Blowing in the wind

di _Wonderwall_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Scusate ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Pubblico questa storia senza pretese e con ilsolo scopo di scrivere qualcosa di originale -probabilmente no- e svagarmi un po'.
Scrivere mi piace e spero che quello che scrivo possa piacere anche a voi.
Questo è solo un esperimento che desidero davvero possa funzionare. Vi prego di farmi sapere la vostra opinione sulla mia storia :) Buona lettura :)


Capitolo 1
 
 
“How I wish, how I wish you were here.
We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year,
running over the same old ground. What have we found?
The same old fears,
wish you were here”

 
 
 
 
21 Novembre 2306
 
Prima guerra mondiale: la vittoria va alla Triplice Intesa (Russia- Gran Bretagna- Francia).
Seconda guerra mondiale: la vittoria va ai Paesi Alleati.
Terza guerra mondiale: la vittoria va agli Stati Uniti, che conquistano l’egemonia mondiale.
Quarta guerra mondiale: in corso.
 
 
Alla luce degli eventi passati, sopra elencati, che hanno segnato la storia drammatica del nostro pianeta, il nostro capo di stato chiede la possibilità di porre fine al conflitto che sta riducendo la terra in macerie e decimando la popolazione.
I Paesi Alleati si dichiarano disposti a firmare la pace.
Siamo in attesa della vostra risposta,
cordiali saluti,
Gli Alleati.
 
 
 
Dashia Lebedev sorrise ironica, poggiando con noncuranza il foglio sulla sua scrivania, essendo perfettamente a conoscenza che il presidente della Russia, dopo aver letto quelle parole, avrebbe accartocciato il foglio e lo avrebbe buttato nel cestino, deridendo la richiesta di pace dei nemici.
La donna lo trovava ironico. Solo un centinaio di anni prima erano stati loro a chiedere la pace e gli Stati uniti a rifiutarla, ma adesso era tutto diverso. La Russia era stata in grado di creare altre armi di distruzione di massa, che stavano segnando la sua vittoria durante questa lunga ed estenuante guerra.
Riprendere i nomi della seconda guerra mondiale era sembrato divertente agli Americani, credendo che il risultato sarebbe stato lo stesso, ma si erano sbagliati.
Nonostante la Russia dovesse vedersela contro il resto del mondo, fino a quel momento, era stata in grado di fronteggiare gli altri Stati e, anzi, di superarli in tutti gli aspetti.
Numero di soldati –i ragazzi venivano reclutati da quando avevano cinque anni e allenati ai combattimenti in modo che a soli sedici anni avrebbero potuto scendere in campo- , qualità di soldati, organizzazione, tipi di armi.
Avevano tutto. Tette le carte in regola per vincere quella guerra.
Sapere che gli Stati Uniti fossero disposti a chiedere la pace, a subire un’umiliazione così grande, riempiva Dashia e il resto della popolazione russa di orgoglio.
Con un’aria di superiorità, con un gesto veloce, sposto il capelli neri da davanti agli occhiali dalla montatura leggera ed elegante.
Le dita agili scrissero velocemente sul computer di ultima generazione ed inviarono la richiesta di conferenza al capo di Stato.
Incrociò le mani sotto al seno, osservando lo schermo virtuale che aveva davanti. Si sentiva fortunata ad essere nata in quell’era, l’età della tecnologia. Così era chiamata dagli esperti e Dashia non poteva fare a meno di essere completamente d’accordo con loro.
La civiltà umana, in particolar modo quella russa, era progredita nel corso degli anni fino ad arrivare a dei livelli di tecnologia elevatissimi, perfino per le aspettative dei più speranzosi.
Computer con memoria strutturalmente piccola, ma con un’enorme potenziale. Schermi grandi e ben visibili, sempre disponibili, bastava premere un pulsante per avere la proiezione di ogni cosa. Internet gratuito ovunque andassi e la capacità di trasportare oggetti e persone tramite gli schermi.
La più importante e la più innovativa scoperta degli ultimi secoli.
Il telefonò squillò e la voce meccanica annunciò il mittente della chiamata.
<< Buongiorno, capo >>
<< Ti aspetto nel mio ufficio tra un’ora >>
Tu tu tu.
La telefonata si chiuse immediatamente e la donna si alzò, passandosi le mani sull’uniforme che indossava. La gonna e la giacca scura, che copriva parzialmente una camicetta bianca e che mettevano in risalto la pelle pallida e gli occhi chiari.
Strinse la lunga coda scura e spostò nuovamente il ciuffo che era caduto davanti agli occhiali, di nuovo.
Con un sospiro, prese il foglio e si diresse verso l’ufficio del capo.
Era un giorno importante e, per quanto potesse immaginare la reazione del suo capo,non poteva essere sicura di quello che avrebbe fatto, così preferiva aspettare per l’intera ora nella sala d’aspetto appena prima del suo ufficio, in attesa della sua conferenza.
Con passo sicuro si diresse verso la sua destinazione, facendo tintinnare i tacchi dodici delle sue eleganti e costose scarpe.
 
 
 
Dashia era seduta su una poltrona di raso blu, nella sala d’aspetto, sbattendo ansiosamente il piede a terra e procurando un fastidioso ticchettio che fece sbuffare l’unica altra persona presente in quella stanza. un caporale era seduto sulla poltrona di raso blu davanti a lei, poggiato su un braccio, le gambe rilassate, ma gli occhi sempre attenti e vigili, nel caso remoto fosse successo qualcosa.
La bionda incrociò le gambe, cercando di frenare i suoi impulsi nervosi per non far spazientire quell’uomo. Non che avesse paura, ma era a conoscenza della loro fama. Tutto il popolo affermava che gli ufficiali russi fossero orgogliosi, forti, con l’arrabbiatura, e soprattutto con il grilletto, facile.
Dashia era al sicuro, ma la prudenza non era mai troppa. Preferiva abbassare leggermente la testa, che mettere a repentaglio la sua vita.
<< Sei già qui, bene, entra >> disse il capo di stato, uscendo dal suo ufficio e rivolgendosi alla donna seduta compostamente.
Annui in modo educato, ma deciso e si alzò,seguendolo dentro la stanza davanti a sé, ovvero l’ufficio del suo capo.
Era la prima volta che metteva piede lì, non era mai stata abbastanza fortunata o importante per essere convocata lì, almeno fino a quel momento. A dir la verità non aveva mai nemmeno visto il suo capo dal vivo ed ora poteva tranquillamente affermare che fosse un bell’uomo.
I capelli biondi, gli occhi chiari, la rada barba che gli copriva la mascella e il collo, le spalle grandi, il petto ampio, le braccia muscolose.
Sapeva che era stato un soldato e il suo corpo era una lampante manifestazione del suo passato, trascorso tra allenamenti e battaglie.
Con un gesto della mano le indicò la sedia girevole davanti alla scrivania, mentre lui prendeva posto dietro di questa, seduto nella sua confortevole poltrona.
Si guardò intorno, rimanendo stupita dalla semplicità dell’arredamento di quell’ufficio. Nella sua mente si era immaginata lampadari sfarzosi di cristallo, poltrone in seta –come quelle della sala d’aspetto-, vecchi quadri di inestimabile valore, pittura elegante, porte e scrivanie in legno di mogano, computer di ultima generazione ed un bellissimo Transporter, che avrebbe fatto invidia a chiunque entrasse.
Invece gli oggetti che arredavano quella stanza era pochi ed essenziali. Una scrivania, una sedia, una poltrona e un grande orologio attaccato al muro, che segnava il passare dei secondi con un fastidioso e continuo ticchettio.
<< Ecco a lei il foglio signore >> disse la donna, allungando la mano destra, che stringeva la stampa dell’e-mail ricevuta solo un’ora prima.
Il capo lo prese e fece scorrere gli occhi con attenzione su quelle parole scritte con uno dei caratteri più belli che avesse mai visto al computer.
In quel preciso momento Dashia capì come fosse riuscito a farsi eleggere capo di stato e ad aver convinto tutta la nazione ad intraprendere una guerra contro gli Stati Uniti e tutti gli altri pianeti, a soli trenta anni. Ora ne erano passati sei e le sue strategie si stavano dimostrando sempre efficaci e privi di qualsiasi falla.
I suoi occhi. I suoi occhi erano il segreto di tutto. Belli, certo, ma la loro vera potenza consisteva nella forza e nella determinazione che esprimevano.
Un brivido di freddo le attraversò la schiena, quando incrociò quello sguardo glaciale, reso così freddo non tanto dal colore quanto dalla durezza dell’espressione.
Igor Petrov poggiò il foglio sulla scrivania e lo fissò per qualche secondo, prima di rialzare lo sguardo sulla donna, che sedeva ancora in maniera composta sulla sedia.
<< Puoi rispondere che le loro offerte di pace finiscono direttamente nel mio cestino >> affermò e per rafforzare il concetto, accartocciò il foglio, lanciandolo con precisione nel portarifiuti.
La donna sorrise con soddisfazione per essere riuscita ad intuire la reazione del suo capo.
Annuì e si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la porta. Appena abbassò la maniglia, la porta si aprì da sola, lasciando entrare un bambino di appena cinque anni nell’ufficio.
Dashia lo fissò per qualche secondo, si limitò a salutare con un gesto del capo i presenti e scomparve dietro il legno, lasciandoli da soli.
 
 
 
 
Quando suo figlio entrò nell’ufficio l’espressione di Igor si ammorbidì leggermente, ma i suoi occhi e la sua mascella rimasero abbastanza rigidi da trasmettere quasi paura. Ma non al bambino, che era abituato all’espressione rigida del padre, avendo avuto solo lui come punto di riferimento durante la sua infanzia.
Sua madre, beh, non era il momento adatto per pensare alla madre del piccolo.
<< Ciao papà >> disse il piccolo, con voce gioiosa.
Non lo vedeva da una settimana. Aveva aspettato con ansia l’arrivo della domenica per poter interrompere gli allenamenti e raccontare al suo vecchio tutte le cose che aveva fatto in quella prima settimana.
Infatti appena sette giorni prima aveva compiuto cinque anni ed era stato prelevato da casa sua e portato in un campo di addestramento, per farlo diventare un soldato.
Quello che decideva il destino di ognuno era il proprio corredo genetico, dove era scritto tutto quello che sarebbero diventati. Gli scienziati avevano imparato a leggere le informazioni genetiche in modo impeccabile e per questo erano a conoscenza sin da subito delle caratteristiche fisiche che avrebbero mostrato da adulti i bambini scelti.
Il Dna del figlio di Igor era fatto ad opera d’arte, nemmeno un’imperfezione. Sarebbe diventato un soldato perfetto, un perfetto ufficiale.
<< Ciao Ivan, come è andata questa prima settimana? >> chiese l’uomo, sedendosi sulla sedia girevole per avere suo figlio completamente davanti.
<< Bene. Sono arrivato primo alla prima sfida che hanno organizzato alla base >> il piccolo gonfiò il petto di orgoglio, aspettando un qualsiasi commento da parte dell’uomo.
Igor si limitò ad annuire, senza un minimo sorriso. Nessun abbraccio, nessun bacio, nessuna pacca sulla spalla, nessun complimento. Niente. Nessuna espressione.
Fu in quel giorno, a soli cinque anni, che Ivan Petrov capì che era da solo ad affrontare il mondo, che, da quando era stato prelevato per essere addestrato, doveva badare a se stesso, senza nessuno aiuto, nemmeno da parte di suo padre, soprattutto da parte di suo padre.
 
 
 
 




 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Mi scuso per gli eventuali errori, non ho avuto tempo di ricontrollarlo. Spero che piaccia, buona lettura :)
 
Capitolo 2
 
 
“Every breath you take
Every move you make
Every bond you break
Every step you take
I'll be watching you”

 
14 novembre 2306
 
 
Il colonnello Evans si sedette su una sedia dietro la scrivania nel suo ufficio, guardando nuovamente l’e-mail appena ricevuta.
 
CONGEDATO
 
Recitava a lettere cubitali la missiva da parte del presidente degli Stati Uniti d’America. Sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma sperava che quel momento arrivasse il più lontano possibile, mentre a soli trentatre anni era stato congedato.
Con un sospiro sconfitto si costrinse a leggere il resto della lettera.
 
Colonnello Evans siamo spiacenti di doverle comunicare che è stato congedato dall’esercito. Da questo momento non potrà più partecipare alle missioni sul campo per le cause a lei ben note.
Il suo incidente, durante l’ultima missione, ha danneggiato gravemente il muscolo della sua gamba destra, che non sarà più idonea a combattimenti o duri allenamenti.
Siamo tuttavia lieti di informarla che non perderà il suo grado ed avrà un congedo ad onore, ben meritato grazie ai tredici anni di assiduo servizio per il Paese. Potrà inoltre essere l’insegnante, o per meglio dire il mentore, delle nuove reclute e uno dei strateghi del governo.
Speriamo di vederla al più presto,
cordiali saluti,
l’America.
 
 
Un sorriso ironico si dipinse sulle labbra dell’uomo, rovinate da una piccola cicatrice che si era procurato durante la sua prima missione. Aveva riportato un segno del suo coraggio, un segno che non lo avrebbe mai abbandonato e che gli avrebbe ricordato la sua splendida carriera da militare.
Ed ora portava un altro segno.
La cicatrice di un taglio sulla coscia destra, lunga venti centimetri, che aveva inciso il muscolo e le arterie, condannandolo a dover zoppicare per il resto della sua vita.
E quello sarebbe stato il segno della fine della sua carriera militare. Gli avrebbe per sempre ricordato due giorni: quello in cui era stato ferito –che ricordava perfettamente senza ulteriore bisogno di aiuto- e quello in cui aveva ricevuto la lettera di congedo.
Sbuffò più volte, portando le mani tra i capelli scuri e strizzando gli occhi grigi. Stava cercando di essere forte, aveva sempre provato ad esserlo e aveva sempre creduto di esserci riuscito, ma si stava accorgendo in quel momento di quanto questo fosse falso.
Ora che gli era stata strappata dalle mani la sua vita –ovvero il suo lavoro- si sentiva vuoto, perso, fragile, debole e sommerso dai sensi di colpa.
Aveva una moglie e una figlia di cui prendersi cura, a cui fare compagnia a cui dare la lieta notizia.
Per loro almeno lo sarebbe stata. Sarebbero state felici di sapere che non avrebbe più rischiato la vita e lui sarebbe dovuto essere contento di poter passare più tempo con la sua famiglia e invece tutto quello a cui riusciva a pensare era che aveva appena perso tutta la sua vita. Il suo lavoro.
Le immagini di quella maledetta notte gli passarono davanti agli occhi, tormentandogli la mente e impedendogli di pensare ad altro.
La battaglia.
La missione.
Il coltello.
Il buio.
Sbatté con forza il pugno sulla scrivania, alzandosi in piedi e non prestando attenzione a non poggiare il peso sulla gamba mal funzionante.
Sentì la gamba bruciargli e fargli male oltre ogni limite, il muscolo cedere e, subito dopo, il pavimento freddo entrare a contatto con il suo ginocchio trapassando con la sua temperatura la stoffa dei pantaloni da militare che indossava.
Con il pugno colpì il pavimento, sentendo le nocche scrocchiare e il sangue sporcare e inumidire la mano.
Altre immagini gli passarono davanti agli occhi e l’unica cosa che poté fare fu ricordare. Ogni scena, ogni dettaglio, ogni particolare.
 
