The proper time

di Sibylla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Everything I can't be ***
Capitolo 3: *** Get lost in the beauty ***
Capitolo 4: *** Someone I've been missing ***
Capitolo 5: *** Their own place, trying to make it right ***
Capitolo 6: *** Tired of justifying ***
Capitolo 7: *** Come Home -Parte I ***
Capitolo 8: *** Come Home -Parte II ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


«...Così gli avevo detto che se un giorno avesse sperato in un mio sì, avrebbe dovuto fare di meglio di un elastico per capelli. È romantico certo, ma queste cose vanno bene per le protagoniste dei film, non certo per me..., voglio il pacchetto completo io! Beh, comunque stavo scherzando allora -più o meno-, non credevo mi stesse davvero ascoltando. Ma devo dire che alla fine ha fatto davvero un gran bel lavoro...»
«È meraviglioso Lanie, davvero»
Comodamente acciambellata sul divano, Kate rigirò ancora una volta la mano dell'amica tra le proprie, delicatamente, come se temesse che a un tocco più deciso la pietra sul suo indice potesse sgretolarsi.
Non era mai stata un'amante dei gioielli: nelle occasioni speciali le piaceva stupirsi ad ammirare il proprio riflesso impreziosito da qualche ricercatezza, ma nella vita di tutti i giorni l'anello di sua madre, l'orologio di suo padre e la pistola erano tutto il metallo di cui necessitava per sentirsi completa.
Tuttavia dovette ammettere che quel diamante meraviglioso lo era davvero -e grosso anche-, e per qualche istante le venature argentee, e il contrasto che queste creavano contro la bronzea carnagione della sua amica, la lasciarono sopraffatta.
Non poté fare a meno di chiedersi da quanto Esposito meditasse quella proposta: doveva essere parecchio tempo se era riuscito a risparmiare tanto da comprarle quell'anello -si disse, mentre lo osservava incantata.
«Sai, ero piuttosto indecisa se venire qui o meno. Non ero certa se fosse il caso, vista la tua ultima esperienza con anelli del genere...»
Lo sguardo di Lanie si velò di un cupo rammarico, attraverso cui la pietra appariva ora meno luminosa -appannata da un senso di colpa che aveva segretamente premuto per uscire sin da quando lei aveva messo piede in quella casa.
Il vino ondeggiò mesto nel bicchiere sotto la pressione delle dita che, a disagio, cercavano un controllo su qualcosa -qualsiasi cosa- che potesse distrarla da quel pensiero.
«Non dire sciocchezze Lanie, è ovvio che dovessi dirmelo! E vantarsi dell'anello rientra nei compiti di una futura sposa, perciò stai tranquilla. Oltretutto è passato tanto tempo...»
Non c'era ipocrisia in quelle parole, o dolore. Avrebbe facilmente potuto dare l'impressione di riferirsi a una vita non sua, se non fosse stato per quella punta di malinconia nello sguardo, tipica di chi sta ripercorrendo con la mente la scia antica di un ricordo.
Avrebbe voluto risponderle che ormai quella storia faceva parte del suo passato -che non provava più nulla per quell'uomo il cui nome aleggiava ora, pesante e impronunciato, nella stanza- e che la vista di quell'anello, così simile ma così diverso da quello che avrebbe potuto incorniciare il proprio di anulare, non l'aveva portata a domandarsi "e se...".
Ma la donna seduta di fronte a lei era la sua migliore amica, e le doveva sincerità, più di quanta ne riservasse a se stessa. Così, tacque. Perché la verità era che, nonostante fosse felice della propria vita attuale e delle proprie scelte, quando si chiedeva se avesse potuto o voluto fare diversamente, l'unica risposta che riusciva a darsi era che non lo sapeva.
E probabilmente non voleva neanche saperlo.


Erano già passati due anni.
Due anni dal suo nuovo inizio.
Due anni dalla loro fine.
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più: più della paura di rivelarsi cosa fossero, e più di un forse. 
E un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Non a parole, non ce n'era stato bisogno, lui lo aveva letto nei suoi occhi: tutta l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi. Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il proprio desiderio di fuga.
Si era rialzato così come si era inginocchiato: rapido e deciso -un sussulto di lei coperto dal secco richiudersi della scatoletta.
E poi aveva sorriso.
Un sorriso mesto ma sincero, di chi sembrava aver scoperto la più grande delle verità del mondo.
Quel sorriso non era più riuscita a dimenticarlo: veniva a trovarla nella solitudine della notte, quando poteva permettersi di essere debole, e lei vi si nascondeva dentro, rannicchiata al sicuro tra le piccole rughe -affascinanti tracce del tempo sulla sua pelle- che avevano incorniciato anni prima il viso di lui, e che le si erano appiccicate addosso, ciascuna custode di un ricordo di quei cinque anni passati insieme.
In quel momento aveva sentito una parte della sua vita scivolarle via dalle mani e lei non aveva potuto far altro che stare a guardare, inerme: impedirlo sarebbe stato impossibile, come cercare di acchiappare l'acqua.
E di acqua ce n'era troppa: tra le sue dita, nelle sue lacrime...
E ogni goccia le strappava via un nuovo pezzetto di sé, di lui, di loro.
Troppo rapide per darle il tempo di capire se stesse piangendo per il sollievo di una spiegazione che le era stata risparmiata o per la disperazione dovuta alla consapevolezza di averlo perso per sempre, maturata troppo tardi per tornare sui propri passi.
Ricordava ancora come si era sentita allora: quella sgradevole impressione di non essere più in grado di provare nulla -perché non aveva più nulla- finché, da molto lontano, non le era arrivato il tocco leggero della fronte di lui contro la propria, e in quel vuoto una nuova consapevolezza aveva preso piede. Era finita.
Si amavano ancora? Forse. Sicuramente.
Ma quell'ultimo ti amo che lui le stava regalando non era stato che la parola conclusiva a un sentimento cui avevano appena messo fine, prima che fosse lui a finirli.
Ne aveva riconosciuto ogni lettera nel lento sillabare delle sue labbra sulla propria pelle, ardente, come se quelle due parole non fossero state semplicemente sussurrate, ma marchiatele a fuoco sulla fronte.
Ma non era più abbastanza: in quell'universo, in quella vita, o forse semplicemente in quel momento, loro non erano abbastanza.
Dovevano andare avanti.
E così, lo aveva guardato allontanarsi a passi lenti e stanchi -quasi che sulle sue spalle fosse improvvisamente piombato il peso di un migliaio di anni-, ma l'ombra del sorriso era ancora sul suo volto, e Kate era riuscita a vederla anche quando lui aveva voltato l'angolo, sparendo per sempre dalla sua vista e dalla sua vita.
Da quel giorno non aveva mai più visto Rick.
Castle, invece, lo aveva incontrato altre volte.
Dopo un ragionevole silenzio di sei mesi, le loro strade si erano nuovamente incrociate, più spesso di quanto avrebbero voluto. 
Ma era stato inevitabile. Se anche ad accomunarli ormai era solo il 12Th distretto, quest'ultimo era di per sé una presenza abbastanza ingombrante da insinuarsi prepotentemente nel loro dolore.
E in fondo, era anche giusto così: la nascita della figlia di Ryan, l'anniversario della morte di Montgomery... erano tutte occasioni più grandi di loro e dei loro problemi.
Non erano più Rick e Kate, ma erano ancora Beckett e Castle, e in un modo penosamente illogico questo era in qualche maniera rassicurante.
In un modo penosamente illogico, lui era ancora la sua casa.






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Capitolo 2
*** Everything I can't be ***


Everything I can't be

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


L'orologio a muro dell'ingresso segnava le nove e quaranta, quando Kate finalmente rientrò a casa.
Gettate le chiavi sulla prima superficie piana disponibile, si trascinò stancamente fino al bagno, lasciandosi dietro una scia di vestiti frettolosamente dismessi e malamente abbandonati sul pavimento.
In altre circostanze si sarebbe rimproverata per quell'incuria, ma in quel momento -lanciata una breve occhiata dietro di sé, prima di svoltare l'angolo del corridoio- ritrovò in quello scenario l'esatta riproduzione della sua mente: un motore che si ostinava a tirare avanti, perdendo ad ogni passo un piccolo pezzo di sé.
Raccogliere quei vestiti, mettere ordine, avrebbe reso tutto sbagliato. E fasullo.
Sarebbe stato l'ennesimo ipocrita tentativo di fingere che tutto fosse a posto, di costringersi dentro uno schema di abitudini e di regole che, se non interrotto ogni tanto, rischiava di soffocarla.
C'erano momenti in cui semplicemente sapeva di dover allentare la presa su sé stessa e lasciare che un po' di verità trapelasse da quella fortezza di mattoni entro la quale si era di nuovo rifugiata: in parte perché -si ripeteva- aveva anche lei il diritto di essere debole qualche volta, ma soprattutto per evitare che, in assenza di sbocchi controllati, tutto quel ribollire rischiasse di farla esplodere in situazioni in cui davvero non avrebbe potuto permettersi di farlo.
Protetta dalla sola biancheria intima, si sedette sul pavimento, rabbrividendo al contatto con le fredde piastrelle del bagno, e abbandonata la testa sul bordo della vasca, si perdette nel lento scroscio dell'acqua che presto avrebbe ospitato il proprio corpo.
Quella appena trascorsa si era già preannunciata come una giornata pesante fin dalle prime luci dell'alba: un arresto e una pila inattesa di scartoffie non avevano fatto altro che rubarle quell'ultimo briciolo di energia rimastole.
Lasciarsi avvolgere dal calore di un bagno le era sembrata l'unica soluzione logica al proprio stato d'animo, e mentalmente ringraziò per l'ennesima volta sé stessa di non aver dato retta al suo agente immobiliare nell'anteporre la comodità di una doccia ai benefici di una vasca.
Guardarla colmarsi pigramente sotto i propri occhi si era poi rivelato uno spettacolo ipnotico, e mentre le dita distrattamente disegnavano timidi archi sulla superficie dell'acqua, la mente si era ritrovata a rievocare un ricordo che non sapeva d'aver custodito fino ad allora: davanti a lei le volute di vapore avevano così preso le forme di sua madre, Johanna, intenta a districare i capelli di una Kate ancora bambina, il cui viso livido e macchiato di fango raccontava una qualche delusione ormai persa nel tempo. La voce della donna invece sembrava essersi conservata intatta nelle sue memorie, e stava ora dolcemente ripetendole ancora e ancora parole a cui Kate aveva adesso un disperato bisogno di aggrapparsi: “Katy potrà sembrarti sciocco, ma un bagno è molto più di quello che appare. È magico. Se sei abbastanza coraggiosa da lasciare che i tuoi pensieri scivolino indisturbati fuori dalla tua mente, e non hai paura di affrontarli, allora finiranno per sciogliersi nell'acqua, e alla fine andranno via con lei giù per le tubature”.
Gli occhi le si fecero umidi, e non seppe dire con sicurezza se per colpa del vapore.


Quaranta minuti dopo Kate era già stesa sul letto, in pigiama; le mani giunte sopra lo stomaco e il relax di qualche istante prima già un lontano ricordo.
Per quanto il bagno l'avesse aiutata, alleviando la sua stanchezza, adesso che era rimasta sola con sé stessa -senza l'acqua o la schiuma a distrarla- il peso dei suoi pensieri si stava facendo insopportabilmente pressante.
Ruotò la testa verso destra e la sua guancia si beò del tocco fresco delle lenzuola di cotone, mentre lo sguardo si andava a posare sul disordine in fondo alla stanza, reduce ancora della seppur breve permanenza di Lanie in casa sua.
Una settimana era passata in fretta: tra giri della città, cene nei ristoranti più stravaganti e chiacchiere notturne, il tempo era volato, ed entrambe avevano avuto l'impressione che il giorno della partenza fosse arrivato prima del previsto. D'altronde avevano tanto da recuperare, ora che erano lontane, e anche se questo fortunatamente non sembrava aver intaccato il loro rapporto, la felicità di vedersi per un periodo tanto lungo le aveva chiaramente travolte.
Quando quella mattina l'aveva infine accompagnata in aeroporto, nel vederla scomparire dietro la porta a vetri dell'edificio col suo trolley rigonfio di abiti, non aveva però potuto non notare la punta di sollievo che l'aveva colta sul momento.
Adesso che ci ripensava, al buio e nella ritrovata solitudine della propria camera, si sentiva in colpa per aver gioito, seppur lievemente, della partenza della propria migliore amica; una parte di lei tuttavia continuava ad essere in disaccordo, e per quanto Kate si odiasse per questo, non poteva davvero biasimarla.
Quei pochi giorni in sua compagnia avevano riportato nella propria vita, insieme a un'allegria smarrita da tempo, anche un turbinio di emozioni tale da farla cadere nel più nero sconforto. Era stata brava a nasconderlo -o quantomeno, Lanie era stata brava a farglielo credere-, ma era certa che non sarebbe potuta andare avanti per molto.
E se all'inizio aveva creduto di poter gestire la propria mente, e l'intero mondo di cui Lanie -come anche lei in passato- faceva parte, c'era poi stata una sera, la quarta per l'esattezza, in cui si era davvero resa conto di stare scivolando in un pericoloso abisso di fantasticherie.
Lanie di fianco a lei aveva già preso sonno, stremata da un'intera giornata di passeggiate per le vie del centro, mentre lei come al solito era stata colta dalla più vispa delle insonnie. La stanchezza, se anche ci fosse stata, era ormai rassegnata, e da molto tempo aveva smesso di farsi sentire in quelle circostanze, conscia del fatto che non sarebbe comunque riuscita a convincere Kate ad addormentarsi; si sarebbe riproposta più tardi, nei momenti meno adatti, durante i peggiori turni di lavoro, a presentarle il conto e vendicarsi per essere stata così arrogantemente ignorata durante la notte.
Era il plenilunio e i raggi di luna entravano a sprazzi nella camera, attraverso le fessure della tenda, creando pozze argentee e nastri di luce pallida tutto intorno a lei. Uno di questi le si era posato addosso, e quando Kate aveva mosso le mani nell'oscurità alla ricerca della coperta, il filamento argenteo le si era appollaiato sulle dita creando un insolente gioco di luci tale da farle sembrare di stare indossando un impalpabile anello. Senza che se ne rendesse conto era stata rapita da quella vista e solo parecchi, interminabili, istanti dopo si era scoperta assorta in imprudenti congetture circa il come indossare un altro tipo di anello -uno più materiale- l'avrebbe fatta sentire.
Quel pensiero l'aveva terrorizzata.
Quando aveva affrontato la discussione con Lanie, la loro prima sera insieme, le aveva detto che vedere un anello al suo dito non le aveva fatto male, che era passato ormai tanto tempo dall'ultima volta in cui si era sentita trafiggere dalla semplice vista di un solitario. Ed era stata sincera.
Passare davanti le vetrine delle gioiellerie, incappare erroneamente su programmi tv di matrimoni, non erano più cose che la costringevano a scappare via, lontano da tutto e da sé stessa. Anche il semplice immaginarsi sposata, in un lontano futuro -un'eventualità su cui il suo lato più femminile amava rimuginare talvolta, sebbene distante anni luce dalle sue reali intenzioni- era adesso diventata una fantasia sostenibile.
Non necessariamente tutto riportava a lui ormai; e comunque lei col tempo era diventata brava a capire in anticipo quando mettere un freno ai propri pensieri.
Ma quella notte al suo anulare non aveva immaginato un diamante qualsiasi: a contornarlo era stata invece una pietra ben precisa e fin troppo familiare, una pietra che l'ultima volta aveva visto sparire tra le pieghe di tessuto blu di un'incriminata scatoletta, e a cui non sapeva di aver prestato tanta attenzione da poterne ricordare perfettamente le forme ancora oggi, a distanza di anni.
Se Lanie non fosse stata lì, a un paio di centimetri di distanza da lei, probabilmente avrebbe scaraventato contro il muro la lampada sul comodino, colpevole di essere l'oggetto più prossimo alle sue mani, che invece erano rimaste ancorate al lenzuolo, tremanti e imperlate da una patina di freddo sudore, e al sicuro finalmente dall'ingombrante presenza di quei fasci di luce incriminata.
A ripensarci adesso, Kate riusciva ancora a sentire i residui di angoscia albergare tra le pieghe della propria anima, e non poté trattenersi dal lanciare una rapida occhiata alle proprie mani, le cui dita affusolate giacevano placidamente intrecciate tra loro, vestite di un rassicurante buio pesto. Le tende erano state accortamente tirate a coprire l'intera finestra, e la luna sembrava troppo stanca per tentare di violare quella barriera, limitandosi a qualche bagliore annoiato contro il davanzale.
Quella notte sarebbe riuscita a dormire -questo fu l'ultimo pensiero di Kate, prima di crollare esausta in un sonno senza sogni, giunto così improvviso da non permetterle nemmeno di scivolare prima sotto le coperte.



La pioggia ottobrina la colse impreparata.
Avvolta nel suo cappotto blu Kate affrettò il passo, zigzagando tra marciapiede e ballatoi degli edifici, sperando potessero darle una seppur breve tregua dalle gocce sempre più fitte.
Quando l'acqua aveva iniziato a minacciare anche le sue calze, oltre che le scarpe, scorse finalmente l'insegna de “Le Café Charbon”, ed evitando l'ultima pozzanghera, ne afferrò la maniglia e vi si fiondò dentro.
Il tepore del locale l'avvolse all'istante, mentre l'aroma ormai familiare dei croissant già le solleticava le narici e il palato.
Aveva scoperto quel posto dopo appena un mese da che si era trasferita: una domenica mattina, la prima che aveva avuto davvero libera da quando era a Washington, si era finalmente decisa a dare un primo sguardo rilassato alla città che aveva ora il privilegio di chiamare casa, e per pura fatalità aveva finito per imbattersi nelle vetrine colme di paste di quel caffè.
Era stato amore a primo sguardo.
Non seppe dire se ad averla convinta ad entrare fosse stato più il profumo che si sprigionava dall'interno ogni volta che un cliente ne usciva , o l'atmosfera intima e accogliente che già da fuori era in grado di respirare; l'unica cosa certa era che, nel momento in cui aveva varcato la porta del locale, aveva già deciso che il tintinnio di quel campanello, posto in cima all'infisso, avrebbe accompagnato tutte le sue giornate da lì in avanti.
Nonostante fosse ancora piuttosto presto, il locale era già colmo di gente.
Le ci vollero ben due ricognizioni, ma alla fine Kate scorse un tavolino vuoto in un angolino appartato del caffè, e un sorriso fece timidamente capolino tra le labbra: era uno dei suoi preferiti. Insieme a un paio di altri tavoli, quello era il solo abbastanza vicino alla vetrata e sufficientemente distante dal resto dei presenti da permetterle di osservare il mondo circostante senza venirne osservata a sua volta.
Accomodatasi sulla sedia, e liberatasi dell'ingombro del cappotto umido, Kate allungò le braccia sulla superficie di legno e le incrociò davanti a sé, lasciando le proprie dita libere di giocare distrattamente col menù e con i bordi ruvidi del tovagliolo.
Non dovette aspettare troppo prima che il viso bonaccione di Alan, il proprietario, prendesse a trotterellare verso di lei, solcato da un profondo sorriso che Kate trovò, come al solito, irrimediabilmente contagioso.

«Buongiorno Katherine, come andiamo stamattina?»
«Alan, lo sai che non devi farmi certe domande prima che abbia preso il mio caffè»
Il sorriso dell'uomo si trasformò in una grassa risata, incrinata forse dagli ultimi strascichi di una bronchite.
«Piuttosto, dov'è Sabine? È strano non vederla dietro al bancone»
«È in cucina. Stamattina ha bruciato un'intera infornata di biscotti, il che l'ha resa particolarmente nervosa, e quando Sabine è nervosa si sfoga andando nel retro e dando ordini a chiunque, giusto per il piacere di tormentarli» 
Un'alzata di spalle rassegnata accompagnò quelle sue ultime parole, ma a tradirlo furono gli occhi, traboccanti di adorazione per quella donna che pure lo faceva esasperare a volte.
Alan infatti amava enormemente Sabine, e Kate riusciva facilmente a capirne il motivo.
Prese singolarmente erano due delle persone migliori che lei avesse avuto la fortuna di incontrare, uniti formavano un sodalizio perfetto. Erano la classica coppia fatta per stare insieme che, dopo anni di duro lavoro per costruirsi una famiglia e un futuro, si erano goduti i frutti di tanti sacrifici viaggiando alla scoperta del mondo, e ora che gli anni iniziavano a farsi più ingombranti per entrambi, avevano deciso di realizzare il sogno di una vita: aprire un loro locale.
Sabine era figlia di un panettiere, e l'amore per certe preparazioni l'aveva sempre avuto nel sangue. Alan invece era stato un giovane avventuroso che, prima di mettere la testa a posto al college, aveva deciso di concedersi l'ultima follia adolescenziale andando a vivere a Parigi per un anno, mantenendosi facendo il garzone proprio per il padre di Sabine. Si erano conosciuti così, e da allora erano stati inseparabili: seguire Alan in America, per quanto sofferta, era stata una decisione semplice, ma la Francia era rimasta sempre nei loro cuori, e quando il sogno di aprire un locale si era fatto realtà non c'erano stati dubbi su che direzione far prendere a quel progetto.
Più aveva modo di frequentarli, più Kate se ne innamorava: avevano un coraggio, un'energia e una fiducia l'uno nell'altra che lei non era certa sarebbe mai riuscita a provare. Quando li osservava poi, aveva la curiosa e confortante sensazione di stare guardando i propri genitori: se le cose fossero andate diversamente, e sua madre fosse stata ancora viva -si era detta-, probabilmente lei e suo padre nella vecchiaia le sarebbero apparsi esattamente così.
Alan e Sabine erano stati i primi a farla sentire davvero a casa una volta arrivata a Washington.
Conoscerli le aveva dato una ragione in più per legarsi a quel posto.


Cinque minuti dopo, Kate stava già assaporando una squisita brioche alla crema.
Trascorse il resto del tempo a osservare fuori dalla vetrata, sorseggiando di tanto in tanto il proprio caffè, persa nel groviglio confuso dei propri pensieri. Uomini e donne sepolti sotto strati di vestiti le passavano davanti sollevando spruzzi d'acqua che, puntualmente, finivano per posarsi su qualcun altro, la cui espressione corrucciata rendeva perfettamente l'idea di quanto poco gradita la cosa fosse loro.
Apparentemente nessuno in quella città amava la pioggia, fatta eccezione per i bambini che avevano inaugurato il salto della pozzanghera come nuovo sport nazionale. 
Lei era come uno di quei bambini.
Non perché avesse voglia di abbandonare il contegno imposto dalla propria età per andare a infangarsi senza troppi pensieri per strada -non solo almeno-, semplicemente amava la pioggia.
L'odore di erba bagnata, il freddo pungente che preannuncia le prime gocce... erano tutte cose che avevano il potere di rasserenarla.
Inoltre, in quel momento, quella vista unita al profumo di croissant, che l'avvolgeva in una vellutata spirale di dolcezza, le ricordavano intensissimamente il viaggio in Francia di tanti anni addietro, e una dolce nostalgia aveva preso possesso del suo corpo.
«Sembra che l'inverno sia arrivato in anticipo quest'anno»
Alan, giunto all'improvviso a pulire i resti della colazione della donna, ne interruppe il corso dei pensieri.
«Già, non che mi dispiaccia. Anche se sembra che l'inverno abbia aspettato che io finissi di mangiare, e dovessi uscire fuori, per dare il via al diluvio. E stamattina ho fatto il grosso errore di non controllare il tempo prima di scendere, quindi niente ombrello»
Kate rivolse un ultimo sghembo sorriso al suo interlocutore – un mix di mestizia e ironica esasperazione-, prima di tornare a studiare le gocce di pioggia infrangersi sulla vetrata.
Per quanto amasse quel tempo dovette ammettere che raggiungere il posto di lavoro sotto un acquazzone del genere non si prospettava come una bella avventura. Senza la protezione di un ombrello, e senza la sua macchina -ancora in officina per la revisione-, giungere asciutta alla meta appariva come un'impresa impossibile.
Come se avesse letto nei suoi pensieri, Alan tornò pochi istanti dopo con il conto e un ombrello color porpora tra le mani. Kate gli lanciò uno sguardo esterrefatto, già pronta a rifiutare, ma Alan fu più svelto a parlare.
«Come ho già detto, Sabine è parecchio nervosa oggi, e mi ha incaricato di dirti che se non lo accetti con le buone sarà costretta a venire lei e fartelo accettare con le cattive. Personalmente non te lo consiglio» il volto di Alan si illuminò di un bonario sorriso mentre le porgeva l'oggetto «Potresti anche tenerlo, ma poichè sono certo che non lo farai, riportalo tranquillamente domani. Ho il sospetto che ti troverò di nuovo qui»
Detto questo si allontanò, l'andatura traballante a causa del peso non indifferente.
Alternando lo sguardo tra lui e l'ombrello, adesso stretto tra le proprie mani, Kate non riuscì a trattenere un sorriso.


Dopo un paio di minuti da che aveva lasciato “Le Café Charbon”, Washington sembrava aver concesso ai suoi abitanti una breve tregua dalla pioggia, che era notevolmente diminuita. Kate comunque ringraziò di avere un ombrello sopra la testa perché senza, anche in assenza del diluvio di alcuni minuti prima, non se la sarebbe cavata di certo altrettanto bene.
Quella mattina, essendo priva dell'auto, era scesa un po' più presto del solito da casa, per cui aveva potuto fare le cose con maggiore calma prima che il momento di timbrare il cartellino arrivasse, e adesso poteva concedersi una passeggiata piuttosto che una forsennata corsa verso l'ufficio.
Col senno di poi si sarebbe pentita amaramente di quella scelta.
Aveva appena superato la libreria lungo Grosberry Street che qualcosa in quella vetrina catturò la sua attenzione. Aveva in realtà dato un breve sguardo distratto al suo contenuto, ma il proprio inconscio era stato abbastanza rapido da registrare qualcosa di anomalo in quello scenario. Titubante rallentò il passo e fece dietro front, temendo già di conoscere la risposta a cosa avrebbe trovato una volta faccia a faccia con la vetrina.
E infatti eccolo lì, in piedi nel suo solito abito scuro, con un libro in mano e la solita espressione di tronfio orgoglio scolpita in viso. Erano tutti così i suoi cartelloni pubblicitari, tanto che a volte si era chiesta se non ve ne fosse in realtà soltanto uno cui puntualmente cambiavano soltanto copertina al libro.
Era così impegnata ad essere sorpresa che non sentì la sgradevole fitta che, ostinata, stava premendo per trafiggerle lo stomaco. Inoltre, si sentiva infastidita: innanzitutto da quel sorriso, che lui aveva smesso di rivolgerle da tanto tempo -e a buon diritto- ma che ora stava generosamente concedendo a chiunque passasse da lì, e poi perché quella era la sua città adesso, e per quanto potesse essere lei quella in torto, lui non aveva il diritto di disturbarla nella sua città.
E fu allora che la notò, la scritta alla base del cartonato: Richard Castle vi aspetta il 22 novembre in occasione dell'uscita del suo nuovo libro. Ai primi 25 fan che si presenteranno una copia autografata in omaggio, non mancate!
Dovette rileggere parecchie volte prima che il suo cervello fosse in grado di processare la cosa, e le ci vollero parecchi profondi respiri per calmarsi non appena ci fu riuscito. In fondo, si disse, non era nulla di così catastrofico.
Washington era una grande città e lei era sempre oberata di lavoro: le probabilità di incontrarlo erano minime, e anche in quel caso sarebbe stata in grado di gestire la situazione. Non sarebbe certo stato il loro primo incontro da quando la loro relazione era finita e stavolta le circostanze erano persino più favorevoli, non essendoci di mezzo alcun evento che richiedesse la loro contemporanea presenza e che li costringesse a passare insieme più del tempo necessario a un breve saluto.
Mentre rifletteva su questo, e il cervello iniziava a metabolizzare lo shock iniziale, le gambe avevano preso però un'altra direzione, così come ogni muscolo del suo corpo, e nel giro di pochi istanti si era ritrovata a chiedere al gestore del bar adiacente alla libreria dove fosse il bagno.
Senza sapere come o perché fosse arrivata lì, due minuti dopo era già chiusa in uno dei loculi, seduta a gambe incrociate sulla tavoletta, col telefono in una mano.
Uno squillo, due squilli, tre squilli...
«Pronto»
«Lanie, ciao»
«Kate, non pensavo di sentirti così presto, è successo qualcosa?»
«Lui è qui Lanie. Cioè non ancora, ma lo sarà tra due settimane. Castle intendo»
«Oh...»
«Oh? Che vuol dire “oh”? Tu lo sapevi?»
«Beh, sì... senti tesoro mi dispiace, pensavo di dirtelo mentre ero lì da te, ma non ho mai trovato il modo o il momento adatto per tirare fuori l'argomento...»
Kate si agitò scomodamente sull'improvvisato sedile di plastica sul quale era appollaiata: il telefono incastrato tra la spalla e l'orecchio, mentre con le mani tentava di aiutare le gambe a sistemarsi in una posizione, se non confortevole, quantomeno stabile.
«Ma per te non è un problema, no? Tu stessa mi hai detto che ormai non ti fa più effetto la cosa. E poi non è neanche detto che lo incontrerai, ti basterà evitare la zona dell' Hartfort Hotel, è lì che starà»
Prima che potesse rispondere, il rumore dello sciacquone e di una porta sbattuta distrassero entrambe dalla domanda, e forse evitarono a Kate una risposta scomoda.
«Tesoro... ma dove sei?»
«In un bagno. Di un bar. Non so il nome, non c'ero mai entrata prima»
«Ok... e perchè mi chiami da un bagno di un bar che non conosci?»
«Beh avevo bisogno di parlarti, e non potevo aspettare di arrivare in ufficio. Inoltre non potevo restare per strada. Mi stava fissando.»
«Chi ti stava fissando?»
«Lui, Castle! Dovevi vederlo, con quell'aria boriosa e soddisfatta. Se non ci fosse stata una vetrina a dividerci probabilmente gli avrei sferrato un pugno in faccia»
«Immagino tu stia parlando del cartonato pubblicitario...»
«Beh sì, certo... non sferrerei mai un pugno a Castle, quello vero. Credo.»
Una risata cristallina risuonò attraverso l'apparecchio telefonico e Kate si sentì leggermente rinfrancata. E anche un po' stupida. In effetti, ora che ci pensava, l'essersi rinchiusa in un bagno pubblico per parlare al telefono con la propria migliore amica del proprio ex fidanzato aveva del ridicolo. Era dai tempi del liceo che non si dava a certi comportamenti, e forse neanche allora avrebbe reagito in quel modo.
«Ad ogni modo Kate ripeto, se anche doveste incontrarvi dov'è il problema? Non sarebbe certo la prima volta, e forse sarebbe anche un bene. È da mesi che non avete contatti, magari il fatto di rivedervi prima del matrimonio, in una situazione meno... carica, potrebbe essere di aiuto»
«No, hai ragione Lanie. Non c'è nessun problema infatti. È stato solo strano, credo: quando torno a New York sono consapevole che lo vedrò, e sono preparata. Non mi aspettavo di vederlo qui, ecco tutto»
«Ma certo, lo capisco»
«Adesso ti saluto, sarebbe anche ora che uscissi dal bagno e andassi a lavorare. Ti chiamo più tardi»
«D'accordo tesoro, buon lavoro»
Kate riattaccò subito, ma le ci vollero cinque minuti buoni per decidersi ad alzarsi e ad uscire da quel bagno. Col telefono ancora tra le mani non riusciva a non ripetersi nella mente le parole di Lanie: aveva ragione lei, se anche si fossero incontrati dove sarebbe stato il problema?
Da nessuna parte. Il problema non esiste.
Era come aveva detto lei, non si era rintanata in bagno per paura o per dolore, soltanto per la sorpresa di trovarselo davanti all'improvviso, anche se fatto di cartone -e a testimoniarlo c'era il fatto che nel vederlo non era stata male, non come lo sarebbe stata tempo addietro.
Forte di queste riflessioni si rimise in piedi, uscendo finalmente dal loculo dentro cui si era rinchiusa.
Prima di lasciare la stanza si diede un'ultima occhiata allo specchio e si lavò le mani, giusto per dare l'impressione di aver usato il bagno per scopi più maturi di quelli reali.
Lo specchio le rimandò un'immagine contorta: l'aspetto sembrava normale ma i suoi occhi parevano deriderla.
E Kate tornò a chiedersi se invece un problema non ci fosse. E se questo suo neo-riacquistato senso di impotenza e ansia legati alla sua presenza -o alla mera possibilità di essa- non fosse per caso dovuto alle fantasie della notte recentemente trascorsa.
L'ombra dell'anello sembrava essere tornata, indelebile sul dito come il segno di un'abbronzatura lunare.







