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di NotFadeAway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Buon anniversario ***
Capitolo 2: *** Charing Cross Hospital ***
Capitolo 3: *** Convalescenza in casa Holmes-Watson ***
Capitolo 4: *** Una soluzione al 7% ***
Capitolo 5: *** Il terzo Holmes ***
Capitolo 6: *** "Il ciclista solitario" di Owen Kelly ***
Capitolo 7: *** Ritrovare John ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Buon anniversario ***


-Lo sai, questo non è esattamente l’odore con cui uno si vorrebbe svegliare la mattina –
John era entrato in cucina, sventolando una mano per aprirsi un passaggio attraverso l’aria nauseabonda che vi regnava.
Sherlock era chino su un piede mozzato e stava armeggiando con quantità di formaldeide discutibilmente legali.
-Mmh! Piede imbalsamato per colazione! Cosa devo aspettarmi al posto del caffè? – si sporse oltre la spalla dell’altro.
-È adesso che devo augurarti buon anniversario? Perché tecnicamente, contando che c’è l’ora legale di mezzo e che sono… -
John lo zittì con un bacio veloce sulle labbra e si staccò prima di un tempo che Sherlock ritenesse accettabile.
-Buon anniversario, Sherlock -
Ci fu un attimo molto intenso, in cui si guardarono con gli occhi pieni di ammirazione, poi John tossì e ti portò una mano a coprire bocca e naso.
-Bleah! Persino tu sai di formaldeide! Leva quella roba! – protestò, andando a spalancare la finestra della cucina. – Come fai a resistere, ti si è bruciato l’olfatto? -
-Ho una soglia di sopportazione molto superiore alla tua, il che comunque non è un gran dire. E in ogni caso dovevo occuparmi di questo piede stamattina, ammesso che tu non voglia odore di putrefazione per l’ora del tè! -
John si riavvicinò al tavolo, con un movimento fluido.
-Farò finta di non aver sentito e ti darò una sola possibilità per tornare in quel letto con le buone... -
Improvvisamente il piede non era più così tanto interessante, Sherlock si voltò a fissare il suo fidanzato.
-Conterò fino a tre... – fece, con tono fermo - Uno… due… -
Ad ogni numero, John si era avvicinato sempre di più, lasciando sempre meno fetida aria tra lui e Sherlock. L’altro pendeva dalle sue labbra, come se lo stesse facendo ciondolare da un balcone con una corda. Attendeva il “tre” come l’ultima goccia d’acqua in una bottiglia, che scivola con drammatica lentezza lungo la parete di plastica, sempre più vicina al foro d’uscita.
-Tr… no. Prima ti vai a fare una doccia! – John si era allontanato di scatto e aveva lasciato Sherlock, come un idiota, a pomiciare con l’aria.
Questi lo guardò deluso, poteva essergli caduto di mano l’ultimo biscotto della scatola, l’espressione sarebbe stata la stessa.
-Sono un medico e ci tengo all’igiene. E Sherlock, questo – ed indicò il suo fidanzato, - non è igienico -
-Ma J… - provò a dire Sherlock, ma John tirò fuori la sua voce da Capitano John Hamish Watson e le corde vocali di quell’altro si annodarono in gola e si fecero piccole piccole.
-STAVA PER USCIRE UNA LAMENTELA DA QUELLA BOCCA, SOLDATO? VAI SUBITO A LAVARTI, PRIMA CHE TI DIA UN VERO MOTIVO PER PIAGNUCOLARE! -
Non aveva ancora finito, ma Sherlock era già scattato inconsciamente sull’attenti ed era filato di corsa in bagno.
 


“La zona di tessuto vicino alla porzione prossimale di talo e calcagno ha iniziato il processo di putrefazione” –SH

“Grazie a te” –SH

“Baker Street sembra il luogo dell’esplosione di una bomba chimica” – SH

“Grazie a te” – SH

“L’aria nella stanza potrebbe aver raggiunto un livello di saturazione incompatibile con la vita. Aggiornamenti a seguire” – SH

“Tutto a posto. Sia io che Mrs Hudson siamo ancora vivi.” – SH

“Mrs Hudson dice che io lo sarò ancora per poco se gli effluvi non spariscono alla velocità della luce” – SH

“Le ho detto che è colpa tua” – SH

“Ora è arrabbiata con te” – SH

“Ha detto che devo sbarazzarmi del piede” – SH

“È nel cappuccio del tuo accappatoio” – SH

“Ora, sta iniziando a parlare del matrimonio” – SH

“Aggiornamento: il gas non è letale, ma è in grado di stordire un essere umano adulto se nebulizzato in prossimità delle vie aeree” – SH

“Mi annoio.” – SH

“Voglio un caso” – SH

“Credi che il piede di Mrs Hudson possa essere un valido sostituto, o i tessuti sono già troppo degenerati? Ho bisogno di un parere professionale” – SH

“Ho controllato. È meglio conservato del previsto” – SH

 John non poteva allargare di più il sorriso sulla faccia, aveva finito i denti da mostrare al paziente steso sul lettino.
Era di turno in ambulatorio, quella mattina, e quello era senza dubbio Sherlock nel suo stato “Voglio-un-caso-a-costo-di-diventare-io-il-colpevole”. E dopo 20 messaggi non poteva più fingere che a fischiare fossero gli uccellini fuori dalla finestra.
Si scusò e prese in mano il telefono.
Con orrore lesse i messaggi, l’uno dopo l’altro.
“Sherlock…” – JW

“Sherlock…?” – JW

“SHERLOCK!” – JW

“Sherlock, per amor del cielo, dimmi che non hai amputato il piede destro di Mrs Hudson!” – JW

“Il sinistro” – SH

“CHE COSA?!” – JW

“Aggiornamento, il gas ha un effetto anestetico nullo. Il soggetto è vitale e attivo” – SH

“E dotato di padella” – SH

“Il sottoscritto è tenuto sotto assedio in bagno” – SH

“Aggiornamento: il tessuti del piede sono in stato di necrosi avanzata. La suppurazione dell’arto è quasi completa” – SH

“Hai bisogno di un nuovo accappatoio” – SH

“Voglio un caso” – SH

John roteò gli occhi.
“Primo: meglio che quel piede sia sparito al mio ritorno, prima che butti fuori di casa entrambi” –JW

“Secondo: darò fuoco al tuo accappatoio quando meno te lo aspetti” – JW

“Terzo: Mrs Hudson è dalla mia parte e non crederà mai alle tue stronzate” –JW

“Quarto: vorrei essere lì  a riprendere la scena, ti fai un video e me lo mandi?” –JW

“Quinto: guarda sotto Billy” –JW

“Perché?” – SH

“Buon Anniversario” – JW

“Il nostro anniversario inizia tra sei ore e ventidue minuti, John” –JW

“Devo andare, ho un paziente” –JW

“Ti voglio a casa per le sette” -JW


John non avrebbe mai abbandonato Sherlock a Baker Street il giorno del loro primo anniversario, senza un caso.
Ecco perché gliene aveva sgraffignato uno dalla sua  e-mail, per farglielo ritrovare quella mattina. Lo avrebbe adorato.

“John Hamish Watson! Tu sei straordinario! Tu sei fantastico! Tu sei il migliore!” –SH

Per l’appunto.

“Va’ a risolvermi un crimine, Sherlock Holmes… ♥ ” –JW


-Salve, signor… - John lanciò un’occhiata sulla cartellina, - Stewart. Leggo che desidera una visita per un attestato di sana e robusta costituzione, giusto? -
Il signor Stewart si fece avanti, spostando una non indifferente mole nella ristretta stanzetta dove lavorava John.
-Sì, dottore -
Aveva un forte accento londinese e una voce roca.
-Bene, allora si tolga la camicia e si sieda sul lettino -
John aveva perso notizie di Sherlock da un paio d’ore, il caso che gli aveva regalato era uno di quelli che lo facevano andare matto: era stata riportata la denuncia della scomparsa di una donna, che poi era stata vista parlare contemporaneamente in tre parti diverse della città.
Il signor Stewart finì di sbottonarsi la camicia e si sistemò sul lettino.
Con il pensiero che almeno Sherlock si stava divertendo, John si preparò a auscultare cuore e polmoni attraverso quattordici strati di adipociti.
Poggiò lo stetoscopio, ma in quel momento sentì il suo telefono fischiettare.
-Mi scusi, non si preoccupi per quello. Ispiri forte. -
Nuovo fischio.
-Espiri -
Nuovo fischio.
-Trattenga un attimo il fiato -
Nuovo fischio.
Nuovo fischio.
Nuovo fischio.
-Meglio che controlli. Così la smetter… -

“John. Potresti venire ad Hammersmith Bridge?” – SH

“C’è stato un problema”- SH

“Sono stato un pochino ferito” –SH

“John?” – SH

“Aiuto” –SH

“John” –SH

John si ritrovò a boccheggiare davanti al telefono, per un attimo fu sopraffatto dal battito cardiaco che accelerava.
Le sue dita volarono sullo schermo del cellulare.

“Che cosa è successo?” –JW

“Sherlock?” –JW

“Che cosa è successo?” –JW

Al terzo messaggio senza risposta, John era già per strada. Il telefono pigiato contro l’orecchio, le dita così strette attorno ad esso, che le sentiva formicolare.

-999 emergenze: che servizio richiede?-

-Ambulanza. John Watson. Hammersmith Bridge. Il numero non lo so. C’è un ferito. Non so quanto grave. – strinse i denti, - Potrebbe essere necessaria la rianimazione. -

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Capitolo 2
*** Charing Cross Hospital ***


John era dentro ad un taxi.
Aveva gridato al tassista di fottersene dei limiti, perché quella era un’emergenza, poi si era infilato sul sedile posteriore.
Perché gli faceva questo?
Perché gli faceva sempre questo?
Mettere felicità e cuore nelle mani di Sherlock Holmes era come mettere un bicchiere di cristallo nel tritacarne. Non c’è speranza che ne venga fuori intatto. C’erano sempre proiettili, edifici troppo alti e psicopatici di mezzo.
E per l’ennesima volta, John era di fronte alla possibilità di perdere Sherlock.
Era una sensazione vecchia, l’aveva già provata prima, e Dio sa se odiava quell’ombra che ogni volta incombeva.
C’era stato un tempo in cui era riuscito ad abituarvisi. Quando credeva che fosse morto e anche dopo, quando Mary era ancora in giro. Ma era una sensazione difficile da spiegare, non si era distaccato dal dolore, più che altro, era stato il dolore cronico ad anestetizzarlo, a stordirlo. Così, dentro la sua testa tutto diventava ovattato e fuori sembrava un uomo normale.
Tutto questo era prima.
Ora, semplicemente, quella possibilità che loro due, Sherlock e John, Holmes e Watson, William ed Hamish, fossero separati di nuovo non era più contemplabile, né accettabile, né comprensibile, né figurabile.
Era al di là di ogni sua capacità di percezione ed elaborazione di stimoli e informazioni.
Era ben oltre la sua soglia del dolore.

Il tassista si fermò.
Quanto tempo ci aveva messo? L’ambulanza era arrivata?
Lo pagò, senza fermarsi ad aspettare il resto. Probabilmente gli aveva dato trenta sterline in più, sicuramente non gliene aveva date in meno.
Saltò sul marciapiede e scese le scale che portavano sotto al ponte.
Una lunga via costellata di pub dava sul Tamigi. Erano arroccati alla sua destra e, come tanti bambini curiosi, da ogni soglia spuntavano cinque o sei teste e assai più birre.
Dell’ambulanza non c’era traccia.
Di Sherlock nemmeno.
Si avvicinò alla folla di gente ammassata davanti al pub più vicino.
-Scusatemi, è si è fermata un’ambulanza qui? – aveva il fiato corto, non perché avesse corso troppo, era solo il cuore: batteva a 120 battiti al minuto ed era praticamente inutile. Al diavolo!
-Sì, se n’è appena andata. Vero Kate? -
Una donna tatuata e squadrata si aprì un varco tra la folla. Aveva i capelli chiari e parlò con accento straniero.
-Due minuti fa. -
-Avete… avete visto… per caso… sapete cosa è successo? -
-Adam ha visto i paramedici portare via uno. – rispose, volutamente vaga.
Ma il suddetto Adam intervenne.
-Accoltellato. Un tipo strano nel vicolo dietro al pub. -
John annaspò in cerca d’aria.
-Io… cosa… - dovette fermarsi per ispirare, - Dove… dove l’hanno portato? -
-Al Charing Cross, di solito li portano lì -


Al Charing Cross John ci arrivò correndo.
Sapeva che in taxi avrebbe fatto prima, ma ora Sherlock era in buone mani. Ne era convinto. Doveva esserlo. E John aveva bisogno di correre.
Corse come se non ci fosse un domani, i suoi polmoni gridavano pietà, la sua vecchia ferita alla spalla iniziava a strattonargli la pelle, come avesse in mano delle briglie per farlo rallentare.
Tagliò la strada ad almeno una mezza dozzina di automobilisti e si scaraventò dentro all’ala accettazione del pronto soccorso.
Si arrestò andando ad impattare contro la scrivania.
Non cercò di riprendere fiato, usò quel poco di aria che gli era rimasta per chiedere di un ferito di arma da taglio che era stato appena portato lì.
-Non sono autorizzato a dirle niente, signore. Vada in sala d’attesa, la prego. -
-Ma io… sono John Watson… il suo fidanzato, la prego… -
-Non sono informato sulle condizioni del paziente. Ma le manderò uno dei paramedici che lo hanno portato qui. Vada in sala d’attesa e aspetti lì. -

John si trascinò in sala d’attesa e si accasciò tra una bambina con il naso sanguinante e una signora con un taglio sulla guancia. Ora che la foga della corsa era passata, si sentì strappare via tutte le sue energie. La lotta con la sua testa fu persa e iniziò a sentire riecheggiare la vocina del panico.
Poggiò il mento su una mano, ma non riuscì a tenerla ferma. La muoveva in continuazione, passando il dorso da una parte all’altra delle labbra, che poi stringeva tra indice e pollice e schiacciava forte sulle nocche. Nel frattempo fissava una macchia scura sul pavimento davanti a lui, che era senz’altro sangue.
-Il signor Watson? -
-Sì! – rispose John, lo fece così di scatto che gridò, svegliando il bambino piccolo nella carrozzina davanti a lui. Senza accorgersene era anche scattato in piedi.
-Ero sull’ambulanza con il signor Holmes. -
-Sì, come sta? – cercò di contenere il tremore alla mano sinistra, ma ormai era incontrollabile.
-Signore, lei è il coniuge o un parente prossimo? -
-Sono… sono il suo fidanzato. Watson. John Watson. -
Il paramedico disegnò un sorrisino triste sulla faccia e distolse lo sguardo dal volto sconvolto dell’uomo davanti a lei.
-Allora, sono desolata, ma non posso darle informazioni riguardo le condizioni cliniche del signor Holmes. Adesso è in sala operatoria. Dirò a qualcuno di avvisarla quando uscirà – rispose.
Sala operatoria? Cosa? Di nuovo?
-No -
Un “no” sconsolato, pieno di paura e disperazione fu tutto quello che gli usci di bocca.
-Mi ha detto di farle avere questo – aggiunse il paramedico, porgendogli un biglietto.
Prima che se ne accorgesse, lei se n’era andata.
John guardò per un attimo quel foglio di carta, senza aprirlo. Era stropicciato e umido.
Poi, voltò il lembo che celava la scritta.
“Conosci i miei metodi. Sono conosciuto per essere indistruttibile”
 
John aveva passato tutto il tempo a pensare a cosa avrebbe detto a Sherlock quando si fosse svegliato.
Una lunga serie di insulti era stata la prima cosa che gli era venuta in mente. Perché quello stronzo, bastardo non doveva permettersi mai più di fare una cosa del genere.
Poi aveva pensato a qualcosa che lo facesse apparire figo e distaccato. Degno del Capitano John Watson.
Aveva anche in mente un paio di battute che avrebbero sciolto la tensione della nottata in ospedale. E una lunga sfuriata che avrebbe fatto desiderare a Sherlock di non essersi mai risvegliato. Perché quello stronzo, bastardo non poteva fare più attenzione di tanto in tanto!
Di sicuro non avrebbe pianto. Era pur sempre il Capitano John Watson. E di sicuro non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
Perché John dava per scontato che si svegliasse.
Sherlock gli aveva fatto una promessa.
Era indistruttibile.

Due ore dopo, gli arrivò la notizia che l’intervento era finito e che era andato come previsto. Non potevano dirgli di più, ma non appena Sherlock si fosse svegliato e avesse dato il suo consenso, potevano informarlo sul resto.
Stupide leggi. Stupido Codice. Stupida deontologia medica.
Gli dissero anche che ora era in terapia intensiva, ancora stordito tra l’effetto degli anestetici e dei sedativi.
John non poteva entrare.

Per questo passò la notte a pensare cosa dirgli quando si fosse risvegliato.
E non avrebbe pianto.


-Signore… signore… -
Un infermiere chiamava John.
John lo sentiva chiamare da lontano, anche se era a pochi centimetri da lui.
John non stava dormendo, aveva solo la testa affollata da una farcita catasta di insulti, che non vedeva l’ora di riversare sul suo psicopatico preferito.
-Signore, il Signor Holmes si è risvegliato. Se mette il camice sterile può andare a visitarlo -
Un ghigno si disegnò sul viso di John.
Era tempo di andare in scena.

Il suono della porta pressurizzata che si aprì accompagnò l’entrata di John nella stanza di terapia intensiva.
C’era un unico letto, con un’unica persona ed un mucchio di macchinari e tubicini che fuoriuscivano da quest’ultima, facendola sembrare un albero coperto di liane, nella giungla.
E che gran bell’albero, pensò John.
E quell’albero, un po’ stordito, lo stava fissando.
Ed era un gran bell’albero.
E John non ce la fece a reggere.
Non che i buoni propositi non ci fossero: il ghigno inquietante era ancora lì, quando si accorse di stare piangendo.
Con gli occhi appannati, vide Sherlock fare con le labbra il suo nome e tendere un braccio per raggiungerlo prima.
John si mosse in avanti, alla cieca, e trovò la sua mano.
Nel frattempo si era già perso nel suo mantra di insulti.
-Tu, brutto stronzo! Pezzo di merda! Bastardo! Come cazzo hai potuto! Sei un emerito idiota! Un deficiente! E imprudente! Uno stronzo imprudente! -
Il che, tradotto in lingua corrente, vuol dire:
“Ti amo così tanto, non osare lasciarmi mai più!”



Dieci minuti più tardi, un medico, in vesti da chirurgo, si presentò a loro come la Dottoressa Marple. Finalmente John poté essere informato su quello che era successo a Sherlock.
-La ferita riportata sembra essere stata procurata da un lama tra i 15 e i 17 cm, tra la quarta e la quinta costa della parte destra della gabbia toracica. Ieri, è stata effettuato un intervento d’urgenza per limitare i danni causati dal coltello ed evitare un tamponamento cardiaco a causa dell’emotorace. Siamo riusciti a drenare buona parte del sangue. Oggi la lasceremo collegato ancora per qualche ora alla macchina di drenaggio per completare, per domani dovrebbe riuscire a respirare da solo senza supporti e la metteremo in reparto, sotto osservazione. -
Il chirurgo chiuse la cartella clinica e si rivolse nuovamente a Sherlock.
-Proseguiamo con la visita, come si sente? -
-Ne ho passate di peggiori… - rispose, con il fiato corto, i tratti sofferenti.
A John scappò uno sbuffo di risa. Era quello il potere di Sherlock.
-È vero, sa? Ho perso il conto delle volte in cui questo piccolo bastardo è morto e tornato in vita-
La dottoressa vece un verso che significava che aveva sentito, non necessariamente elaborato le parole di John. Stava auscultando il torace.
-Solo due volte. Sempre esagerato. Esagera sempre, è impossibile conviverci! -
-Ssh! - Lo zittì la Marple.
Sherlock si inviperì, ma si rassegnò a tacere dopo un’occhiata eloquente di John.

Sherlock convalescente non era esattamente la più docile delle persone.
John fu costretto ad usare la sua voce da capitano ben quattro volte, perché capisse che non poteva tornare a casa quando aveva un tubo gli finiva dritto nel polmone, portando a spasso il suo sangue. Dovette corrompere metà dello staff infermieristico per convincerlo a non avvelenare Sherlock per endovena, dopo che era riuscito a offenderlo al completo nel giro di una sola mattinata.
Si vide costretto a sorbirsi lamentele una dopo l’altra, che sarebbero risultate fuori luogo persino nel reparto di pediatria. E finì con l’evitare per un soffio che giocasse al tiro al piattello con i farmaci disposti sulla mensola davanti a lui e la pistola che aveva sfilato dalla tasca del suo cappotto.
Queste e molte altre erano le ragioni per cui John passò buona parte dei seguenti due giorni in ospedale con lui, supplicandolo di rimanere zitto e fermo nel letto quando l’orario di visita terminava e dilapidando i propri risparmi in mazzette quando ritornava all’ospedale, per riparare ai danni fisici e morali causati dal suo sociopatico personale.

-John, credi che se glielo chiedessi gentilmente, quell’uomo mi lascerebbe esaminare un campione delle sue feci? -
John era seduto su una cosa che fingeva di essere una sedia, ma era più uno sgabello, ed alzò lo sguardo piano, con un’espressione a metà tra il terrorizzato e il rassegnato segnata in faccia. Diceva “Oh no, non di nuovo”.
-Ha subito un’intossicazione da oppiacei. Analizzarne i residui nelle feci potrebbe essere d’aiuto in futuro. Lo sapevi che un avvelenamento su tre è volontario. Studiando il suo caso potrei stabilire un parametro per valutare… -
-No -
-Solo un pochino… -
-Sherlock, no -
-Okay, tanto l’orario di visita scade tra dieci minuti… -
-Tu devi prima essere in grado di camminare, per poter andare a rovistare tra gli escrementi di uno sconosciuto -
-Le minacce non ti porteranno da nessuna parte, John –
-Credo che nessuno abbia parlato di limitarsi a quelle, infatti… -
Sherlock sostenne il suo sguardo, carico di disappunto, ma fu il primo a cedere.
-Okay, va bene! Hai vinto tu… -
-Potrei farti legare a quel letto, lo sai?-
Sherlock stava ancora fissando la sua preda.
-E non servirebbe a niente, come entrambi sappiamo bene. -
John si strofinò le tempie con la punta delle dita, prima di rassegnarsi a cambiare argomento.
-Ha chiamato il fioraio. -
-Che cosa ha detto? – la cosa si guadagnò subito l’attenzione del detective.
-Ha chiesto se potevamo confermargli l’ordine prima di mercoledì prossimo per agevolarlo… -
-Mercoledì? I medici vogliono tenermi sotto osservazione fino a venerdì!- si sollevò di scatto a sedere, dimentico della ferita fresca - John, devi fare qualcosa, parlaci tu. Dobbiamo scegliere i fiori per il matrimonio e, sinceramente, non puoi andare da solo. Dieci a uno che prendi dei fiori da funerale. -
-Tipo quali? Quelli che ho scelto per il tuo? – il sarcasmo sporcava delicatamente la sua voce.
-Credevo avessimo litigato già su tutto riguardante La Caduta, ma i fiori effettivamente mancavano alla lista -
John gli sorrise in modo sgradevole.
-Sono pieno di iniziativa, troverò sempre qualcosa da rinfacciarti al riguardo, non temere -
-Hai chiamato poi il giudice di pace? – chiese Sherlock, pescando dal nulla la domanda.
John si grattò un lato della fronte.
-Ehm… no… -
-Te l’ho ripetuto ieri! – protestò l’altro.
-Se non fossi stato impegnato a non farti sbattere fuori dall’ospedale, avrei prestato attenzione e me lo sarei ricordato! -
Un’infermiera bussò alla porta della stanza.
-Signori, cinque minuti – disse, pareva un soldato che faceva il giro tra le brande a svegliare i suoi sottoposti.
Improvvisamente gli occhi di Sherlock si addolcirono e cercarono quelli di John. La sua espressione arrabbiata si sciolse e i lineamenti tornarono quelli di un bambino.
-Non te ne andare – mormorò.
John sorrise con tenerezza.
-Tornerò presto. Faccio la notte con te anche oggi -
Le loro mani si cercarono e si strinsero.
-Grazie -
-Ci vediamo tra poco. Quattro ore solamente – gli promise John, sorridendo di più.
-Quattro ore che saranno sicuramente molto noiose -
John si avvicinò e le loro labbra si toccarono. Lo baciò delicatamente e a lungo, sfruttando tutto il tempo che gli rimaneva.
Quando si separarono e John si alzò, le loro mani erano ancora strette, lui gli accarezzò le dita con il pollice, poi prima di lasciarla.
-Vedi di non farti ricoverare in psichiatria prima che torni -

“Ho ricevuto una chiamata dall’ospedale” JW

“Sei nei guai e ho tutto il tempo per pensare a come farti molto male, appena ti sarai rimesso” JW

“Uno potrebbe sempre scambiare certi messaggi come delle allusioni, John “ – SH

“Un’infermiera ha appena finito di visitarmi” – SH

“Avresti dovuto vedere che ha fatto” – SH

“Saresti stato geloso” – SH

“Ho smesso di essere geloso delle donne che ti ronzano attorno da quando ti sei rivelato più gay del vomito di unicorno” – JW

“E non cambiare argomento!"– JW

“Hai praticamente fatto una biopsia ad una paziente per analizzarle le piaghe da decubito” – JW

“Sì” – SH

“E Joeffry Sanderson ha mentito sul fatto che la moglie sia morta per insufficienza renale dopo due settimane di degenza in casa” – SH

“Lo sai, dopo che ti avrò ucciso non ci sarà nessuno intelligente come te in giro e io la passerò liscia” –JW

“La cosa mi dà conforto ogni momento di più” – JW

“Devo andare, è appena morto un paziente nella stanza affianco, forse riesco a ottenere un campione di vescica prima che lo portino all’obitorio” –SH

“Quando vengo stasera, sappi che, qualunque cosa avrò fra le mani, quella sarà l’arma del delitto” –JW



-Mi scusi, ha visto John Watson? Doveva essere qui mezz’ora fa -
Sherlock era spuntato alle spalle di un’infermiera, facendola saltare per la sorpresa.
-Signor Holmes! Lei non dovrebbe nemmeno essere in piedi! Che cosa ci fa in corridoio! -
-Le sto chiedendo se ha visto John Watson, certo non mi aspettavo fosse così lenta, anche se chiaramente la sua testa è troppo presa dal fatto che sua figlia è una ragazza-madre e potrebbe partorire da un momento all’altro… -
-Signor Holmes! Torni immediatamente nella sua stanza! Che ne ha fatto della flebo? -
Sherlock la fissò per un attimo per capire se volesse o meno una risposta.
-L’ho tolta. Era ingombrante da portare fin qui -
-LEI COSA?! -
-La conversazione, oltre che non più proficua, si è fatta noiosa. Quindi grazie di non avermi aiutato, chiederò a qualcun altro -
Con le proteste dell’infermiera che gli sventolavano il didietro, proseguì lungo il corridoio, in cerca di altro personale sanitario.
Nel giro di due minuti era legato al letto, la sua dottoressa intenta a fargli una predica.
Rimosse il sonoro e si concentrò sul fatto che John non fosse ancora lì. Gli aveva promesso che sarebbe venuto. Afferrò il telefono e compose il numero di John.
-Signor Holmes, ma, almeno, lei mi sta ascoltando? -
-Niente… non risponde – mormorò tra sé, agganciando il telefono. – Non è raggiungibile. -
-Come ha detto prego? Potrebbe almeno fingere di ascoltarmi e posare quel telefono per un secondo? -
Sherlock giunse per un attimo le mani sotto al naso, come per pensare, ma poi subito si scosse.
-Lei ha visto John Watson? -
-Chi? -
-Il mio fidanzato, John. È piuttosto basso, ha i capelli biondo cenere e cammina come se avesse una bicicletta tra le gambe. -
In quel momento il cercapersone della dottoressa squillò.

