La Stele dei Sogni

di Dean Lucas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sulle rive del Nilo (I) ***
Capitolo 3: *** Sulle rive del Nilo (II) ***
Capitolo 4: *** Sulle rive del Nilo (III) ***
Capitolo 5: *** Lance insanguinate (I) ***
Capitolo 6: *** Lance insanguinate (II) ***
Capitolo 7: *** Un velo di mica (I) ***
Capitolo 8: *** Un velo di mica (II) ***
Capitolo 9: *** Un antico rancore ***
Capitolo 10: *** Rotta per Giza (I) ***
Capitolo 11: *** Rotta per Giza (II) ***
Capitolo 12: *** L'Ottava Meraviglia (I) ***
Capitolo 13: *** L'Ottava Meraviglia (II) ***
Capitolo 14: *** Occhi del Destino ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Un’opera è giunta fino ai giorni nostri, tradotta dal greco antico e tramandata negli scritti di Sesto Giulio Africano e di Eusebio, vescovo di Cesarea. In essa sono elencati tutti i re dell’Antico Egitto, dall’alba della Prima Era fino all’epoca faraonica.

Secondo gli Aegyptiaca, l’Egitto cominciò la sua straordinaria storia nel 30544 a.C., quando la Dynasteia degli Dei allignò su quelle terre.
Gli Dei regnarono durante una primeva età dell'oro, prima di affidare il proprio scettro alla stirpe per metà divina e metà mortale dei loro figli nati dall’unione con gli umani.
Nell’Antico Testamento e nel Libro di Enoch questi esseri, generati dall’unione dei Figli di Dio con le Figlie degli Uomini, sono chiamati Nephilim.
I Figli di Dio sono conosciuti col nome di Elohim.
 


Prologo
 
Antica Grecia.
In un’epoca dimenticata dagli uomini.
 
Intrappolata in una fenditura nella roccia, buia e fonda, l’Elohim attendeva con impazienza da millenni la sua preda inconsapevole.
Era ferita, sconfitta, destinata a un’agonia eterna.
Mani giovani e incaute si aggrapparono al bordo della cavità rocciosa dov’era imprigionata. Minuscoli frammenti si sgretolarono e caddero, echeggiando tra le pareti di pietra.
L’attesa era finita. Eterea e sinuosa, l’Elohim risalì dalla fenditura, strisciando e tendendosi più che poteva.
Ora che era giunto il momento, esitava. Si chiese ancora una volta se quel sacrificio fosse necessario. Non le importava di uccidere se stessa, dopotutto un frammento del suo spirito sarebbe vissuto per sempre dentro la sua vittima.
Poi vide gli occhi di quella creatura, puri e innocenti come la preghiera di un bambino. Solo chi era puro poteva guardare dentro il nero abisso del futuro degli uomini senza perdersi o sporcarsi.
L’Elohim sorrise. Prima di morire, avrebbe dato ai Figli dell’Uomo una speranza.
 
***
 
La brezza portò con sé l’aroma penetrante della resina che colava dalle cortecce degli alberi e l'odore di umido che saliva dalle fronde bagnate. Minuscole gocce d’acqua imperlavano ancora le foglie. La terra odorava di pioggia.
Quella mattina l’aria era attraversata da uno strano fermento: gli dèi erano adirati, eppure Delphi ne ignorava il motivo.
Un refolo più forte fece svolazzare la tunica sopra le ginocchia, spargendo i folti riccioli sul volto. Delphi si voltò di scatto, come se il vento avesse bisbigliato il suo nome, e vide gli squarci tra le nubi bianche e grigie che si rincorrevano tra le montagne. Un’incredibile alba di perla la sorprese.
Sul suo volto da bambina si disegnò un sorriso. Per sette giorni e sette notti la tempesta si era abbattuta sul villaggio, sgretolando la terra e le rocce, dando forma a torrenti selvaggi, trascinando nella sua furia alberi e fango.
Aveva atteso a lungo che la pioggia cessasse, pregando senza sosta gli dèi e prendendosi cura del gregge del padre. Le povere bestie erano ormai logorate dalla fame e da tempo avevano esaurito le scorte di fieno.
Delphi abbandonò i margini del bosco e ridiscese di corsa il pendio, fino a imboccare il sentiero che conduceva ai prati del pianoro sottostante. Non appena raggiunse la stradina che scendeva a valle, s’arrestò, delusa. Un rigagnolo d’acqua serpeggiava proprio sotto i suoi piedi, mentre i calzari di cuoio affondavano nel terreno molle: il sentiero aveva raccolto l’acqua piovana dalle colline che lo fiancheggiavano, tramutandosi in un orrido pantano.
Anche ora che la loro furia si era placata, gli dèi si accanivano sul villaggio. Senza un pascolo gli animali sarebbero morti, come avrebbero fatto?
Delphi raccolse in fretta qualche ciuffo d’erba per l’agnello più giovane e si precipitò a casa. Corse l’ultimo tratto a perdifiato, e quando raggiunse il recinto, il padre era ancora intento a muovere le pecore all’interno dello steccato.
«La strada è allagata» gridò ancora trafelata dalla corsa. «Non possiamo scendere a valle, il gregge rimarrebbe intrappolato nel fango!»
Il padre la guardò con l’espressione rassegnata del pastore avvezzo a lottare contro i capricci degli dèi.
«Non ci resta che il versante opposto, bambina mia, verso le montagne. In quei boschi gli animali troveranno di che saziarsi con rovi e felci.»
Delphi aggrottò la fronte. «Nessuno ha mai portato un intero gregge ai piedi del monte. Gli dèi saranno ancora più in collera se le bestie brucheranno nei loro giardini.»
«Allora imploreremo il loro perdono, figlia mia. E quando giungerà il tempo, offriremo come risarcimento una delle nostre pecore.»
 
***
 
Lungo il tragitto, mentre il padre e i cani scortavano rumorosamente il gregge verso le montagne, Delphi chiamò con un fischio l’agnellino che aveva adottato. Il cucciolo le trotterellò incontro, impaziente di brucare il cibo che avrebbe ottenuto a quel richiamo.
Era così piccolo che arrivava appena al ventre delle pecore. Delphi porse alla bestiola l’erba che aveva raccolto, ridendo quando le bagnò il palmo con la lingua rosea. Poi accarezzò a lungo il vello non ancora cresciuto, candido e luminoso come la neve.
Quando alzò nuovamente lo sguardo, davanti a lei si stagliavano le pendici del Monte Parnaso.
Delphi fu percorsa da un brivido, eppure non sentì freddo. Nascosta dalla foschia perenne, secondo la leggenda la cima della montagna accoglieva la dimora degli dèi. Si guardò intorno. Ora le sembrava di trovarsi in tutt’altro posto: il leggero freddo della mattina era scomparso, la brezza si era quietata. Il terreno si stava asciugando sotto i caldi raggi del giorno, mentre nell’aria si spandeva l’odore fresco del muschio. Le pecore pascolavano placidamente, brucando ogni stelo d’erba che si annidava tra le rocce.
Delphi giocava ancora con i cani, quando il padre la chiamò a gran voce. Capì che era giunto il momento di spostare gli animali e fare ritorno a casa.
Era stata una magnifica giornata. La tempesta che aveva cancellato il cielo per giorni era scomparsa, l’indomani sarebbero scesi a valle e il suo piccolo sarebbe stato felice di brucare i prati bagnati dalle piogge.
Aiutandosi con le dita, diede voce al fischio che usava per chiamare l’agnellino. Attese qualche istante ma l’unica risposta che ottenne fu il lamento del vento.
Delphi provò ancora, e ancora, scrutando con impazienza ogni pecora, ma il cucciolo non si fece vedere. Ogni istante più inquieta, corse verso le rocce più lontane sicura che il piccolo stesse riposando sotto la loro ombra. Corse avanti e indietro fino a sfiancarsi. Non lo trovò.
Disperata, raggiunse in fretta il padre. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «L’agnello è scomparso!»
«Quel piccolo sciocco si sarà allontanato verso i dirupi.» L’uomo osservò il sole già basso all’orizzonte. «Ti aiuterò a cercarlo, figlia mia, ma non ci resta molto tempo.»
Delphi si spinse insieme al padre fino alle pendici del monte, inerpicandosi sulle sporgenze rocciose e chiamando l’agnellino senza sosta. Erano ormai pronti a desistere, quando udirono un belato nelle vicinanze di una cavità naturale nella roccia.
Delphi si precipitò in quella direzione. «È qui! Grazie agli dèi l’abbiamo trovato!» La gioia si smorzò di colpo non appena vide che l’animale era intrappolato nel fossato e non era in grado di risalire.
Delphi si sporse dal bordo della cavità. La povera bestiola tremava scossa dai brividi, come se una belva non visibile la stesse minacciando.
«Per tutti gli dèi, cosa ti succede piccolo mio? Cosa ti spaventa?» Il belato disperato dell’agnellino risuonò agghiacciante alle sue orecchie. «Padre, non può uscire da solo! Dobbiamo tirarlo fuori di lì!»
Atterrito da un timore superstizioso, l’uomo non osava avvicinarsi. «La montagna rivendica la vita di questa povera creatura, figlia mia. Abbiamo promesso agli dèi un’offerta, non interferire col loro volere.»
Delphi inorridì al pensiero di abbandonare il cucciolo, né poteva sopportare di udirne i lamenti senza far nulla. Si trascinò sul bordo del fossato e si lasciò cadere all’interno.
Una parvenza di luce strisciò sulla superficie irregolare del suolo, laddove si apriva una fenditura. Il manto candido dell’agnellino e le pareti di roccia evaporarono davanti a suoi occhi.
Fu il buio.
 
***

«Delphi, torna indietro! È pericoloso, in nome di tutti gli dèi, torna qui!»
Nello stesso istante in cui raggiunse il fondo del fossato, la mente di Delphi si ottenebrò. Il silenzio rotto soltanto dai battiti incontrollabili che martellavano nel petto, il sudore che le lasciava una scia ghiacciata sul dorso. Sentì dentro di lei crescere l’attesa.
Qualcosa l’abbrancò nella sua morsa. Delphi sbarrò gli occhi. Non poteva vederla, poiché era incorporea e invisibile. Eppure, sul braccio avvertì le impronte taglienti delle sue spire, attorcigliate più volte intorno all’esile polso.
Una miriade di schegge luminose investì e travolse la sua mente. Arrivò il dolore, insieme a immagini di volti e luoghi sconosciuti. Epoche intere le scorrevano davanti agli occhi, nascendo e consumandosi nello spazio di un istante. Le sembrò di impazzire.
Strillò, afferrò la veste con le dita, vi si aggrappò, la strappò. Affondò le unghie nella carne. La sofferenza non cessava.
Incredula e impotente, sentì altri graffi e altri tagli lacerarle la pelle attorno a una caviglia. Gridò finché ebbe fiato e non smise di urlare, mentre i solchi di nuove ferite le incisero i fianchi, il ventre e la schiena. 
All’improvviso i frammenti di luce che turbinavano nella mente si arrestarono e divennero un’unica straordinaria visione: vide il cielo, silenzioso e immenso. Era buio e terso, ma nessuna stella palpitava all’orizzonte. Era giorno, eppure il sole non illuminava e non scaldava la terra. Splendeva, invece, una luce che non aveva mai visto prima.
Il dolore l’abbandonò, le immagini svanirono. Ritornò a scorgere le pareti di roccia e la piccola pecora che la fissava atterrita.
Tremava ancora, quando dalle piaghe vide trasudare gocce di sangue che al contatto con la pelle evaporarono insieme al sudore. Le abrasioni sul corpo parvero raffreddarsi come metallo incandescente immerso nell’acqua, rivelando al loro posto una trama sorprendente e intricata di simboli.
Un pallido riflesso di luce tremolò sulla superficie irregolare della roccia e si spense. Delphi crollò a terra, finalmente priva di sensi.
 
***
 
Quando il pastore trovò la forza per riaversi da quell’incubo, si tese oltre i bordi del fosso, afferrò la figlia per una mano e la trascinò a sé. Era sconvolto e intimidito dai misteriosi simboli che si torcevano attorno al corpo della ragazza. Era accaduto qualcosa che trascendeva la sua comprensione, ma più di questo non sapeva se si trattasse del dono di un dio o della sua maledizione.
In preda all’angoscia e invocando tutti gli dèi di cui era a conoscenza, l’uomo abbandonò il gregge e si precipitò al villaggio, con la figlia svenuta tra le braccia.
Chiamò a gran voce aiuto, e i saggi accorsero intorno al pagliericcio dov’era stata adagiata la ragazza.
Delphi si svegliò e la prima cosa che vide fu la folla stretta intorno al suo capezzale. C’erano gli anziani con le lunghe barbe bianche e i bastoni di legno nodoso. C’erano i volti curiosi delle donne che si allungavano nel tentativo di scorgere qualcosa. Qualche bambino piangeva.
Sollevò una mano davanti agli occhi e restò sgomenta: una spirale di minuscoli simboli le avvolgeva il polso, risalendo lungo l’avambraccio. Si snudò l’altro braccio e un’altra striscia di segni si attorcigliava dal gomito fino alla spalla.
La madre era lì, accanto a lei. Singhiozzava e le accarezzava i capelli.
«È stata maledetta dagli dèi!» urlò qualcuno.
«Non può sfuggire alla loro ira, la ragazza è stata marchiata» gemette una seconda voce di donna. «Attirerà la sventura sul villaggio!»
«Solo il suo sangue placherà le divinità» strillò un’altra.
Delphi ascoltava senza riuscire a capire, le voci vorticavano nella mente ancora confusa. Alle sue spalle, i sacerdoti salmodiavano inni agli dèi, gli anziani del villaggio discutevano ad alta voce. La madre le posò una pezza intrisa di unguento sul polso e cercò in tutti i modi di lavare via i segni, ma questi erano impressi in modo che non potevano più essere cancellati.
All’improvviso, dal consesso dei saggi Delphi vide emergere una donna. La sua lunga chioma non era bruna come i capelli di tutti gli umani, ma scintillava come oro immerso nella luce. Gli occhi non erano dello stesso colore della terra come in ogni Figlio dell’Uomo, ma riflettevano lo stesso azzurro del cielo. Quando la guardò, Delphi sentì le lacrime inumidirle le guance. Schiuse le labbra per parlare, ma la meraviglia e la paura glielo impedirono.
Ti ho aspettato a lungo, bambina mia, così a lungo...
La voce della donna le giunse senza che le labbra si muovessero, morbida come un raggio di sole al mattino. Le mani della sconosciuta si allungarono su di lei e Delphi arretrò terrorizzata, eppure non sentì il suo tocco sulla pelle. Gli uomini continuavano a discutere e a gridare, nessuno sembrava notare ciò che stava accadendo.
Tu mi vedi con gli occhi della mente.
Delphi batté le palpebre e deglutì. La voce ammaliante della donna risuonò dentro di lei, rispondendo a ogni domanda prima ancora che riuscisse a formularla.
I simboli apparsi sul tuo corpo non sono ferite. La tua pelle è stata incisa dai grafemi, la parola scritta degli Elohim.
Il sorriso incantevole della sconosciuta le riscaldò il cuore.
Tu sei colei che era predestinata. Un tempio sorgerà col tuo nome e un nuovo ordine di sacerdotesse tramanderà a voce e sul proprio corpo le parole della profezia. Il futuro dei Figli dell’Uomo dipende da te, bambina mia. Ascolta attentamente le mie parole. Fa’ come ti dirò.
 