 
Ian Evans imbracciò il fucile che si trovava vicino al suo letto nella tenda che stava per lasciare. Un’altra missione. Finalmente sarebbe andato di nuovo in missione, era fermo ormai da due settimane. Due settimane di inferno per lui.
Con la mano destra mantenne il fucile, mentre con l’altra teneva il telefono.
<< Ciao tesoro >> disse, sorridendo e immaginando il viso della bambina. Della sua bambina.
La piccola dall’altro capo del telefono biascicò molte parole, tra le quali lui riuscì a distinguere un ‘mi manchi, papà’ e forse un ‘ti voglio bene’ detto con la sua voce infantile che lo fece sorridere ancora di più.
Non riusciva ancora a parlare perfettamente, ma d’altronde non era strano, anzi perfettamente normale, non aveva nemmeno un anno. Era strabiliante quanto veloce fosse nell’apprendimento quella bambina.
La sua bambina.
<< Piccola, papà deve andare in missione. Ci sentiamo quando torno >>
“Ciao, papà, stai attento” l’uomo dai capelli mori schiuse la chiamata, continuando a sorridere.
Era ora di andare in missione.
 
I soldati si attaccarono al muro delle macerie di uno dei più importanti palazzi di New York, prima che  il mondo in superficie venisse quasi completamente raso al suolo dalle bombe nucleari dell’America e da quelle devastanti ad azoto  della
Russia.
Il fucile stretto al corpo e quest’ultimo che si muoveva lentamente e in modo attento lungo l’edificio. Secondo la soffiata di un loro uomo infiltrato dentro il governo russo, quella era una delle basi in superficie della potenza mondiale. E i soldati erano stati mandati lì per uccidere chiunque ci avesse abitato.
Il rumore di uno sparo squarciò il silenzio e il militare vicino al colonnello Evans cadde a terra, colpito da un proiettile all’altezza del cuore. Ian fissò il corpo dell’amico diventare un fantoccio e toccare il pavimento senza vita. Il militare imbracciò il fucile e sparò un proiettile, colpendo in pieno l’uomo che aveva ucciso l’amico.
Prima che potesse accorgersi di altro, sentì la pelle della gamba trafitta dalla lama affilata e pungente di un coltello. Sentì chiaramente il muscolo trafitto e il sangue impregnargli i pantaloni mimetici.
Dei rumori indistinti riempirono le sue orecchie e il colonnello cadde a terra, immerso nel buio.
 
 
Ian diede un altro pugno al pavimento, facendo aumentare esponenzialmente il dolore alla mano. Ma non gli importava. Non gli importava di niente.
Quello era stato il giorno più brutto della sua vita: un caro amico era morto e la sua carriera era finita.
Per sempre.
La porta si spalancò, lasciando intravedere il corpo piccolo di una bambina di due anni coperto da una tuta troppo grande per lei. I boccoli scuri erano lasciati liberi sulle spalle e gli occhi grandi e grigi –esattamente come i suoi- si riempirono di dolore, quando si accorse del padre a terra.
Si avvicinò a lui, accarezzandogli la schiena e sussurrandogli parole di conforto. Aveva imparato a parlare bene.
E aveva imparato a fare tante altre cose. Come era intelligente quella bambina.
Come era intelligente la sua bambina.
 
 
 
 
12 Dicembre 2321
 
Un buco al centro del bersaglio comparve pochi secondi dopo il rumore sordo di uno sparo. La sagoma di un uomo attaccato alla parete era forato da una ventina di proiettili sparati da una calibro 7. Una magnum precisamente. 
La pistola preferita di Ivan. Il ragazzo sorrise, togliendosi con una mossa veloce gli occhiali protettivi e osservando il suo lavoro a dir poco perfetto.
Venticinque buchi su quel foglio di carta, di cui dieci perfettamente in testa, dieci al cuore e cinque distribuiti tra l’addome e il torace. Un lavoro senza nemmeno una pecca.
Non che il ragazzo ne fosse sorpreso, ormai per lui era una routine uccidere in modo preciso e negli allenamenti dava spettacolo delle sue portentose abilità per vedere quelle espressioni di stupore, misto a rispetto e paura sulle facce dei più piccoli.
Erano passati dieci anni da quando aveva, per la prima volta, impugnato una pistola.
Ricordava il suo primo colpo, era andato al confine tra la figura e il muro, se fosse stato un vero uomo lo avrebbe colpito al braccio, di striscio.
Un ragazzo di quindici anni lo aveva preso in giro, deridendolo per la sua poca precisione, così Ivan aveva sparato un altro colpo. Dritto alla testa.
Da allora non ne aveva più sbagliato uno.
Era diventato davvero perfetto, una macchina da guerra inarrestabile. Insensibile, forte e preciso. Meticolosamente preciso.
Ricordava anche il giorno che, per la prima volta, un proiettile della sua amata pistola si era conficcato nella testa di una persona, precisamente in mezzo agli occhi, facendolo cadere a terra come un fantoccio senza vita, come un burattino nelle mani di un signore potente.
Ed il signore potente era lui. In quel momento Ivan aveva deciso della vita o della morte di una persona, come se tutto potesse essere deciso solo da lui.
E il ragazzo ricordava il modo in cui si era sentito, sapeva che avrebbe dovuto provare dei sensi di colpa, ma questi non lo avevano sopraffatto, almeno non quanto la sensazione di potenza, che subito aveva avvertito, quando aveva osservato gli occhi del cadavere.
Bianchi, inespressivi, morti. Erano privi di emozioni, esattamente come il ragazzo in quel momento. E da allora Ivan aveva ucciso come se fosse normale, come se vedere corpi cadere a terra senza forza fosse uno sport, come se fosse divertente.
Lo aveva fatto per seguire degli ordini e semplicemente per diletto personale. Aveva torturato senza pietà uomini solo per avere la soddisfazione di leggere nei loro occhi il desiderio della morte. E subito dopo aveva esaudito le loro preghiere, piantandogli una pallottola in testa o al cuore, a seconda di come lo aggradava di più.
<< Bel colpo >>
 Ivan annuì, senza girarsi verso la voce maschile che gli aveva appena parlato. L’aveva riconosciuta e doveva ammettere che gli era mancata. Non la sentiva da due anni ed ora, nonostante si sentisse fortunato ad udirla di nuovo, non si era nemmeno preso il disturbo di girarsi verso suo padre.
Aveva voglia di rilassarsi e l’unico modo che conosceva per divertirsi e rimanere nello stesso tempo in allenamento era allenarsi al poligono di tiro, cosa che stava facendo da ormai due ore.
<< Come è andata la battaglia? >> chiese l’uomo, continuando a guardare il figlio con orgoglio.
Ivan non si era ancora girato, ma avvertiva il peso del suo sguardo glaciale su di sé.
Sparò un colpo. Colpito al cuore.
<< Sono vivo >> osservò, alzando le spalle con noncuranza.
Un altro colpo. Il cervello.
<< Lo vedo >> commentò il capo.
Un altro colpo. Il polmone.
<< Il maresciallo mi ha detto che hai fatto un lavoro eccezionale >>
Un altro colpo. L’altro polmone.
<< Avevi forse dei dubbi? >>
Un altro colpo. Un occhio.
<< Assolutamente no. Sono consapevole delle tue potenzialità >>
Un altro colpo. L’altro occhio.
<< Goditi il rientro a casa >> Ivan annuì, sparando di nuovo.
Suo padre si alzò e si girò di spalle, avvicinandosi alla porta di ingresso del poligono di tiro.
Solo in quel momento si permise di girarsi ad osservare la schiena ampia del padre, dopo due anni in cui aveva immaginato il suo viso e la sua voce arrabbiata sgridarlo perché non era stato abbastanza bravo o agile o veloce.
Le spalle erano ampie esattamente come le ricordava, le gambe ancora muscolose, proprio come le braccia possenti.
i capelli erano dello stesso biondo, ma con qualche capello bianco che sarebbe sfuggito ad un occhio meno attento di quello di un militare. Il vestiario era diverso rispetto a quello con il quale lo aveva lasciato. Quel giorno era libero ed aveva indossato qualcosa di più informale in confronto al solito smoking. Un paio di pantaloni ed una camicia.
Con un sospiro girò nuovamente il viso verso la figura davanti a sé e sparò.
 
 

 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
Ecco a voi il terzo capitolo, spero che vi piaccia e che mi farete sapere la vostra opinione con un recensione. buona lettura :)

 
Capitolo 3
 
 
 
“Never made it as a wise man
I couldn't cut it as a poor man stealing
Tired of living like a blind man
I'm sick of sight without a sense of feeling
And this is how you remind me
This is how you remind me
Of what I really am
This is how you remind me
Of what I really am”



 
 
22 Dicembre 2321
 
 
 
Le porte automatiche della base sotterranea si aprirono ed immediatamente delle barelle portanti i corpi mutilati dei soldati fecero il loro ingresso nell’ospedale della base sotterranea di New Orleans.
L’unica cosa che ricollegava quel moderno ospedale a quelli del passato erano le pareti bianche. Quel dettaglio era rimasto lo stesso. Tutti gli ospedali avevano ancora quelle pareti bianche, che, secondo alcuni dottori, suggerivano l’idea della malattia. Anche i camici erano rimasti gli stessi. O verdi o azzurri. Due colori bellissimi, se non fosse per il contesto in cui erano sempre stati utilizzati.
Per il resto quell’edificio sembrava tutto fuorché un ospedale. Per prima cosa era situato venti metri sotto terra, secondo l’avanzata tecnologia lo faceva assomigliare più a un laboratorio scientifico e terzo l’odore ricordava quello dell’estate.
Quest’ultima cosa Scarlett Evans la trovava estremamente stupida. Che senso aveva rendere l’odore buono e fresco se i colori –la prima cosa che saltava all’occhio- urlavano ‘malattia’ a gran voce.
La ragazza inoltre trovava fastidioso quell’odore. Le faceva venire in mente quella stagione che tanto odiava. Il sole era troppo forte e l’ozono troppo debole per sopportare i raggi. Così questi penetravano fino ossa, annidandosi sotto la pelle e rendendo la popolazione terrestre più sottoposta che mai a tumori. Inoltre se stare fuori significava essere esposti a bombe o proiettili lanciati dai russi, preferiva restare dentro. E uscire d’inverno.
Aveva trovato un posto che, essendo coperto dalla neve, era invisibile agli occhi di chiunque e anche ai radar di qualunque elicottero.
E le permetteva di uscire e di prendere un po’ d’aria fresca. Inoltre Scarlett amava la neve.
La ragazza si avvicinò ad una delle barelle, appoggiando il suo fonendoscopio al torace del paziente.
Battiti deboli.
<< Cosa abbiamo? >> chiese all’infermiera che portava la barella, trascinandola nel frattempo nella sala operatoria.
<< Ferita da arma da fuoco. Due proiettili nell’addome e braccio destro martoriato dall’esplosione di una bomba –la ragazza annui-, la pressione è bassa e ha perso molto sangue. Il battito cardiaco è basso, ma regolare durante gli ultimi dieci minuti >>
Scarlett indossò i guanti disinfettati e coprì la bocca e il naso. L’infermiera le legò i capelli, fissandoli con un fermaglio e coprendoli con una cuffia, per evitare che fossero caduti –non so- nelle ferite aperte del paziente.
<< Questa è una buona notizia >> affermò a metà tra l’ironia e il sollievo.
Da un lato aveva subito intuito quanto quell’intervento sarebbe stato difficile e le altissime probabilità che quell’uomo sarebbe morto. Il suo cervello aveva elaborato tutti i dati velocemente ed era giunto ad una conclusione: 80% di possibilità di morte.
Ma Scarlett era sempre stata una ragazza positiva, quindi si stava concentrando sul restante 20% di possibilità che quell’uomo avrebbe continuato a vivere. Grazie a lei.
C’era anche da considerare il fatto che sottopressione quella ragazza fosse un Dio della medicina.
<< Somministragli 20 mm di morfina >> affermò, avvicinandosi al corpo.
L’uomo –o per meglio dire il ragazzo- perdeva troppo sangue dalla ferita del braccio, dove era possibile intravedere anche l’osso, tanto era martoriato.
Scarlett decise di occuparsi prima di quella, mentre l’infermiera tamponava il sangue che fuoriusciva dai due buchi nell’addome del soldato.
Uno spruzzo di sangue fuoriuscì dall’avambraccio, sporcando il camice della ragazza, che imprecò e velocizzò ulteriormente i movimenti delle mani, mentre cercava di limitare al meglio i danni.
Ma la ferita era più grave di quanto Scarlett si aspettasse. In corrispondenza del gomito la congiunzione tra le due ossa delle braccia era rotta e in parte anche questi due erano rovinati.
Cazzo.
<< Ho bisogno di più chirurghi. Vai a chiamare il dottor Johnson e la dottoressa Williams –l’infermiera guardò impietrita il braccio dell’uomo, facendo sbuffare il medico- ora >> urlò Scarlett.
La ragazza scomparve dalla sala, lasciando il chirurgo da solo. Scarlett fermò in fuoriuscire del sangue dal braccio, incidendo la spalla, per segnare il profilo da tracciare per amputarlo.
Era sempre stata la sua ultima scelta, ma in quel momento era l’unica che le era rimasta. Sospirando sconfitta, proseguì nel suo lavoro, non alzando gli occhi quando i due amici fecero il loro ingresso nella sala e si precipitarono sul soldato, senza dire nemmeno una parola.
Scarlett tagliò via il braccio aiutata da Adam Johnson, mentre Kathrin Williams si occupava dei due proiettili. Velocemente fermò il sangue che usciva dalla spalla, sospirando di sollievo, quando udì il rumore del battito regolare sul monitor.
Grazie agli strumenti innovativi che usavano ora nelle sale operatorie, i chirurghi avevano potuto salvare una vita quasi insalvabile.
 