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Capitolo 3
*** Convalescenza in casa Holmes-Watson ***


I monitor lanciavano suoni acuti e rapidissimi, i chirurghi si affollavano attorno al tavolo operatorio, gli infermieri sfrecciavano da una parte all’altra della sala con garze e tamponi.
-Mi serve un’altra unità di sangue! – gridò la dottoressa Marple. – Ray, anastomizza quell’arteria, prima che muoia dissanguato. Adams, aspira qui. Da dove viene tutto questo sangue?! -
-Dottoressa, il paziente è in arresto, dobbiamo richiudere! -
-Inizia il massaggio cardiaco. Dobbiamo trovare la fonte dell’emorragia! –
Sherlock rimase paralizzato sulla soglia della sala operatoria.
Come fosse uscito assieme all’aria che espirava, Sherlock gridò il suo nome.
-JOHN! -
L’attenzione dello staff medico si diresse tutta su di lui.
-Lei chi è? Che ci fa qui? – fece uno dei chirurghi.
-Signore Holmes, non so come sia entrato qui, ma deve uscire! Ora! – gridò la dottoressa Marple. – Tampona più forte! No, no! Così lo perdiamo! -
Sherlock si sentì di nuovo chiamare il nome di John, poi fu trascinato fuori, accompagnato dall’odore del sangue di John e da un “biiip” senza fine.


La luce filtrava attraverso le tendine verdi della camera d’ospedale. Il tessuto grezzo e ruvido la lasciava passare come granelli di sabbia, che si proiettavano sul muro sfocati. Era chiara e debole e, anche senza scostare la tenda, si capiva che era appena l’alba.
I letti dei pazienti stavano riemergendo lentamente dall’ombra della notte, pericolosa e temuta tra le mura di qualunque ospedale. Furba e scaltra, prima ti abbraccia nel sonno e poi ti porta via con sé, quando è buio e i medici non vedono e nessuno può sentirla. Chi era riuscito a sfuggirle, giaceva ora nella penombra, cullato dai bip dei monitor, che parevano cantare un sommesso inno di vittoria.
Tra le schiere di letti, si sentiva di tanto in tanto un fruscio di lenzuola ispide e rigide, che accompagnava per mano l’odore di plastica nuova e di disinfettante che gira sempre tra le corsie di un ospedale. Qualcuno di tanto in tanto mandava un colpo di tosse, altri graffiavano l’aria con respiri affannosi o con un improvviso russare.
Dopo un po’ si scorgeva una sorta di ritmo, che altri potrebbero definire monotonia, ma che la maggior parte non definirebbe affatto, perché quasi tutti di solito dormono.
Il letto più vicino alla porta, però, usciva dagli schemi. Dove doveva esserci un paziente in tenuta d’ospedale, c’era un uomo con cappotto e sciarpa. Dove doveva esserci un paziente addormentato, ce n’era uno sveglio.
Era seduto al centro delle coperte, che erano intatte, quasi lui non ci fosse. Aveva le ginocchia tirate al petto e le mani giunte sotto il mento, palmo contro palmo. Il volto cereo e gli occhi aperti e fissi sulla spalliera in fondo al letto.



Sherlock non poteva entrare in terapia intensiva. Sherlock non poteva nemmeno alzarsi dal letto. Sherlock non poteva nemmeno togliersi le manette di stoffa che lo legavano al suddetto letto.
Ma Sherlock non poteva nemmeno rubare embrioni morti da ginecologia o frugare tra i rifiuti biologici in cerca di emisferi cerebrali.
Distrarre l’infermiere era stato facile. Gli era bastato scollegare il paziente della stanza affianco dal monitor e lasciare che l’allarme suonasse, questo gli aveva fatto guadagnare il tempo necessario per passare davanti alla guardiola non visto e non udito. Aveva persino afferrato camice e guanti sterili, perché in quella stanza c’era John, l’unico buon motivo per rispettare stupide regole, e si era infilato dentro.

John non era ancora cosciente, era isolato al centro di una stanza  per metà vuota, per l’altra metà affollata di macchine. Era uno strano posto, come un luogo di transizione, tutto era ovattato con i toni blu e grigi della notte, che sembravano attutire anche i suoni, come se potessero oscurarli.
Non c’erano sedie, non un altro letto, ma Sherlock non aveva bisogno di sedersi, perché poteva stare in piedi anche per tre giorni in attesa che si svegliasse.

Guardare John. Sherlock avrebbe potuto scrivere un saggio sul guardare John.
Ci tanti modi per guardare John.
Guardarlo di sottecchi quando lui non sa di essere osservato è uno di questi. Era come correre in cucina e afferrare il barattolo di marmellata, che non si può aprire prima di cena, e con le dita viola color mirtillo,  affacciarsi alla finestra, per essere certi che la mamma sia ancora fuori a stendere il bucato. E leccare il coperchio, senza distogliere lo sguardo, con quel nodo allo stomaco per la paura di essere beccati, che rende il tutto più eccitante.
Guardare John dritto negli occhi è un altro paio di maniche. Lo si potrebbe descrivere come guardare un filmato fatto con una vecchia videocamera in una spiaggia del Nord Europa, quelle dove c’è sempre vento, anche quando il mare è calmo. Il fruscio dell’aria contro il microfono si traduce di un suono continuo, che diventa come quello del phon: persistente, tanto da abituarvisi e non notarlo più, ma forte, così da non sentire nulla al di fuori di esso. Ed è proprio grazie a questo rumore distorto che ci si può concentrare ancora meglio sul mare, calmo, che appare in così forte contrasto con lo stridore del vento, da dissociarvisi. Così il vento diventa una barriera dal mondo e una lente d’ingrandimento sul mare.
Ecco, questo era il suo modo preferito di guardare John.
Ma ce n’era un altro, da non sottovalutare: guardare John per caso, mentre si cammina per strada e si è intenti a fare altro. Trovarselo semplicemente per un attimo al centro del proprio campo visivo e poi lasciarlo uscire di nuovo fuori, come se nulla fosse successo. Ecco, questo è come quel momento, sulle montagne russe, in cui il tuo corpo va da una parte e i tuoi visceri dall’altra, e percepisci quel fuggevole momento di vuoto dentro e l’aria ti viene spinta a forza fuori dai polmoni.
E, infine, c’era guardare John dormire, Sherlock aveva memorizzato tutte le sue espressioni e di solito poteva arrivare ad ipotizzare cosa stesse sognando. Guardare John dormire è come guardare il Vesuvio, un maestoso vulcano assopito, con le luci della città che lo illuminano e il colore celeste che assume quando è visto da lontano, attenuandone i contorni e quasi facendoli sfumare nel cielo. Il Vesuvio non perde la sua potenza solo perché è addormentato, è ancora lì, la puoi vedere, ma così può mostrare anche un’altra parte di sé, quella che non vedremmo sotto la lava.



Dopo un po’ John mugugnò e si mosse. Respirava da solo, quindi poteva parlare, ma aveva la lingua troppo impastata per farlo. Al secondo tentativo Sherlock si scosse e si chinò su di lui.
-John! -
-Ashmrmamcrizbgr-
-Dimmi, John, che c’è? -
-Leva il piede dalla flebo, razza di idiota – riuscì a dire al quarto tentativo. Subito corrucciò la fronte, dava l’impressione di avere un forte mal di testa.
Sentire di nuovo John chiamarlo “razza di idiota” scaldò il presunto cuore del detective, che finalmente si sciolse in un sorriso.
-Vedi che succede ad andare a prendere il latte? -


Il fruscio del suo respiro era amplificato dalla mascherina che gli copriva metà della faccia. La plastica trasparente si appannava ritmicamente e dava all’aria un sapore artificiale.
Un fischiettio raccolse la sua  attenzione, John diresse il suo sguardo verso la fonte del rumore e vide un rettangolo luminoso trasparire da sotto le lenzuola.

“Ti ho riportato il cellulare” –SH

“Mi hanno legato di nuovo al letto e hanno detto che non posso venire a trovarti” –SH

“Tra mezz’ora finisce il turno di guardia dell’energumeno che ora è fuori la mia stanza e sono da te” –SH

“Non vedo l’ora” –JW

“Adesso il mio comportamento è magicamente diventato accettabile? Ammiro la tua coerenza” –SH

“E che mi manchi tanto e vorrei tanto rivedere i bellissimi occhi del mio fidanzato” –JW

“E i tuoi capelli, che ora saranno sicuramente tutti arruffati, come quelli che hai di prima mattina” –JW

“E il tuo culo. Quello non va dimenticato.” –JW

“Sei imbottito di morfina, vero?” –SH

“E’ un’ipotesi probabile, ma questo non significa che non pensi quello che ti ho detto” –JW

“Ti ho mai parlato di quanto siano belle le tue mani? Con le dita lunghe e affusolate, che possono essere così forti, ma anche così delicate e poi farfalle –JW

Farfalle, sì, John… Capisco. Che altro?” –SH


John si destò lentamente, aprendo gli occhi con calma. Mise a fuoco con fatica i contorni del suo fidanzato, che era seduto sul pavimento, accuratamente nascosto dietro al suo letto, lontano dagli occhi di medici e infermieri, e che aveva in mano la sua cartella clinica. Era assorto e non si accorse che John era ormai sveglio.
-Stare seduti per terra in un ospedale, essendovi pazienti per giunta, e di igiene dubbia. Ma ormai ho smesso di discutere di questo con te-
-John! -
Il nome di “John” era un qualcosa di straordinario in bocca a Sherlock, sembrava brillare di luce propria.
-Sei sveglio – si alzò e, sempre chino, si avvicinò al suo ragazzo per baciarlo sulla fronte.
-Sherlock, per amor del cielo, sei stato ferito al torace, non puoi andartene in giro così! -
-E tu, dopo che sei stato investito, hai riportato ferite all’addome, al torace e alla testa. -
-E infatti io sono in un letto, dove dovresti stare anche tu -
-Sei stato tu a dirmi che ti mancavo e che volevi che venissi – lo rimbeccò Sherlock.
-Cosa? Io non ti avrei mai… - Sherlock lo interruppe con lo sguardo. Scandì una sola parola, quattro sillabe:
-Cellulare -
John afferrò il proprio telefonino tra le lenzuola e si ritrovò a leggere messaggi che non ricordava di aver mai mandato. Bloccò lo schermo, guardando truce Sherlock.
-E ovviamente nessuno di questi messaggi uscirà di qui -
-E ovviamente io li ho già inviati a Lestrade perché si assicuri di trovare un posticino per loro nel suo discorso da testimone -
-A parte che Greg è il mio testimone e poi io potrei raccontare cose su di te che non ti faranno mai più mettere piede fuori di casa, non è vero, piccola ape? -
-Ma tu non hai le prove -
-Nemmeno tu, sono solo messaggi -
-John sono qui da due ore, metà delle quali tu le hai passate a descrivere la curvatura dei miei ricci sotto effetto di narcotici, io non ho solo messaggi, ho le registrazioni. -
-Io non ho bisogno delle registrazioni, ho un sito web -
-Beh, anche io ho un sito web -
-Che nessuno legge! -
-B…beh – Sherlock esitò un attimo, era particolarmente sensibile quando si trattava del suo sito web, - E io so la password del tuo -
-L’ho cambiata, non è più quella -
-Lo so, perché adesso è quella con la data del tuo arruolamento più il nome della base dove ti trovavi. La chiami una password questa? -
-Sei così antipatico che mi sono innamorato di te! -
Sherlock arrossì, colto di sorpresa, arrossiva sempre quando John parlava così, per questo lui amava farlo.
-E tu sei… sei così… che… - balbettò.
-Stai zitto, toglimi questa maschera e dammi un bacio come si deve -
-Ma John… la mascherina ti serve, come fai a respirare? -
-Tanto ci pensi sempre tu a togliermi il respiro -
Tre giorni senza baciare John erano troppi, Sherlock fece come gli fu detto. Sapeva di antibiotici, cibo d’ospedale e aria di plastica.


-Dimmi che non hai rubato un camice – la voce di John era sconsolata.
-Se pensi che l’informazione che ti verrà in questo modo fornita dalle tue orecchie potrà contraddire quella da parte dei tuoi occhi, allora va bene te lo dico: non ho rubato un camice -
Sherlock mosse alcuni passi nella stanza, sorridendo radiosamente, nel suo candido camice.
-Ti troveranno qui, ti scambieranno per un dottore e in men che non si dica ti ritroverai in una sala operatoria con un bisturi tra le mani -
Sherlock parve avere un’illuminazione.
-John! Oh mio dio, è vero! Il mio conduttore di luce che giunge sempre in mio supporto! È l’idea migliore della settimana, finalmente avrò qualcosa da fare quando dormi! -
-Sherlock, potrei per favore non doverti pagare la cauzione UN’ALTRA VOLTA?-  l’altro si fece più vicino, - Devi ringraziare che sei sexy con il camice -
Sherlock si chinò su di lui, i loro nasi si sfioravano.
-Sei di nuovo sotto oppiodi? -
John sorrise, provocantemente.
-Forse -
Lo baciò.
Adesso che John poteva respirare un po’ meglio, quello fu un bacio come si deve. Le loro bocche erano pressate l’una sull’altra, per non lasciare che neanche un rivolo d’aria si intromettesse tra loro. Le mani di John erano sulla nuca di Sherlock, le dita tra i capelli, a stringerlo stretto a lui; Sherlock si limitò a tenergli il viso tra le mani, percependo la pelle tiepida di John a contatto con la sua. Si sentivano solo suoni ovattati e i loro respiri pesanti che riscaldavano la stanza.
-Allora, John… come andiamo ogg… -
L’infermiere entrò solo per trovarsi davanti alla scena di un medico intento ad amoreggiare con un paziente, un quadretto degno di Grey’s anatomy.
-Immagino che lei sappia, dottore, che vi sono altre misure sostitutive della respirazione bocca-a-bocca – solo quando si fece molto vicino e alzò parecchio il tono della voce i due lo sentirono.
-E così salta il tuo travestimento e tutti i tuoi malefici piani – mormorò John in un sussurro.

Sette ore dopo John ricevette una foto sul cellulare. Era di un paziente chiaramente in post operatorio.
La didascalia non lasciava dubbio.
“Harold Jersey, 45 anni. Appendicectomia riuscita.” –SH

John lasciò sprofondare la mano con il cellulare sul letto, mentre si portava l’altra alla fronte.

“Non sono mai stato al carcere cittadino. Mi mandi le foto quando ci arrivi?” –JW

“A quanto pare stare in piedi per cinque ore non è consigliabile nelle mie condizioni e ho fatto saltare i punti. Sono di nuovo attaccato al drenaggio toracico. Trovo un modo per liberarmene e sono da te” –SH

“Sherlock, santo cielo, riposati e non osare alzarti da quel letto. Domani hanno detto che mi spostano in reparto”-JW

“Possiamo chiedergli di metterci in stanza assieme” –JW

John era migliorato velocemente. Le sue condizioni subito dopo l’incidente si erano presentate critiche e aveva subito due interventi, che però alla fine avevano sortito il loro effetto. Dopo una settimana era abbastanza stabile da essere spostato in reparto.
Medici, infermieri, pazienti e inservienti furono più che felici di concedere ai due piccioncini di stare nella stessa stanza, se non altro perché questo riduceva al minimo le escursioni tra le corsie del detective, che, per inciso, era ancora in ospedale, perché il numero delle volte che aveva fatto saltare i punti era salito a quattro.

Sherlock dormiva e il sangue gocciolava giù per il tubo del drenaggio, quando John fu trasferito. Questi poteva alzarsi ora e, con attenzione, si mosse lentamente verso il letto di Sherlock, trascinandosi l’asta della flebo. La mise vicino a quella di lui, poi si sistemò sulle coperte, steso al fianco del detective.
Sherlock si mosse, oramai era sveglio, ma era rimasto con gli occhi chiusi e aveva cercato alla cieca la mano di John. Questi gliela strinse e si fece più vicino.
-Il mio idiota… buongiorno – gli sussurrò nell’orecchio.
Le guance di Sherlock si chiazzarono di rosso e infilò la faccia nell’incavo del collo di John, dimentico di tubi e tubicini. John gli sfiorò la fronte con il naso e rimase in silenzio ad ascoltarlo respirare, era una sensazione stupenda.
Solo dopo molto tempo, Sherlock aprì gli occhi, baciò il collo di John e con voce roca ricambiò il buongiorno.
-Ti hanno trasferito qui? – le sue parole erano un sorriso.
-Sono stato eletto a guardia carceraria, sì -
Sherlock si stiracchiò il collo e si sistemò sulla spalla di John.
-Hai chiamato il giudice di pace? -
-Sì, anche il ristorante e la sartoria e ho anche fatto un salto dal fioraio. -
-Sei sarcastico -
-Come sottolinei l’ovvio tu, nessuno! -
-Hai almeno scritto le tue promesse? -
John sorrise guardando la folta chioma riccia che sentiva parlare e lamentarsi.
-Non ho bisogno di scriverle in anticipo, mi basterà guardarti, le parole verranno fuori da sé -
-Sei ancora sarcastico? – fece Sherlock, voltando la testa e stringendo gli occhi.
-Può darsi… - lo provocò John – No -
Sherlock tornò ad annidarsi sul petto del suo fidanzato.
-Io le ho scritte le tue promesse – il tono che aveva usato era dolce, ma leggermente indispettito.
-E sei andato nel panico sei volte, e hai finito per chiamare Greg. Ho un déjà-vu… -


-Oh, John, come sono contenta di rivedere anche te. Tutti questi giorni, senza notizie… Sherlock non rispondeva mai alle mie chiamate, ero preoccupata! -
-Aveva altro da fare… trapiantare reni… dare consulti ortopedici… non è vero? -
John si girò a guardare Sherlock, si erano infilati nello stesso letto, seduta su una sedia affianco c’era la signora Hudson, con Lestrade.
-Quando hai finito di dire cose che un ispettore di polizia non dovrebbe sentire, fammelo sapere -
-Eh eh, scusa, Greg -
-John, cosa ti sembra di questi?-
Il fidanzato si sporse verso Sherlock per vedere cosa gli stava indicando sullo schermo del computer.
-Uguali a quelli di prima -
Stava scegliendo i segnaposto.
-No, John, non sono uguali a quelli di prima! La filigrana della carta è molto più sottile e la sfumatura di arancio è più chiara. Bisogna considerare la quantità di luce che filtra attraverso di ogni segnaposto per accertarsi che non siano troppo opachi e non tolgano luminosità all’ambiente… -
John roteò gli occhi, dando due colpetti sulla mano di Sherlock, ma smettendo di ascoltarlo mentre continuava ad andare avanti sulla qualità dell’inchiostro che li distingueva.
-L’avete preso quel bastardo, poi? -
-Abbiamo qualche filmato dalle telecamere a circuito chiuso che riportano un’auto simile a quella che hai descritto, ma senza la targa… -
-E quell’altro bastardo? -
-Di lui ancora niente, se solo SherLOCK FOSSE DISPOSTO A DARCI UN IDENTIKIT! -
Sherlock alzò pigramente gli occhi dallo schermo.
-No, Gale, non ti darò nessun identikit. È il mio caso. Vieni di là, ho bisogno di parlarti -
-Santo cielo, Sherlock, non ti puoi alzare! – fece esasperato Lestrade.
-Sì, invece. – si mise a sedere e prese un contenitore cilindrico contenente il sangue estratto con il drenaggio toracico e lo mise in mano a Greg, - Ecco, tieni questo. Io prendo la flebo. Andiamo. -
L’ispettore lanciò un’occhiata interrogativa a John, che si limitò a rispondergli con un’espressione di impotenza e rassegnazione.
-Allora, dove vuoi che porti te e il tuo sacchetto di sangue? -
I due sparirono oltre la porta, nel corridoio.
-John, mi sembri stare molto meglio. Qualche giorno fa sono passata fuori dalla terapia intensiva… mio Dio, com’eri messo! E invece ora guardati! – esalò la signora Hudson.
-Sono stato in guerra, signora Hudson. E vivo con Sherlock Holmes da anni. Il mio corpo ha visto di peggio! – sorrise John.
Mrs Hudson si chinò, facendosi più vicina a John.
-E Sherlock come sta? È così pallido. – sussurrò.
-I medici hanno detto che se continua a farsi saltare i punti, l’utilizzo protratto del drenaggio toracico gli farà venire un’infezione. Rischia di beccarsi una polmonite, quell’idiota! -
La donna annuì.
-Oh, beh, anche lui ne ha viste di peggio… si ricorda quando Mary gli ha sparat… -
John le poggiò una mano sul polso.
-Noi non parliamo di quello -
-E invece dovremmo – intervenne Sherlock, rientrando nella stanza in processione con Lestrade. –Così poi guadagnerei il diritto di non andare a fare la spesa per due anni -
-Due anni… ti sembra un arco di tempo familiare questo? -
Sherlock si infilò di nuovo nel letto, indispettito.
-Doveva sentirli, facevano sempre così i primi tempi. Da sotto, si sentivano le urla. C’era John che gridava a Sherlock che mancavano le uova o qualcos’altro e Sherlock gli rispondeva che era occupato. Allora la risposta di John era sempre la stessa: “Due anni”, e poi si sentiva la voce di Sherlock che urlava: “Mary Morstan”. E andavano avanti così fino a che non facevano chiudere i negozi -
-E’ per questo che non ne parliamo più – concluse John.
Lestrade ridacchiò.
-Meglio così. Ho dovuto fare un sacco di tazze di tè, per cancellare il broncio che mettevate dopo -
-Okay, ora dovrebbe smetterla di parlare, signora Hudson! – la zittì Sherlock, incassando la conseguente  gomitata di John.
-No, continui pure. Sto accumulando dell’ottimo materiale per il mio discorso da testimone.-



Era quasi ora di pranzo, e c’era un pigro sole che illuminava metà della camera.
Sherlock era steso in maniera teatrale sul proprio letto e guardava il soffitto. Era guardato a vista da John.
La sua nuova minaccia era semplice: era da quattro ore con il pollice a due centimetri di distanza dal pulsante per chiamare gli infermieri: non doveva neanche inseguirlo, se Sherlock si fosse alzato dal letto sarebbe bastata una leggera pressione e si sarebbe ritrovato di nuovo con le manette di stoffa ai polsi.
Sherlock non aveva neanche bisogno di calcolare la dose di sonnifero che avrebbe dovuto somministrargli per avere un po’ di pace. Sarebbe bastato che andasse in bagno e lui avrebbe avuto un paio d’ore libere per lavorare sul quel cadavere che aveva adocchiato ieri nell’obitorio.
Un rumore improvviso giunse alla stanza di Sherlock e John. Qualcosa era rovinato a terra, qualcosa di imponente e metallico.
Sherlock si drizzò a sedere.
John ridusse gli occhi a due fessure.
-Psichiatria. Ricordati del reparto di psichiatria. -
Seguirono delle urla e un gran trambusto, che sapeva di scalpiccio di piedi e corpi che urtano tra loro.
Sherlock era sempre più sulla punta del letto.
-Sherlock… - il monito di John fu coperto di nuovo dal vociare, un chiasso tremendo ondeggiava tra le mura, sempre più lontano. Sentì le scarpe di gomma degli infermieri del piano scalpicciare, mentre passavano davanti e oltre la loro porta, in direzione del baccano.
A quel punto Sherlock scattò.
Si alzò in piedi, si estrasse il drenaggio toracico, afferrò un cerotto e (non) arrestò la perdita di sangue. Sfrecciò fuori dalla stanza senza che gli scampanellii di John sortissero alcun effetto.
-Per amor del cielo, Sherlock! – gridò esasperato, diede un pugno sul letto e si lanciò all’inseguimento.

