Is It Any Wonder?

di Fannie Fiffi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** XV ***
Capitolo 15: *** XVI ***
Capitolo 16: *** XVII ***
Capitolo 17: *** XVIII ***
Capitolo 18: *** XIX ***
Capitolo 19: *** XX ***
Capitolo 20: *** XXI ***
Capitolo 21: *** XXII ***
Capitolo 22: *** XXIII ***
Capitolo 23: *** XXIV ***
Capitolo 24: *** XXV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***





I always thought that I knew
I'd always have the right to
Be living in the kingdom of the good and true
And so on, but now I think I was wrong
And you were laughing along
And now I look a fool for thinking you were on my side

Is it any wonder I'm tired?
Is it any wonder that I feel uptight?
Is it any wonder I don't know what's right?

Sometimes
It's hard to know where I stand
It's hard to know where I am
Well maybe it's a puzzle I don't understand
But sometimes
I get the feeling that I'm
Stranded in the wrong time

Keane, Is It Any Wonder?


 
 
Prologo



 





 
« Ho cercato di tenerti fuori da tutto questo, Clarke. »
 
L'uomo davanti a lei per un attimo sembrò essere quello di sempre.
 
La voce pacata, le lettere scandite una dopo l'altra come una sequela già pensata e preparata per apparire proprio in quel modo. Ora che lo vedeva chiaramente, non riusciva a trovare un barlume di sincerità in tutte le parole che si erano scambiati in quegli anni.
 
Se avesse immaginato di trovarsi in quella situazione solo quattro mesi prima, forse si sarebbe fatta rinchiudere in una stanza con le pareti imbottite e avrebbe fatto gettare via la chiave.
 
Perché non era possibile trovarsi in quella situazione nel bel mezzo della notte, sul tetto del Mount Weather Hospital, con una pistola puntata contro e Bellamy Blake al suo fianco.
 
Non lo avrebbe mai creduto possibile, ma con tutta la sfortuna del caso e degli sventurati eventi della sua vita, niente era più da escludere.
 
O forse erano solo inutili divagazioni dovute alla ferita alla testa che continuava a pulsare al ritmo feroce del suo cuore?
 
« Sei sempre stato tu... » La consapevolezza la colpì nell’attimo in cui pronunciò quelle parole, le uniche che le accorressero alla mente in quel momento. A poco a poco tutto divenne dolorosamente reale, e l’oggettività dei fatti sembrò colpirla con la materialità di una bomba ad orologeria fra le sue mani.
 
« Lasciala andare. » Intervenne poi Bellamy, che faceva vagare lo sguardo tra lei e l'individuo di fronte a loro con espressione sospettosa e concentrata.  
 
« Avremmo dimenticato tutto. Ormai apparteneva al passato, saremmo potuti essere una famiglia. Mi sarei preso cura di te ed Abby. Ma tu, Clarke, hai distrutto tutto! »
 
All’improvviso urlò, e la pistola sembrò tremare pericolosamente fra le sue mani.
 
Il giovane lo osservò per un attimo, analizzando l’arma che, nonostante il tremore delle dita, sembrava impugnare con facilità.
 
Si trattava di una Colt M1911, una semiautomatica ad azione singola. Avrebbe potuto disarmarlo prima che riuscisse anche solo a introdurre il primo colpo nella camera di scoppio, ma era importante tenere sotto controllo le sue reazioni.
 
« Mettila giù », la giovane agitò un braccio nella sua direzione, « possiamo... Possiamo parlarne. Trovare una soluzione. Sai che non è quello che vorrebbe mia madre. »
 
Tentava di farlo ragionare, di cercare un barlume del buon senso di cui l'aveva sempre creduto capace, eppure tutto quello che sentiva come una necessità fisica era semplicemente eliminarlo dalla faccia della Terra, estirpare la minaccia che aveva mandato in pezzi la sua vita e quella di tutte le persone che amava.
 
Clarke sentì crescere dentro di sé un fulmineo odio per se stessa, per l’ingenuità con cui aveva permesso alle cose di precipitare così velocemente e così a fondo. Ma, sopra tutte le altre, per il sincero affetto che aveva lentamente iniziato a nutrire per quel verme che ora si trovava davanti.
 
Quello che ora la minacciava con una pistola era un perverso folle che aveva distrutto la sua vita senza che nemmeno se ne accorgesse, e lei lo aveva permesso, lei non era stata in grado di riconoscere i segni.
 
Allo stesso tempo però sentiva di dover mantenere la calma, doveva nascondersi dietro una maschera di empatia ed evitare di complicare ulteriormente la critica situazione. Non poteva perdere tutto proprio ora che aveva capito, ora che finalmente aveva compreso ciò che era successo.
 
« Niente sarà come prima. » Sussurrò lui sbarrando gli occhi e agitando l'arma davanti a Clarke e Bellamy, puntandola prima sull'una e poi sull'altro.
 
« Ehi! » Lo richiamò il maggiore dei Blake, tentando di attirare la sua attenzione, « non vuoi che le cose finiscano così. Dammi la pistola. »
 
Fece un passo avanti con cautela, come se il pavimento sotto di loro potesse crollare da un momento all'altro. Sapeva che un criminale come quello, un malato psicopatico privo di qualsiasi tipo di rimorso o capacità di provare emozioni reali, doveva essere trattato nel modo giusto, oppure non avrebbe esitato ad ucciderli entrambi.
 
« Avvicinati ancora e le pianto un proiettile in testa! »
 
La figura davanti a loro urlò nuovamente, stendendo il braccio armato e mirando proprio verso la bionda. Bellamy si immobilizzò sul posto e le lanciò un'occhiata fugace.
 
« Andrà tutto bene », sussurrò voltandosi appena verso di lei, « non ti accadrà niente. »
 
« Smetti di parlare! » L'uomo sembrò crollare su se stesso, si prese il volto fra le mani e si premette il calco della pistola contro la tempia.
 
« Non riesco a pensare... » Bisbigliò poi fra sé e sé, chiudendo le palpebre e facendo un respiro profondo.
 
Il moro sfruttò l'attimo di distrazione e avanzò cautamente, senza distogliere per un attimo lo sguardo dall’individuo davanti a sé.
 
« Non avvicinarti! » Gridò di nuovo e tornò a puntare l’arma da fuoco, questa volta verso di lui. 
 
« Giuro che ti sparo. Se provi a fare solo un altro passo avanti, sarà l'ultima cosa che farai. Pensi che abbia paura di usarla? », indicò con un cenno della testa l'arma, « pensi che abbia paura di ucciderti? »
 
« No, non lo penso. » Bellamy lo assecondò, mentre calcolava mentalmente la distanza fra loro due e quanto gli sarebbe occorso per raggiungerlo, privarlo dell’arma e metterlo KO.
 
Doveva trovare un modo di avvicinarsi e disarmarlo, e doveva farlo subito.
 
Perso nei propri pensieri, sentì vagamente il corpo di Clarke muoversi dietro di lui e compiere due passi avanti.
 
« Ascoltami... » Provò lei, ma subito fu interrotta dall'ennesimo grido desolato.
 
« Vuoi morire, Clarke? Vuoi raggiungere tuo padre sottoterra? Eh? »
 
Il soggetto si avvicinò pericolosamente e Bellamy, senza nemmeno riflettere, si pose fra i due.
 
« Non azzardarti nemmeno a guardarla. »
 
« O forse ucciderò te, detective. »
 
Ancora una volta la sua attenzione vagò fra lui e Clarke, concentrandosi su Blake, e quello fu il momento.
 
Subito il più giovane gli fu addosso: colpendolo con un destro in pieno volto, sfruttò l'occasione per tentare di disarmarlo, ma l'altro fu più veloce e scattò lontano da lui.
 
Il movimento non fu sufficiente, però, perché il moro fu in grado di attaccarlo nuovamente, questa volta colpendolo con una ginocchiata allo stomaco.
 
E tutto accadde in un battito di ciglia: lo sparo partì e il rumore sembrò riecheggiare troppo forte nei suoi timpani.
 
Bellamy si diede la spinta con le gambe e lo caricò, buttandolo a terra.
 
L'adrenalina scorreva libera e potente fra le sue vene e tutto sembrava in movimento, tutto pareva scivolare via e confondersi nel buio della notte.
 
Lo colpì al volto con il pugno destro, poi con il sinistro, ma l'altro brandiva ancora la pistola e si avventò sulla sua spalla, facendolo rotolare sul fianco.
 
Le posizioni si invertirono di nuovo, portando l’uomo in vantaggio: era più pesante di lui, più alto, ma Bellamy riuscì a schivare il secondo colpo e a togliergli l'arma di dosso.
 
La pistola scivolò di qualche centimetro lontano da loro, mentre i due uomini lottavano e cercavano di abbattere l'avversario.
 
Il più giovane sentì il sapore metallico del sangue confondersi alla saliva, ma nulla in quel momento importava; doveva liberarsi, doveva proteggere Clarke e mettere fine a tutta quella follia.
 
I suoi pensieri si concentrarono per un istante su di lei: non riusciva a vederla, con l'uomo che ancora lo costringeva a terra, ma il silenzio che otteneva in risposta non gli fece presumere niente di buono.
 
E fu allora che Bellamy tentò di ferirlo nuovamente, provando poi a stringergli il collo con le braccia, ma non servì, perché l'altro cozzò contro di lui con la testa, colpendogli il naso.
 
Subito un rivolo di sangue cominciò a scendergli sulla bocca e sul mento, gocciolando sulla maglietta e mischiandosi al sudore, ma paradossalmente non sentiva nulla.
 
Mentre lottava per la propria vita, il maggiore dei Blake capì immediatamente cosa significava sentirsi vivi, e lui non lo era mai stato più di allora.
 
Un’ altra percossa lo costrinse a piegare il volto di lato, e fu in quel momento che vide la pistola.
 
Le sue braccia si mossero ancora prima che il cervello mandasse loro l'impulso, afferrò l'arma e la scaraventò con tutta la forza che gli rimaneva: sentì il calco colpire la tempia dell'uomo e subito dopo il suo peso cadergli addosso. Bellamy rantolò e spostò il corpo incosciente lontano da sé.
 
Rimase lì sdraiato a riprendere fiato solo per qualche secondo, prima di ricordarsi che c'era qualcun'altro, su quel tetto. « Clarke... » Mormorò mettendosi seduto e cercandola con lo sguardo.
 
Oh, no.
 
Clarke era sdraiata sul cemento duro del pavimento e poteva percepire la sua figura tremante anche da quella posizione.
 
Gli tornò alla mente lo sparo, il rumore dell’impatto ignorato durante la lotta.  « Clarke! » Gridò correndo verso di lei e raggiungendola in un attimo.
 
La testa di Bellamy sembrava vicina all'implosione, ogni parte del suo corpo doleva e il sangue gli colava dal viso come lente gocce di pioggia, ma nulla sembrava importare.
 
Si inginocchiò vicino a lei solo per percepire il liquido denso e vermiglio bagnargli i pantaloni, e non era il proprio. Individuò la ferita non appena la osservò con attenzione; la gamba sinistra di Clarke ondeggiava e sussultava completamente ricoperta di sangue.
 
Un unico pensiero attraversò la sua mente:  Fa’ che non sia l'arteria femorale, oh Dio, fa’ che non sia l'arteria femorale, fa’ che non sia l'arteria femorale.
 
Bellamy sapeva bene cosa avrebbe significato: sarebbe morta prima di poter lasciare quel dannato tetto.
 
No, non voleva nemmeno prendere in considerazione l'idea. Non poteva perderla, semplicemente non poteva.
 
« Clarke... » Sussurrò di nuovo, incapace di formulare alcuna frase coerente, mentre tastava con delicatezza la sua gamba, cercando il foro di entrata.
 
« Bell... », la bionda tossì e sbarrò gli occhi, tentando di tirarsi su con l’aiuto dei gomiti ma ricadendo di schiena con un tonfo secco.
 
« Ehi, Principessa! » La sua voce tremava, così come le proprie mani su di lei.
 
« Fa male! » Rantolò lei, afferrando la sua mano e stringendola così forte da poterla rompere. Era qualcosa che aveva imparato a fare quasi inaspettatamente, come un meccanismo di difesa contro tutto il resto del mondo esterno: qualsiasi cosa fosse successa, lei gli avrebbe stretto la mano e la paura sarebbe semplicemente scomparsa.
 
« Lo so, ma andrà tutto bene, andrà tutto bene. Te lo prometto, starai bene. Ho bisogno... Ho bisogno che tu mi dica se... »
 
Non riuscì a continuare la frase. Avvertì con desolante chiarezza la stretta della mano di Clarke svanire dalla sua presa e divenire sempre più fredda, solo per poi scivolare via. Clarke non stava più stringendo la sua mano.
 
« Ehi, ehi, devi rimanere sveglia! Non chiudere gli occhi, ti prego! » Urlò così forte da sentire l'eco disperata della sua voce nel silenzio che la seguì, mentre stringeva ancora di più le sue dita immobili fra le proprie.
 
Doveva salvarla, doveva ripulirla da tutto quel sangue e impedire che ne uscisse ancora, perché era prezioso, perché non poteva immaginare un mondo in cui la sua coraggiosa principessa non si svegliava più, ma cosa avrebbe potuto fare? Era lei il futuro medico, lui in quel momento si sentiva una nullità.
 
Poi, come un'illuminazione, gli tornarono alla mente le lezioni di pronto soccorso all'Accademia.
 
« Ok, ok, ci sono. » Sussurrò fra sé e sé, prendendo la cintura che aveva cominciato a togliersi e stringendola propria sopra il punto in cui il proiettile si era ferocemente insinuato nella pelle morbida di Clarke.
 
Bellamy si tolse la giacca mentre tremori indicibili sconvolgevano ogni centimetro del suo corpo, la ripiegò su se stessa e lo premette contro la ferita, da cui usciva copioso il liquido caldo e scuro simile alla pece sotto la luce oscura della luna.
 
« Ce la farai, Principessa! Non ti permetto di lasciarmi! »
 
Assicurandosi che la ferita fosse compressa nel modo giusto, prese la sua ricetrasmittente e comunicò con la stazione di polizia.
 
« Qui l’agente Blake, ho bisogno di rinforzi e soccorso medico sul tetto del Mount Weather Hospital. Ho in custodia un sospettato di omicidio e un civile ferito, richiedo immediatamente supporto, potrebbe trattarsi di un codice rosso. »
 
Gettò l’apparecchio lontano da sé e tornò a concentrarsi su Clarke, ancora incosciente.
 
« Andrà tutto bene, te lo prometto. Resisti, ti prego! » La supplicò per quelle che sembrarono ore interminabili, accarezzandole i capelli e il viso in punta di dita, come se la minima pressione potesse farla stare peggio.
 
L’ultima cosa che sentì prima di perdere conoscenza e abbandonarsi alla stanchezza furono i paramedici che stimavano il sangue che aveva perso e contavano pressione e battito cardiaco.
 

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Capitolo 2
*** I ***


Un grazie di cuore a tutti coloro che hanno inserito fra le seguite, le ricordate e le preferite. Grazie a live in love
per aver recensito.
Un grazie speciale ad Eleonora.
Buona lettura!




 










« Il pianeta Terra chiama la navicella intergalattica Clarke Griffin. Ripeto, il pianeta... »

Quello decisamente non era il rumore della porta della sua stanza che si apriva, e quella non era la voce del suo migliore amico che cominciava a straparlare e a dire cose totalmente insensate a un orario improponibile del giorno, qualunque esso fosse.

No, quello era semplicemente un incubo e presto si sarebbe svegliata, si sarebbe guardata intorno e avrebbe appurato con estrema armonia di essere sola e di non dover sforzarsi di parlare ed essere carina con nessuno.

Peccato che l’incubo in questione non volesse accennare a stare fermo, perciò dopo averlo sentito muoversi nella camera ed evidentemente sollevare le tapparelle delle sue finestre, Clarke fu costretta a mostrare segni di vita.

« Jasper? Che diavolo vuoi? » La sua voce gracchiò e per un attimo ebbe difficoltà a riconoscerla come propria, ma non aprì gli occhi né emerse dalla muraglia di difesa che erano le sue coperte.

Prima o poi l'avrebbe preso a pugni, se avesse continuato a piombare a casa sua e svegliarla come se ne avesse anche il minimo dannato diritto.

« È sempre molto stimolante intrattenere non molte mattutine conversazioni con te, ma è ora di alzarsi dal letto, Bella Addormentata. »

Era sveglia da appena cinque minuti e già sentiva il suo livello di sopportazione calare vorticosamente a picco, perciò ringraziò mentalmente la sua poca voglia di abbandonare il proprio giaciglio per impedirle di cacciare Jasper dalla sua stanza e urlargli di non tornare mai più. Non che non lo avesse già fatto più di una volta, s’intende. Non che lui le avesse mai dato ascolto.

Rassegnata al fatto di non poter più rimettersi a dormire, Clarke si scostò le lenzuola di dosso con un gesto stizzito e incenerì con lo sguardo il suo molesto e altrettanto adorato migliore amico, il quale sedeva tranquillamente sulla poltrona che ormai era divenuta sua e aveva l'aria più rilassata del mondo.

Osservandolo con espressione contratta e confusa – quella che in realtà era la sua espressione da “potrei diventare violenta da un momento all'altro” –, la bionda tornò a sprofondare la testa fra i cuscini e si coprì con la coperta fino a trovarsi nuovamente nel suo caldo rifugio.

« Clarke, andiamo, sono quasi le tre del pomeriggio! » Il tono di voce del ragazzo era tanto lagnoso quanto familiare, ma per questa volta non poté dargli torto.

« Oh, Dio… » farfugliò lei da sotto la coltre di tessuto, e Jasper vide chiaramente il suo braccio liberarsi dal garbuglio di trapunte e afferrare il cellulare poggiato sul comodino al suo fianco.

« Ti servirà molto più di quello per riprenderti », parlò finalmente, riferendosi all’imprecazione dell’amica, « ieri sera ci sei andata giù pesante. »

A scanso di equivoci, non era come se Jasper fosse la persona sobria del gruppo che rimaneva sempre fastidiosamente attiva e rimproverava quelli che invece sembravano non avere lo stesso livello di buon senso, ma non poteva fare a meno di preoccuparsi per lei.

A maggior ragione perché era ben conscio del fatto che, se non ci pensasse lui, lei oltrepasserebbe il confine molte più volte di qualsiasi altro individuo normale.

Non che Clarke Griffin potesse essere definita normale in qualsiasi scala sociale da lì alla Patagonia.

« Non sei d’aiuto, Jasper. » La bionda cercava di auto convincersi di star bene, di non risentire per niente dell’avventura della sera prima – se ubriacarsi come un’idiota poteva essere definita avventura – ma ben presto appurò che, finché la sua voce fosse stata simile a quella di una mummia risorta dalle proprie ceneri dopo millenni, non sarebbe stata affatto bene.

« Ehi, hai davanti a te la bocca della verità. » Il giovane alzò le braccia in segno di resa, più per se stesso che per lei, data la sua evidente caparbietà nel non volersi alzare dal letto.

« Potrebbe davvero farmi comodo un po’ di silenzio. »

« Silenzio? Mh, certo. Tipo il gelante silenzio che hai rifilato ieri a Bill. Quel tipo di silenzio? » Il suo tono inquisitore non era poi tanto credibile.

Clarke scoppiò in una risata, o perlomeno in quella che sarebbe stata una risata se il suono non fosse stato interrotto da un non indifferente colpo di tosse.

« Idiota. » gracchiò lei giocosamente, ergendosi dalla sua tana, mettendosi a sedere e strofinandosi energicamente gli occhi sensibili alla luce solare che entrava dalla finestra.

« Com’è andata? » Domandò Jasper rigirandosi tra le mani una pallina da baseball trovata tra le cianfrusaglie dell’amica e assumendo un’espressione contrita e assorta.

« Sono riuscita ad andarmene fra il secondo e il terzo invito a cena con gli sconti di Burger King che sua madre aveva messo da parte per noi. »

La cosa non le era sembrata tanto stupida e assurda fino a quando non l’aveva detta ad alta voce.
Ed era così, perché la pallina cadde rovinosamente dalle mani del suo migliore amico, troppo occupato a tenersi la pancia per la devastante ondata di risate che l’aveva colpito.

« Stai… dicendo… sul serio? » Jasper si trovò in difficoltà quando fu costretto a schivare il cuscino che Clarke gli aveva lanciato contro, e fu in grado di riprendersi solo dopo qualche secondo.

Nel frattempo la bionda si era alzata e si era diretta verso lo specchio appeso al lato destro del suo letto..

Oh, quello non andava affatto bene: i suoi ricci biondi apparivano come un ammasso non identificato di paglia secca, il trucco della sera prima era spaventosamente colato e distribuito in modo non omogeneo su tutta la faccia – avrebbe sempre voluto mascherarsi da Joker, peccato che dolcetto o scherzetto fosse ancora un po’ troppo lontano – e i soliti cerchi scuri attorno ai suoi occhi non facevano altro che risaltare ancora di più sulla sua pelle cerea.

« Sì, rallegrati pure del mio dolore. Me la pagherai! » Afferrando lo struccante a pochi centimetri da lei, Clarke si ripulì e si diresse verso il bagno, chiudendosi la porta alle spalle.

Jasper la seguì e si appoggiò allo stipite, così come erano soliti fare al liceo quando studiavano fino  all’alba e si preparavano insieme per affrontare l’ennesima assai spassosa giornata scolastica.

« E poi chi diavolo ti ha fatto entrare? » Urlò da sotto il getto gelido della doccia.

Una terza voce rispose al posto dell’amico, una voce della cui esistenza si era quasi dimenticata.

« Io! » Non pensava che Wells fosse ancora a casa, considerando la grande operosità e laboriosità devolute al primo anno di studi di Giurisprudenza.

Wells era il suo fratellastro, nonché migliore amico di infanzia. Tutto era cambiato nel momento in cui suo padre, Thelonious Jaha, era entrato in una gioielleria di lusso e aveva comprato un dispendiosissimo e abbagliantissimo anello di fidanzamento per la madre di Clarke, Abigail Griffin.
No, Abigail Jaha.

La bionda sentì i due ragazzi battersi il cinque e salutarsi, ma non disse nulla. Non è che odiasse Wells, ricordava ancora quando giocavano a fare gli astronauti e fantasticavano su come fosse vivere su una navicella nello spazio, ma tutto era cambiato, lui era diventato suo fratello,  la sua vita era stata trasformata in qualcosa che non credeva le appartenesse più, e allora cos’altro poteva fare?

Non c’era di certo spazio per sentimentalismi o idiozie del genere.

« Ehi, Clarke », la voce del moro la chiamò dall’altro lato della porta, « mio padre ed Abby hanno appena chiamato. A quanto pare dovremo arrangiarci da soli per la cena! »

« Questa sera io e Jasper usciamo! » Fu la prima cosa che le venne in mente. Il solo pensiero di trascorrere più tempo del dovuto con un qualsiasi membro di quella famiglia le faceva accapponare la pelle e rizzare i capelli.

E, di nuovo, non odiava davvero nessuno di loro; Clarke si riteneva geneticamente inabile di provare grandi emozioni – c’era stata una, unica e sola grande emozione nella sua vita, e l’aveva distrutta, sgretolata – si sentiva solamente di troppo, come se fosse un fastidioso posto a tavola in più.

Osservava Wells, Thelonious e sua madre scherzare, ridere, condividere spazi e sentimenti, e si sentiva un’estranea, si sentiva totalmente priva della capacità di provare quegli stessi affetti.

Così, ogni volta che ne aveva la possibilità, ogni volta che aveva l'opportunità di non essere costretta a fingere, se ne andava.

Trascorreva in casa solo il tempo necessario per mangiare o dormire, aggirandosi per i corridoi come un fantasma, come un'ospite inattesa.

Clarke spense il getto della doccia e anche il flusso dei suoi pensieri si dileguò, scivolando via dal suo corpo in un attimo.

« Noi... Usciamo? »

Il tono dubbioso di Jasper la fece imprecare mentalmente, poteva quasi immaginare le sue sopracciglia unite a formare un'unica linea interrogativa e le sue mani stringersi nervosamente.
 
Poi il suo migliore amico parve comprendere e subito si riprese: « Oh, sì, sì, abbiamo una serata fuori. Certo. »

Clarke si strinse nel suo accappatoio e fece sfrigolare i propri capelli contro un asciugamano.

Quando fu abbastanza, si avviò verso la porta e l'aprì di scatto, trovandosi davanti i due ragazzi.
 
« Scusa! » Affermò rivolta verso Wells con una scrollata di spalle, dirigendosi verso la propria camera senza attendere risposta.

« Beh, non c'è problema. Va bene. In ogni caso sarei dovuto tornare in biblioteca. »
 
Tutti e tre fecero finta di non cogliere la delusione nel suo tono di voce.



« Dovresti dargli una possibilità. Insomma, non è come se foste due estranei. Vi conoscete da tutta la vita, avete trascorso la vostra infanzia insieme… »

« Jazz, per favore. » Se Clarke odiava che il suo migliore amico irrompesse in casa sua e la privasse delle uniche ore di sonno di cui riusciva a disporsi, detestava ancora di più il fatto che tentasse in ogni modo di farla riflettere.

Soprattutto quando aveva ragione.

« In fin dei conti non è stata colpa sua, no? Voglio dire, sai bene quanto ci tenga. »

« Sì, lo so, e credimi, non mi fa stare affatto meglio. » Dopo aver fatto capire a Jasper con un'eloquente occhiata di doversi voltare, in poco tempo la bionda si era rivestita, indossando la prima tuta trovata nell’armadio e una vecchia maglietta del gruppo di Decathlon del liceo. Inutile dire che era la prima della scuola.

« Allora perché non smetti di ignorarlo? »

« Io non… non lo sto ignorando. Affatto. » D’improvviso Clarke si sentì estremamente nervosa, perciò fece quello che sapeva fare meglio in quelle occasioni: cominciò a muoversi.

La sua camera non era molto voluminosa, ma era costantemente e continuamente piena di oggetti, di libri e manuali, nonché governata da un innegabile disordine.

Il letto a due piazze torreggiava al centro della stanza, affiancato ai due lati da due piccoli comodini di un nero lucido.

Il colore predominante era il rosso, tuttavia: le lunghe e vistose tende cremisi che spesso ondeggiavano per la brezza prodotta dalla finestra perennemente aperta, i muri color porpora e le lampade scarlatte di svariate dimensioni e forme che proiettavano su di essi ghirigori della stessa tonalità.

Accostata al muro ad ovest vi era un’enorme libreria piena di tutti i volumi che Clarke aveva riletto così tante volte da poter recitare quasi a memoria, mentre ad est si trovava una piccola scrivania su cui era solita lavorare e disegnare.

Tutto in quel locale parlava di lei, delle sue passioni, delle sue più grandi aspirazioni. Il suo profumo aleggiava costantemente senza che lei se ne accorgesse, e ogni angolo sprigionava una strana e inaspettata ospitalità.

C’erano solo una cosa che stonava, un interrogativo che Jasper si era sempre posto entrando in quella stanza: non c’erano foto. Né appese alle pareti, né appoggiate sugli scaffali. Non c’erano ricordi.

« Oh, ragazza mia, non fai altro che evitarlo. E ora cerchi di mascherare l’agitazione che il solo pensiero ti provoca rifacendoti il letto e tenendoti occupata, come d’altronde fai sempre quando tenti di sfuggire a qualcosa di cui non ti va di parlare. »

Clarke si voltò per un attimo solo per incenerirlo con lo sguardo, e questa non fu che l’ennesima conferma della veridicità delle sue parole.

« Va bene, va bene, non vuoi parlarne. Posso cercare di capirlo. Ma non potrai sfuggirgli per sempre, Clarke. »

« Smetti di psicoanalizzarmi, per favore. Ti fa perdere credibilità. »

« Ok, c’è solo un’ultima cosa. »

« Devo sedermi? » La bionda aveva avvertito il tono di serietà con cui aveva parlato, e sapeva anche solo guardandolo che non precludeva a nulla di buono.

« Sai che giorno è oggi? »

E subito capì.

« Jasper, ti prego… »

« Oggi è il quattordici giugno, mia cara. Sai che vuol dire? »

« Non ho assolutamente voglia di parlarti e non starò un momento di più ad ascolt… »

« Mancano esattamente tre mesi all’esame di ammissione per Medicina. »

L'amica lo guardò per qualche momento senza dire assolutamente una parola e parendo un mimo totalmente privo di espressione, poi scandì le parole con tutta la calma di cui disponesse: « Non farò quell'esame. Fine della storia. »

« Pensi che non abbia visto i manuali sulla tua scrivania? Pensi che non sappia che potresti passare ogni singolo esame del primo semestre ad occhi chiusi? Hai già lasciato passare un anno, Clarke. »
 
« Ho detto fine della storia. »

« Stai sprecando tutto il tuo potenziale e il tuo talento per la tua stupida testardaggine. Sì, hai capito bene. Pensi che sia questo che volesse tuo padre? »

Quello fu il culmine.

Jasper sapeva bene fin dove spingersi, sapeva bene quali erano gli argomenti di cui era tacitamente proibito parlare e i confini che non potevano essere superati per nessuna ragione, ma non poteva più starsene con le mani in mano a guardare come quella brillantissima e allo stesso tempo caparbissima mente si autodistruggeva e si perdeva lentamente e inesorabilmente.

« Penso che sia arrivato il momento che tu te ne vada. »

Clarke gli diede le spalle e si avvicinò alla finestra, ben conscia di aver appena messo fine alla loro conversazione.

Percepì con chiarezza i passi del suo migliore amico avvicinarsi con lentezza verso di lei, ma sapeva che non avrebbe fatto nulla.

« A volte quando ami qualcuno il meglio che puoi fare per quella persona è fare la cosa migliore per lei, anche se non vuole, anche se preferisce accontentarsi del mediocre. Non ti lascerò andare a fondo, Clarke. »




 
*




« Salve, signor Blake. Preferisce cominciare dal piano inferiore o da quello superiore? »

Il capo della ditta di traslochi che aveva assunto si era affacciato dal finestrino della sua automobile e gli aveva parlato con tono professionale e totalmente privo di inflessione.

« Preferirei sistemare prima le camere da letto, grazie. È stato un viaggio molto lungo e mia sorella ha bisogno di riposo. »

Bellamy indicò Octavia che, appoggiata con il capo al finestrino del passeggero, dormiva quasi beatamente da almeno un paio d'ore.

« Ma certo, signor Blake. »

Signor Blake. Lo faceva quasi sentire un adulto, essere chiamato in quel modo. Peccato che l’adulto in questione si stesse trasferendo nella Città degli Angeli per una rissa nel suo precedente distretto.




« Ehi, Blake, quand’è che porterai la tua sorellina a fare un giro da queste parti? » Non aveva mai avuto un buon rapporto con i suoi colleghi, ma quelli erano gli esatti commenti che gli facevano perdere la ragione e desiderare di non trovarsi in un distretto di polizia.

Soprattutto perché quegli idioti erano ben consapevoli del fatto che non si sarebbe mai e poi mai permesso di rispondergli a dovere.

« Mia sorella non è affar tuo, Murphy. » Se solo si fosse trovato in un altro luogo, in un altro momento, se solo fosse stato quello di pochi anni prima, probabilmente si sarebbe alzato e l’avrebbe messo a tacere.

Ma lui non era più quella persona; Bellamy Blake ora era un detective dedito al suo lavoro e un bravo cittadino, indifferente alle provocazioni di quelli che lo sapevano come un animale in gabbia.

« Oh, ci credo. Se lo fosse si toglierebbe quell’insopportabile sorrisetto da stronza psicopatica dalla faccia. »

Il moro non fece nemmeno caso alle risate di sottofondo che avevano seguito quella frase, si era semplicemente alzato dalla propria scrivania e aveva raggiunto in poche falcate il gruppetto alle sue spalle.

« Che diavolo hai detto? », Tentava con tutte le forze di non prendere a pugni quella feccia che si ritrovava davanti, «Forse dovrei essere
io a togliere quest’insopportabile sorrisetto dalla tua faccia. »

« Ehi, Murphy, ora sì che sei nei guai! » Urlò una voce indistinta dietro di loro, mentre i due continuavano a fissarsi in cagnesco senza dire una parola.

Bellamy sperò con tutte le forze che quel verme di John chiudesse la fogna che si ritrovava al posto della bocca, perché sarebbe potuta finire davvero molto male.

Tutte le sue speranze crollarono quando lo vide sorridere viscidamente. « Cosa volete che mi faccia? », domandò alla piccola folla, senza però distogliere per un attimo gli occhi dal moro, «Sappiamo tutti che non può permettersi di perdere questo lavoro, altrimenti finirebbe in mezzo a una strada. Chi si occuperebbe poi della piccola Octavia? »

E poi ogni cosa sembrò esplodere: Bellamy si avventò su di lui con tutta la forza che aveva in corpo, ebrio di un’ira che aveva tentato in tutti i modi di sopprimere, di scacciare, ma che aveva sempre fatto parte di lui e aveva determinato i suoi lati più oscuri.

Murphy aveva perso l’equilibrio fin dal primo pugno ed era capitolato a terra con un tonfo secco, mentre il resto dei loro colleghi avevano tentato di separarli, senza però riuscirci. Il maggiore dei Blake pareva inarrestabile, continuava a colpirlo e ad avventarsi su di lui gridandogli contro parole sconnesse, quasi insensate.

Cosa diavolo poteva importargliene se aveva smesso di opporre resistenza? Cosa poteva fregargliene se continuava a scaricare pugni su un corpo privo di conoscenza?

« 
Bellamy Blake, immediatamente nel mio ufficio! » La voce del suo capo, il capitano Diana Sydney, fu sufficiente a farlo gelare sul posto.
 
 
 
 
 

Clarke rimase da sola l’intero pomeriggio.

Avrebbe voluto dirsi che stava semplicemente trascorrendo del tempo in compagnia di se stessa, come spesso era solita fare, come spesso le faceva comodo; avrebbe voluto mentirsi e convincersi del fatto che le parole di Jasper non stessero girando turbinosamente nella sua testa, ma per qualche motivo non ci riuscì.

Sapeva che il suo migliore amico aveva ragione e, ancor peggio, sapeva che non avrebbe comunque affrontato quel dannato test.

Tutto questo non era granché utile e giovevole, specialmente perché non faceva altro che accrescere la sua frustrazione e la rabbia per se stessa e il proprio fallimento.

Se ne stava semplicemente lì, sdraiata sul suo letto ad osservare il soffitto stellato, ornato con quelle che a suo parere erano le sue più soddisfacenti pitture, e non poteva vietare alla propria mente di volare lontano, lì verso quei cieli di tempere, soltanto sognando di avere l’inconsistenza delle nuvole e la diafanità delle stelle.

La voce di Wells che la chiamava dal piano inferiore la fece ripiombare nuovamente nel peso e nella tangibilità del proprio corpo.

« Sto tornando in biblioteca, a dopo! »

Lo salutò con ok gridato forse un po’ troppo forte e poi rotolò sulla pancia, sprofondando il volto fra i guanciali.

Avrebbe dovuto parlare con Jasper e lo avrebbe dovuto fare presto, non aveva alcuna intenzione di prolungare la sgradevole situazione che era venuta a crearsi quel pomeriggio, soprattutto perché sapeva che la colpa era unicamente propria.

Quando il cellulare al suo fianco cominciò a vibrare, Clarke pensò che forse, per una volta, il destino era dalla sua parte.

Guardò con una certa trepidazione il display solo per accorgersi che no, la fortuna non era ancora girata.

Decise, però, di rispondere comunque.

« Ehilà, Monty. »

« Clarke », la salutò l’altro in un tono diverso dal suo solito, « so che non sono affari miei e che probabilmente ti infurierai ancora di più, ma Jasper voleva solamente… Insomma, lo sai… Lui è… »

« Ehi, ehi, ehi, calmo. Non sono arrabbiata, Monty. Non più, perlomeno. So che Jazz vuole solo il mio bene, è solo che è… dura.  »

« Siamo tutti con te, Clarke. Devi saperlo », la bionda sorrise e percepì il ragazzo sospirare, « Ah, ehm, non dire a Jasper che ne abbiamo parlato. Lui non mi ha raccontato niente nei particolari, ma ogni volta che litigate è evidente sul suo viso. »

« Va tutto bene, sarà un segreto fra noi due. A stasera? » Domandò lei con voce incerta.

« A stasera. »

La conferma dell’amico la fece sentire subito meglio. Per quanto Clarke evitasse di parlare e di sfogarsi con chiunque, sapeva bene che l’amicizia di Jasper e Monty era preziosa, e sapeva ancor meglio che, se avesse continuato in quel modo, avrebbe potuto perderla da un momento all’altro.

Si conosceva, era perfettamente cosciente di non essere una persona facile da gestire – chiusa in se stessa e in tutto quello che aveva dovuto affrontare – e dopo dieci anni si chiedeva ancora come potesse avere qualcuno al proprio fianco, come potesse qualcuno credere ancora che ci fosse qualcosa in lei da poter salvare.

La verità era che Clarke Griffin se ne era andata molto tempo prima, e adesso di lei rimaneva semplicemente una figura, una sagoma indistinta, un rude involucro di quella che era stata una ragazza piena di sogni, ideali e aspirazioni.

Una non poco sconosciuta insoddisfazione cominciò ad attanagliarle lo stomaco e a stringerlo in una presa che pareva stritolarlo, mentre perfino respirare iniziava a risultarle difficile; questo era quello che le accadeva nei momenti in cui si permetteva anche per pochi ed effimeri attimi di pensare a tutto quello che era accaduto, a quello che era divenuta e a quello che aveva perso.

Dall’insaziabilità emotiva a una profonda frustrazione il passo era breve, poi era la volta della rabbia per il proprio scontento e la sua inabilità nel sentirsi meglio, e il circolo vizioso continuava finché la giovane non si imponeva di smettere di pensare con qualunque mezzo disponesse.

Non c’era da meravigliarsi, dunque, che il numero delle volte in cui arrivava a casa senza nemmeno ricordarsi come, senza nemmeno ricordare chi diavolo fosse, si trovasse ad essere vagamente superiore alle volte in cui non riusciva a staccarsi dai ragazzi, e non faceva altro che continuare a parlare e parlare e parlare fino a che qualche anima pia non decidesse di riportarla alla sua abitazione, di salutarla con un gesto pressappoco affettuoso e di assicurarsi di non incrociarla mai più per strada, nemmeno per sbaglio.

Insomma, tra il perdere conoscenza per uso eccessivo di alcol e l’affidarsi a qualsiasi individuo dimostrasse anche il minimo accenno di interesse per la sua persona, Clarke era solita combattere il proprio malessere nei peggiori dei modi.

Era per questo motivo che, ogni qualvolta poteva, non si allontanava mai da Jasper e Monty, perché sapeva che si sarebbero presi cura di lei e non l’avrebbero mai illusa, anche se lei non era poi molto certa di poter anche solo lontanamente meritare un simile trattamento.

Beh, doveva proprio finire di cercare un modo per distrarsi, altrimenti sarebbe finita almeno tre volte peggio di com’era iniziata.

Notando che ormai era giunta l’ora di cena – aveva davvero, davvero trascorso l’intero pomeriggio a rimuginare su tutte quelle che ormai non poteva catalogare in altro modo se non incredibili ottusità? – si alzò dal letto e si diresse al piano inferiore, verso la cucina.

La casa in cui lei, sua madre, il suo nuovo marito e Wells vivevano non era molto grande, ma poteva essere definita ugualmente una gran bella casa, arredata secondo il gusto di Abby e ordinata secondo il rigore di Thelonious, senza però mancare del giusto equilibrio fra l’old style e il new age.

O almeno quelle erano le stronzate che amavano rifilare le riviste di arredamento per interni a cui sua madre era abbonata.

Al piano superiore si trovavano le tre camere da letto e due bagni, uno per Clarke e uno per il resto della famiglia, mentre al livello meno elevato erano ben distribuite la cucina, la sala da pranzo e un piccolo studio in cui era solito lavorare Jaha Senior.

Clarke non era una ragazza che amava mangiare, non andava particolarmente pazza né per i dolci né per i grandi esperimenti di cucina che spesso il suo patrigno programmava, sperando forse così di coinvolgerla in almeno una delle attività famigliari, perciò non ebbe grandi difficoltà a prepararsi un toast senza nemmeno apparecchiare la tavola.

Quando salì nuovamente a prepararsi, controllò per l’ennesima volta il proprio telefono cellulare e notò un messaggio arrivato da poco. Era di Jasper.

Mi dispiace, non era mia intenzione attaccarti. Ma se pensi che ti lascerò andare così facilmente, ti sbagli di grosso. A dopo.


Clarke non poté impedirsi di sorridere.


Sei un idiota. Ma non potrei farcela senza di te.
 
La bionda lasciò cadere il telefono sul letto senza preoccuparsi di dove finisse, poi si avviò verso il proprio armadio.

Non era mai stata una ragazza appassionata alla moda; certo, in precedenza si era interessata al modo in cui appariva, ai vestiti che comprava e al trucco che portava.

Ora, invece, aveva semplicemente smesso di preoccuparsi di tutte quelle che riteneva fossero stupide convenzioni, e per le quali non aveva la minima voglia di perdere tempo.

Era per questo motivo che il numero di felpe nel suo guardaroba era decisamente aumentato, mentre la maggior parte dei suoi vestiti e di quelle carinissime gonne che aveva comprato insieme a sua madre anni prima erano finiti sul fondo dei cassetti che non apriva praticamente mai. La comodità e l’indifferenza erano divenute, nel suo mondo, le componenti principali per un’equazione di successo.

Per quella serata – che sarebbe con certezza stata uguale alle altre milioni di serate passate insieme ai suoi amici di sempre – aveva deciso di indossare un paio di jeans e una canotta verde scuro, afferrando una felpa grigia e legandosela alla vita.

Si guardò allo specchio solo il minimo indispensabile, spazzolandosi i capelli con passate veloci e dirigendosi verso il proprio bagno per lavarsi di nuovo i denti.

Clarke era una ragazza bizzarra, piena di problemi e di tutte le insicurezze della giovinezza a cui, però, andavano aggiunti punti bonus: c’erano delle stranezze, in lei, così buffe da poter appartenere a quelle di un personaggio di un cartone animato. Ad esempio, la sua completa e totale fissazione per l’igiene personale, che spesso raggiungeva livelli a dir poco maniacali.

Dando un’occhiata rapida all’orologio da polso che suo padre le aveva regalato tempo prima e che non toglieva categoricamente mai, decise di essere pronta e di dover assolutamente uscire da quella casa.

Percorse le scale in fretta, afferrando solamente il telefonino e il proprio mazzo di chiavi, e poi si lasciò alle spalle quello che per altri poteva essere un rifugio, ma che ai suoi occhi appariva non più di una gabbia d’oro.

All’esterno della sua abitazione c’era un piccolo portico, al lato destro occupato da una vecchia sedia a dondolo, mentre al sinistro da un tavolo da pranzo e quattro sedie abbinate.

Quella era forse la parte della casa che preferiva di più, forse perché era la più pacifica e silenziosa, forse perché era l’unico luogo in cui potesse leggere tranquillamente e passare le proprie giornate estive in un’apprezzata solitudine.

Subito la sua attenzione fu catturata da un paio di furgoni fermi davanti al vialetto della Signora Manning, la vecchia proprietaria di quella residenza; Clarke aveva trascorso da lei qualche pomeriggio, avevano bevuto insieme del thé e lei le aveva raccontato degli anni difficili della sua gioventù, quando la Grande Guerra le aveva impedito di godere appieno dei suoi primi amori e delle sue prime esperienze.

Era un’anziana davvero piena di storie da raccontare e condividere, e la giovane aveva sinceramente sofferto quando era venuta a sapere della sua scomparsa.

A quanto pareva, una nuova famiglia si stava ora trasferendo nella villetta accanto alla sua. Un’altra persona della sua vita se ne era andata e, come se niente fosse successo, come se non fosse mai esistita, qualcun altro stava già prendendo il suo posto.

La giovane Griffin era sempre stata al tempo stesso affascinata e terrorizzata dalla prospettiva della vita e della sua perdita, di quanto poi fosse facile essere inevitabilmente sostituiti, e quello era solo l’ennesimo esempio di come tutto continuasse a scorrere, a fluttuare e defluire senza sosta, senza possibilità di resistenza.

Rimase a fissare i camioncini di trasloco per qualche altro momento, tentando di immaginare chi fossero i suoi nuovi vicini, poi si limitò a una scrollata di spalle e scese i pochi scalini della veranda.














 

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Capitolo 3
*** II ***


Un grazie speciale a tutti coloro che hanno recensito, inserito tra le seguite/ricordate/preferite e anche a chi ha solo dato un'occhiata. 

Buona lettura!






 
 
Is It Any Wonder?









Bellamy si svegliò di soprassalto nella sua nuova camera da letto, il respiro accelerato e alcune ciocche di capelli davanti agli occhi.

Gli occorsero alcuni secondi per riconoscere il luogo in cui si trovava, colto da un'improvvisa dimenticanza della sua nuova abitazione.

Gli effetti residui dell'incubo che aveva appena avuto erano segnali a cui, con il tempo, aveva imparato a fare l'abitudine.

Percepì con fastidio le lenzuola pregne di sudore e aggrovigliate attorno alle sue gambe, quindi se le scansò di dosso con un'unica mossa e si passò una mano sul volto per cercare di eliminare ogni traccia di sonno.

La tenue luce solare entrava dalle finestre ancora prive di tende, e, osservando con attenzione fuori, immaginò che doveva essere appena l'alba, o lo sarebbe stata presto.

Era ormai una routine, quella di svegliarsi alle prime luci del mattino, e ciò era prevalentemente dovuto agli incubi che lo avevano da sempre accompagnato e che sempre avevano turbato il suo sonno.

Con il tempo aveva imparato a riconoscerli e a combatterli, ma gli rimaneva ugualmente difficile farseli scivolare addosso e fingere che fossero solamente il prodotto della sua mente tormentata.

Perché sarebbe stato almeno piacevole realizzare, una volta sveglio, che quei brutti sogni non erano la realtà, che erano soltanto paure inconsce ed infondate e che sarebbero svaniti, ma non era così.

Sua madre era davvero morta e le immagini di quell'ultimo giorno l'avrebbero angosciato eternamente, senza la minima possibilità di essere scacciati e buttati in un angolo dimenticato della sua mente.

Non si era mai ripreso del tutto – in fondo, com'era possibile riprendersi da una perdita simile? – e non era mai stato in grado di allontanare quello strano sentimento di inettitudine.

Bellamy e Octavia avevano saputo della malattia, lo avevano scoperto quasi casualmente – Aurora Blake era una donna forte e aveva tentato in qualsiasi modo di evitare ai propri figli la sofferenza dell'impotenza – e inizialmente era stato totalmente insostenibile, quasi surreale.

Avendo vissuto tutta la vita senza una figura paterna, avevano sviluppato fin da piccoli un attaccamento quasi morboso verso la donna che era stata in grado di crescerli del tutto da sola, perciò quando la realtà gli si era rivelata nei suoi più crudi aspetti, tutto era precipitato nel caos.

Il maggiore dei Blake ricordava ancora alla perfezione il giorno in cui avevano capito, il momento in cui niente poteva più essere celato, quando ormai la madre aveva difficoltà perfino ad alzarsi dal letto.

Il fatto di poter perdere il loro unico punto di riferimento da un giorno all'altro era apparso pazzesco, assurdamente illogico.

La malattia della madre aveva portato a galla i loro lati più deboli e fragili con ostinatezza e insistenza, mettendo ognuno dei fratelli Blake a dura prova.

Prima c'era stata la chemioterapia, un trattamento lungo e sfiancante, che col tempo aveva portato via la lunga chioma materna con cui Octavia amava giocare da bambina.

Entrambi sapevano quanto stesse soffrendo la madre e avevano cercato di essere forti, di non aggravare la sua situazione facendole vedere quanto li stesse dilaniando l'idea di vederla deperire giorno dopo giorno senza poter fare assolutamente nulla per impedirlo, ma le cose avevano cominciato a sgretolarsi davanti ai loro occhi e il dolore si era addensato in profondità, in una parte di loro che non avevano la forza di controllare.

Poi era stata la volta della radio, un processo, se possibile, ancor più doloroso e invasivo, che aveva portato via ad Aurora praticamente qualsiasi capacità motoria.

Bellamy aveva reagito al dolore con la rabbia; la rabbia di non poter fare nulla per aiutare la persona più importante della sua vita e di vederla indebolirsi sempre di più, la collera di non essere riuscito a renderla orgogliosa di lui e di doversi ritrovare in una corsa contro il tempo per farlo.

Tutto gli appariva semplicemente impossibile: la donna che aveva visto lottare con le unghie e i denti per assicurare ai propri figli un futuro dignitoso, ora costretta a letto, faticando persino a mangiare.

Come poteva essere possibile, diamine, che sua madre, colei che lo aveva cresciuto con rigore e disciplina, si stesse dissolvendo con lentezza e inevitabilità?

Avrebbe voluto fare qualcosa. Se ci fosse stato un modo, avrebbe fatto qualsiasi cosa per risparmiarle tutte quelle sofferenze.

Se per farla stare meglio avesse dovuto donarle la propria vita, lo avrebbe fatto senza esitare, senza nemmeno avere il tempo d'essere incerto.

E invece, in quel momento, nemmeno il sacrificio della propria vita – la prova peggiore cui qualsiasi essere umano potesse sottoporsi – sarebbe potuto servire a qualcosa.

Era quella, la parte peggiore: l'impotenza.

Non c'era assolutamente niente che avrebbe potuto fare per sistemare le cose, e per questo era costretto a osservare passivamente l'abbandono di sua madre.

Octavia, invece, aveva reagito nel modo esattamente opposto: si era lasciata andare.

Non aveva nemmeno tentato di lottare: aveva smesso di parlare, si era ermeticamente chiusa in se stessa e aveva impedito a qualsiasi altro individuo di avvicinarsi.

Se Bellamy trascorreva ogni singola ora della propria giornata con Aurora – giocando a dama, a scacchi, leggendole i classici della letteratura inglese e guardando film – la sorella faceva qualsiasi cosa per non dover trascorrere del tempo con lei.

Inizialmente il ragazzo era andato su tutte le furie (“ Spiegami, Octavia, qual è il fottuto motivo per cui non riesci a starle vicina? È nostra madre, quella su quel letto!”), ma poi aveva compreso che quello era semplicemente il suo modo di combattere il dolore.

Aveva capito che per sua sorella quella situazione non era sostenibile, che non riusciva nemmeno a guardare la propria madre negli occhi per l'acuta sofferenza che il solo pensiero di perderla le procurava.

Forse lei aveva ingenuamente sperato che, se avesse finto che nulla di tutto quello stava davvero accadendo, sarebbe davvero scomparso.

O forse era semplicemente la comprensibile reazione di una tredicenne messa davanti a una forza più grande di lei, a un doloroso sentimento che l'aveva totalmente sopraffatta.

Aurora Blake se ne era andata in una giornata di sole, la prima dopo una settimana di piogge e diluvi, distesa nel proprio letto e circondata dai propri figli, le uniche persone che avessero mai contato nella sua vita.

Quello era stato il primo e ultimo giorno in cui Octavia aveva visto suo fratello piangere.

Da quel momento in poi, il rapporto fra i due fratelli era divenuto ancor più profondo e ineluttabile.

L'uno aveva fatto dell'altra la propria ancora, il motivo per il quale continuare a lottare.

“ Mia sorella, mia responsabilità ”, la promessa che aveva fatto a sua madre il giorno in cui la sua secondogenita era nata, era divenuto il giuramento cui Bellamy aveva dedicato ogni suo giorno.

Avrebbe protetto quella meravigliosa creatura, il sangue del suo sangue, finché il suo cuore non avesse smesso di battere.

Inutile dire che non sempre tutto era andato per il meglio: d'altronde, il primogenito aveva appena diciotto anni e Octavia solamente tredici.

Era stato durante il loro primo vero litigio che il ragazzo aveva capito quanto in realtà gravasse sulle sue spalle: avrebbe dovuto trovare un lavoro, assicurarsi che sua sorella continuasse a studiare e che non le mancasse niente, avrebbe dovuto pagare le bollette e preparare pranzi e accudire quella piccola donna costretta a crescere troppo in fretta. Avrebbe dovuto rinunciare a tutta la sua vita: amici, feste del sabato sera, corse in macchina e sveltine nei fast food all'ora di cena.

Avendo fatto un bilancio della sua vita, il giovane Blake aveva compreso a fondo quanto la sua vita fosse cambiata senza nemmeno rendersene conto; nel giro di un anno aveva perso sua madre e aveva dovuto smettere di essere il ragazzino che usciva ogni sera, aveva dovuto abbandonare anche il minimo sogno di frequentare l'università ed era divenuto responsabile di Octavia – e questo non implicava solo il lato legale.

Le cose erano migliorate quando la sorella di sua madre, Atys, gli aveva inviato una lettera in cui si scusava per la sua assenza prolungata e gli offriva di trasferirsi da lei.

Bellamy aveva conosciuto Atys il giorno del suo quindicesimo compleanno: si era presentata in un vestitino fiorato e un paio di zeppe vertiginose, grandi occhiali da sole e sigaretta alla mano sinistra come una diva degli anni cinquanta.

Aurora era stata sorpresa di vedere la sua sorellina dopo dieci anni di silenzio, e in seguito aveva tentato di spiegare al suo primogenito il rapporto conflittuale eppure innegabilmente eterno che le legava.

Sua zia aveva fatto avanti e indietro nella sua vita fin quando sua madre non era morta: dopo due anni di assenza – una cartolina il giorno dei loro compleanni e una a Natale – era apparsa al funerale della sorella come dal nulla, in un lungo vestito nero, i capelli raccolti dietro la nuca e un grande cappello Pamela a coprirle gli occhi.

Aveva abbracciato lui ed Octavia senza dire una parola ed era stata l'ultima a lasciare la chiesa, l'ultima a sfiorare con i polpastrelli il legno duro della bara.

Bellamy l'aveva osservata da lontano, seduto su una delle panchine fredde del cimitero per quello che gli era parso un lungo tempo: una trentenne apparentemente senza il minimo senso di responsabilità o attaccamento emotivo, una giovane donna evidentemente piena di problemi e questioni in sospeso caduta in ginocchio davanti ad una stupida lastra di marmo che portava inciso il nome di sua sorella.

Da quel giorno non l'aveva più vista, né aveva avuto suo notizie. Esclusa quella lettera, ovvio.

Il maggiore dei Blake aveva attentamente considerato l'opzione di affidarsi ad Atys e trasferirsi da lei: l'ultima cosa che desiderava era illudere sua sorella quattordicenne con una parvenza di stabilità, ma un appoggio gli avrebbe fatto davvero comodo, e non solo economicamente parlando.

Avrebbe voluto dire di potercela fare da solo, di riuscire a provvedere per loro due senza l’aiuto di nessuno, ma sapeva che sarebbe stata solo una bugia.

Così i fratelli Blake avevano riempito due valige a testa, avevano lasciato il loro vecchio appartamento a Portland ed erano andati a vivere dall’unica parente di cui conoscessero l’esistenza in un piccolo bilocale a Cudahy,
California.

Una volta che le cose si erano stabilizzate e non era più stato costretto a badare a sua sorella e a cercare di mantenerli vivi con le sue sole forze, Bellamy aveva avuto per la prima volta una reale occasione di pensare a quello che sarebbe voluto diventare.

Avendo finalmente la possibilità di dedicarsi anima e corpo a quello per cui aveva studiato durante tutta la sua adolescenza, si arruolò all'Accademia di Polizia a soli diciannove anni, un passato pesante come un macigno alle spalle e la voglia di essere qualcuno di migliore, di poter rendere fiera di lui sua madre – dovunque lei fosse.

All’inizio era stato dannatamente difficile: i continui test sanitari, le visite mediche per accertare la sua prontezza fisica, le assidue prove sulle sue facoltà di comunicazione, di giudizio, la preparazione psicologica, gli anni di gavetta e di dure verifiche e accertamenti, ma poi la soddisfazione era arrivata e tutti gli sforzi e i sacrifici avevano contribuito a renderlo l’uomo che stava pian piano scoprendo di voler essere.

Fu uno dei più giovani e dei più carismatici del suo corso a laurearsi, salendo nella scala gerarchica in pochi anni, guadagnandosi il rispetto e l'ammirazione dei suoi superiori.

A ventiquattro anni – un tempo incredibilmente e paurosamente precoce – era divenuto agente per la più importante agenzia federale antidroga del Paese, e aveva realizzato la sua più grande aspirazione.

Aveva ancora tante cose da realizzare, come elevarsi di grado negli incarichi, portare a termine ogni missione che gli veniva proposta, continuare ad adoperarsi per salire di livello, ma la sua modesta posizione gli aveva fornito la forza per iniziare, per poter davvero cominciare a realizzare il suo sogno.

Tutto era proceduto con tranquillità finché quel bastardo di John Murphy non aveva deciso di mandare a puttane tutto il suo impegno nel tentare di tenere sotto controllo la sua indole naturalmente suscettibile e ostile, e Bellamy era stato cacciato dal suo dipartimento di polizia e sospeso a data ancora da destinarsi.

A quel punto la rabbia aveva nuovamente preso il controllo e lo aveva trascinato in un baratro con cui aveva dovuto aver a che fare durante l’adolescenza, quando la frustrazione per aver perso sua madre lo aveva reso insopportabilmente chiuso,  terribilmente ostile verso chiunque tentasse un approccio.

L'unica a riuscire ad insinuarsi attraverso quella scorza da duro era stata sua sorella, il centro del suo mondo e il suo unico intereresse, anche se il loro rapporto non era stato semplice; ad ogni litigio corrispondeva una crepa, una piccola disfunzione nel loro legame, e col tempo se ne erano create così tante da minare perfino le loro fondamenta.

Con un sospiro Bellamy tornò alla realtà, si alzò dal letto e si avviò verso la propria valigia, tirando fuori un paio di pantaloncini e una vecchia maglietta.

Era sempre stata sua abitudine uscire a correre non appena sveglio, e ormai rispettarla era diventata una prerogativa quasi sacra.

Il nuovo appartamento in cui si era trasferito con Octavia non era molto grande, ma la distribuzione delle camere su un unico piano era decisamente la miglior opzione, considerato il fatto che fossero solamente in due.

La cucina doveva essere ancora sistemata del tutto, ma Bellamy fu ugualmente in grado di prepararsi una tazza di caffè, l'unico prodotto commestibile già presente in casa.

Il maggiore dei Blake aveva da sempre sviluppato un ossessivo attaccamento alla caffeina, forse dovuto ai turni di notte a lavoro o magari ai suoi prolungati problemi di sonno, perciò non era davvero una sorpresa scoprire che fosse stata quella la prima cosa di cui aveva voluto disporsi.

Dopo aver sorseggiato con calma la bevanda calda, afferrò il nuovo mazzo di chiavi ed uscì, pronto a sciogliere i nervi.

Non aveva ancora fatto l’abitudine a quella sistemazione – in fondo erano arrivati da solamente quattro giorni – ma doveva ammettere che quel quartiere era davvero molto più di quanto si sarebbe aspettato dieci anni prima.

Sua madre era stata una gran lavoratrice, perennemente assente da casa per straordinari o doppi turni, ma non avrebbe mai potuto garantire ai propri figli una casa così, in una zona così.

Guardandosi alla sinistra, Bellamy osservò l’abitazione che poteva vedere dalla finestra di camera sua: era sicuramente suddivisa in due livelli, giardino anteriore e sul retro, una Ford Focus del 2011 parcheggiata nel vialetto e per certo un’altra utilitaria nel garage, un portico ben curato, infissi bianco lucido, vetri perfettamente puliti, cassetta della posta decorata come quella di un’inverosimile pellicola degli anni settanta sulle medie famiglie americane.

Tutto di quella casa gridava perfezione, vita agiata e tante, tante banconote.
D’altronde il moro lavorava all’antidroga, era in grado riconoscere un gran circolo di denaro quando ne vedeva uno, anche se sapeva bene che non era quello il caso.

Aveva passato quasi ogni giorno dal suo arrivo ad osservare con estrema accuratezza ognuno dei suoi vicini, e ovviamente aveva cominciato da quelli della porta accanto: uomo nero sulla cinquantina, donna bianca pressoché della stessa età e figlio più o meno ventenne, quasi sempre assente da casa probabilmente per studiare – usciva sempre con libri e portatile.

Quella era la classica famiglia essenzialmente impeccabile: padre e madre con degli ottimi impieghi quasi sicuramente statali, figlio ideale, studioso e rispettoso delle regole famigliari e delle leggi.

Nei pochi secondi che si era concesso per osservare dal proprio vialetto quel castello fiabesco, dalla porta principale era uscita la donna e moglie sopracitata; indossava pantaloni neri e una giacca elegante di qualche tonalità più chiara, i capelli tirati indietro in una treccia ordinata.

Quando si voltò, lo vide e un sorriso cordiale fece capolino sul suo viso. Si avvicinò lentamente, e lo stesso fece Bellamy.

« Buongiorno! » Aveva una voce delicata ma al tempo stesso forte, composta. Gli porse la mano destra e il ragazzo la strinse con vigore, ma senza esagerare.

« Salve. »

« Io sono Abigail Jaha. Puoi chiamarmi Abby. Tu devi essere il nuovo vicino. » Disse indicando la sua nuova casa e sorridendogli amichevolmente.

« Bellamy Blake. Sì, io e mia sorella ci siamo trasferiti da qualche giorno. »

Avrebbe preferito evitare di sembrare uno sbruffone e un arrogante, ma non poté impedirsi di rivolgere uno sguardo corrucciato alla reggia maestosa in cui viveva quella donna. A lei non sfuggì.

« Perché… Perché tu e tua sorella non passate per un brunch a casa nostra? Domani è domenica, di solito ci piace organizzarne uno e passare un po’ di tempo in compagnia. Ci farebbe piacere accogliervi nel vicinato. »

Continuava a sorridere a parlargli con quello che sembrava sincero interesse, quindi, per quanto volesse evitare qualsiasi coinvolgimento con degli sconosciuti, Bellamy non riuscì proprio a rifiutare.

« La ringrazio dell’invito, Signora Jaha. » Il moro si sforzò con tutte le sue energie di sorridere, ma si rese conto che probabilmente il risultato era stata una smorfia appena accennata.

« Non ringraziarmi, Bellamy, è un piacere. Ci vediamo domani a mezzogiorno. »

La donna lo osservò per un altro momento e poi si diresse verso l’automobile parcheggiata nel proprio cortile, mentre l’altro si voltò nella direzione opposta e cominciò a correre.
 
 
 *



« Indovina un po’ chi andrà stasera al The 100 per una serata di sano e puro divertimento senza toccare il minimo goccio di alcol? »

Il tono retorico di Jasper fu sufficiente perché Clarke sollevasse la testa dal materasso e lo osservasse con espressione interrogativa.

« Non ne ho proprio la minima idea. » Rispose lei sarcasticamente, mettendosi a sedere e prendendo la fetta di pizza che il ragazzo le stava porgendo. Jasper si sedette davanti a lei e addentò il tralcio.

« Sono quattro giorni che praticamente vivi in casa mia. Quando ufficializzeremo la cosa? »

La bionda scoppiò a ridere, « Smettila! », e dopo poco aggiunse in tono più serio:  « Sai che non voglio tornare da me. »

« Lo so, ma dovrai affrontarli, prima o poi. Sono passati tanti anni, dovresti accettare la felicità di tua madre. »

Nessuno dei due voleva ricadere in un litigio che entrambi sapevano non avrebbe portato a niente, quindi Jasper aggiunse subito dopo: « E comunque stanotte ho già un altro ospite che richiede le mie attenzioni. »

Clarke lo guardò seria per qualche istante, poi non poté trattenersi dal sorridere.

« Monty? » Ipotizzò con un gesto del capo.

« Monty. » Confermò lui annuendo.

« Beh, questo vorrà dire che sarò costretta ad andarmene, ma sappi che non finisce qui! » Lo minacciò giocosamente con l’indice prima di alzarsi e dirigersi in cucina.
 
 

 
*



« Quindi », Clarke urlò nell’orecchio di Jasper per farsi sentire attraverso la musica altissima che faceva vibrare le pareti del locale, « questo dovrebbe essere divertente? »

Il suo migliore amico posò una mano sul suo avambraccio e si avvicinò per farsi sentire: « Ehi, pignola dei miei stivali, balla e lasciati andare! »

Detto questo, la trascinò sulla pista dove i loro amici si stavano semplicemente scatenando. Monty si muoveva in modo piuttosto scoordinato ma altrettanto spensierato insieme a Monroe, mentre Miller se ne stava in disparte con Roma, probabilmente cercando di risolvere il loro ennesimo litigio.

Intorno a lei tutti si divertivano e sorridevano e sembravano decisamente passare una bella serata, perciò Clarke fece un respiro profondo e cominciò a muoversi al ritmo incalzante e frenetico della musica; le piaceva l’idea di chiudere gli occhi e abbandonarsi a movimenti casuali dettati semplicemente da ciò che la circondava, le piaceva tentare di dimenticare ogni pensiero muovendo il proprio corpo e lasciando che ogni preoccupazione le scivolasse addosso.

Quando Jasper le afferrò freneticamente una mano, la giovane Griffin fu costretta a ritornare alla realtà e ad ascoltarlo.

« E quella chi diavolo è? » Con un gesto della mano le indicò l’entrata del locale e Clarke si voltò immediatamente.

Una ragazza che doveva avere più o meno la loro età se ne stava in piedi vicino al bancone e si guardava intorno con aria piuttosto sperduta, sebbene non sembrasse aver bisogno di aiuto.

« Come pensi che possa saperlo? » Gli urlò lei di rimando, facendo saltare lo sguardo dall’amico alla nuova arrivata.

« Perché non vai a parlarle? »

« Sei forse impazzita? »

La giovane lo guardò per un attimo con espressione stralunata e non ebbe bisogno di domandargli il senso di quello che aveva appena detto, perché lui l’anticipò: « Non sono molto interessato. »

In effetti se ne era accorta; Jasper non era mai stato il classico tipo che rimorchiava ragazze a palate e non aveva l’atteggiamento da duro, era solo un ragazzo pieno di senso dell’umorismo e affetto da un’insicurezza quasi cronica che cercava di dissimulare e nascondere dietro battute e barzellette.

« L’ho notato! Continuo a pensare che dovresti andare a conoscerla, sembra una bellissima ragazza. »

« E io continuo a pensare che dovresti smetterla! » Le sue sopracciglia si alzarono con fare eloquente e Clarke non fu in grado di trattenere un sorriso.

« Perché no? »

« Perché penso ad un’ altra! » Il ragazzo gridò più forte di quanto avesse fatto in precedenza, quasi superando il livello della musica. L’amica poteva vedere come stesse respirando in modo quasi frenetico, gli occhi spalancati e le mani sollevate in aria.

Lo guardò sorpresa per un attimo, sbattendo più volte le ciglia, ma quando si riprese lui aveva già liquidato la cosa con un gesto della mano e si stava allontanando, scomparendo tra la folla.

Le luci soffuse e i fari multicolori che venivano puntati a tratti sulla pista non le resero affatto facile l’impresa di individuarlo, ma prima che potesse tentare di seguirlo Monty la stava trascinando per un braccio verso la direzione esattamente opposta.

« Andiamo, Griffin, balla con noi! »
 
 
 
*



Erano quasi le due del mattino quando Clarke decise di lasciare il The 100 e tornare a casa.

Da quando, un'ora prima, aveva avuto quella sorta di discussione con Jasper – non che a lei paresse un litigio, non sapeva nemmeno cosa aveva detto di male per farlo infuriare così tanto – non l’aveva più visto, e  la serata per lei si era conclusa; aveva salutato i suoi amici, aveva ripreso la felpa nera dal guardaroba e si era diretta verso casa sua.

Il club non era lontano, perciò decise di camminare un po’ per schiarirsi le idee e respirare aria fresca.

Aveva cominciato a frequentare i locali a diciassette anni, quando ogni motivazione era scomparsa dalla sua vita ed era sfumata via, lasciandola con nient’altro se non un grande vuoto da colmare.

Erroneamente aveva pensato che fosse quella la soluzione giusta, abbandonare ogni sforzo di ricerca della verità e ogni tentativo di capire qualcosa di quello che le era accaduto, e alla fine tutto quello non aveva fatto altro che svuotarla da ogni coinvolgimento con ciò che la circondava.

I suoi pensieri volarono nuovamente a quello che era successo poco prima con il suo migliore amico. Non era mai stata sua intenzione quella di chiudersi in se stessa e lasciare tutti fuori, separare se stessa da loro attraverso un muro invisibile ma impenetrabile e insormontabile.

Tra lei e chi le stava vicino ci sarebbe stato sempre un blocco, uno scalino in più troppo alto, un ostacolo che i suoi cari non avrebbero mai potuto valicare.

Era come se non potesse impedirsi di ferire le persone che amava di più, come se fossero proprio loro quelle su cui fosse più facile avventarsi.

Più tentava di comportarsi giustamente, di non lasciarsi troppo andare, di rimanere la Clarke di sempre –  quella su cui tutti si erano creati precise e ragionate aspettative –  più ogni suo rapporto con gli altri pareva sgretolarsi giorno dopo giorno.

Quasi senza nemmeno accorgersene, arrivò davanti al vialetto della propria casa. Stava per avviarsi verso il
portico quando avvertì in lontananza musica e schiamazzi che parevano avvicinarsi a gran velocità.

Qualche secondo dopo sgommarono per la strada un SUV e una vecchia automobile sulle cui fiancate laterali passava poco inosservata la sigla Grounders.

Sapeva bene di chi si trattava: quello era il gruppo di Lincoln, un ragazzo di qualche anno più grande con cui spesso si era ritrovata in brutte situazioni.

Ad esempio, come quella volta in cui il suo gruppetto di bulli si era accanito su Jasper definendolo il buffone della scuola; non appena era venuta a sapere di quello che era accaduto, una Clarke sedicenne si era diretta al loro solito luogo di ritrovo, aveva preso Lincoln per il braccio e l’aveva trascinato lontano dagli altri, affermando di dover discutere di alcune questioni.

Da quel giorno, con grande stupore del ragazzo in questione, nessuno aveva più dato fastidio al giovane Jordan.

Lincoln era il classico sbruffone montato convinto di poter ottenere ogni cosa desiderasse grazie al suo bell'aspetto e all'effetto che faceva su qualsiasi persona lo circondasse: ammaliante per le ragazze, minatorio per i ragazzi.

Inutile dire che il suo appeal non aveva di certo funzionato con lei, e per questo si era spesso ritrovata nel bel mezzo di circostanze che non avrebbe saputo definire in altro modo se non piuttosto spiacevoli.

Quando vide scendere dal SUV la ragazza nuova, quasi fu tentata di prenderla per un braccio e allontanarla con la forza da quegli ignoranti eremiti.

La vecchia Clarke lo avrebbe fatto.

La nuova Clarke, quella insofferente e priva di forze, si limitò ad un’accennata scrollata di spalle e osservò la giovane che salutava da lontano le auto che se ne andavano in fretta e furia. La mora le gettò un’occhiata che non riuscì ad identificare, poi la giovane Griffin voltò il busto per entrare in casa sua.

O almeno era quello che avrebbe fatto se la luce del portico della vecchia casa della Signora Manning non si fosse accesa e se dalla porta principale non si fosse precipitato fuori un ragazzo che doveva avere qualche anno in più di lei e che non pareva affatto amichevole.

« Ma che diavolo ti prende, si può sapere? »

La sua voce era potente e profonda, in un certo senso perfino intimidatoria, e la bionda non poté fare a meno di osservarlo con espressione corrucciata.

« Siamo qui da nemmeno una settimana e te ne vai già in giro da sola alle due del mattino? Dì un po’, sei forse impazzita? »

Il tono che stava usando non piaceva per niente a Clarke che, rimasta in disparte vicino al proprio portico, aveva assistito in silenzio alla scena che si era appena svolta.

Senza nemmeno accorgersene, senza nemmeno avere il tempo di elaborare la possibilità di intervenire, parlò: « Ehi, calma, lei stava con me. »

I due si voltarono simultaneamente verso la sua direzione, entrambi con la faccia di chi viene colto in flagrante con le mani nel barattolo di biscotti, e per un attimo la giovane si morse la lingua e si maledisse per essersi intromessa.

La ragazza nuova le lanciò una sbirciata incerta, sicuramente sorpresa del fatto che quella sconosciuta l’avesse coperta, ma non fece nemmeno in tempo a dire una parola, perché subito l'altro si affrettò a rispondere: « Saresti? »

L'ostilità nella sua voce e nella sua postura erano totalmente evidenti, e non sembrava nemmeno voler tentare di nasconderla.

Anche da quella distanza, Clarke poteva vedere i muscoli tesi del collo e delle spalle attraverso la T-shirt che indossava.

I due si guardarono in cagnesco da un cortile all’altro per alcuni secondi, il silenzio della notte che li avvolgeva e non gli permetteva di distinguere alla perfezione le figure attorno a loro illuminate solo dalla luce dei lampioni.

« La vostra nuova vicina di casa. » Rispose lei con indifferenza, abbassandosi il cappuccio della felpa nera e indicando la propria abitazione.

« È vero? » Domandò il moro rivolto alla giovane, che nel frattempo si era lentamente avvicinata all'entrata della casa.

Lei non parlò, si limitò ad annuire e a gettare un'occhiata alla ragazza bionda che li stava ancora fissando insospettita.

Belllamy percorse brevemente la distanza che li separava e prese la mano di Octavia, stringendola a sé senza però abbandonare l'espressione seria e contrita.

« Non dovresti far preoccupare così il tuo ragazzo. » Affermò poi Clarke, a cui non era sfuggito l'intenso scambio fra i due.

La giovane dai capelli castani guardò prima lei, poi Bellamy e le loro dita intrecciate, tentando con tutte le sue forze di trattenere una risata.

« Lui è qualcosa di peggiore del mio ragazzo », parlò per la prima volta con voce ferma e determinata, sollevando le sopracciglia, e dopo aver fatto una piccola pausa piuttosto teatrale, continuò: « È mio fratello. »

Il maggiore dei Blake spostò lo sguardo che aveva tenuto fisso sulla bionda verso sua sorella, quindi cominciò a camminare nuovamente verso la veranda, trascinando la minore dei Blake con sé, e in un attimo chiuse la porta alle loro spalle.

Ah, quello sì che sarebbe stato un rapporto di vicinato davvero delizioso.








 


Curiosità:

Atys è un nome di origine romana, da cui deriva la gens Atia, alla quale apparteneva Azia minore, sorella della madre di (Ottaviano) Augusto e Ottavia.













 

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Capitolo 4
*** III ***


Come al solito ringrazio tutti coloro che si sono fermati a leggere, a recensire e hanno inserito tra le seguite/ricordate/preferite.

Buona lettura! 



 
 
Is It Any Wonder?




« Fammi capire: meno di otto ore fa eri infuriato, mi gridavi contro per strada e hai trattato di merda quella povera ragazza, ora invece vuoi andare ad un brunch organizzato dalla sua famiglia? Bellamy, noi non sappiamo nemmeno cosa sia un brunch. »

La minore dei Blake lo guardò con incredulità e un certo astio, mentre suo fratello se ne stava tranquillamente seduto al bancone della cucina e sorseggiava l’amato caffè.
 
« È una via di mezzo tra la colazione e il pranzo, Octavia. » Rispose lui con tutta la tranquillità e la nonchalance di cui era capace, senza nemmeno alzare lo sguardo dal giornale sportivo che stava leggendo.
 
« Di tutto quello che ho detto, questo è quello che hai sentito? Mi prendi in giro? »

Finalmente il moro si decise a guardarla, e dopo aver sospirato sonoramente, parlò: « Ho bisogno di conoscere ogni singolo aspetto della vita dei nostri vicini. Voglio essere al corrente di ciascuna delle loro più piccole abitudini, voglio vedere come e dove vivono, sorellina, voglio perfino sapere quanti set di posate hanno. Quindi andremo, fine della storia. »

Bellamy incrociò le braccia al petto e sollevò il mento, ben consapevole di aver messo un punto alla loro conversazione.

Lui e sua sorella si guardarono di bieco per qualche istante, poi lei schioccò la lingua e gli voltò le spalle, dirigendosi verso la sua stanza.

« E poi non ho voglia di cucinare! » Le urlò dietro lui, guadagnandosi una quasi legittima alzata del dito medio da parte di Octavia.
 
 
 
 


 
*






« Il pericardio, lunghezza venti millimetri circa, è una membrana cellulare che ricopre il muscolo cardiaco. Sotto di esso si trovano tre tonache, ognuna interna all'altra, che costituiscono le pareti del cuore: l'epicardio, tessuto connettivo formato da capillari sanguigni, capillari linfatici e fibre nervose; il miocardio, formato da fibre muscolari cardiache e l'... »

La voce sicura e professionale di Clarke fu interrotta dal fastidioso e fulmineo suono del campanello, ma la ragazza non si curò di prestargli attenzione e fece un respiro profondo, gettando un'occhiata al modellino di un cuore umano che teneva tra le mani e ricominciando da dove si era fermata.

« E l'endocardio, rivestimento protettivo costituito da... »

Ancora una volta quell'irritantissimo suono riecheggiò nella casa, e la bionda imprecò a bassa voce.

Possibile che lì dentro fossero tutti troppo dannatamente impegnati per andare ad aprire la porta?

« Clarke, tesoro, vai tu! » Il grido di sua madre le arrivò ancora più chiaro, perciò con uno sbuffo teatrale richiuse i manuali sulla sua scrivania e si precipitò fuori dalla propria stanza, giù per le scale.

« Si può sapere chi diav... »

« Ho bisogno del tuo aiuto! »

Abby le si avvicinò con irruenza e con un aspetto a dir poco arruffato; la treccia che era solita portare ben ordinata dietro la nuca era piuttosto sformata, lasciando ricadere qualche ciocca sul suo volto, le mani erano sporche di quella che doveva essere farina e c'erano macchie di sostanze ancora non identificate sul camice che indossava per cucinare.

« Mamma, cosa sta esattamente succedendo? » Domandò la giovane in tono lievemente disorientato, guardandosi intorno e chiedendosi dove fossero Wells e Thelonious.

« Ho invitato i nostri nuovi vicini per un brunch, ma ho avuto problemi con il forno e le tartine non saranno pronte per almeno mezz'ora. Ti prego, ti prego, aprigli e comportati bene, io cercherò di sbrigarmi! »

Abby parlò con un’urgenza e un'agitazione di cui sua figlia non l'avrebbe creduta capace, e senza attendere risposta si precipitò nuovamente in cucina.

Clarke rimase a fissare l'ingresso di casa sua per qualche secondo, poi sospirò, raddrizzò le spalle e mise su la miglior espressione di accoglienza che le riuscisse.

Il campanello suonò per l'ennesima volta, quindi fece un passo avanti e aprì la porta di scatto.

Il sorriso di circostanza che si era imposta svanì dalle sue labbra in un attimo, riflesso nell'espressione irritata che si dipinse sul volto del ragazzo davanti a lei non appena i loro sguardi si incrociarono.

Le tornò alla mente la loro discussione della notte precedente – non l’avrebbe definito il miglior approccio di sempre – e le sue sopracciglia aggrottate le suggerivano che era proprio ciò a cui stava pensando anche lui.
Affermare che non sembrava euforico di vederla sarebbe stato un eufemismo.

I due si fissarono con astio per qualche secondo, ormai entrambi volontariamente consapevoli dell’effetto che avevano l’uno sull’altra, poi Clarke si accorse della persona alle sue spalle e preferì concentrare su di lei la propria attenzione: la ragazza nuova, per metà nascosta dalla figura imponente del fratello, le sorrise e le fece l'occhiolino.

La bionda non poté trattenersi dall’accennare un sorriso nella sua direzione, fece scorrere lo sguardo da lei al moro e viceversa per alcuni istanti, solo per poi essere interrotta da un colpo di tosse da parte del suddetto irritantissimo ragazzo.

« Entrate pure. » Se doveva esserci entusiasmo, eccitazione o esultanza nella sua voce, lei non lo diede a vedere.

Si fece da parte per farli passare e i due non esitarono a fare il loro ingresso in casa sua.

I tre giovani si ritrovarono nell’atrio e subito un imbarazzante e alquanto strano silenzio calò tra di loro, ma fu fortunatamente spezzato dalla voce vivace di sua madre.

« Oh, ragazzi, è un piacere avervi qui! Sono mortificata, ma tutto sarà pronto tra qualche minuto. Ad ogni modo, questa è mia figlia Clarke », la donna indicò la ragazza al suo fianco e le gettò un'occhiata significativa, una di quelle che volevano dire “ti tengo d’occhio, cerca di essere perlomeno umana”, « loro due, invece, sono Bellamy ed Octavia Blake. »

« I nostri nuovi vicini! » L’inflessione nella sua voce sarebbe stata sufficiente a dimostrare il suo sarcasmo, ma Clarke non poté fare a meno di alzare il braccio sinistro in segno di vittoria.

Abigail le lanciò l’ennesimo sguardo ammonitorio e, così come era arrivata, tornò in fretta e furia verso i suoi adorati stuzzichini.

« Beh », cominciò la ragazza dopo alcuni istanti in cui i due fratelli si erano concessi di dare un’occhiata in giro, « direi che possiamo accomodarci. »

Quello che ora aveva identificato con il nome di Bellamy – ma che per lei era semplicemente un maleducato arrogante che amava urlare contro le persone alle due del mattino – si voltò verso di lei e puntò gli occhi nei suoi.

Era sfida, quella che vedeva impressa nelle sue iridi scure?

Clarke mantenne il contatto visivo e sollevò il mento in un chiaro segnale di prevalenza e superiorità.

« Allora, mh, Clarke! » La ragazza nuova, Octavia, prese finalmente parola e fece un passo avanti, occupando la maggior parte del campo visivo della bionda, « perché non mi fai provare quel divano? Sembra assurdamente comodo!  »

« Sì, Principessa, sembra assurdamente comodo. » Ribadì l’altro con un ghigno borioso stampato sul volto.

Ma chi credeva di essere? Prima che Clarke potesse rispondergli, anche solo per chiedergli che diavolo volesse dire quel Principessa, l’altra ragazza la prese sottobraccio e la condusse nel salotto alla loro sinistra come se fosse lei la padrona di casa.

Le due giovani si sedettero sul sofà mentre Bellamy prendeva posto sulla poltrona vicina; sembrava totalmente preso nell’osservare la casa, così concentrato da non accorgersi che la bionda non aveva staccato gli occhi da lui nemmeno per un attimo.

« Allora », cominciò la padrona dell’abitazione in un evidente tentativo di far sfumare la tensione che si era venuta a creare, distogliendo solo in quel momento lo sguardo da quell’ambiguo ragazzo, « da dove venite? »

« Siamo nati a Portland, Oregon, ma ci siamo trasferiti in California qualche anno fa. » Octavia parlò in tono neutrale, accavallando le gambe e concentrandosi sulla sua interlocutrice.

« Motivi famigliari? » La bionda tentò di far passare inosservata la curiosità nella sua voce, ma in realtà sentiva che c’era qualcosa da scoprire.

Due ragazzi così giovani, due fratelli che vivevano da soli e sembravano non avere alcun parente a cui affidarsi… C’era qualcosa di strano in tutto quello.

« Nostra madre è morta e noi non avevamo nessuno. Tuo padre non è in casa? » Bellamy aveva risposto con una scrollata di spalle, velocemente, come se quello non fosse degno di nota, e porse quella domanda senza effettivamente rifletterci troppo.

Una scia di brividi corse lungo la schiena di Clarke e lei aprì la bocca per replicare, ma fu nuovamente interrotta dalla voce di sua madre che li richiamava dalla cucina: « A tavola! »

In quello stesso momento l’entrata si aprì e Wells si precipitò nel salotto.

« Scusate il ritardo, sono stato bloccato… » Non appena alzò lo sguardo e vide gli invitati, il ragazzo si bloccò e li salutò con un gesto della mano.

« Non sapevo avessimo ospiti! » Esclamò con un sorriso, prima di dirigersi verso i fratelli Blake e stringere la mano a ciascuno di loro.

« Io sono Wells. »

« Bellamy, e questa è mia sorella Octavia. »

La ragazza si alzò e gli baciò le guancie forse con troppo trasporto, dato che l'altro scoppiò in un'allegra risata.

Dopo essersi scambiato i saluti con i due ospiti, Wells si voltò verso Clarke, che era rimasta seduta e aveva osservato la scena silenziosamente, e le si avvicinò.

Guardandola per un secondo dall'alto con la sua solita espressione rilassata, le poggiò una mano sulla spalla e si chinò per posare un veloce bacio sulla sua testa.

Lei non fece nulla se non chiudere gli occhi per quel gesto affettuoso che non sarebbe mai stata in grado di ricambiare, e li riaprì subito dopo.

« Spero che mia sorella non sia stata troppo scorbutica con voi! »

Parlò con una semplicità e una tranquillità tali da colpire Octavia; La giovane aveva avvertito nella sua voce un calore e un affetto che erano arrivati a scaldargli gli occhi, ma non percepì lo stesso per Clarke.

La stessa Clarke che si irrigidì sul posto e si strinse le braccia al petto in un'evidente posizione di disagio, inconsapevole degli occhi scrutatori dell'unica persona a cui non era sfuggita la sua reazione, Bellamy.
 
 

 
 
 
 
 




« Ehi, ti aspettavo per la sesta stagione di The Big Bang Theory. Che fine hai fatto? »

Jasper sollevò gli occhi al cielo nel sentire la voce del suo migliore amico attraverso il cellulare e si maledisse mentalmente per aver scordato il loro appuntamento.

« Mi dispiace, Mon, me ne ero completamente dimenticato. Ti raggiungo fra... », si interruppe per gettare uno sguardo al proprio orologio da polso, « ... mezz'ora? »

« Io e Monroe volevamo prenderci un caffè prima che lei parta, ci vediamo tra un'ora al The 100. Sii puntuale! »

Senza attendere risposta, Monty terminò la chiamata.

Jasper era ovviamente molto felice per il suo migliore amico e Monroe, lui aveva avuto una cotta per lei più o meno dalla terza elementare e le cose fra loro si erano sempre mantenute su un livello di cortese ma insostenibile imbarazzo, almeno finché i loro amici non avevano deciso di chiuderli in uno sgabuzzino e fargli risolvere la situazione una volta per tutte, ma il fatto di essere rimasto l’unico in una situazione di stallo lo faceva sentire come uno sfigato ultraspaziale.

 Era il solo in tutta la loro compagnia a non avere una ragazza e questo, con il tempo, non aveva fatto altro che fargli perdere fiducia in se stesso e nelle proprie possibilità, lasciandolo ad osservare come tutti intorno a lui provassero e riuscissero ad esternare i propri sentimenti, mentre lui non era nemmeno in grado di ammetterli ad alta voce.

Era l'unico, sì, oltre Clarke. Ciascuno dei loro amici, da Miller a Roma, da Monty a Glenn, aveva individuato una certa tensione tra i due, ma nessuno aveva mai osato sottoporre all’attenzione il fatto che Jasper non sembrasse avere occhi per altri se non per la giovane Griffin.

Era stato innegabile, non aveva potuto mentire a se stesso: forse anche più tristemente e pateticamente del peggior cliché che gli venisse in mente, come quelle stucchevoli e ottuse commedie romantiche che sua cugina lo obbligava a vedere, Jasper Jordan si era innamorato della sua migliore amica più o meno all'età di cinque anni, e quello che era cominciato come un sentimento puro e genuino dell'infanzia si era trasformato in un tormento che lo aveva afflitto per tutta l'adolescenza e che era stato in grado di confessare apertamente solo a Monty.

Non che gli altri non avessero capito, naturalmente.

Non che un genio come il suo migliore amico avesse avuto bisogno di una dichiarazione esplicita per comprendere quanto scorresse a fondo l'affetto che Jasper provava per Clarke.

Ma a un certo punto il ragazzo aveva dovuto dirlo a qualcuno, aveva dovuto liberarsi di quel peso che lo tormentava ogni volta che la guardava negli occhi e non riusciva a confessarle che non avrebbe mai voluto nessuna nel modo in cui voleva lei.

Clarke era stata per lui un punto di riferimento fin dal primo momento in cui si erano conosciuti: due piccole versioni di  lui e Monty se ne stavano seduti tra le panchine dei giardini in cui tutti i bambini erano soliti radunarsi e trascorrere i propri pomeriggi insieme, e discutevano di come potesse Superman volare a una determinata velocità utilizzando una forza stabilita, quando una bambina bionda si era avvicinata a loro, incuriosita, e gli aveva chiesto perché non salissero sugli scivoli con gli altri; i due fanciulli avevano alzato le testoline di scatto e l'avevano fissata come se fosse un marziano, oppure una di quelle creature spaventose che amavano osservare alla televisione.

Dopo essersi scambiato uno sguardo complice con il compagno e aver sollevato nuovamente i capi verso la bambina in piedi davanti a loro, il piccolo Jasper aveva parlato con tutto il pragmatismo di cui potesse disporsi un ragazzino di cinque anni: « Gli scivoli sono stupidi, e anche gli altri bambini. »

La bionda aveva sollevato le spalle e si era seduta davanti ai due.

« Io non sono stupida. » Aveva affermato come un dato di fatto, come se non potesse esserci altra soluzione.

Da quel momento l'amicizia fra i tre si era andata sempre rafforzando con gli anni; avevano frequentato le elementari, le medie e il liceo insieme, avevano affrontato i primi problemi dell'adolescenze, le prime cotte, le prime esperienze con l'innocenza della giovinezza.

Jasper, Monty e Clarke avevano cominciato ad interessarsi alla scienza e alla biologia quasi contemporaneamente, trascorrendo le giornate dopo scuola ad assemblare modellini del corpo umano o ad imparare a memoria gli elementi della tavola chimica.

La bionda non si era mai comportata come le altre ragazze della loro età; preferiva trascorrere il tempo con i maschi, fare gare di velocità o giocare a scacchi, e il giovane Jordan aveva imparato, con gli anni, ad apprezzare la sua infinita generosità, la sua implacabile sete di conoscenza e il suo splendido sorriso.

Tutto era cominciato a precipitare all’età di quindici anni: Jasper ricordava ancora alla perfezione la chiamata che aveva ricevuto da Clarke in un uggioso e cupo pomeriggio di Dicembre.

O almeno, sembrava la parvenza della sua migliore amica quella scossa dai singhiozzi e dai sussurri disperati che gli dicevano che suo padre l’aveva lasciata.

Il ragazzo aveva tentato di rassicurarla, le aveva parlato al telefono mentre si metteva le scarpe e chiudeva con frettolosa noncuranza il libro di storia, aveva spiegato brevemente ciò che era successo a sua madre ed era
uscito senza ombrello, si era precipitato in ospedale dove sapeva che Clarke avrebbe avuto bisogno di lui.

La scena che gli si era presentata davanti non appena arrivato fu una delle più disperate a cui avesse mai assistito in quindici anni di vita e una di quelle che non avrebbe mai, mai dimenticato.

Aveva sentito le urla della sua migliore amica ancora prima di vederla, e la situazione non era migliorata quando aveva voltato l'angolo e se l'era ritrovata davanti: la giovane se ne stava in ginocchio nella sala d'aspetto vuota e gridava di lasciarla andare, di farle vedere suo padre, che non era possibile, che non era lui, che si era trattato di un errore.

Sua madre si era inginocchiata accanto a lei e aveva tentato di tenerla stretta a sé, di farla calmare, ma niente aveva funzionato.

Quando Clarke si era accorta che Jasper era arrivato e stava in piedi, completamente immobile, a pochi metri lontano da lei, aveva immediatamente smesso di gridare e implorare, si era alzata tremante e aveva corso verso di lui con la poca energia che le era rimasta.

Il contatto del corpo della sua migliore amica contro il proprio era probabilmente la cosa che Jasper non avrebbe mai scordato di quel giorno: lei era sprofondata nel suo petto, gli aveva stretto la maglietta con i pugni e aveva ricominciato a disperarsi e a piangere nel modo più stremato che entrambi riuscissero a immaginare.

L’amico non era stato capace di formulare un pensiero coerente, non aveva parlato, si era semplicemente limitato ad accarezzarle i capelli e sorreggerla, mentre percepiva il collo della propria felpa bagnarsi a contatto con le sue lacrime.

Erano rimasti in quella posizione per un tempo lunghissimo e indeterminato; Jasper sapeva solo che quando era entrato in quella stanza che puzzava di disinfettante era pomeriggio, e ora che Clarke si era addormentata sulle sue ginocchia l’oscurità era calata fuori dalle finestre.

Da quel momento in poi il giovane Jordan aveva capito che una parte della sua migliore amica era morta quello stesso giorno, se ne era andata con il padre, e lei non sarebbe più stata la stessa.

Scuotendo la testa il ragazzo tornò alla realtà e sbatté più volte le palpebre. Osservò la pila di libri, appunti e quaderni sparsi per la sua scrivania – avrebbe avuto un esame di lì a poco, ma non aveva ancora cominciato a prepararsi adeguatamente – e sbuffò; per l’ennesima volta avrebbe dovuto accantonare lo studio perché la sua dannata mente non riusciva a concentrarsi.


Fu il primo ad arrivare al The 100, così si sedette ad uno dei tavoli esterni e ordinò un thé freddo al limone.
Guardandosi intorno, Jasper non poté trattenersi dal sorridere: adorava quel posto.

Lui e i suoi amici aveva trascorso praticamente tutta la loro adolescenza lì, sedendosi sotto gli ombrelloni al pomeriggio e ballando in pista la sera.

Quel locale gli offriva essenzialmente tutto ciò di cui potevano aver bisogno.

« Allora, amico », Monty arrivò alle sue spalle e si sedette davanti a lui, raccogliendo le mani sotto al mento ed osservandolo con guardo inquisitorio, « che succede? »

« Assolutamente nulla. » Entrambi rimasero colpiti dall’urgenza e l’impellenza con cui aveva parlato e per alcuni secondi ci fu solamente silenzio.

Jasper sostenne il contatto visivo per qualche attimo, poi, sapendo di non poter mentire alla persona che lo conosceva meglio di chiunque altro, parve crollare su se stesso.

Parlò con il viso fra le mani e le spalle curve: « Ho combinato un disastro. »

Monty, che ancora lo scrutava, lo incoraggiò a continuare con un gesto secco della mano.

« Ieri notte eravamo qui, no?, e all’improvviso è entrata questa ragazza, molto bella, ovviamente, certo, attraente, ed è sicuramente nuova da queste parti perché né io né Clarke l’avevamo mai vista, e lei insisteva così tanto perché io andassi a parlarle e io mi sono fatto prendere dal panico e le ho praticamente urlato contro che sono innamorato di un’altra. E l’altra è lei, sai, no? Sì, insomma… »

« Ehi, ehi, ehi! » L’amico si sporse sul tavolo e lo fissò negli occhi, cercando di trasmettergli la calma sufficiente per riprendere fiato ed evitare l’iperventilazione.

« Respira lentamente, così, bravo », dopo che Jasper sembrò riacquisire un colorito naturale e non uno fra il bluastro e il giallognolo, Monty continuò: « Quindi, ricapitolando… Primo, ieri è entrata una ragazza al club.
Secondo, Clarke ti ha esortato ad andare a parlarle. Terzo, tu hai dato di matto, cioè completamente dato di matto e le hai urlato contro. »

« E poi me ne sono andato. » Terminò l’altro al posto suo, annuendo gravemente e picchiettandosi la tempia con l’indice.

« E poi te ne sei andato. »

« Esattamente. È come sono andate le cose. » Sollevò le spalle e piegò i lati della bocca verso il basso.

« Posso chiederti una cosa, Jazz? »

« Certo, amico. »

« Sei sempre stato così irrimediabilmente citrullo – e io non me ne sono mai accorto – o forse hai cominciato a fare uso di strane sostanze? Non so, perché potrebbe essere prob… »

« Monty », l’amico lo richiamò con voce insolitamente risoluta, « io ho bisogno del tuo appoggio. Non insultarmi. Non… non insultarmi, ti prego. Non ti rimarrebbe più nessun insulto, perché, insomma… Me li sono già detti da solo. Ok, forse citrullo mi manc… »

« Perché non l’hai fatto? » Sbottò il moro, alzando il tono e sollevando le braccia in aria.

« Fatto cosa? » 

Dopo avergli lanciato un’occhiata di rimprovero, parlò: « Perché non glie lo hai detto. »

Jasper sbuffò e si passò una mano sul volto con eccessiva teatralità.

« In fin dei conti non è che non ne avessi avuto la possibilità. »

« Non posso, ok? » Sbottò l’altro in un’espressione esasperata, osservandosi forse con eccessivo interesse le mani e non riuscendo a guardare l’amico negli occhi.

Jasper sapeva che quello che stava facendo era sbagliato, sapeva che prima o poi le sue spalle e il suo cuore non sarebbero più stati in grado di sorreggere quel peso, ma non riusciva a fare altrimenti.

Il solo pensiero di confessare i propri sentimenti a Clarke lo terrorizzava fin nelle viscere: gli risultava ben poco difficile immaginare la compassione e la pietà nei suoi occhi blu – che potevano anche essere azzurri, verdi e, perché no, illuminati da caleidoscopiche schegge di giallo – mentre gli diceva che non sarebbero mai potuti stare insieme, che non l’avrebbe mai visto in altro modo se non quello in cui l’aveva sempre visto: il suo migliore amico.

Lui sarebbe rimasto in silenzio, le avrebbe voltato le spalle, avrebbe camminato come un robot lontano da lei, lontano dalla sua vita per sempre. E sarebbe scomparso.

No, non poteva accettarlo. Non l’avrebbe mai lasciata, non si sarebbe mai sottoposto a una prova del genere. E se tenersela accanto significava incoraggiare la propria autodistruzione con un sorriso, allora sì, sarebbe imploso.

« Cos’hai intenzione di fare, allora? Ascoltare Moondust per il resto della tua vita e rimanere eternamente bloccato in questa situazione? »

« Sì, è proprio quello che farò! » Proruppe lui, e prima che Monty potesse aggiungere qualcos’altro, continuò: « Devo studiare per un esame. »

Detto questo, si alzò di scatto e si allontanò velocemente dal suo migliore amico e da quel posto. Un’improvvisa voglia di correre lo colpì, e sarebbe volentieri fuggito da tutti, pur di dimenticare quello che stava provando.






 
*





« Allora, Bellamy », Thelonious, che era arrivato a casa quando ormai tutti si erano accomodati e stavano per iniziare a mangiare, si era scusato per il ritardo e aveva preso posto a capo tavola, parlò con fare interrogativo, « non ci hai ancora detto di cosa ti occupi. »

« Sono un agente speciale del dipartimento di Los Angeles, signore. »

Udendo quelle parole, Clarke alzò la testa di scatto; Bellamy, alla sua destra,  ricambiò il suo sguardo per un istante, voltandosi poi nuovamente nella direzione di Jaha Senior.

« Ammirevole! » Commentò Abby, portandosi alla bocca uno dei tanti involtini vegetariani che aveva preparato.

« Già », confermò suo marito, « e che sezione? »

« Antidroga. » Il moro annuì con fare solenne, non riuscendo ad impedirsi di pensare a quando sarebbe potuto tornare a lavoro.

Si era pentito per ciò che era successo, per aver perso il controllo? Sì. L’avrebbe rifatto mille volte? Assolutamente.

« Dev’essere piuttosto dura. » Questa volta aveva preso parola Wells, che fino a quel momento si era limitato a sorseggiare succo d’arancia dal proprio bicchiere.

Il maggiore dei Blake si voltò verso di lui, seduto alla sinistra di Clarke, e i suoi occhi incontrarono di sfuggita profonde iridi blu.

« Lo è, ma è tutto ciò che ho sempre voluto fare. »

Octavia posò una mano sull’avambraccio del fratello, e questo non sfuggì alla giovane Griffin.

« Dimmi, Octavia, frequenti l’università? » Abby si girò verso la ragazza che sedeva alla sua sinistra con fare interessato e curioso.

« In realtà ho deciso di prendere un anno sabbatico, con il trasloco e il resto… » La ragazza lasciò cadere la frase in sospeso e Clarke percepì la sua riluttanza nel parlare dell’argomento.

« Ti capisco. Anche mia figlia sembra diretta verso quella strada. » La rigidità nel suo tono di voce non passò inosservata a nessuno dei presenti; Thelonious, alla sua destra, le prese la mano per rassicurarla e suggerirle silenziosamente di non fare scenate.

Bellamy, che aveva seguito attentamente lo scambio fra i due, non poté trattenersi dal gettare un’occhiata furtiva alla ragazza in questione, notando che fissava con insistenza sopra la testa di sua sorella, la mascella evidentemente serrata e le mani chiuse a pugno.

« E tu, Wells? » Domandò la minore dei Blake, sporgendosi in avanti e tentando di alleggerire la tensione che era appena calata.

« Oh, lui sarà un ottimo avvocato. » Suo padre parlò prima che il ragazzo potesse prendere parola, la fierezza nel suo tono di voce quasi palpabile.

« Grazie, papà! » Affermò sarcasticamente lui, lanciando un’occhiataccia verso l’uomo, voltandosi subito dopo in direzione di Octavia e sorridendo timidamente. « Sì, l’idea sarebbe quella. »

« Ragazzi, sono stata davvero sgarbata! », la voce ora nuovamente serena di Abby proruppe attraverso l’intera tavola, e i fratelli Blake si voltarono nella sua direzione, « spero che il cibo sia di vostro gradimento. »

« Lo è, Signora Jaha… »

Bellamy  non riuscì a terminare la frase, perché la forchetta di Clarke graffiò violentemente contro il piatto quasi vuoto e il rumore sgradevole riecheggiò al centro della sala da pranzo.

Immediatamente il silenzio calò e tutte le teste dei presenti si voltarono verso la ragazza, alcune interrogative e confuse, come quelle dei due fratelli, altre indispettite e infastidite, come quella di Abby.

Per alcuni istanti nessuno disse niente, gli occhi del moro piantati sul volto atterrito della bionda che ora teneva il capo chino, poi la sedia di quest’ultima strusciò bruscamente contro il pavimento mentre lei si alzava, prendeva il proprio piatto e, senza dire una parola, si dirigeva in cucina.

Il giovane tentò di sporgere il collo per vedere cosa stesse facendo, ma non fu in grado di intercettarla.

« Chiedo scusa per il comportamento maleducato e senza dubbio incivile di mia figlia. » La donna parlò con un sorriso tirato, di circostanza, un’espressione fintamente rilassata in netto contrasto con ciò che aveva appena detto.

« Lasci che mi occupi dei piatti, Signora… », notando la reazione che aveva avuto poco prima la ragazza, Octavia evitò di chiamare per cognome la donna e, dopo una breve pausa, continuò: « lasci che aiuti a sparecchiare. »

Senza attendere risposta, la minore dei Blake scambiò un’occhiata d’intesa con suo fratello e afferrò entrambe le loro stoviglie.

Entrando in cucina, la ragazza notò che Clarke se ne stava appoggiata al bancone con entrambe le mani, le spalle e la testa curve.

« Ehi. » La salutò dolcemente, posando tutto ciò che aveva in mano nel lavandino e voltandosi verso di lei.

La bionda sollevò il capo e tentò un sorriso, anche se quella era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare.

« Qualsiasi cosa abbia detto mio fratello, mi dispiace. Non era sua intenzione… »

« No, Octavia », questa volta la giovane Griffin si voltò verso di lei con espressione afflitta sul viso, « non è colpa di tuo fratello. »

« Ascolta, non è mia intenzione farmi gli aff… »

« È così che ora si fa chiamare, eh? Signora Jaha? » La giovane la interruppe con astio e sarcasmo.

In quel momento Octavia capì. O perlomeno cominciò a capire: osservando attentamente quella famiglia, ragionando con accuratezza su ciò che aveva potuto capire di loro, non fu difficile per lei giungere a una conclusione che avrebbe dovuto ritenere ovvia fin dall’inizio.

« Clarke, qual è il tuo cognome? » Domandò la minore dei Blake con dubbio e un certo presentimento.

« Griffin. Mi chiamo Clarke Griffin. » Nonostante il malessere che stava percependo in quel momento, l’orgoglio era altisonante nella sua voce.

« Quindi quello non è tuo padre. »

« Patrigno. »

« Ma se lui non è tuo padre… Perché prima Wells ti ha definito sua sorella? » Sussurrò l’altra in modo così buffo da far scappare una risatina a Clarke.

« Lui è sempre stato molto affettuoso con me, e anche se non siamo legati biologicamente… » prese una piccola pausa, « Mi ritiene comunque sua sorella. » Terminò con un’alzata di spalle, sentendo per l’ennesima volta il senso di colpa attanagliarle lo stomaco.

« Ora è tutto chiaro… Ah, ehm, Clarke… grazie per ieri sera. Stamattina, cioè. L’ho apprezzato molto. » Octavia le posò delicatamente una mano poco sotto la spalla e le sorrise in modo complice.

« Non devi ringraziarmi, tuo fratello sa essere piuttosto… insolente, diciamo così. » Le due ragazze scoppiarono a ridere all’unisono.

« Sì, e non hai ancora visto niente. »

« Ma non dovresti comunque frequentare il gruppo di Lincoln, Octavia. » La bionda parlò con tono ammonitorio, senza però marcare troppo il proprio disappunto.

« Penso siano a posto. » Rispose l’altra con un’innocente alzata di spalle.

« Non sai quanto ti sbagli… » Sussurrò la giovane Griffin in risposta.

Octavia decise di non continuare oltre, perciò lanciò un’occhiata verso la sala da pranzo e poi ritornò con lo sguardo su quella che ormai considerava una nuova amica.

« Sei pronta a tornare di là? » Domandò gentilmente, facendo seguire un sorriso all’affermazione.

Clarke si limitò ad annuire; prese un respiro profondo e si incamminò nuovamente dov’erano tutti, seguita dalla mora.

Non appena entrò nella stanza, i primi occhi che si puntarono su di lei e che incontrò furono quelli di Bellamy.
Istintivamente annuì, e lui sembrò rilassarsi impercettibilmente.

Prima che chiunque potesse dire una sola parola, il campanello squillò e la tensione nella stanza sembrò raggiungere il suo apice.

« Dev’essere Jasper… » Sussurrò la bionda, per poi avviarsi verso l’ingresso e, senza curarsene troppo, aprire l’uscio con estrema tranquillità.

Se la sua mascella non fosse stata fissata bene al resto della faccia, probabilmente le sarebbe caduta a terra.

Ogni centimetro e atomo di lei si immobilizzarono e raggelarono nel vedere la persona che ora si ritrovava davanti.

I suoi occhi scorrevano disperatamente e freneticamente sul suo volto, ricercando nei lineamenti tanto conosciuti il motivo per cui avesse deciso di farle quello. Come se non si rendesse conto di essere la sua più grande debolezza, come se non sapesse di averla ridotta in mille pezzi.

Come poteva presentarsi alla sua porta? Com’era anche solo lontanamente possibile? Non riusciva a crederci; soprattutto perché pensava che non l’avrebbe mai più rivisto in vita sua. Soprattutto perché durante l
l’ultima chiamata che si erano fatti era sicura di avergli poco cortesemente intimato di non avvicinarsi mai più a lei.

Eppure lui era lì, incredibilmente reale, e la fastidiosa sensazione al centro del suo petto era più dolorosa di quanto avrebbe mai potuto immaginare.

« Finn? »
 






 
Curiosità:

La canzone citata da Monty è Moondust, di Jaymes Young. Mi è sembrata perfetta per descrivere la situazione di Jasper, quindi chiunque di voi può andare a cercarsi il testo e comprendere perché. 
Sembra assolutamente scritta per lui!















 
 

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Capitolo 5
*** IV ***





Prima di tutto vorrei ringraziare come sempre chi ha recensito, chi ha inserito fra le seguite/ricordate/preferite e chi si è limitato a spendere un quarto d'ora del proprio tempo per leggere i capitoli.

A proposito dei quali... Quest'aggiornamento è decisamente il più lungo finora, quindi spero di non essere risultata noiosa o cose simili. Ho ritenuto, però, che ognuno degli avvenimenti dovesse accadere per sviluppare la storia, quindi perdonatemi se, leggendo, avrete voglia di venire a cercarmi e strozzarmi a mani nude.

Non sono molto sicura di essere soddisfatta di questo capitolo, perciò qualsiasi vostro commento è ben accetto.

Piccolo avviso: Ci sarà una scena (non vi dico quale, lo scoprirete da voi) in cui sono presenti un po' di parolacce. Nulla di eccessivamente volgare, ma avvisare non fa mai male.

Detto questo, mi dileguo e vi auguro buona lettura!

 


Is It Any Wonder?
 



Octavia Blake era sempre stata una ragazza considerata da molti “tutta d’un pezzo”.

Cresciuta in una famiglia problematica fin dall’inizio, senza una figura paterna o una condizione economica stabile, aveva cominciato a forgiare il proprio carattere sin dai primi anni della giovinezza.

Lei incarnava semplicemente tutto ciò che una donna avrebbe voluto avere: sicurezza, fegato da vendere, una considerevole quantità di spavalderia e un tocco di arroganza, quel tanto che bastava per non farsi mettere i piedi in testa da nessuno.

Tutto ciò aveva comportato trasformarla in una persona forte, veemente e intensa, totalmente indipendente e del tutto capace di prendersi cura di se stessa.

Tuttavia, la strada verso l'adorata libertà era ardua e problematica: il suo fratellone non aveva mai abbandonato l’istinto di protezione che aveva nutrito nei suoi confronti fin dal giorno della sua nascita, anzi, col tempo quel sentimento involontariamente soverchiatore sembrava essere aumentato, e questo non aveva fatto altro che incrementare a dismisura il proprio inebriante desiderio di trasgredire ognuna delle sue regole.

Come, ad esempio, la più facile di tutte: “Stai alla larga dai guai.”

Perché sì, insomma, starsene in un vicolo buio, in una macchina rubata, seduta su un ragazzo di cinque anni più grande di lei armato di non proprio purissime intenzioni era proprio la precisa definizione che Bellamy avrebbe affibiato alla parola guaio.

Octavia ricordava ancora come, una settimana prima, Clarke l’avesse avvertita di ciò a cui andava incontro, e di come lei aveva rifiutato ogni consiglio e aveva cominciato a frequentare i Grounders, quella compagnia non troppo raccomandabile di gente altrettanto poco affidabili.

All’inizio era stato divertente, le piaceva il fatto di essere la ragazza nuova che aveva stregato tutti con i suoi occhi verdi e l’atteggiamento sfrontato, le piaceva pensare all’idea inosservante di non rispettare gli stop e sfrecciare per le strade su quei furgoncini dipinti con le bombolette, ma poi un certo senso di colpa aveva cominciato a fare capolino fra i suoi pensieri per tutte le volte in cui usciva di casa raccontando a suo fratello bugie su bugie e il tutto aveva cominciato a perdere quel certo fascino.

E la giovane non aveva comunque fatto nulla per cambiare le cose, aveva soppresso quella tediosa sensazione in fondo al proprio stomaco e aveva continuato a incontrarsi con Lincoln di nascosto, fino ad arrivare a quel momento; lei non aveva mai nemmeno visto un’automobile rubata e ora la sua schiena era premuta contro il volante di una di quelle e due paia di braccia la stringevano e spingevano contro un petto muscoloso e ampio.

Quando le labbra del suddetto ragazzo scesero lungo il suo collo, Octavia non poté trattenersi dal gettare il capo all’indietro e sospirare leggermente.

« Forse… Dovrei tornare a casa… » Mormorò la ragazza, senza però allontanarsi di un centimetro da lui.

« O forse no. » La voce di Lincoln le rispose con decisione e una certa intensità, mentre le sue mani trovavano la pelle dei fianchi sotto la canotta che lei indossava.

« Non so nemmeno il tuo cognome. » Rise lievemente e chiuse gli occhi, abbandonandosi per qualche attimo alle sensazioni che stava provando.

« Io so il tuo, e questo è sufficiente. » Lo percepì sorridere contro la propria spalla e istintivamente sorrise anche lei.

« Siamo su un’auto rubata. » Tentò per l’ennesima volta di trovare una giustificazione per staccarsi da lui, ma in fondo sapeva di non essere riuscita a convincere nemmeno se stessa.

« Perspicace. »

Lincoln sollevò il volto per baciarla di nuovo e Octavia si perse ancora in lui, nel modo in cui la sfiorava e oscurava qualsiasi suo pensiero.

Lo conosceva da una settimana e si era abbandonata a lui con una facilità che non aveva mai sentito prima, perché lui era tutto ciò che lei bramava, era l’emblema di una libertà che sapeva di non poter mai raggiungere.

Tutto quello che poteva fare era sfiorarla con la punta delle dita e avvicinarsi il più possibile, sapendo di essere sempre un po’ più lontana dalla prigione che erano la sua casa e le stupide regole di suo fratello, e questo lo riteneva sufficiente.

Non che Bellamy le avesse fatto mancare qualcosa, sapeva bene di essere la sua unica priorità, ma per troppo tempo si era vista costretta nella gabbia d’oro in cui lui l’aveva inconsapevolmente intrappolata, timoroso di quello che il mondo fuori le avrebbe potuto fare.

Una parte di lei non lo biasimava, percepiva allo stesso modo un attaccamento totalizzante nei suoi confronti – in fondo era suo fratello, diamine, il sangue del suo sangue, fatto di tutto ciò di cui era fatta lei –, ma un’altra parte, invece, non poteva impedirsi di sentirsi tenuta lontano dalle migliaia di occasioni che avrebbe potuto sfruttare.

Col passare degli anni un ambiguo sentimento di claustrofobia ed estraniamento aveva cominciato ad attanagliare le pareti del suo cuore, facendola sentire come una diversa, una reietta.

Era come se il fare protettivo di suo fratello avesse scavato, con il tempo, una buca sotto i suoi piedi e lei ci fosse caduta dentro, come costretta a passare ogni suo giorno in quel buco sotto al pavimento mentre gli altri facevano esperienze e le camminavano sopra e semplicemente vivevano al posto suo, e poi quel buco era diventato così grande da inghiottirla e farla scivolare giù.

Forse era per questo che aveva cominciato a frequentare quelle persone, perché sapeva di non poter reclamare di più.

Forse era caduta troppo in basso per aspirare a qualcosa di meglio – cos’era il meglio, poi?

Perciò sì, Octavia Blake poteva anche possedere tutti i requisiti che qualsiasi donna avrebbe facilmente potuto desiderare, ma alla sua stessa sicurezza corrispondeva un’incertezza da brividi, un vuoto difficilmente contenibile che, proprio lì, proprio allora, la portò a maledire mentalmente qualsiasi senso di colpa l’avesse colpita e a dimenticare per un attimo tutte le aspettative che gravavano sulle sue spalle.

E fu per quello stesso motivo che, invece di allontanarsi e farsi riportare a casa, tutto ciò che fece fu stringersi un po’ più forte a Lincoln.


 

 
 
 
 
 
Il telefono di Bellamy prese a squillare, ma il moro non aveva alcuna intenzione di alzarsi e controllare chi fosse, tantomeno di rispondere.

Se ne stava seduto alla propria scrivania e osservava con aria distratta e deconcentrata i documenti e i rapporti dell’ultimo caso a cui aveva lavorato prima di essere sospeso, e purtroppo ciò non faceva altro che demotivarlo e farlo incazzare ancora di più.

Finalmente il cellulare smise di suonare, perciò il maggiore dei Blake si appoggiò alla poltrona con la schiena e si passò una mano sul volto. Il suo lavoro gli mancava più di qualsiasi altra cosa e non c’era niente che non fosse disposto a dare pur di riottenerlo al più presto.

Quando la sua suoneria ripartì per l’ennesima volta, Bellamy si alzò con un grugnito e raggiunse il letto, su cui aveva gettato l’apparecchio qualche ora prima.

Si trattava di un numero sconosciuto e per un attimo fu tentato di rifiutare la chiamata, ma poi decise di accettarla comunque.

« Pronto? »

« Ehi, straniero! »

Riconobbe immediatamente quella voce. Una voce che, ci avrebbe potuto giurare, non sentiva da almeno sette anni e pensava di non poter sentire mai più.

« Atom? » Il tono incredulo suscitò una risata dall’altro lato del telefono e il moro non poté trattenersi dal sorridere a sua volta.

« Pensavo fossi emigrato su una navicella nello Spazio! » Esclamò l’altro con stupore e sarcasmo.

« Che fine hai fatto, cazzone? »

« Sai, quando mi sono trasferito da Portland ho deciso di partire. Tra una cosa e l’altra, ho conosciuto un’associazione di sostegno e volontariato, così mi sono buttato in questo progetto. Sono appena tornato dalla Bolivia. »

« Non ci credo. Tu, volontariato? Dio, devo proprio essermi perso qualcosa! »

Bellamy aveva ancora un ricordo preciso del suo migliore amico d’adolescenza, quello che tutti erano soliti definire il classico bravo ragazzo – almeno finché non aveva conosciuto il maggiore dei Blake. Non avrebbe mai potuto dimenticare quando entrambi erano finiti in una rissa ed erano stati trattenuti in riformatorio per tre giorni.

Fortunatamente, il padre di Atom li aveva salvati dai guai con la fedina penale, riuscendo, tramite amicizie, a far ritirare ogni accusa contro di loro. Era quello che aveva permesso al maggiore dei Blake di arruolarsi in Accademia, e per quello non avrebbe mai smesso di ringraziare la famiglia Ward.

« Beh, io ho saputo che ora sei un poliziotto, quindi credo che siamo pari! » La risata di Atom riecheggiò nell’apparecchio e solo allora Bellamy si accorse di quanto gli era mancato.

« Mi sei mancato, idiota. Non posso credere che sia davvero tu... » Sussurrò lui, non proprio abituato ad esternare i propri sentimenti.

« Anche tu. Sai, io sono a Los Angeles, ma… »

« Cosa? Stai scherzando? »

« No, amico. Dovrei raggiungere Portland entro… »

D’improvviso, il ragazzo si rese conto che Atom non sapeva praticamente niente della sua vita; né di ciò che era successo a sua madre, né del trasferimento.

In fondo, aveva cambiato città pochi mesi prima che lui venisse a conoscenza della malattia di Aurora, perciò non poteva sapere di ciò che era successo.

« Ehi, woh, fermo un attimo. Sono a Los Angeles anch’io. Perché non passi da me? »

« Che diavolo ci fai qui? », la sorpresa nel tono di voce dell’amico gli appariva chiarissima, « Non ci posso credere! »

« Beh, abbi un po’ di fiducia.  »

« Il fatto è che, sai, dovrei prenotare un albergo e… »

« Scherzi? Nessun albergo, puoi stare da me.  »

Dopo avergli dato le indicazioni sul suo quartiere e la via da raggiungere ed essersi salutati con la promessa di vedersi entro un’ora, i due amici si salutarono e attaccarono.

Bellamy rimase a fissare il vuoto davanti a sé con un sorriso vago. Non era mai stato un tipo pieno di amici, sia a causa della sua naturale sfiducia e diffidenza verso gli altri, sia per tutto ciò che era accaduto nella sua vita.

Eppure per lui e Atom le cose erano state allo stesso tempo paurosamente facili e incredibilmente difficili, due undicenni pieni di complessi e desideri irrealizzabili, animati da un sentimento che, in età adulta, sarebbe poi divenuto brama di potere e successo; insomma, si erano semplicemente trovati, sebbene entrambi fossero bloccati in una intricata situazione famigliare.

I due ragazzi avevano vissuto nello stesso palazzo per tutta la loro vita, si erano incontrati per le scale miliardi di volte prima di rivolgersi effettivamente la parola. Bellamy, col suo atteggiamento intimidatorio; Atom, con la naturale predisposizione a tenersi fuori dai guai.

Tuttavia, dopo anni e anni di sguardi furtivi e solitudini pomeridiane, i due ragazzi avevano cominciato a parlarsi e a trascorrere sempre più tempo insieme.

Il loro non era mai stato un rapporto semplice e nemmeno salutare, per certi versi, ma ognuno aveva saputo tirare fuori dall’altro un lato di sé di cui non era a conoscenza.

Ad esempio, il maggiore dei Blake aveva trascinato l’amico nelle più spericolate avventure – spesso attirandosi le ire del padre –, facendogli così capire che non doveva essere per forza tutto deciso da altri, che lui era l’unico in grado di determinare se stesso e cosa fare della propria vita, e che le aspettative altrui lo avrebbero soltanto limitato.

D’altronde, Bellamy aveva sempre avuto il dono di persuadere e ispirare chiunque entrasse a contatto con lui, rivelandosi un leader nato.

E poi c’era l’unico figlio di casa Ward, che aveva fatto comprendere al ribelle amico che non tutto doveva per forza andare male, che la vita era fatta anche di quei momenti in cui rimanere in silenzio e ragionare quell’attimo in più sufficiente a prendere una buona decisione.

I due caratteri opposti e complementari, quindi, si erano influenzati l’un l’altro per tutta l’adolescenza, e allo stesso modo uno aveva fatto dell’altro il proprio cardine, il luogo di ritrovo in cui rifugiarsi quando tutto il resto andava male.

La loro amicizia – sempre più simile ad una fratellanza – era andata man mano rafforzandosi finché il padre di Atom, un rigido e sever’uomo che come professione faceva il militare, non era stato costretto a trasferirsi per motivi di lavoro e la sua famiglia aveva dovuto seguirlo.

Ormai diciassettenni, i due amici si erano salutati sull’ultimo pianerottolo del loro palazzo, valigie e borsoni ad ostacolargli i movimenti; senza dire una parola, Bellamy aveva stretto forte quel ragazzo un po’ più magro di lui con cui aveva condiviso le peggiori e quindi più divertenti peripezie, e i due si erano promessi di tenersi in contatto a qualsiasi costo, di vedersi almeno una volta ogni due settimane e, in caso di bisogno, di non esitare a cercare l’uno l’aiuto dell’altro.

E la loro relazione a distanza aveva davvero funzionato, per qualche mese, ma poi Aurora Blake si era ammalata e non c’era stato più spazio per nient’altro nella vita del giovane.

Una volta diventato adulto, il pensiero di Atom era lentamente scivolato fra le questioni di cui non poteva preoccuparsi al momento. Con la casa, Octavia e tutto il resto, Bellamy aveva smesso di curarsi di qualsiasi cosa non fosse strettamente necessaria al benessere di sua sorella.

Ovviamente non aveva dimenticato il suo primo e unico migliore amico, ma la certezza di sapere che ci sarebbe sempre stato, che l’avrebbe raggiunto anche in capo al mondo, aveva fatto sì che per il momento il ragazzo lasciasse fluttuare lontano i gloriosi giorni dell’adolescenza e riponesse ogni energia nel tentare di mantenere a galla la propria famiglia.

Il fatto era, però, che quel momento si era trasformato in sette anni di silenzio e ora il senso di colpa aveva bussato alla sua porta.




 
*



 
Clarke se ne stava seduta sul portico di casa sua, il sole di Giugno a creare riflessi dorati sui suoi capelli e un bicchiere di thé ghiacciato sul tavolino vicino a lei.

Come la maggior parte delle volte, era sola in casa e questo le permetteva di riflettere nella pace e nel silenzio che aveva sempre anelato.

Si rigirava tra le mani il primo regalo che le aveva fatto Finn, uno stupido cervo a due teste modellato sul metallo (“La normalità è sopravvalutata, no?” Le aveva detto il giorno in cui glie lo aveva dato), e ripercorreva nella mente tutto ciò che si erano detti una settimana prima, quando lui si era presentato alla sua porta senza il minimo segno di pudore.



« Finn? » La sua voce era salita come minimo di un’ottava, esaltando così una certa isteria.

« Clarke… » Lui aveva risposto con un semplice sussurro accompagnato da quell’estremamente irritante espressione che metteva su quando voleva farsi perdonare di qualcosa.

«Non so davvero cosa ti sia passato per la mente venendo qui, ma te ne devi andare.  » La rabbia per la sua incredibile sfacciataggine fu probabilmente ciò che la fece riavere dallo stupore di vederlo lì, perciò questa volta il suo tono parve molto più sicuro.

« Ti prego, ascoltami per un attimo. » Il ragazzo aveva fatto un passo avanti e aveva alzato un braccio nella sua direzione, facendola così arretrare automaticamente.