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Capitolo 3
*** Get lost in the beauty ***


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Get lost in the beauty

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)



Il tramonto non lo aveva mai particolarmente affascinato.
Quella sensazione di fine e di indefinitezza insieme lo aveva sempre lasciato piuttosto indifferente; talvolta aveva persino trovato irritante l'idea di tanto sfarzo solo per annunciare la fine dell'ennesimo, ordinario, giorno.
In passato, nel pieno di alcuni dei suoi periodi più neri, avvolto dalla propria spirale di debolezze e sconforto, quella luce così calda e abbagliante non era stata che una violenza, una beffa al buio del suo animo.
Solo poche volte si era ritrovato a contemplarlo e a viverlo appieno, e quasi sempre c'era stata di mezzo una donna: in fin dei conti era pur sempre un uomo di mondo, un amante dell'amore, e conosceva bene il valore aggiunto all'attrattiva romantica di un tramonto ben gestito.
Ma era tutto qui.
Potendo scegliere, lui preferiva l'alba.
E non solo per la luce fredda che svuota il cielo, da riempire ogni giorno con mille nuovi propositi e aspettative, né per la fragile quiete che porta con sé. Amava l'alba per queste e altre cose insieme, che ne facevano il perfetto coronamento di un momento ancor più perfetto: la notte.
Era nella notte che i crimini più efferati e le passioni più brucianti si consumavano, e i segreti più oscuri venivano rivelati, affidati sottovoce al più nero dei silenzi.
Alla notte aveva commissionato gran parte del proprio successo, dedicandole libri e fervidi racconti, e tra le pieghe della notte in cambio lui si era guadagnato un riparo per i momenti peggiori.
Sì, lui di gran lunga preferiva la notte.
Guardare il tramonto infrangersi sulle nuvole attraverso l'oblò di un aereo, quella però era tutta un'altra storia.
E quella sera di nuvole intorno a lui ce n'erano tante, troppe forse: ed ognuna era orlata di una delicata luce rosea.
Dopo tutto era uno scrittore, un cultore dell'arte: sapeva riconoscere la bellezza quando la vedeva. Anche in un tramonto.
E quel tipo di bellezza era rara, e violenta.
Poche altre cose al mondo avevano quella stessa graffiante semplicità. Ancor meno donne potevano vantarla: nella vita eri fortunato se riuscivi a incontrarne anche solo una così lungo il cammino. Lui, un tempo, era stato fortunato. Ma, com'è noto, la fortuna gira.
Di tramonti così, invece, in certi periodi poteva bearsi anche ogni mese.
E ogni volta era come la prima.


A rompere l'idillio venne la voce gracchiante del capitano, che dall'interfono invitava i signori passeggeri ad allacciare le cinture in vista dell'atterraggio.
Nel regolare la fibbia metallica si lasciò distrarre dalla spia rossa che aveva preso a lampeggiargli insistente sopra la testa, e quasi non si accorse dell'arrivo dell'hostess, sobbalzando quando la sua chioma rossa si insinuò prepotentemente nel proprio campo visivo.
«Mi scusi signore, dovrebbe chiudere il finestrino. Stiamo per atterrare»
Castle annuì, celando dietro un affabile sorriso il sussulto di qualche istante prima, sorriso che gli fu prontamente ricambiato insieme a un lieve rossore sulle gote.
Con le dita ancora appese al perno di plastica del finestrino, attese che la donna si fosse allontanata a sufficienza per poi riaprirlo indisturbato.
Ormai era diventato un gesto automatico, spesso portato a termine per puro istinto di ribellione all'ingiusta regola che gli impediva di gustarsi il panorama proprio nel momento in cui questo acquisiva maggiore interesse.
Ogni volta si riprometteva di chiedere il perché di tale regola, e ogni volta puntualmente se ne dimenticava: magari in tutti questi anni aveva attentato alla sicurezza propria e degli altri passeggeri senza saperlo... Non che questo l'avrebbe fermato con sicurezza dal farlo. Specie oggi, che si preannunciava un raro spettacolo di luci rosee e grattacieli dai riflessi laminati.
Nel pieno della discesa, le nuvole avevano già preso a diradarsi, rivelando qua e là frammenti della città sotto di lui, e man mano che l'aereo scendeva di quota poteva scorgere sempre nuovi dettagli: le chiazze verdi dei parchi, le saette variopinte che erano le macchine... finché anche gli uomini non si svelarono ai suoi occhi.
Improvvisamente una morsa alle budella attentò al suo stomaco, quando si rese conto che in quel groviglio ancora confuso di forme e colori c'era anche Kate.
D'istinto chiuse il finestrino, chiedendosi come questo piccolo dettaglio potesse essergli venuto in mente soltanto adesso. Eppure, non era proprio per questo che aveva mostrato tanta esitazione nell'accettare l'invito a Washington?
Non che fosse un dramma rivederla, ci era ormai abituato e inevitabilmente col tempo era andato avanti, lasciandosi alle spalle quella storia. Tuttavia aveva pur sempre trascorso cinque, densissimi, anni in compagnia di quella donna e conosceva perfettamente l'effetto che aveva su di lui, quindi per esperienza sapeva che era sempre meglio evitare d'incontrarla quando possibile.
Perché dopotutto lui era sempre un uomo, e Kate era sempre Kate.
E ogni tanto, quando la sua vena letteraria lo faceva scivolare in quei poetici momenti bui dell'esistenza che rendono tale uno scrittore, si ritrovava a incappare in scomodi ricordi del loro passato. Come stava accadendo adesso, per esempio.
A distanza di anni non facevano più così male in effetti, e lui aveva imparato a smettere di rimproverarsi di colpe che in fondo non aveva, ma era come con alcuni ritornelli di tormentoni musicali: gli entravano in testa, e magari li ripassava con gioviale nostalgia, ma erano pur sempre fastidiosi. Si riproponevano di continuo, ad ogni sosta del suo cervello -di numero non indifferente, oltretutto- e non riusciva a scacciarli per giorni, se non sostituendoli man mano con altri suoi ricordi, finché questi non si esaurivano o non giungevano reminiscenze più ingombranti da sopportare, che gli fornivano la determinazione necessaria ad alzare la guardia di fronte al potere delle libere associazioni.
Di questi ultimi, il più gettonato era chiaramente il ricordo della sua proposta, e della loro conseguente fine.
Per ovvie ragioni questo scenario aveva sempre conservato un certo potere irritante e, arrivato ad esso, Castle sapeva di stare sfiorando incautamente la linea rossa del pericolo e di doversi fermare.
L'ultima volta che aveva ritardato nel farlo, aveva finito per scaraventare un vaso Ming da 5000 dollari contro la parete del suo studio, e si era fermato solo perché le urla di sua madre di fronte ai cocci si erano fatte più forti delle voci nella sua testa.
Eppure non era tutta colpa sua, non si trattava di semplice autocontrollo, come le aveva candidamente ripetuto più volte Martha, e Alexis, ed Esposito e chiunque altro si fosse sentito in dovere di consigliarlo.
Se loro avessero potuto vedere quello che aveva visto lui, se la avessero vista piangere, lei che non aveva il diritto di versare alcuna lacrima perché segretamente gli aveva detto addio molto tempo prima di quel giorno, allora forse avrebbero capito.
Ancora adesso che il tempo, la rassegnazione, la scrittura e l'affetto delle persone care avevano ampiamente lenito il suo rancore, rivivere quel flashback gli procurava una scarica di adrenalina lungo la schiena.
Ancora adesso ricordava alla perfezione ogni più piccolo movimento: l'avvicinarsi della propria fronte alla sua e quello sfiorarsi, un tocco persino più intimo del bacio che non era riuscito a darle. Come se con quel contatto avesse potuto comunicarle tutto ciò che lei era stata per lui, e ciò che ancora era.
Ma era già finita, lo sapevano entrambi.
Ed era stato giusto così. Inevitabile.
Non c'era stato rimorso o rancore nel suo sguardo, -quello era venuto dopo insieme alla solitudine e al dolore- ma solo tenerezza per una donna che in realtà non aveva mai davvero avuto.
Quel muro non lo aveva che appena scalfito, e colei che aveva creduto di vedere dall'altra parte era stata solo una marionetta, i cui fili erano stati sapientemente tirati dalla donna nascosta al sicuro dietro la propria, impenetrabile, torre di mattoni.


«Signor Castle, da questa parte!»
Appena fuori dalla porta scorrevole a vetri, Castle non fece in tempo a muovere un altro passo nella zona arrivi dell'aeroporto che si sentì chiamare.
Scandagliando rapidamente la folla di parenti e chauffeur di fronte a sé, notò infine una tozza bionda sulla quarantina, di altezza normale ma troppo bassa per la propria massa corporea, che a forza di spinte e svicolate era riuscita a farsi largo tra la gente fino alla prima fila.
Nonostante la sua presenza fosse del tutto inattesa, individuarla non era stato certo difficile: a parte la stazza non indifferente, la donnina aveva preso a sbracciare come per liberarsi da uno sciame d'api, sventolando a mo' di ventaglio il cartello con su scritto il nome dello scrittore, con una veemenza decisamente non necessaria.
Leggermente intimorito, l'uomo prese ad andarle incontro con passo dubbioso, finché non le fu davanti. Solo allora notò il logo dell'Hartforth Hotel cucito sulla camicia.
«Signor Castle, è un onore incontrarla di persona, io adoro i suoi libri!»
«La ringrazio, signorina...»
Castle tese la mano verso la donna che, dopo qualche attimo di ammirata esitazione, gliela strinse, agitando l'intero busto piuttosto che il solo arto.
«Patricia, Patricia Belson!»
«È un piacere Patricia. Non vorrei sembrarle scortese ma posso sapere come mai è qui? Non ricordo di aver richiesto di essere prelevato all'aeroporto»
«Oh, è stata la signora Haas a farlo»
«Paula, ma certo...» soffiò Castle a mezza voce tra un sospiro e un'alzata d'occhi «Aveva paura che scappassi, magari»
L'ironia tagliente con cui il commento era stato fatto non era sfuggita a Patricia che, indecisa su come rispondere per evitare di impelagarsi in una discussione chiaramente scomoda, si limitò a sorridere candidamente, rasserenando di poco lo sguardo corrucciato di Castle.
Ora che la guardava meglio, con le labbra distese in un ampio sorriso e il volto paffuto illuminato dalla dentatura bianchissima e curiosamente perfetta, doveva ammettere che, sotto quegli strati di stoffa variopinta e quell'abbondanza di carne, si nascondeva una donna piacevole e forse, se opportunamente agghindata, piacente.
Inoltre il suo sorriso sincero e vagamente imbarazzato suonava rassicurante, lasciando presagire una piacevole, seppur non richiesta, compagna di viaggio.
L'entusiasmo iniziale andò comunque smorzandosi man mano che la coppia procedeva lungo l'aeroporto, con Patricia che, rotto il ghiaccio, rivelò la sua parlantina nonché il suo fare autoritario nell'impedire all'altro qualunque sosta o spostamento non precedentemente autorizzato da Paula, e Castle che si trascinava stancamente dietro di lei, con il trolley in una mano e risposte unicamente monosillabiche in gola.
Quando avevano infine raggiunto l'uscita, Castle sapeva già che Patricia aveva due figli, un marito sfaticato, un gatto grasso e un'improbabile passione per le barrette ai cereali. La sola cosa che salvò le sue orecchie dall'imminente suicidio fu il suono del proprio telefono squillargli nei pantaloni.
«Paula, proprio la donna a cui stavo pensando...»
«Richard, anche per me è sempre un piacere godere delle tue parole da migliaia di dollari, spero che il volo sia andato bene! Hai già incontrato Patricia?»
«Intendi il cane da guardia che hai mandato a prendermi?»
«Suvvia, non essere esagerato, l'ho fatto solo per rendere il tuo viaggio il meno faticoso possibile, e ti ho evitato l'impiccio del taxi. È deliziosa, non trovi?»
Prima di rispondere Castle lanciò un'occhiata in direzione della donna, che aveva con successo chiuso il portabagagli con la sua valigia all'interno e lo stava ora invitando a raggiungerla in auto, già seduta al posto di guida col solito sorriso a incorniciarle il volto.
«Sì, forse anche troppo. Ora devo andare, ci risentiamo domani»
La voce all'altro capo del telefono lo salutò di rimando, e un sospiro dopo Castle si incamminò verso l'auto prendendo posto accanto alla sua guida.


Quaranta minuti dopo Richard Castle aveva già raggiunto l'hotel, fatto il check in, scaricato cordialmente Patricia, rifiutato una cena, ed era giunto al termine di una rinfrancante conversazione telefonica con Alexis.
Vinto da uno sbadiglio, scambiò un ultimo saluto con la figlia, con l'augurio di una buonanotte e la promessa di richiamarla l'indomani, non appena terminata la presentazione del libro.
Chiuse la chiamata e con un tonfo distese le braccia all'indietro, lasciando che il cellulare rimbalzasse mollemente sul materasso.
Rimase così, in una posizione a stella marina che ricordava vagamente quella di una tortura in voga in passato, per quelli che sembrarono un'ora e invece furono solo venti minuti.
Troppo stanco per scendere al ristorante e rischiare d'intrattenere ulteriori interazioni sociali, chiamò il servizio in camera ordinando una bistecca, un'insalata e un buon bicchiere di vino rosso. Una doccia fu il passo successivo, che lo tenne occupato fino a quando il cameriere -un tipo lungo dall'aria assonnata- non si presentò alla sua porta con la sua cena.
Quando i piatti dinanzi a lui furono finalmente svuotati, il cielo era diventato ormai nero e la città oltre la sua finestra era stata completamente rivestita di Notte.
A passi lenti si avviò verso il letto, facendo il giro largo per poter passare accanto la vetrata e ammirare la sua amata notte in tutta calma. Sotto di lui, tra le fronde danzanti degli alberi e l'insegna di un supermercato aperto ventiquattro ore, vide sfrecciare un'auto della polizia, a sirene spiegate in mezzo al traffico onnipresente di Washington, il che per vie traverse e per le motivazioni più sbagliate, gli ricordò che gli toccava fare un'ultima telefonata prima di potersi finalmente concedere a Morfeo.


La mattina successiva arrivò troppo presto e non nel migliore dei modi: un'ustione da caffè alla lingua e un freddo pungente non avevano aiutato a rendere veloce o indolore il distacco da uno dei letti più comodi che avesse mai provato. Inoltre un'ora dopo si era aggiunta anche Patricia e la sua immensa mole di aneddoti e storie, cui Paula aveva apparentemente dato il compito di pedinarlo in ogni suo spostamento.
Fortunatamente lui era stato piuttosto abile a far perdere le proprie tracce all'angolo tra la Ronson e la Ventiquattresima, e giunti a metà mattina sembrava che la sua giornata dovesse infine iniziare a prendere una piega migliore.
Una volta liberatosi dall'impiccio della compagnia, Castle poté per prima cosa concedersi una lunga e solitaria passeggiata per la città, beandosi dei dettagli e degli scorci che la sua vena scrittoria era in grado di percepire, senza il rischio di venir distratto o di dover condividere le sue scoperte con qualcuno ad alta voce.
Quando fu sazio del paesaggio urbano e della sua fumosa frenesia, si diresse verso il quartiere di Capitol Hill.
Sullo sfondo di quei meravigliosi parchi, le sue orecchie godettero del conquistato silenzio -lì ancor più apprezzabile- e i suoi occhi si imbatterono sull'imponente edificio del Campidoglio, che tuttavia si limitò a osservare da lontano, avendo altre mire.
Raggiunse la sua meta una decina di minuti dopo.
La Biblioteca del Congresso era per lui una tappa obbligata ogni qualvolta si trovava a Washington, fin da quando da bambino vi si era recato la prima volta in compagnia di sua madre.
Era probabilmente un trito cliché -lo scrittore che visita la biblioteca- eppure non poteva farne a meno: sia il maestoso neoclassicismo degli esterni, che l'aria polverosa, quasi sacra, che si respirava all'interno riuscivano ad affascinarlo come pochi altri luoghi al mondo.
Com'era frequente quando si circondava di parole scritte, sia proprie che altrui, il tempo passò incredibilmente veloce, e quando infine uscì dall'edificio era già ora di pranzo: frettolosamente si recò in un ristorante e consumò un rapido pranzo, per poi tornare in hotel dove una doccia e un cambio abiti lo attendevano, in vista della presentazione del proprio libro di quel pomeriggio.


Ogni presentazione si svolgeva in modo pressoché identico.
Per prima cosa c'era qualcuno a presentarlo, poi arrivava lui accolto da una folla più o meno urlante -a seconda del genere e dell'età dei presenti-, seguivano un breve discorso, la presentazione del libro, la lettura di un breve estratto, i ringraziamenti del caso e, per ultimo, la firma delle copie.
Era però una monotonia piacevole: gli dava l'occasione di interagire con ciò che amava fare e con persone che amavano ciò che lui faceva, e occasionalmente lui.
Era buffo pensare a come centinaia di ragazze affermassero di essere innamorate di lui senza averlo mai conosciuto, solo sulla base di parole che lui metteva in bocca a personaggi fittizi e che non necessariamente condivideva. Eppure eccole lì, in fila, in trepidante attesa di una sua parola o di un suo autografo su cui poter fantasticare più tardi.
A questo Richard Castle pensava, mentre la penna correva veloce una pagina dopo l'altra, in un gesto -quello del firmare- ormai diventato automatico negli anni, ma mai totalmente disinteressato.
Del resto era sinceramente grato a quelle persone, anche se a volte si sentiva comunque solo nonostante loro.
Mentre il proprio sorriso e i propri occhi incontravano quelli sognanti della fan di turno, e una carrellata di volti sconosciuti gli sfilava dinanzi, l'ennesimo scomodo pensiero si affacciò alla sua mente, forte della cattiva strada che il suo cervello aveva imboccato il giorno prima in aereo.
Così, tra un autografo e un saluto, prese forma il ricordo di quel giorno in cui l'ennesima voce aveva chiamato il suo nome, ma stavolta a pronunciarlo era stata una bocca familiare, come familiari erano stati gli occhi, i capelli, e quella rughetta d'espressione tra le sopracciglia.
Quello era stato un periodo difficile per loro, e non uno fra i tanti ma forse il peggiore. Quello in cui lui, con l'ombra del suo sangue ancora tra le mani, era finalmente venuto a patti con i propri sentimenti, e lei lo aveva allontanato come sempre, ma con più forza.
Lo aveva sorpreso, negativamente, cacciandolo senza motivo -così credeva lui al tempo- dalla propria vita e rifiutando la sua presenza, e poi, quando si era ormai rassegnato al fatto di avere avuto a che fare con la solita donna caparbia, impaurita e meschina della sua vita, lei lo aveva sorpreso di nuovo. Nel bene stavolta.
Si era presentata di fronte a lui, a testa bassa come non avrebbe mai pensato di vederla, ma con la stessa determinazione di sempre negli occhi.
Quel giorno lui l'aveva ritrovata, o forse l'aveva scoperta per la prima volta, attraverso quella breccia che aveva creduto di vedere aprirsi nel suo muro.
Molte volte, dopo essersi lasciati, aveva immaginato di rincontrarla così, di ritrovarsela davanti inaspettatamente, identica a come l'aveva l'asciata ma forte di un nuovo coraggio. In ogni sua fantasia, in ogni scenario che la sua mente aveva costruito nel corso dei giorni successivi al loro addio -quando il cuore ancora sperava di riaverla- l'aveva sempre immaginata tornare da lui con tra le mani una nuova breccia sul proprio muro, come quella volta alla presentazione del libro: una nuova breccia che, insieme alla prima, gli avrebbe permesso di infilare entrambe le braccia attraverso la sua barriera di mattoni e afferrarla per non lasciarla più andare via, per non permetterle di avere paura e scappare da lui un'altra volta.
Chiaramente non era mai successo.
E col tempo si era convinto che in realtà quella prima fessura che aveva creduto di vedere era stato solo un abbaglio, o che se c'era stata davvero era stata prontamente richiusa in seguito, silenziosamente, senza che lui se ne accorgesse. Approfittando del fatto che lui -che giornalmente la studiava per accertarsi che la breccia fosse ancora lì- aveva poi smesso di controllare, rassicurato da quell'amore che lei finalmente si era concessa di dargli.


«Signor Castle, è stato un immenso piacere. Speriamo di riaverla al più presto qui, magari col suo prossimo libro!»
Quando l'ultima copia era stata firmata, le porte della libreria erano state chiuse, e Castle aveva creduto di poter finalmente godere di un attimo di respiro, il gestore dell'attività gli era letteralmente corso incontro inondandolo di ringraziamenti e complimenti che solo dieci minuti pieni e una copia con dedica per ogni membro della famiglia dell'uomo erano riusciti a fermare.

Esauriti gli ultimi convenevoli Castle fu finalmente libero e, alzato il bavero del cappotto, si addentrò nell'aria umida di pioggia di Washington. Per un breve istante valutò la possibilità di fermare un taxi, di cui le strade erano piene, ma la prospettiva di passeggiare tra i palazzi di Washington, con l'illuminazione stradale che lentamente cedeva il passo alla luce del sole nonostante fossero ancora le cinque del pomeriggio, lo convinse a desistere. Inoltre l'aria fresca sembrava un buon rimedio alla stanchezza, oltre che perfetta rinfrescarsi le idee.
Procedendo a passi lenti per godere più a lungo della città e della leggera brezza contro il suo viso, impiegò il doppio del tempo necessario per arrivare all'hotel.
Quando infine svoltò l'ultimo angolo e intravide in lontananza l'insegna dell'Hartforth si decise ad accelerare il passo: ora che la destinazione era stata raggiunta e il letto era a soli tre piani di distanza, infatti, tutta la stanchezza accumulata durante la giornata aveva deciso di potersi manifestare senza il rischio di controproducenti conseguenze.
Pertanto, quando Castle arrivò a un paio di metri dall'ingresso, fu proprio alla stanchezza che imputò la sagoma slanciata stagliata di fronte a sé, e sempre alla stanchezza attribuì la strana impressione che gli occhi di quella sagoma stessero puntando proprio a lui, con un qualcosa di bizzarramente familiare.

«Kate?»
Il nome uscì prima che il cervello potesse metabolizzarlo. Il tono interrogativo della voce a sottolineare quanta incredulità ci fosse nel solo immaginare l'eventualità che si trattasse di lei.
«Ciao, Castle»
La voce di lei arrivo a spazzare ogni dubbio, riportando a galla quella speciale irritazione che solo lei era in grado di procurargli.
Eccola lì, in piedi di fronte a lui, come aveva sempre immaginato: le mani in tasca, un sorriso sfacciatamente accennato sul volto in contrasto con l'imbarazzo disegnato nei suoi occhi, pur tuttavia illuminati dalla solita, meravigliosa, caparbietà di cui solo Katherine Beckett era capace.
Solo che stavolta era vero.



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Capitolo 4
*** Someone I've been missing ***


Someone I've been missing

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But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)



Coney Island.
Era lì che andava quando aveva bisogno di pensare.
La sua via di fuga -così amava chiamarla.
Il suo posto sicuro.
Quattro miglia di costa fattesi custodi, nel corso degli anni, di ogni suo grande momento: dalla morte di sua madre fino alla decisione di trasferirsi a Washington. 
La stessa Washington che, in oltre due anni di convivenza, non era ancora stata capace di offrirle una valida alternativa -un'altra Coney Island- in cui potersi rifugiare quando le circostanze lo rendevano necessario. Come adesso.
Così Kate aveva dovuto imparare ad adattarsi, scendere a compromessi con una città che le stava dando tanto quanto continuava a toglierle ogni giorno, e lavorare d'immaginazione. Immaginare, ad esempio, che il rumore della sabbia bagnata suonasse come lo scalpiccio umido dell'erba sotto i propri piedi, o che le forme sbiadite, riflesse sul più modesto specchio d'acqua del National Mall, altro non fossero che le giostre dipinte sulla superficie del mare cui era tanto affezionata, dormienti sotto la morsa del gelido inverno NewYorkese. A volte fingere era più facile, e chiudendo gli occhi Kate era persino in grado di rievocare l'aroma pungente dell'oceano e il tramestio delle onde di risacca sulla battigia; altre volte lo sforzo era tale da vanificare ogni suo tentativo, e l'erba tornava ad essere semplicemente erba.
Oggi era una di quelle giornate, una in cui persino l'oceano -quello vero- avrebbe fatto fatica ad alleviare i suoi pensieri.

Con gli ultimi scampoli d'alba a intiepidirle il viso, aveva voltato le spalle al Monumento a Washington e si era incamminata verso la propria auto -assopita all'ombra di un albero, parecchi metri più avanti. Alle sue spalle, il sole la spiava in un timido capolino, ancora ben nascosto dietro la cupola del Campidoglio, regalandole di tanto in tanto qualche pozza di luce più brillante sull'asfalto, in cui immergere i piedi. E Kate ne era avida, poiché il calore del sole era la sola cosa immutata in quello scenario, l'unica che non doveva sforzarsi d'immaginare per poter rivivere: indugiava ad ogni passo, dondolando mollemente il proprio corpo al vento, finché quest'ultimo non la sospingeva un po' più avanti e lei inciampava su un nuovo raggio di sole, e la danza si ripeteva ancora, e ancora... finché non ne fu sazia. E ciò accadde solo quando ormai i contorni del volante erano ben visibili attraverso il lunotto, e un leggero odore di benzina bruciata prese a solleticarle le narici tanto era vicina al serbatoio dell'auto.
Coney Island.
Solo un'altra voce da aggiungere alla lista di ciò a cui aveva dovuto rinunciare.


Spiegare cosa l'avesse spinta in quel quartiere, a quell'ora tarda del pomeriggio, davanti un albergo che poteva a malapena permettersi d'ammirare, le costò parecchia fatica nonché una buona dose di orgoglio ferito da ingollare in unico boccone amaro. 
Il perché volesse trovarvisi non era in effetti un mistero così arduo da decifrare: ciò che davvero le sfuggiva era il quando “ciò che voleva” era diventato anche “ciò che avrebbe fatto”.
Di certo c'era che lavorare le era risultato più difficile del solito -sicuramente non più del previsto. E che ad un certo punto della sua giornata doveva esserci stato un momento, breve ma intenso, in cui aveva deciso che era stanca di sentirsi in difficoltà e, al contempo, di negare strenuamente d'esserlo. Fingere che la data volutamente non cerchiata sul calendario fosse passata altrettanto inosservata al suo cervello era un esercizio fisico -oltre che mentale- infruttuoso, cui non era più intenzionata sottoporsi. 
Così, uscita dall'ufficio, aveva semplicemente lasciato che le gambe procedessero autonome, schiave di un pensiero preciso, rimasto inespresso fino alla fine solo per testardaggine che per sincera ingenuità. Quando infine si era scoperta di fronte l'ultimo luogo in cui avrebbe dovuto trovarsi, a un passo dall'ultima persona che avrebbe dovuto incontrare, aveva provato un certo sconcerto -ma certo non aveva potuto dirsi particolarmente sorpresa.
Sin da quando Lanie aveva incautamente -incautamente? Non ne era più nemmeno tanto certa- nominato il nome del suo albergo due settimane prima, questo si era fatto misteriosamente di passaggio in ogni suo spostamento. Era come essere precipitati in un labirinto in cui tutto appariva familiare eccetto per quei muri, furbi e invisibili, tutt'intorno a lei che, a prescindere da quale direzione lei prendesse, conducevano tutti verso l'unica uscita apparentemente esistente: quella con vista sull'Hartfort Hotel.
Così, tra un insulto all'amica e a uno a se stessa, aveva trascorso i successivi venti minuti a tracciare coi propri piedi una circonferenza invisibile di fronte l'ingresso specchiato dell'edificio, suscitando tra l'altro la curiosità del portiere, indeciso se considerarla come una minaccia o per ciò che era: una donna adulta e indipendente in preda a una sindrome da regressione adolescenziale.
Esitante e concitata, un pollice sequestrato dai denti per l'agitazione, era l'esatta riproduzione esteriore del suo conflitto interiore: ad ogni passo mosso a destra ne seguivano due a sinistra, ad ogni cenno fiero del capo seguiva il titubante contrarsi di un sopracciglio... La folle danza del suo corpo s'interruppe solo quando, dal fondo della strada, riconobbe il familiare incedere di una testa mora, appena picchiettata da sprazzi argentei sulle tempie, irrimediabilmente diretta verso di lei.
Un'intensa ondata di panico la travolse nel veder scivolare via quel poco di controllo sulla situazione che sentiva d'aver mantenuto, nonostante tutto, fino a quel momento.
Nello scenario che aveva immaginato era lei a tenere in mano le redini del gioco, sempre lei a decidere, alla fine dei conti, se scegliere o meno di entrare e chiedere di lui. Aveva del tutto ignorato l'eventualità di un ribaltamento dei ruoli, in cui fosse stata lei -non più lui- a trovarsi incastrata. Decisamente un grave errore d'ingenuità, dovette ammetterlo: non erano forse stati sufficienti cinque anni per capire che, quando si trattava di loro, il destino era sempre stato pronto a scombinare ogni suo piano, rimescolando le carte in tavola?
In un estenuante conto alla rovescia, scandito dal lento e cadenzato ritmo dei passi di lui, Kate comprese di avere a disposizione ancora un momento, uno soltanto prima che l'uomo di fronte a lei alzasse lo sguardo e incontrasse il suo.
In altre circostanze quel momento sarebbe stato più che sufficiente: una donna con la preparazione tattica e i riflessi come i suoi ne avrebbe facilmente ricavato una ritirata dignitosa e del tutto inosservata. Eppure quel nervosismo, che solo fino a qualche istante prima le aveva impedito di star ferma, adesso le stava ostacolando qualsiasi movimento. Rassegnata quindi all'ineluttabilità di quell'incontro, decise quantomeno di prendere da esso tutto ciò che v'era da prendere, compreso il lusso di osservarlo come non faceva da anni: senza fretta o sotterfugi, senza celarsi nel e dall'imbarazzo e risentimento che si erano aggrovigliati, ormai così saldamente, al loro filo rosso.
E il mondo sembrò rallentare nell'istante in cui lui alzò gli occhi da terra, prima che questi si riempissero di lei e della consapevolezza di chi aveva davanti: per Kate fu come sbirciare attraverso la serratura di una camera chiusa, a cui non aveva più accesso. Una camera profonda e accogliente e intima, piena di oggetti familiari e di ricordi, immersi nel chiarore delle sue iridi blu. Poi lui la vide, e tutto cambiò: un attonito battito di palpebre e lo spioncino fu brutalmente richiuso, lasciandola ancora una volta sola, fuori dalla stanza. Davanti a lei, adesso, solo un misto di smarrimento e rabbia, che dagli occhi si riversò lentamente sulle labbra fino a sfociare nel lento sillabare di quello che riconobbe come il proprio nome.
«Kate?»
«Ciao, Castle»
Rispose in maniera quasi sfrontata, il capo torreggiante di un'improvvisa fierezza. Una reazione istintiva di difesa a quello sguardo distaccato e rovente sulla pelle, cui era ormai largamente allenata, ma che le provocava ogni volta una violenta contrattura al cuore.
«Cosa ci fai qui?»
«Ero da queste parti per via di un caso, sai al lavoro.... dovrei essere io a chiederlo a te piuttosto»

La domanda non giunse inattesa, e tuttavia la risposta che ne seguì fu a dir poco raffazzonata, lasciando a Kate la spiacevole sensazione di aver detto la bugia peggiore della sua vita, dove il tono incerto della voce non fece che minare la già scarsa plausibilità della scusa in sè.
«Giusto...
Beh, io sono qui per-»
«
Per la presentazione del nuovo libro, lo so» interromperlo le venne spontaneo, ma col senno di poi non si dimostrò la migliore scelta da fare, non avendo fatto altro che rafforzare i sospetti di lui, già piuttosto netti a giudicare dal modo in cui la stava studiando «Ho visto i cartelloni pubblicitari»

«
Ah sì, come al solito si fanno notare...»

Uno sprazzo di sorriso, chiaramente di circostanza, rese il suo volto meno indagatore e più cordiale. E pur consapevole che questo non ne aveva, comunque, attenuato la freddezza, Kate si sentì leggermente rincuorata a proseguire senza l'imbarazzo di qualche istante prima.

«
Ho sentito che il nuovo libro sta andando bene»

«
Sì, infatti. Fortunatamente per me sembra che la gente non si sia ancora stancata delle mie storie...»

«Mi fa piacere, davvero»

«Grazie... E tu, c
ome vanno le cose qui?»

«
Oh tutto bene, davvero»

Terminato il rigido scambio di convenevoli, un presagibile e inesorabile silenzio calò tra loro, lasciandoli scomodamente ancorati ai loro posti in preda a un nervoso dondolio di corpi e di sguardi.

«
So che sarai molto impegnato ma pensavo... Potremmo prendere qualcosa insieme uno di questi giorni, se ti va. Un caffè magari...»

«
Non credo di potere, in effetti sono parecchio impegnato... Inoltre riparto fra due giorni, quindi ho i tempi molto stretti»

«
Certo, capisco... Proprio una toccata e fuga, eh?»

«Purtroppo è lo svantaggio dei tour:
se dovessi fermarmi a lungo in ogni città che visito non avrei tempo per scrivere e nessun libro da promuovere»

Di nuovo il sorriso di circostanza fece capolino, di nuovo la sua espressione si ammorbidì, ma stavolta Kate fu ben lungi dall'esserne rincuorata.

«
Giusto... Beh, adesso devo proprio andare. Mi ha fatto piacere rivederti comunque, buona fortuna per il tour»

«Grazie»

Nascose le mani in tasca e rimase ancora qualche istante tentennante sulla propria posizione, con lo sguardo scomodamente saldo al suo. Quando nell'immobilità delle sue labbra lesse la certezza che non avrebbe aggiunto altro a quell'ultima scambio di battute, gli dedicò un ultimo cenno di commiato del capo, e si voltò rassegnata in direzione di casa propria.