Alla fine del corridoio c’era effettivamente una folla di gente, prevalentemente infermieri e medici, più qualche paziente che si sporgeva fuori dalla propria stanza.
Raggiunse Sherlock, che dall’alto del suo metro e ottanta riusciva a vedere oltre la ressa.
John si risparmiò la predica e si gustò la dolce sensazione dell’adrenalina in circolo.
-Che sta succedendo? – gli chiese.
-Sembra che un quarantenne in sovrappeso stia massacrando un vecchio. Probabilmente si stanno litigando il budino della mensa. Noioso. -
-Beh, chiediamo a qualcuno se ha visto l’accaduto – propose John.
Dopo un paio di risposte negative, trovavano la tipa che faceva al caso loro.
-Ero davanti alla stanza, stavo aspettando mia sorella, era in sala operatoria. E sono entrati nella stanza questi due vecchi signori, un uomo e una donna, vestiti come se l’armadio si fosse ribellato contro di loro. Si sono infilati in un paio di camere, prima di arrivare in quella lì. A quel punto, li ho persi di vista e so solo che quell’uomo ha aggredito il vecchio, gridando “L’ha uccisa! Tua moglie ha ucciso la mia donna!”. E ora eccoli là: lottatore di sumo contro Monaco buddista. -
Gli occhi di Sherlock si accesero, John osservò preoccupato il volto del suo ragazzo illuminarsi.
-Questo è meno noioso del previsto. – sussurrò, portandosi le mani sotto il mento.
-Oh no. Non le mani! Sherlock sei un paziente in un ospedale, non puoi seguire un caso qui e… Ovviamente non mi stai più ascoltando – la voce di John si affievolì con sconforto. Sherlock oramai era già lontano, nei meandri del suo palazzo mentale.
La ragazza, doveva avere venticinque anni al massimo, parve avere un’illuminazione.
-Ecco perché mi sembrava familiare! Lei è Sherlock Holmes! E lei deve essere il Dottor Watson! -
John fece un sorriso radioso e le porse la mano. Era genuinamente felice di brillare di luce riflessa, perché non poteva essere più orgoglioso del suo Sherlock.
-E’ fantastico conoscervi, io sono Mar… O mio dio, lui sanguina! -  
In effetti la sfavillante medicazione che Sherlock si era fatto da solo era stata gioiosa e inutile, la metà destra del suo camice traboccava di sangue.
-Ed è per questo che ora ce ne torniamo in stanza -
Completamente assorto nei suoi pensieri, Sherlock non si accorse di venire trascinato via, di nuovo nel suo letto.
-Riguardatevi! – gridò la ragazza alle loro spalle.

Il suono di vetri rotti echeggiò drammaticamente nel silenzio della notte. Dopo qualche secondo, vi fu uno schiocco e un altro rumore di vetri in frantumi.
John aprì gli occhi, confuso, la mente annebbiata dal sonnifero. Realizzò solo dopo che a lui non stavano più somministrando alcun sedativo, e che quindi qualcuno doveva averlo drogato. Ma quel pensiero fu presto soppiantato dall’immagine di Sherlock che giocava a distruggere delle fialette di vetro con una fionda.
John sbatté le palpebre e si alzò un poco.
-Si può sapere che ti prende? E dove diavolo l’hai presa una fionda? -
Sherlock lanciò un’altra di quelle che sembrano supposte e mandò il colpo a segno.
-Sgraffignata ad un bambino giù in pediatria. Mi annoio. Sono stato in traumatologia, doveva avevano portato il vecchio. È un pazzo, niente di più. Tra poco raggiungerà la moglie in psichiatria. -
-Ma… ma… l’omicidio? Il tipo ha detto che lei gli ha ucciso la moglie -
Sherlock afferrò un’altra supposta.
-John, siamo in un ospedale. Sarà stata una coincidenza. Fidati, ho scambiato due parole con il vecchio, ha solo saputo dire un mucchio di stupidaggini su anime e morte. Sarà una sorta di predicatore a cui è venuta meno la capacità di intendere e volere a furia di ripetere scempiaggini! -
Stavolta mancò il bersaglio. John rise, in qualche modo era molto divertente per lui. Era uno strano quadretto, che sapeva di casa.
-Niente caso, allora? -
-Niente caso -
E un’altra boccetta andò in frantumi al suolo.
 

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Capitolo 4
*** Una soluzione al 7% ***


Quella notte ci fu parecchio movimento nella stanza di Sherlock e John.
John fu portato via, d’urgenza in sala operatoria. Sherlock era sull’orlo della polmonite che tanto aveva rincorso con il suo comportamento, e non respirava più autonomamente. Era ancorato al suo letto.
I medici sfrecciarono fuori dalla stanza, facendo le compressioni sul petto di John, e lui li guardò impotente, mantenuto fermo dagli infermieri.



John ci mise un po’ a mettere a fuoco la figura della dottoressa Marple. Sentiva di nuovo il sapore di plastica che aveva l’aria della mascherina per l’ossigeno e il sommesso ronzare di macchine.
Capì di essere di nuovo in terapia intensiva.
Tornò a concentrarsi sul medico in camice sterile, giallo chiaro, di un colore tenue, in modo da non stancare gli occhi. Lei lo guardava in attesa, senza che nemmeno uno dei suoi lineamenti la tradisse.
John distolse lo sguardo e perse nuovamente il fuoco, questa volta raggruppò la sua attenzione sul proprio corpo, lo percepiva lontano e sentiva un dolore distante, che sentiva appena attraverso il formicolio del sedativo, come luce attraverso una grata. Alla fine ritrovò la percezione della propria lingua.
-Che… cosa… è successo? -
-John, dobbiamo discutere delle sue condizioni cliniche. So che anche lei è un medico. Se la sente di farlo adesso? -
John strinse gli occhi per cercare di distinguerne i contorni. Sentiva il sonno adombrargli la mente come un’ombra.
-Dov’è… Sherlock? -
-E’ in reparto. John, forse è meglio che si riposi, passerò più tardi -
L’uomo aveva già richiuso le palpebre, mormorando: -Non fatelo alzare dal letto – e poi qualcosa su delle caramelle alla fragola.

-Qualcosa non è andato bene, John. – sentenziò la dottoressa Marple.
John non poté fare altro che guardarla, aspettando che continuasse.
-I parametri sono tutti sballati -

-Signor Holmes, la prego, non può fare così. Non si può alzare. Non può respirare senza la mascherina! –Sherlock lottava contro due infermiere che lo tenevano imprigionato nel letto. Da dietro la maschera di supporto respiratorio provenivano suoni di evidente natura ostile.

-Che cosa mi sta dicendo? – la voce che uscì dalla gola di John pareva non appartenergli, tanto flebile ed impercettibile era all’orecchio.
-John, lei è un medico. Ha visto la cartella con i suoi occhi –

Sherlock giaceva immobile, aveva rinunciato ad alzarsi da quando avevano messo un’infermiera di guardia alla porta. Respirava affannosamente nella mascherina. Aveva la vista confusa, ma afferrò lo stesso il cellulare.

“John, non mi fanno venire da te.” –SH

“Dove sei? Che succede?” –SH


Il telefono fece due brevi squilli, interrompendo il flusso di parole che John stava vomitando addosso alla dottoressa.
Riuscì a districarsi tra i tubi per afferrare il cellulare e leggere i messaggi.
-Lo vede. Questo è lui! Non posso farlo. – il tono era fermo e deciso, nonostante la debolezza.
Il medico si chinò verso di lui.
-John, lei deve lasciare che noi la aiutiamo. Possiamo ancora fare qualcosa per lei, ma deve restare in terapia intensiva. -
-Ho visto questi parametri tante volte, dottoressa. Sono stato tre anni in Afghanistan e so come vanno a finire queste cose. Non posso abbandonarlo. – si prese il tempo di scandire queste ultime tre parole con chiarezza.
-Lui non vorrebbe questo. Glielo chieda. Non vorrebbe che lei si arrendesse. -
John la guardò, nel silenzio si sentirono quelle parole riecheggiare nella stanza.
-Non voglio che gli dica la diagnosi. Voglio tornare in camera da lui. Perché non è solo lui ad avere bisogno di me, dottoressa, ora io ho bisogno di lui. E se lei non mi riporterà in quella stanza, sarà Sherlock a venire qui e, se continua a togliersi quel benedetto drenaggio, tutti e due noi sappiamo come andranno le cose anche per lui. Mi faccia tornare da Sherlock. -
La dottoressa gli restituì uno sguardo preoccupato.
-Si conceda solo un giorno in terapia intensiva, passato domani, se nulla migliora, la farò ritornare nella stanza del suo fidanzato -
John era irremovibile. Scosse il capo mentre ancora l’altra stava parlando.
-Se è veramente di sepsi che si tratta, già domani potrei non riconoscere più chi è lei. Voglio stare con Sherlock adesso -
Il medico si alzò in piedi in uno scatto di frustrazione, nei suoi occhi c’era tanta tristezza, nei suoi lineamenti tanta determinazione.
-Va bene. Due ore. Mi dia due ore. -

-Eh sì, ci rincontriamo -
Un vecchio claudicante entrò nella stanza. Era scheletrico, aveva la pelle scurita dal sole e si aggirava con un’asta della flebo ed un camice probabilmente aperto sul retro.
Sherlock ne riconobbe il tale della rissa, quello la cui moglie aveva “ucciso” una paziente.
La scritta “NOIOSO” lampeggiò nella mente di Sherlock, che gli dedicò un solo sguardo, poi tornò a fissare la finestra.
-Non vedo la tua metà. Eh sì, Lisa aveva ragione. - si era fatto più vicino e aveva indicato il letto vuoto di John.
-Se ne vada -
Il vecchio zoppicò in direzione di Sherlock, prendendo uno sgabello.
-Non ancora. Io e te dobbiamo parlare, giovanotto. Eh sì, io vi ho visti subito. -
-Non ha capre da sventrare per leggerne le viscere? Vada via -
-Ahahah! Eh sì, sei anche divertente, ragazzo. Ma adesso ascoltami – la brusca transizione di tono catturò immediatamente l’attenzione di Sherlock.

-Reparto rianimazione – la dottoressa Marple fece un gesto ampio per indicare la stanza. Si chinò, agganciando le mani alla barella di John, -Qui abbiamo quasi tutte le attrezzature necessarie per curarla e Sherlock potrà stare in camera con lei. - L’uomo la guardò, sorrise. -Sono d’accordo con lei, la vicinanza potrà solo giovare a lei e al suo fidanzato. John, credo che ce la possiamo fare – lo guardò con entusiasmo.
-Così lui capirà che qualcosa non va -
-Senza offesa, John. Il suo fidanzato non sarà un medico, ma è Sherlock Holmes, credo che ci sarebbe arrivato comunque -
E mentre il petto di John si riempiva di orgoglio, la dottoressa se ne andò, con passo trionfante.

“Mycroft sta venendo a trovarci” –SH

“Fingi di essere morto e se ne andrà” –SH

“E se dovesse restare a piangere la nostra morte?” –JW

“In quel caso tu lo distrai e io faccio in modo di invertire le parti” –SH

“Non trovi che ci sarebbero troppi testimoni per un omicidio?” –JW

“Lo pianifico da anni, so cosa fare” –SH

“Perché finiamo sempre per parlare di omicidio?” –JW

“Scusa” –SH

“No, è eccitante” –JW

“Da quanto tempo non vai da Ella?” –SH

“Ci sei tu, non ho bisogno di Ella” –JW

“Credo di aver avuto una brutta influenza su di te” –SH

“Guardami” –JW


Sherlock si voltò immediatamente in direzione di John. Avevano entrambi le mascherine e parlare risultava difficile, per cui avevano risolto con gli sms.
John aveva metà della faccia affondata dal cuscino, un’altra parte era coperta dal supporto respiratorio, e quello che ne restava erano gli occhi. Ingordi guardavano Sherlock.
-Hai gli occhi lucidi. Hai la febbre? – esalò il detective.

“Siamo in un ospedale. È per questo che siamo qui” –JW

-Voglio venire vicino a te- mormorò Sherlock.

“Non osare alzarti da quel letto.” –JW

“E smettila di parlare, ti mancherà l’aria” –JW

“Tuo fratello ad ore undici” –JW

“Metti in atto il piano” –SH

“Dieci a uno che ci fa pesare di essere venuto qui” -JW


-Vedo che la vostra maturità non fa progressi – commentò Mycroft quando entrando nella stanza vide Sherlock e John improvvisamente accasciarsi sui propri letti. –Non posso credere che tu sia riuscito ad aggravare le tue condizioni – aggiunse guardando il fratello letteralmente dall’alto in basso.

“Ora dice ‘sono io quello intelligente’ ” –SH

-L’ho sempre detto che sono io quello intelligente – fece Mycroft un secondo dopo.

“E anche quello prevedibile” –JW

Sherlock e John scoppiarono a ridere dietro le maschere.
-John, almeno tu. Avevo riposto in te delle speranze, ma a quanto pare non puoi fare a meno di farti coinvolgere in sciocche conversazioni via sms -
John indicò innocentemente la mascherina e fece un cenno con le spalle.
Mycroft fece un sorriso sgradevole.
-Certo… capisco… - tornò a rivolgersi verso Sherlock, - Vedi di non finire sotto i ferri entro l’ora di cena, fratellino -
-Vai già via? Ti prego, non farlo -
-Il tuo sarcasmo sta appestando l’aria, fratello. Ho dovuto rimandare la mia visita mattutina al Diogenes Club per venire fin qui -
Sherlock grugnì.

“Ho vinto la scommessa. Paga. ” –JW

-Ad ogni modo, devo andare ora. È sempre un piacere parlare con te, Sherlock. Vedo che peggiori ogni giorno di più. John, anche tu, riguardati. -

“Che cosa? Non era una vera scommessa, era ovvio che lo dicesse” –SH

“Ma io voglio lo stesso il mio premio” –JW

“Che cosa vuoi” –SH

“Prova ad immaginarlo” –JW


-E adesso vedo dallo sguardo di mio fratello e dal colorito che hanno assunto le sue guance che la conversazione che state intrattenendo via sms sta diventando piuttosto privata, per cui è meglio che vada -

“Il nemico sta lasciando il territorio” –JW

“E quando mi guardi così, vorrei farti tante cose” –JW



Molly passò a trovarli nel primo pomeriggio.

“E’ arrivata la tua rivale in amore, John” –SH

“Sherlock” –JW

“Con che tono dovrei interpretare l’ultimo messaggio?” –SH

“Arrabbiato” –JW

“Ascoltala” –JW

“Anche tu” -SH


-… Appena mi hanno detto che vi avevano portato qui, mi sono liberata e sono venuta. Come state? -

-Non ti pare che la risposta sia piuttosto ovvia, Molly? Per giunta il personale qualificato sei tu, in questa stanza, dovresti essere tu a dirlo a noi -

“Sherlock!” –JW

Molly fece un sorrisino flebile, che si sciolse subito.

-E tu, John? -

-Non deve parlare. Non farlo parlare – intervenne Sherlock.

-Okay, sì, giusto. Scusami. Non dovevo neanche venire… - riprese il suo cappotto e la sciarpa e si voltò, per andarsene.

“SHERLOCK!” –JW

“E va bene” –SH


-No… Molly. Resta. Scusami tanto, stai con noi -
La donna si girò, con un mezzo sorriso.
-Scommetto che quei messaggi erano di John che ti metteva in riga -
John fece un gesto di conferma con la mano.
-Voi due non cambiate mai – scherzò, tornando a sedersi.


“John, dimmi che non sono chi penso che siano” –SH

“Dimmi che quella non è la signora Hudson con la signora Turner” –SH

“Dimmi che non sono loro” –SH

“Sì” –JW


Mrs Hudson e Mrs Turner attaccarono un’oretta dopo Molly, quando quest’ultima era già andata via. Se ne erano venute baldanzose nella stanza di Sherlock e John, con un mazzo di fiori, e stavano andando avanti da venti minuti sul matrimonio.

-Marie conosce un’ottima sarta. Ha fatto il vestito del nipote di mia cugina una volta, uno smoking di seta grigio che gli calzava a pennello, sembrava dipinto addosso. -
-E ha fatto persino l’abito da sposa di Emily, un’amica della matrigna di mia nipote, una ragazza un po’ in carne, e l’ha fatta sembrare una sirena. -
-Non che a voi serva un abito che vi smagrisca. Soprattutto tu, John, sei tutto sciupato, hai un aspetto terribile. Ma vi danno da mangiare in questo posto? -

“Aiutami” –SH

“John, fa qualcosa” –SH

“Non posso sopportarle entrambe” –SH

“John!” –SH

“Ok” –JW


-…E poi ho pensato: visto che non è un matrimonio in chiesa, perché preoccuparsene! Posso mettere la gonna con lo spacco che ho usato per il matrimonio di Tobias – fece Mrs Hudson.
-Intendi quella verde acqua? – chiese la signora Turner.
-Esatto, Marie. Non credi sia troppo, vero? -
-Assolutamente no, Martha. E poi che gusto c’è nella vita senza un pizzico di piccante? -

“Non voglio avere queste immagini in testa, John” –SH

“Dobbiamo fermarla” –SH

“Non posso ricordare il nostro matrimonio come il giorno in cui ho visto la signora Hudson mezza nuda” –SH

“D’altra parte, se mezzo nudo, meglio completamente, ci fosse qualcun altro, non mi lamenterei… “ –SH

“Ok” –JW


Sherlock lanciò un’occhiata preoccupata a John, ma fu intercettato di nuovo dalla signora Hudson.
-Che colore pensavate di scegliere per i vostri vestiti? Trovo che bianco risulti un po’ pacchiano -
-Assolutamente d’accordo con te, Martha. Un colore più sobrio, come il nero o il grigio sono decisamente più appropriati. -
-Com’erano vestiti i tuoi inquilini al loro matrimonio? – chiese Mrs Hudson.
-Julian e Albert? Loro sono un po’ eccentrici, si sono vestiti di fucsia -
La signora Hudson scoppiò a ridere.
-Adoro quei due! Dovremmo cenare assieme qualche volta! Potreste fare delle uscite a quattro! -
Sherlock rabbrividì all’idea e prese di nuovo il telefono.

“John? “ –SH

“John. Tutto bene?” –SH

“Sì” –JW


-Quasi dimenticavo: ti ho portato il violino, Sherlock. John mi aveva detto di farlo -
Sherlock scrutò preoccupato la custodia dello strumento e il suo sguardo si spense.


Lestrade fu l’ultimo a presentarsi. Dieci minuti prima che finisse l’orario di visita, si affacciò alla porta.

“Non volevamo farci mancare nessuno, oggi” –SH

“Perché hai detto a tutti che stavamo in rianimazione! Così hanno pensato chissà che e adesso ce li siamo ritrovati tutti qui” –SH


-Se io ho fatto lo sforzo di venirvi a trovare, invece che andare a casa dopo una notte e un giorno di lavoro, tu puoi fare lo sforzo di posare quel cellulare per cinque minuti, Sherlock -
Sherlock tentò di scamparla con la scusa della mascherina. La indicò, come aveva fatto John quella mattina.
-Non provarci, ho sentito con Mycroft, lo so che puoi parlare -
-Hai parlato con lui? E dimmi, come vanno le cose tra voi? -
Lestrade rimase spiazzato dalla domanda.
-Che cosa intendi dire? Non c’è un ‘noi’  -
-La suola delle scarpe di Mycroft e i tuoi polsini mi suggeriscono ben altro -
L’ispettore di polizia avvampò.
-Non usare i tuoi trucchetti con me, Sherlock! -
-Non che ci sia qualcosa di male nel fatto in sé… Solo, mi chiedo, Gareth, cosa ci trovi in quell’essere meschino e spregevole, che ha sembianze umane solo per un fatale errore della natura…-
Lestrade incespicò sulla lingua.
-Non intendo risponderti. E questa rivalità tra di voi è sempre stata ridicola.-
-Non rispondendomi mi hai praticamente risposto, Gary, non che io avessi bisogno di ulteriori conferme -
L’altro aprì la bocca, ma si rassegnò a non ribattere. Si voltò verso John.
-E tu come stai? – chiese.
John alzò i pollici e abbozzò un mezzo sorriso, difficilmente visibile dalla mascherina. Ma non si alzò a sedere, né aprì più di tanto gli occhi, né riuscì a dire nulla.
Il volto di Lestrade si congelò.
-Bene, meglio che vi lasci riposare a questo punto. – si alzò e si mise il giubbotto piegato sul braccio, -Buona serata -
John si addormentò poco dopo.

-Che cosa ne dici, tesoro? -
Il vecchio del giorno prima era tornato e stavolta la moglie era con lui.
Era una donna molto magra, aveva la pelle del colore del legno ed era così ossuta che sarebbe potuta essere scambiata per un albero spoglio. Aveva i capelli grigi ordinati in una treccia lunga fino ai fianchi.
La vecchia signora si era avvicinata al letto di John con passo leggero. Sherlock la guardò mentre si metteva all’opera. Si chinò in avanti e poggiò l’orecchio sul cuscino, accanto al testa di John, poi con due dita ne percorse il profilo del volto, soffermandosi a sentirne il respiro.
Si rialzò e con il capo disegnò un no nell’aria.
Il vecchio prese una mano di Sherlock tra le proprie.
-Eh sì, sarà per la prossima volta -

Sherlock si sedette al centro del letto e si rinchiuse nel proprio palazzo mentale, le mani giunte davanti alla mascherina come sempre.

