di andarsene, ed aveva parlato con un filo di voce:
-Non puoi farmi questo, Tommen...- Con estrema delicatezza, ella gli aveva preso una mano e l'aveva poggiata sul proprio ventre prominente, al che il ragazzo potesse avvertire il bambino scalciare. -Non puoi farci questo.- aveva aggiunto dolcemente ella, le ciglia imperlate di lacrime, gli occhi intensi come cieli pronti a disciogliersi. Il silenzio aveva tremato come l'ultima foglia autunnale d'un nudo ramo, e sembrava che l'appello di Margaery avesse avuto la meglio sulla testardaggine del re. Ma quella speranza era stata spazzata via dal cuore della fanciulla non appena l'espressione di lui s'era contratta dolorosamente.
-Lo devo a Myrcella. Non posso fare altrimenti. Tornerò, Margaery, quant'è vero che ti amo con tutto il cuore.-
Non abbastanza, sospiravano senza muoversi le labbra di Margaery Tyrell, lo sguardo rivolto alla nuvola di polvere che avrebbe seguito l'esercito nella sua marcia verso l'inferno. Non abbastanza.
-Sì, bambina mia, la guerra sta arrivando.- risposte Tyrion, pacatamente. -Ma non qui.- Non per te, grazie agli dèi.
Sono altri quelli che devono iniziare ad avere paura.































Note dell'Autrice: Ed eccomi qua. Che dire? Ormai non so più come farmi perdonare i miei ritardi, perciò abbandono l'impresa in anticipo. u.u
Adesso è esploso il pandemonio. Come reagirà Rickon alla notizia del matrimonio? Eheh. Non tanto bene, a quanto pare. E voi, ce lo vedete più con Shireen o con Myrcella? (curiosità personale!) A proposito di Myrcella, anche lei come Sansa trama alle spalle del nemico. Ho dato più spazio a lei e Baelish, siete contenti?
So che molti avrebbero preferito vedere Meera ammazzare Jojen a colpi di sedia, ma loro non sono tipi da litigare. Si vogliono troppo bene. E la figlia di Tyrion? Vi sta simpatica? E' una tipetta un po' strana -d'altronde non poteva essere altrimenti, con Shae e Tyrion come genitori!
Lo so, lo so, vi starete chiedendo: e dov'è il pezzo lunghissimo su Jaime? ... arriverà, abbiate fede. Arriverà.
Grazie mille per avere letto fin qui, e un ringraziamento particolare va a Talia_Federer, Resha Stark e yoyobiship, che hanno recensito il terzo capitolo, nonchè a coloro che hanno messo la storia fra le preferite/seguite/ricordate! Grazie millissime! Mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensate. ^-^
Al prossimo capitolo dunque!
Lucy
ps: l'amaranto citato nel titolo del capitolo è un riferimento al colore dell'abito di Shireen. Che complicazioni, eh?

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Capitolo 6
*** Avorio fu il rifiuto. ***


5

V. Avorio fu il rifiuto.




-Morti.- ripetè il capitano delle guardie. -Affogati, tutti.-
-Tutti?- Yara Greyjoy, le mani puntate sui fianchi, esaminò con occhio critico la scena che le si presentava davanti. I relitti di tante piccole imbarcazioni erano stati trascinati sulla costa durante la notte, miseri, scarni e patetici, spuma rossa di vite lasciate indietro. Purtroppo non era difficile valutare le proporzioni del naufragio: le carcasse di almeno sette barche erano incagliate profondamente nella sabbia come unghie nella carne, ferite dall'irruenza del mare, e si poteva scorgere diverse assi di legno galleggiare sulla superficie increspata ed inquieta dell'acqua, in balia delle onde.
-Erano sentinelle, mia signora.- spiegò l'uomo, aggrottando la fronte. -A turno, durante la notte, circumnavigano l'isola divisi in gruppi per accertarsi che dei malintenzionati non approdino di nascosto. Finora, sono stati trasportati a riva dalla corrente ventidue cadaveri. Ci sono ancora dei dispersi, che però presumibilmente non sono andati incontro ad un destino diverso. Non abbiamo la benchè minima idea di cosa possa essere successo, nessuno di noi riesce a spiegarselo...-
-A me non sembra un mistero così insolubile.- replicò Yara, contraendo la mascella. -Se il loro compito è tenere alla larga gli invasori, chi sarà mai stato a distruggere le loro barche? Perchè è abbastanza evidente che non è stata una tempesta: visto che non si allontanano tanto dalla costa, se si fosse verificata, noi ce ne saremmo accorti e questi poveracci non avrebbero avuto la brillante idea di salire sulle barche. E poi, non è un po' strano che siano morti proprio tutti? Non erano dei pivelli, insomma. Navigare era il loro mestiere. Quindi, invece di perdere tempo, per quale maledettissimo motivo non hai mandato le pattuglie a setacciare l'isola?!-
Il capitano delle guardie scrollò il capo. -Non ho mancato di farlo, mia signora. Il resto dei miei uomini è impegnato a cercare tracce dei presunti nemici... ma finora niente.-
-Nel caso in cui questi nemici ci fossero, sarebbero in pochi, perchè altrimenti non avrebbero potuto far passare inosservato il loro arrivo, e sarebbero arrivati da meno di dieci ore. E' ovvio che non hanno ancora attaccato. Non vogliono mica il comitato di accoglienza.- brontolò Yara, chiedendosi perchè accidenti avesse dei simili citrulli al suo servizio. -Continuate ad ispezionare Pyke, e più accuratamente di quanto non stiate già facendo. Concentratevi soprattutto nei dintorni del palazzo... sarebbe sensato che il loro obiettivo fossi io.- Non molto avveduto, ma sensato, pensò con un ghigno.
-Agli ordini, mia signora.- rispose il capitano, lanciandole uno sguardo seccato. Gli uomini di ferro acconsentivano di malavoglia ad obbedire ad una donna, ed era sotto certi versi comprensibile, però Yara non tollerava di vedersi mancare di rispetto. Quel pregiudizio salava il suo sangue da prima che nascesse, come i geni dei Greyjoy, macchiava le sue mani come calce ed ustione di sole. Yara guardava se stessa nel riflesso della propria spada, e così sarebbe stato finchè non sarebbe stata calpestata così forte da poter soltanto evitare l'immagine distorta negli occhi degli altri.
A quel punto si allontanò dalla spiaggia, lasciando i suoi uomini intenti a quei macabri ritrovamenti, e pensò al da farsi. L'idea di allarmare l'intera Pyke, magari inutilmente, non l'allettava granchè: meglio evitare il panico generale. Però, allo stesso tempo, era prudente che tutti stessero all'erta, per reagire prontamente ad un eventuale attacco. E non era forse necessario organizzare dei turni di pattuglia per le città? Beh, sì, ma il problema persisteva.
Yara aveva un presentimento, riguardo questi ipotetici nemici: esponenti di famiglie nobili delle altre isole, che -come era già successo- si ribellavano al suo dominio e cercavano di conquistare la roccaforte, anche ricorrendo alla violenza -e anche circa questo v'erano dei precedenti. Ma come speravano di assediare Pyke con pochi uomini? Se si fosse presentato un esercito, sarebbe stato impossibile nasconderlo. Quindi qual era il bandolo della matassa?
-Yara!- La voce di Tristifer la riscosse da quei tetri pensieri. Yara sbuffò; la consapevolezza di tutte le vite sprecate invano l'opprimeva di tristezza, e la tristezza -essendo un sentimento che tende ad indebolire l'animo- le procurava fastidio ed irascibilità alla prima occasione. Con Botley, poi, ogni scusa era buona per sbottare e sfogare il proprio malumore.
Il ragazzo era a cavallo, perchè invece di scendere a controllare l'accaduto con lei aveva preferito galoppare fino a Lordsport e tornare indietro.
-Hai scoperto che cosa è successo?- domandò preoccupato, scendendo con un balzo dalla groppa del destriero ed avvicinandosi alla moglie, le briglie attorcigliate ad un polso.
Yara dissentì scontrosamente con il capo. -Non proprio. So solo che alcune barche sono state rinvenute sfracellate sulla riva e tutti gli uomini addetti alla sorveglianza sono annegati. Escludendo l'eventualità di una tempesta, l'unica soluzione possibile è che degli invasori li abbiano tolti di mezzo per approdare a Pyke. Ora si tratta di scoprire se è così, chi sono e perchè l'hanno fatto. E di prenderli a calci in culo.- concluse cupa.
-Questo è lo spirito giusto.- sorrise Tristifer. Poi s'impensierì. -Mi stai dicendo che a Pyke ci sarebbero degli stranieri con cattive intenzioni? Non sarà troppo difficile riconoscerli. Dovranno per rifornirsi in qualche modo: allora, o si daranno alle scorrerie, o acquisteranno qualcosa per dare meno nell'occhio, ma saranno lo stesso riconoscibili. Voglio dire, avranno un altro accento, un altro aspetto, no? Qua si capisce subito se uno è isolano o no. E c'è diffidenza verso gli estranei.-
Yara la trovò un'affermazione inusualmente ragionevole. -... può darsi. Però aspettare non è la scelta migliore. Ho già mobilitato le pattuglie, e si vedrà cosa combineranno.-
Attorno a loro, i soliti coloriti schiamazzi del mercato del pesce erano scemati in un silenzio strattonato dalla tensione. La tragedia consumata ieri notte aveva colpito parecchie famiglie della città, per non parlare del fatto che quel luogo era terribilmente vicino alla costa dei ritrovamenti. Yara avvertì una dolorosa nausea prenderle la gola -c'era nell'aria qualcosa di sbagliato, qualcosa che sovrastava e diluiva l'inebriante profumo del sale, perchè della dimensione ultrasensibile non si vedono gli artigli, ma i graffi- e d'un tratto preferì essere molto lontano da lì. Era come se, giungendo lì quel mattino, avesse accettato il carico d'un destino infausto, la cognizione d'una insidia che spalancava sospetti e malfidenze come crepacci, e di cui quindi sarebbe stato meglio rimanere all'oscuro. Se fosse stata una comune cittadina, nessuno l'avrebbe chiamata in causa ed ella avrebbe potuto sguazzare serena nella propria lieta ignoranza; invece era la regina, e doveva sobbarcarsi il problema in tutta la sua mole sulle spalle. E Yara percepì distintamente gli occhi dei morti fissi sulla propria nuca, in una pretesa perentoria, in un'accusa inarticolata, in un responso crudele.
-Torniamo a casa.- ordinò la ragazza. -Non abbiamo più niente da fare. Sarò più utile a Pyke piuttosto che qui. Se gli intrusi cercheranno d'impossessarsi del potere, è là che attaccheranno.-
Tristifer soppesò il suo sguardo per qualche istante, forse valutando l'umore della moglie e tentando d'interpretare quell'intimorita confusione così inedita sul suo volto duro; infine decise di tacere per ora sull'argomento, montò in sella e le fece segno di salire dietro di lui.
Tristifer aveva sempre qualche disagio a parlare di quella cosa con Yara, allora quando lo voleva fare usava molti giri di parole, non facendo intenere di voler dirottare il discorso su quella cosa e facendo sì che fosse Yara stessa a fare l'ovvio collegamento, e che tutto sommato la colpa sembrasse sua.
-Lo sai che la moglie di mio fratello ha partorito un'altra figlia?- buttò lì. -Una femmina. Symond non ha parlato d'altro per tutta la lettera che mi ha inviato...-
-Buon per loro.- fu l'atona risposta. Tristifer espirò lentamente. Perchè accidenti con lei era tutto così complicato?
-In realtà, ecco, io cercavo di dirti che... non trovi che sarebbe bello... cioè... un giorno moriremo, no?... e allora Pyke chi la erediterà? Bisogna, ehm....-
-Ancora con questa storia.- imprecò Yara. Oggi non era proprio giornata: ci mancava soltanto la sviolinata sui figli. -Senti, Tris, io non voglio marmocchi che mi si appendano alle tette e piangano tutto il giorno. Questo tu lo sai da molto tempo, anche da prima che ci sposassimo. Eri consapevole del fatto che avresti dovuto rinunciare a figli, annessi e connessi. Quindi le soluzioni sono due: o ti trovi una puttana più disposta ad assecondare il tuo desiderio di paternità, o rimani a bocca asciutta. Intesi?-
Tristifer, nella sua candida innocenza, s'indignò. -Una puttana? Ma Yara, che dici? Credi che io accetterei di fare un bambino con la prima che capita? Io non voglio un figlio a caso, voglio nostro figlio. Perchè quando si ama una persona, funziona così... e io ti amo, Yara!- esclamò con partecipazione.
La ragazza alzò gli occhi al cielo. -Non vedo in conseguenza a cosa la mia risposta dovrebbe cambiare.-
Egli ritentò. -Tu... tu parli così perchè non sai cosa significa. Ma se lo provassi, magari, capiresti che... che è una bella cosa, a parte il fatto che i neonati piangono. Prima o poi smettono, immagino. Dovresti pensare alle Isole di Ferro. Non puoi lasciarle senza un Greyjoy al comando!- ribadì Tristifer. La moglie sbuffò impaziente.
-Prima che io muoia, speriamo, ce ne vorrà ancora un po'. E chissà quante cose potrebbero succedere. Per esempio, potrebbe presentarsi a palazzo una qualche troietta con un bastardo di Theon, risalente al periodo in cui si dava ancora alla pazza gioia,- sorrise Yara maligna, -oppure tu potresti scoprire che in definitiva non mi ami poi così tanto come pensi...-
-Questo non lo puoi dire, Yara.- protestò il ragazzo, con impeto. -Questo mai.-
-Concentrati sulla strada, se non vuoi mandare il cavallo giù da un crepaccio.- lo derise Yara, con un cenno indolente del mento. Egli abbassò lo sguardo sulle proprie mani e tacque, rassegnato. Discutere con Yara era producente come discutere con i sassi. Se in partenza aveva un'opinione riguardo qualcosa, era quasi inconcepibile che giungesse a cambiarla, perchè avrebbe significato ammettere d'essersi basata su erronee convinzioni fino a quel momento.
Quando finalmente -dopo aver visto per un bel pezzo in lontananza il profilo delle torri nere, svettanti e slanciate verso il cielo- giunsero a varcare l'arco di pietra, furono accolti precipitosamente da un attendente dall'espressione ansiosa.
-Mia signora.- ansimò con affanno. -Il principe Theon... lui... non si sente bene.-
Yara aggrottò la fronte e saltò giù in fretta da cavallo, avvicinandosi ad ampi passi all'uomo. -Come sarebbe a dire? Cos'ha?!-
-Ecco, ha avuto un attacco di... di panico, penso, urla e non vuole che nessuno gli venga vicino...-
-E questo perchè diamine è successo?! Sarà stato provocato da qualcosa!- ruggì Yara, scuotendo violentemente l'attendente per le spalle.
Lui deglutì. -Non saprei, forse... forse la mancanza della luce? Oggi il cielo è piuttosto nuvoloso...-
-Sì, e il cazzo di mio marito è così lungo che mi entra per la figa e mi esce per il culo. Ho chiesto la verità!- latrò lei, battendo un piede per terra con impazienza. Alle sue spalle, Tristifer mosse gli occhi a disagio.
-... lui ci ha chiesto perchè voi non c'eravate, e noi glie l'abbiamo detto, che c'era stato un naufragio, che erano morte delle persone... e così...-
-Spostati!- sbottò Yara, scostandolo con un gesto stizzito. Aveva già abbastanza pensieri, senza che quegli incapaci glie ne procurassero altri; possibile che con Theon nessuno sapesse combinarne una giusta?! A dire la verità, nemmeno lei era in grado di capire cosa potesse essere detto o no in presenza del fratello, cosa facesse scattare le sue crisi, però quella situazione era ingestibile.
-Aspettami qui. Torno fra un po'.- bofonchiò all'indirizzo di Tristifer. Il ragazzo l'afferrò per il braccio.
-Stai calma, Yara.- proferì lentamente, carezzandole una mano. Lei si sottrasse imbarazzata, con un gesto infastidito.
-Non dirmi di stare calma, Tristifer Botley! Sono stata capace di badare a me stessa fino al giorno prima di sposarti, per cui comprendimi, se non ti ritengo indispensabile per la conservazione della mia persona.- commentò con acido sarcasmo. In tutta risposta, Tristifer la seguì apprensivo con lo sguardo finchè non fu impedito dal raggiungerla.
Yara aveva salito le scale fino a trovare la stanza di Theon. Era contaminata da una penombra umida, a causa del maltempo, e i servi non avevano nemmeno acceso il fuoco lì dentro, così il risultato era che il freddo strisciava sulle pietre squadrate delle pareti. Hanno paura di lui, dedusse Yara contraendo le labbra. Pensano che sia posseduto da uno spirito maligno. Pensano che sia matto...
Suo fratello era rannicchiato in un angolo, le ginocchia appuntite compresse convulsamente al petto, la faccia premuta fra le vesti troppo larghe per il suo corpo, in un tentativo di nascondersi dal mondo, o forse d'essere confortato da un grande, libero buio senza disegni. Ogni tanto, le spalle erano scosse da vigorosi sussulti che pretendevano lo sfruttamento dell'ultima fiacca energia che gli restava. Egli sottovoce sputava soltanto un monotono, sordo lamento, troppo fievole per superare l'ostacolo delle ginocchia e raggiungere la realtà.
-Theon.- azzardò Yara, compiendo un cauto passo in avanti, fissando con occhi dubbiosi e corrucciati la gracile figura contorcersi nell'udir pronunciare il proprio nome, quasi che fosse stato pungolato con una spada. La sorella non temeva lui in sè, ma invece l'idea ch'egli potesse agitarsi e rimettersi a sbraitare e terrorizzare gli abitanti dell'intero maniero.
-Non dirlo.- biascicò Theon, alzando la testa. Pareva che con la sua voce avessero banchettato i corvi: ne rimaneva soltanto un suono atono, spolpato, prosciugato. Niente più flutti marini, soltanto un'aspra incrostazione di sale. -Non... dirlo. Se lo dici ti sente.-
-Chi
mi sente?- Oh, Yara sapeva perfettamente chi Theon aveva timore che l'udisse, però voleva che il fratello lo ripetesse un'altra volta, per dimostrare l'assurdità delle sue parole. Ma si può davvero dimostrare qualcosa ad un pazzo? si domandò per la prima volta, tristemente. Theon non è pazzo, si rispose seccamente. Ha solo... bisogno di dimenticare.
-Lui.- bisbigliò Theon pianissimo, così piano che Yara comprese la sua risposta soltanto affidandosi ai ricordi delle volte precedenti. -Lui!- e fu un urlo, spezzato da un'urgenza febbrile. Nella sua voce, l'istinto di fuga lottava contro una debolezza assuefante. Infine non gli rimase altro da fare che stringersi ancora di più su se stesso, strizzare gli occhi e tremare.
-Non riesci nemmeno più a pronunciare il suo nome, adesso?- Yara avanzò ancora, lo sguardo chino e fisso inesorabilmente su quel mucchio di stoffa, la voce brutale. -Lo sai che così, avendoti lasciato incapace di vivere, ha vinto due volte? Ed è successo perchè tu glie l'hai permesso. Perchè glie lo stai permettendo, di entrare nella tua testa, di rovinare le tue giornate, di impedirti di dormire. Perchè pensi a lui e soltanto a lui. Ma non può sentirti, e sai perchè? Perchè è molto lontano da qui, e probabilmente è morto. Perchè non verrà mai più ad importunarti. E il suo nome- scandì Yara, con lenta audacia, -è Ramsay. Ramsay Snow. Ramsay Bolton, o come accidenti vuoi chiamarlo. Ramsay. Su, avanti, dillo! O hai troppa paura anche per fare questo?!-
-Padron Ramsay.- rantolò Theon, scuotendo la testa intrappolata fra le ginocchia. -Vuole essere chiamato... no! Non dirlo, non dirlo, lui non vuole che si dica... Snow. Non vuole! Se lo fai, lui poi...-
-Io lo chiamo come cazzo mi pare e piace, primo perchè non ho paura di nessuno, secondo perchè non mi sentirà mai.- lo rimbeccò Yara. -Lui non ti sente, Theon! Come farebbe a sentirti?! Devi piantarla con questa ossessione.-
Theon sollevò il capo. Il suo volto, scavato dal tempo, aveva la carnagione macchiata e la fronte segnata dalle cicatrici di mille dolori. Le labbra morse a sangue pendevano quasi a brandelli. Sotto le palpebre lise, gli occhi sporgevano dilatati e bulbosi; una luce abbagliante aveva rotto le pupille. Gli stenti avevano divorato la sua antica bellezza, lasciando soltanto ossa e giusto quella pelle necessaria per tenerle insieme.
-Lui è qui.- boccheggiò, come se gli mancasse il respiro. -Lui è qui, adesso.-
-Ma davvero? E dove, nell'armadio?- Yara non resistette ulteriormente alle insistenze della delusione, che ruppe la diga e le soffocò la voce. -Non so più che cosa fare con te.- ammise stancamente.
-È arrivato qui stanotte.- insistette Theon, esagitato. -Ecco perchè le persone iniziano a morire. E moriranno ancora... e ancora... E lui è qui, adesso, Yara! Tu mi devi credere!-
-Ma io ti crederei,- replicò la sorella, tranquilla, -se tu mi fornissi una prova. Visto e considerato che le persone non muoiono soltanto se le uccide il tuo amico, hai qualcosa di più convincente da propormi?-
Appena terminò la frase, l'anta di legno dell'armadio sbattè fragorosamente, a causa del vento che spirava dalla finestra. Theon sgranò gli occhi ed emise un gemito pietoso. Nei suoi occhi sbarrati d'animale braccato non era rimasto niente di quel che era stato, non una goccia di presunzione, non una stilla d'orgoglio. Yara rise davanti a quel fagotto di vestiti, e una strana nausea la colse nel provare la compassione, la vergogna. Non si compatisce, un Greyjoy. Non deve farsi compatire, un Greyjoy. Quale legge aveva ancora valore?
-Oh, andiamo! Adesso questo Ramsay è un'entità soprannaturale?- Persino aggredirlo a parole sembrava più di quanto il fuscello ch'era il suo corpo potesse sopportare, quindi la sorella ci rinunciò. -Senti, fratello, ascoltami. Io ti voglio bene, ma non si può continuare così. O ci dai un taglio, oppure ti devo portare da qualche altra parte. Siamo intesi? Non resterai a vivere qui ancora a lungo, se si ripeteranno queste sceneggiate. Datti una regolata. E mangia di più, chè sembri uno spaventapasseri.-
Quando Yara uscì, non potè fare a meno di notare lo sguardo disperato di Theon inseguirla finchè non sparì nella tromba delle scale. C'era anche qualcosa di simile alla compassione nelle sue iridi tagliate, ma la ragazza non riuscì a spiegarsi il perchè.
Il responso, che quella sera durante la cena le riportarono gli attendenti, fu piuttosto allarmante. A quanto pare, era certo che l'avvenuto non fosse stato un incidente, ma un vero e proprio omicidio premeditato. Infatti gli uomini, oltre che molta acqua di mare nei polmoni, avevano segni di strangolamento sul collo e di colluttazione sul capo -ovvero qualcuno aveva tentato di immobilizzarli e stordirli, prima di annegarli. Le barche, poi, presentavano delle falle nella parte inferiore, ma in maniera piuttosto circoscritta: dei fendenti troppo precisi perchè potessero essere stati assestati dalle creste degli scogli. Gli assassini quindi avevano ucciso i marinai, per poi distruggere le barche con le proprie armi.
-Che senso ha, se l'intento era l'omicidio?- aveva replicato Yara.
-Soltanto quello d'inscenare un naufragio.- fu la sinistra risposta.
Adesso non c'erano più dubbi: dei criminali avevano ucciso le sentinelle di vedetta per approdare di nascosto a Pyke. Ma dov'erano, in quel preciso momento, e quali erano le loro intenzioni? Yara decretò che ci avrebbe pensato ancora su il giorno successivo e se ne andò a letto, provata dalle emozioni della giornata. Durante la notte fece un sogno strano, indistinto, che mal ricordò in seguito; ma nel dormiveglia, un solo barlume di coscienza acceso nella mente, le parve d'udire una voce sussurrare qualcosa. Yara fu tentata di sgridare Tristifer intimandogli di lasciarla dormire, ma era davvero troppo insonnolita per farlo. Dopo un po' non la sentì più, e poi di nuovo, e poi no. Yara dedusse di stare ancora sognando. Poi quei suoni bassi ed inarticolati assunsero una forma, e le parve di distinguere Yara Greyjoy.
-Cosa?- borbottò, ancora immersa nell'incoscienza. Yara, Yara, ripetè la voce. Poi svanì ancora, e questa volta la regina delle Isole di Ferro scivolò in un sonno incontrastabile.
Al mattino, aveva già dimenticato ogni cosa.
***
-E questo era l'ultimo suddito a richiedere udienza.-
L'annuncio di Jojen, così tanto ardentemente sperato, raggiunse Bran da sotto tutti gli strati d'apatia che lo avevano seppellito, diverse ore prima, in un depresso silenzio. Il re del Nord lasciò scivolare il capo contro lo schienale del trono, abbassando le palpebre, mentre un sospiro scuoteva il petto sotto la pelliccia. Estate, accovacciato ai suoi piedi, spalancò le fauci in un colossale sbadiglio, quasi condividendo la stanchezza del ragazzo. Il re del Nord aveva passato una pessima nottata: nei suoi sogni, la catasta di cadaveri dall'alto della quale egli dominava i Sette Regni era sempre più gremita. Jon Snow, Theon Greyjoy, Robin Arryn, tutti morti. Stannis Baratheon giaceva ai suoi piedi con il liquido cerebrale a ruscellare sul petto, così come sua figlia. E Bran continuava a ridere, un suono basso e singhiozzante che non conosceva, e c'era tanto sguaiato ludibrio nella maniera in cui si leccava il sangue dalle dita, ancora ed ancora; almeno fino a che non aveva calciato con un piede l'ultimo corpo inerte a terra. Gli occhi erano sprofondati nelle cavità delle orbite, il petto era aperto fino a svelare la ritorta cassa toracica, ma era assolutamente riconoscibile. Bran conosceva a memoria ogni linea di quel corpo dilaniato, perchè era quello di Jojen. S'era svegliato con un acre sentore di ferro a riecheggiare nella gola e l'immagine di quegli eloquenti spiragli scavati. Il suo consigliere aveva assistito senza commentare, l'adempimento d'un'intuizione abbozzata in tutta l'oscenità dei suoi dettagli.
Come se non bastasse, Selyse Florent era giunta a Grande Inverno per organizzare il matrimonio della figlia e Stannis, anzichè essere affacendato nelle questioni belliche, lo era di più nel cercare una stanza che fosse di suo gradimento. Era Davos Seaworth ad avere preso in mano le mappe per primo, ed in quel momento lui ed il suo re discutevano presumibilmente di questo.
-Era ora.- bofonchiò Bran. -Perchè tutte le faine del mondo hanno deciso di mangiarsi le galline proprio la notte scorsa? Cosa posso farci io, poi... che si prendano il risarcimento che vogliono e se ne vadano, per l'amor del cielo. Ti prego, andiamo in camera tua e mettiamo fine a questa giornata...-
Ma Jojen non diede segno di muoversi, imperturbabile. -Temo che non sia ancora giunta al termine, Maestà.-
Prima che Bran facesse in tempo a replicare qualcosa di mesto ed esasperato, una fragorosa esplosione annunciò che le grandi porte erano state sbattute con inaudita violenza contro i muri. Dietro, due guardie impotenti lanciavano sguardi preoccupati al re, quasi a dire noi ci abbiamo provato, a trattenerlo, ma poi ci siamo accorti che gli anni di vita che ci rimangono valgono la pena di essere vissuti.
Rickon avanzò. Le unghie erano conficcate nel palmo, la pelle delle nocche tesa, bluastra e crepata dal freddo, la chioma crepitava alle sue spalle come una fiamma viva e le labbra contratte stentavano a celare le zanne. Salì i gradini del trono. Un istante più tardi, fu di fronte a Bran. Non più ai piedi dello scranno, non più suddito asservito: un istante più tardi, era il principe di Grande Inverno.
-Fino a quando pensavi di tenermelo nascosto?- domandò infine, in un ringhio basso e gutturale che gli raschiò la voce, più che un'accusa, meno che una minaccia incombente.
Bran sostenne con i suoi occhi nitidi di buio quello sguardo palpitante di furore, sbiancato da un fulmine, con la formale e composta saldezza dei re dell'inverno.
-Poco. Sarebbe stato comunque troppo poco. Non volevo che fosse oggi, Rickon, soltanto posticipare di...-
-Le voci corrono a palazzo. Non hai idea di quante cose interessanti si vengono a scoprire, bighellonando per i corridoi... di quante persone si possono conoscere.- Il tono di Rickon era l'acido che deteriora la pietra e storpia i volti, insinuante come veleno in gola. -Per esempio, io ho incontrato una fanciulla che afferma di essere la mia fidanzata. Eppure ero assolutamente convinto di non essere fidanzato proprio con nessuno. Sbalorditivo, vero?-
Bran schermò quelle parole con un sospiro, sostenendo la fronte con una mano, come se si sentisse emotivamente e fisicamente troppo debole, in quel momento, per poter affrontare degnamente uno scontro verbale faticoso come quello che si prospettava in arrivo. La sua voce procedeva impedita da una viscosa spossatezza.
-Senti, Rickon, adesso sei abbastanza grande e abbastanza sveglio, o almeno lo spero, per capire il motivo delle mie...-
-Mi hai promesso sposo, Bran. Promesso sposo. Ti rendi conto? Non sono una tua fottuta figlia femmina! Non puoi fare quello che ti pare con la mia vita, per realizzare i tuoi scopi!-
Un impeto ferino s'era avventato contro quelle parole, scandendo il ritmo d'un delirio affannoso, quasi che esse stessero già minacciando il confine della ragione e stridessero in bilico su quell'orlo, e il vacuo lampo ceruleo degli occhi del ragazzo era annullato sulla dimensione cieca e nefanda della sua rabbia senza origine, senza fulcro, senza criteri, oltre l'ineccepibile ordine e i severi ranghi della civiltà; rabbia che scoppia alla stregua dei temporali estivi, una calamità furibonda che abbatte ad occhi chiusi, scroscia implacabile, attacca come pioggia battente, affamata benchè fine a se stessa. Non c'era stata un'evoluzione nel suo rancore, non una crescita progressiva, ma soltanto un urto, una spaccatura irreversibile, assoluta. La triviale compulsione degli animali pungolati imbrattava come sangue il suo sguardo, crudo, esposto, efferato, che tanto violentemente artigliava l'anima di chi ne rimanesse vittima. Sembrava che fosse un demone ad agitarsi fra quelle parole, divincolandosi, torturando per svincolare. Il disgusto che egli provava nei confronti del proprio onore calpestato si rifletteva talvolta negli occhi di Rickon, come l'ombra d'una razionalità messa da parte.
Jojen valutava ogni aspetto della situazione come sempre, con furtiva ponderatezza, con silente circospezione: gli occhi gravi si soffermavano dapprima sull'espressione di Bran, contratta ed impreparata a quei rumorosi disordini e scompigli, soltanto la linea della bocca a testimoniare una sofferta lesione; poi scorrevano, come concentrate gocce d'inchiostro, ad incontrare ed esaminare la sovraeccitata confusione sul volto di Rickon, devastato dalle tracce d'un grido inespresso, la posizione del corpo offensiva e prevaricatoria: il petto era palpitante, i respiri troppo brevi e trafelati, quasi che il furore stesse logorando i suoi nervi e saccheggiando le sue forze. Taceva, Jojen: sapeva perfettamente quale era il suo posto -sapeva perfettamente quando ed in che circostanze intervenire. Ed ascoltava.
-Quelli che tu chiami i miei scopi sono le scelte più appropriate per il regno.- protestò Bran, sentendosi accusato ingiustamente d'egoismo. -Io sono il re e tu sei il principe, e ciò comporta automaticamente che...-
-Per il regno?! Non farmi ridere. Non abbiamo bisogno di questa stupida alleanza, e tu lo sai benissimo!- Rickon sputò con foga sul pavimento, la bocca storta in una smorfia stomacata, quasi che quei discorsi avesse un sapore nauseabondo. -Se quello spaccacazzi di Snow non fosse venuto ad intromettersi nei fattacci altrui, tu non avresti stipulato il maledetto patto e noi saremmo partiti per il Sud contro i Lannister ugualmente. Non ci serve quel saccente megalomane di Stannis, nè quel pitocco ammasso di infelici che ha la presunzione di chiamare esercito. Sono sicuro che, anche se non assoldiamo l'ultimo barbone che mangia a sbafo alla Barriera, vinciamo la guerra lo stesso.-
-Quel che è necessario o meno per la vittoria lo decido io, non tu.- sbottò Bran, esausto. -Perchè accidenti non cerchi di capire la scomodità della mia posizione e, per la prima volta in vita tua, non fai quello che ti chiedo io? Sarebbe poi così tremendo? Si tratta di sposare una ragazza, non di subire un'evirazione, insomma.-
Rickon era sbalordito dall'indignazione. -Tu non mi hai chiesto assolutamente nulla, Bran! Tu hai organizzato il matrimonio alle mie spalle, senza nemmeno disturbarti a farmelo sapere. Se questa è la considerazione che hai di me, perchè io dovrei averne anche solo un briciolo di più per te? Come puoi pretendere rispetto da un fratello che disprezzi?- Scosse la testa, azzardando un passo avanti. -No, certo, questo matrimonio non mi danneggerebbe per niente. Dovrei soltanto andare a vivere al Sud e dare ai miei figli il nome della loro madre. Della loro madre! Cos'altro esigono, che partorisca io?!- Il suo sarcasmo era decisamente troppo aspro per strappare una risata; egli ghignò. -Questa è un'umiliazione bella e buona. Avresti dovuto sposarla tu, quella Shireen, se ci tieni tanto all'alleanza: lo Storpio e la Sfregiata, pensa che spasso nei ritratti di famiglia.-
Il volto di Bran si fece torvo, intransigente come la pietra, e tutto il senso di colpa che in parte avvertiva per ciò che aveva fatto parve freddarsi in raggrumato biasimo.
-È questo il motivo per cui non la vuoi sposare? Per la cicatrice che ha sul volto?- chiese, serio e tagliente.
Rickon parve messo a disagio da quella domanda, ma dallo sguardo si poteva percepire l'onestà della sua risposta.
-Per chi mi prendi? No, non è per questo. Più che altro, è stata l'idea che tutto fosse già calcolato e concluso e che io non ne fossi a conoscenza, ricordi?-
La risposta di Bran fu un tracollo di sbrigative confessioni. -Non ho avuto il tempo di consultarmi con te, Rickon! È successo tutto così in fretta, e io dovevo dire sì o no, subito. Non potevo permettermi d'esitare. I miei doveri di re mi impongono di...-
-Tu sei re di Grande Inverno soltanto quando ti fa comodo esserlo.- sbraitò Rickon, incapace per indole di trattenere ciò che andrebbe trattenuto. -Soltanto quando dài il consenso per farmi sposare questa e quest'altra. Ma non sei il re di Grande Inverno, e non hai nessun dovere verso il tuo popolo, vero? quando ti sbatti il fratello di tua moglie...- La sua voce divenne un sibilo acuto come un ago. Jojen non battè ciglio, e nulla lasciava intendere che fosse stato chiamato in causa. Bran s'irrigidì, ma non osò storcere un muscolo per dimostrare il proprio dispetto, temendo di scatenare ulteriori litigi inutili. 
-Come al solito, parli di ciò che non sai. Tu non capisci, e non capirai mai, a che cosa sto rinunciando a causa di questa corona.- Però l'allusione era stata troppo indelicata per passare inosservata, senza nemmeno rispondere con una frecciata, perciò Bran non potè evitare di aggiungere: -Tu non ti ricordi cosa significhi amare, e l'unica cosa a cui stai pensando in questo momento è la prigioniera Lannister che non potrai più andare a trovare nelle segrete. Sempre e soltanto la perversione domina il tuo animo, il resto è mera tracotanza e l'ottuso egoismo di un bambino che pesta i piedi.-
Tra l'altro, negli amplessi fra lui e Jojen non c'era mai stata furia passionale o impeto concupiscente. Si amavano con lenta solennità, quasi svolgessero un rituale, perchè si trattava di realizzare i loro sguardi intensi, di suggellare un'affinità irreversibile, di consacrare un sentimento etereo sul piano della realtà, di avanzare il passo risolutivo per onorare, coronare, innalzare l'amore ad una pienezza completa, ad un significato più alto, di modo che la loro unione fosse inconfutabile ed incondizionata. Non era una corsa, uno spasimo, una fame: era un cammino, un processo, il naturale compimento di qualcosa che già esisteva a livello emotivo, una transizione non priva di fervente sacralità, la cui meta non era però il piacere, quanto l'adempimento del loro personale culto e la contemplazione dell'effetto che l'uno esercitava sull'altro.
Invece quella fra Rickon e Bran, ormai, era soltanto una gara a chi faceva più male all'altro. Il re del Nord invidiava un po' il magistrale contegno delle emozioni di Jojen, ma specialmente il fatto che non gli richiedesse alcuno sforzo: invece lui fremeva letteralmente dall'impulso di dare un pugno sul muso di quel suo dannatissimo fratello, sebbene sapesse benissimo di non poterlo fare.
Solitamente Bran guardava i suoi interlocutori dall'alto, assumendo inevitabilmente una posizione d'inattaccabilità; invece in quel momento Rickon era di fronte a lui, terribilmente vicino -entrambi avrebbero potuto darsi reciprocamente la morte in pochi istanti, ed in tal caso sarebbe stata soltanto una questione di chi ci sarebbe riuscito prima.
La voce di Rickon suonò fredda, immobile. -Dimmi cosa dovrebbe trattenermi dal tagliarti la gola nel sonno, gettare tua moglie in pasto ai soldati, scagliare tuo figlio giù dalla torre più alta e prendere il controllo di Grande Inverno al posto tuo.-
Bran non reagì. Aveva sentito di peggio, visto di peggio. L'insolenza d'un ragazzino non sapeva più scalfirlo, non dopo che l'empietà nella sua forma più primordiale l'aveva storpiato.
-Tu sei pazzo, Rickon. Sei completamente impazzito. E, sappilo, non mi fai paura.- scandì con voce rallentata e chiara. -L'unica cosa che mi interessa sentire adesso è che andrai da Stannis Baratheon a chiedergli che giorno sposerai sua figlia...-
Allora Rickon gonfiò il petto, infuriato all'idea che la sua provocazione non avesse fatto breccia nell'autocontrollo del fratello, assunse l'espressione terribile di quando si sta per giungere ad un punto di non ritorno e sbottò: -Io non prendo ordini da un rotto in culo.-
Bran sorrise un sorriso imbestialito. Ancora. Ancora. E ancora. Come diamine si permetteva quello stupido idiota?! Cosa ne sapeva, lui?!
-Oh sì, che lo farai.- Il tono era fermo, ma si trattava solo del freddo involucro di un nucleo incandescente. Oppure te lo spacco io, il culo.
-Non mi puoi obbligare, nè tu nè nessuno al mondo!- urlò Rickon, forsennato.
-Dici sul serio? Ne sei proprio certo?- Bran protese il volto in avanti, con un sorriso scellerato a fior di labbra. Una luce sconosciuta fendeva i suoi occhi come una lama. La sua voce era calma e terribile, e c'era una sottile esaltazione di natura indefinibile. -O sposi Shireen con le buone, oppure durante la cerimonia entrerò nella tua mente e ti muoverò come una marionetta. Hai afferrato il concetto?-
Istintivamente, Rickon fece un passo indietro, scartando, mentre l'ombra del dubbio spegneva la sua spavalderia. -Non ne saresti capace.-
Bran artigliò i braccioli del trono con tutte le dita, si sporse ancora e rimase ad un soffio dal viso del fratello. Poteva percepire il suo fiato sulle guance, decifrare la minuta esitazione della sua fronte aggrottata, mentre la certezza più elementare -che Bran non avrebbe mai, mai saputo fare quello a lui- vacillava incerta.
-Vuoi vedere?- Il re del Nord affondò lo sguardo nelle iridi chiare del fratello, come avrebbe potuto fare in uno specchio d'acqua sorgiva. Percepì distintamente la resistenza delle difese, ma furono poco più che ridicole: Rickon aveva una forza fisica notevole, ma non sapeva dominare le proprie emozioni nè difendere in maniera adeguata la propria mente. Sconfisse l'impotente opposizione e percepì di starsi facendo spazio, di starsi assestando dentro di lui, mentre egli non reagiva, incredulo, sconcertato, perso ormai il controllo d'ognuno dei suoi sensi...
-Maestà.- A quel punto Jojen interruppe il contatto visivo spostandosi di fronte a lui e prendendo possesso dei suoi occhi con dolce fermezza. -Maestà. Adesso basta. Mi senti? Maestà.-
Le ciglia di Bran frullarono di disorientamento. Il ragazzo osservò Jojen confuso, che ricambiò con stoica sollecitazione, poi si accorse di quel ch'era successo e aprì la bocca, intenzionato a dire qualcosa, qualsiasi cosa, per far intendere a Rickon che, nonostante sembrasse così, le sue intenzioni non erano affatto... quelle.
Suo fratello era scivolato in ginocchio. Non aveva riportato alcun danno, però la sola intrusione di Bran nella mente era un'esperienza angosciante. Seppur per pochi istanti, la consapevolezza aveva abbandonato il suo corpo, dilaniato, mutilato e mortificato da una presenza estranea, scomoda ed imprevedibile, capace di scavare fino a raggiungere il fulcro stesso della sua essenza e violare anche quello... Rickon si alzò, non del tutto saldo sulle gambe, le mani tremanti. Gli occhi fissavano in basso, senza parlare. Scese i gradini, uno ad uno, con toccante cautela, seguito dallo sguardo costernato di Bran.
-Rickon... io... mi dispiace. Non...-
Rickon non si fermò. Si voltò indietro soltanto una volta, giunto alla porta, e, lo sguardo affollato di fantasmi, pronunciò con lento astio: -Lo sapevo che non sarei dovuto tornare qui.-
Poi uscì; il re del Nord continuò a guardare la porta, con lontana nostalgia. C'era il grigio di quell'inverno nei suoi occhi. Quando cominciò a parlare, la sua voce era un mormorio funereo.
-Quando ho ricostruito questo castello, quando ho visto Rickon entrare da quelle stesse porte, credevo che tutto stesse per aggiustarsi. Che sarebbe stato come prima. Che finalmente fosse stata fatta giustizia e ci sarebbe stata restituita la nostra vita, la nostra vera vita, quella di un tempo.- Sospirò, appesantito dalla mole delle proprie speranze. -Un'utopia, ovviamente. Gli Stark sono tornati, dicono tutti: e invece non è vero. Non siamo più una famiglia. Gli Stark sono morti, Jojen, e non torneranno finchè l'inferno non si spalancherà. Siamo morti. Questo è un castello morto, e noi abbiamo il sorriso triste dei sopravvissuti. Niente, e dico niente, può tornare com'era. Da adesso è definitivamente vero.-
Con il suo desolato assenso, il silenzio aggravò la veridicità di quell'affermazione. La landa gelata del vuoto restò sospesa nell'aria, uccidendo il respiro, come un laccio alla gola.
Bran si voltò a destra, leggendo la propria colpevolezza negli occhi cupi di Jojen.
-A cosa pensi?- domandò, quasi timidamente. Il fatto che Jojen sapesse sempre che cosa fare per aiutarlo, che fosse perennemente al suo fianco in caso di necessità, era una delle ragioni per cui Bran lo amava così tanto, però allo stesso tempo trovava triste che il ragazzo dovesse vedere perennemente il peggio di lui, stargli accanto e non abbandonarlo per tutta la durata del suo stato, proprio quando il re avrebbe preferito nascondersi ed evitare che una persona amata assistesse a tale orrore. Temeva che, a lungo andare, questo avrebbe potuto influenzare l'idea che Jojen aveva di lui. Il consigliere mosse gli occhi verso di lui, spazzando via quell'impressione d'assenza e deconcentrazione che dava la sua espressione pensosa.
-Penso che un momento fa tu ci sia andato troppo vicino.- decretò infine, imperturbabile, e Bran avvertì una fitta al petto: l'aveva deluso.
-Lo so.- mormorò.
-Stavi per fargli del male sul serio, e molto più irreparabilmente di quanto tu non immagini.- sottolineò Jojen. -Gli esercizi di continenza non hanno dato i risultati sperati. Il tuo potere cresce di giorno in giorno, più celermente di quanto mi aspettassi, se devo essere sincero.- concluse, inquieto.
Bran si strinse nelle spalle. -Oh, avanti, Jojen. Sai che non avrei mai ferito Rickon davvero. Volevo solo...-
-Intimidirlo? Fargli prendere un po' di paura? Cercare il suo rispetto con la forza, dato che non riesci ad importi su di lui a parole?- Il ragazzo non aveva un tono di rimprovero, ma di spietata effettività: niente di più e niente di meno di quel che era, senza sfumature che lasciassero presagire la sua opinione.
-Così suona peggio di quanto non sia.- si lamentò Bran, piccato. -Hai sentito che cosa mi ha detto?! Io mi dovrei lasciare insultare gratuitamente dal mio fratellino minore, e poi andare a comandare eserciti?!-
-Non è una novità il fatto che Rickon usi la lingua con la stessa delicatezza con cui usa la spada, però tu hai avuto prova che non saresti mai riuscito a trattenerti. Appena hai varcato la soglia della sua mente, hai continuato ad infierire.- osservò Jojen. -Sai benissimo che quando entri nel corpo di qualcuno i poteri prevalgono e la tua volontà soccombe, perciò, qualsiasi sia il tuo intento di partenza, finisci comunque per perdere il controllo...-
-Sì, sì.- Bran non vedeva l'ora di sviare il discorso da quella questione; l'instabilità della sua presa, come se i poteri gli sfuggissero irrimediabilmente dalle mani, lo metteva incredibilmente a disagio. L'ambiguità di quella situazione lo atterriva. -Ad ogni modo Rickon sposerà Shireen, che lo voglia o no. L'idea che il destino dell'esercito e l'esito della guerra debbano dipendere dalle beghe infantili di un sedicenne è semplicemente inaccettabile.-
Jojen scosse la testa, quasi fra sè, mentre aiutava Bran ad issarsi su Estate. -Questo matrimonio non avverrà, Maestà.-
-E io invece lo farò avvenire.- replicò il ragazzo, colto da un impeto d'insofferenza. Rickon avrebbe fatto quello che doveva fare, non l'avrebbe avuta vinta ancora una volta. Bran non l'avrebbe permesso, no.
-Temo che non ci sia niente che tu possa fare.- fu l'incolore risposta.
Bran trovò il suo sguardo, angustiato. C'era esasperazione nella sua voce, quando esclamò: -Come fai ad esserne così sicuro?!-
Jojen, che teneva rapidamente il passo di Estate, si fermò soltanto per richiudere le porte del salone dietro di loro. -Perchè ho visto...-
-Cos'hai visto?- lo incitò Bran, impaziente.
Jojen esitò, quasi che titubasse all'idea di rivelare ciò che aveva in mente. Una veloce valutazione attraversò i suoi occhi.
-... ho visto che non avverrà.- Non si sbilanciò altrimenti, stringendo le labbra.
Bran non s'accontentò di quella risposta: -Il fatto che tu non abbia visto un evento verificarsi non significa necessariamente che esso...-
-Maestà.- lo interruppe Jojen, con gentile fermezza, posando una mano sulla sua spalla e costringendo Estate a fermarsi. I suoi occhi toccavano intimamente quelli di Bran. -Ti fidi di me?-
Il ragazzo sbuffò e distolse lo sguardo, arrossendo. -Che razza di domanda è? Se il tuo intento non è insultarmi, non pormela più.-
-Dunque credimi.- ribadì Jojen.
-E allora io cosa dovrei fare? Disdire tutto? Avvertire Stannis? O...-
-Lascia che il destino segua il suo corso.- si limitò a suggerire il consigliere, criptico com'era spesso.
Bran diede un colpetto alla groppa di Estate, che riprese a percorrere il corridoio verso le scale.
-Bene. Adesso però smettiamola di parlare di Rickon, perchè sono già sufficientemente di malumore.- ordinò a voce spenta. -Volevo affrontare invece una questione in sospeso... la tua partecipazione, o meglio non-partecipazione, alla campagna militare. Sarai più al sicuro qui a Grande Inverno piuttosto che a portata dei Lannister, e questo è tutto.-
Jojen Reed inarcò un sopracciglio, intanto che saliva i gradini. -Se è per questo, lo stesso discorso vale per te.-
-Io sono un re. Ho dei doveri, non posso deludere le aspettative del mio popolo. È diverso.- argomentò Bran, annoiato.
Il consigliere parlò con efficace trasparenza e logica invincibile. -Sei un re, e il tuo compito è fare quanto ti sembra più giusto per tuoi sudditi e per l'esito favorevole della guerra. Io sono il tuo consigliere, e il mio compito è suggerirti ciò che mi sembra più conveniente e più assennato fare. Se entrambi dobbiamo adempiere alle nostre funzioni, lasciandomi qui mi impedisci di svolgere il mio lavoro.-
Bran affondò il mento nella pelliccia di Estate. Non aveva energie per discutere anche con Jojen, quella sera: come aveva potuto venirgli in mente di intraprendere quell'impresa?
-Mi rifiuto, Jojen. Questo è un ordine. Non posso correre un rischio simile...- s'oppose. Jojen lo seguiva impettito e la sua fronte era attraversata da increspature sempre più marcate.
-Se puoi correre il rischio di perdere la vita, perchè non puoi correre quello di perdere me? È assurdo, Maestà, permettimi di confessarlo.- affermò egli. -Tu sei insostituibile ed io sono soltanto un alfiere, al pari degli altri.- Bran sollevò la testa ed incise gli occhi nei suoi.
-Tu sei soltanto un alfiere al pari degli altri, ed io ti amo.- Nella sua voce non c'era dolcezza nè pietà, e Jojen non sorrise.
-Non basta più, Maestà.- dedusse a voce bassa. -Non c'è mai stato posto per un noi. Nemmeno adesso. Tantomeno adesso.-
Il silenzio calò ad annuire per la seconda volta, implacabile, facendo rabbrividire Bran nelle vene; il ragazzo cercava inutilmente di dimostrargli ciò che provava, la nociva consapevolezza di dipendere dall'umana mortalità di un individuo, che perciò doveva essere perennemente sotto il suo controllo -e trascinare il proprio regno allo stesso destino, il freddo che l'idea di quel distacco scavava nel suo corpo, il panico per quella divorante e sconclusionata solitudine di cui portava ancora le cicatrici, la frustrazione che soffriva all'effettività di non poter impedire il male di Jojen soltanto con le proprie mani, con le proprie forze, con i denti e le unghie... Se guardava alla realtà con sguardo obiettivo, Bran vedeva il vuoto d'un mondo che non aveva più torti da infliggergli. Nessuno... eccetto uno. L'unico che Jojen gli stava suggerendo di rischiare.
-Non ti rendi conto che se tu muori, per me è finita?- fu tutto quel che riuscì a dire, mentre nulla di convincente giungeva alle sue stesse orecchie. Non era abbastanza bravo con le parole, non sufficientemente da piegare Jojen con i propri argomenti. Perchè non soltanto questo, non era così poco: non era finita per Bran e basta, per l'esercito era finita, per la guerra era finita, per il Nord era finita. Per un popolo intero, era finita. Come poteva permettersi di correre un pericolo del genere?
-Significa che baderò alla mia incolumità.- s'avvide Jojen, come se non vi fosse nulla di più ovvio. Bran, seppur controvoglia, avvertì le labbra costringersi ad un sorriso sconsolato.
-Tu? Che non sai nemmeno tenere un coltello in mano?-
-Chi si occuperà di moderare i tuoi attacchi, se io non ci sarò?- rincarò Jojen. A quel punto il re strinse le labbra, disarmato, e abbassò gli occhi. Carezzò Estate in mezzo alle orecchie, distrattamente, e si chiese perchè dovesse sempre essere egli stesso il suo peggior nemico.
-A proposito della guerra, Maestà,- Jojen cambiò argomento, notando il suo turbamento, -sarà bene che prima di partire per un viaggio lungo come questo, la cui durata è ancora sconosciuta, tu... passi le notti con la tua legittima consorte. Comunque vada, bisogna assicurarsi che non manchino eredi a Grande Inverno. Capisci cosa intendo dire, vero?-
-E come potrei non capirlo? Sei stato piuttosto esplicito.- arrossì Bran, imbarazzato. -Immagino che tu abbia ragione... So che devo farlo, e lo farò. Non temere. Anche tu, al ritorno dalla guerra, dovrai pensare a prendere moglie.- aggiunse, con studiata noncuranza. L'idea lo infastidiva un po', certo, però non poteva essere così egoista da pretendere che Jojen rinunciasse a tutto per lui. Il suo consigliere aveva il diritto, come tutti, di sposarsi, avere dei figli, amministrare le terre che gli appartenevano per eredità. Il suo incarico non doveva annullare qualsiasi altra cosa.
Jojen, al contrario di quanto Bran si aspettava, scosse la testa con sussiego. Il suo sorriso era remoto, come se l'ingenuità di tale proposta lo divertisse.
-Io non mi sposerò mai, Maestà. Il mio posto è accanto a te, perchè ho un sacro obbligo soltanto verso il mio re.-
Non c'era tristezza nella sua voce, quanto l'autoritaria consapevolezza d'avere un compito che avrebbe portato a termine soltanto dopo aver chiuso gli occhi per l'ultima volta.
-Non pensi che tuo padre sarà deluso? Sei il suo unico figlio. Se non ti sposerai, alla tua morte casa Reed si estinguerà.- obiettò Bran; la risposta non potè fare a meno di rallegrarlo, indipendentemente da tutto il resto. 
-Mio padre sa chi sono.- ribattè Jojen, sibillino, -e sa cosa devo fare. Oltre a questo, niente è davvero importante.- 
Effettivamente, egli avrebbe potuto avere una vita all'infuori della corte, avrebbe potuto andarsene e non tornare mai più, avrebbe potuto curarsi d'una persona che non fosse Bran... e allo stesso tempo non poteva. Io sono il suo destino, pensò Bran. Gli sono stato imposto, gli risulto inevitabile. Lui è nato per me. E quel pensiero lo attraversava in un brivido d'emozione.
Fatto sta che raggiunsero la camera e si prepararono per la notte. Esausto, incapace di sorreggere le palpebre, il re del Nord appoggiò la testa sulla spalla di Jojen e si strinse giusto un altro po' al suo fianco.
-Verrai con me, alla fine, giusto?- mugugnò nel dormiveglia, contrariato.
Jojen sorrise. -Sì.-
-Non serve che io dica altro, allora.-
Il consigliere attese che il suo re prendesse sonno; accadde piuttosto in fretta, perchè utilizzare i poteri lo aveva sfiancato ulteriormente. Mentre contemplava il viso del suo amato, il ragazzo non trovò nulla di più lecito che chiedere al mondo intero di lasciarlo dormire, di camminare in punta di piedi, di non fare troppo rumore. Ma Bran non era nato per vivere la vita facile d'un re dalla corona d'oro, che al mattino dimentica i propri sogni, che può permettersi la serenità per più di una notte. Era nato per gloria e dolore, stenti e vittorie, sconquassi e traguardi, per regolare i conti -pagando tributi e riscuotendo debiti, per iniziare una guerra che avrebbe premiato la perdita con la fama. Per farsi del male in nome del bene altrui, sempre in bilico fra due mondi troppo vicini. Sia vendicatore, sia vittima sacrificale. Brandon Stark, come tutti coloro che avevano portato quel nome prima di lui, era nato per non morire mai, eternato dalle parole delle leggende e dal ricordo dei posteri.
Jojen carezzò la fronte di Bran, un sentimento inesprimibile acceso nello sguardo come un'antica stella. Oltre a questo, niente è davvero importante.
***
La stanza ch'era stata concessa a Shireen era una delle più belle del palazzo. Di forma circolare, molto spaziosa, con tre finestre e tende di broccato viola così lunghe da spandersi in una pozza di stoffa sulla piastrelle di pietra scura; su una delle pareti dipinte d'oro, si poteva ammirare un vivido affresco raffigurante una fanciulla dai lunghi capelli mossi al vento ed una ghirlanda di rose blu fra le mani. Delle piccole servette indaffarate s'affrettavano a sistemare gli abiti della principessa nei cassettoni e nel grande armadio a due ante; non erano vestiti sontuosi come quelli che di solito le dame del Sud sfoggiavano, bensì più austeri, sebbene non mancassero di una loro singolare raffinatezza. Era povera, la corona dei Baratheon, ma assolutamente carica di dignità.
-Entra pure, Rickon. Non mi aspettavo un'altra tua visita, dopo così breve tempo.-
Shireen sorrise, le ombre delle fiamme a dipingerle la chioma di riflessi scarlatti. Infatti v'era un focolare acceso, in fondo alla stanza, presso il quale sedeva la principessa, tendendo le mani alla benevolenza del suo calore. Morbidi e sinuosi spettri incandescenti avviluppavano i ceppi in un bacio mortale, districandosi e congiungendosi in una danza vorticosa di primitiva e superba bellezza, inaccessibile e ritrosa nel suo mistero, e dita fievoli come note musicali tastavano, percorrevano, assalivano la corteccia della legna come avrebbero fatto quelle d'un amante, ed inoculavano scintille fino a che i ceppi gemevano pietosamente arrendendosi in sbuffi di cenere, insediati, contaminati, divorati dall'interno da un morbo inarrestabile, e la morte giungeva lenta, languida, un incantesimo di selvaggia malinconia. Shireen, abbastanza vicino da avere le guance e la fronte arroventate da un calore pungente, rimirava con mesta tenerezza il fuoco, quasi alla vista d'un figlio amorevolmente accudito; non le faceva paura, e la parte destra del suo volto nemmeno lo percepiva. Rickon avanzò senza parlare, ed il suo sguardo rivolto al caminetto era cupo: era penoso per lui vedere quella suprema espressione di potere e d'affermazione così blandamente ammansita, imprigionata, svilita.
-Nemmeno io credevo che mi sarei mai ripresentato al tuo cospetto in vita mia.- ammise Rickon. -Eppure, eccomi qui.-
Shireen non domandò nulla. Quando si voltò verso di lui, il suo viso si dorò d'una curiosità puerile, tonda e limpida, a trasparire pulsando e spaccando le scaglie di ferro ad arrampicarsi lungo le linee dei suoi tratti. Non c'erano schermi -non c'erano maschere.
-Perchè porti i capelli così? Sono quasi lunghi come i miei.- commentò vivace, con una voce talmente inconsapevole ed esente da ogni contaminazione esterna da rendere impossibile un'eventuale reazione di fastidio.
-Perchè... mi piacciono.- borbottò Rickon. -Sono qualcosa di cui non mi posso disfare... il passato non si deve rinnegare mai.-
In effetti raccontavano una parte della sua vita, quella che nessuno voleva ascoltare, e lo rappresentavano, in un certo senso. Sì, parlavano di lui ancora prima ch'egli potesse aprire bocca.
-Nemmeno la propria famiglia, però.- osservò Shireen pensosa. Il suo sguardo non lasciava spazio a dubbi.
Rickon strinse i denti. Possibile che ovunque si voltasse gli altri cercavano di fargli la predica?!
-Lascia perdere. Non ho voglia di litigare anche con te.- liquidò sbrigativo.
-Già.- Le labbra di Shireen si curvarono in un sorriso mite. -Nessuno ha mai voglia di alzare la voce con la principessa sfregiata.-
Non era un'accusa, la sua, quanto una triste constatazione, quasi un'amichevole rassegnazione di cui non attribuiva nessuna responsabilità all'interlocutore. Nei suoi occhi v'era una malinconia rappresa che il ragazzo non seppe come gestire.
-Io non faccio elemosina a nessuno.- tagliò corto Rickon, seccamente. Non voleva compatirla, perchè in fin dei conti non era una fanciulla così debole da guadagnarsi quel disprezzo, eppure gli risultava inevitabile. La bugia crepitò innocua, in coro con le fiamme del camino.
-Allora sei il primo.- Attorno a Shireen gravitava un'atmosfera d'innaturale beatitudine e la triste, sincera immensità dei suoi occhi provocava in Rickon la tediosa sensazione d'essere sciocco, ignaro d'una consapevolezza più alta, superiore alla sua esperienza, del dolore e dell'esistenza. -Non tutti sono capaci di comprendere la mia fortuna. Ho un padre e una madre che mi amano e vogliono il meglio per me. Ho degli amici su cui contare. Ho una vita serena ed agiata che non tutti possono permettersi. È davvero molto di più di quanto mi meriti, non credi?-
Il ragazzo credeva di capire dove lei volesse andare a parare, e latrò una risata. -Se tutto ciò è un discorsetto atto a convincermi che in fondo la vita è bella e io devo ritenermi un ragazzo fortunato, risparmia il fiato.-
Shireen inarcò un sopracciglio, perplessa. -Ma tu sei un ragazzo fortunato. Dopo tutto quello che certe persone hanno tentato di fare per sterminare la tua famiglia, tu sei ancora qui. A te sembra poco, e invece è l'unica cosa che conta.-
-L'unica cosa che conta...- ripetè Rickon, salace. Il silenzio fu impreziosito dallo scoppiettio del fuoco, ed i pensieri zampillavano come le scintille a levarsi dal camino, compiendo archi aggraziati fino ai loro piedi. Sapeva, Shireen, a che punto d'esasperazione la sopravvivenza diventa una maledizione, anzichè un miracolo?
Lo sguardo del ragazzo, alla ricerca d'una distrazione, si posò su un manichino ricoperto interamente da un lenzuolo. Senza che domandasse nulla,
-Lavorano già al mio abito da sposa.- spiegò Shireen, con voce indecifrabile, indicando le serve con un cenno della mano. -Pensavano che fosse di cattivo auspicio che tu lo vedessi prima del gran giorno, ma... Su, lasciate che lo guardi.-
Intimidite, le ragazze scostarono il lenzuolo. L'abito ch'era rimasto celato fino a quel momento era qualcosa che Rickon non aveva mai visto prima d'allora. Il corpetto aderente era dorato, trapuntato di minuscole perle bianche, decorato d'un complesso d'arabeschi e pietruzze di quarzo rosa pallido, e la scollatura a cuore era impreziosita di pizzi antichi; la vasta, immensa gonna, a dilatarsi sempre di più come una corolla, era di splendente e pregiato raso cangiante, ed il suo orlo ricamato richiamava le guarnizioni del petto. Applicate sopra v'erano ruches di tulle arricciato, vaporose ed eteree, divise in bande che parevano petali di fiore. Gli abiti erano probabilmente l'ultimo interesse di Rickon, eppure gli fu impossibile non ammettere che quello era un vero capolavoro.
Shireen lo esaminava con sguardo assorto, distante, come da un'altra epoca. -È troppo bello per me, me ne rendo conto. Farei una misera figura.-
Pochi sgradevoli secondi galleggiarono fra loro, in attesa di sapere come si sarebbe risolto il silenzio.
-Io non ti sposerò, Shireen.- Non c'era severità nella voce, nell'espressione di Rickon, ma solamente un'impassibile intransigenza. Lo sapeva. Lo sentiva, chiaro come il flusso del proprio sangue nelle vene. Il giovane Stark osservò la ragazza: Shireen aveva il portamento e la fierezza della sovranità di diritto, l'impronta del potere sul viso, la durezza ad ammorbarle la pelle. Nata per regnare, questo sì. Ma non al suo fianco.
La fanciulla sorrise gentilmente, senz'ombra di delusione o rammarico. In effetti, c'era troppa acquiescente gentilezza in Shireen Baratheon, troppo placido amore per la vita, dopo che essa le aveva rubato, oltre al diritto di nascita, quanto rende più fiera una donna: la propria bellezza.
-A dire la verità, l'ho capito dal primo momento in cui ti ho guardato dritto negli occhi.- confessò ella. -Tu ami quella prigioniera che tieni nel sotterraneo, vero? Myrcella.- I suoi occhi brillavano di malizia, adesso. Rickon ghignò senza allegria, incerto se stesse deridendo lei o se stesso.
-Amore? Tu quello lo chiami amore...- commentò aspro. -Non si osa amare una persona, dopo aver superato certi limiti.-
Non sapeva nemmeno lui di quali limiti stesse parlando. Quelli della dignità, della decenza? Perchè guardando negli occhi di Myrcella aveva visto quel guasto, quel cedimento, quello squarcio, e troppe volte se ne era rallegrato.
-Dicono che è bellissima.- proseguì Shireen, raggiante d'entusiasmo, come se stesse sfogliando le pagine d'un libro di fiabe.
-Lo è.- si limitò a replicare Rickon laconico, mentre gli pareva quasi di percepire fra le dita quei boccoli biondi, d'avvertire le sue labbra tenere sotto i denti.
Shireen sorrise insinuante. Era un'anima cosciente, lei, oltre l'inganno, oltre l'invidia. -Scommetto che Myrcella starebbe molto meglio di me con questo vestito.-
Egli incrociò le braccia. -Se stai cercando di strapparmi una confessione...-
-La parola confessione l'hai pronunciata tu, non io.- gli fece notare la ragazza, divertita.
-... sappi che non c'è niente da confessare.- concluse Rickon, convinto che fosse irritazione quel rossore che balenò sulle sue guance, confondendosi con il riflesso del fuoco.
Shireen lo contemplò, perchè il suo sorriso era come uno specchio, e gli altri spesso riuscivano a trovarci quanto era sempre rimasto dentro di loro, rannicchiato in un buio meandro della coscienza. Anima vecchia, sì, e corpo di fanciulla, sorriso di miele e pelle di pietra, lievità nella voce e sconforto negli occhi. Forse una contraddizione, la sua. C'era una saggezza troppo pesante nel suo sguardo, ed inconciliabile con la vitalità delle sue labbra. Perchè poche volte il destino l'aveva schiaffeggiata, poca sofferenza aveva raggiunto il suo animo, ma la sua condanna era consumarsi lentamente, e in quel piccolo dolore di bambina Shireen era sola.
-Secondo te lo sa, il fuoco, che quando finirà di consumare il suo pasto morirà con lui?-
Gli occhi di lei si riempirono di fiamme fino a dimenticare il proprio colore. Ma le riflettevano, e basta: un'anima contemplatrice, che non conosceva l'arte della devastazione. Gli occhi di Rickon lo inghiottivano, il fuoco.
-Non può fare a meno di consumarlo.- rispose egli, dopo qualche istante.
-È un predatore talmente nocivo- iniziò Shireen, in un filo di voce ispirata, -da non limitarsi alla distruzione di tutto ciò che lo circonda, ma, non soddisfatto, anche di se stesso.- Allora cercò Rickon con lo sguardo, sollecita. -Non distruggerti, te ne prego. Non farlo.-
Per un attimo il suo sorriso fu così inestimabile da offuscare l'imperfezione del suo viso -da renderla bella quanto Myrcella. 
Peccato, Shireen Baratheon. Magari in un'altra circostanza, in un altro momento, in un'altra realtà, avrei detto di sì. Rickon sorrise beffardo. Si alzò ed annullò la distanza che lo divideva dalla porta a lunghi passi. Prima di lasciare la stanza, 
-Alcuni vanno incontro alla distruzione per destino.- proferì a voce alta.
-Mentre altri per scelta, non è così?- sussurrò Shireen, troppo piano per essere udita. Ed allora cominciò a cantare, a mezza voce, parole sconosciute: the stones crack open, the water burns; the shadows come to dance, my love, the shadows come to play; the shadows come to dance, my love, the shadows come to stay, mentre la legittima regina dei Sette Regni assisteva all'agonia del fuoco con occhi inscalfibili; e Rickon trattenne un ringhio fra le labbra, pensando ch'era vero -che Myrcella sarebbe stata dannatamente splendida con quel vestito.
***
-E questa,- sussurrò Myrcella, mentre il polpastrello dell'indice percorreva con tocco fievole il disegno della cicatrice che attraversava il petto di Rickon, -questa come te la sei procurata?-
-Una pantera ombra.- rispose il ragazzo, noncurante, con voce roca. -Avevo undici anni e faceva freddo, quella notte. Me lo ricordo... faceva freddo. Io e Osha cercavamo di accendere il fuoco, ma il vento soffiava e soffiava...-
Invischiati nella massa fuligginosa del buio, nell'appagamento frastornante del loro piacere, giacevano ebbri e torpidi godendo della nera pace di quella cella. Imbrattati di bitume erano i loro corpi, ma ammorbate irrimediabilmente le loro anime, senza via di scampo. Gretta s'era consumata la passione -quella passione impura che aveva riecheggiato stridula nelle loro viscere, come una saetta, fino a che non era scoppiata chiassosa, e la viscosa testimonianza di quel ch'era stato s'essiccava nell'intreccio della cenere.
La prigioniera riusciva a malapena a distinguere morbidi profili soffusi della luce ibrida d'una candela esitante, poggiata a terra; la figura imponente di Rickon era poggiata al muro, le gambe distese davanti a sè con insolente negligenza, ed il corpo della fanciulla si sosteneva al suo, le braccia violate di sangue annerito a cingerlo con dolcezza.
Rickon lasciò ricadere il capo nel grembo di Myrcella, con lenta pigrizia. Il languore dell'orgasmo l'aveva lasciato stordito, quasi sopraffatto, impastato in una densa voluttà simile ad una ragnatela d'indolente sonnolenza.
-Non ho voglia di andarmene.- bofonchiò a fatica, affondando le unghie nelle sue cosce, nell'ennesima riaffermazione inutile d'un potere già consolidato. -Non ne ho voglia. Lassù sono... bah, sono tutti così stupidi. Nessuno capisce. Voglio rimanere qui.-
-Allora rimani.- bisbigliò Myrcella, accondiscendente, infilando le dita in quella chioma rossastra come sangue raggrumato. -Compiresti la tua volontà, ed allo stesso tempo recheresti un grande omaggio alla tua umile schiava.- Affondò le labbra nell'incavo del suo collo, sfiorando la pelle e stuzzicandola con la lingua. -E io ho così tanto bisogno di compagnia...- mormorò suadente, una nota dolente ad alterarle la voce.
Lo spettro stanco del solito ghigno s'aprì come una ferita. -Oh, sì. Hai tanto bisogno di compagnia.-
Era così facile mentire, che Myrcella stessa si stupiva della naturalezza con cui pronunciava certi spregiudicati azzardi, senza che il pudore la frenasse; e facile, spaventosamente facile era concedersi: aveva smesso di fare male -era bastato ammorbidire i muscoli e rilassare le spalle, convincersi di desiderarlo, per superare qualsiasi remora. Era ruvida, la bocca di Rickon, e la esplorava senza riguardo, ma ormai la prigioniera ci aveva fatto l'abitudine, e la considerava soltanto la costante riprova d'intima familiarità che quella nuova vita le stava offrendo. Dopo tanti indugi, una certezza. Ormai persino le serve avevano smesso di portarle da mangiare, perchè voleva essere sempre lui a farlo, ed era dunque diventato il suo unico contatto umano.
Mentre seguitava a carezzare i capelli al proprio carceriere, Myrcella ricordò d'un tratto il suo primo arrivo a Grande Inverno: a quel tempo aveva nove anni, voleva sposare un lord bello ed aitante che la servisse e la riverisse in un castello pieno di sfarzo. Guardava Robb Stark, grande, carismatico ed ammirato, non certo quel bambino di sei anni che lanciava a tutti gli ospiti sguardi d'intrepida sfida. E la testa di Robb Stark, dopo essere rotolata nella rossa mensa delle Torri Gemelle, era marcita nella carne putrescente di un lupo; era morto, e molti, troppi insieme a lui. Myrcella pensò poi a Trystane Martell, rapito da una fulminante ed impietosa malattia orientale. Cosa sarebbe successo se fosse sopravvissuto, quel principe allegro e gentile? L'avrebbe sposata, e lei sarebbe stata la regina di quelle opulente terre dove il sole splendeva in tutta la sua maestà; l'avrebbe baciata, e non sarebbe stata ruvida la sua bocca, nè brusca. L'avrebbe venerata con adorazione, l'avrebbe maneggiata come se fosse stata di cristallo. Sarebbe stato diverso. Diverso.
Ma ora tutto era andato, tutto passato, perduto, ripensarci faceva solo male, e lei non era altro che una prigioniera di lusso vestita dalla luce di una candela, la dignità strappata di dosso così come dilaniate erano state le vesti; principessa che in quell'ammaliante profusione di menzogne stava cedendo al suo aguzzino frammenti di sè, uno ad uno, fino a che non avrebbe smarrito l'integro ricordo della propria immagine, e tutti gli specchi si sarebbero rifiutati di rifletterla. Quella realtà subdola la stava sradicando da se stessa -la stava derubando della sua anima. Forse anch'essa era divenuta -come tutto il resto- buio. 
Dopo una lunga pausa, Rickon trovò la carica per parlare ancora. La sua voce era tagliente, atona, quasi discutesse di un argomento di vago interesse.
-Mi hanno organizzato un matrimonio combinato.- 
-... matrimonio?- La prigioniera era a tal punto stupita, che smise di carezzargli i capelli; quella parola sdrucciolò strana sulla sua lingua. L'idea che si era fatta di Rickon era assolutamente incompatibile con quella di un marito, ed i consequenziali obblighi e doveri che questo ruolo implica. In verità, sembrava incompatibile con qualsiasi genere di dovere. Figuriamoci se si trattava di andare incontro ad una donnetta emozionata e restarle fedele per tutta la vita.
-Perchè?- Fu la prima domanda che sorse spontanea alle labbra di Myrcella.
-E che diavolo ne so, io!- tuonò Rickon, stizzito. -Per le alleanze, per i soldati...-
La fanciulla, dopo qualche istante di frastornato turbamento negli occhi, riprese a scorrere le dita fra quei capelli scarlatti e scompigliati.
-Chi è lei?- domandò alla fine, incuriosita, mostrandosi il più mesta possibile -perchè, visto che a Rickon quella storia pareva non piacere per niente, non doveva piacere nemmeno a lei. Con lui l'unica soluzione era assecondarlo ciecamente.
-Shireen Baratheon.-
Myrcella rimase sconcertata da tale risposta. -Mia cug...-
Rickon sollevò la testa di scatto, incollerito: -Non dirlo, maledizione, Lannister! Lei non è tua cugina. Tu hai un solo cognome, ricordatelo. Insomma, che cazzo, ti sei mai guardata?! Sei assolutamente, orribilmente Lannister in tutto e per tutto.-
A quel punto si zittì, placato dal flusso furibondo di parole. Allungò un dito verso un boccolo, adagiato sullo zigomo della ragazza, e se lo rigirò intento, arricciandolo su un dito e traendolo a sè distrattamente, quasi per mostrarle di non essere più arrabbiato. -Oggi è stata davvero una giornata scalognata.- proferì infine.
-Non vorrei che il mio aspetto, ricordandoti i Lannister, avesse contribuito a peggiorare il tuo umore. Se così è stato, mi dispiace molto, mio signore.-
Myrcella abbassò lo sguardo, in segno di subordinazione, e per diversi istanti la sua stessa bugia le compresse il cuore; ci credette, in qualche modo, ed il timore di averlo davvero infastidito la punse nella più tenera sensibilità del suo animo. Tanta passione fomentava dentro di lei, che le emozioni acquisivano essenza sanguigna. È solo una menzogna, sibilò la voce di sua madre, ritta in piedi in un angolo della cella. I suoi occhi erano fissi ed implacabili come la notte. Una menzogna, Myrcella. Una menzogna. Tu non sei angosciata all'idea di avergli rovinato l'umore. Tu lo odi. Tu lo vuoi morto. Tu lo scorticheresti con quelle stesse mani con le quali lo stai cullando. Stai mentendo, te lo ricordi ancora?
Certo che se lo ricordava. C'erano notti solitarie in cui la sua rabbia era un coltello ad affondare nelle tenebre, la voce le mancava ma le urla si contorcevano nella gola, e quella cella era troppo piccola per la sua furia; ma, appena lo vedeva, poche ore dopo, si calava automaticamente nella parte e le menzogne scivolavano dalle labbra come acqua da una roggia, e non c'era più rancore, di alcun tipo. Non riusciva più ad essere arrabbiata, non lo era, il suo cuore non era scosso da tremiti nè tratteneva il furore, ma taceva mansueto, mite, pacificato, quasi nell'inconscio timore di tradirsi se avesse svelato tutto il rancore, ma non era vero, perchè il rancore lo beveva l'alba, e asciutta era la sua sete di sangue.
Rickon sorrise con sprezzo davanti a quella dolce sottomissione e le morsicò la gola, forte. Myrcella non emise un gemito; la sua pelle aveva imparato il dolore a memoria, ormai.
-Cara la mia Lannister, ma tu non devi chiedermi scusa per chi sei. Devi pagare, e basta. Dov'ero rimasto, prima che i tuoi occhioni verdi me lo facessero scordare? Ah, sì- proruppe sarcastico, -il fatto che questa giornata ha fatto schifo. Mio fratello ha tentato di uccidermi, per esempio. Poi ovviamente non ha avuto i coglioni di farlo, ma in fondo è soltanto uno storpio ricchione. Cosa ci si può aspettare da lui? E poi, sì, ha contribuito un tuo parente, tanto per rimanere in argomento di palle al piede.- concluse, come se nulla fosse.
Myrcella inarcò la schiena, di modo che il ragazzo lasciasse scendere la bocca oltre il suo collo. -Tommen, dici?-
-No, non Tommen. Lui gioca a fare il re per i fatti suoi.-
Myrcella aggrottò la fronte. Suo fratello era un re distratto. Non cattivo: sbadato, incapace di concentrarsi sulle faccende del regno, innamorato della propria infanzia e di tutte le frivolezze che capitavano ai suoi occhi. Più amato di Joffrey, certo. Ma ugualmente indegno.
La fanciulla pensò allora a Tyrion, ma preferì chiedere senza ulteriori indugi. -Chi, dunque?-
Rickon strinse i denti. Era evidente quanto gli costò quel che disse. -Jaime. Sì, è così. Tuo padre si è salvato. Lui... è vivo.-
Zio Jaime. Myrcella sgranò gli occhi nel buio e le sue ciglia incrostate di nero scricchiolarono. Zio Jaime è vivo. Forse, in fin dei conti, non sono poi così sola. Forse, in fin dei conti, c'è davvero ancora qualcuno per cui combattere. Sollevò il capo, mentre la meraviglia le piegava le labbra in un sorriso euforico. Lui può aiutarmi. Anzi, di certo mi salverà. Perchè non dovrebbe farlo? Magari sta già venendo qui.
-Io... So che la mia gioia ti infastidisce ancora di più, ma non posso fare a meno di...-
-Lascia stare.- borbottò Rickon. -Stai zitta. Ho bisogno di...-
Poi tacque, interdetto, incapace di spiegare a parole di che cosa avesse bisogno esattamente. Abbandonò nuovamente la testa nel grembo di lei e chiuse gli occhi, mentre la sonnolenza di poco prima prendeva il sopravvento. Ho bisogno di silenzio, riflettè Rickon, espirando tutta la stanchezza annidata nel suo petto. Silenzio.
Myrcella non sapeva per quanto tempo lui fosse rimasto lì, inerme come un bambino, però i pensieri non tardarono a susseguirsi nella sua mente, in una certa determinata direzione.
Uccidilo, mormorava Cersei Lannister dal suo cantuccio, adesso che faticherebbe a reagire. Hai ottenuto quel certo potere su di lui, tale da permetterti d'essere avvantaggiata a fuggire, proprio come volevi. Devi farlo, Myrcella, e devi farlo ora. Le occasioni non si ripresentano ogni giorno. Per un istante, un furore incontenibile scosse le mani della ragazza. Un lampo, una folgore. Sì, perchè Rickon Stark aveva rovinato tutto, tutto, e meritava la peggiore fine possibile. Se fossero state quelle deboli mani di fanciulla ad ammazzarlo, poi, l'infamia sarebbe stata di gran lunga più disonorevole. Myrcella, con un solo fendente, aveva la possibilità di togliergli la vita e la gloria, quanto di peggio possa accadere ad un principe.
Cosa aspetti? insisteva sua madre, concitata. Ma Myrcella, non appena sfiorò la daga ch'egli portava appesa alla cintura, ritrasse la mano repentinamente, quasi che si fosse scottata. Non poteva farlo. Era una pazzia. E se Rickon si fosse svegliato d'un colpo e le avesse aperto la testa a metà? Non era prudente. Come avrebbe potuto una ragazzina gracile come lei trafiggere un corpo simile? Non ne aveva la forza. Era lenta, fiacca, impacciata. Sarebbe stato un suicidio, anzichè un omicidio.
Allora la candela, sibilò sua madre. Accosta la fiamma ai suoi capelli e brucialo. Un gesto altrettanto stupido, ribattè ella prontamente: e se le fiamme, dilagando, avessero raggiunto anche lei? Quello era uno spazio angusto. Inoltre era un'utopia immaginare che Rickon sarebbe rimasto fermo e tranquillo ad ardere vivo.
Secondo questo ragionamento, figlia, non uscirai mai da qui.
Myrcella non l'ascoltò. Sarebbe evasa, invece, ma non in quel momento. Più avanti. Quando sarebbe stato più sicuro.
Più sicuro, sospirava Cersei. Sei già morta, Myrcella. Perchè è così che si muore, lo sai?
Myrcella non gradì quel commento. Chinò il viso su quello di Rickon: l'odore della cenere impregnava la sua pelle come acqua -forse in memoria della sua anima andata a fuoco, della sua fanciullezza arsa troppo presto. Il sentore della distruzione lo seguiva ovunque, come se una stella cattiva vegliasse il suo cammino, ammantandolo con la propria ombra. La ragazza smarrì ancora una volta le dita fra i suoi capelli e restarono così, sospesi in quell'interruzione di vita senza morte, concordi in quei piacevoli istanti di nonsenso. Era talmente facile fingere e talmente doloroso svelare i propri reali sentimenti, che Myrcella non aveva dubbi riguardo ciò che preferiva. Era talmente facile volergli bene in quella cella, in quel buio, in quel silenzio, nascondere la sofferenza fra le pieghe del mantello delle tenebre e lasciarsi prendere per mano, dopo tanto tempo d'ostinata solitudine. Sarà stato a causa della sua educazione da lady, ma obbedire ed annuire e compiacere risultava molto meno faticoso, e lei era stanca, e anche lui era stanco. 
Cersei continuava a fissarla, imperterrita, dall'angolo della cella. 
Ad un certo punto, che poteva essere giunto dopo un'ora come dopo dodici secondi, Rickon si ridestò con un sospiro, che schioccò fra le sue labbra socchiuse.
-Devo andare, adesso.- annunciò funereo. L'idea non lo esaltava per nulla.
-No.- sussurrò Myrcella di rimando. -Non... ecco... ti prego, no. Ancora un poco. Fa così freddo... così terribilmente freddo.-
Rickon invece era caldo, piacevole, come se una fiamma perpetua crepitasse nel suo petto e fosse cera bollente a scorrere nelle vene. Le bastò immaginare la notte nella cella senza quel rinfrancante tepore, per gemere con voce sottile. I brividi la assediavano, perchè il ghiaccio s'era insinuato dentro di lei, attanagliando il midollo stesso delle ossa: il freddo del Nord l'aveva avvelenata. Lei voleva tenerlo stretto tutta la notte e percepire ancora il profumo del fuoco otturarle le narici.
Il ragazzo derise sottovoce quella debolezza e la squadrò con un sorriso. Infine parve arrendersi ad una decisione insolita.
-Sono stufo di sentirti pigolare come una quaglia con l'ala rotta.- dichiarò, lasciandosi scivolare dalle spalle la vasta cappa di velluto blu foderata d'ermellino. -Tieni qua.-
Cinse il suo corpo snello con la stoffa, avvolgendolo nel mantello, mentre la prigioniera lo fissava con gli occhi gonfi di sconcerto.
-Non posso accettare.- balbettò, presa in contropiede. -È... è troppo. Voglio dire, è il tuo mantello! Non devi privartene per darlo a me...-
-Come se ne avessi necessità.- replicò Rickon, spavaldo. -Io non ho mai freddo. Comunque, io faccio quello che mi pare, perciò se mi gira di darti il fottuto mantello tu te lo tieni. Chiaro?-
Il suo tono era aspro, ma Myrcella sorrise. -... non so davvero come ringraziarti.-
-Non mi ringraziare.- borbottò lui. -Domani te ne farò passare la voglia, credimi.-
Fu con queste minacciose parole che se ne andò, quasi indignato dalla propria stessa generosità; però era invano che Myrcella lo attendeva, aspirando intensamente l'odore impresso sulla pelliccia, perchè il giorno dopo il suo carceriere non arrivò. E nemmeno quello dopo. E quello dopo ancora.
***
Garlan, fratello mio,
ci siamo. Il mio dolce marito ha deciso che partirà per la guerra, ebbene sì, nel caso in cui l'avessi sentito dire da altri, ti confermò che è così: però questo è l'unico imprevisto. L'idea di non poterlo tenere sotto controllo, qualora la situazione precipitasse, mi spaventa, però non c'è verso di dissuaderlo. Troverò la maniera più indiretta per convincere Tyrion Lannister che la cosa migliore da fare è seguire nella campagna militare il giovane re, per consigliarlo e sorvegliarlo, data la sua inesperienza. E, quando l'esercito partirà da Approdo del Re, non ci sarà più un solo Lannister alla Fortezza Rossa. Ebbene, ormai è certo: anche Jaime se ne andrà. Perciò il nostro piano è quasi compiuto.
Attenderò con impazienza il tuo arrivo. Quanti anni sono che non ci vediamo? Troppi, fratello mio. Troppi. Andrà tutto bene, vedrai. Questo castello sarà nostro -questo regno sarà nostro.
La tua affezionata sorella,
Margaery



































Note dell'Autrice: Eccomi qui! Spero di non aver postato troppo tardi! ^-^
Nella speranza di non aver deluso le vostre aspettative, il quinto capitolo. Con il prossimo, avremo la partenza per la guerra e il chiarimento d'un po' di questioni irrisolte lasciate qua! Perchè Rickon non torna da Myrcella? I sogni di Bran porteranno forse a qualcosa di ancora più terribile di un tentato omicidio? Cosa sta combinando Margaery? Cosa diamine sta succedendo a Pyke? Possibile che Theon abbia ragione? Eheh.
So che dopo aver letto questo capitolo siete nauseati da Rickon: era in ogni singolo pezzo! La prossima volta si parlerà della Fortezza Rossa e di Jaime, se i Sette Dei vorranno. Solo io posso scrivere che Bran è uno storpio ricchione ed indignarmi allo stesso tempo con il personaggio che lo dice... -.-  facepalm.
La canzone che Shireen canta è quella che compare anche nel telefilm, non è affatto farina del mio sacco!
Grazie mille alle sette persone che hanno messo questa storia nelle preferite, le due che l'hanno messa nelle ricordate e le diciotto che la seguono! (diciotto?! Wow!) E ovviamente un ringraziamento speciale va a SherlockLady, Talia_Federer, RLandH e yoyobigship, per avere recensito il capitolo precedente! Per me è incredibilmente costruttivo.
Grazie anche a chi continua a leggere, nonostante la lunghezza esorbitante dei capitoli! Ci vediamo nelle prossime note dell'autrice! ^-^
Lucy
ps: per chi si chiedesse quando compariranno Arya e Gendry, ebbene sì, quel momento sta per arrivare... abbiate fede!

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Capitolo 7
*** Giallo fu il riscatto. ***