***
 
Delphi si alzò in piedi e si schiarì la gola. «Silenzio, stolti! Fate silenzio! E tu, madre, invano cerchi di mondare il dono degli dèi come fosse sudiciume. I simboli apparsi sul mio corpo sono la parola scritta degli dèi.»
Espressioni di stupore e di paura si levarono intorno. Gli abitanti del villaggio distolsero gli sguardi, poiché tutti sapevano che la parola scritta era proibita agli umani. Lei non attese che il brusio si quietasse e proseguì imperterrita:
«Ho visto in sogno il futuro e gli dèi hanno catturato per sempre quella visione, adoperando il mio corpo come una stele. Ascoltate!»
Quando Delphi pronunciò le parole che le aveva rivelato l’Elohim, non immaginava che erano solo una parte della terribile verità incisa sul suo corpo. Era lontano il giorno in cui avrebbe compreso il significato di ciò che era: la Stele dei Sogni.




La trama vi intriga o vi piace?
Aspetto le vostre recensioni! grazie mille :)

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Capitolo 2
*** Sulle rive del Nilo (I) ***


Parte I
 

 
Sulle rive del Nilo

 
 
Sedici anni dopo.
Giza. Antico Egitto.
 

La Figlia del Cielo emerse dalle ombre lunghe della sera e annusò l’aria.
Sulla sponda occidentale del Nilo aleggiava un silenzio spettrale. I fusti dei papiri e le fronde delle palme tacevano immobili, ogni cosa sembrava immersa in una quiete innaturale.
Lei sapeva cos’era. Era il muto terrore che ghermiva ogni creatura che incontrava lungo il suo cammino. 
Al riparo dietro la carena rovesciata di un vecchio nuggar, il suo sguardo affilato si posò sopra un ibis che si abbeverava tra i papiri. Nemmeno i sensi sempre vigili del volatile avvertirono i suoi passi avvicinarsi.
Era pronta a colpire, tutti i muscoli erano tesi prima dello scatto. In quel momento, l’ibis sollevò la testa fuori dall’acqua e un occhio lucido e incredulo osservò l’enorme ombra alle sue spalle. Un istante dopo si alzò in volo, mentre il suo grido acuto lacerava il silenzio.
Irritata per essersi lasciata sfuggire la preda, la Figlia del Cielo lasciò che gli occhi d’oro liquido seguissero il volatile, finché non fu che un granello di sabbia all’orizzonte. Non distolse subito lo sguardo, ma continuò a scrutare il cielo, perdendosi nel suo infinito abbraccio.
Da lì era giunto suo padre. Quando, era impossibile dirlo. Contare i giorni o le piene del Nilo non aveva senso per lei: il mondo era solo un cucciolo quando l’aveva osservato per la prima volta.
Nephilim.
Annunaki.
Coloro che dai cieli erano giunti sulla terra.
Con questi e altri nomi gli esseri umani chiamavano lei e i suoi fratelli.
Dèi.
Sporse il capo sullo specchio d’acqua e aspettò che il Nilo restituisse la sua immagine riflessa. Per qualche istante, la superficie mossa del fiume mostrò soltanto le forme irregolari e mostruose di una belva dal manto dorato.
Senza distogliere lo sguardo, attese che il suo aspetto cambiasse drammaticamente forma. Solo gli occhi d’oro liquido rimasero gli stessi, mentre ogni cosa intorno a essi mutava. Quando le increspature sull’acqua si dileguarono, il Nilo rivelò il volto di una giovane donna, la creatura più temuta e ammirata di quelle terre.
La Figlia del Cielo si passò una mano tra i lunghi capelli neri, osservando sulla superficie dell’acqua la grazia con cui i fulgidi boccoli le ricadevano sul petto, spargendosi sui seni. Poi distese le meravigliose labbra in un sorriso, compiaciuta della propria indescrivibile bellezza.
Per gli umani vederla era lo scopo di tutta una vita, il presagio che il loro ka avrebbe prosperato in eterno nel regno soprannaturale del duat. Eppure, a lei non importava nulla degli uomini. A differenza del padre e dei fratelli, non era interessata a soggiogarli e dominarli.
In quel momento, lo stomaco brontolò ancora per la fame. Spazientita, decise che avrebbe cacciato ancora prima di far ritorno all’antico monolite che considerava la sua dimora.
Non aveva mai compreso perché i Figli dell’Uomo avessero innalzato per lei quella costruzione, cogliendo in un solo grandioso monumento le due forme che era in grado di assumere a suo piacimento. Era lì che si era rifugiata, quando aveva scoperto per quale orribile scopo il padre l’aveva concepita. Da allora, Giza era divenuto il suo regno e la popolazione l’aveva venerata come una dea.
La Figlia del Cielo si domandò perché gli uomini l’amassero, nonostante non facesse nulla per nascondere il disprezzo per le loro misere esistenze, infastidita persino dall’adorazione dei suoi stessi sudditi.
Era ancora assorta in quelle riflessioni, quando il suo udito sopraffino udì da grande distanza la voce concitata di un umano. Sorpresa, si voltò di scatto verso quella direzione, tutti i sensi in allerta.
Non si era sbagliata, era davvero Gavri’el. Fin dalla nascita quell’umano aveva rappresentato un mistero inspiegabile, finché, crescendo, il suo aspetto le aveva infine rivelato l’inconsapevole segreto. Un secondo grido colmo di angoscia riecheggiò proprio in quel momento. Proveniva dalla sponda opposta, non lontano dalle abitazioni di fango e argilla dei nemeh.
La Sfinge si tramutò di nuovo in belva, e con pochi balzi, muovendosi sui tronchi e sui detriti che attraversavano la piena, fu sulla riva orientale del fiume. Nubi grigie e gravide di presagi la inseguirono fino a Giza.
 
***

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Capitolo 3
*** Sulle rive del Nilo (II) ***


 
       Gavri’el aveva appena compiuto sedici anni, eppure non era quella la prima battaglia che affrontava sulle rive del Nilo.
Il suo carro era vecchio e le assi malconce scricchiolavano a ogni scossone, minacciando di cedere in ogni momento. I raggi di giunco di papiro delle ruote erano spezzati o accomodati con la corda, e non avrebbero mai più retto il peso di un guerriero egizio e del suo portatore di lancia.
Di cavalli, del resto, non ne avevano, e attaccati alle tirelle di cuoio ai due lati della stanga c’erano due ragazzini smilzi e seminudi.
Gavri’el torreggiava su quel carro, avvertendo nel sangue l’adrenalina che scorreva a fiotti e immaginando di essere un valoroso conducente di carri della Guardia della Sfinge. Non aveva bisogno di voltarsi per sapere che i compagni lo seguivano di corsa: le loro urla vibravano nell’aria, i loro passi risuonavano sempre più veloci come il battito del cuore.
Quando fu a pochi passi di distanza dal fossato dove si erano nascosti Tary e la sua banda, Gavri’el si voltò verso il piccolo esercito e sollevò di scatto un braccio. «All’assalto, truppe di Giza! Mettiamo in fuga le orde degli hyksos!»
I giovani soldati si divisero in due ali con l’ordine di aggirare la trincea nemica e attaccarla ai fianchi, mentre il suo carro avrebbe portato l’assalto frontale.
Quando giunsero in posizione ai lati del fossato, i ragazzini raccolsero dai secchi le munizioni di morbida creta bagnata e le catapultarono sui giovani nemici che si annidavano dentro. L’effetto sorpresa fu stupefacente. Molti difensori scoppiarono in lacrime quando le corpose palle di creta li colpirono senza tregua da ogni parte.
«Urrà! Gli hyksos sono sconfitti!» esultò Gavri’el.
Fu allora che una ragazzina emerse dove prima c’era soltanto la fanghiglia di limo e lo colpì in rapida successione con due proiettili sudici e molli, agile e spietata come una pantera.
Per camuffarsi meglio nel fango, Tary si era cosparsa interamente di melma, e adesso la sua pelle appariva nera e lucida, proprio come il manto del felino. Gavri’el l’avrebbe certamente scambiata per un jinn del fiume se non fosse stato per gli inconfondibili occhi nocciola che splendevano sul volto impiastricciato. Pur riconoscendola, restò così sbalordito che Tary poté approfittarne per sgattaiolare fuori dal fosso e fuggire via.
«Vieni a prendermi se ci riesci!» lo sbeffeggiò mentre gli porgeva la schiena e dimenava beffardamente i fianchi, facendo ondeggiare qualcosa che s’era annodata in vita. «Finché indosso io la coda di zebra, la regina degli hyksos non è sconfitta!»
Gavri’el saltò giù dal carro. Non perse tempo a replicare all’insolenza della ragazzina, sapeva che Tary era più veloce e gli sarebbe costato molta fatica recuperare i pochi passi che lo separavano da lei. Mentre già la rincorreva, si voltò una sola volta indietro: i compagni e la squadra di Tary erano scomparsi alle spalle, giudicando quell’inseguimento al di là delle loro forze.
Per oltre una lega, la giovane hyksos lo costrinse a inseguirla lungo la striscia verde che fiancheggiava il Nilo, zigzagando tra le palme e i papiri, e ben prima di quanto l’avesse previsto, Gavri’el la vide arrestarsi di colpo.
Un sorriso trionfale si allargò sulle labbra. Ormai esausto ma orgoglioso di sé, raggiunse Tary e l’afferrò per un braccio. «Ti ho presa!»
Un moto di delusione lo percorse subito dopo. Tary non lo degnò nemmeno di uno sguardo e con un gesto inequivocabile della mano gli intimò di tacere.
Gavri’el la fissò in cagnesco. «Ho vinto io oggi e la coda spetta a me, dammela!»
La ragazza lo ridusse al silenzio con un’occhiata. «Osserva bene quel folto cespuglio di papiri là in fondo, proprio vicino all’acqua, cosa vedi?»
Doveva essere uno dei suoi trucchi. Gavri’el guardò con sospetto in quella direzione. «Vedo dei papiri e le acque del Nilo, cos’altro dovrei vedere, per la dea?»
Tary sbuffò esasperata, roteando gli occhi. «Non vedi le due piccole chiazze marroni tra i fiori di papiro?»
Gavri’el esaminò con attenzione il punto in cui i caratteristici fiori a ombrello color paglierino, che spuntavano all’estremità dei papiri, ne avevano inclinato verso il basso il fusto. Sgranò gli occhi. «Per Seth, le vedo! Due grandi orecchie!»
«Oh, non sono poi tanto grandi! E parla a voce più bassa, vuoi farti sentire anche da lui
A circa cinquanta passi di distanza, nascosto tra i ciuffi d’erba e le infiorescenze dei papiri, si trovava un cucciolo di leone.
«Credi che potremmo avvicinarci, per vederlo meglio?» domandò Tary con la voce arrochita dall’eccitazione.
Tutti i sensi di Gavri’el erano all’erta. Il cucciolo era troppo piccolo perché la madre potesse essere lontana.
Lo sguardo di Tary, sempre altezzoso, adesso era improvvisamente tornato quello di una ragazza di sedici anni, desiderosa di osservare più da vicino il cucciolo di leone.
Gavri’el si bagnò un dito con la saliva e valutò che erano sottovento rispetto alla macchia di papiri. A destra scorreva il Nilo, e questo escludeva che la leonessa potesse sorprenderli da quella direzione. Giza si trovava alle loro spalle, sopravvento, e con la leggera brezza che spirava dal fiume a favore, la leonessa avrebbe potuto percepire il loro odore anche a una distanza di trecento passi: non era raro che quelle belve si spingessero fino ai margini della città, attirate dalle vacche, dalle oche o dalle galline che si abbeveravano sulla riva del fiume.
Tary lo stava implorando con occhi grandi e liquidi, sfoggiando lo stesso sguardo incantevole che adoperava ogni volta che voleva vincere un capriccio. «Vorrei tanto poterlo accarezzare… ti farò vincere per una stagione intera se hai abbastanza coraggio da portarmelo qui!»
Gavri’el sapeva che era rischioso, ma se solo avesse voluto – si disse – sarebbe riuscito ad accontentare Tary e a riportare il cucciolo indietro, prima che la leonessa fosse tornata. Poi si ricordò delle storie raccontate dal padre e di quando l’aveva ammonito che niente attira di più la ferocia di una leonessa che un uomo vicino ai suoi piccoli.
Afferrò il polso di Tary. «Presto, andiamo via di qui. La madre del piccolo potrebbe tornare da un momento all’altro.»
«Ma Gavri’el…» protestò lei, divincolandosi dalla stretta. «Sei un codardo, ecco quel che sei!»
«E tu sei la ragazza più testarda e capricciosa che conosco! Questo non è un gioco, andiamo via se non vuoi fare la fine dei vitelli sacrificati alla dea.»
Gavri’el si voltò e iniziò a incamminarsi verso la via del ritorno. Tary sollevò gli occhi al cielo, sbuffò, e corse a raggiungerlo.
 