-Sherlock? – una voce sottile lo richiamò in superficie.
L’uomo si girò subito in direzione della voce.
-John, non parlare. La dottoressa ha detto che non devi fare questo sforzo -
John lo ignorò.
-Verresti… Verresti vicino a me? –
-P... Perché? -
-Ho… Solo… Freddo… -
Sherlock sbatté le palpebre più volte, per cercare di mantenere la calma. Senza esitare, scese dal letto, trascinandosi il carrello a cui era legato con una decina di tubi.
Si infilò sotto le coperte.
Sherlock sovrastava John, che così sembrava ancora più piccolo.
-Sei ipotermico – esalò Sherlock, non appena lo toccò.
–Ora ci sei tu a riscaldarmi - mormorò, mentre tutto ciò a cui riusciva a pensare era a quanto gli sarebbe mancato quell'idiota.
Sherlock lo abbracciò, mentre John affondava nel suo petto e respirava il suo profumo.
-Puzzi d’ospedale -
Sherlock ridacchiò.
-Anche tu -
-Ma resti… Sempre molto… Sexy -
Sherlock rise di nuovo.
-Anche tu-
John si strinse ancora di più. Tutta la sua faccia era avvolta tra le braccia di lui. Già sento la tua mancanza.
-E… Quali erano… Le tue… Promesse? -
Sherlock sentì un brivido risalirgli la schiena.
-Le saprai a suo tempo, John - Non fare così. Non farlo.
John respirò profondamente, gli mancava sempre di più il fiato.
-E’ questo… Il tempo… -
Sherlock lo strinse di più.
-No -
-Sì -
-Vuoi litigare adesso? –
John sorrise nel pigiama di Sherlock, anche se lui non poteva vederlo.
-Sarebbe un bel… Modo… Di uscire… Di scena – Scherzavo, hai un profumo bellissimo.
Sherlock lo ignorò.
-John, ascoltami. Ho parlato con Angus, il vecchio della rissa. -
L’altro mugolò in segno di assenso.
-Io… Io non credo più che stesse mentendo -
-Che… Cosa… Ha detto? -
Sherlock affondò la guancia tra i capelli di John. Si tolse per un attimo la mascherina e ne respirò l’odore, poi se la rimise, stringendolo ancora più forte.
-Ha parlato di cosa succede dopo… Dopo… - Si fermò, -Non importa -
 John ne sentì la voce spezzarsi. Fece un grande sforzo per sollevare il capo e poggiarlo di nuovo sul cuscino, cosicché potesse guardarlo negli occhi.
-Sherlock… Ascoltami tu… Prima. Sappiamo tutti e due… Cosa sta per succedere… Non possiamo… Perdere tempo a girarci intorno… Se io sto per morire… Ho bisogno di salutare te… E tu hai bisogno… Di salutare me -
Mentre parlava, Sherlock aveva iniziato a piangere, lacrime silenziose scendevano lungo le guance e bagnavano la plastica della mascherina. John lottò con se stesso per non distogliere lo sguardo. Già sento la tua mancanza.
-Angus ha detto che le anime ritornano -
L’altro provò a sorridere.
-E’ una bella cosa… Da pensare… Ma sai meglio di me… Che non… -
-Angus ha detto che le anime tornano sulla terra, anche se il corpo non è più lo stesso, John -
L’altro andò a soccorrerlo passandogli una mano sulla guancia e carezzandogliela con dolcezza. Mi mancherai così tanto, non voglio andare via senza di te.
-Non guardarmi così -
-Non è da te… Pensare che… Queste cose siano reali -
Sherlock strinse gli occhi e due grosse lacrime scesero, una cadde sul cuscino, l’altra bagnò la mano di John.
-Sì, ma io posso sbagliarmi. Io non so niente di queste cose, ma Angus… -
-Sherlock… -
Il detective scosse il capo.
-No, ascoltami. Lui ha fatto una cosa, con la moglie! Loro… Hanno legato le proprie anime -
-Cosa… Significa? – mormorò. Non fare così. Non voglio andare.
Sherlock cercò l’altra mano di John. La trovò e la strinse con forza.
-Quando una persona… Muore… La sua anima può finire dovunque, in qualsiasi parte del mondo… No, devi ascoltarmi! Può finire dovunque ed è impossibile da trovare. Per questo lui e Lisa hanno legato le loro anime. Una volta, molte vite fa, sono morti assieme e, così facendo, hanno potuto scegliere di legarle. Ora quando uno muore, l’altro, poi, può raggiungerlo, le due anime torneranno sulla terra nello stesso posto e nello stesso tempo. Angus e Lisa possono letteralmente stare assieme per sempre. -
John aspettò che finisse, non senza guardarlo con profonda tristezza. Come farò senza di te.
-Non hai… Mai parlato… Così… Sherlock, io capisco… Cosa vuol dire… Grazie a te, lo so sul serio… Ma pensare che… Certe cose siano vere… Significa solo farsi del male… -
Sherlock era tornato a scuotere il capo. –Aveva le prove, lui. Avevano le prove. Nella storia loro due tornano sempre… -
-Era un ciarlatano -
-No -
-E comunque… Non vorrei… Che tu morissi ora… Per unire le nostre anime… Non te lo permetterei… -
-Non starebbe a te la scelta, John. Io vorrei tanto farlo, però non è più possibile… Lisa è venuta qui, ha detto che è troppo tardi. Si deve fare in tempo di salute. – Quando Sherlock piangeva i suoi occhi diventavano come due specchi d’acqua illuminati dalla luce, erano così belli.
-Ed è per questo, che ora ti dico le mie nuove promesse – John si scosse, si era perso a nel volto di lui. Sherlock si tolse la mascherina e mise la propria fronte contro quella di John.
 – Io ti prometto che ti verrò a cercare, John Watson. Io ti prometto che fino a quando ci sarà la minima possibilità che Angus abbia ragione io non smetterò di cercarti. Io ti prometto che un giorno ti troverò – la voce, prima resa insicura dal pianto, ora era ferma e forte. Non sembrava una promessa, sembravano già dei fatti.
John sentì l’aria venirgli meno e il cuore fargli male. Si aggrappò alla vestaglia di lui, senza accorgersi di stare piangendo. Chiuse gli occhi, si fece più vicino e abbracciò il silenzio.
Dopo un po’ sentì il respiro di Sherlock farsi pesante, John cercò di fargli rimettere la mascherina.
-No – Sherlock scosse il capo, - Vorrei baciarti adesso -
John dovette fare uno sforzo ancora maggiore per sorridere. –Certo… Vieni qui… - si tolse il supporto respiratorio e aspetto che l’altro lo baciasse.
Sherlock lo baciò tremante, sapeva di sale, di bagnato e di addio.
Si separarono ansimando, John era sempre più freddo e sudato. Sherlock non riusciva a smettere di piangere.
-Le mie… Promesse… Sono sotto Billy… Il teschio… - mormorò John.
-Avevi detto che non le avevi scritte -
-Abbozzate… -
-John… -
-Dammi la mano -
Sherlock la afferrò, intrecciandone le dita. Era un pezzo di ghiaccio.
-Ti amo – sussurrò.
-Allora… Sto veramente… Morendo… Non lo dici… Mai… - sorrise John.
Sherlock quasi scoppiò a ridere, sapeva cosa  intendeva.
-Ricordati che ho un nome da femmina -
-Eccolo qui… Il vecchio… Sherlock… Comunque anche io… Il più femminile… Di tutti… – rispose, ma il detective lo guardò tra le lacrime, un cucciolo smarrito. John sapeva che stava aspettando, - Anche io ti amo -
Sherlock premette di nuovo la sua fronte contro quella di John.
-E non… Farmelo… Dire… Di nuovo… - E’ stato così  bello averti con me.

Le luci dell’alba entrarono nella stanza, accompagnate dal suono di un violino.
Un’infermiera seguì le note non appena sentì suonare.
Strano strumento il violino, così delicato, non era in grado di rompere quella quiete, solo di arricchirla.
Le note che si susseguivano erano gioiose e delicate.
Sherlock suonava per John.

John si scosse dal torpore.
-Suona… Per… Me… -
-John, io preferirei vorrei restare vicino a te -
-La… Canzone del… Matrimonio… Quella che… Stavi… Preparando. Vorrei... Sentirla… -


Il brano che aveva preparato era senza paragoni, c’erano dentro tante cose: lo scampanellio delle campane a festa, le grida di gioia degli invitati, il suono dei chicchi di riso che toccano terra, il mormorio delle promesse scambiate, il potere dello sguardo prima del bacio. C’era anche l’intimità del primo ballo, il sapore delle risa scambiate durante il valzer, l’odore della prima notte assieme. C’erano ricordi del passato ed entusiasmo per il futuro. Era anche una melodia incompleta, dal ritmo sincopato, che lasciava intendere che tutto era ancora da ridefinire, che molte cose erano ancora da scrivere.
Era la canzone più gioiosa del mondo.
Per questo divenne anche la più triste.

“Guardare John morto”: aggiungere al file.
Guardare John morto è come farsi una dose di morfina. Una puntura e non senti più niente.


 

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Capitolo 5
*** Il terzo Holmes ***


Sherlock salì a grandi passi le scale di Baker Street.
Era passato un giorno, era uscito dall’ospedale per andare al funerale di John e non aveva più voluto tornarci. Lestrade si era rassegnato a scortarlo fino a casa.
Lo scrutò preoccupato dal pian terreno, scambiandosi un’occhiata con la signora Hudson, poi lo raggiunse al piano di sopra.
Sherlock si era tolto il cappotto e la sciarpa, e si stava infilando una vestaglia.
-Okay, tempo di mettere su un piano, John – disse, scrutando la parete con lo smile: era tutta coperta di carte e foto che riguardavano il loro matrimonio.
Lestrade mosse esitante un passo, con le mani nelle tasche dei pantaloni.
-Sherlock? Tutto bene? -
Ma il detective stava fissando il muro e non lo stava ascoltando.
-Meglio liberare il campo, prima – fece, tenendo un braccio e iniziando a strappare i fogli appesi alla parete.
L’ispettore di polizia sospirò, -Se hai bisogno di qualcosa chiamami. Non fare stupidaggini, sei ancora convalescente. – aggiunse, non ottenendo risposta si tirò su la cerniera del giubbotto, - Ciao, amico -
In meno di un minuto la carta da parati era di nuovo sgombra e brandelli di pagine ora ornavano il pavimento ed il divano, dove Sherlock era salito in piedi.
-Esattamente! Non posso iniziare a cercare te già da adesso. Se Angus ha le informazioni corrette, ora dovresti essere ancora nel primo stadio di gravidanza. Ma posso fare pratica nel frattempo... -
Si strofinò il mento con due dita.
-Intendo dire che devo scegliere un’altra persona da trovare, per valutare la difficoltà del compito… Certo, è logico con te sarà più facile, sei straordinario, ti troverò subito… Ma mi serve fare una prova… - scese dal divano, con uno svolazzo della vestaglia, si andò a sedere sulla poltrona. Rimase in silenzio per un po’, un silenzio carico di pensieri, - Trovato! John, ho trovato! Mio fratello, potrei iniziare a cercare mio fratello! – scattò in piedi e corse verso la porta.
-Non c’è tempo per spiegare ora! Devo fare una visita al caro vecchio Mycroft! – e agitando un mazzo di chiavi, si tolse la vestaglia e afferrò il cappotto.

Tornò a casa due ore più tardi, la sera iniziava a diventare notte. Ignorò il vassoio con la cena lasciato lì dalla Signora Hudson e sbatté sul tavolo un plico di fogli e cartelline.
Si sedette ed iniziò a sfogliare freneticamente il primo raccoglitore fino a quando non trovò un certificato che aveva l’aspetto di essere stato all’anagrafe per molti anni.
C’era spillata la foto di un ragazzo di circa vent’anni, capelli rossicci e ondulati, occhi azzurri, tratti armoniosi e contratti in un’espressione di serio rigore.
“Thomas Percival Holmes, n. Londra 10 maggio 1969 – m. Belgrado 21 febbraio 1992”
-Era nostro fratello più grande, è morto quando io ero ancora un bambino. Mycroft stravedeva per lui, poi si è ritrovato coinvolto in un incidente diplomatico in Jugoslavia ed è stato ucciso dalla polizia militare, non è stato possibile salvarlo. – spiegò Sherlock, - Ora, come puoi immaginare, anche lui era un genio, aveva una mente superiore alla mia e a quella di Mycroft, per cui, se è là fuori, non dovrebbe essere difficile da trovare -
Prese un’altra cartellina ed iniziò a sfogliarla.
-Non l’ho mai conosciuto bene, ma Mycroft ha tutto su di lui, ogni singola cosa, dal tema per la maestra delle elementari, alla sua tesi di laurea. Abbiamo disegni e brani scritti da lui. Tutte cose importanti, perché se non possiamo più affidarci all’aspetto, basterà capire come funzionava la sua anima, per rintracciarlo. – disse, appendendo alcuni fogli alla parete. – Sono d’accordo, hai ragione, John. Anche le foto sono importanti, un’espressione può essere la stessa di padre in figlio, quindi perché un’anima non potrebbe conservarla? Ho preso da Mycroft anche alcuni vecchi album di fotografie, li aveva catalogati in ordine di data in uno dei suoi archivi ossessivamente ordinati! – cogliere la possibilità di offendere Mycroft era sempre gradevole.

Per l’alba tutte i raccoglitori erano stati sondati, le informazioni contenute sfrondate e gli indizi preziosi appesi al muro.
Sherlock aveva uno sguardo un po’ allucinato, i capelli spettinati e oscillava leggermente in piedi sul divano.
-Okay, John. Queste era l’ultimo album di fotografie. Vedi, c’è un pattern: il sopracciglio destro alzato mi sembra una costante; ma anche il sorriso: non sorride mai nelle foto, guarda, neanche in queste in cui era più piccolo. La posizione che assumono le braccia è chiaro segno di sicurezza, anche se lo stato dei suoi capelli sembrerebbe tradire una certa insofferenza alle regole… Già, in questo io e lui siamo fratelli e Mycroft è un estraneo! Qui però ha arricciato le labbra, in quel modo che fai tu quando… -
In quel momento si voltò, forse aspettandosi di vedere la smorfia che aveva fatto Thomas in quella foto sulla faccia di John, e si ricordò di essere solo.
In un attimo si suo volto si oscurò, attraversato da un’espressione come di tradimento e si ritrovò a guardare per terra. I propri piedi stavano calpestando stralci di fogli con foto di fiori e orari di ricevimento del sarto. Per questo scese dal divano e andò a sedersi sul pavimento, tra i brandelli di carta.

La signora Hudson entrò in silenzio nell’appartamento di Sherlock, posò il vassoio con il pranzo sul tavolo e raccolse quello della sera prima: intonso.
-Ho fatto un elenco dei paesi da ricercare questa mattina, John – lo sentì dire ad alta voce, si sporse con cautela verso il soggiorno: il detective era seduto davanti al computer, - Oggi scansioneremo l’America Latina, per fortuna conosco sia lo spagnolo che il portoghese. Se si è distinto, lo ritroveremo nella lista degli individui monitorati dal governo, a meno che non faccia parte del governo stesso. Solita routine, sai cosa fare -
Rassegnata al fatto che non l’avrebbe ascoltata, Mrs Hudson rinunciò a parlargli e ritornò di sotto.

-Come sta? – chiese la signora Turner, che la aspettava in cucina.
-Come al solito: lavora e sono giorni che non tocca cibo. Marie, non so cosa fare – disse con la vocina tremolante, soffocando un singhiozzo.
-Martha, è passata solo una settimana. Lui ha bisogno di tempo -
La signora Hudson si soffiò il naso. – Il fatto è che non l’ho mai neanche sentito piangere, non è normale. Dovrebbe concedersi di sfogarsi. E invece… -
-Ognuno reagisce a modo suo, cara. Quando mia madre è morta, io ero molto giovane, e ho lavorato all’uncinetto per un mese, per giorni interi! Era luglio, io scappavo nel campo dei vicini la mattina e ritornavo la sera, con una nuova sciarpa o un nuovo cappello. Neanche io mangiavo e neanche io passavo le giornate a piangere. Siamo fatti così! -
-Vorrei solo abbracciarlo, capisci… Per fagli capire che gli sono vicina, ma lui non credo voglia… - sospirò, - Non so mai che fare per Sherlock -
-Tempo, Martha, dagli tempo -


“Sto venendo a trovarti. Ho bisogno di parlare” -MH
Sherlock sbuffò davanti allo schermo del cellualare.
-SIGNORA HUDSON, MIO FRATELLO STA VENENDO QUI, BARRICHI LA PORTA E NON LO FACCIA ENTRARE! – gridò al vento, senza neanche affacciarsi sul pianerottolo.
-Meglio che non sappia di questa nostra piccola ricerca, John. Allora! – batté le mani, fregandosele, - Dov’eravamo? Sud-Est asiatico, giusto. Ci rimangono le Filippine e Hong-Kong! -

Dieci minuti dopo un’auto nera si fermò davanti al 221B, Sherlock roteò gli occhi, spazientito, e si affrettò a coprire la parete con un telo come meglio poté.
Mycroft entrò in salotto una manciata di secondi più tardi.
-Ti avevo detto di non venire -
-Eppure eccomi qui -
Sherlock gli stava davanti, per impedirgli di addentrarsi ulteriormente nella stanza.
-Bene, sei venuto, mi hai visto, mi hai parlato, puoi andare -
Mycroft fece un sorriso sgradevole.
-Non è di questo che dovevamo parlare, Sherlock, ma della cosa che evidentemente mi stai nascondendo – disse, indirizzando con lo sguardo la parete coperta.
-In tal caso non ti riguarda -
-Mi riguarda se spariscono i dossier su Thomas – ribatté.
Sherlock sostenne lo sguardo inquisitore del fratello.
-La mia risposta non cambia: non è affar tuo -
-Ma per favore! Mi sono arrivate almeno una decina di e-mail: qualcuno sta usando il mio nome per accedere ai database governativi di stati in tutto il mondo! Cosa-stai-combinando? -
-E’ una questione privata – scandì Sherlock.
-Non più ormai. Non se utilizzi il mio nominativo -
-E’ una questione tra me e John – concluse, il nome del defunto partner riecheggiò nella stanza.
Mycroft sembrò decidere di allentare la presa, fece un passo indietro.
-Ti do un mese, poi questa storia deve finire -




Sherlock si svegliò di soprassalto, si era addormentato sulla scrivania con la testa china sulla tastiera del portatile di John. La faccia era investita dalla luce bianca che proveniva dallo schermo.
C’era una sola pagina web aperta sul desktop.

“Una visita in ospedale”

Eh già, avete letto bene, ma non è quello che pensate! Non siamo andati in ospedale per risolvere uno dei nostri casi (anche se Sherlock ci ha provato), ma ci siamo finiti come pazienti. Sherlock è stato così furbo da farsi accoltellare al petto, ma non vi preoccupate, il detective è più in forma del solito, riesce sempre a farsi saltare i punti e non sta mai un momento fermo. Il sottoscritto, invece, è stato investito da una macchina, mentre andava a trovare il proprio fidanzato in ospedale. Il personale medico mi ha accolto con gioia, perché, indovinate un po’… Sherlock stava rivoluzionando tutto il reparto, ma che dico? Tutto l’ospedale! Ha persino… No, forse non dovrei dirlo… Lo terrò come minaccia la prossima volta che non vorrà fare qualcosa, eh eh! Comunque, dovremmo ritornare a casa abbastanza presto e riprenderemo la nostra attività! Meglio che ritorni a fare da guardia carceraria, Sherlock si sta svegliando.
A presto.



Sherlock alzò lo sguardo e si ritrovò di nuovo a leggere l’ultimo post sul blog di John Watson. Di nuovo sentì il petto fargli male e le lacrime bruciargli gli occhi. Chiuse il computer di John e lo prese con sé. Mosse pochi passi nel buio delle tre del mattino e si andò ad infilare nella poltrona rossa. Rannicchiandosi come un bambino attorno a quel portatile, pianse fino ad addormentarsi.

-Oggi con l’Oceania abbiamo finito, John – esclamò Sherlock, guardando soddisfatto il muro coperto di scartoffie, - Centoventicinque possibili candidati al posto di nuovo fratello Holmes, non male! E tutto con sole due settimane di lavoro -
Andò a sedersi vicino al pc, - Ora dobbiamo approfondire le ricerche e concentrarci su di loro, vorrei andare a colpo sicuro… Sì, è logico che ci andrò a parlare, devo essere certo che il caso sia risolto. No, forse non mi crederà, John, ma mai escludere un’ipotesi senza averla sondata -


Una settimana dopo era tutto pronto: James Kalahari, origine indiana, trasferitosi negli Stati Uniti per assolvere incarichi governativi all’ambasciata. Studente modello, mente geniale, stesso sopracciglio alzato anche nelle foto ufficiali. Non c’era nessun dubbio che fosse lui.
- Stasera usciamo per festeggiare, John. Ho già chiamato Angelo, ha il nostro solito tavolo! È una grande, grande giornata! Caro fratellino, stiamo venendo a prenderti. -

Mezz’ora dopo uscì di casa tutto entusiasta, chiacchierando con John del perché non poteva che essere lui. Era preso così preso dal discorso che non notò le persone che lo guardavano preoccupate per strada. Non era importante, d’altra parte, perché lui aveva trovato l’anima di suo fratello tra altri 7 miliardi. Aveva scovato il più piccolo ago nel più grande pagliaio della terra! Stava dicendo questo, quando gli venne in mente quanto John fosse bello, la sua immagine gli balenò nella testa, lo faceva a volte, ma quando si voltò per dirglielo, si ricordò che lui non c’era.
Girò sui tacchi e tornò a casa.

Un biglietto per Washington DC fu prenotato per la settimana successiva in total segreto. Un secondo biglietto si aggiunse nel momento in cui Mycroft notò la faccenda e affidò a Lestrade di seguirlo.
-Non ho bisogno di una babysitter, Mycroft – si lamentò Sherlock, - Non sono un bambino -
Sherlock “Non sono un bambino” Holmes, infatti, non cercò di dissuadere il fratello dal pedinarlo fino negli Stati Uniti facendogli esplodere il microonde, né facendogli trovare un’appetitosa torta con delle unghie umane estirpate da cadavere in ogni strato, né tanto meno gli cosparse il cuscino di bile, accertandosi di lasciare la cistifellea ben in vista. Non fece per nulla queste e alcune altre cose che avrebbero decisamente fatto ricredere il fratello sulla sua età mentale.
Lestrade partì con lui.

-Devi controllarlo in ogni momento, Greg. Non devi mai perderlo d’occhio. I filmati e le mie fonti non hanno riportato nessun episodio di utilizzo di droghe, ma sappiamo bene quanto la situazione sia delicata – spiegò Mycroft, mentre accendeva il computer, un video venne riportato sullo schermo.
-Quella è Baker Street! -
-Sì, e questi sono il salotto, la camera da letto, la cucina e il bagno… Dovrei avere anche la tromba delle scale… Eccola! -
Lestrade si voltò a guardare Mycroft.
-Hai messo delle telecamere nella casa di tuo fratello?! -
-Misure straordinarie tristemente necessarie. Ma non è questo il punto. Dalle registrazioni si può dedurre che in qualche modo sta cercando nostro fratello maggiore, deceduto molti anni fa. Sembrerebbe alla ricerca della sua anima reincarnata – aggiunse, scettico.
L’ispettore di polizia si raddrizzò, stupito. – Sherlock? Non è possibile! -
Mycroft annuì – No, infatti. Ora capisci perché sono preoccupato? O ci ha lasciato una falsa pista e ci sta nascondendo qualcosa, oppure ci crede veramente e la cosa mi inquieta ancora di più. Non devi perderlo di  vista – concluse, scandendo le ultime parole.


Per quando salirono a bordo dell’aereo, Sherlock sembrava essersi rassegnato alla compagnia di Lestrade e aveva smesso di elencare scomode verità riguardo al detective in pubblico.
-Si allacci la cintura di sicurezza, per favore – fece la hostess.
-Lo sa che una volta lui ha scambiato un ragazzo addormentato per un morto e lo ha fatto imbustare, è stato quasi incriminato per tentato omicidio, dopo! Ah, è un poliziotto -
Beh, si era quasi rassegnato.
Molti aneddoti dopo, finalmente si addormentò.
Lestrade si chiese da quanto tempo non dormisse: poteva vedere delle occhiaie profonde segnare come cicatrici la pelle chiara dell’amico.
Mentre dormiva si accorse che sotto la giacca non indossava solo una camicia, ma un maglione, blu e rosso.


L’aria frizzante della primavera di Washington DC riempì i loro polmoni. Con due piccoli trolley i due uomini si districarono tra la folla in cerca di un taxi.
Sherlock ne intercettò uno e gli indicò l’indirizzo.
-Cosa? Non passiamo in albergo prima? – domandò Lestrade.
-Tu passi in albergo, Gabe, io non ho tempo da perdere – rispose Sherlock, passandogli la valigia. Lestrade la spinse via.
-Non se ne parla, devo venire con te. Non posso lasciarti andare da solo, Mycroft… -
-Non è quello che risolve tutti i tuoi casi senza prendersi il merito – concluse l’altro, interrompendolo.
-Sherlock, andiamo! Non fare il bambino, ho fatto una promessa a tuo fratello! -
-Le vostre questioni di coppia non mi riguardano – si infilò nel taxi,  - Come le mie non dovrebbero riguardare voi. Questa è una cosa tra me e John. Parta pure -
L’ispettore di polizia non poté che restare sulla pensilina, con due valige e un bel problema tra le mani, a guardare l’auto gialla sfilare via.
Si avvicinò ad un altro taxi e considerò tutte le opzioni: tra “Segua quella macchina!” e  “Vada alla tavola calda più vicina” la seconda sembrava molto più allettante.