« Non voglio le tue preghiere, Finn », sentire il suo nome pronunciato dalle proprie labbra fu così strano da sembrare irreale, come se fosse stata un’altra a parlare, e impulsivamente Clarke serrò la mascella, « non voglio più niente che ti riguardi. »

«Lo so. »

«Perché sei ancora qui, allora? »

La giovane aveva sperato che il suo tono sconfitto implicasse un dietrofront da parte sua, ma le sue speranze furono vane. « Ho
bisogno di parlarti. Ti prego. »

Lei lo fissò per qualche istante dal portico, tre scalini sopra di lui, mentre la confusione e la tempesta che la stava sconvolgendo parevano non darle pace.

Era sempre stato così: Finn era l’unico in grado di offuscare qualsiasi sua capacità di giudizio; quando si trattava di lui, la sua razionalità semplicemente si dissolveva.

«No. »

«Ma…  »

Collins fu interrotto dal rumore della porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva con forza dietro alle spalle del nuovo interlocutore.

«Ehi,
Spacewalker », Bellamy parlò ponendosi davanti a Clarke come a volerla difendere, indicando la maglietta del ragazzo – un astronauta seduto sulla superficie lunare che faceva il dito medio –. « mi sembra che abbia detto di andartene. »

« E tu chi diavolo saresti? Questi non sono affari tuoi. »

«Scommettiamo?  » Il maggiore dei Blake superò i tre gradini della veranda con un solo passo e raggiunse il ragazzo, scrutandolo con astio.

Lo sguardo di ostilità fra i due si protrasse ancora per qualche momento, il livello di testosterone che era arrivato al culmine e pareva palpabile nell’aria intorno a loro, finché la giovane Griffin non ne ebbe abbastanza e li raggiunse.

Sorpassando Bellamy, si avvicinò a Finn e istintivamente lo afferrò per le spalle. Entrambi i loro sguardi scattarono nel punto in cui i loro corpi entravano in contatto, lei scioccata dalla propria mossa e lui con un sorrisetto compiaciuto sul volto.

«Ok, va bene? Parleremo. Ora vattene. »

Annuendo, lui prese qualcosa dalla sua tasca e, lasciandola totalmente sconvolta e sorpresa del gesto, le afferrò la mano, facendo cadere al suo interno un piccolo oggetto.

I due si guardarono per qualche altro istante, ognuno cercando qualcosa negli occhi dell’altra, finché Finn non si voltò e raggiunse la propria macchina.

Una volta sicura della sua lontananza, del fatto che ora se ne fosse andato e potesse riprendere a respirare normalmente, Clarke abbassò lo sguardo e notò il piccolo animale di metallo nel suo palmo sinistro.

Un colpo di tosse fermò sul nascere qualsiasi percorso sul viale dei ricordi e lei fu costretta a voltarsi.

«Non avevo bisogno del tuo aiuto,
Bellamy », il tono infastidito e tormentato di Clarke calcò sul suo nome, «potevo farcela da sola. »

Il ragazzo davanti a lei la guardò per un attimo con un’espressione indecifrabile, poi socchiuse gli occhi e alzò le braccia in segno di resa.

« Come vuoi, Principessa. »






E ora aveva ricevuto un messaggio dal suo ex ragazzo – se così poteva definirsi – in cui le chiedeva di incontrarlo quella stessa sera, al The 100, in mezzo a tutti i loro amici. Cosa poteva esserci di peggio?


Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dal suono squillante e acuto di un clacson in arrivo.

Clarke si voltò alla sua sinistra, da dove proveniva il rumore, per vedere un’automobile piuttosto sportiva che arrivava dall’inizio della strada.

Quello non era mai stato un quartiere molto chiassoso, la serie di case a schiera era occupata principalmente da anziani o coppie sposate, perciò la giovane si ritrovò piuttosto sorpresa del fatto.

Osservò l’auto raggiungere l’abitazione alla sua destra e subito capì di chi doveva trattarsi.

L’effettiva verità della sua ipotesi si concretizzò quando vide dirigersi fuori dalla suddetta casa l’irritantissimo Bellamy Blake, al momento preso da una gioia di cui non l’avrebbe mai ritenuto capace.

Nello stesso momento un ragazzo probabilmente della sua stessa età uscì dalla vettura con una simile espressione di eccitazione sul volto.

I due si studiarono da lontano per qualche secondo, stupore e frenesia facilmente intuibili dalle loro facce, e con poche falcate si raggiunsero.

Si guardarono per qualche istante senza dire nulla e poi, d’improvviso, si abbracciarono.

Percependo la propria intrusione in quell’attimo di intimità rubata, la ragazza riportò lo sguardo sul messaggio di Finn: Stasera al The 100, diceva.

Quando sollevò nuovamente gli occhi, la prima cosa che Clarke vide fu il ragazzo appena arrivato sulla veranda di casa Blake intento ad entrare; convinta che non ci fosse più nessuno, la giovane si guardò un po’ intorno solo per vedere che Bellamy era rimasto proprio lì dov’era e i suoi occhi erano fissi su di lei.

La giovane Griffin non poté fare a meno di irrigidirsi, ma non interruppe il contatto visivo. Da lontano, lui parve sollevare impercettibilmente il mento a mo’ di saluto e, in un attimo, si avviò verso l’entrata della propria casa.



 

 
*



« Wow, e quella chi era? »

Bellamy finì di sistemare le valigie del suo migliore amico e si voltò verso di lui; con una scrollata di spalle, parlò: « La persona più irritante che tu possa mai conoscere. »

« Beh, “irritante” non è il primo aggettivo che mi è venuto in mente vedendola. » Rispose l’altro con sarcasmo, dirigendosi verso la cucina e osservando fuori dalla finestra.

« Cosa, vuoi provarci con la mia vicina di casa? »

« Ehi, amico, non farei mai una cosa del genere. » Atom sollevò le sopracciglia e si voltò verso di lui.
Il maggiore dei Blake conosceva bene quello sguardo.

« No, non… »

« Ho visto come la guardavi. »

Bellamy si diresse verso il frigorifero e lo aprì, oscurando per qualche secondo la figura del ragazzo al suo fianco e tirando fuori due birre.

« Io non… Io non la guardo. A malapena la conosco. »

Afferrando la bottiglia che l’amico gli passava, il giovane Ward decise di non insistere, perciò gli lanciò un'occhiata indecifrabile e si appoggiò al bancone alla sua sinistra.

« Non posso credere di avere davanti Bellamy Blake. » Affermò con fierezza prendendo un lungo sorso dalla bevanda fresca.

 « Finalmente, direi. »

 « Ci sono così tante cose che non so di te... »

 Il moro osservò l'amico sporgersi in avanti e alzare le sopracciglia in un'espressione quasi arresa.

« Mi dispiace. Mi dispiace per tutto il tempo trascorso senza sentirci, mi dispiace essere sparito... »

« Ehi, Bell », Atom lo richiamò quasi dolcemente, « non devi scusarti. Sono successe un sacco di cose nelle nostre vite, è normale che le nostre strade si siano separate. »

« Aurora è morta. »

La frase gli scivolò dalle labbra simile a un'unica sillaba con incredibile facilità, sotto cui, però, si celava un antico dolore, una sofferenza che gli pareva di portarsi dietro da secoli, anziché da una manciata d'anni.

Per qualche strano motivo gli risultava difficile guardare negli occhi il suo migliore amico, come se quella fosse stata l'affermazione della propria sconfitta. Come se avesse implicato il suo non essere abbastanza.

Con la coda dell'occhio lo vide affondare il volto nelle proprie mani e sospirare pesantemente.

 Bellamy fu finalmente in grado di alzare lo sguardo e vide riflesso il proprio dolore nell'espressione mortificata dell'amico.

« È saltato fuori che era malata da tempo, ma non aveva detto niente né a me né ad Octavia. L'abbiamo saputo quando ormai era troppo difficile nasconderlo. »

« E voi... Voi siete rimasti da soli? Cosa avete fatto? »

Il maggiore dei Blake si avviò verso il divano e fece cenno ad Atom di seguirlo.

Una volta seduti, rispose: « All'inizio è stato difficile. Oh, se lo è stato. Avevo solo diciotto anni, non mi ero mai preso cura nemmeno di me stesso, come potevo farlo di una tredicenne? »

Il giovane si interruppe per passarsi una mano sul volto. « Poi, fortunatamente – per quanto possa ritenersi fortunata la mia vita – è riapparsa Atys, la sorella di mia madre. Te la ricordi? »

L'amico annuì con un sorriso vago, gli occhi persi nel vuoto – probabilmente stava pensando al decimo compleanno di Bellamy e a quella donna che pareva un'attrice degli anni cinquanta.

« Beh, non chiedermi perché, ma a un tratto voleva prendersi cura di noi. Non potevo rifiutare, capisci? Era la nostra unica occasione. Così, una mattina estiva siamo saliti sulla vecchia macchina di Aurora e siamo venuti qui, in California. Lei vive in un piccolo appartamento qui vicino, nel Cudahy.

Io avevo finalmente la possibilità di realizzare qualcosa, perciò mi sono arruolato all'Accademia e mi sono fatto il culo per laurearmi il più in fretta possibile.

Una volta essermi stabilizzato, ho usato i miei risparmi per affittare questa casa. Insomma, Atys ci ha davvero aiutati, ma come potevo continuare ad appoggiarmi a una trentacinquenne che soffre di crisi di mezza età precoci e porta a casa chitarristi strafatti?

Le cose sembravano andare davvero bene: avevo un lavoro, mia sorella otteneva tutto ciò desiderava, ci stavamo per trasferire in una casa tutta per noi, un posto dove avremmo potuto avere quello che volevamo... »

« E poi hai fottuto tutto. »

L'intuizione dell'amico lo fece sorridere amaramente; era davvero così sconfinata la propria scontatezza?

« C'era quest'idiota, nel mio vecchio dipartimento, un coglione a cui non ho mai dato retta. Una sera, però, ha detto qualcosa di troppo su Octavia e io sono scattato.
L'ho picchiato. Ho cercato di calmarmi, di dirmi che non ne sarebbe valsa la pena, ma lui continuava e...
Insomma, morale della favola: il Capitano mi ha sospeso a data da destinarsi ed eccomi qui. Rischio di perdere il mio lavoro, mia sorella mi odia per averle rovinato la vita e non so davvero che diavolo fare. »

« Bell, andrà tutto bene. So che è difficile, so quanto sia stata dura per te affrontare tutto da solo, ma credimi, tutto si risolverà. Dio, tu sei Bellamy Blake! Sei un lottatore, sei un leader nato. Mi hai trasformato nella versione più coraggiosa di me che potessi mai desiderare di diventare. E poi... Non sei più solo. »

Incoraggiandolo con un lieve sorriso, Atom lo guardò negli occhi e annuì vigorosamente.

« Grazie. Lo apprezzo davvero. È inutile dire che puoi restare qui quanto vuoi, no? »

« Non poltrirò sul tuo divano in eterno, ma accetto volentieri l’invito! »

I due ragazzi si abbandonarono a una leggera risata e caddero in un piacevole silenzio. Bellamy sorseggiava la propria birra e ripensava a com’era stato semplice ridurre la propria vita a una manciata di parole.

« Non so ancora dov’è la piccola O! » L’amico interruppe l’apprezzata quiete con un’esclamazione ad alta voce.

« La piccola O », rimarcò il maggiore dei Blake con sarcasmo, « sarà la mia morte. Si è fatta degli amici, così ha detto, e ora è con loro. »

« Wow, non credevo fossi così permissivo! »

« Sì, beh… Non appena saprò i loro nomi, cognomi e indirizzi farò solo un paio di ricerche, così, per informazione. »

Alzò le spalle con indifferenza e l’altro lo colpì con un debole pugno sull’avambraccio.

« Cazzone! »

Le loro risate riecheggiarono nella sala per qualche altro secondo, prima che Atom aggiungesse in tono leggermente più serio: « Stasera usciamo a festeggiare! »

« Cosa? Sai, non sono più il tip... »

« Non era una domanda, Bell », lo interruppe l'altro con una certa sicurezza nella voce, « stasera usciamo a festeggiare. » Ripeté nuovamente le parole, questa volta scandendo una sillaba dietro l'altra.

Osservando attentamente il suo volto, Bellamy comprese di non aver alcuna possibilità di opporsi. Quella sera avrebbero festeggiato, fine della storia.
 
 



 
*


 
L'ora era arrivata.

Sì, insomma, a Clarke non era mai mancato un pizzico di teatralità, quel briciolo sufficiente a farla definire da Jasper una vera drama queen.

Il fatto era che l'ora era davvero arrivata, perché in venti minuti avrebbe dovuto trovarsi al The 100 e affrontare Finn.

La giovane Griffin si osservò nuovamente allo specchio e sospirò profondamente.

Con lui era sempre stato così: era in grado di farle dubitare di qualsiasi cosa, anche della più evidente, ma, ancora peggio, soprattutto di se stessa.

Era una verità di cui si era sempre sentita consapevole, ma che non era mai riuscita a cambiare in alcun modo: Finn era l'unico capace di portarle via qualsiasi sicurezza.

Sistemandosi per l'ennesima volta i capelli lasciati al naturale, Clarke afferrò la felpa appesa alla maniglia della porta della propria stanza e si diresse giù per le scale.

Così come era solita fare durante la moltitudine di serate estive passate al locale, la bionda decise di avviarsi a piedi: così avrebbe sicuramente avuto modo di ragionare un po'.

Cosa voleva Finn? Era tornato in città? Era tornato in città per restare? Ma soprattutto: Dov'era Raven? Era tornata con lui?

La giovane Griffin ricordava ancora con estrema chiarezza il giorno in cui li aveva visti caricare la Jeep del ragazzo un anno prima, montare in macchina e partire senza voltarsi indietro nemmeno una volta.

Sapeva che lei l'aveva messo davanti ad un bivio – in giro non si era parlato d’altro per giorni – gli aveva concesso un ultimatum per cui l'avrebbe tenuta con sé o non l'avrebbe mai più rivista, a lui la scelta.

Inutile dire quale era stata la sua decisione.

Clarke non era mai riuscita a evitare di biasimare se stessa e la sua debolezza per tutto ciò che era successo: aveva conosciuto l’affascinante Collins all’età di diciassette anni e si era perdutamente innamorata di lui in così poco tempo da sentirsi quasi ridicola.

Non era mai stata una persona passionale dal punto di vista romantico, aveva sempre trascorso la maggior parte del suo tempo con Jasper e Monty e questo le era bastato, almeno finché non aveva conosciuto lui.

Col senno di poi, ancora non sapeva se si fosse trattato effettivamente di lui o del semplice bisogno di avere qualcuno al proprio fianco.

E lei non aveva voluto semplicemente un qualcuno, aveva voluto una persona estranea a tutto quello che le era successo, alla perdita del padre e ai problemi con la madre, aveva desiderato così tanto una via di fuga da gettarsi fra le sue braccia senza farsi né fargli troppe domande.

Era stato schifosamente ironico quando, circa un anno dopo, una misteriosa ragazza bruna aveva bussato alla porta di Finn mentre Clarke era in casa sua.

I tre si erano ritrovati a fissarsi senza parole, il ragazzo con espressione simile a quella di un animale braccato e le due fanciulle colte dalla più totale sorpresa.

E, di nuovo, era superfluo dire quale delle due se ne fosse andata per prima.

La giovane Griffin aveva potuto riconoscere la propria espressione sul volto della ragazza mentre si davano il cambio, la prima uscendo dall’appartamento e la seconda entrandovi.

Aveva visto il proprio stupore e il proprio risentimento nei suoi occhi, si era voltata un’ultima volta verso di lui e poi gli aveva voltato le spalle; a Finn, a quella ragazza, a tutti i ricordi e alla parte di sé che si stava lasciando dietro.

La rabbia di Clarke era stata travolgente, impetuosa, così violenta da farla sentire quasi impotente, sopraffatta da quel sentimento a lei tanto estraneo.

Se ci rifletteva attentamente, poteva ancora percepire il dolore al pugno destro che aveva usato per colpire un albero sotto casa Collins.

La bionda sorrise amaramente nel ricordare ciò che era successo e, in un inaspettato atto di amor proprio, cercò di seppellire nuovamente il tutto nella parte della propria mente che aveva relegato a scatolone di vecchie e superate preoccupazioni.

Quasi senza nemmeno accorgersene, camminando e rammentando il passato, era arrivata al club.

Con un respiro profondo si avvicinò all’entrata, dove intravide Miller e Monty discutere animatamente, probabilmente riguardo una delle loro battaglie spaziali online.

Percependo qualcuno schiarirsi la voce alle proprie spalle, si voltò: Finn la fissava da sotto le ciglia scure, il capo piegato verso il basso e le mani in tasca, probabilmente volendo mascherare il proprio nervosismo.

« Ciao! » La salutò con tono convinto, sebbene lei potesse leggere nei suoi occhi una certa inquietudine.

« Ehi. » Rispose lei con un cenno della testa alquanto incerto.

« Vuoi entrare? » Chiese lui con finto disinteresse, indicando con un gesto della mano l’ingresso del locale.

« No. »

Finn strinse le labbra in un’unica linea simile al disappunto, poi si voltò e cominciò a camminare lentamente verso le panchine alla loro destra.

Senza dire una parola, Clarke prese un respiro profondo e lo seguì.

« Vuoi sederti? »

« No. »

« Sono contento che tu mi abbia dato un’occasione. » Dicendo così, si sporse in avanti per sfiorarle il braccio, ma la giovane Griffin fu più veloce e si scansò prima che la sua mano la raggiungesse.

« L’ho fatto solo per poter chiudere definitivamente questa farsa, Finn. » Aveva parlato senza guardarlo negli occhi e una piccola vocina nella sua testa – tanto insignificante quanto fastidiosa – l’aveva rimproverata.

Sospirando con una certa evidenza, puntò lo sguardo nel suo. Faceva male.

« Voglio dirti tutto », il ragazzo davanti a lei annuì, probabilmente a se stesso, e poi continuò: « Sai, un anno fa… Non ho avuto modo di farlo. »

« Già. » Commentò brevemente lei, stringendosi le braccia al petto in una chiara posizione di difesa.

« Quando ti ho conosciuta avevo bisogno di prendere una pausa dalla mia vecchia vita. Da Raven, dalla mia vecchia scuola, le vecchie amicizie. Era tutto sbagliato, tutto confuso, e io volevo semplicemente… evadere. Tu eri così bella e intelligente e carismatica, eri quello che io non sarei mai riuscito ad essere. Credo di essermi innamorato di te praticamente subito. Pensavo, e credimi quando dico che ne ero maledettamente convinto, che non avrei più avuto nessun contatto con il mio passato. Tu mi rendevi felice… »

« Perché mi stai dicendo tutto questo? Pensi che cambierà le cose? »

« No, ma… »

« Allora cosa? Lo fai per riportarmi nel tuo letto? » Non poté trattenersi dall’alzare la voce e compiere un passo avanti, mentre la frustrazione e la rabbia le ribollivano nelle vene.

« Fra noi non è mai stato solo quello, lo sai bene. Non è quello che voglio. » Allo stesso modo, Finn si sollevò dalla panchina a cui si era appoggiato e le si avvicinò.

« Avevo chiuso con ciò che mi ero lasciato alle spalle. Per me era tutto sepolto e non avevo alcuna intenzione di lasciarmi trascinare nuovamente in quel circolo vizioso. »

« E allora come sei arrivato da questo a salire sulla tua bella macchina e andartene con lei? » La voce di Clarke tremò irrimediabilmente pronunciando quelle parole e all’ira per tutto quello che era accaduto si aggiunse una considerevole vergogna per se stessa.

« Quel giorno, quando Raven è tornata… Non me lo sarei mai aspettato. Non era previsto, non l’avevo immaginato. Pensavo avesse capito che era finita il giorno in cui mi ero trasferito, ma a quanto pareva non era così. Era spaventata, disorientata, era scappata di casa. Non potevo abbandonarla, capisci? »

« Non te lo avrei chiesto. Non ti avrei chiesto di lasciarla sola, Dio, io… »

« Clarke… » Lui la richiamò con tono inaspettatamente dolce, e questo non fece altro che farle salire la nausea.

« Mi hai spezzato il cuore. » Il singhiozzò che le scivolò dalle labbra le sconvolse il petto, ma questa volta non tentò neppure di nasconderlo.

« Mi dispiace, Clarke, non sai quanto io sia dispiaciuto. Non è mai stata mia intenzione ferirti, ma Raven era lì e non aveva nessun altro, era sola e… Ero confuso anch’io, avevo seppellito tutti i miei sentimenti sotto al desiderio di chiudere con il passato, ma… Non ho mai smesso di amarla. Mi dispiace. »

« No! Non mentire, Finn! Non osare nemmeno! Tu non la ami. Ti aggrappi a quell’abitudine perché è facile, perché non devi sforzarti, perché così ti è tutto dovuto, ma tu non la ami. Se lo avessi fatto davvero, non avresti mai… »

La giovane Griffin aveva cominciato ad alzare la voce e, quando se ne accorse, fece una pausa, tirò su un respiro profondo e poi riprese: « La prima volta che noi… La prima volta, quella sera, ti ho detto che non eri solo. Tu urlavi e prendevi a calci qualsiasi cosa perché non sopportavi l’idea di perdere e la possibilità che non ci fossero più speranze, e io ti ho detto che non eri solo. »

Le lacrime ormai avevano cominciato a concentrarsi sul fondo dei suoi occhi e la bionda sapeva perfettamente che avrebbero cominciato a rigarle il volto da un momento all’altro.

« Beh, tu non mi hai fatta sentire allo stesso modo. Mi hai fatta sentire come se tu fossi l’unico al mondo a capirmi e poi mi hai tolto quella consapevolezza. Mi hai fatta sentire dannatamente sola e questo non potrò mai perdonartelo. »

Con un gesto seccò del dorso della mano sinistra si ripulì il viso dalle stille salate che avevano cominciato ad attraversarlo e tirò su col naso, chiudendo gli occhi per un millesimo di secondo.

« Clarke, aspetta… »

Di nuovo si allungò verso di lei per toccarla, per cercare di farle capire in qualsiasi modo quanto fosse dispiaciuto, ma questo non fu possibile: la giovane Griffin si scostò per l’ennesima volta.

Si guardarono negli occhi ancora per pochi secondi, ma prima che lui riuscisse nuovamente a parlare, lei si stava già voltando.

« È finita. Qualsiasi cosa fosse rimasta di… questo – il disgusto fu estremamente percepibile nella sua voce – ora non c’è più. Non c’è più niente. Non cercarmi. Non parlarmi. Se mi vedi per strada, non guardarmi nemmeno. Voltati. »

Prima che il ragazzo potesse fare qualsiasi cosa, prima che riuscisse anche solo ad elaborare l’idea di averla persa per sempre e per davvero, Clarke se ne stava già andando.





 
*


 
Tutto quello che riuscì a fare fu camminare: senza mai voltarsi indietro, senza nemmeno la forza di muovere la testa, Clarke cominciò a camminare verso l'entrata del club, poi dritta verso l'angolo più nascosto del bancone del bar.

Voleva continuare a trascinarsi in avanti, voleva fermarsi e finalmente riposarsi, voleva che tutto quel chiasso e tutte quelle persone scomparissero, voleva che qualcuno le parlasse.

Ed era proprio quello il problema: come poteva pensare di volere davvero qualcosa, se i suoi desideri non facevano altro che contraddirsi e annullarsi l’un l’altro?

Non aveva voglia di cercare i propri amici, quindi si sedette su uno degli sgabelli alti e si fece scivolare le luci colorate e la musica spacca timpani contro la schiena, sperando così di estraniarsi da tutto quello che la circondava.

Se ne stava semplicemente lì, le mani congiunte sulla superficie fredda e il capo chino, gli occhi socchiusi e stanchi: si sentiva prosciugata da qualsiasi energia.

Rimase in quella posizione finché non sentì due mani tamburellare sul bancone davanti a lei.

Sollevando lo sguardo, incontrò il sorrisone di Alexander, uno dei baristi del club e miglior amico di Wells. Lo conosceva da tutta la vita e aveva trovato in lui un dono fondamentale, assolutamente necessario: la discrezione.

« Ehi, biondina, cos'è quel muso lungo? » Le domandò a voce alta, il suono della musica a fargli da sottofondo.

« Finn. » Disse semplicemente lei, sicura che quello bastasse a rendere l'idea.

Tutti sapevano cos’era successo fra loro due e, poiché Clarke era la persona con cui erano cresciuti e Finn solamente qualcuno che si era trasferito da poco, tutti avevano preso le parti della ragazza e avevano cercato di starle vicino.

Senza il bisogno di aggiungere altro, il ragazzo dall'altro lato del bancone si allontanò per qualche attimo, solo per ritornare con un grande bicchiere colorato fra le mani.

« Ti potrebbe servire! » Le parlò avvicinandosi per farsi sentire e posandole una mano sul braccio destro.

La bionda gli sorrise con gratitudine e lo osservò allontanarsi per servire gli altri clienti.

La maggior parte della serata trascorse così: lei seduta su quello sgabello a buttare giù drink dopo drink a cercare di non pensare a quello che era successo, a quello che aveva detto a Finn e a ciò che le aveva detto lui, tentando di dimenticare l'odio che provava verso la debolezza che entrambi avevano dimostrato, e Alexander a controllarla da lontano e ad assicurarsi che non esagerasse.
 
 



 
*


 
« Quindi... Questo è il The 100. » Constatò Bellamy osservando l'insegna luminosa davanti a loro e i gruppi di ragazzi che probabilmente aspettavano qualche amico per entrare.
 
« Esatto! » Rispose Atom con molto più entusiasmo, voltandosi verso il moro e incoraggiandolo con un sorriso.

« Octavia è dentro. » Aggiunse l'altro, scrollando le spalle come a volersi dare una motivazione.

Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva frequentato un locale, visto una pista da ballo o avuto anche solo la minima intenzione di bere un drink.

Sentiva ormai che quella vita non gli apparteneva più: i ricordi che aveva della propria adolescenza parevano quasi dei sogni lontani, come se non fossero mai esistiti.

« Ulteriore motivo per entrare, no? Andiamo! » Con una pacca sulla spalla dell'amico il giovane si incamminò e il maggiore dei Blake fu costretto a seguirlo.

Una volta dentro, Bellamy si guardò intorno per qualche istante: sulla sinistra, in fondo, una folla piuttosto consistente ballava e si muoveva al ritmo della musica, la pista circondata da privè essenzialmente vuoti; sulla destra, invece, si trovavano il bancone del bar e alcuni tavolini probabilmente utilizzati durante il giorno.

L'ambiente non era affatto piccolo, anzi, era piuttosto spazioso: sicuramente molto migliore delle discoteche che era solito frequentare nell'Oregon. Percepì l'amico voltarsi verso di lui e fece lo stesso.

« Ehi, io prendo da bere! Piña Colada in nome dei vecchi tempi? » Gli urlò per farsi sentire dalla musica, colpendolo giocosamente con una lieve gomitata.

« Una birra sarà sufficiente, grazie! » Rispose lui con tono ironico, ridendo per la sua proposta.

Mentre Atom si dirigeva verso il bancone, Bellamy tirò fuori il cellulare dalla tasca e cominciò a comporre un SMS per Octavia.
 




 
*


 
« Una Piña Colada e una birra. Sai, il mio migliore amico è diventato noioso! »

Il giovane Ward si sporse sul bancone e fece la propria ordinazione. Mentre aspettava che i drink fossero pronti, guardandosi attorno, vide qualcuno di familiare e si avvicinò.

Prima di parlare si schiarì la gola, ma lei sembrò non farci troppo caso.

« Ehi, scusa, tu sei la vicina di Bell, vero? » La bionda finalmente si voltò, un'espressione confusa e accigliata sul volto.

« Io sono ubriaca. » Fu la sua pronta risposta, alzando il bicchiere in un brindisi immaginario.

Atom scoppiò in una risata fragorosa e la osservò per qualche attimo attraverso le luci colorate e quasi psichedeliche che le illuminavano il volto.

All’improvviso un’idea geniale gli venne alla mente e, pensando di non far danno a nessuno, le parlò nuovamente: « Mi chiedevo… Vorresti unirti a noi? Io e Bellamy siamo soli e credo tu conosca il locale molto meglio di noi. Ci divertiremo! »

Clarke si girò con il busto verso il ragazzo, accennando un sorriso e mordendosi il labbro inferiore in segno di indecisione.





 
*



« Bellamy! »

La voce di Octavia gli giunse attraverso la musica prima di riuscire a vederla, perciò il maggiore dei Blake si staccò dalla parete a cui era appoggiato e si voltò alla propria destra.

Sua sorella lo raggiunse e lo abbracciò velocemente, staccandosi subito dopo.

« Allora », urlò lei per farsi sentire, « che ci fai qui? » Poteva percepire la sua stessa voce salire di una tonalità, mentre si guardava intorno e si accertava che nessuno dei suoi amici fosse nei paraggi.

Se Bellamy avesse capito che tipo di gente stava frequentando, non avrebbe avuto vita lunga.

« Non indovinerai mai chi ho incontrato. » Lui gridò a sua volta per sovrastare il rumore che li circondava e, senza attendere risposta, la prese per mano e la trascinò lontano dalla calca e dalla musica, vicino al bar.

Prima che i due potessero ancora scambiarsi una parola, il moro intravide un volto conosciuto alle spalle della sorella e sorrise furbescamente; quando lei si voltò per vedere chi fosse, la percepì sussultare con sorpresa.

Si gettò fra le sue braccia non appena le fu abbastanza vicino e sorrise contro la sua spalla, entusiasta e sconvolta dalla sua presenza.

« Atom! »

« Octavia… »

E in quel momento, mentre osservava il suo migliore amico e sua sorella salutarsi dopo anni di lontananza, Bellamy si accorse che c’era qualcun altro, lì vicino.

« Principessa? »

« Bellamy. »

I due si osservarono impassibili per qualche attimo, sebbene la confusione e il disorientamento sul volto di Clarke fossero ben visibili nonostante le luci diffuse e colorate che si riflettevano dalla pista da ballo.

Non appena l’abbraccio dei due ragazzi si sciolse, Octavia si accorse della presenza della loro vicina di casa e si avvicinò per baciarle la guancia.

« Ehi, bellezza! »

La bionda sorrise stordita, l’effetto degli svariati drink che iniziava a fare effetto, e passò ad Atom il bicchiere che teneva in mano.

Poi si voltò verso il maggiore dei Blake, rimasto in silenzio per tutto il tempo, e gli fece scivolare fra le dita la bottiglia di birra.

Lui non parve nemmeno accorgersene, troppo occupato a lanciare occhiatacce simili a stilettate infuocate verso il suo migliore amico, mentre l’altro gli sorrideva maliziosamente e alzava le spalle con innocenza.

La brunetta prese per mano il giovane Ward e poggiò il capo contro la sua tempia; non poteva credere che fosse davvero lì, con loro, soprattutto perché era sempre stata convinta che non l’avrebbe mai più incontrato.

Lui era come un altro fratello maggiore, l’aveva sempre percepito come un membro della propria famiglia e l’aveva guardato con la stessa ammirazione e adorazione che aveva riservato a Bellamy.

« Ti prego, andiamo a ballare! » Lo supplicò con quella che era la sua migliore faccia da cucciolo, sperando che sortisse l’effetto desiderato.

« Io credo che… Credo che andrò a bere qualcosa. » Clarke sopraggiunse nella conversazione dopo istanti di silenzio, sentendosi come qualcuno di troppo in quello che evidentemente era un raduno di vecchi amici.

« Per una volta potrei davvero essere d’accordo con te, Principessa. » Anche il moro parve essere della stessa idea, perciò Octavia e Atom decisero di poterli lasciare soli e buttarsi in pista.

I quattro si divisero con la promessa di sentirsi tramite cellulare e di non bere troppo, mentre intorno a loro la folla cominciava ad aumentare e lo spazio pareva inesorabilmente diminuire.

« Sarà meglio avviarci, prima che qualcuno non ti veda e ti calpesti. » Affermò il ragazzo con un sorrisetto compiaciuto sul volto, cominciando ad avviarsi verso il bar e gettando qualche occhiata alle sue spalle per assicurarsi che lei lo seguisse.

La giovane Griffin parve capire la battuta solo dopo qualche secondo, perché, afferrando il suo avambraccio per non perderlo di vista, sbuffò: « Doveva essere divertente, Blake? »

Quando raggiunsero il bancone del bar, e quindi riuscirono a parlare senza dover urlare e a camminare senza dover evitare di beccarsi gomitate alle costole, il ragazzo si voltò verso di lei, adocchiando rapidamente le sue dita strette attorno al proprio braccio.

Lei seguì il suo sguardo lentamente e, quasi come svegliandosi da un incantesimo, ritrasse con velocità la mano.

I due si sedettero esattamente dove lei aveva trascorso la prima parte della serata e presto Alexander li raggiunse.

« Cosa ti porto, splendore? » Domandò rivolgendosi a Clarke e gettando solo un’occhiata veloce al suo accompagnatore.

« Per me il solito. » Rispose lei con una scrollata di spalle.

« Io sono a posto così. » Aggiunse Bellamy, sollevando la bottiglia di birra da cui non aveva ancora preso nemmeno un sorso.

Per qualche momento si creò un silenzio piuttosto gradevole, lei fissando il vuoto davanti a sé e lui bevendo lentamente la propria bevanda, poi, quando arrivò il suo cocktail, Clarke schioccò la lingua e bevve velocemente un primo goccio.

« Woah, ci vai giù pesante. E io che pensavo fossi una brava ragazza… »

La giovane si voltò verso di lui ruotando sullo sgabello forse con un po’ troppa energia, perché le proprie ginocchia urtarono la sua gamba sinistra.

« Oh, mi dispiace… » Farfugliò lei staccandosi subito e osservandolo con le sopracciglia aggrottate.

Bellamy si fece sfuggire un sorrisino e liquidò il fatto con un gesto della mano.

« Non fa niente. »

« Io non sono una cattiva ragazza. » Sentenziò subito dopo, alzando l’indice destro davanti al volto in segno di ammonimento.

« Non ne dubito… » Rispose l’altro con poca convinzione, bevendo ancora un altro po’ dalla bottiglia di vetro.

« Ho solo avuto una brutta serata. »

Osservandola così indifesa e malinconica, il ragazzo capì immediatamente di cosa dovesse trattarsi.

« Eri con Spacewalker, non è vero? »

Immediatamente entrambi spalancarono gli occhi, stupidi dalla sua intrepida domanda, e si guardarono per un attimo senza dire una parola.

« Voglio solo dimenticarlo per sempre. »

Un silenzio questa volta abbastanza imbarazzante cadde tra i due, ma Clarke lo interruppe presto: « E credo che questo mio amico qui », indicò con un cenno della testa il bicchiere che teneva stretto nella mano destra, « possa davvero aiutarmi a farlo. »

« L’unica cosa che ti aiuterà a fare sarà vomitare la tua cena. » Commentò Bellamy guardandosi attorno e riportando l’attenzione su di lei l’attimo successivo.

L’espressione sul suo volto era assolutamente comica: le sopracciglia aggrottate, le labbra unite in un’unica linea di perplessità, lo sguardo interrogativo.

« Io credo… Credo di non aver cenato. »  

Lui parve scattare sullo sgabello. « Stai scherzando, Principessa? », La sua era un’espressione di puro terrore, « Vuoi farmi arrestare per omicidio colposo? »

Sentendo quelle parole, la bionda tentò invano di soffocare una risata e si portò entrambe le mani davanti alla bocca.

« Calma, agente, non la metterò nei guai. E io che pensavo fossi un intrepido ribelle! »

Con un gesto secco le tolse il bicchiere di mano e finì il suo contenuto in un unico sorso.

Quando lo poggiò nuovamente sul bancone e puntò lo sguardo nel suo, la trovò con un sorriso di stupore sulle labbra.

« Usciamo di qui. »

Senza attendere oltre, Bellamy la prese per mano e la condusse verso l’uscita.

Clarke sentiva la propria testa girare vorticosamente, ma la stretta forte sulle sue dita le impedì di crollare a terra.

Una volta fuori, fu il suo turno di trascinarlo: lo sorpassò e si diresse verso i tavolini alla loro sinistra.

Non appena si sedettero, uno di fronte all’altra, entrambi parvero accorgersi solo in quel momento delle loro mani ancora intrecciate, perciò dopo un’occhiata da parte del moro, lei si ritrasse e incrociò le braccia al petto.

« Perché non ci siamo ancora urlati contro? » Domandò dopo qualche attimo di silenzio, alzando il volto per osservarlo meglio.

Il maggiore dei Blake accennò una risata e si strinse nelle spalle. Poi, scrutandola attentamente, parlò: « Forse perché discutere con un’ubriaca non è poi così divertente. »

« O forse sei tu quello ubriaco. » Sentenziò la bionda subito dopo, alzando una mano e lasciandola sospesa in aria.

« Sì, certo. Non mi conosci, Principessa. »

« Perché allora non mi ripeti l’alfabeto al contrario? » Lo provocò lei, sollevando un sopracciglio in segno di sfida e alzando il mento verso l’alto.

« Non ne ho bisogno! », Si difese lui, « Sto perfettamente bene. »

« Hai solo paura. Z, Y, X… »

« Smettila! »

« S, R, Q… »

« Sono piuttosto sicuro che ti sia persa qualcosa, ma non mi sorprende nelle tue condizioni. » La prese in giro con un sorriso furbo sulle labbra e una scrollata di spalle.

« Sei solo invidioso. O, N, M… »

Clarke aveva iniziato a muovere le braccia in più direzioni, prima lanciandogli linguacce e poi storcendo gli occhi, mentre la lieve risata di Bellamy le faceva da sottofondo e accompagnava le sue peggiori smorfie.

Non sapeva perché si stava comportando in quel modo: quella era stata una delle peggiori serate di sempre, aveva detto addio all’unico individuo di cui si fosse mai innamorata in diciannove anni di miserabile vita, era rimasta sola gran parte della serata, bevendo e cercando di buttare giù qualsiasi pensiero potesse farla ragionare lucidamente, e ora non riusciva a smettere di fare l’idiota in compagnia del ragazzo più irritante che avesse mai conosciuto, nonché suo vicino di casa da poco più di una settimana e fratello di una delle poche persone a cui fosse riuscita chiaramente a spiegare la propria situazione famigliare.

Sì, insomma, quella cosa doveva necessariamente aver a che fare con l’alcol, non c’era altra spiegazione plausibile.

Si sentiva perfino bene, in un certo senso; si stava rendendo ridicola, sicuramente, ma non poteva fare a meno di abbandonarsi a una risata bassa, controllata, ma pur sempre una risata.

Forse era perché non aveva aspettative, non voleva apparire bella, intelligente e carismatica – così come l’aveva definita qualche ora prima Finn – anzi, per qualche strana ironia della sorte, voleva apparire in tutt’altro modo.

O forse era perché le sue inibizioni s’erano considerevolmente ridotte, spazzate via dal liquido freddo che le aveva bruciato la gola fino a qualche momento prima.

« Devi davvero smetterla », la riprese lui tra una risata e l’altra, in qualche modo stupefatto dall’intera situazione, « mi metti i brividi. »

Clarke spalancò la bocca con espressione stupita e offesa. « E io che credevo di piacerti davvero! »

« Chi l’avrebbe mai detto… » Bellamy fece una piccola pausa e osservò le proprie mani poggiate sul tavolino, poi tornò a guardarla: « La Principessa ha senso dell’umorismo. »

« Non ne hai la minima idea. » Confermò lei sbadigliando e poggiando la testa sulle proprie braccia conserte.

Lui la osservò distrattamente per qualche attimo, cercando in qualsiasi modo di decifrare quella strana ragazza e di capire come fosse veramente, ma fu costretto a interrompere quelle riflessioni a causa di uno sbadiglio che colpì anche lui.

« Penso sia ora della nanna. »

Tirando fuori il proprio cellulare dalla tasca dei jeans, notò l’ora sul display: le due e trentuno del mattino.

Subito iniziò a digitare un SMS per sua sorella e, non appena finì, poggiò il telefono davanti a sé.

Clarke, nel frattempo, si era risollevata e lo stava fissando con una strana espressione sul volto.

« Che c’è? »

« Mi chiedevo… Quanti anni hai, Bellamy? » Domandò lei, sporgendosi sul tavolino e reggendosi la testa con la mano sinistra.

« Ne compirò venticinque a breve. »

« Sei un omaccione! »

Il maggiore dei Blake non fece in tempo a formulare una risposta, poiché il suo cellulare vibrò e si illuminò.

Non vogliamo tornare proprio ora! Possiamo avviarci a piedi fra un po’. Ci vediamo a casa.

Beh, a quanto pareva sua sorella e il suo migliore amico l’avevano piantato.

« Qualcosa non va? » La voce di Clarke, questa volta bassa e calma, interruppe il corso dei suoi pensieri e Bellamy sollevò lo sguardo verso di lei.

« Nessun problema. Andiamo, ti riporto a casa. »

I due si alzarono quasi contemporaneamente, e lui dovette sorreggerla per un braccio quando la bionda inciampò nei suoi stessi piedi.

Scivolando con le dita fino ad arrivare a stringere le sue, le prese nuovamente la mano e insieme si diressero verso la sua auto.

Bellamy voleva davvero dirsi che l’aveva fatto solamente per non perderla di vista o farla cadere, ma c’era qualcosa in lei – qualcosa che era stato in grado di notare solo quella sera – che sembrava attirarlo e respingerlo in eguale misura; magari era il suo sguardo così indifeso e nostalgico, magari era lo stato in cui si trovava, ma il moro percepiva un tale senso di protezione nei suoi confronti da lasciarlo interdetto, meravigliato.

Una volta saliti in macchina, Clarke si tirò il cappuccio della felpa sulla testa e si appoggiò al finestrino, chiudendo gli occhi e abbandonandosi al calore del veicolo.

Il giovane Blake le lanciò una breve e veloce occhiata prima di mettere in moto e guidare, non molto lontano, fino alle loro abitazioni.

Il viaggio durò poco più di dieci minuti e fu estremamente silenzioso; prima che uno di loro potesse dire qualcosa, erano già arrivati.

Notando che la bionda non accennava ad aprire gli occhi, la richiamò due volte lievemente e, quando lei si svegliò, lui stava attraversando la macchina per aprirle la portiera.

« Andiamo, Principessa. »

Si diressero verso la sua abitazione senza dire una parola e, una volta arrivati davanti al suo portico, Clarke infilò la chiave nella serratura e si appoggiò alla propria porta di casa.

« Stai bene? Hai bisogno che ti metta a letto? Sai, devi solo chied… »

« Sto bene. » Con un’occhiata di rimprovero che a lui parve estremamente lucida, la giovane Griffin lo interruppe prima che potesse finire la frase.

L’altro affondò i pugni nelle tasche dei jeans e dondolò sui talloni, percependo una sensazione di attesa e aspettativa scorrergli nelle vene. Per cosa, non avrebbe saputo dirlo.

« Sapevo che saresti stato tu a riportarmi a casa. » Affermò lei con convinzione, puntandogli teatralmente l’indice contro, prima di voltargli le spalle e sparire dietro la porta senza aggiungere nient’altro.

Bellamy non poteva dirsi sicuro di aver compreso il significato di quella frase.







 

Curiosità:


Non essendoci stato detto quale sia il cognome di Atom, ho voluto affibiargli Ward, poiché in effetti è il cognome dell'attore che lo interpreta.


 

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Capitolo 6
*** V ***


Prima di tutto, ringrazio come sempre le dolcissime e disponibilissime persone che ad ogni capitolo recensiscono e inseriscono tra le seguite/ricordate/preferite.
Siete il mio supporto, davvero. Semplicemente grazie.

In seguito, vorrei parlare un po' dei personaggi: è mia preoccupazione renderli il più IC possibile, ma è anche vero che stiamo parlando di una storia AU, dove le cose che hanno dovuto affrontare sono diverse da quelle che affrontano nello show.
Per questo motivo, ogni volta che scrivo, la mia domanda è: "Cosa farebbe se si trovasse in questa situazione? Come reagirebbe?"
Ed è difficile, devo ammetterlo, quindi se alcuni comportamenti vi sembranno OOC (spero davvero di no) tenete in mente anche questo. Quello che so per certo è che mi capirete, perché voi mi capite sempre.

Detto questo, ho un avviso: dal prossimo capitolo si entrerà nella fase successiva della vicenda, quella riguardo la morte di Jake Griffin. Se non ho trattato quest'argomento finora, è perché volevo assicurarmi due cose:
1) Che le storie e i caratteri dei vari personaggi si conoscessero, e quindi ho voluto approfondire il lato introspettivo.
2) Che Clarke si fidasse di Bellamy. Ovviamente, per farsi aiutare nella ricerca della verità, doveva avere una certa fiducia in lui, e credo che dopo questo capitolo il processo si sia avviato.

Bene, credo di aver detto tutto. Se avete dubbi, domande o critiche, non esitate a farmelo sapere.

Buona lettura!



 



Is It Any Wonder?
 




 
L'ultima cosa che Jasper ricordava della sera prima era il volto di Monty mentre lo metteva a letto e gli rimboccava le coperte, mormorando qualcosa sul fatto che la prossima volta avrebbe dovuto trovarsi un migliore amico meno decerebrato e capace di coricarsi da solo.

Il giovane Jordan sbatté le ciglia più volte, tentando di visualizzare ciò che lo circondava, ma un incessante dolore alle tempie sembrava volerlo colpire come un martello pneumatico e anestetizzare qualsiasi sua facoltà motoria.

Con uno sbuffo e un grugnito piuttosto infastidito, si alzò sui gomiti e fissò l'attenzione sui ghirigori delle sue coperte, mentre i raggi del sole filtravano placidamente dalle tapparelle semi abbassate.

Una veloce occhiata al proprio orologio da polso fu sufficiente a fargli rendere conto che erano da poco passate le tre del pomeriggio: aveva dormito per tredici ore ininterrottamente.

Beh, era per certo molto più di quanto riuscisse a dormire da sobrio.

Sollevando di poco il capo, Jasper notò un post-it di sua madre attaccato alla testiera del proprio letto: “Il pranzo è nel microonde.”

 Sì, come se avesse voglia di ingerire qualsiasi tipo di sostanza commestibile.
 
Il ragazzo si lasciò ricadere fra le lenzuola e si permise di fissare il soffitto blu della propria camera da letto per qualche istante. Una volta aver appurato che non avrebbe nuovamente perso conoscenza di lì a breve, si mise a sedere, si strofinò gli occhi e si passò una mano fra i capelli.

Aveva bisogno di una doccia e ne aveva bisogno subito; sporgendosi sulle proprie ginocchia per aprire il cassetto del comodino alla sua destra, afferrò un paio di boxer e si diresse verso il bagno.

Quando ne uscì, dodici minuti dopo, alcune ciocche di capelli umidi gli ricadevano sugli occhi e il suo stomaco pareva aver cambiato idea, cominciando a brontolare in evidente segno di protesta.

Jasper si strofinò la testa contro un asciugamano e, indossando semplicemente la biancheria intima, si diresse verso la cucina. I suoi genitori erano entrambi a lavoro, mentre sua sorella Roslyn era andata via di casa quando lui era da poco divenuto dodicenne, perciò era solo.

I due fratelli di casa Jordan avevano fin da subito instaurato un legame profondo e intenso, nonostante i dieci anni di differenza, e col tempo quel legame non aveva fatto altro che divenire sempre più potente e indissolubile; tra loro c'erano complicità e affinità, due degli elementi principali in qualsiasi tipo di rapporto, che camminavano a braccetto con il senso di protezione e il giusto tono di competizione che era sempre stato il cardine del loro affetto.

Quando, ormai ventiduenne, Roslyn aveva lasciato la casa dove aveva vissuto per tutta la vita e aveva deciso di viaggiare per l'Europa, Jasper si era trovato in una situazione a dir poco complicata: inizialmente i suoi genitori, Augustus e Melody, erano andati su tutte le furie, le avevano urlato contro che quello era solo l'ennesimo tentativo di ribellarsi ai progetti e agli ideali che le avevano tanto amorevolmente cucito addosso, portando così il minore di casa Jordan a mettere in dubbio ogni componente della propria famiglia, ma alla fine tutto si era risolto per il meglio.

Con il tempo e la prova della sua serietà, la ragazza era stata in grado di dimostrare ai due coniugi che quella era veramente la sua passione e che avrebbe lavorato sodo per mantenerla viva e non perderla mai.

Nonostante i problemi, quindi, il giovane non poteva certo lamentarsi della propria situazione famigliare: avevano i loro alti e bassi, i periodi di silenzio, frustrazione e risentimento, ma allo stesso modo avevano la capacità di dimenticare e superare ognuna delle difficoltà che gli si presentasse davanti, rimanendo sempre e comunque uniti.

Insomma, potevano affermare fieramente di aver combattuto le proprie battaglie ogni qualvolta gli si presentassero davanti e di averle vinte, perseverando e non arrendendosi mai.

Passando davanti al frigorifero su cui le foto di lui e sua sorella erano tenute appese dalle varie calamite raccolte durante gli anni, Jasper non poté impedirsi di accennare un sorriso.

Il ragazzo aprì lo sportello del microonde per controllare il suo effettivo contenuto – una porzione di lasagne avanzate dalla cena precedente – lo richiuse con soddisfazione e lo fece partire, appoggiandosi al bancone della cucina e attendendo i tre minuti necessari alla cottura.

Si sentiva ancora parecchio disorientato per la sera precedente, i drink che aveva buttato giù senza nemmeno pensarci e quello che aveva visto, ma si sforzò, almeno per quel primo quarto d’ora, di non pensarci.

Non appena il suo pranzo leggermente ritardatario fu pronto, prese il piatto e si sedette al tavolo fornito di tre sedie.

Stava già pregustando il sapore del cibo, lo stomaco ancora e comunque sottosopra, quando il campanello suonò.

Per un’infinitesimale frazione di secondo il suo cuore parve smettere di battere e un’ansia mista alla speranza che forse per quella volta lei si fosse accorta di lui lo assalirono.

Guardandosi attorno con espressione confusa e gli occhi sbarrati, Jasper scattò e si precipitò in salotto, dove indossò la prima cosa che trovò.

Senza attendere un istante di più, aprì la propria porta di casa con un gesto secco.

« Wells? » Avrebbe davvero voluto mascherare la sgradevole isteria della propria voce, ma non gli riuscì molto bene.

Il ragazzo davanti a lui lo squadrò per qualche istante, gli occhi quasi terrorizzati e la bocca socchiusa.

« Jasper, ma che diavolo ti sei messo addosso? »

Seguendo il suo sguardo, il giovane Jordan si rese finalmente conto di ciò che aveva indossato: nella fretta, aveva preso la vestaglia di sua madre.

E non era una semplice vestaglia monocromatica, no, era ornata di fiori ricamati a mano decisamente colorati e sgargianti che parevano spuntare da ogni dove.

In un attimo fu felice di trovarsi davanti lui e non chi aveva sperato.

Tirandosi fuori da quell’affare infernale con un movimento repentino, invitò l’amico ad entrare.

« Spero di non disturbarti. »

« No, figurati, stavo solo per pranzare. »

I due si incamminarono verso la cucina, dove Jasper si sedette nuovamente davanti al proprio piatto di lasagne.

« Jazz, sono le tre del pomeriggio. »

« Ieri è stata una nottata piuttosto movimentata. » Si giustificò lui, facendo un cenno vago della mano.

« Proprio di questo volevo parlarti. Clarke era con te? »

« No, non era con me... » Jasper finse con tutta la propria convinzione che l'inflessione di tristezza nella propria voce era solo frutto della propria fervida immaginazione, ma una parte di lui sapeva che era la pura e cruda verità.

« Perché? »

« Ieri sera è tornata a casa più tardi del solito. Credevo foste insieme. » Il ragazzo si sedette davanti a lui e incrociò le braccia al petto.

Il giovane Jordan avrebbe voluto trovare una motivazione valida per quello che gli aveva appena detto Wells, una giustificazione al comportamento di Clarke e a quello che era successo, ma il sospetto dilagò in una parte di lui che rifiutava di accettare con tutto se stesso: sì, forse non avevano trascorso insieme la serata, ma sapeva dov’era stata.

L'aveva vista seduta al bancone con quel ragazzo moro, quel Mister Bicipiti uscito fuori dal nulla.

Non sapeva chi fosse o da dove venisse, ma li aveva osservati a lungo, da lontano, in mezzo alla pista da ballo, e non aveva potuto ignorare il sentimento di acredine e diffidenza vedendoli parlare, ridere e, incredibile a dirsi, tenersi per mano.

Quindi era così? Non aveva avuto tempo di chiamarlo dall'ultima volta che si erano visti - volta in cui, da precisarsi, le aveva quasi confessato di essere innamorato di lei da praticamente tutta la vita - ma aveva avuto modo di uscire per un appuntamento con il tizio più random che lui riuscisse ad immaginarsi, un provolone palestrato mai visto prima.

E a quanto pareva l'appuntamento non era andato male, perché li aveva visti salire in macchina e lasciare il The 100  insieme.

Inizialmente si era sentito ancora peggio perché aveva agito all’ombra, li aveva scrutati in lontananza senza farsi vedere, come se avesse qualche colpa o se avesse sbagliato qualcosa.

A quel punto Jasper si era guardato intorno per qualche istante e, prendendo quasi istantaneamente la decisione di non aver commesso niente di sbagliato, era rientrato nel locale, aveva trascinato Monty per un braccio fino al bar e aveva tentato di affogare ognuno dei suoi sentimenti in un Frozen Daiquiri.

Anzi, in molti Frozen Daiquiri.

« Tu e mia sorella dovreste smetterla di ubriacarvi con la frequenza con cui Miller ci prova con Roma. Seriamente. »

Il giovane Jordan, che nel frattempo aveva iniziato ad addentare qualche forchettata di lasagna, fece una smorfia che coinvolse ognuno dei propri muscoli facciali: piegò i lati della bocca verso il basso, aggrottò le sopracciglia e sbarrò gli occhi.

« Il paragone è agghiacciante, devo ammetterlo. »

« È  sbagliato e lo sapete. »

Wells non era mai stato un ragazzo festaiolo, fin dai primi anni dell’adolescenza si era mostrato molto più interessato ai libri gialli e alle biblioteche, perciò non aveva mai nemmeno trascorso troppo tempo insieme ai propri amici.

« Stiamo bene, veramente. » Rendendosi conto di non sapere se potesse effettivamente parlare anche a nome di Clarke, si corresse subito dopo: « Beh, io sto bene, perlomeno. »

« Sono preoccupato per lei », ammise infine l’altro, « stamattina mi sono svegliato e lei era già uscita di casa. Sta passando così tanto tempo da sola, ho paura che… »

« Lei non è sola. » Lo interruppe forse troppo freddamente, perché qualche attimo dopo si scusò con lui e riprese fiato.

« Proverò a parlarle, che ne dici? »

« Sono patetico, non è vero? » Domandò l’altro con un sorriso amaro, abbassando lo sguardo e incrociando le braccia al petto.

Jasper fissò il ragazzo che conosceva da tanti anni con un’espressione di rimorso mista a dispiacere, perché sapeva quanto Wells soffrisse della lontananza di Clarke e quanto si incolpasse per il suo dolore.

« Sei la persona più buona che io conosca. »

I due amici si sorrisero con complicità per qualche secondo, prima che il giovane Jaha sospirasse e si alzasse dalla sedia su cui si era accomodato.

« Beh, ho molte cose da fare. Sai, esami, libri… Sarà meglio che vada. »

Dopo averlo salutato con un abbraccio fugace e averlo accompagnato alla porta, Jasper rimase nuovamente solo.





 
*




Bellamy rientrò in casa alle cinque del pomeriggio, trovando sua sorella e Atom spalmati ognuno da un lato del divano che guardavano degli stupidi telefilm alla TV.

« Ehi, Bell! Pensavamo fossi andato disperso. Stiamo vedendo una nuova serie davvero bellissima: un ragazzo viene morso da un lupo mannaro e quindi si trasforma, e il suo amico idiota cerca di aiutarlo a trovare… »

« Preferirei cavarmi gli occhi e darli in pasto ai cani randagi. » Il giovane interruppe sua sorella e poggiò le buste del supermarket sul tavolo della cucina.

« Sei così noioso! » Sbuffò lei, lanciando un popcorn verso Atom, il quale si era addormentato da almeno un quarto d’ora.

« Invece lui è così  attivo, non è vero? »

Octavia non poté trattenere una risata e questo fece svegliare d’improvviso il loro amico, che balzò a sedere in un attimo e riappoggiò la testa al bracciolo del sofà subito dopo.

« Blake… » Sospirò affranto, notando entrambi i fratelli ridere sotto i baffi e cercare di non sfotterlo ad alta voce.

« Su, Bella Addormentata », lo richiamò il ragazzo da una stanza all’altra, « ci sei per una corsetta? »

Il giovane Ward si alzò dal divano – non prima di aver fatto il solletico alla sua compagna di serie tv – e si diresse verso la cucina, dove il moro era intento a sistemare uova, latte e biscotti al loro posto.

« Prima la spesa, poi la corsa, arriverà forse il momento in cui mi misurerai la febbre? »

« Sì, ma usando un termometro per cavalli. Sai, quelli che vanno su per il… »

« Ah-ah », l’altro troncò la sua frase prima che potesse concluderla, « ma quanto sei divertente.  E comunque ci sto. »

Dieci minuti dopo i due ragazzi si rincontrarono all’entrata, cambiati e pronti per qualche chilometro, mentre la piccola O si girava su un lato e afferrava il proprio cellulare, pronta a digitare un messaggio.
 
 
 


 
*


 
Bellamy e Atom uscirono di casa dondolando sui talloni e oscillando le braccia, soddisfatti per un po' di sana attività fisica.

Il maggiore dei Blake gettò un'occhiata fugace alla propria sinistra e ciò non sfuggì all'amico, che sorrise soddisfatto ed entusiasta a se stesso.

« Allora, com'è andata ieri sera? » Domandò con tono falsamente indifferente, guardandolo con la coda dell’occhio e cercando di apparire il più vago possibile.

« Mh? »

« Con Clarke. Siete rimasti soli », puntualizzò l'ovvio con uno sguardo indagatore, « è successo qualcosa? »

« Cosa vuoi che sia successo? » Chiese l'amico superandolo e attraversando il proprio vialetto, arrivando al marciapiede. Ad Atom non sfuggì il fatto che si fosse subito messo sulle difensive.

Quando l'altro lo raggiunse, cominciarono a correre alla loro destra, sfilando vicino le case a schiera che percorrevano la via.

« Non so, dimmelo tu. »

« Abbiamo semplicemente parlato. Civilmente, questa volta. Poi l'ho riaccompagnata a casa. Fine della storia. »

Tentò di liquidare in fretta il discorso, soprattutto perché percepiva un certo tono di malizia e aspettativa nel tono di voce del giovane Ward e non aveva la minima voglia di parlare di quell’argomento.

La notte precedente, prima di addormentarsi, si era rigirato nel letto un paio di volte, colto da un sentimento che lo aveva quasi infastidito: l’impotenza di non riuscire a decifrare quella strana ragazza, il turbamento che aveva scaturito quel senso di protezione nei confronti di una persona che non fosse sua sorella e la negazione delle loro mani intrecciate lo avevano quantomeno colpito, lasciandolo stupefatto dal proprio comportamento.

Ma, diamine, era comunque un ragazzo.

« Perché non ammetti semplicemente che ti piace? » I due svoltarono nuovamente a destra e continuarono a correre con andamento regolare, abbastanza celere da potersi definire vero jogging.

« Perché non è così. Non la conosco. »

« Non devi conoscere una persona per esserne interessato. » Obiettò Atom con insistenza, cercando poi di tenere sotto controllo il respiro accelerato.

« Vuoi continuare a farmi da cupido psicologo o possiamo correre senza parlare? »

Bellamy alzò il tono, infastidito, e lanciò un'occhiataccia al suo migliore amico.

Lui scrollò le spalle e annuì silenziosamente, concentrandosi soltanto sul ritmo delle proprie gambe e sullo sforzo che stava impiegando.
 



 
*



 
« Ehi, Clarke! » Octavia, che aveva appena aperto la porta di casa propria, abbracciò velocemente la ragazza davanti a lei e la trascinò dentro.

La bionda ricambiò la stretta senza parlare e si richiuse l'uscio alle spalle.

« Sei sola in casa? » Domandò cercando in tutti i modi di dissimulare la curiosità nella voce.

Purtroppo, però, era inutile celare il fatto a se stessa: la verità era che non aveva la minima voglia di rivedere Bellamy, ma non era nemmeno riuscita a dire di no ad Octavia.

Le sembrava così sola e in qualche modo le ricordava la se stessa di qualche anno prima, perciò non aveva davvero potuto rifiutare.

Quella mattina, quando si era svegliata in preda allo smarrimento, il ricordo del proprio comportamento aveva fatto breccia nella nebbia che avvolgeva la sua mente e l'aveva trascinata in un baratro di imbarazzo e pentimento; si era ricordata del litigio con Finn, dei drink buttati giù come fossero acqua, dell'incontro con il maggiore dei Blake e del tempo che avevano trascorso insieme.

E quello non andava bene. Si sentiva come se si fosse esposta troppo, come se gli avesse lasciato vedere le proprie debolezze esattamente nel momento in cui era più vulnerabile.

« Bell e Atom sono usciti per una corsa, ma torneranno fra poco. Sono contenta che tu sia venuta nonostante il poco preavviso e ti ringrazio. Sai, non è facile essere l'unica ragazza di casa. »

Mentre parlava, Octavia l'aveva presa per mano e l'aveva condotta nella sua camera, richiudendosi poi la porta alle spalle.

« Oh, ti capisco », rispose l'altra, rimanendo immobile al centro della stanza, « non c'è problema. »

La giovane Blake nel frattempo si era seduta con le gambe incrociate sul proprio letto e si reggeva il volto con i gomiti poggiati alle ginocchia.

« Accomodati dove vuoi! » La invitò con un sorriso quasi timido, in netta antitesi allo sguardo furbo che le illuminava gli occhi.

Clarke si guardò intorno velocemente: la camera era di medie dimensioni, alcuni scatoloni ai lati dei muri dovevano essere ancora svuotati e sistemati. Lo stile era decisamente minimalista, arredata con semplici mensole su cui erano poggiati qualche libro e molte cianfrusaglie, mentre sulla cassettiera bassa alla propria sinistra erano disposte in maniera quasi disordinata delle foto: ritraevano quasi tutte i due fratelli Blake nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza.

Si sedette su un puff verde vicino alla finestra e accennò un sorriso in direzione dell'altra ragazza, passandosi nervosamente una mano fra i capelli.

« Posso farti una domanda? » La voce squillante di O distrasse la bionda dal flusso dei pensieri a cui aveva cominciato ad abbandonarsi, e lei gliene fu silenziosamente grata.

« Certo! » Annuì l’altra con tutta la convinzione che riuscisse a dimostrare.

« Se proprio devo essere sincera, non so bene come chiedertelo. Mh, beh, credo che lo farò e basta. »

La ragazza dai capelli più scuri prese un respiro profondo e, puntando gli occhi nelle iridi più chiare dell’amica, parlò: « Ti ricordi quella volta a casa tua… Il brunch che aveva organizzato tua madre, ecco », quando vide l’altra annuire con espressione dubbiosa, continuò: « Mi hai detto di stare lontana da Lincoln. Puoi… Puoi parlarmi di lui? Ehm, di loro? »

La giovane Griffin comprese immediatamente: Octavia aveva capito con che tipo di gente avesse cominciato a trascorrere il proprio tempo, e ora cercava una rassicurazione per potersi dire che aveva sbagliato, che loro erano davvero bravi ragazzi.

« Devi stare lontana da loro. I Grounders sono imprudenti, avventati e sconsiderati. Non sono la compagnia che vuoi, fidati di me. E Lincoln… Dovresti correre a gambe levate verso la direzione opposta in cui cammina lui. »

« Cosa hanno fatto per diventare così? Per essere considerati in questo modo? »

« La maggior parte di loro sono miei vecchi compagni di scuola… Provengono da famiglie problematiche, genitori separati o assenti. All’inizio si trattava solo di idiozie senza valore, ma con il tempo hanno cominciato a frequentare davvero un brutto giro. Sono pericolosi. »

« La prima volta che ci siamo viste, perché mi hai coperto? Con Bellamy, intendo. » La giovane ripensò a quella sera di quasi due settimane prima, quando quella ragazza bionda l’aveva salvata da una vera sfuriata da parte di suo fratello.

« Non mi piaceva il modo in cui ti parlava. Stava urlando. » Optò per la pura e cruda verità, sperando di non essere troppo indiscreta.

« Grazie, Clarke. »

Prima che potesse rispondere, il telefono della bionda vibrò e, leggendo il messaggio che le era appena arrivato, si alzò di scatto.

« Mi dispiace tanto, Octavia, ma devo andare. C’è una questione di cui devo… occuparmi. »

Avrebbe mentito se avesse detto di non aver notato il lampo di delusione sul volto della ragazza, ma non poteva proprio fare altrimenti.

« Oh, certo, mh… Capisco. Ci vediamo presto. »

Con un ultimo sorriso, la giovane Griffin lasciò velocemente la stanza e si diresse verso l’uscita.
Nello stesso momento, però, la porta di casa si aprì, rivelando le figure sudate e accaldate di Bellamy e Atom.

« Clarke, che piacere! » La salutò il secondo con entusiasmo, raggiungendola e dandole un buffetto sulla spalla, « Come stai? Resti per cena? »

Lei sbarrò gli occhi per la velocità con cui aveva parlato e la facilità con cui l’aveva invitata a rimanere, poi lanciò un’occhiata fugace alla figura dietro di lui rimasta in silenzio.

« In realtà me ne stavo andando… »

« Ti aspetto per domani, allora. » Atom le fece l’occhiolino e sparì nel corridoio alle sue spalle, probabilmente diretto verso il bagno per una doccia.

Clarke, rimasta immobile al centro dell’ingresso, riportò lo sguardo stupito a Bellamy, che si stava passando una mano fra i ricci umidi.

« Sai, è sempre stato così. » Si giustificò lui, richiudendosi la porta alle spalle e voltandosi nuovamente nella sua direzione.

« Lo trovo… simpatico. » L’ultima parte della frase risuonò alle proprie orecchie più come una domanda, ma decise di non dargli troppo peso.

Il moro cominciò ad avanzare; quando la raggiunse, la sorpassò e Clarke pensò se ne fosse andato, ma prima che potesse fare un passo avanti, percepì la sua presenza dietro di lei.

« Prima in un locale, poi in casa mia », le sussurrò alle spalle, senza però toccarla minimamente, « forse la prossima volta dovrei aspettarmi di trovarti nella mia camera da letto? »

« Per ora pensa a farti una doccia. Puzzi. » Si voltò verso di lui con un sopracciglio sollevato in segno di sfida, mentre la propria affermazione parve spezzare qualsiasi tensione si fosse venuta a creare, provocando una risata del maggiore dei Blake.

« La vita non è un film, Principessa. Le persone sudano e ruttano e si siedono sulla tazza del cesso, mi dispiace deludere le tue aspettative. »

« Spero di non vederti mai fare nessuna delle cose, grazie tante. »

I due si fissarono per qualche istante come in una competizione, sfidandosi l’uno con l’altra in un silenzioso confronto.

« Ci vediamo, Blake. » Parlò dandogli le spalle e avviandosi verso la porta, ignara del lieve sorriso che aveva increspato le labbra del ragazzo.

« Spero presto, Principessa! »
 
 
 


 
*




« Ehi! »

« Ehi? » Rispose Jasper con tono incredulo, rigirandosi le chiavi di casa fra le mani e sprofondando un po’ di più nel divanetto per esterni del portico di casa Jaha.

Clarke lo osservò dagli scalini per qualche secondo e le fu sufficiente per capire che il suo migliore amico non fosse di ottimo umore.

« Qualcosa non va? »

« Non so. Dimmelo tu. Qualcosa non va? » Cominciò lui, alzando subito il tono della voce e portando la caviglia destra sul ginocchio sinistro, « Quant’è che non parliamo, Clarke? »

Improvvisamente tutto le fu chiaro: era vero, negli ultimi giorni non aveva avuto modo di chiarire ciò che era successo al pub l’ultima volta che si erano visti.

« Ascolta, Jazz, mi dispiace. Pensavo che avessi bisogno di tempo. » Mentre parlava, la giovane Griffin si era seduta su una sedia lì vicino.

« Tempo per cosa? Per metabolizzare il fatto che sei scomparsa nel nulla per più di una settimana? »

L’amarezza nella sua voce era incredibilmente chiara, ma non poteva fregargliene di meno. Era così incazzato con lei.

O forse lo era con se stesso? Forse l’unico da biasimare era lui, che continuava follemente e inutilmente a sperare di poter essere abbastanza.

« Quella volta, al The 100, sembravi piuttosto sconvolto. Non volevo peggiorare le cose. » Tentò di giustificarsi con quelle che erano davvero le sue convinzioni, ma Clarke era ben consapevole di star mentendo  in piccola parte: durante quegli ultimi giorni aveva avuto così tanti pensieri ché l’ultimo incontro con l’amico era scivolato via con estrema facilità e la colpa era solamente sua.

All'improvviso, con la realizzazione arrivò anche il senso di colpa.

« Oh, comportandoti così le hai sicuramente migliorate. Molto matura, complimenti. »

« Mi dispiace. Hai ragione, è colpa mia. Avrei dovuto chiamarti, ma sono stata così impegn… »

« Sì, l’ho notato. L’altra notte ti sei divertita con Mister Bicipiti, eh? » Con uno scatto si era alzato in piedi e si era preso il volto fra le mani, mentre la frustrazione l’assaliva in profondità.

« Non so di cos… »

« Ah, no? Non mentirmi, Clarke. Vi ho visti. Tu, ovviamente, eri troppo impegnata a sbavargli dietro per accorgertene, però. »

In un attimo anche lei si era alzata e ora i due si trovavano faccia a faccia, sapendo che ormai la situazione non avrebbe fatto altro che precipitare.

« Non provarci! » La bionda alzò la voce e gli puntò l’indice contro. « Sai che… »

« Tutto quello che so », la interruppe per l’ennesima volta, « è che avresti potuto chiamarmi. Non ti sei nemmeno preoccupata di sapere chi è la misteriosa ragazza per cui mi tengo lontano da tutte le altre. »

« Non è come sembra! Posso spiegarti, Jazz. Finn è tornato. Quella sera abbiamo parlato e io ero devastata, ho incontrato Bellamy per caso. »

« Ed ecco, come sempre, che l’attenzione ricade su di te! Ma, ehi, avrei dovuto aspettarmelo. » Il suo tono sconfitto e amareggiato non passò inosservato, tanto che Clarke alzò il capo e lo fissò negli occhi, cercando disperatamente la soluzione a quel problema.

« Ci sono sempre stato per te. Perché non mi hai chiamato? »

« Io… » La giovane Griffin lasciò la frase in sospeso per alcuni secondi, incapace di trovare una risposta a quella facile domanda.

« Non sai nemmeno cosa inventarti. » Jasper fu in grado di sorreggere il suo sguardo implorante per ancora alcuni attimi, ma vederla in quello stato non fece altro che distruggerlo ancora più a fondo.

« Ho chiuso, Clarke. » Fu semplicemente un mormorio arreso, ma non sfuggì alla ragazza.

« Cosa? » Sussurrò lei in preda all’orrore, mentre i suoi occhi si inumidivano contro la sua stessa volontà.

« Hai sentito. Me ne vado. »

Il giovane Jordan le voltò le spalle immediatamente e scese i tre gradini della sua veranda con velocità e impazienza.

Lei non fu in grado di compiere nemmeno un passo.

Jasper si fermò per un attimo e, guardandola da sopra la spalla, parlò duramente: « Ora puoi evitare di disturbarti a chiamarmi. »

Lo guardò camminare lontano dalla propria casa e non riuscì a fare nulla per impedirlo.

Ad ogni battito di ciglia corrispondeva un suo passo, ma tutto ciò che fu in grado di fare fu voltarsi dall'altra parte.

Non lo seguì. Non parlò. Non cercò di fermarlo.

Clarke si girò e rientrò in casa.

Wells, che aveva lasciato nello studio quando era uscita per andare da Octavia, ora era seduto in soggiorno e faceva pigramente zapping.

« Ehilà, straniera, vuoi... »

Non fece in tempo a terminare la frase, perché la bionda oltrepassò l'ingresso con tutta la velocità di cui disponesse e si diresse verso le scale, salendo i gradini a due a due.

Come un treno inarrestabile camminò verso la propria camera e si gettò di faccia sul letto, sprofondando fra i cuscini e le lenzuola.

Quando udì due lievi colpi contro la porta e la sentì cigolare, Clarke si irrigidì sul posto.

« Posso entrare? » La voce bassa di Wells risuonò stranamente rassicurante.

« A tuo rischio e pericolo. » Quella della bionda, invece, era ovattata contro i guanciali.

Il ragazzo camminò verso il letto della sua sorellastra e si sedette sul bordo, poggiando molto lievemente la mano destra sulla sua schiena e sfregandola contro la maglietta per fornirle un qualche conforto.

Ricordava ancora come, poco più di dieci anni prima, una piccola Griffin si sedeva sulle sue gambe e si faceva dondolare fino ad addormentarsi.

« Che succede? »

Lei non rispose subito, bensì si voltò con il viso verso di lui e lo osservò dal basso.

« Ho fatto un casino. »

« Vuoi parlarne? »

La disponibilità e l’affetto che le aveva sempre riservato Wells in quel momento non fecero altro che farla sentire peggio, totalmente incapace di ricambiare adeguatamente tutto l’amore di cui i suoi cari la ricoprivano ed estranea a quei sentimenti che non sarebbe mai più stata in grado di provare.

Era un’ingrata bugiarda e forse meritava semplicemente di essere abbandonata.

Magari tutto quello che avrebbe dovuto fare era andarsene, lasciare tutte le persone che faceva soffrire e tentare di ricominciare da un’altra parte, lontana da chiunque avesse ancora qualche speranza di rivedere la Clarke di cinque anni prima.

Ora, però, non poteva affrontare tutto quello da sola. Non l’avrebbe sopportato. Era soltanto un’egoista, doveva ammetterlo a se stessa e cominciare a conviverci. Doveva smettere di voler essere l’eroina della situazione.

E fu così che, in un estremo atto di puro e incontenibile egoismo, si mise a sedere e affondò il volto contro la spalla del suo fratellastro.

Le sue braccia arrivarono immediatamente a cingerla e ad accoglierla nel proprio calore, e subito si sentì meglio.

Le era mancato l’amico con cui aveva trascorso diciannove anni della propria vita e, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce e ad anima viva, era il miglior fratello che potesse immaginare di avere.

« Perché? »

Wells, non capendo di cosa stesse parlando, le accarezzò i capelli e rispose dopo qualche attimo: « Cosa? »

« Perché ti comporti così? Perché rimani, nonostante io non faccia altro che respingerti e tenerti fuori? »

« Tu sei mia sorella, Clarke. La tua pelle potrà anche essere di un colore diverso, ma tu rimarrai sempre mia sorella. Ti proteggerò sempre. »

Fu probabilmente quello il momento in cui si rese conto, per la prima volta in tutta la sua vita, di quanto l’amore sincero e incondizionato di quel ragazzo potesse scorrere a fondo e superare qualsiasi barriera gli si ponesse davanti.

E, insieme a quell’accorgimento, la colpì anche una verità altrettanto dolorosa e inappellabile: non sarebbe mai, mai stata capace di ricambiare quel sincero affetto nel modo in cui lui l’avrebbe meritato.

« Mi dispiace così tanto. »

In un attimo era in piedi: dandogli le spalle con uno scatto improvviso, si allontanò il più possibile da lui. Arrivata alla porta, parlò senza voltarsi, e decise di fingere di non notare il tremolio nella propria voce: « Dì ad Abby che non torno per cena. »

Così com’era entrata, scese le scale con tutta la velocità di cui fosse capace e si precipitò fuori da quelle mura, lontana da tutte le aspettative cui non sarebbe mai riuscita ad essere all’altezza.
 




 
*


 
Si ripresentò a casa quando ormai il sole era tramontato da un pezzo e la lieve brezza serale le sfiorava la pelle scoperta delle spalle in una soffice carezza.

Non appena varcò l’ingresso, sua madre e Thelonious, seduti l’uno vicino all’altra sul sofà, una mano di lui a cingere la schiena di lei, si voltarono nella sua direzione.

« Ciao, tesoro. » La salutò sua madre con un sorriso caldo, riuscendo quasi a convincerla.

Clarke fece un cenno con il capo e augurò loro la buonanotte, lanciando un’occhiata fugace alla cucina e sorpassandola subito dopo.

Il solo pensiero di mangiare qualcosa le faceva venire la nausea.

Ripercorrendo per l’ennesima volta in quella folle giornata gli scalini verso il piano superiore, la giovane Griffin si incamminò verso la propria stanza con la schiena curva, stanca.

Senza accendere la luce, togliersi i vestiti o spostare le lenzuola, calciò velocemente le scarpe e si gettò sul materasso, rimbalzando lievemente e stringendosi al petto uno dei tanti cuscini.

Rimase a fissare il soffitto che lei stessa aveva dipinto per quelle che le parvero ore infinite, osservando come la luce dei lampioni e della luna fosse l’unica fonte di illuminazione della propria stanza, e, senza nemmeno accorgersene, scivolò in un sonno placido e grigio.


La prima cosa che vide quando spalancò gli occhi di scatto fu la tenda vermiglia che si agitava per il debole vento notturno.

Non sapeva che ore fossero, per un attimo non riconobbe nemmeno il luogo in cui si trovava, poi sbatté le palpebre, si ripulì dal sudore che le imperlava la fronte con il dorso della mano e si mise a sedere.

Doveva sentirsi abituata, ormai, agli incubi, ma ogni notte era sempre peggio: ogni notte sembrava più reale, più desolante.

Gettando un’occhiata alla sveglia sul comodino alla propria destra, Clarke appurò che erano le tre e ventisei minuti e che aveva dormito non più di quattro ore.

La bionda si strofinò gli occhi per qualche secondo e poi si alzò, diretta verso il bagno. Neppure questa volta accese la luce, godendosi il buio più del dovuto.

Non aveva la minima voglia o intenzione di guardarsi allo specchio, di ammirare quello che era diventata.

Si sciacquò il volto velocemente e ritornò nella propria camera, anche se aveva perso ogni piccolo accenno di sonno; per un attimo si sentì mancare l’aria, così si avviò verso la finestra e la spalancò, affacciandosi il più possibile.

Le strade erano ovviamente deserte, l’unico rumore quello delle cicale e delle poche macchine in lontananza, e la giovane Griffin fu all’improvviso colta da un senso di pace e tranquillità, un sentimento effettivamente a lei estraneo.

Il tutto, però, fu ovviamente rovinato, perché, cercando di aprire meglio la persiana, l’aveva sbattuta violentemente contro il muro alla sua destra, provocando un rumore che interruppe la quiete notturna.

« Merda! » Sussurrò maledicendo se stessa e la propria inabilità, assicurandosi di non aver creato troppo scompiglio.

« Ma allora sei davvero una principessa! » Non appena udì qualcun’altro rispondere alla sua imprecazione, abbassò lo sguardo verso il luogo in cui proveniva e subito si accigliò.

« Bellamy? » Mormorò rivolta verso il punto in cui l’aveva sentito parlare, vicino al portico di casa Blake.
Improvvisamente una luce si accese e la veranda si illuminò, rivelando la figura del ragazzo seduto sugli scalini.

Dalla distanza che li divideva – lei al piano superiore della propria abitazione e lui qualche metro più avanti – non poteva vedere dettagliatamente la sua espressione, ma fu in grado di notare la sigaretta che teneva stretta fra l’indice e il medio della mano sinistra.

« Come mai sveglia a quest’ora? » La sua voce era l’unica cosa che sentiva nell’altrimenti taciturna tranquillità della notte.

« Non riesco a dormire. » Confessò titubante, cercando di mantenere un tono sufficientemente alto da farsi sentire da lui, ma non abbastanza da farsi sentire da altri.

A quell’affermazione seguì un silenzio piuttosto prolungato, tanto che per un attimo pensò non l’avesse sentita.

« Vuoi scendere? » Sollevò il capo verso di lei.

Oh.

Beh, avrebbe mentito se avesse detto che voleva stare da sola in quel momento. Perché la verità era che aveva bisogno di parlare, di dimenticare per un attimo tutto quello che era successo.

Senza dire o fare niente, si ritirò dalla finestra e rientrò nella propria stanza. Con un gesto veloce si infilò la felpa grigia che aveva lasciato sulla sedia della propria scrivania e afferrò le chiavi di casa.



« Non ti facevo un tipo notturno. » Affermò mentre camminava verso di lui con passi lenti e pesanti.

« Siamo in due, allora. »

Indicandole con un cenno della mano gli scalini, la invitò silenziosamente ad accomodarsi accanto a lui.

Clarke si sedette su un gradino più in basso rispetto a quello dov’era seduto Bellamy, dal lato opposto, così da guardarlo in faccia, e allungò le gambe davanti a sé.

« Il fumo uccide. » Dichiarò lei, indicando con un gesto della mano la sigaretta.

« Anche il moralismo. » Replicò il moro sarcasticamente.

La ragazza scoppiò a ridere, « Mi sembra giusto. »

« Il tuo paparino non si arrabbierà? » Domandò dopo qualche momento lui, riferendosi alla sua furtiva uscita di casa, evidentemente inconsapevole di quello che aveva appena detto.

La bionda si irrigidì e rimase in silenzio per qualche attimo, contemplando una risposta decente da fornirgli, poi parlò: « Octavia non tel’ha detto? »

« Detto cosa? »

« Mio padre è morto. »

Il maggiore dei Blake si immobilizzò sul posto: la sigaretta a mezz’aria, gli occhi socchiusi.

Spostò lo sguardo verso il suo volto, vedendo che teneva lo sguardo basso, nascosto dai capelli che la oscuravano.

« Non lo sapevo. »

Non si scusò. Non aveva intenzione di giustificarsi per il fatto che avesse perso suo padre, perché sapeva quanto fosse fastidioso. Quando Aurora era morta, aveva quasi preso a pugni uno dei suoi colleghi per avergli chiesto scusa.

« La mia vita non è poi la favola che credevi, eh? » Rispose lei con un sorriso amaro, senza però far trasparire alcuna nota di biasimo.

Sapeva bene quanto, agli occhi di estranei, potesse apparire fortunata: una madre che era un’importante medico per uno degli ospedali più prestigiosi della città,  una casa lussuosa, macchine, tanti soldi, vacanze estive e invernali nei resort che Thelonious prenotava con tre mesi d’anticipo per avere la camera migliore.

Ai suoi occhi, però, tutto quello non valeva niente. Non aveva niente.

« Anche mia madre è morta, ma questo lo sapevi già. » Bellamy parlò quasi senza rendersene conto e pensò che avrebbe dovuto sentirsi stanco di continuare a ripeterlo, ma stranamente non fu così. L’aveva detto perché voleva dirlo, perché ora sapeva che c’era qualcosa che condividevano.

« Quando? » Chiese lei in un sussurro, guardandolo mentre prendeva l’ennesima boccata dalla cicca fumante.

« Sette anni fa. » Buttò fuori il fumo e quella frase in un unico respiro, concentrando lo sguardo sulla strada alla loro destra.

Clarke, invece, non riusciva a smettere di guardarlo. La prima volta che l’aveva visto aveva pensato che fosse solo un cafone arrogante, la seconda, quando aveva chiamato sua madre Signora Jaha, che volesse solo provocarla.

Ora che vedeva quanto in realtà fossero simili e quanto le loro esperienze si avvicinassero, si sentiva quasi in colpa per essersi comportata in quel modo.

« Aspetta un attimo », sollevò le ginocchia per portarsele al petto e, mentre lo faceva, sfiorò l’esterno della sua coscia, « sette anni fa… avevi diciotto anni. E Octavia ne aveva tredici. Come avete fatto? »

Non riusciva ad immaginare come due ragazzi così giovani avessero potuto farcela da soli. Per lei era stato difficile, certo, ma perlomeno aveva avuto qualcuno al proprio fianco.

Questa volta fu il turno di Bellamy di sorridere amaramente e, dopo aver preso l’ultimo tiro, spense la sigaretta nel posacenere che teneva vicino.

Fece un respiro profondo e si preparò a ripetere nuovamente la propria storia, come un disco rotto che non riesce ad andare avanti, costretto a fermarsi ogni volta sullo stesso punto.

« È stata la cosa più difficile che io abbia mai dovuto fare. Mentirei se dicessi che ero pronto, perché non lo ero. C’erano tante cose che non conoscevo e che mi spaventavano: il mio futuro, il cambio dell’olio alla mia macchina, un preservativo bucato » –  gli angoli della sua bocca si incresparono in un sorriso spiacevole e sarcastico –  « Ero un ragazzino, ero giovane e superficiale, ero pieno di paure ma cercavo di nasconderlo, di essere il grande Bellamy Blake che tutti si aspettavano fossi. Poi, un giorno, scoprii che la mia più grande paura aveva un nome preciso: neoplasia delle metastasi cerebrali. »

« Cancro al cervello… » Sussurrò stupefatta Clarke, sollevando lo sguardo e scrutandolo da sotto le ciglia scure.

Lui, che per tutto il tempo aveva tenuto gli occhi lontano dalla sua figura – non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma non voleva confessare la propria debolezza e aveva pensato che, se non l’avesse guardata, forse sarebbe stato più facile parlarle –, finalmente si voltò verso di lei.

La sua espressione interrogativa fu sufficiente perché la giovane Griffin scrollasse le spalle e rispondesse: « Studio medicina. »

« Pensavo non frequentassi l’università. » Constatò lui, continuando ad osservarla.

« È complicato, in realtà. »

« Penso di poterlo capire. » La esortò.

« Mia madre è un medico, lavora per il Mount Weather Hospital. Fin da piccola, l’ho sempre seguita: la guardavo attentamente dalle stanza di osservazione mentre operava, la accompagnavo per le visite in pronto soccorso, cose del genere. Passavo interi pomeriggi con il naso schiacciato contro un vetro mentre lei conduceva qualche intervento e credo sia sempre stata la mia passione. Vedevo la gioia nei suoi occhi quando salvava la vita di qualcuno e il la profonda sofferenza quando, invece, non ci riusciva. L’entusiasmo che ti procura essere il motivo per cui qualcuno continua a vivere è quello per cui non smetterò mai di battermi, mi diceva sempre. Con il tempo, quindi, ho cominciato ad interessarmi sempre di più. Mio padre, che era un ingegnere, faceva finta di risentirsi del fatto che io volessi seguire le orme di mia madre e non le sue. In realtà, è sempre stato la persona che mi sosteneva di più. »

Clarke fu costretta a interrompersi, perché l’aveva mai raccontato a nessuno e cercare di esprimere il concetto al modo giusto le pareva totalmente irrealizzabile.

Forse era perché non ne aveva mai avuto bisogno, tutti conoscevano già la sua storia e non aveva mai dovuto rivelarla a nessuno, spiegarla con le proprie parole. Era difficile, ma una parte di sé voleva soltanto buttare ogni cosa fuori.

Non sapeva cosa le stesse succedendo, ma c’era un desiderio, in lei, così forte da poter essere difficilmente contrastato, che la spingeva ad aprirsi, a parlargli davvero.

« Quando mio padre è morto, tutto ha perso importanza. Per un anno ho studiato come privatista; non uscivo di casa, non volevo vedere nessuno. Tutto aveva semplicemente smesso di importarmi. Credo che il dolore sia passato quasi subito, perché mi ha colpita all’improvviso e, così velocemente com’è venuto, se ne è andato. Ho smesso di sentire qualsiasi cosa. L’affetto dei miei cari, la preoccupazione per il mio futuro, tutto. Per me non contava più niente e il vuoto che sentivo era perfino peggiore del dolore, perché mi faceva credere che ci fosse qualcosa di sbagliato in me. Quale razza di essere umano smette di stare male quando perde il proprio padre? »

Bellamy, che l’aveva ascoltata silenziosamente per tutto il tempo, non fu in grado di replicare. Forse per la prima volta nella sua intera vita, qualcuno l’aveva lasciato senza parole. O forse non c’era proprio nulla da aggiungere.

Senza pensare alle conseguenze o a qualsiasi altra cosa, allungò il braccio e posò una mano sul suo ginocchio, stringendolo lievemente.

La bionda, stupefatta, non riuscì a trattenersi dal sorridergli debolmente.

« Fare il medico rimaneva il sogno di una vita, ma non ci riuscivo. Ogni volta che pensavo alla reale possibilità di entrare in una buona università e diventare il chirurgo che ho sempre desiderato essere, mi tiravo indietro. Non potevo. Non potevo perché mio padre era morto e io non provavo niente, perciò non lo meritavo. Non lo merito », si corresse qualche secondo dopo, « e non lo farò. Ma sto comunque studiando. Ho lasciato trascorrere un anno senza iscrivermi in nessuna facoltà, ma preparandomi ugualmente. »

« Quindi… »

« Quindi sono pronta ad affrontare più della metà degli esami del primo semestre, ma non lo farò. È una decisione presa e per quanto mia madre si ostini ad odiarmi per questo, non cambierò idea. »

« La tua vita rimane la tua vita in qualsiasi caso, non importa quello che succede, tu ne sei l’unica padrona. Ma non puoi farti questo, Clarke. »

Era la prima volta che la chiamava col suo vero nome e non se ne era nemmeno accorto. La cosa, però, non era sfuggita a lei.

« Mi hai chiamata Clarke. » Affermò con entusiasmo, nonostante l’argomento di cui stessero parlando non fosse poi molto positivo.

« È il tuo nome, no? » Scherzò lui.

I due si limitarono a guardarsi per qualche secondo, godendosi il silenzio della strada deserta e l’illuminazione dei lampioni che lanciavano strane ombre sui loro volti.

Quando la giovane Griffin rabbrividì per l’aria notturna che aveva cominciato a risultare più fredda, il maggiore dei Blake si sporse oltre le proprie spalle e afferrò la coperta che si era portato fuori un’ora prima.

Senza attendere un momento di più, si allungò in avanti e gliel’avvolse attorno alle spalle, poi si appoggiò con la schiena lungo il corrimano in legno della propria veranda.

« Grazie, Bellamy. » La sincerità nel suo tono di voce non passò inosservata a nessuno dei due.

« Avevi freddo. » Rispose lui con una scrollata di spalle.

« Per tutto. »

« Quando vuoi, Principessa. »

Per un po’ non dissero niente, ognuno perso nei propri pensieri, le ginocchia che si sfioravano, entrambi con gli sguardi rivolti verso la via desolata.

« Sai, non l’avevo mai detto ad alta voce. » Quando lui si voltò dubbioso, lei precisò: « Quello che mi è successo. Non l’ho mai detto ad alta voce. » Ripeté.

« Io l’ho fatto fin troppe volte, invece. » Rispose passandosi la mano destra fra i capelli con aria avvilita.

Fu in quel momento che la bionda lo vide: un tatuaggio nella parte interna del polso. Incuriosita, gli afferrò la mano e l’allungò fino ad avvicinarsela al volto. Era il simbolo dell’infinito.

« Che significa? » Domandò distratta, tracciandone il contorno con la punta dell’indice.

« È per mia sorella. » Fu la sua semplice risposta, mentre osservava Clarke scrutare il proprio polso.

Lei sollevò immediatamente il volto e lo fissò di rimando.

« È bellissimo. »

Al moro, però, non sfuggì la scintilla di malinconia e tristezza che le aveva attraversato le iridi, perciò, sporgendosi un po’ più avanti, sussurrò: « Qualcosa non va? »

Una parte di sé avrebbe voluto dirgli tutto. Avrebbe voluto raccontargli di Wells, della propria incapacità di mantenere un rapporto con lui, del fatto che  la trattasse con la stessa protezione con cui Bellamy trattava Octavia e che lei non fosse in grado di ricambiarlo.

Un’altra parte, però, le urlava di andarsene. Alzarsi e correre il più veloce possibile verso casa e non voltarsi nemmeno una volta, rifugiarsi nella propria camera e non uscire più, non rivolgergli più la parola.

Lui era lì, così vicino, che la guardava da uno scalino più in alto e aspettava che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, e lei non aveva la minima idea di cosa fare.

« No », parlò prima di poter mandarsi in pappa il cervello, « va tutto bene. » Mormorò.

Per quella notte aveva esaurito la disponibilità a discutere con un estraneo dei propri problemi esistenziali.

Ancora una volta, rimasero immobili a guardarsi negli occhi. Bellamy non riusciva a distogliere lo sguardo; piegato verso di lei, con le loro gambe a sfiorarsi, non era in grado di muoversi.

Non riusciva ad allontanarsi.

Clarke, d’altra parte, manteneva il contatto visivo. Le ombre sul suo volto creavano degli strani arabeschi e si ritrovò improvvisamente desiderosa di ritrarlo.

Iniziando a tracciare con gli occhi le linee del suo viso, immaginava il modo in cui l’avrebbe disegnato. Si concentrò prima sugli occhi, scendendo poi a scrutare il resto dei suoi lineamenti: avrebbe potuto tracciare la linea dura della sua mascella e quella dritta del naso con un carboncino nero già utilizzato.

Persa nella contemplazione, quasi non si accorse del fatto che gli stava ancora tenendo il polso e le proprie dita stavano ancora tracciando ghirigori sulla sua pelle.

Scivolando con lo sguardo verso il basso, catturò fra le proprie iridi la sua bocca: per rappresentare quella, le sarebbe piaciuto utilizzare una matita rossa, abbastanza scura da avvicinarsi alle tonalità del cremisi.

Mentre scrutava gli angoli delle sue labbra, senza neppure pensarci razionalmente, immaginò come potesse essere baciarlo.

Cosa diavolo le stava succedendo? Era forse impazzita?

Clarke tentò di scrollarsi quel pensiero dalla mente in qualsiasi modo, ma era come se il suo corpo avesse deciso di iniziare una ribellione contro di lei e lei non potesse fare nulla per quietarlo.

Sarebbe potuto succedere. Sì, lo sentiva, avrebbe potuto baciarlo. Com’era passata dal considerarlo soggetto di un ritratto a volerlo baciare? Perché, inutile negarlo, voleva. Era un desiderio che l’aveva sopraggiunta repentinamente, come se quella fosse la prima volta che lo vedesse veramente.

E, da come la guardava, da come sembrava respirare più velocemente del normale, anche lui stava pensando alla stessa cosa.

Con la coda dell’occhio scorse la sua mano muoversi e, subito dopo, percepì le sue dita stringersi attorno al proprio polso. Le posizione si erano invertite, ora era lui che stringeva lei.

Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare. Cos’avrebbero potuto dire, poi?

Le pareva di essere vittima di un incantesimo che le impediva qualsiasi movimento e la tratteneva dal distogliere lo sguardo dal suo.

Quando Bellamy si piegò di un centimetro in più in avanti, Clarke batté prontamente le palpebre e parve tornare alla realtà, nuovamente padrona del proprio corpo e delle proprie azioni.

« Io… Io dovrei tornare a casa. »

Il moro, che era tornato alla sua posizione iniziale in pochi millesimi di secondo, annuì velocemente distogliendo lo sguardo, mentre la giovane Griffin si faceva scivolare sulle spalle la coperta, l’appoggiava sui gradini e si alzava in piedi.

« È stato bello parlare. Grazie. » Tentò in qualsiasi modo di dissimulare l’imbarazzo nel proprio tono di voce, ma non fu affatto sicura del risultato.

Senza attendere oltre, gli diede le spalle e camminò in fretta e furia verso la propria abitazione.

 





 


Curiosità:

# Non abbiamo idea di come si chiamino i genitori di Jasper, ma con nomi come Thelonious e Marcus, perché non Augustus?

# Il nome Roslyn Jordan, la sorella di Jasper, è un richiamo all'omonima canzone di Bon Iver.

# Bellamy non ha tatuaggi, è vero, ma Bob sì. Infatti, ha tatuato il simbolo dell'infinito sul polso destro.






 

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Capitolo 7
*** VI ***


Buongiorno carissimi!
Ci sono tantissime cose che vorrei dirvi, ma purtroppo non ho né tempo né modo di farlo. (Non avete idea di cosa abbia dovuto fare per pubblicare questo santissimo capitolo).
Come sempre vi ringrazio con tutto il cuore per il forte sostegno che mi date, siete tutti semplicemente fantastici. Vi auguro un buon Ferragosto e spero passiate una buona giornata :)




 



 
Is It Any Wonder?



Finn accarezzò in punta di dita il volto sorridente di Raven attraverso il vetro freddo della cornice fotografica.

Si trattava di uno scatto risalente alla loro adolescenza – non dovevano avere più di sedici anni – in cui lui teneva un braccio attorno alle sue spalle ed entrambi guardavano l’obiettivo con l’incertezza e l’imbarazzo della giovinezza.

Se si permetteva di pensare un po’ più del dovuto a quegli anni, il giovane Collins non poteva fare a meno di sorridere.

Non perché fossero solo ricordi felici, quanto perché gli paressero appartenenti un mondo distante, quasi come se non fosse mai esistito, come se fosse un sogno lontano. Non riusciva più ad immaginare di vivere lì, in un tempo congelato e freddo che non lo toccava più.

Con un sospiro afflitto ripose la fotografia sul ripiano del salone, dirigendosi poi verso il divano e buttandovisi sopra senza poche cerimonie.

I suoi genitori erano partiti per una piccola vacanza in giro per la California e lui aveva categoricamente rifiutato l’invito a unirsi a loro. Non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui si fossero comportati come una famiglia. O meglio, l’ultima volta in cui lui glie lo avesse permesso.

Da quando era tornato, tutto aveva girato così vorticosamente ché quasi non si era accorto del fatto che l’estate fosse cominciata e che, volente o nolente, avrebbe presto dovuto iniziare a riflettere sul proprio futuro, sulle proprie responsabilità.

Ma come poteva pensare ad un qualsiasi avvenire, se il passato non faceva altro che tormentarlo?

La sua storia, senz’ombra di dubbio, era alquanto complessa e intricata, ma dopo tutto il tempo che aveva
trascorso a rimuginarci su si aspettava perlomeno di trovare una minima risposta, invece niente.

Probabilmente aveva perso le due persone che aveva amato di più al mondo e non c’era nulla che potesse fare per salvare la situazione.

E poi, come si può salvare qualcosa che si è distrutto con le proprie mani?

C’erano così tanti interrogativi, così tante domande a cui non riusciva a dare risposta e che lo tormentavano nel profondo, mischiandosi al senso di colpa e corrodendolo dall’interno.

Secondo molti punti di vista, lo meritava. Era solo un bastardo manipolatore che s’era approfittato dell’ingenuità e dei sentimenti di due ragazze che non avrebbero mai dovuto conoscere tutta la sofferenza che gli aveva procurato, no?

Lui era solo una persona senza cuore e senza anima che si nutriva del dolore altrui, giusto?

E allora cos’era quella fitta di disperazione e claustrofobia che gli stringeva il petto?

Sapeva bene come dovesse apparire ad occhi esterni tutta la faccenda: lui aveva una ragazza, si era trasferito credendo che insieme agli scatoloni avesse impacchettato anche la loro relazione, ne aveva conosciuta un’altra, portata a letto e poi era tornato con la sua storica fiamma.

Semplice, quadrato, facile. Ma era davvero tutto lì? Si poteva ridurre quello che aveva fatto, quello che aveva affrontato e fatto affrontare, a due singole righe?

Non era certo della risposta. Era vero, sì, che aveva una ragazza. Anzi, lei non era solo una ragazza: era stata la sua prima amica, la sua prima compagna, l’unica confidente in un mondo in cui non si sentiva compreso. E non era comunque sufficiente a descrivere ciò che lei, con gli anni, fosse divenuta per lui.

Raven era incredibile: era l’arcobaleno, piena di colori e di tutte le sfumature che Finn non avrebbe mai creduto possibile possedere. Era piena di energia, di ideali e desideri. E, così incredibilmente, si era innamorata di lui.

Non aveva mai capito come fosse stato possibile, ma qualcosa gli diceva che doveva essersi trattato di un istinto, di una sensazione.

Lei era stata la prima a rivolgergli la parola quando si era trasferito a Pasadena con la sua famiglia, la prima ad offrirgli la propria amicizia e il proprio sostegno. E, allo stesso modo, la prima a cui aveva spezzato il cuore.

Conosciutisi all’età di dieci anni, i due avevano immediatamente creato un legame che nessun altro, né parenti, né cari, era mai stato in grado di dissolvere.

Il passaggio da amici ad amanti, avvenuto chissà come e chissà quando, era stato graduale e silenzioso, li aveva travolti con intensità e non aveva lasciato spazio a nient’altro.

Quando, ormai diciassettenni, s’erano dovuti dire addio – il giovane Collins si era abituato, col tempo, ai continui traslochi per il lavoro del padre, che faceva il rappresentante di articoli sportivi, ma aveva quasi cominciato a sperare in una ritrovata stabilità – il loro mondo, quell’universo solo loro che si erano creati con il trascorrere degli anni e il passare delle aspirazioni, si era praticamente sgretolato fra le loro mani, ridotto in polvere e volato via col vento californiano.

Non era riuscito a dirglielo, ma una parte di lui aveva gioito di quella notizia: lasciarsi alle spalle le brutte esperienze che aveva fatto, le compagnie sbagliate e gli errori dispensati con l’innocenza delle prime consapevolezze lo aveva privato di un peso non indifferente, che aveva cominciato a portarsi sulle spalle senza nemmeno accorgersene.

Avrebbe cominciato una nuova vita, lontano da tutto ciò che l’aveva fatto perdere e privo delle vecchie necessità.

Nemmeno Raven, che era stata l’unica cosa positiva nel completo disastro e spreco che era stata la sua adolescenza, era riuscita a trattenerlo.

E forse era sbagliato, forse già a quel tempo non aveva capito proprio un bel niente della vita, ma Finn aveva semplicemente sperato che, lasciando andare via proprio tutto, così sarebbe riuscito a ripulirsi del marcio di cui s’era ricoperto.

Quando, nel sedile posteriore della macchina di suo padre, era entrato nel cuore della Città degli Angeli, il brusio delle parole di sua madre oscurato dalla musica sparata a massimo volume nelle cuffiette, aveva finalmente creduto di avere una nuova possibilità. Avrebbe potuto ricominciare.

Avrebbe potuto fingere di essere una persona nuova, una persona che non aveva conosciuto l’orrore della droga offerta da sconosciuti nei bagni sporchi delle discoteche della grande Pasadena – la patria di Brothers & Sisters e Project X – e avrebbe potuto finalmente essere qualcuno di migliore.

Lì, aveva conosciuto la persona che aveva cambiato completamente ogni sua prospettiva: Clarke Griffin.

Clarke era stata per lui… indescrivibile.

L’aveva incontrata per la prima volta al The 100, quel posto che pareva un tempio sacro per tutti i ragazzi dei dintorni, e da quella notte tutto per lui aveva acquisito un altro significato.

Lei era stata così schiva e diffidente da non lasciargli praticamente alcuna speranza, ma il ragazzo non aveva desistito.

In lei aveva visto fin dal principio una sfida, un modo per mettersi alla prova e testare i propri limiti, e non aveva voluto allontanarsi.

Nemmeno quando aveva creduto di vedere il volto di Raven fra la folla, nemmeno quando il senso di colpa gli aveva fatto risalire bile e disgusto per se stesso.

Tutto quello che voleva fare era lasciarsi alle spalle qualsiasi errore avesse commesso prima, qualsiasi ricordo – anche quelli belli, sì, anche quelli – e qualsiasi bisogno di allora.

La prima volta che aveva trascorso la notte con Clarke, ognuno dei suoi pensieri si era semplicemente dissolto.

Era stato imprevisto e incontrollato, lui così furioso e lei, forse per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, così vicina.

Gli aveva detto di non essere solo mentre lui urlava e calciava sedie e quant’altro, ebrio di un’ira che aveva voluto sopprimere a qualsiasi costo.

Lei era rimasta lì, così calda fra le sue braccia, e per qualche ora tutto era stato silenzioso – che fossero i loro pensieri o le loro parole – realizzando così un desiderio comune.

Da quel momento avevano tacitamente concordato di stare insieme, e avevano cominciato a condividere gran parte del loro tempo.

La giovane non si era mai aperta davvero, si era limitata a tenerlo lontano dalla propria casa e a raccontargli brevemente della morte del padre, e non l’aveva preteso da lui.

Fra loro, tutto ciò che aveva sempre contato era il momento in cui erano insieme. Non dovevano parlare dei loro sentimenti, del loro modo di sentirsi, dei problemi con le loro famiglie o di qualunque cosa che non fosse strettamente necessaria.

Finn, riconoscendo nelle azioni di lei il proprio gioco, aveva tranquillamente accettato l’implicito accordo di non parlare di se stessi e di prendersi quel che veniva senza fare troppe storie.

Il guaio era arrivato quando, una notte, mentre Clarke dormiva con il capo poggiato sul suo petto – ed era una cosa rara, perché spesso se ne andava prima che lui si svegliasse – aveva capito di essersi innamorato di lei.


Ad un tratto per lui non c'erano più solo sesso e chiacchiere fugaci davanti ad un caffè, c'erano anche baci sulla fronte e desiderio di sfogarsi, di raccontarle tutto quello che aveva vissuto e ciò da cui era voluto scappare a qualunque prezzo.

Si era riaddormentato con un sorriso pigro sulle labbra e la promessa di dirle tutto il giorno dopo, ma quando il sole era sorto e una nuova giornata era iniziata, ogni cosa non aveva fatto altro che precipitare.

Raven si era presentata alla sua porta e Clarke ne era uscita, e tutto era successo così in fretta che non era nemmeno riuscito a formulare un pensiero coerente, perché il suo passato e quello che sperava fosse il suo futuro si erano scontrati in un impatto fatale e, a quanto pareva, soltanto uno dei due si sarebbe salvato.

Improvvisamente lui, che era sempre stato solamente un ragazzo solo e perso nei propri ideali, si era ritrovato davanti a una scelta che non solo avrebbe spezzato il cuore di una delle due ragazze che aveva amato durante la sua breve vita, ma anche una parte del proprio.

In ogni caso, quindi, lui avrebbe finito col distruggere loro e se stesso.

Era stato messo davanti ad un bivio e, in un atto di estrema codardia, aveva preso una decisione. Peccato che poi si fosse rivelata una decisione estremamente tossica e controproducente, perché ben presto Raven aveva capito che il ragazzo di cui si era innamorata otto anni prima se ne era andato e non sarebbe più tornato, non importavano i suoi sforzi.

Ecco cos’avrebbe voluto dire due settimane prima a Clarke, quando si era follemente e irrazionalmente presentato alla sua porta: Lei se ne è andata, per quanto possa odiarmi e sentirmi un verme, non la amo nel modo in cui amo te. Dimentica i miei errori e lascia che ti protegga, mi dispiace. Perdonami. Perdonami.

Finn era tornato con l’unica intenzione di porre rimedio al dolore e al vuoto che aveva lasciato dietro di sé quell’estate di un anno prima, ma presto aveva capito quanto si fosse rafforzata l’armatura di cui lei si era cominciata a cingere già all’età di diciassette anni, lasciandolo fuori e lontano.

Ora, due anni dopo, non era stato in grado di rilevare nemmeno una crepa in quelle mura che s’era scrupolosamente alzata intorno, e l’aveva persa.

L’aveva visto nei suoi occhi quella notte al club, l’aveva letto così chiaramente da essere fin troppo facile, e nonostante questo aveva continuato a dirsi di non arrendersi, di continuare a combattere, ma era così: l’aveva persa.

I suoi errori l’avevano portato in quell’esatto punto e forse questo era il giusto castigo per tutta la sofferenza che aveva provocato agli altri.

E che senso avrebbe potuto avere dirle che non era mai stata sua intenzione ferire nessuno?

Che, se avesse potuto, avrebbe cancellato qualsiasi ostacolo e difficoltà e avrebbe implorato il perdono di tutti quelli a cui aveva fatto del male?

Che se solo gliel’avesse chiesto, si sarebbe dichiarato suo?

Aveva visto in quelle iridi blu la risolutezza di una decisione già presa e ora avrebbe dovuto fare i conti con le conseguenze.
 
 
 
 
 
 
 
La notte porta consiglio.

E occhiaie.

E un gran mal di testa.

E no, Clarke non era sicura di aver ricevuto il minimo consiglio. Non sapeva se si sentisse peggio per la confusione nei propri pensieri o per l’incessante pulsare delle proprie tempie.

Mentre si raggomitolava su se stessa nel divano in soggiorno e sorseggiava una tazza di caffè macchiato con un pizzico di panna e una spruzzata di cacao amaro – ognuno aveva i propri vizi, no? – la giovane Griffin analizzava attentamente tutto ciò che era successo quella notte.

Il suo risveglio improvviso, la voce di Bellamy, la loro chiacchierata, quello che era quasi successo, la sua fuga.

Ora che ci rifletteva col senno di poi e con molta più razionalità, fu in grado di fornirsi un’ottima spiegazione: non era affatto attratta da Bellamy, aveva semplicemente condiviso con lui una parte molto importante della propria vita e questo l’aveva resa emotiva, fragile e facilmente influenzabile.

Come gli aveva detto, non aveva mai raccontato a nessuno quanto era accaduto, quindi immaginava che, avendolo fatto con lui, una parte di sé avesse cominciato ad abbandonarsi alla piacevolezza della sensazione di poter parlare chiaramente e onestamente, di essere sinceramente ascoltata. Tutto qui.

Non c’era alcun interesse o coinvolgimento, aveva soltanto trovato qualcuno che avesse vissuto un’esperienza simile alla propria e che, per questo, fosse in grado di comprenderla appieno. Non c’era altro.

E allora perché hai deciso di sfogarti proprio con lui?

Un’insistente e tediosa vocina in una piccola parte della sua mente le sussurrò quelle parole e, così com’era arrivata, svanì.

Semplice: era ormai risaputo e appurato che esprimere i propri sentimenti davanti a persone totalmente estranee alle faccende personali apparisse molto più soddisfacente e gratificante.

Del bacio che mi dici?

Non c’era stato, effettivamente, nessun bacio. Eppure… Il pensiero le aveva sfiorato la mente. Anzi, forse sfiorato non era il termine corretto. L’aveva occupata. Assediata. Sopraffatta.

In ogni caso, Clarke era sicura: non provava assolutamente nulla per Bellamy Blake. In fondo lei non provava assolutamente nulla e basta.

Lui era semplicemente una persona che all’inizio l’aveva irritata, ma che poi si era dimostrata capace di capirla forse come nessun altro al mondo.

E questo aveva avuto un effetto su di lei per via della fragilità emotiva in cui era caduta quella notte. Solo questo.

Ora lei stava bene, era tornata la Clarke di sempre – o forse la non Clarke di sempre – e avrebbe gestito la cosa nel miglior modo possibile, senza lasciarsi oscurare nuovamente dalla totale mancanza di capacità di giudizio che provocavano le chiacchierate sentimentali.
 
 

 
*



 
Bellamy fece un altro giro dell’isolato, giusto per scaldarsi un po’ e lasciarsi andare.

Non importava che ormai stesse correndo ininterrottamente da un’ora e mezza, né che i suoi vestiti paressero sciogliersi contro la sua pelle bollente.

Aveva semplicemente bisogno di continuare a muoversi, scaricare i pensieri e liberarsi la mente da tutto ciò che lo preoccupava.

Quella mattina gli era arrivata una busta dal Dipartimento:  lo informava che a breve avrebbe ricevuto il proprio stipendio mensile, ma che la ripresa del suo servizio attivo non sarebbe avvenuta prima di un altro mese.

La buona notizia, quindi, era che era riuscito a cavarsela solamente con due mesi di sospensione.

La cattiva, che avrebbe dovuto starsene con lei mani in mano per altri trenta infiniti giorni.

E poi c’era Clarke, il suo pensiero insistente che gli martellava incessantemente la testa dal momento in cui aveva aperto gli occhi.

Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare quello che era successo, almeno con se stesso.

Quello che non sapeva era come fosse potuto succedere.

Perché, insomma,  lui era Bellamy Blake, non un pappamolle qualunque che discute con le ragazze di sentimenti e stronzate del genere, non una ragazzina emotiva che piagnucola e strilla.

Eppure parlare con lei era stato facile. Incredibilmente facile. Paurosamente facile.

Tanto semplice da sembrare solamente un gioco perverso della propria mente, pur sapendo che fosse accaduto veramente.

Era stato doloroso ma gli aveva anche procurato un certo senso di sollievo, era stato imperfetto e reale. Vero.

Non avrebbe potuto prevederlo, poiché forse, se l’avesse fatto, si sarebbe anche potuto preparare, ma era stato intenso proprio perché spontaneo, inaspettato.

Non  poteva dirsi perfettamente certo di saper descrivere esattamente come si era sentito – e magari era dovuto al fatto che più di una sensazione si fosse mischiata nel suo petto – ma non poteva negare di averlo trovato disperatamente piacevole.

E all’improvviso, poi, tutto si era acceso: senza nemmeno averci pensato una volta, aveva immediatamente desiderato baciarla.

Sapeva che anche Clarke ci aveva pensato, l’aveva letto nel suo sguardo e per un attimo aveva avuto paura, era tornato il sedicenne di una volta, ma lei era stata in grado di riportarlo indietro.

Forse era stato il modo in cui lo studiava, l’incertezza e la curiosità nei suoi occhi blu, a fargli credere di poterlo fare. Di poterla baciare senza dire nemmeno una parola e fingere che tutto andasse bene.

Tutto era finito prima che potesse davvero iniziare e una parte di lui si era sentita sollevata e più leggera, ed era quasi finito a ringraziarla per aver interrotto quel momento.

I problemi erano arrivati quando si era messo a letto e la sua mente aveva iniziato a viaggiare, lontana e indagatrice.

La questione non era tanto il fatto di aver voluto baciarla, quanto la ragione per cui l’avesse desiderato.

Così, velocemente e senza pensarci troppo, aveva motivato il proprio comportamento con la sola giustificazione che gli venisse in mente: sesso.

Era semplicemente attratto da lei. Clarke era oggettivamente fantastica, quindi perché non avrebbe dovuto esserne affascinato?

Ecco la soluzione. Niente di complicato. Nessun problema in vista. Liscio come l’olio.

Mentre correva, la riproduzione casuale del suo Ipod sembrò volerlo prendere in giro.

 

All I am is a man, I want the world in my hands
I hate the beach, but I stand in California

She knows what I think about, and what I think about: one love, two mouths.
One love, one house. No shirt, no blouse. Just us, you find out nothing that I wouldn't tell you about
 
 


 
*



« Ehi, O! » Atom, un sorrisetto furbo e complice sulle labbra, richiamò l'amica.

Quando la minore dei Blake si voltò verso di lui, alzandosi sulla fronte gli occhiali da sole, il suo ghigno sembrò aumentare ancora di più: « Ho avuto un'ottima idea. Prendi il telefono! »



 
*




Il campanello trillò una sola volta, quasi timidamente, e Bellamy si passò una mano fra i ricci, confuso.

Octavia ed Atom l’avevano avvisato della loro intenzione di rimanere fuori per cena, lui aveva velocemente rifiutato l’invito ad unirsi a loro e gli aveva augurato una buona serata (non prima di aver messaggiato al suo migliore amico di non perdere d’occhio la sua sorellina nemmeno per un momento).

Perciò, dato il fatto, non aveva idea di chi potesse essere alle otto di sera. Bhe, una piccola intuizione l’aveva, ma ne dubitava fortemente.

Afferrando una t-shirt dal proprio letto – sì, aveva la comoda abitudine di girare per casa senza maglietta – si avviò verso l’ingresso, aprendo la porta senza esitazione.

« Oh… » Mormorò.

« Ehi! » Salutò Clarke con poco entusiasmo, accennando un sorriso di circostanza.

« Che ci fai qui? » Non aveva esattamente intenzione di apparire come un burbero asociale, ma era estremamente sorpreso di ritrovarsela davanti.

« Ehm, mh, Octavia mi ha detto della cena. Sai, quella di cui parlava Atom ieri… » La bionda lasciò cadere il discorso a metà, sperando che l’espressione di confusione e smarrimento sul volto di Bellamy svanisse presto.

Una parte di sé ancora si chiedeva perché avesse accettato l’invito della minore dei Blake ad unirsi a loro per cena, mentre un’altra parte – quella che aveva evidentemente preso il controllo della situazione – aveva ritenuto opportuno presentarsi e fare finta di niente.

In fondo, non era successo davvero nulla e, se non fosse andata, avrebbe semplicemente alimentato inutili e non veritiere speculazioni.

Perciò, prendendo un respiro profondo e raddrizzando le spalle, la giovane Griffin si era avviata verso la casa dei suoi nuovi vicini con il proposito di comportarsi nel modo più normale e civile possibile.

Non che si fosse aspettata di trovarsi, già ad inizio serata, in una situazione del genere: lei e Bellamy si fissavano sconcertati da un lato all’altro della porta, una mano di lui appoggiata al pomello come a volersi sostenere e le braccia di lei strette l’un l’altra in un’evidente posizione di difesa.

Poi, all’improvviso, la quiete ambigua che si era venuta a creare fu smorzata da uno sbuffo del suddetto ragazzo, che spostò il peso da un piede all’altro e piegò il capo verso il basso.

« Dev’esserci stato un malinteso. O ed Atom sono stati tutto il giorno fuori e non torneranno per cena. Mi disp… »

Non fece in tempo a finire la frase, però, perché gli occhi e la bocca di Clarke si spalancarono in un’espressione di sorpresa e impaccio, prima che lei parlasse nuovamente, indicando alle proprie spalle: « Oh, bene, devo aver capito male. In questo caso, credo che tornerò a casa mia. »

Senza attendere alcuna risposta, girò sui tacchi e tentò di allontanarsi il più velocemente possibile.

E ci sarebbe riuscita, se Bellamy non avesse delicatamente avvolto le proprie dita attorno al suo polso e l’avesse fatta nuovamente voltare.

« Aspetta… »

« Cosa? »

« Puoi rimanere. Avrei comunque dovuto cucinarmi qualcosa. Resta. » Terminò lo sproloquio con un sorrise lievemente accennato e speranzoso.

« Non c’è problema, Bellamy », sussurrò lei, adocchiando la sua grande mano che ancora la stringeva, « posso andare. »

« Insisto. » Il maggiore dei Blake raddrizzò le spalle e il suo sorriso si allargò, mentre compiva un passo indietro e, senza attendere oltre, la trascinava dentro, richiudendo l’uscio alle loro spalle.

« Allora », cominciò, dirigendosi verso la cucina accompagnato dai passi leggeri della ragazza alle sue spalle, « cosa posso servirle, Principessa? »

Clarke alzò gli occhi al cielo ma non disse una parola, appoggiandosi poi al tavolo da pranzo al centro della sala.

« Non mangio molto in ogni caso. » Sussurrò, guardandosi attorno e osservandolo mentre apriva degli sportelli sopra al piano cottura e tirava fuori una padella di medie dimensioni.

« Io ho una gran voglia di mangiare una bistecca », aggiunse qualche istante dopo, « ne vuoi? »

« Sono vegetariana. » Fu la sua immediata risposta.

« La felicità ti è estranea, dunque. » Scherzò lui.

« Semplicemente non mangio nulla che abbia avuto una faccia. »

« Posso prepararti le uova strapazzate, allora? »

« Le uova andranno bene. » Rispose lei con sicurezza, addolcendo il tono subito dopo: « Grazie. »

Non ricordava l’ultima volta che qualcuno si fosse sinceramente interessato a cosa le andasse bene mangiare.

Era una strana sensazione, tuttavia piuttosto piacevole.

Mentre Bellamy si occupava della loro cena, mettendo a scaldare l’olio nella padella e rompendo due uova in un tegame vicino, Clarke non riuscì a impedirsi di scrutarlo: i ricci neri che gli sfioravano lievemente il retro del collo, le spalle e la schiena dolcemente accarezzate dal tessuto blu della maglietta che indossava, le gambe che ondeggiavano quasi impercettibilmente ogni volta che lui spostava il peso dall’una all’altra.

Era bello.

Il pensiero, così puro e semplice, quasi la sconvolse.

Certamente non era la prima volta che lo vedeva e non era la prima volta che ammetteva di trovarlo indubbiamente affascinante, ma in quel momento la sua bellezza era così spontanea e immediata da lasciarla quasi interdetta, stupita.

« A cosa pensi? » Domandò poi lui d’improvviso, voltando leggermente il capo nella sua direzione.

La giovane Griffin, come colta in flagrante in atto osceno e disonorevole, scattò e immediatamente distolse lo sguardo.

« A nulla. » Mentì.

« Non ti credo. »

Riuscì a percepire il suo ghigno anche senza vederlo, perciò decise di cambiare argomento prima di dire qualche stupidaggine.

« Da quanto sai cucinare? »

« Da quando ho dovuto farlo. Sai, con Octavia e tutto il resto… »
Stupida, stupida, stupida. Era ovvio che fosse stato costretto ad imparare per via di forze maggiori, non avrebbe potuto fare domanda più fuori posto e indiscreta.

« Ah, già… »

«  E tu? Sai cucinare? » Chiese lui con tono di voce beffardo e divertito. Se la sua domanda idiota l’aveva messo in qualche tipo di disagio, non lo stava di certo mostrando.

« Se con cucinare intendi tagliare un pomodoro, poggiarci sopra una fetta di lattuga e richiudere il tutto in un panino, allora sì, sono un’ottima cuoca. »

La risata controllata e bassa di Bellamy riecheggiò in tutta la cucina e, inaspettatamente, Clarke si accorse di aver fatto la sua prima vera battuta dopo un tempo innumerevolmente lungo.

La consapevolezza del fatto la sorprese e, ancora una volta, si ritrovò a sorridere fra sé e sé.

« Un giorno ti insegnerò. » Le promise il ragazzo, dirigendosi verso il frigorifero e tirando fuori un recipiente.

Non volendo più starsene con le mani in mano, la giovane Griffin parlò velocemente: « Nel frattempo posso preparare la tavola. »

« I bicchieri e i piatti sono alla tua sinistra, in alto, le posate nel secondo cassetto. »

Gettando un’occhiata fugace intorno a sé, seguì le istruzioni e portò in tavola due forchette e un coltello.

Una volta essersi avvicinata al ripiano in cui si trovavano i bicchieri e i piatti, la giovane gli lanciò uno sguardo e lo vide darle ancora le spalle, poi aprì l’anta e si sporse sulle punte per prendere le stoviglie.

Peccato che fosse in grado di vederle, ma non arrivasse ad afferrarle. Le sfiorò con la punta delle dita, ma, prima che potesse riuscire a prenderle, arrivò la mano di Bellamy a lambire la propria e a stringere solidamente gli oggetti.

« Attenta, Principessa… » Le sussurrò lui all’orecchio.

Clarke non riusciva a muoversi: il braccio sospeso a mezz’aria, le labbra socchiuse e le punte dei piedi che iniziavano a dolerle.

Il calore del petto di Bellamy contro la propria schiena era l’unica cosa che riuscisse a percepire con estrema chiarezza, mentre tentava a tutti i costi di regolare i propri respiri e non andare in iperventilazione.

Quando il maggiore dei Blake fece scivolare i due piatti fra le sue piccole mani e afferrò i bicchieri per portarli sul tavolo, lei fu in grado di riprendere una coerente attività cerebrale.

Quello non andava affatto bene. No, per niente.

Sbattendo velocemente e più volte le palpebre, si sistemò meglio la maglietta e sospirò impercettibilmente.



 
« Tu sei un tipo solitario, non è vero? » Disse all’improvviso Clarke, posando la forchetta vicino al piatto vuoto e passandosi il tovagliolo sulle labbra.

Bellamy la osservò silenziosamente per qualche istante, poi si portò il dorso della mano destra davanti alla bocca e rispose: « Cosa te lo fa pensare? »

« Beh, tua sorella e il tuo migliore amico sono stati fuori tutto il giorno e ora sono a cena fuori. Perché non sei andato con loro? »

« Mi piace fare la casalinga. » Fu la sua risposta furba. La scrutò ancora per un po’ e poi prese un sorso d’acqua dal bicchiere davanti a lui.

La giovane Griffin non poté impedirsi di abbandonarsi ad una risata leggera. La stupiva, quantomeno, il fatto che in sua compagnia riuscisse a ridere così facilmente, come se fosse la cosa più semplice da fare.

« E tu non sei da meno, comunque. » Le fece notare, una volta poggiato nuovamente il bicchiere.

« Non sono facile da sopportare. » La ragazza si strinse nelle spalle e riportò lo sguardo nel suo.

C’era qualcosa, nel modo in cui la guardava, che la faceva sentire estremamente a disagio. Forse era dovuto al fatto che non sopportasse essere fissata dalle persone, forse era perché sembrava davvero essere in grado di guardarle dentro, in profondità, e lei sapeva che non gli sarebbe piaciuto quello che avrebbe visto.