***
 
Il cucciolo si sporse oltre il folto ciuffo di papiri e osservò con interesse la coda di zebra che ondeggiava dai fianchi di Tary. Il suo istinto di cacciatore vinse la paura e la seguì trotterellando rasente al suolo. Quando l’ebbe quasi raggiunta, si riparò dietro un sasso, attese qualche istante, e con un guizzo della zampa anteriore si avventò sull’estremità nera e pelosa della coda.
Tary avvertì un pizzicotto e rovesciò d’istinto sulla guancia di Gavri’el un poderoso schiaffo a mano aperta. Poi la sua attenzione fu subito catturata da un curioso brontolio alle spalle: il cucciolo aveva mancato il bersaglio e si era accucciato dietro un ciuffo d’erba, nel patetico tentativo di nascondersi.
«Ci ha seguito! Oh, guardalo, Gavri’el… com’è dolce!»
Vistosi irrimediabilmente scoperto, il piccolo leone mutò strategia. Si acquattò ancora di più sulle zampe e ringhiò, dimenando nervosamente il posteriore.
«Oh, guarda come muove la coda! E per la dea, fa le fusa! Forse ha perso la madre, forse…» azzardò Tary, «potrei prenderlo in braccio.» Non appena si avvicinò, il cucciolo tirò le orecchie all’indietro e le balzò addosso.
Deliziata che si gettasse proprio tra le sue braccia, Tary lo afferrò al volo e se lo portò al petto. Affondò le guance dentro il pelo morbido del piccolo e lo cullò come fosse un neonato.
Il leoncino, all’inizio nervoso e insofferente, si lasciò gradualmente tranquillizzare dal tono delicato della sua voce. Dopo l’iniziale tentativo di scalciare con le zampe posteriori, le annusò i capelli e cominciò a leccarli con la lingua ruvida e rosea.
Fu in quel momento che Tary udì il brontolio, pieno, cupo e feroce della madre del piccolo. Era proprio davanti a lei, a meno di cinquanta passi.
La fissava con occhi gialli e spietati.
 

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Capitolo 4
*** Sulle rive del Nilo (III) ***


Gavri’el comprese troppo tardi di essersi fatto distrarre e si voltò lentamente verso Tary. «Mettilo a terra.» La sua voce adesso era un sussurro.
La giovane hyksos era completamente paralizzata dalla paura e non riusciva a distogliere gli occhi dalla leonessa. Fu il piccolo leone a divincolarsi dalla sua stretta, balzò a terra e trotterellò docilmente verso la madre.
«Per la dea, non guardare la leonessa negli occhi!»
Tary abbassò immediatamente lo sguardo. 
«Brava, adesso non ti muovere. Per nessun motivo.»
«Ho paura» bisbigliò lei con la voce impastata e tremante. «Credi che moriremo, non è vero?»
La leonessa osservava attentamente il cucciolo che la stava raggiungendo e non osava ancora attaccare.
Gavri’el irrigidì la mascella. «Morirà solo uno di noi.»
Tary lo fissò con sospetto. «Cosa vuoi dire?»
«Ora ascolta e fa’ esattamente ciò che ti dico. Cercherò di attirare l’attenzione della madre. Quando sarai sicura che mi starà inseguendo, scappa nella direzione opposta e non fermarti finché non vedrai le prime case.»
«Tu devi essere matto.»
Gavri’el indicò con lo sguardo il coltello di selce che portava alla cintura. «Non darmi per spacciato, ho ancora questo con me.»
«Con quello non uccideresti nemmeno una lucertola.»
«Ti dimostrerò invece quanto valgo.»
Tary socchiuse gli occhi e lo fissò con l’espressione ostinata che esibiva quando prendeva una decisione irremovibile. «Non scapperò come una vigliacca.»
In quello stesso momento il cucciolo raggiunse la leonessa. La madre lo annusò appena, ma quando il piccolo tentò di strofinarsi contro il suo fianco, digrignò le zanne e ringhiò, ricacciandolo indietro. La belva si acquattò sul terreno e tese le orecchie all’indietro.
«Per le sette teste di Seth, sta per attaccare!»
«Gettiamoci in acqua! Il Nilo ci salverà!» strillò Tary.
Gavri’el scosse la testa. «Ci sarebbe addosso prima di raggiungere il fiume.»
«Allora ci divideremo e almeno uno di noi potrà salvarsi. Ma fuggiremo assieme, giuramelo sulla dea!»
«Per l’immondo Seth, non è questo il momento per discutere!»
Tary lo fulminò con lo sguardo. «Io non sono tua moglie e non ti obbedisco, né prendo ordini da te.»
Gavri’el sapeva cosa doveva fare. Eppure, la paura di andare incontro alla morte gli intorpidiva le gambe ed esitava a scattare per primo. Sopra ogni cosa desiderava che l’amica vivesse, malgrado ciò tremava.
Troppo tardi scoprì che con incredibile coraggio Tary lo aveva preceduto.
 
***
 
Le gambe scattarono nel momento stesso in cui ebbe l’idea. Tary vide il Nilo che si avvicinava sussultando, la superficie velata dalle sue stesse lacrime.
«Spetta al più veloce far da esca! Lo sanno tutti che sono più svelta di te!»
Nel silenzio della sua mente, Tary continuava a ripetere: non hai ancora capito che sono disposta a tutto per te!
Singhiozzava disperata, perché quelle parole non le uscirono mai di bocca e Gavri’el non le avrebbe mai udite. Mai più!
Tary aveva tentato, eppure ogni volta le era parso così assurdo che lui potesse ricambiare i suoi sentimenti. Per Gavri’el era soltanto la terribile ragazzina con cui giocare alla guerra, la compagna di giochi, l’amica d’infanzia. Non poteva essere nient’altro e lui non avrebbe mai conosciuto i suoi pensieri.
Mai più.
 
***
 
Gavri’el fissò la leonessa. Il movimento di Tary l’aveva fatta scattare in avanti come una molla, irresistibilmente attratta dalla preda che fuggiva.
Nella sua mente ogni cosa fu chiara come non lo era mai stata. Non ebbe più incertezze. Ciò che lo terrorizzava, infatti, non era lasciare la vita, ma lasciare ciò che le dava un senso. Fu allora che realizzò che a dare un senso ai suoi giorni erano gli occhi nocciola di Tary, i suoi lunghi riccioli, i suoi capricci, i suoi sorrisi, i suoi rimproveri e adesso le sue lacrime.
Non perse tempo. Scattò incontro alla belva, urlando come un ossesso, nel tentativo di richiamare su di sé la sua attenzione e distoglierla dalla ragazza.
La leonessa rallentò appena la corsa. Gavri’el gridò ancora più forte, raccolse un sasso e glielo scagliò contro. Una volta, due volte, finché il felino non cambiò bersaglio e si lanciò finalmente verso di lui.
  Tirò fuori dalla cintura il piccolo coltello di selce e si preparò ad affrontare la belva.
Ancora qualche momento e la leonessa avrebbe spiccato il balzo con cui lo avrebbe travolto. Sapeva che i lunghi artigli gli avrebbero dilaniato le carni, mentre le zanne avrebbero cercato di stritolargli il cranio tra le fauci.
Gli ultimi pensieri furono per Tary. Era così orgogliosa e testarda che era scattata per prima solo per non ubbidirgli. L’amò anche per questo. Aveva sempre saputo che Tary non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti, in lei scorreva il sangue focoso della stirpe reale degli hyksos, lui invece era solo un nemeh, figlio di una famiglia povera che non possedeva nulla.
La consapevolezza di sacrificarsi per strapparla alla morte gli diede il coraggio di affrontare qualsiasi prova, persino quella di sfidare l’indignazione della ragazza. «Stavolta ho vinto io, piccola hyksos ribelle! Non puoi più fare di testa tua!»
Tary si era bloccata a poca distanza dal fiume e lo stava osservando con orrore.
«Il giorno che saresti divenuta mia moglie, per Seth, mi avresti obbedito!»
Tary abbozzò un sorriso. Le lacrime le offuscarono a tal punto la vista che non vide l’ombra mostruosa emergere dai canneti alle spalle di Gavri’el.
 
***
 
La leonessa gli era ormai addosso.
Adesso che era giunto il momento di affrontare la morte, Gavri’el scoprì che non aveva paura.
Sollevò la mano che reggeva il coltello di selce.
Si domandò quanto sarebbe durato il dolore.
Lottò per non chiudere gli occhi. Vide la leonessa spalancare le fauci e si preparò a essere investito dal suo rauco ruggito. Udì soltanto un suono simile a un lamento. La vide indietreggiare.
Gavri’el non fece in tempo a voltarsi. Un ruggito cupo e gutturale esplose invece alle spalle, aumentò sempre più d’intensità, vibrando nell’aria e dentro le ossa. Gavri’el si rannicchiò a terra, coprendosi le orecchie con le mani. Il coltello gli sfuggì di mano.
Quando tornò il silenzio, si accorse di tremare in maniera incontrollata.
Ci fu un fruscio di passi felpati, il ruggito si ridusse a un basso brontolio, un’ombra gigantesca strisciò sul terreno.
Gavri’el si raggomitolò su se stesso, nascose il volto tra le braccia e le ginocchia, chiuse gli occhi. Sentì il respiro caldo della belva sulla propria schiena, udì la coda che sferzava l’aria come una frusta.
Niente l’aveva mai spaventato come quel ruggito, eppure avvertiva il desiderio innaturale di sollevare la testa e guardare. Scostò appena le braccia dagli occhi. Davanti a lui c’era una leonessa enorme, la luce splendeva sopra il suo manto come oro liquido. Lo stava studiando attraverso occhi dorati, messaggeri di una saggezza senza tempo.
La bestia proruppe in un nuovo immane ruggito.
Gavri’el serrò gli occhi tra le palpebre. L’eco di quel grido disumano sembrava non dovesse più finire.
Ora che era giunto il momento, si pentì di non aver mai trovato il coraggio di dire a Tary che l’amava. Sarebbe morto e lei non l’avrebbe mai saputo.
 
***
 
Tary non poteva credere ai suoi occhi. Batté le palpebre nel tentativo di cacciare via le lacrime che le confondevano la vista.
La seconda leonessa era apparsa dal nulla alle spalle di Gavri’el, l’aveva annusato per qualche istante, poi si era voltata ed era scomparsa pigramente tra i canneti. Il piccolo leone e la madre erano scomparsi, messi in fuga dai suoi ruggiti. Tary comprese che la belva non aveva mai voluto far del male al ragazzo, gli aveva invece salvato la vita.
Corse a perdifiato verso Gavri’el e lo travolse col suo abbraccio. Restò avvinghiata a lui a lungo, ridendo e piangendo allo stesso tempo, finché non si abbandonarono a terra, increduli e sfiniti.
Fu Tary a parlare per prima. «La dea ti ha salvato la vita.»
«Tu credi davvero che fosse lei?»
«Chi altri, sennò?»
Lui annuì, pensieroso.
Tary si morse il labbro inferiore. «Com’è stato guardare la dea negli occhi?»
Gavri’el deglutì. «Credevo di morire, eppure non potevo fare a meno di fissarla.»
«Siamo stati molto fortunati, la dea si rivela solo ogni sette piene del Nilo…»
«Durante la Festa del Leone» proseguì Gavri’el. «Manca solo qualche giorno alla prossima ricorrenza.»
Ci fu un breve silenzio. «E così tu, Gavri’el, avresti manifestato il desiderio di chiedermi in moglie» cinguettò Tary con malizia. «Non sei ancora un po’ troppo giovane? Come credi di provvedere al mantenimento di un’autentica principessa hyksos?»
Lui non trovò nessuna parola in risposta, in compenso arrossì fino alla punta delle orecchie.
Tary si concesse di farlo crogiolare nell’imbarazzo per qualche tempo, poi incrociò le braccia sul petto. «Prima che arrivi quel giorno, dovrai farti perdonare l’oltraggio di avermi urlato che sono la ragazza più testarda e capricciosa che conosci.» Tamburellò con le dita sulle braccia. «Né dimentico che mi hai chiamata piccola hyksos ribelle» aggiunse inviperita.
Gavri’el finalmente sollevò lo sguardo da terra e apparve così avvilito che lei non sopportò più l’idea di vederlo in quello stato. Si morse ancora il labbro inferiore e mormorò: «E io mi farò perdonare di averti chiamato codardo, quando invece eri pronto a sacrificare la vita per me.»
Tary era ancora confusa e deliziata da quel gesto. Scrutò a lungo gli straordinari occhi del ragazzo, cercando di leggervi i pensieri più intimi. Dalle pupille s’irradiava un’aura insondabile, grigia e azzurra come il cielo, racchiusa dai contorni blu scuri dell’iride. Un colore che Tary non aveva mai visto nello sguardo di un Figlio dell’Uomo.
Quegli occhi, dalla luce così brillante e intensa, spiccavano sul viso di Gavri’el come gemme preziose, in contrasto con la carnagione dorata dal sole e con la cascata di ciocche brune e ondulate che cadevano fino a sfiorargli le spalle.
Tary indugiò per un istante sul corpo seminudo del ragazzo. Snello e liscio come quello di un adolescente, cominciava già a tradire i tratti più mascolini della virilità. Il rilievo armonioso dei muscoli era appena accennato, eppure visibile alla luce chiaroscurata del crepuscolo.
In quel momento, mentre lo guardava, Tary fu acutamente consapevole di uno strano e piacevole brivido che nasceva dal ventre e si diffondeva in tutto il suo essere.
Durante il viaggio di ritorno, mentre camminavano e discorrevano, le loro mani si toccarono e si sfiorarono più volte, involontariamente. Tary non seppe mai se fu la paura per il pericolo scampato, l’emozione, o l’affetto rafforzato da quell’esperienza: a un tratto le sembrò che le loro dita si fossero intrecciate da sole, le une in quelle dell’altro, attratte da una forza irresistibile. Gavri’el non sembrò notare né commentò mai l’accaduto, eppure non le lasciò la mano finché non arrivarono a casa.  
Quella notte Tary si addormentò con un sorriso sulle labbra, sognando gli incredibili occhi di cielo del ragazzo. Ignara che il mondo, così come lo conosceva, sarebbe scomparso per sempre al suo risveglio.

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Capitolo 5
*** Lance insanguinate (I) ***


Lance insanguinate

 
 
Tempio di Delphi, Antica Grecia.