Ambasciata indiana non era altri che un nome altisonante per “grande palazzo bianco con troppe finestre”. Sherlock lo scrutò disinteressato e proseguì su per la scalinata, scortato da una guardia.
Entrarono in una hall sfarzosa, con statue di marmo e colonne che fingevano di provenire dall’Antica Grecia, cosa che non aveva alcun senso data la natura di quel consolato. A quanto pare tutto quel bianco e quelle linee precise conferivano un rigore rassicurante.
Dietro ad un bancone di legno, diversi assistenti in tailleur grigio si davano da fare dietro a strati di carte.
-Salve, ha un appuntamento? – chiese una donna. Venticinque anni, sposata, un figlio, indesiderato, insoddisfatta, amante del baseball, frequentatrice di musical.
-Sì, ho richiesto un colloquio per le undici con il signor James Kalahari – rispose, guardandosi discretamente intorno.
-Un momento che controllo… -
L’uomo che lavorava al suo fianco era il suo amante. Single, cantante, laureato in ingegneria informatica, ottimo tiratore.
-Sì, il suo appuntamento risulta in agenda. Si accomodi in sala d’attesa, la verranno a chiamare tra qualche minuto… - disse, indicandogli una stanza alla sua destra.
La guardia che lo aveva scortato sin lì (repubblicano, anti-LGBTQA, ecologista) se ne andò e lui rimase solo ad attendere.
La sala d’aspetto, come la hall, si distaccava completamente da tutti i luoghi comuni sulla cultura indiana, amalgamandosi perfettamente con la cultura occidentale. Quell’edificio fingeva di avere un’età e una storia che in realtà non erano vere, come d’altronde faceva l’assistente che lo venne a prelevare.
Sherlock dedusse un’altra decina di persone sulla via dell’ufficio del suo ex fratello e solo quando arrivò davanti alla porta si rese conto di non sapere cosa dire.
Per un attimo, prima di entrare, pensò alla possibilità di essersi sbagliato, ma non ebbe il tempo di lasciarsi prendere dall’insicurezza, perché la vista dell’interno dell’ufficio di Kalahari deponeva già a suo favore. Finalmente qualcosa che usciva dall’estremo rigore e ordine di quell’edificio: la stanza era piccola e affollata, c’erano carte posate su qualsiasi superficie orizzontale (pavimento compreso), libri aperti e più e più segnalibri in ciascuno ad imbottirne le pagine; sulla scrivania c’era una lampada fioca rivolta verso il soffitto, ma accesa, e una colonia di elefanti d’argento che trattenevano diversi fogli dal volare via. Nessuna cornice o fotografie, solo un piccolo attestato di stima che pendeva dalla scrivania, come fosse stato impiccato, appeso ad un cordoncino per tende. Sherlock sentì una certa affinità con quell’ambiente.
James Kalahari non si alzò, ma restò seduto a finire di compilare un modulo, facendo segno al nuovo arrivato di accomodarsi.
Sherlock guardò stupido quello che senza alcun dubbio una volta era stato suo fratello.
-Mi scusi, salve, documento urgente. Dio, odio questa giornata! – fece quello, dopo un paio di minuti, - Allora, lei ha chiesto di vedermi. Di norma non accetto incontri senza conoscerne l’oggetto, ma ho avuto una calda rassicurazione da Mycroft Holmes e come andare contro la sua parola! -
Sherlock notò una nota di amaro sarcasmo in quelle ultime parole e non poté fare a meno di sentire una certa sintonia con l’uomo dall’altra parte della scrivania.
-Allora? Veniamo al punto? -
Sherlock per un attimo esitò. Avrebbe potuto uscire tranquillamente da quella stanza senza dire niente a Kalahari di quello che aveva scoperto. Sentiva nella sua testa le parole che si preparavano ad uscire come stupide e irragionevoli, ma, d’altra parte, aveva ben poco da perdere e a lui non interessava minimamente ciò che la gente pensava. Tenne quest’ultimo pensiero bene in mente.
-Sono venuto qui a titolo personale per informarla di una cosa che le sembrerà assurda, ma che è senz’altro vera -
-Non esistono cose assurde, solo cose possibili e cose impossibili. Staremo a vedere la sua in quale categoria rientra – rispose, versandosi una tazza di caffè da una pentola, - Gradisce? -
Sherlock declinò l’offerta e riprese.
-Io sono un consulente investigativo e recentemente mi è saltato all’occhio che alcune costanti ritornano nelle persone che camminano su questa terra nel corso della storia. Ho pensato che si trattasse di coincidenza, ma, vede, quando uno fa il mio mestiere da tanti anni le coincidenze iniziano a diventare un evento poco credibile. Non credo alle coincidenze, signor Kalahari. -
-Nemmeno io – convenne, - Vada avanti -
-E qui viene la parte a cui lei, statisticamente, non crederà: quelle che sono universalmente conosciute come anime ritornano sulla terra in altri corpi dopo la morte -
L’indiano quasi si affogò con il caffè, in uno sbuffo di risa.
-Ma che razza di scherzo è questo? Vado via dall’India per fuggire a queste superstizioni di cui mi hanno imbottito la testa sin da bambino e poi un inglese mi viene a fare la predica induista? – esclamò, improvvisamente spazientito, - Non mi faccia perdere tempo, se ne vada! -
Sherlock decise di osare ulteriormente.
-E se io le dicessi che so chi era nella sua vita passata? -
-Io chiamerei la sicurezza e la farei sbattere fuori. -
-Thomas Percival Holmes. Questo era il suo nome. Era il fratello maggiore mio e di Mycroft Holmes – aggiunse comunque Sherlock.
-Wow! E lei è stato così dolce da venirmi a cercare persino in un'altra vita! Questo sì che è amore fraterno! Ma a me bastano già le mie sei sorelle! Sicurezza! – aveva già il dito premuto sull’interfono.
Prima di essere portato via da un energumeno di origini ghanesi, appassionato di calcio, collezionista di fumetti d’epoca, Sherlock si appurò di lasciare un piccolo dossier su Thomas sulla scrivania di Kalahari, poi fu strattonato sin nella hall.


-Vedo che mi hai fatto la grazia di ritornare sano e salvo. Devo andare a chiamare la narcotici o posso stare sicuro? – fece Lestrade, steso sul letto, quando Sherlock entrò nella camera d’albergo.
-Che cosa ci fai qui? – protestò, togliendosi il cappotto.
-Ci dormo. È la mia stanza -
-No. E’ la mia stanza -
Lestrade si alzò a sedere.
-Esatto! È la stanza di entrambi. Un idea del tuo caro fratello: devo dormire con te, che Dio mi aiuti! -
Sherlock si inoltrò nella camera notando la presenza di due letti.
-Non se ne parla. Vattene. -
L’ispettore di polizia afferrò un pacchetto di carta dal fondo unto, ne tirò fuori una ciambella.
-Andiamo! Faremo due chiacchiere tra ragazze, ci faremo le treccine, parleremo dell’ultimo film di Johnny Depp, sarà divertente! -
Per tutta risposta Sherlock afferrò un asciugamano e si infilò nel bagno, sbattendosi la porta alle spalle.
-Vedi di uscirne vestito! Non ho nessuna intenzione di vedere i tuoi gioielli! – mugugnò Lestrade, con la bocca impastata di glassa alla fragola.


Sherlock si era rannicchiato nella poltrona e fissava fuori dalla finestra. Avvolto nella sua vestaglia sembrava piccolo piccolo.
Con la coda dell’occhio vide Lestrade posare una bottiglia di Scotch e due bicchieri su un tavolino di legno e poi sedersi sulla panchetta vicino.
-Non è andata bene? La cosa che dovevi fare oggi, intendo -
-Cosa del mio comportamento ti ha fatto pensare che io abbia voglia di parlare, Gareth? -
-Solo perché tu non vuoi parlare non significa che tu non ne abbia bisogno -
Sherlock si raddrizzò spazientito.
-Hai intenzione di continuare a trattarmi come una vecchia vedova? -
Lestrade riempì un bicchiere, poi l’altro.
-Il punto è, Sherlock, che tu sei una vecchia vedova -
Il detective si voltò di scatto, stizzito.
-E questa è la tua soluzione? Farmi ubriacare e consolarmi mentre piango sulla tua spalla? -
Gli porse lo scotch.
-E’ la cosa più semplice per entrambi, il piano è quello -
Sherlock esaminò per un attimo il bicchiere prima di decidersi ad afferrarlo.
-Lo vedi, è per questo che io detesto le emozioni… Alla fine sono sempre costretto a dare ragione a mio fratello – disse sprezzante, bevendo tutto d’un sorso.
Lestrade si appoggiò con la schiena al muro, guardando fuori. Era una serata luminosa.
-Alla fine ha sempre ragione – ripeté, lo sguardo si perdeva nel aria buia che lo separava dal mondo oltre la finestra..
L’ispettore gli riempì ancora il bicchiere.
-Vuoi sapere dove sono stato oggi? A parlare con l’anima di mio fratello reincarnata nel corpo di un diplomatico indiano. Io! – esclamò. - Guarda cosa le emozioni hanno fatto a me! Sono completamente uscito di senno! Penso seriamente che questa storia sia vera! – svuotò il secondo bicchiere, - E’ come la storia del paradiso, anche se la gente non crede in Dio pensa lo stesso che ci sia un posto con le nuvolette dove vivranno per sempre! È la stessa cosa: io non credo che questa storia delle anime sia vera, ma al tempo stesso devo crederci, Lestrade! –
-Sherlock, non è una cosa sbagliata. È umano… -
-No. E’ irrazionale! Le persone hanno creato Dio, il Paradiso e l’Inferno per semplificarsi l’unica vita che hanno. Perché hanno paura di morire e perché hanno bisogno di credere in qualcosa! Questo non è ragionevole! Non è logico! Sono tutti degli idioti che si inventano delle storielle per tirare avanti, come dei bambini! -
-E ora tu sei uno di noi – aggiunse Lestrade.
Sherlock bevve un sorso, gli occhi spenti.
-Sì, Lestrade, ora sono uno di voi. – convenne, con il tono sconfitto, - Ma io ho ragione -
L’uomo si lasciò sfuggire uno sbuffo di risata, - Tutti credono di averla! – disse, alzando il bicchiere, come in un brindisi immaginario.
-No, tutti sperano di avere ragione. Nel mio caso è diverso, io so di avere ragione! -
Lestrade posò il bicchiere e fece un gesto di resa.
-Okay, come vuoi tu. Le anime si reincarnano… Chissà chi sono stato in passato… -
Ma Sherlock non gli rispose, si era ammutolito, con le labbra posate sul bordo del bicchiere. Si lasciò dietro un silenzio pesante, che durò troppo a lungo.
-Mi manca John – disse, dal nulla. Finalmente riuscì a formulare ad alta voce quel concetto che lo stava corrodendo dentro da settimane.
Lestrade abbassò lo sguardo di fronte all’improvvisa gracilità dell’amico.
-Lo so – mormorò.
Sherlock si alzò di scatto.
-Dove vai? – chiese Lestrade, confuso.
-A dormire. Basta così -
L’ispettore si versò l’ultimo bicchiere in solitudine, impotente di fronte alla tragedia in cinque atti che si stava svolgendo dentro Sherlock Holmes.



Il 221B di Baker Street era buio e non aveva niente che potesse essere ricollegato al concetto di casa, tutto era così familiare e intimamente legato a John. Quell’appartamento si era ribellato contro il suo inquilino, tradendolo brutalmente. Adesso era solo un posto freddo e deserto da cui fuggire.
Sherlock spinse la valigia dentro e si richiuse subito la porta alle spalle. Davanti al legno nero del 221B, si stagliava una figura confusa con le ombre distese tra le pozze di luce dei lampioni. Si alzò il bavero, sentendo comunque il vento annunciatore di pioggia gelargli le orecchie. Si incamminò.
Se fino ad allora non aveva avuto un crollo era stato per quel caso, il caso di Thomas Percival Holmes. Aveva sentito di essere impegnato in qualcosa di utile. Ma ora qualsiasi cosa che esulasse dalla ricerca di John gli sembrava senza senso, vuota, priva di scopo.
Camminava nella Londra deserta della notte, a quell’ora c’erano solo le ombre del senzatetto. Lasciava che il vento freddo gli spazzasse via le lacrime.
La cosa che più lo atterriva era il futuro adesso. Aveva almeno vent’anni da trascorrere prima che potesse iniziare a cercare John, e non aveva idea di cosa avrebbe fatto. Adesso sentiva soltanto che tutto faceva male e lui aveva una possibilità di farlo smettere.
Svoltò l’angolo ancora e ancora. Entrò nei vicoli.

-Molly Hooper? Sono Mycroft Holmes. Sono terribilmente dispiaciuto di svegliarla nel cuore della notte, ma, vede, Sherlock non è rientrato a casa. È senza dubbio a rischio. Ora lui si trova a Roswell St. secondo le mie telecamere, ma è in avanzamento. Lo segua -

Quell’attesa. Vent’anni. Era la cosa più ambigua difronte alla quale si fosse mai trovato. Era come il colesterolo nelle membrane delle cellule, non si capisce come, ma ne mantiene la fluidità e la rigidità al tempo stesso. O per dirla in maniera più romantica, come avrebbe fatto John, era al tempo stesso un àncora e un galleggiante.
Trovò il posto che stava cercando, fece un cenno al bifolco davanti alla porta ed entrò.

Molly si proiettò di corsa fuori dal letto, infilandosi un cappotto direttamente sopra al pigiama. Non perse altro tempo, scarpe ai piedi, uscì.

Guardò lo schizzò zampillare dalla siringa quando premette lo stantuffo per fare uscire l’aria, una minuscola goccia scivolò sull’ago. Il liquido opaco e biancastro aveva un aspetto invitante alla luce fioca di quello scantinato.
Avvicinò l’ago al braccio, al punto dove la vena cefalica e la vena basilica convergono, e lo infilò.
John non avrebbe voluto. John non voleva neanche che fumasse, ma John non poteva prevedere quello che sarebbe successo.
Da solo, in quella catapecchia, aspettò che la morfina facesse il suo effetto.

Scese diversi piani di scale nel suo palazzo mentale, molto in basso, c’era un posto identico al 221B. Aprì la porta spingendola e salì le scale, sentiva qualcuno digitare al computer.
Si sfilò la sciarpa prima di entrare nel salotto, poi il cappotto, alla scrivania c’era John, seduto davanti al suo computer.
-Stavo scrivendo dell’ultimo caso che abbiamo… -
Ma Sherlock non gli diede ascolto, gli andò in contro, piangeva. John si alzò di istinto e sherlock lo abbracciò. Lo colse di contraccolpo, John si vide togliere l’aria dal petto e smise di parlare. Sherlock strinse John più forte che poté prima di iniziare a baciarlo. Gli aveva preso la faccia tra le mani, sentendo la sua pelle calda, e lo aveva baciato sulla bocca. Sentiva il suo odore, si ricordava com’era il tocco delle sue labbra, la barba sempre ben rasata, le guance sempre lisce. Le sue mani scesero, gli accarezzarono le spalle, poi la schiena, così poteva stringerlo di nuovo e ancora di più. Il tocco della lana intrecciata sotto le sue dita. Le sue dita andarono ancora più giù e trovarono quelle di John. Sentì di nuovo le sue mani, piccole e forti, di un caldo colore della pelle. Strinse anche quelle. E lo baciò ancora. E ancora. E ancora.
Erano da settimane che non andava in quella stanza. Non era mai riuscito ad entrarci. E ora era lì, con John, il suo John, quello che lui ricordava perfettamente in ogni dettaglio, e ogni cosa era così confusa, perché la morfina copriva il dolore e tutto sembrava come prima.
John gli posò le mani sulle guance, vicino alle orecchie e tra i capelli, fermandolo. Sherlock restò aggrappato al maglione di John, lo guardava negli occhi e sentiva le lacrime scendere e bagnare il palmo di lui.
-Non piangere – mormorò.
Sherlock si infilò con la testa nell’incavo del collo di John.
-Ti amo. – gemé.
La voce di John nel suo orecchio, - Anche io ti amo -
Con la mano sulla nuca di Sherlock, gli carezzò dolcemente la testa, affondando il naso tra i suoi ricci.
-E’ come hai detto tu. Ci ritroveremo, tu mi verrai a cercare -
Sherlock annuì senza sollevare la testa, era una grottesca figura appoggiata ad un piccolo uomo.
-Ma devo aspettare tanto tempo. Io ho bisogno di te ora -
John continuava ad accarezzarlo, strisciò la propria guancia contro di lui.
-Lo so, ma tu potrai venire qui quando vorrai, e ci saranno molti bei casi, che poi mi racconterai! – aveva una voce dolce, che accarezzava l’udito di Sherlock.
Sherlock si sollevò piano, lo guardò e lo baciò di nuovo.



-Sherlock! Oh mio dio, Sherlock! -
Molly Hooper si precipitò verso l’uomo nell’angolo della cantina. Era accasciato su una parete, né seduto, né steso. Si chinò su di lui, si tranquillizzò non appena vide che respirava. Aveva gli occhi chiusi e stava piangendo in silenzio, erano solo lacrime silenziose quelle che gli scendevano sulle guance, nulla che non potesse essere confuso con gocce di pioggia.
Gli controllò il polso, accelerato e irregolare; vide la siringa con l’ago pizzicato di sangue posata vicino a lui, e si abbandonò in un gesto di frustrazione.
-Sherlock, - lo scosse, - Sono Molly. Andiamo a casa -


 

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Capitolo 6
*** "Il ciclista solitario" di Owen Kelly ***


Sherlock pensava di essere quello che avrebbe trovato John. Ma si sbagliava. Fu John a trovare Sherlock, nel più inaspettato dei modi.
Ventidue anni dopo, Sherlock aveva colonizzato tutta la palazzina del 221 di Baker Street. Il 221A era vuoto e disabitato da due anni, la rampa di scale era ricoperta da riviste e giornali su ogni gradino e dal corrimano pendevano camice e calzini. Salendo fino al pianerottolo si vedevano diverse macchie che avevano scolorito il legno di porte e pavimento.
Il salotto di Baker Street, poi, era praticamente una giungla. Non solo la parete, ma anche le finestre e le porte erano state ricoperte di ritagli di quotidiani e pagine stampate, collegate tra loro da una ragnatela di fili di cotone, così fitta che c’erano persino delle vere ragnatele tra quelle maglie. Sherlock si muoveva in tutto quel caos come una bestia selvatica nel suo habitat naturale.
-Andiamo! Abbiamo già controllato la Scandiavia quattro volte, non può essere!- esclamò. Agitando le mani, saltò su una sedia per controllare un foglio di carta, poi scese e continuò a camminare per la stanza, ignorando completamente i pezzi d’arredamento: saliva sulla sua poltrona, poi sulla sedia, poi sul tavolino, poi sul divano e di nuovo, poltrona, sedia, tavolino, divano. E ancora e ancora.
Se ventidue anni erano passati, il suo fisico non doveva esserne al corrente. Asciutto, prosciugato, termine forse più adatto, con la faccia più rettangolare e l’aspetto leggermente allucinato. I capelli proiettati in dodici direzioni diverse erano più grigi, ma ancora tutti lì. Sul naso c’erano un paio di occhiali rettangolari e sottili, rosso scuro, che un secondo dopo volarono per la stanza.
Letteralmente.
Sherlock li lanciò strappandoseli dalla faccia.
-Sì! Hai ragione! La Lapponia! Come abbiamo fatto a non pensarci! – esclamò, in un impeto, -Accendi il computer! – scese dal divano con un salto, il telefono fece un “bip”.
-NON ORA! – gridò al cellulare, scaraventandosi sulla scrivania.

Sherlock si accorse che Molly era entrata nella stanza solo dopo moltissimo tempo. Il modo in cui si muoveva aveva qualcosa di ossessivo e poco salutare.
-Che ci fai qui? – sibilò, avvicinandosi con passo rapido, leggermente chino.
-Ti avevo mandato un messaggio, lo hai ignorato. Hai tolto il campanello fuori dalla porta. Per cui… Eccomi qui! -
-Come hai fatto ad entrare? -
-Ho le chiavi. Me le ha date Mycroft. Te l’avevo detto, mi pare… - gli mostrò un mazzetto di chiavi.
-Devo averlo rimosso. Non è importante. Vai via. Sì, Lapponia! – in un attimo era balzato sulla sedia e poi sulla scrivania, per strappare un foglio dalle corna della bestia appesa come un trofeo al muro.
-Sì, vado via subito… - disse, guardandosi intorno, leggermente preoccupata. – Ma ti volevo fare vedere una cosa… -
-Un libro. Sì. Grazie. Mettilo sul tavolo. Esci. –se ne ritornò soddisfatto sul pavimento con il ritaglio, digitando velocemente al computer.
-Non è solo un libro. Parla di te… Cioè più o meno… Me l’ha regalato una mia amica per il compleanno e il protagonista ricorda tantissimo te… -
Molly aveva già catturato l’attenzione di Sherlock con la seconda frase. Con due passi aveva coperto la distanza che lo separava dalla donna e le aveva strappato il libro di mano.
“Il ciclista solitario” di Owen Kelly.
Sherlock sfrecciò all’ultima pagina, al retro di copertina. Scorse con lo sguardo le prime righe e la trovò: la biografia di quel tale.
Owen Kelly, nato a Melbourne il 25 novembre 2017.
Sherlock sentì il cuore pulsargli nelle orecchie. Due battiti, netti, ritmici, che lo separarono dall’ambiente circostante per qualche secondo.
La data di nascita corrispondeva alla perfezione.
Strinse il libro tra le dita.
-Molly Hooper non smetti mai di stupirmi! – con dolcezza le diede un bacio su una guancia. – Grazie -


Aspettò che lei andasse via, poi con le lacrime agli occhi rivolse tutta la sua attenzione al libro.
“Il ciclista solitario” era la storia di un ispettore di polizia, Polly McNair, neozelandese, dai capelli scuri e l’aspetto longilineo, che aveva particolari capacità deduttive e che si ritrovava a risolvere il caso di una misteriosa sparizione.
Più Sherlock andava avanti con la storia e più John prendeva forma nella sua mente. C’era decisamene John dietro a quelle parole, a quella trama, a quel modo di scrivere (certo molto migliorato che nella sua vita precedente… -Questo è un uso corretto della punteggiatura, John! –). Un’immagine fresca dell’uomo della sua vita assumeva forma: era come se in parte stesse dissotterrando qualcosa che era già lì, in parte stesse scoprendo qualcosa che non conosceva di lui, ma che sapeva fosse tipico di John, e in parte, ancora, trovasse cose nuove, che non si sarebbe mai aspettato. Quel libro era un piccolo John portatile, se si sapeva come leggerlo. Era una boccata d’aria che soffiava via tutta la polvere da una vecchia cornice del passato.
Sherlock lo finì in una notte. La mattina dopo sapeva senza più alcun dubbio dove trovare John Watson.

Quella sera, come sempre, Owen era al campo di basket con un gruppo di cinque o sei persone. Inseguivano una palla arancione e si sudavano addosso, indossando solo dei pantaloncini e qualcuno (non Owen) anche una canotta.
Sherlock decise che non era un cattivo spettacolo dopo tutto.
Anzi. Era un bellissimo spettacolo. John. John era bellissimo.
Era alto almeno un metro e novanta, nero, con i capelli tagliati molto corti e gli occhi scuri che brillavano alla luce dei lampioni. Aveva un fisico asciutto, non era muscoloso, ma faceva comunque la sua figura ad andarsene in giro con quella palla in un gioco privo di scopo.
Sherlock si era seduto su una panchina e lo scrutava da lontano, poteva sentirlo parlare, non che avesse bisogno di ulteriori certezze.
Owen esultò per un goal… O un touch-down… O un canestro… Quello che era! Alzò le braccia e si scontrò con uno dei suoi compagni, sorridendo. Il cuore di Sherlock aveva iniziato la fase di scongelamento, tra un po’ sarebbe stato pronto per essere messo in forno a 180° ventilato.