Fu solo dopo aver mosso i primi passi che la voce di lui la raggiunse: esitante e incerta nel fermarla dall'andarsene come lo era stata lei, pochi istanti prima, nel decidersi a farlo.

«
Magari solo un caffè...»

Con gli zigomi tirati in un tiepido sorriso, ed evidentemente colta di sorpresa, Kate fece dietro front e replico con un semplice “ok”.

«D
omani mattina ho un intervista e poi un pranzo di lavoro, ma nel tardo pomeriggio sarò libero. Sempre che tu non debba lavorare»

«
No, domani pomeriggio andrà benissimo. Alle cinque e mezza qui?»

«D'accordo. A
domani allora»

Una ventata gelida lo colse di sorpresa, costringendolo a stringersi ancor di più nel suo cappotto beige, un attimo prima di varcare la soglia dell'hotel .

Lo sguardo di Kate lo seguì per tutto il tempo, finché la porta girevole non si richiuse sulla sua schiena, restituendole ora solo il riflesso sbiadito della propria immagine.

E in quello sfarfallio di lampioni, stagliati contro le ombre ormai pronunciate della sera, con la voce di lui a risuonargli ancora nelle orecchie, un ricordo le si affacciò alla mente e lei stavolta gli permise d'entrare, lasciando che prendesse forma sulla superficie specchiata della porta.

Loro due,da soli, al distretto.
La sera della chiusura del fascicolo di Melanie Cavanaugh, uno dei primi loro casi insieme.
Riusciva ancora a vedere le tracce di stanchezza e coatta sopportazione sul proprio viso per la negligenza di cui tante e tante volte s'era macchiata la Polizia anche prima del caso Cavanaugh: un pensiero allora irrimediabilmente legato alla morte di sua madre.
Castle le era rimasto accanto, e lei q
uella sera gli aveva aperto il suo cuore per la prima volta.  Per la prima volta aveva scorto in lui qualcosa di più dello scrittore playboy e annoiato che appariva, e aveva percepito un legame: piccolo, ancora acerbo, ma sufficientemente intenso da spingerla a raccontargli di sé e della sua famiglia. E lui l'aveva ascoltata, aveva divorato la sua storia con la stessa voracità con cui scriveva le proprie, ma con altrettanto rispetto e delicatezza. E poi l'aveva semplicemente salutata, ma le sue parole -come accadeva spesso- le erano rimaste impresse per ragioni che non sapeva spiegarsi: forse più per il modo in cui venivano dette che per ciò che realmente significavano.
«Allora a domani, detective»
«N
on puoi dire notte?»

«S
ono uno scrittore, è una parola noiosa.“Allora a domani” è più... ottimista»

«
Già, invece io sono un poliziotto. Notte»

E mentre il mondo reale lentamente tornava a rivivere intorno a lei, rivide la sè stessa di sette anni prima allontanarsi verso l'ascensore e il vetro tornò a riflettere la Kate del presente, in uno sfondo meno familiare del distretto qual'era per lei Washington.
«A domani...»

E avvolta nella sera, scomparve dietro l'angolo.


Il domani arrivò con tempi diversi per entrambi.
Da una parte c'erano Rick e la sgradevole impressione che lo spazio temporale si fosse misteriosamente dilatato durante la notte, una sensazione che non provava dai tempi dei suoi migliori e peggiori dopo-sbornia tardo adolescenziali: i minuti duravano il doppio, le ore il triplo e persino gli One Republic, dalla radio, sembravano aver aggiunto qualche ritornello di troppo alla loro canzone.
Dal canto suo, Kate si era invece svegliata con una strana fretta in corpo: con la sensazione di aver mille cose da fare e tempo per nessuna di esse.
E in effetti, quando la lancetta segnò le cinque, quel pomeriggio, dovette ammettere che, sepolta com'era dalla pila di improvvise scartoffie abbattutesi sulla sua scrivania, di tempo iniziava davvero ad averne poco. Alle cinque e venti fu infine costretta a scendere a patti con la realtà, e ammettere ad alta voce che non sarebbe mai arrivata in tempo all'appuntamento. Il pensiero di disdire la sfiorò per un breve minuto, prima di venire del tutto accantonato in un recesso del suo cervello: a conti fatti sarebbe stata la migliore cosa da fare. Chiamare il suo albergo e fargli comunicare che aveva avuto un contrattempo e non ce l'avrebbe fatta a raggiungerlo le sarebbe costata ben poca fatica, sicuramente molta meno di quanta ne sarebbe servita per affrontare l'incontro stesso.
Di cosa avrebbero parlato? Come l'avrebbe fatta sentire?
Se la semplice idea di parlare con lui senza ricorrenze e amici intorno a proteggerla, pronti a offrire vie di fughe ove necessario, riusciva a innervosirla, come avrebbe reagito trovandosi effettivamente nella situazione?
Tutte domande legittime le sue, e piuttosto pressanti, che tuttavia non la convinsero a desistere dal suo discutibile progetto di cacciarsi volontariamente in quella scomoda situazione.
Così, mentre il suo lato razionale tentava ancora invano di dissuaderla, le dita si erano già tuffate nella borsa alla ricerca del cellulare, e poi nella rubrica veloci sino alla lettera “C” di Castle. Nell'osservare il suo nome, campeggiante a chiare lettere tra i primi posti, un attimo prima che la chiamata fosse inoltrata, Kate rifletté su quanto assurdo fosse stato tenere quel numero per tutto quel tempo, e poi su quanto familiare le fosse sembrato selezionare quella voce, nonostante fossero passati oltre due anni dall'ultima volta in cui lo aveva fatto. La mente di Kate virò allora rapida su un nuovo pensiero: due anni erano davvero tanti, in tutto quel tempo Castle poteva anche aver cambiato numero...
Così, quando il cellulare finalmente esalo a fatica il primo squillo, Kate per qualche ragione tirò istintivamente un sospiro di sollievo. Al quarto squillo l'impazienza aveva già preso possesso del suo corpo e delle sue mani, al sesto finalmente l'altoparlante sputò fuori una voce familiare e le dita presero a picchiettare sul tavolo per un altro genere d'agitazione.
«Pronto?»
«Ciao Castle, sono Kate. Ho avuto un contrattempo a lavoro, un problema burocratico col caso di cui mi sto occupando, e sono rimasta bloccata in ufficio. Non credo di farcela ad essere lì tra mezz'ora...»
«Certo, lo capisco... Vuoi che annulliamo quindi?»
Lo voleva? Una parte di lei continuava a ripetersi che, quantomeno, sarebbe stato più saggio farlo.
«No, in realtà pensavo che potresti raggiungermi qui. Non dovrei averne ancora per molto, e potremmo prendere qualcosa in uno dei locali qui intorno, una volta che avrò finito»
Per una manciata di secondi il telefono le rimandò indietro solo silenzio, e Kate immaginò che Castle dovesse essere rimasto spiazzato quanto lei da quella proposta.
Prima di chiamarlo aveva pensato a cosa voleva fare -vederlo- ma non a come far sì che questo si incastrasse con l'entrata in scena improvvisa del suo lavoro.  L'idea di farsi raggiungere era nata spontanea come risposta ad una domanda che, se qualcuno avesse dovuto scommettere -lei compresa-, avrebbe portato alla disdetta dell'appuntamento. Nulla di strano, quindi, se lui stava ora esitando a rispondere. La vera questione era, avrebbe accettato o avrebbe approfittato della situazione per evitare quell'incontro, come avrebbe forse dovuto fare lei sin dall'inizio?
«Certo, perché no... Ne approfitterò per una passeggiata sin lì, e un ultimo giro della città»
L'esitazione che aveva saturato il silenzio di qualche istante prima aveva semplicemente cambiato sede, riversandosi sulla sua voce; nonostante tutto aveva accettato e Kate si sentì improvvisamente più pesante, gravata di un sorriso che prima non c'era.
«Perfetto, a tra poco allora!»
Un ultimo saluto, e l'altro capo del ricevitore si fece nuovamente muto.
Smaltita di colpo la tensione accumulatasi sulle spalle, riverso all'indietro la schiena, fino far reclinare di qualche grado la poltrona, e rimase immobile così per qualche minuto: le braccia distese verso l'alto, e un cipiglio pensieroso a incorniciarle il volto. Poi un pensiero infantile le si affacciò alla mente, e il sorriso che ancora le adombrava lo sguardo lasciò posto all'irrequieto mordersi di un labbro. Aveva risposto al telefono con un semplice “Pronto”: non aveva pronunciato il suo nome ma neanche chiesto chi fosse... E una piccola parte della sua mente non potè fare a meno di domandarsi se anche lui, come lei, avesse tenuto il suo numero per tutto questo tempo. 
Se avesse risposto sapendo che all'altro capo c'era lei, o se invece non ne avesse avuto idea sino a che non aveva sentito la sua voce.
Quest'ultima eventualità, per quanto logica e più che comprensibile, non le piacque affatto.


Erano le sei quando un pensieroso Castle raggiunse gli uffici federali. 
Alle sei e cinque una Kate meravigliosamente scompigliata fece la sua comparsa nell'androne, anticipata dal risuonare dei tacchi attraverso la tromba delle scale. Una nuova serie di scuse e l'allettante offerta di curiosare in giro in sua attesa -colta al volo dallo scrittore- e scomparve nuovamente tra le porte dell'area riservata agli impiegati.
Solo quando le lancette segnarono infine le sei e mezza, Kate riapparve nell'androne, stavolta libera da qualunque obbligo e giusto in tempo per evitare a Castle un arresto per visione indebita di documenti segretati. Chiaramente non tutto doveva essere cambiato in quegli anni, e i cartelli di divieto alle porte, nonché le restrizioni ufficiali, dovevano ancora essere, senza dubbio, fonte di disturbo e di fascino per Castle.
Risolto l'inconveniente con l'ufficiale di polizia, e lasciatosi alle spalle sia lui che l'intero edificio, i due si incamminarono verso Dupont Circle e la sua chiassosa vita sociale.
In rigoroso silenzio, saltuariamente interrotto da qualche vuoto commento sul tempo e sul panorama, procedettero fianco a fianco attraverso la matassa di stradine e localini disseminati ovunque intorno a loro. Nonostante l'ampia scelta a loro disposizione, optare per uno piuttosto che per un altro si rivelò un compito assai difficile, probabilmente per ragioni più prettamente legate alla loro situazione personale attuale che ad effettive pecche di tali posti.
«Temo che l'ora del caffè sia passata ormai da un pezzo...»
Fermi ad un semaforo, Castle puntò gli occhi sull'asfalto, spingendo la donna accanto a sè a fare altrettanto: le loro ombre, come quelle di chiunque altro intorno, erano ormai scomparse, inghiottite dall'avanzata della luna sopra di loro.
«L'ora del caffè non passa mai, dovresti saperlo»
«Giusto. Ma hai capito cosa intendo»
L'accenno di sorriso sul volto di Castle, il primo segno d'ilarità da che si erano incontrati, la contagiò, alleviando di poco la sensazione di disagio attanagliata al suo stomaco, il che le permise di constatare che lui aveva ragione senza per questo farsi prendere dal panico.
«Magari potremmo cambiare programma, optare per una cena. Qualcosa di poco impegnativo, tipo hamburger e patatine... »
L'ultima frase fu aggiunta con una certa premura, avendo notato un lampo di allarme nello sguardo dell'uomo alla parola cena.
Tuttavia la prospettiva di un hamburger sembrò incontrare il suo favore, e Kate ebbe la sensazione che fosse stato il suo stomaco a rispondere per lui prima ancora che un convinto “sì” venisse emesso dalla sua gola. Cambiato target, la ricerca riprese ma stavolta mostrò rapidamente i suoi frutti e, individuato il più invitante tra i fast food nelle vicinanze, vi entrarono con un entusiasmo quasi puerile. In effetti, si rese conto Kate, a pranzo non aveva toccato che un mezzo toast sfatto preso dalle macchinette, per cui, almeno nel suo caso, quella foga poteva dirsi proporzionata alla sua fame.
Un po' per caso un po' per calcolata scelta, puntarono entrambi allo stesso tavolino, l'unico con le sedie disposte l'una di fronte all'altro anziché vicine, e posizionato in modo tale da affacciare direttamente sulla strada: un punto abbastanza tranquillo per parlare ma non troppo appartato da creare ulteriori imbarazzi.
Contro ogni prospettiva la conversazione, fino ad allora fiacca e languida, prese una piega diversa non appena i loro stomaci cominciarono ad essere riempiti. Nonostante i discorsi vertessero su temi volutamente superficiali e ciarlieri, gran parte del disagio e dell'imbarazzo che li aveva accompagnati lungo la strada sembrava aver deciso di concedere loro almeno un pasto in tranquillità, cosicché anche i pochi silenzi tra loro potevano, almeno esteriormente, essere scambiati come l'innocuo effetto di un panorama distraente piuttosto che di tensioni personali.
Quando Kate si era ormai rilassata, abbandonatasi alla piega positiva che sembrava aver preso la serata, tuttavia la situazione cambiò di nuovo, e i loro compagni “disagio” e “imbarazzo” tornarono prepotenti a farsi ingombranti presenze invisibili tra loro. E Kate ebbe la sensazione che ad invitarli ad entrare fosse stata la chiamata giunta improvvisa sul cellulare di Castle, e da lui prontamente rifiutata: un gesto la cui urgenza non le era passata inosservata. Da quel momento e per una buona ventina di minuti, la conversazione tornò a farsi scarsa e impersonale, con alti e numerosi picchi d'impaccio, per cui nel complesso a mandare avanti la discussione furono più gli sguardi e le cose non dette che le parole pronunciate ad alta voce. E mentre Kate si crucciava, interrogandosi su cosa fosse appena successo, Castle continuava ad agitarsi scomodamente sulla sedia, con la testa altrove e una mano distrattamente posata sul cellulare, schiavo di un pensiero fisso a cui evidentemente non trovava soluzione.
Solo sul finire della cena la sua mente sembrò tornare a rilassarsi, insieme alla sua postura e, probabilmente, al suo stomaco che stava ora recuperando le distanze da quello di Kate, divorando letteralmente la porzione di patatine ancora sana sul vassoio.
Lentamente le cose tornarono a farsi distese, la tensione calò nuovamente e la serata riacquistò quell'andamento gradevole che sembrava aver smarrito strada facendo.
Una manciata di minuti più tardi erano fuori dal fast food, con le menti piene e gli stomachi stracolmi, e solo allora si resero conto che avevano trascorso più di un'ora dentro quel locale. Ciononostante nessuno dei due accennò all'eventualità di terminare la serata e tornare ognuno alle proprie case, piuttosto si lasciarono guidare dalla città, procedendo tra le strade senza alcuna meta. Ad ogni silenzio o pausa nella conversazione, Kate non poteva fare a meno di chiedersi che cosa stessero facendo insieme, da soli, a quell'ora tarda in una città come Washington, dopo tanti anni di distanza sia fisica che emotiva, in quello che chiaramente era qualcosa ben oltre il “semplice prendere un caffè”. Non poteva non domandarsi perché, in primo luogo, lei glielo avesse proposto, né poi perché lui avesse accettato, o ancora perché entrambi non mostrassero ancora segni di voler porre fine al tutto come ci si sarebbe aspettato ormai da ore. Ma ciò che davvero la tormentava era la strana sensazione di essere nel giusto in quel momento lì con lui, e il come fosse possibile che, con una storia come la loro e con tutto ciò di inespresso che aleggiava chiaramente loro intorno, riuscissero nondimeno a passeggiare e parlare come stavano facendo: come fosse una cosa normale e consueta, dove questa normalità riusciva persino a superare quell'intensa sensazione d'esser fuori posto che li travolgeva a ondate, come ad esempio era accaduto solo qualche ora prima a cena. A cena, quando aveva ricevuto quella misteriosa chiamata che aveva trasformato rapidamente il suo umore...
«Posso farti una domanda?»
«Dimmi»
«È un po' personale...»
Gli occhi di Castle si strinsero, e un velo di preoccupazione calò sulle iridi blu, offuscandone la naturale vitalità; tuttavia nessuna parola seguì a quel mutamento d'espressione, e Kate tradusse quel silenzio in un'esortazione a proseguire.
«Prima a cena, quando hai ricevuto quella chiamata, si trattava della tua...»
Lasciò la frase in sospeso, un po' perché indecisa su come definirla, un po' perché non ci teneva a scoprire che effetto le avrebbe fatto dirlo ad alta voce, specie di fronte a lui.
«Sì»  il velo nel suo sguardo si ispessì, fino a incupirsi, e un sospirò sfuggì alle sue labbra prima che potesse riprendere a parlare « si chiama Laura, stiamo insieme da un paio di mesi»
«E lei com'è?»
Kate non fece in tempo a mordersi la lingua che la voce era già uscita, e con essa tutta l'impellenza e l'inadeguata curiosità che con tanta fatica aveva tentato di reprimere all'inizio, quando con estrema cautela e noncuranza aveva posto la prima domanda.
«Scusami forse non è il caso di parlarne...»
«Tutta questa giornata “non è il caso” Kate»
«Già, credo tu abbia ragione...»
Lo vide infilare le mani in tasca con fare rassegnato, e spostare lo sguardo dritto davanti a sé -accuratamente lontano da lei- prima di riprendere la propria marcia a spalle curve.
«È mora, quasi corvina, non molto alta ma, come te, ha una smodata passione per i tacchi, quindi a conti fatti credo di non averla mai guardata dall'effettiva prospettiva, cioè dall'alto... Fa l'avvocato, ed è anche piuttosto affermata, qualche tempo fa ho avuto una piccola bega legale e lei mi ha aiutato a risolverla, è così che l'ho conosciuta...»
Rimasta indietro di qualche passo, Kate si era subito affrettata a raggiungerlo non appena questi aveva preso a parlare, suo malgrado desiderosa di sapere di più su questa donna, e Castle sorprendentemente sembrava essere disposto ad accontentarla, pur con un certo riserbo, nonostante per tutto il tempo si curò di tenere lo sguardo fisso sulla strada, senza mai voltarsi verso di lei.
Nell'adocchiare il sorriso timidamente affacciato sul suo viso o il fulmineo scintillio delle pupille quando raccontava qualche aneddoto divertente relativo a Laura, Kate non poté comunque ignorare le capriole del proprio stomaco, evidentemente maldisposte nei confronti della seppur tiepida allegria che trapelava dal suo volto.
«Sono contenta per te, sembra davvero una bella persona.... E sembra che tu sia felice»
«Lo è, una bella persona...»
A Kate non sfuggì il fatto che avesse risposto a una sola delle sue affermazioni e si chiese se questo avesse un qualche significato. Si chiese anche in che modo poterlo scoprire, riformulando più e più volte nella propria testa centinaia di frasi che potessero farlo cadere in tranello e spingerlo a rivelarsi. Tuttavia, alla fine, ognuna di queste fu saggiamente abbandonata, temendo di potersi spingere troppo oltre e incrinare quella surreale armonia venutasi a creare tra loro.
Così lasciò che la conversazione migrasse verso altri lidi, e tornasse a esplorare territori meno pericolosi e intimi, ma una parte di lei continuò a tenere a mente l'espressione apparentemente serena apertasi sul suo volto durante la parentesi di Laura. E per tutto il resto della serata fu come se Kate fosse impegnata in una gara a distanza contro quella donna, in un continuo tentativo di suscitare in lui, con le proprie parole, quella stessa espressione e quello stesso sorriso che ora veniva forse giustamente, ma non per questo meno irritante, dedicato a un'altra donna.

Fu così che, tra una passeggiata e una chiacchiera, si fecero le nove, e poi rapidamente le dieci... e sarebbero andati avanti ancora e ancora, se non fosse stato per i piedi di Kate che, lasciati liberi di vagare senza meta, avevano inconsciamente imboccato la via a loro più familiare: quella di casa.
«Questa è casa mia...»
Lo esclamò con una nota di stupore, talmente evidente da non passare inosservata neanche a Castle, nei cui occhi Kate lesse un misto di sensazioni tanto indecifrabili quanto ipnotiche.
E ancora una volta si ritrovò a parlare senza pensare, vittima inerme della presa del suo sguardo su di lei.
«Pensi che se ti chiedessi di salire da me, adesso, sarebbe strano... o inappropriato?»
«Sì...»
La sua risposta si perse in un flebile sussurro, essendo tutte le sue energie -Kate ne era certa, perché lo stava provando anche lei- impegnate adesso a sfuggire al magnetismo dei loro sguardi, pericolosamente incatenati, e troppo pigri per per separarsi di propria volontà.
«Ma vorresti salire? Solo per un drink...»
«Sinceramente, non so come rispondere a questa domanda...»
«Castle, sali?»
Le mani si strinsero a pugno, fino a che le nocche non divennero nivee, e Kate semplicemente si lasciò trasportare dagli eventi ,schiava ormai della propria ugola e del suo arbitrario parlare senza prima consultarla. E, egoisticamente, si ritrovò a pregare che anche lui si lasciasse andare, e nello spazio apparentemente eterno che separò la sua risposta dalla propria domanda, sentì il proprio cuore accellerare fino a scontrarsi contro le costole, mozzandole il fiato, facendole tremare le gambe...
Provò a distrarsi seguendo il percorso di una solitaria gocciolina di sudore, che dalle sue tempie stava scivolando rapida giù lungo il viso, fino alla gola e al prominente pomo d'adamo, chiuso in una morsa da cui Castle stava tentando di riemergere, deglutendo continuamente e a fatica. 
E poi il suo sguardo prese a risalire, lungo la linea del collo e ancora su verso la sporgenza del mento, finchè la sua corsa non venne arrestata dal rapido e improvviso aprirsi della mandibola, che a fatica articolò un unico, sordo suono.
«Sì...»

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Capitolo 5
*** Their own place, trying to make it right ***


Their own place, trying to make it right

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


Una volta, da bambino, era quasi annegato.
Sette anni e l'aroma incosciente dell'infanzia ancora appiccicato addosso -insieme a una netta inclinazione al pericolo, una smodata curiosità e la noia tipica dei bambini ricchi, soli e viziati- avevano maturato in lui una notevole predisposizione per ciò che lui chiamava avventure e il resto del mondo guai.
Una di queste un giorno gli era inevitabilmente sfuggita dalle mani, portandolo ad un passo dalla morte.
La sua mente di bambino lo aveva protetto da uno shock potenziale, di modo che l'unico ricordo che conservava di quell'evento era il riflesso del proprio volto sulla superficie schiumosa del torrente un attimo prima di cadervi dentro, e poi più nulla, fino al momento in cui si era risvegliato sul divano di una baita di Aspen, immerso in una pozza di stoffa bagnata e con lo sguardo di sua madre puntato addosso -terrorizzato come l'avrebbe visto poche altre volte nella sua vita.
Non sapeva come vi fosse finito, nè chi lo avesse salvato o quanto tempo gli ci fosse voluto per riemergere.
Tuttavia, nell'operare quella rimozione, il suo inconscio aveva tralasciato di cancellare l'evento anche dalla sua memoria sensoriale, cosicchè ogni volta che si soffermava a pensare a quel giorno veniva colto da un'inspiegabile ansia generalizzata in tutto il corpo, e dalla sgradevole sensazione di venir ripetutamente colpito ai polmoni fino a non avere più ossigeno da respirare.
Adesso, in un certo senso, Rick aveva l'impressione di stare rivivendo quei momenti.
Non sapeva in che modo vi fosse arrivato, né quanto tempo fosse effettivamente trascorso da che aveva accettato di salire: tutto ciò che ricordava era la vista delle mani di Kate, intente a girare le chiavi nella toppa del portone, accompagnata dalla spiacevole impressione d'esser stato trascinato da una qualche violenta corrente su per le scale -o erano saliti in ascensore?- senza possibilità di scampo, sino al divano in cui se ne stava ora timorosamente seduto. 
La sola differenza era che a stordirlo -e a martellargli il petto-  non era stata stavolta la potenza dell'acqua, ma con tutta probabilità il profumo di Kate. Lo stesso di sempre.


Ancora spaesato, e leggermente stordito, si diede pena di guardarsi intorno e capire dove fosse, quantomeno per distrarsi dalla donna di spalle davanti a lui, intenta a versare qualcosa di ambrato -scotch forse?- in un bicchiere.
Aveva una bella casa, moderna e piuttosto grande -non grande quanto la sua certo, ma sicuramente molto più degli appartamenti in cui l'aveva vista vivere in passato.
Non poté fare a meno di chiedersi se davvero quella casa  la rappresentasse, o se fosse stata l'ennesima sua scelta dettata dal puro pragmatismo: nuova, spaziosa, vicina al lavoro e in un buon quartiere. In un certo senso, una parte di lui spero che fosse così, perché per quanto poco vigile potesse essere al momento la sua mente non aveva potuto non notare un dettaglio fondamentale: era spoglia. Terribilmente spoglia.
E la possibilità che quello stato di cose riflettesse l'intimo della proprietaria gli procurò una fitta allo stomaco, sebbene lei non fosse più affar suo da molto tempo.
Che Katrine Beckett non avesse mai mostrato una particolare passione per gli arredi non era certo un mistero: la sua vita per lungo tempo non era stata che una mera ricerca dell'essenziale e del funzionale, e anche dopo aver assistito al rimarginarsi delle sue ferite e a un conseguente cambiamento nelle sue priorità, lo spettro delle vecchie abitudini aveva continuato a vivere in lei, facendone una donna tutt'altro che fronzoli.
Un aspetto che aconti fatti gliela aveva fatta amare ancor di più in passato, semplicemente perché l'aveva resa diversa da tutte le donne in cui si era imbattuto fino ad allora.
L'essenziale di Kate non era mai stato sinonimo di impersonale, tuttavia.
Se infatti era vero che nella sua casa potevano contarsi davvero pochi oggetti di arredo, era altrettanto vero che ognuno di essi era lì per un motivo, ognuno aveva una sua storia. All'esterno potevano apparire comuni -come la famiglia di elefantini sulla sua scrivania- o suscitare immediata curiosità -come nel caso del feticcio di legno scovato nel suo cassetto anni prima- ma su una cosa si poteva sempre scommettere: c'era sempre un perché dietro la loro presenza.
Kate era, ed era stata sempre, una donna con una storia da raccontare, già prima del suo arrivo: lui aveva semplicemente deciso di mettere quella storia per iscritto.
Eppure, nel osservarsi intorno con rinnovata curiosità, Rick si rendeva sempre più conto di quanto quella casa fosse vuota, e di quanto stonasse con la sua proprietaria – o almeno col ricordo che lui ne aveva in memoria: nessun quadro alla parete, solo un paio di foto dei suoi genitori, una scarna libreria con grossi spazi vuoti riempiti -se il caso- da oggetti d'uso comune come candele o ciotole. Di lato alla finestra, due borsoni gonfi se ne stavano dimenticati in un angolo della stanza, e a giudicare dal loro aspetto ingiallito e polveroso dovevano essere stati parcheggiati lì da un bel po' di tempo, conferendo alla casa un'aura precaria, quasi fosse stata reduce da un trasloco.
A parte quell'unica nota stonata la casa però era perfettamente ordinata -il che non fece che avvalorare la tesi di Castle: nulla che fosse fuori posto, nulla che spiccasse o che si facesse notare.
La sola cosa che davvero colpiva era la vista: dietro di loro la città si ergeva oltre la grande vetrata, offrendo uno spettacolo davvero notevole, che culminava nel piccolo parco in fondo alla strada, illuminato dal fioco bagliore dei lampioni le cui tinte aranciate donavano ad erba e cespugli un che di surreale. Ancora una volta la sua conoscenza approfondita di quella donna gli venne in aiuto, non richiesta e inopportuna come al solito, e Rick si convinse con una certa sicurezza che doveva essere proprio quella vetrata il motivo per cui Beckett aveva scelto quella casa così distante da sè.
«Tieni»
La sua visuale venne di colpo occupata dalle forme affusolate di una mano, delicatamente ancorate a un bicchiere colmo sino a metà, spazzando via il flusso dei suoi pensieri.
«Grazie»
Le dedicò un fuggevole sorriso per poi affondare lo sguardo nel bicchiere -la vista dei cubetti di ghiaccio fattasi improvvisamente interessante- così da evitare di guardarla mentre lei, afferrato un secondo bicchiere, si accingeva ora a raggiungerlo sul capo opposto del divano. Sapeva che lei lo stava guardando adesso, e sapeva quanto dovesse apparire ridicolo assorto com'era, col naso praticamente immerso nel suo drink. Tuttavia non aveva ancora trovato il coraggio di alzare gli occhi e incrociare i suoi: sapeva che a guardarla davvero non ci sarebbe stato nulla che non avrebbe fatto, più nessun libero arbitrio a spalleggiarlo.
Con i palmi sudati e scivolosi d'irrequietezza, rafforzò la presa sul bicchiere e se lo portò finalmente alla bocca, ingollando una generosa sorsata d'alcool. Rapido ne sentì il calore attraversagli le viscere e scorrergli nel sangue, in un abbraccio rassicurante che gli diede infine il coraggio necessario ad alzare lo sguardo su di lei.
Era bellissima: con le guance arrossate dall'alcool e i capelli che le ricadevano sul viso in ciocche scomposte seguendo la sottile linea del collo, libero ora dalla morsa del cappotto. Le dita, screpolate dal freddo, giocavano ora col bordo umido del bicchiere ora con un lembo della giacca nera sagomata.
Quella giacca la ricordava, tante volte gliel'aveva vista indossare al distretto e altrettante si era divertito a sfilargliela a fine giornata, al punto che poteva perfettamente immaginargliela addosso, sebbene da seduta le naturali pieghe della stoffa ne falsassero la forma. Era incredibile come ancora, dopo tanti anni, la sua mente fosse piena di lei.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, le parole sospese nell'aria ma ben leggibili.
Di tanto in tanto Kate tornava a sorseggiare il suo drink, mentre Rick giocava col ghiaccio sciolto del suo bicchiere ormai vuoto o distrattamente si lanciava in nuove perlustrazioni della stanza, posandosi  ad ogni nuovo giro su un diverso angolo del viso di kate, con finta noncuranza, fino a ottenerne una fotografia completa in memoria da studiare senza per questo doverla fissare direttamente. Con la coda dell'occhio la vide mordersi un labbro -lo sguardo basso sulle proprie mani- e si sentì attraversare da un'ondata di calore che temeva poco avesse a che fare con lo scotch, giungendo alla conclusione che aveva bisogno di un'altra dose per poter sedare le rimostranze del proprio corpo, o tutt'al più avere qualcosa da incolpare se fossero tornate a farsi sentire.
« Un altro giro?»
La voce gli uscì roca, disabituata a parlare.
«Perchè no»
La vide annuire con la bocca impastata d'un sorriso, e si allungò verso di lei per afferrarne il bicchiere. Nel farlo le loro dita si sfiorarono in un breve contatto.
Si alzò dal divano con una celerità non necessaria per avvicinarsi al piccolo mobile bar sul lato della stanza e riempì entrambi i bicchieri, riservando al proprio un trattamento di favore particolarmente generoso, mentre con l'altra mano si slacciava il primo bottone della camicia, in un'improvvisa e impellente difficoltà a respirare.
Le andò incontro porgendole il bicchiere, stavolta ben attento a evitare qualsiasi contatto superfluo, ma invece che superarla e riguadagnare la propria posizione sul divano, rimase in piedi di fronte a lei in una rigidità che si faceva via via più bizzarra ad ogni secondo passato a fissarla, immobile.
La sua risata giunse infine a ridestarlo e, schiaritosi la gola per smorzare il proprio disagio, si diresse verso la vetrata guardando, senza vederlo davvero, il panorama che questa offriva loro, quasi che se ne fosse appena accorto.
«Hai davvero una vista magnifica da qui»
«È per questo che l'ho scelta»
Un sorriso fece capolino indisciplinato sul suo volto, mentre la testa si autocompiaceva in un inutile crogiolo di ragione.
Nonostante la vista fosse effettivamente stupenda, motivo per cui aveva scelto di piazzarvisi davanti in cerca di una distrazione, suo malgrado i suoi occhi agirono di testa proprio mettendo a fuoco sulla vetrata non più la città ma il riflesso di lei che, alle sue spalle, acciambellata sul divano con la testa voltata verso di lui, si stava liberando ora anche dell'impaccio della giacca.
Tutto il resto passò in secondo piano di fronte alla vista del tessuto bianco della sua canotta contro la pelle, scurita dai toni vellutati della notte.
Un'altra ondata di calore lo colse sul posto, dalle origini stavolta innegabilmente compromettenti.
Fu il campanello di allarme che gli serviva.
«È meglio che io vada adesso»
Il tono risoluto della sua voce mal si sposava con i suoi movimenti lenti e indecisi, e tuttavia fu in grado di mantenere quel tanto d'autocontrollo necessario a fargli recuperare giacca e cappotto, e a non capitolare neanche di fronte allo sguardo fattosi improvvisamente preoccupato di Kate.
«Te ne vai?»
Era scattata in piedi; il contenuto del bicchiere traboccante per il movimento improvviso si riversò in gocce sul tappeto.
«Si è fatto tardi, Kate. E siamo entrambi stanchi...»
E ubriachi.
Questo non lo disse ma dovette quantomeno ammetterlo a sé stesso.
Erano ubriachi, se di alcool o di loro stessi non lo sapeva.
Vide le sue labbra aprirsi in quello che immaginò fosse il disperato tentativo di trattenerlo lì, e le fu grato quando la vide richiudere la bocca senza aver emesso alcun fiato.
Disperato o meno che fosse, lui attualmente lo era di più. E già quel silenzio era una grave minaccia alla sua resistenza.
Il sollievo provato tuttavia si dissolse ben presto nello sguardo di lei, ora carico di una nuova e misteriosa sfumatura che non riusciva a interpretare.
Il secondo campanello d'allarme risuonò nel suo inconscio.
C'era qualcosa, nel modo in cui lo stava guardando adesso, che non riusciva a spiegare ma che lo stava turbando nel profondo, e sebbene nient'altro in lei -né il suo corpo né la sua espressione- fosse cambiato, Rick si sentì improvvisamente in trappola.
Rimase col fiato sospeso, cercando di indovinare cosa sarebbe venuto dopo, ma lei non fece e non disse nulla. Si limitò ad allentare la pressione della propria mano, lasciando che le nocche sbianchite delle proprie dita, strette a pungo, riprendessero lentamente colore, e con un sospiro filtrato attraverso i denti, impegnati in una morsa con le labbra, si voltò dandogli le spalle e si diresse a passi lenti verso la porta dinanzi a sé.
«Allora buonanotte, Castle...»
Lo sussurrò appena, con quello sguardo ancora negli occhi, e sparì dietro la superficie legnosa della porta.
Rick, che l'aveva osservata in silenzio durante tutto quel processo, rimase spiazzato nel vederla dargli le spalle in un turbinio di tacchi e capelli.
L'aveva seguita con lo sguardo, incerto su quanto stesse accadendo o su come dovesse sentirsi, e solo quando l'aveva vista chiudersi dentro quella stanza aveva capito.
Nella sua mente già vulnerabile e priva di difese, il ricordo vivido di loro due in un hotel di Los Angeles lo travolse violento, e la somiglianza tra le due scene non gli sfuggì, facendolo precipitare in un pericoloso e conturbante deja-vu.
Era come essere ripiombati nel passato, e lui era di nuovo lì, in piedi e da solo tra due porte, ognuna delle quali l'avrebbe condotto verso un differente destino: un destino in solitaria e uno con lei.
Quella volta la scelta non era stata sua, come sempre.
Aveva atteso, speranzoso, finché lei non lo aveva ancora una volta chiuso fuori barricandosi dietro la sua protezione, per l'occasione vestitasi delle eleganti spoglie d'una suite di grand hotel.
Stavolta invece nessuna barricata. 
Lei lo aveva ancora una volta lasciato solo in una stanza che era più un bivio, in un limbo da cui sarebbe potuto uscire in due modi diversi, sì. Ma stavolta laveva lasciato la porta socchiusa. E Rick, pur non conoscendo quell'appartamento, non dovette faticare molto a indovinare cosa ci fosse dietro quella porta.
E la sua immaginazione, sempre prodiga di aiuti nei suoi confronti, gli era subito venuta in soccorso, dipingendogli dinanzi agli occhi un quadro tutt'altro facile da ignorare.
«Maledizione»
Gettò con violenza cappotto e giacca nuovamente sul divano, barattandoli col bicchiere di scotch nuovamente riempito per l'occasione.
Lo svuotò in pochi i secondi, lasciando che il liquido gli bruciasse la gola e gli mozzasse il fiato, per poi sbatterlo con forza sul tavolino di mogano.
No, quella volta la scelta non era stata sua, come sempre.
E con un groppo in gola Rick dovette ammettere a sé stesso che anche stavolta la scelta non era sua, come sempre.