 
 
 
Scarlett sistemò i tubicini intorno al viso pallido del soldato, rilassata dal continuo rumore che produceva il macchinario a cui l’uomo era attaccato. Segno evidente che l’operazione d’urgenza era perfettamente riuscita e che quell’uomo avrebbe continuato a vivere. Grazie al 20% di possibilità di sopravvivenza che Scarlett aveva considerato.
Controllò la pressione. Regolare.
Il battito cardiaco. Regolare.
Cambiò la flebo e osservò il volto del paziente per la seconda volta da quando l’aveva visto. La prima era stata all’entrata.
Le era bastato una attimo per capire che quel ragazzo aveva poco più di lei, venti, ventuno anni al massimo.
Osservò i capelli rossicci attaccati alla fronte e le labbra screpolate. Aveva controllato l’acqua e l’idratazione era perfetta. Ma un secondo controllo non avrebbe fatto male.
Perfetta. Di nuovo.
Controllò le ferite sull’addome, constatando che kath aveva fatto davvero un ottimo lavoro. I punti erano stati applicati con meticolosa precisione e le cicatrici che gli sarebbero rimaste sarebbero state lievi, quasi invisibili. Tutt’altra storia era per il suo braccio.
Non aveva potuto fare altro, sapendo benissimo che in quel modo avrebbe compromesso per sempre la sua carriera, ma Scarlett era dell’opinione che era meglio perdere un braccio che la vita. E il soldato stava morendo dissanguato.
Solo allora si accorse che non conosceva il nome del suo paziente. Controllò la cartellina: Tom White, venti anni, arruolato nell’esercito da due.
Scarlett sospirò.
La sua attenzione fu attirata dalle lastra attaccate al lato del letto. Era meglio dare un’occhiata anche a quello.
A Scarlett piaceva il suo lavoro ed odiava ogni volta che sbagliava anche un minimo particolare. Dopo aver perso un paziente per un’emorragia interna –causata da una lesione agli organi- , era molto più attenta a tutti i particolari che la potessero aiutare a fare una completa diagnosi e quindi applicare il miglior metodo di cura.
Osservò le stampe con attenzione, trovandosi sollevata quando si fu assicurata che tutti gli organi interni fossero sani.
<< Salve dottoressa >> la ragazza si girò verso la voce debole del paziente.
Sorrise, quando si rese conto che la sua non era solo una visione, ma che Tom si era davvero svegliato e le stava parlando.
Si avvicinò controllando di nuovo il cuore. Battiti regolari.
Tutto perfettamente entro i parametri vitali.
<< Ciao Tom >> rispose,posando gli occhi grigi in quelli chiari del ragazzo.
Il ragazzo rispose al suo sorriso, sollevando con difficoltà gli angoli della bocca. Era debole.
<< Come sto? >> chiese, cercando di mettersi a sedere, ma Scarlett gli ordinò di fermarsi con un gesto della mano.
Il soldato obbedì.
<< La pressione è buona e i battiti regolari. Hai perso abbastanza sangue, ma abbiamo cominciato subito le trasfusioni, quindi ti stai rimettendo presto >> affermò.
Era il momento.
<< E il mio braccio? >> ecco la domanda a cui la ragazza avrebbe preferito non rispondere.
 Si sedette su una sedia vicino al lettino del ragazzo.
<< E’ stata un’operazione d’urgenza, il tuo braccio era martoriato e non ho fatto in tempo a portarti nella capsula. Saresti morto dissanguato, quindi ho dovuto amputarlo >> rispose, spostando dal viso una ciocca di capelli scuri e portando dietro la schiena il resto dei boccoli.
Si sentiva in colpa nonostante sapesse che lei non avrebbe potuto fare niente per salvare il braccio. Se solo fosse arrivato qualche ora prima avrebbe potuto portarlo nella capsula e lasciare che quella ricostruisse le cellule, il DNA, i tessuti, i muscoli, le ossa, la cartilagine, la pelle.
La medicina aveva fatto passi da gigante. Non si moriva più di quelle malattie che nel ventunesimo secolo erano risultate insuperabili. I tumori e l’AIDS, per esempio, venivano curati facilmente e raramente si rischiava la perdita di un arto o dell’uso di uno di questi. Ma ancora accadeva quando l’intervento era eseguito troppo tardi e i chirurghi erano costretti ad utilizzare i vecchi e barbari modi.
Come era successo a suo padre e come ora era successo a Tom.
Il ragazzo annuì, rimanendo in silenzio per qualche minuto, prima di cambiare discorso.
Almeno non avrebbe più fatto preoccupare sua madre, non avrebbe più dovuto combattere, cosa che in realtà non gli era mai interessata davvero.
<< Sei molto giovane >> affermò, osservando il viso perfetto della ragazza che sorrise ed annuì.
<< Diciassette anni >>
<< Wow >>
Già wow.
A soli diciassette anni Scarlett Evans era un chirurgo completo. Non aveva frequentato le normali scuole, sin da piccola, grazie al suo elevato quoziente intellettivo, si era dedicata alle scienze e alla medicina, diventando a soli quindici anni un medico effettivo.
<< Tornerò tra qualche ora, Tom, per controllare i parametri >> la mora uscì dalla stanza.
 
 
 
<< Ciao papà >> disse la ragazza, entrando a casa sua.
Era incredibile come da ogni parte del mondo fossero riusciti a creare delle vere e proprie città sotterranee per quei pochi milioni –esattamente quaranta- di persone che erano rimaste vive. Ed era incredibile che ancora si badasse all’aspetto esteriore delle case, mentre bisognava pensare all’ambiente sopra di loro, cercare un modo per renderlo migliore e abitabile, quando –e se- la guerra fosse finita.
<< Ciao piccola mia >> l’uomo si avvicinò, zoppicando alla ragazza.
Si abbassò alla sua altezza e le lasciò un bacio sulla guancia. Era incredibile quanto sembrasse alto vicino alla sua bambina e quanto lei sembrasse più piccola di quanto in realtà non fosse già. Un metro e sessantacinque sicuramente non era l’altezza che lei avrebbe desiderato, ma quella le era toccata e purtroppo Scarlett non poteva farci niente.
I due Evans si sedettero al tavolo, davanti a due piatti fumanti di lasagne. La madre della mora era innamorata della cucina italiana e la ragazza le era grata di questo, perché i pasti che preparava erano sempre a dir poco eccellenti.
<< Dov’è la mamma? >>
<< Oggi torna tardi >>
Scarlett annuì, continuando a mangiare. Non aveva voglia di parlare della sua giornata, né di chiedere come stesse andando la guerra e quali, secondo lui, fossero le sorti del loro pianeta.
Aveva solo voglia di mangiare del buon cibo, bere caffè e guardare un film insieme al suo papà.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Ciao a tutti, ecco il quarto capitolo :) Vi avverto che sarà un capitolo un po' triste, ma spero che vi piaccia :) Sarei felice se mi lasciaste una recensione! Buona lettura!

 
Capitolo 4
 
 
“If today was your last day
and tomorrow was too late
Could you say goodbye to yesterday?
Would you live each moment like your last?
Leave old pictures in the past
Donate every dime you have?
If today was your last day”



 
 
 
20 Maggio 2323
 
 
 
 
Scarlett prese una lunga boccata di fumo, rilasciandolo subito dopo, mentre si gustava il sapore della nicotina appena entrato in circolo nel suo corpo.
Finalmente.
Non toccava una sigaretta da almeno una settimana. Prima per paura di essere scoperta, poi per la grande mole di lavoro che era stata costretta ad affrontare all’ospedale. Non avrebbe potuto resistere un momento di più. Quelle settimane erano state davvero stressati.
Nel suo reparto erano arrivati almeno venti o trenta feriti al giorno e ne avevano persi almeno la metà. La guerra stava degenerando e lei, a soli diciannove anni, era costretta a guardare in faccia la morte, senza poter fare niente per impedirlo. Alcuni soldati erano arrivati così lacerati da darle il tempo solo di annunciare l’ora del decesso. Aveva aperto più corpi in quelle settimane che in tutta la sua carriera.
Aveva visto più morti in quelle settimane che in tutta la sua vita ed era stata costretta a sopportare tutto questo. E per un po’ ci era riuscita, cercando di evitare di guardare i morti in faccia, ma dopo qualche giorno non era più riuscita ad evitare di sognare la luce che abbandonava i loro occhi.
E si svegliava nel pieno della notte, trattenendosi dall’urlare, imperlata di sudore che le appiccicava al corpo pallido il pigiama pesante che indossava.
E così una notte aveva rubato una sigaretta dal pacchetto che il padre nascondeva nel suo ufficio, era uscita e aveva sperato che la nicotina mista all’erba la facesse sentire meglio, che le alleggerisse la mente.
Infatti da più o meno un centinaio d’anni l’uso della marijuana e delle sigarette era così largo da spingere il  governo ad unirle, così da creare un unico ed esplosivo prodotto, migliorato nel corso del tempo, che provocava negli umani leggerezza e felicità.
Gli anni erano passati, la società era progredita, la tecnologia si era sviluppata eppure i vizi dell’uomo non erano cambiati. Il fumo, l’alcool e le droghe erano sempre al centro dei bisogni umani, l’unica differenza era che non si moriva più di overdose, la medicina aveva trovato un rimedio. Ma le droghe si stavano evolvendo, diventando mano mano più pericolose e Scarlett credeva fermamente che presto la medicina non avrebbe più retto il loro passo.
Era sempre stata contraria a questi mezzi e aveva sempre creduto di riuscire a resistere. Ma non era stato così. Era crollata. Aveva ceduto. Era stata debole.
Si era dimostrata contraria quando il padre aveva cominciato a fumare, qualche anno dopo essere congedato, così lui aveva cominciato a nascondere i pacchetti. E Scarlett per un po’ aveva creduto che avesse smesso, fino a quando non ne aveva scoperto uno, ma non aveva detto niente. Aveva cominciato a controllarlo, sentendosi fiera di lui quando scopriva che non fumava per giorni –a volte settimane- interi.
Ma sapere il suo nascondiglio si era rivelato una maledizione.
E così anche la ragazza aveva cominciato a fumare.
Prese un’altra boccata, sentendo la nicotina e l’erba invaderle i polmoni e appropriarsi dei suoi pensieri, cancellando il viso dell’uomo che aveva operato quel giorno e che aveva perso quasi subito.
 
<< Dottoressa Evans, qui c’è un soldato rimasto coinvolto dall’esplosione di una bomba ad azoto >> urlò un’infermiera, avvicinandosi alla ragazza, che nel frattempo stava già visitando un altro paziente.
Quando aveva sentito quelle parole già aveva intuito come sarebbe andata a finire. Gli effetti di quel tipo di bombe erano devastanti e i soldati che ne venivano colpiti spesso arrivavano già morti all’ospedale.
 
Un’altra boccata di fumo, cercando disperatamente di bloccare quel flusso di pensieri.
L’erba aveva sempre funzionato. Perché ora era costretta a ricordare? Non voleva. Non sarebbe riuscita a sopportarlo.
 
 
Scarlett alzò il viso dal suo paziente, lasciandolo nelle mani del Dottor Johnson e si avvicinò all’infermiera, accorgendosi solo in quel momento di quanto la ragazza fosse pallida.
Si piegò sul lettino, rimanendo sorpresa dalla visione che le si presentò.
Non poteva crederci.   
 
 
Un altro tiro e un altro ancora. Avvertiva le sostanze penetrare nel corpo ed entrarle nel sangue, ma non riusciva a sentire il cambiamento che stava aspettando con ansia. Con un moto di stizza –e quasi paura per il ricordo- buttò fuori il fumo, creando una nuvoletta davanti ai suoi occhi grigi e facendoli pizzicare.
 
 
La mora si tirò indietro spaventata, prima di ripetersi mentalmente che era un medico ed era suo dovere visitare e curare quel paziente.
Si avvicinò di nuovo a lui, portandolo con velocità nella sala operatoria più vicina ed esaminando le ferite più in fretta possibile.
Un taglio all’addome che divideva quasi in due il corpo. La gamba brutalmente tagliata via e il braccio destro in una posizione innaturale, mentre quello sinistro era reciso fino alla spalla.
Il taglio dello stomaco permetteva di intravedere l’intestino.
 
 
Un conato di vomito la colpì, quando ricordò le ferite gravi e profonde che avevano deturpato quel corpo.
Ma la cosa peggiore era stata il viso.
 
 
Scarlett alzò lo sguardo sul viso del paziente. Era interamente coperto da sangue, un occhio era saltato via, portando con sé una parte della pelle del lato destro della faccia. Si vedevano le ossa.
 
 
Un altro conato di vomito.
Un altro tiro alla sua amata sigaretta.
 
 
Il sangue, fino a quel momento fermo grazie all’antidoto che il chirurgo suppose essergli stato somministrato sull’ambulanza, cominciò a scendere copiosamente, non permettendo alla ragazza di intervenire in alcun modo.
La mora se ne stava lì, a guardare il soldato con un’espressione sconvolta e dispiaciuta dipinta sul viso, mentre osservava la vita fuoriuscire da lui sottoforma di flussi ininterrotti di sangue.
 
 
Scarlett si lasciò cadere a terra, poggiando la schiena al muro grigio e triste appartenente all’edificio dietro di lei.
Fece un altro tiro, scottandosi la bocca. Era finita. La sigaretta – o meglio dire canna- era finita e non era riuscita ad impedirle di ricordare.
Le idee si accumularono una sull’altra, creando una gran confusione nella sua testa, ma nemmeno questo riuscì ad impedirle di ricordare.
Era arrivata la parte peggiore di quella giornata.
L’ammissione.
 
 
<< Ora del decesso 15:30 >> con voce tremante la mora annunciò l’ora della morte del ragazzo, dopo aver dato un’occhiata all’orologio posto sul muro della sala operatoria.
Peccato che quella non fosse la vera ora. Erano passati almeno trenta minuti dalla morte effettiva del soldato. Trenta minuti durante i quali Scarlett aveva fissato il corpo ed il viso del militare senza riuscire a muoversi. Senza controllare il battito, senza riuscire a parlare, senza provare a fare niente per aiutarlo.
Era sconvolta e il suo stomaco urlava di dover vomitare. Neanche un chirurgo poteva reggere tutto questo. O almeno lei non poteva.
Tenendosi una mano sulla pancia cadde a terra, rigettando l’intero pranzo nella vaschetta che avevano sempre sopra il mobile della sala operatoria.
Doveva uscire da lì. Immediatamente.
Si alzò, reggendosi a malapena sulle proprie gambe. Le girava la testa.
Avrebbe dovuto coprire il corpo, ma non riusciva nemmeno a pensare di rivolgere un altro sguardo al soldato. Avrebbe vomitato ancora.
Quando fu fuori dalla sala l’aria dei condizionatori la investì, schiaffeggiandole il viso pallido con forza.
Avvertì la morsa allo stomaco alleggerirsi e le gambe diventare più molli. Cadde nuovamente a terra e poggiò la testa alla porta della sala operatoria. Sentiva il cervello pulsarle sulle pareti del cranio. Chiuse gli occhi.
<< Scarlett stai bene? >> era la voce di Adam, riusciva a riconoscerla.
Provò a rispondere, cercando di dire che no, non stava affatto bene. Ma l’unica cosa che riuscì a fare fu borbottare qualche parola incomprensibile, mentre avvertiva l’aumentare dei battiti cardiaci, che riempivano le orecchie, permettendole di capire poco e niente.
Avvertì con poca chiarezza lo schiaffo dell’amico colpirle la guancia. Stava per svenire.
Non l’aveva mai provato prima, ma conosceva a memoria i sintomi.
Giramento di testa, debolezza degli arti, sensazione di vomito. Tutto corrispondeva alla perfezione.
<< E’ morto, l’ho ucciso. Ne ho ucciso un altro >> riuscì a sussurrare, mentre stringeva la testa tra le mani debole e pallide.
Avvertì la porta aprirsi, un gemito sorpreso di Adam e poi il nulla.
 
 
Era svenuta. Era svenuta come una ragazzina alle prime armi e si era svegliata un quarto d’ora dopo in una camera d’ospedale, costretta ad ascoltare delle rassicurazioni da parte dell’amico.
Rassicurazioni che non voleva sentire.
Sapeva perfettamente che era colpa sua. Sapeva che se avesse operato subito forse sarebbe riuscito a salvarlo. Se non fosse rimasta immobile, ferma ad osservare il corpo del soldato perdere sangue forse ora sarebbe ancora vivo. Se avesse somministrato dell’altro antidoto magari il sangue si sarebbe fermato per un altro paio d’ore e le avrebbe permesso di operarlo a dovere.
Ma non ci aveva pensato. Non era riuscita a ragionare quando aveva visto il corpo deturpato, il viso sfigurato.
Poggiò la testa al muro sospirando sconfitta. Quel giorno, come quasi tutta la settimana, aveva perso. Non era riuscita a salvare nessuno, non era riuscita a dare il suo contributo in nessun modo se non si considerasse il fatto che aveva eseguito un paio di operazioni corrette.
Un paio di soldati salvati su un centinaio su cui aveva messo le mani. Aveva lasciato morire almeno novantotto soldati in quelle settimane. Novantotto vite finite, stroncate dalla sua incompetenza.
A volte credeva che gli altri medici avessero ragione. Era troppo giovane. Diciannove anni erano troppo pochi ammesso che fosse una bambina prodigio.
Con il piede calpestò il mozzicone della sigaretta e chiuse gli occhi.
Sentiva di nuovo quella sensazione.
Giramenti di testa, debolezza degli arti, sensazione di vomito.
Si sentiva svenire, di nuovo. Ma non sarebbe successo, non due volte in una giornata sola.
Scarlett non era così debole.
Deglutendo aprì gli occhi e alzò la testa. Sapeva di non potersi alzare così rimase seduta, guardando dritto davanti a sé e aspettando che quelle sensazioni sparissero.
Sperò con tutta se stessa prima o poi sarebbe sparita anche quell’orribile consapevolezza di essere stata responsabile della morte di almeno novantotto soldati.
  