Il giorno dopo Sherlock era al caffè preferito di John. Lui era seduto in un angolo, davanti ad un laptop e digitava freneticamente, con un croissant tra i denti.
Il detective si avvicinò al barista, chiese un tè e si sedette al banco.
-Senta, ma quel tipo laggiù è per caso quello scrittore? Owen Kelly? – chiese, facendogli un accenno con la testa.
Il barista posò una coppia di caffè espresso su dei piattini. Era sulla quarantina, sposato, figlie piccole, due femmine a giudicare dai disegni dietro al bancone, amante del rugby e del jazz, aveva una motocicletta e un pappagallo.
-Sì, viene qui tutti i giorni. Ha letto il suo libro? -
I baristi… Facili prede.
-Ho adorato il suo libro, c’è una scintilla di genialità nella mente di chi ha scritto una storia simile! -
Il tale ridacchiò. –Addirittura! Ehi, Owen! Hai già un fan! Hai fatto presto a diventare famoso! -
Sherlock fu colto alla sprovvista: non si aspettava di riuscire a parlare con lui così presto. Il ragazzo si girò in direzione del bancone, Sherlock lo vide fare la stessa espressione incuriosita di John, labbra incurvate, occhi ben aperti.
-Paul, non scherzare! -
-Non scherzo, è proprio… qui! Ma dov’è finito? -
La sedia vuota si stava chiedendo la stessa cosa.


Sherlock era a Baker Street. Il pavimento liso del soggiorno non riportava nessun’altra ombra a parte quella del detective. Si tolse la giacca e la posò sulla sedia, si sbottonò i polsini della camicia, nel frattempo si era avviato verso la camera da letto. Aprì la porta, i cardini protestarono e il legno fu graffiato dall’angolo inferiore ancora una volta, seguendo un vecchio solco. Prese la vestaglia appesa ad un gancio dietro la porta e la indossò. John era steso sul letto.
-Sei qui – Sherlock sorrise, si andò a stendere accanto a lui.
-Che ci fai qua? Non dovresti essere a cercarmi? -
Sherlock si appoggiò sul petto di John, dove poteva sentire il frusciare del respiro e il rumore sordo del suo battito cardiaco.
-Ti ho visto, oggi – mormorò.
-E? Come sono? Bello? -
-Molto più alto di certo, ma quello non era difficile da indovinare – scherzò Sherlock, - Sì, sei bellissimo -
-Bene! Devo mantenermi alla tua altezza, non solo letteralmente -
Il detective sorrise e si andò a prendere un bacio.
-Ma non ti ho parlato. Ho avuto l’occasione perfetta e non l’ho fatto. Sono un idiota -
-E finalmente conveniamo su questo punto! -
-Ho avuto paura -
John gli accarezzò i riccioli sulla nuca.
-Di cosa? Tu non devi mai avere paura, piccola ape -
Sherlock arrossì e si affondò ancora di più nel petto di lui.
-Non mi chiamavi così da moltissimo tempo -
-Si vede che mi sto addolcendo -  tagliò corto John, - Allora, di che cosa hai avuto paura? -
Sherlock rimase per un attimo in silenzio, insicuro se esprimere o meno quel pensiero ad alta voce. Ma d’altra parte quello era solo il suo Palazzo Mentale, non sarebbe mai uscito dalla sua testa.
-Di non essere capace di conquistarti di nuovo -


Premette la punta del dito sul campanello, un ronzio si sentì all’interno della casa. Pochi istanti dopo la porta si aprì.
Una donna di mezz’età, ma sempre più giovane di lui, era sulla soglia. Aveva anche lei la pelle scura e gli occhi neri, riscaldati dalla vita. Un sorriso sottile le decorava la parte inferiore del viso, i capelli glielo circondavano, corti, sparati per aria, sorretti da una bandana lilla.
-Salve, sono della stampa inglese, sono qui per l’intervista a lei su suo figlio -
-Oh! – la donna arrossì di un piacevole color lampone, - Non mi era stato detto niente! -
-Ho parlato con suo figlio ieri al telefono, mi aveva detto di venire a quest’ora… Pensavo l’avesse avvisata… - aggiunse Sherlock.
La donna agitò una mano.
-Mai che si ricordi una cosa, quello lì! Ma prego, venga pure! Non è tutto in ordine, come immaginerà, ma senza un preavviso… -
Sherlock sopportò questi e altri convenevoli, mentre il suo cervello fremeva sui blocchi di partenza.
Dopo aver accettato un tè, quattro tipi diversi di biscotti e il dolce della casa, finalmente arrivarono al sodo: John. O meglio, Owen.
-Partiamo dall’inizio: com’era da bambino? -
-Non che adesso sia tanto più grande! Non ha neanche compiuto ventidue anni quello lì! E lo guardi, è già famoso! -
Sherlock picchiettò contro un blocchetto, come se lui avesse bisogno di prendere appunti!
-E’ sempre stato un ragazzo molto vivace, non era mai in casa! Sempre fuori, a rischiare di rompersi l’osso del collo, quando tutti gli altri erano nel proprio salotto a giocare con i videogame. Ma è sempre stato anche molto dolce, mi regala ancora una rosa a S. Valentino tutti gli anni e mi porta a ballare. Cioè, balliamo nel salotto la nostra canzone, che ha deciso lui quando aveva tre anni. Lo vuole fare sempre! -
Sherlock sorrise genuinamente.
-Capisco. Lavora da qualche parte? Scrivere a parte, s’intende. -
-Lavora come volontario alla Croce Rossa e di tanto in tanto ha minacciato di partire per delle missioni umanitarie per dare una mano! Non sei neanche un medico, gli dico io, a che cosa puoi servire lì? Ma lui niente, anche se è pericoloso, ci vuole andare lo stesso! Per fortuna il suo libro ha avuto successo, magari così si mette con l’animo in pace e non cercherà più di farmi morire di crepacuore andando in zone di guerra! -
Sherlock annuì, poi decise di lanciarsi sulla domanda la cui risposta temeva di più.
-E per quanto riguarda gli affari di cuore? C’è qualcuno nella sua vita? -
La donna roteò gli occhi.
-Diciamo… Non so se si può definire proprio una relazione quella tra lui e Sylvia, stanno assieme da quattro anni, ma si lasciano e si riprendono ogni due settimane… Non so come li vedo quei due… -
Per un attimo il cervello di Sherlock si annebbiò.
Page blank.
Solo il tum tum tum continuò del cuore e nient’altro.
Riprese il fuoco della stanza e tornò a fissare la donna. Mise su un paio di domande su di lei e fuggì alla prima occasione.

Concorrenza. Aveva una concorrente. No, basta concorrenti! Quello era il suo John! Ne aveva abbastanza di concorrenti! Prima tutta la stringa di ragazze di John, poi Mary e adesso una sciacquetta qualunque voleva di nuovo portarglielo via? Non ci è riuscita un’assassina addestrata della CIA, non ci riuscirai certo tu, avrebbe voluto dirle. Ma ora le cose erano cambiate. Non aveva più trent’anni, ne aveva cinquantotto. Non riusciva neanche più a formulare quel numero, così pesante! Non era cinquantotto anni che si sentiva di avere! Eppure li aveva, il suo corpo andava d’accordo con la sua età effettiva e con quell’aspetto non aveva nessuna speranza di conquistare il suo John. Certo, nessuna speranza a parte il fatto che loro erano destinati a stare assieme.
Rise di sé, stava iniziando a pensare come una ragazzina di quattordici anni, e si avviò al quindici di Southern Street, l’indirizzo di Sylvia.

Sylvia non era lì, ma l’avrebbe aspettata. Aveva tutto il tempo di pianificarne l’omicidio e di sondare le vie di fuga. Sarebbe stato un lavoretto semplice e pulito, poi avrebbe imbavagliato John e lo avrebbe scaricato sulla sua poltrona rossa a Baker Street, gli avrebbe comunicato la data del loro imminente matrimonio e tutto sarebbe tornato come prima.
Un paio d’ore più tardi Sylvia arrivò: alta, capelli scuri, ondulati, la vita sottile, gli occhi chiari. Sembrava l’esatta copia di Polly, l’ispettore di polizia del libro di John, che a sua volta, per un puro scherzo del destino,  era la versione femminile di qualcun altro…
Vedo che non hai perso il tuo buon gusto, pensò.
Per fortuna Sherlock era dietro un cespuglio, in piena modalità stalker, perché John era con lei. Si tenevano per mano e camminarono in silenzio, fino al vialetto. Si fermarono, si lasciarono le mani e si baciarono.
Sherlock lo vide arrivare lentamente, ancora prima che succedesse, come una vite che viene attorcigliata nel suo foro più e più volte prima di entrare. Sentì dolore e nostalgia e gelosia tutte assieme e tutte nello stesso momento, quando vide John baciare un’altra donna.
Ecco, questo era un altro problema. Era una donna! John Non-sono-gay Watson era tornato ed ora era più forte che mai! Con quell’aspetto, poi, avrebbe avuto tutte ai suoi piedi. Tutti. Sherlock era già in fila. Era il primo della fila. No, lui non era in fila, perché non c’era una dannata fila! Perché John era suo e basta! Niente discussioni! Niente stupide file! Niente stupide fidanzate! Niente stupidi fidanzati che muoiono perché sono stati investiti da una stupida macchina pochi mesi prima di uno stupido matrimonio! Niente.

Una settimana era passata, lui non ringiovaniva e ancora non aveva parlato con John.
Non ricordava più il giorno in cui aveva smesso di aspettare quell’incontro e aveva iniziato a temerlo.
Si era di nuovo seduto in un angolo del parco, su una panchina, a guardare John giocare a pallacanestro con gli amici. Aveva una canottiera celeste che faceva risaltare ancora di più la sua pelle scura, imperlata di sudore. Si muoveva silenzioso e agile sul campo.

-Come se non ti avessi notato -
Sherlock sentì una voce alle sue spalle indirizzarsi a lui. Si voltò, già sapendo chi si sarebbe trovato davanti, con i visceri che iniziavano a competersi lo spazio della cavità addominale.
La partita era finita da poco, erano andati tutti via e Owen/John si stava avvicinando con un asciugamano poggiato sulla nuca.
-Non è la prima volta che ti vedo da queste parti, amico – aggiunse.
Sherlock tentò di pensare velocemente a qualcosa, ma il suo cervello sembrava sguazzare nel panico e un cartello di “Accesso Negato” grande quanto un bue sventolava alle sue porte.
-Sono un fan del basket -
Owen/John fece una faccia perplessa.
-E anche del sottoscritto, a quanto pare. Tu sei lo stesso tipo del bar e assomigli al giornalista che mi ha descritto mia madre – si sedette sulla panchina, con le gambe accavallate e asciugandosi un lato della testa, -Mi stai seguendo? -
UuuuuuuuuuuuuuuuuuhhhhhhhhhAaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhhhhhhUuuuuuuuuuuuuuuuuhhhhhhhAaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhhhhUuuuuuuuuuuuuuuuuuhhhhhhhhhhhhhhhAaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhh! Sì, faceva più o meno così l’allarme nel cervello di Sherlock, non dissimile da quello di una centrale nucleare in esplosione.
-Io… Veramente… Sono venuto per parlare con te – si vide costretto a dire, incapace di tirare fuori un piano. Nel frattempo vedeva un piccolo John nella sua testa che sghignazzava, responsabile della chiusura del suo cervello, soddisfatto di averlo costretto a parlare con Owen/John.
-Okay… Sono qui, parla pure -
Tum tum tum tum tum tum tum tum tum tum tum tum.
-Non… Non è una cosa semplice da dire. Potremmo andare a bere qualcosa e io cercherei di spiegarti tutto. -
-Un drink con un perfetto sconosciuto? Va benissimo! Quando? -
Sherlock si dimenò contro i cancelli serrati del proprio cervello, sbattendo i pugni sulle sbarre di metallo.
-Stasera? – rispose, esitante.
-Perfetto. Alle dieci al Beach Bungalow. Sai dov’è? -
-Lo troverò -
Owen/John si alzò, -Non tarderò! – gli fece un occhiolino e sparì tra i viali del parco.


Schizzò su per le scale di Baker Street, facendo irruzione nel salotto.
-Ho parlato con te! – disse, il petto che si alzava e si abbassava rapido. –Ho detto che ti avrei spiegato tutto stasera. Che faccio? -
John gli andò incontro, prendendogli le mani e intrecciando le proprie dita con le sue.
-Sii te stesso -
Sherlock roteò gli occhi.
-Che consiglio banale, John. Davvero inutile, grazie! -
-Primo: sono nella tua testa, quindi il consiglio inutile è il tuo. Secondo: il consiglio non è inutile perché io non mi sono innamorato di nessun altro se non che di te. Del te insopportabile, che sapeva già tutto di me prima ancora che io dicessi “ciao”. Per cui, il mio consiglio non cambia: sii te stesso – disse, baciandolo velocemente sulla bocca.

Questa volta era importante mantenersi lucidi, lasciare lavorare il cervello ed essere più chiari possibile. La situazione era già abbastanza delicata.
Il posto dove si erano dati appuntamento era perfetto: il Beach Bungalow era effettivamente un beach bungalow. C’era una gigantesca capanna di legno e paglia sul bordo di una delle spiagge della città, con tavolini sparsi ovunque sulla sabbia tra una pozza di luce di un lampioncino ed un’altra.
Sherlock arrivò per primo, dopo pochi minuti fu raggiunto da Owen/John e si trovarono un tavolo.
-Sembri un tipo misterioso, mi piace il cappotto – disse, appena si sedettero.
Owen/John ordinò una birra e attese che Sherlock si decidesse a iniziare.
-Benissimo, io comincio a parlare, ma sappi che nulla di quello che dirò ti sembrerà avere un senso, eppure hai la mia parola che è vero. Ti chiedo solo di ascoltarmi fino alla fine e poi potrai farmi domande, andartene, fare quello che vuoi -
Owen/John assaggiò la schiuma della birra, -Sentiamo -
Sherlock deglutì, ma mantenne il completo controllo della sua mente, si era preparato bene su come dire quello che stava per dire.
-Viviamo in un mondo in cui si sa poco sulla morte e nulla di quello che succede dopo. Io sono un consulente investigativo, Owen, l’unico al mondo, e ho notato che vi sono delle costanti nelle persone che camminano su questo pianeta. La mia ipotesi, e non la definirei più tale perché l’ho confermata, la mia idea è che le anime ritornino dopo la morte e si reincarnino in un nuovo corpo, per vivere una nuova vita. -
Owen/John pareva perplesso, ma non lo interruppe. Aveva, piuttosto, ancora l’espressione del “Buon per te, amico, ma io che c’entro?”.
-Ovviamente su sette miliardi di persone, rintracciarne una è un compito pressoché impossibile, ma non del tutto impossibile -
L’altro assunse un’espressione più tesa, si raddrizzò sulla sedia.
-Io sono convinto di aver trovato la persona che sto cercando da esattamente ventuno anni. Quella persona sei tu, Owen Kelly. No, aspetta! Non ho finito! -
Owen/John lo ignorò e si prese lo stesso la parola, -No, aspetta tu! Sei fuori di testa? Passi la predica sulle anime, anche se si tratta di tutte sciocchezze, ma questa poi! – stava quasi per alzarsi, Sherlock lo afferrò per un polso e lo fece risedere.
-Aspetta che finisca la storia, io posso convincerti che è vero! -
-E sentiamo? Chi sarei stato in questa fantomatica vita passata? -
Sherlock aveva tutto pronto, estrasse una foto dalla tasca del cappotto. Il suo uomo biondo preferito era da solo al centro di essa.
-John Watson, quinto fucilieri Northumberland.  Medico militare e mio collega per circa dieci anni. -
Owen/John prese la foto, la guardò incuriosito, ma nessun segno di illuminazione appariva sul suo volto.
-Mi dispiace, non mi dice niente – la posò di nuovo sul tavolo, spingendola via.
-No, ovvio che non ti dica niente. Ma devi ascoltarmi… Il libro, “Il ciclista solitario”, Polly sono io -
Owen/John a questo punto si alzò di scatto, Sherlock fu costretto ad alzarsi a sua volta per impedirgli di andare via. Indicò a caso uno degli clienti del bar.
-Surfista, ha un gatto, vive nell’entroterra, ha recentemente bucato una ruota della macchina, ha una sorella. -
L’uomo si girò a guardare stupito la ragazza che aveva indicato Sherlock, evidentemente la conosceva.
-Quella è Sally! Oh mio dio, hai ragione. Come diavolo hai fatto? – lo guardò sbalordito.
-Ha un segno sulla caviglia, è rossiccio, non può essere una cavigliera, non è delle scarpe, è troppo in alto e fa troppo caldo qui per portare degli stivaletti, quindi è una sorta di laccio, siamo in Australia, in una città di mare, è il laccio della tavola da surf: surfista.
Il gatto è facile, ci sono dei peli, troppo sottili per essere di cane, inoltre si trovano attorno alla gamba del pinocchietto, ad un’altezza tale che solo un gatto potrebbe raggiungere, magari attorcigliandovi la coda. Essenzialmente la scelta è tra cucciolo di cane e piccolo gatto, ma dal pelo è ovvio che a questo punto si tratti di un gatto.
Indossa un costume, ma porta una borsa con dei ricambi, una delle pareti di questo zaino è bagnata, è scolorita e presenta diverse altre macchie di umidità, quindi si è tolta il costume bagnato e ne ha messo indosso uno asciutto. Non lo avrebbe fatto se abitasse vicino la spiaggia, perché verrebbe a piedi o il tragitto in auto sarebbe breve, ma invece si cambia il costume per non bagnare il sedie della macchina, quindi ci deve mettere un po’ per arrivare: vive nell’entroterra.
Sul gomito destro ha delle lividure e delle piccole escoriazioni, poco visibili. È probabile che abbia bucato una gomma e che sia stata costretta a continuare a guidare in condizioni disagiate. Come il 75% degli automobilisti, è abituata a tenere il gomito del braccio opposto al cambio poggiato sul finestrino aperto. Strada dissestata più ruota bucata spiegano le lievi escoriazioni. Quindi sì, ha forato una gomma.
Quanto alla sorella, la canotta che indossa è nuova, ma è slabbrata sui bordi. È evidente che è stata indossata da qualcun altro oltre che da lei. Una madre? Poco probabile dato il capo d’abbigliamento. Quindi una coetanea. Una sorella, direi, amica è meno frequente. Sorella che ha l’abitudine di prendere in prestito le cose dal suo armadio e che è almeno di due taglie in più a lei -
Per quando Sherlock ebbe finito di parlare, Owen/John aveva già raggiunto la flessione massima della mandibola, mettendo a dura prova la sua articolazione temporo-mandibolare.
-Ma cosa? Come? Questo era come… -
-Polly McNair – conclusero assieme.
-Il personaggio del mio libro! Non è possibile! -
Sherlock si avvicinò.
-Lo è perché il personaggio del suo libro sono io. In qualche modo ti ricordi ancora di me, Owen, e ne hai scritto ne “Il ciclista solitario”. È incredibile, lo so, ma è successo! Questi sono i fatti -
Owen/John dovette andare a risedersi per un momento. Continuava a scuotere il capo e a ripersi quanto assurda fosse quella situazione.
-Hai barato. Hai sicuramente barato! Hai parlato con Sally e ti sei fatto dare quelle informazioni! -
Sherlock si accomodò sullo schienale e intrecciò le dita sul tavolo, - E allora mettimi alla prova, se non mi credi. Scegli una persona a caso e vedremo -
Inutile dire che Sherlock superò la prova.
-Okay, sei bravo – si rassegnò ad ammettere Owen/John, con due goccioline di sudore freddo che gli colavano sulle tempie, -Ma il fatto che tu sia come Polly McNair è solo una coincidenza. Magari per questo mi hai cercato… No, niente da fare, non ti credo -
Sherlock si chinò in avanti sul tavolo, gli afferrò i polsi e si sporse verso di lui.
-No! Tu devi credermi! Tu sei John Watson! Voi due siete la stessa persona! – era a tanto così dal gridare.
Owen/John si era ritirato con la faccia lontano da lui.
-Beh, comunque sia ora non è più importante! Se questo tuo amico è morto, mi dispiace. Se ora ci sono io al posto di lui, mi dispiace. Ma le persone muoiono e tutti se ne fanno una ragione, fattene una anche tu – si liberò dalla presa di Sherlock e si alzò per la terza volta da quella sedia.
-John Watson non era soltanto un mio amico, Owen. Era il mio fidanzato -
Owen/John cambiò espressione, il viso si addolcì. Si avvicinò al Sherlock, che era scattato in piedi.
-Senti, mi dispiace sul serio per qualunque cosa sia successa a quest’uomo. Mi dispiace che tu abbia perso il tuo fidanzato e che tu ti sia dato la pena di cercarmi. Io non posso sapere se quello che tu dici è vero, sinceramente non credo che lo sia, ma, ascoltami, comunque stiano le cose, non posso aiutarti. Non so cosa ti aspetti adesso da me, tu sei un uomo brillante, davvero geniale, ma io non sono gay. Non credo che funzionerebbe -
Non attese risposta, non che al momento Sherlock fosse in grado di dargliene una, e se ne andò.

John lo stava aspettando davanti all’entrata del 221B, aveva le braccia incrociate sul petto e lo intercettò appena lo vide arrivare. Sherlock fece per tirare fuori le chiavi, John si mise davanti alla porta.
-Non puoi entrare più lì – fece di no con il capo, fermando l’altro con una mano.
-John, non ora! –
-Devi ascoltarmi, sul serio, non devi più entrare a casa – John aveva usato un tono fermo, si accorse solo in un secondo momento che Sherlock stava reprimendo le lacrime, visibilmente scosso. –Che cosa è successo? -
-Ho parlato con Owen. Non mi ha creduto e ha aggiunto che, anche se fosse tutto vero, lui non può aiutarmi perché non è gay! Sei sempre il solito! -
John scoppiò a ridere. –Ma è vero! Non sono gay, non sono tutti gli uomini, sei solo tu! -
Sherlock continuava a guardare il pavimento.
-Riuscirai a riconquistarmi, ne sono convinto, però, devi ascoltarmi prima. Guardami – John richiamò la sua  attenzione afferrandogli un braccio, - C’è qualcosa che ti trattiene e quel qualcosa è… questo – fece un gesto ampio per includere tutta Baker Street. – Quello che tu stai cercando non è ritornare alla vecchia vita, Sherlock, è me che tu stai cercando. – lo scosse, come per convincerlo della cosa.
- E, più importante, devi accettare che io non sono più così, - indicò se stesso stavolta, - Ma così – improvvisamente il vecchio John scomparve, il nuovo Owen gli stava davanti, Sherlock si vide privare del fiato, - Vedi? Sono sempre io. Sono sempre John, però tu ora chiamami Owen. Devi farlo è importante– la mano di Owen scese sul braccio di Sherlock, fino al palmo di lui, poi intrecciò le proprie dita con le sue. Sherlock ora era teso e confuso.
-Ma io lo so questo, John. – tentò di dire, -Solo qui preferirei vedere te -
-Questo è me. Sherlock, non dovrai più vedermi com’ero, hai le foto per quello, devi vedermi per come sono, perché fino a quando tu non sarai convinto che Owen è John e che John è Owen, io non potrò mai innamorarmi di nuovo di te. Devi fare questo passo tu, prima, per convincere anche me là fuori. -
Sherlock sembrava completamente perso ora, si guardava attorno e aveva la vista confusa a causa delle lacrime che combatteva per non versare.
-Ma io non voglio dimenticarti, John. Io voglio restare con te, voglio le cose come prima -
Owen gli strinse entrambe le mani, lo guardò intensamente.
-Tu non mi stai perdendo, Sherlock, tu mi stai ritrovando. Se per te il fatto che abbia un accento inglese e i capelli biondi è più importante di chi sono veramente, allora c’è poco da credere che tu mi ami per davvero. Ma io lo so che non è così, perché ci siamo ritrovati e anche senza Baker Street, anche senza che io sia un medico militare, anche senza il cuscino con la bandiera inglese e il mio blog, noi possiamo essere ancora noi. Sherlock e Owen. -
A un certo punto, durante quel discorso, Sherlock si era arreso e aveva iniziato a piangere. Owen tese le braccia verso di lui.
-Vieni qui -
Sherlock si perse nelle braccia di un uomo che ora doveva imparare a riconoscere come John.

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Capitolo 7
*** Ritrovare John ***


Nei due giorni seguenti Sherlock vagò perso per Melbourne. Per vent’anni la Baker Street nella sua testa era stata il suo rifugio, ora l’unica cosa che trovava se scendeva quelle scale era la panchina davanti al campo di pallacanestro e Owen che lo salutava in lontananza, con una palla da basket sotto il braccio. Il detective non si era mai avvicinato, era sempre risalito in superficie, più sperduto di prima.
Aveva bisogno di John.
Ma John ora era Owen.