La porta si aprì con un lieve gemito, che suonò assordante nel silenzio pesante della casa.
E tuttavia lei di spalle, in piedi al centro della stanza, non diede segno di averlo udito, se non per la tensione che sembrò improvvisamente abbandonarle le scapole: il capo leggermente ruotato verso destra, di modo che la luce della strada, filtrando attraverso le tende, lo accendesse di un alone opaco, delineandone il profilo delicato.
«Speravo capissi, ed entrassi...»
«Ma non ne eri certa »
Non era una domanda la sua, ma una semplice constatazione.
«No...»
Abbandonata la soglia, mosse qualche passo verso di lei, fermandosi a pochi centimetri dalla sua schiena. La sua pelle, lasciata nuda dalla canottiera di lino, era un richiamo troppo invitante perché potesse sottrarsene, e non poté opporre resistenza neppure quando due dita della propria mano si posarono indisciplinate sul suo braccio, percorrendolo in tutta la sua lunghezza.nPoteva sentirne la pelle rabbrividire sotto il proprio tocco, il suo calore tra le proprie dita, la morbida peluria bronzea del suo braccio sollevarsi turbata da quel contatto, e non nascose di provare un briciolo di soddisfazione nel constatare l'effetto che ancora aveva su di lei.
«Neanche io...»
Dio, quanto le era mancata.
Se fino ad allora non gli era stato chiaro, adesso questa nuova consapevolezza trafiggeva ogni fibra del suo essere, stupefacente e terrificante insieme. Pensò che era così che dovevano sentirsi i drogati recidivi dopo la disintossicazione: liberi e sereni, e convinti di aver trionfato sulla propria ossessione, finché non viene loro offerta una nuova dose.
E di nuovo sono condannati.
La misera distanza tra loro venne annullata da un fiacco movimento del capo che, tuffatosi nell'incavo tra la spalla e il collo di lei, reso invitante dal soffice giaciglio offertogli dai suoi capelli, rimase lì a bearsi del suo odore misto al profumo dello shampoo, cosicché quando Rick parlò la sua voce le giunse ovattata.
«È una sciocchezza, Kate...»
Il suo tono era stanco. Non avrebbe mai convinto lei, tanto meno sé stesso. E d'altronde, questo non era il suo obiettivo: sapeva di aver già oltrepassato il limite quando aveva varcato la soglia della sua camera da letto, e ancora prima, quando il giorno prima aveva preferito la sua compagnia a un cortese saluto di circostanza. Ormai non poteva più fermarsi, né andarsene, e una parte di lui -una parte considerevole- neppure voleva.
«Castle...»
Un sospiro, il suono incrinato della sua voce, un corpo che ruota e due mani che lo afferrano: nel giro di un istante i suoi occhi non videro più le pieghe del lino addormentate sulle estremità della clavicola, ma altri due occhi, verdi e penetranti, che ricambiavano il suo sguardo.
Le mani, dapprima timidamente adagiate sulle braccia di lei, erano adesso strettamente ancorate a quelle della donna che, lentamente, lo stava conducendo oltre il cono di luce, verso il letto. Si fermarono solo quando le ginocchia di lei urtarono il materasso, ma fu un breve momento di esitazione: guardò le dita di Kate sfilarsi dalle proprie, e poi la vide sdraiarsi, facendo leva sugli avambracci per spostarsi indietro, finché non fu totalmente distesa. Per ultimo vide le sue braccia aprirsi in una sorta di abbraccio: un incoraggiamento, più che un invito a raggiungerla, semmai lui ne avesse avuto bisogno.
Un solo passo lo separava da lei: un passo che le sue gambe mossero prima ancora che il cervello desse istruzioni.
Si ritrovò a sovrastarla, a cavalcioni sul letto, reggendo il peso del proprio corpo con le mani, aperte sul materasso ai lati del viso di Kate.
Trascorsero così alcuni minuti, a studiarsi in silenzio, come per essere sicuri che in quegli anni di lontananza nulla fosse cambiato e che l'immagine dell'altro combaciasse ancora con quella impressa nelle loro menti. E in effetti nulla in loro era cambiato, sebbene attorno a loro fosse invece cambiato tutto.
Ma in quel momento, dove tutto non contava, c'era solo qualche ruga in più sui loro volti a tradire il passare del tempo.
Si sorprese di nuovo a riscoprire quanto fosse bella.
Non che lo avesse dimenticato -e come avrebbe potuto?- ma adesso che poteva sentirla sua ancora una volta gli era concesso di abbassare le difese e lasciarsi travolgere interamente da quella bellezza: i lunghi capelli a incorniciarle il viso, pallido nella notte, facendo risaltare maggiormente i suoi occhi, pozze verdi e torbide di desiderio, e le sue labbra. Quelle labbra...
Fece pressione sulle braccia per sollevarsi di qualche centimetro e poter guardare meglio la causa di anni di fantasticherie, ma uno strattone a livello del petto lo fermò.
Kate lo aveva afferrato per un lembo della camicia, temendo forse che volesse alzarsi e lasciarla lì, e nel guardarla Castle intravide chiaramente un lampo di paura attraversarle le iridi.
Credeva davvero che l'avrebbe rifiutata?
Pensava che, arrivati a quel punto, avesse altra scelta se non restare?
A quel pensiero non riuscì a trattenere un sorriso rassegnato e nel vederlo Kate si rilassò, senza però lasciare la presa su di lui. Sembrava così indifesa, eppure lui sapeva quanta forza e determinazione si nascondessero in quella donna... L'aveva desiderata per questo, e per lo stesso motivo l'aveva poi persa.
La bocca di Rick si dischiuse appena, autonoma, ma lui riuscì a fermarsi in tempo e fortunatamente non ne uscì alcun suono.
Il “ti amo” quasi sfuggito al suo controllo stava ancora sulla punta della lingua, in attesa di un solo istante di debolezza da parte sua, che però non sopraggiunse.
Non poteva permettersi passi falsi, o il fragile equilibrio che aveva strenuamente raggiunto e che gli consentiva adesso di stare lì con lei, in quel modo, senza andare in mille pezzi, sarebbe andato perduto per sempre.
Lui stesso si sarebbe perso.
Aveva ceduto a qualunque cosa ci fosse stata -o ci fosse ancora- tra loro, sì, ma a patto di non darle un nome, qualunque esso fosse. E “ti amo” non solo era un nome, ma era anche il più pericoloso di tutti.
Quelle labbra, che ancora lo guardavano con aria di sfida, erano la sua migliore possibilità: vi si gettò con foga, incrinando l'aria satura di attesa che aleggiava nella stanza, costringendole ad aprirsi sotto le proprie. Sperò che la lingua di lei, nella folle danza a cui aveva preso parte, lavasse via dalla sua quelle due parole tanto rischiose. Si staccarono solo quando non ebbero più ossigeno nei polmoni, ansanti e tanto vicini da sentire il fiato caldo dell'altro infrangersi sulla propria pelle.
Quando la necessità di respirare divenne meno impellente di quella di averla, Rick tornò su di lei. Abbandonata la bocca, iniziò a tracciare un sentiero con le proprie labbra: prima sul collo, poi sulla spalla e il ventre passando dal seno, e via sempre più giù, attento a non risparmiare neanche un centimetro di pelle.
Era una tortura tanto per lei quanto per lui.
Ma era anche un gioco a cui anni prima erano stati soliti prestarsi, le cui regole imponevano all'uno di resistere e andare avanti finché l'altra ,consumata dal desiderio, non l'avesse implorata di farla finita e prenderla subito. Quando non era lui a cedere per primo, certo.
Stavolta però, nel suo agire, c'era un velo di perfidia: se lui era destinato a star male dopo quella notte -e sapeva che sarebbe successo- allora perché lei non avrebbe dovuto soffrire almeno un po' durante? Pazienza se sentiva bruciare la carne sotto i propri vestiti. Voleva sentirla supplicare, e forse neanche allora l'avrebbe accontentata.
«Castle, ti prego...»
La sentì gemere quando le sue labbra si posarono sotto l'ombelico. Avvertì le mani di lei afferrarlo tremanti per la testa, tentando di tirarlo a sé, troppo deboli perché potessero scuoterlo anche solo di un centimetro. Man mano che scendeva udiva suoni sempre più indistinti provenire dalla sua gola, ma non si fermò ad ascoltare. Non aveva bisogno di capire cosa dicesse per comprenderne il senso. Sapeva di essersi spinto ben oltre i propri limiti, ma continuò ad avanzare finché lo strazio di un impellente bisogno di appagamento non lo costrinse a fermarsi. Ora che anche lui aveva raggiunto la soglia massima di sopportazione, la voce di Kate, seppur ridotta a un sussurro lamentoso, aveva preso a risuonargli assordante nelle orecchie.
Riportò il proprio capo alla stessa altezza di quello di Kate, soffocando la sua voce in un ultimo violento bacio. La mano sinistra andò a inchiodare quella di lei, che si agitava spasmodica sul materasso, mentre con la destra liberò entrambi dall'impaccio di un pantalone troppo stretto. Nella frenesia di quel gesto un bottone saltò via da quell'accozzaglia di tessuti, rotolando indisturbato sul pavimento, mentre un ginocchio di Rick si insinuava tra le gambe di Kate aprendo la strada ad un piacere che non tardò ad arrivare.
Più di una volta i loro corpi si ritrovarono tra le coperte, quella notte.


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Capitolo 6
*** Tired of justifying ***


Tired of justifying

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


L'illuminazione stradale aveva da poco ceduto il passo alla luce naturale.
Le parve di scorgere il sole nel timido riverbero dello specchietto retrovisore, il primo raggio da che era sveglia, e non riuscì a soffocare l'ennesimo sbadiglio al pensiero di aver battuto sul tempo l'alba, di nuovo.
Ancora una volta l'America, aiutata dal soave strepitio del cellulare, le aveva dato il buongiorno nel modo che le era più congeniale: con un omicidio. E ancora una volta non si era curata di chiedersi se le cinque e mezza, un'ora come tante per una città come Washington, fossero altrettanto adatte a lei, che di dormire invece ne avrebbe avuto bisogno. Svoltò per Cannabeel Street con il piede un po' troppo in sintonia con l'acceleratore, approfittando del fatto d'essersi finalmente lasciata alle spalle il centro cittadino con il suo traffico e i suoi semafori rossi, troppi per essere appena le sei di un banale giovedì mattina. 
Dopo una decina di minuti raggiunse finalmente l'ingresso del centro di demolizione.
L'insegna in ferro battuto campeggiava alta e imponente sopra il cancello principale, stridendo fortemente col cimitero di rottami e vecchie carcasse d'auto che si stagliava tutto intorno. Improvvisamente la sua malandata vettura le sembrò perfetta.
Posteggiò al centro di uno spiazzo, e sufficientemente lontano dalla pila di automobili ammassate le une sulle altre, timorosa che in un impeto di gelosia queste decidessero di franare sulla propria. Estrasse con lentezza la chiave, lasciando che le spie luminose del cruscotto venissero inghiottite dall'oscurità, e si abbandonò col capo all'indietro.
Era esausta ancor prima di cominciare.
Attraverso le palpebre chiuse, percepì il fastidio di un raggio di sole più violento degli altri, e si costrinse ad aprire un occhio per esaminarlo ad armi pari.
Non le ci volle molto per individuare la fonte di quel fastidioso riflesso di luce, fastidioso quanto l'oggetto che l'aveva causato: il bottone blu di un pantalone oscillava vanesio davanti al suo viso, sospeso allo specchietto tramite un sottile filo di cotone, mosso da un vento che non c'era. Al centro, il minuscolo inserto in metallo che avrebbe consentito al bottone di chiudersi, se opportunamente accompagnato da un secondo pezzo -attualmente disperso-, catturava avido il sole da ogni angolatura possibile, rispedendone il riflesso al mittente in un continuo e generoso do ut des.
Delicatamente, Kate lasciò che le proprie dita tracciassero in aria quella piccola circonferenza, inducendone una modifica nella traiettoria che alleviò temporaneamente il suo fastidio. Non sapeva perché avesse deciso di costruire quell'insolito pendaglio, né tanto meno perché, di tutti i posti possibili, avesse scelto di posizionarlo proprio in auto.
Aveva trovato quel bottone una mattina di quasi due mesi prima, qualche giorno dopo la loro notte insieme e  non le ci era voluto molto per indovinare chi fosse il proprietario di quel piccolo disperso. La fattura elegante e la costosa marca incisa sul retro avevano spazzato poi via ogni dubbio, se mai ne avesse avuti. Sul momento aveva ovviamente pensato di gettarlo via, come avrebbe fatto chiunque altro di fronte a un ritrovamento tanto insignificante e privo di valore, ma arrivata a un passo dal cestino aveva sviluppato un improvviso e morboso attaccamento per quel pezzetto di plastica, e non aveva avuto cuore di separarsene. Al contrario, aveva passato un'intera giornata a rigirarselo tra le dita, e prima di rendersene conto vi aveva già fatto passare un filo attraverso e lo aveva appeso esattamente lì dove era ora.
Piccolo com'era, c'erano giorni in cui neanche vi faceva caso o in cui esso stesso si nascondeva alla sua vista, dietro la superficie dello specchietto retrovisore. Altre volte invece, Kate aveva come l'impressione che fosse cresciuto in dimensioni durante la notte, e si ritrovava così a fare i suoi viaggi per le strade di Washington con una presenza silenziosa, ma considerevolmente ingombrante, al suo fianco. L'aspetto peggiore di quei giorni, comunque, non era tanto la compagnia in sé -talvolta quasi piacevole- quanto i discorsi che, senza spreco di parole, venivano puntualmente affrontati e che sfociavano regolarmente nella rievocazione della mattina dopo.
Anche adesso, che pure il bottone era rimasto bottone e non s'era fatto passeggero inopportuno, Kate sentiva la sua mente scivolare inarrestabile lungo la pericolosa china di quel ricordo.

Un fruscio di stoffe l'aveva svegliata dal suo sonno. Stanca e confusa, e disabituata com'era alla compagnia nel suo letto, aveva dovuto allungare la mano e scoprire il calore insolito sull'altro lato del materasso per ricordarsi di ciò che si era appena consumato in quella camera, e rendersi conto dell'uomo in piedi, nel buio, di fronte a lei.
«Castle...»
Una punta d'allarme aveva sfaldato le barriere della sua stanchezza, donando alla sua voce ancora impastata dal sonno un tono tuttavia straordinariamente vigile. Non aveva avuto bisogno di accendere la luce per capire che si stava rivestendo.
«Devo andare. Se sarò fuori di qui prima che faccia giorno forse potrò illudermi di aver semplicemente immaginato tutto questo, come sempre»
«Castle, aspetta...»
Sebbene le sue intenzioni le fossero state chiare sin dall'inizio, quando lo aveva scoperto ad aggirarsi furtivo nell'oscurità, il sentirsi confermare ad alta voce la prospettiva di una fuga nel cuore della notte l'aveva trafitta con una violenza tale da spingerla a credere, per un attimo, che lui l'avesse colpita con qualcosa di molto grosso e appuntito. Solo parecchi profondi respiri dopo, insieme alla certezza -tastata con mano per maggiore sicurezza- che facendolo non sarebbe morta dissanguata, l'avevano convinta a muoversi. Colta da un brivido di freddo per l'abbandono improvviso del suo caldo giaciglio, non aveva avuto il coraggio di scendere fisicamente dal letto e separarsi così dal calore delle lenzuola, piuttosto s'era trascinata fino al bordo del materasso e aveva allungato una mano nel buio, nel disperato tentativo di acchiapparlo pur non riuscendo a vederlo.
«Aspetta, Rick. Ti prego!»
«No Kate! Non parlare, per favore... Perché se tu ora mi dicessi di restare io lo farei, lo farei senza pensarci un attimo, e non posso permetterlo. Tu non sei rimasta per me, non sei rimasta con me...»
Aveva scorto un rapido e indistinto movimento nel buio, e aveva immaginato le sue spalle irrigidirsi sotto la durezza di quelle parole. Avrebbe voluto poggiare una mano su quelle scapole, rubare da esse la tensione che sapeva essersi accumulata, ma tutto ciò che le sue dita riuscivano ad acchiappare erano l'aria e la minaccia sempre più vicina della sua assenza.
«Se me lo chiedessi ora direi di sì. Se tu mi chiedessi di sposarti, adesso, io ti direi di sì»
«Il tuo adesso arriva troppo tardi»
Non lo aveva visto uscire, non aveva udito nemmeno il rumore dei suoi passi allontanarsi dalla camera. Aveva solo smesso di sentire il suo respiro risuonare per la stanza -e fino ad allora neanche si era accorta di quanto normale suonasse alle sue orecchie la presenza di quel sottofondo e di quanto fosse sbagliata la sua assenza. E poi era arrivato il fragore della porta, sbattuta violentemente contro lo stipite.
Quel tonfo sordo aveva spazzato in un sol colpo ogni cosa dalla sua mente, lasciandola sola senza neanche più un pensiero a cui aggrapparsi. Le mani, ancora tese verso il nulla, erano ricadute inermi sul materasso, ma con l'adrenalina ancora non smaltita del tutto erano andate a chiudersi intorno alla prima cosa che avevano trovato: le lenzuola. Senza mollare mai la presa, se le era avvolte intorno al corpo ripetutamente, fino al punto da non potersi più muovere, e si era poi rannicchiata sul lato del letto in cui fino a qualche istante prima aveva giaciuto lui, accoccolandosi tra le spire del suo calore ancora vivido sul materasso. Si era addormentata così, senza cuscino e con la sola compagnia di una lacrima solitaria, venuta ad animare il suo viso altrimenti inespressivo.

Un urlo e l'inconfondibile odore di copertoni bruciati riportarono la sua attenzione al presente.
Già da lì poteva vedere la piccola folla di uomini della scientifica e poliziotti riunita, presumibilmente, attorno al cadavere: come schegge impazzite saettavano da un lato all'altro del perimetro, quasi che un omicidio nell'alba americana fosse una cosa rara a vedersi. Lei invece, per quanto si sforzasse, non riusciva a farsi coinvolgere da quella frenesia, forse perché ancora troppo assonnata e con una grave insufficienza da caffeina, forse perché distratta da altri pensieri o forse perché, semplicemente, troppo avvezza ormai ai morti. Rassegnata mai, ma l'abitudine era talvolta un inconveniente del suo lavoro.
Un lavoro che si era scelta e che adesso la reclamava.
Fece schioccare le dita sul volante, come a volersi dare la carica, e finalmente si decise ad uscire dall'abitacolo, richiudendosi la portiera alle spalle con un colpo secco.
Procedette spedita in direzione dei suoi uomini, ben stretta nel suo cappotto blu per ripararsi dall'umidità notturna di cui l'aria era ancora satura. L'eco dei suoi tacchi si fuse gradualmente con le voci dei presenti e, quando ormai mancavano solo pochi metri alla sua meta, riuscì a scorgere una mano penzolare fuori dal sedile di un catorcio arrugginito. Un sorriso amaro le si disegnò sul viso.
No, forse -e per fortuna- non si sarebbe mai abituata alla morte.


Era stata una giornata pesante, complicata ulteriormente da un assassino con la passione per la piromania e una vittima dal volto troppo noto e dalla vita privata insospettabilmente vivace. Gran parte del pomeriggio lo aveva trascorso ad ascoltare il suo capo dipartimento sottolineare, per l'ennesima volta, i rischi del trovarsi tra le mani un caso di così dominio pubblico quale prometteva di essere quello. In pratica aveva, e in maniera neanche troppo velata, ricordato loro che per quanta libertà d'agire gli fosse concessa dal proprio distintivo, c'erano comunque dei limiti che era necessario non superare, mai.
Era forse questo ciò che odiava di più del suo lavoro attuale: una gran dose di potere, ma solo apparente, tenuto al guinzaglio dalle macchinazioni della politica e del governo. Scaraventò con ben poca delicatezza i fascicoli del caso sul divano, e si versò un bicchiere di vino, prima di prendere posto accanto a loro. Per quanto portarsi a casa il lavoro non fosse un ostacolo alla sua vita sociale pressoché inesistente, la sua capacità di concentrazione quella sera languiva così come la sua voglia di cercarla.
Arrivata al fondo del suo bicchiere, non aveva ancora nemmeno aperto il primo fascicolo e dovette venire a patti con la consapevolezza che, almeno per quella sera, non sarebbe mai successo. Decisa ad assecondare la piega che i suoi pensieri avevano preso sin da quella mattina in auto, e conscia che combatterli sarebbe stato estenuante oltre che prevedibilmente inutile, si diresse quindi verso la porta sull'estremità destra del soggiorno, non prima però di aver fatto tappa intermedia in cucina per versarsi un altro bicchiere di rosso.
Lo stanzino era polveroso, come ci si poteva aspettare da una stanza piccola e tenuta sempre chiusa, e tuttavia stipata com'era di scatoloni -ordinatamente impilati gli uni sugli altri- non lo era al punto da risultare sporco: probabilmente lì dentro teneva così tanta roba che anche la polvere faticava a trovar posto.
E in effetti Kate aveva rinchiuso in quel loculo di due metri per due tutta la sua vita passata: dai ricordi dell'infanzia a quelli del Dodicesimo, compreso lui.
Più volte aveva tentato di dare una collocazione definitiva alle centinaia di ninnoli e oggetti che si era portata da New York, ma ogni volta che li aveva tirati fuori da quello stanzino non erano durati che pochi giorni nella loro nuova sistemazione, i più fortunati anche una settimana. Non sapeva esattamente quale fosse il problema di quella casa, ma sembrava decisa a sputar fuori qualunque cosa non trovasse di proprio gradimento: e apparentemente aveva gusti estremamente difficili. 
Era come se in qualunque modo, o zona, Kate sistemasse i suoi effetti personali, questi stonassero violentemente con il resto al punto da risultare persino fastidiosi.
Alla fine aveva semplicemente smesso di provarci.
Certe volte una vocina nella sua testa le sussurrava che quella divergenza di opinioni non era un banale problema di stili d'arredamento, ma piuttosto era il segnale di un disagio più grande: un disagio tutto interiore, e non davvero legato alla casa. Quando quella vocina tornava alla carica, riesumava dal mucchio qualche foto -quelle erano più facili da collocare- e le disseminava per la casa a dimostrazione che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto riversarvi dentro anche l'intero stanzino. Per il resto quando ne aveva bisogno, o semplicemente voglia, apriva quella porta e faceva un tuffo nel proprio passato, seduta sul limitare della soglia, in un punto che -come in un limbo- era una realtà a sé stante: né parte né non parte di quella casa.
Col bicchiere sapientemente adagiato sul parquet, a distanza di sicurezza dalle proprie gambe, guadagnò la solita postazione, e trascinato verso di sé uno scatolone lo aprì.
Odorava di chiuso con un vago sentore di lavanda.
Una ad una estrasse le piccole cornici, custodi di fotografie per lo più sbiadite dal tempo e dal sole: una in particolare appariva più usurata delle altre, a causa di tutto il tempo passato ripiegata tra le piccole tasche del suo vecchio portafoglio. Risaliva al matrimonio di Ryan. Erano tutti lì: dagli sposi, raggianti in primo piano, a loro quattro -accoppiati anzitempo, e nel giusto ordine, per un strano scherzo del destino. A voler prestare maggiore attenzione, sullo sfondo si sarebbero potuti facilmente intravedere persino i rispettivi -e improbabili- accompagnatori di Lanie ed Esposito, ma i veri protagonisti della foto erano indubbiamente loro sei, in quella che facilmente sarebbe potuta essere un'esaustiva anticipazione del futuro. Se le cose fossero andate diversamente.
Accantonato quel piccolo attentato fotografico al suo cuore, si dedicò ad altre memorie passando così in rassegna l'intero scatolone e procedendo indietro lungo il suo passato da poliziotto, fino alla foto del suo ultimo giorno all'Accademia. In piedi e sull'attenti, avvolta nella sua divisa, lo sguardo fiero di chi sa di aver trionfato sulle proprie avversità, ma velato dall'ombra di una ferita ancora troppo fresca. Aveva ancora quella divisa, conservata da qualche parte proprio in quello stanzino: ormai consunta e troppo stretta, non era mai riuscita a disfarsene sebbene negli anni ne avesse accumulate di più nuove e più conformi alla sua taglia. Sorrise nel ripercorrere il proprio profilo più giovane, immortalato tra le sue mani; poi, quando ne fu sazia, rimise di nuovo tutto accuratamente dentro la scatola e la spinse fino in fondo allo stanzino, facendole riguadagnare il suo posto.
Non sentendosi ancora pronta a terminare quel viaggio lungo il viale dei ricordi, perlustrò con gli occhi lo spazio di fronte a sé, decisa a passare a una nuova scatola, e la sua scelta si orientò -in un puro e consapevole atto di masochismo- su una appena visibile da dietro le altre, ricoperta da uno strato di polvere talmente spesso da apparire quasi come un voluto imballaggio. Fu necessario tirar fuori altri tre scatoloni prima di poter raggiungere quello prescelto, ma alla fine eccolo lì, torreggiante tra le sue gambe e sigillato così bene che aprirlo quasi le dispiacque.
Con le dita leggermente madide di sudore, scivolose ad ogni tocco, dovette combattere un bel po' contro lo scotch prima di poterlo ridurre tutto in una palla appiccicosa e disordinata sul pavimento. Quando infine la scatola fu aperta, una leggera nuvola di polvere si sollevò dallo strato superiore facendola starnutire. Liberatasi così dall'impaccio delle vie respiratorie ostruite, fu colta dal forte e inconfondibile odore di carta, tipico di quando ci si tuffa col naso tra le pagine di un libro mai aperto o aperto troppo poco.
La copertina di Heat Rises in cima alla pila, leggermente avulsa in alcuni punti e scolorita in altri, si pavoneggiò delle sue tinte brillanti, decisa a recuperare tutto il tempo trascorso chiusa in quella scatola, dove nessuno aveva potuto ammirarla. Passando con disinvoltura dalle avventure di Nikki Heat a quelle di Derrick Storm e viceversa, ad uno tutti i volumi vennero tirati fuori dalla loro angusta dimora, e impilati ordinatamente sulle assi del parquet.
Nel farlo, Kate si costrinse a non capovolgerli mai, per non doversi imbattere nella sua faccia tronfia e nella profondità recriminante del suo sguardo puntato su di lei. Prima di riposarli al proprio fianco li sfogliava però distrattamente, catturando qua e là qualche parola o qualche frase scelta a caso tra i milioni di caratteri dormienti su quelle pagine. Solo Heat Wave venne aperto con intenzione, esattamente alla seconda pagina: quella custode della famosa dedica. Nel ripassarla, le dita esercitarono una maggiore pressione sulle sue iniziali in grassetto, fino a percepire il leggero ripiegarsi della carta verso il fondo, lì dove la macchina da stampa aveva impresso in eterno la K e la B.
"Lui dedica i suoi libri solo alle persone a cui tiene molto..."
Le parole
di Kira Blaine ogni tanto tornavano a farle visita. Chissà a chi avrebbe dedicato adesso ai suoi libri. A Laura, forse?
Il solo pensiero bastò a rimestarle le budella nello stomaco.
Di slancio si alzò da terra, e sicura si diresse all'armadio della sua camera da letto, spalancandone le ante. Lì, in basso, ben nascosta tra sciarpe e borse d'ogni tipo, la busta rossa del suo ultimo acquisto in libreria giaceva intonsa e ancora chiusa. Con un gesto deciso l'afferrò e ne strappo la sommità, lasciando che il libro al suo interno vedesse finalmente la luce. E con una punta di puerile orgoglio notò, con scorretto piacere, che nessuna dedica introduceva quelle pagine.
Forte di quella nuova scoperta, si sedette sul bordo del letto con il libro stretto tra le mani.
Una parte di lei fremeva dalla curiosità di sapere se in esso si parlasse ancora di lei, o se anche Nikki Heat -come Derrick Storm prima di lei- aveva ormai appeso il distintivo al chiodo, lasciando spazio alle nuove leve. D'altra parte a vincere fu l'altra Kate, quella che invece non voleva sapere, preferendo restare a sguazzare nel mare di possibilità che l'ignoranza le apriva dinnanzi.
Non sapeva esattamente perché lo avesse comprato: non aveva mai avuto nessuna intenzione di leggerlo, e probabilmente non lo avrebbe mai fatto. Si era data della vigliacca per questo, più di una volta, ma era qualcosa cui -nella sua condizione attuale- non era disposta a cedere. Tuttavia aveva sentito comunque di doverlo comprare: quasi che a rompere la sequenza ordinata di quella collezione, anche l'ultimo filo che ancora li teneva legati si sarebbe spezzato per sempre.
Tornata in soggiorno alcuni minuti dopo, trascinò tutti i libri fuori dal perimetro sicuro dello stanzino, verso il divano, e sedutasi a terra con la schiena appoggiata ai cuscini, li dispose in ordine di uscita, lasciando che il libro ancora stretto tra le sue mani andasse a occupare l'ultimo posto rimasto. Quando ebbe finito, si concesse qualche istante per osservarli: le mani giunte di fronte al viso, col pollice a picchiettare meditabondo la punta del suo naso.
A vederli così, tutti insieme uno dietro l'altro, era come osservare la sua stessa vita concentrata nello spazio rilegato di alcune pagine. Ogni libro, oltre la propria trama, raccontava infatti anche un periodo ben preciso della sua vita: così in un capitolo della saga di Derrick Storm rivedeva se stessa alle prese con l'omicidio di sua madre, mentre in un altro si vedeva nel momento in cui aveva iniziato a maturare la decisione di diventare poliziotta. E ancora, nel primo Nikki Heat ritrovava la se stessa di sette anni prima, alle prese con il primo Castle in quello che -avrebbe capito solo dopo- sarebbe stato un importante momento di svolta della sua vita.
L'allungarsi del suo braccio per afferrare il cordless del telefono fisso fu la conseguenza diretta di quel continuo osservare la propria esistenza venir fuori dalle copertine dei manoscritti. Non dovette neanche pensare, le dita digitarono il numero autonomamente, rapide quanto il battito del suo cuore adesso. 
Non sapeva cosa gli avrebbe detto una volta che avesse risposto, certa che, come l'ultima volta, le parole giuste sarebbero sgorgate fuori da lei spontaneamente. Qualunque cosa fosse ad ogni modo le morì in gola nell'esatto istante in cui a risponderle fu una voce femminile, che a malincuore non riconobbe nè come quella di Alexis né di Martha.
Il tono di quella voce, e la serena insistenza con cui ripeteva "Pronto", le impedirono di agire con prontezza e chiudere immediatamente il telefono. Solo al terzo richiamo riuscì nell'impresa di riagganciare, quando ormai aveva avuto tempo a sufficienza a che quella voce le si imprimesse in profondità nella mente. 
Era la voce di una donna bella, giovane e felice. Una donna, ne era certa, con un buon profumo sempre addosso, e che risultava sempre perfetta qualunque cosa indossasse. Il tipo di donna in grado di lavorare, avere una famiglia e tanti amici, e contemporaneamente trovare sempre il tempo per sorridere alla vita. L'esatto opposto di lei, insomma.
Con un moto di stizza calciò i libri di fronte a lei, mandandone in pezzi l'ordine di pochi istanti prima, e rabbiosa ricacciò indietro le lacrime che cercavano ostinatamente di venire a farle visita.
Si era comportata da sciocca. Aveva sbagliato tutto.
Quella chiamata era stata solo l'ultimo della sfilza di errori stupidamente commessi quel giorno, fin dal dialogo mattutino col bottone.
Decise tuttavia che riversare tutta la sua frustrazione e la sua rabbia su di lui e su quella donna perfetta sarebbe stata una scelta molto più salutare così, ricacciati con furiosa fretta i libri dentro lo scatolone e rimesso quest'ultimo al proprio posto, si sedette sul divano con l'intera bottiglia di vino al suo fianco, pronta a venirle in soccorso se necessario, e decise che avrebbe passato il resto della serata ad odiarlo. Giusto per provare qualcosa di diverso, una volta tanto.