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Ecco a voi il quinto capitolo :) La storia sta prendendo forma e spero che gli sviluppi vi piacciano e che la storia non diventi scontata. Diciamo che questa è la mia maggiore paura, avere un finale scontato!
Comunque per ora vi auguro buona lettura e spero che qualcuno di voi mi faccia sentire la propria opinione in una recensione!

Capitolo 5
 
 
 
“But you see it's not me, it's not my family
In your head, in your head, they are fighting
With their tanks, and their bombs
And their bombs, and their guns
In your head, in your head they are cryin'
In your head, in your head, Zombie, Zombie
In your head, what's in your head Zombie”
 
 
 
 
15 Agosto 2323
 
Ivan si appoggiò al muro, rilassandosi leggermente. Erano due ore che si trovava fuori dall’ufficio di suo padre, aspettando con pazienza che arrivasse l’ora della sua udienza. Non ne poteva più. Era stato convocato per le tredici e puntualmente si era presentato, ma, diversamente dal solito, ogni persona che si trovava nella sala d’aspetto lo aveva superato sotto ordine del grande capo di stato.
La segretaria, il sottoufficiale, il tecnico, lo stratega e persino il postino.
Non era mai stato paziente e in quel momento si sentiva sorpassato, sensazione che non gli piaceva affatto.
Sbuffò, incrociando i piedi e intrecciando le braccia muscolose davanti al petto, coperto da una t-shirt bianca. L’estate sarebbe durata ancora per poco, la Russia era famosa per il suo clima freddo e il fatto che la città principale sorgesse ancora in superficie non aiutava la temperatura.
E questo Ivan non lo sopportava. Aveva sempre odiato il freddo, la neve, la pioggia, i venti ed ogni cosa che potesse abbassare anche se di poco la temperatura. Cosa davvero strana per un russo, ma non per un soldato che aveva passato la maggior parte della sua carriera militare in posti estremamente caldi. E così il caldo gli ricordava la guerra e di conseguenza lo adorava.
I lavori per la città sotterranea stavano procedendo velocemente e il ragazzo non faceva altro che sperare che sarebbero finiti presto.
Sarebbe stato più sicuro, più protetto, quasi impossibile da localizzare l’esatta posizione e soprattutto più caldo.
Ormai i palazzi di Mosca erano gli unici che si osservavano all’esterno, sulla superficie terrestre. Il deserto e la distruzione che circondava ogni cosa suggeriva ad Ivan l’idea di regressione.
Ma c’era da considerare il fatto che le città sotto terra fossero molto più difficili da attaccare.
E così gli scontri si svolgevano all’aperto, causando milioni di morti che cadevano sul campo e, la maggior parte delle volte, rimanevano lì come per simboleggiare il dolore e la sofferenza che aleggiava nell’aria terrestre.
Qualche volta l’ufficiale russo si era ritrovato a passeggiare tra le pianure desolate che ormai erano diventate le grandi città del mondo, aveva camminato tra centinaia di cadaveri, aveva sentito le urla di quando erano stati uccisi, i pianti delle famiglie. 
Ed aveva fatto finta di niente. Era passato oltre.
La porta dell’ufficio si aprì e il ragazzo si tirò su, raggiungendo una posizione composta. Le mani dietro la schiena unite tra di loro, la colonna vertebrale perfettamente dritta, la testa alta, le gambe tese, il petto all’infuori.
Una posizione naturale per Ivan, che osservò la segretaria del padre, Dashia Lebedev, passargli davanti e rivolgergli un piccolo sorriso.
L’ultima volta che aveva visto quella donna era stato il giorno che era tornato dalla sua prima sessione di allenamenti, erano passati anni e, nonostante rimanesse una bella donna, la russa li mostrava pienamente nelle rughe della pelle del viso.
<< Entra Ivan >> la voce profonda del padre lo distrasse dalla contemplazione dell’ormai matura donna.
Con passo sicuro e svelto l’ufficiale entrò nell’ufficio, guardandosi intorno. Se il padre l’aveva convocato poteva volere e pretendere un’unica cosa da lui: un’altra missione.
E Ivan non vedeva l’ora. Fremeva dalla voglia di partire, di uccidere, di essere un passo più vicino alla vittoria, di portare orgoglio al suo paese.
Si sedette sulla poltroncina di velluto blu davanti alla scrivania, continuando a fissare il padre negli occhi, vicino a quella cicatrice che si era procurato pochi anni prima a causa di un attentato.
Era poco visibile, ma con occhio attento si poteva notare la leggera e sottile strisca rosa che segnava il suo viso dalla guancia fino alla fronte. Era stato portato tardi in ospedale e i medici avevano fatto tutto il possibile per far rimarginare una ferita tanto profonda da aver scalfito lo zigomo destro.
<< Scusa per l’attesa >> proferì l’uomo, incrociando le mani e poggiando i gomiti sulla scrivania.
Sul tavolo di legno scuro stranamente erano sparsi in modo disordinato alcuni fogli, riempiti di disegni o di parole. Con una rapida occhiata Ivan stabilì che fossero stratagemmi, piani.
Stavano organizzando qualcosa, qualcosa di grosso e lui, come sempre sarebbe stato a capo di tutto ciò. Sorrise, reprimendo dentro di sé la voglia di urlargli in faccia quanto la sua visita fosse più importante di quella del postino e di qualunque altra persona fosse passata lì dentro.
Se c’era una persona che avrebbe risposto per le rime all’ufficiale Ivan Petrov quella era proprio suo padre, il grande e temibile Igor Petrov.
 << Per cosa mi hai chiamato? >> chiese il ragazzo, lasciandosi andare sulla poltrona.
Nonostante fosse abituato a mantenere una posizione corretta e precisa, amava stare comodo e quelle poltrone erano il massimo della comodità e voleva godersele a pieno.
<< Stiamo organizzando una spedizione nell’entroterra >> cominciò a spiegare, cercando tra quell’immenso disordine un foglio specifico che dopo pochi secondi trovò e sorridendo lo poggiò sul tavolo.
Gli occhi chiari del ragazzo vagarono sulle linee tracciate da una mano attenta e precisa, quasi sicuramente femminile. Il tratto degli uomini, la maggior parte delle volte, era più spesso. Probabilmente era stata Dashia a disegnare quelle linee.
Al centro del foglio era disegnato un quadrato con diversi nomi a indicare l’utilizzo che veniva fatto di quei posti. Per entrare in quella che il castano supponeva essere una base c’erano tre strade, due che dovevano essere le principali ed una terza che invece la penetrava lateralmente. Era così stretta che il ragazzo faticò a credere che fosse conosciuta a qualcuno.
<< E’ la cartina della base principale? >> chiese, avvicinandola e scrutandola attentamente per memorizzarne ogni dettaglio.
Il tempo che aveva passato in guerra gli era stato utile per riuscire ad allenare la sua memoria che, ormai, immagazzinava ogni immagine, ogni parola, ogni particolare e gli permetteva di essere un ottimo leader.
L’uomo davanti a lui scosse la testa, cambiando per un solo attimo espressione. Ivan aveva potuto vedere un lampo di irritazione attraversargli gli occhi di ghiaccio e una sensazione di gelo lo avvolse, facendolo sentire come imprigionato in una gabbia di ghiaccio, impossibilitato a scappare, senza altra alternativa se non morire congelato.
<< No, è la base di New Orleans, dove risiede il primo stratega, quasi l’unico a sapere dove la base principale si trovi >> in quel momento il ragazzo capì il motivo della piantina e di conseguenza della missione.
Senza che il padre aggiungesse altro, il castano afferrò il foglio, fissando con gli occhi, che in quel momento erano grigi, le linee tracciate e vedendo formarsi nella sua testa un piano d’azione.
Sul viso del giovane prese vita un sorriso.
È ora di tornare al lavoro.
 
 
 
L’ufficio di Mark Selling rappresentava tutto ciò che un uomo potesse desiderare.
Scrivania in legno di mogano, poltrone di vero e prezioso velluto, lampadario sfarzoso, tele d’autore, tappeti pregiati, computer di alta generazione, televisione a schermo piatto che ricopriva l’intera parete, dipinta di avana, in fronte alla scrivania, un transporter di ultima generazione.
In poche parole ogni comodità che un uomo potesse immaginare e, probabilmente, anche di più.
Ma Mark non era contento di tutto quello che aveva, non era contento perché sapeva che molte città, nonostante fossero state notevolmente decimate dalla guerra, morissero di fame. Non era contento perché voleva davvero aiutare gli abitanti del suo Paese, che si aspettavano dal presidente un minimo di contributi, ma non riusciva a lasciare andare quello che aveva.
Probabilmente Mark Selling era l’uomo più avido della terra e, sinceramente, anche lui faticava a credere che il popolo l’avesse davvero eletto presidente.
Dopo la sua richiesta di pace alla Russia alcuni anni prima e il categorico rifiuto, Mark si era rintanato nella sede principale dell’America –e del resto del mondo che combatteva contro la Russia- collocata a Roma e lasciava manovrare gli affari di stato ai suoi uomini, che considerava come pedine nelle sue mani.
A volte aveva davvero pensato di poter essere un bravo presidente, ma era stato costretto a ricredersi, dopo aver verificato che tutte le sue idee portassero la sconfitta dell’esercito americano.
Quindi si limitava a condurre una vita da re fin a quando ne aveva la possibilità. Prima o poi lo avrebbero privato del suo titolo, o peggio ucciso.
E quindi si limitava a vivere al meglio.
La porta dell’ufficio si aprì, lasciando entrare lo stesso presidente, seguito da una decina di magistrati e strateghi, pronti per la seduta di quel giorno. Mark Selling si sedette sulla sua comodissima poltrona, incrociando le mani sudate e poggiandole sulla pancia, leggermente pronunciata.
Con finto interesse ascoltò le parole del mandato del primo stratega che descriveva quanto tragica stesse diventando la situazione dell’America e le controbattute di uno dei magistrati.
Con un gesto lento il presidente si passò una mano tra i capelli biondi e corti, concentrandosi sulla consistenza di essi al posto di occuparsi di affari ben più importanti.
<< I nostri infiltrati ci hanno riferito che presto ci sarà una spedizione nella città di New Orleans. Non sono stati in grado di dirci il motivo né tantomeno il giorno preciso >>
Proferì l’addetto alla politica militare esterna. Detto in parole semplici: colui che si occupava di mantenere i contatti con chi era infiltrato nell’esercito russo.
Mark non capiva come i russi non si fossero ancora accorti del piccolo tatuaggio sul polso destro di due soldati. Una piccola ‘a’ in stampatello per far capire ai compatrioti l’appartenenza alla stessa nazione. Eppure i russi l’avevano considerata una coincidenza, sorvolando sul piccolo dettaglio.
Ma il presidente lo sapeva. Erano proprio i dettagli a cui si doveva prestare attenzione.
<< Dobbiamo essere preparati >> annunciò un uomo sulla cinquantina, osservando con attenzione i colleghi.
Mark Selling annuì, ma nessuno dei presenti gli prestò attenzione.
 
 
 
 
<< Domande? >> chiese il comandante, indossando la giacca mimetica.
Ivan osservò i suoi soldati preparasi e osservarlo di tanto in tanto.
<< Come entriamo nella città? >> chiese uno di loro, indossando con distrazione uno stivale.
Tutta l’attenzione del ragazzo, che doveva avere più o meno l’età di Petrov, era focalizzata sul suo ufficiale, sulle sue parole e sui suoi ordini.
Il castano prese la piantina, prelevata il giorno precedente dall’ufficio del padre e l’attaccò al muro, reggendola con una mano.
Aveva fatto delle ricerche e apportato alcune modifiche. Tra le linee già tracciate ne spiccava una così sottile da essere vista solo grazie al colore fosforescente che il ragazzo aveva utilizzato per colorarla.
La linea andava da un quadrato, che doveva rappresentare la loro base, fino ad un altro, che sicuramente rappresentava la base americana.
<< Passeremo per questo tunnel scoperto da poco. In un paio di giorni, se viaggiamo alla massima velocità, dovremmo arrivare ad una caverna che segna più o meno l’arrivo a New Orleans. Da lì alla città passano al massimo un paio di chilometri. Scenderemo dalle macchine e proseguiremo a piedi in modo da essere più silenziosi possibile, dopo di ché entreremo nella città dalla parte più remota di essa e raggiungeremo l’ospedale >> spigò, seguendo con le dita le linee mentre ne spiegava l’utilizzo.
<< Perché l’ospedale? >> chiese un altro, mentre chiudeva la giacca.
Oramai tutti erano pronti per partire. Le armi si trovavano già nel furgone ed ogni soldato era equipaggiato in tal modo da risultare quasi invincibile.
Durante quella spedizione avrebbero sperimentato la loro nuova arma che seguiva il principio della bomba ad azoto. Davvero letale.
Ivan sosteneva che quella pistola sarebbe presto diventata la sua preferita.
<< Non possiamo attaccare il primo stratega direttamente, in quanto è circondato da guardie del corpo che lo seguono ventiquattro ore su ventiquattro. Potremmo facilmente ucciderle, ma il capo non vuole spargimenti di sangue. Quindi andiamo all’ospedale, preleviamola figlia dello stratega e chiediamo informazioni in cambio della sua preziosa vita >> concluse il ragazzo con ironia.
Non condivideva affatto quel piano, avrebbe preferito catturare direttamente l’uomo e torturarlo fino a quando non avrebbe confessato, ma secondo suo padre avere nelle mani la vita della figlia avrebbe sortito effetti maggiori.
Ed Ivan era costretto ad obbedire.
Cacciò dalla tasca dei pantaloni una foto, che ritraeva una ragazza con il viso incorniciato da una cascata di capelli mori e mossi e gli occhi grigi che ti scrutavano sorridendo, nonostante le sue labbra non si muovessero.
La passò ai soldati, in modo che potessero osservarla e zittì con un’occhiataccia i commenti sulla sua bellezza. Non era certo per quello che andavano a prenderla.
<< Andiamo >> ordinò Ivan, dirigendosi verso le macchine.