6

VI. Giallo fu il riscatto.



-Alzati.-
Pur investito dalla portata torrenziale della luce diurna, l'uomo non stropicciò il viso. Brienne di Tarth gli lanciò uno sguardo raffreddato di severità. Stringeva in una mano il lembo della tenda che aveva appena scostato violentemente e fissava spietata la figura compostamente seduta sul letto, le coperte a coprirgli le gambe, la testa appoggiata sulla spalliera.
Non è morto, pensò. Me lo devo ricordare, se ho intenzione di ottenere qualche risultato.
-Ho detto alzati.- ripetè a voce più alta. Gli occhi dell'uomo non avevano uno sguardo -o meglio, non lo volevano avere.
-Adesso smettila. Cominci ad infastidirmi.- aggiunse Brienne, che non annoverava la pazienza fra le sue qualità. La faceva arrabbiare soprattutto perchè era Jaime Lannister l'uomo che le veniva negato di incontrare. Negato da chi? Da quel pretesto paralizzante, che aveva catturato la persona ch'ella amava di più al mondo e la divorava dall'interno, larva di un maleficio dal sapore buono ed il potere annichilente.
-Alzati,- insistette Brienne, -alzati. La stai deludendo. Fino adesso non hai fatto altro che deluderla. Non ti sembra il caso di smetterla?-
Il nervo scoperto del demone venne pungolato, ed egli infatti parlò, una voce fiacca fra labbra come d'impedimento, aggredite da medicine amare.
-È morta.-
-Ti vede su questo letto e ti sputa in faccia. Lo sai quant'è forte. La disgusti.-
-È morta.-
-Si vergogna di assomigliare così tanto ad un codardo come te.-
-È morta.-
-Lei ti sta urlando nelle orecchie, ma tu non la ascolti. Perchè non la ascolti?-
La voce del demone era esaurita: era troppo pigro per rispondere di nuovo.
-Voglio che liberi Jaime, adesso. Perchè Jaime non è stupido come te. Jaime ascolta quello che lei gli sta dicendo, e vuole obbedire. Vuole farla felice. Perchè accidenti glie lo stai impedendo?-
Il demone sollevò una mano, ma persino quel gesto parve affaticarlo. Era talmente sciocco che scivolò giù sul materasso, finchè le coperte non lo sommersero.
Brienne di Tarth era davvero esasperata. Prese le lenzuola e le strappò dal letto, prese il cuscino e lo gettò a terra, con rabbia. Il demone ricadde come un corpo esanime, ed il suo sguardo vacuo parve quasi insultante agli occhi di Brienne.
-Jaime vuole prendere la spada e combattere. Ha il diritto di farlo, il dovere di farlo. Tu non sei nessuno per influenzarlo in questo modo. Tu non sei nessuno per credere di poterlo sopraffare. Jaime è troppo forte per lasciarsi piegare da te.-
Una lacrima dolorosa, dopo diversi istanti di tentennamento, rovinò dall'orlo della palpebra e cercò di comunicare un pensiero inesprimibile.
-Oh, Brienne. Non ti merito.- Fu un soffio che Brienne infranse irata.
-Tu puoi vincere, Jaime. Svegliati. Ti devi svegliare. A lei questa lacrime non serve. Vuole essere vendicata, Jaime. Il demone la ripugna e basta. Tu devi vincere, altrimenti amarti non le sarà servito a niente.-
Svegliati, Jaime, ti devi svegliare... Era da tempo che Jaime Lannister tentava di ignorare lo sguardo fisso della sua gemella, in piedi in un angolo della stanza. Egli l'aveva supplicata di portarlo via con sè, s'era trascinato fuori dal letto soltanto per raggiungere quella visione, per abbracciarle le ginocchia, si era stretto alla sua veste. Aveva singhiozzato e s'era umiliato come da bambino non avrebbe mai fatto. Aveva cercato di afferrare un disegno sciolto nell'acqua, di trovare disegni di stelle scomparse. Aveva affidato all'inutilità la sua esistenza.
Ma Cersei non voleva ascoltarlo, non voleva accogliere le sue suppliche. Lo scacciava con sgarbo, lo guardava con altri occhi e lo aveva scalciato via come un cane malato. Un'ira informe le alterava il viso. Allora Jaime non s'era più mosso ed era rimasto a subire i fendenti di quello sguardo, con la pazienza immemore delle montagne, mentre il dolore perdeva identità e diventava tutto, diventava lui stesso, diventava Cersei. Cersei non era più bella, non era più l'amore, il sogno di una vita incompiuta. Solo dolore. Dolore. E nella banalità del dolore, Jaime non necessitava di altro. Nemmeno dei ricordi. Nemmeno di Brienne. Nemmeno di Cersei. Il dolore non è un demone, è l'unica compagnia di cui posso tollerare l'esistenza. L'unica che mi troverà ovunque andrò.
Svegliati, Jaime, ti devi svegliare.
Perchè? Per cosa? Per chi? Per uccidere il bambino-lupo che nessuno è sopravvissuto per piangere? Per provare la fugace sensazione di veder compiuta una giustizia persa fra le pagine di questa storia, di aver riscosso il debito della morte di Cersei? La vita di Rickon Stark non ne avrebbe potuto pagare nemmeno un istante. Non avrebbe compensato il vuoto, non avrebbe scagliato il tempo indietro. La vita di nessuno al mondo, neanche di tutti quanti insieme potrebbe pagarla: perchè per Jaime esisteva solo lei. Non c'è più un fulcro, non c'è più un nucleo in questa esistenza d'acqua torbida. Non c'è più una meta, per cui Jaime si è fermato in mezzo al sentiero e ha permesso al dolore di raggiungerlo, di colmare quel vuoto e scavarlo ancora più in profondità. Il mondo era il suo sorriso, la sua risata, i suoi baci ed il suo amore incostante ma sincero. Il mondo non c'è più.
Il demone ti ripugna, Cersei, è così? Ma cosa ne sai, tu, del demone? Non ci devi convivere come faccio io. Tu giudichi quel che non conosci. Se fossi al posto mio, saresti forte, invece? Oh, forse ti costringeresti ad esserlo per la vendetta. Avere un pretesto per fare del male è sempre piaciuto più a te che a me. Ma questo non è un mio limite, è un tuo difetto: scopriresti, tanto sangue e tanta morte più tardi, che non è servito a niente, se non ad aggravare le colpe della tua anima e farti sentire ancora più stanca di prima.
-Vai via, Brienne, a parlare a chi ha ancora orecchie per ascoltarti.- Una constatazione, più che una richiesta.
-O da chi ha ancora un cuore per comprendere.- rimbeccò Brienne. -Triste scoprire che non l'hai amata tanto come dicevi. Nè tua sorella, nè tua figlia.-
Appena pronunciò la parola figlia, gli occhi di Jaime Lannister recuperarono uno sguardo.
-Cosa le è successo?- Confusione nella voce. Un brivido velenoso sulla pelle. Nessuno gli ha parlato di Myrcella. Nessuno glie l'ha detto.
E Brienne capisce che Jaime lo farà, che aiuterà suo figlio ad essere re, che sarà al fianco di suo fratello in questa guerra, che salverà sua figlia imprigionata nel ghiaccio d'un'altra realtà. Che d'ora in poi avrà sia orecchie per udirla, sia un cuore per comprenderla. Che Jaime vincerà, che il demone perderà ed il loro sarà un congedo a lungo termine, forse momentaneo, forse definitivo, non è dato a lei saperlo. La donna fa poi una promessa all'anima di quella donna che negli anni aveva imparato a conoscere, a Cersei Lannister, vissuta per se stessa e morta per i suoi figli: che porterà sulla sua tomba la testa mozzata di Rickon Stark, che le offrirà una libagione con sangue di lupo, tant'è vero che si chiama Brienne di Tarth.
***
Il loro era un rituale le cui leggi non erano mai state decretate e trascritte, ma solamente apprese dall'esperienza e consolidate dall'abitudine: prima di tutto s'avvertiva il rumore delle zampe di Cagnaccio sulla pietra, un picchiettio ronzante e furtivo, e poco dopo i passi pesanti e placidi di Rickon assestati come percosse ad ogni gradino, che annunciavano con tonante esuberanza il suo arrivo; poi la luce del mozzicone di candela ch'egli portava sempre con sè sbocciava timida nell'irruenza delle tenebre, che si scostavano per lasciarle posto, e l'ombra del metalupo si profilava dietro le sbarre -contro la parete, un ritaglio più buio del buio stesso- e vi insinuava il muso alla ricerca delle sue mani, per leccarle affabilmente. Ma l'indizio più caratteristico che Rickon dava di sè, prima d'apparire, era il respiro. Myrcella lo conosceva molto meglio del proprio: irregolare, fremente, vibrante, accelerato da quella continua foga impetuosa e veemente che lo possedeva in qualsiasi momento della giornata. Nell'oscurità, quella brevità sporadica e pregna d'impulsivo fervore aveva un colore, un aspetto, un peso, una consistenza per Myrcella. E la solitudine si congedava per qualche tempo, concedendole qualche ora di vita, ch'ella consumava precipitosamente aggrappandosi al suo strascico, senza sprecarne un istante.
Questo, finchè Rickon non smise di venire a trovarla.
Myrcella aveva perso la concezione del tempo, questo sì, ma comunque ella sapeva che prima o poi finiva e arrivava Rickon. Dopo quell'ultima volta ch'egli era sceso da lei, il tempo durò per sempre.
Fu un'era quella che si spalancò in quel punto della sua prigionia; un secolo, uno squarcio che si affacciava su un'altra immobile realtà, simile alla solita ma inerte, uguale a sè stessa dall'indefinito principio all'inqualificabile termine. E a Myrcella sembrava di avere passato tutta la vita e tutto il tempo prima e dopo ad aspettare, che il tempo esistesse in funzione di quell'attesa, che quell'attesa fosse il tempo: e ormai era attesa di frustrazione, e frustrazione, ed ulteriore frustrazione, si trattava di nutrire, puntellare e consolare speranze moribonde, senza più un motivo per sopravvivere in quanto tali; si trattava di stringere in un pugno e soffocare fra le lacrime ogni istante, concluso e smarrito nelle fauci del passato. E il silenzio urlava, sbraitava, chiamava, gemeva, e il silenzio era diventato troppo grande, così immenso ed inespugnabile che a Myrcella veniva da piangere. Ma non lo faceva, perchè era stanca.
All'inizio la sua era l'arrendevolezza delle margherite i cui petali fremono al tocco del vento messaggero d'una tempesta imminente: statica, arida, stazionaria. Poi non bastò più.
Ad un certo punto, il suo corpo cominciò a deplorare l'immobilità e ad opporsi. Probabilmente fu mentre ella girovagava senza pace da una parte all'altra della cella, mentre le sue mani sanguinavano picchiando i muri e pestando le sbarre, mentre la gola spiegata cigolava all'insistenza delle sue grida, probabilmente fu allora che la sua mente marcì -contagiata da un germe, matrice e causa prima del contagio. E quel germe era il ricordo di Rickon Stark.
Aveva assediato la sua mente -no, non soltanto la sua mente. Myrcella percepiva ogni fibra di sè satura di Rickon, intrisa della sua presenza, magari per mezzo di una cicatrice o di un graffio o di un bacio che le aveva dato lì piuttosto che qui. Era ricolma di lui, sotto ogni aspetto. La sua memoria era una voragine dalle pareti ripide, nulla v'era rimasto aggrappato, tutto col tempo era stato divorato dall'oblio: soltanto lui, tenace, grandioso, onnipotente, restava. Allora cosa poteva fare, Myrcella, se non immergersi a capofitto nell'unica immagine che la sua mente riflettesse d'una vita smarrita nella cenere? La rabbia vigorosa del suo aguzzino era ciò che l'aveva mantenuta in vita -il solo sentimento ch'ella potesse masticare, contro l'apatia della solitudine. Il suo corpo stesso esisteva solamente per ricordare l'impronta d'un altro, per recarne le tracce, per indicarne il passaggio.
Come aveva potuto credere di odiarlo? Myrcella piangeva, piangeva, e non sapeva se fossero lacrime di dolore o di felicità per quella subitanea e magnifica rivelazione.
Lei non odiava Rickon. No. Non l'aveva odiato quando aveva decapitato suo nonno, quando aveva scavalcato il corpo di sua madre. Non l'aveva odiato quando l'aveva relegata in una cella, nè quando l'aveva stuprata aprendole il collo a morsi. E mai ci sarebbe riuscita. No, no, meglio ancora: non ci aveva mai provato davvero, ad odiarlo. E perchè? La soluzione era di sbalorditiva, lineare, imprescindibile evidenza. Asciutta, eppure essenziale. Perchè Rickon aveva bisogno di lei. Perchè lei aveva bisogno di Rickon. E loro, loro due, si sarebbero bastati per sempre.
Rickon non l'aveva rapita per farle del male, perchè voleva farle un torto. Assolutamente non era così! L'aveva fatto proprio perchè l'amava. Era così evidente, come aveva fatto a non capirlo subito? Ogni prova lo dimostrava. Il giovane Stark scendeva le scale per trovare conforto, per trovare carezze, per trovare il suo amore. La voleva avere sempre accanto a sè e soltanto per sè, era per questo che l'aveva rinchiusa lì, sotto, lontano dai lascivi sguardi altrui. Rickon la stava proteggendo dal mondo esterno, che era turpe, malvagio e li voleva separati.
Myrcella aveva compreso la verità tutta in una volta, in un unico istante. E quegli istanti erano diventati belli, caldi e scintillanti. E poi di nuovo orribili, man mano che il tempo scorreva e Rickon non arrivava.
Tornerà, si ripeteva Myrcella, tornerà. È certo. Certo come questo mio cuore che pulsa ancora, questo respiro che non si stanca di gonfiarmi il petto. Tornerà. Perchè io gli sono necessaria, e lui mi è necessario. E piangeva, questa necessità, strillava, implorava, come l'incavo dove un tempo v'era il cuore e, non appena era stato scardinato, il torace protestava contro quell'ingiustizia. Allora Myrcella affondava il viso in quel mantello, quel mantello che lui le aveva lasciato, d'inestimabile valore, e si detestava ogni volta che, accidentalmente, permetteva ad una lacrima d'evadere dalla ragnatela delle ciglia e di gocciolare sulla stoffa. Perchè quella cappa doveva rimanere pura, incontaminata, impregnato del suo odore, di quel sentore di cenere così lieve, che l'olfatto doveva tendersi in uno sforzo struggente per agguantare...
Quando le sue orecchie udirono, Myrcella credette che si trattasse di voci sporcate dalla sua immaginazione, ad infrangersi in mille echi nella mente bramosa d'inganni, propensa al sogno, e cercò di combattere la sabbia che l'accecava nell'instabile coscienza che ancora le rimaneva, ovvero quella condizione che le permetteva di comprendere di non essere affatto consapevole; in fondo, la ragazza pensava di non essere più in grado di distinguere un suono reale da uno immaginario.
Invece era vero. Vero, Vero. Vero. Vero il picchiettio di zampe sulla pietra, veri i passi sui gradini, vera la sensazione solleticante della lingua di Cagnaccio sulle dita. Vero il suo respiro. Vibrante, un po' accelerato, come se fosse sempre arrabbiato per uno stesso, imperscrutabile motivo.
-Lannister?- Vera la sua voce. Vera e bellissima. E quando la fanciulla lo vide il ricordo, tanto logorato dal continuo volgersi a contemplarlo, ebbe sangue e prese ossa.
Come aveva potuto non accorgersi di quanto bello fosse? Il suo volto, delineato nell'esattezza d'ogni tratto perchè bagnato dal chiarore della candela, provocò nell'interezza del suo corpo una sensazione d'appartenenza, di riconoscimento.
Myrcella s'era alzata sulle ginocchia, per poi drizzarsi in piedi e scivolare a causa dello sfinimento; allora ritentò, e un secondo prima di cadere s'aggrappò alle sbarre.
-... perchè?- bisbigliò soltanto, la voce grattata dalle troppe urla.
Il ragazzo la osservò attentamente, notando un qualche cambiamento in lei, forse nel suo sguardo o forse nel suo atteggiamento.
-Ho avuto da fare con i preparativi dell'esercito. Allenamenti, esercitazioni e robe del genere. Non che io debba renderne conto ad una prigioniera, ovvio...- concluse acido, prima di chiudersi la porta della cella alle spalle. Myrcella si appigliò dunque al suo petto, fissandolo negli occhi, e Rickon -che istintivamente la resse in piedi- si accorse di quanto magra fosse. Pesava quanto un fuscello.
-È stato terribile senza di te.- mormorò, realizzando di aver detto troppo poco, di non aver detto niente. Esistevano parole per spiegare l'eternità che s'era sgranata sotto i suoi piedi? No, dunque poteva esprimere i suoi sentimenti in un solo modo. Con un impeto inaspettato, s'allungò fino a sfiorare le labbra di Rickon e s'abbandonò ad un bacio sventato. Appena riscoprì il profumo della cenere, il contatto di quel corpo contro il suo, il mondo ricominciò a girare.
Rickon era sconcertato come se quello fosse il suo primo bacio in assoluto. La presa d'iniziativa di Myrcella l'aveva spiazzato. Come reagire? Fece quanto gli venne più istintivo, ovvero afferrò i fianchi di Myrcella e la strinse a sè. Anche se non l'avrebbe mai ammesso, aveva sofferto amaramente il fatto di non poterla andare a trovare. Tutte le tensioni della settimana ebbero sfogo in quel bacio, in quell'amore urgente che arse fra la fuliggine, e Myrcella potè prendere ancora il capo di Rickon in grembo e cullarlo e carezzarlo come aveva già fatto.
-Non ti avevo mai vista... così.- commentò Rickon, incapace di chiarire quel comportamento inusuale. Sì, Myrcella si era dimostrata di recente molto più bendisposta verso di lui, ma non gli era mai saltata con le braccia al collo, e non l'aveva mai baciato prima che lo facesse lui.
-Così innamorata, vorrai dire.- Myrcella districava i suoi capelli con le dita, beata, sfinita di gioia. Rickon le lanciò uno sguardo interrogativo.
-In che senso?!-
-Già, è proprio così.- dichiarò la fanciulla prontamente, dopo avergli rivolto un sorriso quasi trionfante. -Io ti amo. Hai capito? Ti amo.-
-Mi ami.- ripetè Rickon, una nota d'ironia scettica nella voce.
-Esatto.- sottolineò Myrcella, senza incertezza. -E anche tu mi ami. Ma non ti preoccupare, adesso: mi preoccupo io, di tutto. Adesso devi solo rilassarti e pensare a dormire e dimenticare le cose brutte. Va tutto bene. Ci sono io qui con te.- cantilenò, disegnando le linea della sua guancia. Trascorsero così le ore, in un silenzio morbido ed esplicativo, fino a che Myrcella non trovò il coraggio di parlare ancora, pur senza essere interpellata.
-Sai, quando mi accorsi che non tornavi, mi venne il dubbio che fossi partito per la guerra senza avvisarmi...- affermò, quasi imbarazzata. Sperava così anche di scoprire qualcosa in più, per esempio quando se ne sarebbero andati, e per quanto tempo.
E la risposta di Rickon non fu certo quella che si aspettava. -Impossibile, dato che tu verrai con me.-
Il giorno dopo, per la prima volta da tempo immemore, Myrcella vide altri due esseri umani; erano due servette, delle ragazzine giovani, dai capelli chiari e le mani spellate dal lavoro. Quando aprirono la cella e le si avvicinarono, con una coperta e un candeliere in mano, la prigioniera indietreggiò con ritrosia finchè non avvertì il muro premere contro la sua schiena.
-No.- boccheggiò. -Non voglio.-
Ma la loro voce era gentile e lusinghiera. -Non vogliamo farti del male. Siamo qui per ordine di lord Rickon. Lui ha detto che tu lo sapevi già, che saremmo venute...-
Myrcella ci pensò un attimo, e in effetti acchiappò un ricordo che forse coincideva con quanto loro stavano dicendo. -Quindi...-
-Ti porteremo da lui.- rispose una delle servette. Dopo qualche istante d'esitazione, con la fronte aggrottata, Myrcella avanzò e permise alle due ragazze di sostenerla fino al corridoio, pur rifiutando la coperta -mai avrebbe rinunciato alla cappa d'ermellino che Rickon le aveva lasciato. Fu terribilmente strano uscire di lì, camminare in quella galleria un tempo tanto agognata ed irraggiungibile, necessario passaggio per raggiungere la meta finale, la libertà. Ma la libertà non era la meta finale, e questo lei l'aveva capito soltanto in seguito. Il primo istinto di Myrcella fu di divincolarsi e tornare indietro, nella cella, al sicuro, dove Rickon sarebbe tornato a trovarla e sarebbero potuti stare insieme da soli, staccati dal mondo intero; però poi riflettè che, se il fatto che lei uscisse era il volere di Rickon, significava ch'era la cosa migliore da fare e bisognava obbedire senza discutere.
Salire i gradini delle scale era atrocemente difficile, in parte per l'aborrimento verso il mondo reale, in parte per l'instabilità delle sue gambe; le ragazze la sostennero pazientemente, accostando la candela agli scalini per aiutarla a non inciampare. Era assurda la maniera in cui la sua dimensione, dalla claustrofobica ristrettezza serrata nelle sue tenebre eterne, si stesse dilatando smisuratamente accogliendo tutto questo. Prima non c'era niente, e adesso stava per esserci tutto, e tutto in una volta.
Appena le scale si conclusero affacciandosi sull'arioso corridoio del castello, Myrcella avvertì i propri occhi tremare, le iridi sgranarsi cieche al cospetto della luce, poi un dolore perforante che le trafiggeva la nuca e sfibrava i nervi, come un dardo avvelenato. Emise un lungo verso animale e schermò il volto con le mani, precipitosamente, avvolgendosi in un buio confortante. Non ricordava che la luce fosse così cruda, violenta. Cattiva. Come aveva potuto anelare a qualcosa di tanto abietto?
-Rickon? Dov'è Rickon?- gemette Myrcella, tentando di divincolarsi. Sentiva più che mai la necessità di aggrapparsi a lui, d'essere cinta dalle sue braccia, ch'erano così forti e sicure...
-Fra un po' ti ci porteremo.- rispose una delle serve gentilmente. -Ma prima dobbiamo sistemarti.-
Un tempo, una schiava che avesse avuto la sfrontatezza di darle del tu sarebbe stata frustata a morte e le sarebbe stata mozzata una mano per punizione. Ma la principessa Myrcella non era più tale, non lì al Nord, dove Bran il Metamorfo era re, Meera Reed regina e il loro figlio principe. Non aveva diritto ad alcun riconoscimento di nobiltà, una Lannister.
Myrcella non riuscì a sollevare il volto dal mantello che la avvolgeva, lasciandosi guidare quasi inerme. Quando era bambina, ad Approdo del Re, aveva sempre creduto che le schiavette che le obbedivano così deditamente lo facessero perchè le volevano bene, le erano affezionate; non ci aveva messo molto per scoprire che, nello stesso modo in cui le cucivano le vesti, le accendevano il fuoco e le preparavano manicaretti d'ogni tipo, sarebbero state altrettanto disposte a strangolarla nel suo letto, se solo fosse stato loro ordinato.
Le serve la condussero da qualche parte, senza che lei vedesse dove, finchè:
-Adesso dobbiamo toglierti il mantello.- annunciò una delle ragazze. Myrcella tentennò, ma finì per acconsentire ad abbandonare la carezza morbida del velluto dalle spalle. Giusto un secondo prima di tapparsi gli occhi, scorse indistintamente il riflesso su un vasto specchio di liquido splendore, sostenuto da due piedi di ferro battuto: le servette reggevano fra le braccia qualcosa di nero, pesto e ritorto su se stesso, ch'ella riconobbe distrattamente come il proprio corpo. Le due la spogliarono di tutto ciò che aveva indosso, con gesti abili e rapidi; Myrcella scostò le mani dal viso per aggrapparsi alle sponde della vasca da bagno, ma tenne le palpebre ostinatamente strizzate.
La sensazione del calore dell'acqua sulla carne la atterrì: una morsa implacabile, che provocava un dolore sconosciuto, frenetico, annullante. Gridò ancora, in preda a quella trappola rovente, e quasi non udì i propri lamenti. Nonostante le proteste, venne calata nella vasca e l'ustione si propagò, aggredendo l'intero tessuto della sua pelle; Myrcella credette che sarebbe morta bruciata viva.
Lì dove una volta gli artigli del dolore avevano infierito, v'era quella cosa strana che lei non riusciva ad identificare: che un tempo avrebbe chiamato benessere, ma adesso era troppo diversa per risultare piacevole. Avvertiva la crosta della sporcizia rammollirsi, sciogliersi e gocciolare via dal suo corpo, piano piano, scavando fino a riscoprire l'antico candore della pelle. Districarono i suoi capelli, ciocca per ciocca; dolci erano quelle mani sulla nuca, ma tale stucchevole sensazione di mitezza e benevolenza, tali moine inutili e smancerose, tali carezze che il destino le stava concedendo, non erano inoffensive: erano atte a demolire la sua difesa, a farle abbassare le armi, a succhiare la sua forza insieme allo sporco. Il profumo che inondava le sue narici era qualcosa di delicatissimo e soave, esotico quanto lo sarebbe stata un'essenza proveniente da Essos o da Volantis, eppure era un unguento qualsiasi, tale quale a quello con cui una volta le sue sguattere la detergevano ogni giorno. Il sapone portava via la cenere, sbrogliava il dolore fino ai muscoli, scuciva il lavoro che la prigionia aveva composto in giorni e giorni. Il freddo saliva fino al soffitto, evaporato dalla sua pelle: non più peculiarità della sua carne, non più abitudine del suo cuore. Il risultato della sua resistenza le scorreva giù dal corpo, precipitando, gorgogliando, insieme al getto d'acqua che una delle ragazze lasciava scrosciare da una brocca sul suo capo. Forse che anche quella forza così faticosamente guadagnata fuggisse celere? No, non era possibile. Nonostante la temperatura dell'acqua avesse scaldato la pelle, il buio aveva impresso le sue cicatrici in quegli occhi dolenti. Quel potere sconosciuto al quale s'era appellata per sopravvivere pulsava come acciaio nuovo, e ci avrebbe pensato il vento del Nord ad irrobustirlo.
-Abbiamo finito.- sospirò una servetta, mentre l'altra accorreva con un telo ad avvolgere il corpo di Myrcella. La fanciulla si arrischiò ad aprire gli occhi, e quel che vide le fece socchiudere le labbra dallo stupore.
Il mondo era diventato... bianco. Tutto era così chiaro e definito... ma davvero la realtà aveva sempre avuto quella limpidezza, anche prima della sua reclusione? Da sempre gli occhi potevano cogliere quei dettagli, quelle minuzie, di cui aveva dimenticato l'esistenza? Davvero i colori erano così festosamente vividi, s'affermavano con tanta prepotenza agli occhi? E davvero osservare il mondo attentamente costava così tanta energia? C'erano troppe cose che s'accalcavano e s'imponevano alla vista.
Poi Myrcella guardò allo specchio. Una fanciulla di latte v'era disegnata, diafana ed eterea come un pensiero sfuggente, e le ci volle un secondo di troppo per identificarla come se stessa. Aveva occhi troppo chiari, d'un verde pallido, ed ella si chiese se per caso l'acqua saponata non l'avesse diluito; le braccia e le gambe erano lunghe, sottili, affusolate, aggraziate come la septa aveva sempre provveduto che fossero, e luccicavano imperlate di gocce d'acqua. Solamente il viso aveva un po' di colore sulle guance, ed era quello sbagliato. Rosso carminio, dolce e tranquillo. Myrcella scoprì che senza la sua maschera di cenere si sentiva vergognosamente esposta allo sguardo del mondo. E i capelli? Non avrebbe mai creduto che i suoi capelli potessero essere così belli. Lievi volute auree ricadevano morbidamente sulle sue spalle, ed erano così scoloriti e deboli che c'erano quasi da temere che il primo soffio d'aria li strappasse via, come petali di soffione.
Non si capacitava d'essere quella; non ci capacitava d'essere ancora quella. D'essere ancora così. E per un attimo ebbe paura, perchè quella assomigliava troppo all'altra Myrcella, la Myrcella pre-Rickon, pre-prigionia, la Myrcella che chiacchierava con Margaery e rideva con Tommen. Un tempo andava piuttosto fiera del proprio aspetto, seppur senza vantarsene: adesso vedeva soltanto una bambina vulnerabile che rispondeva preoccupata al suo sguardo inquieto, sotto ciglia bionde -e non nere. Le sembrava di trovarsi di fronte una vecchia conoscenza, che riportava alla memoria tanti ricordi, ma che avrebbe preferito non incontrare di nuovo. Scoprì di non riuscire più a sorridersi, e pensò che in fin dei conti non era una gran perdita. Era un sorriso compiacente, il suo. Un sorriso come tanti.
Era quanto di più grazioso avesse mai visto. Non di più bello, di più grazioso. Graziosa come un ninnolo inservibile, un accessorio superfluo. E quelle labbra -labbra spaccate dai morsi- si piegarono in una smorfia scontenta.
-Voglio vedere Rickon.- ripetè, questa volta a voce più alta, e le serve riconobbero in quel tono tagliente l'imperio di chi è abituato a farlo dalla nascita.
-Ci sarebbe un abito per te. Non preferisci indossarlo, prima?- domandò una, un po' più in soggezione.
La ragazza annuì con un cenno annoiato. Il vestito era semplice, più da meretrice che da principessa, ma aveva il suo fascino: le sottili spalline si allargavano gradualmente, fino a dividersi nelle due bande del profondo scollo a v, la sua linea era sinuosa e la gonna ampia. Era di colore giallo, squillante come un tulipano, con una cinta e intarsi sul petto color del bronzo, e il tessuto di cui era fatto era increspato, forse organza; lo sfolgorio del vestito attraversava i suoi boccoli, facendoli sembrare di vetro. Fu mentre le serve le stavano acconciando i capelli, che la porta si spalancò in maniera così irruenta da lasciar intendere che il colpevole potesse essere solo uno.
-Me l'avete trattata bene?- latrò quella voce, che tanto disperatamente la sua mente aveva cercato di riprodurre e trasmettere all'udito. E qualcosa d'inaudito accadde dentro di lei, uno spasmo, una tensione, una fitta, e lo riconobbe più prontamente di quando non avesse riconosciuto se stessa, sicuro e limpido così com'era nella cella, unico scoglio in quel mare burrascoso. Udire la sua voce risvegliò mille istinti in lei, che poi erano due, quello d'essere protetta e quello di proteggere; contraddittori, forse, ma dualità divina di quel sentimento che prorompeva dal suo cuore come un urlo insopprimibile.
Myrcella s'alzò in piedi e la gonna ruotò a ventaglio attorno alle sue ginocchia, con destrezza. E nei lineamenti, nel ghigno, nello sguardo di Rickon ritrovò se stessa, quella parte di sè di cui tanto aveva sofferto la mancanza, tremando nuda davanti allo specchio, la fanciulla che non aveva mai pianto di fronte a lui, che aveva avuto il terribile coraggio di dirgli ti amo, senza riuscire a capire come fosse possibile. Era strano. Era tutto tremendamente strano, ma spontaneo come il sorgere del sole. Quando la videro, gli occhi di Rickon rimasero per qualche istante ammaliati dal brillio riscoperto della sua carnagione, della sua chioma. Era preziosa, la piccola Lannister, quasi s'era scordato quanto. Un regale diadema le aveva adornato il capo per tanti anni, in fondo.
E non era solo preziosa, era bella da far male: soltanto occhi duri ed implacabili come i suoi potevano reagire davanti a quell'assalto.
-Rickon...- La fanciulla si precipitò contro il suo petto, premendovi la testa in segno di rifiuto, come se potesse così cancellare la realtà non solamente dalla propria vista, ma dalla propria vita.
-Non affezionarti troppo al vestito, mi raccomando. Tanto te l'ho fatto mettere per il gusto di strapparlo e basta.-
-Riportami giù.- sussurrò Myrcella con voce fievole. -Non mi piace qui.-
Rickon la strinse a sè, e anche questo era ormai un gesto immediato, opportuno. Così era, così doveva essere. -Giù? Vuoi tornare giù?-
-Torniamo giù, io e te. Io e te, da soli. Come prima.- ripetè Myrcella, scostandogli un ciuffo dalla fronte e guardandolo negli occhi con infantile intensità.
Rickon scrollò le spalle. -Non si può. Adesso dobbiamo andare alla sala del trono, per parlare con una persona. Poi verrai a dormire nella mia stanza. Con me.- spiegò conciso.
-Parlare...- sospirò Myrcella, al pensiero di incontrare altre persone che l'avrebbero giudicata con i loro occhi indiscreti.
-Persino a Bran uscirà sangue dal naso quando vedrà quella scollatura.- sghignazzò il ragazzo; quando Myrcella arrossì, aggiunse: -Avanti, era quello che volevi che ti dicessi, no? Che stai bene. E infatti stai benissimo, non c'è bisogno che te lo ribadisca, perchè lo sai. Però ti preferisco di gran lunga senza.-
La fanciulla rise e lanciò una veloce occhiata alle schiave, quasi a verificare la loro reazione. -Ma Rickon, cosa dici...-
Rickon la trasse ancora contro il proprio corpo, cingendo i suoi fianchi, finchè non aderirono quasi completamente. -Non fare la santarellina, adesso, tu!-
Un momento più tardi, le loro risate erano confuse l'una nell'altra. Allora Myrcella si accorse che qualcosa era davvero cambiato in lei, rispetto a prima: si accorse delle proprie cicatrici. Lunghi sfregi a percorrerle i fianchi, a deturparle la schiena, a decorarle le braccia come tatuaggi color del sangue, e che -Myrcella lo sapeva- scendevano anche più in basso, arrampicati sull'interno delle cosce. E il suo collo non più intatto, non più immacolato, ma violato dai denti di un lupo. Queste non le aveva, la Myrcella di prima, puntualizzò trionfante. I suoi erano timori infondati. A prescindere dall'apparenza, dall'aspetto, in quel petto v'era la Myrcella di Rickon. L'acqua bollente non l'aveva lavata via.
Si presero poco meno d'un istante per realizzare cosa stesse succedendo, cosa si fosse sviluppato fra loro, e poi il giovane Stark le porse la mano, a lei, una Lannister. -Andiamo?-
Myrcella l'afferrò fiduciosa. Un nuovo entusiasmo irrompeva nel suo sguardo. -Andiamo.-
Mentre si perdevano nei corridoi labirintici di Grande Inverno, assorti in un silenzio quasi trasognato, una voce li arpionò fermi dov'erano:
-Cosa ci fa lei qui?-
Dall'altra parte del corridoio Osha li fissava, indugiando sulla mano che Rickon aveva serrato al braccio di Myrcella e poi sulla prigioniera stessa, luminosa, calma, serena. Sul vestito nuovo che sostituiva gli stracci, sull'incarnato candido riemerso dalle croste di sangue e cenere. E ancora su quella mano.
Rickon le fece un cenno di saluto sbrigativo. -Siamo di fretta, andiamo da Bran. Devo dirgli che Myrcella viene in guerra con me.-
-Myrcella.- ripetè aspramente Osha, quasi con disprezzo, scoccandogli un'occhiata caustica. -Una volta era l'abominio biondo, e adesso è diventata Myrcella.-
Per qualche secondo, Rickon non rispose e parve quasi preso in contropiede, rendendosi conto di quel dettaglio -che tanto dettaglio non era- soltanto dopo che glie lo era stato fatto notare. Fortunatamente, un'altra persona giunse a salvarlo da tale imbarazzo.
-E così, tu sei Myrcella.-
La giovane Lannister si voltò, meravigliata. Non aveva mai avuto modo di conoscere personalmente quella che aveva sempre ritenuto -e continuava a ritenere- sua cugina, Shireen Baratheon, ma ovviamente aveva sentito parlare di lei e del suo aspetto. L'impatto fu sconvolgente: quello che gli occhi delicati della principessa Myrcella videro fu pelle guasta, squamosa, rattrappita, uno scempio irrimediabile che rendeva il suo viso mostruoso ed il suo sorriso un triste, grottesco scherzo del destino; ma fu con lo sguardo inscalfibile della prigioniera che la valutò, e non percepì altro che un'anima vittoriosa -che da quel destino infausto non s'era lasciata schiacciare.
Shireen avanzava con un'andatura quasi saltellante, e ad ogni passo le lunghe maniche a losanga dell'abito rosa salmone danzavano, in armonia con i gesti vivaci delle mani. I capelli mulinavano dietro le spalle, lisci e fini come una pioggia primaverile che l'alba baciava di rosso, di giallo, e trattenuti dietro la nuca da un cerchietto intarsiato -non cercava di nascondere quelle scaglie, la cui evidenza sarebbe rimasta lo stesso ineccepibile, ed anzi ancora più imbarazzante. La sua era una strana eleganza, ed il suo era un sorriso offuscato -come una flautata menzogna a cui, nonostante la disperante volontà di farlo, non si riusciva a credere mai del tutto. Shireen si fermò soltanto quando fu ad un passo da Myrcella, e il suo sorriso si fece ancora più largo.
-Mi avevano detto ch'eri bella, ma non immaginavo così tanto. Sei davvero stupenda!- considerò deliziata, un luccichio d'ammirazione nello sguardo, mentre le prendeva delicatamente una mano, la sollevava in alto e la invitava a fare una piroetta su se stessa. Myrcella sorrise incerta. -Molte grazie...-
A quel punto intervenne Rickon. -Stupenda,- concordò, sciogliendo le mani intrecciate delle due fanciulle ed impossessandosi nuovamente di quella della giovane Lannister, -ma non condivisibile.- concluse con un ghigno, mentre la attirava a sè. Il sorriso di Shireen non s'affievolì: piuttosto guardò il ragazzo con un'espressione eloquente, quasi gongolasse che ti avevo detto?
-Oh, non erano queste le mie intenzioni. Non mi permetterei mai.- lo rassicurò briosamente. -Soltanto, sono lieta d'incontrarla qui con te. Temevo che l'avresti tenuta là sotto per sempre. Perdonate la mia maleducazione. Ad ogni modo, io sono Shireen...-
-... principessa Shireen.- precisò Myrcella. -A questo mondo, bisogna avere ben chiaro il proprio posto.-
Si voltò speranzosa a cercare la reazione di Rickon con lo sguardo, sorseggiando l'approvazione come nettare, e si strinse sollecita al suo fianco -per mostrarglielo, guarda dov'è, il mio posto.
Forse fu allora che iniziò il cammino di Rickon verso quel perdono senza assoluzione, perchè in fondo doveva essere egli stesso a concedersi il permesso di farlo.
Quando si girò verso il corridoio in cerca di Osha, però, soltanto il vuoto rispose ai suoi occhi turbati.
***
Alayne Stone non aveva onerosi impegni durante la giornata, per cui avrebbe potuto benissimo prendersela comoda al mattino ed alzarsi tardi, però l'ora che le era più congeniale per alzarsi, vestirsi e passeggiare per Nido dell'Aquila era proprio l'alba. Probabilmente era una vecchia abitudine ereditata da Sansa, alla quale venivano imposti, per svegliarsi e compiere le consuete occupazioni mattutine, orari rigidi come il clima del Nord; ad ogni modo alle sei il sonno aveva già abbandonato le sue palpebre, e lei poteva alzarsi in punta di piedi, lavarsi nel catino in camera con brocche d'acqua calda preparate per lei dalle serve, posizionarsi davanti all'armadio per scegliere uno fra i suoi abiti di pacata, leziosa sobrietà, pettinare di buona lena e con metodo la lunga chioma del colore delle foglie autunnali, acconciarla in morbide trecce allentate e languide, ed infine uscire, sempre senza fare il minimo rumore sulla piastrelle di pietra, fresca e leggiadra come un'ombra.
Quel mattino le sue intenzioni erano le stesse. Appena pronta, voleva andare a controllare che le fosse stata recapitata la lettera con gli aggiornamenti circa l'esercito di re Tommen e ragionare sul da farsi; però a quanto pare il fruscio che produsse scostando le coperte fu un po' più rumoroso del solito, o forse era il suo sposo a dormire un sonno più leggero. Robin contrasse le palpebre e le sue sopracciglia scattarono ad incontrarsi, poi schiuse le labbra e mugugnò.
-Alayne...-
La moglie sorrise. -Sono qui, mio signore. Come ti senti quest'oggi?-
-Non lo so.- brontolò il ragazzo. Dormiva sempre a pancia in su, spesso senza vestiti, perchè la sera si lamentava di avere caldo; poi durante la notte gli veniva freddo, quindi si stringeva addosso le lenzuola. -Rimani con me, Alayne. Passiamo la giornata qui.-
Alayne ridacchiò. -Qui? Ma ci sono delle cose da fare...-
-Al diavolo le cose da fare! Sono il lord qui dentro, oppure no?- Tese il braccio, agguantò la sua sposa e la spinse di nuovo giù, sul materasso, accanto a lui. Poi, con un sospiro voluttuoso, si appoggiò al suo petto e riabbassò le palpebre. -È talmente bello stare con te. Molto meglio che parlare con quell'ammasso di idioti. A proposito, volevo parlarti di... di un certo argomento.- concluse titubante, slacciandole i primi bottoni della camicia da notte. Le guance di Alayne s'imporporarono appena.
-Dimmi pure, Pettirosso.-
-Tuo padre ti ha mai detto cose strane? Oppure ha espresso propositi balzani nei tuoi confronti?- domandò Robin, con grande sorpresa della moglie.
-Non capisco.- ammise. -Cosa intendi per strani e balzani?-
Robin rinunciò ai giri di parole. -Ha mai abusato di te?- chiese con calma piatta, mentre i suoi polpastrelli proseguivano ad armeggiare con i bottoni.
Alayne scoppiò a ridere incredula. -Che cosa? No, certo che no. Cosa te lo fa pensare?-
Petyr Baelish era decisamente un uomo troppo intelligente e raffinato per fare certe cose, e lei... lei non era più una ragazzina indifesa ed inerme. Non era più un uccelletto canterino. Che Robin avesse intuito l'attrazione che Ditocorto provava nei confronti di sua moglie?
-Le tette.- ribattè Robin. -Ti guarda di continuo le tette. Probabilmente lo fa così spudoratamente perchè pensa che io sia un cretino e non me ne accorga, ma ne ne accorgo eccome. Ogni volta che lo fa, mi viene una gran voglia di staccargli gli occhi.- borbottò, infilando una mano nella sua camicia da notte.
Alayne sorrise fra sè, simulando scetticismo. -Ti devi essere sbagliato, per forza... Mio padre è una persona perbene, non lo si può mettere in dubbio. D'altronde aveva sposato tua madre.-
Si era accorta delle attenzioni di lord Baelish dopo circa un anno di convivenza a Nido dell'Aquila. Era innegabile che provasse qualcosa nei suoi confronti, probabilmente per via della somiglianza con Catelyn: era un po' inquietante, anche un po' triste, però non poteva fare a meno di esserne lusingata. La timidezza la lasciava a Sansa Stark, quella ragazzina sempre pudica e vergognosa. Alayne era una donna, ed in quanto tale la corte degli uomini, così come la loro lussuria facile, non la spaventava più.
-Anche tu mi dai del cretino, allora?- s'offese Robin, lanciandole un'occhiata indispettita. -Non erano certo occhiate fraintendibili. Mi stupisco che non te ne sia accorta tu stessa... Però tu sei mia, solo mia, e nessuno ti deve guardare, a parte me. Ormai non sei più di tuo padre. Non ne ha il diritto.-
Dopo quel petulante ribadimento, il lord di Nido dell'Aquila cominciò a percorrere maliziosamente l'indice lungo la linea dei suoi seni.
-Sì,- sussurrò Alayne, docilmente, socchiudendo gli occhi al suo tocco, -mio signore.-
Robin sorrise, con aria d'approvazione. I suoi occhi castani ammiccarono d'un lucore umido. -Ti tengo quassù nascosta, al sicuro, eppure mi chiedono lo stesso di te. Come ieri...-
Alayne cercò di rimanere lucida abbastanza per porre la domanda che in quel momento le stava a cuore, anche se suo marito le stava strofinando un capezzolo tra le dita.
-... ie... ieri? Non mi... non mi hai detto nulla, mio Pettirosso...-
Lui non parve molto interessato alla questione e tagliò corto. -Un artista, abbastanza famoso nella Valle, chiedeva di poterti fare un ritratto. Un ritratto! Che sfrontatezza! E non un ritratto che rimanesse qui, a decorare il nostro salone, ma da portare giù, a mostrarlo a tutti... La tua bellezza andrebbe celebrata, sono d'accordo, ma sono troppo geloso di te per permetterlo. Ho fatto bene a mandarlo via, vero?- Sollevò lo sguardo fino ad incontrare quello di Alayne, che si affrettò ad annuire.
-Ma ce... certo, mio signore...-
Intanto ragionava fra sè: le pareva strano che un artista qualunque venisse così dal nulla a chiedere di poterla ritrarre. Di solito i pittori bisogna ingaggiarli. Che ci fosse dietro lo zampino di qualcuno? Beh, il pericolo era stato comunque scampato, per fortuna. Finchè Robin avesse rifiutato di far dipingere il volto di sua moglie, nessuno, fra le poche persone che l'avevano vista o conosciuta in quell'altra vita, poteva ricondurre la misteriosa lady Protettrice della Valle alla fuggitiva figlia di Eddard Stark. Però era angosciante l'idea che qualcuno potesse interessarsi a svelare la sua identità... In tal caso, cosa sarebbe potuto succedere?
-Dicono che la guerra è incominciata. Che i preparativi sono conclusi e gli eserciti stanno per scontrarsi.- commentò Robin, pigramente. -Quelle donnine scalognate sono lì, a rischiare che i loro figli e mariti non tornino a casa e che i loro villaggi vengano rasi al suolo dal nemico, a patire la fame, e tu sei qui con me in questo grande castello, e avremo un bel bambino che si chiamerà Artys Arryn, come il Cavaliere Alato. Siamo fortunati ad averci l'uno per l'altra, vero Alayne?-
La ragazza sorrise, intenerita da quelle parole. -Naturalmente, amore mio.-
Sentirsi chiamare amore mio doveva piacergli davvero molto, perchè affondò le dita nei suoi capelli e la baciò con impeto. Alayne, mentre lo circondava con le braccia, si chiese quanto si sarebbe infastidito Baelish a vederli, in quel momento, ed una strana eccitazione la pervase. Povero il mio piccolo maritino inconsapevole, pensò -e non poteva immaginare che Robin, alla luce delle nuove considerazioni, cominciava effettivamente a sospettare che le origini di Alayne non fossero quelle che gli erano state riferite.
E non poteva immaginare nemmeno che quel rifiuto del ritratto, che a suo parere era stato la sua salvezza, l'aveva calata in un nuovo tunnel di guai.
***
-Questa è la parte più diverte dell'architettare strategie contro il nemico.- Tyrion Lannister giocherellò lieto con un calice di vino. -Valuti il suo esercito, e scopri che potrebbe essere più numeroso del tuo. Indaghi le sue capacità, e scopri che è un metamorfo dallo sguardo assassino. Sbirci nel suo letto... e per lui è finita.-
Aveva sempre saputo che la prima debolezza di un uomo è quella della sua carne, ma non avrebbe mai immaginato che anche gli Stark potessero essere soggiogati dalle grazie della concupiscenza. Gli Stark, che adempiono sempre al loro dovere con lo stesso zelo con cui pregano i loro dèi senza dolcezza. Ma avrebbe dovuto aspettarselo: tutto era cambiato, tutti erano cambiati. Nella luce obliqua di quel pomeriggio nervoso, era ancora più vero. Era stata Shae a rivelargli quello che nelle bettole si raccontava del Re Metamorfo, e gli era stato sufficiente approfondire un po' la questione per avere un chiaro quadro della situazione. Tyrion non aveva mai imparato dall'esempio di Tywin Lannister: se il padre al posto suo si sarebbe concentrato su schemi bellici e previsioni lungimiranti quanto inutili, il Folletto preferiva studiare l'avversario ed indagare i suoi punti deboli, smontando l'epicità della sua figura pezzo per pezzo.
-A quanto pare, il nostro tenero re del Nord si fa il cognato che, guarda un po', si dice abbia doti profetiche. Sono piuttosto scettico al riguardo, certo, però se esistono loschi individui che uccidono con la forza della mente, esisteranno anche gli indovini. In tal caso sarà necessario scoprire quanto efficaci siano, questi poteri, perchè se arrivasse a prevedere le nostre mosse saremmo nei guai fino al collo. Intanto, ciò che conta è screditare Stark e rovinarlo agli occhi del popolo, magari levandogli anche qualche alfiere qua e là, il che non sarebbe affatto male...-
Tommen Baratheon si agitò scomodamente sullo scranno che gli era riservato nel Concilio Ristretto, tormentando con le dita il lungo orlo d'una manica di seta cruda. Lo sapevano i Sette Dèi, quanto odiasse rimanere confinato in quelle mura muffose a parlare di efferati omicidi e brogli strategici, circondato da vecchi avidi e menti calcolatrici. Una strana gravità buia s'opponeva al suo buonumore, come se la sola decisione di andare alla guerra volesse invecchiarlo, comprimerlo al suolo, violarlo, privandolo d'una verginità morale che aveva mantenuto fino a quel momento. Ma a lui non interessavano per nulla i dissapori e i complotti, voleva soltanto riavere indietro Myrcella: pensando ad un'eventuale vendetta, era l'acuta stizza verso Rickon Stark a punzecchiarlo, perchè contro Bran Stark non aveva nulla; anzi, ricordava bene quando all'epoca il piccolo Stark aveva avuto quel brutto incidente, quanta pena egli aveva provato per quel bambino inchiodato a letto, avvolto fra le lenzuola come in un sudario. Ridatemi mia sorella e vi lascerò in pace, avrebbe voluto urlare Tommen, a voce così alta da farsi udire dall'altra parte dei Sette Regni; la sua era forse vigliaccheria? Non era la paura per la sorte che l'attendeva a frenarlo, quanto l'idea di stare trascinando la propria famiglia in una faida dalla quale era appena uscita, vincitrice ma zoppicante, di danzare invocando la pioggia non appena s'intravede il sole all'orizzonte. Aveva già vissuto una guerra, sebbene dietro paraventi d'oro, e ricordava cosa significa per il popolo: tasse ingenti, quindi miseria, quindi fame e morte. Famiglie decimate, donne obbligate a prostituirsi, frotte di orfani che si contorcevano per i crampi allo stomaco. Non era a queste condizione che voleva regnare, Tommen.
-Non capisco cosa possa importarci, zio,- ammise infine, quasi tristemente, -e cosa possa importare a tutti gli altri.-
Tyrion incise gli occhi limpidi di suo nipote, e si chiese quanti morti avrebbe dovuto seppellire per scoprire che cos'è l'odio. Non capiva, il giovane Tommen: il problema era proprio questo. Non concepiva l'iniquità perchè non si era mai trovato nella situazione di doverla assoldare per i propri servigi, sfruttare per i propri fini, generare per al propria salvezza. Se il popolo non si era accorto che a sedere sul Trono di Spade era un grazioso soprammobile di porcellana, era soltanto per merito di Tyrion. Ma chi potrebbe mai riconoscere i meriti di un nano deforme?
Mi detesterà. Devo traviare una delle poche persone disposte a volermi bene, e per di più indurla a detestarmi con tutte le sue forze, perchè l'ho derubata d'un sogno.
-Lo sai come si definisce l'operazione che ho intenzione di mettere in atto? Detrazione, e ha uno scopo ben preciso, che è quello di persuadere la folla a disconoscerlo come sovrano. Come possono gli uomini del Nord farsi guidare da un piccolo frocetto rachitico? Come si può ritenerlo degno del suo trono? Come si può ascoltare le sue proteste, accogliere la sua rivolta? Queste sono le domande con cui verrà assillato il popolo dei Sette Regni, da adesso in poi. Vedremo con quanta baldanza irromperà ai tornei e sguinzaglierà il suo fratellino mangiauomini, dopo che nessuno potrà schierarsi dalla sua parte senza beccarsi l'accusa di portarselo a letto.- concluse, inarcando un sopracciglio.
-Non sono d'accordo. Mi sembra una cattiveria inutile.- confessò Tommen, a disagio. -Lo so, è strano che Stark preferisca un maschio a sua moglie... ma cosa c'entra? Ciò non significa per forza di cose sia inferiore agli altri. Io, poi, non mi sento in diritto di dir nulla a nessuno...-
Tyrion dovette trattenersi dallo sbuffargli sonoramente in faccia. Quel ragazzino non aveva la più pallida idea di cosa fosse non solo l'astuzia opportunistica, ma persino la dignità reale, la fierezza della corona. Dovette prendere un bel respiro, prima di iniziare il discorso con tono pacato e conciliante.
-Caro nipote, sono assolutamente d'accordo con te. Non è in base a chi ci portiamo a letto che viene determinato il nostro valore. Però tu non devi pensare più di tanto al contenuto della missiva, quanto al destinatario. Il popolo è ignorante, tradizionalista, restio ad accettare la diversità, limitato nelle sue anguste convinzioni plebee, e soprattutto suggestionabile. Si lascia influenzare da qualsiasi cosa un regnante affermi: è irrilevante ciò che tu pensi di te stesso, perchè il popolo ha già una precisa opinione, cioè che, oltre a vantare tutti quei graziosi riccioletti dorati, hai sangue di re nelle vene e per questo hai sempre ragione, a prescindere dal messaggio che comunichi. Se tu screditerai apertamente la sua condotta amorale e perversa, di conseguenza tutti saranno portati a screditarla a loro volta, o almeno a prendere in considerazione la faccenda. Insistendo su questo punto riusciremo sicuramente ad ottenere dei risultati, anche perchè tutti sanno che non si tratta di calunnie ma della pura verità.- Non appena notò l'espressione confusa di Tommen, niente affatto confortato da quelle parole, Tyrion sbattè i palmi delle mani con un tonfo su tavolo, per dare enfasi a ciò che stava per dire, con voce spazientita. -È fondamentale che tu capisca questo: l'obiettivo non è rispettare la sensibilità di Bran e comportarsi onestamente, non è spargere petali di pace e solidarietà e dichiarare ciò ch'è giusto. Non siamo bravi bambini che giocano insieme. Brandon Stark non vuole fare soltanto un po' di rumore, abbattere qualche soldatino a cui erigere un monumento, per poter essere dimenticato senza troppi rimpianti. Vuole scaraventarti giù dal trono, stuprare tua moglie, sbrindellare tuo figlio e annegare nel sangue la tua stirpe. Davvero pensi che sarebbe proponibile ignorarlo, dargli un contentino, firmare un accordo e spedirlo a casa?! Ormai è troppo tardi per la diplomazia! L'unica cosa che puoi fare è difenderti attaccando, perchè è questo che fanno i re. Bisogna vincere a qualsiasi costo, Tommen, annientarlo in qualunque modo. Calunniarlo senza riguardi. Spargeremo la voce che si fotte anche il fratello cannibale, se servirà a distruggerlo.- Pur essendo quasi senza fiato, per ultimo Tyrion fece leva su ciò che sapeva stargli più a cuore. -Insomma, vuoi che Myrcella venga liberata, sì o no?-
Vide l'espressione angosciata di Tommen e i suoi sospetti si avverarono: quelle proteste erano alibi qualunque. Era alle fauci dello spettro della guerra che il giovane re si stava negando. In fondo, era ben determinato a non farselo strappare così, quel sogno. Quando egli parlò ancora, la sua voce era diversa: pallida, sfibrata.
-Fra poco avrò un figlio, zio Tyrion. Per lui e Margaery voglio la pace, non la guerra. Voglio essere felice con loro e basta. È chiedere davvero troppo?-
Supplicante era quello sguardo, e Tyrion s'apprestò a piegarlo sotto la calma crudele della sua pronta risposta.
-No, non è chiedere troppo, in effetti.- asserì meditabondo, annuendo fra sè, quasi che valutasse seriamente la situazione per la prima volta. -Se sei un fabbro, un falegname, beninteso. Per un re?- Gli occhi di Tyrion calarono come una scure sul viso sconsolato di Tommen, con inesorabile lentezza. -Per un re, è chiedere l'impossibile.-
Nel frattempo, nelle proprie stanze, Margaery Tyrell attendeva un responso. Coricata sul vermiglio letto a baldacchino dove quello stesso erede era stato concepito, osservava con visibile inquietudine ogni movimento eseguito dalle mani della levatrice, che l'avrebbe assistita quando avrebbe dato alla luce suo figlio; la donna le palpava garbatamente il ventre, cercando d'indovinare con le dita la forma del piccolo.
-Vi riposate a sufficienza?- domandò infine.
-Ovvio.- rispose la regina, sentendosi quasi insultata dal fatto che potesse essere insinuato il contrario.
-Mangiate abbastanza?-
-Ma certamente. E anche con grande varietà.-
-Mi sembra che sia tutto regolare, mia signora.- decretò infine la levatrice, perplessa. Margaery battè le ciglia, contrariata.
-Come può essere tutto regolare? Provo dei dolori particolarmente forti, quando scalcia, che mi tolgono il respiro, a volte mi fanno urlare. E lo fa così rapidamente... in successione, senza fermarsi. È un dolore anomalo, che non avevo mai provato durante il resto della gravidanza. Eppure non ho perdite di sangue, nulla che lasci presagire una... complicazione.-
-Tutto va come deve andare.- la rassicurò la donna, con un sorriso. -È naturale che, a così breve distanza dal parto, il bambino si agiti come mai prima. I dolori che avvertite sono soltanto un buon auspicio, indicano che è forte. Sta assumendo la posizione più opportuna per venire al mondo. Rilassatevi, Maestà: tutta quest'ansia non può che danneggiarvi.-
Nonostante le consolanti parole, Margaery s'accorse che c'era qualcosa che non convinceva del tutto la levatrice.
-Non posso provvedere in nessun modo?- insistette.
-Muovervi il meno possibile e prendere qualche decotto per rilassarvi, sono le uniche raccomandazioni che mi sento di rivolgervi.-
Detto questo, la donna l'aveva lasciata sola con le sue ancelle. Margaery si alzò faticosamente in piedi, puntando di riflesso una mano sulla schiena per stabilire l'equilibrio, l'altra con precauzione sulla cima del ventre alto e sodo, a colmare l'abito marrone, impreziosito da arabeschi in oro.
-Voglio che mi vengano confezionati almeno due vestiti più larghi: questi sono già diventati troppo scomodi. Preparatemi un infuso di tiglio, biancospino e lavanda, come ieri, e... un bagno caldo.- decise sospirando. Aveva dovuto fare gli onori di casa e partecipare ad un banchetto, quella mattina, sforzo che si era rivelato fin troppo spossante per lei. Ma non avrebbe potuto mancare: una brava giocatrice non abbandona mai l'attenzione dalla scacchiera, specialmente quando sa che si presenterà l'occasione di tramare qualche sviluppo. Il suo bambino non glie l'aveva perdonato, però. Un giorno capirai, pensò Margaery, dando un buffetto affettuoso alla pancia, e sarai tu a partecipare a questo gioco al posto mio.
Prima che le serve potessero correre per obbedire agli ordini,
-Maestà, lord Varys chiede d'essere ricevuto da voi. Siete in condizione di farlo?- domandò una ragazza.
Margaery chiuse gli occhi e si massaggiò velocemente le tempie. Assolutamente no, che non ne era in condizione, ma sapeva bene che rifiutando avrebbe perso l'occasione d'un colloquio molto interessante. -Fallo entrare, Millicent.-
Il Maestro dei Sussurri fu annunciato come al solito dal sospiro delle sue babucce di seta sul pavimento di marmo.
-Permesso. Salve, Maestà: siete sicura che la mia visita non vi abbia importunata?-
-Come potrebbe?- si limitò a sorridere Margaery, con un ampio cenno della mano. -Siediti, ti prego. Voi sapete cosa dovete fare.- si rivolse poi alle ancelle, che uscirono in gran fretta.
Quando rimasero soli, Varys intrecciò le dita sotto i vasti orli ricamati della tunica; il suo viso liscio aveva un'espressione bonaria, serafica, appena un po' ironica.
-Come sta il nostro tanto sospirato erede? In città non si parla d'altro che della sua nascita. Si mormora che per festeggiarla verrà indetto il banchetto più sontuoso a memoria d'uomo, che verrà dimenticato lo stato di guerra e la difficoltà economica, che non si baderà a spese. Ormai la guerra è alle porte della città e di ciascuna delle nostre case.-
-Così pare, mio buon Varys. Non si può più fare finta di non vedere cosa sta accadendo. Ci hanno trascinati sul patibolo d'un conflitto inevitabile. Ora che il nostro buon sovrano vuole partire, poi, le preoccupazioni aumentano giorno per giorno. - commentò Margaery, mostrando in volto una costernazione che non provava. -Comunque l'erede gode d'ottima salute, e ben presto tutti potranno ammirare il banchetto con i loro occhi. Non sarà un banale ricevimento per aristocratici: la festa dev'essere tale per tutti gli abitanti di Approdo del Re, e ugualmente il banchetto.-
-Nessuno dubita della vostra innata generosità, Maestà. Nonostante il riposo a cui siete costretta per via del vostro stato, però, non mi sembra che abbiate cessato d'ordire nuove trame per questo nostro tribolato regno. O mi sbaglio?- Varys la rivolse quel suo sguardo di caustica, carezzevole, benevola beffardaggine. -Certi uccellini mi hanno riferito che avete inviato una lettera, di recente, ad Alto Giardino... a vostro fratello Garlan, magari?-
Margaery esaminò l'ameno sorriso di Varys, imprecando mentalmente. Come accidenti aveva fatto a saperlo? Quell'eunuco a volte la esasperava sul serio. Come sempre, nascose impeccabilmente il proprio allarmato sconcerto dietro una maschera di sogghignante tranquillità: l'importante non è avere perennemente la situazione sotto controllo, ma far credere agli altri di averla, così le aveva insegnato sua nonna Olenna.
-Sono stata a dir poco sciocca a credere di poterti tenere nascosto qualcosa.- replicò con voce leggera e divertita. -Ebbene sì, Garlan ci farà questa sorpresa. Ci verrà a trovare e mi starà accanto, durante l'assenza di mio marito... È stato un bel gesto da parte sua.-
Varys scosse la testa, con un'espressione quasi intristita. -Mia cara regina, non temete per la vita di vostro figlio? Come tutti i giochi a cui giocate, questo è pericoloso, ed in particolar modo. Potreste essere accusata di cospirazione, di tradimento, potreste essere addirittura ripudiata. Credete forse che non desterà sospetti l'arrivo di un esercito proveniente da Alto Giardino che non partirà con re Tommen, ma si stabilirà ad Approdo del Re?-
-L'esercito ci serve, obiettivamente. Sì, sono necessarie tutte le truppe a disposizione per questa guerra, non lo metto in dubbio, però anche la capitale va protetta. La sede del potere dev'essere premunita adeguatamente. La venuta di mio fratello verrà interpretata come un servizio a favore del re.- argomentò Margaery, inquieta, ed entrambe le sue mani corsero a cullare il ventre prominente. -Il mio bambino starà benissimo. Non permetterò che gli accada alcunchè, soprattutto non per colpa mia. Sono sua madre. È crudele da parte tua credere che farei qualcosa per metterlo in pericolo.-
Sarebbe stato un insediamento graduale, subdolo. Prima uno dei loro uomini sarebbe diventato Capo delle Guardie, poi un cugino Maestro del Conio, un altro Maestro della Flotta, e infine Garlan Mano del re. Le loro intenzioni non sarebbero state comprese, se non troppo tardi: alla Fortezza Rossa non sarebbe rimasto un solo Lannister.
-Non era assolutamente mia intenzione offendervi.- ribattè Varys, condiscendente, con un sorriso affabile. -Il mio voleva essere un avvertimento. Mi stavo accertando che voi sappiate quel che state facendo, ma a quanto pare vi ho sottovalutata, perchè come sempre è così. Mi sta a cuore la vostra salvezza, mia regina. Sarebbe un vero peccato se mandaste in fumo tutto quanto per l'ambizione della vostra famiglia.-
Margaery incontrò suo marito alcune ore dopo. Tommen aveva gli occhi cerchiati di nero e le pupille arrossate, un bambino costretto a sostenere sulle spalle tutta la consapevolezza mancata negli anni in una volta, aggrappato ai brandelli di una scenografia bucata, attraverso la quale la realtà si faceva largo come un mostro da sotto il letto.
-Quando?- domandò la regina.
-Fra tre giorni. Mi dispiace.-
-Lo so.-
Secondo il volere di Tyrion, che ritenne ovviamente indispensabile seguire il nipote, Margaery sarebbe stata regina reggente durante la loro assenza, affiancata però -così che la poverina non si stanchi troppo- da Podrick Payne, come sostituto ufficiale della Mano del Re, in assoluto una delle persone di cui Tyrion si fidava di più. Certo, non è provvisto di quella furbizia malevola che permette di avere il potere qui dentro, ma proprio perchè non l'ha so che mi posso fidare. Salutando il Folletto, Margaery gli rivolse un meraviglioso sorriso: d'altronde, a Margaery Tyrell non serviva che il proprio sorriso per odiare. Me lo rigiro come un calzino, il tuo amichetto, bisbigliavano le sue labbra incurvate.
E tre giorni dopo, un elmo dorato calato sul volto per non mostrare gli occhi colmi di lacrime, rallentato dall'urna delle ceneri del suo paradiso bruciato, Tommen Lannister venne inghiottito da quel mondo vorace che, là fuori, non aspettava altro che di poterlo divorare.
***
Rickon osservò per bene i volti di tutti i presenti, quello corrucciato ed altero di Selyse Florent, quello truce ed adombrato di Stannis Baratheon, quello guardingo e compassato di Jojen Reed e quello aggrottato ed impensierito di Meera, fino a soffermarsi su suo fratello.
Fece un passo in avanti. -Sposerò Shireen Baratheon.- scandì a voce alta e chiara.
Gli occhi di Bran sussultarono e la sua espressione rimase sospesa in uno stupore immobile. -Siano ringraziati gli dèi...-
-... ma non prima del nostro ritorno dalla guerra.- Rickon completò la frase, quasi compiaciuto all'idea di strappare dalle mani di Bran una falsa speranza.
Il re del Nord subito s'afflosciò sotto il peso di quell'ultima affermazione. -C'era da aspettarselo. Ho cantato vittoria troppo presto.- deplorò sè stesso con una smorfia di disapprovazione.
Stannis Baratheon scattò, impermalito, avanzando di qualche passo. -Gli accordi non erano questi!- sbottò d'un fiato.
-Gli accordi li stabilisce chi ha l'esercito, quindi, se non ti sta bene, ti conviene rivolgerti a quell'altro re disposto ad allearsi con te, offrirti un milione di uomini e piazzarti sul Trono di Spade...- Rickon assunse un'ironica espressione di sorpresa, come rammentasse qualcosa all'improvviso. -Oh, aspetta, non esiste.-
-Gli accordi li stabilisce chi ha l'esercito,- ripetè Bran, digrignando i denti, -e l'esercito ce l'ho io, non tu.-
Rickon s'irrigidì e battè un piede sul marmo del pavimento con impazienza. -Quindi stiamo parlando del mio matrimonio, e non dovrei avere nemmeno voce in capitolo?! Che cosa vi costa accettare l'unica condizione che chiedo?- s'esasperò.
-Il matrimonio fra te e Shireen mi dimostrerà che mi posso fidare a scendere in campo dalla vostra parte.- tagliò corto Stannis, sferzante. -E non sono disposto ad accettare nessuna condizione su questo punto.-
-Anche se la cerimonia verrà celebrata al termine della guerra, sarà la stessa cosa.- insistette Rickon. -Adesso Shireen rimarrà a Grande Inverno come ospite, e le nostre famiglie saranno lo stesso legate dal vincolo del fidanzamento. Uno Stark non infrangerà mai le leggi dell'ospitalità. Per chi diamine ci avete preso, per i Frey?!-
Stannis Baratheon ridusse gli occhi a due fessure. La sua espressione era imperscrutabile; impossibile ipotizzare cosa pensasse a proposito.
-Allora ti rivolgo la stessa domanda. In che modo dovrebbe fare differenza, per te, sposare mia figlia adesso o dopo la guerra?- domandò freddamente.
Rickon parve già aver pensato all'eventualità di tale richiesta e ad una replica appropriata. -Innanzitutto, sarebbe un matrimonio organizzato alla bell'e meglio, in tutta fretta, e non ci sarebbe nemmeno il tempo per festeggiare come si deve, così come non ce ne sarebbe per adempiere ai nostri doveri coniugali. Come si può brindare e fare bisboccia, all'idea che il giorno dopo partiremo per una guerra? È di pessimo gusto. Il principe di Grande Inverno e la regina dei Sette Regni meritano qualcosa di meglio che uno stringato ricevimento imbandito in preda alla malinconia generale, non credete?-
Lo sguardo di Rickon si fermava su Selyse, perchè egli la sapeva la più riluttante da questo punto di vista. Essendo la madre della sposa, avrebbe naturalmente desiderato per la sua unica figlia un matrimonio straordinario, in pompa magna, carico di fasto e lusso, e avrebbe desiderato progettarlo con calma e dovizia di particolari, curarlo sotto ogni aspetto, invitare lord e lady da tutti e sette i regni, e soprattutto avrebbe voluto che per Shireen fosse il giorno più bello della sua vita, non un ansioso rituale recitato a voce bassa e frenetica, l'ombra della guerra a sibilare il suo fiato gelido sulla nuca degli invitati, essa stessa ospite e commensale. E quale madre avrebbe sopportato l'idea che la figlia venisse sposata, sverginata e abbandonata per mesi, nella peggior ipotesi per anni?
Rickon rincarò la dose, con un sorriso subdolo. -Non sarebbe inoltre significativo se il matrimonio fosse celebrato nella Fortezza Rossa, anzichè in questo vecchio maniero pieno di spifferi, dimenticato dagli dèi, per dimostrare al popolo che la vera dinastia dei Baratheon ha conquistato il trono e che il palazzo di Approdo del Re è la sua casa? Per farsi acclamare ed osannare dalla folla? Per bene augurare quest'unione e coloro che vi regneranno dopo di noi?-
Selyse Florent era incantata dall'immagine che le parole del ragazzo stavano proiettando nella sua mente. La Fortezza Rossa, grande, magistrale, e Shireen che ne percorreva la navata, con quel vestito dorato indosso e la cappa con ricamato il cervo dei Baratheon sulle spalle...
Evidentemente, Stannis aveva inteso il gioco del giovane Stark; stava contraendo la mascella in una maniera tale, da evidenziare il fatto che tutti quei trastulli non l'avevano smosso di un centimetro dalle sue convinzioni. Anche Bran dal suo scranno pareva piuttosto scettico.
-Bene, e adesso abbi il coraggio di dire con la stessa sfacciataggine qual è il vero motivo per cui vuoi sposarti dopo invece che adesso.- ribattè, lo sguardo torvo. Lo sapeva benissimo, lui, qual era. Rickon accolse la sfida e sorrise.
-Se proprio ci tieni. Fatela entrare.- ordinò, voltandosi verso le guardie schierate davanti alla porta. Quando le due ante si socchiusero, la sagoma di Myrcella si stagliò sulla soglia e la fanciulla procedette nel salone riecheggiante. Pur essendo visibilmente debilitata dalla prigionia, il forme del suo corpo colmavano il vestito giallo come avrebbero dovuto fare, e c'era qualcosa di morbido nella sua figura sinuosa, nella linea dei fianchi e persino nella distensione del viso. Camminava come in stato d'incoscienza ed il suo sguardo s'orientava fisso su un'unica persona, senza degnare della minima attenzione tutti gli altri. La sua presenza lì sembrò a tal punto inverosimile da paralizzare i presenti, come un'apparizione spettrale. Il vento del Nord rese ghiaccio i loro respiri.
-Come hai potuto portare al nostro cospetto questa sgualdrina?- strillò Selyse, indispettita, evitando bellamente di guardare Myrcella e rivolgendosi furibonda a Rickon.
-Non è una sgualdrina qualsiasi.- replicò lui, beffardo. -È la mia sgualdrina. Mia e mia soltanto. È stata con me e nessun altro, in fin dei conti. E il motivo per cui sposerò Shireen dopo la guerra è che per tutta la durata della campagna militare voglio sbattermi la qui presente a piacimento, senza che mi rompano le scatole.-
Per quanto riguarda Myrcella, quando fu stretta al fianco di Rickon, sfiorò appena con gli occhi verdi la corte ed affondò il viso contro il mantello di lui, con un lamento sottile, senza dir nulla nè dar segno d'ascoltare quel che si stava dicendo.
Bran inclinò pesantemente il capo sulla spalla destra. -Significa che hai intenzione di portartela dietro?-
Le labbra denudarono il bagliore rossastro dei canini triangolari. -Certamente.-
Il re del Nord tacque. Non gli sembrava una grande idea, perchè sarebbe stato per Tommen un ulteriore incentivo ad attaccare i loro accampamenti, però discutendone con Rickon avrebbe ottenuto il solo risultato di farlo arrabbiare ancora di più. La fanciulla notò lo sguardo di Bran scivolare sulla sua pelle, contando le cicatrici: erano forse abbastanza? Sempre troppo poche, fu il verdetto ch'ella lesse in quello sguardo, scuro come sangue asciutto.
Stannis non battè ciglio, ignorando il rossore furioso che investì il viso della moglie. -E quando la guerra sarà vinta e dovrai sposarti, che ne sarà di lei?-
-La sacrificherò agli dèi sulla pira funebre di suo fratello e suo nipote e suo zio e suo padre.- rispose Rickon, senza alcuna esitazione, con un sorriso così godurioso ch'era evidente quanto fosse fiero della propria idea; la fanciulla non reagì nemmeno, piccola ed immobile, accasciata sulla spalla del suo aguzzino come se avesse perso i sensi.
Senza riuscire a trattenersi ulteriormente, la regina Selyse s'alzò in piedi con uno scatto nervoso. Si rivolse a Stannis, con un'ostilità difficoltosamente controllata perchè infiammabile.
-Mio signore, non ho nessuna intenzione di dare nostra figlia in pasto a questo barbaro del Nord che si accoppia con i Lannister. Non permetterò che condividano il talamo dopo che lui ha toccato quella... quella... cosa.- Una smorfia altezzosa le arricciò le labbra in maniera sgradevole e la donna sputò quell'ultima parola come una bestemmia. -Ho sentito dire in giro che, dopo aver ammazzato le persone, il futuro re di Westeros le divora intere... con le viscere, l'intestino e tutto.- Selyse indicò Rickon con l'indice e lo guardò con occhi spalancati dall'iracondia. -Osi forse negarlo?- lo incalzò stridula, graffiante. Il ragazzo sorrise saldo, come se vi potesse cogliere un umorismo agli altri sconosciuto.
-Lo nego. Di solito, quando le mangio, sono ancora vive.-
Bran contrasse le labbra. Se questo era il tuo intento, Rickon, bel tentativo. Ma non servirà a nulla.
-Basta così!- proruppe infatti Stannis, un lampo d'irritazione ad intaccare la freddezza dello sguardo. -Selyse, non tollero d'udire una parola di più su questo argomento. Shireen lo sposerà, barbaro o non barbaro. Lo sposerà...- La frase rimase sospesa nell'aria, come se l'incertezza la trattenesse ancora con dita fragili.
-A qualsiasi condizione?- s'incaponì Rickon, con un sorriso soddisfatto.
-Rickon, andiamo via.- irruppe all'improvviso Myrcella, con voce acuta, scuotendo la testa premuta al petto del ragazzo. Nella sala calò un silenzio scontroso.
Stannis fissò il principe di Grande Inverno con i suoi impietosi, distaccati occhi marroni. -Quel che mi stai costringendo a rammentarti è che non è certo che tu sopravviva, Stark. Anche per questo, sarebbe auspicabile che sposassi Shireen ora.-
Rickon liberò una risata sfrontata, agguantando Myrcella. Mentre procedeva verso la porta, le parole esplodevano stridendo dalle sue labbra come frammenti affilati.
-In tal caso il matrimonio sarebbe l'ultimo dei tuoi pensieri. Perchè se io non sopravvivrò, allora nessuno in questa stanza avrà speranza di farlo.-
Appena le ante si richiusero alle loro spalle, Myrcella tirò un sospiro di sollievo. Quel rumore in sottofondo era così fastidioso, le incuteva un timore viscerale, come se quel ronzio incombesse per ghermirla e strapparla dal suo rifugio. Voleva silenzio, lei, il silenzio esatto del suo isolamento senza eccezioni; voleva che soltanto la voce roca di Rickon sfiorasse il suo collo, indistinguibile dalla carezza delle sue zanne, e voleva che il buio richiudesse il loro piccolo mondo segreto che nessuno poteva violare.
-Dì un po', non sei contenta, che ritroverai tutti i tuoi familiari su una pira?- ironizzò Rickon. Le unghie nella sua carne affondavano con bonaria vivacità, senza risentimento, come se stesse punendo un piccolo animale domestico. Voleva che si spaventasse, almeno un po'.
-L'inverno prende ma non restituisce.- Il sorriso di Myrcella, una promessa insonnolita dal buio, era sicuro come il sole d'un mondo eletto. Gli artigli del lupo rasparono con l'avidità ingorda della sua rabbia senza lenimento, quella stizza sogghignante che esplodeva negli occhi con la follia dei cicloni. La morsa del predatore, meno di un monito, un'esibizione ingloriosa.
-Attenta, Lannister. È un dio volubile, quello a cui ti stai votando.- La sua voce, strascicata d'irrisoria minaccia, era un'altra lama a toccarle la gola piano, piano, io posso ucciderti quando voglio. La fanciulla non capì se l'aguzzino si stesse riferendo alla buona sorte, al presente, all'infatuazione, al proprio umore o a se stesso, ma di certo quelle parole erano vere.
Da allora, Myrcella Lannister potè scordarsi la cella. Dormiva nell'ampio letto del principe di Grande Inverno, i loro corpi intrecciati l'uno all'altro fino a risultare indistinguibili, dove il rosso ferino affluiva nel biondo argenteo, le cicatrici s'incontravano in un unico dolore senza nome; le giornate avevano la farneticante ebbrezza del ludibrio e la consistenza di caduchi fiori, sfogliate con impeto, sprecate con noia, e la loro follia, mascherata con il nome di cupidigia, stava nel rotolare sempre più in basso, ridere sempre più forte per sovrastare il fragore delle armi. La loro scelleratezza osava senza sosta, e ogni giorno c'era seta da sbranare, gioielli da indossare, vino rosso di Dorne a fiottare nella gola e sul mento e sul materasso, ad innaffiare la carne, dissolutezza grassa ed opulenta dal sapore del Sud fra quelle mura, a racchiudere sempre lo stesso violento profumo di essenze oleose e gemiti soffocati.
Myrcella la prigioniera passava le ore come una regina, ad attenderlo ed accoglierlo, lieta della propria insignificante utilità, colma d'un iniquo senso del dovere, purchè quelle lenzuola rimanessero calde del sudore dell'empia comunione dei loro corpi. Rickon a volte era disposto a dedicarle intere giornate, a volte poco più di un'ora: però sempre, inevitabilmente, un'espressione vinta e rancorosa nei lineamenti distorti dal desiderio a mascherare quel dubbio, finiva per ritrovarsi in camera a cercare quella ragazza di latte spanta sul materasso di piume e precipitare rovinosamente fra le sue braccia, in impaziente attesa di un piacere che avrebbe potuto avere da altre, in un altro modo, ma che non era più capace di godere se non con lei, così.
Per la prima volta dopo tanto tempo, Myrcella non avvertiva una lastra di ghiaccio o frammenti di vetro sotto le dita dei piedi.
Il giorno della partenza li sorprese ancora abbracciati, nell'alba di quelle mattine ch'erano proiezioni di notti insonni. I preparativi furono frettolosi, quasi che uno stordimento generale avvincesse tutti i protagonisti. Myrcella sapeva che in futuro avrebbe rimpianto il comodo lusso di quelle giornate vissute in stato d'incoscienza, e se ne convinse quasi dolorosamente quando il vento del Nord la schiaffeggiò con rabbia alle porte del castello.
La fanciulla rabbrividì intimorita sotto il mantello che avvolgeva anche Rickon, il viso premuto contro il calore martellante nel suo petto, l'udito concentrato sul ritmo dei suoi respiri, il gorgoglio del suo sangue, risparmiandosi la troppo cruenta vista della cattiveria di quell'asettico mondo in bianco e nero, dove l'abnegazione dell'esistenza si affacciava su un crepaccio che aveva l'ammutolente peculiarità dell'assoluto. Rickon Stark, stante e silenzioso come l'ombra d'una malinconia che non gli apparteneva, fissava senza pietà, con occhi cupi, la casa che stava abbandonando per la seconda volta. Era diverso dal solito. Osha lo scrutava sospettosa; era dall'altra parte dello schieramento, quello che s'era radunato fuori dalle mura per salutare i soldati.
-Questa è la tua guerra, non la mia,- aveva spiegato a Rickon senza scomporsi. Eppure in quel momento, i grumi d'acqua gelida impigliati nei capelli come una canizie precoce, non avrebbe chiesto altro che guidarlo e sorvegliarlo come aveva fatto per tanto tempo.
-Vi guardo e vedo soltanto disgrazie.- La sua voce cadde fra loro, piatta come una ghigliottina.
Rickon serrò i denti. -Non è come credi. Ho tutto sotto controllo, non preoccuparti.-
Ho tutto sotto controllo. Questa l'ho già sentita, pensò Osha con un triste sorriso. -Buona fortuna, dunque.-
-Grazie.- Il ragazzo rimase lì, incerto se fare l'eroe o concedersi pochi istanti di tregua dalle proprie aspettative; la donna scelse per lui, scompigliandogli rapidamente la chioma incolta.
-Non serve che ti saluti come si deve,- chiarì bruscamente, -perchè tanto tornerai presto.-
Rickon sorrise, rispondendo alla flebile richiesta di quegli occhi abissali che conosceva così bene. -Puoi scommetterci.-
E Osha capì perchè Rickon si portava appresso la giovane Lannister. Lei gli aveva carezzato i capelli, lo aveva rassicurato, gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Aveva incoraggiato, vezzeggiato, accolto a braccia aperte la fragilità, imponendosi la sua stabilità interiore come una missione. Aveva fatto ciò che Catelyn Stark non aveva più avuto occasione di fare, ciò di cui Osha non sarebbe mai stata capace. Rickon, riconoscendo una specie di figura materna in lei, si sentiva accudito, protetto. Amato, in quella maniera sollecita, premurosa e tipicamente femminile, in quella maniera così terribilmente esplicita e calorosa, con cui l'introversa scontrosità di Osha non poteva competere. Così terribilmente differente e discordante con la sua indole. Così terribilmente necessaria. Myrcella Lannister credeva di poter addomesticare un lupo. Meritava perlomeno un sorriso di compassione, ma la fanciulla era perduta in quel mantello e nessun avvertimento ormai l'avrebbe raggiunta.
Intanto, Shireen prendeva le mani guantate del padre fra le sue. -Mi raccomando, stai attento a te. Non mi sposerò, se non ci sarai tu ad accompagnarmi all'altare.-
Le rughe attorno agli occhi di lui si contrassero, viso di padre invecchiato: ogni anno che passa grava come cento sulle spalle di un re, e quei tentativi avevano lasciato un loro segno su quel volto incorruttibile, in quegli occhi duri che -proprio come quelli della figlia- sapevano sognare, anche se non lo davano a vedere. Non era più preoccupato all'idea di lasciare Shireen in balia della neve; ormai lei chiamava casa quel mondo di ghiaccio scabro e creste affilate.
La neve sdrucciolava nel vento. Le dune bianche e farinose sfavillavano come materia di favola, cozzando e spintonandosi con l'oscurità, in un paesaggio d'immobile ostilità.
Meera Reed sospirò piano e una nuvola di vapore, sospinta dal suo fiato, soffiò aggraziata, valicando l'impedimento del collo di pelliccia del mantello, aggrappandosi alla crudeltà impassibile del vento -in equilibrio soltanto per pochi attimi, il tempo di disfarsi nel buio netto del cielo.
-Ti ho messo nei bagagli le erbe, sai, quelle che devi masticare dopo aver avuto le visioni, per far passare la nausea. Pensavo che ne avrai bisogno, molto probabilmente.- Voce senza calore, senza distacco. Le pareva quasi stupido stare lì, in piedi, di fronte a quell'impudica verità, ad interpretare un ruolo che le avevano cucito addosso, suo malgrado. 
Jojen la fissò con così tanta intensità, che la sorella non potè fare a meno di scorgervi dentro un'infanzia di piccole gioie e grandi avventure, l'origine d'un amore struggente che l'aveva più volte indotta a desiderare il dolore per sè, pur di risparmiarlo a quell'esile creatura; eppure non era mai stato debole, Jojen Reed. Era forte anche in quel momento, davanti a lei, a sventrare la sua anima senza giudicare quanto vi scorgeva, senza alcun rimorso. Vicino, eppure già troppo lontano.
-Grazie.- rispose solennemente, in tono talmente pregnante che non poteva starsi riferendo soltanto alle erbe.
Meera inarcò le sopracciglia e le aggrottò di nuovo, rapidamente. -Non c'è di che.-
Era a disagio. Avrebbe voluto sferrargli un pugno, spaccargli il naso, cadere fra le sue braccia. Se era lei quella che meritava delle scuse, perchè si sentiva tremendamente in torto? Il loro arrivederci non avrebbe dovuto essere così apatico, scialbo, ufficiale. Così.
Fu allora che il fratello si chinò su di lei e la baciò sulla fronte, con quella sua caratteristica delicatezza, e il contatto delle sue labbra sulla pelle fu come quello della rugiada sui polpastrelli.
-Prenditi cura di lui.- Un sussurro. Si odiò per averlo detto: ma, se non l'avesse fatto, si sarebbe odiata per non averne avuto il coraggio.
-Prenditi cura di te.- fu la replica. Meno di un ordine, più di una speranza. Un vaticinio.
Poi venne il momento di salutare lui. Brandon Stark, a cavallo di uno stallone nero, le rivolgeva uno sguardo indecifrabile.
-Mio padre salutò mia madre esattamente qui, prima di partire per il Sud.- rivelò infine, a voce asciutta. -Di lui tornarono indietro soltanto le ossa.-
-Gli dèi non vogliono mai ascoltare le stesse storie, mio signore.- Non era mai esistita affermazione più falsa, Meera stessa ne aveva avuto la prova; ma in quella corrente artica suonò esatta.
Bran si soffermò per qualche istante sul piccolo capo impellicciato del suo erede, in braccio alla nutrice. -Tornerò prima che diventi in grado di pronunciare il mio nome.-
Potrebbe già aver imparato a farlo, che tanto tu non te ne saresti accorto. -Come dite, Maestà.-
Si guardarono un'ultima volta, stanchi, sopraffatti, quasi sconfitti da quel destino che, dopo tanti anni di fedele amicizia, li voleva separare. La primavera non era mai sembrata così lontana.
Il loro ultimo bacio fu una formula, una convenzione, arido come un campo sterile; per un solo istante, la moglie lo trattenne contro le sue labbra, come se bastasse questo per impedirgli di staccarsi dal calore della sua bocca, per andare incontro all'inverno in una bufera di sangue, in una mattanza ineluttabile. Per salvarlo.
La regina innamorata che saluta il suo re dalle porte del maniero sventolando un fazzoletto, gli occhi umidi di lacrime, il cuore rigonfio di speranza. Meera tese un sorriso amaro, infranto, ma nell'aria cinica di quel lungo inverno la sua storia non faceva più ridere.
La carovana cominciò la sua lenta marcia, i tonfi ovattati degli zoccoli dei cavalli nella neve croccante, le urla dei soldati deviate e raccolte da quel vento di spada, le perfide risate delle stelle nella notte livida; giunto nei pressi dei primi alberi Bran Stark si voltò, per vedere il rango dei castellani ben disposto ed allineato, Shireen la principessa di pietra, Osha la bruta e Meera la regina del Nord ad attendere ferme ed inscalfibili nel freddo, imprimersi quell'immagine nella mente come se dovesse dirle addio. Bran percepì un sussulto nel petto, seguito da una valle di secchezza nella gola: Meera Reed se n'era già andata, il buco della sua assenza come la falla fatale d'una fortificazione, e la sua dignità stracciata svolazzava nel vento dietro di lei, come un tetro monito, un rimprovero sottile, giunto troppo tardi, troppo forte. Nel momento sbagliato.



































Note dell'Autrice: Sesto capitolo! Credo sia un po' più lungo del solito. Spero vi sia piaciuto. ^-^ È comparsa Brienne, che ha resuscitato Jaime! Siete contenti? So che ha molti fan, sia lei che la coppia Jaime/Brienne.
Dunque, per Sansa le cose stanno per mettersi male. Chi mai starà indagando su di lei? A Myrcella è accaduto qualcosa di sbalorditivo. È impazzita. Per chi trovasse troppo strano quel che le è successo, digiti su Google sindrome di Stoccolma. Ha qualcosa a che vedere con questo, anche se ogni mente umana è unica e reagisce in modo differente.
Ormai gli eserciti sono partiti. Cosa accadrà alle Torri Gemelle? Qual è il piano di Bran? E Margaery riuscirà a mettere in atto il suo?
Tutto questo nel prossimo capitolo, miei cari lettori. Mi raccomando, se avete qualche domanda o qualche commento da fare, non esitate! Sono molto curiosa di sapere le vostre opinioni!
Lucy
ps: Ebbene sì, Robin fa il pervertito. o.o

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Capitolo 8
*** Rossa fu la nebbia. ***


7

VII. Rossa fu la nebbia.




Myrcella sapeva di non conoscere ancora Rickon, almeno non tanto quanto avrebbe desiderato. Aveva imparato cosa era meglio fare quand'era arrabbiato, per esempio, o come distoglierlo dai cattivi pensieri: e allo stesso tempo, i giorni di marcia che trascorse sempre al suo fianco le avevano insegnato che talvolta il giovane Stark aveva bisogno di alcuni momenti di silenzio, durante i quali nessuno doveva rivolgergli la parola nè scostarlo dalle sue riflessioni. Il suo sguardo s'incupiva, la sua espressione si rabbuiava e d'un tratto non aveva più intenzione di ascoltare nessuno. Allora Myrcella lo lasciava al suo passato, alla sua malinconia, e si limitava a carezzarlo piano, senza disturbarlo. Non sapeva bene come amarlo: tutto ciò che avrebbe potuto offrirgli, egli se l'era già preso da solo. Però avvertiva la pressante esigenza di fargli presente in continuazione quanto gli voleva bene e quanto gli era grata, per tutto quel che aveva fatto. Non riusciva più a distinguere Rickon dall'idealizzazione nella sua mente. Perchè lui aveva perso qualsiasi colpa agli occhi di Myrcella: era la vittima, soltanto la vittima, non il carnefice. Ogni volta ch'ella lo pensava, in passato, scacciato dalla propria casa, privato della sua famiglia, costretto a vivere nei boschi di un'isola di cannibali, le veniva da piangere penosamente, all'idea di tutto il dolore ch'egli doveva aver provato, di tutti i traumatici ricordi che doveva aver conservato, e avrebbe voluto strapparglieli via tutti dalla mente con le proprie mani, concedergli un pizzico di quella felicità che Rickon stesso aveva portato nella sua vita. Qualsiasi efferatezza egli avesse compiuto, le appariva assolutamente giustificata, quasi legittima. Non avrebbe fatto tutte quelle cose orribili, se la mia famiglia non avesse sterminato la sua. È successo tutto a causa loro. Ha perso suo padre, sua madre, le sue sorelle e suo fratello, eppure il suo cuore è ancora così puro e gentile che si è innamorato di me lo stesso. Questo era inspiegabile per lei, eppure incontestabile al tempo stesso. Rickon l'amava come i principi dei suoi sogni, i lord della sua infanzia non avrebbero mai potuto fare. Le aveva fatto riscoprire una nuova gioia di vivere, una capacità più vivida e sincera di apprezzare ciò che la circondava -dal misero lusso di una tavola apparecchiata ai giochi di luce fra le foglie irrigidite di brina- e un sentimento inedito, perchè mai prima d'ora aveva sul serio amato qualcuno più di se stessa. Rickon voleva lei e soltanto lei, tutta per sè, e non permetteva a nessuno di avvicinarsi, e non si stancava mai della sua presenza, come se la sua bellezza potesse rinnovarsi ogni giorno e riservargli sempre una sorpresa. La toccava e le parlava in un modo che prima le era completamente sconosciuto -anche questo era un dato di fatto abbastanza importante, che aveva determinato l'esclusiva, straordinaria singolarità del loro rapporto, perchè per una fanciulla come lei sarebbe stato impossibile considerare irrilevante il fatto che Rickon era stato il primo uomo della sua vita. A quel misto di violenza, possessività e voracità, ch'egli dimostrava nelle avide attenzioni che dedicava al suo corpo, ormai Myrcella ci aveva fatto piacevolmente l'abitudine, divertita ed indulgente. Le sue maniere rudi, anzichè darle fastidio, le erano care. Insieme a questo sentimento per Rickon, aveva preso forma in Myrcella anche un'intrinseca ostilità verso tutti gli altri: tutti gli altri non intesi singolarmente, ma in quanto folla, estranei, altri. L'amore fra loro era talmente contestato e ostacolato universalmente, da spingerla a provare un risentimento generale verso gli esterni, esclusi dall'entità ch'era il loro rapporto, incapaci di comprendere cosa fosse e quanto indispensabile fosse ad entrambi. Era da loro che Rickon la voleva proteggere, quando l'aveva chiusa nelle segrete, da quelle persone malvagie che non capivano niente. E ancora Myrcella non poteva fare a meno di guardarli con sospetto, tutti, e di aggrapparsi saldamente a Rickon, come a dire provate a separarci, se ci riuscite quand'erano in pubblico.
 Rickon, dal canto suo, aveva sviluppato una dipendenza nei suoi confronti non tanto più sana di quanto lo era quella di Myrcella. Da quando l'aveva rapita, non era mai andato a letto con nessun altra -il che lo stupiva parecchio. Non aveva voluto farlo, questo lo preoccupava sul serio. Riusciva a pensare soltanto a Myrcella, a quanto la sua bellezza lo ammaliasse sia in quanto tale, sia perchè rievocava lo spettro dei Lannister, odioso eppure misteriosamente conturbante -perchè era proprio il contrasto fra l'attrazione dei sensi e la repulsione dello spirito ad essere eccitante.
Myrcella sapeva di non conoscere ancora Rickon, almeno non tanto quanto avrebbe desiderato, però aveva imparato che quando Rickon diceva sarà davvero divertente, con quel suo sorriso aguzzo e sfrontato, c'era da avere paura. Davvero divertente, per Rickon, era soltanto scorticare le persone vive per poi arrostire i nervi e divorarle a zannate. Davvero divertente era saccheggiare i villaggi e staccare le teste a mani nude.
Così, quando il giovane Stark descrisse l'attacco alle Torri Gemelle come divertente, Myrcella aggrottò la fronte preoccupata.
-Non sarà niente di troppo pericoloso, vero?- si volle assicurare, stringendo gli occhi sospettosa; immaginava che dovessero essere coinvolte le catapulte che seguivano l'esercito, però niente più di questo. Rickon ridacchiò.
-Sarà pericoloso, sì, ma non per noi, piccola Lannister. Se ne pentiranno, oh, quanto se ne pentiranno! Correrebbero a cercare il cadavere di mio fratello per ricomporlo e resuscitarlo, se sapessero cosa li attende...-
Myrcella sbuffò e picchiettò le dita contro la sua nuca. -Avanti, raccontami! Non tenermi sulle spine. Cosa avete intenzione di fare?-
-Vedrai, vedrai.- fu l'enigmatica risposta. -Tutti vedranno, fino a Dorne lo vedranno, e non dimenticheranno. Così come noi non abbiamo dimenticato.-
-Ho così paura per te.- sospirò Myrcella. -Tu non hai nemmeno un po' di paura?-
Non si aspettava certo un sì come risposta, però voleva essere rassicurata dalla tracotante spavalderia che il ragazzo sfoggiava ben volentieri.
-Paura?- ripetè Rickon, con una smorfia aspra. -Un tempo avevo tanta paura, Myrcella Lannister, come te. Paura ogni giorno, per qualsiasi motivo. Tutto mi faceva paura. Ora no. Ora l'unico pensiero che mi fa paura è quello di avere paura di nuovo.- Il suo tono era indecifrabile, ma la fanciulla capì di dover cambiare argomento.
-Promettimi che non rischierai troppo. Guarda che, così come tu sei spaventato all'idea di perdermi, ugualmente è per me. Non hai più bisogno tu di me che io di te.-
Rickon fece un sorrisetto arrogante. -Ah, è così? Tu credi che io sia addirittura spaventato all'idea di perderti, piccola Lannister?-
Myrcella gli lanciò un'occhiata sollecita e premurosa da sotto le ciglia, denudando amorevolmente la sua fronte dai ciuffi spettinati.
-Io non lo credo, Rickon Stark, io lo so. Tu sei terrorizzato all'idea di perdermi. E mi ami perchè hai un costante ed urgentissimo bisogno della mia presenza. Perchè hai bisogno di qualcuno che ti adori indiscutibilmente, come faccio io, qualunque cosa accada... qualcuno che capisca.-
Allora Myrcella tacque e rimase a fissarlo negli occhi, emozionata. Non precisò cosa intendesse con capire, ma Rickon non obiettò nè pretese spiegazioni. Anch'egli la osservò, con una nuova curiosità, come se la vedesse sotto una luce diversa. Quelle parole parvero confonderlo. Qualcuno che capisca.
Poi si riscosse, tirando nuovamente un ghigno, e la spinse con la testa sul giaciglio. -Io non ti amo, ti possiedo. Perchè dovrei desiderarti ancora, se ti ho già?!-
Ma era proprio questo il punto. Egli continuava ad avvertire un'inappagata sete di lei, come se la sua conquista, nonostante i risultati, non fosse ancora definitiva. Continuava a necessitare di quell'odio senza più dolore, di quell'amore troppo crudele, come uno sprono. Questo perchè Rickon non sapeva distinguere fra il possedere e l'essere posseduti.
-Perchè non siamo ancora uniti per sempre.- rispose invece Myrcella, apprensiva. -Tommen potrebbe cercare di recuperarmi... potrebbe attaccare... di certo tenterà...-
Questo era l'unico timore che aveva, al pensiero di seguire Rickon in guerra: che l'esercito di Tommen potesse riportarla ad Approdo del Re e sottrarla a Rickon.
-Che tentino pure. Nessuno ti ruberà.- replicò subito, con l'arroganza inamovibile dell'ossidiana. Mi hanno rubato già troppo, pensò con rimpianto, anche se non lo disse. Ad ogni modo, quel breve dialogo fra lui e la ragazza lo stava inducendo a prenderla in considerazione sotto un altro aspetto. Con queste promettenti premesse, a Myrcella non restava che sperare che Rickon sapesse quel che stava per fare.
Intanto il re del Nord aveva radunato, nella tenda in cui alloggiava, i suoi alleati finalmente al completo: infatti, quando avevano raggiunto l'Incollatura, Edmure Tully li aveva raggiunti con il suo esercito. Gli anni e le sventure che la sua famiglia aveva subìto avevano contribuito a segnare il suo volto, ma non aveva perso il sorriso: la giovane moglie e i due figli, Myles ed Elyn, che aveva lasciato al sicuro a Delta delle Acque, erano la luce dei suoi occhi. Era sembrato molto contento d'incontrare i suoi nipoti sopravvissuti: aveva sorriso rispettosamente a Bran (aveva udito le chiacchiere che giravano su di lui, e aveva notato il ragazzetto vestito di verde che lo seguiva ovunque, ma non ci aveva dato troppa importanza) e aveva strizzato l'occhio a Rickon, con un'aria complice che aveva fatto corrucciare il viso del nipote di disappunto, specialmente per la lunga ed esplicita occhiata che aveva rivolto poi a Myrcella. In quel momento Edmure osservava il nipote con un'espressione assolutamente concentrata ed un po' inquieta, perchè sapeva qual era l'attacco che stavano per progettare. Stannis, con al fianco il fedele Davos Seaworth, sedeva composto al fianco di Bran ed attendeva ch'egli svelasse quei piani che da tanto tempo teneva segreti, con un'espressione più torva che curiosa, però come sempre il suo viso severo non lasciava trasparire granchè i suoi pensieri. Davos tamburellava nervosamente le dita sul tavolo, perchè era al corrente di quanto astio provasse il re del Nord nei confronti della famiglia Frey e temeva al pensiero di udire quegli stessi piani che Stannis attendeva invece con impazienza: spesso, nelle faide di sangue fra casate, mentre si architetta la punizione per i colpevoli, è facile dimenticare quanti innocenti possono finire coinvolti. In verità era da un pezzo che Davos non riusciva a darsi pace, fin da quando Stannis, prima ancora di partire per Grande Inverno, lo aveva messo al corrente dei propri piani: offrire Shireen in sposa a Rickon Stark. Stannis poteva anche non prestare ascolto alle voci che giravano riguardo quel ragazzo, però lui lo faceva: e non aveva gradito affatto ciò che aveva sentito.
-Non puoi sacrificare tua figlia in questo modo per scopi politici! Se vuoi recuperare il Trono di Spade per tornarle la vita che merita, se il tuo obiettivo ultimo è renderla felice, così sarà tutto inutile.-
-Se non sarà lei a lamentarsi, Seaworth, non vedo perchè dovresti farlo tu.- era stata la lapidaria risposta.
-È perfido approfittare della sua indole docile, del rispetto e della grande obbedienza che ti riserva, per sfruttarla come un capo di bestiame.- aveva insistito Davos, ansioso per la sorte della bambina -bambina? ragazza, ormai- che amava come la figlia che non aveva avuto. Era stato tutto inutile, naturalmente, perchè quell'ostinato di Stannis aveva voluto fare a modo suo.
Quando in seguito aveva incontrato Shireen a Grande Inverno, Davos le aveva chiesto cosa ne pensasse del suo promesso sposo.
-Lo so che sembra un pazzo, però in realtà non è cattivo. Credo che nasconda un'indole molto sensibile.- aveva commentato Shireen, e il Cavaliere delle Cipolle si era fidato del suo giudizio, visto che spesso la ragazza dimostrava un gran talento nel decifrare l'anima delle persone, svelandone i segreti più nascosti.
-Ma sei felice di sposarlo?- aveva domandato ancora.
Shireen non aveva risposto per qualche istante. -Non mi dispiacerebbe.- aveva concluso. -Se con il tempo iniziasse a fidarsi di me, tutto andrebbe benissimo. Però dubito che andrà così, in tutta onestà.-
-Che vuol dire?-
-Che questa storia avrà un finale diverso, suppongo.- aveva sorriso lei, e non c'era stato verso d'estorcerle una parola di più. Con questi dubbi, Davos era poi partito per accompagnare nella campagna militare il suo re, e aveva dovuto affidare Shireen alle cure di sua madre ed alla protezione della regina del Nord, Meera Stark, una giovane donna che gli ispirava fiducia.
Ma torniamo a quel concilio che si stava svolgendo nella tenda. Bran, dispiegata la cartina dei Sette Regni davanti a sè, vi poggiò le mani ed intrecciò le dita, per poi rivolgere un ampio sguardo a tutti gli uomini riuniti al tavolo.
-Innanzitutto vi ringrazio molto per essere qui, miei lord. La vostra presenza non è soltanto formulare, ma fondamentale per la buona riuscita dell'iniziativa. Voi siete degli uomini esperti ed io solamente un ragazzo che oserà approfittarne, perciò vi prego di farmi notare qualsiasi errore di valutazione rileviate. Se avete delle domande, prima di cominciare, non esiterò a rispondere in maniera più esauriente possibile.-
Edmure parve piuttosto lusingato dalle parole del nipote e gli indirizzò un sorriso che pareva quasi incoraggiante; Stannis, al contrario, arricciò la bocca un po' disgustato e parlò.
-Mi sembra di capire che procederemo attraverso la Strada del Re, sia ora, sia al termine della, ehm, spedizione punitiva contro i Frey.-
Bran esaminò per un istante le sue intenzioni, circospetto, infine annuì con il capo, protendendosi appena in avanti sul tavolo. -Sì, esatto.-
-Posso chiedere perchè?- chiese l'uomo, inarcando appena le sopracciglia. Davos seguiva lo scambio con sguardo preoccupato.
Il re del Nord fu più tentato di tirargli una sediata in testa, che di spiegargli la motivazione della sua scelta. Ragazzino alle prime armi o no, Stannis Baratheon era restio a concedere la sua fiducia fino a portare all'esasperazione. Mi sono preso in casa tua figlia, ti ho dato le armi, ti ho concesso il comando delle truppe, ma così vuoi di più? Una dichiarazione d'amore?!
Comunque prese fiato e si accinse ad esporre i suoi argomenti con chiarezza e cortesia, come Jojen gli ripeteva sempre ch'era necessario fare, nè troppo boriosamente, nè in maniera sconclusionata.
-Perchè non abbiamo niente da nascondere. Tutti crederanno che la nostra destinazione sia Approdo del Re. Non possono immaginare che attaccheremo le Torri Gemelle: questo perchè pensano che, se avessimo voluto farlo, l'avremmo già fatto prima, quando Rickon ha fatto irruzione al torneo di Runestone.-
Stannis non parve per nulla impressionato da quella risposta. -E se veniamo attaccati all'improvviso, c'è un piano?-
-Non ci serve un piano.- replicò Brandon, cercando di trattenere l'impazienza. -Siamo ancora nei territori del Nord, subito adiacenti a quelli sotto la supervisione di Edmure, quindi non ci sono casate nemiche nei dintorni. E anche se avessero deciso di tenderci un agguato marciando verso il Nord,- aggiunse in fretta, prima che Stannis potesse interromperlo con quell'obiezione, -ebbene anche questo sarebbe impossibile, perchè, come tra l'altro ho intenzione di fare da qui a sempre, ho mandato degli esploratori in avanscoperta a ispezionare la zona prima di avanzare con l'esercito. Tutto sotto controllo, come vedi.- 
-Me lo auguro.- s'arrese Stannis, fortunatamente evitando di avanzare l'ipotesi che gli esploratori fossero stati corrotti dai Lannister (come Bran malignava fra sè), lanciando un'ultima occhiata indagatrice alla mappa, quasi nella speranza di cogliere un dettaglio per incastrarlo. -Adesso puoi esporci il tuo famigerato piano, direi.-
Bran annuì gravemente. -Molto bene. Ma prima ancora, permettetemi di dimostrarvi come questo potrà essere attuabile. Jojen ha qualcosa da riferirci.-
Gli sguardi degli uomini scivolarono nella direzione del consigliere del re. Jojen Reed li sostenne senza vacillare.
-Questa notte, ho avuto delle visioni.- annunciò. -Fra le altre cose, ho visto l'esercito di Tommen. Non ho dubbi a proposito: ricordo l'insegna, con il cervo ed il leone. Non so con precisione dove fosse, ma c'era un fiume, il corso di un fiume...-
Edmure s'allungò verso la cartina. -Dando per scontato che stava percorrendo la Strada del Re, perchè non può essere altrimenti, si trattava forse della Forca Rossa?-
Jojen scosse il capo. -La Forca Rossa ha un andamento orizzontale. Quello che ricordo aveva un andamento verticale, ne sono certo; quindi, più probabilmente, era la Forca Verde. Alla destra del fiume, in lontananza, s'intravedevano in lontananza le luci di una città. Penso che fosse Seagard.-
-Quando?- chiese Stannis.
-Il cielo era buio.- esitò Jojen. -Visto che il loro esercito è in marcia da pochi giorni, pur non essendo informato riguardo il ritmo che tiene, ritengo più verosimile che avverrà domani notte. Ciò significa che soltanto domani notte l'esercito giungerà vicino alle Torri Gemelle, e che quindi abbiamo tutto il tempo per mettere in atto il piano che Sua Maestà esporrà immediatamente.-
-Possiamo venire al dunque?- sospirò Stannis. Ora anche Edmure sembrava incuriosito.
Brandon era a disagio; aveva rimandato quel momento il più possibile, ma non avrebbe potuto farlo ancora a lungo. Doveva svelare il piano. Così raccontò tutto, dalla prima all'ultima parola, senza trascurare nulla, con stoico raziocinio. Mentre proseguiva a parlare, l'atmosfera nella tenda raggelò.
Davos era impallidito; non riuscì a trattenersi e si alzò in piedi di scatto, così rapidamente da urtare la sedia, che arretrò con uno stridio lamentoso.
-È una follia! Il maniero è pieno di donne, di bambini... Moriranno tutti della peggior morte immaginabile!- Si voltò verso Stannis, in cerca di supporto, quasi supplicandolo con lo sguardo d'essere ragionevole. -Signore, non si può permettere una strage così... abominevole!-
Bran Stark non reagì. Il suo sguardo era fisso, quasi vitreo. Assente. Sapeva che ci sarebbero state proteste, dissensi, opposizioni, e sapeva anche che nessuno lì dentro avrebbe potuto capire cosa l'avesse spinto ad una decisione così estrema. Ma non si sarebbe mosso dalla propria posizione, non circa quello.
-Peccato che nessun Frey abbia pronunciato queste stesse parole per impedire che le Nozze Rosse venissero messe in atto.- commentò, con un sarcasmo pregno d'amarezza. -Ad ogni modo è troppo tardi, cavaliere. Jojen l'ha visto accadere.-
Davos ricadde sulla sedia, come una marionetta alla quale taglino i fili. Rivolse un'ultima occhiata disperata a Stannis, appellandosi a quel cuore duro ma onesto, che intimamente non approvava nessun tipo d'ingiustizia.
-Questa è la vostra vendetta.- concluse però l'uomo, impassibile. -Affari che non mi riguardano. Vostri diritti, vostra responsabilità.-
Davos, che lo conosceva bene, colse il bagliore di tristezza nel suo sguardo - meno di una lacrima, ma non più indifferenza.
Anche Edmure sembrava incerto eppure, quando Bran lo interrogò silenziosamente, annuì in fretta -quasi per sgravarsi della pericolosità della sua decisione. La ferita inferta dalla morte invendicata di sua sorella Catelyn era rimasta aperta e gli aveva infettato l'anima, una piccola piaga fastidiosa nella sua vita finalmente felice.
Così il concilio fu sciolto, e quell'ultima irrevocabile decisione ufficialmente presa, mentre i presenti uscivano dalla tenda, seguiti da un silenzio di morte.
La sera prima dell'attacco, Bran si ritirò presto per la notte. Per tutto il giorno era stato assillato dalle manie di persecuzione di Stannis, che giudicava la sorveglianza alle proprie tende inadeguata, e che l'aveva costretto a sbottare io non ci guadagnerei assolutamente niente a tradirti o ad ucciderti, dai discorsi d'esortazione che aveva tenuto a tutte le truppe, dalla precisa organizzazione dell'intero piano, dettaglio per dettaglio, e dalle disposizioni che di conseguenza aveva impartito a tutti i comandanti. Ormai, il re del Nord riteneva di conoscere la pianta delle Torri Gemelle meglio di casa propria, tanto ci aveva riflettuto su. Per la buona riuscita del piano, non doveva essere fatto alcun errore di calcolo.
La verità era che egli aveva bisogno del conforto di Jojen. Durante la giornata non poteva mai cercarlo, non davanti a tutta quella gente che aspettava soltanto di vederli un po' più vicini del consentito per spettegolare di quanto il re del Nord amasse darsi alla pazza gioia persino nel bel mezzo di una guerra, quindi poteva farlo soltanto in quelle ore, sporadicamente. Jojen solitamente non era prodigo di effusioni, però la sola sensazione di quello sguardo rasserenante su di lui e di quelle mani a carezzargli la testa era già più di quanto sperasse.
-Il piano è stato accolto bene, tutto sommato. Non hanno contestato troppo.- commentò, ricadendo sui guanciali del letto su cui Jojen, seduto con il manico lavorato di un portacandela fra le dita, ripassava gli schemi dell'attacco.
-Quella dei Frey non è una casata granchè amata.- ammise il suo consigliere. -E tu stai acquisendo autorità ai loro occhi, Maestà. Stanno imparando a rispettarti.-
-Non vedo l'ora che tutta questa storia sia finita. Il nostro esercito già inventa nuovi nomi strambi, per l'attacco alle Torri di domani, però io non trovo definizione pià adatta di massacro di massa.- confessò Bran.
-Sarà un massacro di massa, niente da ridire.- annuì Jojen, serio. -Ma un massacro necessario. Non avresti potuto agire altrimenti. Fin da quando tu sei tornato a Grande Inverno, i Sette Regni immaginano il compimento di questa vendetta ed i Frey raddoppiano le misure di sicurezza della loro fortezza. Sei il loro incubo, Maestà, soprattutto da quando hanno scoperto dei tuoi poteri. Era tuo dovere riparare quest'onta, e lo stai facendo.-
Bran sapeva ch'egli parlava così soltanto per farlo sentire meglio, e glie ne fu intimamente grato. -Nessuno sopravvivrà, non è vero?-
Non sapeva quale risposta avrebbe gradito di più udire, in quel momento d'esitazione.
La voce di Jojen era piatta come una lama. -Li ho sentiti urlare in sogno, uno per uno. Moriranno tutti, Maestà.-
Il re del Nord capì ch'era più saggio cambiare argomento, prima di essere aggrediti dai rimorsi. Si concentrò su un altro pensiero che lo assillava instancabilmente da un pezzo.
-Rickon mi ha chiesto di guidare l'attacco, anche questa volta. Dato il successo della sua impresa precedente, glie l'ho accordato: dopotutto, è quasi un suo diritto. È normale che sia arrabbiato. Poi, ovvio, lui esagera in tutto ciò che fa, quindi persino il suo stato di rancore perenne è innaturale. Se riuscissi a trovare qualcuno... beh, non pretendo capace di mettergli un freno, ma che almeno sapesse zittirlo quando parte per la tangente...-
Jojen sorrise, senza alzare lo sguardo dai fogli. -A questo ci penserà Levenna.-
Bran aggrottò la fronte all'udire quel nome, ignoto alle proprie orecchie. -E chi sarebbe?-
-Tua figlia.- ribattè il suo consigliere, con tutta la disinvoltura del mondo, come se nulla fosse, continuando a lambiccarsi con quelle sue mappe e schemi. Il ragazzo avvertì una strana fitta al petto. Una figlia? Allora avrebbe avuto anche una figlia? I pensieri gli affollarono la mente, e si rese conto che avrebbe voluto chiedere una miriade di cose.
-Quando nascerà?- riuscì a domandare, dopo qualche istante. Jojen sbattè le palpebre, pensoso.
-Fra circa otto mesi e mezzo.-
Bran sgranò gli occhi, stupito. -Significa che...-
-Sì, certo, però Meera non ha avuto il tempo di accorgersene. Fra qualche settimana ti manderà un corvo, immagino.- mormorò Jojen, scarabocchiando un appunto in un angolo di una pergamena.
-Sapevi della sua esistenza, e non me l'hai mai detto prima d'ora?- bofonchiò Bran, contrariato. L'idea di non essere messo al corrente di tutto ciò che Jojen sognava era ancora motivo di disappunto, ed oggetto delle poche discussioni che talvolta avevano i due. Insomma, in un caso del genere, che lo riguardava in prima persona, avrebbe potuto anche fare un'eccezione. Di sicuro nessun dio avrebbe mandato un fulmine per punirlo. 
-In effetti è da un pezzo che compare nelle mie visioni.- osservò Jojen, tagliando una didascalia con la piuma e scribacchiando qualcos'altro. -Parliamo, a volte.-
L'idea sconvolse Bran assolutamente. Parlavano?! Jojen parlava in sogno con sua figlia?! Voleva dire che la incontrava quando lei era già grandicella, forse addirittura adulta. E che, di conseguenza, lei sapeva come era andata a finire la guerra attualmente in svolgimento, e che quindi Jojen avrebbe potuto chiederglielo e saperlo... Oltre a questi dettagli puramente formali, Bran si ritrovò ad immaginare una sua ipotetica figlia ed a ritrovarsi nello smarrimento più totale. Come poteva mai essere? 
-Parlate? Sul serio? E di cosa?- esclamò intanto, sperando di ottenere qualche informazione sulla guerra o su Grande Inverno. Chi sarebbe stato al trono del Nord, a quel tempo? Ancora lui? Kenned? Rickon? O forse... un alfiere dei Lannister?
Jojen gli lanciò un'occhiata ammonitrice da sopra la pergamena. -Questo non te lo posso dire. Sai come funziona, Maestà.-
Il re sospirò. Sì, lo sapeva, anche se se ne dimenticava molto volentieri. -E lei... com'è?- aggiunse esitando, impacciato, rivolgendogli uno sguardo quasi intimidito.
Allora l'espressione di Jojen s'ammorbidì ed il ragazzo gli concesse un piccolo sorriso.
-Levenna è... qualcosa di meraviglioso.- rivelò, con voce bassa ma vibrante di un'emozione inusuale, che non era soltanto affetto, ma un'indistinguibile amalgama di rispetto ed ammirazione.
Bran avvertì una strana gelosia aggredirgli il cuore, con un morso feroce e subitaneo. Non aveva mai sentito Jojen utilizzare l'aggettivo meraviglioso. Non era da lui, semplicemente. Non tendeva a mostrare le proprie emozioni nè ad assoggettarsi a forti turbamenti, e proprio per questo Bran lo idealizzava come un'entità superiore, distante, infallibile ed onnisciente. E adesso quel meravigliosa gli aveva fatto crollare la terra sotto i piedi.
Jojen non doveva definire nessuno meraviglioso. Nessuno, se non il suo re. La missione della sua vita era stata cercare, accompagnare ed aiutare Brandon Stark, non quell'altra. Quell'altra doveva stare al suo posto nel futuro e non impicciarsi. Bran stava proprio per chiedere cosa la rendesse tanto meravigliosa, questa Levenna, ma poi decise che non glie ne importava un ben nulla, e che Jojen probabilmente non glie l'avrebbe detto, e che era ora di dormire. Fece distrattamente cenno al suo consigliere di liberarsi di quelle scartoffie e spegnere la candela. Jojen obbedì, per poi rimboccargli le coperte fino al mento.
Un altro motivo per cui Bran s'era innamorato di lui era la tacita adorazione che aveva per il suo corpo, quello stesso corpo spezzato a causa del quale tutti avevano additato il proprietario come debole ed inutile, quello stesso corpo che rompendosi aveva infranto i sogni e le speranze di un bambino di dieci anni. Lo toccava con deferenza, con premurosa delicatezza, come se fosse qualcosa di inestimabilmente bello e fragile. Perchè Jojen lo aveva onorato e rispettato fin da prima che diventasse il potentissimo Re Metamorfo del Nord, fin da quando era soltanto un piccolo storpio spaventato in mezzo al bosco.
-Dormi bene, Maestà. Domani sarà una giornata lunga.- gli augurò, prima di sfiorargli la bocca con un bacio fugace.
Le sue parole svuotarono Bran di tutto il resto e lo colmarono come il calore del fuoco, come il sole in uno specchio.
-Buonanotte, Jojen.- sussurrò piano, carezzandogli appena una guancia, sistemando poi la mano sotto il cuscino e chiudendo gli occhi. Si addormentò quasi immediatamente, sfinito, i pensieri perduti in un pozzo dal fondo irraggiungibile, e di certo non si aspettava quanto brusco sarebbe stato il suo risveglio.
S'accorse d'essere di nuovo cosciente quando un urlo prese forma e gli sconquassò la mente, fino a fargli tremare le vene. Non ci mise troppo a capire che si trattava di Jojen ma, quando si sollevò precipitosamente dal materasso e si strofinò gli occhi impastati di sonno, scostando le coperte, il grido s'era già affievolito nel silenzio. Bran cercò il suo consigliere con lo sguardo, allarmato, e lo trovò seduto a terra, la schiena poggiata contro il letto e gli occhi sbarrati.
-Jojen? Che succede?- tentò il re, inquietato, allungando una mano per toccargli la spalla destra. Il ragazzo però si mosse: il suo petto si gonfiò, assecondando il respiro concitato, le iridi si dilatarono a contatto con la luce del giorno e la bocca si schiuse in un ultimo gemito soffocato. In fretta allungò le mani sotto il letto, afferrò il pitale e ci vomitò copiosamente dentro.
Bran era atterrito. -Cosa c'è? Cos'hai? Jojen...-
Quando l'aveva sentito urlare, i peggiori presentimenti lo avevano assalito. Per qualche angosciante secondo, le disgrazie più terribili si erano susseguite nella sua mente: torture, rapimenti, interrogatori, ma anche l'immagine di una sola spada conficcata in quel petto sul quale tante volte aveva trovato conforto...
Jojen sollevò la testa. Il suo viso era cereo e provato, come se avesse visto l'inferno e fosse tornato indietro in una sola notte.
Infine riuscì ad aprire la bocca. -L'ha mangiata...-
Bran corrugò le sopracciglia, finchè non realizzò, in un'ondata di mortificazione. -Chi?-
-Si è mangiato... si mangerà la figlia minore dei Frey.- I suoi occhi erano frantumati dall'immagine delle fauci di Rickon, impastate di rosso, che frugavano ingorde nel ventre squartato e straziato di una ragazzina esanime.
Si mangerà la figlia minore dei Frey. Bran scosse la testa, appoggiandosi con il braccio al materasso. Avrebbe potuto forse fare qualcosa per impedirlo? Voleva forse fare qualcosa per impedirlo?
-Che gli dèi abbiano pietà di lei.- ribattè stancamente, e tutto quello che c'era nella sua voce era soltanto la logorata freddezza d'una compassione esausta.
***
-Yara.-
Durante la notte, una notte che, fino al momento di spegnere la candela, sembrava destinata ad offrire soltanto il tepore negligente delle coperte, la dolcezza antica della luna.
-Yara.-
Durante la notte, ancora.
-Yara Greyjoy...-
La Regina del Mare sollevò le palpebre, lottando contro il bruciore della sonnolenza, affrontando la vivida oscurità della stanza con le sue pupille indolenzite ed impreparate. Nonostante la difficoltà che avrebbe dovuto affrontare per riaddormentarsi -sia a causa dell'inquietudine, sia di quel sofferto risveglio dei sensi- ispezionò l'intrico delle tenebre come se volesse fenderne l'immunità e penetrarne il mistero, strappando quei drappi neri che impedivano il suo sguardo, ed andare oltre la difensiva apparenza di quei segreti. Il silenzio era piatto, spietato, apatico. Le ombre della stanza, indifferenti e boriose nella loro ragionevolezza -era ovvio che, se là in fondo c'era un armadio, lì ci fosse una grande chiazza nera, no? Assolutamente logico- sembravano schernire annoiate i suoi indistinti timori; ma Yara non si fidava certo della loro statica finzione. Sapeva quel che aveva sentito. Inquieta, lanciò un'ultima occhiata circolare alla stanza, attenta a cogliere qualsiasi piccolo rumore. Benchè l'idea fosse poco allettante, si sporse anche giù dal letto per controllare che non ci fosse nessuno sotto di esso, così come presso il comodino.
Infine, lo sguardo di Yara scivolò sulla figura sdraiata nel letto accanto a lei. Tristifer, fasciato dalle lenzuola, dormiva con un'espressione assorta ed il viso affondato nel cuscino, inconsapevole delle preoccupazioni della moglie. Lei continuò a fissarlo per qualche secondo, cercando una risposta alle sue domande, e poi sospirò. Forse, per mettersi l'animo in pace, avrebbe dovuto setacciare il castello corridoio per corridoio: ma aveva già assegnato alle guardie quel compito, e sicuramente sarebbe stato tutto inutile. Allora, sebbene scossa ed incerta, si arrese a sprofondare nel materasso e chiudere gli occhi, alla ricerca del sopore perduto, incapace di svuotare la mente come avrebbe dovuto per riposare al meglio.
Il giorno successivo, proprio come sospettava, furono rinvenute altre due guardie morte. Ancora. Era da una settimana a quella parte che si ripeteva la stessa, ineluttabile tragedia, senza che il colpevole venisse colto con le mani nel sacco.
-Si tratta di veri esperti nell'arte dell'omicidio, mia signora.- era tutto quello che il capo delle guardie aveva saputo dirle. E intanto gli uomini continuavano a morire, stroncati come foglie su rami autunnali, e le voci si diffondevano per le Isole di Ferro: un mercenario attenta alla vita della regina, e lei è così incompetente che lo permette, ma in fondo c'era da aspettarselo, è solo una donnetta, e tutti si chiedevano chi potesse essere il mandante, e si ipotizzava questa o quella famiglia nobile ed influente, ma erano meri pettegolezzi da mercato. Gli abitanti di Pyke tremavano nei loro letti all'idea che la prossima vittima potesse essere un loro familiare, amico, conoscente, o loro stessi. Non si capiva cosa stesse cercando di ottenere, questo assassino misterioso, perchè finora non aveva mai tentato di prendersi la vita della regina, benchè ella sembrasse il bersaglio più logico, benchè egli paresse invincibile ed il suo successo una spaventosa certezza. Anche Yara non aveva dubbi: se il killer avesse deciso di ucciderla, sarebbe morta. Se questo tipo riusciva a trucidare guardie armate fino ai denti in gruppo, per lei non c'erano speranze. Confidava nella propria forza e nelle proprie capacità, non si sottovalutava in quanto donna a prescindere, però era anche dotata di grande obiettività, ed obiettivamente quello era un nemico ch'ella non era affatto sicura di poter eliminare in uno scontro fisico: però certo non lo evitava per codardia. Aveva fatto tutto il necessario, il possibile; aveva rafforzato la sicurezza, innalzato nuove fortificazioni alla bell'e meglio, assoldato nuove guardie sia come scorta personale, sia come sentinelle di vedetta. Tutto era stato inutile. Ogni volta che Yara faceva un passo avanti per scampare all'assassino seriale, egli la sbeffeggiava vanificando i suoi sforzi e mietendo il doppio delle vittime. Era un fenomeno terrificante, inarrestabile, a tal punto che Tristifer le aveva proposto di trasferirsi.
-Potremmo chiedere asilo in un'altra isola e trovare un nascondiglio nelle segrete, o qualche altro posto di massima protezione.- aveva insistito, sollecito.
-Oh, molto astuta l'idea di chiedere asilo alle stesse persone che probabilmente ci hanno messo un assassino alle calcagna.- aveva replicato lei acidamente. -Non possiamo fidarci di nessuno, Tris, men che meno degli abitanti delle altre isole. Mi odiano e, anche se non fossero loro ad aver architettato tutto questo, non vedono l'ora che il tipo riesca a uccidermi, così si sarebbero liberati di me senza doversi nemmeno sporcare le mani. E non guardarmi così,- aveva aggiunto, squadrando l'espressione allibita e disincantata del marito, -perchè non tutti sono buoni e scemi come te. Apri gli occhi, maledizione! Il mondo è pieno di brutta gente, e tu lo scopri adesso? Scendi dalle nuvole, per l'amor del Cielo.-
Un po' deluso, egli non aveva insistito sull'argomento. -Però non possiamo nemmeno rimanere qui a farci ammazzare.- le aveva fatto notare, ansioso.
Yara aveva scosso la testa, sconfortata. -Non esiste un maniero più protetto di Pyke.-
Era vero, ma ormai Pyke era la scacchiera sulla quale l'assassino muoveva le proprie pedine e faceva le proprie mosse, indisturbato, come uno spettro. Era incredibile come facesse ad agire così silenziosamente, rapidamente ed efficacemente, senza mai mancare l'obiettivo. Il mare assisteva imperturbabile, ruggendo e scrosciando, manifestando una rabbia intraducibile e cantando il dolore di un popolo intero.
Avvenne durante un pomeriggio in cui la gradine s'era alleata con la pioggia battente per impedire a Yara di uscire da Pyke; di solito, lei preferiva fare un giro a cavallo fino ai villaggi per prendere un po' d'aria, testare il clima che c'era e rassicurare la gente (il che non le riusciva particolarmente bene, in parte perchè la situazione era davvero disastrosa come sembrava, in parte perchè il carattere scontroso di Yara non l'agevolava granchè nei rapporti umani). Mentre percorreva un corridoio in direzione dello studio dove teneva la contabilità, per controllare un importo proveniente dalle Città Libere, lo sguardo della ragazza -pronto e vigile per necessità- cadde su un minuscolo frammento di stoffa rossa, che una volta raccolto ed esaminato parve il lembo di un mantello. Le guardie a Pyke non vestivano di rosso, e non erano venuti ospiti di recente: tranne uno, non molto desiderato. Ma la cosa più interessante era il luogo del ritrovamento; si trattava di una porta che conduceva ai sotterranei, una serie di gallerie scavate appena sopra il livello del mare, come ce n'era in quasi tutti i vecchi castelli, d'altronde. Significava che l'assassino si serviva di quei passaggi per muoversi per il castello, dato che esistevano quattro accessi dislocati in diverse parti del maniero. Yara non ricordava d'avere ordinato alle guardie d'ispezionarli, ma probabilmente lo avevano fatto, senza però ottenere risultati. Utilizzare quelle gallerie per spostarsi significava anche conoscerle benissimo, a tal punto da sapere dove nascondersi, in che punto v'era il collegamento con il castello, eccetera. Possibile che l'intruso le avesse studiate?
Yara non perse altro tempo e decise di prendere un po' di guardie con sè per ispezionarle daccapo, personalmente. Anche se magari non avessero trovato proprio il responsabile, almeno ci sarebbero state tracce del suo passaggio: resti di cibo, mozziconi di candela, coperte. Altrimenti cosa se ne faceva, dopo averne usufruito?
Yara andò in cerca del capitano delle guardie, per riferirgli la sua scoperta e le sue intenzioni, e le venne detto che lord Tristifer l'aveva mandato a chiamare, perchè desiderava fare un'uscita a cavallo. Infastidita, la ragazza si diresse quindi alle stanze del marito. Giunta alla porta, l'aprì e varcò la soglia in tutta fretta.
-Tris, dov'è Orkwood? Devo parlargli il prima po-
La voce le morì in gola. Tristifer Botley la fissava un po' sconcertato, con gli occhi sgranati in un'espressione appena allarmata; dalla bocca socchiusa colava una stilla di sangue che sembrava una lacrima. Una grossa spada si faceva largo fra le sue viscere, conficcata nello stomaco fino all'elsa, e lo teneva sollevato da terra di pochi centimetri. Attorno a lui soltanto sangue, sul muro, sul pavimento, sui vestiti pregni ed appesantiti. Le pupille vacue di Tristifer erano fisse sulle sue, come una lenta, inconsolabile accusa.
L'urlo che salì alle labbra di Yara venne incompreso e rifiutato dalle labbra, che lo respinsero nella gola, al punto di rischiare di strozzarla. Non riuscì a muoversi, a parlare, a chiamare aiuto. Sapevi che sarebbe potuto succedere. Lo sapevi. Soltanto diversi minuti più tardi le guardie, svolgendo la loro abituale ronda, la ritrovarono incapace di reagire, l'odore del sangue ad otturarle le narici. In seguito, furono fatte delle analisi a mente lucida: secondo un esperto la spada non era stata forgiata nelle Città Libere, ma nemmeno nelle Isole di Ferro. Ma fu un altro, il dettaglio che venne indicato a Yara e che le fece accapponare la pelle. Il dito mignolo era stato del tutto scorticato -quando Tristifer era già morto, presumibilmente, dato che nessuno l'aveva sentito urlare. Dunque il motivo per cui quel lembo di pelle gli era stata rimosso, se non per torturarlo, non poteva essere che un avvertimento, no? Scorticato.
-Domani mattina partiremo.- fu tutto quel che Yara riferì alle guardie, prima di uscire da quella stanza. Giusto il tempo per seppellire quel disgraziato.
Voleva soltanto avere dei figli. Voleva soltanto avere una famiglia, pensò Yara, ingoiando dolorosamente il nodo di lacrime che le opprimeva la gola. Non l'aveva amato, è vero, però erano amici fin da quando erano bambini. Gli aveva voluto del bene; c'era sempre stato rispetto fra di loro. In fondo, grazie a lui, Yara aveva potuto amministrare le Isole di Ferro come aveva voluto, pur essendo donna, senza interferenze da parte sua. Quella piccola ingiustizia, soltanto una microscopica goccia del mare d'ingiustizie che al mondo erano avvenute, avvenivano e sarebbero avvenute, la ferì più profondamente di quanto avrebbe immaginato. Non aveva mai realmente ipotizzato che Tristifer potesse morire; Tristifer, che viveva con la spensieratezza e l'allegria che a lei erano sempre mancate. Pareva troppo felice d'essere al mondo per poter essere ucciso. E, pur rimanendo ferma e fedele alle proprie motivazioni, iniziò a percepire un infimo senso di colpa per avergli negato quelli che per convenzione erano i diritti d'un marito; per averglieli negati, oltretutto, prima della fine. Chi avrebbe mai immaginato che sarebbe potuta arrivare così in fretta?!
Quella sera Yara prese sonno molto tardi, dopo aver trascorso il pomeriggio ad organizzare un funerale in fretta e furia, senza invitare nessuno se non i parenti di Tristifer; fu una cerimonia patetica, in cui il terrore scuoteva l'aria ed il panico friniva attorno a loro, sotto la cappa d'un cielo gravido di pioggia, ferito dagli squarci dei tuoni. Persino gli sguardi dei suoceri erano taglienti, inclementi, come se stessero silenziosamente accusando Yara di tutto quel ch'era successo, dalla morte del figlio alla mancanza di eredi. E hanno ragione, rifletteva lei, in parte hanno ragione.
Quando si svegliò di soprassalto, nel cuore della notte, Yara si accorse che il buio attorno a lei era diverso dal solito, e la carenza d'aria glie lo confermò: aveva la testa infilata in un cappuccio lanoso e ruvido. Immediatamente fece per gridare, ma una mano spinse la stoffa nella sua bocca. Emettendo un verso rantolante e smorzato, Yara scalciò, si divincolò e tentò di sottrarsi in ogni maniera, rendendosi conto di stare lottando per la propria vita. Il cuore le martellava nel petto. E poi un dolore acutissimo esplose sul suo braccio, acido e lacerante come il morso di denti d'acciaio rovente, una sofferenza ustionante che colmò la sua mente e dilaniò i suoi pensieri, distraendola persino dal pericolo imminente. Dopo un'era interminabile finì, così come s'affievolì la presa inamovibile che impediva il corpo di Yara fino a svanire. Quando la ragazza si strappò il cappuccio dal volto, la sua stanza era già vuota. Fece per balzare in piedi ed inseguirlo, ma il dolore la frenò accecandola e togliendole le forze: ella lanciò un'occhiata al suo braccio, ricoperto di sangue che continuava a scorrere da grossi tagli aperti. Soltanto una mezz'ora più tardi, dopo che Yara chiamò le guardie e venne soccorsa, pulito il suo braccio ed esaminate le sue ferite, si potè rilevare che gli sfregi incisi sulla carne erano stati tracciati in modo da formare grossolanamente delle lettere. Le nostre lame sono affilate.
Il suo intento non era stato ucciderla, perchè altrimenti l'avrebbe fatto, ma dimostrarle che poteva colpire chi, quando, come e dove voleva, che nessuno lo poteva fermare. Dopotutto, lei se andava anche con il sollievo di non lasciare Pyke nei guai, di non venire meno ai suoi doveri di regina: ciò che Ramsay Bolton voleva non era nè l'isola, nè il castello, nè lei. Era Theon.
Yara si presentò in camera di suo fratello, senza attendere l'alba; la stanza veniva controllata costantemente da dei piantoni.
-Andiamo.- esclamò appena entrata. Theon non dormiva, com'era prevedibile. Aveva saputo della morte di Tristifer, dopotutto. Il suo sguardo era esplicativo, penetrante, e Yara non riuscì a sostenerlo.
-Avevi ragione,- continuò nervosamente, -ma non abbiamo tempo per questo. Dobbiamo fare in fretta. Lui potrebbe arrivare da un momento all'altro...-
-Dove andremo?- La voce di Theon era calma, per una volta.
Yara sospirò. -Immagino che lo scopriremo soltanto vivendo. E per vivere, l'unica cosa che dobbiamo fare è andarcene. Ovunque sarà meglio che qui.
Le nostre lame sono affilate. Ho afferrato il concetto, ma non aspettarti che ripeta lo stesso errore.
***
Un messaggero, dietro il codazzo di persone radunate nella tenda del re, attendeva di essere ricevuto. Appena Bran lo adocchiò, fece un cenno con il capo dandogli il permesso di avvicinarsi.
-I Frey hanno intuito il nostro attacco e sono in stato d'allerta. Si sono barricati dietro le mura, Maestà.- annunciò con voce ansante.
Gli occhi del re del Nord baluginarono di trionfo. -Perfetto. Assolutamente perfetto. Rickon, sei pronto?-
Il fratello minore annuì con il capo e subito due ragazzetti, che non avevano più di undici anni, gli tesero una grossa spada e una mazza da guerra. Egli infilò nel fodero appeso alla cintura l'una e strinse saldamente in mano l'altra.
-Dove hanno inviato le loro truppe?- domandò bruscamente al messaggero.
-Nord-est rispetto alla Forca Verde.- bisbigliò lui, intimidito. Rickon lo squadrò con sufficienza, quasi chiedendosi se ci fosse di che fidarsi, ed avanzò oltre, seguito dai comandanti delle truppe.
-Mi raccomando. Sai che cosa devi fare. Tempismo e precisione.- esclamò Bran, osservando il fratello che si dirigeva verso l'uscita. -Alle posizioni delle catapulte provvederà Edmure... e stai attento.-
Rickon fece una smorfia e non gli diede troppo retta. -Sono sopravvissuto senza le tue manfrine fino adesso, fratello. Scommetto di poterlo fare ancora per un bel po'.-
L'unica persona che gli interessava davvero salutare era Myrcella, che si era gettata fra le sue braccia con gli occhi lucidi. Torna, era stato tutto quello che gli aveva bisbigliato all'orecchio, torna. E era a quelle due sole sillabe che Rickon si sarebbe aggrappato, se fosse sopraggiunto un momento di disperazione e sconforto. Solo per lei gli importava tornare. Gli altri erano superflui, accessori. Gente che prima non c'era, senza che lui ne sentisse la mancanza. Invece, in fondo, l'assenza di una persona come Myrcella aveva sempre lasciato un vuoto dentro di lui, che egli aveva sempre cercato di colmare nel modo sbagliato.
-Ah, Rickon?- Le parole di Bran lo frenarono quando ormai era già all'uscio della tenda. Si voltò, senza curiosità. Negli occhi di Bran Stark, egli vide appiccato l'incendio d'una frenesia nuova, come una gioia finora negata che scoppi senza rigore, un contegno eluso e violato. -Non tollererò di vedere nessun supestite.-
E, per la prima e l'ultima volta in vita sua, Rickon s'inchinò solennemente sulle ginocchia, con il suo folle sorriso sulle labbra. -Ai tuoi ordini, Maestà.-
Per pochi istanti non fu il sangue nè il dolore ad unirli, ma solamente l'ebbrezza di quella vendetta che nulla poteva rimediare, nulla poteva restituire, nulla poteva concedere, se non una felicità peritura d'indicibile bellezza.
Dopo una lunga marcia fino alle Torri Gemelle, che iniziò all'alba, una parte dell'esercito guidata da Stannis andò a combattere contro le truppe inviate dai Frey per respingere gli invasori, mentre il grosso delle forze del Nord accerchiò le Torri stesse; immediatamente, i soldati cominciarono a caricare le catapulte con barili incendiati, contenenti olio, resina, pece ed altre misture infiammabili e gli arcieri, armati di archi e balestre, scagliarono frecce dai pennacchi fiammeggianti; quando finirono le munizioni, si cominciò a scagliare torce, pezzi di legno cosparsi di sostanze infiammabili. Le pietre del castello si fondevano, rompendosi e causando il crollo di tetti e fortificazioni; i materiali infiammabili all'interno delle torri propagavano l'incendio. Un'altra parte dell'esercito si occupò di scavare buche ai piedi della muraglia, di modo da scoprire le fondamenta di legno ed appiccare il fuoco anche lì, grazie all'ausilio di combustibili, per provocare il collasso delle strutture sovrastanti, e quella precauzione era stata presa anche per distruggere eventuali tunnel sotterranei delle fortezze. Il resto degli uomini si curava che nessuna ala del castello venisse lasciata incustodita e che quindi coloro che erano all'interno non potessero fuggire in alcun modo, costretti a bruciare vivi nelle torri oppure ad essere uccisi nel tentativo di evadere da quella trappola mortale. Dopo tre ore di lanci, l'incendio divampava alto fino al cielo e le Torri Gemelle, come avvolte nelle spire di un serpente mastodontico, erano accolte dalle braccia della morte. Le urla non si udivano già più. L'aria era rappresa di fumo, un fumo che anneriva la volta celeste ed impediva ai soldati di distinguersi l'un l'altro, ma soltanto una cosa importava: il piano era riuscito. Le truppe di Stannis, dopo aver sconfitto quelle dei Frey, si diressero verso l'incendio; Davos Seaworth si sentì stringere il cuore a quella vista terrificante.
Soltanto sul far della sera Myrcella riuscì finalmente a convincere gli attendenti, ai quali era stata data in custodia, ad accompagnarla sul luogo della strage. Scesa dal carro, andò a cercare Rickon con occhi ansiosi nella folla dei soldati esultanti; lo trovò di fronte alle Torri incendiate, a guardare con occhi sgranati. Come se si trattasse d'un'immensa pira sacrificale, teneva un ginocchio a terra, quasi in segno di rispetto -non tanto verso i morti, ma verso la morte stessa. Poi s'alzò e chiuse gli occhi, chinando il mento contro il petto, in torva e religiosa adorazione, perchè quella del fuoco era l'unico culto che gli fosse rimasto; ascoltava il berciare stridulo e distorto delle mura che crollavano progressivamente ed il canto limpido e cristallino delle fiamme, perchè quella era l'unica verità che avesse mai accettato.
-Rickon!- Mai vedere qualcuno aveva provocato tanto sollievo alla sua anima. Le preoccupazioni dell'intera giornata erano evaporate alla luce di quel sole crudele, quando Myrcella avvolse il corpo di Rickon con le braccia, da dietro. Gli appoggiò la testa sulla curva del collo, prima di baciargli la nuca. Rickon si voltò e la guardò negli occhi, mentre un sorriso incurvava le sue labbra.
-Abbiamo vinto.- disse, quasi sconcertato dall'euforia. -Abbiamo vinto!-
Prese Myrcella fra le braccia senza la benchè minima fatica, come se fosse uno spiritello d'aria, nonostante il sudore che gli colava dalla fronte alle guance; cominciò a girare su se stesso, finchè la fanciulla non scoppiò a ridere. C'era follia nell'aria, insieme alla fuliggine ed alle scintille incandescenti; e Myrcella si sentiva inguaribilmente, innegabilmente felice. Abbiamo vinto. Erano parole dolci, parole sapide, parole di cui si colmarono la bocca fra un bacio e l'altro, ubriachi ed insaziabili. E Myrcella partecipò appieno a quell'abbiamo vinto, senza timore, senza esitazione, non più. Forse quello contro il petto di Rickon non era il suo posto, in fin dei conti, però lei voleva che lo fosse, e per una volta il destino non avrebbe dovuto intromettersi.
-Sei stato molto valoroso.- sussurrò lei, con un sorriso commosso.
Rickon inarcò un sopracciglio, beffardo. -Più valoroso dei tuoi cavalierucci dall'armatura scintillante?-
-Molto, molto di più.- assicurò Myrcella divertita, baciandolo di nuovo.
L'esercito del Nord rimase tutta la notte presso le macerie delle Torri Gemelle, mentre i soldati penetravano nelle fortezze e cercavano di fare un vago calcolo delle vittime, in quei corridoi dove la cenere dei suppellettili s'univa a quella delle fanciulle. L'unica vera superstite ch'era stata miracolosamente rinvenuta era una ragazzina minuta, di circa quattordici anni, che invano aveva finto di essere morta; a lei Rickon aveva rivolto un sorriso giulivo, sussurrando adesso vediamo cosa posso farmene di te. Oh, forse mi è venuta un'idea.
Fu al mattino che giunse l'esercito di Re Tommen. Lo scontro fu evitato per il fatto che l'unico ponte che avrebbe permesso di accedere all'una o l'altra sponda era sotto il controllo degli uomini del Nord, e perchè il pericolo dell'incendio che ancora imperversava non era scampato. L'unico che ebbe l'ardire di attraversare il ponte e spingersi quasi fino all'altra sponda fu Rickon, con Myrcella al suo fianco; il motivo fu presto spiegato.
Quando i suoi uomini fecero notare a Tommen l'arrivo del giovane Stark con la prigioniera, il re non riuscì a trattenere l'entusiasmo. Me la vuole restituire, fu il primo, ingenuo pensiero. La sua mente lavorava febbrile, inebriata da inaspettate e vivaci speranze, ed il pensiero di ciò ch'era accaduto alle Torri Gemelle era già stato accantonato. Quindi quello Stark aveva portato Myrcella in guerra con sè... poteva averlo fatto solo per una ragione, no? Altrimenti l'avrebbe tenuta al sicuro, nelle segrete di Grande Inverno. Magari chiedeva uno scambio, un compromesso... Tommen gli avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di riavere sua sorella al fianco. Qualsiasi? Anche la pace? sussurrò una vocina sibilante al suo orecchio. Tommen lo scartò a disagio: ci avrebbe pensato a tempo debito, casomai quella situazione si fosse presentata. Myrcella, Myrcella! Chissà quanto aveva sofferto! La sua povera e fragile Myrcella non si meritava tutto questo. Ma stava per finire, sì, Tommen aveva il fraterno dovere di proteggerla. Non se la sarebbe fatta sfuggire dalle mani di nuovo.
-Come sta? L'avete vista? È ferita? Rispondete!- aveva subito chiesto ai soldati, impaziente.
-Sembra incolume, Maestà.- era stata l'incerta risposta. -Stark chiede un colloquio privato con te, concedendoti di portare una scorta, per dimostrare d'avere buone intenzioni. Ad ogni modo, rimarrà sul ponte e non ti raggiungerà.-
Ma Tommen avrebbe preferito uno scontro a singolar tenzone, piuttosto che un colloquio. Come si permetteva, quello, di trattarlo come un bambino?! Forse che lui non aveva il suo rancore, la sua brama di vendetta? Forse che lui non desiderava cancellare Rickon Stark dalla faccia della Terra, più di quanto il nemico non desiderasse cancellare lui?
-Io non ho niente da dirgli, ho soltanto una sorella da recuperare e una spada per trafiggergli il cuore.- aveva risposto, spavaldo. Era l'affetto di fratello, la nostalgia verso Myrcella a farlo parlare in questo modo -ed anche il fatto di non aver mai visto Rickon in azione, già. Non aveva idea di chi fosse l'avversario che affermava di voler sfidare.
Dopo aver udito la proposta ed aver valutato la questione, Tyrion persuase il nipote ad accettare, sebbene non fosse affatto certo delle buone intenzioni del giovane Stark. Se chiede un colloquio, non è per trattare la pace, sicuramente; quindi le alternative sono che lo vuole ferire o umiliare, aveva concluso fra sè. Sarebbe stato comunque interessante scoprire cosa Rickon Stark avesse da dire -o da mostrare. Ma forse che Tommen aveva scelta? Si sarebbe svergognato agli occhi del proprio schieramento e di quello avversario, se si fosse rifiutato.
Fu così che Tommen scelse chi portare con sè, senza avere troppi dubbi:
-Ser Loras.- decretò immediatamente, -zio Jaime, lady Brienne.- Si fece consigliare per nominare altri quattro guerrieri, poi non esitò a partire il prima possibile, smanioso e scalpitante al pensiero di riabbracciare Myrcella.
Il drappello abbandonò l'accampamento, posto nei pressi di Seagard, e si diresse fino al ponte che connetteva il Nord al Sud.
Rickon era là, proprio sul ponte, a portata di voce ma abbastanza distante da essere avvolto dalla nebbia arrossata di fuoco; stava osservando gli uomini a cavallo avvicinarsi, sogghignando. Quando il rumore degli zoccoli si placò improvvisamente e le figure rimasero immobili davanti a lui, il ragazzo parlò, con una voce aspra e aguzza come Tommen non aveva mai sentite.
-Guarda guarda, e questo sarebbe il piccolo leone. Ma lo sai che assomigli incredibilmente a tua sorella? Anzi, potrei fottervi entrambi senza rendermi conto di chi è chi.-
Il giovane Baratheon avanzava e cercava di mostrarsi impavido allo sguardo dei suoi uomini e di quelli del Nord. L'aspetto di Rickon Stark gli fece correre un brivido lungo la schiena, coperta dal mantello reale: era addirittura sinistro, con quei lunghi ciuffi rossi, asimmetrici e diseguali, che ricadevano sulla spalla sinistra come un rivolo di sangue, e la grossa pelliccia striata di grigio adagiata sulle spalle, estremamente pesante a vedersi; e poi il volto era impressionante, segnato da una lunga cicatrice che dallo zigomo scendeva oltre il collo, dove le vesti impedivano di sbirciare, e gli occhi erano accesi come braci di fuoco azzurro. Il suo sorriso, a snudare lunghi canini acuminati, aveva qualcosa di predatorio, di tagliente. Tommen ignorò l'insulto gratuito con dignità, evitando sdegnosamente di rivolgersi a quello strano barbaro dalla voce roca. Non c'era nulla di Stark in lui.
-Vedo che ti sei portato dietro quella checca di Tyrell. Le sue braccine non sarebbero buone nemmeno arrostite, da mettere sotto i denti, figuriamoci per tirare di spada...- continuò sferzante, lanciando un'occhiata di scherno a ser Loras, che -se il soldato di fianco a lui non gli avesse tirato una gomitata per zittirlo- chissà che spergiuro avrebbe sbottato.
E Myrcella?
-Myrcella!- urlò Tommen, la voce contrastata dal vento, i riccioli biondi arcuati e solleticati fino a creare diafani arabeschi nella cenere. -Myrcella!-
Quando la vide, il suo cuore fece una capriola nel petto. Era lei, era lì, pallida e bellissima nell'aria glaciale, come una flessuosa statua di neve calda, esile ed estremamente graziosa. Il fratello non la ricordava così bella. Era piccola ed indifesa fra le grinfie di quello Stark, fasciata di stoffa celeste e lucente, le spalle nude e lasciate in balia dell'aggressività del vento. Soltanto le gote erano punzecchiate d'un dolce color cremisi.
Ma c'era qualcosa che non andava. Tommen non se ne accorse subito, però dopo averla chiamata a gran voce fu impossibile negarlo: lei non sembrava altrettanto impaziente di ritrovarlo. Sua sorella era aggrappata al braccio del rapitore e non diceva nulla, tenendo lo sguardo a terra; quando udì il proprio nome, lanciò una breve occhiata timorosa al fratello, come se non lo riconoscesse nemmeno. Forse che Rickon le avesse ordinato di non dargli retta ed ignorarlo? Eppure sarebbe stato molto più divertente per lui, a rigor di logica, sentirla supplicare e singhiozzare e chiamare il fratello vanamente, e conficcare quella voce implorante nel cuore di Tommen, e mettergli davanti agli occhi quel grande dolore....
-Myrcella...- sbraitò Tommen. -Myrcella, mi senti?-
Infine puntò lo sguardo accusatore contro Rickon. Perchè Myrcella non parlava, quindi? Perchè non rispondeva? Perchè non strillava e piangeva pregando d'essere liberata? Egli si aspettava di certo un altro genere di accoglienza, come un sorriso contento, una lacrima sulla guancia, una traccia di quel sollievo ch'ella avrebbe dovuto provare, nel vedere i tanto amati volti dei suoi parenti dopo tanto tempo...
-Che cosa le hai fatto?- lo apostrofò, indicando Myrcella con il capo.
Il giovane Stark sorrise dolcemente. -La questione non è che non ti sente. Non ti vuole ascoltare. Sei contento, Lannister? La vostra depravazione è riuscita ad inorridirla.-
-Che cosa stai dicendo?!- Tommen guardò dalla parte di sua sorella. Sembrava davvero stare bene, almeno fisicamente. Indossava un vestito di raso bianco senza spalline, con una sottoveste azzurro fiordaliso ricamata a fiori ed inserti turchesi anche nel bustino; dei cristalli luccicanti ne decoravano lo scollo e i fianchi. Un abito da principessa del Nord, anzichè del Sud, pensò egli. Il viso di Myrcella era intatto, chiuso nel suo niveo candore, e le sue labbra rimanevano serrate in un'espressione di sostenuta negazione. Egli cercò il suo sguardo, senza successo; più la richiamava, più si esponeva, più ella s'imbarazzava ed indietreggiava.
-Le ho raccontato tutta la verità.- rispose Rickon, gustosamente. -Su di voi e le empietà che avete commesso indisturbati. E adesso vi disprezza, com'è giusto che sia. Ma diglielo tu, Myrcella, altrimenti non mi crede.-
Myrcella schiuse le labbra, come per rispondere, ma poi parve cambiare idea e scosse la testa stordita. -Io parlo solo con te. Non voglio parlare con... nessun altro.-
D'un tratto, proprio quando era riuscita ad abituarsi e ad apprezzare la sua nuova condizione, la realtà d'un tempo si parava davanti a lei e la chiamava. Myrcella era estremamente confusa e, all'idea di ciò che presto avrebbe dovuto fare, tremava e cercava il calore del corpo di Rickon sotto il mantello.
-Sentito? Nessun altro.- Il ghigno del ragazzo si allargò, mentre tendeva un braccio per circondarle la vita. Tommen emise un singulto. Il gesto non era certo passato inosservato.
-La stai costringendo a dire così. La stai obbligando. Non sta parlando di sua volontà! È così evidente... Myrcella, ti prego, ascoltami.-
Poi fece l'errore di scendere dal cavallo e d'avanzare di qualche passo. Myrcella spalancò gli occhi vitrei, scossa da uno spasmo, e si nascose dietro la figura di Rickon. Non era certa di nulla, ma l'unica cosa che sapeva era che non voleva tornare indietro. Non voleva tornare a prima. Non voleva vivere ad Approdo del Re a chiacchierare con Margaery e guardare i fiori che sbocciano, con il sole sulla pelle. Quella non era vita vera, vita pura, vita apprezzabile; soltanto una pseudo-esistenza senza timori nè speranze, senza gioia nè dolore, un limbo indefinito e neutro, dove la passione e l'adrenalina non l'avrebbero mai colta. Lei, per la prima volta, voleva correre, gridare, farsi sentire; lei voleva Rickon.
Il grande metalupo che seguiva Stark ovunque si parò davanti ai due e mostrò i denti, terribilmente simili a quelli del padrone, ringhiando. Il ragazzo strinse la fanciulla più forte.
-Non ti preoccupare, è troppo lontano per poterci raggiungere. Non ti prenderà.- assicurò a voce bassa.
Rassicurando? Rickon la stava rassicurando? Perchè lei aveva... paura di Tommen? Non ti prenderà. Le uniche parole che Myrcella voleva sentire...