Il mercoledì sera all'Old Haunt era divenuto per loro tre un appuntamento fisso.
Eccetto che nei giorni in cui un omicidio li reclamava a lavoro: in quei casi era lui a raggiungerli al distretto, approfittandone per dar loro una mano col caso. Un tuffo nel passato. Piccole collaborazioni messe in piedi per lo più in concomitanza di omicidi particolari o eccentrici, del tipo che piacevano a lui; un modo come un altro per tenere viva la tradizione. Sorprendentemente la Gates non si era mai mostrata contraria a queste sue saltuarie incursioni, limitandosi alla solita aria indifferente -e sofferente- con cui Castle aveva imparato a conoscerla e ad apprezzarla fin dal suo primo giorno. Non sapeva se questa sua tolleranza fosse dovuta all'abitudine, alla semplice convenienza di una mente in più a lavoro su cui contare, o al fatto che anche lei talvolta sentisse quasi la mancanza di quell'atipico equilibrio maturato negli anni della sua collaborazione col dipartimento. Personalmente lui amava pensare fosse quest'ultima la ragione, per quanto improbabile che fosse.
Di certo c'era che nessuno si era aspettato di rivederlo tanto presto da quelle parti, sicuramente non appena un mese dopo la partenza di Beckett.
Lui stesso era stato il più sorpreso da quel ritorno.
In cuor suo mai avrebbe creduto di poter rimettere piede in quel luogo tanto in fretta, e con la relativa e ammirabile dose di disinvoltura che aveva invece sfoggiato nel varcare la soglia. Ed era era certo che in fatto di incredulità si era trovato in ottima compagnia, avendola chiaramente letta negli occhi di Esposito e Ryan la prima volta che li aveva rivisti e per tutto il mese successivo. E d'altronde tutti e due, per i primi giorni, non avevano fatto altro che trattarlo con i guanti, muovendosi con la stessa cura e professionalità con cui tante volte li aveva visti aggirarsi tra i detriti di una scena del crimine particolarmente cruenta, e questo non aveva fatto altro che far crescere il lui il dubbio di stare agendo in maniera sbagliata o inopportuna, sebbene essere lì con loro gli apparisse nonostante tutto ancora come la cosa più naturale del mondo.
E alla fine aveva capito: al di là di lei, e di quello che loro erano stati lì dentro, in qualche modo quelle quattro mura erano diventate anche sue. In qualche modo, per quanto inizialmente fosse entrato da ospite in quel distretto e pur non essendo davvero un poliziotto, col tempo questo aveva finito per diventare anche la sua casa. E solo dopo la loro. Era sempre stato certo che tornare lì avrebbe significato accettare l'idea di vedere tanta lei quanta ne aveva respirata in quei cinque lunghi anni, al punto da uscirne annientato. E in effetti era stato così, specie all'inizio.
I corridoi, l'ascensore, la scrivania, persino l'ufficio della Gates, tutto parlava di lei... Eppure l'annientamento non era arrivato: in compenso erano arrivati, dolore, nostalgia, frustrazione e una buona dose di rabbia inespressa.
Si era così velocemente reso conto che, per quanto quegli spazi fossero pieni di lei, non lo erano meno di quelli del suo loft. Il Dodicesimo era solo un'altra casa da cui lei era andata via, ma non per questo l'assenza di lei l'aveva resa meno sua. Questa cosa l'aveva rassicurato, e inondato di una nuova e tiepida iniezione di gioia. Rendersi conto che quegli ultimi anni gli avevano regalato, oltre a un amore vinto, anche dei veri amici, una scappatoia dalla sua quotidianità, la voglia e l'ispirazione per tornare a scrivere e in generale slancio al suo futuro, gli aveva dato la forza per riprendere a frequentare quel mondo con regolarità.
Certo, ancora adesso passare accanto alla sua scrivania e non cercare gli elefantini gli costava fatica, come anche dura era perdere l'abitudine a fare due caffè anziché uno: quando questo capitava, per salvare le apparenze ed evitare gli sguardi carichi di sincero e pesante cordoglio dei suoi amici, fingeva di averli preparati per loro e andava a farsene un altro, o tutt'al più ne cedeva uno alla Gates o a qualche poliziotto di passaggio spacciandolo per un gesto programmato. Anche la sua sedia, per anni rimasta immobile al suo posto accanto alla scrivania di lei, tanto da lasciare segni di usura su quel fazzoletto di pavimento, era stata ora sapientemente spostata tra quelle di Ryan ed Esposito. Ma a parte questo la vita al distretto era sufficientemente sopportabile, spesso addirittura piacevole.
Le serate all'Old Haunt tuttavia erano un'altra storia: in quelle ore era loro concesso di abbandonare chi i panni dello scrittore, chi del poliziotto per tornare ad essere semplicemente tre amici riuniti di fronte a una buona birra, a parlare del più e del meno e magari sfidarsi a freccette. E per quanto si sforzasse, Rick faticava a ricordare serate del genere prima delle loro: nonostante, grazie soprattutto al suo lavoro, fosse in effetti sempre stato pieno di amicizie di numerose conoscenze, dalle più altolocate alle meno raccomandabili, poteva affermare con assoluta certezza di non aver mai avuto prima d'ora degli amici veri e sinceri quali erano quelli seduti di fronte a lui in questo momento.
«Parlando di cose serie, Jenny è incinta o no?»
Nell'ultima mezz'ora la conversazione aveva preso una strana piega, dando vita a un'accesa discussione tra Ryan ed Esposito riguardo i pro e i contro delle lampade abbronzanti: Esposito affermava che nessun vero uomo avrebbe mai accettato di farsi innaffiare di colorante dentro una doccia, Ryan invece si era dimostrato più aperto all'argomento affermando che anche gli uomini, se non dotati per natura di una carnagione sfacciatamente ispanica, dovevano poter avere il diritto di non mimetizzarsi con la spuma del mare, senza per questo minare la propria virilità, sebbene lui giurasse di non averne mai provata una. Inizialmente Castle aveva partecipato divertito alla discussione, raccontando di un episodio del suo passato che coinvolgeva una donna particolarmente procace, un set di accappatoi trafugati da un hotel e una doccia abbronzante, per l'appunto. Quando però venti minuti dopo la discussione sembrava non aver ancora raggiunto un punto di svolta e gli animi avevano preso a surriscaldarsi, annoiato aveva iniziato a pensare a qualcosa che potesse distrarli e permettere di andare avanti con la serata. Ryan era senza dubbio la preda più facile. Focalizzate tutte le sue attenzioni su di lui, non gli ci volle molto per ripescare dalla memoria l'aggancio adatto, l'unico argomento che sapeva avrebbe smosso nell'immediato l'animo dell'irlandese: Jenny.
E infatti basto quella domanda ad ottenere l'effetto sperato:al solo sentire il nome di sua moglie, il viso di Ryan, prima serrato in un agguerrito cipiglio, si era immediatamente disteso in un sorriso raggiante -che più tardi Esposito avrebbe definito ebete, minacciando di riaccendere la miccia della battaglia- e la querelle sull'abbronzatura era stata ben presto accantonata.
«Ancora niente di certo, aspettiamo l'ecografia per dare la notizia. Visto l'ultimo falso allarme non vogliamo sbilanciarci, sapete com'è»
«Sì, dillo alla tua faccia»
Il tono piccato di Esposito sfogò gli ultimi strascichi di adrenalina rimasti dalla conversazione precedente, ma il suo volto rabbonito fece ben sperare sulla bontà delle sue intenzioni. E d'altronde, che lo ammettesse o no, l'ispanico aveva sviluppato una sorta di adorazione per Sarah Grace, la primogenita del suo partner, per cui all'idea di un secondo pargolo era animato da una sincera ma ben celata eccitazione, specie perché tutti sapevano -senza bisogno di dirlo- che, esauriti cugini e parenti con la precedenza, il prossimo turno per fare da testimone -o da padrino, in questo caso- sarebbe spettato a lui. Fatto che segretamente lo riempiva d'orgoglio. E a vederlo così entusiasta per una famiglia non sua, Rick proprio non riuscì a trattenersi dall'infierire sul suo raro lato sentimentale -né, a essere sinceri, ci provò.
«Di questo passo, una volta sposato dovrai impegnarti parecchio per raggiungerlo Espo»
La battuta ebbe l'effetto desiderato, ed Esposito quasi si strozzò con la birra. L'urgenza di rispondere fu tale da spingerlo a parlare quando ancora non aveva smaltito il colpo, alternando le parole a colpi di tosse e schiarimenti di gola.
«Vacci piano, non che non voglia una famiglia ma prima vorrei potermi godere un po' la mia signora, se capite che intendo»
«Beh a guardare Ryan sembra che una cosa non escluda l'altra»
«Beh, ecco... Oh, fatela finita!»
Ad essere imbarazzato era Ryan adesso, che sentendosi al centro del mirino, e privo di difese, non trovò di meglio da fare che nascondersi dietro un generoso sorso di birra. L'argomento bambini correlato all'evidente darsi da fare dei due sposini novelli, Ryan e Jenny, era infatti un tema particolarmente caro agli altri due, più per il piacere di metterlo in difficoltà che perché sinceramente stupiti dal loro, come lo definiva sornionamente Castle, fare le cosacce con una bambina in casa.
Era una cosa più che normale per qualunque coppia di genitori, lo stesso Castle non si era certo risparmiato ai tempi di Alexis neonata, quando ancora Meredith non aveva abbandonato la nave. Tuttavia Ryan viveva l'argomento con sincero disagio e questo chiaramente non era che un invito per gli altri due a rincarare la dose.
«Davvero Bro', è il terzo falso allarme quest'anno, vi date parecchio da fare...»
«E basta!»
Le risate del gruppo soffocarono definitivamente, almeno per quella sera, la discussione e ben presto anche Ryan si unì a loro, incapace di tenere il broncio troppo a lungo, specie di fronte a un Castle deciso a ordinare da bere in russo.
«Quest'ultimo giro lo offro io, ragazzi, e poi vado. Sarah Grace ha le coliche e ho promesso a Jenny che oggi non avrei fatto tardi»
«La mogliettina ti tiene al guinzaglio, eh latte e miele?»
«Ne riparliamo tra tre settimane, Javier»
«Non tutti gli uomini sposati sono remissivi come te, alcuni li pretendono i loro spazi»
«Ma non tutti gli uomini sono sposati con una Lanie, ricordalo»
Quest'ultima imbeccata di Ryan suscitò l'ilarità di Castle ma non, ovviamente, quella di Esposito, che si limitò a uno sbuffo superbo pur non trovando modo di controbattere.
«E a proposito di questo, so di non essere il tuo primo testimone ma vorrei comunque chiedere il permesso di organizzare io il tuo addio al celibato. Innanzitutto perché, in mano mia, è certo che ci divertiremo...»
Con fare presuntuoso, Rick sollevò un dito in aria, nell'atto di contare le innumerevoli ragioni per cui avrebbe dovuto poter prendere in mano i festeggiamenti. Chiaramente non fece in tempo a sollevare del tutto la prima nocca che venne interrotto dai commenti sarcastici dell'amico.
«Oh sì certo, perché ce lo ricordiamo tutti l'addio al celibato di Ryan...»
«… E secondo perché finanzierei io, e io sono ricco»
Un secondo dito si alzò a fare compagnia al primo, e negli occhi dei due compari Rick lesse che non avrebbe avuto bisogno di aggiungerne un terzo.
«Permesso accordato, senza offesa bro'»
«Nessuna offesa»
«Meraviglioso! E a questo riguardo ho una domanda da fare: spogliarelliste sì o spogliarelliste no?»
«Sì Javier, cosa dice la sposa?»
Il tono di Ryan era chiaramente ironico, teso ad affondare il coltello su una piaga aperta anni prima, ai tempi del suo di addio al celibato in q
uel di Atlantic City. Allora quella stessa domanda era stata posta a lui, e la sua risposta non era particolarmente piaciuta ai suoi amici.
«A differenza tua, Ryan, io sposerò una donna dalle larghe vedute per cui le spogliarelliste sono accettate purché viga la regola del “si guarda ma non si tocca”»
«Mi sembra accettabile»
Castle ascoltava ridicolmente assorto, il mento poggiato sulle mani intrecciate e la stessa serietà e concentrazione che avrebbe dedicato al resoconto di un omicidio da risolvere, o tutt'al più a una partita di poker particolarmente agguerrita.
«Però Lanie ha precisato che se io avrò le spogliarelliste al mio addio al celibato, lei avrà i spogliarellisti al suo addio al nubilato... Uno scambio equo, così l'ha definito. Ma sinceramente non ho ancora deciso se questa equità mi stia bene oppure no»
«Beh, c'è tempo per quello, pensiamo ad altro…tipo la location!»
Abbandonato l'atteggiamento grave e riflessivo di qualche istante prima, il viso di Castle tornò ad accendersi di una puerile esaltazione, che ben presto contagiò anche gli altri due compagni. La successiva mezz'ora passò così a discutere di dettagli come il cibo, la componente alcolica e soprattutto il dove organizzare il tutto, passando da location più comuni -come un nightclub o lo stesso Old Haunt- ad altre più eccentriche -come gli Hamptons- fino a quelle decisamente improbabili quali la luna -candidamente proposta da Castle perché :chi mai non vorrebbe un addio al celibato spaziale?
Se Ryan a un certo punto non si fosse responsabilmente imposto di alzarsi, avrebbero facilmente potuto continuare a discuterne per ore. 
Salutato l'amico, i due reduci decisero per un ultimo giro prima di tornare anche loro alle rispettive case. Traendo vantaggio dalla scarsa clientela, Rick ne approfittò per versare da bere a sé e all'amico lui stesso, assecondando così la sua poco appagata passione per lo spillare la birra. Nonostante l'ora non troppo tarda, infatti, nelle sere infrasettimanali all'Old haunt non c'era mai particolare movimento. Era anche per questo che avevano scelto di riunirsi il mercoledì: ciò consentiva loro di stare più raccolti e di poter parlare senza il fastidio dell'eccessiva confusione tipica, invece, del weekend.
Castle tornò al suo tavolo tenendo tra le mani due birre traboccanti di schiuma, segno che, se avesse dovuto effettivamente gestire il locale da sé, sarebbe ben presto fallito e anche miseramente, ché neanche un mese di pratica sarebbe bastato a compensare un'evidente mancanza di talento naturale. Nell'osservare il proprio boccale lo sguardo di Esposito era evidentemente perplesso, e Castle immaginò stesse decidendo se risparmiargli o meno il commento sarcastico di rito, di quelli che puntualmente gli venivano rivolti ogni qualvolta decideva di cimentarsi in imprese simili dinanzi i suoi amici.
«Con tutto questo parlare di matrimoni e bambini, ho dimenticato di chiederti come è finita con l'esercito! Hai deciso se accettare o meno la loro proposta?»
«A dire la verità no. Si tratterebbe di tenere un corso di tecniche investigative di base di fronte a dei pivelli, quindi minimo sforzo e ottimi guadagni. D'altra parte però non so se mi vada l'idea di rientrare nella realtà dell'esercito... Non tutti i ricordi legati a quel periodo sono piacevoli»
«Lanie che dice?»
«Secondo lei sarebbe una buona opportunità, ma lascia che sia io a decidere. Quindi penso mi prenderò un altro po' di tempo, se non altro per indispettire qualcuno ai piani alti»
Una risata increspò le loro labbra, che Castle soffocò tuffando le proprie oltre la coltre di schiuma del boccale, attendendo pazientemente che della birra sopraggiungesse a destinazione. Quando ne ebbe ingollata una generosa sorsata allontanò il boccale dal proprio viso, per scoprirsi così oggetto d'attenzione di Esposito, intento a osservarlo ora con un strano cipiglio in volto, perso in chissà quale riflessione.
«E a te invece le cose come vanno? Successo qualcosa di interessante oggi?»

La domanda suonò strana alle orecchie di Castle tanto quanto il fatto che a pronunciarla fosse stato un tipo come Esposito, raramente interessato alla quotidianità degli altri. Il chiacchiericcio era più una prerogativa sua, o tutt'al più di Ryan, cui Esposito si sottoponeva esclusivamente per necessità sociali.
«Niente di speciale, in effetti. Le solite beghe con l'editore, qualche commissione e poi ho cenato da Laura. È in giornate piatte come queste che smanio per qualche bell'omicidio intricato da risolvere»
«Se fossi costretto a farlo per lavoro smanieresti meno, te lo assicuro. E con Laura come vanno le cose?»
«Con Laura va tutto benissimo, come sempre»
L'improvviso interesse per la sua vita sociale mostrato dall'ispanico iniziò a insospettire Castle che, indeciso su dove questi volesse andare a parare con le sue domande, settò il proprio cervello anticipatamente sulla difensiva, giusto per preucazione. Col senno di poi non si pentì della sua scelta.
«Hai presente quel tacito accordo tra noi, per cui quando siamo soli non si parla di Beckett, mai in nessuna occasione? Bene, sto per romperlo, per quest'unica volta sia chiaro, dopodiché le cose torneranno come al solito»
«Che c'entra Beckett adesso?»
«Andiamo amico, questo...» Esposito si lasciò andare ad un ampio gesto della mano, a indicare la faccia di Castle e l'ombra funerea che l'aveva accompagnata per tutta la sera, nonostante i suoi evidenti sforzi di tenerla sottopelle «c'entra sempre con Beckett. Per cui te lo chiederò una volta sola. Che è successo?»
Castle sembrò ponderare attentamente la situazione, indeciso se dar libero sfogo o meno alla fiumana di parole che, a quanto pareva, portava scolpita a chiare lettere sul volto da che era arrivato. Da giocatore di poker esperto quale si reputava, si sentì offeso nel profondo dalla propria mancanza di autocontrollo, specie di fronte a due detective la cui esperienza nello scoprire indizi nascosti avrebbe dovuto anzi spingerlo ad alzare ulteriormente le proprie difese. Quantomeno con Laura aveva avuto successo.
Non che non avesse intenzione di parlarne ai suoi amici, soltanto che non gli era sembrato il momento adatto, con tutta quella felicità che, tra i non-troppo-falsi allarmi di Ryan e le imminenti nozze di Esposito, si respirava in quel gruppo ultimamente. Alla fine comunque, l'inaspettato presentarsi dell'occasione, lo sguardo di chi non ammetteva replica di Esposito, e il sincero bisogno di formulare a voce alta i propri pensieri a qualcuno che non fosse invisibile, lo convinsero ad aprirsi, non prima però di aver cercato coraggio in una nuova dose di birra ghiacciata.
«L'ho incontrata, il week-end in cui sono stato a Washington»
«Lo sapevo! Ma insomma Castle, che ti dice la testa? Perché diavolo sei andato a cercarla, cosa speravi di ottenere?»
«Ad essere chiari è stata lei a presentarsi davanti al mio albergo, non l'ho cercata io! D'altra parte però non ho neanche girato i tacchi quando l'ho vista, quindi immagino di avere anche io la mia buona parte di responsabilità...»
«E che è successo? Perché dubito che il tuo malumore sia dovuto al semplice averla rivista, è una cosa a cui dovresti essere abituato ormai»
«No, infatti...»
Il capo di Castle si fece pesante, sotto il peso di immagini evidentemente più grevi delle precedenti. A Esposito non sfuggì quel repentino cambio di atteggiamento, e avendo letto nel gesto dell'amico un totale crollo di difese, abbandonò anch'egli i toni incalzanti mantenuti fino a quel momento, e gli lasciò invece il suo tempo per rispondere, attendendo pazientemente che mettesse in ordine le parole prima di proseguire.
«Abbiamo cenato insieme, non so neanche perché, ma inaspettatamente non è stato poi troppo strano o imbarazzante, anzi è andata piuttosto bene... Finché non siamo finiti a letto. Il giorno dopo sono ripartito»
«Wow... »
«Già, wow»
Quell'ultima parola lasciò l'amaro in bocca a Castle, e lui tentò di lavarlo via con un altro consistente sorso dal suo boccale.
«Non imparerò mai, ogni volta penso di essermela lasciata alle spalle e poi...»
Esposito ritenne di dover dire qualcos'altro, per evitare che il suo unico contributo a quella discussione consistesse in una serie di domande e in un lapidario monosillabo dalla scarsa utilità, tuttavia per quanto si stesse sforzando non riusciva a ripescare nella sua mente nulla di adatto alla situazione, o comunque niente che immaginava avrebbe potuto portare sollievo alla frustrazione evidente del suo compagno di bevute, cosicché alla fine ad uscire dalla sua gola fu l'ennesima domanda.
«Questo però è successo quasi un mese e mezzo fa, no? Quello che non capisco è perché tu ci stia ripensando proprio adesso»
«Prima di venire qui ho ricevuto una chiamata sul cellulare da un numero fisso sconosciuto. Io ero in bagno e ha risposto Laura, ma ha detto che all'altro capo non c'era nessuno...»
«E tu pensi che fosse lei?»
«Sono certo che fosse lei, Javier... Ma tanto per non lasciare dubbi ho controllato il numero, il prefisso è di Washington. Chi altri potrebbe essere»
Non era una domanda la sua, ma una lucida constatazione.
«E Laura? Pensi sospetti qualcosa, è questo che ti preoccupa?»
«No, lei non sa nulla, non ha neanche fatto caso alla chiamata. E anche se fosse, detto sinceramente sappiamo entrambi che la nostra non è una cosa così seria da far sorgere preoccupazioni, non ancora almeno...»
Mentre ancora stava parlando, Castle vide la sua stessa mano sbattere violentemente il boccale sul tavolo, in un impeto di sfogo totalmente arbitrario che immaginò fosse dovuto alla rabbia che lentamente sentiva risalire lungo il proprio corpo, e che il suo braccio doveva aver colto prima ancora che questa divenisse accessibile alla sua coscienza.
«Perché fa così? Io davvero non riesco a capirla! Cosa vuole ancora da me, perché diavolo mi chiama?»
«Beh in questa storia vi ci siete cacciati in due, però...»
«Lo so, maledizione! Lo so...» il tono si fece di nuovo pacato, e la frustrazione tornò a dominare sulla rabbia «Ma come hai detto tu è passato più di un mese, quindi perché adesso?»
«Non lo so Castle, forse qualcosa l'ha fatta ripensare a..»
«No Espo, basta tentare sempre di giustificarla. La verità è che lei ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo nella mia vita, a suo totale piacimento. E io l'ho sempre lasciata fare. Se ne va, poi torna, poi mi lascia, mi riprende... ora sono davvero stanco»
«Mi dispiace amico»
Non trovò nient'altro da dire, e in cuor suo sapeva che nulla comunque avrebbe mai davvero potuto sortire un qualche effetto positivo sull'umore dello scrittore. E in fondo, se lo aveva spinto a parlare non era per elargire consigli, ma soltanto per dargli la possibilità di sfogarsi, convinto che al momento attuale quella fosse la sola cosa a potergli portare un qualche beneficio. O comunque l'unico modo in cui lui poteva provare ad aiutarlo. Aveva sempre creduto in loro, in Castle e Beckett, e ancora adesso nonostante tutto ciò che era successo, nonostante tutto il tempo che era passato e tutte le cose che erano cambiate nel frattempo, una parte di lui ancora credeva in loro.
Non era mai stato un tipo sentimentale, niente colpi di fulmini o anime gemelle: per lui l'amore erano semplicemente due persone che si incontravano, si piacevano e decidevano di stare insieme. Libero arbitrio, nessun intervento del destino. Se con una non andava allora ce n'era un'altra ad aspettarlo dietro il prossimo angolo, senza troppe complicazioni: non temeva la fine di una relazione, per importante che fosse, perché non credeva nell'esistenza di quella giusta. Esisteva solo quella del momento, quanto a lungo durasse quel momento, quella era un'altra storia. Con Lanie si augurava sarebbe durato per sempre.
Eppure più volte osservare Castle e Beckett insieme aveva fatto vacillare le sue certezze: non sapeva se fosse stato per l'ostinazione mostrata da Castle in tutti quegli anni in cui era rimasto al suo fianco, aspettando fiducioso una sua apertura, o per l'aver assistito in prima persona, giorno dopo giorno, al cambiamento di Beckett da chiusa e intransigente detective a donna sorprendentemente vitale e completa. Anche adesso, quel dolore ancora vivido nello sguardo di Castle gli dava ragione di credere che non tutto era perso. O ancora, forse era solo colpa del troppo tempo passato con Lanie, che in loro aveva riposto incondizionata fiducia sin da subito, prima ancora che quel rapporto assumesse connotati reali.
Senza più alcuna parola da poter essere aggiunta, entrambi lasciarono che il discorso cadesse, finché le ultime gocce di birra non furono smaltite in silenzio e arrivò il tempo dei saluti. Castle fu il primo a uscire dal locale, una pacca sulle spalle dell'amico e sparì dietro la spessa porta legnosa dell'Old haunt, inghiottito dalle luci della città. Esposito invece si attardò ancora qualche minuto, intento a esaminare una qualche riflessione apparentemente emersa dal fondo opalino del bicchiere, che giocava a far oscillare di fronte al proprio naso.
«Quei due mi faranno impazzire...»
Poggiò con rassegnazione il boccale sul bancone, fece un cenno di commiato al barista -ormai vecchio amico- e afferrata la giacca se la buttò malamente sulle spalle, cacciando le mani dentro le tasche mentre anche lui si tuffava nell'umida sera NowYorkese.
La mano destra prese a frugare nel piccolo antro di tessuto in cui s'era adagiata fino ad estrarne il telefono. Pigiò, senza neanche guardarlo, un numero sulla tastiera e attese che la chiamata rapida venisse inoltrata.
«Hey Javier, che succede?»
«Mi devi venti dollari Bro'»
«Cos... Oh, ma andiamo!»
«Consolati, in compenso io ne devo cinquanta a Lanie»
«Vuoi dire che... Loro hanno...»
«Sì»
«Che casino»
«Già, proprio un gran casino»

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Capitolo 7
*** Come Home -Parte I ***


Come Home -Parte I

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)



Impazienza.
Se avesse dovuto dare un nome alla sensazione che in quel momento gli attanagliava lo stomaco, non sarebbe potuto essere altri che quello.
Evidentemente, calma e sopportazione non erano doti a lui congeniali. O più semplicemente non lo erano a quella situazione, in cui sussultare ad ogni rumore sembrava essere l'inevitabile condotta associata al suo ruolo di sposo agitato.
Tentò di concentrarsi sulle pieghe della giacca -che ostinate continuavano a riapparire, a prescindere da quante volte lui vi passasse la mano sopra- e sul nodo della cravatta -fattosi improvvisamente opprimente-, ma ogni suo tentativo era vanificato dall'agitazione delle dita, incapaci di eseguire correttamente anche il movimento più elementare, e soprattutto dal mellifluo frastuono delle flûte
s di vetro, che da quasi dieci minuti aveva preso a tintinnargli senza sosta nelle orecchie.
«Hey amico, vacci piano! È già il quarto bicchiere quello»
Insoddisfatto del tono esageratamente pungente con cui gli si era rivolto, Esposito in aggiunta dedicò anche un'occhiata storta a Castle, in piedi accanto al piccolo rinfresco alcolico, le cui labbra si bloccarono a mezz'aria, l'attimo prima di potersi ricongiungere con l'orlo del bicchiere.
«Avanti Esposito, non risparmierai sullo champagne, spero! È il giorno del tuo matrimonio, bisogna festeggiare! Questi sono eventi che capitano una volta sola, di solito...»
«Sì, ma vedi di non arrivare ubriaco alla cerimonia. Preferirei evitare la parte in cui uno dei miei testimoni sviene sull'altare»
«Per favore, ricordati con chi stai parlando. Questo fegato ha visto tempi più duri...e migliori, in effetti»
Con fare scocciato Esposito colse l'occhiata poco convinta che, nonostante tutto, l'amico aveva appena osato rivolgere al contenuto del proprio bicchiere, il cui sdegno non sembrava tuttavia trovare riscontro nelle sue azioni. Tornò così a dedicarsi all'altro uomo -quello agitato ed eccitato dentro lo specchio- giusto in tempo per sorprendere il riflesso di Castle a scolarsi in un unico sorso il resto del calice, con un'espressione di agitazione e aspettativa che aveva appena visto espressa a chiare lettere sul proprio di viso, e che vedere riflessa anche su quello dell'amico non gli piacque affatto. Soprattutto perché, nel suo caso, non la si poteva imputare all'imminenza di un matrimonio.
«Se mi rovina le nozze giuro che lo ammazzo...»
La frase uscì esasperata e con un tono volutamente troppo basso perché il diretto interessato potesse udirla, ma giunse comunque a destinazione attirando l'attenzione del secondo dei tre uomini riuniti con lui in quella stanza, e fino ad allora rimasto in disparte, immerso in un'agguerrita lotta con i polsini della camicia.
«Andiamo, adesso rilassati. Filerà tutto liscio»
«Ah sì? Allora perché ho la continua impressione che qualcosa debba andare storto?»
«Solo un po' di sano panico da matrimonio... Vedrai che nel giro di un anno sarà quasi sparito»
Ryan gli fu presto accanto, senza nemmeno curarsi di nascondere il sorriso eloquentemente divertito maturatogli sul volto alla vista del partner in preda a un vero e proprio attacco di panico, a prescindere che lui volesse ammetterlo o no.
E in effetti, se anche fosse stato conscio della curiosa e irrazionale scarica di terrorizzato eccitamento che stava provando al pensiero che da lì a un'ora sarebbe stato sposato, come avrebbe mai potuto ammetterlo ad alta voce?
Lui, perennemente a contatto con l'ingiustizia e il dolore -se non suo, di altri-, che aveva incontrato la morte più volte di quanto dovesse poter essere concesso a un solo uomo, e ancora prima aveva visto la guerra -quella vera-, riflessa sulla canna del proprio fucile... Lui, che aveva sparato ad assassini e obiettivi militari a distanze incalcolabili ad occhio nudo, e che adesso non riusciva a tenere le proprie dita ferme neanche per il tempo necessario ad abbottonarsi la giacca. Aveva conosciuto lo stress post-traumatico, sapeva cosa volesse dire convivere con l'ansia ogni giorno e sentirla divorare le proprie viscere: come avrebbe mai potuto ammettere, anche solo a sé stesso, che dopo tutto ciò che aveva vissuto e sopportato, bastasse la semplice idea di sposare la donna che amava -e con cui avrebbe comunque passato il resto della sua vita, a prescindere dalla firma apposta su un documento- a mandarlo in panico adesso? L'orgoglio e il disperato tentativo di conservare la propria virilità non gli avrebbero mai permesso di venire deliberatamente a patti con quel pensiero, pur tuttavia già ben noto al suo subconscio: ciò nonostante quel paradossale contrasto tra il sapere e il non volerlo ammettere non lo aveva del tutto privato della sua lucidità, almeno non al punto da non rendersi conto che la sua ansia era sì in gran parte, ma non del tutto imputabile a sé stesso e alla propria sciocca paura. Quella cricca sparuta di neuroni dissidenti, che popolava l'angolino del suo cervello rimasto immune alla frenesia da matrimonio, continuava infatti a riproporgli a ondate informazioni non pertinenti compreso, tra le altre, il ricordo dei recenti avvenimenti tra due dei suoi più cari amici che -aveva realizzato con orrore quella stessa mattina- si sarebbero incontrati dopo mesi proprio al suo matrimonio. Quindi, in un moto di amaro compiacimento, dovette concludere che la sua preoccupazione nei confronti della labilità di controllo di Castle era del tutto giustificata. Checché ne dicesse Ryan.
«Signori, è ora»
La porta della camera d'albergo si aprì e la testa dell'organizzatore -una pertica pallida dalla barba curata, avvolta in un elegante completo beige- vi fece capolino, facendo sobbalzare Esposito, colto proprio nell'unico istante in cui -troppo occupato a riflettere- non aveva prestato orecchio all'avvicinarsi dei passi nel corridoio, che gli avrebbero consentito di realizzare che era ora di andare con almeno qualche secondo d'anticipo, così da potersi preparare mentalmente. Avendo sprecato quei preziosi istanti, fu così costretto a respirare profondamente e contemporaneamente a camminare verso l'uscita; una doppietta che gli costò parecchia fatica, specie dopo l'occhiata ebete e sorridente che spiò nel suo riflesso allo specchio un attimo prima di voltargli le spalle, e che gli provocò un irritante moto di auto-derisione.
Odiava comportarsi in quel modo, si sentiva così... Ryan.
Le mani leggermente sudate d'eccitazione, si posizionò di fronte alla porta d'un passo indietro rispetto all'organizzatore, in attesa di un suo cenno per procedere finalmente fuori dalla stanza, lungo il corridoio, e poi giù per le scale fino al giardino, dove un gazebo e un'ottantina di invitati lo stavano già attendendo. Dietro di lui Castle e suo cugino Oliver stavano adesso prendendo posto, sfruttando quegli ultimi attimi per mettere a punto le proprie mise, mentre un Ryan già pronto e sorridente gli si era posto quasi a fianco, sostenendolo discretamente come ogni giorno da che erano diventati partner.
«Hai la pistola con te?»
«Certo che no, perché mai dovrei portarmi la pistola al tuo matrimonio?»
Ryan gli rivolse un'occhiata confusa e sbalordita, indeciso su come interpretare quella richiesta. Gli fu tuttavia sufficiente seguire il suo sguardo, posatosi sullo scrittore alle loro spalle per un breve ma intenso istante, per capire che non era autolesionismo da stress ciò di cui avrebbe dovuto preoccuparsi, ma un potenziale omicidio di primo grado.
«Pazienza, vorrà dire che nel caso me ne occuperò a mani nude»