« Per me non sei male. » Rispose lui come un semplice dato di fatto, con tono diplomatico e sicuro.

Non riuscendo a trovare il modo adatto per replicare senza sembrare maleducata o arrogante, Clarke afferrò il piatto e la posata davanti a sé con la mano sinistra e si avvicinò al lavandino.

Quando aprì l’acqua e la lasciò scorrere per un po’, Bellamy si voltò nella sua direzione. « Posso lavarli dopo. »

« E io posso lavarli ora. » Dichiarò fieramente lei.

Il maggiore dei Blake, immaginando di non aver altra alternativa, si sporse oltre la sedia e, per la seconda volta quella sera, le afferrò gentilmente il polso, riportandola al suo posto.

« Li faremo insieme dopo. » E, così dicendo, si alzò e afferrò il pacchetto di sigarette e il posacenere sul ripiano vicino, accomodandosi nuovamente subito dopo.

« Ne vuoi una? » Le chiese mentre si portava alle labbra una cicca e sollevava lo sguardo verso di lei.

La ragazza fece segno di no con la testa e lui accese.

« Quindi bevi, ma non fumi. »

« Tel’ho detto, il fumo uccide. » Replicò con fermezza e ironia.

Bellamy non rispose, perciò rimasero in silenzio per gli attimi successivi. Lui osservava la sigaretta morire lentamente fra le proprie mani, lei il fumo che usciva passivo dalle sue labbra.

Quando i loro sguardi inevitabilmente s’incontrarono, subito scattò qualcosa. Una certa aspettativa, una tensione che nessuno dei due sarebbe riuscito a spiegare a parole nel modo giusto.

« Ritengo che dovremmo analizzare ciò che è successo ieri notte. » Clarke parlò quasi senza rendersene conto, le parole danzarono fuori dalla sua bocca con impellenza e non fu in grado di trattenerle o esprimerle diversamente.

Bellamy si irrigidì sul posto, ma non diede altri segni di essere particolarmente sconvolto da quello che aveva appena detto.

« Clarke », la richiamò, « non è successo niente. Non è mica un esperimento di scienze, non c’è niente da analizzare. »

« Davvero? » Ancora una volta parlò senza dargli troppa importanza, come se non fosse davvero lei a parlare del fatto che si fossero quasi baciati. « Quindi… Nessun imbarazzo? »

« No. Assolutamente nessuno. Niente. Nada. »

Entrambi erano ben consapevoli che archiviare quell’evento fosse la migliore cosa per procedere senza ostacoli o impacci, ma Bellamy percepì una certa riluttanza ad affermare che non avesse davvero significato niente.

Perché la verità era che aveva significato, era successo, era stato reale e tutti e due l’avevano desiderato, che fossero pronti ad ammetterlo oppure no.

Nonostante questo, si sorrisero in modo incoraggiante e calmo.

Non appena il maggiore dei Blake si alzò di nuovo e raccolse le posate rimanenti, Clarke si fece al suo fianco.

« Tu lavi, io asciugo. »




Avendo lavorato in due, erano stati in grado di ripulire la cucina in meno di un quarto d’ora, rendendola ancora più pulita di quanto fosse prima.

Una volta finito in quella stanza, Bellamy spense la luce e condusse silenziosamente Clarke in salone.


Entrambi si avviarono subito verso il sofà e si accomodarono, abbastanza vicini da potersi sfiorare, ma tanto lontani da non invadere i rispettivi spazi personali.

Clarke si guardò intorno per qualche attimo.Ovviamente quell’appartamento era molto più piccolo della sua villetta, ma per qualche strana ragione era in grado di percepire e sentire un calore e un’accoglienza che non aveva mai provato entrando nella propria abitazione.

Sapeva di casa e amore, di rifugio caldo e coperte e cioccolate bollenti sorseggiate davanti alla TV.

« Vuoi vedere un film? »

« Solo se non è una storia d’amore. »

« Affare fatto. »



 
Alla fine optarono per una puntata di The Walking Dead, scoprendo un comune interesse per la serie che aveva sconvolto la sensibilità di molti stomaci americani.

« O sta seguendo quella stupida serie sui lupi mannari, una storia incredibilmente inutile. Questo sì che è un telefilm, non quelle demenze. » Commentò Bellamy durante la pubblicità, lanciando uno sguardo fugace verso Clarke.

« Stai scherzando? Teen Wolf è una storia molto avvincente. Certo, forse la prima stagione può lasciare a desiderare, ma andiamo… Stiamo comunque parlando di Tyler Posey e Dylan O’Brien. »

« Puoi anche uscire da casa mia, ora. »

La giovane Griffin avrebbe voluto replicare in qualche modo, ma poi l’episodio era ricominciato e ognuno di loro era caduto nel silenzio, entrambi troppi presi a seguire la vicenda piuttosto che a provocarsi l’un l’altra.

Dopo ormai mezz’ora di completa immobilità, senza farci molto caso – o forse questo era ciò che si era detto per giustificare il proprio comportamento – il maggiore dei Blake si stiracchiò le braccia e poggiò il sinistro sullo schienale del divano, proprio dietro le spalle della bionda, abbastanza vicino da avvertire i suoi capelli solleticargli la pelle.

Il fatto non passò inosservato a Clarke, che gli gettò un’occhiata fuggevole con la coda dell’occhio. Era forse un implicito invito ad avvicinarsi? O non significava assolutamente nulla?

Alla fine decise di non dargli troppo peso, rimanendo nella stessa posizione. Il fatto era, però, che più il tempo passava, più la sua attenzione nei confronti della televisione calava vorticosamente, attirata dall’invitante vicinanza del corpo di Bellamy.

Fingendo con se stessa di essere guidata semplicemente dall’istinto e non da un preciso desiderio di essergli effettivamente più vicina, Clarke mosse inizialmente la gamba, accostandola di poco alla sua.

Le loro ginocchia ora si scontravano, ma lui non parve curarsene troppo. Incoraggiata da questo, iniziò a scivolare lentamente, molto lentamente, verso di lui.

A quel punto non c’era modo che Bellamy non si fosse accorto di quello che stesse succedendo, ma non fece o disse nulla ugualmente.

La bionda in quel momento era in grado di percepire la sua prossimità con ognuno dei suoi sensi e non poteva che ritenersi essenzialmente sopraffatta da qualsiasi cosa lui le stesse facendo: ancora una volta, non riusciva ad allontanarsi, non riusciva ad impedirsi di cercarlo a qualsiasi costo.

Non aveva voglia, tuttavia, di trovare una soluzione o una scusante al motivo per cui stesse agendo in quel modo. Voleva semplicemente viverlo.

In quello stesso attimo percepì il suo braccio muoversi e scendere verso il basso, entrando finalmente in contatto con la pelle coperta delle sue spalle, sfiorandola lievemente con i polpastrelli.

Ormai stavano semplicemente facendo finta di seguire la TV, ognuno troppo occupato ad accostarsi all’altra.

Clarke era finalmente e incredibilmente vicina a poggiare il capo sul suo petto quando, nel buio della stanza, furono interrotti dal suono impellente e squillante di un cellulare.

Entrambi scattarono ai lati opposti del divano e, sporgendosi in avanti e afferrando l’apparecchio, Bellamy mormorò: « Scusa, devo rispondere. Pronto? »

Mentre il moro era evidentemente occupato a parlare al telefono, Clarke si passò una mano fra i capelli, un’espressione scossa e sbalordita sul volto.

« Va bene. Certo. State attenti. » Così dicendo, attaccò e si voltò verso di lei. « Erano Octavia e Atom. Stanno tornando. »

Nessuno dei due fu in grado di identificare il sottile confine fra sollievo e fastidio nella sua voce.

La giovane Griffin, non riuscendo a guardarlo negli occhi, si limitò ad annuire e si strinse le braccia al petto.

Osservando la stanza, la sua attenzione fu immediatamente colta da una busta di carta sul tavolino davanti a loro.

Riuscì perfettamente a leggere la scritta che spiccava al centro della carta: PDLA.

Dipartimento di Polizia di Los Angeles.

« È una comunicazione del mio capo. Sai, le solite cose. » La informò Bellamy, avendo notato il suo particolare interesse nei confronti del foglio.

« Bellamy… » Mormorò Clarke, gli occhi ancora inevitabilmente attratti da quell’invitante documento.

Perché non ci aveva pensato prima? Lui era un poliziotto, avrebbe potuto aiutarla. Era suo amico, giusto?

L’avrebbe potuta finalmente ascoltare e non sarebbe più stata messa in attesa senza poi mai essere richiamata.

Quella era la sua occasione.

Stava quasi per raccontargli tutto quando, una parte di sé, le intimò di fermarsi. La sua era una storia lunga e a tratti improbabile, avrebbe potuto metterlo in guai seri o compromettere il suo lavoro. La domanda non era se dirglielo o no, la domanda era: fino a che punto ti spingeresti per ottenere la verità? Lo trascineresti giù con te?

Notando il suo sguardo perso e vacuo, il maggiore dei Blake si porse nella sua direzione e la richiamò.

« Che succede? » Il suo tono di voce era preoccupato e per un attimo fu tentato di prenderla per mano e riportarla indietro, farle riprendere l’attenzione.

« Devo andare. » In un attimo la bionda si era ripresa, aveva serrato la mascella e si era alzata di scatto, dirigendosi verso la porta d’ingresso.

Una volta arrivata, si voltò solo per accorgersi che Bellamy l’aveva seguita per tutto il breve tragitto.

« Stai bene? »

Non l’aveva mai visto così: le sopracciglia aggrottate, le labbra strette e un’espressione di apprensione sul volto.

Clarke annuì rapidamente e fece per aprire l’ingresso, ma la sua mano fu più veloce e la richiuse in un’unica mossa.

La giovane si girò verso di lui e appoggiò la testa sul legno della porta, vicino al punto in cui il palmo di Bellamy era premuto sulla superficie.

Il moro fece un passo avanti, bloccandola fra l’uscio e il proprio corpo.

« Parlami. »

Lei chiuse gli occhi per un attimo, internamente combattuta fra l’inesorabile ricerca della verità e la sincera preoccupazione di coinvolgere una persona totalmente innocente nel proprio tunnel autodistruttivo.

Quando li riaprì, Bellamy la stava ancora fissando con un’intensità tale da farla rabbrividire.

« Se ti fidi di me, incontriamoci stanotte alla fine della strada. Alle tre. E dovrai guidare. » Parlò velocemente, forse per non darsi la possibilità di tirarsi indietro o ripensarci.

Non appena lo vide annuire, si staccò dalla porta e fece un passo avanti, avvicinandosi a lui con tutto il proprio corpo. Senza attendere oltre, gli posò un leggero bacio sulla guancia e sgusciò fuori dalla sua stretta, questa volta riuscendo ad aprire agevolmente la soglia.

« Grazie per la cena. »
  
 
 
 
Non appena percepì l’automobile accostarsi al bordo del marciapiede su cui era seduta, un improvviso e inarrestabile moto di adrenalina le attraversò ogni terminazione nervosa del proprio corpo.

Tirandosi su il cappuccio della felpa, si alzò in piedi ed entrò senza esitazioni.

« Non credevo che saresti venuto. È una pazzia. » Parlò guardando dritta davanti a sé, incapace di guardarlo negli occhi o farsi guardare negli occhi.

« Mi fido di te, Clarke. » Bellamy rispose con fermezza e decisione. Peccato che fosse la prima volta in vita sua che affermava ad alta voce una cosa del genere, e che quindi un certo terrore lo stesse sconvolgendo profondamente.

« Spero di essere la puntata giusta, allora. »

« Dove devo andare? » 
Replicò lui per sottolineare la propria sicurezza, mettendo subito in moto il veicolo.

La bionda poggiò il capo al finestrino e gli indicò la strada.
 
 


Quando giunsero nel luogo in cui lei l’aveva guidato, la città era ormai completamente addormentata e le auto in circolazione potevano effettivamente contarsi sulle dita di una mano.

I due scesero silenziosamente e immediatamente Bellamy si parò al suo fianco, osservandosi intorno e riconoscendo quello che probabilmente doveva essere un deposito di garage. Che ci facevano lì?

Clarke aprì il cancello che si ritrovavano davanti con un click del telecomando che aveva fra le mani, poi gli fece strada lungo una discesa costeggiata da entrambi i lati da grosse serrande, fino ad arrivare al numero 221B.

Il maggiore dei Blake era totalmente incantato dai suoi movimenti, da quello che stavano facendo e da ciò che lo aspettasse. L’idea che quella ragazza che conosceva da poco tempo lo potesse star imbrogliando gli sfiorò per un attimo i pensieri, ma, così disturbante com’era arrivata, lui la ricacciò via.

Intendeva davvero quello che aveva detto prima: si fidava di lei. E non c’era ragione razionale o motivo concreto per farlo, ma era così e basta. C’era qualcosa, in Clarke, che apparteneva anche a lui.

Quando la giovane Griffin si voltò verso di lui e lo guardò come a volergli chiedere conferma, Bellamy annuì solennemente.

Afferrando una chiave dal mazzo che aveva usato per aprire il cancello, la bionda fece scattare la serratura e con una mano accompagnò l’apertura della saracinesca.

Senza attendere un istante di più, lui entrò nel piccolissimo e buio ambiente, seguito subito dopo dalla giovane, che si richiuse immediatamente tutto alle spalle.

Rimasero nella completa oscurità solamente per qualche secondo, poi Clarke cercò con il braccio l’interruttore e, alzandosi sulle punte, lo premette.

Non appena la luce si accese, Bellamy fu istantaneamente sovrastato da ciò che lo circondava: quella minuscola stanza doveva contare poco meno di una mezza dozzina di metri quadrati, ma pareva ancora più piccola per via degli scatoloni poggiati agli angoli del pavimento e per i muri tempestati di foto di uomini sulla mezza età.

Solo in quel momento la ragazza si tirò giù il cappuccio, rivelando finalmente i capelli dorati e arricciati, tenendo gli occhi fissi sul volto del moro.

« Cos’è questo posto? » Sussurrò lui rapito, mentre ancora si guardava attorno e tentava di capire cosa significasse.

« È la mia storia. »

Quando si voltò verso di lei, Clarke si strinse nelle spalle. « Forse vorresti metterti comodo. » Indicò con un gesto della mano una sedia pieghevole alle sue spalle, e Bellamy non attese oltre, afferrandola e sedendosi.

« Bene », cominciò lei, prendendo un respiro profondo e mordendosi il labbro inferiore con incertezza, « come ti ho detto, mio padre è morto. Il medico legale ha dichiarato, come causa del decesso, un infarto. »

Il moro fu perfettamente in grado di distinguere il tono che stava usando: era incredibilmente professionale, forse perché in quel modo pensava di non farsi coinvolgere troppo.

Oh, ma lei era coinvolta. Lo sarebbe sempre stata.

« E fin qui potrebbe essere accettabile, insomma, ormai un attacco cardiaco è un’affezione molto comune nella popolazione media. Se non fosse per il fatto, però, che mio padre era incredibilmente sano. Mia madre lo costringeva a controlli approfonditi ogni sei mesi, perciò non c’era alcun modo che potesse essere affetto da qualsiasi tipo di patologia e non esserne al corrente. Non era possibile, capisci? »

Clarke continuava a parlare e a muoversi, girarsi intorno e compiere tre o quattro passi in avanti prima di voltarsi nuovamente, e Bellamy era assolutamente in grado di notare il suo nervosismo e la sua agitazione.

Decise, tuttavia, di non fare ancora niente.

« Hai mai sentito parlare dell’Ark Corporation? » Gli domandò poi, portandosi un pugno davanti alla bocca e sollevando le sopracciglia.

« No, cos’è? »

« Mio padre era un ingegnere presso questa compagnia. Si occupa di appalti nella zona di Hollywood e simili, ha a che fare con molte celebrità e cose del genere. »

« Qual è il nesso fra la malattia di tuo padre e il suo lavoro? » Chiese subito dopo Bellamy, incerto.

« Credo che sia stato il motivo per cui lo hanno ucciso. » Fu l’immediata risposta della giovane, che subito dopo prese un respiro profondo e si passò una mano sul viso.

« Cosa? »

« Lui… aveva scoperto delle falle nei loro progetti. Le case che stavano costruendo per poi venderle ad almeno tre volte il prezzo di valuta non erano conformi alle leggi di sicurezza. Quei piani di lavoro non sarebbero nemmeno dovuti essere approvati dal consiglio di amministrazione, ma si trattava comunque di investimenti da milioni di dollari. »

« E tu come fai a saperlo? »

« Perché mio padre me lo rivelò. L’aveva scoperto da due settimane, quando morì. »

« Sono accuse molto gravi quelle che stai avanzando », constatò immediatamente Bellamy, entrando questa volta nei panni del poliziotto, iniziando a cercare una soluzione a tutti quegli interrogativi che potevano non essere semplici coincidenze, « ne sei consapevole, vero? »

« Quando avevo diciassette anni sono stata arrestata. Mi hanno tenuto in centrale solo per due ore, ovviamente, perché ero una minorenne. »

« Come? » Il tono sconvolto del ragazzo la fece quasi sorridere e con un gesto della mano gli indicò tutto quello che li circondava.

« Per questo. Mio padre se ne era andato da due anni, ma io non riuscivo ancora ad accettarlo, così iniziai a leggere i suoi documenti e passare molto tempo nel suo studio, e mi ricordai di quello che mi aveva confessato. All’inizio, quando avevo cominciato a fare domande qua e là all’Ark Corporation, mi lasciavano semplicemente fare, perché ero la figlia del grande Jake Griffin e la sua morte era stata difficile da accettare per tutti. Ma io sapevo, sapevo che ci fosse molto di più. Non ti sembra strano che l’amministratore delegato di un’associazione così importante fosse tanto spaventato da una ragazzina da farla arrestare? A meno che… »

« A meno che lei non avesse scoperto quello che aveva fatto. » Terminò lui al posto suo, alzandosi in piedi e guardandosi intorno con aria interessata.

« Chi è lui? » Il tono di voce del moro parve oscurato da una certa nota di incertezza, ma l'interrogativo rimase comunque pesante nell'aria.

« Marcus Kane. » Sussurrò lievemente lei, una scintilla di speranza negli occhi selvaggi. « Allora, vuoi aiutarmi? »



 





Curiosità:

# La canzone che ascolta Bellamy è Sweater Weather, dei Neighbourhood. Credo che siano decisamente il suo stile.

# "Semplicemente non mangio nulla che abbia avuto una faccia" è una semi-citazione dal telefilm Hemlock Grove.

221B. Devo davvero spiegarlo? 

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Capitolo 8
*** VII ***


Buongiorno dolcezze!
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e inserito fra le seguite/ricordate/preferite. Grazie per il supporto, le bellissime parole, gli scleri insieme, le risate e le emozioni che mi provocate. Siete fantastici, tutti quanti.

Ho solo un avviso: per quanto riguarda ciò che ha a che fare con le cose poliziesche, le sezioni e gli argomenti al riguardo, sono frutto delle informazioni che riesco a ricavare da internet e dalle invenzioni della mia fantasia, perciò se in qualche modo qualcosa di tecnico dovesse risultarvi improbabile (spero di no, mi sembra di essere stata abbastanza realistica) vi prego di ricordare questo.
Ogni avvenimento nella storia è praticamente del tutto frutto della mia immaginazione, sebbene ispirato a procedimenti reali (Il Dipartimento di Polizia etc.)

Detto questo, vi lascio al capitolo e vi auguro buona lettura!


 
Is It Any Wonder?



 
« Spegni la luce. » Il tono di Bellamy divenne improvvisamente fermo e autoritario, mentre si voltava nuovamente verso di lei e i suoi lineamenti si indurivano sotto la pressione della consapevolezza.

« Cosa? » Clarke, invece, sembrava aver perso tutta la sicurezza di qualche attimo prima; spalancò gli occhi in un’espressione di terrore.

« Ho detto spegni la luce. »

« Perché? »

« Non posso. » Sibilò lui, passandosi stancamente una mano sul volto.

Si fidava di lei?  Ma cosa stava facendo?

Non conosceva nemmeno il significato della parola fiducia e ora pretendeva di poterne dispensare a destra e manca per la prima ragazza carina che incontrava.

Era avvenuto tutto così velocemente e inaspettatamente, lui non aveva avuto nemmeno il tempo di riflettere con attenzione e ora si ritrovava catapultato in una situazione che sentiva di non poter gestire.

Un po’, forse, era per l’improvvisa rivelazione che lei gli aveva fatto, un po’ perché aveva paura di infrangere la stabile monotonia in cui era lentamente scivolato.

« Perché? » Ripeté la bionda, questa volta riferendosi ai suoi segni di cedimento.

La sua voce si abbassava man mano che il compimento della sua paura la colpiva; sapeva che con quella mossa si era giocata tutto: non solo la  propria credibilità e l’aiuto di una persona che stimava, ma anche una reale opportunità di fare luce sul mistero che aveva ossessionato gli ultimi quattro anni della sua adolescenza.

Bellamy non poteva. Semplicemente non poteva. Lui aveva Octavia, la sua maggior responsabilità, e immischiarsi negli affari di una compagnia milionaria – per un caso di presunto omicidio, per di più – non era esattamente il tipo di rischio che poteva permettersi il lusso di correre.

Tre settimane prima non sarebbe nemmeno riuscito a concepire l’idea di trovarsi in un garage, nel bel mezzo della notte, con una ragazza che lanciava accuse pretenziose e non indifferenti contro quella dannata Ark Corporation.

A cosa stava pensando per tutto il tempo?

Che improvvisamente, solo perché una ragazzina gli aveva fatto gli occhi dolci, avrebbe messo in gioco praticamente tutto quello che amava? Che sarebbe riuscito a salvarla?

La parte fredda e calcolatrice di sé parve istantaneamente svegliarsi da un letargo della ragione; no, per quanto fosse dispiaciuto per la sua perdita e per quanto potesse sentirsi attratto da lei, non avrebbe potuto farlo.

« Non posso aiutarti, sono stato sospeso. Ora spegni la luce, ti riporto a casa. » Parlò con la voce che sua sorella odiava tanto: quella che non ammetteva alcun tipo di repliche.

La giovane Griffin, che fino a quel momento l’aveva osservato attentamente in cerca di qualsiasi segnale che potesse rivelarle la sua predisposizione ad aiutarla o meno, si prese il volto fra le mani e vi sprofondò completamente, lasciando che i suoi capelli ricadessero in avanti e ricoprissero la vergogna che sentiva in quel momento.

Si era tanto preoccupata di seppellire qualsiasi tipo di razionalità da non pensare che forse quello non fosse lo stesso desiderio di Bellamy.

« Sei stato sospeso? Perché? » Tentava in qualsiasi modo di trovare qualcosa di lui che potesse convincerlo ad aiutarla, ma non era in grado di dirsi certa di niente.

« Non ti riguarda. Ce ne andiamo. Ora. »

Ad un tratto una grande collera si impossessò di lei: credeva forse che fosse stato facile, aprirsi con lui e condurlo in quel luogo? Come poteva, ora che sapeva tutto quello che aveva dovuto affrontare, trattarla in quel modo?

Sollevando il viso e alzando il mento, gli lanciò un’occhiataccia.

« Ah, quindi io ti racconto tutto questo e tu non puoi dirmi perché sei stato sospeso, giusto? »

«  Sì, proprio così. » Bellamy le tenne testa, incrociando le braccia e gonfiando il petto, cercando con tutte le sue forze di non lasciar trasparire nemmeno la minima parte di dispiacere che stava provando in quel momento.

« E non credi che abbia il diritto di saperlo? »

« Non hai nessun diritto su di me. Non ti ho chiesto io di raccontarmi la tua storia, non ti ho chiesto io di portarmi qui. »

« Ma hai accettato. Sei qui perché volevi essere qui, non dare la colpa a me per le tue decisioni! »

Stavano entrambi alzando la voce e qualsiasi cosa fosse successa prima a casa sua, ora stava lentamente scivolando in secondo piano, oscurata da motivi ben più profondi e impellenti.

« Va bene. E ora decido che non posso aiutarti, non potrei nemmeno se lo volessi. Ok? »

Senza offrirgli alcun segno di assenso, Clarke si limitò a tirarsi su il cappuccio della felpa. Poi, prese dalla tasca posteriore dei jeans il mazzo di chiavi e fece scattare nuovamente la serratura, spegnendo la luce e sollevando la saracinesca.




Il viaggio di ritorno fu brutalmente silenzioso e nessuno dei due pronunciò una singola parola, il brusio basso della radio e i loro respiri come unici suoi ad accompagnarli.

Bellamy stringeva forte il volante con la mano sinistra, lasciando la destra appoggiata pigramente al cambio, mentre Clarke, come suo solito, teneva il capo abbandonato al finestrino e guardava le luci dei lampioni sfrecciare al suo fianco e disperdersi alle sue spalle.

Quando il maggiore dei Blake parcheggiò nel proprio vialetto, si voltò verso di lei e la osservò per qualche istante.

Fin dalla prima volta in cui l’aveva incontrata, aveva capito di non poter comprenderla davvero; l’aveva vista così fiera nell’evidente solitudine che le faceva le fusa come un gatto pigro e si era immediatamente reso conto di quanto apparisse camaleontica e sfuggevole.

Sapeva di averla ferita, di averle probabilmente negato l’unica concreta possibilità di fare luce su qualsiasi cosa fosse accaduta al padre, ma non poteva permettersi di fare l’eroe. Non questa volta.

« Tu sei una ragazza brillante, Clarke. Riprendi a studiare, laureati, diventa il medico che hai sempre voluto essere. Il passato non può fare altro che male, devi lasciartelo alle spalle. Fidati di me. »

Lei non ricambiò lo sguardo. Non si mosse minimamente, gli occhi persi in una qualche lontananza davanti a sé e la gamba sinistra lievemente tremante.

Le dita della sua mano destra si strinsero attorno alla maniglia dello sportello, poi: « Fottiti, Bellamy. » E scese dalla macchina.
 


 
Erano trascorsi più di dieci giorni dall’ultima volta in cui l’aveva vista.

Non c’era stata più occasione, nemmeno per sbaglio: era come se Clarke Griffin  si fosse di sorpresa rivelata semplicemente un frutto della sua immaginazione.

Octavia ed Atom avevano smesso di nominarla più o meno da quando, il giorno dopo la fatidica cena, Bellamy aveva perso la testa e gli aveva urlato contro di farsi gli affari loro – forse in modo lievemente meno educato – e lui non l’aveva più incontrata.

Nemmeno al The 100, dove aveva intravisto spesso quell’idiota di Finn, nemmeno nella via di casa loro.

Molte volte, quando usciva a correre, gettava uno sguardo verso quell’abitazione imponente e la trovava incredibilmente vuota, silenziosa. E non perché i suoi abitanti non ci fossero, quanto perché apparisse spoglia e fredda.

Non sapeva se Clarke si fosse perpetuamente rinchiusa lì o se invece non ci fosse proprio più tornata; certe notti, quando si fermava a fumare in veranda, se la immaginava ubriaca da qualche parte, come l’aveva vista la prima volta in cui avevano parlato davvero, e una parte di lui – quella che si era buttata a capofitto in qualsiasi cosa stesse nascendo fra di loro – si faceva assalire da un moto di preoccupazione e angoscia, tentandolo quasi a prendere la macchina e ad andare a cercarla.

Ma poi la sua razionalità vinceva ogni volta, ricordandogli che lui non aveva nessun diritto su di lei, rigirando le parole che le aveva detto in quello sgabuzzino, e che ormai si era tirato fuori da tutto quello, non lo riguardava più.

Non poteva, quindi, pretendere di sapere dove fosse o cosa stesse facendo: doveva lasciarle la libertà che lui stesso aveva rivendicato a qualsiasi costo.

Il lato positivo, però, era che, non avendo nulla da fare, fosse riuscito a sistemare gli ultimi scatoloni e a liberare qualsiasi angolo della propria abitazione da ogni segno del recente trasloco.

E infatti stava proprio finendo di fissare una mensola al muro della propria stanza, quando due colpi secchi alla porta lo interruppero.

Continuando il lavoro, parlò: « Avanti. »

La testa di Atom fece capolino da uno spiffero della porta, e il giovane osservò per qualche istante il suo migliore amico.

« Ti stai dando da fare, eh? »

Bellamy si limitò ad una scrollata di spalle.

« Posso entrare? »

Ancora una volta, ricevette solamente un vago cenno del capo.

Il giovane Ward si diresse verso il letto al centro della stanza e si accomodò, studiandosi attorno: l’amico era sempre stato molto devoto al pragmatismo, non aveva mai amato collezionare oggetti o conservare cianfrusaglie, perciò non fu sorpreso dall’arredamento minimalista della sua stanza.

« Che stai facendo? »


« Monto una mensola », rispose l’altro, aggrottando le sopracciglia, « mi pare ovvio. »

« Non mi riferisco a questo. Mi riferisco a questo », indicò la sua figura con un gesto della mano, « tu che te ne stai chiuso in camera tua, sempre silenzioso, col musone, che non esci se non ti trasciniamo noi. »

Il maggiore dei Blake era ben consapevole che il suo comportamento avesse attirato l’attenzione dei suoi due coinquilini, ma non aveva comunque intenzione di parlare di quello che era successo.

In parte, ovviamente, era dovuto al fatto che non sapesse proprio cosa dire.

« Non ho nemmeno più visto Clarke. È per lei? » Atom insistette, più deciso che mai a scoprire la verità e trovare un modo per aiutare il suo migliore amico.

L’altro scattò al sentir pronunciare quel nome, e serrò la mascella.

« Lasciala fuori, lei non c’entra niente. » Si sentiva terribilmente incerto fra il raccontargli tutto o fare finta di niente.

Da una parte sapeva che nulla avrebbe potuto aiutarlo e che non ci fosse soluzione, in fondo era stato lui a fare quella scelta.

Dall’altra, però, sentiva che, se non ne avesse parlato, presto o tardi sarebbe completamente esploso.

« Lo prendo come un sì. Senti, so che non ti piace discutere di queste cose e che probabilmente non potrei fare niente per risolvere la situazione in cui ti trovi, ma almeno posso ascoltarti. Non tenerti tutto dentro. »

L’amico si era sporto in avanti, guidato dalle proprie parole e dal tentativo di coinvolgerlo il più possibile.

Bellamy lo scrutò per un attimo con espressione concentrata, poi la sua maschera di neve si sciolse e alzò gli occhi al cielo, gettandosi di schiena sul letto, accanto all’amico.
 
 
 
*


 
Clarke si svegliò lentamente, percependo come prima cosa il lieve tremore della sua mano sinistra.

Sollevandosi la mascherina dagli occhi assonnati, si accorse che non era una vibrazione qualunque, ma il suo telefono che squillava.

Senza nemmeno guardare chi fosse, premette il tasto di rifiuto chiamata e spense lo smartphone, gettandolo da qualche parte fra le leggere lenzuola.

La bionda ricadde sulla schiena e osservò il soffitto per qualche istante, lasciando vagare lo sguardo sulle mensole piene di fumetti e manga che Monty amava tanto leggere.

Da quando si era praticamente trasferita nel suo garage, aveva iniziato ad apprezzare sinceramente la passione dell’amico per i libri di qualsiasi genere, trovando in loro una compagnia assai più piacevole di determinate persone.

Non appena sentì la porta contigua all’abitazione aprirsi, temette quasi che i coniugi Green fossero tornati in anticipo dalla loro vacanza alle Fiji e si prefigurò nella mente la scena di sua madre che dava di matto scoprendo che, in effetti, non era proprio partita in campeggio con i suoi amici.

« Credevo che non ci fosse imbarazzo per quello che è successo stanotte, non c’era bisogno di spegnere il telefono. » Scherzò Monty, rivelandosi agli occhi blu di lei e reggendo fra le mani un vassoio.

La giovane Griffin si abbandonò ad una lieve risata e si mise a sedere, passandosi una mano fra i ricci disordinati.

Quando l’amico si sedette sulla vecchia poltrona di pelle marrone alla sua sinistra e poggiò il portavivande sul tavolino da caffè fra loro due, Clarke parlò di nuovo: « Oh, Dio, dovrò sposarti. »

Davanti a lei si ergevano due grosse tazze di latte, una caffettiera, due brioche, due coltelli e un’innumerevole quantità di vaschette di plastica contenenti burro e marmellate di vario genere, simili a quelle preconfezionate degli hotel.

« Mettiti in fila, ragazza! »

I due cominciarono a fare colazione in un silenzio gradevole e nessuno dei due parve turbato dalla situazione.

Era questo che, con il tempo, la bionda aveva imparato ad apprezzare del ragazzo: non importava quanto la situazione fosse strana, ambigua o surreale, lui avrebbe supportato i suoi amici senza porre la più piccola domanda, senza crearsi il minimo dubbio.

« Non posso esprimere quanto ti sia grata per quello che stai facendo per me. So che è difficile, lo so, e mi dispiace così tanto. Odio mentire a Jasper, odio tutta questa situazione, ma non posso… » Azzardò una pausa, poi prese un respiro e continuò: « Non posso tornare a casa, ci sono tante cose che… »

« Clarke », la riprese l’altro con tono calmo e pacifico, « non devi dirmelo, se non vuoi. Non mi sei di alcun fastidio, anzi, tutt’altro. È come vivere in un episodio di Breaking Bad. »

Di nuovo, la giovane rise e l’atmosfera sembrò risollevarsi.

Una volta che ebbero finito di mangiare, l’unico figlio di casa Green riprese il vassoio fra le mani e si avviò verso la porta, voltandosi quando stava per andarsene: « Hai intenzione di uscire, oggi? »

Un’altra cosa che lei stimava era la sua ottima capacità di implicare significati reconditi in semplici frasi. Quello che le stava chiedendo ora, ad esempio, poteva con molta certezza essere interpretato come: Hai intenzione di parlare con Jazz, oggi?

« Credo di sì. » Rispose lei con un sospiro affranto e arreso.
 
 
 
 
*


 
« Sei un idiota. »

Atom, gli avambracci appoggiati alle cosce e la schiena piegata in avanti, gettò un’occhiataccia alla sua destra, dove il suo migliore amico se ne stava sdraiato e fissava fuori dalla finestra.

« Cos’altro avrei dovuto fare? » Rispose sulle difensive lui, sollevandosi sui gomiti e assumendo un’espressione confusa.

Gli aveva raccontato ciò che era successo con Clarke – omettendo, ovviamente, il motivo per cui lei gli avesse chiesto di aiutarla. Sentiva che, se l’avesse detto, sarebbe stato un po’ come tradirla – e l’aveva fatto tutto d’un fiato, iniziando dal principio, da come il suo modo di vederla si fosse vorticosamente rovesciato dopo la notte in cui si erano sfogati l’uno con l’altra e si erano raccontati i segreti più oscuri delle loro vite, finendo poi con il loro ultimo incontro, con le ultime parole che lei gli aveva rivolto.

« Il fatto che ti abbia mandato a farti fottere mi piace più del dovuto, devo ammetterlo, però… »

« Ehi! Tu dovresti stare dalla mia parte! »

« Però », Atom calcò nuovamente su quella parola, lanciandogli nuovamente uno sguardo di sbieco, « hai fatto quello che sentivi. Se non volevi aiutarla, non ti poteva costringere. »

« Ma io volevo aiutarla… » Commentò Bellamy a bassa voce, perdendosi nei propri pensieri.

« Cosa? »

« Io volevo aiutarla. » Ripeté con più fermezza, riportando lo sguardo in quello dell’amico.

« E allora cosa te lo ha impedito? » Il giovane Ward pareva sinceramente e profondamente desideroso di capire il motivo per cui avesse agito in quel modo, e ciò sorprese molto positivamente il maggiore dei Blake, che ormai si era scordato cosa significasse avere un amico pronto a risolvere insieme a lui i suoi problemi.

« È nei guai seri, e se qualcosa andasse storto… Non posso permettermi di perdere il lavoro, o di mettere Octavia in una brutta situazione. Lei ha bisogno di stabilità e certezze, non posso correre dei rischi. »

« E il problema è solamente questo? Non pensi a tutte le volte in cui hai avuto a che fare con gli arresti alla Narcotici, con i pericoli del tuo mestiere? Risolvere i guai seri è il tuo lavoro, amico.
Sai cosa penso? Penso che hai conosciuto questa ragazza e hai provato subito qualcosa, ma non hai il coraggio di affrontarlo e quindi ti stai tirando indietro, perché hai paura che per lei non sia lo stesso. E penso che stai usando questa scusa e ti stai mentendo, perché in realtà sai che per lei è lo stesso. »

Il moro si mise a sedere con un’espressione di timore ed esitazione sul volto, mentre l’amico annuiva e lo guardava in attesa che metabolizzasse quello che gli aveva appena detto.

Rimasero in silenzio per alcuni istanti, ognuno perso nelle proprie riflessioni, poi Bellamy si abbandonò ad una risata bassa, quasi isterica, ed Atom capì di aver centrato in pieno.
 
*



 
Jasper non aveva la minima idea di come superare la mancanza profonda e desolante che gli provocava il solo pensiero di Clarke.

Dall’ultima volta in cui si era diretto a casa sua col sincero proposito di mettere fine alla farsa che era divenuto il loro rapporto – ed effettivamente ci era riuscito – niente aveva avuto più senso.

Inizialmente si era detto che quella era la cosa migliore da fare, che forse lui non era mai stato abbastanza e non sarebbe mai riuscito a salvarla dai suoi demoni interiori, e ci aveva perfino creduto.

Ora, invece, che cercava di abituarsi a una vita del tutto nuova, una vita senza di lei, si sentiva come uno scherzo della natura: perennemente insoddisfatto, costantemente scontento.

 Non importava in che modo andassero le cose, la sua fine sarebbe sempre stata quella di soffrire.

Che lei gli fosse vicina e gli offrisse abbracci che non gli sarebbero mai stati sufficienti, o che fosse lontana e non avesse più la possibilità di parlarle, tutta quella situazione l’avrebbe condotto sempre e solo a un male che non avrebbe potuto sconfiggere.

Si sentiva come un animale braccato, sempre in fuga, nascosto nell’ombra, e non importava quale direzione prendesse, non importava quale sentiero scegliesse, non poteva fermarsi, perché in ogni caso la sua corsa sarebbe finita nel peggiore dei dolori.

Jasper si sentiva inesorabilmente perso, senza una rotta o un obiettivo da perseguire.

A volte la sua mente oscillava con pigrizia verso il pensiero che Clarke potesse essere la soluzione; altre volte, invece, si convinceva profondamente che fosse solamente il problema, trascinandolo in un baratro in cui la colpa finiva inesorabilmente per essere la propria.

Forse non era colpa sua se si era innamorato di lei, ma erano di certo colpa sua l’ostinazione e la sicurezza con cui aveva sperato che un giorno, magicamente, la sua migliore amica si accorgesse della sua più totale devozione.

Dopotutto, lui aveva preferito continuare a illudersi che gli abbracci e le parole significassero più del dovuto. Era stata una sua decisione quella di incaparbirsi e credere di poter essere di più.

L’aveva capito troppo tardi: ad un certo punto, continuare a soffrire diventa una scelta.

E più i suoi sentimenti si accumulavano al centro del petto, più un sentimento di straniamento e angoscia lo assaliva.

Voleva stare con qualcuno e smettere di pensare, ma, allo stesso tempo, credeva che nessuno fosse in grado di capirlo.

La verità, forse, era che aveva semplicemente bisogno del suo migliore amico.

Peccato che, da qualche giorno a quella parte, Monty si comportasse in modo piuttosto ambiguo. Ad esempio quando, due sere prima, Jasper gli aveva chiesto di uscire, ma l’amico aveva risposto che non si sentiva granché bene e che sarebbe rimasto a casa.

E sarebbe stato tutto normale, se poi non l’avesse visto al club prendere del cibo a portar via e affrettarsi verso l’uscita.

Fermandosi un attimo a pensare, il giovane Jordan arrivò ad una conclusione: praticamente quasi tutti i loro amici erano fuori città e i coniugi Green erano partiti per le Fiji, quindi c’era un’unica persona con cui Monty avrebbe potuto trascorrere la serata.

L’unica persona con cui Jasper non poteva parlare.

Dopo quello spiacevole evento, il ragazzo aveva riflettuto attentamente sul comportamento che avrebbe dovuto adottare, ed era arrivato alla conclusione che no, non avrebbe più fatto finta di niente.

Quel pomeriggio, perciò, si stava avviando verso la casa del suo migliore amico con l’intenzione di dirgli tutto quello che aveva visto e di rivelargli i suoi timori. Poi, solo dopo, avrebbe pensato alle conseguenze.

Una volta arrivato davanti alla facciata a due piani che ormai conosceva come se fosse la propria, si fermò solo per qualche istante ad osservarla: il prato ben curato, la cassetta della posta dipinta a mano, le persiane blu e le grandi vetrate che illuminavano gli interni nel più funzionale dei modi.

Jasper tirò fuori il proprio mazzo di chiavi e strinse immediatamente tra le dita quella della porta principale dell’abitazione del suo migliore amico. Si conoscevano praticamente da tutta la vita: i loro genitori si erano incontrati in viaggio di nozze in Tunisia e, quando avevano scoperto di vivere entrambi a Los Angeles e di aspettare entrambi un figlio, non avevano potuto fare a meno di scambiarsi i numeri di telefono e di promettersi di far incontrare al più presto la loro prole.

Non appena mise piede nella villa silenziosa, il giovane temette di essersi presentato al momento sbagliato.

Scrutò il salone – il primo ambiente in cui ci si ritrovava entrando in casa – ma non notò alcun segno che potesse indicargli o meno la presenza di Monty.

Stava quasi per fare dietrofront ed andarsene quando, sentendo dei rumori, fu insospettito e si diresse verso la cucina. La stanza era divisa dal salotto da un arco di pietra e, per metà, da un muretto che gli arrivava al fianco.

Lo stile era molto rustico, del tutto divergente dall’ordine orientale che ci si sarebbe potuti aspettare dalla famiglia Green.

Gettò uno sguardo alla porta che conduceva al garage, da cui credeva provenissero i suoni, e si guardò attorno, sfiorando con gli occhi ogni angolo di quell’ambiente così familiare.

Immaginò che il ragazzo potesse essere al piano di sopra, forse stava studiando in camera sua per il prossimo esame di farmaceutica, quindi si voltò per raggiungere le scale, situate nella parte est della sala da pranzo rispetto al punto in cui si trovava lui.

Non fu in grado di compiere un altro passo, però, perché percepì la porta alla sua destra aprirsi e una voce ben conosciuta giungergli dolcemente alle orecchie.

« Monty, quello non era assolutamente il rumore del nano da giardino che tuo padre sta dipingen… »

Clarke si interruppe bruscamente, notando chi si ritrovava davanti. I suoi occhi brillarono di stupore e per un attimo le sue labbra si socchiusero, ma, non appena Jasper distolse lo sguardo dal suo con fare seccato, si riprese.

« Jazz… » Sussurrò lei, sembrando per qualche istante la dodicenne di un tempo, quando lui e Monty scoprirono che aveva comprato il suo primo reggiseno.

Il volto dell’amico si trasformò immediatamente in una maschera di imperturbabilità, ma non le sfuggì il movimento della sua mascella che si serrava.

« Che ci fai qui? » Domandò dopo qualche attimo,  voltandole le spalle e appoggiandosi con la mano sinistra al bancone della cucina.

« Jazz », lo richiamò di nuovo, « sono felice di vederti. Ci sono tante cose che devo raccontarti… »

« Facciamo la prossima volta, eh? » Suggerì lui con tono aspro, continuando a darle le spalle. In un altro contesto, quel quadretto sarebbe potuto risultare perfino comico.

Le era mancata così tanto da sentir venire meno il respiro, e ora che se la trovava davanti non riusciva nemmeno a sopportare di vedere il suo volto.

La giovane Griffin non replicò, bensì si limitò a serrare le palpebre per qualche istante e maledirsi mentalmente.

Quando Jasper fece per allontanarsi, lei compì un passo avanti.

« Mi manchi. » Mormorò così piano da pensare di non aver nemmeno pronunciato quelle due parole, ma in qualche modo seppe di essere stata sentita.

L’altro rimase immobile per un paio di secondi, poi, senza voltarsi verso di lei, si diresse nuovamente verso l’uscita. Ancora una volta, un desiderio di scappare via da tutto quello lo investì, e lui lo assecondò.

L’ultima cosa che Jasper vide prima di richiudersi la porta d’ingresso alle spalle fu l’espressione di colpa e dispiacere negli occhi del suo migliore amico, in piedi in cima alle scale.

« Merda! » L’imprecazione di Clarke riecheggiò nella cucina silenziosa, e la bionda fu incredibilmente e paurosamente tentata di prendere a pugni qualsiasi cosa si ritrovasse davanti.

Monty scese i gradini e la raggiunse, posandole lievemente una mano sulla spalla destra.

« Andrà tutto bene, lo conosci. Gli passerà. »

« No! » Continuò lei, il tono di voce più alto del normale, « È tutta colpa mia. L’ho ferito, l’ho trascurato e ora l’ho perso. È tutta colpa mia… »

Ad un tratto tutta la rabbia e la collera che aveva percepito addensarsi dentro di lei si sciolsero, trasformandosi in desolante sofferenza.

Perché non era in grado di comportarsi come un dannato essere umano? Perché non riusciva a capire gli altri, a trovare un minimo di forza dentro di sé per lottare l’intorpidimento delle proprio emozioni?

Cosa doveva fare per riuscire di nuovo a sentire qualcosa?

Prima che l’amico potesse dire qualcos’altro, parlò nuovamente, questa volta con spaventosa calma: « Me ne vado. »

« Sai che non è necessario, puoi rimanere finché i miei non tornano. »

« No, Mon, non posso. Ti sono così grata per quello che hai fatto per me », e, così dicendo, sfiorò delicatamente la mano che ancora stringeva la sua spalla, « ma lui ha bisogno di te. Ha bisogno del suo migliore amico, soprattutto ora che io non sono più in grado di mantenere quel compito. »

« È di te che ha bisogno, Clarke. Solo di te. Va’ da lui. »
 
 
 
*



 
Il cellulare di Bellamy iniziò a squillare mentre lui era sotto la doccia, una, due, tre volte.

Infastidito dall’impellenza con cui l’apparecchio trillava da almeno dieci minuti, si avvolse un asciugamano attorno alla vita e, il più velocemente possibile, si avviò verso la propria scrivania.

Il presentimento che aveva avuto poco prima parve teatralmente realizzarsi quando si accorse che il telefono che squillava era quello di cui usufruiva esclusivamente per il lavoro, un numero che, però, non utilizzava da un mese e mezzo per ovvi motivi.

Senza attendere oltre, afferrò il telefono e rispose.

« Bellamy? Ehi, scusa se ti disturbo, sono Ben. »

Il moro riconobbe subito la voce dall’altra parte del telefono: era un suo conoscente della sezione Crimini Commerciali del Dipartimento, un ragazzo molto sveglio e soprattutto pratico, con cui s’era ritrovato a prendere un caffè ogni tanto.

« Nessun disturbo. Che succede? » Il suo tono non poteva essere definito in altro modo se non diffidente e inquieto. A cosa poteva essere dovuta quella chiamata?

« L’ho fatto solo perché ti conosco e so che sei un bravo ragazzo, nonostante tutto. Si tratta di tua sorella. »



« Un’auto rubata? Seriamente? »

Il maggiore dei Blake lanciò a sua sorella uno sguardo ardente di furia attraverso lo specchietto retrovisore.

Octavia si strinse nelle spalle con espressione turbata e accigliata.

« Non hai niente da dire? Bene. Sai che ti dico io? Che sei schifosamente fortunata. E se non fosse stato un mio amico a beccarti, eh? Se fosse stato qualcun altro? E se fosse stato il Capitano? Non solo hai compromesso te stessa, ma anche il mio lavoro. Sai cosa succede se io perdo il lavoro? Non riusciremo a pagare l’affitto. E sai che succede se non paghiamo l’affitto? La strada. È questo che vuoi? Dimmi, Octavia, è questo che vuoi? »

« Perché non la smetti di fare l’eroe? Nessuno ti ha chiesto di venirmi a prendere, avresti potuto lasciarmi lì. »

« Sì, certo, avrei potuto lasciarti lì, così saresti potuta finire in prigione. Non provarci nemmeno. »

« Come vuoi. »

Bellamy, troppo furioso per poter guidare con tranquillità, si accostò al lato della strada e tirò il freno a mano con irruenza.

Nell’abitacolo calò un silenzio tombale, tanto potente da fargli fischiare le orecchie. Poi, d’un tratto, il moro colpì il volante con un pugno tanto forte da far trillare il clacson.

« Ti rendi almeno conto di quanto hai rischiato? » Sibilò fra i denti, voltandosi verso il sedile posteriore su cui sedeva la minore dei Blake.

La bruna non rispose, limitandosi a congiungere più forte le braccia al petto e guardare fuori dal finestrino, la mascella serrata e le sopracciglia aggrottate.

« Sei troppo intelligente per stare dietro a quelle persone, Octavia. Quell’idiota del tuo ragazzo ha la mia età, dannazione! »

« Ti reputi molto migliore di loro? » Sputò fuori, spostando lo sguardo ostile verso suo fratello e sfidandolo.

« Sì! » Urlò lui con convinzione, alzando le braccia in aria.

« A quanto mi risulta sei tu che ti sei fatto sospendere per una stupida rissa. Sei tu che non sei stato in grado di controllarti. Vuoi sempre giocare a fare il grande fratellone, eh? Beh, indovina? Sei solo un coglione egoista. »

«L’ho fatto per te! Per proteggerti. Tutto quello che ho sempre fatto è stato per proteggerti, non lo capisci? »

Non c’era più rabbia nei suoi movimenti, solamente profonda amarezza e incontrollabile malinconia. Dov’erano finiti i giorni in cui tutto, fra loro, andava bene?

Bellamy scivolò nuovamente al posto del conducente e appoggiò stancamente la testa al sedile, chiudendo gli occhi e passandosi una mano sul volto sfiancato.

« Non uscirai finché non lo dirò io, chiaro? »

« Cosa? Ho diciannove anni, non puoi… » La più giovane scattò in avanti e cercò invano di protestare, interrotta subito dopo dalla voce profonda del moro.

« Chiaro? »

Lei si limitò a richiudere la bocca rimasta schiusa e a gettarsi un'altra volta contro lo schienale del sedile posteriore.
 
*



 
Due colpi secchi e sicuri contro la porta della propria stanza furono sufficienti a distrarre il giovane Jordan dalla lettura disinteressata e superficiale della termoregolazione fisica dei corpi.

« Ehi, Jasper, ci sei? » Quella voce. Non c’era modo che non riconoscesse quella voce.

« No. » Fu la sua breve risposta.

« Posso entrare? »

Clarke attese per qualche attimo, ma lui non parlò di nuovo, quindi entrò lo stesso.
La sua piccola e luminosa figura scivolò nella stanza silenziosamente, e subito i suoi occhi blu trovarono quelli del suo migliore amico.

« Mi ha aperto tua madre. Interrompo qualcosa? »

« Solo il mio attento e appassionato studio. » Replicò lui senza la minima inflessione nella voce.

« Posso sedermi? »

« Non sei mai stata così educata, nemmeno quando sei venuta da me e Monty per dirci che eravamo degli sfigati a non andare al ballo del terzo anno di liceo. Ti prego, non esserlo ora. » Il sarcasmo e l’acidità nella sua voce erano quasi palpabili nell’aria, ma la bionda decise di non prestargli troppa attenzione.

Invece, accennò un lieve sorriso e si strinse nelle spalle, colpevole, dirigendosi poi verso il letto su cui se ne stava sdraiato lui.

« Adesso voglio che mi ascolti attentamente. » Iniziò con sicurezza, la schiena dritta e lo sguardo deciso.

Sapeva che quella sarebbe stata la sua possibilità più consistente e concreta: se non fosse riuscita ad ottenere il suo perdono in quel momento, le cose si sarebbero solo complicate.

« Mi dispiace. Sono sinceramente e profondamente dispiaciuta. Il mio comportamento non ha scusanti, non ho giustificazioni. Hai ragione: non ti ho cercato, non mi sono interessata ai tuoi problemi, e di questo sono pentita. La colpa è solamente mia. Ma… », l’esitazione, in quel momento, si fece effettivamente sentire, « tu sei il mio migliore amico, sei il mio punto di riferimento, e non posso accettare di continuare senza di te. Quindi ti prego, perdonami… »

Jasper, che si era limitato ad ascoltarla attentamente, non sarebbe riuscito ad esprimere a parole il modo in cui si sentiva in quel momento.

Una parte di lui, quella che era intimamente consapevole del male che lei gli aveva inavvertitamente inflitto, lo mise in guardia, gli urlò di non cedere. Quella stessa parte sapeva che, prima o poi, Clarke lo avrebbe ferito di nuovo.

E la cosa peggiore era rendersi conto della sua inconsapevolezza, sapere che lei aveva il pieno potere di ferirlo e farlo sanguinare senza nemmeno accorgersene.

Un’altra parte, però, quella che era sempre stata innamorata di lei fin dal primo giorno in cui l’aveva vista, gli suggeriva dolcemente di annuire, semplicemente annuire e allargare le braccia, stringerla e fingere che tutto sarebbe andato bene.

Cosa avrebbe dovuto fare? Pensava che il loro rapporto fosse giunto al termine, ma ora che se la ritrovava davanti non poteva convincersene del tutto.

È questo il guaio dell’amore: ogni litigio sembra la fine e ogni sorriso sembra l’inizio. Peccato che spesso nessuna delle due sia corretta.

I secondi continuavano a passare e lo sguardo impaziente della giovane Griffin lo scrutava attentamente, perciò Jasper decise di arrendersi. Sì, smetteva di lottare e deponeva le armi.

« Vieni qui. » Mormorò.

Clarke, un sorriso dipinto sulle labbra perfette – un vero sorriso, non solo denti –, gattonò verso di lui e posò lievemente la testa sul suo petto, percependo le sue braccia avvolgersi attorno a lei e stringerla delicatamente.

« Grazie. » Bisbigliò quasi silenziosamente contro il tessuto della sua t-shirt.

« Non c’è di che. »


 
 
 
 
Il buio avvolgeva strade e angoli di case quando Clarke decise di lasciare l’appartamento del suo migliore amico.

Non avevano parlato molto, praticamente non avevano discusso di niente di quello che li aveva portati a smettere di rivolgersi la parola per quasi un mese, si erano semplicemente limitati a starsene stretti l’uno all’altra a guardare con disinteresse inutili programmi alla televisione.

Si sentiva finalmente più leggera, come se fosse stata liberata da tonnellate di cemento appese alle caviglie, e questo le aveva dato la sicurezza sufficiente per passare a prendere le proprie cose da Monty e decidere di tornare a casa.

Quando imboccò, a piedi, la via che conosceva a memoria, non poté trattenersi dal pensare a Bellamy.

Dal momento in cui lui si era categoricamente rifiutato di aiutarla, non aveva più voluto vederlo: in parte era dovuto alla vergogna che provava per avergli rivelato la sua debolezza più grande,  in parte, invece, era perché aveva creduto di poter essere davvero capita, di aver trovato qualcuno che le assomigliasse.

Con ogni sfortunata probabilità, si era completamente sbagliata.

Dopo quella sera in macchina, quindi, era stato facile voler scappare, scomparire: ci meditava su già da tempo, con Wells e sua madre e tutto quello che succedeva, ma sapere di esser considerata solo una pazza visionaria dalla prima persona a cui dopo molto tempo avesse concesso anche solo il beneficio del dubbio, beh, quello era stato il suo trampolino di lancio.

Era stato facile trasferirsi temporaneamente da Monty e accamparsi nel suo garage, sfuggire da tutti quei problemi e fare semplicemente finta che non esistessero.

Camminando nella più totale quiete notturna – era talmente stanca che non aveva nemmeno voglia di prendere le cuffiette dalla tasca posteriore dello zaino che portava sulle spalle – si guardò attorno e lasciò che tutte le preoccupazioni che le vorticavano in testa sparissero.

Le strade di notte sembrano delle grosse stanze illuminate, pensò Clarke. Ognuna con un proprio angolo personale, come delle gigantesche scatole di luce artificiale ed un soffitto infinito e stellato. Non c’è nulla di più intimo di questi corridoi solitari.

In un altro periodo dell’anno, non avrebbe mai pensato di poter camminare da sola a quell’ora per le strade della Città che Non Dorme Mai, ma durante quelle settimane, invece, era ben consapevole del fatto che il suo quartiere si fosse svuotato, che tutti fossero partiti per le loro incantevoli vacanze da quindici giorni in Egitto o aree tropicali che fossero, quindi si sentiva abbastanza sicura.





Vide la figura seduta sul proprio portico ancora prima di raggiungere la facciata della casa.

La luce era spenta e l’illuminazione del lampione a due metri da lei non era sufficiente, perciò non fu in grado di riconoscere di chi si trattasse. Poteva essere Wells, ma perché starsene al buio?

In un improvviso moto di adrenalina e inaspettato istinto di sopravvivenza, strinse con fermezza la chiave di casa, che teneva stretta nel pugno ficcato nella tasca sinistra della felpa.

Certo, non era un oggetto contundente o potenzialmente pericoloso, ma stringere quel pezzo di ferro le infuse una certa sicurezza.

Con passo lento e vigile si avvicinò di più, scrutando con gli occhi l’oscurità attorno alla figura.

Quando la percepì alzare il capo nella sua direzione, pensò bene di bloccarsi sul posto e mantenere una discutibile distanza.

« Ho picchiato un tipo. » La voce di Bellamy le giunse roca e bassa, e Clarke non poté trattenersi dall’abbandonarsi a un lieve sospiro. Lasciò cadere lo zaino ai suoi piedi.

« Che? »

« Ho picchiato un tipo », ripeté lui, « ecco perché sono stata sospeso. »

Trascorse un lunghissimo minuto prima che la risposta di lei si fece sentire: « E io che ti facevo un pacifista. »

Il sarcasmo nel suo tono non fu smorzato da alcun sorriso o segno di incoraggiamento, ma il maggiore dei Blake pensò di meritarselo.

La bionda se ne stava ancora in piedi, immobile, davanti ai tre scalini della sua veranda, mentre l’altro la osservava seduto sul divanetto in vimini con i cuscini bordeaux scuro. Chi diavolo mette dei cuscini su un divanetto da esterni?

« Non ti ho più vista. »

La giovane Griffin fece qualche passo avanti e si sedette sul secondo gradino, poggiando la schiena contro il corrimano in legno compatto e allungando le gambe davanti a sé; riusciva ad intravedere la figura di lui con la coda dell’occhio.

« Sì, beh, ho avuto da fare. » Indicò con un cenno del capo il sacco ai propri piedi.

Bellamy non rispose, e Clarke non volle voltarsi a guardarlo. Rimasero in totale silenzio per alcuni minuti, poi un dubbio si fece largo nei pensieri della giovane, che finalmente spostò lo sguardo verso di lui: « Come facevi a sapere che sarei tornata oggi? »

« Ho incontrato tua madre, prima. »

« E ti ha lasciato rimanere qui fuori tutto questo tempo? »

« Ho aspettato che andassero a dormire. » Confessò lui, come se fosse la cosa più normale del mondo.

« Eppure l’ultima volta che ci siamo visti non sembravi così desideroso di parlarmi. » L’oscura ironia che ogni sua parola trasmetteva poteva essere tagliata con un coltello, per quanto fosse palpabile.

« È per questo che sono qui, in effetti. » Il moro si alzò e, per un riflesso totalmente e assolutamente incondizionato, lei fece lo stesso.

Ora che lo guardava da uno scalino più in basso, sembrava ancora più alto, e Clarke dovette piegare il collo per riuscire a guardarlo negli occhi.

« Senti, non devi sentirti in colpa o cose del genere. Mi dispiace per averti preso a parolacce, ma è tutto a posto. Nessun imbarazzo, no? » Richiamò quello che le aveva detto lui riguardo il loro… incidente, per così dire.

« Beh, ecco… »

« Chiudiamola qui. » Suggerì lei con un sorriso che non coinvolse il resto del volto.

Senza attendere risposta, si voltò e si sporse per afferrare lo zaino, poi superò l’unico gradino che le rimaneva e sorpassò il maggiore dei Blake, che in quello scambio di pochi secondi non era riuscito a proferire parola.

Stava quasi per raggiungere la porta d’ingresso quando sentì i suoi passi pesanti e percepì la sua grande mano afferrarle l’avambraccio.

Attese un’infinitesimale frazione di secondo prima di girarsi, ma alla fine decise di affrontarlo.

Peccato che il suo movimento fu troppo brusco, e si ritrovò improvvisamente immobilizzata: il volto di Bellamy, praticamente del tutto oscurato dalla mancanza di luce, era più vicino di quanto fosse mai stato, e Clarke sussultò per la sorpresa.

Lo guardò da sotto le ciglia per qualche altro momento, mentre lui pareva tenere gli occhi socchiusi.

« Non voglio chiuderla qui. » Il suo sussurro fu così basso da poter essere confuso con la lieve brezza estiva che li sfiorava.

Quel momento parve congelarsi nello spazio e nel tempo, conducendoli in un luogo senza pareti, senza un verso, una direzione, una luce da guardare, che girava così furiosamente da sembrare totalmente immobile.

Bellamy continuò ad aggrapparsi piano al suo braccio finché lei non distolse lo sguardo dal suo, e in un attimo tre passi secchi li dividevano.

« Buonanotte, Principessa. » Mormorò velocemente fra i denti, affondando i pugni nelle tasche dei jeans e dandole le spalle, camminando velocemente verso la propria abitazione.

Una volta che fu sparito, lontano dal suo sguardo, Clarke parve nuovamente riacquistare la capacità di respirare.




 

Curiosità:

# «  Vuoi sempre giocare a fare il grande fratellone, eh? Beh, indovina? Sei solo un coglione egoista. » Queste sono le esatte parole che, nel tf, Octavia dice a Bellamy durante una loro lite. Trovo molto divertente riutilizzare e riadattare frasi che vengono pronunciate nella serie. E poi, diciamocelo, in quest'occasione ci stavano proprio bene!






 
 

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Capitolo 9
*** VIII ***


Buonasera, miei adorati!
Ringrazio le fantastiche ragazze che recensiscono i capitoli con costanza e pazienza, ringrazio le fantastiche persone che hanno reso possibile questo progetto e mi hanno spronata e motivata a fare sempre di meglio.
Siete delle meravigliose persone, davvero.

Non ho molto da dire, se non che ho riscritto alcune parti di questo capitolo almeno dieci volte. Non so se di alcune di queste sono soddisfatta, ma lascio a voi il giudizio.

Buona lettura!





 

 



 
Is It Any Wonder?
 

 






Non appena Octavia sentì bussare alla porta della propria camera, si affrettò a nascondere il diario che le aveva regalato Lincoln sotto uno dei tanti cuscini che le ornavano il letto.

« Chi è? » Domandò con voce seccata.

Sapeva bene che non potesse trattarsi di suo fratello, lui non era di certo il tipo che arrivava ad implorare di fare la pace dopo un solo giorno, ma non aveva ugualmente voglia di parlare con qualcuno.

« Babbo Natale! »

« Idiota. » Sbuffò lei, senza però essere capace di trattenere un sorriso.

Con qualche difficoltà l’uscio si aprì e rivelò la figura di Atom, intento a non rovesciarsi addosso i due recipienti di cartone contenenti i loro caffè.

« Caffèlatte con panna e cannella per la graziosissima O e un espresso nero e senza zucchero per il sottoscritto. »

La giovane, che fino a quel momento era rimasta sdraiata, si mise a sedere e accettò volentieri la bevanda che le veniva offerta.

« Sai, voi Blake dovreste pagarmi per diventare il vostro psicologo personale. Ci farei una fortuna. » Scherzò lui, accomodandosi al suo fianco.

Così com’era venuto, il lieve sorriso sulle labbra di lei scomparve.

« Ti ha mandato lui? »

L’amico la guardò stralunato e sconvolto, poi rispose: « Preferirebbe auto mutilarsi piuttosto che chiedere aiuto. »

« Ma ti ha detto cosa è successo. » Tirò ad indovinare, sapendo che il suo eroico fratellone non riuscisse a non andarsene in giro a raccontare di come aveva salvato la sua ribelle sorellina dal baratro dell’oblio.

L’espressione di Atom si fece seria e annuì, iniziando ad accarezzarle dolcemente i capelli.

« Lui voleva solo proteggerti. Insomma, la tua non è stata una mossa particolarmente sveglia… No? Non voglio comunque farti la predica, ma devi sapere che quello era uno sbaglio. Hai sbagliato, O.  E conosci Bellamy, lui farebbe qualsiasi cosa al mondo per te, per tenerti al sicuro. Il suo motto è: “Chiunque la tocchi, risponde a me” per un motivo preciso. » Accennò una risata divertita al ricordo del tono assolutamente serio con cui il suo amico aveva pronunciato quelle parole.

« Mi ha confinata in casa. Non posso uscire. Ti sembra normale? » Domandò lei con incredulità e ostilità, passandosi una mano fra i lunghi capelli scuri.

« E, mh, in proposito… », il suo tono di esitazione non le sfuggì, « mi ha chiesto di tenerti d’occhio. »

« Cosa? » La voce di Octavia si alzò di qualche tonalità, raggiungendo forse l’isteria.

« Posso parlargli, posso farlo ragionare. » Si affrettò a replicare lui, vedendo il panico iniziare a dilagare sul volto della giovane Blake. « Per il momento, però, tu rimani qui. Mi dispiace. »

Si prefigurò nella mente la scena della brunetta che perdeva completamente la testa e iniziava ad urlare, ma la sua reazione lo sorprese e lo spiazzò: avvicinandosi lievemente al suo viso, osservandolo attentamente negli occhi, gli scoccò un sorrisetto furbo e sussurrò piano: «  Renderò la tua vita un inferno vivente. »

E, annuendo velocemente, si alzò dal proprio letto e uscì dalla stanza, lasciandolo lì, impalato e sbalordito.
 




 
*


 
Clarke sfogliava pigramente e distrattamente il giornale, seduta al bancone della cucina, quando percepì una presenza alle sue spalle.

Si era svegliata da poco, ma sapeva bene che non poteva trattarsi né di sua madre – che pareva aver preso fissa dimora al Mount Weather Hospital – né di Thelonious, perciò si sentì automaticamente più sicura.

Voltandosi di poco, vide il suo fratellastro appoggiato con la spalla destra e le braccia incrociate all’uscio della porta, che la osservava con un sorriso appena abbozzato sulle labbra.

« Che c’è? » Domandò confusa.

L’altro accennò una risata e si avvicinò al piano cottura. « Niente, niente… »

« Voglio saperlo. » Insistette lei testardamente, seguendo ogni suo movimento con gli occhi.

«  È solo che… la solitudine sembra il tuo ambiente naturale. È strano. » Confessò Wells, tenendo lo sguardo fisso sulla bottiglia d’acqua che stringeva nella mano sinistra.

« È normale, per me. » Si giustificò lei con una scrollata di spalle.

« Mi preoccupa. »

Oh, no. Clarke era ben consapevole di cosa significasse: l’aveva osservata, come era sempre stato solito fare, e si era accorto che qualcosa non andava.

Ma come poteva dirgli che la rarità era che qualcosa andasse effettivamente bene?

Si protrasse in avanti sullo sgabello e si appoggiò con i gomiti alla superficie davanti a sé, scandendo con attenzione e cura le parole: « Non c’è nulla di cui preoccuparsi. »

« Prometti? »

Quella parola ad altri sarebbe potuta apparire stupida, forse scontata, sicuramente insulsa, ma la giovane Griffin sapeva bene cosa significasse.

Fin da quando ne aveva memoria, lei e Wells erano spesso ricorsi a quella specie di giuramento vitale e indispensabile: ogni qualvolta uno di loro dovesse fare qualcosa di importante o si assumesse un compito preciso, l’altra avrebbe utilizzato la loro parolina magica, come un incantesimo che li avrebbe protetti da qualsiasi catastrofe.

Il loro primo “prometti?” era avvenuto all’età di probabilmente sei anni, quando la bionda aveva iniziato a muoversi sulla sua bicicletta con le rotelle.

La prima volta che era salita su quello che le pareva un aggeggio infernale, si era guardata alle spalle con aria terrorizzata e lui aveva annuito sicuro, giurandole che non l’avrebbe mai fatta cadere. Quando era partita,Wells, di poco più alto di lei, l’aveva tenuta stretta finché lei non aveva preso velocità, e l’azione si era ripetuta per molte volte, prima che lei imparasse effettivamente ad andare in bici.

Lui stesso era semplicemente un bambino, ma fin dal primo momento la sua premura era stata quella di proteggerla e tenerla al sicuro.

« Prometto. »

La tensione nella stanza sembrò alleggerirsi, e il ragazzo smorzò la solennità del momento con una risata appena abbozzata e breve.

« Abby mi ha chiamato, prima, mi ha detto che non tornerà per pranzo. Stessa cosa per mio padre, un’improvvisa riunione in ufficio. Hai fame? »

Sorpresa dalla domanda, Clarke gettò un’occhiata fugace all’orologio da polso di suo padre solo per accorgersi che si era quasi fatta ora di pranzo.

« Non molto, in effetti. »

« Che ne dici della mia specialità? » La tentò lui, sollevando un sopracciglio e facendo l'occhiolino falsamente.

« L’insalata condita non è una specialità », lo corresse sarcasticamente, « è l’essenziale istinto di sopravvivenza. »

Il giovane Jaha sminuì l’affermazione della sua sorellastra con un gesto della mano e le diede le spalle.

« Ci sto, ma prima devo farmi una doccia. »
 

 
Il lato positivo dell’estate, pensò la bionda mentre frizionava i propri capelli biondi contro un asciugamano, era evitare di dover usare il phon e passare ore davanti allo specchio tentando di sgonfiare la propria chioma ribelle.

Stringendosi nell’accappatoio rosa shock che le arrivava fino ai piedi e le cui maniche le nascondevano le mani – l’aveva comprato secoli prima, l’aveva trovato divertente – la giovane lasciò i capelli umidi liberi sulle spalle e uscì dal proprio bagno, dirigendosi in camera sua.

Non appena si avvicinò alla finestra per aprire le tende e lasciar entrare un po’ di luce, la giovane Griffin si accorse immediatamente dello schermo del suo cellulare che si illuminava alla propria destra.

C'era già un messaggio inviatole esattamente quattordici minuti prima, ma decise di leggere quello appena arrivato. Si trattava di un numero sconosciuto.
 

Bell'accappatoio.
 

Clarke impallidì e si appoggiò alla propria scrivania. Che diavolo significava? E chi gliel'aveva mandato?

Lievemente scioccata e anche un po' spaventata, gettò uno sguardo fuori dagli infissi aperti.

Il ghigno di Bellamy le apparve chiaro anche attraverso la vetrata della sua cucina, e subito si siede della stupida per essersi parata davanti alla finestra.

Riservandogli un'occhiataccia dalla distanza che li separava, riportò la propria attenzione al cellulare.
 

Ora mi spii anche? Chiedo scusa per la mancanza dell'illustre asciugamano inguinale e striminzito in cui si ritrova inesorabilmente ogni protagonista femminile di qualsiasi film, la prossima volta non provvederò. Anzi, sto chiudendo le tende.
 

Chiudile, allora.
 

La sua risposta le giunse fulminea, e non poté trattenersi dall'accennare un lieve sorriso. Come un segno divino, le lunghe tende cremisi si mossero per la lieve brezza estiva, ma Clarke non fece nulla.
 

Chi ti ha dato il mio numero?
 

Rivolse uno sguardo fugace verso le finestre della cucina di casa Blake, solo per notare che Bellamy la stava già osservando. Lo vide abbassare gli occhi verso il proprio telefono e digitare velocemente una risposta.
 

Mia sorella. Ti passo a prendere alle cinque, andiamo al 221B.
 

La bionda, leggendo quelle parole, aggrottò le sopracciglia. Allora aveva davvero cambiato idea? Sarebbe riuscita a non farsi nuovamente coinvolgere da lui? Prima che potesse rispondere, il suo smartphone trillò nuovamente; questa volta, però, non era il suo vicino di casa.
 

Questo pomeriggio ti offro un caffè, ci stai?
 

Oh, merda. Era Jasper. E le chiedeva di vedersi. Si trattava forse di un assai poco piacevole scherzo cosmico?

L'universo le stava per caso mandando un messaggio implicito? Hai voluto tutto? Ora scegli, stronza.

Inoltrò il messaggio del suo migliore amico e lo mise in attesa, dedicandosi all'altro.

Sapeva che quella era la prima vera possibilità di essere presa in considerazione e ascoltata riguardo quello che era accaduto al padre, ma era anche ben consapevole del fatto che aveva quasi perso il suo migliore amico per averlo lasciato fuori dalla propria vita.

Eppure, la parte più intima e profonda di sé sapeva bene che, in fondo, non c'era proprio alcuna scelta da compiere.
 
Va bene.
 
Alzò ancora una volta lo sguardo e notò immediatamente il veloce sorriso sulle labbra del maggiore dei Blake.
 
 



 
*


 
Bellamy fece retromarcia dal proprio vialetto e puntò lo specchietto retrovisore in modo da tenere sott'occhio l'ingresso di casa Griffin.

Alle cinque e trenta secondi, almeno secondo il suo Moonwatch, Clarke uscì e attraversò con espressione seria e concentrata il proprio vialetto.

Prima che potesse raggiungere la sua automobile, però, la vide bloccarsi e raggiungere con la mano sinistra la tasca posteriore degli shorts di jeans; si portò il telefono all'orecchio e rispose.

La osservò piegare il capo verso il basso e parlare in modo sbrigativo, calciando lievemente con il piede destro e passandosi una mano fra i capelli dorati.

Quando raggiunse lo sportello del passeggero della sua macchina, si voltò dall'altro lato e finse disinvoltura.

« Principessa. » Disse a mo' di saluto.

« Blake. » Il più grande non attese un attimo di più, bensì mise in moto e si concentrò sulla strada, cercando di memorizzare senza intoppi il tragitto che aveva già compiuto una volta.

Il viaggio fu piacevolmente silenzioso per qualche minuto, prima che Clarke allontanasse il capo dal finestrino e si voltasse verso il sedile del conducente, raggomitolandosi su se stessa e poggiando la guancia allo schienale del passeggero.

« Bellamy? »

« Sì? »

« Perché hai cambiato idea? » Il suo tono sarebbe potuto essere diffidente, freddo, forse risentito, dato il disastro che era stato il loro primo tentativo, ma non riuscì ad essere nessuna di queste cose: nonostante le divergenze di opinioni che avevano avuto, lui era lì, in quel momento, e lei gli era semplicemente grata.

L'altro le rivolse un'occhiata fuggevole e, dopo aver atteso qualche momento, parlò: « Non volevo mettere mia sorella nei guai, ma a quanto pare è bravissima a farlo da sola. E poi... » Si bloccò, alla ricerca delle parole adatte, « sarà come un qualsiasi caso del Dipartimento. Certo, la Omicidi non è la mia sezione, ma ti aiuterò. »

Si erano fermati ad un semaforo, quindi lui si voltò nella sua direzione e abbozzò un lieve sorriso. La bionda non fu in grado di fare altro che sorridergli a sua volta e tentare in quel modo di trasmettergli la propria riconoscenza.

« Che è successo ad Octavia? » Domandò infine, quando la macchina ripartì.

« Si è fatta beccare su un'auto rubata con dei totali idioti. »

Clarke rimase per un attimo sorpresa, meditando o meno se dirgli che sapeva fin dall'inizio delle pessime compagnie che sua sorella aveva iniziato a frequentare.

Era consapevole che quelli non fossero affari suoi e che non aveva alcuna intenzione di tradire la fiducia di Octavia – in fondo, la considerava già un’amica – per non parlare del fatto che aveva oramai cominciato a comprendere il carattere di Bellamy, così protettivo da risultare spesso possessivo, perciò decise per un'altra strada: avrebbe potuto parlare con Lincoln, dirgli di lasciare la giovane Blake fuori dai suoi piani autodistruttivi e malsani.

Non che non l’avesse mai fatto prima, ricordava ancora alla perfezione l’ amichevole chiacchierata che avevano intrattenuto anni prima riguardo a Jasper.

« Dopo tutto quello che ho fatto... » Il sussurro del moro la riportò alla realtà, e lei si concentrò ancora una volta sul suo volto inquieto.

« Ehi, non è colpa tua. Per quanto tu possa essere arrogante, saccente, sempre serio, qualche volta un po’ idiota…
»

« Arriva al punto, Principessa. » Sbuffò lui.

« Sei un buon fratello, non biasimarti per i suoi comportamenti. Vedrai che andrà tutto bene. »

Di nuovo caddero in una quiete piacevole, e Clarke puntò il viso davanti a sé, costringendosi a smettere di fissarlo.

« Bellamy? » Lo richiamò nuovamente.

« Dimmi. »

« Non aprirò mai più le tende della mia stanza. »
 
 
Quando parcheggiarono a pochi metri dal cancello e spensero la macchina, la luce del sole ricadeva in caldi raggi dorati contro i loro volti, illuminandoli.

Bellamy allungò il braccio verso lo sportello sotto al cruscotto, proprio davanti a Clarke, e vi tirò fuori un paio di rayban neri. Richiudendolo, il suo gomito sfiorò il ginocchio della bionda, che scattò sul posto.

Lui, ancora piegato in avanti, si raddrizzò e mormorò: « Scusa. »

« Scusa tu. » Rispose lei, il tono estremamente basso e gli occhi sfuggenti.

Il maggiore dei Blake si schiarì la voce e scese velocemente dall’automobile, seguito immediatamente dalla giovane Griffin.





 
*



Clarke si richiuse la saracinesca alle spalle e accese la luce.

Non c’erano finestre, in quel piccolo ambiente, perciò fu tutto come la prima volta in cui l’aveva portato lì.

Prendendo un respiro profondo, si avviò verso la parete davanti a loro, sfiorando con i polpastrelli le foto di suo padre e gli articoli di giornale che erano stati scritti in seguito alla sua morte, o quelli che riguardavano l’Ark.

« Allora », parlò Bellamy dopo qualche istante, avvicinandosi a lei, « per prima cosa, devi dirmi tutto su Jake Griffin. »

Tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni color kaki un piccolo registratore e lo mostrò alla bionda, che annuì e sospirò.

Fece partire la registrazione.

« Jake Griffin, nato il 21 Giugno 1967 a Phoenix, Arizona. » Poteva percepire quanto fosse difficile per lei parlare di suo padre come di un estraneo, limitandosi a definirlo semplicemente tramite numeri e zone geografiche, ma non c’era altro modo. Se voleva davvero scoprire la verità, allora doveva affrontare quella parte.

Il moro si guardò intorno, in cerca di una superficie su cui poter appuntare le informazioni, e trovò una piccola lavagna bianca alla propria destra. Quando Clarke gli passò un pennarello nero, si affrettò a scrivere quello che gli aveva appena detto.

« Parlami della vostra famiglia. » Le chiese in un tono che le sembrò insolitamente dolce, ma che al tempo stesso era ben fermo.

Entrambi si sedettero sulle sedie presenti ai lati della minuscola stanza, l’uno di fronte all’altra.

« I miei genitori si sono conosciuti al liceo e si sono innamorati immediatamente. Si sono diplomati, ma poi, dovendo pensare all’università e al loro futuro, hanno deciso di prendersi un po’ di spazio. »

« Qual è il nome da nubile di tua madre? »

« Abigail Turner. »

« E qual è il suo attuale impiego al Mount Weather Hospital? »

« Lei è… Lei è il primario di chirurgia. »

« E tuo padre era un ingegnere. Sai dove si sono laureati? » Il tono di Bellamy era incredibilmente professionale: concentrato e dritto al punto, preparato sulle domande da porre.

« No, non lo so. Ma posso informarmi. »

Il più grande annuì, poi spense il registratore. « Questa parte penso di poterla ricordare. Continua a parlarmi di voi. »

« Come dicevo, i miei si sono presi una pausa, ma hanno presto capito di non poter separarsi. » La sua voce si spezzò sull’ultima parola, e lui fu incredibilmente tentato di chiudere tutto e di portarla via di lì.

Clarke fece un respiro profondo e continuò: « Si sono sposati il 12 Ottobre 1991. Quattro anni dopo sono nata io, la loro unica figlia.

« Thelonious e i miei genitori si conoscono dal liceo, credo uscissero regolarmente insieme. Lui è sempre stato il miglior amico di mia madre. La sua prima moglie, Helena, è morta dando alla luce Wells. Io e lui siamo praticamente cresciuti assieme, abbiamo sempre passato tutto il nostro tempo insieme. »

Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, fermandosi per qualche attimo. Non sapeva se stesse facendo le cose nel modo giusto, la sua mente sembrava correre velocemente e sfuggire dal proprio controllo.

« Nella mia testa c’è un ricordo, ancora così vivido da poterlo disegnare nei minimi dettagli, dei pomeriggi passati insieme a mio padre, Wells e Thelonious a vedere le partite di baseball e a parlare di come saremmo stati “da grandi”, dei nostri progetti. Noi eravamo lì, insieme chissà ancora per quanto, e tutto quello a cui pensavamo era il futuro. Se potessi tornare indietro, tutto quello che farei sarebbe vivere quel giorno come fosse l’ultimo, senza sprecare tempo a immaginare una vita che non mi sarebbe mai appartenuta. »

« E come… »

« Come hanno fatto i nostri genitori a sposarsi? » Chiese lei con amarezza e sarcasmo. « Avevo sedici anni, Wells ne aveva diciassette. Mia madre… Non lo so, non so come sia potuto succedere. » Ammise infine, abbassando il capo e portandosi la mano sinistra alla fronte.

« Vuoi che ci prendiamo una pausa? »

« No, sto bene. So solo che Thelonious ha cominciato a trascorrere sempre più pomeriggi a casa nostra. La portava fuori, le preparava la cena, cose del genere. Io ero troppo occupata a preoccuparmi del mio dolore per accorgermi di quello che stesse effettivamente succedendo. Una sera, un anno dopo, ci ritroviamo seduti al tavolo della cucina di casa nostra. Abby prende qualcosa dal taschino della camicia bianca e si infila un anello all’anulare sinistro. Alza la mano e me lo mostra. “Ci sposiamo”, dice. »

Durante tutto il tempo Clarke si era impegnata con ognuna delle sue forze per rimanere concentrata ed impedirsi di piangere, ma quel ricordo la portò incredibilmente vicina all’orlo del baratro. Non sapeva perché – conservava certamente ricordi assai peggiori – ma quello fu ciò che la incrinò definitivamente.

Piegò il volto verso il basso e lasciò che le ciocche bionde la nascondessero, mentre le prime stille salate cominciavano a scivolarle giù per le guance.

Odiava quello che era successo, ma più di tutto detestava farsi vedere debole, così fragile da poter crollare in mille pezzi e rivelare così la parte di sé che non era riuscita ad accettare di essere privata del prezioso dono che era stato Jake Griffin. La prima e ultima volta che aveva pianto per suo padre, in ospedale, le uniche persone che l'avevano vista erano state sua madre e Jasper.

Quando un singhiozzo sfuggì dalle labbra che tentava di tenere sigillate, Bellamy la richiamò con un sussurro: « Ehi... »

« Sto bene. » Rispose con fare sbrigativo lei, tirando su col naso e portandosi il dorso della mano davanti alla bocca, ancora incapace di guardarlo negli occhi.

Gli sembrava così piccola, rannicchiata contro se stessa, e non sopportava di vederla piangere.

« Con me non devi fingere, Clarke. »

In quel momento sollevò il capo: i meravigliosi occhi blu arrossati, le guance rosse e le labbra tremanti, mentre tentava inutilmente di riuscire a controllarsi ed evitargli quella patetica scena.

Il moro, ancora seduto davanti a lei, allungò il braccio destro nella sua direzione, il palmo rivolto verso l'alto; spostando lo sguardo dai suoi occhi alla sua mano e viceversa per qualche attimo, la giovane si avvicinò con esitazione e la sua grande mano si richiuse attorno alla propria, effettuando una lieve pressione.

Si alzò come in una trance e, trascinata delicatamente dalla sua mano, si pose davanti a lui, in piedi.

Bellamy sollevò il volto per studiarla e le sorrise appena, cercando in qualche modo di rassicurarla e farla sentire meglio.

Rimasero a guardarsi per pochi secondi, le loro dita ancora intrecciate, poi lui parlò: « Vieni qui. »

Clarke abbandonò la presa sulla sua mano destra e lentamente poggiò entrambi gli avambracci sulle sue spalle, circondandogli il collo con le dita.

Non voleva pensare a nulla: né alla promessa che si era fatta di non considerarlo più di un collega e un amico, né di ciò che lui avrebbe potuto pensare.

Era perfettamente consapevole, in quel momento, che Bellamy fosse l'unico in grado di capirla, l'unico capace davvero di confortarla.

Si piegò verso di lui nello stesso attimo in cui le sue mani giunsero a cingerle i fianchi, spingendola con dolcezza a sedersi sulle sue ginocchia.

Affondò il volto nel suo collo e l’altro le abbracciò la schiena a piene mani, cullandola impercettibilmente e sfiorandole i capelli con parole di incoraggiamento.

Avrebbe voluto assicurarle con tutta la certezza di cui fosse capace che sarebbe tutto finito presto, che la sofferenza sarebbe, prima o poi, scomparsa.

Ma lui lo sapeva, non sarebbe mai passato. Quel peso sarebbe rimasto lì, bloccato al centro del suo petto, e non sarebbe mai più stata in grado di dimenticarlo. Ciò che avrebbe potuto fare, però, era andare avanti. Imparare ad accettarlo come parte di sé.

E così le disse. « Il tuo dolore non se ne andrà mai, Clarke, e non puoi farlo andare via. Quello che puoi fare, invece, è decidere come usarlo: puoi permettergli di divorarti o puoi lasciarlo fluire, diventare parte di te ed essere la tua forza. Solo chi soffre ce la fa, ricordalo sempre. »

In quel momento percepì le sue lacrime bagnargli il bordo della t-shirt, seguite poco dopo dalle sue parole confuse, mormorate contro la sua pelle: « Non so come essere forte. »

Il più grande portò la mano sinistra sulla sua testa, accarezzandole delicatamente la chioma dorata.

« Tu sei una guerriera. Quando hai paura, quando non ti senti all'altezza, tu stringi forte i denti e ripeti: "Io sono una guerriera." E sei meravigliosa, sei meravigliosa, lo sei. »

La sentì assentire velocemente, poi Clarke si allontanò di poco, quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi: « Portami a casa. »

Bellamy annuì, e subito dopo il calore del corpo di lei scomparve dalle sue gambe.

Prima che potesse dire o fare qualcosa, la bionda si asciugò il viso con il dorso della mano destra e ancora una volta tirò su con il naso.

« Sei un dannato bastardo, Bellamy Blake. » Parlò lei con un accenno di sorriso sul volto, rivolgendogli un'occhiata complice.

« Lo so, Griffin, lo so. »


 
Il viaggio di ritorno fu estremamente tranquillo, ma anche più lungo.

Bellamy si era dovuto fermare a comprare delle lenti a contatto per quella spina nel fianco di sua sorella, ma Clarke aveva preferito aspettarlo in macchina, assicurandogli che non sarebbe di certo fuggita mentre lui non guardava.

Il moro aveva tenuto lo sguardo fisso fuori dalla vetrina per tutto il tempo, tenendo sott'occhio la propria macchina e battendo lievemente il piede destro contro il pavimento di linoleum, in attesa del proprio turno.

Quando era tornato al veicolo, dopo dieci minuti buoni, aveva trovato la bionda addormentata, il capo poggiato al finestrino nella sua abituale posizione e le braccia strette al petto.

Si era seduto al suo fianco e aveva atteso qualche secondo, limitandosi essenzialmente ad osservare la sua espressione finalmente più rilassata, poi aveva sorriso.

Se ne era accorto solo quando aveva intravisto il proprio riflesso nello specchietto retrovisore, e il fatto di star sorridendo aveva soltanto accentuato il suo ghigno.


Non appena parcheggiò nel proprio vialetto, Clarke sembrò svegliarsi da un sonno durato ore: aprì lentamente le palpebre, sbattendole piano un secondo dopo, e si portò una mano agli occhi per sfregarli.

« Ben svegliata, Principessa. »

« Oh, Dio, dimmi che non ho russato. » Rispose lei, soffocando uno sbadiglio e voltandosi nella sua direzione.

« Ho solo dovuto alzare il volume della radio, non preoccuparti. » Il suo tono era serio, perciò la bionda sprofondò il volto fra le proprie mani.

« Sto scherzando, sto scherzando. » Si affrettò ad aggiungere dopo qualche istante, rilevando il suo imbarazzo.

Bellamy spense la macchina e scese, seguito velocemente dalla bionda. Si osservarono per qualche attimo da un lato all'altro dell'automobile, le espressioni finalmente rilassate.

« Perché non ceni con me stasera? Cioé, con me e... Vorrei presentarti i miei amici. » Terminò lei con un sospiro e un sorriso impacciato, dopo aver gesticolato con entrambe le mani alla ricerca delle parole giuste.

Il maggiore dei Blake abbassò il capo e sorrise, riportando poi l'attenzione al suo volto e annuendo. « Ci vediamo dopo. »

A Clarke piacque più del dovuto quell'implicita promessa.
 




 
*


 
« Ehi, Jazz, sto ordinando la pizza! Il solito? » Monty urlò da un piano all’altro della propria casa, cercando, per quanto potesse, di farsi sentire dall’amico.

Data la piacevole notizia della riappacificazione fra il giovane Jordan e Clarke, i due avevano deciso di trascorrere la giornata insieme. Ovvio, nel progetto originale sarebbe dovuta esserci anche la bionda, ma aveva misteriosamente disdetto l’appuntamento per il pomeriggio, assicurandogli e promettendogli però di esserci per cena.

« Sì, amico, peperoni e prosciutto e uova e olive… »

« Ho capito, ho capito. »

Prendendo in mano il telefono di casa e digitando il numero che oramai aveva imparato a memoria, Monty attese in silenzio.

« Salve, vorrei ordinare una quattro formaggi, una capricciosa con peperoni extra e una vegetariana. »

Aveva praticamente imparato a memoria quella frase simile ad un mantra, abituato ad ordinare spesso sia per lui che per i suoi migliori amici, e portare avanti quella tradizione – soprattutto dopo gli ultimi eventi difficoltosi – non era mai stato bello come in quel momento.
 
 


 
*


 
Clarke e Bellamy si scambiarono una veloce occhiata, mentre aspettavano che qualcuno venisse ad aprire la porta di casa Green.

« Oh, Mon, merda! » La voce di Jasper urlò, ed entrambi furono perfettamente in grado di percepirla.

La bionda si schiarì la voce, evidentemente imbarazzata, ma il ragazzo al suo fianco non parve tanto sconvolto.

Finalmente l’ingresso si aprì, rivelando la figura del suo migliore amico, pronto a inondarli di parole: « Ho solo rovesciato un po’ di birra, solo un po’, tipregoaiutami… »

Quando si accorse che la giovane non era sola, si bloccò immediatamente e puntò lo sguardo improvvisamente serio sul volto di Bellamy.

« Ehi, Jazz. » La voce di Clarke riportò la sua attenzione su di lei, e l’amica si avvicinò per stringergli il braccio sinistro attorno al collo e posargli un lieve bacio sulla guancia.

« Lui è… »

« Mister Bicipiti. » Bisbigliò lui fra sé e sé.

« Bellamy. »

« Bellamy. » Ripeté l’amico a voce più alta, osservando il ragazzo davanti a sé con sguardo vacuo.

« Allora, » cominciò la bionda, stringendo la mano sinistra del maggiore dei Blake e trascinandolo all’interno, rassicurandolo con un debole sorriso.

Jasper si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò, lasciando vagare per qualche attimo lo sguardo nel vuoto.

« Beh, lui è Jasper, il mio migliore amico. Bellamy è il mio nuovo vicino di casa. »

Il moro, che per tutto il tempo aveva mantenuto un’ espressione piuttosto contratta e seria, annuì una sola volta in direzione del ragazzo, non riuscendo a impedirsi di serrare la mascella nel mentre.

La situazione stava per precipitare in un baratro di silenzioso imbarazzo quando, come una creatura celeste discesa dal cielo per salvarli tutti, Monty si diresse velocemente giù le scale alla loro destra e raggiunse i tre.

Gettò un’occhiata un po’ confusa in direzione dell’amica, ma non fece domande.

« Ciao, io sono Monty », disse rivolto al più grande, avvicinandosi e porgendogli la mano, « il proprietario di casa. » Terminò con un sorriso.

« Bellamy. » Replicò l’altro stringendogli la mano in segno di benevolenza.

« C’è un problema, però… » Jasper prese nuovamente parola, staccandosi dall’entrata e gettandosi sul divano senza poche cerimonie, indifferente alle tre persone che se ne stavano in piedi al centro della stanza.

Il giovane Green, ben consapevole degli attuali pensieri del suo migliore amico, parlò al posto suo in un attimo: « Abbiamo ordinato solo tre pizze. »

« Non fa niente, Bellamy può avere la mia. Posso prepararmi qualcos’altro. »

« Decisamente no. » Intervenne il moro, spostando lo sguardo nel suo e prendendo una chiara posizione.

« E invece sì », affermò lei con sicurezza, sollevando il mento e sorridendogli, « anche se ti toccherà una vegetariana. Giusto, Monty? »

« Sapevo di andare sul sicuro. Sai, Clarke è fissata con queste cose da quando aveva tredici anni. »

« Sì, ne ho una vaga idea. » Asserì il maggiore dei Blake al ricordo della cena a casa sua. « Da quanto vi conoscete? »

« Da un tempo abbastanza lungo per capirla meglio di chiunque altro. » Intervenne immediatamente il giovane Jordan, senza nemmeno tentare di celare il tono di acidità e sarcasmo nella propria voce. Si guadagnò un’occhiataccia in cagnesco da parte dell’altro, che però non disse nulla.

« Bene! » Sbottò la bionda con un sorriso a dir poco finto e un certo tono di isteria, « Le pizze dovrebbero arrivare a momenti, no? »

Monty gettò un’occhiata all’orologio del lettore DVD e annuì: « Meno di dieci minuti. »

« Mi accompagni a preparare qualcosa da mangiare? » Disse quindi rivolta a Bellamy, che annuì e la seguì lontano dai due, verso la cucina.

Una volta in disparte, Clarke si appoggiò al piano cottura e si passò una mano sul volto.

« Tutto okay? » Disse il moro, parandosi davanti a lei ed osservandola.

« Sì, sì, sto bene. È solo che… Ultimamente io e Jasper abbiamo avuto dei problemi, e questa dovrebbe essere la nostra ufficiale serata di riappacificazione. »

Lui non rispose subito, ma compì un passo avanti e la guardò con attenzione negli occhi.

« Andrà tutto bene, vedrai. »

Clarke annuì velocemente e non riuscì a trattenersi dal sorridere. C’era qualcosa, nel suo volto, che le trasmetteva una rassicurante familiarità. Era una bella sensazione.

Bellamy poggiò la mano sinistra al bancone dietro le sue spalle, e la bionda seguì il movimento con lo sguardo.

Quando lo riportò su di lui, la sua mano destra era incredibilmente vicina al proprio viso. Le sue dita stavano per entrare in contatto con la pelle morbida della guancia di lei, quando qualcuno si schiarì la voce.

La prima ad interrompere il contatto visivo fu Clarke, che guardò oltre la sua spalla. Il maggiore dei Blake rimase a fissarla per un altro millesimo di secondo, poi voltò il capo di poco.

« La pizza è arrivata. » Jasper parlò senza la minima inflessione, incapace di staccare gli occhi dai due. Il vuoto nella sua espressione e nella sua voce erano facilmente percepibili.

« Ehm, sì, veniamo subito. »

Il giovane Jordan gli diede le spalle, muovendosi come un automa, e ritornò dall’amico.

« Ti preparo le uova? » Domandò Bellamy appena l’altro se ne fu andato, arretrando e dirigendosi verso il frigorifero.

Clarke annuì velocemente e tirò fuori una padella da uno degli sportelli davanti a sé. Aveva minuziosamente disegnato quella casa milioni di volte, conoscendone ogni angolo e ogni centimetro; ogni volta che vi metteva piede, i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza le tornavano alla mente.

Dopo aver versato l’olio e atteso che si scaldasse, il moro lasciò che le uova cuocessero un po’, prima di mischiarle al formaggio.

Osservandolo, la giovane Griffin non poté impedirsi di abbandonarsi a una lieve risata.

« Che c’è? » Domandò lui, spostando l’attenzione verso di lei con un mezzo sorriso.

« È solo… strano. Tu che mi prepari la cena in casa del mio migliore amico, intendo. »

« Se non ti nutrissi io, beh, credo moriresti di fame. » Scherzò, guadagnandosi un pugno sull’avambraccio sinistro.




La cena stava procedendo piuttosto normalmente, se si esclusiva il rigido mutismo di Jasper, interrotto solamente dalle sue frecciatine sarcastiche e dal suo generale e improvviso malumore.

« Ehi, Mon, come va la preparazione di quell’esame? » Domandò ad un certo punto Clarke, posando la forchetta e prendendo un sorso d’acqua. Ovviamente era stata l’ultima a finire, sebbene fosse quella che aveva mangiato di meno.

« Diciamo che sto contemplando l’idea di rimandarlo. Non so, non mi sento ancora pronto. »

« Ma se hai ancora un mese! » Contestò lei. « Sai, » si rivolse a Bellamy, che era seduto alla sua sinistra, « loro sono le persone più geniali che io conosca. Seriamente, rivoluzioneranno il nostro mondo. »

« La farmaceutica è attualmente sottovalutata, ma dopo che io avrò messo in atto alcuni progetti… » Iniziò Monty.

« … Sì, avrai abbastanza miliardi da poter invitare la regina d’Inghilterra a cena fuori, lo sappiamo. » Concluse Jasper con uno sbuffo, colpendo giocosamente l’amico.

Il suo umore sembrava migliorato, ma c’era ancora qualcosa che non andava, la giovane poteva percepirlo anche senza guardarlo.

« Sì, sì, scherzate pure! Sarò io a ridere quando mi implorerete di darvi un lavoro. »

« Sto bene con la mia ingegneria meccanica, grazie. O forse sarai tu, povero babbano, a scongiurarmi di costruirti uno yatch alato. »

Bellamy e Clarke si limitarono ad accompagnare il loro battibecco con delle leggere risate, seduti l’uno vicino all’altra.

« Bene, torniamo sulla Terra », propose l’unico figlio di casa Green, « si va al The 100? »

Jasper alzò la bottiglia di birra e prese un lungo sorso in segno di assenso, mentre il più grande rispose subito: « Credo che passerò, per questa volta. »

La ragazza si voltò nella sua direzione e si strinse nelle spalle, guardandolo mentre parlava: « Sono d’accordo. Andiamo a casa? »

Quando due paia di occhi si fissarono di scatto su di lei, Clarke si affrettò a spiegarsi: « Bellamy andrà a casa sua e io a casa mia. È la strada, la strada è la stessa... »

Il suo sussurro andò pian piano a perdersi, mentre il ragazzo al suo fianco non fu in grado di trattenere un ghigno soddisfatto.
 




 
*


 
« Sai che saresti potuta rimanere con i tuoi amici, vero? »

« Sono molto stanca, avremo tante altre occasioni. E poi non volevo farti tornare da solo; avresti potuto essere rapinato, o rapito, o rapinato e poi rapito... »

« Hai reso il concetto, grazie. » La interruppe lui, colpendo giocosamente la sua spalla con la propria.

« Siamo proprio una buona squadra. Insomma, tu che mi nutri e io che ti proteggo dai malviventi. »

« Beh, certo, li stenderesti tutti. » Attorno a loro le poche automobili rimaste in città si muovevano velocemente e i lampioni li illuminavano.

Procedettero per qualche altro istante in silenzio, poi Clarke parlò: « A volte vorrei che le strade fossero completamente buie. Niente macchine, niente illuminazioni, niente di niente. Solo asfalto infinite e questo grande cielo stellato. »

« Per me è il contrario. Odio i luoghi bui, odio la mancanza di luce. Forse ha a che fare con il fatto che da piccolo ho sempre avuto paura del buio. Immaginavo degli occhi mostruosi che mi osservavano e aspettavano il momento giusto per portarmi via. Solo crescendo ho capito che in realtà, beh, tutti i mostri sono umani. »

« Già, suppongo di sì. Ehi, sai cosa ci vorrebbe ora? Una canzone. »

Bellamy la osservò con espressione confusa mentre tirava fuori un paio di cuffiette e il proprio cellulare dalla tasca anteriore dei jeans.

Quando la bionda gli offrì un auricolare, lui non esitò ad afferrarlo e portarselo all’orecchio. La vide armeggiare con il suo telefono per qualche attimo, e subito dopo percepì una melodia lenta e cadenzata giungere al suo udito.

Il maggiore dei Blake spostò lo sguardo verso la bionda, che camminava al suo fianco con un sorriso rilassato, e si abbandonò all’ascolto di quella delicata armonia.




 
Caught in the riptide
I was searching for the truth
There was a reason
I collided into you

 

 
Non era effettivamente il suo genere, abituato com’era al vecchio rock dei Guns N’ Roses o al black & white dei The Neighbourhood, ma non gli dispiaceva affatto.

Era rasserenante, sembrava scivolare lentamente nel retro della sua mente, come le onde del mare che vanno e vengono, impartendo un ritmo cadenzato e coinvolgente.

« Mi piace. » La informò dopo qualche momento, gettandole un’occhiata furtiva con la coda dell’occhio.

« È così… pacifica. La adoro. »




 
Nobody knows why,
Nobody knows how, and
This feeling begins just like a spark
Tossing and turning inside of your heart
Exploding in the dark

 


Continuarono a passeggiare accompagnati e cullati dalla canzone, entrambi troppo presi nei propri pensieri e nella melodia per proferire anche una sola parola, mentre l’oscurità attorno a loro, interrotta solamente dalla luce tenue dei lampioni, sembrava circondarli dolcemente.

Bellamy rivolgeva lo sguardo davanti a sé, le loro braccia che si sfioravano, e Clarke desiderò improvvisamente stringersi al suo braccio e poggiare la testa sulla sua spalla.

Non c’era nulla di sensuale in quel pensiero, era semplicemente il bisogno genuino di calore umano, di essere stretta e rassicurata così come aveva fatto quel pomeriggio, quando era in pratica crollata in pezzi davanti ai suoi occhi. 

Inutile dire che questo la spaventava a morte, la terrorizzava. Cercò di reprimere quel desiderio serrando le palpebre e stringendo i denti, e fu internamente grata quando raggiunsero la via di casa loro.



 
But you are always here with me
 

 
 « Siamo arrivati. » Annunciò retoricamente il moro, fermandosi davanti al portico di casa Griffin e voltandosi verso la giovane.

« Già. » Concordò lei, riprendendo la cuffietta che lui le stava porgendo.

« Non ti facevo tipo che ascolta questa musica. »

« Oh, quante cose che non sai di me, Blake… » Lo canzonò lei, piegando lievemente la schiena e offrendogli un ghigno sarcastico.

« Volevo solo dirti che… Oggi è stato il primo giorno, è normale che sia andata così. Abbiamo altre due settimane prima che la mia sospensione venga revocata, possiamo prendercela con calma. Non devi preoccuparti. »

Clarke assunse un’espressione seria, poi annuì con convinzione.

« E io volevo ringraziarti. Non avevo mai… »

« Lo so, lo so. Va tutto bene. Ci vediamo domani? »

« Certo. »

A quel punto Bellamy avrebbe potuto voltarle le spalle e dirigersi verso casa sua, darle la buonanotte ed andarsene, ma non si mosse.

L’uno davanti all’altra, completamente immobili, rimasero a fissarsi senza parlare. Quando il moro sollevò lentamente la mano verso il suo viso, Clarke seguì i suoi movimenti con lo sguardo, rivivendo la scena di qualche ora prima.

Questa volta, però, non c’era nessuno ad interromperli, quindi le sue dita entrarono in contatto con la pelle morbida della sua guancia senza alcun ostacolo.

Era un gesto estremamente innocente, ma entrambi sapevano bene che celasse molte più cose di quanto fossero disposti ad ammettere.

Il maggiore dei Blake fece scivolare le propria dita contro la linea morbida della sua mascella, sulla gola, e poi giù nell’incavo in cui il collo si incontrava con la spalla.

« Buonanotte, Principessa. »

Si sarebbe potuta abituare a quella frase, sì.

« ‘Notte, Bellamy. »

La giovane Griffin quasi corse verso i pochi scalini della sua veranda e, senza guardarsi indietro nemmeno una volta, aprì e si richiuse velocemente la porta d’ingresso alle proprie spalle.
 




 
*


 
Finn non riuscì a fare altro che paralizzarsi sul posto, totalmente immobilizzato e sbigottito, e si appoggiò con tutto il peso alla porta di ingresso che teneva aperta.

La persona davanti a lui gli scoccò un ghigno che non illuminò il suo viso, poi lasciò cadere la valigia fra di loro e si strinse nelle spalle.

« Scusa l’orario. » Parlò con tranquillità e un pizzico di amarezza, il petto in fuori e il mento alto.

« Raven? »
 
 




 



Curiosità:


# «  Renderò la tua vita un inferno vivente. » E’ la stessa frase che Octavia dice ad Atom, appunto, quando Bellamy lo incarica di tenerla d’occhio. Mi è piaciuto molto nella serie, quindi ho voluto riadattarlo a questa situazione, e credo che porterà a sviluppi interessanti.

# Bellamy indossa un orologio Moonwatch. Dai, quanto mi son divertita?

# La data di nascita di Jake Griffin (21 Giugno 1967) è, in realtà, la data di nascita di mia mamma. Diciamo che questa è una mia piccola dedica per lei.

# Ho scelto Turner, come cognome da nubile di Abby, in onore di Alex Turner, cantante degli Arctic Monkeys, uno dei miei gruppi preferiti.

#  « Tutti i mostri sono umani. » Questa è una citazione da American Horror Story.

# La canzone che ascoltano Bellamy e Clarke è Here With Me, di Susie Suh e Robot Koch. Vi consiglio di ascoltarla e di leggere il testo e/o la traduzione, è una canzone davvero fantastica.

 

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Capitolo 10
*** IX ***




Ringrazio di cuore tutte le splendide persone che mi supportano costantemente con parole di incoraggiamento e gradimento, siete davvero meravigliose e non so cosa farei senza di voi.

Ebbene, il fluff dello scorso capitolo è stato spazzato dall'angst di questo. Sono crudele, ormai mi conoscete, ma spero che sia comunque di vostro gradimento.

Vi mando un grande abbraccio e vi auguro buona lettura!
 

Is It Any Wonder?





You give your hand to me
And then you say, "Goodbye"
 I watch you walk away
Beside the lucky guy

No you'll never ever know
The one who loved you so
No you don't know me



 
Jasper non ricordava più da quanto stesse ormai ascoltando quella canzone, sapeva solo che non riusciva a smettere.

Si era messo in macchina senza la minima idea di dove poter andare, ma sarebbe comunque stato meglio che rimanere a casa e lasciarsi prendere dallo sconforto di quelle pareti.

Perciò sì, effettivamente stava soltanto guidando senza una destinazione, la vecchia cassetta di suo padre mandata in riproduzione continua allo stereo, quelle parole così soffocanti che gli accarezzavano con dolorosa dolcezza i timpani.

Non riusciva a togliersi dalla testa le immagini della sera prima: Clarke che si era presentata con quel bell’imbusto senza cervello, il modo in cui si erano guardati, il momento che lui aveva interrotto con una punta di intenzionalità, il fatto che lei avesse preferito tornare a casa con lui piuttosto che festeggiare con loro, il modo in cui avevano camminato fianco a fianco sulla via di ritorno a casa.

Li aveva osservati dalla finestra finché non avevano svoltato l’angolo, mentre una sensazione di particolare offuscamento e costrizione lo aveva lentamente assalito.

Era come se il suo cuore, preso dal panico, avesse deciso di sfuggire dalla gabbia toracica e correrle dietro, raggiungerla e tenersela stretta il più possibile.

La cosa peggiore, però, era che la sua migliore amica non avesse nemmeno la più piccola idea di quello che stesse affrontando, del tormento che lo stava pian piano dilaniando dall’interno.

Quando dedichi tutta la tua vita a una sola persona, a un solo sentimento, finisci inesorabilmente per dipendere da questi, per renderli il tuo unico punto di riferimento, la tua perfetta idealizzazione, ma quando, poi, ti scontri con la realtà, perdi semplicemente tutto.

Jasper Jordan aveva investito ogni suo concetto e speranza in un sogno che non avrebbe mai realizzato, su cui non avrebbe mai potuto fare affidamento, ma che ormai era il fondamento di qualsiasi suo pensiero.

Quello che doveva affrontare, quindi, era una completa e totale rivoluzione del proprio modo di vedere le cose: doveva disintossicarsi da Clarke Griffin e intraprendere la strada dell’indipendenza emotiva.




 
*


  
« I miei genitori torneranno fra tre giorni. Non credo sia una buona idea farti trovare qui quando lo faranno. »

Finn parlò passandosi una mano sul retro del collo, ancora dolorante per aver dormito sul divano, e osservando mentre la sua ex ragazza rifaceva il letto.

« Tel’ho detto, non sarò più qui quando verranno. »

Dire che quella circostanza fosse estremamente e incredibilmente imbarazzante era con sicurezza dire poco.

La notte precedente, dopo averla fatta entrare, il giovane Collins aveva dovuto affrontare per l’ennesima volta la loro situazione, da quando avevano deciso di riprovare a far funzionare la loro relazione al momento in cui avevano capito che non ne sarebbero stati in grado.

Si erano accomodati sul divano del piccolo salotto e Raven gli aveva raccontato di come fosse scappata dalla casa di Florence – sua madre adottiva dall’età di cinque anni – e avesse deciso di intraprendere una nuova vita.
Peccato che si fosse ritrovata a guidare senza una meta precisa, e l’unico posto che le fosse venuto in mente era stato quello.

« Teoricamente non è che sia scappata di casa, sono maggiorenne e ho tutti i diritti di non voler più vivere lì », gli aveva detto con tono diplomatico, « è solo che… Non lo so, non volevo più starci. Troppi ricordi, troppi pensieri. Ed è buffo, in effetti, che io sia venuta proprio qui. Ma sarà solo per un giorno, il tempo di trovarmi una sistemazione e sparirò dalla tua vita. »

Forse non l’amava più allo stesso modo, era vero, ma i suoi sentimenti erano stati profondi e sinceri, e si trattava comunque della persona che lo conoscesse meglio al mondo, la persona di cui sentisse costantemente una grande mancanza, quindi Finn aveva sospirato e annuito: « Puoi restare. E… non voglio che tu scompaia dalla mia vita. »

Dopo tutto quello che era successo, i litigi e i continui tira e molla, la giovane Reyes non era stata in grado di commentare quell’affermazione, ma gli aveva comunque sorriso.

Ricordava ancora quanto fosse stata arrabbiata – no, si era veramente incazzata – e quanto si fossero urlati contro, biasimandosi l’uno con l’altra e cercando di trovare in tutti i modi un colpevole per la distruzione del loro rapporto, ma ora, dopo un anno, sentiva di non poter permettersi di perderlo, anche se solo come amico.

Da qualche parte, fra il momento in cui si erano definitivamente lasciati e il momento in cui aveva deciso di fermarsi proprio a casa sua, la rabbia si era semplicemente dissolta, svanita via come se non fosse mai esistita.

« Grazie per avermi lasciato il letto. » Disse lei, mentre finiva di ripiegare attentamente le lenzuola.

« Figurati. »

Il moro attese qualche secondo, passandosi una mano fra i capelli e soppesando le possibilità, poi si lasciò sfuggire la frase che gli aveva più volte sfiorato i pensieri da quando si era presentata alla sua porta: « Voglio di nuovo scusarmi con te. »

Raven si fermò e si voltò verso di lui, mordendosi il labbro inferiore e scrutandolo.

« Non ce ne è bisogno. È tutto a posto. Adesso devo finire qui. »

« Brutto segno » Sospirò lui.

« Cosa? »

«  Quando sei incazzata nera trovi sempre qualcosa da fare, qualcosa con cui tenere le mani occupate così da non prendere a pugni qualcuno. »

« Non mi sto tenendo occupata, Finn. »

« Hai ragione, ho detto una stupidaggine. » Si avviò verso la porta, sicuro di non essere il benvenuto lì, quando la voce di Raven lo fermò.

« Siamo a posto, siamo a posto. Davvero. Voglio solo che tu sia felice. »

Aveva per tanto tempo avuto bisogno di sentire quelle parole ché quasi desiderò raggiungerla e stritolarla in uno dei loro abbracci, ma decise di non forzare troppo le cose.

La conosceva bene, sapeva che non stava mentendo, e sapere di aver ottenuto il suo perdono lo aveva improvvisamente liberato dal peso che gravava sulle sue spalle da due anni.

Senza nemmeno rendersene conto – o meglio, senza nemmeno volersene render conto – i suoi pensieri vennero indirizzati ad un’altra persona, quella che ancora non l’aveva perdonato per tutto ciò che era successo.

Forse era vero che non lo meritava, così come non meritava la comprensione di Raven, ma il desiderio di poter mettere a posto le cose era più forte di qualsiasi altro dubbio. Prima o poi, sarebbe riuscito a riscattarsi anche agli occhi di Clarke, era una promessa.
 

 
La chiamata arrivò due giorni dopo, quando la strana e ambigua convivenza con Raven era lentamente divenuta non solo sopportabile, ma anche piacevole.

Mancava un solo giorno al rientro dei suoi genitori dalla vacanza on the road che avevano deciso di intraprendere, e Finn si ritrovò improvvisamente sorpreso dall’insistenza con cui il telefono stava squillando.

« Pronto? »

« Finn, piccolo mio. » La voce di sua madre gli apparve più tremante del solito, così sottile e lievemente acuta.

« Mamma? Che succede? »

« La nonna Mary… è in ospedale, siamo a Pasadena », la signora Collins singhiozzò, « ti vuole qui. I dottori dicono che sia grave. »

Il giovane rimase in silenzio per qualche attimo, cercando di elaborare la notizia, poi balbettò: « C-certo, devo solo organizzarmi. Domani mattina sarò lì. »

Il suo tono era profondo, gravoso, pregno di preoccupazione. La madre di suo padre era una delle persone più forti che avesse mai conosciuto, nonché la donna che l’aveva cresciuto con amore e tenerezza, e non poteva pensare al rischio di perderla.

Fin da piccolo aveva saputo che presto un giorno del genere sarebbe arrivato, ma all’improvviso fu tutto troppo presto.

« Tuo padre non lascia mai la sua stanza, sta infrangendo tutti gli orari di visita. Ti aspettiamo qui, figliolo. »

Prima che potesse replicare, sua madre continuò: « Ah, ehm, oggi le abbiamo parlato… Vuole che tu venga con Clarke. »

Oh Cielo, quello non andava per niente bene.

« Merda », mormorò contro la cornetta, « che diavolo, mamma, perché non le hai detto che non stiamo più insieme? »

« La prima cosa che ha chiesto è stata di poter vedere il suo nipotino e la sua meravigliosa fidanzata! Cosa dovevo dirle, che mio figlio non sa… »

« Ok, ok. » Troncò corto lui, ben consapevole del fatto che sua madre avesse pesantemente disapprovato il suo comportamento immaturo e sbagliato.

Ricordava ancora con dettagliata precisione il giorno in cui lui e la giovane Griffin avevano viaggiato in macchina ed erano andati a trovare la nonna Mary, che aveva fin da subito adorato quella splendida ragazza.

Perché, sebbene Clarke lo avesse tenuto il più lontano possibile dalla propria famiglia, Finn aveva ritenuto importantissimo renderla parte della sua, portandola a conoscere una delle donne più importanti della sua vita.

Peccato che ora quella decisione si fosse rivelata il suo peggior incubo.

« Ci vediamo domattina. »

Senza attendere oltre, mise giù il cordless di casa, sedendosi poi sul divano e tenendosi il volto con entrambe le mani.

Cosa avrebbe dovuto fare? Poteva davvero deludere sua nonna, ora che rischiava di perderla per sempre?

La scelta fu semplice, e per quanto arduo sarebbe stato, non avrebbe permesso a nulla al mondo di distruggere la sua felicità: sarebbe partito e avrebbe portato Clarke con sé, anche a costo di doversi inginocchiare davanti a lei.

Fu per quel motivo che tirò fuori dalla tasca anteriore dei pantaloni militari il suo telefono e digitò un SMS per il numero che conosceva a memoria.
 
 
 

 
*




 
Clarke ricevette il messaggio mentre Bellamy era impegnato a prendere appunti sulla lavagna che aveva trovato la seconda volta in cui erano stati lì. Ora l'aveva appesa alla parete ad ovest, fornendola di pennarelli e gessetti vari.

Quella mattina si erano visti presto, lui le aveva proposto di portarla a fare colazione da qualche parte, ma lei aveva rifiutato cortesemente dicendo di averla già fatta – era una bugia, comunque, semplicemente non voleva fargli perdere tempo – e si erano diretti al 221B in un silenzio piacevole e privo di qualsiasi tensione nervosa.

Era andato tutto bene, quindi.

Questa volta avevano iniziato a parlare di sua madre: visto quello che era successo qualche giorno prima, Bellamy aveva reputato che fosse più semplice partire da lì.

Aveva appuntato la sua data di nascita, il cognome da nubile, il suo albero genealogico, la situazione economica, la classe sociale, fino ad arrivare ai principali interessi e al suo ruolo di madre e moglie.

« Molti pensano che ciò che voglia la gente sia stare con altre persone, amare ed essere amati. Sai, riuscire a creare e portare avanti una relazione, trascorrere del tempo insieme e fidarsi. » Aveva iniziato a dire Clarke, seduta sul una delle due sedie bianche, mentre il maggiore dei Blake era impegnato a riordinare le informazioni che aveva ricavato.

« Quello che penso io, invece, è che prima di voler stare con gli altri, noi vogliamo la loro approvazione. Vogliamo sentirci dire quanto siamo bravi, buoni, onesti, forti. Quando ho smesso di cercare l'approvazione di mia madre, allora ho cominciato a vivere. »

Il moro aveva improvvisamente smesso di scrivere, il pennarello rimasto a mezz'aria e l'espressione sorpresa, poi si era voltato verso di lei con un sopracciglio sollevato.

« Che c'è? » Aveva chiesto lei con aria confusa.

L'aveva guardata per qualche altro istante, poi aveva parlato con una scrollata di spalle: « A volte mi dimentico che tu abbia solo diciannove anni. »

« Grazie? » Aveva risposto Clarke con tono interrogativo, lievemente insicura se si trattasse di un complimento o un'ammissione casuale.

Ora, quindici minuti dopo, entrambi erano impegnati a sistemare scartoffie, articoli di giornale e scontrini che la giovane Griffin aveva conservato negli anni, quando improvvisamente il suo cellulare si illuminò.

Era un SMS.

Era da parte di Finn. E la informava che la stava aspettando fuori casa sua.

Quando la bionda rabbrividì, Bellamy non poté impedirsi di notarlo.

« Tutto bene? »

« È Finn. Mi sta aspettando. » Il maggiore dei Blake si irrigidì, serrando la mascella e aggrottando le sopracciglia.

Dal primo momento in cui l'aveva visto, aveva capito che quel ragazzo era un completo idiota.

« Pensavo aveste chiuso. » Commentò lui, tentando in qualsiasi modo di sembrare disinteressato e mite.

« Anch'io. Dev'essere successo qualcosa... »

« Forse ha a che fare con la sua ragazza, Raven. »

Clarke scattò. « Non stanno più insieme. » Poi, calmandosi, realizzò: « E tu come lo sai? »

« L'altra sera Atom mi ha trascinato al The 100, una "serata tra uomini". L'abbiamo conosciuta per caso. A quanto pare lei è qui, a Los Angeles. Sembra simpatica. »

Ovviamente non poteva sapere di tutto il disastro che era avvenuto duo anni prima, quindi Clarke si rilassò impercettibilmente contro lo schienale della schiena e sospirò.

Si ritrovò improvvisamente preoccupata da ciò che Bellamy avrebbe potuto pensare di lei se avesse saputo tutta la storia.

« C'è stato un bel casino fra voi tre, non è vero? » Domandò lui, scrutandola attentamente e notando il modo in cui le sue delicate sopracciglia si erano lievemente increspate.

« Puoi dirlo forte. È storia vecchia, comunque. »

Clarke sperò che non facesse altre domande, che, come lei, si lasciasse semplicemente tutto alle spalle, e così lui fece. Non chiese più nulla.

Continuarono a lavorare sui documenti per un'altra mezz'ora, prima che Bellamy decidesse che avevano fatto abbastanza e chiuse tutti i fascicoli organizzati dalla bionda anni prima.
 
 
Quando il moro parcheggiò nel vialetto della propria abitazione, la figura seduta sugli scalini del portico di casa Griffin gli trasmise un pessimo presentimento.

Improvvisamente si sentì desideroso di portare Clarke lontano da lì, lontano da quell'individuo che le aveva evidentemente spezzato il cuore.

Se aveva avuto l'impulso di picchiarlo ancora prima di conoscerla davvero, ora le mani non facevano altro che prudergli, pronte a fargli male fisico se solo avesse osato ferirla in qualsiasi modo.

Bellamy e Clarke si guardarono da un sedile all'altro, poi l'espressione di lei si sciolse in un sorriso rassicurante e annuì, scendendo subito dopo dall'automobile.

Il maggiore dei Blake lanciò uno sguardo di sbieco al ragazzo, che ora si era alzato in piedi, e poi verso di lei, che camminava fieramente nella sua direzione.

Pronto a intervenire in qualsiasi momento, si avviò verso l'entrata di casa e si diresse subito in cucina, dove poteva ottenere una buona visuale del portico vicino.
 
 


 
*



 
« Clarke. » Sussurrò Finn, non appena lei gli fu abbastanza vicino da sentirlo.

Era consapevole che la loro situazione non fosse delle migliori, dato anche il modo in cui si erano lasciati l'ultima volta, ma sapeva anche che Clarke fosse una persona giusta e generosa, abbastanza altruista da poter passare sopra il disprezzo che aveva iniziato a nutrire per lui.

« Che ci fai qui? » Gli rispose lei freddamente.

« Ho bisogno di un favore. So che mi odi, so che vorresti cancellarmi dalla faccia della Terra, ma non sarei qui se avessi un'altra scelta. »

La bionda lo scrutò attentamente per qualche momento, lasciando scorrere lo sguardo su quel viso che conosceva così bene, sui capelli lunghi lasciati liberi sulle spalle e sul corpo che aveva tanto desiderato, poi acconsentì.

« Di che si tratta? »

« Ricordi mia nonna Mary? Ecco, lei è... Ha avuto un malore, ora è ricoverata a Pasadena. I medici non sono fiduciosi. »

La giovane poté perfettamente notare il suo viso contrarsi in una smorfia di dolore, mentre Finn faceva una pausa e prendeva un respiro profondo.

« Lei ha chiesto di me », disse con un sorriso nostalgico, « vuole vedermi. Solo che... Vuole vedermi con te. Vuole che andiamo a trovarla. »

Vide con chiarezza l'espressione stupita e sbalordita della bionda – quella era la prima volta che gli concedeva uno sguardo che non fosse pregno di odio o fastidio – e si affrettò a continuare: « Non le ho detto come stavano le cose dopo che... Dopo che ti ho portato a conoscerla, quindi lei non sa cos'è successo. Vuole semplicemente rivedere la mia meravigliosa ragazza, ha detto. Quindi, ecco, quello che ti sto chiedendo è di venire con me. Stanotte. Ti prego, vieni con me e aiutami a renderla felice. Potrebbe essere l'ultima volta che la vedo. »

Clarke non aveva parole, non sapeva cosa dire.

Si era immaginata tanti contesti: un'ulteriore richiesta di perdono, una sfuriata, una qualsiasi altra scenata, ma non avrebbe mai potuto pensare a questo.

« So che mi odi », constatò Finn con un ghigno triste, « so di non meritare più nulla da te. Ma ti prego, Clarke, fallo per lei. Non posso deluderla. »

Lei avrebbe voluto essere forte, essere la donna indipendente che non ha bisogno di nulla e che non vuole vedere il suo uomo strisciare ai propri piedi, avrebbe voluto punirlo per tutta la sofferenza che le aveva inflitto, ma poi un pensiero tossico le sfiorò la mente: E se si fosse trattato di suo padre? Avrebbe davvero avuto la forza di voltarsi dall’altro lato?