L'accadico venne condotto all’interno dell'adyton, la camera sacra del tempio di Delphi.
Creata in corrispondenza della preesistente cavità naturale, consisteva in una cella sotterranea dove il supplice avrebbe potuto consultare la vergine e ottenere il suo vaticinio.
Seduta sull’alto tripode e avvolta in un mantello scarlatto, Delphi inspirava i fumi che promanavano dalla fenditura nella roccia.
Non aprì gli occhi quando udì i passi dell’uomo avvicinarsi. Non urlò per avvertire i custodi del tempio. Non denunciò l’empia profanazione, ma accolse Sargon con un sorriso.
L’accadico lasciò che i polmoni si colmassero dei fumi dell’oracolo e si chinò su di lei per congiungere le labbra alle sue.
Delphi finse di ribellarsi, non desiderando altro che le mani di Sargon l’avvolgessero completamente. Un secondo bacio, assai meno casto, vinse ogni sua resistenza. Ogni cosa si ridusse al bisogno di essere amata.
 Nessun uomo l’aveva mai toccata in quel modo, Delphi non riusciva a pensare, non riusciva a respirare. Si lasciò sfuggire un gemito.
Poi accadde qualcosa.
Il suo corpo s’irrigidì.
Il fuoco che le incendiava la pelle mutò in un brivido gelido.
La mente fu travolta da una pioggia di schegge luminose. Frammenti del passato e del futuro si agitarono e si mescolarono con tale violenza nei suoi pensieri da paralizzarla dal terrore. Con un grido disperato respinse l’amante dal corpo, fissandolo con occhi vitrei.
Alcune gocce di sangue scuro e denso le scivolarono dal naso.
«Per gli dèi, Delphi, cosa ti prende?»
Lei guardò Sargon senza vederlo, la visione le fluttuava ancora davanti agli occhi, come fosse reale, palpabile, tangibile.
Una percezione sfuggente di lei, dell’amante, di armati del tempio, di grida, di lance insanguinate…
E poi, sempre più velocemente.
Una barca che prendeva il largo, il sacro omphalos, un colossale monumento che oscurava il sole, foglie di palme in fiamme riflesse sull’acqua immota, incredibili occhi di cielo che la fissavano dal basso iniettati di paura, e altri occhi, completamente, mostruosamente bui...
Le immagini si riversarono dentro di lei come in un vortice, sempre più confuse.
Un deserto di sabbia nera, un lago di tenebra, e ancora gli stessi occhi cupi che la fissavano e diventavano più grandi, smisurati, fino a occupare tutta la mente, finché non furono più occhi ma due crateri bui, il baratro gemello di un vulcano.
L’oscurità fu strappata all’improvviso da un’esplosione di luce, più accecante del sole, più terrificante dell’abisso. Ogni cosa, ogni forma, ogni colore implose su se stesso e si annullò all’interno di una lama di luce. Fu la notte. Desolata e gelida, infinita e priva di vita. Non restò che il vuoto e il silenzio. E la morte che ammantava ogni cosa.
La disperazione l’avvolse come un sudario e pianse, travolta dal dolore.
Sargon le afferrò le spalle e la scosse con forza. Delphi si destò di soprassalto, boccheggiando. «Sanno tutto! Sanno di noi!» gridò. «Presto, dobbiamo fuggire! Stanno per entrare, li ho visti!»
«Non ho paura di combattere, donna.»
«Non capisci, sono in molti e tu sei disarmato!»
«Che vengano! Ishtar mi protegge e io proteggerò te.»
Delphi cercò freneticamente le parole per convincere l’accadico, ma già i primi passi echeggiavano in fondo alla stretta scalinata che conduceva al sacrario.
Vide Sargon nascondersi dietro la parete rocciosa a lato dell’ingresso. Si guardò attorno. La roccia nera scolpita dai bassorilievi l’avvolgeva in un abbraccio soffocante e opprimente.
I custodi del tempio avevano già imboccato l’unica via d’uscita disponibile. Non c’era speranza di fuga.
Erano vicini. I rumori sulle scale cessarono all’improvviso e calò il silenzio. Delphi se ne stette lì, immobile, ad aspettare che sbucassero dalle tenebre.
 
***
 
La punta bronzea di una lancia emerse dall’entrata dell’adyton. La luce mossa delle torce ne proiettò l’ombra sottile sulla superficie irregolare della pietra.
Sargon la osservò crescere e allungarsi.
Erano arrivati, ma quanti erano?
Il guerriero di Akkad desiderò poter stringere l’elsa di una spada, ma nessun supplice poteva varcare quella soglia armato: per non destare sospetti tra i custodi e i pellegrini era stato costretto a nascondere le armi lontano dal tempio.
Sargon maledisse il dio Marduk e si appiattì ancora di più alla parete, i muscoli tesi, pronti ad agire. L’attesa era insostenibile. Con la coda dell’occhio scorse Delphi, seduta sul bacile del tripode, assorta in una silenziosa preghiera. Forse il suo dio l’avrebbe ascoltata.
Aveva detto alla donna che Ishtar lo avrebbe protetto, perché le aveva mentito?
Da quando aveva lasciato la sua terra al di là dei monti Zagros, la dea non gli aveva più parlato, nemmeno un segno era più giunto da lei. La Divina Ishtar, la Signora della Luce Risplendente, sapeva che era divenuto un reietto, un codardo. Che aveva perso ogni cosa, persino l’onore. Da allora, aveva cercato la morte in molte battaglie per riparare il suo debito, eppure era sempre sopravvissuto. Finché un giorno, tra quelle stesse mura, aveva conosciuto Delphi.
Era così grato a quella donna che non osava neppure domandarle perché rischiava la vita per lui. Temeva la risposta, poiché avrebbe soltanto provato che era indegno di lei. Ne aveva la certezza, come era certo che quel giorno l’avrebbe difesa, con ogni mezzo, a costo della vita.
Udì il calpestio di altri passi provenire dalla sommità dei gradini. Comprese che gli armati si stavano accalcando all’ingresso dell’adyton.
Una voce spezzò il silenzio. «Siete in pericolo, sacerdotessa, tutto il nostro ordine è in pericolo! Dov’è lo straniero? Dove si nasconde?»
Sargon si voltò: Delphi era immobile, paralizzata dalla paura. La voce incerta e tremante della donna vibrò nella cavità. «Andate via, chi cercate non è più qui! Vi prego, andate via!»
«Quell’uomo è un impostore, una minaccia per il nostro ordine, non proteggetelo» le intimò la voce. «I Maestri del tempio mostreranno clemenza se vi pentirete, dopotutto voi siete la prescelta degli dèi.»
«I Maestri del tempio mi hanno imprigionata in questa grotta, soltanto perché potessero arricchirsi con le offerte dei supplici!» strillò Delphi. «Sono loro ad aver tradito gli dèi, non io!»
L’accadico vide il braccio del custode emergere dal buio, la sua ombra strisciò oltre la soglia dell’adyton. Avanzava con cautela, con lentezza esasperata, era così vicino...
Sargon reagì in un lampo. La mano si serrò intorno al polso dell’uomo, mentre l’altra, con uno strappo violento, s’impossessò della lancia. Un grido di stupore echeggiò tra le pareti di roccia. Un istante dopo, l’accadico uscì allo scoperto, roteò l’arma, e la sprofondò nel ventre del nemico.
Quando la ritrasse, l’uomo crollò a terra, subito sostituito dal custode alle spalle. Il soldato si lanciò immediatamente oltre la strettoia, Sargon ne deviò facilmente l’attacco con la parte alta dell’arma, e con un unico movimento fluido, trasformò la parata in un fendente. L’uomo dilatò gli occhi e stramazzò al suolo.
Un altro custode ne prese il posto e Sargon lo trafisse al petto, senza nemmeno dargli il tempo di attaccare. L’uomo non cadde, dalle labbra gorgoglianti affiorò invece un sorriso maligno. Il soldato afferrò con entrambe le mani l’asta che sporgeva dal torace e con un grido disumano la spezzò.
Senza più armi per respingere gli assalitori, Sargon indietreggiò, mentre i custodi del tempio si riversavano dentro l’adyton.
Il panico gli artigliò il cuore. Cercò di calmare il respiro, si guardò attorno: quattro uomini lo circondavano, le punte delle lance erano rivolte su di lui da ogni direzione.
Erano in troppi. Non aveva un’arma. Come poteva difendere Delphi? Cosa poteva fare? Non ebbe la possibilità di stabilirlo.
 
***

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Capitolo 6
*** Lance insanguinate (II) ***


Delphi strillò.
La sua voce vibrò a lungo tra le pareti del luogo sacro. Quando l’eco si spense, il custode più vicino sollevò la lancia e si avventò contro Sargon. L’accadico non aspettava altro: si scansò di lato e fece scivolare l’arma sotto l’incavo della spalla destra, quindi serrò la mano sinistra sull’asta. La strappò. Il suo avversario lo fissò con occhi sbarrati.
In quello stesso istante, gli altri tre armati lo attaccarono. Le loro voci ruggirono dietro di lui. Sargon non perse tempo a impugnare la lancia, ma ruotò su se stesso con l’arma stretta sotto il braccio. I custodi balzarono all’indietro per schivare il raggio descritto dalla punta di bronzo.
L’accadico memorizzò le loro posizioni. Colpì con un calcio l’uomo che trovò di fronte, scaraventandolo a terra. Sfilò l’asta da sotto il braccio, e senza voltarsi, l’affondò con un movimento secco nel ventre del custode che si trovava alle spalle. Tirò indietro la lancia appena in tempo per parare l’assalto del quarto custode, deviandone di lato il colpo. Non si fermò.
Disegnò un arco scintillante nel buio, facendo roteare l’asta con un movimento del polso, afferrò la lancia con entrambe le mani e colpì il nemico sotto il mento, squarciandogli la gola.
Il soldato che aveva gettato a terra si rialzò e si lanciò contro di lui. Sargon respirò con affanno, il cuore sembrava pompare sangue direttamente nelle tempie, sentì il braccio pesante e intorpidito. Aveva solo un istante.
Bloccò a un soffio dal ventre la lancia dell’avversario, le due aste si incrociarono. Sargon abbassò il mento e si scagliò contro il custode, colpendolo con la testa in pieno volto. L’uomo barcollò all’indietro, Sargon ne approfittò per disimpegnare la lancia e sprofondargliela nel petto.
Non poteva fermarsi. Ritirò di scatto l’arma ancora grondante di sangue. Annaspò in cerca d’aria e intravide il primo custode cui aveva sottratto la lancia. Era l’unico rimasto in vita e stava indietreggiando verso le scale.
Il soldato lo fissò come se avesse di fronte un jinn, uno spirito di un altro mondo. Sargon scorse l’orrore del massacro appena compiuto in quegli occhi folli di paura. Il custode urlò qualcosa e fuggì verso le scale, ma incespicò sul cadavere di un compagno e rovinò a terra.
L’accadico lo raggiunse con un balzo e lo bloccò a terra con un piede. Dentro di sé percepiva sofferenza, tristezza, ma non pietà. Il soldato lo supplicò di risparmiargli la vita, poi le sue grida cessarono di colpo e le mura del luogo sacro furono di nuovo immerse nel silenzio.
Aveva ucciso ancora, aveva dovuto farlo – si disse – per difendere Delphi, e ancora una volta era sopravvissuto. Sargon gettò a terra la lancia insanguinata e cercò Delphi con lo sguardo. La donna non si era mossa dal tripode.
«Perché l’hai ucciso?» domandò lei in un sussurro.
«Presto ci daranno la caccia e la misericordia non ci aiuterà a disperdere le nostre tracce.»
«Non hai avuto pietà.»
Il volto dell’accadico si adombrò. «Forse non mi conosci del tutto. Forse… ora esiterai ad accettarmi per quello che sono.» Una parte di lui desiderava che la donna lo respingesse, che lo odiasse almeno quanto lui odiava se stesso, per questa ragione le sue parole furono così dure.
Delphi scrollò la cascata di riccioli, senza tradire alcuna incertezza nella voce. «Tu sei il mio uomo, Sargon. L’ho visto nella visione.»
«Per l’immondo Marduk!» scattò lui. «Cosa importa di ciò che hai visto con gli occhi degli dèi? Cosa vedi tu?»
«Io so che tu mi salverai.»
«Io non ti salverò Delphi. Io ti ho condannata a una vita da reietta! Per causa mia hai profanato la purezza del tuo corpo, hai tradito le leggi del tempio! Come posso salvarti io se sono colpevole di tutto questo?»
«Non capisci!» gridò lei, disperata. «Questa grotta è stata la mia prigione per sedici anni! Tu sei il mio uomo, Sargon, perché tu mi porterai via da qui.»
L’accadico la scrutò per qualche istante, poi s’inchinò sul cadavere del custode, gli strappò il pugnale dalla cintura e si avvicinò alla donna. «Se verrai con me, dovrai imparare a usarlo.»
Sargon le offrì la mano e lei lasciò che le dita si intrecciassero alle sue. Mentre s’incamminavano verso le scale, Delphi esitò un istante, afferrò la clessidra d’oro che brillava sopra una nicchia dell’altare e la strinse al petto. Il sacro omphalos era tutto ciò che le aveva lasciato l’Elohim.
 
***
 
All’uscita, Sargon e Delphi trovarono le cavalcature abbandonate dai custodi, ancora impastoiate alle colonne che circondavano la peristasi del tempio.
Scelsero due cavalli e imboccarono a folle velocità la Via Sacra, attraversando il sentiero limitato dai cipressi e dagli ulivi. Il paesaggio intorno sfumò rapidamente in una macchia che si dissolveva al loro passaggio. I cavalli lanciati al galoppo sollevavano a ogni falcata nubi di polvere e zolle di terra, mentre le gocce di sudore ne imperlavano i manti scuri.
Solo quando si fermarono Delphi ebbe il coraggio di guardarsi intorno. Davanti ai suoi occhi, le scintille di luce tremolavano senza soluzione di continuità sulle lievi increspature del mare nel Golfo di Corinto. Quando si voltò, vide l’enorme stadio dei Giochi Pitici e il Gymnasium che si stagliavano contro le pareti quasi verticali del monte Parnaso.
Sargon indicò una feluca ormeggiata a riva che ciondolava mollemente sulla risacca. Non appena smontarono dalle cavalcature, l’accadico sferzò entrambi i cavalli, incitandoli a gran voce a tornare verso il tempio. «In questo modo sarà meno facile trovare le nostre tracce» le spiegò.
Trovarono le armi che Sargon aveva nascosto prima di entrare nel tempio sotto una coltre di stracci a poppa della feluca. L’accadico estrasse la corda e il telaio di un arco, poi le dita si strinsero sull’elsa di uno spadone ancora infoderato nella custodia a tracolla.
Delphi fissò la clessidra d’oro che stringeva tra le dita e pensò alla visione che aveva avuto nell’adyton. Lance insanguinate, una barca che prendeva il largo, il sacro omphalos. Si sentì torcere le viscere dall’ansia. Mai una premonizione era stata tanto chiara e ravvicinata, cosa stava accadendo? E che cos’era quella desolazione infinita, quell’abisso gelido che infine avvolgeva il mondo, divorando ogni forma di vita?
Sargon si erse in equilibrio sul fasciame della barca. Il vento gli gonfiò il mantello che dalla spalla sinistra scendeva in diagonale sul petto, lasciando il braccio destro completamente nudo. Un ciuffo ribelle, sfuggito dalla crocchia intrecciata sulla nuca, gli oscillò davanti agli occhi. L’accadico estrasse lentamente la spada. La lama fuoriuscì con un suono metallico e si specchiò alla luce come se fosse stata appena forgiata.
Era l’arma più straordinaria che Delphi avesse mai visto. La guardia era scolpita in modo da riprodurre due ali stilizzate che si aprivano in volo. Gli intarsi sull’elsa descrivevano il piumaggio di un’aquila i cui artigli si aggrappavano in rilievo alla base della lama, mentre la testa e il grosso becco ricurvo davano forma al pomolo.
Con un solo fendente, Sargon liberò la barca dagli ormeggi.
Delphi si chiese ancora una volta chi fosse realmente quell’uomo.
Sapeva che entrambi erano molto più di quello che volevano far credere.
 