-No.- biascicò Tommen. -No, è tutto un inganno. Lei non può davvero... insomma! Myrcella, sono io! Sono Tommen...-
Sono Tommen. È proprio questo il punto. Tu rappresenti tutto ciò che sto fuggendo, tutto ciò che minaccia la mia felicità in questo momento. Tu sei l'altro, l'oppositore, il nemico. Tu sei colui che abbiamo vinto. Perchè Rickon ti odia, tu odi Rickon, quindi adesso voi due mi state costringendo ad odiarti. Come fai a non capirlo?! Myrcella tentò di nascondere il viso nel suo mantello, ma Rickon si scostò in tempo per impedirglielo. Si chinò su di lei, e c'era quasi indulgenza nella sua voce, insieme ad una pericolosa, carezzevole beffardaggine.
-C'è un'altra cosa che vuoi dire in presenza di questi signori. Non è vero, Myrcella?-
La fanciulla strizzò gli occhi, quasi per scacciare quel pensiero. Quando in precedenza il ragazzo glie l'aveva proposto, la sua prima reazione era stata l'orrore. Devi darmi un'ultima prova del tuo amore, era stata la premessa, ma Myrcella dapprima s'era rifiutata. Non posso farlo, aveva mormorato. Non posso. Allora Rickon le aveva sfiorato le labbra con un bacio lieve come brina. Davvero non puoi? Io credo di sì.
Myrcella sollevò la testa. Non guardava nessuno, soprattutto non Tommen. Non avrebbe sopportato di vedere un miraggio disgregarsi nei suoi occhi, la disillusione distorcergli i lineamenti, una debole eco di dolore in gola. Dopotutto, anche se adesso stava rifiutando lui e tutto ciò che comportava, l'aveva amato molto, e c'era la possibilità che gli volesse ancora del bene, da qualche parte nel suo cuore abbagliato. Il suo sguardo era vacuo, perduto, mentre parlava.
-Volevo dire che... io e mio fratello... siamo frutto di un incesto. Ciò significa che nostro padre non è Robert Baratheon, e che... la pretesa del trono di Tommen... non ha alcun valore.-
La voce suonò atona e monocorde, ma nelle orecchie di Tommen fu assordante come l'ultimo battito cardiaco di un moribondo, affilata ed impietosa come una lingua di quel ghiaccio che sembrava aver contaminato Myrcella. No. No. No. Non poteva averlo detto sul serio.
-... la sta costringendo. La sta costringendo.- Ormai suonava più come una supplica che come un'affermazione; lui conosceva -aveva conosciuto- Myrcella, e sapeva quant'era coraggiosa, sapeva che non avrebbe mai ceduto a dei subdoli ricatti, che non avrebbe mai calunniato la sua famiglia, nemmeno se c'era di mezzo la sua stessa vita...
Jaime Lannister mosse le labbra in una parola senza suono. Brienne di Tarth strinse in pugno una mano; il suo sguardo non aveva mai abbandonato il giovane Stark, dritto ed implacabile come una lama, concentrato in un odio aspro e disgustato, come se stesse esaminando criticamente il divario che c'era fra loro.
Rickon aveva l'aria di starsi divertendo un mondo. -E come fai a saperlo? Forse tua madre te l'ha confessato, prima di morire?-
Myrcella chiuse gli occhi, le ciglia umide di lacrime. Ormai era troppo tardi per fare marcia indietro. -... sì.-
-Bugiarda!- E fu in quel preciso momento che la voce di Tommen, dall'accomodante incertezza iniziale, si ruppe. -Bugiarda!-
La sorella non lo ascoltò nemmeno; crollò fra le braccia di Rickon, come se fosse esausta. Il ragazzo si voltò trionfante verso Jaime Lannister.
-Lo vedi, Lannister? Non puoi più nascondere la verità, adesso. Per quanto credevi di passarla liscia, ancora? La mia ragazza ha parlato.-
-Io non ho niente da dimostrare, Stark, e sicuramente non a te.- rispose, con una fiera compostezza, una fredda calma che Rickon non aveva immaginato potesse mantenere. -Sei arrivato tardi. Questa diceria hanno già cercato di sfruttarla in troppi, quando tu ti pisciavi ancora a letto.-
-Ho smesso giusto in tempo per farci entrare tua figlia e sbudellarti al primo colpo, in effetti.- sibilò Rickon. -Adesso che persino Myrcella ammette quanto eravate disgustosi, oltre che la mera evidenza, che prove speri di trovare per convincere i Sette Regni del contrario?!-
Jaime fece una smorfia. -Se fossi in te, mi preoccuperei più di dire addio alla testa che di dare aria alla bocca.-
Rickon scoppiò a ridere. -Oh, chiedilo alla mia ragazza, quanto sa essere persuasiva la mia bocca...-
La gola di Tommen era arida; la voce si scagliò oltre le labbra quasi con violenza. -Lei non è la tua ragazza, e gli Dèi sanno quanto le farò rimpiangere queste calunnie, che sicuramente tu le hai ordinato di dire. Se tu non ti fossi comportato come un codardo rimandendo laggiù, se avessi avuto il fegato di affrontarmi, a quest'ora te l'avrei tagliata io, la testa. Ma ben presto succederà, e-
-No.- Myrcella afferrò la mano di Rickon e la portò alle labbra, per poi baciarla. La sua voce era pregna di lacrime. -No. Tommen, basta.-
Il cielo si stava frammentando in mille pezzi e precipitava addosso a Tommen, perchè adesso si chiariva nella sua mente quel basta. Basta credere che io sia ancora la Myrcella che hai lasciato, basta ingannare ed umiliare te stesso in questo modo davanti a tutti, basta sperare che io stia ancora dalla tua parte. Basta. Lasciami andare alle mie colpe, alle mie scelte. Lasciami andare.
Era imbrattata del sangue della loro madre, quella mano che Myrcella baciava con tanta devozione.
-Traditrice.- Tommen sputò quella parola come un bolo di sangue. Il suo petto era scosso dal respiro incalzante. Un pianto rabbioso gli inondava le iridi smeraldine.
Jaime Lannister, dall'alto del cavallo gli poggiò la mano sulla spalla. -Andiamo, Tommen. È inutile rimanere qui a farci deridere ancora.-
Myrcella intercettò il suo sguardo per la prima volta, da quando erano arrivati. Negli occhi di Jaime non c'era risentimento, solo una fioca delusione. Perchè, Myrcella, perchè? Lei distolse gli occhi, imbarazzata dall'enormità della sua colpa, riflessa negli occhi degli altri. Lo sai perchè. Non è molto più nefanda della tua, in fondo.
Se credeva davvero alle parole che Rickon le aveva chiesto di pronunciare? No, no, non voleva. Preferiva rimanere salda nella sua convinzione che, almeno in quello, la famiglia Lannister non fosse proprio così depravata.
Rickon godeva assistendo alla disperazione del ragazzo biondo. -La mia voleva essere soltanto una dimostrazione del fatto che tu, che voi non potrete prendere più nulla di ciò che è mio. Non a me.-
-E chi saresti, tu?- replicò Tommen, infastidito dalla sua arroganza.
-Sono il tuo incubo, piccolo Lannister,- ribattè Rickon rivolgendogli un sorriso sferzante, -e vedrai che quando vorrò prendermi la tua piccola testolina riccioluta da cherubino e il tuo dolce cuoricino infranto non sarà un ponte a fermarmi. Su, non guardarmi così: il mio è un gesto compassionevole. Voi Lannister farete una bella riunione di famiglia all'inferno.-
Dopo queste parole, si voltò con uno scatto che raccolse il vento pungente sotto il suo mantello, gonfiandolo, e svanì nella rossa nebbia come uno spettro, e Myrcella -la piccola traditrice- stretta a lui, con così tanta sfacciata impudenza.
L'esercito del Nord ritornò all'accampamento e lì si celebrò un banchetto come si deve per rifocillare i soldati e festeggiare il primo successo. Bran, nonostante sapesse che avrebbe dovuto essere tormentato dai sensi di colpa, per la prima volta da quando era partito si sentiva allegro, in qualche modo. Il trionfo sulle Torri Gemelle gli aveva dimostrato che la vittoria non era impossibile: era soltanto questione di fare del proprio meglio per raggiungerla. Bran aveva inoltre udito con molto stupore di ciò che Myrcella aveva detto in faccia a suo fratello e a suo padre; non la credeva sul serio innamorata di Rickon, o comunque capace di fare una cosa del genere. Durante i festeggiamenti Rickon si alzò in piedi, sovrastando il brusio generale, il boccale alla mano.
-Propongo un brindisi in onore della nostra amica,- urlò, indicando Myrcella con un cenno, -che ci ha dimostrato che ormai nemmeno i Lannister sopportano più i Lannister!-
L'affermazione venne accolta da un boato di feroce giubilo ed entusiasmo. Myrcella sorrise debolmente: si sentiva ancora un po' scossa dalle forti emozioni di quella giornata, però avvertiva che il legame fra lei e Rickon era cambiato. Prima, il giovane Stark continuava ad essere ai suoi occhi una figura algida, scostante ed imprevedibile: adesso percepiva una nuova vicinanza alla sua anima, quasi le bastasse allungare le dita per toccarla; una comprensione limpida e reciproca, priva di ostacoli e fraintendimenti. Aveva raggiunto la lunghezza d'onda dei suoi sentimenti, aveva ottenuto il libero accesso alla sua vita, era entrata a far parte della sfera dei suoi rari affetti. Non era più una serva costretta al silenzio ed all'obbedienza, ma era riuscita faticosamente a guadagnarsi un valore nel cuore gravemente malato del suo aguzzino. Il loro era diventato un equilibrio, un'armonia -un'alleanza, un'unione più sacra e tangibile persino di quella che un matrimonio avrebbe potuto offrire. Rickon si sedette di nuovo, si voltò verso di lei e sorrise; fissandola negli occhi, le sollevò il mento timidamente chino con l'indice.
-Ho apprezzato molto quello che hai fatto oggi per me,- bisbigliò, -sai?-
Myrcella arrossì. -Non riuscirò mai a sdebitarmi, rispetto a ciò che tu hai fatto per me.-
Il ragazzo parve avere avuto una delle sue strane idee, perchè sgranò gli occhi.
-Sai che cosa facciamo adesso? Ci ubriachiamo di brutto e stanotte ci impegnamo a distruggere la tenda. Che ne dici?-
La fanciulla ridacchiò alla vista della sua espressione maliziosa. -Non credo che tuo fratello sarebbe d'accordo...-
-Da quando in qua si fa quello che vuole Bran?- ironizzò Rickon, scrollando le spalle. Poi rimase qualche istante in silenzio, le prese il viso fra le mani e la baciò -fu un bacio caldo ma non ardente, intenso ma non violento, e Myrcella capì che tutto era diverso, più incredibile eppure più vero -che d'ora in poi non sarebbe stata coraggiosa soltanto per se stessa, ma anche per lui. Non voglio essere la sua debolezza, pensò, ma la sua forza.
Gli uomini del Nord non erano certo intenzionati a limitare l'esuberanza del loro tripudio: il vino scorreva a fiumi, a tal punto che Bran mise il palmo aperto sul bicchiere di Rickon, dicendo con un sorriso al coppiere:
-Direi che lui per stasera è a posto così.-
-E perchè mai? Non fare il guastafeste, Bran!- sbottò Rickon, rosso quanto i suoi capelli in volto.
-Tu sei pericoloso, da ubriaco.- osservò il fratello giudiziosamente.
Da parte sua, Jojen stava in disparte. Le feste e la confusione non gli piacevano molto, e stava piluccando uno stufato con non troppo interesse. Bran lo osservò e sorrise: era così tipico da parte sua starsene zitto e lontano mentre tutti facevano baldoria. Accostò il volto al suo, per poter farsi sentire in mezzo al trambusto dei calici, delle posate e delle risa. 
-Non ti stai divertendo granchè, vedo.-
-Non particolarmente.- confermò Jojen, piegando un angolo della bocca in una sorta di mezzo sorriso. -Però ciò che conta è che la missione abbia avuto un esito soddisfacente.-
-Non ho mai avuto dubbi, e non ne avrei avuti nemmeno se il messaggero fosse giunto a riferirmi il contrario. Mi fido di te.- dichiarò Bran, senza interrompere il contatto visivo fra loro.
Jojen esaminò con attenzione le profondità più recondite dei suoi occhi, quasi potesse strapparvi qualunque segreto. -Ne sei sicuro? Ti fiderai sempre di me, Maestà? Qualsiasi cosa accada?-
Bran aggrottò la fronte; quelle parole suscitarono una strana sensazione alla bocca del suo stomaco, come un lieve fastidio. -Qualsiasi cosa accada, ovviamente.-
Jojen gli rivolse un'ultima occhiata meditabonda, prima di riabbassare lo sguardo sul suo piatto. -Buono a sapersi. Ah, penso che ti convenga stare attento a Rickon... è riuscito a farsi riempire il bicchiere un'altra volta.-
Gli uomini del Nord festeggiavano acclamando il loro re, inconsapevoli del fatto che presto gli spettri delle Torri Gemelle avrebbero preteso il loro tributo.
***
-Mio signore, sono tornati.- lo avvisò un attendente, al quale egli stesso aveva dato proprio quel compito. Tyrion Lannister sollevò subito il capo dalla mappa sulla quale era chino da ore, ormai; aveva passato la notte precedente in bianco, armato di piuma, inchiostro e dell'immancabile bottiglia di vino dorniano.
-Grazie, Thorn.- Congedò il ragazzo con un cenno distratto; effettivamente dopo pochi istanti Tommen Baratheon varcò la soglia della tenda, rapido e furibondo come una folata di vento invernale.
-Nipote,- lo chiamò Tyrion circospetto, seguendolo con uno sguardo interrogativo, visto che gli sembrava piuttosto scosso. -Com'è andata?-
Non ottenne risposta; Tommen strinse le labbra in un'espressione addolorata e cacciò le unghie nel palmo, digrignando i denti. Alle sue spalle comparve Jaime, anch'egli piuttosto abbacchiato, che lanciò al fratello un'occhiata eloquente, quasi a dire: dopo ti spiego.
Sorprendentemente, invece di sparire sotto un cumulo di cuscini e di rosicchiare uva come faceva sempre quand'era di cattivo umore, Tommen sedette di fronte allo zio, al tavolo dove egli stava progettando la marcia, scostando uno sgabello con un rumore sordo.
-Ti è venuta qualche idea?- disse solamente. Tyrion inarcò le sopracciglia, sorpreso, perchè tutto questo interesse per gli affari bellici da parte del nipote gli risultava nuovo; però non commentò.
-Certo che mi è venuta qualche idea. Non starai mica sottovalutando il mio acume? Guarda un po'. E' l'unica cosa di cui mi posso vantare, e pure lo mettono in discussione...-
-Non sono in vena di scherzare.- tagliò corto Tommen, con una freddezza inedita per lui, che quasi stonava con il suo viso di solito aperto in un sorriso.
Tyrion pose la piuma nel calamaio e gli rivolse uno sguardo che sperò apparisse autoritario, ma anche partecipe e premuroso. -Io non lo sono mai, perciò voglio sapere che cosa è successo con Stark. Avanti, non costringermi a strapparti le parole di bocca... ha fatto qualcosa di male a Myrcella?- osò ipotizzare, dato il furore del ragazzo.
Tommen chiuse gli occhi, come se la realtà fosse davvero troppo orribile per essere guardata nella sua interezza, da quegli occhi troppo chiari e giovani.
-Oh, sì. Non gli è bastato prendersi mia madre e mio nonno. Si è portato via anche Myrcella.- rivelò, con voce intinta d'amarezza, che s'incrinò appena nel pronunciare il nome della sorella.
-Cosa intendi?- domandò lo zio, preoccupato, avvertendo un pizzicorino di preoccupazione ai palmi delle mani.
Tommen attese diversi istanti prima di rispondere, con voce tagliente. -Che mia sorella non c'è più. Al suo posto, c'è un'estranea che ha appena annunciato pubblicamente la mia origine bastarda e l'infondatezza della mia pretesa al Trono di Spade.-
A quelle parole, Tyrion ammutolì. Com'era possibile? Le sembrava assurdo che Myrcella, che teneva a suo fratello più di ogni altra cosa, avesse affermato un'ingiuria del genere, anche se sotto ricatto. Era una fanciulla troppo tenera e gentile. E poi, che scopo aveva avuto quella pantomima?! Era stata architettata soltanto per far soffrire Tommen, oppure davvero qualcuno avrebbe dato retta alla confessione estorta alla giovane Myrcella? Sarebbe stata davvero considerata una fonte così autorevole? Sarebbe bastato spiegare ch'era stata costretta a farlo dal suo aguzzino per chiudere la storia una volta per tutte ed evitare danni all'immagine della famiglia.
-Che risvolto... inaspettato.- considerò infine. Lanciò un'occhiata a Tommen: ora la sua crisi gli pareva giustificata. Myrcella era uno dei pochi membri della famiglia che gli restavano, e quella a cui era più affezionato. Dopo aver tanto penato per la sua assenza, quel colpo di scena doveva essere stato una vera batosta per lui. -Che hai intenzione di fare?-
-La prima volta che Rickon Stark e mia sorella capitano nelle mani delle mie guardie,- cominciò il ragazzo con voce spezzata, -voglio che li uccidano entrambi.-
Il Folletto sussultò; suo nipote aveva perso davvero il senno.
-Tommen, ragiona! So che sei arrabbiato, adesso, ma è proprio il rancore ad offuscarti la mente. Quando passerà, ti renderai conto della scemenza che hai detto...-
Tommen lo interruppe furioso. -Sono il tuo re. Non sei autorizzato ad accusarmi di dire scemenze nemmeno quando le dico.-
Per quelle parole, Tyrion gli avrebbe volentieri girato la faccia con una sberla, come faceva senza problemi con Joffrey, d'altronde; però vide una piccola lacrima scintillare sulla sua guancia e preferì lasciarlo stare. Il ragazzo non sapeva quel che diceva; schiumava d'astio e dolore, conteso fra i due sentimenti, sfinito da entrambi. Le cose da affrontare e da accettare erano state davvero troppe per lui, e tutte in un lasso di tempo così breve...
A quel punto, Thorn irruppe nuovamente nella stanza; dopo aver lanciato una breve occhiata perplessa alla figura di Tommen, accartocciato su se stesso, si rivolse a Tyrion.
-Mi dispiace disturbare ancora, mio signore, ma sono giunte ben tre lettere.-
-Tre? Addirittura?- Eppure il Folletto non sembrava troppo sorpreso, quando tese una mano per prenderle. Esaminò le buste: due provenivano dalla Valle di Arryn, proprio coem sperava, e una da Approdo del Re. Non vedeva l'ora di leggerne il contenuto.
-Puoi andare, ragazzo.- Fece un cenno a Thorn, che si dileguò. Mentre Tommen rimaneva lì seduto, rinchiuso nel suo silenzio, la testa fra le mani e lo sguardo sulla superficie del tavolo, Tyrion aprì la prima lettera inviata dalla Valle. Il mittente era un pitttore piuttosto famoso, a cui aveva chiesto un piccolo favore -in cambio di una generosa ricompensa, s'intende. La seconda era la risposta del septon addetto agli archivi anagrafici della Valle, ad una domanda che Tyrion gli aveva fatto. La terza... la terza era la prova lampante che la sua intuizione era esatta.
-Invece io ho due buone notizie per te, Tommen.- annunciò al nipote. -Primo, so dove attaccheremo adesso, cioè a Delta delle Acque. In secondo luogo... so dove si è nascosta Sansa Stark per ben otto anni.-
Tommen, benchè il suo umore non fosse granchè migliorato, sollevò il capo. -Sansa? Davvero? E come hai fatto a scoprirlo?-
Tyrion fissò la lettera apparentemente proveniente da Approdo del Re, con un ghigno allegro. -Beh, a quanto pare lei non è mai riuscita a dimenticarsi di me. Abbiamo persino mantenuta attiva la corrispondenza, anche se me ne rendo conto soltanto adesso...-
***
Neve illibata ed incorrotta tutt'intorno, il Giardino degli Dèi di Grande Inverno. Una fanciulla molto giovane, con una lunga e morbida treccia castana lungo la schiena a raggiungere i fianchi, prega inginocchiata davanti agli occhi rossi e lacrimanti di resina, al tronco rugoso e biancastro di un albero del cuore. Poi si rende conto di essere osservata e solleva il capo, sorpresa. Si volta e lo guarda con occhi supplicanti -color del muschio, gemelli dei suoi.
-Ti prego, Jojen,- mormora, afferrandogli le spalle con l'impeto della disperazione, -ti prego, ho bisogno di te. Non puoi lasciarmi sola ad affrontare tutto questo. Io... non ce la faccio.-
È difficile rifiutarle l'aiuto che chiede: il suo viso è tremendamente simile a quello di Bran, nei tratti, nella fronte, nella linea del naso. Ed è strano vedere la riproduzione perfetta dei suoi occhi sul volto di un'altra persona. Con un po' di fantasia, la si potrebbe scambiare per una figlia loro; però chi la conosce sa che c'è troppo di Meera in lei.
Jojen sospira, irremovibile. -Mi dispiace, ma questa è una strada che devi intraprendere da sola. Non posso essere io ad aiutarti. Non sta nella natura delle cose. Lo capisci, non è vero?-
Lei tace, lo sguardo colmo d'angoscia, ma infine annuisce sconfortata. -Quello che vedo... quando dormo. È tutto reale. Non si tratta di semplici sogni. Però io cosa dovrei farmene, adesso? Cercare di cambiare il futuro sembra una follia, ma non c'è altro scopo... vedo tutte queste cose per un motivo, me lo sento. Sai cosa significa sentirsi impotenti in questa circostanza.-
Jojen le carezza una guancia con l'indice, cogliendo la piccola lacrima che le sta scivolando sul viso. -Tu ce la puoi fare, Levenna... Non perdere mai la fiducia in te stessa.-
L'immagine cambia. Un esercito che irrompe in una fortezza, la distruzione, sangue, urla, morte. Una porta si apre ed una figura si volta di scatto. Cambia ancora. Una ragazza dai lunghi riccioli dorati stringe una spada con entrambe le mani, goffamente, ma c'è desiderio di uccidere nei suoi occhi verdi. Il baluginio della lama che fende l'aria. I contorni dell'immagine sbiadiscono e si distorcono fino a disgregare il soggetto. Fiamme. Un mare di fiamme sommerge la sua vista, una pira, e c'è qualcuno al di sopra di essa... qualcuno...
Jojen spalancò gli occhi, nel buio della notte. Nessuno era ancora sveglio per udire il suo respiro concitato. Chinò la testa a guardare le proprie mani tremanti afferrate al lenzuolo. Allora è così che andrà. Ne aveva sempre avuto il presentimento, dopotutto.
Si alzò dal letto e si vestì in silenzio, lanciando talvolta qualche occhiata al volto assopito ed immobile di Bran sul cuscino, nascosto dalle coperte fino al mento. Non si sveglierà, lo sai già. Non deve svegliarsi. È assolutamente cruciale che non lo faccia. Jojen si allacciò il lungo mantello verde sotto il mento e si chiese se gli servisse dell'altro: lo sguardo cadde su un corto pugnale, facile da nascondere, che Bran teneva sempre su un tavolinetto accanto al letto, in caso di emergenza. Lo lasciò scivolare con noncuranza in una delle numerosa tasche interne del mantello.
Si chiese se il suo re sarebbe mai stato capace di perdonarlo. Affinchè egli potesse farlo, Jojen avrebbe dovuto raccontargli, dimostrare, spiegare cos'era stata la vita per lui dopo quel risveglio dalla febbre grigia, a partire dal quale il mondo aveva spesso di stupirlo; non c'è tempo, sussurrava il dovere con voce fievole, occhi inclementi e mano di marmo sulla sua spalla. Non c'è tempo, concordò Jojen stancamente. Sorrise, pensando a quanto difficile era stato fingere con Bran che Jojen Reed non fosse capace di dolore, incertezze e turbamento. Se anche il suo scoglio avesse avuto una precarietà potenziale, infatti, il giovane Stark non avrebbe più voluto crederci. Buona notte, che questa sia una buona notte, come tutte quelle a venire. Buonanotte, Brandon.
Dopo avergli concesso un ultimo, lungo sguardo, Jojen scostò i lembi della tenda e si espose all'intemperanza dell'aria notturna. Presto tutto gli sarà chiaro, fu l'ultimo pensiero che gli dedicò. Salutandolo non lo aveva chiamato Maestà: un vero peccato, che Bran non fosse sveglio per farglielo notare.
Jojen percorse l'accampamento fino a trovare la tenda di Edmure Tully. Alle guardie che la sorvegliavano:
-Devo parlare con lord Tully, adesso.- disse. -Si tratta di un'emergenza.-
Dapprima gli uomini erano titubanti, ma poi lo riconobbero e lo lasciarono passare: se il veggente diceva ch'era un'emergenza, doveva per forza esserlo.
Edmure fu svegliato da dei cortesi ma insistenti colpetti sulla spalla. -Chi diamine...?!- bofonchiò fra sè. Quando aprì gli occhi, Jojen Reed era in piedi accanto al suo letto.
-Chiedo venia per il risveglio improvviso, ma ho avuto una visione. Dobbiamo partire subito.- decretò senza preamboli. Edmure si passò una mano fra i capelli scarmigliati, smarrito.
-E perchè non vai a riferirlo a Bran?-
-Perchè è tua la casa che i Lannister hanno intenzione di incendiare. Proprio così, la loro prossima meta è Delta delle Acque. Se partiamo adesso avremo un vantaggio di almeno una giornata su di loro.- spiegò, ma non fece nemmeno in tempo a finire. Edmure era già balzato in piedi.
-Partiamo? Significa che verrai con me?-
-Io e almeno duecentocinquanta dei tuoi uomini.- precisò Jojen. -Non posso fare altrimenti, mio signore. Se non venissi, non potrei aggiornarti in tempo sugli spostamenti dei Lannister, nè sulle direzioni da cui hanno intenzione di attaccare.-
-Non dire altro, ho capito.- si affrettò a fermarlo Edmure, concitato, infilandosi frettolosamente un farsetto. -Aspetta un momento, Bran lo sa?-
-Non c'è tempo.- ripetè il ragazzo, cupo. -No, non lo sa.- Ed è proprio per questo, pensò, che il piano riuscirà.
















 



















Note dell'Autrice: Buon primo dell'anno a tutti! Eccomi qua con il nuovo capitolo, stracolmo di novità. Come vedete, i Frey hanno fatto proprio una brutta fine...
Edmure e Jojen partono per una spedizione in salvataggio di Delta delle Acque, all'insaputa di Bran. Ci riusciranno, oppure i Lannister avranno la meglio? Tyrion ha scoperto forse dove si trova Sansa? E che cosa farà? E dove andrà Yara con Theon per fuggire dalla follia di Ramsay? Spero di poter postare presto il prossimo capitolo per soddisfare le vostre curiosità!
Lucy

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Capitolo 9
*** Verde fu il reato. ***


8

VIII. Verde fu il reato.



-Dov'è?-
Il giovane attendente che era giunto a portargli la colazione, carne arrostita e una fetta di formaggio, non aveva idea di che cosa rispondere; indugiò, fissando timorosamente il riflesso dei propri occhi in un boccale ricolmo d'acqua.
-Chi, mio signore?- domandò infine, titubante, temporeggiando. Bran lo fulminò con un'occhiata impaziente, che fece trasalire il povero ragazzo di spavento.
-Jojen, e chi altri... Dov'è?-
Quando s'era svegliato, quella mattina, s'aspettava come al solito di sollevare le palpebre ed incontrare gli occhi verdi e cogitabondi del suo consigliere, chino su di lui e pronto a presentargli il piano della giornata; così non era stato. Bran aveva esaminato l'intera stanza assolata con lo sguardo offuscato di sonno, però non l'aveva visto da nessuna parte. Era inconsueto; non c'era nessun altro posto in cui Jojen dovesse -o volesse- andare, che non fosse perennemente al fianco del suo re. Bran aveva atteso pazientemente che tornasse, casomai avesse voluto l'idea di farsi quattro passi; ma non era mai arrivato.
L'attendente si chiese perchè mai quel compito ingrato toccasse proprio a lui. Quella mattina avevano fatto a botte, fra la servitù, per passarsi a vicenda l'incarico.
-Maestà,- cominciò a voce bassa, -Jojen Reed è partito... questa notte.-
Il re del Nord sbattè le palpebre, stordito, come se qualcuno avesse picchiato violentemente, molto vicino al suo volto, i palmi delle mani l'uno contro l'altro.
-... che cosa?- fu tutto ciò che disse. -Che...-
-Per Delta delle Acque.- sussurrò ancora l'altro, desiderando vivamente di scomparire sotto gli occhi sempre più sconcertati del ragazzo.
Bran cominciava a comprendere ch'era tutto vero, e che sul serio Jojen era partito, lontano, non lì, era andato... andato...
-Ma che senso ha? Cosa vuol dire... che è andato a Delta delle Acque? Come? Perchè?-  Le parole gli sfuggirono dalle labbra, incalzate da un'irritazione sbalordita, come se il suo intelletto non potesse accettare tante stramberie. -Chiamami lord Stannis e lord Edmure, subito.-
L'attendente si umettò le labbra con la lingua, terrorizzato. -Maestà, lord Tully è partito insieme a Reed...-
-Oh, fammi indovinare, ci sto andando anch'io in un attacco di sonnambulismo patologico?!- sbottò Bran, con sarcasmo pungente, furibondo. Poi si strofinò il volto, confuso, e sospirò. La stanchezza gli fece bruciare l'interno delle palpebre e il collo indolenzito. -Scusami. È che tutto ciò mi sembra assurdo... Ti prego, chiamami Stannis.-
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e corse via. Appena pochi minuti più tardi, quando l'ultimo rimasto della nobile casa Baratheon varcò la soglia della sua tenda, fu accolto da un:
-Cosa è successo stanotte, si può sapere?-
Stannis contrasse la mascella, rivolgendo un'occhiata di biasimo fredda e sprezzante alla scomposta irritazione del ragazzo, seduto sul letto di fronte a lui.
-Ne so quanto te. Mi è stato riferito da Seaworth che il veggente ha avuto una visione di Delta delle Acque assediata dai Lannister e si è precipitato a svegliare Tully, così sono partiti insieme ad un numero non esiguo dei suoi uomini.-
Bran non udì quel preoccupante non esiguo. Tutto ciò che gli importava di sentire era che quella rivoltante situazione non era soltanto ragionevole e logica, ma anche rimediabile. L'incolumità di Jojen non poteva essergli sfuggita dalle mani in modo così stupido, ignaro, passivo, senza che potesse avere almeno la possibilità di opporsi, che diamine! Gli spettava almeno l'occasione di sistemare tutto.
-E perchè io non sono stato... non dico interpellato, ma nemmeno informato di tutto ciò?- domandò con stizza; la preoccupazione si faceva strada dentro di lui come un coltello nelle carni. 
-Perchè Reed credeva che non ci fosse tempo da perdere... e che non avresti dato il tuo consenso.- rispose Stannis, con impietosa franchezza.
-Aspetta un attimo, mi stai dicendo che sono stato bellamente scavalcato?!- Bran era esterrefatto dalla rabbia; il suo interlocutore non rispose, ma gli rivolse uno sguardo lungo, fisso e un po' annoiato. Le parole di Bran si inseguirono in tracollo vertiginoso, sopraffacendosi l'un l'altra.
-Se c'è una cosa che Jojen mi ha insegnato sulle visioni, che riguardino presente, passato o futuro, è che nulla di ciò che appare al sognatore può essere cambiato. Che intenzioni ha?! Gli è andato di volta il cervello?! Che senso ha partire per salvare un palazzo destinato alla rovina e al saccheggio?!- Bran cominciò a slacciarsi la camicia bianca e spiegazzata dal sonno, e si accorse che gli tremavano le dita. -Chi? Chi ha permesso a quel pazzo di agire contro la mia volontà?-
-Si tratta di una spedizione a tua insaputa, non contro la tua volontà.- lo corresse Stannis, incrociando le braccia, mal tollerando quell'agitazione di cui conosceva l'estrema ragione, deprecandola profondamente. Il re del Nord gli scoccò un'occhiata furiosa.
-Io avevo chiesto, anzi, avevo preteso che a Jojen Reed non fosse mai permesso di allontanarsi dalla mia vista! Lui deve rimanere costantemente sotto la mia, la nostra protezione, capisci? Prova ad immaginare cosa succederebbe se cadesse nelle mani dei Lannister!- Il suono delle sue stesse parole lo inorridì. Non era possibile che Jojen ci fosse davvero già così vicino, non era possibile, era troppo schifosamente spaventoso per stare avvenendo...
Stannis si fece scettico. -Credi davvero che sarebbe capace di tradirti?-
-Non mi riferivo a ciò che succederebbe a noi,- ribattè Bran indignato, -ma a ciò che succederebbe a lui! Gli estorceranno le nostre mosse con i ferri roventi! Gli strapperanno gli occhi dalle orbite!-
L'uomo non parve particolarmente impressionato. -Bando alle paranoie inutili, Stark. I Lannister sono appena partiti, mentre Edmure e la sua truppa sono in viaggio dalle prime ore della notte. Avranno tutto il tempo per mettersi in salvo prima che i Lannister li raggiungano a Delta delle Acque.-
-E se così non fosse?!- Bran lasciò scivolare le braccia sul materasso, debilitato, come se non riuscisse a sostenere tanto tormento nel corpo già troppo spesso provato.
-In teoria, potresti ancora andare incontro ai Lannister ed attaccare il loro esercito in marcia, prima che possano raggiungere Delta delle Acque.- aggiunse Stannis, torvo in volto. Il re del Nord sgranò gli occhi, incredulo.
-Davvero non è troppo tardi? Davvero potrei?-
-Sì, certo, se volessi mandare a morte tutti i tuoi uomini e costringerli ad una marcia logorante che li decimerebbe.- Stannis inarcò un sopracciglio. -Nemmeno Joffrey Lannister sarebbe stato capace di una cosa simile, quindi mi auguro che non ti sia passato neanche per la testa.-
Solo in quel momento Bran si accorse di quanta perfidia ci fosse nella giustizia. Non poteva far rischiare la vita ad un esercito di più di ventimila persone... ma, nel momento stesso in cui rifiutava di andare a salvarlo, gli veniva spontaneo chiedersi: davvero la vita di Jojen aveva un prezzo, e davvero egli si stava rifiutando di pagarlo?! Loro erano i suoi uomini, lui doveva essere un buon re, si fidavano di lui, avevano delle famiglie che li aspettavano a casa. E tutto questo era così vero, e buono, e sensato, e giusto. Ma... Jojen? Come poteva permettere che facessero del male a Jojen?
Quanta perfidia c'è nella lista dei doveri d'un re,
pensò Bran con tristezza. Quanta perfidia c'è nella mia scelta.
-No.- bisbigliò, distogliendo lo sguardo. -Neanche passato per la testa.-
Quello sarebbe stato il momento meno appropriato del mondo per mettersi a piangere, ed allo stesso tempo quello in cui Bran provò più l'urgenza di farlo. Stannis parve quasi un po' impietosirsi della sua misera bugia.
-Se posso intromettermi in una faccenda che non mi riguarda, cosa che non mi è affatto solita, non mi preoccuperei troppo per Reed. Per quel che ho potuto capire, progettando gli schemi bellici insieme a lui per una ventina di giorni, è un ragazzo sveglio. Di certo non si sarebbe gettato allo sbaraglio in un'impresa suicida, se non ci fosse qualcosa da prevenire o da ottenere.-
-Jojen ha disobbedito alle mie disposizioni, e verrà punito quanto prima per questo.- replicò Bran, con voce dura e temprata dal rimpianto. -Ma ordino che mi vanga fatta recapitare all'istante una lettera in cui mi spiega i motivi della sua partenza e le strategie che ha intenzione di mettere in atto. Vieni, Estate.- chiamò poi, tendendo una mano oltre il materasso per chiamare il suo metalupo.
Quando uscì dalla tenda sulla sua groppa, contraendo infastidito le palpebre alla pressione dell'uggiosa luce di quella giornata, i capelli scompigliati a scendergli sulle spalle, la prima persona che gli venne incontro fu Rickon.
-Il tuo concubino ti ha piantato perchè aveva voglia di sperimentare con un uomo più maturo, ho sentito dire.- lo sbeffeggiò con un ghigno allegro che fece prudere le mani di Bran dal desiderio di atterrarlo, con un bel manrovescio.
-C'è poco da ridere. Perchè accidenti hanno concesso a Jojen di andarsene dal mio accampamento, con i miei soldati, intromettendosi nella mia guerra? Tutto ciò è semplicemente pazzesco. Sono o non sono il maledetto re?! Se dico una cosa voglio che sia quella, non che si attenda bramosamente la prima occasione per fare tutto il contrario!-
Era quasi esasperante, per Bran, quella situazione. Gli sembrava che il destino si fosse divertito ad illuderlo con certezze di vittoria e salvezza fino a quel momento, proprio per rendere poi più amara la sua disfatta, che si fosse coalizzato con tutti i moti intrinseci dell'universo per realizzare l'irrealizzabile. Perchè i Lannister avevano deciso di attaccare Delta delle Acque, e soprattutto, perchè Jojen l'aveva messo gratuitamente e scientemente nei guai, gravandolo anche di quella preoccupazione? È in casi come questi che avverto l'impellente esigenza di avere un consigliere al mio fianco, pensò, quindi peccato che mi abbia appena scaricato per andare a salvare i castelli altrui. Un'irragionevole gelosia lo punse al cuore. Se Jojen lo riteneva un buon re, perchè faceva di testa sua e gli giocava questi tiri mancini?!
Rickon scrollò le spalle, portandosi alle labbra un lungo osso sottile di cui Bran preferì non indagare l'origine, e lo mordicchiò distrattamente.
-Nessuno ha avuto il coraggio nè l'autorità di fermare zio Edmure. Come dargli torto? Era ovvio che desiderasse la buona riuscita del piano, gli era appena stato predetto che gli sarebbe andata in malora la casa... e per la buona riuscita del piano aveva bisogno del mangiaranocchie. Perciò fai due più due, fratellino. Cosa avrebbero dovuto fare, le nostre guardie?-
-Svegliarmi.- sbuffò Bran. -Ecco cosa avrebbero dovuto fare. Altrimenti va a finire che sono l'unico a non sapere le cose, come oggi. Se non può cambiare il futuro, cosa è andato a fare Jojen a Delta delle Acque?! Non capisco, io vorrei soltanto che lui fosse qui adesso. Mi viene male soltanto a pensare a quanto lontano è. Fintanto che non è più sotto la mia custodia può accadergli di tutto, e non va bene, non va per niente bene...-
Non si era reso conto di stare parlando ancora con Rickon; s'interruppe e gli lanciò una breve occhiata imbarazzata. Ma, al contrario di quanto si aspettasse, il fratello non lo derise.
-Non fasciarti la testa prima di averla rotta. Vedrai che andrà tutto bene. Quell'idiota di Reed avrà un piano per cavarsela anche questa volta, di sicuro ce lo ritroveremo di nuovo fra le scatole...- commentò Rickon, e questo si poteva quasi interpretare come una sorta di... rassicurazione fraterna?
-La tua Lannister ti sta sciogliendo come un pupazzo di neve in primavera, Rickon.- riuscì a sorridere Bran, in parte rasserenato da quelle parole che suonavano così adorabilmente fiduciose ed assennate, ed egli si accorgeva di stare man mano recuperando la lucidità, dopo lo sconvolgimento iniziale. Non era il caso di darsi al pessimismo cosmico, effettivamente. Sì, anche Stannis gli aveva detto una cosa del genere, che Jojen sapeva quel che stava facendo, eppure...
Ne sei sicuro? Ti fiderai sempre di me, Maestà? Qualsiasi cosa accada?
Quelle parole riecheggiarono nella sua mente, e suonarono ancora più inquietanti della sera prima. Un atroce sospetto prese forma. Che Jojen... sapesse già dal giorno precedente tutto ciò che sarebbe accaduto? Di Delta delle Acque, il risveglio di Edmure, la partenza? Però ciò implicava che avesse volutamente tenuto nascosto e taciuto fino a notte fonda l'intera faccenda, anzichè avvertire fin dall'ora di cena dell'assalto, il che non aveva senso. O forse sì?
Rickon grugnì. -Prova a ripeterlo, e ti assicuro che al suo ritorno il tuo crannogman dovrà trovarsi un altro culo da spaccare.-
Bran alzò gli occhi al cielo. -Ah, Rickon, Rickon, cosa me ne devo fare di te...-
Un messaggero interruppe il loro dialogo. Per un secondo, l'idea che portasse notizie di Jojen ed Edmure gli fece sussultare il cuore nel petto, ma poi fu deluso dalle parole che seguirono.
-È stato avvistato un fuoco d'accampamento nei pressi di Seagard, dov'erano le truppe dei Lannister, Maestà. Vuoi che mandi qualcuno a controllare che non sia una spia?-
Il ragazzo ci riflettè un secondo. -Rickon, vuoi andarci tu?-
Lui alzò le spalle. -Per me va bene. Se è un alfiere dei Lannister, non aspettatevi che ve lo riporti indietro tutto intero.-
Fatto sta che, mentre Bran rimase all'accampamento a inveire contro le guardie, Rickon si assicurò che Myrcella nella sua tenda dormisse serena, prese un cavallo e s'avviò nella direzione indicatagli dal messaggero. Al suo fianco, come sempre, v'era Cagnaccio, che con tutto il trambusto dell'incendio non andava a caccia da un pezzo. Durante il tragitto, che durò diverso tempo, il giovane Stark rivolse i suoi pensieri alla discussione che aveva avuto poche ore prima con Myrcella. Allora Rickon ancora sonnecchiava, in stato di dormiveglia, una mano infilata sotto il guanciale su cui posava la testa e l'altro braccio a cingere il corpo esile della fanciulla, rannicchiata sul suo petto. Dopo aver assecondato per vari minuti quel silenzio intorpidito e pastoso, la voce di Myrcella aveva raggiunto, fievole ma melodiosa, le orecchie del ragazzo.
-Sai, pensavo... quando attaccheremo Approdo del Re... perchè prima o poi la attaccheremo, no? Quello è l'obiettivo finale.-
-Giusto.- concordò Rickon, sorridendo compiaciuto nell'udire quel noi dolce come il miele.
-So che non posso chiederti di risparmiare... mio fratello,- continuò, omettendo persino il nome di Tommen, imbarazzata, -o Margaery, o i miei zii. Però... però il bambino... per allora sarà già nato, quindi non bisogna ucciderlo per forza...-
-Tutti i Lannister devono essere sterminati.- replicò Rickon, quasi apatico. -Tutti. Tutti significa tutti.-
-Mio fratello è innegabilmente un pericolo, Margaery è un'arrivista cospiratrice e i miei zii si sono macchiati delle peggiori infamie,- sussurrò Myrcella, addolorata più di quanto ella stessa credesse da quelle parole, perchè non la convincevano fino in fondo, -ma quel piccolino che colpa ha?! Quella di nascere?-
-Tutti significa tutti, indistintamente dalla responsabilità o meno, tutti coloro che portano il nome Lannister.- ribadì lui, pigramente. -Sì, credo che la sua colpa sia proprio nascere. Oh, avanti, Myrcella, non fare la drammatica. Non soffrirà nemmeno. Non si renderà neanche conto di morire, o di essere esistito. Sarà come se non ci fosse mai stato.- tentò goffamente di consolarla e, notando che l'unico risultato che aveva ottenuto era stato quello di farla fremere di sdegno, cercò un'altra strada. -Tu non vuoi che la storia si ripeta, vero? Che qualche ragazzino inferocito venga ad ucciderci perchè abbiamo sterminato la sua famiglia? È quello che succederà, se lasciamo il bambino in vita. Non è adesso che è una minaccia, ma quando avrà quindici, vent'anni, non sarà più un piccolo frugoletto indifeso, ma più probabilmente uno sterminatore armato di mazza. Il sottoscritto è la prova vivente di quel che ti sto spiegando. Effettivamente, Greyjoy avrebbe dovuto uccidermi un po' meglio.- ironizzò, lasciando scivolare le dita nella lunga chioma aurea della ragazza.
Myrcella parlò d'impulso, senza ragionarci troppo. -Allora lascia che lo cresca io! Quando i suoi genitori saranno morti, lo potrei prendere ed accudire ed educare per farlo diventare una brava persona. Un filo-Stark, per così dire. Sono sua zia, dopotutto.-
Quello che il giovane Stark non sapeva era che delle voci avevano perseguitato la fanciulla nel sonno. Traditrice, traditrice, dicevano, e c'era Cersei con un'espressione stomacata che bisbigliava tu non sei più mia figlia. Traditrice, traditrice, e Myrcella avrebbe voluto mettersi le mani sulle orecchie per non sentire più nulla. Nessuno di loro capiva? Nessuno di loro riusciva ad amarla senza ricatto, senza condizioni? Hai fatto la tua scelta, sussurravano le voci, hai preferito morire con lui che vivere con noi. Ma Myrcella non credeva di essere una traditrice. Era rimasta fedele a ciò che provava nel cuore, senza cedere ad un odio facile nè lasciarsi corrompere dalle invocazioni di Tommen, senza rinnegare nè sopprimere quel sentimento, senza fingere. Myrcella Lannister era rimasta fedele a se stessa, e ne andava fiera. Se soltanto non ci fossero state quelle voci, quelle maledette voci...
-Non è funzionato con Theon, e non so quanto potrebbe funzionare con un Lannister. È sangue cattivo.- sputò con disgusto.
-Anche io sono sangue cattivo.- obiettò Myrcella, un po' irritata, -eppure sono qui adesso. Avanti, Rickon, per una volta nella tua vita non puoi avere un po' di pietà?-
Quella parola fece scattare Rickon come una fiammella sul combustibile. -C'è forse stata pietà per Bran, quando è stato gettato da una finestra?! C'è forse stata pietà per me?! Se loro mi avrebbero voluto vedere volentieri morto, perchè io dovrei comportarmi diversamente?!-
Myrcella cercò i suoi occhi nel buio, fermandoli nei suoi, tristi ma saldi. -Perchè tu sei una persona migliore di loro.-
La sua voce era forte, questa volta, e senza esitazione. Dopo diversi istanti di silenzio, con la stessa compunta serietà,
-Myrcella, io dei bambini non solo li ho già uccisi, io li ho mangiati. Sai che cosa significa? Tu non puoi davvero ancora ostinarti a credere che io sia la persona magnanima che vorresti. Essere migliori degli altri conduce al patibolo, di questi tempi.- aveva commentato freddamente Rickon, incontrando le labbra della ragazza per sedare quella conversazione così sgradevole ed assopire il rancore. Rickon, povero caro, non può fare a meno di pensare che la colpa sia sua e si sente un mostro, rimuginava intanto lei, ma non sa che deriva tutto dal male che gli hanno fatto, e che in realtà lui è buono, lui è nobile, e io ho visto, ho percepito quanto lo è. Non mi resta che cancellargli dall'anima questa idea, poco per volta, altrimenti continuerà a renderlo infelice ed insoddisfatto di sè per il resto dei suoi giorni. Poco più tardi, Rickon l'aveva lasciata a riposare ancora un po' nella tenda borbottandole all'orecchio il battito del tuo cuore mi ha fatto venire fame.
Riflettendoci su in seguito, egli scosse la testa. La proposta di Myrcella era fuori discussione. Rickon non avrebbe mai accettato di crescere nella sua casa un piccolo, infido Lannister con i capelli biondi e gli occhi verdi. Non se lo meritava, quella famiglia che gli aveva strappato tutto ciò che aveva. Non si meritava la pietà, nemmeno nei confronti di quel bambino. Era Myrcella che aveva un cuore troppo tenero. D'altra parte, però, deprecò quella maledetta abilità della fanciulla di metterlo sempre in difficoltà, di persuaderlo con poche parole, d'ammansirlo con una sola carezza.
Quando giunse al punto di vedere poco distante ergersi fra le chiome degli alberi un sottile filo di fumo, Rickon diede un colpetto alla groppa di Cagnaccio.
-Tu va' pure a caccia. Io ho qualche faccenda da sbrigare con l'alleato ritardatario dei Lannister. Non preoccuparti, me la caverò.-
Non c'era bisogno di pronunciare ad alta voce tutto ciò, perchè il suo lupo come sempre aveva inteso. Abbandonò il fianco del ragazzo e svanì in una chiazza di vegetazione, dalla parte opposta; Rickon invece si avviò verso il fumo, per cercarne l'origine.
Quel che trovò, proseguendo a camminare e lasciando il cavallo legato poco lontano per non annunciare troppo rumorosamente il suo arrivo, contando sull'effetto sorpresa, fu una radura: al centro v'era allestito un fuoco da campo, ormai quasi morto, ed il fumo proveniva dalle sue braci roventi. Però, valutò Rickon con occhio esperto, risaliva a più o meno un'ora e mezza prima. I responsabili non potevano essere andati molto lontano. Inoltre, intorno v'erano un paio di coperte e una bisaccia -colma di provviste, si poteva indovinare ad intuito. Ma proprio mentre Rickon si avvicinava per perquisirla, qualcuno si avventò contro di lui con incredibile rapidità.
Il ragazzo era abituato agli attacchi a tradimento, dopo una vita trascorsa a Skagos, e sbattè il nemico che gli era balzato sulla schiena a faccia a terra; ma quello non era uno sprovveduto, e gli tirò un calcio sulla mascella che lo costrinse a lasciare la presa sulle sue spalle. L'aggressore era minuto di corporatura ed incredibilmente agile, veloce nei movimenti come pochi. Dopo diversi minuti di corpo a corpo, durante i quali si rotolarono sul terreno invertendo continuamente le posizioni e si morsero, presero a calci e a pugni, l'avversario riuscì a tirare un calcio nello stomaco a Rickon ed arretrare; ma, anzichè fuggire come sarebbe stato saggio fare, sguainò una spada dal fodero. Solo allora il ragazzo si rese conto che quella era una femmina. Aveva i capelli scuri e corti, tagliati malamente in ciuffi irregolari, forse con quella stessa spada, un viso dai lineamenti affilati ma non spiacevoli e occhi volitivi, grigio-azzurri.
-Ti do la possibilità di arrenderti.- sibilò con voce sferzante. Rickon sogghignò con disprezzo, un po' indispettito all'idea di essersi lasciato tenere testa da una ragazza in un corpo a corpo.
-Succhiami il cazzo.- replicò, mentre lei, visibilmente offesa, scoccò un fendente che -sebbene Rickon fosse quasi certo di averne potuta prevedere la traiettoria, gli ferì il braccio. Così cercò di farle cadere la spada di mano sferrandole un colpo al polso dal basso, ma lei volse il braccio dall'altra parte e gli puntò la lama alla nuca. Egli le afferrò le caviglie, con l'intento di farla cadere a terra, ma la ragazza gli sferrò una gomitata che gli colmò la bocca di sangue, lo prese per i capelli e lo scaraventò a terra senza troppe cerimonie.
-La possibilità di arrendersi è ancora valida, se adesso t'interessa.- lo sbeffeggiò lei, e Rickon immaginò che stesse sorridendo. Ma come diamine fa? si domandò sconcertato. Come diamine fa ad atterrare un ragazzo con il doppio della sua forza?! Era sinceramente umiliato dalla piega che gli eventi stavano assumendo.
-E la mia offerta pure.- rispose annaspando, ingoiando il sangue e rotolando di lato, per poi rialzarsi e morderle ferocemente il braccio con cui reggeva la spada. Lei però non mollò la presa e gli sferrò un colpo alla spalla -superficiale, sì, che però ad aggiungersi a quello al braccio era ulteriore sangue versato. Rickon capì che la ragazza non lo voleva uccidere, bensì ferire ed indebolire fino al punto di impedirgli di combattere ancora, però lasciandolo in grado di rivelare perchè fosse venuto lì; altrimenti avrebbe avuto tutte le occasioni di sferrargli un colpo fatale.
Fu a quel punto che Rickon vide Cagnaccio comparire fra gli alberi, e provò un'ondata di sollievo. Finalmente, pensò, mi chiedevo dove fossi finito.
E qui fu uno shock, perchè il lupo non gli si avvicinò nè tentò di aggredire la sconosciuta, ma fiutò il suo odore nell'aria e si sdraiò a terra, come se non ci fosse proprio nulla da fare. Ma cosa cazzo gli prendeva, pure a lui? Rickon si chiese se non stesse sognando qualcosa di strampalato. Azzannala, insomma! rivolse il pensiero al suo lupo, ma Cagnaccio sbadigliò e si leccò il muso sporco di sangue con tutta la serenità del mondo. La ragazza approfittò della sua disattenzione per puntargli la lama al collo, ma Rickon trovò il momento giusto per afferrarle la mano e -presumibilmente dal rumore- romperle una o due dita, facendole cadere sonoramente la spada a terra, e prenderla per il collo. Gli occhi di lei lampeggiarono furibondi. Gli tirò una ginocchiata allo stomaco e un pugno in faccia che, se Rickon non si fosse spostato giusto un po', gli avrebbe spaccato il naso e lo fece cadere per terra, per poi scagliarvisi sopra e bloccargli le mani al suolo, ansimando. Poi accadde qualcosa di altrettanto inaspettato: un altro metalupo fece irruzione nella radura. Ma com'è possibile? si chiese Rickon incredulo. Aveva la pelliccia bianca sul ventre e sul muso, mentre sulle orecchie e sul dorso il colore era ramato e grigio. Appena incontrò gli occhi del lupo, Rickon realizzò: un ricordo lontano lo pugnalò al cuore, fugace ma preciso, affilato, infraintendibile. Questo significava che...
Rickon guardò la sua assalitrice negli occhi, con completo sconcerto, e dalle sue labbra scivolò, effimero e sottile come la sabbia: -Arya.-
All'udire quel nome, la ragazza aggrottò le sopracciglia guardinga e un po' allarmata. -Come...-
Il ragazzo sentì le labbra tumefatte flettersi e la bocca ferita si spalancò in un sorriso sbigottito. Allora lei si voltò a guardare il grande lupo nero che la osservava indolente, e poi di nuovo il ragazzo bloccato sotto di lei. Notò con stupore crescente gli occhi azzurri, i capelli rossi, come se una sua azzardata fantasticheria trovasse troppi riscontri nella realtà.
-... Rickon?- concluse, allibita.
Per alcuni istanti non poterono fare altro che fissarsi meravigliati, quasi temendo che tutta la scena scomparisse come un miraggio da un momento all'altro.
-No, non è possibile. Non puoi essere tu.- concluse egli a bassa voce, corrugando la fronte ed esaminandola, ancora non del tutto consapevole di quel che stava accadendo. -Arya è morta. Io... pensavo che tu fossi morta!- Una strana rabbia lo invase, e d'un tratto di chiese davvero se tutto il dolore che gli artigli dei ricordi gli avevano estirpato dalle fessure dell'anima, se tutte le lacrime che erano sanguinate dai suoi occhi fossero stato la stolida leggerezza d'un malinteso.
Arya scrollò le spalle. -Lo pensavi semplicemente perchè era quello che io volevo che si pensasse. Sarei potuta tornare. Non l'ho fatto.-
Si alzò in piedi e rinfoderò la spada, tendendo una mano per aiutare il ragazzo a rialzarsi; egli la ignorò con piccata dignità. Non riusciva a credere che quella strana ragazza scostante fosse Arya, proprio Arya, la loro Arya. Non le somigliava. La nuova maturità su quel viso assomigliava molto alla sua, ma gli risultava estranea; la crudeltà dei suoi lineamenti la rendeva lontana, quasi insensibile. 
-E perchè mai? Grande Inverno è anche casa tua. Avresti potuto avvertirci da subito.- l'accusò quasi. Avresti potuto far tornare le nostre vite come prima, pensò, ma avrebbe mentito. L'Arya che avrebbe fatto tornare le loro vite come prima era stata decapitata ad Approdo del re molti anni prima, probabilmente.
-Dovevo aspettare il momento giusto.- replicò Arya, sedendosi presso il focolare spento. -Quando ho scoperto che voi eravate sopravvissuti, che eravate tornati a Grande Inverno, la tentazione di anticipare questo momento c'è stata... ma fortunatamente non è andata così.-
Rickon verificò lo stato delle sue ferite, tastandosi prudentemente il braccio e la spalla. -Perchè, dove sei stata per tutto questo tempo?-
Lo sguardo di Arya raspava fra le ceneri. -Fino a due giorni fa, ero a Braavos. Sono partita subito dopo le Nozze Rosse. Quando hanno ucciso la mamma e Robb, io c'ero.-
Rickon distolse lo sguardo e decise di non approfondire l'argomento, perchè riusciva già ad immaginare che fosse una storia lunga, e le storie lunghe non gli erano mai piaciute. Io c'ero. Bastava. Quanto dolore può annidarsi in due sole parole?
-Come hai fatto a scoprire del nostro ritorno? Chi te l'ha detto?- indagò invece, accigliato.
Sul viso allungato di Arya balenò quasi l'accenno di un sorriso furbesco. -Diciamo che... ho i miei contatti. Degli alleati, per la verità.-
Alleati? si chiese stupito. Cosa significa alleati? Che intenzioni hai? Ma c'era un'altra domanda che gli premeva ancora di più.
-Hai per caso notizie di Sansa?- Quell'illuminazione giunse come un fulmine a ciel sereno nella sua mente; se era viva Arya, perchè non avrebbe dovuto esserlo anche la sua sorella maggiore? Il solo fatto di averne incontrata una significava che i miracoli esistevano, che in quel casino di mondo tutto era possibile. Un secondo più tardi si diede dell'idiota. Arya e Sansa erano state divise, le loro sorti erano state completamente differenti, in luoghi diversi, anni diversi.
Arya liquidò la domanda in maniera quasi sbrigativa, come se fosse una questione di minima importanza. -Sansa è viva come me e te, ma ci sono talmente tante cose da raccontare, che cercare di fare un riassunto sarebbe stupido.-
Rickon sbattè le palpebre e schiuse le labbra, ma le parole che aveva intenzione di formulare si dissolsero. Sansa era soltanto un nome nei suoi ricordi, aveva l'effimera consistenza dei personaggi delle storie della vecchia Nan, era uno spettro fluttuante dal manto di capelli rossi, dal bel sorriso d'altezzosa, ingenua civetteria. Nella sua vita Sansa non era un'assenza, come poteva essere sua madre o suo padre, però era una privazione, una curiosità insoddisfatta, un diritto negato. Rickon Stark, per natura e legge, avrebbe potuto avere una bella sorella dagli occhi azzurri come i suoi, ma glie l'avevano portata via. Come tutti i membri perduti della sua famiglia, ciò di cui sentiva la nostalgia era una sagoma senza volto.
Sansa era soltanto un nome, ma un nome terribilmente importante. Era Stark, quel nome, il nome più agognato del mondo. Tutto ciò che Rickon voleva attorno a sè era gente che gli assomigliasse, gente dal sangue come ghiaccio disciolto e pelle d'algida neve, occhi di pietra scurita senza pace. Non si era mai sentito così emozionato, in difficoltà eppure estasiato, inebriato da tutte le rivelazioni. Quante volte aveva sognato quel momento, da bambino, rannicchiandosi fra le pellicce di Osha e cercando il tepore del fuoco, e quante volte al risveglio aveva pianto amaramente la propria dabbenaggine?
-Devo portarti da Bran.- fu tutto ciò che riuscì a farfugliare. -Il nostro accampamento è presso le Torri, ma qualcosa mi dice che lo sai già. Sarà contentissimo di sapere che sei viva!- Arya scosse il capo con veemenza, sempre affetta da quell'irrequietezza quasi innata nella sua piccola scattante persona.
-Adesso no, non possiamo permetterci un'eventuale fuga di notizie. Nessuno deve ancora venire a scoprire del nostro arrivo. Ma Bran lo rivedrò presto, prima di quanto credi, non preoccuparti. Tutto bene con quel braccio?-
Rickon fece una smorfia, sfiorandolo ancora. -Non proprio grazie a te, ma sì, abbastanza. Avresti potuto riconoscermi un attimo più in fretta, ad ogni modo.-
-Sei cambiato un pochino, rispetto all'ultima volta che ti ho visto, se permetti.- commentò Arya, squadrandolo da capo a piedi con un sopracciglio inarcato. In realtà ciò che vedeva le piaceva più di quanto sarebbe stata disposta ad ammettere.
-In tua assenza sono diventato un cattivo ragazzo.- la informò lui sogghignando.
-Mai quanto me.- fu la risposta, tetra soprattutto perchè arida d'umorismo. -Sarebbe stato umiliante farmi sconfiggere dal mio fratellino.-
-Ah, è a Braavos che hai imparato a combattere così?- borbottò l'altro, spolverandosi i pantaloni con gesti affrettati. -Comunque non mi hai sconfitto, sappilo!-
-Certo, come ti pare.- replicò lei, con un ghigno un po' diabolico.
Seguì un fruscio ed all'improvviso un ragazzo alto, imponente, dal fisico atletico e molto sviluppato, emerse fra gli alberi; aveva gli occhi chiari come stille di sorgente, i capelli corvini e vestiva soltanto con un paio di calzoni rattoppati, una casacca sgualcita ed un mantello che gli arrivava ai fianchi. Nell'avvertire una presenza estranea aveva sguainato la spada. Lanciò un'occhiata preoccupata ad Arya ed una ostile a Rickon.
-E questo chi sarebbe? Ho sentito dei rumori. E' tutto a posto?- domandò con diffidenza, rivolgendosi a lei. Arya gli scoccò un'occhiata beffarda, incrociando le braccia e calciando un sassolino nella sua direzione.
-Che tempismo, Gendry. Proprio quando abbiamo finito di scannarci... Ti presento mio fratello.- esclamò, con voce assolutamente casuale, come se nulla fosse. Il ragazzo di nome Gendry tacque: esaminò il suo volto alla ricerca d'una traccia di sarcasmo, ma non trovandola scosse arreso il capo. Il suo sguardo cadde sul sangue che macchiava il mantello di Rickon.
-E vi siete presi a botte, giusto?-
-Se non ci fossimo presi a botte, non sarebbe mio fratello.- precisò Arya. Gendry sospirò paziente, rinfoderò la spada ed acconsentì a sedere vicino a lei, continuando a rivolgerle uno sguardo di rimprovero.
-Ti avevo detto di non accenderlo, il maledetto fuoco.- affermò, con l'espressione di chi sa bene di stare ripetendo la stessa cosa per la millesima volta. Ottenne soltanto una smorfia e un paio di scettici ed arroganti occhi grigio-azzurri conficcati bellicosamente nei suoi.
-Nessuno può fare del male a noi, Gendry. E comunque non sono io l'imbecille che si è sbragato la coscia cercando la cena.- rimbeccò lei, guardandolo in cagnesco. -Hai ragione, avrei dovuto lasciare che la ferita si infettasse e tu andassi all'altro mondo senza aver visto la corona nemmeno da lontano...-
Rickon cominciava a non capirci più niente e decise di chiarire la situazione.
-Chi sarebbe questo, il tuo ragazzo? E cosa c'entrano le corone?-
Arya si fece paonazza. -Non è il mio ragazzo, è Gendry. Lui ha intenzione di sedere sul Trono di Spade, e fino a pochi giorni fa pensavo che fossero i Lannister i suoi nemici più temibili, non le volpi del sottobosco. Ho dovuto ricredermi.- lo prese in giro, tirando non casualmente una gomitata alla gamba del ragazzo di fianco a lei.
-Racconta la storia bene, se la vuoi raccontare.- bofonchiò Gendry, al suo fianco. Poi si rivolse a Rickon, serio. -Io sono il figlio bastardo di re Robert. Avrei potuto continuare a vivere come prima, ma poi ho scoperto che la mia pretesa al trono sarebbe più valida di quella dei ragazzetti biondi e smidollati che muoiono come mosche. Avrei potuto continuare a vivere come prima, ma poi... ho incontrato tua sorella.- si corresse con un sorriso. Arya sbuffò in silenzio, calciando ancora la ghiaia per terra. L'inquietudine era caratteristica intrinseca del suo volto contratto.
Rickon era poco convinto e squadrava Gendry quasi con derisione. -Quindi credete di presentarvi in due dai Lannister e chiedere gentilmente il trono?-
-Abbiamo intenzione di sollevare il popolo contro i Lannister.- intervenne Arya, infervorata. -Abbiamo la ragione dalla nostra parte. Gendry è il legittimo erede e sarà un buon re... sì, è un idiota, ma sarà un buon re lo stesso. Questo te lo posso assicurare. Con un solo colpo di mano ci vendicheremo con i Lannister per nostro padre, nostra madre, Robb, per Bran e tutte le altre ingiustizie che hanno commesso...-
-Per mio padre.- aggiunse Gendry, stringendosi nelle larghe spalle. -Sì, lo conoscevo solamente di nome, e per quel poco che sapevo di lui non ne avevo esattamente stima. Però era pur sempre mio padre, e i Lannister sono sospettati d'aver giocato un ruolo nella sua morte.-
-I Lannister sono sospettati d'aver giocato un ruolo in più o meno tutte le tragedie e le controversie più truculente degli ultimi cento anni.- replicò Rickon sarcastico. -Ma non so quante probabilità di successo avrà il vostro piano. Che, tra parentesi, qual è?-
-Meglio che tu lo venga a sapere a conti fatti.- rispose Arya. -Non siamo soli in questo progetto. Abbiamo pianificato tutto quanto insieme a un'altra persona, ma non è necessario che ti dica chi è. Anche gli alberi hanno orecchie, di questi tempi.-
Conclusi le doverose spiegazioni, i tre mangiarono tutti insieme ciò che Gendry aveva cacciato, e Rickon diede subito prova delle sue abitudini alimentari sbranando una coscia di capriolo senza cuocerla, grondante di sangue fresco.
-Soltanto un individuo simile potrebbe essere tuo fratello...- commentò Gendry senza troppa ironia, contraendo il viso pieno di disgusto nel vedere i denti inusualmente grossi del ragazzo affondare nella consistenza spugnosa fino a spolpare e graffiare le ossa. Arya sorrise quasi orgogliosa, come se fosse suo il merito di quella selvatichezza; intanto raccontò di come avesse rincontrato Nymeria, non appena era sbarcata nel continente occidentale, di come si fosse mantenuta a Braavos grazie a piccoli lavori di giornata, di come Gendry fosse andato a cercarla per attuare la sua, la loro vendetta. Fu il turno di Rickon, che raccontò brevemente di Skagos, della guerra, di Bran, tralasciando un unico aspetto della storia: Myrcella. Soltanto quando Arya, dopo essersi steccata alla bell'e meglio due dita della mano, gli tamponò le ferite del braccio per fermare il flusso sanguigno, Rickon si alzò per tornare all'accampamento.
-Bran si chiederà che fine ho fatto.- si giustificò, un po' contrariato all'idea di dover salutare la sorella non appena s'erano ricongiunti. Avevano ancora moltissime cose da dirsi, dopotutto.
-Ci rivedremo presto.- fu il brusco saluto di Arya, -molto prima di quanto credi. E verrò a fare i miei omaggi al re.-
-Lunga vita al re.- ripetè Rickon, con una smorfia malinconica. Infine schioccò le dita per attirare l'attenzione di Cagnaccio e tornò a cercare il cavallo, chiedendosi come avrebbe fatto a tacere le novità di quella giornata.
Arya è viva, Sansa è viva, Jojen Reed se n'è andato. Cosa sta succedendo al mondo, in questi ultimi giorni? E cosa succederà a noi? L'idea dei complotti di Arya, per mettere al trono un qualche bastardo di re Robert, lo impensieriva. Sperava che in questo modo non sarebbero venuti a contesa anche con Stannis, oltre che con i Lannister. Quell'uomo iniziava a stargli un po' simpatico, dopotutto. Ma le sue sorelle erano vive, vive, vive, non riuscì a pensare ad altro per tutta la cavalcata di ritorno, e gli sfuggì persino una risata di sollievo ed euforia, una risata liberatoria in mezzo al silenzio, a cui gli alberi replicarono con un prolungato tramestio di foglie tremanti nel vento.
 ***
-Manca meno di un'ora all'arrivo, mi dicono.- annunciò Tyrion, sedendo sul piccolo divano di velluto rosso della carrozza in cui Tommen stava consumando il pranzo. 
Nonostante il giovane re fosse solitamente accusato di pigrizia cavalcare gli piaceva, quindi stava al fianco dei suoi uomini quasi sempre, ad eccezione dei momenti del pasto, come quello. Non aveva granchè voglia di vedere qualcuno, tantomeno suo zio, però strinse i denti ed abbassò gli occhi sul piatto senza dir nulla.
Era ancora molto turbato dalla confessione pubblica di Myrcella, e questa interna sofferenza lo aveva corroso dall'interno per tutti quei giorni, procurandogli stanchezza, malumore e persino una febbre leggera, che si era abbassata progressivamente con il tempo. Nemmeno le lettere di sua moglie, lady Margaery, riuscivano a tirarlo su di morale; anzi, non appena le riceveva le scartava con rabbia, senza togliere il sigillo di ceralacca. Era di questo che Tyrion era venuto a parlargli.
-Che intenzioni hai a proposito di tua moglie?- domandò, esaminando cautamente la sua espressione. Non voleva farlo arrabbiare di nuovo, però la questione andava affrontata e l'ultima parola spettava proprio al re.
-Che genere di intenzioni dovrei avere?- replicò lui, cupo, punzecchiando i pezzi di pomodoro nel suo piatto, con non troppa convinzione.
Tyrion sospirò. -Per quanto tempo hai intenzione di fare finta di niente? Ti sta fregando il palazzo sotto il tuo regale naso, e tu che fai? Lo sposti dall'altra parte? Su, nipotino mio, non giochiamo al reuccio immusonito e cerchiamo di comportarci con fermezza e risoluzione. Questa vigliaccheria non serve a niente.-
Infastidito dal suono delle sue parole, Tommen sollevò il capo con un'espressione scocciata.
-L'hai detto tu che la lettera da Approdo del Re l'ha scritta Sansa Stark e che è un falso, no? E allora perchè dovrei preoccuparmi e credere che quel che scrive sia vero? È soltanto un espediente per farmi tornare ad Approdo del Re e mettere a repentaglio la guerra.-
Tyrion attese diversi istanti prima di proseguire; intanto il ragazzo si portò alla bocca la forchetta, inghiottendo un pezzo di pane intinto nel sugo.
-Non lo ritengo del tutto esatto. Io credo che ci sia anzi una discreta percentuale di verità nella lettera. Dopotutto, avvertirti avrebbe comunque avuto lo stesso effetto che inventarselo, no? È il risultato che conta, per Sansa. Se può aiutare gli Stark, bene, ma se può aiutare gli Stark e mettere zizzania fra Lannister e Tyrell, ancora meglio. Non sei d'accordo?-
Tommen picchiò la superficie di legno con il pugno. La voce cominciava a fremere di rabbia. Possibile che Tyrion non capisse?!
-È mia moglie. Ti sembra così assurdo che voglia fidarmi di lei? Io voglio bene a Margaery, e voglio crederle. Di sicuro, non baderò alle stupidaggini che dice quella là. Io amo Margaery, capito? Lei non mi farebbe mai questo.-
Lei non mi farebbe mai questo. Parole dolorose al momento sbagliato. L'aria che gli gonfiava i polmoni fuggì in uno sbuffo estenuato. Socchiuse la bocca per permettergli di evadere, ferito da se stesso.
Tyrion si chiese se potesse rimandare quella rivelazione, si rimproverò per tutte quelle remore rimbrottandosi che il ragazzo doveva crescere. Prese un bel respiro e si buttò.
-Ho inviato una lettera a Podrick, non appena mi è arrivato il falso di Sansa, e gli ho chiesto se avesse l'impressione che la regina stesse tramando qualcosa. Mi ha risposto... che stava indagando proprio su questo, perchè aveva sentito delle chiacchiere fra le spie di Varys. Mi dispiace tanto, Tommen, ma non si può ignorare...-
-Bene.- La voce di Tommen stridette di lacrime. -Allora fai direttamente quello che ti pare ed ignorami come sempre! La mia opinione vale meno dei fichi secchi, vero?!- Guardarlo negli occhi, lui e i suoi calcoli e la sua logica infallibile, era più difficile di quanto pensasse. Faceva male. Non più male del resto, comunque. La sua fu una supplica a qualche dio in cui, in quel momento, avrebbe avuto bisogno di credere, ma non ci sarebbe mai più riuscito. -L'ho sposata! Ha mio figlio nella pancia! Cosa dovrei fare?! Dimmelo! Dovrei farla ammazzare e facilitare la vita agli Stark?! Dovrei... dimmelo tu, visto che sai sempre tutto!-
Con un ultimo gesto stizzito, scaraventò il piatto con il resto del pranzo a terra, insieme alla tovaglia che si sformò ed arricciò sotto le sue mani, ai cocci della ceramica che strillarono contro il pavimento, al piagnucolio metallico delle stoviglie. Aveva il fiatone senza avere corso. Le sue mani erano rosse, furiose, quasi pulsanti del sangue sottopelle.
Tyrion assistette senza battere ciglio alla sua violenza innocua, di bambino deluso. C'era qualcosa di patetico, in quello sfogo, e qualcosa di atrocemente drammatico insieme. Il Folletto sembrava avere spento la propria ironia, per una volta. 
-Sto salvaguardando il tuo trono, non il mio. Quel che faccio, lo faccio per te. Perchè voglio il tuo bene.- rispose pacatamente, come se volesse contrastare con la ragionevolezza della diplomazia la puerilità del suo gesto sciocco ed inconsulto. Infine, quando si accorse che il ragazzo lo stava ascoltando, concluse. -Visto che i nostri movimenti dipendono attualmente soltanto da quelli degli Stark, propongo di far rinchiudere Margaery in prigione, ma soltanto dopo aver partorito. Se ti sembra una scelta appropriata...-
-Va bene.- sussurrò Tommen in un bisbiglio infranto. -Va bene.-
Non riusciva a capire come fosse stato possibile che Margaery, la sua Margaery dal sorriso bello e i fiori fra i capelli, avesse potuto trasformarsi in una traditrice. Anche lei. Il mondo sembrava volergli essere ostile a tutti i costi, all'improvviso, prendendo possesso del cuore delle persone che amava, sottraendogli le uniche che avrebbero potuto difenderlo. In Margaery non c'era nulla di male, solo conforto, gioia, luce. E adesso questo, sorrisi che diventano ghigni, mani che diventano artigli. Forse un giorno un giullare di corte avrebbe cantato una ballata in cui le fanciulle diventavano mostri, ma a chi sarebbe mai potuta piacere? Va bene, rinchiudetela, uccidetela, fatele del male, tanto non è più giusta, non è più lei, è corrotta, è inquinata. Tanto non riuscirei mai ad amarla come prima.
La menzogna crollò non appena cercò di stringerla a sè.
***
Ogniqualvolta Meera avesse tentato di dargli un'arma, aveva poi dovuto requisirgliela ridendo. Ti tremano le mani, diceva in tono di divertito rimprovero. Jojen Reed rammentò tutto ciò, mentre lui ed Edmure salivano a rapidi passi la scala a chiocciola che conduceva agli appartamenti della famiglia. Il lord di Delta delle Acque era estremamente agitato; dopo aver fatto estenuanti domande per venti giorni di viaggio, nel corso degli ultimi trascorsi aveva smesso di aprire bocca e da allora non spiccicava parola, probabilmente a causa del nervosismo. Teneva lo sguardo perduto da qualche parte, in un punto davanti a sè, sfregandosi le mani di tanto in tanto. I suoi passi erano talmente concitati ed irrequieti che Jojen faticava a stargli dietro.
-Non serve lasciarsi prendere dal panico in questo modo, lord Tully.- mormorò Jojen. -È tutto sotto controllo.-
L'uomo non rispose, come se non avesse il tempo nè la pazienza di trovare una replica adeguata, ed annaspò confuso fra i suoi pensieri. Appena varcarono l'arco di pietra che divideva le scale dagli alloggi, una donna venne loro incontro: aveva lunghi capelli fulvi, raccolti solo in parte sulla nuca e per il resto lasciati sciolti fino alla vita, grandi occhi caldi e castani e un viso dolce, emotivo, con labbra carnose.
-Edmure, mio signore? Che cosa sta succedendo? Appena mi hanno avvertita del tuo arrivo, ho temuto il peggio...-
La sua voce era sottile e un po' tremula. Il marito s'illuminò, a vederla, e dopo tanto tempo distese il volto in un largo sorriso; strinse con le mani le esili spalle della moglie e la baciò delicatamente sulle labbra. Lei si alzò appena sulle punte dei piedi, rinfrancata per un attimo, ed arrossì sulle gote. Però Edmure non prolungò quel contatto e fissò sua moglie, con una nuova gravità negli occhi gonfi d'ansia ed insonnia.
-Stanno arrivando i Lannister, Roslin. Vogliono assediare il castello. Ho lasciato il grosso delle truppe a rallentarli, ma non so quanto potrà servire... La maggior parte degli uomini è ancora con mio nipote. Perciò dobbiamo fare il possibile per difendere Delta delle Acque con le forze che abbiamo, prima che sia troppo tardi.-
-I Lannister?- farfugliò Roslin, smarrita. -Come fai a saperlo?-
-Per merito suo.- Edmure indicò con un cenno Jojen, che attendeva pazientemente alle sue spalle. -È il consigliere di Brandon... l'indovino.-
-Oh.- sussurrò la donna, osservandolo come avrebbe fatto con un piccolo animale esotico particolarmente singolare, e con quel pizzico d'intimidita venerazione che le persone ingenue provano verso ciò che non conoscono. Jojen, pur non apprezzando l'appellativo indovino (già veggente gli stava un po' scomodo), fu costretto a ricordare ad Edmure che dovevano affrettarsi e non c'era tempo per i convenevoli.
Un bambino che non dimostrava più di otto anni uscì dalle sue stanze e, non appena riconobbe il padre, gli balzò fra le braccia.
-Padre! Sei tornato!- strillò con una vocina acuta. Era sorprendentemente simile alla madre: i suoi capelli erano tenere fiamme vive, la sua carnagione bianca come porcellana e gli occhi castani e tondi; nei suoi tratti, comunque, c'era anche qualcosa del padre. Edmure lo abbracciò più stretto che riuscì, stringendoselo al petto come se cercasse un tepore tanto agognato, trattenendolo intensamente fra le sue braccia ed affondando grato il mento nella sua spalla, gli occhi appena umidi.
-Miles... sono così contento di rivederti, ragazzo mio.-
Anche la sua bambina, Elyn, era uscita di soppiatto, silenziosa come un'ombra, dal temperamento meno vivace di quello del fratello; stringeva la mano di Roslin, con lo sguardo chino a terra. Visto che aveva solo cinque anni la sua treccia era ancora corta, del color castano ramato del padre, ed i suoi occhi limpidi e cristallini erano quelli dei Tully.
-Bentornato, padre.- bisbigliò. Edmure si chinò a baciare anche lei sulla piccola guancia vellutata, tempestata d'efelidi color nocciola.
-Quanto mi siete mancati, tesori miei... ma adesso sbrighiamoci, dovete mettervi in salvo.- Si alzò e si rivolse a Jojen. -Cosa faranno i Lannister appena giunti qui?-
Il ragazzo indicò il lato opposto dell'edificio con l'indice. -Ho visto la Torre Nord in fiamme, quindi sappiate che sarà la prima ad essere attaccata; per limitare i danni, potete evitare di posizionare là i vostri uomini, piuttosto, e risparmiare loro una morte indegna. Non ho visto nulla circa la vostra famiglia, e questo mi fa sperare il meglio. Propongo di far fuggire tutti i suoi cari al più presto, lord Tully... magari sotto la protezione di suo zio Brynden e di alcuni uomini fidati? Potranno raggiungere la fortezza del loro alfiere più vicino e rifugiarsi lì fino a che il pericolo non sarà scampato. Dopotutto, i Lannister non si avventureranno più a Sud nelle Terre dei Fiumi, se il loro scopo ultimo è quello di ritrovare la Strada del Re, e comunque il loro obiettivo non sono i suoi familiari, fortunatamente.-
Edmure annuì rapidamente con la testa. -Molto bene. Allora, Ryger, vai ad avvertire Brynden e digli di portarli dove egli ritenga più opportuno. Roslin, seguilo.- Fissò la moglie negli occhi e le sorrise debolmente. -Verrò a prendevi il prima possibile, quando tutta questa brutta storia sarà finita...-
Lei cercò di rispondere al sorriso e lo baciò con dolcezza sulle labbra. -Fai attenzione.- raccomandò in un soffio, prima di prendere in braccio i bimbi a turno per permettere loro di salutare il padre, e di congedarsi con un ultimo sguardo preoccupato.
Jojen richiese una pianta di Delta delle Acque, e quando gli venne fornita tentò di fare mente locale.
-Nella visione la torre Nord era completamente abbattuta, e il fumo si intravedeva anche da questa fila di finestre... tutte queste, fino alla Torre di guardia. Ciò significa che tutta l'ala sud-est, compresa la torre sud-ovest, verranno lasciate per ultime. Quanti uomini ci sono a disposizione?-
-Cento rimangono di quelli che ho portato con me, duecento erano rimasti a proteggere il castello.- calcolò Edmure pensieroso.
Jojen scosse la testa. -Troppo pochi. Dubito che possiamo fare qualcosa per impedire la rovina della fortezza, ma perlomeno la vostra famiglia non subirà lutti, e so per certo che i Lannister non si fermeranno qui a lungo. La sorte di queste terre dipenderà unicamente dalla sorte della guerra. La meta dei nemici è un'altra.-
Poi un'intuizione parve baluginargli nello sguardo color del muschio, subitanea e preziosa.
-Allora?- insistette Edmure impaziente.
-Non è importante, lord Tully. Adesso mi ascolti attentamente: i Lannister arriveranno da nord-ovest, quindi attaccheranno quest'ala del castello e s'introdurranno nel maniero tramite l'ingresso minore. Se piazzerai i tuoi uomini a difesa delle zone che ho visto illese, probabilmente tutto andrà per il meglio per le prime ore, e il numero delle vittime sarà notevolmente più basso. Penserò io al resto.- aggiunse, e queste parole stupirono Edmure.
-Cosa intendi dire? Cosa significa il resto?-
-Non temete. Tutto è già stato decretato.- si limitò a rispondere, i pensieri a vagare e procedere fin molto lontano da lì.
Lui ed Edmure scesero poi le scale per impartire gli ordini ai soldati, in gran fretta. Dopo aver dato tutte le disposizioni ed indicato le posizioni esatte, lord Tully si chiese cosa avrebbe dovuto fare lui.
-Non vi ho visto nè prigioniero nè morto, quindi immagino che possiate scegliere.- rispose laconico Jojen. Edmure decise dunque di guidare i suoi uomini nella difesa, per non fare la figura del codardo quand'era la sua fortezza ad essere in pericolo.
-Ma tu, ragazzo, ho sentito dire che non hai mai indossato un'armatura in vita tua.- aggiunse. -Puoi fuggire insieme ai castellani là dove mio zio sta portando i bambini e Roslin, e sarai assolutamente al sicuro. Hai già fatto fin troppo per noi.-
Ma Jojen non abbandonò ancora la posizione al fianco di Edmure: ricordava che armi aveva visto nella visione e quindi spiegava qual era il luogo ottimale per sistemare i balestrieri, gli arcieri, gli addetti ai pentoloni di pece bollente, da riversare sulle teste di coloro che avessero tentato di scalare le mura. Quando terminò di dare tutto l'aiuto possibile, l'esercito era già quasi alle porte.
-Devi scappare immediatamente,- gli raccomandò Edmure, -prima che arrivino. Forza, corri!-
Il ragazzo obbedì ed imboccò il corridoio che, all'interno del maniero, avrebbe dovuto portarlo nei piani inferiori, verso l'uscita posteriore; ma non scese affatto come gli era stato ordinato. Strinse con più forza la pergamena che aveva nel palmo della mano e si avviò in direzione della Torre Nord, quella che nelle sue visioni era ridotta ad un cumulo di macerie. Non lo faceva insensatamente, anche se può sembrare: aveva una missiva molto urgente da inviare e i corvi si trovavano soltanto nella torre di vedetta a Nord. Salì le scale; nessuno cercò di fermarlo nè udì i suoi passi, perchè era completamente vuota, dato che aveva impartito egli stesso l'ordine di sgomberarla. Giunto in cima, si apprestò a legare il rotolo ad una zampa del corvo, quando una voce alle sue spalle lo immobilizzò lì dov'era: era quella affilata ed un po' beffarda di Tyrion Lannister.
-Guarda guarda chi si vede. Il guastafeste. Chi ti ha autorizzato a rubarmi le idee geniali, prima ancora che mi vengano?-
Stava sulla soglia, circondato dai suoi soldati, che avevano già puntato le armi contro la schiena di Jojen. Il ragazzo, con uno scatto furtivo, nascose il foglio all'interno del mantello, senza farsi vedere perchè appunto di spalle.
-Voltati.- ordinò Tyrion placidamente. Il consigliere del re del Nord fece come gli era stato detto e gli rivolse un mezzo sorriso amaro.
-Dunque tu sei il Folletto. Ti ammiro molto, sai. Desideravo da un pezzo fare la tua conoscenza... anche se magari non proprio a queste condizioni.-
-Sono un po' critiche, vero?- confermò Tyrion. -Che bello, ho un fan. Peccato che lo debba uccidere appena l'ho incontrato. Le persone intelligenti scarseggiano, di questi tempi, e quelle poche che ci sono stanno dalla parte sbagliata... Anche se trovarti qui mi ha sorpreso. Dimmi un po', cosa avevi intenzione di fare?-
Jojen scosse il capo. -Immagino che ora non abbia più importanza. Comunque, permettimi di dubitare che tu voglia uccidermi. Un bravo giocatore sa sfruttare al meglio le carte che ha, e per sfruttare al meglio me non bisogna mettermi a tacere per sempre, ma farmi parlare, piuttosto. Dico bene?-
-Hai presto indovinato il tuo triste destino, mio povero amico.- sospirò Tyrion, anche se non era poi così addolorato. -Prendetelo e portatelo via.- Schioccò le dita.
Ma prima che i suoi uomini potessero scattare, Jojen Reed infilò la mano nel mantello ed estrasse un corto pugnale, la cui lama era percorsa da un sottile filamento di luce, proveniente dalla finestra. Tyrion Lannister aggrottò la fronte, stupito da quell'imprevisto; sotto suo ordine, le guardie rimasero dov'erano.
-Sarebbe bello prendermi in ostaggio e ricattare Brandon,- cominciò Jojen, con voce calma, puntandosi il coltello alla giugulare, minacciando la vena pulsante ad un soffio da essa, -sarebbe bello immergermi nell'olio bollente, scuoiarmi pezzo per pezzo davanti ai suoi occhi, finchè non getta la corona ai vostri piedi. Sarebbe bello, soprattutto perchè sarebbe efficace.-
Ormai i suoi propositi erano manifesti. Tyrion Lannister si rese conto che la situazione era più problematica di quanto fosse apparsa a prima vista: bisognava intervenire subito.
-Questa è pusillanimità, Reed, non coraggio. Di' le cose per come stanno, hai paura di quel che potrebbe accaderti e preferisci, come dire, spegnere l'interruttore. Davvero un gesto compassionevole nei confronti della persona che ucciderebbe i suoi uomini uno ad uno, se servisse a salvarti la vita... Il tuo egoismo dovrebbe essere considerato un reato.-
Jojen sorrise di nuovo. -A parlare sei veramente bravo come dicono. Sai qual è la prima visione che ho avuto, Folletto? Quella della mia morte. Nessuno sa meglio di me ciò che sta per succedere. Tutto qui ha avuto inizio, tutto qui avrà fine. Sarà così com'è stato detto.-
D'altronde, nessun poteva capire cosa significava non avere segreti con il futuro, vivere una vita perennemente due passi avanti a lui, senza la gioia della scoperta, il privilegio dello stupore. Nessuno poteva capire quanto nel profondo egli si fosse inoltrato nei misteri di quella realtà folle ed incongrua. Nessuno, tranne Levenna Stark, naturalmente.
-Grazie, Reed. Stai privando il tuo re della sua arma migliore, davvero una bella mossa.- rise Tyrion, imbevendo ogni parola di sarcasmo, quando in realtà tutto il suo piano stava andando a rotoli. -Distruggerlo psicologicamente lo aiuterà di certo ad affrontare una guerra, che ne dici? Ci stai facendo un favore talmente enorme, che inizio a sospettare che tu stia voltando gabbana.-
-Tutto ciò che ho fatto nella mia intera esistenza è stato per il re del Nord. La mia vita è stata votata alla sua prima che nascessimo. Gli sto semplicemente rendendo ciò che gli appartiene.- replicò Jojen, con voce pacata ma ferma. Ciò che Tyrion diceva non era del tutto errato: Jojen era ben consapevole che non avrebbe resistito a tenere la bocca chiusa, se lo avessero sottoposto a tutte quelle torture di cui conosceva l'orrore. Aveva sempre avuto un fisico debole, incapace di adeguarsi ad eccessivi sforzi o sofferenze, di salute più o meno cagionevole. Ecco perchè non voleva correre il rischio di svelare ciò che non andava svelato. Ma era anche vero il resto. Era anche vero che Bran avrebbe sofferto. Ancora.
Quando ti ho incontrato per la prima volta, eri un ragazzino smarrito nel bosco con il lutto negli occhi e le ali inchiodate al suolo; quando ti ho lasciato, eri un re al capo del suo esercito, con la vendetta negli occhi e un onere di ferro sul capo. Non piegavi più la testa come un tempo, però l'anima che trovai e congedai era sempre la stessa.
Fu allora che Tyrion Lannister si rese conto che nulla ch'egli potesse dire, o fare, sarebbe servito a qualcosa. Lasciò pendere le braccia lungo i fianchi.
-Strumentalizzare la sua ira è la cosa più perfida e meno romantica che io abbia mai sentito fare da un innamorato nei confronti dell'altro.- dichiarò, intuendo le intenzioni dell'altro.
-Siete stati voi a creare il Re Storpio, Lannister. Voi e la vostra empietà.- Jojen serrò le dita intorno all'impugnatura del pugnale. Le mani non gli tremavano, per una volta. Ci sarebbe riuscito, per una volta. -Siete stati voi a creare il Re Metamorfo. E adesso state a guardare mentre vi schiaccia sotto il debito delle conseguenze.-
Presto capirai, Brandon, presto capirai tutto quanto, e forse troverai il coraggio di perdonarmi, così come hai trovato il coraggio di alzarti in piedi da solo. Tu ancora non lo sai, ma non hai più bisogno di me.
Il pugnale punse e gli carezzò il collo, da una parte all'altra. Jojen Reed non ebbe nemmeno il tempo di avvertire la ferita bruciare.
Tyrion arricciò il naso davanti alla fontana di sangue che ruscellò sul farsetto verde del ragazzo, fino a spandersi sul pavimento e propagarsi in fretta, come un morbo. Ha avuto fegato, dovette riconoscere con una smorfia. Peccato che sia stato tutto inutile.
-Avanti, perquisitelo. Stava per inviare un messaggio, non ve ne siete accorti? Crede che sia così scemo da non aver visto che lo stava legando ad un corvo? Sono nato qualche giorno prima di lui. Su, muovetevi.-
La lettera fu presto trovata. Un soldato la trasse dal mantello, in parte intrisa di sangue. -Ecco, mio signore.-
Tyrion la prese con la punta delle dita e l'aprì, la fronte corrugata. Scorse rapidamente le righe, scoprendo con sollievo che era praticamente tutta leggibile nonostante le macchie. Man mano che proseguiva nella lettura, il suo sconcerto cresceva a dismisura: possibile che...? Afferrò parola per parola, avidamente, ed al termine sollevò lo sguardo sbalordito. Dalla porta alle sue spalle fece irruzione Bronn, un mercenario che aveva stretto inaspettatamente una sorta di legame d'amicizia con lui, nonostante il fatto che la lealtà dei mercenari la si paga con l'oro.
-Stanno per distruggere la torre, nano, sono venuto ad avvertirti. Cosa è successo qui?- Lanciò un'occhiata perplessa al cadavere dallo spaventoso sfregio sulla gola, ancora disteso a terra.
-Quello è l'amante di Stark. Il veggente. Si è suicidato per non rischiare di svelare niente all'interrogatorio, a quanto pare.- spiegò in fretta.
L'uomo alzò un sopracciglio. -La regina del Nord ha deposto la corona.- commentò con ironia.
Tutto ciò che Tyrion riuscì a dire fu: -Quel che importa è che abbiamo vinto, Bronn. Era questo che Jojen Reed voleva proteggere a costo della vita. Abbiamo vinto.- Sventolò il foglio con esultanza.
Maestà,
so che in questo momento sei estremamente arrabbiato e deluso dalla mia disobbedienza. Ti chiederai perchè ti ho lasciato da solo e sono partito senza nemmeno avvertirti, senza spiegarti le mie ragioni. Non devi assolutamente credere che io abbia ignorato i tuoi ordini per strafottenza, o perchè non rispetto la tua regalità, mettendo in discussione il tuo potere. Non c'è uomo del Nord che ti possa servire ed onorare più di quanto ho fatto io. Con questa lettera voglio spiegarti il motivo del mio gesto, che a te potrebbe sembrare avventato ed incosciente. Sono partito senza indugio per salvare Delta delle Acque e la famiglia Tully non perchè li ritenga più importanti di te, non perchè riponga in loro la mia fedeltà, e nemmeno, lo ammetto senza vergogna, per un eroico slancio di coraggio: ma perchè non riesco a sopportare l'angoscia del mio fallimento. Sì, hai capito bene, ho fallito, Maestà. Proprio la notte della mia partenza l'esito della guerra mi è stato svelato dal crudele fato senza occhi.
L'esercito del Nord è destinato alla sconfitta, mentre invece i Lannister trionferanno ancora. Re Tommen rimarrà sul trono e la lady sua moglie darà alla luce un figlio, la cui vita sarà lunga e felice. Lo so che queste parole ti sembrano incredibili, scioccanti, ma non sono altro che l'atroce verità. Avrai dei seri dubbi, dato che il nostro esercito è forte e motivato, ma posso spiegarti anche questo. Tutto avverrà per una reazione a catena. È con il cuore dolente che mi viene costretto a rivelarti che nessuno dei comandanti di questa spedizione sopravvivrà. Tuo fratello Rickon morirà, trafitto con la sua stessa spada dalla ragazza Lannister che si è portato nel letto. Ma quello che più mi rincresce è che la missione della mia vita, salvarti, proteggerti e sostenerti in modo che tu potessi regnare sul Nord fino all'estrema vecchiaia, è fallita miseramente proprio quando aveva più speranze di successo. Tu morirai, mio re, morirai su una pira non appena giunto alla capitale. L'ho visto. A questo punto, non mi resta che morire prima di te: perdona la mia codardia, ma non rimarrò in vita per ascoltare le tue grida mentre ardi vivo fra le fiamme. Ti ho udito urlare in sogno, ed è stata l'esperienza più terribile della mia breve ma intensa esistenza. Il tuo dolore, la tua morte causata dalla mia incompetenza mi perseguiteranno fino in fondo all'inferno. La tua sarà un'agonia lenta e lunga, probabilmente interminabile; non voglio più mentirti, Maestà. Dopo aver letto tutto questo, penso che non ti sembrerà più assurdo che io voglia fare un tentativo per salvare i pochi che hanno la possibilità di sopravvivere.
Non c'è speranza di salvezza nè per Rickon, nè per te. Se si fosse stata, io l'avrei trovata. Ma qualsiasi cosa tu faccia, dal tornare indietro verso Grande Inverno al raddoppiare il numero dei soldati, sarà vana. Meera vivrà, se te lo stai chiedendo, ma a costo di fuggire da Grande Inverno, portando con sè Kenned e tua figlia non ancora nata. Quale sarà il loro destino, io non lo so, non ho avuto occasione di vederlo. Magari un giorno gli Stark torneranno di nuovo a casa, e questa è l'unica speranza che potrebbe risparmiarti un dolore altrimenti assoluto, e ugualmente intollerabile. Il salvataggio degli abitanti di Delta delle Acque è stata soltanto una scusa come un'altra per cercare di fare del bene con i miei poteri, per scampare al madornale disastro che attende dietro l'angolo le truppe del Nord. Speravo che con le mie abilità avrei potuto cambiare le cose, fare la differenza, beneficare il Nord ed il nostro popolo. Ma sono soltanto un illuso, Maestà. Ho deluso Meera, mio padre, me stesso, e forse sarei riuscito ad accettarlo, ma ho deluso te, e questo non riuscirei mai a perdonarmelo. Non voglio più vivere nel mondo che dimostrerà per l'ennesima volta quanto sia indegno di te.
Mi dispiace, per quel che può servire a priori: tu lo sai, che non sono parole a vuoto le mie.
Jojen Reed
***
-Cazzo.-
Rickon espirò rumorosamente, in uno sbuffo furibondo, e frugò il messaggio fra le sue mani come se sperasse di vedere le parole deformarsi, sciogliersi, scombinarsi fino a scrivere un verdetto diverso, diverso da quell'orribile avversità che si stagliava all'orizzonte minacciosa come un banco di nubi tempestose. Infine, dopo alcuni istanti di adirata, immobile, inerte contemplazione, squartò la carta con furia crescente, scagliando i frammenti al vento con gesti incontrollati, ed affondò le sue lunghe unghie nei palmi della mano. Chinò la testa. Avvertiva il cuore sconquassargli il petto in un ritmo frenetico, martellante, doloroso; chiuse gli occhi e realizzò che l'interno delle sue palpebre era rosso. Invocò l'aiuto dei suoi dèi troppo lontani, cercò la loro voce nell'aria torpida ed arida del Sud. Ma non si trovava nelle lande di ghiaccio che gli avevano dato i natali, non era l'austera compostezza di Grande Inverno nè l'atroce imprudenza di Skagos quella che strisciava sulla sua pelle, non era il vento glaciale che gli recava i sussurri del suo oracolo quello che gli avvolgeva le orecchie: soltanto la melma viscida di paesi placidi. Il volto di Rickon, le cui cicatrici venivano percorse con discrezione dal tatto impalpabile di una luna pavida, si contorse appena a quel pensiero. Il calore del Sud era opprimente, alieno, estraneo, lo rendeva nervoso, irrequieto. Soltanto cose terribili erano successe, soltanto cose terribili sarebbero potute succedere lì. La morte di suo padre, di sua madre e Robb, la precedente sconfitta del Nord. E adesso questo. Era davvero più di quanto la pazienza di Rickon -già molto esigua- potesse tollerare.
Quasi non udì i passi di Myrcella, morbidi e cadenzati su un manto d'erba secca. Mani piccole e delicate gli toccarono il collo e quelle braccia dal profumo inconfondibile lo avvolsero, senza stringere troppo, ma abbastanza da permettergli di percepire il suo calore.
-Rickon. Rickon, luce dei miei occhi, dimmi che cosa succede...-
Rickon scattò d'improvviso, ma ella non arretrò. -Quel dannatissimo veggente è morto! È crepato! Che all'inferno possa essere rinnegato da quella puttana di sua madre e fottuto dai demoni!-
L'espressione di Myrcella si fece seria e decorosamente turbata; la sua fronte s'increspò. -Ti prego, calmati, cuor mio. Spiegami. Non capisco. È... morto? E perchè?-
-Ma non capisci?! Adesso mio fratello darà di matto! Abbandonerà la guerra, ci manderà tutti a fare in culo!- Rickon pressò con le sue le pupille di Myrcella, indignato, come se volesse trasmettere senza veli il suo completo aborrimento. -Come glie lo dirò a Bran, eh? Con che faccia mi presenterò davanti a lui a dirgli che il suo veggente si è sgozzato come un vitello al mattatoio?!-
Myrcella era ancora una Lannister, anche se magari non ne andava più fiera come prima; spostò con gentilezza una ciocca dei capelli fiammeggianti del ragazzo dietro l'orecchio e domandò, con voce tranquilla e composta: -Mi stai dicendo che si è ucciso da solo?-
-... tuo zio lo voleva fare prigioniero e lui si è tagliato la gola per non cadere nelle sue mani. Questo mi è stato riferito, e in realtà ci credo. Ma la colpa è solamente sua! Se non fosse andato di persona a Delta delle Acque, tutto questo non sarebbe successo. Non ci ritroveremmo in questa situazione di merda... Per salvare chi, poi? Una zoccola Frey e due mocciosi!-
La fanciulla gli prese le mani fra le sue e sorrise pacatamente. -A volte le persone, quando sanno che la vita altrui dipende da loro, si comportano in modo strano, anche folle. Ma tu non fare così, ti prego. Finchè io e te siamo insieme, niente di male può succederci... Vedrai che tuo fratello non farà altro che arrabbiarsi ancora di più, quando lo scoprirà, e chiederà vendetta di nuovo. Dovrai stargli vicino.-
Rickon la fissò per qualche secondo, infine si concesse un piccolo sorriso. -Come al solito parli a proposito, ragazza. Hai ragione. Sistemeremo tutto quanto. Adesso vieni qui...-
La trasse a sè e la baciò senza fretta, mentre quel vento senza impeto smuoveva pigramente i loro capelli fino ad intrecciarli.
-Anche tu devi stare vicino a me.- Fu un sussurro così fioco che Myrcella credette di averlo udito soltanto nella sua mente, e tacque; dopo un ultimo sospiro, Rickon abbandonò il conforto della sua spalla d'alabastro e si avviò verso la tenda del fratello, con una determinazione diversa.
Bran lo capì subito, allo stesso modo in cui Estate fiutava i temporali e le menzogne, senza l'ombra di quel dubbio che gli avrebbe salvato la vita.
-No.- disse, non appena lesse lo sguardo del fratello, artigliando i braccioli del suo sedile come un sacerdote che non tollera d'essere strappato dal suo altare. -No.- Non dirlo.
Fintanto che non l'avesse detto, Bran non sarebbe stato costretto a crederci.
Fintanto che non l'avesse detto, Bran non sarebbe stato costretto a crederci?
-Bran.- La voce di Rickon non voleva introdurre una conversazione, nè tentare di dire alcunchè. Affermava da sola. Poche lettere, una verità così gravosa che sembrava non riuscire a trattenere sulla lingua. Disse solo Bran.
Il resto, il re del Nord lo sapeva già.
Cercò di aprire la bocca e negarlo di nuovo, ma il mondo intero stava immobile ad attendere la sua vigliaccheria, e nell'aria c'era già scherno, malinconia. C'era già tutto. Impossibile rinnegare il futuro, ormai, impossibile chiudergli la porta in faccia: era già lì. Lì. Di fronte a lui. Inesorabile, onnipotente. Fatale. S'era insinuato nel suo presente prima ch'egli potesse rendersene conto. A soffrire non si impara mai, pensò Rickon osservandolo. Sebbene familiare, il dolore è sempre nuovo. La morte è la faccenda più naturale di tutte, l'unica certezza che abbiamo in questo schifo di mondo, eppure le riserviamo sempre l'accoglienza più indignata e sconvolta, come se il suo potere su di noi non avesse il diritto d'essere esercitato, come se il nostro universo personale fosse una sfera a parte, con proprie regole, che merita una pace perpetua quanto utopistica.
L'aria divenne una massa compatta, rovente, insostenibile che costrinse Bran, pressandolo da ogni parte, e l'ossigeno divenne fuoco. La realtà circostante lo aggredì vorace. Egli tremava sul suo trono. Le mani convulsamente aggrappate ai braccioli non lo reggevano già più. Il mondo sfrigolò confondendosi davanti ai suoi occhi.
E cadde davanti a lui, fremendo atroce nell'aria, un attimo di stordente e terrificante follia.
-Maestà!- Le guardie gli si fecero appresso, preoccupate, notando il tremore concitato delle mani ed il capo reclino contro il petto. Fu allora che Bran alzò la testa ed urlò.
Urlò finchè l'aria nella sua gola non fu esaurita, e ancora, finchè il palato non sanguinò, e ancora, verso la fine del delirio. Le labbra livide ardevano come i lembi di una ferita.
Si accorse del sangue, ch'era schizzato fino a lordargli il viso, soltanto quando i suoi occhi impastati si spalancarono, intenti alla partecipazione dello stesso folle lutto; le guardie erano esanimi, corpi morti a terra, e lui era ancora lì ed urlava.
Rickon tentò di avvicinarsi al fratello, a quei cadaveri dalla testa spaccata in cocci, anche se non sapeva esattamente per fare cosa. Voleva fermare Bran e l'emorragia di quel dolore di cui si sentiva in parte, inconsciamente, responsabile; uno dei loro uomini lo afferrò per il braccio e lo trattenne.
-State indietro, mio lord.- lo supplicò. -E' meglio... aspettare.-
Rickon era sconcertato: anzi, no, era atterrito. Quel potere lì non era il solito che Bran utilizzava per giustiziare i loro nemici, era qualcosa che non aveva mai visto in vita sua, e avrebbe preferito non vedere mai. Aveva ucciso più persone contemporaneamente. Involontariamente, pensò ancora, e fu ancora più terrificante.
-Uscite.- riuscì solamente ad ordinare agli uomini sgomenti. -Via di qui!-
Non appena uscirono tutti e si chiusero la porta alle spalle, la prima cosa che Rickon  disse fu:
-Tutto ciò deve rimanere segreto. Ci libereremo dei cadaveri e faremo sapere alle famiglie che sono morti in battagli. Nessuno dovrà sapere che...-
Che il re del Nord è impazzito? Che probabilmente non sarà più in grado di guidare un esercito? Che i suoi poteri sono incontrollabili e possono uccidere inavvertitamente tutti coloro che gli stanno accanto? Non avrebbero dovuto saperlo, perchè... altrimenti chi avrebbe continuato a sostenere un re che stermina i suoi uomini?
Fu così che il re Metamorfo fu lasciato a consumare da solo la sua sofferenza colpevole, il suo dolore illegittimo. Dopo un lasso di tempo incalcolabile, Bran si rese conto di essere caduto dal trono, di stare strisciando a terra, trascinandosi con la sola forza delle braccia, le mani artigliate al grosso tappeto che percorreva la lunghezza della stanza. L'odore -il sapore- del sangue dei morti era forte, ferrigno, come un pugno sui denti; ma il dolore dentro di lui era aspro, acido, corrosivo. Bran si chiese confuso come fosse finito lì, perchè si fosse mosso, dove stesse andando. Quel pensiero lo sconfortò a tal punto che smise di lottare e giacque a terra. Alzò la testa e urlò ancora, un suono distorto e malsano che stridette fra le labbra arrossate di sangue. Poi l'urlo venne inghiottito da una dimensione altra, parallela, e la realtà masticò la sua voce, si avventò su di essa, che continuò a vibrare senza emettere alcun suono. Seppellito sotto strati di silenzio, ascoltò il pianto sulle sue guance divampare incandescente, ferendogli la carne senza pietà.
L'ultimo ricordo furono le mani gentili di un septon che non riconobbe. -Bevi, Maestà, bevi. Hai bisogno di dormire...-
Bran non ricordava di avere una bocca, ma a quanto pare bevve quello che non era altro che latte di papavero, perchè poi, vasta ed insperata, vi fu soltanto la pace.
***
-Però, a conti fatti, lo hai rubato.- canticchiò Robin Arryn con un sorrisetto esultante e malizioso, come se desiderasse soltanto ottenere una confessione confidenziale dal detenuto tremante di fronte a lui. L'indulgenza leggera nella sua voce era soltanto un inganno. -Lo hai rubato.-
L'uomo deglutì a fatica, retto in piedi dalle braccia energiche di due piantoni, implorandolo disperatamente con gli occhi. Alayne pensò che dovesse avere fame, perchè era a digiuno almeno da tre giorni, quando l'avevano incarcerato, e molto freddo, dato che le guardie reali avevano già spalancato la Porta della Luna. Il che non era un indizio granchè fausto, rimuginò la ragazza, nè una prospettiva allettante.
-Sì, mio lord, io... io l'ho rubato. Ma, come vi stavo dicendo, mia moglie... i miei figli... soffrono la fame. Io non sapevo cosa fare, io non... non volevo, non...-
-Per guadagnare i soldi bisogna lavorare.- replicò Robin, sprezzante, con tono saccente. -Tu hai un lavoro?-
-N... no, mio lord...-
-Ecco! Sei uno scansafatiche, insomma. E non provare a negarlo. Quindi sei un ladro, e sei pure scansafatiche. Guardate un po' voi se non è una grande prova di ingratitudine, la sua,- si rivolse poi alla corte radunata nella sala, -che io mi sottragga continuamente alle dispute del regno ed alle contese fra famiglie per il bene del popolo, per dare loro una vita agiata e confortevole, e loro se ne fanno un baffo del mio pensiero. Beh, non pretenderete mica che tenga nella Valle un tale rifiuto della società, vero?-
-No!- pigolò l'uomo, volgendo gli occhi prima intensamente verso Robin, poi verso Alayne, appellandosi alla tipica, pia compassione femminile. -Pietà!-
Robin seguì lo sguardo dell'uomo. -Tu che cosa ne dici, cara Alayne? Graziato o condannato?-
La moglie fissò con distacco l'uomo, scivolato in ginocchio sul pavimento di marmo, che congiungeva le mani in segno di supplica. Non sembrava un vero delinquente, ma lei non avrebbe mai privato il maritino malaticcio del suo piacere più cruento.
-Condannato.- disse infine, dopo aver finto di pensarci un po' su. L'uomo ululò ancora qualche preghiera intraducibile; gli occhi di Robin sfavillarono d'esaltata, fanatica estasi omicida, quasi liquefacendosi di voluttà.
-Allora fatelo volare.- sussurrò, distendendo pigramente le gambe davanti a sè, pronto a godersi lo spettacolo con un sorriso eccitato sulle labbra. E così era stata cantata la canzone preferita del lord della Valle, come ogni settimana. Quelle specie di processi non erano altro che farse mal organizzate, perchè effettivamente si contavano sulle dita di una mano coloro che si erano salvati, dopo essere stati giudicati da lui ed Alayne. La storia doveva essere davvero commovente e verace per toccargli il cuore. Robin non era cinico, anzi era piuttosto emotivo, ma mancava assolutamente d'empatia e solitamente anteponeva il proprio godimento e divertimento personale a tutto il resto.
-Mio lord!- Fu allora che un messaggero irruppe trafelato nel salone. Le guardie, che stavano trascinando il prigioniero verso la Porta della Luna, si fermarono, e una folata di vento andò quasi a chiamarli. Robin, che detestava essere interrotto in simili occasioni, storse il naso e ordinò alle guardie di stare lì dov'erano allungando verso di loro la mano destra, bianca e magra, decorata da un grosso e pesante anello con una pietra di zaffiro, d'un blu avvolgente, in cui gli occhi annegavano così come avrebbero fatto nelle acque del Mare del Tramonto.
-Cosa c'è adesso?- domandò infastidito.
-Le truppe del re, di re Tommen, sono qui... hanno un mandato reale, vogliono inviare un portavoce a Nido dell'Aquila... a costo di dichiarare guerra in caso di rifiuto.-
Robin si alzò in piedi di scatto, indispettito, serrando i pugni e contraendo la bocca, come se avvertisse un sapore aspro sul palato. -Perchè sono venuti?! Cosa vogliono da me?!-
Il messaggero tacque per qualche secondo, incerto. Infine rispose: -Vogliono vedere lady Alayne.-
Gli occhi di Robin si strabuzzarono. -Co... cosa?!-
-Cosa?!- gli fece eco la moglie, stranita, mentre un brivido le percorreva le braccia nel midollo stesso delle ossa. Come, volevano vedere lei? A che scopo, a che pro? Perchè mai un esercito intero, durante una guerra spietata perdipiù, dovrebbe dirigersi in un maniero, fare un lungo e rischioso viaggio, perdere tempo ed energie soltanto per vedere la moglie insignificante di un lord che nella guerra non era coinvolto per nulla?! C'era una sola agghiacciante possibilità: se questo esercito avesse scoperto la verità sulla tutt'altro che insignificante lady di Nido dell'Aquila.
-No, Robin.- bisbigliò a bassa voce. -Io non voglio vedere nessuno... Fai qualcosa, ti prego.-
-E io non voglio che nessuno ti veda!- ribattè Robin con forza, stringendo la mano della ragazza. Si leccò rapidamente le labbra asciutte, riflettendo. -Possiamo... possiamo inventare una scusa, che sei malata, che hai la febbre ed è meglio che rimani a riposo e non ricevi ospiti...-
-Non sarà una febbriciattola a schiacciare un decreto reale.- Petyr Baelish parve comparire per incanto dalla folla di ministri; lui non assisteva mai al gioco preferito di Robin, quindi Alayne non si aspettava di trovarlo lì. Naturalmente doveva essere stato informato della novità e doveva essere accorso. -Non credo che qualcuno di voi abbia presente che cosa si intende, per decreto reale. Viene rilasciato nelle situazioni di estrema emergenza, soprattutto quand'è questione di vita o di morte. Re Tommen non si farà fermare dalle vostre scuse inventate allo sbaraglio all'ultimo minuto...-
Robin non parve molto impressionato nè sollecitato da quelle parole. -E quindi cosa proponi di fare, visto che parli tanto?- sbottò, sostenuto.
-Non dubito che qualche idea giungerà, ma propongo fino a quel momento di portare Alayne ai piani superiori, dove il fantomatico portavoce reale non la potrà vedere.-
Baelish era molto più nervoso di quanto desiderasse mostrare a Robin, che sospirò ed annuì. -Io lo tratterrò... guadagnerò tempo... ma tu intanto fatti venire un'idea, perchè se succederà qualcosa di spiacevole a causa della tua incompetenza sarai il prossimo a volare! Siamo intesi?!-
L'uomo inarcò un sopracciglio in un'espressione di garbato scetticismo. -Non escludo che in questo castello l'incompetenza abbondi, ma la mia cara Alayne è nelle migliori mani, fortunatamente. Andiamo ora, non c'è tempo da perdere...-
Prese la ragazza per mano e la condusse nelle sue stanze, percorrendo i corridoio e le gradinate del castello con fervente rapidità. La lasciò nella camera insieme ad alcune ancelle, che la circondavano in attesa di ricevere il permesso per spazzolarle i capelli o distrarla con vanesie chiacchiere.
-Adesso devi aspettarmi qui e non uscire per nessun motivo. Risolveremo tutto, te lo prometto.- la rassicurò in fretta. -Ti fidi di me, non è così?-
Alayne attese qualche istante, infine annuì timorosa. Ditocorto si era dimostrato l'unica persona a tenerci veramente a lei, in quegli anni bui, e non soltanto a parole.
-Sì.- concluse, aggrottando la fronte. Il pensiero di lasciare il proprio destino nelle mani altrui, soprattutto in quelle incaute di Robin, la spaventava.
Baelish sorrise, compiaciuto dalla risposta. -Significa che non resterai delusa.- 
Quando scese nuovamente nella sala, vi scoprì con grande sorpresa -ma neanche troppa, in realtà: chi altri avrebbe potuto mandare re Tommen?- una persona di sua conoscenza.
-Tyrion Lannister.- lo accolse, spalancando le braccia in gesto di saluto, con un mezzo sorriso graffiante a fior di labbra. -Vedo che abbiamo visite. Come sta il nostro amato re?-
-Il Folletto.- sibilò Robin, lanciando un'occhiata vivace d'astio all'ospite. Tyrion Lannister, nonostante fosse piuttosto a suo agio, tese un sorriso un po' stropicciato: brutti ricordi erano rievocati da quella sala, da quel portale spalancato sul vuoto celeste del cielo aperto.
-Ma guarda un po', Robin... chi non muore si rivede, e a quanto pare questo proverbio è tristemente attendibile.- commentò, guardandosi rapidamente intorno ed ignorando bellamente Ditocorto; avrebbe avuto modo di vedersela di lì a poco con lui.
Il lord di Nido dell'Aquila s'imbronciò. -Infatti avrei dovuto liberarmi di te subito, non appena ne ho avuto l'opportunità, invece che costringermi a sopportare nuovamente la tua importuna persona, piccolo uomo.- Dopo essersi così lagnato, protese il capo in avanti e mostrò un sorriso derisorio. -Vedo che non sei cambiato granchè, dall'ultima volta che sei stato qui.-
Lui invece era diventato uno stangone, ma Tyrion diede una risposta diversa. -Anche per me è commovente ritrovare l'amabile dialettica del bambino seienne schizofrenico che mi stava tanto simpatico, Arryn, non dubitarne neanche per un secondo.-
Il ragazzo, esitante se considerarlo un complimento o meno, battè le palpebre. -Uh... senz'altro. Ma cosa accidenti ci fai qui?-
Tyrion intrecciò le dita dietro la schiena e cominciò a percorrere il salone a grandi passi. Non sapeva se quel ragazzino facesse il finto tonto, oppure -come gli pareva- fosse tonto e basta, però l'avrebbe capito di lì a poco.
-Effettivamente c'è una ragione ben precisa. Anche se ti suonerà strano, non mi sono fatto tutta questa salita soltanto per udire di nuovo la tua amabile voce... Sono venuto in cerca di una fanciulla di buona famiglia, con begli occhi azzurri, che un tempo a quanto pare era mia moglie. Si chiama Sansa Stark.- Sorrise affabile. -Dove posso trovarla?-
Robin contrasse il viso, accigliato. -Molto lontano da qui, presumo, perchè a Nido dell'Aquila non abita nessuna Sansa Stark.- 
Tyrion inarcò le sopracciglia. -No, davvero? Eppure mi pare di capire che l'hai sposata pure tu. Non dirmi che ha cambiato marito di nuovo...-
-L'unica donna che io abbia mai sposato è Alayne Stone, e nessun altra.- ribadì il ragazzino, ostinato. Schioccò stizzosamente le dita per farsi versare del vino in una coppa. Dopo aver portato il calice alle labbra ed aver bevuto a lenti sorsi, lentamente, concluse: -Sansa Stark è stata dichiarata scomparsa da parecchio tempo. Ormai sarà morta.-
Fu a quel punto che Petyr Baelish decise di intervenire tempestivamente. -Perdona la mia sconveniente curiosità, caro lord Tyrion, ma una domanda sorge spontanea. Perchè tu ed il tuo re la state cercando, e urgentemente al punto da emanare un editto reale e recarvisi qui con l'intero esercito? Devi ammettere che questa situazione desta qualche perplessità.-
-Non siamo nè io nè il mio re a cercare Sansa, lord Baelish, te lo posso assicurare. È lei che cerca noi.-
Baelish inarcò un sopracciglio. -Forse sarà a causa del mio intelletto non fino come il tuo, ma temo di non seguirti. Potresti spiegarti meglio?-
-Lo farò anzi ben volentieri.- Tyrion osservò la gelida cortesia sul suo volto e quasi sorrise. Quell'uomo mi vuole morto all'incirca quanto io voglio morto lui, pensò, eppure non ho mai sentito una discussione civile come questa... -Sansa mi manda dei massaggi, a volte. Certo, all'inizio ho fatto un po' fatica a capire ch'era lei la mittente, visto che ha usato qualcuno dei suoi numerosi nomi nel firmarsi, ed è stato un peccato. Fortunatamente sono riuscito a capire che il suo nome non era nè lord Mallister, nè Podrick Payne, sebbene così dicesse. Come ho fatto? È molto più semplice di quanto pensi. Quando ho parlato con Mallister in persona, che mi ha assicurato di non aver mandato nessuna missiva ad Approdo del Re... beh, ormai era troppo tardi per rimandare re Tommen al sicuro a casa sua, però ho deciso di scoprire se il mittente fosse chi sospettavo. Insomma, lord Baelish, il solo fatto che subito dopo la tua partenza Sansa Stark sia sparita e Robin Arryn si sia sposato con una figlia di nessuno offre di chi meditare. Dicevano che la nuova lady della Valle non soltanto non volesse mostrarsi ai suoi sudditi, ma non tollerasse nemmeno di essere ritratta; voce che mi è stata confermata da un pittore che ho ingaggiato e che lord Robin certamente ricorda. Ora, qui le ipotesi sono due: o sua moglie è una racchia da far paura, oppure per qualche ragione non si vuole che si venga a conoscere il suo aspetto. Perchè? A questo punto mi sembra quasi scontato aggiungere che nei registri anagrafici della Valle non risulta nessuna Alayne bastarda, nonostante il suo cognome sia Stone, e che per verificare l'autenticità delle future lettere che sarebbero giunte al re da corte ho chiesto ad un mio funzionario di scriverle tutte con l'inchiostro rosso, e che l'ultima lettera proveniente dalla capitale era nera che più nera non si può. Può essere stato soltanto qualcuno che conosce Approdo del Re, influente al punto da poter avere contatti fra le spie di Varys e scoprire del piano di Margaery... Volete aggiungere qualcosa oppure mi portate subito la ragazza? O come minimo fatemi le vostre scuse, dato che ho dovuto affrontare tutta questa salita soltanto per arrivare quassù.-
Baelish gli rivolse un ghigno debitamente, raffinatamente limato. -Allora temo che tu debba proprio accontentarti della vista del dolce viso del nostro giovane lord Robin, Lannister, perchè qui, come il mio signore ha già puntualizzato, Sansa Stark non si è mai fatta vedere. D'altronde, come avrebbe mai potuto salire fin quassù? Gli unici inservienti che hanno i mezzi per aiutare gli ospiti a salire obbediscono soltanto sotto ordine di lord Robin.-
-Il ragionamento non fa una grinza, lord Baelish,- ammise Tyrion mellifluo, -dunque lady Sansa non può essere giunta qui in altra maniera, se non accompagnata da qualcuno piuttosto ben accetto, che vi si recò proprio... ecco, sì, otto anni fa. Così come otto anni fa lei è sparita misteriosamente. Una vera coincidenza, non c'è che dire.- Senza dare il tempo a Baelish di replicare, il Folletto si voltò verso Robin. -Ritieni di avere un buon rapporto con tua moglie?-
Robin assunse un'espressione di disappunto. -Ma certamente. Che razza di domande sono queste? Stiamo progettando di generare un erede al più presto, in tutta onestà.- aggiunse compiaciuto.
Tyrion fece una smorfia, evidentemente inorridito da quella prospettiva. -Così potrai staccarle il bambino dalle tette ed attaccartici tu? Ho il vago sospetto che tu ti sia sposato solo per quello... perchè, per il resto, non vedo cosa tu te ne possa fare, di una moglie mentitrice come quella.-
Robin Arryn impallidì e si fece cianotico come un morto. Aprì la bocca in una "o" indispettita e furibonda, evidentemente intenzionato ad urlare uno spergiuro, ma poi parve demordere. Strinse le labbra ed alzò una mano, come per indicare ai suoi uomini la Porta della Luna, ma riuscì nuovamente a tornare padrone di sè. Ricadde sconfitto dalla propria stessa furia sul sedile; dopo qualche istante trascorso a fissarlo con astio, Robin si chinò in avanti e sillabò:
-Mia moglie si chiama Alayne Stone, non Sansa Stark.-
-Tu la chiami Alayne e io la chiamo Sansa, ma stiamo parlando della stessa persona.- dichiarò il Folletto tranquillamente. -Ecco, vedi, visto che siamo in guerra con la sua famiglia lei potrebbe farci comoda.- Sollevò un dito, come a raccomandargli di fare attenzione. -Però la mia non è una richiesta, e ti prego di non fraintenderla come tale. La tua montagna è circondata dagli uomini di Tommen, Arryn. Se io non tornerò dabbasso entro tre ore, oppure se tornerò con un diniego, il re ti taglierà i viveri. Quindi, cosa ne dici di portarmi la ragazza, offrirmi un bicchiere di vino possibilmente non avvelenato e salutarci come i vecchi amici che siamo, invece di costringermi a dire a Tommen di farti del male?-
Robin Arryn serrò gli occhi in due fessure. -Va' in malora, Folletto.-
Tyrion sospirò tristemente, e dopo pochi istanti ritentò. -Secondo te vale la pena di iniziare una guerra e devastare la tua Valle per una stupida ragazzina bugiarda, come te ne potrai trovare tante altre? Consegnamela, Arryn. È la cosa migliore che tu possa fare. Arrenditi.-
Robin picchiò la mano contro il bracciolo del suo scranno e sgranò gli occhi ancora di più, se possibile.
-No.
Ho detto di no. Lei si chiama Alayne ed è mia. Capito? Non potete portarmi via anche lei. È mia!-
Baelish tirò un sorriso amaro. Sì, probabilmente Alayne Stone apparteneva a Robin. Era la sua favola, la sua fantasia, la sua chimera; una promessa non mantenuta, come mille altre. Il giovane lord però non aveva più alcun diritto su di lei: si stava già disintegrando, per lasciar posto a Sansa Stark. E Sansa Stark non apparteneva affatto a Robin. Sansa apparteneva a Baelish, che non aveva certo intenzione di sprecare quest'occasione. E fu ben lieto di scoprire che l'idea tanto attesa era arrivata.
Tyrion scosse il capo. -Va bene, ho capito che il senno sta andando a donnine allegre in questo maledetto castello... Probabilmente dovrei ordinare a Tommen di ridurlo in macerie non appena scendo da qui...-
-No.- La voce di Ditocorto s'intromise nuovamente nella discussione. -Lord Robin, mi sembra arrivato il momento di smetterla con questa farsa. Ebbene, metti da parte la tua risaputa gelosia e mostriamo lady Alayne al Folletto qui presente, così che possa capacitarsi con i suoi occhi del fatto che tua moglie non è altri che chi dice di essere. Posso spiegarti tranquillamente perchè il nome di Alayne non compare nei registri della Valle: perchè non l'ho registrata alla sua nascita. Volevo che rimanesse segreta, in realtà, per avere assicurato il mio posto a corte... un po' sleale, dirai tu, però è così. Adesso posso andare a chiamare la mia figliola, non è così, lord Robin?-
-No!- strillò Robin infuriato. -Mai e poi mai!-
Baelish trattenne una smorfia; ovvio che quel piccolo idiota doveva sempre intralciarlo con la sua stupidità.
-La tua gelosia è assolutamente insensata in questa occasione, mio caro, perciò ora, che sia tu volente o nolente, porterò Alayne a cospetto del qui presente, così che possa riferire al nostro re ciò che noi gli stiamo assicurando. Con permesso.-
Quando il ragazzino tentò di obiettare, Baelish gli lanciò di sfuggita un'occhiata eloquente, spazientito. Appena giunto alle stanze dove Sansa era nascosta, attendendo novità con molta apprensione, l'uomo esclamò subito:
-Non c'è tempo da perdere. Voi,- e indicò Sansa e la sua cameriera personale, -scambiatevi gli abiti.-
Alayne era scioccata. -Scambiarci cosa?!-
-C'è qui il Folletto che vuole vedere Alayne Stone. Dunque noi gli presenteremo Alayne Stone... soltanto che passeremo la parte ad una nuova attrice.- Indicò con un cenno di scherno la povera ragazzina, che ignara di tutto lanciava occhiate smarrite all'uno ed all'altro. All'udire che Tyrion era giunto lì, Alayne rabbrividì di stupore: costretta da una pavida angoscia, si nascose dietro un paravento per togliersi gli abiti ed indossare quelli smessi e macchiati di sporco della servetta. La cameriera invece si ritrovò con un ingombrante abito di broccato azzurro, con pesanti ornamenti di pizzi e perle sulla gonna, scarpe alte ed una sontuosa collana al collo; venne aggiunta da parte di Alayne una cuffietta ricamata di merletti per nascondere il fatto che i capelli fossero in disordine. Baelish prese poi entrambe per il braccio, indicando loro la strada; quando giunse nei pressi delle cucine, bisbigliò qualcosa all'orecchio di una delle cuoche, che annuì in fretta e si affaccendò a cercare qualcosa. Ditocorto si rivolse ad Alayne.
-Ora ti farò portare a Valle, qui non è più un posto sicuro per te. Il Folletto potrebbe decidere di andare in fondo a questa storia e perquisire Nido dell'Aquila, grazie al mandato reale. Starai dentro le casse vuote dei rifornimenti per i viveri, così nessuno si accorgerà di te... e lì ti condurranno da qualcuno con il quale sarai al sicuro, Alayne, credimi.-
La ragazza lo guardò, il volto adombrato. -Io non voglio essere al sicuro... io voglio essere al sicuro con te.-
Baelish liquidò il discorso con un cenno affrettato. -Adesso non c'è tempo per questo. Ascoltami, io ti raggiungerò... ma non adesso. Desterei troppo i sospetti. Ci ritroveremo presto, ma adesso devi andare, subito.-
Sansa esitò, infine si allungò verso di lui e gli lasciò un bacio leggero a fior di labbra.
-Questo, perchè sei stato così meschino da farmi sentire di nuovo una lady indifesa.- dichiarò, con un sorriso mesto. Baelish non si scompose, si limitò a sorridere di sottecchi. In fondo, era così che doveva andare. Era così che sarebbe dovuto andare, quella volta. Mentre la cuoca aiutava Sansa a nascondersi nella cassa,
-Addio, mia cara Alayne. Non potrò mai più chiamarti a questo modo.- sospirò, sotto lo sguardo sconcertato di quella disgraziata cameriera che, fra presunti padri baciati da presunte figlie ed abiti sfarzosi, quel giorno le pareva di vaneggiare. Appena venne presentata al cospetto del Folletto, egli storse il naso.
-Questa non è Sansa Stark.- rilevò, irritato all'idea di dover fare una ricerca accurata e sicuramente lunga e noiosa in tutto il castello.
Baelish sorrise. -Lieto che finalmente tu l'abbia capito, amico mio...-
Robin lanciò un'occhiata intristita oltre i vetri delle grandi finestre, perdendo lo sguardo nel disegno delle nuvole sfilacciate che serpeggiavano fra le pareti rocciose, drappeggiate sui monti come festoni, adagiate sulle macchie selvose, in eterei anelli di vapore bianco.
Arrivederci, cugina, pensò, mentre l'anima crollava grave nel petto come piombo. Il lord di Nido dell'Aquila comprese di essere di nuovo solo.
***
Meera Reed non era nata per regnare, e lo sapeva benissimo. Quando, nel rivolgersi a lei, i servitori la chiamavano mia signora, non poteva evitare di aggrottare la fronte con disappunto. La faceva sentire a disagio, perchè non si sentiva di certo superiore a nessuno. Fin da bambina non aveva avuto grandi ambizioni per il futuro: figlia di una casata minore, di un crannogman, lady soltanto in teoria, la cui massima aspirazione nella vita sarebbe stata ereditare quattro pezzi di terra paludosi nell'Incollatura, seconda a suo fratello. Non poteva certo immaginare cosa il destino avesse in serbo per lei. Negli ultimi tempi aveva avuto tutto il tempo di meditare circa ciò che rende tale una vera regina, e lei era assolutamente convinta che comprendesse anche quella gamma di codici, di cerimoniali e di formalità di corte che lei non riusciva proprio a sopportare: gli ospiti che portano i doni, che recitano le benedizioni a memoria, che chiacchierano a vanvera sul proprio viaggio e sulla guerra e che passano direttamente ad ingozzarsi al banchetto; le sciocche damine che le erano state presentate, l'una dopo l'altra, nel vano tentativo di distrarla; i bei discorsi che le facevano imparare a memoria per questo e quell'altro lord. Tutto ciò era sempre meglio della noia, comunque, la noia che la inseguiva per i corridoi, la soffocava nell'acqua ustionante del bagno e la attanagliava nei grandi saloni vuoti, che non c'era più nessuno a riempire. L'unico modo per farla svagare sarebbe stata ridarle il suo arco e la sua lancia, pensò con rimpianto.
-Volete ancora dello spezzatino, lady Meera?- La voce argentina e sonora di Shireen Baratheon la strappò improvvisamente ai suoi pensieri.
Meera scosse la testa, rivolgendole l'espressione più benevola che le riuscì. -No, ti ringrazio. Io... credo di non avere più fame.-
-Non avete quasi toccato cibo.- le fece notare la ragazzina, con un'espressione d'interrogativo stupore che da quella constatazione parve più intristita che accusatoria.
-E' vero.- rilevò la regina, trattenendo un sospiro fra le labbra. Shireen non indagò oltre la questione e si limitò a sorriderle.
A Meera quella ragazzina stava simpatica. Nonostante il suo animo fosse evidentemente molto limpido e vulnerabile, era sempre allegra e pronta a dispensare saluti e parole gentili per tutti, dai ricchi lord ai garzoni della cucina, dai vecchi ai bambini; però non era sciocca e vanesia, bensì riflessiva e riservata a tal punto da sapere quando tacere, quando parlare e che cosa dire. La sua gentilezza e sensibilità la rendevano una coinquilina davvero amabile e, benchè non avessero molto in comune, i pomeriggi più interessanti per Meera erano quelli che trascorreva conversando con lei. Una volta le aveva persino confessato quanto amasse cacciare. È ciò che mi fa sentire viva, aveva detto. Shireen l'aveva osservata a lungo e infine aveva detto, scandendo chiaramente ogni sillaba: un'anima come la vostra non dovrebbe permettere agli altri di sopprimerla. Io credo che voi dobbiate respirare di nuovo.
-Che gli dèi ti fulminino. Questo è lo spezzatino più buono che io abbia mai mangiato.- bofonchiò Osha, leccandosi avidamente le labbra unte di sugo rosso. Meera roteò gli occhi, esasperata.
-Ti supplico, Osha, usa le posate. Non è difficile. Altrimenti fai passare la fame a tutti gli altri...-
La bruta replicò con un'occhiata truce. -Non ti dico che cosa dovresti fartene, delle posate... io le schifo, le tue dannate posate. Quando sono venuta qui, ho messo subito le cose in chiaro: resto a corte soltanto a patto di non mettere i vestiti da deficente e di non avere niente a che fare con i vostri gingilli da persone perbene. Quindi non venirmi a fare la morale con le tue posate, adesso!-
Shireen scoppiò in una risatina. -Oh, Osha, sei davvero una persona spassosa. Dici sempre cose divertenti.-
Osha assunse un'espressione perplessa. Fissò a lungo Shireen, con un cipiglio inquisitore, infine voltò lo sguardo verso Meera e si picchiettò la tempia con il dito indice, con eloquenza, come a dire questa non ci sta proprio con la testa. Dopo un'attenta osservazione, la bruta aveva in generale approvato Shireen come moglie di Rickon. Sembra moscia e ignara, però in realtà ha un animo di ferro. Io le intuisco, queste cose, aveva dichiarato con aria d'importanza. È una ragazza forte, temprata, sveglia. Sempre meglio di quella sgualdrinella biondina.
-E quello?- Osha fece un cenno con la testa verso Meera, che stava giocherellando distrattamente fra le dita il ciondolo appeso ad una sottile catenina d'argento. Era un prisma adamantino, con una miriade di sfaccettature di struggente perfezione, che bevevano bramose la luce rosata delle torce, assumendone la dolce tonalità. Lei lo fece tintinnare, sfiorandolo appena con l'unghia.
-Un regalo di Bran, prima di partire.- rispose con disinvoltura, a voce atona. -Finora non l'ho mai messo, però oggi me lo sono ricordato.-
Osha lo esaminò soltanto per qualche istante, poi scosse la testa cupamente. -Se pensa di comprare il tuo sorriso con i gioielli, vuol dire che non ha la più pallida idea di chi tu sia.-
Shireen assistette al loro scambio con un po' di disagio, però, dato che lo pensava sul serio, aggiunse educatamente: -È molto grazioso.-
Meera annuì, abbassando lo sguardo su di esso. -Inutile, ma grazioso. Le cose inutili sono quasi sempre graziose, per compensare la loro inutilità.-
Dopo alcuni istanti di silenzio, sul quale gravò lo spettro impalpabile ma immancabilmente presente della guerra, Osha manipolò la conversazione per portarla su temi più leggeri.
-Ma dov'è lady Selyse?- Era stato uno strazio per Meera convincerla almeno a chiamare lord e lady chi di dovere, almeno per non finire stecchita prima del tempo.
-Stasera ha deciso che si fa portare il cibo in camera.- rispose Shireen, alzando le spalle. -Dice che la sua fede è in crisi e che ha bisogno di Melisandre.-
-Melisandre?- Meera aveva già sentito quel nome, ma non riusciva a ricordare in che contesto.
-La sacerdotessa rossa che sostiene mio padre.- spiegò Shireen, per poi portare la forchetta alla bocca, pensosa. Dopo una pausa per deglutire, proseguì. -Mia madre crede molto in lei e la voleva accanto a sè qui, a Grande Inverno, ma Melisandre è dovuta partire per l'oriente, alla ricerca di un tale alleato delle tenebre... ogni tanto ci fa sapere per lettera come procede. Non mi sembra che abbia ottenuto grandi risultati, però mia madre confida incredibilmente in lei.-
Osha fece una smorfia. -Questi strani culti orientali del fuoco mi hanno sempre ispirato diffidenza, sarà perchè-
Meera si piegò sul tavolo e si aggrappò con le mani al bordo, incerta, annaspando. Le altre commensali si girarono subito a guardarla, allarmate.
-Cosa ti succede, lady Meera?- chiese Shireen, preoccupata. Dopo pochi secondi di spaventata immobilità lei abbozzò un sorriso impacciato, sollevando faticosamente le palpebre sugli occhi velati di smarrimento.
-Sto bene, grazie. Dev'essere il corpetto... probabilmente me l'hanno allacciato troppo stretto. È tutto a posto, davvero.-
Shireen annuì, la fissò ancora per qualche istante e poi si portò il calice alla bocca. Osha lanciò a Meera uno sguardo indicativo, un presentimento che la attraversò fin nelle membra. In effetti, non era proprio verosimile che le allacciassero il corpetto troppo stretto tutti i giorni. In effetti, quello non era da escludere: almeno, se così fosse stato, avrebbe avuto un pensiero nuovo a tenerla occupata. Sarebbe stato bello.
-Meera vacilla perchè ha bevuto troppo vino, quindi per stasera è meglio che smetta.- annunciò Osha astutamente, allungandosi ad afferrare la coppa della regina e scolandosene il contenuto in un sorso. Meera assunse un'espressione indignata.
-Ne ho bevuto pochissimo! Era praticamente pieno, il bicchiere che hai tracannato fino all'ultima goccia! Però è vero che portiamo a tavola troppo vino. Quando Bran tornerà, mi farà la predica...-
-Quando il gatto non c'è, i topi ballano.- ribattè placidamente Osha, colmandosi il calice di nuovo.
-Dovremmo prendere esempio da lady Shireen e bere acqua.- aggiunse Meera, indicando la giovane Baratheon.
Osha esibì un ghigno allegro. -Ti conviene abituarti ad attaccarti alla bottiglia fin da subito, ragazza, se nel prossimo futuro sposerai Rickon...-
-Perchè?- domandò ingenuamente Shireen, guardando prima l'una e poi l'altra con sorridente aspettativa. Entrambe scoppiarono a ridere. A quel punto s'udì bussare.
-Avanti.- esclamò Meera, cercando di darsi un contengo. Entrò il Maestro di corte, con un'espressione di affranta cautela.
-Mia regina,- cominciò con voce fioca, -ci sono notizie da parte del re.-
Meera lo fissò, la forma delle risate precedenti ancora a fior di labbra. -Ebbene?-
Le bastò guardare l'uomo in volto per un secondo ancora, per capire che una calamità si stava per abbattere sulla sua casa, che una voragine si sarebbe spalancata sotto i suoi piedi per inghiottirla.

