La scelta non fu difficile.

Forse non era il momento in cui lei l’avrebbe perdonato per quello che le aveva fatto, o il momento in cui tutto sarebbe tornato a posto e le cose sarebbe divenute più semplici, ma era sicuramente il momento in cui lei sarebbe stata una Griffin.

« Sì. » Mormorò quell'unica sillaba in un singhiozzo, gli occhi annebbiati nonostante i suoi sforzi, il labbro inferiore tremante.

Il giovane Collins la osservò solo per qualche istante, dilaniato da una sofferenza chiaramente visibile su tutto il suo volto, poi, quasi senza nemmeno dargli un pensiero troppo razionale, gettò le braccia attorno alle spalle di Clarke e affondò il naso contro il suo collo.

Lei poteva perfettamente percepirlo sgretolarsi tra le proprie braccia con la fragilità di un bambino, e non fu in grado di bloccare l'ondata di tenerezza che la travolse.

Dopo qualche attimo, le sue lacrime iniziarono a bagnarle i capelli e la pelle morbida delle spalle, e fu per quello, forse, che fece scorrere i palmi delle mani lungo la sua schiena in una stretta rassicurante, ricambiando finalmente l'abbraccio.
Si alzò sulle punte e oscillò con tutto il proprio peso contro il corpo del ragazzo, lasciando scorrere via i risentimenti, le divergenze, il dolore, limitandosi semplicemente a trasmettergli quel calore di cui lei stessa aveva avuto bisogno, soffocando tutte le sofferenze contro la sua spalla.
 
 
Bellamy si accorse di aver lanciato un pugno al frigorifero solo quando provò a distendere le dita della mano sinistra, percependo un intenso dolore alle nocche e osservando il rossore che stava iniziando a diffondersi.
 



 
*



 
Il ragazzo parcheggiò la macchina a due isolati dal luogo dell’appuntamento, sapendo che fosse più sicuro procedere a piedi.

Non sapeva bene perché questa volta il suo capo avesse deciso di organizzare un incontro in pieno giorno, ma era ben consapevole di non aver alcun diritto di fare domande.

Guardandosi attorno, cercando di mantenere un’aria il più neutrale possibile, si avvicinò all’automobile posteggiata davanti al capannone abbandonato, notando fin da subito il guidatore.

Fece un cenno della testa verso di lui e si avvicinò allo sportello, sapendo che il suo interlocutore non sarebbe sceso.

Si salutarono con un lieve movimento del capo e, qualche secondo dopo, rilevarono entrambi la terza persona che avanzava verso di loro.

Quando anch’egli fu vicino al veicolo, l’uomo al suo interno si voltò verso di loro e parlò al primo arrivato.

« Bellamy? »

« Primo accesso al telefono cellulare: 6.34. Ha controllato la stanza di sua sorella, ha preparato il caffè ed è uscito a correre. Mezz’ora. Poi è tornato, si è fatto una doccia, ha raccolto alcuni documenti dalla sua scrivania ed ha aspettato tre minuti, il tempo che Clarke uscisse di casa. Sono tornati dal 221B alle dodici e quarantatre minuti. Finn Collins li stava aspettando, voleva parlare con lei. »

L’uomo annuì velocemente, poi si rivolse alla terza persona: « Clarke? »

« Si è svegliata alle 7.18. Doccia veloce, niente colazione, si è vestita ed è andata a incontrare Bellamy. Lei e Finn hanno intenzione di partire stanotte per Pasadena, motivi famigliari. Da quanto mi risulta dall’ultima scansione del suo telefono, lei ha già avvisato sua madre. »

« Se la questione va avanti, sai cosa dovrai fare. Mi raccomando, Dax.  »

Il ragazzo assentì  con un cenno del capo, senza dire una parola.

« Continuate a tenere sotto controllo i loro cellulari. Voglio essere messo al corrente di qualsiasi piccolo spostamento. Io mi occuperò di Abby. »

« E per quanto riguarda… » Il primo arrivato parlò con tono nervoso e inquieto.

« Riceverete i vostri pagamenti come da programma. » Gettando un’occhiata al costoso orologio da polso, aggiunse poco dopo: « Prossimo aggiornamento: domani sera, solita ora, solito posto. Venite a piedi, se possibile. È tutto. »

La macchina ripartì prima che potessero aggiungere qualcosa, e i due ragazzi si scambiarono uno sguardo consapevole e concentrato.
 


 
*



 
« Ehi, amico, tutto bene? »

Atom si avvicinò a Bellamy, che se ne stava sul divano a fare zapping. Peccato che la sua espressione non fosse tanto rilassata.

L’altro alzò velocemente lo sguardo verso di lui e lo lasciò ricadere nuovamente verso la televisione.

« Stasera andiamo al The 100. »

La proposta sorprese il giovane Ward, che si era ormai abituato al modo restio con cui l’amico accettava ogni volta di andare al club.

« E Octavia? »

« Viene con noi. »

Il moro pareva del tutto sicuro di quello che stava facendo, ma Atom sapeva che ci fosse qualcosa sotto. E quel qualcosa doveva sicuramente aver a che fare con una certa biondina…




 
*




Clarke si aggiustò lo zaino sulle spalle e spalancò la porta d’ingresso della propria casa, richiudendosela poi alle spalle e gettando un’occhiata alla jeep di Finn parcheggiata davanti a lei.

C’erano ancora tante cose che avrebbero dovuto risolvere e di cui lei avrebbe voluto parlargli, ma in quel momento sapeva di star facendo la scelta giusta.

Con un respiro profondo, si avviò verso l’automobile e fece un piccolo salto per entrarvi.

« Ciao. » La salutò lui con un sorriso inverosimilmente timido, poggiando la mano destra sul sedile del passeggero.

La bionda si limitò a sorridergli a sua volta – non era di certo uno dei suoi sorrisi migliori – e lui partì, accendendo la radio e lasciando che il silenzio calasse fra loro due.




 
*



 
Il maggiore dei Blake buttò giù il quarto shot della serata con foga e urgenza, impaziente di annebbiarsi un po’.

Era trascorso un tempo incredibilmente lungo dall’ultima volta che aveva bevuto così tanto, ma non aveva la minima voglia di pensarci. Non aveva voglia di pensare a niente. Voleva semplicemente ignorare la rabbia che aveva provato nel vedere l’abbraccio fra Clarke e Finn, il modo in cui lui l’aveva stretta, in cui lei era affondata in lui.

Non aveva nemmeno voglia di provare a decifrare cosa significasse quel sentimento.

Mentre la folla lo circondava e le luci vagavano velocemente e irrefrenabilmente sul suo corpo, tutto quello che Bellamy desiderava era smettere di pensare e farsi delle dannate domande.

Nemmeno si accorse della mano che si era stretta attorno al suo bicipite, finché quel qualcuno non l’aveva strattonato e fatto voltare.

« Ehi! »

Si girò improvvisamente, solo per accorgersi che la piccola mano apparteneva a Raven. Fece un cenno nella sua direzione, e lei si alzò sulle punte per sussurrargli all’orecchio.

« Sai che sono insieme proprio in questo momento? » Non era passato inosservato il modo in cui le sue labbra avevano esitato qualche secondo di più contro la sua pelle, ma decise di non darci troppo peso.

« Non so di cosa tu stia parlando. »

Lei scoppiò a ridere, mentre la folla sembrava risucchiarli e oscurarli. « Un uccellino mi ha detto che ti sei preso una bella cotta per lei. »

Bellamy provò a scuotere la testa, ma il movimento semplicemente svanì nel buio improvviso della sala.

« Se loro ora si stanno divertendo, possiamo farlo anche noi. Balla con me. »

Prima che potesse anche solo rifiutare cortesemente l’invito e ritirarsi nuovamente a bere, la ragazza aveva stretto anche l’altra mano attorno al suo braccio e ora lo stava trascinando al centro della pista da ballo.

Non sapeva come, né perché, ma in un attimo aveva serrato le dita attorno alla sua vita e Raven gli aveva circondato il collo con le braccia, iniziando a muovere i fianchi al ritmo della musica e a strusciare il proprio seno contro il suo petto.

Il moro non aveva nemmeno tentato di reprimere l’istantaneo senso di colpa che l’aveva assalito, bensì aveva lasciato che defluisse nelle sue vene e lo abbandonasse, svuotandolo completamente di qualsiasi sensazione che non fosse la pelle della ragazza contro la sua.

La giovane Reyes, stretta nel tubino rosso senza spalle, aveva cominciato a tracciare una scia di baci umidi lungo la sua gola, mentre la folla sembrava pompare insieme a loro come uno strano cuore artificiale, alimentato dal ritmo della musica altissima che li circondava.

Era passato un tempo molto lungo anche da quello, dall’ultima volta che aveva toccato una ragazza in quel modo, perciò il mix con l’alcol non fece altro che aumentare l’eccitazione del momento.

Continuarono a muoversi per quelle che sembrarono ore, l’audacia di Raven che aumentava sempre di più, finché lei non passò una mano fra i suoi capelli e attirò il suo volto vicino al suo.

Il bacio che condivisero non fu per niente dolce, lento o discreto; no, era bocche che si divoravano, lingue che ricercava la predominanza e denti che si scontravano nel mentre.

Quando lei si staccò, avvicinò nuovamente le labbra vermiglie al suo orecchio: « Portami a casa tua. »

Se Bellamy fosse stato perfettamente lucido e se non si fosse sentito in qualche modo tradito, avrebbe certamente rifiutato.

Ma il fatto, purtroppo, era che nessuna delle due cose al momento era vera, quindi lasciò un messaggio in segreteria ad Atom e, presa per mano la ragazza, si diresse a tutta velocità verso l’uscita.




Fra un bacio e l’altro, quando le scarpe di Raven erano ormai finite da qualche parte nella stanza, seguite dalla giacca di Bellamy, lei si interruppe e lo guardò per qualche secondo.

« Non perdono tempo, devo concederglielo. Quant’è passato, un giorno e mezzo? » Chiese con sarcasmo, mentre un sorriso amaro faceva capolino sulle sue labbra.

« Mi confondi con qualcuno a cui importa. È tempo di andare avanti. » Fu la risposta pronta di lui, che sollevò un sopracciglio con espressione beffarda.

« Non sono mai stata con nessun altro oltre Finn. » Fece un passo avanti. « Togliti i vestiti. »

Improvvisamente il maggiore dei Blake realizzò quello che stava per fare: andare a letto con una ragazza che era probabilmente disposta ad usarlo almeno quanto lui stesse usando lei, pensando così di poter dimenticare la sensazione di tradimento e inganno che corrodeva entrambi.

Voleva davvero farlo?

« Va bene, vado prima io. » Notando l’esitazione sul suo volto, Raven portò le braccia alle sue spalle e tirò giù la zip del vestito, calciandolo ai propri piedi e rivelando ai suoi occhi il petto nudo.

« Se stai cercando qualcuno che ti faccia ragionare, che ti dica che sei solo sconvolta e che non stai ragionando lucidamente… Non sono quel ragazzo. Sei sicura? »

E mai nulla le suonò più dolce di quella velata minaccia.

« Bene. »

Ancora una volta, le loro bocche si incontrarono e scontrarono in un bacio privo di sentimento o emozione, tranne quelle che cercavano di reprimere a tutti i costi.

Bellamy le sfiorò la schiena in una lenta carezza, risalendo verso l’alto e aggrappandosi ai suoi capelli, lasciando le dita correre lungo la chioma scura.

La giovane si allontanò di qualche passo, solo per sfilargli la maglietta, e poi si fiondò nuovamente contro di lui, mentre l’altro scivolava sulla sua pelle morbida e si perdeva nuovamente nei suoi capelli scuri, accarezzandola con desiderio.

Quando il moro scese a baciarle e leccarle il collo, Raven percepì le sue mani ancorarsi dietro le proprie cosce e sollevarle le gambe, che subito strinse attorno al suo busto.

Era bello, in un certo senso, abbandonarsi totalmente ad uno sconosciuto, a qualcuno che non potesse saperne niente dei suoi difetti, dei suoi sbagli, a qualcuno che non avrebbe potuto farla soffrire.

Il maggiore dei Blake iniziò a camminare verso il proprio letto, lasciandola sprofondare contro le lenzuola e iniziando meticolosamente a prendersi cura di lei.

Prima di addormentarsi, Bellamy si voltò verso di lei, che gli dava le spalle, e parlò: « Ti è stato d’aiuto? »

« No. » Rispose con distacco, senza nemmeno preoccuparsi di girarsi e guardarlo negli occhi.

La mattina successiva, il suo letto era vuoto e freddo.
 



 
*



 
Finn e Clarke si erano rimessi in viaggio il pomeriggio seguente.

A quanto pareva, la nonna Mary era perfettamente cosciente, ma doveva rimanere in ospedale ancora per qualche tempo ed essere costantemente tenuta sotto controllo dai dottori.

La giovane Griffin era stata costretta a fingere davanti a lei, aveva dovuto stringere la mano del ragazzo al suo fianco e dispensare sorrisi che erano lungi dall’essere sinceri. Era stato difficile, non poteva negarlo, ma allo stesso tempo si era sentita fiera di se stessa e soddisfatta della gioia che aveva visto sul volto dell’anziana, e improvvisamente tutto ne era valso la pena.

« Sei stanca? » Domandò lui, interrompendo il silenzio nella jeep e gettando un’occhiata furtiva verso il sedile del passeggero.

« Un po’. » La bionda continuò a guardare dritto davanti a sé, il capo sorretto dalla mano destra appoggiata al finestrino.

« Non so come ringraziarti, Clarke. Per me è stato davvero importante. » Poteva percepire la sincerità nella sua voce, sebbene l’ammissione le creasse un certo imbarazzo.

« Volevo farlo. » Scrollò le spalle, voltandosi finalmente verso di lui.

Osservò la linea dritta del naso, i capelli lunghi che gli accarezzavano il collo, gli occhi concentrati.

Improvvisamente si accorse che una parte di sé aveva davvero sentito la sua mancanza.

« So che non è ancora abbastanza, so di aver perso la tua fiducia, ma… Spero che tu possa prendere in considerazione l’idea di perdonarmi. »

Si immobilizzò sul posto. Durante tutto il giorno e la notte precedente non avevano affrontato l’argomento, ma si aspettava che prima o poi avrebbero dovuto farlo.

« Non potremo mai tornare insieme. » Il suo sussurro le parve risuonare nella vettura silenziosa, come un’eco lontana e distante.

« Lo so. » Mormorò tristemente lui, accentuando la stretta contro il volante. La risoluzione era chiara nel suo tono. « Ma questo non vuol dire che dobbiamo necessariamente sparire l’uno dalla vita dell’altra. Forse non saremo mai amici, forse le mie parole per te non hanno nemmeno più un significato, ma voglio starti vicino. In qualunque modo tu mi vorrai.  »

« A volte immagino ancora come sarebbe potuta essere la nostra vita insieme. » Iniziò inaspettatamente Clarke, sorprendendo sia lui che se stessa, bisbigliando appena. « Se io non fossi stata io e tu non fossi stato… Beh, se tu non fossi stato tu. Immagino come sarebbe potuto essere amarti e riuscire a farmelo bastare. »

L’altro stava per controbattere, quando lei continuò: « Non è stata colpa tua. Cioè, tu mi hai mentito, ma non è stata solo colpa tua. Non mi sono mai aperta con te. Ti ho sempre lasciato fuori. Credo che questo fosse il problema in primo luogo. »

« Pensi che avremo qualche possibilità? »

« Penso che ci servirà del tempo. »

Entrambi caddero nuovamente in un silenzio questa volta più piacevole, poi lui la richiamò: « Clarke? »
Nel momento in cui lei si voltò verso Finn, lui fece lo stesso.

« Non ho mai finto. »

Quando lui riportò lo sguardo sulla strada, la bionda si lasciò sfuggire un lieve sorriso.


Il giovane Collins parcheggiò davanti al vialetto di casa Griffin quindici minuti dopo, tirando il freno a mano e spegnendo il motore.

« Grazie ancora. » Disse voltandosi verso la sua direzione.

« Non c’è di che. »

Si sorrisero per qualche istante, il ricordo distante dei momenti trascorsi insieme che li accarezzava dolcemente e che non era più un peso da dover sopportare, ma una semplice parte di loro.

« Ci sentiamo presto? » Finn temette di essere andato oltre, ma, quando Clarke annuì, tirò un sospiro di sollievo.

La osservò scendere e stringersi lo zaino alle spalle, quindi fece ripartire l’adorata jeep e se ne andò.
 
 
 
Clarke si avviò verso il portico della propria abitazione con una strana sensazione nel petto, per la prima volta dopo tanto tempo felice di tornare a casa.

Si sentiva come se avesse ritrovato l’unico pezzo mancante di un puzzle, o chiuso senza fare rumore una porta che continuava a sbattere. Sapeva che lei e Finn non sarebbero potuti tornare insieme – si domandava, a quel punto, se lo fossero mai stati – ma quel breve viaggio le era servito a capire che le cose non dovevano per forza finire male.

Che c’era sempre un modo per continuare.

La bionda entrò in casa con un sospiro, trovandola prevedibilmente vuota, e si diresse immediatamente su per le scale, verso la propria camera da letto.

Dopo aver fatto una doccia, essersi cambiata e aver risistemato la stanza, lanciò uno sguardo fuori dalla finestra, verso la cucina dei Blake.

Non aveva notizie di Bellamy dal giorno prima, quando si erano salutati prima di parlare con Finn, e sentì una grande voglia di vederlo.

Dopo tutte le emozioni che aveva dovuto affrontare quel giorno, il ritorno al passato e tutto ciò che aveva provocato la vicinanza del giovane Collins, non poteva negarsi di desiderare la compagnia di qualcuno che la capisse veramente, con cui riuscisse a stare bene.

Era terribilmente stanca di sentirsi trascinata in un mondo che non le apparteneva più, si sentiva prosciugata di qualsiasi energia dai ricordi dolorosi che era stata costretta a richiamare durante quelle ore, e aveva semplicemente bisogno della sua compagnia, di raccontargli della pazzesca giornata che aveva vissuto.

Non si fermò nemmeno un attimo a soppesare quel desiderio. Erano amici, no? Perché non avrebbe dovuto vederlo?

Così, senza pensarci troppo, afferrò le chiavi e il telefono e si avviò.

Bussò due volte, una più delicata e la seconda più decisa, e dovette attendere qualche minuto prima che qualcuno arrivasse ad aprirle.

Quando il volto di Atom le si parò davanti, Clarke sbatté le ciglia più volte, confusa.

« Ehi! » La salutò lui, meno calorosamente delle volte precedenti.

« Ciao! Ehm, c’è Bellamy? » La bionda si strinse le mani e gettò un’occhiata alle sue spalle.

« No, è uscito. »

« Puoi dirgli che l’ho cercato? »

Il ragazzo annuì e si richiuse la porta alle spalle, lasciandola sulla soglia. Quello sì che era strano.

La giovane Griffin aggrottò le sopracciglia e si voltò in un’unica mossa, compiendo qualche passo sul portico di casa Blake.

Improvvisamente, guardandosi attorno, si accorse che l’auto di Bellamy era parcheggiata nel vialetto. Dove poteva essere andato a piedi? E soprattutto da solo?

Senza attendere oltre, mentre camminava verso la propria abitazione, la bionda tirò fuori il cellulare e digitò velocemente un messaggio.

Ehi, sono appena stata a casa tua. Dove sei?




 
*



 
Il maggiore dei Blake lasciò ricadere la tendina della finestra, mentre osservava Clarke andarsene lentamente, e gettò il telefono sul divano, dirigendosi verso la propria camera.

Atom questa volta non disse niente, vedendo che Octavia seguiva il suo fratellone. Ci avrebbe sicuramente pensato lei.

La porta della sua stanza si aprì lentamente, rivelando le iridi verdi di sua sorella.

« Posso entrare? »

Bellamy non fece niente, ma la giovane entrò comunque e, richiudendosi la porta alle spalle, camminò in punta di piedi fino al letto.

Si sdraiò vicino a lui, scontrandosi con le sue ginocchia e guardandolo dritto negli occhi.

« Scusa. » Sussurrò semplicemente quella parola, sperando che lui capisse quanto fosse sincera. Se inizialmente era andata su tutte le furie per il modo in cui l’aveva confinata in casa, ora non poteva fare a meno di provare un moto di tenerezza per il rifiuto testardo con cui suo fratello si ostinava a reprimere i propri sentimenti.

Il moro annuì soltanto, accarezzandole dolcemente lo zigomo destro.

« Vuoi parlarne? » Continuò lei, osservando i suoi occhi neri e offrendogli un lieve sorriso.

« Non saprei nemmeno cosa dire. »

« Vuoi sapere una cosa? Devi lasciarti andare. » La più piccola intrecciò le gambe alle sue e gli abbracciò il fianco, sprofondando con il capo sul suo petto.

« Ti voglio bene, O. »

« Ti voglio bene anch’io, Bells. »

Rimasero in quella posizione, in assoluto silenzio, per un tempo incredibilmente lungo, ma comunque non sufficiente.


Quando, mentre preparava la cena, il suo cellulare squillò per l’ennesima volta, Bellamy gli gettò solamente un’occhiata furtiva.

Sapeva chi fosse il destinatario, ma non aveva intenzione di rispondere, né tantomeno di leggere.

Non era in grado di dire se fosse esattamente arrabbiato con lei, o se avesse anche solo il diritto di sentirsi così.

Non è che stessero insieme, no? Non è che lei dovesse rispondere a lui su chi frequentasse o con chi decidesse di passare il proprio tempo.

Tuttavia si era sentito in qualche modo tradito, come se Clarke avesse infranto una silenziosa promessa, come se tutto quello che avevano iniziato a costruire insieme non valesse niente.

O forse era stato semplicemente tutto un frutto della propria immaginazione? Forse non c’era proprio alcunché, fra di loro, e lui aveva visto qualcosa dove in realtà non c’era niente.

Rimaneva il fatto che ne era rimasto tanto sconvolto da andare a letto con una ragazza che per lui non contava nulla – così come non contava nulla per lei – quasi come a volersi vendicare, a voler essere completamente indipendente.

In ogni caso, non voleva pensarci in quel momento, quindi mise da parte il telefono e continuò ad occuparsi della cena.
 



 
*



 
Dopo tre messaggi ignorati, quattro ore e una certa tensione, Clarke Griffin era ufficialmente preoccupata.

Aveva cenato silenziosamente con sua madre e Thelonious – Wells era uscito con degli amici – e durante tutto il pasto la sua unica ansia era stata quella sul comportamento del moro.

Era forse successo qualcosa? Perché Bellamy non rispondeva? La stava evitando?

Diverse domande le giravano vorticosamente per la testa, snocciolate una dopo l’altra in un circolo vizioso e controproducente.

L’euforia iniziale che aveva provato all’idea di rivederlo era stata ormai sostituita da una certa agitazione. Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se continuare a cercarlo o lasciar perdere la faccenda.

Improvvisamente si accorse di quello che stava facendo: se ne stava sdraiata al buio, fissando il soffitto, alle undici di sera, ansiosa per Bellamy Blake.

No, non poteva più stare ferma. Forse, con un po’ di fortuna e un pizzico di casualità, avrebbe potuto beccarlo mentre fumava sul suo portico, com’era solito fare la maggior parte delle notti.

Spinta, quindi, da quell’idea, Clarke si affacciò alla finestra e tirò finalmente un sospiro di sollievo.

Lui era lì, il capo basso e la sigaretta fra le dita, seduto sugli scalini in legno. Bingo.

Senza attendere oltre, la giovane Griffin indossò un paio di shorts di jeans neri e la felpa grigia del liceo, lasciando i capelli ricci ricaderle disordinati sulle spalle.

Scese le scale senza fare rumore e in pochi secondi stava attraversando i pochi metri che li dividevano.


« Stavo iniziando a darti per disperso. » La bionda parlò con un sorriso appena accennato quando gli fu abbastanza vicina.

Bellamy alzò il capo di scatto, un’espressione di sorpresa dipinta sul volto, e poi ripiegò nuovamente le spalle e prese un tiro.

« Non hai letto i miei messaggi? » Disse lei, appoggiandosi con la spalla contro il corrimano di legno della veranda.

« Li ho letti. »

« Ah. »

Il loro abituale silenzio questa volta non aveva proprio nulla di gradevole, e Clarke si ritrovò ad osservare il maggiore dei Blake mentre tentava in tutti i modi di non ricambiare il proprio sguardo.

Passò qualche altro minuto nella totale quiete, prima che la giovane decidesse di fare qualcosa e sedersi dal lato opposto degli scalini.

Si voltò alla propria destra, verso di lui, che ancora teneva gli occhi bassi, e increspò il labbro superiore.

« Non hai idea di che giornata pazzesca io abbia passato. » Commentò qualche istante dopo, stringendosi le ginocchia al petto e poggiandovi sopra il mento.

« Sono andato a letto con Raven. » Non avrebbe voluto dirlo così – accidenti, non sapeva nemmeno se avrebbe voluto dirlo – ma la frase sembrò scivolare fra le sue labbra con incredibile facilità, come se la sua bocca non fosse effettivamente collegata al cervello.

Il debole sorriso sulle labbra di Clarke si spense immediatamente, e si irrigidì sul posto, stringendosi impercettibilmente le ginocchia al petto un po’ più forte.

« Sì? » Sussurrò dopo qualche attimo di silenzio, voltandosi verso di lui e cercando in tutti i modi di mantenere un’espressione indifferente.

Per la prima volta da quando si era seduta, Bellamy spostò lo sguardo verso di lei e sembrò vederla davvero.

Rimasero a fissarsi senza dire una parola, al buio, su quegli scalini che avevano già conosciuto le loro avventure.

Era lì che aveva capito quanto fossero simili.

Poi lui annuì.

« Beh, buon per te. » La giovane Griffin non fu in grado di dire da dove avesse tirato fuori la forza per mantenere un’espressione e un tono di voce calmo e fermo.

« L’ho scopata due volte. » Non seppe perché, ma sentì l’improvviso bisogno di infierire, di provocare una qualsiasi reazione. Voleva vederla reagire.

Tutto quello che fece lei fu distogliere lo sguardo e guardare davanti a sé. Annuì lentamente, probabilmente più a se stessa che a lui, poi si alzò.

« È meglio che io torni a casa. » Il suo fu semplicemente un sussurro che andò a disperdersi fra loro e, ancora senza degnarlo di un’occhiata, si avviò verso la propria abitazione.

Bellamy prese un tiro più lungo del solito.

 








 

Curiosità:

# La canzone che ascolta Jasper in macchina è You Don't Know Me, scritta originariamente da Ray Charles ma reinterpretata anche da Michael Bublé e Lizzy Caplan, che la canta in un episodio di Masters Of Sex.

#Alcune delle scene presenti in questo capitolo sono scene avvenute veramente nella serie: il dialogo fra Finn e Raven o quello fra Raven e Bellamy, ad esempio. Ma immagino che le abbia già riconosciute, no?






 

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Capitolo 11
*** X ***


Buonasera dolcezze!
Eccomi qui ad aggiornare durante l’ultimo sabato sera di libertà prima dell’inferno. Un bocca al lupo a tutti quelli che, come me, torneranno a scuola questo lunedì, e un abbraccio a chi è già tornato. Ultimo anno, che la sfida abbia inizio.

Che dire, ringrazio con tutto il cuore chi c’è dall’inizio e chi si è unito a noi da poco, chi recensisce costantemente e chi legge silenziosamente.
Per me la vostra opinione è preziosa, perciò non siate timidi e non abbiate paura di esprimere il vostro parere, qualsiasi esso sia.

Bene, che dire… Allacciate le cinture per questo capitolo, ne vedrete delle belle.
Buona lettura!
 






Is It Any Wonder?

 
 
 
 
Per l’ennesima volta in un numero incredibilmente elevato di giorni, Clarke Griffin aveva pensato che fosse finita.
La ricerca, il 221B, i viaggi in macchina, le cene improvvisate.

È finita, si era detta quella notte, quando aveva voltato le spalle a Bellamy e aveva camminato lontano dalla sua casa.

Era rientrata, aveva salito le scale fino alla propria camera, si era spogliata velocemente e si era gettata di nuovo sul materasso.

Si era addormentata quasi senza accorgersene, mentre strofinava la guancia contro il cuscino, sdraiata a pancia in giù, e la mattina seguente si era risvegliata con un grande mal di testa. Quel giorno, dopo anni, aveva indossato gli occhiali da vista che suo padre le aveva regalato per il suo quattordicesimo compleanno.

Tutto le era sembrato sfilarle accanto con lentezza disarmante, come in naturale slow motion.

Quando qualcuno aveva bussato alla porta era stata quasi tentata di lasciarlo andare via, di non aprire e tornare a letto, ma alla fine si era alzata e aveva spalancato l’uscio con disinteresse.

Il maggiore dei Blake l’aveva guardata come si guarda un bambino che ha mangiato di nascosto il terzo biscotto prima di cena, poi si era abbassato i rayban neri sugli occhi.

Senza dire una parola, aveva fatto un cenno del capo verso la propria auto parcheggiata e le aveva dato le spalle.

Clarke era salita in macchina dieci minuti dopo.

Le uniche cose che si erano detti in quel minuscolo garage riguardavano tutti i dati che la giovane era stata in grado di raccogliere sull’Ark, ripromettendosi che, non appena Bellamy avesse ripreso il lavoro, avrebbero approfondito quell’aspetto della faccenda.

Quello strano gioco di silenzi e sguardi rubati era durato una settimana esatta, sette giorni in cui avevano parlato soltanto di turni di servizio, di appalti, documenti e liste di dipendenti, salutandosi all’ora di pranzo e rivedendosi solamente la mattina successiva.

La sera dell’ottavo giorno, quando tutti i pomeriggi avevano cominciato a svanire via in uno strano gioco di apparenze e mancanze, Clarke aveva deciso di non poter più sopportare quella situazione.

Aveva telefonato a Jasper, il cui umore si era stranamente risollevato dopo aver saputo dei suoi problemi con Bellamy, e gli aveva dato appuntamento al The 100.

Ora che Monroe era tornata e Monty aveva finalmente potuto trascorrere del tempo con la sua ragazza, i due giovani avevano proprio bisogno di una serata di bevute.

Perciò eccoli qui, seduti ad un tavolino vicino al bancone, lei con un Cuba Libre e lui con il buon vecchio Daiquiri Frozen davanti a sé, mentre osservavano le persone ballare e agitarsi al ritmo della musica, mentre le luci caleidoscopiche della pista da ballo si confondevano a quelle soffuse della zona bar.

« Sembrano anni. » Commentò dopo qualche tempo il giovane Jordan, guardandosi attorno e masticando distrattamente la cannuccia.

« Cosa? » Rispose Clarke con tono assente, lasciando lei stessa vagare lo sguardo nel locale.

« Sembrano passati anni dall’ultima volta che siamo stati qui », chiarì lui, « insieme. Solo io e te. »

Improvvisamente la bionda si voltò, un sorriso genuino stampato sulle labbra chiare, e gli sfiorò la mano che reggeva il bicchiere.

« Siamo qui ora. »

I due continuarono a scambiarsi chiacchiere fugaci e a sorseggiare i loro drink ancora per un po’, finché la bionda non sentì partire una canzone che le piaceva particolarmente e, aggrappandosi al braccio del suo migliore amico, urlò: « Andiamo a ballare! »

Jasper sapeva che oramai il rum del suo cocktail aveva fatto effetto, ed era principalmente per questo che doveva aver preso quella decisione, ma non poté fare a meno di sorriderle e farsi trascinare verso la pista da ballo.

C’era qualcosa di incredibilmente affascinante nell’osservarla ballare: forse era il fatto che lo faceva unicamente quando si sentiva già allegra, e che quindi potesse muoversi senza l’oppressione delle inibizioni, o forse era il modo in cui si abbandonava totalmente alla musica, lanciando le braccia in aria e lasciandole oscillare sopra la propria testa, chiudendo gli occhi e permettendo semplicemente che tutto le scorresse addosso.

A quanto pareva il suo, di rum, non aveva ancora fatto effetto, rendendolo più lucido di quanto volesse effettivamente ritrovarsi, quindi si limitò ad dondolare leggermente sul posto e ad osservare la sua migliore amica perdersi nella musica e nelle parole della voce che gli rimbombava nelle orecchie.

« Party girls don’t get hurt, when will I learn? » Cantava lei, ondeggiando i fianchi al ritmo del remix e consentendo al suono di trascinarla via.

Voleva smettere di pensare a qualsiasi cosa non fosse quel momento, quel preciso e imperfetto momento.

« Vado a prendere altri drink, che ne dici? » Le suggerì all’orecchio Jasper dopo qualche istante, avvicinandosi e tentando di sovrastare il rumore che li circondava.

La bionda si limitò ad annuire e abbandonarsi ad una lieve risatina, voltandosi poi e continuando a ballare contro i corpi che la sfioravano selvaggiamente.

Quando, ad un tratto, due mani si aggrapparono ai suoi fianchi e percepì la propria schiena scontrarsi contro un petto indubbiamente maschile, la giovane Griffin continuò a muoversi per alcuni secondi, poi decise di voltarsi.

Un ragazzo alto, più o meno della sua stessa età, occhi chiari e capelli castani, la guardava attraverso le luci colorate e le sorrideva amichevolmente.

« Ciao! » Le urlò, avvicinandosi al suo volto per farsi sentire.

« Ehi! » Ricambiò, continuando a muoversi contro di lui e poggiando lievemente le mani sulle sue spalle.

« Sono Dax. » Disse lui dopo qualche minuto, mentre le sue dita si stringevano attorno alla sua vita e l’avvicinavano a sé.

« Clarke. »

Rimase a guardare il suo viso per un po’, chiedendosi se l’avesse mai visto o se lo conoscesse.

La sua faccia era essenzialmente anonima, non aveva particolarità che saltavano all’occhio, quindi la giovane decise che doveva trattarsi di qualcuno che non frequentava quel posto, o in alternativa che era troppo comune per essere ricordato.

Non sapeva perché stesse ancora ballando con quello sconosciuto – non era mai stata il tipo – e nemmeno perché lui avesse provato tanto interesse, dati i semplici shorts di jeans e la canotta nera che indossava, ma decise di non dargli troppo peso.

Se Bellamy Blake può andare a letto con qualcuna che conosce solo da due giorni, perché io non posso ballare con un ragazzo carino?

Beh, quello cominciava a non andare bene. Come poteva pensare a lui mentre era tra le braccia di qualcun altro, sulla buona strada per una grande sbronza e assai consapevole del fatto che non parlassero da una settimana?

Scuotendo leggermente la testa, come a voler scacciare via quel pensiero, Clarke tornò alla realtà, abbandonando la presa sulle spalle di Dax per agitare i capelli sudati che cominciavano ad appiccicarsi contro il proprio collo, poi ritorno a stringersi a lui.

Non stava facendo nulla di male, vero? In fondo, stava solo ballando con un ragazzo. Niente di grave.

E allora perché si sentiva come se stesse commettendo qualcosa di profondamente e radicalmente sbagliato?

Cos’era quella sensazione di fastidio al centro del petto?

Prima che potesse decidere di staccarsi e uscire a prendere un po’ d’aria fresca, il ragazzo davanti a sé si concentrò totalmente sul suo viso, guardandola negli occhi e ammiccando spudoratamente.

Cominciò a piegarsi verso di lei nello stesso momento in cui la bionda capì che era davvero arrivato il momento di andarsene, ma la giovane Griffin non riuscì a muoversi. Non sapeva dire se si trattasse di una temporanea perdita di qualsiasi facoltà motoria o se fosse colpa di un qualche tipo di panico che la stava facendo impazzire.

Mancavano oramai solamente pochi centimetri prima che le proprie labbra entrassero a contatto con quelle di un estraneo, e, quasi senza accorgersene, chiuse gli occhi, arrendendosi.

Fu con non poca sorpresa che percepì un sospiro incredibilmente simile a un ringhio, seguito subito dopo dalle mani di Dax che venivano quasi strappate via dai propri fianchi.

Quando aprì gli occhi, confusa, Clarke si ritrovò davanti ad un petto che si muoveva velocemente a causa del respiro affannato. Sollevando lo sguardo, incontrò le iridi profonde e oscure di niente di meno che Bellamy Blake, che la fissava con un’espressione indecifrabile sul volto.

In quel momento le sembrò che tutto sparisse: le persone che ballavano attorno a loro, la stanza scura, le luci, la musica alta. Non c’era più niente, solo i suoi occhi profondi e la sua espressione irritata.

Dopo qualche secondo tutto riprese a girare vorticosamente, percepì chiaramente il battito del cuore rimbombarle contro le tempie, il proprio respiro irregolare, la folla attorno a loro.

Provò a dire qualcosa, ma lui fu più veloce e si voltò di scatto verso il ragazzo che l’aveva stretta fino a qualche attimo prima: « Toglile le mani di dosso. »

L’altro lasciò vagare impetuosamente lo sguardo fra i due per pochi secondi, un’espressione impaurita dipinta sul volto.

« Scusa, amico, non sapevo che fosse la tua ragazza. »

Senza attendere oltre, il tipo sparì fra la folla, e la bionda parve risvegliarsi da un sonno profondo: « Non sono la sua ragazza! » Gli urlò dietro, prima di accorgersi che il maggiore dei Blake l’aveva sorpassata e si stava allontanando nella direzione opposta.

« Ehi! » Chiamò alle sue spalle, ma lui non sembrò nemmeno farci caso.

Alle sue instabili condizioni fisiche e mentali si aggiungevano anche le persone che si dimenavano attorno a lei e le impedivano di raggiungerlo, trascinandola spesso fra la folla e allontanandola da lui, ma Clarke continuò a camminare verso di lui finché non lo vide, di spalle, poco lontano dall’uscita.

La fresca brezza notturna la colpì e il sottile strato di sudore che si era formato sulla sua pelle la fece rabbrividire, ma lei ignorò la sensazione e marciò con determinazione verso di lui.

« Che diavolo… » Iniziò a mormorare, una volta abbastanza vicina da farsi sentire. Bellamy, che le dava le spalle, sussultò impercettibilmente al suono della sua voce, ma non si mosse.

« Si può sapere cos’era… quello? » La giovane Griffin quasi urlò, e un gruppo di persone che si apprestavano ad entrare nel locale si voltò verso di lei.

Bene, riusciva ad ottenere l’attenzione di estranei a metri di distanza e non riusciva a guardare negli occhi colui che stava a pochi centimetri. Stava quasi per sorpassarlo e piazzarglisi davanti, quando finalmente si voltò.

« Non lo conoscevi nemmeno! Ti stava per baciare, ti stava per baciare e tu glie lo stavi permettendo. Si può sapere a cosa stavi pensando? » Bellamy parlò con lo stesso tono di voce, un’espressione di rabbia e incredulità negli occhi furenti.

« Oh, Dio, non può essere vero… Tu. Proprio tu pensi di poter dire qualcosa su chi posso o non posso baciare? Sì, forse glie lo avrei permesso. E allora? L’ultima volta che ho controllato, tu sei andato a letto con Raven. »

« Sono due cose completamente diverse! » Sbottò lui, chiudendo gli occhi e passandosi una mano sul volto.

« Ah, davvero? E per quale motivo? »

Riportò lo sguardo su di lei. « Tu… Io… Insomma, Clarke. »

In quel momento tutta la rabbia sembrò semplicemente evaporare via dal suo viso, lasciando posto a un’espressione che la giovane non fu in grado di interpretare del tutto. Senso di colpa? Frustrazione, forse?

« Si può sapere cos’è che vuoi, Bellamy Blake? » Gli domandò arricciando il labbro superiore e alzando le braccia in aria.

L’altro si irrigidì sul posto, ma non rispose. Trascorsero alcuni secondi, durante i quali la giovane Griffin tentò di decifrare il suo atteggiamento e le sue parole, e il silenzio fu sufficiente.

« Tu sei davvero incredibile. » Mormorò lei, abbandonandosi ad un sorriso amaro e passandosi una mano fra i capelli.

« Aspetta… »

Ma lei gli aveva già voltato le spalle e stava già camminando lontano da lui.

« Principessa! » La richiamò ancora una volta, e si lasciò sfuggire un lieve sospiro quando la vide bloccarsi sul posto.

Non fece in tempo a compiere un passo avanti, però, perché la giovane Griffin aveva già ricominciato a dirigersi verso l’entrata del club con andatura spedita e determinata.
 
 
 
 
*


 
« Non saremmo mai dovuti venire qui. » Ringhiò il maggiore dei Blake, entrando in macchina e richiudendo violentemente la portiera.

« L’hai trovata? » La voce di sua sorella era delicata, come se sapesse di poterlo distruggere da un momento all’altro.

« Oh, sì », esclamò lui con sarcasmo, aggrappandosi con la mano destra al volante, « e stava per baciare un dannato coglione. Uno sconosciuto. Ti rendi conto? »

« Considerato che tu hai fatto sesso con l’ex del suo ex… » Commentò la più giovane, alzando gli occhi al cielo e voltandosi verso di lui. « E poi che è successo? »

« Gli ho detto di togliersi dalle palle, ovviamente. »

« E lei come ha reagito? »

« Si è arrabbiata. » Mormorò lui, mettendo in moto l’automobile e tirando il freno a mano.

« Tutto qui? Finisce così? »

« Non ho intenzione di parlarne ancora, Octavia. La questione è chiusa. »

Ben consapevole di non poter tirare troppo la corda, la brunetta si abbandonò contro il sedile e tirò giù il finestrino, lasciando che il fresco notturno le accarezzasse il viso.



 
*



Clarke si sedette al bancone del bar con un brontolio e non poco rumore, sbuffando pesantemente subito dopo.

Non ebbe nemmeno il tempo di alzare lo sguardo, perché Jasper era già al suo fianco.

« Dove diavolo eri finita? » Domandò in tono lievemente isterico, spalancando gli occhi e sedendosi sullo sgabello vicino.

La bionda gli lanciò soltanto uno sguardo fugace, poi, adocchiando Alexander, che stava servendo due clienti poco più in là, lo guardò e alzò un dito in una silenziosa richiesta.

« Ero… Non importa. » Concluse qualche secondo dopo, voltandosi finalmente verso di lui e sorridendogli appena. « Ubriachiamoci. »

Quando il migliore amico del suo fratellastro si avvicinò e le fece l’occhiolino, non attese oltre: « Un Long Island pesante per me e un Mojito per Jasper. Fai del tuo meglio! »

« Woah, Clarke, sei sicura? »

La giovane sembrò rifletterci un po’, e si corresse subito dopo: « Hai ragione. Facciamo due Long Island e due Mojito. Ho la carta di credito di mia madre. »

Non appena il ragazzo davanti a lei scoppiò a ridere, ma accettò comunque l’ordinazione, lei tamburellò distrattamente le dita contro la superficie del bancone, quasi fischiettando.

« Sai che non rifiuto mai un drink, ma c’è decisamente qualcosa che non va. » La voce allarmata dell’amico non passò inosservata.

« E fai bene a non rifiutarlo, perché sto offrendo io. »

« E ora stai sviando il discorso. »

Sbuffando nuovamente, si voltò ancora una volta verso di lui e poggiò una mano sulla sua: « Sto bene. »

Scandì le parole con estrema lentezza, quasi come se stesse parlando ad un bambino, poi tornò a fissare un punto imprecisato davanti a sé.

Jasper non replicò.

L’ultimo pensiero che Clarke ricordava di aver formulato quella sera, prima di perdere totalmente conoscenza, era stato: “Non arriverò mai a casa con le mie gambe.”
 


E in effetti non era proprio in quel modo che erano andate le cose, perché la giovane Griffin si risvegliò su una delle panchine sul retro del The 100, le gambe lasciate a penzolare oltre il limite della tavola di legno e un leggero strato di saliva a colarle giù dalla bocca aperta.

Oh, questo era davvero un problema.

Alzandosi sui gomiti, si sentì come se la gravità avesse scaricato l’intero peso del mondo contro le proprie tempie, e ora il suo cervello stesse lentamente implodendo.

Riuscì senza non poche difficoltà a mettersi seduta, ripulendosi la bocca subito dopo con il dorso della mano, e guardandosi attorno in preda alla confusione.

Che ore erano? Perché il locale era ancora chiuso? Dov’era Jasper?

Tirò un sospiro di sollievo nel constatare che qualcuno, probabilmente Alexander, avesse pensato bene di lasciarli riposare lontano da occhi indiscreti, e, gettando un’occhiata all’orologio da polso, si accorse che erano appena le sette del mattino.

Aveva dormito solamente tre ore. Ottimo.

Prima che potesse anche solo preoccuparsi per il suo migliore amico, adocchiò il cappuccio di una felpa verde vicino al bidone che il personale del club utilizzava per gettare i rifiuti delle sere precedenti.

« Jasper! » Chiamò, e la sua voce parve incredibilmente vicina a un mix tra un grugnito e il mugugno di una foca.

La testa scattò improvvisamente, guardandosi attorno, poi il ragazzo si voltò verso di lei.

Clarke trattenne a stento una risata, che però provocò un improvviso moto di nausea. « Non hai una bella cera. » Commentò dopo qualche istante.

L’amico, un occhio ancora chiuso e l’espressione di qualcuno che aveva fatto bungee jumping subito dopo aver fatto colazione, sorrise sarcasticamente e si passò una mano sul volto.

« Gr- grazie, gentilissima. »

« Che diavolo è successo stanotte? »

« Credo che siamo collassati sul bancone. Letteralmente collassati. » Il giovane Jordan si tirò su e si andò a sedere dall’altro lato della panchina su cui era stata sdraiata la sua migliore amica.

« Non abbiamo nemmeno bevuto così tanto. » Commentò lei con tono calmo e rilassato.

« Ho perso il conto al quarto Mojito della serata. Perché poi hai ordinato quello? Sai che reggo meglio il Daquiri. »

« Non fare la femminuccia, Jazz. » Scoppiò a ridere, guadagnandosi un’occhiataccia dal ragazzo.

« Credo che tu sia ancora ubriaca. »

Lei si voltò verso di lui e aggrottò le sopracciglia, come a voler riflettere attentamente.

« Niente che una buona passeggiata a casa non possa risolvere. »

« Vuoi che ti accompagni? »

Clarke scosse la testa e si mise in piedi.


 
 
Camminò verso casa con non poche difficoltà, dato lo stato di subbuglio in cui si trovavano la sua testa e la sua pancia, ma la giovane Griffin fu in grado di arrivare sana e salva.

Solo quando inserì la chiave nella serratura, si ricordò che non aveva avvisato né Wells né sua madre del fatto che sarebbe rimasta fuori a dormire.

Ma per quanto Abby fosse una donna impegnata e devota al proprio lavoro, forse non si era nemmeno accorta della sua assenza. In fondo, era già successo prima.

Entrando finalmente in casa, attenta a non far rumore e non disturbare gli altri, Clarke si diresse con tutta l’energia che possedeva verso le scale, raggiungendo la propria stanza e crollando sul materasso, improvvisamente esausta.



 
*


 
« Ehi, amico. »

Atom entrò in cucina mentre il maggiore dei Blake sorseggiava una tazza di caffè, i capelli ancora umidi per la doccia che aveva fatto poco prima e l’espressione pensierosa.

Bellamy spinse verso di lui un’altra tazza e vi versò all’interno il contenuto della macchinetta vicino a loro.

« Mi dispiace che non ci fossi, ieri. »

L’amico si sedette al suo fianco e strinse le dita attorno al manico della scodella.

« Quel mal di testa mi stava seriamente distruggendo… » Lasciò cadere la frase a metà, guardandosi le mani.

« Tutto bene? »

« Sì, certo, certo.  Com’è andata? »

Il moro prese un altro sorso e aggrottò le sopracciglia. « Non come avevo sperato. »

« Vedrai che andrà tutto bene. » Il ragazzo dagli occhi verdi lo guardò per qualche altro istante, tirando fuori subito dopo una busta di carta dalla tasca anteriore dei jeans.

Quando Bellamy lo vide poggiarla davanti a sé, lo guardò con aria interrogativa.

« È la mia parte di affitto. » Spiegò l’altro.

« No. »

« Andiamo, Bell… »

« Non se ne parla. Sei mio ospite, non il mio coinquilino. »

« E allora lascia che sia il tuo coinquilino. Sai che devi accettarli. Insomma, sono qui ormai da un mese e… voglio contribuire. Non ho intenzione di aggrapparmi così. Non è giusto. »

Notando la sicurezza nel suo tono di voce e la determinazione nella sua espressione, non poté fare a meno che prendere la busta.

« Ma alla spesa ci penso io. » Ordinò subito dopo.

L’amico annuì e gli sorrise, alzandosi e dandogli una pacca sulla spalla.
 

 
*



 
Clarke riprese conoscenza e facoltà mentali alle sei del pomeriggio, quando si svegliò da un sonno durato undici ore e travagliato da crampi e mal di testa fortissimi.

Cercando di reprimere l’idea che quella fosse la peggior sbronza che avesse mai preso in diciannove anni di vita, la bionda afferrò della biancheria pulita dal comodino alla sua sinistra e si diresse verso il proprio bagno, chiudendosi a chiave.

Mentre lasciava riempire la vasca da bagno, versò dell’acqua fredda nel bicchiere vicino al lavandino e, dopo aver bevuto e averlo riempito per altre due volte, tirò fuori un paio di aspirine dall’armadietto dei medicinali. Non voleva prenderle, ma, se il bagno caldo non avesse funzionato, sarebbe stata costretta.

Tutto quello di cui aveva bisogno ora era una Diet Cola, e si dava il caso che ne tenesse una scorta proprio in uno degli sportelli sotto al lavandino.

Chi tiene una cassa di bibite nel proprio bagno? Beh, Clarke Griffin, a quanto pareva. Esperta DOC in rimedi per sbornie colossali di cui ci si pente amaramente il giorno dopo.

Afferrò una delle bottigliette di plastica e, preparando il proprio accappatoio, entrò nella vasca ancora vuota per metà.

Mentre l’acqua bollente si infrangeva contro il suo corpo e la giovane poteva tirare un sospiro di sollievo, decise di prendere un sorso e acquietare per un po’ il mal di stomaco.

Per l’ennesima volta era stata tanto stupida da voler annegare i problemi in un bicchiere, pur essendo perfettamente consapevole di non potervi trovare alcuna risposta.

Una parte di sé sapeva bene che quello era un comportamento sbagliato e immaturo, e che non era di certo il modo di risolvere le cose. Era la stessa parte di lei che aveva tanto desiderato essere un dottore e conosceva bene le conseguenze di quegli atteggiamenti.

Un’altra parte, però, si sentiva quasi meglio. E non si trattava dell’aspetto fisico – ovviamente non stava meglio, data la nausea e il dolore alla testa – ma del fatto che forse tutto quello che voleva fare era distruggersi un po’. Vedere quali fossero i propri limiti. Provocare una reazione. Qualsiasi cosa.

Quando chiuse gli occhi, il volto di Bellamy si dipinse sul fondo buio delle sue palpebre, arrabbiato e furente come l’ultima volta che l’aveva visto, e la giovane rabbrividì nonostante l’acqua calda che ormai le arrivava al collo.

Li riaprì di scatto, velocemente, perché il rubinetto era ancora aperto e ogni scusa era buona per non permettersi di pensare a lui, al modo in cui l’aveva guardata, al modo in cui sembrava essere geloso di quel ragazzo con cui aveva ballato. Con quale diritto, poi?

Non era lei che era andata a letto con un altro.

No, non aveva la minima intenzione di permettergli di farla agitare proprio ora che tentava di rilassarsi, perciò richiuse gli occhi e si sforzò di abbandonarsi alla sensazione di calore che le forniva la vasca.
 
 
 

« Ciao, Clarke. »

La voce di sua madre le arrivò alle spalle, sorprendendola e non poco.

La giovane Griffin, occupata a sfogliare distrattamente il manuale di anatomia, alzò gli occhi al cielo e si voltò sulla poltrona girevole.

« Quale piacere, pensavo avessi affittato una stanza in ospedale. »

Abby decise di ignorare il sarcasmo di sua figlia, appoggiandosi con la spalla sinistra all'uscio della porta e accennando un sorriso che pareva unicamente di cortesia.

« Gradirei che questa sera tu restassi a casa. »

Clarke formò una piccola ‘o’ con le labbra e annuì. « Oh... Tu gradiresti che io restassi a casa. Che c'è, vuoi passare del tempo madre-figlia? È un po' troppo tardi per queste stronzate, non credi? »

Fu perfettamente in grado di notare il leggero scatto delle sue sopracciglia, mentre la sua espressione diveniva più seria e, se non l'avesse conosciuta bene, si poteva dire che sembrasse quasi offesa.

« Modera il linguaggio, signorina. Preferirei solo che evitassi, anche questa sera, di ubriacarti in quel locale da quattro soldi che ti ostini a frequentare. »

La più giovane aprì leggermente la bocca in segno di sorpresa e, richiudendola subito dopo e serrando la mascella, parlò fra i denti: « È di questo che volevi parlarmi, allora. Non c'era bisogno di tante storie. Hai forse paura che i tuoi colleghi scoprano che tua figlia è un'alcolizzata senza speranze di redenzione? »

La signora Jaha sbuffò dal naso e compì un passo avanti, evidentemente sconvolta: « Sai bene che non era questo che intendevo. Non mi interessa nulla del giudizio dei miei colleghi, mi preoccupo semplicemente per te. »

Il tono di sua madre si addolcì, e questo non fece altro che irritarla ancora di più.

« Sì? Ti preoccupi per me? Ti preoccupi per me da quando, mamma? » Voleva evitare di alzare il tono, ben consapevole che il suo atteggiamento non portasse altro che litigi senza fine e attacchi ingiusti, ma non ne fu in grado.

« Dal primo momento che ti ho tenuta fra le mie braccia, Clarke! Perché ti comporti in questo modo? »

Abby fece un altro passo avanti, e sua figlia la bloccò: « Non ti ho detto che potevi entrare. »

« Questa è casa mia, non pensare di poter usare quel tono sotto il mio tetto. »

« Oh, ora è il tuo tetto! » Esclamò lei, alzando la voce e mettendosi in piedi, « Sai cosa? Tu e il tuo maritino potete tenervelo tutto per voi, me ne andrò presto. »

Non appena pronunciò quelle parole, una parte di sé si pentì di aver tirato in ballo il suo patrigno.

Sapeva quanto affetto e amore nutrisse per lei e sua madre, ma la rabbia e la frustrazione avevano ormai preso il sopravvento.

« Pensi che dicendo queste cose tu possa realizzare il tuo bisogno di punirmi? » La donna più grande abbassò la voce, questa volta tentando di mantenere il discorso su un piano civile. Oh, quanto si sbagliava.

« Ah, sono così stanca di questa recita. É solo una farsa, non lo capisci? Puoi smettere di far finta che te ne importi qualcosa, sai? »

« Come puoi dire questo? » Il suo tono ora era sbalordito, incredulo, e Abigail compì un altro passo avanti.

« Tu sei mia figlia. Sei il mio sangue. Non potrei mai e poi mai dimenticarmi o smettere di preoccuparmi per te. »

« Sembra che da qualche anno a questa parte tu ci riesca molto bene, invece. »

« Ma cosa stai dicendo, Clarke? » La sua espressione era ferita, e la bionda non poté trattenersi dal sentirsi in colpa anche per quello. Era come se volesse ad ogni costo lottare contro di lei, ma nel frattempo stesse ferendo anche se stessa.

« Dico solo che da quando papà... Beh, la tua vita è andata piuttosto bene, no? »

« Tu non hai idea... Quando tuo padre... Quando Jake è morto, il dolore mi ha distrutta. In un modo che prego tu non possa mai provare. Ma cercavo di essere forte, di non avere paura, di essere una buona madre. » La donna si interruppe per qualche attimo, chiudendo gli occhi e riaprendoli subito dopo: «E poi tu... Te ne sei andata. Certo, vivevi ancora sotto il mio tetto, ma non c'eri più. Ti sei allontanata silenziosamente, proprio davanti ai miei occhi, e non c'era niente che potessi fare per tenerti con me. E ora non puoi dirmi che io non mi preoccupo per te, Clarke, perché è ingiusto e sbagliato. »

 Oh, non provare a dare la colpa a me! Tu avevi Thelonious, te ne andavi in giro e... » Era sull’orlo delle lacrime, e sentiva con chiarezza che la sua corazza si stesse lentamente e inesorabilmente sgretolando attorno a lei, ma doveva continuare, non riusciva a fermarsi.

« Io avevo solo bisogno di mia figlia! » Abby alzò improvvisamente la voce, perdendo in un attimo la compostezza che l'aveva sempre caratterizzata, poi prese un lungo respiro profondo e una pausa: « Ho fatto quello che dovevo fare per tenere in piedi questa famiglia. » Sussurrò.

Clarke si immobilizzò sul posto. Il respiro veloce e affannato, osservò sua madre ancora per qualche momento, poi si voltò e si precipitò fuori da quella casa, lontano da tutti.


« Non puoi continuare a scappare per sempre, Clarke Griffin! » Sentì la voce instabile di sua madre urlarle dietro, ma non le prestò alcuna attenzione.

Scese le scale quasi senza guardare i gradini, il più velocemente possibile.

Spazzando via con il dorso della mano le lacrime che avevano cominciato a sgorgarle dagli occhi, si richiuse la porta d’ingresso alle spalle con violenza e impeto, e diresse a passo svelto e determinato verso il portico di casa Blake.

Non poteva bussare e pretendere qualche tipo di attenzione, quindi si limitò a sedersi sul secondo scalino di legno e ad appoggiarsi al corrimano con la spalla sinistra, prendendosi il viso fra le mani e sprofondandovi, tentando con tutte le energie di non piangere.

Non riusciva e non voleva credere a quello che era appena successo, alla prima volta dopo anni in cui fosse finalmente riuscita a parlare con sua madre, nonostante non avessero fatto altro che ferirsi.

Rimase in quella posizione per un tempo che non fu in grado di determinare, quando poi percepì la porta alle sue spalle aprirsi e sollevò immediatamente lo sguardo.

« Clarke! » E avrebbe voluto odiarsi per quanto la fece stare bene quella voce.

« Che stai facendo? » Bellamy si avvicinò e si sedette al suo fianco, e solo a quel punto lei lo guardò.

Era sicuramente ancora arrabbiato, ma tutto ciò che la sua espressione le suggeriva era preoccupazione, ed era comunque lì. Non si sarebbe mai abituata a trovarlo ogni volta al suo fianco.

« Sono stanca, sono incazzata, ho litigato con mia madre e... Non avevo alcun diritto di bussare alla tua porta. » Tirò su col naso e si morse il labbro inferiore.

Il maggiore dei Blake sollevò un sopracciglio. « E credi che startene da sola sul mio portico avrebbe aiutato? »

« Sì. » Rispose immediatamente. « Cioè, no. Non lo so. »

« Avresti dovuto chiamarmi subito. » Suonò come un rimprovero, ma i suoi occhi si erano lentamente addolciti davanti al suo volto.

« Non posso correre da te ogni volta che qualcosa mi va male. »

« Perché? » Sussurrò lui, fissandola intensamente.

« Perché non è giusto, non... »

« Perché? » Ripeté lui con più convinzione.

« Non lo vuoi davvero. »

« Non puoi saperlo. »

« Teoricamente abbiamo litigato, ricordi? » Sebbene il suo umore non fosse esattamente dei migliori, la bionda si abbandonò ad una lievissima risata.

« Non mi importa. » Bellamy sorrise di quel suo sorriso che avrebbe fatto invidia al mondo, scrollando le spalle e continuando a guardarla.

« Portami da qualche parte. » Propose lei, ricambiando finalmente il sorriso.

« Dove vuoi andare, Principessa? »

« Non al club. Non lo so, lontano da qui. Saliamo in macchina e basta. »
 
 
Un quarto d’ora, tre canzoni alla radio e un silenzio piuttosto piacevole dopo, Clarke si voltò verso il sedile del guidatore, scrutando l’espressione concentrata di Bellamy.

«  Se ti ho dato l’impressione di non aver accettato il fatto che tu vada a letto con delle ragazze, mi dispiace. Sei libero di fare qualsiasi cosa tu voglia fare. Il fatto è che forse... Forse ho fatto troppo affidamento su di te in un modo in cui non avrei dovuto. Ti ho reso la mia via di fuga senza accorgermene e mi dispiace per questo. Non ho alcuna voce in capitolo nelle tue decisioni. Solo… Non dirmelo. Non voglio saperlo. »

Il moro non rispose subito, si limitò a gettarle un’occhiata fuggevole. « E perché no? » Chiese dopo qualche istante, riportando l’attenzione sulla strada, « Io so di te e Finn. »

Clarke si irrigidì. Quella era l’ultima cosa di cui volesse preoccuparsi al momento.

« E cosa ci sarebbe da sapere su me e Finn? »

« Siete tornati insieme, giusto? »

La mascella le sarebbe potuta cadere a terra per la sorpresa. Che diavolo? Come poteva anche solo immaginare che, dopo tutto quello che avevano dovuto affrontare, potesse tornare con lui?

« Cosa te lo fa pensare? » C’erano improvvisamente scetticismo e una certa acidità nella sua voce.

« Vi ho visti il giorno in cui siete partiti. Eravate così… vicini. »

« Mi aveva chiesto un favore riguardo una questione molto delicata. Ero dispiaciuta per lui, nonostante tutto. »

« Siete davvero solo amici? » Il tono del maggiore dei Blake era chiaramente pregno di dubbio e sospetto, e la bionda notò l’accentuarsi della sua stretta contro il volante.

« Che cosa stai cercando di dire esattamente, Bellamy? »

« Non lo so, forse il fatto che io vada a letto con delle ragazze non è più importante del fatto che tu provi chiaramente ancora qualcosa per lui. »

« Oh, Dio… Non lo capisci proprio, vero? »

« Cosa? » Erano fermi ad un semaforo, quindi poté voltarsi verso di lei. Clarke fu in grado di sorreggere lo sguardo, nonostante la sua potenza e intensità, e si morse inconsapevolmente il labbro inferiore.

Il moro continuò a guardarla in attesa di una risposta, mentre i suoi occhi esaminavano attentamente ogni centimetro del suo viso. C’era una certa scintilla nelle sue iridi scure, come se ci fosse un peso che doveva sopportare e lui non riuscisse a controllarlo.

La giovane Griffin aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu interrotta dal suono di un clacson alle loro spalle.

Era verde.

« Niente. Non c’è niente fra me e Finn, non provo più niente per lui. » Sussurrò infine.

« E io non sono più andato a letto con nessun’altra. » Confessò l’altro dopo qualche istante.

Se la situazione si era raffreddata velocemente, con la stessa rapidità si riaggiustò. Ora che avevano messo in chiaro le cose, entrambi si sentivano molto più sollevati e leggeri.

« Bellamy? » Lo chiamò dopo qualche altro istante, tenendo lo sguardo fisso sulla strada illuminata dai lampioni.

« Sì? »

« Vuoi sentire una canzone? »

Clarke lo vide annuire con la coda dell’occhio, quindi tirò fuori il cellulare e le cuffiette dalla tasca della felpa e glie ne porse una.

Il maggiore dei Blake l’accettò e si avvicinò l’auricolare all’orecchio, attendendo pazientemente l’attacco della melodia.



 
 
Take me out tonight,
where there’s music and there’s people

 and they’re young and alive
Driving in your car,
I never never want to go home
because I haven’t got one anymore



Bellamy la conosceva.

Quando sentì il ritmo ben cadenzato e la triste dolcezza della sua voce, la riconobbe.

Sua madre era solita passare le domeniche mattina a curare il piccolo orto che avevano nel giardino posteriore della loro piccola casa nell’Oregon, e spesso si faceva accompagnare da quel gruppo. The Smiths, ecco.

Sorrise e si voltò fugacemente verso Clarke, che nel frattempo si era rannicchiata sul sedile nella sua direzione.

« … Because it’s not my home, it’s their home and I’m welcome no more… » Sussurrò lei, sprofondando la guancia contro il proprio palmo.


 
Take me out tonight,
Take me anywhere,
I don’t care, I don’t care, I don’t care





« Proprio ovunque? » Domandò il maggiore dei Blake dopo qualche attimo, mentre la bionda si perdeva nella canzone e non prestava la minima attenzione al tragitto che stavano percorrendo.

« Sì. » Mormorò.

Continuarono ad ascoltare quella melodia ancora e ancora, dandole ogni volta un significato diverso, ripetendosi quei pochi minuti nella testa di nuovo, sempre di nuovo, sentendo il sentimento di libertà bruciargli nel petto e fargli dimenticare tutto il resto.

Quando Bellamy parcheggiò e spense la macchina, Clarke, un’espressione di sorpresa dipinta sul volto, si raddrizzò dalla posizione accovacciata che aveva assunto e spalancò gli occhi.

Il mare.

L’auto era ferma davanti a un muretto, oltre il quale la spiaggia buia e l’oceano scuro si estendevano liberamente.

« Oh… »

« Andiamo, su. »

I due scesero dalla macchina velocemente, e la prima cosa che la giovane Griffin percepì con ogni parte di sé fu il profumo del mare, l’odore della salsedine e il rumore lento e costante delle onde che si infrangevano contro la spiaggia.

Il moro si sporse verso di lei e la prese per mano, incoraggiandola con un sorriso.

Camminarono fino al muretto e, scavalcandolo, entrarono in contatto con la sabbia fredda. Entrambi si tolsero le scarpe, beandosi della sensazione rasserenante.

Una cinquantina di metri alla loro sinistra, un gruppo di ragazzi si stringeva attorno ad un falò, cantando canzoni accompagnate da chitarre classiche e bottiglie di birra.

Bellamy e Clarke passeggiarono fino al centro della spiaggia, dove tutto era più buio e quieto, e si sedettero.

Il silenzio fra loro non era mai stato più genuino, perciò nessuno dei due si sentì in dovere di dire qualcosa.

Rimasero a fissare le onde fluttuare sempre più vicino a loro e poi inaspettatamente e selvaggiamente ritirarsi il più lontano possibile.

« È  bellissimo… » Sospirò la bionda, gettandosi all’indietro e percependo la morbidezza dei granelli di sabbia accogliere la propria schiena.

Il maggiore dei Blake osservò l’oceano per qualche altro istante, poi si sdraiò al suo fianco. Le loro spalle si sfioravano.

« Vuoi dirmi cos’è successo stasera? » Sussurrò dopo qualche attimo, voltandosi verso di lei.

« Ricordi quando ti ho detto che non mi interessano le aspettative di mia madre? » Gli domandò dopo qualche istante e, quando lo vide annuire, continuò: « Beh, forse dovrebbero cominciare ad interessarmi. È solo che… ci sono così tante cose che non sono state dette. »

« Dovreste affrontarlo. Sai, il fatto che la vostra vita non sia più quella di una volta. Dovreste andare avanti. »

« Già… » Clarke prese un respiro profondo e lasciò vagare lo sguardo verso il cielo stellato sopra di lei.

In quella particolare zona, dove le luci della città erano per poco lasciate fuori, le stelle erano molto più visibili del solito e la luna splendeva alta, illuminando d’argento i loro volti.

All’improvviso, come un’idea che nasce inattesa, realizzò una cosa: non avrebbe voluto condividere quel momento con nessun altro che non fosse Bellamy.

Fu per quel motivo, forse, che si girò su un fianco e osservò il suo profilo rilassato. Vide chiaramente il suo pomo d’Adamo muoversi su e giù, prima che lui voltasse solo il capo verso di lei.

« Perché hai reagito in quel modo quando mi hai vista ballare con quel ragazzo? » Domandò poi, sperando di non discutere nuovamente per quella questione. Non gliel’aveva chiesto perché voleva litigare, magari aveva solo bisogno di una conferma.

Dopo che la bionda si portò le mani giunte sotto la guancia, il più grande spezzò finalmente il silenzio.

« Lo sai perché. » Bisbigliò.

La giovane Griffin aprì leggermente la bocca, sorpresa. Non del fatto in sé, quanto del modo in cui ormai le cose fossero talmente evidenti tra loro.

« Vuoi sapere cosa voglio? Vorrei sapere cosa c'è nella tua testa. Voglio – il suo tono di voce calcò sull'imperativo, come era sua orribile vizio fare – conoscere ogni pensiero che ti passa per la mente quando sei in silenzio e fissi il vuoto con la tua aria distratta. Voglio sapere cosa vedi quando mi guardi. »

Quasi non se ne accorse, quando si mosse e si avvicinò di poco, sfiorando con il gomito il suo petto.
Non sapeva cosa dire. Nel profondo del proprio cuore conosceva la risposta, ma darla ad alta voce le pareva quasi un tradimento.

Perciò si limitarono a guardarsi: Clarke voltata completamente verso di lui, il corpo disteso su un fianco, e Bellamy con le spalle piantate nella sabbia, lo sguardo perso nel suo.

Passarono diversi minuti, probabilmente, trascorsi soltanto a parlarsi senza aprire bocca, a raccontarsi con gli occhi tutti i loro segreti.

E se fosse stato qualcun altro probabilmente lei lo avrebbe insultato, gli avrebbe intimato di smettere di fissarla, ma non c’era “qualcun altro” con lei, in quel momento. C’era lui. E i suoi occhi guardavano proprio attraverso ogni suo muro, ma non faceva male.

« Devi assolutamente fermarmi ora, se non vuoi che ti baci. » La sua voce era profonda, un sussurro dedicato solo a loro due, e la bionda quasi sentì vibrarla nel proprio petto.

Sostenne il suo sguardo e non disse niente.

Quando i suoi occhi le accarezzarono le labbra, lei non disse niente.

Il maggiore dei Blake si sporse in avanti e i loro nasi si sfiorarono, ma lei continuò a non dire niente.

Le loro palpebre correvano velocemente, così come i loro respiri, ed entrambi le socchiusero.
Clarke sollevò una mano, la poggiò al centro pulsante del suo collo, percependo immediatamente il suo battito accelerato, e chiuse la distanza.

Nello stesso momento in cui posò la bocca sulla sua, la mano sinistra di Bellamy strinse quella che lei teneva ancora contro la sua carotide, e si scoprirono senza fretta.

Fu lento e lei fu in grado di percepire ogni piccolo dettaglio che la circondasse. L’odore salato del mare mischiato a quello aromatico del moro – qualcosa che doveva avere a che fare con la cannella –, le sue mani che la accarezzavano con una lentezza che faceva quasi male, il modo in cui i propri pensieri non potessero dedicarsi ad altro che non fosse l’emozione che stava provando in quel momento.

Clarke si sentì cadere in picchiata, abbandonarsi  e mischiarsi ad un calore che le era stato negato per fin troppo tempo.

Non appena si staccò da lui e sprofondò il volto contro la sua spalla, baciando pigramente il tessuto della sua camicia a quadri, tutto parve immobilizzarsi, congelarsi sul posto.

« Te. Quando ti guardo vedo il vero te. »


 

 
*


 
« Si può sapere che cazzo ti è saltato in mente? » Sbottò Dax, entrando nella macchina parcheggiata e aggrottando le sopracciglia.

Non si voltò verso il guidatore, ma riuscì quasi ad immaginare la sua espressione.

« Calmati. »

« Calmarmi? » L’altro alzò la voce, girandosi verso la propria sinistra, « stavo per farcela con Clarke. Un paio di drink, un passaggio a casa e l’avrei presa. Ma no, tu hai dovuto lasciare libero il tuo amichetto. »

« Stavo scannerizzando il suo portatile e aggirando il firewall sul suo telefono. Lo sai che il Dipartimento ha un certo livello di protezione, no? Come avremmo fatto altrimenti a conoscere i loro spostamenti? Non potevo occuparmi anche di lui. »

« È il tuo compito, dannazione! Vieni pagato per questo. Ora dovrò trovare un’altra occasione. » Il ragazzo seduto sul sedile del passeggero tirò su col naso e si passò il dorso della mano davanti alla bocca.

« E allora trovala. Io penserò a Bellamy. »

« Sarà meglio per te, Atom. » E, dopo averlo avvertito, scese dall’auto.
 
 
 






 

Curiosità:

# La canzone che canta Clarke al locale è Chandelier, di Sia.

# Quella che invece ascoltano lei e Bellamy in macchina è There Is A Light That Never Goes Out, dei The Smiths.

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Capitolo 12
*** XI ***











Buonasera miei adorati!
Non so come potrete perdonarmi per l'incredibile ritardo con cui mi trovo ad aggiornare, ma ho avuto un po' di questioni a cui pensare.
Al 50% ci ha pensato la scuola a tenermi occupata, per il restante 50% mi sono voluta prendere del tempo per pensare davvero e con concentrazione a come volevo che continuasse la storia.
Direi che ogni dubbio è stato assolto, perciò sono molto contenta.

Non pensiate però che non abbia tenuto sotto controllo il nostro amato fandom: ho visto che nuove autrici hanno aggiunto il loro specialissimo contributo a questa sezione, e di questo sono davvero felice. E' sempre fantastico avere la possibilità di confrontarsi con nuovi stili in quanto autrice e con nuove storie in quanto lettrice, perciò mando un grande abbraccio alle mie adorate colleghe.

Per quanto riguarda voi, miei fidati lettori, non potrei amarvi di più. Ringrazio con ogni briciolo del mio cuore tutte le persone che hanno continuato a recensire e i nuovi recensori, a cui do un grande benvenuto e a cui dico grazie per avermi dato una possibilità.
Siete tutti fantastici, dal primo all'ultimo, e io vi voglio sinceramente bene.

Insomma, che dire, non voglio ammorbarvi troppo, e quindi vi lascio al capitolo.

Buona lettura!



 


 

Is It Any Wonder?











La prima cosa che impari quando ti spezzano il cuore è che la paura del rifiuto te la porterai dietro per tutta la vita. Quando la persona che ami ti distrugge – e, ancora peggio, quando la persona che ami ti distrugge senza nemmeno rendersene conto – le tue barriere si allentano. La sicurezza crolla.

Sei così ossessionato dal rifiuto che pensi che da quel momento in poi ogni persona che conoscerai e amerai, ogni amico e confidente, ti abbandonerà.

È fisiologico.

Jasper si sentiva esattamente così. Il suo bisogno disperato di parlare con qualcuno faceva a botte con la consapevolezza che nessuno avrebbe compreso. O almeno era quello che credeva lui.

Era come se non riuscisse a farsi capire, come se parlasse una lingua aliena e tutti attorno a lui annuissero e sorridessero senza aver capito un tubo.

Voleva trascorrere il pomeriggio con il suo migliore amico e dopo cinque minuti già voleva tornare a casa.

Voleva scappare e non sapeva dove andare.

Voleva parlare con Clarke e sapeva solo ubriacarsi.

Forse la risposta era che stava semplicemente impazzendo, perdendo la testa.

Magari avrebbe dovuto buttare tutto fuori prima che le parole lo divorassero dall'interno. Le parole che era stato pronto a dire per tutta la vita, ma che erano sempre rimaste incastrate fra i denti, lasciandogli soltanto un amaro in bocca che nemmeno tutti i bicchieri del mondo avrebbero aiutato a mandar giù.

Non aveva idea di cosa fare, si sentiva perso e solo e incapace di essere migliore, di diventare qualcosa di cui la sua migliore amica si sarebbe potuta innamorare.

Tuttavia lui non poteva essere niente di più che se stesso, il ragazzo che aveva portato un paio di occhiali da aeroplano in testa fino a quindici anni, il nerd amante di videogiochi e fumetti, il buffone di corte che veniva tormentato dai Grounders per puro divertimento.

Tutta la sua vita gli appariva improvvisamente una grande, mera e beffarda illusione. E tutta l'operazione "disintossicati da Clarke Griffin e vinci un cuore nuovo" non stava andando proprio a buon fine.

Aveva provato a ignorarla, ad arrabbiarsi, a farsi prendere dalla frustrazione, e niente di questo aveva funzionato. Magari tutto quello che avrebbe dovuto fare era parlare. Dire tutto quello che aveva mai pensato, vomitare e buttare fuori ogni sentimento.

E così Jasper prese il telefono.
 
 
*





Bellamy intravide il proprio riflesso contro il vetro lucido dell’ufficio del Capitano del Dipartimento di Polizia di Los Angeles.

Si portò la mano sinistra al collo e si aggiustò la fastidiosissima cravatta che portava appesa alla gola, sistemandosi poi le maniche della camicia bianca che portava arrotolate fino ai gomiti.

Era pronto e determinato, perfino euforico di tornare, ma allo stesso tempo si sentiva estremamente e irrimediabilmente teso, come se una certa paura di aver improvvisamente dimenticato come fare il proprio lavoro lo stesse assalendo.

Clarke avrebbe alzato gli occhi al cielo e gli avrebbe dato una gomitata, se fosse stata lì.

Oh, no. Non poteva lasciarsi distrarre da quel pensiero. Non ora che doveva rimanere il più attento possibile, non ora che tutta la sua carriera si trovava sul bilico di un rasoio tanto affilato da fargli il solletico.

« Concentrati! » Si rimproverò a bassa voce, pizzicandosi la base del naso con l’indice e il pollice, sbuffando e poi decidendosi finalmente ad aprire la porta.

« Bentornato, agente Blake. » La voce ferma e decisa di Diana Sydney lo accolse non appena lui entrò nel suo studio, richiudendosi l’uscio alle spalle e fermandosi a pochi passi dalla sua scrivania.

« Capitano. » Rispose Bellamy annuendo brevemente, il tono di voce alimentato da una certa sicurezza. Oramai aveva imparato a dissimulare le proprie insicurezze e a non lasciarle intravedere.

Incrociò le braccia dietro la schiena e attese quello che sapeva la donna gli avrebbe detto.

« Non tollererò altre azioni del genere nel mio Dipartimento, ne sei consapevole? »

« Sì, signora. »

« Se vengo a sapere che tu e Murphy create altri problemi, vi sbatto a pulire cessi all’Accademia, è chiaro? » La sua voce minacciosa torreggiò nella stanza in tutta la sua potenza, poi la più anziana si sporse oltre il tavolo e abbozzò un sorriso.

« Non possiamo permetterci di perderti, Blake. » Lo incoraggiò lei, aprendo un cassetto e lasciando ricadere sulla superficie interamente occupata da documenti una Colt 45 e il suo distintivo.

Con una sola occhiata, il moro fu in grado di capire che qualcosa era diverso: « Quella non è la mia pistola. »

« Avrai la tua pistola quando sarò sicura che te la sarai meritata. » Lo sfidò il Capitano, sollevando un sopracciglio e accennando un ghigno.

Lui non si scompose. « Cosa devo fare? »

« Ho un caso delicato, una questione diplomatica di un certo livello. Stiamo lavorando con la Buoncostume del Bureau. Che ne dici? »

« Dov’è il fascicolo? » Rispose lui seriamente, senza indugiare un altro momento di più. All’improvvisamente tutto sparì. Le paure, le ansie, il timore di non essere abbastanza. Lui era nato per fare quello e nessuno avrebbe potuto portarglielo via.

« Alla tua scrivania. Dovresti chiamare Johnson. »

Bellamy si limitò ad annuire e a sporgersi per afferrare arma e distintivo, il tutto sotto gli occhi attenti e vigili del suo capo.

Quando aprì la porta, si voltò solamente per un breve istante: « Non la deluderò. » E poi, testa alta e petto in fuori, si diresse verso la propria postazione.


 
*



 
« Clarke? Clarke Griffin? »

« Jasper? Jasper Jordan? » La ragazza si abbandonò ad una lieve risata, sinceramente lieta di sentire la voce del suo migliore amico. Nonostante tutti i problemi che erano sorti durante quell’ultimo mese, le assenze e il suo orribile carattere e il tempo trascorso separati, non poteva abituarsi all’idea di non sentirlo, di non parlare con la persona che la conoscesse meglio al mondo.

« In carne ed ossa. Mi chiedevo… » Anche attraverso il telefono, fu perfettamente in grado di percepire l’incertezza nel suo tono. « Saresti disponibile a permettermi di offrirti un caffè? Tipo… adesso? »

« Un caffè? Sono le cinque del pomeriggio, Jazz. »

« E allora? » Subito si mise sulle difensive e Clarke avrebbe potuto giurare che ci fosse qualcosa che non andava.

« Al massimo puoi offrirmi un thè. Ghiacciato, data la temperatura.  »

« Andata. Ti aspetto da me. »

Senza attendere oltre, il ragazzo attaccò. La giovane Griffin osservò con espressione confusa lo smartphone, come se sullo schermo potesse magicamente materializzarsi la risposta a quello strano comportamento.

Avrebbe mentito se avesse detto che non aveva notato il cambiamento nelle azioni, nei suoi gesti, o il modo in cui si era comportato la sera in cui gli aveva fatto conoscere Bellamy.

Jasper non era mai stato un tipo geloso in praticamente nessun ambito, ma sembrava aver agito proprio in quel modo, e questo era stato semplicemente inspiegabile. Non aveva ancora capito che nessuno avrebbe potuto guastare il loro rapporto? Che nessuno avrebbe preso il suo posto?

Beh, immaginò che l’avrebbe saputo presto. Afferrando le chiavi sulla scrivania mentre passava, iniziò a dirigersi verso il piano inferiore.



 
*



 
Dax camminò speditamente verso il capannone in cui il suo capo lo aveva già portato due volte. La loro missione si stava definendo e i confini del loro lavoro dovevano ancora essere definiti, ma oramai sapeva bene quale fosse il suo incarico.

C’era una persona che sapeva troppo e non importava che fosse una diciannovenne figlia, fra l’altro, del primario di chirurgia dell’ospedale più importante della capitale, la minaccia doveva essere estirpata e lui non avrebbe dovuto fare altro che seguire gli ordini.

Da quanto aveva capito, quella sarebbe stata la loro nuova base operativa.

Era una struttura abbandonata, lontana dal centro città e difficilmente raggiungibile, praticamente ignorata da quasi la totalità della popolazione di Los Angeles.

Quando hai la bella vita e le belle ragazze della California davanti agli occhi non vai di certo a ficcare il naso dove non dovresti, e questo era ciò su cui aveva puntato il suo capo.

Abbassandosi leggermente sulla fronte il cappellino da baseball e tenendo il capo chino, Dax entrò da quello che doveva un tempo essere l'ingresso principale, afferrando lo spesso lucchetto che lo teneva chiuso e aprendolo con le chiavi che gli erano arrivate via posta il giorno prima. Nessun timbro, nessun indirizzo recuperabile. Meno sapeva, meglio era.

Non appena mise piede nella struttura abbandonata, vide Atom appoggiato al muro ad ovest, qualche metro lontano da lui, e si avvicinò con passo spedito.

« Ha chiamato anche te? »

 Il ragazzo dagli occhi verdi annuì e gettò a terra il mozzicone della sigaretta lasciata a metà.

« Non c'è solo Clarke in ballo, sai? » La sua espressione era seria, un misto fra la noia e la frustrazione.

Non si aspettava di certo che uno come Dax capisse.

« Da quando il tuo amichetto si è messo in mezzo il gioco si è fatto ancora più interessante. »

Il giovane Ward spostò lo sguardo su di lui, la mascella evidentemente contratta in un’espressione di austerità, poi, prima che potesse anche solo accorgersi del suo movimento, si avventò contro di lui e lo spinse verso la parete, il gomito destro premuto contro la sua gola.

« Credi che tutto questo sia un gioco, brutto pezzo di merda? »

L'altro non sembrò curarsi molto delle sue parole e nemmeno del suo attacco, ma scoppiò in una risatina nello stesso momento in cui Atom lo lasciò andare.

« Non hai capito proprio niente. Perché l'hai tradito se poi non riesci ad andare fino in fondo? » Lo provocò l’ultimo arrivato, voltando il capo di lato e sputando sul pavimento sporco.

« Non ti riguarda. Tu pensa al tuo lavoro, io penserò al mio. »

« Sei fortunato che ti sia capitato il bell'imbusto, eh? Almeno non tocca a te il peggio del lavoro sporco. Cos'ha su di te? »

« Non so di cosa stai parlando. » Il moro si passò il dorso della mano sinistra contro la bocca, lasciando vagare lo sguardo nello spazio vuoto della struttura abbandonata.

« Lui, il capo. Ha qualcosa su di te, non è vero? Non dev'essere un granché, però, se ti fa premere due tasti su un computer e fare solo la spia. » Dax tirò su col naso e si appoggiò alla stessa parete su cui l’altro l’aveva spinto poco prima, poi tirò fuori un cellulare usa e getta dalla tasca posteriore dei jeans e controllò qualcosa.

« E su di te invece cosa ha? »

« Qualcosa abbastanza grave da rendere il rapimento di Clarke Griffin uno scherzo. Devo solo aspettare il momento giusto. » Si interruppe per qualche secondo, poi riportò l’attenzione sul ragazzo davanti a lui: « Sta arrivando, tieniti pronto. »

I ragazzi rimasero silenziosamente immobili per qualche altro istante.

« Buonasera, signori. » Una terza voce riecheggiò alla loro destra, ed Atom e Dax si voltarono all'unisono verso il punto da cui proveniva.

Il loro capo si portò una mano alla spalla destra e fece finta di spolverare il tessuto pregiato della giacca che indossava.

I due non risposero, quindi continuò: « Potrete informarmi dei dettagli standard in un altro momento. Quello che vorrei oggi da voi è... Lievemente diverso. »

Prese una breve pausa e accennò un ghigno compiaciuto. La sua figura composta ed elegante stonava eccessivamente con l'ambiente circostante, ma, come sempre, lui sembrava perfettamente a suo agio.

« Come sapete, portiamo avanti la nostra collaborazione da più di un mese, oramai. Il nostro lavoro è sempre stato pulito, discreto ed efficiente. Tuttavia, signori, è tempo di evolverci, passare allo stadio successivo.

Atom », gli offrì un'occhiata consapevole, « ho bisogno che tu entri nella postazione del signor Blake. Ci sono buone probabilità che sfrutti il ritorno al suo impiego per documentarsi sull'Ark. Se lo fa, io voglio vedere ciò che vede lui. »

Il ragazzo dagli occhi verdi annuì celermente.

« Dax, tu dovresti tenerti pronto per il prossimo passo. Qui nessuno ti rintraccerà, va bene? Sai cosa devi fare. »

Il giovane Ward osservò con attenzione lo scambio di occhiate tra i due.

C'era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto quello che stava succedendo, ma allo stesso modo non c'era nulla che potesse cambiare le cose.

L’uomo davanti a loro si tenne aperta la giacca con una mano, mentre con l’altra estraeva qualcosa dalla tasca interiore, vicino al cuore.

In un attimo lanciò l’oggetto in direzione di Atom, il quale lo afferrò prontamente. Era un altro cellulare usa e getta.

« Contatta il numero salvato in rubrica non appena avrai notizie consistenti sulle ricerche di Bellamy. »

Pronunciate quelle parole conclusive, l’ultimo arrivato si lisciò il tessuto della cravatta e gli voltò le spalle.
 


 
*



 
« Ehi, straniero. »

Clarke richiamò l’amico attraverso la porta della sua camera, bussando due colpi secchi e aspettando un suo invito.

« Entra pure. »

« Mi ha aperto tua madre. Di nuovo. » La bionda lo trovò seduto sul suo puff preferito, la televisione accesa e sintonizzata su MTV.

Fece per avviarsi verso il suo letto, ma Jasper alzò gli occhi verso di lei e increspò le sopracciglia.

« Non ti conviene metterti comoda, fra qualche secondo vorrai andartene. »

La giovane Griffin accennò un sorriso confuso. « E perché? »

Osservò con attenzione l’espressione del ragazzo cambiare: lo vide alzare lo sguardo al cielo, tamburellarsi il ginocchio destro con la mano sinistra e serrare le palpebre, prima di riportare l’attenzione su di lei.

« Io sono innamorato di te, Clarke. »

Ecco. Niente preamboli, prefazioni, stupide ed inutili premesse che non avrebbero avuto alcun senso.

Due secondi e mezzo, il tempo impiegato a distruggere un’amicizia di dodici anni. Due secondi e mezzo e non se ne era nemmeno accorto, le parole erano volate via di propria volontà, l’avevano prepotentemente abbandonato e condannato all’ autodistruzione.

Lei compì istintivamente un passo indietro.

« Cosa? » Sussurrò, sgranando gli occhi e sollevando le sopracciglia.

« Da sempre. » Puntualizzò lui.

« N-no, aspetta un attimo… è uno scherzo, non è vero? » Si abbandonò a una breve risata isterica, ben consapevole, nel profondo, che non ci fosse proprio nulla da ridere.

« Ehm, già… No. Sono serio. » Il giovane Jordan si alzò in piedi e Clarke arretrò impercettibilmente. Si guardarono negli occhi senza pronunciare la minima parola per qualche minuto, ognuno cercando nello sguardo dell’altra un motivo per restare.

« Come… »

« Senti, sarà strano solo se permettiamo che lo sia. Non c’è bisogno che tu dica niente. Mister Bicipiti, no? »

Tentò invano di scherzare, ma la sua battuta non sortì l’effetto desiderato.

« Jasper… »

Ed eccola lì, quella luce che non avrebbe mai voluto vederle nelle iridi. La sua più grande paura, il terrore che gli aveva sempre impedito di confessarle i propri sentimenti: pietà.

« Non farlo, Clarke. » La implorò lui.

La vide con chiarezza deglutire pesantemente e lasciar vagare lo sguardo nella sua camera, mentre la sua espressione sbigottita sembrava perdersi sempre di più nella confusione.

« Devo andare. »
 

 
Clarke camminò fino a perdere la sensibilità delle gambe, fino a chiedersi dove diavolo fosse finita.

Non poteva crederci.

Non poteva essere vero, no? La cosa peggiore era che tutto ora aveva un senso. Ogni lite, ogni comportamento ambiguo, ogni inspiegabile reazione. Tutto le appariva chiaro in modo ridicolo, e per un momento immaginò come sarebbe divenuto il loro rapporto se lui non glie lo avesse confessato.

Cosa avrebbero fatto fra cinque, dieci anni? E se lui avesse continuato a sentirsi in quel modo e non glie lo avesse mai detto?

Tutta la loro amicizia le sembrava poco a poco dissolversi, svanire in quella che era semplicemente una bugia.

Ripercorse velocemente tutti gli attimi che avevano vissuto insieme, dal giorno in cui si erano conosciuti alle gare in bicicletta, dal primo giorno di liceo al ballo di fine anno, dai libri letti insieme, i film guardati insieme e le serie TV abbandonate dopo una sola stagione, dalle pizze mangiate sul letto ai segreti confidati durante le domeniche pomeriggio.

Improvvisamente tutto, ogni istante condiviso, le parve una finzione. Come aveva fatto il suo migliore amico a tenere nascosta una cosa del genere per tutta la vita? Cosa avrebbero fatto ora?

Pensò che avrebbe voluto chiamare Bellamy.

La sua amicizia era appena stata messa alla prova, aveva scoperto un segreto così importante dopo tanti anni di silenzio – e probabilmente di sofferenze per il suo migliore amico – e tutto quello che avrebbe voluto fare era chiamare Bellamy. Sentire la sua voce. Farsi rassicurare e assicurare che sarebbe andato tutto bene, anche se non era così.

Cosa c'era di sbagliato in lei? Cos'era che l'aveva tenuta lontana dalle persone che per anni avevano cercato di avvicinarsi, provocare una qualche reazione in lei solamente per vedersi rifiutati e allontanati ancora di più, ma che spariva ogniqualvolta si permettesse di pensare a lui?

Come era potuto accadere che il suo muro, quello che si era minuziosamente costruita attorno da quando aveva perso suo padre, fosse semplicemente sembrato un po' più leggero, e Bellamy non avesse fatto altro che passarci attraverso senza la minima difficoltà?

Non riusciva a darsi una risposta, a trovare un motivo per cui quel ragazzo si fosse fatto tanto spazio dentro di lei in così poco tempo.

Era come se tutta la diffidenza, la paura, le insicurezze e i timori fossero stati improvvisamente soffiati via, come se non avessero più alcuna consistenza. Ma com'era possibile, se prima di conoscerlo erano stati pesanti come macigni e invalicabili come montagne?

Forse era la sua determinazione, la sua fierezza, le parole con cui l'aveva incoraggiata quando era crollata davanti ai suoi occhi.

Forse era il fatto che voleva essere come lui e quel desiderio la totalizzava e la riempiva di un orgoglio che non aveva mai provato prima.

O magari, le suggerì una parte della sua mente, erano le sue lentiggini, il sorriso che gli esplodeva in viso inaspettatamente, lo sguardo con cui la esaminava e la scopriva ogni volta.

E Clarke si sentì come se si potesse letteralmente spaccare in due, dividersi fra la parte di sé che si era già follemente abbandonata a lui e quella che le suggeriva che tanto prima o poi l'avrebbe perso, o lui l'avrebbe ferita, o lei avrebbe rovinato tutto.

Quest'ultima le urlava anche di lasciar perdere, di non invischiarsi in qualcosa che non avrebbe fatto altro che contribuire alla lenta resa del suo cuore, di non permettere alle sue emozioni di metterle i bastoni fra le ruote.

Un attimo: emozioni.

Quasi senza rendersene conto, Clarke aveva pensato quella parola – l'aveva sentita, più precisamente – e una nuova paura le aveva attanagliato lo stomaco: da quando era passata dal non provare niente a provare un tumulto simile?

E ancora, aveva davvero smesso di provare? Era possibile, per un essere umano con un cuore pulsante e una mente attiva e un corpo così vivo, smettere di provare?

E se tutto quello che avesse fatto fosse stato semplicemente scavare dentro di sé così tanto da trovare un posto in cui nascondere e seppellire la sofferenza per suo padre e il dolore dell'abbandono di sua madre, fingendo anche davanti ai suoi stessi occhi che andasse tutto bene?

La giovane Griffin si appoggiò ad una delle panchine a pochi passi dalla spiaggia. Accanto a lei, lungo la pista ciclabile, persone di tutte le età si godevano il sole di fine giornata in compagnia.

Per un attimo temette che il suo cervello sarebbe esploso e lei non avrebbe più potuto pensare proprio a niente.

Si sedette e osservò le vetrine dei negozi affacciati sul lungomare, i vestiti costosi accanto ai nuovi panini di una grossa catena di fastfood, e improvvisamente le venne da ridere.

Suo padre le avrebbe comprato un doppio gelato pistacchio e fiordilatte, le avrebbe accarezzato i capelli e le avrebbe suggerito di giocare una partita di scacchi.

Lei, invece, chiuse gli occhi e inspirò l'odore del mare.
 
 

 
*



 
Bellamy parcheggiò nel viale di casa sua quando ormai il sole era tramontato e la sua prima giornata di lavoro dopo due mesi si era conclusa.

Era stanco, molto stanco, ma la soddisfazione di aver ripreso un caso fra le mani, di esser tornato a respirare l’aria del Dipartimento, era una soddisfazione che avrebbe faticato altre mille volte per poter rivivere.

Quando vide un particolare riflesso attraverso lo specchietto retrovisore, si voltò per controllare che si trattasse esattamente di quello che aveva pensato e, avendone conferma, afferrò la ventiquattrore a tracolla che usava per il lavoro e si precipitò fuori dal veicolo.

« Ehi! » Alzò la voce per farsi sentire e una chioma bionda si voltò immediatamente verso di lui.

La sua giornata era stata stremante, emotivamente e fisicamente piena, ma, quando incontrò il sorriso di Clarke in lontananza, all'improvviso tutta la stanchezza svanì.

Tra il suo ritorno al lavoro e le ore di volontariato in ospedale che lei aveva ripreso a fare, non erano riusciti a parlarsi per più di tre secondo negli ultimi giorni; l'ultima volta che avevano davvero trascorso del tempo insieme era quando poi lui l'aveva baciata, e non avevano ancora discusso di quell'episodio.

Non che per lui ci fosse molto da spiegare, le cose gli apparivano ormai piuttosto chiare, ma non poteva dirsi certo di quello che provasse Clarke, né di come avesse preso la cosa.

Si incamminò verso il portico di casa Griffin mentre la brezza notturna soffiava docilmente contro i loro corpi, e, quando arrivò davanti a lei, parlò nuovamente: « Di ritorno al castello, Principessa? »

La bionda tirò su col naso e distolse lo sguardo dal suo, improvvisamente accigliata.

« Mh, ehm, suppongo di sì. Sono stanchissima. »

Bellamy spostò il peso da una gamba all'altra. « A chi lo dici... »

« Oh, già, è vero! Com'è andato il primo giorno di lavoro? » Clarke sollevò curiosamente le sopracciglia, anche se c'era qualcosa di lontano e irraggiungibile nel suo sguardo.

« Ho un nuovo caso, una questione piuttosto diplomatica. Il mio capo mi terrà sott'occhio, ma andrà bene. Certo. Mh, sai, non ho avuto tempo di controllare, ma potrei... »

« Non sei costretto », lo interruppe lei, sollevando le mani verso di lui, « possiamo riprendere quando avrai più tempo, o quando ci sarà un'occasione. »

Quello non era per niente da Clarke. Cosa le era successo? Qualcosa gli diceva che la sua aria distante non fosse semplicemente un'impressione.

« Io voglio aiutarti ora, Clarke. Non quando avrò più tempo. Potrei anche non averne, e non voglio sprecare quest'opportunità. Posso farlo, posso farlo davvero. »

La giovane Griffin abbassò il capo, fissandosi la punta delle converse grigie, e alcune ciocche di capelli le ricaddero davanti al viso.

Il moro tentò con ogni forza di ribellarsi all'impulso di allungare una mano e rimetterle al loro posto, ma non ci riuscì: con un tocco più leggero di quanto fosse solito usare, spostò una ciocca bionda dal suo zigomo e, non appena se ne accorse, Clarke riportò le iridi blu nelle sue.

« Va tutto bene? » Mormorò lui. Lei non riuscì a pronunciare una parola, ma immaginò proiettato nei propri occhi il tumulto e il profondo dissidio interiore che stava affrontando in quel momento.

Per ogni attimo in più che si permetteva di avvicinarsi a Bellamy, le parole del suo migliore amico le riecheggiavano nella mente, scatenando così un senso di colpa capace di corroderle il cuore; allo stesso tempo, però, per ognuno di quegli attimi in più c'era una nuova parte di lei che desiderava lasciarsi andare e farsi cullare da lui, attaccata a sua volta da quegli istinti di sopravvivenza emotiva che le gridavano di non lasciarsi permettere nemmeno il beneficio del dubbio.

Si trattava di un circolo vizioso che in ciascuno dei casi avrebbe finito col ferirla.

La scelta, a quel punto, era decidere da cosa farsi ferire.

Clarke decise di chiudere gli occhi.

E Bellamy, che aveva continuato a scrutarla con quello sguardo scuro e indagatore, accettò l'invito senza esitazioni. Le circondò ancora di più la guancia con il palmo della mano destra, si aggrappò quasi, e compì un passo avanti.

Se la tentazione di baciarla non fosse stata così forte, probabilmente sarebbe rimasto a fissarla per tutta la notte.

Poteva percepire l'elettricità dell'attesa e l'adrenalina dei loro corpi, e tutto era così lentamente meraviglioso da non sembrare vero.

Quando ormai la sua bocca stava per accarezzare quella di Clarke, quando i loro respiri erano ormai mozzati nelle loro gole, un passo indietro fu tutto quello che servì per ferirlo.

La giovane, che era arretrata quel tanto che bastava per lasciar disperdere al buio le lentiggini sul suo viso, lo guardò con un'espressione di dispiacere e disperazione sul volto.

« Mi dispiace, non posso. » Il maggiore dei Blake deglutì, cercò di fornirsi una ragione razionale al sentimento desolante provocato dal rifiuto.

« Va tutto bene. »

« Sono un disastro », lei si coprì il viso con le mani, « sono un completo e totale casino. »

« Non sei un disastro, Clarke. Per te... Non è lo stesso. Lo capisco. »

Cercava di convincerla con teorie e parole che gli apparivano senza senso, perché sapeva che qualsiasi cosa ci fosse lì, tra di loro, l'aveva sentito anche lei.

« No, Bellamy, non capisci. È lo stesso! » Questa volta fu lei a compiere un passo avanti, ad esporsi. « È solo che... Ci sono tante cose che devo... »

« Va bene. » Le sorrise lui, di quel suo sorriso che lo faceva tornare bambino.

« Perché non... » Iniziò lei, concentrandosi su un punto indefinito sopra la sua testa, fissandolo negli occhi subito dopo, « Domani ho una giornata piena in ospedale. Mia madre, come sai, è il primario e... Sì, insomma », non l'aveva mai sentita balbettare così tanto, ma non poteva non ritenersi divertito da questo suo celato aspetto, « ogni estate organizza una specie di ballo, chiamiamolo così. Un galà. È per una donazione di beneficienza e credo sia per una buona causa. »

« Cosa mi stai chiedendo esattamente, Clarke? » La provocò lui.

La bionda serrò le palpebre, prese un respiro profondo e parlò velocemente: « Vorresti essere il mio +1? »
 
 
 

Bellamy si guardò intorno ammaliato, tentando però di non far trasparire la magia che quel posto trapelava da ogni parete.

Sua sorella, al suo fianco, sibilò un « wow » a bassa voce, sbalordita quanto lui dalla maestosità della hall di quell'hotel in cui non si sarebbero potuti nemmeno permettere un drink.

La sala era enorme, probabilmente il doppio di tutta la loro casa, ed era quanto di più raffinato ed elegante i due fratelli Blake avessero mai visto in tutta la loro vita.

Piccoli tavoli coperti da tovaglie bianche pregiate e apparecchiati con le più fini porcellane si sparpagliavano per tutto l'ambiente, ritagliando un angolo in fondo alla sala adibito a pista da ballo.

Alcuni gruppi di persone, smoking Spencer Hart da migliaia di dollari e abiti lunghi da cocktail in bella vista, intrattenevano discussioni molto probabilmente sul debito pubblico, sull'elevato tasso di immigrazione nella Città degli Angeli o sull'ultima copia di Cosmopolitan, mentre altri si erano radunati accanto al pianoforte d'epoca che faceva eleggiare una delicata armonia nell'aria.

« È Debussy. » Una voce alle loro spalle li distolse dall'osservazione di quel lusso e di quel mondo quasi fatato, e i due si girarono nello stesso momento.

Avvolta in un abito di tulle azzurro opaco, ornato da un intricato complesso di stoffa intrecciata sul collo, Abby Jaha – Griffin, si corresse mentalmente Bellamy – sorrideva ai due giovani e li osservava curiosamente.

« Questo posto è splendido, Signora Jaha. » Fu Octavia a rispondere, incapace di distogliere l'attenzione dai grandi lampadari di cristallo che pendevano giù dal soffitto alto.

 « Sono d'accordo. Allora... » Durante quell'attimo di esitazione, il maggiore dei Blake si tastò discretamente la tasca interna del completo, assicurandosi la presenza dei due inviti di carta rigida che gli aveva procurato Clarke quella mattina.

« Oh, mi stanno chiamando. Beh, spero che possiate passare una buona serata. Se volete scusarmi... »

La donna più anziana si diresse verso un uomo alto, occhi e capelli scuri, che indossava un completo in grado di far sfigurare il Presidente degli Stati Uniti in persona.

Bellamy la osservò afferrargli cortesemente le braccia e baciarlo due volte sulle guance, prima di essere distratto nuovamente dal suono della voce di sua sorella.

« Sto iniziando a sudare, Bells. E se sudo rovinerò questo meraviglioso vestito che ho dovuto affittare. Ciò significa che se lo rovino... »

« Rilassati, sorellina. Non vorrai che la Regina ti veda in difficoltà. »

Il moro si voltò verso di lei e le offrì un ghigno sarcastico. Octavia indossava un abito nero, lungo fino alle caviglie, di una stoffa traslucida che metteva in risalto la sua figura armonica e in perfetta forma, mentre i capelli lisci le ricadevano dolcemente lungo le spalle scoperte.

Aveva indossato due vecchi pendenti di sua madre, uno dei pochi oggetti di valore che le aveva lasciato, e i suoi occhi verdi erano circondati da un trucco nero che rendeva felino il suo sguardo altrimenti teneramente dolce.

 Non fu di alcun impedimento per Bellamy sentirsi sicuro di affermare che fosse la donna più bella di quella sala.

I due fratelli Blake rimasero in gran parte per dieci minuti buoni, essenzialmente estranei a tutto quel lusso e a quei completi costosi e a tutti quei gioielli.

Oltre che strano, tutta quella ricchezza li faceva davvero incazzare. Secondo quale perversa e insensata legge dell’universo loro avevano dovuto lottare fin dall’adolescenza, tirarsi su da soli senza l’aiuto di nessuno, e tutte quelle persone invece non avevano fatto altro che vivere nella loro bolla autoreferenziale e preoccuparsi di scegliere tra una Ferrari e una Lamborghini?

Il più grande lasciò vagare lo sguardo assorto per qualche altro istante, mentre al suo fianco sua sorella sorseggiava dello spumante da un’elegante calice di cristallo.

Quando la vide, fu come se il tempo si fosse fermato. Si sentiva estremamente banale, disgustosamente mediocre, ma non avrebbe saputo descrivere quel momento in nessun altro modo.

Gli occhi blu di Clarke si posarono sui suoi come due piccole Morpho Menelaus – le farfalle con cui Octavia era fissata fin da piccola – e improvvisamente, solo per un attimo, tutto il resto rotolò via: non c’era più nessuna musica da ascoltare, non c’erano più persone da vedere, c’erano solo i suoi occhi puntati nei propri e il sorriso che iniziava ad illuminarle il volto.

Il mondo cominciò a girare nuovamente attorno a lui quando la voce di sua sorella lo destò dal torpore in cui pareva esser caduto.

« Ma quella è… Clarke? Oh, Dio, non l’avevo riconosciuta. È bellissima. »

Bellamy accarezzò la sua figura da lontano, permettendosi finalmente di distogliere lo sguardo dal suo: i suoi capelli dorati erano raccolti morbidamente dietro la nuca, e le sue esili spalle erano accarezzate da due sottili spalline.

Il vestito beige che indossava accompagnava con dolcezza ogni forma del suo corpo, abbracciandole i fianchi e scivolando lungo le gambe, fino a stringersi attorno alle caviglie.

Il maggiore dei Blake deglutì più volte, incapace di staccare gli occhi da lei.

« Chiudi la bocca, fratellone. » Gli suggerì Octavia al suo fianco.

Fece un passo avanti. Erano distanti, lei era apparsa dal nulla qualche metro più avanti, ma lui fece comunque un passo avanti. Uno solo. Quasi temeva che se si fosse avvicinato troppo, poi lei sarebbe sparita.

E fu in quel momento, quando la vide sorridere verso il pavimento e sfiorarsi il collo con la mano sinistra, che il moro capì che non aveva mai desiderato nessuno come allora. E non era la parte di sé sotto la cintura a parlare, ma una vocina nella sua testa con un pessimo senso dell’umorismo e un grande desiderio di deriderlo.

Nell’esatto istante in cui Clarke iniziò a camminare verso di lui, sua sorella si aggrappò maggiormente al suo avambraccio, assicurandogli silenziosamente il proprio appoggio.

« Siete arrivati. » Sussurrò la giovane Griffin non appena fu abbastanza vicina, senza distogliere lo sguardo da quello di Bellamy.

« Questo posto è fantastico, non sarei riuscita nemmeno ad immaginarlo! » La minore dei Blake lasciò vagare lo sguardo fra i due per qualche attimo, ben consapevole del fatto che non avessero ancora staccato gli occhi l’uno dall’altra.

La bionda si limitò a sorridere, concentrandosi finalmente verso l’altra ragazza.

« Niente di eccezionale, posso assicurartelo. »

« Mi aspetto di essere invitata a qualche festa davvero eccezionale, allora. » Scherzò lei.

« Affare fatto. »

« Beh, io devo andare un momento alla toilette. Scusatemi… » In un attimo la brunetta era sparita fra la folla.

Il moro, che ancora non aveva pronunciato una singola parola, riportò l’attenzione su di lei.

« Sei… »

« Sono affamata. Il buffet arriverà solo fra un’ora, però. Avrei quasi voglia di un hambur… »

« Balla con me, Clarke. » Bellamy interruppe il suo continuo blaterare e le offrì la mano sinistra, in attesa.
 


Si unirono alle danze proprio nel momento in cui una nuova melodia iniziò ad aleggiare nell’aria, ed alcune coppie li affiancarono sull’elegante pista da ballo.

Il moro lambì il retro della sua schiena delicatamente, pur con una stretta ferma e decisa. Lei strinse la sua mano destra e poggiò la sinistra sulla sua spalla, accarezzando lievemente il tessuto dello smoking che stava indossando.

« Bel completo. » Commentò lei, tenendo lo sguardo fisso su un punto al di là della sua schiena.

« Bel vestito. » Rispose lui.

Danzarono in silenzio per qualche altro minuto, il suono del pianoforte ad assecondare il loro abbandono l’uno contro l’altra, ma il maggiore dei Blake percepiva una certa meccanicità nei suoi movimenti, come se ci fosse qualcosa che la stesse trattenendo.

« Perché lo stai lottando così tanto? »

Gli occhi della bionda saettarono improvvisamente verso il suo volto, e per un attimo parve smarrita.

« Di cosa stai parlando? » Sussurrò.

« Lo sai. » Rispose lui, abbassando a sua volta la tonalità di voce. Si accorse perfettamente del tentativo di Clarke di spostare lo sguardo dal suo, ma chinò il capo verso di lei e le impedì di guardare altrove.

Lei sospirò e attese qualche secondo, poi parlò. « Perché quando sono con te non posso e non voglio proteggermi. »

 « Proteggerti da cosa? »

« Dal fatto che prima o poi te ne andrai. »

Bellamy non rispose. Si limitò a fissarla, le sopracciglia lievemente aggrottate. Quasi non si rese conto del fatto che stessero ancora volteggiando al centro della pista da ballo.

Clarke sorresse lo sguardo, ma non avrebbe saputo dire quale particolare coraggio glie lo stesse permettendo.
Sapeva solo che il suo cuore batteva tanto forte da rimbombarle dietro la nuca.

« Clarke... »

E in quel momento tutto sparì: il luogo in cui si trovavano, gli sguardi di sua madre, quei ricconi pieni di soldi e vuoti di cuore, la sua testarda, incontrovertibile e inutile convinzione di dover tenere quella porta chiusa anche davanti a lui. Povera, dolce fanciulla, non sapeva ancora che Bellamy ne possedeva la chiave.

Tutto ciò che nella sua mente contava erano i loro corpi che parevano galleggiare come inconsistenti sulle note di Clair De Lune, e gli occhi di lui che la spaventavano e la facevano rabbrividire fin nelle ossa e dalle ossa ripartivano e mettevano in circolo adrenalina pura, la voglia di urlare o correre sotto la pioggia. Il desiderio di sentirsi viva e poter meritare di sentirsi in quel modo.

« Non possiamo farlo. » Disse lei, senza rendersi conto di aver fatto una smorfia dopo aver pronunciato quelle parole.

« So che non è questo che vuoi, Clarke. So che… » Il moro prese una pausa, e nel frattempo aumentò impercettibilmente la stretta contro la sua schiena, « So che sei stata ferita. So che hai sofferto, hai provato un dolore che nessuno alla tua età dovrebbe mai provare. Lo so perfettamente, perché è il motivo per cui ho sofferto anch’io. »

La giovane Griffin, che l’aveva guardato negli occhi fino a quel momento, poggiò dolcemente il capo contro la sua spalla, indugiando lievemente con le labbra contro il suo collo.

« Non hai pensato che forse… forse quello che c’è tra di noi è semplice attrazione fisica. Forse dovremmo solo… »

Il maggiore dei Blake abbassò il volto e sfiorò la sua fronte con la propria guancia, scuotendo la testa.

« Ti ho baciata, e tu hai baciato me. Questo è affetto, non lussuria. Dovresti sapere la differenza. »

La più giovane a quel punto sollevò il capo, guardandolo dritto negli occhi. Aveva una risposta a quello che aveva appena sentito? Era d’accordo con lui?

Non sapeva cosa dire, perciò si limitò a cercare nelle sue iridi e a permettergli di fare lo stesso con lei, a lasciarlo scavare in tutto quello che lei non era in grado di ammettere e che oramai avevano entrambi compreso.

Quando Bellamy sciolse la sua stretta dalla sua mano sinistra, Clarke seguì il movimento stupefatta. Se ne stava forse andando?

Ma, prima che lei potesse fare qualsiasi cosa, il moro intrecciò le dita alle sue, prendendola davvero per mano.

Ciascuno dei due rimase a fissare quell’unione per un breve istante, poi si guardarono nuovamente, senza smettere di oscillare lievemente al ritmo del pianoforte.

Il maggiore dei Blake, a quel punto, lasciò cadere il proprio sguardo sulle sue labbra piene e scure, indifferente di qualsiasi cosa lei potesse pensare.

La bionda si ritrovò naturalmente a fare lo stesso, avanzando di un passo verso di lui e appoggiandosi completamente al suo petto.

Lui strofinò lentamente le dita contro la sua schiena, accarezzandola senza fretta, poi si avvicinò ancora. A quel punto la distanza fra di loro era quasi impercettibile, solamente pochi centimetri a dividerli da quello che entrambi desideravano e che nessuno dei due voleva più negarsi, e Bellamy riportò lo sguardo nel suo.

Credeva fermamente in quello che aveva detto: non era soltanto un bisogno di portarsela a letto, non era mai stato solo quello, provava davvero del sincero affetto per lei. Eppure… eppure non poteva negare l’effetto che lei gli facesse, soprattutto ora che il desiderio di averla lo stava facendo impazzire.

Sfiorò le sue labbra con un movimento del capo, lasciandole solamente scontrare di poco, e Clarke seguì istintivamente il suo gesto, desiderosa del calore di cui lo sapeva capace.

Nessuno dei due si curò che fossero presenti altre persone, individui che ballavano al loro fianco e, particolarmente, Abby Griffin.

Non c’era semplicemente spazio per null’altro che non fossero i loro corpi stretti l’uno all’altro, i loro occhi intrecciati e le loro bocche vicine ma ancora troppo lontane, irraggiungibili.

Il moro concesse alle loro labbra una frizione ancora più lenta della prima, e Clarke percepì uno squisito dolore diffondersi lungo tutta la spina dorsale, incentivato dalla sua mano calda che continuava a sfiorarle la schiena.

« Bellamy… » Implorò.

« Torna a casa con me. » Bisbigliò lui contro il suo orecchio, e si sentì compiaciuto dei brividi che vide attraversarle la pelle del collo subito dopo.

La giovane Griffin quasi ansimò al suono della sua voce così vicina e profonda.

« Torna a casa con me, Principessa. »

La bionda non rispose subito. Sapeva che una volta imboccata quella strada, poi non sarebbe più tornata indietro.

Sapeva che con ogni probabilità quello che stavano facendo fosse sbagliato e che sicuramente sarebbe stato doloroso, alla fine, ma in quell’attimo, in quel preciso momento, sapeva dentro di sé che non avrebbe mai avuto la forza di rifiutarlo.

Perciò, intossicata dai suoi occhi, dalla sua bocca, dalle sue mani su di lei, tutto quello che riuscì a dire fu: « Sì… »

Il più grande compì un passo avanti, quel tanto sufficiente da guardarla negli occhi, e sorrise genuinamente.

Non appena la trascinò fuori dalla pista da ballo, l’altra le rivolse un’occhiata interrogativa.

« Quando dico “torna a casa con me”, intendo “torna a casa con me ora”. »

« È per caso una minaccia, Blake? » Lo provocò lei.

L’unica risposta che ricevette fu uno dei suoi soliti ghigni. Prima che potesse aggiungere qualcos’altro, la stretta delle dita di Bellamy fra le sue si accentuò e lui iniziò a trascinarla attraverso la folla.

Una volta giunti all’entrata, si voltò e si guardò intorno, notando che sua sorella stava parlando con il fratellastro di Clarke.

« Può riaccompagnarla lui, non preoccuparti. Sembra si stiano davvero divertendo. »

I due, infatti, si sorridevano e chiacchieravano tranquillamente appoggiati ad uno dei tanti tavoli imbanditi per la serata.

« Saremmo almeno potuti rimanere per il dolce. » Scherzò il ragazzo, afferrando le chiavi della macchina dalla tasca anteriore del suo completo.

La bionda rise brevemente, poi parve ricordarsi di una cosa importantissima. « Merda, ho dimenticato il cellulare nella macchina di mia madre! »

« Ti accompagno. »

« Oh, non preoccuparti. Ha parcheggiato nella zona “vip” dell’ospedale, mi servirà un pass per entrare. Perché non mi aspetti fuori? Ci vediamo qui davanti fra dieci minuti. »

Bellamy non sembrò molto sicuro, ma dopo qualche momento si avvicinò e premette un casto bacio proprio vicino la sua bocca.

« Non farmi aspettare troppo, Principessa. »

La più piccola gli sorrise e strinse più forte la sua mano, prima di lasciarlo andare e dirigersi verso l’uscita secondaria.








Clarke non vide nemmeno sua madre, sicuramente troppo impegnata a discutere riguardo importanti ed essenziali procedimenti medici in grado di salvare milioni di vite, e si avviò con velocità e concentrazione verso i parcheggi del personale.

Non appena l’aria fresca notturna la colpì, la giovane Griffin rabbrividì impercettibilmente. Nonostante questo, procedette rapidamente nella direzione della macchina di sua madre, accompagnata dal rumore dei tacchi contro l’asfalto dell’edificio vuoto.

La totalità degli invitati ormai era arrivata e il posteggio era totalmente privo di qualsiasi forma di vita, perciò la giovane poté aggirarsi fra le automobili senza dover incorrere negli spocchiosi colleghi di Abigail.

Quando raggiunse la Ford di sua madre, le sembrò di sentire dei suoni, ma decise di non lasciarsi prendere dalla paranoia.

Cercò nervosamente il mazzo di chiavi nella piccola pochette che sua madre l’aveva costretta a portarsi dietro e, tirandole fuori, si accostò allo sportello del guidatore.

Tutto accadde troppo velocemente perché lei potesse fare qualcosa al riguardo: vide la figura incappucciata riflessa contro il finestrino, ma non ebbe tempo di voltarsi, urlare o scappare, perché subito un braccio si strinse al suo collo, mentre una mano le premeva un fazzoletto contro la bocca e il naso.

L’ultima cosa che Clarke registrò fu l’odore nauseante del cloroformio.







 


Curiosità:


# Johnson, il collega di Bellamy, è un omaggio a Virginia Johnson, protagonista di Masters Of Sex, e Jake Johnson, che interpreta Nick Miller in New Girl.



# « Ti ho baciata, e tu hai baciato me. Questo è affetto, non lussuria. Dovresti sapere la differenza. »

Questa è una citazione dal film "I peccatori di Peyton".

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Capitolo 13
*** XII ***


Buonasera miei adorati!
Perdonatemi, perdonatemi, perdonatemi, vi imploro in ginocchio. Vi chiedo scusa per l'immenso e vergognoso ritardo con cui sto postando, ma ci sono state una serie di complicazioni di cui mi sono dovuta occupare e che mi hanno impedito di aggiornare prima.
Perciò eccomi qui, la notte prima dei miei diciotto anni, a trascorrere queste ultime ore da minorenne con voi. Non sapete quanto sia felice di tutto questo.
Ringrazio con tutto il cuore e con tutto l'affetto del mondo le meravigliose persone che hanno recensito il precedente capitolo, sia i vecchi che i nuovi lettori, a cui do un grande benvenuto, e grazie anche a chi ha continuato a inserire tra le preferite e le seguite. Non meriterò mai tutto il supporto e il sostegno che mi date, ma sono comunque felice e grata di averli.
Che altro dire, questo capitolo è lievemente più corto dei precedenti, ma è pieno di azione e, diciamocelo, anche di una bella dose di ansia, quindi non ho voluto esagerare e appesantirlo più del dovuto. Avviso: potrebbe contenere scene che potrebbero urtare la vostra sensibilità, (Anche a questo è dovuto il rating arancione) ma non credo sia nulla di eccessivamente cruento. Insomma, spero di non aver offeso nessuno.
Bene, credo di avervi rubato anche troppo tempo, quindi vi lascio al capitolo e vi mando un abbraccio.

Buona lettura!




 

Is It Any Wonder?





Le orecchie di Bellamy registrarono le urla prima che il suo cervello potesse decifrare ciò che stesse accadendo, e il suo corpo scattò verso il punto da cui provenivano quasi di propria volontà.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato, in quella situazione, perché conosceva bene quella voce: Abigail Griffin.

E, improvvisamente, al suo istinto di poliziotto si aggiunse un altro tipo di preoccupazione, quella che scaturivano le urla della madre della sua ragazza.

Senza nemmeno concedersi il tempo di processare il modo in cui aveva definito Clarke, il maggiore dei Blake si lasciò guidare dal rumore della folla e dalle voci che iniziavano a sovrastarsi l’una con l’altra.

Quando superò un blocco di ospiti proprio davanti alla seconda uscita, quella verso cui si era diretta la bionda qualche minuto prima, la scena che si trovò davanti lo costrinse a immobilizzarsi: accasciata contro il petto di suo marito, Thelonious Jaha, Abby era circondata da almeno una buona decina di persone, e la sua fievole voce sussurrava parole incomprensibili, dimentica dei suoi precedenti lamenti.

Non appena fu abbastanza vicino, Bellamy riuscì a sentire quello che stava dicendo.

« La mia bambina, la mia bambina… »

« Qualcuno chiami la polizia! » Urlò un uomo alle sue spalle, ma il moro non riuscì a fare alcunché per alcuni istanti.

Quando parve riprendersi, fece un passo avanti e con voce metallica disse: « Sono io la polizia. »

La donna, accorgendosi di lui, si allontanò dalle braccia del marito e si precipitò fra quelle del giovane, afferrandogli le spalle.

Il suo volto era rigato dal mascara, le lacrime parevano scavare profondi solchi lungo i suoi zigomi, e tutto nella sua espressione gridava angoscia.

« Bellamy, oh, Bellamy… Ti prego, devi aiutarmi! »

Il maggiore dei Blake le afferrò i gomiti, sorreggendola, e si piegò verso di lei.

« Signora Jaha, ho bisogno che mi dica cos’è successo. » In quel momento la sua voce gli pareva appartenere ad un estraneo, e il suo corpo sembrava fluttuare contro la propria volontà, mentre la realizzazione di qualcosa di orribile gli attorcigliava lo stomaco.

« L’hanno presa! Hanno preso Clarke! »



 
*

 
 
La giovane Griffin riprese conoscenza con un rumore mozzato, nasale, come se fosse appena emersa da un bagno ghiacciato. Quasi soffocò contro la benda che le era stata messa fra i denti e che sentiva premere contro la nuca, e un conato di vomito le risalì per la gola.

I suoi occhi vagarono vorticosamente contro le palpebre per alcuni istanti, ma il mal di testa era talmente forte da impedirle anche quel minimo sforzo.

Clarke non riuscì a rallentare il respiro convulso e spasmodico che le rimbombava nelle orecchie assieme al battito feroce del cuore, e la mente tentava istericamente di trovare una risposta a tutta quella situazione. Dove diavolo era? Cosa stava succedendo? Cos’era successo?

Quando fu in grado di aprire gli occhi, il buio l’accolse.

Attorno a lei c’era un silenzio terrificante e doloroso, mentre ogni parte del suo corpo faceva così male da farle credere di poter svenire da un momento all’altro.

Provò ad alzarsi, ma sbatté la testa contro qualcosa sopra di lei, perciò ricadde di forza contro la schiena.

Con impeto e furia le lacrime cominciarono a scorrere contro la propria volontà e un profondo terrore la paralizzò.

Era affannata dal lavoro folle che stavano compiendo i suoi polmoni, facendole ispirare profondamente dal naso e producendo un rumore tanto fastidioso da farle girare la testa, senza contare i denti che digrignavano e mordevano la benda che le impediva di respirare correttamente, o anche di emettere un suono.

Era sdraiata. Era attorniata dal buio. Non poteva muoversi, perché polsi e caviglie sfregavano fra di loro.

Si sentiva in trappola, completamente immobilizzata, e non riusciva a provare niente che non fosse il disperato e incessante pulsare del suo cuore e l’adrenalina che le gonfiava il petto.

Clarke iniziò a sbattere velocemente le ciglia, mentre altre lacrime di terrore si raccoglievano sul fondo dei suoi occhi stanchi, mentre la sua mente debole arrischiava inutilmente a ripercorrere la serata.

Tentò di prendere un respiro profondo, cercando di bloccare l’attacco di panico che sentiva fluirle nelle vene assieme al sangue, e si focalizzò su un ricordo preciso: il volto di Bellamy. Le sue labbra contro le proprie. Le sue mani su di lei.