Febbraio nella Hudson Valley era un spettacolo mozzafiato. Di per sé sufficiente a giustificare la scelta di uno dei mesi più freddi dell'inverno New Yorkese per celebrare un matrimonio con rito all'aperto. All'orizzonte la natura si apriva libera e incontaminata in una vallata nebbiosa, spruzzata qua e là d'argento -ricordo forse di una recente nevicata. A chiudere quella conca erbosa, fitti filari d'alberi ancora sopiti sotto le spire brumose dell'inverno, attraverso cui il sole tentava faticosamente di filtrare, diffondendo nell'aria, quando vi riusciva, una luce soffusa e quasi eterea che riempiva gli occhi. E tra un ramo disadorno e l'altro, ogni tanto Kate riusciva persino a spiare il riverbero del lago, distante poco più di un chilometro, sfuggente e abbagliante come uno specchietto lasciato a giocare col sole.
Il rigido contrasto tra quella vista selvatica e la perfezione artificiosa del giardino dell'hotel non era che il coronamento di quel panorama, contribuendo ad aumentare l'impressione di trovarsi in una piccola oasi di perfezione isolata in mezzo a un paradiso arboreo.
La sensazione di essere fuori posto, per una cittadina come lei, era però sempre in agguato. Così Kate, affacciata alla finestra della stanza adibita alla preparazione della sposa, si premurava di non indugiare troppo su nessun dettaglio che potesse farle prendere reale coscienza di dove si trovasse e perché: onde evitare che il rientro nella sua città natale -vista di sfuggita dal finestrino del taxi, un attimo prima di venire inghiottiti dal traffico delle strade provinciali- non fosse reso più traumatico dal distacco dal suo ambiente naturale, fatto di cemento e fumosità.
Privata dell'unica distrazione disponibile, il cambio d'abito, negli ultimi dieci minuti i suoi sforzi avevano però iniziato a far cilecca lasciando così campo libero ai pensieri che, come le foglie fuori dalla finestra, avevano preso a ornargli le centinaia di ramificazioni gemmatesi nella sua mente. Alla fine Kate aveva escogitato uno stratagemma, e aveva ripreso a osservare il panorama attraverso l'alone di condensa che ad ogni respiro contribuiva ad alimentare sul vetro, attraverso cui la vista di quel luogo si faceva quasi accettabile. Lei si sentiva come quell'alone: una presenza incorporea e quasi invisibile, dai contorni confusi, tenuta in vita dal gesto automatico del respirare e nulla più. E intanto il corpo, elegantemente avvolto nell'abito vinaccio, flirtava con le vertiginose décolleté, prendendo parte ai festeggiamenti che si stavano consumando alle sue spalle, e a cui la testa sembrava invece non essere stata invitata. Persa in quel groviglio mentale, l'unico legame attuale col suo corpo era infatti il peso irrisorio dello chignon basso, che costringeva i suoi capelli in una morbida morsa e che, sottomesso alla forza di gravità, era l'unica cosa ad assicurarle di rimanere con i piedi ben piantati a terra.
In quel brusio indistinto di voci e di brindisi, e di pensieri turbinanti, ci volle il suono rassicurante del proprio nome, pronunciato da una voce altrettanto rassicurante e familiare, per convincerla a riemergere da quell'apatico stato di quiete.
«Kate, cosa ne pensi?»
Voltate le spalle al vetro, una visione altrettanto ragguardevole le si parò davanti quando una splendida Lanie vestita di bianco raggiunse il centro della stanza, raggiante come poche altre volte nella vita. L'abito -un gioiellino di alta sartoria scovato mesi prima in un outlet- la fasciava delicatamente sulla vita, accentuando il seno già prosperoso senza scadere nel volgare, per poi aprirsi in una morbida gonna ampia che terminava con un piccolo ma raffinato strascico. Nella sua semplicità, il vestito si sposava perfettamente con la carnagione scura di Lanie e con il pendente d'oro e ametista verde che le adornava il collo -unica nota eccentrica nel suo aspetto.
«Sei magnifica, Lanie»
Il sorriso sbocciato radioso sul volto della sposa raggiunse rapidamente anche le labbra di Kate, contagiando in breve tempo anche le altre donne presenti nella stanza che, con commenti estatici e gridolini eccitati, s'erano unite al coro di complimenti inaugurato dalla damigella d'onore. Jenny in particolare, complici gli ormoni, si sciolse in un appena accennato pianto di commozione che costrinse Marla, la storica compagna di università di Lanie, a intervenire prontamente con dei fazzoletti, onde evitare che il trucco dell'altra si distribuisse dagli occhi anche sul resto del viso. La scena ebbe il merito di smorzare la tensione, che palpabile s'era sostituita all'aria della stanza nel momento in cui Lanie era uscita dal camerino e tutte avevano definitivamente preso atto che stava per sposarsi. Ne derivò che, quando la proprietaria dell'hotel si materializzò tra loro invitandole a seguirla, non ci furono altri pianti o contrattempi emotivi.
«Lo sposo la attende, signorina Parish»
Sotto lo sguardo gioviale di Mrs Nasser, la proprietaria, e quello decisamente più composto di sua madre, Lanie lasciò che Kate le appuntasse il velo, e si concesse un'ultima rimirata allo specchio prima di incamminarsi lungo il corridoio. Dietro di lei, il piccolo esercito di parenti, addetti e damigelle -Kate compresa- procedeva disordinato, col picchiettare dei tacchi sul parquet a far loro da colonna sonora. L'assembramento si ruppe non appena raggiunsero l'androne, col giardino che faceva capolino dall'angolo di portone spalancato appena visibile dalla loro posizione. Lo stesso portone di legno che Kate aveva l'impressione la stesse spiando, minaccioso e imponente, oltre la colonna dietro cui lei stava pazientemente attendendo il proprio turno. Troppo distante per restituire lo sguardo, poteva tuttavia sentire il mormorio indistinto della gente verosimilmente assiepata lì fuori, appena qualche metro più avanti, in trepidante attesa del loro arrivo. Non aveva avuto modo di vedere l'allestimento finale, essendo arrivata quando ancora i camerieri stavano disponendo le prime sedie sul prato sotto il gazebo, e questo non fece che aumentare la sua ansia. Sarebbe riuscita a non cadere? Sarebbe stata capace di arrivare fino alla fine di quel tappeto di petali senza cedere all'impulso di scappare?
Vide la madre di Lanie allontanarsi con altri membri del gruppo e sparire oltre l'uscio, segno che la cerimonia sarebbe presto iniziata e che tutti, eccetto sposa e damigelle, dovevano affrettarsi a prendere posto. Ancora pochi istanti e la marcia nuziale avrebbe preso a suonare, segnalandole che era giunto il momento di aprire le danze. Si guardò brevemente intorno: accanto a lei ormai solo Jenny e Marla, e Lanie ovviamente, insieme all'onnipresente signora Nasser.
«Sei pronta?»
Lanie, profondamente concentrata sulla delicata operazione dell'alternare l'inspirare all'espirare, parve sobbalzare quando Kate si rivolse a lei, ma tutto il suo stupore morì rapidamente nella dolcezza di un nervoso sorriso sbocciato a fior di labbra.
«Credo di sì»
Kate le strizzò con forza la mano, decisa a infonderle un coraggio di cui in verità non era certa di disporre attualmente, ma negli occhi di lei lesse la gioia e non ebbe dubbi che, a dispetto del suo tono incerto, il resto di Lanie era più che pronta a quel matrimonio.
E lei, lei era davvero pronta a uscire lì fuori? La sua mente continuava a ripeterle di sì, ma le mani erano in chiaro disaccordo, intente a torturarsi e torturare il piccolo bouquet di rose bianche e lavanda. Il bouquet sbagliato, si disse, mentre l'aroma le invadeva prepotente le narici fino a farle girare la testa. Gelsomini e fiori di ciliegio: quello sarebbe stato giusto. Il che le ricordò che anche febbraio non era il mese adatto: la primavera infatti avrebbe dovuto fare da sfondo a qualunque cosa la aspettasse là fuori.
No, non era pronta.
Fu un fruscio di stoffe a riportare la sua attenzione alla realtà e alla sposa -quella vera-, che sotto preciso ordine di Mrs Nasser era andata ad occupare l'ultimo posto di quella sontuosa carovana composta da lei, Jenny e Marla. E con un moto di sgomento dovette faticare per far notare alla propria mente quanto insensati fossero quei pensieri, e ricordarle che quello era il matrimonio di Lanie, non il suo. Nonostante sentisse che la stessa agitazione che imporporava -legittimamente- le guance di Lanie, fosse attualmente dipinta sul proprio di viso, sebbene in realtà non potesse vantarne alcun diritto. Intercettata l'amica con lo sguardo, le rivolse un sorriso d'incoraggiamento, dietro cui nascose il senso di colpa che l'aveva di colpo investita, tentando di rimettersi addosso i panni della damigella d'onore e svestire quelli di qualunque cosa il suo cuore cercasse di farla sentire in quel momento. E tuttavia, un attimo prima che la musica la raggiungesse, quello stesso cuore si premurò di farle notare come, in realtà, non avesse avuto occasione di vederlo neanche una volta da che era arrivata all'hotel, così che quello di fronte all'altare sarebbe stato il loro effettivo primo incontro dopo mesi di silenzi, caricando quel momento di ulteriore attesa che, tirando a indovinare, avrebbe persino potuto superare quella di Lanie e del suo futuro sposo.
Il che, ridicolmente, la fece sentire ancora di più come la diretta interpellata di quella marcia nuziale che aveva appena iniziato a suonare.
Percepì solo con gli occhi il cenno del capo della proprietaria che la invitava a muoversi, mentre la testa era troppo impegnata a ricordarsi di alternare ad ogni passo un respiro, onde evitare un'insufficienza d'ossigeno prima dell'arrivo.
Se Kate avesse potuto vedere Castle, avrebbe capito di non essere l'unica a provare la buffa sensazione d'essere lei la protagonista di quella corsa all'altare. Avrebbe visto le sue gambe impegnate in un'impercettibile quanto nervosa danza, di cui le mani, sfregate senza sosta l'una contro l'altra, scandivano il ritmo. Avrebbe spiato il disagio degli occhi, incapaci di fermarsi a riposare su un punto abbastanza agevole da chiamare casa, costringendolo piuttosto a guizzare con lo sguardo a destra e a sinistra, incespicando ogni qual volta nel suo viaggio si posava erroneamente su di lei. E avrebbe poi scorto i rapidi e intermittenti movimenti del suo torace quando, con profondi e spezzati respiri, riemergeva da apnee che non sapeva d'aver tentato, e l'espressione di irritato sgomento quando s'accorgeva d'esser ricaduto in un altro digiuno d'aria.
Se avesse potuto, ma non poteva. Poiché non alzò mai gli occhi, non finché non ebbe compiuto l'ultimo passo almeno.
Procedette invece lungo la navata, aprendo la strada a Jenny e a Marla, e tutto ciò a cui poté aggrapparsi per evitare di crollare, e tradire così la propria agitazione, era il bouquet, stretto nella morsa d'acciaio delle sue dita. Ad ogni passo la ciocca in cima alla testa minacciava di sfuggire all'intricata tela dell'acconciatura, allentandosi sempre un po' di più, e Kate avrebbe voluto redarguirla, interrompere il fastidio di quel delicato sfregamento contro la propria fronte, ma temeva che a reggersi con una sola mano al suo appiglio odoroso sarebbe crollata. Quando infine giunse di fronte all'altare furono le sue gambe, immuni dalla schiavitù del cuore, a evitarle la pessima figura dell'occupare il posto ritualmente spettante alla sposa, di cui condivideva quantomeno lo stato d'animo se non il ruolo, e a spingerla un po' più a destra nel posto che invece spettava a lei, semplice damigella d'onore. La fonte di tanta confusione le stava ora dinnanzi, e pure con cinque metri e due sposi a dividerli, i loro sentimenti erano talmente ingombranti da schiacciare lo spazio circostante al punto da far quasi avvicinare l'altare e il prete, quel tanto che bastava a far sì che entrambi, nello sfarfallio di un istante, riconoscessero negli occhi dell'altro la consapevolezza curiosamente condivisa d'essere in un punto troppo pericoloso per loro, quasi sull'orlo di un burrone, in cui le uniche alternative erano tuffarsi o rimanere seduti ad aspettare. Forse per qualche minuto, forse per sempre.
La cerimonia per fortuna procedette comunque distesa e senza intoppi.
E talora qualche momento di commozione la spinse persino a concentrare la propria attenzione sui due protagonisti, per il resto ostinatamente ed egoisticamente concentrata su un altro di smoking, quello del secondo testimone.
Nonostante quella cura nello studiarlo però, non seppe mai se Castle si fosse tuffato o meno nel loro personalissimo mare emotivo. Lei sicuramente non lo aveva fatto, preferendo ancora una volta la strada più prudente e meglio delineata: quella dell'attendere al sicuro, al riparo dall'imprevedibilità delle correnti che avrebbero in un istante spazzato via ogni sua possibilità decisionale futura. E dentro di sé sapeva d'averlo fatto più per paura di scoprirsi capace di nuotare in quel mare inesplorato, che per timore di non esserne in grado. E tuttavia, pur non tuffandosi, non trovò neanche mai il coraggio di smettere di immergere i propri piedi nell'acqua, e di chiedersi come sarebbe stato tuffarsi dentro quelle due pozze cristalline che la stavano silenziosamente e discretamente fissando di rimando.
Quando il prete infine dichiarò Lanie ed Esposito “marito e moglie” la sua attenzione le concesse l'ultimo dei suoi rari scarti, consentendole di dare a quel momento -e ai suoi due amici- l'importanza che meritavano. Si commosse nel sorriso eccitato di Lanie, si sciolse nello sguardo umido di Esposito, gioì nel vedere quegli sguardi e quei sorrisi fondersi nel primo loro, appassionato, bacio coniugale... Ma di nuovo, al separarsi di quelle labbra, sul sottofondo di uno scrosciante applauso generale, le sue ultime energie si dissiparono non nel battere le mani a tempo con gli altri, ma piuttosto nell'intercettare lui ancora una volta, dipingendo quella scena finale con un ultimo loro sguardo.
Preceduti dai novelli sposi, lei insieme agli altri cinque occupanti della scena si incamminarono infine lungo il corridoio erboso -per l'occasione improvvisatosi navata- tra petali di fiori, chicchi di riso, applausi e urla. E per uno strano scherzo del destino, che spinse Ryan -primo testimone- a intercettare Jenny -seconda damigella-, portandosi al suo fianco e catturandola in un abbraccio che valse loro il primo posto di quella passerella umana, l'ordine venne invertito e Kate si ritrovò a camminare accanto alla persona più sbagliata: Castle.
Con poco spazio a disposizione e un'andatura confusamente accelerata, le loro dita finirono irrimediabilmente con lo sfiorarsi più e più volte ad ogni passo, in una scarica elettrica che l'attraversava da parte a parte: dalla mano destra a quella sinistra, ancora salda al bouquet. Quando infine mossero l'ultimo passo di quella sfilata, il primo impulso fu quello di separarsi: decisi e senza esitazioni, uno da una parte e uno dall'altra. Eppure, nell'istante in cui la brezza fredda di febbraio tornò a lambirle la mano, lì dove prima s'erano posate le sue dita, l'urgenza di prolungare quel contatto si fece di colpo più impellente di quella di sfuggirgli, prendendo la forma di un suono che, come un seme maturato nella gola, si fece strada verso alla bocca, fino a fiorire nel suo nome. D'altra parte quel suo bisogno non sembrò trovare riscontrò in Castle che, pur fingendo di non averla sentita, non riuscì però a impedire alle proprie spalle di irrigidirsi prima di proseguire diritto per la propria strada, in una determinazione che Kate tradusse come il più chiaro degli inviti a non cercarlo.
Per un secondo valutò di assecondarlo in quella che, forse, si sarebbe rivelata la scelta migliore per entrambi, a dispetto della vocina nella sua testa che, imperterrita, continuava a chiamare il suo nome. Alla fine comunque Kate non poté che arrendersi a quella voce, conscia che l'impulso a parlargli era troppo forte per resistervi per un'intera giornata, così come quello di toccarlo e di guardarlo senza dover ricorrere a languide occhiate rubate.
«Castle fermati, non puoi evitarmi per sempre. Hey sto parlando con te!»
Stretti i pugni contro i fianchi accelerò il passo. E sebbene la sua andatura fosse alquanto affrettata, Kate non ebbe particolari problemi a stargli dietro, forte anche di quella particolare abilità di correre sui tacchi maturata in tanti anni di lavoro come detective. Un'unica sosta in effetti la rallentò, quella necessaria ad abbandonare il bouquet sulla prima superficie che incontrò sulla strada, e che la costrinse a girare l'angolo con qualche secondo di scarto rispetto a lui: il proprio arrivo preceduto dall'ennesimo, perentorio, richiamo. Fu allora che la vide.
Il sapore ancora fresco del suo nome sulle labbra, smorzato dall'amaro di quella visione: Castle, finalmente arrestatosi, accanto a quella che, senza ombra di dubbio, doveva essere Laura. Si bloccò a metà strada, seguendo l'esempio di polmoni e cuore che, solo dopo parecchi interminabili istanti, riprese a pomparle violento il sangue nelle vene.
La donna, di cui possedeva solo l'ombra tuttavia vivida di una voce, s'era ora vestita di un corpo tutt'altro che irrisorio, ornato d'un delicato vestito blu ardesia che contrastava armonicamente con l'incarnato luminoso e la chioma corvina. Riconobbe i tacchi vertiginosi con cui Castle l'aveva dipinta ai suoi occhi, in un portamento rilassato e sereno con cui lei non riusciva a immedesimarsi, specie se immaginandosi accanto a lui, che era invero sempre stato capace di d'investirla d'una agitazione tutta particolare ed estatica.
Concessasi un paio di secondi supplementari per smaltire lo shock, comprese di colpo la fretta dell'uomo come di colpo ne condivise l'urgenza di sospendere ogni loro contatto. Tuttavia ciò che lei aveva vissuto come lunghissimi minuti non erano state che frazioni di secondo il che, unito al modo tutt'altro che discreto con cui aveva chiamato in precedenza il suo nome, le fecero realizzare con orrore che non solo non sarebbe potuta sparire senza destare sospetti, ma che con la sua irruenza aveva attirato anche l'attenzione di Laura, la quale aveva preso a guardare nella sua direzione con un cipiglio curioso in volto.
«Rick, tesoro. Credo che quella donna laggiù ti stia cercando»
Come paralizzata, Kate rimase ferma nella sua posizione a osservare il dito della donna alzarsi e puntare diritto verso di lei, seguito subito dopo dal viso di Castle che, ormai in trappola, non poté fare a meno di voltarsi a guardarla.
«Oh, Beckett, ciao!»
Il tono di finta noncuranza di cui si vestì quella frase la colpì con tutta la forza e l'irritazione di un pugno allo stomaco, mentre una parte di lei -quella razionale- lo stava invece ammirando per il modo encomiabile, e apparentemente disteso, con cui era riuscito a dissimulare l'intera faccenda. D'altra parte lei, del tutto impreparata a quell'incontro, dovette fare appello a tutte le sue forze per decidersi a muoversi e uscire da quell'impasse alquanto imbarazzante. E mentre malvolentieri si apprestava a raggiungerli, si dette della stupida per non aver considerato quell'eventualità, che in realtà era più una certezza considerato che, essendo perfettamente al corrente che stavano ancora insieme, il portare al matrimonio la propria ragazza -e qui il cuore di Kate fece una capriola- sarebbe stata una mossa più che ovvia da prevedere.
«Devi scusarlo, è sempre così distratto»
«È vero, ma potrebbe essere anche colpa di tutti quei brindisi con i ragazzi, prima della cerimonia»
Una risata cristallina si levò dalla donna di fronte a lei, stemperata dal sommesso sorriso del suo compagno, e Kate si sentì in dovere di partecipare a quel surreale scambio di ilarità, sorridendo a sua volta nel modo più naturale che le riuscì.
«Comunque io sono Laura, piacere. La fidanzata dello svagato, qui presente. E tu se non sbaglio sei una delle damigelle della sposa...»
«Sì, piacere Katherine Beckett»
«Oh ma certo, Beckett! L'amica poliziotta di Lanie che lavora a Washington! Ho sentito dire grandi cose sul tuo conto»
L'entusiasmo sincero con cui furono pronunciate quelle parole la lasciò di stucco, certa che quel primo incontro si sarebbe consumato sotto il segno della circospezione e del disagio, e non dell'aperta cordialità. Eppure le sue spiccate doti investigative non colsero alcun segno di ipocrisia nel suo atteggiamento né altro di avverso, se non un'eccessiva espansività tipica di quella categoria gente solare e genuinamente spensierata, di cui Kate aveva sino ad allora ritenuto Castle l'unico sopravvissuto rimasto.
Nel ringraziarla di quei complimenti, Kate comunque continuò a soppesarne le parole, indecisa se sentirsi più lusingata o più svilita dalla poca apprensione che quella donna sembrava nutrire nei confronti del suo passato con Castle. Qualche altro minuto e un paio di frasi scambiate, la portarono infine a concludere che con tutta probabilità Laura non avesse idea di che lei fosse -o fosse stata- per Castle, certa che tanta spigliatezza non sarebbe potuta essere naturale neanche in una personalità del genere. E di nuovo Kate si sentì combattuta tra due sentimenti contrapposti: tra il sollievo cioè d'essere scampata a un incontro potenzialmente molto imbarazzante, e lo strano risentimento repentinamente maturato nei confronti di Castle, che sembrava non aver ritenuto il loro passato qualcosa di sufficientemente importante da metterne a parte la nuova arrivata.
«Scusatemi è il lavoro, devo rispondere. Torno subito»
Lo squillo di un cellulare giunse a mettere fine a quel surreale quadretto di vita sociale, costringendo Laura ad allontanarsi e contemporaneamente Rick e Kate ad avvicinarsi in un inevitabile e necessario confronto. Non prima però di aver condito la scena d'un rapido e sgradevole bacio a stampo di commiato, che attorcigliò le budella di Kate con tanta violenza da farne riversare la bile all'esterno, dritta sulle sue parole.
«Lei non hai idea di chi io sia, vero?»
«No»
«Come è possibile che non sappia nulla di noi?»
«Quando l'ho incontrata era già da un pezzo che non esisteva più un noi, Kate. Inoltre non è una fan dei miei libri»
Il fatto che Laura non fosse una sua fan, sebbene sufficiente a farle perdere qualche punto ai suoi occhi, non era per Kate un'informazione esauriente, essendo la sua domanda mirata a sapere come lui avesse potuto non far neanche cenno a lei in tutti quei mesi, più che al come lei potesse essere tanto estranea al loro mondo da non averne mai sentito mai parlarne. Non seppe dire se lui non avesse davvero inteso il senso della sua richiesta, o se avesse deliberatamente virato sui libri per evitare di rispondere. Ad ogni modo, dopo averlo sentito puntualizzare quel noi a denti stretti, non ebbe più cuore di approfondire la faccenda. Specie perché al momento c'erano questioni più urgenti da dirimere.
«Rick ho bisogno di parlarti, ti prego»
«Sinceramente Kate, non credo ci sia nulla di cui parlare»
«Nulla, davvero? E quello che è successo a Washington lo chiami nulla? Non puoi fare finta che non sia accaduto niente, Castle!»
«Non faccio finta, Kate. So perfettamente cosa è successo, e cioè ci siamo fatti trascinare dagli eventi e abbiamo commesso un errore. Fine della storia. Per cui come vedi non c'è nulla di cui parlare»
«Tutto qui? Trascinati dagli eventi, un errore... Andiamo Castle, non ti sembra troppo semplicistica come storia. Sappiamo entrambi che non è il tuo genere»
«Le persone cambiano, Kate. A volte. Ora scusami, c'è un matrimonio in corso e vorrei andare a congratularmi con gli sposi»


Da quando Castle l'aveva lasciata da sola in mezzo al giardino, Kate aveva deciso di interrompere ogni contatto sociale con chiunque. Una decisione temporanea la sua, e terribilmente egoistica -ne era consapevole-, ma necessaria affinché nessuno si accorgesse dei suoi occhi rossi e le chiedesse spiegazioni. Un ritiro preventivo, atto a proteggere il giorno di Lanie ed Esposito dai suoi problemi, ma soprattutto a preparare lei -era inutile negarlo- al prossimo inevitabile incontro con Castle. Per tutta la durata dell'aperitivo, allestito nel piccolo portico adiacente al luogo della cerimonia, Kate s'era dunque rifugiata in un angolino appartato del muretto di cinta: abbastanza vicina da seguire i movimenti del convito, ma sufficientemente lontana da non venirvi coinvolta. L'unica eccezione era consistita nella rapida e calcolata incursione al tavolo delle bevande, grazie alla quale Kate si era accaparrata il gelato calice di bianco, custodito ora gelosamente tra le proprie dita. I suoi venti minuti di tranquillità vennero fatalmente interrotti dall'arrivo di Ryan, una presenza tuttavia neutrale e che Kate si scoprì sinceramente lieta di accogliere nella propria solitudine.
«Beckett»
«Ryan, ciao!»
Abbandonato il suo tesoretto alcolico per un istante, Kate scese dal muretto su cui era appollaiata per arricchire quel saluto di un allegro abbraccio, che l'ex collega non tardò a ricambiare. Un gesto inusuale per loro, ma giustificato da una lontananza prolungata a cui nessuno dei due, a dispetto del tempo trascorso, era ancora totalmente abituato.
«Ti trovo benissimo!»
Si separò da lui per concedergli una rapida occhiata, mentre il suo corpo aveva già riguadagnato posizione nel suo sedile di fortuna e presa sul bicchiere di vino. Non passò molto tempo prima che l'amico, liberatosi dell'impaccio della giacca, arrivasse a farle compagnia sedendosi a sua volta.
«Anche tu sembri in forma, un po' stanca forse... A Washington vi fanno faticare, eh?»
L'ultima frase venne palesemente aggiunta per smorzare la profondità di quell'appunto sulla stanchezza, che Kate imputò alla vista del suo sguardo, evidentemente ancora non del tutto scevro di lacrime. Una premura che apprezzò particolarmente, avendo colto in essa la preoccupazione dell'uomo per il suo stato e contemporaneamente tutta la delicatezza e la discrezione che facevano di Ryan l'amico prezioso che era.
«Diciamo che a volte rimpiango la flemma dei killer di New York»
«Posso immaginarlo, anche se credo che Washington ti porti a idealizzare un po' troppo il crimine di New York... Forse lo hai scordato ma anche i nostri assassini sanno essere particolarmente creativi, se vogliono»
Quello scambio di battute si perse in una risata condivisa, che andò a riempire lo spazio vuoto di cui Kate aveva faticosamente tentato di circondarsi fino a quell'istante.
«Ho saputo di Jenny, congratulazioni. Sarai eccitatissimo all'idea, immagino»
«Grazie! In effetti non sto nella pelle. Non pensavo che dopo quello che ci ha fatto passare Sarah Grace i primi tempi sarei stato così ansioso di tornare ad avere a che fare con coliche, pappe e notti insonni... ma a quanto pare l'istinto paterno annebbia la mente»
Un'altra risata tornò ad increspare le labbra di Kate, fomentata dalla smorfia comparsa indisciplinata sul viso dell'amico, probabilmente al ricordo dei suoi drammi neo-paterni.
«Ah, eccovi voi due!»
«Jenny!»
La conversazione venne interrotta proprio dall'arrivo di Jenny, quasi fosse stata richiamata dalle loro parole. Approfittando dell'ilare distrazione dei due, si era infatti avvicinata a loro con discrezione, ed era passata inosservata finché lei stessa non si era annunciata parlando. Ryan, la giacca malamente gettata su una spalla, non aveva sprecato neanche un attimo per balzare giù dal muretto e guadagnarne il fianco.
Adesso che l'aveva di fronte, Kate si prese qualche minuto per studiarla, con una cura che non aveva potuto prestarle prima: perché seduta durante il cambio d'abiti della sposa, e perché semplicemente meno interessante di altri durante la cerimonia. La pancia non era che accennata, una lieve curvatura sulla striscia di tessuto che le avvolgeva il ventre; sarebbe facilmente passata inosservata a chi non vi avesse ricercato intenzionalmente i segni d'una gravidanza, come lei. E tuttavia il suo viso era più eloquente di qualunque rotondità, roseo e florido come appena baciato dal sole, nonostante si fosse in inverno: una stagione tutt'altro che coerente con la solarità che sprigionava da ogni poro della sua pelle. Nel guardarli adesso, con Ryan a cingerle la vita con un braccio, in un inconsapevole abbraccio protettivo, Kate fu colta da un inatteso moto di tenerezza, fiera, e quasi onorata, di esser stata testimone di quell'amore fin dai suoi albori, quanto Jenny non era ancora che la metà della coppia aperta di Ryan. Come lui stesso aveva candidamente sottolineato in passato, durante un caso che l'aveva vista sorprendentemente coinvolta.
«Il pranzo sta per essere servito, Lanie e Javier mi hanno chiesto di venirvi a chiamare»
«Grazie, tesoro. Vogliamo andare allora?»
Il braccio era stato porto a Jenny, ma il resto di Ryan aveva invece posto quella domanda a Kate, ancora indugiante sulla soglia del suo rifugio. Ma non c'era scelta, doveva seguirli. E del resto non avrebbe potuto nascondersi lì tutto il giorno, né voleva farlo: era il matrimonio dei suoi migliori amici, dopotutto. Forte di una nuova determinazione -per cui, per qualche motivo, sentì di dover ringraziare Ryan- si decise quindi ad alzarsi e a seguirli oltre il giardino, dentro la sala ricevimenti dove la festa li attendeva.