Note dell'Autrice: sì, sì, lo so. WTF?! Che accidenti è questo capitolo?! Avete ragione, però dovevo metterci un sacco, e ci ho messo... un sacco di cose. Un sacco di cose orribili.
Ho ucciso Jojen, ho davvero ucciso Jojen! Ancora io non posso crederci. O.O Come ho potuto fare una cosa simile?! Beh, certo che ha l'atteggiamento di un personaggio che morirà in modo tragico, però potevo avere un po' di pietà. Le fan del pairing sappiano che l'ho fatto contro la mia stessa volontà, perchè io li amo più di qualsiasi altra cosa, e che mi perdonino! Piazzerò qualche flashfic traboccante di fluff per farmi perdonare! Le fan dei Lannister invece staranno gongolando alla grande per la famosa lettera... quindi non vi resta che scoprire come andrà a finire! L'unica cosa che aggiungo è che non tutto è come sembra.
Sansa ha baciato Baelish... mmh. Vabbè. Ci stava. Non è che loro mi piacciano molto, ma in questa situazione ci stanno.
Spoiler per il prossimo capitolo: ci saranno degli sviluppi che coinvolgeranno Margaery... Grazie a tutti coloro che sono riusciti -più o meno sani- ad arrivare fin qui! Vorrei tanto sapere cosa ne pensate! ^-^
Lucy

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Capitolo 10
*** Celeste fu il rimorso. ***


9

IX. Celeste fu il rimorso.








Quando giunse a far visita alla tenda di suo fratello, Rickon era reduce negli ultimi tre giorni da ben due esperienze che l'avevano scosso.
La prima era stata la totale e distruttiva perdita del controllo dei suoi poteri da parte di Bran, naturalmente, mentre le seconda risaliva a solo poche ore prima. Era accaduto che una sera, quasi casualmente, Rickon s'era lasciato sfuggire qualcosa a proposito del fatto ch'egli si dilettava, spesso in modo alquanto sconveniente, in vagheggi mentali nei quali Myrcella era la protagonista -e fin qua nulla di strano. Ciò che davvero aveva reso depravata quella confessione era che la giovane Lannister, nel corso di quelle fantasie, era intenta a scellerati atti di cannibalismo estremo, quali scuoiare una vittima viva con i denti e mordicchiarne le corde vocali dopo aver dilaniato la giugulare; ad ogni modo, quelle rivelazioni erano sopraggiunte senza impegno alle labbra di Rickon, ma non era quello che Myrcella recepì. Ella infatti, vincolata da un senso d'obbedienza, d'obbligazione ed idolatria verso il ragazzo, sfrenatamente ed ansiosamente desiderosa di compiacerlo e di non annoiarlo mai, decise di tenere fede alla propria sottomissione volontaria ed incondizionata, e così di dimostrarla e ribadirla per l'ennesima volta, accondiscendendo -seppur non proprio bendisposta, e quindi solo in parte- a quegli obbrobriosi capricci. Per fargli una sorpresa non lo informò dei propri propositi ed approfittò della sua assenza, durante il pomeriggio, per procurarsi ben quattro catini di sangue umano. Non scarseggia di certo, di questi tempi, si era ritrovata a pensare tristemente. Si assicurò che non fosse prelevato da corpi morti per malattia, per timore che potesse essere infetto, ma soltanto da ferite di guerra o -cosa che non poteva fare a meno di impressionarla terribilmente- da cadaveri deceduti da un giorno o due. Quando richiese ciò che le serviva, venne guardata con sbalordito orrore e sgomenta diffidenza da tutti, ma le bastò nominare Rickon e le sue esigenze per vedere tutti scattare sull'attenti, disposti a procurarle quanto domandato senza fare troppe domande. Meno si sapeva, del principe-lupo e del re Metamorfo, meglio era: questa lezione si imparava in fretta, fra le truppe del Nord.
Così Myrcella trascorse il pomeriggio ad esercitarsi, a prendere familiarità con ciò che le sarebbe toccato fare quella sera. Non appena portò alle labbra il primo boccale di sangue della giornata, con mano esitante, il solo odore intenso e penetrante la spinse ad allontanarlo con ribrezzo dal viso. Ma dopo pochi istanti ci riprovò: doveva farlo per Rickon, si ripeteva, per Rickon. Questa volta resistette stoicamente al fetore che emanava e riuscì a bagnarsi la lingua con il liquido scuro, però non ne inghiottì nemmeno una goccia; lo sputò a terra tutto, assolutamente disgustata non solo nella gola, ma anche nell'animo. A prescindere dall'influenza inevitabile della consapevolezza, il suo stesso corpo si rendeva conto che c'era qualcosa di sbagliato in quello ch'ella cercava di fare e respingeva violentemente tale empietà. Tutta sconvolta e tremante, Myrcella non si diede per vinta e tornò a colmare il bicchiere daccapo. Inizialmente si limitò a sciacquarsi la bocca con il sangue, per abituarsi al pesante sapore acre, turpe e ferrigno, e infine ad ingoiarlo prudentemente, a piccoli sorsi; dopo un paio d'ore scoprì che il suo palato se n'era avvezzato e le sue narici distinguevano appena il fastidioso pizzicore aspro che esalava. Fu così che quando, calata ormai la notte, Rickon fece ritorno alla tenda, esausto ed assonnato, venne salutato da una Myrcella inusualmente allegra e sorridente, perchè l'incontro con Tommen l'aveva lasciata nostalgica e rattristata dalla piega degli eventi, dalla tremenda scelta che le era stata imposta e dal conseguente esito. La fanciulla gli offrì un bicchiere, ma Rickon non dovette nemmeno portarlo alla bocca per realizzare che quello non era vino, ma sangue; sollevò gli occhi, per chiedere spiegazioni, e in tutta risposta Myrcella sorbì il contenuto del suo boccale in tutta fretta; un po' troppo in fretta, perchè lunghi rivoli cremisi scivolarono dalle sue labbra avide e gocciolarono sulla pelle immacolata del collo, a macchiare il corpetto. Cos'altro avrebbe dovuto fare lui, ritrovandosi Myrcella con la bocca lorda di sangue umano, le vesti discinte e i suoi grandi occhi verdi spalancati, in giubilante attesa d'approvazione? In seguito, alcune ore dopo, la ragazza decretò che ne era valsa davvero la pena.
La mattina seguente, Rickon si presentò dunque per verificare le condizioni di Bran, mezzo stordito dai ricordi della sera prima.
-Posso vedere mio fratello senza rischiare che mi esploda il cranio?-
Septon Gilliard, che si era preso cura di sua Maestà il re fin da quand'era crollato nel sonno asettico del latte di papavero, scosse la testa con mestizia. -È troppo debole anche solo per alzarsi in piedi, e quindi inoffensivo. Il suo stato sembra cosciente, tiene gli occhi aperti e a volte si muove, ma non ha ancora pronunciato una sola parola. La sua presenza potrebbe donargli un po' di conforto, mio principe. Può stare tranquillo: da quel punto di visto, lei non corre nessun rischio.-
Rickon fissò l'ingresso della tenda per qualche istante, prima di liberare un lungo sospiro sofferto. Il suo era un compito ingrato, lo sapeva, ma improrogabile, che soltanto lui poteva assolvere: bisognava sperare che non fosse troppo tardi per salvare Bran. L'aveva visto come mai prima, come se si fosse spezzato per la seconda volta. Erano passati due giorni interi e nessuno aveva avuto ancora l'ardire d'avvicinarsi al re Metamorfo, non dopo l'innominabile abominio che si era consumato in quella stessa tenda, quando il sangue dei soldati del Nord aveva macchiato i vessilli degli Stark, dopo che quello di Jojen Reed aveva imbrattato le mani dei Lannister.
-Vado, allora.- bofonchiò, afferrando il lembo della tenda con una mano. Dopo un ultimo istante, la strattonò con forza.
Nonostante in quell'opprimente spazio angusto facesse un gran caldo, Bran era sommerso da una catasta di pellicce; il capo era avviluppato dalla federa di un gigantesco cuscino ed i capelli colavano sulle sue spalle, opachi e scompigliati, incollandosi alla sua pelle rovente. Piccole gocce di sudore erano disegnate in controluce, sulla sua fronte paonazza. La carnagione aveva un colorito effettivamente insano, come se una febbre feroce lo stesse divorando dall'interno. Eppure, sebbene apparisse esanime, non era statica la sua sofferenza; era fremente, nervosa, irrequieta, vibrava sotto la sua pelle, formicolava nelle fibre dei suoi muscoli, nella sensibilità dei suoi nervi.
Rickon rimase lì in piedi, ad aspettare, sentendosi un po' stupido ed un po' inutile -perchè era Bran a dover fare tutto da solo- ma non fuori posto. Rimase a fissarlo con lo sguardo aguzzo e le palpebre chine in un'espressione distaccata, superiore.
Bran aprì gli occhi. Avvenne in modo repentino, in un frullio di ciglia nere. I suoi occhi erano dischi di tenebre, come portali su un mondo d'ingenua, vellutata, casta oscurità. Le ombre degli abissi vi si erano annidate come ragni che nidificassero nelle fessure delle roccaforti; lo sguardo rimase immobile, implacabile, mentre la sua anima si dibatteva urlando. Il fuoco aveva invecchiato la sua tristezza di duecento anni.
-Chi?- La sua voce si fece strada come uno stridio fra pareti arrugginite, combattendo contro il dolore. Dalle labbra morsicate, uscì così rauca che Rickon provò un deplorevole, triste turbamento. -Chi è stato?-
Voleva sentirlo, voleva saperlo. Voleva sapere chi aveva spento la luce negli occhi che amava, chi lo aveva strappato dalle sue braccia troppo deboli per difenderlo, a chi si poteva ricondurre quel panico che gli serrava lo stomaco. Voleva sapere.
La sua calma apparente era soltanto stanchezza, uno sfinimento simile a quello delle ultime scintille che non riescono ad appiccare fiamme fra le braci. La sua voce era soltanto un'estrema supplica. Rickon distolse lo sguardo, storcendo il naso, mentre il sinistro malessere che provava quando vedeva Bran vacillare gli avvinceva le membra.
-Si dice si sia suicidato.- riportò a voce fredda. La risata di suo fratello fu quanto di più atroce le sue orecchie avessero mai percepito, un gemito sotto mentite spoglie.
-Oh, ma certo.- Il sarcasmo era aspro come sangue malato.
-Effettivamente ha un senso.- insistette Rickon, cercando di dissimulare il disagio che provava. -Tyrion Lannister non è un idiota, non l'avrebbe mai... hai capito. Probabilmente voleva che gli snocciolasse qualche previsione, e lui...- Lo struggente panico raggrumato nello sguardo fisso del suo re lo innervosì non poco. -Senti, Bran. Non ti puoi permettere di reagire così.- sbottò con veemenza.
Bran schiuse le labbra e, faticosamente, emise un rantolo che aveva lo stesso sapore delle alte grida di pochi giorni prima, inarticolato ed arido, prosciugato di tutto il suo furore ma ancora pregno di desolazione. -Rickon.-
-Sta' attento a quello che stai per dire.- lo interruppe subito lui, alzando il palmo verso di lui. -Dimmi che vuoi tornare a casa, e ti darò un cazzotto. Dimmi che vuoi ucciderti, e ti darò un cazzotto.- lo avvertì poi, con tono minatorio.
Bran gli rivolse un'occhiata vitrea, quasi distratta, senza guardarlo davvero. La sincerità dolente delle sue parole fu pacata, riflessiva e così razionale da far paura. -Voglio uccidervi tutti.-
Rickon alzò gli occhi al cielo e sbattè le mani contro i fianchi, in un gesto esasperato. -Oh, è una risposta così idiota che non era nemmeno contemplata.-
Il fratello rivolse di nuovo il volto al cuscino, quasi a cercare il buio. Tutta quella coscienza e razionalità lo stavano uccidendo. Aveva bisogno d'intorbidire la propria mente, confondere i propri sensi, perdere la concezione di tempo, spazio e realtà. L'evasione gli era necessaria per avere l'empietà di gonfiare il petto nell'ennesimo, doloroso respiro.
Una domanda premeva contro le sue labbra serrate. 
-Quanti uomini?- Parole inutili d'un ricordo frammentario, tentativo fallito e tardivo d'un desiderio di espiazione che non provava.
Rickon contrasse il volto ad una rigida severità. -Sette.- pronunciò a voce alta, senza schermi. -Avevi mai ucciso più di un uomo contemporaneamente?-
Le labbra di Bran si contrassero come se stessero torcendosi sotto i colpi d'una tortura, fino a mimare un sorriso senza speranza di sopravvivenza, senza allegria di sorta.
-Non ci sono mai riuscito.- ricordò a voce fioca e rauca. Gli parve un'altra epoca quella in cui si addestrava nella caverna di Bloodraven per diventare una sistematica arma di distruzione, in cui uccideva i prigionieri Bolton in fila nella sala di Grande Inverno; quella in cui lui ed il suo consigliere facevano l'amore nel buio soffuso dei loro gemiti soffocati. -Jojen diceva che non mi ci impegnavo, che non mi concentravo, che non ci credevo veramente.... che non ero motivato abbastanza.-
Era ironico dirlo, dopo tutto quel ch'era successo. Ecco cos'era stato quel suicidio, un modo per motivarlo, per attivare quei maledettissimi poteri, per far scoppiare Bran in tutta la sua potenza. Jojen Reed aveva osato ciò che nemmeno la brutalità dei Lannister aveva potuto infliggergli, dolori di cui non conosceva nemmeno l'esistenza prima di quel momento. Jojen Reed aveva il suo cuore in mano e l'aveva sacrificato in nome di qualche losco intrigo, in nome del gioco del trono. Jojen Reed sapeva, come nessun altro sapeva, quanto disperatamente Bran fosse aggrappato a lui. E se l'era scostato di dosso con indifferenza.
Questo non era amore. Era odio, un odio nero, perverso ed efferato, in nessun modo paragonabile all'odio per i Bolton, all'odio per i Frey, all'odio per i Lannister. Era un odio ancora più spregevole perchè immotivato. Questo non era amore.
Jojen Reed non l'aveva mai amato in vita sua, probabilmente nemmeno per un fugace istante, nemmeno per un secondo. Aveva approfittato della sua debolezza per rendersi indispensabile, e perchè l'aveva salvato? Per il Nord. Era sempre stato il Nord. La salvezza del Nord era il suo obiettivo, tutto era il resto era secondario, accessorio, sacrificabile -Bran per primo.
Jojen Reed non aveva mai amato Bran Stark -casomai aveva servito il re del Nord. Era un concetto talmente diverso da sconcertarlo.
L'idea che quando Jojen scivolava nel suo letto stesse obbedendo ad un ordine, quando gli carezzava i capelli stesse intanto progettando di calpestargli l'anima, era quell'idea a devastarlo.
Le promesse, le parole, i baci... menzogne. Menzogne. Il compito era riportare gli Stark a Grande Inverno, dare un sovrano al Nord, e il resto non lo riguardava.
Bran si sentiva come se ciò che gli stava accadendo fosse la sequenza successiva di quella spaventosa situazione di molti anni prima, quand'era abbandonato in quel bosco -come se Jojen, dopo essersi accostato a lui per qualche tempo, fosse scomparso fra gli alberi, lasciandolo all'incuria della notte, nel totale smarrimento e scoramento precedente.
Se Jojen Reed avesse condiviso anche solo un granello dell'amore che Bran provava per lui, non si sarebbe permesso di morire per niente al mondo. E invece era andato dritto nelle fauci dei leoni, a farsi inghiottire. Jojen aveva potuto scegliere se spezzare il cuore al suo re o mettere in pericolo il suo esercito. Aveva scelto la prima opzione. La coltellata che aveva inferto alla propria gola in realtà era indirizzata all'anima di Bran. Non c'era nient'altro da aggiungere.
-Ma adesso lo sei, adesso sei riuscito a valicare il limite dei tuoi poteri, e quindi hai le armi per vendicarti.- stava ribattendo Rickon con energia.
Bran lasciò cadere gli occhi a terra, mentre l'amarezza gocciolava come sangue dalle sue labbra schiuse. -L'unica persona di cui voglio vendicarmi è morta.-
Come poteva piangere la vittima se allo stesso tempo era anche l'aguzzino? Come poteva piangere quell'orrore? In realtà piangeva se stesso, mosso a compassione dalla propria stessa vita come se la stesse guardando con gli occhi di un estraneo.
-Reed è stato indotto al suicidio, e il motivo per cui l'ha fatto è stata la lealtà verso...-
-Reed era a Delta delle Acque in quel momento, quando non avrebbe dovuto essere a Delta delle Acque.- sibilò Bran, infuriato da quel tentativo di discolparlo. -Vorrei che fosse ancora vivo soltanto per poterlo uccidere con le mie mani.-
Rickon indietreggiò istintivamente, nel vedere le iridi del fratello fremere di furore. Ma quei pensieri tormentosi e quello sbalzo d'ira dovevano essergli costati molta fatica, perchè nuovi rivoli di sudore impastarono l'attaccatura dei suoi capelli e gli rigarono la fronte. Il suo viso si fece scarlatto. Il dolore gli circondava il capo come una corona di zanne, pressandogli la fronte.
-Vado a chiedere a septon Gilliard di portarti dell'altro latte di papavero.- dichiarò Rickon, lanciando un'ultima occhiata inquieta a Bran. In realtà, i suoi piani all'inizio comprendevano anche l'annunciargli il fatto che il corpo di Jojen era stato trovato nelle macerie di una torre di Delta delle Acque e che lo avrebbero condotto all'accampamento, affinchè Bran decidesse in seguito quale fosse la sua ultima destinazione; ma evidentemente non era nello stato fisico ed emotivo adatto per udire parole simili.
Il fratello lasciò ricadere il capo sul cuscino, esanime.
-Non voglio dormire.- mentì. Perdere conoscenza sembrava l'unico modo per sopravvivere. Traditi due volte gli Stark, dunque, traditi di nuovo, e Bran non potè fare altro che chiedersi perchè, perchè.
***
Alayne Stone ebbe soltanto sette ore per tornare ad essere Sansa Stark; recuperare la sua identità era però l'ultima raccomandazione che Petyr le aveva impartito, prima di chiudere sopra la sua testa il coperchio del baule, quindi indubbiamente era importante che ciò avvenisse.
Ci mise un po' di tempo a fare mente locale, a disfare senza pietà il lavoro di integrazione, creazione, rimozione, la tessitura composta pazientemente in otto anni di lacrime asciugate in tutta fretta ed in nome di un'autoconvinzione inesistente: e tornò ai primordi. Eddard Stark ed il suo sorriso benevolo, che nonostante avesse sangue del Nord nelle vene la faceva sentire così protetta e al caldo. Catelyn Tully ed il suo tenace, intrepido affetto, il suo profumo di casa, la sensazione delle sue mani fra i capelli. Robb, che nascosto dietro alla diligenza ed alla risolutezza degni di un vero lord aveva un animo sensibile e coraggioso. Arya, quella peste di Arya, sempre con gli stivali incrostati di fango e un'aggrottata irrequietezza in viso, i suoi scherzi e le sue marachelle. Bran e Rickon, il suono delle loro risate che allietavano i pomeriggi a Grande Inverno. Sì, Grande Inverno, la sua casa. Casa. La sua stanza, il comò dove riponeva spazzole e piccoli monili, la sala dove si tenevano i banchetti, il cortile dove un tempo avevano accolto re Robert... L'arrivo dei Lannister. E qui i suoi pensieri s'incrinavano e il pallido celeste dei suoi occhi si scioglieva in lacrime. Ancora non era capace d'indifferenza, di fronte a quel ricordo, in special modo lì, al buio, dove non poteva distrarsi con nulla e quelle immagini dardeggiavano senza posa la sua mente; così poco ci sarebbe voluto, per non precipitare in quel baratro di folle dolore, così poco.
Alayne recuperò le sue emozioni una per una, l'euforia di quella prima, ora empia ed inenarrabile infatuazione per Joffrey, la vergogna che bruciava sulla sua guancia dopo che era stata colpita, alla quale assisteva la corte intera, osservando la sua veste squarciarsi al tocco della lama di una spada; raccolse il febbrile panico che si propagava celere come il sangue scuro di suo padre sul palco dell'esecuzione, le fantasie di fiamme e demoni sbocciate nella sua mente come un fiore velenoso nell'apprendere della distruzione di Grande Inverno; richiamò alla mente ed al cuore la soffice speranza di potersi stringere al fianco di ser Loras con un abito nuziale, l'ebbrezza fugace delle confidenze di Margaery, della fiducia nel realizzare di non essere sola in quella guerra silenziosa; scavò nel profondo delle proprie ossa fino a trovare le impronte delle mani degli uomini che l'avevano aggredita ad Approdo del Re, l'immagine del volto orribilmente deturpato del Mastino che la traeva in salvo; rievocò il sapore nauseabondo della delusione, fiele nelle vene mentre Tyrion Lannister le posava un mantello nuziale sulle spalle, e la puntura di lacrime acide come la realtà, come il vituperio quando il Folletto berciava ubriaco la sera della prima notte; lustrò nella memoria e disegnò sulle palpebre il viso angelico e distorto di Cersei Lannister, da alleata a nemesi, il terrore oscuro di quelle ore passate con lei durante la battaglia di Blackwater, la gioia selvaggia nell'apprendere della sua morte... no, no, tutto ciò apparteneva già ad Alayne. Andava tracciata una linea di confine ben definita, se davvero voleva abbandonare quelle spoglie ormai inutili, se voleva recuperare il diritto di sangue e portare il nome di Stark. Alayne Stone era soltanto una bastarda d'umili origini che aveva sposato un lord per pura fortuna, astuta ma passiva e condiscendente. Alayne Stone non serviva più a nulla.
E infine, inevitabilmente, i ricordi di ciò ch'era accaduto poche ore prima sopraggiunsero prepotenti. No, no, no, non doveva, non poteva, bisognava concentrarsi su Sansa, solo su Sansa... ma perchè tornava ad essere Sansa esattamente quando avrebbe voluto essere Alayne ancora per un po'? Non riusciva assolutamente a capire con che sfrontatezza avesse potuto baciare Petyr. Lui era un uomo maturo, non gli interessavano le ragazzine... oh, invece sì, una ragazzina in particolare sì, sussurrò una vocina nella sua mente. S'impose nuovamente di non pensarci, ma la mente vi ritornò inevitabile. Con che slancio eroico aveva osato accostare le labbra alle sue? E perchè, poi? Si era lasciata trasportare dall'emozione, dal timore di non vederlo mai più? Non credeva più negli arrivederci, non dopo i troppi che si erano rivelati addii. Sarebbe forse successo lo stesso? E lui come aveva reagito? Non l'aveva considerata una sgualdrinella, o peggio, una bambina capricciosa? Smettila di pensarci, smettila di pensare come Alayne! strillò quella voce nella sua testa. A Sansa non piacevano gli uomini adulti, casomai gli stupidi cavalierini infiorellati e i principi viziati ed odiosi con manie omicide... Ma certo che no, anche Sansa era cresciuta, non poteva essere esattamente la stessa di otto anni prima. Sansa non è innamorata di Petyr Baelish, rammentò a se stessa aspramente, perchè Sansa non è Alayne. Ma Alayne è anche la figlia di Petyr... ma a me piace Petyr. Quell'ultimo pensiero le fece scoppiare il cuore in gola, in un'esplosione forse di gioia o forse di paura. Alla fine, chi era Alayne? Chi era Sansa? Che differenza c'era esattamente fra i loro sentimenti, e chi era lei?
Quando, un'eternità di pensieri più tardi, il coperchio del baule si levò in alto, Sansa Stark aprì gli occhi contro la luce del giorno.
Una sagoma lunga e scura incombeva su di lei, ritagliata sul bagliore informe ed indefinito alle sue spalle. Sansa si strofinò gli occhi, confusa, ed aguzzò lo sguardo. Lo scenario era una specie di agglomerato di tende e viavai di uomini. La ragazza di fronte a lei non era dotata di particolare bellezza, ma aveva l'espressione carismatica ed attraente dei caratteri impetuosi; aveva una crocchia frettolosa di capelli scompigliati, ingrigiti da un velo di polvere, e la fissava con uno strano sguardo beffardo, sorridendo un sorriso un po' storto, come se sogghignasse. Vestiva come uno stalliere, con calzoni sdruciti e una camicia di garza a quadri, che le cingeva giusto il seno poco abbondante e ricadeva logora e sfibrata sui fianchi magri.
-Sempre la solita espressione scioccata, come se ti avessi macchiato il vestito.- motteggiò storcendo un angolo della bocca. Furono molteplici i dettagli che Sansa notò, di conseguenza a quelle strane parole: gli alti stivali di cuoio marrone, incrostati di fango essiccato, la lunga spada appesa alla cintura e quegli occhi, quegli occhi color del mare tempestoso... quegli occhi.
Quel nome
non osò nemmeno giungerle alle labbra: la ragione le impediva di pronunciarlo. Temeva che il destino potesse beffarla nel modo peggiore possibile, sopprimendo la sua ultima speranza, quella folle caduca speranza...
A quel punto, il viso della ragazza si contrasse in un'espressione imbronciata. -Non dirmi che non mi riconosci. Oh, su, avanti! Ci è riuscito Rickon e non ci riesci tu? C'è di che vergognarsi...-
Fu a quel punto che Sansa balzò in piedi e la strinse con tutta la forza di cui le sue braccia erano capaci. La sua anima l'aveva riconosciuta, finalmente. Non c'erano più schermi, più barriere che le dividessero, che impedissero il ricongiungimento. Adesso Sansa era riuscita a distinguere quel bagliore così prezioso, ch'ella credeva perduto nei meandri della propria memoria, a scorgere oltre il viso un po' diverso e le sofferenze così tempranti.
-Sorella.- Fu poco più che una supplica, mentre il sollievo dopo un'agonia di otto, nove anni si scioglieva nel felice delirio dell'avverarsi d'un miracolo. Era lei -la sua fantasia non avrebbe mai avuto tanta presunzione da formulare un'ipotesi simile, eppure l'evidenza si stagliava di fronte a lei come troppe volte si erano stagliate le sventure, le disgrazie, le tragedie. Mai aveva percepito una persona più intima, vicina e cara, più sorella di quella bambina che non vedeva da tempo, di quella ragazza che non conosceva.
Anche Arya l'abbracciò, con l'appassionato impeto e lo scalpitante furore ch'erano sempre stati suoi. La felicità scombinò i pensieri di Sansa come tasselli di un mosaico.
-Sei viva! Tu sei viva! Io non ci posso credere. Come... dove... cosa?- Rise, perchè al momento non aveva assolutamente importanza. Si sentiva così contenta che si chiedeva come quella gioia così grande potesse starci, in un cuore angusto come quello umano.
-È una storia lunga. Quel che importa è che Baelish ha rispettato i piani e ti ha portato dove avevamo stabilito, quando avevamo stabilito. Quell'uomo ha la tragica abitudine di fare di testa sua...- Arya le piazzò le mani sulle spalle e la squadrò per bene; si conteneva molto più di lei, però il suo sorriso era vivace come una fiamma, le guance paonazze di gioia e la sua emozione era evidente. -Ti dico la verità: non credevo che saresti sopravvissuta. Ero convinta di tornare a Westeros e scoprire ch'eri morta... uccisa da Joffrey o da chiunque altro. Invece ti sei rimboccata le maniche e hai preso in mano il tuo destino, a giudicare da quanto mi è stato detto. Volevo dirti che sono orgogliosa di te, anche perchè il tuo nuovo stile mi piace di più.- concluse, indicando il grembiule sporco di cenere che Sansa aveva scambiato con la serviciattola.
La ragazza si asciugò gli occhi umidi: Sansa Stark era sempre stata molto emotiva. Alayne di meno, ma non esisteva più, ormai. O no?
-E io? E io, quanto sono orgogliosa di te? Tu... sei fuggita, sei sopravvissuta, hai fatto perdere le tue tracce... sei fuggita da Westeros... hai ritrovato Rickon, hai ritrovato me! Oh, Arya, mi hai trovata! Ma tu... dove sei stata, esattamente? E... tu e Petyr eravate d'accordo?- Aveva le idee piuttosto confuse.
Arya annuì. -Si è messo in contatto con me, perchè qualcuno da Braavos l'ha avvertito della mia presenza. Così abbiamo discusso per corrispondenza. All'inizio credevo che fosse solo un imbroglione e volesse fregarmi, ma poi mi ha parlato di te, di come ti ha salvata e ti ha portata a Nido dell'Aquila; mi ha raccontato tutto quel che succedeva a corte, dalla morte di Joffrey al matrimonio di Tommen con una Tyrell. Mi ha raccontato di Bran, poi anche di Rickon. La mia fiducia se l'è guadagnata. Mi ha detto anche che per prima cosa, appena arrivata qui, avrei potuto rincontrare te.-
-Perchè Petyr ti cercava? E... che interesse ha ad aiutare me e te e la nostra famiglia? Credevo che odiasse gli Stark.- Sansa aggrottò la fronte pallida. Non riusciva a crederci, che quell'uomo stesse facendo tutto questo soltanto per rispetto verso il ricordo di sua madre. Se prima lo trovava improbabile, ora che poteva affermare di conoscerlo lo riteneva impossibile. Era intelligente, scaltro, e molto egoista: non faceva nulla che non gli recasse un tornaconto personale. Allo stesso tempo, le sembrava frivolo pensare che Baelish lo facesse per lei...
Arya alzò le spalle. -Questi sono affari suoi, ma da quel che ho capito crede che il regno dei Lannister sia ormai troppo fragile per resistere ancora a lungo. Poi di sicuro spera di ottenere qualche vantaggio, di ricoprire qualche carica importante qualora la rivolta avesse successo.-
Sansa sbattè le palpebre. -Scusa, quale rivolta? Vuole far salire te, sul Trono di Spade?-
Lei scoppiò a ridere. -Non io, cretina! Gendry. Gendry è fondamentalmente il motivo per cui mi cercava. Sapeva che, arrivando a me, sarebbe arrivato a lui. E arrivare a lui significa avere il Trono di Spade a portata di sedere.-
-Chi sarebbe questo Gendry?- chiese ancora Sansa.
Arya ghignò. -L'unico figlio bastardo sopravvissuto, e naturale, del fu re Robert.-
La sorella scosse la testa, sempre più esterrefatta. -Come accidenti sei finita ad andare in giro con il figlio di re Robert?! Perchè nessuno ad Approdo del Re lo ha mai cercato?!-
-La risposta alla tua prima domanda è che... ci siamo conosciuti e basta, chiamala fatalità del destino.- Arya fece un cenno scorbutico con il capo, chiudendo la questione. -E in passato qualcuno gli ha pure dato la caccia, ma è riuscito a sbarazzarsi di loro o comunque a scappare. Lui è uno forte. Adesso credo che nessuno sia al corrente della sua esistenza, ad Approdo del Re.-
Sansa si morse il labbro inferiore, pensosa. -Che prove avete a sostegno del fatto che lui è il figlio naturale di re Robert?-
-Intanto, la somiglianza innegabile. Quando re Robert aveva la sua età, dicono che fosse pressochè identico a lui, e chiunque abbia una certa età lo può confermare. In secondo luogo, lui stesso. Nessuno può dubitare che sia un Baratheon, anche Stannis l'ha detto... Te lo farò conoscere più tardi.- Arya sorrise fra sè, quasi intendesse un segreto umorismo. Sansa inarcò le sopracciglia.
-Se voi due vi conoscete... e c'è tutta questa storia del cercava-me-perchè-trovare-me-significa-trovare-lui.... significa che è il tuo ragazzo?-
-Non è il mio ragazzo!- esplose Arya, arrossendo furiosamente. -Ma perchè ne siete tutti convinti?! Siamo solo amici. Amici. E alleati.- aggiunse sdegnosamente.
Sansa represse una risata. -Va bene, va bene. Oh, Arya, mi sei mancata così tanto... mi devi raccontare tutto! Come hai vissuto in questi anni, e cos'hai fatto, e... dobbiamo recuperare il tempo perduto. Dopotutto, adesso abbiamo molto più in comune di quanto ne avessimo un tempo, giusto?-
Arya le rivolse una smorfia addolorata. -Sì, ma non so se si possa considerare un bene... Comunque sappi che non abbiamo molte ore per sollazzarci. Fra poco dovremo metterci in marcia.-
-Dovremo inteso in che senso? Io, te, questo Gendry e chi altri?-
-I rivoltosi che Baelish ha radunato prima del nostro arrivo. Non sono molti, ma d'altronde i Lannister ci noterebbero subito al loro seguito, se fossimo un grande esercito. Contiamo sul fatto che, appena giunti ad Approdo del Re, il favore del popolo sarà dalla nostra parte.-
Sansa sospirò: erano davvero troppe emozioni in una volta. Arya parve comprendere la sua stanchezza -aveva viaggiato per ore dentro una cassa non propriamente comoda e nemmeno particolarmente larga, e le fece cenno di seguirla. Le due sorelle Stark si avventurarono fra le tende dell'accampamento, dove gli uomini si preparavano a partire; i vessilli che sventolavano al vento frizzantino del tardo pomeriggio raffiguravano il mata-lupo degli Stark e il cervo dei Baratheon. Per un istante, osservandoli, Sansa si chiese che razza di regina sarebbe stata sua sorella, ma l'idea era un pelino inquietante e decisamente estranea, fuori dalla portata della sua immaginazione, così la scacciò. Le era molto più facile immaginarla a cavallo, con la spada sguainata, pronta a fare a pezzi i suoi nemici che seduta su un trono, ammantata di sete e broccato. Arya la condusse presso una tenda che per nulla si distingueva dalle altre, grigiastra e rattoppata, che però doveva essere la sua, perchè ne prese una bisaccia ed offrì alla sorella frutta, carne e persino qualche pagnotta di pane, sebbene un po' raffermo. Ma Sansa aveva una fame nera e divorò tutto con una smania che si placò soltanto quando la sacca delle provviste fu vuota; rammentò che avrebbe dovuto vergognarsi della scarsa femminilità che aveva dimostrato, visto che la Sansa Stark di un tempo l'avrebbe fatto, però realizzò di non averne nè il tempo nè la voglia. Arya la osservò mangiare con una sorta di ghigno, quasi che pensasse la stessa cosa.
Quando finalmente ebbe ingoiato l'ultimo boccone, Sansa potè porle una domanda che le stava a cuore.
-Prima hai accennato al fatto di avere parlato anche con Rickon... in che occasione?-
-Io e Gendry abbiamo fatto sosta presso Seagard, venendo per di qua. Avevamo acceso un fuoco e lui era stato mandato in esplorazione da Bran per accertarsi che non avessimo cattive intenzioni. Per poco non mi ha ammazzato.- commentò Arya, spiluccando una salsiccia.
Sansa sorrise. -Com'è diventato?-
-Non lo puoi neanche immaginare.- fu la lugubre risposta, accompagnata però dall'accenno di un sorriso divertito.
-Si raccontano storie terribili su di lui.- raccontò Sansa, pensosa. -Che sia cresciuto in un'isola di cannibali, che abbia sbranato pezzi di carne dal corpo di Myrcella Lannister...-
-Allora non hai ancora sentito quello che dicono su di me.- replicò Arya, infilzando con rabbia la salsiccia, che continuava a svincolare dalla presa dei quattro denti di ferro, per poi stufarsi ed afferrarla con le mani.
Sansa non sapeva se la sorella stesse scherzando o no, ma ad ogni modo ridacchiò poco convinta.
-Quando ci ricongiungeremo con Bran e Rickon? Non possiamo aspettare il loro esercito e poi fare irruzione nella capitale tutti insieme?-
-Non è saggio dare il tempo ai Lannister di organizzarsi, ed eventualmente di fuggire. Dobbiamo batterli sul tempo.- rispose Arya, con voce secca.
-E allora la nostra famiglia sarà quasi come prima.- mormorò Sansa, pensando che effettivamente la vecchia Sansa avrebbe detto proprio così -e comprendendo la reale entità di quei suoi pensieri.
-Quasi come prima.- ripetè Arya. Il sangue che grondava dalla sua salsiccia gocciolava sulle sue mani, correndo lungo l'ossatura sottile dei polsi e le falangi delle dita. Per qualche istante, non potè far altro che fissarlo con inquietudine.
***
Uno, due, tre, quattro: compiendo passi a larghe falcate, Yara Greyjoy attraversava la sala del trono di Grande Inverno con innata spudoratezza, lo sguardo arrogante alto davanti a sè. Il rumore dei suoi alti stivali contro le piastrelle del pavimento scandivano i secondi, il ritmo d'una strana tensione.
Meera Reed stava ancora pensando a cosa significasse davvero essere regina, quando la vide entrare dal suo scranno di pietra. Non si aspettava certo di ricevere ospiti. Indossava un abito in faille di seta nero, con una mantellina a frange di ciniglia lungo le spalle; sopra le sottovesti scure la gonna era grigia, con ricami di fiori ed arabeschi neri. Un lieve velo di seta, intessuti di fili fini come tessuto di ragnatela, le oscurava il viso cereo. Gli occhi, appena intuibili, erano gonfi e ancora liquidi di lacrime arrestate con violenza.
-Ho dato esplicito ordine di non presentare nessuno al mio cospetto.- La voce tuonò potente ed insfaldabile nella grande sala, colmandola senza sforzo. Il dolore non era mai stato sinonimo di debolezza per Meera Reed.
Yara Greyjoy sogghignò. -Io e la mia scure l'abbiamo chiesto per favore.-
Meera la riconobbe. Non l'aveva mai vista di persona, ma il sigillo inciso sulla corazza era infraintendibile: infraintendibile ed odioso.
-Qui non ci piacciono i voltagabbana.- replicò con astio, protendendosi verso di lei con il capo e reggendosi con le mani ai braccioli del trono. -E nemmeno le sorelle dei voltagabbana.-
Il ricordo di Theon Greyjoy e del suo imperdonabile tradimento era ancora vivo nella secolare memoria del Nord. Rickon aveva espresso la sua intenzione di dichiarare guerra anche alle isole di Ferro, ma non possiamo inimicarci tutti e sette i regni, aveva risposto Bran con raziocinio, altrimenti rischiamo di non essere all'altezza del numero d'avversari che ci procuriamo. Le sue intenzioni erano quindi quelle di non adottare una politica offensiva verso i Greyjoy, a meno che non fossero loro a costringerli a farlo. Era la guerra contro i Lannister la priorità, non l'abbattimento definitivo di quel mucchietto d'ossa ch'era rimasto di Theon.
-Ah, certo.- la motteggiò l'altra. -Voi siete i Reed, quelli perennemente fedeli. Una casata di servi.- Yara Greyjoy non distoglieva dal suo lo sguardo bieco e torbido, come una lama rugginosa. Il suo ghigno era lungo e distorto come una cicatrice e gli occhi, dalle estremità lievemente piegate verso il basso, avevano una fissità obliqua e sofferta; i corti capelli arruffati avevano il colore dell'ottone invecchiato, un castano potenziale soppiantato da un'ombra, ed avevano un'aria così trascurata che sembrava li avesse lavati con l'acqua di mare. Il volto aveva tratti rudi, duri, grossolani, ed esprimeva una pericolosità quasi oscura. Vestiva per l'appunto con una corazza leggera dal colore rossastro del rame, ma presumibilmente di ferro consunto, un paio di calzoni da uomo ed una cintura di pelle a cui era appeso il fodero di una grossa spada, oltre che quattro o cinque piccoli pugnali e stiletti. Un pesante e trasandato giaccone da marinaio, d'un ambiguo colore tendente dal verde al grigio, ammantava l'intera figura ed era rimboccato all'altezza delle maniche per scoprire le mani guantate di cuoio.
La regina del mare non porta conchiglie fra i capelli, pensò Meera con sarcasmo, e la sua voce sembra più avvezza a mettere in riga i rematori che ad ammaliare i naviganti.
I suoi abiti erano spartani ed il suo aspetto lasciava decisamente a desiderare, però era impossibile non percepire l'imperiosa aura di regalità che la sua figura esprimeva, e che probabilmente aveva spinto i suoi uomini a darle retta e seguirla per mare.
-Noi dell'Incollatura siamo gente modesta, ma non ritiriamo la parola data. A quel viscido traditore è stata offerta la possibilità di sopravvivere e in futuro diventare principe, è stato accolto con i riguardi dell'ospitalità, e non ha fatto altro che sputare sulla clemenza concessagli. Adesso in tutta Westeros siete considerati una famiglia di spergiuri, mentecatti e sacrileghi. Perlomeno dei Reed di Torre delle Acque Grigie non si dirà mai che hanno abbandonato il loro re.-
Yara scoppiò a ridere, sfrontata. -Dei Reed di Torre delle Acque Grigie non si dirà mai più niente, cara la mia regina delle paludi. Cosa ci hai guadagnato, con la tua lealtà? Un letto vuoto, un marito in guerra chissà dove, un fratello sgozzato chissà perchè e un paio di corna che le si vede da qui a Volantis. Dunque, fra me e te, credi di essere ancora la più furba?-
Meera Reed la squadrò con disgustato disprezzo. -Dimmi cosa sei venuta a fare qui, oltre che ad insultarmi, oppure soddisferò la curiosità della mia daga nei confronti delle tue viscere, figlia del kraken. Cosa pretende ancora la tua famiglia dalla mia?-
Yara si rese conto di essere partita decisamente con il piede sbagliato: non aveva certo preparato il terreno per una richiesta d'aiuto, dicendo quelle cose, però la colpa era di quella fastidiosa ragazza, che aveva tirato fuori la storia di Theon.
-Ramsay Bolton è vivo.- proferì a voce piatta. Meera aggrottò le sopracciglia, perplessa.
-A me avevano raccontato una storia diversa, ovvero che era stato ucciso nell'assedio di Forte Terrore dai vostri uomini...-
-... una storia tristemente falsa.- concluse Yara sbrigativa. -Messa in giro per dissipare il panico. Il fatto è che dopo aver liberato Theon ero praticamente disarmata, e sono stata costretta a rinchiuderlo in una cella con un espediente per avere la possibilità di fuggire. Quando ho indicato ai miei soldati il luogo in cui trovarlo per finirlo, le segrete erano completamente disabitate. Deve aver utilizzato un qualche passaggio segreto, dato che conosce Forte Terrore meglio di chiunque altro... ad ogni modo, dopo tre anni, a Pyke sono stati commessi alcuni omicidi inspiegabili. Prima le sentinelle di ronda dell'isola, poi le guardie del castello. Poi mio marito.-
Meera pensò che avrebbe pure provato un soffio di compassione, se solo glie ne fosse rimasta per qualcun altro che non fosse se stessa. Aveva sentito dire anche questo, ovvio. Se n'era parlato, della morte di lord Botley, l'attuale governante delle Isole di Ferro, però le ipotesi che erano state formulate al proposito erano poco romantiche.
-Giravano voci... voci che dicevano ch'era stato fatale, per Botley, sposare una Greyjoy, perchè si sa che da tempo immemore la tua famiglia non condivide il Trono del Mare con nessuno. La tua sanguinaria ed omicida ambizione era già pronta per essere cantata nelle ballate.- commentò Meera, imperscrutabile in volto.
Yara fece un cenno di diniego, secco e rapido. -Non sono stata io ad uccidere Tristifer, non l'avrei mai fatto nè avrei avuto motivo di farlo. Non c'era amore da parte mia nei suoi confronti, ma non volevo il suo male. Eravamo amici, e-
-Eravate amici.- proruppe Meera, la voce pregna d'improvviso rancore e sarcasmo. -Già, interessante questa storia dell'amicizia, no? Ve la cavate sempre così. Con l'amicizia. Così non sembrate troppo disonesti.-
-Meera.- La voce di Osha, che finora era rimasta in silenzio ad assistere allo scambio, interruppe con fermezza ma senza sgarbo il torrente di parole. La donna, seduta su un sedile qualche gradino più in basso, teneva Kenned sulle ginocchia ed oscillava una massiccia zanna di pantera-ombra, appesa ad un cordoncino di iuta, poco più in alto della piccola testa rotonda del bambino, attirando la sua attenzione. Il piccolo allungava invano le piccole manine paffute, nel tentativo di afferrarla, e Osha aveva tutta l'aria di divertirsi un mondo a sottrargliela un istante prima che le piccole dita la toccassero.
Meera si rese conto di essersi fatta trasportare oltre il lecito e tacque per qualche istante, per riprendere il controllo di sè. Era assolutamente convinta di avere ragione, comunque. Da quando in qua gli amici si sposano? Ti tradisco ma ti voglio bene lo stesso, perchè sei mia amica, questo è il discorso?
-Domando scusa.- disse infine, con un sorriso freddo e forzato. -Soltanto che so cosa significa stare dall'altra parte, essere l'amica di turno. Ma torniamo a noi. A questo punto viene da chiedersi come fai a stabilire con sicurezza che l'assassino di tuo marito è Bolton.-
Yara, che aveva ascoltato il suo sfogo con un'espressione d'implacabile intransigenza, si lasciò scivolare di dosso la giacca e sollevò la manica della casacca che portava sotto la corazza. Senza parlare, tese il braccio in modo che Meera potesse guardarlo bene. Sulla carne bianca v'erano quelli che a prima vista sembravano graffiti sconclusionati, i fendenti furiosi ed arruffati degli artigli d'un felino inferocito. Prima di poter pronunciare una sola parola, la ragazza capì: quei tagli erano lettere con un senso logico, ed era scritto qualcosa...
Sollevò lo sguardo, turbata. Yara scrollò le spalle. -Il cadavere di Tristifer aveva un dito scuoiato.- aggiunse, a mo' di conclusione, per non lasciare spazio a dubbi di sorta.
-Non mi hai ancora detto cosa vuoi da me, Yara Greyjoy.- obiettò Meera.
Lei fece un passo avanti. -Pyke non è più un posto sicuro per me e per Theon. Bolton non ci ha uccisi perchè il suo obiettivo è farci capire che non ci teme, che può colpirci in qualsiasi momento, che siamo prede alla sua mercè. Vuole Theon, perchè si diverte a torturarlo e straziarlo come ha fatto prima che io venissi a liberarlo. Ce l'ha a morte con me, perchè ho assediato Forte Terrore e gli ho scombinato i piani, quindi probabilmente vuole cuocermi a fuoco lento e poi riservarmi una fine obbrobriosa. Io sono giunta fin qui... per chiedere asilo a Grande Inverno.-
Meera battè le palpebre, interdetta; infine sorrise.
-Ma certo. Qualche preferenza per la stanza? No, perchè ne ho una davvero fantastica a Nord-Est, vista Foresta del Lupo, che farebbe proprio al caso tuo... sveglia! Ma ti pare?! Ciao serviciattola, la tua casata non esiste più, sei cornuta, torna nelle tue paludi del cazzo, ah sì posso dormire a casa tua? Inverti la rotta, amica mia. Ma hai svaligiato le cantine di Grande Inverno di tutte le bottiglie di vino prima di venire qui?! Quando ti ho vista entrare mi sono salite in mente tante assurde teorie su quali fossero le tue intenzioni, ma non ho una fantasia così paradossale da andare a pensare che tuo fratello sia giunto a chiedere alloggio nella stessa casa che ha devastato, sterminandone gli abitanti e cacciandone i proprietari a calci nel deretano. Questo castello non è una locanda nè un rifugio per profughi, per tua informazione. Solo perchè per qualche tempo a governare il Nord c'è una regina anzichè un re, non significa che io provi una qualche donnesca pietà per la tua malasorte, sai? Non credevo che saresti caduta così in basso da venire a supplicare per una cosa del genere. Hai una bella faccia tosta, figlia del kraken!-
Yara Greyjoy non parve molto stupita nè offesa da nessuna delle sue parole, e mantenne un'espressione imperturbabile. Impossibile stabilire se stesse solo dissimulando.
-Primo, nessuno qui sta supplicando nessuno, Reed.- cominciò calma. -Secondo, non sono mica venuta qui confidando nel tuo buon cuore, tantomeno perchè sei una donna. Io e te ci somigliamo molto più di quanto credi. So come gira il mondo, che nessuno dà niente per niente... infatti non mi hai lasciato finire di parlare.-
Meera rise di cuore. -Beh, allora stupiscimi. Dimmi una sola buona ragione per la quale dovrei ospitare a Grande Inverno la persona che ha tentato di assediarla, attirando di conseguenza qui un assassino assetato di sangue e rischiare di essere uccisa nel mio letto.-
-In realtà ce ne sarebbe più di una.- annunciò Yara. -Combattere contro Bolton rientra anche nei tuoi interessi, prima di tutto, visto che logicamente il suo secondo obiettivo, dopo essersi ripreso Theon, sarebbe espugnare Grande Inverno e tornare a capo del Nord, e se potesse fare le due cose contemporaneamente ne sarebbe più che contento. Oppure, per esempio, io potrei offrirti qualcosa in cambio. Le nostre truppe. Le nostre navi. Che dici, a tuo marito tornerebbero comode?-
Meera inarcò le sopracciglia. -Non comode al punto da accogliere Theon Greyjoy sotto lo stesso tetto dove dorme suo figlio, temo.-
Yara seguì il suo sguardo fino al bambino, poco più che un infante, che metteva in bocca il dente di pantera-ombra.
-È tuo figlio?- domandò a Meera, ricevendo in risposta un breve cenno affermativo. -Davvero un bel bambino.- commentò dunque. -Sarebbe un vero peccato se Bolton lo trafiggesse con una forca grondante del tuo sangue e lo esponesse fuori dalle mura di Grande Inverno.-
La ragazza cercò di non esternare le sue emozioni, ma Yara colse ugualmente il movimento convulso delle dita, che arpionarono spasmodicamente il bracciolo del trono, e l'irrigidirsi delle spalle. -Ed è una vera fortuna che non avverrà.- sibilò.
-Invece sì, se Bolton non sarà fermato in tempo.- insistette Yara, battendo il tacco dello stivale a terra con enfasi. Il suo sguardo era salace come il sangue che le scorreva nelle vene. -Lui non vede l'ora di fottere il trono a tuo marito, non te ne rendi conto?! Adesso che non c'è, poi, l'occasione è ideale. Io non ti chiedo di farmi la carità, ma ti propongo di unire le forze per sconfiggere un nemico comune. Perchè, diciamocela tutta, io e Theon siamo nella merda fino al collo, però tu non sei messa tanto meglio. Innanzitutto, non hai abbastanza uomini per difenderti. Non puoi permetterti che Ramsay scateni una rivolta del Nord, a partire dalla riconquista di Forte Terrore, specialmente adesso che ci sei tu al comando. Non sto mettendo in dubbio le tue capacità, dico solo che il popolo sarà più bendisposto ad appoggiare la rivolta di un uomo piuttosto che rimanere fedele ad una donna. O no?-
La domanda era retorica, e infatti Meera era in difficoltà. Cominciava a sorgerle qualche dubbio. Non aveva tutti i torti, in effetti, il discorso filava alla perfezione. Cos'altro avrebbe potuto volere, un Bolton, se non ripristinare la supremazia di qualche anno prima? Già il fatto di essere stata informata della sua ricomparsa la avvantaggiava, vanificando l'eventuale effetto sorpresa, però non fare nulla per affrontarlo e respingerlo avrebbe significato sprecare quella possibilità. Non doveva farsi trovare impreparata. Quelle navi, poi... l'abilità bellica marittima dei Greyjoy era famosa in tutta Westeros e la loro flotta era molto temuta ed invidiata. Meera si rendeva conto di non poter commettere scelte azzardate, visto che qualsiasi cosa avesse deciso sarebbe stato determinante per il futuro del Nord. Nel frattempo, Yara seguitava a parlare, stavolta con toni più moderati.
-Ho sentito dire che Jojen Reed è morto da poco. Se potessi tornare indietro nel tempo ed impedirlo, non lo faresti forse a qualsiasi costo? Non saresti disposta a tutto pur di proteggerlo? Se in cambio avessi un'opportunità per salvare tuo fratello, non riterresti forse un esiguo prezzo correre dai tuoi rivali a supplicare un'alleanza?- Yara fece ancora un passo avanti, senza interrompere il contatto visivo con la regina del Nord. Il suo sguardo era di sale, ma la sua determinazione era di ferro. -Tu sai come mi sento io, Meera Reed, non fare finta di non capire. Conosciamo entrambe quella sofferenza. A prescindere dagli errori o dalle colpe di cui un consanguineo si può macchiare, a prescindere dalle angosce e dai dolori che può procurarci, è impossibile lasciarlo al suo destino e smettere di preoccuparsi per la sua incolumità. Siamo quasi nella stessa situazione... l'unica differenza è che stavolta tu, solo tu, puoi impedire che la storia si ripeta.-
Meera abbassò gli occhi, mentre una lacrima fremeva dal desiderio bruciante di raggiungere la sua guancia; ma mai, mai avrebbe pianto di fronte a Yara Greyjoy, lo sapeva. Come avrebbe potuto non capire? Aveva votato la propria vita alla causa di Bran, ma ancora prima alla causa di Jojen. Sola fra tanti aveva creduto alle visioni del fratello, che molti nei pressi dell'Incollatura ritenevano fuori di senno, aveva prestato fede all'importanza di quella missione ed aveva acconsentito ad accompagnarlo, armata di un'unica certezza: la parola di Jojen. Difenderlo, sostenerlo ed aiutarlo nei suoi alti scopi erano stati gli obiettivi più importanti che si era prestabilita. Grazie a Jojen era divenuta regina del Nord, a causa di Jojen aveva perso la possibilità di guadagnarsi con il tempo l'amore di suo marito. Adesso che Meera ci pensava, ovunque ella guardasse nella propria esistenza, non vedeva altro che Jojen. Con tanta irriducibile fermezza l'aveva amato, con tanta silenziosa discrezione lui era morto, e adesso tutto pareva aver perso il suo originario significato. Forse che il suo inconsapevole rancore era il motivo del di lui suicidio? Forse che, con la propria presenza, avrebbe potuto evitarlo? Una famiglia di servi, i Reed, le tornò in mente. Sembra che non siamo serviti ad altro che ad aiutare gli Stark a riprendersi il trono, per poi inchinarci a Bran e scaldargli il letto per tutto il resto della vita. Jojen credeva che fossimo nati per questo? Jojen credeva che dovessimo morire per questo? Il nostro unico, implacabile destino era Bran? E se non siamo nati in sua funzione, perchè è quello che tutti si aspettano da noi?
Temeva da un lato di lasciarsi raggirare dalle parole di Yara, che magari erano per l'appunto solo parole, atte a persuaderla unicamente secondo il tornaconto dei Greyjoy, dall'altro di farsi sfuggire un'opportunità di salvezza e di rimpiangerla in seguito, magari nel momento in cui Bolton avesse sollevato le folle e avesse marciato contro Grande Inverno. Cosa avrebbe fatto Bran al suo posto?
-Se solo Bran fosse qui.- sospirò quindi, sfiorandosi la fronte per scostare i riccioli castani. Osha, dal basso del suo scranno, sollevò lo sguardo dal piccolo Kenned per lanciarle un'occhiata sinistra.
-Non credevo che saresti diventata quel tipo di donna che dice se solo Bran fosse qui.- commentò con voce un po' pungente, sapendo quanto quelle parole fossero in grado di colpire l'amica nell'intimo. Meera si voltò verso di lei, con un'espressione indecifrabile. Quel tipo di donna che dice "se solo Bran fosse qui". Aveva tanto deprecato quelle ragazzette incapaci che si aggrappavano al mantello dei mariti, nascondendosi dietro la loro ombra, fino a che era diventata come loro. Quel tipo di donna che dice...
-Basta.- Il suo sussurro fu così fievole che solo lei stessa lo udì. Fremette del calore d'una sola lacrima. -Basta.-
E stava dicendo basta a quel destino che, negli ultimi giorni, sembrava ostinato ad accanirsi contro di lei come una calamità. Stava dicendo basta alla passività del suo subire immobile ed impotente. Dopo tanto, troppo tempo, si stava alzando in piedi di nuovo. Non avrebbe permesso alla sua casa di crollarle addosso, piuttosto ne avrebbe sorretto il tetto sopra le spalle.
Ed in quel momento comprese che una regina non è quella che si fa il re. Regina è colei che difende i suoi sudditi, che protegge i suoi territori, che combatte fino all'ultimo respiro a costo di concederlo agli altri. Guardò dunque quella ragazza dalle mani spellate dalle corde delle navi e la pelle scottata dal sole riflesso nel mare.
-Io accetto, Yara Greyjoy.- Le rivolse uno sguardo saldo e determinato.
Lei non era come loro. Lei non sarebbe mai stata come loro.
Osha sorrise fra sè. Le parole che aveva pronunciato, con l'obiettivo di scuoterla, erano andate a segno a dovere. Adesso Meera era la Meera che conosceva lei, non la pallida ragazza dagli occhi vacui che non aveva saputo accettare la morte di Jojen.
-Bene.- si limitò a dire Yara, con uno dei suoi inquietanti sorrisi curvi e spiacevoli, tendendo la mano salda e forte verso di lei. Meera scese i pochi gradini che le separavano e rispose con una stretta non meno vigorosa.
-Invierò una missiva a Pyke stasera stessa, affinchè i miei uomini preparino la flotta e la inviino in aiuto a tuo marito: una promessa è una promessa. Avrà i migliori dei capitani al suo servizio. Qui, invece, bisognerà stare all'erta, nel caso in cui si tratterà di sedare una rivolta o prepararsi ad un assedio. Lo sai, vero? Potrebbero esserci dei massacri...-
-Per quanto sarà possibile, il sangue umano non verrà versato.- precisò Meera, adombrandosi. Nonostante amasse cacciare, aveva sempre avuto grande rispetto della vita.
Yara tese un ghigno. -Quanti uomini hai ucciso, Meera Reed?-
La ragazza sollevò il mento con fierezza. -Nessuno, per grazia degli dèi.-
-Allora questo sarà un battesimo di sangue.- Dopo averle lanciato un ultimo sguardo derisorio ed acuminato insieme, Yara Greyjoy si voltò e tornò sui suoi passi, mentre Meera dava ordine a due schiave e ad un soldato di scortarla fino ad una stanza al piano superiore. All'ultimo momento, però, la regina del Nord realizzò d'avere ancora una domanda da porle.
-Aspetta, Yara.- richiamò la sua attenzione, alzando di un registro il tono di voce ed aggrottando le sopracciglia. -Quanto vi fermerete a Grande Inverno, tu e... tuo fratello?-
Lei la fissò per qualche istante con grave intensità, prima di rispondere. -Fino a che Ramsay Bolton non esalerà l'ultimo respiro. Ma non temere di dovermi sopportare troppo a lungo: ti assicuro che il bastardo si farà vivo molto prima di quanto credi. E quando succederà, lo ucciderò. Buonanotte, Meera Reed.-
Meera, pensosa ed incupita, osservò la sua ospite lasciare la sala. La voce di Osha la richiamò alla realtà soltanto pochi istanti più tardi.
-Una tipa strana, manesca e un po' buzzurra. Andrete d'accordo.-
Meera alzò gli occhi alle crepe del soffitto. -Sentirti accusare qualcuno di buzzurraggine è spassoso più o meno come sentire i Lannister accusare Bran e Rickon di incesto, direi. A parte gli scherzi, che te ne pare della Greyjoy? Secondo te ci possiamo fidare?-
Osha alzò le spalle, indifferente, mentre Kenned riusciva finalmente a stringere la zanna di pantera-ombra fra le minuscole dita e ridacchiava gorgogliando.
-Mi è sembrato che facesse un po' la furba, ma non metterei in dubbio la sua sincerità.- ammise francamente. -Quel che mi preoccupa è il guaio in cui ti sei cacciata, che a mio parere non hai valutato con la dovuta accortezza. Comunque,- aggiunse subito, prima che Meera potesse interromperla infastidita, -penso che tu abbia fatto la scelta giusta. Bran ti ha lasciata a Grande Inverno per difendere il castello in caso di necessità, e agendo di conseguenza non puoi essere accusata di contrastare la sua volontà. Però ascoltami bene, Meera: devi stare attenta. Attenta, capito? Non ti chiedo di non immischiarti in questa faccenda, perchè ormai è troppo tardi, nè di mancare ai tuoi doveri di regina eccetera eccetera, ma devi promettermi che starai attenta. Anche se quella creatura non ha ancora una voce per farsi sentire, non significa che sei autorizzata a mettere in pericolo la sua incolumità. Siamo intesi?-
Meera represse un sorriso sulle labbra, chiedendosi perchè accidenti Osha volesse convincere il mondo di essere scontrosa, del tipo degli-altri-non-me-ne-importa-niente-penso-solo-a-me-stessa, quando in realtà passava tre quarti della sua giornata a fare la baby-sitter a Kenned e il resto a dispensare consigli e farle compagnia.
-Intesi.- promise, facendo scivolare appena la mano per sfiorarsi il ventre piatto, dove il lume fievole di una piccola vita maturava in segreto. Questo non significava nemmeno che si sarebbe astenuta da qualsiasi scontro, però: se si sarebbe trattato di difendere Grande Inverno avrebbe fatto tutto il possibile, a costo di prendere le armi lei stessa. La prudenza che doveva avere nei confronti del proprio corpo a causa del suo stato era una limitazione, ma allo stesso tempo la gravidanza era un pensiero in più a distrarla da quello insostenibile della morte di Jojen. Non poteva permettersi di morire, condannando automaticamente il bambino, ma non poteva neanche permettere al figlio di Roose Bolton di conquistare Grande Inverno di nuovo, consegnandogli di conseguenza il Nord in assenza di Bran; Meera non volle pensare che cosa avrebbe scelto, nel caso in cui fosse stata chiamata a decidere, anche perchè al momento altre questioni avevano la priorità. Un battesimo di sangue, ricordò inquieta, sperando vivamente che lo scontro che la attendeva non lo sarebbe stato.
Ad ogni modo, innegabilmente, quella era guerra.
***
-Giusto un'ora fa è giunta una missiva che segnalava la partenza dei Lannister da Nido dell'Aquila, evidentemente senza successo. Non sappiamo perchè si fossero recati lì, quale fosse il loro obiettivo, ma probabilmente speravano di convincere Robin Arryn a stringere un'alleanza. È l'unico motivo plausibile che possa spiegare una sosta così esosa di tempo ed energie nella Valle di Arryn. Ad ogni modo sono appena ripartiti, verso Bloody Gate, per ritrovare la Strada del Re.- Il dito di Stannis percorse quel tratto sulla mappa, sotto gli occhi attenti di Davos Seaworth; il suo signore gli rivolse un'occhiata penetrante. Il suo re scrollò le spalle, per poi sbattere i palmi sul tavolo, arcigno in volto. -Ma questa non è l'unica stranezza. Tutto lascia intendere che l'esercito stia ripiegando verso Approdo del Re. La domanda è... perchè? Che sia una tattica, che vogliano sfiancare il nostro esercito? Non vedo altre buone motivazioni per giustificare una simile, bislacca scelta, anche perchè si tratta di un momento cruciale.- 
Bran annuì con il capo, senza parlare. I suoi occhi bui si limitavano ad osservare la mappa, inespressivi. Stannis lo fissò per qualche istante, meditabondo, poi chinò nuovamente il capo a contemplare la carta e proseguì. -Tully mi ha informato che ci attende all'incrocio del Tridente. Le truppe che aveva portato con sè sono state decimate, ovviamente, ma ha portato con sè i pochi uomini superstiti. L'ultima cosa che mi voglio farti presente è che un drappello di uomini si sta dirigendo verso l'accampamento. Una trentina di uomini, più o meno. Si direbbe una scorta, piuttosto che uno schieramento. Le loro intenzioni non appaiono bellicose, perciò non ho preso provvedimenti a proposito. D'altronde, così come sono, non potrebbero danneggiarci nemmeno se fossero il triplo. Sono più propenso a credere che si tratti del messaggero di una casata minore, o qualcosa di simile.-
-Molto bene.- Il re si rivolse poi ad un attendente che taceva dritto al suo fianco. -La lettera di questa mattina?-
Egli scattò sull'attenti, porgendogli la pergamena arrotolata. -Il sigillo è di Grande Inverno, Maestà. Notizie da parte della regina, a quanto sembra.-
Bran la prese senza dire una parola e lacerò la ceralacca grigia. Lesse in silenzio, facendo scorrere gli occhi fra le righe. Le parole di Meera erano piuttosto fredde e formali, e ciò non lo stupiva. Era chiusa nel suo dolore. Ho il forte presentimento, e solo per scaramanzia non parlo di certezza, d'essere in procinto di darti un altro erede. Bran inarcò le sopracciglia e non commentò -nella sua mente risuonava ancora quell'insopportabile meravigliosa di cui non riusciva a liberarsi. Levenna La Non Nata meritava un meravigliosa, Bran Stark il Metamorfo nemmeno un addio. Quella gelosia senza destinatario lo stava opprimendo come un dilemma la cui soluzione sia sul fondo d'un pozzo, e l'unico modo per raggiungerla precipitare nelle tenebre. Per un attimo, Bran desiderò con struggente, avida prepotenza che quella maledetta bambina non nascesse affatto, che soffocasse nel ventre in cui si sviluppava senza far rumore, che non venisse al mondo per sfoggiare tutte quelle qualità che evidentemente la rendevano tanto meravigliosa... Poi si vergognò di quegli atroci pensieri. Lui non era il Re Folle, lui non poteva permettersi d'impazzire, e quella di cui si stava augurando la morte fino ad un istante prima era sua figlia. Doveva rimanere all'erta, vigile, pronto. Passò al resto della lettera. So che pretenderai giustamente molte spiegazioni che non ho il tempo per fornirti nei dettagli, ma Grande Inverno subirà presto un assalto e mi sto preparando a respingerlo, insieme a Yara Greyjoy. Fu a quel punto che Bran rischiò di cascare da Estate. Respingere un assalto... insieme a Yara Greyjoy? Ma che diamine voleva dire? Delirava, per caso?
-È successo qualcosa?- domandò Stannis, inquietato dalla reazione ritratta sul volto del ragazzo, mentre il suo pensiero correva a Grande Inverno ed a Shireen.
Bran proseguì a leggere, sempre più sconcertato. -Meera ha dichiarato guerra... a Ramsay Bolton. Ma Bolton non era morto? Yara Greyjoy è venuta a chiederle aiuto per liberarsi di lui... e questa folle le ha pure dato ascolto?!- Dopo aver sospirato con rabbia, continuò innervosito. -Hanno stretto una coalizione per ucciderlo, quando cercherà di assediare Grande Inverno. Assediare Grande Inverno? E con cosa, per amor degli dèi?! Con chi? Questa ragazza è completamente pazza. Si è alleata con una Greyjoy... per sconfiggere un fantasma.- Scosse la testa, confuso.
-Quanto pericoloso potrebbe rivelarsi tutto ciò?- domandò Stannis, aggrottando le sopracciglia.
-Non ne ho la più pallida idea. Dice che in cambio la Greyjoy ci concede la sua flotta.- continuò Bran, sbalordito. -E dice anche che sarà sua competenza difendere il maniero e tutti i suoi abitanti, come stabilito prima della partenza. Continuo a vederci poco chiaro, in questa storia.- concluse. Seaworth, accortosi dell'espressione torva di Stannis, cercò di tranquillizzarlo.
-Non vedo motivo di preoccuparsi prima del tempo, mio signore. La regina Meera ti ha assicurato che Shireen sarà al sicuro, e sono certo che manterrà la promessa. Da quanto è scritto, si tratterà di respingere un nemico esterno alle mura di Grande Inverno, e a giudicare dalla reazione di re Brandon non particolarmente temibile. Non è necessario allarmarsi inutilmente.- ripetè, avvertendo l'urgenza di rasserenare innanzitutto se stesso.
-Lascia che sia io a decidere cosa è necessario fare e cosa no, Seaworth.- borbottò Stannis, intimamente un po' confortato da quelle parole -anche se mai l'avrebbe dato a vedere.
Bran schioccò le dita ed Estate si voltò, pronto a condurlo fuori dalla tenda. Stannis lanciò una rapida occhiata a Davos, infine, corrugando la fronte, trovò il coraggio per esclamare:
-Un momento, Stark. Ci sarebbe un'altra cosa.-
Il ragazzo scosse la testa. -Qualsiasi sia, può aspettare. Devo andare a cercare Rickon...-
La voce di Stannis giunse fredda ed inaspettata come un colpo di spada. -Un messaggero dei Tully ha portato il corpo qui questa mattina.-
Bran percepì quelle parole raggiungere ed avvolgere la sua mente senza fretta, come un vapore venefico. Dovette battere le palpebre un paio di volte prima di figurarsi ciò che lo aspettava. Non Jojen, no, lui mai più. Un corpo. Gelido. Insanguinato. Immobile. Morto. Il suo peggior incubo a portata di sguardo.
Il suo peggior incubo a portata di sguardo, l'unica cosa che in quel momento desiderasse. Perchè quello non era Jojen, ma un corpo; e non era un corpo qualsiasi. Era il suo corpo, il corpo che tante volte -forse più del consentito- aveva rimirato, baciato, posseduto. Sfigurato dalla morte, lordato dal sangue, ma presente, solido come i suoi ricordi non sarebbero mai potuti essere. L'estremo desiderio esaudito per un cuore assetato: colmarsi la gola di cenere.
-Dov'è?- La lingua strappò con violenza le parole dal palato. Stannis strinse le labbra, incerto, ma Davos fu più celere.
-Con tutto il rispetto, lord Stark, non credo che sia il caso che tu lo veda. Sono stato io a coricarlo nella tenda del guaritore in attesa del tuo responso, e l'ho visto. Non pensi che sarebbe più bello serbare un ricordo di lui quand'era ancora vivo? Quel che vedresti avrebbe l'unico effetto di turbarti e rovinare-
-Con tutto il rispetto, ser Davos, non credo di aver chiesto la tua opinione. Io ho bisogno vederlo.- Bran s'interruppe e, dopo aver lanciato loro un'ultima occhiata inquieta, abbandonò la tenda per dirigersi a quella dove le infermiere da campo ed i guaritori si occupavano dei feriti. Onde di panico s'innalzavano sempre più possenti dentro di lui, scompigliandogli le viscere, ma non poteva fermarsi a riflettere abbastanza da considerare meglio il partito opposto. Non ora che Jojen era così vicino -e così lontano.
Uno stuolo di guardie era accalcato all'ingresso, ma non appena videro il loro re gli uomini si scostarono immediatamente. Bran percepì la loro compassione così come l'olezzo di ferite infette che aggredì le sue narici, non appena varcò la soglia. Una vampata di calore risalì il collo fino alle guance.
A terra c'erano molte stuoie, ma Bran comprese subito dove Jojen fosse. Tutti i feriti erano scoperti in volto ed erano immersi in un sonno profondo, e un solo corpo era avvolto in ampie stoffe bianche dalla testa ai piedi. Un nodo scorsoio avvinse la gola di Bran in una morsa infallibile, rapprendendo il fiato, ed egli emise un singulto che nessun suono fu in grado di riprodurre. Tutto quel che rimaneva del ragazzo che aveva amato era lì dentro. Nonostante Bran l'avesse spronato con un cenno, fu con un certo riserbo ed una inaudita circospezione che Estate si avvicinò al corpo, fiutando l'aria, con le orecchie abbassate. Il re del Nord chinò una mano. Tremava. Con un gesto secco che gli valse due lacrime, scostò il panneggio.
La prima impressione fu una vertiginosa euforia, la seconda l'orrore più ignobile. Bran non ricordava che cosa avesse provato mentre precipitava dalla Torre Spezzata, però doveva essere più o meno un'emozione simile a quella che investiva la sua anima in quel momento: lo smarrimento vacuo ed inconsapevole dell'incredulità, la confusa sospensione prima del trauma.
La pelle di una guancia era disgregata in grumi di sangue, lasciando un vuoto rossastro e frammenti d'ossa rotte; evidentemente dei frammenti delle macerie dovevano averlo colpito di striscio. Un occhio era ridotto soltanto in poltiglia e fango, ma l'altro era perfettamente distinguibile, intatto, la palpebra delicata calata sull'iride che Bran sapeva preziosa come uno smeraldo -qualcuno doveva avergliela abbassata, forse Edmure, forse Davos stesso. Il taglio sul collo era terribile come Bran sospettava: un lungo squarcio che per un pelo non gli aveva reciso l'intero capo, che esponeva empiamente allo sguardo altrui la spina dorsale e la trachea. Il re del Nord si rese conto del perchè il Cavaliere delle Cipolle lo avesse supplicato di non guardare. Nessuna persona al mondo vorrebbe sopravvivere abbastanza a lungo per vedere in quelle condizioni chi ama.
Bran recuperò il contegno molto prima di quanto credeva. I suoi occhi, esperti di molti mali e sazi di sangue, si abituarono presto a quello scempio; riuscì persino ad arginare il dolore. Bran Stark si sentiva troppo stanco persino per piangere, quando si chinò ancora a sfiorare quelle labbra schiuse in un ultimo, indecodificabile sussurro. Sapevano di carne, carne morta, carne in decomposizione, ma Bran dedusse che non glie ne importava affatto. Quando aveva lasciato la sua tenda, quella notte, sapeva già che non sarebbe tornato mai più. Non l'aveva nemmeno svegliato. Era fuggito come un ladro, privandolo di un ultimo saluto, un ultimo sguardo, un ultimo sorriso. Probabilmente il suo corpo si stava già putrefacendo.
Una voce tagliente fendette il suo silenzio. Allora, Bran, a te la scelta. Preferisci bruciarlo o seppellirlo? Preferisci bruciare o seppellire l'ultima persona che ti eri concesso di amare e che reggeva il filo della tua coscienza fra le dita, la carcassa del tuo cuore sul palmo della mano? Lo darai in pasto alle fiamme o getterai terra sopra il suo viso? E Bran capì che per un giorno solo era troppo, per una vita sola era troppo. La testa gli ricadde fra le mani.
La voce di un soldato lo riscosse. -Maestà, c'è una persona che chiede di vedervi.-
Bran non si mosse. La sua voce era già umida di pianto. -Una persona chi?-
-Dice di volerlo spiegare a voi solo.- fu la bizzarra risposta. Il ragazzo alzò il viso giusto per urlargli che al momento era occupato e che non gli fregava di nessuno, nessuno al mondo, e che potevano andare tutti a crepare per quanto lo riguardava, e per cacciare via chiunque ci fosse.
E fu allora che lei entrò. Bran rimase interdetto: comprese immediatamente che si trattava di una donna. Non vestiva nemmeno abiti maschili; aveva un vestito di leggera ed umile garza di colore verde, che le lasciava scoperte le spalle bianche e formava morbide pieghe sul petto, mentre uno scialle di raso marrone le drappeggiava le braccia. Doveva avere all'incirca quarant'anni, ma era ancora piuttosto graziosa. Aveva una fluida e docile chioma di capelli castani, pettinati a dovere, che scivolavano ondulati fino alle scapole, ed una frangia abbastanza regolare le copriva in parte la fronte. Ma quel che davvero sconvolse Bran furono gli occhi, che rilucevano miti e quieti in un viso diafano a forma di cuore.
Occhi verdi. Verdi, color del muschio, preziosi come smeraldi.
-Se vi ho arrecato disturbo perdonatemi, Sua Maestà. Sono Jayna Reed, di Torre delle Acque Grigie.-
La donna si inchinò solennemente, rimanendo all'ingresso della tenda, con un'espressione ferma e compunta in volto. Un enigmatico velo di cortesia e freddezza caratterizzava la sua voce.
Jayna Reed. Bran avvertì la voce affievolirsi sulle sue labbra, ma cercò di darsi un tono.
-Lei...? Oh. Non... non mi aspettavo la sua visita, mi ha colto di sorpresa. Io non... avete ricevuto il messaggio?- riuscì a balbettare.
Lei annuì con il capo. Le sue labbra erano una linea di sofferenza. -Sono partita appena ho saputo. Lui è lì?-
Parlava con estrema calma e serenità, come se il suo tono di voce fosse dolce e mesto per non urtare i sentimenti del re. Bran lasciò scivolare ancora una volta gli occhi sulle lenzuola.
-... sì. Mi dispiace doverla conoscere in queste circostanze, lady Jayna, ma... l'accaduto lo impone. Se lo vuole vedere...-
Non servì dire altro. La donna si avvicinò lentamente, quasi che tentasse di prolungare il più possibile la pausa che la divideva da quello scempio. Il suo sguardo incontrò il viso di Jojen senza infrangersi; si limitò ad inginocchiarsi accanto a lui e a cercare la mano destra sotto le lenzuola. La trasse e la strinse alla sua, forse nel pallido tentativo di infonderle un po' di calore. Il cratere rosso sul volto del ragazzo tonava insostenibile, come se vi fosse ancora imprigionato un estremo grido. Non c'era traccia di lacrime negli occhi di Jayna Reed, mentre Bran lasciava gocciolare il doloroso pianto lungo le guance, senza asciugarlo nè frenarlo.
-Sono giunta fin qui per farvi una proposta, Maestà.- affermò la donna, esaminando con avvilita tenerezza lo strazio delle carni di suo figlio. -Chiedo umilmente il tuo permesso per poter portare via con me Jojen e farlo riposare per sempre insieme ai suoi predecessori, sotto il suo tetto, nella casa che gli ha dato i natali. Sono moltissimi anni che non lo vedo. Nove, per la precisione. Per nove anni una madre ha dovuto vivere priva di suo figlio, e le viene permesso di ricongiungersi soltanto con il suo cadavere. Non l'ho potuto avere al mio fianco da vivo, Maestà, per cui mi appello alla tua bontà e ti imploro di lasciarlo a me almeno da morto.- 
La sofferta compostezza del suo discorso lasciò Bran senza fiato. All'idea di doversi separare da quel corpo tanto accanitamente amato e venerato il suo cuore ebbe un singhiozzo, un sussulto, e fu tentato di stringerlo forte a sè per impedire che gli fosse portato via di nuovo; avrebbe voluto potergli destinare un posto d'onore nella cripta degli Stark, accanto alle ossa di Eddard, protetto dalle spade e dai metalupi di pietra che facevano guardia al sotterraneo, affinchè il re del Nord potesse fargli visita ogni volta che desiderava e porgergli gli stessi ossequi che i mariti rivolgevano alle spoglie delle loro consorti. Ma Jojen non era uno Stark, e Bran sapeva qual era la cosa giusta da fare.
-Il permesso ti è concesso, lady Jayna.- rispose a mezza voce, irrigidendo la mandibola, compresso dal dolore. Alla fine, il destino aveva deciso per lui: Jojen Reed non sarebbe stato dato in pasto alle fiamme nè gli sarebbe stata gettata terra in volto, ma il fango l'avrebbe inghiottito, trascinandolo nel ventre di quelle stesse paludi nelle quali era nato.
Lady Jayna chinò il capo con deferenza. -Vi ringrazio infinitamente. So che potete comprendere il mio dolore. Ho sentito dire che voi due eravate molto legati, che lo amavate teneramente.-
Bran contrasse la bocca in una smorfia. -Così è stato. Suo figlio è morto da eroe, mia signora. Ha sacrificato la sua vita per salvare la moglie di mio zio Edmure, i suoi bambini, per non parlare di tutti i castellani ed i guerrieri che abitavano Delta delle Acque... Il suo gesto non sarà dimenticato.-
-No, sono sicura di no.- mormorò la donna. -Come sta Meera?-
Bran si morse il labbro inferiore. Non gli parve il momento migliore per spiegarle esattamente la situazione: allarmare ed elargire in maniera gratuita un'angoscia in più a quella povera donna sarebbe stato stupido e controproducente.
-Meera è al sicuro a Grande Inverno, insieme a Kenned. Sta bene. Questo è un momento un po' complicato per il Nord, ma ad ogni modo sua figlia è una tosta, lei lo sa.-
Jayna si lasciò sfuggire un sorriso, e Bran notò che assomigliava incredibilmente a quello di Meera. -Ovvio che lo so. Mi ha scritto di essere di nuovo incinta.-
-Una buona notizia.- bisbigliò lui, atono.
-E a questo punto esprimo la mia seconda richiesta.- La donna sollevò il mento fino ad incontrare gli occhi di Bran. -A me e a mio marito farebbe molto piacere se, quando i nostri nipoti saranno cresciuti, ne mandaste uno a Torre delle Acque Grigie per un certo lasso di tempo... a farci compagnia. Consideratelo come il periodo d'affidamento che tutti i giovani rampolli trascorrono presso le altre casate.-
Vogliono un rimpiazzo, pensò Bran con una strana, infastidita amarezza, io ho sottratto Jojen ai suoi genitori e loro chiedono in cambio uno di quei poveri mocciosi infelici che nasceranno sotto la stella di un'unione sbagliata. Che non potranno mai prendere il suo posto.
-Così sia.- rispose, apatico.
Jayna Reed annuì. -Vi sono grata. Un po' di felicità non guasterebbe, dopo tutte queste inaudite disgrazie...- Allungò la mano a sfiorare la guancia integra di Jojen, mentre l'angoscia s'affacciava nello specchio del suo sguardo. -Adesso devo andare. Non posso permettermi di attardarmi, non in un momento di dolore così atroce per il popolo delle nostre terre.-
Con evidente sforzo, riuscì a distogliere gli occhi dal volto martoriato del figlio e ad alzarsi in piedi; alcuni soldati, alle sue spalle, si avvicinarono e ricoprirono il corpo di Jojen, per poi sollevarlo.
Bran rivolse un'occhiata interdetta alla donna. -Avrei ancora così tante cose da chiederle... avremmo ancora così tante cose di cui parlare.-
Dopo qualche istante, Jayna sorrise. -È vero. Spero tanto di potervi rivedere, sano e salvo, al più presto. Magari in occasione della nascita del mio secondo nipote.-
-Magari.- concordò lui, cupo. Se la guerra sarà finita, naturalmente. Se sarà finita bene. La donna fece un ultimo inchino, prima di voltarsi ed uscire dalla tenda scortata dai suoi uomini; la sua malinconia lasciò un presentimento nell'aria che assuefece Bran come una droga.
Andare a stanare i Lannister ad Approdo del Re, combattere, disseminare le strade di cadaveri, vincere o morire. E, nel caso in cui si vincesse, tornare a Grande Inverno. Poi? Un vuoto cavernoso si spalancò davanti a lui, dentro di lui. Scoprì di avere paura, e non di quel futuro che sapeva di fuoco e sangue: ma di quello subito successivo, quello desolante e silenzioso dei respiri aridi e troppo lunghi che avrebbe dovuto esalare, abbandonato a se stesso in una foresta. Vincere, trionfare. E dopo? Nessuna risposta giunse in suo soccorso.
Ricorda cosa si prova a comandare, condannare e giustiziare, ricorda cosa si prova a sentirsi chiamare Maestà. Quando e se siederai di nuovo sul Trono del Nord, ricorda bene questi istanti, cerca di starci comodo. In fondo, Jojen ci ha speso una vita per farti arrivare fin lassù.
***
Brienne di Tarth era sempre stata una donna salda nei propositi, ferma nelle proprie convinzioni. Da quando, bambina, aveva compreso che il mondo non è un gran bel posto in cui vivere, se n'era fatta una ragione ed aveva impugnato una spada. Anche nei momenti più cruciali, quando si trattava di uccidere o di risparmiare, non aveva mai dubbi su quale fosse la cosa migliore da fare. In quel momento, però, un certo tramestio confondeva i suoi pensieri.
Jaime non faticò ad accorgersi che Brienne era combattuta; ormai erano anni che, dopo essere tornato alla Fortezza Rossa, l'aveva convinta a rinunciare alla sua impresa -ritrovare le figlie di Catelyn Stark e condurle in salvo- e le aveva offerto di che vivere ad Approdo del Re, proponendo a Cersei di prenderla nella sua scorta. La gemella le aveva rivolto qualche frecciatina acida, l'aveva tormentata per un po', com'era nel suo carattere, ma era ben lungi dal provare una reale gelosia nei suoi confronti -in quanto riteneva che Jaime, da sempre estimatore delle belle donne, non potesse averci provato con lei nemmeno se l'alternativa fosse stata Tyrion- e aveva finito per apprezzare il riserbo e la durezza di Brienne. Erano completamente diverse, eppure erano giunte ad una strana e tacita intesa, probabilmente a causa del rapporto conflittuale che entrambe avevano nei confronti della propria limitante natura di donne, al punto che era stata proprio Brienne a spronare Cersei a trovare dentro di sè la forza di amare ancora la vita, alla morte di Joffrey. Jaime non sapeva esattamente cosa ci fosse di diverso in ciò che provava per Cersei e ciò che provava per Brienne, però aveva realizzato di necessitare della presenza di entrambe.
Proprio perchè Jaime aveva imparato ad interpretare il comportamento di Brienne, s'era reso conto che qualcosa non andava. La donna sedeva un po' in disparte, più assorta che triste, fissando gli arabeschi lattiginosi delle nuvole con la fronte aggrottata. I suoi occhi esaminavano la tersa distesa del cielo, e l'azzurro delle iridi baciava la volta celeste.
-Ho il braccio sinistro un po' intorpidito, ma sono certo che se me le suoni tornerà come prima.- dichiarò in tono divertito, infrangendo il suo silenzio.
Brienne scosse la testa, abbacchiata. -Magari più tardi.-
Jaime la osservò per qualche istante. Tirare di spada era la cosa che lei amava fare di più, quindi doveva esserci per forza qualche problema.
-Nostalgia di casa?- domandò. Era da tempo che Brienne non faceva visita a suo padre, a Tarth.
Lei dissentì di nuovo con il capo. -No, no... stavo solo pensando.-
-Ma non mi dire.- scherzò Jaime, guadagnandosi un'occhiata in cagnesco. -E a cosa, si può sapere?- aggiunse in fretta.
Brienne riabbassò gli occhi al terreno, dove, seduta su un tronco abbattuto, stava disegnando linee spezzate nella polvere con la punta dello stivale. -Non so se è il caso che te lo dica.-
-Oh, su, avanti. Se non lo dici a me, a chi altro?- la incoraggiò Jaime.
Lei contrasse le labbra screpolate. -Ti rovinerei la giornata.-
L'amico scrollò le spalle con indifferenza. -Il cuoco me l'ha già rovinata servendomi una costola di maiale praticamente cruda e tu l'hai già rovinata a te stessa, quindi tanto vale.-
Brienne sospirò pesantemente, prima di decidersi. -Pensavo a Rickon Stark.-
Vide Jaime irrigidirsi al suo fianco e si maledì per aver pronunciato quelle parole. Lo sapeva, che non avrebbe dovuto farlo, ma quell'imbecille riusciva sempre a persuaderla. Dal giorno in cui avevano incontrato Stark di persona, insieme a quel che rimaneva di Myrcella, per Jaime si trattava di argomento tabù.
-E perchè mai?- chiese infine l'uomo, a voce piatta ed impassibile. Brienne mosse la e punta dello stivale e tracciò una linea curva un po' sbilenca.
-Mi risulta odioso quanto risulta a te, te lo assicuro. La sua condotta è veramente abominevole e le voci che circolano riguardo a lui sono agghiaccianti... quello che ha fatto a Myrcella, poi, non lo voglio nemmeno immaginare. Però... io avevo promesso a Catelyn di proteggere i suoi figli, e adesso sto facendo questo... È solo che, quando mi sono trovata davanti a lui, l'ho guardato è mi parso talmente giovane... poco più che un bambino.- S'interruppe bruscamente, corrucciata.
Jaime replicò subito. -Tu avevi promesso a Catelyn di proteggere le sue figlie, ovvero delle povere ragazzine innocenti di... quanti? Dodici, tredici anni? Le cose sono cambiate, Brienne. Quelle disgraziate sono morte. Oggi ne hai avuto la prova: Tyrion s'illudeva di aver trovato quella Sansa, però ovviamente non era lì. Rickon Stark non è una femminuccia indifesa, non è un bambino ed è abbastanza grande da potersi prendere la responsabilità delle sue azioni.-
-La sua famiglia è stata sterminata...- obiettò debolmente Brienne.
-Se tutti coloro la cui famiglia è stata sterminata diventassero cannibali, io e te non saremmo cui a discuterne.- sbottò Jaime. -C'è modo e modo di pretendere vendetta e di sfogare la propria rabbia. Rickon Stark è un pazzo ed è assolutamente incontrollabile. Non ha ricevuto un'istruzione civile e non sa adeguarsi ai costumi della nostra società. Si comporta come un barbaro e, ovunque vada, dissemina morte senza un buon motivo. Finora ha ucciso una miriade di innocenti e ben pochi colpevoli... se di colpevoli si può parlare. I crimini di cui si è macchiato sono diventati imperdonabili, troppo gravi per essere tollerati con il pretesto della sua povera infanzia infelice. Basti pensare che fra tutti se l'è presa con Myrcella. Non solo non è uno Stark, ma non è nemmeno un uomo. Non devi lasciarti ingannare dalla sua età: quello è un demonio, senza alcun rispetto per il mondo in cui vive.-
Brienne tacque. Tutti vedevano crudeltà e perfidia nei suoi occhi, a quanto pare, ma quando lei aveva incrociato il suo sguardo aveva visto solo dolore. Conosceva il dolore, Brienne, e la rabbia che come un'infezione germina rapida in un cuore ferito, annerendolo ed avvizzendolo ma senza ucciderlo, e la follia che corrode la mente per cancellare i ricordi e spegnere gli incubi. Però l'aveva capito, Brienne, che per Rickon Stark poteva non essere troppo tardi.
Che cosa avrebbe fatto, se si fosse trovata con una spada in mano davanti a lui? L'avrebbe trafitto per l'amore che provava per Jaime, per vendicare Cersei e la famiglia Lannister, oppure l'avrebbe risparmiato in nome della sofferenza che, in qualche incomprensibile modo, li accomunava, in nome della speranza senza la quale vivere sarebbe uno spreco di pazienza?
Brienne di Tarth non era un'assassina, ma nemmeno una dea. Sapeva soltanto che poteva contare sul proprio intuito e si augurò che la soluzione raggiungesse il suo cuore al momento giusto, perciò quella sera accettò di tirare di spada con Jaime e dimenticare i suoi dilemmi.
***
Margaery Tyrell era in ansia e, benchè sapesse quanto potesse nuocere al piccolo, non riusciva a farne a meno. Aveva cercato di distrarsi con la lettura, ma le lettere si scardinavano dalle parole e volteggiavano di qua e di là, scappando fra le righe ed evadendo dai loro schemi, sfuggendo al suo sguardo frenetico e distratto; aveva preso in mano un fazzoletto da ricamare, sebbene quel genere di lavori era quanto odiasse di più in assoluto, e non aveva ottenuto altro che pungersi tutte le dita. Inutile: il presentimento d'una catastrofe incombente la schiacciava dall'alto, comprimendola al suolo come se volesse spezzarla. Torcendo le mani in grembo, Margaery sperava: si trattava di qualcosa di puro, qualcosa di etereo, qualcosa di irrimediabilmente ingenuo ed innocente, ovvero qualcosa di cui non si sentiva più in grado, non più degna nemmeno di quella minuta, bianca forma di bontà inconsapevole.
Quando percepì i passi avvicinarsi alle sue stanze fuori dal portone, balzò in piedi dal letto troppo in fretta e percepì di rimando un dolore rancoroso in corrispondenza dell'addome; dovette affrettarsi a carezzare il ventre con ambo le mani per placarlo un po'. Si sentiva così piena, così colma, così ingombra che pareva non ci fosse più spazio per quel bambino che protestava e sgomitava, tentando di farsi posto nell'ambiente angusto. Ma adesso era troppo intenta a pensare a colei che stava per varcare la sua soglia.
Si trattava di septa Idelyne, servitrice della corte di Alto Giardino condotta ad Approdo del Re, fedele alla Regina di Spine dalla notte dei tempi. Margaery fece per venirle incontro, ma la donna fu più svelta e le afferrò le mani, gli occhi rigonfi d'ansia.
-Allora, cara septa? Non farmi soffrire ancora in questo modo, dimmi cosa sta accadendo! Dove si trovano Garlan ed il suo esercito ora? L'ultima missiva che mi ha mandato risale a l'altro ieri ed assicura che le truppe procedono secondo i piani...-
-L'esercito è stato ostacolato e ricacciato indietro, mia regina, pena la scomunica imperiale e la condanna in quanto traditori della corona.- svelò d'un fiato septa Idelyne, con un'espressione angosciata. -È tutto finito. Ci hanno scoperti... hanno scoperto i vostri piani! Sua Maestà è venuto a saperlo, a quanto pare ha lasciato delle spie a corte, o forse è stato per colpa di quel Payne... Non siamo ancora risaliti esattamente al colpevole.-
Margaery era sbiancata dal terrore. -Scoperti...?! Come può essere...? Vuol dire che Tommen sa quali sono le mie intenzioni? E allora... ha contattato la corte? Ha dato disposizioni?! Cosa vuole fare di me?!-
La septa scosse il capo e le carezzò una gota. -No, non ci ha contattati, mia regina, però si sta dirigendo qui per riaffermare il potere centrale, quindi probabilmente intende occuparsene di persona... Non c'è motivo di andare nel panico prima del tempo. Si può ancora fare un tentativo. Dovete fuggire adesso, mia regina, adesso o mai più... affrettiamoci, dunque! Ditemi quel che volete portare con voi, giusto il necessario per riempire due bisacce, ed andiamo. Ci sono alcuni soldati ancora fedeli alla casata dei Tyrell che ci aiuteranno, però non possiamo indugiare. È per la vostra vita che stiamo combattendo!-
Quelle parole infusero in Margaery la forza di reagire. Subito cominciò a snocciolare qualche disposizione, cioè di prendere un mantello pesante per il viaggio, e svelò il nascondiglio di un piccolo bottino d'oro che teneva da parte da un pezzo, in caso di situazioni d'emergenza; cambiò le scarpe in un paio di stivaletti che le avrebbero permesso di camminare più abilmente e prese con sè altri capi di vestiario più spessi, casomai fosse capitato di viaggiare di notte. Ma fu proprio mentre si apprestava ad imbracciare un fagotto di sottane di lana, che una fitta lancinante al ventre le mozzò il fiato e la costrinse a boccheggiare, con le ginocchia incerte ed una mano a cercare un sostegno. Il panico le causava dolori da ore, ma adesso la loro intensità era diventata eccessiva per essere spiegata solamente come un effetto collaterale dell'ansia.
-Mia regina...- Septa Idelyne la fissò preoccupata, una mano già sulla maniglia della porta.
-Non è niente.- bofonchiò Margaery, stringendo i denti con tenacia e raddrizzandosi piano, -andiamo.-
Non avrebbe permesso al suo stato di rallentarla, non in un momento cruciale come quello. Fu in un certo senso sollevata dal fatto che quella sofferenza tagliente non si presentasse più, ma stava cantando vittoria troppo presto, perchè mentre scendeva le scale una stilettata poderosa al ventre la costrinse a piegarsi su se stessa, gemendo. A quel punto la septa capì che nessuna delle due sarebbe fuggita dalla Fortezza Rossa quel giorno.
-Dobbiamo chiamare immediatamente il Maestro e ritornare nella vostra stanza, altezza. Presto.- sospirò la donna, mettendole un braccio attorno alle spalle e sostenendola. Margaery protestò vivacemente.
-Ma non possiamo rimanere qui! Dobbiamo scappare prima che l'esercito arrivi! Io non voglio-
-Maestà, voi state per partorire.- dichiarò la vecchia septa, con voce calma e ferma. -E vi assicuro che partorire in piedi è assolutamente improponibile. Voi non potete camminare e sforzarvi ancora, dovete riservare le forze per il momento in cui darete alla luce la creatura... Se faticherete troppo, potrebbero esserci gravi conseguenze per il bambino.-
Suo malgrado, benchè combattesse per non versarle, Margaery avvertì gli occhi velarsi di lacrime. Vacillava persino l'onore, che l'aveva sempre spinta a camminare a testa alta malgrado le sue colpe ed i suoi delitti, che le aveva impedito di supplicare e rinnegare se stessa; a gridare ed assordarla era soltanto il ritmo del suo cuore galoppante, stravolto dalla prospettiva di ciò che stava per succedere e dalla scoperta della fuga di notizie. 
-E... Tommen? Come possiamo fare? E se vorrà ripudiarmi, se vorrà... uccidermi? Cosa possiamo fare, cara septa?!-
La donna le rivolse un sorriso dolce e un po' mesto. -Pregare, mia regina. Pregare...-
Per sottolineare quanto imminente fosse il momento del parto, nel risalire le scale Margaery avvertì chiaramente qualcosa dentro di lei non funzionare più come prima, qualcosa d'incrinato che si strappava come seta, un rumore acuto ed agghiacciante che solo il suo corpo percepì e che la lasciò stordita di paura, e quel qualcosa d'irrimediabilmente spezzato palesò presto la sua natura. Pochi istanti dopo, Margaery percepì i fiotti d'acqua calda bagnarle le cosce; le sembrava di stare scivolando in una gola ripidissima e priva di appigli, in una voragine buia ed ignota di non ritorno, di stare precipitando senza possibilità di scampo. La septa si accorse del suo turbamento e la strinse più forte, quasi per infonderle coraggio.
Quando giacque supina sul letto vermiglio, Margaery si chiese quale fosse il tormento più atroce: il pensiero che Tommen sarebbe arrivato di lì a poco per giustiziarla oppure il dolore che cresceva incessante ad ogni sferzata. Il Maestro che l'aveva esaminata assicurava che ci sarebbe voluta almeno un'ora abbondante prima del travaglio, se non due. Le contrazioni erano diventate così potenti e vigorose che stringere le federe con le dita e mordersi la lingua non serviva più a niente, e la regina liberava aspri strilli che scucivano le sue labbra a forza per esplodere nell'aria, che le ancelle s'affrettavano a speziare bruciando incensi in bracieri d'ottone. Quelle fragranze orientali e penetranti nauseavano un po' Margaery, ma ella al momento era troppo distratta da tutto il resto per farci caso. Le serve detergevano inoltre la fronte della fanciulla con panni intrisi d'acqua calda, levavano il sudore dagli zigomi e dal collo contratto, nel tentativo di offrirle un po' di sollievo e rilassamento. Septa Idelyne continuava a sussurrarle consigli e parole di conforto, per distogliere la sua mente dal pensiero del dolore e delle preoccupazioni, perchè al momento il buon esito del parto aveva la precedenza su qualsiasi altro problema -ma Margaery riusciva a stento ad udirla. Il tempo procedeva pigro come mai era stato, consumandosi piano piano ed evaporando lentamente insieme all'essenza nei bracieri, logorando la pazienza, gonfiando i cuori d'aspettativa.
Nel momento in cui venne esortata a spingere, Margaery si accorse all'improvviso che in realtà avrebbe voluto che Tommen fosse lì, alla sponda di quel letto, ad attendere con lei, a contagiarla con il suo instancabile ottimismo; avevano perso importanza le tribolazioni, le macchinazioni, gli intrighi, tutti quei piani inutili e vanificati, quell'ambizione che era solo sabbia a scivolare fra le dita, perchè stava per nascere suo figlio e il giovane re, anche se infuriato con lei, anche se consapevole della slealtà della moglie, di sicuro avrebbe voluto esserci, e anche Margaery all'improvviso lo voleva, infuriato e consapevole e tutto, ma sarebbe bastata la sua presenza a rendere completamente diversi quegli attimi.
All'inizio del loro matrimonio non aveva amato Tommen, è vero, e anzi credeva che non l'avrebbe amato mai, che avrebbe provato per lui quel tiepido affetto e quella sprezzante compassione che i piccoli ingenui suscitano. Invece il tempo le aveva dato modo di conoscerlo per quel che era veramente, con i suoi difetti e qualità: non come pedina in una grande scacchiera di cacciatori ed interessi contrastanti, ma come persona.
Fatto sta che Tommen non c'era, e che la speranza del suo arrivo era irrealizzabile. Quando percepì che la strenua lotta con il proprio corpo era terminata, Margaery affondò il capo madido di sudore nel cuscino, mentre un vagito infantile risuonava nella stanza; allora lei cercò il figlio con lo sguardo, la curiosità vinta da una stanchezza colossale e mista al sapore di una sofferenza sanguigna. Il solo suono energico e vitale di quella vocina le faceva capire che il piccolo stava bene e non c'erano pericoli.
-Scoppia di salute, Maestà,- la informò infatti septa Idelyne, commossa, -ed è un maschietto!-
Margaery avvertì il cuore frullare di gioia nel petto: durante la gravidanza aveva temuto di rimanere delusa dalla nascita di un bambino piuttosto che di una bambina, ma invece così non avvenne. Un grande senso di appartenenza e di riconoscimento si radicarono nel cuore della puerpera, come se in fondo in fondo l'avesse sempre saputo. E poi così avrebbe potuto ereditare il trono, un giorno, e non essere venduto al miglior acquirente come sarebbe toccato ad una fanciulla. Tanto dolore gli sarebbe stato risparmiato.
Margaery adocchiò appena qualcosa di piccolo e paonazzo che le ancelle maneggiavano, e vide che lo stavano pulendo del sangue con un panno intinto dell'acqua di un catino, che poi lo avvolgevano in una copertina per darglielo in braccio. Ma proprio mentre tendeva le mani emozionata per prendere il piccolo fagotto, un dolore violento all'interno del suo ventre la richiamò a quella realtà di sofferenza rossa. Il suo primo, orribile pensiero fu che ci fosse qualche complicazione e che lei stesse per avere un'emorragia dovuta al parto; il panico la assalì, perchè lei non voleva morire, non adesso che aveva messo al mondo quella piccola creatura e che la voleva conoscere, com'era diritto di ogni madre. Il ricordo della storia di Joanna Lannister balenò nella sua mente come un monito minaccioso, e d'un tratto le parve che tutto questo fosse un incubo.
Poi realizzò che quel dolore non sembrava anomalo, imprevisto, ma... spontaneo, naturale, come quello che aveva provato finora. E perchè? Perchè c'era ancora qualcosa dentro di lei. Ancora qualcuno. A quella rivelazione si toccò la pancia, sgomenta, e sotto il suo palmo disteso percepì distintamente un movimento.
-Ce n'è ancora uno, Maestà.- esclamò la septa, ripetendo le parole del Maestro.
-Ancora uno?!- La voce di Maegery suonò stridula, strozzata forse dallo sconcerto o forse dalla tremenda prospettiva di ripetere quel calvario di nuovo, subito. Incredula ed incapace di rendersi conto che cosa comportasse quel responso, la regina di Westeros si limitò ad imitare ciò che aveva fatto fino a quel momento, a riprendere il respiro profondo e le spinte, a stritolare le mani delle ancelle. Significava che lei aveva aspettato due gemelli? E com'era possibile che nessuno l'avesse avvertita prima, che nessuno l'avesse previsto in anticipo, durante una delle numerosissime visite di controllo che aveva fatto?! Proprio quando giunse allo stremo delle forze, il secondo neonato sgusciò dalle sue cosce sdrucciolevoli di sangue e la septa recise il cordone ombelicale. Un'altra voce irruppe, sonora e squillante quando la prima, e venne annunciato che si trattava ancora una volta di un maschio; Margaery non ebbe nemmeno la forza di aprire gli occhi. Il suo corpo, ormai appesantito dall'esaurimento e prosciugato d'ogni capacità fisica e cognitiva, non rispondeva più alla sua volontà fiaccata e rimaneva inerme per costrizione, mentre l'ossigeno accorreva precipitoso alle sue labbra schiuse dalla fatica.
Le ancelle provvidero a lei, legandole i capelli fradici in una lunga e stretta treccia intermezzata da un nastro, affinchè non le dessero fastidio, e le offrirono acqua e frutta fresca per rimettersi in sesto; nel frattempo i gemelli venivano lavati e sistemati, di modo che la madre potesse vederli. Finalmente Margaery avvertì un soffice peso sul petto ed aprì gli occhi.
Due minuscole testoline rosse e rotonde erano poggiate contro di lei, mentre i piccoli corpi erano nascosti da panni sontuosi, riccamente decorati. Non c'era traccia di capelli, ancora; era un buon segno, significava che sarebbero diventati belli biondi come il padre. Le ciglia di Margaery s'inumidirono, mentre tenere lacrime raggiungevano il suo sorriso. Ricordandosi di cosa i piccoli avessero bisogno, la madre si scoprì i seni turgidi.
Septa Idelyne le si fece appresso e le parlò a bassa voce. -Come avete intenzione di chiamarli, mia regina? Voi e sua Maestà il re avevate concordato un nome solo, immagino.-
Margaery annuì. -Sì, però so già come si chiameranno. Saranno Nathaniel e Lionel Baratheon.-
Nathaniel e Lionel Lannister, pensò fra sè.
La settimana seguente al parto fu idilliaca. Margaery rimase a letto per recuperare le forze, e i bambini le venivano portati quattro volte al giorno per le poppate, di cui aveva richiesto di potersi occupare personalmente, almeno per il primo mese di vita dei piccoli. Ormai la regina s'era abituata all'idea di aver dato alla luce due eredi, e di conseguenza di ritrovarsi a gestire due figli anzichè uno: non le era mai passata per la testa quell'eventualità, che in fondo non era nemmeno così remota, dato che la famiglia Lannister era geneticamente predisposta a generare gemelli, però le piaceva moltissimo quella sorpresa che le era stata riservata. A parte il travaglio, era davvero contenta di avere due piccolini identici ai quali dispensare il suo amore. Era una prospettiva molto interessante. Le venne riferito che era stato mandato un corvo a Tommen per informarlo dei frutti del parto della regina, della nascita di due gemelli maschi perfettamente sani e vispi, i cui nomi erano Nathaniel e Lionel; la risposta non si era fatta attendere ed era stata mandata dal Folletto, che riferiva che il re, nell'apprendere tale lieta novella, aveva pianto di felicità e non vedeva l'ora di poter stringere fra le braccia i propri figli, cosa che sarebbe avvenuta molto presto. Anche Tommen era rimasto sbalordito di fronte alla prospettiva di due neonati al posto di uno, come finora s'era figurato, però la nuova immagine che aveva preso forma nella sua mente non era meno attraente, ed anzi prometteva un avvenire ancora più roseo. Tutti si erano congratulati con il re, fra l'esercito, avevano rivolto i loro auguri ed omaggi per i principini appena nati, e Tommen aveva ringraziato i suoi uomini con gli occhi lucidi, sorridendo fra i singhiozzi grazie, grazie! Margaery s'era intenerita leggendo quelle righe, e per pochi attimi riuscì ad illudersi che fosse tutto a posto, che non ci fossero impedimenti a quella felicità così immensa ed ideale, così struggentemente accessibile. Era tutta colpa sua, lo sapeva, però troppo tardi aveva capito che c'era qualcosa di molto più importante che delle ambizioni della famiglia Tyrell: qualcosa che cresceva silenziosamente dentro di lei, ed a cui perciò Margaery non aveva riservato le attenzioni che meritava. Poteva soltanto piangere se stessa per gli errori che aveva commesso. C'era forse un modo per riscattarsi? L'avrebbe scoperto solamente al ritorno di Tommen.
Accadde una mattina apparentemente tranquilla come al solito. Margaery s'era svegliata presto ed attendeva l'arrivo della septa con i bambini, che al sorgere del sole erano terribilmente affamati- come se non avessero mangiato rispettivamente appena la madre prendeva sonno di sera e nel bel mezzo della notte- e che giorno per giorno erano sempre più voraci. Ma stranamente, anzichè septa Idelyne, entrarono nella sua stanza da letto due guardie armate. Margaery s'allarmò e alzò il capo dai guanciali, in allerta.
-Cosa vi porta qui? È per caso capitato qualcosa a Tommen?- li apostrofò spaventata.
-No, mia regina.- rispose uno dei due, con voce grave. -Però mi vedo costretto a dichiarare il vostro stato di fermo. Margaery Tyrell, siete accusata di cospirazione contro la corona. Vi chiedo di seguirci di vostra volontà e di non costringerci ad usare altre maniere.-
Margaery era paralizzata dal panico: quelle parole, poi, la riscossero. -Stato di fermo? Mi state per caso arrestando?! Ma è assurdo! Voi... voi non potete! Sono la vostra regina, non avete assolutamente nessun diritto...-
-Ordini di sua Maestà il re.- ribattè la guardia. -Vi prego, altezza, seguiteci.-
Margaery picchiò il pugno contro il materasso, rabbiosamente, reprimendo la disperazione che affiorava. -No! No, io non posso seguirvi! Non posso andare in prigione! Devo occuparmi dei miei figli! I miei figli... cosa ne sarà dei miei figli?! Cosa ne sarà?!-
Non risposero alle sue domande, ma la presero per la braccia cercando per quanto possibile di non farle male. Nonostante la foga delle sue urla, Margaery non si oppose. Rimase pressochè inerme mentre veniva portava nei piani superiori, su una delle torri. In effetti, la sua non era una vera e propria prigione, bensì una camera dotata di tutte le comodità, di suppellettili e mobilia. Le lenzuola del suo letto erano di seta e c'erano libri da leggere che l'avrebbero tenuta impegnata per una decina di vite intere, però Margaery ci fece caso a malapena. Ogni volta che le venne portato di che mangiare -piatti d'oro e porcellana con ricche carni annaffiate di vino e sugo, contorni di verdure lussureggianti, dolci ripieni di crema e ricchi di zucchero insieme a calici del miglior vino- supplicò le inservienti di ritornarle i suoi bambini, fece domande circa le loro condizioni, ma non ottenne nessuna risposta.
-Ci è stato vietato di dirvi alcunchè, Maestà.- si giustificavano le ragazze quando la regina prometteva ricchezze e ricompense in cambio, mortificate dal dolore della donna e dall'impossibilità di recarle aiuto, perchè a quelle visite assistevano sempre le intransigenti guardie. Margaery non riusciva più a pensare a se stessa, ma soltanto al destino di quei piccoli esserini indifesi alla mercè di gente senza cuore, e si tormentava incessantemente.
La regina assistette al ritorno di Tommen dalla stretta finestra della sua torre: un lungo corteo cremisi che innalzava gli stendardi del cervo e del leone, procedendo a passo marziale. Quando il marito si presentò alla sua porta, guardandola attraverso una fessura sbarrata, sputò la domanda che da giorni la perseguitava.
-Come stanno?-
L'espressione di Tommen era abbattuta. Delusa. Rigida nella sua fragilità. -Perchè, Margaery? Perchè l'hai fatto?-
-Come stanno?-
Egli sospirò. -Stanno bene. Non permetterei mai che venisse loro fatto del male. Perchè mai qualcuno dovrebbe fargliene? Sei tu quella nei guai, Margaery, non loro. Loro non hanno complottato alle mie spalle, non hanno tradito la mia fiducia. Loro sono ancora i principi legittimi, anche se tu forse non sarai più regina. Sarebbe più indicato preoccuparti per quello che sta per succedere a te.-
Margaery poggiò la fronte alla superficie di ferro della porta, esausta. -Voglio vedere i miei figli.- mormorò.
-Non è possibile.- obiettò Tommen, apatico.
Lei s'impossessò imperiosamente dei suoi occhi, riaffacciandosi alla fessura sbarrata con un nuovo, sferzante rancore.
-Tu puoi ripudiare tua moglie, puoi levare dal capo la corona ad una regina e puoi imprigionare Margaery Tyrell,- cominciò, con voce appena sfrigolante d'astio, digrignando i denti, -ma non puoi privare una madre dei suoi figli. Questo non lo puoi fare, Tommen Baratheon. Non puoi nemmeno immaginare che cosa significhi per me...- 
-Ah, adesso sei solo tu quella che soffre, non è vero?- Tommen la interruppe, indispettito da quella rabbia ingiustificata che scatenò la sua, investendola violentemente con parole velenose. Fece una smorfia disgustata. -Sei ridicola, Margery. Ti dò una notizia dell'ultima ora: la colpa è tua e di nessun altro. Se ti fossi comportata come ogni moglie perbene, se mi fossi rimasta fedele, a quest'ora avresti i nostri figli in braccio e nulla di tutto ciò starebbe accadendo. Non sai quanto mi renderebbe felice scoprire che è frutto della mia immaginazione. Prima era fantastico, meraviglioso e perfetto, e adesso...- La voce di Tommen si spezzò, ma il ragazzo non volle darlo a vedere e scosse la testa, furioso. -Hai rovinato tutto, Margaery, e di questo non posso perdonarti. Io credevo che i miei nemici fossero là fuori, non sotto il mio stesso tetto! Come mi dovrei sentire, secondo te? Se tu fossi nei miei panni, cosa faresti? Dovrei perdonarti o farti penzolare da una forca come continuano a ripetermi? E io... io non so più nemmeno chi tu sia. Non so cosa pensare.- Tommen le rivolse un'occhiata penetrante, inorridita e scoraggiata.
Prima di parlare di nuovo Margaery riprese fiato, chinando il capo a quelle accuse, quasi fossero pietre. -Non ti sto chiedendo di liberarmi, nè di fidarti di me, nè di riprendermi al tuo fianco. Non ti sto nemmeno chiedendo di fare qualcosa perchè sono io a domandarlo, ma soltanto per il bene dei miei, dei tuoi, dei nostri bambini. Hanno bisogno della loro madre! Non puoi negarci questo diritto. Nè a me, nè a loro.-
-Risparmia il fiato per il processo, Margaery.- la congedò Tommen, freddamente. Margaery si aggrappò alle sbarre, terrorizzata.
-No! No, Tommen, aspetta! Tommen, ti supplico...-
Fu quando suo marito scomparve nella tromba delle scale, che Margaery si asciugò le lacrime sulle guance con gesti rabbiosi, confortata almeno dal pensiero che i suoi piccoli sarebbero stati sani e salvi; ma erano comunque vulnerabili, visto che lei non era lì a proteggerli: e la bufera -lo presagiva nell'aria- si sarebbe abbattuta su Approdo del Re fin troppo presto.


