Doveva ripercorrere gli ultimi attimi che riuscisse a ricordare, e solo in quel modo avrebbe potuto capire cosa diavolo stesse succedendo.

Pensò a Bellamy che la trascinava fuori dalla pista da ballo, verso l’uscita.

Lei che tornava indietro, pronta a prendere il cellulare nella macchina di sua madre. Il parcheggio vuoto.

Il parcheggio vuoto.

Sì, ecco, brava. Continua così. Sforzati, Clarke. Si ripeteva fra sé e sé. Il suo respiro frenetico, intanto, come unica compagnia.

Il rumore di quei tacchi assurdamente alti contro l’asfalto.

Un attimo, i tacchi. Non li portava più. Era scalza. Dov’erano finiti quei maledetti tacchi?

Concentrati, Clarke.

La Ford grigio metallico che pareva aspettarla, circondata da poche altre automobili.

Le chiavi nella borsetta. Il nervosismo. Lo sportello del guidatore. Un volto incappucciato riflesso sullo sportello del guidatore.

Oh, Dio.

L’odore del cloroformio. Clarke sapeva bene cos’era il cloroformio: cloro e metano. La sua mente completamente presa dal panico ripercorse tutte le lezioni di chimica in cui Monty l’aveva assistita, e la bionda rabbrividì.

Parole assurdamente inutili in quel frangente la assalirono, parole come aritmia cardiaca, come danni permanenti al fegato, ai reni.

La bionda scosse la testa, allontanando da sé quei pensieri, e un’altra ondata di panico le attraversò le membra, elettrizzandola dalle punte dei capelli a quelle delle dita. Cercò di calciare con i piedi, agitò le braccia che sentiva costrette dietro la schiena, urtò qualcosa con il fianco destro e si dimenò con tutte le forze.

Quando tentò nuovamente di mettersi a sedere, probabilmente colpì con il capo un interruttore, poiché una piccola lucina gialla si accese, e subito tutti i suoi sospetti si realizzarono orrendamente davanti ai suoi occhi: si trovava nel bagagliaio di un’automobile.

In un istante tutti i tasselli di quel folle e assurdo puzzle si incastrarono alla perfezione fra di loro, e questa volta la bionda colpì volontariamente il capo contro lo sportello, una, due, tre volte. Scoppiò in lacrime e tentò di urlare, di mordere, di dimenarsi con tutte le energie che le rimanessero.

Tutto fu cristallino, talmente assurdo da dover necessariamente essere vero, e una parte di lei si odiò per non averci pensato prima, per non aver preso in considerazione quell’ipotesi da oramai molto tempo: qualcuno l’aveva drogata, qualcuno l’aveva presa e messa in un bagagliaio, ed era sicuro come l’Inferno che quel qualcuno avesse a che fare con l’uccisione di suo padre.

Poi la macchina si fermò, e la giovane Griffin non poté far altro che smettere di respirare.
 


 
*



 
« L’ho vista uscire dalla sala… L’ho vista dirigersi verso il parcheggio… » Abby scoppiò nuovamente in lacrime, fintanto che cercava inutilmente di raccontare per l’ennesima volta la sua versione dei fatti.

Bellamy la vide in lontananza, quindi, dopo essersi assicurato che Octavia fosse al sicuro e non rimanesse da sola, si diresse verso di lei con passo veloce, quasi frenetico.

A tutti gli ospiti era stato impedito di lasciare la lussuosa sala d’albergo, in attesa di essere interrogati uno per uno, e la folla non era esattamente qualcosa con cui il maggiore dei Blake voleva aver a che fare in quel momento.

Evitò accuratamente qualsiasi persona potesse ostacolare il suo cammino e in un attimo raggiunse l’area del parcheggio incriminata.

Senza nemmeno bisogno di mostrare il distintivo ai suoi colleghi della scientifica – con cui, fra l’altro, aveva litigato dal momento in cui erano arrivati – afferrò e si alzò sopra la testa il nastro che circondava la scena del crimine, avvicinandosi celermente alla donna.

« Ci penso io. » Intimò al poliziotto che la stava interrogando, annuendo brevemente e prendendo il suo posto davanti a lei.

« Bellamy… Credevo che il tuo capo ti avesse impedito di partecipare all’… »

« Non ho intenzione di lasciare che qualcun altro si occupi del caso. Conflitto di interessi col cazzo, Signora Jaha. »

« Sono contenta di sentirtelo dire. » La più grande parve riprendersi, asciugandosi il trucco con la manica della coperta che qualcuno le aveva messo attorno alle spalle e sollevando il mento.

« Dobbiamo essere veloci. La scientifica sta prendendo le tracce degli pneumatici con il cemento dentale, ma io ho bisogno che lei mi dica tutto ciò che ha visto. Ogni singolo dettaglio, ogni minimo particolare. Prenderò quel figlio di puttana, Signora Jaha. Lo prenderò e lo… »

« Ci tieni davvero a lei, non è così? » Lo interruppe dolcemente lei, mormorando quelle parole con un sorriso appena accennato sul volto stanco.

« Io la… » Bellamy si bloccò e rimase a bocca aperta per qualche secondo, richiudendola di scatto subito dopo. « Sì. Ci tengo. E ritroverò sua figlia, la riporterò a casa sana e salva, ma ho bisogno che lei sia forte e mi racconti tutto ciò che ha visto. »

Abigail annuì, e si sporse in avanti, mentre le luci delle volanti e delle macchine fotografiche della polizia le illuminavano il viso.

« L’ho vista raggiungere il parcheggio da sola, così, beh… Ho pensato che fosse un buon momento per parlarle. »

Il maggiore dei Blake annuì, memore della notte in spiaggia in cui Clarke gli aveva raccontato dei suoi problemi con la madre – della notte in cui l’aveva baciata per la prima volta –.

« Ero proprio dietro di lei, lo giuro, ero dietro di lei, ma poi… Poi dei colleghi mi hanno fermata, volevano discutere di una procedura chirurgica che sto sperimentando, e l’ho persa per qualche istante. Erano solo pochi secondi, erano una manciata di secondi, ma quando sono arrivata era troppo tardi… »

« Cos’ha visto? » La incalzò il moro, protendendosi in avanti e scrutandola con i suoi occhi profondi.

« Un uomo », la voce della donna tremò, « che la prendeva in braccio. Clarke… Clarke doveva essere svenuta, doveva aver perso conoscenza… »

« Un uomo. » Ripeté Bellamy. « Aveva una macchina, non è vero? »

« S-sì. Ha messo Clarke nel bagagliaio. Io ho urlato e si è voltato verso di me. Non l’ho visto in faccia, indossava un passamontagna. Si è voltato di me e… »

« E? »

« Mi ha salutata. Ha agitato una mano verso di me e mi ha salutata, poi è salito in macchina ed è sgommato via. »

« L’ha salutata? Questo vuol dire che… Signora Jaha, conosce qualcuno che potrebbe volere qualcosa da lei o da Clarke? »

Nello stesso momento in cui pronunciò quelle parole, il maggiore dei Blake parve illuminarsi. Perché qualcuno dovrebbe rapire la figlia di una figura così importante? Perché qualcuno dovrebbe rapire Clarke?

E tutto fu chiaro.

« Jake. »

« Merda. »

Sussurrarono entrambi nello stesso momento, la prima con stupore, il secondo con frustrazione.

Bellamy scattò sul posto e si alzò in un attimo, i muscoli del corpo tesi verso un’unica soluzione. Prima che Abby potesse dire qualcosa o commentare sul comportamento del giovane, lui aveva già afferrato il cellulare dalla tasca dello smoking e aveva premuto il primo numero della sua rubrica.

« Capitano Sidney, lavorerò personalmente al caso Griffin. »

La risposta non fu udibile dalla madre di Clarke, ma Bellamy si incupì notevolmente, quindi rimase in ascolto.

« Me ne fotto dell’antidroga e del Bureau, per non parlare della forense, Capitano, devo essere io ad occuparmi del caso. »

« Sì, certo. Lo so, lo so. Grazie, Capitano. »

Non appena terminò la telefonata, si sedette nuovamente davanti ad Abby, e le prese entrambe le mani fra le sue.

« So cosa pensava Clarke riguardo la morte di suo marito, Signora Griffin. So cosa aveva fatto, so cosa stava facendo. So tutto. E credo sia questo il motivo per cui l’hanno presa. »
 
 

 
*



 
Qualcuno le tolse il cappuccio dalla testa – strappando e tirando via i capelli tenuti fermi dalle forcine –  e Clarke non riuscì a fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, nonostante il dolore alla testa e l’attacco di panico che non l’aveva abbandonata nemmeno per un istante.

Il bagagliaio si era aperto e una figura coperta da un passamontagna l’aveva tirata su, inerme, per coprirle la testa con un sacco pesante, mentre la giovane aveva iniziato a dibattersi e a mugugnare contro la benda che le impediva di parlare.

Aveva provato ad urlare, a colpirlo con le ginocchia, con le spalle, ma trovarsi i polsi legati dietro la schiena non era proprio il massimo dell’autodifesa, quindi l’uomo era stato in grado di caricarsela in spalla senza difficoltà.

Avevano camminato per qualche istante, lo stomaco di Clarke sottosopra, mentre lei continuava imperterrita a dimenarsi e a colpire le scapole di lui con il capo, e poi lei aveva percepito il cambio di temperatura, un freddo che nulla aveva a che fare con l’estate fuori di lì a farle salire i brividi contro le gambe scoperte – non sapeva nemmeno come avesse fatto il vestito a strapparsi e rovinarsi così –.

Il verme l’aveva spinta con violenza contro una sedia e aveva atteso qualche istante.

Ora eccola qui. La giovane Griffin si guardò finalmente intorno e tremò: si trovava in una stanza priva di finestre, di mobilio o anche solo di una qualche stabilità.

I muri erano sporchi e ricoperti di muffa, mentre una lampadina dondolava pigramente sopra la sua testa, illuminando solamente la sua figura.

Le lacrime avevano smesso di sgorgarle copiose e indifferenti contro le guance e si erano raffreddate sulla pelle, appesantendola e confondendosi al trucco e al sudore che non smetteva di scivolarle lentamente dalla fronte e sul collo.

Esaminò con lo sguardo pieno di rabbia l’ambiente circostante per qualche attimo, poi si concentrò sulla figura incappucciata davanti a lei.

Testarda e determinata com’era, sollevò il mento in segno di sfida e si agitò sulla sedia, finendo così in ginocchio davanti all’uomo e ignorando il dolore alle gambe provocato dall’impatto.

Una vocina nella sua testa le urlò disperatamente che non era quello il momento di giocare a fare l’eroina, ma la giovane la ignorò.

Al suo posto, il ricordo di un’altra voce le riempì dolcemente i pensieri. La voce di Bellamy.

Tu sei una guerriera. Quando hai paura, quando non ti senti all'altezza, tu stringi forte i denti e ripeti: "Io sono una guerriera.”

 Non aveva paura. Non aveva paura. Lei non aveva paura.

A quel punto, l’individuo davanti a sé compì dei passi in avanti e si avvicinò, inginocchiandosi a sua volta davanti a lei e sfiorandole il mento con l’indice e il medio.

Clarke si ritrasse, disgustata e schifata, e l’altro le liberò finalmente la bocca.

« Non ho paura. » Disse subito lei, guardandolo dritto negli occhi – l’unica parte del suo viso scoperta dal passamontagna –.

« Beh… » La sua voce era roca, ma al tempo stesso familiare. La bionda tentò inutilmente di capire dove l’avesse già sentita prima. « Dovresti. »

Detto ciò, sollevò il braccio prima che lei potesse accorgersi del movimento, e lo schiaffo risuonò nel silenzio della stanza.

La giovane, colta di sorpresa e impossibilitata a difendersi, cadde su un fianco per l’impatto con cui il palmo dell’uomo si era infranto contro la sua guancia, e i capelli bagnati di sudore le ricaddero sul viso, costretto contro il pavimento sporco.

Tentò inutilmente di rimettersi in posizione eretta, ma non riuscì a riprendere equilibrio.

Lui la prese di forza per le spalle e la rimise a sedere sulla sedia, scostandole le ciocche ribelli dal volto.

« Che ne dici di stare zitta? »

« So perché mi hai presa. » Rispose invece lei, mentre l’adrenalina la elettrizzava e le infondeva un coraggio che non poteva proprio permettersi in una simile situazione.

« So quello che voi bastardi avete fatto a mio padre. » Sputò fuori con tutto il veleno di cui fosse capace, ricadendo stancamente contro lo schienale.

L’altro fece due passi avanti, si chinò, arrivando così alla sua altezza, e si tolse il passamontagna.

« Ed è per questo che morirai. »


 
*




 
Bellamy trascorse il resto della nottata impegnato a raccogliere le deposizioni di ciascuno degli invitati – fra cui sua sorella, di cui aveva stilato il rapporto praticamente senza interpellarla, e Wells – e ad occuparsi di archiviare le prove ottenute dalla scientifica.

Ora, quindici ore dopo il rapimento di Clarke, si ritrovava ad osservare con improbabile attenzione l’insalata che sua sorella gli aveva portato in ufficio.

« Sai, per nutrirti è necessario mangiarla davvero. Non basta fissarla. »

Octavia si sedette sulla sua scrivania e lo rimproverò, spingendo lievemente il contenitore di plastica nella sua direzione.

« Non ho fame. » Rispose lui fra i denti, senza spostare lo sguardo dal pasto.

La minore dei Blake si protese in avanti e, sfiorandogli il mento, lo costrinse a portare gli occhi nei suoi.

« Non hai dormito. Non hai mangiato. Hai lavorato tutta la notte e sei tornato direttamente in ufficio. Hai bisogno di riposo, Bell. »

« Quello di cui ho bisogno, O », il moro si sporse di scatto in avanti, finalmente animato da un qualche impeto, « è trovarla. »
 



 
*



 
Non appena la giovane Griffin riprese conoscenza – non sapeva quando si fosse addormentata, ma la stanchezza aveva preso il sopravvento su di lei poco dopo la sconcertante rivelazione – la figura fece nuovamente la sua entrata nella stanza.

« Ben svegliata, Principessa! »

Clarke rabbrividì al soprannome, e per un attimo si concesse di pensare alla prima persona che l’avesse mai chiamata in quel modo.

Aveva capito come sarebbero andate le cose dal primo momento in cui si era risvegliata in quel bagagliaio, e per questo aveva tentato di sopprimere e sotterrare in una parte sicura della sua mente il pensiero di tutte le persone che avrebbe lasciato dietro di sé.

I volti di suo padre, di sua madre, di Wells, di Bellamy e dei suoi scapestrati migliori amici avevano fatto per un attimo capolino sul retro delle sue palpebre, ma Clarke aveva rigettato visceralmente quell’opzione.

Non ci avrebbe pensato. In fondo, non era che non si fosse mai aspettata di trovarsi in quella situazione.

Non era che una parte di sé non avesse già temuto, duranti lunghe e tormentate notti invernali, di poter essere strappata ai suoi cari per la sua curiosità, per il suo bisogno di verità.

Lei l’aveva sempre saputo, l’aveva saputo nel momento in cui aveva dovuto trascinarsi sulle spalle l’orribile segreto che Jake Griffin le aveva confessato pochi giorni prima di morire.

L’aveva saputo quando, al suo funerale, si era giurata che avrebbe scoperto l’identità delle persone che le avevano portato via l’unico uomo di cui non avesse mai smesso di fidarsi.

L’aveva saputo quando aveva usato i risparmi del college per affittare il garage 221B e quando era stata arrestata la prima volta.

L’aveva saputo nell’istante in cui aveva capito che lei e suo padre condividessero non solo il sangue, ma anche il destino.

L’aveva saputo e ora lo accettava, lo accettava e non ne aveva paura.

Clarke sollevò il volto pigramente, mentre l’acconciatura elaborata della festa era diventata ormai una treccia priva di forma, con ciocche di capelli che le ricadevano sul volto e si appiccicavano alla pelle, e reclinò il capo fino ad incontrare lo sguardo del ragazzo che la osservava.

« Non mi hai dato da mangiare. Ho visto il tuo viso. Quand’è che mi ucciderai, Dax? »

Calcò con amarezza sull’ultima parola, maledicendo mentalmente se stessa e la notte in discoteca in cui aveva permesso a quello sconosciuto di toccarla.

Il ragazzo si appoggiò alla parete poco distante da lei, poi si abbandonò ad un lieve ghigno.

« Sei intelligente, Clarke, devo ammetterlo. » La osservò ancora per qualche istante, senza aggiungere null’altro.

« Forse è questo il tuo problema. »

La giovane, nonostante la consapevolezza che la sua vita stesse ormai volgendo al termine e che presto non ci sarebbe stato proprio niente da temere, riuscì quasi a ridere. Sorrise, perlomeno.

« Dimmi chi è il tuo capo, Dax. Non lo dirò a nessuno. » Annuì in direzione delle sue mani legate, poi riportò gli occhi nei suoi. « Non hai ammazzato tu mio padre. Sei solo un ragazzino, proprio come me. Dimmi chi è stato. »

La bionda rimase a fissarlo con ostilità per qualche altro attimo, ripercorrendo nella mente tutti i file che aveva studiato, tutti i colleghi di suo padre su cui aveva investigato, tutti i documenti che aveva rubato all’Ark Corporation.

Ripensò a Marcus Kane, il suo principale e più convincente sospettato.

Si prefigurava già i titoli di copertina: “Amministratore delegato di una compagnia da milioni di dollari uccide un suo ingegnere e lo fa passare per malore. La figlia viene uccisa due anni dopo.” Beh, se non altro la storia avrebbe venduto.

Poi, come se la sua maschera si fosse lentamente sciolta sul suo volto, si sporse lievemente in avanti, i polsi che sfregavano fra loro e bruciavano.

« Dax… » Sussurrò. « Ho bisogno di saperlo. È… è la mia ultima richiesta. »

I suoi occhi si bagnarono nuovamente di tutte le lacrime che in quegli anni non era riuscita a versare, di tutte le tristezze che non era stata in grado di affrontare.

Ora, durante gli ultimi momenti della sua vita, prima di smettere di esistere, tutto quello di cui Clarke aveva bisogno era la verità. Non c’era altra cosa che potesse desiderare di più.

Il giovane sembrò intenerito solo per una millesima frazione di attimo, ma un ghigno saccente e arrogante tornò ad infestargli il viso subito dopo.

« Non posso dirtelo, signorina. Immagino che non lo saprai mai. »

Con una scrollata di spalle, le rivolse un ultimo incomprensibile sguardo e le voltò le spalle, uscendo dallo stesso punto in cui era entrato.

« Ti prego! » Clarke si scaraventò in avanti, piegandosi contro se stessa, il petto premuto contro le ginocchia, e urlò con tutte le sue forze, con tutta la pressione che i polmoni potessero permettersi, con la gola in fiamme e gli occhi bagnati, ma non ricevette alcuna risposta.



 
*




 
« Questi sono i filmati della sicurezza, sono appena arrivati. » Roma entrò nell’ufficio del maggiore dei Blake senza perdere tempo, consegnandogli una chiavetta USB e lasciandolo immediatamente solo.

Bellamy annuì con distacco, senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer, e attese che la porta del suo ufficio si richiudesse.

Cambiò posizione sulla sedia e prese un goccio di caffè dal contenitore di cartone che sua sorella gli aveva portato quel pomeriggio, mentre le ventiquattro e passa ore di sonno perso iniziavano a fare effetto.

Il moro si stropicciò gli occhi con il pugno destro, mentre con la mano sinistra si allungava ad afferrare il dispositivo.

Lo collegò e attese qualche secondo, poi il video di sorveglianza del Montage Beverly Hills Hotel partì.

Si concentrò principalmente sulle riprese esterne, quelle del parcheggio aperto al pubblico e quelle del parcheggio privato, facendosi scorrere davanti agli occhi l’ingresso di decine di personalità di spicco del Mount Weather Hospital e dei loro bei macchinoni sportivi.

Individuò ben presto la Ford grigio metallizzata della famiglia Jaha, da cui vide scendere il Signor Jaha, sua moglie, Wells e infine Clarke.

Quando colse con lo sguardo lo scintillio dei suoi capelli dorati, Bellamy sussultò, e il respiro gli si mozzò in gola.

Dal momento in cui aveva capito cos’era successo aveva tentato di rimanere positivo, di sperare nel meglio, ma ora una parte di lui stava iniziando a cedere. E se non fosse riuscito a salvarla? Se l’avesse trovata troppo tardi?

Sapeva bene che chiunque fosse il responsabile non avesse particolari problemi ad uccidere, e il suo stomaco si attorcigliò attorno all’idea che avrebbe potuto perderla per sempre. Che sarebbe tutto potuto finire in un attimo.

Il moro scosse la testa e deglutì, tentando energicamente di non lasciarsi sprofondare da quei pensieri malsani, e si concentrò sui filmati.

Bloccò la riproduzione nel momento in cui l’inquadratura riuscì a riflettere il volto di lei, e i suoi occhi accarezzarono il suo sorriso attraverso lo schermo.

Bellamy sorrise a sua volta, di un sorriso triste e stanco, e rimase per qualche attimo a fissare quel viso, quei dolci occhi blu e le sue spalle nude.

Bellissima.

Quando fu sicuro di aver saldato nella mente quell’immagine – l’immagine di una ragazza forte, di una ragazza che sorride quando tutto le crolla addosso –, fece scorrere in accelerazione le riprese della maggior parte della serata, arrivando presto all’ora in cui era avvenuto il rapimento.

Il maggiore dei Blake cliccò e ingrandì sulle riprese che gli permettevano la giusta prospettiva, e osservò attentamente la figura della giovane Griffin che attraversava il parcheggio deserto.

Non aveva notato alcuno spostamento sospetto nelle diverse inquadrature delle telecamere di sicurezza, quindi immaginò che il colpevole sapesse dove fossero posizionate.

Le aveva evitate accuratamente, parcheggiandosi in un punto in cui non poteva essere ripreso, ma aveva dovuto esporsi per avvicinarsi a Clarke.

Bellamy osservò attentamente il momento in cui la bionda raggiunse la macchina di sua madre, pronta a recuperare il cellulare.

« Dio… » Mormorò fra i denti, mentre rabbia e frustrazione si mischiavano vorticosamente al centro del suo petto, incredibilmente vicino al cuore.

Individuò la persona incappucciata a circa due metri da lei, che nel frattempo era distratta dalla sua borsetta.

Vide la figura aggirarsi fra le altre automobili e avvicinarsi di nascosto, sempre attenta a non mostrarsi troppo alle telecamere.

Quando fu abbastanza vicino, lo osservò tirare fuori dalla tasca della felpa nera un fazzoletto e, oramai giunto alle spalle della giovane, afferrarla da dietro e premere la stoffa contro la sua bocca, impedendole qualsiasi movimento.

La presa del moro contro il mouse del computer si serrò, e così fece la sua mascella, mentre assisteva impotente alla scena davanti ai suoi occhi.

Continuò a guardare mentre una parte di sé gli gridava di strappare lo sguardo da quella vista, di smettere di torturarsi in quel modo. Ma non poteva. Non poteva rischiare di perdere elementi importanti che potessero aiutarlo a ritrovare Clarke, dovunque lei fosse.

Fu in quel momento che vide un SUV nero avvicinarsi ai due, all’uomo che teneva fra le braccia il corpo esanime della bionda, e Bellamy rabbrividì.

Dalla testimonianza di Abigail Jaha, solamente un uomo era presente sulla scena del crimine. Era stata lei a dirglielo.

Se prima credeva che questi filmati avessero potuto aiutarlo a trovare indizi o prove sufficienti a condurlo da Clarke, ora il quadro della situazione appariva ancor più disordinato e illogico.

Perché una madre avrebbe dovuto mentire sul rapimento della propria figlia?


 
*




 
Il rumore di una porta che sbatteva fu sufficiente a far riprendere conoscenza a Clarke, la quale si era addormentata per la terza volta durante quella giornata.

Era esausta, disidratata e affamata. Non ricordava nemmeno a quando risalisse l’ultima volta in cui aveva avuto modo di mangiare qualcosa, tantomeno bere dell’acqua.

Il primo pensiero che le attraversò la mente fu se avessero intenzione di ucciderla facendola morire di fame, o se preferissero un colpo secco. Un proiettile e fine del dolore.

La giovane Griffin non si voltò nemmeno verso l’entrata, ben consapevole di chi fosse e per nulla impaziente di affrontare l’ennesimo incontro con Dax, almeno finché lui non le avesse rivelato la verità.

Bensì si limitò a fissare il vestito che indossava, oramai sporco e rovinato dal sudore che le imperlava il corpo e non l’abbandonava mai, probabilmente effetto dell’adrenalina, e a immaginare che quello sarebbe stato l’ultimo abito che avrebbe indossato.

« Sei qui per dirmi chi è il tuo capo o per finirmi? » Chiese stancamente qualche attimo dopo, domandandosi perché l’altro non avesse già iniziato a parlare.

Quando percepì dei passi alle proprie spalle, la bionda si irrigidì sul posto, raddrizzando la schiena e sollevando il capo.

Due paia di mani si strinsero attorno ai suoi polsi deboli, e in un attimo fu libera.

La giovane Griffin rabbrividì. Cosa diavolo stava succedendo? Perché la stavano liberando?

Si voltò di scatto, i capelli appiccicati alla pelle del collo, e scrutò con attenzione la persona davanti a sé.

Portava un passamontagna. Perché Dax avrebbe dovuto indossarlo?

« Dax? » Sussurrò spaesata, scattando dalla sedia e usandola come ostacolo fra lei e chiunque ci fosse dietro quel cappuccio.

« Vattene. » La voce ruggì e risuonò fra le pareti ammuffite della stanza, e la giovane Griffin non ebbe difficoltà a capire che non si trattasse dello stesso ragazzo che l’aveva portata lì.

« Perché? »

« Esci da questa porta e gira a sinistra, poi vattene. Troverai un benzinaio dal lato opposto della strada. »
Aveva già sentito quella voce.

Era sicura, dentro di sé, di averla già sentita – provò la stessa sensazione che aveva provato prima che scoprisse chi fosse il suo rapitore – ma non sapeva proprio a cosa ricondurla, a chi associarla.

« Perché? » Ripeté sconvolta, anche se il proprio istinto di sopravvivenza le urlava di smetterla di fare domande e sparire da lì.

« Vattene! » Urlò l’altro in un attimo, compiendo un passo avanti.

Clarke non se lo fece ripetere due volte: dopo un’ultima occhiata al suo strano e inaspettato salvatore, raccolse le ultime energie rimaste e iniziò a correre.


 

 

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Capitolo 14
*** XV ***


Sono imperdonabile. Semplicemente imperdonabile.
Siete liberi di tirarmi frutti e ortaggi di qualsiasi genere, o più semplicemente di cyber-insultarmi a volontà. 
Posso solo chiedervi scusa e dirvi grazie. Grazie del sostegno, grazie delle belle parole (giuro che presto mi metterò e risponderò ad ognuno di voi, giuro giuro).
Mi ritiro e vi lascio al capitolo, sperando che vi piaccia e che non deluda le vostre aspettative.

Buona lettura!

 


 
 

Is It Any Wonder?

 



Fuori da quella stanza, fuori da quello strano capannone abbandonato, Clarke cadde.

Inciampò contro il pavimento umido e sporco, si piegò sulle ginocchia mentre ogni parte del suo corpo le urlava di non smettere di muoversi, di continuare a correre finché non avesse raggiunto un posto in cui potersi salvare, ma i suoi piedi e le sue gambe deboli non sembravano esser della stessa opinione.

Cadde contro la ghiaia di quello spiazzo appena fuori dalla sua prigione, e sentì le ginocchia sbucciarsi contro la strada ruvida, il sangue colarle fino alle caviglie a causa dell’impatto, e scalciò con tutte le forze, tentò di rimettersi in piedi con i palmi delle mani premuti contro i ciottoli che le ferivano la pelle, e ogni suo pensiero era comunque volto alla fuga, a non guardarsi indietro, a mettersi in salvo.

Immaginò addirittura che potesse trattarsi di un perverso e malsano gioco dei suoi rapitori, quello di farle credere di poter avere una via di scampo, ma più correva lontano da quella struttura, da quell’incubo che aveva vissuto per non sapeva quanto tempo, più la sua mente le urlava di non pensarci, di continuare a muoversi.

Arrivò ad una strada principale – non sapeva dove fosse, non sapeva nemmeno quante ore fossero passate dal ballo, o se si trattasse addirittura di giorni – e, senza nemmeno curarsi di altro, avvistò il benzinaio che quella strana figura le aveva indicato.

Se avesse avuto ancora energie per farlo, Clarke sarebbe scoppiata in lacrime.

Tutto quello che riuscì a fare, però, fu spostarsi confusamente i capelli bagnati dal volto, e asciugarsi le mani contro il tessuto sporco e rovinato del suo vestito elegante.

Si gettò verso l’asfalto senza curarsi delle automobili che sarebbe potute passare, o del dolore sotto le piante dei piedi.

Non poteva preoccuparsi di null’altro, non quando la sua salvezza era così vicina da poterla già assaporare.

La giovane Griffin non seppe come, ma corse.

Corse con le gambe tremanti e stanche, il mal di testa che le pompava contro le tempie, la paura che sembrava mangiarla dall’interno e deteriorarla un pezzettino alla volta.

Arrivata davanti alla piccola tavola calda che aveva subito intravisto, si accorse della scarsa presenza di persone che potessero aiutarla. Era vuota.

Nonostante ciò, la bionda barcollò fino alla porta d’entrata e la aprì, appoggiandosi con tutto il peso, con le spalle pesanti e la schiena nuda.

Il rumore di un campanellino appeso all’ingresso la fece sobbalzare, e dal bancone della casa si sporse una donna anziana, probabilmente sulla sessantina.

« Oh, Dio! » Fu la sua esclamazione, non appena la vide.

Clarke tremò e fece un passo avanti, nonostante oramai non riuscisse più a tenere gli occhi aperti.

La signora aggirò il bancone e corse verso di lei, e la bionda non pensò alle conseguenze, si gettò fra le braccia di quella figura premurosa e sprofondò il volto nella sua spalla.

Quello di cui non si accorse, però, era di essersi gettata contro di lei con tutto il peso, e l’altra donna non riuscì a sorreggerla.

Clarke cadde in ginocchio – le ferite che già sanguinavano non fecero altro che bruciarle ancora di più, ma non le importava – e abbracciò le gambe dell’anziana, senza esser ancora in grado di dire una parola.

« Oh, piccola, cosa ti è successo? Devo… Devo chiamare la polizia! » La voce squillante dell’altra persona le rimbombò nelle orecchie, lontana e confusa, e la più giovane riconobbe i sintomi dello svenimento. Aveva esaurito qualsiasi tipo di energia.

« La prego… » Sussurrò, gli occhi già socchiusi, e il suo mormorio si confuse contro le proprie braccia ancora strette attorno alle gambe dell’anziana, « devo chiamare… Una persona… »

« Ok, ok, tesoro, ascolta. Io vado a chiamare la polizia nel retro, tu prendi questo e chiama chi devi. Torno subito, ok? Aspettami qui. Aspettami qui. »

Le passò un telefono cellulare e Clarke ci si aggrappò come se fosse la propria àncora, poi le accarezzò lievemente i capelli e camminò via.

La giovane Griffin si trascinò con i gomiti verso una delle panchine di pelle rossa dei tavoli da pranzo, e vi si appoggiò con la schiena.

Il pavimento sotto di lei era freddo e duro, ma non le importava.

Prendendo qualche respiro profondo, le gambe stese davanti a lei, lanciò uno sguardo all’orario sul display. Le sei e trentacinque di domenica mattina.

Senza nemmeno esitare un altro istante, digitò il numero che non aveva mai realizzato di sapere a memoria fino a quel momento, e reclinò il capo contro il tessuto morbido dello schienale.

Mentre il telefono squillava, si permise di chiudere gli occhi e deglutire, ma la sua gola era secca e bruciava, desiderosa solo di un po’ d’acqua.

« Pronto? »

Neppure si accorse che l’altra persona aveva risposto, finché non la sentì ripetere ancora una volta quella parola.

« Pronto? » C’era qualcosa di strano nella sua voce, una tensione, un nervosismo che la faceva sembrare ancora più profonda.

Era così felice di poter sentirla nuovamente, ma non fu in grado di rispondere. Era troppo stanca.

« Clarke? » Stavolta un sussurro. Un sussurro disperato e allo stesso tempo speranzoso.

Fu quello che la convinse.

« Bellamy… »

« Clarke! Dio, dove sei? » La bionda deglutì di nuovo, gli occhi ancora chiusi, e si rilassò impercettibilmente contro lo schienale.

« Ehi, piccola, dimmi dove sei. Ti prego. Ti vengo a prendere. »

Fu in quel momento che Clarke rabbrividì. Aprì gli occhi di scatto e il respiro le si bloccò in gola con un rumore strozzato, abbastanza forte perché anche Bellamy lo sentisse.

« Che succede? » La sua voce allarmata le giunse cristallina attraverso la cornetta, e questo non fece altro che farla stare peggio.

La giovane Griffin annaspò in cerca di aria, si portò una mano alla gola, gli occhi ancora sbarrati che correvano in mille direzioni, e scalciò inutilmente contro il pavimento sporco del suo stesso sangue della tavola calda.

Perché la paura in quell’attimo fu peggiore e più travolgente di qualsiasi altro sentimento avesse mai provato in tutta la sua vita, tanto da farle desiderare di voler scappare, anche se razionalmente sapeva ormai di essere al sicuro.

Perché aveva finalmente comprese, e in un attimo fu tutto dolorosamente chiaro.

" Ehi, scusa, tu sei la vicina di Bell, vero?”

Era quasi ironico, a dire il vero, che riconoscesse quella voce solo ora che sentiva quella di Bellamy.

Perché sì, Clarke aveva capito chi era stato a liberarla. Aveva risentito la sua voce nella propria testa, aveva rievocato le prime parole che si erano scambiati, e ora non poteva semplicemente crederci.

“Clarke, che piacere! Resti per cena?”

Atom. Atom, il migliore amico. Atom, il ragazzo simpatico e un po’ riservato che l’aveva accetta fin dal primo momento. Atom, che in realtà si era presentato con un passamontagna e, chissà per quale motivo, l’aveva lasciata andare.

Una parte di sé sapeva che avrebbe dovuto dirlo subito, ora, rispondergli che sapeva chi era stata a rapirla – Dax ed Atom, per quello che era riuscita a vedere – e che era pronta a denunciarli, a farli sbattere in prigione.


Un'altra parte, però, sapeva che, se Dax fosse stato arrestato, lei non avrebbe mai saputo la verità su suo padre, e che, se avessero preso Atom, questo avrebbe distrutto Bellamy.

La sua risposta, quindi, fu un semplice: « No. »

« No? » Il più grande dei Blake parve giustamente confuso, mentre un rumore in sottofondo accompagnava la sillaba. Probabilmente era già salito in macchina.

« Non voglio che tu mi venga a prendere. » Mormorò lei, chiuse gli occhi e tirò su con il naso, perché lacrime traditrici rischiavano di sfidare la gravità e correrle giù per le guance per l’ennesima volta.

E no, non avrebbe spezzato il cuore all’unica persona che le avesse fatto capire di possederne uno lei stessa. Non quando era fermamente convinta di poter risolvere la questione da sola. Doveva pur esserci un motivo, se Atom l'aveva lasciata andare, e lei lo avrebbe scoperto.

Lo decise in quel momento, sdraiata sul pavimento di una tavola calda fra NonSoBene e ChissàDove, affamata e stanca e sull’orlo dello svenimento, e quello fu il gesto più generoso che avesse mai compiuto per qualcun altro.

« Chiama Wells », sussurrò poi, ben consapevole del perché il maggiore dei Blake fosse caduto nel più grave dei silenzi, « voglio Wells. »

Annuì a se stessa e sorrise, perché per la prima volta si sentiva finalmente l’eroina che non aveva mai avuto il coraggio di essere.

Solo per questa volta, una sola, sarebbe stata lei a sacrificarsi.

Anche se questo voleva dire perderlo per sempre.

« Dimmi dove. » La sua voce le giunse metallica e fredda, così come lei se l’era aspettata, e la bionda gettò un’occhiata stanca all’insegna sopra la sua testa.

« Static Waves Cafè. » Aveva appena terminato di pronunciare l’ultima lettera, ché l’altro aveva già chiuso la chiamata.

Solo in quell’istante Clarke riuscì a tranquillizzarsi, a prendere davvero un respiro di sollievo.

Qualcuno l’aveva rapita, picchiata e tenuta prigioniera per un tempo che le era parso infinito e immobile, quel qualcuno aveva a che fare con il migliore amico del primo ragazzo che l’aveva avvicinata a sé più di quanto avesse mai fatto qualsiasi altra persona, e che ora aveva appena deciso di voler salvare, evitandogli così una dolorosa verità.

La giovane Griffin, esausta e consapevole che di lì a poco sarebbe finalmente potuta tornare a casa, si abbandonò ancora una volta contro lo schienale di pelle di quella panchina bassa, mentre le gambe fragili e insanguinate erano stese inermi di fronte a lei.

Tutto quello che voleva fare era chiudere gli occhi.

Era troppo stanca per pensare a tutte le folli cose che erano successe, per preoccuparsi degli effetti che avrebbero provocato nella sua vita, e a quel punto desiderava solo riposarsi. Smettere di provare.

Nonostante la scomodità della posizione, non fu difficile farlo. La bionda reclinò la testa contro la spalla sinistra, poggiandovi la guancia, e l’ultima cosa che vide fu l’anziana signora che ancora una volta si avviava verso di lei.
 





Clarke si risvegliò al tocco di una carezza che risaliva la linea del suo collo fino a sfiorarle uno zigomo.

Non aprì subito gli occhi, ma si beò di quel contatto per qualche istante, ritrovando in sé un bisogno soppresso per troppo tempo: il bisogno di calore.

Quando però percepì dei mormorii alle sue spalle, una voce fin troppo familiare risuonarle dolcemente nelle orecchie, tutto quello che fu in grado di fare fu schiudere le palpebre.

La prima cosa che vide furono gli occhi di suo fratello, il suo sguardo profondamente preoccupato ma affettuoso, amorevole.

Gli sorrise. Gli sorrise come faceva quando erano piccoli, e lui si prendeva la colpa al posto suo davanti ai loro genitori. Come quando c’era ancora suo padre.

« Clarke… » Sussurrò lui, le iridi appannate da lacrime di gioia.

« Sei al sicuro, ora. »

« È sveglia? Chi è l’idiota che l’ha lasciata lì per terra? Si può sapere chi è il proprietario di questo dannato
posto? »

Oh, eccolo. Immaginava davvero che le avrebbe dato ascolto? Che non sarebbe venuto?

Distratta per qualche istante da quella voce, la giovane Griffin non fece niente. Si limitò a fissare il volto di Wells, che le sorrideva teneramente e le stringeva ancora il volto.

Quando il silenzio – interrotto solo dalle imprecazioni di Bellamy – divenne insopportabile, la bionda si schiarì la gola e si appoggiò sui gomiti, notando di essere ancora sdraiata su quel pavimento.

 « Che ore sono? » Mugugnò fra i denti, ancora impreparata ad incrociare lo sguardo del maggiore dei Blake.

Percepiva la sua presenza alle proprie spalle, aveva sentito la sua voce, e le sembrava di sentire i suoi occhi bruciarle la schiena con una sola occhiata.

« Le sette e pochi minuti. » Rispose Wells, chinandosi verso di lei e lasciando scorrere la sua mano fino alla spalla. Ora che lei era cosciente, il ragazzo poteva finalmente coprirla.

Per questo, si tolse la felpa verde scuro che indossava e l’avvolse attorno alle spalle di Clarke, che rabbrividì al contato con il tessuto.

« So che è ancora presto, so che hai paura e che non posso immaginare quello che hai vissuto, ma ne dovremo parlare. In realtà… »

Lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso la cucina, dove Bellamy se ne stava appoggiato al bancone con le braccia incrociate e non distoglieva lo sguardo da loro, « C’è anche qualcun altro che vorrebbe parlarti. »

Sapeva che non avrebbe potuto sfuggirgli. Non ora. Non dopo aver creduto di non poterlo vedere mai più, non dopo aver capito quanto a fondo scorresse il suo affetto per lui, tanto da voler tacere sull’identità di uno dei complici al suo rapimento e aspettare di aver chiarezza su quanto accaduto.

Ecco quanto Bellamy Blake le scorreva nelle vene.

Suo fratello le prese entrambe le mani e l’aiutò a mettersi in piedi, stringendole poi le dita per assicurarsi che avesse equilibrio.

Non appena lei annuì, in un muto assenso, Wells le posò un lieve bacio sulla fronte e si avviò verso l’uscita.

Clarke prese un respiro profondo, cercando di prepararsi ad affrontare una minaccia ancor peggiore di quella del rapimento.

Non fece in tempo a cercarlo, però, ché notò appena un movimento davanti a sé e improvvisamente, come se fossero sempre state lì, le mani forti di Bellamy arrivarono a cingerle e raccoglierle il viso in una presa delicata ma, allo stesso tempo, ben ferma.

La bionda capì che aveva iniziato a camminare nella sua direzione prima che lei si voltasse, e, quando lei lo aveva fatto, i loro corpi si erano semplicemente incontrati e scontrati così com’era stato dal primo momento in cui si erano conosciuti.

Sussultò lievemente e, non appena il maggiore dei Blake poggiò la fronte contro la sua, chiuse gli occhi.

Dentro di sé, in profondità, Clarke sapeva bene che quello era ciò a cui stava rinunciando: quel sentimento di protezione, di elettricità, di parole che non hanno bisogno di essere dette e di piccoli gesti in grado di raccontare i loro segreti.

Non dicendogli di quello che aveva scoperto, prendendosi la responsabilità di scoprirlo da sola, in quel modo gli stava dicendo addio. E quello era il loro addio.

Ciò che a lui sarebbe potuto sembrare un nuovo inizio, lei sapeva che non sarebbe mai stato tale. Che dal momento in cui aveva deciso di mentirgli, l’aveva perso.

Quello che non aveva previsto, però, era che avrebbe fatto così dannatamente male.

« Oh, Dio… » Sospirò alla fine lui, compiendo un passo avanti ed entrando in contatto con il corpo freddo di lei.

Le stava ancora stringendo il volto fra le mani, la fronte appoggiata alla sua e gli occhi di entrambi chiusi, eppure il tempo parve scorrere troppo velocemente, troppo presto.

« Sei al sicuro. » Annuì contro di lei, probabilmente più a se stesso, e continuò: « Ti ho trovata. Ti ho trovata e stai bene, sei al sicuro. Ti porto a casa. Giuro, Principessa, non so cosa… »

« Va tutto bene. » Lo interruppe lei, stringendo forte gli occhi che si erano già inumiditi di stille salate e raccogliendo un briciolo di forza necessario a staccarsi da lui.

Entrambi sollevarono le palpebre e incontrarono il volto l’uno dell’altra, due visi esausti e sfiniti. Clarke incespicò all’indietro, ma non accettò le mani di Bellamy che giunsero a sorreggerla.

Al contrario, si appoggiò al tavolo alla loro destra. Il movimento non sfuggì al moro, che sollevò un sopracciglio.

« Tutto bene? » La giovane annuì, ma non lo guardò negli occhi.

Non voleva mentirgli, non voleva allontanarsi e lasciare che qualunque cosa ci fosse fra di loro svanisse, ma ancora di più desiderava tenerlo fuori da quella storia, dalla pazzia che era divenuta la sua vita, e sapeva che quello era l’unico modo.

« Qui fuori c’è un’ambulanza, ti visiteranno. »

Serrò la mascella e a Clarke non passò inosservato, e le diede le spalle subito dopo. La bionda fece lo stesso, o perlomeno tentò di farlo, poiché in quel momento le gambe cedettero, tremarono e semplicemente crollarono.

Una piccola parte di lei si rese conto che di lì a poco si sarebbe nuovamente schiantata su quel pavimento, ma non fu sufficiente, perciò chiuse gli occhi, in attesa. In attesa dell’impatto, del dolore.

Ma nessuno dei due arrivò mai, sostituiti dalla più piacevole culla umana che erano le braccia di Bellamy Blake.

Lei non poté trattenere un brivido – la consapevolezza che non importava quanto lei lo allontanasse, lui era sempre lì, pronto a prenderla – mentre si accasciava contro il suo petto e sentiva le sue mani serrarsi sotto alle propria ginocchia e circondarle la schiena, stringendola a sé e impedendole di cadere.

« Mettimi giù. » Biascicò debolmente contro il tessuto della sua maglietta, mentre la sua vista continuava ad oscurarsi.

« No. »

 « Bell- »

« Non puoi camminare in queste condizioni, Principessa. Fine della storia. »

La giovane Griffin sbuffò pesantemente, ma ancorò il proprio braccio sinistro attorno al suo collo. Qualche secondo dopo, non appena lui iniziò a camminare verso l’ambulanza, fu finalmente in grado di abbandonarsi alla stanchezza, e chiuse gli occhi.


 

 
*




Una volta essersi assicurato che Clarke fosse stata portata via dall’ambulanza e accompagnata da suo fratello, Bellamy tornò dai suoi colleghi, che avevano delimitato la scena del crimine e si erano appostati proprio davanti al capannone.

« Voglio sapere tutto. » La sua voce forte e profonda interruppe i discorsi degli altri agenti, e il maggiore dei Blake scrutò dettagliatamente ognuno dei loro volti. Voleva al suo fianco solo i migliori.

« L’ultimo proprietario di questo capannone, l’ultimo affitto pagato, chi si è occupato di ristrutturarlo l’ultima volta. »

Elencò sulla punta delle dita tutte le informazioni, continuando a parlare nel tono che usava solamente quand’era a lavoro.

« Dal posto sembra il tipico luogo di raduno per spacciatori. Chiederò informazioni alla mia sezione, ma per ora la pista non è questa. Clarke Griffin è una giovane donna che non ha niente a che fare con i giri della bassa Los Angeles, perciò concentriamoci su altri moventi. »

Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto mettere a banco le preziose informazioni che aveva ottenuto durante quei mesi fuori servizio, ma per ora voleva sondare il terreno.

« Il Capitano Sidney mi ha affidato il caso, da ora in poi risponderete a me. »

Si congedò con un cenno della testa e, arrotolandosi le maniche della camicia fino ai gomiti, passo attraversò la scientifica e la forense, che ancora stavano analizzando la scena del crimine.

Fuori da quel dannato deposito abbandonato, circondato da pattuglie e SUV, Bellamy Blake chiuse gli occhi e prese un respiro profondo.




 
*

 
 
« Clarke, mi senti? Piccola? »

La giovane Griffin riprese conoscenza al suono di una voce ben familiare ed affettuosa, pronta ad accoglierla dolcemente.

Non sentiva quel tono da troppo tempo, e solo in quel momento si accorse di quanto le fosse mancato.

« Mamma? » Chiamò lei, aprendo gli occhi e incontrando immediatamente il viso preoccupato di Abigail.

La donna le stava accarezzando i capelli con delicatezza, e alle loro spalle Thelonious e Wells le osservavano con un profondo calore negli occhi.

« Stai bene, Clarke. Stai bene. » La rassicurò sua madre, avvolgendole le spalle con un’altra coperta e stringendola a sé, così com’era solita fare quando era solo una bambina.

La bionda si aggrappò ai suoi gomiti con tutta la forza che aveva, tanto da farsi sbiancare le nocche, e sprofondò il volto in quel petto accogliente e premuroso.

Nemmeno se ne accorse, quando le lacrime cominciarono a scorrerle giù per le guance e ad atterrare contro le proprie mani.

« Credevo che sarei morta. Credevo che… »

« Va tutto bene, sei al sicuro. Sei qui. Non ti lascerò mai più, tesoro, non ti succederà mai più niente. »

Abby continuò a cullarla a sé finché la giovane Griffin non sentì un nuovo moto di stanchezza assalirla, causato dal pianto liberatorio a cui era finalmente riuscita ad abbandonarsi.

Quella notte, dopo anni e anni, non ebbe incubi.
 
 



 
*




Bellamy passò a prendere Octavia non appena terminò di compilare moduli e fornire indicazioni alla scientifica, ed entrambi si diressero al Mount Weather Hospital  in fretta e furia, senza dire una parola.

La minore dei Blake si limitò a stringere la mano di suo fratello finché non arrivarono al piano di Traumatologia, dove un’infermiera li aveva indirizzati.

Non appena svoltarono l’angolo del corridoio in cui si trovava la stanza di Clarke, i due fratelli incontrarono Wells, che dormiva su una delle sedie d’attesa.

La brunetta gli si avvicinò piano e gli posò una mano sulla spalla, riuscendo a svegliarlo immediatamente.

« Octavia… » La salutò lui, assonnato, rivolgendo poi lo sguardo verso Bellamy.

Il giovane Jaha si alzò dal suo posto e gli strinse la mano, annuendo lievemente.

« Posso vederla? » Fu la prima cosa che gli chiese lui.

« In effetti… » Rispose l’altro, bloccandosi per un attimo. « Clarke sta riposando. Sapete, con tutta questa follia… »

« Come sta? » Lo interruppe la giovane, prendendo sottobraccio il maggiore dei Blake.

« Si è rotta l’indice, c’è il rischio di una costola incrinata e ha diversi lividi. Sta bene, però. È stata cosciente fino a poco tempo fa. »

Bellamy annuì solennemente, le sopracciglia aggrottate e un’espressione grave sul volto, ma l’unico modo in cui si sarebbe sentito meglio era vederla.

Vederla e parlarle, sentirsi dire dalla sua voce che andava tutto bene, che non c’era niente di cui preoccuparsi, che non avrebbe mai corso il rischio di perderla.

Per un attimo si chiese come fosse arrivato a quel punto, come fosse passato dal considerarla una semplice ragazzina viziata a non essere in grado di respirare correttamente senza di lei.

Questa necessità, questo bisogno che lo riempiva e lo svuotava di tutte le energie, si era insinuato in lui giorno dopo giorno, come un’abitudine che non lo lasciava mai, come qualcosa senza cui semplicemente non era capace di stare.

Bellamy Blake era completamente assuefatto dalla ragazza che ora dormiva dall’altra parte di un muro ancora troppo spesso.

I suoi pensieri, però, vennero interrotti nel momento in cui vide Abigail Griffin svoltare l’angolo e incontrare il suo sguardo.

Con tutta la preoccupazione per Clarke e la dedizione con cui aveva organizzato la squadra pertinente al caso, si era quasi dimenticato dell’importante interrogativo che aveva attirato la sua attenzione il giorno in cui aveva visto con i propri occhi i filmati di sorveglianza dell’hotel.

Ora, ovviamente, ricordava bene le parole che la donna più anziana gli aveva detto: un uomo, uno solo, aveva rapito e portato via sua figlia.

Peccato che le riprese provassero tutt’altra versione, e lui non era pronto a lasciar andare la situazione molto facilmente. Avrebbe scoperto la verità e non avrebbe atteso un minuto di più per farlo.

« Signora Jaha! » La richiamò ancora prima che lei potesse voltarsi, e si incamminò verso di lei.
 
 


 
*



 
Clarke osservò Wells richiudersi la porta alle spalle e controllare che non ci fosse nessuno, prima di andarsi a sedere al suo fianco.

« Come ti senti? »

La giovane Griffin si passò una mano fra i capelli umidi e si mise a sedere sul letto d’ospedale che non aveva ancora lasciato.

« Sto bene, Wells. Va tutto bene. » Lo rassicurò, sebbene dentro di sé sapesse che quello fosse lungi dall’essere vero. Niente andava più bene, niente aveva più senso.

« Allora potresti spiegarmi perché ho dovuto mentire a Bellamy. » Suggerì l’altro, appoggiando i gomiti alle ginocchia e osservandola con attenzione.

Sua sorella sapeva che prima o poi l’avrebbe chiesto, sapeva che tutta la sua curiosità fosse giustificata, profondamente legittima, data la grande quantità di tempo che avevano trascorso insieme durante gli ultimi due mesi e mezzo, ma non era ancora pronta a dirgli la verità.

« Sono solo stanca, ok? Sono… »

« Hai ragione, hai ragione. Lo capisco. Non importa, chiaro? Farò tutto quello che ti serve. »

Dopo tutto quello che le era accaduto, dopo quelle ore infernali in cui aveva creduto che sarebbe morta e non avrebbe avuto modo di dire addio alle persone che amava, non la sorprese il fatto che le lacrime si stessero di nuovo facendo strada verso gli occhi.

Si era sentita così debole, così impotente, e non voleva più mandare giù i propri sentimenti. Non voleva più essere l’involucro vuoto che aveva finto di essere per tutti quegli anni.

E avrebbe ricominciato, sarebbe tornata quella di un tempo. A partire dalla propria famiglia.

« Ti voglio bene, Wells. » Confessò in un sussurro, voltando lievemente la testa verso suo fratello.

Il capo di quest’ultimo scattò in su, sorpreso e totalmente colto alla sprovvista da una tale dichiarazione d’affetto – tre parole che non sentiva da quando avevano più o meno quindici anni – e il sorriso che fece capolino sul suo volto sembrò il compimento di qualsiasi suo desiderio.

« Ti voglio bene anch’io, Clarky. »

Non appena sentì quel soprannome, anche lei sorrise, mentre una passerella di ricordi le sfilava davanti agli occhi.
 
 


 
*





« Bellamy. » Abby lo salutò con un tono rigido, probabilmente ben consapevole del motivo per cui fosse andato dritto da lei.

« Credo che dobbiamo parlare. » Le rispose immediatamente lui, aggrottando le sopracciglia e incrociando le braccia davanti al petto.

La donna si tolse dalle spalle il camice ospedaliero e annuì gravemente, indicando con un gesto del braccio una delle piccole sale d’attesa del reparto.

I due raggiunsero la stanza in silenzio e, prima che lei potesse nuovamente voltarsi verso di lui, Bellamy parlò: « Mi ha mentito. »

La Signora Jaha si allungò verso la porta e la chiuse, assicurandosi che nessuno fosse nei paraggi.

« Pensava forse che non l’avrei scoperto? » Più il tempo passava, più l’agente Blake sentiva la propria pazienza fluire lentamente via, sostituita da una sicurezza e da una determinazione che non lasciavano spazio a null’altro.

« Mi dispiace, Bellamy. »

« Le dispiace? Beh, credo che potrebbe fare un po’ di più che essere dispiaciuta. Non lo sa che l’intralcio alle indagini è un crimine penalmente perseguibile? Non ho tempo di occuparmi anche di lei, Signora Griffin, non quando sto cercando di trovare quel figlio di puttana. »

« Io non- »

« No, ora mi stia a sentire. Ho visto i filmati di sorveglianza. Lei mi ha detto che c’era solamente una persona sulla scena del crimine, la stessa che ha attaccato sua figlia con il cloroformio, ma ha mentito. C’era un altro uomo, quello alla guida del SUV. Cos’è che non mi sta dicendo?  »

« Non ho alcun ruolo nel rapimento di mia figlia, se è questo che stai insinuando. » Affermò con fermezza lei, poggiandosi le mani sui fianchi e affrontandolo a pieno petto.

« E allora mi dica la verità. » Quasi ruggì Bellamy, compiendo un passo avanti.

Vide con estrema chiarezza l’incertezza nella sua espressione, come se stesse per dire qualcosa che  non aveva la minima intenzione di confessare, ma che per lei era un peso troppo grande da portare sulle spalle.

« Conosco quel SUV. » Confessò alla fine, lasciando cadere le braccia inerti lungo i fianchi.

« Cosa? »

« Era di mio marito. » Suggerì fra i denti, e lasciò vagare lo sguardo lungo la parete tappezzata di volantini medici alla propria destra.

« Temo che dovrà essere più precisa. » Disse con sarcasmo lui.

Abigail alzò gli occhi al cielo e replicò: « Era di Jake. Quell’automobile era di Jake. »


 

 
*



 
Jasper scartò l’idea di prendere l’ascensore e si gettò verso le scale, che percorse a due a due finché non raggiunse il piano che lo attendeva.

Monty, alle sue spalle, non aveva detto una parola dal momento in cui l’avevano saputo, e si erano subito diretti al Mount Weather.

« Non credo che sia orario di visite… » Propose il moro, mordendosi il labbro inferiore con incertezza.

« Me ne fotto dell’orario di visite, Mon. Devo vederla. »

Erano stati avvisati da Wells solamente da un paio di decine di minuti, e, nonostante sapessero che Clarke non correva alcun pericolo di vita, non avevano potuto fare altro che precipitarsi all’ospedale e correre il più velocemente possibile.

Al giovane Jordan non interessava che l’ultima volta che l’aveva vista le avesse confessato i propri sentimenti, né che da quel giorno non si fossero più rivolti la parola, perché tutto quello era ben più grave.

Il solo pensiero di aver rischiato di perderla per sempre gli aveva tolto qualsiasi energia, lo aveva congelato in una dimensione in cui tutto avrebbe perso colore.

Perché sì, Clarke Griffin era tutto ciò che impediva al suo mondo di scadere in un insulso grigio.

Non appena arrivarono – senza fiato ed esausti – alla camera che gli aveva indicato Wells, i due si guardarono per un breve istante e si precipitarono dentro, prima che qualche infermiera potesse vederli ed effettivamente rimandarli indietro.

« Clarke! » Gridarono entrambi nello stesso istante, avvertendo appena la presenza del fratellastro che era seduto sulla poltrona a fianco al letto, e si gettarono verso di lei in un istante.

La bionda, colta di sorpresa da quell’intrusione, lasciò andare il libro che stava leggendo e si perse nell’abbraccio dei suoi due migliori amici, accorgendosi solo in quell’attimo di quanto i loro profumi gli fossero mancati.

Solo dopo aver corso il pericolo di non rivederli mai più – di non poter più essere membro onorario dell’esclusivo Club del Libro di Monty, o di non poter più dire a Jasper che andava bene così, che non lo avrebbe mai più abbandonato, che avrebbero trovato una soluzione al completo garbuglio che erano diventate le loro vite – prese coscienza di quanto fosse stata fortunata ad averli avuti al proprio fianco, pronti a soffrire e ridere con lei, pronti a passare sopra ogni suo più lunatico atteggiamento, ogni doloroso allontanamento e ogni suo difetto, perché lei era pur sempre la bambina che già a cinque anni aveva dimostrato che anche per loro c’era gente buona e premurosa.

Perciò Clarke sprofondò con il volto fra le loro spalle, e per l’ennesima volta pianse, perché l’aver quasi toccato la morte le aveva fatto capire che non era quello il modo in cui sarebbe dovuta andare la sua vita.

Non era lasciando fuori tutti quelli che l’amavano che sarebbe guarita da quel dolore che le si era radicato nel corpo come un’erbaccia velenosa.

« Mi dispiace. » Riuscì a sussurrare dopo qualche momento, allungandosi e arrivando ad intrecciare le proprie dita con quelle di Jasper.

« Stai bene, stai bene. Va tutto bene. Non preoccuparti. » La rassicurò lui, muovendo la bocca contro la sua chioma dorata, e Monty si limitò ad annuire e a rafforzare la stretta attorno alla sua esile schiena, quella schiena di giovane donna che aveva dovuto sopportare fin troppo, ma che, ancora una volta, era una sopravvissuta.

La ragazza singhiozzò, baciando la guancia del giovane Green, e annuì.








 
 

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Capitolo 15
*** XVI ***


Buon pomeriggio a tutti! :)
Prima di iniziare, devo ringraziarvi. Grazie per le recensioni, grazie per il supporto che mi date costantemente, grazie semplicemente per la vostra presenza. Non ci crederete, ma vi voglio bene come se passassimo ogni giorno insieme.


Su questo capitolo non ho molto da dire, lascio a voi i giudizi, e mi soffermo sul prossimo capitolo: Raven Reyes is coming to town (o, meglio, sta ritornando) e ci sarà un momento fra lei e Bellamy, tenetevi pronti alla brotp Miller e Clarke e sarà presente una scena molto, molto importante per Bellamy.

Ok, credo di aver detto tutto. Per qualsiasi cosa, potete contattarmi privatamente o lasciare una recensione.

Buona lettura!


 


 
Is It Any Wonder?


 
« Cosa posso portarle? »

« Un caffè nero. »

« Qualcosa da mangiare? »

« No. Il caffè andrà bene. »

La cameriera del turno notturno si allontanò senza aggiungere altro, pronta a servire l’unico cliente presente alla tavola calda alle due del mattino.

Guardandosi intorno, abbassandosi sulla fronte il cappellino da baseball coperto a sua volta dal cappuccio della felpa, il ragazzo si passò il dorso della mano sulla bocca e deglutì pesantemente.

Stava fissando il cellulare usa e getta da ormai un’ora, dal primo momento in cui si era messo seduto e i fari delle macchine che viaggiavano in autostrada gli avevano illuminato il volto con irregolare intermittenza.

Continuava a rigirarsi l’apparecchio fra le dita, facendolo scivolare sulla superficie del tavolo e riacchiappandolo dopo qualche istante, ancora troppo impreparato per buttarlo via, per liberarsi dell’unica prova che lo collegasse al delitto che aveva perpetrato.

Sapeva bene quello che aveva rischiato, il pericolo che tutt’ora lo minacciava, ma non aveva potuto fare altrimenti, nemmeno davanti a quella parte di sé, quella vocina nella sua testa, che gli aveva sussurrato di non farlo, di non prendersi quella responsabilità, di lasciare che la verità venisse a galla e lo sommergesse.

Perché Atom era molte cose, tante delle quali lo avevano condotto esattamente lì, incastrato in una rete di bugie, inganni e ricatti, ma non era un assassino.

« Ecco qui. » La voce della donna interruppe il corso dei suoi pensieri, e l’unico rumore che si udì fu quello della tazza che veniva poggiata sul tavolino, fumando pigramente per il calore della bevanda al suo interno.

« Grazie. » Mugugnò fra i denti lui, mentre l’odore forte e inaspettatamente rasserenante gli arrivava alle narici, mischiandosi a quello di fritto che aleggiava nell’aria e proveniva dalla cucina.

Aveva guidato fino a veder sparire le luci dei grattaceli di Los Angeles, aveva imboccato l’autostrada e non si era fermato finché l’ansia non glielo aveva permesso, lasciando spazio ad un’angoscia ancor peggiore, se possibile.

Sapeva fin dall’inizio della gravità dell’affare in cui stava andando a invischiarsi, lo sapeva così bene – nessuno si metteva a lavorare per la persona per cui aveva lavorato lui senza essere ben consapevole dei pericoli – ma non aveva avuto altra scelta. O, in alternativa, non aveva potuto considerare nessun’altra scelta, perché in ogni caso avrebbe perso.

Perché, se l’avesse avuta, certamente non avrebbe mentito e raggirato il suo migliore amico.

Certamente non sarebbe diventato una spia, quel genere di persone che il severo e austero militare che era stato suo padre aveva sempre disprezzato, e che lui si era premurato di non diventare – sbagliandosi di grosso, ovviamente. –

Non avrebbe rapito una ragazza innocente. Una ragazza che gli piaceva, che gli era stata simpatica fin da subito.

Una ragazza che aveva fatto sorridere Bellamy di quel sorriso che Atom aveva visto una volta soltanto, ovvero l’unico che riservava a sua sorella.

Quel sorriso che diceva: “Per te potrei piantare un proiettile nel petto di qualcuno e nemmeno preoccuparmene.”

E non sapeva neppure come fosse accaduto.

Come fosse stato possibile che il grande e grosso Bellamy Blake, quello che a sedici anni l’aveva trascinato in una rissa e fatto rinchiudere in riformatorio per tre giorni, si fosse completamente sciolto davanti a quella che, a prima battuta, gli era semplicemente sembrata una principessina viziata.

E questo non aveva fatto altro che aggravare il proprio tradimento, perché, se c’era qualcosa che Bellamy non poteva tollerare, era perdere le persone che amava. Era il fatto che qualcuno gliele portasse via.

Cosa avrebbe fatto, quando avrebbe scoperto che era stato proprio lui?

Atom sapeva che l’amico non si sarebbe fermato davanti a niente, pur di far pagare il responsabile della sofferenza di una delle due.

Ma quella sarebbe stata una punizione sufficiente. L’avrebbe perfino accolta con gioia, perché era quello che meritava.

In nome di quello che era diventato, delle orribili cose che aveva fatto – le cose per cui il suo capo lo teneva in pugno, le azioni che avrebbero ricoperto d’infamia e vergogna il nome di suo padre e della sua famiglia – avrebbe volentieri accettato qualunque punizione avessero scelto per lui.

Quasi non gli pareva vero, ma si trovava esattamente al punto di partenza: solo, in fuga, nel torto marcio e nella merda fino al collo.

Senza aiuto, senza soldi, senza un posto dove andare, o dove dormire.

Era perfettamente consapevole che oramai il suo capo si fosse accorto di quello che era successo, e sapeva anche che Clarke lo aveva riconosciuto – lo ipotizzava, perlomeno – e che avrebbe potuto denunciarlo da un momento all’altro.

Sapeva che questa volta non ci sarebbe stato nessuno a proteggerlo, o a salvargli il culo dai suoi ennesimi e ripetutivi errori, e che presto sarebbe tutto finito.

Ma, nonostante ciò, l’istinto di sopravvivenza era più forte.

Più potente del bene profondo e sincero che provava nei confronti dei fratelli Blake, più intenso del rimorso e del senso di colpa per quello che aveva fatto e che era stato pronto a fare alla giovane Griffin, più pesante della vergogna che il solo pensiero del volto dei suoi genitori gli procurava.

Poiché, alla fine dei conti, tutto quello che aveva sempre desiderato era sopravvivere.
 


 
 
 
 

« Tu sei Bellamy, giusto? »

La voce giunse alla sinistra del maggiore dei Blake proprio mentre stava per prendere il primo sorso del primo caffè della mattina, seduto nella caffetteria dell’ospedale in attesa di poter finalmente vedere Clarke.

Alzando brevemente gli occhi al cielo, il moro si voltò subito dopo ed incontrò un viso conosciuto.

« Saresti? »

« Mi chiamo Nathan, ma tutti mi chiamano Miller. »

Il ragazzo, probabilmente anch’egli diciannovenne, gli sorrise debolmente, annuendo.

« Miller. » Ripeté Bellamy, distogliendo subito lo sguardo e tornando a trangugiare la bevanda calda.

« Sono un amico di Clarke. » Proseguì lui, tamburellando le dita sul tavolo a cui si era seduto, poco distante da quello del moro. « Sto aspettando anch’io di vederla. »

L’altro fece un breve cenno del capo, portando di nuovo lo sguardo su di lui, chiedendosi cosa volesse e perché gli stesse rivolgendo la parola.

Ecco, dormire poco più di tre ore, trascorrere un’intera giornata fra scene del crimine e revisioni di filmati di sicurezza e deposizioni, arrivare in ospedale senza ancora poter vedere Clarke – davvero, come diavolo poteva essere possibile? – non erano certo grandi incentivi per una conversazione di prima mattina.

Notando l’insistenza con cui il ragazzo lo fissava, Bellamy si trattenne dall’istinto di alzarsi e andarsene.

« Solitamente non avvicino sconosciuti nelle caffetterie degli ospedali, sai? Anzi, mi piace stare da solo. È solo che… Sembri così… »

« Stanco? » Suggerì lui con sarcasmo, « Irritato? Incazzato? Esausto? Probabilmente ognuna di queste, in verità. »

« Vuoi una sigaretta? » Domandò il più giovane, offrendo una rapida soluzione al suo apparente e comprensibilmente giustificato nervosismo.

Attirato dalla prima buona proposta dopo quei giorni estenuanti ed infiniti che aveva vissuto, il maggiore dei Blake finalmente sorrise, seppur stancamente.

« Puoi scommetterci, amico. »
 
 


 
*



 
La giovane Griffin si svegliò all’improvviso, la fronte imperlata di sudore e il respiro accelerato.

Sapeva bene come sostenere gli incubi, come affrontarli – di certo le sue notti non erano mai state facili e rilassanti, nemmeno prima di allora – ma ogni volta si sentiva stanca e indifesa, come se non si fosse mai addormentata e non avesse mai avuto occasione di riposarsi.

Era quella la sensazione peggiore: l’impotenza. L’incapacità di combattere qualcosa che non si poteva toccare, né vedere. Qualcosa che non era reale, ma che faceva più male di qualsiasi altra sensazione.

Qualcosa che esisteva solo dentro di lei e che, per questo, non poteva essere sconfitta.

Clarke oramai avrebbe dovuto imparare.

Spostando lo sguardo alla propria destra, verso la poltrona che durante quel paio di giorni non era mai stata vuota, scorse l’ombra del corpo di Wells, il capo reclinato contro lo schienale e il respiro regolare che gli gonfiava il petto.

Non era capace di immaginare come potesse essere stato possibile, come potesse essere stata così fortunata da trovare qualcuno pronto a lottare per lei e credere nelle sue capacità per ogni attimo della sua vita.

Forse quella era stata una ricompensa, un mero risarcimento che il destino le aveva riservato quando aveva deciso di portarle via suo padre.

Della serie: “Soddisfatti o rimborsati.”

Ma, se fosse esistito davvero un Dio, quello che tante persone le avevano consigliato di pregare, forse avrebbe saputo che Clarke Griffin non sapeva accontentarsi.

Clarke Griffin voleva tutto: voleva suo padre, sua madre e il suo fratellastro. Voleva l’università e la laurea. Voleva Bellamy.

E magari era così che sarebbero dovute andare le cose fin dall’inizio: fin dal momento in cui l’aveva visto per la prima volta, alle tre del mattino, pronto ad urlare contro sua sorella, fin da quell’attimo avrebbe dovuto prenderselo.

Avrebbe dovuto prenderselo e tenerlo con sé, poiché oramai non era più in grado di stare senza.

Una parte di sé sapeva che era proprio per quel motivo che aveva chiesto a Wells di mentirgli, di dirgli che era ancora troppo stanca e debole per ricevere visite che non fossero di famiglia.

Perché sapeva che non sarebbe più riuscita a fare nulla senza di lui, e che questo non era affatto ciò di cui aveva bisogno in quel momento.

Quello che doveva fare, invece, era riprendersi in fretta, riacquistare le forze e mettersi a lavoro. Trovare Atom, trovare Dax e scoprire finalmente tutta la verità. Poi, denunciare tutto alla polizia. Veder marcire all’inferno chiunque le avesse fatto quello, chiunque avesse potuto guardare suo padre negli occhi e avvelenarlo, ammazzarlo come un animale.

E, questa volta, per fermarla non sarebbe stato sufficiente rapirla. Per fermarla, avrebbero dovuto ucciderla.
 
 
 

 
*




« Siamo fottuti. »

La voce squillante ed isterica di Dax rimbombò all’interno della vettura, e il ragazzo reclinò il capo contro il sedile del passeggero.

« Siamo veramente fottuti, questa volta davvero. Andrà dalla polizia. Mi ha visto in faccia, quindi andrà dalla polizia e dirà che sono stato io. E finirò in gabbia, stavolta per davvero. »

« Calmati. »

« Calmarmi? Questa volta non potrai fare niente per impedirlo, perché avranno le prove. Mi sbatteranno in cella e butteranno la chiave. » Tirò su col naso, rigirandosi nervosamente la sigaretta fra indice e pollice, e la cenere gli cadde addosso, sporcando il giacchetto di pelle che indossava.

« Nessuno le ha ancora parlato. È in ospedale, visite riservate solo ai famigliari, e Bellamy non l’ha ancora vista. Sai che lo so. »

« Certo, è facile per te dirlo. Non è te che verranno a prendere. Cazzo, tu non sei nemmeno fra i sospettati. Tu sei, tipo, l’ultima persona sulla faccia della Terra che potrebbero mai incolpare. Non dubiterebbero mai di te. »

« Non ti accadrà niente. Finché farai come dico io, non ti accadrà niente. Devi solo mantenere la calma e non fare assolutamente nulla. Vai a casa, fatti una tirata, non so. Solo, non parlare con nessuno. Intesi? »

Dax a quel punto voltò il capo verso il suo interlocutore, osservandolo per qualche istante.

L’aspetto sempre impeccabile, mai un capello fuori posto, la tipica persona che si incontra per strada e si pensa: “Dio, quel completo deve valere quanto l’ipoteca dell’ipoteca del mio bilocale di merda infestato dai ratti.”

Aveva paura. Aveva davvero paura, perché sapeva che questa volta non ci sarebbe stato modo di scagionarlo dalle accuse che Clarke Griffin, ne era sicuro, gli avrebbe presto rivolto.

Diamine, non c’era davvero modo di farla franca. Ma, sebbene temesse l’accusa, non c’era nulla che temesse più del suo capo.

E se il suo capo gli diceva di non fare niente e calmarsi, lui lo avrebbe fatto.

« Intesi. »
 


 
*

 
 
« … E poi lei gli ha tirato un pugno. Ti giuro, amico, un pugno. Dritto in faccia. »

Miller scoppiò a ridere non appena terminò il racconto, prendendo l’ultima boccata dalla sigaretta e gettandola nel bidone al suo fianco.

« Non riesco proprio ad immaginarlo. » Sospirò con sarcasmo Bellamy, puntando lo sguardo verso le nuvole che ingrigivano il cielo estivo.

« È sempre stato così. Non importa quanto risultasse chiusa in se stessa, quanto non fosse la classica ragazza da baci e abbracci, Clarke ha sempre protetto le persone a cui voleva bene. C’è come questa aurea attorno a lei, sai? È come se ogni volta che si tratta di lei, chiunque sarebbe disposto a fare qualunque cosa. »

« Già. » Mugugnò il moro, incapace di aggiungere altro.

« Lo troverai? Il bastardo che ha provato a farle del male, intendo, lo troverai? »

Il maggiore dei Blake si voltò verso l’altro con espressione fiera e determinata, perché, se c’era una cosa che sapeva in tutto quel garbuglio di misteri e indagini, era che avrebbe trovato chiunque fosse il colpevole.
L’avrebbe trovato e gliel’avrebbe fatta pagare.

« Lo farò, Miller. » Promise. E non appena pronunciò ad alta voce quel nome, improvvisamente gli tornò alla mente qualcosa.

« Aspetta… Miller? Come il Tenente Miller? » Domandò confusamente.

Il ragazzo scoppiò a ridere, gettando lievemente il capo indietro, e annuì brevemente.

« Già. Vedo che allora lo conosci. »

« Ma certo che lo conosco. Lui è… una leggenda! » Esclamò Bellamy, per la prima volta dopo giorni in cui si sentiva veramente entusiasta.

Il Tenente Miller, pluridecorato personaggio del Dipartimento di Los Angeles, era una figura che aveva sempre ammirato,guardandolo da lontano e sperando di poter divenire come lui, un giorno.

Era il secondo in comando del Capitano Sidney, ed insieme avevano preso parte ad alcune delle più importanti indagini degli ultimi decenni, collaborando praticamente con ognuna delle sezioni del Dipartimento, inclusa l’antidroga.

Nathan mostrò i denti inferiore in un’espressione di completa consapevolezza, ma sorrise subito dopo: « Sai, vorrei entrare nelle forze dell’ordine. Sono al primo anno dell’Accademia, e mi piacerebbe unirmi all’antidroga. E mio padre mi ha parlato di te. »

Il moro sbarrò gli occhi. « Tuo padre… Il Tenente Miller ti ha parlato di me? »

« Certo. Sai, lui e Diana sono grandi amici da anni, e il Capitano sembra volerti davvero bene. Parla spesso della grande nuova promessa della lotta al narcotraffico. »

« Dio… » Mugugnò a denti stretti, semplicemente sorpreso di tanta visibilità.

Sapeva che il suo capo si era affezionata al suo caso fin dall’inizio – un ragazzo con così tanti problemi ma con così tante credenziali, potenzialità e abilità che non vedeva da anni – ma non avrebbe mai creduto di poter avere una tale occasione.

« E così volevo chiederti dei consigli. Delle dritte del mestiere, no? »

Il maggiore dei Blake gettò un’occhiata al proprio moonwatch, che segnava pochi minuti alle otto del mattino – l’inizio dell’orario di visite – e contrasse brevemente la mascella.

« Credo che ora dovremmo entrare, ma certo. Sicuramente. Potremmo prenderci un caffè, non appena la situazione si sarà stabilizzata. »

« Ci conto, Bellamy. »

Nathan gli sorrise ed entrambi si diressero verso l’entrata.
 
 
 

 
*




Clarke uscì dalla doccia del bagno della sua camera ospedaliera mentre un odore di caffè e brioche calde si diffondeva attraverso la porta – il vantaggio di essere la figlia del primario, a quanto pareva, era quello di arrogarsi una stanza singola e poter mangiare pasti perlomeno commestibili – e sorrise.

Si asciugò in fretta, indossando un pigiama nuovo che Abby le aveva portato qualche giorno prima, e lasciò i capelli umidi ricaderle pigramente sulle spalle.

Non appena raggiunse nuovamente il proprio letto, notò immediatamente il vassoio su cui erano posati più dolci di quanti probabilmente ne avesse mai mangiati in vita sua, e una ben più invitante tazza fumante.

Adocchiando suo fratello, che era del tutto concentrato a digitare qualcosa sul proprio smartphone, la giovane Griffin si mise a sedere e sbirciò meglio il contenuto della coppetta.

« Non dovresti viziarmi così, sai? »

« In realtà, » E in quel momento sollevò lo sguardo per guardarla, « non sono da parte mia. »

La bionda aggrottò le sopracciglia, confusa, ma immediatamente comprese.

Si aspettava davvero di poterlo ignorare in eterno? Di poter rimandare il momento in cui avrebbe dovuto dirgli che no, non voleva più vederlo, che aveva bisogno di stare sola, ed altre inutili idiozie solo per impedirgli di invischiarsi in qualcosa troppo più grande di lui?

« Dov’è? » Sussurrò, osservandosi nervosamente le mani.

« Qui fuori. Proprio come ieri, e come l’altro ieri, e come il giorno prima ancora. Ascolta, » La voce di Wells si ammorbidì, e lui si allungò verso di lei, « non so per quale motivo tu non voglia parlargli, ma dovrai farlo. E qual è il senso nel lasciar passare del tempo inutile? »

Clarke sbuffò, prese un respiro profondo e puntò lo sguardo nel suo. « Ok, va bene. »

Quando il suo fratellastro si alzò, molto probabilmente pronto a lasciar entrare Bellamy, la sua voce lo interruppe: « Solo non ora. »

Il più grande di casa Jaha la guardò di sbieco, ma non aggiunse o fece altro.

« Gli dirò che stai dormendo, ok? Ma dopo questa ci parlerai. Prometti? »

Ben consapevole di ciò che le stesse chiedendo il suo fratellastro, la bionda annuì solennemente.

« Prometto. »
 
 
 

 
*




Bellamy era pronto a rivolgersi nuovamente all’infermiera quando vide Wells uscire dalla stanza di Clarke.

Quasi correndogli incontro, si fermò davanti a lui e parlò, senza però staccare gli occhi dall’uscio di legno.

« Allora? »

« Sta ripos-»

« Sono stufo di queste stronzate, ok? » L’altro riportò l’attenzione sul suo interlocutore, mentre un muscolo della mascella gli rimbalzava contro la guancia.

« Bellamy… »

« Facciamo una cosa. Facciamo che sono qui come agente Blake », si portò la mano sinistra alla tasca posteriore dei pantaloni neri, e aprì il distintivo davanti ai suoi occhi, « e ho bisogno di parlare con il mio testimone ora. Ne va di un’indagine di rapimento. Quindi, Wells, perché non svegli tua sorella e le dici che sarò pronto ad interrogarla fra dieci minuti? »

Il moro incrociò le braccia al petto con il suo solito atteggiamento spavaldo, sollevando impercettibilmente il mento e sfidando il ragazzo.

Sapeva che non era con lui che avrebbe dovuto prendersela, ma era davvero stanco di quel gioco. L’ultima volta che aveva visto Clarke era stata in quella dannata tavola calda, e non gli era affatto piaciuto il modo in cui l’aveva trovata.

Non gli erano piaciuti i lividi e il vestito strappato, e nemmeno il fatto che qualcuno l’avesse fottutamente rapita.

L’unico figlio di Thelonious Jaha annuì brevemente e tornò da dov’era venuto senza proferire alcuna parola.

In attesa di poter finalmente parlare con l’unica persona con cui avesse effettivamente avuto desiderio di parlare durante quei giorni, Bellamy estrasse dalla tasca della giacca il proprio telefono cellulare e digitò la chiamata rapida per sua sorella.

Al terzo squillo, Octavia rispose con voce impastata dal sonno ma allarmata, in guardia: « Che succede? »

« Tranquilla, O, tutto bene. Volevo solo dirti che… Sono in ospedale, sto ancora aspettando di parlare con Clarke, e non so se potrò tornare a casa per pranzo. Perché tu ed Atom non andate da qualche parte? Ti ho lasciato dei soldi sul bancone della cucina. »

« Hai davvero bisogno di dormire, fratellone. »

Il moro rimase piuttosto spiazzato da quella risposta, che davvero non si sarebbe aspettato, e stava quasi per replicare, quando la più giovane continuò: « Atom non è a casa da una settimana, ricordi? »

Prese un respiro profondo. Dio, aveva davvero bisogno di dormire. Fra le indagini, le deposizioni e la squadra che stava cercando di organizzare, era passato a casa solo un paio di volte, giusto il necessario per prendere gli oggetti più importanti e portarli alla Stazione.

Non a caso, aveva riempito il suo armadietto di vestiti, cambi e spazzolino da denti proprio per non essere costretto a passare di nuovo nella propria abitazione.

« Sì, giusto… » Chiudendo gli occhi, si strinse la base del naso fra indice e pollice, strofinando e pizzicando la pelle in chiaro segno di nervosismo, « Hai ragione. Perché non passi qui, allora? Posso prenderti qualcosa da mangiare in caffetteria. »

« Per questa volta passo, preferirei buttare giù i biscotti inceneriti di Atys piuttosto che pranzare di nuovo in quel posto. Ci vediamo dopo? »

In quel momento Wells uscì nuovamente dalla stanza, e da lontano gli fece un cenno del capo.

Bellamy annuì. « A dopo. »
 
 


 
*




Clarke si passò una mano fra i capelli quasi meccanicamente, in un gesto che compieva ogni qualvolta si sentisse troppo nervosa per fare altro.

Non era che avesse pensato davvero di poterlo evitare per sempre, ma non voleva nemmeno affrontarlo in quel momento.

Perché lei lo sapeva, lo sapeva e non poteva più negarlo: mentire a Bellamy era qualcosa che categoricamente non aveva voglia di fare. Non dopo tutto quello che avevano affrontato.

Non dopo essersi confidata con lui riguardo gli spiacevoli eventi degli ultimi quattro anni della sua vita.

E davvero non voleva mentire all’unica persona con cui fosse riuscita ad essere onesta – a volte un estraneo era il miglior confidente, perché non aveva aspettative e non sapeva nulla dell’altro. Ma lui non era più un estraneo, non da quando il solo pensiero di vederlo le aveva cominciato a procurare brividi lungo tutto la schiena – ma sapeva di non aver altra soluzione a disposizione.

La giovane Griffin sapeva che, se avesse coinvolto la polizia e, più in particolare, Bellamy, poi tutto il suo piano non avrebbe mai potuto realizzarsi. Non sarebbe mai stata in grado di conoscere la verità.

Quello di cui non aveva avuto consapevolezza, però, era che sarebbe stato così difficile.

Perché non era stata di certo sua intenzione, quella di perdere totalmente la testa per quel dannato arrogante che si era rivelato una persona migliore di quanto lei avrebbe mai potuto immaginare, o di quanto avrebbe mai potuto sperare di essere.

Non era sicuramente quello il primo pensiero che aveva avuto quando l’aveva visto.

Tutto quello, la situazione in cui verteva la propria vita, le condizioni in cui si trovava il proprio cuore, non era stato di certo premeditato.

E ora stava per rivederlo, e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che doveva assolutamente togliersi quel pigiama. Doveva essere bella.

Lei, che aveva smesso perfino di truccarsi o di curarsi minimamente del proprio aspetto fisico, ora era letteralmente ossessionata dall’idea di rendersi presentabile. Si sentiva ridicola, a dirla tutta, e anche un po’ squallida, ma non poteva farne a meno.

E niente di quello andava bene.

Era ben consapevole di avere solo qualche minuto prima che il maggiore dei Blake, con ogni sacrosanto diritto, reclamasse la sua attenzione per qualche minuto, perciò la bionda rovistò con urgenza e impellenza nella valigia che Abby le aveva lasciato qualche giorno prima, cercando qualcosa di casual e senza pretese che potesse essere adatto alla situazione.

Dopo qualche secondo, optò per un paio di jeans scuri e una semplice T-shirt nera, con la speranza di non apparire troppo elaborata.

Quando, con un paio di colpi secchi, qualcuno bussò alla sua porta – e sapeva bene che non si trattava semplicemente di qualcuno – Clarke prese un respiro profondo e chiuse per un attimo gli occhi.

« Avanti! » Sospirò.
 
 
 


 
*





Atom continuò a guidare finché la stanchezza non lo colse allo stremo delle sue forze, quando ormai anche tenere gli occhi aperti gli costava una fatica disumana.

Razionalmente era del tutto consapevole dell’inutilità di quello che stava facendo – non importava quanto lontano avesse intenzione di fuggire, quello che aveva fatto l’avrebbe seguito anche in capo al mondo – ma dentro di sé, in una parte remota ma al tempo stesso perfettamente attiva della sua mente, c’era ancora qualcosa che lo spingeva lontano dall’orrore che aveva visto e che aveva commesso, dal tradimento per il suo migliore amico e il male che aveva fatto ad una persona innocente.

Non importava il fatto che non avesse effettivamente e materialmente sfiorato Clarke, poiché sapeva che la sua complicità in quello che era stato sul punto di accaderle fosse innegabile e abbastanza grande da poterlo ritenere diretto responsabile.

Sapeva anche che, per colpa di quello che aveva fatto, non avrebbe mai più potuto rivedere nessuno dei suoi cari: suo padre, con cui non parlava da tempo  (“Tu non sei più mio figlio, e ora esci dalla mia casa!”), sua madre, che in tutti i modi aveva tentato di tenere in piedi una famiglia distrutta già da un pezzo; per non parlare di Bellamy, che, ne era certo, prima o poi avrebbe scoperto il suo coinvolgimento nell’accaduto, e che avrebbe finito irrimediabilmente per odiarlo.

E Octavia, che già una volta aveva lasciato, una ragazzina piena di vita che ora era una giovane donna inarrestabile e combattiva.

Non avrebbe più sentito le loro voci. Non sarebbe più potuto tornare indietro.

Accostando l’automobile nel parcheggio di un autogrill – non voleva nemmeno sapere dove si trovasse precisamente, sapeva solo di aver guidato sempre dritto, il più lontano possibile da tutto quello – Atom tirò il freno a mano e si piegò sul volante, raccogliendosi il volto fra le mani stanche.

Senza pensarci troppo, senza fermarsi a considerare le conseguenze che quell’azione avrebbe potuto provocare, tirò fuori il cellulare usa e getta che aveva comprato quella stessa mattina.

Digitò il numero ben conosciuto, quello che avrebbe potuto comporre anche senza guardare, ed attese.

« Pronto? »

Chiuse gli occhi, di nuovo, e poggiò la fronte sul volante, di nuovo.

La mano che stringeva l’apparecchio sembrava tremare visibilmente, ma il giovane cercò di concentrarsi e immobilizzarsi.

Quando la voce non parlò, per qualche secondo pensò che avesse riagganciato. Poi, d’un tratto: « Atom? » Un sussurro.

« Lui non c’è, puoi parlare… » Aggiunse la voce.

Attese ancora un po’, cercando di raccogliere l’ultimo briciolo di coraggio che gli rimaneva, e subito dopo parlò: « Mi dispiace tanto, mamma. »




 
*




Bellamy si richiuse la porta alle spalle con un tonfo rumoroso, rendendo così impossibile ignorare la sua entrata.

Non appena si voltò, i suoi occhi scannerizzarono l’esile figura di Clarke alla ricerca di qualche ferita grave, o di qualcosa che potesse giustificare il fatto che non avesse avuto possibilità di vederla fino a quel momento.

Ed era strano, perché, nonostante tutto, sembrava stare bene.

« Ehi. » Sussurrò lei, grattandosi il collo e osservandolo.

Aveva sentito la sua voce. Era in piedi. Era viva, e stava bene. Andava tutto bene. « Come stai? »

La giovane Griffin si morse il labbro inferiore e annuì, rivolgendo lo sguardo fuori dalla finestra.

« Non mi è andata male. Insomma, guarda questa stan- »

« Allora puoi dirmi perché ho dovuto tirare fuori il distintivo per vederti? » La incalzò lui, incrociando le braccia al petto in quella tipica posizione che sembrava urlarle: “Non ho mai perso una guerra e non ho la dannata intenzione di perderla ora”.

Lei si concentrò sul suo volto, sulla sua espressione: era visibilmente stanco, probabilmente esausto – lo conosceva abbastanza da sapere che non si fosse fermato nemmeno un attimo – ma c’era qualcosa di più.

E Clarke era ben consapevole di cosa si trattasse. Perciò rimase in silenzio. Non disse nulla, rimase semplicemente a fissarlo, sentendo i suoi occhi scrutarla di rimando, percependo la loro ostinazione e la loro fermezza.

Fu la prima a distogliere lo sguardo, e gli diede le spalle.

« Ti hanno fatto del male? Ti hanno… » Azzardò lui, la voce ridotta ad un sussurro.

La bionda si voltò di scatto, avendo perfettamente compreso quello che aveva insinuato, e si affrettò a dissuaderlo da quei sospetti: « No! No, no, niente di tutto questo. Solo… »

Indicò con l’indice un graffio sul suo zigomo destro, dovuto allo schiaffo con cui l’aveva colpita Dax, e tentò di sorridere. Inutile dire che il risultato fu una smorfia disgustata.

Notando lo sguardo cupo e accigliato del moro, precisò nuovamente: « No, davvero.  »

Bellamy la osservò ancora una volta dalla testa ai piedi, soffermandosi su ogni centimetro del suo corpo, e Clarke provò quasi disagio per il modo in cui la stava facendo sentire.

Il desiderio nei suoi occhi, intrecciato irrimediabilmente alla preoccupazione e alla tenerezza, sembravano scavarle qualcosa dentro, insinuarsi in una parte profonda e intoccabile di sé, denudandola di qualsiasi altro strato superficiale.

Bellamy era in grado di farla impazzire senza nemmeno toccarla.

« E allora cosa? » Bisbigliò lui, portando nuovamente lo sguardo nel suo. Sembrava divorato da un fuoco che gli bruciava dentro, tormentato dalla ricerca di qualcosa molto più grande di lui.

« Hai bisogno della mia testimonianza? » Gli chiese lei, aggirando la domanda che le aveva rivolto e pensando di poter cambiare discorso. Forse, se fosse riuscita a mantenere la loro conversazione su un piano puramente diplomatico, avrebbe potuto impedirsi di sentirsi così male.

« Non lo capisci, Clarke? Non mi interessa della tua testimonianza, non ora. Ho solo bisogno che mi parli. »

« Cosa vuoi che ti dica? » Alzò il tono, poggiando il pugno chiuso contro il tavolino alla sua sinistra. « Che mi hanno picchiata? Sì, lo hanno fatto. Che credevo che sarei morta? È così. Che pensavo che non avrei mai rivisto mia madre, o Wells? O te? »

Poi gli diede le spalle, perché la sua voce aveva tremato sull’ultima sillaba, perché averlo davanti non rendeva affatto più facile il compito di dirgli addio.

La risposta di Bellamy, roca e furente, le arrivò chiara e dolorosa: « Li troverò. »

Era una promessa.

Una promessa che, lei lo sapeva bene, difficilmente avrebbe mantenuto.

Non quando non era lui quello più informato sui fatti. Non quando non era lui a sapere di chi si trattasse, e chi fosse stato a ridurla in quelle condizioni.

Perché quelle informazioni le aveva e le avrebbe avute solo Clarke, e avrebbe fatto in modo che le cose rimanessero tali. Oramai aveva preso la propria decisione: doveva essere lei. Doveva essere lei a vedere con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie la verità, l’unica e dolorosa verità.

E allo stesso modo aveva bisogno di lui, ma non avrebbe mai potuto averlo.

« Ho bisogno di stare da sola. » Mormorò allora, continuando a guardare fuori dalla finestra.

Se solo avesse potuto smettere di sentirlo, forse quel macigno che percepiva gravarle sulla schiena si sarebbe alleggerito.

Il maggiore dei Blake tirò su con il naso in chiaro segno di agitazione – probabilmente era esageratamente arrabbiato con lei, e non poteva nemmeno biasimarlo – e lei lo immaginò annuire, così come era solito fare quando era tutt’altro che d’accordo con una sua scelta.

« So che stasera ti dimetteranno. I miei uomini passeranno al più presto a raccogliere una tua deposizione riguardo quel giorno. »

La giovane Griffin percepì con estrema chiarezza la porta che si richiudeva alle sue spalle, e accolse il silenzio che calò nella stanza come una giusta punizione.
 
 




Quella stessa sera, poco tempo dopo la discussione con Bellamy – e quella non era solo una discussione, lo sapeva così bene, quella era la fine di qualsiasi cosa avessero iniziati – Clarke era pronta ad essere finalmente dimessa dall’ospedale, da quella camera sterile in cui aveva trascorso gli ultimi giorni.

Avrebbe mentito se avesse detto che era totalmente e completamente pronta ad affrontare quello che c’era fuori di lì: era vero, certo, che una parte di lei era fortemente decisa a dare la caccia a chiunque fosse il responsabile della morte di suo padre e del proprio rapimento, ma era altrettanto vero che aveva paura.

Che, nonostante l’onere di cui si sentisse ricoperta e la fermezza con cui era pronta ad assicurare il corso della giustizia, era solamente una ragazza, una giovane diciannovenne che sapeva così poco della vita e di quanto realmente fosse facile metterla a rischio.

A volte sembrava tutto racchiuso in quella semplice frase: era solo una ragazza.

Era solo una ragazza, quando aveva perso suo padre. O meglio, quando qualcuno lo aveva barbaramente portato via da lei.

Era solo una ragazza, quando era stata arrestata per aver cercato di raggiungere la verità – una verità che le spettava di diritto e per cui, a quel punto della sua vita, era pronta a fare qualsiasi cosa fosse necessaria.

Era solo una ragazza, ora che era costretta a mettere da parte un affetto pur di perseguire e trovare un senso a tutto quello che le era accaduto, un motivo per cui fosse toccato proprio a lei vivere quelle cose e provare quelle cose, come se tutto il proprio essere fosse semplicemente determinato e definito dalla sua sofferenza.
Da quello che era costretta a provare. Dal peso del dover provare.

Perché forse era tutto lì: Clarke non sapeva non provare, e per troppo tempo aveva finto di non esser fatta di carne, di non soffrire e di non poter essere scalfita da nulla.

Per troppo tempo aveva finto di potersi tirare indietro dai sentimenti, da quelle emozioni che le frusciavano nel petto e la sconvolgevano in profondità, senza accorgersi che esse s’erano ormai annidate lì dove lei non avrebbe mai potuto raggiungerle.

E, per quanto ci provasse e avesse continuato a provarci, nemmeno lei poteva scappare dall’umanità che la pervadeva e si beffeggiava di lei.

Quando, qualche attimo dopo, qualcuno bussò alla sua camera d’ospedale, la giovane Griffin prese un respiro profondo.

Era intimamente sicura che non potesse trattarsi di chi lei sperava si trattasse, ma non poté fare a meno di lasciarsi andare ad un minuscolo spiraglio di speranza.

Non appena, però, la testa del suo migliore amico fece capolino dall’uscio, in qualche modo si sentì sollevata e rassicurata. Questo era territorio familiare, in cui sapeva come muoversi, qualcosa su cui aveva controllo e sicurezza.

« Posso entrare? »

Clarke annuì, richiudendo la zip della valigia che aveva appena finito di sistemare.

« Bene, ora che non sei più fisicamente instabile, » Jasper si guadagnò un’occhiataccia, ma continuò imperterrito, « penso che dovremmo parlare. »

Nelle menti di entrambi era vivido il ricordo della loro ultima conversazione, quando lui le aveva finalmente confessato i propri sentimenti e lei era scappata in preda alla confusione.

« Sai cosa? Sono stanca di parlare. »

Senza attendere oltre, la bionda chiuse la distanza fra loro e si gettò fra le sue braccia, beandosi immediatamente del calore e della sensazione di intimità che le trasmetteva il corpo del suo migliore amico.

Avrebbe voluto dire di essere in grado di atteggiarsi a spaccona ancora per un po’, ma non ne aveva le forze.

Non dopo quella giornata così stancante, non dopo essersi ritrovata costretta a fare l’ultima cosa che avesse effettivamente voluto fare.

« Starò bene. » Sussurrò contro il cappuccio della sua felpa, annuendo vagamente. « Starò bene se deciderai di non rivolgermi mai più la parola. Starò bene se penserai che sia meglio così, che lasciarci sia la cosa migliore per te. Te lo prometto, starò bene. »

Clarke non voleva più essere egoista. Aveva trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita ad esserlo, a tenere fuori chiunque tentasse con tutte le proprie forze di ritagliarsi un qualche spazio dentro di lei, e ne era stanca.

Clarke non voleva più essere la persona che si era cucita addosso per troppo tempo. Questa volta, voleva disperatamente essere se stessa.

« Non lo hai ancora capito? » La riprese Jasper, staccandosi da lei e guardandola negli occhi, « Io non ti lascerò mai, Clarke. Non me ne andrò mai. »

« Anche se… »

« Anche se non andrà mai come avrei voluto che andasse. Senti, lo so, ok? Pensi che non ti conosca? Lo so. E andrà tutto bene, te lo giuro. Ora che mi sono tolto quel peso, va già meglio. Non voglio perdere la nostra amicizia. Non voglio perderti adesso così come non sarò disposto a perderti fra dieci, o vent’anni. »

Fu in quel momento, in quell’esatto attimo, che all’improvviso tutto fu estremamente chiaro: forse, ma forse, lei poteva farcela.

Forse era in grado di sopravvivere a tutto quello che le stava accadendo, a quello che le era successo e quello che ancora doveva avvenire, perché ora, dopo anni, Clarke finalmente vedeva: non era sola.

Non lo era mai stata, nemmeno quando aveva voluto gridare a tutti di ascoltarla, di starle vicino, di stringerla anche quando non faceva altro che respingerli.

E, proprio adesso che lo vedeva, non voleva più negarlo.

Lo decise proprio allora, mentre guardava negli occhi il suo migliore amico e vedeva un affetto che andava oltre etichette e classificazioni, qualcosa di puro e reale: non voleva più portare quel peso da sola.

E forse c’era ancora un tremendo egoismo – un sentimento di cui non sarebbe mai riuscita a liberarsi del tutto – in quel pensiero, ma per una volta non se ne curò.

Piuttosto, senza attendere oltre, prese la decisione di rischiare. Era ora o mai.

« Bene, perché ho un favore da chiederti. » A quel punto distolse lo sguardo da lui, incerta, solo per risollevarlo qualche attimo dopo.

« Qualsiasi cosa. » Le promise il giovane Jordan, accennando un sorriso.

« Mi serve una pistola. »




 
 

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Capitolo 16
*** XVII ***


Buon pomeriggio gente! Non ho molto da dire, se non grazie a tutti per il continuo supporto e per le bellissime parole che mi dedicate.


Nel prossimo capitolo: Marcus Kane, L'Ark Corporation e molto di più sui Grounders.




Buona lettura!


 




 

Is It Any Wonder?







« Una pistola? »

Se in quel momento gli occhi di Jasper avessero potuto scivolargli dalle orbite e rotolare sul pavimento, probabilmente l’avrebbero fatto.

Poi sarebbe toccato alla sua mascella.

E forse sarebbe anche potuto essere divertente, in tutt’altra occasione, avrebbe potuto far ridere perfino Clarke, ma ovviamente non era il caso.

La bionda, quindi, annuì, permettendo al suo migliore amico di elaborare il pensiero.

« Intendi… Una vera pistola? Una pistola pistola? » Il giovane Jordan mimò il gesto di uno sparo con il pollice e l’indice, ancora incredulo davanti a quella richiesta, per usare un eufemismo, molto poco ortodossa.

« Sì, Jasper, una pistola. E dovrò imparare ad usarla. Bene. »

« Devo dire che il fatto che tu dia per scontato che io sappia dove procurarmi una pistola illegalmente mi sorprende. Cioè, è questa l’impressione che do? Vieni da Jasper e in regalo avrai una pistola in omaggio? Perché seriamente, Cla- »

« Ok, ok, fermo. Lo so che è difficile da realizzare, so che ti sto chiedendo un gran favore, ma credimi, so quello che sto facendo. »

« Perché non inizi a spiegarmi dall’inizio? » La pregò, sollevando entrambe le sopracciglia e agitando le spalle, ancora piuttosto confuso sul motivo di quella particolare esigenza.

La giovane Griffin annuì di nuovo, poiché poteva solamente immaginare quanto dovesse sembrare totalmente impazzita, e prese per mano l’amico.

Conducendolo accanto al letto della sua camera d’ospedale, si sedette e si voltò verso di lui.

« Pronto? »
 
 



 
*



 
Bellamy era stanco.

Seduto alla sua scrivania, mentre il Dipartimento prendeva pian piano vita e i suoi colleghi iniziavano ad avvicinarsi alle loro postazioni, Bellamy era più stanco di quanto si fosse mai sentito negli ultimi tempi.

Non si trattava solamente di una spossatezza fisica, a quello si era abituato da quando aveva diciotto anni, quando per portare qualcosa a casa per cena lavorava fino alle due del mattino, ma anche di uno sfiancamento mentale che lo affaticava e lo lasciava ad annaspare in cerca di risposte, di una boccata d’aria.

Era ben consapevole di non avere praticamente nulla in pugno: il sospettato che aveva aggredito Clarke aveva tenuto il viso coperto, quindi non c’era modo di identificarlo. Del guidatore non aveva potuto vedere niente, perché si era trovato fuori dal raggio d’azione delle telecamere.

Il mezzo di trasporto, poi, si era rivelata un’automobile la cui denuncia di scomparsa era stata sporta da Jake Griffin anni prima.

Sapeva che quella non fosse semplicemente una coincidenza – raramente l’universo era così pigro – e che poteva perfino trattarsi di una beffa da parte del mandante del rapimento, ma non aveva la minima prova. Certo, il fatto che Clarke fosse stata rapita sull’automobile che in precedenza era appartenuta a suo padre era un chiaro segnale che i due casi fossero collegati, ma lui sapeva di non avere in mano niente.

Forse avrebbe potuto concentrarsi su questa pista, riesumare vecchi fascicoli e leggere il verbale della denuncia di rapina, ma sapeva che si trattava di elementi secondari, troppo superflui.

Il luogo in cui era stata tenuta la giovane Griffin, poi, si era rivelato un altro vicolo cieco: sei mesi prima era stato affittato da un’azienda indipendente di cosmetici, che però aveva abbandonato il progetto di un grosso punto vendita solo qualche settimana dopo.

Agli occhi della legge, quel capannone non apparteneva a nessuno, e per quel motivo non poteva condurlo da nessuna parte.

L’ennesimo e stancante vicolo cieco.

Per la prima volta dopo anni di esperienza in indagini, Bellamy non aveva la minima idea di cosa fare o di quale direzione prendere.
 
 
 

 
*



 
« Wow. Cioè… Wow. »

Jasper era visibilmente senza parole, e Clarke non poteva di certo biasimarlo. Era ben consapevole di quanto dovesse sembrare folle la sua storia, tutto quello che aveva vissuto, ma sapeva anche che, proprio per quel motivo, poteva con facilità sembrare vera.

« Già. » Confermò vagamente.

« Questo è decisamente più divertente delle leggi di Ohm applicate ai fluidi. Decisamente. »

La giovane Griffin accennò un sorriso stanco.

Pochi istanti dopo, però, tornò profondamente seria: « Dico davvero, Jasper, ne ho bisogno. »

« Non ho una pistola. » Affermò lui, scrollando le spalle. « Ma so chi può procurartene una. »

L’amica aggrottò le sopracciglia, cercando di decifrarlo, ma non riusciva a pensare a nulla che potesse darle un indizio per capire.

« Grounders. »





 
*




« Grounders? »

« Grounders. »

Bellamy si guardò intorno, spaesato, e si passò una mano sulla barba incolta che negli ultimi giorni non aveva avuto modo di radersi.

« Vuole mandarmi sotto copertura dai Grounders? » Ripeté nuovamente, come se fosse sufficiente quello a far cambiare totalmente senso alla frase.

C’erano in ballo molti fattori per cui non poteva accettare il caso che il Capitano Sidney gli stava proponendo: primo, non voleva cedere il caso Griffin a nessun altro. Voleva così tanto sbattere in carcere quei dannati bastardi, e non poteva accettare che fosse un agente che non fosse lui ad occuparsene. Non dopo che aveva dedicato un’intera estate a quella ricerca e aveva studiato tanto attentamente il caso.

Una parte di sé gli promise che non si trattava affatto anche di Clarke, che lei non aveva nulla a che vedere con tutto quello, che lui stava facendo solo il suo lavoro,così come l’aveva fatto molte altre volte nelle indagini precedenti.

Secondo, probabilmente la sua copertura non avrebbe retto, perché sapeva che sua sorella aveva frequentato quegli ambienti per qualche tempo, e non c’era modo che nessuno sapesse della sua professione. Sarebbe stato scoperto e avrebbe solamente compromesso l’indagine.

Terzo, inevitabilmente e strettamente collegato ad Octavia, che di certo non avrebbe apprezzato molto il tentativo di suo fratello di distruggere ed annientare il suo ragazzo.

E forse non era pronto a scendere di nuovo in campo, ad adattarsi così completamente al ruolo.

Forse la sospensione lo aveva aiutato a razionalizzare il proprio compito, a rendersi conto che forse non era tagliato per quel tipo di investigazioni.

Quando, però, il suo capo notò la sua esitazione – ormai lo conosceva bene, tanto lo aveva osservato e studiato – annuì brevemente e gli indicò un punto alle sue spalle: seguendo lo sguardo del Capitano, Bellamy non poté impedirsi di alzarsi di scatto dalla poltrona e mettere a fuoco la figura che stava in piedi poco più lontano da loro.

« Lincoln? » Mormorò, incredulo.
 



 
*




 
« Sei sicuro? » Domandò Clarke, una pericolosa scintilla negli occhi blu.

Jasper, che iniziava a dubitare della scelta che aveva appena compiuto, annuì flebilmente.

« Tutto quello che devi fare è aprire il portafogli. »

La giovane Griffin valutò per qualche istante l’opportunità, la prima vera e concreta possibilità di farsi strada e scoprire la verità, poi parlò: « Dovrò avere qualcuno che garantisca per me. Qualcuno che li rassicuri che è sicuro vendermi un’arma, che non sono una spia. La loro protezione sarà strettissima, e non posso di certo rischiare di perdere quest’occasione. »

« Aspetta, aspetta un attimo. Non hai davvero intenzione di usarla, vero? »

Per quanto fosse pronto a supportarla, il suo migliore amico non poteva accettare l’idea che lei si mettesse in guai ben più grandi di quanto stesse già facendo: il solo fatto di mentire e omettere una prova in un caso tanto serio com’era quello del suo rapimento era davvero un grande rischio, uno per cui, prima o poi, avrebbe dovuto pagare le conseguenze, ma procurarsi illegalmente un’arma da fuoco e farlo con la vera intenzione di usarla era tutt’altro conto.

Era qualcosa da cui nemmeno sua madre e le sue conoscenze l’avrebbero potuta proteggere.

« Solo se sarà necessario. »

E c’era qualcosa, nei suoi occhi, che lo inquietò profondamente: sapeva bene quanto Clarke potesse essere determinata e pronta a tutto pur di ottenere quello che voleva, ma stavolta era diverso.

Questa volta, c’era un’ombra nel suo sguardo che lo intimoriva, che non gli faceva presagire nulla di buono.

Jasper aveva paura di dove si sarebbe potuta spingere pur di farsi giustizia.

« Clarke… »

La bionda sembrò immediatamente intercettare il corso dei suoi pensieri, e posò una mano sulla sua: « Andrà tutto bene, Jazz. Risolverò tutto. »

Per un attimo gli sembrò quasi quella di sempre, la ragazza tranquilla che amava leggere libri in veranda ma che non temeva di parlare ad alta voce.

Quando, però, il suo sguardo si oscurò di nuovo, non ne fu poi molto certo.

« Andiamo. »
 
 
 
 

 
*





« Fammi mettere le cose in chiaro. Un’altra volta. »

Bellamy appoggiò le mani sullo schienale della sedia e si protrasse lungo il tavolo degli interrogatori.

Lincoln, seduto davanti a lui, non aggiunse nulla.

« Vuoi tirartene fuori? » Domandò con tono scettico e disilluso.

L’altro annuì, l’espressione seria e contratta priva del minimo segno di incertezza.

A quel punto, il maggiore dei Blake spostò indietro la sedia e si accomodò, appoggiando gli avambracci sulla superficie fredda del tavolino.

« Perché? »

« Credo che tu lo sappia. » Parlò Lincoln qualche secondo dopo, appoggiandosi in avanti a sua volta.

Il suo sguardo era vigile e attento, e gli stava comunicando qualcosa che Bellamy era facilmente in grado di intuire: Octavia.

Non sapeva nei dettagli quanto fosse seria la relazione con sua sorella, o se avessero davvero smesso di frequentarsi quando lui glielo aveva ordinato, ma c’era una scintilla nello sguardo di quell’uomo che lo portava inesorabilmente a credergli.

Era sincerità, reale preoccupazione.

Ma lui era un poliziotto, e non era nella sua natura fidarsi apertamente di chiunque gli mostrasse un minimo di onestà.

« Spiegati. » Disse freddamente, reclinando le spalle contro lo schienale senza porre fine al contatto visivo.

« Vivo in quell’ambiente praticamente da quando sono nato. Mia madre mi ha cresciuto lì, fra quella gente, e mi ha insegnato tutto quello che so oggi. Tutto quello su cui si basa la loro cultura. I Grounders non sono solo bulletti del liceo, Bellamy. C’è un mondo totalmente diverso dietro quelle maschere. »

Prese un respiro profondo e abbassò lo sguardo sulle proprie mani, poi continuò.

« Quando mia madre è morta, sono stato preso sotto l’ala protettiva di Indra. » Indicò con l’indice la foto della donna che era appesa alla bacheca, e il moro non ebbe bisogno di voltarsi per capire di chi si trattasse.

La sua squadra, giù all’antidroga, lavorava su quel caso da mesi, ma non aveva mai avuto prove sufficienti.

« Lei mi ha preso con sé, mi ha insegnato come combattere. È la più anziana, ma non è il capo. »

Il suo sguardo era cupo mentre con tutte le proprie energie si sforzava di tradire la sua gente, il suo popolo. Perché Lincoln sapeva che era così che tutti l’avrebbero visto: un traditore. Un disertore della patria.

« Lexa, invece, sì. »

A quel nome Bellamy scattò lievemente in avanti, sorpreso da quell’affermazione: « Lexa Heda? »

Lincoln annuì.

« Ho visto uomini sopravvissuti agli orrori della guerra farsi da parte sotto la violenza del suo sguardo. Laggiù non c’è nessuno che non morirebbe per lei. »

« O che non ucciderebbe per lei. » Aggiunse il maggiore dei Blake.

« Non succede niente fra i Grounders che non abbia prima ricevuto il suo permesso. Rapine, furti, droga. Tutto le viene riportato in prima persona, e tutto viene progettato da lei. È geniale, e brillante, e astuta. Perché credi che nessuno sia mai stato preso? »

« E tu sei sicuro che l’unico modo per farlo sia un’infiltrazione? » Replicò velocemente il moro, incrociando le braccia al petto e increspando le sopracciglia.

« Solo così avrai le prove. È l’unico modo. »

« Perché sei così determinato ad assicurarti la rovina della tua gente? Se sei cresciuto fra di loro, con quella mentalità, con quegli obiettivi, perché vuoi tanto distruggerli? »

Non poteva fare a meno di essere curioso, di domandarsi e domandargli perché fosse tanto pronto a mettere per iscritto la caduta della sua famiglia.

« Ci sono dei ragazzini, lì. Molto più giovani di me e te, addirittura molto più giovani di tua sorella. Quale credi che sarà il loro futuro? » La voce profonda di Lincoln vacillò per qualche istante, così come la sua espressione grave e seria, e Bellamy fu investito da uno strano sentimento di profonda comprensione.

Sapeva cosa significava desiderare un futuro migliore per qualcuno di cui si aveva la responsabilità, e voler con ogni fibra del proprio essere assicurarsi che quelle persone non vivessero quello che aveva vissuto lui.

Ricordava bene come si era sentito quando, a diciotto anni, con tutta la vita davanti, si era ritrovato il benessere di qualcun altro sulle spalle.

Ricordava bene anche come si era voltato verso i sedili posteriori della sua automobile e aveva guardato la sua sorellina dormire, subito dopo aver comprato la loro cena in uno stupido fast food.

« So quali sono i rischi che sto correndo. Se qualcuno lo scopre, sono un morto che cammina. Ma non posso più fare finta di niente. Riesci a capirmi, Bellamy? »

Il maggiore dei Blake, ancora prima di rendersene conto, annuì brevemente.

« Come faranno a fidarsi di me? »

« Ci penseremo. Questo vuol dire che ci stai? »

Il moro attese qualche istante, mentre le parole che Lincoln aveva pronunciato gli giravano vorticosamente nella mente.

« Non lo so. Ho bisogno di tempo per riflettere. » Si alzò di scatto dalla sedia, gettando un’occhiata allo specchio della sala interrogatori, e si diresse verso l’uscita.

« Voglio fare un giro di perlustrazione per vedere come vanno le cose. Stanotte, a casa mia. »

Detto quello, uscì dalla porta e si allontanò velocemente dalla sua postazione.
 
 
 


 
*




Clarke non era mai stata più felice di tornare a casa di com’era in quel momento.

E non era tanto per il fatto che le fosse mancata la famigliola felice che si era costruita sua madre, o perché fosse impaziente di ritrovarsi di nuovo così vicina a Bellamy – non appena aveva messo piede nel loro vialetto, un sentimento di claustrofobia le aveva circondato il petto – ma perché finalmente era in grado di rinchiudersi in camera sua e pianificare come doveva la sua prossima mossa.

Ora che sapeva dove procurarsi una pistola, aveva solo bisogno di soldi. E quelli di certo non le mancavano.

Dopo aver cenato e aver salutato con un abbraccio Thelonious e Wells – inutile dire che Abby fosse rimasta a lavorare in ospedale – lei e Jasper si fiondarono su per le scale, verso la sua stanza, e si richiusero la porta alle spalle con una doppia tornata di serratura.

La bionda si diresse verso la propria libreria, alzandosi sulle punte per raggiungere il terzo scaffale, e da lì afferrò L’Origine delle Specie di Darwin.

« Per quanto mi farebbe piacere una lettura leggera, non credo che sia il momen- »

« Sta’ zitto, Jazz. »

Clarke aprì il libro davanti a lui e Jasper sbarrò gli occhi: esattamente al centro delle pagine, un piccolo rettangolo di carta era stato ritagliato e al suo interno era custodito un rotolo piuttosto consistente di banconote.

« Sono tremila. Credi che bastino? »

Il suo migliore amico, ancora sconvolto dalla rivelazione, deglutì visibilmente e annuì, sconcertato.

« Tu non finirai mai di stupirmi, Griffin. »

La bionda sorrise e scrollò le spalle, gettando il denaro sul letto e rimettendo a posto il volume.

Prima di sedersi, gettò un’occhiata fuori dalla finestra, solo per accorgersi che le luci di casa Blake erano accese.

Ricacciando indietro qualsiasi pensiero potesse raggiungerla e distrarla in quel momento, si accomodò davanti al ragazzo.

« Ok, ci serve un piano. Come farò a convincerli che è sicuro vendermi la pistola? »
 
 



 
*





Bellamy rientrò a casa quando ormai il sole era calato, ma alcuni intrepidi si godevano ancora la tiepida aria estiva facendo un giro in bici o passeggiando per il lungomare.

Parcheggiò nel vialetto con impazienza, perché erano almeno due giorni che non vedeva sua sorella ed era abbastanza sincero con se stesso da ammettere che era stato difficile affrontare quei momenti di fatica senza di lei.

Ecco cosa succedeva quando si trascorreva la vita a concentrare le proprie attenzioni e convogliare le proprie responsabilità su qualcuno di tanto importante e fondamentale.

Fin dal primo giorno in cui era nata, Octavia era stato il principio di tutte le sue forze e la fine di tutte le sue debolezze, calda e soffice fra le sue braccia come se quelle fossero state la culla perfetta per il suo corpicino delicato.

Il maggiore dei Blake aveva sempre saputo di non poter permettersi di mostrare debolezze agli altri, di dover farsi vedere sempre come il leader carismatico e forte che era sempre stato, ma chiunque con un minimo spirito di osservazione avrebbe potuto capire che non c’era nulla al mondo, né i soldi, il potere, o il successo, in grado di motivarlo e distruggerlo tanto quanto ne fosse in grado Octavia.

Octavia che, fin dal primo momento, l’aveva avuto fra le sue mani, e aveva avuto il potere di modellarlo come ritenesse più giusto.

La piccola e indifesa Octavia, che ora non era più né piccola né indifesa, aveva avuto un privilegio che mai nessun altro avrebbe potuto reclamare: la consapevolezza che suo fratello l’avrebbe seguita in capo al mondo, che per lei sarebbe andato nello Spazio o, più probabilmente, all’inferno, solo per proteggerla.

Solo per vedere quel meraviglioso sorriso esploderle in volto e illuminare ogni cosa attorno a lei.

Caricandosi la ventiquattrore sulla spalla sinistra, Bellamy prese un respiro profondo e azzerò totalmente i pensieri.

Prima di mettere piede in casa, però, un istinto fu più forte di lui – o forse semplicemente non ebbe voglia di contraddirlo – e gettò un’occhiata alla propria destra, verso l’imponente casa Jaha.

Quando il suo sguardo si sollevò, su, al secondo piano, e notò le luci accese, il suo volto cambiò quasi senza che lui potesse rendersene conto, e percepì le sopracciglia aggrottarsi.

Domani avrebbe pensato anche a quello.

Ora, in quel momento, aveva solo bisogno di sua sorella. E del suo divano.

Tirò fuori il mazzo di chiavi dal retro dei pantaloni scuri, e in un attimo si richiuse la porta alle spalle, chiamando Octavia.

« Arrivo! » Gli gridò lei dalla cucina.

Senza attendere oltre, il maggiore dei Blake si fece scivolare la tracolla dalle spalle, poggiandola sul mobiletto all’ingresso, e, passandosi una mano fra i ricci neri, si diresse verso il salotto, pronto a lasciarsi scorrere pigramente il notiziario davanti agli occhi.

Prima che potesse fare anche solo un altro passo in avanti, però, la figura di sua sorella apparve davanti a lui, in compagnia di qualcuno che non si sarebbe mai aspettato di rivedere.

« Raven? »
 
 
 


 
*






« Potremmo chiederlo a Lincoln. » Propose Jasper, incrociando le braccia dietro la testa e lasciando penzolare i piedi fuori dal letto della giovane Griffin.

« Lo direbbe ad Octavia, che in un attimo lo direbbe a Bellamy. E credimi, a quel punto fine dei giochi. »

Clarke continuava a fare avanti e indietro fra la scrivania e l’armadio, come se seguitare a muoversi potesse mettere in moto anche la sua fantasia criminale.

Aveva fatto molte cose durante la sua vita, sì, compreso essere arrestata a sedici anni per aver ficcato il naso negli affari di una società multimilionaria, ma escogitare un modo per comprare una pistola illegalmente doveva ancora entrare a far parte di queste.

Per il momento, almeno.

« Sai, non è che le alternative siano poi così vaste. »

Ed era vero: al The 100 si erano fatti molti amici, fra cui Miller, Roma, Monroe, Harper e Sterling, ma di certo nessuno di questi aveva le conoscenze necessarie per quella particolare esigenza.

Entrambi sapevano bene di aver bisogno di qualcuno che li conoscesse, che sapesse che era sicuro fidarsi di loro e vendergli quello che tanto disperatamente tentavano di acquistare, ma allo stesso tempo di una persona che non potesse essere ricondotta a loro, o che perlomeno con cui non avessero legami tanto frequenti da poter essere collegati.

Fu in quel momento, ragionando e catalogando le varie ipotesi che avevano di fronte, che Clarke sembrò acchiappare il filo d’oro di quel labirinto.

« Anya! » Esclamò tra i denti.


 


 
*



 
« Ehi! Sei la seconda persona a cui faccio un effetto del genere, forse dovrei smetterla di organizzare sorprese. »

La giovane Reyes lanciò un pugno in aria sarcasticamente, alludendo all’ultima volta in cui era scappata dalla sua casa adottiva ed era piombata in quella di Finn.

« È solo che- »

« Lo so, lo so, non eri pronto a qualcuno del genere. Ma mentre ti aspettavo mi sono fatta un’amica », Raven indicò Octavia, ferma poco dietro le sue spalle, ed entrambe le ragazze sorrisero, « con cui potrei uscire a farmi qualche bicchiere, nel caso tu fossi troppo stanco… »

Lasciò cadere la frase a metà, e Bellamy compì un passo avanti.

« No, va bene. Resta. »

La brunetta lasciò immediatamente cadere lo zaino per terra, e gli offrì un sorriso sincero.
 



Un quarto d’ora dopo, quando tutti e tre avevano sommariamente cenato – e con sommariamente s’intendevano tre panini fatti alla bell’e meglio, preparati dalla minore dei Blake con ogni briciolo delle sue praticamente inesistenti qualità culinarie – Raven e Bellamy se ne stavano seduti in cucina, in silenzio, passandosi ogni tanto una sigaretta e osservando i ghirigori di fumo che buttavano fuori le loro bocche.

« È successo qualcosa? » Domandò lui qualche momento dopo, mentre le sue dita sfioravano quelle della giovane nel prendere la cicca, con una particolare tonalità di preoccupazione.

Lei gli sorrise, incoraggiante, e tamburellò per qualche attimo il piede contro il pavimento di linoleum.

« Va tutto bene. Davvero bene, sai? Ho lasciato la mia casa adottiva. Definitivamente, questa volta. Agli occhi della legge sono la mia unica persona, non ho bisogno di nessuno che mi protegga. Non lo voglio più. »

« Ne sono felice. » Ed era sincero. Più sincero di quanto avesse avuto l’occasione di essere con lei.

« Sto cercando una casa in zona. Sai, nulla di eccessivo. Un monolocale andrà bene. Ma… »

Raven prese un attimo di pausa, in cui distolse lo sguardo da quello di Bellamy, e lo lasciò vagare per la cucina.

« Non riuscivo a smettere di pensare a te. » Buttò fuori in un attimo, riportando gli occhi in quelli più scuri del ragazzo davanti a lei.

« Non a te te, ma al modo in cui ti ho trattato. Ti ho usato. E sul momento non gli ho dato troppo peso, perché sapevo che anche tu stavi usando me, che non ero io quella a cui pensavi. Quella che volevi. »

Sollevò le iridi verso le sue solo per accorgersi che le sue labbra erano strette in una linea dritta e la sua espressione lasciava tradire più di quanto fosse disposto ad ammettere.

« Ma solo in seguito mi sono resa conto di come ti debba essere sentito. Ho pensato: “Quel corpo, Dio, è normale che prima o poi gli avrebbe fatto del male”. E poi ho pensato: “L’ho trattato davvero di merda”. Capisci, no? E semplicemente non potevo iniziare una nuova vita sapendo che una persona molto probabilmente aveva sofferto a causa mia. »

Il maggiore dei Blake a quel punto tentò di controbattere, ma lei fu più veloce: « Non che voglia arrogarmi il diritto di farti stare male, o che senta di averne il privilegio, ma dovevo solo dirti che mi dispiace. Mi dispiace per aver trattato di merda te e me stessa. »

La ragazza si zittì in un istante, incapace di guardarlo ancora negli occhi, e afferrò velocemente la sigaretta che lui aveva poggiato sul posacenere.

Se la portò alle labbra con pigrizia, come se avesse ripetuto quel gesto altre mille volte – e tecnicamente era vero, le sigarette erano state la prima cosa che aveva fatto per sentirsi grande, per comunicare in chiari segnali che no, né Florence né il resto della sua famiglia adottiva poteva fare niente per controllarla – e aspettò qualche istante, immobile.