A dodici anni i suoi genitori l'avevano portata in vacanza in Italia.
A dispetto della suggestività dei paesaggi e delle campagne toscane, il suo animo di bambina aveva trovato maggiore soddisfazione nell'esplorazione dell'agriturismo in cui soggiornavano, e dove i suoi genitori -dopo parecchie rimostranze- si erano infine convinti a lasciarla in occasione di escursioni particolarmente faticose, e meno appetibili quindi per la figlia. In quegli sprazzi di esotica solitudine, Kate aveva finito per fare amicizia con la figlia dei proprietari e, in breve, con il resto della piccola ma ardita compagnia di coetanei che sembravano affollare le camere di quella provvisoria sua dimora. Superate le difficoltà delle barriere linguistiche, grazie a quella particolare capacità, tutta infantile, di non notare le diversità altrui percependole come un problema, s'erano lanciati in avventure che non richiedevano necessariamente l'uso della parola, finendo con l'instaurare una singolare afona amicizia. Un gioco in particolare aveva occupato i loro pomeriggi più afosi, le cui regole vennero apprese grazie all'intervento mediatore del proprietario che, tra una spiegazione in italiano e una in inglese, aveva concesso loro di cimentarsi in divertenti sfide a carte: un gioco noto come “Lupus”.
Con il peso di troppi anni a gravarle sulla memoria, Kate non era certa che avrebbe saputo prendervi parte adesso con la stessa abilità di allora, e tuttavia i ruoli almeno le erano rimasti ben impressi per la loro particolarità: così, a seconda della carta estratta, vi erano i semplici passanti, i lupi -il cui obiettivo era quello di eliminare ad uno ad uno i primi con un abile e discreto gioco di sguardi-, e il cacciatore, chiaramente votato alla ricerca dei suddetti predatori.
Mentre la portata principale del pranzo veniva consumata, Kate -tra una chiacchiera e un boccone- continuava a pensare a quel gioco e, pur non capacitandosi del perché, aveva il forte sospetto che quella passeggiata lungo il viale dei ricordi avesse a che fare con l'intensissima guerra di sguardi che si stava compiendo a quel tavolo da quasi due ore, da quando cioè ognuno aveva preso posto scoprendo la carta assegnatagli. Si era così venuto a instaurare un inquieto equilibrio: loro due, inevitabili membri dello stesso branco, intenti a scambiarsi occhiate eloquenti e sguardi fuggevoli ma fin troppo insistenti, in un'evidente distorsione delle regole, tale per cui non minacciavano di morte gli astanti ma sé stessi e il proprio autocontrollo. E il cacciatore tra loro, nelle rassicuranti e voluttuose vesti di Laura, inconsapevolmente preposta alla ricerca di un canale comunicativo che neppure sospettava esistesse, confidente in una ferrea sicurezza di sé o semplicemente nell'ignoranza circa il passato del suo uomo e della donna che gli sedeva di fronte. E così, a parte loro, nessuno dei presenti sospettava nulla, vittime tutte inconsapevoli di quel conflitto a fuoco tra iridi che avrebbe facilmente potuto trasformarsi in un massacro se solo una piccola scintilla di consapevolezza avesse attraversato gli occhi del cacciatore.
«Prima di passare alla prossima portata, faremo una pausa. Nel frattempo fate un bell'applauso e accogliamo tutti il primo ballo degli sposi»
La voce del cantante del gruppo -una piccola band neo-melodica le cui cover avevano conquistato Lanie già ad un precedente matrimonio- si levò sopra il festoso frastuono di stoviglie, posate e chiacchiere gioviali, attirando l'attenzione di tutti i presenti. Dal fondo della sala che -con una magnifica vetrata affacciata sul giardino a fare da sfondo- accoglieva il tavolo degli sposi, emersero quindi Lanie e Javier, i quali un po' impacciati, una per l'abito l'altro per l'agitazione, raggiunsero il centro della sala, incoraggiati dalle urla e dagli applausi dei tavoli intorno.
Quando infine fu soddisfatto della loro posizione, il cantante abbandonò i toni irruenti dello speaker per passare a quelli suadenti che più si confacevano al suo ruolo, e ben presto l'atmosfera nella sala cambiò. Lanie e Javier, evidentemente poco pratici dei ritmi rilassati di un lento, dopo un inizio un po' incerto iniziarono però a carburare, e ben presto la coppia prese a volteggiare abilmente per la pista. Kate conosceva già le doti danzerecce di Esposito -avendo avuto modo di apprezzarle durante i talent annuali della polizia a cui immancabilmente lui e Ryan si esibivano- e conosceva la passione di Lanie per le discoteche e per il ballo, che in tempi meno rigidi aveva condiviso con lei. Tuttavia vederli in quella veste, di sposi e ballerini insieme, era uno spettacolo nuovo e attraente, specie perché mai, anni addietro, avrebbe potuto immaginarseli così: felici e innamorati, cullati dalle note di una canzone così lenta da scontrarsi con l'effervescenza delle loro personalità.
Col passare dei minuti lo scenario cambiò, e dopo una breve sostituzione di partner per Lanie -che passò da Esposito al padre, e poi di nuovo ad Esposito- alla coppia principale se ne aggiunsero pian piano tante altre, finché i tavoli non iniziarono a svuotarsi e la pista a riempirsi. E al cambiare dello scenario, arricchito di volta in volta da nuovi protagonisti o da diversi appaiamenti dei precedenti, anche i ritmi cambiavano, con un frizzante altalenio tra motivi dance e melodie romantiche che in breve contagiò quasi la totalità della sala. Compresi Castle e Laura.
Nel vederli alzarsi, mano nella mano, e prendere poi a loro volta parte alle danze, Kate si sentì trafiggere al petto, per l'ennesima volta quel giorno. Se già doverli osservare a tavola era stato un boccone duro da digerire, adesso doverli guardare piroettarle gioiosamente davanti agli occhi si stava rivelando quasi impossibile da sopportare.
Indugiò nell'alzarsi per il semplice fatto che la sua posizione attuale le garantiva una certa discrezione, essendo rimasta da sola in quel tavolo, tale da permetterle di poter continuare a godere della vista di Castle senza timore di essere scoperta, approfittando della confusione generale da cui tutti sembravano distratti. Tutti, tranne Castle, che di tanto in tanto, quando la folla lo permetteva, spiava oltre la spalla della sua compagna per restituirle lo sguardo, con un intensità che valeva più di qualunque parola Kate avrebbe potuto sperare di sentirsi dire da lui.
Desiderio, questo leggeva infatti nei suoi occhi. Desiderio e turbamento.
E per quanto si ripetesse che non era possibile -sereno com'era tra le braccia di Laura-, e che anche essendo vero non avrebbe fatto alcuna differenza per loro, Kate non riusciva a smettere di crogiolarsi in quella consapevolezza. La consapevolezza che dopotutto, per quanto lui l'avesse definita una storia semplice, quella di Washington -lungi dall'essere semplice- era una ferita ancora aperta.
Fu un bacio infine a farla desistere da ogni proposito. Qualunque idea malsana stesse tentando di affacciarsi alla sua mente, venne spazzata via dall'incontro delle loro labbra -un incontro decisamente più appassionato di quello a cui aveva assistito precedentemente in giardino- e che le fornì la dose di dolore necessaria a farla alzare dalla sedia. Un'ultima occhiata languida, sfuggita erroneamente al suo controllo, andò a colorare i suoi occhi, riflettendosi poi in quelli dell'uomo,e certa che a lui non fosse sfuggita Kate accelerò il passo, fuggendo letteralmente dalla sala.
Varcato l'uscio, ben poche prospettive le si aprirono dinanzi e, visto il rossore che le infiammava le guance, concluse che il bagno sarebbe stata una scelta più idonea del giardino. La prospettiva di rinfrescarsi si tramutò infatti in un'urgenza, e raggiunti rapidamente i servizi, aprì al massimo il rubinetto del piccolo lavello marmoreo, lasciando che il getto d'acqua fredda le imperlasse le dita. Lentamente prese poi a picchiettarsi la faccia con le mani umide, non potendo permettersi di sciacquarsi davvero considerate le quantità di trucco che aveva addosso. Quando alzò il capo per incontrare il riflesso nello specchio, ringraziò di non riuscire a distinguere se quelle sul suo viso fossero lacrime, gocce d'acqua o un insieme di entrambe. Il suo orgoglio non avrebbe retto a un altro pianto.
Le ci vollero parecchi minuti prima che si sentisse pronta a uscire e tornare alla festa, e quando finalmente si disse soddisfatta del suo aspetto e predisposta a un secondo round, si augurò con tutto il cuore che il momento delle danze si fosse concluso. Avrebbe preferito mille volte doversi sorbire la faccia di Laura di fronte a un buon pasto, che vederla ancora abbarbicata a Castle. Troppo presa da quei pensieri, si accorse a malapena della presenza appostata fuori dalla porta del bagno, e saltò in aria quando una mano le planò con violenza sul braccio, afferrandola con una forza bruta e non necessaria.
«Castle, fermati. Mi fai male!»
«Vieni con me»
Il tono della sua voce era duro e perentorio, quanto la presa sul braccio: le dita talmente spinte in profondità nella sua carne che Kate era quasi in grado di sentirne le protuberanze ossee delle falangi premerle contro le vene. Nella concitazione del momento, pose tuttavia in secondo piano il dolore che aveva preso a irradiarle l'arto, cercando piuttosto di capire il perché di quel gesto, e soprattutto di indovinarne le intenzioni, ora che aveva preso a trascinarla per il corridoio, verosimilmente verso le scale.
«Si può sapere dove mi stai portando?»
La voce le uscì meno combattiva di quanto avrebbe voluto, ma a giudicare dallo sguardo febbrile che gli illuminava gli occhi, Kate dubitò che il tono di voce avrebbe potuto sortire alcuna differenza: parlare non sembrava infatti essere una priorità per lui, attualmente troppo concentrato a trainarla al piano di sopra. Solo quando raggiunsero una stanza nell'ala destra dell'hotel -in cui lei non aveva mai messo piede, ma che tirando a indovinare doveva aver ospitato il cambio d'abito dello sposo-, Castle finalmente si decise a lasciarla andare, non prima di averla cacciata a forza al suo interno e d'essersi richiuso la porta alle spalle.
«Si può sapere che ti è pres-»
«Devi smetterla, Kate! Smetterla di guardarmi, e di cercarmi... Smettila! Dammi tregua, per l'amor di Dio!»
«Lo dici come se fossi l'unica a farlo, ma siamo in due Rick! Anche tu mi guardi, e mi cerchi! Non dare la colpa a me di qualcosa che in realtà vuoi anche tu!»
«Io voglio essere lasciato in pace, Kate! Questa è la sola cosa che voglio!»
«E io non ti credo!»
Vide la sua mascella fremere e le labbra tremare, pressate l'una contro l'altra con tanta violenza da ridurle a nient'altro che una sottile fessura nel suo volto. Le mani, strette a pugno, caddero pesanti lungo i fianchi rendendo la sua figura ancora più rigida, e lo sguardo s'impregnò di collera, incupendosi.
In poche altre occasioni aveva visto Castle in quelle condizioni, ancora meno erano state quelle in cui una tale rabbia era stata diretta verso lei. Persino nelle loro peggiori litigate, l'ira era sempre stata stemperata da un'amorevolezza di fondo e dai silenzi, di cui loro erano abili fruitori: altrettanto incisivi delle parole certo, ma meno violenti. Prevedere cosa sarebbe venuto dopo, fu dunque per Kate impossibile. E poi d'improvviso quella furia lui gliela scaraventò addosso.
Nella violenza della sua presa, nel modo rude in cui la sollevò, nella mancanza di accortezza con cui poi la depose sulla superficie fredda del mobile bar... ogni suo gesto trasudava rabbia e frenesia. Anche quei baci, appassionati e roventi, di cui la stava adesso inondando non avevano nulla di amabile: sapevano solo di sangue e disperazione. Nulla a che vedere con la tenera e struggente passione che li aveva sorpresi a Washington mesi prima: quella che stava per consumarsi adesso era la resa dei conti, in tutta la sua ferocia. In quella foga, nel veemente sollevarsi della gonna, ostacolo inaccettabile, lei e Castle non si stavano preparando a fare l'amore, stavano litigando, si stavano odiando... Dando voce a quel confronto necessario, ma non per questo meno doloroso, che lei aveva cercato sin dalla fine della cerimonia, e che lui le aveva strenuamente negato fino ad ora.
Il corpo di lui era adesso completamento adeso al suo, talmente vicino che Kate poteva indovinarne ogni curva e sporgenza anche attraverso la spessa e ruvida fattura della stoffa del suo vestito. E in quella prossimità, Kate non poté più ignorare il desiderio che stava ormai consumando entrambi, reclamando a gran voce appagamento.
Febbrili, le dita si avventurarono verso il basso, sotto la cintola, alla ricerca di quei bottoni che ostinati ancora si frapponevano al loro piacere. Con suo enorme disappunto quell'operazione le richiese più tempo del previsto, avendo una sola mano a disposizione, poiché l'altra era stata catturata da quella di lui, in un intreccio graffiante ancorato al muro sopra la sua testa. Quando infine riuscì a liberare la prima asola dal suo ospite, e carica di compiacimento si apprestava già a liberare le altre due con più determinazione di prima, tutto di colpo si fermò, e da che quasi non riusciva a respirare -con il petto pressato dai suoi pettorali e la bocca a rubarle di baci i pochi scampoli di ossigeno che riusciva a racimolare- Kate si ritrovò improvvisamente spoglia, circondata da più spazio e aria di quanto le fosse necessario.
Quell'improvviso apporto di ossigeno in esubero quasi le fece girare la testa, e fu con lo sguardo ancora intontito e ubriaco di passione che si guardò intorno, tentando di capire cosa avesse spinto Castle, a un passo dalla meta, ad allontanarsi con tanta violenza da lei.
«Non ti fermare...»
La voce le uscì boccheggiante, ancora in riserva d'ossigeno, ma non ottenne nessuna risposta. Indispettita, con la frustrazione che cedeva rapidamente il passo alla confusione, seguì allora lo sguardo dell'uomo, in piedi di fronte a lei, che con ancora la sua mano stretta tra le dita ne osservava ora un punto preciso con sconvolta curiosità.
Quando la consapevolezza mise radici nella mente di Kate era ormai troppo tardi per ritirare la presa, e lo stesso sconcerto di lui arrivò a devastare anche il suo di sguardo.
«Cos'è questo?»
Il tono confuso era condito di una nota sufficientemente incisiva d'ira. Kate ne fu spaventata e tentò inutilmente di ritrarre la mano, mentre lui di contro aumentava la presa sul suo polso.
«Ti ho chiesto cos'è!»
Strappato con violenza l'intreccio delle loro dita dal muro che le aveva sinora ospitate, Castle le aveva adesso sbattuto davanti agli occhi il quadrato di pelle incriminata, con una forza e una veemenza tali da rendere inutile ogni tentativo di divincolarsi di Kate.
Sentì le ossa scricchiolare sotto la circonferenza delicata del polso, e dovette mordersi l'interno di una guancia per impedirsi di gemere.
«Non è nulla, solo uno stupido tatuaggio! Vuoi lasciarmi andare adesso?»
«
Sappiamo entrambi che è più di questo, Kate!»
Con la stessa irruenza con cui l'aveva afferrata poco prima -in un impeto ben più piacevole di quello attuale- Castle le restituì infine la mano.
Sentire il sangue tornare a circolare lungo le sue dita fu un sollievo doloroso, che Kate tentò di lenire massaggiandosi delicatamente la zona di pelle arrossata. Nel farlo istintivamente il polpastrello del pollice percorse in lunghezza la piccola linea del tatuaggio, reo d'aver scatenato l'ira dell'altro, lasciando che il senso del tatto registrasse, ancor prima della vista, ognuna delle sei piccole lettere che insieme componevano la parola “
always, marchiata indelebilmente nel suo polso. Piccola, quasi impercettibile per un occhio non attento, seguiva parallela la linea della vena: una promessa, un simbolo di qualcosa che le era entrato in circolo e di cui mai avrebbe potuto disfarsi.
Poteva capire la reazione di Castle,era prevedibile, e tuttavia non se ne era mai davvero curata: nessun altro, eccetto loro due, avrebbe potuto riconoscere il reale valore di quella parola all'apparenza insignificante, e d'altra parte fino a qualche mese fa era stata convinta che lui non avrebbe mai più avuto modo di avvicinarsi a lei tanto da notarla.
Si era sbagliata, evidentemente.
Quella notte, a Washington, era stata fortunata: un bracciale, il buio e la passione del momento l'avevano protetta. Ma adesso, senza maschere e con gli animi a nudo l'uno di fronte a l'altra, e col sole a baciare ogni centimetro delle loro pelli, aveva peccato d'ingenuità nel non mettere in conto quella scoperta.
«
Maledizione Kate, sei tu che mi hai lasciato! Che diritto hai di rimpiangerlo adesso? Che diritto hai di... questo!»
Evidentemente turbato, Castle camminava adesso avanti e indietro, coi pugni chiusi ad agitarsi in aria contro nessun obiettivo in particolare, eccetto per quel breve istante in cui uno di essi andò a scontrarsi con forza contro la parete, per la fatica richiestagli dal pronunciare quell'ultima parola.
Seduta sul suo giaciglio di legno, con il cestello del ghiaccio ormai sciolto a farle compagnia, e il vestito ancora malamente sollevato oltre le ginocchia, Kate lo osservava, turbata e scossa da quella reazione, mentre ostinata ordinava alle lacrime di tornare indietro. Indecisa su cosa fare, e non ricevendo nessun indizio da lui -silenziosa presenza di fronte a lei-, scese allora dal mobile, si sistemò il vestito e indugiò poi nel fissarlo, attendendo che facesse o dicesse qualcosa che li tirasse fuori da quell'impasse.
«Quando lo hai fatto?»

Riprese a parlarle qualche minuto dopo, vietandosi categoricamente però di guardarla negli occhi. E Kate, sentendo le sue gambe cedere, ritenne opportuno sedersi di nuovo: il mobile che prima l'aveva ospitata era però ancora rovente della loro passione, il che non lo rendeva un luogo ospitale, e alla fine non trovò nulla di meglio del pavimento. Si sedette così contro la spalliera del letto, lasciando che il peso intollerabile del suo capo gravasse sul materasso e non più sul collo, già troppo provato.
«Qualche settimana dopo essermi trasferita a Washington»
«Perché?»
La rabbia di Castle sembrava essersi notevolmente ridotta: il tono si ammorbidì, le mani si aprirono in un incerto tremolio, e un sospiro rassegnato ne addolcì la piega dura delle labbra. La tensione si alleviò al punto che l'uomo osò persino venirle vicino, sedendosi accanto a lei, pur ben attento a non sfiorarla mai.
«Perché mi hai cambiato la vita. Coi tuoi libri già prima che ci incontrassimo, dopo rimanendomi ostinatamente vicino, e ancora adesso, Rick, tu me la cambi. Ogni volta che ho una decisione difficile da prendere, o che vivo un brutto momento, non riesco a non chiedermi “C
osa farebbe Castle?o “Cosa mi direbbe lui?. Quando ho un caso complicato la mia mente d'impulso ripercorre tutte quelle teorie strampalate con cui mi hai riempito la testa negli anni, non mi forniscono praticamente mai la soluzione, ma in compenso mi aiutano ad aprire la mente, a ragionare fuori dagli schemi. Come mi hai insegnato tu. Tu mi hai cambiato la vita, Rick, in un modo che non credevo possibile. Hai lasciato un segno indelebile in me, per sempre...»
Con uno sbuffo di ilarità che in nessun modo suonò allegro, le labbra di Castle si incresparono in un riso amaro, e la ridicolezza di quella situazione vinse persino sui suoi propositi di non voltarsi a guardarla. L'occhiata che si scambiarono fu comunque ben lontana dall'essere rassicurante per Kate.
«Malgrado ciò, tu mi hai lasciato andare Kate»
«Sì, l'ho fatto, ma non perché non ti amavo abbastanza. Anzi, è perché ti amavo troppo, e avevo paura. Tutte le persone a cui tengo si feriscono, muoiono o mi lasciano. Dirti di sì, quel giorno al parco, avrebbe significato abbandonarmi completamente a te, includerti a pieno titolo nel mio mondo, e a quel punto non avrei avuto più difese e se tu mi avessi lasciato... »
«Non lo avrei mai fatto.»
«Non puoi saperlo»
Le avversità che aveva dovuto affrontare in passato la spinsero a rispondere istintivamente a quella frase, con i residui di cinismo della sua vecchia vita che ancora trovavano modo di riemergere in situazioni ad alto coinvolgimento emotivo, come quella attuale. Bastò però uno sguardo all'uomo accanto a sé, per far sì che i toni si smorzassero.
«Ma sì, forse non mi avresti mai lasciato, non volutamente almeno. Ma sai come sono fatta, lo sai forse anche meglio di me: non riesco a non pensare al peggio, specie quando le cose vanno bene. Non riesco a non pensare alla fine, perché sono abituata a vedere le cose finire. So che avrei potuto avere la mia indipendenza e questo lavoro e te, lo so adesso, ma allora ero troppo spaventata anche solo per provare a immaginarlo, e ti ho lasciato andare... E di questo mi pentirò per sempre.»
Non seppe dire se a spingerla a proseguire in quella, già oltre i limiti, presa di coscienza fosse stata l'incapacità di fermare la propria ugola dal parlare -ora che finalmente le era concesso di farlo per la prima volta-, l'aver maturato quella consapevolezza solo adesso, o lo sguardo di Rick e il modo in cui era mutato durante il suo discorso, tale da indurla a covare una sciocca e rediviva speranza in un loro futuro. Ciò che fece fu semplicemente smettere, per una volta, di mettere paletti ai propri desideri, e le parole scivolarono leggere e indisturbate fuori dalla sua gola, senza alcuno sforzo.
«Io ti amo, Rick, ti amo ancora. E tu? »
Si sentì sciocca nell'ascoltare la propria voce formulare quella frase e porgli quella domanda così infantile, eppure così logicamente bisognosa di risposte. E istintivamente la sua mano cercò conforto e si posò su quella di lui, adagiata sul parquet a qualche centimetro di distanza, e nonostante qualche attimo di rigida esitazione, alla fine le sue dita si rilassarono, in un gesto che Kate tradusse come una resa ad accoglierla.
La resa durò poco tuttavia, giusto il tempo necessario all'altro per metabolizzare quella domanda e vederne, in tutta la loro pericolosità, le implicazioni.
«Non ho intenzione di risponderti, perché so già che la risposta non mi piacerebbe. E dirlo ad alta voce non servirebbe a nulla, se non a rendere tutto questo ancora più complicato»
Con uno scatto rapido delle gambe, Castle si alzò, allontanandosi da lei e deciso senza ombra di dubbio a mettere fine a quella discussione.
«Rick...»
«Devo tornare di sotto adesso, e anche tu»
«Rick, ti prego!»
Di fronte al suo sguardo implorante -consapevole che ormai tentare di salvaguardare l'orgoglio era sforzo vano- Rick sembrò per un attimo capitolare, ma alla fine fu più determinato di lei nelle sue intenzioni.
«No, Kate. Di sotto c'è una donna che mi aspetta, una donna onesta e intelligente, che non si merita niente di tutto questo... Abbiamo entrambi le nostre vite da vivere, e nessuna delle due prevede più la presenza dell'altro ormai»
Le voltò le spalle e si diresse verso la porta della camera, a passo di carica. Kate dal canto suo rimase immobile, seduta nello stesso angolo di parquet, con la testa voltata verso di lui che invece non la guardava più. E che non la guardò nemmeno quando, con la mano già sulla maniglia della porta, riprese a parlare.
«Sai Kate, io non rimpiango nulla di quei cinque anni, e forse quello che sto per dire ti sembrerà assurdo... E in effetti lo è, perché non saremmo le persone che siamo senza quella parte della nostra vita che abbiamo condiviso. Eppure sono convinto che se la Kate e il Rick di oggi si conoscessero, adesso per la prima volta, senza un passato come il loro alle spalle, si piacerebbero, e stavolta avrebbe funzionato. Sarebbero stati solo una comune donna e un comune uomo davanti a un comune caffè, a parlare di sé e a scoprirsi, innamorandosi ad ogni parola. Rick senza dubbio. E forse adesso avremmo il nostro lieto fine, il nostro
Always. Forse eravamo le persone giuste, Kate, ma era il momento ad essere sbagliato. E di questo non ha colpa nessuno, né tu né io»
Quell'ultima frase le si abbatté addosso, pesante come un macigno, e nel momento in cui il rumore della porta sbattuta contro il telaio di legno segnalò la sua uscita dalla camera, le lacrime presero a scenderle copiose lungo le guance e giù fino al vestito, punteggiandolo di piccoli nei umidi e scuri. E Kate non poté opporvi resistenza.
In quel trambusto del suo animo, sentì a malapena la porta riaprirsi, mentre la mano tremante si alzava nel vuoto a ghermire l'aria per posarsi poi spasmodica sulla bocca, a soffocare i singhiozzi del suo cuore.



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Capitolo 8
*** Come Home -Parte II ***


i

Come Home -II Parte

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


Kevin Ryan aveva sempre avuto un rapporto privilegiato con i numeri.
Forte di una particolare dedizione allo studio, e di uno spirito competitivo tutto irlandese che lo costringeva ad eccellere quantomeno a scuola nel confronto con le sorelle, per il resto sempre in netto vantaggio su di lui per una mera questione anagrafica, Kevin aveva infatti scoperto fin da bambino un'intensa e promettente alchimia con la matematica. Nel corso degli anni, molte volte s'era ritrovato a pensare che, se non fosse entrato in polizia, probabilmente sarebbe stato proprio lì, verso la matematica, che la vita lo avrebbe sospinto.
Kevin Ryan era poi anche un uomo molto scrupoloso, oltre che un detective dallo spigliato acume, e sin da quando Esposito lo aveva nominato suo testimone, parecchi mesi addietro, lui si era calato con estrema serietà nella parte, dedicandosi alla buona riuscita di quel matrimonio con forse persino più cura di quanta ne avesse riservata al proprio.
E del resto, Javier Esposito sposo era un fatto ben più degno di nota di Kevin Ryan sposo. Sicuramente più sorprendente.
Nulla di strano quindi se, nel bel mezzo di un trascinante ricevimento, con un centinaio di persone a riempirgli la visuale, i suoi occhi si fossero intestarditi giusto sugli unici due grandi assenti del momento, che per quanto significativi non erano in fondo che puntini irrisori in confronto alla massa di gente che popolava la sala.
Non che la loro improvvisa sparizione fosse in qualche modo inattesa, o misteriosa: Kevin aveva messo in conto quella possibilità fin dal momento dell'aperitivo, quando aveva scorto quel gonfiore sospetto negli occhi troppo arrossati di Beckett, e forse persino da prima, quando Esposito un mese addietro lo aveva messo a parte della recente ricaduta dei loro due migliori amici.
No, non era l'assenza in sé a preoccupare Kevin, né le conseguenze a cui inevitabilmente avrebbe portato -certo che un confronto tra loro fosse necessario, a prescindere dalla bontà dell'esito. Ciò che realmente lo stava mettendo in ansia da ormai una ventina di minuti era piuttosto la consapevolezza che quella sua presa di nota non era purtroppo attribuibile al suo raro talento investigativo, né alla sua passione smodata per il calcolo matematico, bensì alla semplicità di un'operazione che persino un bambino sarebbe stato in grado di eseguire, giungendo al medesimo risultato. L'ansia era tuttavia qualcosa che lui aveva imparato a controllare, se somministrata a piccole dosi -e di questo doveva ringraziare principalmente Sarah Grace e l'ingenua incoscienza della sua età. Di fronte a tuffi spericolati dal seggiolone, attrazioni fatali verso le prese di corrente e la minaccia imminente dei primi passi -che avrebbero mandato in frantumi anche l'ultimo ostacolo alla sua sconsiderata passione per il mondo-, la scomparsa di due adulti consenzienti non era che un'inezia, un dettaglio facilmente gestibile da un misero dieci percento del suo cervello.
Se infatti era certo che chiunque in quella sala sarebbe stato capace di dedurre che, sottraendo centotrentuno invitati a un totale di centotrentatré, da qualche parte doveva nascondersi il resto di due -e più questo si nascondeva più, in effetti, rischiava di rendersi visibile-, era al contempo rassicurato dal fatto che la maggioranza di quei potenziali testimoni non avrebbe trovato la cosa parimenti interessante. Eppure adesso, incrociando i suoi occhi e vedendoli offuscarsi d'un rapido ma eloquente scintillio di complicità, quella magra consolazione a cui aveva affidato il sereno prosieguo del matrimonio stava iniziando pericolosamente a vacillare. Se persino Javier Esposito -dal tatto discutibile e una marcata antipatia per i numeri, e con tutta la giustificata noncuranza che ci si sarebbe aspettati da uno sposo il giorno delle proprie nozze- se n'era accorto, cosa avrebbe impedito anche ad altri, e ad altre sopratutto, di accorgersene a loro volta? E sebbene il numero degli interessati alle loro faccende fosse troppo ridotto per rischiare davvero di minare la buona riuscita del matrimonio, cosicché il giorno di Lanie ed Esposito sembrava essere al sicuro anche senza un suo diretto intervento, rimanevano comunque Castle e Beckett: in quanto amico, proteggerli era suo compito tanto quanto lo era proteggere gli sposi in quanto testimone.
Rapido si era quindi congedato da Jenny -un sorriso e un casto bacio sulle labbra-, e aveva raggiunto i novelli sposi al loro tavolo, cingendo da dietro le spalle di entrambi in un abbraccio fraterno che dissimulasse l'aria di cospirazione che si apprestava a instaurare.
«Quindi che facciamo adesso?»
La domanda uscì senza troppi fronzoli. Non servivano premesse: se lui e Javier se n'erano accorti allora era indubbio che anche Lanie sapesse, e con tutta probabilità da molto prima di loro.
«Noi non facciamo assolutamente nulla»
I suoi sospetti furono confermati dal sentirla rispondere per prima, con una flemma invidiabile nel tono: a contornarlo, un sorriso disegnato sulle labbra e lo sguardo leggero, in una delle sue più magistrali interpretazioni d'indifferenza. Javier d'altro canto non pareva altrettanto capace, più simile a un libro aperto che ad un attore affermato, per giunta con l'indice fermo sulla pagina più compromettente -e guardandolo Ryan si disse ironico che no, non avrebbe avuto alcuna speranza in quel matrimonio se non avesse imparato al più presto a dissimulare, e bene almeno quanto la sua compagna. Anche da dietro, con una scarsa visuale, Kevin riuscì infatti a vedere chiaramente la sua bocca contorcersi in una smorfia contrariata e leggermente basita, segno che non pareva aver gradito l'intervento della moglie. E anche lei pareva essersene accorta.
«Senti Javier, anche io vorrei tanto sapere cosa sta succedendo tra quei due, ma è proprio questo il punto: sta succedendo qualcosa. Proprio adesso. E di qualunque cosa si tratti dubito chi ci vogliano tra i piedi, non credi?»
«Sì, ma...»
«Niente ma. Quindi ora rilassati, intrattieni gli invitati e bacia tua moglie»
Sporgendosi leggermente in avanti scoccò un rapido bacio sul broncio di un poco convinto Javier, giusto un attimo prima di alzarsi e d'invitare suo marito a fare altrettanto.
«Quando quei due torneranno a farsi vedere allora hai il mio permesso per tornare a giocare al detective»
«Sono un detective, Lanie. Non gioco io.»
«D'accordo d'accordo, ora va»
Un colpetto lascivo al fondo schiena e lei lo congedò, inoltrandosi nel labirinto di tavoli aperto dinnanzi a loro: la sua figura traballante li accompagnò per alcuni istanti, col vestito che ad ogni passo ne minacciava l'equilibrio, in un silenzio che sembrò loro opportuno spezzare solo quando ormai non erano più in grado di vederla.
«Forza, andiamo a cercarli»
«Ma Lanie ha appena dett-»
«Ho sentito cosa ha detto Lanie, fratello. E infatti io non voglio mica star loro tra i piedi, voglio solo assicurarmi che vada tutto bene, che Beckett non sia in qualche angolo a deprimersi, e soprattutto che Castle non stia combinando qualche casino»
Ryan esitò, spostando nervosamente il proprio peso da un piede all'altro, con lo sguardo che viaggiava alternatamente tra l'amico -già proteso verso la porta- e un punto impreciso della sala in cui, a giudicare dall'accorpamento di gente e di gridolini eccitati, immaginò dovesse trovarsi Lanie.
«D'accordo, ma credo lo stesso che Lanie abbia ragione. Non è il caso di curiosare»
«Qui non si tratta di curiosità Ryan, la mia è preoccupazione. E ampiamente giustificata oltretutto. Abbiamo visto entrambi Castle stamattina, e non sei stato tu prima a dirmi che Beckett ti sembrava turbata?»
«Sì, è vero...»
«Solo un giro veloce, promesso. Se è tutto regolare torniamo qui immediatamente. Anche perché se dovesse scoprirci, Lanie ci ammazza»