Note dell'Autrice: Che gli dèi mi aiutino, posto sempre più in ritardo. u.u Però il capitolo è bello lungo, quindi potete essere contenti, miei lettori!
E quindi abbiamo scoperto che il piano di Baelish era mandare Sansa da Arya, che Meera e Yara fanno comunella (qualsiasi accenno di femslash al proposito è puramente casuale) e che Margaery ha partorito due gemelli. ^-^ Per poi finire dritta dritta in gattabuia. o.o Ah sì, per non parlare della carriera di Myrcella come cannibale in erba! XD No, no, tranquilli, non diventerà cannibale anche lei. XD
Comunque, spero che abbiate apprezzato il capitolo e che perdonerete il mio ritardo. La quarta stagione sta per arrivare, gente, è sempre più vicina!
Grazie a tutti coloro che hanno letto, aspetto impaziente di scoprire le vostre opinioni!
Lucy

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Capitolo 11
*** Livido fu il panico. ***


10

X. Livido fu il panico.








-Quello che ti sto proponendo,- annunciò Gendry Waters, con impeto, -è un cambio di programma.-
Allestita per un banchetto di ben cinquanta persone, fra cui gli alfieri del Nord e delle Terre dei Fiumi, gli Stark, Stannis ed i suoi fedeli, la tenda era la più vasta di cui l'esercito disponesse ed era stata preparata con una certa rustica raffinatezza. Per la prima volta, dopo mesi di guerra, veniva utilizzato il servizio di posate d'argento e di piatti di porcellana; benchè la tragedia di Delta delle Acque fosse ancora abbastanza recente e impressa nell'anima dei presenti, l'atmosfera era piuttosto allegra. Rickon Stark aveva preteso ad ogni costo che si festeggiasse, anche arrivando ad insultare il dolore che piegava ancora suo fratello.
-Non capita tutti i giorni di riunire la famiglia, insomma!- aveva esclamato, battendo le mani e pretendendo sfarzo, buon cibo, botti di vino. La verità era che il giorno delle scontro si avvicinava ed il giovane Stark aveva bisogno di mille distrazioni per tenere a bada l'ansia, che non soltanto s'impossessava di lui, ma ancora di più di Myrcella.
Per l'occasione, egli s'era adoperato in modo che una septa fornisse la fanciulla d'un bell'abito in raso di seta, d'un brioso e frivolo verde menta che metteva in risalto i suoi occhi, con un bustino trapuntato di piccoli quarzi rosa, e chiffon color salmone sia arricciato vistosamente sullo scollo rotondo sia a sboccare all'altezza delle maniche; nonostante fosse vestita con grande eleganza, Myrcella aveva un'espressione inquieta e per tutta la durata della cena non aveva fatto altro che stare accanto a Rickon e tacere, rigirando distrattamente il vino nel bicchiere, lanciando di tanto in tanto occhiate sospettose all'indirizzo di Arya e Sansa. Com'era accaduto che la famiglia si riunisse? Quel pomeriggio una guarnigione di uomini, guidati da Gendry e, al suo fianco, da Arya, aveva raggiunto il loro accampamento. Il riconoscimento non era stato particolarmente commovente, però, sotto due frangenti.
Il primo, e di sicuro il più deludente, era stato Bran. Egli stesso aveva spesso sognato un ricongiungimento con le sorelle, e nella sua immaginazione quello sarebbe stato l'apice della felicità; questo, prima di perdere Jojen. In quello specifico momento, invece, tutto gli scivolava addosso e lo lasciava indifferente in maniera spiazzante. Appena aveva scoperto la verità, aveva sperato d'essere travolto da un'ondata d'irresistibile gioia che vincesse la pressione della sofferenza nel suo petto. Inutile dire che nulla di tutto ciò era avvenuto. La scena era stata persino un po' patetica. Bran le aveva salutate con una regale, solenne freddezza tanto asettica da risultare ridicola, e le sorelle s'erano ritrovate così a disagio da non poter esprimere la felicità che, loro sì, provavano nel rivederlo dopo tanto tempo. Erano state avvertite della morte di un tale consigliere, ma di certo nessuno aveva ancora svelato loro la natura del rapporto che legava il re al defunto, quindi a buon diritto Sansa fu offesa dalla sua impassibilità, lei che tante peripezie aveva superato alla Fortezza Rossa e a Nido dell'Aquila, pur di avere il suo lieto fine! Arya s'era stupita del cambiamento che aveva visto in lui: certo, non era tanto più radicale di quello di Rickon, però Rickon aveva sei anni l'ultima volta che lei l'aveva visto, e dunque non aveva ancora quel che si definirebbe un carattere ben definito: era solo un moccioso molto vivace e un po' irascibile. Con Bran invece aveva condiviso allenamenti, giochi, passeggiate e in generale la vita a Grande Inverno, dato che erano vicini d'età, e lo ricordava come un ragazzino socievole, tranquillo, silenzioso, un po' malinconico ma entusiasta. Invece s'era trovata davanti un ragazzo smilzo, buio come l'abisso più recondito, con capelli lunghi e scompigliati, occhi di pietra e un viso dai lineamenti crudeli, come se l'avessero intagliato a colpi di lama, con le mani sporche di sangue. Non l'aveva messa in soggezione, perchè ci voleva ben altro per mettere in soggezione Arya Stark: però le aveva fatto molta impressione.
-Sei cambiato.- gli aveva detto, temendo di ricadere nella solita banalità.
-Chi di noi non lo è?- era stata la lapidaria risposta.
Il secondo frangente disastroso era stato Rickon, ovvio. S'era presentato per primo ad accoglierle ma, nella sua grande furbizia, la prima cosa che aveva fatto era stata provarci con Sansa. La sorella maggiore cavalcava un po' più indietro -non le era mai piaciuto, quindi manteneva una velocità limitata- e, quando Arya l'aveva aiutata a smontare, senza prima pensare per un secondo cosa potesse implicare il fatto che Arya glie la volesse far conoscere, senza nemmeno immaginare che potesse trattarsi di Sansa, aveva domandato:
-Non mi presenti questa gran sventola, Arya?-
Ma, a giudicare dalla direzione del suo sguardo, voleva più che altro fare una conoscenza ravvicinata con le sue tette.
-Sì: è tua sorella!- s'era indispettita Arya, pestandogli un piede con tutta l'indignazione di cui fu capace. Il momento di defaillance di Rickon non durò più di tre secondi, poi imprecò:
-Possibile che tutte quelle che me lo fanno venire duro siano mie sorelle? Che strazio... Comincio a comprendere il povero Jaime Lannister.-
Arya era rimasta senza parole dalla ripugnanza, Sansa era scoppiata a ridere, per poi abbracciare il fratello un po' rossa in viso, e Myrcella, finora silenziosa figura al suo fianco, s'irritò oltremodo.
-Questa notte dormi solo come un cane, Rickon Stark!- aveva dichiarato, con una smorfia di disappunto. Rickon s'era affrettato a rimediare, prodigandosi in complimenti ed apprezzamenti verso la sua deliziosa concubina, perchè di sfogare i propri bollenti spiriti da solo proprio non se ne parlava.
Insomma, Gendry aveva proposto di discutere su tutto ciò che c'era da discutere al banchetto e ad un certo punto annunciò che si trattava di fare un cambio di programma.
Bran Stark lo fissò ancora per qualche istante, prima di schioccare le dita ed ordinare al coppiere di colmare il boccale del suo ospite, per prendere tempo. Gendry scosse la testa sbrigativo, a far intendere che voleva rimanere concentrato su quel che stava accadendo. Per quando riguarda Stannis, non riusciva a credere alla piega che stavano assumendo gli eventi. Finora era rimasto zitto, a seguire soltanto ciò che veniva detto, ma si stava decisamente superando la misura. Quel suo nipote fuggito molti anni prima era vivo, e non solo -voleva rivendicare il trono. Il suo trono. Ma con che diritti un bastardo del genere si presentava lì, e soprattutto, come gli erano venute quelle idee in testa? Un figlio illegittimo non vale niente, figuriamoci se può andare lì a pretendere. Surclassando senza troppi ripensamenti il Baratheon legittimo della famiglia, poi!
-I cambi di programma non ci interessano.- rimbeccò infatti. -Tutto è già stato stabilito. Io e Stark ci siamo accordati di conseguenza.-
Gendry gli rivolse un'occhiata fredda: non aveva certo dimenticato il trattamento riservatogli in passato, nè aveva intenzione di farlo. Sapeva bene che, se fosse stato per Stannis, lui a quell'ora sarebbe stato morto e sepolto.
-Ti ricordo che i nostri piani ti includono, lord Stannis. Avresti una posizione di rilievo a corte, per non parlare del fatto che, se io morissi senza eredi, saliresti al trono.-
Stannis schioccò la lingua, irritato, chiedendosi come si permetteva quel ragazzetto di prendersi gioco di lui. -Quante probabilità ci sono che tu muoia prima di me?-
Arya Stark, fino ad ora intenta a saccheggiare la carne dal piatto di Rickon, perchè a lui cotta non piaceva, s'intromise.
-Quel che Gendry vuole dire,- intervenne a voce alta, irosa, -è che lui ha intenzione di sposare sua cugina Shireen, così da non privarla di un suo diritto di sangue.-
Una serie di brusii venne scatenata ed attraversò le file dei conviviali, mentre un chiacchiericcio generale s'intensificava, simile al ronzio di un formicaio.
-Hai intenzione di mantenere questo proposito?- domandò bruscamente Stannis, sorpreso. All'improvviso, quella precisazione gli faceva piacere l'idea già di più. Certo, lui non era più giovane e vigoroso come un tempo, ed i Sette Regni avevano bisogno di un sovrano nel pieno delle forze; e nemmeno immortale, perciò -a meno che, ipotesi poco probabile, non avesse avuto altri figli- tutto l'onere del regno sarebbe ricaduto sulle spalle di Shireen, di una povera fanciulla fragile ed innocente, che, nonostante fosse saggia ed assennata, di certo non sapeva nulla circa le faccende dello stato e gli intrighi di corte, e non sarebbe mai riuscita a prevalere in un mondo così spietato. Quel Gendry al trono, tra l'altro con sangue Baratheon nelle vene e coraggio da vendere, e Shireen come sua regina, a vivere alla Fortezza Rossa anzichè nel maniero freddo ed inospitale ch'era Grande Inverno, insieme ad un bruto selvaggio... Se così fosse stato, tutto cambiava di prospettiva.
Gendry incontrò lo sguardo di Arya, penetrante ed eloquente, che quasi lo sfidava a contraddire quanto aveva detto: tante volte ne avevano discusso, giungendo alla conclusione che non esisteva altro modo per ottenere l'approvazione di Stannis Baratheon e di legittimare ancora di più la pretesa al trono, per essere accettato dal popolo.
Gendry aveva cercato di ribellarsi diverse volte, spiegando che non era strettamente necessario e che Shireen era già promessa a Rickon, però Arya non aveva voluto sentire ragioni.
-Tu fai la proposta, poi si vedrà. Sono quasi certa che Stannis approverà ma, anche se così non fosse, almeno non avrai lasciato nulla di intentato.- aveva insistito.
La verità era che Gendry, quando si figurava re, si era sempre figurato Arya al suo fianco, semplicemente perchè non riusciva ad immaginare di sposare un'altra donna. Il sentimento che provava per lei andava oltre l'affetto, la solidarietà e la muta comprensione, fino a raggiungere un'ammirazione che diventava spesso e volentieri adorazione; pur scherzando e trattandola con molta ironia, Gendry la riteneva una delle persone migliori che avesse mai conosciuto. La combinazione di volitività, ostinazione, carisma e pragmatismo era vincente e la rendeva non soltanto un'eccellente comandante, ma la salvava anche in qualsiasi situazione. Gendry era assolutamente convinto di non voler sposare Shireen Baratheon: e non è che ci fosse qualcosa che non andava in Shireen in quanto tale, perchè lo stesso sarebbe stato per qualsiasi altra persona eccetto Arya. Però la sua opinione a quanto pareva era irrilevante. Il suo sangue, lo stesso che aveva imbrattato la scacchiera di Westeros e aveva generato tanti scompigli, stava diventando più potente di lui.
-Ci stavo per arrivare, se non fossi stato interrotto.- concluse, dopo una beve esitazione. -La mia proposta comprendeva appunto il mio matrimonio con Shireen, per rinsaldare il legame con l'altro ramo della famiglia Baratheon e fare giustizia. Sono al corrente del suo attuale fidanzamento con Rickon Stark, però avevo anche sentito dire che era stato siglato contro la volontà del principe e... pensavo che, quando la guerra sarà finita, un matrimonio fra Myrcella Lannister e lord Stark sarebbe un ottimo espediente per stipulare la pace fra il Nord e il Sud.-
Bran valutava la situazione in silenzio, seguendo lo scambio con occhi impassibili. Effettivamente, così l'accordo fra lui e Stannis sarebbe saltato e Rickon avrebbe potuto sposare chi voleva, e allo stesso tempo non sarebbe diventato re dei Sette Regni, cosa che chiunque avesse un po' di buonsenso si auspicava. Quel Gendry era sicuramente un temerario, però di certo non lo si poteva definire sconsiderato; era giunto lì ben armato, non di spada ma di argomenti. Inoltre, per quel poco che aveva potuto vedere, a Bran sembrava una persona a posto, e comunque non erano da mettere in dubbio le sue origini come figlio di re Robert, visto che pure Stannis l'aveva confermato; come aveva detto Rickon una volta, però, ormai il Trono di Spade non era di colui a cui spettava, ma di chi se lo sarebbe conquistato. Gendry ce l'avrebbe fatta? Se Arya si era schierata dalla sua parte e si era votata alla sua causa, Bran si fidava. Certo, se lì con lui ci fosse stato Jojen, l'avrebbe consigliato al meglio. Ma Jojen non c'era. Non aveva voluto esserci.
-Tu pensavi un po' troppe cose, Waters.- lo stuzzicò Rickon, sarcastico, scolando un lungo sorso di vino. -Mi propongono di sciogliere un matrimonio combinato per combinarmene un altro... Non sono neanche la tua fottuta figlia femmina, bastardo. Io non mi sposerò mai, e non perchè non ci tenga a prendermi legalmente questa bellezza, ma perchè non ci credo. Non penso che un rito sotto uno stupido albero in un arcimaledetto bosco possa decretare in qualche modo ciò che ho, o ciò che sono, e di certo non dev'essere un septon del cazzo a dirmi chi posso scoparmi e chi no.-
Gendry sorrise a denti stretti. Quel Rickon stava mettendo a dura prova la sua pazienza, ma probabilmente lo faceva apposta per provocarlo. Bisognava mantenere una compostezza regale ed ufficiosa: ne andava dei suoi stessi interessi.
-Era un'eventualità proposta con l'intento di farti un piacere, lord Stark, ma ovviamente era soltanto un'idea come un'altra. Quel che mi importa è recuperare il trono di mio padre.-
-Bene, ho preso la mia decisione.- Bran s'intromise, sospirando e leccandosi le labbra, dopo aver sorseggiato del vino. Lungo la tavola imperiale calò un silenzio carico d'aspettativa. Il re del Nord lasciò vagare gli occhi stanchi fra quei volti familiari, estranei, vecchi, nuovi, giovani, intristiti, sfregiati dalla guerra. Per un istante, provò un disgusto così nauseabondo, un ribrezzo così viscerale, un rifiuto così sdegnoso, che desiderò quasi trasfigurarsi nel vapore del proprio fiato. In quei brevi, deprecabili, indissolubili istanti comprese fino in fondo quanta sconcertante irrilevanza avesse assunto quell'arazzo dai colori troppo violenti, troppo vivaci, troppo fastidiosi; comprese fino in fondo la sua ormai completa estraneità a quel gorgo di inganni, strategie ed omicidi, e quanta indifferenza accompagnasse l'azzuffarsi di quegli eventi precipitosi e concitati. Si sentiva lo spettro di un morto, invisibile ed inafferrabile, che girovaga per il mondo dei vivi senza più appartenervisi. Jojen lo aveva provato di qualsiasi cosa fosse rimasta al terribile saccheggio a cui già il destino lo aveva sottoposto; lo aveva derubato di quell'ultima, intollerabile speranza, quell'ultimo fragile attaccamento alla vita, quell'ultimo interesse per le tribolazioni proprie ed altrui. 
Ma Bran non era invisibile, e tutti lo stavano guardando: quindi parlò.
-Questo è un momento molto delicato per la nostra guerra. Non possiamo permetterci passi falsi. Mi è stato riferito che Margaery Tyrell ha partorito non un solo bambino, ma due. Due maschi.- Un coro di fischi seguirono quelle parole; soltanto Myrcella nascose un piccolo sorriso dietro il tovagliolo di stoffa. Rickon ghignò, esponendo i canini triangolari. Il sovrano attese che tornasse il silenzio. -Ciò significa che ora Tommen ha una discendenza assicurata. Inutile dire che i recenti avvenimenti rendono ancora più fondamentale espugnare la Fortezza Rossa. Detto questo, avremo bisogno di tutto il contributo ed il sostegno possibile... anche da parte di alleati insospettati. Quindi il mio è un sì, Gendry Waters.- Bran incrociò lo sguardo del ragazzo. La sua voce calò secca come il rumore d'ossa spezzate. -Propongo un brindisi, alla nuova alleanza fra Baratheon e Stark.-
Tutti alzarono le coppe, cozzandole una contro l'altra in una risata di bronzo.
Nel frattempo, dopo aver prestato attenzione alle parole del fratello, Sansa si rivolgeva alla fanciulla seduta al suo fianco. Aveva le sembianze di Myrcella, ma l'espressione era febbrile e gli occhi avevano un'altra luce: evidentemente non era più così. Se prima, nonostante quella sua certa bellezza, in una sala piena di gente sarebbe parsa insignificante, ora era una fiamma. Come me, d'altronde, pensò la giovane Stark.
-Dopo tanto tempo, Myrcella... Chi l'avrebbe immaginato che ci saremmo incontrate di nuovo, vive, e che per di più che ti saresti innamorata di mio fratello.-
Lei tacque. Nel suo sguardo era sopito un dolore vago, lontano, inafferrabile, come un sospiro di cenere. Gli occhi verdi, talvolta, fuggivano in quelli di Rickon con la precipitosa inevitabilità delle emorragie, mentre il labbro inferiore cedeva sotto il peso di una notte insonne.
Sansa sorrise affabile del suo silenzio. Se ne sarebbe accorta presto, Myrcella Lannister, che non vale la pena di celebrare il dolore. Nel frattempo, la guerra scalpitava nel rumore degli zoccoli dei cavalli bardati e nei sibili di metallo delle armi ancora appese alla rastrelliera; la guerra viveva nel fervore con cui Rickon Stark squartava un pezzo di carne e urtava il proprio boccale con quello degli alfieri. La guerra, ormai, era permeata nella loro pelle come l'odore dei morti.
Gendry sorrideva, con audace e ponderata sapienza. Arya Stark serrava gli occhi alla luce delle candele. Il Nord banchettava insieme ai propri timori più orridi.
***
-Domani andrai.-
Non era una domanda. Era una constatazione, sfiancata come se avesse attraversato vallate, scalato burroni e guadato fiumi prima di affiorare a quelle labbra rosee. Rickon sospirò a bassa voce, affondando una mano fra i suoi capelli, sollevandoli e poi lasciandoli scivolare come sabbia fra le sue dita, in un prezioso sfavillio dorato dalla luce di una timida candela.
Per l'inenarrabile magia di quegli istanti, la sublime calma che lo pervadeva come un narcotico aromatico, quasi si commosse. Il viso di lei, simile ad un medaglione di madreperla anticato, con quei superbi zigomi che cesellavano morbidamente le linee preziose delle guance, pennellate di rosa dalla luce delle candele; la maestà della fronte ampia ed alabastrina, il ricamo flessuoso della chioma, arricciolata con la forza delicata della cresta dell'onda marina, che barbagliava d'oro nudo come sangue di stella. La potenza misteriosa e benevola dello sguardo... degli occhi verdi, verdi come giada di Norvos, verdi come quella genia demoniaca che aveva assediato sia i sogni che gli incubi di Rickon fin da prima ch'egli avesse memoria.
-Visto e considerato tutto quel che è successo, rimani ancora la ragazza più bella che io abbia mai visto.- fu tutto ciò che disse, contemplando il modo in cui le ciocche di capelli di Myrcella che le scivolavano sul petto, lambendole i seni, assumessero al tocco della luce la candida traslucenza della spuma di cristallo.
Le labbra di lei non si abbandonarono in un sorriso radioso, come avrebbe fatto in altre circostanze.
-Domani andrai.- ripetè atona.
-Domani andrò.- confermò Rickon, soffiando quelle parole sul suo viso. La fanciulla gli stava rannicchiata sul petto, soltanto il collo inarcato affinchè potesse guardarlo negli occhi. Una coperta avviluppava i loro fianchi: stava giungendo l'inverno anche per il Sud. Le stelle crepitavano a gran voce nel cielo notturno che sovrastava la loro tenda, disegnate sulla tela logora e sottile.
Myrcella aggrottò la fronte. L'unica cosa che portava indosso era un'ametista grossa come un pugno, appesa ad un laccio insignificante che le cingeva il collo esile e rotondo; il ragazzo cominciò a giocherellarci, distrattamente.
-Perchè?-
Rickon socchiuse gli occhi e godette del caldo peso della fanciulla sopra di lui, avvertendo la sua pelle liscia e tiepida contro il petto, la massa aurea e profumata dei capelli intrecciata alle braccia. Il giorno successivo l'esercito sarebbe entrato trionfalmente ad Approdo del Re, dove inaspettatamente i Lannister avevano ripiegato, per chissà quale motivo che di sicuro avrebbero inteso troppo tardi. La strinse a sè un po' più forte.
-Perchè amo la guerra da prima di quanto amassi te.- rivelò, con un pizzico d'ironia e molta più paura di quanto non volesse ammettere a se stesso.
Myrcella gli scoccò un'occhiata obliqua. -Più di me?-
Rickon sorrise della sua reazione e le baciò la bocca. -È... diverso.-
-Ma se dovessi scegliere? Perchè è quello che ti verrà chiesto di fare domani. Ed è una scelta letale.- insistette la ragazza, toccandogli una guancia. Detestava questa situazione d'impotenza, d'impraticabile inavvicinabilità. Non voleva supplicare, non l'avrebbe mai fatto, però non si era mai sentita così tentata di farlo.
-Anche tu sei letale.- osservò egli, con un ghigno. -Più di qualsiasi altra cosa.-
Myrcella si scosse via dal suo abbraccio, con sgarbo e fastidio, sgomitando e alzandosi seduta, rivolgendogli la schiena. Non la stava ancora prendendo sul serio, e questo la faceva andare in bestia. Rickon Stark non dava peso a nulla: nè alla vita delle persone, nè alla propria; nè all'angoscia delle persone, nè alla propria.
Quei giorni erano stati quanto di più angoscioso avesse mai dovuto sopportare, più delle segrete buie, più del freddo del Nord, più dei volti che si deterioravano nella sua memoria. Ogni mattina apriva gli occhi e cercava Rickon nell'ombra, con le mani e le labbra e l'olfatto, consapevole che magari ben presto l'avrebbe fatto inutilmente; ogni sera chiudeva gli occhi giacendo al suo fianco, il fiato a solleticarle il collo, e pensava che dovevano approfittare di ogni minuto delle ultime ore a loro concesse. Faceva l'amore con lui con l'affanno rappreso fra le labbra e la disperazione affissa nel cuore, chiedendosi fra quanto tempo le sarebbe stato dato modo soltanto di rievocare nella mente quegli istanti di tonda, elementare, nitida esattezza. Non riusciva a credere che Rickon, al contrario, fosse così indifferente a quel che stava per succedere, alla battaglia che forse li avrebbe divisi per sempre. Myrcella non si ingannava più, non da quando era stata rinchiusa in una cella per mesi: Rickon non soltanto ne aveva combinate troppe, non solo era l'ennesimo Stark scomodo ancora in vita, ma, essendo estremamente pericoloso, era il primo obiettivo di tutti i soldati, là fuori. Probabilmente chi l'avesse ucciso sarebbe stato ricompensato da Tommen molto profumatamente. Mentre menti ciniche stavano là fuori ad architettare indisturbate piani per uccidere Rickon, lei poteva solo stare lì, disarmata, inutile, femmina, e poi consegnarlo al sogghignante nemico come un agnello sacrificale... Quei pensieri le impedivano il sonno. Si rigirava inquieta, alla ricerca di un ordine perduto, di una serenità stracciata. Non esistevano appigli in grado di ostacolare la sua caduta, così come balsami per lenire le sue preoccupazioni. Il cuore doveva soffrire e il corpo doveva seguirlo in un lento ed inevitabile processo di degenerazione, fino alla fine. Così smise di trattenersi e vomitò tutte le tribolazioni della sua anima, di getto.
-Perchè accidenti non vuoi tenerti stretta quella vita che così duramente hai preservato?! Perchè la devi rischiare così, senza motivo?! Vuoi combattere per nulla, per... la gloria, che è inconsistente, che non la toccherai mai, poco più di un sogno e quattro parole. O cos'altro?!- sbraitò. -Rimani qui, come fa tuo fratello. Rimani nell'accampamento e non gettarti in quella mischia di spade, e soldati, e sangue, e... Quelli là ti odiano, Rickon, lo capisci? Ti vogliono fare del male.-
Rickon contrasse il viso in un'espressione accigliata, con fare indisponente.
-Questa è la guerra.- tagliò corto, come se stesse spiegando una banalità ad un bambino un po' tonto.
-Non cercare di menarmi per il naso!- sbottò Myrcella. -Tu potresti sottrarti, caro, e a maggior ragione dovresti farlo, visto quel che è successo di recente. La paura della morte non è sopraggiunta nemmeno un po'?-
Il dolore di Bran Stark l'aveva terrorizzata; pensava a cosa avrebbe fatto se si fosse trovata nella stessa condizione, e vedeva il vuoto d'una via così impervia che non viene nemmeno intrapresa, ma solo rinnegata con orrore. La scomparsa di Jojen Reed, tra l'altro, le aveva ricordato che tutti gli uomini sono odiosamente mortali -Rickon non faceva eccezione, anche se si comportava in maniera che lasciava intendere tutt'altro.
-Paura per qualcosa che giungerà comunque, adesso o fra due anni o fra cinquanta?- Rickon Stark scosse la testa. -No, Myrcella. Esistono almeno un'infinità di cose peggiori della morte, e potrei elencartele tutte, visto che le ho provate una ad una. Morire, e cosa vuoi che sia? Quando sei morto, non ti rendi mica più conto di esserlo.-
-Ma non adesso! Perchè mai dovresti accettare di morire adesso, con una vita davanti ancora da vivere? Bran è confuso, esasperato e soffre come una bestia moribonda, e tu hai intenzione di lasciarlo ad affrontare tutto questo da solo? Dovresti stargli accanto, aiutarlo ed evitare tranquillamente ogni pericolo. Però non lo vuoi fare, nemmeno per me... Cosa ne sarà, di me, se tu morirai? A questo almeno hai pensato? Se hai troppa vergogna per il tuo onore, a non presentarti sul campo di battaglia, pensa a me.- Myrcella si aggrappò al suo petto, come una supplice stretta all'altare del suo dio. -Pensa al modo in cui il tuo esercito mi venderà ai Lannister, oppure a come i vostri uomini mi stupreranno, o a come getteranno la mia testa ai piedi di Tommen...-
-Stai cercando di spaventarmi?- Rickon le immobilizzò i polsi con dolce fermezza, una severa rigidità in volto.
Myrcella sbuffò. -Sto cercando di farti ragionare, che non vuol dire la stessa cosa. Non vedo come tu possa essere tanto... caparbio, e... cieco, ecco. Perchè mai dovresti rischiare di morire, quando puoi rifiutarti senza problemi? Spiegamelo.-
-Questa è la mia guerra.- Il ragazzo precisò la sua affermazione precedente, mentre l'immensità di quelle parole lo sopraffaceva. -Nessun altro può combatterla per me.-
A quella, Myrcella non seppe cosa ribattere. Tacque, sconfitta e prostrata, mentre il vano tentativo delle sue parole si discioglieva senza fare breccia. Desistette, strofinandosi gli occhi arrossati, e si voltò dall'altra parte.
-Ho paura.- ammise piano.
Rickon inarcò un sopracciglio, interrogativo. Ammirò ancora quel volto tenero, plasmato dall'umana natura per essere ritratto con i colori ad olio, per adornare gli arazzi e le pagine dei libri riguardo le genealogie reali: quel volto che però egli sapeva capace di funeste passioni, di supremo dolore, di iracondia e violenza, di fragile umanità ed animalesca ferocia. Un viso sfregiato dalla realtà e fregiato d'onore, ormai. Myrcella Lannister non era più il grazioso gingillo di una reggia, non era più la principessa sorridente e silenziosa.
-Di me?-
La voce di Myrcella giunse lenta e musicale come la risacca. -Di noi.-
Rickon sorrise. Era una risposta saggia, ma giunta in ritardo, nel posto sbagliato, al momento sbagliato.
-Non serve. Ormai noi due siamo, e saremo fino alla fine.-
Era vero. Era tremendamente vero. Nella sua vita Myrcella c'era, aveva un posto ben preciso, un'importanza ben precisa, come quella della luna e della stella polare. Nella sua vita Myrcella doveva esserci.
Il silenzio calò di nuovo.
Rickon parve riscuotersi. -Quasi dimenticavo... voglio regalarti una cosa.-
Nonostante la malinconia ed il vago astio, lo sguardo di Myrcella non potè fare a meno d'accendersi di rapita curiosità. -Cosa?-
Lui frugò in una sacca e ne trasse un fodero di pelle nera e squamosa, presumibilmente di un rettile. Da esso, con un movimento abile da prestigiatore, sguainò una lama di notevole lunghezza: l'estremità che Rickon impugnava era circolare, ma lungo tutta la sua estensione andava assottigliandosi fino ad una punta affilatissima, a tal punto che Myrcella non riusciva a vedere esattamente fin dove proseguisse la punta, perchè pareva raggiungere una dimensione invisibile all'occhio umano. Aveva una sfumatura azzurrina, come un sogno, però alla luce della candela balenò di riflessi iridescenti e fulminei, che dardeggiavano a turno e ripetutamente la lama.
Myrcella era strabiliata: le pareva di non aver mai visto un prodigio simile. 
-E' stupendo! Ma cos'è?- cinguettò deliziata, sfiorandola cautamente con il polpastrello, quasi nel timore di mandarlo in frantumi. Al tatto, era liscio come vetro.
Rickon sorrise enigmatico. -Non hai mai sentito dire che a Skagos vivono gli unicorni?-
Gli occhi di Myrcella si spalancarono di meraviglia, subito però sostituita da un'ombra di timoroso sospetto.
-... ti prego, Rickon, non dirmi che hai ucciso un unicorno!- piagnucolò, scuotendo la testa con disapprovazione.
Il ragazzo s'imbronciò. -Figurati. Ovvio che non l'abbiamo fatto. Io e Osha l'abbiamo trovato già morto... probabilmente una ferita inferta in qualche scontro con le pantere-ombra. Poi è fuggito ed è stramazzato a terra lì. Era enorme, devono essere servite almeno cinque pantere-ombra per attaccarlo. Aveva zoccoli imponenti come macine di mulino e un muso più grosso di quello di un toro, ma era davvero bello. Aveva un manto bianco che più bianco non si può. Abbagliante. Sembrava diffondere luce propria, nella radura. Sotto la luna piena, con tutto il sangue attorno, era uno spettacolo da mozzare il fiato.-
Myrcella ascoltò, incantata. Quando Rickon narrava le sue avventure, si sentiva tornare bambina, con sua madre e la balia che raccontavano leggende, soprattutto riguardo le imprese dei Lannister... Adorava quelle storie. La voce di Rickon, poi, le speziava d'un sapore inimitabile.
-Il manto era così magnifico che Osha quasi quasi se lo voleva prendere, ma poi scuoiarlo le parve un oltraggio troppo ignominioso, e non l'ha fatto.- proseguì Rickon. -Poi ce ne siamo mangiato un po'.-
-Rickon!- gemette Myrcella, disgustata dall'idea e inorridita dal crimine al tempo stesso.
-Che c'è! Tanto era morto, la carne non gli serviva più.- si giustificò lui, laconico. -Però ascoltami, adesso ti dico perchè ti regalo questo corno. E' l'oggetto più prezioso che ho, perchè non soltanto è estremamente raro e quindi costoso in maniera esorbitante, ma è anche un'arma infallibile. La pietra di cui è fatto, a dispetto delle apparenze, non la distrugge nemmeno l'acciaio di Valyria. Inscalfibile, ti dico. Ci ho provato mille volte, e non si è fatto neanche un graffio. Penso che solo temperature pari al respiro di un drago potrebbero liquefarlo. Poi è lungo, perciò se lo affondi nello stomaco di qualcuno lo trapassi da parte a parte. Con un po' di fortuna, lo ammazzi sul colpo. Rompe qualsiasi osso, qualsiasi tessuto muscolare, qualsiasi corazza di metallo... se al colpo impartisci la necessaria forza fisica, s'intende. Allora, che te ne pare?-
Myrcella prese il corno fra le dita e lo rigirò sotto la luce, affascinata. -Sei tu quello che va in battaglia e ne avrebbe più bisogno.-
-Tu intanto sarai da sola con le guardie qui, e sei una preda piuttosto ambita. Girare armata, da queste parti, di questi tempi, non è una cattiva idea. Se poi è una buona arma, ancora meglio.-
-No, non hai capito. Hai detto che è la cosa più preziosa che hai. Perchè me la regali? E' tua.-
Rickon la fissò negli occhi. -La cosa più preziosa che ho, per difendere la persona più preziosa che ho.-
Non c'era un pizzico di stucchevolezza o di romanticismo nelle sue parole, eppure Myrcella avvertì un tuffo al cuore. Le tornarono in mente le sue fantasie di bambina, il suo ricco lord, il suo prode cavaliere, il suo bellissimo principe. Le parve che tutto all'improvviso coincidesse, si riconoscesse e concordasse in un ordine perfetto, simmetrico, alchemico. Le parve di essere di nuovo all'inizio della storia. Il cerchio si chiuse e completò.
Si adagiò sul cuore del ragazzo che amava, infiammata, inebriata, assordata da quella passione gravida di parole e silenzio. Si chiese perchè la vita non potesse essere solo questo, solo e soltanto questo, per sempre, fino alla fine dei tempi. Si sentì al sicuro. Si sentì a casa.
-Domani andrò,- ripetè Rickon, torvo, -ma non piangere, quando partirò. Altrimenti potresti riuscire a muovermi a compassione.-
Myrcella sorrise triste, scaldata dal lieve tepore di un ricordo. -Io non piangerò mai davanti a te, Rickon Stark. Non ho cambiato idea.-
Risero, ma fu breve. Quella notte durò un'eternità ed un istante, sofferta come una ferita da taglio, amata come una benedizione, e come tutte le cose -sofferte o benedette che siano- terminò.
All'alba, Myrcella Lannister non pianse.
***
-Cosa sarebbe a dire, che c'è in arrivo una flotta?!-
Ecco, ce l'hanno fatta, pensò Tommen. Mi hanno trasformato nel re che volevano. Aveva il fiato corto, gli occhi gonfi ed arrossati e la stanchezza sulle guance: non si era mai sentito meno piccolo di così, addirittura quasi invecchiato in quelle poche ore. All'improvviso, l'imperativo di gestire tutto quel che stava accadendo gli succhiava la vita fin nel midollo delle ossa, come se tutte le armi del mondo gli venissero gettate sulle spalle.
Era rimasto sbalordito, quando suo zio gli aveva riferito che sarebbero tornati ad Approdo del Re. Sarebbe stato come autorizzare gli Stark ad espugnarla! Non sembrava certo una strategia vincente. Avrebbero fatto la figura dei codardi. Solo a quel punto Tyrion gli aveva fatto leggere l'ultima lettera vergata dal pugno di Jojen Reed. Una vittoria già predestinata, il trionfo in tasca, il trono ancora suo. Un futuro limpido.
-Andremo ad Approdo del Re, per il semplice motivo che Brandon Stark morirà ad Approdo del Re.- aveva spiegato lo zio semplicemente. -Quindi è lì che dobbiamo essere. Diamo una mano al destino, insomma.-
Tommen non era assolutamente convinto di tutto ciò, ed una strana inquietudine proseguiva a perseguitarlo. Anche se si ripeteva senza sosta ch'era immotivata, non c'era modo di scacciarla. Si fidava ciecamente di suo zio Tyrion e, se lui credeva che questo l'avrebbe condotto alla vittoria, voleva crederci.
Stava gestendo tre conversazioni nello stesso momento: lo scudiero che gli stava domandando cosa ne avrebbe fatto delle Guardie Reali, un messaggero che gli riferiva l'avanzata dell'esercito del Nord ed una guardia che aveva un messaggio da parte della regina Margaery. Perciò, in quel momento non aveva nemmeno un secondo da concedere a suo zio; almeno, non lo aveva avuto finchè Tyrion non aveva preso fiato e urlato, per sovrastare il chiacchiericcio generale: c'è una flotta in arrivo al Golfo!
Tommen, ansante, si morse il labbro inferiore. Ti prego, fa' che abbia sentito male. Fa' che abbia detto lotta. Oppure... calotta. O magari...
-Comandata dai Greyjoy.- precisò Tyrion, cupamente. -A quanto pare, la regina del Nord si è data da fare... ha stretto alleanze a destra e a manca. Mi sono permesso di dare ordine di imbastire le navi, ma è comunque troppo tardi. L'attacco è imminente... Siamo incalzati sia per mare che per terra. Una fortuna, l'aver già provveduto ai viveri per i prossimi mesi, perchè altrimenti sarebbe un bel problema.-
Tommen agitò una mano con veemenza, per richiamare l'ordine. In mezzo a quel guazzabuglio, le voci si fondevano in un unico canto disarticolato che discorreva in una lingua senza senso.
-Vi prego, vi prego, non parlate tutti insieme! Non capisco nulla! Kurtis, prima tu.- sospirò infine.
Lo scudiero abbassò lo sguardo.
-Ser Jaime chiedeva di essere ricevuto, Vostra Grazia, e così ser Loras. L'ho impedito loro, dato che voi avete categoricamente ribadito di non voler vedere nessun altro. Cosa dovrei...-
-D'accordo, d'accordo, che entrino.-
Tommen non riusciva proprio a stare fermo sul trono. Scivolò giù da quell'irto sedile di lame e si liberò con stizza dallo scomodo abbraccio delle spade; scese i gradini del trono, per poi cominciare nervosamente a passeggiare avanti ed indietro, posseduto da un'irrequietezza tormentosa. Quella gente voleva che lui prendesse delle decisioni... ma non si rendevano conto, gli altri, di chi era il loro re? Un ragazzino privo di qualsiasi esperienza, di qualsiasi erudizione bellica? Perchè non si accorgevano di starsi affidando a mani incompetenti? Era Tommen stesso che avrebbe voluto strillare vi prego, fate qualcosa! e cedere ad un sonno centenario, lasciando tutto alla responsabilità altrui. Erano due adesso le notti che aveva passato in bianco, insieme a suo zio Tyrion, indicando alle guardie i punti dove rafforzare le mura, posizionare le macchine anti-assedio e le catapulte, schierare le file più esperte... Aveva potuto dormire soltanto per sporadiche ore pomeridiane, sullo scranno di legno del Concilio Ristretto, con il capo abbandonato sul tavolo. Il tempo gli era assolutamente mancato: sbraitare ufficialmente rassicurazioni ed esortazioni di fronte al popolo, apportando pure l'ulteriore impegno d'apparire convincente, quando lui per primo si sentiva smarrito e travolto dal corso degli eventi, lo aveva privato della lucidità e dell'ottimismo. Era ridotto ad un fascio di nervi e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Gli bastava distrarsi un attimo per mettere alla prova la propria eroica resistenza e vedere la realtà vorticare e confondersi ai suoi occhi. Mai aveva bramato il sonno, di solito così largamente dato per scontato, come in quel momento. Avrebbe ucciso pur di permettersi il lusso di chiudere gli occhi, solo per qualche minuto...
Jaime e Loras entrarono discutendo animatamente fra sè, fianco a fianco. Era evidente che stavano litigando.
-... è fuori discussione. Rischia troppo. Deve partire insieme ai suoi figli, subito.-
-Tommen non può permettersi la tua assenza. La sua incolumità è la prima cosa. Il resto viene dopo, soprattutto la mogliettina fedifraga.- tagliò corto Jaime, interrompendolo. Il Cavaliere di Fiori aggrottò il viso ed il rancore lo attraversò come uno spasmo. Trattenersi dal portare la mano alla spada fu più difficile del previsto.
-Cosa succede?- li apostrofò Tommen, impaziente.
Gli occhi azzurri di Loras lampeggiavano d'indignazione.
-Altezza, sono dell'opinione che i vostri figli debbano lasciare immediatamente la capitale, prima che sia troppo tardi... e con loro Margaery. Nonostante i suoi errori,- sbottò, stroncando sul nascere la battuta pugnace che Jaime stava per rivolgergli, -lei è ancora la regina dei Sette Regni e non possiamo permettere che le venga fatto del male. La Fortezza Rossa è l'obiettivo del nemico. Lei e i suoi figli non possono restare nell'occhio del ciclone... Concordate con me, non è vero, Maestà?- concluse ansiosamente, rivolgendogli uno sguardo così disperatamente affranto che per un istante Tommen percepì le proprie difese vacillare. 
-Lo ritengo sconsigliabile.- tossicchiò Jaime, affilando lo sguardo sarcastico. -La tua Fortezza è esattamente la meglio difesa di tutti i regni. Non per niente si trova nella capitale dei Sette Regni. In quale altro posto saranno più protetti, i tuoi figli, se non a portata di sguardo? Farli evadere dal tuo controllo potrebbe rivelarsi un passo falso. Ti ricordo inoltre che la regina Margaery è tutt'ora in arresto. Se la liberassi, potrebbe benissimo scappare e non farsi vedere mai più. Visto ciò che è successo, non mi sembra la persona adeguata in cui riporre fiducia...-
Tommen fece un cenno della testa, svogliato. -Credete che non ci abbia già pensato? Abbiate la cortesia di aspettare un attimo. Come procede l'esercito?-
Il messaggero si fece avanti. -Fra meno di un'ora saranno presso le mura, Maestà. I suoi alfieri chiedono se i piani sono stati cambiati o...-
-I piani non sono affatto cambiati.- Tommen misurò a lunghi passi il pavimento di marmo fulvo, nervoso. -Che gli schieramenti rimangano dentro la città e ne circondino le fortificazioni. La difesa di Approdo del Re è la nostra priorità... se la città cade nelle loro mani, è finita.-
Così lui e Tyrion avevano stabilito. O meglio, lo zio lo aveva stabilito ed il nipote aveva dato l'ordine.
-Quindi i nostri uomini devono provvedere soltanto alla difesa?-
-Ed anche a sterminare l'esercito del Nord, fino a che gli Stark non saranno costretti a ripiegare.- precisò Tommen. Però ci credeva sempre di meno. I suoi avversari avevano un numero sterminato di truppe, sia delle Terre dei Fiumi sia delle regioni settentrionali... per non parlare della flotta dei Greyjoy. Ma come avevano fatto ad impossessarsene?! Ci mancava solo questo.
Solo allora la guardia si fece avanti, timidamente, intuendo il cattivo umore del sovrano.
-Vostra Maestà... la regina vorrebbe parlarvi...-
-Quali sono le sue richieste?- sbuffò Tommen.
Egli esitò per un istante. -Chiede di poter fuggire con i principini ad Alto Giardino. E poi-
Tommen rise. Non gli rimaneva altro da fare. Lo trovava atrocemente spassoso. Fin a che punto avrebbe osato, Margaery? Davvero aveva una così bassa opinione di lui?
-Ad Alto Giardino. Prima progetta di ammazzarmi, di soffiarmi il trono, e poi vuole tornare ad Alto Giardino spensieratamente! Come se nulla fosse! Con i miei figli! Non può davvero sperare che accetterò. Se lo chiede ser Loras, lo capisco. Le vuole bene. E' sua sorella. Non si smette mai di amare le proprie sorelle.- La sua bocca si storse in una smorfia dolorosa. -Ma lei stessa! Implorare salvezza per sè, dopo tutto quello che ha fatto! Che sia la regina, ha ben poca importanza. Lei ha complottato alle mie spalle. Questo è alto tradimento. A quale prigioniero accusato di alto tradimento al mondo viene permesso di tornarsene a casa?! Di' alla regina Margaery che la sua volontà ha smesso d'importarmi. So prendermi cura dei miei bambini, e lo farò da solo. Quando tutto questo sarà finito, allora, e solo allora, glie li farò rivedere. Forse. Sono stato chiaro?!-
La guardia balbettò ch'era chiarissimo e schizzò via dalla sala in tutta fretta. Tommen, estenuato dalle troppe emozioni, fu costretto a sedersi di nuovo su quello stupido trono di spade. Proprio come Jaime aveva predetto, stava cominciando ad odiarlo. Congedò tutti, fuorchè i suoi zii e ser Loras.
Quando la porta sbattè alle spalle dell'ultimo uomo, Tommen si rivolse a Tyrion.
-Cosa possiamo fare per contrastare la flotta?- domandò, poggiando il peso della testa su una mano.
Tyrion scrollò le spalle. -Far sgozzare capretti dai septon, immagino. La nostra flotta è già schierata, ma non è abbastanza numerosa nè fornita di uomini o armi. Imbastita troppo alla svelta. Non perdere la speranza, Tommen... Approdo del Re ha resistito a molti assedi. Lo farà di nuovo.- cercò vagamente di confortarlo, a disagio. Il problema era che anche la sua fiducia nel futuro esitava. Bran Stark sarebbe presto morto: quell'unica certezza gli permetteva di intravedere la fine di quella guerra.
Loras fece un passo avanti. -Vostra Maestà, non vorrei sembrare insolente, ma vi prego di prendere una decisione circa mia sorella e i gemelli. Io sono disposto ad accompagnarli al sicuro, ovunque voi riteniate giusto. Vi supplico...-
Tommen arrestò il flusso delle sue preghiere con un gesto di salda fermezza. -Ho ascoltato la sua proposta, ser, e ho preso una decisione. La regina mia moglie resterà qui, nelle segrete del castello, come si confà ad una traditrice; ed allo stesso tempo, farò in modo che abbia a disposizione un passaggio segreto tramite il quale fuggire, in situazione d'emergenza. I miei figli invece non rimarranno qua. Devo soltanto decidere a chi affidarli. No, ser Loras, è fuori discussione. Ho bisogno delle mie guardie più fidate e valenti in questa guerra.- aggiunse precipitosamente.
Loras sospirò; evidentemente non era ciò che sperava di ottenere, non era soddisfatto del responso, ma tacque. Jaime sorrise.
-Mi proporrei io, ma ho un conto in sospeso con Rickon Stark che ci tengo a saldare.-
-No, anche tu mi servirai.- decretò il giovane re. -Ci penserò su...-
Tyrion alzò la mano. Sul viso attraversato dalla cicatrice, aveva uno dei suoi tipici ghigni furbeschi.
-Lascia che me ne occupi io. Ho già in mente tutto il piano bell'e predisposto.-
-Zio Tyrion? Credi davvero che riusciresti a portarli via, sani e salvi?-
Tommen non era molto convinto, ma suo zio dissentì con il capo. Sapeva benissimo che un nano come lui non sarebbe mai stato all'altezza del compito. Primo, era assai ben riconoscibile; secondo, non avrebbe potuto difenderli con la spada, in caso di necessità.
-Non io, nipote. Sarà Podrick Payne a farlo.-
Tommen inarcò le sopracciglia stupito. -Payne?-
La partenza fu stabilita per quello stesso pomeriggio. Era uggioso, umido, irritante a fior di pelle; con gli occhi invasi dalle lacrime, per colpa della luce d'un biancore pungente, Podrick Payne faticava a sostenere lo sguardo di Tyrion Lannister. Il Folletto lo attendeva nelle scuderie della Fortezza Rossa, sotto una tettoia, con uno sguardo imperscrutabile e, come sempre, assorto in qualche cupo e grave pensiero. Al suo fianco, due figure -una più alta, una simile a Tyrion- si stagliavano silenziose al suo fianco, il viso celato da un mantello.
Podrick esaminò i due sconosciuti, incuriosito. -Mio signore, posso chiederti che cosa...?-
-Ti voglio incaricare d'un compito della massima importanza.- annunciò il Folletto, senza distogliersi dalla sua strana apatia. Dopo tanti anni passati insieme, al suo servizio, Podrick aveva imparato che quando egli diceva così c'era da preoccuparsi.
-E... cioè?-
Sotto il suo sguardo trepidante, le due figure si scrollarono i cappucci dal volto. Quella più alta era una donna, di bellezza esotica, con allungati occhi umidi e scuri, i capelli neri acconciati frettolosamente in una treccia scompigliata; quella minuta era una bambina, dalla chioma chiara come il sole ed il sorriso furbo, acceso d'intelligenza, vestita di una tunica sbrindellata.
Podrick rimase senza parole. -Cosa...-
-Ti presento la mia donna e mia figlia.- esordì Tyrion, saltando i preamboli. -Belle, vero?-
Il ragazzo lanciò un'occhiata incredula alla piccola: si accorse con sconcerto che effettivamente l'espressione astuta era quella del Folletto, tale e quale.
-Ciao! Io mi chiamo Cailee. Tu come ti chiami?- chiese con una voce cristallina e melodiosa. Prima che potesse rispondere,
-E questi due giovanotti li conosci già.- aggiunse Tyrion, facendo un cenno verso la donna, che stringeva fra le braccia due fagotti: l'uno avvolgeva Nathaniel Lannister, l'altro il suo gemello Lionel, saporitamente ed appassionatamente addormentati. Podrick avvertì un brivido impalarlo dalla testa ai piedi. Merce pericolosa, quella.
Cercò vanamente una via di fuga. -Mio signore, io cosa mai potrei...-
Tyrion gli rubò la parola, indifferente. -Ti affido i due lattanti più importanti di Westeros e le due donne più importanti della mia vita. E lo faccio esattamente perchè sei l'unica persona di cui io mi fidi al mondo. Vedi? Sei l'unico ad avere un primato assoluto...-
-Io non penso di esserne in grado, signore. Dove le dovrei portare? Cosa accadrà se ci tendono un'imboscata strada facendo? Ci sono tanti altri cavalieri migliori di me che-
-Non voglio nessun fottuto cavaliere, Pod. Ti sbagli: tu sei proprio l'unico ad esserne in grado. In che posto le potresti mai portare, se non a Castel Granito? Una capatina a casa, in parole povere. Starete lì per tutta la durata della guerra, e... se la situazione non si evolverà come spero... ti contatterò e darò indicazioni in seguito. Per non correre il rischio di imbattersi in qualche carovana che vi fermi, vi ho portato mantelli con i colori degli Stark. Se fosse gente dei nostri a beccarvi, non dovete far altro che farvi riconoscere grazie a questo foglio, che ho siglato per te. Nel caso in cui qualcuno ti chieda qualcosa sui bambini, sono i figli tuoi e della tua, ehm, concubina, cioè Shae. Invece farete passare Cailee per una cugina nata nei bassifondi. E' tutto chiaro?-
Podrick capì che quella non era una semplice richiesta, bensì un ordine. Chinò il capo ed annuì solennemente.
-Come desideri, mio signore.-
Il tono di Tyrion si fece più allegro. -Non preoccuparti, Pod, Shae non è una sprovveduta. Usa la daga niente male.-
-Meglio di voi di sicuro.- ghignò lei.
Tyrion le dedicò una lunga occhiata di rimpianto. In effetti, quando lei si era presentata alla Fortezza Rossa chiedendo di lui, tutta scompigliata ed atterrita, con Cailee per mano, aveva provato davvero il sapore del panico in bocca. Shae era preoccupata per l'incolumità della loro figlioletta: se gli uomini del Nord fossero penetrati in città, cosa che non era purtroppo da escludere, magari avrebbero saccheggiato le case e fatto del male agli indifesi, come accadeva sempre durante gli assedi. Tyrion sapeva infatti che Bran e Rickon sarebbero morti, ma non sapeva quando, se prima o dopo aver procurato tutti quei guai. Non poteva permettere alla piccola di correre quel pericolo.
Come mantenere l'anonimato di loro due e metterle in salvo contemporaneamente? E così gli era venuta in mente l'idea di prendere due piccioni con una fava, e salvare sia i gemelli che Cailee.
Odiava l'idea di doversi staccare da Shae per molto tempo, però perlomeno sarebbe stata al sicuro. Una sola costante in quell'oceano di dubbi e forse. Sì, era necessario: a costo di rinnegare il primo dei desideri che aveva espresso riguardo la sua morte, ovvero, più precisamente, il modo in cui avrebbe voluto morire.
-Su, presto, andate. Fra poco sarà impossibile allontanarsi da qui.- Tyrion cercò di non drammatizzare; il sarcasmo era sempre stato il rimedio migliore a qualsiasi ferita il destino gli avesse mai imposto, e non l'avrebbe ripudiata nemmeno adesso.
Si voltò verso la figlia e la osservò con affetto. Sì, in effetti gli somigliava, per il brillio nei loro occhi e qualcosa d'indefinibile nel viso; per il resto, aveva preso ciò che c'era di meglio da sua madre. Era una bambina molto sveglia, e avrebbe imparato tutto quel ch'era di dovere per sopravvivere a questo mondo. Ce l'avrebbe fatta anche senza di lui, nel caso in cui... no, non voleva pensarci.
-Devi fare la brava, capito? Obbedisci alla mamma, e tutte quelle cose che si dicono di solito.- ordinò, passando una mano fra i suoi fini capelli biondi.
Cailee tirò su col naso. -Anche mangiare i broccoli?-
Tyrion la rassicurò. -No, i broccoli puoi anche lasciarli stare.-
La bimba si guardò i piedi, le sopracciglia aggrottate in un'espressione contrita. Al Folletto si spezzava il cuore, a vederla così.
-Perchè dobbiamo andare via, papà? E dove andiamo?- 
-Vai con questo signore, lo vedi?- Tyrion indicò Podrick, che sorrise ed accennò un saluto poco convinto con la mano. La bambina lo esaminò, riluttante ed ancora un po' angosciata. -Ha una faccia simpatica, vero? Ecco, lui è un mio amico, e ti porta in vacanza.- Il padre prese quelle piccole mani fra le sue e le strinse forte, guardandola negli occhi. -Tu scrivimi tante lettere, visto che hai imparato, e raccontami tutto quello che fai. Ne voglio due al giorno, capito?-
Cailee sorrise dietro un lieve velo di lacrime che le inumidiva gli occhi. -E io te ne scrivo tre.-
-Tre, bene.- Tyrion fece di tutto e di più per non cedere anch'egli all'emozione e si limitò a trarla a sè, percependo quanto mai prima il significato della propria impotenza. Ricordò quando Cersei, un tempo, gli diceva che non esisteva amore paragonabile a quello di un genitore per un figlio... ebbene, su questo doveva darle pienamente ragione. Schioccò un ultimo bacio sulla fronte della figlia, prima di rivolgersi a Shae.
Era giunto il momento di salutare anche lei. Non potè fare a meno di pensare a Joanna, a Tysha, a Sansa, a tutte le donne che in qualche modo avevano preso parte alla grottesca messa in scena ch'era la sua vita e che, in qualche altro modo, il destino aveva revocato con il suo potere insindacabile. Non potè fare a meno di pensare che quello, se tutto fosse andato storto, sarebbe stato l'ennesimo addio.
-Stai attenta a non innamorarti di Pod. Lui è mio, chiaro?-
-Farò quel che posso.- rispose Shae, con un sorriso.
-Finalmente ti sei liberata di me.- aggiunse Tyrion, mentre la madre caricava la figlia sul suo cavallo e Podrick assicurava la propria sella.
Shae salì in groppa a propria volta e raccomandò la figlia di starle aggrappata; poi, dall'alto, lanciò un'ultima occhiata staffilante all'uomo che amava. Ancora molte parole rimanevano fra di loro: stai attento, stai attenta, fa' che nostra figlia si ricordi di me, tornaci a prendere, mi dispiace. Rimasero lì, a mezz'aria, come spettri sgraditi.
-Non mi libererò mai di te, Folletto.- dichiarò Shae. Un alito di vento infido la ghermì la lunga treccia inframmezzata da un nastro, ed il velo prezioso del suo mantello blu s'inarcò voluttuoso nell'aria limpida di freddo.
Tyrion, scambiandosi uno sguardo penoso e preoccupato con Podrick, osservando scomparire progressivamente le sue donne dal proprio orizzonte, credeva di avere raggiunto il vertice dello sconforto. L'unica cosa che poteva sperare era l'arrivo d'un notizia, cioè che Rickon Stark era stato pugnalato nel suo letto da Myrcella, cioè il segnale che le profezie del veggente avevano cominciato a realizzarsi.
E infatti una notizia giunse, il giorno seguente, ma ben differente da quella che aspettava.
***
-È un cervo, quello?-
-Ci sono solo lupi e trote, Maestà. Quella che vedete dev'essere l'insegna di Stannis Baratheon... patetico.- commentò Jaime.
Tommen strizzò gli occhi, cercando di focalizzare lo sguardo sull'immensa massa di corpi umani che avanzavano là in basso. In realtà, non sembravano nemmeno persone. Le loro armature rispondevano ai raggi del sole con ammiccamenti abbacinanti, come se si trattasse d'un nugolo di grossi scarabei grigiastri, che camminavano con un ritmo imperterrito e sempre uguale a se stesso. Ta-ta-tam, ta-ta-tam, ta-ta-tam. Tommen si ritrovò quasi a fischiettarlo fra sè; poi, nel timore che qualcuno potesse sentirlo, tacque. Le dita fradice del vento correvano a carezzare la porzione di pelle scoperta, fra l'elmo e la cotta di maglia: un brivido raggiunse la fibra stessa dei suoi muscoli, ma lui non ci fece troppo caso. Era impegnato a prendere coscienza di tutto ciò che lo circondava.
Era tutto nuovo, per lui: i trombettieri di guerra, le schiere massicce e compatte, le urla che si levavano selvagge ad infrangere la tensione di cui l'aria era permeata. Il cielo, gravido di pioggia, palpitava un colore ibrido fra quello della rena e della noia. La natura stessa pareva in sospeso, lungimirante, in attesa del putiferio che di lì a poco si sarebbe scatenato, violando l'asettica atmosfera di schizzi rossi. Da lassù, fra i merli delle alte mura di Approdo del Re, spazzare via tutti quegli omuncoli pareva terribilmente facile.
Il respiro degli uomini che gli stavano al fianco vibrava impaziente. Suo zio Jaime aveva un'espressione torva, quasi che si immaginasse di veder spuntare Rickon Stark dalle prime file, con un sorriso malvagio; con indosso la fiammante corazza dei Lannister, adornata di leoni rampanti, sembrava personificare qualche demone della mitologia antica. La sua inquietudine per un attimo adombrò la fremente eccitazione di Tommen. Loras Tyrell era più tranquillo; sedeva comodamente sulla sella intarsiata d'uno stallone bianco ed aveva attorcigliato alle dita le redini di cuoio morbido, lo sguardo perso da qualche parte fra i suoi pensieri, a scivolare con serena competenza da una parte all'altra dell'esercito all'orizzonte. Le labbra erano schiuse in un'espressione assorta e un piede, calzato nello stivale, ondeggiava pigro fuori dalla staffa. Egli portava un'armatura d'argento, con scolpito lo stemma della rosa in lamine d'oro sul pettorale e un elmo riccamente decorato, non ancora calato sul volto. Altri valenti cavalieri della Guardia Reale, fra cui un Hightower ed un parente Lannister, rimanevano algidi e statuari nel loro silenzio ed immobilità.
Proprio perchè tutti loro non protestavano, Tommen non osò lamentarsi per il terribile carico che l'armatura gli gravava addosso. Faceva persino un po' fatica a muoversi, ed era contento che ci fosse il cavallo a correre per lui. Altrimenti mi ammazzerebbero in un istante, pensò. Adesso non aveva intenzione di fare i capricci e lamentarsi, non era il momento giusto, però per il giorno successivo promise che se ne sarebbe fatta forgiare una più adatta.
Lo stemma del matalupo avanzava in testa. Anche se ancora non riusciva a distinguere nemmeno un viso, Tommen sapeva già che il Re Metamorfo non c'era: la guerra non è di competenza degli storpi, dopotutto. In un certo senso, l'idea lo tranquillizzava; tante volte aveva cercato di visualizzare quegli occhi assassini, capaci di dare la morte con il solo sguardo, ed aveva sempre sperato di non poter constatare quanto la sua fantasia s'avvicinasse al vero. Per quanto riguarda Rickon, ancora gli bruciava l'infamia d'averlo avuto di fronte e di non essersi battuto con lui. In questo modo aveva dato corda a quelle dicerie che lo volevano inetto, codardo e spaventato, poco più che un bambinetto: ma lui era cresciuto, e i Sette Regni se ne sarebbero presto resi conto.
-Ecco Stannis. Lo vedo.- annunciò Loras, con voce funerea, digrignando i denti.
-Bello come sempre.- concordò Jaime, asciutto. Tommen rivolse un'occhiata circospetta alla figura ancora alta ed imponente di suo zio. Rammentava quando, ancora piccolo, aveva fin da subito notato la differenza fra quell'uomo austero e rispettabile e suo padre, che non avrebbe intimorito neanche un furetto; a quell'epoca, quando gli veniva chiesto di salutare Stannis, s'inciampava sempre nelle parole per l'emozione. Ma adesso era un uomo, maledizione, e aveva il diritto di guardare in faccia chi voleva.
-Chi c'è al suo fianco?- domandò Hightower. Jaime aguzzò lo sguardo.
-Non ne ho idea. Chiunque sia, ha una bella stazza. Magari una guardia personale?-
-Nessuna guardia indossa armature simili.- rimbeccò Loras, che aveva accostato una mano al viso per scorgere meglio i diretti interessati.
Tommen seguì il suo sguardo. Accanto al cavallo baio di Stannis, un giovane cavalcava uno stallone non meno maestoso; e il re capì l'insinuazione di Loras riguardo l'armatura, perchè in effetti il ragazzo indossava un elmo sontuoso, con scolpito lateralmente il muso del cervo dei Baratheon.
-Un parente Baratheon? Possibile?- si stupì a sua volta.
-No.- tagliò corto Jaime. -Mi sembra poco probabile. Se Stannis avesse avuto un figlio maschio, oltre che quella sventurata ragazzetta, lo avrebbe sfruttato a iosa per la sua rivendicazione al trono.-
-È pericoloso stare qui, Maestà.- lo interruppe Loras, lanciando un'occhiata truce agli arcieri che si avvicinavano. -Meglio ritirarsi al riparo.-
Tommen annuì svogliato e lo seguì, tornando così nell'accogliente ventre della città dov'era nato. Gli era sembrato di affacciarsi su un mondo completamente diverso, distante dal suo come quello terrestre lo è da quello marino. Il fragore delle armi, gli strepiti dei soldati, gli stendardi che tagliano l'aria, schiaffeggiati con veemenza dal vento... Tutto ciò risultava nuovo, ma non per questo inconciliabile. Questo avrebbe potuto essere anche il suo, di mondo -avrebbe dovuto esserlo, s'era ancora intenzionato a diventare re.
E poi, un silenzio quasi tragico calò con la rapida fretta d'un lampo fuori posto. Fu come istintivamente Tommen percepì a fior di pelle: cadde il tuono.
-Piegatevi a Gendry Baratheon, primo del suo nome, re degli Andali e dei Primi Uomini!-
Tommen irrigidì le spalle, come se la brezza di quella giornata fosse finalmente riuscito a penetrargli nella carne ed immobilizzarlo. Jaime Lannister tornò sui suoi passi, salendo rapido le scale della fortificazione, con il cuore in gola. Quel che vide, quando si affacciò nuovamente ai merli, lo atterrì.
Una donna si era fatta avanti, insieme al ragazzo dalle spalle larghe e i capelli neri; tutto l'esercito li circondava a diversi metri, quasi nell'intento di non sottrarre ai protagonisti l'attenzione che meritavano. Al fianco del cavallo su cui sedeva il giovane, lei s'ergeva con le tracce d'una febbrile esaltazione sul viso. Una massa di capelli scuri come l'ebano ricadeva riccia e gonfia sulle sue spalle esili, le guance leggermente erano un po' incavate ed il volto allungato; gli occhi, grigi ed affilati, erano affogati in peste ombre buie. Non indossava nemmeno un'armatura, ma solo una casacca di pelle e una grossa pelliccia d'animale drappeggiata sulle spalle come un trofeo.
-No.- biascicò Jaime. -Non può essere.-
Invece era proprio la piccola degli Stark; o meglio, quel che ne restava. Ma perchè accidenti questi Stark avevano l'abitudine di resuscitare dal mondo dei morti?! Era quasi un paradosso: Cersei un tempo l'aveva fatta cercare per mari e monti, nella convinzione che la bambina fosse miracolosamente sopravvissuta, senza successo; ed ora rieccola lì, con qualche anno in più e una spada alla cintura. 
Arya afferrò la mano del ragazzo che vestiva i colori dei Baratheon, molto più grande della sua, e la sollevò in alto. Scandì le parole con lapidaria chiarezza, rivolgendo un'occhiata quasi severa alla fortificazione della città.
-Arrendetevi all'erede al trono, oppure subite l'assedio e morite. Questo è il vostro legittimo sovrano. Spodestate il vostro ragazzino e deponete le armi. È la vostra ultima possibilità.-
La sua voce risuonò al di sopra delle teste, delle nuvole. Parve un grido di guerra. Il sorriso placido di quella ragazza dimostrava ch'ella sperava vivamente che non l'avrebbero fatto.
Il presunto principe le rivolse un'occhiata così dannatamente reverente che Jaime intuì all'istante. Ecco come se li trovano, gli alleati, gli Stark... Quando il ragazzo prese la parola, persino il vento parve trincerarsi in un silenzio rispettoso.
-Popolo di Approdo del re, il mio nome non è Baratheon: è Waters. Tristemente conosciuto, da queste parti. Ebbene, io non sono un principe. Non sono cresciuto in quella fortezza- allungò una mano ad indicare la Fortezza Rossa, le cui torri affilate si stagliavano contro il cielo, -e mio padre non mi ha mai chiamato figlio. Nonostante ciò, la mia pretesa al trono è attualmente la più valida. Tommen Lannister, dinnanzi al quale vi inchinate, è frutto dell'incesto fra Cersei Lannister e suo fratello. I complotti per portarlo dov'è ora hanno mietuto molte vittime, ma sto per mettere fine a tutto ciò.- Prese un respiro profondo. Era evidentemente allarmato, ma in lui non c'era agitazione o incertezza: era solamente posseduto da un furore acquiescente, dominato con destrezza. -Non voglio uccidere gli innocenti, nè distruggere la città, nè serbare rancore. Non sono venuto a portarvi la guerra, ma la pace, e non posso che augurare la prosperità del nostro regno. In nome del mio sangue, il sangue del vostro amato sovrano, sono venuto a reclamare ciò che è mio e che mi spetta, e che al momento è caduto in mani empie ed immeritevoli. Non chiedo vendetta: riconoscete i miei diritti e non verrà versata nemmeno una goccia di sangue. Il regno dei leoni è durato fin troppo a lungo!-
Quelle parole furono seguite da un boato di approvazione da parte dell'esercito del Nord. L'insegna del cervo, contrapposta a quella del cervo e del leone di Tommen, sventolò sollevata in alto. Viva re Gendry, lunga vita a re Gendry Baratheon.
Jaime avrebbe pure riso, se la situazione non si fosse fatta così drammatica. Un bastardo di Robert? Come aveva fatto a sopravvivere? Joffrey aveva ordinato di ucciderli tutti... possibile che quello fosse sfuggito al proprio destino? Eppure non c'erano dubbi: bastava guardarlo per capire quale fosse la sua origine. Era tutto un complotto degli Stark, appariva piuttosto evidente: per essere un bastardo cresciuto ad Approdo del Re, parlava come un lord. Lo aveva addestrato per benino. Quell'armatura, quel discorso... tutto molto toccante e commovente. Giusto per smuovere i cuori dei cittadini.
Cosa avrebbe potuto fare, a quel punto, il piccolo Tommen? In verità, Jaime cominciava a pensare che la fuga fosse la loro ultima soluzione.
Fu allora che una freccia corse a squarciare la gola di Arya Stark. Lei la strinse fra le dita, afferrandola a mezz'aria, e la spezzò con un movimento fluido ed un suono secco. Gendry contrasse la mascella ed aggrottò la fronte.
Fu l'inferno. L'esercito si scagliò contro le mura, come un predatore che fiuti il sangue; la pece bollente cominciò a colare rapida come inchiostro sulle mura, una pioggia di dardi e frecce precipitò fitta e le spade si scontrarono in uno stridio assordante. I cittadini, rintanati all'interno della fortificazione, assistevano sconvolti e sgomenti. Alcuni avevano abbandonato la città da diversi giorni, ma era difficile sia trovare una nuova sistemazione sia scappare con tutta la famiglia.
Jaime si affrettò a raggiungere Tommen. Suo figlio aveva lo sguardo fisso davanti a sè, con il braccio cercava qualcosa a cui appoggiarsi. Loras lo sorreggeva: negli occhi del Cavaliere di Fiori c'era solo il nero presentimento d'una fine funesta.
-Dobbiamo portarlo via.- tagliò corto Jaime, mentre un panico incalzante gli pungolava le ginocchia, gridandogli di correre e correre e correre.
Tommen d'un tratto contrasse le palpebre, smarrito, quasi che si destasse da una strana allucinazione. -Ma io devo combattere, devo dare l'esempio ai soldati...-
-I soldati si daranno l'esempio da soli.- bofonchiò lui. Il giovane re non ribattè; balzò sul suo destriero e schioccò le redini, seguendo ser Loras, che lo stava conducendo in salvo -non verso la battaglia, dove c'era bisogno di loro, ma dalla parte opposta. Tommen aveva voglia di urlare. Un pianto amaro, che nulla aveva a che fare con la paura dei vili o con la stizza dei bambini, minacciò le sue iridi smeraldine; dovette tormentare il labbro inferiore con i denti per trattenerlo.
Quello era il suo popolo, e Tommen in quel momento avrebbe dovuto essere là, a difendere la città, e pronunciare un discorso per stornare quelle calunnie... sempre le solite calunnie. Perchè quella gente non si stancava, una volta per tutte, di ingiuriare il ricordo della sua povera madre? Perchè tutti avevano compassione del povero Rickon Stark, quando Cersei Lannister era stata sgozzata come una cagna solo diversi mesi prima?! Tutto tramontava, lento ed inesorabile. Prima lo sterminio a Runestone, i funerali, l'espressione severa di Tywin Lannister, coricato nel feretro imbottito di velluto cremisi, i boccoli di Cersei baciati dal sole per l'ultima volta; l'assenza abissale di Myrcella, il suo tradimento, che era stata una fonte di dolore ancora peggiore; la scoperta del complotto di Margaery, delle sue bugie. Ormai la vita di Tommen era diventata un castello di carte, di cui il destino stava perfidamente sezionando i tasselli, per svelarne l'intima precarietà. Lo vedi, ragazzo? Nessuno ti ama e tu non sei felice, sei solo. Non te n'eri accorto, vero? E questo a partire dalla morte di Joffrey.
-Che se lo tenga, quel Gendry, il Trono di Spade. Io non lo voglio.-
Non si trattava del piagnisteo di un bambino. Tommen aveva sedici anni. I suoi occhi erano ormai freddi come quelli di sua madre, ed allo stesso tempo saggi come quelli di suo padre. Sulle sue labbra giaceva la disillusione. La corona sul suo capo non riluceva più. Che se lo tenga, quel Gendry, il Trono di Spade.
No, quella che aveva appena espresso era una rivelazione, dedusse Jaime. Era un peccato. Avrebbe preferito che la vita concedesse a suo figlio di scoprire la verità più avanti. Io non lo voglio.
-Temo che sia troppo tardi.- dichiarò con un sospiro.
-Troppo tardi per cosa?-
-Troppo tardi per qualsiasi cosa.-
La battaglia imperversò fino a che non sopravvenne il buio, quando le trombe annunciarono la ritirata dell'esercito del Nord ai propri accampamenti. Quello fu il primo giorno. Ce ne sarebbe stato un altro, e un altro; quello successivo, tutto sarebbe ricominciato da capo. Approdo del Re tratteneva il respiro, lorda di sangue, in attesa che il verdetto venisse proclamato ed il vincitore aggiungesse una spada alla collezione del Trono.
***
Quella sera, Tyrion aveva trovato Tommen nella sua stanza che, aiutato da un servo, stava levandosi di dosso un'armatura decisamente troppo pesante per il suo corpo. Eppure non aveva protestato per tutto il tempo, il giovane re, stando a quanto si raccontava: si era limitato a stringere i denti e sostenere le mole delle grosse piastre di ferro sulle spalle. Non aveva combattuto al pari degli altri guerrieri, era rimasto in disparte circondato dai suoi cavalieri, però s'era presentato sul campo di battaglia -ch'era più di quanto avesse fatto Brandon lo Storpio.
Ebbene sì, anche lui sta cambiando,
questo fu il pensiero che attraversò la mente di Tyrion. Cersei sarebbe forse stata orgogliosa di lui?
-Spiegatemi esattamente cos'è successo.- ordinò, ricordando di aver già vissuto un momento simile, quando il giovane re era tornato reduce dalla disfatta di Runestone.
Lo sguardo di Tommen aveva un'espressione vagamente vacua. Bucava il pavimento con una fissità un po' inquietante. -Significa che non hai saputo?-
-Non nei dettagli. Ho sentito parlare di un tale Gendry, ma non capisco cosa-
-Il veggente non parlava di bastardi reali in giro per Westeros, giusto?- domandò il ragazzo, senza rabbia nè livore. I suoi occhi erano lividi d'insonnia, le palpebre tremavano leggermente. Il Folletto era completamente disorientato.
-Parla chiaro.-
-Gli Stark si sono procurati un tale Gendry Waters chissà dove. Un figlio illegittimo di mio padre, che crede di avere più diritto al trono di me. Che vuole il trono.- Tommen allargò le braccia e le lasciò ricadere contro i fianchi. -Quando dovrebbe arrivare questa famosa disfatta degli Stark? Ogni ora che passa, trovano un nuovo alleato, a quanto sembra.-
Tyrion avvertì il cuore pulsargli fra le tempie.
-Un figlio bastardo di Robert Baratheon... E perchè mai qualcuno dovrebbe prestar fede a queste dicerie? Se fosse così facile reclamare diritti al trono...-
-A quanto pare, è identico a lui da giovane. In pratica, sto per essere ripudiato per una questione genetica: lui ha i capelli neri ed io no.- osservò lui. -L'unica cosa che mi rasserena, è che... i gemelli sono al sicuro. Che non capiterà nulla, almeno a loro.-
Fu a quel punto che Tyrion capì che, da quella guerra, nessuno ne sarebbe uscito vivo. La realtà si smascherò sotto i suoi occhi con un'evidenza strabiliante e spaventosa allo stesso tempo.
Come può un veggente arrivare in ritardo? Come può arrivare in ritardo per inviare una lettera? Come può scrivere che Tommen Lannister avrà un figlio quando era ormai evidente che ne aveva due?
Jojen Reed l'aveva mosso come una pedina. L'aveva condotto dove voleva condurlo, aveva manipolato i suoi pensieri e le sue strategie. L'aveva mandato dritto dritto nelle fauci dei lupi. Proprio lì dov'era per gli Stark più conveniente che finisse. Era proprio vero, che le guerre le vincono quelli che non impugnano le armi.
Il terreno gli mancò sotto i piedi. Per un attimo, fu la fine.
Quello successivo, il suo cuore scandì un battito. No, assolutamente no. Questo voleva il nemico, fargli perdere l'orientamento, farlo impazzire. Bisognava mantenere i nervi saldi... C'era ancora qualche speranza, in fondo. Fintanto che Tommen sarebbe sopravvissuto, nulla era perduto.
La mente di Tyrion, come faceva sempre nei casi più disperati, cominciò a lavorare, a comporre, a macchinare. Un piano prese forma, con l'inclemenza dei calcoli che devono salvare la vita. L'unica speranza del regno dei Lannister. L'unica speranza dell'intera famiglia...
-Rickon Stark ci truciderà come ha fatto con mia madre e mio nonno, vero?- La voce di Tommen era piatta, tagliente.
-Lo sai perchè Rickon Stark non sopravvivrà a questa guerra?- ribattè Tyrion, lentamente. -Perchè non ha paura di niente.-
-E quindi?-
Tyrion alzò gli occhi, fino ad incrociare gli occhi del nipote. -E quindi sta' a sentire. Forse possiamo rimediare a tutto questo scempio e a tutti i danni che il maledetto Baratheon è venuto ad arrecarci.-
Il tempo stringeva: il Folletto cominciò ad esporre, svelto ed affrettato, mentre la guerra taceva, in attesa di scatenarsi alle prime ore dell'alba.
***
-Ed ecco che è giunta al termine un'altra giornata da sballo, in questo posto da sballo.-
Lingue affilate di luce sfrigolavano sulle pareti buie di pietra consunta, asciugandone l'umidità; il sepolcrale silenzio che vigeva era disturbato soltanto dal mite borbottio delle posate e dal sospiro del vino che scorreva lungo il collo della brocca fino alla coppa.
Yara Greyjoy vuotò l'ennesimo boccale e poi continuò a giocherellarlo fra le dita, con le sopracciglia irosamente ravvicinate e lo sguardo d'ossidiana fisso da qualche parte fra le candele di un lampadario. Ella teneva la sedia molto discosta dal tavolo e le gambe distese accavallate con indolenza sulla superficie di legno grezzo. Nessuno aveva avuto voglia di rimproverarle quelle maniere, di prestare attenzione a cose simili. Tutte sembravano troppo intente a questioni più grandiose ed importanti.
Shireen, dopo una breve occhiata circospetta, s'era accorta d'essere l'unica a portare la gonna. Yara non sembrava conoscere il significato di quella parola, Osha aveva ripiegato su uno dei suoi vecchi abiti, "perchè erano più comodi", e persino Meera aveva preferito vestirsi in maniera da non essere impedita, casomai avesse dovuto combattere. La principessa dei Sette Regni non si sentiva intimorita o a disagio: tutt'altro, le sembrava d'avere il privilegio d'essere protetta costantemente dal più efficiente corpo di guardia del creato. Sorrideva a tutte e chiacchierava con una certa vivacità. L'unico dettaglio a rovinare l'atmosfera, ad inquietare le commensali, era il pensiero quasi imminente dell'arrivo di Ramsay Bolton.
-Quando arriverà, saremo pronti a riceverlo.- O almeno questo ripeteva Meera, ostentando una sicurezza che non provava. Onestamente, Shireen non si curava affatto di tutte quelle storie. Si fidava ciecamente delle sue coinquiline e sapeva che, qualunque nemico si fosse abbattuto su di loro, quelle donne impavide avrebbero saputo come respingerlo. Provava un grande rispetto nei loro confronti, però non era invidiosa della loro abilità con le armi: le era bastato un giorno soppesare una spada, per decidere che era un po' troppo faticoso per lei.
-Se l'alloggio non ti aggrada, puoi sempre tornare nel tuo idilliaco pezzo di paradiso.- ironizzò Meera, rimescolando la minestra senza appetito. Durante quelle due settimane, il ricordo di suo fratello aveva assunto un'esigenza pressante, insaziabile e faticosissima: la indignava l'idea che non avrebbe potuto rivederlo mai più. Provava una rabbia in corpo che non lasciava spazio alla paura; anzi, non vedeva l'ora che quel Bolton si facesse sotto e le permettesse di infilzargli la spada nelle budella, perchè una curiosa brama omicida s'era svelata al suo cuore e presentata in maniera chiara e comprensibile, senza inganni, tanto che Meera non riusciva a trovarlo strano. Era la prima volta che le accadeva, ed allo stesso tempo quell'emozione non aveva nulla di sconosciuto.
-Non ti scaldare, Reed, stavo solo scherzando. In compenso, il cibo è fantastico.- aggiunse Yara, agitando pigramente la punta di uno stivale.
-Vorrai dire che il vino è fantastico,- la corresse Osha, mugugnando, -visto che hai finito la riserva per i prossimi sei mesi.-
-Sono l'ospite, giusto?- E, per rimarcare il fatto che lei era l'ospite, la ragazza si versò un'altra abbondante coppa di vino.
-E sentiamo, cosa ti manca della tua isola, figlia del kraken?- la punzecchiò Meera. Lei prese tempo, strofinandosi le labbra con un tovagliolo.
-Il mare.- concluse. -A casa lo sentivo sempre. Ci nuotavo, anche. Mi ci immergevo spesso, persino d'inverno. L'acqua è sempre fredda uguale.-
Aveva il bacio imperituro del sale ancora impresso sulle labbra. Il suo sapore le avvinceva aspro e sublime la gola, annodandole la lingua, divorandole il cuore. E il silenzio, il silenzio che vigeva sotto quella superficie levigata ed arruffata al tempo stesso, il silenzio sospeso e beato degli abitanti del mare, in contrasto con le strida dei gabbiani e il tumulto dei cavalloni e i tuoni del vento...
Infine Yara puntò i grandi occhi scuri su Shireen, come un gatto che contempli un topo per decretare se vale la pena di divorarlo.
-E tu, principessa? Non ci allieti con qualche chiacchiera reale?-
Shireen non colse il suo sarcasmo. -Che significa chiacchiera reale?-
Yara alzò gli occhi al soffitto. -Pettegolezzi. Non è di questo che s'interessano le donne tutto il giorno? Te la faccio io, qualche domanda. Il tuo paparino ti scrive come procede l'assedio?-
Shireen si chiedeva che razza di pettegolezzo fosse, però cercò comunque di rispondere esaurientemente alla domanda.
-Dice che tutto sta andando come previsto. Che l'esercito dei Lannister è decimato, il popolo terrorizzato e gli alleati stremati dal prezzo di questa guerra... Spera di riuscire a conquistare la Fortezza Rossa, e di conseguenza di imprigionare la famiglia Lannister e mettere fine alla guerra.-
-E' una parola!- latrò Yara in una risata beffarda. -I Lannister non staranno là fermi, in cima alle torri, a far svolazzare i loro capelli di platino, in attesa che Rickon Stark venga a trucidarli. Comunque, sognare non costa niente.-
Shireen proseguì. -Sono rimasti molto impressionati dall'arrivo di Gendry. Non si aspettavano che un figlio illegittimo di zio Robert fosse rimasto in vita.-
-Non basta essere figli di Robert Baratheon per avere il diritto di regnare, soprattutto non ora.- s'accigliò Yara.
Meera rimaneva in silenzio. Ad aggiungersi al dolore per la morte di Jojen, v'era anche la preoccupazione per Bran; ormai -forse perchè non ne era in grado, o forse perchè non glie ne importava nulla- non le scriveva nemmeno più. Rickon riferiva che ormai il fratello s'era ridotto a giustiziare meramente i prigionieri, ad uccidere e basta, fino a ridursi allo stremo delle forze, all'annullamento dei pensieri ed alla perdita di coscienza, superando ogni limite. Non aveva suscitato in lui la minima reazione nemmeno l'incontro con le sue sorelle perdute, Arya e Sansa, per le quali tanto s'era disperato. Che Bran stesse impazzendo? Rickon scriveva inoltre di avergli chiesto come si sentisse, e di essersi udito rispondere: Il punto è questo. Io non sento. Non sento nostalgia, non sento il dolore. Non sento niente. Non vedo niente. Brancolo nel buio senza cercare più niente. Non voglio niente, Rickon. Niente. Sono stanco di fare, essere e soprattutto volere. Volere le cose è troppo impegnativo. Toglie tempo, toglie energia, toglie il respiro. Allora Rickon l'aveva esortato a resistere per Jojen, perchè era quello che lui avrebbe voluto. Non sento più nemmeno lui. E' perduto. E' tutto perduto. Non si può tornare indietro, era stata la confusa replica. Meera non sapeva davvero più cosa pensare.
In quel momento, la voce chiara e acuta del piccolo Kenned attirò la loro attenzione. La donna dei bruti mollò l'osso che stava spolpando con i denti e, dopo aver strofinato le mani su un canovaccio, s'affrettò a prenderlo in braccio dalla culla di legno in cui giaceva, in fondo alla sala. Il bambino era sano e forte proprio come il popolo del Nord si auspicava: cresceva sotto l'occhio vigile di chi lo amava e riceveva tutte le cure di cui aveva bisogno -e veniva persino viziato un po'. I suoi riccioli erano quelli della madre, castani, inanellati ed elastici, ma gli occhi, come ripeteva sempre Osha, erano inconfutabilmente di Bran, vellutati e purificati d'ogni tristezza, limpidi come dovevano essere stati quelli del padre ai tempi in cui si arrampicava sulle mura di Grande Inverno. Se il suo animo fosse Reed o Stark, invece, era ancora impossibile dirlo: ci sarebbero voluti degli anni. Quando il piccolo gorgogliò sonoramente ed allungò una manina per strattonarle una ciocca di capelli, Osha non potè trattenersi dal piegare le labbra in un sorriso; poi, con reverenziale cautela, lo lasciò fra le braccia di Meera. La regina del Nord indugiò con le labbra sulla fronte del figlio per diversi istanti, quasi sospendendo tutti i suoi dolori, i suoi dubbi e le sue sofferenze in quel solo gesto; intercettò lo sguardo di Shireen.
-Rubano tutto il tuo tempo e ti fanno diventare terribilmente sentimentale,- confessò sorridendo, -ma sono la cosa migliore che possa capitarti nella vita. Diventano... un punto di riferimento. Così come tu ti prendi cura di loro, loro si prendono cura di te. Ti impediscono di affondare.-
E, giusto per rovinare la commovente grazia di quel momento,
-Il matrimonio è una beffa, Altezza. Non lasciarti abbindolare, sii più furba.- sbuffò Yara, sgocciolando irritata la bottiglia vuota nella propria coppa. Meera le rivolse un'occhiata staffilante.
-Quasi dimenticavo che anche lady Greyjoy è stata una donna sposata. Chissà perchè, ma non riesco ad immaginarti come una brava massaia, circondata dai marmocchi...-
-Niente marmocchi.- La ragazza rabbuiò in volto. Quell'allusione le aveva fatto tornare in mente Tristifer e la sua vita troppo breve, troppo vuota. -Sono stanca, me ne vado a dormire. Passo a fare un saluto a Theon, giusto per controllare che non l'abbiate avvelenato di nascosto. Buonanotte.-
-Buonanotte.- le fece eco Meera, seguendola con gli occhi con un'espressione intensamente inquisitoria. Non appena sparì sulle scale a chiocciola,
-Non raccontiamo balle. Se ne è andata perchè è finito il vino.- brontolò Osha, allungando un piccolo pezzo di mollica di pane a Kenned.
Yara misurava i gradini consumati sotto i suoi stivali, contando quanti ancora la separavano dal fratello. Malgrado le grosse mura di Grande Inverno, malgrado il pugnale appeso alla cintura, continuava a provare l'irrequieta e fastidiosa sensazione d'essere nuda, disarmata ed impotente, una ragazzina inerme che chiunque poteva derubare indisturbato. Theon era diventato il suo bene più prezioso, da quando anche suo padre era morto. Non appena l'aveva conosciuto l'aveva considerato solamente come un presuntuoso buono a nulla, borioso ed incapace, e quasi s'era fatta beffe delle sue disfatte; ma il sangue è sangue, e quando Theon era stato rapito Yara se ne era resa conto fino in fondo. Si trattava di qualcosa di atavico, e molto più grande di lei. Un amore inesorabile, talvolta annientante, che la piegava ad azioni che la sua volontà non avrebbe mai potuto formulare.
Bussò alla porta. -Theon? Posso entrare?-
Non ebbe alcuna risposta. Yara sospirò; suo fratello, oltre che attraversare un periodo difficile, soffriva fra quelle mura che rievocavano tanti dolorosi ricordi. Lì riviveva con il pensiero la sua disfatta, la conquista del castello, il rimorso del tradimento. Quando non teneva gli occhi sbarrati nel buio, cedeva ad un sonno appestato e confusionario in cui annegava miseramente.
Yara spinse la porta ed entrò. Entrò e guardò la stanza.
Entrò e, per qualche secondo, mantenne un contegno rigido, immobile, quasi severo. Al gancio dove, in teoria, avrebbe dovuto essere legato Theon, v'era appeso il guinzaglio di un grosso cane nero dal muso feroce e le gengive scoperte. Yara e il cane si scambiarono un lungo sguardo; poi, sgranati gli occhi iniettati di sangue, l'animale spalancò le fauci e ringhiò.
Un grido ferino squarciò l'anima di Yara Greyjoy.
-Maledetto... maledetto... bastardo!-
Improvvisamente udì dei passi dietro di sè e sguainò il pugnale in fretta: e pur sempre troppo tardi. Tre uomini, con indosso un'armatura che recava lo stemma dei Bolton, l'uomo scuoiato, le puntarono delle lunghe spade alla gola. La ragazza imprecò con tutta la furia che le riuscì. I soldati si scostarono subito, per mettersi sull'attenti di fronte alla figura che stava sopraggiungendo, con la tranquillità d'un frequentatore di giardini.
Ramsay Bolton non sembrava affatto provato dagli avvenimenti; indossava un farsetto riccamente decorato di granati, sorrideva il sorriso pigro di chi si crogiola in una giornata d'ozio e i suoi occhi erano ancora chiarissimi, chiari come ghiaccio trafitto dalla luce.
-Finalmente possiamo conoscerci di persona, lady Yara. Per tutto questo tempo, ho avuto quasi la strana impressione che stessi cercando di evitarmi... ma non capisco il perchè. Ogni sorella di Reek è anche mia sorella.- Il suo tono amenamente beffardo la mandò in bestia. Come accidenti aveva fatto ad entrare?!
-Che tu possa crepare fottendo quella cagna di tua madre e maledicendo quel coglione di tuo padre!- sbraitò, cercando inutilmente di recuperare il proprio pugnale, mentre le spade dei soldati premevano sulla gola fino ad arrossarla.
Ramsay sorrise di nuovo, imperturbabile. -Però la tua sorellina non l'hai ammaestrata tanto bene, Reek. Dice un sacco di parole indegne nella bocca di una lady. Mi sa che le serve un corso accelerato di buone maniere... non lo pensi anche tu?-
Theon stava in piedi al suo fianco, inerte come un fascio di paglia. Teneva la testa bassa e gli occhi non riflettevano nulla. -Sì, mio lord.-
Yara lo fissò con disgusto. La verità si fece strada nella sua mente come una scimitarra fra la vegetazione incolta.
-Tu.- fu quel che riuscì a dire. Dopo tutto quel che aveva fatto per lui, dopo tutto quel che aveva dimenticato per amor suo, dopo tutto, lui...
Ramsay fece un cenno alle guardie. -Di lei mi occuperò più tardi. Incatenatela lì dentro, dov'era Reek... Claire sarà felice di avere un po' compagnia. Dopo ci sarà tutto il tempo per insegnarle le buone maniere.-
I soldati la afferrarono per le braccia e Yara tentò senza successo di slanciarsi contro Ramsay. -Se solo provi a toccarmi con quel cazzo di coltello, sarò l'ultima cosa che farai in tutta la tua miserabile vita!-
Lui la ignorò. -Adesso ho cose più importanti di cui occuparmi, come prendere il castello. Questi re del Nord non imparano mai... tutti abbandonano Grande Inverno alle cure amorevoli della mia famiglia. Andiamo, Reek. C'è ancora qualche signorina da rimettere al suo posto, al piano di sotto.-
Theon lanciò solo un'occhiata fugace alla sorella, prima di distogliere lo sguardo e avviarsi a testa bassa dietro il suo signore.
Nel frattempo, Shireen era scivolata fra le lenzuola per prendere sonno. Come ogni sera, rimuginava sul suo futuro. Le era giunta ormai da due settimane la lettera che annunciava un nuovo fidanzamento, quello fra lei e Gendry Baratheon. La lady sua madre ne era stata molto più felice: non aveva mai tollerato l'idea che Rickon diventasse il suo sposo. Lei invece non sapeva cosa pensare. Che tipo poteva essere, questo Gendry? Un ragazzo gentile, premuroso? Oppure un individuo scorbutico e scostante? D'altronde, lei aveva la grande capacità di stringere amicizia un po' con tutti. Si rivolgeva alle persone in maniera limpida, onesta, franca, e questo attirava la simpatia di tutti. Shireen non riusciva ancora ad immaginare lo sfarzo che l'avrebbe attesa alla Fortezza Rossa, il trono, i sudditi, le cerimonie... d'altronde, la guerra non era ancora vinta. Lei era bendisposta verso qualsiasi pretendente e qualsiasi destino, pur di rendere orgoglioso suo padre, che aveva fatto tanti sacrifici per lei. Avrebbe trovato la felicità in ogni caso, ne era sicura: eppure, nella sua vita il futuro era sempre stato una caverna buia, di cui era impossibile intuire l'interno o la fine, impervia proprio perchè poteva nascondere incredibili pericoli così come formidabili gioie- e quel momento non faceva eccezione.
Non si sarebbe mai innamorata, lo sapeva già. L'amore era arrivato e passato come una stagione peritura, come un sospiro di vento. Devan Seaworth, figlio del buon Davos, suo compagno di giochi fin dalla prima infanzia, le aveva dato un ultimo bacio quando ancora alloggiava presso la Barriera.
-So che sposerai un altro e che forse non ci vedremo mai più da soli,- aveva sussurrato, -ma giurami che non ti dimenticherai di me.-
Lei aveva giurato. Una promessa facile da mantenere: non avrebbe potuto dimenticarlo neanche se l'avesse voluto, in effetti. Era molto in pena per lui; Devan era lo scudiero di Stannis, partecipava alle battaglie, lottava e combatteva, ma era ancora molto giovane, soltanto di un anno più grande di lei. Avrebbe potuto perdere la vita in qualsiasi momento, però Shireen sapeva con certezza che ciò non era ancora successo: se fosse accaduto, suo padre o Davos l'avrebbero avvertita in una lettera. A volte, il ricordo del tocco esitante e delicato della mano del ragazzo sulla sua guancia -quella deturpata- era ancora capace di tenerla desta e malinconica per tutta la notte.
D'un tratto, un rumore di passi allarmò i suoi sensi. Si trattava di una vera e propria marcia, di stivali che picchiavano sul pavimento, e con sommo orrore ella udì persino il tintinnio del ferro. Lo conosceva molto bene: aveva vissuto alla Barriera per anni. Trattenne il respiro e si fece più piccola possibile fra le coperte, come se ciò contribuisse a renderla invisibile. Ad ogni modo, i passi sproseguirono fino a scemare e dissolversi nelle scale. Dopo qualche istante ancora, Shireen osò scostare le coperte e scendere a piedi nudi dal letto: avanzò di soppiatto fino alla porta, la socchiuse con gran cautela e sbirciò fuori. V'era un gran silenzio e il corridoio era deserto, come sospettava. Allora indossò velocemente una vestaglia color tortora e scivolò fuori, in punta di piedi. Procedendo con il palmo aperto premuto sul muro, affiancando la parete, camminò piano piano fino al termine del pianerottolo, con il cuore che martellava nel petto dall'emozione: ormai, anche sulle scale non v'era più nessuno. Indugiò lì ferma, riflettendo sul da farsi. Pensò se fosse il caso di scendere, di avvisare qualcuno di quel che aveva sentito; era assolutamente certa di non esserselo sognato. I rumori erano così distinti e nitidi, che ancora risuonavano nella sua mente, nella loro spaventosa evidenza...
Fu allora che sobbalzò: sentì quella che sembrava proprio una voce. Paralizzata dalla paura, il suo primo istinto fu quello di tornare in camera, sbarrare la porta e nascondersi sotto le coperte in trepidante attesa del mattino; poi, rimanendo in ascolto, scoprì ch'era una voce di donna... una donna che oltretutto conosceva. Si lasciò guidare fino ad una porta, che riconobbe come quella del prigioniero, e dopo qualche istante d'esitazione la spalancò.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi era piuttosto bizzarro: un cane, che dalle dimensioni avrebbe potuto essere un mastino, abbaiava furibondo, mentre Yara Greyjoy era intenta a tenerlo lontano da sè ed allo stesso tempo ad allungarsi verso il gancio che la legava. Appena la vide entrare, si distrasse al punto che il cane per un pelo non le staccò una mano.
-Cosa ci fai tu qui?- si meravigliò, ma non le lasciò nemmeno il tempo per rispondere. -Il Bastardo è nel castello.- aggiunse.
Shireen corrugò la fronte. -Ho sentito i soldati scendere al piano di sotto.-
Yara si preoccupò. -Ti hanno vista?-
Lei scosse la testa. -Da dove possono essere entrati?-
L'erede di Balon Greyjoy fece una smorfia, come se avvertisse una ferita dolere. -Dai sotterranei, naturalmente. Come hanno fatto a Pyke... Peraltro, quel lurido traditore di mio fratello li conosce benissimo. Non dev'essere difficile, per lui, condurli da qualsiasi parte del castello vogliano andare. Ma adesso non c'è tempo per le chiacchiere, dammi una mano. Dobbiamo andare a salvare il culo alla regina delle paludi.-
Shireen si affrettò a staccare dall'anello affisso alla parete la catena che assicurava la prigioniera al muro. -Le guardie li avranno visti, no?-
-Il problema non è se li hanno visti o meno.- replicò Yara, torva, -ma se sono riusciti a fermarli.-
A questo, la principessa dei Sette regni non seppe replicare.
***
Ciò che faceva sorridere Sansa, di indulgente tenerezza, era l'abitudine ormai consolidata di Myrcella, che, non appena vedeva Rickon fare ritorno all'accampamento dopo una giornata passata sul campo di battaglia, gli veniva incontro correndo e gli si appendeva al collo, abbracciandolo con fervida dedizione e baciandolo con una passione vorace di cui nessuno l'avrebbe creduta capace. Rickon l'accoglieva sempre con una risata ricca di gusto e colori, contemplando le sue concitate premure con un sorriso acuminato e un po' gretto, ma autentico -perchè, con il capo affondato nei riccioli profumati di lei, con la sua carne tenera sotto le dita, la sua voce nell'orecchio, sentiva di aver trovato il proprio equilibrio, di essere di nuovo parte di un tutto. Ogni giorno si presentava con nuovi squarci, che eruttavano fiotti di sangue annerito dalla polvere, che incidevano la pelle fino all'osso; una volta era una lacerazione sulla coscia, un'altra volta dalla spalla al fianco, poi a striargli la fronte. La fanciulla reagiva sempre cacciando un grido d'orrore, per poi cominciare a maneggiare catini d'acqua e bende improvvisate.
-Ma cosa combini! Ma cosa fai! Perchè ti fai ridurre in questo modo?- gemeva, calcolando i danni con crescente apprensione.
Rickon rasserenava l'ansia spropositata di Myrcella con una nenia ininterrotta di sbuffi e carezze, soffiando delicatamente sulle sue palpebre e morsicandole le labbra come gli era sempre piaciuto fare.
-Non è niente.- si scherniva con noncuranza, orgoglioso delle sue ferite come lo avrebbe potuto esserlo dei suoi figli, -robe da nulla...-
Quando poi Myrcella finiva per preoccuparsi davvero troppo ed eccedere, ridotta pallida e tremante come se avessero ferito lei stessa -ma quanto devi soffrire, povero amore mio, quanto devi soffrire ancora- il ragazzo le sollevava il mento con un dito, la fissava serio negli occhi e bofonchiava:
-Ascoltami, piccola bionda: è tutto a posto. E se dico che è tutto a posto, mi devi credere. Va bene?-
Lei annuiva timidamente, arrossendo. Poi Rickon s'avventurava a descrivere il modo in cui si era procurato tutti quegli sfregi; si trattava di storie mirabolanti, popolate di soldati armati fino ai denti e sciabole di Essos dalla lama letale e ricurva. Myrcella non sapeva quali fossero vere, quali inventate per divertirla e quali esasperate per nutrirsi di gloria.
-A quel punto mi avevano circondato in otto. Sì, proprio in otto!- esclamava, mentre la fanciulla estraeva frammenti di pietra dalle sue ferite con un paio di pinze.
-Otto?- rideva lei, attenta a non perdere la concentrazione su ciò che stava facendo.
-Non uno di meno! Cosa c'è, non mi credi, forse?!- sbraitava, e se gli veniva quel dubbio poi si offendeva a morte.
Sansa notava con stupore anche la fortissima empatia che intercorreva in ogni sguardo, che trapelava da ogni gesto; c'erano sempre poche parole fra loro, ma questo perchè parevano terribilmente superflue. Parevano cogliere intuitivamente qualsiasi emozione dominasse l'altro; e si davano reciprocamente conforto sfiorandosi con le dita, sussurrandosi qualche parola in un linguaggio sconosciuto, oppure limitandosi a starsi accanto senza fare nulla. I loro corpi, anche in seguito a quell'esordio conflittuale e doloroso, avevano raggiunto un'affinità alchemica, tanto che, denudati di tutti i segreti e le remore, potessero risolversi l'uno fra le braccia dell'altra in un abbandono di sguaiata, selvaggia bellezza.
Rickon trascorreva la notte conteso fra la brama incandescente di sfogare l'irruenta adrenalina delle battaglie e l'imperativo biologico di riservarsi qualche ora di sonno; Myrcella si divertiva ad irretirlo, ma alla fine gli prendeva il capo in grembo e gli passava le dita fra i capelli fino a che il sopore non aveva la meglio su di lui. La stanchezza avrebbe potuto essergli fatale, in uno scontro.
-Hanno uno strano modo di amarsi.- commentò Sansa, mentre Rickon, affondato in un cumulo di pellicce, si faceva medicare una ferita al braccio e chiacchierava speditamente circa la propria ultima prodezza.
Arya abbattè la scure sul pezzo di tronco che aveva di fronte, ricavandone due grossi ceppi ed alzando una nuvola di ghiaia. Si strofinò gli occhi irritati.
-Hanno avuto uno strano modo di innamorarsi.- ribattè a sua volta. -Sempre che di amore si possa parlare.-
-Mi piacerebbe credere che staranno insieme per tutta la vita.- La voce di Sansa era quasi divertita. -Che si sposeranno e saranno felici.-
Arya le lanciò un'occhiata quasi infastidita. Poi sospirò e la fissò. -No, non è vero. Non ti piacerebbe crederlo. Al contrario, sei contenta di poterlo non credere mai più. I paraocchi non piacciono a nessuno.-
-Soprattutto se ci si rende conto di averli sempre indossati soltanto quando non ci sono più.-
Sansa si rannicchiò nella coperta che le copriva le spalle e guardò il cielo notturno. La volta celeste offriva una dimensione immobile, prigioniera nel proprio silenzio e nell'immortalità, spettatrice sempiterna, ammantata della propria gloria. Pensò a ciò che era accaduto quel mattino: una schiera di truppe era giunta ad aggiungersi al già considerevole esercito del Nord. Proveniva da Nido dell'Aquila. In questo modo, gli Stark si trovavano nettamente in maggioranza.
-Ma cosa sta succedendo?- si era sbalordito Rickon. -Com'è possibile? Sembra quasi che per una volta ce ne vada una dritta.-
In questo modo, anche il lord della Valle si era inequivocabilmente schierato dalla loro parte, destinato a vincere con loro o morire con loro.
Grazie, Robin, aveva sorriso Sansa fra sè, commossa, ricordando di quanto il ragazzo fosse stato inizialmente terrorizzato all'idea di sbilanciarsi a favore dell'uno o dell'altro, e di come quindi avesse accantonato i propri indugi per aiutarla; e poi ci aveva riflettuto ancora un istante: grazie, Petyr, aveva precisato, intuendo che ci fosse anche lo zampino di qualcun altro dietro quell'inaspettata decisione. Si chiese se Baelish l'avesse fatto solo per sostenere Arya e Gendry, dei quali pianificava il ritorno da anni, oppure se anche il pensiero di Sansa avesse influenzato le sue scelte... Non sperare più in nulla, rimproverò se stessa, mai avanzare aspettative su nulla. L'idea di non potergli parlare dopo quell'ultimo, maledetto bacio la stava tormentando.
I Lannister non sapevano ancora che lei era viva, ma prima o poi l'avrebbero scoperto. E alla fine della guerra, quale sarebbe stato il suo destino? Dipendeva tutto dal vincitore, in fin dei conti. Se avessero vinto Gendry e suo fratello Bran, avrebbe potuto fare quello che voleva. Ma se avesse vinto Tommen? Sansa era ancora legalmente sposata a Tyrion Lannister. Avrebbe forse dovuto passare la vita al suo fianco, di nuovo schiava, di nuovo segregata nella Fortezza Rossa, di nuovo schernita, disprezzata ed odiata? Sarebbe ricominciato l'incubo che s'era lasciata alle spalle fuggendo da Approdo del Re, otto anni prima? No, non poteva permetterlo.
D'altro canto, Alayne Stone era sposa di Robin Arryn. Certo, ormai Alayne era morta, svanita, sepolta, però... come abbandonare per sempre una delle uniche persone che davvero le avevano voluto del bene, in quegli anni difficili, che l'aveva ospitata e trattata come una regina? Sapeva di dovere molto a Robin, e, anche se non lo amava, s'era affezionata a lui, così come se fosse un altro fratello minore.
Tanto era assorta nei suoi pensieri, che Sansa quasi non si era resa conto che Gendry s'era avvicinato a lunghi passi alla loro tenda. Non indossava più l'armatura; aveva indossato un paio di comodi pantaloni di iuta e una camicia di garza bianca. I capelli neri, lavati pochi minuti prima, gocciolavano fradici sulle sue spalle.
-Lady Sansa. Milady.- esclamò, con l'accenno d'un inchino, un sorriso allegro a fior di labbra. Sansa rispose con un regale cenno del capo -Arya non alzò lo sguardo dal fuoco che cercava di accendere.
-Come ci si sente ad essere re?- disse soltanto. Nell'accampamento, egli era già chiamato Maestà e gli venivano rivolti tutti gli onori, a cui certamente, dopo una vita spartana, non era abituato. Spesso gli capitava invece di scostarli con un cenno imbarazzato, di schermirsi con qualche parola brusca, prima di realizzare che avrebbe dovuto iniziare a considerare quel trattamento come dovuto, anzichè come una stravaganza.
Gendry inarcò le sopracciglia scure. -Non lo sono ancora. Non cantiamo vittoria troppo presto. Vorrei... parlarti, se hai un po' di tempo per me.-
Il giovane re avrebbe dovuto dire voglio anzichè vorrei, d'ora in poi, ma non con Arya. Con lei, queste formalità sarebbero suonate vili come menzogne. Avevano condiviso qualsiasi cosa, da un giaciglio di terriccio alle lepri selvatiche mezze crude, dalle tormente di grandine ai tramonti insanguinati, dalle lotte con i briganti di passaggio alle reminiscenze di nostalgie lontane davanti al fuoco.
-Tutti ne avranno, d'ora in poi.-
Arya si sfregò le mani sporche di cenere sui pantaloni e si alzò per seguirlo. Sansa li osservò allontanarsi, mentre il fuoco si specchiava vivido nei suoi capelli ramati, con un sorriso insinuante. Mi piacerebbe credere che staranno insieme per tutta la vita. Che si sposeranno e saranno felici... Scintille di legno scoccarono rumorose fra le fiamme, con impietosa eloquenza, quasi in risposta.
La notte era tiepida e confortevole come un mantello di velluto, nonostante il clima fosse diventato solitamente rigido. Arya abbassava gli occhi sull'erba che stava calpestando: piccoli fiori bianchi ergevano le loro fragili corolle fra gli steli, i grilli gracidavano da qualche parte nell'intreccio delle tenebre. Il mare, in lontananza, bisbigliava qualcosa nella sua lingua senza parole.
Gendry continuò a camminare in ostinato silenzio, almeno finchè il vocio ed i tramestii dell'accampamento non furono attutiti dalla distanza, dal vento e dal buio; un pensiero si dibatteva nel suo sguardo, azzurro e tenace ed incorrotto, pur dopo tutti quelli anni di stenti ed attesa. Il ragazzo pose un piede su un masso in rilievo dal terreno e liberò un sospiro dal torace possente.
-Bella battaglia, oggi.- commentò Arya, decisa a stornare l'esitazione di quella lunga pausa.
Gendry annuì, assestando il sasso sotto lo stivale. -Bella davvero. I Lannister non si sono fatti vedere... nè Jaime, nè Tommen. Tutto ciò che li rappresentava era lo stemma.-
-Jaime è tutto malandato e Tommen è un moccioso viziato. Non saprebbe uccidere nemmeno un uomo legato.- bofonchiò Arya.
-Come fai a dirlo? Sono molti anni che non lo vedi.-
-Le voci girano... Dimmi come regni e ti dirò chi sei, e io so perfettamente come combattono le persone come lui.-
-E come?-
-Non combattono.-
Gendry trattenne una risata. -Sempre la solita gentildonna.-
-La propria identità è l'unica costante che ognuno dovrebbe ricercare nella vita... l'unica costante che abbia un senso ricercare.- Arya si voltò a cercare gli occhi del ragazzo. -I Lannister non si sono presentati per un motivo ben preciso, Gendry. Hanno paura di te. Sono letteralmente terrorizzati. Hai mandato in fumo tutti i loro piani...-
-... abbiamo mandato in fumo. Noi. Io e te.- Il ragazzo trattenne il suo sguardo con un'intensità quasi impudente, come se avesse abbrancato la sua anima e intendesse stringerla fra le dita più a lungo possibile. -Non ci sarebbe stato nessun Gendry Baratheon senza di te. Solo un Gendry Waters...-
Arya si concesse un ghigno. -E quale sarebbe la differenza?-
-Gendry Waters era solo, ma... aspetta, non basta dire così. Era... scontroso. Non gli piacevano molto le persone. Non si fidava della vita. Non sognava, non vedeva nulla che fosse oltre le pareti della sua officina. Gendry Baratheon...- Gli scappò una risata. -... beh, è più coraggioso. A volte più stupido, ma immagino che si tratti di un effetto collaterale. Crede in se stesso, crede in una causa... crede in te.- Soffiò l'ultima parola come se desiderasse che solamente le lucciole la udissero. Arya si sporse nell'immensità dei suoi occhi ed avvertì un brivido percorrerle la nuca.
-Dimentichi la differenza più importante.- sussurrò. -Gendry Waters era un fabbro. Tu sei un re.-
-Un re che, come tanti altri, sarebbe facile scagliare giù dal trono.- La voce di Gendry era impassibile.
-Nessuno lo mette in dubbio.- rispose Arya, cupa. Non riusciva a capire dove il ragazzo volesse andare a parare. -Cosa mi volevi dire, Gendry?-
-Volevo ricordarti che l'uomo che hai davanti, che vorresti elevare alla guida di un regno, l'hai reso tu quello che è ora.- esordì Gendry con fermezza.
-Sì, svelandoti la verità riguardo le tue origini e donandoti la fede nella vita. Davvero divertente...- La ragazza affondò lo sguardo nella densa, liscia distesa dell'oscurità, come se volesse penetrarla. -A me è avvenuto esattamente il contrario. Approdo del Re mi ha insegnato che nulla nella vita è come l'hai sognato... nulla come l'hai sempre impunemente creduto, nella convinzione di avere tutto il diritto di farlo. Sono cresciuta pensando che la felicità fosse un mio diritto, che il destino me lo sarei scritto da sola. Disprezzavo le ballate di Sansa, mentre ero colpevole d'ingenuità tanto quanto lei. E ho smarrito me stessa... per molto, molto tempo.-
Fu presto assalita dai ricordi. Il giorno della decapitazione di suo padre, il sangue che precipitava ovunque, lo sguardo inorridito di Sansa... e tutto quel che ne conseguiva. Le notti in cui credeva che non ce l'avrebbe fatta e le mattine che le avevano fatto cambiare idea, i viaggi per mare durante i quali era costretta a lavorare come mozzo, il variopinto spettacolo del Continente Orientale, i suoi mercati fragorosi e maleodoranti, la folla di gente che urla e strepita e ti soffoca, ti spinge giù, ancora più giù... Aveva avuto paura di dimenticare, di dimenticarsi. Aveva ripetuto i nomi dell'odio fino a far sanguinare la lingua fra i denti. Aveva pronunciato il proprio nome e quello dei propri familiari ogni giorno, da qualsiasi parte si trovasse; l'avevano ascoltata i porti, le spiagge, le locande, le taverne, i fienili, le botteghe. L'aveva ascoltata il sole, la luna, la pioggia. Aveva imparato molte lingue e scordato la maggior parte. Era morta e rinata diverse volte. Aveva perso ed acquisito, non sempre in egual misura. Aveva riso e pianto e riso di nuovo. Era viva, però. Era lì, in quel momento, e le parve quasi buffo, quasi assurdo, inconcepibile. La sua morta era così prevedibile -lei, orfana, sola, povera, disarmata, afflitta, sperduta- che non era avvenuta.
Arya sospirò e sedette sul masso, accanto a Gendry. Le sue mani erano intrecciate sulle ginocchia, lì dove i pantaloni erano tutti strappati; il corpo pulsava, intento alla dolce, indolenzita sofferenza che seguiva la battaglia. Le ferite gemevano piano sotto la stoffa, lenite dalla freschezza della brezza. Gendry alzò lo sguardo, cercando la stella che Arya stava contemplando.
-Posso chiederti una cosa? Hai perso una casa, hai perso una famiglia, hai perso la vita che avevi.- La voce del ragazzo suonò distinta, forte, senza patetismi. -Che t'importa di chi sale al maledettissimo trono di questi maledettissimi Sette Regni, che sono la causa di tutto il tuo dolore? Che t'importa delle dinastie, del potere, degli inganni, delle alleanze?-
Che t'importa di me?
, stava per chiedere, ma si morse la lingua. Voleva sapere, Gendry, il perchè; il perchè di quel sostegno, di quell'abnegazione, di quell'amicizia gratuita offerta a piene mani nel bel mezzo dell'inferno. Arya aspirò un po' di quell'aria pregna di terra, di sali, di profumi silvestri.
-Perchè voglio che ci sia un po' di giustizia. Voglio tornare a sperare che al mondo possa esserci anche qualcosa di buono, Gendry. Da quando è morto mio padre, ne ho sempre dubitato.- Fece una smorfia. -Voglio ricredermi. Voglio vedere il bene che trionfa ed il male che decade. E capisco... che non è più facile capire chi è il bene e chi è il male.-
Specialmente da quando aveva scoperto che Rickon divorava i cadaveri e Bran dilaniava con lo sguardo. Gendry annuì con il capo, solennemente, per un paio di volte.
-Far trionfare la giustizia... Un altruismo ammirabile, davvero. Il mondo ti toglie tutto e tu rispondi con la giustizia...- Il tono di quell'affermazione aveva una sfumatura interrogativa.
Arya gli scoccò un'occhiata piccata. -Mi stai prendendo in giro, per caso? Voglio che ci sia giustizia per chi amo, non per gente qualunque.- Si preparò a ponderare le parole che da tempo insistevano sopite alle labbra. Fuggirono così com'erano, eludendo la sorveglianza, in tutta la pregnante gravità del loro significato. -Tu sei l'unica possibilità di riscatto che mi rimane. Non posso restituire le gambe a Bran, non posso restituire l'infanzia a Rickon, non posso restituire le ballate a Sansa. Però posso restituire il regno a te.-
Non si era mai ritenuta una bella ragazza: disprezzava intimamente la bellezza. Era bella Cersei, era bello Jaime Lannister, e avevano portato soltanto morte nelle loro vite. La bellezza è subdola, infida. Non perdona nè chi ne è ammorbato, nè chi ne è attratto. Non si era mai ritenuta una fanciulla graziosa, però... però, quando Gendry la guardava in quel modo, le pareva quasi di sì.
Il ragazzo si chinò verso di lei, scandendo le parole una per una. -Io ti amo, Arya Stark. Non voglio sposare nessun altra.-
Arya voltò la testa, punta sul vivo. -Non vuoi, ma lo farai lo stesso.-
Egli scosse il capo, sconsolato, e si rivolse alle stelle come se si appellasse agli dei, antichi o nuovi che fossero.
-Perchè il destino è così detestabilmente severo, così estremista? O questo o questo, senza compromessi, senza vie di mezzo?-
-Non lo so, Gendry.- Lei cominciò a torturare i polsini della sua casacca. -Ho sentito parlare in maniera molto lusinghiera di Shireen Baratheon. Sarà una buona moglie.-
-Non sarà mai te.- ribattè Gendry, freddo.
-Meno male, che non lo sarà.- Arya tirò un sorriso stentato. -Sarei la moglie più pessima del mondo. Io non mi sposerò mai: per me le cose non funzionano come per tutte le altre. Non avrò un marito a cui obbedire, nè figli da accudire. Tu meriti tutto ciò che non potrei mai darti.-
Gendry, per un attimo, fu tentato di alzarsi in piedi e gridare. Gridare che in realtà lei poteva, poteva benissimo, ma non voleva; non voleva rinunciare a se stessa, a quel che le era rimasto, a quella sopravvivenza bruciata che ormai era diventata vita, all'irruenza del proprio carattere indomito, alla libertà che l'esenzione dalle responsabilità comporta. Gridare che lui, Gendry, l'amava alla follia, e lei, Arya, non riusciva nemmeno ad immaginare quanto. Gridare che si stava opponendo al suo, al loro sogno, che gli stava facendo un dono sottraendogli qualcosa di ancora più importante, che stava realizzando un sogno distruggendone un altro.
Invece l'abbracciò. La avvolse e strinse al suo petto prima che lei potesse escogitare di scappare. Non avrebbe urlato tutto questo perchè capiva. La capiva. Sapeva. Sapeva tutto quanto.
Sapeva che Arya pensava anche a lui, compiendo questa scelta. Shireen era la persona sbagliata, nel bel mezzo della scelta giusta.
Gendry avrebbe sposato Shireen Baratheon, ma in quel momento, nell'aria notturna intrisa del canto dei grilli e delle lacrime delle stelle, non aveva la benchè minima importanza. Affondò una mano nei capelli di lei, li carezzò. La sentì irrigidirsi e poi fremere piano sotto le sue mani, come un gatto riottoso.
-Sono troppo lunghi. Devo tagliarli.- mormorò Arya, riferendosi alla propria capigliatura.
Gendry sospirò sulla pelle delicata del suo collo. -Perchè? Io li trovo belli.-
-Altrimenti mi scambiano per Rickon.- spiegò la ragazza, abbozzando un sorriso.
Per qualche lungo istante, davanti all'onnipotenza del destino, furono inermi; poi non furono altro che insieme, insieme in quel gran dolore, insieme in quella grande gioia.
-Arya?-
Lei deglutì a vuoto. -Cosa?-
-Guardami.-
Nel loro bacio non vi fu futuro, nè passato; persino il presente mancava. Fu quasi un inno alla disperazione, un'eco di terrore, una supplica che sfociò nella pazzia.
Poi il tempo tornò. Arya gli sfuggì dalle dita, come un fantasma alle prime luci dell'aurora; e scappò quasi, da quella speranza a metà, da quel sussulto interiore, mentre lo spauracchio della debolezza si profilava come l'ombra d'un estraneo dietro l'angolo. Gendry non sapeva se avesse dovuto lamentare una sconfitta o celebrare una vittoria; solo, non gli sembrava possibile desiderare altro, se non questo, questo che sfuggiva, questo che scappava.
E il giorno dopo, la guerra tornò.
***
Nonostante le tristi circostanze che l'avevano condotta lì, Myrcella non poteva fare a meno d'amare quelle terre gentili. Sì, gentili: oltre i miasmi di Approdo del Re, con il suo delirio infinito, le terre della corona avevano una grazia speciale, a dispetto dei sanguinosi conflitti a cui erano costrette ad assistere. Myrcella passeggiava nei dintorni dell'accampamento, sollevando i lembi della gonna per non sporcarli, contemplando la natura intirizzita al freddo di quell'inverno fugace; passava il tempo a pagare in sospiri il fio dell'assenza di Rickon, annegando nelle pozze d'acqua a cui si affacciava ogni volta che udiva un urlo d'agonia, inaridendo nella siccità ogni volta che versava una lacrima, ammorbata di freddo ogni volta che si levava il vento. Di tanto in tanto, fantasticava circa il suo avvenire, il loro avvenire: se solo avessero vinto la guerra, allora cosa sarebbe accaduto? Rickon l'avrebbe forse... sposata? A lui non piacevano, però, queste cerimonie, questi riti inutili. Ad ogni modo, loro due avrebbero vissuto ugualmente come se fossero sposati? Oppure Rickon le avrebbe preferito un'altra donna, che non avesse vile sangue Lannister nelle vene? Un tempo, egli aveva giurato che a termine di tutto questo l'avrebbe uccisa, però non riusciva più a crederci. Ormai -ne era certa- lui l'amava. E lei amava lui, quindi Myrcella non sapeva cos'altro avrebbe potuto impedire la loro felicità. Sarebbero tornati a Grande Inverno, per restarci tutta la vita? Sarebbe ricominciato quell'idillio, quello precedente alla guerra, quei giorni di turbolenta ed illegittima voluttà? Avrebbero potuto giacere nell'ozio per ore, senza essere disturbati dalle interferenze del mondo esterno, senza più essere guardati con disapprovazione? E dopo ancora, avrebbero avuto dei figli? Myrcella se lo augurava di cuore. Potergli dare un erede che ne avrebbe ereditato la forza, il coraggio, la spavalderia, potersi concedere a lui fino a questo punto, poter eternare a loro unione in tal modo, sarebbe stato quanto di più l'avrebbe resa felice. Ma si trattava di meri vagheggiamenti di un'anima fatua e romantica: poi cadeva un corpo, s'udiva un grido, echeggiavano le armi, e allora tutte quelle storielle si disgregavano nella tragicità dell'inascoltato, diventavano futili e sciocche, e tutto ciò che Myrcella implorava con tutta se stessa era che non fosse lui, quello appena morto, non lui, ma chiunque, chiunque altro.
Quel mattino, il timore vinse su ogni altra cosa. Rickon s'era svegliato all'alba, accanto a lei; aveva indossato l'armatura, aveva preso tutto quel che doveva prendere, aveva consumato una frugale colazione che consistenza in latte acido e pane secco. Aveva grandi speranze, per quella giornata: visto che ormai erano riusciti ad entrare nella città, prendere la Fortezza Rossa sarebbe stato relativamente facile. Myrcella a quel punto s'era destata, forse a causa d'un movimento troppo rumoroso della spada infilata nel fodero.
Rickon l'aveva udita invocare il proprio nome, farfugliato nel sopore del sonno, e le aveva sorriso, le aveva baciato le palpebre calate.
-Dormi, piccola bionda.-
Lei, nel suo stato di semincoscienza, aveva preteso che rimanesse, appendendosi al suo collo. Rickon aveva riso e si era liberato dalla sua presa.
-Ci rivedremo stasera, e stasera faremo tutto quello che vorrai.- le aveva promesso, rimboccandole le coperte e uscendo dalla tenda il più silenziosamente possibile.
Però, appena pochi istanti dopo la sua partenza, Myrcella s'era sentita completamente desta e lucida, al punto che aveva sollevato il busto dal giaciglio e si era chiesta che fare. Tornare a dormire era la scelta più saggia, ma era fuori discussione. Non ce l'avrebbe più fatta. Il pensiero d'una giornata di spasmodica attesa, d'altro canto, era praticamente invalicabile, faticoso come un digiuno di venti giorni, di spasmodica sopportazione. Così si rifiutò eroicamente di piegarsi a quel destino.
Indossò una veste fra le più umili ch'aveva, e non si recò alla tenda in cui solitamente consumava la colazione insieme a Sansa: eludendo la sorveglianza delle guardie, salì su un carro che faceva la spola fra l'accampamento ed Approdo del Re, e viceversa, con rifornimenti, armi, infermiere da campo pronte a prestare soccorso ai feriti. Myrcella smontò poco lontano dal trambusto della battaglia; invece prese una viuzza secondaria, memore del fatto che l'avrebbe condotta nei pressi del Grande tempio di Baelor, così da poter assistere alla battaglia da una postazione sicura. Cosa sperava di fare? Nulla, in realtà: voleva soltanto vedere Rickon, vederlo vivo, sapere che stava bene, che nessuno era in grado di fargli del male. Era allo stesso tempo decisa a non farsi scorgere da nessuno che l'avrebbe potuta riconoscere: se fosse venuto a saperlo, Rickon si sarebbe arrabbiato moltissimo con lei.
E lo stava ancora cercando con lo sguardo, da qualche parte, nel pandemonio delle spade e della miriade di soldati che combattevano -come aveva mai potuto sperare di distinguerlo in quell'inferno?- quando un pezzo di stoffa le scivolò in bocca e le morse il capo in una tenaglia. Myrcella cercò di gridare, ma il fazzoletto soffocava la sua voce. Immediatamente, il suo aggressore le immobilizzò le mani dietro la schiena. Pazza di terrore, non riuscì a pensare a nulla finchè, sorprendentemente, non si ritrovò faccia a faccia con l'uomo.
-Shhh.- mormorò Jaime Lannister. -Sono io. Sono io. Non avere paura. E non urlare, per favore: promettimi che non urli.-
Avrebbe voluto abbracciarla, chiamarla bambina mia, dirle quanto s'era dato pena per lei, quanto amore le donava ancora quella famiglia che lei aveva ripudiato così spietatamente... ma non era il momento giusto. Lui non era la persona giusta per farlo.
Myrcella lo fissò, piena di stupore; d'un tratto, le mandibole indolenzite percepirono l'assenza dal bavaglio e potè tirare un lungo respiro.
-Ma cosa... cosa... zio Jaime?- Poi rivolse un'occhiata attonita agli altri due uomini armati che la stavano immobilizzando. -...perchè?-
-Perchè ti riportiamo a casa.- tagliò corto Jaime, facendo segno di caricarla su un cavallo.
La figlia lo fissò sgomenta, poi lentamente comprese. -No.- disse subito. -Oh, no. No, zio Jaime, non puoi farmi questo...-
-Prima o poi capirai che lo faccio per il tuo bene.- precisò lui, voltandole le spalle per salire sul suo cavallo.
-No! Ti prego... non voglio tornare a casa! Io voglio stare con lui, stare con lui per sempre... Io lo amo!- gridò Myrcella, percependo un principio di mal di testa pulsare nelle tempie. Tutto era troppo assurdo, troppo incredibile, non poteva stare succedendo sul serio...
Jaime sospirò. Era un tormento sentirla urlare così, ma non si poteva fare altrimenti. Oh, no, lei non lo amava, e le sarebbe bastato stargli lontano per qualche giorno, per tornare in sè e realizzare l'incubo ad occhi aperti in cui era vissuta, in uno stato di shock confusionale. Un giorno l'avrebbe ringraziato, per quel che stava facendo: ma quel giorno, Myrcella l'avrebbe soltanto maledetto.
E, senza nemmeno il tempo di rendersene conto, Myrcella fu prigioniera per la seconda volta.
***
-Andata.-
Quella parola si formò sulle labbra di Bran in maniera curiosa, ed egli quasi ne rise. Quella stessa maledetta parola che l'aveva atterrito, perseguitato, schiaffeggiato, inorridito per giorni, quell'andato che s'era detto di Jojen, ripetuto un'altra volta -per tormentare suo fratello, anzichè lui.
Sapeva quanto male facesse. Sapeva quanto si provasse la tentazione di ripeterla e ripeterla, andata, andata, andata, andata, quasi nel tentativo di annullarsi nell'eco delle sue sillabe, oppure di venire trascinati in quell'andata e venire contagiati, miracolosamente trasportati in quell'andare.
Così lo disse semplicemente com'era, senza agghindarlo di parole inutili, sovraccaricarlo di scuse poco plausibili, addolcirlo con il miele della retorica, senza pizzi e merletti, solo così, incisivo, tonante, autentico:
-Andata.-
Rickon gli rivolse un'occhiata minacciosa. -Andata dove?-
Questa è la domanda che si pongono tutti, fratello mio, pensò Bran. Gli venne di nuovo da ridere, ancora più di prima, e l'istinto fu quasi pruriginoso, non poteva trattenere quella risata copiosa: ma pensò che se avesse continuato così sarebbe diventato matto, perciò si contenne.
-Stamattina ha lasciato l'accampamento subito dopo l'esercito. Non l'abbiamo più vista da allora. Sansa ha detto ch'era strano che non si fosse presentata a colazione, così l'ha cercata nella sua tenda... e non c'era. Non c'è da nessuna parte. E questo perchè, molto probabilmente, è partita a cercare te ad Approdo del Re-
-Che cosa?!- Rickon era basito. -Ma è inconcepibile. E' una cosa troppo stupida. Perchè mai avrebbe dovuto farlo?-
-e i Lannister hanno approfittato per rapirla.- concluse Bran, con una calma piatta che si sarebbe potuta definire solo che vacua.
Rickon rimase immobile dov'era per almeno un minuto buono, lo sguardo fisso in qualche esatto punto sul terreno, pietrificato in un terrificante silenzio; e Bran ipotizzò che l'avesse presa abbastanza bene, almeno finchè il ragazzo non si alzò in piedi e si avviò verso l'uscita.
-Dove stai andando?- domandò il fratello maggiore, lentamente, intento a sfogliare con distrazione i risultati della giornata di battaglia, trascritti dai generali.
-A riprendermela.- tagliò corto Rickon, in un ringhio.
Bran chiuse gli occhi. -Fermatelo.-
Le guardie all'ingresso sbarrarono il passaggio con le spade.
-Fatemi passare, se non volete che questo sia il vostro ultimo minuto di vita!- sbottò Rickon.
-Tu_ non puoi _andare_ da nessuna parte.- scandì Bran, con granitica pazienza, senza alterare la voce nemmeno di un filo.
-Io devo andare a salvare Myrcella! Lei è mia, e quelli non hanno nessun diritto di prendersi ciò che è mio.- Rickon era rosso in viso come se avesse appena compiuto una carneficina.
Bran scartò i suoi messaggi con un gesto della mano, spingendoli sul tavolo, per poi rivolgere al fratello l'attenzione.
-E va bene, tu vai a salvare Myrcella. E come fai, me lo spieghi?-
Rickon lo guardò, e nei suoi occhi era riflessa l'ostinazione del ghiaccio del Nord. -Noi abbiamo un piano...-
-Un piano che va realizzato più tardi. Fra una settimana, o due, magari.- gli ricordò Bran, inflessibile.
-Il piano dev'essere anticipato.-
-Il piano non può rischiare di andare a monte a causa della tua stupida ragazzina Lannister!-
Lo sguardo di Rickon non s'intaccò nemmeno di un soffio.
Bran si accorse di stare progressivamente cambiando tono, quindi respirò a fondo. Sapeva quanto poteva essere fatalmente pericolosa, la sua rabbia, in quel periodo. Si dominò come riuscì, anche se con Rickon non era sempre facile.
-Il piano dev'essere anticipato.- ripetè Rickon. -Io voglio Myrcella qui, e se la voglio qui ora, me la andrò a prendere ora.-
Non fa una piega,
pensò Bran, sarcastico.
-Ma così rischia di fallire. Hai bisogno di un certo numero di uomini...-
-Bene, allora li prenderò con me.- Rickon non capiva dove stesse il problema.
-Anche Arya deve prenderne parte.-
-Sì, esatto, e allora?- s'infastidì il fratello minore.
Bran contò fino a dieci mentalmente prima di rispondergli. -E allora, se per colpa della tua impazienza il piano fallisce, non solo metti in pericolo te stesso, ma anche tutti gli altri e la tua stessa sorella. Sei pronto ad assumerti una responsabilità simile?-
Rickon non esitò nemmeno un istante. -Se il piano avesse funzionato fra una settimana, non vedo perchè non dovrebbe funzionare adesso.-
Il re del Nord mantenne gli occhi fissi nei suoi ancora per qualche momento, infine annuì gravemente con il capo. Se questa era la scelta di suo fratello, che vi andasse incontro e la portasse avanti fino in fondo, allora. Non aveva nessun diritto di impedirgli di compiere i suoi errori, o di dimostrargli quanto avesse ragione. Però volle essere sincero, così da non doversene pentire in futuro, così da poter dire di aver fatto tutto il possibile per trattenerlo.
-Vuoi sapere come la penso, a questo riguardo?- chiese retoricamente.
Rickon ghignò. -Credo di averlo già capito, ma sospetto anche che tu me lo stia per ripetere.-
-La Fortezza Rossa non è così facile da espugnare come pensi. Se ti presenti là, ti uccideranno.-
In realtà, Bran non aveva quasi dubbi a proposito. Magari sarebbe riuscito davvero ad abbattere le porte e far affluire una miriade di soldati dentro la Fortezza, però non sarebbe sopravvissuto.
Rickon parlò con impeto. -Me ne frego del futuro. Che ne so io, che ne sai tu, del futuro? Potrebbe cascarci in testa un fulmine in questo preciso istante, ma non è lo stesso un buon motivo per non vivere. Avrei potuto morire di freddo a Skagos, essere divorato da una pantera ombra, essere strangolato nel mio letto da una spia. Lo sapevo, l'ho sempre saputo, ma se sono ancora qui l'unico motivo è che non me ne è importato niente. So soltanto che andare là è quello che voglio, adesso. Quando sarò morto, avrò tutto il tempo per procrastinare e piangere e perdere tempo come fai tu. Quel che voglio fare adesso è agire.-
Bran questa volta si lasciò travolgere da una risata tragica, quasi empia. Contagiò le labbra e si diffuse fino allo sterno. Egli rise e rise e rise finchè non gli mancò il fiato.
Poi gli si rivolse con amarezza. Lo sapeva già. Il destino non avrebbe potuto più coglierlo impreparato.
-Morirai, Rickon.- pronunciò con voce dura ed indulgente al tempo stesso, come se dovesse spiegare una cosa molto facile ad un bambino.
Rickon gli lanciò un ultimo sguardo, che trasmise nuovamente l'artico vento del Nord, come se i suoi occhi l'avessero imparato a memoria.
-No, invece non morirò. Nessuno morirà più.-
Dopo che fu uscito di lì, furioso quanto il metalupo accanto a lui, Bran si limitò a fare un cenno ai suoi servitori.
-Adesso portatemi la cena ed andate via. Non voglio vedere nessuno. Cacciate via chiunque chieda di me. Ho sonno.- mentì seccamente.
Gli uomini annuirono con un umile cenno del capo e si dileguarono. Bran si sforzò di non pensare più a niente: la realtà era diventata davvero troppo pressante, cercava di infiltrarsi nella sua testa in ogni modo, di gravare la sua anima di mille dolori altrui. Era stanco di tutto questo.
Ma nonostante quell'esaurimento delle forze e dell'energia, non sarebbe mai riuscito a prendere sonno. Non appena chiudeva gli occhi, la sua mente si colmava del rumore della lama che apre la pelle, che spalanca la gola, che svela il sangue e le ossa, e poi del tonfo del corpo esanime che crolla a terra. La morte di Jojen lo destabilizzava come un cancro, giorno per giorno, mentre ormai le chiacchiere sibilavano crudeli le peggiori menzogne, nient'altro che deturpate verità: a loro parere, a parere del mondo, il re avrebbe dovuto smettere di disperarsi da un pezzo. Questo lutto infinito era visto di pessimo occhio. E a Bran non importava più niente: nè della guerra, nè del trono, nè delle chiacchiere. Ora c'era solo silenzio. Non so quando esattamente tutto ha cominciato a morire, pensò, nè quando io ho cominciato a uccidere. Ma sembra che da allora non sia rimasto altro.
Una serva entrò con una brocca di vino e un pezzo di carne arrostita. Mangiò senza appetito qualche boccone e sorseggiò mezza coppa, poi lasciò il resto sul tavolo.
A quest'ora, probabilmente, Rickon stava già radunando le truppe, Arya stava indossando la sua armatura... e poi, avrebbero dato inizio al piano.
Se avesse funzionato, la guerra sarebbe stata vinta.
Se avessero fallito, la guerra sarebbe stata persa.
In entrambi i casi, Bran non avrebbe battuto ciglio. Era oltre la vittoria, oltre la gioia, oltre l'ebbrezza. Oltre l'estate.
D'un tratto, inaspettatamente, la serva parlò.
-Ci sono accorgimenti che un re non dovrebbe mai trascurare.-
Bran si voltò verso di lei, allibito. Era balzano che una schiava aprisse bocca senza che fosse stata interpellata.
-Prego?-
-Per esempio, avere sempre con sè un coppiere personale.- Le labbra della donna s'incurvarono sotto il cappuccio. -Non si sa mai cosa possa celarsi, dentro una coppa di vino.-
Il re del Nord le rivolse un'occhiata smarrita, prima di irrigidirsi, tentare di sorreggersi al tavolo e perdere i sensi, cadendo sul pavimento. Melisandre scostò il cappuccio, permettendo alla chioma cremisi di scivolarle sulle spalle come un manto.
-Finalmente l'ho trovato, Mio Signore.- rivelò a mezza voce, con un lieve sorriso, esaminando il corpo inerte di Brandon Stark con serafica serenità.