Quando lasciò che il suo sguardo incontrasse finalmente quello di Bellamy, lo trovò a sorriderle.

« Che c’è? »

L’altro scosse la testa. « Niente. Sono solo felice che tu sia qui. E sì, ti perdono. »

Pronunciò quell’ultima parola con una tonalità più leggera, quasi derisoria, perché non credeva nemmeno che ci fosse qualcosa da perdonarle.

Era vero, si era effettivamente sentito una merda dopo essersi risvegliato solo, con le lenzuola ancora impregnate dei loro profumi mischiati, ma quello non era mai dipeso da Raven.

Non era a causa sua che si era sentito in quel modo, ma per tutt’altro tipo di sensazioni che ancora adesso non riusciva ad ammettere completamente.

La giovane Reyes prese un respiro profondo, lasciò ricadere le spalle in avanti, finalmente sollevata da quel peso che per settimane si era portata dietro, e gli passò la cicca quasi finita.

« Bene! » Esclamò soddisfatta, accarezzandosi distrattamente la coda di cavallo, « Perché sei occhio e croce l’unico amico che abbia qui. »

Il maggiore dei Blake colpì il suo piede con il proprio giocosamente.

« Anche tu sei occhio e croce l’unica amica che io abbia qui. »
 
 
 

 
*





« Sei sicura? » Jasper non sapeva nemmeno perché lo stesse chiedendo, dato che si stavano già infilando le felpe nere e preparandosi per uscire, ma decise di tentare per l’ultima volta.

E avrebbe voluto dire che non si sarebbe mai aspettato di dover uscire di nascosto a notte fonda, portandosi in tasca tremila verdoni alla ricerca di una pistola, una vera pistola, come quelle dei film – polvere da sparo e proiettili compresi, quel tipo di pistola – ma sapeva che sarebbe stata una menzogna.

« Sai che non abbiamo alternative. Anya è la nostra unica pista. »

Clarke gettò repentinamente chiavi e soldi in uno zainetto, poi se lo caricò in spalla. Quando si voltò verso di lui e lo fissò, il giovane Jordan ebbe un brivido.

« E se non accettasse? Se chiamasse il suo capo, chiunque sia, e ci facesse pestare per bene? O peggio, se chiamasse la polizia? »

« Potrebbe farlo. » Ammise lei, con più tranquillità di quanto probabilmente fosse lecito. « Oppure potrebbe prendersi i miei soldi e darmi quella dannata pistola. »

L’amico immaginò che, con quel tono, Clarke non avrebbe avuto problemi ad ottenere ciò che voleva. In fondo, era sempre stato così.

« Ok, ripassiamo il piano. » Gettando un’occhiata all’orologio di suo padre, la bionda prese un respiro profondo. « Anya ha accettato di incontrarmi alle due, al ponte dei Grounders. »

Jasper adocchiò la sveglia sul comodino che segnava l’una e quarantacinque del mattino.

« Questo significa che dobbiamo partire ora. Lo scambio dovrà essere rapido e veloce: soldi, busta e ce ne andiamo. »

« Bene. Cosa vuoi che le dica? »

La bionda si mordicchiò il labbro inferiore inconsciamente, e lasciò vagare lo sguardo fuori dalla finestra.

« Tu niente. Tu mi aspetti in macchina, così possiamo ripartire subito. »

« Scordatelo. »

« Jasper… » Lo riprese.

« Non puoi andare da sola. »

Clarke a quel punto si avvicinò, e gli afferrò entrambe le spalle, scuotendolo leggermente.

« Devo andare da sola, così Anya si fiderà di me. Capisci, Jazz? »

E lui avrebbe davvero voluto dire che i suoi occhi, quasi fluorescenti al buio, non gli facevano più alcun effetto. Che per lei non avrebbe fatto nulla, nemmeno la follia più grande che gli venisse in mente.

Ma sapeva che non poteva dirlo. Non era vero.

« Promettimi che starai attenta. Che, se le cose dovessero andare male, tornerai subito in macchina. »

La giovane Griffin lasciò cadere via le sue mani, raddrizzando la schiena, e compì un passo indietro.

« Prometto. » Rispose fra i denti. Non aveva bisogno di dire che era pronta ad infrangere quella promessa da un momento all’altro, pur di ottenere quello che voleva.
 
 
 


 
*






« Voglio venire anch’io. »

« Octavia- » La riprese suo fratello, tentando vanamente di imporsi.

« Bellamy. » Quasi ruggì lei. « Ho detto che voglio venire anch’io. »

« È pericoloso, non capisci? »

Il maggiore dei Blake si voltò alle sue spalle, verso Lincoln, che osservava la scena in silenzio con le braccia intrecciate al petto, alla ricerca di un qualche sostegno.

« Sai che tuo fratello ha ragione. » La sua voce era ferma, calma, perché sapeva bene che quello era l’unico modo per convincere Octavia di qualcosa. O almeno provarci.

La ragazza spostò lo sguardo verso il moro, facendo un passo avanti e afferrandogli il polso destro.

« Non sono più una bambina, Bellamy. Non voglio rimanere qui mentre voi correte un rischio simile. Non rimarrò. »

E lui lo sapeva bene. Negli ultimi mesi se ne era accorto più di quanto avesse mai notato qualcosa: la sua sorellina era cresciuta, e lui non voleva più tenerla nascosta dal mondo e da quello che temeva le avrebbe inflitto.

Una parte di sé, quella che l’istinto di protezione non aveva sommerso del tutto, era ben consapevole del fatto che doveva lasciarle lo spazio per diventare la meravigliosa e forte donna che era sempre stata destinata ad essere.

E lei era molto determinata a fare in modo che quello accadesse presto. Subito.

« E poi loro mi conoscono, non si insospettiranno se mi vedranno con Lincoln. »

Il maggiore dei Blake, incerto, lanciò uno sguardo al suddetto ragazzo, che annuì flebilmente.

Voltandosi nuovamente verso sua sorella, chiuse gli occhi e sbuffò.

« Va bene. »

In quel momento Octavia esplose, saltando contro di lui e abbracciandolo in una stretta quasi mortale.

Quando si staccò, qualche attimo dopo, si diresse verso Lincoln e lo prese per mano, poggiando il capo sulla sua spalla.

« Non penserete di lasciarmi qui, non è vero? »

Alle loro spalle, Raven si tirò su il cappuccio della giacca.
 
 
 


 
*





Clarke parcheggiò a qualche minuto di distanza dal luogo dell’appuntamento con Anya, sicura che avvicinarsi a piedi e da sola fosse il miglior modo per ottenere credibilità.

Jasper, al suo fianco, si irrigidì.

« Andrà tutto bene. » Parlò lei con sicurezza, voltandosi verso di lui e reclinando il capo verso il sedile.

« Non mi piace l’idea che tu vada da sola. Non mi piace per niente. »

« Sai che così le probabilità aumenteranno. »

« È solo che… È davvero necessario? » Alzò la voce, sollevando le mani in aria. « Voglio dire, ti rendi conto di quali sono i rischi che stai correndo? Che tutta questa storia stile paladina della giustizia potrebbe farti passare dei guai seri? »

La giovane Griffin sbuffò pesantemente, distogliendo lo sguardo dal suo.

Quando parlò, la sua voce era fredda e severa. « Sai che non posso andare dalla polizia. »

« Sì, questo lo hai ripetuto tante volte. Hai reso chiaro il concetto. Eppure… beh, potresti lasciargli fare il loro lavoro. Potresti semplicemente dire che Atom e Dax ti hanno rapita e aspettare che siano loro a scoprire la verità. Potresti… »

« Non ti ho portato con me per sentirmi dire quello che potrei o non potrei fare, Jasper. » Lo interruppe bruscamente, e in quel momento il suo migliore amico capì che c’era qualcosa di molto più profondo sotto.

Non era solo ostinazione o un qualche tipo di determinazione. Era sete di vendetta.

« Dico solo che- »

« E io dico solo che puoi andartene subito, se non riesci a reggere. »

Non lo guardò nemmeno. La schiena dritta e lo sguardo fermo davanti a sé, Clarke era più lontana di quanto lui l’avesse mai percepita. Più di quanto potesse provare a raggiungerla.

Il giovane Jordan continuò a fissare il suo profilo per qualche istante, osservando i suoi lineamenti duri e contratti in un’espressione glaciale. Poi, arreso, sospirò.

« Sono le due meno cinque. »

Senza aggiungere altro, senza guardarlo nuovamente, la bionda scese dall’automobile.
 
 



 
*






« Bene, il piano è molto semplice. »

Bellamy e Lincoln, rispettivamente al posto del guidatore e del passeggero, si voltarono verso i sedili posteriori dell’automobile del maggiore dei Blake, dove Raven ed Octavia erano sedute vicine.

« O, tu vai con Lincoln. Non dovete fare assolutamente nulla. Chiacchierate, passeggiate, fate quello che volete, ma non attirate l’attenzione. »

Il moro spostò lo sguardo fra i due, come a voler chiedere conferma, ed entrambi annuirono solennemente.
Poi, indugiò sul volto dell’ultima arrivata.

« Tu devi camminare sulle mie impronte, ripetere i miei passi. Non staccarti dal mio fianco nemmeno per un secondo. »

Bellamy sapeva che quello non era il miglior giro di ricognizione che avesse mai fatto.

Coinvolgere due civili in una potenziale indagine sotto copertura era sbagliato e pericoloso sotto più di un punto di vista, ma era ben consapevole di non aver avuto altra scelta.

Perlomeno, sapeva che sua sorella era al sicuro, e quella era l’unica cosa che contava veramente.

« Devi passare per il ponte. A quest’ora di notte, probabilmente pullula di gente. » Lo informò la voce profonda di Lincoln, che nel frattempo si era tolto la cintura.

Il moro assentì velocemente, poi scesero tutti dall’automobile.

Raven lo raggiunse immediatamente, appoggiando la spalla alla sua, mentre Octavia raggiunse l’altro passeggero.

Da un lato all’altro del veicolo, i due fratelli Blake si scambiarono uno sguardo pieno di tutte le parole che si ripetevano silenziosamente da quand’erano piccoli.

Va tutto bene, dicevano. Non lascerò che ti accada nulla di male. Ci sarò.

Si sorrisero, e fu abbastanza.

« Ci vediamo qui fra mezz’ora. »

« Sarà sufficiente? » Domandò il Grounder.

« Per me sì. »

E si divisero.
 
 

Bellamy non conosceva benissimo il luogo in questione, ma non fu difficile per lui e Raven trovare il ponte che Lincoln gli aveva indicato. Era enorme.

I due giovani si avvicinarono il più possibile, abbastanza perché lui potesse usare il piccolo cannocchiale che aveva portato senza destare sospetti.

« Questo sì che è figo. » Proferì la ragazza, riferendosi al piccolo binocolo.

« Gentile concessione del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. »

« Voglio anch’io queste armi in dotazione. »

Il moro le lanciò uno sguardo di sbieco e tornò a concentrarsi sul via vai del ponte.

« Spera di non dover mai usare un’arma vera. »

La brunetta stava per rispondere, per controbattere che sì, avrebbe avuto tutte le capacità per sparare con una di quelle pistole che lui portava nascoste nella cintura dei pantaloni, quando lo sentì trattenere il respiro, al suo fianco.

« Che succede? »

L’espressione di Bellamy, parzialmente nascosta dal binocolo che teneva premuto contro il volto, sembrava già in quel modo estremamente tesa, anche senza il bisogno di guardarlo negli occhi.

Aveva osservato la situazione sul ponte per qualche secondo, ormai, notando le persone che passeggiavano e chiacchieravano in una tipica notte estiva, ma solo in quel momento si era presentata la vera protagonista.

« È arrivata Anya. Una Grounder piuttosto… ostile. Una volta un mio collega l’ha arrestata. » Fece un attimo di pausa, concentrandosi del tutto sulla scena a cui stava assistendo. « Ha passato la nottata al pronto soccorso. »

La donna, disposta a qualche metro di distanza, si appoggiò ad un muretto, limitandosi ad osservare le persone attorno a sé.

« Wow! » Esclamò Raven, colpita. Doveva avere proprio un ottimo gancio destro.

I due rimasero in silenzio per qualche altro istante, il primo troppo assorto nell’ispezione per poter concedersi di fare conversazione, e la seconda abbastanza sveglia da capire che quello fosse l’esatto momento di tacere.

Bellamy passò in rassegna ogni minimo movimento su quel ponte. Avrebbe potuto riconoscere i membri dei Grounders anche a chilometri di distanza, e ne distinse almeno cinque aggirarsi fra il resto delle altre persone. Molto probabilmente erano gli scagnozzi di Anya.

Gli tornarono alla mente le parole di Lincoln, come fosse tutto architettato nel migliore dei modi perché nessuno di loro venisse mai preso per i loro crimini, e dovette combattere l’istinto di raggiungere quel dannato ponte e arrestarli tutti. A partire da Anya, che stava chiaramente aspettando qualcuno.

Quando quel qualcuno arrivò, però, era ben al di là di qualsiasi altra persona si sarebbe potuto aspettare di vedere.

E per un attimo pensò che quel qualcuno non poteva essere chi pensava che lui fosse, che si dovesse necessariamente trattare di una svista. Ma era inconfondibile. L’avrebbe riconosciuta ovunque, anche in mezzo ad altre mille persone.

« Che cazzo… »

Al suo fianco, la giovane non riconobbe niente di buono nel suo tono.

Era pregno di sfumature che lei non pensava di poter distinguere al massimo l’una dall’altra: sorpresa, stupore, ma anche rabbia e delusione.

« Cosa? » Domandò dopo qualche momento, quando il corpo al suo fianco si era irrigidito talmente tanto da sembrare quello di una statua.

Bellamy sembrava perfino aver smesso di respirare.

« Ehi, che c’è? » Provò di nuovo dopo qualche secondo, dato il fatto che lui non sembrasse poter staccare il viso dal cannocchiale che teneva fra le mani. Mani che, avrebbe potuto giurarlo, tremavano.

Il moro deglutì sonoramente una, due, tre volte, prima di essere in grado di parlare con un tono di voce fermo e stabile.

« Clarke. » Disse solamente.

Avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto dannatamente saperlo che non c’era modo che lei si fosse arresa e avesse smesso di portare avanti le sue indagini.

« Clarke? » Ripeté Reyes, sconvolta. « Clarke Griffin? »

L’altro, senza proferire alcun tipo di parola, un’espressione indecifrabile dipinta sul volto, le consegnò l’affare che teneva in mano.

« La Principessa dei Grounders sembra incazzata. » Asserì lei, una volta aver osservato la scena che si stava svolgendo metri più avanti.

« La nostra Principessa fa quest’effetto. » Mugugnò Bellamy fra i denti, ancora incredulo di fronte alla scena che si trovava davanti.

Cosa diavolo doveva significare? Perché Clarke era lì, alle due di notte, e parlava con un individuo tanto pericoloso e lontano dal suo mondo?

Se la conosceva almeno un po’, se in tutte le volte che si era fermato a fissarla aveva imparato a conoscerla almeno un minimo, allora poteva provare ad immaginare cos’avesse intenzione di fare.

Lei era lì per finire il suo lavoro e aveva preferito non dirgli niente, aveva preferito mentirgli e mandarlo via.

« Che facciamo? »

La voce di Raven al suo fianco lo distolse dai suoi pensieri, e l’altro ricacciò indietro qualsiasi pensiero avesse iniziato a formarsi nella sua mente.

Non era quello il momento di comportarsi come un adolescente con il cuore spezzato.

Ci voleva ben altro per ferire Bellamy Blake.

Senza rispondere, il moro tirò fuori il proprio cellulare e chiamò sua sorella.

« Bell? »

« Tornate in macchina, O. Ce ne andiamo. »

Non attese una risposta, perché non le aveva rivolto una domanda. Si trattava più che altro di un ordine, uno a cui non avrebbe permesso a nessuno di disobbedire.

Riponendo via il cannocchiale, Bellamy prese per mano Raven e la condusse via, fuori dalla postazione in cui si erano nascosti e verso la strada principale.

Immediatamente si ritrovarono catapultati in una folla di persone che passeggiavano davanti ai bar, che fumavano sigarette con pigrizia sedute sulle panchine lì vicino, ed entrambi furono abbastanza svegli da capire di dover dissimulare qualsiasi atteggiamento sospetto.

E così, come se fosse il gesto più naturale e semplice del mondo, la giovane Reyes allungò la propria mano verso il moro al suo fianco e gli accarezzò la schiena, facendola scivolare all’interno della tasca posteriore dei suoi jeans.

« Che stai facendo? »

« Non dobbiamo destare sospetti, no? » Gli sussurrò lei, proprio mentre due ragazze che parevano aver scritto Grounders sulla fronte gli passavano accanto.

« Faccio una passeggiata col mio ragazzo, che altro, altrimenti? » Continuò a voce più alta, regalandogli un sorriso innocente e angelico.

Il maggiore dei Blake non fece altro se non annuire celermente, ed insieme si avviarono verso il luogo in cui avevano parcheggiato l’automobile.









 


Curiosità:

#"Raramente l'universo è così pigro." Da Sherlock.

# L'avete riconosciuta la scena del ponte? Scommetto di sì ;)



# Non sappiamo quale sia il cognome di Lexa, quindi ho optato per Heda che, come saprete, nella lingua dei Grounders significa proprio "Comandante".


 

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Capitolo 17
*** XVIII ***


Is It Any Wonder?






 
Mentre la Città degli Angeli era ancora per metà addormentata, nonostante il sole fosse alto nel cielo e l’asfalto già bruciasse, un paio di décolleté dalla suola rossa battevano contro il pavimento dell’Ark Corporation ad un ritmo controllato, incalzante, preciso e definito.

Era come il ticchettio perfetto di un orologio svizzero, o l’andare e il tornare di un metronomo posato su un pianoforte silenzioso, ancora vergine del tocco del suo pianista.

I tacchi costosi e lucidi contro il riflesso dei vetri limpidi procedevano con sicurezza, con premeditata analisi, come se quello fosse l’unico suono possibile per una camminata del genere.

Due minuti dopo, il tempo di attraversare la grande vetrata che costituiva il muro ad ovest del quinto piano della società, la porta di un ufficio si aprì, le scarpe picchiettanti vi entrarono, si spostarono per permettere di richiudere l’uscio, e un uomo attaccò il telefono senza nemmeno scusarsi dell’interruzione.

Le Louboutin continuarono il loro percorso fermo e risoluto per qualche altro passo, lo spazio sufficiente a raggiungere la scrivania d’ebano, e il rumore di un fascicolo che si posava sul legno fu l’unico suono percepibile nella stanza.

« Sei la migliore assistente che potessi mai sperare di avere. » La voce sicura e profonda dell’uomo non lasciava intendere alcun dubbio. « Grazie, Lexa. »

Salendo dalle décolleté su per due gambe toniche ed estremamente lunghe, fino ad arrivare ad uno chignon elegante e raccolto, Lexa Heda aveva fatto la sua entrata in scena nel migliore dei modi, come le dive degli anni Cinquanta che sua madre le faceva ammirare da piccola, quando ancora pensava di avere un futuro decente.

Certo, niente a che vedere con i ricci indomabili e il pesante ombretto nero che sfoderava di notte, dove non c’era bisogno di dire di essere una Grounder perché qualcuno non lo capisse da solo.

« Di niente, signor Kane. »

Il tono controllato e modulato non fu che l’ennesimo segno dell’impeccabile autocontrollo che si riservava durante l’orario lavorativo, quando era solamente la segretaria di un uomo d’affari e non il referente di qualsiasi azione illecita ed economica si compiesse di lì a quattro chilometri dal centro città.

Lexa si era presa Los Angeles, e questo non poteva di certo essere paragonato allo sforzo di dover indossare un tailleur Chanel blu navy per otto ore al giorno.

Guardandosi attorno per un secondo o due, giusto per assicurarsi che l’ufficio del suo capo fosse un luogo adatto per parlare, la giovane si sfiorò il collo delicato con indice e medio.

« C’è una cosa che devi sapere, Marcus. » Era precisa, pragmatica, dritta al fulcro della questione, e, dal solo modo in cui gli si rivolse e abbandonò la formalità lavorativa, l’uomo capì che doveva trattarsi di qualcosa del tutto estranea al loro lavoro all’Ark.

Qualcosa per cui aveva aspettato per molto tempo.

Con un gesto quasi meccanico della mano sinistra, il più anziano lasciò che la sua assistente procedesse.

« Ieri notte Clarke Griffin ha comprato una Glock diciannove a calciolo estensibile dal mio secondo, Anya. »

Non c’era particolare intonazione nella voce pacata e controllata di Lexa, che ormai era solita parlare di armi da fuoco come se si trattasse di carte di ghiaccioli da collezionare.

Marcus Kane abbassò lo sguardo.






 
*



 
 
 
Clarke aveva trascorso tutto il pomeriggio a cercare di trovare un nascondiglio adatto per la pistola.

Il fatto che ora si trovasse seduta sul suo letto a fissare il vuoto, con la borsa contenente l’oggetto incriminato stretta in grembo, era un chiaro segnale che non ci fosse riuscita.

E il problema non era certo che non avesse alcun posto in cui nasconderla. Il problema era che non ne avesse bisogno.

Poteva lasciarla lì, sulla scrivania su cui aveva passato nottate piegata sui libri, e nessuno se ne sarebbe mai accorto.

Perché nessuno entrava più nella sua stanza. Nemmeno Wells.

Perché tutti gli altri si erano fatti una vita, si erano impegnati, erano andati avanti. Sua madre, che si era rialzata più forte di prima. Che si era ricostruita una casa e un matrimonio a mani nude, ripiegandosi le maniche, sbuffando e lottando.

Il suo fratellastro, che non poteva certo trascorrere tutta la sua vita a trovare un modo di farla aprire, di farla parlare, di farsi dire cosa fosse quella disperazione che le vedeva bruciare sul fondo degli occhi senza riposo né interruzione.

E il suo migliore amico, che aveva pensato di aiutarla nell’unico modo in cui conoscesse: acconsentendo a quella richiesta. Accompagnandola a comprare una pistola. Tentando in qualsiasi modo di farla riprendere, senza accorgersi di complicare ulteriormente le cose.

Perché ora se ne rendeva conto, ora riusciva a vederlo. Non era così che Clarke avrebbe voluto che andassero le cose.

Non era con la riverenza e l’assoluta concessione che avrebbe superato la confusione e il caos che le vorticavano nel petto e le smantellavano i pensieri.

Ferma, lì, seduta in quella stanza priva di ricordi, priva di foto in cui sorrideva o era ancora un batuffolo avvolto in copertine ricamate a mano, Clarke aveva capito che tutto quello di cui aveva bisogno era perdere l’equilibrio. Fare un salto troppo lungo. Trovare qualcosa che la smuovesse da quell’impasse in cui era precipitata quasi senza nemmeno prenderne consapevolezza.

Dopo aver trascorso l’intero pomeriggio con una pistola posata in grembo – dopo averla impugnata, stretta, puntata allo specchio – lei, che fino a quindici anni era stata terrorizzata da una partita a paintball, aveva capito di aver attraversato un confine da cui non sarebbe mai più potuta tornare indietro.

Si era spinta oltre; oltre tutto quello che chiunque, perfino lei stessa, si sarebbe aspettato da lei. Oltre il lutto, il dolore, oltre qualsiasi cosa fosse stata a demolirla dall’interno.

Più oltre di quanto fosse lecito, o perfino accettabile.

E ora se ne stava lì, a mettere in discussione qualunque scelta l’avesse condotta in quel punto, pronta a prendere decisioni che era quasi sicura si sarebbe poi rivelate quelle sbagliate.

Come un Atlante moderno, lei continuava a reggere un mondo pieno e pesante che non poteva portarle altro che sconfitta. Perché sapeva, in fondo, che la sua lotta era finita prima di iniziare.

Perché ora che quella prospettiva che aveva tanto anelato si era realizzata, la giovane Griffin non si sentiva così forte e impavida com’era stato giorni prima.

Non si sentiva abbastanza coraggiosa da fare davvero qualsiasi cosa pur di scoprire la verità.

Ed era spaventata. Ed era sola. Ed era colpa sua.
 
 





 
*





 
« Ripetimi un’altra volta il suo nome. »

« Atom. »

« Chi diavolo è che si chiama così? »

« Beh, evidentemente lui. »

Bellamy e Raven se ne stavano seduti ad uno dei tavolini esterni del The 100, due tazzine vuote di caffè davanti a loro e una sigaretta che, com’era diventata velocemente loro abitudine, si passavano un tiro dopo l’altro.

« E quest’Atom, questo grande amico meraviglioso, dov’è esattamente? » Domandò la mora, scivolando di poco con la schiena sulla sedia.

« È tornato per qualche giorno a Portland, dai suoi genitori. In effetti, dovrei proprio chiamarlo. Con tutta questa follia al Distretto non ho ancora avuto modo di vederlo. »

Bellamy era stato effettivamente troppo impegnato perfino per accorgersi che il frigo di casa sua era ormai ridotto alla carenza più assoluta, praticamente spoglio di qualsiasi materiale commestibile, e durante quell’ultima settimana e mezzo non aveva avuto occasione di sentire di nuovo il suo migliore amico.

L’ultima volta che lo aveva visto, l’altro si era raccomandato con lui di non stancarsi troppo e di non addormentarsi sulla scrivania del suo ufficio, e il maggiore dei Blake gli aveva intimato giocosamente di comportarsi bene, mentre andava a far visita al “capo” Ward.

« Dev’essere bello, » disse Raven, osservando il tramonto da dietro gli occhiali da sole scuri, « avere dei genitori da cui tornare. »

« Credo sia… catartico. Ritrovare un punto fisso che non è mai cambiato. »

« Pensi mai a quando toccherà a noi? » Gli passò la sigaretta, e si accarezzò distrattamente la coda, gesto che era solita fare ogni qualvolta avesse un pensiero importante per la mente.

« Quando avremo una tale responsabilità? »

« Beh, » Bellamy spense la cicca e appoggiò i gomiti al tavolino, « l’ho avuta da quando ho compiuto diciotto anni. Certo, sarà diverso, ma credo che sarò pronto. Credo che… Credo che ce la farò. »

« Sarai un papà fantastico. » La giovane Reyes non poteva certo definirsi una ragazza dolce, a suo agio nell’esprimere i propri sentimenti o ad esternare affetto, ma lui non ebbe difficoltà a riconoscere completa sincerità nelle sue parole.

« Un incredibile nerd, » aggiunse, provocando una risata in entrambi, « ma sempre fantastico. »

Il maggiore dei Blake non disse nient’altro, limitandosi ad annuire con un sorriso, e per un po’ tutti e due rimasero in silenzio, osservando le persone che passeggiavano davanti a loro e le famiglie che giravano in bicicletta.

« Sono felice che tu sia rimasta. »

Lei gli scompigliò i ricci. « Anch’io, Blake. »
 





 
*

 





Alla fine, avendo trascorso ore a riflettere attentamente su quale potesse essere la scelta migliore, Clarke decise che il nascondiglio perfetto fossero le doghe del suo materasso.

Semplice, certo, ma anche estremamente banale.

Ora, dopo aver richiuso la cerniera dello zaino contenente l’arma e averlo incastrato sotto al letto, tirò un sospiro profondo, gettando uno sguardo fuori dalla finestra. Aveva passato praticamente tutto il pomeriggio nella sua camera da letto, senza uscire nemmeno per mangiare qualcosa, e gli effetti della fame iniziarono finalmente a presentarsi.

Con un’ultima occhiata attorno alla stanza, decise di potersi assentare per qualche istante.

Non sapeva chi fosse a casa – era abituata, ormai, ad aggirarsi per la casa come un fantasma, incurante di chiunque potesse essere presente – ma, se il rumore del notiziario al piano di sotto poteva essere un indicatore, immaginò di non essere sola.

E appurò con certezza quell’ipotesi quando, qualche attimo dopo, svoltò l’angolo delle scale e incontrò Thelonious, un bicchiere di vino rosso e una bistecca al sangue davanti a sé.

« Clarke! » La salutò, spostando immediatamente l’attenzione su di lei. « Non ero sicuro che fossi a casa. Volevo chiederti se avessi fame, ma non volevo dist- »

« Va tutto bene. » Lo rassicurò la bionda, sedendosi dal lato opposto del bancone della cucina e poggiando i gomiti sulla superficie. « Ero occupata, non ti ho sentito rientrare. E sì, effettivamente ho una certa fame. »

Il più anziano lanciò uno sguardo al proprio piatto, poi alla giovane e poi di nuovo al proprio piatto.

« Ti direi di favorire, ma… » Lasciò cadere la frase a metà, ben consapevole del fatto che Clarke non fosse esattamente un’amante della carne. Tutt’altro, anzi.

Lei accennò un sorriso. « Va tutto bene. Vedrò cos’altro abbiamo. » Lo rassicurò, alzandosi nuovamente e dirigendosi verso il frigorifero.

Trascorrere del tempo con Thelonious non le era mai dispiaciuto, soprattutto perché lo conosceva da quando era nata, e lui era presente in ognuno dei suoi ricordi. Anche quelli peggiori.

Ma era un brav’uomo, lo era sempre stato, era stato capace di riportare il sorriso sul volto di sua madre, e per questo Clarke non era mai riuscita a disprezzarlo del tutto. Non poteva di certo biasimarlo per essersi innamorato di lei.

Quando tornò, qualche attimo dopo, con un piatto di insalata, condimenti vari e dei cracker integrali al seguito, l’uomo le lanciò uno sguardo sbigottito.

« Dio, non riuscirei mai a mangiare quella roba. »

La giovane Griffin accennò una risata con naturalezza, come non era stata in grado di fare per molto tempo, e si riaccomodò al suo posto.

« Sai, credo abbia molto a che vedere con i casi di colesterolo che io ed Abby abbiamo visto. L’ ospedale ne è letteralmente pieno. »

Jaha alzò le mani, colpevole, ma non esitò a prendere l’ennesimo boccone.

« Hai ragione, hai ragione. Tua madre ne parla costantemente. Ma dobbiamo pur avere le nostre soddisfazioni, no? »

Le fece l’occhiolino, e la giovane si limitò a sorridere lievemente.

I due continuarono a cenare in silenzio ancora per un po’, limitandosi a sorseggiare qualche goccio di vino e a seguire il notiziario, finché il suo patrigno non parlò di nuovo.

« Spero davvero che tu stia bene, Clarke. Sai, dopo tutto quello che è accaduto. »

Quando la sua figliastra alzò lo sguardo verso di lui, Thelonious le sorrise, cercando di rassicurarla.

Lei avrebbe voluto avere la forza di ricambiare. Di dire che certo, assolutamente, andava tutto bene. Che aveva già superato il fatto di essere stata rapita, di aver creduto di morire, di aver pensato che la fine fosse davvero giunta a prenderla.

E ora c’era una pattuglia costantemente appostata fuori da casa sua, e i suoi parenti, sua madre, il suo fratellastro avevano giurato di proteggerla sempre, ma lei non poteva parlare veramente.

Non poteva dire che non ci fosse notte in cui non si svegliasse sudata, appestata dall’odore della paura che ancora pesava su ogni suo passo.

« Certo. » Sussurrò. « Sto bene, grazie. Va tutto molto meglio. »

Va tutto proprio come non dovrebbe andare e io non so cosa fare per aggiustare le cose.

« Spero davvero che tu sappia che io, tua madre e Wells siamo qui per te. Per ogni cosa di cui avrai bisogno, noi ci saremo. Siamo una famiglia, no? »

La giovane rimase a fissarsi le mani intrecciate fra di loro ancora per qualche istante, tentando di sopprimere il carico che quella parola creava al centro del suo petto, come un macigno pronto a soffocarla, a impedirle di respirare fino a svenire.

« Credo che andrò a letto. Sono stanchissima. »

Clarke non era pronta. Non era pronta a lasciarsi quel passato alle spalle come non lo era stata per tutti quegli anni, come non lo sarebbe stata finché non avrebbe scoperto chi e cosa glielo avesse portato via.

« Certo… » Rispose Jaha, portando lo sguardo al televisore e lasciando alla giovane lo spazio di cui sapeva avesse bisogno.

« Buonanotte, Clarke. »

« Buonanotte, Thel. »

E così si alzò, quasi lanciò il piatto nel lavandino della cucina e sparì dietro l’angolo della stanza, su per le scale.

Aveva intenzione di rimanere tutta la sera a casa, rischiando di incappare in sua madre? Rischiando di sentirsi la pistola troppo vicina e non riuscire a dormirci sopra, o accanto?

Conosceva la risposta.

Ma sapeva anche che la scorta che il Dipartimento di Los Angeles le aveva piazzato fuori dalla porta ventiquattro ore su ventiquattro non si sarebbe di certo allontanata, né tantomeno l’avrebbe lasciata allontanare.

Fu per quel motivo, per quel senso di claustrofobia e costrizione, che la bionda si infilò scarpe da tennis e giacca di pelle e spalancò le finestre.
 
 




 
*





 
« Io dico che dobbiamo risolvere questa situazione. »

« So quello che faccio, non c’è nulla da risolvere. Non ci creerà problemi. »

« E se dovesse farlo? Chi se ne occuperà, eh? Tu? »

« Non avrò bisogno di occuparmene. »

Indra e Anya, rispettivamente alla sinistra e alla destra di Lexa, continuarono a scambiarsi sguardi carichi di tensione e sfida finché il Comandante – com’erano soliti chiamarla i Grounders – non sollevò la mano a mo’ di ammonimento.

« Basta. » Dichiarò, la voce bassa e profonda e capace di asservire a sé il più fedele dei soldati. Quando lei prendeva parola, tutti gli altri tacevano.
Era così che funzionava, e così che avrebbe funzionato ancora per molto tempo.

« Clarke Griffin non è un problema, Indra. »

A tal commento, espresso mentre l’automobile svoltava a sinistra, verso una strada sterrata, Anya sollevò lo sguardo vittoriosa, quasi pronta ad acclamare il proprio buon senso.

Lexa, però, non gliene diede tempo: « Ma la situazione è delicata, » spostò lo sguardo fuori dal finestrino, con quel tono che oscillava sempre fra l’eternamente annoiato e il potenzialmente distruttivo, « e voglio tenerla sotto controllo. Me ne occuperò io da vicino, e Marcus mi guarderà le spalle. »

« Quanto da vicino? » Scandì lentamente Indra, dubbiosa.

Il capo, con un fulmine brillante negli occhi verdi, accennò il riflesso di un ghigno compiaciuto. « Abbastanza da leggerle la verità negli occhi. »
 
 
 
 


 
*




 
Scavalcare un balconcino e raggiungere il piano terra non era stato facile, ma non era neppure nulla che Clarke non avesse già fatto.

Ricordava ancora le innumerevoli volte in cui lei e Monty si erano incontrati nel cuore della notte per fare una passeggiata silenziosa, per starsi vicini senza bisogno di dire alcunché, di intrattenere stupide conversazioni che non li avrebbero portati da nessuna parte.

Quello di cui aveva bisogno ora, però, era un drink. Bene, anche una decina.

Perciò, stando attenta ad evitare accuratamente la volante parcheggiata davanti al suo vialetto, la giovane Griffin si assicurò di passare per una strada secondaria e raggiungere il The 100 il più velocemente possibile.
 
 
 

Octavia era riuscita a trascinare Lincoln sulla pista da ballo solo con la promessa che il prossimo giro di cocktail sarebbe stato offerto da lei, e ora i due ondeggiavano al ritmo della musica sfrenata l’uno davanti all’altra, così vicini da essere impossibile per entrambi distinguere la fine di un corpo e l’inizio di un altro.

« Dovresti considerarti fortunata! » Le urlò lui all’orecchio, avvicinandosela con una mano alla base della sua schiena.

La minore dei Blake si lasciò andare ad una risata, reclinando indietro la testa e sfiorando con i lunghi capelli la mano di Lincoln, e rispose immediatamente dopo: « Solo perché ti ho fatto ballare? Ammetti che ti sta piacendo. »

L’altro, pur di non confessare la sconfitta e il fatto che sì, per la prima volta dopo così tanto tempo si stava davvero divertendo, preferì chiudere la questione piegando il volto e chinandosi a baciarla.

Poco più lontani da loro, seduti al bancone del bar, Raven e Bellamy si guardavano intorno senza scambiarsi alcuna parola, entrambi presi ad osservare le persone che parevano perdersi fra i suoni impetuosi della console.

Stavano sorseggiando entrambi una birra, niente di complicato o troppo forte, quando la mora si voltò verso di lui con uno sguardo che non lasciava presagire niente di buono.

« Stavo pensando… » Lasciò vagare la frase per qualche istante, scrutando attentamente il suo volto, « hai parlato con Clarke? »

Non le sfuggì il fatto che la sua espressione si incupì, e che improvvisamente appoggiò la birra al bancone, lontano da sé.

« Pensavo che non parlassimo di lei. »

« Penso che dovremmo. »

Il maggiore dei Blake le lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio, insospettito.

« Che c’è? So che vuoi farlo. » Si giustificò lei, innocentemente.

« Non so… » Bellamy si interruppe, cercando di trovare le parole giuste per esprimere come si sentisse. Forse, però, prima avrebbe dovuto capire come esattamente si sentisse. « Non lo so. »

« Vuoi sapere cosa penso? » Senza attendere che lui le rispondesse, Raven si voltò verso di lui, poggiando il gomito sinistro al bancone.

« Penso che tu sia rimasto deluso nel vederla lì, su quel ponte. Penso che avresti voluto essere con lei. Proteggerla. E che il fatto che tu non possa farlo ti fa impazzire. »

Il moro non si voltò verso di lei, ma chinò il capo. Alcuni ricci gli ricaddero davanti agli occhi, costringendolo a chiuderli per qualche attimo.

Si lasciò fluttuare lontano, in quel posto che non aveva voluto visitare durante quei giorni, quel posto dentro di sé che apparteneva a Clarke, a quello che avevano iniziato a costruire, a quello che aveva sentito quando l’aveva vista sana e salva in quel caffè e quando le aveva fatto visita in ospedale, e lei era stata così fredda e distante.

Quel posto che non aveva mura o confini, che a volte sembrava risucchiarlo in una dimensione in cui lui non era più niente di quello che era stato fino a quel momento.

Quel posto che gli faceva una dannata paura.

« Pensavo solo che fossimo una squadra. » Mormorò, riacchiappando la birra e prendendo un sorso. « Pensavo che potessimo parlare di tutto. Ci sono solo così tante cose che vorrei dirle, e chiederle. »

La giovane Reyes, che fino a quel momento era stata in silenzio e l’aveva ascoltato, gli posò una mano sul braccio, attirando la sua attenzione.

« Perché non lo fai, allora? » E, con un gesto del capo, indicò l’ingresso del locale.

Bellamy seguì il suo sguardo, confuso, e quello che vide lo lasciò ancora più sconcertato: Clarke, ferma sull’ingresso, i capelli raccolti su una spalla, lo sguardo perso e l’espressione stanca.

Ci vollero solo pochi secondi perché il maggiore dei Blake annuisse verso l’amica e scattasse in piedi, diretto con impeto verso la sua direzione.






 
*






 
« Lasciare una ragazza come te sola al bancone? Brutta mossa, amico. » Una voce sarcastica e profonda raggiunse Raven prima che lei potesse anche solo voltarsi nuovamente verso la sua birra.

Quando si rivolse verso il suono, la giovane rimase colpita dal sorrisetto arrogante che il barista le stava rivolgendo.

Lei, invece, si limitò a sollevare un sopracciglio.

« Pensi che non sappia godermi un drink da sola? » Replicò con lo stesso tono insolente, senza però concedergli la soddisfazione di vederla sorridere.

« Penso che staresti meglio se bevessi con me, invece. »

« Oh, sì? L’ultima volta che ho controllato tu eri quello che serviva, non che beveva. »

« Non si vede? » Domandò retoricamente lui, senza staccarsi quel ghigno dalle labbra, « Sono dannatamente bravo nel multitasking. »

« Ok, mister Modestia, perché allora non mi porti qualcosa di più forte? » Lo provocò Raven, stranamente a suo agio con un totale e perfetto sconosciuto.

« Wick, per te. E sì, in arrivo. » Wick, a quanto pareva era questo il suo nome, le fece l’occhiolino, poi si diresse verso la parte opposta del bancone.







 
*






Clarke vide Bellamy più o meno nello stesso momento in cui voltò lo sguardo verso il bancone del bar, ovvero la sua meta iniziale fin dal principio.

Non seppe descrivere ciò che provò, e nemmeno il modo in cui il respiro le mozzò in gola e i suoi occhi si fossero concentrati su nient’altro che sulla sua figura.

Pensò che era bellissimo. Arrabbiato e fiero come il primo giorno in cui l’aveva visto, e comunque bellissimo.

Quando le si avvicinò, abbastanza vicino da poterlo toccare, da crederlo reale, tutto si materializzò davanti ai suoi occhi. L’ultima volta che avevano parlato, quello che gli aveva detto, come l’aveva guardata prima di esaudire la sua richiesta ed uscire da quella stanza d’ospedale.

« Che diavolo ci fai qui? » Furono le prime parole che le rivolse, tentando con tutte le proprie forze di reprimere l’istinto che gli diceva di non fare altro che portarla via di lì e baciarla, metterla al sicuro, tenerla lontana da chiunque fosse il bastardo che potesse pensare di far del male a qualcuno come lei.

« L’idea era quella di ubriacarmi. » Rispose lei con altrettanta arroganza, nonostante stesse succedendo qualcosa di tremendamente pericoloso dentro di lei.

C’era qualcosa che le solcava le costole ogni volta che guardava il volto di Bellamy, i suoi occhi, quelle iridi nere che scavavano a fondo, troppo a fondo. Che scoprivano i suoi piani senza che lei potesse fare nulla per tenerlo fuori, per tenerlo all’oscuro.

E non andava bene che non lo vedesse da giorni, che fino a quel momento avesse represso con ogni atomo del proprio corpo il bisogno di rivederlo.

La verità era che Clarke aveva bisogno di tutto, di tutto quello che potesse mai immaginare di volere. Era fatta così e basta, perennemente alla ricerca di quanto non aveva né poteva avere.

In quel momento un ragazzo evidentemente non molto lucido camminò fra di loro, sbandando pericolosamente, e all’improvviso il rumore della pista da ballo fu troppo forte da sopportare. Tutto, attorno a loro, era troppo.

Senza pensarci una seconda volta, il maggiore dei Blake si sporse in avanti per afferrare la sua mano, e trascinò Clarke fuori dal locale, lontano dalla folla che si era raccolta all’esterno.

« Dovresti essere a casa, Clarke. » Sibilò lui, chiaramente furente. « Dovresti essere a casa, dove la dannata pattuglia che ti ho fatto assegnare può proteggerti. »

« Oh, quindi è stata una tua idea. » Sbuffò la bionda, incrociando le braccia al petto in un vano tentativo di apparire forte, spavalda.

« Sì, esatto. E forse non è stata nemmeno sufficiente. »

« Non ce ne era bisogno. » Rispose lei fra i denti, stringendosi nelle braccia ancora più forte. Odiava questa situazione. Odiava non potergli dire niente, non poter stare insieme né parlare veramente, perché sapeva che lui era l’unico che l’avrebbe capita. Se avesse saputo, l’avrebbe appoggiata. E avrebbe voluto che lei combattesse.

Ma non sapeva, e non avrebbe mai potuto farlo. Lei non avrebbe potuto permetterlo.

« Vuoi sapere di cosa non c’era bisogno? » Alzò la voce lui, compiendo un passo avanti. Clarke trattenne il respiro.

« Non c’era bisogno di andare dai Grounders. Non c’era bisogno di vederti con Anya, né stare su quel ponte. » Confessò a denti stretti, incapace di tenere questo peso per sé.

Bellamy aveva riflettuto molto su quello che avrebbe dovuto fare: avrebbe dovuto inserirlo nel suo rapporto. Avrebbe dovuto presentarlo come una prova per il caso Griffin, come un ennesimo movente di chiunque fosse il suo rapitore.

Avrebbe dovuto fare molto di più di quello che aveva effettivamente fatto. Avrebbe dovuto usare la testa, e non lasciarsi trasportare dal battito frenetico del proprio cuore, più vivo e attivo di quanto fosse mai stato.

Non gli sfuggì il modo in cui gli occhi di Clarke si spalancarono, sorpresi e colti in flagrante, profondamente responsabili di una colpa più grande di loro, più grande di qualsiasi cosa lei avesse mai avuto il coraggio di fare.

L’espressione di stupore sul suo volto durò per una frazione di secondo, il tempo che la consapevolezza arrivasse a metterla sull’attenti, e immediatamente dopo la bionda sbatté le palpebre lentamente, due volte.

« Adesso mi segui? »

« È tutto quello che vuoi dirmi?  »

« Ti ho già detto di voler stare sola. »

« Ma lo sai chi è quella? » Il tono di Bellamy mutò in un attimo, ed alzò la voce, compiendo un passo avanti.

Non poteva credere che lei davvero non capisse la gravità della situazione in cui si era cacciata, o il pericolo che correva a frequentare un tale luogo.

« Hai almeno la più pallida idea di quanto sia grande il disastro in cui stai andando ad invischiarti? » Sibilò.

Clarke non lo aveva mai visto così arrabbiato: se non fosse stato per il muscolo della mascella che continuava a rimbalzargli contro la guancia, ci avrebbe sicuramente pensato lo sguardo che aveva negli occhi. Ardeva.

E niente di tutto quello aveva senso. Non aveva senso il fatto che lei fosse lì, in un club, quando là fuori i responsabili della morte di suo padre continuavano a camminare liberamente, come se non le avessero portato via la cosa più preziosa che avesse mai avuto.

Non aveva senso litigare proprio con Bellamy, che fino a quel momento era stato l’unico di cui si era potuta fidare, l’unico che avesse visto in lei più di quanto lei stessa fosse stata capace di vedere per molto, molto tempo.

Non aveva senso sentirsi questo peso gravare sulle spalle, al centro del petto, fra le ossa e nei pensieri.

Non aveva senso, eppure era tutto quello che le era rimasto.

E quindi: « Non metterti in mezzo alla mia strada, Bellamy. » Lo disse con tutto l’acciaio che potesse tirar fuori dalla sua voce.

Perché ormai l’aveva capito, non c’era modo di impedire che l’intera faccenda la distruggesse completamente. In quel modo, almeno, non avrebbe distrutto anche lui.

Lo osservò attentamente. Lo osservò sbarrare gli occhi, incredulo, e quasi impallidire. Le sembrò di vederlo arretrare di un passo, ma non avrebbe potuto esserne certa, dato come le apparisse sfocata la sua figura.

Il grande e grosso Bellamy Blake non disse niente. Clarke cercò con tutte le proprie forze di mantenere il contatto visivo, di apparirgli più sicura di quanto in realtà non si sentisse, di tenere la schiena dritta e il mento alto, ma non ci riuscì.

La giovane Griffin percepì la loro amicizia infrangersi dentro di sé, la fiducia spiccare il volo e disperdersi fra le nubi che erano diventate le loro vite, ma soprattutto quel calore dissiparsi lentamente ed inesorabilmente dal suo cuore.

Mentre guardava altrove, si accorse di aver indurito se stessa e la sua maschera proprio in quell’istante, come un vento di aria ghiacciata spruzzato sulla sabbia del deserto, arido e spento e privo di luce.

Trascorsero alcuni secondi, freddi e silenziosi come la neve, mentre alcune persone ridevano e chiacchieravano a pochi metri da loro, e nessuno dei due fu realmente in grado di capire cosa stesse per succedere.

Lei non voleva guardarlo. Non voleva guardarlo e sentirsi tutte quelle bugie gravare nel petto, perché niente di quello aveva senso, o motivo d’essere, o ragione.

Quando, con la coda dell’occhio, lo intravide immobile, fu tentata di scrutarlo con più attenzione, come se non sapesse già cos’avrebbe trovato nel suo sguardo.

E l’avrebbe fatto, se lui non si fosse avvicinato così velocemente. Se non le avesse raccolto il volto fra le mani, delicato come con il vetro e cauto come con la porcellana, e l’avesse attirata a sé.

Se non l’avesse guardata per un istante solo e poi l’avesse baciata come non aveva mai fatto prima, con il naso contro il suo e il respiro mozzato e ogni terminazione nervosa a fuoco, ma immobile, e la pelle come un oceano in cui affondare.

E nemmeno se lei non si fosse aggrappata ai suoi polsi, quasi a perdere conoscenza contro di lui, contro la roccia del suo corpo e la morbidezza delle sue forme.

Ma tutto quello accadde, e lei lo lasciò accadere, perché non voleva fingere, non in quel momento, non con lui, e lo capiva ora che si abbandonava a lui, a quell’uomo che non aveva fatto altro che starle accanto dal primo giorno in cui l’aveva conosciuta.

E Clarke Griffin forse non avrebbe mai saputo cosa in realtà celasse il suo sguardo prima di quel gesto così terrificante e salvifico, ma riuscì a farsene una ragione.

Per qualche attimo, silenzioso e allo stesso tempo mai così pieno di parole, di spiegazioni, si fece una ragione di tutto quello che l’aveva portata lì, di ogni singolo evento nella sua vita che l’aveva trasformata in quella Clarke Griffin, la stessa che aveva incontrato Bellamy, la stessa che provava quelle cose così spaventose, e le sentiva crescere dentro di sé come un oscuro paio di ali.

La stessa, però, che si era procurata una pistola e aveva passato notti intere ad immaginare come sarebbe stato usarla. La stessa che ora era a caccia di quei bastardi, Atom primo fra tutti.

E così, prima che lui potesse convincerla del tutto a mandare qualsiasi cosa al diavolo, prima che potesse perdersi nel calore della sua bocca accogliente, lo lasciò andare con un gesto secco.

Clarke rinunciò a tutto quello ora che finalmente scopriva, e immediatamente incontrò le iridi scure che mai l’avevano tanto terrificata e abbagliata come allora.

Era ancora vicino, talmente vicino che sarebbe stato così semplice attirarlo nuovamente a sé, perdersi in lui e divorarlo fino a scomparire, fino a farsi risucchiare in un vortice buio e oscuro, lontano da tutto quello.

Lontano da chi erano e da chi dovevano essere, che non sembravano mai la stessa cosa.

Troppo vicino perché lei potesse rendersi pienamente conto del modo in cui la stesse guardando in quel momento, quando un bacio era sembrato l’unica soluzione possibile fra di loro.

Un ultimo bacio amaro come la fiele ma dolce come il nettare.

« Abbiamo sbagliato tutto. » Sussurrò, stringendo le labbra.

« Quella prima mattina e il giorno dopo, quando ti ho raccontato la mia storia e quando mi hai stretta per la prima volta. Abbiamo sbagliato quella notte in spiaggia, e al ballo di mia madre. In ospedale, e stanotte. »

Il maggiore dei Blake aggrottò le sopracciglia, chiaramente ed evidentemente confuso, e provò a parlare, ma lei lo interruppe subito dopo: « Abbiamo sbagliato tutto e ora non possiamo più tornare indietro. »

Gli diede le spalle prima che lui potesse realizzare cosa fosse appena successo, cos’avesse detto – una parte di sé doveva averlo già capito, se la stretta alla gola potesse fungere da indicazione – e camminò via, lontano, stringendosi le braccia al petto e chinando il capo.

Bellamy non la seguì.












 

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Capitolo 18
*** XIX ***


Giuro e spergiuro che un giorno di questi risponderò a tutte le vostre recensioni. Vi chiedo scusa anche per il ritardo dell'aggiornamento.

Grazie a tutti voi, dal primo all'ultimo. Siete unici.






 
 
Is It Any Wonder?






Erano passate appena due settimane dall’ultima volta che Atom aveva visto qualcuno di sua conoscenza.

Né Bellamy, né Octavia. Non Clarke, né tantomeno l’uomo che l’aveva ingaggiato per farle del male.

Forse il fatto che fosse un fuggitivo e non potesse rivelare a nessuno il luogo in cui si trovava poteva essere una delle tante spiegazioni.

Insieme a “ho quasi provato ad uccidere un essere umano”, certo.

Era ben consapevole che prima o poi la sua scusa avrebbe vacillato. Che non era mai riuscito a trascorrere più di cinque giorni nella stessa casa di suo padre, figurarsi fargli visita per il triplo.

Sapeva che il suo migliore amico stava indagando e che non ci sarebbe voluto molto perché arrivasse a lui. Perché scoprisse che no, Atom non aveva davvero trascorso quattro anni a fare volontariato in Bolivia.

Che l’unico volontariato che avrebbe dovuto fare era quello per se stesso.

E una volta arrivato a lui, al suo capo.

E molte vite non sarebbero state le stesse, l’ultima delle quali la sua.

La prima cosa che aveva fatto era stato disattivare il proprio telefono. Da lì, si era spostato ogni due giorni da un motel all’altro, utilizzando i documenti falsi che si era fatto rilegare troppi anni prima e solo contanti.

Si era mosso come un fantasma fra gli spazi vuoti della città, nelle ombre cui nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi, davanti agli specchi che non potevano più riflettere altro che sbagli e pentimenti.

Si era mosso con attenzione e scrupolo, tentando di sfuggire ai lupi in agguato.

E ora restava solamente un grande punto interrogativo.
 
 
 

 
*




« Blake!
Ehi, Blake, vieni qui! »

Bellamy si voltò solamente al secondo richiamo, ormai talmente stanco da non riconoscere più nemmeno il suo cognome.

Stava solo facendo quello che sapeva fare meglio: lavorare. E lavorare, e lavorare, fino ad addormentarsi sulla propria scrivania.

Fino al punto di non essere più disturbato dagli inservienti, ormai consapevoli di poterlo lasciare lì anche tutta la notte, la lampada da tavolo accesa e milioni di fascicoli a circondarlo.

« Che c’è? »

« Il Capitano ti vuole nel suo ufficio. » Lo informò il suo collega, ormai anch’esso cosciente dell’intrattabilità dell’agente Blake. Non quando la cosa più vicina ad un alimento che avesse consumato in una settimana erano i panini stantii della mensa del Dipartimento.

Non quando non faceva una doccia a casa sua da un periodo di tempo troppo lungo perché potesse ricordarsi di quantificarlo.

Il moro si alzò meccanicamente, strusciando la sedia contro la superficie di linoleum, e si avviò verso l’ufficio del Capitano Sidney senza dire una parola, passandosi una mano nei capelli disordinati che ormai non si preoccupava nemmeno più di curare.

« Buongiorno, Cap- »

« Siediti, agente Blake. »

Bellamy fece come riferito e si accomodò davanti al suo capo. Per un attimo si domandò come facesse ad essere sempre così perennemente impeccabile, ma immaginò che non sarebbe mai riuscito a comprendere appieno la risposta.

La donna sorseggiò per un attimo dalla tazza poggiata sulla sua scrivania – caffè amaro e corto, quasi sicuramente – e si rivolse al suo subalterno subito dopo.

« Non puoi più tenere il piede in due staffe, Bellamy. So che vuoi risolvere questi casi, credimi, lo so. Ma so anche che tu non dovresti essere qui in primo luogo. Antidroga, ricordi? È quello il tuo dipartimento. È quello il tuo lavoro.
Ma è ora che tu muova il culo, ci intendiamo? E con questo intendo che devi scegliere. O il caso Griffin, o l’infiltrazione tra i Grounders. »

Il maggiore dei Blake si passò una mano fra i capelli, sbuffando fra sé e sé.

Non poteva mentire a se stesso, sapeva da fin troppo tempo che quel momento sarebbe arrivato. Che avrebbe dovuto compiere una scelta.

« Capitano, la prego… Ho bisogno di più tempo. »

« Non ne abbiamo. »

« Sono sicuro che- »

« Bellamy. » Lo riprese la più grande. Aveva alzato il tono, e lui sapeva bene che ciò implicasse il fatto che era il momento di farsi indietro.

Ma non poteva farlo.

« Credo che potrebbero esserci dei collegamenti fra il rapimento Griffin e gli affari in nero di Lexa. Lei potrebbe sapere qualcosa sul mandante e io potrei scoprilo. Posso entrare, Capitano. Posso farlo. »

« Hai idea di cosa succederebbe se ti scoprissero? Sei davvero pronto a correre quel rischio? A correrlo per tua sorella? »

Quello fu sufficiente a zittirlo.

Era una domanda che non aveva potuto fare a meno di chiedersi, ancora e ancora. Tutte le volte che durante quelle settimane l’aveva lasciata da sola. Tutte le volte che si era addormentata sul divano mentre lo aspettava. Tutte le volte che gli aveva ripetuto di essere in grado di proteggersi da sola, di farcela da sola, che davvero non c’era bisogno che il suo fratellone trascorresse ogni ora del giorno con lei.

Era ciò che gli aveva impedito di gettarsi a capofitto nell’operazione con Lincoln, ciò che non sarebbe mai riuscito a lasciarsi alle spalle.

Octavia era una sua responsabilità, una che lui avrebbe rispettato e onorato per il resto della sua vita.

Poteva davvero esserci qualcosa di più importante?





 
*



 
 
Atom cambiò canale per l’ennesima volta.

Non che guardare uno show culinario fosse fra le prime cose che avesse voglia o potesse permettersi di fare in quel momento, ma aveva bisogno di liberare la mente. Pensare. Considerare attentamente.

La sua mente viaggiava in maniera veloce, selettiva, ma lui non sapeva. Non lo sapeva cosa stava succedendo. Non lo sapeva cosa doveva fare, né cosa ci si aspettasse da lui.

Quando si concentrò su di un raggio di sole che filtrava dalla tenda giallastra della sua camera di motel, si accorse che erano passati quasi due giorni dall’ultima volta che aveva messo piede fuori di lì. Il suo ultimo pasto, consumato la notte precedente, erano stati degli avanzi del cibo d’asporto che era sceso a prendere all’inizio del suo soggiorno in quella topaia sporca ed anonima.

Improvvisamente sentì una sensazione di claustrofobia attanagliargli la gola, un profondo disgusto per quella carta da parati economica che lo circondava, e assecondò in pochi secondi il bisogno che lo spingeva ad uscire da quella stanza, a prendere una boccata d’aria, ad allontanarsi il più possibile dallo sporco che sentiva intorno e dentro.

Con un movimento secco si alzò dal materasso. Afferrò il pacchetto di sigarette che aveva lasciato cadere solo un’ora prima sul tavolino da caffè ai piedi del letto, le chiavi della stanza e un cappellino da baseball che aveva comprato in una stazione di servizio qualche chilometro prima, poi uscì di scatto.

L’aria estiva di Los Angeles lo colpì immediatamente, sebbene ormai gli ultimi giorni di Agosto scivolassero lentamente nella frescura del nono mese dell’anno.

Iniziò a camminare con passo spedito alla sua sinistra, in direzione delle scale, verso la serie di ristoranti orientali che facevano da facciata a quel lato del motel, e non si guardò attorno, intento a non destare sospetti di alcun genere.

Stava per allungare il braccio verso la tasca dei pantaloni alla ricerca delle sigarette quando, prima che potesse fare altro, registrò inconsciamente dei passi alle sue spalle.

Veloci e abili, ma soprattutto vicini. Troppo vicini.

Prima che potesse reagire, percepì qualcosa di duro premere con fermezza al centro della schiena, e con poco stupore si ritrovò ben consapevole di cosa si trattasse.

« Chi sei? » Parlò a bassa voce, senza però lasciar trapelare alcuna particolare intonazione.

Non poteva vedere chi fosse la persona alle sue spalle, ma ebbe qualche sospetto.

Fu probabilmente per quello che la sorpresa lo colpì duramente, quando l’individuo in questione parlò. Non era nemmeno lontanamente chi aveva previsto.

« Sta’ zitto e dammi la chiave della stanza. »











 
«Vedi quell’uomo? Sì, esatto. Quello è il ricevitore. »

«E perché corre così veloce, papà? »

«Perché deve arrivare alla casa base prima che finisca l’ultimo
inning, tesoro.  »

Jake Griffin le accarezzò i capelli dolcemente, stringendo gli occhi in direzione del televisore, concentrato sull’ultima partita dei
Red Sox prima della fine della stagione.

«E se si fa male? » Domandò la bambina, portandosi la piccola mano sinistra davanti alla bocca con espressione preoccupata.

«Non gli succederà niente. Ma se dovesse farsi male, un medico si prenderà cura di lui. »

Il capo ricoperto di ricci biondi si voltò verso di lui in un attimo, e un paio di occhi blu lo scrutarono sorpresi e meravigliati.

«Un medico come la mia mamma? »

L’ingegnere distolse lo sguardo dalla partita in corso e lo puntò in quello di sua figlia, sorridendo dolcemente.

«Sì, piccola, come la tua mamma. Lei cura le persone a cui è stato fatto del male. »

«Da grande posso essere come lei, papi?Non voglio ferire le persone, io. Voglio farle stare bene, così potranno vedere le partite come le vediamo noi. »

Jake le posò delicatamente un bacio sulla fronte, pizzicandole lievemente il naso subito dopo.

«Ma certo che puoi, Clarkey. »

 
 
 



« Sarò sincero, non mi aspettavo di trovarti qui. » La voce di Atom era ferma e controllata, e ad un orecchio poco allenato quella sarebbe potuta sembrare perfino la verità.

« Mettitele. »

Un paio di manette gli vennero gettate in grembo, e lui alzò gli occhi al cielo.

« E queste dove le hai prese? »

« Le ho rubate. Ora mettile, e sbrigati. »

« Come mi hai trovato? »

La canna della pistola si spostò dalla sua nuca alla sua fronte, segno che chi la stava impugnando si era appena parato davanti a lui.

I loro occhi si incontrarono, e per la prima volta il giovane Ward sembrò rendersi conto della serietà della sua situazione. Sembrò finalmente accorgersi che quello non era un gioco. Per nessuno dei due.

« Non sono qui per farmi fare domande da te. Sono qui per ottenere delle risposte, e tu me le darai. » A quelle parole seguì una maggiore pressione della pistola contro la sua fronte, e la superficie fredda dell’arma sembrò lottare contro il calore che l’adrenalina aveva fatto salire sulla sua pelle.

« Lo sai che questa non è la prima volta che mi puntano una pistola alla testa, vero, Clarke? »
 



 
*





 
Il Capitano Sidney uscì dal suo ufficio con un’espressione grave dipinta sul volto austero, la stessa che indossava ogni volta che scopriva qualcosa che non corrispondeva alle sue supposizioni o che non le sembrava possibile.

Per quanto, certamente, il suo lavoro le avesse già insegnato sovente che i confini del possibili si estendevano molto più di quanto la sua mente potesse prepararsi.

Camminò fra le postazioni dei suoi subalterni con passo lento e cadenzato, come se in quel modo potesse ritardare ciò che era, al contrario, totalmente fuori dal suo potere.

Quando arrivò alla sua destinazione, sospirò fra sé e sé, e sfiorò il distintivo che portava appeso alla cintura in un gesto che nel corso degli anni le aveva infuso un qualche tipo di sicurezza, ma che ora sembrava pesarle addosso come un marchio pesante.

« Agente Blake? »

Bellamy sollevò immediatamente lo sguardo, e la donna poté leggere sul suo volto la sorpresa di trovarsela davanti. D’altronde, non succedeva spesso che il Capitano lasciasse il suo ufficio, a meno che non si trattasse di una motivazione molto importante. O molto negativa.

« Cap- »

« Ho bisogno di parlarti. Subito. Nel mio ufficio. »

Continuò subito dopo. « Porta pistola e distintivo. »

E gli aveva dato le spalle, senza permettergli di avere spiegazioni. Senza permettersi di avere qualche ripensamento.

Bellamy si alzò immediatamente, perché se c’era una cosa che aveva imparato in quegli anni era che non si disobbedisce ad un ordine del Capitano Sidney senza una buona ragione per farlo.

E se lui lo aveva fatto altre volte, non poteva di certo farlo ora. Non con la sospensione che aveva ricevuto e tutto l’impegno che aveva dispensato negli ultimi mesi per tornare a fare il lavoro che amava.

Così abbandonò tutto quello che stava facendo, tutte le prove e le nuove piste sul caso Griffin, e si incamminò nella stessa direzione.

Quando, con la più cauta e perplessa delle mosse, si richiuse la porta della stanza alle spalle, gli bastò un’occhiata allo sguardo del suo superiore puntato su di sé per rendersi conto che da quel momento in poi, dal momento in cui il battente aveva colpito l’uscio e aveva lasciato il resto del Dipartimento fuori, nulla di quello che sarebbe stato detto gli sarebbe piaciuto.

« Scarica la pistola e poggiala lentamente sulla scrivania insieme alle munizioni, agente Blake. Sei un sospettato per rapina a mano armata e riciclaggio di denaro sporco. »
 
 



 
*





« Chiudi quella cazzo di bocca, Atom. » La voce di Clarke – la stessa voce che ormai anche lei faticava a riconoscere come propria – imprecò in direzione del ragazzo seduto davanti a lei.

O, più precisamente, del ragazzo che aveva, senza ombra di dubbio ormai, a che fare con l’omicidio di Jake Griffin.

« Pensavo che lo scopo di tutto questo fosse farmi parlare. » Osservò l’altro, sfiorando i bordi delle manette con i pollici e assumendo una finta espressione pensierosa.

« Credi che tutto questo sia un gioco? Allora dimmi, è stato divertente uccidere mio padre? »

Il suo tono tremò sulle ultime tre parole senza che lei potesse fare nulla per impedirlo. Non sapeva dove aveva trovato il coraggio di farlo davvero, prendere la pistola e venire a cercarlo, ma ormai l’aveva fatto, e non c’era nessun modo di tornare indietro, e doveva essere forte. Doveva essere coraggiosa e arrivare fino in fondo.

Quella domanda fu sufficiente a zittire Atom, che contrasse la mascella e sbuffò lievemente, come finalmente consapevole di quello che stesse effettivamente affrontando.

« Non ho ucciso io tuo padre, Clarke. »

Scandì quelle parole con semplicità e lentezza, come se stesse spiegando ad un bambino una regola grammaticale.

« Tu eri lì, Atom. Volevano uccidere anche me. Era per questo che mi avete rapita, per uccidere anche me. Ma tu mi hai lasciata andare, so che eri tu. Quindi ti prego, Atom. » Ripeté nuovamente il suo nome, simile ad una preghiera che potesse essere sufficiente a convincerlo di aiutarla. « Dimmi chi è stato. »

Lui scosse la testa e distolse lo sguardo, incapace di continuare ad assistere a quella preghiera desolante.

« Non farò il tuo nome! » Propose improvvisamente lei, chinandosi e poggiando le mani sulle sue ginocchia, implorandolo perfino con gli occhi.

« Nessuno saprà mai del tuo coinvolgimento nel mio rapimento e non correrai alcun guaio. Non farò il tuo nome, non dirò nulla.
Ti posso offrire dei soldi, ho dei soldi. Aprirò un conto a tuo nome e ti pagherò per il resto della tua vita. Mia madre è un medico, suo marito è un avvocato, posso offrirti copertura sanitaria e tutti i soldi che vuoi. Dimmi solo una cifra e io la pagherò.
Vuoi un appartamento? Vuoi una macchina nuova, un posto di lavoro? Posso darti tutto quello che ti serve, Atom, te lo prometto. Ma ti prego, ti supplico… » Si bloccò improvvisamente, tirando su col naso.

« Ho bisogno della verità. » Mormorò, e i suoi occhi si bagnarono di tutte le lacrime che non aveva mai versato, e di tutta la disperazione che aveva consumato lentamente il suo cuore fino a quel momento.

« Dimmi chi ha ucciso mio padre e io ti trasformerò in un re. »




 
*



 
 
« Rapina a mano armata? Mi prende per il culo? » Alzò la voce Bellamy, che era rimasto immobile mentre il suo capo gli imputava l’ultimo dei crimini che avrebbe potuto commettere.

« Che cazzo… Come cazzo avrei fatto a fare una rapina se vivo qui dentro da più tempo di quanto abbia vissuto nella mia nuova casa? Con quali prove mi sta arrestando? »

« Ho bisogno che tu ti calmi, agente Blake, o sarò costretta a chiamare degli agenti che ti portino via. »

« Fanculo gli agenti, Capitano. Non crederà davvero a questa storia? Non crederà che io abbia commesso una rapina e sia così stupido da usare gli stessi soldi del colpo prima di ripulirli, vero? »

« Quello che hai appena detto non migliora la tua posizione, Bellamy. » Lo ammonì Sidney, guardandolo di traverso.

« Si è forse dimenticata che lavoro all’antidroga? So come funzionano queste cose. »

Il maggiore dei Blake si passò la mano sinistra sul viso, mentre teneva la destra poggiata sul distintivo.

« Mi dica che non crede a questa stronzata, Capitano. Sono stato incastrato. »

« Ho delle prove, Bellamy! » La più anziana si alzò di scatto e si sporse sulla scrivania, puntando l’indice su un fascicolo davanti a sé.

« Hai usato il denaro frutto di una rapina per pagare un conto nella caffetteria al piano di sotto! Ci sono le tue impronte su quelle banconote, e il colpo è stato perfetto. Le telecamere di sorveglianza non sono riuscite a catturare il colpevole e lui non ha lasciato la minima traccia dietro di sé. Si è mosso come una persona addestrata. »

« Le ripeto la mia domanda, signora Sidney, e dopo che avrà risposto forse sarò pronto a sentire dell’altro. »

Il più giovane camminò verso la scrivania e poggiò entrambi i palmi aperti sulle estremità, imponendosi con la sua figura solenne sulla donna e mostrandosi sicuro di sé con la stessa sicurezza che solo un innocente avrebbe mostrato.

« Le sembro il tipo di persona che fa una rapina senza lasciare tracce e poi usa lo stesso denaro sporco per pagare il conto alla caffetteria del suo posto di lavoro? Un Dipartimento di Polizia, per di più? »

Il moro non staccò per un attimo gli occhi da quelli del suo superiore. Sapeva che il suo ragionamento fosse incontestabile e banalmente ovvio, che la persona davanti a sé non potesse davvero credere ad una cosa del genere.

Quando, qualche attimo dopo, lei interruppe il contatto visivo e piegò lievemente il capo, Bellamy seppe di aver conquistato la sua fiducia.
« E allora come spieghi il fatto che tu fossi in possesso di quel denaro, eh? » Lo interrogò lei con voce stanca.

« Poniamo che io ti creda. » Aggiunse qualche attimo dopo. « Dev’esserci un modo per cui quei soldi siano arrivati fino a te. Investimenti, qualche spesa privata. Ti viene in mente niente? »

Il più giovane scosse la testa, ripercorrendo però le entrate di quell’ultimo mese. Non aveva fatto molti acquisti, principalmente perché aveva trascorso la maggior parte del suo tempo a lavoro, ma doveva esserci un momento in cui era entrato a contatto con quei soldi.

Poi, improvvisamente…
 

« Vedrai che andrà tutto bene. » Il ragazzo dagli occhi verdi lo guardò per qualche altro istante, tirando fuori subito dopo una busta di carta dalla tasca anteriore dei jeans.

Quando Bellamy lo vide poggiarla davanti a sé, lo guardò con aria interrogativa.

« È la mia parte di affitto. » Spiegò l’altro.

« No. »

« Andiamo, Bell… »

« Non se ne parla. Sei mio ospite, non il mio coinquilino. »

« E allora lascia che sia il tuo coinquilino. Sai che devi accettarli. Insomma, sono qui ormai da un mese e… voglio contribuire. Non ho intenzione di aggrapparmi così. Non è giusto. »




« Non è possibile. » Sussurrò all’improvviso, percependo la testa girargli per la confusione e l’incredulità.

Diede le spalle al suo capo e si appoggiò alla scrivania, passandosi entrambe le mani fra i capelli e lasciando lo sguardo vagare fuori dalla porta, fra i suoi colleghi, e poi ancora oltre, più lontano, in un luogo sperduto della sua mente.

Fino a quando, però, non incontrò la figura di Monty Green ferma davanti alla sua postazione.
 
 


 
*




 
« Tirati su, Clarke. » La esortò Atom in un sussurro, ancora incapace di guardarla negli occhi.

La giovane Griffin non se lo fece ripetere due volte e scattò in piedi, voltandosi immediatamente nella direzione opposta e impedendogli di vederla in quelle condizioni. Non era così che avrebbe voluto che andassero le cose. Non era andata lì per farsi vedere come una debole. O come martire.

I due rimasero per qualche istante in silenzio, mentre i ruoli di vittima e carnefice si mischiavano fra le loro tristezze, fra la complicatezza delle loro vite e la fragilità delle loro debolezze.

« Ho iniziato a usare stupefacenti un anno dopo che mi trasferii con i miei genitori. La prima volta fu quasi un caso. Un gruppo di ragazzi della mia scuola mi aveva invitato ad una festa, erano le prime persone che conoscevo dopo Bellamy. »

La bionda sussultò impercettibilmente per quel nome, forse impreparata a sentirlo, ma non diede altri segni di voler interferire con le sue parole.

Continuò a dargli le spalle.

« Volevo che mi accettassero. » Confessò Atom. « Volevo essere come lui: forte e carismatico. Un leader.
Solo parecchio tempo dopo mi accorsi che io non ero altro che una sua sfumatura, una brutta copia riuscita male. Non avrei mai potuto essere come lui, se anche solo per farmi sentire dagli altri avevo bisogno di tirare.
Avevo diciotto anni e mio padre era troppo impegnato a lottare una guerra lontana per immaginare che i demoni più vicini fossero quelli di suo figlio, il suo primogenito. Il suo erede. » Calcò con duro sarcasmo sull’ultima parola.

« Prima che me ne accorgessi del tutto, avevo bisogno di farmi perfino per baciare una ragazza. Ero uno smidollato, un perdente, e più pensavo a quello in cui la droga mi aveva trasformato e più ne avevo bisogno per dimenticarmene. Per smettere di riflettere anche solo per mezz’ora. A pensarci ora probabilmente mi sarei ammazzato. » Lasciò andare una risata amara fra i denti.

Quando Clarke si voltò finalmente verso di lui, stupita e ammutolita, i suoi occhi erano già umidi.

« Mi accenderesti una sigaretta? » Le domandò qualche istante dopo, indicando con il capo la tasca destra dei suoi pantaloni.

La giovane non seppe perché, ma lo accontentò.

Prese il pacchetto dalla tasca anteriore, ne tirò fuori una e gliel’appoggiò sulle labbra. Atom riuscì da solo a raggiungere l’accendino nella sua giacca di pelle e, con le mani ancora ammanettate, accese la cicca.

« Immagina la delusione di quell' imponente figura militare quando venne a sapere che il suo campione pippava. E non solo lo faceva, ma rubava perfino i soldi a sua madre per farlo!
Ricordo ancora quando tornò a casa. Aveva scoperto quello che avevo fatto – quello che facevo – ed era così  furioso. Disse che non ero più suo figlio, che suo figlio era morto, e che dovevo uscire da casa sua e non tornarci più. »

Lo sguardo di Atom pareva lontano e distante mentre raccontava per la prima volta a voce alta quello che gli era successo.

La giovane Griffin, dal canto suo, era altrettanto persa nelle sue parole, nella storia che lentamente iniziava ad acquisire senso nella sua mente.

Quando l’altro si voltò improvvisamente verso di lei, e la guardò negli occhi, la bionda non fu sicura di cosa la convinse a sostenere il contatto visivo.

« Non ti sto raccontando questo per farti provare pena nei miei confronti, Clarke, né perché tento di giustificare quello che ho fatto. Voglio solo che tu veda. »

Lei, come stregata, seduta sul letto sfatto e usurato di quella stanza di motel, annuì quasi meccanicamente.

« Da quel momento in poi la mia vita è stata solo un susseguirsi di espedienti per procurarmi la prossima dose. »

Sospirò, e per un attimo la ragazza pensò che fosse tutto lì. Che tutto si riducesse a quello.

« Alla fine sono riuscito a disintossicarmi. » La sorprese. « Mi sono ripulito, ho lavorato su me stesso, su quello che volevo essere. Su chi volevo essere. Prima che potessi cominciare davvero la mia vita, però, qualcuno si era già accorto di me. »

La sua voce si aggravò, e Clarke sentì vivida al centro del petto la sensazione che quello fosse solamente l’inizio.


 
 


 
*




 
 
« Monty? Che diavolo ci fai qui? » Bellamy parlò prima di raggiungerlo del tutto e, quando il ragazzo si voltò verso di lui, la sua espressione sembrò rivelargli già quale fosse il motivo per cui era lì.

« Clarke? » Cambiò immediatamente il timbro di voce, questa volta profondamente preoccupato e allarmato, e vide negli occhi del più giovane un’imminente conferma.

« Credo che stia per fare qualcosa di veramente, veramente brutto. Devi fermarla. » Parlò spaventato l’asiatico, passandogli senza indugio un bigliettino stropicciato.

Sopra c’era un indirizzo.






 
*


 
 
 
 
« Qualcuno si era accorto di me e di quello che avevo fatto per procurarmi ciò di cui avevo bisogno e di chi fosse la mia famiglia. Mi aveva trovato e non c’era alcun modo per evitare che la vergogna ricoprisse il nome di mio padre.
Nessun modo, se non- »

« Se non lavorare per lui… » Concluse Clarke al posto suo, attonita.

« Vedo che inizi a rimettere insieme i pezzi. » Atom aspirò l’ultimo tirò dalla cicca e la fece cadere a terra, spegnendola con la suola delle scarpe.

« Ma perché trascinare Bellamy in tutto questo? »

« Non è con Bellamy che è iniziato tutto. Lavoravo per quest’uomo ogni volta che me lo chiedeva e so di non essere l’unico. So che c’erano altri che ricattava e che usava per i suoi scopi. Io avevo sempre le stesse missioni: rapine, furti, questioni informatiche. Lui aveva bisogno di qualcuno addestrato, capace, e io avevo bisogno che mantenesse il mio segreto. E paradossalmente la situazione è stata perfino stabile, per un po’. Almeno finché- »

« Finché non ha ucciso mio padre. »

« Finché tu non hai iniziato a dubitare che tuo padre non fosse veramente morto per un infarto. Fino a che non ha iniziato a tenerti d’occhio. Lui ti ha sempre  tenuta d’occhio, Clarke. »

Prima che la bionda potesse replicare, il giovane Ward continuò a parlare: « Immagina la sua sorpresa quando tu ti sei avvicinata all’agente Blake. Il mio migliore amico d’infanzia. » Sollevò le sopracciglia.

« Disse che sei proprio come tua madre: incapace di non innamorarti del primo uomo che ti dedichi un minimo di affetto. »

La giovane Griffin scattò sul posto, stringendo i pugni e mordendosi l’interno della guancia, senza però riuscire a ribattere nulla.

Atom accennò un vago sorriso consapevole e continuò.

« Devo ammettere che gliel’avete davvero resa facile. Insomma, tu, il suo primo bersaglio, il suo obiettivo numero uno, improvvisamente coinvolta con un agente federale di mia conoscenza. Per lui è stata come la mattina di Natale. Non ci è voluto molto prima che mi chiedesse di riavvicinarmi a Bellamy. »

Sebbene fosse tornato ad usare il suo solito tono strafottente e spietato, Clarke non poteva fare a meno di riuscire a leggere nei suoi occhi l’ardore della disperazione e il dolore della sconfitta. Non ora che sapeva quello che aveva dovuto affrontare.

« Ma tu mi hai salvato la vita. » Sussurrò, confusa e disorientata e sconcertata e sì, totalmente terrorizzata.

« Hai rischiato la tua vita per salvare la mia. Hai disobbedito. Hai perso tutto quello per cui hai lottato. »

« Potrò essere un drogato, Clarke, o un codardo, ma non sono un assassino. »

La bionda lo guardò disperatamente, cercando sul suo volto il segno della cattiveria che avrebbe potuto giustificare tutto l’odio con cui aveva preso quella pistola, era salita in macchina e l’aveva puntata contro di lui, ma non trovò nulla di tutto quello.

Lei stava guardando esattamente se stessa.

« Dimmi chi è… » Lo implorò per l’ultima volta, mentre il proprio volto si contorceva in una maschera di tormento.

Atom puntò gli occhi verdi su di lei, fermi e sicuri come mai lo erano stati fino a quel momento, e annuì una sola volta, solennemente.

Dentro di sé pensò che probabilmente assomigliava più ora a suo padre di quanto l’avesse mai fatto prima.

« È- »

Prima che potesse continuare la frase, però, ci fu un fragoroso colpo alla porta e prima che uno dei due avesse l’occasione di fare qualcosa, improvvisamente la stanza si riempì di poliziotti armati che urlavano di stare fermi e non muoversi.

Lo sguardo sgomento di Clarke volò in più direzioni in un unico secondo, verso Atom e la pistola che teneva fra le mani e gli agenti armati che le intimavano di lasciar andare l’arma e il sole che tramontava alle loro spalle, fino a posarsi su di un altro, su un paio di occhi che mai si sarebbe aspettata di vedere in quel momento, o in quel luogo.

Senza ragionare, senza pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze, urlò angosciosamente e si gettò nella direzione del ragazzo già ammanettato.

Non arrivò mai, però, perché un petto forte si scontrò contro il suo e una mano le strappò l’arma e subito dopo due paia di braccia si avvolsero attorno alla sua schiena, immobilizzandola.

« No! » Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, mentre ogni cosa intorno a lei si muoveva troppo velocemente, dandole l’impressione di essere bloccata fra le sabbie mobili.

Si sporse col volto oltre la spalla del corpo che la stava tenendo ferma – il corpo di Bellamy – e allungò un braccio verso Atom.

« Dimmi chi è! »

I due scambiarono uno sguardo che mai, per tutto il resto della propria vita, Clarke avrebbe potuto dimenticare, e prima di qualsiasi altra cosa il giovane Ward fu trascinato fuori dalla stanza.





 

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Capitolo 19
*** XX ***


 



 
Is It Any Wonder?




 
« Colpisci! »

Il pugno arrivò in risposta all’esortazione con precisione e fermezza, come se quello fosse il gesto per cui era nato. Era preciso, concentrato.

« Bene. Colpisci di nuovo, questa volta schivando allo stesso tempo. »

« Non sono sicura che riempirti di botte sia la cosa migliore che io possa fare in questo momento. »

« Non mi stai riempiendo di botte, Octavia. Ti stai allenando e io sono il tuo allenatore. »

« Sei un po’ più del mio allenatore, non credi? »

Rispose maliziosamente la più giovane dei Blake, dimenticando per un attimo di trovarsi in una palestra e gettando le braccia attorno alle spalle forti di Lincoln.

« Sono il tuo allenatore adesso e tu devi concentrarti. »

« Sono sicura che possiamo prenderci una pausa, sai? » Prese di poco le distanze, abbastanza per guardarlo negli occhi, e sorrise di nuovo.

« Le cose potrebbero mettersi male davvero velocemente. Voglio solo che tu sappia come difenderti nel caso in cui- »

« Non ti succederà niente. »

La più giovane riacquistò un’espressione seria e aggrottò lievemente le sopracciglia nel tentativo di risultare convincente. E c’era una cosa di cui poteva giurare di essere convinta: non sarebbe successo niente a Lincoln.

Lei e Bellamy lo avrebbero protetto.

« Ho bisogno di sapere che tu sarai al sicuro anche se dovesse accadermi qualcosa. »

L’altro sembrava fermo nella sua convinzione e lei non lo contraddisse ulteriormente.

Si limitò a guardarlo, ad osservare quel volto che per tutte quelle notti era stata l’ultima cosa ad accarezzare i suoi occhi.

Quel volto che aveva pian piano scavato un angolo dentro di sé che non poteva essere articolato a parole, che ogni giorno portava più luce di quanto lei non avesse mai visto.

Il calore di sentirsi al sicuro, due braccia sempre aperte, una solidità che Octavia Blake non aveva mai provato lontana da suo fratello.
Una persona che era anche un posto: la sua casa. Tutto quello che lei sarebbe potuta diventare. Tutto ciò che somigliava di più a quello che lei voleva essere.
Lincoln era ancora più di queste cose, eppure allo stesso tempo era così semplice, tutto così chiaro.

Fu per quel motivo che a quel punto sorrise, e non poteva dirsi certa che si trattasse di una vera e propria scelta.

Forse era proprio così: lei non aveva avuto alcuna scelta in quella faccenda.

Lo aveva conosciuto perché desiderava perdere il controllo e si era innamorata di lui perché non c’era altro modo in cui sarebbe potuta andare la cosa.

E, alla fine, ogni cosa aveva ironicamente preso posizione.

Il caos si era fermato e un dolce silenzio aveva messo a tacere tutta la confusione nella sua mente, lasciando al centro di tutto un'unica persona, che era anche il principio di senso di ogni cosa che lei avesse mai fatto.

Nulla fu più facile che guardarlo per un altro attimo, solamente uno, per accertarsi che anche quel ricordo più semplice venisse riposto in quella parte della sua mente che non avrebbe mai dimenticato che quella era la prima persona che l’avesse mai fatta sentire come se ci fosse qualcosa – qualcuno – a cui lei appartenesse senza catene o limiti.

E poi lo baciò. Teneramente, come una melodia scambiata in silenzio senza il bisogno di essere riprodotta. Come una danza immobile, invisibile all’occhio meno attento. Lentamente, come se quello fosse l’ultimo momento in cui avrebbe mai provato quella sensazione, solo per meravigliarsi ancora quando si fosse ripetuto.

E le sembrò quasi disgustosa la dolcezza con cui pensò che lei doveva probabilmente essere nata per quello.

Per baciare Lincoln e per farla sembrare l’emozione più unica al mondo, più meravigliosa ed inebriante di qualsiasi altra sostanza con cui avrebbe mai potuto entrare in contatto.

« Dovranno fare molto di più per portarti via da me. Molto, molto di più. Adesso su quelle protezioni, sono pronta a farti il culo. »





 
*
 
 
 
 
 
« Doppia tequila. »
Il barista del Givin’ and Takin’, un uomo di mezza età sotto la cui barba lunga pulsavano pigramente le vene del collo, avvicinò il mezzo bicchierino all’ultimo arrivato dei suoi clienti senza troppe cerimonie.

Era abituato, ormai, a vedere persone iniziare a bere alle undici del mattino, e i trent’anni che aveva trascorso in quel bar gli avevano insegnato a non interferire mai con un uomo con quell’espressione dipinta sul volto.

Bellamy Blake lo ringraziò con un cenno del capo che non lasciava trasparire nulla.

E non c’era altro modo in cui sarebbe stato in grado di spiegare cos’era che stava provando in quel momento: il vuoto.

Il vuoto nella gola, sulla bocca dello stomaco, fra i pensieri.

Non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima che aveva mangiato o perfino dormito. Forse una decina d’ore prima di scoprire che il suo migliore amico non solo aveva tentato di incastrarlo con dei soldi sporchi, ma che probabilmente era invischiato in un giro di furti ed omicidi in grado di far impallidire il circolo di Lexa Heda, con cui stava attualmente dividendo il bancone sporco di un bar qualunque.

Certo, quale momento migliore per portare avanti la sua copertura. La parte più sarcastica della sua mente quasi ringraziò Atom, perché aveva davvero preso due piccioni con una fava.

Poteva lavorare sul campo e cogliere l’opportunità per cercare di bere fino a dimenticare gli ultimi tre mesi della sua vita. Forse anche di più, pensandoci attentamente.

Quindi Bellamy buttò giù velocemente il bicchiere senza la possibilità di sentire altro se non il fuoco dell’alcol che bruciava la sua via attraverso il petto stanco.

E poi ne buttò giù un altro, e un altro ancora, e spese venticinque dollari per comprarsi la metà della bottiglia che restava.

E, quando la bottiglia finì, gli sembrò la cosa migliore lanciarsi un’occhiata in giro, giusto per accertarsi di chi fossero gli inconsapevoli testimoni del suo tentativo di autodistruzione.

La corretta mossa successiva, poi, gli sembrò necessariamente quella di provare qualcosa. Perché non importava quanto fosse ubriaco, o scioccato, o terrorizzato, lui rimaneva Bellamy Blake e aveva bisogno di sentire qualcosa, anche se fino a quel momento aveva cercato di fare esattamente l’opposto.

Qual era, dunque, il modo migliore per sentirsi umano? Per sentirsi vivo, per sapere di essere davvero lì. Per rendersi conto che quello non era un sogno e che lui non poteva svegliarsi?

Pensò stupidamente al sesso, ma non c’erano donne, in quel bar. Non a quell’ora. Non quando fuori il mondo si muoveva velocemente, e viveva, e continuava a girare anche se lui non se ne accorgeva. Anche se per lui si era fermato tutto.

A quel punto si rese conto che c’era così poco che potesse fare, se non qualcosa di potenzialmente pericoloso.

Ma lui in quel momento non era un agente federale. Non era un fratello, né un uomo responsabile.

Non era niente se non qualcuno che cercava di trovare un senso a quello che gli stava accadendo e che gli scivolava fra le mani senza controllo, quindi immaginò che per una volta potesse abbracciare il pericolo. Attirarlo a sé.

Prima che il suo cervello potesse trasformare in azioni quel pensiero, il suo corpo si mosse quasi automaticamente.

Si diresse verso la prima persona che vide, in quel caso un ragazzo poco più giovane che sembrava almeno perso quanto lo fosse lui.

Quando fu abbastanza vicino da distinguerne i dintorni – non che ne avrebbe ricordato qualcuno – e l’altro si voltò verso di lui, non esitò.

Le sue dita si chiusero e il suo braccio prese slancio e il suo pugnò atterrò su quel viso sconosciuto con tutta la violenza di cui fosse capace.

Il ragazzo non era stato in grado di prevedere quello che sarebbe successo, perciò cadde a terra immediatamente, più stordito e confuso di quanto non lo fosse il suo assalitore.

E fu in quel momento che Bellamy non riuscì a fermarsi.

Scattò sopra di lui e lo colpì di nuovo, in pieno volto, con la cruda e fredda indifferenza che lottava per emergere dal centro del suo petto.

Purtroppo per lui, però, quell’insolita beatitudine durò meno del previsto. Qualcuno intervenne, spietato e forte com’era stato il maggiore dei Blake, e lo afferrò per le spalle.

La schiena del moro atterrò contro il tavolino da biliardo lì vicino, lasciandolo stordito per il tempo sufficiente agli altri due di colpirlo di rimando altrettante volte.

E dovevano averlo colpito proprio forte, perché non passò poco prima che la sua vista si oscurasse da un occhio e il sangue invadesse la bocca, mischiandosi al sapore dell’alcol che aveva bevuto fino a quel momento.

Eppure Bellamy sembrò accogliere quel dolore quasi con serenità. Lo aveva voluto. Lo aveva cercato e ora che lo otteneva si sentiva quasi bene. Quasi era la parola chiave.

Prima che i due uomini, di cui ovviamente nemmeno scorgeva i lineamenti, lo colpissero di nuovo, una voce arrivò forte e chiara dalla sua sinistra, senza però scomporsi.

« Basta! » Lui e gli altri due si voltarono di poco, come se quell’unica parola fosse stata così violenta da impedirgli qualsiasi ulteriore movimento.

Come se bastasse un semplice comando perché tutto quello si fermasse improvvisamente.

Il maggiore dei Blake riuscì a vederla anche da quella distanza, due tavoli più in là.

Era seduta da sola.

La prima cosa che pensò la sua mente offuscata era che era bellissima.

La seconda, che aveva già incontrato quello sguardo prima d’ora.

La terza, che era Lexa.

Non appena si alzò, le due paia di mani che si erano strette attorno al suo collo sparirono.

I due uomini fecero alcuni passi indietro senza distogliere l’attenzione da lei nemmeno per un attimo.

Quando gli fu di fianco, bastò un cenno del capo perché gli voltassero le spalle e se ne andassero.

Loro rimasero da soli.

Il moro si sollevò dal tavolino e si passò il dorso della mano sulla bocca, cercando di ripulirsi dal sangue che ancora usciva dal suo labbro inferiore.

Una parte della sua mente, quella che era rimasta lucida e cosciente – quella che sarebbe sempre rimasta lucida e cosciente, nonostante qualsiasi cosa gli accadesse – lavorò velocemente per trovare una spiegazione alla sua presenza nel territorio dei Grounders. Sapeva che nessuno, turista o meno, si trovasse da quelle parti per caso.

« Non dovresti bere a quest’ora. » Lexa interruppe i suoi pensieri prima che lui potesse sforzarsi di connettere il cervello alla bocca.

Reclinò il capo di lato e lo osservò attentamente, e non fu difficile per l’agente Blake capire perché tutti sembrassero quasi aggiogati da quella donna.

« Non è mai l’ora sbagliata per bere. »

Heda accennò un sorriso lieve e controllato, come se non potesse concedersi né concedergli di più.

« Allora non dovresti rovinarti la faccia così. » Propose subito dopo, alzando con sicurezza una mano e portandola ad accarezzargli la guancia sinistra.

Tutto di lei, dai suoi occhi al suo tocco, era fermo e deciso. Come se avesse fisicamente bisogno di mantenere il controllo. Bellamy sbatté le palpebre un paio di volte, poi si lasciò andare ad una risata bassa.

« Vorrei fosse la prima volta. » Quando riportò lo sguardo in quello della ragazza – che era tutto tranne una semplice ragazza – iniziò a guardarla davvero: i suoi occhi verdi sembravano fluorescenti e felini sotto il trucco pesante, e i suoi capelli erano organizzati secondo uno schema complesso.

Gli dava l’impressione di trovarsi in una stanza di cristallo ad ogni attimo in cui continuava a scrutarlo.

Alla prima mossa sbagliata, al primo movimento fuori posto, tutto si sarebbe distrutto.

E Lexa non sembrava di certo qualcuno pronto a perdere.

« Sono ubriaco. Sto sanguinando. Forse dovrei andare. »

« Dall’altro lato della strada c’è una tavola calda. È di un mio amico, puoi dirgli che ti manda Gona. Mangia qualcosa, prima. »

« Grazie… » Si interruppe per darle la possibilità di suggerirgli il proprio nome, fingendosi il più incerto possibile.

« Lexa. »

« Lexa. Mi chiamo Bellamy. »

« A presto, Bellamy. »

Non c’erano dubbi nella sua voce. Sembrava perfettamente sicura che si sarebbero rivisti, e l’agente Blake non poté trattenersi dal pensare lo stesso. Lei era il suo bersaglio numero uno, dopotutto.




« Allora, avrò bisogno di un doppio cheeseburger, patatine fritte e una soda. »

Il maggiore dei Blake ordinò senza nemmeno guardare in faccia la giovane cameriera che gli si era appena avvicinata, troppo concentrato a smaltire la sbronza, ad evitare il dolore al volto e a scrutare la strada fuori dalla finestra.

Una parte della sua mente non riusciva ancora a spiegarsi che ci facesse ubriaco e sporco di sangue ancora prima di pranzo, ma immaginò che quella fosse la cosa meno strana di tutte quelle che gli stavano accadendo in quei giorni.

Sicuramente meno strana del suo migliore amico scoperto a far parte di una qualche associazione a delinquere pronta senza la minima esitazione ad ammazzare qualcuno. Sicuramente meno strana del fatto che quello fosse il tempo più lungo in cui si allontanava dal Dipartimento e ignorava il cellulare.

Ed era dilaniato dall’incertezza che da qualche parte dentro la sua mente gli gridava che forse tutto quello che avrebbe dovuto fare era salire in macchina e guidare il più velocemente possibile verso la cella in cui era rinchiuso in quel momento Atom.

Come se guardarlo negli occhi potesse cambiare almeno una delle cose che erano successe in quei mesi. Come se in quegli occhi che pensava di conoscere così bene potesse trovarsi la risposta al perché di tutto quello.

Perché Jake Griffin e i soldi sporchi e il suo ritorno e Clarke, oh Clarke, che l’aveva guardato con più rancore di quanto avrebbe mai potuto immaginare lì, fuori da quel motel, quando lui gli aveva portavo via la vera prima occasione di scoprire la verità dopo anni.

Mentre aspettava il suo stupido cibo – come se avesse qualche senso mangiare cibo spazzatura in una situazione del genere – Bellamy si domandò se avesse avuto anche la minima scelta in tutta quell’intricata condizione che ora sembrava sfuggire a qualsiasi controllo o regola logica.

Se tutto quello che aveva vissuto fino a quell’attimo preciso non fosse stato deciso già in partenza da qualcuno con un pessimo senso dell’umorismo.

Si ritrovò a pensare come diavolo fosse successo che avesse incontrato proprio quella ragazza e che da quel giorno ogni più piccola azione l’avesse portato proprio lì, proprio in quel momento.

Come potevano coesistere tutte queste varianti e probabilità quando ogni razionalità sembrava ormai solamente uno scherzo di cattivo gusto. Come poteva essere successa qualcosa del genere e lui non se ne fosse accorto prima.

« Ecco qui. Doppio cheeseburger, patatine fritte e una soda. Ho sentito che ti ha mandato Gona. »

La cameriera lo interruppe prima che potesse inoltrarsi in un luogo troppo oscuro.

« Ahm, » il moro chiuse per un attimo gli occhi, cercando le parole giuste per non destare sospetti, e poi riportò lo sguardo in quello della ragazza.

Doveva essere poco più giovane di Octavia.

« Sì, me lo ha suggerito lei. »

« Allora questo lo offre la casa. » Gli sorrise e, senza attendere una risposta, gli diede le spalle e se ne andò.

Non pensò più a niente. Forse quell’alcol era davvero servito a qualcosa. Forse c’era poco che potesse fare. Bellamy rimase seduto a quel tavolo ancora per un po’.

La superficie ora era vuota e il sole si era spostato, filtrando i suoi raggi all’altezza dei suoi ricci scuri.

Quello era l’ultimo posto in cui forse avrebbe dovuto trovarsi – in un fast food nel territorio dei Grounders – eppure non c’era in lui nemmeno il minimo interesse ad alzarsi e tornare alla centrale.

Vedere i suoi colleghi. Vedere Atom. Vedere Clarke.

No, in quel momento Bellamy non era forte. Non era un leader. Era quanto di più lontano dal coraggio potesse esserci.

In quel momento Bellamy non era più sé e non aveva intenzione di tornare ad esserlo presto. L’illusione di un qualche tipo di solitudine rigeneratrice però durò ben poco, data l’insistenza con cui il suo telefono vibrava nella tasca destra dei jeans.

Quando, stanco, decise di rispondere, il numero del Capitano Sidney gli balzò agli occhi con tempestività e urgenza.

« Ci sono, ci sono. Era proprio necessario chiamare così tanto? » Fece a mo’ di saluto.

« Bellamy. » Lo rimproverò immediatamente il suo superiore.

« Credevo venissi qui appena sveglio. Ti stavo aspettando. Devi interrog- »

« Non interrogherò proprio nessuno, capo. Sono fuori. » Sbuffò le parole prima che queste si realizzassero del tutto nella sua mente, e fu sorpreso di non esserne sorpreso affatto.

« Fuori? Che vuoi dire? »

« Non posso parlarne ora. Sono, mh, occupato. Più o meno. »

Dall’altra parte del telefono ci fu un rumore sordo, come un cambio d’aria, e non ebbe tempo di attaccare ché una voce diversa da quella del suo responsabile lo raggiunse, rotta e flebile come mai prima d’allora l’aveva sentita.

« Ho bisogno che tu venga qui, Bellamy. Adesso. » Era Clarke.
 





 
Il maggiore dei Blake si guardò negli occhi attraverso lo specchietto retrovisore della sua automobile, immobile nel parcheggio del Dipartimento.

Il suo occhio sinistro era circondato da un prepotente livido violaceo e sotto di esso lo zigomo si era gonfiato significativamente nell’ultima mezz’ora.

Non riusciva a vedersi la bocca, ma, se il fastidio e l’odore del sangue potevano esserne indicatori, immaginò che le sue labbra dovessero essere altrettanto gonfie e rosse. Ottimo. La testa gli girava ancora, probabilmente sia per la rissa che per la bottiglia che aveva trangugiato senza remore, e trovò quantomeno ironico che proprio un rappresentante delle autorità si fosse messo alla guida in quelle condizioni.

Come pensava di poter proteggere gli altri quando non voleva nemmeno proteggere se stesso?

Con un ultimo sospiro affranto, come se si stesse avvicinando al patibolo – e forse quello sarebbe stato anche meglio – scese dalla sua automobile, si aggiustò la cintura a cui erano appesi distintivo e pistola e camminò svogliatamente verso l’interno dell’edificio.

Quando raggiunse il suo piano e le porte dell’ascensore si aprirono sulla sua divisione, tirò l’ennesimo respiro profondo.

Non era pronto a tutto quello, né all’improvvisa violenza con cui ne era venuto a conoscenza.

L’unica cosa che percepì con chiarezza erano i suoi anfibi pesanti che strisciavano sul pavimento con passo regolare ma indolente.

Anche quando i suoi occhi stanchi incontrarono quelli di Clarke, seduta alla scrivania. Anche quando lei si alzò, tempestiva e visibilmente esausta e inarrestabile.

L’unica cosa a cui Bellamy si aggrappò fu il suono dei propri passi, il rumore che gli rimbombava nelle orecchie al ritmo del cuore, come se si trovasse sott’acqua.

« Bell- » Non la ascoltò.

Distolse lo sguardo e sentì la durezza dell’indifferenza appesantirgli il volto. Il vuoto che si andava ad incastrare nei contorni delle labbra.

E odiò se stesso, perché nonostante quello tutto ciò che voleva fare era prenderla per mano e portarla via.

Iniziare a guidare e non fermarsi finché non avesse capito cosa diamine fosse quella pressione che lo spingeva verso di lei ogni volta che incontrava il suo sguardo. Ma non poteva.

Il suo migliore amico era con ogni probabilità un assassino e con ogni probabilità fino a quel momento non aveva fatto altro che spiarlo. Delle persone erano state uccise. Ad alcune era stato fatto del male, lei compresa.

E lui non avrebbe potuto fare niente fino a quando non avesse scoperto la verità. Ogni aspetto di essa.

Perciò distolse gli occhi dai suoi, si mise le mani nelle tasche del giubbotto e si dileguò nell’ufficio del suo capo.

« Che diavolo ti è successo? » Alzò subito la voce lei, non appena prese coscienza delle sue condizioni fisiche.

« Ho fatto una piccola gita, oggi. »

Il Capitano Sidney lo scrutò per qualche istante. Poi, lentamente, gli si avvicinò.

« Sei ubriaco, agente Blake? » Gli domandò, stupita e sconcertata.

Bellamy scrollò le spalle e spalancò le braccia, appoggiandosi con il busto alla porta di vetro. Non riusciva a liberarsi dalla sensazione degli occhi di Clarke su di lui, proprio in quel momento, che lo osservavano da fuori.

« Ero sotto copertura. » Rispose lui tranquillamente, come se quella fosse la spiegazione più normale e plausibile che potesse fornirle.

« Non è così che si fanno le cose, Bellamy! E tu dovresti saperlo meglio di tutti! E se ti avessero seguito? »

« Non mi ha seguito nessuno, Diana. Si rilassi. »

« Qui dentro per te sono il Capitano Sidney, va bene? » Lo riprese, puntandogli l’indice contro, e proseguì con il suo rimprovero.

« Ci sono ancora tante cose che dobbiamo stabilire e calcolare. Non puoi semplicemente entrare nel territorio dei Grounders così! »

« Ho incontrato Lexa. » Propose il moro, staccandosi dalla porta e passandosi una mano fra i capelli.

« Forse potrei portarmela a letto, che ne dice? » E accennò una risata amara.

« Non continuerò una conversazione sull’argomento mentre sei in queste condizioni. Bevi un caffè, agente Blake, e riprenditi. Fra venti minuti ti voglio in sala interrogatori con Atom Ward. »

Senza attendere un’ulteriore risposta sarcastica o amareggiata, il superiore lo oltrepassò e uscì dall’ufficio, lasciandolo solo.
 



 
 
Bellamy giunse davanti la porta della sala interrogatori senza nemmeno un minuto di ritardo.

Era in conflitto fra l’impazienza di sapere tutto e subito – chi era davvero Atom Ward e come aveva fatto a trasformarsi dal ragazzino insicuro che lui ricordava ad un potenziale assassino, cos’era accaduto davvero a Jake Griffin e perché a sua figlia non fosse concesso il minimo di pace che tanto cercava – e l’adrenalina del salto nel vuoto, del buio e totale sconosciuto.

Passarono solo alcuni secondi, il tempo di vagliare velocemente tutte le possibilità, e poi non esitò.

Entrò nella stanza con sicurezza e con quel tipo di spavalderia che per tanto tempo aveva contaminato i suoi atteggiamenti, e la prima cosa su cui puntò lo sguardo fu il vetro riflettente che collegava quelle mura alla stanza adiacente, dalla quale, ne era sicuro, il suo capo lo stava osservando proprio in quel momento.

Una parte di sé si sentiva come se fosse lui l’incriminato.

Poi, senza rimandare troppo l’inevitabile, si concentrò sulla persona che era seduta dall’altra parte del tavolo che aveva conosciuto confessioni, cedimenti e lacrime di tanti innocenti quanti colpevoli.

Non riusciva nemmeno ad identificarlo con il suo migliore amico. Il suo viso, prima di quella scoperta così familiare e irreprensibile, ora gli sembrava un enigma a cui non si sarebbe mai potuto avvicinare abbastanza.

Era il volto di uno sconosciuto.

E proprio come uno sconosciuto l’avrebbe trattato.

L’agente Blake – che ora non era altro che questo: un agente federale seduto davanti ad un criminale – spostò pesantemente la sedia dalla sua parte, facendola strisciare fastidiosamente contro il pavimento, e si accomodò senza poche cerimonie.

Sapeva quanto fosse importante il modo in cui presentava. Era una delle cose che gli avevano insegnato all’Accademia e che di più lo avevano affascinato: il linguaggio del corpo, il movimento delle braccia, l’altezza del mento e lo sguardo. 

Lo sguardo non doveva mai essere distolto. Lo sguardo doveva intimorire, lasciar scoperta ogni minima debolezza della persona davanti a sé. Lo sguardo doveva comunicare più di tutto il resto.

E Bellamy immaginò che in quel momento il suo sguardo stesse comunicando forse troppo, dato che Atom non fu in grado di reggerlo per più di qualche secondo.

Non aveva con sé né un fascicolo né alcun altro documento cartaceo di cui potesse servirsi per padroneggiare l’interrogatorio, ma sapeva di non averne bisogno.

Sapeva che il suo sospettato gli avrebbe detto tutto quello che voleva sapere.

« Parla. » Sputò fra i denti, e la durezza di quell’unica parola fu sufficiente ad attirare nuovamente l’attenzione dell’altro.

I loro occhi si incontrarono nel più profondo silenzio per qualche attimo, il tempo che intercorse fra la poco gentile esortazione del moro e la risposta di quella che era stata la persona di cui si era fidato di più dopo sua sorella. 

« Non mi aspettavo che lasciassero fare a te l’interrogatorio. » Replicò sagacemente il giovane Ward, come ignaro dell’assai delicata situazione in cui si trovava in quel momento.

« Che c’è, hai paura che possa farti male? »

« Non sarebbe corretto da parte tua. » Gli fece notare, alzando entrambe le mani tenute ferme dalle manette. « E poi, vedo che per oggi ne hai già avute abbastanza. » Continuò, alludendo al suo volto livido e contuso.

« Ironico che sia proprio tu a parlare di correttezza. Smettila con le cazzate. Parla. »

« Cosa vuoi sapere? »

Il maggiore dei Blake alzò gli occhi al cielo e staccò la schiena dalla sedia, sporgendosi in avanti e poggiando entrambe le braccia sulla superficie fredda del tavolo che li divideva.

« Voglio sapere tutto. Voglio sapere cosa hai fatto quando ti sei trasferito da Portland, i dettagli dei soldi sporchi che mi hai rifilato. Voglio sapere cosa hai a che fare con l’omicidio di Jake Griffin e il rapimento di sua figlia. »

Ognuna delle sue richieste fu accompagnata da un colpo secco della mano sul tavolo.

« Voglio sapere cosa ci facevate tu e Clarke Griffin in un motel fuori Los Angeles e da chi stavi scappando. »

Atom aveva mantenuto lo sguardo nel suo per tutta la durata della sua requisitoria e fu strano per lui accorgersi che non era l’elenco di tutto quello che aveva fatto a dargli quella sensazione di disprezzo verso se stesso che stava provando in quel momento.

Era il disprezzo che Bellamy provava per lui. Il rifiuto, la vergogna, l’imbarazzo che trapelava da ogni sua parola e da ogni suo gesto più inconsapevole.

Fu proprio allora che prese veramente conoscenza di aver per sempre perso ogni più piccola quantità di stima e affetto che la persona davanti a sé aveva mai provato per lui.

Che quella persona così arrabbiata e furiosa e frustrata non sarebbe mai più stato il migliore amico che aveva mai avuto e che nessuno era mai stato in grado di rimpiazzare.

Immaginò che a quel punto valeva dire tutto e subito, far finire il prima possibile quello che probabilmente sarebbe stato il loro ultimo incontro. Pronunciare le ultime parole che si sarebbero mai rivolti.

« Ho commesso io quella rapina. Ho rubato io quei soldi. Ho partecipato al rapimento di Clarke Griffin. Non ho preso parte né sono al corrente di informazioni riguardo l’omicidio di suo padre. 

Stavo scappando da te perché sapevo che prima o poi mi avresti trovato. »

Buttò tutto fuori velocemente, trascinando una parola dietro l’altra in un vortice da cui non sarebbe mai uscito. 

E mentì. Mentì su una sola cosa, l’unica che non avrebbe mai potuto ammettere ad alta voce. Sapeva chi aveva ucciso Jake Griffin. Lo sapeva perché era la stessa persona che da due anni a quella parte aveva iniziato a ricattarlo a costo della vita di sua madre.

La stessa che gli aveva inviato foto della sua famiglia, di suo padre. L’uomo che l’aveva disconosciuto ma che non avrebbe mai smesso di amare. 

La stessa persona che aveva in mano tutto il resto della sua vita e di cui non avrebbe mai potuto fare il nome.

Avrebbe accettato il carcere e che gli portassero via la libertà e perfino che il suo migliore amico lo disprezzasse con ogni parte di sé, ma non avrebbe messo in pericolo la sua famiglia.

Sarebbe dovuto morire, prima. L’avrebbero dovuto uccidere.

Bellamy arretrò con il busto impercettibilmente, forse sorpreso dalla velocità con cui aveva ammesso tutti i suoi crimini, e non riuscì a impedirsi di spalancare di poco gli occhi, giusto il necessario per palesare il suo stupore.

Questa spontaneità durò solamente per poco, però, perché tornò immediatamente ad indossare la sua maschera di imperturbabilità.

Aggrottò lievemente le sopracciglia e un muscolo vibrò contro la sua mascella prima di rivolgergli l’ennesima domanda.

« Sei davvero così stupido da usare del denaro sporco con un poliziotto? »

Atom accennò un ghigno amaro, affatto divertito o rallegrato, e puntò gli occhi sul vetro riflettente, guardando allo stesso tempo se stesso e chiunque ci fosse dall’altra parte della superficie.

« Volevo che mi trovaste. » Confessò lentamente, come a dar tempo ai suoi interlocutori di assimilare perfettamente quell’ammissione.

« Ehi, sono qui. » Lo riprese con astio Bellamy, schioccando medio e pollice davanti alla sua faccia. « Perché mai vorresti essere messo in carcere? »

Almeno non sarò più costretto a fuggire, pensò lui.

« Stava diventando noioso vedervi girare intorno senza arrivare mai ad una vera e propria conclusione. »

A quel punto il moro rimase immobile. Lo osservò per alcuni secondi, un’espressione indecifrabile dipinta sul volto, e l’unico movimento che si permise fu quello di stringere i pugni.

Poi, all’improvviso, nell’apice della tensione che era andata sempre più crescendo in quella stanza, Bellamy scattò.

E, per la seconda volta in quel giorno, assaporò il dolce gusto della violenza che gli si scioglieva in bocca e mandava in tilt ogni suo sistema.

« Figlio di putt- »

Non riuscì mai a colpirlo, però, perché nello stesso momento il Capitano Sidney fece irruzione nella stanza.

« Basta! » Li ammonì con tono di voce fermo e sicuro, abbastanza autoritario da immobilizzare l’agente Blake sul posto.

« Tu, » e puntò l’indice su Atom, « questo non è uno scherzo. Tu andrai in prigione. Me ne assicurerò personalmente. »

« E tu, » rivolgendosi al moro, « nel mio ufficio. Adesso. »

Detto questo, gli diede le spalle, lasciando la porta aperta.

Bellamy, il respiro ansimante che gli agitava il petto e i pugni stretti lungo i fianchi, si voltò verso quell’estraneo che si era preso gioco di lui.

« Non finisce qui. » Gli assicurò con tono minatorio, squadrandolo con tutto l’astio e la furia di cui fosse capace,  prima di dargli le spalle e sbattere con violenza l’uscio dietro di sé.




 
 
 
« Andava tutto bene! » Esordì il maggiore dei Blake, precipitandosi per l’ennesima volta nell’ufficio del suo capo e guardandola con occhi stralunati.

« Non andava affatto bene! Se l’avessi anche solo sfiorato avrebbe potuto farci causa. Avremmo potuto perdere credibilità e avremmo potuto rischiare di farlo uscire. Ti stava provocando, Bellamy. E non possiamo permettercelo. »

Il moro sbuffò, ma non fu in grado di controbattere. In fondo, nella parte della sua mente che era riuscita a rimanere imparziale, sapeva che il Capitano aveva ragione. Sapeva che non poteva permettersi il minimo errore, non se avesse significato perdere l’unica pista concreta che avevano avuto fino a quel momento.

Eppure questo non fece altro che infastidirlo ancora di più, perché gli riportò alla mente le parole di Atom. Gli riportò alla mente che forse era vero, senza di lui non sapeva se né quando avrebbero mai raggiunto una reale prova.

E questo lo faceva impazzire.

« Non reagirò più in quel modo. Mi dispiace. È solo che- »

« Lo so. So quanto tutto questo sia difficile per te. So che ti ho chiesto tanto, ma se l’ho fatto è solo perché sono ben consapevole che tu possa farcela. Puoi farcela, è l’unica cosa di cui sono sempre stata sicura. »

Non capitava molto spesso che una donna forte e disciplinata come il Capitano Sidney si rivolgesse in quel modo a qualcuno dei suoi, e Bellamy lo sapeva bene.

Proprio per quel motivo sapeva che quella era la verità.

« Ho paura. » Ammise finalmente lui, togliendosi per un attimo, solo uno, la maschera che per tutto il giorno aveva indossato con fatica. Quella maschera di indifferenza e arroganza e presunzione che aveva costruito intorno alla tristezza e alla rabbia che aveva provato fin dal momento in cui si era accorto di come stessero veramente le cose.

Ed era ironico, dannatamente ironico, come la prima persona di cui si fosse sforzato di fidarsi, la prima persona a cui avesse concesso davvero di avvicinarsi, si fosse rivelata nient’altro che un mucchio di bugie e tradimenti.

« Ho paura perché  ho lasciato che il mio giudizio venisse oscurato con così tanta facilità e ho paura perché ho lasciato che quello si avvicinasse ad Octavia e a Clarke e io non me ne sono reso conto. E se- »

« Ti fidavi di lui. Non c’è niente di sbagliato in questo. Siamo poliziotti, ma ancor prima siamo essere umani. Abbiamo bisogno di credere che non tutti siano come i criminali di cui ci occupiamo. Abbiamo bisogno di tornare a casa e abbassare la guardia e smettere per un attimo di guardarci le spalle ogni secondo della nostra vita. Non devi aver paura di questo, Bellamy. Non devi lasciare che questo ti definisca. »

Il più giovane non rispose. Aggrottò le sopracciglia, com’era solito fare quando era confuso o troppo concentrato per esprimersi verbalmente, e lasciò vagare il proprio sguardo attorno alla stanza.

Dopo qualche secondo di silenzio, trascorso da entrambi a riflettere su quello che era appena stato detto, si riprese.

« Dobbiamo chiudere questo caso il presto possibile, torno lì dentro. »

La donna accennò un sorriso incoraggiante, e lui chinò il capo a mo’ di ringraziamento.

« Grazie, Capitano. »
 
 


Forte di quello che il suo capo gli aveva appena detto e del bisogno di risposte che ormai era impellente ed impaziente, Bellamy entrò per la seconda volta nella sala interrogatori, richiudendosi pacatamente la porta alle spalle e dirigendosi con calma verso il cavalletto su cui era appoggiata la videocamera per gli interrogatori.

Puntando lo sguardo in quello di Atom, che lo osservava da quando era rientrato, la spense.

« Se provi in qualsiasi modo a contattare mia sorella, ti ammazzo. Se ti avvicini a lei o lo fai fare a qualcun altro per te, ti ammazzo. Se posi ancora un’altra volta lo sguardo su Clarke, io ti ammazzo. »

Detto quello, riaccese la videocamera e la puntò meglio su di lui.

« Voglio sapere tutto quello che sai. Mi servono indirizzi, nomi, qualsiasi cosa. »
 





 
 
Il maggiore dei Blake parcheggiò la sua automobile nel vialetto di casa sua quando ormai il sole era calato e il crepuscolo si avviava a lasciare spazio al calare della notte.

Era esausto.

La sua mente sembrava così piena da essere troppo pesante perché lui potesse tenerla dritta ancora per molto. Il suo corpo sembrava tremare, tant’era la pressione e la tensione che si era accumulata al centro della schiena e lungo tutte le gambe.

Era talmente stremato da non riuscire nemmeno a sentire i pugni e i segni che avevano lasciato sul suo volto.

Non seppe come, ma scese dalla macchina e arrivò alla porta di casa senza nemmeno accorgersene.

Non appena entrò, sua sorella svoltò l’angolo della cucina e lo raggiunse.

La prima cosa che fece fu spalancare gli occhi, sorpresa e impaurita dal suo aspetto. La seconda fu corrergli incontro e abbracciarlo.

Bellamy immaginò che niente sarebbe stato più vicino alla definizione di casa di quello. Di Octavia fra le sue braccia e il profumo familiare dei suoi capelli e il suo piccolo corpo stretto attorno al proprio.

Il moro chiuse gli occhi e si accoccolò contro di lei come un bambino, senza parlare.

La più piccola fece correre la mano fra i suoi ricci, accarezzandoli e sfiorandoli con una delicatezza che non sarebbe mai assomigliata a nessun altro tipo di dolcezza.

« Dov’è Lincoln? » Domandò lui a bassa voce contro la sua spalla, senza allontanarsi di un millimetro.

« Pensava che avessimo bisogno di stare da soli. Che diavolo ti è successo alla faccia? »

« Gli imprevisti del mestiere. »

« Hai mangiato? Vuoi che ti prepari qualcosa? »

Solo in quel momento Bellamy si allontanò da lei, lasciando scorrere le mani lungo i suoi fianchi e aggiustandole la maglietta sulla vita, coprendola un po’ di più.

« Sono a posto. Ho solo bisogno di una doccia. »

« Certo. Allora io vado nella mia stanza, sai dove trovarmi. »

La più piccola dei Blake gli sfiorò la guancia che non era livida e tentò di regalargli un sorriso.

Lui si limitò ad annuire e a dirigersi verso la sua stanza.

Sapeva che sua sorella sarebbe stata lì nell’esatto istante in cui lui avesse deciso di parlarne. Né prima, né dopo. Lei avrebbe semplicemente saputo quando e lui non avrebbe avuto bisogno di spiegazioni ulteriori.

Ad ogni passo in cui si avvicinava alla sua camera, il moro si sentiva un centimetro più vicino al momento in cui avrebbe dovuto affrontare seriamente tutto quello che gli era accaduto in quegli ultimi giorni. Il momento in cui si sarebbe sdraiato da solo, al buio, e ogni sua paura, ogni sua tristezza si sarebbe materializzata davanti ai suoi occhi nella più totale e terrificante concretezza.

Quando, però, aprì la porta ed entrò nella stanza, immaginò che quel momento fosse più vicino di quanto avesse pensato.

Clarke, seduta a gambe incrociate sul suo letto, lo stava aspettando lì.

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Capitolo 20
*** XXI ***


Allarme rosso, gente! Preparatevi per un capitolo intenso sotto molti, molti punti di vista.

Oggi vorrei cogliere l'occasione per ringraziarvi tutti. Esattamente un anno fa stavo pubblicando il dodicesimo capitolo. Ora, invece, ci stiamo avvicinando alla fine, e devo ringraziare tutti voi per questo meraviglioso percorso. Grazie.


 




 
Is It Any Wonder?





Bellamy si schiarì la voce e Clarke si alzò di scatto dal suo letto nello stesso identico momento.

Si mossero con nervosismo e stanchezza, ognuno forse troppo esausto per preoccuparsi davvero di come potessero sembrare le cose.

Di come potesse sembrare così naturale vedersi dopo tutto quello che era successo e ritenerla comunque la parte migliore della giornata.

Il maggiore dei Blake si chiuse la porta alle spalle e posò la ventiquattrore che teneva a tracolla sulla sedia alla sua sinistra.

« Che ci fai qui? » Le domandò ingenuamente, come se non ne conoscesse l’esatto motivo. Lei fece qualche passo avanti, assicurandosi sempre di mantenere una determinata distanza di sicurezza, ma, nonostante ciò, ogni suo movimento appariva in qualche modo appesantito da tutto quello che si stava portando dietro.

Tutto era così tangibile da lasciarli interdetti, nervosi l’uno intorno all’altra. Così concreto da rendere l’aria attorno a loro pesante contro i loro corpi.

Le loro dinamiche si erano così complicate che Bellamy non sapeva se indietreggiare verso la porta come un ragazzino o andarle incontro e lasciare che tutte le parole inutili che avrebbero potuto scambiarsi si perdessero.

Optò per rimanere immobile, in attesa.

Quando, però, Clarke aprì la bocca per parlare, lui alzò la mano destra con il palmo rivolto verso di lei e la interruppe, sospirando.

« Sai cosa? Non posso ancora dirti niente. Si tratta di un’indagine molto importante, abbiamo scoperto alcune cose che assicureranno sicuramente nuovi sviluppi. Siamo vicini, siamo davvero vicini. Però non chiedermi di violare il patto e metterti al corrente di queste informazioni, perché non posso. »

Non aveva avuto intenzione di sembrare aggressivo quando aveva iniziato a parlarle, ma la sua bocca sembrava essersi scollegata dal cervello, colta dalla necessità di tirare tutto fuori. Non voleva né ferirla né tenerla all’oscuro, ma Bellamy era esausto come forse non lo era mai stato in vita sua.

E il suo migliore amico si era rivelato un totale sconosciuto. E lui aveva disperatamente bisogno di credere che per una volta qualcuno volesse essere lì veramente.

Voleva credere che Clarke potesse essere in grado di volerlo oltre le informazioni che avrebbe potuto darle o i vantaggi che il suo lavoro avrebbe potuto procurarle.

Che per una volta lui era solamente Bellamy e che qualcun altro gli stesse vicino per il semplice desiderio di esserci, senza secondi fini o motivazioni ulteriori.

« Volevo solamente ringraziarti. » Lo sorprese lei, abbassando lo sguardo verso le proprie mani strette in grembo e spostando il peso da un piede all’altro.

« Volevo ringraziarti per quello che tu e il tuo capo avete fatto per me. Per avermi trovato con quella pistola e aver lasciato correre la cosa. Non sono sicura di quanto tutto quello fosse legale, ma l’ho apprezzato. Perciò grazie. »

Questa volta fu il turno di Bellamy, preso dallo stupore e dalla confusione, di provare ad esprimersi ed essere interrotto prima di potere.

« E… Volevo sapere come stai. Mi dispiace per Atom. Mi dispiace per non averti detto nulla, per- »

« Clarke », intervenne lui, « lo capisco. Non devi darmi nessuna giustificazione. Hai solamente fatto quello che credevi fosse giusto. Hai totalmente sbagliato i mezzi, ma va bene così. Avevi bisogno di sapere. »

Forse lo immaginò, ma un lampo di tristezza illuminò per un istante i suoi occhi blu.

« Non ho smesso di fidarmi di te, Bellamy. » Iniziò.

Probabilmente soltanto ora che si ritrovava da sola con lui riusciva a capire quali fossero le vere conseguenze che il suo comportamento aveva provocato.

Era stata così occupata a riversare tutta la sua rabbia e frustrazione su Atom e sull’idea maniacale di avvicinarsi alla verità ché non aveva minimamente preso in considerazione la possibilità di ferire chi le stava intorno. Chi le era sempre stato accanto.

Ora che uno dei responsabili di quello che era accaduto era stato preso, e che questo avrebbe sicuramente comportato il raggiungimento di novità in quell’indagine che sembrava infinita ed incessante, Clarke si accorgeva davvero che intorno a lei le cose avevano continuato ad andare avanti.