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Capitolo 7
*** Un velo di mica (I) ***



Gavri’el si alzò dal pagliericcio, sbadigliò e stiracchiò i muscoli.
Come ogni mattino, i genitori erano usciti alle prime luci dell’alba. L’approvvigionamento dell’acqua allo shaduf era la prima incombenza quotidiana di sua madre Nebet, mentre il padre già lavorava nei campi di dhurra e saggina.
La prima cosa che Gavri’el mise a fuoco fu la grande giara di terracotta accostata alla parete di fronte. Quando si avvicinò un odore pungente gli solleticò le narici.
Sfiorò con un dito il delizioso liquido color miele e lo portò alla bocca. L’aroma dell’orzo e del grano fermentato gli ricordò che la Festa del Leone era vicina. Il pensiero lo riempì di gioia: avrebbe rivisto la dea, e dopo la cerimonia, sarebbe iniziato per lui l’addestramento nella caserma di al-Khayma. Sarebbe diventato un soldato e allora nessuno lo avrebbe più chiamato nemeh.
Gavri’el abbandonò lo stanzone dove mangiava e dormiva la sua famiglia ed entrò nel piccolo ambiente riservato al culto domestico. Due lampade a olio gettavano una debole luce sulle numerose tavole offertorie, sui piccoli recipienti di lucida faience azzurra e su ogni genere di monili di argilla. Si diresse senza esitazioni verso il piccolo altare collocato in posizione rialzata sopra tre scalini, nascosto dietro due ante decorate con ritratti della Sfinge.
Gavri’el le aprì lentamente, facendo scricchiolare i vecchi battenti di legno, mentre un largo sorriso gli illuminò il volto. Il khopesch, la caratteristica spada corta di bronzo dell’esercito egiziano, si trovava proprio lì, avvolta in un panno di lino.
Accarezzò la superficie fredda dell’arma, ma le sue fantasie furono subito interrotte dal fragore di ruote che sobbalzavano sul terreno sassoso. Chiuse in fretta le ante e si lanciò verso l’ingresso.
 
***
 
Tary torreggiava sul carro lanciato al trotto come un vero condottiero. Le redini erano annodate più volte intorno ai polsi, in modo da mantenersi in equilibrio sulle assi di cedro d’alto fusto della Fenicia, mentre l’uomo che l’accompagnava, e che vigilava su di lei con evidente preoccupazione, più che il precettore sembrava il suo portatore di lancia.
Tary arrestò la coppia di giumente proprio davanti all’abitazione di fango e argilla di Gavri’el. «Aspettami qui» ordinò all’uomo accanto a lei. «Tornerò prima che si avvicini il tramonto.»
«Principessina Tary, ho ricevuto dal vostro nobile padre l’ordine di non lasciarvi allontanare da sola per nessun motivo» si lagnò il precettore.
Tary gli strizzò un occhio. «Ma il mio nobile padre non lo verrà mai a sapere. Sai di riporre saggiamente in me la tua fiducia.»
Mentre l’uomo scendeva dal carro, sospirando e scuotendo il capo, Tary si morse il labbro inferiore e fissò Gavri’el con impazienza.
«Ai vostri ordini, mia signora!» Gavri’el saltò sul lato posteriore aperto del cassone e si collocò alla destra della ragazza, fingendo di essere il suo portatore di lancia. Tary agitò le redini e il carro da guerra del padre si allontanò al piccolo galoppo.
«Dove siamo diretti, principessina Tary?» la canzonò lui.
La ragazza lo guardò come se fosse uno sciocco. «Alla dimora della dea, naturalmente.»
 
***
 
Una scia di polvere li inseguì fino alle porte orientali di Giza e li scortò ancora, mentre proseguivano al trotto sui sentieri sabbiosi della necropoli.
Le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, disposte in diagonale in modo che nessuna potesse mai oscurare il sole alle altre due, si stagliarono altissime e imponenti davanti ai loro occhi.
Le lucide lastre di calcare bianco che le rivestivano, interamente incise da grafemi, riflettevano la luce del giorno con un’intensità tale da far credere che tre soli fossero caduti sulla terra.
Cheope era la più imponente di tutte. Alta come cento uomini e larga centocinquanta, era visibile da qualsiasi punto sulla piana di Giza. Gavri’el contemplò incredulo la prova della potenza degli dèi. Sarebbero mai riusciti i Figli dell’Uomo, con le loro misere forze, a innalzare opere così grandiose?
Sovrastata dalle tre piramidi, poco più lontana, apparve la monumentale Sfinge di Giza, la dimora della dea. Tary lanciò le due giumente al galoppo e arrestò il carro accanto alle colossali zampe anteriori.
Quando balzarono a terra, erano entrambi ricoperti da un sottile velo di mica che accendeva al sole microscopiche stelle a ogni movimento. Tary lo afferrò per una mano e lo trascinò correndo tra i giganteschi arti di pietra della statua.
 La ragazza si fermò proprio sotto l’enorme testa del monolite, le labbra erano increspate in un sorriso che tratteneva a stento. Gli posò un dito sul petto nudo e cominciò a disegnare sul velo di polvere. Quando ebbe finito, indietreggiò di un passo e aggrottò la fronte come un artista di fronte al suo dipinto.
«Ecco cosa sei, Gavri’el… un grosso somaro!»
Lui strabuzzò gli occhi e abbassò il mento: quando riconobbe le grandi orecchie allungate, lo stupore cedette il passo a un finto sguardo accigliato.
Credendo autentico il suo disagio, Tary si pentì dello scherzo, si affrettò a raccogliere altra sabbia e gliela sparse sul torace. Imperterrita, tornò a tratteggiare nuove linee e quando finalmente fu soddisfatta del disegno, annunciò: «Questo è davvero ciò che sei per me.»
Gavri’el cercò di intuirne la forma, ma non era sicuro.
«Vedi questa?» lo aiutò Tary, ripercorrendo nuovamente con le dita l’agile muscolatura del petto. «È una chioma. Questo invece è il muso, poi i baffi… e queste sono le zanne» scandì con una luce diversa negli occhi, mentre quasi gli graffiava l’addome. «È un leone.»
Le labbra della giovane hyksos rimasero socchiuse, come se restassero ancora altre parole da dire. Come se l’atmosfera intorno al monolite fosse sospesa e il tempo si rifiutasse di scorrere ancora.
Tary si morsicò il labbro inferiore e prese a giocherellare con la coda di zebra che portava annodata in vita.
Tutto era cambiato così in fretta – pensò Gavri’el – da quando giocavano nudi nel fango sulla sponda occidentale del Nilo insieme agli altri monelli di Giza. Sebbene Tary non perdesse occasione per farsi beffe di lui e per irriderlo, come quando erano bambini, ora percepiva nel suo sguardo qualcosa che prima non c’era.
Un lampo di malizia balenò all’improvviso nei grandi occhi nocciola di Tary. «Prendimi...» bisbigliò lei, spezzando quel mutismo delizioso. «Prendimi, se sei capace!» Un istante dopo correva e zigzagava sulla sabbia rovente, strillando e ridendo.
Mentre cercava invano di acciuffarla, Gavri’el non poté fare a meno di ripetere nel silenzio della mente le stesse domande che lo tormentavano da tempo. Cosa ne sarebbe stato della loro amicizia se le avesse confessato i suoi sentimenti? Tary avrebbe mai potuto corrispondere l’amore di un nemeh? Avrebbe rischiato di perderla?
Gavri’el avrebbe dato ogni cosa per conoscere le risposte, eppure non c’era niente che temesse di più del momento in cui le avrebbe ottenute.
Non poteva sapere che un’angoscia persino maggiore tormentava anche lei.

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Capitolo 8
*** Un velo di mica (II) ***


Tary arrestò i cavalli davanti al cortile della lussuosa dimora, balzò agilmente a terra, e ordinò a un servo di occuparsi del carro da guerra e degli animali. Aveva appena accompagnato Gavri’el a casa ed era di buon umore.
Salutò allegra e spensierata gli schiavi all’ingresso, superò l’atrio dedicato al culto dei morti e corse tra le colonne di malachite di un ampio salone. Finalmente raggiunse la sala principale.
Adagiato su una panca di vimini, il padre muoveva nervosamente le pedine d’avorio lungo la piattaforma circolare del gioco del serpente. Agli angoli della stanza quattro ciotole di ceramica colme d’olio, su cui galleggiavano gli stoppini in fibra vegetale, diffondevano la luce mossa dal vento che penetrava da una grata sulla parete.
Tary si gelò sul posto.
Davanti al padre, in piedi, c’era un uomo. La sua tunica era ridotta a brani, il sangue non ancora coagulato strisciava sulle gambe e sui piedi, imbrattando il pavimento.
Tary riconobbe il precettore.
La sua schiena fu percorsa da un brivido quando il padre la salutò con indifferenza, senza alzare lo sguardo dalle pedine d’avorio.
«Bentornata, piccola mia.» Nella breve pausa che seguì, Tary si chiese se il genitore sapesse ogni cosa del suo piccolo inganno.
«Quando mi sono accorto che mancava un carro da guerra, ti ho fatto cercare dappertutto. Ero così in pena per te, piccola mia.»
La voce di Ephepi era fredda e inespressiva. «Ti avevo ordinato di non usare i miei carri da combattimento. Ti avevo raccomandato di non allontanarti per nessuna ragione dalle mura della città e dal tuo precettore. Ti avevo vietato di rivedere quei sudici ragazzini. Ma tu hai pensato che potevi trasgredire impunemente ognuna di queste regole, non è vero, piccola mia?»
Tary ingoiò il nodo che le si era formato in gola.
«Sei stata ancora con quel ragazzo, quel nemeh…» Ephepi pronunciò quella parola con tale disprezzo che gli angoli della bocca si deformarono in una smorfia di disgusto. «Tu insudici il mio nome!» urlò all’improvviso facendola sobbalzare per la sorpresa. «Disonori la tua famiglia! Ti circondi di lerciume, ti fai vedere insieme ai nemeh! Quale nobile potrà più avere interesse per te, piccola sgualdrina!»
«Padre, io…»
«Taci!»
Tary strinse i pugni lungo i fianchi. «Gavri’el diverrà un valoroso soldato e farà di tutto per essere degno…»
«TACI!» Il volto di Ephepi divenne paonazzo. «Pazza! Non nominare il nome di quel nemeh in casa mia! Non permetterò mai al mio sangue di mischiarsi con quei miserabili. Piuttosto ti cancellerò e ti toglierò il mio nome!»
Tary sostenne il suo sguardo con aria di sfida. «Prenditi il tuo nome. Non ho bisogno di essere Tary figlia di Ephepi per vivere felice!»
«Per vivere felice? Cosa m’importa della tua felicità? Tu mi obbedirai, piccola ribelle, a costo di frustarti come una schiava!»
La paura e la rabbia le artigliarono lo stomaco. «Fallo allora!» Tary sentiva il proprio corpo tremare, eppure sapeva che non avrebbe mai rinunciato a Gavri’el. Chiuse gli occhi e si voltò, porgendo al genitore la schiena.
Ephepi ruggì di rabbia. «Non mi sfidare!» Tary udì una frusta sibilare nell’aria, ci fu uno schiocco tremendo, e il rumore del cuoio che si abbatteva con violenza sul muro a poca distanza.
«No, non ti priverò adesso della tua grazia. Quant’è vero che mi chiamo Ephepi, nipote di Aphopis, che fu re degli hyksos, tu mi ricompenserai in futuro.» Il padre fece per andarsene, ma prima di varcare del tutto la soglia della stanza, aggiunse: «Se saprò che hai rivisto quel nemeh, giuro su Seth che lo ucciderò.»

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Capitolo 9
*** Un antico rancore ***


All’interno della piramide, l’aria era ancora satura del profumo del kyphi.
Anubi riconobbe l’essenza delle bacche di ginepro, del cedro e del terebinto, che impregnava i capelli e le parti intime delle Delicate. Si passò la lingua sulle labbra sfregiate e si voltò verso l’uomo che lo accompagnava. «Mio padre non è solo» sibilò.
«Oh sì, le Delicate sono la Sua ombra, mio signore... pericolose e seducenti come il buio» mormorò la voce untuosa del vizir. «Venite divino Anubi, seguitemi. Vi condurrò da Lui. Nessuno meglio di me conosce le gallerie di Abu Roasch.»
L’uomo sfilò una torcia dai sostegni fissati alle pareti e s’incamminò lungo il corridoio. Dietro le fessure della maschera da sciacallo che gli copriva il volto, Anubi osservò la luce tremolante che chiaroscurava i magnifici rilievi parietali di granito rosa del serdab. Raggiunsero il pozzo poco dopo. Una scalinata buia e tortuosa li condusse dentro le viscere della terra, finché non trovarono un’apertura rischiarata da centinaia di minuscole lampade a olio.
Oltre la soglia, immerse nella luce abbagliante, apparvero le Delicate.
Non appena udirono i suoi passi, le donne si voltarono di scatto, come pantere dagli artigli di metallo. I loro lunghi capelli ondeggiarono nell’aria, rivelando il lato sinistro del cranio completamente rasato sopra l’orecchio. In entrambe le mani stringevano gli ankh, le croci ansate con un’estremità allungata e rastremata, letali come il più affilato dei pugnali.
Anubi rivolse loro un inchino beffardo. Come una sola persona, le Delicate fecero sparire gli ankh nelle custodie legate alle cosce, e con la gelida grazia che ne distingueva ogni movimento si disposero in due file, permettendo al Nephilim di passare nel mezzo.
Anubi avanzò tra loro con cautela, colmandosi le narici con la fragranza dolciastra del kyphi. Inebriato da quel profumo, si passò lentamente la lingua sulle labbra, indugiando sui loro corpi.
I seni delle donne erano coperti da una fascia nera annodata dietro la schiena, mentre alla base del collo sfoggiavano il disegno dorato di una croce allungata, sormontata da un ovale. Anubi sapeva che era questo il triplice segno che simboleggiava la donna, l’ankh, e la Stella del Mattino, l’emblema del padre.
 I fianchi delle Delicate erano nudi e percorsi soltanto da una sottile cintura dorata. Su di essa erano appesi il tessuto triangolare centrale bordato d’oro e un altro più squadrato dietro la schiena.
Lo sguardo di Anubi scivolò sui nastri neri stretti intorno alle cosce, dove spiccavano le impugnature ovali degli ankh, e poi sulle caviglie, avvolte dai lacci dei sandali che si intrecciavano fin sotto al ginocchio.
Gli sguardi torvi delle donne, sottolineati dal kohl, lo eccitarono ancora di più.
Oltre le Delicate, di spalle, c’era Lui.
Dio.
Essere di Luce, Elohim, Helel.
Con questi e altri nomi si faceva chiamare suo padre dagli umani.
 