 























Note dell'Autrice: Ed eccomi, dopo mesi e mesi di assenza. Ormai vi sarete dimenticati della mia esistenza! Credevate che non mi sarei più fatta sentire, vero? Ebbene, mai perdere la speranza! XD Quel che leggete l'ho scritto praticamente tutto in una settimana. La quarta stagione mi ha fatto tornare l'ispirazione giusta per continuare. Tanto per informazione, il prossimo capitolo sarà l'ultimo, e poi ci sarà un epilogo.
E' un capitolo infinito, ma volevo ripagarvi dell'attesa! Grazie mille a tutti quelli che hanno letto...
...nella speranza che qualcuno lo abbia fatto. XD Grazie a tutti, davvero! Chi volesse lasciarmi una recensione... *strofina un piede per terra e poi si dilegua*
Lucy

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Capitolo 12
*** Blu fu l'inferno. ***


11
XI. Blu fu l'inferno.






Tutto iniziò con un suono.
Era lieve, timido, incerto, quasi non volesse turbare l'oblio del silenzio; però si definiva sempre di più, arricchendosi di sapori e colori, quasi ritratto dal pennello di un pittore. Pian piano, visione si srotolò davanti a Bran in un arazzo -dai colori scuri d'un sudario.
Era la voce delle foglie d'un albero del cuore, livide come le dita dei morti ed il vino essiccato, che frusciavano scambiandosi baci effimeri. Il vento soffiava il proprio fiato a pelo dell'acqua, tracciando traiettorie incomprensibili che s'inarcavano mortificate e sfregiando l'esattezza della superficie, levigata come vetro. L'acqua dello stagno, torbida e chiazzata di foglie autunnali, esalava una nebbiolina impalpabile ed odorosa di linfa; la geometria dei rami dell'albero del cuore, pallido ed imponente come un sovrano fra i suoi sudditi, vi si stagliava in un gioco d'ombre ed inganni, facendo cadere i frequentatori nell'errore di credere che esistesse un'altra dimensione, parallela a quella, alla rovescia ed immersa nel buio degli abissi.
La mestizia di quella giornata, plumbea ed uggiosa, trovava il proprio paradosso in un sole rigoglioso ed un cielo puro.
La riva dello stagno, leggermente in rilievo rispetto al prato che la circondava, era solcata di radici simili a vene e foderata di umido muschio verde. Due giovani, un ragazzo ed una ragazza, vi erano accomodati, le ginocchia ritratte al petto e le braccia a cingerle. Lei dimostrava all'incirca sedici anni, e la cosa davvero formidabile era la sua somiglianza con Bran, che -da mero spettatore qual era- non poteva fare altro che contemplarla incredulo. Aveva lo stesso viso allungato, le stesse labbra piene, lo stesso profilo diritto ma sgraziato del naso, le stesse guance affilate, lo stesso taglio degli occhi. Persino i capelli erano i suoi, d'un castano mogano e torvo, dalle fibre spesse, e scrosciavano fino alle cosce della ragazza. Indossava un abito di raso rilucente, avorio ma ricco di bagliori rosati, che si allargava attorno alle sue gambe come una pozza adamantina; le maniche erano interamente di pizzo, sul petto v'erano decorazioni di rame e in vita portava una cinta di minuti fiori d'ambra. In definitiva aveva un'aria molto virginale, ma anche parecchio triste. Nei suoi occhi risiedeva un tormento indefinibile.
Il ragazzo, Bran lo conosceva benissimo, perchè era Jojen Reed.
Fu a quel punto che il re del Nord si rese conto di starsi affacciando alla vita di Levenna Stark, sua figlia.
-Questo è vento d'autunno, ormai.- Il sussurro di Jojen si disgregò nello spazio fra loro, diffondendo un sentore di pericolo.
Levenna ghermì la brezza con i palmi delle mani, come un'assetata che attinge ad una fonte. Chiuse gli occhi. La sua bocca aveva la piega sofferta di chi ha vissuto i dolori di chiunque le sia vicino; Bran pensò che le analogie fra loro stavano diventando sempre più inquietanti.
-La nostra era un'estate bugiarda.- commentò Levenna, con una voce chiara e melodiosa che mal s'addiceva al suo sguardo intransigente. -Ma non so se le preferisco la sincerità dell'inverno.-
-Nessuno lo sa meglio di te.- la contraddisse Jojen, con la solennità che gli era propria.
La fanciulla serrò gli occhi in due fessure. La bluastra e surreale atmosfera del parco degli dèi la faceva somigliare ad un'apparizione spettrale.
-La consapevolezza paga.-
-Troppo, ma mai quanto vale.-
Il discorso annegò nello stagno. Il silenzio si dilatò come una ragnatela di brina. Levenna esitò; sembrava perseguitata da un pensiero.
-C'è qualcosa che mi preoccupa da molto più vicino, Jojen, e non riesco a capire...-
Bran avrebbe voluto opporsi a quella visione: lo infastidiva sempre di più.
Quella non aveva nessun diritto di parlargli così, di consultarlo in quel modo, di... di fare le stesse cose che anche Bran aveva fatto. Jojen era il suo consigliere, e quindi doveva aiutare solo lui. La loro confidenza gli risultava intollerabile. Cosa ci faceva, Jojen, proiettato nel futuro con quella, quando era Bran ad avere un gran bisogno di lui? Era profondamente ingiusto. 
Jojen, aggrottando le sopracciglia, esortò Levenna a proseguire.
Lei tentennò. -... se le visioni non possono cambiare, ciò che mi appare... è già stabilito? Irrevocabile? Non c'è speranza di... rimediare?-
Il ragazzo riflettè. -Per quanto ho potuto dedurre è così, ma la nostra non è una scienza esatta. Cos'hai visto, Levenna?-
Il petto della fanciulla s'alzò ed abbassò in un respiro affranto. -Non... non ne voglio parlare. Il solo fatto di dirlo ad alta voce me lo farebbe sembrare più vero, ed è l'ultima cosa che desidero.-
Jojen la fissò negli occhi, con quella delicata premura, quella sollecita partecipazione che Bran era solito scorgere solo quando il greenseer parlava con lui.
-Siamo qui per affrontare le cose insieme, non per fare finta che non esistano finchè non ci travolgono.- mormorò piano, con voce morbida, sfiorandole una mano con le dita.
Bastò un simile effimero contatto per velare di rosso la visuale di Bran, offuscata di rabbia. Perchè la toccava? Perchè era lì? Perchè quell'
insieme così infido, lasciato così impunemente in una frase? Insieme... che fosse possibile?
Levenna cominciò a scuotere la testa, quasi stesse arretrando di fronte all'imponente dolore di quel destino.
-Non in questo caso. Non a queste condizioni. No, non ci sto. No...-
-Levenna, Levenna, ti prego, mantieni la
calma.- Le prese i polsi senza violenza, spingendola a guardarlo negli occhi. Solo allora Bran si accorse ch'erano identici, quelli di lei e quelli di lui: verdi come il muschio ai loro piedi.
La principessa di Grande Inverno ansimò. -Kenned... lui... non...-
-Kenned è un buon re.- sussurrò Jojen, meditabondo. -Solo, è privo di qualsiasi esperienza. È per questo che ha bisogno di te, ad aiutarlo, a sorreggerlo, a consigliarlo.-
Levenna strappò all'improvviso una manciata d'erba, mentre una smorfia di dolore le attraversava il volto, come se un arbusto le avesse sfregiato una guancia.
-Come faccio a dare consigli, se io per prima non ho idea di che cosa fare?! Ho visto cose, cose...- S'interruppe, come se il dolore la soffocasse, sopraffatta. Continuò a voce più bassa. -Ho visto la capitale nello scompiglio. Ho visto quei due maledetti gemelli devastare il Sud con le loro eterne lotte fratricide. Ho visto una ragazza bionda e bellissima baciare mio fratello sulle labbra, estrarre un pugnale e conficcarglielo nel petto...-
Un'ombra calò sul viso di Jojen, che chinò il capo. La consapevolezza palpitò lenta e silenziosa sui suoi lineamenti, come un'ustione. Il dolore non era altro che un ricordo sbiadito; ce ne erano stati tanti, prima di questo, Bran lo sapeva. Egli, intento all'impatto visivo che quella visione esercitava su di lui, faticò vagamente ad accorgersi che stavano preannunciando la morte del suo primogenito. Il greenseer riprese a parlare in modo talmente sommesso, che il bisbiglio dell'acqua quasi lo sovrastava.
-Gli Stark sono perseguitati dalla maledizione del primogenito. Prima Brandon, fratello di tuo nonno. Poi tuo zio Robb e suo figlio, ancora in grembo alla madre. Ora Kenned... Dovrai essere forte, Levenna. Lo sai.-
Lei si scostò, come se si fosse scottata. L'indignazione le storceva le labbra in un urlo soppresso.
-Io non voglio essere forte, Jojen. Io voglio rannicchiarmi fra le braccia di qualcuno più forte di me e piangere. Voglio nascondermi e lasciare agli altri queste dannate responsabilità. Tu eri un eroe, mio padre era un eroe. Io no. Non voglio esserlo. Non posso esserlo.- Il respiro che le dilatava la carotide era spasmodico.
-Il destino ha in serbo molte sorprese per te, anche se adesso non ti sembra affatto.- esordì Jojen con calma circospetta. -Gli dèi ti hanno concesso questo dono per un motivo.-
-Giusto, per salvare il Nord!- Sulle labbra di Levenna tuonò un sorriso amaro. -Non so nemmeno salvare mio fratello, e dovrei pretendere di salvare il Nord intero.-
-Non il Nord.- Ormai la voce di Jojen era un soffio. -Tutti e sette i regni.-
Levenna fremette. Schiuse le labbra e non ne uscì alcun suono, quasi fosse la corolla d'un fiore. Le parole, perdute, volteggiarono nell'inanità del vuoto caliginoso che li avvolgeva.
I loro sguardi erano così persi l'uno nell'altro da parere indistinguibili. Verde nel verde, fermezza e dolore coniugati in un unico vibrante respiro. Silenzio.
Bran percepiva il cuore battergli sempre più rapido, frenetico, pungolato da un presentimento oscuro. Aveva paura. Riusciva quasi a
fiutare nell'aria ciò che stava per succedere. E aveva paura, fottutamente paura, ancora più paura di quando Jaime Lannister gli aveva sorriso dolcemente scagliandolo giù da quella torre -ancora più paura di quando aveva scoperto che Theon Greyjoy era un traditore. E Bran ebbe la certezza che, in quel preciso momento, anche il cuore di sua figlia stesse pulsando all'impazzata, sotto i finimenti di rame del vestito candido che indossava.
D'un tratto, non volle assistere fino alla fine.
-Jojen, tu... devi aiutarmi... aiutarmi a...-
Levenna precipitò sulle labbra di Jojen come se si stesse lanciando in una voragine senza ritorno.
Quei brevi, infiniti istanti furono in apnea per Bran. Ciò che davvero lo ferì non fu lo sconcerto, l'incredulità; al contrario, la cosa più terribile era quella sorta di ironica accettazione, di mesta rassegnazione, come se in fondo l'avesse sempre sospettato.
E l'aveva sempre sospettato.
Levenna è... qualcosa di meraviglioso. Non aveva forse detto così? Qualcosa di meraviglioso... Quelle parole gli morsero la nuca. Il silenzio si fece insopportabile come una cappa di piombo rovente, e quel bacio parve non finire mai, sospeso nella dimensione dell'eternità dell'orrore.
Poi, dopo l'infinito, l'inferno e tutto quel che lo segue, Jojen la scostò.
Con dolcezza, con riguardo, certo, ma la scostò.
-Levenna, no. Ti prego. Non costringermi a dire quel non vuoi sentire.- pronunciò scadendo le parole, le mani ancora sulle sue spalle. I suoi occhi erano velati d'una fermezza stoica come il metallo e pallida come le lacrime. Non parve avere intenzione di dire altro.
-Che ami soltanto lui? Lo so.- La ragazza si limitò a fissarlo, con un sorriso beffardo sulle labbra e una cicatrice nello sguardo. -Lo so già. Mi viene ostinatamente impedito di scordarlo ogni singolo giorno, dopotutto.-
-Non ho mai amato nessuno prima di lui,- asserì Jojen, lentamente, -non mi è stato dato di sopravvivergli per amare dopo. L'ho amato, lo amo ancora.-
Levenna annuì con il capo, una volta, due, tre. Nelle sue pupille, il vuoto. Sul suo viso, d'un tratto, v'era la stessa tristezza che minacciava di sfregiare il volto di Meera Reed.
-È questo il motivo per cui io e Brandon Stark non siamo mai riusciti ad essere padre e figlia. Come
potrei dimenticarlo?-
E Bran, spettatore impotente, pensò che era vero. Pensò che quell'inspiegabile risentimento che aveva provato nei suoi confronti, nel momento aveva udito il suo nome per la prima volta, sarebbe rimasto fino a che non avrebbe esalato l'ultimo respiro.
Pensò, semplicemente, che la detestava. Una brace sconosciuta gli aggredì il cuore come se volesse arderglielo, ancora pulsante, nel petto.
Sua figlia rabbrividì, quasi che il vento, in vece di araldo, avesse soffiato sino a lei quello spiffero d'odio.
-Non mi voglio svegliare mai più, Jojen. Non voglio tornare alla vita reale.- Le sue parole dolevano come ferite.
-Alla fine ci si sveglia sempre,- ribattè lui. -fortunatamente.-
-Kenned morirà?-
La linea delle labbra di Jojen s'inasprì. -C'è ancora qualcosa che tu puoi fare.-
Levenna schiuse le labbra. Nelle sue iridi, tonda, elementare ed inestimabile, la speranza.
-Qualsiasi cosa.-
***
I polsi morsicati da una tagliente corda di fibre vegetali, i piedi scalzi a causa delle minute scarpette smarrite nel cammino, fecero rivivere a Myrcella quello ch'era ormai un frammento del suo passato. Ricordava vividamente quel giorno lontano, in cui aveva posato le piante dei piedi sulla neve illibata del Nord, in cui si era presentata al cospetto di Brandon Stark, in cui Rickon l'aveva condotta per la prima volta nelle segrete e le aveva detto che la parola onore è offensiva, sulle labbra di un Lannister... Solo che adesso era tutto alla rovescia. Era tutto sbagliato.
Suo zio Jaime le fece salire molte scale, senza più pronunciare una parola. Si chiese, vagamente disinteressata, dove volessero rinchiuderla: realizzò che probabilmente l'avrebbero condotta nella torre più alta, perchè così per Rickon sarebbe stato eventualmente più difficile raggiungerla, senza farsi cogliere in flagrante. Sorrise, e provò quasi compassione per i suoi familiari. Non avevano idea del nemico che stavano per affrontare. Non sapevano com'era fatto Rickon, non conoscevano l'ostinazione con cui egli si impuntava quando desiderava qualcosa. Non si sarebbe lasciato scoraggiare davanti a nulla, lui; se l'avesse voluta di nuovo al suo fianco, cosa più che ovvia, l'avrebbe recuperata, e basta.
La fanciulla, attenta a non attirare l'attenzione, tastò prudentemente la federa nascosta cucita all'interno del suo vestito: ne aveva fatta applicare una in ciascuno, in modo da poter portare sempre con sè l'arma che Rickon le aveva donato, il prezioso corno proveniente da Skagos. Si accertò che fosse ancora lì riposta, intuendone con i polpastrelli la sagoma lunga ed affusolata, e si sentì rassicurata. Non aveva avuto il tempo di estrarlo quando Jaime era sopraggiunto, perchè l'aveva fatto alle sue spalle, all'improvviso -e lei mancava dei riflessi della guerriera- per poi bloccarle le mani dietro la schiena, vanificando ogni possibilità di recuperare l'arma dal nascondiglio. Invece che insistere per cercare di sguainarla, Myrcella aveva ritenuto più furbo attendere pazientemente di rimanere sola, o comunque di vedere la sorveglianza allentarsi attorno a lei, e solo allora trovare il momento giusto. Continuava ad avere le mani legate, in fondo. L'importante era che il corno fosse ancora lì e che nessuno sapesse della sua esistenza.
Quando finalmente giunsero sulla cima di quella che a Myrcella parve la torricciola più alta della Fortezza Rossa, ai loro occhi si presentò soltanto una piccola stanza circolare, disadorna, dalle pareti acciottolate di grossi mattoni squadrati. Era talmente insignificante che lei non l'aveva neppure mai vista, in tanti anni che aveva trascorso lì. Però era in alto e, cosa altrettanto importante che non mancò di notare, v'era al centro una botola protetta da sbarre di ferro: l'ideale per una fuga improvvisata. Per il resto, nemmeno una finestra o una traccia di mobilia.
-Un bel cambiamento, rispetto agli appartamenti che avevo prima di andarmene.- commentò Myrcella, con voce leggera ma non esente da un pizzico di asprezza.
Un bel cambiamento, rispetto al temperamento che avevi prima che Rickon Stark ti fottesse, pensò Jaime con tristezza. Altrettanto odioso gli suonava quell'andarmene, come se fosse stata fin dall'inizio una sua scelta libera e consapevole, e non un lurido rapimento consumato da un bruto selvaggio e forsennato.
-Spero sia ugualmente di tuo gradimento.- rispose, con voce monocorde. -È solo un alloggio temporaneo. Quando l'assedio sarà finito...- Esitò.
-... se vincerete.- aggiunse la fanciulla, con placido sarcasmo, sorridendo fra sè. Vincete. Se voi Lannister vincete.
-... sarà re Tommen a decidere il tuo destino.- concluse Jaime, con voce ferma e sguardo imperscrutabile, in cuor suo a disagio. Questa nuova Myrcella lo spiazzava, gli impediva di reagire, di provare un sentimento chiaro e comprensibile come rabbia o delusione, ma solo un groviglio di debolezza e malinconia bizzarro ed ingovernabile. Non sapeva se voleva abbracciarla o metterla in punizione. Non sapeva se era felice del suo cambiamento, che l'aveva resa più donna, o se fosse indiscutibile l'imperativo dell'indignazione e della costernazione per quel radicale tradimento. Come tutti i figli suoi e di Cersei, anche Myrcella era oggetto del suo affetto, odio ed indifferenza contemporaneamente, sporadicamente ed enigmaticamente. Non riusciva a riconoscerla come qualcosa di proprio, su cui esercitare un potere, un giudizio, una condanna. Non riusciva a decifrarla, a classificarla.
Jaime indicò alla figlia il pavimento, per farle intendere di sedersi; accidentalmente, l'occhio gli scivolò sulle braccia di lei. All'interno dei gomiti, lunghe strisce blu e nere come inchiostri tracciavano il racconto d'una storia macabra ed irreparabile sulla sua pelle candida. Risalivano agguantando la spalla, possedendo il petto, aggredendo il collo, invadendo la nuca. Più Jaime nè cercava, più ne trovava, sconvolto ed atterrito dall'orrore.
Non potè trattenersi dall'allungare una mano e scostarle la gonna del vestito, incredulo; Myrcella lo lasciò fare, noncurante, quasi assorta nelle proprie meditazioni. Sul fianco e sulle cosce di lei, come sospettava, si allungavano chiazze viola merlettate di verde, manifestandosi a macchie e puntini come un morbo pestifero, inerpicandosi sul suo corpo come una bizzarra pianta rampicante.
-Questi,- biascicò, concitato, indicandoli uno ad uno, -è stato lui a farteli?-
La fanciulla non si scompose; non lo guardò nemmeno, come se desiderasse ignorare la sua presenza.
-Sì. Risalgono a tre mesi fa. Allora eravamo solo all'inizio. Questi sono vecchi. Questi invece sono nuovi.- spiegò, sfiorandoli con il dito indice. Con la serenità con cui diceva tutto ciò, pareva sfidarlo a protestare, a controbattere, ad infuriarsi. La sua voce era di velluto. -Lui mi ama, mi desidera. Desidera ogni parte di me. Ci tiene a marchiarmi. A ribadire che sono sua.-
-Rickon Stark è pazzo.- replicò Jaime, scuotendo la testa con una smorfia di disprezzo.
La fanciulla lo fulminò con lo sguardo, scontrosa.
-Non capisci, zio Jaime. Nessuno di voi capisce. Lui ha bisogno di amore.- Accentò quell'ultima parola con un vigore quasi rabbioso.
Jaime fece una smorfia stomacata. -L'unica cosa di cui ha bisogno è una spada nelle budella. Ti ha stuprata, Myrcella. Sai cosa significa?- Fissò la figlia negli occhi, con gravosa intensità, sillabando quelle parole con astio faticosamente trattenuto; e lei sostenne il suo sguardo senza vacillare, con chiusa ostinazione. -Significa che ti ha costretto a fare sesso con lui contro la tua volontà. Un uomo simile non ti ama, ed evidentemente non merita di essere amato. Tutto questo, a partire dai lividi fino alla tua malata ossessione per lui, è frutto di un tragico, traumatico stupro, che, a quanto sembra, non sei stata in grado di affrontare.-
-Io mi sono innamorata di lui, zio Jaime.- La risposta di Myrcella fu fredda ed un po' scostante. -Il fatto che non sappia spiegarti come è potuto succedere, non significa che non sia vero.-
-Non ci si innamora in sette mesi.- proferì il padre, con respingente scetticismo.
-A me è capitato in un istante.- rimbeccò la ragazza, seccamente.
-Tu credi di amarlo,- la corresse lui, -ma è solo un'illusione dettata dall'eco del potere che lui ha esercitato su di te finora. Una specie di inganno che stai giocando a te stessa.-
-In questo momento, è l'unica cosa di cui io sia davvero sicura.-
-Spiacente di aver mandato a monte la tua farsa, allora.- Jaime sospirò, passandosi una mano sul viso. Il fatto che la figlia non riuscisse a vedere ad un palmo dal suo naso, che persistesse ad essere così cieca, che si rifiutasse di ammettere l'evidenza da un lato lo infastidiva, dall'altro gli comprimeva il cuore di compassione. -Ragiona, Myrcella. Non puoi esserti innamorata di un uomo che ti ha fatto violenza...-
Myrcella, arrossendo, scattò come una biscia.
-Come puoi sapere, tu, come puoi capire?! Tu non c'eri. Tu non hai vissuto niente di tutto ciò.- lo accusò con voce stridula, vibrante di stizza. -Ma io c'ero, e posso assicurarti che quello che dici tu era solo nei primi tempi. Ero ancora molto stupida e molto confusa. Poi tutto all'improvviso è diventato chiaro, e ho capito. E mi sono concessa a lui, come qualsiasi fanciulla innamorata farebbe.- Distolse lo sguardo, intimidita all'idea di ritrovarsi a parlare di cose simili con suo zio.
Jaime sorrise senz'allegria. -Dopo che lui aveva già fatto i suoi porci comodi in ogni maniera, vorrai dire.-
-Stai zitto, zio Jaime.- esclamò Myrcella a quel punto, furibonda, avvampando di sdegno. Così, con quell'espressione indispettita sulle labbra e gli occhi serrati in due fessure, assomigliava quasi brutalmente a Cersei. Beh, anche l'atteggiamento è più o meno lo stesso, pensò Jaime con ironia.
Stava probabilmente per aggiungere qualcosa, quando Tommen Lannister entrò nella stanza a passo di carica. Al suo fianco e alle sue spalle, un drappello di guardie con lo stemma dei Lannister e dei Baratheon insieme lo seguiva silenzioso. Myrcella squadrò il re dei Sette Regni, senza sorridere. Gli parve diverso, ma probabilmente era per via dei capelli un po' più lunghi e della peluria dorata che egli aveva lasciato crescere sopra il labbro e sulle guance. E la sua espressione, anche, irremovibile in una disapprovazione che non si curava di nascondere. Mascherare i propri sentimenti non era abitudine di Tommen. Egli continuò a guardare la sorella, però, quando parlò, si rivolse a Jaime.
-Vedo che hai portato a compimento il tuo incarico.- osservò, lapidario. -Hai riscontrato difficoltà?-
-Nessuna.- assicurò il padre, aggrottando la fronte. -Era sola. Non c'è stato bisogno di versare sangue. Gli Stark non lo verranno a sapere prima che l'esercito si ritiri.-
Myrcella era irritata: si parlava di lei come se non fosse stata presente. -Quindi sei stato tu a dare l'ordine ti portarmi qui...-
Fu come se non avesse aperto bocca.
-Quel che importa non è quando. È sufficiente che Rickon Stark, nel momento in cui lo saprà, si precipiti a salvarla.- proseguì Tommen, indifferente. -Stavamo discutendo su chi dovesse farle la guardia, e io avevo proposto che fossi tu... però zio Tyrion dice che sei indispensabile per la mia difesa, che non mi devi abbandonare un attimo. Stessa cosa per ser Loras. Voi dovrete proteggere me, e io... beh, io ho cose più importanti da fare che stare qui. Io, te e ser Loras attenderemo il maledetto ai piani inferiori, così che, con un po' di fortuna, chi fa la guardia alla prigioniera dovrà soltanto annoiarsi. Vorrei che fosse ugualmente una persona di fiducia. Hai qualche proposta, zio?-
-Brienne.- disse Jaime, prontamente, senza esitare neppure un attimo. -Le affiderei la vita di chiunque. È un'eccellente spadaccina e la donna più coraggiosa che abbia mai conosciuto.-
Tommen annuì, approvando una per una le parole dello zio. -Molto bene. Vado ad avvertire lady Brienne: raggiungimi non appena lei ti dà il cambio.-
Si voltò e fece per uscire, impassibile, seguito da tutti i suoi uomini. Myrcella non riuscì a trattenersi, ancora risentita per essere stata ignorata.
-Hai commesso un terribile errore. Lui verrà a riprendermi e vi ucciderà tutti. Tutti.- Una strana nota trionfante storpiò l'ultima parola.
Proprio come la sorella sperava, Tommen s'immobilizzò: non riuscì a far finta di nulla. Quando si girò nuovamente, nei suoi occhi c'era uno squarcio quasi repellente alla vista.
-Queste parole potrebbero essere punite molto severamente, Myrcella. Non hai più i diritti di prima. Non sei qui in vece di principessa, ma di prigioniera. Per quel che mi riguarda, sei una Stark, adesso.- La sua voce non era solo dura e potente, ma diritta, solida, compatta, senza crepe. Apparentemente, immune al dolore: in realtà, nient'altro che dolore. Myrcella lo sapeva.
Percepì un ghigno sventato disegnarlesi sulla bocca. Le parole suonarono insolenti alle sue stesse orecchie.
-Lieta di sentirlo. Lo prendo come un riconoscimento d'onore.-
Tommen serrò i pugni; evidentemente, compiacerla non era il suo scopo. Sputò acido, cercando di impregnare le proprie parole di tutto il male che aveva subito per colpa sua- di tutto il male che voleva restituirle, in un vizioso circolo a cui l'imperfetta umana natura costringeva.
-O, per meglio dire, la puttana di Rickon Stark.- precisò fra i denti. La sorella, però, non si scompose affatto. Quell'insulto così volgare, che un tempo l'avrebbe fatta sussultare dallo sgomento e dall'imbarazzo -soprattutto se proferito dal fratello- non la toccò per nulla. A giudicare da quel sottile ghigno scellerato, i capelli sciolti e il viso proteso in avanti, pareva che il sangue le si fosse acceso nelle vene. Possibile che avesse aspettato di mettersi contro i Lannister, per diventare a tutti gli effetti una di loro?
-Meglio essere la puttana di Rickon Stark che la regina legittima di un re debole e incapace come te.- obiettò, inarcando le sopracciglia. -Rickon è un uomo. Tu sei un lattante che non sa nemmeno tenersi fedele la moglie.- Lo squadrò da sotto in su, con un sorriso carico di derisione e disprezzo. -Non ho mai visto al fianco di Rickon una sola guardia, e guardando te, circondato di uomini come una fanciulletta di dieci anni, mi viene da ridere.-
-Non osare mai più paragonarmi a quell'animale!-
Tommen non riuscì a credere di averla schiaffeggiata con tutte le sue forze, fino ad aprire un taglio sul suo labbro inferiore; quando vide un rivolo di sangue colare sul pavimento, inorridì della sua stessa inconsulta violenza e deprecò quel gesto impulsivo, e per un attimo fu quasi tentato di chiederle scusa. Myrcella rimase a capo chino, con il collo piegato come la corolla d'un giglio morente, i capelli sporchi di cenere come una cortina a nasconderle il viso. Le sue spalle bianche e belle fremettero.
-Sei un vigliacco.- sentenziò, ancora una volta senza lasciarsi travolgere dall'ira, ma pervasa solo da una superiorità quasi altezzosa, come una fedele che guardi agli spergiuri con commiserazione. -E non sai nemmeno tirare un manrovescio come si deve.-
Tommen recuperò il respiro, scosso dagli ansiti. Un'espressione di pena gli arricciava la fronte, sciupando l'aureo barbaglio della sua adolescenza. Quandò parlò, lo fece estorcendo alla propria gola una sillaba dopo l'altra, con una fatica riottosa che sapeva di ruggine.
-Rickon Stark stacca la carne umana dai corpi vivi, divora le interiora delle persone, beve sangue invece che vino. E tu, mostrando la tua devozione per lui, non fai altro che renderti complice dei suoi crimini. Gioisci, Myrcella: magari morirete insieme.- La linea della sua bocca era severa come mai prima d'ora, quasi estranea a lui stesso. 
Myrcella scosse lentamente la testa, sollevandola con gran dignità, come una regina che raddrizza il proprio diadema. Il suo sguardo era lontano, teso a contemplare l'orizzonte. Il suo culto incrollabile le ossidava di certezza gli occhi verdi. Così sembrava molto più saggia di quanto effettivamente fosse.
-Sei un povero illuso, Tommen. Ma non voglio sprecare altre parole con te: lui sta arrivando.-
Tommen non raccolse quell'ulteriore provocazione; il fruscio del suo mantello vermiglio fu la sua replica. Pochi secondi dopo, la stanza era vuota.
Jaime fu quasi contento di andarsene. La strana ragazza sconosciuta che aveva preso il posto di Myrcella era oltre il suo aiuto, oltre le parole di chiunque. La salutò con poche parole; lei parve non accorgersene neppure. Stava riflettendo pienamente, ma senza doversi sforzare, come un astronomo che si bea della luce della propria stella e si crogiola nella soddisfazione di averla trovata.
Non esiste l'amore contro natura, semplicemente perchè non esiste nemmeno un amore secondo natura. L'amore è la potenza che si oppone alla natura, non intrinseca alla realtà in cui gli uomini vivono ma intrinseca a loro stessi. È l'unica arma che i poveri mortali hanno contro la schiacciante inclemenza della fatalità. Se quello che Myrcella provava fosse stato qualcosa di sbagliato, non avrebbe sentito quel calore, quell'ardore che la spingeva fra le braccia di Rickon, quella sensazione di benessere così imperiosa ed irrinunciabile. Se aveva bisogno di lui, se lui era l'unico a saziare il suo cuore e manipolare la sua anima, era perchè Rickon era giusto, per lei, sotto tutti gli aspetti.
All'improvviso, a strapparla ai suoi pensieri fu l'arrivo di una donna molto alta e dai corti capelli biondi.
-Brienne.- salutò Myrcella, atona.
-Principessa.- mormorò lei, muovendo gli occhi azzurri in un'altra direzione, a disagio. La giovane Lannister notò che, se prima aveva provato una spontanea simpatia nei suoi confronti, ora tutto questo s'era essiccato in un'apatia quasi patologica. Solo la visione di Rickon avrebbe suscitato una reazione in lei. Nonostante non avesse motivi per volere il bene nè il male di Brienne, Myrcella realizzò che, se qualcuno l'avesse assassinata sotto i suoi occhi in quel preciso momento, ella non avrebbe provato altro che una pallida, acerba, pigra curiosità, senza che lo stato di noia catatonica in cui si trovava venisse guastato.
-Mi dispiace.- aggiunse Brienne, aggrottando le sopracciglia folte e sedendosi con la schiena contro la parete opposta, di fronte a lei.
Myrcella non riuscì a sorridere. -Anche a me.-
Non parlarono più. L'inquietudine della notte calò lenta, senza che le palpebre della giovane Lannister cedessero al sonno.
Arriverà, era il pensiero a cui tutte le altre sue vaghe, sformate riflessioni sfociavano, grate, esultanti e pacifiche, in un getto di luce calda e morbida, arriverà.
Mi salverà.
***
Poco prima che la serata crollasse e soffocasse fra le proprie macerie, come un irrecuperabile incubo, Meera Stark stava pensando al proprio matrimonio, proprio quello che l'aveva fregiata d'un nome così solenne e potente. Non era stata una vera festa: una cerimonia ufficiale, più che altro, una formalizzazione a cui spettatori silenti come ombre avevano assistito con occhi di marmo e cuore freddo. L'ultimo matrimonio celebrato dai vicini della casa Stark era stato una carneficina; dopo le Nozze Rosse, nessuno aveva più voglia di festeggiare. Si erano sposati proprio lì, il re del Nord e sua moglie: nella sala del trono, di fronte ad un septon, la cui voce erano l'unico pallido rumore che si potesse intuire fra le buie pareti caliginose della pietra. L'atmosfera era rarefatta come lava. L'unione di Brandon Stark e Meera Reed fu stipulata al modo di un funerale, in un silenzio attanagliante; al punto che lei fu quasi sollevata, quando Bran si scrollò di dosso il manto di broccato grigio con ricamato sopra il metalupo, e la sposa dovette inginocchiarsi davanti al suo scranno affinchè egli potesse sistemarglielo sulle spalle: la stoffa pesante aderì alla sua schiena parzialmente nuda e le cinse le braccia in una carezza rinfrancante, e il gelo punse un po' meno crudelmente. Nella sua anima, però, rimase il buio.
Al resto della serata, i sovrani assistettero da sopra i loro nuovi troni. Meera valutava il peso della propria corona sul capo, il cuore in gola, consapevole che non sarebbe mai stata in grado di stimarlo davvero, mentre con lo sguardo esaminava il sordido spettacolo di quei commensali tristi, la testa china sul piatto, seduti in fila sulle panche a quei lunghi tavoli scuri, il frastuono delle stoviglie ad assordare l'udito. Le piogge di Castamere risuonavano invisibili nell'aria, le pareti celavano chiazze di sangue, la morte di Robb impregnava l'aria come fumo. Nessuno parlava.
Il vuoto sterminato dell'immenso salone disadorno, all'improvviso, aveva sopraffatto e divorato ogni cosa. Bran non fingeva neppure di mangiare: fissava quella messinscena con occhi inclementi, crepati come i mattoni del suo castello, e di tanto in tanto lanciava fugaci occhiate a Jojen, quasi supplicandolo di dargli la forza per proseguire quel gioco infimo e necessario. Eppure Meera non l'aveva ancora compreso, il dramma che l'attendeva oltre le porte di Grande Inverno, non l'aveva ancora intuito. La regina di Grande Inverno ricordava di non aver mai partecipato ad un matrimonio triste come il proprio; d'altronde, esso aveva suggellato un'unione che aveva portato ad entrambi soltanto dolore. Bran soffriva per averle dovuto raccontare così tante bugie, Meera soffriva per averle dovute ascoltare. Eppure, non riusciva ad avercela sul serio con suo marito, per l'amore che provava per il di lei fratello. Lo capiva, semmai. Meera stessa era sempre stata stregata da Jojen, dai suoi occhi che sembravano contenere tutta la saggezza del mondo. L'aveva protetto, quel piccolo fratello debole, e non aveva mai sofferto per questo. Le sembrava un compito così importante, un ruolo di cui andare fiera. Per lei difendere Jojen era sempre stato più che un dovere: una missione. Fin da quando l'aveva visto per la prima volta contorcersi, per via degli spasmi che l'aggredivano durante le visioni, aveva ripromesso a se stessa che non l'avrebbe mai lasciato solo, ad affrontare quella maledizione. Meera ci teneva a fargli sentire la propria vicinanza; s'impegnava a non farlo crollare in una solitudine elitaria ed inoppugnabile, che avrebbe rischiato di estraniarlo dal mondo stesso, per rilegarlo nella promessa fittizia d'un futuro incompiuto. Gli stringeva la mano, gli mormorava sono qui. Era il loro modo di volersi bene.
Sempre insulso, sempre irrisorio, se paragonato a quello fra Jojen e suo marito, ad ogni modo. Lei, per Jojen, non era mai stata una priorità. Un affetto relativamente rilevante, forse. Nulla di che. Forse c'era persino del vero in questo, forse davvero Meera non meritava d'avere un posto speciale nel suo cuore: aveva fallito. Jojen era morto solo, dopotutto, senza nessuno che gli stringesse la mano. Si era tagliato la gola, da solo. Lei non c'era. Lei non l'aveva salvato. Lei l'aveva abbandonato.
Stava ormai per alzarsi da tavola insieme a Osha, oppressa da quei pensieri insostenibili, quando irruppero le guardie.
-Maestà, intrusi nel castello!-
Meera avvertì un tuffo al cuore. Si sentì d'un tratto come se le fosse stata gettata una secchiata d'acqua gelata addosso.
-Come sarebbe a dire?! Le mura sono sorvegliate e le sentinelle non-
-Vogliamo consultare anche l'oroscopo o possiamo darci una mossa?!- la interruppe Osha, sguainando la spada che portava nascosta sotto la pelliccia e afferrando la regina per il braccio. La giovane cercò di riordinare i pensieri, smarrita. Prima di tutto, Kenned.
-Dobbiamo portare il principe al sicuro.- dichiarò. -Date l'allarme e fate entrare nel castello tutti i nostri soldati. Sappiamo quanti invasori ci sono, qui dentro?-
-Una cinquantina, Maestà.- rispose il capo delle Guardie. Meera era perplessa.
-Come sperando di assediare Grande Inverno con cinquanta soldati? Sono pazzi?-
Tra l'altro, attualmente non sapeva nemmeno se Ramsay Snow era o no fra questi; poteva essere rimasto all'esterno per sicurezza, oppure poteva aver deciso di entrare per comandare di persona l'assedio e riprendersi Theon.
-No, sono furbi.- bofonchiò Osha. -Apri gli occhi, amica mia! Loro vogliono che tu faccia esattamente quello che stai per fare, cioè indebolire la difesa all'esterno, di modo che il grosso delle truppe possa avere l'accesso libero senza problemi. Lascia le sentinelle lì dove stanno, a respingere le truppe: di questi qui dentro, ce ne occuperemo noi.-
Meera si stupì del cinismo di quel ragionamento, del sangue freddo che Osha era riuscita a mantenere, pur in una situazione così difficile; lei non aveva di certo quella prontezza. La bruta era cresciuta in un mondo diverso dal suo, dopotutto, dove la propria sopravvivenza spesso viene preservata solo mettendo a repentaglio quella altrui, dove la morte è una consuetudine quotidiana e le armi sono ancora più indispensabili delle pellicce e delle provviste. Anche Meera, in quanto regina del Nord, avrebbe dovuto cercare di riflettere con scrupolo e criterio: ne andava della vita del suo bambino -dei suoi bambini.
-Ricapitoliamo, ce ne occuperemo noi. Tu, io e dieci guardie?- domandò scettica.
-Possiamo andare a reclutare la principessa dei calamari.- propose Osha, lanciando un'occhiata circospetta alle scale, quasi temendo di veder correre giù all'improvviso un drappello di uomini dei Bolton. Meera annuì distrattamente, poi il pensiero si fece strada con più violenza nella sua mente.
-Yara...- mormorò. -Qual è il primo posto in cui si recherebbe Ramsay Snow? La cella di Theon... e Yara era andata a trovare Theon!-
Le due non persero altro tempo.
-Venite con me.- tagliò corto Meera, rivolta ai soldati. -Osha, prendi Kenned. L'unico posto attualmente sicuro in cui può stare è con noi.-
Esaurirono i gradini in gran fretta: la regina del Nord era convinta di trovare Yara riversa in una pozza di sangue e Theon sparito nel nulla. D'altronde era quello l'obiettivo di Ramsay.... ma la speranza che Bolton non si fosse premurato di agire così in fretta v'era comunque: dopotutto, non voleva forse anche prendere Grande Inverno? Meera sperava vivamente che Yara fosse ancora viva -sì, era una ragazza presuntuosa e spesso sarcastica fino ad apparire detestabile, però, dopo due settimane insieme, aveva iniziato a provare una sorta di affetto per lei -forse per via dello sfortunato destino che condividevano, di donne e sorelle.
Mentre loro salivano, le truppe dei Bolton stavano giust'appunto scendendo. Meera strinse i denti.
-Osha...-
-Lo so, lo so. Non te lo toccherà nessuno, il tuo bambino, puoi starne certa.- udì rispondere alle proprie spalle.
La regina del Nord, confortata, estrasse la spada dal fodero: appena ricostruita Grande Inverno, Bran aveva chiamato un maestro d'armi affinchè istruisse la moglie con la spada; lei infatti fino ad allora era stata capace di combattere soltanto con l'arco, la lancia e la daga. Meera imparava in fretta, quando si trattava di armi, ed in quel momento ebbe modo di felicitarsene. Lanciò un'occhiata ai soldati: fra essi, nessuno era Ramsay Snow. Non l'aveva mai visto di persona, certo, però era convinta che, qualora si fosse parato sul suo cammino, l'avrebbe riconosciuto immediatamente. Non era il genere di persona che passava inosservato, a quanto pareva.
Meera si sentì invadere da quel furore febbricitante e vivido che da un paio di giorni la rendeva irrequieta, ed agì come un combustibile sulla sua rabbia repressa, sul suo dolore snervante. Alzò la spada e disarmò senza difficoltà l'inetto che le stava davanti, presumibilmente rompendogli un polso, e gli strappò la gola con un solo fendente, dove la carne fra l'elmo e il pettorale era scoperto. Il sangue schizzò fino a bagnarle le mani ed imbrattare gli scalini, rendendoli sdrucciolevoli. Meera non ebbe nemmeno il tempo di rimanere sconvolta da ciò che aveva fatto: dovette parare l'attacco d'un nuovo nemico, un po' più rapido nei riflessi. Più che il gesto in sè, ciò che era davvero incredibile era l'istintiva spontaneità con cui l'aveva compiuto, con la schietta abilità di una mercenaria consumata. Non provava nè rimorso, nè pena, nè afflizione: soltanto uno sgomento inebriato, sbrigliato, estasiato. Perchè le era piaciuto. Aveva tolto la vita ad un essere umano, e le era piaciuto. Con qualche affondo nello stomaco dell'uomo, imprudentemente privo d'armatura, finì il secondo nemico; e poi ve ne fu un terzo, e un quarto, e poi Meera perse il conto. Il sangue di quanti uomini si stava essiccando sulle sue dita? Lanciando una fugace occhiata al proprio completo, lo vide impiastricciato di macchie che quasi la spaventarono, e le fecero vorticare pericolosamente la testa. Preferì non pensarci, e concentrarsi solo sulla propria mano che colpiva ed uccideva, con la letale celerità della coda d'uno scorpione. Perchè, in effetti, era divertente volteggiare da un gradino all'altro, ed era addirittura gradevole il calore palpitante del liquido vitale fra le sue dita, che gocciolava e le mordeva il polso.
Sapeva ch'era rischioso abbandonarsi così alle proprie sensazioni, che avrebbe dovuto rimanere più guardinga e lucida, ma era una tentazione irresistibile. Quando, grazie all'aiuto delle sue guardie e della lancia di Osha, il drappello di uomini che li avevano ostacolati stramazzava esanime sulla pietra, Meera corse al piano superiore, lasciando agli altri i pochi rimasti.
Una sentinella le venne incontro. -Maestà, la battaglia fuori dalle mura è tremendamente feroce. Gli uomini dei Bolton eguagliano il nostro numero.- ansimò.
Meera si affacciò alla finestra, ansiosa: riusciva a vedere poco e nulla, però non potè fare a meno di notare lo sciamare impetuoso ed abbondante di tutti i soldati nemici, ad abbattersi ancora ed ancora contro le mura, come tante piccole formiche nere; tanto che la regina, suggestionata da quella visione, si ritrovò davvero a temere per la salvezza di Grande Inverno e dei suoi abitanti. Ma non può essere espugnata di nuovo, cercò di convincersi, Bran ha preso delle precauzioni in merito. Questo non accadrà.
Mentre era assorta in quelle meditazioni, non si accorse di un guerriero che sopraggiungeva: una lama squarciò senza difficoltà la trama leggera della sua cotta di maglia, così come la pelle e la carne del braccio sinistro. Meera cacciò un urlo, ma prima che potesse reagire l'uomo la disarmò, e ormai nulla gli impediva di trafiggerla al petto. Non fece altro che alzare l'arma: la testa venne spiccata da un colpo rapido e precisissimo, che la fece letteralmente saltare via, fino ad urtare con un rumore disgustoso la parete e rotolare in una scia di sangue quasi melmoso. Meera, ripresasi dal raccapriccio, il viso lordo di rosso, fissò con stupore la responsabile.
-Yara!- esclamò, senza trattenere la sorpresa ed anche un certo sollievo. Era ancora più contenta di averla incontrata viva... sia perchè altrimenti le sarebbe dispiaciuto, sia perchè senza il suo tempestivo intervento sarebbe stata spacciata.
Yara sorrise quasi con ferocia: i capelli erano indistinguibili dai grumi di sangue e le vesti ne erano intrise.
-Lo so che ci ho messo tanto, però cercavo questa.- Brandì la scure che stringeva fra le mani, e la cui lama ricurva era ormai macchiata. Era grossa fino all'inverosimile ed aveva l'aria di pesare straordinariamente. -L'ho presa in prestito dalla vostra armeria. Non avrei mai potuto combattere degnamente, senza.-
Meera avrebbe voluto chiederle se era proprio sicura di saperla maneggiare così bene, perchè era davvero mostruosa, però ne aveva appena avuto la riprova, e bastava rivolgere lo sguardo alla testa mozzata per accertarsene.
-Come mai questa predilezione?- domandò invece.
Il ghigno di Yara si fece più ampio ed aguzzo. -Alle Isole di Ferro, ad ogni ricevimento che si rispetti, si balla la danza delle dita.-
Meera aggrottò la fronte. -La danza di che?-
-Te lo racconterò un'altra volta.- rimbeccò l'altra. D'un tratto, Shireen fece capolino alle sue spalle. Sopra la camicia da notte, portava un mantello di morbida lana color fragola.
-Principessa, non dovreste stare qui!- si spaventò Meera. -È troppo pericoloso...-
-Potrei dire lo stesso a te!- ribattè la ragazza. -È una vera fortuna, a proposito, che mia madre sia in visita dai Karstark. Altrimenti avrei dovuto preoccuparmi anche per lei.-
-L'ho trovata mentre venivo in vostro soccorso. Non c'è stato modo di convincerla a rimanere in camera sua.- spiegò Yara. -Dove sono Osha e le tue guardie?- 
-Stavano combattendo contro dei soldati, sulle scale.-
-Devi raggiungerli e farti medicare quanto meglio si può questa ferita.- Yara fece un cenno ad indicare il suo braccio. -Sembra piuttosto brutta. Sei stata davvero un'incosciente. Non potevi stare un po' più attenta?!-
Meera fece una smorfia; bruciava insopportabilmente, come se il sangue fosse all'improvviso diventato rovente, e solo l'idea di muovere la spalla l'atterriva; ma non l'avrebbe mai ammesso davanti a Yara.
-Hai ragione, ma sul serio, non è nulla di grave. Giusto una benda per fermare l'emorragia...-
-... a meno che l'osso non sia rotto.- borbottò l'altra. -Su, muoviti, non abbiamo tutto il giorno.-
Shireen attirò la loro attenzione. -Scusatemi, ho una cosa da chiedervi.-
-Giusto, dobbiamo trovarti un posto dove tu possa trascorrere le prossime ore.- rammentò Meera. Shireen strinse le labbra.
-Se foste disposte a tenermi con voi, giuro che non vi infastidirò nè vi rallenterò. Farò la brava e cercherò di non essere d'impiccio. Solo, vi prego, non rinchiudetemi in qualche torretta come se fossi l'unica principessa sul pisello della comitiva. Voglio venire con voi.-
Meera e Yara si rivolsero uno sguardo, infine annuirono all'unisono. Anche s'era piuttosto esile e delicata, la principessa dei Sette Regni era una fanciulla dal cuore nobile e l'animo coraggioso. Aveva trascorso metà della propria vita sulla Barriera, circondata da bruti e guardiani della notte, fra i ceffi più loschi di Westeros. Sapeva badare a se stessa.
-Sei abbastanza grande da decidere per te.- tagliò corto Yara. -Non possiamo proibirti nulla. Solo, non cacciarti nei guai.-
Mentre proseguivano per il corridoio, squadrò le mani e le impronte rosse sull'elsa della spada di Meera.
-Il battesimo di sangue è avvenuto, a quanto vedo, ed in pompa magna.- commentò, ironica.
-Puoi ben dirlo.- sospirò Meera. Shireen avvertì un leggero brivido sulla spina dorsale: le sembrava una ragazza troppo gentile e cordiale, e non riusciva proprio ad immaginarla uccidere.
Osha venne loro incontro, circondata dai soldati; teneva fra le braccia il fagotto di pelliccie che le era stato affidato, in cui Kenned s'era svegliato ed aveva cominciato a piagnucolare con voce alta e squillante. Gli occhi della donna scivolarono subito sulla manica strappata e la profusione di rosso che vi sgorgava impressionante.
-Cosa ti sei fatta?!- sbraitò, storcendo il naso.
La regina del Nord sorrise stancamente. -Sei la bambinaia di Kenned, non la mia.-
-Io non sono la bambinaia di nessuno.- puntualizzò Osha, pur senza riuscire a mantenere un atteggiamento scontroso, perchè troppo in pensiero. -Ti hanno attaccata?-
Lei annuì con il capo. -Mi hanno teso un agguato alla finestra.-
-Così impari ad allontanarti da sola. Devi stare attenta, Meera, te lo ricordi?-
Lo sguardo di Osha era così eloquente, così perforante, che la ragazza avvertì tutta la gravità di quell'accusa e il sapore infimo del pentimento.
-Sì che me lo ricordo!- protestò, seccamente, chinando il capo ed arrossendo. -Ho commesso soltanto... ecco... è stata soltanto una distrazione. Non succederà più, vedrai.-
La donna brontolò fra sè e, reggendo il bambino con un braccio, strappò una manica del proprio mantello con l'altra. Con gesti pratici ed affrettati, l'avvolse strettamente alla ferita.
-Spero per te che non sia infetta.- replicò, sbrigativa. -Ad ogni buon conto, te la controllerò più tardi, quando sarà tutto finito. Per ora può bastare così...-
Meera, Osha, Yara, Shireen ed i soldati proseguirono nell'intrico dei corridoi. La regina del Nord si stava giusto chiedendo dove accidenti si fossero cacciati gli altri invasori, quando:
-Maestà!- gridava un sottoposto, accorrendo trafelato. -Ramsay Bolton sta salendo sulla Torre Spezzata!-
Le tre donne si scambiarono uno sguardo inquieto. L'unica spiegazione logica era che, da lì, avrebbe potuto assistere all'intera battaglia.
-Devono esserci sfuggiti da qualche strana scala secondaria.- sbuffò Yara, irritata. -Su, andiamo a sbudellare lui e quel verme di Theon.-
-Cos'ha fatto Theon?- Osha inarcò le sopracciglia scure.
L'erede dei Greyjoy s'incupì. -Lasciamo perdere, che è meglio.-
Quando cambiarono strada per avviarsi verso la Torre Spezzata, trovarono un drappello cospicuo di piantoni armati a rallentarle. Le guardie di Grande Inverno sguainarono le spade quasi all'unanimità, in una risata lunga e tagliente.
Yara strinse il manico della sua scure, sorridendo. -Bene, ne vogliono un altro po'. Che ne dite di-
Nel momento stesso in cui cercò di sfoderare la spada, Meera si piegò in due con un gemito acuto.
Shireen rabbrividì, come se quell'urlo le avesse trapassato il cuore. -Meera!-
***
Nel frondoso sottobosco che costeggiava le alte fortificazioni di pietre scabre, la luna scostava i rami e cercava i piccoli funghi umidi che, anemici e minuti, crescevano lenti fra le radici nodose delle querce. Tre sagome procedevano fra i tronchi, aggrappandosi con le dita alle fessure nelle cortecce, rapide e furtive; i lembi dei loro mantelli fluttuavano attorno alle caviglie, annodandosi e districandosi dai rovi che li ghermivano, come artigli rattrappiti. Masso dopo masso, calpestando uno strato di erba secca e croccante, le figure avanzavano in una marcia silenziosa. Il sentore odoroso degli aghi di pino pungeva le narici, giungendo di soppiatto come l'apprensione. Poco distanti da loro, un drappello di uomini li seguiva senza levare un fiato nell'aria irrigidita dalla brezza notturna.
La sagoma più alta, il capo velato da un manto azzurro, s'affrettò fino a che non raggiunse la pedana di piastrelle smaltate. Non appena vi mise cautamente piede, producendo rumore discreto, aguzzò la vista e sfogliò il buio con attenzione; quando vide una guardia farle un cenno col capo, il suo viso adombrato s'illuminò in un sorriso rasserenato.
-Venite.- sussurrò in fretta alle due figure che attendevano appunto un suo segnale, guardinghe come animali selvatici. I cappucci vennero scostati soltanto quando giunsero all'ombra dello stipite dell'uscio, nascosti a sguardi indiscreti. La più alta era una bella ragazza dai capelli ramati e i tratti alteri, arrossita sugli zigomi.
-Non troverete sentinelle da qui ai prossimi dieci metri.- la rassicurò la guardia, a mezza voce. -Lì c'è qualcuno che vi indicherà come giungere agli ingressi principali. Anche nella Sala del Trono.-
-Grazie mille.- bisbigliò Sansa, con un sorriso quasi euforico. Rickon era impaziente: non rilassava mai la fronte. La sorella intuì cosa gli passasse per la mente e si rivolse di nuovo alla guardia. -... e Myrcella Lannister? Ne sapete qualcosa?- domandò.
L'uomo scosse il capo. -No. Nulla. Sono informazioni troppo riservate. Le guardie incaricate di sorvegliarla sono fidatissime.-
-Capisco.- Sansa fece un cenno cortese con il capo.
-È davvero incredibile il modo in cui quel Baelish si prodiga per te.- commentò Rickon, tentando inutilmente di stemperare la tensione che gli opprimeva il petto.
La ragazza sorrise, quasi compiaciuta. -Petyr ha uomini ovunque. Non ha dovuto prodigarsi quasi per niente, in realtà, solo dare qualche disposizione... un po' di aiuto gratuito ci fa comodo, di questi tempi.-
-Gratuito? Non direi, cara sorella.- ghignò lui. -Nessuno fa niente per niente. Soprattutto non il gestore d'un bordello.-
-Smettetela di fare gli idioti!- esplose Arya, mantenendo però un tono di voce basso e lanciando occhiate inquiete qua e là. -Pensate a cose più serie. Avete qualche confessione di cui liberarvi? Potremmo benissimo essere morti, da qui a due ore.-
-Il che, lo ammetterai, non è una gran novità.- replicò la sorella maggiore, strofinando nervosamente le mani.
-In realtà ci sarebbe una cosa.- intervenne Rickon, voltandosi verso Sansa e guardandola negli occhi, quasi con un certo suo strano stupore, come se lui stesso per la prima volta se ne rendesse conto. Le parole suonarono bizzarre, troppo inusuali per la sua indole. -Mi piace la tua voce.-
Le sue guance s'imporporirono e la fanciulla schiuse le labbra, interdetta.
-... per quale motivo?- chiese infine, il cuore gonfio d'uno strano sentimento d'affetto, che finalmente cominciava ad assomigliare a quello che un tempo doveva aver provato per lui.
-Mi sembra di ricordarla.- raccontò il fratello, corrugando la fronte nel tentativo di rivangare un passato infestato dal fango dei ricordi deteriorati. Il verdetto fu quasi stupefacente nella sua singolarità. -... di averla ascoltata mentre cantava una canzone, molto tempo fa.-
Sansa si domandò ancora per quanto tempo il paragone con Catelyn Stark avrebbe dovuto invadere la sua vita, ma non volle mostrare il lieve disappunto che quell'affermazione aveva scatenato nei suoi pensieri. Per quanto riguarda Rickon, il profumo dei capelli di sua madre aleggiava ancora come lo spettro familiare dell'infanzia, che pareva quasi sognata una notte. Ma Catelyn non c'era più nel suo cuore. Solo Myrcella, c'era. Solo Myrcella capiva. Gli altri no. Nessun altro.
-Davvero, davvero commovente.- commentò Arya, nervosamente. -Dopo questo, direi che possiamo procedere. Vi ricordate tutto quel che dovete fare, vero?-
Sansa alzò gli occhi al cielo. -Arya, stai calma.-
-Ce lo ricordiamo.- intervenne Rickon, scandendo per bene le parole. -Ci ricordiamo ogni cosa.-
Arya annuì, torva. Pensava alla responsabilità che Gendry le aveva affidato, incaricandola di assalire la Fortezza Rossa dall'interno e far penetrare l'intero esercito del Nord di nascosto: non poteva fallire. Non ne andava soltanto della propria vita, ma anche della corona di Gendry. Tutto ciò che aveva imparato, dopo il colpisci con la parte appuntita di Jon, era teso a quel solo scopo. La responsabilità della vita di molte più persone di quante riuscisse ad immaginare gravava sulla sua testa.
Riuscì a sorridere a Rickon, ma solo flebilmente. -Attento a non andare incontro ad una morte lenta e dolorosa, fratellino.-
-Quando ti troverò stecchita dal moncherino di Jaime Lannister, prometto che non riderò.- ribattè candidamente il ragazzo.
Per qualche istante, si fissarono negli occhi con la fiducia reciproca che solo chi condivide il sangue può spartire.
Arya, insieme ad un manipolo di uomini, a Cagnaccio e Nymeria, proseguiva per il corridoio che, secondo l'uomo di Baelish, l'avrebbe condotta da chi le avrebbe dato le informazioni che cercava. Sansa avanzava verso il nucleo stesso della Fortezza, nella stanze da letto; Rickon, invece, sarebbe andato a cercare Myrcella. Ognuno di loro aveva un compito ben preciso -e il giovane Stark era ben determinato a portare a compimento il proprio senza intoppi. Il rapimento di Myrcella l'aveva fatto infuriare come nient'altro prima d'ora; sembrava quasi che i Lannister volessero di nuovo trascinarlo in quella condizione d'impotenza in cui versava prima, quella in cui loro gli sottraevano tutto ciò che aveva e lui rimaneva a guardare. Ma adesso Rickon non era più un ragazzino. Sapeva come farsi strada per ottenere quel che voleva. Aveva i mezzi per farlo. E loro avrebbero pagato cara quell'impudenza.
Myrcella, Myrcella... Myrcella e il suo sorriso esultante quando lo accoglieva la sera, tutto ciò che di lei era rimasto di innocente; Myrcella e le sue labbra profumate di sangue, che curavano le sue ferite e si strappavano sotto i suoi denti come petali. Rickon scosse la testa, istintivamente, ombroso. La doveva riavere con sè. Il pensiero di lei, nelle mani di un altro... Che Tommen Lannister non osasse prendere le abitudini di suo padre! Quell'idea lo fece imbestialire ancora di più, al punto che sputò per terra dal nervosismo. Ma avrebbe dovuto essere più discreto, più silenzioso... si stava comportando come un idiota, si rimproverò aspramente. Se non avesse mantenuto i nervi saldi, presto l'avrebbero scoperto e davvero non avrebbe mai recuperato Myrcella. Stava avanzando in un corridoio laterale, quando udì il rapido suono dei passi sulla pietra. Subito si ritrasse dietro un muro attiguo, immobilizzandosi; soltanto quando la figura lo oltrepassò in fretta, senza sorprenderlo, Rickon si permise di cercare d'identificarla -magari era una guardia che avrebbe potuto minacciare...
E invece era una donna: i suoi capelli erano boccoli lunghi e sontuosi, simili a spirali di velluto. Un'ampia gonna color vinaccia frusciava fra le sue gambe. E Rickon realizzò.
Prima che fosse troppo tardi, la raggiunse con un balzo, la spinse contro la parete, le conficcò un ginocchio fra le scapole ed estrasse la spada, tutto ciò quasi contemporaneamente.
Il viso che si presentò al suo sguardo non fu una vera e propria sorpresa: aveva visto dei ritratti della regina Margaery, per riconoscerla, ancora al tempo del torneo di Runestone, e poterla uccidere. Era una bellezza, non si poteva negarlo, e l'espressione apprensiva che le squarciava le pupille la rendeva ancora più appetibile.
-Urla, e scoprirai cosa significa affogare nel proprio sangue.- Rickon attese con un ghigno lento che la donna la riconoscesse. Lo smarrimento della regina dei Sette Regni non durò a lungo: l'affanno che le schiuse le labbra, così come la potente vampa rossa che le infiammò le guance, la fece apparire deliziosa.
-Guarda guarda... La nostra regina prigioniera gironzola per il castello tutta sola. Non te l'ha mai detto nessuno, che le donne che passeggiano di notte senza un accompagnatore rischiano di fare brutti incontri?-
Margaery Tyrell si riprese in maniera ammirabile.
-Brutti incontri, certo,- rispose, portandosi una mano all'altezza del viso e scostando un ricciolo, -oppure incontri interessanti. Era da tempo che desideravo fare la tua conoscenza, Rickon Stark.-
-Non trovo una sola buona ragione per cui qualcuno debba desiderare di fare la mia conoscenza.- replicò il ragazzo, risentito che i segni dell'effetto sorpresa si fossero già volatilizzati sul suo volto. -Dove stavi andando, Maestà? Magari possiamo fare un pezzo di strada insieme.-
Il filo della spada le carezzava il collo e la punta era delicatamente premuta contro la sua spalla, fino ad arrossarla con gran grazia. Era un peccato che non ci fosse un pittore, lì, ad immortalare una tonalità così preziosa; Rickon pensò che il fine disegno delle ossa, tutt'ora sotto la pelle -che proprio lì era traslucida e liliale come un'ala di libellula- sarebbe stato ancora più suggestivo... Al pensiero della consistenza sapida e fibrosa della carne sotto i denti, dell'aspra carezza del sangue sul palato, sentì la bocca colmarsi di saliva. Dopo, si sgridò, dopo.
Le labbra di Margaery s'incurvarono in un esitante sorriso ironico. -Potrei farti la stessa domanda.-
Rickon premette la lama contro il suo collo. -Potresti, è vero, ma prima risponderai alla mia.-
La donna percepì il respiro mozzarsi in gola, e faticò a deglutire. -I miei figli...-
-Non preoccuparti, dopo andiamo insieme a cercarli.- La voce del suo aggressore era quasi morbida, mentre, senza allontanare la spada, lasciava scivolare l'altra mano lungo il suo fianco, palpando rapidamente l'abito con le dita. Margaery seguì il suo gesto con lo sguardo solo per qualche istante; un occhio meno attento non avrebbe notato il simultaneo lampo di paura che era balenato sull'espressione delle sue labbra. Rickon esibì un ghigno allegro, indovinando i suoi timori.
-So che sembra che io stia facendo qualcosa di perverso, ma in realtà sto controllando che tu non sia armata.- Inarcò le sopracciglia con eloquenza. -Solo un idiota sottovaluterebbe una donna vedova per due volte.-
Margaery Tyrell trattenne il respiro, mentre la mano di Rickon perquisiva prudentemente il corpetto. Ovvio che, ad ogni modo, gli faceva un certo effetto. Era bella. Ed era spaventata. Per Rickon, non esisteva nulla di meglio.
O almeno, lo aveva creduto, fino a che non aveva incrociato lo sguardo di giada e piombo di Myrcella Lannister. Che non si era spezzato sotto il suo. Che non si era infranto nel buio, nè nel freddo, nè nel sangue, nonostante lei non conoscesse nessuna di queste tre cose.
Rickon non riuscì a trattenersi. Con un gesto languido, senza distogliere gli occhi da quelli della sua vittima, calò le dita lungo la sua coscia, trovò l'orlo della gonna, vi si insinuò sotto e salì. -No, sei assolutamente indifesa.- concluse candidamente.
Margaery ebbe un singulto e strizzò le palpebre, trattenendo un gemito. 
-Questo era decisamente qualcosa di perverso.- osservò.
-Sì, forse lo era.- sogghignò Rickon, ritirando la mano con disinvoltura. -Ma adesso non posso perdere altro tempo. Se mi porterai dove tengono Myrcella, magari avrai l'occasione di rivedere i tuoi figli vivi per un'ultima volta, prima di schiattare.-
La regina dei Sette Regni scandagliò il suo volto, mentre chissà quali pensieri si aggiravano per la sua mente. Pareva stare seguendo un filo d'intuizioni a catena. I calcoli scorrevano nei suoi occhi come perle di una collana. I secondi rintoccavano, sospesi, sordi.
Infine, un sorriso solcò le labbra di Margaery. La sua voce era piana, serena, come un mare piatto assediato dal sole.
-Io non morirò adesso, Rickon Stark. Morirò a novant'anni, circondata da nipoti che trameranno terribili congiure e indosseranno vestiti rosa. Morirò come muoiono tutte le donne della mia famiglia, a casa, ad Alto Giardino. Ma tu...- Scosse la testa, ostentando una completa disapprovazione. -...perchè sei qui? Mi deludi. Dopo tutto quello che hai fatto, pensavo che nulla e nessuno sarebbe riuscito a metterti una catena al collo. E invece, è bastato l'amore di una donna, come sempre, come per tutti quanti gli uomini...- La dolce amarezza della sua voce si dissolse nello struggente sapore di quelle parole, per poi calare di nuovo nel buio. -In questo castello c'è solo morte per te, Rickon Stark.-
Rickon rimase lì, a precipitare confuso nei suoi occhi, per qualche istante. Le iridi di Margaery, argentee, erano tiepide d'un sentimento accorato, intenso, simile alla compassione più intenerita e partecipe. Dopo un momento, vi esplose una scintilla di orrido, cruento trionfo.
Rickon percepì la furia montargli nel petto. Allontanò il ginocchio dal suo stomaco, solo per colpirla più forte, tanto che sentì vibrare il grido di dolore che Margaery stava ingoiando. 
-Coloro che ritengono che fare del male ad una donna sia più disonorevole che picchiare un uomo, sono dei luridi maschilisti.- decretò, piano, con una superficiale calma apparente che velava una minaccia. -Chiunque dovrebbe avere il diritto di darle e di prenderle, indiscriminatamente. Seguo questa corrente di pensiero anche nella vita di tutti i giorni. Per esempio, una volta ho stuprato una ragazza con un coltello.- La sua voce la sfiorò come faceva la lama della spada, sottile ed affilata. -Esistono diversi modi per garantirsi collaborazione.-
Margaery trattenne il respiro. Il suo sguardo era alto, solenne di dignità, e l'inquietudine era tradita solo dall'atteggiamento del viso. -Cerchi di farmi paura?-
-Non ce n'è bisogno. Ne hai già a sufficienza.-
I due si sfidarono vicendevolmente con lo sguardo, a lungo, finchè la donna cedette con un sospiro. Ricordò che, in un giorno lontano e diverso, aveva pensato di essere in debito con lui di un favore.
-Va bene, ti aiuterò. Ma solo se-
-Non sta a te dettare le condizioni.- la interruppe Rickon, bellicosamente. -Sono io quello con la spada in mano.-
-Sono io quella che sa dove si trova Myrcella. Ti servo.- 
-Almeno finchè non saremo là. Poi non più.-
Margaery socchiuse gli occhi, ed una risata carezzò la sua voce. -Però non è detto che io ti porti proprio là.-
Rickon era davvero esausto di lei e le sue provocazioni: doveva salvare Myrcella, mica sprecare tempo a giocare! D'un tratto, gli venne persino in mente che quella stronza avesse adottato come strategia quella di fargli perdere tempo, in attesa di essere soccorsa da qualcuno. Con un furore terribile, le compresse il volto contro il muro: un chiodo confitto in un mattone le graffiò la fronte.
-Se cercherai di fregarmi, divorerò quei piccoli bastardi sotto i tuoi occhi e ti costringerò a guardare. Ci siamo capiti?!- ringhiò Rickon, iracondo, conficcando le unghie nei suoi polsi. -E adesso parla.-
Margaery singhiozzò senza emettere un suono, mentre una ferita s'apriva sulla pelle, svelando l'oscurità del sangue. -Ho sentito le guardie parlare della Torre Ovest...-
-Allora sbrigati.-
-Cosa ne farai di me, quando non ti servirò?- si ritrovò a chiedere, in un bisbiglio.
Il ragazzo mentì con estrema serenità.
-Dipende.- Dipende, se ti aprirò la gola in un lampo o ti farò dissanguare senza fretta. -Dipende da te.-
Il viaggio fu lungo: imboccare i corridoi più secondari e meno frequentati era difficile, soprattutto perchè, se l'intento era evitare i passaggi principali, la struttura della Fortezza Rossa si faceva molto più labirintica. Margaery sapeva benissimo di non poter imbrogliare Rickon; se avessero incontrato qualcuno, lui per prima cosa l'avrebbe sgozzata. Da questo punto di vista, si rendeva conto di fungere anche da ostaggio. Quel che più premeva alla regina era scoprire dove fossero Nathaniel e Lionel: non era riuscita a scoprirlo da suo marito nè dalle guardie, nonostante le insistenze. Questo avrebbe potuto rivelarsi un problema. Senza sapere dove i piccoli fossero, non poteva neppure tenere Rickon il più lontano possibile da loro; magari, inconsapevolmente, avrebbe potuto addirittura condurre il nemico dai suoi piccoli, dolci figli. L'unica speranza era che Tommen avesse provveduto alla sicurezza dei gemelli con perizia e responsabilità, che li avesse tenuti sotto vigile controllo... doveva averlo fatto. Margaery riusciva già ad immaginare le empie mani rosse di sangue di Rickon sulle bianche carni dei bambini, a deturparle e divorarle.
Cominciò la salita delle scale. Il giovane Stark andava decisamente troppo veloce, scavalcando i gradini con ampie falcate, e per Margaery, che indossava molte gonne lunghe, era impossibile stargli dietro. Ansimava a pieni polmoni e boccheggiava di tanto in tanto, puntellandosi la milza con le mani.
-Non potremmo-
-Più veloce, Tyrell! Quando si tratta di fare l'arrivista sei un fulmine, e adesso arranchi? Oh, puoi fare meglio di così...-
La donna, però, non capiva. Pur essendo dei passaggi secondari del castello, era strano che non avessero incrociato nemmeno una guardia. Cominciò a lanciarsi furtive occhiate intorno, inquieta: non presentiva nulla di buono. Cosa poteva essere successo?
Rickon rise del suo smarrimento. -Dove sono finiti tutti quanti? Questo ti chiedi? Mentre noi siamo qui a gironzolare per la Fortezza, mia sorella la sta conquistando con gli uomini del Nord e dei Baratheon. Cos'è quel faccino spaventato? Non ti starà mica cascando sulla testa qualche sogno di gloria? Quanto mi dispiace... Un vero peccato che i soldati non potranno accorrere per impedire il rapimento della principessa Myrcella, vero? Beh, pazienza. Lei preferisce stare con me che con voi.-
Margaery era troppo incredula per farsi venire in mente qualcosa d'arguto da dire. Gli Stark stavano conquistando la Fortezza Rossa, insieme al figlio bastardo di re Robert? Era finita. Era finita per lei, per Tommen, per i Lannister, per chiunque... Che fare? Quelle parole parvero perdere qualsiasi significato e potere. Che fare?... era un po' tardi per cominciare a pregare, in effetti.
A quel punto, si rese conto di essere giunta a destinazione. Battè le ciglia.
-... è qui. Questa. Mi auguro sia qui.-
-Me lo auguro anch'io.- replicò Rickon, sottovoce. -Me lo auguro per te.-
Senza smettere di trattenerla per il braccio, salì di soppiatto gli ultimi gradini, con la schiena al muro. Anche lui, come Arya, percepiva chiaramente l'onere di quella missione. Myrcella... d'un tratto, salvarla era d'importanza struggente. E Rickon seppe che non voleva uscire da lì senza di lei. Fare piano, non fare rumore, non farsi scoprire. Fare piano. Non fare rumore. Non farsi scoprire. Fare piano, non fare rumore...
Scattò come una pantera-ombra, tirando una pedata così poderosa contro il portone che nel legno s'aprì un gran varco frastagliato. Rickon disintegrò con le mani il chiavistello, abbattendo quel poco che restava in piedi, e si sporse nella stanza.
***
Tyrion tracciò con la piuma una lunga linea da est a ovest, indicando una via verso il Mercato delle Pulci.
-... qua l'esercito va decisamente riorganizzato. Quando ieri mi è stato riferito il totale insuccesso che abbiamo riportato qui, quando ho scoperto il numero delle vittime, mi sono chiesto che razza di idiota avesse disposto le truppe... prima di rendermi conto di essere stato io. Come stavo dicendo, penso che quella nuova schiera che gli Swann ci hanno così cortesemente inviato stiano alla perfezione qui, a difendere la zona est, mentre per quanto riguarda gli arcieri-
-Tyrion.- Jaime non si curò di quanto violentemente avesse sbattuto la porta, nè di aver fatto sussultare metà delle guardie nella stanza, l'ufficio della Mano del re. -È scoppiato l'inferno.-
Il fratello tirò un sorriso scontento. -Sono così assuefatto dai suoi miasmi che non riesco più a distinguerli. Intendi che siamo finiti in una situazione peggiore di quella in cui siamo adesso, cioè con la città sotto assedio, i familiari decimati e un branco di lupi inferociti alle calcagna?-
Jaime spalancò le braccia e le lasciò ricadere contro i fianchi.
-Vedi tu. Il castello è sotto assedio, i nostri soldati sono decimati e un branco di lupi inferociti mette a ferro e fuoco casa nostra.- Inarcò le sopracciglia con sarcasmo. -Che te ne pare?-
Il Folletto tacque per una decina di secondi, lo sguardo fisso su un punto indefinibile della superficie della sua scrivania. Lentamente, aggrottò la fronte. Quando sollevò lo sguardo, sorrideva di nuovo amenamente.
-Se il tuo intento era riscuotermi dal torpore del mio sarcasmo di mezzanotte, ci sei riuscito.- annunciò, riponendo la piuma. -Cos'è successo? Rickon Stark?-
Jaime fece una smorfia. -Più che altro, Arya Stark. Lei e quel fottuto Gendry Waters si sono introdotti nella fortezza, presumibilmente con qualche stregoneria, visto che sono passati pressochè inosservati, fino a quando non hanno fatto irruzione nella sala del trono.-
-E la torre di Myrcella? È stata attaccata?- Il suo tono si era già fatto rapido e competente, mentre egli era intento nei suoi ragionamenti silenziosi.
-Non abbiamo avuto modo di appurarcene.- confessò Jaime, dopo una pausa, abbassando lo sguardo e mettendosi sulla difensiva. -Con che faccia posso dare ordini, in questo momento? Tutti combattono per la vita, e per nient'altro. Nessuno mi ascolterebbe.-
Tyrion scosse la testa, sbalordito. Era sdegnato all'idea che suo fratello non si fosse mobilitato fin da subito per la difesa della torre, e quindi per l'efficacia del loro piano.
-Non ti rendi conto che è un diversivo?! Rickon Stark ha voluto calamitare tutto il grosso delle nostre forze lì dove gli pareva e piaceva, ovvero lontano dalla torre, così da poter recuperare Myrcella in tutta tranquillità! Ti prego, Jaime, non dirmi che non te n'eri reso conto...-
-E se così fosse? Ah, è un diversivo, bene, allora possiamo stare tranquilli...!- Jaime rivolse un'occhiata truce a Tyrion: era facile parlare, da dietro una scrivania. -Anche sapendolo, non possiamo farci niente. Raggiungere la torre è praticamente impossibile. Là fuori c'è un putiferio da non crederci... Anche consapevoli del fatto che quella di Rickon Stark è una tattica per raggiungere i suoi scopi, non possiamo lo stesso fermarlo.- L'uomo sospirò e fece scorrere una mano fra i capelli, preoccupato. -Credevamo che Stark sarebbe venuto da solo, per non attirare l'attenzione. Invece tutti i soldati al completo stanno assediando l'intero castello. I nostri uomini non riusciranno a resistere. Quei due bastardi di Arya Sark e il suo amico hanno abbattuto le porte e l'esercito del Nord si è riversato qui dentro... Hai idea di cosa significa?- Jaime fissò il fratello negli occhi e fece una breve pausa, senza però lasciargli il tempo di rispondere. -Significa che l'unica cosa che possiamo fare è scappare. È per questo che sono qui. Andiamo via, Tyrion, e il più in fretta possibile, prima che sia troppo tardi. Prendi quello che può servirti e tiriamo la corda.-
-Tommen? Dov'è?- domandò Tyrion, cautamente, quasi temesse la risposta.
-L'ho lasciato a Loras. Scapperemo tutti insieme, ci siamo già accordati.- spiegò Jaime in fretta, indicando alle guardie di controllare l'ingresso. -Avanti, non c'è un secondo da perdere.-
A Tyrion l'idea di scappare non piaceva troppo. Certo, suonava più allettante che diventare la prima simpatica decorazione della sala del trono di re Gendry Baratheon, però non aveva dubbi: nel momento in cui i Lannister avessero lasciato la Fortezza Rossa, sarebbero scesi dal trono, per non risalirvi mai più. Era una fortuna che sua sorella Cersei, che tanto si era data pena per diventare regina reggente, non fosse lì ad assistere a quella sconfitta. Tyrion non era mai stato ambizioso, o meglio quasi per nulla, se messo a confronto con gli altri membri della famiglia; eppure, sentiva un po' d'amaro in bocca per quel finale così sconfortante. Fuggire, poi... fuggire dove? Le truppe del Nord erano ovunque, sia nella Fortezza Rossa che ad Approdo del Re. Dove rifugiarsi, per non essere catturati e giustiziati? Ma erano pensieri troppo lontani: innanzitutto era fondamentale trovare Tommen -trovare Tommen vivo- e magari Myrcella, anche se ormai Tyrion ne dubitava, e tutto il resto sarebbe venuto da sè.
Mentre il Folletto sistemava nel fodero una daga dall'impugnatura di rubini, finora tenuta nascosta in un forziere per ogni evenienza, ed un sacchetto d'oro nel mantello -che faceva sempre comodo- Jaime parlò di nuovo.
-C'è anche un'altra cosa.- raccontò. -Una notizia un po' più lieta. Le spie all'accampamento degli Stark mi hanno riferito che Brandon lo Storpio è stato rapito.-
Tyrion si voltò di scatto, sbigottito.
-Rapito? Quando? Da chi? I nostri sono implicati in qualche modo? Mi sono perso qualche puntata, evidentemente...-
Jaime scosse la testa, perplesso. -Poche ore fa. Da chi, non ne ho idea. Per quanto ne so, nessuno dei nostri alleati ha preso iniziative del genere. Stannis Baratheon sta sguinzagliando i pochi uomini che sono rimasti con lui all'accampamento per trovarlo, ma finora invano. Piuttosto, le spie mi hanno riferito di aver trovato il luogo in cui è stato portato, da dagli strani uomini incappucciati, apparentemente privi di qualsiasi vessillo.-
-E dove, per amor degli dèi, dove?- sbottò Tyrion, alzando gli occhi al soffitto. -Non farti strappare le parole dalla lingua, stellina mia! Che non si dica che anche nell'interloquire i Lannister sono avari!-
-Poco fuori città, ma non è questo il dettaglio interessante.- Jaime sorrise enigmatico. -Nei pressi delle tende di quegli uomini, è stata preparata una pira.-
Il Folletto era dubbioso. -Non capisco la logica di tutto questo. Intendono bruciarlo vivo?-
Il fratello fece un gesto vago con la mano sinistra. -Vivo, morto, non fa differenza.-
-Invece sì... invece è questo che fa precisamente la differenza.- Tyrion fu colto da un'illuminazione folgorante: folle, sì, ma d'altronde come tutte le idee geniali. -Se Brandon Stark muore, siamo perduti.-
Jaime rimase interdetto. -Aspetta un attimo, hai detto che se muore siamo perduti?-
-Esatto, fratellino, non è stato un attimo di defaillance.- confermò il Folletto, allacciandosi il mantello. -Pensaci. Cosa rischiamo, se scappiamo?-
-Di essere catturati.-
-E se veniamo catturati?-
Jaime scrollò le spalle. -Ci ammazzano tutti quanti.-
-E qual è la nostra unica speranza?- lo incalzò Tyrion, paziente come un insegnante che ripete la lezione all'alunno distratto.
-Non saprei. La grazia?-
-Ma la grazia ce la dobbiamo procurare, caro il mio Jaime. Per la precisione, tu ce la devi procurare.-
-Ma cosa...- bofonchiò Jaime, sconcertato. -Cosa stai cercando di indurmi a fare, Tyrion?-
-A salvarci il culo, in parole povere. Ma dobbiamo muoverci, ti spiegherò più tardi!-
I due fratelli abbandonarono l'ufficio, mentre Jaime cominciava ad inquietarsi per il guaio che Tyrion stava per fargli passare. In qualche inspiegabile maniera, gli sembrava quasi che egli gli stesse proponendo di aiutare Bran Stark...
Il Folletto si accorse di cosa intendesse il fratello, dicendo che i corridoi erano impraticabili; folle di armati si spintonarono l'un l'altro in scontri all'ultimo sangue, mentre il sangue schizzava sulle pareti e le guardie faticavano a proteggerli con gli scudi. I due Lannister procedettero verso la direzione che Jaime indicava come quella che li avrebbe condotti al punto di ritrovo stabilito con Loras e Tommen.
Tyrion era ancora assorto a pensare a Bran Stark e la pira, quando urtò violentemente contro una figura che, strano a dirsi, non portava un'armatura. Alzò lo sguardo, quasi nell'automatico tentativo di scusarsi, e le parole gli s'inaridirono sulla punta della lingua. Quella persona indossava un lungo mantello blu, indubbiamente femminile, che le adombrava il viso: però fu impossibile ignorare il bagliore d'un ricciolo cremisi come un fiamma, che scivolò al crudo contatto della luce delle lampade. Tyrion percepì una sensazione simile ad un pugno nello stomaco, e per qualche secondo non riuscì a respirare. La figura, senza neppure chinarsi a guardarlo, svincolò agilmente fra la massa, in un guizzo di vivace turchese.
Tyrion deglutì. -Aspetta, Jaime. Io... mi è sembrato...-
-Tyrion? Cosa c'è?- ribattè la voce di Jaime, alle sue spalle. Il Folletto ebbe poco tempo per ragionarci su: nel timore di lasciarsi sfuggire la donna in azzurro, riuscì solo a gettare là qualche parola.
-Tu va' a prendere Tommen. Ci vediamo nelle stalle fra mezz'ora, chiaro?-
-Tyrion!-
Le proteste di Jaime si confusero subito con il fragore metallico delle armi. Tyrion si fece largo fra i soldati, quasi posseduto da un'ansia concitata che gli toglieva persino la paura dal petto, suscitando soltanto una curiosità vorace che pretendeva d'avere soddisfazione. In realtà, era assolutamente certo dell'identità di chi stava inseguendo.
All'inizio non riuscì a capire cosa stesse cercando di fare: la figura salì le scale che conducevano agli appartamenti reali, disabitati a causa della battaglia che infuriava ai piani inferiori. Era assurdo che il suo scopo fosse il furto. Infatti, ella evitò le sfarzose camere del re, così come ignorò gli uffici e gli studi d'amministrazione; si fermò soltanto quando riconobbe le stanze della regina. Allora Tyrion comprese, e fu terribile.
La figura in blu entrò, lasciando la porta socchiusa alle spalle. Procedette fino alle due culle gemelle che Margaery aveva provveduto a procurare subito dopo il parto, dei piccoli capolavori con decorazioni in oro di leoni rampanti e arricciate tende di broccato rosso, che disponevano di piccoli carillon di alabastro lavorato. Nel vedere i posti vacanti, le lenzuola intatte, le culle vuote, la figura esitò, fissandole, quasi ragionando sul da farsi.
-Credevi davvero che saremmo stati così idioti da lasciarli lì, incustoditi, alla vostra mercè?-
La donna sussultò appena, ma ebbe la dignità di non mostrare il proprio allarme. Dopo qualche istante, si voltò.
Il cappuccio ricadde con un morbido fruscio, svelando una chioma ramata e algidi, artici occhi cerulei. Il suo viso, ora adulto, libero di qualsiasi intuizione di fanciullezza, sembrava intagliato nel marmo. La durezza della sua bocca immobile storse l'espressione di Tyrion in una smorfia di stupore ed amarezza.
-Ben ritrovata, Sansa.-
***
La prima cosa che Rickon vide non gli piacque molto. Era una donna troppo alta e troppo robusta, con indosso un'armatura da uomo, una spada enorme e un ciuffo di capelli che sembravano paglia sulla fronte, che lo scrutava con allarmati occhi azzurri e limpidi. La seconda cosa che vide, fu anche la più bella che avesse mai scorto in vita sua.
Era piccola, bianca e fragile, proprio come ricordava, e sporca di nero sul viso e dalla gonna sdrucita, proprio come piaceva a lui. Sembrava plasmata di neve e carbone.
I loro occhi si catturarono imperiosamente, e il lungo silenzio che seguì fu pregno d'incredulo, sbalordito, tremante sollievo.
Myrcella soffiò il suo nome, senza nemmeno pronunciarlo a voce, quasi che la riverenza che provava fosse troppa. Le sue guance avvamparono, poi tornarono pallide. Prima che Rickon potesse gridare qualcosa, qualsiasi cosa, che diamine aveva fatto ma era diventata scema tutto d'un colpo, perchè aveva rischiato così tanto, ben le stava che l'avessero rapita, cosa credeva di fare di prendere la spada e combattere anche lei, era pazza era una folle, era proprio uscita di testa, disobbedirgli in quel modo ma come si era permessa, perchè, stupida, stupida ragazza Lannister, stupida biondina dalla testa vuota, che cazzo sperava di fare, perchè, andarsene in giro quel modo, pazza, forse che voleva davvero tornarsene dalla sua famigliola, avrebbe dovuto rimanere in quella cazzo di tenda e non- la lama della donna bionda per poco non gli staccò un braccio di netto.
-Vostra grazia! State bene?- Brienne rivolse un'occhiata preoccupata a Margaery Tyrell, che sorrise debolmente alle spalle di Rickon.
-Come vedi, sono ancora viva.-
Myrcella s'alzò in piedi: un'espressione strana, diversa, quasi invasata, possedeva il suo volto. Gli occhi verdi sembravano stregati da una nebbia alienante. Un tormento maniaco, inusitato, le aveva inciso cicatrici d'inedia sulla fronte e sulla guance. Nel suo sguardo, si rifletteva la luce d'un faro.
-Te l'avevo detto!- urlò, esultante. -Te l'avevo detto! Rickon...-
Parve bere ogni inflessione della propria voce, mentre lo pronunciava, assaporandola dolorosamente sul palato. Fece lunghi passi avanti, incurante di tutto il resto, quasi sedotta dal canto d'un sirena; fu soltanto la spada di Brienne ad impedirle d'avanzare.
-E infatti eravamo qui ad aspettarti.- dichiarò la donna, freddamente.
Rickon inarcò un sopracciglio. Distogliere lo sguardo dal viso di Myrcella risultò faticoso. La sua bellezza gli appariva talmente nuova, talmente fulgida... meravigliosa, com'era sempre stata, ma al tempo stesso mai come in quel momento. Perchè doveva essere così bella?! Gli sconvolgeva la mente, gli impediva di pensare.
È bastato l'amore di una donna... Le parole di Margaery Tyrell rimanevano un'eco beffarda e sferzante, a ronzare nelle sue orecchie. Lui, che si era sempre sentito distaccato dal mondo e superiore a tutto, a tutti, come se ogni desiderio ed ogni ricchezza ed ogni valore terreno gli apparissero miseri, banali e poco desiderabili, come se fosse in grado di guardare l'umanità con gli occhi di un dio... ridotto a rischiare la sorte di una guerra per una ragazza dai capelli biondi. Come sempre, come tutti.
Prima che Myrcella comparisse nella sua vita, Rickon non aveva bisogno di nulla, ed era davvero imbattibile. Niente aveva, niente poteva essergli sottratto, nessun torto poteva essergli arrecato. Ma adesso... debole era l'unico aggettivo che gli veniva in mente per descriversi. Tutto ciò, naturalmente, non traspariva. Rickon Stark aveva imparato molto bene che l'avversario teme ciò che i suoi stessi occhi lo inducono a temere.
-Un comitato d'accoglienza piuttosto esiguo, direi.- commentò, squadrando Brienne di Tarth con un'occhiata derisoria. -Mi sottovalutate a tal punto?-
Brienne si parò davanti a Myrcella, in posizione da combattimento. -Potresti restare sorpreso.-
-E tu senza testa. Vale la pena rischiare?-
Prima di ottenere risposta, Rickon sferrò un fendente per farle abbassare la guardia. Lo scontro che seguì sarebbe stato molto interessante per chiunque se ne intendesse di armi e arte militare; Brienne era più alta e più esperta, con alle spalle anni ed anni di pratica, per non parlare di una precisione micidiale e di una tecnica sbalorditiva. In compenso Rickon era più forte, e -se ogni suo colpo fosse andato a segno- di Brienne non sarebbe rimasto nemmeno lo scheletro. Anche la prestanza fisica, in questo caso, aiutava. La sua rivale, man mano che il tempo passava, si accorgeva di quanta resistenza quel ragazzino fosse in grado di opporre, e se ne meravigliò. Alla sua età, era sconcertante che si potesse combattere in quel modo. Certo, non aveva ricevuto un'istruzione da qualche spadaccino provetto, e questo si notava benissimo: i suoi colpi erano vigorosi ma piuttosto prevedibili, mancavano di quell'arguzia e di quel metodo che tornano sempre utili, come le finte. Anche la mira era un po' imprecisa. In compenso, quello non era di sicuro uno dei suoi primi scontri; aveva la prontezza di un guerriero ben più attempato. Era avvezzato a lottare, e non per ferire: Rickon Stark lottava per uccidere, sempre, in qualsiasi situazione. Doveva aver affrontato molti più aggressori di quanti ricordasse, e anche nei corpo a corpo. Sapeva come muoversi, sapeva come colpire, come schivare all'ultimo secondo, cosa fare nelle situazioni di difficoltà; metterlo con le spalle al muro era pressochè impossibile.
Brienne provò ad immaginare quanti pericoli e quanti dolori Rickon avesse dovuto sopportare, a quante peripezie avesse dovuto sopravvivere per aquisire un simile livello di abilità -le cicatrici che recava sulla pelle erano testimoni sufficienti- e ancora una volta avvertì una fitta al cuore all'idea che presto l'avrebbe ucciso. Solo un bambino, giusto poco più che un bambino. Figlio di Catelyn Stark...
Lo scontro, appunto, sarebbe parso molto interessante per chiunque se ne intendesse di armi e arte militare, ma Myrcella non rientrava certo fra questi. Il suo tentativo di raggiungere Rickon, inizialmente mandato a monte da Brienne, andò definitivamente in fumo. Cosa poteva fare? Solo rimanere lì, aspettare che Rickon uccidesse quella donna, e poi scappare, stringersi a lui e lasciarsi portare via, lontano, dove i Lannister non avrebbero più potuto trovarla, mai più... Già quelle scarse ore di prigionia le avevano dato un assaggio di cosa avrebbe significato essere costretta a vivere senza Rickon. L'avrebbe impedito, al costo di conficcarsi il corno di unicorno nel petto, a costo di conficcarlo nel petto di chiunque...
Quel pensiero le fece tornare in mente ch'era armata. Certo! Aveva ancora la lama nascosta nelle vesti! Adesso era il momento migliore per colpire Brienne alle spalle, mentre era distratta nel combattimento! Con il cuore che accelerava ansioso, Myrcella corse con la mano alla piega fra le gonne. Ma, proprio in quel momento,
-Myrcella?- La voce di Margaery sibilò nelle sue orecchie, facendola sussultare di spavento. Si voltò di scatto. La ragazza aveva attraversato la stanza, rimanendo addossata alla parete, e adesso s'era inginocchiata carponi vicino a lei. Myrcella non l'aveva mai vista ridotta in quelle condizioni: aveva gli occhi cerchiati d'insonnia e le unghie morsicate a sangue, ridotte a carne viva. Nei suoi occhi, c'era quel panico incontrollato che lei stessa aveva percepito vibrare nelle mani.
-Mar...gaery? Cos'hai fatto alle tue mani?- Myrcella le rivolse un'occhiata inquieta.
La regina dei Sette Regni le sogguardò, distrattamente, come se fosse la prima volta che le vedeva.
-Non lo so. Mi sentivo morire. Ero arrabbiata. Ero in pensiero... Ma lasciamo perdere, non ha alcuna importanza. Adesso ascoltami, devo chiederti una cosa, una cosa...- s'interruppe, Mordendosi il labbro inferiore e fissandola intensamente, disperatamente, quasi si stesse chiedendo se potesse davvero fidarsi di lei.
-I miei figli.- s'arrese alla fine, cedendo, le lacrime appese alle ciglia. -Tu lo sai dove sono? I miei bambini? Ti supplico, Myrcella, per amor degli Dèi... se mai mi hai voluto del bene, se mai c'è stato un momento in cui io e te eravamo amiche, complici, e ci fidavamo l'una dell'altra... anche se le cose sono cambiate, se io e te siamo cambiate... i tuoi nipoti, sangue del tuo sangue! Loro non hanno colpa. Dove sono i miei figli, Myrcella? Se lo sai, ti prego di-
-Non lo so.- si affrettò a rispondere Myrcella, scoprendosi commossa da quelle parole così accorate, così sincere sulle labbra di una persona come Margaery, una giocatrice che di solito non svelava mai le proprie carte. Questa confessione a cuore aperto era la dimostrazione di quanto fosse angosciata per la sorte dei suoi figli, al punto da dimenticare la cautela, dimenticare  gli inganni, dimenticare le regole del gioco. -Non lo so, dico davvero. Se lo sapessi, te lo direi. Sono la terza, dopo te e Tommen, a desiderare soltanto il bene di quei poveri piccoli. E questo te lo posso giurare.-
Percepì gli occhi ardere delicatamente, a quelle parole, ma le asciugò battendo le palpebre un paio di volte. Non poteva permettersi nulla, in quel momento.
Margaery annuì con il capo. -Non importa. Ti credo. Voglio crederti. Non so esattamente chi sei, ma so chi eri, e ho abbastanza storia alle spalle da avere appurato che il passato è spesso in parte presente.-
Myrcella sorrise con tristezza. Rivedere Margaery, parlare con lei, le aveva fatto pensare a com'era prima di Rickon. Non erano ricordi nè tanto brutti nè tanto belli: specchi vuoti, in cui si rifletteva la luce del sole di un'estate fittizia. Per distrarsi, si sforzò di ricordare qualcosa che potesse essere utile a Margaery.
-Prima, quando mio fratello è venuto qui, ha discusso con zio Jaime su chi dovesse fare la guardia a me e chi a lui stesso, ma non ha nemmeno nominato i bambini.- riflettè ad alta voce. -Ed è impossibile che li abbia lasciati incustoditi, quindi... probabilmente li ha fatti portare in un posto sicuro, quando si è accorto che Approdo del Re era minacciata. Ad ogni modo, non mi preoccuperei troppo, se fossi in te. Tommen sarà anche un molle e un imbecille, ma ama il suo sangue. Avrà sicuramente provveduto affinchè i vostri figli godano della massima protezione possibile...-
-Non ti preoccuperesti troppo.- ripetè Margaery, amaramente. -Ne riparleremo quando sarai madre. Non esiste peggior frustrazione, peggior sofferenza al mondo di vedersi strappare dalle braccia i frutti del proprio grembo, impotenti, senza poter fare nulla... vederli piangere e non poterli cullare. Ti auguro di non provare mai questa sensazione, Myrcella.-
Myrcella avvertì una strana sensazione di disagio, come se all'improvviso nella stanza facesse più freddo, e non seppe cosa rispondere. Intuizioni presaghe ed inarticolate le gravarono sulla lingua, ma le era impossibile esprimerle.
E fu allora -Rickon e Brienne stavano ancora incrociando le spade- che la porta si spalancò un'altra volta. Il cuore di Myrcella balzò in gola: il pensiero che si trattasse di una scorta reale, che avrebbe incatenato Rickon, che l'avrebbe reso prigioniero come lei -che l'avrebbe trafitto con una miriade di spade sotto i suoi occhi- le attanagliò le membra in un gelo mortale.
Non era una scorta reale. Era una sola persona. Un ragazzino biondo, alto come lei, con un mantello vermiglio.
-... Tommen?- Il tono della sua voce era più interrogativo che preoccupato.
Tommen aveva il fiato corto, ma pareva essersene dimenticato. Sulla soglia della porta, non guardava Myrcella; non guardava Brienne, che stava perdendo sangue da una spalla; non guardava sua moglie, riversa a terra, in quella stanza quando invece avrebbe dovuto essere chiusa in una prigione. Guardava Rickon. Come se fosse tutto ciò ch'esisteva al mondo.
Nel suo sguardo, sanguinava una ferita spalancata all'occhio della luce obliqua. Cosa provava in quel momento? Rabbia, dolore, paura? Aveva poca importanza. Ad inchiodarlo lì, davanti alla porta, era l'inevitabilità salda e precisa degli scontri segnati dal destino, con sangue vivo, sulla polvere dei campi di battaglia. A magnetizzarlo era l'attraente lucore nello sguardo del predatore, che lo chiamava, che lo lusingava, che lo impalava lì. Quel confronto doveva avvenire, e tale imperativo s'esprimeva nell'espressione di Tommen, schiusa ad una meraviglia nuova, abbacinata dalla realtà a cui i suoi pensieri più frequenti, i suoi desideri più respinti, i suoi timori più allettanti si erano convertiti.
Erano lì. Dovevano essere lì. Il silenzio taceva, quasi spaventato. I respiri s'imbrinarono a mezz'aria, senza osare dissolversi. Le pietre delle pareti parvero sul punto di sciogliersi.
Rickon non lo vide: lo fiutò. Invece di girarsi, temendo un attacco alle spalle, indietreggiò, così d'avere una visione d'insieme. Quando i suoi occhi azzurri incontrarono quelli gonfi di rabbiosa timidezza di Tommen, le pupille si dilatarono. Una strana eccitazione lo pervase. Un sorriso godurioso piegò le sue labbra.
-... adesso ci siamo proprio tutti. Giusto in tempo per morire, re Tommen.-
Tommen deglutì. Il modo in cui riusciva a dominarsi, in cui riusciva a mantenere gli occhi confitti nei suoi, era ammirevole.
-In tempo per ucciderti, Stark. Quello che intendo fare.-
Myrcella ridacchiò fra sè: nel suo sguardo splendeva una stella rossa, simile ad un araldo di morte. Uccidere...? Permise alla propria risata di diventare più impudente.
Rickon si avvicinò a grandi passi, solleticando il suo sguardo come avrebbe fatto con una daga.
-Speravo che venissi, sai? Il nostro primo incontro è stato un po' sbrigativo, quando invece io ci tenevo a prendermi la tua vita con calma. Ma sei qui, perciò ogni problema è risolto. Permettimi di ammirare la tua illibata fanciullezza...- Sollevò la punta della spada e, inaspettatamente, gli sfiorò soltanto un lungo boccolo sinuoso, aureo come filigrana. Lasciò che la luce lo baciasse e lo rimirò, soppesandolo, con un'espressione imperscrutabile. -Forse mi ci accanisco così tanto perchè la invidio. Me la strapparono presto.- Sorrise, con una nostalgia cattiva che ripassò i contorni neri delle sue cicatrici. -Ha i suoi lati positivi, è graziosa e pulita... ma ti intrappola in così tante menzogne.-
Tommen parò il colpo che tentò di decapitarlo direttamente, facendo un passo indietro a causa della potenza dell'impatto fra le lame, che si unirono con uno stridio. Era allarmato, ma la determinazione di tutti quei giorni d'odio impellente s'intuiva nella durezza delle labbra serrate.
-Menzogne, come quelle che hai raccontato a mia sorella per plagiarla?-
-Al contrario, piccolo re. Le ho raccontato la verità, solo la verità, ed è stato questo a... destarla.- Rickon gli girava intorno, come un avvoltoio che senta odore di sangue. -Le ho raccontato quanto fa schifo la vostra piccola famiglia perversa. Le ho raccontato quanto faceva schifo quella puttana di tua madre e quanto è valoroso quel menomato di tuo padre. - La sua voce, ormai, era un filo di seta. -Le ho mostrato quanta merda è seppellita sotto il vostro oro del cazzo. Lei è una creatura troppo pura per amare delle carogne come voi.-
-Pura?! Pura?!- Queste furono le paraole giuste per far esplodere il rancore compresso nell'anima di Tommen, che menò un fendente contro l'avversario. -Detto da te! Detto da te e la tua empietà! Un cannibale che parla di purezza!- sbraitò, le guance congestionate. -Tu che definisci mia sorella pura... dopo averla disonorata senza pietà!-
-Che ne sai di che cosa è successo al Nord?- Rickon parò il colpo di Tommen e allo stesso tempo di Brienne, che lo aveva attaccato alle spalle. -Vuoi che te lo racconti?- aggiunse con un ghigno. -O sei troppo geloso?-
Tommen tentò di affondare la spada nel suo petto. Ansimava. -Sei un mostro.-
-Che ne sai, tu, di chi sono io?- rincarò Rickon.
-Io so chi sei tu.- La voce del giovane Lannister divenne sempre più scabra, più affilata, quasi intagliata.
-E io so chi sei tu. Una graziosa fanciullina dalla chioma dorata che non sa tirare una stoccata come si deve.- Rickon parò un colpo di Brienne e, allo stesso tempo, sferrò un fendente a Tommen. -E che, se non vuole pagare i suoi debiti con le buone, lo farà con le cattive.-
Il ragazzo arretrò e tossì. La sua voce era distorta da una nota esasperata.
-Pagare i miei debiti? Io non ho fatto...-
-Io_non ho fatto_niente_di male.- Le parole di Rickon suonarono quasi cantilenanti. Un colpo. -Conosco queste parole. Le ripetevo in continuazione, come una preghiera. Come fai tu. Io_non ho fatto_niente_di male. Io_non ho fatto_niente_di male. Io_non ho fatto_niente_di male.- Un colpo. -E lo sai qual è unico modo per accettare il proprio destino senza la sensazione di stare subendo un sopruso?- Un colpo. -Fare qualcosa di male.-
Si nutriva della paura dell'avversario come in passato gli altri s'erano nutriti della sua. Cercava l'occasione per ridurre in polvere la stoica tenacia di Tommen, lo attaccava dove sapeva esserci i punti dolenti. Intanto, lo costringeva lentamente ed inevitabilmente al muro.
-È doloroso alzarsi al mattino e scoprire che non tutte le persone del mondo ti vogliono bene, vero, Tommen?- Avanzò, avanzò ancora. -È doloroso rendersi conto che la vita non è rose e fiori come credevi quando tua madre ti cantava la ninnananna.-
Con un gesto fulmineo, Rickon sferrò un fendente potentissimo al polso di Brienne, che con un gemito strozzato vide la spada caderle di mano. Rickon mise subito un piede sull'elsa. Intanto, disarmò Tommen ed afferrò anche la sua spada. Infine, si lasciò andare ad una risata denigratoria. Tommen Lannister non si mosse: si limitò a fissare gli occhi di Rickon, in silenzio.
Il suo avversario gli sfiorò il mento con la lama. -Re... ma di cosa pretenderesti di essere re, esattamente?-
A quel punto, Myrcella aggrottò la fronte. Si era resa conto di quel che stava per succedere. Per quanto avesse aperto gli occhi su quanto suo fratello fosse stupido ed incapace, ciò non significava che voleva vederlo morto. Lì, in quel momento, poi; in quel modo... No, si pentiva di ogni maledizione che gli aveva rivolto, all'improvviso riconosceva in lui il bambino con cui aveva condiviso tanti giochi, tante piccole giornate assolate e felici. Cercò le parole giuste, inutilmente.
-Rickon... credo che prima, insomma, non vorrai...-
Tommen guardò il suo avversario come se desiderasse estirpargli l'anima dagli occhi. Chi si brucia, non teme più il fuoco.
-Cosa stai aspettando, Stark? Non è quello che più desideri? Darmi la morte non è ciò che più ti renderebbe felice? Allora avanti. Fallo.-
Almeno, così, sarebbe morto con onore: Margaery e Myrcella e Brienne, in seguito, avrebbero raccontato di come lui si fosse strenuamente difeso, prima di soccombere. Non sarebbe stato ucciso mentre implorava pietà -Rickon Stark non glie l'avrebbe mai concessa, ma anzi, si sarebbe divertito ancora di più ad ascoltare i suoi piagnucolii, avrebbe reso la sua agonia ancora più lunga e dolorosa. Invece, in questo modo, sebbene Tommen fosse stato ugualmente sconfitto, la morte sarebbe giunta per mano di un guerriero temibile e potente com'era Rickon Stark, quindi nessuno avrebbe avuto di che schernirlo; sarebbe stato difficile per chiunque sopravvivere ad un avversario simile, anche a spadaccini molto più esperti di Tommen.
Così, forse, suo zio Jaime sarebbe stato orgoglioso di lui; così suo padre, dall'alto dei cieli, si sarebbe pentito di non averlo degnato d'alcuna attenzione, quand'era in vita, e avrebbe dovuto riconoscere che Tommen aveva il coraggio di un vero Baratheon. Così, magari, in futuro Nathaniel e Lionel avrebbero dichiarato con fierezza di essere figli di Tommen. Oh, i gemelli: quasi gli vennero gli occhi umidi dal sollievo, al pensiero ch'erano al sicuro, lontanissimo da lì, da quella guerra, da quella catastrofe, da quel mare di sangue...
Nel frattempo Margaery, con le spalle al muro, incrociò lo sguardo di Brienne, attirando imperiosamente la sua attenzione. Inarcò le sopracciglia, poi allungò lo sguardo fino alla grossa catena avviluppata su se stessa, sul pavimento, come un serpente di ferro. Brienne sgranò gli occhi, interdetta, comprendendo quel che veniva invitata a fare; la regina dei Sette Regni si limitò ad annuire impercettibilmente, e nei suoi occhi chiari c'era l'autorità incontrastabile delle regine di sangue, anzichè di forma. Brienne seppe di non potersi sottrarre. Chiuse gli occhi, affranta in cuor suo, raccogliendo tutta la concentrazione di cui il suo animo era capace.
-Questa è una partita senza regole, piccolo leone. Puoi imporne quante ne vuoi, ma non c'è modo di costringere il destino a seguirle.- Rickon fece dondolare ancora la spada a fior della sua pelle, sorridendo con insolenza. -Una fottuta partita senza regole... Addio, piccolo Tommen. Porta all'inferno un messaggio per la tua cara mammina e il tuo caro nonnino. Dì che...-
L'ultima cosa che Rickon rilevò fu che, negli occhi del ragazzino di fronte a lui, era riflessa la propria stessa rabbia. La stessa, solo imprigionata in iridi verde smeraldo anzichè azzurre. 
Quel che seguì, avvenne molto velocemente. Brienne, afferrata l'estremità della catena fra le dita, balzò contro Rickon. Glie la avvolse stretta attorno al collo, trascinandolo giù e facendogli picchiare la nuca contro il pavimento, e strinse strinse strinse, fino a che gli anelli non incisero la carne e gli strozzarono il respiro in gola. Tommen Lannister sussultò dallo stupore, ritraendosi contro la parete; Myrcella Lannister s'irrigidì come se una freccia le avesse trafitto la trachea, prima di cominciare a gridare a gola spiegata.
Brienne issò Rickon al suolo, appellandosi disperatamente alla propria forza. Tenerlo fermo non era facile. La spada gli era scivolata dalle dita, ma continuava a divincolarsi come un demonio, tentando vanamente di vincere la morsa che gli strappava il fiato. Sembrava posseduto da una maledizione: scalciava e si sbracciava, con un vigore frenetico, mentre il suo viso si faceva sempre più infiammato. Le labbra si contraevano in respiri corti e veloci, sempre più radi.
Così come Rickon soffocava, anche Myrcella sembrava farlo insieme a lui. Fine. Fine. Fine. Fine. Cosa stavano facendo al suo Rickon? Cosa stava succedendo? No, era tutto così sbagliato. Questa non è una bella storia, Myrcella, diceva sempre così, lui. Questa non è una bella storia. Rickon, Rickon il guerriero che rideva sprezzante d'ogni nemico, Rickon il bambino che s'abbandonava nel suo grembo per dormire... Rickon con il mento che gocciolava di sangue fresco e Rickon che permetteva, seppur mettendo il broncio, che Myrcella infilasse un pettine nella sua chioma selvatica. Rickon a sei anni, con i riccioli infantili al vento, e Rickon a sedici, che le sorrideva con crudeltà sulla cima della torre di vedetta di Runestone. Quel giorno pieno di terribile bellezza. Andiamo, ragazzina, pensi davvero che morire ti sarà così facile? Alzati. La prima volta che l'aveva presa, nelle segrete di Grande Inverno. Non ti verrà mica da piangere, vero? La confusione, la speranza, il dolore, la perdita, la promessa, non piangerò mai davanti a te, Rickon Stark. Il sapore del fuoco sulla sua pelle, quel penetrante, acre odore di fiamme che impregnava il mantello di ermellino che le aveva regalato, e il modo in cui l'aveva guardata dopo, quando indossava quell'abito giallo, il braccio che le aveva avvolto attorno alla vita alle Torri Gemelle, di fronte a Tommen, e quel bacio così pienamente bello e appassionato che le aveva concesso, il calore del suo corpo contro il rigore dell'inverno, il calore del loro amore contro il resto del mondo. Ci rivedremo stasera, e stasera faremo tutto quello che vorrai, le aveva promesso, quel sorriso, quell'ultimo sorriso, l'ultima carezza, la fine, fine, fine. E più niente.
Niente. Tutto_questo_stava morendo. Rickon stava morendo, l'aguzzino che tanto aveva detestato stava morendo, l'uomo che tanto aveva amato stava morendo. Rickon, forte com'era, indifeso com'era.
Niente. Prima il mondo, la vita. Poi niente. Fine.
Fi-ne.
Prima che potesse slanciarsi per soccorrerlo, le palme delle mani che strisciavano graffiando la pietra, Margaery la afferrò per le braccia.
-No, Myrcella. No.- le sussurrò all'orecchio. Poi rivolse uno sguardo alla figura di Rickon, che si contorceva a terra. Un sorriso sinuoso arcuò le sue labbra. Quando parlò, lo fece quasi inconsapevolmente.
-Una regola c'è, Rickon Stark. Chiunque può morire.-
Brienne attese affranta la morte del ragazzo ancorato al suolo; le mani impugnavano la catena fino a tremare dallo sforzo. Si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto, affinchè i suoi occhi si spegnessero della luce vitale e smettessero di sgranarsi furiosi contro la luce delle lampade. Non osò alzare lo sguardo dalla propria vittima, quasi temendo che proprio allora egli avrebbe potuto scampare, però riuscì a visualizzare la scena: al suo orecchio, giungevano distintamente i folli latrati di Myrcella Baratheon e la risata sguaiata e spezzata della regina Margaery.
Poi, giunse qualcos'altro. Un lungo, efferato grido di guerra, che tonava nella tromba delle scale laggiù in basso. E comprese: la Fortezza Rossa era caduta.
-Dobbiamo andarcene, Vostre Altezze- ansimò. -Stanno arrivando. Uomini del Nord... invasori. Non possiamo passare per le scale.-
-La botola.- ribattè prontamente Tommen. -Usciremo da lì... Prima, lascia che sia io ad ucciderlo.-
Nei suoi occhi, balenò la stessa scintilla di freddo, oscuro raziocinio che aveva dominato quelli di Cersei.
-Non c'è tempo!- Margaery faticava a trattenere Myrcella. -Ormai non respira più, mio re! Dobbiamo scappare al sicuro! Aiutami, te ne prego, non riesco ad immobilizzare tua sorella da sola...-
Il corpo esanime di Rickon sul pavimento. No, il corpo morto di Rickon sul pavimento. Labbra sgranate nell'ultimo respiro. E il pensiero? A cosa avrà pensato, alla fine? Cosa sostituiranno alla sua testa? Quella di Cagnaccio? Myrcella cercò il fondo a quel pozzo d'orrore, sempre più giù, sempre più dolore, nulla, basta, Rickon dove sei, perchè, perchè, vienimi a salvare, ti prego, ti prego ti prego NO ti prego Si contorceva come sotto strumenti di tortura, strappando disperatamente tutti ciò che riusciva ad afferrare.
La regina dei Sette Regni spostò la grata con un calcio e Tommen, seppur riluttante, afferrò la sorella per i polsi, calandola nel passaggio segreto. Brienne guardò il ragazzo. Non si muoveva più. Aveva smesso di agitarsi. I suoi occhi erano irreparabilmente fissi e vacui, le sue labbra esangui, quasi bluastre. Ormai, i segni della catena al collo erano diventate escoriazioni sanguinanti. Era morto? Così sembrava. Per buona misura, avrebbe potuto tagliargli la testa...
Le mancò il coraggio. Il volto di Catelyn Stark apparve di nuovo nella sua mente, chiaro nel suo pacato splendore. Brienne, quasi disgustata da quel che lei stessa aveva fatto, rinfoderò la propria spada e si affrettò a seguire il re e la regina nella botola. Se gli dèi lo volevano, Rickon Stark non era più il flagello dei Sette Regni. Se non lo volevano... beh, probabilmente Brienne avrebbe avvertito il cuore meno pesante.
Brienne era indietro, Tommen e Margaery eccitati e sconvolti e distratti da ciò ch'era accaduto. Era quello, il momento giusto. Myrcella non pensava più a niente.
Esplose, soltanto. Sfoderò il corno che nascondeva fra le gonne e, sopraffatta da quell'urlo che le fischiava nelle orecchie no no no no no no no no no no no no no no non può essere successo non può stare succedendo oh no no no no ti prego no nocom'è possibile cosa è successo perchè no non voglio ti prego no, la puntò alla gola di suo fratello.
La galleria era buia, angusta. Lo sfavillio della lama tagliò la cortina di tenebre.
Tommen sobbalzò. -Myrcella, cosa... che stai facendo?-
Tutti Lannister vi ucciderò tutti tutti maledetti demoni vi ucciderò uno per uno berrò il vostro sangue e mangerò la vostra carne vi ucciderò vi ucciderò vi uccido tutti adesso vi uccido vi uccido tutti
-Ti uccido, Tommen.- Udì la propria voce scivolare estranea dalle labbra.
***
Arya Stark irruppe nella torre, il petto scosso dagli ansiti. Gendry Baratheon le guardava le spalle, circondato dai soldati.
La ragazza s'immobilizzò alla soglia della stanza, inorridita. -Oh, no.-
-Cosa...?- Gendry lanciò un'occhiata, e nessun altra parola raggiunse le sue labbra, se non -Arya, tu non sai quanto-
-Rickon!- Arya Stark cadde sulle ginocchia, come se una mazza da guerra glie le avesse tranciate. -Un Maestro... chiamate un Maestro!-
Gendry le pose una mano sulla spalla, delicatamente. Si chinò a baciarle la nuca.
-Mi dispiace. Mi dispiace, amore mio...-
-Vivrà.- La voce della ragazza fendette la luce, sibilando come un fendente di spada. Le sue labbra tremarono. -Lui vivrà. È sempre sopravvissuto. Vivrà.-
Gendry Baratheon non rispose.
***
La notte era ormai fonda come una fossa, tanto che le stelle riposavano nell'oscurità come gocce di rugiada ad imperlare una ragnatela. L'umidità dell'erba bagnata soffiava dallo spiraglio della tenda che s'era venuto a formare, facendo rabbrividire le fiammelle delle candele, allineate ordinatamente su ogni superficie disponibile. La donna sospirò impercettibilmente, infastidita dall'intrusione, senza darlo troppo a vedere.
Il frate rosso attendeva impazientemente che lei parlasse: la fissava con un'insistenza quasi sgarbata. Melisandre decise di ignorarlo finchè non si fosse stancato. Non aveva nulla da dirgli, e comunque non voleva essere disturbata per questioni futili come quelle che stavano per esserle sottoposte.
-Quando hai intenzione di procedere?- domandò infine l'uomo, dopo lunghi minuti di silenzio.
Il giovane prigioniero giaceva lì, nella tenda, mollemente abbandonato su una branda da campo dalle federe bianche e traforate. Il suo viso aveva ceduto ad un languore tormentato; i lineamenti distesi, di tanto in tanto, si contraevano appena in un riflesso involontario, per poi quietarsi di nuovo. Melisandre osservò le sue palpebre chiuse, le fitte ciglia scure in contrasto con il deperito pallore degli zigomi smunti. Una vena del collo martellava pulsazioni rapidissime, quasi che nel suo inconscio il ragazzo si rendesse conto dell'insospettabile condizione di pericolo in cui versava.
-All'alba.- rivelò infine la donna, senza distogliere lo sguardo dal volto assopito del suo prigioniero. -Il sole di un nuovo giorno si nutrirà del fumo delle sue ceneri, e da domani splenderà più fulgido. Un altro passo verso la Luce sarà stato compiuto.-
L'uomo non parve soddisfatto dalla risposta.
-Presto i suoi alleati verranno a cercarlo. Per questioni di prudenza, il momento migliore per agire sarebbe adesso.- le fece notare, contrariato.
Melisandre lisciò le coperte, che avvolgevano il corpo di Bran Stark fino al petto. Le sue unghie cremisi catturarono il luccichio ambrato di quella flotta di candele accese, un esercito schierato contro il buio che imperversava all'esterno, con il compito di scacciare il freddo dell'inverno.
-Il momento migliore per agire è all'alba.- ribadì, senza che la sua voce s'alterasse dalla propria liscia fermezza. -O forse che noi non siamo tenuti ad eseguire i precetti di Rh'llor?-
Il frate non protestò; quasi intendendo ch'era una perdita di tempo, uscì senza dire altro.
Melisandre pensò a Stannis: era l'unica minaccia che avrebbe potuto profilarsi all'orizzonte. Magari avrebbe tentato di fermarla per questioni di lealtà, per tenere fede alla parola data, ed era ovvio che lei non avrebbe mai fatto nulla per danneggiare Stannis. Era bene che lui rimanesse fuori da questa storia e non venisse a sapere niente, fino a che la questione non fosse stata chiusa una volta per tutte. Non mancava molto, in realtà.
Dopo un quarto d'ora, fu nuovamente disturbata mentre pregava. Questa volta era un'ancella ad importunarla. Portava una brocca d'acqua e un piatto di bronzo, carico di frutta succosa.
-Per voi, mia signora.- sussurrò, evidentemente agitata. Era solo una novizia: ancora non portava il mantello rosso, ma soltanto un velo di tulle fra i capelli, ad intrecciarsi con la semplice pettinatura della chioma nera.
-Ti ringrazio, bambina.- Melisandre le rivolse un sorriso di circostanza e le fece cenno di appoggiarlo su un tavolo. La ragazza obbedì.
In quel momento, le labbra di Brandon Stark si mossero in una smorfia d'inconsapevole smarrimento. Dopo qualche istante, le palpebre fremettero. L'approssimarsi del risveglio indurì i suoi tratti, come se tutto il dovere del mondo si riversasse di nuovo sulle sue spalle.
Melisandre reagì con estrema tranquillità; allungò il braccio verso la coppa, che aveva precedentemente preparato e messo a portata di mano. La manica del mantello, scoprendole il braccio, rivelò un'ossatura fine ed un'incarnato bianco come il latte. Il prigioniero, intanto, cercava di scuotersi di dosso l'eco del sopore.
-Jojen...- invocò in un roco bisbiglio, contraendo le guance, impedito nello sforzo dell'orientamento.
Melisandre sollevò delicatamente la testa del ragazzo con una mano, mentre l'altra stringeva lo stelo della coppa.
-Dormi.- sussurrò in risposta, piano. -Adesso devi riposare. Tutto si risolverà.-
Non appena l'orlo del bicchiere gli sfiorò le labbra, Bran le schiuse docilmente; la giovane ancella assisteva, rapita e spaventata allo stesso tempo da quello che vedeva. Egli sorseggiò il decotto senza fretta, il peso del capo abbandonato completamente nell'incavo del palmo della donna. Non appena la coppa fu vuota, Melisandre lo riadagiò sul cuscino.
L'ancella guardò Melisandre con un po' esitazione, prima di parlare, quasi cercasse le parole giuste per non sembrare impertinente.
-... ma è proprio necessario che muoia? E in un modo così orribile?-
Melisandre sorrise della sua ingenuità; ad altri non avrebbe perdonato un simile abbaglio, ma lei era ancora molto inesperta e stava imparando, quindi non vide nessun motivo per non risponderle con sincerità.
-Sembra un'idea atroce, vero?- concordò, lanciando un'ultima occhiata al volto addormentato del re del Nord, che anche l'ancella stava contemplando con malinconia. -Eppure è l'unico modo per liberarlo dalla dannazione che ammorba il suo spirito. A te appare soltanto un tuo coetaneo, un giovane innocente, eppure non lo è affatto. È uno strumento del Dio Estraneo, adesso.-
-Come è potuto succedere?- si sbalordì lei.
-Il sangue che scorre nelle sue vene è antico.- spiegò Melisandre, un vago bagliore a distrarre le sue iridi. -E spesso il Dio Estraneo approfitta dei momenti di debolezza e di dolore degli uomini per impossessarsi della loro anima. Colui che vedi di fronte a te ha ceduto se stesso all'oscurità, permettendole di avere la meglio su di lui ed acquisendo poteri che nessun mortale dovrebbe mai sperimentare. Poteri nefasti, d'inarrestabile letalità, di sconfinata depravazione.- La mano di Melisandre andò ad accarezzare il mento di Brandon, lieve come quella di uno spettro. -Ormai per la sua vita non c'è nulla da fare, ma il suo spirito non è condannato per sempre: può guarire, infatti. Può essere purificato delle sue colpe, attraverso la Luce. Il nostro è un Dio magnanimo, Viviette, che concede sempre una seconda possibilità.-
Viviette era confusa. -Ma... non è giusto che muoia. Se è stato il Dio Estraneo ad avvelenarlo con questi crudeli poteri, perchè deve pagare con la vita?-
-Non devi essere in pena per lui, mia cara.- la rabbonì la donna, con un sorriso enigmatico, passando le dita immacolate fra le ciocche scure del prigioniero. -La sua anima soffre con grande angoscia, costretta in questo corpo perverso dal Buio, e le è impossibile trovare la pace. Quando giungerà la liberazione, per mezzo della Luce, - (per mezzo del fuoco, pensò Viviette) -Brandon Stark raggiungerà la beatitudine. La sua morte sarà soltanto l'inizio di una vita più bella.-
Viviette annuì, anche se non troppo convinta. Non vedeva l'ora di lasciare quella tenda, per la verità. Melisandre la spaventava, e anche quel suo grosso rubino che portava sempre appeso al collo e che sembrava nutrirsi della luce del mondo intero, lasciando l'umanità ad annegare nel buio.
-Perchè la notte è scura e piena di terrori.- recitò speditamente, chinando a testa.
-Perchè la notte è scura,- Melisandre levò lo sguardo a contemplare le fiamme che si arricciavano e dibattevano funeste nel caminetto, quasi intenta a rimirare qualcosa di estremamente lontano, -e piena di terrori.-
Il pelo scuro di Estate, che giaceva in terra al fianco del suo protetto, lampeggiò del colore del rame. La notte perseverò nel suo buio, come un impudico peccatore, e Melisandre attese l'alba ad occhi socchiusi.




