Decise di cercarsi qualcosa da fare e andò a caccia di casi. Trovò che la soluzione migliore fosse ottenere un’intervista per un quotidiano locale (la sua vecchia fama gliene avrebbe garantita una, con una piccola mano da parte di Mycroft) e così avrebbe avuto una sorta di pubblicità locale, avvisando Melbourne che il grande Sherlock Holmes era approdato in Australia.

Dovette aspettare una settimana, ma le richieste di aiuto iniziarono ad arrivare, scartate le più banali (non era così disperato), ne selezionò un paio interessanti e si preparò a fare il prossimo grande passo.
Bussò il campanello della casa di Owen.
Decise di incominciare come avevano fatto la prima volta: un caso. John aveva sempre ammirato le sue capacità deduttive, era una buona idea. In qualche modo dovevano iniziare a conoscersi.
-Sei di nuovo tu? Pensavo di essere stato abbastanza chiaro – l’accoglienza non fu delle migliori, ma Sherlock non demorse.
-Volevo chiederti se potevi aiutarmi -
-Te l’ho già detto, non vedo cosa potrei fare per te… -
Sherlock alzò una mano, per farlo stare zitto.
-Prima che ricominci con la predica e mi informi nuovamente del tuo orientamento sessuale, lascia che sia più preciso: volevo chiederti se potevi aiutarmi con uno dei miei casi -
Owen abbassò le braccia, che prima aveva alzato per sottolineare il discorso che era pronto a ripetere.
-Oh. Un caso? Sei un detective, giusto?-
-Un consulente investigativo – precisò Sherlock, alzando un dito.
-Cosa diavolo sarebbe un consulente investigativo? -
Sherlock ebbe un piacevole flashback del loro primo caso assieme. Loro due in un taxi e John che si complimentava con lui, strabiliato dalle sue qualità.
Gli spiegò quello che aveva detto a John sua volta, poi gli introdusse il caso: un uomo era scomparso da diversi mesi, dopo aver lasciato un ambiguo biglietto in cui annunciava il proprio suicidio. La moglie non aveva mai accettato la sua morte perché non era mai stato ritrovato il corpo, e aveva chiesto aiuto a Sherlock. Era tempo di fare luce su quel mistero.
-Allora? Interessato? – Sherlock fece un mezzo sorriso, non si poteva dire che avesse perso tutto il suo fascino.
-Forse… - sorrise Owen a sua volta, fingendosi distaccato. –Potrebbe essere interessante capire come svolgi le tue indagini per il mio prossimo romanzo… Accetto! -
Sherlock batté le mani l’una contro l’altra e si diresse verso la strada, era stato più semplice del previsto.–Andiamo! Hai una macchina? -
Owen si ritrovò coinvolto nell’aura di eccitazione che di solito avvolgeva Sherlock in quelle situazioni, scese le scale del portico e attraversò il giardino.
-No. Una moto -
-Anche meglio! -
Si avvicinarono al garage e una Harley Davidson nera li salutò dalla pozza di luce che si espandeva con l’apertura della saracinesca.
-Le chiavi – fece Sherlock.
-Non se ne parla, guido io! – esclamò Owen, praticamente oltraggiato.

La moto sfrecciò oltre il viale, verso la strada costiera.
Sherlock era alla guida.
-Okay, devo ammettere che la guidi piuttosto bene! – disse Owen, controvento, -Quali altre soprese tieni nascoste? -
-Non puoi averne idea – rispose Sherlock, dando un’accelerata.

Quella sera erano di nuovo al Beach Bungalow, Owen e Sherlock camminavano sulla riva. C’era una sorta di armonia nel modo in cui si muovevano.
-Oggi è stato fantastico! Il modo in cui hai risolto quel caso! Brillante! Come hai fatto a capire che il suicidio era falso? –
Sherlock sorrise sotto i baffi.
-Sai com’è… Ho una certa esperienza di finti suicidi… Una volta ho inscenato il mio. -
Owen scoppiò a ridere, affogandosi quasi con la birra.
-Ed è una cosa che tu dici come se fosse normale… E’ quello a mandarmi in bestia! Sembra che la tua vita sia come un personaggio delle mie storie! -
-Cerco di evitare che sia noiosa. Odio le cose noiose -
-Già, a chi lo dici… - convenne Owen, -Scrivere è bellissimo, non fraintendermi, ma a volte mi sento come uno spettatore delle vite dei miei personaggi e solo come un uomo di passaggio nella mia -
Sherlock assaggiò un sorso della propria birra.
-Potresti risolvere qualche altro caso con me… -
-Magari! Sarebbe fantastico! – rispose subito Owen, - Devo fare attenzione, hai detto che questo John Watson era il tuo collega, finirò per diventare anche io il tuo fidanzato così! Sei un uomo pericoloso -
-Ed è proprio questo che ti attira -
-Il pericolo? Forse… -
Camminarono per un po’ in silenzio, carico di tensione. Arrivarono fino alla scogliera più vicina, poi girarono sui propri passi e iniziarono a tornare indietro.
-E sentiamo. Questo John Watson com’era? -
Sherlock sapeva la risposta che doveva dargli, - Come te -
Gli costò ogni sforzo formulare quel pensiero ad alta voce, perché per lui nessuno era mai stato come John, ma Owen era John e Sherlock sapeva che prima o poi quella risposta avrebbe corrisposto completamente alla verità, perché il John che aveva imparato a conoscere sarebbe comparso in Owen Kelly.

Bastarono due settimane a fare nascere una nuova amicizia tra quei due. Quasi ogni giorno, Sherlock si presentava con un caso, si mettevano in sella sulla moto e si lanciavano in quelle che Owen chiamava le loro “avventure da romanzo ottocentesco”, poi, se risolvevano un caso in tempo, se ne andavano al Beach Bungalow a bere qualcosa.
Quella sera avevano concluso un caso che era costato loro tre giorni di indagini, alla fine Sherlock aveva lasciato andare il colpevole. Owen era stato a guardare, senza protestare, ma senza nemmeno capire.
-Perché non lo hai consegnato alla polizia? -
Sherlock scosse le spalle e fece un tiro alla sigaretta.
-Perché aveva ragione lui. Le leggi sono così rigide che spesso sono dalla parte del torto -
-Non è molto legale, lo sai? -
Erano appoggiati ad un muretto, al posto di guardare il mare guardavano le auto passare.
-Non sono un poliziotto. Posso farne quello che voglio delle mie deduzioni. Quell’uomo aveva ricevuto un torto e ha ricambiato, riprendendosi ciò che era suo senza fare del male a nessuno. Ha una sua giustizia per me -
Owen alzò il bicchiere, - Al tuo senso di giustizia allora! -
Sherlock brindò con lui.
-E poi come diavolo hai fatto a capire che era gay? Era un giocatore di rugby, per la miseria! -
-Il mio gaydar funziona ancora. E poi bastava guardare le sopracciglia e le mani -
-Giusto, dimenticavo che sei esperto in materia. – disse Owen, - Lo sai che non sembri gay? -
Sherlock gli lanciò un’occhiata sottecchi.
-Dovrei prenderlo come un complimento o come un’offesa? -
Owen rise, -Nessuno di tutt’e due, solo come un’osservazione -
Un grosso camion transitò proprio davanti a loro, con il suo rombo invase la conversazione.
-E non hai frequentato nessuno in questi anni? – chiese Owen, quando il tir si fu allontanato.
Sherlock stava scivolando progressivamente fuori dalla sua comfort zone.
-No -
-Sul serio? In vent’anni! Wow, ammiro il tuo coraggio, amico! -
Sherlock aveva le orecchie in fiamme, per fortuna aveva anche molti capelli a coprirle.
-Le relazioni non sono mai state il mio punto di interesse. John… E’ stato un’eccezione – rispose Sherlock, si prese il tempo di un’altra boccata di fumo, - Io ero la sua. Non era gay -
Owen bevve un sorso, con aria pensierosa, -Le eccezioni l’uno dell’altro… Dovevate essere una bella coppia! -
Sherlock abbassò lo sguardo, improvvisamente tanta nostalgia gli invase tutto il corpo.
-Già -


Sherlock si muoveva avanti e indietro per il viale del parco. C’erano trenta gradi, ma teneva comunque indosso il cappotto, con il bavero alzato.
Una voce lo chiamò da lontano.
-Vieni qui, idiota! -
Era la voce di Owen, che lo invitava a sedersi sulla panchina, accanto a lui. Sherlock lo ignorò come al solito, completamente aggrovigliato nei suoi pensieri, ma Owen stavolta si alzò e gli andò incontro. Da vicino lo sovrastava.
Sherlock scosse il capo, -No, lasciami solo! -
-Parlane con me! – gli posò le mani sulle spalle, aveva una voce calda e rassicurante.
-No, tornatene di là! Non voglio parlare con te!– cercò di liberarsi dalla presa, non era abituato ad essere più piccolo di John, Owen lo trattenne.
-Qual è il problema ancora? Mi sembrava che le cose stessero andando bene ultimamente -
-E’ proprio questo il problema! – gridò, - Un attimo tutto sembra come prima, io e te che risolviamo dei  casi, e tu sei proprio il John che ricordavo, e un secondo dopo ti estranei completamente e parli di noi come se Owen e John fossero due persone separate! Tu non sai niente di noi, non sai niente di quello che è successo! Non sai come ci siamo trovati, non sai come ci siamo messi assieme! Non sai quelle che abbiamo dovuto passare! Non sai niente! –
Sherlock si era dimenato, ma Owen era riuscito a trattenerlo lì. Lo abbracciò.
-E allora tu raccontamelo, possiamo costruire una nuova storia, senza dimenticare il passato -



-Ti ho cercato su internet, ieri sera -
Erano in metropolitana, pioveva quel giorno e prendere la moto era impossibile.
-E? -
-Ho trovato il tuo blog e quello di John Watson -
Sherlock guardava con attenzione il cartellone dov’erano indicate le prossime stazioni.
-Il tuo sito fa schifo. Perché uno dovrebbe conoscere centocinquanta tipi di tessuti diversi? – esclamò Owen, - Ma quello di John era fantastico! Dio, i casi che avete risolto! Straordinari! -
-Hai finito di auto-elogiarti? -
-Sai come la penso – fece Owen, accavallando le gambe, - Vivevate assieme, poi! Ho letto dall’inizio, il vostro primo incontro… Mad-man e Robin, così vi chiamavano. E poi ho visto le tue foto da giovane… Che ne hai fatto del cappello? -
-Okay, adesso puoi anche smetterla – lo zittì Sherlock, voltandosi stizzito, per mascherare gli occhi che gli erano diventati lucidi.
Owen capì che aveva corso un po’ troppo.
-Scusami, hai ragione. Scusami. -
La metropolitana si fermò, salirono tre persone, ne scesero due, ripartì.
-E avevi dei bellissimi zigomi – esclamò, di punto in bianco, completamente soprappensiero. Quando fosse imbarazzante quanto aveva appena detto, Owen lo notò solamente dopo, sperò che  il treno collidesse prima di arrivare alla prossima stazione.

-Hai mai giocato a pallacanestro? -
-No- rispose Sherlock, chino su di un cadavere di quattro giorni. Owen aveva una mascherina premuta contro la bocca e cercava di respirare quel tanfo il meno possibile. Sherlock ovviamente poté leccare la punta delle dita del corpo come se fossero un cono gelato e non rimettere dopo averlo fatto.
-Come fai a stare così vicino a quella roba? – protestò.
-Come hai detto tu, deve essermisi bruciato l’olfatto, John -
Owen si irrigidì quando si sentì chiamare come il fidanzato morto, ma Sherlock sembrava aver parlato senza pensare e non pareva averlo notato.
-Passami una pinzetta. È lì sul tavolo -
Owen gliela diede. Coraggiosamente si avvicinò ancora di un passo.
-Strano che tu non abbia mai giocato a pallacanestro… Sei alto -
Sherlock scoprì una caviglia e prelevò dei peli.
-Mai fatto sport come questi -
-Capisco. Che sport hai fatto? -
Sherlock sbottonò la camicia del cadavere e seguì la linea alba del morto con la lente d’ingrandimento.
-Mi è sempre piaciuto ballare -


-Dove stiamo andando? -
-Se avessi voluto dirtelo, avrei lasciato guidare te! -
-Ma il Beach Bungalow è dall’altra parte! -
-Ho già un paio di birre nello zaino, andiamo da un’altra parte, stasera -

“Un’altra parte” era il campo di basket del parco comunale, dove di solito Owen si vedeva con la sua banda di amici muscolosi e correva avanti e indietro inseguendo una grossa arancia di gomma. Tranne che quella sera erano soli.
-Ti insegnò a giocare a pallacanestro – disse Owen, rispondendo alla domanda che proveniva dallo sguardo perplesso di Sherlock.
-Non è il caso –
-Tu mi hai portato in una stanza con un cadavere in putrefazione, stasera decido io cosa facciamo – ribatté Owen, tirando fuori la palla da una busta.
-Non hai una fidanzata da qualche parte? -
-Sylvia? Abbiamo litigato. Ha detto che passavo troppo tempo con te. Se non le sta bene, può anche fottersi, non può decidere chi farmi frequentare! – rispose Owen, togliendosi il giubbotto, - Lascia il cappotto qui, iniziamo -
-Non ho i vestiti adatti, meglio di no – buttò lì Sherlock.
-Se è per questo non hai neanche l’età adatta, ma non conta – lo prese in giro Owen, facendo girare la palla sulla punta dell’indice.
Sherlock si ritrovò costretto ad ammettere che la cosa iniziava a sembrargli piuttosto eccitante. E ancora Owen non si era tolto la maglietta.

Il detective si rivelò piuttosto portato, afferrò in pochi minuti le regole e le mosse principali, poi iniziarono a correre per il campo, sottraendosi la palla a vicenda, come in una strana e sudata danza.
-C’è qualcosa in cui non sei bravo? – ansimò Owen, muovendosi di lato, per placcarlo.
-So anche fare gli origami con i tovaglioli! –
Owen riuscì a sottrargli la palla.
-Ah! Quello non me lo sarei mai aspettato da te!-
Sherlock lo rincorse, per impedirgli di tirare a canestro, - Sempre pieno di sorprese, ricorda – spiccò un salto, ma Owen era troppo alto e riuscì a fare punto.
Sherlock si appoggiò con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
-Però! Non te la cavi male neanche quanto a prestazioni fisiche! Quanti anni hai detto che hai? -
Sherlock si rialzò prontamente, -Non te lo dirò mai! -
Owen nel frattempo si era tolto la canotta, da quel momento Sherlock iniziò a perdere colpi, concentrarsi era diventato più difficile.

Si sedettero con le spalle contro la rete di recinzione, respirando affannosamente, ridevano ad una battuta che uno dei due aveva appena fatto. Owen gli passò una bottiglietta d’acqua e poi un asciugamano. Quando si furono ripresi, stappò una birra, Sherlock si accese una sigaretta.
Per un po’ stettero in silenzio.
-E con una donna ci sei mai stato? -
Sherlock soffiò fuori il fumo, -Definisci ‘stato’ -
-Andato a letto? -
-No, mai stato interessato -
Owen scrollò le spalle e fece un altro sorso.
-Ne ho baciata qualcuna, però. Prevalentemente nell’interesse di un caso… -
L’altro si girò confuso, inghiottì sonoramente la birra, -Per un caso? Hai inscenato delle relazioni per un caso! -
Fu il turno di Sherlock di annuire rilassato. –Sì, qualche volta è stato necessario… Una volta l’ho fatto davanti a John, quando non stavamo ancora assieme. Impossibile non notare quanto fosse geloso… -
-Impossibile non notare che tu l’abbia fatto apposta per farlo ingelosire! -
-Si era appena sposato, mi aveva abbandonato. Se lo meritava!- precisò Sherlock, c’era una nota di profondo affetto nel suo tono seppur scherzoso.
-Ancora non riesco a credere che c’è stato un periodo in cui non siete stati assieme voi due. E poi che è successo alla moglie? -
-Era un sicario della CIA ed una criminale. – spiegò Sherlock, - Mi ha persino sparato una volta, sono quasi morto -
Owen rise, -Conducevate una vita molto tranquilla! -
Ma Sherlock si era momentaneamente perso nei ricordi, - Glielo rinfacciavo sempre il fatto di Mary… -
-Doveva anche essere dotato di una pazienza sovraumana -
Sherlock fece un sorrisino triste, con gli occhi velati di grigio. Owen lasciò che un po’ di silenzio si intromettesse tra loro.
-Oggi mi hai chiamato ‘John’ – disse all’improvviso.
Sherlock era già in silenzio, ma è il caso di dire che ammutolì.
-Mentre eravamo in compagnia del morto, mi hai detto una cosa e mi hai chiamato ‘John’-
-Dovevo essere soprappensiero- Sherlock capì di essere in una pessima situazione, bevve un sorso di birra e cercò di apparire rilassato.
-Okay –
Silenzio.
-Perché tu non hai mai pensato che io… Che io potessi… Tu non sei mai stato interessato a me in quel senso, giusto? -
BAM! Ecco che era arrivata la domanda!
-Figurati! Hai detto di non essere gay–
-No, certo che no – confermò. Sherlock era troppo occupato a riprendere le redini del proprio cervello, per notare la piccola esitazione nella risposta di Owen.


Sherlock bussò alla porta di Owen, aveva con sé un caso di un rapimento che sembrava piuttosto intrigante. Era stato sequestrato un infermiere da una clinica, senza un motivo apparente e non era stato ancora richiesto nessun cavallo di ritorno. L’insignificanza della persona rapita rendeva il tutto più insolito.
La porta si aprì, ma stavolta dietro c’era Sylvia. Sherlock cambiò bruscamente espressione.
Non era solo Sylvia, ma era Sylvia nuda dalle cosce in giù, con indosso solo una grossa t-shirt verde, evidentemente di Owen.
-Oh, è lei… - fece la donna, non che avesse un’espressione migliore di quella di Sherlock in volto.
Il detective non rispose, aspettò che un Owen con solo un paio di boxer bianchi gli venisse in soccorso. I boxer bianchi furono un’altra delle ragioni per cui non rispose, piuttosto distraenti. Riprovevole!
-Te l’avevo detto che era per me – disse Owen a Sylvia, infilandosi tra lei e Sherlock, -Ehi, Sherlock! Qui per un nuovo caso? -
Faccia! Sì, concentrarsi sulla faccia! Hai una lingua, usala!
-Sì… Ehm… Sì. Rapimento, notizia fresca, non è neanche uscita sui giornali -
-Grande! I rapimenti mi piacciono, sono eccitant… -
Sylvia lo intercettò con lo sguardo e gli fece capire che non era una buona idea andare avanti con quella frase.
Owen appoggiò una mano sullo stipite della porta, - Puoi darci un secondo? -
Sherlock annuì e la porta si richiuse, peccato che carpì comunque il senso della conversazione.
“Ti sei bevuto il cervello?”
“Passi ancora tutto il tuo tempo con questo tipo, invece di scrivere?”
“Ti rendi conto di quello che stavi dicendo? Un rapimento… Eccitante”
“Oggi dovevamo passare la giornata assieme”
“Sono io la tua fidanzata, non lui!”
“Allora vengo con voi”
ALLORA VENGO CON VOI.
ALLORA.VENGO.CON.VOI.

Sylvia aveva una macchina, quindi presero quella. Owen era alla guida, Sherlock era riuscito a guadagnarsi il posto davanti e Sylvia stava dietro, con un’aria di repressa soddisfazione.
-La vittima del rapimento si chiama Trevor Alleys, infermiere canadese, lavora alla Clinica Peaceful Heaven da due anni, più tre precedenti di apprendistato, ha ventisette anni, una fidanzata e una sorella, il resto della famiglia è in Canada. -
-Come era la sua situazione economica? – chiese Owen.
-Normale, non ha debiti eccessivi, almeno non tra quelli fino ad ora riportati, ha una buona paga; vive in una piccola casa di proprietà, quindi, ha un mutuo, ma non insostenibile. I movimenti in entrata e in uscita dal suo conto degli ultimi dodici mesi sembrano essere nella norma. -
Owen sorrise, cambiando marcia e svoltando, erano arrivati al vialetto dove abitava Trevor Alleys.
-Hai fatto i compiti -
Sherlock sorrise in ricambio, - Come sempre -

La casa era in un quartiere residenziale di periferia, un singolo piano, schiacciata tra due abitazioni identiche. Nell’insieme la strada dava decisamente un senso di oppressione e pace, due cose molto strane da mettere assieme.
La fidanzata di Trevor, Vicky, era in casa e li stava aspettando. Aveva contattato Sherlock per e-mail, quindi lui non aveva ancora avuto occasione di interrogarla personalmente.
-Salve, lei deve essere il signor Holmes… E il signor Kelly,  immagino -
-Il contrario in realtà – la corresse Owen, facendo un gesto con le dita. Dietro di lui, Sylvia fece un piccolo colpetto di tosse,  -Oh, è lei è Sylvia -
-La sua fidanzata, piacere! – aggiunse lei, facendosi strada nell’appartamento.
Sherlock le lanciò un’occhiata ostile mentre gli passava davanti, Owen non sembrava affatto a suo agio.
Convenevoli, convenevoli, convenevoli e finalmente si arrivò al momento delle domande.
Sherlock ne aveva due in mente, gli bastavano quelle.
-Vicky, il suo fidanzato faceva abuso di sostanze stupefacenti? – chiese il detective, come un falco, aguzzò la vista in attesa di registrare la reazione alla domanda, non tanto la risposta alla stessa.
-No, assolutamente… Non che io sappia -
Owen annotò. Da una decina di giorni andava in giro con un taccuino e segnava ogni cosa.
-Trevor è scomparso ieri mattina, mercoledì 21 gennaio. È stato sempre con lei da venerdì sera a domenica sera? -
Sherlock le lasciò il tempo per pensare, già il fatto che se lo fosse preso era significativo.
-Sabato mattina è andato a correre come sempre. Venerdì sera siamo usciti assieme, con degli amici. Sabato e domenica sera siamo rimasti a casa. Il resto del tempo siamo stati sempre assieme, mi pare… - rispose, continuando a pensare mentre parlava, - Ah, domenica mattina sono andata a fare la spesa, da sola, ma lui dormiva -
Owen registrò tutti gli spostamenti, stava ancora scrivendo quando Sherlock si alzò.
-Bene, Vicky, grazie per il suo tempo -
Sia Vicky, che Sylvia fecero una faccia da “E’ tutto qui?”; Owen non batté ciglio. Vicky espresse il pensiero ad alta voce.
-Ho tutto quello che mi serve, le farò avere mie notizie presto –

Si rimisero in auto, stavolta diretti verso l’ospedale.
-Mi dica a cosa le servivano quelle due domande. Perché solo quelle due poi! Non le ha chiesto niente!-
Sylvia si era aggrappata tra i due sedili anteriori e si sporgeva nella parte anteriore dell’abitacolo.
-E’ nel suo Palazzo Mentale. Non lo disturbare – fece Owen.
-Nel suo cosa? -
-Ssh! -
-Ma perché quelle due domande? -
-La prima era abbastanza ovvia: i drogati finiscono spesso nei guai simili, potrebbe trattarsi di una questione di soldi. La seconda era il modo più preciso di scoprire se il tipo aveva in mente qualcosa o sospettava qualcosa. Le manovre di questo genere vengono organizzate quasi sempre nel tempo libero, come il weekend, per non destare sospetti assentandosi a lavoro -
Sherlock si scosse.
-Molto bravo, Owen. Deduzione corretta -
Owen gli diede una piccola gomitata, -Ho imparato dal migliore! -
Sherlock si voltò e sorrise, Owen fece lo stesso.
-Ragazzi, mi dispiace interrompervi, ma mi pare che quello che tu abbia tra le mani sia un volante, Owen. Pensa a guidare! -

L’ispezione in ospedale fu più meticolosa e richiese più tempo. Sherlock volle esaminare l’armadietto di Trevor e tutta la sala staff, affidò ad Owen il compito di interrogare i pazienti coscienti del reparto dove lavorava l’infermiere e mandò Sylvia a prendersi un caffè. Sylvia mandò Sherlock in un posto poco piacevole e seguì Owen.
Un’ora più tardi, Sherlock aveva finito di parlare con chi voleva parlare tra medici e infermieri e cercò di liberarsi di nuovo di Sylvia.
Si tirò Owen e ragazza in un angolo della corsia.
-Adesso io vado a dare un’occhiata alle cartelle cliniche in archivio. -
-Vengo con te -
-Anche io -
-La legalità della cosa è di aperta discutibilità. Restate qui -
Owen lo ignorò e lo seguì. Sylvia si mise al seguito.
-Va bene, allora! – fece Sherlock, notando di avere due ombre di troppo, - Owen tu vieni con me, Sylvia, fai il palo e, per amor del cielo, non dare nell’occhio -
Prima che potesse protestare, Sherlock sfilò dalla tasca un portaoggetti in cuoio, pieno di utensili non dissimili da quelli di uno scassinatore. Forzò la serratura e si infilò dentro, con Owen alle costole.
-Prendi le cartelle cliniche del 22, 23 e 24 settembre dell’anno scorso, portamele qui. -
Owen non mise in discussione gli ordini e andò.
Sherlock nel frattempo prese quelle del 12, 13, 14 agosto e quelle del 26, 27 e 28 marzo. Le sfogliò con agilità, aprì quelle portategli da Owen e fece altrettanto.
-Ma certo! Geniale… Era un modo geniale… Ma questa volta qualcosa è andato storto, non è vero? – mormorava, mentre controllava l’ultimo raccoglitore. –Sì! – lo chiuse si scatto, sollevando una nuvoletta di polvere. –Andiamo, devo parlare con il primario -
Owen lo fermò per un braccio, lo fece girare e lo guardò negli occhi.
-Che sta succedendo? -
-Non c’è tempo per spiegare, ora. Potrebbe già essere troppo tardi! -
Owen si prese un ulteriore istante per guardare Sherlock, ma poi annuì e lo lasciò andare.
Uscirono di soppiatto dall’archivio, Sylvia stava egregiamente flirtando con uno dei medici poco distante, fece loro un occhiolino e Sherlock e Owen proseguirono.