Il ticchettio dei mocassini contro il parquet risuonava prepotente nel corridoio, e Ryan iniziava ad aver l'impressione che le sue stesse scarpe fossero intenzionate a smascherarlo, generando più rumore del necessario.
Non sapeva come avesse fatto a farsi coinvolgere in quella specie di caccia all'uomo, non era mai stata questa la sua intenzione, fatto sta che ora era lì: al seguito di un Esposito particolarmente determinato, forse anche troppo.
A conti fatti l'amico non gli aveva poi dato ampio margine di scelta: dopo un paio d'altri fiacchi tentativi di convincerlo a parole, si era semplicemente voltato, e spedito aveva preso a camminare alla volta delle scale. E cos'altro avrebbe potuto fare lui, da anni suo partner nella vita e nel lavoro, se non spalleggiarlo in quell'improbabile pedinamento? Oltretutto, se pure fosse rimasto alla festa, avrebbe in ogni caso dovuto affrontare la furia di Lanie prima o dopo, e dopo un rapido calcolo aveva concluso che preferiva di gran lunga farlo dopo, di fianco all'amico, piuttosto che prima, da solo senza alcun supporto o spiegazione esauriente da dare.
Quando infine dal fondo del corridoio la porta di una camera a loro ben nota si aprì, rivelando un viso familiare, Kevin non seppe se sentirsi sollevato o tremendamente imbarazzato. Esposito d'altra parte non sembrava essersi neanche posto il problema; piuttosto nel giro di un'istante, e senza alcuno scrupolo, incalzò l'altro con la domanda peggio posta e meno delicata di cui fu capace.
«Castle finalmente, si può sapere che diamine sta succedendo? E dov'è Beckett?»
Vide l'altro sobbalzare al suono di quella voce, evidentemente sorpreso dalla loro presenza, e gli parse di vederlo esitare qualche istante, con un'espressione in volto in cui Ryan non fiutò nulla di buono. Fu tuttavia questione di secondi: una scrollata di capo sembrò infatti bastargli per rimettere in moto il cervello, e i piedi assieme a quello, e con passo di carica li superò entrambi, parlando senza neanche voltarsi a guardarli.
«Me ne vado. Scusami Espo, davvero, ma devo andare. Tornerò in tempo per la fine della festa, promesso.»
«Aspetta, che vuol dire che te ne vai! E dove vuoi andare?»
«Ovunque, ma via da qui. Scusami»
Kevin osservò Castle procedere senza indugio in quella che, a tutti gli effetti, poteva essere definita una fuga in piena regola, e se fino ad allora era stato ancora indeciso verso quale umore dovesse sbilanciarsi l'ago della sua bilancia, se l'imbarazzo o il sollievo, ciò che accadde l'istante dopo a quella riflessione non gli lasciò più alcun dubbio: imbarazzo, sicuramente. Dal fondo del corridoio, con una precisione quasi sospetta, si materializzò infatti l'ultima persona che avrebbe dovuto assistere a quello spettacolo: sguardo spaesato e andatura affrettata, Laura aveva infatti appena svoltato l'angolo. A nulla valsero i suoi tentativi di richiamare il fidanzato: apparentemente senza neanche vederla  -e tuttavia, Ryan ne era certo, avendola vista benissimo- la superò in poche falcate, passandole accanto con invidiabile indifferenza, e pochi istanti dopo aveva già voltato l'angolo a sua volta, sparendo dalle loro viste.
«Era Rick quello, vero?»
La domanda superflua uscì quasi da sé, dalla gola di una Laura che più che contrariata pareva essere confusa e consapevole insieme.
«Emh, sì...»
L'imbarazzo e la tensione erano palpabili nella voce di Esposito, e Kevin sentì chiaramente lo sguardo dell'amico posarsi su di sé, in una chiara richiesta di aiuto: tuttavia lui pareva avere altro da fare, impegnato nel delicato -e più complicato del previsto- compito di decifrare Laura, e lo sguardo con cui stava studiando loro e l'ambiente insieme.
«E dove stava andando? Sembrava sconvolto...»
«Oh no, era solo di fretta. Ecco lui sta...lui sta andando a prendere dei parenti di Lanie, sì! Hanno avuto un problema con l'auto e sono rimasti in panne, così Castle si è offerto di andarli a prendere visto che Ryan è il mio primo testimone e mi serve qui. E poi sai, con la Ferrari si fa più in fretta, no Kev?»
Disegnandosi forzatamente un sorriso sulle labbra, Esposito assestò una gomitata decisa all'amico il quale, riscossosi brevemente dai suoi pensieri, annuì energicamente alla donna, pur ignorando a cosa avesse appena assentito. Qualunque cosa fosse sembrava comunque non aver riscosso il favore di Laura, il cui sguardo si era acceso ora di una nuova, strana, luce. Non dovette passare troppo tempo prima che Kevin potesse darle un nome.
«Ti ringrazio Javier, il tuo è davvero un nobile tentativo ma a questo punto credo sia meglio che io vada. Per favore, dillo tu Rick qualora dovessi sentirlo, e ancora congratulazioni per le tue nozze»
Un sorriso di circostanza stemperò la gravita delle sue parole, ma si trattava di mera apparenza -e tuttavia non fece una piega: li salutò educatamente, e con più calore e sincerità di quanto si sarebbe aspettato, e si congedò, abbandonando con passo fermo il piano senza mai perdere in dignità. E Kevin a quel punto non ebbe più dubbi sull'acume e la grazia di una donna che, evidentemente, tutti loro avevano ampiamente sottovalutato.
«Vado a chiamare Lanie, pensaci tu qui»
La voce di Esposito lo riportò alla realtà, giusto in tempo per vedere il suo sguardo puntato verso la porta incriminata, col sotteso e implicito ordine di varcarla.
«Io? E cosa dovrei fare?»
«Non lo so, parlale... o non parlarle. Solo, tienila d'occhio finché non arriva la cavalleria»
Non gli fu concesso tempo per ribattere: si ritrovò solo nel corridoio, con la sola compagnia del proprio sguardo che, nervoso, aveva preso a girargli intorno nella speranza forse che qualcuno -Jenny magari?- facesse la sua provvidenziale comparsa, salvandolo da quella scomoda situazione. 
Nessuno apparve tuttavia, e dopo un paio di minuti dovette arrendersi all'idea che quel compito toccava a lui e a nessun altro. Non che non volesse aiutare Beckett, o parlarle, o capire cosa stesse succedendo... Ma aveva visto Castle, il suo sguardo sconvolto... Aveva solo paura di ciò che avrebbe trovato in quella stanza, temeva di non essere in grado di poterla aiutare. Aveva poi anche paura di violare in qualche modo l'intimità di Beckett: aveva notato conn quanta cura si fosse premurata di nascondere le proprie lacrime solo qualche ora prima, e quando le si era avvicinato aveva avuto la conferma che parlarne non fosse tra le sue priorità.
Adesso, pensava, la situazione non poteva che essere peggiorata.
Timoroso entrò infine nella stanza, affondando ogni passo nel pesante silenzio di cui l'aria s'era resa satura, scosso a tratti dal leggero sussultare della donna seduta di spalle ai piedi del letto. Da lì ne poteva scorgere soltanto la chioma, che s'alzava e s'abbassava a ritmo di quell'inusuale melodia. Chiuse la porta dietro le proprie spalle, un attimo prima di vedere la sua mano, tremante, alzarsi nel vuoto a nascondere i singhiozzi, e la sensazione di essere di troppo in quella stanza si fece, se possibile, ancora più forte.
«Beckett...»
Fu più un sussurro che un richiamo, ma in qualche modo ebbe la sensazione che la donna ne fosse uscita rassicurata, avendo notato la tensione scivolarle impercettibilmente via dalle spalle.
Le mani adesso sfregavano contro le gote, a catturare coi palmi le stille saline che le avevano invase probabilmente, e solo dopo parecchi di quei movimenti Ryan la vide finalmente girarsi -seppur lievemente- verso di lui.
«È tutto a posto?»
Si morse la lingua dandosi dello stupido non appena ebbe sentito l'ultima sillaba di quella domanda così retorica scivolargli via dalla gola. Bastava uno sguardo per capire che no, non era tutto apposto. E tuttavia, cos'altro avrebbe potuto dirle -o chiederle- senza apparire indiscreto?
Un timido accenno di sorriso le solcò però il volto, e Ryan ne fu egoisticamente rinfrancato, pur consapevole che, lungi dall'essere spontaneo, Kate s'era costretta a farlo per aiutare lui.
Seguirono sguardi e silenzi, accompagnati dallo sporadico sussultare di lei e dal rumore dei passi di lui che, diligentemente, lo avevano guidato fino al letto per poi con saggezza consigliargli di sedervisi, giusto accanto a lei che, posizionata sul pavimento a un soffio da lui, sembrava essergli grata di quella silente offerta di conforto. Lo ringraziò strizzandogli brevemente il palmo della mano, in un gesto intimo che in tanti anni mai s'erano concessi, ma che suonò normale a entrambi, addestrati a volersi bene in un modo professionale ma ugualmente intenso. Trascorsero così alcuni minuti, fisicamente vicini ma mentalmente lontani, con la testa di lei che -Ryan lo sapeva- era distante anni luce da quella stanza, approdata verso luoghi a lui ignoti e senza dubbio dolorosi, da cui però non sentiva più l'urgenza di strapparla con discorsi vuoti, avendo ora chiaro in mente che il suo solo compito in quel momento era attendere che lei fosse pronta a tornare, e a parlare, di sua sponta -attendere, come per i migliori detective negli interrogatori più importanti
«Dovrei alzarmi da qui, è una cosa così ridicola...»
«Non c'è alcuna fretta»
«Sì invece, giù è pieno di sedie comode e invece io me ne sto seduta qui sul pavimento ghiacciato, perdendomi oltretutto il matrimonio dei miei amici. E per cosa, poi? Dio, Lanie sarà in pensiero... »
«Non preoccuparti di questo, Espo è andato a chiamarla»
Quest'ultima frase sembrò sortire un effetto insperato sulla donna che, come risvegliatasi da un letale torpore, quasi inciampò nella frenesia del rimettersi in piedi, dimentica d'improvviso di tutta la fatica che pareva averle ostacolato ogni movimento fino ad allora.
«No, mio Dio. Sto già trattenendo te qui, ho già fatto abbastanza. Non finirò per rovinare la giornata anche a loro, no. Assolutamente no»
«Beckett, non stai rovinando la giornata a nessuno. Ti assicuro che sia Lanie che Javier preferirebbero di gran lunga passare la giornata qui con te che rimanere di sotto ad ascoltare lo zio Fulgenzio cimentarsi col karaoke»
Per la prima volta da che l'aveva raggiunta in quella stanza, Ryan vide l'accenno di una sincera risata fare capolino tra le labbra di Beckett, e un moto d'orgoglio gli gonfiò scioccamente il petto.
«Non è comunque necessario. Io sto bene, beh... starò bene. Possiamo almeno fingere che sia così?»
«Sono certo che il resto degli invitati scambierà i tuoi occhi rossi per commozione nei riguardi della sposa»
«Direi che è perfetto. Vogliamo andare allora?»
«Certa di sentirti pronta?»
«Sì»
Eppure la sua mano rimase fermamente avviluppata intorno alla maniglia della porta. A dispetto della sicurezza nella voce, il resto del corpo era in aperto conflitto, e non ebbe difficoltà a indovinarne il perché ancora prima che lei desse un nome alla sua esitazione.
«Castle... lui è di sotto?»
«In realtà credo se ne sia andato»
«Bene, andiamo»
Quella risposta si rivelò essere quella giusta, e come una chiave si intrufolò nella serratura della porta facendola scattare, liberandoli entrambi dalla prigionia di quelle quattro soffocanti mura.
«E, Kevin...grazie»
«Non dirlo neanche. Solo, Beckett» quel richiamo a un passo dall'uscita gli fece guadagnare un'occhiata curiosa dalla bruna, ora in attesa, con gli occhi puntati su di lui «qualunque cosa voi due stiate combinando non fateci aspettare troppo, intesi?»
La curiosità lasciò il posto a un risolino privo d'alcuna ilarità, sullo sfondo di un sorriso ben più amaro di quanto si fosse augurato.
«Dubito ci sia qualcosa da attendere ormai, Ryan»
«Se avessi un nichelino per ogni volta che l'ho creduto anche io...»
Era un pensiero sincero il suo, e ai suoi occhi fortemente fondato, tuttavia attese che l'udito di lei fosse fuori portata per esternarlo: aveva intuito che la ferita era ancora troppo fresca e profonda per sperare che almeno lei, in quella coppia di stolti, potesse ragionare con lucidità e vedere quello che a lui appariva così chiaro e lampante da sfiorare quasi il ridicolo. Il rapido cambio di sguardo e di tono, nonché il subitaneo restauro della solita formalità -incarnata dall'aver ripreso a chiamarlo per cognome, dopo un momentaneo slancio di intimità- lo persuasero ulteriormente circa la bontà di questa sua ultima decisione. E anche volendo non avrebbe avuto tempo e modo di cambiare idea, preceduto dal rumoroso e ingombrante arrivo della sposa, in una nuvola di bianca e vaporosa agitazione.
«Tesoro, stavo venendo da te! Cosa è successo? Siete spariti e poi ho visto Castle andarsene via come una furia e...»
«Lanie, dopo»
«Ma Kate...»
«No, questo è il tuo giorno. Dobbiamo solo pensare a festeggiare e divertirci. Per il resto ci sarà tempo»
Lo sguardo risoluto di Kate non lasciò alternative, e l'amica non ebbe altra scelta che piegarsi alla sua volontà. E in quel momento Ryan fu nuovamente pervaso da una calda ondata di orgoglio, e non per sé stesso stavolta, bensì per la donna che a lungo aveva avuto l'onore di chiamare collega e che con altrettanto onore sarebbe stato lieto di chiamare capitano un giorno, se le cose avessero preso una piega diversa anni addietro. E in alcun modo riusciva a capacitarsi di come, dietro la fierezza di quello sguardo, potesse contemporaneamente nascondersi tutta quella fragilità e insicurezza che il rapporto con Castle aveva, negli anni, portato lentamente alla luce.
«D'accordo allora. Andiamo a bere!»
«Mi sembra un ottima idea»
Braccio nel braccio le due donne si allontanarono, con una nuova spensieratezza a guidare i passi di Kate, mentre lui ed Esposito temporeggiavano sulla porta: il suo sguardo livido, chiaro segno di una recente sfuriata di Lanie a cui lui, fortunatamente, era almeno per il momento riuscito a scampare.
«Beh, che ti ha detto?»
«Niente»
«Come niente? E tu non hai indagato? Ma che razza di detective sei?»
«Uno che non è in servizio! Prima la pistola, poi l'interrogatorio... vuoi anche chiedermi di inseguire il sospettato o pensi di potermi lasciar fare soltanto il testimone del mio migliore amico oggi?»
«Scusami, hai ragione, è che..»
«Lo so»
«Ok, ci penseremo più tardi a queste cose. Oggi si pensa solo al matrimonio!»
«Bene, perché ho un discorso da fare nei prossimi cinque minuti e con tutto questo trambusto non ricordo assolutamente più nulla di ciò che dovevo dire»



Aveva lasciato quella camera con l'intenzione di tornare alla festa.
Aveva lasciato lei in quella camera con l'intenzione di tornare dall'altra alla festa.
Eppure, nel momento stesso in cui la mano aveva accarezzato la maniglia, una scarica d'esitazione lo aveva pervaso lungo tutto il corpo. L'attimo dopo essersi richiuso la porta alle spalle l'esitazione era divenuta dubbio, e nell'esatto istante in cui Laura aveva incrociato la sua strada il dubbio era infine maturato in certezza: doveva andarsene.
Mai, in nessun modo, neanche ricorrendo alla migliore delle sue facce da poker, sarebbe stato in grado di tornare da Laura e fingere indifferenza. Né tantomeno avrebbe potuto affrontare nuovamente Kate, quando inevitabilmente anche lei fosse scesa a raggiungerli, con l'altra stretta slealmente tra le braccia. E se un briciolo di orgoglio personale e di riguardo nei confronti degli sposi avevano continuato ad attardare i suoi passi anche dopo che, risoluto, aveva superato Esposito, Ryan, Laura e chiunque altro avesse incontrato lungo il tragitto, ogni traccia d'incertezza era stata poi spazzata via dall'orrenda presa di coscienza d'aver ingenuamente -e del tutto inconsciamente- etichettato nella propria mente Kate come la lei e Laura come l'altra. Un pensiero inammissibile, non tanto perché lontano dalla verità quanto perché vi era troppo vicino.
Era, in effetti, la cosa più sincera che si fosse concesso di pensare da che l'aveva rivista, quel giorno.
Anche adesso che sfrecciava senza meta per la strada deserta sulla sua Ferrari, col vento a scompigliargli i capelli e a schiaffeggiargli il volto -con tanta violenza da impedirgli di scoprire se ciò che sentiva scheggiargli le gote erano lacrime o solo fruste d'aria-, non riusciva a capacitarsi di come la sua mente potesse essere ancora tanto irrimediabilmente pregna di lei.
Soprattutto non riusciva a liberarsi del suono della sua voce, e di quelle due parole che da minuti ormai facevano da sottofondo ad ogni suo altro pensiero: ti amo.
Glielo aveva confessato con una naturalezza quasi disarmante, tanto che confessione non sembrava neanche il termine giusto per descrivere ciò che era accaduto. Nessun impronunciabile segreto era infatti stato svelato, nessuna verità disarmante s'era di colpo manifestata in quella stanza. Constatazione sarebbe stato un vocabolo più adatto. Che in fondo entrambi sapevano benissimo di amarsi ancora senza alcun bisogno di dirlo, per quanto strenuamente si fossero impegnati a nasconderlo -chi fuggendo, chi inveendo contro l'altro. Ed era proprio questo a segnare la tragicità della situazione: si amavano e tuttavia s'erano persi. Nel momento decisivo non erano stati abbastanza: abbastanza forti, abbastanza coraggiosi, abbastanza fiduciosi...
Eppure, lei lo aveva detto.
Nonostante l'ovvietà di quella affermazione, nonostante il dolore e l'orgoglio ferito, lei lo aveva detto. E quel gesto lo aveva spiazzato più delle parole stesse.
L'aveva guardata, per un minuto che era parso interminabile, e di fronte a sé aveva visto la stessa donna di sempre: bellissima e caparbia, dallo sguardo fatale e il sorriso salvifico. Un concentrato d'opposti, dannatamente nocivo per chiunque non fosse stato in grado di possedere contemporaneamente i suoi occhi e le sue labbra, la sua anima e il suo corpo -come un tempo a lui era stato concesso. Fino al giorno in cui quella stessa donna che lo aveva amato, -uccidendolo e riportandolo in vita ad ogni tocco-, non lo aveva poi messo da parte, fuggendolo e spezzandogli il cuore, dandogli infine il colpo di grazia.
Solo adesso, a distanza di anni, quando ormai s'era rassegnato all'idea che nessuna redenzione sarebbe venuto a trascinarlo fuori dall'inferno in cui era scivolato insieme al loro amore, lei era infine tornata a salvarlo, riportandolo in vita ancora un'altra volta, col solo potere delle parole.
Eppure, nonostante all'apparenza nulla sembrasse cambiato in lei -nulla a parte l'ospite d'inchiostro inciso sul suo polso-, i suoi gesti, la sua irruenza, la sua ostinazione a mostrarsi vulnerabile ai suoi occhi senza più nascondersi, tradivano la presenza di una donna nuova, una donna diversa.
Sei ancora quella che eri, o no?
Quella domanda imperterrita continuava a riaffiorargli dalle pieghe dell'inconscio, sovrapponendosi alla voce di lei, facendo a pugni con quel “ti amo”, amoreggiando con quel “e tu?”. Ciò che era peggio, Castle non riusciva a darsi pace, inabile a capire cosa avrebbe preferito: se scoprire che Kate era davvero cambiata in quei due anni, o se rendersi conto che in fondo non era che la stessa donna di sempre, semplicemente catapultata in una situazione troppo complicata per non uscirne scalfita.
Del resto, già in passato lei aveva dimostrato d'essere in grado di annullare le proprie barriere solo volendolo, come quella sera in cui si era presentata alla sua porta, bagnata di pioggia e di lacrime, e lo aveva baciato. E in fondo era di quella donna che lui si era innamorato, per quanto frustrante quella relazione sapesse essere alle volte.
La strada accanto a lui scorreva rapida, quasi quanto i suoi pensieri. Forme indistinte e macchie di vegetazione dai contorni sfumati gli riempivano gli occhi, mentre il piede flirtava con l'acceleratore un po' di più ad ogni chilometro percorso.
Stava scappando, non aveva problemi ad ammetterlo. E lei del resto lo aveva fatto in così tante occasioni che, si disse, come avrebbe potuto adesso rimproverarlo per aver invertito i ruoli, una volta tanto? Anzi, doveva ammettere che solo adesso, in qualche maniera, poteva capirla: scappare era un gesto vigliacco, non risolutivo e decisamente immaturo, ma era anche terribilmente ristoratore. Liberatorio quasi, nella misura in cui, col solo obiettivo in mente di andare via -ovunque questo via conducesse- si era in grado di distrarsi al punto da alienarsi, da scappare persino da se stessi.
Lo squillo del cellulare interruppe momentaneamente quel filo di pensieri, riportandolo di colpo alla realtà. Allentata la pressione su volante e pedali, iniziò a rallentare fino a fermarsi del tutto, al riparo in una rientranza sul ciglio della strada. Non aveva alcuna intenzione di rispondere, anzi tolse la suoneria mentre il viso di Esposito campeggiava ancora sul display del telefono. A convincerlo a interrompere la sua corsa folle era stato piuttosto il repentino rendersi conto di non riconoscere quasi più il paesaggio intorno a sé, segno che si stava allontanando troppo dal luogo del ricevimento. Andare oltre, perdersi nelle vastità della valle o giungere persino ai confini della città, non gli avrebbe tratto alcun giovamento. E d'altronde lui voleva solo una pausa da quell'ambiente, non era certo una fuga definitiva che cercava.
Sapeva che presto o tardi sarebbe dovuto ritornare sui suoi passi.

Quel “presto o tardi” arrivò in effetti più tardi del previsto, quando il crepuscolo aveva già preso a cancellargli l'ombra intorno, sfiorando più e più volte le sue scarpe coi timidi raggi di sole che ancora sapevano sfuggire indisciplinati al suo controllo.
Il velo scuro della sera aveva già inghiottito l'asfalto, e sul nero del bitume apparivano ora più nitide le stille salate che solo adesso si rendeva conto di stare versando da quelli che, a giudicare dagli umidi indizi, dovevano ormai essere parecchi minuti. Non sapeva se a guidare l'avanzata di quel pianto fosse il solito dolore ,vecchio amico di bevute, o qualcos'altro: nel dubbio non ebbe cuore di impedirgli di fargli compagnia in quella presa di consapevolezza che stava poco a poco schiarendo i suoi pensieri, incamminatisi su un sentiero che mai avrebbe pensato di percorrere di nuovo. Mai di nuovo con lei almeno.
Ma c'era quel sorriso, timido e nostalgico, che aveva appena scoperto sul proprio viso insieme alle lacrime, e che non lasciava dubbi. E sebbene la sua presenza non lasciasse presagire nulla di buono circa il suo futuro stato d'animo, trovava che troppo bene si intonasse a quel suo pianto per poter pensare di sopprimere uno dei due, o persino entrambi, suoi compagni di viaggio.
Lui l'amava.
Seduto contro il cofano dell'auto, con lo sguardo perso in un tramonto che non stava davvero osservando, era come se ogni cosa intorno a lui portasse il suo nome, e il suo nome trascinava irrimediabilmente dietro di sé questa piccola, affilata verità: l'amava.
Nel momento esatto in cui si era concesso quel pensiero -dopo averlo strenuamente ostacolato, convinto che gli avrebbe divorato l'anima-, e lo aveva abbracciato in tutta la sua ineluttabilità, era come se un grosso macigno fosse scivolato via dal suo petto, e lui si era infine reso conto di quanto stupido fosse stato a combatterli, anziché semplicemente arrendersi a quei sentimenti.
Era risalito in auto un momento dopo, e aveva preso a percorrere la strada del ritorno con una fretta che nulla aveva a che fare con quella che gli aveva guidato le mani solo un'ora prima. Le dita, tremanti, scivolavano continuamente sul volante, reso umido dalla patina di sudore freddo ed eccitato che gli imperlava i polpastrelli, e dalle lacrime che ancora gli inondavano ostinate le gote.
Sapeva quanto folle fosse. Sapeva di star rinunciando definitivamente ad ogni speranza di poter sopravvivere a quella guerra. 
Lei sarebbe partita l'indomani e nulla sarebbe cambiato. Nessun tentativo sarebbe valso a qualcosa, perchè era già finito tutto tra loro -forse anche prima che cominciasse.
Lo sapeva, sapeva tutto. Ma saperlo non serviva a nulla giacchè -che lei ci fosse per un giorno o per sempre, che lo amasse davvero o lo odiasse, che fosse cambiata o fosse la stessa persona- era lo stesso. Non faceva alcuna differenza perché lui l'amava. È questo adombrava ogni altra cosa..
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, adesso che era libero da sè stesso e dalle regole che si era imposto in quegli ultimi anni, era che doveva vederla, ancora e ancora. Finché avesse potuto. Finché lei glielo avesse concesso. Finché il tempo a loro disposizione non si fosse esaurito. E sperava, pregava, che lei fosse ancora lì. Perché sì, lei l'indomani sarebbe ripartita, ma in che modo questo avrebbe potuto interessare al suo amore? In che modo questo avrebbe potuto scalfirlo o ridurre in lui il desiderio di lei?
Sapeva a cosa stava andando incontro, e a che velocità. Il tachimetro continuava ostinatamente a ricordarglielo, attirando la sua l'attenzione su di sé forse nel vano tentativo di dissuaderlo da una resa che non avrebbe portato alcun beneficio, alcun cambiamento, se non la possibilità di donargli ancora qualche minuto -o magari un'ora, chissà- con lei. Ma non era forse abbastanza? Non era forse questo un motivo valido per correre da lei?
Nel migliore dei casi l'indomani ne sarebbe uscito distrutto, nel peggiore non sarebbe arrivato incolume neanche alla notte; l'euforica rassegnazione che lo stava conducendo da lei adesso, avrebbe forse guidato i suoi passi  il giorno dopo dietro il suo taxi, verso l'aeroporto, incontro al suo aereo... nell'insano e futile tentativo di impedire una partenza inevitabile.
Ma il piede non vacillò mai sull'acceleratore, la mano non esitò mai sul cambio: che in qualunque circostanza, a qualunque costo e con qualunque conseguenza, lei ne valeva la pena. Lei ne valeva la pena sempre


Elegantemente accomodata sulla sedia, Kate vagava con lo sguardo per la sala senza davvero fermarsi a osservare nulla, dimentica di sé e di tutto ciò che aveva intorno.
Aveva provato ad affrontare con sé stessa ciò che era accaduto solo un'ora prima in quella camera da cui lui era letteralmente fuggito, ma ogni pensiero o conclusione a riguardo s'erano rivelati semplicemente troppo pesanti da gestire in quel frangente, dove l'idea di mettersi a nudo col proprio dolore era inevitabilmente impossibile da attuare. Aveva dunque provato a concentrarsi sul resto, su ciò che non erano
loro, ma nonostante un inizio promettente aveva capito d'aver nuovamente fallito quando, dal discorso di Ryan agli sposi, s'era improvvisamente trovata catapultata nel pieno di una nuova sessione di balli, incapace di dire cosa fosse successo tra un episodio e l'altro, e soprattutto che ruolo avesse avuto lei in quel lasso di tempo che pareva aver rimosso. E quasi avrebbe persino potuto credere che non fosse affatto trascorsa un'ora tra i due fatti, se a tradire il trascorrere del tempo non ci fosse stato il crepuscolo, che fuori dalla finestra stava lentamente inghiottendo ogni ombra sul suo passaggio.
In quello stato di dolce apatia in cui era lentamente scivolata gli giungeva solo qualche stralcio di musica di tanto in tanto, che ovattata la cullava sul posto. Non riusciva a distinguerne le parole, troppo concentrata a mantenere il silenzio nella propria testa, ma a giudicare dagli assaggi di melodia che riusciva a racimolare, sapeva che avrebbe amato quella canzone -se solo si fosse data pena di ascoltarla. 
Persa in quel groviglio d'indolenza a malapena lo vide avvicinarsi, e solo quando una mano -grande e forte, e sicura- le fu tesa davanti agli occhi prese coscienza di chi avesse di fronte, sobbalzando vistosamente per la sorpresa.
Sulle note di
Strangers in the night l'orchestra pareva ora sospingerla verso quello che dal di fuori aveva tutto l'aspetto di un invito a ballare.
Eppure l'uomo in piedi davanti a lei era lo stesso che solo un'ora prima era fuggito abbandonandola sul pavimento freddo di una stanza d'albergo, chiudendosi dietro la porta di quella stessa camera e del suo cuore, e negandole ogni speranza di poter tornare ad essere felice. Era lo stesso uomo sì, ma lo sguardo era cambiato, tintosi di una sfumatura a cui lei non riusciva in alcun modo a dare un nome.
Si chiese se dovesse odiarlo. Se dopo quello che era successo, dopo il modo in cui era fuggito e l'aveva rifiutata, lei dovesse mettere da parte ciò che voleva per salvaguardare gli ultimi scampoli del proprio orgoglio ferito. Si chiese se fosse davvero in grado di ballare con un uomo che aveva appena frantumato tra le proprie dita il suo cuore, a prescindere da chi avesse ferito chi per primo.
Ma la propria mano aveva deciso,già  protesa in aria verso la sua, e ognuna di quelle domande contava poco adesso che il calore delle sue braccia tornava a ghermire il proprio corpo.
«Io non capisco...»
«Solo un ballo. A questo punto, che vuoi che sia»
Non ci furono altre parole, se non quelle della canzone: incisive e taglienti, parevano descrivere la loro storia. Due sconosciuti le cui strade s'erano intrecciate in una notte qualunque, con gli sguardi e i sorrisi e una palpabile attrazione a far da sfondo al più improbabile degli incontri, e l'amore -caldo e accogliente- ad appena un passo, senza averne ancora la consapevolezza e senza il coraggio di buttarsi per maturarla. Fino a quella seconda notte, la
loro notte, in cui la porta era stata finalmente varcata, rendendo quegli sconosciuti, soli al mondo, un'unica cosa. E adesso in un ballo rieccoli insieme, l'equilibrio finalmente ristabilito seppur per il breve tempo di una canzone. E Kate, stretta al suo petto come se da questo dipendesse la sua intera esistenza, non riusciva a non chiedersi come avrebbe fatto a lasciarlo andare quando inevitabilmente fosse giunto il momento, ora che ricordava la sensazione di stare semplicemente tra le sue braccia, senza passionali pretese a sconvolgere la dolce semplicità di quel gesto.

La melodia era cambiata adesso, ma il ritmo dei loro passi era rimasto immutato, così come il sordo martellare del proprio cuore, che non accennava a rallentare neanche adesso che lui si stava delicatamente allontanando da lei.
Con ancora la presa ferrea sulla sua vita, percepì ogni movimento del suo corpo pur senza avere il coraggio di alzare lo sguardo dal tessuto stropicciato della camicia di seta finché non fu lui a costringerla a farlo, quando posizionò il proprio viso esattamente davanti al suo.
Nonostante i tacchi, lui la superava di un paio di centimetri, quel tanto che bastò a far sì che gli occhi incontrassero le sue labbra prima delle iridi azzurre. Una sosta che le costò parecchia fatica e un'aritmia.
Sul viso accaldato dall'emozione e dal prolungato contatto col tepore del suo torace, il tocco delle dita lui -venuto a scacciare una ciocca ribelle dal suo viso- giunse fresco e ristoratore, al punto che un brivido la colse, scivolandole mellifluo lungo tutto il corpo, fino ai piedi. Con calcolata lentezza lasciò che indice e medio ne disegnassero il delicato profilo, scendendole dallo zigomo verso la curva sottile del collo: ad occhi chiusi, Kate ne seguiva il tracciato, guidata dal formicolio che voluttuosamente stava rigenerando i nervi sottopelle, sopiti da tempo, e che le rimaneva impresso anche quando le dita avevano abbandonato un angolo di pelle per accarezzarne un altro. 
Lo sentì esitare all'altezza della gota, in un tremolio di polpastrelli che si diffuse al suo intero volto, e d'istinto piegò il proprio viso di appena qualche grado, quei pochi millimetri necessari a che l'inclinazione cambiasse e le dita potessero tornare a scivolare indisturbate lungo la linea del collo.
In quel tocco sentiva di starsi gradualmente sciogliendo. Ma ebbe la forza necessaria a riaprire gli occhi, bramosa di godersi con ogni senso -vista inclusa- quel risveglio del proprio corpo sotto lo sguardo ardente e imperscrutabile di lui. Quando quella traversata fu conclusa, conscia che presto lo spazio sarebbe tornato a separarli, lei tuttavia non si mosse ancora, lasciando a lui il compito di terminare quella danza in cui si erano incomprensibilmente lanciati e che in quel tocco si stava esibendo nell'ultima spettacolare piroetta.
Era la Morte del Cigno, la fine dello spettacolo: Kate lo sapeva ma non fece nulla per andarle incontro, rimase invece in attesa del suo arrivo, annunciato dall'ultimo gesto di Castle, il cui viso si sporse in avanti verso il suo, accostandovisi, fino a che le loro gote non si sfiorarono.
Fu appena un sussurro, un mormorio impercettibile confidatole all'orecchio come il più terribile dei segreti. Il soffio caldo del suo alito contro la pelle, già rovente, del lobo la raggiunse ancor prima del suono della sua voce, e un' ondata di calore le avvolse le viscere in un misto di piacere e turbamento insieme. Il dolore arrivò dopo, insieme alle sue parole, lame affilate spinte senza pietà dentro le sue carni ormai prive di difese.
«Sono stanco Kate, così stanco... Io mi arrendo, ufficialmente»
Rimase pietrificata, una statua di sale in mezzo a una pista da ballo gremita di gente. Unica nota stonata di uno scenario di festa altrimenti perfetto. 
Immobile lo sentì scivolargli via dalle dita ancora una volta -per l'ultima volta?-, sempre immobile lo vide allontanarsi, guadagnando l'uscita stavolta per sempre.
La ciocca ribelle le ricadde sul viso, lì dove prima s'erano posate le sue dita.

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Non mi dilungherò in scuse che non interessano a nessuno. È passato un secolo, lo so. Sono imperdonabile, so anche questo. Estate, studio e mancanza di ispirazione sono un mix tossico, specie di fronte a capitoli come questi, così dannatamente difficili per motivi che ancora ignoro. L'attesa carica di aspettative e spero di non averle deluse. Mi auguro che il ritardo degli aggiornamenti non vi abbia scoraggiato troppo, questa storia finirà è una promessa: un ultimo capitolo, un breve prologo e finalmente la vedrete conclusa -spero nel minore tempo possibile. Nel frattempo, se vorrete, sarò come sempre felice di sapere cosa ne pensate. 
S.


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