Note dell'Autrice: Come potete vedere, ci sarà ancora un altro capitolo prima dell'epilogo. Spero che abbiate ancora il tempo di sopportarmi per un mesetto! ^-^
Abbiamo un nuovo squarcio su Levenna e le sue dis-avventure amorose con lo zietto innamorato del padre. Ma che è, Beautiful??? XD (www.sputtaniamolanostrastessafanfiction.it)
Ahi ahi, per Rickon si mette maluccio. E la Fortezza Rossa? Cadrà davvero nelle mani dei Baratheon? E che fine farà Tommen? E che fine farà Bran?
Spero che mi farete sapere la vostra opinione, è molto importante per me! Grazie per aver letto questo mastodontico capitolo,
Lucy
ps: episodio 5, stagione 4.
"Bran, sei sicuro di voler andare a vivere una bella vita, sicura, felice e serena con tuo fratello Jon, anzichè sperderti in qualche landa desolata oltre la Barriera alla ricerca di un pennuto geneticamente modificato???"
"... adesso che mi ci fai pensare, Jojen..."
OH, Jojo, VAFFANCULO. La gelosia ti gioca brutti scherzi.

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Capitolo 13
*** Nero fu il giuramento. ***


12

XII. Nero fu il giuramento.






C'era molta più luce: innanzitutto, Bran prese atto di questo. Era ancora nel Parco degli Dèi -non c'erano esattamente indizi che facessero manifestamente intendere ciò, ma lui ne era quasi certo- eppure la visione era diversa da quella a cui aveva assistito, in un punto non meglio precisato del prima rispetto a quel lungo ed incomprensibile che adesso stava vivendo, respirando. Gli alberi, tutti i begl'alberi del cuore che aveva sempre potuto ammirare, non c'erano più: forse era proprio questo il motivo di tanta luce. I colori parevano definirsi a fatica, vinti dall'opalescente tendenza ad un chiarore annientante -quasi accidentali e pallidi riflessi d'un diamante crudo, esposto alla pienezza dei raggi del sole.
Il secondo dettaglio che stupì sinceramente Bran fu la sua stessa presenza. Non aveva fatto altro che contemplare passivamente la visione precedente, che si presentava come disegnata sulla pagina di un libro; in quel momento, invece, Bran era lì. Si portò una mano alla testa e la passò fra i capelli; le sue gambe, inutili come sempre, erano solo un peso inerte di fianco a lui. Poi si guardò intorno, senza che i suoi occhi riuscissero a soffermarsi su qualcosa: nemmeno Grande Inverno era all'orizzonte.
La scena era pervasa da un senso di sospensione, come se lì l'immobilità cangiante d'ogni elemento impedisse all'anima di misurare il tempo, confondendo gli spettatori in un torpore tranquillo. V'era persino qualcosa di minaccioso, nell'aria, e forse l'allarme era suscitato proprio dall'apparente assenza di qualsiasi rischio, dalla quiete stagnante che si profilava in un presente-passato-futuro indistinguibile. Tutto era troppo fermo -fermato. Tutto era troppo luminoso -illuminato. Una presenza impalpabile presidiava a tutto quanto, ma Bran, nonostante formulasse con assoluta lucidità tali riflessioni, non aveva paura.
Al posto del consueto stagno v'era un ruscello, dal corso lento e placido, senza fretta nè violenza. Era scarsamente profondo, tanto che Bran sarebbe riuscito a contare tutti i ciottoli rotondi disseminati sul fondale limaccioso, se solo glie ne fosse venuto il capriccio. A questo punto, chissà mai per quale motivo era ancora convinto di essere al Parco degli Dèi.
Non ebbe il tempo di pensarci, perchè la sua attenzione venne attirata: gli era sembrato di vedere qualcosa nell'acqua. Bran aguzzò lo sguardo e si sporse dalla riva verso la superficie, affondando i palmi delle mani nell'erba e facendo leva con le braccia. Quel qualcosa che aveva visto non era un oggetto, bensì un barbaglio di luce colorata, ammiccante, che prese forma fino a delineare delle immagini.
E, fra le lievi onde della corrente del fiume, Bran vide una tavola imbandita a festa. Scorse Robb, con i suoi ricci ramati e la barba folta sulle guance, più adulto rispetto all'ultima volta ch'egli l'aveva salutato. Sedeva al fianco d'una donna dall'aria esotica, con la pelle ambrata e lunghi capelli corvini, di cui però Bran non avrebbe saputo indovinare precisamente la provenienza. Era la consorte di suo fratello, e questo si comprendeva facilmente dal tenero modo in cui le loro mani si toccavano sul tavolo. Theon Greyjoy, arrogante e vigoroso com'era anni prima -non quello scheletro spolpato che dicevano fosse divenuto- stava ridendo sguaiatamente per una battuta sconcia, che di sicuro era stato lui a raccontare, e intanto lanciava sguardi laidi alla moglie di Robb. C'erano anche Eddard Stark, con i capelli ingrigiti dal tempo ma sempre con il solito sorriso saldo e pacato, e Catelyn: gli occhi azzurri accesi di gioia rendevano il suo viso incredibilmente bello e giovane, nonostante le rughe e i segni degli anni. Bran riconobbe addirittura se stesso, un adolescente che dimostrava metà dell'età che aveva e stava appollaiato sul ramo di un albero lì vicino, intento ad evitare le mele che Arya gli stava lanciando contro. I suoi occhi erano puliti di quasiasi dolore, proprio come quando aveva dieci anni, ed egli stava dondolando le gambe con indolenza: gambe che funzionavano. Nel frattempo a tavola un'irriconoscibile Meera, vestita come una vera lady, stava rispettosamente ascoltando Benjen Stark, che raccontava della sua ultima escursione al di là della Barriera: era evidentemente annoiata a morte, però non aveva il coraggio di liquidarlo. Jon Snow, intanto, si divertiva a scompigliare i capelli di un bambino di all'incirca cinque o sei anni; il piccolo si divincolò, scese con un balzo dalle sue ginocchia e corse a strattonare il mantello del nonno, per farsi prendere in braccio.
-Ned! Cosa fai? Comportati da bravo!- esclamò Talisa Maegyr al figlio, arrossendo ed evitando lo sguardo del suocero, dal quale pareva messa in soggezione.
-Non c'è problema.- rideva Eddard Stark, sollevando il bambino. -È legittimo che sia un po' viziato, non è vero, giovanotto?-
Robb scuoteva la testa, divertito. -Quando gli nascerà il fratellino, dovrà spartirsi le attenzioni di suo nonno... sarà geloso come un matto.-
-Bran, scendi da quell'albero, una volta per tutte! Arya, piantala di lanciare il cibo!- rimbrottava intanto Catelyn, alzando gli occhi al cielo. Il Bran appeso all'albero replicò con uno sguardo malizioso, mentre Arya si gettava all'attacco, tentando di trascinarlo giù per i piedi. A quel punto, Meera si voltò a guardarlo e si complimentò a gran voce con lui per i suoi riflessi. Bran avvampò in una maniera in cui egli credeva di non essere più capace.
-Fagli mangiare la polvere, Arya!- ridacchiava un ragazzino che Bran a prima vista non identificò. I boccoli bronzei gli si arricciolavano dolcemente all'altezza delle orecchie, e i suoi occhi erano uguali a quelli di Catelyn, d'un celeste diafano e gentile. L'intuizione che si trattasse di Rickon fu al pari di un pugno nello stomaco. Nessuna cicatrice sfigurava quel viso bianco e giovane, e lui sorrideva sereno -sorrideva, non
sogghignava- vicino ad una fanciulla dalle trecce verdi come l'erba fresca, elegantemente acconciate sul capo.
E dietro di loro c'erano altre persone, il maestro Luwin, la vecchia Nan tutta accartocciata su se stessa, Hodor che trascinava un tronco canticchiando
Hodor hodor hodor hodor, e Robb e sua moglie che si scambiavano un bacio fra i fischi di Theon e sotto lo sguardo intenerito di Jon...
Bran percepì una lacrima tiepida tagliargli lo zigomo. Basta, basta, stava implorando una voce nella sua mente, basta. Era una tortura. Non avrebbe guardato nemmeno per un istante di più, altrimenti gli sarebbe venuta la tentazione di allungarsi verso quella felicità irraggiungibile fino ad affogare. Quanto dolore sarebbe stato risparmiato. A lui, a Rickon, a Robb e Arya e Meera...
All'improvviso, provò la sgradevole sensazione d'essere osservato. Quando Bran voltò il capo verso sinistra, si accorse d'un tratto di non essere solo: stagliata contro il cielo terso, una fanciulla era come lui affacciata alle acque del ruscello. Il suo viso era molto grazioso, ma l'espressione era così austera da lasciare interdetti. Sembrava rinchiusa nella freddezza di un dolore esclusivo quanto intransigente, che nessun altro al mondo avrebbe potuto comprendere nè condividere. Le labbra erano piene e carnose, gli occhi scuri come il carbone e gli zigomi alti e pronunciati; il disegno dei capelli era un complesso, morbido scorrere di arabeschi e spirali, abbandonati con incuranza sulla schiena, a crescere come importuni rampicanti. La sconosciuta era appunto china sullo specchio d'acqua, proprio come lui; aveva le ginocchia a terra, a schiacciare l'erba e sporcarle la gonna, e il viso chino verso il basso, a sfiorare il petto flettendo il lungo collo. Bran si chiese cosa vedesse. Sulla superficie dell'acqua galleggiavano, lenti e pigri, avvizziti petali blu, dai margini frastagliati, deteriorati dal tempo, chiazzati di macchie giallastre.
-È quello che sarebbe stato.- La voce della ragazza risuonò alta e sferzante come il vento del Nord. -Quello che non avrebbe mai potuto essere.-
Bran la guardò, ma lei non alzò il capo. Non diede nemmeno segno di starsi rivolgendo a lui, però erano gli unici ad essere lì, quindi non c'era possibilità di fraintendimento.
-Come hai detto?- domandò lui.
-Anche io lo vedo spesso. Cosa sarebbe successo, intendo.- La ragazza s'ostinava a non sollevare il mento. Il suo sguardo vagava nelle profondità più recondite del torrente, ma le sue parole erano piatte ed asciutte. -Vediamo storie diverse, io e te, eppure il nostro dolore è lo stesso. Siamo destinati ai medesimi rimpianti. Il passato non ci lascerà mai andare.-
L'orlo blu della sua veste si protendeva largo nell'erba, stoffa sontuosa del colore del cielo estivo. Una corona di nudi sterpi, di spine aggrovigliate, giaceva di traverso sulla sua nuca.
Bran si accorse che, gradatamente, l'acqua prima cristallina aveva assunto una tinta rosata. Ben presto, il feroce odore del sangue giunse netto, definito ed inconfutabile alle sue narici. I suoi occhi scrutarono la superficie, per poi rivolgersi di nuovo al volto della donna, ponderatamente guardinghi.
-Tu sei mia zia Lyanna,- chiese cautamente, -vero?-
Impossibile non riconoscere quei tratti, quelle caratteristiche; impossibile non riconoscere la ragazza che aveva fatto dipingere in una delle sale di Grande Inverno. Il fantasma di suo padre, un personaggio di fiaba.
Lei non reagì. Rimase algida, impassibile, l'ombra bianca dell'amarezza calata sul viso e una fissità lontana nello sguardo scuro.
-Molti anni fa rispondevo a questo nome.- ammise a voce bassa, insondabile. -Amai un uomo, anche. La nostra non fu una storia che si racconta volentieri. Sono state tramandate molte bugie... ma ormai è troppo tardi.-
Lyanna immerse una mano nell'acqua, fino al gomito: quando la estrasse stringeva fra le dita un rubino dal colore abbagliante, in cui il sole si specchiò impunemente. Bran era sbalordito: lo stupore che gli colmava il petto lo fece sentire più leggero, più libero, più giovane, e gli ricordò di più il ragazzino che aveva visto nelle acque del ruscello anzichè il re del Nord ch'era diventato.
La fanciulla lasciò ricadere la pietra nell'acqua, con un fioco schiocco. Una tristezza inossidabile le pietrificava le iridi.
-Io sono morta, Brandon Stark. Quel che vedo in queste acque mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni. Ma tu sei vivo... e puoi ancora fare pace con il tuo presente. Puoi ancora perdonargli di non essere il futuro che volevi.-
D'un tratto, a pelo d'acqua affiorò qualcosa che inizialmente Bran non seppe riconoscere: sembravano argentei gambi di fiore. Poi Lyanna si chinò e la trasse fino a poggiarla in grembo. Il ragazzo inorridì nel realizzare che si trattava d'una testa: sì, una testa umana, il bianco viso d'un uomo dai fluenti capelli d'argento, dalle palpebre calate in un sonno eterno. Lyanna raccolse con una mano alcune ciocche dei capelli bagnati di Rhaegar Targaryen, le lisciò, le arrotolò, le lisciò ancora. Una tenerezza tristissima ed inesprimibile le inumidiva le ciglia.
-Puoi ancora ringraziare il cielo di averlo, un futuro.-
Bran fuggì lo sguardo struggente di sua zia, quasi spaventato da quel dolore. Lanciò un'occhiata al ruscello, quasi disperatamente, bramando per un'ultima volta quell'idillio da cui era inevitabilmente escluso. Le acque s'erano infrante e non mostravano più nulla, se non l'espressione angosciata di Bran.
Per la prima volta, lo sguardo di Lyanna e quello di Bran s'incrociarono.
-Se il fato ti vuole morto, devi morire. Ma se il fato ti vuole vivo... allora tu devi vivere, Brandon.- Qualcosa di simile ad un malinconico sorriso le incurvò le labbra. -Adesso sai cosa fare.-
Bran provò una specie di calore all'altezza del petto. 
-Credo di sì.-
Lyanna scomparve, in una nuvola di petali blu, mentre le note della melodia d'un'arpa si disperdevano nelle nebbie del tempo, riecheggiando nella polvere dei secoli. La risata di Rickon Stark annegò nelle acque del ruscello, che spazzavano via il passato come fa il vento con le foglie d'autunno.
***
Tyrion aveva sempre provato una strana titubanza di fronte a Sansa, anche se non era mai riuscito a spiegarselo. Aveva dovuto ammetterlo con sè stesso.
La sua opinione aveva un'inusuale rilevanza per il Folletto; inconsapevolmente, si era ritrovato spesso a chiedersi cosa la ragazza Stark pensasse di lui, per poi ricordarsi che non avrebbe dovuto importargli affatto. Al tempo in cui l'aveva sposata, si guardava con i suoi occhi e si vedeva tozzo, deforme, grottesco come un guitto, e -al contrario di come succedeva nella stragrande maggioranza delle volte- si sentiva in colpa di questo nei suoi confronti. Sansa meritava di meglio, solo questo riusciva a pensare: poco importava se non era stato lui a decidere tutto ciò. La razionalità aveva poco a che fare. E Tyrion riteneva che non esistesse nulla di peggio di vergognarsi di sè.
I giorni al fianco della sua giovanissima moglie erano stati insostenibili per entrambi. Lei masticata dalle mandibole di un dolore devastante, lui costantemente vincolato dal proprio imbarazzo. Quando Sansa era fuggita, era stato quasi un sollievo: e Tyrion, segretamente, aveva proseguito a pensare che l'avesse fatto a causa sua, a causa del disgusto che provava per il suo marito nano. E anche se fosse stato? Sansa era solo una sciocca, frivola, sprovveduta ragazzetta di sedici anni. Il suo giudizio non avrebbe dovuto nemmeno sfiorarlo.
Il tempo era trascorso, la giovane Stark era diventata una donna. Il Folletto aveva spesso vagheggiato riguardo il suo destino, s'era chiesta dove fosse, come stesse... per poi ricordarsi che non avrebbe dovuto importargli affatto.
Aveva temuto quel confronto per molto tempo, e allo stesso tempo aveva sempre saputo che prima o poi sarebbe avvenuto. Invece, ora che stava realmente accadendo, Tyrion provava soltanto una sorta di imprudente astio, di derisoria rabbia. La strana umiliazione che lo aveva sempre afflitto, per modo di dire a causa sua, riaffiorò come una vecchia ferita stuzzicata.
Fissò la ragazza di fronte a sè, serrando gli occhi in due fessure.
-Voi Stark dovreste cambiare il nome della vostra casata in A volte ritornano. Fra un po', arriverà anche tuo padre senza testa a chiedere vendetta. Ce n'è almeno uno, della tua famiglia, che sia morto sul serio?- Quel salace sarcasmo inasprì le labbra della sua interlocutrice in una smorfia rigida.
-A volte ritornano, sicuramente non grazie ai Lannister.- Sansa lo corresse con freddezza. -Non prenderti gioco di me. L'avete già fatto troppe volte. Non posso più tollerarlo.-
Persino la sua voce era diversa da come la ricordava -ovvio che era diversa. Era più simile al graffiante stridio del ferro sugli scudi, alle dita dell'inverno lungo la spina dorsale. Una crudeltà che non le era mai appertenuta -che non le sarebbe mai dovuta appertenere- s'era impossessata di lei come un morbo.
Tyrion parlò come se non avesse udito. -A Nido dell'Aquila, Ditocorto ti ha nascosta così bene che non sono riuscito a trovarti. Dov'eri? Lo chiedo così, per curiosità intellettuale.-
Sansa scosse il capo, gli occhi ancora affilati. -Tutto questo non ha più la minima importanza, Folletto.-
-Oh, adesso non sono più "il tuo lord"?- Tyrion scoppiò a ridere, e le sue stesse orecchie riconobbero quel suono come un concentrato d'amarezza. -Adesso sono il Folletto.- 
La fanciulla rispose con una fermezza che, un per solo istante, parve intristirla e velarle le iridi, in un breve ma appassionato conflitto fra il dolore dei ricordi e la necessità di quella forza che non doveva abbandonarla.
-Adesso, e per sempre, sarai un Lannister. Tanto mi basta.-
Il silenzio era tremendamente ostile.
-Cosa volevi fare ai miei nipoti, Sansa Stark?- domandò Tyrion, mentre il suo sguardo inquisiva gli occhi della ragazza con una franchezza crudele.
Ma Sansa non si lasciò prendere alla sprovvista così facilmente, nonostante quell'accusa fosse funesta ed implacabile come solo l'autentica espressione della verità può essere.
-La stessa cosa che tuo fratello voleva fare al mio dieci anni fa.- proferì prontamente, senza distogliere lo sguardo.
-Sangue innocente per sangue innocente? È così che vuoi giocare questa partita?- Tyrion era disgustato. -Vuoi rimediare ad un'ingiustizia con un'ingiustizia doppiamente spietata?-
-Solo ed esclusivamente la vittima di un'ingiustizia ha una qualche motivazione per volerne compiere una.- osservò lei, a voce piatta.
Il Folletto sogghignò beffardo. -Quindi, in fondo, non sei tanto migliore di mia sorella Cersei. Perchè stai facendo proprio quello che faceva lei, no? Uccidere indiscriminatamente ogni minaccia per la propria famiglia... anche nel caso in cui questa minaccia sia rappresentata da un bambino in fasce.-
-Non cercare di rifilarmi il tuo moralismo da quattro spicci, Folletto!- Sansa scattò come una fiera a cui fosse stata pestata la coda. Il suo viso avvampò di dispetto. -Sappiamo entrambi perfettamente che tipo di minaccia può essere un bambino in fasce. Io sto semplicemente vendicando il sangue dei miei familiari. Quello che tutti a questo mondo fanno!- Tentò di controllarsi, sebbene il suo cuore martellasse fervido d'indignazione. Assunse l'espressione più altera che le riuscì. -Se il tuo intento è farmi credere di essere dalla parte del torto, sei rimasto con il pensiero a otto anni fa. Non sono più la bambina che voi Lannister vi rigiravate fra le mani come vi andava comodo.-
Quasi a sottolineare la veridicità di quelle parole, uno stuolo di soldati avanzò alle spalle di Tyrion, impedendogli di retrocedere.
-Vendetta dopo vendetta, neonato dopo neonato, dove arriveremo?- Il Folletto sospirò, ignorando i nuovi venuti. -Lionel e Nathaniel non sono qui. Si trovano fuori città, al sicuro dalle vostre grinfie. Cosa intendi farmi ora, Sansa? Avanti, sono un arcimaledetto Lannister, sono solo ed indifeso. È il momento perfetto. Cosa aspetti, liberati di un problema e fammi tagliare dal collo questa brutta testa deforme.- Non si era nemmeno accorto di come la sua voce si fosse progressivamente caricata di rabbia.
Sansa lo fissò a lungo, quasi stesse valutando l'intera sua figura. Nel suo sguardo non c'era nè esitazione nè subbuglio, nè pentimento nè commozione, solo una lapidaria calma. I soldati attesero trepidanti i suoi ordini, pronti a sfoderare le spade. Prima che lei parlasse passono istanti lunghi, quasi infiniti.
-Il Nord non dimentica. Allo stesso modo, io non dimentico. Nè coloro che mi hanno fatto soffrire, nè chi è stato gentile con me. Per questo ti concedo dieci minuti per sparire dalla Fortezza, prima che arrivi mio fratello Rickon e ti faccia fuori.-
-Mi concedi dieci minuti? Ma che gentile.- Tyrion la sfregiò con lo sguardo. -Io farei un po' più attenzione a quel che succede a quell'altro tuo fratello, piuttosto che cercare di uccidere i figli infanti degli altri.-
Secondo ordine di Sansa, gli uomini lo lasciarono passare. Mentre usciva dalla stanza e si allontanava nel corridoio, egli non udì nulla. La voce di lei squillò sospettosa soltanto quando Tyrion ormai era sulle scale.
-Aspetta, cosa intendi?-
Nel frattempo un furioso Loras, i riccioli follemente spiegazzati dietro la nuca e la fronte luccicante di sudore, insanguinato da capo a piedi dalle viscere dei nemici che aveva squartato, s'era imbattuto in una bizzarra comitiva: Tommen, scosso ma illeso, sua sorella Margaery, infiammata dall'adrenalina, e Brienne di Tarth, che come al solito resisteva stoicamente agli eventi: servivano gli sforzi congiunti di tutti e tre per immobilizzare una ragazzina che si dimenava come una bestia in trappola, e che Loras, non senza impegno, identificò infine e con sconcerto come Myrcella Lannister.
-Come ti è saltato in mente di scappare via di nascosto dalla mia sorveglianza?! Mio re, la tua vita è immensamente preziosa, ed la tua è stata una pazzia!- lo apostrofò, atterrito all'idea del pericolo che il suo sovrano aveva corso, ed allo stesso tempo sollevato all'idea che tutti sembrassero illesi. -Cosa diamine è successo?-
Tommen s'era effettivamente staccato dal fianco di Loras ed era fuggito senza dirgli nulla, per poter andare nella torre ad avere la sua rivincita su Rickon.
Margaery gli sorrise, illuminandosi a vederlo. -Bello vederti, fratellino.-
-E tu cosa ci fai qui?!-
-Pensavi sul serio che me ne sarei rimasta buona buona in cella?- fu la risposta che da lei ottenne, accompagnata da un'occhiata scettica.
-Rickon Stark è morto.- rivelò Tommen, tutto d'un fiato, euforico. -Brienne l'ha ucciso.-
Loras rimase senza parole per qualche istante.
-Morto? Davvero... morto?- Era tentato di scoppiare a ridere, ma sarebbe stata una risata decisamente isterica. Uno dei loro avversari più temibili era fuori gioco, e così non avrebbe più potuto far male a nessun Lannister e nessun Tyrell... però il castello era sotto assedio, perciò cos'altro si poteva comunque fare?
-Dobbiamo scappare, Maestà.- gli ricordò precipitosamente il Cavaliere di Fiori. -Ho promesso a tuo zio Jaime che ci saremmo incontrati e saremmo fuggiti insieme, con lui e Tyrion.-
-Myrcella non potrà andare lontano.- intervenne Brienne, cupa. -Credo che stia male.-
Tommen rivolse lo sguardo alla sorella, che nel frattempo era scivolata a terra. Myrcella stava ansimando rumorosamente, le mani paonazze colte da un tremito convulso, piantate sul pavimento come sostegno; il capo oscillava, scuotendo i lunghi capelli sporchi di polvere, e dalle labbra sgranate dai gemiti febbrili sgusciavano parole altissime e disarticolate.
-Voi... io vi ucciderò tutti. Tutti. Vi ucciderò... tutti. Dov'è?! Dov'è? Voi! Ancora del male, gli avete fatto ancora... del male... non gli avevate fatto abbastanza male?! Dovevate... dovevate anche... siate maledetti!-
Tommen sfiorò inavvertitamente il sottile graffio, ancora orlato da un filo di sangue vivo, che Myrcella aveva aperto sul suo petto, e provò ad immaginare cosa sarebbe stato se Brienne non avesse disarmato la fanciulla in tempo. Myrcella aveva tentato di ucciderlo... e quando l'aveva fatto, c'era la follia di Rickon Stark nei suoi occhi animati di furore.
Margaery aggrottò la fronte. -Ho ancora dei soldati di mio padre, che so rimarranno fedeli alla nostra causa. Non appena usciremo di qui, io e Myrcella potremmo rimanere nei loro accampamenti, mentre voi trovate un modo per fuggire da Approdo del Re.-
-Non appena usciremo di qui.- ripetè Loras, beffardo. -È una parola...-
-Fuggire da Approdo del Re? Impossibile, temo, mia signora.- commentò Brienne, rigidamente. -Se fosse così semplice, non saremmo nei guai. Scommetto che la prima cosa a cui il Re Metamorfo ha provveduto è assicurarsi che nessun componente della vostra famiglia sopravviva all'assedio, e che quindi abbia messo sotto controllo tutte le uscite.-
Ma furono le parole di Tommen quello che ferirono la donna più a fondo. -E poi, per quale motivo dovrei fidarmi di te? Tutto quello che è successo non mi ha certo fatto dimenticare che tu sei stata la prima a tradirmi, Margaery.-
Lei abbassò lo sguardo, quasi vergognandosi di fronte a quella verità. -Non posso negarlo. Però davvero, marito mio... forse non mi presterai fede, però... da quando sono nati i bambini, mi sembra che sia passato un secolo. Tenerli fra le braccia mi ha fatto capire molte cose... O meglio, ha ridimensionato molte cose. Finalmente mi sono resa conto di quanto irrisorio fosse-
-Mi dispiace interrompere un discorso così commovente, ma dobbiamo assolutamente raggiungere Jaime.- sbuffò Loras, facendo loro segno di darsi una mossa. Aveva la netta impressione che Margaery stesse solo recitando, come al solito: era troppo inusuale sentirla parlare così. La sua redenzione gli pareva un bluff. La spiegazione, l'unica che avesse un senso, era che la sorella semplicemente aveva valutato quale posizione sarebbe stato più vantaggioso assumere e si era comportata di conseguenza.
Controvoglia, Tommen annuì e fece cenno alle due donne di seguirli. Non sapeva se fidarsi di Margaery fosse saggio, però voleva farlo così disperatamente che magari avrebbe potuto anche cascarci di nuovo. Che razza di re è, quello che si lascia abbindolare dalla sua regina, pendendo dalle sue labbra e obbedendo come una marionetta? Già prima si era comportato da sciocco, quando Margaery gli aveva afferrato devotamente le mani e gli aveva chiesto dove fossero i loro figli, e lui era rimasto così folgorato dalla bellezza di quel nostri da arrossire di gioia e cinguettare una risposta, come se nulla fosse, come se non avesse dei buoni motivi per odiarla. Si era fatto incantare da lei come un cretino, ma... non doveva accadere più.
Ignorò gli occhi gonfi di supplica di sua moglie e avanzò, confuso. D'un tratto, deprecò il fatto che sua madre non fosse accanto a lui, a indicargli la strada giusta. Sentiva un tremendo bisogno di aggrapparsi ad uno scoglio -ed attorno a sè vedeva solo il mondo andare alla deriva.
***
Tyrion ricordava le ultime parole che aveva rivolto a suo fratello Jaime; così, dopo aver attraversato nuovamente la calca della battaglia, scese fino ai piani inferiori e finalmente, un moto di sollievo ad avvincergli il respiro, pose la mano sulla porta dell'ingresso secondario delle stalle.
Quando entrò, molti sguardi scattarono verso di lui. Jaime fu il primo a parlargli, alzandosi dal mucchio di selle impilate l'una sopra l'altra.
-Dov'eri finito?! Non ci speravo più, ormai...-
-Pagavo un debito, come un vero Lannister.- Tyrion si limitò ad un sorriso sghembo, senza dare ulteriori spiegazioni, nonostante lo sguardo esplicativo di Jaime lo incalzasse da questo punto di vista. -Myrcella è qui...? Rickon Stark non è salito sulla torre?-
Tommen raggiunse lo zio a rapide falcate e lo abbracciò, felice di vederlo. Sorrise trionfante. -È salito, invece. Ed è anche morto.-
Un gemito prolungato e cruento, dal sapore del sangue e della cenere, squarciò la bocca di Myrcella, mentre lei sollevava il capo, esponendo la gola. Poi s'abbandonò di nuovo al suolo, mentre i singhiozzi le percuotevano la gola, risuonando come una supplica ormai monocorde e lamentosa.
Il Folletto spostò lo sguardo dalla nipote al re, troppo distratto da quella notizia per prestare attenzione al triste spettacolo, e sgranò gli occhi sgomento.
-Come hai detto?! E chi è stato?!-
-Brienne. Sapevo che metterla come guardia per Myrcella era una buona idea.- replicò Jaime, lanciandole un'occhiata di approvazione.
Tyrion sentì il cuore accelerare sotto il farsetto. Rickon Stark, tolto di mezzo per sempre... il suo sangue, spanto per asciugare quello di Tywin e Cersei Lannister. Era il meglio che potesse capitare loro. Myrcella incolume, ancora lì, e quel piccolo bastardo fuori dalle scatole... adesso bisognava soltanto far sì che la seconda parte del suo piano avesse successo.
Tommen rinsaldò la presa sulle spalle dello zio. -Come faremo a scappare dalla città? Brienne dice che è impossibile...-
-Infatti è così. Insieme siamo una comitiva che attira troppo l'attenzione, da soli moriremmo dispersi. È per questo che non fuggiremo.-
Margaery s'indignò. -Il fermento della guerra ti ha forse fatto perdere il senno, lord Tyrion? Stai consigliando di lasciarci morire qui?!-
-Anche se non è granchè, ci tengo alla mia miserabile vita.- ribattè Tyrion, intimandole di ascoltare. -Stavo dicendo che anch'io ho una notizia per voi. Brandon Stark è stato rapito.-
-Cosa?- esclamò Tommen.
-E Jaime lo salverà.- aggiunse suo zio.
-Cosa?- gli fece eco Loras, sbalordito.
-L'unico modo per sopravvivere è ottenere il perdono dal nostro nuovo re bastardo, e di conseguenza dal suo alleato.- spiegò il Folletto. -Se Jaime salverà il re del Nord, lui in seguito si sentirà in dovere nei suoi confronti e lo risparmierà... e c'è da supporre che lo stesso farà con tutti noi. D'altronde, sappiamo dove lo storpio è tenuto prigioniero.-
Tommen lo interruppe. -Perchè deve farlo lo zio Jaime?! Non posso occuparmene io?-
Si sentiva un po' offeso dal fatto che nessuno avesse pensato di includerlo, che non l'avessero nemmeno preso in considerazione, che non si fossero disturbati a chiedergli se avesse voglia di farlo. Dopotutto, suo zio era più esperto, ma anche più vecchio. Si fidavano così poco del suo coraggio e del suo valore? Sì, forse non era il combattente migliore dei Sette Regni, però... però odiava l'idea che tutti, così come Myrcella aveva detto, lo considerassero un re ottuso ed incapace.
-È molto pericoloso, Tommen.- s'azzardò a dire Jaime, cautamente. -Non sappiamo nemmeno esattamente con chi abbiamo a che fare. Forse è meglio se lasci fare a me e Brienne. Se noi morissimo, infatti, voi ci piangereste un po' e basta. Se tu morissi, sarebbe la fine per tutti noi. Hai sedici anni, sei l'erede dei Lannister, padre di due creature appena nate... Non possiamo farti correre un rischio simile.-
Tommen esitò per pochi istanti, poi annuì timidamente. -Certo, zio. Scusa se ho parlato come un bambino capriccioso.-
Decise di tacere e tenere per sè i propri tentennamenti, ma Tyrion intuì ugualmente la sua delusione. 
-Se proprio ci tieni a renderti utile, nipote, potresti sempre offrire il culo a Bran Stark e diventare il consigliere numero due.- gli propose affabilmente. -Dopotutto, sei un bel ragazzino. Ed ecco, sarebbe l'ennesimo dei miei problemi risolto con la prostituzione...-
Tommen avvampò sulle guance ed abbassò lo sguardo, imbarazzato. -Zio Tyrion, non essere sgradevole.-
Il Folletto chiese venia con un ghigno. Loras era dubbioso.
-Dunque quali saranno le nostre prossime mosse?-
-Io, Tommen, Margaery e Myrcella raggiungeremo gli accampamenti dei soldati Tyrell, e lì rimarremo. Loras, tu ci scorterai: non si è al sicuro da nessuna parte, in questa dannata città. In quanto a voi, vi dirigerete al luogo dove tengono Brandon Stark rinchiuso. Brienne, Jaime e i pochi uomini che ci restano attenderanno il momento propizio per salvare il ragazzo... e poi si vedrà.-
Tyrion, dopo aver pronunciato quelle parole, pensò a Shae e Cailee, lontane a Castel Granito. Chissà se sentivano la sua mancanza come lui sentiva la loro, e chissà se le avrebbe riviste... tutto sarebbe dipenso dall'esito di quell'impresa. Chi avrebbe immaginato che sarebbero arrivati a quel punto? A dover salvare i propri stessi nemici per sopravvivere? Come gli era già capitato un'ora prima, immaginò lo sprezzante moto d'orgoglio che avrebbe impedito a Cersei di agire in maniera ragionevole. Lei non si sarebbe mai piegata a salvare uno Stark, a chiedere pietà strisciando sotto il trono del bastardo d'un uomo indegno. Avrebbe preferito morire ammazzata dai soldati del Nord nel tentativo di evadere dalle mura di Approdo del Re, o, ancora meglio, fermata mentre alzava un pugnale contro Arya e Sansa. Cersei non avrebbe mai smesso di combattere. Cersei si sarebbe comportata come una vera leonessa. E Cersei sarebbe morta. Invece Tyrion e Jaime sarebbero rimasti vivi, avrebbero usato l'ingegno al servizio della spada. Avrebbero salvato Tommen e Myrcella e i due piccoli gemelli. La dolcezza di quella speranza rammentò a Tyrion fino a che punto fosse stanco: le palpebre erano quasi cascanti. Quanto tempo era che non prendeva sonno?
-Dobbiamo agire in fretta.- lo riscosse Jaime. -Non cincischiamo.-
Myrcella cacciò un urlo intriso di panico. -No! No! Non potete...! Lui vi ucciderà! Vi ucciderà tutti... lui deve uccidervi tutti... Lui è forte. Più forte di chiunque altro. Perchè volete fargli ancora del male?!- Portò le ginocchia al petto, rannicchiata, sdraiata sul fianco contro la paglia. -Vi ucciderò tutti... vi ucciderò...-
-Fatela tacere.- sbottò Tommen. -Non ne posso più dei suoi balbettii senza senso. Andiamo, prima che ci trovino.-
Brienne non incontrò alcuna resistenza quando prese Myrcella fra le braccia; la ragazza era ormai troppo debilitata per difendersi. Se prima scalciava e graffiava alla rinfusa, selvaggiamente, ora il dolore l'aveva stremata ed aveva preso il sopravvento su una mente suggestionabile ed un corpo già debole. La sua fronte, rossa e palpitante, era bagnata di febbre. Le labbra parevano d'un tratto inaridite, così come gli occhi erano liquidi d'incoscienza. Brienne ricordò l'estrema espressione sul volto di Rickon Stark, quello strano, incredulo stupore per la fine, quasi che mai avesse immaginato che potesse toccare anche a lui. Come hai potuto essere così ingenuo, proprio tu? si chiese la donna. Come hai potuto ignorare l'evidenza che il male che hai fatto ti si sarebbe ritorto contro? Era solo un bambino, fu la risposta che si diede. Ma non contribuì a farla sentire meglio. Forse, salvare Bran Stark avrebbe potuto minimamente assolverla dal suo delitto?
Rickon Stark se lo meritava, si ripetè. Ma dovette smettere subito: ogni volta che lo faceva, nella sua mente lampeggiavano i fieri occhi azzurri di Catelyn Stark.
Myrcella gemeva a lutto. Tyrion meditava in silenzio. Tommen, il cuore in gola, sperava. Jaime correva a cercare l'elsa della spada con la mano sinistra.
***
Arya sapeva che avrebbe ricordato per tutti i giorni a venire, fino all'estrema vecchiaia, il momento in cui lei e Gendry avevano fatto irruzione nella sala del trono -come il più glorioso della sua vita. Sembravano i protagonisti di un'epica leggenda, di una vecchia fiaba capace per l'eternità di ammaliare i bambini, mentre spalancavano le porte e si facevano largo fino ai famigerati gradini sferrando fendenti a destra e a manca; l'attonita euforia sui volti dei soldati diede loro ad intendere che quella storia avrebbe vissuto per secoli di bocca in bocca. Era stato come riconquistare il posto che le spettava nella sua vita, come effigiarsi nuovamente del nome di Stark. Di più: era stata la sua vendetta contro quella fortezza tanto detestata, teatro di sciagure aspre oltre ogni immaginazione, fossa di vaghe fantasie che, delineandosi sempre più distintamente, si erano rivelate mostri.
Annaspando nel sangue fino alle ginocchia, amputando teste, trafiggendo scudi e gridando affannosamente parole di una lingua che non conoscevano, Arya e Gendry erano giunti ai piedi del Trono di Spade. L'avevano guardato dal basso verso l'alto, come i bambini fanno alle pendici delle montagne. All'improvviso, proprio quando i pericoli erano scomparsi all'orizzonte e il traguardo era così vicino, era quasi sorto il dubbio se non fosse meglio scappare via. Perchè Arya lo sapeva, in fondo, che i pericoli non erano affatto scomparsi, bensì cominciavano in quel preciso istante. Gendry piangeva, senza schiudere la bocca nè liberare un singhiozzo, lasciando soltanto che le lacrime disegnassero sfregi bianchi sulle sue guance annerite di cenere, salando il sangue secco sulle sue labbra e sul collo. Arya non l'aveva fatto, però riusciva a capire come egli si sentisse, e non aveva commentato. Alle loro spalle, la battaglia che infuriava era soltanto un brusio indistinto. Il cuore nei loro polsi era un tamburo di guerra. D'un tratto tutto il sangue che avevano versato ritornava sangue, tutte le vite che avevano strappato ritornavano vite, paradossalmente nel momento in cui non lo erano più.
Era costata cara l'ambizione, prima di scoprirla come un desiderio nel proprio cuore si aveva dovuto perdere molto, quasi tutto. Era costato caro il tragitto, dall'intenzione di percorrerlo alla determinazione nel perseverare, e denti e artigli di molte fiere avevano lasciato il segno su quella pelle che ormai recava incisa la loro storia. Era costato caro il trionfo, solo allora se n'erano accorti. Ma non importava. All'improvviso, non importava. Andava bene così.
Un principe più avido -un ragazzo più stupido- si sarebbe precipitato a sedersi su quello scranno, come se mille nemici invisibili potessero minacciarlo, se non avesse fatto presto. Ma Gendry non era un principe, non era avido, non era più un ragazzo e non era stupido, perchè sapeva che per regnare sui Sette Regni non era mai bastato sedersi sul Trono di Spade -per regnare su qualsiasi regno non sarebbe mai bastato sedersi su un trono.
Gendry aveva voltato il viso verso Arya, senza nemmeno cercarla: la sapeva lì. Arya aveva fatto lo stesso. Per qualche istante, la consapevolezza non aveva necessitato di parole.
A quel punto, forse lei aveva sorriso -i ricordi cominciavano già a diluirsi.
-Ci sei arrivato, alla fine.- Le era quasi parso di prenderlo in giro. Le era quasi parso sciocco cercare di palesare qualcosa che nessun idioma avrebbe mai potuto esprimere.
-Ci siamo arrivati. Ti sbagli sempre.- Gli occhi di Gendry, in mezzo al fumo e alla polvere e al sangue, sembravano folgori. Per un istante -uno solo- Arya aveva percepito un brivido di reverenza percorrerle la spina dorsale. -Diventa la mia regina, Arya Stark.-
Era stato difficile sottrarsi a quello sguardo -a quell'ordine, decisamente il primo vero ordine del Lord dei Sette Regni. Un po' maleaugurante. Il primo ordine impartito era anche il primo disatteso. Arya aveva deciso di rivelare la verità.
-Il potere rovina le persone, Vostra Grazia.-
Gendry aveva piegato le labbra in un sorriso triste, nell'udire quell'appellativo. -Significa che vuoi rovinarmi?-
-Significa che sono sicura che non ti lascerai rovinare.- La ragazza cercò le tracce del sangue di tutti i re che erano stati trafitti dal loro stesso scranno. Vide quello di Aerys Targaryen, quello di Robert Baratheon, quello di Joffrey Lannister. -Per quanto riguarda me, non posso affermarlo con la stessa sicurezza.-
Gendry studiò la sua espressione assorta, le sopracciglia scure ed aggrottate sopra gli occhi amari, le cicatrici ramificate come vene sul suo collo.
-Ti amo anche per questo, milady.-
-Se mi chiami di nuovo così, fra poco non avrai più un cuore per farlo.-
Nel bel mezzo dell'inferno, nel bel mezzo del fuoco e del sangue, l'aveva baciata. Arya aveva pensato che Sansa l'avrebbe trovato romantico, e che a lei sembrava solo rivoltante. Aveva pensato pure di insultarlo e tirargli un cazzotto, ma poi si era dimenticata di farlo. Le piaceva, Gendry, in fondo. Le piaceva quasi tutto, di Gendry. Le piaceva pure il suo odore, anche se non avrebbe saputo spiegare esattamente quale fosse. Si trattava di un connubio particolare, che innescava una sensazione di benessere e rievocava ricordi remoti; qualcosa che le rammentava il muschio balsamico, le rocce scaldate al sole, e... e altre cose che non è necessario specificare. E quando lui l'aveva baciata, si era sentita come in cima al mondo.
Prima di abbandonare la sala, a battaglia terminata, mentre i cadaveri venivano raccolti e le armature depredate, Arya aveva lanciato un'ultima occhiata fiduciosa al Trono di Spade. Il sangue di Gendry non avrebbe mai bagnato quelle lame. Come certezza era sufficiente, anche per una vita intera.
In quel momento, Arya e Gendry sedevano alle sponde del letto dove Rickon Stark era stato coricato. Gli avevano levato farsetto e camicia, lasciandolo a torso nudo; in questo modo la ferita alla gola era ben esposta e risaltava in una maniera quasi disturbante. Tutti gli anelli della catena avevano calcato impronte di sangue sulla sua pelle, incidendola fino alle vene. Lì la carne era particolarmente delicata, e di sicuro Brienne di Tarth lo sapeva, quando gli era saltata addosso. Al solo pensiero che qualcuno avesse aggredito suo fratello per ucciderlo intenzionalmente, Arya sentiva il cuore ardere di sdegno e i pugni tremare, come le era accaduto molti anni prima, alle Torri Gemelle, il giorno della morte di Robb e sua madre. Un suo caro in pericolo e lei che non era riuscita a proteggerlo... una storia già sentita. Da quel poco tempo che Arya si era ricongiunta con Rickon, l'aveva visto sempre forte, spudorato, arrogante, quasi intoccabile: di certo non bisognoso di protezione. E per questo aveva dimenticato di essere la sua sorella maggiore, di avere il dovere di stargli sempre accanto e di non fargli correre rischi... era stata così stupida, a permettergli di attuare quel piano così pericoloso. E adesso, per colpa della sua leggerezza, era così. Con lividi lì dove le dita del ferro l'avevano strangolato, orribili chiazze rosse prossime a diventare viola e nere... con quell'espressione assopita di bambino intento ad un lungo sogno.
Non poteva fare niente. Non aveva mai potuto fare niente. Inutile viaggiare tutto intorno al mondo, e non si trova davvero ciò che si sta cercando. Arya credeva di avere raggiunto il suo obiettivo ma, non appena aveva visto il corpo martoriato di Rickon, ogni altra cosa s'era ridotta in cenere. L'umana debolezza di un'identità di cui non si sarebbe liberata mai la esasperò di nuovo. Invidiò Jaquen H'gar, capace di assumere mille visi, mille nomi, mille passati; invidiò il suo antico maestro Syrio e sua madre e suo padre e suo fratello maggiore, finalmente in pace, esonerati dal tramestio di quel gioco senza regole. Perdere coscienza del proprio cuore l'avrebbe aiutata a ritrovare se stessa, a ritrovare la propria forza? Avrebbe raccolto abbastanza coraggio per la vendetta? Si sentiva stanca di tutto, nauseata dal sangue, disgustata dalla morte. La crudeltà d'un silenzio privo d'aiuto e conforto la circondava come una crisalide di solitudine.
Gendry, di fronte a lei, capiva di essere escluso da quella sofferenza e non osava proferire parola. Era tentato di carezzarle il viso, di baciarla e sussurrarle che tutto sarebbe andato per il meglio, che erano insieme adesso e per tutta la vita, e che lui avrebbe fatto andare tutto come lei voleva, che si sarebbe adoperato per risolvere ogni suo desiderio: però Arya era Arya, e sicuramente avrebbe frainteso quel tentativo di conforto come un'accusa di fragilità femminile e si sarebbe offesa. Quando si parlava di sentimenti, la ragazza che amava non era capace di quella cruda franchezza che adoperava per qualsiasi altra cosa. Così il nuovo re dei Sette Regni si limitava a starle vicino con la propria concreta presenza. Di tanto in tanto, un attendente o un messaggero accorreva riferirgli qualche novità di poco conto, che lui accoglieva con un cenno del capo. Aveva davvero molto da fare -era o non era il re, adesso?- però di lasciare la giovane Stark da sola, in un momento simile, non se ne parlava. Di notizie riguardo i Lannister, poi, ancora non ne erano arrivate: eppure, non potevano essere andati troppo lontano.
Nymeria urtava la mano di Arya con il proprio muso umido e la leccava con la lingua rasposa, tentando di distrarla ed attirare la sua attenzione, ma la ragazza la ignorava. Cagnaccio era sdraiato ai piedi del letto e vegliava il suo padrone con i grandi occhi verdi, lanciando a volte sguardi foschi ad Arya, quasi a dirle: se mi avessi lasciato andare con lui, niente di tutto questo sarebbe successo.
Come accadeva puntualmente allo scadere di ogni mezz'ora, un Maestro gli s'accostò e verificò rapidamente le sue condizioni. Posò il palmo sul petto del ragazzo, esaminò le ferite sul collo e gli sollevò una palpebra con due dita. Arya, quando era entrato, l'aveva a malapena notato; ma ad un certo punto dovette insospettirsi, perchè l'uomo, nonostante i minuti passassero, era ancora lì.
-Ci sono progressi?- domandò allora, mentre il calore della speranza le gonfiava il petto. Ma quando l'uomo si voltò, vedendo la sua espressione impietosita, Arya percepì soltanto qualcosa di nero ed indistinto farsi largo nel torace, come il fumo caliginoso d'un incendio devastatore.
-Ormai è incosciente da molto tempo. Le funzioni vitali stanno rallentando. La catena potrebbe avergli causato un'emorragia interna. Signora, non sono affatto sicuro che si riprenderà.-
Arya tacque. Gendry e il vecchio si scambiarono una breve occhiata.
-Non c'è proprio nulla che possiamo fare per lui?- domandò il re, lentamente. Il Maestro si strinse nelle spalle.
-Pregare i Sette, suppongo. Ad ogni modo, se fossi in voi, mi preparerei a lasciarlo... sì, insomma, a lasciarlo...-
-... morire?- La voce di Arya cadde rapida e tagliente come una ghigliottina. Gendry sospirò. Fece il giro del letto e le si avvicinò.
-Arya, ascolta-
-Ho ascoltato abbastanza.- La ragazza fissava il collo di Rickon come se volesse affondare un coltello nelle pieghe della sua carne. -Ho ascoltato tutto quello che mi importava ascoltare.-
-Arya.-
-È finita. Non mi interessa. Non mi deve interessare.-
Gendry le girò la faccia con uno schiaffo, che avrebbe rotto senza problemi lo zigomo d'un viso più delicato. Arya rispose ferocemente con una sberla, che il ragazzo incassò ed a cui replicò con un pugno. Lei, gli occhi accesi come braci incandescenti, gli allungò di rimando un altro pugno, che però Gendry schivò. Ed Arya ci provò ancora, ed ancora, ed ancora, finchè lui non avvolse la mano serrata di lei nel proprio palmo striato da vecchie cicatrici -tanto grande da far scomparire completamente il pugno della ragazza. I loro sguardi s'incontrarono e rimasero così, fissi l'uno nell'altro come una freccia in un bersaglio, e tanto fremente era quello di Arya quanto severamente fermo e saldo quello di Gendry. Fu un confronto lungo e necessario.
La giovane Stark non sapeva esattamente quanto tempo dopo era ricaduta sul petto di Gendry, senza forza, senza dolore, senza rabbia, non sapeva quanto tempo dopo la sua anima aveva trovato la dolcezza del riposo; il Maestro se n'era andato, lasciandoli soli, e Gendry le stava accarezzando ritmicamente la nuca, bisbigliando parole di cui nessuno dei due conosceva il significato, ma che li faceva sentire parte della stessa anima.
Arya non pianse fra le sue braccia. Rimase inerte, ignorante, cieca, finalmente distante da tutto quell'ammasso di cadaveri e macerie. Si permise la stanchezza e il perdono, ma si risparmiò l'arsura dolorosa ed inutile del pianto. Avrebbe solo consumato la sua resistenza. Gendry era ancora lì, e tutto andò a posto per un po'.
Quando si risollevò, Arya lo fece solo perchè il richiamo alla vita era ormai imprescindibile. Le sue ossa erano vuote, le sue labbra asciutte. Il corpo di Rickon era ancora lì, come un peso da riaddossarsi alla coscienza, un pensiero da riaccogliere nella propria mente. Ma adesso Arya sapeva che avrebbe potuto farcela. Non sapeva cosa fosse cambiato, ma il buio non c'era più -quell'istinto di sopravvivenza che le aveva insegnato ad avanzare sotto qualsiasi intemperia le aveva impartito una nuova lezione. Senza comprendere bene il suo stesso gesto, allungò il braccio e toccò la mano di Rickon, carezzandone il dorso con i palpastrelli, disegnando piccoli cerchi attorno alle nocche. Era impregnata di sudore, gelido come le lacrime della Barriera.
-Uccideremo tutti i Lannister. Te lo prometto. Dal primo all'ultimo.- borbottò. Dopo qualche lungo istante, si voltò verso Gendry.
-Sansa era andata a cercare i gemelli, ma mi sembra di capire che non li ha trovati.-
-No. Adesso non è più qui. Quando ho ordinato di andare ad avvertirla... di Rickon, mi è stato riferito che era già partita per tornare all'accampamento di re Brandon. Immagino che volesse informarlo di com'è andata.-
-Dovremo subito mandare un messaggero lì.-
Gendry scrollò le spalle. -Non è facile. C'è una confusione infernale là fuori, e gli ultimi focolai della battaglia devono ancora essere soppressi. Le comunicazioni sono tutte intralciate, sia da qua a là sia viceversa. C'era da aspettarselo.-
-Significa che-
Prima che potesse alzarsi dalla sua posizione, con le ginocchia a terra, un gemito di dolore le strappò la voce. Solo dopo un istante di assoluto smarrimento, si accorse che delle lunghe unghie affilate si erano conficcate nel suo polso.
***
Il dolore al basso ventre inghiottì il respiro di Meera e la lasciò soffocare, a labbra socchiuse. Era come se il suo centro gravitazionale fosse cambiato, abbassandosi, degradandosi, e d'un tratto fosse quel nucleo di sofferenza, e null'altro. Aveva anche un colore, Meera lo scorgeva distintamente: era nero, un piccolo buco nero, che divorava progressivamente tutto quel che c'era di fronte a lei, come una goccia d'inchiostro, come un parassita. Pulsava orribilmente, insistentemente, come un organo marcio, scandiva un dolore regolare e per questo insopportabile. Si portò le mani al ventre, mentre le sue dita premevano cercando disperatamente di sanare tutto ciò, ma quel che riuscì a fare fu attenuare la sofferenza per la finzione di pochi istanti.
Osha la soccorse precipitosamente, mettendole un braccio attorno alle spalle. -Meera, mi senti? Non svenire, sai, non provarci neppure...-
Cercava di nasconderlo malamente, ma era terrorizzata a morte. Yara le lanciò un'occhiata torva.
-Cosa le prende?- sbottò, conficcando la scure nelle budella dell'uomo che le stava di fronte.
Osha parlò con voce secca, quasi scorbutica. -È incinta.-
Udendola, Meera mugolò; la consapevolezza della propria responsabilità la travolse. Ecco cosa stava accadendo: suo figlio la stava rimproverando aspramente. Quello era il dolore che anche lui provava. Era il dolore di entrambi -ma la colpa era solo di Meera. Quello era il dolore che lei aveva imposto, inferto a suo figlio.
Intanto, Yara imprecava.
-Porca troia, non potevate dirmelo prima?- esclamò rabbiosamente, mozzando la testa di un soldato che si stava avvicinando.
Meera riuscì a trovare fiato a sufficienza per domandare, a voce stentata: -E che differenza avrebbe fatto?!-
-Ti avrei impedito di andare a fare la spaccona in giro con la tua spada da reginetta guerriera, sciocca!- replicò Yara, furente.
La regina del Nord, ancora aggrappata ad Osha e Shireen, sbuffò forte dalle narici. Il dolore scavava sapientemente dentro di lei, lento e curioso ed insaziabile, fino a che Meera non si ritrovò a mordere i gemiti pur di non lasciarli sfuggire dalle labbra, che li articolava sconcertata; sembrava intenzionato a farsi largo fra le sue viscere con una daga, fino a squarciare il suo ventre stesso. Com'era possibile che la ragazza Greyjoy s'infervorasse tanto per questa storia?
-E da quando ti importa della mia incolumità?- mugugnò Meera.
Yara fece una pausa e non parlò per un po', fingendosi troppo impegnata a respingere i soldati con la scure, menando fendenti a destra e a manca. Rivelare la verità risultò faticoso, ma sentì quasi il dovere di liberarsi di quel peso scomodo.
-Da quando hai accettato di accogliermi nella tua casa e di fidarti di me, anche se nessun altro l'avrebbe fatto.- ammise, chinandosi sulle ginocchia per recuperare il respiro, e quando si rialzò la fissò negli occhi con gravosa intensità. Infine esibì un sogghigno. -E perchè mi hai offerto quel vino celestiale.-
-Ah, ecco.- Ritrovato il sorriso, Meera percepì una forza nuova affluirle nelle vene. Il dolore non s'era affievolito, però non sembrava ingestibile come un istante prima.
D'un tratto, seppe cosa doveva fare. Si raddrizzò, respirò a pieni polmoni per qualche istante e sentì di aver recuperato il controllo delle proprie emozioni.
-Osha,- esalò piano, -prendi Kenned e vattene via.-
La bruta trasalì, come se le fosse appena stato sferrato un pugno. -Come?-
-Ascoltami attentamente. Quando ricostruì Grande Inverno, in previsione di calamità analoghe a quella già accaduta, Bran aggiunse un... passaggio segreto, dietro l'arazzo di Eddard Stark. Ci sono delle lastre di pietra che possono essere spostate: da lì si scende delle scale e si accede ad una galleria che conduce fuori di qui, dietro il Parco degli Dèi. Visto che risale alla riedificazione della fortezza Theon non può essere al corrente della sua esistenza, quindi non troverai nessuno a sbarrarti la strada. Conosci bene i territori circostanti. Saprai dove trovare rifugio.-
Osha la ascoltò sbalordita. -Mi stai liquidando in questo modo perchè tu, nel frattempo, cosa avresti intenzione di fare?!-
-Andare a riprendermi ciò che è mio.- concluse Meera, andando a sfiorare di nuovo l'elsa della spada.
La donna la squadrò. -Non ti reggi nemmeno in piedi. Come accidenti speri di fermare Ramsay Snow?-
-Non sono da sola. Ho un sostegno armato,- ed indicò Yara con un gesto, -e un sostegno morale.- Indicò Shireen. -Perciò, cosa mi manca?-
-Perchè devo essere io a portare Kenned in salvo, e non puoi farlo tu?- replicò Osha, indignata. -Io combatterei molto-
Meera spazzò via le sue proteste con il solo suono della propria voce. -Perchè mi fido di te più che di me stessa.-
Lo sapeva, non poteva arrogarsi l'onere della vita di suo figlio, in quel momento. Nemmeno della propria, in verità. Tutto era tremendamente rosso e confuso... e lei, in mezzo a quel putiferio, voleva solo librarsi nella consolatoria certezza che Kenned sarebbe stato bene, che -qualsiasi cosa fosse successa- avrebbe continuato a dormire indisturbato fra le sue pelliccie marroni, senza che nessuno turbasse i suoi sogni. Non avrebbe saputo perdonarselo, altrimenti. Non avrebbe tollerato da se stessa altri errori. Confidare negli altri era tutto ciò che le rimaneva da fare.
Osha era dilaniata dai dubbi. La voce di Bran le risuonava ancora nella mente, limpida e forte: non perderla mai di vista.
-Non posso abbandonarti qui!- tentò ancora, combattuta.
-Devi abbandonarmi qui.- ringhiò Meera. Non c'era più tempo per rimanere a discutere. -E non perchè te lo sto ordinando, ma perchè ti sto supplicando.-
E Osha la vide, quella supplica, nei suoi occhi, così come si scorgono i lampi nel cielo notturno: inestinguibile, fredda e straziante.
-Odio recitare la parte della bambinaia numero due, però ci sono pur sempre io con lei.- aggiunse Yara, con una smorfia. -Perciò, suppongo che se si trovasse nei guai potrebbe venirmi voglia di darle una mano.-
La bruta sospirò. -Hai vinto, contenta? Saluta tuo figlio. Tornerò soltanto quando capirò che è tutto finito.-
Meera avanzò, fino ad affondare il naso nei riccioli di Kenned e schioccare un bacio sulla sua fronte. Inspirò la sua innocenza con voluttà. La invidiava, ma per nulla al mondo avrebbe desiderato attingerla dagli occhi del bambino. Aveva ancora bisogno di tutta la sua ingenuità, lui.
-Scappate.- sussurrò. -Scappate via di qui.-
-E tu vedi di sopravvivere, Reed.-
Dopo averle rivolto un ultimo sguardo scontroso, Osha le voltò le spalle rapidamente, impedendole di intravedere gli occhi arrossati, e si avviò spedita verso l'Ala Ovest del castello.
Yara si rivolse a Meera con tono perentorio. -Sei sicura di sentirti meglio?-
-Ha importanza?- ribattè lei, con fermezza. -Ti prego, ammazziamo quel fottuto bastardo adesso.-
-Certo che ha importanza!- esclamò Shireen, d'un tratto. Aveva udito la notizia della gravidanza di Meera con lo stesso sconcerto di Yara, e riteneva intollerabile che lei si sentisse in dovere di combattere persino in quella situazione. Se ne intendeva molto poco di queste cose, però era piuttosto ovvio che se una donna incinta avverte crampi alla pancia non è proprio un buon segno. -Meera, tu non vorrai-
-Sei quella che aveva promesso di non dare fastidio, o sbaglio?!-
Meera e Yara scesero una rampa di scale a passo rapido; seppur inquieta, Shireen non potè fare altro che seguirle, le sopracciglia aggrottate.
Dopo aver trovato l'uscita dal labirintico intreccio dei corridoi, che conducevano da una torre all'altra e da un piano all'altro, il cortile di Grande Inverno comparve ai loro occhi, sbiancato solo da una luce lunare che appariva particolarmente sinistra, come ossa di scheletro. Lì, gli uomini del Nord si predisponevano ad utilizzare tutte le armi antiassedio di cui erano provvisti, dalle pentole d'olio bollente alle seghe per rompere le scale; non rimanevano molti uomini, in verità, e Meera immaginò che la maggior parte fosse caduta all'esterno delle fortificazioni, cercando di respingere gli invasori. Provò un moto di pena per tutta quella povera gente. Le sue disgrazie non le facevano scordare che quelle del popolo, sebbene meno note, non per questo erano meno drammatiche e degne di commiserazione e riconoscimento. Io mi lamento perchè la vita dei miei figli è in pericolo e perchè mio fratello è morto, ma chissà quanto spesso capita, ai poveri, di perdere figli e fratelli. Loro quasi riderebbero di tutta l'importanza che i nobili danno a questi lutti. Meera però non riuscì a spingersi ulteriormente con il pensiero e giungere a Jojen: non era decisamente il momento adatto. Il dolore è sempre diverso, eppure uno soltanto. È da quando esiste il mondo che gli uomini soffrono per le stesse cose. Nessuno farà un'eccezione per me. Si riscosse e si concentrò sul da farsi.
-La Torre Spezzata è dall'altra parte.- Meera avvertì Yara, indicando il retro del maniero. -Sicuramente Bolton non è solo. Come speriamo di attaccarlo? Le guardie basteranno?-
Yara annuì. -La mia scure basterà. Non perdiamo altro tempo. Per arrestare un'alluvione, bisogna sempre risalire alla sorgente. Se gli uomini di Bolton si ritroveranno senza generale, scioglieranno i ranghi e non sapranno più che fare.-
Procedettero, percorrendo l'esterno del maniero per tutta la sua circonferenza.
-Questa.- Meera fece un cenno col mento, quando la vide. -Da lassù si sta godendo lo spettacolo, il Bastardo.-
A Yara prudettero subito le mani dal desiderio di spiccargli la testa dal collo. Prima che potesse proporre di andare a spaccargli il culo, si udì un terribile boato, che parve scuotere le fortificazioni della fortezza. Una fiumana di soldati dagli elmi calati sul volto, armati fino ai denti, si riversarono all'interno delle mura: grazie a delle macchine d'assedio, gli uomini dei Bolton erano riusciti ad abbattere un portone secondario. Tutto ciò che i guerrieri di casa Stark avevano cercato di fare per difendere l'ingresso, si vanificò in sangue e schegge di legno.
Inorridita, Meera fece un rapido calcolo. Le guardie che la circondavano non erano più di quindici uomini, più lei e Yara faceva diciassette: gli invasori erano ad occhio e croce una sessantina, anzi, ne entravano sempre di più, e di più... ed ormai era troppo tardi persino per pentirsi di non essere fuggiti dal passaggio segreto insieme ad Osha.
Tutto inutile, è stato tutto inutile, pensò con orribile, insospettato raziocinio. Se fossi scappata, il castello sarebbe perduto e noi saremmo vive. Ma sono rimasta, e così il castello sarà perduto e noi saremmo morte. Io, Yara, Shireen. Shireen che doveva sposarsi con il nuovo re. Tutti i piani di Bran in fumo. Difendi Grande Inverno, mi aveva detto mio marito. Prenditi cura di te, mi aveva detto mio fratello. Non ho fatto nessuna delle due cose. Il regno, in fumo. Il Nord, di nuovo piegato. Colpa mia.
La delusione nei propri confronti fu così torbida e pungente da procurarle l'ennesimo spasmo allo stomaco, ma non ci fece più nemmeno caso. Bolton si prenderà il maniero, si prenderà il Nord, e Kenned?... almeno Kenned starà bene... lui e Osha si salveranno... possono farcela...
-Dobbiamo filare via da qui!- Yara la scrollò impaziente per un braccio. -Non possiamo restare un minuto di più! Meera? Mi senti? Meera...-
-Preferisco morire adesso che essere scorticata viva con il rasoio da Ramsay Bolton.- sibilò la regina del Nord. -Lasciami qui.-
Yara Greyjoy strinse i denti. -Se sento un'altra cazzata del genere, ti uccido io e la facciamo finita subito. Se non scappiamo-
-Non capite?! Scappare, scappare... è tutto inutile. Inutile...- Meera sentì le ginocchia cedere ed urtare contro il pavimento di granito. Non percepì alcuna sofferenza, solo la gelida landa dell'inverno che la circondava.
Yara stava riprendendo fiato per urlare, urlare che cazzo non potevano dargliela vinta così, dovevano salire ed ucciderlo e poi scappare, scappare via, non costringermi a lasciarti qui, vieni con me e non parliamone più, tanto non è mica una tragedia, li stermineremo, li stermineremo tutti, ce le faremo, in qualche modo ce la faremo, non sono poi così tanti, e-
Un sorriso incredulo curvò le labbra di Shireen. Il suo sguardo, che saettava rapido per il cortile di Grande Inverno, rimirava esterrefatto ed estasiato qualcosa che Yara non riusciva a vedere.
Subito la principessa dei Sette Regni scosse le spalle della regina, tentando di farla rinsavire, ridendo.
-Sono qui! Loro sono qui! Lady Meera, non stiamo affatto per morire! Siamo salve!-
La principessa Greyjoy le rivolse un'occhiata scettica e si girò a sua volta. -Cosa diavolo stai dicendo?!-
Shireen tese il braccio ed indicò qualcuno. -Sono arrivati i nostri!-
Tanto in fretta come erano entrati gli uomini dei Bolton, altri invasori stavano irrompendo dall'ingresso, forti e rapidi come un fiume in piena, tanto numerosi da parere inarrestabili. Estratta la spada dal cadavere di un soldato dei Bolton, un uomo in nero ne impalò subito un altro, voltandosi con uno scatto fulmineo. Attorno a lui, anche tutti gli altri uomini vestivano di nero, e stavano ugualmente combattendo contro le truppe dei Bolton. La verità, nonostante fosse evidente, era così meravigliosamente piacevole da parere inaccessibile.
Meera, ancora a terra, faticava a credere ai suoi occhi. I Guardiani della Notte? I Guardiani della Notte?! Potevano davvero essere loro?! Dovevano esserlo per forza.
Erano giunti in loro soccorso... ed era davvero un avvenimento eccezionale, perchè mai era capitato prima che le sentinelle della Barriera abbandonassero la loro postazione per interferire con le faccende di Westeros. Non erano stati nemmeno contattati...
Non riuscì nemmeno a muoversi, tale fu la sorpresa. Prima che potesse decidersi ad intervenire, in qualche modo, un ragazzo si avvicinò loro rapidamente, rinfoderando la propria spada; portava un pesante mantello nero puntellato di fiocchi bianchi, aveva grandi occhi castani e neri ricci lunghi fino alle spalle.
-Maestà? Siete ferita?-
Con riguardo, offrì la mano a Meera per aiutarla a riassestarsi in piedi, esaminandola preoccupato. Lei lo riconobbe immediatamente, con sollevato entusiasmo. 
-Lord comandante Snow! Lei qui?! È... è... un tempismo perfetto.- balbettò.
Jon sorrise del suo stupore. -Siamo partiti non appena siamo stati informati delle intenzioni dell'esercito di Bolton. Chiedo venia per il ritardo: era mia intenzione giungere qui prima che Grande Inverno venisse attaccata. Maestà, voi avete una benda insanguinata al braccio.- insistette, facendo cenno a qualcuno dei suoi di avvicinarsi.
-Una ferita superficiale, niente di grave...- tagliò corto Meera, imbarazzata, minimizzando sebbene il taglio le procurasse ancora un dolore lancinante. Non voleva fare una figura così magra, da vera nobile viziata. Si sentiva ancora molto frastornata, sia a causa dello stordimento per i crampi sia per l'irrealtà della situazione. -Come avete fatto... come...?-
-Non credevo che ti avrei rivisto così presto, Jon.- intervenne Shireen, rivolgendogli un saluto caloroso. Egli s'inchinò appena.
-Principessa. È sempre un onore.-
Una freccia sfiorò la guancia della regina del Nord: andò a conficcarsi nel petto di un soldato dei Bolton che si avvicinava dietro di lei. Meera prima si girò a guardare il cadavere crollare a terra, poi cercò l'arciere; si trattava di un'arciera, una ragazza dai capelli fulvi e scompigliati, vestita di un mucchio di pellicce.
-Bel colpo.- si complimentò la regina del Nord, ringraziando con un sorriso titubante. La rossa si limitò ad annuire placida.
Jon si affrettò a presentarla, avvampando e rimproverando la ragazza per le sue maniere con un'occhiata: -Lei è Ygritte. La mia luogotenente.-
La fanciulla di nome Ygritte inarcò le sopracciglia, spavalda. -Avevamo stabilito che eri tu, il mio luogotenente.-
-Certo, come vuoi.- Egli alzò gli occhi al cielo, esasperato, fino a che non lo raggiunse proprio chi attendeva. -Eccoti, Sam: Maestà, lui è un Maestro.- Jon circondò con un braccio il busto d'un ragazzo corpulento, dallo sguardo vivace, le guance paffute e l'espressione timida. -Potrà prestarvi un primo soccorso, intanto che finiamo il lavoro qui. Direi di portarvi in un luogo dove possiate stare più tranquilla...-
-Non serve. Non serve. Posso cambattere di nuovo.- borbottò Meera, malcerta, cercando di drizzarsi in piedi troppo in fretta e ripiegandosi a metà con un gemito soffocato.
Shireen la sorresse, allarmata. -Spero che tu stia scherzando, lady Meera. Nelle tue condizioni... Sam, devi subito occuparti di lei. Non solo è ferita, ma aspetta anche un bimbo. Non può assolutamente compiere altri sforzi.-
-Non li compirà, principessa.- assicurò Sam, inchinandosi anch'egli goffamente. Fece un segno ad un confratello. -Brytes, mi aiuteresti a prenderla in braccio? Se permettete, Maestà, vi condurremo nelle scuderie laggiù. Mi rendo conto che non è il massimo della comodità, però è il posto più vicino e più tranquillo che mi viene in mente...-
Meera assunse un'espressione combattuta. -Non... prima, dovrei uccidere Bolton. Lui è in cima alla Torre Spezzata, e... pensavo di dovermene occupare io...-
-Risolveremo io e Ygritte la situazione in nome tuo e del re tuo marito, se me lo concedete. - propose Jon, con fermezza. -Avete detto che il Bastardo è sulla torre?-
-Sì, e Yara probabilmente vorrà accompagnarti per recuperare suo fratello Theon...- Meera si guardò intorno, confusa. -Dov'è finita Yara? Era qui fino a un attimo fa...-
Shireen la cercò con lo sguardo nel cortile, fino a che i suoi occhi non si spostarono lentamente.
-Credo che abbia avuto la tua stessa idea, Jon.- sussurrò, indicando le scale a chiocciola che s'inerpicavano fino a condurre all'ultimo piano della Torre Spezzata. Ygritte sbuffò.
-Ci conviene muoverci, Jon Snow, se non vogliamo perderci tutto il divertimento. A squartamenti conclusi, qualsiasi assedio diventa una noia.-
Nel frattempo, Yara non era certo rimasta lì ferma a guardare. Non appena si era accorta che Meera e Shireen erano al sicuro, se l'era svignata di nascosto ed era sgattaiolata su per le scale: non aveva bisogno dell'aiuto di nessuno, e nessuno avrebbe potuto comunque aiutarla. L'avrebbe fatto anche per Meera, in fondo, e per il bene del Nord, ma innanzitutto l'avrebbe fatto per recuperare Theon. E ucciderlo con le mie stesse mani, pensò, mentre l'ira le pulsava nelle palme. Il tradimento del fratello, così terribilmente ingrato ed ingiustificato, la faceva fremere di dispetto. Dopo tutto quello che aveva fatto per salvarlo, per tenerlo al sicuro, quel piccolo irriconoscente si era gettato ai piedi di Bolton, alla prima occasione... quel verme vile ed ignobile. Gli Stark avevano ragione. Era solo un codardo. Non meritava una sorella come lei, nè tantomeno la sua clemenza.
Poco prima di raggiungere l'ultimo piano, Yara esitò e si chiese quale potesse essere la tattica più prudente. Con le spalle al muro, lanciò una fugace occhiata al pianerottolo: due piantoni armati la difendevano. Prese un bel respiro, il petto che si sollevava e riabbassava lentamente sotto la casacca di iuta, socchiudendo gli occhi solo per qualche istante. Quando risollevò le palpebre, vi regnava una determinazione di ferro. Con una rapidità di cui non sapeva d'essere capace, balzò superando tre gradini e, con uno slancio che le costò tutta la forza delle braccia, tranciò la testa del primo uomo, che non ebbe nemmeno il tempo di gridare; all'altro aprì la gola, senza però poter impedire che cacciasse un grido. Yara pregò soltanto che nessuno ci avesse prestato attenzione; visto che nel cortile sotto v'era in corso una battaglia, udire lo strepito di un uomo morente non sarebbe parso così strano, o almeno questo la ragazza sperava. Rimase in ascolto per qualche momento: dall'interno della stanza proveniva un gran fragore di ferro -spade ed armature. Ciò significava che, con un po' di fortuna, lì v'erano moltissimi soldati, facendo di essa il luogo ideale per passare inosservati. Yara strappò ad un cadavere il mantello e se lo drappeggiò sulle spalle, assestando il cappuccio sulla testa, di modo che le celasse parzialmente il viso; se avesse tenuto il mento chino, nessuno l'avrebbe riconosciuta. Appurato questo, spinse la porta con una mano, aprendo un solo spiraglio; s'insinuò all'interno, silenziosa come un'ombra e quatta come un ratto.
Si confuse subito in una massa di soldati dal mantello identico al suo, che recava lo stemma dell'uomo scuoiato. Presso la finestra -quella attraverso la quale, a quanto si diceva, Brandon Stark era precipitato di sotto a causa di Jaime Lannister- Ramsay Bolton sogguardava la battaglia distrattamente, le dita intinte di sangue. I suoi strani occhi di inusitato chiarore -tanto inumano da poter essere paragonato soltanto a quello che, nelle tenebre della notte, animava lo sguardo dei predatori silvestri- si soffermavano serafici prima su una porta delle fortificazioni, poi sull'altra. Al suo fianco, Theon s'ergeva mesto, pallido e sbiadito come l'umile fantasma d'uno scudiero. Portava docilmente tutte le armi del padrone, la spada macchiata di sangue alla cintura, l'arco alla spalla e varie daghe e coltelli appesi ad una cinghia, e persino quel peso sembrava troppo per lui.
Ramsay non sembrava preoccupato per le sorti della battaglia: evidentemente, ancora non s'era accorto, nel viavai, dell'arrivo dei Guardiani delle Notte, disseminati per tutta la circonferenza della fortificazione.
-C'è ancora moltissimo da fare.- stava commentando in quel momento, tamburellando le dita sul davanzale della finestra. -Appendere la pelle di Meera Stark come stendardo in cima a questa torre, per esempio. Sciagurata ragazza, cosa sperava di fare? Credeva veramente di essere al sicuro? Durante una guerra, non esiste un posto sicuro: soltanto luoghi dove ci sono meno probabilità di morire. E Grande Inverno non è decisamente fra questi. Ma per avere la sua pelle, bisogna prima toglierla. Dov'è, adesso? Avevo ordinato di portarmela subito qui.- sbuffò imperiosamente.
Theon strinse le labbra. -E i tuoi uomini hanno tentato di fare ciò che hai ordinato, mio lord. Ma è stato più difficile del previsto. La ragazza è circondata di guardie e sa usare la spada...-
-La ragazza è una ragazza.- dichiarò Ramsay, accigliato. -Non posso tollerare che le forze armate di Forte Terrore vengano messe in crisi da una donna. Ma a quanto pare, visto che sono così brave a combattere, dovrò reclutarmi una guardia tutta in gonnella. Non credi anche tu, Reek?- Non gli diede il tempo di rispondere. -Ah, e la giovane Baratheon sarà un ostaggio perfetto. Così quel matusalemme di Stannis ci penserà due volte prima di rimanere fedele al suo giuramento di alleanza, dico bene? Ovvio che dico bene.- concluse, inarcando le sopracciglia e facendo un gesto ampio con la mano, che andò vagamente ad indicare le terre del Nord, che si stagliavano bianche ed immobili fuori dalla finestra. Per qualche secondo, rimase in silente contemplazione.
-E adesso sarò il padrone di tutto questo... Mio padre lo riterrebbe paradossale, immagino. Io, il figlio malvoluto. Il figlio Snow.- Fece una smorfia disgustata, quasi che quel nome avesse un sapore asprigno sul suo palato. -Snow, diceva il caro vecchio Roose... Sono una miriade di volte più Bolton di lui. Non mi sono fatto uccidere dagli occhietti magici di uno storpio, io.-
Yara si vide costretta ad ammettere con se stessa che Ramsay aveva quasi uno strano fascino, in quell'atmosfera lugubre, con il vischioso liquido rossastro ad imbrattargli le mani e ciocche di ricci capelli bruniti ad arricciarglisi sulla fronte. La linea rigida della mascella si tendeva e rilassava, a seconda dei dardeggianti pensieri che gli affollavano la mente. Seppur così pallidi, i suoi occhi erano indecrittabili. Un rufolo di vento faceva tremare il suo vasto mantello rosso, adorno di granati, e lo strusciava contro il pavimento di pietra.
-Sarai il re del Nord migliore che ci sia mai stato, mio lord.- balbettò Theon, abbassando lo sguardo. Ramsay gli rivolse un ghigno un po' storto.
-Non m'interessa per niente essere il migliore. Mi basta essere quello che vivrà più a lungo.- Però era evidentemente compiaciuto. -Adesso io e te dobbiamo occuparci di colui a cui davvero volevo fare visita, Reek. Come, non sai a chi mi sto riferendo? Kenned Stark, naturalmente, il principe ereditario. Insomma, ereditario... almeno finchè non gli staccherò la piccola testa dal collo e non la manderò in dono a Brandon lo Storpio. Una bella riunione di famiglia. Commovente, vero? Su, muoviti, non posso aspettare i tuoi comodi.-
-Sì, mio lord.-
Fu a quel punto che Yara si rese conto ch'era il momento d'agire. Facendosi largo un po' più avanti, aquattata fra i soldati, rivolta con il viso al muro, attese che Ramsay Bolton passasse dietro di lei, con quel dannato mantello ricamato di pietre rosse. Molte immagini sfilarono davanti ai suoi occhi in quel momento: le guardie di Pyke che morivano una dietro l'altra, il terrore, le notti in bianco, la ferita sanguinante ed incisa a pelle sulla carne viva, e Tristifer, il suo povero sventurato marito. Senza dare nell'occhio, lo seguì dietro a Theon mentre uscivano dalla stanza. Prima che il fratello potesse chiudere la porta alle loro spalle, scattò.
Ramsay si ritrovò con l'ascia di Yara sul collo; Yara si ritrovò con il coltello di Ramsay sulla giugulare. Lei ansimò, colta di sorpresa; non immaginava che avesse un'arma nascosta da qualche parte, ma che fosse solo Theon a portarle. Il giovane Bolton sorrise in risposta.
-Non è buona educazione origliare le conversazioni altrui.- sibilò, sferrando un nuovo affondo e mirando allo stomaco di Yara, che lo parò abilmente con la lama della scure.
-Non è buona educazione introdursi senza invito in casa degli altri.- ribattè la ragazza, scagliando un fendente dal basso verso l'altro, con l'intento di fargli perdere la presa sul coltello, invano. Theon mise mano alla spada, con l'intento di portare aiuto al proprio padrone, ma Ramsay gli fece un cenno.
-Fermo là.- ringhiò. -Credi che non sappia tenere testa da solo alla tua sorellina? Le uniche spade di cui dovrebbero occuparsi le femmine non sono fatte di metallo.-
Yara fece per colpirlo alle ginocchia ma, visto ch'egli scartò, fu obbligata a balzare pericolosamente sul gradito inferiore per scampare all'arma di Ramsay, che per un pelo non la decapitò.
-Sai com'è, tu ti occupi dei cazzi così bene che non vorrei sfigurare al confronto.- ironizzò, fulminando Theon con lo sguardo. Il fratello non battè ciglio.
Il giovane Bolton esibì un ghigno sardonico. -Cosa vuoi da me, Yara Greyjoy? Il mio Reek? Ebbene, lui non vuole tornare con te.-
-Tientelo pure e, per quanto mi frega, fottitelo e scorticatelo come ti pare, il tuo Reek.- sputò Yara a stento, congestionata in volto. -Alla malora tu, Reek e tutti i tuoi cazzo di amichetti.-
-Tutto bene con quell'affare? Sei sicura che riuscirai reggerti in piedi per un tempo sufficiente a mandarmi all'altro mondo?- la sbeffeggiò Ramsay, scoccando un fendente dal quale ella si difese a fatica. Yara non era un'idiota: sapeva benissimo di essere svantaggiata. La sua scure, benchè fosse assai utile ed efficace nel campo di battaglia, era d'ostacolo lì, dove c'era così poco spazio per muoversi, e dove anzi c'era il rischio di precipitare già dalle scale; tentò diverse volte di far scivolare giù Ramsay, costringendolo fra la sua ascia e l'orlo di un gradino, ma il ragazzo non si lasciava imbrogliare e manteneva un equilibrio più che straordinario. Inoltre l'arma di Yara era pesante, al punto di farle indolenzire le braccia, dopo un po' di tempo; era difficile calibrare la precisione dei fendenti. Con un coltello, sarebbe stato molto più facile. Proprio mentre stava cogitando fra sè di rubarne uno dalla cintura di Theon, si distrasse quel poco che bastò a Ramsay per approfittarne indegnamente. Infatti, dopo un'accanita lotta all'ultimo sangue, l'erede dei Bolton aprì un taglio profondo al fianco della sua avversaria.
Yara affondò i denti nel labbro inferiore per non gridare e cercò di respirare, mentre iniziava a vedere doppio. Il dolore velò il suo sguardo di una patina rossa ed opprimente.
-Cosa c'è, lady Yara?- Alla vista del sangue, lo sguardo di Ramsay baluginò sotto la luce d'una torcia, affissa alla parete, come quello di una pantera-ombra. -Qualcosa non va? Ohh, è questa, vero? Ti fa male, vero? Ti fa male?-Con la punta del robusto stivale, inflisse un calcio poderoso alla ferita sul suo fianco. Yara grugnì e, con tutta la rabbia frustrata che le rimaneva in corpo, alzò per l'ultima volta la scure e tentò un colpo alla gamba di lui. Ramsay non dovette far altro che spostarsi, per evitarlo; poi afferrò la lama con una mano, e la mantenne così, ferma, sospesa. Sorrise ancora, lentamente, guardandola fissa negli occhi. Nelle sue iridi trasparenti, Yara vide chiaramente la propria fine, quasi fosse riflessa in uno specchio d'acqua.
-Cerchi di uccidermi, Yara Greyjoy? Attenti alla mia vita facendo appello al tuo ultimo soffio vitale? Sono così importante per te, da valere una morte indegna in una torre disgraziata, una traversata dalle Isole di Ferro a Grande Inverno, una sottomissione ai tuoi peggiori nemici? Mi sento onorato.-
Un altro taglio di lama, esattamente lì sopra il ginocchio dove un attimo prima Yara aveva puntato con l'ascia, si spalancò facendo fiorire un'ampia macchia di sangue scuro sulla stoffa dei pantaloni di lei.
-Vaffanculo.- imprecò Yara, farneticante dal dolore. -Vaffanculo, bastardo.-
Il suo tentativo di recuperare la scure fu stroncato sul nascere. Ramsay ridacchiò. Con un calcio, la spinse più giù sulle scale, facendole sbattere la nuca sullo spigolo acuminato di un gradino inferiore.
-Credevi davvero di farcela, vero? Ci hai sperato. Eri molto sicura di te stessa. Eri convinta di potermi fare la pelle... Chissà che delusione dev'essere, per te, la sconfitta. Perchè ti renderai conto che è questo che sei, giusto? Sconfitta. Hai perso.-
Si inginocchiò su uno scalino sopra di lei, avvicinando il suo volto estasiato a quello sudato e paonazzo di Yara. -È una brutta sensazione, vero? La delusione, la vergogna, l'umiliazione... La consapevolezza di stare per morire in modo atrocemente lento e atrocemente miserevole?-
Yara ansimò, colta da un furore terribile. Allungò le mani con un movimento inconsulto, come se volesse cavargli gli occhi. -Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo!-
La lama le trafisse le mani da parte a parte, tante volte quante si protesero verso Ramsay, facendole grondare di sangue.
-La figlia di Balon Greyjoy, la valorosa pirata spadaccina, la regina delle Isole di Ferro, in cui s'erano riposte tutte le speranze per la continuità del vostro nome... un fallimento. Non riesco nemmeno ad immaginare quanta sofferenza tu stia provando, in questo momento. Si dice che tuo padre ti amasse quanto un figlio maschio. Sarebbe orgoglioso di te, adesso? Dimmelo. Dimmelo.-