Che la vita le era scivolata intorno senza che lei se ne accorgesse. Fu per quel motivo, forse, che si lasciò andare.

Che provò davvero a spiegare cosa l’avesse così pervasa da farle dimenticare che le cose più importanti della sua vita non erano cose.

Erano persone che vivevano e respiravano e soffrivano proprio come lei, anche se sembrava prenderne coscienza solo adesso.

« Ero così ossessionata dall’idea di poterlo fare da sola. Di poter, per una volta, prendermi cura di me stessa. Volevo credere di essere capace di mettere da parte la mia umanità e comportarmi come se la sua vita non valesse niente, come se fosse nelle mie mani e io fossi l’unica in grado di decidere se poteva vivere o morire. Volevo fargliela pagare. Ed è stato… orribile. »

Tutto le fuggì dalle labbra con una facilità che non aveva mai percepito prima di allora.

Le sembrò così semplice buttare tutto fuori e alleggerirsi di quel peso con cui si era abituata talmente tanto a convivere da non riuscire nemmeno a rendersi conto di quanto effettivamente fosse gravoso sulle sue spalle, nel suo petto, in ogni suo pensiero.

E di quanto si sentisse leggera senza.

Bellamy, che fino a quel momento era rimasto in silenzio ad ascoltarla e non aveva distolto lo sguardo da lei nemmeno per un attimo, indossava sul volto un’espressione indecifrabile, che sembrava ironicamente riflettere il modo in cui la giovane Griffin si stava sentendo.

Rimasero in silenzio per qualche attimo, ognuno di loro perso in tutto quello che si erano detti fino ad allora, quello che c’era dentro di loro e che non avrebbero mai potuto esprimere nel modo giusto, quello che li accumunava e gli spiegava senza bisogno di parole perché non ci fosse nessun altro per cui Clarke avrebbe detto quelle cose e che Bellamy avrebbe potuto desiderare di vedere in quel momento.

Lui la osservò ancora per pochissimi istanti, guardandola come forse non aveva mai fatto prima.

Teneva i capelli raccolti disordinatamente dietro la nuca e il suo volto privo di trucco sembrava allo stesso tempo antico e ingenuo come quello di una bambina, e il maggiore dei Blake pensò che non era mai stata più bella.

Nemmeno in quel maledetto galà che si era concluso con il suo rapimento e che lui non avrebbe mai dimenticato, con i capelli acconciati e il trucco forte attorno agli occhi e quel vestito perfetto.

Sembrava realizzare soltanto ora quanto le fosse mancata.

« C’è nessuno? » Fu di nuovo lei a parlare, accennando un mezzo sorriso imbarazzato e smorzando così la tensione che era andata crescendo da quando lui aveva messo piede in quella stanza. Bellamy fece un passo avanti.

Era controllato e misurato, come se volesse metterla alla prova.

Come se stesse chiedendo il permesso. Clarke, dal canto suo, rimase completamente immobile.

Non mostrò segni di incertezza o timore, e questo fu sufficiente perché lui avanzasse ancora, scrutandola con espressione accigliata come davanti ad un enigma improponibile.

« Non hai bisogno di giustificarti con me. Non volevi sentirti una vittima, lo capisco. Sei stata coraggiosa, Clarke, e hai voluto spingerti al limite. Avrei solo voluto che tu sapessi di non essere sola in tutto questo. Non lo sei mai stata e non lo sarai mai, qualsiasi cosa accada. »

La bionda rispose immediatamente, priva di remore o indecisione: sollevò una mano e la poggiò con delicatezza sul suo zigomo sinistro, quello che era livido e che non aveva affatto un bell’aspetto.

Lui chiuse gli occhi e piegò impercettibilmente la guancia verso il suo palmo.

« Non ti ho nemmeno chiesto come stai. Che è successo? »

« Lo hai fatto, teoricamente. » Le ricordò con un mezzo sorriso. « Non è niente, sto bene. »

« Mi dispiace così tanto, Bellamy. Per tutto quello che ti ho fatto passare. Per quello che stai passando con Atom. Non avrei mai voluto che succedesse qualcosa del genere. Non a te. »

La sua espressione tornò seria e i suoi occhi sembrarono tremare, tanto che Clarke fu quasi in grado di percepire come propria la tristezza che leggeva nelle sue iridi scure e che veniva a galla un attimo dopo l’altro.

E quelle parole parvero aver fatto davvero breccia in una parte di lui che aveva tentato di celare con grandi sforzi, perché improvvisamente il maggiore dei Blake si chinò verso di lei e lasciò cadere il capo contro la sua spalla, afferrandole i fianchi e stringendola a sé.

Clarke rimase sorpresa da quel gesto così inaspettato ed istintivo, ma non attese un secondo di più e lo abbracciò a sua volta, portando una mano fra i suoi capelli corvini e l’altra attorno alla sua schiena.

« Era il mio migliore amico. » Fu un sussurro disperato e affranto come non lo aveva mai sentito.

Dentro di sé ripensò di nuovo a quanto era stata talmente concentrata su se stessa da dimenticare che attorno a lei c’erano persone che soffrivano e che avevano bisogno di essere cullate, almeno per un attimo, come ne aveva bisogno lei.

Che ogni giorno erano costrette ad affrontare le sfide a cui la vita le sottoponeva e lo facevano senza un lamento, perfino col sorriso sul volto. E questo includeva Bellamy.

La differenza fra loro due, alla fine, era solamente che lui sapeva nasconderlo meglio.

« Sei sempre così impegnato a preoccuparti degli altri che non sai quando arriva il momento di prenderti cura di te stesso. » Bisbigliò di rimando, perché quelle parole non avevano bisogno di disperdersi velocemente, ma dovevano restargli addosso, dovevano ricordarsene sempre.

Non smise di accarezzargli i capelli mentre continuò: « Allora lascia che lo faccia io. »

Bellamy si irrigidì contro di lei. Sapevano entrambi che da quel momento non ci sarebbe stato alcun punto di ritorno.

Non potevano guardarsi negli occhi, perché lui teneva ancora il volto sepolto fra la spalla e il collo di lei, per una volta indifeso e fragile come un bambino, ma non ce ne fu bisogno. Trascorsero alcuni secondi nel silenzio più totale, interrotto solo dai loro respiri che si mischiavano nella pelle l’uno dell’altra, e poi lui si mosse.

Fu lento ed estremamente delicato – tanto da sembrare frutto della sua immaginazione – il bacio che le posò alla base della gola, ma Clarke lo percepì come un marchio infuocato che elettrizzò ogni sua terminazione nervosa e le diede la sensazione di sciogliersi come burro fra le sue braccia.

D’istinto, rovesciò la testa indietro, dandogli maggior accesso.

Quando fu certo che lei fosse altrettanto sicura, la baciò di nuovo, questa volta un millimetro più su.

La giovane Griffin chiuse gli occhi, oscillando un po’ di più verso di lui.

Le mani del moro scivolarono con sicurezza dietro la sua schiena, sorreggendola e avvicinandola ancora di più allo stesso tempo, mentre le sue labbra continuavano il loro percorso con impossibile calma, comodamente, come se non avesse alcuna intenzione di sbrigarsi.

Con un gesto veloce della mano sinistra, Bellamy raggiunse i suoi capelli e li liberò dal fermaglio in cui erano raccolti, gettandolo da qualche parte dietro di loro, lasciandoli ricadere sulle sue spalle e attorno alle proprie mani.

« Dì qualcosa… » Lo pregò in un attimo di consapevolezza, presa dal desiderio di sapere a cosa stesse pensando. Non che non fosse piuttosto ovvio.

« Non sarebbe opportuno se ti dicessi che non ho intenzione di farti uscire da questa stanza molto presto. »

Il maggiore dei Blake impazzì sentendola tremare sotto di sé, e continuò il suo percorso, posando un ulteriore bacio sotto il suo orecchio.

Improvvisamente pensò alle parole che il Capitano gli aveva rivolto prima, al Dipartimento.

Abbiamo bisogno di tornare a casa e abbassare la guardia e smettere per un attimo di guardarci le spalle ogni secondo della nostra vita. Non devi aver paura di questo, Bellamy.

E, spinto da quelle parole, spostò il capo per arrivare alla sua altezza e spostò le mani dalla sua schiena ai lati del suo viso, osservandola con intensità.

Le sue pupille erano dilatate, quasi completamente sciolte nel blu delle iridi, e le sue labbra socchiuse sembravano aspettare nient’altro che lui.

Rimasero a fissarsi per un paio di secondi, il tempo necessario per cercare l’uno negli occhi dell’altra qualsiasi tipo di esitazione.

Clarke si aggrappò ai bordi della sua maglietta nello stesso momento in cui lui si avventò su di lei, le bocche aperte l’una contro l’altra e pronte a scoprirsi senza alcun indugio, senza il minimo desiderio di rallentare quella corsa frenetica.

Entrambi pensarono che avevano perso fin troppo tempo.

La giovane Griffin tirò verso l’alto la base della sua maglia con insistenza e impazienza, e Bellamy sollevò di rimando le braccia, permettendole di togliergliela.

« Ho bisogno di te. » Gli disse all’improvviso, gettandogli le braccia al collo e abbracciandolo di nuovo, mettendo per un attimo da parte la foga da cui si erano fatti trascinare fino a quel momento.

« Non solo stanotte, » gli sussurrò all’orecchio, mentre il cuore le batteva così forte da rimbombarle dietro la nuca, « non solo così. »

 « Mi sei mancata. » Replicò lui, permettendosi per una volta di essere completamente sincero.

Non gli importava di niente di quello che era successo, del tempo che avevano trascorso separati e di tutto ciò che li rendeva diversi.

Ora che era con lei, protetti da quell’intimità che solo insieme avevano trovato, poteva dimenticare per un attimo del Dipartimento, del suo migliore amico, delle indagini.

Di qualsiasi cosa che non fosse Clarke fra le sue braccia in quell’esatto istante.

I loro volti si cercarono all’unisono e si incontrarono di nuovo, e le loro bocche sembrarono implacabili nel modo in cui si rincorsero e si mischiarono.

Parevano divorarsi e scoprirsi ad ogni movimento, come se non ci fosse niente di più ovvio che quello. Quando, poi, Bellamy iniziò a dirigerli entrambi verso il letto matrimoniale in cui era solito trascorrere le proprie notti da solo, lei lo assecondò, camminando indietro finché non toccò con il retro delle ginocchia il bordo del materasso.

Atterrarono entrambi con delicatezza, ancora stretti l’uno all’altra, e una gamba del maggiore dei Blake finì intrappolata in quelle di Clarke, che le strinse attorno a lui.

« E se Octavia ci sentisse? »

« Ti ha fatto entrare lei nella mia stanza, » le rispose, « credo abbia preso in considerazione l’idea che questo potesse succedere. »

La bionda annuì celermente e scivolò indietro, trascinandolo con sé, fino a poggiare il capo contro i cuscini.

E stava per aggrapparsi alla sua cintura, quando si accorse di essere ancora completamente vestita.

Il moro parve prenderne coscienza lui stesso, perché strinse le mani attorno ai suoi fianchi e trascinò verso l’alto la sua canotta, accarezzandola nel frattempo.

Clarke non si era mai sentita totalmente sicura del proprio corpo, sebbene non se ne fosse mai presa cura come avrebbe dovuto, ma in quel momento non percepì alcuna difficoltà nell’assecondare i suoi movimenti e lasciarsi vedere.

Il suo sguardo riverente, poi, non le permise di provare nemmeno una vaga parvenza di vergogna.

Non appena le sue mani le sfiorarono il petto durante la salita per spogliarla, la bionda sospirò profondamente, contorcendosi sotto di lui e prendendo il controllo della situazione, afferrando i bordi dell’indumento e togliendolo definitivamente di mezzo.

Bellamy le sorrise e lei, presa da un qualche strano tipo di potentissima adrenalina, fece forza sulle gambe e ribaltò le posizioni, schiacciandolo contro il materasso e sedendosi sopra di lui.

Lo osservò per qualche istante, inarcando la schiena per avvicinarsi al punto in cui la voleva di più, e immaginò che fosse passato un lungo tempo dall’ultima volta che aveva visto qualcosa di così bello come Bellamy Blake implorante e adorante sotto di lei.

« Sei perfetta. » Mormorò piano, deciso a farsi prendere sul serio e a convincerla davvero del fatto che lo pensasse, che non era soltanto la solita bugia.

Lei non seppe perché, ma in quel momento le sembrò vero.

Clarke si morse le labbra e si passò una mano fra i capelli, spostando i ricci di torno e guardandolo dall’alto, fiera e orgogliosa e pericolosa come non si era mai sentita prima.

Se aveva pensato di sentirsi potente con una pistola in mano era solo perché non aveva ancora provato la sensazione di averlo costretto fra le sue gambe, ansimante e pronto per lei.

Non appena, dopo alcuni attimi, si chinò verso di lui, Bellamy si sollevò, mettendosi a sedere e trascinandola con sé.

Si baciarono di nuovo, pieni di meraviglia e desiderio e di denti che si incontravano perché nessuno dei due riusciva a smettere di sorridere.

« Se avessi saputo che sarebbe stato così, mi sarei fatta arrestare molto tempo fa. » Scherzò lei, mentre il maggiore dei Blake scendeva per l’ennesima volta a baciarle il collo.

Lui rispose con una risata soffocata contro la sua pelle, sporgendo le braccia oltre la sua schiena e trovando il gancetto del suo reggiseno.

Immediatamente sollevò lo sguardo verso di lei in una tacita richiesta, e la bionda posò le mani sulle sue e le accompagnò dietro di sé, lasciandole sull’indumento.

Quando questo le scivolò dalle braccia e Bellamy lo lanciò da qualche parte sul pavimento, fu il suo turno di scambiare le posizioni e spingerla contro il materasso.

« Su questo dovremmo lavorarci. » Scherzò lei, mordendogli delicatamente la spalla sinistra.

Il moro, dal canto suo, continuò a baciarla da dove si era interrotto.

La base della gola, lo sterno, qualsiasi centimetro di pelle che potesse raggiungere senza muoversi ulteriormente.

Clarke parve respirare con affanno, chiudendo gli occhi, e lui risalì verso il suo volto con lentezza, posando le labbra contro il suo orecchio.

« Dimmi cosa vuoi che ti faccia. » Bisbigliò, spostando la bocca verso la sua tempia, sulle guance, sfiorandole appena le labbra.

« Toccami. » Ansimò, inarcandosi e dimenandosi verso il suo petto, rabbrividendo al contatto con la sua pelle calda.

Bellamy annuì visibilmente, accarezzandole con la lingua il labbro inferiore e risalendo dal basso con la mano sinistra, sfiorando appena il bordo dei suoi jeans e strofinando le punte delle dita contro la sua pelle.

La risposta di lei non si fece attendere: si aggrappò alla sua cintura come se da questo ne dipendessero le loro vite, e il rumore del gancio che si sfilava e si apriva le provocò una serie di brividi lungo la schiena.

Lui poggiò la fronte contro la sua, i loro respiri boccheggianti che si mischiavano, e Clarke lo baciò nello stesso momento in cui gli tirò giù i pantaloni, spingendoli via con il suo aiuto.

Non ebbe tempo di fare nulla, però, perché il maggiore dei Blake si staccò da lei e arretrò sulle ginocchia.

Perfino prima di potersi sentire confusa da quel gesto, Clarke percepì in profondità entrambe le sue mani scivolare sulle proprie gambe e ancorarsi al bordo dei suoi shorts.

Mentre con una toglieva il bottone dall’asola, l’altra mano si allungò verso il suo petto e rimase lì per qualche secondo.

Con un ultimo sguardo, Bellamy fece una minima pressione e li tirò via insieme alla biancheria, lasciandola nuda e affannata davanti ai suoi occhi.

Clarke pensò che se avesse continuato a guardarla in quel modo, tutto quello non sarebbe durato poi così tanto.

Ma fu costretta a ricredersi, perché quelle mani che la stavano facendo impazzire si posarono improvvisamente sulle sue ginocchia e le separarono, provocandole una sensazione alla bocca dello stomaco che la fece impulsivamente boccheggiare.

A quel punto il moro si riavvicinò a lei, approfittandone per incastrarsi in quello spazio e tornare ad appropriarsi della sua bocca con fugacità, prima di iniziare una discesa di baci bagnati contro la sua pelle.

Scivolò con dolorosa lentezza sul collo, sul petto, al centro della pancia senza smettere di guardarla nemmeno per un attimo.

Il suo sguardo implorante la supplicava di bloccarlo, di dirgli qualcosa, di spostarsi e urlargli contro che era un bastardo e che doveva togliere le sue mani luride da lei, come se i suoi occhi potessero entrarle nella testa e sussurrarle "fermami, fermami, fermami adesso, lasciami andare e io ti lascerò andare, ma fallo subito".

Ma Clarke non fece niente.

E, quando la sua discesa le impedì di guardarlo negli occhi, sollevò di poco la testa appena in tempo per vederlo affondare in lei.

Immediatamente tutto prese fuoco: ogni parte del suo corpo sembrava bruciare e tremare ed essere colta da spasmi incontrollabili, ogni sensazione amplificata dalla potenza di ciascuna delle mani di Bellamy a tenerle ferme le gambe e dei suoi ricci a sfiorarle la pelle delle cosce e dei rumori osceni che stava facendo la sua bocca contro di lei, pronta a farla gridare, se fosse stato necessario.

E quella pressione al centro del suo corpo si fece quasi impossibile da sopportare, costringendo la giovane Griffin ad aggrapparsi alle lenzuola con entrambe le braccia e a reclinare il capo più indietro che potesse, puntando gli occhi spalancati al soffitto e serrandoli subito dopo.
 


 
*




Clarke giunse sotto il portico di casa sua camminando velocemente, un paio di occhiali a coprirle il volto e una delle felpe senza cappuccio di Bellamy ad avvolgerla.

Si erano appena salutati, lui l’aveva accompagnata alla porta e, quando lei gli aveva dato le spalle, si era aggrappato alla sua mano sinistra e l’aveva trascinata di nuovo dentro, spingendola contro la porta e baciandola un’ultima volta.

Probabilmente la stava ancora osservando dalla sua finestra, e il solo pensiero la fece sorridere istintivamente, mordendosi il labbro inferiore subito dopo.

Clarke non era abituata a sentirsi così leggera, a ricordare con tale dolcezza le carezze di qualcun altro sulla propria pelle.

Nonostante ciò, era una bella sensazione. Le faceva venire voglia di dimenticare tutto per un attimo e abbandonarsi a qualsiasi cosa sarebbe venuta dopo.

Mettendo da parte per un attimo tutti quei pensieri tanto estranei dalla sua quotidianità, la bionda tirò fuori il suo mazzo di chiavi e, trovata quella giusta, la girò lentamente nella toppa, attenta a non fare rumore o attirare l’attenzione dei suoi famigliari.

Non appena richiuse la porta, una voce alle sue spalle la fece sussultare.

« Beccata! »

Clarke imprecò sottovoce, dandogli ancora le spalle, e alzò gli occhi al cielo prima di voltarsi e incrociare le braccia al petto.

« Non dovresti essere da qualche parte a studiare? » Provocò suo fratello, sollevando un sopracciglio e lasciando cadere le chiavi sul tavolino basso alla sua sinistra.

« È sabato mattina. » Rispose Wells, guardandola con la stessa espressione di rimando.

« E quella non è tua, » continuò, indicando chiaramente la felpa che stava indossando, « e non sei tornata a casa a dormire. »

« Io- »

« Non provare a mentirmi, » la minacciò con un gesto secco del braccio, dirigendosi verso la cucina senza aspettare che lo seguisse, « la mia camera si affaccia sul tratto di strada dal lato di casa Blake. »

La giovane Griffin, arresa e abbandonata all’idea di non poterne uscire vincitrice, si tolse gli occhiali da sole, lo raggiunse e si appoggiò allo stipite della porta, osservandolo aprire il frigorifero e cercare qualcosa al suo interno con meticolosa attenzione.

« Ok, ok, va bene. Ero lì. » Ammise, il capo chino e le braccia ancora strette al petto.

« Lo sapevo! » Esultò Wells, mimando con vigore il segno di vittoria.

« Octavia mi deve venti dollari. »

« Scusami? »

« Oh, ehm- »

« Tu e Octavia avete scommesso su di noi? Su me e Bellamy? »

« Non sembrarne tanto sconvolta, Ky. Voi due, insieme… Insomma, » scrollò le spalle, « doveva succedere. »

Clarke sbatté le palpebre, stupita.  

Forse c’era qualcosa che quelle due semplici parole avevano riportato a galla, qualcosa che lei aveva tentato con tutte le forze di reprimere.

Una sensazione fugace e dinamica che l’aveva turbata.

Ma c’era qualcosa nella semplicità con cui Wells l’aveva detto, quel “doveva succedere”, che la lasciò sbigottita e sbalordita di fronte alla facilità con cui quell’ipotesi si era palesata davanti ai suoi occhi.

Lei e Bellamy, quello che era accaduto, quello che condividevano. Doveva semplicemente succedere.

« Stai bene? » Il suo fratellastro abbandonò il tono scherzoso per assumerne uno preoccupato, più serio.

Smise per un attimo di versare l’impasto per pancake in una padella e si concentrò su di lei con quello sguardo per cui Clarke non avrebbe mai smesso di essere grata.

« Certo. » Rispose pacatamente, accennando un sorriso, perché forse non c’era stato nessun altro giorno in cui si era sentita più vicina allo stare bene di quello.

C’erano ancora tante cose che doveva affrontare e superare, luoghi oscuri dentro di sé a cui avrebbe preferito non avvicinarsi mai, verità che strisciavano e arrancavano verso di lei un centimetro alla volta, ogni giorno di più, ma si sentiva un passo più in là.

Un piccolo, minuscolo ed inconsistente passo più prossima al trovare un motivo per andare avanti, uno solo, l’amore per se stessa, l’affetto per qualcun altro, la tenerezza di un abbraccio al buio.

In quel momento Clarke pensò che avrebbe potuto farcela. Non le importò di risultare arrogante o presuntuosa davanti ai suoi stessi occhi; forse, ma solo forse, sarebbe sopravvissuta. E poi avrebbe vissuto.

« Sono davvero felice che tu abbia trovato qualcuno come lui, Key. Non fare casini. »

«Non lo farò. Prometto. » Si scambiarono uno sguardo complice, quello che era cresciuto insieme a loro, e poi il giovane Jaha tornò ad occuparsi della colazione.

« Ne vuoi un po’? » Le domandò, mentre lei prendeva posto davanti a lui, appoggiandosi con entrambi i gomiti al bancone.

« Già mangiato, grazie. »

« Dovresti sapere ormai che i miei pancake non si rifiutano. »

« La prossima volta non li rifiuterò, parola di scout. » Clarke rimase seduta al suo fianco senza fare nulla, in silenzio, semplicemente osservandolo mangiare e leggere attentamente le etichette dietro qualsiasi recipiente si trovasse davanti.

« Loro dove sono? » Domandò dopo qualche attimo, sondando il terreno.

« Mio padre sta partecipando a quel convegno fuori città che il suo studio aveva programmato mesi fa. Abs è in ospedale. »

« Come sempre. »

« Clarke. »

« Lo so, lo so. Non ho detto niente! »

« Ehi, che ne dici se ci seppelliamo sul divano e non ci alziamo finché i due vecchi non tornano? So che vuoi rivedere Interstellar, so che lo vuoi. » Le propose Wells, alzandosi e ripulendo velocemente il bancone della cucina.

Con un’unica e silenziosa occhiata d’intesa, i due afferrarono la maggior quantità di cibo spazzatura che potessero e si diressero senza troppe riserve verso il salotto.
 
 

 
*




 
Bellamy rincasò dalla sua corsa mattutina assecondato da una strana energia.

Voleva davvero evitare di imputarlo a ciò che era successo quella notte, ma la parte più onesta della sua mente non sembrava trovare ulteriori motivi a quell’adrenalina che lo aveva pervaso dal momento in cui si era svegliato, Clarke nuda e calda fra le sue braccia.

Dopo averla salutata, dopo averle rubato un ultimo bacio, si era precipitato a cambiarsi ed era uscito per una corsa.

Immaginò che fosse quello di cui il suo corpo aveva bisogno per liberarsi dall’elettricità che aveva pervaso qualsiasi sua terminazione nervosa e gli aveva impedito di rimanere fermo anche per un solo istante.

Ora, i capelli completamente bagnati appiccicati alla fronte e le cuffiette in una mano, tutto ciò che gli serviva era una colazione nutriente e massiccia.

« Fratellone! » Lo salutò la voce di Octavia non appena svoltò l’angolo della cucina.

« Pensavo che stanotte avessi esaurito tutte le energie. Felice di sapere che tu ne abbia ancora. »

Il maggiore dei Blake arricciò la bocca in segno di disgusto e le lancio un’occhiataccia.

« Dannazione, O, sei mia sorella. Non dovresti addentrarti in questioni del genere. »

« Andiamo, Bells, non fare il puritano. Non è che sia stata proprio la sorpresa del secolo. »

« Che vorresti insinuare? » Domandò, sporgendosi oltre di lei e afferrando uno dei cornetti che aveva evidentemente appena scaldato.

« Intendo dire che sapevo sarebbe successo. Non solo quando le ho aperto la porta e l’ho fatta entrare. Lo sapevo fin dall’inizio. »

Bellamy non rispose. Non subito, perlomeno.

Il suo primo istinto fu quello di abbassare lo sguardo, mantenere un’espressione neutrale, falsamente indifferente a quello che sua sorella aveva appena detto con tale tranquillità da sembrare la vera e pura realtà. Da apparire così semplice da non destare sospetti, da essere lasciato lì, in bella vista.

E Octavia sembrò percepire il flusso dei suoi pensieri, perché si schiarì la voce e cambiò discorso.

« Comunque… Ha chiamato il Capitano. Ti vuole al Dipartimento il più presto possibile. » Lui assentì, ancora silenzioso e riflessivo.

« Siete vicini? »

« Sì, » annuì, « credo proprio di sì. »

« Bene. Il bagno è tutto tuo, io stavo uscendo. »

La più giovane si alzò da una delle sedie della cucina e gli si avvicinò, baciandogli delicatamente una guancia.

« Vado da Lincoln. » Prima che potesse allontanarsi troppo, però, suo fratello la richiamò.

« Ehi, O? Prendi la mia macchina. Vai direttamente da Lincoln, non fermarti da nessun’altra parte. »

« Mi piaci quando ti preoccupi. »Lo provocò lei, alludendo al fatto che non fosse un evento comune o irrilevante che Bellamy fosse disposto a lasciarle la sua preziosa automobile.

« Sparisci. » La canzonò con un sorriso, prendendo un goccio di caffè dalla tazza che lei gli aveva preparato e dirigendosi verso il bagno.





 
*





L’agente Blake arrivò alla Centrale poco più di mezz’ora dopo, una camicia pulita arrotolata fino ai gomiti e un paio di jeans come abbinamento standard durante le ore di lavoro.

Senza rivolgersi ai suoi colleghi, si diresse direttamente verso l’ufficio del Capitano.

« Buongiorno. » Salutò con precisione e brevità dopo aver bussato una sola volta.

« Bellamy, » ricambiò il suo capo, sollevando lo sguardo da uno dei fascicoli che teneva sulla scrivania e incrociando le braccia davanti a sé.

« So che stai trascorrendo tanto tempo qui, so che hai bisogno di riposo. Ma so anche che sei determinato quanto me ad archiviare questo caso, perciò sono convinta di poter fare pieno affidamento alla tua collaborazione. »

Il moro non aggiunse altro, ma chinò la testa in segno di assenso e la lasciò continuare.

« Hai pensato a quello che ti ha detto Atom durante il secondo interrogatorio? »

Un flash della schiena nuda di Clarke, delle sue gambe attorno ai propri fianchi, della sua lingua su di lui gli passò davanti agli occhi in un paio di secondi, ma subito dopo lo ricacciò via ed annuì con vigore.

« Abbiamo bisogno dei tabulati telefonici di Abigail Griffin. »





 
*



 
« Ti ricordi quando siamo stati in campeggio? » Domandò improvvisamente Wells, voltandosi verso Clarke e indicando allo stesso tempo la busta di gelatine gommose che lei teneva in grembo.

Senza parlare, le porse i suoi marshmallow e afferrò la suddetta confezione.

« Sì, il periodo peggiore della nostra vita: la pubertà. »

« Lì è dove abbiamo imparato il codice morse. E allora cosa sta dicendo Matthew McConaughey a sua figlia? »

« “Scusa se sono uno stronzo”? » Ipotizzò la giovane Griffin, guadagnandosi un colpo di cuscino in pieno volto.

« Doveva andare. Doveva provare a salvare il mondo, renderlo migliore per i suoi figli. Per lei. »

Clarke percepì una stretta al petto non appena Wells pronunciò quelle parole.

Sapeva che stava parlando del film che stavano guardando, ma fino a quel momento non si era resa conto di quanto la vicenda fosse così simile alla sua.

Improvvisamente le saltò alla mente suo padre, il segreto sull’Ark Corporation che avevano condiviso e che era stato, poi, il motivo per cui era stato ucciso.

Il motivo per cui l’aveva lasciata.

« Forse lei è un’egoista. Forse non voleva che il mondo fosse un posto più sicuro, non se avesse significato viverci senza suo padre. Forse aveva bisogno di lui più di quanto ne avessero bisogno gli altri e non poteva accettare l’idea di crescere senza di lui. Forse sarebbe stata disposta a perdere tutto pur di tenerlo con sé. »

Sussurrò, tenendo lo sguardo dritto davanti ai suoi occhi e senza voltarsi verso il suo fratellastro.

Il suo fratellastro, che si limitò ad osservare il suo profilo per qualche secondo prima di avvicinarsi un po’ di più a lei.

« Ehi, vieni qui. »

La invitò, circondandole le spalle con il braccio sinistro e stringendola forte al suo petto. Clarke non disse niente né lo guardò, ma si mosse fino a rannicchiarsi contro di lui e stringere in un pugno la sua maglietta.





 
*



 
 
« Non posso crederci, cazzo. » Sussurrò fra sé e sé Bellamy, i tabulati telefonici di Abby in una mano e i nomi che gli aveva fatto Atom nell’altra.

Fra tutti, spiccava quello di Lexa Heda.

E le cose si erano appena complicate così tanto da sbigottirlo oltre ogni limite, da confonderlo e fargli mettere in dubbio tutto quello in cui aveva creduto fino a quel momento.

Senza attendere oltre, afferrò entrambi i fogli e si diresse per l’ennesima volta verso l’ufficio del Capitano, abbandonando la sua postazione e facendo attenzione a non lasciarsi dietro nulla.

« Credo di avere una pista. » Annunciò senza troppi preamboli, dirigendosi verso la scrivania di Sidney e posizionandole davanti le due liste.

« E credo di dover andare al Mount Weather immediatamente. »

Ispezionando con attenzione i documenti e annuendo poco dopo, la più anziana sollevò lo sguardo verso di lui. « Ottimo lavoro, Bellamy. »
 




 
*



 
« Ho bisogno di parlare subito con il primario. » Esordì alla reception del reparto di chirurgia dell’ospedale, tamburellando con le dita sulla superficie del bancone.

L’infermiera seduta davanti a lui, una donna sulla mezza età dall’evidente ricrescita e dalle rughe marcate attorno agli occhi, lo guardò con un misto di beffeggiamento e indifferenza.

« Temo che la dottoressa Jaha non sia disponibile in questo momento. »

Gli comunicò la sua voce annoiata e acuta fino al punto da risultare profondamente sgradevole.

Consapevole di ciò che fosse necessario fare a quel punto, l’agente Blake tirò fuori il distintivo e lo appoggiò al vetro del gabbiotto per permetterne la completa visione.

« Dipartimento di Los Angeles. Le dispiacerebbe riprovare a chiamare il primario? »

Sorrise falsamente e la sua effettiva intolleranza e impazienza risultò plateale perfino a lui stesso.

La donna osservò per qualche istante il distintivo, questa volta con espressione spaventata e intimorita, e, senza aggiungere altro, sollevò la cornetta.

Esattamente sette minuti dopo, il moro vide svoltare il corridoio a qualche metro da sé Abigail Jaha, un camicie perfettamente bianco e completamente immacolato a circondarle le forme sinuose del corpo.

Ogni suo passo sembrava librare nell’aria e conferirle un portamento estremamente raffinato.

Fu la sua voce, però, a tradire il suo vero stato d’animo.

« Bellamy, » sussurrò spaventata, « è successo qualcosa a Clarke? »

Il maggiore dei Blake la osservò per qualche istante, si chiese come avesse fatto a non rendersi conto delle sue menzogne fino a quel momento, poi tornò a concentrarsi su di lei e la condusse lontano dal resto delle infermiere.

« Ho bisogno di parlarle privatamente, Abby. »

La più grande lo condusse in direzione di una stanza vuota, i letti destinati ai malati sistemati con cura – letti incredibilmente simili a quelli su cui Aurora Blake aveva trascorso gli ultimi mesi della sua vita – e il candore tipico del posto a circondarli.

« Clarke sta bene? » Domandò lei di nuovo, un’espressione apparentemente preoccupata dipinta sul volto innegabilmente segnato dalla fatica e della stanchezza.

« Lei sta bene. Ora le farò una domanda, signora Jaha, e lei dovrà rispondermi con la più totale e completa onestà, o sarò costretto a prenderla in custodia e portarla in centrale non come testimone, ma come accusata. Le è tutto chiaro? »

L’ex signora Griffin annuì, sebbene il suo volto apparisse del tutto perplesso e timoroso.

« Può spiegarmi perché nell’ultimo mese ha chiamato il numero di Marcus Kane almeno un centinaio di volte? »
 



 
*




 
La giovane Griffin si risvegliò al buio nel suo salotto in preda alla confusione e allo smarrimento più totali.

Le sue gambe erano avvolte attorno ad una coperta leggera, la televisione era spenta e le buste di schifezze che lei e Wells avevano mangiato per tutto il pomeriggio si ritrovavano ammassate ai suoi piedi, sebbene di suo fratello non ci fosse la minima traccia.

Mettendosi a sedere e passandosi una mano fra i capelli, attese di sentirsi pienamente sicura delle proprie capacità fisiche e si alzò. Una volta più vicina alla cucina, sentì delle voci parlare sommessamente e si diresse verso quel suono, ancora piuttosto confusa e disorientata.

Non appena svoltò l’angolo, le teste di Wells e Bellamy scattarono verso di lei praticamente nello stesso istante.

La bionda non poté fare a meno di sorridere nella direzione del maggiore dei Blake, che la stava guardando con un’espressione a metà fra la meraviglia e l’apprensione.

« Che ci fai qui? » Gli domandò, continuando a sorridere e avvicinandosi ai due.

Lui spostò lo sguardo verso quello dell’unico figlio Jaha e i due si scambiarono un’occhiata complice, come se sapessero qualcosa di cui lei non era ancora a conoscenza e si trovassero indecisi se rivelargliela o meno.

Percependo che ci fosse davvero qualcosa che doveva sapere, Clarke fece scorrere gli occhi dall’uno all’altro, le sopracciglia che iniziavano ad aggrottarsi e il sorriso che lentamente svaniva dal suo volto.

« Bellamy? Che… Che sta succedendo? » Ora sembrava allarmata, e lui si passò una mano sul volto, chiaro segno di stanchezza ed evidente difficoltà.

« Siediti, Clarke. » Parlò per la prima volta, indicandole con un gesto secco della mano sinistra al loro fianco.

La più giovane fece come gli era stato riferito e si sedette in mezzo ai due, continuando a far saettare lo sguardo fra le loro figure rigide.

« Dimmi che sta succedendo, Bellamy. Cosa hai scoperto? »

Il moro non esitò oltre. Per prima cosa prese un respiro profondo, poi raddrizzò le spalle e si voltò completamente verso di lei.

« Quando ho interrogato Atom, mi ha riferito qualcosa che non credevo fosse relativo al tuo caso, e che quindi non ho messo in conto fin dall’inizio. Poi, però, ci ho riflettuto su, e le cose erano troppo collegate fra loro per essere ritenute delle coincidenze. Così… ecco, ho richiesto i tabulati telefonici di tua madre e il mio sospetto si è improvvisamente realizzato. Questa mattina sono andato al Mount Weather e le ho parlato. »

Fece una pausa per accertarsi che Clarke avesse compreso tutto e che metabolizzasse quello che le aveva appena rivelato.

Lei, dal canto suo, si sentiva immobilizzata dalla paura. Il cuore le rimbombava nella gola, dietro la testa, in ogni parte del suo corpo che veniva alimentata da quel battito.

Il sangue nelle sue vene sembrava essersi tramutato in fuoco puro, mandandole in corto circuito qualsiasi funzione.

« Tua madre è in stretto contatto con Marcus Kane, Clarke. E… la sua assistente personale, ecco, è Lexa Heda, la leader dei Grounders. »

La giovane Griffin si immobilizzò.

Per un attimo smise di respirare, perdendo di vista il volto di Bellamy davanti a lei e quello del suo fratellastro al suo fianco, rimasto in silenzio per tutto quel tempo.

Si accorse perfettamente della sua vista che si appannò e delle orecchie che iniziarono a fischiare, ma il suo corpo sembrava essersi scisso dalla mente, incontrollabile e selvaggio e violento contro la parte più razionale di sé.

Nel momento in cui l’agente Blake riprese a parlare, la sua concentrazione si raccolse nuovamente sul suo volto, analizzandolo ed esaminandolo con scrupolo e terrore.

Una parte della sua mente si preparò a sentirsi dire che sua madre era nient’altro che un’ assassina.

« Vedi, loro hanno stretto un accordo. Ben consapevoli di quello che succedeva per le strade, del pericolo che tu correvi, Jake ed Abby giurarono a Kane che non avrebbero fatto trapelare il segreto degli appalti illegali e instabili dell’Ark a patto che lui avesse fatto in modo di proteggerti.
Per tutto questo tempo i Grounders  ti stavano proteggendo, Clarke. Tuo padre non aveva la minima intenzione di rivelare il loro segreto. Non sono stati loro ad ucciderlo. »

La bionda a quel punto sussultò, annaspando in cerca d’aria e cercando di vedere con chiarezza attraverso le lacrime che avevano iniziato a scorrerle copiosamente sul volto.

« Non abbiamo più niente. » Sussurrò debolmente, incapace di articolare altro che lievi gemiti e respiri affannosi.








 

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Capitolo 21
*** XXII ***







Ciao a tutti!
Per prima cosa, come sempre mi scuso per l'enorme ritardo. So che non è un comportamento giusto nei confronti di chi legge, ma in questi ultimi mesi ho avuto dei problemi personali piuttosto gravi e scrivere era l'ultima cosa che ero in grado di fare.
Ma c'è una cosa che dovete sapere: non importa quanto tempo passi, non abbandonerò mai questa storia, né le persone che ci si sono affezionate. Soprattutto non ora che ci stiamo avvicinando alla conclusione (se le mie previsioni sono giuste, fra due o tre capitoli). 

Il motto di questo capitolo è una frase che dice Wells Jaha (sotto forma di allucinazione) a suo padre nella 2x02 e che non ha contribuito solo alla stesura di questo lavoro, ma anche ad una mia condizione personale.
"La tua vita può essere più che scelte impossibili e una tragica fine. Puoi scegliere di vivere." 
Ecco, ricordatelo quando leggerete il capitolo e quando sarete da soli con voi stessi, in ogni altro momento. In qualunque momento.

Inoltre, troverete una piccola citazione dal capitolo V che ho voluto sfruttare per esprimere la crescita di un determinato personaggio.

Che altro dire, smetto di ammorbarvi e vi lascio alla lettura.




 



Is It Any Wonder?




Clarke rovesciò il capo indietro, cercando di raggiungere con lo sguardo la sveglia posata sul comodino.

Il cielo fuori dalla stanza non era visibile attraverso le tapparelle socchiuse e le tende bianche, ma l’unico raggio di sole che era riuscito a filtrare oltre quegli ostacoli fu abbastanza coraggioso da posarsi su una ciocca dei suoi capelli, attorno alla quale si strinsero celermente le dita di Bellamy.

« Ci siamo preparati per andare a dormire più di due ore fa. Dovresti provare a riposare un po’. » Sussurrò, abbassando lo sguardo verso il capo stanco ma rigido di lei, accovacciata contro il suo petto.

La voce del maggiore dei Blake risuonò contro la sua tempia nel punto in cui il suo orecchio era poggiato sul suo torso, e Clarke si ritrovò sorpresa dalla naturalezza che le provocò quel gesto.

« Sì, quando ho usato il tuo spazzolino. Siamo disgustosi. » Scherzò, accennando un ghigno placido e bonario.

« La scorsa notte abbiamo fatto sesso, condividere lo spazzolino è davvero la cosa peggiore che ti viene in mente? »

Poteva vedere solo la sua nuca e i suoi capelli, ma Bellamy percepì ugualmente il sorriso che ottenne in risposta.

« Non dovresti mai sottovalutare i problemi dell’odontoiatria. »

« Lungi da me, signora. » Finse con tono solenne e austero, poi continuò: « Seriamente, però, dovresti cercare di riposare. Anche solo un paio d’ore. »

« Forse una parte di me sta cercando di raggiungere una deprivazione del sonno tale da non dover parlare con mia madre. »

A quel punto spostò il capo, poggiando il mento contro il suo petto e portando la mano sinistra sul suo collo.

« So che vuoi avere risposte. È tutto quello che hai sempre voluto. Beh, quel giorno è arrivato, e non devi permettere alla paura di portartelo via. »

La rassicurò lui, raggiungendo le sue dita e stringendole piano, tentando di infonderle quel coraggio che, lo sapeva bene, era già dentro di lei.

Le sue parole sembrarono colpirla profondamente, perché la bionda abbassò lo sguardo e lo fissò sul logo della maglietta di Bellamy, la bilancia della Giustizia e il motto “Proteggere e Servire” dai colori sbiaditi.

« So di volerlo. È solo che… Ho paura, Bellamy. Non so se sono pronta. » Ammise in un sussurro.

« Fra me e mia madre non è mai stato così. Non abbiamo mai… parlato. Parlato davvero, intendo. Io ho sofferto il mio dolore e lei il suo e abbiamo fatto finta che non fossero la stessa cosa. Ci siamo fatte del male, l’ho delusa, e non so se le cose potranno mai essere normali.

Io volevo davvero ferirla, sai? L’ho fatto consapevolmente. Ho fatto del male a mia madre perché credevo che non fosse sufficiente, che l’avesse superato con troppa facilità. E ora non riesco a smettere di pensare a lei, a chiunque io abbia fatto del male. Adesso lo so, ho usato il mio dolore.

L’ho usato come giustificazione, come un’arma, perché pensavo che se doveva fare male a me, allora avrebbe dovuto farlo anche a tutti gli altri. Che non sarebbe dovuto toccare solo a me.

Desideravo così tanto che la mia sofferenza fosse inflitta agli altri, soprattutto alle persone che amavo, ché non riuscivo a vedere che mi stava distruggendo. Cosa fa di me tutto questo? Chi sono? »

La sua voce tremò sull’ultima domanda, e Clarke si sentì improvvisamente sospesa fra il carico del senso di quelle parole, della sua confessione, e il sollievo di potersene finalmente liberare, lasciarle andare, perdere il loro significato.

La vergogna e l’assoluzione erano in totale contraddizione ma in perfetto equilibrio fra loro, e per un attimo la giovane si chiese come fosse possibile provare così tanto e non uscirne annientati.

« Non posso chiederle se ha a che fare con l’omicidio di mio padre ora che l’ho finalmente perdonata. Ora che sto cercando così tanto di perdonare me stessa. »

« Ehi, guardami. » La esortò. « So che tua madre non ti farebbe mai del male. Non importa quanto tu ne faccia a lei, quanto tu ti sia impegnata per deluderla, non credo che potrebbe anche se volesse. Ci deve essere una spiegazione, e tu la troverai.

E poi, io sono qui. Wells è qui. I tuoi amici sono qui. Qualsiasi cosa sarà, non dovrai affrontarla da sola. »

I suoi occhi scuri parevano estremamente certi di quello che stavano dicendo, come se quella fosse davvero la verità. Come se, per una volta soltanto, nessuno l’avrebbe lasciata. Nessuno se ne sarebbe andato, e lei avrebbe potuto fare di più che continuare a scappare da ciò che si nascondeva dentro di sé.

E questo, ovviamente, non faceva che terrorizzarla ancora di più.

« Ho dovuto imparare a non dare più queste promesse per scontato. Non volevo, ma ho dovuto. » Il suo tono di voce era tirato e rigido, il che trovava netto contrasto con il tormento che le bruciava negli occhi.

« So come ti senti. So che tutte queste parole ti sembrano inutili, solo delle semplici formalità pronte ad essere dimenticate e sepolte, pronte a lasciarti confusa e sola nel momento in cui ti senti più debole.
Ma io sono qui. »

Bellamy, le spalle poggiate contro la testiera del letto, si sporse un po’ più avanti, stringendo le braccia attorno alla sua schiena e avvicinandola ancora di più contro il proprio corpo.

Lui era davvero lì, con lei, reale e tangibile fra le sue mani, e non fu difficile crederci. Crederlo davvero, nonostante quello che entrambi avessero perso, quello che fossero dovuti diventare e le scelte che avessero dovuto prendere.

Nonostante tutto, Bellamy era davvero lì e Clarke era con lui e non c’era bisogno di metterci un’etichetta sopra, di definire una spontaneità che li aveva lasciati intimoriti solo per poi fargli vedere quanto fosse semplice lasciarsi andare anche solo per un attimo.

« So di non poterti promettere niente per il futuro. So che ci sono tante cose su cui non abbiamo potere, e c’è voluto così tanto tempo per riuscire ad accettare di non averne il pieno controllo, ma so cosa voglio adesso: questo.

Il mio letto, la mia maglietta preferita su di te, condividere uno spazzolino. Portarti a vedere un nuovo film. Vederti sul divano insieme a mia sorella. Spogliarti.

So anche che potrebbe arrivare il giorno in cui non sapremo farci altro che male, e forse non saremo mai in grado di amarci – amarci davvero, bene, sempre. Forse niente di tutto questo succederà. So solo che adesso voglio restare con te, e voglio impegnarmi a non lasciarti fuori. A dirti quando non mi sentirò all’altezza o sarò triste o vorrò andarmene e lasciare tutto. A parlarti sinceramente, qualsiasi cosa dovessimo affrontare. E voglio che tu faccia lo stesso. Non sei sola, Clarke. Non siamo soli.

Dobbiamo crederci. Dobbiamo sforzarci di farlo, o trascorreremo il resto delle nostre vite a scappare. »

La giovane Griffin non rispose. Nemmeno pensò, troppo occupata a lasciare che le parole che aveva appena ascoltato permeassero attraverso la pelle e raggiungessero quel punto dentro di sé in cui le sentiva già bruciare.

Avrebbe voluto disegnare la sensazione che stava provando, se solo avesse saputo come.

Avrebbe voluto gridare o saltare o tuffarsi nel mare ghiacciato dell’alba. Avrebbe voluto fare qualcosa che l’avrebbe aiutata a tenere a freno o perlomeno regolare il battito sfrenato del suo cuore e l’effetto che gli occhi di Bellamy ancora puntati nei suoi le stavano facendo.

Non riuscì a fare niente di tutto questo, però. Socchiuse le labbra alla disperata ricerca di aria. Spalancò di poco gli occhi, impercettibilmente, come se in quel modo potesse vedere ancora di più le sue lentiggini, memorizzare alla perfezione la sua espressione.

Poi si scagliò contro di lui, dolce e feroce come non si era mai sentita prima, e lo baciò senza regole, senza ordine, senza direzione. Lo baciò una, due, tre volte, velocemente, mentre le proprie mani si aggrappavano alle sue guance e lo tiravano giù e lo accarezzavano, e le sue mani rincorrevano i propri capelli e li stringevano teneramente, sguazzandoci attorno, perdendosi in essi.

Lo baciò con frenetica pazienza, sopra e sotto la bocca, sul naso, sul collo, baciò le sue stesse mani sul suo volto e scoppiò a ridere.

Non era felice da tanto tempo, non era sicura nemmeno di ricordarsi come fosse essere felice, era incompleta e costantemente arrabbiata e piena di sentimenti che non sapeva come controllare, ma Clarke scoppiò a ridere e lo abbracciò e sprofondò al centro del suo sterno, nascondendo il viso contro la sua maglietta.

« Restiamo così. » Sussurrò, strusciando la guancia contro il cotone. « Restiamo così solo un altro po’. »








 
 
 
 
Quando si svegliò, qualche ora più tardi, la giovane Griffin era da sola.

Il lato di letto di Bellamy era ancora tiepido nel punto in cui la sua mano si era allungata a cercarlo, perciò non doveva essersene andato da molto.

Non ebbe nemmeno tempo di permettere alla delusione di raggiungerla, però, ché notò un bigliettino posato sul cuscino di lui e lo afferrò senza esitazione, leggendolo velocemente e accennando un sorriso alla vista della sua scrittura disordinata e caotica.

Diceva che era uscito per una spesa veloce e che le aveva lasciato il caffè pronto, quel tipo di premura e riguardo che lei non aveva mai permesso agli altri di riservarle, ma che ora sembravano riscaldarla di una tranquillità disarmante.

Stiracchiandosi fra le coperte e attorcigliandosele addosso per un’ultima volta, Clarke si costrinse a mettersi a sedere e si passò una mano fra i capelli. Con un’occhiata incurante e veloce osservò quello che indossava – una vecchia maglietta a maniche corte e una delle sue tute un po’ rovinate – poi passò ad ispezionare la camera.

Ovviamente l’aveva già osservata prima, ma non ci era mai rimasta da sola. La cosa che più la colpiva, quello che da sempre l’aveva colpita della famiglia Blake, era l’enorme quantità di fotografie presenti.

Appese ai muri, appoggiate a una mensola, incastrate ai bordi dello specchio alla sua sinistra.

Ovunque si voltasse, Octavia e Bellamy abbracciati, una piccola Octavia senza incisivi, Bellamy con gli occhiali da sole e in piedi su uno skateboard la guardavano sorridenti, congelati nel tempo, per sempre felici.

Non seppe perché, ma i suoi occhi si appannarono.

Fu per quel motivo, forse, che si alzò in piedi e aprì le finestre, permettendo alla lieve brezza di Settembre di entrare nella stanza e rinnovarla, dirigendosi nuovamente verso il letto e iniziando a rifarlo.

Poco meno di un quarto d’ora dopo, i loro vestiti erano ripiegati e le loro scarpe occupavano un piccolo spazio all’angolo della stanza, finalmente ordinata e assestata.

A quel punto, discretamente affamata e sicura che fosse tutto a posto, Clarke si avviò senza fare rumore verso la cucina, richiudendosi la porta alle spalle e stringendosi le braccia al petto.

Quello che non si sarebbe aspettata, tuttavia, erano due voci femminili giungerle appena fu abbastanza vicina, una delle quali apparteneva indubbiamente alla più giovane dei Blake.

L’altra le sembrava familiare, ma non fu in grado di accostarla ad un volto.

Non finché non voltò l’angolo che la separava dalla cucina  e si ritrovò davanti Raven Reyes.

Non sapeva che le due fossero amiche – anzi, non sapeva nemmeno si conoscessero, perciò la sorpresa di rivederla lì, in quella casa, al fianco di Octavia, la lasciò completamente interdetta.

« Clarke! » Fece quest’ultima a mo’ di saluto, senza riuscire a celare del tutto lo stupore nel suo tono di voce.  Nonostante questo, però, gli occhi della bionda non si erano ancora staccati da quelli dell’altra ragazza, la quale sembrava altrettanto stupita di trovarsi faccia a faccia con la persona che le aveva portato via Finn.

« Ciao… Ero con… È rimasto del caffè? » Provò lei, imbarazzata, spostando il peso da un piede all’altro e stringendosi le mani in grembo.

Raven, ancora silenziosa e impassibile, i gomiti immobili poggiati sul tavolino, sbatté velocemente le palpebre. Poi, annuendo impercettibilmente, le rivolse parola: « Ne abbiamo lasciato giusto una tazza. » Sussurrò, e sembrò abbastanza tranquilla da permettere alla giovane Griffin di mettersi seduta accanto a loro.

Non era facile. L’ultima volta che si erano rivolte parola Raven era salita sull’automobile di Finn e le aveva intimato di non farsi più vedere.

Non importava quanto tempo fosse trascorso, non importava che nessuna delle due fosse più la stessa di prima, né che non ci fosse più niente che le legasse a lui, i loro passati si erano intrecciati nel peggiore dei modi, e forse nessuna delle due era mai riuscita a dimenticarli del tutto.

Ma dovevano sforzarsi. Forse, in tutto quello che erano diventate le loro vite, in tutto quello che erano diventate loro, c’era ancora posto per perdonarsi un’ultima volta. Per lasciar andare.

« Bellamy è uscito per fare la spesa, ma dovrebbe tornare a momenti. Mi ha detto di farti trovare pronta, non so dove debba accompagnarti. »

La giovane Griffin si immobilizzò, ricordando all'improvviso l’imminente incontro con sua madre.

Poi annuì, cercando di dissimulare il nervosismo e accennando un breve sorriso. « Grazie. »

Le tre ragazze rimasero sedute al tavolo della cucina per diversi minuti senza scambiarsi parola, ognuna troppo persa nei propri pensieri od occupata a non dire la cosa sbagliata.

Non appena percepirono la porta d’ingresso aprirsi, però, le loro teste scattarono simultaneamente nella stessa direzione, dalla quale apparve poco dopo il più grande dei Blake.

« Wow! » Esclamò, osservandole con stupore. « Siete tutte qui! » Solo dopo aver incontrato lo sguardo di Clarke, tuttavia, si abbandonò ad un sorriso sereno, così semplice da non rendersene nemmeno conto.

Lei, d’altronde, non riuscì a impedirsi di fare altrettanto, ricambiando il gesto con un’intimità che costrinse le altre due ragazze a distogliere gli occhi da loro e scambiarsi un’occhiata complice ma imbarazzata.

La bionda quasi non si accorse di essersi alzata – tanto le era venuto istintivo – se non nel momento in cui il braccio sinistro di Bellamy si strinse attorno alla sua vita e lui le posò un lieve bacio fra i capelli.

« Ehi. » Sussurrò, incurante del fatto che non fossero soli e dell’evidenza di quello che avevano deciso di iniziare insieme.

« Mi dispiace di non essere ancora pronta. » Gli rispose lei, allontanandosi di un passo e guardandosi velocemente attorno. Non avrebbe mai ammesso ad alta voce che lo aveva fatto solo perché poteva percepire gli sguardi fissi di Octavia e Raven alle proprie spalle, ma dentro di sé sapeva bene che era così.

« Non c’è problema. Ti aspetto qui. »

Subito dopo aver annuito, Clarke si girò e lanciò un sorriso impacciato alle altre due ragazze, dirigendosi poi verso la camera del più grande dei Blake.

« Quindi… » Iniziò sua sorella, non appena rimasero da soli e in silenzio.

« Quindi! » Continuò la giovane Reyes, lanciando uno sguardo di sfida al suo amico.

« Vi odio. » Rispose lui, dandogli le spalle e prendendo una sigaretta dalla tasca della giacca. L’accese, fece un paio di tiri e la passò alla mora.

« Non negherò che sia stato imbarazzante. Sai, rivederla. Parlarle. Averla così vicina. Ma quel sorriso, Blake. » Lo additò con l’indice, provocandolo con un ghigno soddisfatto. « Quel sorriso sul tuo volto non ha bisogno di spiegazioni. »

« Taci! » La riprese Bellamy, sedendosi nel posto precedentemente occupato dalla giovane Griffin e lanciando un’occhiataccia verso di lei, tentando in qualsiasi modo di nascondere l’imbarazzo che stava provando in quel momento.

Non c’era titubanza nel modo in cui teneva a Clarke, nemmeno l’ombra di un dubbio nel desiderio che provava per lei – una brama che andava oltre la lussuria, oltre qualsiasi frenesia avesse mai provato – ma questo non significava che fosse abituato a condividere così i propri sentimenti e ad esternarli con facilità.

Non per lui, che aveva sempre ignorato i propri segnali, i messaggi che il suo cuore aveva tentato tanto ardentemente di fargli ascoltare e che lui aveva sempre finito col sopprimere in favore di elementi più pragmatici: il benessere di Octavia, le tasse universitarie, un tetto sopra le loro teste.

Ora, però, non era più tanto sicuro di voler continuare in quel modo. Come aveva detto a Clarke, non potevano più trascorrere il resto delle proprie vite a scappare. A ripararsi nella solitudine, nel rimpianto, nella nostalgia di qualcosa che non avevano nemmeno vissuto.

Bellamy Blake aveva deciso che, se avesse davvero dovuto provare quella malinconia con cui aveva vissuto fino a quell’istante, allora l’avrebbe provata per qualcosa di reale. Avrebbe sofferto davvero. Avrebbe sentito la mancanza di qualcosa solo dopo averla avuta, non dopo avervi rinunciato.

Una volta aveva letto da qualche parte che non si poteva decidere di non soffrire, ma si poteva decidere per cosa soffrire. E lui avrebbe sofferto per quello che stava provando, se il futuro glielo avesse chiesto.

Avrebbe pagato il conto con il sorriso, placidamente, senza remore.

« Credo tu sia molto dolce, Bell. » Bisbigliò sua sorella all’improvviso, prendendo parola per la prima volta da quando erano rimasti da soli.

La più piccola dei Blake era energia pura, una caotica tempesta di colori e fermezza, ma in quell’attimo, sussurrando quelle parole, fu pacata. Completamente e delicatamente serena, come a voler rispettare il significato di quello che aveva appena detto.

E suo fratello capì. Capì che non c’era stato bisogno di esprimersi, di buttare fuori quello che stava provando tanto intensamente, di palesare quella decisione che si riversava fuori dai suoi occhi senza che lui potesse fare alcunché per impedirlo, perché Octavia lo sapeva già.

Quindi non gli restò che allungarsi oltre il tavolo e raggiungere la sua mano, stringerla nella propria come facevano quando erano solo due bambini, e accarezzarla con amore, il sentimento più forte che avesse mai provato per un altro essere umano.

« Ehi, io sono come… faccio anch’io parte della famiglia, stronzi. Abbracciatemi. » Si insinuò allora Raven, un’evidente affettuosità in quelle imprecazioni, e i due fratelli Blake scoppiarono a ridere.

« Sei una spina nel fianco, Reyes. » La canzonò Bellamy, continuando a sogghignare e facendole l’occhiolino subito dopo, mentre sua sorella si sporgeva alla propria destra e stringeva entrambe le braccia attorno al capo di Raven.

« Non riesco a respirare! » Urlò l’altra, la voce soffocata dalla sua stretta, e batté dei colpi contro le mani della giovane Blake per liberarsi.

Fu in quel momento, fra le risate spensierate e le urla giocose, che Clarke si affacciò dall’atrio della sala.

E fu in quel momento, non appena lei apparve in un angolo della stanza, seppur silenziosa e quasi invisibile, che Bellamy si voltò verso di lei.

« Sei pronta? »

Lei si limitò ad annuire, rivelandosi del tutto e poggiando una spalla all’uscio della porta, e lui si alzò rapidamente.

« Per quanto sia divertente vedervi picchiare, noi andiamo. Nella busta della spesa ci sono le lasagne! »







 
 
Il maggiore dei Blake accostò l’automobile nel parcheggio del Mount Weather Hospital poco dopo l’ora di pranzo, spegnendo il motore e voltandosi verso il sedile del passeggero.

Clarke, lo sguardo perso fuori dal finestrino, rimase immobile per un paio di secondi, poi ricambiò il suo sguardo.

« So che puoi farcela. »

« Ehi, non so come ringraziarti. Non solo per questo. Per tutto. Fin dall’inizio, fin dalla prima volta in cui ti sei rifiutato di aiutarmi e poi hai cambiato idea. Anche allora, quando ti ho detto di andare a farti fottere, » si interruppe per un breve ghigno, lasciando vagare lo sguardo oltre il cruscotto, « tu sei riuscito a farmi ragionare. A farmi vedere. »

« Non è stato solo grazie a me. »

La giovane Griffin lasciò andare un breve sbuffo, aggrottando le sopracciglia, come se ci fosse qualcos’altro a cui stesse pensando e che cercasse di esprimere correttamente.

Poi, tentando in qualsiasi modo di sovrastare la frustrazione, parlò: « Ti ammiro, Bellamy. Ti guardo, guardo quest’uomo che mi sfida e mi sostiene e mi terrorizza, e tutto quello che riesco a pensare è che vorrei essere come te. Vorrei essere come te, che hai il tuo obiettivo e non ti lasci spaventare da nulla pur di ottenerlo. » Confessò.

Teneva gli occhi rivolti verso il basso, sulle sue mani strette in grembo che si torturavano a vicenda, e non era difficile distinguere la difficoltà che pronunciare quelle parole a voce alta le faceva provare.

« Prima ero questa persona, ecco. Questa persona che non parlava e soffriva in silenzio perché pensava che nessuno fosse in grado di capirla. Continuavo a volere così tante cose ché alla fine non riuscivo mai a volere niente, perché avevo paura e credevo di non meritarle. »

In quel momento a Bellamy tornarono alla mente le parole che lei gli aveva rivolto sotto il suo portico due mesi prima, quando non avevano ancora idea di trovarsi davanti a qualcuno più simile a se stessi di quanto avrebbero potuto aspettarsi.

“Ogni volta che pensavo alla reale possibilità di entrare in una buona università e diventare il chirurgo che ho sempre desiderato essere, mi tiravo indietro. Non potevo. Non potevo perché mio padre era morto e io non provavo niente, perciò non lo meritavo. Non lo merito.”

« Non voglio più essere quella persona. » Aggiunse improvvisamente Clarke, voltandosi verso di lui. « Ora so che dovevo solo sceglierlo. E lo sto scegliendo, lo faccio ogni giorno. Anche adesso. »

« Clarke- » Provò lui, con un’espressione quasi stralunata sul volto. Era tenerezza, sofferenza e anche profonda comprensione.
« Io non ti voglio e basta. » Terminò lei, sussurrando, e non poté impedirsi di spostare lo sguardo sulle sue labbra.

Si avvicinarono lentamente. Continuando a fissarsi, forti di un’intimità che li privava di qualsiasi imbarazzo, lei si spostò ancora di più sul sedile e si sporse al di là, aggrappandosi alla mano di Bellamy.

Il maggiore dei Blake, d’altronde, inclinò il capo, allungando il collo verso di lei e protendendosi verso il suo volto.

Quando furono vicini, abbastanza vicini da incontrarsi a metà strada, entrambi socchiusero gli occhi, pronti e come devoti.

Si baciarono con lentezza, senza lasciarsi trasportare dalla foga delle notti precedenti, ma attentamente, delicatamente, come se ci fosse qualcosa che ancora non si erano detti e che non avrebbero mai potuto dirsi se non con le loro mani strette, tremanti, e i loro volti vicini, incastrati, bellissimi nelle loro controversie e nelle loro paure più profonde.

La giovane Griffin si allontanò qualche istante dopo, poggiando la fronte contro la sua tempia e aggrappandosi un po’ più forte alle sue dita.

« È meglio che vada. » Sospirò.

« Aspetta, ho una cosa per te. »

Prima che lei potesse sorprendersi, Bellamy si sporse oltre i sedili posteriori e afferrò una piccola scatola ricoperta da una cangiante e coloratissima carta da regali.

Era rettangolare e di medie dimensioni, e Clarke non aveva idea di cosa potesse trattarsi nemmeno quando lui gliela porse.

« Aprila! » La incoraggiò brevemente.

La bionda non se lo fece ripetere due volte, strappando la carta e facendo pressione ai lati della scatola di cartone per aprirla. Quando, con grande stupore e divertimento, si rese conto che cosa effettivamente riguardasse, la giovane Griffin non si sforzò nemmeno di trattenere la risata che arrivò spontaneamente dal petto.

« Non ci posso credere! » Esclamò con entusiasmo, voltandosi per l’ennesima volta verso di lui e sorridendogli a pieno volto, « Mi hai regalato uno spazzolino. »

« Mai sottovalutare i problemi dell’odontoiatria, giusto? » Fu la sua pronta risposta, scoppiando a ridere a sua volta e poggiando la tempia destra contro il sedile per guardarla meglio.

« Sei incredibile. »

« Ho solo pensato che… Ecco, insomma. Potresti lasciarlo nel mio bagno. Così la prossima volta non dovrai essere costretta a usare il mio, no? » Il suo tono si fece più serio, ma i suoi occhi restarono quieti, sereni, e Clarke comprese il suo messaggio senza che lui avesse bisogno di fornirle ulteriori spiegazioni.

« Mi farebbe piacere lasciarlo nel tuo bagno. » Annuì con convinzione, spostando di nuovo lo sguardo verso la semplice e banale confezione dello spazzolino e lasciandosi trasportare da un’ondata di quel calore al centro del petto che provava ogni volta che Bellamy dimostrava la più piccola preoccupazione nei suoi confronti.

Aveva imparato e si era forzata a non prendere tutto ciò per scontato, perché le appariva scontato anche il fatto che prima o poi qualcuno o qualcosa glielo avrebbe portato via.

Le attenzioni di una persona cara, la premura nelle più ordinarie questioni, la vicinanza in un momento difficile non erano altro che parte di tutte quelle cose di cui si era privata fino al momento in cui l’aveva conosciuto, quando credeva di non meritarle e di non poterle donare a sua volta per far capire che lei era ancora lì, viva, fra tutti loro, e il suo cuore batteva ancora.

Il suo cuore batteva ancora, e Clarke sembrò realizzarlo solo adesso che lo faceva così forte da farle pensare di poterlo perdere da un momento all’altro.

« Posso chiamarti più tardi? » Domandò infine. Tutto quello che si erano detti rimaneva vero, ci stavano davvero provando, ma lei non voleva nemmeno pensare di poter dare per ovvio determinati atteggiamenti.

L’ultima delle sue intenzioni era quella di soffocarlo, perciò le sembrò quantomeno gesto di accortezza assicurarsi di poterlo fare.

« Ma certo », le assicurò Bellamy, « puoi chiamarmi quando vuoi. »

La giovane Griffin abbassò il capo, sorridendo come impacciata, e annuì un paio di volte, prima di aggrapparsi alla portiera e scendere dall’automobile.

Non appena si richiuse lo sportello alle spalle, poggiò per qualche istante la mano al finestrino, salutandolo un’ultima volta.
 
 
 







« Ehi, Gina. » Salutò Clarke non appena arrivò al terzo piano, ripercorrendo i tragitti dell’ospedale che conosceva a memoria fin da bambina.

La suddetta infermiera, una ragazza poco più grande di lei con cui aveva preso a chiacchierare da quando aveva iniziato a lavorare lì e che riteneva una mente brillante, alzò il capo da alcuni documenti che stava compilando e le sorrise.

« Clarke! Che ci fai qui? » Domandò da un lato all’altro della scrivania per le informazioni.

La bionda, poggiando i gomiti sulla superficie e guardandosi intorno, fingendo una disinvoltura che in realtà non le apparteneva, rispose immediatamente: « Cerco il grande Capo. È qui? »

« Sì, tua madre è qui. Si è appena chiusa nel suo studio, in questo momento non ha pazienti. »

« Vorrà averne, dopo avermi vista. » Mormorò fra sé e sé la più giovane. « Grazie, Gina. Tifo perché il prossimo posto di primario sia tuo! »

« Sei il mio idolo! » Si fece sentire l’infermiera alle sue spalle, osservandola mentre camminava verso l’ufficio della madre e scuotendo giocosamente la testa subito dopo.





 
La giovane Griffin si ritrovò a fissare la targhetta col nome di sua madre sopra senza riuscire a muoversi.

Da lì a qualche secondo sarebbe dovuta entrare nella stanza e affrontare per la prima volta ogni cosa che lei e Abigail non si erano dette durante tutti quegli anni, ciò che non avevano fatto altro che rifuggire e ignorare, pensando che forse, in quel modo, se ne sarebbe andato da solo.

Ma l’uomo a cui entrambe avevano voluto bene e con cui avevano trascorso le loro vite se ne era andato – non se ne è andato, lo hanno ammazzato, le suggerì una voce fredda e atona nella sua testa – e non potevano più far finta che non fosse più una ferita da cui stavano cercando disperatamente di guarire.

Era arrivato il momento di parlare, parlare davvero, e domandarsi tutte quelle cose che non avevano avuto il coraggio di chiedere. Era arrivato il momento di sapere, e lei non poteva tirarsene indietro. Non ora.

Fu per quel motivo che, spinta da un improvviso moto di adrenalina e coraggio, Clarke afferrò fermamente la maniglia e, senza bussare, entrò nella stanza.
 




 
 


« Lincoln? » Chiamò immediatamente Bellamy, mettendo la chiamata in vivavoce mentre guidava.

« Sono con Lexa », fu la risposta repentina dell’altro, avvisandolo tacitamente di rispettare la parte e non rivelare nulla di compromettente, « dovresti venire al solito posto. »

« Lei sa? »

« Dovresti raggiungerci. » Si limitò a ripetere, poi riattaccò senza attendere risposta.

Quello non andava affatto bene. Dal tono di voce di Lincoln era evidente che ci fosse qualcosa di sbagliato, qualcosa che non stava seguendo i piani, e il maggiore dei Blake tentò di mantenere la calma mentre sterzava bruscamente e cambiava strada.

Una volta diretto al Givin’ and Takin’, il luogo di ritrovo dei Grounders dove appena una settimana prima aveva incontrato ufficialmente il Comandante Lexa, il moro cercò un altro numero nella sua rubrica e avviò una nuova chiamata.

« Bell, stai bene? » La voce preoccupata di sua sorella gli arrivò chiara al secondo squillo.

« Sto bene, O. Va tutto bene. Ho solo bisogno che tu mi faccia un favore. »

« Qualsiasi cosa. »
« Vai da Clarke, è al Mount Weather. Va’ da lei e non separatevi finché non torno a casa, okay? »

« Mi stai spaventando. Dov’è Lincoln? Gli è successo qualcosa? »

« Non succederà niente a nessuno, Octavia. Te lo prometto. Ma tu devi restare con Clarke. Prenotate cibo da asporto, guardate un film, invitate Raven. Fate quello che volete, ma restate in casa e insieme fino a che non te lo dico io. Siamo d’accordo? »

« Sarà meglio che tu e Lincoln torniate a casa presto, o giuro sull’Onnipotente che verrò a cercarvi io stessa. »

« Ti voglio bene, scimmia. » Addolcì il tono sull’ultimo nomignolo, un soprannome che le aveva affibbiato da piccola, sei anni al massimo, quando era così spericolata da arrampicarsi sugli alberi e nascondersi ovunque.

« Ti voglio bene anch’io, fratellone. »
 






 
 
« Clarke? » La riprese con sorpresa sua madre, i capelli perfettamente ordinati e il solito camice bianco poggiato sulle spalle. Stava compilando alcuni documenti, sempre così occupata a salvare vite umane e trovare soluzioni ai più grandi misteri della biologia, e aggrottò le sopracciglia all’inaspettata e imprevedibile visita di sua figlia.

« Ho bisogno di parlarti. » Fu tutto ciò che la più giovane riuscì a dire, spostando il peso da un piede all’altro e tentando con ogni sforzo di farsi vedere sicura e determinata.

Nonostante la presenza di Abigail le avesse sempre provocato un certo disagio – non sapeva se fosse frutto del naturale e sottile conflitto umano fra madre e figlia o se fosse solo il risultato della loro più totale mancanza di comunicazione – la giovane Griffin cercò faticosamente di mantenere una parvenza di autocontrollo.

« Sono sommersa da scartoffie, possiamo vederci a cas- »

« Ho bisogno di parlarti adesso. » La interruppe con un misto di aggressività e frustrazione, chiudendo per un attimo gli occhi.

Abby scattò in piedi, scrutandola più attentamente. « Stai bene? »

« Il fatto è questo, mamma », e non avrebbe dovuto suonare così aspro, Dio, questa era la donna che l’aveva creata, che l’aveva resa lei, e non riusciva nemmeno a chiamarla in quel modo, « per un lungo tempo ho creduto di no. Di non poter più stare bene. »

La più anziana sbatté più volte le palpebre, quantomeno confusa da quelle improvvise rivelazioni, frutto degli enigmatici segreti che non le aveva mai confidato ad alta voce.

« Non voglio più credere che sia così. » Sussurrò, abbassando le spalle senza accorgersene e tenendo saldo lo sguardo nel suo. Poi sospirò.

« Io voglio essere felice. E credo di aver trovato qualcosa che possa aiutarmi ad esserlo. »

I sorrisi di Bellamy, di suo fratello, di Jasper e Monty e Miller e perfino Raven, dannazione, le affiorarono alla memoria, sfilandole davanti agli occhi come se fossero veramente lì.

« Non mi importa se sarà solo un’illusione, una stupida ingenuità. Potrebbe essere tutto quello che possiederò, potrei non avere mai qualcosa di vero, quindi sì, voglio qualsiasi tipo di felicità mi sia concesso avere. Non voglio più soffrire. »

Clarke rivide se stessa stare davanti a quella stessa porta su cui ora era appoggiata, rivide se stessa impaurita di qualsiasi reazione le sarebbe toccata e non poté fare a meno di lasciarsi tranquillizzare dal sollievo che quella rivelazione le stava provocando.

Non avrebbe mai dovuto avere paura di questo. Queste parole, questa decisione – si meravigliò di quante possibilità le si presentassero ora che era finalmente pronta a sceglierle – erano ciò che l’avrebbe liberata, e lei era pronta a gridarle, a lasciarsele imprimere addosso.

« Piccol- »

« Se non voglio più soffrire, allora dovrò iniziare a perdonare. Perdonare ciò che io ho fatto gli altri. Ciò che gli altri hanno fatto a me. Quello che io e te ci siamo fatte. E per perdonarti, ho bisogno che tu sia sincera con me. »

Prese un respiro visibilmente profondo, sbuffando nel mentre, e compì qualche passo in avanti, avvicinandosi ad Abigail. Quest’ultima, riflettendo i suoi passi, superò la scrivania e aumentò la prossimità fra loro due. Aveva un’espressione indecifrabile sul volto. Qualcosa che, la bionda avrebbe potuto giurarlo, era una pericolosa combinazione di rimorso e impotenza.

« Non ti ho mai mentito, Clarke. » Sussurrò sua madre, apparentemente mettendo da parte la maschera di austerità che si era costruita attorno e che sembrava non togliersi mai.

« Non mi hai nemmeno detto la verità, mamma. »

Prima che potesse ricevere qualsiasi tipo di risposta, il cellulare di Abby squillò, interrompendola proprio nel momento in cui stava per aprir bocca.

« Ti prego. Ti prego, non rispondere. Sto cercando di parlarti. »

« Ma- »

« Non farlo. Per una volta. »

Non seppe se fu per le sue parole o per qualcosa che aveva visto nel suo sguardo, ma sua madre non rispose.

« Grazie. » Prese un respiro profondo. « Facciamo una cosa, okay? Io spengo il mio e tu spengi il tuo. »
La giovane Griffin sapeva bene quale fosse il rapporto del primario di Chirurgia con il suo telefono.

Era cresciuta con la consapevolezza di tutte le volte in cui era rimasta a lavoro fino a notte fonda o che aveva trascorso molti dei suoi compleanni attaccata a quell’aggeggio, più preoccupata a risolvere una delle sue tante questioni piuttosto che a vedere sua figlia spegnere le candeline.

Questo voleva dire che sapeva anche cosa effettivamente le stesse chiedendo.
Ascoltami, mamma. Guardami. Mi sei mancata così tanto. Ti ho odiata così tanto. Dimmi che mi ami. Amami, mamma.

« Va bene. » Acconsentì la più anziana, probabilmente troppo allarmata dall’insolito e ambiguo comportamento di sua figlia per fare ulteriori domande. « Mi stai preoccupando, Clarke. Che sta succedendo? »

Lei distolse lo sguardo. Contraendo la mascella in segno di avvilimento, si permise per un attimo di osservare l’ufficio di Abby. Alle pareti erano appese fotografie sanitarie, promozioni pediatriche e i vari attestati medici che aveva conseguito nel corso degli anni.

La scrivania, sulla quale un portatile e una grossa agenda capeggiavano fra gli altri oggetti, di un ebano rosso – unico e pregiato nel suo genere – l’elegante e imponente poltrona che sembrava sempre troppo vuota, troppo grande, e le finestre ampie, qualsiasi componente in quella stanza pareva antico, indecifrabile, come inutilizzato.

Una volta Clarke aveva letto da qualche parte che tutto quello non era altro che un riflesso di ciò che c’era dentro.

Una stanza, dei libri, un tipo di lampada, una scrivania. Erano solo un riflesso. Erano solo un’implicita ammissione di interiorità. Io sono questo. Io sono quello che mi circonda.

In quel momento sperò di sbagliarsi.

Non appena riportò l’attenzione al volto di suo madre, quel viso che aveva pensato di conoscere così bene, di cui credeva di aver visto la felicità, l’incertezza, il dolore profondo, le lacrime si raccolsero sul fondo dei suoi occhi, e lei seppe di non poter più mentire.

« Puoi dirmelo. Che è successo? »

« Ho bisogno di sapere. » La sua voce tremò, ma lei prese un respiro profondo e si diede forza. « Ho bisogno di sapere perché mio padre è morto. »
 
 
 







Bellamy non esitò.

Non appena parcheggiò davanti all’insegna del bar in cui sapeva avrebbe trovato la verità – o ciò che più le si sarebbe avvicinato – afferrò le chiavi, si strinse la pistola dietro la schiena e scese.

Camminò con sicurezza, le mani nelle tasche della giacca e la disinvoltura nei passi, per quei pochi metri che lo dividevano dall’entrata.

I vetri erano oscurati, ma lui non si curò di avere visuale ed entrò alla cieca, ancora incerto di cosa potesse trovarsi davanti.

« Guardate chi è arrivato! » Esclamò una voce a lui sconosciuta.

« Heda ti aspettava, amico! » Chiamò un altro.

« Bellamy. » Finalmente individuò Lincoln, seduto ad uno dei tavoli in fondo alla sala. Raggiungendolo velocemente, senza però evitare di guardarsi attorno, il moro fece un cenno del capo.

« Che cazzo sta succedendo? » Sibilò a bassa voce, mettendosi a sedere con le spalle al muro – aveva bisogno di una buona visuale, dopotutto – e continuando a ispezionare il luogo con sguardo indagatore.

Prima che l’altro potesse rispondere, tuttavia, due porte alla loro destra sbatterono e si spalancarono, rivelando Lexa e altri tre uomini alle sue spalle.

« Stavo iniziando a sentire la tua mancanza. » Esordì con evidente sarcasmo e provocazione nella voce.

Si avvicinò lentamente, le trecce selvagge e lunghe che parevano muoversi di vita propria e scivolarle delicatamente lungo la pelle scoperta delle spalle, gli occhi truccati, sempre così truccati di nero, come una maschera, un’armatura a proteggerla da tutto il resto.

Indossava un corsetto di un granata rosso che le fasciava i fianchi e lasciava ben poco all’immaginazione. Le sue gambe avvenenti erano avvolte in semplici jeans neri, attillati lungo le caviglie, attorno alle quali si stringevano un paio di stivaletti di pelle.

Guardandola, Bellamy pensò che, se Medusa fosse esistita veramente, avrebbe avuto il suo volto.

Meravigliosamente pericolosa, una creatura ipnotica e insieme mortale contro cui difficilmente qualcun altro avrebbe potuto avere la meglio.

Strinse fra le mani i bordi della panca su cui era seduto, mettendo da parte il nervosismo che quella situazione gli provocava e cercando di sfruttarla a proprio vantaggio.

« A cosa devo l’onore? » Rispose con lo stesso identico tono, forzando un ghigno nella sua direzione.

Mentre la giovane Heda si avvicinava a lui, sorpassando la sedia di Lincoln e dandogli le spalle, gli altri tre uomini si fermarono a una certa distanza.

« Io ho qualcosa che vuoi », scandì con precisione e zelo, parandosi davanti a lui e costringendolo ad alzare la testa per guardarla, « detective Blake. »
Merda.

Il Comandante lo aveva scoperto. Questo voleva dire che tutti i Grounders lo avevano scoperto. E che, quindi, in quel momento lui e Lincoln stavano lottando per qualcosa di più che delle informazioni da passare al Distretto.

Stavano lottando per le proprie vite.

Il suo sguardo corse immediatamente al ragazzo di sua sorella, che era rimasto in silenzio per tutto quel tempo e non aveva ancora pronunciato parola. I suoi occhi, tuttavia, gli inviarono un chiaro messaggio: Mi dispiace.

Fu di quel momento di distrazione che Lexa si approfittò quando, in un gesto fulmineo e calcolato, si sedette a cavalcioni su Bellamy e trascinò le labbra contro le sue.

Lui, terribilmente colto di sorpresa, spalancò gli occhi e scattò con una mano verso la pistola che teneva nascosta sotto la cintura, mentre con l’altra afferrava il fianco sinistro di lei e cercava di respingerla. Di tutte le reazioni che avrebbe potuto aspettarsi, quella era sicuramente l’ultima che avrebbe considerare.

Prima che potesse fare qualcosa, qualsiasi cosa per reagire, la giovane si era già staccata da lui e lo guardava dall’alto con un sorriso spietato e sbarazzino.

« Togliti. » Le intimò lui, allontanando il più possibile il volto da suo e guardandola di sbieco.

Lei scoppiò a ridere, sfiorandogli con la punta dei polpastrelli la pelle esposta del collo. « Ti è piaciuto, ammettilo. »

« Ti sta solo provocando, Bellamy. » Lo avvisò all’improvviso Lincoln, fermo alle loro spalle, e in un secondo il rumore del cane di una pistola che veniva azionato fu l’unico suono che entrambi sentirono.

« Sta’ zitto, Lincoln. I traditori qui dentro non parlano. » Sputò fuori Lexa, senza nemmeno degnarsi di voltarsi verso di lui.

« Non devi farlo per forza. » Si rivolse il maggiore dei Blake a lei, ottenendo nuovamente la sua attenzione. « Le cose possono finire in maniera molto diversa. »

« Oh, dolcezza. So esattamente come andranno a finire le cose. »

Con un breve gesto della sua mano sinistra, i due uomini si ritirarono da dove erano venuti, mentre il terzo – continuando a puntare l’arma contro la nuca di Lincoln – lo trascinò nella stessa direzione, lasciando Bellamy e Lexa da soli.

« Ti dispiace? » Accennò lei, gettando uno sguardo alla sua mano che ancora le immobilizzava il fianco.

Il moro la lasciò andare in una frazione di secondo, come scottato, e la osservò in cagnesco.

« Ti dispiace? » Ripeté le sue parole, alludendo al fatto che fosse ancora seduta sopra di lui.

Agilmente, come se stesse compiendo un passo di danza, la giovane Heda spostò una gamba e scivolò di lato. Finirono spalla contro spalla, l’uno al fianco dell’altra, e rimasero per qualche istante a fissare il vuoto davanti a loro.

« E comunque non agitarti, non sei il mio tipo. Preferisco le bionde. »

« Cos’hai? » Bellamy ignorò quello che gli aveva appena detto, alzando gli occhi al cielo senza nemmeno voltarsi verso la sua direzione.

« So chi ha ucciso Jake Griffin. » Rispose l’altra con tranquillità e una scrollata di spalle, come se fossero due amici che chiacchierano e si raccontano i vecchi tempi.

La testa dell’agente Blake scattò talmente velocemente che avrebbe potuto rimanere bloccata, e i suoi occhi ispezionarono attentamente il suo volto alla ricerca di qualsiasi segnale che potesse confermare che stava mentendo.

Quando Heda ricambiò il suo sguardo, sentì che era sincera.

« Cosa vuoi in cambio? » Conosceva bene questo tipo di scambio di informazioni. Nel suo lavoro, fra questa gente, nessuno regalava niente. Nessuno aiutava nessun altro per nessun motivo.

« Voglio l’immunità. » Replicò disinvolta, sebbene avesse smesso di sorridere. « Qualsiasi cosa troviate su di me, qualunque prova abbiate, non potrà farmi niente. Non posso andare in prigione. Non ora che ho finalmente costruito qualcosa. »

« Hai costruito un impero di terrore e crimini, Comandante. Perché? »

Per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, Lexa sembrò metter da parte l’atteggiamento di arroganza e fierezza che si era metodicamente cucita addosso, lasciando che fosse l’unica cosa che gli altri vedessero e temessero di lei.

« Vuoi sapere chi è stato o no? » Evitò il discorso, e Bellamy non insistette oltre.
C’era solo una cosa di cui aveva bisogno in quel momento, ed era conoscere la verità, perciò si limitò ad annuire con convinzione.

« Prima promettimi che mi farai avere l’immunità. Conosco voi sbirri. »

« Ti farò avere l’immunità, te lo prometto. »

« Tieniti forte, agente Blake. »
 
 
 
 





« Sono stanca di fare i nostri soliti giochetti. Tu mi provochi e io esplodo. Sono stanca di tutto questo. »

Iniziò Clarke, ripetendo quelle stesse parole che per tanto tempo aveva sognato di poter dire a sua madre, durante le notti che aveva trascorso insonne e le giornate passate a letto, la testa sotto le coperte e il corpo rannicchiato su se stesso.

Non era stato facile per lei. Non era stato facile nemmeno per sua madre, e sembrava accorgersene solo ora.

« Stai ancora avendo questi pensieri? Tel’ho detto un milione di volte, Clarke. Tuo padre ha avuto un attacco di cuor- »

« No! Non dare la colpa a me. Non farmi passare come la pazza di turno. Non è possibile. » Sibilò, alzando la voce e sollevando le braccia a mezz’aria. « Lui era sano. Tu ci facevi controllare ogni sei mesi. Non c’è nemmeno un’anamnesi nella nostra famiglia che possa rilevare un problema genetico. »

« Lui era forte. » Sussurrò. Non può essere questo.

« Non c’è certezza di prevedibilità in queste cose, tesoro. Lo sai anche tu. » La voce di Abby iniziò a tremare, e sua figlia spostò lo sguardo su di lei in tempo per vederla spazzare via con il dorso della mano alcune lacrime.

« Ci sono delle tossine invisibili all’autopsia. Se non sai come trovarle, non puoi vederle. Farmaci, veleni e sostanze letali create per sciogliersi e venire assorbite nel sangue. »

La bionda schioccò le dita un paio di volte, cercando di ricordare gli argomenti su cui si era tanto documentata.

Poi, con un gesto della mano, si rivolse a sua madre: « Il cianuro provoca arresto cardiaco e sparisce dall’organismo in meno di cinque minuti. »

« Ti prego, smettila. » La supplicò sua madre, portandosi entrambe le mani al volto e tentando di sopprimere i singhiozzi. Sembrava una bambina spaventata e impaurita, ma Clarke non fu in grado di fermarsi.

« E questo è solo uno dei tanti. Posso- »

« Basta! So che è difficile. Hai perso tuo padre, io ho sposato Thelonious. È stato tutto così difficile. Ma non puoi più farti questo, Clarke. »

« Voglio solo sapere la verità! Conoscevo anch’io segreto dell’Ark, mamma. Gli appalti illegali, gli investimenti a Hollywood, i piani per sbarazzarsi delle pratiche scomode. I soldi in ballo sono abbastanza per uccidere. Quelle persone erano pronte a mettere a rischio vite umane pur di vendere quei contratti, e papà lo aveva scoperto. Lo sapevo anch’io. Tutto questo non può essere una casualità. »

« Sei già stata arrestata una volta per queste insinuazioni. Non metterti contro queste persone. »

« Beh, dovresti seguire il tuo stesso consiglio. Kane? Davvero? » Domandò la bionda retoricamente, portandosi una mano fra i capelli e socchiudendo gli occhi. Quella conversazione stava andando proprio come l’aveva immaginata, e stava iniziando a pensare che fosse tutto inutile.

Sua madre sembrava non riuscire ad essere sincera con lei, forse quella era la semplice verità. Le cose sarebbero andate sempre così.

« So quello che ti ha detto Bellamy. Sì, Clarke. Io e tuo padre eravamo a conoscenza di quello che lui stava facendo. Ma non è dipeso da lui, posso assicurartelo. Marcus non è come loro. Lui era dalla nostra parte, voleva esporre tutto, smascherarli, ma ci sono persone più potenti pronte ad insabbiare tutto.

Persone molto più potenti di lui, di tuo padre e di tutti noi. »

« Quindi avete semplicemente permesso che il progetto continuasse. Avete messo a rischio delle persone. Come hai potuto? »

« Non c’era niente che potessimo fare! » A quel punto sua madre parve perdere qualsiasi forma di autocontrollo, e le si avvicinò in fretta fino a posarle entrambe le mani sulle spalle.

« Non potevamo rivelare niente. Perciò, abbiamo dovuto proteggerci. Proteggerti. Sapevamo bene che questo segreto avrebbe messo a repentaglio la sicurezza della nostra famiglia, così abbiamo giurato all’Ark che saremmo rimasti in silenzio. In cambio, ci siamo assicurati la tua protezione. »

« Certo, rivolgendovi alla più pericolosa banda di Los Angeles! » Urlò Clarke.

« Non avevamo scelta. Non potevamo rischiare che tu corressi dei pericoli per la nostra decisione, e quello era l’unico modo per essere certi che tu saresti stata al sicuro. Che non avresti pagato per i nostri errori. »

« Tu sei un dottore, per l’amor del Cielo. Come hai potuto mettere a rischio vite innocenti? »

« E tu sei mia figlia, Clarke. Metterei a rischio la mia stessa vita pur di proteggerti. »

La giovane Griffin sbuffò, incapace di ricacciare indietro le lacrime che avevano iniziato ad appannarle la vista. Per la prima volta dopo tanto tempo, non si vergognò di piangere davanti a sua madre.

« Voglio sapere perché ho perso mio padre. » Singhiozzò, abbracciandosi il petto e lasciando cadere il capo in avanti.

« Non avremmo potuto fare niente per salvarlo. Nessuno lo ha ucciso, Clarke, nessuno lo ha avvelenato. Non ti sto nascondendo nulla, te lo giuro. Il suo cuore si è semplicemente fermato. »

« Ma- Atom, lui mi ha rapita. » Sussurrò, portandosi una mano davanti agli occhi e scuotendo il capo. « Mi ha detto delle cose… Lui sa chi lo ha ucciso. »

« Eri confusa. » La interruppe Abby, il tono di voce incredibilmente vicino alla compassione. « Quelle persone conoscono la nostra famiglia. Sanno chi siamo, cosa abbiamo. Si sono solo approfittati della tua fragilità, hanno sfruttato il tuo punto debole per prendersi i soldi. »

« Ma non hanno mai chiesto un riscatto… »

« Lo avrebbero fatto, tesoro. Ti hanno usata per i loro malsani scopi e- »

« No. » Intervenne. « No, non è andata così. Loro sanno. »

Sua madre le prese entrambe le mani. « Se lo avessero veramente saputo, perché non dire niente alla polizia? Perché Bellamy non sa niente? Li avrebbe aiutati. Avrebbero potuto raggiungere un accordo e ricevere una riduzione di pena, collaborando con loro. Ma non l’hanno fatto, perché si sono inventati tutto. »

« Forse… Forse non possono. Forse c’è qualcosa che non sappiamo. »

« Piccola… »

« No, mamma. Deve esserci una spiegazione. »

« C’è una spiegazione, Clarke. Ma forse non vuoi accettarla. » Le suggerì all’improvviso sua madre. Il suo sguardo sembrava addolcito da qualcosa che non riusciva totalmente ad identificare, e le loro mani erano ancora strette fra di loro.

Quando annuì verso di lei come se volesse incoraggiarla, lei capì: era pietà.

A quel punto capì. Tutta la rabbia, la sofferenza, la mancanza che l’avevano annientata durante quegli anni.

Capì e rivide se stessa a quindici anni, troppo fragile per ragionare lucidamente. Il suo cuore spezzato e la sua mente infranta. Una perdita troppo grande per un corpo così piccolo. L’immaginazione, l’inganno, la via di fuga. La risposta più semplice ad una domanda troppo difficile.

« Nessuno lo ha ucciso. » Ripeté fra sé e sé. Forse era davvero così. Forse, durante gli anni, le era stato così impossibile accettare la morte di suo padre ché aveva voluto trovare a tutti i costi un motivo che la giustificasse. Un colpevole.

Ma non c’era mai stato nessun responsabile, e ora le sembrava tutto così chiaro. Era quella la verità. Suo padre se ne era andato e basta. Nessuno glielo aveva portato via. Nessuno aveva intenzione di distruggere la sua famiglia.

Era solo successo. Occlusione delle arterie, deficit di flusso sanguigno, e Jake Griffin all’improvviso non esisteva più. Stroncato. Nessuna tossina, niente cianuro né acido prussico, solo un corpo che non reggeva. Un cuore che smetteva di funzionare.

« È stato naturale. » Affermò nuovamente, annuendo più a se stessa che a sua madre, e all’improvviso qualcosa nel suo petto si incrinò e le impedì di respirare.

Clarke sbarrò gli occhi, cercò di fare un respiro profondo, ma l’attacco di panico sembrava attanagliarle la gola, un pugno stretto attorno al collo, e lacrime violente continuarono a bagnarle il volto, colarle per il mento e sporcarle la maglietta.

« Va tutto bene. » Le assicurò Abby, circondandole la nuca con la mano e spingendola dolcemente verso di lei.

Lei non oppose resistenza. Come quand’era piccola, tornando indietro nei ricordi, lasciò che sua madre la stringesse a sé e la cullasse.

Pianse senza freni, non seppe per quanto, aggrappandosi al suo camice e gridando parole sconnesse contro il tessuto ruvido, lamentandosi a voce alta, imprecando un susseguirsi di disperati no, no, no, no.

Abigail pianse con lei, ma silenziosamente, con cautela, come solo una madre sapeva fare. Senza farsi sentire, come di nascosto, perché non poteva spaventare la sua piccola. Doveva, invece, infonderle forza, rassicurarla che sarebbe andato tutto bene, perché quello era il suo compito e quella era la vita che aveva scelto dal primo giorno in cui aveva visto il suo volto.

Dal primo giorno che aveva saputo che un’altra vita cresceva insieme e dentro di lei.

Piansero insieme sul tempo che avevano perso e quello che avevano trascorso lontane, troppo lontane, e per il tempo che gli era stato portato via.

Piansero e si perdonarono tacitamente, in un accordo silenzioso, che necessitava solo dell’amore che provavano l’una per l’altra.

Tu sei mia figlia e io morirei per te, se solo tu me lo chiedessi. Mi dispiace così tanto, Clarke.







 
 
La giovane Griffin uscì dal Mount Weather un paio d’ore dopo, esausta e sfiancata e confusa.

Dopo essersi ripresa, Abigail l’aveva portata in caffetteria, le aveva ordinato torta di mele e gelato – quello che le prendeva sempre da bambina – e si erano fermate a parlare.

Clarke le aveva raccontato di come fosse riuscita a iniziare di nuovo a dipingere e della sua intenzione di iscriversi finalmente al College. Poi, quasi senza essere in grado di trattenersi, le aveva espresso il desiderio di farle conoscere Bellamy. 
Non come agente Blake, solo come Bellamy.                                                                                                                                                                                                                                           
Ora si erano salutate, un abbraccio e qualche parola di conforto l’una per l’altra, e Clarke doveva prendere una boccata d’aria.

Si guardò attorno disorientata, appena fuori le porte dell’Ospedale, passandosi una mano sul volto ruvido per le lacrime e prendendo un respiro profondo.

Aveva finalmente scoperto la verità, e fu quantomeno ironico che la cosa che aveva cercato così tanto fosse stata proprio sotto i suoi occhi per tutto quel tempo. Che fosse la cosa più semplice, così come la più straziante.

La cosa peggiore di tutto quello era che, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva meglio.

Un peso le era stato tolto dalle spalle e dalla mente, e la realizzazione che non avrebbe più dovuto trascorrere ogni giorno a pensare a quello che era successo la colpì all’improvviso.

Poteva andare avanti. Poteva finalmente andare avanti. Ora che aveva accettato la verità, ora che aveva abbracciato ciò che aveva tanto disperatamente cercato di respingere, il suo passato non sembrava più un masso legato al piede. Sembrava solo una parte di sé, difficile e dolorosa, ma conclusa e risolta.

Aveva appena iniziato a camminare fra le persone ignare di cosa stesse succedendo dentro di lei– ancora senza destinazione, ma in un certo senso a suo agio – per qualche istante, semplicemente passeggiando e lasciando che la mente si rilassasse, quando un ragazzo la superò all’improvviso, urtando contro la sua spalla e perdendo qualcosa sul marciapiede.

Clarke vide un cellulare e si chinò a raccoglierlo per restituirglielo, ma, non appena sollevò di nuovo lo sguardo, il ragazzo aveva già svoltato l’angolo della strada e lo aveva perso di vista fra la massa di persone che uscivano dagli uffici.

« Aspetta! » Gridò, facendo per seguirlo, ma fu interrotta dalla forte e insistente vibrazione del telefono.

Confusa, rimase per qualche istante a fissare davanti a sé, cercando con gli occhi il proprietario.

Quando, però, lo schermo si illuminò, fu costretta a riservargli la piena attenzione.

Ciao, Clarke. Era il primo messaggio. Proveniva da un numero sconosciuto, e lei si accorse solo in quel momento che il telefono che teneva fra le mani era probabilmente un usa e getta, privo di qualsiasi segno di riconoscimento.

Ho sentito che mi stavi cercando. Continuò a leggere. Ti sto cercando anch’io.

La giovane Griffin boccheggiò terrorizzata. Stacco gli occhi dallo schermo solo per guardarsi intorno, spostando freneticamente il capo da un lato all’altro della strada.

Vedeva macchine e taxi muoversi nel traffico, gruppi di ragazzi seduti ai tavolini del bar e adulti in cravatta pronti a tornare a casa, ma niente o nessuno che potesse fornirle qualche indizio su chi le stesse scrivendo.

Chi sei? Digitò in preda al panico, continuando a restare immobile sul marciapiede e a scrutare l’ambiente circostante.

Non capiva. Non riusciva a capire cosa diavolo stesse succedendo. Aveva così tanta paura da non essere capace di muoversi, di raggiungere il suo telefono e chiamare sua madre, o Wells, o Bellamy.

Lo stai per scoprire. Io e il detective Blake ti stiamo aspettando. Segui le istruzioni e non provare a chiamare nessuno, altrimenti lo ammazzo. Se accendi il tuo telefono, io lo saprò.

« No… » Sussurrò sgomenta e terrificata. Era vero. Qualcuno aveva ucciso suo padre, e ora aveva Bellamy.

Avrebbe perso anche lui. Stava per morire.

C’era solo una cosa che avrebbe potuto fare per salvarlo, e non esitò nemmeno un istante. Clarke, terrorizzata e completamente spaventata, preda del peggior tipo di panico che avesse mai provato in tutta la sua vita, non esitò.

Sto arrivando.
 





 
« Sono a casa! » Urlò il maggiore dei Blake, richiudendo la porta con la gamba e posando la tracolla sul mobile alla sua sinistra.

Il buio era calato da poco meno di un’ora e luci erano accese, perciò non si preoccupò. Non appena, però, Octavia gli si presentò davanti e lo guardò con un’espressione sconcertata sul volto, capì di essersi profondamente sbagliato.

« Che è successo? » Domandò allarmato, aggrottando le sopracciglia e facendo un passo avanti. « Dov’è Clarke? »

Sua sorella evitò il suo sguardo per qualche istante, poi sospirò. « Non lo so, Bell. »

« Che significa che non lo sai? »

« Dopo aver parlato con te, l’ho chiamata. Il suo telefono era spento. Così sono andata al Mount Weather, e sua madre mi ha detto che se ne era già andata. A quel punto ho chiamato Wells, Jasper e Monty, che a loro volta hanno chiamato tutti i loro amici.»

Bellamy sbatté velocemente le palpebre, disorientato ed evidentemente turbato, ma non disse niente.

« Nessuno sa dove sia. Mi dispiace così tanto. »






 

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Capitolo 22
*** XXIII ***


Questa volta, per il commento ci vediamo a fine capitolo!

Grazie a tutti e buona lettura.


 

Is It Any Wonder?





La prima cosa che percepì non appena riprese conoscenza era il sangue che le colava al lato sinistro del volto, partendo dalla fronte e giù verso la mascella.

Clarke provò a toccare il punto della testa che pulsava tanto da renderla affannata, ma non ci riuscì, perché entrambe le sue mani erano immobilizzate dietro la schiena.

Tutto quello era fin troppo familiare. In un attimo rivide se stessa chiusa nel portabagagli di una macchina, l’odore del cloroformio ancora a bruciarle le narici e il perfetto vestito che sua madre le aveva regalato distrutto.

Sentì di nuovo i suoi capelli venire strappati dalle forcine, le scarpe che le scivolavano dai piedi e il sangue che le sporcava le ginocchia come se fosse appena successo, come se fosse ancora lì e si fosse solamente svegliata in un altro incubo.

Questa volta, però, le luci di Los Angeles la circondavano in lontananza, appena fuori dalla zona buia in cui si trovava, e un vento vigoroso le lasciava liberi i capelli, un po’ appiccicati sul suo viso stanco, un po’ sopra la sua testa, un’aurea dorata che le impediva di distinguere il luogo in cui si trovava.

I suoi occhi si socchiusero, la vista appannata che non le permetteva di guardarsi intorno, e il suo capo scivolò in avanti senza che lei potesse reggerlo, segno evidente che dovevano averla colpita tanto forte da averle probabilmente provocato una commozione cerebrale.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare né come fosse arrivata in quel luogo né se avesse visto qualcuno colpirla.

Mugugnò, cercando di concentrarsi e focalizzare l’attenzione sull’ambiente che la circondava, e, dopo essersi distratta per qualche istante a fissare il nulla, iniziò a capire.

Si trovava su un tetto. Ecco perché il vento era così forte da arruffarle i capelli davanti al viso e non ci fosse alcun tipo di illuminazione.

« C’è qualcuno? » Biascicò, senza rendersi conto di aver parlato troppo piano perché qualcuno potesse effettivamente ascoltarla. « Aiuto. »

Riusciva a sentire le automobili correre sotto di lei, il leggero tremolio della metropolitana che passava per la fermata lì vicino, ma non sembrava esserci nessuno con lei. Era sola su quel tetto e non riusciva nemmeno a spiegarsi il perché.

« Sono qui! » Continuò a borbottare, farneticando fra sé e sé e sforzandosi di non riaddormentarsi, di non perdere conoscenza e cercare una via d’uscita. Come era potuto succedere? Dov’era Bellamy? Era forse arrivata troppo tardi?

Era davvero arrivato il momento che aveva tanto temuto?

Con un grande sacrificio di energia e concentrazione, si forzò a tenere il capo sollevato e a impegnarsi per trovare un modo di andarsene da lì il prima possibile. Non si fece domande, non ne aveva il tempo né la capacità, la paura e l’istinto di sopravvivenza le uniche cose che riuscisse a provare in quel momento.

Provò ad alzarsi, ma le mani legate e il forte dolore alla testa la privarono del giusto equilibrio, perciò finì per accasciarsi su un fianco e scalciare inutilmente.

Quando, all’improvviso, il rumore di una porta pesante e probabilmente arrugginita che si apriva e si richiudeva subito dopo catturarono la sua attenzione, Clarke si immobilizzò.

« C’è qualcuno? » Ripeté di nuovo, a voce più alta. « Aiutatemi! Sono qui! »

Era adagiata contro un muretto, perciò le fu impossibile notare la figura nascosta al buio che le si stava avvicinando finché un paio di gambe lunghe e maschili non si pararono davanti ai suoi occhi.

La giovane Griffin impiegò un paio di secondi per alzare lo sguardo, ancora troppo confusa e disorientata per rispondere pienamente ai proprio riflessi.

« Thelonious! » Esclamò, incredibilmente sollevata e rincuorata. Parlò fra i respiri mozzati, frenetici, masticando una parola sopra l’altra. « Oh, Thel, grazie al Cielo, Thel, Thel, devi portarmi via di qui. Pensavo- »

« Ehi, » l’uomo più grande si inginocchiò davanti a lei, allungando una mano verso il suo volto e sorreggendolo, « sono qui. Va tutto bene. »









 
 
Bellamy arrivò alla Centrale ancora prima che il Capitano Sidney lo chiamasse, parcheggiando al primo posto libero e avventandosi all’interno con una fretta e un’urgenza che mai prima di allora lo avevano tanto caratterizzato.

« So chi è stato! » Gridò, piombando nell’ufficio del suo superiore senza disturbarsi di bussare o annunciare la sua presenza.

Fu costretto a fermarsi, però, solo nel momento in cui un paio di occhi particolarmente tormentati si fissarono su di lui, immobilizzandolo sul posto.

« Signora Griffin, ho bisogno di parlare immediatamente con il mio capo. » Il suo tono non lasciava spazio per repliche e il suo sguardo era fermo, deciso, più scuro di quanto probabilmente fosse mai stato.

« Sai chi è stato? » Scattò in piedi la più anziana, dirigendosi verso di lui. Il suo volto era evidentemente stanco, e il trucco colato ai lati degli occhi faceva ben intendere che avesse pianto, ma la sua voce fu determinata e non lasciò il minimo segno di esitazione. « Dimmelo. »

« Io- »

« Dimmi chi ha preso mia figlia, Bellamy. »

Il maggiore dei Blake si immobilizzò. Non poteva rischiare di compromettere niente. Non poteva rischiare di mettere in pericolo la vita di Clarke, e a quel punto delle cose non era affatto sicuro di potersi fidare della donna davanti a sé. E se fosse stata sua complice? Se tutto quello fosse stato un piano già organizzato da tempo?

« Ci sono delle procedure che dobbiamo seguire, signora. » Li interruppe l’altra donna, leggendo lo sguardo del suo subalterno e comprendendo la situazione. « Le devo chiedere di lasciare questa stanza, per il momento. »

Abigail non disse niente. Si limitò a voltarsi verso di lei, uno sguardo disperato sul volto esausto, e poi di nuovo verso il moro, dirigendosi subito dopo verso la porta.

« Allora, » iniziò il Capitano Sidney, non appena rimasero soli, sollevando un sopracciglio e alzandosi dalla scrivania, « sai davvero chi è stato? Hai risolto il caso? »

« Ho dovuto garantire l’immunità al Comandante dei Grounders, capo, ma lo so. È… »

Non seppe perché, ma si bloccò. Non poteva ancora crederci, non aveva avuto modo di fermarsi e mettersi a riflettere, ma in quel momento, in quel preciso momento, con quel nome e quel volto impressi nella mente, e la voce di Clarke che sembrava risuonargli nelle orecchie, tutto gli sembrò improvvisamente vero. Reale.

« È suo marito. È Thelonious Jaha. E ora ha preso Clarke. » Buttò fuori con rapidità, come se quello potesse portarlo un passo più vicino a ritrovarla, come se in quel modo potesse finalmente liberarsi da quel peso.

« Ha tutto perfettamente senso. Abbiamo il movente, abbiamo l’opportunità e abbiamo un testimone. Per tutto questo tempo abbiamo guardato le cose dalla prospettiva sbagliata e ora ha finalmente tutto senso. 
»

« Devo trovarla, Capitano. Devo uscire. » Realizzò improvvisamente il maggiore dei Blake, portandosi una mano fra i capelli in evidente segno di frustrazione.

« Io non… Non posso perderla. Non posso. »

« Vuoi davvero trovarla? » Lo interrogò la più grande, aggirando la scrivania e avvicinandosi a lui, posandogli delicatamente le mani sulle spalle.

« Allora devi restare qui. Non puoi semplicemente vagare per la città e aspettarti di incontrarla ad un angolo della strada. Dobbiamo essere furbi, Bellamy. »

« Ma lei è lì fuori! » Alzò la voce lui, incapace di distinguere fra l’avvilimento e la confusione.

Non poteva credere che, proprio ora che si fossero permessi di provarci, di lasciarsi – per un giorno, un attimo, qualsiasi tempo gli fosse concesso – andare, lei non era lì, ed era di nuovo in pericolo, e lui non era riuscito a fare nulla per tenerla al sicuro.

« Lei è lì fuori ed è tutta sola e chissà cosa le è successo! Potrebbe essere ferita. Potrebbe- »

« Bellamy. » Lo riprese il suo capo, alzando il volto e rassicurandolo con i propri movimenti, annuendo lentamente. « Andrà tutto bene. Non le succederà niente. Io e te ci metteremo a lavorare e la troveremo. Il Tenente Miller e suo figlio sono qui, i tuoi colleghi sono già a lavoro. Non sei solo in tutto questo. »

Il moro sembrò convincersi delle sue parole, perché abbassò il capo e asserì, alcune ciocche di capelli a coprirgli gli occhi e i pugni stretti lungo i fianchi.

« Hai detto che è stato il marito. Bene, elabora. »

In quel momento le sue spalle si rilassarono impercettibilmente. Aveva pensato a quelle parole, alle parole che Clarke gli aveva rivolto mesi prima, per tutto il giorno, e ora tutto sembrava combaciare alla perfezione.

Si sforzò per qualche istante di uscire dal suo ruolo centrale, da ciò che stava provando in quel momento e dalla preoccupazione che sembrava attanagliare ogni sua terminazione nervosa.

Uscì da se stesso e respirò profondamente, pronto a raccontare la storia come se fosse avvenuta proprio davanti ai suoi occhi. Come lui l’aveva immaginata nella sua più totale veridicità.

« Okay, quindi, ecco. Thelonious, grande amico di infanzia di Abigail, è innamorato di lei da sempre, ma lei lo vede come un fratello, e ama così tanto Jake da sposarlo all’ultimo anno di college e avere una figlia con lui. Thelonious sopporta in silenzio, all’ombra, e per un periodo sembra farcela. Trova una donna buona, a cui tiene abbastanza da sposarla e avere un figlio con lei. Ma poi Helena muore, e lui resta di nuovo solo, e la donna che ama vive la vita dei suoi sogni con un altro uomo. »

« Vai avanti. » Lo esortò Diana con un gesto della mano.

« Così, un giorno, quando la povera Abby gli confessa che lei e suo marito si sono invischiati in affari che non li riguardano all’Ark Corporation, Thelonious coglie la palla al balzo. Va da Anya, rinomata leader della banda più unita di Los Angeles, e compra del cianuro. Lo paga così tanto da giocarsi l’ipoteca della casa. Jake Griffin ha messo i bastoni fra le ruote di milioni di dollari di investimenti, perciò lui approfitta della condizione per far passare Marcus Kane come responsabile. Ma non sa, però, che i coniugi Griffin hanno in realtà un accordo con l’uomo d’affari, e che non hanno alcuna intenzione di rivelare il segreto.»

« Così, con Jake finalmente fuori dal quadro di famiglia, può consolare la povera vedova. Dovunque lei si giri, è lì. » Continuò il Capitano al posto suo, avendo ormai risolto il resto del mistero. « Le prepara la cena, l’abbraccia quando ne ha bisogno, e pian piano si scalda una piccola parte del cuore di quella donna. Può finalmente avere una famiglia con lei. »

« Ma Clarke, » riprese Bellamy, « non si beve la storia dell’attacco di cuore. Capisce che qualcuno ha ucciso suo padre, ma non ha idea di quale sia il vero movente. Non finché non si avvicina troppo, e Thelonious è costretto a prendere di nuovo in mano la situazione. »

« Sono così fiera di te, agente Blake. Sapevo di aver fatto una buona scelta. »

Prima che lui potesse rispondere, tuttavia, la donna continuò: « Ora abbiamo bisogno di trovare una posizione. Dov’è stata vista Clarke per l’ultima volta? »

« Al momento l’ultimo luogo è il Mount Weather. »

« Bene. Quello stronzo compiaciuto di Cage Wallace non mi lascerà mai avere i filmati di sicurezza senza un mandato, e l’ufficio del Procuratore a quest’ora è vuoto. Dovremo accontentarci delle fotocamere ai lati del perimetro. Perché non vai a chiamare Nathan Miller? È nella sala conferenze. È un bravo ragazzo, e so che sarà un ottimo agente. Voi due insieme potreste fare grandi cose. »

Il maggiore dei Blake accennò un ghigno, per quanto gli fosse possibile sorridere in quelle condizioni, e si allontanò dall’ufficio del suo capo solo il tempo necessario di raggiungere l’altro ragazzo.

Lo vide attraverso i vetri, la schiena chinata su un computer portatile e un paio di occhiali da vista poggiati sul naso.

« Ehi, Miller. » Lo salutò con la sua voce grave, incapace di nascondere l’apprensione che lo stava divorando vivo. « Ci farebbe davvero comodo il tuo aiuto. »

« Tutto quello che ti serve, amico. »
 
 




« Okay, » fece Nathan qualche istante dopo, seduto alla scrivania del Capitano Sidney, mentre la donna e l’agente Blake stavano alle sue spalle, « sono riuscito ad accedere alle telecamere di sicurezza di un fast food all’angolo ovest dell’ospedale. »

« L’ora della scomparsa è fra le diciotto e le diciannove del pomeriggio. » Lo informò Bellamy, poggiando una mano sullo schienale della poltrona e chinandosi dietro di lui, osservando attentamente lo schermo del computer sul quale venivano proiettati i filmati.

« Non vedo niente. » Sussurrò il giovane Miller senza distogliere lo sguardo.

« Cazzo, neanch’io. »

« Prova con le telecamere di quella boutique. Danno proprio sull’entrata. » Sopraggiunse il Capitano, puntando con l’indice un negozio inquadrato nelle vicinanze.

Nathan seguì il consiglio, collegandosi ai filmati di sorveglianza e velocizzando fino all’orario che gli era necessario.

 « Merda. » Sussurrò all’improvviso, gli occhi puntati sullo schermo e le sopracciglia aggrottate.

« È lei. » Rispose immediatamente la voce dura e roca del maggiore dei Blake.
 
 









« Veloce! » Annaspò Clarke, scalciando con i piedi lungo il pavimento del tetto e muovendo le braccia per liberarsi. « Non so chi mi abbia lasciato qui, ma potrebbe tornare da un momento all’altro e- »

« Stai sanguinando,» la interruppe Thelonious, sfiorandole con l’indice il sangue che le imperlava il volto, « non dovresti muoverti così tanto. »

C’era qualcosa fuori posto che la giovane Griffin non riusciva bene a distinguere, qualcosa nei suoi movimenti, ma non riuscì a individuare cosa esattamente fosse, troppo occupata a cercare di fuggire.

« Sto bene. » Parlò velocemente, annuendo nonostante il dolore alla testa. « Lui ha Bellamy. Ce ne dobbiamo andare. »

« Non credo proprio che tu stia bene, piccola Clarkey. »
 





« Ho già visto quella macchina prima. » Mormorò Bellamy, indicando un SUV grigio metallizzato poco distante dal punto in cui Clarke era ferma sul marciapiede.

Se non fosse stato così, se un piccolo particolare non avesse colto la sua attenzione, non sarebbe mai stato in grado di riconoscere la vettura accostata in lontananza. Conosceva quella targa.

Ricordava bene le parole che aveva rivolto ad Octavia qualche mese prima, quando si erano appena trasferiti e la famiglia Jaha non sembrava altro che il riflesso perfetto di una famiglia ricca e facoltosa.

« Ho bisogno di conoscere ogni singolo aspetto della vita dei nostri vicini. Voglio essere al corrente di ciascuna delle loro più piccole abitudini, voglio vedere come e dove vivono. Devo sapere. »

Era un detective, dopotutto, e non gli era mai piaciuto essere tenuto all’oscuro. Non conoscere ciò che lo circondava. Essere vulnerabile.

E in qualità di agente, aveva potuto sapere le targhe d’automobile dei suoi vicini di casa. Il modello. L’anno di produzione. Qualsiasi cosa avesse potuto aiutarlo in caso di necessità.

Non che si sarebbe mai immaginato di poter avere davvero una necessità del genere, almeno non fino a quel momento. O che si sarebbe innamorato di Clarke Griffin.

E all’improvviso lo colpì. Fu un attimo, un interruttore che scattava, un ingranaggio che si incastrava perfettamente nel meccanismo arrugginito che aveva tentato di ignorare tanto ardentemente.

Si era innamorato di lei.

Era così. Non c’era nient’altro da aggiungere. La amo, pensò, mentre la guardava attraverso lo schermo di un computer.

Fu costretto a chiudere gli occhi per qualche secondo. Poi, come se potesse fisicamente aiutarlo a distogliersi da un pensiero così totalizzante, scosse il capo, tentando di concentrarsi.

« È la sua auto, » indicò, rendendo partecipi il suo mentore e l’amico, « conosco la targa. Probabilmente lei era troppo impaurita e nervosa per vederlo, ma lui vedeva lei. Sapeva cosa stava facendo. »

« Bene, » fece il Capitano, « concentriamoci su Jaha. Adesso è lui il nostro obiettivo. »

Nathan si limitò ad annuire, zoomando sull’automobile e abbandonando l’inquadratura sulla giovane Griffin.

Fu allora che videro. Tutti e tre, in silenzio, seguendo minuto per minuto quello che era accaduto solo poche ora prima, guardando realizzarsi davanti agli occhi ciò che avevano temuto fino a quel momento.

Il modo in cui l’aveva ingannata, ciò che le aveva fatto fare e il modo in cui l’aveva seguita – il modo in cui presumibilmente aveva seguito tutti loro durante quei mesi.

L’avevano osservato con gli occhi della città per attimi infiniti, come una divinità il cui sguardo scrutatore giudica tutto, e Bellamy non si era accorto di aver trattenuto il respiro finché i polmoni non l’avevano supplicato di riprendere la loro attività.

Poi il maggiore dei Blake ebbe un’idea. « Devo andare. » Sussurrò velocemente, senza fermarsi un attimo, scattando prima che Miller e il suo capo potessero fare qualsiasi altra cosa. Subito si ritrovò fuori dall’ufficio, gli occhi dei suoi colleghi puntati addosso, ma niente di tutto ciò poté fermarlo.

« Bellamy! » Lo riprese la donna alle sue spalle, seguendolo e affacciandosi sull’uscio della porta del proprio studio.

« Continuate a cercare! » Gridò lui senza voltarsi, arrivando in un attimo agli ascensori.
 
 









« Thelonious, devi ascoltarmi. Sto bene. Non devi preoccuparti di nulla. Dobbiamo solamente andarcene da questo tetto, perché siamo in pericolo. »

Clarke aveva iniziato a sudare senza nemmeno rendersene conto, i capelli appiccicati alla faccia dal sangue e dal sudore che si mischiavano l’uno nell’altro, rancidi e acri contro la sua pelle.

Era terrorizzata. Pensava di esserlo già stata prima, in più d’un’occasione, ma si trovò costretta a doversi ricredere. Non aveva mai avuto tanta paura di morire come in quel momento. E, oltre all’evidente istinto di sopravvivenza che le mandava chiari segnali, c’era ancora un’altra paura, un tipo di timore più profondo, viscerale: aveva paura di perdere Bellamy.

Ad essere onesti aveva paura di perdere ogni persona che amava – sua madre, Wells, Jasper e Monty, tutti i suoi amici – ma almeno aveva la consapevolezza di saperli al sicuro. Stavano tornando a casa dopo una lunga giornata, o al club, o semplicemente prendendo una pausa dal ritmo frenetico a cui si sottoponevano ogni giorno. Stavano vivendo la loro vita. E, sebbene l’idea di non rivederli più le stringesse il petto e le lasciasse un sapore amaro fra le labbra, poteva se non altro essere sicura del fatto che non corressero rischi.

Ma Bellamy… Qualcuno l’aveva preso – l’assassino di suo padre l’aveva preso, e non aveva la benché minima certezza che non fosse pronto a togliere la vita a qualcun altro, nonostante lei avesse fatto tutto quello che le era stato chiesto.

Non sapeva nemmeno se l’avrebbe rivisto. Se, chiunque fosse quel pazzo che si era tanto adoperato a distruggerle la vita, le avrebbe permesso di vederlo un’ultima volta. Di dirgli addio e ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lei, e anche per quello che non aveva fatto. Non l’aveva abbandonata, nemmeno quando più avrebbe potuto farlo, nemmeno quando sarebbe stata la cosa più facile da fare.

Lui aveva lottato per entrambi quando le era mancata la forza di farlo anche solo per se stessa. Lui era rimasto nonostante lei si fosse sforzata tanto per spingerlo via.

Nessuno l’aveva obbligato, ma lui l’aveva aiutata lo stesso. Anche prima di essere così vicini, ancora prima di sdraiarsi sulla spiaggia e guidare per ore e arrabbiarsi l’uno con l’altra davanti ad un locale pieno di gente, lui l’aveva aiutata.

Come avrebbe potuto non innamorarsi di lui?

Non c’era più tempo di mentire a se stessa. Se quelli erano veramente gli ultimi attimi della loro vita, dovunque Bellamy fosse, lei non voleva più negare. Non ne aveva più il coraggio. Fu per quel motivo che prese un respiro profondo e fu completamente onesta con il suo cuore, abbracciando quei sentimenti che solo lui era stato in grado di risvegliarle dentro.

Lo amava.

Clarke Griffin amava Bellamy Blake, ed era piuttosto sicura che anche lui l’amasse, e che stavano entrambi per morire prima di essere riusciti a dirselo.

La voce del marito di sua madre la scosse dal baratro di disperazione in cui era caduta in quegli attimi di silenzio. « Non posso lasciarti andare, mi dispiace. »

Il suo tono pareva pacato e la sua espressione platealmente dispiaciuta, e per la prima volta da quando lo conosceva Clarke provò uno strano moto di ritrosia nei suoi confronti, istintivo e naturale.

All’improvviso realizzò cos’era che l’aveva disturbata fin dall’inizio, qualcosa che non era riuscita a focalizzare prima, completamente presa a trovare una via d’uscita e crogiolarsi nei propri pensieri contorti e confusi: Thelonious era fin troppo calmo.

E Thelonious era lì. La giovane Griffin ripercorse mentalmente ciò che era accaduto dal momento in cui si era risvegliata su quel tetto. Aveva sentito il rumore di una porta aprirsi e poi era apparso lui, ma non si era nemmeno chiesta cosa ci facesse lì. Era ferita e spaventata, così non aveva fatto altro che pensare a un modo di andarsene.

« Aspetta un attimo… » Sussurrò fra sé e sé, aggrottando le sopracciglia e scrutando più attentamente la figura dell’uomo ripiegato su di lei. « Che ci fai qui? Come sapevi dove trovarmi? »

Notando che qualcosa nella ragazza aveva iniziato a mettere insieme i pezzi, l’uomo più grande le snocciolò un ghigno distorto e spostò il braccio dietro la schiena.

Clarke seguì i suoi movimenti ancor più confusa e disorientata, incapace di distinguerli nei dettagli a causa della scarsa illuminazione, finché Jaha non riportò il braccio davanti a sé.

Non appena vide cosa teneva nella mano destra, la bionda scattò. Con un lamento spaventato si gettò istintivamente indietro – il più lontano possibile da lui – per quanto le mani legate glielo permettessero, e nella rapidità del movimento sbatté il capo contro il muretto dietro di sé, non facendo altro che aumentare il mal di testa che già le attanagliava i sensi.

Il respiro le si mozzò in gola, gli occhi spalancati e increduli e terrificati, mentre lui le si avvicinava lentamente, ben consapevole che la ragazza non avesse via di fuga.

Le posò la volata della pistola contro l’attaccatura dei capelli, scendendo ad accarezzarle la guancia con il materiale freddo e ruvido, e sorrise di nuovo, il che provocò in Clarke un conato di vomito che le bruciò la gola e le congelò il sangue nelle vene.

« Mi vedi adesso, Clarke? »
 
 






« Monty, sono Bellamy. » Il maggiore dei Blake si schiacciò il telefono fra orecchio e spalla mentre si voltava a fare retromarcia, sfrecciando immediatamente dopo fra le luci e la frenesia delle strade di Los Angeles.

« Non chiedermi perché, ma c’è una possibilità che tu possa hackerare il GPS dell’automobile di Thelonious Jaha? »

« In realtà, l’ho già fatto. Io e Clarke una volta volevamo organizzargli uno scherzo, quindi- »

« Me la racconti la prossima volta. Dov’è? »

« È al Mount Weather. Immagino sia con Abby, no? »

« Merda. » Riattaccò senza aggiungere altro, concentrandosi sulla guida e cercando di raggiungere il più velocemente possibile la sua meta.

Era ovvio. Quale altro modo di nascondersi se non in bella vista?
 