Salirono di sette piani, nell’ascensore c’erano solo loro e un silenzio carico di tensione.
-Aspettami qui - Fece Sherlock, spingendolo piano contro un muro. Owen annuì e si mise con una spalla contro la parete a fissare le barelle sfrecciare da una parte all’altra. Sentiva una certa familiarità con l’ambiente ospedaliero, c’era un sottile fascino che aveva avuto su di lui fin da quando era bambino, ma non aveva idea del perché.

Sherlock non perse tempo, tornò a passo svelto. Owen poté leggergli in volto che la cosa era più seria del previsto.
-Vieni con me – ordinò, senza fermarsi, imboccarono le scale. –Chiama Sylvia, dille di uscire con discrezione e di venire al bar all’angolo. Velocemente -

-Ci sono un po’ di cose che non mi convincono in questa clinica. Non mi fido del primario, non avrei mai dovuto parlarci in primo luogo, e adesso dovete fare quello che vi chiedo. -
Sherlock, Owen e Sylvia, sedevano in un tavolino di un bar, riparati da un ombrellone, sotto il sole bollente di gennaio.
-Owen, tu devi rimanere in ospedale. Sei alto e dai nell’occhio, mettiti in sala d’attesa con un giornale e di tanto in tanto sparisci in bagno per un po’. Ho preso il nome di una paziente in coma, Anne Finnigan, se qualcuno dello staff si avvicina, dici che sei lì per lei e che se un vecchio amici delle elementari. Se qualcuno delle persone in sala d’aspetto ti dà a parlare, lascia che siano prima loro a dire perché sono lì, non vogliamo sfortunate coincidenze. Insomma, meglio se non parli.
Io devo andare da una parte.
Sylvia, tu tornatene a casa. -
Sia Owen che Sylvia ebbero da protestare, Sylvia ebbe la meglio.
-Che cosa? Io non me ne vado a casa e basta! Che sta succedendo? -
Owen si mise in mezzo.
-Sì, tu vai a casa, Sylvia, è pericoloso. E quanto a te, Sherlock, non ti lascerò andare da solo -
Sherlock aprì la bocca per parlare, ma Sylvia aveva congelato tutti con un solo sguardo.
-Pericoloso! Scusami, che cosa? Io non me ne torno a casa perché è pericoloso! Se lo ripeti un’altra volta, ti picchio così forte, che dopo non avrai più bisogno di una scusa per entrare in quell’ospedale! -
Owen capì di aver detto una grande stupidaggine e ammutolì.
-E poi non ci ha ancora detto cosa sta succedendo, signor Holmes -
-Per quello non c’è tempo -
Sylvia bevve tutto d’un sorso il suo caffè, - Bene, allora non perdiamone altro. Resto io in sala d’attesa, e Owen tu vai con lui. Devo fare qualcosa in particolare?-
-Cerca di non perdere di vista l’infermiere Goldmann. E manda un messaggio ad Owen, se noti qualcosa di sospetto. Occhi a come si muove lo staff. Se si hanno grandi spostamenti, è negativo -


Sherlock si mise alla guida, stavolta. Accese il motore e imboccarono la strada che portava fuori città.
-Allora? Non mi dici dove stiamo andando? -
-Al vecchio deposito di merce di Windmill Lane -
Owen annuì.
-Perché? -
-Perché è lì che si trova Trevor -
Owen gli lanciò un’occhiata mentre l’altro non poteva vederlo e si concesse di sorridere di fronte alle mille risorse di quello strano uomo che era piombato dal nulla nella sua vita.

Il vecchio deposito di Windmill Lane era un agglomerato di fatiscenti capannoni in metallo, che bruciavano sotto al sole e perdevano ruggine come un serpente la pelle. Il piazzale in cui erano disposti era desolato, distava un centinaio di metri dalla strada principale, ma era circondato quasi completamente da boschi e folta vegetazione. L’Australia non è l’Inghilterra, pensò Sherlock.
Avevano abbandonato l’auto ben lontana, sul ciglio della strada, e avevano proseguito a piedi tra gli alberi.
Prima di uscire allo scoperto, Sherlock si accovacciò dietro un tronco e scrutò il piazzale. Alla fine, indicò il capannone più a destra e fece cenno a Owen di seguirlo.
Si schiacciarono contro una delle pareti, che bruciò loro la pelle.
-Non potevamo chiamare la polizia? -
-Certo che potevamo, ma così è più divertente! -
Si spostarono più in fondo, sotto una sottile finestra, una fessura più che altro.
-Riesci ad arrivare lì? Vedi niente? -
Owen si sporse e annuì.
-C’è un uomo, legato, sembra il ragazzo che cerchiamo -
-Nessun altro? -
-Sì, due tipi vicino a Trevor, uno vicino alla porta principale -
Sherlock registrò l’informazione.
-Com’è l’ambiente? -
-Un grande stanzone… Ci sono parecchie cianfrusaglie nella stanza… Scaffali, pneumatici, vecchi scatoloni… -
-Meglio. Andiamo, ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me… E’ un po’ rischiosa, ti avverto -
Owen si accovacciò assieme a lui, -Dimmi -
Sherlock tirò fuori una pistola. Una Browning L9A1 dell’Esercito Britannico.

Sherlock forzò la serratura della porta secondaria del magazzino, poi sfrecciò verso quella principale. Nemmeno questa era chiusa con un lucchetto, sarebbe bastato un leggero scatto della serratura per entrare.
In silenzio aspettò.
 Il piano era semplice, ma per funzionare doveva essere messo in pratica molto velocemente: Owen serviva da diversivo, sarebbe entrato dalla porta posteriore, puntando la pistola, e avrebbe attirato l’attenzione degli scagnozzi su di sé; Sherlock a quel punto poteva entrare, cogliere di sorpresa il tipo di guardia vicino alla porta principale, che sarebbe stato distratto dall’irruzione di Owen, e poi avrebbe assaltato gli altri due. Padroneggiare diversi tecniche di lotta era sempre stato utile nel suo mestiere e, per molte di queste, cose come la stazza o l’età erano di ben poco conto.
 Questa era la parte uno del piano, poi avrebbero dovuto portare al sicuro Trevor e avvertire Sylvia e la polizia. Anche questa parte doveva avvenire molto rapidamente: se all’ospedale fosse arrivata voce che l’ostaggio era stato liberato, era impossibile prevedere cosa sarebbe potuto succedere.

Fino a “stordire gli uomini di guardia e salutare Trevor Alleys” andò tutto bene. Riuscirono persino a slegarlo, Sherlock si riprese la pistola dalle mani nervose di Owen e andò a controllare che tutto fosse ancora calmo fuori.
Si sporse con discrezione fuori dalla porta principale, non un insetto osava sfidare quel sole.
Il piazzale era deserto.
Il capannone no.
Quando si voltò c’era un quarto uomo, con una pistola tra le mani, che mirava dritto a Sherlock.
Accadde troppo in fretta per poter capire, ci fu un boato e Sherlock fu trascinato al suolo dall’impatto. Una sensazione di calore gli invase il braccio sinistro, il calore divenne presto un dolore familiare, che pulsava ritmicamente attraverso la carne.
Sherlock sentì Owen gridare il suo nome.
L’uomo che gli aveva sparato si voltò e notò anche la sua presenza, si voltò verso di lui, puntando di nuovo la pistola.
-Fermo dove sei! -
Owen ebbe un attimo di esitazione, scrutò in volto il tipo armato, gli ci volle meno di un secondo, riprese a camminare.
-Ho detto fermo dove sei! – gridò l’altro. Owen lo ignorò, continuò ad andargli incontro, con passo rapido, deciso e costante, senza correre o fare movimenti improvvisi.
-Fermati o sparo! -
Owen era così vicino che poteva agganciare lo sguardo di lui e sostenerlo mentre si avvicinava. Non diede ascolto ai suoi comandi.
-FERMATI! – urlò ancora. Le mani che sostenevano la pistola gli tremavano. –Fermati… -
Non si fermò. Non si fermava. Andò avanti, fino a quando la pistola non fu ad un palmo dal suo petto.
-… O sparo -
Owen sorrise. –E spara -
In quel momento ci fu un gara al più veloce. Owen calò una mano sulla pistola e la allontanò, praticamente nello stesso momento un pugno dislocò completamente la mandibola dell’uomo, che lasciò andare l’arma e perse i sensi.
Sherlock era rimasto immobilizzato a terra, a guardare atterrito e incredulo la scena. Con una mano arrestava l’emorragia.
Owen gli corse affianco.
-Stai bene? – esalò, sbiancato.
Sherlock dovette cercare le lettere ad una ad una nel suo cervello, per poter parlare. Era da sempre quello il potere di John: lasciarlo senza parole.
-Io… Sì, non è niente… Tu? Cosa? -
Owen sorrise, gli tremavano le labbra.
-Non sei l’unico a conoscere qualche piccola mossa -


Sfrecciarono in direzione dell’ospedale, Sherlock aveva insistito per guidare, Owen glielo aveva impedito e ora era confinato sul sedile del passeggero a gridare di andare più veloce.
-Dammi il cellulare! Devo chiamare Sylvia. Ora è cruciale che non arrivi nulla di tutto questo all’ospedale! -
Trevor giaceva in stato di shock ed era paralizzato sul sedile posteriore, ma non c’era tempo per le parlate rassicuranti. Non che la cosa fosse nello stile di Sherlock.


Alla fine della giornata, il complotto della Clinica Peaceful Garden fu sventato. Sherlock spiegò di cosa si trattava: la mafia aveva sfruttato quella struttura per coprire alcuni dei suoi omicidi più importanti, che avrebbero attirato troppo l’attenzione. Tutto quello che dovevano fare era trascinare la futura vittima in ospedale e lasciare che alcuni membri dello staff, opportunamente corrotti, ne facessero peggiorare il quadro clinico, in maniera credibile. Trevor non era altri che un’altra vittima in quella faccenda: era il migliore amico di uno degli infermieri coinvolti, che ultimamente aveva minaciato di raccontare tutto alla polizia. Si era dunque reso necessario mettere a tacere i suoi sensi di colpa in qualche modo…

-Abbastanza intelligente – commentò Sherlock, spegnendo nella sabbia il mozzicone di sigaretta, - Ma io non avrei usato come ostaggio un membro dell’ospedale. Troppo ovvio! -
-Ovvio? Il caso di oggi è stato il più eccitante di tutti! – esclamò Owen. Erano di nuovo al Beach Bungalow, passeggiavano sulla riva, – Sei stato geniale!-
-Anche tu e Sylvia siete stati discretamente utili -
Passarono davanti ad una coppia, Owen e Sherlock interruppero la conversazione fino a quando non furono fuori dalla portata d’orecchio.
-Come facevi a sapere che non avrebbe sparato? – La domanda di Sherlock sembrò risucchiare tutti i rumori attorno a loro.
-Hai visto come gli tremavano le mani… Non avrebbe mai sparato -
-Aveva sparato a me un attimo prima -
-Non avrebbe sparato –
-Non potevi saperlo – disse Sherlock.
-Non potevo saperlo – rispose Owen.
La conversazione si interruppe di nuovo, stavolta per nessun motivo.
-Ho lasciato Sylvia – fece Owen.
-Che novità. È la quinta volta questo mese. E proprio oggi che si è dimostrata utile -
Owen non raccolse.
-Ho lasciato Sylvia perché non potevo saperlo -
Owen fermò Sherlock, sottolineando le ultime parole. Erano in piedi, sul bagnasciuga, al centro tra una scogliera e l’altra.
Sherlock capì che qualcosa di importante stava per succedere. Si lanciò in una raffica di parole.
-Owen, devi capire bene una cosa prima che tu vada avanti. Tu sei John e io ti amo. È quel sentimento che mi rovina il cervello e che mi impedisce di pensare che io provo per te. Non sono semplicemente infatuato da te o da quello che hai fatto oggi. Il livelli di ossitocina e adrenalina nel tuo sangue sono ancora piuttosto elevati, prendere decisioni in questo stato non è saggio, non vorrei che tu prendessi decisioni avventate. Vuoi sapere come ci siamo baciati io e John la prima volta? Senza accorgercene, io ero in cucina, lui andava a fare la spesa, passa e mi dice “Vado a prendere il latte”, ci diamo un bacio e se ne va. Era il nostro primo bacio e non ce ne siamo neanche accorti! Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Eravamo a quel punto, io e John -
Owen lo era stato a sentire, seguendo per tutto il tempo le sue labbra.
-Hai finito di parlare? -
-Hai sentito quello che ho detto? -
Owen si avvicinò ancora di più. –Sì. Vuoi sapere, invece, com’è stato il nostro primo bacio? -
-Quale primo bacio? – Sherlock lo guardò senza capire.
-Quello che ci siamo dati prima, quando tu eri seduto al tavolo e io ti ho detto che andavo a prendere da bere -
Sherlock mosse gli occhi da destra a sinistra, cercando nella sua  memoria, poi ebbe l’illuminazione.
-Oh -
-Già, - Owen annuì. –Esattamente quello che ho pensato io – rise, sempre più vicino. – Adesso, se vuoi farmi la cortesia di stare zitto e di baciarmi come si deve. E non perdere la dentiera, vecchio -
Owen si chinò per baciarlo e quando lo fece e gli occhi erano chiusi e tutto il resto non importava, poteva sentirlo e, oh sì, quello era decisamente John.

 

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Sherlock aveva insistito perché si sposassero a Melbourne, lì c’erano tutti i parenti e gli amici di Owen e per lui non fu difficile far volare dall’altra parte del mondo la sua famiglia: Lestrade, Mycroft e Molly.
Erano tutti lì, disposti in un parco nella primavera calda del sud dell’Australia, due file di sedie che costeggiavano una simbolica navata centrale.
Sherlock e Owen camminarono assieme in direzione del giudice di pace, tenendosi per mano. Tutti e due avevano ingaggiato una severa lotta contro le proprie ghiandole lacrimali e vedevano i contorni un po’ sfocati.
Era passato poco più di un anno dal loro primo incontro.

-E ora se volete scambiarvi delle promesse… - invitò il giudice, completando la frase con un gesto del braccio.
Sherlock stava per dire al tale che avevano deciso di non farlo, ma Owen lo precedette.  Aveva infilato una mano nella giacca e ne aveva tirato fuori un foglietto, era vecchio e ingiallito, avrà avuto sì e no vent’anni.
Con una mano strinse quella di Sherlock, con l’altra teneva quella pagina.
Senza guardare quelle righe, ma il suo sposo, incominciò:
-Idiota, ti prometto di non cercare di ucciderti nel sonno quando userai i miei maglioni per pulire i residui di sangue nel frigo e ti prometto di non darti fuoco quando userai la fiamma ossidrica su oggetti che in un’abitazione non dovrebbero mai esserci. Ti prometto che sarò gentile e che non ti taglierò più le corde del violino, se mi avvelenerai il tè. Ti prometto di non buttarti più giù dal letto quando ti prendi il mio cuscino, o almeno di non cercare di soffocarti subito dopo. Hai la mia parola che terrò sempre l’uniforme nell’armadio e la pistola ben lontana dalla tua portata. Ti prometto che la userò contro di tè, se sparerai di nuovo dentro casa. Ti prometto che non disordinerò più la tua collezione di peli di cane, quando entri senza permesso nel mio computer.
Ma soprattutto ti prometto che sarò sempre il tuo collega, il tuo blogger, il tuo dottore, il tuo migliore amico e tuo marito, da oggi fino a quando i criminali di Londra ci concederanno di rimanere in vita.
Ti prometto che ci compreremo un cottage e che ci alleveremo le api e che faremo il miele, quando saremo troppo vecchi per questo lavoro.
Ti prometto che John Holmes-Watson rimarrà sempre un nome da femmina.
Ti prometto che resterò sempre al tuo fianco e che cercherò di rimanere sempre la persona più coraggiosa, gentile e saggia per l’essere umano più umano che abbia mai conosciuto-



Qualche ora più tardi, nel cuore della notte, da una lussuosa stanza d’albergo provenivano delle voci.
Sherlock e Owen erano seduti sul pavimento, nudi, appoggiati sul bordo del letto.  Da dov’erano, potevano guardare il cielo nero e le stelle.
I loro corpi erano vicini, in netto contrasto l’uno con l’altro, avevano le braccia intrecciate dietro la schiena e la testa di Sherlock era poggiata sulla spalla di Owen.
-Compreremo un cottage, in Inghilterra se vorrai, e ci alleveremo api. Lo faremo davvero -
Sherlock sorrise, anche se lui non poteva vederlo.
-E poi un giorno, ti prometto che io verrò a cercare te. Con una testa come la tua, ti ritroverò subito! E allora staremo ancora assieme, per un’altra vita -
-C’è una cosa che potremmo fare – Sherlock si raddrizzò per incontrare gli occhi di Owen.
-Tornare in quel letto e sfruttare i pochi anni che ti restano per fare l’amore, prima che non ti si alzi più? -
Sherlock si ritrovò interdetto. Sbatté le palpebre, arrossendo.
-Si tratta… Si tratta di una questione di preservazione della specie! Invecchiando la spermatogenesi va incontro ad un tasso di errore più alto e il rischio di insorgenza di malattie genetiche sale drasticamente, dunque, impedendo di contrarre rapporti sessuali al maschio anziano, si ha…
Owen lo zittì con un bacio, - Hai finito, Super Quark? -
-No. Ma comunque non era quello il punto. Il punto è che c’è un modo in cui potresti non essere costretto a cercarmi, dopo che morirò -
-Sono argomenti adatti ad una prima notte di nozze! Ma vai avanti – aveva una mano dietro la nuca di Sherlock, si stava attorcigliando i riccioli di lui attorno alla dita.
-L’uomo che mi ha invitato a cercarti, mi ha detto che è possibile unire due anime, in modo che, dopo la morte, ritornino sulla terra nello stesso posto e nello stesso tempo -
-Perché sento arrivare un ‘ma’? -
-Perché se decidiamo di unire le nostre anime, dovremo morire insieme. Il primo che muore, essenzialmente, si porta dietro l’altro -
-Due uomini, una corda e un dirupo – aggiunse Owen, completando il pensiero di Sherlock.
-Esattamente. Questo significa che io ti costringerei a morire molto prima del tempo, dato che sono molto più vecchio di te ed è più probabile che sia io il primo a dover andare -
-Potremmo schiantarci con la moto domani, per quel che ne sappiamo! Non mi interessa -
Sherlock registrò l’informazione, con gli occhi sbarrati.
-Credo che tu non debba prendere sottogamba la cosa, Owen. Non si tratta di una decisione che dovresti fare con un tasso alcolico nel sangue così elevato -
Ma Owen si era avvicinato, per baciargli la spalla, poi il collo.
-Oggi ho fatto una promessa, Sherlock, “Finché morte non ci separi”- gli posò una mano sulla guancia, guardandolo negli occhi, - E noi staremo a vedere quando la morte riuscirà a separarci-
Il tempo si perse per qualche istante. Nessun suono, nessun respiro.
-Fino ad allora mi ritrovo a stare con un insopportabile detective, che sarebbe perso senza il suo blogger. Adesso torna in quel letto, prima che venga il mio vecchio amico capitano e ti ci spedisca lui!-

 
 
2 Dicembre 2070, Melbourne - Australia
Sherlock Holmes-Kelly= 89 anni
Owen Holmes-Kelly= 53 anni

Era piena estate in Australia, il sole scioglieva le pietre e spopolava le strade per riempire le spiagge, ma Sherlock e Owen erano rimasti a casa, con la serranda semiabbassata e le tende serrate, entrava poca aria e poco sole, la stanza era nella penombra. Erano avvolti tra le lenzuola e stavano stesi l’uno accanto all’altro, molto vicini.
-Mi dispiace – mormorò Sherlock.
-Doveva succedere prima o poi – rispose Owen, in un sussurro, -Meglio che sia stato poi… Siamo riusciti a scampare ad una decina di tentati omicidi nei tuoi confronti… E’ un buon risultato… -
Sherlock prese aria a fatica, - Sei ancora… Troppo giovane -
Owen fece un piccolo sorriso triste, era pallido in volto e tremava, - Abbiamo discusso di questa cosa… Tante volte… Ho fatto la mia scelta… Sono pronto… -
-No… Non lo sei… Io… Mi dispiace -
Owen fece uno sforzo enorme per girarsi a guardare il marito: solo gli occhi erano rimasti immutati dalla prima volta che si erano incontrati, i capelli ora erano completamente bianchi, più radi sulla fronte, ma sempre tutti lì, a formare piccole, soffici onde, come la prima neve su una distesa di boschi. No, troppo smielato! Era tutta colpa della debolezza, si disse Owen, che faceva andare il suo cervello a ruota libera.
-Ehi… Stiamo andando assieme… Va bene così -
Sherlock sorrise.
-E poi così potremo ricominciare tutto veramente daccapo… Tu non saprai nulla di me… Avremo gli stessi ricordi… Tutto nuovo… Sarà divertente… -
-Io saprò comunque già tutto di te… - rispose Sherlock, in sussurro provocatorio.
-E mi abbindolerai con… Le tue capacità deduttive ancora una volta… - rise Owen.
-Probabile… -
Assieme fecero un lungo respiro, si guardarono, facevano fatica a tenere gli occhi aperti. Non fu necessario dire più niente. Si scambiarono un rapido bacio sulle labbra.
-Ci si vede… Dall’altra parte… Idiota – sussurrò Owen.
Intrecciarono le dita e lasciarono che lentamente la coscienza scivolasse via dalle loro mani.
 

5 ottobre 2075, Pechino – Cina
Liu = 4 anni
Huan = 4 anni


Liu stava accovacciato in un angolo del cortile a scrutare una fila di formiche. Di tanto in tanto toccava la terra tra una formica e l’altra e ne osservava la reazione.
-Sono formiche rosse quelle. Ti pizzicheranno! -
Un bambino con i capelli molto corti si era avvicinato, senza che Liu se ne accorgesse.
-E’ un esperimento. Guarda, se faccio così, - e toccò con leggerezza una formica, - Tutte le altre formiche non si avvicinano per un po’… Devo capire perché -
L’altro bambino si accovacciò incuriosito, fece anche lui un tentativo, - Wow, è vero! -
-Può essere che le schiacciamo un po’, quindi diventano più piatte e le altre formiche le vedono strane e si allontanano! -
-Sì, e poi dopo ritornano alla loro forma normale, come nei cartoni animati! – aggiunse l’altro.
Liu agitò il dito indice in segno di approvazione, - Giusto! Caso risolto, collega! -
-Mi chiamo Huan-
-Liu - si presentò, -Hai litigato con la tua sorellina? -
-Sì, piange sempre! – rispose l’altro, poi si accorse che qualcosa non tornava, - E tu come fai a saperlo?-
-Il segno del morso sul braccio. Il denti sono piccoli e poi solo le femmine mordono. Se era tuo fratello ti dava un pizzico – spiegò.
Huan spalancò la bocca, - E’ vero! Mio fratello più grande mi dà sempre i pizzichi! E io li do a lui! Sei un genio! -
Liu sorrise e arrossì sulla punta delle orecchie, - Vuoi un po’ della mia merendina? -
-Sì! - Huan sorrise in ricambio, - Muoio di fame! -










 

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