 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 
Ecco il nuovo capitolo, non mi perdo in chiacchiere :) Spero che vi piaccia e che mi direte la vostra opinione in una recensione. buona lettura :)

 
Capitolo 6
 
 
“Staring at the bottom of your glass
Hoping one day you’ll make a dream last
But dreams come slow and they go so fast
You see her when you close your eyes
Maybe one day you’ll understand why
Everything you touch surely dies”

 

 
 
Scarlett aprì le porte dell’ospedale, sperando di trovarlo vuoto. Non voleva vedere nessun corpo deturpato quel giorno. Non sarebbe riuscita a sopportarlo.
Non si era ancora capacitata di essere riuscita ad alzarsi dal letto quella mattina. Si era vestita come un automa e nello stesso identico modo si era recata a lavoro, con la testa bassa pur di non dover rivolgere la parola o semplicemente lo sguardo a qualcuno.
Era passata sulle solite strade asfaltate e illuminate dai potenti lampioni che rischiaravano l’entroterra, aveva camminato tra gli stessi edifici, oltrepassando gli stessi palazzi. Normalmente avrebbe odiato quella monotonia, non le era mai piaciuta, ma quella mattina aveva sperato che continuasse per sempre pur di non arrivare a destinazione. Pur di non avere tra le mani, per l’ennesima volta, la vita di qualcuno. Una vita che avrebbe perso.
Ma era arrivata, aveva aperto le porte dell’ospedale e una brezza fresca l’aveva accolta, facendole attorcigliare lo stomaco e creando una fastidiosa sensazione di disgusto.
Cominciava ad odiare il suo lavoro. Aveva sempre dato tutta se stessa per poter fare il chirurgo, ma si stava accorgendo di quanto quel mestiere fosse maledetto, abbastanza da farti desiderare di sparire, abbastanza da farti stare male, da implorare Dio affinché la morte si fermasse e rimanere amareggiati quando essa sopraggiungeva ugualmente.
D’altronde cosa poteva aspettarsi da un Dio in cui non credeva?
La mora prese il suo camice e lo indossò, guardandosi intorno. Sembrava tranquillo. Nessuno che urlava o correva allarmato. Nessuno sporco di sangue. Nessun parente disperato.
Tutto era tranquillo.
La tipica giornata che Scarlett dedicava alle ricerche, a cercare di progredire ancora.
<< Oggi sarà una noia >> asserì una donna sulla trentina, parlando con uno degli amici.
L’uomo, leggermente più vecchio di lei, annuì, portandosi una mano tra i capelli biondo platino, palesemente tinti tanto quanto quelli dello stesso colore dell’altro medico.
La diciannovenne rimase in ascolto, infilando il suo misero Soft Touch 5 nella tasca del camice bianco. Si era rifiutata di comprare uno di quei telefoni fini e altamente tecnologici, trovandolo uno spreco di soldi. La maggior parte delle funzioni aggiunte erano inutili e Scarlett non amava gli sprechi.
<< C’è una specie di tregua, nessun paziente, o almeno così si pensa >> rispose l’uomo, poggiandosi sul bancone ed assumendo un espressione delusa.
La stessa espressione che si dipinse sul volto della donna, diametralmente opposta all’orrore e al disgusto che distorsero i bellissimi lineamenti della mora, incredula di aver davvero sentito quelle parole.
Con un moto di stizza verso quella conversazione si allontanò dai due, avvicinandosi ad Adam, appena comparso, che parlava animatamente con una delle infermiere.
Aveva bisogno di una faccia amica in quel posto di pazzi.
<< Scarlett >> esclamò lui, sollevato di vederla al lavoro, ma allo stesso tempo in disaccordo con quella scelta.
Sapeva quanto la ragazza fosse forte, ma, allo stesso modo, era a conoscenza di quello che stava subendo in quei giorni. Le veloci morti di più e più pazienti dovevano essere state devastante e, nonostante tutti le stessero affrontando, Adam aveva sempre provato una profonda apprensione nei confronti dell’amica sensibile.
Le braccia muscolose del biondo circondarono i fianchi della ragazza, stringendola a sé e ignorando l’infermiera che continuava a farneticare sull’orribile notte che aveva appena passato.
La stretta provocò nella diciannovenne una risata genuina e chiuse gli occhi, celando il grigio delle iridi. Non abbracciava così Adam da molto tempo e doveva ammettere che le era mancato, nonostante non fosse mai stata una ragazza eccessivamente affettuosa.
<< Hai qualcosa per me? >> chiese, tirando le labbra in un sorriso rilassato.
Il ragazzo annuì, prendendo una cartellina. Presto sarebbe dovuto passare a fare il prelievo al paziente della stanza cinquantatre e, ricordandosi che era stata proprio la ragazza a salvargli la vita, decise di concederlo a lei. Vedere qualcuno che stava bene per merito suo le avrebbe fatto decisamente bene.
Con un gesto veloce Scarlett afferrò la cartellina rossa e, dopo aver salutato distrattamente l’amico, si diresse verso la stanza di Tom White.
Ricordava quel ragazzo e le avrebbe fatto piacere vederlo di nuovo.
Quando la mora entrò nella stanza il ragazzo, che aveva visto l’ultima volta due anni prima, era seduto sul lettino e le rivolse un sorriso.
<< Dottoressa che piacere rivederla >> affermò, rivolgendole scherzosamente del lei.
Scarlett sorrise, avvicinandosi al lettino e prendendo una siringa per il prelievo.
<< Sono contenta che sei di buon umore >> rispose, sedendosi su una delle sedie girevoli.
Prese il braccio sinistro del ventiduenne e inserì l’ago, prendendo perfettamente la vena e cominciando a riempire un flacone. Da lì avrebbe visto tutto quello che le serviva. Grazie alle recenti scoperte un campione di sangue permetteva di vedere ogni cosa che accadeva nel corpo del paziente. Ogni malattia, ogni mutazione, ogni filamento del DNA e ogni gene che voleva controllare.
<< Non mi chiedi come va la vita senza il braccio destro? >> disse ironico, causando un sorriso divertito sul viso della ragazza.
Un sorriso che le fece riacquistare la bellezza genuina che in quei giorni stava perdendo. Le profonde occhiaie e l’incarnato innaturalmente pallino erano un segnale di quanto fosse sotto stress e Tom aveva tutta l’intenzione di farla sentire meglio.
Scarlett non avrebbe voluto toccare quel tasto, credendo che il ragazzo ne soffrisse, ed era rimasta sorprendentemente colpita dall’autoironia e dalla leggerezza del rossiccio, che non poteva far a meno di sorridere.
<< Come va la vita senza il braccio destro? >> ripeté le sue stesse parole, tamponando il sangue che era fuoriuscito fino a farlo sparire.
<< Beh, devo dire che mi sarei aspettato molto peggio. La vita non è tanto male fuori dall’esercito. Mia madre e la mia ragazza sono decisamente contente di vedermi vivo >>
<< Hai una ragazza? >> chiese incuriosita.
<< Sì, si chiama Jessica …. >> prima che Tom potesse finire la frase, il suo corpo fu scosso da spasmi e, senza poter fare niente per evitarlo, cadde sul lettino, continuando a muoversi senza controllo.
Gli occhi  verdi del ragazzo si girarono all’indietro, allarmando Scarlett che si avvicinò al corpo, cercando di tenerlo fermo al lettino.
Con la mano sinistra riempì una siringa con del liquido trasparente, per fermare le convulsioni.
Poco dopo il ragazzo smise di agitarsi e Scarlett gli attaccò un respiratore per aiutarlo. Collegò i vari macchinari per tenerlo sotto controllo. Quando l’aveva rilasciato due anni prima era perfettamente in salute e nelle visite successive era risultato perfetto.
Appena collegò le apparecchiature al corpo del ragazzo un bip fastidioso, ma rassicurante risuonò nella stanza. La pressione era buona e il battito del cuore era tornato normale.
Dubitava che l’attacco avrebbe causato dei danni tanto era stato breve, ma avrebbe ugualmente sottoposto Tom ad una radiografia tanto per essere tranquilla.
La porta della stanza si aprì rivelando un’infermiera.
<< Tieni d’occhio la pressione e i battiti, se ha un attacco inietta dieci mm di paritolo e chiamami immediatamente >>
Con queste parole Scarlett uscì dalla stanza. Aveva cose più importanti da fare.
 
 
 
 
 
La mora fece scattare un’altra volta il microscopio, cercando disperatamente di scorgere qualcosa di anomalo nelle tre gocce di sangue che aveva poggiato sul vetrino dello strumento di ultima generazione.
Lo aveva comprato giusto una settimana prima ed era la terza volta che lo utilizzava. Nonostante l’alta precisione e definizione il campione di sangue sembrava perfetto. Nessuna mutazione, nessuna malattia, niente.
Provò a diluirlo nell’acqua, aggiungendo una sola goccia. Il sangue cominciò a ribollire, come mosso da una serie di reazioni a catena. Scarlett premette un paio di volte il bottone per scattare le foto. Le sarebbero tornate utili dopo.
Con un piccolo gesto, fece scivolare un altro piano del microscopio passando ad analizzare il DNA. Altre bolle si susseguirono sulla piccola goccia cremisi, mentre il DNA di una delle cellule scompariva a pezzi, eliminando alcuni geni.
Fece altre foto, appuntando qualche parola sul quadernino che mise dentro la tasca del camice bianco. Inviò le foto sulla pennetta con cui avrebbe potuto studiarle.
Sospirò, appoggiando la schiena al mobile dietro di lei, passando in rassegna alle possibili soluzioni per il problema che era insorto nel copro e soprattutto nel sangue del ragazzo.
 
 
 
 
 
Ivan spense il motore del grande SUV, parcheggiandolo nella grotta prestabilita. Era un posto perfetto. Nascosto, vicino alla meta e spazioso. Dopo essere sceso dalla macchina si accorse però che quella caverna era sicuramente abitata o che, perlomeno, qualcuno doveva passarci giorni interi. Infatti un sistema idraulico, termico ed elettrico permetteva di avere i beni primari e un materasso era poggiato accanto ad una delle pareti, coperto da un piumone grigio.
Sarebbe volentieri rimasto lì ad aspettare  chiunque abitasse in quella caverna, ma non aveva tempo. Dovevano sbrigarsi, prima che la notizia del loro arrivo si dilagasse abbastanza da permettere alle forze dell’ordine di creargli problemi.
<< Veloci >> urlò, imboccando il tunnel stretto che portava fino alla città. Se avessero proseguito a passo spedito  sarebbero arrivati a New Orleans in poco più di un quarto d’ora.
Tenendo stretto il fucile e muovendo gli occhi vigili da una parte all’altra del tunnel Ivan guidò la sua squadra, sentendo l’adrenalina divulgarsi dentro di sé. Ogni cellula nervosa lo invitava ad andare più veloce, a raggiungere il prima possibile la destinazione, così avrebbe potuto imbracciare di nuovo il suo amato fucile. Avrebbe potuto strappare via altre vite, senza preoccuparsi minimamente di provare pietà.
Dopotutto erano americani.
Il castano sorrise, scorgendo davanti a sé la luce artificiale che illuminava la città sotterranea.
Che il gioco abbia inizio.
 
 
 
 
Con un colpo deciso della spalla destra Ivan aprì la porta dell’ospedale della città.
Erano arrivati fin lì quasi indisturbati, a parte un paio di persone che avevano cercato di fermarli e che, come prevedibile, erano finiti a terra con gli occhi vitrei e inespressivi ed una pallottola a coronare quella visione che il ragazzo trovava magnifica.
Nella stanza principale del moderno edificio un urlo generale si disperse tra i dipendenti alla vista di una ventina di ragazzi, visibilmente non americani, entrati in tuta mimetica ed equipaggiati con fucili alti quanto la maggior parte delle donne rinchiusa lì.
Il panico era aumentato quando il rumore sordo di uno sparo era rimbombato e una donna sulla cinquantina era caduta a terra con un proiettile in fronte, senza un reale motivo.
<< Cercatela in tutte le stanze di tutti i piani. Vi voglio qui tra dieci minuti. Uccidete chiunque vi dia fastidio e vi impedisca di fare il vostro lavoro >> ordinò in russo il castano, distendendo le labbra carnose in un sorriso, quando, al suono della sua voce, espressioni di puro odio, disprezzo e paura si dipinsero sul volto di ogni persona presente nella stanza.
I suoi soldati annuirono, disperdendosi per l’ospedale e sparando a chiunque, anche se per sbaglio, si trovasse sulla loro strada.
Ivan setacciò il primo piano, aprendo con forza ogni porta ed evitando di sparare. Non che gli dispiacesse far fuori altre persone, semplicemente non voleva perdere altro tempo. La missione doveva essere veloce e pulita, ma quello che avevano fatto fino a quel momento di pulito non aveva proprio niente. Era rosso, sporco di sangue. Nero, sporco di sensi di colpa.
Suo padre si sarebbe arrabbiato, ma Ivan decise di ignorare quel piccolo particolare, rimandando l’esame di coscienza a dopo aver catturato la ragazza.
Un viso di incarnato chiaro, incorniciato da una lunga cascata di capelli mori e mossi ed illuminato da dei grandi occhi grigi era apparso nella sua testa, ricordandogli l’aspetto della sua prossima vittima.
Il castano girò il viso nello stesso momento in cui una testa scura comparve davanti ad una porta.
Una rapida occhiata alla ragazza gli fece capire che era la sua preda. Con un sorriso sardonico e una camminata veloce si avvicinò a lei, spingendola nuovamente dentro la stanza. Si chiuse la porta alle spalle.
Si guardò intorno giungendo alla conclusione che quello fosse un laboratorio davvero ben attrezzato. Il suono di qualcosa che cadeva a terra attirò l’attenzione del militare che rivolse il suo sguardo alla ragazza.
Sedere a terra, gambe allungate, testa bassa e la mano destra tra i capelli che premeva contro la ferita che doveva essersi procurata sbattendo contro il tavolo.
Dopo poco effettivamente la mora guardò la mano sporca del suo sangue e emise un gemito di sorpresa e di dolore.
I passi del castano verso di lei sembrarono risvegliarla da uno stato di torpore e ricordarle che non era sola e soprattutto che la sua compagnia non era delle migliori.
Quando alzò lo sguardo, fattosi leggermente più scuro, gli occhi verdi scintillanti di Ivan furono pronti ad accoglierlo, facendo rabbrividire il medico e sghignazzare il ragazzo.
Facendo pressione sugli avambracci la ragazza cercò di rialzarsi e le risultò decisamente più facile quando le mano forti del soldato l’aiutarono nell’impresa. Ivan le bloccò le mani dietro la schiena, facendole contrarre i muscoli e provocandole un leggero dolore che Scarlett represse con un grugnito.
<< Ciao dolcezza >> sputò lui con cattiveria.
Il suo tono era in netto contrasto con le parole che aveva appena utilizzato. Parole dolci e quasi affettuose. Tono rude e disgustato.
La mora non rispose, ma con un calcio ben assestato, almeno secondo lei, colpì la caviglia del castano, la cui unica reazione fu una risatina cupa. Il corpo muscoloso infatti non si mosse di un centimetro. Il petto largo del ragazzo era ancora premuto contro la sua schiena tesa e le mani imprigionate a stretto contatto con la giacca militare che copriva il torace di Ivan.
<< Sei ufficialmente stata rapita dal governo russo >> ironizzò, mettendo fine ai movimenti spasmodici della ragazza.
La colpì con forza misurata sulla nuca, abbastanza piano da non ucciderla, ma abbastanza forte da farla svenire.
Il corpo minuto e senza conoscenza della giovane si accasciò tra le braccia del soldato, che, reprimendo un moto di repulsione per il corpo dell’americana, la prese in braccio.
Che gioco da ragazzi.  