Bellamy piantò la macchina nel primo posto libero vicino all’ospedale che trovò, senza nemmeno preoccuparsi di guardarsi attorno o cercare un parcheggio migliore.

Scese dal veicolo in un istante e gettò un’occhiata veloce al suo orologio da polso: era da poco passata la mezzanotte, il che voleva dire che gran parte del personale aveva già finito il proprio turno.

Fu solo quando si ritrovò davanti le porte automatiche della struttura che si domandò veramente quale fosse il suo piano. L’edificio era troppo grande perché lui potesse perquisirlo da solo, ma questo poteva essere allo stesso tempo un fattore positivo.

Jaha – e con lui Clarke – non poteva di certo nascondersi in una camera d’ospedale, il che eliminava dalla lista di possibili nascondigli ognuno dei piani e dei reparti interni.

Aveva bisogno di un luogo ampio che potesse fornirgli una buona visuale e allo stesso tempo farlo passare inosservato. Un posto silenzioso in cui nessuno l’avrebbe sentito, un posto lontano dal continuo traffico di persone che normalmente si trovavano in un sito pubblico come quello.

Per un attimo Bellamy considerò i parcheggi, la prima possibilità che gli passò per la mente.

Ma non poteva andare.

Nonostante godessero di una discreta e comoda posizione, Jaha non poteva avere la certezza di avere la possibilità di fare qualsiasi pazzia avesse intenzione di fare. E, se ancora pensava di poter farla franca, di certo non si sarebbe esposto alle telecamere di sicurezza del perimetro.

Il che lasciava un’unica alternativa.

Il detective Blake scattò immediatamente all’interno della struttura, ignorando le reception e il traffico di personale e civili all’interno, dirigendosi senza esitazione verso gli ascensori.

La fortuna sembrò stare dalla sua, perché nel momento in cui fu abbastanza vicino, le porte metalliche si aprirono davanti a sé e lui poté gettarsi all’interno, premendo il pulsante dell’ultimo piano ancora prima di essere entrato completamente.

Peccato che la mossa non giovò totalmente a suo favore, poiché, proprio mentre le portiere stavano per richiudersi, una folla di persone – infermieri, per la precisione – si gettò all’interno, tenendo aperto il passaggio e aspettando che un medico facesse entrare una barella vuota.

Bellamy li guardò in cagnesco per l’intera durata dell’operazione senza nemmeno riuscire a sentirsi in colpa. Certo, quelle persone stavano aiutando qualcuno, ma lui doveva salvare Clarke dal suo patrigno. Era solo una questione di priorità, in fondo.

Quando, finalmente, l’ascensore poté entrare in azione, lui non fece altro che fissare con impazienza e nervosismo le lucine dei piani che si illuminavano. Qualche volta era fortunato e nessuno saliva; altre volte, invece, era costretto ad aspettare ancora. La sua fronte era imperlata di sudore freddo prima che potesse sforzarsi anche minimamente di fare qualsiasi cosa.

Arrivò all’ultimo piano che erano passati esattamente sei minuti e trenta secondi e, se aveva aspettato lo scocco delle lancette dell’orologio ad ogni secondo, di sicuro non poteva biasimare se stesso.

Quell’ala della struttura era gradualmente la più silenziosa delle altre, e anche la meno frequentata, perciò il moro poté avviarsi verso le scale di servizio senza destare troppi sospetti. Mancavano ancora un paio di piani prima di raggiungere la sua destinazione, e Bellamy si agitava ad ogni attimo di più, forte di una rabbia e di una frustrazione che muovevano ogni sua azione.

Il nome di Clarke era un mantra perenne e incessante al centro della sua mente, padrone di qualsiasi altro pensiero, e lui continuava a ripeterselo ancora e ancora e ancora come se in quel modo potesse esserle un po’ più vicino. Come se così potesse salvarla.

Salì i gradini a due a due, correndo, e non si curò di nient’altro che arrivare in cima, dove le scale si facevano buie e abbandonate, permettendo al dubbio che loro fossero davvero lì di insinuarsi in lui.

Si trovò davanti ad una massiccia porta rinforzata ancora prima di accorgersi di non poter salire oltre, poi prese un respiro profondo. Con la manica della giacca si ripulì dal sudore che continuava a sciogliersi fra alcuni ricci che gli ricadevano davanti agli occhi, impugnò la grande maniglia d’emergenza e spinse con tutte le sue forze.

Era bloccata.

Non riusciva a sentire alcun rumore, ma provò lo stesso. « Clarke? »

Nessuna risposta.

« Clarke! » Provò più forte. Doveva essere lì. Se l’automobile di Thelonious si trovava in quell’edificio, le probabilità che ci fossero anche loro erano molto più alte di quelle che li vedevano spostarsi a piedi.

Lei doveva essere lì.

Ma nessuno rispose. Nessun rumore, nessun tipo di segnale che potesse indicargli la presenza di qualcun altro su quel tetto.
 
 




Jaha percorse la lunghezza del volto della giovane Griffin con la volata della pistola e la lasciò lì, pesante e fredda contro la sua pelle, intimandole di fare silenzio con l’indice sulle labbra.

« Se rispondi », alluse alla voce di Bellamy che la chiamava, « ti ammazzo. »

Clarke cercò di mandare giù la bile bollente che le era risalita al centro del petto e si era fermata alla gola, annuendo brevemente, incapace di elaborare quello che effettivamente stava succedendo.

Era davvero… lui? L’uomo che aveva cercato per gli ultimi tre anni della sua vita aveva vissuto sotto il suo stesso tetto per tutto il tempo? L’uomo che aveva sposato sua madre? Che l’aveva toccata? Il padre di una delle persone che amava di più al mondo?

Fra i pensieri caotici e in subbuglio che le vorticavano nella mente, uno più pericoloso dell’altro, il volto di Wells riaffiorò in superficie, un faro di luce nella nebbia di panico che le offuscava le idee.

Tutti i ricordi della loro infanzia, lui sulle spalle di Jake, i campeggi, i primi giri in bicicletta, il primo giorno di scuola. Il funerale di suo padre. Il giorno del matrimonio dei loro genitori. La prima sigaretta che aveva fumato davanti a lui solo per fargli un dispetto. Ogni volta che lui era passato davanti la sua stanza e lei gli aveva sbattuto la porta in faccia. Quando l’aveva perdonato. Quando lui aveva perdonato lei.

Le sue braccia ad accoglierla, pronte e calde e familiari. I regali di compleanno. Cinque candeline sulla prima torta che avevano spento insieme.

Qualsiasi ricordo lei e suo fratello avessero condiviso nella loro vita ora non era nient’altro che una menzogna. Uno scherzo di pessimo gusto. Un’orribile sorpresa al debutto di suo padre.

Thelonious, il traditore della famiglia, di suo figlio e della donna che amava. Che malsanamente pensava di amare, ma a cui non aveva fatto altro che rovinare la vita.

Si era preso gioco di tutti loro, aveva celato per così tanto le sue vere intenzioni che probabilmente la sua delirante follia l’aveva fatto uscire di testa.

L’aveva totalmente scollegato dalla realtà.

E Clarke non aveva nemmeno la forza di piangere. Quasi non riusciva a sbattere ciglio, perché tutto quello non poteva essere vero. Ci doveva essere un’altra spiegazione, ma la sua mente era troppo stanca e mortificata per riuscire a trovare una soluzione.

Cos’aveva fatto di tanto sbagliato per meritare qualcosa del genere?

Ora non aveva dubbi: sarebbe morta. La sua vita stava per finire su quel tetto, a pochi metri da Bellamy, per mano del suo patrigno.

Ti amo, fu l’unico pensiero coerente che riuscì a permettersi, prima di urlare senza distogliere lo sguardo da quello dell’assassino davanti a lei: « Bellamy, scappa! »

Il maggiore dei Blake, dall’altro lato della porta, gridò ancora più forte: « Clarke! »

« Pessima mossa, Clarke. » Si intromise a quel punto Thelonious, lo sguardo furioso e stralunato, mai più diverso da quello che aveva sempre pensato che lui fosse. « Ora dovrò uccidervi entrambi. »

Seguito, poi, da forti rumori metallici contro la porta pesante che Jaha aveva opportunamente bloccato in precedenza.

« Sono qui! Andrà tutto bene! » Le assicurò in lontananza, continuando a scontrare i pugni contro l’ostacolo che gli impediva di raggiungerla.

Notando, però, di non star ottenendo alcun risultato, il moro slacciò la pistola dal proprio fianco in una frazione di secondo, compiendo un passo indietro e puntando l’arma contro l’apertura della porta.

Il colpo fu talmente pesante da scardinare la maniglia e socchiudere l’uscio; senza attendere oltre, Bellamy calciò con tutte le sue energie la porta e la spalancò, gettandosi senza remore fuori, sul tetto, sempre più vicino a Clarke.

Li vide immediatamente. Entrambi lo stavano fissando.

Lei era sdraiata per terra, le mani legate dietro le spalle e un rivolo di sangue rappreso a calarle dalla tempia al lato della mascella. Sembrava spaventata, disorientata e totalmente destabilizzata da quello che probabilmente aveva scoperto solo ora.

Jaha, invece, torreggiava sopra di lei, piegato sulle ginocchia, e il suo sguardo stravolto e torvo non faceva presagire nulla di buono. Non che si aspettasse qualcosa di diverso, ovvio.

« Clarke… » Sussurrò Bellamy, tornando a posare gli occhi su di lei.

« Bellamy! Ti avevo detto di scappare. »

« Pensavi davvero che ti avrei ascoltato? »

« Zitti! » Li interruppe Jaha, raddrizzandosi e facendo un passo indietro, la pistola stretta fra le dita e il braccio puntato verso il detective Blake. « State zitti. »

« Ascoltami bene. Ora slegherò Clarke, e tu me lo lascerai fare. Non vuoi ferirla, vero? Cosa penserebbe Abby altrimenti? »

Thelonious sembrò rabbrividire, e per un attimo l’arma da fuoco tremò fra le sue mani.

« Non dire il suo nome. » Sussurrò in tono minaccioso, ma non fece niente per impedire a Bellamy di avvicinarsi a Clarke e piegarsi su di lei.

Lei, che era stata in silenzio per tutto quel tempo, riuscì a ragionare più lucidamente solo quando il maggiore dei Blake si inginocchiò davanti a lei ed occupò ogni angolo del suo campo visivo.

« Andrà tutto bene, Principessa. » Le assicurò, aggirandola subito dopo e sciogliendo i gancetti di plastica contro cui aveva sfregato la pelle dei suoi polsi fino a quel momento.

La giovane Griffin non riuscì nemmeno ad annuire, i suoi grandi occhi spalancati e alcune ciocche di capelli che le sbattevano sulla faccia a causa del vento, e si lasciò prendere per i gomiti e sollevare in piedi.

Si accasciò lievemente contro il corpo di Bellamy, nonostante tutto fermo e stabile al suo fianco, e fissò lo sguardo vacuo e indifeso in quello di Thelonious, che aveva seguito i loro movimenti con la punta della pistola.

« Ho cercato di tenerti fuori da tutto questo, Clarke. » Le sussurrò il più grande, e per un attimo sembrò quello di sempre. Il suo patrigno. Una delle figure più rilevanti della sua vita dopo la morte di suo padre. Morte che lui stesso aveva provocato, incurante di tutte le altre conseguenze: la depressione di Abby. La sua più totale devozione al lavoro, l’unica costante nella sua vita, che l’aveva allontanata da sua figlia, l’unica famiglia che le fosse rimasta.

La depressione di Clarke, quindicenne e sola e arrabbiata e incapace di adattarsi all’idea di non avere più un padre, di non poterlo vedere mai più. Incapace di accettare che qualcun altro avrebbe potuto amarla di nuovo.

Non come Jake, certo. Ma comunque amarla – e fu soprattutto in quel momento che la presenza di Bellamy al suo fianco si fece quasi prepotente.

Quell’uomo aveva causato tutto quello che le era successo negli ultimi quattro anni, e lei non riusciva a trovare una punizione che bastasse a restituirle tutto quello che lui le aveva tolto.

Nemmeno si accorse delle lacrime che si erano raccolte sul fondo dei suoi occhi e riversate sulle sue guance finché il suo volto, sporco di sangue e sudore, non iniziò a pizzicare.

« Lasciala andare. » Intervenne poi Bellamy, che faceva vagare lo sguardo tra lei e Jaha con espressione sospettosa e concentrata.  

 « Avremmo dimenticato tutto. Ormai apparteneva al passato, saremmo potuti essere una famiglia. Mi sarei preso cura di te ed Abby. Ma tu, Clarke, hai distrutto tutto! »

« Niente sarà come prima. » Continuò subito dopo, sbarrando gli occhi e agitando l'arma davanti a Clarke e Bellamy, puntandola prima sull'una e poi sull'altro.

 « Ehi! » Lo richiamò il maggiore dei Blake, tentando di attirare la sua attenzione, « non vuoi che le cose finiscano così. Dammi la pistola. »

Fece un passo avanti con cautela, come se il pavimento sotto di loro potesse crollare da un momento all'altro. Sapeva che un criminale come quello, un malato psicopatico privo di qualsiasi tipo di rimorso o capacità di provare emozioni reali, doveva essere trattato nel modo giusto, oppure non avrebbe esitato ad ucciderli entrambi.

 « Avvicinati ancora e le pianto un proiettile in testa! »

 Thelonious Jaha urlò ancora una volta in una pericolosa alternanza di calma apparente e scatti d’ira, stendendo il braccio armato e mirando proprio verso Clarke, rimasta incredula e in silenzio per tutto quel tempo.

Bellamy si immobilizzò sul posto e le lanciò un'occhiata fugace.

 « Andrà tutto bene », la rassicurò di nuovo, in un sussurro, voltandosi appena verso di lei, « non ti accadrà niente. »

 « Smetti di parlare! » L'uomo più grande sembrò crollare su se stesso, si prese il volto fra le mani e si premette il calco della pistola contro la tempia.

 « Non riesco a pensare... » Bisbigliò poi fra sé e sé, chiudendo le palpebre e facendo un respiro profondo.

 Il moro sfruttò l'attimo di distrazione e avanzò cautamente, senza distogliere per un attimo lo sguardo dall’individuo davanti a sé.

 « Non avvicinarti! » Gridò di nuovo e tornò a puntare l’arma da fuoco, questa volta verso di lui. Il maggiore dei Blake non voleva nient’altro che questo: che distogliesse l’attenzione da Clarke.

 « Giuro che ti sparo. Se provi a fare solo un altro passo avanti, sarà l'ultima cosa che farai. Pensi che abbia paura di usarla? », indicò con un cenno della testa l'arma, « pensi che abbia paura di ucciderti? »

 « No, non lo penso. » Bellamy lo assecondò, mentre calcolava mentalmente la distanza fra loro due e quanto gli sarebbe occorso per raggiungerlo, privarlo dell’arma e metterlo fuori gioco.

 Doveva trovare un modo di avvicinarsi e disarmarlo, e doveva farlo subito.

 Perso nei propri pensieri, sentì vagamente il corpo di lei muoversi dietro di sé e compiere due passi avanti.

 « Ascoltami... » Parlò per la prima volta, ma subito fu interrotta dall'ennesimo grido desolato.

« Vuoi morire, Clarke? Vuoi raggiungere tuo padre sottoterra? Eh? »

Jaha si avvicinò pericolosamente e Bellamy, senza nemmeno riflettere, si pose fra i due e coprì completamente il corpo della bionda con il suo.


« Non azzardarti nemmeno a guardarla. »

« O forse ucciderò te, detective. »

Ancora una volta la sua attenzione vagò fra lui e Clarke, concentrandosi su Blake, e quello fu il momento.

Subito il più giovane gli fu addosso: colpendolo con un destro in pieno volto, sfruttò l'occasione per tentare di disarmarlo, ma l'altro fu più veloce e scattò lontano da lui.

La giovane Griffin sussultò, portandosi entrambe le mani sulla bocca e spalancando gli occhi. Una parte della sua mente le gridava di fare qualcosa, qualsiasi cosa per proteggere Bellamy, per togliergli quel verme di dosso, ed era così forte da farle ignorare qualsiasi altro rumore.

Ma non era abbastanza, perché l’attacco di panico che stava vivendo non le permetteva di fare niente di tutto questo. Riuscì solo a restare ferma, immobile, mentre i capelli le volavano intorno al volto, davanti agli occhi, e la città sotto di sé continuava a circolare, a muoversi, a vorticare così velocemente da farle perdere l’equilibrio.

Dopo tutto quello che aveva fatto per tenere al sicuro il maggiore dei Blake – si era consegnata a Jaha in un attimo, senza prove, solo perché lui l’aveva ingannata facendole pensare che la sua vita fosse in pericolo, gli aveva urlato di scappare nonostante avesse una pistola puntata contro la faccia – ora non riusciva a muoversi.

Era immobilizzata. Inerte. Paralizzata.

Muoviti, Clarke! Le urlò la sua mente in tilt. Fai qualcosa! Proteggilo!

Finalmente il suo corpo sembrò raggiungere il cervello, mettersi in pari con gli impulsi che le mandava, e riuscì a fare un passo avanti.

Proprio in quel momento, la prima cosa che sentì fu la pressione attorno a sé aumentare e schiacciarla al proprio posto. Poi, immediatamente dopo, il rumore. Un sibilo affilato, dovuto al risucchio d’aria dietro al proiettile. Un fischio ronzante e quasi musicale. Letteralmente un secondo dopo, l’ultimo suono: l’onda balistica, il prodotto del proiettile che viaggiava a velocità supersonica.

Clarke vibrò sul posto, sobbalzò ed espirò forte dalle narici, lo sguardo vacuo e distorto fisso davanti a sé. Le sopracciglia lievemente aggrottate. La bocca socchiusa in una smorfia di sorpresa.

Fece due passi indietro, arrancando e claudicando, e solo qualche breve istante dopo – sebbene le fossero sembrati interi minuti – spostò gli occhi verso il basso, in direzione della coscia sinistra.

« Oh… » Biascicò, quasi senza accorgersene.

Era strano, perfino buffo, ma solo nel momento in cui vide il sangue bagnarle i pantaloni e scorrerle copioso lungo la gamba sentì il dolore. E con il dolore, tutti gli altri effetti.

Perse immediatamente l’equilibrio, capitolando a terra e cadendo su un fianco, rotolando poi sulla schiena.

Per una frazione di secondo rimase a guardare il cielo stellato sopra di sé, ben visibile grazie all’altezza del tetto e alla lontananza delle luci di Los Angeles, e boccheggiò, sollevando di qualche millimetro la schiena dal pavimento sporco.

Non seppe per quale motivo – i suoi pensieri razionali diminuivano ad ogni secondo, mentre i rumori della lotta fra il maggiore dei Blake e Jaha parevano sempre più lontani – ma ripensò al mare. Al cielo stellato sopra di lei e Bellamy. Le loro schiene piantate contro la sabbia morbida, l’odore della salsedine, quello di cannella, il rumore delle maree a pochi metri da loro.

Il modo in cui si era voltata verso di lui e l’aveva guardato negli occhi. Non gliel’aveva detto, ma era stata così gelosa di lui e Raven.

« Non voglio morire. » Ammise a se stessa all’improvviso e, con uno scatto di energia, si sollevò fino a premere entrambe le mani contro la ferita.

Poteva sentire il proiettile sotto la pelle, ma seppe con certezza di non poterlo rimuovere da sola. Non lì, senza nessun aiuto.

Parole come lesione del sistema nervoso parasimpatico e shock ipovolemico fecero capolino fra il milione di pensieri e idee che si accavallavano gli uni sulle altre in quel momento, e Clarke cercò di ignorarle a tutti i costi.

Essere un medico, dopotutto, significava anche capire i motivi per cui stava per morire. Spiegarseli e doverli accettare, però, erano due cose molto diverse.

Ben consapevole che la pressione che stesse applicando non fosse sufficiente per ridurre l’emorragia, la giovane Griffin si portò le mani sporche di sangue sulle guance, segnando anch’esse del liquido vermiglio e caldo, sporcando alcune ciocche di capelli.

« Clarke! » All’improvviso, un grido. Una voce. Quella voce.

Bellamy era al suo fianco prima che lei riuscisse anche solo a voltare il capo, e il suo viso fece capolino all’angolo del cielo che lei stava fissando. Era ferito, il suo volto pieno di tagli e lividi, ma stava bene.

Lei gli sorrise, nonostante lui sembrasse così spaventato e preoccupato, e per un attimo tutto era a posto.

« Clarke... » Sussurrò di nuovo, e lei sentì più acutamente che mai la sua mano tastare la propria coscia, bagnarsi del proprio sangue, cercare il foro di entrata.

Non puoi fare niente, pensò, ma si sentiva troppo stanca per dirlo ad alta voce.

« Bell... » Tossì e sbarrò gli occhi, tentando di tirarsi su con l’aiuto dei gomiti ma ricadendo di schiena con un tonfo secco. Voleva solo stargli un po’ più vicino.

« Ehi, Principessa! » La sua voce tremava, così come le sue mani su di lei, e la bionda poté vedere le lacrime e la disperazione bagnargli gli occhi.

Clarke afferrò la sua mano e la strinse così forte da poterla rompere. Non voleva allarmarlo e agitarlo più di quanto già non fosse, ma aveva bisogno che lui le stesse vicino. Aveva bisogno di essere totalmente sincera con lui. In fondo, sapeva che alla fine sarebbe stato bene. Avrebbe vissuto.

Il suo corpo, intanto, aveva iniziato ad addormentarsi lentamente. Il dolore che fino a pochi istanti prima le attanagliato i sensi stava svanendo attimo dopo attimo, e i pensieri nella sua mente si stavano dipanando a poco a poco, abbandonandola uno alla volta, disciogliendosi in una nebbia che non faceva male.

Si sentiva sempre più intorpidita e la sua vista iniziava a dare segni di cedimento. Il volto di Bellamy, sul quale si era concentrata tanto, stava pigramente sbiadendo dal suo campo visivo.

Lo sentì vagamente sussurrare: « Andrà tutto bene, andrà tutto bene. Te lo prometto, starai bene. Ho bisogno... » Prima che i propri occhi lasciassero i suoi e vagassero nuovamente verso le stelle, piccoli puntini luminosi sopra le loro teste.

L’ultima cosa che percepì prima di perdere i sensi era il calore della mano di Bellamy nella sua.

« Ehi, ehi, devi rimanere sveglia! Non chiudere gli occhi, ti prego! » Urlò lui così forte da sentire l'eco disperata della sua voce nel silenzio che la seguì, mentre stringeva ancora di più le sue dita immobili fra le proprie.

 Doveva salvarla, doveva ripulirla da tutto quel sangue e impedire che ne uscisse ancora, perché era prezioso, perché non poteva immaginare un mondo in cui la sua coraggiosa principessa non si svegliava più, ma cosa avrebbe potuto fare? Era lei il futuro medico, lui in quel momento si sentiva una nullità.

 Poi, come un'illuminazione, gli tornarono alla mente le lezioni di pronto soccorso all'Accademia.

« Ok, ok, ci sono. » Sussurrò fra sé e sé, prendendo la cintura che aveva cominciato a togliersi e stringendola propria sopra il punto in cui il proiettile si era ferocemente insinuato nella pelle della coscia di Clarke.

 Bellamy si tolse la giacca mentre tremori indicibili sconvolgevano ogni centimetro del suo corpo, frutto della rissa e della paura e dell’adrenalina che scorreva libera sotto la sua pelle, la ripiegò su se stessa e la premette contro la ferita, da cui usciva copioso il liquido caldo e scuro simile alla pece sotto la luce oscura della luna.

« Ce la farai, Principessa! Non ti permetto di lasciarmi! »

Assicurandosi che la ferita fosse compressa nel modo giusto, prese la sua ricetrasmittente e comunicò con la stazione di polizia.

« Qui l’agente Blake, ho bisogno di rinforzi e soccorso medico sul tetto del Mount Weather Hospital. Ho in custodia un sospettato di omicidio e un civile ferito, richiedo immediatamente supporto, potrebbe trattarsi di un codice rosso. »

Gettò l’apparecchio lontano da sé e tornò a concentrarsi su Clarke, ancora incosciente. Il suo sangue era ovunque: sui loro pantaloni, sul pavimento, impregnato fra alcune ciocche bionde, cosparso sulle sue guance, attorno al collo. Bellamy non riusciva a vedere altro.

« Andrà tutto bene, te lo prometto. Resisti, ti prego! » La supplicò per quelle che sembrarono ore interminabili, accarezzandole i capelli e il viso in punta di dita, come se la minima pressione potesse farla stare peggio.

Era esausto e ferito, le sue tempie pulsavano al ritmo feroce del suo cuore e i suoi occhi pesanti lo supplicavano di riposarsi, di chiudere le palpebre e lasciarsi andare, ma lui si forzò di restare sveglio, cosciente, di continuare a premere il tessuto della giacca contro la ferita.

L’ultima cosa che sentì prima di perdere conoscenza e abbandonarsi finalmente alla stanchezza erano i paramedici che stimavano il sangue che aveva perso e contavano pressione e battito cardiaco.
 
 



Il maggiore dei Blake si risvegliò circondato da bianco e dondolato poco delicatamente da una barella.

Ancora incapace di parlare, indirizzò lo sguardo in tante direzioni diverse: lungo le pareti dell’ospedale, ai medici che lo trasportavano e guardavano dritto davanti a loro, verso il suo corpo disteso e le sue mani sporche di sangue. Sangue suo e di Clarke.

Un attimo; Clarke. Lo sparo. La ferita. Il panico.

Non appena cercò di alzarsi, di togliersi di dosso la coperta in cui l’avevano avvolto e scendere dalla barella in corsa, una mano si strinse attorno alla sua e una voce sconosciuta lo richiamò.

Quando si voltò in direzione della voce, si ritrovò davanti una faccia che non aveva mai visto prima.

 « Bellamy, » lo richiamò nuovamente la donna, « il mio nome è Gina. Sono un’infermiera. Ti abbiamo trovato qualche minuto fa. Andrà tutto bene. »

La sua voce era delicata, accondiscendente e sicura. Per un attimo, si sentì profondamente a proprio agio.

Poi ricordò, e si spostò la mascherina di ossigeno dal volto. « Sto bene. Devo andare da Clarke. Dov’è Clarke? »

« L’hanno già portata in sala operatoria, Bellamy. Non c’è niente che puoi fare, se non riposarti. Vai a dormire, ti sveglierò io non appena avremo notizie. »

Il moro non seppe perché – forse era dovuto all’enorme stanchezza causata dalle percosse di Jaha, forse alla determinazione che Gina gli stava dimostrando – ma, con un sospiro rassegnato e angosciato, si lasciò ricadere contro la barella, fra i cuscini, e si riaddormentò senza dover opporre la minima resistenza.


 


Eccoci qui! Per ovvi motivi ho rimandato il commento alla fine del capitolo. Finalmente abbiamo scoperto la verità. Molti di voi ci erano già arrivati, e siete stati grandi: Jaha è il grande cattivo. So che probabilmente non sono stata poi così misteriosa, e questo è dovuto al fatto che faccio cagare in questo genere di cose, però il punto era un altro.
Non tenevo tanto all'identità segreta dell'assassino di Jake, quanto al percorso che avrebbe portato a questa rivelazione. Alle sue conseguenze.
Il mio obiettivo è stato: voglio vedere cosa succede a questo personaggio se viene sottoposto a questa cosa. Voglio approfondire il percorso di crescita, la sua interiorità, il suo sviluppo durante e attraverso la storia.
La maturazione e l'evoluzione del personaggio di Clarke e della sua sfera emotiva, in poche parole. Quello era il vero scopo. 
Se ci sono riuscita o meno, è compito vostro dirlo. Io vi ringrazio per il supporto e la presenza fondamentali in questo percorso, e spero come sempre di non avervi deluso.
Fatemi sapere!

 


 



PS: ho ripetuto alcuni elementi del prologo e li ho modificati per l'occorrenza, questa volta partendo dal punto di vista di Clarke, in modo da avere una visione completa dell'accaduto.

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Capitolo 23
*** XXIV ***


Ringrazio ognuno di voi per leggere, inserire fra le preferite/ricordate/seguite e per esserci. Vi ringrazio di cuore.
Il prossimo e ultimo capitolo verrà aggiornato al termine di questa settimana.



Ps: Ho cercato di essere il più accurata possibile dal punto di vista medico, ma le mie conoscenze sono frutto di ricerche su internet, per cui chiedo in anticipo venia per eventuali inaccuratezze. Per fortuna che studio Letteratura!!

 

Is It Any Wonder?


 
Thelonious Jaha fu trascinato in manette dal Mount Weather Hospital che ancora urlava di aver fatto la cosa giusta, di aver posto rimedio al contorto e assurdo piano di Jake ed Abby Griffin di trascorrere la vita insieme e di essere stato l’unico in grado di vedere com’era che le cose dovessero andare. Lui era la Luce che avrebbe portato la famiglia Griffin fuori dall’oscurità e l’avrebbero pagata cara per averlo fermato.

Nel bel mezzo della notte, il suo volto delirante era illuminato dai bagliori blu e rossi delle automobili del Dipartimento di Polizia e la sua voce coperta dalle sirene ancora accese mentre un agente gli piegava la testa per farlo entrare in macchina.

Al piano di sopra, Abigail cadde a terra, in ginocchio. Non sentì niente; non disse una parola né pianse una lacrima, ma il suo sguardo vacuo e perso da qualche parte sul muro bianco dell’ospedale che conosceva così bene bastò a impedire che il poliziotto che l’aveva informata dell’accaduto ponesse anche una sola domanda.

Cosa dire, d’altronde, a una madre che aveva appena saputo che suo marito aveva sparato alla figlia? Che aveva ucciso il primo uomo che avesse mai amato? Ma, soprattutto, che era tutta colpa sua?

« Voglio essere io. » Mugugnò dopo qualche minuto, ancora accasciata sul pavimento, gli occhi vuoti e vitrei fissati da qualche parte imprecisata della parete davanti a sé.

A quel punto un’infermiera si inginocchiò al suo fianco, posandole gentilmente una mano dietro la schiena e sfregando per fornirle qualsiasi tipo di conforto.

« Come, dottoressa? »

La più anziana tirò su con il naso e si passò il dorso della mano contro il volto. « Devo operare io mia figlia. »

Senza attendere risposta, si alzò in piedi di scatto e iniziò a camminare velocemente via dagli inservienti, infermieri e poliziotti che avevano appena visto il primario di Chirurgia crollare in mille pezzi davanti ai loro occhi.

« Dottoressa, torni qui! Non può farlo! » Urlarono alcuni di loro alle sue spalle, ma lei non se ne curò.

Il volto freddo e spietato in un’espressione di apatico torpore, Abby continuò a camminare senza sosta verso le sale operatorie, facendosi strada a forza di spallate e spintoni fra il personale inconsapevole di quello che fosse successo.

Non si fermò né quando i suoi dipendenti le gridarono dietro né quando uno di loro, coraggioso abbastanza da avvicinarsi, le afferrò il braccio tentando di fermarla.

« Toglimi le mani di dosso. » Intimò senza nemmeno guardarlo in faccia, strattonando finché non fu libera di continuare la sua avventata e disperata corsa verso sua figlia.

Più si disperdeva fra la folla, sfrecciando ai lati dei corridoi lattei, più si allontanava da chiunque sapesse della vergogna che stava provando in quel momento. Come aveva potuto permettere una simile atrocità? Come aveva fatto a essere così cieca?

Mai come allora, quando i suoi errori gravavano irrimediabilmente sulla vita di sua figlia, Abigail odiò se stessa. Si disprezzò nel profondo, e desiderò aprirsi il petto a mani nude per scavare fra la nebbia che stava provando e toccare l’ istinto irrazionale, selvaggio e animale che le gridava di raggiungerla, di salvarla, che le proiettava dinanzi agli occhi il volto più bello e dolce che avesse mai visto.

Le sue mani tremavano, ma non l’avrebbero fatto davanti al suo corpo nudo e spoglio, sporco e bagnato dal sangue che ancora non aveva visto, ma che ben conosceva. Era lo stesso che scorreva nelle sue vene. Lo stesso che tante volte le era sguazzato fra le dita attraverso guanti di lattice, ma che era sempre stato estraneo, sconosciuto.

Si fermò di scatto davanti al tabellone degli interventi, quasi superandolo, e riconobbe in meno di un attimo la sala in cui dirigersi.

Il suo petto era scosso da singhiozzi muti e i bordi del suo camice, l’attaccatura dei capelli completamente impregnati di sudore non appena arrivò alla sua destinazione, ma il primario si fece coraggio, trovò il modo di prendere un respiro profondo e si gettò con tutto il corpo contro l’entrata della porta.

Non vide niente e nessun altro se non il corpo di sua figlia coperto da un telo blu appena sotto le clavicole, al centro della sala operatoria, attraverso il vetro della sala lavaggio e vestizione del personale.

Il suo volto era ancora sporco di sangue laddove non lo copriva la mascherina per l’anestesia, i suoi capelli dorati erano raccolti indietro, arrossati e più scuri nel punto in cui si erano imbrattati del liquido denso, e le sue palpebre erano chiuse quasi delicatamente, con dolcezza, come se si fosse appena addormentata.

Come se non stesse lottando per riaprirli e tornare.

Lentamente, dopo qualche attimo, la donna riuscì a focalizzare altri dettagli: i medici attorno a lei, pronti e sicuri nei movimenti, intenti a toccarla, a curarla, a ripulirla dalla ferita con velocità e concentrazione.

« Preparate cinque milioni di unità di penicillina e le immunoglobuline antitetaniche. Verifico la profondità della cavità! » Li sentì urlare.

Medici che erano arrivati prima, che si stavano già occupando di Clarke meglio di quanto lei avrebbe mai potuto fare nelle condizioni in cui si ritrovava: incapace di parlare, di urlare, perfino di piangere. Persa, preda della desolazione, dello strazio che solo l’idea di sapere di essere stata capace di amare il mostro che le aveva rovinato la vita avrebbe potuto provocare. Come solo la consapevolezza di non aver proprio capito un bel niente poteva farla sentire.

Immobile in quella stanza, gli occhi sbarrati puntati sul corpo inerte di sua figlia e il cuore che le batteva al centro della gola, Abigail Griffin realizzò che tutta la sua vita era stata appena smascherata quale un’enorme, gigantesca e sterminata bugia.


 
 

 
*





Octavia arrivò al piano di Traumatologia con il respiro mozzato e il petto che faceva spasmodicamente su e giù, senza riuscire a formulare un pensiero coerente, ma solo preda dell’istinto irrefrenabile e brutale che la spingeva a cercare il viso di suo fratello.

L’ospedale l’aveva chiamata da appena dieci minuti, informandola del fatto che l’agente Blake fosse stato ferito durante una colluttazione e che dovesse essere trattenuto sotto osservazione, e lei era saltata in macchina ancor prima di attaccare.

Tentando di tenere sotto controllo il respiro, si avvicinò alla scrivania d’informazione e chiese a mezza voce quale fosse la sua stanza, e ruotò su se stessa con ogni energia per arrivare da lui.

Lo vide attraverso la vetrata; era sdraiato su uno di quei letti in cui tante volte prima era stata sdraiata la loro madre, e fu abbastanza per boccheggiare, per tremare un po’ più a fondo, perché si accorgeva solo ora di non essere ancora pronta a vedere di nuovo qualcuno che amava in una stanza simile. Forse, le suggerì la parte della sua mente che era rimasta cosciente per tutto il tempo, non lo sarebbe stata mai.

All’interno, un’infermiera le dava le spalle ed era seduta al bordo del materasso, intenta a ripulirlo dal sangue sul suo volto e poi, dopo qualche istante, a suturarlo nei punti in cui i tagli erano troppo profondi per rimarginarsi da soli. La minore dei Blake osservò il processo per tutto il tempo senza staccare gli occhi dal suo viso, stringendosi le braccia al petto e affondando una mano fra i capelli sciolti attorno le spalle.

Era incredibile, ma quella era la prima volta che lo vedeva dormire con tranquillità dopo intere settimane.

Quando, concluse le procedure necessarie, l’infermiera uscì dalla stanza, Octavia le si avvicinò.

« Posso entrare? » Domandò, senza preamboli o presentazioni, serrando la mascella e gettando un’occhiata verso suo fratello.

« Tu devi essere sua sorella. » Annuì la donna, evidentemente poco più grande di Bellamy. « Non faceva altro che chiedere di te… E di Clarke. »

« Clarke? » La mora aggrottò le sopracciglia, confusa. Al telefono nessuno le aveva spiegato cosa fosse esattamente successo, e non aveva avuto la minima idea che potesse coinvolgere anche lei.

« A quanto pare il suo patrigno la stava tenendo nascosta qui, in ospedale. È stato Bellamy a trovarli. »

« Aspett- Cosa? Il suo patrigno? Cioè, Thelonious? Il marito della signora Griffin? Oh mio Dio, lei dov’è? »

A quel punto l’infermiera abbassò lo sguardo, e il suo volto mutò in un’espressione afflitta e turbata. 

Per un istante, Octavia temette il peggio.

« Le ha sparato. Non so cosa sia successo dopo, io mi sono occupata di tuo fratello, ma non ho sentito niente di buono. Lei… lei è mia amica. »

« Ehi… » Si fece un po’ più vicina, posando la mano destra sulla spalla dell’infermiera e attendendo che lei le dicesse il suo nome.

« Gina. »

« Ehi, Gina, non preoccuparti. Clarke ha la pellaccia tosta. Andrà tutto bene, ne sono sicura. » Tentò invano di sorridere per convalidare la propria tesi, ma probabilmente le riuscì solo una smorfia poco graziosa.

« Dovresti stare con Bellamy. Sta bene, non ha niente di grave se non qualche contusione e brutti lividi, è solo veramente esausto. Avrà bisogno di te quando si sveglierà. »

La più giovane si limitò ad annuire con fierezza e determinazione, dirigendosi immediatamente all’interno della stanza e salutando l’altra con un cenno della mano.

Si bloccò per qualche istante a guardarlo da lontano, assopito e pieno di lividi sugli zigomi, sul sopracciglio destro e sotto le labbra, ma vivo e salvo in un letto caldo. Il suo fratellone.

Il suo fratellone e il dolore che si portava sempre dietro e gli estremi tentativi con cui cercava di farsi perdonare dagli altri anche per ciò che non era colpa sua.

Questa volta, Octavia lo sapeva bene, sarebbe stato ancor più difficile convincerlo a non ritenersi responsabile di quello che era successo o stava per succedere. Ma lei non gli avrebbe permesso di buttarsi giù, di odiarsi più di quanto già non facesse per qualcosa che prescindeva in ogni caso dal suo controllo, che lui non avrebbe potuto fermare senza farsi prima ammazzare.

Lei lo avrebbe amato abbastanza per tutti e due, per tutte le volte che lui non era né sarebbe stato in grado di accettarsi, e sarebbero restati insieme, qualunque cosa fosse successa.

Non permetterò che ti accada nulla di male, fratellone. Questa volta sarò io a proteggerti.

Pertanto, attenta a non colpirlo o a schiacciarlo, la minore dei Blake si sdraiò con delicatezza e cautela al suo fianco, poggiando piano il capo contro il cuscino e la guancia contro la sua spalla.

Si strinse al suo corpo addormentato e si appoggiò contro di lui, afferrandogli la mano e intrecciando le loro dita, e rimase a fissare la parete della stanza finché il sonno non la costrinse ad abbandonarsi alla stanchezza, senza che se ne rendesse nemmeno conto.
 
 
 

Poche ore dopo, l’alba aveva portato la luce di un nuovo giorno e alcuni tiepidi raggi di sole avevano iniziato a illuminare le grandi vetrate del Mount Weather Hospital.

La struttura era silenziosa, sembrava come in attesa, il tempo sospeso in un clima di titubante esitazione.

Octavia si svegliò con uno sbadiglio, sentendosi per un attimo disorientata e intontita; poi, lentamente, mise a fuoco il luogo in cui si trovava e l’opprimente candore che la circondava.

Con un movimento del collo, attenta a non spostarsi troppo bruscamente, si voltò verso suo fratello, la cui spalla era ancora incastrata sotto la sua guancia.

Era sveglio. Il suo sguardo era assorto e vitreo, rivolto da qualche parte fuori dalla finestra, e i lividi sulla sua faccia erano più scuri della notte precedente e bluastri attorno agli zigomi.

« Ehi. » Sussurrò a mezza voce, e Bellamy rimase distratto solo per qualche altro istante, abbassando lentamente gli occhi stanchi e indolenti verso di lei.

« Stai bene? »

« Voglio sapere dov’è Clarke. » Furono le sue prime parole, tuttavia prive della consueta fermezza e ostinazione. La sua espressione era mansueta in superficie, perfino docile, ma sua sorella sapeva che non celava altro che un bruciante e corrosivo senso di colpa.

Non c’era niente che Bellamy potesse nasconderle ed entrambi lo sapevano bene.

« Posso andare a cercarla, se vuoi. » Gli propose, perché se c’era qualcosa che Octavia desiderava, era renderlo felice. In quel caso, perlomeno, renderlo un po’ meno triste.

Senza attendere risposta si alzò, accarezzandogli la mano un’ultima volta, ma rimase al fianco del letto.

« Hai bisogno di qualcosa? Hai fame? Posso portarti- »

Il maggiore dei Blake scosse la testa, aggrottando le sopracciglia e sollevandosi di poco fra i cuscini.

« Odio questo posto. » Affermò fra i denti e distolse lo sguardo.

« Ti porterò a casa presto, okay? Per il momento voglio che tu ti riposi e chiami l’infermiera se ti serve qualsiasi cosa. »
 
 
 

 
*





Abby rimase davanti alla sala operatoria per altre quattro ore, finché il sole non iniziò a illuminarle il volto stoico ma impregnato da una poltiglia di lacrime, trucco e sudore.

Seduta sul pavimento, le spalle al muro e le braccia appoggiate sopra le ginocchia strette al petto, il primario di Chirurgia era per la prima volta dall’altro lato della stanza.

Non era dentro, concentrata con ogni energia sui movimenti delicati del bisturi e delle forbici chirurgiche; questa volta era lei ad aspettare, in spasmodica e ansiosa attesa di notizie, di vedere il volto di uno dei suoi colleghi, di sapere come sentirsi.

Perciò prese un respiro profondo, cercando di accettare la consapevolezza di non poter fare assolutamente niente, di essere totalmente e completamente impotente.
 




 
*



 

Octavia la vide all’improvviso, fra la folla di personale e pazienti che si aggiravano per i corridoi.

Era seduta per terra, il capo chinato e le mani fra i capelli, e seppe subito di non potersi aspettare buone notizie. Nonostante ciò, prese un respiro profondo e camminò con decisione e severità verso la sua direzione, pronta a sentire il peggio.

Quando le si avvicinò Abby nemmeno se ne accorse, e la minore dei Blake si inginocchiò al suo fianco cercando di non fare troppo rumore.

« Signora Griffin? »

La più anziana scattò sul posto, segno di sorpresa e nervosismo, e sollevò di scatto il capo. La sua espressione era indescrivibile, più afflitta e avvilita di quanto avrebbe mai potuto immaginare, e il suo volto sempre composto era ora stravolto dalle emozioni che ne oscuravano i lineamenti.

Qualcosa nel cuore della più piccola si acuì, fece male, e d’istinto portò una mano sulla sua schiena.

« Octavia? »

« Sono così dispiaciuta per quello che è successo, signora Griffin. Lei dov’è? »

« È ancora in sala operatoria. È stata colpita in un punto molto sensibile della gamba, a pochi millimetri da un fascio di nervi. Il proiettile ha parzialmente perforato l’arteria femorale. Ha… ha perso molto sangue. »

A quel punto la giovane scivolò a terra, al suo fianco, e si ritrovarono spalla a spalla, in silenzio.

« Starà bene. » Sussurrò dopo qualche istante.

« Starà bene. » Confermò Abigail, tirando su con il naso e lasciando vagare lo sguardo verso la parete adiacente.

Rimasero sedute in quella posizione per un periodo di tempo indefinito, senza dire una parola, semplicemente facendosi compagnia e tentando di scacciare la solitudine. Octavia non la conosceva bene, non poteva dire di esserne amica o di dividerne particolare confidenza, ma la donna al suo fianco aveva appena saputo che suo marito era un assassino e che sua figlia ne era rimasta gravemente vittima, e non volle andarsene e lasciarla.

Nessuno meritava di restare solo in una tale situazione.

All’improvviso, forse stanca dell’opprimente e soffocante silenzio, forse alla disperata ricerca di una distrazione, Abby si voltò verso di lei.

« Come sta Bellamy? Gli ho assegnato la mia migliore infermiera. »

« Gina? »

La più anziana annuì.

« Lui sta bene. Qualche livido e un po’ di punti. Tanta stanchezza. Voleva solo sapere di Clarke. »

« Le ha salvato la vita. L’ha protetta. Se non fosse stato per lui, forse sarebbe stato troppo tardi… »

« Tiene molto a sua figlia. L’ho visto. »

Abby annuì di nuovo, passandosi una mano sul volto. « Si sono trovati. Ricordo bene quella sensazione. »

« Già. » Il viso di Lincoln le passò davanti agli occhi e per un attimo si chiese dove fosse. Se stesse bene. Ma subito dopo cacciò via quel pensiero, perché non poteva complicare la situazione più di quanto già non lo fosse.

Lo avrebbe visto presto, e Clarke e Bellamy sarebbero stati di nuovo insieme, e tutto sarebbe andato bene.

« Mi dispiace… Per quello che mio… Per quello che la tua famiglia ha dovuto subire. » Confessò all’improvviso Abigail, abbassando il capo e lo sguardo.

Octavia, invece, puntò gli occhi sul suo viso, tenace e risoluta: « Niente di tutto questo è colpa sua. Non poteva saperlo. Nessuno l’avrebbe potuto sapere. Non si biasimi, signora Griffin. Deve essere forte, adesso. Deve lottare. »

« Tuo fratello ha fatto un ottimo lavoro con te. Gli somigli così tanto. »

« Anch’io credo che Clarke abbia avuto un buon modello. » Le sorrise la più piccola, scontrando di poco la spalla con la sua.

« Aspetterai qui con me? » Domandò allora, una luce di speranza e fragilità negli occhi. Abby non voleva restare sola. Era forse un pensiero egoista, o pretenzioso, ma non se ne curò. Non poteva.

« Ma certo. »
 
 
 
 

 
*





Gina entrò nella stanza con un vassoio pieno di cibo, affiancato da un bicchierino al cui interno sbattevano due piccole compresse.

Bellamy la osservò placidamente, come annoiato, e non disse niente.

« Ti senti un po’ meglio? »

« Starò un po’ meglio quando potrò andarmene da qui. » Rispose con freddezza, e in qualsiasi altro contesto se ne sarebbe pentito, avrebbe di certo fatto in modo di rimediare, ma non in quel caso.

« Almeno possiamo escludere la gentilezza dagli effetti collaterali del trauma. » Fu la sarcastica replica della ragazza, che sollevò le sopracciglia, posò il vassoio davanti a lui e gli diede le spalle, lasciando ricadere i corti ricci ambrati dietro di sé.

« Ehi, ti chiedo scusa. » Il maggiore dei Blake allungò un braccio, ma subito lo lasciò ricadere sul materasso. « Mi ricordo di te, ieri notte. Mi hai aiutato. »

A quel punto Gina si voltò e incrociò le braccia al petto, sebbene la sua espressione fosse già tornata serena e amichevole.

« A quanto pare è il mio lavoro. »

« È solo che odio gli ospedali. » Si strinse nelle spalle, scuotendo di poco la testa.

« Sono piuttosto sicura che tutti vorremmo trovarci alle Hawaii, in questo momento. »

La battuta sortì l’effetto desiderato, perché Bellamy accennò un sorriso a mezza bocca e chinò il capo in avanti.

« Già, credo di sì. Ascolta, potrei per caso avere il mio telefono? Dovrei chiamare il mio capo. »

« Intendi il Capitano Sidney? Sì, è già passata, ma tu stavi dormendo e non voleva svegliarti. L’ho rassicurata e le ho detto di tornare in mattinata. »

« Grazie, Gina. »

L’infermiera gli sorrise e annuì, indicando con un cenno del capo il vassoio.

« Di niente, Bellamy. Ora mangia qualcosa. »
 
 



 
*





Da qualche parte fra chiacchiere di poco conto, volte solo a distrarsi, e silenzi carichi di nervosismo, Octavia riuscì a far alzare Abby da terra.

Riuscì a farla passeggiare un po’ e perfino a portarla in bagno per sciacquarsi il volto e liberarsi dai residui di trucco della notte precedente. Inutile dire che tornarono alla sala d’attesa prima che qualsiasi cosa potesse succedere; questa volta, però, abbandonarono il pavimento in favore delle sicuramente più comode sedie imbottite.

« È sicura di non aver fame? »

« Sono a posto, Octavia. Ma tu puoi andare. Non sei costretta a restare qui ogni secondo. »

« Ma lo voglio. Non c’è probl- »

Tuttavia, prima che potesse continuare, la giovane fu interrotta dal rumore di porte che si aprivano e sbattevano. La signora Griffin scattò in piedi ancora prima di poter capire cosa stesse succedendo.

« Martin! » Esclamò ad alta voce, correndo verso il collega che portava ancora la mascherina davanti la bocca.

« Abby. » La salutò lui con voce delicata, nonostante tensione e stanchezza quasi vibrassero dalla sua postura. La minore dei Blake non fu in grado di capire se portasse buone o cattive notizie.

« Come sta? » Bisbigliò in un soffio la donna, stringendosi le mani sotto al mento e attendendo con sguardo esitante e supplice.

« Siamo riusciti a fermare l’emorragia. L’incisione e la cauterizzazione sono andate piuttosto bene, ma i problemi sono iniziati con l’estrazione. Abbiamo incontrato consistente difficoltà nel rimuovere il proiettile, dato il rischio di danneggiare permanentemente vasi e nervi. Il proiettile si è frammentato all’altezza del nervo femorale. »

« Le schegge? » Domandò Abby, improvvisamente professionale e concentrata.

« Hanno devitalizzato parte dei muscoli. Abbiamo provato a estrarre anche quelle, ma non volevamo ledere ulteriori tessuti. »

« Sono ancora dentro. »

« Sì. » Confermò il collega, sistemandosi la mascherina attorno al collo dopo averla abbassata per parlare con il Primario. « Abbiamo drenato il più possibile prima di richiudere, in modo da ripulire le fasce muscolari più interne. »

« Quanto sangue ha perso? »

« Considerando la parziale perforazione dell’arteria e lo shock ipovolemico iniziale, poco meno di duemila millilitri... »

Solo allora la signora Griffin sussultò e si portò le mani davanti la bocca, mentre Octavia, al suo fianco, era ancora confusa e disorientata dai tecnicismi utilizzati dai due medici.

« Avete già iniziato con le trasfusioni? »

L’altro annuì. « Dobbiamo lasciar intercorrere del tempo, però. Il suo sistema nervoso è stato costretto a una considerevole quantità di dolore, non vogliamo sovraccaricarlo. »

A quel punto Abigail prese un respiro profondo, come se ciò potesse infonderle quel tipo di coraggio che non avrebbe mai avuto riguardo a Clarke, e chiuse gli occhi. « Si sveglierà? »

« Non lo sappiamo ancora. Per il momento dobbiamo solo aspettare e tenerla sotto controllo. Il suo corpo ha bisogno di riposo. »

Assentì con il capo, e la minore dei Blake, silenziosa per tutto quel tempo, le avvolse un braccio attorno le spalle.

« Quando potrò vederla? »

« La stanno ripulendo. La vorresti in una stanza particolare? »

« Ehm, sì. » La donna ci pensò qualche attimo, poi si schiarì la voce. « La 403. È la più luminosa. »

Il medico, collega e amico annuì, le diede una lieve pacca d’incoraggiamento sul braccio e si allontanò.

La più anziana rimase con lo sguardo fisso davanti a sé ancora per alcuni istante, silenziosa e irraggiungibile nei suoi pensieri più profondi.
Poi si voltò, un mezzo sorriso accennato sulle labbra e le sopracciglia sollevate. « Dovresti andare da tuo fratello. Fargli sapere. »

« Mi disp- »

« Grazie, Octavia. Credo di farcela da sola da qui in poi. »

E si allontanò, ancora prima di ricevere risposta o farsi convincere a restare insieme. Le sue spalle erano curve, come se reggessero fisicamente un peso che, era evidente, non riusciva a sostenere del tutto. I suoi passi erano corti, meccanici, quasi inverosimili.

La sua figura era piegata da un incolmabile vuoto, una preoccupazione spietata, un carico insostenibile che era sull’orlo di schiacciarla completamente e distruggerne ogni pezzo, ogni piccola sfumatura.

La minore dei Blake ricacciò indietro le lacrime e si diresse da suo fratello.
 
 
 


 
*





Abigail Griffin rimase davanti a una porta chiusa per un lungo tempo, incapace di trovare il coraggio di entrare e consapevole di star commettendo un pessimo errore.

Se davvero il tempo con sua figlia era contato, se davvero avrebbe potuto lasciarla da un momento all’altro, il suo errore non era solo pericoloso, ma anche uno che non poteva permettersi di compiere.

Aveva desiderato tutta la notte vederla, poterle accarezzare i capelli, poterle sussurrare all’orecchio che ora era al sicuro, poteva svegliarsi, doveva farlo, perché lei la stava aspettando; perché sua madre era lì e l’avrebbe protetta e non le sarebbe successo niente di brutto. Sarebbero guarite. Entrambe.

L’aveva desiderato tanto e ora che c’era solo una porta a dividerle, Abby non voleva. Non voleva vederla immobile, ferita, pallida.

Sapeva bene cosa l’avrebbe aspettata. Era un chirurgo da vent’anni, aveva visto abbastanza casi come quello da poterne immaginare tutt’ora i volti peggiori. Non voleva che la sua bambina diventasse uno di quei volti.

Non voleva ricordarla così.

Voleva ricordarla prima, con i suoi capelli intrecciati e il suo sorriso imbarazzato, addormentata contro il braccio di suo padre o entusiasta sopra le sue spalle. Con i suoi occhi blu curiosi e a volte feroci, ma mai spietati.  Con i suoi disegni e le sue passioni e le sue dita sporche di pittura.

Se avesse potuto cancellare gli ultimi quattro anni delle loro vite, se avesse potuto rimediare agli imperdonabili errori che aveva commesso, avrebbe dato la propria vita senza esitazione. Le avrebbe concesso ogni energia e se ne sarebbe andata con un sorriso delicato, sereno.

Ma non poteva farlo. I suoi sbagli erano ancora tutti lì, e le macchine attaccate al corpo di sua figlia ne erano la prova.

E lei doveva vederlo. Doveva vedere cosa aveva provocato, doveva trovarselo davanti agli occhi e farsene una ragione, perché se Clarke non era riuscita a sfuggirgli non poteva nemmeno lei.

Perciò si fece coraggio – cercò, perlomeno, di trovarne un piccolo frammento fra i vari pezzi sparsi nel suo petto – e socchiuse l’uscio il tempo sufficiente di entrare nella stanza.
 
 


 
*





Bellamy non l’aveva detto, ma l’aveva vista. Mentre dormiva, la notte appena trascorsa, alterato dagli antidolorifici e delirante per la disperazione, l’aveva vista. Il suo volto che viaggiava verso una pacifica incoscienza, lo sguardo perduto, le guance e il collo e i capelli dorati imbrattati di sangue nei punti in cui si era toccata con le mani sporche. Le labbra socchiuse dalle quali uscivano respiri sempre più lenti, più distanti l’uno dall’altro. 

Aveva sentito le sue stesse urla implorare aiuto e visto tutto quel sangue appiccicato ai loro vestiti, viscoso sulla loro pelle.
L’aveva persa di nuovo.

Octavia entrò nella camera d’ospedale con la mascella contratta e ogni fibra nervosa all’erta, trascinandosi dietro un tornado di rumori e sensazioni.

Nemmeno si accorse che lui era in piedi e guardava fuori dalla finestra finché non vide il letto vuoto e sfatto.

« Non dovresti riposare? »

Il maggiore dei Blake depositò in un cassetto della sua mente le immagini che lo tormentavano e queste si dissolsero davanti ai suoi occhi come coriandoli.

« Sto bene. » Pronunciò la parola con enfasi, come se non fosse la prima volta che si trovasse a ripeterla. « Non è di certo la prima rissa per cui finisco in ospedale. »

« Già, beh, peccato che tu non sia più un diciannovenne sconsiderato e imprudente. Dovresti tenere quelle ferite sotto controllo. »

Lui la ignorò, voltandole di nuovo le spalle. « Lei? »

Sua sorella sospirò cercando di non farsi sentire, si passò una mano sul volto e si lasciò cadere sulla poltrona al fianco del letto ospedaliero. Poi si schiarì la gola: « È appena uscita dalla sala operatoria. Li ho sentiti parlare di danni muscolari. Ha perso molto sangue, dovranno cercare di non essere invasivi. »

« Quando svanirà l’effetto dell’anestesia? »

La bruna abbassò lo sguardo sulle sue mani incrociate, a quel punto, ed esitò. Non voleva che niente di quello succedesse. Non voleva doverlo rendere reale.

« Non sanno se… Se si sveglierà. Ha perso molto sangue. » Ripeté, e la sua voce tremò sull’ultima frase.

Bellamy non si mosse. Strinse le labbra e arricciò il naso. Continuò a restare voltato verso la finestra, le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani strette a pugno. Trascorsero pressappoco una ventina di secondi di completo silenzio e immobilità; dopo, fu sorprendentemente celere nei movimenti e con un gesto netto e secco della mano rovesciò il vassoio che Gina gli aveva lasciato poco prima.

Octavia sobbalzò, stupita e colta di sorpresa dalla sua reazione, ma continuò a guardarlo. Non si spaventò. Anzi, scattò senza indugio in piedi e lo osservò solo per un istante, con i suoi ricci davanti agli occhi e il petto sconvolto dal respiro convulso.

Solo allora, dopo aver visto il suo volto, capì veramente, e attraversò con impazienza e frenesia la breve distanza che li divideva.

Si sollevò sulle punte nello stesso attimo in cui suo fratello si chinò, e lo abbracciò forte mentre si accartocciava contro di lei come un bambino.






 
*





Non appena la vide, Abigail si immobilizzò.

Era al centro della stanza di medie dimensioni, il suo volto illuminato dal sole, pallido e pulito.

Sapeva che era stata lavata, che qualcuno le aveva districato i nodi nei capelli e li aveva riordinati dietro la nuca; il solo pensiero di mani estranee sul suo viso le fece salire la bile in gola, ma ricacciò indietro la sensazione.

Si erano presi cura di lei.

Clarke era lì, a pochi passi di distanza, e giaceva inerte, come in attesa di qualcosa. Se Abby avesse saputo cosa, glielo avrebbe donato all’istante.

Avrebbe conquistato il tempo, lo avrebbe piegato sotto il proprio controllo per richiuderlo su se stesso e riportare ogni cosa al punto in cui doveva sempre essere stata: loro insieme, con Jake, felici e serafici.

La famiglia su cui lei e il primo uomo che aveva amato avevano tanto fantasticato, sdraiati sulle brandine dei loro dormitori, i Pink Floyd alla radio scassata e i loro sogni sempre troppo inarrivabili.

La donna lasciò andare i suoi ricordi più felici richiudendoli in quell’angolo della sua memoria che non era riuscito a sostenere la scomparsa di suo marito – il suo vero marito, non quel mostro ripugnante che stentava anche solo a immaginare – e fece piccoli passi avanti, vigili e accorti, senza staccare gli occhi dal volto di sua figlia.

Non seppe se fu per la vicinanza, che acuiva disperatamente il senso di colpa, o per la tangibilità delle cose di cui si accorgeva solo adesso, ma Abigail si accasciò sulla sedia affiancata al materasso non appena sfiorò con i polpastrelli la mano tiepida di Clarke.

Solamente in quel momento, quando erano finalmente sole, loro due e basta, lontane da tutti gli altri, sembrò capire pienamente. Realizzare con ogni fibra di sé cosa fosse veramente accaduto. Cosa fosse in gioco.

Le lacrime si addensarono nei suoi occhi senza controllo, alcune sfuggendo pesanti sulle guance, altre rimanendo aggrappate alle ciglia.

Non bastò respirare profondamente o tirare su con il naso, perché ora che aveva iniziato sapeva che non si sarebbe fermata; sapeva che avrebbe pianto sul suo grembo per tutto il tempo, senza fermarsi, senza riuscire a controllarsi. Stava perdendo l’amore più grande e felice della sua vita.

Trascorsero alcuni attimi, la stanza silenziosa se non per i suoi sussurri e lamenti, e poi la dottoressa si tirò più su, appoggiandosi al materasso e portando una mano fra i capelli di Clarke, accarezzandoli delicatamente indietro.

Poi iniziò a cantare a bassa voce, mugugnando e farfugliando le parole fra le lacrime.

« You can run around… Even put me down… » Si interruppe, singhiozzando e asciugandosi le guance con il dorso della mano. « Still I’ll be there for you…  They can’t see you like I can… »

« I know I won’t ever let you go… It’s more than I… could ever stand… »

Era una vecchia canzone che sua madre le cantava da piccola, e che lei aveva ricordato e tenuto a mente finché non era arrivato il momento di cantarla a sua figlia, indifesa e minuscola fra le sue braccia.

Ricordava così bene gli occhi di Clarke e il suo volto da bambina illuminarsi all’ascolto di quelle antiche parole, una melodiosa ninna nanna dedicata solo a lei, dolce come il miele e soave come un canto notturno.

Ricordava anche il sorriso sulle labbra di Jake quando si fermava a guardarle – i due fari che illuminavano il suo percorso, diceva lui – con quello sguardo sognatore negli occhi che non aveva perso mai, nemmeno l’ultima volta che le aveva salutate con un delicato bacio sulla fronte e non era più tornato.

In quel momento, lontana da chiunque altro, da qualsiasi cosa le persone si aspettassero da lei o qualunque fossero le loro aspettative, Abby Griffin pianse più forte, si lasciò andare come non si era permessa di fare da anni, e implorò la sua bambina di tornare da lei con tutta la voce che le fosse rimasta.

 
 


 
*





Il secondo giorno non era ancora del tutto iniziato, ma Jasper e Monty stavano già aspettando fuori dalla stanza ospedaliera.

Ci erano volute alcune ore, ma il primario di Chirurgia aveva delegato alcuni suoi dipendenti il compito di chiamare cari e amici per informarli di quello che era successo.

Lei non aveva lasciato la stanza nemmeno per un istante, alternando una concitata dormiveglia sul grembo di Clarke e un’instancabile osservazione dei parametri vitali, dei processi di trasfusione e delle macchine che segnalavano meticolosamente le attività del suo corpo.

« Possiamo vederla, adesso? » Domandò per l’ennesima volta Jasper, che non si era fermato un attimo, ma aveva continuato a girare attorno a qualunque infermiera o dottore si avvicinasse alla stanza.

Monty, invece, era immobile, quasi paralizzato, le braccia abbandonate lungo i fianchi e lo sguardo smarrito puntato sulla porta.

Quando, finalmente, qualcuno si accorse di loro, entrambi si affrettarono a entrare, richiudendosi gelosamente l’uscio alle spalle.

La più anziana, tanto simile a Clarke nella loro diversità, era seduta al suo fianco e le stringeva la mano destra con entrambe le sue, ma si voltò immediatamente verso di loro.

« Ehi, Abby. » Parlò per primo il giovane Jordan, rivolgendo alla donna che lo aveva cresciuto come una seconda madre uno sguardo dolce e apprensivo. « Vi abbiamo portato dei fiori. »

« E dei muffin. » Aggiunse il moro al suo fianco, sollevando in aria la busta di cartone e abbozzando un lieve e sottile sorriso di rassicurazione.
La donna ricambiò il gesto con debolezza e poca convinzione, ma nessuno dei due ci fece caso. Anzi, i due giovani si avvicinarono e si posizionarono ognuno a un lato del materasso, Jasper poggiandole delicatamente una mano sulla spalla e Monty afferrando con estrema cura l’indice e il medio di Clarke, incosciente e addormentata davanti ai loro occhi.

« Sono sicuro che stia solo facendo la testarda. Anzi, si starà facendo un paio di risate a sentirci parlare a vuoto. » Affermò Jasper, il cui sarcasmo era da sempre stata la sua difesa maggiore.

« Deve essere affamata. » Bisbigliò il ragazzo asiatico, senza distogliere lo sguardo dal suo volto pallido e paradossalmente pacifico.

La signora Griffin non disse niente, ma fu perlomeno in grado di accennare un vago e abbozzato sorriso. Una sua parvenza, se non altro.

I tre restarono in silenzio per il resto del tempo, facendosi tacitamente compagnia e al contempo pregando dentro di loro di poter sentire di nuovo la sua voce, o vedere un’altra volta il colore cangiante e caloroso dei suoi occhi.
 





 
*


 

 

Il terzo giorno arrivarono tutti gli altri: Miller, Monroe, Harper, Octavia, perfino Raven.

Se ne stavano lì, una piccola folla davanti la stanza 403, in attesa di vedere a gruppi di due la loro amica, o la persona che le aveva spezzato il cuore ma che l’aveva sempre in qualche modo affascinata, nel caso della giovane Reyes.

Se ne stavano lì, scambiando abbracci con Monty e Jasper – che, inutile dirlo, non avevano lasciato l’ospedale – chiacchierando di argomenti superficiali per venire a capo dell’attesa e dell’angoscia, passandosi un thermos di caffè e una busta di brioche, oppure parlando a bassa voce a distanza, un po’ più lontane, come la minore dei Blake e il meccanico Reyes.

« Lui dov’è? » Chiese quest’ultima in un sussurro, l’espressione preoccupata e accigliata.

« La viene a trovare soltanto di notte, quando gli altri vanno a dormire e Abby fa una pausa per la doccia. Vuole restare da solo con lei. »

« Non la sta prendendo meglio di quanto avessi immaginato. Ma lei deve svegliarsi, va bene? Deve farlo. »

Nonostante dimostrasse apprensione per suo fratello, Octavia sapeva che Raven non si riferisse solo a lui. Lei voleva che Clarke si risvegliasse. Forse voleva solamente l’occasione di poterla perdonare. Forse era pronta a lasciar andare il passato che condividevano e parlarle veramente, chiederle scusa, offrirle una cena, conoscere davvero chi fosse.

Non doveva essere male, se tutte queste persone erano qui per lei.

« Non sono mai stata capace di pregare, ma deve tornare. Non può finire così. Deve fare ancora così tante cose…»

« Ehi », l’amica le spostò alcune ciocche di capelli dal volto, sorridendole a mo’ di incoraggiamento, « andrà tutto bene. »
 





 
*





 
Quella notte, il silenzio perenne padrone di quell’ala dell’ospedale e l’atmosfera resa ancor più cupa dalle luci neon bianche dei reparti, Bellamy ricevette una visita quantomeno inaspettata.

Aveva appena salutato Clarke con un bacio sulla fronte e Abby, appena rientrata, con un abbraccio silenzioso, e stava per bere un ultimo caffè e cercare di addormentarsi su una delle scomode e malagevoli sedie della sala d’attesa, quando una figura quasi si materializzò in fondo al corridoio.

Lo osservava con curiosità e una sorta di rispetto, l’espressione seria e concentrata, e indossava abiti anonimi, scuri e monocromo.

Era senz’ombra di dubbio l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere in quel contesto.

La raggiunse a passi sicuri ma privi di fretta, senza distogliere lo sguardo dal suo, lasciando che il suo intuito e acume traessero anche le conclusioni che lui non era disposto ad affermare ad alta voce.

« Buonasera, Bellamy. » La sua voce era, come al solito, pacata ma affilata; il suo sguardo impenetrabile.

« Heda. » La salutò lui, tentando di mantenere una maschera di compostezza. Erano nemici, dopotutto, e dovevano almeno recitare le loro parti con convinzione.

Era la prima volta che vedeva il suo volto pulito, privo di qualsiasi traccia di trucco scuro, e gli sembrò improvvisamente giovane. Il tipo di giovinezza ingenua che lui forse non aveva sentito mai, ma che sul suo viso sembrava reale.

Lexa lo osservò di rimando per qualche istante, registrando i suoi capelli svigoriti, lasciati ricadere con disordine, il suo sguardo spento e le occhiaie che gli facevano da cornice, il leggero strato di barba che per certo non aveva avuto modo di curare e i lividi e le ferite che coloravano la sua faccia.

« Me ne sto andando. Sto lasciando Los Angeles. Lei è la mia compagna, Costia. » Indicò con un delicato gesto del braccio una ragazza a poca distanza da loro, intenta ad osservarli con occhi intrigati ma come spaventati, simili a quelli di un animale curioso e allo stesso tempo allarmato da ciò che non conosce.

Erano di un giallo dorato, quasi ipnotici, contornati da folti ricci ebano che ricadevano su una pelle caramellata.

Il maggiore dei Blake fece un cenno del capo verso la sua direzione pur mantenendo un’espressione neutrale e impassibile.

« Ho saputo cos’è successo a Clarke Griffin. Sapevo che ti avrei trovato qui. »

Poi fece un passo avanti, invadendo immediatamente il suo spazio personale, e si avvicinò ancora.

« Non lasciare che questo dolore ti consumi. Usalo. » Gli sussurrò all’orecchio, e per la prima volta da quando l’aveva incontrata Bellamy capì quanto si assomigliassero.

La giovane si allontanò immediatamente da lui, ricadde nella maschera di austerità che indossava sempre – cosa avrebbe fatto quando avrebbe capito che quella non era più una maschera, ma una parte di sé che aveva preso il sopravvento? – e, guardandolo, annuì.

« Io non sono i Grounders, Bellamy. Spero che un giorno tu lo capisca. » Bisbigliò, serrando la mascella e tenendo le spalle dritte.

Poi, così com’era venuta, si girò e se ne andò silenziosamente, prendendo per mano la ragazza che l’attendeva e stringendole forte le dita.

Lui continuò a fissarla finché non svoltò l’angolo del corridoio e sparì dalla sua vista. 



 
 
*






La mattina successiva, Clarke si svegliò insieme ai nuovi raggi del sole, durante le prime ore dell’alba.

Sentiva il tiepido calore sul volto, la leggera presenza di qualcosa poggiato sulle sue gambe, ma non riuscì immediatamente ad aprire gli occhi.
Forse una parte di sé non voleva farlo.

Poi, come una pellicola bruciata che si consuma un millimetro dopo l’altro, rivide proiettato sul fondo scuro delle palpebre tutto ciò che era successo: più che immagini erano sensazioni, percezioni lontane, azioni che avevano particolarmente stimolato i suoi sensi.

I capelli mossi e scompigliati dal vento scuro che si annodavano davanti alla sua faccia, il respiro mozzato in gola, l’odore acre di sudore e paura a scottarle le narici, il rumore dello sparo e il sibilo nell’aria, il sangue viscido e denso su cui scivolavano le sue mani.

Il sangue. Tanto, nero, impossibile da fermare. No, non nero, rosso vivo, ma oscurato dal buio, sangue che legava e divideva e se ne andava contro ogni volontà. Il dolore e la mente incapace di sostenerlo.

La fuga.

La giovane Griffin aprì gli occhi.

La prima cosa che vide furono i capelli di sua madre, addormentata sulle sue ginocchia: sporchi, legati disordinatamente, ma il suo ricordo più bello, una visione celestiale, radici a cui aggrapparsi.

In seguito si rese conto di trovarsi in una sala ospedaliera. Il Mount Weather, senza dubbio. Poi notò i fiori – tantissimi fiori pieni di colori, appoggiati sulle finestre e sui mobiletti e sulle mensole – e i palloncini con il suo nome scritto sopra e l’augurio di una pronta guarigione.

Respirò una, due, tre volte, prestando al gesto tanto scontato e banale un’attenzione del tutto nuova, piena di interesse e meraviglia. Si voltò verso i macchinari a cui sapeva di essere collegata e fissò lo sguardo sul battito stabile del suo cuore, incapace di contenere l’emozione di sentirlo rimbombare nelle orecchie, al centro della gola, nelle vene.

Era viva.

Le lacrime arrivarono ancor prima che si accorgesse di voler piangere e le bagnarono silenziosamente il volto, pesanti e veloci una dopo l’altra, ma lei fu grata anche di quello.

Nel momento in cui il suo petto sussultò per un singhiozzo, la testa di sua madre scattò e la sua espressione confusa e disorientata impiegò qualche secondo per concentrarsi.

Quando, per un riflesso naturale, spostò lo sguardo sul viso di sua figlia e la vide ricambiare, Abby trasalì, sbarrò gli occhi e lasciò andare un sussurro incomprensibile.

« Clarke? » La chiamò esitante, come incredula di ciò che si trovasse davanti agli occhi.

La giovane annuì fra le lacrime, stringendo le labbra e sollevando le sopracciglia, e sua madre le fu immediatamente vicina. Le prese il volto fra le mani, lo sguardo implorante e adorante bagnato da altre lacrime, e iniziò a baciarle i capelli, la fronte, le guance, stringendola a sé ogni attimo di più.

« Non voglio morire. » Sussurrò per la prima volta la giovane, aggrappandosi alle mani di Abigail e sciogliendosi in un’espressione di puro terrore.

Lo aveva capito su quel tetto, quando il sangue che perdeva era sempre di più, inarrestabile, e la ferita faceva così male da farle mancare i sensi, e tutto quello che non aveva mai avuto si faceva un peso impossibile da sostenere in quegli attimi di panico.

Lo capiva ora che implorava sua madre e adorava con religiosa devozione il battito del suo cuore e il respiro che le muoveva il petto.

« Ho così tanta paura! Non voglio morire, ti prego, non lasciarmi morire. » Continuava a supplicare, piangendo e agitandosi, muovendosi con disperazione e avvinghiandosi forte al collo di Abby.

« Stai bene. » Affermò concitatamente la più anziana, allontanandole velocemente i capelli dal volto e asciugandole le lacrime. « Sei viva, stai bene, va tutto bene. Ti proteggerò, non ti accadrà nulla di male. »

I loro corpi vicini avevano iniziato a cullarsi l’un l’altro, andando e avanti e indietro in un affranto tentativo di riprendere la calma, sebbene entrambe le donne fossero preda di un naturale e innato istinto di sopravvivenza.

« Non sei morta, non sei morta, non sei morta. » Continuò a ripeterle quella litania per un lungo tempo, riuscendo finalmente a smettere e farla smettere di piangere, e non lasciò il suo fianco nemmeno per un attimo.

Quando, alcune ore più tardi, Clarke si era calmata abbastanza da riprendere un ritmo respiratorio più consono alle sue condizioni di salute, la giovane si voltò verso sua madre, occupata a coordinare via telefono i compiti degli infermieri.

« Dov’è Wells? »

Abigail sapeva che questo momento sarebbe arrivato, ma non era mai riuscita a prepararsi abbastanza da affrontarlo. Era stata così impegnata a sperare che lei si risvegliasse, che potesse vederla e parlarle di nuovo, ché non si era curata di trovare le parole giuste per spiegarle cosa fosse successo.

Ma aveva promesso a se stessa che non le avrebbe mai più mentito, che sarebbe stata una buona madre, perciò prese un respiro profondo e incontrò il suo sguardo interrogativo e apprensivo.

« Se ne è andato. » Rivelò, sollevando le spalle, a disagio. « Non appena ha saputo di… di quello che era successo. Non so dove sia. Mi ha implorato di non andare a cercarlo, io dovevo restare con te, e immagino di aver nascosto questa cosa da qualche parte nella mia testa per non pensarci. »

Gli occhi della giovane Griffin si appannarono celermente e la sua voce tremò. « Dovrà sentirsi così… Oh mio Dio, dovrà sentirsi così solo. Questo… tutto questo… Lo ha distrutto. So che è così. Lo conosco. Lui è mio fratello. »

Sua madre le prese la mano. « Non appena starai meglio, lo andremo a cercare. Lo troveremo. E staremo insieme, te lo prometto. »
 
 
 


 
*





Bellamy la vide dalla vetrata della sua stanza.

Abby aveva smesso di rispondere al telefono e questo lo aveva fatto preoccupare. A dire il vero, lo aveva terribilmente terrorizzato. Gli aveva permesso di addentrarsi nell’oscurità di pensieri che mai avrebbe dovuto lasciare liberi di occupargli la mente; lo aveva spinto oltre un confine da cui non sapeva più come tornare.

Perciò aveva deciso di non poterle più lasciare spazio, di non poter più sopportare di star lontano da Clarke anche solo per vederla respirare.

Era salito in macchina senza dire nulla a sua sorella, aspettando che fosse sotto la doccia – aveva visto il modo in cui lo teneva d’occhio, tentando di non farsi notare ma fallendo – e si era diretto al Mount Weather con un senso di amaro nella bocca e al centro dello stomaco.

E ora se ne stava lì, immobile, a guardarla sorridere attraverso un vetro. A guardarla sbattere le palpebre e muovere una mano e respirare, perché era viva. Era tornata.

Quasi non se ne accorse, ma il desiderio di sentire la sua voce lo spinse ad aprire la porta con le ultime energie che gli fossero rimaste.

Clarke si accorse di lui immediatamente, voltando il capo in un movimento veloce, e strinse le lenzuola con la mano destra.

Nessuno dei due disse niente. Continuarono a guardarsi solo per alcuni secondi, prima che Abby prendesse coscienza di ciò che stava accadendo.

« Bellamy! » Lo salutò, il tono di voce finalmente più leggero, privo del peso che lo aveva afflitto nei quattro giorni precedenti. « Oh, Dio. Il mio telefono si è scaricato. Mi dispiace, mi avrai chiamato. »

Senza distogliere lo sguardo da quello di Clarke, il moro annuì, assente.

« Stavo giusto andando ad avvisare tutti. » Continuò la più anziana, cogliendo i segnali e avviandosi verso l’uscio.

Il maggiore dei Blake si fece di lato per farla passare e lei se ne andò in silenzio, non prima di aver rivolto un sorriso a sua figlia.

Entrambi sapevano che a quel punto qualcuno di loro avrebbe dovuto parlare, ma non lo fecero. Rimasero a guardarsi con quelle facce stanche e un po’ stupite, come bloccate a metà frase, come colti a fare qualcosa di illecito.

E poi fu veloce: Bellamy mormorò qualcosa fra sé e sé e quasi corse verso di lei, che nello stesso momento tese le braccia verso la sua direzione, e si scontrarono con un po’ troppa foga, senza però pentirsene.

Si abbracciarono forte, scambiandosi carezze sui capelli e baci ovunque capitasse, ma si separarono presto, intenti a guardarsi negli occhi.

Lui le prese il volto fra le grandi mani con cura e insieme determinazione e rimase a fissarla per qualche istante, prima che le lacrime si incastrassero fra le sue ciglia, tuttavia restando appigliate ad esse.

« Mi dispiace. » Sussurrò con la voce tremante e pregna di senso di colpa. « Mi dispiace così tanto, perdonami. Puoi perdonarmi? Mi dispiace. »

Clarke a quel punto gli lanciò uno sguardo interrogativo e dubbioso, perché una disperata sequela di scuse era l’ultima cosa che si aspettava da parte sua.

« Perché ti scusi? »

« Ero sicuro che tu fossi su quel tetto, ma sono venuto comunque da solo. Non ho informato la mia squadra. Non potevo sbagliarmi, non potevo permettermelo, quindi non potevo portarli con me. Dovevano continuare a cercarti nel caso io stessi commettendo un errore. » Tirò su con il naso, continuando a reggerle il volto, e posò per un attimo la fronte sulla sua, chiudendo gli occhi.

« Ma tu eri lì e io non sono riuscito a fermarlo in tempo ed ecco come ti ha ridotta. » Bisbigliò.

A quel punto fu il suo turno di prendergli il viso fra le mani, e Clarke lo allontanò quel poco che bastava per guardarlo con concentrazione.

« Ascoltami bene, okay? Niente di tutto questo è colpa tua. Al contrario, è merito tuo. Ti sono grata. Se non fossi arrivato, ora non staremmo parlando. Non ti starei toccando. Non potrei fare questo. »

Si avvicinò lentamente per baciarlo. Fu tenue, delicato e fugace, ma mai più premuroso.

« Dio, Clarke, ti am- »

« Bellamy. » Lo interruppe all’improvviso, accarezzandogli la guancia e stringendo le palpebre. « Ti prego, non dirlo. »

« Perché? »

« C’è qualcosa che non sai. » Confessò, ed entrambi aprirono gli occhi e si allontanarono. Poteva vedere la confusione e lo smarrimento nel suo sguardo, il modo in cui le lentiggini si ripiegarono su loro stesse nel momento in cui arricciò il naso.

Prese un respiro profondo, osservando con improvviso interesse sulle proprie mani giunte in grembo.

« Non resterò qui. »

Il maggiore dei Blake non ne sembrò particolarmente sconvolto. « Va bene. A che piano devono trasferirti? »

La giovane Griffin alzò finalmente lo sguardo verso il suo, scuotendo il capo e mordendosi il labbro inferiore per mantenere il suo tono di voce stabile. « Intendo qui, a Los Angeles. »

« Cosa? Non capisco. » Aggrottò le sopracciglia, cercando nel suo viso una spiegazione più dettagliata.

« Mia madre conosce un ottimo fisioterapista a New York. È un amico, il migliore nel suo campo. Ci trasferiremo lì. »

« Ma… Wells? Jasper e Monty? I tuoi amici? » Bellamy iniziò ad alzare la voce, compiendo due passi indietro e passandosi stancamente una mano fra i capelli. « Io? »

La bionda sospirò. Continuava a guardarlo con quell’espressione di rammarico e afflizione che lo mandava su tutte le furie. Era davvero necessario? Era davvero questo che voleva? Semplicemente… Andarsene?

« Ti prego, non andartene. »

« Prenditi cura di loro. »

Lui tentò un’altra volta, sebbene il volto di Clarke sembrasse più sicuro e convinto ad ogni secondo. Sebbene sapesse, ormai, che non era il tipo di persona che si tirava indietro dalle proprie decisioni. Che continuare a discuterne avrebbe significato solo farsi più male.

« Non c’è bisogno che tu faccia tutto questo da sola. » Sono qui, avrebbe voluto aggiungere, ma in qualche modo la voce gli mancò.

« Mia madre ha bisogno di me. » Replicò immediatamente. « E io ho bisogno di andarmene. Non posso più guardare le loro facce. Non sopporto l’idea di mettere nuovamente piede nella nostra casa. Restare qui mi ricorderebbe solo di ciò che è successo. Di ciò che ho perso. »

« Clarke… »

La giovane Griffin tirò su con il naso, pulendosi le lacrime dal volto con il dorso della mano, e fissò lo sguardo su un punto indefinito sopra la sua spalla. « Partiremo fra due settimane. Ti prego… »

Prese un respiro profondo, espirando poi dalle narici, e si inumidì le labbra con la lingua. Era così  furiosa per quello che si sentiva costretta a fare; furiosa con se stessa, con quel verme, con ciò che la vita aveva deciso per lei.

« Ti prego di non tornare qui nel frattempo. È meglio se ci salutiamo adesso. »

« Quindi… È finita? È finita così? » Allargò le braccia e le lasciò ricadere subito dopo. « Torniamo a casa e… Basta? »

« Volevo solo ringraziarti, Bellamy. Grazie per quello che mi hai insegnato. Per quello che mi hai restituito. Grazie per avermi salvato la vita, non lo dimenticherò mai. » Non seppe come ne fu in grado, ma Clarke riuscì a pronunciare quelle parole senza singhiozzare o senza che la voce le venisse meno.

Non poteva dirgli quanto fosse straziante, però, altrimenti non l’avrebbe mai lasciata andare.

Lui la guardò in silenzio, le sopracciglia aggrottate e i ricci che ricadevano davanti agli occhi e i pugni appoggiati sui fianchi.

Razionalmente sapeva di non poter nemmeno lontanamente immaginare ciò a cui fosse stata sottoposta, la sofferenza di aver perso suo padre e se stessa, il dolore che il suo corpo stava attraversando. La sua mente infranta stava solo cercando di sfuggire a tutto questo, di guarire, e di certo lui non gliene poteva fare una colpa.

Ma, a quel punto delle cose, c’era ben poco di razionale in quello che provava per lei, e non poteva accettare l’idea di perderla proprio ora che l’aveva avuta indietro. Non esistevano energie nel suo corpo o nel suo cuore in grado di permettergli di farsene una ragione.

Dunque, per un istante calciò il nulla con la gamba destra, fissando il proprio sguardo sul movimento, poi spostò immediatamente gli occhi nei suoi.

« Già. » Sputò fuori con sarcasmo, annuendo. « Di niente. »

E, senza attendere oltre, si precipitò fuori dalla stanza.





 
 

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Capitolo 24
*** XXV ***







Is It Any Wonder?



 
Un anno dopo
 
 



« Bell? »

Il maggiore dei Blake accennò un vago sorriso, chinando il capo, e si voltò per un istante verso la cucina e le voci che da questa provenivano.

« Ehi, Atom. Come stai? »

« Mai stato più pronto. È tutto come lo abbiamo previsto? » La voce del suo migliore amico, dall’altra parte del telefono, si fece per un attimo più esitante, incerta, come se all’improvviso temesse ciò che aveva tanto desiderato.

« Sì, lo è. I biglietti sono timbrati, l’automobile piena di benzina e le valige impacchettate. »

« Non posso ancora crederci. » Sussurrò il giovane Ward.

« Credici, invece. Stai tornando a casa. »

« Adesso devo andare, ma è vero. Sto finalmente tornando a casa. Ci vediamo presto, amico mio. » E attaccò.

Era sembrato impossibile, un lasso di tempo troppo lungo da poter sopportare, un peso giornaliero tenuto quotidianamente nel petto per più di dieci mesi, ma era reale.

L’indagine su Thelonious Jaha non si era di certo esaurita al suo arresto, anzi, non aveva fatto altro che svelare una serie ancor più profonda e impensabile di illeciti: i ricatti ai giovani privi di speranza per costringerli a lavorare per lui – ciò che, nel dettaglio, era avvenuto ad Atom e Dax – il riciclaggio di denaro sporco, lo sporadico ma consistente traffico clandestino di droghe.

In particolare, una nuova sostanza psicolettica denominata Chip, talmente potente da distorcere la realtà e far credere a chiunque ne facesse utilizzo di poter fuggire dal proprio dolore e rintanarsi in un mondo parallelo e fittizio, nient’altro che un violento e a tratti letale mix di barbiturici e analgesici di cui lui stesso aveva abusato per anni.

Quando Atom, rivelatosi nient’altro che l’ennesima vittima di un delirante e dissociativo folle e finalmente cosciente dell’arresto del suo persecutore, aveva potuto confessare tutto senza il terribile timore di perdere la propria famiglia, il Procuratore aveva umanamente compreso il motivo dei suoi gesti e ne aveva promosso una riduzione di pena per i capi d’imputazione di frode informatica e complicità in rapimento.

Ora, dopo quindici mesi di reclusione, stava finalmente per rivedere sua madre. Per implorare l’ assoluzione di suo padre. Per abbracciare nuovamente il suo migliore amico, che l’aveva perdonato l’istante esatto in cui aveva saputo del motivo per cui aveva fatto ciò che aveva fatto, per cui gli aveva mentito.

Il maggiore dei Blake si era voltato verso sua sorella e aveva provato a immaginare come si sarebbe sentito se qualcuno ne avesse minacciato la sicurezza. Poi, era salito in macchina e si era diretto senza esitazione al Dipartimento.

Lo aveva abbracciato. Mi dispiace così tanto, gli aveva sussurrato.

Atom era stato portato via con un sorriso stanco ma soddisfatto dipinto sul volto e la promessa di ricevere una visita ogni volta che fosse stato possibile.

E i mesi erano passati.

Uno dopo l’altro, stagione sopra stagione, nuovi pensieri e nuove preoccupazioni avevano assediato la mente di Bellamy, forse per la prima volta cosciente del proprio desiderio di voler vivere. Fare. Costruire.

Anche nei giorni peggiori, anche quando non voleva alzarsi dal letto e riposarsi un po’, e andarsene per un attimo, nascondersi nella sua mente, lui aveva continuato. Si era impegnato, aveva lottato in nome della convinzione di non essere solo.

Non siamo soli, aveva detto un anno prima, nel suo letto, accarezzando dei capelli dorati che alla fine erano scivolati troppo presto e troppo velocemente via dalle sue dita. Dobbiamo crederci. Dobbiamo sforzarci di farlo, o trascorreremo il resto delle nostre vite a scappare.

Lui, perlomeno, aveva smesso. Aveva smesso di scappare, o di essere solo, per quanto ne valeva.

« Bells, sbrigati! Il pranzo è pronto. » Lo chiamò all’improvviso Gina, distogliendolo dalle riflessioni in cui era ricaduto quasi senza rendersene conto.

« Arrivo! »






 
*




 
 
 
« Ehi, sto arrivando, okay? »

Wells fissò il tabellone con espressione preoccupata e ansiosa, gettando l’ennesimo sguardo al proprio orologio da polso.

« Non possiamo perdere questo volo, lo sai, non è vero? » Minacciò, sbuffando fra sé e sé e sollevando gli occhi in aria.

« Posso assicurarti con estrema sicurezza e fiducia che non perderemo questo volo. » Disse la voce dall’altro lato del telefono.

« Ah, e a cosa devo questa garanzia? » Rispose il giovane Jaha, sarcastico come solo da poco tempo era pian piano tornato a essere.

« Girati. »

Senza attendere oltre, fece come suggerito, sfiorando distrattamente con lo sguardo il traffico perennemente incessante e martellante della folla dell’aeroporto di New York.

All’improvviso, quando i suoi occhi incontrarono l’oggetto della sua ricerca, lasciò cadere a terra la valigia che stringeva per i manici, e si aprì in un luminoso, ampio e gioioso sorriso.

« Clarke! »

Camminarono velocemente uno verso l’altra per la breve distanza che li separava, poi si strinsero in un abbraccio serrato e travolgente; Wells le accarezzò piano i capelli, mentre Clarke gli sfiorava le spalle.

« Ehi, fratellone. » Sussurrò la giovane Griffin, ancora incapace di staccarsi da lui.

Era trascorso un mese dall’ultima volta in cui si erano visti – in cui Wells, che ora viveva da solo in un tranquillo monolocale in Pennsylvania, era volato nella Grande Mela per passare una settimana con Clarke ed Abby – e, come ogni momento che trascorrevano lontani, non era stato del tutto facile.

Stavano ancora lottando ogni giorno con quello che avevano, quello che avevano perso e ciò che desideravano. Elaboravano ed elaboravano e a volte era stancante, altre erano solo in grado di piangere fino ad addormentarsi, ma altre ancora superavano intere giornate riuscendo a mettere quei pensieri da parte, il che era la cosa a cui si aggrappavano di più.

Ricominciare da capo era un processo impervio ed estenuante, ma loro non si erano arresi. Forse la vita era proprio questo: sapere quando riposarsi e quando, invece, continuare a scalare. Dimenticare e semplicemente lasciar andare.

« Saliamo su quell’aereo prima che cambi idea. » Disse all’improvviso il giovane Jaha, serrando di poco la mascella e abbassando per un istante lo sguardo.

« Andrà tutto bene. » Rispose con convinzione Clarke, prendendolo sotto braccio e dirigendosi verso il loro gate.


 
 
 

 
« Allora, parlami di Abby. Com’è il nuovo impiego? Ha fatto qualche amicizia? » Wells si voltò verso la giovane Griffin, sul sedile di fianco al suo, mentre l’aereo decollava.

« Va bene. Non è più il primario di Chirurgia, ma le piace così. Lavora meno ore, si dedica alla casa, ogni tanto segue corsi di cucina. Lei… si scambia lettere con Kane. Sai, da quando l’Ark Corporation è crollata e lui si è finalmente potuto licenziare. Credo siano, mh… Credo siano amici. »

A quel punto il suo fratellastro abbassò lo sguardo, perché tutto quello che riguardava la loro vecchia vita era ancora un complesso e intricato tabù da superare, e c’erano ancora parole del loro passato che risvegliavano ferite non del tutto rimarginate. Lungi dall’esserlo, anzi.

« Mi fa piacere. Se lo merita. Spero… Spero che stia bene. Sai, non come dice lei quando siamo noi a chiederlo. Bene davvero. »

« Lo sarà. Con il tempo, con un po’ di impegno. Lo saremo tutti. » Lo rassicurò, sorridendogli gentilmente e posando per un istante le punte delle dita sul suo avambraccio.

« Sai, sono davvero contenta che tu abbia voluto fare tutto questo. Sono contenta di essere su questo volo, con te, e che stiamo provando ad andare avanti. Ti prometto che, dopo aver concluso anche quest’affare, sarà finalmente finita. »

« Non credo che potrà mai finire, Clarke. » Sussurrò Wells, osservando fuori dal finestrino e ricadendo in un breve e carico silenzio. « Ma avremmo dovuto fare questo viaggio, prima o poi. Meglio tirare via il dente e chiuderla qui. »

« Ehi, Wells- »

« Come sta la tua gamba? » Domandò improvvisamente lui, interrompendola. Non era pronto a parlarne. Né in quel momento, né in quel contesto, su un aeroplano, circondati da estranei, senza una via di fuga per scampare a ciò da cui, lo sapeva bene, non poteva fuggire del tutto.

La giovane Griffin comprese istantaneamente quello che stava cercando di fare e lo assecondò. Non voleva essere respinta proprio ora che il loro rapporto era riuscito a rimettersi perlomeno in piedi.

Annuì, dedicando uno sguardo distratto al leggero tutore che portava sotto i vestiti, e abbozzò un’espressione soddisfatta.

« Va meglio. Ho messo in valigia il bastone, perché la pressione e i cambiamenti climatici mi infastidiscono ancora, ma va tutto bene. Quasi non sento il tutore. » Lasciò andare una breve e velatamente isterica risata.

« Ne sono davvero felice. » Fu l’unica risposta che ricevette, e finse di non notare il triste e desolato sorriso dipinto sul volto di Wells.






 
*



 
 
« Quindi, se ho capito bene, mi stai dicendo che Halsey non ti piace. » Pronunciò Lincoln con tono inquisitorio, portando entrambi i palmi aperti davanti a sé e sollevando un sopracciglio.

« Non è che non mi piaccia », rispose Gina con tono diplomatico, « è solo che… Andiamo, quella voce e quel corpo... Non può essere vera! È semplicemente ingiusto. Io ho lavorato sodo per migliorare la simpatia! » Esclamò, stringendosi nelle spalle con fare disinvolto.

A quel punto Lincoln si abbandonò a una controllata e lieve risata, perché era comunque una persona composta e non particolarmente prona ad esternare i propri sentimenti, sebbene la giovane Martin lo sfidasse più che spesso a fare esattamente il contrario.

« Ehi, nerd! Il pranzo è pronto anche per voi. Non vi aspetteremo mica. » Li richiamò dalla cucina Octavia.

« È meglio andare, o i Blake mangeranno davvero tutto ciò che è in tavola. » Sussurrò Gina, portandosi teatralmente una mano a lato della bocca per non farsi sentire.

« Non sai quanto hai ragione. » Concordò lui, ed entrambi si diressero immediatamente verso la cucina di O e Bellamy. Quest’ultimo li raggiunse un istante dopo, regalando a Lincoln e Gina un sorriso rilassato.

« Raven non viene? »

« Arriva più tardi. Qualcosa riguardo radiatori e valvole. » Rispose Gina, sollevando di poco gli occhi al cielo in un’espressione confusa.

 « Beh, peggio per lei », incalzò la brunetta, alzando il mento con aria di finta superiorità, « non troverà una porzione di lasagne calde ad aspettarla. »
 
 
 
 


 
*







« Raven? »

La giovane Reyes non sapeva di aver desiderato sentire quella voce finché non era salita in automobile e aveva guidato per più di due ore per raggiungerla.

Ma ora lo capiva. Nonostante la rabbia, il rancore, gli errori commessi, le parole dette e, soprattutto quelle non dette, ne aveva semplicemente bisogno.

Si era sempre vista come un’avventurosa viaggiatrice, pronta a scoprire nuove terre e conquistare nuovi tesori fino a diventarne regina, fino ad essere l’unica in grado di ricacciare indietro il dolore e salvarsi da sola.

Quello che aveva tanto tentato di ignorare, però, era che anche le regine, di tanto in tanto, bramavano ritrovare le loro radici.

« Ehi, Finn. » Disse alla fine, portandosi una mano dietro il collo.

Ricordò all’improvviso quando, poco più di un anno prima, si era ripresentata la stessa scena: lei davanti alla sua porta e la sorpresa di lui nel vederla lì. Il pensiero fu quasi ironico, se non fosse per tutte le cose che erano cambiate nel frattempo.

« Stai… Stai bene? È successo qualcosa? » La preoccupazione nella sua voce aumentava sempre di più, così come la confusione sul suo volto, e Raven scosse la testa con veemenza e sicurezza, abbozzando un lieve sorriso.

« Non è successo niente, sto bene. Volevo solo… Vederti. »

A quel punto il giovane Collins sospirò, passandosi una mano fra i capelli, e ricambiò quasi timidamente il sorriso.

« Sono felice che tu sia venuta. »

Raven abbassò lo sguardo, come indecisa, e poi lo riportò in quegli occhi che conosceva come i propri. In quegli occhi che l’avevano amata quando nessun altro l’aveva fatto e che l’avevano ferita più di quanto avesse mai creduto possibile.

Quegli occhi che, senza nemmeno accorgersene, aveva silenziosamente perdonato molto tempo fa.

« Potremmo andare a fare una passeggiata. Che ne pensi? »

Finn non disse niente, ma si richiuse la porta alle spalle e sorrise.



 
 
Camminarono per un lungo tempo, chiacchierando dei loro lavori e delle nuove persone che avevano conosciuto, di modelli di macchine e film al cinema e quale birra artigianale avesse il sapore migliore, e ogni attimo fu al contempo nuovo e antico, semplice come la prima abitudine acquisita durante l’infanzia, un fiume di parole che si accavallavano l’una sull’altra per la fretta di raccontarsi il più possibile.

Passeggiarono senza accorgersi delle persone che gli passavano di fianco o della direzione che stessero seguendo. Anzi, forse non c’era una vera e propria direzione.

I passi si sostituivano e continuavano ad alternarsi di propria iniziativa, senza che nessuno dei due riuscisse a dargli una qualche razionale indicazione.

Finn e Raven lasciarono che tutto quello che era trascorso fra di loro – tempo, parole, sensazioni, rimpianti – li sommergesse e li ripulisse, consegnandogli solo un fresco e tenero inizio, e si permisero di perdonarsi e amarsi in un modo così simile a prima ma mai più diverso da spaventarli, per un attimo o due.

« Non è mai stata mia intenzione ferirti. » Confessò all’improvviso il giovane Collins, incapace di guardarla negli occhi, colpevole sotto il peso delle sue stesse parole.

Lei si fermò, involontariamente permettendogli di fare qualche passo avanti senza di sé, e, quando Finn se ne accorse, si voltò verso di lei, dubbioso.

« Noi saremo sempre una famiglia. » Sussurrò Raven, piena di sorpresa, come se avesse appena compiuto una scoperta in grado di rivoluzionare per sempre ogni cosa.

« Sempre. » Bisbigliò di rimando lui, tornando indietro e prendendole delicatamente una mano.

Era vero: forse non potevano più amarsi come un tempo, nel modo in cui entrambi, per un periodo, avevano tanto creduto di poter fare. Non si sarebbero mai sposati, come invece avevano promesso da piccoli più d’una volta. Niente sarebbe stato più lo stesso.

Ma erano loro a non essere più gli stessi, e andava bene così. Non si conoscevano più, ma si erano conosciuti, e si sarebbero conosciuti di nuovo.

Avrebbero iniziato di nuovo. Non come amici, né come amanti, ma come una famiglia, che era l’unica cosa a non essere cambiata.

« Almeno per oggi smettiamo di essere dispiaciuti, okay? » Propose la giovane Reyes, poggiando la guancia contro la sua spalla mentre camminavano. Finn, al suo fianco, annuì.
 
 
 
 
 


 
*






Cinque ore dopo, dopo aver attraversato gli Stati Uniti e aver consumato più patatine di bordo di quante le hostess potessero offrire in omaggio, Clarke e Wells si ritrovarono nuovamente seduti, questa volta in un taxi.

« Come ti senti? » Domandò la giovane Griffin, ispezionando senza farsi notare il volto del suo fratellastro.

« Credo di aver fatto scorta di cibo spazzatura per i prossimi vent’anni e, a dirla tutta, non ne sono nemmeno dispiaciuto. »
« Intendevo come ti senti emotivamente, qui, in questo contesto. Ma effettivamente le patatine sono un ottimo argomento di intrattenimento. »

Provò a scherzare lei, e anche Wells si abbandonò a una breve e controllata risata.

« Sto bene. Sono solo affari. Prima la sbrighiamo, prima potremo tornare a casa. »

« Già. » Mormorò Clarke fra sé e sé, guardando fuori dal finestrino. « Solo affari. »







 
*




 
 
 
 
Non sapevano come, ma Gina e Octavia erano rimaste sole in casa.

Lincoln e Bellamy erano usciti qualche ora prima omettendo qualsiasi indicazioni, probabilmente troppo indaffarati dai loro soliti discorsi per spiegare loro dove stessero andando di domenica pomeriggio.

Il maggiore dei Blake aveva seguito l’amico senza fare obiezioni, fidandosi completamente e ciecamente del suo giudizio, e aveva lanciato solo un’occhiata veloce alla casa abbandonata alla sua sinistra, rimasta vuota e buia per l’ultimo anno.

Non le aveva prestato attenzione, come aveva imparato a fare ogni giorno dopo l’altro.

Ovviamente, le ragazze non li avevano assecondati, troppo occupate in una partita di scacchi divenuta un duello all’ultimo sangue, in cui la vincitrice avrebbe potuto imporre alla perdente qualsiasi tipo di penitenza.

Le solite sfide settimanali di Gina e Octavia, quindi; nulla di particolarmente strano o inusuale.

Almeno finché il campanello non suonò, ed entrambe si guardarono con un’appena accennata espressione di confusione.

« Stai aspettando qualcuno? » Domandò la giovane Martin, sollevando un sopracciglio.

« Raven ha le chiavi. E poi credi che inviterei qualcuno proprio mentre ti sto facendo il culo? » Rispose retorica la più piccola dei Blake.

« Un semplice no sarebbe stato più che sufficiente. » La schernì l’altra, alzandosi dal divano e rovesciando gli occhi indietro.
« Oh, sì, fai pure. Sei la padrona di casa. »

« Come se ti andasse di alzarti. » Esclamò a gran voce per farsi sentire, appena prima di aprire la porta.

Il sorriso sul suo volto si affievolì, sostituito da un’espressione di stupore e sorpresa, e l’infermiera sbarrò di poco gli occhi.

« Clarke? » Domandò, confusa e attonita.

La sua espressione e il suo tono di voce erano degno ritratto di quelle dell’altra ragazza, mentre la giovane Griffin la guardava con le sopracciglia unite in una linea dritta. « …Gina?  Che cosa- »

« Clarke? » Ripeté un’altra voce, più forte e veemente.

All’improvviso, Octavia apparve alle spalle di Gina, che si voltò per un istante verso di lei e le lasciò spazio.

« Che ci fai qui? » Se non fosse stato per il tono ostile, Clarke avrebbe comunque capito di essere un ospite sgradevolmente inatteso dalla sua posizione difensiva, con le braccia incrociate al petto e le gambe divaricate. Era così simile a suo fratello da far paura.

« Affari. » Sussurrò, d’improvviso priva di qualsiasi coraggio l’avesse spinta a presentarsi a casa Blake. « Io e Wells stiamo vendendo la casa di mia madre. » 

« Mi fa piacere sapere che stiate bene », per un istante la più giovane sembrò addolcirsi di una sincerità che la bionda non poteva mettere in discussione, tuttavia tornò a richiudersi subito dopo, « ma non puoi restare. Devi andartene. »

« Speravo di poter parlare con- »

« Bellamy non è qui. » La interruppe, serrando la mascella. « E credo che sia meglio per tutti che tu non l’abbia trovato. » Abbassò lo sguardo, lasciando trapelare una sottile e affilata tristezza.

« Mi dispiace tanto per ciò che è successo, Octavia. Non è mai stata mia intenzione ferirlo. » Si sentiva esposta, incredibilmente e fastidiosamente esposta, ma non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di spiegare – o perlomeno provarci – perché avesse preso la decisione di andarsene.

Non a Octavia, che si era sicuramente presa cura di suo fratello quando nessun altro era stato in grado di farlo. Nemmeno lei.

E a quanto pare non era stata l’unica. Clarke spostò per un istante gli occhi sul volto di Gina, la miglior infermiera del Mount Weather Hospital, che non vedeva da un anno e che mai si sarebbe aspettata di incontrare in un contesto del genere.

« Lo so. » Assentì la minore dei Blake, sollevando lo sguardo con espressione desolata, come a voler nascondere la commozione. « Ma lo hai fatto. »

Eccola, la triste e cruda verità. Sbattuta davanti ai suoi occhi senza pietà o esitazione, così come malsanamente aveva desiderato fin dall’inizio, quando era solo in grado di schivare e sotterrare.

Aveva voluto qualcuno che le dicesse come stavano le cose perché lei non era mai riuscita ad accettarle, e ora che ci pensava nessuno sarebbe mai stato più brutalmente onesto di Octavia Blake.

Lo meritava.

Perciò: « Mi dispiace per il disturbo. » Fu tutto ciò che riuscì a dire, colpevole e responsabile di aver distrutto l’unica cosa che fosse veramente riuscita a desiderare dopo anni di apatia e rabbia e dolore inarrestabili e impossibili da colmare.

« Prenditi cura di te, Clarke. »

E richiuse la porta.
 
 
 


Ora che era tornata a Los Angeles, nel suo vecchio quartiere, fra le sue vecchie abitudini, e il suo cuore aveva appena ricevuto l’ultima di molte altre piccole ma indimenticabili incrinature, Clarke Griffin non poteva di certo tirarsi indietro da un ultimo ricordo.

Fu per quel motivo, quindi, che per la prima volta senza esitazione o timore si diresse al The 100.

« Non. Ci. Credo! » Non appena la vide, Jasper gridò e abbandonò uno dei tavoli per correrle incontro.

Clarke scoppiò a ridere, ma allargò le braccia per accoglierlo contro di sé e lo abbracciò con tutto l’impeto e l’energia che rivedere il suo migliore amico di infanzia dopo tre mesi poteva infonderle.

Voleva dimenticare ad ogni costo cosa fosse appena successo, cosa credeva che ci fosse tra Bellamy e Gina – che era piuttosto palese, ma ignorò anche questo – e ciò che le aveva detto Octavia.

« Comprerò un biglietto per New York », affermò lui fra i suoi capelli, « lo comprerò oggi. Ma che dico, lo comprerò non appena avrò finito di abbracciarti. Devo vederti. »

« Jasper, mi stai vedendo adesso! »

« Devo vederti anche dopo. Anzi, facciamo che comprerò il biglietto uguale al tuo, così torneremo a New York insieme e potrò dormire per una settimana sul tuo divano. »

« Ti avrei sicuramente lasciato il letto. » Esclamò fiera, staccandosi da lui e guardandolo negli occhi.

« Bugiarda. » Rispose, ma la prese per mano e la condusse verso il tavolo più vicino.

« Non mi avevi detto che avessi iniziato a lavorare qui. » Fece Clarke con tono interrogativo, indicando con un cenno del mento la sua uniforme.

Il giovane Jordan agitò la mano con fare riduttivo. « È solo un impiego estivo. E poi, è come se ci lavorassi già. Trascorro tutto il mio tempo qui. »

« A proposito », iniziò con malizia la bionda, voltando di poco il capo, « esci ancora con quella ragazza? »

« Maya. Oh, sì. La amo da impazzire. » Sospirò. Poi, un po’ meno entusiasticamente, abbassò lo sguardo. « Anche se non gliel’ho ancora detto. »

« Dovresti. » Sussurrò la giovane Griffin, uno strano tono nella sua voce. Come se sapesse esattamente di cosa stava parlando. E, in realtà, lo sapeva bene.

« Sono un codardo. Se… Se lei non provasse lo stesso? Se facessi la figura del completo idiota e lei mi lasciasse per un palestrato superfigo e interessante?»

La bionda sollevò gli occhi al cielo. « Dovresti dirglielo non appena la vedi. »

Sospirò, fermandosi a fissare le proprie mani. Attese un istante, non sapeva esattamente cosa, e poi prese un respiro profondo.

« Dovresti prenderle la mano e farle sapere che non c’è nessun altro che sia stato in grado di farti sentire come ti fa sentire lei. Che quando siete insieme non hai più paura e che ti fa credere in qualcosa di… più. Più di tutto quello che hai mai pensato di poter avere. Più di quanto meriti.

Ma cerchi di farlo, di meritarla, perché non sai se incontrerai mai nessun altro capace di vedere in te quello che vede lei. Oltre la tua rabbia, il tuo dolore, che sono tutto ciò che credi di avere. Ma lei ti ha dimostrato che non è così. Che non sei solo questo. Che non sei solo e basta. Che sei speciale, e puoi essere amato. »

« Woah, Clarke. » Esclamò Jasper, gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa. « Sei sicura che medicina sia la facoltà adatta per te? »

La giovane Griffin abbozzò una risata, internamente incredula di aver appena lasciato trapelare più di quanto fosse pronta, e abbassò lo sguardo, imbarazzata.

Tuttavia, non riuscì a scrollarsi la sensazione di quanto fosse stato facile. Non l’aveva mai creduto possibile prima d’ora, perché ognuno dei suoi sentimenti si era sempre ripiegato dentro al suo cuore in una silenziosa melodia di segreti inconfessabili, ma era stata la cosa più semplice che avesse mai fatto.

Le parole volevano uscire. Volevano accavallarsi e mescolarsi ed essere finalmente libere, così come lei non gli aveva mai permesso di fare.

Poi scosse la testa e un sorriso distratto si distese sulle sue labbra. « Il punto è che dovresti dirglielo. Lei merita di saperlo e tu meriti di lasciarlo uscire. »

« Lo farò. » Acconsentì con sicurezza e convinzione l’amico, ricambiando dolcemente il suo sorriso.

« Ho così tante cose da chiederti. Dov’è Wells? Come sta? E Abby? L’università? La tua vita amorosa? »

La giovane Griffin si portò teatralmente una mano al petto, fingendosi sconvolta per la vivace sequela di domande. « Wells è nella nostra camera d’albergo, giù in centro. Sta… meglio. Non vede l’ora che venga domani per firmare il contratto di vendita e andarcene dalla California.

È, mh, molto difficile per lui stare qui. Ma sta meglio. Ho visto la sua casa, è molto carina. Il suo stile. Ci vediamo una volta al mese, più o meno. »

Il giovane Jordan sorrise, felice di avere buone notizie su uno dei suoi primi amici. Nessuno di loro si aspettava che la prendesse meglio di come aveva fatto, ma sicuramente alcuni di loro avevano previsto molto di peggio.

Perciò era stato bello sapere che il sempre vincente e primo della classe Wells Jaha avesse per l’ennesima volta calciato nel culo chiunque lo ritenesse qualcosa di meno che tenacemente coraggioso.

« Anche mia madre sta meglio. Ha molte più possibilità di restare a casa a riposarsi di quante ne avesse qui. Si dedica ad alcuni hobby, cerca di tenersi attiva, frequenta dei corsi, quando ne ha voglia. Mi chiama ogni giorno. E io le rispondo, adesso. » Scherzò, riferendosi al loro burrascoso e difficile passato.

Non ne era stata capace per molto tempo, e tutt’ora nei giorni peggiori odiava parlarne, ma evidentemente oggi non era uno di questi.

« E tu? » Domandò Jasper.

« Io cosa? »

« Come stai tu? »

« Io… Me la cavo. » Balbettò. « Mi sto impegnando. La mia… La mia gamba sta meglio. Il tutore è sempre qui, ma è molto leggero e a volte mi dimentico perfino di indossarlo. Quando piove uso il bastone, perché il tempo influisce più di quanto vorrei. La cicatrice migliora un po’ ogni giorno. »

Il suo migliore amico si sporse oltre il tavolo e le afferrò la mano, guardandola con sguardo tenue e premuroso. « Non devi per forza parlare della cosa peggiore che ti sia successa. Non era questo che intendevo chiederti. »

Clarke rimase attonita per qualche istante, muta e sorpresa mentre cercava di comprendere le parole di Jasper, e sbarrò di poco gli occhi.

Poi, molto delicatamente, sbatté le palpebre e accennò un nuovo sorriso privo di espressione e convinzione.

Non aveva nulla da dire. Sì, aveva ripreso l’università e questa era stata una fonte di gioia e soddisfazione maggiore di quanto potesse aspettarsi. Sì, era andata a letto con qualche ragazzo, con qualche ragazza, ma solo di questo si era trattato: una notte, un letto, numeri che non aveva intenzione di richiamare.

Queste piccole o grandi gioie l’avevano resa consapevole, e l’essere consapevole di provarle l’aveva portata ad analizzarle, a segmentarle in piccolissimi pezzettini, sezionandole e decontestualizzandole, e tutto questo non aveva fatto altro che farle dissolvere.

Si erano dissipate e disciolte finché non ne era rimasta solamente una nostalgia totalizzante e dolceamara.

La felicità – o le uniche forme che ne avesse conosciuto durante l’ultimo anno – le era scivolata fra le dita un granello alla volta, e lei l’aveva placidamente osservata andarsene, lasciarla con una mancanza inesplicabile, incontenibile e insaziabile.

Perciò era facile rispondere alle domande su Wells o sua madre; gli voleva bene, li amava quale propria famiglia e punto fermo, ma non poteva provarne i sentimenti, e questo era egoisticamente più facile che tentare di spiegare che tutto ciò che riusciva a provare lei, invece, era solo un enorme senso di colpa.

Un enorme rimpianto, quello di aver lasciato andare la sola cosa che le avesse fatto battere il cuore tanto velocemente quando, in realtà, lei voleva solo che si fermasse.

Era per questo che Jasper non poteva lasciar andare Maya, per questo che doveva dirle tutto, regalarle ogni parola e permetterle di amarlo, che, al contrario di quanti molti potessero credere, era in realtà la cosa più ardua da fare. E, paradossalmente, allo stesso momento, anche la più semplice.

Quindi Clarke rispose: « Io? Io sto bene. » E cambiò discorso, chiedendo di Monty, Miller e il resto dei Delinquenti.




 
 

Le passeggiate notturne per le strade della sua adolescenza erano un’altra delle abitudini che non credeva di aver conservato così bene finché non si ritrovò a percorrere il tragitto che conosceva a memoria.

Era rimasta al club fino a notte fonda, ballando con Jasper un’ultima volta come ai vecchi tempi, chiacchierando con gli amici che non aveva più sentito ma con cui era stato altrettanto facile tornare in confidenza e semplicemente onorando, chissà dopo quanto tempo, antiche azioni che sembravano appartenere ad un’ancor più antica vita.

Ora, alticcia per qualche cocktail in più e stanca per il lungo viaggio, camminava semplicemente, lasciando che la lieve brezza della notte le scivolasse fra i capelli, sotto al collo.

Non sapeva dove stava andando, anche se lo sapeva. Tuttavia, non voleva pensarci finché non sarebbe arrivata.

Voleva sentirsi così, leggera e inconsistente ancora per qualche attimo, prima di trovarsi catapultata davanti alla tangibilità e alla crudeltà del suo passato, della sua storia.

Quando svoltò per la via nota e familiare, d’improvviso un brivido la colpì, facendola sussultare e toccarsi distrattamente la coscia sinistra. Ma Clarke continuò a camminare, stringendo le labbra e sollevando di poco le spalle, e si costrinse a non fermarsi mai se non nel punto della sua destinazione.

Quest’ultimo, però, arrivò prima di quanto pensasse, e per un istante lo guardò con estrema attenzione, lo scrutò da lontano, e non fu terribile come aveva immaginato.

Poi spostò lo sguardo verso casa Blake; le luci erano spente. Sapeva che Octavia le aveva detto di non tornare, che era meglio se Bellamy – solo ora si permetteva di pensare il suo nome – non avesse mai saputo che era stata lì, ma lei aveva solo bisogno di sedersi sul suo vecchio portico. Solo per qualche minuto.

Non avrebbe fatto rumore, non si sarebbe fatta vedere, si sarebbe solo seduta sul suo vecchio portico e gli avrebbe detto finalmente addio, l’avrebbe lasciato andare, così come ognuno dei ricordi legati a quella casa.

Perciò continuò a camminare, un passo dopo l’altro nel vialetto buio, e arrivò davanti all’abitazione.

Come sempre, il lampione davanti al suo vecchio giardino era fulminato, e questo le permetteva di nascondersi quasi furtivamente nell’ombra.

Era tutto esattamente come lo ricordava. Ed era vero che era passato solo un anno, ma non per lei.

Per lei, quei dodici mesi erano stati anni, secoli, eoni. Erano pesati giorno dopo giorno, una lenta stagione dopo l’altra, in una ripetitiva e distratta routine sempre uguale a se stessa, in cui ogni giorno si svegliava senza le cose che desiderava di più – che, per essere chiari, non erano affatto cose –.

Rimase a fissare quel portico, immobile sul marciapiede, per qualche istante. Respirò profondamente per scacciare ognuno dei terribili sentimenti che le avevano crepitato sulle gambe e si erano arrampicati fino alla sua gola.

Poi, qualcuno parlò. Sussurrò, anzi, ma lei lo sentì fin dentro le ossa.

« Credevo non saresti più tornata. »

E un piccolo, piccolissimo e minuscolo pezzetto di pace che era sfuggito agli occhi di Clarke fra i tanti frammenti nella sua testa si agganciò ad un altro, e, in quel preciso momento, lei respirò un pochino meglio.

« Bellamy… » Sussurrò al vento, disperata e insieme beata, e solo dopo averlo chiamato si voltò.

Non poteva vederlo bene, perché anche lui era avvolto dal buio, ma al tempo stesso non l’aveva mai visto meglio.

Solo quando fu apparentemente sicuro di aver attirato la sua attenzione, il maggiore dei Blake si sporse e accese la luce della sua veranda.

Era seduto nello stesso modo in cui, più di un anno prima, l’aveva visto per la prima volta. Una sigaretta stretta fra le dita e una coperta poco vicina.

I suoi capelli erano più lunghi di quanto fossero quando lei gli aveva detto che se ne sarebbe andata, ma i suoi occhi e le labbra erano esattamente gli stessi.

Desiderava ancora disegnarli come se fossero un’opera d’arte imperfetta e incompresa, come aveva voluto fare quando gli aveva confessato la propria storia, e lui le aveva raccontato la sua.

Stranamente e incomprensibilmente, non aveva mai sentito la sua mancanza così acutamente come ora che l’aveva davanti e poteva finalmente guardarlo.

Lui si alzò con lentezza, in un movimento calcolato, e la scrutò di rimando. Cosa vedeva? Avrebbe voluto chiederglielo.

« Mia sorella mi ha detto che sei passata, prima. » Il suo tono era indecifrabile, un misterioso enigma, così come la sua espressione.

« Non pensavo l’avrebbe fatto. » Bisbigliò Clarke, non del tutto ripresasi dalla sorpresa di vederlo.

« Sapeva che non saperlo mi avrebbe fatto più male del contrario. »

« Ho visto Gina. » Disse all’improvviso. Quando lui rimase in silenzio, la giovane Griffin si pentì immediatamente di aver sollevato la questione. « Lei è in gamba, divertente, brillante. » Provò a sistemare la situazione.

« Non stiamo più insieme. » Esclamò con impeto Bellamy, che sembrava tanto impacciato quanto lei. Era davvero questo che erano diventati? Due… Estranei imbarazzati l’uno attorno all’altra?

Non sapeva dire se avrebbe preferito la rabbia o il rancore, a questo punto delle cose.

« Ci siamo frequentati per un paio di mesi. All’inizio era semplice, piacevole. Poi sono arrivate le complicazioni, e ci siamo resi conto che eravamo di gran lunga meglio come amici. Siamo molto legati. »

« Mi fa piacere. » Abbozzò un sorriso. « Sono… Sono qui per vendere la casa. » Indicò con il pollice l’abitazione alle sue spalle.

« Oh. »

« Wells è con me. Eravamo pronti, così l’abbiamo messa in vendita. Voleva starmi vicino, siamo venuti insieme. »

« È una buona cosa che siate pronti a liberarvene. »

« Sì. »

« Avete già un acquirente? »

« Già. »

« Ottimo. »

« Domani firmiamo il contratto. Poi… Torniamo a casa. »

« Bene. »

« Bene. »

Silenzio. Lui scalciò contro l’erba sottile del suo giardino, ammirando la punta delle proprie scarpe; lei si strinse le braccia sotto al petto e chinò il capo.

« Bellamy? » Lo chiamò dopo qualche istante, concentrandosi nuovamente sul suo viso. Se questa era la loro ultima notte prima di non rivedersi più, non poteva lasciare che finisse così.

Il maggiore dei Blake scattò con il capo verso la sua direzione, le labbra socchiuse e una strana espressione sul volto.

Fece due passi avanti con esitazione e lentezza, ma non trovò la forza di pentirsene. Non seppe per quale forza della natura o regalo divino fosse possibile, ma lui la imitò, e si trovarono improvvisamente più vicini di quanto entrambi avrebbero sperato anche quella stessa mattina.

« Potrai mai perdonarmi per quello che ho fatto? » Domandò con un filo di voce, come se alzandola avrebbe osato troppo e peccato di altezzosa presunzione, correndo con gli occhi lungo ogni centimetro del suo volto, sforzandosi di memorizzare i dettagli che non poteva permettersi di perdere di nuovo.

« Clarke… » Rispose lui, sollevando con frustrazione le sopracciglia e serrando la mascella. Poi, dopo aver sbuffato dalle narici, si avvicinò con estrema e straordinaria lentezza, senza staccare gli occhi dai suoi, fino a posare la bocca contro i suoi capelli, sopra l’orecchio.

« Ti ho perdonata nell’istante in cui sono uscito da quella stanza d’ospedale », bisbigliò con voce roca, « e ti ho aspettata da quel momento fino ad adesso. Ecco perché non ha funzionato con Gina. Ecco perché non funzionerà con nessun’ altra. »

La giovane Griffin si lasciò andare ad un lamento basso, forse addolorato, forse sollevato, forse entrambi, e oscillò contro il suo petto, abbandonandosi ad esso senza nemmeno alzare le braccia dai fianchi.

« Mi dispiace averci messo così tanto. » Confessò contro il suo collo, e lo baciò lì, nel primo punto in cui riuscì a toccarlo, e sprofondò nella sua pelle, nel suo profumo, in tutto quello di cui per così tanto tempo si era privata.

Ma forse era questo l’insegnamento che i sentimenti che provavano l’uno per l’altra volevano donargli: sapere quando smettere di privarsi di ciò che gli serviva per restare vivi. E forse, questa volta, avrebbero fatto più che solamente sopravvivere.




 

È finita. È finita, non riesco a crederci. Il percorso durato due anni e accidentato da grandi difficoltà si è appena concluso. Un percorso non sempre facile, frutto di ore e ore e ore di lavoro, a cui ho dedicato giorni interi del mio tempo e dei miei pensieri.

Un percorso in cui ho nascosto i miei sentimenti più profondi, le mie segrete insicurezze, i miei sogni più irraggiungibili.
Un percorso a cui sono grata con tutta me stessa, che mi ha dato immense soddisfazioni.

E qui entrate in gioco voi.

Che abbiate iniziato a leggere dall'inizio, che abbiate iniziato a metà, o addirittura da questo capitolo, e anche voi che avete interrotto, perché so che due anni sono lunghi e non tutti hanno la mia stessa pazienza.

Grazie lo stesso a ogni singola persona che abbia letto, che mi abbia scritto una o moltissime recensioni, che abbia, anche solo per un attimo, trovato conforto o compagnia nelle mie parole. Grazie anche a chi non sono piaciute, perché vuol dire che è stato reale.

Sì, questo percorso è stato più reale di molte altre esperienze, e per questo gli sarò grata per tutta la vita.


La finisco qui e smetto di fare la melodrammatica. Voglio solo comunicarvi che non ho per niente finito, ma che anzi ho già iniziato a scrivere una nuova Long che pubblicherò molto, molto a breve. Se volete, potrete trovarla sul mio profilo.

Ancora grazie.


Edit: Ve lo avevo detto che sarei tornata a breve. Walking With Spiders è la mia nuova follia. Sapete dove trovarmi!


 


 

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