***
 
Helel lo aspettava in fondo alla camera del re, intento a studiare alcune iscrizioni parietali. 
La pelle sembrava catturare la luce del fuoco ed emanava una diafana luminosità, palpitante come le stelle in un cielo terso di notte. 
«Figlio mio diletto» mormorò il dio senza nemmeno voltarsi. La voce vibrò nell’aria come un gentile sussurro, eppure Anubi ne conosceva il veleno, la crudeltà, il potere illimitato. Rabbrividì.
Helel si girò di scatto. L’azzurro ghiacciato delle sue iridi avvolse Anubi in un gelido e impenetrabile sudario di paura. «Cosa ti tormenta, figliolo?»
Gli occhi del dio lo fissavano con tale intensità da temere che potessero vedere fin dentro le profondità della mente. Anubi indietreggiò di un passo e chinò il capo. «Nulla che sia degno della vostra attenzione, padre mio.»
«Parla» gli intimò l’Essere di Luce.
Anubi serrò con forza le dita attorno alla lancia di ossidiana, cercando di raccogliere tutto il proprio coraggio. Misurò attentamente le parole e il tono di voce prima di parlare.
«Padre, l’acqua ha scavato la pietra, la roccia è divenuta sabbia, epoche intere sono trascorse, così numerose da non poterle contare. Ho atteso che la piramide di Chefren fosse innalzata a testimonianza della vostra grandezza. Ho aspettato che Micerino si ergesse nella sua ombra. Ho visto l’immensa Cheope crescere fino a toccare il cielo. Ho posato io stesso il pyramidion in cima ad Abu Roasch.  Per tutto questo tempo vi ho servito, non cercando altro che la vostra approvazione. Vi ho mai deluso, padre?»
Gli occhi di cielo dell’Elohim crepitarono di bagliori elettrici. «No, non è mai accaduto, figlio mio.»
Anubi si portò le mani sul muso sporgente della maschera da sciacallo e con un deciso strattone la rimosse.
Il vizir di Abu Roasch si coprì la bocca in un muto grido di orrore, le Delicate arricciarono le labbra e distolsero lo sguardo.
Anubi digrignò i denti. Rabbia, odio, un’incontenibile brama di vendetta. Rivide le giovani mani della sorellastra che teneva ferme tra le sue, i capelli neri e lucenti di lei sparsi sul letto, gli occhi d’oro liquido che lo fissavano con ferocia. Ricordò l’odore di quel corpo nudo che lo eccitava in maniera quasi dolorosa. E poi il fuoco. Un dolore insopportabile e straziante. Fiamme bianche che gli divoravano la carne, sfigurandolo per sempre.
Il Nephilim gettò la testa all’indietro e un grido agghiacciante risuonò tra le pareti di pietra. «Il mio volto ripugna i vostri stessi sudditi, padre! Ascoltate il figlio che invoca vendetta!»
Il dio lo fissò con freddezza. La sua voce era bassa e venata da una sfumatura pericolosa. «Non sottovalutare la tua sorellastra. La Sfinge è potente, il sangue degli Elohim scorre nelle sue vene.»
«Non ho paura di lei! Nessuno può eguagliarmi in battaglia!» Anubi attese che il respiro si calmasse. «Padre, lei non sarà mai di nessuno, non vi obbedirà mai. Ogni suo respiro è un insulto alla vostra autorità.»
Helel si voltò verso la parete alle spalle e accarezzò i bassorilievi della falsaporta in alabastro.
«Le tue parole traboccano d’odio, figlio mio, eppure non mentono. Lei non sarà mai ciò che doveva essere» mormorò il dio come se stesse parlando a se stesso. «E sia, avrai la tua vendetta. Quando Giza celebrerà la Festa del Leone, marcia sulla città. Distruggila. Bruciala. Che le sue macerie siano da monito a chi osa ribellarsi al volere di un dio.»
«E mia sorella?» Anubi già assaporava il gusto dolciastro della vendetta, lo stesso sapore del sangue della Sfinge. Smaniava di affondare le unghie in quella pelle delicata, strappandole per sempre la sua sconvolgente bellezza. L’avrebbe ridotta a strisciare per terra, a supplicarlo in ginocchio. La sorellastra non lo avrebbe più rifiutato, allora. «Padre mio, ho finalmente il permesso di occuparmi di lei?»
L’Elohim tornò a guardarlo negli occhi. Una coda sottile e sinuosa che sembrava rivestita di madreperla guizzò nell’aria, lo sguardo di cielo del dio rifulgeva di una luce soprannaturale.
«Fanne ciò che vuoi» fu la sua risposta. 

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Capitolo 10
*** Rotta per Giza (I) ***


La feluca si allontanava rapidamente dal Golfo di Corinto, mentre la vetta imbiancata del monte Parnaso appariva appena distinguibile all’orizzonte.
Delphi udì lo sciabordio dell’acqua intorno alla carena e lo schiocco sordo del vento che gonfiava la vela triangolare. Più di questo, udiva il proprio cuore martellare nel petto. Non riuscì più a trattenere la propria inquietudine. «Per tutti gli dèi, cosa faremo adesso?»
Prima di rispondere, Sargon scrollò i lunghi capelli neri e iniziò a intrecciarli con calma in una crocchia sulla nuca. «Scapperemo, ci nasconderemo. È quel che so fare meglio» replicò con un sorriso storto.
Delphi osservò la mascella forte dell’uomo, ricoperta da una corta barba. «Abbiamo dissacrato il tempio, mio diletto. Abbiamo ucciso…»
«Dunque è questo l’orribile futuro che hai visto nell’adyton e che ora ti spaventa?»
«Oh Sargon, tu sai così poco di me! Quanto poco ti ho raccontato! Vorrai ancora amarmi quando saprai ogni cosa?» Delphi gli afferrò un braccio, stringendolo con forza. «Non ho visto soltanto i custodi quando ci amavamo nel tempio, qualcosa di molto più terribile e sconvolgente è apparso ai miei occhi, qualcosa che mi tormenta da quando ho avuto la prima visione.» La donna ridusse la voce a un sussurro. «L’ordine di Delphi custodisce antichi segreti, vecchi quanto il mondo stesso. I Maestri del tempio non si rassegneranno finché non mi avranno trovata.»
«Allora ti porterò oltre i monti Zagros» giurò Sargon. «Nelle terre inesplorate ai confini del mondo, dove non potranno mai trovarci.»
Lei già non lo ascoltava, si avvicinò ancora di più e sollevò un braccio. «Vedi questi simboli intorno al polso?»
L’accadico annuì, sorpreso dall’angoscia che traspariva dalla voce della donna.
«Non sono semplici ornamenti, non sono disegni dipinti dalla mano dell’uomo» spiegò lei con la voce arrochita dalla disperazione. «Sono i grafemi sacri agli dèi.» Delphi scandì lentamente quelle parole, come se stesse pronunciando una maledizione.
Sargon fissò incredulo il braccio della donna. «Questi segni… sono i simboli degli dèi? I grafemi degli Annunaki? La parola scritta proibita ai Figli dell’Uomo?» L’accadico scosse la testa, sconvolto. «Non prenderti gioco di me, donna!»
«Vorrei che non fosse così, mio diletto, ma è la verità.» La voce di Delphi era ferma e sicura adesso. I suoi occhi non mentivano. «I Maestri del tempio mi chiamano la Stele dei Sogni. Sono stata scelta quando avevo tredici anni.» Delphi guardò le incisioni sulle proprie braccia. «È stata l’Elohim a farmi questo.»
Sargon aggrottò la fronte. «Non ho mai sentito questo nome.»
«Gli Elohim sono i padri e le madri dei Figli del Cielo, mio diletto. Molte migliaia di anni fa, gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero le loro figlie. Fu allora che nacquero i primi Nephilim, quando gli Elohim si unirono alle Figlie degli Uomini ed esse diedero alla luce i loro eredi.»
Sargon la fissò di sottecchi. «Nella lingua di Akkad, questi esseri sono conosciuti col nome di Annunaki
«Gli Elohim e i loro figli hanno molti nomi, mio diletto, ma per tutti i popoli essi sono gli dèi.» Delphi incrociò le braccia sul petto, stringendole come se sentisse freddo. «L’Elohim mi ha parlato come in un sogno, le sue parole erano visioni, il loro significato è rimasto inciso per sempre sul mio corpo.»
«Ciò che hai visto nell’adyton, allora…»
Lei annuì con decisione. «La visione comincia con immagini sempre diverse. Spesso nei primi momenti rivela un futuro imminente: è così che ho previsto l’arrivo dei custodi quando eravamo nel tempio. Poi ogni cosa si fa più confusa, il tempo si dilata e scorre sempre più veloce, le immagini si affollano nella mente. Ma nemmeno il più saggio può sapere se quel futuro accadrà tra un giorno o tra mille anni.»
Delphi fu percorsa da un brivido e si strinse le braccia al petto ancora più forte. «Scorgo con chiarezza solo il volto di un ragazzo. L’Araldo, lo chiamano i Maestri del mio ordine, poiché egli annuncerà la fine dell’era in cui viviamo. Mi osserva con strani occhi di un colore mai visto in un uomo, azzurri come il cielo. Il suo sguardo è invaso dal terrore e alle sue spalle intravedo una città in fiamme. Poi l’immagine svanisce e mi ritrovo in un luogo spaventoso e tetro, dove ogni cosa sembra divorata dalle tenebre. Appare una luce impossibile da sostenere, e poi il buio, un buio assoluto, come se la notte all’improvviso avesse inghiottito il giorno e l’avesse privato per sempre dell’abbraccio luminoso del sole. E sento freddo, Sargon, un gelo orribile che non si può riscaldare...»
Il labbro inferiore di Delphi tremò prima di scoppiare in lacrime.
Sargon si chinò su di lei e l’avvolse completamente tra le braccia. Senza dire una parola, la strinse al petto e poggiò la testa contro i suoi capelli.
Delphi si sentì al sicuro e lentamente si calmò. Quando smise di piangere, restò in silenzio, accucciata contro il suo uomo, desiderando soltanto che quelle braccia non la lasciassero più andare.
Molto tempo dopo, Sargon si scostò quel tanto per guardarla negli occhi. «Qualcuno saprebbe decifrare i simboli sul tuo corpo? Saprebbe spiegarti il significato della visione?»
Delphi scosse la cascata di riccioli con foga. «Nessun mortale può leggere i grafemi, la parola scritta è proibita ai Figli dell’Uomo. Nessuno può aiutarmi, Sargon, nessuno!»
L’accadico ristette, rimuginando su quanto gli aveva confidato la donna e sul destino di entrambi. In lei rivedeva la stessa disperazione e le identiche insicurezze che un tempo aveva affrontato nel suo doloroso passato.
«Dove andremo adesso? Quale posto potrà ospitare due fuggiaschi come noi?» gemette Delphi.
Sargon le prese le mani e le congiunse alle sue. «Descrivimi tutto quel che ricordi della città in fiamme nella visione.»
Lei lo guardò con aria incerta, poi chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi e ricordare. «Il fuoco era ovunque, avvolgeva le case e le fronde delle palme, la gente si riversava nelle strade in preda al terrore...» Delphi restò pensierosa per qualche istante, poi esclamò: «Ma certo, il sole! Era l’alba e il sole sorgeva dietro una costruzione enorme, così grande da somigliare a una montagna di pietra.»
«E ce n’erano altre simili?» la incalzò Sargon. «Ognuna con le sommità acuminate, alte fino a toccare il cielo?»
Lei annuì, sorpresa che lui avesse indovinato. «Perché me lo domandi?»
«Perché è lì che andremo, al di là del mare, in Egitto. La visione ti ha mostrato le piramidi sulla piana di Giza. Conosco bene il delta del Nilo, e le vicine coste della Cirenaica a occidente, e della Cilicia a oriente. Si racconta che la signora di quelle terre sia una potente dea» proseguì Sargon. «La Sfinge è in grado di leggere le parole sul tuo corpo e di svelarne il significato. È lì che troveremo la nostra salvezza.»
«Oppure il nostro destino» mormorò Delphi.
L’accadico restò per un attimo in silenzio. «Entrambi scappiamo da un destino che temiamo e che non riusciamo ad affrontare da soli. Forse è per questo che ci siamo incontrati.»
 