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Scusate se non ho risposto alle vostre recensioni, ma lo farò il prima possibile! Vi ringrazio davvero e vi auguro una buona lettura :) Spero che vi piaccia :)
Capitolo 7
 
 
 
“And i can’t change
Even if i try
Even if I wanted too
My love, my love, my love
She keeps me warm”
 
 
 
La testa le girava, mandando la sua mente in confusione. Aveva gli occhi chiusi e non riusciva a trovare i giusti muscoli per aprirli. Non trovava la forza per sbattere le palpebre e questo la spaventava.
L’odore fresco le colpì le narici, provocandole un leggero fastidio. Non era cattivo, ma contribuiva solamente a farle scoppiare la testa. Il suo cervello sembrava battere contro la scatola cranica senza darle un attimo di pace.
Il rumore di una porta che sbatteva la fece sussultare e si rese immediatamente conto che la superficie dove era distesa era morbida e liscia. Doveva essere un materasso.
L’istinto le fece portare le mani alla testa, o meglio, cercò di portarsi le mani alla testa, ma il materiale duro che le circondava non glielo permise.
Si accorse solo allora della posizione innaturale in cui si trovava, le braccia costrette dietro la schiena e le caviglie legate tra di loro. I suoi muscoli urlavano pietà.
Con un grande sforzo riuscì ad aprire i grandi occhi grigi, che si ritrovarono a fissare il bianco candido delle lenzuola sopra le quali si trovava. Alcune ciocche di capelli neri, sfibrati e sporchi, le ricadevano sul viso, solleticandole la pelle.
Le scene del giorno precedente le si presentarono davanti come flashback veloci ed inarrestabili. La scoperta delle reazioni sul sangue, gli spari, l’incontro con il generale russo, il suo rapimento, il buio.
Era svenuta ed ora si trovava legata come un salame su un letto di una stanza che non aveva mai visto.
Certamente non si aspettava di essere poggiata su una superficie così delicata, credeva più che si sarebbe trovata in uno scantinato pieno di polvere e senza acqua e cibo.
Non che questo la rassicurasse più del dovuto. Scarlett non era stupida ed era pienamente consapevole di trovarsi sotto il controllo del governo russo. Il motivo poi le lampeggiava davanti agli occhi come un’insegna neon. Suo padre era uno dei pochi che era a conoscenza di dove si trovasse la base e non ci voleva un genio –e lei lo era- per capire che l’avevano rapita per ricattare il povero paparino.
Peccato che non avessero ancora fatto i conti con la coscienza del generale congedato Evans, avrebbe venduto addirittura sua figlia per lo stato e certamente Scarlett –nonostante fosse anche lei a conoscenza del segreto- avrebbe tenuto la bocca chiusa.
Portava rispetto a suo padre e lo portava anche verso il suo paese.
Un colpo di tosse le fece alzare lo sguardo che si scontrò subito con una figura possente, alta e decisamente ben piazzata. Gli occhi grigi della mora percorsero la mole del corpo fino ad incontrare l’ultimo viso che avrebbe voluto vedere in quel momento. L’ultima faccia che aveva visto prima di svenire.
I capelli castani erano spettinati, gli occhi chiari –in quel momento le sembravano celesti con qualche pagliuzza verde che li illuminava- la fissavano divertiti e a sottolineare quell’espressione strafottente le sue labbra piene erano piegate in un sorriso di schermo.
<< Buongiorno principessa >> la salutò, avvicinandosi al letto.
Ancora una volta il tono della sua voce era in netto disaccordo con le parole pronunciate. La ragazza aggrottò le sopracciglia, piegando la bocca in un’espressione disgustata. Rimase in silenzio.
<< Dormi da almeno ventiquattro ore ormai, credevo non ti saresti più svegliata –Scarlett rimase ancora una volta in silenzio- Ti do ufficialmente il benvenuto in Russia, più precisamente nella camera del sottoscritto >> il soldato allargò le braccia per enfatizzare il suo discorso e sorrise maggiormente quando avvertì un leggero sbuffo provenire dalle labbra carnose della sua prigioniera.
La voce del ragazzo era calma e decisamente non adatta alla situazione. Sul suo letto c’era un ragazza legata e certamente non per soddisfare i suoi desideri sessuali.
Scarlett cercò di muoversi per allentare le corde ai piedi o quantomeno per allontanare il suo dalla superficie liscia del materasso che aveva appena scoperto appartenere a quel ragazzo che continuava a guardarla divertito al suo comportamento.
La mora si sentì improvvisamente sollevata ed un piccolo gridolino le fuoriuscì dalle labbra quando avvertì le grandi mani del soldato sulla sua pancia. Un secondo dopo si ritrovò seduta con la schiena poggiata alla spalliera del letto e le gambe distese. Era ancora legata ma quella posizione era di gran lunga più comoda della recedente.
Calcolò in maniera veloce le misure della stanza, il tempo che avrebbe impiegato a percorrerle e le varie vie d’uscita. Alcune volte era davvero comodo avere un quoziente intellettivo superiore alla media, ma doveva ammettere che in quella situazione, legata com’era, non sarebbe servito a granché.
<< Per quanto fosse divertente vederti agitata in quel modo, e credimi lo era, sono qui perché ho bisogno di alcune informazione che tu, principessa, puoi darmi >> commentò con voce calma e melliflua, che le fece venire i brividi.
Aveva una lista di cose da fare prima di morire, ma non ricordava che tra di esse ci fosse ‘essere rapita e torturata da un dannatissimo russo’. No decisamente no.
<< Beh, puoi scordarti le tue risposte >> ribatté con voce ferma, mentre dentro di lei si scatenava un turbinio di emozioni che non riusciva a calmare.
Fortunatamente era sempre stata brava a mostrare agli altri solo quello che lei voleva che vedessero e, grazie al suo cervello sovrasviluppato, sapeva sempre cosa dire.
Peccato che proprio in quel momento avesse deciso di non ascoltarlo.
La risata realmente divertita del soldato ruppe il silenzio teso che aleggiava nella stanza.
<< Mi fa piacere di solito avere degli… -pensò alla parola giusta per definirla- … ostaggi coraggiosi, ma ho poco tempo per portare quelle informazioni a mio padre e non mi piace l’idea che qualcun altro possa giocare con te >> un sorriso leggermente più diabolico.
Stavolta sorrise anche lei, occultando il timore che le aleggiava dentro lo stomaco.
<< Beh, io non voglio essere il tuo giocattolo >>
<< Non credo che avrai altra scelta >>
<< Scommettiamo? >> chiese retoricamente, appoggiandosi con tutto il suo peso alla spalliera e rilassando finalmente i muscoli.
Non avrebbe dovuto sfidarlo in quel modo, Scarlett lo sapeva, ma il suo corpo e la sua bocca agivano senza che le idee fossero prima passate anche solo per l’anticamera del suo cervello. La mora era fermamente convinta che in quelle situazione non avrebbe dovuto seguire la ragione, ma l’istinto ed era esattamente quello che stava facendo.
 
 
 
 
Ivan poggiò lo sguardo sulla figura rilassata della ragazza stesa sul letto e si ritrovò a sorridere ancora quando gli sembrò lampante quanto si sentisse scomoda in quella posizione. Le braccia erano piegate in maniera troppo innaturale per permetterle di rilassarsi e le gambe erano ferme da troppo tempo per non formicolarle.
Decise di ignorare l’ultima sua affermazione e l’intera conversazione che avevano avuto fino a quel momento. Era il momento di passare all’interrogatorio. Tra nemmeno due ore doveva far rapporto a suo padre e sinceramente avrebbe voluto divertirsi come si deve con quella moretta, sembrava sapere cosa faceva.
<< Sai dov’è la base principale dell’America? >> chiese, cambiando il tono di voce.
Era calmo, ma nascondeva una velata minaccia non indifferente.
Non collaborare e troverò un modo più facile per farti parlare.
Il fatto che fosse una donna lo fregava. Se il figlio di quel maledetto generale fosse stato un maschio per il soldato sarebbe stato decisamente più facile estorcergli informazioni. Ma anche lui aveva dei principi ed ogni sua regola gli impediva di fare del male alle donne, nonostante questa in particolare fosse americana.
Sempre una donna era.
Durante la guerra era costretto ad uccidere anche donne e bambini, ovvio, ma torturare così, a sangue freddo, era tutta un’altra storia.
La ragazza puntò gli grandi davanti a sé, comportandosi come se non esistesse.
Ivan era famoso per la sua poca pazienza e in quel momento stava per dare una dimostrazione di quanto questo fosse vero.
Con un sospiro –anche se in realtà non era così contrariato di arrivare alle maniere forti- cacciò dalla tasca un piccolo coltellino e si avvicinò alla ragazza.
<< Scarlett, giusto? –chiese ironicamente conferma- Non mi piacerebbe deturpare un così bel viso, ma non mi stai lasciando altra scelta >> le stava parlando come si fa con una ritardata mentale e Scarlett non era certo disposta ad accettarlo.
Dopo qualche secondo di silenzio e qualche veloce calcolo a mente riuscì finalmente a muoversi.
Stava per morire ugualmente. Tanto valeva lottare e provare a vivere.
Stendendosi sul letto rotolò fino a cadere a terra sotto lo sguardo sbigottito del soldato. Si tirò a sedere, spingendosi con i muscoli delle gambe finché non toccò con schiena al muro dietro di sé. La sua fortuna era stato il pavimento liscio della stanza. La sua sfortuna quella di avere i polsi e le gambe legate.
Nonostante capì subito quanto il suo tentativo di fuga fosse stupido non riuscì a fermarsi prima, mossa da quella speranza che le divorava l’intestino non permettendole di pensare lucidamente.
Sul viso di Ivan comparve un sorrisino bastardo, mentre, molto lentamente, si dirigeva alla porta, bloccandola con una sola mano ed impedendole definitivamente di andare via, sfuggendo all’inferno che sarebbe stato dal momento in cui avrebbe cominciato le torture.
Peccato doverlo fare.
Pensò il ragazzo senza davvero crederlo.
Con il braccio destro la sollevò da terra e la buttò nuovamente sul letto, facendola rimbalzare e causando un gemito di rassegnazione.
O almeno così lui pensava.
Scarlett era nuovamente con la faccia contro il materasso e il capelli neri sparsi sul viso, in netto contrasto con il bianco candido delle sue lenzuola.
Ivan la osservò per qualche secondo. Certamente era diversa dal prototipo di ragazza russa. Dopotutto nemmeno lui rappresentava il tipico russo, così come suo padre. Oltre loro Ivan aveva quasi sempre incontrato in Russia persone dai colori scuri, con occhi completamente diversi da quelli dell’americana che aveva davanti.
Un grigio che non aveva mai incontrato, completamente differente dal suo. Più brillante, più profondo, più vivo.
Non sapeva ancora perché l’avesse portata nella sua stanza e si fosse imposto per interrogarla lui stesso, forse semplicemente perché era quello che l’istinto gli suggeriva di fare.
E più andava avanti con l’interrogatorio più si rendeva conto di quanto fosse stato previdente. Quella ragazza era testarda come un mulo e certamente i suoi metodi erano gli unici che avrebbero potuto farla parlare.
<< Bene Scarlett, ora basta giocare. Cosa ne dici di darmi qualche risposta? >> chiese ironicamente, accarezzando con voce dolce il suo nome e parlandole come si parla ad un bambino.
Come se lei non riuscisse a capire.
La ragazza sbuffò, ma lui si rese conto che voleva solo nascondere il brivido di paura che l’aveva attraversata al suono della sua voce. Sorrise.
Era ora di cominciare l’interrogatorio.
<< Primo: hai delle sorelle o fratelli >>
La mora serrò le labbra come a fargli capire che non avrebbe risposto neanche alla più stupida delle domande.
Ivan sbuffò. Quella ragazza era troppo testarda. Con un movimento veloce scivolò fino a lei, arrivando a sfiorare le sue dita, che subito ritrasse come se fosse stata scottata.
Poggiò con delicatezza la lama del coltello sul suo viso e lo accarezzò con gentilezza senza lasciare nessun segno, ma facendola rabbrividire.
<< Ti conviene collaborare >>
 
 
 
 
Il respiro le si bloccò in gola quando la fredda lama del coltello si posò sulla sua pelle. Stava per farle male, ne era perfettamente consapevole e lo era anche del fatto che non avrebbe resistito molto.
Era sempre stata abituata ad essere coraggiosa ed aveva sempre pensato di riuscirci davvero, ma non si era mai trovata in una situazione del genere e certamente non credeva che ci sarebbe mai stata.
Solo ora si accorgeva di quanto vigliacca fosse, solo con un coltello a stretto contatto sulla pelle poteva percepire quanto si sarebbe spinta prima di rivelare tutto e sapeva la risposta: avrebbe resistito poco.
Suo padre era un soldato –o meglio lo era stato- ma lei no.
<< Trovati le tue risposte da solo >> sibilò, cercando di trattenere l’affermazione che voleva disperatamente uscire dalle sue labbra.
<< Lo hai chiesto tu, principessa >>
In meno di un secondo si trovò stesa sul letto, il camice aperto e il coltello alla gola. Premette contro il mento, lasciando un lieve segno rosso e proseguì sul viso, tagliando la pelle chiara come fosse carta.
Scarlett contrasse la mascella per impedirsi di urlare o di piangere o di rispondere.
Doveva rimanere in silenzio, era l’unica soluzione.
Tanto anche se dovessi rispondergli morirei lo stesso.
Lo ripeteva come se fosse un karma e se ascoltandolo centinaia di volte dalla voce della sua mente convincesse il suo corpo a sopportare, a soffrire in silenzio e la bocca a rimanere chiusa.
La fonte del dolore era il cervello, lo sapeva. Ed il suo funzionava anche bene, ma in quel momento era in confusione.
Dannazione.
Era un genio, doveva essere in grado di mantenere la calma e stava fallendo miseramente.
Mentre il coltello proseguiva sulla sua guancia, lasciando un taglio superficiale che si sarebbe rimarginato presto e che non avrebbe lasciato cicatrici, Scarlett respirò profondamente, riordinando le idee.
Tutti i pezzi della sua mente tornarono al loro posto e il suo cervello urlava una sola cosa: menti.
La soluzione era semplice ed era talmente veloce ed ovvia che lei non l’aveva notata subito. Mentire quando ce n’era bisogno e dire la verità quando poteva farlo in modo che lui non si sarebbe insospettito.
Dopotutto era sempre stata un’ottima bugiarda.
<< Sono figlia unica >> urlò, dando finalmente voce ai suoi pensieri.
L’avanzata del coltello sul suo viso si fermò ed immediatamente avvertì la mancanza del freddo della lama e il caldo del sangue che sporcava di rosso cremisi la pelle innaturalmente bianca della mora.
Gli occhi si chiusero cercando di non pensare al dolore.
Sentì la consistenza di un fazzoletto pulirle la guancia, senza impedire al sangue di uscire e di sporcarla nuovamente.
<< Brava principessa >> nuovamente quel nomignolo che le fece arricciare le labbra.
Lo odiava, la faceva sentire fragile e lei non poteva esserlo, doveva combattere.
<< Continuiamo con un’altra domanda facile –la guardò incuriosito- questa è personale. Quanti anni hai? >>
<< Diciannove >>
Il ragazzo fischiò.
<< E fai il chirurgo? >> chiese stupito.
<< Ho un quoziente intellettivo sopra la media >> disse a testa alta.
Le sembrava assurdo affrontare una conversazione del genere. Non doveva torturarla per scoprire informazioni più importanti della sua laurea in medicina?
<< Sai dov’è la base principale dell’America? >> chiese ancora, utilizzando un tono più deciso.
Scarlett aprì la bocca per rispondere, ma un suono sordo la fece stare in silenzio.
Il telefono del soldato squillò.
<< Pronto? >>
<< Arrivo >> chiuse la comunicazione e si alzò dal letto.
<< Sei stata brava principessa, noi ci vediamo dopo >> dai jeans estrasse una chiave e fece girare Scarlett.
La ragazza sentì un rumore metallico ed avvertì un sollievo immediato ai polsi.
<< Non scappare principessa >>

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
 
 
“Days like these lead to
Nights like this lead to
Love like ours
You light the spark in my bonfire heart
People like us, we don't need that much
Just someone that starts,
Starts the spark in our bonfire hearts”



 
 