Yara urlò straziata. Ricadde a terra, contro i gradini, ma poi si rialzò ancora e provò a sferrargli un pugno. Ormai, le sue forze erano ridotte agli sgoccioli. Tutto quel che ottenne fu crollare addosso a Ramsay, come una marionetta senza fili.
Cadde il silenzio e l'immobilità. La ragazza giacque inerme in grembo all'aguzzino, incapace di risollevarsi. Il suo respiro era incontrollabile e difficoltoso. Le mani di Ramsay scivolarono fra i suoi capelli, intrisi di sangue e sudore: per un unico, delirante secondo, a Yara parve quasi ch'egli la stesse cullando.
-Sei stanca, Yara Greyjoy? Vorresti che ti permettessi subito di dormire per l'eternità? Oh, no, abbiamo appena cominciato a giocare.- Chinò il volto fino sfiorare il padiglione del suo orecchio con le labbra, e sussurrò in un soffio: -Che ne dici di cominciare a correre?-
Lo sguardo di Theon era vitreo, implacabile, come se stesse assistendo al martirio della sorella di qualcun altro. La mano di Yara, trafitta e dilaniata, corse alla cintura di Ramsay e cercò a tentoni, tastando faticosamente, il manico del coltello.
-Crepa, figlio di cagna!- mugugnò, la voce stridente fra le labbra spaccate. Non si sarebbe mai degradata in quel modo. Non si sarebbe mai abbassata a diventare il suo diletto, il suo gingillo. Se doveva morire, l'avrebbe fatto nel tentativo di ammazzarlo, non di scappare vilmente, per poi farsi acchiappare e finire. Non sarebbe morta facendolo divertire.
Il giovane non la prese molto bene. Le afferrò i capelli con violenza e la strattonò senza clemenza, veemente, digrignando i denti. Sbattè la faccia della ragazza tre volte contro l'orlo aguzzo di un gradino, con rabbia.
-Reek, la tua stupida sorella non vuole proprio morire. Significa che farò un'eccezione per lei e salterò i preamboli... Reek, il mio rasoio, quello speciale.-
Dalla gola straziata, Yara emise una risata ruvida e gutturale. -Rasoio?! Vuoi scuoiarmi, maledetto bastardo? Non pensare... non pensare che te lo permetterò... Provaci e-
-Farò molto di più che provarci, te lo garantisco. Quasi mi dispiace mettere fine a tutto ciò, sai? Iniziavo a spassarmela davvero.- Ramsay si voltò verso Theon, irritato. -Reek, il rasoio, ho detto.-
Il volto del ragazzo era duro come la roccia. Una strana espressione aveva preso il posto dell'apatia e dell'indifferenza.
-Il mio nome- scandì con rancore, -è Theon Greyjoy.-
Prima che Ramsay potesse reagire, estrasse una lunga lancia e la frantumò con una potenza decisamente inaspettata sulla sua testa; lo afferrò per il mantello e lo sorresse in piedi ancora per qualche istante, il tempo di mormorargli: -Cosa provi in questo momento, Ramsay?-
L'erede di Forte Terrore sbiancò e cadde a terra, privo di sensi, liberando dalla presa il corpo martoriato di Yara. Theon soccorse immediatamente la sorella.
-Yara? Dobbiamo andarcene di qui. Devo trovarti un Maestro, subito...-
Le labbra di lei si smossero in un sorriso insanguinato, ma appagato. -Era ora, che ti decidessi.-
Egli si stupì. -Come l'hai capito?-
-Nemmeno tu potevi essere così vile ed iniquo da commettere una carognata del genere. Non l'ho proprio capito... diciamo che l'ho sperato.-
Yara gemette. Theon alzò la spada di nuovo, ed i suoi occhi s'infiammarono. -Gli taglio la testa e poi ce ne andiamo.-
-Non ucciderlo.- lo fermò la sorella, biascicando.
-Cosa?-
-Non qui. Noi... dobbiamo portarlo... a Pyke. Tutti vedranno in faccia chi è l'assassino che ha sterminato... le loro famiglie.-
La ragazza cominciò a tossire convulsamente, così Theon si limitò a legare le mani di Ramsay, per poi prestarle immediato soccorso.
Quando Jon Snow giunse in cima alla Torre Spezzata, trovò l'uomo ch'era venuto ad uccidere esanime ed immobilizzato, e la ragazza che era venuto a soccorrere moribonda.
-Che diamine è successo qui?- esclamò, stupefatto.
Theon fece una smorfia. -Sempre un piacere vederti, Snow. È lunga da spiegare, e non credo che Yara farebbe in tempo ad ascoltare il riassunto di nove anni di vita.-
Jon, sconcertato, scosse la testa. Con un lieve moto di sorpresa, capì che l'assedio di Grande Inverno poteva considerarsi sedato.
-Te l'avevo detto, che saremmo arrivati in ritardo.- brontolò Ygritte. -Non sai proprio niente, Jon Snow.-
***
-La donna rossa di Stannis.- Quando Jaime riuscì a carpire quel vago ricordo dalla propria memoria, non seppe se rallegrarsene o meno.
-Cosa?- domandò Brienne a voce bassa.
Si trovavano all'ala estremamente ovest di Approdo del Re, dove la cinta di mura presentava grosse fenditure sbarrate che permettevano tranquillamente di scivolare all'esterno; all'esterno, sì, però soltanto su una sottile striscia di spiaggia chiara, affacciata sul mare aperto. L'unica ipotetica via di fuga sarebbe stata quella, ma solo nell'eventualità d'avere una barca a disposizione -e lì non c'era nessuna barca. Jaime e Brienne non erano così sprovveduti da non essersene resi conto: infatti erano lì non per fuggire, bensì per salvare Bran Stark.
Una scura chiazza di vegetazione nascondeva delle ampie tende cremisi, i cui lembi oscillavano leggiadri al soffio dell'alito del mare, odoroso di salsedine. Jaime, che valutava la situazione da dietro degli arbusti, ipotizzò che si trattasse degli accampamenti degli sconosciuti rapitori. Dopo qualche istante d'appostamento, a sostegno della sua teoria, un paio di ancelle dalle tuniche vermiglie uscirono, reggendo grandi ampolle dai colori sgargianti e coppe di smalto ricolme di sabbie aromatiche, e le portavano... dove? Vicino al bagnasciuga, dove però c'era un trambusto tale da rendere impossibile scorgere che uso ne venisse fatto.
-C'è decisamente troppo rosso qui intorno, non credi?- aveva chiesto Jaime, giusto qualche minuto prima. Brienne non aveva risposto. Solo adesso l'uomo aveva capito cose fosse quel vago presentimento che continuava a ronzargli in mente.
-Avevo sentito dire che Stannis Baratheon si portasse ovunque una sacerdotessa rossa di Asshai. Potrebbe avere qualcosa a che fare?-
-Che motivo avrebbe Stannis di far rapire Brandon Stark? È suo alleato.- gli fece notare Brienne, torva. Non presentiva nulla di buono.
Jaime scosse il capo, arreso. -Non ne ho la minima idea. Ho solo detto la prima cosa che mi è passata per la testa.-
-Dovremmo avvicinarci.- affermò la donna, indicandogli la spiaggia con il mento. -Se vogliamo salvare il ragazzo, almeno. Stanno già portando la legna.-
Era vero. Uomini vestiti di lunghi abiti legati in vita da una corda -frati?- stringevano fra le braccia cataste di ramoscelli e cioppi, procurati nel bosco, e si dirigevano tutti in silenzio verso la spiaggia. Nel frattempo, la foschia bluastra della notte era stata lacerata come stoffa vecchia e lasciava trasparire chiazze di calda luce mattutina, che si diffondevano rapide come sangue.
Jaime e Brienne, cercando di muoversi fra gli sterpi nel modo più silenzioso possibile, avanzarono di albero in albero, finchè la scena non si presentò di fronte a loro. Su un'impalcatura di legno, un nugulo di sacerdoti rossi s'affannava, simile ad uno stuolo di formiche; gli uomini sistemavano la legna, le donne spargevano polveri bisbigliando parole incomprensibili e accendevano bacchette d'incenso dal profumo pungente. Jaime si sentì attraversare da un brivido d'inquietudine. Ma in che razza di casino l'aveva trascinato, Tyrion? In una dannato, ambiguo sacrificio mistico di una banda di eretici.
-Lo vedi?- chiese Brienne, rammentandogli il motivo per cui erano lì. Jaime cercò il giovane Stark con lo sguardo: non lo vide. Certo, aveva un ricordo appena abbozzato del suo aspetto, però era sicuro che un ventenne storpio dalle gambe rotte non sarebbe passato inosservato. Eppure, lì non c'era nessuno che non vestisse quello stramaledetto colore.
-No.- ammise sbuffando. -Cosa facciamo?-
-Aspettiamo.-
-Quanto dovremmo aspettare?! Questa situazione non mi piace per nulla.-
Brienne lo rimproverò con lo sguardo. -Perchè, a me sì, forse? Lo stiamo facendo per Tommen e Tyrion e i gemelli.-
L'uomo, dopo qualche istante, annuì. -Per Tommen, Tyrion e i gemelli.- ripetè meditabondo.
-Allora abbi pazienza.- ribadì Brienne, appoggiandosi con il braccio ad un masso. Per diversi minuti, non spiccicarono parola. Jaime era troppo intento a pensare alla fiducia negli occhi del Folletto, mentre gli affidava la sorte della famiglia, e Brienne sentiva all'orecchio le parole di Cersei, so che tu proteggerai i suoi figli -i nostri figli- i miei figli, e che sarà necessario che tu lo faccia... se mi dovesse accadere qualcosa.
La loro attesa non fu vana. Il sole cominciava già a farsi largo fra le azzurre cortine dell'alba, macchiandole ormai d'un rosa slavato, quando uno dei preti rossi si voltò verso la fitta vegetazione ed esclamò: -È ora. Stai aspettando forse che Stannis Baratheon ci trovi?!-
Una donna avanzò fra gli alberi, con movimenti leggiadri e morbidi come acqua corrente, maestosa al pari di una regina fra i suoi sudditi; ed infatti tutti i presenti parvero segretamente in soggezione. Portava una veste di velluto, tempestata di granati, che le fasciava il busto e aderiva perfettamente ai fianchi ed alle gambe, delineandone ogni curva, e le scopriva le braccia diafane. Al lungo collo aveva appeso un rubino ottagonale, grosso come un uovo, ma di certo molto più pesante; era scuro come il sangue essiccato, ma quando la luce lo trafiggeva svelava la vivacità delle fiamme. Una cascata di guizzanti e tempestosi capelli cremisi le lambivano le cosce. Il suo grande potere vibrava in un'aura quasi palpabile. Jaime pensò che non poteva essere la donna rossa di Stannis: di quella aveva sentito parlare molti anni prima, ai tempi della Guerra dei Cinque Re, mentre quella era troppo giovane per essere effettivamente la stessa persona.
-Possiamo procedere.- confermò graziosamente la donna, rivolgendo lo sguardo dietro di sè. Due fanciulle, novizie rosse, reggevano una persona priva di sensi.
-È lui.- confermò rapidamente Jaime. Brienne corrugò la fronte, ma non proferì parola. Dietro quelle due ragazze, ne venivano altre: e lo Sterminatore di Re sussultò di stupore, costatando ch'era il suo lupo. Dovevano portarlo in tre, perchè le sue dimensioni erano davvero impressionanti. Morto? Impossibile affermarlo con certezza, tanto più che non sembrava presentare ferite. Forse solo addormentato, come il giovane Stark. Perchè Jaime aveva capito subito che lui non era morto. Il respiro gli sollevava ed abbassava il petto, e le sue guance erano appena colorite dal vento.
Lo sguardo di tutti i frati era puntato sul prigioniero. La donna vestita di rosso indicò la pira con un distratto gesto della mano, e le ancelle obbedirono. Poggiarono Brandon Stark fra i pezzi di legno, e il metalupo vicino a lui. Poi la donna cominciò a spargere sopra entrambe le vittime delle strane gocce, che Jaime immaginò fossero un liquido infiammabile. Lo stesso fece su tutta la legna.
-Bisogna sbrigarsi.- intimò un frate, nervosamente. La donna sorrise languida.
-Affatto. Un sacrificio che non sia consacrato a R'hllor è solo un crimine. Dobbiamo richiedere che quest'anima sia liberata da tutto il male che ha commesso e possa ottenere la redenzione. Solo allora la minaccia costituita dai poteri conferiti dal Dio Estraneo sarà scongiurata. Altrimenti, il suo spirito contaminato dal Male continuerà a perseguitare i deboli di questo mondo. Vogliamo permettere una cosa del genere?-
-Melisandre, la cerimonia-
-Cercherò di fare più in fretta che potrò.-
La donna di nome Melisandre, dopo aver esalato un profondo respiro, cominciò a pronunciare parole in una lingua a Jaime sconosciuta, composta di suoni melodiosi ma straordinariamente sciolti l'uno nell'altro, fino a apparire impronunciabili. Brienne, nel frattempo, aveva dato segno ai loro uomini, rimasti nel folto della boscaglia, di avanzare, tenendosi nascosti dietro delle rocce.
-Attacchiamo?-
Jaime annuì con il capo. -Non possiamo attendere ancora.-
Nel frattempo, un frate aveva acceso una lunga torcia e l'aveva consegnata a Melisandre. La donna sciorinò ancora quelle parole incomprensibili, e così facendo strinse le dita attorno al legno ed ammirò il fuoco, che baluginò feroce nelle sue iridi chiare.
-Signore della luce, perdonalo e salva la sua anima, nella tua infinita misericordia.- pronunciò, nella lingua comune. Fece un passo in avanti.
Prima che potesse accostare la fiamma alla catasta, lucente di alcol, Jaime Lannister le aveva fatto cadere la fiaccola di mano e le aveva puntato la spada alla gola. Inaspettatamente, la donna non reagì con violenza: quando lo Sterminatore di Re la pungolò con la lama, si limitò a rimanere immobile. Che si fosse accorta della spoporzione fra la loro forza fisica?
Con un gesto celere, Jaime si scrollò il mantello sulle spalle e lo calpestò sulla fiamma. Alle sue spalle, sentiva Brienne e i soldati minacciare i frati affinchè non intervenissero.
-Mi dispiace, ma temo di dover interrompere la festa.- dichiarò Jaime. -E sì che i falò in spiaggia mi sono sempre piaciuti... ma quando li facevo io non arrostivo le persone, effettivamente.-
Con suo grande stupore, sentì Melisandre ridere.
-La volontà di R'hllor si compie sempre, ser Jaime,- mormorò, quasi beffarda, -e chi gioca con il fuoco finisce per scottarsi.-
Jaime non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi perchè diavolo quella donna sapesse il suo nome: l'unica cosa su cui la sua attenzione fu calamitata fu la fiamma che aveva improvvisamente preso vita sulla catasta. Come aveva fatto?! Quella donna rossa era una specie di strega? Aveva acceso il fuoco solo con l'ausilio della propria volontà... Sulla catasta coperta di liquido infiammabile, cazzo! Jaime spintonò Melisandre di lato e calcolò rapidamente quanta legna avrebbe dovuto scostare, per liberare il ragazzo. Troppa. Ad ogni buon conto, senza ormai ragionare più, si lanciò sulla pira. Brienne urlò qualcosa alle sue spalle, ma lui non l'udì. L'unica speranza per salvare la famiglia... Tyrion si fida di te... La vita di Tommen e dei suoi bambini dipende da questo... Con le braccia scagliò via pezzi di legno alla rinfusa, senza badare alle cortecce ruvide, alle lunghe schegge, ai cioppi che rovinavano sopra la sua testa. La pira era alta, la vittima all'improvviso pareva irraggiungibile, e le narici di Jaime colsero un presentimento. Fuoco. Odore di fuoco. Di legna bruciata. Ancora, ancora scostare, ancora farsi largo. I suoi movimenti erano goffi, troppo lenti seppur frenetici: colpa dell'agitazione, della fretta, del panico, di quella maledetta mano mancante. Un altro odore, ancora più molesto. Il fumo cominciava a levarsi, come il pennacchio impolverato d'un elmo, e Jaime poteva scorgerlo, perchè sentiva gli occhi lacrimare dall'irritazione... Odore di carne bruciata. No. No.
Poi, l'insperato: afferrò il braccio di Brandon Stark. Lo percepì sotto il palmo. Il suo cuore esultò per meno di un istante. Arrivò il fuoco, Jaime lo vide. Fece solo quello che l'istinto lo portava a fare, lo stesso che avrebbe fatto se fosse stato in bilico su una scogliera. Si aggrappò a ciò che stringeva e si lasciò precipitare -anche se non sapeva di preciso dove. Non ce l'avrebbe mai fatta, quello fu l'ultimo, sconsolato pensiero che gli esplose nella testa... e poi tutto attorno a lui scoppiò.
***
-Dov'è?! La voglio uccidere!- Arya Stark strappò con la spada un ramo che, pendendo, si frapponeva fra lei ed il suo obettivo. Le mani tremavano dalla furia. Lo stava facendo di nuovo, quella.. -La ucciderò! Giuro che la ucciderò!-
Quel che vide non era esattamente ciò che si aspettava. Brienne di Tarth stava domando un incendio, aiutata da alcuni uomini che recavano lo stemma dei Lannister sul petto; ai piedi di una mastodontica pira avvolta dal fumo, giaceva il corpo di suo fratello, inerme -morto o ferito?- e, al suo fianco, un uomo che stentò a riconoscere come Jaime Lannister. In effetti entrambi erano neri di cenere, dagli abiti sbrindellati al volto. Ma Arya non si preoccupò di nessuno di loro -non adesso, non era importante.
-Dov'è? Voglio farla annegare nel suo sangue. Dov'è Melisandre di Asshai?!- La sua arma luccicò al sole dell'alba, eloquente.
Incrociò lo sguardo azzurro e freddo di Brienne. La donna strinse le labbra. -Scomparsa. Volatilizzata, sotto i miei stessi occhi. La stavo tenendo bloccata per i polsi... e un secondo dopo non più. Sparita.- ribadì con durezza.
Le braccia di Arya ricaddero lungo i suoi fianchi, mentre lo smarrimento prendeva forma sul suo viso.
Dopo tutto questo, Jaime Lannister tossì sonoramente.
 ***
Manca qualcuno, pensò Tommen. E non intendeva qualcuno della propria famiglia -Margaery era al suo fianco, ostentando una stoica impassibilità, e suo zio Tyrion fischiettava guardandosi intorno con sincera curiosità- bensì qualcuno della loro famiglia. Bran Stark, sul suo scranno in alto, era solo. Non sembrava affatto reduce dal rogo di una setta di preti rossi fanatici, ed era spaventoso quasi come Tommen se lo era sempre immaginato. Proprio come gli era stato raccontato, aveva incolti capelli castani sulle spalle ed il viso ostentava il pallore della morte -però nessuna descrizione avrebbe mai potuto rendere i suoi occhi, come varchi spalancati sull'oblio, pronti ad abbrancare chiunque vi si fosse sporto troppo. Eppure, sebbene intimamente intimorito, Tommen aveva realizzato di saper sostenere quello sguardo -forse perchè era un pericolo che lo affascinava in un modo misterioso, forse perchè durante quei mesi era molto cambiato.
Accanto al trono di Brandon il Metamorfo, c'era quello di Gendry il Bastardo. Più precisamente, il Trono di Spade. Il mio trono, non potè fare a meno di pensare Tommen, con un pizzico di stizza, sebbene avesse ormai capito che era meglio perderlo che trovarlo. Doveva ammettere che quel Gendry aveva la carisma di un vero re -così imponente e fiero e massiccio, però anche Robert Baratheon da giovane era tale e quale, e si sapeva com'era andata a finire. Non bastava affatto assomigliare ad un sovrano, per esserlo davvero.
C'erano tutti, insomma, o quasi tutti. Dov'erano finite le sorelle Stark? Tommen Lannister, Margaery Tyrell, ser Loras, Tyrion, Brandon Stark, Gendry Baratheon. Nella sala del trono, dove fino a pochi giorni prima s'era scatenata una furibonda battaglia, non c'era nessun altro. A ricordare il macello che era stato consumato, solo ferite di spada sui muri ed un odore di sangue rivoltante.
Ad un certo punto, le alte porte si spalancarono. Jaime Lannister entrò. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso distratto, quasi si compiacesse d'un segreto; i capelli erano più corti di prima, in quanto le serve, lì dove i grumi di cenere erano più ardui da rimuovere o dove il fuoco aveva bruciacchiato ciocche asimmetriche, li avevano tagliati. Le superficiali ustioni del fuoco, sulle braccia e su un fianco, erano celate dalla stoffa di un camicia bianca. Tommen fu incredibilmente orgoglioso di lui: in quanto a fierezza, non era certo da meno rispetto ai presenti. Seppe che la riunione avrebbe finalmente avuto inizio. Tutta la tensione che aveva accumulato si librò nell'aria in un sospiro pesante.
Jaime Lannister procedeva scandendo i secondi con i propri passi, sul marmo. Bran Stark lo seguiva attentamente, senza mai distogliere da lui gli abissali occhi di pietra. Tommen notò, quasi sovrappensiero, che non sbatteva mai le palpebre. Il re del Nord pareva star silenziosamente ragionando su qualcosa di inindovinabile, senza fretta, esaminando Jaime con tutta la calma del mondo, quasi provasse il vivo desiderio di studiarlo. Infine, l'uomo si fermò ai piedi dei loro troni. Ancora silenzio. Le labbra di Gendry Waters erano serrate.
Quando ormai Tommen cominciava a chiedersi, con un certo smarrimento, cosa diamine sarebbe successo -la sua mente intanto elaborava fantasie farneticanti, secondo le quali un manipolo di soldati del Nord sarebbero entrati all'improvviso compiendo un massacro- allora Brandon il Metamorfo parlò.
-Ci rincontriamo di nuovo, ser Jaime. Quasi dieci anni fa hai cercato di togliermi la vita, adesso me la salvi. Da cosa deriva tutta questa indecisione?-
Il sarcasmo nella sua voce -leggera, appena un po' arida, ma sorprendentemente giovane, più di quanto Tommen avrebbe creduto- era così lieve da permettere a Jaime Lannister di occultarlo con abilità, rivolgendogli un sorriso storto.
-Non saprei. Magari mi sono redento. Le persone cambiano, in fondo.-
-Le persone cambiano.- confermò il ragazzo. -E tu, precisamente... come saresti cambiato?-
Jaime sorrise. -La domanda mi mette in difficoltà. Forse ho soltanto cambiato opinione a proposito della tua sopravvivenza. Non è più tanto scomoda.-
Bran Stark lo fissò e basta per ancora qualche secondo. -Temo che dovrai ricrederti, perchè io, al contrario, non ho affatto cambiato l'opinione che avevo di te.-
-Un po' irriconoscente da parte tua, non credi?- Jaime inclinò la testa di lato. -Detto da uno che ho appena trascinato giù da una pira, e che se avesse aspettato i suoi fratelli a quest'ora sarebbe ridotto in cenere, intendo.-
Tommen vide le guance di Bran Stark prendero fuoco dalla rabbia. Per trattenere il proprio potere, dovette chiudere gli occhi e massaggiarsi le tempie per qualche secondo.
-Stai osando più di quanto tu possa permetterti, Sterminatore di Re. Se continuerai a parlare in questo modo, la mia riconoscenza ti arriverà dritta dritta nel cuore, così come la spada di Roose Bolton è arrivata in quello di mio fratello. A proposito di fratelli,-
Tommen udì uno schiocco: voltandosi, si accorse che Arya Stark era entrata nella sala.
-quale pensi che sia stato l'ultimo pensiero di Robb, sorella?- concluse Bran, senza distogliere lo sguardo da Jaime Lannister.
Arya indossava ancora la parte superiore dell'armatura. I capelli scuri e scompigliati, così come l'espressione ostilmente selvatica, la facevano assomigliare alla sua metalupa -che la fiancheggiava silenziosa come un'ombra- in maniera stupefacente.
-Un pensiero d'odio.- La ragazza salì i gradini che la distanziavano dal fratello, e si pose al fianco del suo trono, inchiodando anche lei i propri occhi a quelli di Jaime. -Di vendetta.-
E una è arrivata, riflettè Tommen.
A quel punto, Tyrion Lannister si rese conto che la situazione stava precipitando in una maniera a loro sfavorevole, così intervenne.
-Posso disturbare per un attimo il vostro colloquio?- domandò a Bran, con un gesto d'ossequio più condiscendente che rispettoso. Lui inarcò le sopracciglia.
-È una questione fra me e Jaime Lannister, Folletto. Che cosa vuoi?-
-Ti sbagli a parlare con lui, invece.- lo avvertì Tyrion. -Certo, l'errore è comprensibile, visto che finora non sono mai stato io a condannare la famiglia alla rovina. Però, questa volta... volevo scoprire come ci si sente, e così...-
Bran era confuso. -Spiegati.-
Il Folletto frugò in una tasca del farsetto rosso, fino a che non estrasse un foglio ripiegato molte volte, che lui lisciò con le mani, prima di salire i gradini ed allungarlo a Bran.
-Tieni questa. Io non la voglio, rievoca tristi ricordi.- svelò, facendo una smorfia. -Non vedevo l'ora di liberarmene.-
Brandon Stark riconobbe la grafia al primo sguardo: Tyrion se ne accorse, dallo spasmo di dolore che storse il labbro inferiore del ragazzo. Il re del Nord lesse la prima riga, poi alzò lo sguardo, perplesso ed accigliato.
-Il destinatario sono io?-
-Niente affatto. Sono io.- Tyrion sospirò seccamente. -Se avessi lasciato che giungesse nelle tue mani prima, quando Jojen Reed la stava legando alla zampa di un corvo, probabilmente in questo momento tu saresti crollato in disgrazia, il tuo esercito sarebbe disperso e decimato nelle Terre dei Fiumi e sarei io a dover concedere la grazia a te, non il contrario.-
Bran gli rivolse un lungo sguardo velato di minacce, prima di riconcentrarsi sul foglio che aveva fra le mani. Lentamente, turbato, lesse riga per riga. Le staffilate di sofferenza che lo coglievano ad ognuna di esse erano lasciate presagire dalla tensione fremente dei suoi lineamenti irrigiditi. La fatica con cui portò a compimento la lettura era evidente. I suoi occhi parevano addirittura più scuri di prima, come baratri spalancati sull'oblio dell'eternità.
Appena terminato, il ragazzo guardò il nano, pieno di dubbi, e sventolò il foglio, scettico. -Perchè mai Jojen avrebbe scritto tutte queste cose? Non si sono avverate sul serio...-
-Per manovrarmi ed indurmi a fare tutto quello che gli andava comodo.- rispose Tyrion. -Gli andava comodo che io credessi che tu saresti morto ad Approdo del Re, proprio perchè così mi sarei diretto ad Approdo del Re... dove poi c'è stato tutto questo. Gli andava comodo che io credessi che Rickon sarebbe stato ucciso da Myrcella, perchè così ci saremmo fidati di lei. Fortunatamente, mi sono accorto della verità prima che potessi cadere in un simile errore. Ma non abbastanza presto, a quanto vedi.-
Bran Stark tacque. Ciò che finora lo aveva assillato, abbandono, si sostituì a qualcos'altro, sacrificio: sacrificio, che forse era ancora peggio -ma almeno adesso aveva la certezza che Jojen non aveva mai smesso di servirlo, e non aveva mai smesso di amarlo, nemmeno durante la morte -tantomeno durante la morte. Morto per determinare le sorti di questa guerra. Morto per lui. Nessuno dimenticherà questo, pensò, non permetterò che alcuno lo dimentichi. E poi: lui ha fatto qualsiasi cosa per me, ma non mi ha concesso l'occasione di fare mai nulla per lui. 
-Involontariamente, mi hai dato una grande gioia, lord Tyrion.- dichiarò, mantenendo compostezza per quanto gli fu possibile.
-Magari non così involontariamente, ragazzo.-
Dopo avergli rivolto un'ultima, obliqua occhiata sarcastica da sotto in su, il Folletto accennò un mezzo inchino ed arretrò, fino a tornare al fianco di Tommen.
-Sei stato fantastico.- gli sussurrò lui, entusiasta.
-Oh, stai un po' zitto.- lo redarguì lo zio, sebbene sul suo viso vi fosse un sorriso compiaciuto.
-Possiamo continuare.- Gendry Waters riportò il silenzio. -Dovete ancora decidere che cosa ne sarà dei Lannister.-
La porta si aprì di nuovo, e adesso Tommen sapeva già chi fosse entrato: non ebbe bisogno di girarsi. Sansa Stark avanzava con molta più sinuosa eleganza della sorella, però con non meno maestà. Il manto dei suoi capelli ricordò al giovane Lannister la coda della cometa di sangue, che aveva visto viaggiare nel cielo molti anni addietro, quand'era ancora bambino. Sansa portava un vestito di velluto celeste chiaro, con inserti di candida pelliccia d'ermellino, nelle maniche come lungo gli orli delle ampie gonne; reggendole con la punta delle dita, giunse fino al trono, ponendosi alla sinistra del trono di Bran Stark.
E due
, pensò Tommen. Con un brivido, si accorse che non sfigurava affatto. L'intransigenza sul suo volto non era differente rispetto a quella di Arya e della sua furia a stento contenuta, a quella del re del Nord: era stata la stessa lama a sfregiarli, in fondo. I due metalupi erano ai loro piedi, vigili, le orecchie ritte, le loro pupille bestiali come coltelli nella carne. E i ragazzi sembravano personificazioni dell'inverno, con il freddo negli occhi e il supplizio sulle labbra. E stavano guardando Jaime, tutti e tre.
-Non meritano un processo. Nemmeno uno informale come questo.- Sansa fissò lo Sterminatore di Re e vide Cersei, Cersei e il suo sorriso bugiardo, Cersei e tutte le umiliazioni a cui aveva sempre tramato di sottoporla, anche quando fingeva di esserle amica. Cersei e il suo sangue dannato. -Non meritano la speranza di salvarsi.-
Jaime la ignorò. Per alcuni istanti di silenzio, attese che il re del Nord gli facesse un cenno e gli permettesse finalmente di parlare.
-Io e te abbiamo molto in comune, hai notato? Entrambi storpi. Entrambi ugualmente affermatisi, nonostante i pregiudizi della gente. Entrambi provenienti da famiglie che si sono fatte molto male a vicenda, che hanno sterminato donne e disseminato lutti...- Esitò, chiedendosi se proseguire fosse un azzardo, ma concluse ugualmente, sondando la reazione del ragazzo con lo sguardo. -... entrambi privi della persona che abbiamo amato. Ed entrambi, come mi sembra di desumere, stanchi di questa guerra.-
-Sono molte più cose in comune di quante mi piacerebbe avere con un Lannister.- commentò Bran, acidamente, con spiccato sarcasmo. Jaime interpretò il fatto di non essere stato smentito come una conferma, e continuò con più fermezza.
-Stanchi di questa rivalità continua che si sta nutrendo con il nostro sangue e le nostre carni, e che stiamo fomentando senza tregua.- rincarò. -Sai quando la faida avrà fine? Quando saremo tutti morti, quando ci saremo ammazzati a vicenda fino all'ultimo. È questo che vuoi? È questa la scelta migliore, il destino che vuoi per tua moglie, per i tuoi figli? Omicidio dopo omicidio, l'odio reciproco sarà un serpente che si morde la coda, un circolo vizioso che non finirà finchè non saremo noi stessi a finire.-
Bran Stark rimaneva in silenzio, osservandolo con quel suo sguardo buio di riprovazione. Impossibile decifrare i suoi pensieri.
-Anzichè vendicare morti che sono i nostri medesimi torti a condannare, possiamo impedire piuttosto che i membri delle nostre famiglie continuino a morire, e mettere fine ad un eterno ciclo di vendette. Non ci deve essere per forza bisogno di guerra e sangue... Però dobbiamo essere noi a decretarlo, e dobbiamo farlo adesso.- Jaime guardò anche Arya Stark, il suo disprezzo così terribilmente ostentato, e l'infrangibile scudo ch'era il viso d'avorio di Sansa. -Per quanto difficile, giriamo pagina. Lasciamo riposare in pace i nostri morti, da entrambe le parti, e non permettiamo che altri cari perdano la vita a causa di questo odio. La casa Lannister perdonerà la casa Stark, e la casa Stark perdonerà la casa Lannister. Nessuno dimentica, ma nessuno impugna più le armi.- Jaime Lannister tornò a rivolgersi a Bran. -Questa vendetta non ci sta portando da nessuna parte. Te ne sei reso conto anche tu, vero?-
Il re del Nord scosse il capo. -Perchè mai dovrei temervi ancora? Voi siete tutti qui, in nostro potere. Basterebbe impartire un ordine per farvi sgozzare senza troppe cerimonie, così come basterebbe mettere in palio un titolo di lord per scoprire dove si trovano i gemelli. Potreste benissimo smettere di esserci soltanto voi, e risolvere il problema. Quindi perchè dovrei prendermi il disturbo di risparmiarvi?-
-Ti ho salvato la vita.- argomentò Jaime.
Bran si concesse una breve risata amara. -Su, andiamo, non prendiamoci in giro. L'hai fatto solo ed unicamente per rinfacciarmelo, come stai facendo proprio ora. L'hai fatto per ottenere la grazia. Se fosse stato per te, avresti acceso a quella donna la torcia per bruciarmi.-
-I Lannister hanno pagato i loro debiti. Avevano ucciso Eddard Stark, Catelyn Stark e Robb Stark.- Mentre li nominava, lo Sterminatore di Re sollevava un dito della mano sinistra. -Sono morti Tywin Lannister, Cersei Lannister... e la terza vita che ti ho restituito io oggi, Brandon Stark, è la tua.-
Quando sollevò anche il medio, fissando Bran con eloquenza, il ragazzo sospirò pesantemente. Si voltò verso le sorelle, che incrociarono il suo sguardo quasi con tristezza.
-I Lannister sono una famiglia grande, e ricca. Se uccidessi i qui presenti, i parenti di Lannisport sarebbero praticamente costretti a dichiararmi guerra. Guerra... ancora guerra, ancora morte, ancora denaro. Invece di difendere il Nord, oltre che averlo abbandonato, non farei altro che impoverirlo fino a sfinire i suoi abitanti con tasse troppo ingenti. Saremmo daccapo, come ai tempi di Robb. Quindi, quanto ci conviene inimicarci metà del Sud? Quanto ci conviene rimanere ancora qui?-
Fu Sansa a parlare, dopo aver scambiato una breve occhiata con la sorella minore. -Sei tu il re. La decisione sta a te.-
-So che farai una scelta per il bene del tuo regno... ma soprattutto per il bene della tua famiglia.- ammise Arya, infine, con un sorriso flebile che per Bran rappresentò la prima, vera presa di coscienza: aveva sul serio ritrovato le sue sorelle. Erano sul serio insieme, dopo tanto, dopo tutto. Le ringraziò sommessamente per la loro fiducia.
-Prometto che prenderò la decisione che mi sembra migliore, adesso. Certo, non posso pretendere di trovare la soluzione giusta in assoluto...-
-... certo, non senza di me.-
Quando Tommen udì quella voce, fu come se tutti gli inferni si fossero congelati; come se tutti i paradisi andassero in fiamme. Fu come se il mondo di fosse rotto e ricomposto in modo bizzarro e grottesco. Fu come se lui si fosse accorto di essere dentro un'enorme clessidra, nel momento in cui era stata rovesciata.
Rickon Stark spalancò le porte con l'irruenza di un ariete da guerra. La sua voce era ancora più gutturale rispetto a quella che Tommen conservava nei propri ricordi, anche se era infraintendibilmente la stessa; colpa del tentato strangolamento, di cui rimanevano ancora segni incisi sulla pelle, lasciati ben scoperti -come se il giovane Stark stesse esibendo un trofeo. Il lungo mantello accompagnava i suoi movimenti, che tutti seguivano con lo sguardo. Il silenzio nella sala era sconcertato. Margaery aveva gli occhi strabuzzati, Loras Tyrell imprecava fra sè.
Come aveva fatto? Come poteva essere ancora così... vivo?! Tommen sentì il cuore precipitare fin nei meandri dello sconforto più irrimediabile. Niente vendetta per sua madre. Niente vendetta per suo nonno. Niente punizione per il tradimento di Myrcella. Niente di niente.
-Tu eri morto!- Non realizzò di aver parlato ad alta voce, finchè non sentì l'eco delle sue stesse parole. -Tu eri... morto. Era accaduto davvero!-
Rickon Stark conficcò i suoi maledetti occhi azzurri in quelli verdi e sgomenti di Tommen. -Non mi piace che le cose accadano. Preferisco farle accadere.-
Bran rimproverò il fratello, interrompendo il loro scambio. -Ti stavo aspettando. Ce ne hai messo di tempo.-
-Non è la puntualità, la peculiarità per cui mi celebreranno in eterno.- ribattè Rickon, asciutto. Per un attimo, cercò Myrcella fra i presenti; non vedendola, si affrettò ad ostentare indifferenza.
-A meno che non incappi in qualche altra fanciulla armata di spada, s'intende.- bisbigliò Margaery. Tommen però non era dell'umore giusto per farsi una risata.
Bran attese che il fratello salisse i gradini e affiancasse Arya, prima di proseguire. Quando parlò, la sua voce colmò la sala.
-Voglio un giuramento.-
A quelle parole, Rickon inorridì.
-Bran!- sbottò, indispettito. Il fratello non diede segno d'averlo udito.
-Un giuramento solenne, che vincoli noi e i nostri successori fino alla fine dei tempi.- aggiunse, guardando solo Jaime. -Ci stai, Sterminatore di re?-
-Ho scelta?- domandò l'altro, ghignando.
Bran valutò la sua figura per qualche istante, chinando il capo. -A meno che non sia già successo, non è mai troppo tardi per morire.-
Jaime sorrise affabilmente. -Poco male. Un patto è esattamente quello che mi auguravo.-
Rickon guardò prima l'uno, poi l'altro, incredulo.
-Ma si può sapere quale fottuta miseria state fottutamente progettando?!- sbraitò.
Tyrion intervenne, ruotando gli occhi al soffitto. -Ah, questi giovani, non si capisce mai quel che dicono. Vediamo se parlare la tua lingua servirà. Visto che voi volete fottutamente ucciderci ed appenderci ad una fottuta forca, noi fottutissimi Lannister stiamo cercando di salvarci il fottuto culo e non fare una fottuta brutta fine. Afferrato il fottuto concetto?-
-Mi prendi per il culo, nano?- Rickon strinse gli occhi e lo guardò con sospetto.
-E come potrei?- ghignò Tyrion. -Mi smaschereresti subito, se lo facessi.-
-Dev'essere un giuramento fra i più sacri ed inviolabili che esistano.- stava intanto dicendo Bran, rivolto a Jaime. -Dev'essere un giuramento irreversibile.-
-Un giuramento di sangue.- concluse l'altro.
-Cosa stai facendo, Bran?!- protestò Rickon, a gran voce. -Perchè?! Non lo fare. Voglio che loro muoiano, che muoiano tutti. E poi che risorgano, soltanto per morire di nuovo. E poi che-
-Sì, abbiamo capito. Adesso chiudi la bocca.- borbottò Tyrion.
Brandon Stark, senza distogliere lo sguardo da quello di Jaime, estrasse con un rapido gesto una daga dalla cintura, sollevò la manica e lasciò scorrere la lama lungo l'avambraccio, disegnando un lungo squarcio dal gomito al polso. La sua espressione rimase imperturbabile.
Jaime Lannister salì i gradini. Appena allungò il braccio per ricevere la daga a sua volta, Rickon -al fianco del fratello maggiore- sfoderò la spada. Tommen trasalì. Tyrion per un attimo strizzò le palpebre.
-Rickon.- lo riprese Bran, atono, come se si rivolgesse ad un cucciolo troppo vivace. Lui scrollò le spalle, con un ghigno leggero.
-La prudenza non è mai troppa.-
Tommen pensò che, casomai, per lui le occasioni buone per cercare di trafiggere un Lannister non sono mai troppo poche, ma tacque. La loro vita era salva; avrebbe dovuto rallegrarsene.
Brandon Stark accostò il braccio a quello di Jaime Lannister, mentre re Gendry mormorava qualche parola per siglare il giuramento.
-Se mai un membro della nobile casa Stark toglierà mai la vita ad un membro della nobile casa Lannister,- proclamava, -allora io dichiaro che sia condannato a morte. Che lo stesso accada nella situazione opposta. Brandon Stark, lo giuri, in nome degli dèi antichi e nuovi, in nome del re Gendry Baratheon, primo del suo nome?-
Bran socchiuse gli occhi. -Lo giuro.-
-Jaime Lannister, lo giuri?-
-Lo giuro.- replicò lo Sterminatore di Re, sottovoce.
Gendry annuì. -Che dunque il giuramento venga rispettato, finchè le vostre nobili case avranno vita.-
Rickon Stark chinò il capo. Suo fratello gli aveva appena legato le mani, e in quel momento era troppo offuscato da quella ustionante consapevolezza: non aveva nessuna intenzione di rendersi conto che Bran l'aveva fatto per lui, per loro. E poi la porta si aprì, per l'ennesima volta.
-Lasciami andare... Lasciami, dannazione!-
Myrcella Lannister si divincolava con foga, sgomitando con stizza contro il petto di Brienne -Rickon avvertì un gemito imperioso premergli le labbra, e le lacrime che gli pizzicarono astiose gli occhi non erano di dolore, eccezionalmente. Si colmò gli occhi della sua immagine, ricavandone un sollievo fisico ed escluso da qualsiasi paragone. Credeva che non l'avrebbe mai più vista.
I lunghi capelli, ridotti ad un groviglio di nodi neri, erano stati selvaggiamente strappati a ciocche senza il minimo criterio; Rickon si chiese indignato chi potesse averlo fatto, prima di indovinare che non non c'era altro colpevole, fuor che lei stessa. Sul viso sporco di cenere, il sangue dei capillari rotti nei suoi occhi risaltava come in un campo di battaglia. Lunghi graffi rossi -graffi che non era stato Rickon ad incidere- si allungavano sulle sue braccia come crepe.
Brienne di Tarth varcò la soglia, mantenendo saldamente la presa sulla principessa, ed incrociò lo sguardo di Jaime. Quando l'uomo le fece segno di sì, sciolse la presa.
-Lasciami!- ribadì Myrcella, rifilandole una gomitata furibonda nello sterno e svincolando dalle sue braccia. Alzò la testa. Appena vide Rickon, la speranza sbocciò trionfante. Un chiarore radioso ravvivò presso gli zigomi.
Null'altro si mosse: soltanto Myrcella, che si slanciava da un estremo all'altro della sala, inseguita dal rumore affrettato e disperato dei suoi passi sul marmo. Silenzio.
Si accasciò contro il petto di lui, vi affondò il viso, singhiozzando a gran voce. Il sapore salato delle sue lacrime punzecchiò l'olfatto fino di Rickon. A malapena si accorse che era la prima volta. Percepiva solo Myrcella piangere con passione, fremente, piegata fra le sue braccia -di nuovo al sicuro. Quegli alti gemiti, che scuotevano il suo fragile corpo, li ascoltarono anche gli dèi. Bran e Jaime assistettero senza guardarli, impassibili. Rickon nascose il volto fra i capelli di lei, muto e straziato da una felicità senza parole. 
La guerra era finita.
***
Meera Stark contemplava con una nuova gioia il cortile di Grande Inverno, quel mattino. La neve aveva già ripreso la sua danza, instancabile, ed assolveva con lenta grazia il peccato di tutto il sangue scuro degli invasori, versato appena otto giorni prima; quel mattino, quando s'era affacciata alla finestra di camera sua ed aveva appurato ciò, se n'era vivamente rallegrata. Le porte sfondate di Grande Inverno, che all'inizio la spaventavano così tanto, adesso le parevano soltanto l'ennesima prova di quanto fosse potente la loro casa: aveva resistito a questo, ed avrebbe resistito a qualsiasi altro attacco. Lì tutti erano al sicuro.
Il sole dipanava pallide trame di luce nebbiosa, offuscata di bianco, e si rifletteva sulle colline purificate ed adamantine, colorando mille schegge opalescenti. Il vento era dolcemente fresco ma non tagliente, e Meera lo trovava bizzarramente concorde al proprio umore. Stava a viso scoperto, lasciando che il Nord soffiasse il suo fiato sulle sue guance, arruffandole i capelli. Sopra ad un abito di broccato scomodissimo ma d'estrema eleganza, verde muschio, indossava spesse pellicce marroni. Era il primo giorno che usciva all'aperto, e il caso aveva voluto che fosse proprio quello ideale. Osha gironzolava nelle vicinanze, stringendo le manine del principe Kenned nelle sue e sostenendolo nel compiere piccoli, incerti passi nella neve. Le sue, di guance, più tenere e delicate, erano punte furiosamente dal gelo, eppure il piccolo non si lagnava. Era sangue del Nord quello che gli scorreva nelle vene, dopotutto. La madre sorrise a quella scena. Vedere i soffici riccioli inanellati del suo bambino vorticare nella brezza della sua terra, sentire la voce di Osha che borbottava burbere esortazioni e le risatine deliziate di lui, le spalancava il cuore a metà come un frutto maturo. Le ricordava che, fino a poco prima, non era più riuscita a sperare in tutto questo; l'aveva considerato già perduto. E invece era lì, c'era ancora. Era vero. Era suo. Le spettava. Le spettava, un po' di felicità.
-Una splendida giornata per la partenza.- esclamò una voce alle sue spalle. Meera si voltò con un sorriso.
-Mi avete letto nel pensiero, lord Snow... Vi stavo aspettando.- 
-Presto saranno tutti pronti a partire.- annunciò il ragazzo; poi assunse un'espressione solerte. -Voi e il bambino come state?-
-Molto meglio. E tutto grazie al tuo amico Maestro.- rispose lei, con gratitudine, sfiorandosi appena il ventre protetto dal mantello. L'avevano rischiata grossa, lei e suo figlio, però sorprendentemente tutto era andato per il meglio. Passato il panico e l'offuscamento dovuto all'attacco dell'esercito di Bolton, una volta coricata sulla paglia nelle stalle, Meera era stata assalita da un nuovo timore, che soltanto in quel momento riusciva a valutare in tutto il suo peso e gravità: di avere ucciso il bambino con la propria temerarietà. Quella povera creatura innocente, sacrificata a causa del suo stupido orgoglio... Non avrebbe saputo perdonarselo. Molti decotti e un'infinità di ore di sonno dopo, quando le sue membra contratte avevano smesso d'essere torturate da stillate prepotenti, si era sentita sollevata fino alle lacrime.
Jon attirò la sua attenzione, facendole notare che gli altri ospiti in partenza stavano varcando l'arco d'ingresso: Theon e Yara.
-Ecco la sopravvissuta.- ghignò Meera. Yara fece una smorfia, aggiungendoci un'occhiata salace nella sua direzione. In effetti, Ramsay Bolton non era stato esattamente delicato con lei: impossibile indovinare cosa le facesse più male, se le costole incrinate, le mani fasciate in bendaggi dal polso alla punta delle dita o la gamba che la costringeva a zoppicare. Era ridotta peggio di qualsiasi persona che Meera avesse mai visto, però un sorriso trionfante le incurvava le labbra.
-Hai poco da prendere per il culo, reginetta delle paludi. Se non fosse arrivato mister corvo, a quest'ora Ramsay Bolton ti starebbe scuoiando le cosce, come fai tu con le ranocchie.-
-Delle rane non si butta via niente.- ribattè Meera, divertita. Al fianco della sorella, Theon taceva. La sua espressione era atrocemente seria ed il suo pallore quasi grigiastro, ma non aveva più l'aspetto miserabile di pochi giorni prima. Dire definitivamente addio al fantasma del suo passato pareva avergli messo l'anima in pace. Non c'era più tormento nei suoi occhi, solo una vaga tristezza.
-Non vedo l'ora di tornare a casa.- dichiarò Yara, lanciando un'occhiata quasi stizzita al profilo di Grande Inverno, che pareva acciaio opaco contro il cielo evanescente. -Partirei anche a costo di nuotare fino a Pyke.-
-Sei certa che portare Bolton con voi sia una buona idea?- obiettò Meera, che, a dire la verità, si sentiva molto inquieta da questo punto di vista. Temeva che il bastardo ne avrebbe approfittato per scappare, in qualche modo. -Cosa succederà, se riuscirà a liberarsi?-
Yara tagliò corto, sbrigativa. -Non ci riuscirà, fidati. E non voglio aspettare che tuo marito faccia il suo bel lavoretto veloce con la spada, no. Ramsay Bolton dev'essere sottoposto alla giustizia del Dio Abissale.-  E poi esibì quel suo sorriso obliquo, che sarebbe riuscito a mettere a disagio chiunque.
Meera si strinse nelle spalle. -Come preferite. In questo modo, assumendovi la responsabilità della sua morte, vi assumete anche quella della sua custodia. A parte questo...- Le sorrise, e cercò di conferire solennità alle proprie parole. -Hai salvato la vita di mio figlio, Yara Greyjoy. Non lo dimenticherò.-
-Spero che, in futuro, i monarchi del Nord saranno informati del fatto che mi devono un favore.- si limitò a dire la ragazza.
-Senz'altro.-
Dopo qualche istante di esitazione, Yara le tese la mano, così come aveva fatto per suggellare la loro alleanza. Meera la strinse con vigore.
Intanto, tutti i Guardiani dell Notte erano pronti per la partenza. Maestro Sam, al momento di salutarla, snocciolò le ultime indicazioni alla regina.
-Mi raccomando, Maestà. Niente sforzi, niente duelli, niente armi... e tanto riposo. Sì, tanto riposo.- ripetè puntigliosamente.
Meera chinò il capo in un gesto di assenso, sentendosi una bambina rimproverata per una marachella. -Prometto.-
-In ogni caso, ci sarò io a tenerla d'occhio.- bofonchiò Osha, vicino a lei, che aveva preso in braccio Kenned, così che Jon potesse salutarlo. Intanto, Meera gli rivolgeva un'ultima osservazione.
-Mi spiace che voi non possiate trattenervi di più, fino a che mio marito non tornerà al Nord. Ci terrebbe con tutto il cuore, a ringraziarvi di persona.-
-Ci vorrebbero giorni, e non mi è possibile lasciare ulteriormente la Barriera incustodita.- spiegò Jon. -I ringraziamenti personali del re non sono assolutamente necessari. Proteggere la sua persona, e la vostra, è un dovere per me e i confratelli. Sappiate che, qualsiasi cosa accada, troverete sempre in noi dei fidatissimi alleati.-
-Oh, lo so perfettamente, lord Snow.- mormorò Meera. Non osava nemmeno immaginare cosa ne sarebbe stato di lei, se Bolton avesse preso il castello. A quel punto, la ragazza dai capelli rossi che aveva combattuto al fianco dei Guardiani della Notte affiancò Jon.
-Smettila di flirtare con le donne impegnate, Jon Snow, altrimenti vado a dire in giro che mi porti a letto, capito?-
Lui sospirò, esasperato: però sorrideva. -Sì, Ygritte, certo.-
-Certo, certo...- Ygritte puntò lo sguardo sospettoso su Meera; uno sguardo tutt'altro che deferente, eppure questo rese la regina del Nord ancora più di buonumore. -Non sai niente, Jon Snow.-
Yara scoppiò in una risata fragorosa e lanciò un'occhiata maliziosa a Meera, che arrossì.
-Sai che ti dico? A volte è meglio non sapere.-
***
Myrcella Lannister si disse che a volte la vita era proprio strana. Attorno a lei, i preparativi della partenza da Approdo del Re erano in fermento: gli uomini del Nord erano intenti a caricare sui carri le provviste, le tende, le armi, e la voce autorevole di Bran sovrintendeva all'operazione. I Lannister ancora non s'erano visti, perciò c'era da supporre che non si sarebbero presentati, ma che invece fossero a loro volta impegnati in un'altra partenza: quella alla volta di Castel Granito, di cui Tommen sarebbe diventato il signore.
Myrcella non era riuscita a rimanere là, in mezzo alla confusione ed al disordine: aveva bisogno di pensare. Non si trattava di un nodo problematico da sbrogliare, o di un germe d'idea, d'un focolaio da sviluppare per bene, ma solo di una serie di parole, suoni, colori, immagini e ricordi che si sovrapponevano fino a figurare una storia che Myrcella non era più così sicura essere fedele alla realtà dei fatti. La vita era proprio strana. Fino al giorno prima, scottava di febbre in un sudario di lenzuola intrise di sudore acre, biascicando la lingua dei moribondi, mentre già sulle palpebre si marchiavano a fuoco le visioni del mondo dei morti -e lei tossiva l'ultimo respiro che le era rimasto, cercava di scavarsi il petto per estrarne il cuore, gemeva il proprio delirio, arresa di fronte all'evidenza che non esistevano note per riprodurlo, e il suo corpo s'essiccava d'ogni liquido come un fiore dimenticato fra le pagine d'un libro. Di lei non era rimasto che uno spettro rosso di sete ed inedia, che s'agitava sotto gli artigli della Morte. Tremava, percependo il suo alito freddo sul collo, eppure si sentiva così stanca di urlare, così stanca di sudare, così stanca di avere caldo e soffrire. Di vivere quegli istanti così... grotteschi, innaturali, abnormi e mostruosi. Sbagliati. Vivere così, che le pareva assurdo quanto vivere senza testa. Qualcosa di incomprensibile, disgustoso ed irrazionale. Respirare nella piena, sferzante, netta coscienza che Rickon non lo stava più facendo. Sbagliato. Doveva essere morta anche lei. Voleva essere morta. Voleva morire dimenticando che lui era morto. Voleva morire, per annullare la propria perdita nell'annullamento di se stessa. Far calare il silenzio. Spegnere quell'orrore di pensieri. Strappare le pagine di quella storia così ignobile. Le ballate tristi l'avevano sempre commossa, quando aveva sedici anni -ed adesso si accorgeva che potevano aveva qualche fascino solo per chi non ne fosse protagonista.
E poi quella voce. Myrcella, svegliati, Myrcella, lui è vivo. Vivo. Lui è vivo. Lui è vivo? Ad un certo punto, non sapeva esattamente quando, aveva smesso di precipitare. Perchè quel filo di voce era più saldo di una catena di ferro, perchè lui è vivo. L'equilibrio si era ristabilito, e lei aveva ritrovato il senso, il proprio senso. Era proprio strana, la vita.
Udì i suoi passi, l'udito raffinato da quell'esperienza passata -eredità dei suoi mesi nelle segrete, aveva imparato quel ritmo a memoria.
-Ho perso.- osservò fra sè, mentre il vento faceva oscillare i suoi capelli, di nuovo biondi e splendenti, dietro le orecchie. -Mi hai vista piangere.-
Rickon ridacchiò, un suono che scaldò il cuore di Myrcella come facevano un tempo le carezze di Cersei, i sorrisi di Arianne, e ancora di più.
-Abbiamo vinto,- la corresse, -entrambi.-
La fanciulla si permise di sorridere, si voltò. Si alzò sulle punte a baciargli le labbra.
-Siamo insieme.- bisbigliò contro la sua bocca.
-Siamo vivi.- precisò Rickon, alzando un sopracciglio. 
-E questo significa vincere?-
-Sempre.- Il ragazzo fece una smorfia, come se si fosse punto con una spina. -O quasi.-
Myrcella sapeva a cosa si stesse riferendo. Dopotutto, la vendetta contro i Lannister era stato l'unico pensiero capace di tenerlo in vita per anni, nelle più improbabili situazioni... l'unico pensiero che gli aveva impedito di impazzire, che gli aveva permesso di sopportare il dolore. E lo avevano appena privato di questo. Myrcella sapeva com'era fatto Rickon, e temeva gesti avventati da parte sua, sollecitati proprio dal divieto -che per lui non era altro che una provocazione. Così, con voce morbida, parlò.
-Tu un giorno pretendesti da me una prova d'amore. Mi chiedesti di rinnegare apertamente la mia famiglia. Di scegliere te a loro.- Myrcella carezzò la guancia di Rickon con l'indice. -Lo feci. Non mi costò dolore: mi sembrava la cosa più giusta. Tu eri, tu sei più importante di tutto il resto.- A questo punto lo fissò negli occhi, con intensità. Rickon la stava ascoltando attentamente, ma era evidente che ciò che sentiva non gli piaceva troppo.
-Adesso sono io che ti chiedo una prova d'amore.- proseguì Myrcella, con risoluzione. -Risparmia la mia famiglia. Non spero in una riconciliazione, non spero che il tuo odio per loro si plachi. Nemmeno io so più cosa provo per i Lannister, se devo essere sincera. Quello che volevo dire, è... tu continua pure a maledirli, ma lasciali in vita. Non li rivedremo mai più, non sentiremo mai più parlare di loro. Partiremo. Andremo lontano, ovunque tu voglia.- si affrettò a precisare, gli occhi che brillavano. -Ti stringerò la mano e mi affiderò a te. Portami in qualsiasi posto, purchè possiamo essere io e te e basta, in un luogo dove nessuno voglia dividerci, dove nessuno voglia giudicarci o ostacolarci.- Riprese il respiro, fremente d'emozione. -So che ti sto chiedendo molto, ma ti assicuro che lo faccio perchè ti amo. Non voglio più guerra nella tua, nella nostra vita. Non voglio più rischiare di perderti. Ti prometto che sarai felice, Rickon.- I suoi occhi erano di nuovo umidi. -Ma tu... dimostrami che mi ami. Dimostrami che vuoi mettere noi davanti a qualsiasi altra cosa. Dimostrami che rinunceresti a tutto per me. Dimostrami che mi ami più di quanto ami la tua guerra.-
E lì, Myrcella ebbe paura di avere esagerato, di sentirsi opporre un rifiuto, di avere chiesto qualcosa di inconcepibile. Ebbe paura anche che si arrabbiasse. Rickon infatti era piombato in un silenzio terrificante, indissolubile, insondabile. Chissà perchè, pensò a Osha: forse perchè era a lei che di solito si rivolgeva, quando si trovava di fronte ad un dilemma, quando trovava un bivio sul suo cammino. Era sempre stata lei a mettere ordine nella sua vita disastrata. Imamginò di esporre ad Osha la situazione, e la scelta. Era una donna molto pragmatica, che non si perdeva troppo in ciance e seghe mentali, che andava subito al punto. Immaginò cosa gli avrebbe detto, se fosse stata lì.
Poche storie, ragazzo. Che cosa volevi, quando sei tornato a Grande Inverno?
Vendetta,
si rispose Rickon.
E cosa vuoi, adesso?
Di nuovo, egli non ebbe dubbi. Myrcella, pensò, voglio Myrcella.
Osha l'avrebbe mandato a quel paese. E allora, che domande fai...
Rickon richiamò alla memoria le notti insonni che avevano trascorso nell'accampamento, prima dell'inizio dell'assedio di Approdo del Re, con Myrcella che gli prendeva il capo nel grembo e gli carezzava i capelli. Se ogni sera fosse stata così, lui sarebbe stato felice. Felice. Gli sarebbe bastato questo. Gli sarebbe bastato fino alla fine dei suoi giorni.
-Ti ho vista piangere, Myrcella Lannister,- disse a quel punto, -e ti giuro che sarà la prima e l'ultima volta. Non permetterò che il mondo ti faccia mai più piangere. Non permetterò che io ti faccia mai più piangere.-
Arrotolò su un indice la curva elastica d'uno dei suoi riccioli. Myrcella aveva socchiuso le labbra di pesca, schiuse di fanciullesco stupore.
-Significa che...-
-Andremo lontano. Lontano. Via di qui. Dove nessuno potrà più mettersi in mezzo. Dove nessuno potrà farti del male.- La baciò con furia, con impeto. Quando si staccò dalla sua bocca, era senza fiato. -Myrcella, noi torneremo a casa.- sbottò.
-Casa? A Grande Inverno?-
E Rickon sorrise. -No, non a Grande Inverno. Nella mia vera casa.-
Myrcella si sentì attraversare da un brivido.
***
Nonostante tutto, proprio quando il convoglio stava per avviarsi, la folla si spaccò in due, permettendo a qualcuno di passare e giungere fino alla testa dell'esercito: i Lannister erano venuti a dire addio a Myrcella. Jaime era stato il primo. Aveva baciato le guance di sua figlia.
-Posso capirlo.- le aveva bisbigliato. -Posso accettarlo.-
-Non ho bisogno del tuo consenso.- fu la gelida risposta; ma Myrcella, dopo qualche istante d'indecisione, gli baciò una guancia con riluttanza.
Margaery fece per farsi avanti, ma lo sguardo omicida che la ragazza le riservò la indusse a tenersi da parte. Fu il turno di Tyrion. Lui rivolse qualche parola gentile alla nipote, che nessuno udì, poi inaspettatamente si rivolse a Rickon.
-Una domanda che mi perseguita di notte. Perchè diamine hai chiamato il tuo lupo Cagnaccio?-
La bestia rivolse al suo volto quei grossi, famelici occhi giallo zolfo, denudando le zanne, quasi stesse ringhiando che cosa avesse contro il suo nome.
Rickon sorrise. -Avevo sei anni. Ero incazzato con il mondo.-
-Da quella volta non hai fatto molti progressi, a quanto vedo... comunque. Sposerai questa figliola?- domandò.
-No.- rispose lui, tagliente. -Odio i matrimoni.-
Il Folletto aveva sorriso, ironico. -Vedi, che almeno una cosa in comune l'abbiamo? Addio, Rickon Stark. Il nostro incontro è stato... breve ma intenso, come si suol dire.-
Lui replicò imprecando.
Per il ultimo, avanzò Tommen, che parlò a Rickon con freddezza e cortesia.
-In occasione di un addio, propongo di sospendere le nostre reciproche avversioni. Myrcella è una traditrice, ma è mia sorella. Non riesco ad augurarmi il male per te, adesso che so che sarete una famiglia.-
Rickon, dopo avergli rivolto uno sguardo truce, sputò per terra. -Fottesega.-
Tommen ignorò la sua totale mancanza di civiltà e si girò verso Myrcella.
-Io e te condividiamo lo stesso sangue, che ti piaccia o no. Spero che un giorno tu potrai conoscere i miei figli, e io i tuoi. Nostra madre avrebbe voluto così.-
Silenzio. Myrcella fissò suo fratello negli occhi. Trascorsero infiniti secondi.
Infine, lasciando tutti i presenti sgomentati, sputò per terra.
-Fottesega.- sentenziò. Rickon espresse la sua approvazione ridendo.
-Ben detto.-
Alla risata s'unì Tyrion, poi Jaime, infine anche Tommen ne fu trascinato.
-Chi l'avrebbe mai detto...? Una principessa reale come lei... Si comporta come una traditrice, parla come una bruta... Ohh, se ci fosse nostra madre a vederla.-
L'ultima cosa che Myrcella scambiò con suo fratello, infine, quasi con timidezza, fu un sorriso -che non era esattamente un accordo, un perdono. Era... un armistizio.
***
-Sono una Stark.- sussurrò Arya. -Il Nord ha bisogno di me, ma mai quanto io ho bisogno del Nord.-
Gendry annuì rigidamente con il capo.
-Tornerai?-
Arya aggrottò la fronte. -Naturalmente.-
Il ragazzo chinò lo sguardo. Quando lo sollevò, sorrideva piano.
-Ti aspetterò, milady.-
-Cretino.-
-Hai ragione, solo un cretino come me può trascinarsi dietro una cretina come te.-
-Ti amo.-
-E io di più, Arya. Disgraziatamente, io di più.-
**
-Alayne!- Robin balzò in piedi, quando la vide. I suoi occhi baluginarono d'una luce quasi esaltata. -Alayne! Lord Baelish, è tornata Alayne!-
Sansa abbracciò il suo giovane sposo con trasporto -casa sua.
Mentre ancora stringeva Robin a sè, aprì gli occhi. Petyr era in piedi poco distante, e le stava sorridendo. Avevano vinto, in fondo. Casa sua.
-Bentornata, Alayne.-
***
Ogni lega verso Grande Inverno, per Bran, fu una sofferenza interna paragonabile ad un'emorragia. Ogni lega verso Grande Inverno era una lega verso una fortezza senza Jojen -una vita senza Jojen. Quando ci pensava, uno spasmo di panico gli contraeva la bocca dello stomaco, ed era tentato di fermare il dannato cavallo e gridare con tutte le forze che gli erano rimaste.
Quando vide Meera, però, qualcosa cambiò. All'improvviso, una strana gioia lo pervase. Credeva che sarebbe stata arrabbiata, che lo avrebbe tempestato di rimproveri, che lo avrebbe accusato della morte di suo fratello. Gli venne incontro correndo; lo abbracciò, forte come mai aveva fatto.
Bran sentì il suo respiro sulla nuca, il suo profumo nelle narici.
-Mi sei mancata.- E si era accorto di quant'era vero solo ritrovandola.
-Anche tu, Bran. Anche tu.-
La comprensione li rese, dopo anni di silenzio, di nuovo complici. Quando si sciolse dal suo abbraccio, Bran scosse il capo.
-Cosa diavolo è successo qui, mentre non c'ero?-
Osha incrociò le braccia. -Mentre tua moglie sperimentava qualche modo fantasioso per abortire, dici?-
Teneva Kenned per mano: suo figlio camminava già. Gli rivolse un timido sguardo da sotto le lunghe ciglia setose. Bran, guardando quella minuscola creatura, vide il suo futuro. Da re e da marito, ma anche da padre -non ci aveva mai pensato troppo, impedito da quella sensazione d'estraneità che provava sempre in sua presenza. Kenned era solo un bambino, e i bambini non hanno mai colpa di niente. Suo figlio. Si era mai davvero reso conto di cosa significasse? Poi guardò Meera. 
Bran capì che la vita non sarebbe stata quella che l'avrebbe reso felice, nemmeno per sogno -ma sarebbe stata. Sarebbe dovuta essere. Tu sei vivo... e puoi ancora fare pace con il tuo presente. Puoi ancora perdonargli di non essere il futuro che volevi. E se sarebbe stata, quella vita sarebbe stata solo grazie a loro.
Se il fato ti vuole vivo... allora tu devi vivere, Brandon. E Bran accettò che avrebbe vissuto.
Poche ore dopo, un giovane dai capelli rossi e una fanciulla dai capelli biondi partirono. Avevano una barca da prendere.
La destinazione era Skagos.






























Note dell'Autrice: Pufff, che fatica! Mamma mia, ma davvero ho letto e revisionato questo mostruoso capitolo??? Abbiate pietà, lettori.
Che ne dite? Sono veramente esausta. Spero che come finale vi abbia soddisfatto. Mi sembra che tutti se la siano passati decisamente bene.
Per precisare: nella visione del torrente, per chi se lo chiedesse, la presenza di Talisa è inspiegabile (se non ci fosse stata la guerra, come avrebbe fatto Robb a conoscerla??) però pazienza. La ragazza con le trecce verdi è Wylla Manderly. Il secondo personaggio con cui shippo Rickon dopo Myrcella. <3
Che dire? Attendo impaziente i vostri parere. Il prossimo capitolo sarà l'epilogo finale! Grazie per avere letto tutto questo.
Lucy


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Capitolo 14
*** Epilogo. ***


Epilogo

Epilogo.



Sedici anni dopo.




Una figura procedeva nella neve, farinosa nella consistenza e croccante sotto il peso dei suoi stivali impellicciati. Il candore del cielo sgorgava fioccando, fino a trapuntare il suo cappuccio di piccole perle di ghiaccio. La direzione obliqua del vento la costringeva ad opporsi, puntando il capo in avanti. La tempesta turbinava, ovattata, ululante, con la fierezza e la discrezione del Nord. Mano a mano che si faceva strada nell'illusione ottica d'una distesa illimitata, una striscia scura violava l'integrità illibata della crosta superficiale del manto. Il sole era azzurro, e anzichè scaldare soffiava un alito artico. Ombre celesti ed affilate disegnavano sulla pianura innevata la rotta del suo viaggio, da oriente ad occidente. Con la maestosa lentezza e la vezzosa grazia di un'ospite a cui piace farsi attendere, indugiava ad ogni passo, seguiva i movimenti dei propri stivali con lo sguardo. Le gonne ondeggiavano accondiscendendo ai movimenti delle sue gambe. Il cappuccio di velluto turchese le celava il volto, però non riusciva a nascondere lo sfavillio biondo di qualche boccolo che sfuggiva e turbinava, danzando al fischio del vento. Con sguardo serafico, regalmente soddisfatto, la figura ispirò l'odore del Nord.
Finalmente, un grande palazzo grigio si profilò davanti a lei -Grande Inverno. La figura continuò ad avanzare, senza esitazioni. Ancora, e ancora, fino a che non giunse alle porte delle fortificazioni. Dei piantoni le vigilavano, ma fu sufficiente che la figura pronunciasse poche parole affinchè, con un'espressione attonita, i soldati si facessero da parte.
Quando giunse alla sala del trono, aveva le cosce e le ginocchia indolenzite, per via dei troppi grumi di neve ghiacciata che aveva spaccato con gli stivali, però un sorriso compiaciuto era accomodato sulle sue labbra. Proseguì, un passo per volta, come aveva sempre fatto. Con calma. Sono in cinque, aveva detto suo padre.
Mentre avanzava, all'improvviso, un viso minuto si sporse dalle file dei cortigiani per osservarla, con gli occhi sgranati. Tutti si scostarono immediatamente per fargli spazio, e la figura capì. Brandon Stark, il più giovane. Inaspettatamente, Brandon aveva le fattezze di un Tully: il sangue di Catelyn aveva avuto delle ripercussioni fin nella generazione successiva. Era un bel bambino, con occhi grigio-azzurri e capelli color dei germogli di barbabietola, chiaro di pelle e molto curioso d'indole.
-Cos'hai tanto da guardare, moccioso?- domandò. 
Il piccolo assunse allora un atteggiamento cospiratorio, parlando a bassa voce, con un misto di titubante timore e puerile eccitazione.
-Ma è vero che mangi le persone?-
Il sorriso della figura s'allargò. -Non saprei. Secondo te è vero?- rigirò la domanda, affabilmente.
A quel punto un ragazzo di qualche anno più grande, forse undicenne, prese il bambino per il polso e lo trattenne.
-Vieni qui, Brandon. Non essere impertinente.- ordinò, senza riuscire a dissimulare il proprio nervosismo. Alla figura rivolse soltanto un brevissimo sguardo, pregno d'inquietudine. Howland Stark, pensò la figura. Lui era un piccolo Stark fatto e finito, invece, scuro di occhi e capelli, cupo e serio e contegnoso come un lord in miniatura. Un'espressione torva, tra l'altero, il triste ed il preoccupato, dominava il suo volto fin dalla prima età.
La figura, finalmente, raggiunse i gradini sbreccati che conducevano al trono. Dall'alto di esso, un ragazzo la stava fissando. I suoi capelli erano castani, molto scuri, e avvolti in mille ricci che gli ammorbidivano la nuca. Gli occhi erano sempre quelli di suo padre, ma nei lineamenti, come brontolava sempre Osha, assomigliava inequivocabilmente a Meera. Quando parlò, la sua voce fu secca come una frusta. Kenned Stark.
-Benvenuta a Grande Inverno, cugina.-
-Vedo che non ci sarà bisogno di presentazioni.- esclamò la ragazza, sollevando il mento. I due fratelli più piccoli s'era schierati al fianco degli altri, quasi a formare uno squadrone compatto e invincibile, per difendersi dall'interferenza esterna. I suoi cugini erano lì per giudicarla.
Kenned non distolse lo sguardo da lei nemmeno per un istante, come tenendosi pronto ad anticipare il repentino movimento di un serpente.
-Mia sorella ti ha visto arrivare.- rispose semplicemente. La figura notò che vicino al trono del Re del Nord vi era un altro scranno, di poco più piccolo, di norma riservato alla regina. In quel momento, vi sedeva una fanciulla dall'espressione di spietata durezza. Una benda insanguinata le cingeva la fronte. Quello che di primo acchito aveva scambiato per un mantello, che la avvolgeva fino ai piedi, in realtà erano i capelli spropositatamente lunghi, spessi come velluto. Lo sguardo dei suoi occhi verdi, puntato contro di lei come una lancia, era il più ostile che la figura avesse mai percepito su di sè. L'ospite non invitata sorrise. Ma certo, poi c'era lei. Levenna Stark. Quella che morirà per prima.
-E quindi tu sei mia cugina, quella con la vista dell'oltre.- scelse invece di dire. -Gli dèi sono stati generosi con te.-
Le persone come noi invecchiano più in fretta, diceva Jojen. Scoprono cose che non dovrebbero scoprire. Sapere troppo è nocivo quanto non sapere nulla. La principessa storse un sorriso caustico. A guardare meglio, marchiata sulla benda sporca di sangue, c'era la forma dei suoi occhi. -Credi?-
Con le dita, Nesmera fece scivolare via il proprio cappuccio. La chioma aurea lampeggiò sotto la luce sinistra delle torce, e molti sguardi la esaminarono con sospetto. Il suo viso pallido era estremamente attraente, e Levenna notò con fastidio che Kenned era arrossito. Era bella, sì. Forse persino più di Elyn Tully, considerata la fanciulla più graziosa dei Sette Regni. E i suoi occhi... i suoi occhi erano cristallizzati nell'azzurro perlaceo della brina. Occhi azzurri. Gli occhi di Rickon Stark, pensò Osha con rimpianto, riguardosamente nascosta fra le file dei cortigiani. Aveva cresciuto tutti i figli di Bran, uno per uno. Li aveva estratti dal grembo della loro madre e li aveva posati sul seno di Meera. Li aveva visti compiere i primi passi e pronunciare le prime parole. Li aveva assistiti quando piangevano e li aveva curati quando s'ammalavano. Li aveva amati come fossero stati suoi. Vedere adesso Kenned così cresciuto, ormai un uomo, le provocava un moto d'orgoglio nel petto. Però... però era sempre rimasta quella nostalgia, al pensiero del ragazzino con cui aveva condiviso tanti anni di pellegrinaggi e peripezie. Si era sempre chiesta cosa il futuro avesse riservato a Rickon ed alla sua Lannister biondina. E la risposta era l'adolescente scaltra e smilza involta in quel mantello.
-Perchè Bran il Metamorfo non è qui, ad accogliere la sua unica nipote?- chiese. Come se non lo sapesse! pensò Levenna, stizzita. 
-I miei genitori non sono a Grande Inverno, in questo momento.- rispose Kenned, freddamente. -Si trovano a Torre delle Acque Grigie, all'Incollatura, a fare visita a mio fratello Robben.-
Non c'era voluto molto, a Bran e Meera, per comprendere che Robben era in realtà un crannogman, destinato all'Incollatura e a nient'altro, e che restare al Nord avrebbe avuto il solo effetto di farlo soffrire. Era un Reed in tutto e per tutto, e nessuno aveva il coraggio di contestare questo, nemmeno Osha che vedeva i caratteri degli Stark dappertutto. Non appena aveva compiuto sette anni, Meera l'aveva spedito all'Incollatura veloce come un fulmine, affinchè crescesse nella dimora dei suoi nonni materni.
Robben Stark. E siamo a cinque.
Robben Stark, e poi il trono del Nord rimarrà senza eredi.
-Perchè sei qui?- proseguì Kenned. Levenna si augurò che suo fratello avesse il buonsenso di mantenere le difese perennemente innalzate, e di non lasciarsi distrarre. Aveva visto quella ragazza in sogno più di una volta, sapeva quanto potesse essere pericolosa. E l'insidia consisteva proprio nel fatto che non lo sembrava per niente.
Nesmera sorrise. -Non ho bisogno di un motivo. Sono una Stark, e questa è casa mia.-
-Una Snow.- precisò il principe, che evidentemente non apprezzò la sua tracotanza. -I tuoi genitori non si sono mai sposati.-
-Per quel che ne sai tu.- obiettò la ragazza, inarcando un sopracciglio. -Si sono sposati, invece. Con un rito skaagosiano.-
Kenned cercò di trattenere la propria impazienza. -I riti skaagosiani non valgono nulla, se non c'è un septon e non ci sono dei testimoni.-
Nesmera lo ignorò. -Intendi cacciarmi, allora?-
Il ragazzo fece una pausa.
-Se quella che vai cercando è una casa, sarai benvoluta ora e sempre. Ma se quello che speri di ottenere è un trono, non posso prometterti lo stesso. Comunque sia, a Grande Inverno riceverai il trattamento che meriti. Niente di più, niente di meno.-
Levenna sospirò. Erano parole altisonanti, ma, appunto, erano parole. Kenned avrebbe saputo comportarsi di conseguenza, se fosse stato necessario? Il problema era che mancava di polso. Era facilmente manipolabile da chi avesse avuto cattive intenzioni e tante belle paroline a fior di labbra... come la lì presente.
-Mio padre dice che il Trono di Spade non è di chi lo eredita, ma di chi lo conquista.- dichiarò Nesmera. -A mio parere, per il Trono del Nord vale lo stesso.-
Che sfacciataggine, pensò Levenna con disgusto. Non ha nemmeno la decenza di fare finta.
-È questo che sei giunta fin qui a chiedere? Del tempo per conquistare il trono?- La voce di Kenned era indurita di avversione.
-Mi hai forse sentita pronunciare queste parole?-
Nel momento in cui Nesmera sorrise di nuovo, con scanzonata malizia, il principe del Nord abbassò lo sguardo. Lei ragionò che aveva ancora un po' di tempo, prima che Bran Stark tornasse, per lavorarsi l'erede. Era un piano folle, un piano avventato, il suo. Brandon Stark. Howland Stark. Robben Stark. Levenna Stark. Kenned Stark. Però aveva ancora nella testa quel che suo padre le aveva detto. Chi sia di sangue Stark, può regnare sull'intero Nord. Chi sia di sangue Lannister, può regnare sull'intero Sud. Ma chi sia di sangue Stark e di sangue Lannister, può regnare su Westeros.
-Questa è Grande Inverno, cugina.- le rammentò Kenned, aspramente, quasi rimproverandosi della debolezza cui aveva ceduto poco prima. -Territorio di caccia di un branco. Non la si può invadere così facilmente.-
La fanciulla rispose con l'amabilità che sua madre le aveva insegnato. -Non ho dubbi.-
Il metalupo ai piedi di Levenna, di piccole dimensioni, dalla pelliccia completamente nera come la notte, aveva cominciato a ringhiare sommessamente, i canini bianchi scoperti. La mano della ragazza corse a carezzarle il naso umido e blandirla, ma il suo viso non infranse la propria rigida, intransigente impassibilità.
-Sta' buona, Kendra.-
La metalupa riposò il muso in mezzo alle zampe, ancora un'espressione di guardingo sospetto negli occhi diafani come la neve. Quando Nymeria aveva partorito una cucciolata, di cui Kendra era l'unica superstite, Bran -per evitare noiosi litigi fra i figli- aveva decretato che fosse il piccolo metalupo appena nato a scegliere il proprio protetto: non appena aveva visto Levenna, Kendra non aveva esitato un attimo ad accoccolarsi nel suo grembo, con indolente, spontanea e quasi noncurante naturalezza, come se quello fosse stato il suo posto da sempre.
Nesmera l'osservò, indolente. Le piacevano, i metalupi. Quando era molto piccola, suo padre si divertiva a caricarla in groppa a Cagnaccio e spedirli a fare una passeggiata, fra gli urli atterriti di Myrcella.
-Sembra che la bestia senta la tua paura, e quindi cerchi di proteggerti. Davvero leale da parte sua.- La velata insinuazione era stata scoccata con molta maestria, ma Levenna aveva sempre detestato i giochi di parole.
-Non ho paura di te, Nesmera Snow.- proferì con voce arida e solenne. -Si teme soltanto ciò che non si conosce. Ti ho vista nascere e crescere e piangere e morire: io ti conosco.-
Lei è la mia vera avversaria, qui dentro, pensò Nesmera. Con gli altri sarà una passeggiata, ma Levenna si dimostrerà un ostacolo. Per questo devo toglierla di mezzo subito.
-Chi lo sa, che il futuro non ti riservi ancora qualche segreto.- replicò, pungente. -D'altronde, come vi piace dire spesso, l'inverno sta arrivando.-
Le ragazze si fissarono negli occhi per diversi istanti, sfidandosi a vicenda ad abbassare lo sguardo, ma entrambe lo sostennero. Era evidente che a Grande Inverno non c'era abbastanza spazio per due principesse.
Fu Kenned a spezzare quell'incantesimo.
-Se vuoi rimanere qui, lo dovrai fare secondo le nostre regole. Noi non mangiamo le persone, per esempio. Prova a fare una cosa simile e ti faccio decapitare, chiaro? Non permetterò simili depravazioni in casa nostra.-
Nesmera sbadigliò, forse per deridere gli avvertimenti del cugino, forse per reale stanchezza.
-Penso che andrò a riposare. Il viaggio è stato lungo e faticoso, anche se nessuno si è premurato di chiederlo. Ragazzo, portami nelle mie stanze. Ho bisogno di dormire.-
Fece un cenno a Howland. Lui lanciò un'occhiata interrogativa a Kenned, che annuì, così il fratello minore fece segno a Nesmera di seguirlo. Prima di scivolare fuori dalla sala del trono, la fanciulla rivolse un ultimo sguardo intenso al principe ereditario.
Il tonfo delle porte che restituivano alla sala la sua quiete strappò a Kenned uno sbuffo sollevato.
-Maledizione. È appena arrivata, e già la vorrei fuori di qui il più in fretta possibile.- confessò, inquieto. -Saperla nel castello, insieme ai nostri fratelli... non mi farà dormire di notte.-
Levenna non rispose. -L'unico modo per vivere in pace è tagliarle la gola mentre dorme, fratello.-
Ma lui non era affatto d'accordo: subito s'incupì.
-No, Levenna. Noi non siamo assassini, tantomeno di consanguinei. E poi, vuoi davvero scatenare una guerra fratricida da nostro padre e nostro zio? Attualmente, non abbiamo nessuna vera prova che lei è un pericolo per noi.-
-I miei sogni non sono nessuna prova!- sbottò Levenna, infervorandosi. -Tu non hai idea di quello che le visto fare. Se lo sapessi, sguaineresti la spada e la andresti a cercare.-
Kenned tacque. Conosceva il temperamento di sua sorella, e allo stesso tempo sapeva quanto di lei gli fosse precluso di conoscere. Abitava una realtà molto diversa dalla loro. Tutti avevano finito per considerarla una strana creatura, alcuni la chiamavano pazza. Altri si limitavano a detestarla, come il suo stesso padre.
-Fra Nesmera Snow e il potere ci sono cinque eredi legittimi.- mormorò, tentando di far suonare la propria voce autoritaria quanto quella di Bran Stark. La voce di chi è assolutamente sicuro di ciò che dice. Levenna aveva lo sguardo vacuo, perso nel vuoto, e colmo di risentimento.
-Fra Nesmera Snow e il potere c'è un tappeto di velluto rosso.-
Kenned avvertì l'angoscia serrargli lo stomaco. Si augurò con tutto il cuore che sua sorella si sbagliasse. Ad ogni modo, presto suo padre sarebbe tornato ed avrebbe risolto tutto quanto. Se noi saremo ancora vivi, per allora, gli giunse in mente. I gemelli Lannister spaccano il Sud a metà per farsi guerra, re Gendry fa finta di niente, e adesso lei... cosa sta succedendo ai Sette Regni?
Levenna si alzò dal suo scranno. Le vennero in mente le parole di una conversazione ormai lontana, quando Jojen le aveva stretto le mani nelle proprie e le aveva parlato con la sua tipica pacatezza. Io appartengo ad un'altra vita... e sono morto. Invece tu sei giovane, Levenna, così giovane. Io ti ho insegnato quello che sapevo, e non è molto. Il resto, lo devi imparare da te. Non hai più bisogno di me, anche se adesso credi il contrario. Tu hai un ruolo da interpretare, io un passato a cui tornare. Le nostre strade si separano.
Il panico l'aveva sopraffatta: lui non poteva abbandonarla così. Jojen era l'unica persona che la capiva. Se se ne fosse andato per sempre, l'avrebbe lasciata completamente sola, in balia di un mondo che detestava. Levenna aveva negato, gridato e supplicato. Levenna si era aggrappata al suo mantello e si era gettata in ginocchio. Levenna aveva pianto stretta a lui per l'ultima volta. Jojen le aveva detto questo, in sogno, più di sette mesi prima. Da allora, non l'aveva più visto.
-Che cosa dovrei fare, secondo te?-
Levenna avanzò fino alla porta. Posò una mano sulla maniglia. Kendra procedeva al suo fianco, e lei percepiva la pelliccia strusciare contro i polpacci.
Si voltò a guardare il fratello.
-Quando il caso ti coinvolge nel gioco del trono, Kenned... l'unica cosa che si può fare è iniziare a giocare.-
Sorrise. Kenned non lo fece. Forse l'inverno stava tornando.













Fine.














Note dell'Autrice: Ebbene sì. Fine. u.u
E qui scatta il cambio generazionale XD Non credo che ve l'aspettaste, ma spero che sia risultato di vostro gradimento. Visto che ho praticamente nella testa ogni singolo figlio di ogni singola casata, mi sarebbe tanto piaciuto dilungarmi, ma sarebbe stato inutile e noioso. E comunque, no, non scriverò nessuna continuazione. Lascio alla vostra immaginazione ciò che verrà dopo. Nesmera riuscirà ad ammazzare tutti e cinque i cugini, oppure Levenna riuscirà a mandare in fumo i suoi piani? XD Se amassi trollare quanto Martin, vi direi che muoiono entrambe trafiggendosi a vicenda con due spade. XD Ma non lo sono, fortunatamente.
Grazie per aver letto questa fanfiction fin qui. ^-^ Grazie soprattutto a quelli che hanno messo questa storia fra le seguite/ricordate/preferite, e in special modo ai recensori.
È tutto! Grazie ancora e buone vacanze!
Lucy

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