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Capitolo 11
*** Rotta per Giza (II) ***


Quella sera Sargon e Delphi lasciarono l’isola di Cythera alle loro spalle.
Da quando erano partiti dal Golfo di Corinto, aggirando le coste occidentali del Peloponneso, un cielo plumbeo e un vento incessante li avevano accompagnati lungo il tragitto.
Per quattro giorni avevano fiancheggiato le rive frastagliate dell’Arcadia, della Messenia e della Laconia. I primi due giorni non si erano mai avvicinati a riva, nel timore irrazionale che i custodi del tempio fossero già sulle loro tracce. Ma quando finirono le scorte di viveri immagazzinate nella feluca, furono costretti a fare tappa a Pylus, nel Sud della Messenia. Sargon lasciò Delphi a riva, e quando tornò, aveva con sé gli otri colmi d’acqua, una sacca di aringhe essiccate e pane d’orzo. Delphi fu tanto saggia da non chiederne la provenienza e l’accadico non raccontò in che modo li avesse ottenuti. Levata l’ancora da quei litorali, navigarono rasentando il Golfo di Laconia, diretti a Creta, dove Sargon aveva in mente di fare una breve tappa prima di far vela verso il delta del Nilo.
Quella era la prima notte che le stelle si rivelavano, senza l’opprimente cappa di nubi che fino allora aveva offuscato il cielo.
Sdraiata sul fasciame della barca, Delphi scrutava il velo oscuro della notte punteggiato dai suoi occhi palpitanti. Senza poterlo prevedere, la paura s’impadronì di lei, si tirò su e si rannicchiò in un angolo a poppa, con le braccia strette attorno alle ginocchia.
Sargon corrugò la fronte e le rivolse uno sguardo interrogativo.
«Tutta questa oscurità, questo silenzio, questa desolazione» mormorò lei con un filo di voce. Poi scosse lievemente la testa, facendo ondeggiare la cascata di minuscoli riccioli sul volto. «Lo stesso vuoto disperato degli ultimi frammenti della visione, un abisso così vasto e profondo...»
Alla fioca luce della lampada a olio, il volto di Delphi apparve segnato dalle ansie che non avevano mai smesso di tormentarla.
Sargon si avvicinò e le afferrò delicatamente il polso per tranquillizzarla. La sfiorò proprio sopra gli strani simboli incisi sulla pelle, attratto dal loro oscuro potere. «Il tuo corpo è il più prezioso e proibito dei tesori. Sono orgoglioso della fiducia che mi hai concesso, rivelandomi il tuo segreto.»
Delphi sorrise nervosamente. «Perché non mi racconti qualcosa di te? Ho visto la tua spada, non è l’arma di un avventuriero. Ho visto come combatti…» S’interruppe non appena vide gli occhi scuri di Sargon indurirsi e lampeggiare di collera. Fu solo un istante, subito dopo l’ira dell’accadico scomparve.
«Ci sono cose di me che è bene che tu non sappia, mia diletta.»
«Ti amerò ugualmente!» protestò Delphi. «Comprenderò le tue scelte come tu hai compreso le mie.»
«Ti credo, eppure mi vedresti con altri occhi. Delphi, l’uomo che vedi di fronte non ha passato, ciò che era prima di conoscerti è morto. Non darti pena di cercare quell’uomo poiché non esiste più.» Sargon restò qualche istante in silenzio, poi aggiunse con dolcezza: «Tu mi hai ridato la speranza, tu mi hai restituito la vita. Grazie a te, so cosa vuol dire amare qualcuno più di se stessi.»
Delphi si accovacciò in silenzio accanto al guerriero.
Nessuno le aveva mai parlato in quel modo. Dall’incontro con l’Elohim era cresciuta pensando solo ai suoi doveri, era divenuta adulta priva dell’amore dei genitori e dell’amicizia dei coetanei. Aveva conosciuto solo la severa disciplina del tempio e il duro rigore delle regole. Gli uomini la rispettavano e la temevano, ma nessuno aveva mai osato corteggiarla, nessuno prima di Sargon le aveva mai fatto sentire il calore di un abbraccio. Ora desiderava soltanto che quel momento non finisse mai, che durasse per sempre, che ogni altro pensiero svanisse.
«Chiedimi qualunque cosa, mia diletta, ma dimentica il mio passato.»
Lei fissò intensamente l’accadico negli occhi e seppe cosa voleva. «Stringimi ancora, Sargon. Ti prego, stringimi ancora.»
Avvinta a quel corpo asciutto e nervoso, scolpito dalla guerra e dalla sofferenza, per qualche tempo Delphi dimenticò chi fosse e fu soltanto una donna. 

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Capitolo 12
*** L'Ottava Meraviglia (I) ***


La notte era illuminata a giorno da centinaia di lingue di fuoco. Il vento strappava chiome di scintille dorate alle fiaccole disposte lungo la strada che congiungeva Giza all’immensa Sfinge di pietra.
I ministri del culto erano raccolti all’interno dello spazio tra gli smisurati arti anteriori, mentre il popolo si accalcava intorno alla statua e ai bordi della via che attraversava la necropoli.
Gavri’el aveva dovuto lottare a ogni passo, spingendo tra la folla che premeva da ogni parte, ma infine aveva raggiunto il monolite della Sfinge. Sollevò lo sguardo per scrutare il cielo, ma tutto ciò che vide fu il gigantesco corpo a gradoni della statua, sormontato dal volto impassibile eternamente rivolto a oriente. 
Allungò una mano per sfiorare l’enorme zampa anteriore, una parete di pietra calcarea color ocra che lo superava in altezza. Era lì che Tary lo aveva portato l’ultima volta. Esattamente in quello stesso angolo di terra e sabbia. Da allora, sette volte il sole era tramontato dietro le dune, eppure non l’aveva più rivista.
Il suo carro non era più tornato per accompagnarlo alla necropoli. Gavri’el l’aveva cercata lungo le rive del Nilo, tra i banchi dei mercanti, allo shaduf, e in tutti i luoghi che avevano frequentato assieme. Non l’aveva trovata.
E se lei avesse avuto un ripensamento – rimuginava – se Tary avesse infine compreso che la loro amicizia fosse un errore, che era sbagliato frequentare un nemeh? Era stata un’illusione meravigliosa, il miraggio di un sogno, ma inevitabile e crudele era giunto il momento del risveglio. Era stato uno sciocco a credere che Tary potesse essere sua. La figlia del potente Ephepi, l’erede del nobile casato di Aphopis!
Gavri’el era ancora assorto in quelle cupe riflessioni, quando sentì una mano sulla spalla e trasalì.
Ogni dubbio scomparve nel momento stesso in cui si voltò.
 
***
 
Tary era lì. Stretta tra un pescatore e una donna che odoravano di samak affumicato. Era lì, come se avesse sempre saputo che Gavri’el l’avrebbe attesa in quel posto.
Vide negli occhi di cielo del ragazzo il bisogno struggente di correrle incontro, di gettarle le braccia al collo, di porle mille domande e trovare altrettante rassicurazioni. Tutto ciò non era possibile. Suo padre non avrebbe esitato a mantenere la promessa se l’avesse rivista insieme a Gavri’el. Si limitò a mostrargli un sorriso malizioso, gli afferrò una mano e gli fece cenno col capo di seguirla.
Tary si voltò e s’infilò come un felino attraverso il muro compatto di gente, avvicinandosi a ogni passo al corpo posteriore della statua. La mano di Gavri’el era calda. Le sue dita la stringevano con forza, come se lui volesse comunicarle in qualche modo ciò che non poteva ancora dirle con le parole.
 Sgusciarono infine al di là della ressa, dove le torce delimitavano l’area consacrata. Ancora poco e sarebbero stati inghiottiti dalla penombra.
Tary si issò per prima sulla coda di pietra che si avvolgeva intorno alla zampa posteriore, e avanzò lentamente sulla superficie tondeggiante, allargando le braccia per tenersi in equilibrio.
 Man mano che si avvicinava all’estremità, la coda aumentava la pendenza, e Tary sfruttò il punto più elevato per afferrare con le dita una sporgenza sulla parete. Gavri’el la sostenne dal basso, finché lei non riuscì ad appoggiare entrambi i gomiti sulla pietra e a tirarsi su. Quando alzò lo sguardo, vide il corpo di pietra calcarea del monumento che degradava in giganteschi gradoni. Sospinta dall’entusiasmo, non sentì la stanchezza né il dolore per i graffi che si procurò durante la scalata.
 Raggiunse poco dopo la base del grande copricapo del monolite e si sporse nel buio, osservando da un’altezza superiore a dieci uomini lo spettacolo delle torce che incorniciavano la statua e che proseguivano serpeggiando nel deserto, seguendo la via che conduceva alle porte di Giza.
Gavri’el si acquattò accanto a lei. «Ho creduto che non volessi più vedermi…»
Tary gli mostrò un sorriso indulgente. Spiegò che Ephepi l’aveva confinata nella sua stanza poiché gli aveva disobbedito e quella sera aveva ottenuto il permesso di allontanarsi solo perché tutta Giza celebrava la Festa del Leone. Subito dopo, la conversazione si concentrò sull’imminente apparizione della dea. Tary si arrotolò una ciocca di capelli a un dito ed esclamò: «Io dico che la Sfinge si mostrerà come donna.»
«E invece apparirà ancora con l’aspetto di una leonessa» ribatté Gavri’el. «Tutti sanno che ama evitare il più possibile i contatti con i Figli dell’Uomo.»
Lei scosse la testa. «Sono quattordici piene del Nilo che non si mostra più con le sue sembianze umane.»
«E allora? Un giziano può invecchiare e morire senza averne mai visto la leggendaria bellezza!»
Tary aggrottò la fronte. «Io sono giziana solo per metà e voglio vedere coi miei occhi se è davvero così bella come dicono.»
Il canto di lode salmodiato dai sacerdoti giunse in quel momento al culmine:
 
Sono spalancate le porte del Cielo,
sono tolti i catenacci ai cancelli del Tempio.
La casa è aperta alla sua Signora.
Che esca quando vuole uscire,
che entri quando vuole entrare.

 
Silenzio. Qualche istante dopo la folla ripeté con un’unica voce che echeggiò assordante nell’aria:
 
La casa è aperta alla sua Signora.
Che esca quando vuole uscire,
che entri quando vuole entrare.

 
Ancora una volta, tutti assieme: uomini, donne e sacerdoti.
 
La casa è aperta alla sua Signora!
Che esca quando vuole uscire,
che entri quando vuole entrare!

 
Con voce ancora più forte, che vibrò nei cuori e negli animi.
 
La casa è aperta alla sua Signora!
Che esca quando vuole uscire,
che entri quando vuole entrare!

 
Un movimento sfuggente sopra la sommità della statua attirò l’attenzione di Tary. «Gavri’el...» bisbigliò, indicando un punto sopra l’enorme copricapo di pietra. «Credi che sia…»
Prima che potesse aggiungere altro, un’ombra in cima al monolite si raccolse e spiccò un balzo nel vuoto.
Atterrò con innaturale eleganza, flettendo appena le gambe lunghe e flessuose, mentre la luce mossa delle fiaccole rivelò a tutti la creatura più straordinaria che avessero mai visto.
Era donna.
Ed era bella e indimenticabile come le stelle.
 
***

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Capitolo 13
*** L'Ottava Meraviglia (II) ***


Agitate da un vento soprannaturale, le lingue di fuoco intorno al monolite tremolarono e molte si estinsero con uno sbuffo di fumo.
La creatura gettò il capo all’indietro e fece ondeggiare i lunghi capelli nell’aria, liberandosi delle ciocche cadute sul volto. Avanzò lentamente tra le colossali zampe di pietra, sinuosa come un felino, regale come una regina.
Una succinta tunica color bronzo, stretta in vita da una larga fascia, l’avvolgeva come una guaina, lasciando scoperte le gambe quasi per intero. Un ampio scollo disegnava un triangolo che aveva il proprio vertice sul ventre e proseguiva fino alle spalle. Le maniche erano lunghe e svasate ai polsi, i lacci dorati dei sandali si avvinghiavano alle gambe fin sotto al ginocchio.
Sulla necropoli calò il silenzio. Gavri’el trattenne il respiro.
Con un movimento fluido ed elegante, la creatura si chinò quel tanto per strisciare la punta delle dita sulla sabbia e tracciò un veloce grafema.
Gavri’el sapeva che la scrittura era l’arma più potente a disposizione degli dèi. La parola scritta evocava e creava. I geroglifici erano conosciuti dal popolo d’Egitto come le parole del dio e la creatura che li aveva disegnati non poteva che essere la Sfinge.
I sacerdoti non osarono guardare oltre e crollarono in ginocchio come una sola persona, toccando la sabbia con la fronte. Ma non Gavri’el, che dal suo nascondiglio soprelevato, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla dea.
Nel momento stesso in cui la Sfinge staccò la mano da terra, una rosa di fuoco vivida e azzurrognola fiorì dal suo palmo e la illuminò completamente. Fu in quel momento che gli occhi dorati e affilati della dea, incorniciati dalle lunghissime ciglia e sottolineati dal kohl, guizzarono nell’oscurità penetrandola come se non vi fosse differenza tra il giorno e la notte.
E si strinsero, quando si posarono esattamente sul volto atterrito di Gavri’el.  
 
***
 
I profili acuminati di tre piramidi, rischiarati dalla luce diafana della luna, emersero davanti agli occhi assetati di sangue di Anubi.
Il suo carro, trainato da una pariglia di cavalli da guerra, spandeva nell’aria una scia di polvere di mica, luminosa come una cometa. Una luce argentea brillava sopra la corazza d’oro che gli proteggeva le spalle e i possenti pettorali. I muscoli dell’addome e delle braccia spiccavano rilevati come in una statua d’alabastro, i lunghi capelli neri catturavano la brezza notturna.
Il Nephilim con la maschera da sciacallo arrestò il carro e guardò alle sue spalle.
Ciò che vide non fu la levigata e silenziosa sabbia del deserto, ma una sconfinata distesa brulicante di vita, interamente ricoperta di lance, di spade e di scudi.
Anubi si passò la lingua sulle labbra sfregiate e osservò compiaciuto lo schieramento di al-ghūl che si stendeva fin dove spaziavano i suoi occhi. Strappati alle loro tombe nel deserto, quegli esseri non possedevano più nulla d’umano, tranne l’aspetto. Erano nati dalla morte, erano fatti di morte, e da essa traevano il loro orribile sostentamento.
Il Nephilim si lasciò sfuggire una risata maligna che risuonò agghiacciante dentro la maschera da sciacallo. «Attaccheremo poco prima dell’alba» tuonò, «quando la sorveglianza e la volontà dei giziani sarà fiaccata dai festeggiamenti. Fino a quel momento ci accamperemo qui.»
Mentre gli al-ghūl disponevano il campo, echeggiarono tra le loro fila risolini striduli e gorgheggianti, simili al verso della iena quando sta per sferrare l’attacco contro la preda. Anubi sapeva che gli al-ghūl erano eccitati di essere nel loro elemento, la notte. E che più di ogni altra cosa bramavano il sangue dei Figli dell’Uomo.
 