Scarlett sbuffò accarezzandosi I polsi quasi con violenza e facendosi male di conseguenza. Finalmente il suo cervello aveva cominciato a funzionare a dovere, ricordandole ogni errore che aveva fatto da quando aveva aperto gli occhi fino a quel momento.
E ne aveva fatti tanti.
I suoi occhi esaminarono le linee viola che segnavano i suoi polsi ed una smorfia di disgusto si dipinse sul suo viso al ricordo delle manette che ora giacevano sul letto a qualche centimetro dalla sua gamba. Non poteva credere di essere stata legata come un animale, torturata ed umiliata per una stupida guerra.
L’umiliazione era il sentimento che prevaleva in lei e la sensazione che bruciava maggiormente. Più del dolore dei lividi o di quello del taglio al viso.
Come se lo avesse appena ricordato si portò una mano al viso, entrando in contatto con il sangue ancora fresco che le sporcava di rosso la guancia di porcellana. Si accarezzò la ferita, stringendo i denti e indurendo la mascella per impedirsi di emettere un singolo gemito di dolore. Era sola, certo, ma non voleva mostrarsi debole nemmeno a se stessa.
Non sembrava grave, Scarlett sapeva che si sarebbe rimarginata presto.
Portando le gambe vicine al petto tentò di slacciare la corda che legava insieme le sue caviglie. Riuscì finalmente a liberare anche quest’ultime sentendosi finalmente un po’ più libera.
Osservò il suo abbigliamento: indossava ancora la divisa da medico, sgualcita e il camice sporco che aveva perso il suo candore.
 Ricordò improvvisamente le parole che il russo aveva pronunciato prima di scomparire.
‘Non scappare principessa’. Ma la stava prendendo in giro? Era così divertente? Sembrava davvero così stupida?
Ok, si era comportata come una ragazzina senza cervello quando aveva provato a scappare da quella situazione, ma non era scema. Era consapevole delle guardie che, sicuramente, erano appostate fuori quella porta e nel caso non ci fossero state si trovava sicuramente in una struttura di massima sicurezza dalla quale sarebbe stato impossibile scappare.
Come una fortezza che la racchiudeva tra le sue mura al pari del peggiore tra i peccatori e che non le permetteva di scappare via, di tornare da suo padre, alla sua vita.
Molto probabilmente si trovava a Mosca, unica città che era ancora in superficie, dettaglio che la rendeva ancora più nervosa e dava a quella situazione una nota terrificante non insignificante.
Facendosi trasportare dal flusso continuo dei suoi pensieri, si lasciò cadere sul letto, immergendosi con la testa nel morbido cuscino e permettendo ai suoi capelli rovinati di adagiarsi sul suo viso chiaro, che, oltre l’espressione imperturbabile che portava, racchiudeva timore ed incertezza.
 
 
 
 
 
 
 
Un traditore? Come era possibile che un traditore si celasse nelle sue schiere?
Ivan non poteva crederci eppure la rivolta all’interno della base non era altro che un evidente segno della corruzione dei suoi soldati.
Era stato un incosciente a fidarsi ciecamente di ognuno di loro, credendo che fossero militari scelti che meritavano la sua fiducia.
Ed ecco il risultato: dopo che finalmente erano riusciti a prelevare la ragazza quei bastardi si erano rivoltati, causando confusione e suscitando paura negli abitanti della grande base di Mosca.
Ivan correva tra i corridoi con un unico obbiettivo in mente: prendere la sua arma.
Dopo aver afferrato la sua amata pistola e quindi aver eliminato un punto dalla sua lista, focalizzò l’attenzione sul suo passo successivo.
Voleva trovare ogni uomo che aveva osato tradirlo e farlo soffrire al limite del possibile finché non lo avesse pregato di ucciderlo. E avrebbe goduto nel guardare il loro dolore.
Il rumore di più spari, proveniente dal corridoio della sua camera, attirò la sua attenzione.
Sicuramente gli americani –perché era certo che fossero americani- erano arrivati alla sua camera per riprendersi la ragazza e riportarla a quello che probabilmente era il loro capo.
La rabbia si dilagò all’interno del suo corpo, corrodendo i suoi organi interni, trasformando il ragazzo in una macchina da guerra inarrestabile.
Non si sarebbe fermato fino a quando non avrebbe avuto tra le mani quei bastardi e non fossero svenuti sotto i suoi continui pugni.
Non meritavano nemmeno un colpo della sua pistola preferita. Non avrebbe sporcato i suoi proiettili con il loro sangue sporco.
Le gambe lunghe e muscolose, fasciate da jeans chiari, correvano velocemente ed agilmente sul pavimento liscio, fatto di moquette, come se volassero.
Svoltò l’angolo trovandosi davanti agli occhi uno spettacolo orribile. Due dei suoi uomini più fidati a terra.
Occhi aperti, bianchi, sporchi di sangue versato per colpa di azioni ignobili e la bocca semiaperta.
Erano morti.
Il ragazzo grugnì, correndo ancora più veloce fino alla sua camera.
Spalancò con forza la porta, imprimendo in quel gesto tutta la rabbia che possedeva.
Uno dei due uomini presenti nella stanza aveva preso per mano la ragazza e la stava facendo alzare dal letto quasi con violenza. Lei opponeva resistenza forse non capendo che i due soldati erano dalla sua parte e che l’avrebbero portata in salvo.
Un sorriso bastardo piegò le labbra piene e rosee di Ivan, che puntò la pistola contro il petto di uno dei due, sparando appositamente qualche centimetro accanto allo stomaco.
Lo avrebbe reso innocuo e al tempo stesso non l’avrebbe ucciso, per riservarsi la possibilità di farlo a pezzi con le sue stesse mani.
Al rumore dello sparo e del tonfo di un corpo a terra, Scarlett urlò spaventata e il secondo americano presente si girò, guardandolo con occhi spalancati.
Lo riconobbe.
Faceva parte della sua squadra durante la spedizione nell’ospedale di New Orleans per rapire la ragazza.
Ivan si distrasse a fissare il suo volto e non si accorse del proiettile partito dalla canna della pistola del nemico che aveva reciso la carne del suo fianco, penetrando all’interno e lacerando la sua pelle.
Un dolore lancinante si impossessò di lui, facendolo cadere a terra, ma lasciandogli il tempo necessario per sparare a sua volta un colpo, che, questa volta, entro dritto nel cuore dell’uomo, uccidendolo sul momento.
Peccato.
 
 
 
 
 
<< Rivoglio mia figlia >> urlò il colonnello, sbattendo una mano sul tavolino di mogano intorno al quale sedevano gli altri tre generali e il presidente degli Stati Uniti.
Il grassoccio presidente fece un piccolo balzo, deglutendo vistosamente. Quella situazione non era delle migliori. Uno dei suoi migliori strateghi era appena stato privato di sua figlia e lui non aveva idea di come comportarsi.
Con un fazzolettino di seta, nascosto nella tasca interna del suo costoso abito nero, asciugò qualche gocciolina di sudore che imperlava la fronte alta e spaventosamente bianca.
<< La riavrai colonnello. Abbiamo solo bisogno di tempo >> rispose uno dei suoi consiglieri, mantenendo la voce ferma.
Nonostante il suo notevole sforzo era ben visibile dai suoi occhi la paura e la preoccupazione che nutriva verso quell’uomo così grande ed imponente.
Mark Selling sospirò ed asciugò il sudore intorno alla sua bocca. Non era abituato a reggere pressioni del genere, non sarebbe resistito a lungo. Aveva bisogno di un bagno caldo, una tisana ed un bel libro rilassante.
Ma quella volta non se la sarebbe cavata così facilmente.
Era il momento che il presidente degli Stati Uniti D’America divenisse tale, soprattutto in quel momento di terrore e di crisi economica, ma soprattutto bellica.
<< Signor presidente >> il colonnello Evans si rivolse direttamente a lui << E’ scomparsa da due giorni. Mi rivolgo a lei come padre e non come suo dipendente, sono preoccupato >> l’uomo impallidì ulteriormente, nascondendo la sua figura, raggomitolandosi su se stesso.
Aveva un figlio. Una piccola creatura di cinque anni, arrivata tardi per i suoi gusti, ma che aveva comunque illuminato la sua monotona vita, e se l’avesse perso sarebbe caduto in un baratro infinito di disperazione.
Riusciva a capirlo, lo comprendeva perfettamente, ma, nonostante quello, sapeva di non poter fare niente per aiutarlo.
<< Abbiamo degli infiltrati >> balbettò << la riporteranno qui >> concluse la frase, inarcando le spalle per nascondere ancora di più il testone coperto dai capelli biondi, ormai impreziositi da qualche capello bianco appena visibile.
Sembrava più giovane della sua età e i suoi cinquant’anni non sembravano pesargli sulla schiena, ma in quel momento assomigliava ad un vecchio più di quanto volesse. La paura dipinta sul viso e che trapelava dagli occhi castani e vispi lo ingrandivano non poco.
<< Al diavolo gli infiltrati. Come minimo li avranno scoperti, considerando che non abbiamo ricevuto alcuna notizia da nessuno dei due >>
Questa volta Ian Evans aveva parlato a bassa voce, senza sforzare le sue corde vocali, ma riuscendo perfettamente a far rabbrividire il capo di stato. Era ancora più spaventoso con quel tono di voce.
Freddo, glaciale, fermo. In una sola parola terrificante.
Il colonnello si lasciò cadere sulla poltrona, prendendosi la testa tra le mani in un gesto di pura disperazione. La stanza era avvolta da un silenzio assordante che parlava più di mille parole.
Ogni uomo presente rifletteva per conto proprio e le loro menti prendevano tutte la stessa direzione: cosa avrebbero fatto se si fossero trovati nei panni del colonnello?
Nessuno era in grado di dare una risposta, tranne Mark. Lui sarebbe morto senza pensarci due volte.
Non avrebbe potuto vivere senza suo figlio, per niente al mondo.
Intanto Ian sentiva gli occhi pizzicare sotto le possenti e rovinate mani, mentre, nella sua testa, si susseguivano domande a cui non era in grado di dare una risposta, nemmeno con l’immaginazione.
Scarlett era viva?
Le avevano fatto del male?
Gliene avrebbero fatto ancora?
L’avrebbe mai ritrovata?
Nel caso fosse tornata a casa lo avrebbe odiato?
Elisabeth lo avrebbe odiato?
L’immagine di sua moglie, nonché madre della sua bellissima bambina, in lacrime gli invase la mente, rendendolo inerme in confronto a tutto.
Non aveva mai sopportato le sue lacrime, lo facevano soffrire e questa volta sarebbero state causate per colpa sua. Perché lo sapeva, ne era sicuro, Scarlett era stata rapita perché unica figlia del grande Colonnello Evans, uno dei pochi ad essere a conoscenza del grande segreto dell’America: dove si trovava la base principale.
Se i russi l’avessero scoperto e avessero attaccato la loro base la guerra sarebbe finita e non di certo a loro favore.
Avrebbero perso ogni cosa. Il dominio sul mediterraneo grazie all’Italia, la potenza economica, che già cominciava a vacillare, il predominio sulle miniere e le multinazionali, il petrolio.
Tutto quello che aveva reso l’America una delle potenze mondiali e le aveva permesso, insieme all’aiuto degli alleati, di resistere per tutti quegli anni.
Sarebbe finito tutto. Ogni cosa sarebbe passata nelle mani della Russia che li avrebbe schiavizzati, forse insieme a tutti gli altri paesi che li avevano aiutati a rendere la loro resistenza forte.
Anche Scarlett sapeva di quel segreto.
E se lo avesse rivelato?
No, impossibile. Conosceva sua figlia e sapeva che sarebbe morta al posto di mancare di rispetto a lui e all’intera nazione. Non lo avrebbe mai fatto, così come Ian. Era pronto a tutto pur di proteggere la patria che tanto amava.
Forse anche perdere sua figlia e di conseguenza sua moglie.
Glielo avevano insegnato sin da piccolo.
L’America prima di tutto. Prima della famiglia, degli amici e addirittura della propria vita.
Era diventato un soldato di sua spontanea volontà e lo avevano premiato considerandolo uno dei più grandi colonnelli della storia ed ora lui doveva rendere fede a quel giuramento.
Alzò il viso e puntò gli occhi su Mark che rabbrividì impercettibilmente.
<< Colonnello Evans >> la voce del secondo ufficiale gli fece voltare lo sguardo << se richiamiamo i nostri infiltrati o irrompiamo nella base russa la guerra si concluderà nel peggiore dei modi, ovvero con la nostra sconfitta. Ha fatto un giuramento tanto tempo fa, crede di potergli rimanere fedele? >>
Ian era consapevole della domanda che stava per arrivare e che non tardò a sentire.
<< Sua figlia o l’America? >>
Un attimo di silenzio che parve interminabile. Un silenzio saturo di disperazione, ma anche di convinzione ed orgoglio.
Ian Evans raddrizzò le spalle e guardò negli occhi il primo ufficiale pronto a dare la sua risposta, pronto a rinunciare ad ogni cosa.
<< L’America >>

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Buonasera a tutti :)
Non mi dilungo più di tanto prima del capitolo! Spero che vi piaccia e mi scuso se troverete qualche errore, in quel caso vi prego di farmelo sapere :)
Spero che la storia continui ad essere interessante, fatemi sapere le vostre opinioni! Buona lettura :)

 


Capitolo 9
 
 
“I knew you were trouble when you walked in
So shame on me now
Flew me to places i'd never been
So you put me down oh
I knew you were trouble when you walked in
So shame on me now
Flew me to places i'd never been
Now i'm lying on the cold hard ground
Oh, oh, trouble, trouble, trouble
Oh, oh, trouble, trouble, trouble”



 
 
Scarlett Evans aveva sempre avuto un’elevata capacità di riflessi anche nelle situazioni più critiche. Era sempre stata in grado di reagire in modo veloce e sicuro in ogni suo intervento, riuscendo a fare la cosa giusta nel momento giusto.
Scarlett Evans era una ragazza intelligente, più della media, decisamente troppo per i suoi diciannove anni compiuti da poco.
Scarlett Evans, nonostante le sue innumerevoli qualità e i suoi tanto adorati pregi aveva un grande difetto: era sensibile e troppo buona.
Forse era per quello che si era precipitata sul corpo sanguinante e sofferente del soldato russo, lottando contro ogni particella del suo corpo che le gridava a gran voce di scappare via da quel luogo che rappresentava, per lei, una prigione senza via d’uscita.
Ma Scarlett era troppo intelligente o semplicemente troppo stupida per tentare la fuga e lasciare due uomini sanguinanti e moribondi a terra.
Il suo istinto di medico e l’orgoglio ferito da troppe sconfitte inferte da semplici armi da fuoco la costrinsero a piegarsi sul corpo massiccio dell’uomo che l’aveva rapita.
Le spalle larghe fasciate da una t-shirt bianca sporca all’altezza del fianco da una macchia cremisi che si allargava, appesantendo il tessuto leggero della maglia.
Gli occhi chiusi e piccole rughe di espressione intorno agli occhi date dal dolore, rughe invisibili per un occhio meno attento di quello della ragazza. Il resto del volto completamente rilassato.
La cintura dei jeans e un piccola parte degli stessi pantaloni macchiata irrimediabilmente.
I capelli scuri della ragazza sfuggirono al suo controllo, coprendole la visuale e non facendole vedere la gravità della ferita.
Perché si fosse precipitata direttamente dal russo, senza controllare l’altro soldato, che presupponeva essere americano, non lo sapeva, ma continuava a ripetersi incessantemente che il castano era ferito più gravemente dell’altro.
D’altronde il suo cervello le aveva permesso di calcolare la gravità della situazione. Certo, era per pura utilità che aveva scelto il primo soggetto da aiutare.
Sospirò, cercando di accantonare il pensiero di star aiutando il nemico. Aveva sempre pensato che gli uomini fossero tutti uguali.
Tedeschi, americani, inglesi, russi, italiani e di ogni altra nazionalità esistente. Erano uomini e meritavano una possibilità di vita, nonostante il loro modo di vivere fosse alquanto discutibile. E nel caso di quel ragazzo lo era sicuramente.
<< Cosa stai facendo principessa? >> una voce roca e leggermente forzata fece sobbalzare Scarlett, che, nonostante la sorpresa, rimase concentrata sulla maglia che sapeva di dover alzare.
Non si stava comportando in modo professionale. Esitava nell’alzare quella stupida maglia e mostrare ai suoi occhi il torace muscoloso e la ferita che deturpava la pelle del ragazzo.
<< Stai zitto >> rispose acida e prepotente. Non aveva bisogno di altre distrazioni e sicuramente lui non aveva bisogno di sprecare energia utile per continuare a vivere.
<< Mi stai forse salvando? >>
Ignorando le parole ironiche, la mora prese un profondo respiro convincendosi a liberarsi della maglia. Con delicatezza sollevò il tessuto, sporcandosi le mani di sangue.
Un gemito strozzato di sorpresa, orrore e preoccupazione sfuggì al suo controllo quando la ferita occupò tutto il suo campo visivo.
La pelle era martoriata, aperta in un buco di appena cinque centimetri di diametro, riempito dal ferro del proiettile. L’epidermide era ricoperta da uno strato sottile di sangue che nascondeva in parte l’alone di bruciatura che circondava la ferita.
La parte interna della lesione era frastagliata, lacerata dalla potenza del colpo.
Scarlett era abituata a vedere ed esaminare ferite del genere, ma quello che l’aveva colpita era il sangue che circondava strettamente il proiettile.
Ribolliva.
Ribolliva come quello di Tom.
Ma il suo sangue non era entrato in contatto con l’acqua, non era possibile che avesse avuto una reazione chimica, non avendo toccato nient’altro che il cotone della t-shirt. E si sapeva, il cotone non procura certo una reazione simile.
Accantonando quel pensiero, Scarlett decise di agire.                                                            
<< Principessa >> ripeté il soldato, la voce vicina ad un sussurro.
Scarlett alzò lo sguardo per la prima volta, puntando i suoi occhi grigi in quelli verdi, puntinati di rosso e lucidi del ragazzo. Uno sguardo freddo. La mora lo aveva congelato con lo sguardo, intimandogli di restare in silenzio e, per grazia ricevuta, lui le aveva dato ascolto.
Ivan chiuse gli occhi, sospirando e cercando di non concentrarsi sul dolore che lo assaliva.
Non era la prima volta che era colpito da un proiettile, ma perché faceva così male?
Con un gesto veloce la ragazza gli sfilò la t-shirt, togliendogli il respiro.
Con mano ferma toccò la ferita, provocando un gemito strozzato nel soldato, che contrasse la mascella ed i muscoli del torace. Le linee dei pettorali e degli addominali ben definite stonavano con la ferita che deturpava il suo corpo.
Premette con forza con la maglietta, cercando di far diminuire la fuoriuscita del sangue. Una piccola goccia color cremisi sfuggì al suo controllo, percorrendo la pelle candida ed imperlata da uno strato sottile di sudore fino a raggiungere il terreno, macchiando il pavimento.
Doveva togliere il proiettile e bloccare l’emorragia e doveva fare tutto il più velocemente possibile.
Con passo spedito si avvicinò ai cassetti, aprendoli con rabbia e sbuffando nel constatare che non poteva essergli utile niente di quello che contenevano. Legò i lunghi capelli mossi con l’elastico che, fortunatamente, era sempre legato al suo polso.
<< Con le mani >> sussurrò il soldato, facendola girare di colpo.
Estrarre un proiettile dalla carne viva ed insanguinata con le mani, senza guanti, senza averle prima sterilizzate, senza niente.
Scarlett lo ignorò, continuando a cercare per la stanza un qualunque utensile che potesse esserle utile.
Un qualunque aiuto.
Un disinfettante.
O semplicemente un po’ di coraggio che potesse permetterle di estrarre quel cavolo di proiettile.
<< E’ inutile. Non c’è niente qui >> continuò il soldato, muovendosi leggermente.
Seguirono un paio di colpi di tosse ed un urlo soffocato.
<< Non ti muovere. Devi stare fermo >> sussurrò la ragazza.
Prese il bicchiere d’acqua sul comodino e si sedette di nuovo vicino ad Ivan, sporcando i pantaloni della divisa con il sangue che aveva imbrattato il pavimento, rendendolo colorato e scivoloso.
Sospirò, sperando di calmare il battito eccessivo del cuore, che rischiava di uscire dal petto. Sciacquò le mani e versò una piccola quantità di acqua nella ferita.
Forse se aveva la capacità di procurare una reazione chimica aveva anche la possibilità di fermarla.
Immediatamente il sangue smise di ribollire e Scarlett si lasciò andare in un sospiro rilassato.
Chiuse gli occhi.
<< Forza principessa non è difficile >> riuscì a scorgere il sorrisino divertito del russo e sbuffò contrariata.
La stava forse prendendo in giro? Lei stava cercando di salvarlo e si stava preoccupando del dolore che certamente avrebbe avvertito e lui la derideva, per di più chiamandola con quell’appellativo insopportabile.
<< Non sono costretta a salvarti la vita, dovrei lasciarti morire considerando che se ti lascerò vivere tu mi ucciderai dopo che avrai ottenuto le informazioni che vuoi. Quindi non mettere alla prova la mia gentilezza e soprattutto smettila di chiamarmi con quello stupido nomignolo >>
Senza aspettare una risposta dal ragazzo, estrasse il proiettile. Quando le sue mani nude entrarono in contatto con la pelle viva e lacerata, rabbrividì. La stoffa dei guanti, seppur sottile, diminuiva la sensazione della carne deformata, bruciata, rovinata.
Il soldato gemette di dolore, stringendo gli occhi e reprimendo un urlo, mentre il petto cominciava ad alzarsi ed abbassarsi velocemente. Segno dell’aumento del battito cardiaco, segnale inequivocabile di aumento del flusso sanguineo e di conseguenza di un’emorragia abbondante.
Scarlett sbuffò, come se il sangue fuoriuscito non fosse abbastanza. Di quel passo sarebbe morto dissanguato.
Finalmente la mora riuscì ad estrarre il proiettile che venne buttato in un angolo lontano della stanza spaziosa, illuminata ampiamente dal lampadario spartano che pendeva dal soffitto.
Doveva fasciare la ferita e doveva farlo prima che perdesse troppo sangue. Afferrò con una mano la t-shirt insanguinata e la fece girare intorno ai fianchi del russo, premendo quanto più poteva.
<< Allontanati da lui >> una voce imponente la distrasse dal suo lavoro, facendole alzare gli occhi.
Un uomo –se così si poteva chiamare- di almeno due metri e venti troneggiava su di lei. Le spalle ed il petto ampio fasciati dalla divisa militare, le gambe divaricate e le mani tese in avanti che stringevano una pistola, fissa nella sua direzione.
Scarlett si allontanò da Ivan, appoggiandosi al letto e sbuffò.
Ecco cosa accadeva mostrando gentilezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
<< La tua fasciatura non era abbastanza stretta >> proclamò Ivan Petrov entrando nella sua stanza, senza nemmeno prendersi il disturbo di salutare, dopo cinque giorni in cui non si era fatto nemmeno vedere.
Scarlett era seduta sul suo letto a gambe incrociate che scriveva con trasporto su un piccolo quadernino celeste.
Lo aveva già visto, si trovava nella tasca nel suo grembiule quando l’aveva rapita e l’interno era un insieme di formule e concetti che certamente non aveva voglia di controllare.
Mise la chiave appena tolta dalla serratura nella tasca destra dei jeans appena presi dall’armadio e si diresse verso il materasso, non togliendo gli occhi dalla guancia ferita dalla ragazza.
Sembrava porcella. Pura porcellana graffiata da qualcuno che non apprezza le opere d’arte, perché, Ivan doveva ammetterlo, quella ragazza era un’opera d’arte. Il taglio ancora da rimarginare stonava sul suo volto bianco e colorava eccessivamente quelle gote che avrebbero dovuto solamente essere velate da uno spruzzo di rosa candido.
Il coltello aveva scomposto l’armonia e la perfezione di un disegno a cui era stato dedicato tempo e fatica, ma, nonostante quella piccola imperfezione, il risultato non veniva mutato.
Era bellissima.
Il soldato scosse la testa, scacciando quei pensieri poco consoni alla situazione e certamente non attribuibili ad una razza inferiore quale quella degli americani. La bellezza era un concetto che poteva essere associato ai russi, a nessun’altro.
A volte ascoltando i suoi pensieri o quelli di qualsiasi altro compatriota gli veniva quasi spontaneo attribuire l’ideologia a quella che, un tempo, era appartenuta al più temuto dittatore: Hitler.
Lo faceva ridere. I pensieri di così tanti anni prima erano gli stessi che animavano dopo centinaia di anni la Russia. La nazione era diversa, la forma di governo anche così come il modo di applicarlo, ma non l’idea.
Niente forni crematori o docce a gas, niente sterminio degli Ebrei, i russi si affidavano ad armi più veloci e moderne.
<< Mi dispiace che la nostra chiacchierata sia stata interrotta prima, possiamo dedicarci del tempo ora >>
Ivan si sedette, facendo piegare il materasso sotto il suo peso, mentre teneva sotto controllo le reazioni della ragazza.
Neanche il più piccolo movimento. Scarlett era rimasta immobile. Gli occhi fissi sulla parete di fronte a lei, il quaderno e la penna alla mano, il corpo rigido ed il respiro così sottile da essere a malapena udibile.
Ma il soldato russo non avvertiva paura, quello che poco prima era stato il posto del terrore ora era occupato da rabbia, frustrazione ed irritazione.
Gli sarebbe venuto spontaneo, in quel momento, paragonare l’americana ad una bomba ad orologeria e il rumore dell’orologio appeso nella sua stanza al ticchettare inesorabile della bomba mentre la fatidica ora si avvicinava a grandi passi.
Tre.
Due.
Uno.
<< Ti ho guarito, ti ho salvato la vita quando avrei potuto lasciarti morire dissanguato e scappare da questo posto. Non l’ho fatto. E quando torni qui è solo per dirmi che vuoi cominciare di nuovo a torturarmi per sapere delle inutili indicazioni? >>
La voce della ragazza risuonò nella stanza, mentre il respiro si faceva più veloce e corto. Quella che aveva conosciuto fino a quel momento era stata una Scarlett calma e padrona delle sue azione, la voce tranquilla.
Il suo viso si era colorato di un rosso innaturale a causa delle strilla e della rabbia che le ribolliva nelle viscere.
Gesticolava. Quando era arrabbiata gesticolata.
Era il particolare che Ivan aveva notato mentre la ragazza gli urlava contro la sua indignazione e il suo disgusto verso una persona come lui.
Le mani si muovevano come se avesse voluto esprimere il vero messaggio proprio attraverso quelle. Le muoveva in aria avvicinandole al suo viso, al suo petto e lasciandole cadere di nuovo sul materasso, mentre continuava a stringere da un lato la penna e dall’altro il piccolo quaderno che portava con sé.
Stringeva quasi con smania di possesso o semplicemente perché non voleva che la sua ira si sfogasse in azioni violente.
Da quello che il ventiduenne era riuscito a comprendere, non era favorevole alla violenza.
<< Prendi quel dannatissimo coltello e comincia l’interrogatorio, vai >> concludendo il discorso incrociò le braccia al petto, lasciandosi cadere contro la spalliera del letto.
Sollevò un sopracciglio, guardandolo con aria di sfida.
Ivan la osservò. Dentro quella ragazza così piccola si nascondeva un fuoco, di quello ne era sicuro.
Non avrebbe mai detto che una voce così dolce potesse diventare così aspra e che avesse potuto pronunciare anche solo una parola vicina ad una parolaccia. Non avrebbe mai immaginato che il colorito delicato della pelle avrebbe potuto cambiare e tingersi di rosso.
Scoppiò a ridere.
Era comica. Scarlett non stava utilizzando panni che le appartenevano e risultava quasi comica per un soldato come lui. Per un uomo come lui.
E lo sarebbe stata per chiunque fosse abituato ad alzare la voce ogni tanto, per chiunque avesse mai litigato con qualcuno.
I panni del medico caritatevole la vestivano meglio, senza ombra di dubbio. Ma Scarlett era anche quello, si arrabbiava, urlava, gesticolava e poi tutto finiva così come era iniziato.
Con il silenzio.
In quel caso il silenzio interrotto dalla risata di Ivan.
<< Cosa c’è di così tanto divertente? >> chiese risentita, alzando di nuovo la voce.
Il soldato scosse la testa, provocando l’irritazione della mora.
<< Smettila. Non è divertente, affatto >>
Constatando l’ilarità ancora accesa del castano, Scarlett tirò il quaderno sulla sua faccia, seguito subito dopo da uno schiaffo.
Ivan smise di ridere e la guardò.
Fissò i suoi occhi divenuti celesti in quelli grigi dell’americana e vi lesse paura. Erano spalancati e terrorizzati.
Era spaventata da una sua possibile reazione, l’aveva schiaffeggiato e, di certo, il generale non era famoso per la sua immensa cortesia.
Ma Ivan stranamente non era arrabbiato. Stupito, ma non arrabbiato.
Scarlett lo aveva nuovamente sorpreso.
Prima l’aveva classificata come agnellino docile, successivamente, durante l’interrogatorio, come ragazza coraggiosa.
Poi l’aveva salvato, lo aveva curato nonostante la tenesse prigioniera ed in quel caso poteva considerarla solo in due modi, stupida o troppo generosa.
Lo aveva insultato e si era arrabbiata ed ora lo schiaffeggiava?
Era una continua sorpresa.
La ragazza tentò di tirarsi nuovamente indietro, ma Ivan la bloccò per una mano, tenendola ferma in ginocchio davanti a lui. I loro visi alla stessa altezza.
<< Non azzardarti mai più >> minacciò.
La sua voce però suonava poco credibile, il tono freddo era quasi totalmente scomparso ed al suo posto c’era sorpresa e quasi euforia.
Scarlett annuì, mossa più dalla paura che da vera convinzione.
Senza preavviso o premeditazione, né da parte sua né della mora, Ivan si avventò contro di lei, facendo combaciare le loro labbra in un bacio quasi irruento.
Con la mano libera la spinse con forza verso di se, mentre lottava contro la fragile forza di Scarlett che tentava di liberarsi.
La ragazza cedette, rinunciò ai tentativi di allontanarlo da sé e si lasciò trasportare da una sensazione così nuova.
Il soldato russo poteva percepire che quello fosse il primo bacio della ragazza, era troppo inesperta, troppo insicura mentre assecondava i suoi movimenti e cercava di non lasciarsi travolgere dall’intensità di quel gesto.
Non c’era dolcezza e non c’era amore, c’era irruenza, irritazione, rabbia, disgusto, forza, attrazione e crescente eccitazione.
Da parte di entrambi. 

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Capitolo 10
*** Scusate ***


Sono qui per dirvi che mi dispiace tantissimo sospendere la storia, ma purtroppo non posso fare altrimenti! 
Quest'estate non saró quasi mai a casa e non potró scrivere molto e aggiornare, poi a metà agosto partiró per un anno fuori in Svezia e lì non potró aggiornare mai! 
Questo non vuol dire che non aggiorneró più fino ad allora! Avrei voluto finire la storia ma molto probabilmente non ci riuscirò, comunque cercheró di aggiornare qualche volta prima della partenza! 
Vi chiedo ancora scusa e vi auguro buone vacanze :) 

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