***
 
Gavri’el s’irrigidì, un brivido ghiacciato gli corse lungo tutta la schiena. Sentì la mano di Tary che gli afferrava un braccio e lo tirava indietro, al riparo dietro l’enorme copricapo della statua.
Ci fu ancora qualche istante di silenzio, poi la notte si riempì all’improvviso del suono dei sistri. Le sacerdotesse li scrollavano ritmicamente, facendo oscillare i dischi di metallo inseriti nelle bacchette. L’odore dolciastro degli incensieri lo raggiunse.
«Sei impazzito?» Tary ridusse la voce a un sussurro. «Così ci farai scoprire!»
«Potrebbe essere l’unica occasione della nostra vita per vedere la Sfinge in questa forma» bisbigliò Gavri’el.
La ragazza gli lanciò un’occhiata colma di rimprovero, ma Gavri’el si stava già affacciando con cautela oltre la sporgenza di pietra. I flabelliferi erano accorsi ai lati della dea e agitavano i ventagli cerimoniali, composti da un lungo bastone che terminava con una piastra arrotondata, cui erano state applicate grandi piume di struzzo.
Una voce melodiosa si levò in quel momento e cominciò a intonare la leggenda della Leonessa di Giza. Cantava di una bambina dalla pelle luminosa come le stelle che arrivò in un piccolo villaggio di nemeh. Le note della voce diventarono più acute e colme di sofferenza mentre narrava che un giorno il villaggio fu attaccato da un’orda di selvaggi che spargeva il terrore alle foci del Nilo. La voce femminile raccontò che la bambina prese una spada dalle mani di un contadino e si parò davanti agli spietati invasori.
Alla prima oratrice, si aggiunse in quel momento un coro di voci maschili che imitarono i selvaggi: «Una bambina con la spada! Gli abitanti di questo villaggio sono così codardi che mandano le loro figlie a combattere!» La voce melodiosa cantò che la bambina si tramutò nella Divoratrice di Uomini, una leonessa col manto dorato come i suoi occhi, e sparse il sangue dei nemici sulla sabbia dove ora giace la sua dimora.
Al termine del poema il primo ministro del culto si alzò in piedi ed esclamò a gran voce: «Il Suo corpo è il più sacro dei luoghi.»
Ancora prostrati a terra, i giziani cantarono tutti insieme:
 
Ecco la Regina del Cielo
che appare nel suo santuario.
Tu che sei la gemella del sole
e il tuo corpo è il più sacro dei luoghi,
possano l’incenso e la birra
essere ricambiati col tuo splendore.
Tu che ispiri terrore ai nemici

e il tuo corpo è il più sacro dei luoghi,
ti prego ferma le mani rivolte
contro i figli della tua luce.


Il sacerdote avanzò verso la dea, e senza osare guardarla in volto, le porse la prima offerta: un calice colmo di un nettare rosso cupo. La dea accettò in silenzio il dono che simboleggiava il sangue dei nemici che aveva sconfitto.
Ai sistri si aggiunse il suono basso e cupo scandito dai tamburi. Le casse di cuoio risuonarono grevi e martellanti, finché non emersero dal buio trenta possenti nubiani, la guardia personale della Sfinge. Erano seminudi, scolpiti come statue, lucidi e neri. Sopra le spalle reggevano una sottile imbarcazione fluviale, interamente dipinta d’oro. Il rumore cadenzato dei loro calzari borchiati riecheggiava allo stesso ritmo dei tamburi.
Gli occhi di Gavri’el scintillarono. «Guarda, Tary!» esclamò eccitato, indicando il guerriero mulatto che superava in altezza tutti gli altri e guidava il corteo. «Ecco Matunde, l’Immortale.»
«Pare una statua scolpita nell’ebano» sospirò la ragazza con ammirazione. «Le schiave di mio padre mormorano che sia a causa del dono ricevuto dalla dea, dopo aver giaciuto quella notte insieme a lei.» Tary socchiuse leggermente le palpebre. «Dicono che il vigore dei suoi muscoli sia senza età. Non sembra invecchiare da quando la dea lo scelse, eppure sono già trascorse quattordici piene del Nilo. È per questo che lo chiamano l’Immortale?»
Gavri’el ridacchiò. «Non hai mai sentito parlare della battaglia di Balamun contro i tuoi avi hyksos?»
«Non mi interessa la vanagloria degli egizi, quando si tratta di raccontare massacri sul mio popolo» sibilò lei.
«Non intendevo offenderti» si scusò Gavri’el. «Matunde deve il soprannome a quella battaglia. Era solo un ragazzino, quando la retroguardia del nostro esercito restò isolata a Balamun, circondata dalle schiere di hyksos. Cento uomini rimasero a difendere la posizione contro forze almeno dieci volte superiori, arroccati nel palazzo del nomarca. Dovettero resistere molti giorni prima che arrivassero i rinforzi da Giza e da Menfi. Quando questi sopraggiunsero, il palazzo non era stato ancora conquistato, ma di tutta la retroguardia solo una manciata di soldati era ancora in vita. Quando gli hyksos si ritirarono da Balamun, di quei cento difensori era sopravvissuto il solo Matunde. Ecco perché lo chiamano l’Immortale.»
«Il suo grande coraggio deve aver sedotto persino la Sfinge. Ora capisco perché scelse lui quella notte di quattordici anni fa.»
Tary non rivelò che a sorprenderla non era la forza nei muscoli del nubiano, ma quella che traspariva dal suo sguardo. In quegli occhi fieri e gentili, dello stesso verde cupo delle acque in piena del Nilo, Tary intuì che l’amore per la dea era la vera forza di quell’uomo. 
 
***
 
La Sfinge attese che i nubiani deponessero la barca ai suoi piedi. Ogni parte, dalla carena ai remi, era stata immersa nell’oro e traeva dalle torce infuocate riflessi dello stesso colore dei suoi occhi. La dea balzò agilmente all’interno dell’imbarcazione e restò in piedi sopra il fasciame, mentre i nubiani sollevarono la carena sulle spalle e avanzarono tra le gigantesche zampe anteriori della statua.
L’eccitazione della folla ammassata intorno al monolite bloccò il corteo poco oltre gli arti di pietra. Gavri’el e Tary approfittarono della confusione per ridiscendere rapidamente i gradoni del corpo centrale, e quando giunsero a pochi piedi dal suolo, si lasciarono cadere a terra, proprio mentre i nubiani riuscivano a farsi largo nella ressa.
Gavri’el si trovò davanti alla Sfinge, così vicino che avrebbe potuto allungare una mano e quasi toccarla.
La dea chiuse gli occhi e si passò una mano tra i capelli. Lunghe ciocche nere le ricaddero sul petto e sulle spalle, accarezzandole le guance. Una ciocca s’impigliò a un angolo della bocca. Lei non si curò di scostarla, corrucciò invece le labbra con aria annoiata: la bocca era delicata e morbida, chiusa come in un bacio. Il suo viso era quello di una ragazza, dai lineamenti dolcissimi e armoniosi.
Gavri’el trasalì quando le lunghissime ciglia si riaprirono di scatto, rivelando l’oro liquido delle iridi. Allungati, affilati, ed esaltati dal kohl, gli occhi della Sfinge effondevano dalle palpebre socchiuse una luce dorata, come due scintillanti soli gemelli.
Era incredibilmente più bella di quanto Gavri’el avesse mai potuto immaginare.
Con un gesto imperioso, la dea ordinò ai nubiani di avanzare. Il cobra d’oro avvolto al braccio della Sfinge riverberò la luce delle torce, ricordando a Gavri’el le spaventose leggende intorno al potere di quel monile.
Il corteo sfilò lentamente e lo superò. Ben presto Gavri’el poté scorgere la dea solo di spalle. I suoi occhi allora scivolarono lungo la schiena della Sfinge, indugiando sui fianchi e sull’orlo svolazzante della veste. Percorsero con un brivido le gambe nude fino ai lacci dei sandali, intrecciati sopra le caviglie. Un istante dopo fu inghiottito dalla folla. La dea scomparve.
Emozioni incontrollabili, che Gavri’el non aveva in nessun modo immaginato fino a pochi istanti prima, traboccarono improvvisamente in lui e con una forza tale, che per qualche tempo non fu in grado di muoversi o di parlare.
Lei era disperazione. Lei era vertigine.
Lei era eterna.
Lei era silenzio.

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Capitolo 14
*** Occhi del Destino ***


L’ingresso della città era sorvegliato da due lunghe file di leoni di bronzo. Le fauci spalancate ospitavano grandi torce che rischiaravano la notte lungo tutta la via maestra.
Sargon afferrò Delphi per un braccio e la trascinò all’ombra delle statue.
Qualcuno li stava seguendo.
L’accadico fece segno a Delphi di restare immobile, si sporse con cautela oltre l’enorme spalla bronzea della scultura e incrociò lo sguardo dell’uomo.
Lo sconosciuto non cercava nemmeno di dissimulare le proprie intenzioni. Quando comprese che Sargon l’aveva notato, ruppe gli indugi e avanzò con passi decisi. Lo accompagnava una donna abbigliata con gli abiti lunghi e svolazzanti delle giziane.
Sargon era già pronto a sfoderare la spada di Akkad, quando i due sconosciuti si arrestarono a pochi passi dal leone di bronzo.
«Benvenuto a Giza, straniero» lo salutò l’uomo. «Possa la dea preservare per cento anni la tua forza e la bellezza della tua donna.»
Sargon si parò davanti a Delphi con fare protettivo e restò in silenzio, ogni muscolo in allerta.
«Non sei di queste terre, non è vero?» domandò il giziano. Sargon annuì con un cenno brusco del capo.
L’uomo sorrise. «Io sono Hemuw e questa donna è mia moglie Nebet. Cercavo proprio braccia robuste che mi aiutassero a trasportare una giara di birra fino a quei banchi laggiù.» L’accadico lo vide indicare un punto alle sue spalle. «Siete qui per la Festa del Leone?»
Sargon non conosceva la ricorrenza, ma annuì con cautela, continuando a studiare l’uomo. La mano era pronta sull’elsa della spada.
Prima che potesse aggiungere altro, lo sconosciuto allargò le braccia e rise. «Cosa fate qui, allora? La Sfinge è proprio davanti a voi, ai cancelli. Guardate!»
L’accadico inarcò un sopracciglio.
«Non vi preoccupate, avrete tutta la notte per vederla. Fino all’alba berremo e festeggeremo!» L’uomo si voltò e fece cenno di seguirlo. «Venite, vi farò gustare la migliore birra di Giza.» Hemuw li guidò verso un carro malconcio lì vicino, su cui torreggiava un’enorme giara di terracotta.
Sargon riconobbe il liquido inebriante e mielato, filtrato dalla fermentazione a caldo di grandi pani d’orzo e di grano. La donna giziana immerse un grosso boccale nella giara e glielo porse con un sorriso. L’accadico l’accostò alle labbra, ma bevve solo quando anche l’altro uomo ebbe trangugiato il suo bicchiere.
La birra era squisita, Sargon grugnì il proprio apprezzamento e chinò il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli corvini davanti agli occhi. «Le mie braccia sono al tuo servizio, giziano. Ti aiuterò volentieri, in cambio di un’altra generosa razione di questo nettare degli dèi.»
Hemuw sorrise e gli diede una pacca amichevole sullo stomaco. «Per Seth, non mi aspettavo niente di meno!»
Nebet, intanto, si era avvicinata a Delphi e si complimentò con lei per il mantello di preziosa fattura.
«L’ho acquistato a Cnossus, sull’isola di Creta» raccontò Delphi, «da un mercante che diceva di provenire da una terra lontana a oriente.» Mentre parlava, un movimento del braccio fece scivolare una manica, rivelando i segni che si avvolgevano intorno al polso.
«Che splendidi tatuaggi» esclamò Nebet, afferrandole delicatamente la mano. «Noi giziane siamo convinte di conoscere ogni segreto nell’arte di dipingere il corpo, eppure non avevo mai visto una tecnica così stupefacente.»
Delphi avvampò, sorridendo per nascondere l’imbarazzo.
«Dunque, siete venuti da così lontano nella speranza di vedere la Sfinge?»
All’improvviso scese un silenzio carico di disagio.
«Non solo per questo» intervenne Sargon.
Nebet sorrise. «Allora vi auguro che possiate trovare ciò che cercate, se si trova qui a Giza.»
Il guerriero accadico si voltò verso Delphi. Tutt’intorno, il fumo si levava dalle torce dando forma a figure sinistre, la luce selvaggia del fuoco chiaroscurava le palme e i colossali leoni di bronzo. Negli occhi di Delphi, Sargon credette di vedere riflesse le fiamme della visione.
 
***
 
Dopo che Sargon e Hemuw ebbero spostato il carro con la giara, Nebet propose di raggiungere la Zona Sacra per osservare da vicino la cerimonia.
Attesero il corteo davanti a una delle rampe che conduceva al piazzale dell’obelisco, dove sorgeva il più grande tempio consacrato al culto della Sfinge. Nell’aria riecheggiava una cacofonia di voci e di canti, mescolati al suono dei sistri e dei tamburi.
Nebet sapeva che negli anni in cui la dea si fosse mostrata come la Leonessa di Giza, i giziani avrebbero sacrificato sette vitelli e li avrebbero offerti alla loro signora. Ma nelle rare occasioni in cui fosse apparsa con le sembianze di donna, la Sfinge avrebbe preteso un uomo. E con lui, si diceva, avrebbe giaciuto per tutta la notte.
Molti dei prescelti, tuttavia, non erano più tornati per raccontarlo. Altri, come Matunde, si erano trincerati dietro un impenetrabile silenzio e ogni congettura era presto divenuta leggenda.
I nubiani si arrestarono all’improvviso, i sistri smisero di agitarsi, i tamburi divennero silenziosi. Ogni canto cessò. Il primo ministro del culto si accostò all’imbarcazione dorata e pronunciò la formula con cui i Figli dell’Uomo dovevano rivolgersi alla loro regina.
«Il tuo corpo è il più sacro dei luoghi, il paradiso che il mondo non può eguagliare. Hai scorto lungo la via illuminata dal fuoco qualcuno degno del tuo splendore?» Poi nel silenzio più assoluto domandò: «Mia signora, hai scelto chi sarà il mortale?»
Nebet udì finalmente la voce della dea, mai prodiga di parole con i Figli dell’Uomo. Era un suono molto femminile, appena un po’ roco.
«Sì» annunciò la Sfinge.
Accanto a lei, la folla fremette nell’attesa, spintonando e sgomitando, nell’affannoso tentativo di vedere ciò che sarebbe accaduto.
La dea pronunciò il nome del prescelto.
La sua voce era poco più di un sussurro, eppure in quel silenzio risuonò con clamore.

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